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Italian Pages 112 Year 2017
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Denis Diderot Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***
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C an o n e e u r op eo
Collana diretta da: Andrea Tagliapietra
Comitato scientifico: Giovanni Bonacina, Catherine Douzou, Nicola Gardini, Helmut Karl Kohlenberger, Leonel Ribeiro dos Santos.
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Canone europeo | 1
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Denis Diderot Colloquio di un filosofo con la Marescialla di *** traduzione italiana e cura di Valentina Sperotto
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Pubblicazione del Centro di Ricerca Interdisciplinare in Storia delle Idee (CRISI) e del Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine (ICONE)
© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Canone europeo ISSN 2533-1329 n. 1 - novembre 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694594 ISBN – E-book: 9788885716230 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Luxury armchair.
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Prefazione
Ateismo e morale nel colloquio con la Marescialla di Diderot di Colas Duflo
Mi fu avvicinata una poltrona, mi sedetti, e iniziammo a conversare, a proposito di qualche mio discorso che la edificava e la sorprendeva, perché era del parere che chi nega la Trinità sia un pendaglio da forca, che finirà per essere impiccato. Mi disse: – Non siete voi il signor Diderot? – Sì signora. – Siete dunque voi che non credete in niente? – Proprio io. – Tuttavia la vostra morale è quella di un credente. – Perché no, se si è un uomo onesto? – E mettete in pratica questa morale? – Faccio del mio meglio. – Suvvia! Voi non rubate, non uccidete, non saccheggiate? – Molto raramente.1
I biografi datano l’incontro con la marescialla de Broglie, che ispirerà il Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***, al 1771. Si suppone che Diderot abbia scritto questo dialogo durante il suo soggiorno a L’Aia, tra la primavera e l’estate del 1774, al suo ritorno dalla Russia. L’inizio del testo, che costituisce la parte introduttiva e fa le veci di quella che a teatro si chiama “scena di esposizione”, è notevole: in poche righe, tutti i termini della discussione sono esposti e allo stesso tempo viene rivelato il malinteso sul quale si basa il dialogo. 1. Infra, pp. 71-72.
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Questo malinteso, che verrà dissipato in seguito, è quello sul quale si fonda una buona parte delle denunce inquiete dei «pericoli dell’ateismo», secondo un sintagma tra i più diffusi nel diciottesimo secolo. Quando la Marescialla accusa Diderot di non credere in niente, intende dire che non solo non crede né in Dio né nell’eternità dell’anima, né nella Santissima Trinità, ecc., ma anche che non crede, perciò stesso, ai valori morali che quei postulati permettono di fondare. La risposta del filosofo, «proprio io», che sembra approvare, non accorda i presupposti della Marescialla, ma mira piuttosto ad affermare che la vera morale non è fondata sulla credenza nella religione cattolica e le idee che la accompagnano. Questa confusione permane nelle battute seguenti: quando la Marescialla dice a Diderot che la sua morale è quella di un credente, sottintende il fatto che, poiché non crede in niente, per di più è incoerente. La risposta del filosofo è qui molto ambigua e si comprenderà veramente fino in fondo solo nel seguito del dialogo. Risulterà, infatti, che quel «perché no, se si è un uomo onesto» tende ad affermare che in realtà, si tratta di due cose differenti. Si può essere credenti e uomini onesti, ma questo dipende da due principi fondamentalmente distinti, contrariamente a quello che crede la Marescialla che li identifica. Diderot mostrerà anche che le due cose non sono completamente compatibili, perché un uomo onesto non potrebbe essere cristiano fino in fondo. La questione della coerenza morale dell’ateo virtuoso, posta dalla Marescialla, è un dibattito molto antico nel pensiero di Diderot e riprende in realtà un’obiezione che egli faceva a se stesso in uno dei suoi primi testi. Nel 1747, all’inizio della seconda parte della Passeggiata dello scettico, Ateo, il rappresentante dell’ateismo, discute con un personaggio che rappresenta la superstizione religiosa e riesce a convertirlo all’ateismo. Ora, alla fine di questa seconda parte, il racconto ci dà
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delle notizie di questo ateo di fresca data, e non sono delle migliori: Sappi solamente che al suo ritorno Ateo scoprì che gli avevano rapito la moglie, sgozzato i figli, e svaligiato la casa. Si sospettò del cieco con cui egli aveva discusso attraverso la siepe, e dal quale aveva imparato a disprezzare la voce della coscienza e le leggi della società, tutte le volte che poteva affrancarsene senza pericolo, di aver abbandonato segretamente il viale delle spine, e commesso questo disordine di cui l’assenza di Ateo e l’allontanamento di tutti i testimoni aveva promesso l’impunità. La cosa che più dispiace di quest’avventura, per il povero Ateo, è che non era nemmeno libero di compiangersi apertamente, perché alla fine il cieco era stato conseguente.2
È molto chiaro quale sia il problema sollevato da Diderot nel 1747. L’ateismo, infatti, è supportato da ragioni teoriche, ma sembra nefasto per motivi pratici poiché pone una serie di problemi gravi riguardo alla morale. L’ateo che non è più frenato dal timore di Dio o incoraggiato dalla speranza di una ricompensa futura potrebbe commettere qualunque crimine se gli fosse garantita l’impunità: egli trarrebbe così le conseguenze logiche del suo ateismo in materia di morale. «Perché alla fine il cieco era stato coerente»: come evitare questa conclusione? Il problema della coerenza morale dell’ateismo costituisce per Diderot un’obiezione grave all’ateismo filosofico, forse addirittura la più grave. Non si tratta solamente di sapere se esistono degli atei virtuosi o se gli atei virtuosi sono possibili. Occorre sapere se quando sono virtuosi sono coerenti, vale a dire se la loro morale è concorde con i loro principi. Come 2. D. Diderot, La Promenade du sceptique ou les Allées, in Œuvres complètes, a cura di H. Dieckmann, J. Proust, J.Varloot (d’ora in avanti quest’edizione sarà indicata con la sigla DPV), Hermann, Paris 1975, vol. I, p. 120.
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sfuggire a quest’accusa d’inconseguenza che Diderot aveva in qualche modo indirizzato a se stesso più di vent’anni prima? Ecco ciò che bisogna sapere se si vuole che una morale materialista sia possibile. Il testo liquida innanzitutto la questione dell’interesse. Se l’ateo è al contempo anche virtuoso, non guadagna, a prima vista, nulla. In realtà, si scoprirà grazie a quanto sarà detto in seguito che egli trae alcuni vantaggi poiché esiste un piacere insito nel compiere il bene, dato che la società ha interesse che i suoi membri si comportino in modo virtuoso, e perché a noi importa dell’interesse della società. Nondimeno, in un primo tempo, quest’affermazione permette di togliere ogni forza all’argomento che consisteva nel dire che si è sempre atei per dei motivi che non si vogliono ammettere. Di contro, per il credente, ci sono delle buone ragioni per essere interessato, ed è ciò che del resto la Marescialla ammette senza problemi: «Se non siete né ladro né assassino, convenite almeno che non siete coerente. – Perché mai? – Se non avessi nulla da sperare, nulla da temere quando non ci sarò più, mi sembra che sarebbero davvero pochi i piccoli piaceri di cui mi priverei, ora che ci sono. Confesso che presto a Dio a usura». È necessario sottolineare qui questo «non siete coerente» che risponde, anche nella precisione del vocabolario scelto, al testo della Passeggiata dello scettico nel quale il nuovo ateo che ruba e uccide è qualificato proprio come «coerente». La Marescialla, una buona signora che ha sei figli ed è in attesa del settimo, che non ha mai letto altro che il suo libro di preghiere e praticato il Vangelo, è ancora Diderot. Perché le obiezioni che essa oppone al personaggio del filosofo, le quali costituiscono il punto di partenza di questo dialogo, sono le stesse critiche che Diderot aveva sollevato nel 1747 contro l’ateismo filosofico sul piano morale. L’ateo virtuoso non è coerente. La fede in Dio, al contrario, è presentata nella sua conformità con la morale che l’accompagna. Essa forma un sistema
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completo, conosciuto perfettamente da Diderot che era stato studente di teologia. In questo sistema, la condotta morale fa anche parte di un meccanismo di punizioni e ricompense, ove gli autori sono interessati alla morale. Questa è la ragione per la quale Diderot mostrerà in che senso gli atei sono tanto interessati alla morale. Ma sì! si può fare dell’usura con Dio finché si vuole, non lo si manda in rovina. So bene che tutto ciò non è molto delicato, ma che importa? Dato che la questione è guadagnarsi il cielo con l’astuzia o con la forza, bisogna tener conto di tutto e non trascurare nessun vantaggio. Ahimè! Per quanto ci si sforzi, la nostra offerta sarà sempre molto meschina in confronto alla rendita che ci aspettiamo. E voi non vi aspettate nulla? – Nulla. – Tutto ciò è triste. Convenite che siete davvero malvagio, o davvero folle.3
In questo passaggio si evoca un problema che molti altri filosofi sollevarono nel XVIII secolo: è ancora possibile una morale priva di aspettative? Altrimenti detto, quali sono le attese di una morale che non si fonda sull’esistenza di Dio? Comparando la “posta” e il “ritorno” (il guadagno), la Marescialla enuncia il problema nei termini della scommessa pascaliana. Nel seguito del testo, Diderot s’impegna a capovolgere quest’argomento, presentando una specie di scommessa rovesciata. L’allusione pascaliana della Marescialla si accompagna all’interpretazione della natura umana come corrotta, tipica del pensiero cattolico. Infatti, quando vuole precisare i vantaggi della religione per la morale, essa li formula in questo modo: «Lo spirito della religione non è quello di contrariare continuamente questa cattiva natura corrotta; e quello dell’incredulità, di abbandonarla alla sua malizia affrancandola dalla paura?» Si capisce chiaramente qual è l’insieme degli argomenti della Marescialla messi in campo in quest’introduzione e che Diderot dovrà 3. Infra, pp. 73-74.
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combattere: incoerenza dell’ateo, scommessa pascaliana (molto volgarizzata) del credente, visione della natura umana come malvagia e corrotta, idea della religione come un bene che ci salva da questa corruzione e preserva la morale che, senza di essa, non ha alcuna giustificazione. Bisogna allora che Diderot risponda a tutti questi argomenti, cosa che farà seguendo tre assi. Innanzitutto, mostrerà come, sul semplice piano individuale, l’ateo virtuoso non è incoerente. In seguito il dialogo tenterà di capovolgere il valore che la Marescialla accorda alla religione, mostrando da una parte che essa non è un bene e dall’altra “rovesciando” l’argomento della scommessa. Infine, si tratterà di stabilire che la società stessa non ha bisogno, per la morale pubblica, del cristianesimo e, d’altra parte, che contrariamente alle apparenze, essa ne fa a meno da sempre: «Che motivo può avere un incredulo di essere buono, se non è folle? Mi piacerebbe proprio saperlo. – E io ve lo dirò».
La coerenza dell’ateo virtuoso. Tre elementi si succedono molto velocemente per spiegare perché, sul piano individuale, l’ateo può essere al contempo virtuoso e coerente. L’ateo può essere virtuoso per natura, per educazione e per esperienza. Per natura, un individuo potrebbe essere fatto in modo tale che una buona azione gli procuri soddisfazione per se stessa. Si può comprendere che chi è «nato in una condizione tanto felice» possa avere una complessione tale da «trarre grande soddisfazione facendo il bene». Diderot non dice qui se questa caratteristica sia specifica di alcuni, che sarebbero allora quegli esempi lodevoli di atei virtuosi (la figura di Spinoza in Bayle, di Saunderson come l’ha caratterizzato Diderot nella
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Lettera sui ciechi), o se possa essere generalizzata a ciascun essere umano. In alcuni dei suoi testi di estetica, ci mostra che l’emozione di ciascuno di noi può provare davanti a uno spettacolo di una buona azione (per esempio guardando un quadro di Greuze)4, in una situazione in cui il nostro sguardo è distaccato dai nostri interessi particolari, testimonia che c’è in noi almeno qualche buona fibra che risuona quando le passioni suscitate dai nostri interessi personali non ne coprono la voce. La rappresentazione di una buona azione in pittura o a teatro piace anche ai malvagi. A maggior ragione una buona azione reale può piacere a coloro che conservano una natura buona. Quest’argomento si oppone ai due esposti dalla Marescialla, di questi uno è formulato esplicitamente e l’altro sottinteso. In fondo lo stupore della Marescialla di fronte alla figura dell’ateo «onest’uomo» dipende dal fatto che essa considera penoso restare virtuosi. Se si afferma che la virtù può, per se stessa, procurare piacere, almeno in alcune persone, e se queste trovano in questo piacere un motivo che può essere sufficiente, allora essi non sono folli nell’essere virtuosi senza credere in Dio. Bisogna precisare che c’è anche un malinteso importante, che il dialogo non dissiperà completamente, su che cosa significhi essere virtuosi: la Marescialla assimila le consegne della morale e quelle della religione, e considera che un piacere contrario alla religione sia uno strappo alla virtù, mentre Diderot si concentra sulla distinzione tra morale e religione e sul fondare la virtù sulla natura, cosa che, come mostra il Supplemento al Viaggio di Bougainville, autorizza molto più che delle «piccole dolcezze». Inoltre, la Marescialla 4. Jean-Baptiste Greuze (1725-1805), pittore francese di cui Diderot parla nei suoi Salon e che fu influenzato dalle idee estetiche dello stesso filosofo. Le sue opere, caratterizzate dal sentimentalismo e dal moralismo, ebbero grande successo nel secolo XVIII, grazie anche alle numerose riproduzioni. Tra di esse si ricordano La maledizione paterna (1777), Il figlio punito (1778), L’uccello morto (1800), tutti conservati al Museo del Louvre.
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crede che la natura umana sia malvagia. Tuttavia, se si prova piacere a fare il bene, è perché in realtà esiste una disposizione naturale che non è malvagia e la nostra natura in sé è essenzialmente più buona che corrotta. Queste due concezioni dell’uomo trovano il loro luogo privilegiato di opposizione nella questione dell’educazione. Da un lato la Marescialla mette in primo piano la necessità di una religione che interviene come correttivo, come ammenda necessaria a questa natura corrotta. Dall’altra Diderot suggerisce tutt’altra antropologia: «si può aver ricevuto un’eccellente educazione capace di fortificare la tendenza naturale alla generosità». Questo è il senso dell’educazione in Diderot per quanto riguarda il suo rapporto con la morale, ma una simile concezione suppone una natura buona, o almeno neutra, da guidare, e non una perversità innata da correggere. Così, lasciarsi andare alle proprie tendenze non sarebbe più sinonimo di commettere cattive azioni, ma al contrario, agire per il bene. Se per natura trova nel bene lo stesso piacere o se per educazione trae dal bene anche una soddisfazione dovuta all’abitudine a fare il bene – l’abitudine, infatti, può forgiare una seconda natura quando accompagna la prima – l’ateo virtuoso è coerente e potrebbe esserlo ugualmente se scoprisse che esiste un interesse a compiere il bene. Ora, ciò che ci permette di fare questa scoperta, è l’esperienza: «in età più avanzata, l’esperienza ci ha convinti che, a conti fatti è preferibile, per la propria felicità in questo mondo, essere un uomo onesto piuttosto che un furfante». Natura, educazione, esperienza: sono i tre elementi che, sul piano individuale indicano sempre, in Diderot, il carattere determinato della volontà. In ultima istanza, non si può dire che l’ateo scelga se essere virtuoso o no. Anche se si potrebbe benissimo dire che, in senso letterale, non è mai incoerente es-
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sere al contempo atei e virtuosi, perché accade sempre come conseguenza di una certa serie causale che fa di ciascuno un individuo particolare, che non potrebbe essere incoerente, per quanto strano possa essere il risultato di questa serie (si veda il personaggio eponimo del Nipote di Rameau): in senso stretto siamo sempre una conseguenza, oppure l’incoerenza di un individuo dovrebbe supporre una scelta libera capace di inaugurare una serie causale, cosa che non si verifica. Nel Colloquio Diderot evoca abbastanza direttamente la questione del carattere determinato della volontà, tema che era già stato uno degli oggetti principali della Lettera a Landois del 26 giugno 1756. Anche in quel caso, si trattava di rispondere a una concezione della virtù come qualcosa di faticoso, Landois aveva paragonato la virtù ad un rimedio al quale noi preferiremmo qualsiasi altra cosa. In realtà, chi sceglie la virtù agisce per sé, fa ciò che gli costa di meno fare: «Tutto quello che noi facciamo, è per noi stessi. Abbiamo l’aria di sacrificarci quando non facciamo altro che soddisfarci». L’uomo virtuoso, come gli altri, segue la sua propensione più forte, ma non è né irragionevole né insensato, poiché se si pesassero gli inconvenienti e i vantaggi delle sue scelte si dovrebbe riconoscere che a lungo termine è più conveniente scegliere l’azione virtuosa. Si distingue chiaramente l’articolazione dei differenti livelli in cui si presenta la coerenza dell’ateo virtuoso. Questi non fa una scelta più di quanto la facciano gli altri e, di conseguenza, se agisce bene, è perché è spinto a farlo dall’interno e che fa, come tutti gli altri, quello che gli conviene. Allo stesso tempo, la sua attitudine è anche, obiettivamente, la migliore possibile: se esistesse questa difficoltà chimerica che si chiama libertà, non si potrebbe scegliere altro. La generosità è dovuta alla buona sorte e non alla virtù. Nonostante l’uomo buono o malvagio non sia libero, l’uomo è anche un essere che si può modificare. Per questa ragione
18 bisogna distruggere il malvagio sulla pubblica piazza. Da questo derivano gli effetti positivi dell’esempio, dei discorsi, dell’educazione, del piacere, del dolore, delle grandezze, della miseria, etc.5
Così, l’ateo virtuoso non è incoerente ma determinato ad assumere un comportamento morale perché la sua natura si presta, perché lo preferisce, perché l’esperienza lo insegna, perché non possiamo fare altro che scegliere ciò che consideriamo migliore, perché non siamo liberi di fare in modo che una cosa ci sembri preferibile di un’altra. In un certo senso, tutto è buono in natura: l’ateo è coerente facendo il bene se è nella sua natura aver piacere a farlo, se è ben educato, se sa per esperienza che è meglio agire così. Soprattutto la premessa necessaria per poter sollevare l’obiezione alla Marescialla, è la coerenza dell’ateo nell’essere tale, perché, anche se preferisse esistere ancora dopo la morte, egli sa che l’anima immortale è una chimera e che la sola materia basta per spiegare tutto. Inoltre, il materialismo non è descritto come una scelta, ma come un risultato: ci sono delle ragioni, oltre all’esperienza quotidiana, che ci mostrano che la materia fa lo spirito, mentre le stesse ragioni ci impediscono di credere a una sensibilità senza organi sensoriali, a un pensiero senza cervello, in breve, a un’esistenza dopo l’esistenza. Se il filosofo è ateo, lo è per una ragione, e non per scelta della sua natura corrotta. Anche lui non può impedirsi di desiderare una vita futura, poiché è nella nostra natura volere sempre perseverare nel nostro essere ed evitare tutto quello che lo può distruggere, anche idealmente, ma ciò che sa impedisce al suo desiderio e ai suoi timori di prendere il posto della credenza. Al contrario, sono l’ignoranza e la paura a fare i credenti:
5. D. Diderot, Lettera a Landois, luglio 1756.
19 Non ho questa speranza perché il desiderio non mi ha nascosto la sua illusione, ma non la vieto a nessuno. Se si può credere che vedremo, quando non avremo più occhi; che penseremo, quando non avremo più una testa; che ameremo quando non avremo più cuore; che sentiremo, quando non ci saranno più i sensi; che esisteremo, quando non saremo da nessuna parte; che saremo qualcosa, senza estensione e senza luogo, acconsento.6
Nonostante ciò, se l’ateismo è fondato, bisogna sospettare fortemente che il sistema avverso non lo sia e che quel preteso bastione contro l’immoralità non sia altro che un’illusione. Infatti, cos’è un bastione senza fondamento? Dunque forse l’incoerenza non è dalla parte in cui la si credeva, ecco perché bisogna esaminare la religione nel rapporto che intrattiene con la morale.
La religione non è un bene. Ridefiniamo bene e male, secondo una formula che tutti i protagonisti possano accettare (d’altra parte è la Marescialla a enunciarla): è bene ciò che procura più vantaggi che inconvenienti, è male ciò che ha meno vantaggi che inconvenienti. Una spiegazione simile, parte dall’impossibilità di concepire qualcosa di assolutamente buono, poiché ogni bene ha degli inconvenienti. Se, dunque, bene e male si dicono sempre e solo relativamente, sarà possibile valutare se la religione è un bene, senza dover ammettere a priori che essa sia un bene per definizione. In realtà è chiaro che una simile valutazione è di per sé sacrilega, nella misura in cui il sostenitore della religione rivelata potrebbe dire che ciò che precisamente si
6. Infra, p. 84.
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rivela nell’«Ama dunque l’Eterno, tuo Dio» è la religione a essere buona in sé, al di sopra di tutto, indipendentemente da qualsiasi valutazione di tipo economico: poco importa, al martire nella fossa dei leoni, che la sua religione abbia per lui incomparabilmente più inconvenienti che vantaggi in questo mondo. Così la Marescialla è davvero compiacente o ingenua nell’accettare di filosofare così, poiché è lo stesso paragone che dovrebbe rifiutare. Infatti, prestandosi a questa valutazione, ciò che emerge è che i vantaggi della religione sono molto più deboli dei suoi inconvenienti. Certo, essa permette di impedire agli individui di commettere qualche piccolo peccato, ma genera dei comportamenti estremamente dannosi. Qui, gli argomenti utilizzati da Diderot sono abbastanza comuni nei testi del XVIII secolo e non è necessario insistere su di essi: la religione è deleteria a causa dell’intolleranza e i conflitti che genera, eccetera. Questa critica dell’intolleranza nel XVIII secolo, era condivisa sia dai materialisti sia da coloro che professavano la religione naturale nelle sue diverse varianti (deisti, teisti, etc.), in poche parole, da tutti quelli che rifiutano le religioni istituite, credenti o no. Diderot però va oltre e s’impegna a mostrare che non è solo una certa religione rivelata, ma è la stessa fede in Dio a produrre necessariamente più inconvenienti che vantaggi e che, di conseguenza, essa è un male. La nozione di Dio si presenta, infatti, al contempo come la più importante di tutte e incomprensibile; questo fa sì che l’umanità sia destinata a disputare su di essa. Diderot dà di quest’idea una formulazione sorprendente nell’Aggiunta ai pensieri filosofici: se la religione non esistesse, un nemico del genere umano la inventerebbe7. L’incoerenza non si trova laddove la supponiamo: la Marescialla credeva che l’ateismo comportas7. Si veda Appendice 2.
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se necessariamente conseguenze pratiche nocive e che essere al contempo atei e buoni fosse incoerente. Diderot vuole invece mostrare che è la religione a comportare necessariamente conseguenze pratiche dannose: «Prima gli uomini si prosternano, poi si alzano, s’interrogano, discutono, si esasperano, si anatematizzano, si odiano e si scannano tra loro, e il desiderio fatale del misantropo è compiuto. Perché tale è stata nei tempi passati, e tale sarà nei tempi a venire la storia di un essere sempre egualmente importante e incomprensibile». Qui si opera una vera e propria inversione di valori: ciò che è incoerente, è il fatto di essere al contempo cristiani e adatti alla vita in società. Bisogna anche mostrare l’incoerenza di questa società che si dice cristiana ma che, fortunatamente, non lo è. Quest’inversione di valori accompagna con il rovesciamento dell’argomento della scommessa pascaliana. Diderot presenta, sotto forma di racconto, una scommessa «all’inverso». Un messicano, che negava l’esistenza di un essere oltre il mare, viene portato dal vento fino a questa terra dove incontra un venerabile vegliardo, sovrano del medesimo impero di cui il giovane aveva negato l’esistenza. L’anziano lo perdona, perché il messicano era in buona fede, e l’aver mancato di spirito non poteva essere considerato un crimine. La lezione che si può trarre da questo racconto è che se Dio esiste è giusto, e se è giusto lo è in base a una nozione di giustizia in generale uguale per tutti, non può esistere la giustizia di Dio e quella del Maresciallo, altrimenti nessuno potrebbe sapere cosa significa l’espressione «la giustizia di Dio» e si potrebbe dire altrettanto di un tiranno. Ora, come un Dio giusto non può dannare Socrate per non aver conosciuto il Cristo, poiché egli ha fatto in modo che non potesse conoscerlo, egualmente e di conseguenza, non può rimproverare chi l’ha ignorato o addirittura ha negato la Sua esistenza se si è comportato bene. È a questo titolo che si preferisce, secondo il messaggio della religione naturale, l’ortoprassi all’ortodossia. Si potrebbe però obiettare
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che Socrate non poteva, in effetti, conoscere Cristo e credere nel Dio dei cristiani, mentre Diderot ne aveva perfettamente la possibilità. Anche questa è in realtà un’illusione, infatti, nessuno è libero di credere o non farlo, poiché la credenza è sempre determinata da tutta una serie di ragioni soggettive, che non si conoscono, ma di cui Dio è al corrente, Egli che per definizione sa tutto, Egli che ha scelto di far esistere degli atei virtuosi, sapendo in anticipo ciò che sarebbero stati. Anche in questo c’è una specie di scommessa, ma in un altro senso: se c’è un Dio, giusto e buono, perdonerà l’ateo virtuoso. Da ciò dipende la giustificazione dell’apparente incoerenza, pienamente assunta, della conclusione: «Dopo tutto, la soluzione più sicura è di comportarsi come se il vecchio esistesse. – Anche quando non ci si crede».
Una società incoerente. Se la religione è intrinsecamente dannosa, se può essere presentata nel peggiore dei modi come inventata da un nemico dell’umanità e nel modo migliore come la creazione di qualche essere dallo spirito malato, come «una regola adatta solo a qualche uomo melanconico che l’ha stabilita modellandola sul suo carattere», come spiegare il fatto che una società cristiana si mantenga malgrado tutto? Qui è insito il rischio interno all’argomentazione del materialista ateo: a forza di denunciare la religione, potrebbe accadere che giunga ad avere dei propositi contraddittori. Secondo la definizione stabilita all’inizio, infatti, la religione è un male perché ha più inconvenienti che vantaggi; ma se è così, com’è possibile che essa possa durare e che la società cristiana continui a esistere dopo due millenni? In realtà, contro ogni apparenza, la società cristiana non si mantiene; essa si dice cristiana, ma non lo è realmente. For-
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tunatamente, invero, è la società a essere incoerente: «In nessun secolo e presso nessuna nazione le opinioni religiose sono servite come base per i costumi nazionali». La religione non è il bastione della morale sociale che pretende di essere. Diderot, che è stato educato dai gesuiti, si ricorda delle tradizionali denunce della religione dei pagani, che presentano degli dèi dai costumi dissoluti. Tuttavia quella stessa religione è quella degli antichi romani dall’onestissima condotta, c’era dunque incoerenza tra religione e morale sociale, anche presso gli antichi. Vale lo stesso per noi, ove, inversamente, la religione è tra le più severe mentre la condotta tra le più frivole. È facile ad esempio mostrare che nessuno segue i precetti del Discorso della montagna. Così non è per nulla difficile sostenere che quest’incoerenza è il male minore per una società di cristiani, o piuttosto che essa è la condizione di possibilità di una società che si dice cristiana, poiché ad essere impossibile è una società di cristiani, non una società di atei: «che influenza reale posso accordare della religione sui costumi? Praticamente nessuna, e tanto meglio così». Per esempio, le signore molto devote come la Marescialla, passeggiano con dei vestiti molto scollati perché così si usa, invitando pubblicamente a dei pensieri adulteri: «Come se non ci fosse niente di più alla moda che dirsi cristiani e non esserlo». Da ciò consegue la frase provocante di Diderot che, paradossalmente un cristiano rigorista non rinnegherebbe: «Ma, Marescialla, esistono dei cristiani? Io non ne ho mai visti». Il cristiano è davvero incoerente: così tutti i termini del discorso iniziale della Marescialla finiscono per essere ribaltati; all’immagine della natura umana corrotta, si oppone quella di una natura umana buona, nel senso minimo secondo cui ciascuno vuole perseverare nel suo essere, e sceglie per questo ciò che per lui ha più vantaggi che inconvenienti: ciascun individuo sceglie ciò che è bene ai suoi occhi, e che l’esperienza
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insegna coincidere spesso con il bene della società o almeno che non deve opporsi. Inoltre, l’uomo può provare simpatia e altri sentimenti che ne rivelano la natura buona. Alla comprensione della religione come un bene, si oppone la descrizione dei mali della religione, tanto quelli che si constatano nella storia del cristianesimo, quanto quelli che ogni religione deve necessariamente produrre. Al pregiudizio dell’incoerenza dell’ateo virtuoso, si contrappone al contempo l’analisi della coerenza del suo comportamento, e il ritratto dell’incoerenza della società dei credenti. Non è l’ateo a essere folle non comportandosi in modo cattivo, è la società che è sempre divisa in se stessa tra il discorso che fa e la morale che pratica. Essa sostiene di credere, ma agisce come se non credesse, e per di più, deve far finta di credere come se credesse, poiché la sua condizione di possibilità in quanto società cristiana è per l’appunto quella di agire secondo i precetti di Cristo (e in modo sistematico: non si tratta di una debolezza), in mancanza di questo essa non sopravvivrebbe come società, cosa che in un certo senso tutti sanno, comportandosi tutti come se essa si conformasse, per non essere costretta a rinunciare alla credenza nella quale riconosce la sua unità e il suo fondamento. Di conseguenza chi dice la verità, che si tratti del cristiano osservante, del misantropo alla Molière, o del materialista ateo, risulta insopportabile alla società, dato che ciascuno la conosce già (e forse proprio per questo). In realtà – ed è questa l’origine di uno dei malintesi all’inizio del dialogo – all’interno dei libri dei credenti possiamo trovare due morali (questo fa sì che la contraddizione in cui essi vivono non sia insopportabile e possa essere svelata). C’è in questo una vera «stranezza», come dice la Marescialla, ma essa è costitutiva della nozione stessa di una società che pretende di fondarsi su una regola che sarebbe valida solo per una comunità monastica.
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Fortunatamente, la società che per Diderot è più un fenomeno naturale che una creazione artificiale, è per questa ragione più sana del discorso che essa fa, e segue nel complesso la morale naturale. Questa morale non ha niente di trascendente. La morale naturale, la sola vera, viene per la società dalle stesse fonti che sono state individuate per l’individuo. La società segue questa morale per natura («l’impulso costante della natura»), dall’educazione (è la legge, che ricompensa la virtù, a compiere questa funzione) e dall’esperienza (che, in una società ben organizzata, ci insegna il legame tra un bene particolare e il bene generale). Ci si interrogava sulla possibilità di una società di atei e si scopre che, in realtà, la società si comporta già come una società di atei e, ancor più, che è proprio per questo che essa funziona, mentre un’autentica società cristiana non sarebbe possibile. Certo, bisognerebbe ora chiarire cosa s’intenda per morale naturale e quali sono i suoi fondamenti, ed è quel che Diderot farà approfondendo la sua teoria dei tre codici, la sua politica, o la sua concezione dell’educazione, nel Supplemento al viaggio di Bougainville o nei testi scritti per la Storia delle due Indie. Tuttavia ciò che si vede già, è che l’incoerenza non è laddove la si credeva, e che la società vive secondo una doppia morale: la morale cristiana che proclama senza seguire e la morale generale che essa segue senza dirlo. In un certo senso, ciascuno lo sa e si adatta, purché non lo si espliciti, dalla donna devota che indossa una scollatura fino al vescovo che accumula tesori sulla terra; perché è un’illusione che non illude veramente nessuno, ma che tutti sono persuasi sia necessario mantenere. Di conseguenza, l’ateo ha la necessità di dissimulare il suo pensiero come teorizzato nella seconda metà del XVII secolo dai libertini eruditi; alla doppia morale della società, corrisponde la doppia dottrina dell’ateo, ma egli è pur sempre il meno incoerente di tutti. Il filosofo ateo, dunque, non fa proseliti: egli non mira a rovesciare brutalmente
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le credenze comuni e a obbligare chiunque a pensare come lui. Al contrario, egli lavora all’interno della società per «cambiare il modo comune di pensare», secondo la parola d’ordine dell’Encyclopédie, grazie alla diffusione dei Lumi, allo spirito di tolleranza, e attraverso la ridefinizione dell’«uomo onesto» come colui che agisce moralmente, per il bene della società indipendentemente da ogni convinzione religiosa.
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La scommessa rovesciata: sulla tolleranza in Diderot di Valentina Sperotto
Quando fu rilasciato dalla torre del castello di Vincennes, nel 1749, Diderot fu costretto a promettere che non avrebbe più pubblicato nulla contro la religione e la politica, sebbene questi fossero i due argomenti che più gli stavano a cuore1. Il progetto dell’Encyclopédie iniziava a muovere i primi passi e il lavoro di redazione sarebbe stato la principale occupazione del filosofo fino al 1764, periodo durante il quale, come pattuito, non pubblicò né fece circolare clandestinamente alcuna sua opera che toccasse gli argomenti suddetti. È innegabile che l’Encyclopédie fosse una vera e propria “macchina da guerra” per la carica di rinnovamento scientifico, la netta presa di posizione anti-dogmatica, la critica alla superstizione e la denuncia dell’uso politico della religione. Nonostante ciò, è necessario
1. Diderot aveva scritto nella sua opera clandestina intitolata La Passeggiata dello scettico: «Imponetemi il silenzio sulla religione e il governo, e non avrò più niente da dire» concetto ribadito ancora in seguito, ad esempio in una lettera a Falconet del 15 maggio 1767: «Le lettere languono. Si interdice loro il governo, la religione e la morale. Di che cosa volete che si occupino? Il resto non vale la pena». Diderot, Correspondance, 16 vol., a cura di G. Roth e J. Varloot, Minuit, Paris 1955-1970, vol. VII, p. 56.
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fare alcune osservazioni importanti a chiarimento della posizione di Diderot in quanto autore. L’Encyclopédie era un’opera collettiva e pertanto, anche se Diderot e D’Alembert, come redattori, portavano il fardello di una maggiore responsabilità legale rispetto agli altri collaboratori, si trattava pur sempre un onere condiviso. In secondo luogo, per quanto riguarda la politica, gli enciclopedisti furono estremamente cauti nelle loro critiche e gli stessi articoli di Diderot non mettevano mai esplicitamente in questione la struttura politica dell’Ancième Régime; anche se qualche collaboratore si espresse in modo più radicale, si può sostenere che in generale il “combattimento” condotto nell’Encyclopédie contro i poteri costituiti si traduceva principalmente in una lotta all’ignoranza, contro il fanatismo e la superstizione, nella convinzione condivisa che le fondamenta dello Stato potessero essere mutate senza che l’edificio ne soffrisse2. Infine, gli elementi che mettevano in discussione le due principali espressioni del potere costituito in Francia non solo erano stati celati con grande ingegno all’interno di articoli apparentemente innocenti o venivano alla luce grazie al complesso sistema dei rimandi3, ma alcuni dei testi degli articoli erano stati pesantemente censurati da Le Breton, fatto di cui Diderot venne a conoscenza solo nel 1764.
2. Cfr. J. Proust, Diderot et l’Encyclopédie, Albin Michel, Paris 1995, p. 451. Si veda anche V. La Ru, Subversives Lumières. L’Encyclopédie comme machine de guerre, CNRS éditions, Paris 2007. 3. Nonostante queste precauzioni, com’è noto l’Encyclopédie fu condannata nel 1759, il privilegio reale fu ritirato e la pubblicazione dei volumi mancanti sospesa. Nello stesso anno l’opera era stata messa all’indice da papa Clemente XIII. Nel 1762 fu accordata la possibilità di stampare e diffondere i volumi contenenti le tavole, accompagnata dalla circolazione clandestina dei volumi contenenti gli articoli.
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Per quanto riguarda la religione, le critiche sono sicuramente molto diffuse e, a partire dal 1755, la penna di Diderot si fa più esplicita e audace; nel complesso, tuttavia, come ha osservato Jacques Proust, profondo conoscitore dell’Encyclopédie e del pensiero diderotiano, nei suoi articoli il filosofo «trattò la religione con il sangue freddo dell’erudito, con serietà»4 e lo stesso tentativo di divulgazione del materialismo fu prudente, «come per piccole dosi»5. Tra il 1750, anno della pubblicazione del Prospectus dell’Encyclopédie, e il 1766, anno in cui andarono in stampa gli ultimi dieci volumi dell’opera, Diderot pubblicò poche opere: i testi teatrali, Il figlio naturale seguito dai Colloqui sul figlio naturale nel 1757. Nel 1758 pubblicò un altro dramma: Il padre di famiglia e il saggio Sulla poesia drammatica. La ristretta cerchia di abbonati alla Corréspondance littéraire diretta dall’amico Melchior Grimm (una quindicina di abbonati in tutto il continente, tutti appartenenti all’alta aristocrazia, tra cui si contavano la regina Caterina II di Russia e il re Ferdinando II di Prussia) poté leggere i resoconti dedicati dei Salon del 1759, del 1761 e del 1763, e infine la Lettera sul commercio librario. Per i temi e per la diffusione che ebbero tali opere, si può affermare che Diderot rispettò il divieto di pubblicare testi che contenessero idee contro la religione e la politica. Negli anni seguenti il filosofo si dedicò a un’intensa attività di scrittura, ma pubblicò ben poco e spesso, come nel caso dei racconti, rivolgendosi al pubblico limitatissimo della Corréspondance littéraire. Nel 1772 iniziò la sua collaborazione alla Storia delle due Indie diretta dall’abate Raynal, opera in cui le posizioni politiche espresse da Diderot erano ben più 4. J. Proust, Diderot et l’Encyclopédie, cit., p. 295. 5. Ivi, p. 290.
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audaci rispetto ai lavori precedenti. Tuttavia, tali contributi furono inseriti all’interno del testo in forma anonima, fatto che consentì a Diderot di esprimersi con una certa audacia, ma senza esporsi troppo a possibili ripercussioni personali. Nel 1763 la zarina Caterina II aveva acquistato la biblioteca di Diderot divenendo così sua protettrice; dieci anni dopo il filosofo intraprese il suo viaggio verso San Pietroburgo per poter ringraziare l’imperatrice e con la speranza di realizzare il suo piano di un’Encyclopédie russa. Fu lungo la via del ritorno dal suo soggiorno pietroburghese che il filosofo scrisse un breve dialogo, il Colloquio con la Marescialla di ***, e cercò di pubblicarlo a L’Aia, contando sulla maggiore libertà di stampa vigente in Olanda. Il progetto però non andò a buon fine. L’anno seguente Diderot riuscì a pubblicare il dialogo nella Correspondance littéraire, ma probabilmente la limitata diffusione che questa gli garantiva non lo soddisfaceva, cercò quindi un altro modo per raggiungere un pubblico più ampio. Finalmente, nel 1777, il Colloquio con la Marescialla di *** riuscì a trovare maggior divulgazione grazie a un’edizione bilingue franco-italiana in cui il dialogo, associato ai Pensieri filosofici, veniva presentato come opera postuma del poeta libertino Tommaso Crudeli (1703-1745). Quest’ultimo, noto soprattutto come poeta, era stato anche un libero pensatore ammiratore del sistema politico inglese, che si ispirava alla filosofia di Lucrezio, di Gassendi e dei libertini francesi. Precettore dei figli della nobile famiglia veneziana dei Contarini, nel 1727 Crudeli aveva pubblicato un epitaffio per le nozze di Marco e Paolina Contarini6, rieditato nella sua raccolta di poesie del 1746. Nel 1739 Crudeli fu condannato dall’Inquisizione per blasfemia, discorsi antireligiosi oltre che con l’accusa di
6. Contrariamente all’indicazione della versione italiana dell’opera di Diderot, Paola Contarini non era una duchessa.
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far parte della massoneria. Grazie alla pressione esercitata dalle autorità civili della Toscana, e sfruttando l’elezione di papa Benedetto XIV, Crudeli fu liberato nell’agosto 1740, ma la sua salute era ormai compromessa. Melchior Grimm considerava Crudeli come l’ultima vittima dell’Inquisizione. Diderot aveva tradotto un suo sonetto per la Gazette littéraire de l’Europe nel 17647 e non è un caso che egli abbia scelto di pubblicare la sua opera utilizzando il nome fittizio di questo poeta e libero pensatore, la cui vicenda costituiva un esempio concreto delle conseguenze nefaste dell’intolleranza religiosa. L’avviso al lettore anteposto all’edizione italiana del Colloquio di un filosofo con la Duchessa di ***, oltre a evocare lo spirito di tolleranza che anima il testo, informa il lettore che l’opera era stata trovata in forma manoscritta tra le carte lasciate da Crudeli e probabilmente non era mai stata pubblicata prima. Inoltre, il falso curatore lamenta la disattenzione del copista e le cattive condizioni del testo tali da renderlo quasi inintelligibile, rendendo necessarie numerose integrazioni. Insomma, il testo originale di Diderot si celava in una costruzione fittizia tra testo autografo e copie, originale e traduzione. Per quanto riguarda le reali circostanze storiche a cui è legata la composizione del Colloquio, anche senza avvalorare la tesi che si tratti della trascrizione di una conversazione realmente avvenuta8, è possibile ricostruire gli avvenimenti storici che lo hanno ispirato. Considerando il fatto che Diderot era di ritorno dal suo soggiorno in Russia, è probabile che in questo testo vi sia un eco delle conversazioni avvenute tra il filosofo e Ca-
7. Cfr. D. Diderot, DPV, vol. XIII, pp. 432-436. 8. Ci si riferisce qui alla testimonianza dell’abate Bourlet di Vauxcelles che rieditò il Colloquio nel 1796 in una raccolta intitolata Opuscules philosophiques et littéraires, citata da Roland Desné nell’Introduction a l’Entretien d’un philosophe avec la Maréchale de ***, Hermann, Paris 2009, p. 8.
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terina II, ma sicuramente il personaggio della sua interlocutrice ricorda molto, nella stessa descrizione che ne viene fatta, la Marescialla de Broglie, con la quale Diderot aveva avuto modo di conoscere proprio in seguito al suo viaggio in Russia. La Marescialla de Broglie nata Louise Crozat de Thiers (17331813), moglie del maresciallo de Broglie (1718-1804), era una delle figlie di Louis Antoin Crozat, barone di Thiers, il quale aveva ereditato da suo zio Pierre una prestigiosa collezione di dipinti. Nel dicembre 1770 il barone morì, e la marescialla co-ereditò la collezione. Caterina II di Russia fu convinta ad acquisirla da Golytsin9, che aveva avuto modo di ammirare le opere d’arte che ne facevano parte; nel 1771 il ruolo di intermediario fu affidato a Diderot. Per questa ragione il filosofo fu ospite della marescialla nel suo palazzo di rue de Varenne o a palazzo Crozat, in place Vendôme, dove si trovava la collezione. L’affare fu concluso l’8 ottobre e il 4 gennaio 1772 Diderot e Golytzin firmarono l’atto di vendita. Nella primavera 1772, tuttavia, gli eredi di Thiers accusano Diderot di aver fatto perdere loro più di duecentomila franchi. Si presume, dunque, che Diderot non sia più stato ammesso presso i de Broglie a partire almeno da luglio 1772. Tutte queste circostanze permettono una datazione abbastanza precisa del periodo di composizione di quest’opera. Inoltre, questa tesi è avvalorata da un elemento ulteriore: nello stesso periodo in cui Diderot frequentava i de Broglie, quindi nel 1771, egli collaborava con 9. Si tratta del principe Dimitri Alexeevitch Golitzyn o Gallitzin divenuto ministro plenipotenziario di Russia nel 1770, amico di Diderot, che ne apprezzava l’amore per l’arte, l’erudizione e l’illuminazione, nonché la passione per la ricerche scientifiche (Golitzyn aveva contribuito alla pubblicazione dell’opera postuma dell’opera di Helvétius, De l’Homme). Diderot era stato ospite di Golitzyn a L’Aia proprio nel 1773 in occasione del suo viaggio in Russia. La vicenda è ricostruita anche da Henry Troyat nella sua biografia della zarina Caterina II di Russia, La Grande Caterina, tr. it. di G. Ernesti, Bompiani, Milano 2014, in particolare pp. 274-275.
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gli amici Grimm e Mme d’Épinay alla redazione della Storia di Mme Montbrillant (Histoire de Mme de Montbrillant), testo in cui compare per esteso la storia del giovane messicano che viene citata in forma breve all’interno del Colloquio. La favola del giovane messicano (diffusa nella Corréspondance littéraire nel 1771) è riportata in Appendice 1 nella sua versione estesa. Questo testo è stato per lungo tempo d’incerta attribuzione, e anche le edizioni recenti non danno una risposta definitiva alla questione dell’autore. Nel 2010 questo racconto è stato pubblicato nel volume di Œuvres philosophiques di Diderot curato da Michel Delon per la Bibliothèque de la Pléiade delle edizioni Gallimard; tuttavia, nell’edizione critica del testo pubblicata, l’anno precedente per Hermann, i curatori la attribuiscono con certezza a Mme d’Épinay come parte integrante dell’Histoire de Mme de Montbrillant. Quest’ultimo racconto a sua volta è in realtà un caso di creazione collettiva, esempio di come le opere dei membri della cosiddetta coterie holbachiana fossero spesso il risultato degli scambi frequenti e delle lunghe discussioni, ma anche di momenti più ludici come l’invenzione di storie o addirittura di mistificazioni volte a prendersi gioco di comuni amici10. Si è scelto di riportare il breve testo della storia del giovane messicano perché essa fa parte di quel complesso intarsio di dialogo e scrittura, riflessione e narrazione, verità e mistificazione che caratterizza le opere di Diderot. Se, infatti, è proprio nel XVIII secolo che la funzione dell’autore di opere letterarie va sempre più af-
10. P. Chartier descrive molto bene come ci siano queste beffe reciprocamente architettate tra Diderot e i suoi amici all’origine delle sue più note mistificazioni letterarie: La Religiosa, I Due amici di Bourbonne e Mistificazione. Si rinvia a P. Chartier, Diderot, ou le rire mystificateur, in «Dix-huitième siècle», n. 32, 2000, pp. 145-164.
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fermandosi11, la pratica di scrittura di Diderot spesso sfugge a questa logica – basti pensare ai già citati contributi alla Storia delle due Indie e alla sua stretta collaborazione col barone d’Holbach. Se consideriamo il testo per lo spazio di riflessione che apre12, il Colloquio di un filosofo con la Marescialla di
11. «Un chiasmo si è prodotto nel XVII e XVIII secolo; si è cominciato a percepire i discorsi scientifici per se stessi, nell’anonimato di una verità stabilita o sempre di nuovo dimostrabile; è la loro appartenenza ad un insieme sistematico che conferisce loro garanzia, e non la referenza all’individuo che li ha prodotti. La funzione-autore si cancella, il nome dell’autore servendo tutt’al più a battezzare un teorema, una proposizione, un effetto notevole, una proprietà, un corpo, un insieme di elementi, una sindrome patologica. Ma i discorsi “letterari” non possono più essere accolti se non sono dotati della funzione-autore: ad ogni testo di poesia o di invenzione si domanderà da dove viene, chi l’ha scritto, in quale data, in quali circostanze o a partire da quale oggetto». M. Foucault, Che cos’è un autore? in Scritti Letterari, tr. it. di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 2010, p. 10. 12. L’utilizzo dell’espressione “spazio di riflessione” è dovuto all’intento di analizzare quest’opera di Diderot per il suo contenuto filosofico. È tuttavia indubbio che questo testo, come la maggior parte della produzione dell’autore, possa essere considerato al contempo un’opera letteraria, ragione per la quale si sarebbe egualmente potuto parlare di “spazio letterario”, inteso come sfera della narrazione. Tuttavia, l’intera opera di Diderot oltrepassa e dissolve i confini dei diversi “generi” del discorso, in un continuo rimettere in discussione i presupposti che li definiscono, e dunque li delimitano, dimostrando l’impossibilità di ridurre lo “spazio letterario” al concetto di narrazione. Definendo lo spazio letterario come quella dimensione della complessità del linguaggio che è in grado di sfuggire agli stessi confini che si tenta di imporre alla parola, è possibile chiarire che “spazio di riflessione” e “spazio letterario” nel caso di Diderot sono due espressioni sovrapponibili. L’opera diderotiana non costituisce un unicum: Voltaire, Rousseau, Prévost e numerosi altri pensatori e scrittori del XVIII secolo dimostrano quanto possa diventare sottile la distinzione tra letteratura e filosofia. La definizione di “spazio letterario” nei termini suddetti si ricollega, senza alcuna pretesa di esaurirle né riassumerle, alle riflessioni di M. Foucault, M. Blanchot e G. Deleuze; ma soprattutto per la riflessione sullo “spazio letterario” siamo debitori al corso di approfondimento tenuto dalla professoressa Carla Locatelli nella primavera 2012 presso l’Università di Trento. Una parte delle
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*** e Che cosa ne pensate? costituiscono insieme un luogo di riflessione sullo stesso tema, al di là dell’autore al quale si possono attribuire con più o meno certezza. Per la stessa ragione si trova in Appendice 2 il frammento in cui Diderot racconta la favola del misantropo a cui accenna sempre all’interno del Colloquio. Di questa storia esistono più versioni, delle quali una è contenuta nel Sistema della Natura del barone d’Holbach. Questo testo figurava nell’Addition aux Pensée philosophiques composta intorno al 1762 nell’edizione di Assézat-Tourneux, ma si ritiene attualmente che il pensiero in questione sia stato concepito successivamente, intorno al 12 settembre 1765, data in cui Diderot, in una lettera a Damilaville, la riassume e sollecita quest’ultimo a riportarla a Voltaire («Rappelez-lui ma fable sur le misanthrope»)13. Una terza versione del testo è presente all’interno della già citata Histoire de Mme de Montbrillant di Mme d’Épinay14. La versione qui riportata è quella nota con il nome di Pensé philosophique (Pensiero filosofico). La riflessione sul rapporto tra morale e religione sviluppata nel Colloquio di un filosofo con la Marescialla di *** rende questo testo un elemento importante nel ricco e complesso intarsio degli scritti di Diderot. I numerosi tasselli che costituiscono la filosofia diderotiana – lo sviluppo di un pensiero critico, il materialismo, la critica alla superstizione e all’uso strumentale della religione, l’elaborazione di una riflessione questioni affrontate durante il seminario è contenuta nel volume collettivo a cura di C. Locatelli e F. Di Blasio, Spazi/o: teoria, rappresentazione, lettura, Università di Trento Editore, Trento 2006. 13. D. Diderot, Lettera a Damilaville, 12 settembre 1765, Corrispondenza, cit., t. V, pp. 117-118. 14. Per quanto riguarda tutti gli elementi che hanno portato alla datazione del testo rinvio all’Introduction contenuta in Entretien d’un philosophe avec Madame la Maréchale de ***, Hermann, Paris 2009, pp. 55-59.
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morale autonoma dalla fede, ecc. – s’intrecciano tra loro in quest’opera sia attraverso i rimandi ad altri testi precedenti, sia nella continuità tra l’opera scritta e il dialogo continuo e serrato che il filosofo intratteneva con i contemporanei. Nella composizione di questo dialogo raffinato Diderot mette in scena se stesso, in un testo che è stato giustamente definito come «limpido, leggero come una fuga di Bach»15. Composizione magistrale con cui egli si sofferma su una delle questioni più spinose del suo ateismo e del suo materialismo, tornando sulle obiezioni più problematiche che potevano essergli mosse. Nel Colloquio le criticità della sua posizione sono esposte da una signora perbene, devota, cresciuta secondo i principi della religione, madre di sette figli, timorosa di ciò che un uomo privo di fede poteva essere capace di dire e soprattutto di fare. L’interlocutrice impegna Diderot in una conversazione dotta, sostenuta, ma pur sempre caratterizzata dai toni brillanti e leggeri di una chiacchierata. Forma scelta di proposito dall’autore e che si contrappone a quella classica del dialogo dialettico tipica della tradizione filosofica. Il personaggio della Marescialla, che come si è visto è ispirato alla Marescialla de Broglie, ma potrebbe ricordare anche Caterina II di Russia, non è il ritratto fedele di una persona realmente esistita, come per esempio era accaduto con D’Alembert, Mme de L’Espinasse e Bourdeau nel Sogno di D’Alemebert. Questa scelta probabilmente è dovuta a ragioni cautelative: gli amici del filosofo non avevano accolto troppo bene la loro rappresentazione drammatica. Tuttavia sarebbe riduttivo pensare che si trattasse solo di questo, poiché molto probabilmente Diderot non intendeva mettere in scena una persona specifica ma, anzi, grazie ai tre asterischi che sospendono il
15. J. Gayraud, La maïeutique de l’impiété, in Entretien d’un philosophe avec la Maréchale de ***, Éditions mille et une nuit, Paris 2007, p. 53.
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cognome, rinviare a una figura più universale, portavoce delle tesi che gli apologeti del cristianesimo stavano sviluppando e diffondendo all’epoca, che fosse al contempo dimostrazione di un atteggiamento tollerante e aperto al dialogo. La scelta di questi due personaggi rende delicato lo scambio d’idee. La conversazione è sospesa a un filo sia per l’argomento discusso, sia per le posizioni radicalmente opposte della Marescialla e di Diderot: l’una aristocratica, devota e buona madre di famiglia, l’altro, filosofo ateo, quindi considerato empio (crimine per il quale si poteva ancora essere condannati all’epoca), per di più imprigionato in gioventù a causa delle sue opere. Il debito nei riguardi dei Colloqui sulla pluralità dei mondi di Fontenelle è evidente, ma Diderot va ben oltre il modello del dialogo galante: il suo personaggio discute questioni capitali come la morale, l’esistenza di Dio e la vita eterna, con un’interlocutrice da trattare con tatto, sono questi gli elementi che rendono questo dialogo una costruzione dagli equilibri complessi. La conversazione è perfettamente orchestrata, la profondità non cede mai un passo al ritmo e l’accortezza non arretra rispetto al contenuto indiscreto delle risposte del filosofo; unicamente al carattere determinato della volontà Diderot si limita a un accenno velato16, per seguire una strategia argomentativa che consenta al dialogo di proseguire e di non arrestarsi di fronte a quello che, probabilmente, per la sua interlocutrice sarebbe stato uno scoglio troppo arduo da affrontare. Proprio come per Fontenelle, Diderot mette in scena una donna, personaggio adatto all’espressione di una docta ignorantia che lascia ampio spazio alla parola dell’interlocutore. Nondimeno, nell’opera di Diderot la Marescialla è un’interlocutrice che dimostra maggiore disponibilità e apertura ad 16. Cfr. C. Duflo, Diderot philosophe, Honoré Champion, Paris 2013, p. 387.
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accogliere le nuove idee illuministiche17 rispetto a quanto avrebbe potuto fare un personaggio maschile, e permette almeno nella finzione letteraria di attuare una sorta di apertura del sapere ad un più vasto pubblico. Poiché, infatti, da secoli la conoscenza era appannaggio quasi esclusivo degli uomini (salvo rare eccezioni), il solo fatto di condividere gli aspetti più speculativi della filosofia con una donna, costituiva di per sé una trasgressione delle frontiere disciplinari18. L’eccezionalità di questa conversazione è accentuata dallo spazio e dal tempo in cui l’autore la situa: il colloquio si svolge mentre Diderot personaggio attende il suo vero interlocutore, cioè il Maresciallo. La Marescialla è colta nelle sue stanze, in un momento d’intimità (quello della toeletta) ed è in questa situazione che prende avvio la conversazione. L’espediente letterario di collocare la conversazione in un luogo tanto inusuale per la filosofia, consente al contempo al personaggio femminile di esprimersi con libertà, persino con una certa arditezza: «Se non avessi nulla da sperare, nulla da temere quando non ci sarò più», confessa la Marescialla, «mi sembra che ci sarebbero ben poche piccole dolcezze di cui mi priverei, ora che ci sono. Confesso che presto a Dio a usura». Inoltre, il personaggio della Marescialla, nonostante il punto di vista devoto di cui è portavoce, corrisponde al contempo alla possibilità di una filosofia che dimostra spirito di tolleranza di fronte alle nuove idee. Diderot insomma configura, proprio grazie a questo personaggio, anche la possibilità di un pensiero filosofico non dogmatico, e non intralciato da un’eredità filosofica la cui ric-
17. Cfr. F. Lotterie, Le genre des Lumières: philosophe et femme au XVIIIe, Garnier, Paris 2013, p. 126. 18. Nonostante gli esempi eccellenti di donne, spesso aristocratiche, istruite e talvolta ammesse nel dibattito culturale, si può dire che sostanzialmente nel XVIII secolo la situazione delle donne non era avanzata di molto da questo punto di vista.
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chezza rischiava trasformarsi in una forza conservatrice della tradizione refrattaria alla novità illuministica. Già nel suo breve testo Sulle donne egli aveva elogiato la loro posizione che da questo particolare punto di vista considerava privilegiata: Mentre noi leggiamo nei libri, esse leggono nel grande libro del mondo. Così la loro ignoranza le dispone a ricevere immediatamente la verità quando la mostriamo loro; nessuna autorità le ha soggiogate; anziché la verità all’entrata dei nostri crani si trovano un Platone, un Aristotele, un Epicuro, uno Zenone a fare da sentinella, armati di picche per respingerla.19
Il dialogo tra Diderot personaggio e una donna, permette al filosofo di scrivere un’opera la cui forma gradevole e la delicatezza espressiva, gli consentono di rompere il silenzio impostogli per lunghi anni sulle questioni che egli riteneva fondamentali. Non si era certo trattato di un silenzio totale: il lavoro dell’Encyclopédie costituiva già di per sé una grande rottura e una forte critica al sistema tradizionale del sapere e del potere. Per questa ragione essa aveva subito una condanna nel 1752, poi sospesa, ed era stata nuovamente condannata nel 1759, anno in cui fu anche messa all’indice da papa Clemente XVIII. Tutto ciò però era accaduto nonostante le precauzioni prese dagli autori; nel Colloquio, invece, Diderot cerca di assumere nuovamente il ruolo del filosofo che non si sottrae alla necessità di dire la verità in modo esplicito. Urgenza sempre
19. D. Diderot, Sur les femmes, in Œuvres complètes, 20 vol., a cura di J. Assézat-M. Tourneux, Paris 1875-1880, vol. II, p. 261. Evidentemente questo passaggio si riferisce alla maggiore recettività femminile alle nuove idee illuministiche, e non si riferisce alla condizione di subalternità della donna rispetto all’uomo ancora prevalente all’epoca e messa in discussione proprio da Diderot con altri illuministi, anche in virtù della pari capacità di elaborazione del pensiero riconosciuta alle donne.
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più pressante in quegli anni che lo vedono contemporaneamente impegnato nella collaborazione alla Storia delle due Indie e nel tentativo di elaborazione di un piano per un rinnovamento dell’istruzione e delle istituzioni russe da proporre all’imperatrice Caterina II. In quel periodo Diderot si poneva infatti, con insistenza crescente la questione di quale dovesse essere il ruolo del filosofo nella società. Egli aveva più volte sostenuto di scrivere per la posterità, considerando anzi le generazioni future come il vero pubblico a cui si rivolgevano le sue riflessioni, i veri eredi del suo pensiero dato che i contemporanei non si erano rivelati, salvo qualche eccezione, pronti ad accogliere le nuove idee dell’illuminismo e in particolare le sue tesi più radicali. Nell’ultima parte della sua vita, però, Diderot tornò insistentemente sul rapporto problematico tra il filosofo e i suoi contemporanei, riflessione che culminò con il ritratto di Seneca tratteggiato nel Saggio sui regni di Claudio e Nerone, testo che doveva accompagnare la pubblicazione della traduzione francese delle opere di quest’ultimo. Erano quelli gli anni in cui Rousseau aveva iniziato a leggere alcuni brani delle sue Confessioni, testo nel quale non si limitava a prendere le distanze dalla filosofia dei Lumi, ma denunciava l’incoerenza e il compromesso cui avevano ceduto gli amici con cui un tempo condivideva le vedute. Rousseau poneva con vigore il problema della coerenza tra la dottrina e la vita, del rapporto tra i filosofi e il potere20. Il ginevrino pretendeva, nel IX libro delle Confessioni21, che per pubblicare dei
20. Cfr. G. Stenger, Diderot. Le combattant de la liberté, Perrin, Paris 2013, p. 685. 21. «Ammetto anche che in quanto straniero che vive in Francia trovai la mia posizione molto favorevole per arrischiarmi a dire la verità; sapendo bene che, continuando, come volevo fare, a non stampare niente all’interno dello Stato senza autorizzazione, non dovevo rendere conto a nessuno delle mie massime e della loro pubblicazione in qualsiasi altro posto. […] Sentivo
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libri sul vero bene della patria, senza essere degli intriganti, fosse necessario evitare qualsiasi compromesso con il potere. Quest’affermazione puntava l’indice contro la stessa mediazione con la censura a cui erano dovuti scendere Diderot, D’Alembert e gli altri redattori e compilatori dell’Encyclopédie per poterla pubblicare. Le Confessioni mettevano dunque in questione l’immagine degli illuministi francesi che sarebbe stata trasmessa alle generazioni future; ciò permette di capire la reazione di Diderot di fronte a queste accuse, e la ragione per cui scelse di rispondere ad esse in alcuni passaggi molto lunghi del Saggio sui regni di Claudio e Nerone. Sulla base di questo quadro storico e biografico, si può pensare che il Colloquio di un filosofo con la Marescialla di *** fosse considerato da Diderot un’occasione per prendere posizione apertamente. L’importanza dell’espressione pubblica delle proprie idee filosofiche per mezzo di questo dialogo è avvalorata dallo sforzo messo in campo da Diderot per pubblicarlo in Olanda e, dopo il fallimento di questo tentativo, dal fatto che egli non abbia rinunciato all’impresa, riuscendo a farlo stampare in Italia quattro anni dopo. Il tentativo di pubblicazione su tre fronti (in Olanda, nella Corréspondance littéraire e in Italia) dimostra la volontà di Diderot di rendere pubblico questo testo, soprattutto considerato che, come si è detto, fino a quel momento egli non si era impegnato molto attivamente per la divulgazione delle sue opere. Proprio l’esperienza del carcere, a cui si deve sommare l’attacco rivoltogli da parte degli apologeti della Religion vengée negli anni dell’Encyclopédie che lo accusavano di peccare d’immoralità e di voler rovinare la religione cristiana solo per poter lasciache, come ho sostenuto nell’Emilio, se non si è un uomo adatto all’intrigo, quando si vogliono consacrare dei libri al vero bene della patria, non bisogna comporli in seno ad essa». J. J. Rousseau, Confessions, Libro IX, Genève 1782, pp. 392-393.
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re libero corso al vizio22, emerge alla fine del Colloquio: «A proposito, se voi doveste rendere conto dei vostri principi ai nostri magistrati, li ammettereste? – Farei del mio meglio per risparmiar loro un’azione atroce. – Ah! Vile! E se foste in punto di morte, vi sottomettereste alle cerimonie della Chiesa? – Non mancherei mai. – Via, via! brutto ipocrita». Il libertinismo erudito del secolo precedente aveva sostenuto la tesi della doppia morale ed è il riferimento che sembrerebbe suggerire questo passaggio, ma probabilmente non è ciò a cui Diderot si riferisce. Egli qui tocca il tasto della coerenza a cui si appellava Rousseau, coerenza che, a conti fatti, si dimostrava in netto contrasto con il lavoro di critica messo in atto dai philosophes e con l’opera di diffusione dell’uso della ragione contro il pregiudizio e il fanatismo. Se, infatti, gli enciclopedisti non si fossero avvalsi di qualche precauzione, sarebbero andati incontro allo scacco, nessuno avrebbe risparmiato loro quelle “azioni atroci” a cui erano pronti i detrattori dell’illuminismo. Conseguenza di una contestazione troppo aperta sarebbe stata il fallimento della critica stessa. Il medesimo problema era già stato posto da Diderot nella Passeggiata dello scettico (1747), testo rimasto nella clandestinità fino al 1830: pubblicare o no un’opera che avrebbe contribuito alla diffusione dei lumi, ma messo a rischio il suo autore? In quell’occasione, nonostante la conclusione del dialogo tra i personaggi, Diderot aveva scelto di non pubblicare, sebbene avesse dato alle stampe due anni dopo la Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono, che gli era costata l’imprigionamento. La relazione tra filosofi, potere e censura nell’Ancien Régime era complessa (in particolare negli anni precedenti la Rivoluzione), talvolta contraddittoria e difficilmente si potrebbero riassumere in poche righe i delicati rapporti tra editoria, cen22. Cfr. J. Proust, op. cit., p. 295.
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sura e polizia. È possibile averne un’idea grazie al lavoro di minuziosa ricerca svolto dallo storico delle idee Robert Darnton che ha ricostruito in L’intellettuale clandestino, nell’Età dell’informazione23 e in altre opere la situazione in cui Diderot e gli enciclopedisti scrivevano e pubblicavano. D’altra parte, per situare la riflessione di Diderot, non si tratta nemmeno di entrare in modo approfondito nella querelle con l’amico Rousseau, ma semplicemente di comprendere che il ruolo del filosofo in rapporto al potere fosse ancora molto delicato, in particolare per quanto riguarda la possibilità di esprimersi esplicitamente su determinate questioni. Nel 1746, quando furono bruciati i Pensieri filosofici di Diderot, al contempo fu condannata al rogo anche la Storia naturale dell’anima di La Mettrie. Nello stesso anno quest’ultimo pubblicò un violento pamphlet, La politica del Medico di Machiavelli, o il Cammino della fortuna aperto ai medici, che lo costrinse all’esilio. L’espressione aperta di alcune posizioni filosofiche a metà del XVIII secolo in Francia portava dunque alla condanna certa. La Mettrie scelse l’esilio, Diderot decise invece di continuare il suo combattimento ricorrendo all’astuzia, come dimostra la sofisticata costruzione dell’Encyclopédie, e di rivolgersi alla posterità. Nel frattempo, come comprovano questo dialogo, la corrispondenza e le testimonianze sulla vita di Diderot, egli non aveva mai smesso di discutere e confrontarsi su ciò che riteneva più importante: la religione e la politica.
23. R. Darnton, L’Età dell’informazione, tr. it. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano 2007 e L’intellettuale clandestino, tr. it. di G. Ferrara degli Uberti, Garzanti, Milano 1990. Al lavoro pionieristico di Darnton sul libro e la sua circolazione nel secolo XVIII ha dato l’avvio a numerosi altri studi che continuano ad arricchire le conoscenze cha abbiamo sulla circolazione delle opere e su quello che si potrebbe complessivamente definire “il mondo del libro”.
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Per quanto riguarda il Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***, le posizioni critiche rispetto alla religione non sono affatto celate e Diderot, al contempo autore e personaggio, espone delle tesi all’epoca considerate decisamente scandalose. È particolarmente degno di nota lo stile privo di risentimento e la conversazione generosa e gentile che si instaura tra i due personaggi, decisamente in controtendenza rispetto alla violenza di toni che talvolta assumeva la pamphlettistica su questo tema, elementi che indicano il vero spirito di tolleranza promosso da questo dialogo. Come si è detto, già nel 1746 con i Pensieri filosofici, seguiti dalla Passeggiata dello scettico nel 1747 e dalla Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono nel 1749, Diderot aveva esposto le sue critiche alla religione, sottoposto le credenze e le presunte verità al setaccio del dubbio, dimostrato la fragilità del tentativo di provare l’esistenza di Dio, e, infine, esitato sulle più forti obiezioni che potevano essere poste a un pensiero filosofico materialista ed ateo. L’indugio del filosofo su quest’ultimo punto è dovuto al fatto che la risposta alle domande sollevate dall’ateismo era complessa e non poteva ancora avvalersi di un sistema di riferimento come invece accadeva, in particolare sul piano della morale, per la filosofia e la religione che riconoscevano il loro fondamento nella divinità. Diderot, come la maggior parte degli illuministi, rifiutava la costruzione di un sistema filosofico e la sua tendenza inevitabile all’irrigidimento dogmatico, ma questo implicava una problematica ulteriore nella ricerca di una risposta alle domande cruciali che si presentavano al filosofo: può la morale fare a meno di un fondamento religioso? L’ateo può far parte della società civile o costituisce una minaccia? L’ateo, vale a dire colui che non crede in Dio e nell’immortalità dell’anima, può essere al contempo un filosofo coerente e un uomo virtuoso? Gli interrogativi affrontati nelle prime opere giovanili sono gli stessi che Diderot riprende nel Colloquio di un
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filosofo con la Marescialla di ***, opera più matura ma che prosegue la riflessione in quello stesso solco. La comunanza di temi e di intenti tra quest’opera e quelle giovanili del resto, è confermata dalla scelta di far precedere l’edizione italiana del 1777 dai Pensieri filosofici. Gli atei non godevano di grande considerazione nel XVIII secolo, non solo i difensori della religione cristiana li reputavano empi, ma incontravano l’opposizione anche da parte di filosofi deisti come Voltaire. L’ateo era considerato empio perché non credeva in Dio, nell’eternità dell’anima e in tutto ciò che da questo consegue. Una delle ragioni della cattiva considerazione di cui godevano gli atei risiedeva nel fatto che, non avendo nulla da temere, essi mancassero della motivazione fondamentale che spinge l’uomo a comportarsi in modo virtuoso; di conseguenza, essi erano ritenuti un pericolo per la tenuta dei legami sociali o, meno radicalmente, degli individui inaffidabili. Lo stesso concetto fu ripreso da Leibniz che, pur condividendo il principio di tolleranza di Locke, aveva ribadito che gli atei, «credendosi esonerati dall’importuno timore di una provvidenza che sorveglia e di un avvenire minaccioso, allentano la briglia alle loro passioni brutali e volgono lo spirito a sedurre e corrompere gli altri»24. Per questa ragione, nel dialogo la Marescialla si stupisce che Diderot, il filosofo “che non crede in niente”, non rubi, non uccida e non saccheggi, vale a dire si comporti secondo una morale tanto retta quanto quella di un credente. La conclusione della sua interlocutrice è che la condotta del filosofo fosse dovuta all’incoerenza tra le idee e il comportamento, tra teoria e prassi idea sostenuta in modo articolato già Pierre Bayle nel suo Commentaire philosophique sur ces paroles de Jésus-Chri-
24. G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, tr. it. di E. Cecchi, Laterza, Roma-Bari 1999, Libro IV, p. 492.
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st, «Contrain-les d’entrer» ou Traité de la tolérance universelle (Commentario filosofico sulle parole di Gesù Cristo «costringili ad entrare» o Trattato sulla tolleranza universale). Questi aveva cercato di dimostrare che esistono passioni socialmente utili, che possono spingere anche gli atei a comportarsi in modo onesto e retto, combattendo l’idea che alla mancanza di fede corrispondesse l’assenza di un freno alle proprie passioni. Il generale e diffuso pregiudizio contro gli atei trovava ulteriore conferma nel pensiero di La Mettrie, considerato il rappresentante per eccellenza del materialismo e dell’ateismo. Tuttavia l’amoralismo professato da La Mettrie, destinato a una piccola cerchia di eletti, non aveva nulla a che vedere con la filosofia di Diderot e il suo sforzo costante di elaborare un pensiero laico e una morale indipendente dalla fede a favore di una società più tollerante. Per non essere accomunato al suo contemporaneo Diderot prese le distanze più volte da La Mettrie, in modo molto esplicito e critico: La M***, dissoluto, impudente, buffone, adulatore, era fatto per la vita di corte e il favore dei Potenti. È morto come doveva morire, vittima della sua impertinenza e della sua follia; si è ucciso per ignoranza di ciò che professava. Accordo il titolo di filosofo solo a colui che si esercita costantemente nella ricerca della verità e nella pratica della virtù; e depennando da quel novero un uomo corrotto nei suoi costumi e nelle sue opinioni, posso assicurarmi che i nemici della filosofia taceranno? No.25
In aggiunta a tutto questo, nel secolo dei Lumi era ancora predominante l’opinione – che trovava la sua radice nel pensiero di Locke – secondo la quale l’ateo non potesse prestare un giuramento valido, poiché le sue promesse e i suoi giuramenti
25. D. Diderot, Essai sur les règnes de Claude et de Néron, II, 7, in DPV, vol. XXV, p. 248.
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erano privi della garanzia divina. L’ateo, pertanto, non aveva modo di fornire alcuna assicurazione circa il rispetto di quel contratto sociale su cui si sarebbe dovuta fondare la società, e che nel pensiero lockiano era alla base dello stesso principio di tolleranza. In questa prospettiva i credenti appartenenti a diverse religioni potevano convivere pacificamente, mentre l’ateo era escluso dal patto di reciproco rispetto. Tra le poche voci in controtendenza la più nota e autorevole era quella, già citata, di Pierre Bayle che nei Pensieri sulla cometa e nel Commentaire philosophique aveva difeso i diritti della coscienza errante e rispondeva alle difficoltà di comprendere come un uomo, pur non credendo in Dio, potesse avere e seguire le idee di giustizia e onestà sostenendo che: una società di atei potrebbe svolgere ogni attività civile e morale come qualsiasi altra società, ammesso che anche in essa si puniscano severamente i delitti e si connettano a certe determinate azioni i sentimenti dell’onore e dell’infamia. Il fatto di ignorare l’esistenza di un primo Essere creatore e conservatore dell’universo non impedirebbe ai membri di questa società di essere sensibili alla gloria e al disprezzo, alla ricompensa e alla pena, così come a tutte le altre passioni umane e nemmeno soffocherebbe in loro tutti i lumi della ragione, e anche fra gli atei si potrebbero vedere persone oneste nel commercio, caritatevoli verso i poveri, nemiche dell’ingiustizia, fedeli ai loro amici, aliene dall’offendere, indifferenti ai piaceri della carne, incapaci di fare un torto a qualcuno.26
Bayle si era reso conto che l’unica risposta alle controversie religiose tra cattolici e riformati, strumentalizzate politicamente fino a sfociare in veri e propri atti di conversione forzata, persecuzione o addirittura di espulsione, fosse la dimostrazione dell’autonomia della morale dalla religione. Solo l’autonomia 26. P. Bayle, Pensieri sulla cometa, tr. it. di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 2009, §172, p. 322.
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della morale dalla fede era in grado di consentire la pace civile, la professione libera della propria fede, e l’impossibilità di utilizzare la religione per giustificare la violenza. Bayle, che aveva assistito alla revoca dell’Editto di Nantes da parte di Lugi XIV e ne conosceva tutte le nefaste conseguenze, si era impegnato in una vera e propria rivoluzione concettuale dando al termine “tolérance”27 un senso nuovo e positivo, come unico modo possibile di intendere la fiducia e l’interesse per l’altro, il prossimo, un vero principio di pace e non una forma di indifferenza, un’abdicazione dottrinale e un modo per dare libero corso ai conflitti28. Diderot si era appropriato della riflessione bayleana fin dalle opere giovanili, approfondendola in occasione della redazione degli articoli filosofici dell’Encyclopédie, entrambi i filosofi rivendicavano l’autonomia della morale dalla religione, insistendo sull’importanza dell’uso della ragione come criterio di valutazione dei principi morali. A differenza di Diderot però, Bayle non mancava di distinguere tra la possibile onestà dell’ateo e la vera virtù del credente. Perciò nonostante egli si fosse erto a difesa della coscienza errante e avesse insistito sulla distinzione dell’errore dal peccato, nelle sue opere l’ateismo viene comunque considerato un errore rispetto alla vera fede. La posizione di Bayle su questo punto tuttavia non è 27. Come ricorda J. M. Gros, nella sua Introduction a P. Bayle, De la tolérance. Commentaire philosophique, Honoré Champion, Paris 2006 (edizione critica di Commentaire philosophique sur ces paroles de JésusChrist, contrains-les d’entrer..., 1686, Thomas Litwel, Cantorbery) la parola «tolérance» compare per la prima volta verso la metà del XVI secolo in Germania (toleranz) e nei Paesi Bassi (tolerantie), e solo verso la fine del secolo in Francia. Ancora nel 1694 essa viene usata con accezione negativa, come dimostra il Dictionnaire de l’Academie Française, che la definisce come «condiscendenza, indulgenza per ciò che non si può impedire» (condescendance, indulgence pour ce qu’on ne peut empechêr), p. 14. 28. Ibidem.
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stata analizzata in modo univoco dai critici e l’importanza del ruolo svolto dalla fede all’interno della sua filosofia assume un peso diverso a seconda che lo si consideri uno scettico integrale, come nell’interpretazione di G. Cantelli29, un razionalista critico, secondo la lettura di G. Paganini30, oppure perfettamente in linea con il calvinismo e la teologia riformata, come lo interpreta E. Labrousse31, quel che è certo è che nelle sue opere si trovano riferimenti espliciti alla morale evangelica del cristiano rigenerato come via della verità che sono del tutto assenti in Diderot. Se Bayle aveva dimostrato l’incoerenza del comportamento di molti cristiani per assolvere l’ateo, Diderot invece si fece promotore di una morale razionale e atea, criticando il cristianesimo, il fanatismo e la superstizione che da esso traggono origine o che in esso trovano appoggio, senza però mancare di concedere la possibilità del dialogo ai cristiani moderati, come i collaboratori dell’Encyclopédie. Nelle sue opere Bayle aveva messo in luce la soggettività della nozione di religione, l’influenza dell’educazione sull’interpretazione di alcuni dogmi indecidibili, difeso i diritti della coscienza errante che cerca la verità e agisce in buona fede, Diderot, si era appropriato di questa riflessione e l’aveva sviluppata a difesa dell’ateismo. Il filosofo tuttavia era consapevole di essere ancora in compagnia di pochi e di vivere in un’epoca in cui il principio di tolleranza non si era ancora del tutto affermato e, soprattutto, era lungi dall’essere esteso agli atei, nonostante la battaglia intrapresa dal barone d’Holbach.
29. G. Cantelli, Teologia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, La Nuova Italia, Firenze 1969. 30. G. Paganini, Analisi della fede e critica della ragione nella filosofia di Pierre Bayle, La Nuova Italia, Firenze 1980. 31. E. Labrousse, Pierre Bayle: hétérodoxie et rigorisme, M. Nijhoff, La Haye 1964.
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Così, ribaltando l’argomentazione più diffusa contro gli atei, Diderot sosteneva che non fosse la mancanza di fede a costituire un pericolo per la società, ma l’intolleranza stessa, anche se rivolta a un unico soggetto, cioè l’ateo: Se si rompe il legame con colui che si definisce empio, si romperà il legame con chi si definisce avaro, impudico, ambizioso, collerico, vizioso. Si consiglierà questa rottura ad altri, e tre o quattro intolleranti saranno sufficienti a lacerare l’intera società. Se si può strappare un capello a chi la pensa diversamente da noi, si potrà disporre ugualmente della sua testa, perché non c’è alcun limite all’ingiustizia. Sarà l’interesse, o il fanatismo, o il momento, o la circostanza a decidere la maggiore o minore quantità di male che ci si permette.32
A questa inversione della prospettiva condivisa dai più, mira anche il Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***, dove, rispetto all’articolo “Intolleranza” dell’Encyclopédie, Diderot svolge l’argomentazione partendo da una diversa prospettiva. La discussione sul rapporto tra morale e fede nel Colloquio viene immediatamente posta, per bocca della Marescialla stessa, sul piano dell’utilità: «Cosa ci guadagnate allora a non credere?» è la domanda che pone al filosofo ateo e virtuoso. Diderot, a sua volta, risponde sollevando un quesito capitale: «Si crede forse perché c’è qualcosa da guadagnare?». Il punto di partenza è la versione popolare e deformata in senso utilitaristico dell’argomento della scommessa di Pascal. In questa versione, molto diffusa nel XVIII secolo, l’utilità e l’interesse personale, considerati come movente dell’azione umana, si 32. D. Diderot, articolo «Intolérance» in D. Diderot, Jean le Rond d’Alembert, Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, etc., vol. VIII, p. 843, University of Chicago: ARTFL Encyclopédie Project (Autumn 2017 Edition), Robert Morrissey and Glenn Roe (ed), http://encyclopedie.uchicago.edu/..
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sostituiscono alla profonda esperienza di fede a cui si riferiva Pascal: al contrario di quanto asserisce la Marescialla, infatti, l’argomento della scommessa implicava che tutta l’esistenza dell’individuo fosse messa in gioco da questa scelta, in questo azzardo, e non tanto che dal punto di vista dell’interesse egoistico fosse più conveniente credere in Dio. Viceversa, la Marescialla di Diderot non esita a «fare dell’usura con Dio», pungente ironia del filosofo che tocca il fulcro del problema della versione settecentesca dell’argomento pascaliano. La sua interlocutrice, in questa prima parte del dialogo, si fa portavoce delle tesi che l’apologetica cristiana stava sviluppando in quegli anni per rispondere al duro attacco mosso dagli illuministi alla religione. L’argomento dell’utilità, proprio originariamente della riflessione della filosofia razionale, venne adottato all’epoca anche dagli apologeti della religione – ad esempio Volney, nel suo Cathéchisme du citoyen français pubblicato nel 1793, sosteneva che l’atto virtuoso è il prodotto di una valutazione razionale dei nostri interessi – per contrattaccare sullo stesso piano della filosofia, tanto da poter affermare che si trattasse dello stesso testo letto in due lingue diverse33. La religione cristiana veniva difesa e, come si è visto, comunemente ritenuta un elemento che assicurava la buona condotta dei cittadini. Grazie al giudizio divino e alla ricompensa che aspettava all’uomo nell’aldilà, la religione era presentata come un freno sicuro allo scatenamento delle passioni, promotrice del bene, e come garante di fedeli servitori dello Stato (per questa ragione fece tanto scandalo il capitolo IV del Contratto sociale in cui Rousseau sosteneva il contrario). Per fare un esempio, nell’Apologie de la religion chrétienne (1769)34 Nicolas Berger tentava di dimostrare che il cristia-
33. Vedi G. Besse, Philosophie - Apologétique - Utilitarisme, p. 132 in «Dix-huitième siècle», n. 2, 1970, pp. 131-260. 34. In ivi, p. 141.
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nesimo era necessario alla felicità degli Stati, in quanto favorevole al progresso dello spirito umano, fonte unica di buona morale e buona politica. Un altro argomento ricorrente e ripreso dall’autore era che le leggi civili, da sole, non bastavano a regolare la condotta dei cittadini e la morale razionale non poteva fungere loro da sostegno perché non era sostenibile né credibile. Queste argomentazioni sottendevano una visione piuttosto negativa dell’essere umano, capace di compiere il bene solo in vista di un interesse personale, ossia nella prospettiva di una ricompensa. Così si esprime anche la Marescialla: «Se non avessi nulla da sperare, nulla da temere quando non ci sarò più, mi sembra che ci sarebbero ben poche piccole dolcezze di cui mi priverei». Naturalmente, a Diderot non era sfuggita la contraddizione insita nel ricorso a quest’argomentazione da parte dei credenti. Già criticata una prima volta nei Pensieri Filosofici, dove Pascal (a cui comunque riconosceva l’eleganza stilistica e la profondità di ragionamento)35, veniva definito come spirito focoso, uomo dall’immaginazione ardente, incapace di rimanere nello stato di indecisione in cui permane lo scettico. Pascal, scriveva Diderot, preferì “azzardare una scelta” piuttosto che non farne alcuna, e coloro che, come lui, hanno fretta di uscire dallo stato d’indecisione preferiscono sbagliare piuttosto che vivere nell’incertezza: sia che diffidino delle proprie forze, sia che temano la profondità delle acque, li vediamo sempre sospesi a rami di cui sentono tutta la debolezza, e a cui preferiscono rimanere aggrappati piuttosto che abbandonarsi al torrente. Affermano tutto, benché non abbiano esaminato accuratamente nulla; non dubitano di niente perché non ne hanno né la pazienza né il coraggio.36
35. D. Diderot, Pensées philosophiques, §XIV in DPV, vol. II, p. 22. 36. Ibidem.
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Il lavoro del filosofo consiste invece proprio nel paziente esame delle ragioni, nella ricerca coraggiosa condotta nonostante le credenze della maggioranza e le tradizioni secolari: meglio l’irresoluzione in buona fede, che l’azzardo forzato o ancor peggio basato sull’interesse puramente egoistico. L’idea che non fosse possibile alcun atto di pura generosità ripugnava Diderot, che, sempre a proposito della versione utilitaristica e popolare della scommessa pascaliana, scriveva in una lettera al fratello Didier del 13 novembre 1772: Ah! Fratello mio, che la vostra predizione si compia! Che sul letto di morte, l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la giusta retribuzione dei castighi e delle ricompense, i consigli paterni, le istruzioni materne, i buoni esempi dei parenti religiosi, ritornino su di me con tutta la loro forza. Non ne sarò più afflitto in quel momento di quanto non sia in questo. Sarò sempre sincero con me stesso. Se la grazia vuole aprirmi gli occhi, riconoscerò il mio errore senza disperarmi perché esso è assolutamente involontario e, del resto, le mie opinioni non hanno per nulla deteriorato la mia condotta. Se fossi stato cristiano, avrei fatto tutto quello che ho fatto, e quasi niente di quello che voi fate. Mio caro abate non metterei in uno dei piatti della bilancia le vostre opere, e nell’altro le mie. Tutto quel che posso dirvi, è che non farei cambio, nemmeno se ci guadagnassi! Siate certo che ho inviato il mio viatico nella mia tomba, nel caso in cui ne esca, con questa differenza che io non ho mai prestato a usura, e che non ho detto a Dio: Dammi il tuo paradiso per un miliardo. – Amico mio, non bis idem37. Se sono tanto infelice quando faccio il male, non sarò castigato per questo due volte; e se sono tanto felice quando compio il bene, mi considero ricompensato a sufficienza la prima.38
37. Non si deve essere puniti due volte per lo stesso sbaglio. 38. D. Diderot, Lettera a Didier Diderot, 13 novembre 1772, Correspondance, cit., vol. XII, p. 172.
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In questo passaggio sono riassunti gli argomenti sviluppati anche nel Colloquio: il solo interesse egoistico che può essere insito nel compiere il bene è la soddisfazione che si trae dall’azione virtuosa, e laddove la condotta sia onesta e l’assenza di fede non sia insincera, anche se il filosofo ateo si trovasse in errore e Dio esistesse, non sarebbe certo punito né per lo sbaglio, né per l’essersi servito in buona fede della ragione. Diderot era consapevole che le argomentazioni diffuse dall’apologetica non coincidevano sempre con il valore che poteva avere la fede per gli individui, e non corrispondevano certo, nel caso del fratello Didier, alla profondità delle argomentazioni di Pascal. Nel Colloquio di un filosofo con la Marescialla *** Diderot dimostra di comprendere la fede quando essa non si trasforma in intolleranza e fanatismo, di cogliere lo spessore delle motivazioni del credente, non riduce il punto di vista dell’altro dando prova di che cosa sia il vero spirito di tolleranza. In questo caso, egli non nega la profondità della fede in Dio della Marescialla (è opportuno sottolineare che la Marescialla costituisce un esempio di fede non superstiziosa che rende possibile il dialogo). Diderot, come si è detto, abbandona il tono sferzante dei Pensieri filosofici e della lettera al fratello Didier, lascia posto al garbo e al riconoscimento dell’alterità, tanto che il colloquio potrebbe rappresentare la pars construens della filosofia diderotiana, di cui i Pensieri filosofici costituivano la pars denstruens. Prima di arrivare a queste considerazioni, però, nel Colloquio Diderot cerca di sviluppare più in dettaglio le sue argomentazioni sul piano dell’utile rispondendo alla domanda della Marescialla sulle motivazioni che dovrebbero spingere qualcuno ad agire in modo virtuoso. Il filosofo articola una risposta intorno a tre elementi principali: la natura, l’educazione e l’esperienza. Secondo Diderot, si può essere virtuosi assecondando l’inclinazione al bene dell’uomo (egli riteneva, infatti, che l’uomo per natura tendesse sia al bene sia al male, ancor-
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ché entrambi i concetti siano definibili solo in modo relativo). Inoltre, come già sostenuto nella Lettera a Landois sulla libertà e la necessità, la felicità consiste proprio nel compiere il bene, e si può rafforzare la soddisfazione che si trae dalla virtù grazie a un’educazione che fortifichi questo sentimento. Infine Diderot afferma che è possibile arrivare a capire che è meglio compiere il bene perché da questo trae giovamento chi lo compie e l’intera società. Il filosofo non parla mai nel dialogo di “libero arbitrio” o di “libera scelta”; da un punto di vista materialistico, avrebbe dovuto esplicitare il fatto che la scelta è sempre determinata. Si è già osservato che l’autore-personaggio in quest’opera non insiste molto su questo punto per evitare di affrontare un argomento troppo problematico per la sua interlocutrice, ma, pur senza parlare del libero arbitrio, egli chiarisce che dal suo punto di vista la scelta morale è sempre ciò che risulta dall’insieme dei tre fattori intorno ai quali costruisce il suo discorso (la natura, l’educazione e l’esperienza a cui si è accennato). La Marescialla non sembra ritenere sufficiente come ricompensa la soddisfazione che si trae dal compiere il bene e dunque questo argomento le appare poco convincente e inadeguato a distogliere l’uomo dalle sue cattive tendenze. Come si può essere onesti, chiede la dama al filosofo, «quando dei cattivi principi si uniscono alle passioni per trascinarci al male?»; cosa può trattenere dallo scatenamento delle passioni colui che non crede in Dio e nell’eternità dell’anima? La Marescialla ritiene impossibile che un ateo sia una persona onesta e virtuosa, se non per follia o per incoerenza rispetto ai suoi principi. Già in una delle sue prime opere, Diderot aveva sostenuto che il credente serve il suo padrone solo per paura e compie il bene solo per attaccamento al proprio interesse. Non è tuttavia sul timore del castigo e sull’interesse egoistico che si possono porre le basi di una società tollerante come quella auspicata dal filosofo. Rifiutando l’idea di Dio
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come fondamento della morale e volendo evitare di edificarla su un istinto naturale, come aveva fatto Rousseau ricorrendo alla pietà, Diderot cerca un’altra soluzione. Per farlo, però, ha bisogno di ridefinire i concetti di bene e male: – Duchessa, esiste al mondo un bene che sia privo di inconvenienti? – Nessuno. – E un male che non abbia i suoi vantaggi? – Nessuno. – Cosa chiamate dunque male e cosa bene? – Il male sarà ciò che implica più inconvenienti che vantaggi; e il bene al contrario ciò che comporta più vantaggi che inconvenienti. – La duchessa avrà la bontà di ricordarsi della sua definizione di bene e male? – Me ne ricorderò.39
La definizione che Diderot fa accettare alla Marescialla, di derivazione hobbesiana, è fondata sul criterio dell’utile e stabilisce il carattere relativo dei concetti di bene e male: è difficilmente compatibile, dunque, almeno in via di principio, con la religione professata dall’interlocutrice. A questo punto Diderot opera uno stravolgimento della logica secondo la quale la religione rappresenta un elemento positivo all’interno della società, che permette di evitare un certo numero di mali e apporta una serie di vantaggi costituiti dalla somma di tutte le azioni virtuose che essa ispira. Il filosofo al contrario sostiene che religione non ha quest’utilità, ma anzi è dannosa per una convivenza sociale armoniosa poiché introduce elementi di discordia e intolleranza tra i cittadini. La critica è rivolta a ogni religione (non solo al cristianesimo) e costituisce un elemento chiave del dialogo. Tale tesi però è molto difficoltosa da sostenere in questa conversazione dai toni amabili, perché Diderot si spinge ben oltre la critica delle religioni istituite, condivisa dalla maggior parte degli illuministi (deisti, teisti, materialisti, credenti o no), sostenendo che è la stessa idea di Dio a produrre necessariamente più in-
39. Infra, p. 76.
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convenienti che vantaggi. Un argomento simile non solo potrebbe mettere a dura prova la tolleranza della Marescialla, ma addirittura far crollare la cordialità della conversazione. Nonostante ciò Diderot salva l’equilibrio facendo sviluppare al suo personaggio il ragionamento a partire dalle stesse affermazioni della signora. Mantenendo ferma la definizione di bene e male stabilita dalla Marescialla all’inizio e ragionando in base alle categorie utilitaristiche del vantaggio e dell’utile, Diderot personaggio mostra che la credenza in Dio è da considerarsi un male: la nozione di Dio è al contempo la più importante e la più incomprensibile, per questo generatrice di divergenze insolubili, discordia e odio40. Se le cose stanno così non è incoerente essere atei e virtuosi al contempo, ma piuttosto il contrario. Si tratta di una difficile ammissione per la Marescialla, la quale pur non sapendo cosa ribattere, afferma di non essere persuasa. Dopo una breve interruzione, e uno scambio di battute sulla libertà di pensiero sostenuta da Diderot, i due ritornano a confrontarsi sulla religione, toccando un altro tema spinoso, vale a dire se sia possibile separare gli abusi della religione dalla sua essenza. Secondo Diderot lo spirito di tolleranza è inseparabile dallo spirito critico, si deve quindi ammettere che difficilmente gli abusi della religione si possono considerare in modo disgiunto dalla religione stessa, poiché storicamente essi si sono sempre presentati insieme, come ha più volte denunciato nelle sue opere l’amico d’Holbach. Diderot integra quest’argomentazione con la versione abbreviata della favola o racconto del misantropo: «Ditemi, se un misantropo si fosse proposto di causare la sventura del genere umano, cosa avrebbe potuto inventare di meglio della credenza in un essere incomprensibile, sul quale gli uomini non avrebbero mai potuto intendersi e al quale avrebbero attribuito più importanza che alla loro stessa vita?». 40. Cfr. C. Duflo, Diderot philosophe, cit., p. 390.
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Nella variante riportata in Appendice 2, il misantropo, ferito e tradito dalle persone a lui prossime, medita una vendetta proporzionata al risentimento che cova ed esclama: «Ah! Se fosse possibile immaginare, metter loro in testa una grande chimera alla quale dessero più importanza che alla loro stessa vita, e sulla quale non potessero mai accordarsi!». Questa favola o racconto, che ha quasi la forma di una parabola, serve a esprimere l’attitudine della critica del filosofo di fronte a qualunque tipo di credenza. In questo caso, Diderot intende far capire alla Marescialla e al lettore che le religioni hanno una storia e coloro che le hanno diffuse se ne sono serviti per attuare politiche autoritarie. L’attenzione del filosofo non può focalizzarsi solo sui piccoli benefici della religione o sui singoli esempi positivi di fede, ma il suo sguardo deve sollevarsi e osservare il fenomeno religioso nella sua ampiezza, interrogarsi sull’origine e la funzione svolta dalla religione nelle società. Lo stesso aveva fatto David Hume nella sua opera del 1757, The Natural History of Religion, così il barone d’Holbach nel 1768 con la sua La Contagion sacrée ou Histoire naturelle de la superstition, ou Tableau des effets que les opinions religeuses ont produit sur la terre. È Diderot, filosofo e personaggio, a interrogare il credente: «è possibile separare dalla nozione di una divinità l’incomprensibilità più profonda, e l’importanza più grande?». Finché una nozione incomprensibile sarà posta come valore supremo, che oltrepassa l’importanza stessa della vita umana, gli abusi – cioè le discordie e gli odi generati dalle interpretazioni diverse che questo concetto necessariamente genera – sono destinati a durare. La maggior parte delle persone lascia campo libero a questi eccessi e anzi si sottomette ad essi senza nemmeno rendersene conto, accettando questo strumento di dominazione che si serve della paura e del risentimento.
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Se queste sono le conseguenze della religione, si pone un altro problema: come ha potuto mantenersi tanto a lungo la società su di essa fondata? Secondo Diderot semplicemente per incoerenza, come quella esistente tra il culto e i costumi degli antichi romani, come l’inconseguenza degli abitanti di Parigi che si professano tutti cristiani, ma tra i quali è impossibile trovarne uno che metta in pratica tutto ciò che la religione prescrive. Questo accade innanzitutto perché la morale stabilita dalla religione è più adatta a una comunità monastica che a una società di individui, e non certo perché Diderot consideri corrotta la natura umana, ma perché la morale religiosa si contrappone alla natura. Maliziosamente il filosofo nota che anche le istituzioni monastiche col tempo allentano la loro rigidità, e lo stesso vale per la società, che, nonostante i tentativi di imporre una morale religiosa, tende invece alla morale naturale. Egli dimostra alla sua interlocutrice che la società è già regolata come se fosse costituita da atei e, contrariamente a ciò che la Marescialla potrebbe pensare, è proprio per questo che funziona41. Anzi, ciò che complica le relazioni sociali, confonde le idee e corrompe gli uomini è l’imposizione da parte della religione, alleata alla legge civile, di doveri chimerici e l’indulgenza verso le vere offese che l’uomo arreca al suo prossimo: domandate al vicario della vostra parrocchia, quale tra questi due crimini è il più odioso, pisciare in un vaso sacro o screditare la reputazione di una donna onesta? Fremerà d’orrore al primo, griderà al sacrilegio, e la legge civile, che prende a malapena in considerazione la calunnia, mentre punisce il sacrilegio con il fuoco, finirà col confondere le idee, e corrompere gli spiriti.42
41. Ivi, p. 394. 42. Infra, pp. 82-83.
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Un’ultima conseguenza di quest’alleanza tra codice religioso e civile è che la legge spesso punisce azioni che di per sé non costituiscono un male e sono anzi secondo natura. Diderot lo aveva messo in luce nella storia di Polly Backer43 in cui la stessa legge che puniva una giovane donna per aver generato dei figli al di fuori di una regolare relazione matrimoniale, non prevedeva alcuna sanzione per colui che l’aveva sedotta e abbandonata sull’altare. Inoltre, quello stesso uomo sedeva tra i giudici del tribunale deputato a giudicare la sventurata. Il filosofo cerca di mostrare in tal modo la paradossalità che possono raggiungere delle leggi contrarie alla natura. Come in altre occasioni anche nel Colloquio Diderot ricorre al racconto in seguito alla serie di argomentazioni appena discusse. La scelta della narrazione, per quanto breve, è fondata sulla necessità di integrare le dissertazioni filosofiche su alcuni aspetti cruciali che rischiano di non essere chiariti in tutte le loro sfumature. Come aveva scritto nell’Encyclopédie, un racconto è una narrazione favolosa […] il cui merito principale consiste nella varietà e verità dei tratti, la finezza della burla, la vivacità e convenienza dello stile, il contrasto piccante degli eventi. La differenza tra il racconto e la favola è questa: la favola contiene un solo e unico fatto, racchiuso in un certo spazio determinato, e in cui si sviluppa completamente un solo tema, il cui fine è di condurre a quale assioma della morale, e renderne la verità sensibile; invece nel racconto non c’è né unità di temi, né unità d’azione, né unità di luogo, e il suo fine è più di divertire che d’istruire. La favola è spesso un monologo o una scena di commedia; il racconto è un susseguirsi di commedie concatenate le une alle altre.
43. Diderot narra la storia di Polly Baker sia nel Supplemento al viaggio di Bougainville che nella Storia delle due Indie.
61 La Fontaine eccelle in entrambi i generi, nonostante ci sia qualche favola di troppo e qualche racconto troppo lungo.44
La favola intende, attraverso la sua finzione, rendere la verità sensibile, per questo quando si tratta dei problemi più complessi Diderot ricorre alla narrazione: lo sviluppo dell’argomentazione razionale non è sufficiente a rappresentare adeguatamente la complessità di certi dilemmi morali (come la favola del mandarino cinese raccontata all’interno del racconto Colloquio di un padre con i suoi figli), oppure a chiarire le problematiche insite in una tradizione millenaria come quella della religione (ecco allora la necessità della favola del misantropo) o, infine, dimostrare l’importanza che si deve accordare al rigore nell’azione rispetto all’ortodossia del pensiero, come intende mettere in luce la favola del giovane messicano. La costruzione narrativa della favola (o racconto) consente di rendere sensibile la verità, ma, in quanto narrazione, permette nello stesso tempo al filosofo di non escludere quelle contraddizioni umane che l’argomentazione filosofica sopporta con difficoltà. Il racconto si presta particolarmente ad esprimere le difficoltà del giudizio morale – non a caso i cinque racconti45 scritti da Diderot nello stesso periodo in cui egli compone il Colloquio di un filosofo con la Marescialla di *** toccano questa sfera – e consentono al filosofo di mostrare come spesso conta di più l’azione giusta che si può compiere, rispetto alla 44. D. Diderot, articolo «Conte» in D. Diderot, Jean le Rond d’Alembert, Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, etc., vol. IV, p. 111, University of Chicago: ARTFL Encyclopédie Project (Autumn 2017 Edition), Robert Morrissey and Glenn Roe (ed), http:// encyclopedie.uchicago.edu/. 45. I due cicli di racconti scritti tra il 1770 e il 1773 da Diderot e noti come il «ciclo di Langres», che comprende il Colloquio di un padre con i suoi figli e I due amici di Bourbonne. Racconto irochese, e il «ciclo parigino», che comprende Questo non è un racconto, Mme de La Carlière e il Supplemento al viaggio di Bougainville.
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coerenza con i principi generali della morale civile o religiosa (anche nel caso in cui tra le due ci sia contraddizione). Questo primato – quasi scettico – della pratica sulla metafisica caratterizza il pensiero morale di Diderot ed è una conseguenza necessaria delle sue posizioni che, più che istituire una serie di norme morali, costituiscono i principi di un’etica laica, come diremmo oggi. Come si è detto, Diderot non perde occasione per mostrare la contraddizione esistente tra la legge religiosa, la legge naturale e la legge civile (più che nel Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***, egli affronta con ampiezza questo tema nel Supplemento al viaggio di Bougainville). Tale contraddizione può risolversi solo a favore della legge della natura, il cui «impulso costante […] ci riconduce sotto la sua legge». Tuttavia occorre chiarire che il riferimento alla legge o codice della natura va inteso in senso ampio e generale, ovvero come un riferimento alle somiglianze esistenti tra tutti gli esseri umani, in base alle quali è possibile sostenere che ciascuno cerca la propria felicità e tende a preservare il proprio essere. Inoltre, osservando la natura nel suo complesso si può affermare che essa tende alla conservazione della specie. Diderot non si spinge oltre quando parla di codice della natura. La vita in società è stata osservata e analizzata da Diderot con finezza e soprattutto con ironia. Il consorzio umano viene considerato come frutto della naturale socievolezza degli uomini e, allo stesso tempo, come costruzione artificiale determinata dalle relazioni di potere, dalla storia di un popolo e da elementi contingenti che l’hanno costituita. A proposito della società il riferimento alla natura non va inteso come richiamo a un passato mitico dell’uomo46, ma come elemento di critica alle isti-
46. In un certo senso è possibile dare un’interpretazione di questo tipo dell’utopia tahitiana descritta nel Supplemento, ma essa non esaurisce tutti
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tuzioni e ai costumi, senza che venga meno la consapevolezza che nessuna collettività corrisponde mai all’ideale e che non esistono regole universalmente valide per la costruzione della vita civile. La società e le sue istituzioni sono sempre frutto della storia, di rapporti di potere e di elementi contingenti e difficilmente è possibile stabilire in modo definitivo cosa sia buono e cosa sia cattivo. Dato che l’uomo fa parte del tutto, il “codice della natura” può indirizzarlo, da essa egli può trarre indicazioni su cosa si conforme alla sua organizzazione. Questo però non toglie che i valori di una società siano sempre una costruzione e i rapporti sociali sono sempre in qualche modo l’interpretazione di una parte47. In altre opere, infatti, Diderot paragona le relazioni sociali ai ruoli di personaggi teatrali, in cui si simula e si mistifica, ed egli stesso ammette di fingere e recitare talvolta, «e anche con molta verità», come dice nel Paradosso sull’attore. Poetica e morale non sono dissociabili, e questa «estetica illusionista»48 è resa particolarmente necessaria dalla società in cui Diderot vive, in cui le opere vengono condannate e censurate così come l’espressione di un pensiero in contrasto con le forze dominanti. Il colloquio con la Marescialla esemplifica invece un altro tipo di società, in cui credenze e punti di vista diversi possono convivere e anzi dialogare. Affinché lo scambio sia possibile però,
i livelli di lettura del testo. G. Goggi svolge un’analisi molto accurata e raffinata del Supplemento al viaggio di Bougainville in De l’Encyclopédie à l’éloquence républicaine: étude sur Diderot et autour de Diderot, Honoré Champion, Paris 2013. 47. Sulla questione dei valori rinvio alla Lettera sui ciechi e all’Aggiunta in cui Diderot discute del diverso sistema di valori dei ciechi i quali accordano meno importanza al pudore rispetto ai vedenti, o considerano il furto come molto più grave rispetto a questi ultimi. Sul ruolo che ciascuno interpreta in società si rinvia al Nipote di Rameau. 48. Vedi P. Chartier, Diderot, ou le rire mistificateur, cit., p. 151.
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è necessario chiarire fin da principio la relatività di bene e male, per evitare che due visioni assolute si scontrino. Relatività che serve anche a rendere conto della singolarità in base alla quale ciascuna situazione va valutata, alle differenti conseguenze che lo stesso atto più avere se compiuto da persone diverse, in circostanze che non sono mai le stesse, tutti elementi di cui si deve tener conto nel formulare un giudizio ancor più della conformità di un’azione a qualche principio morale. È esattamente quanto dimostrano i due cicli di racconti scritti tra il 1770 e il 1774, dunque nello stesso periodo a cui risale la composizione del Colloquio. Il problema della morale ha assillato Diderot per tutta la vita, ma egli stesso aveva constatato l’impossibilità di elaborare un sistema da cui dipende un insieme di principi guida per l’azione, niente di più lontano delle massime elaborate dai moralisti del secolo precedente. Ciò che più conta è che l’azione sia guidata dalla ragione e che si eserciti il proprio giudizio in buona fede, sottoponendo a un’attenta valutazione i principi e le scelte per le quali si propende. È quest’attitudine critica che Diderot si sforza di spiegare alla Marescialla portandole come esempio il matrimonio: proprio quella scelta che ha fatto la felicità sua e del Maresciallo, è un istituto che al contempo ha generato l’infelicità di molti altri uomini e donne. Si tratta di esercitare la ragione e osservare la natura, non di costruire un sistema: il matrimonio o la religione (evidentemente due questioni di diversa portata) non possono essere imposti a tutti. Per questo Diderot elogia insistentemente la virtù, propone una riforma del teatro volta a promuoverla, loda i pittori che riescono a unire il bello e il buono nelle loro opere, sottolinea l’importanza dell’armonia tra le passioni e al contempo ammettendo che in alcuni casi è meglio che siano le grandi passioni a guidarci: «se si deve scegliere tra un Racine cattivo sposo, cattivo padre, amico falso e poeta sublime, e Racine buon padre, buono sposo, buon amico e insipido uomo onesto, io preferisco il primo. Del Racine
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cattivo cosa resta? Niente. Del Racine uomo di genio, l’opera è eterna»49. Gli uomini di genio sono un buon esempio che dimostra quanto detto fin ora: ogni regola generale ha le sue eccezioni che vanno valutate secondo pesi e misure adeguati. Si può dire che Diderot cercasse di pensare una morale naturale orientata alla felicità dell’uomo e considerasse la natura una buona guida per riuscire a eliminare quelle contraddizioni create dalle istituzioni politiche e religiose, le quali limitano la libertà di espressione del cittadino e spesso creano discordia tra gli uomini. Tuttavia, quando si parla del riferimento alla natura, non bisogna dimenticare il passaggio fondamentale scritto da Diderot nell’articolo «Phylosophie pyrrhonienne ou sceptique» dell’Encyclopédie: Da parte nostra, concluderemo che poiché tutto è legato in natura, non c’è niente, per l’esattezza, di cui l’uomo abbia una conoscenza perfetta, assoluta, completa, nemmeno degli assiomi più evidenti, perché dovrebbe avere la conoscenza del tutto. Poiché tutto è legato, se egli non conosce tutto, bisognerà necessariamente che di discussione in discussione arrivi qualcosa di ignoto: dunque risalendo da questo punto ignoto, sarà fondato concludere contro di lui o contro l’ignoranza, o l’oscurità, o l’incertezza del punto che precede, e di quello che precede quest’ultimo, e così fino al principio più evidente.50
L’accumulo di nuove conoscenze, la ricerca e la condivisione del sapere permettono all’uomo di estenderne sempre più la portata, di correggere gli errori e smentire interpretazioni ingannevoli di alcuni fenomeni. Ma all’uomo è preclusa la co49. D. Diderot, Lettera a Sophie Volland, 31 luglio 1762, Correspondance, cit., vol. XII, p. 104. 50. D. Diderot, Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, etc., vol. XIII, p. 613, University of Chicago: ARTFL Encyclopédie Project (Autumn 2017 Edition), Robert Morrissey and Glenn Roe (ed), http://encyclopedie.uchicago.edu/..
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noscenza del tutto: in quanto esseri umani, siamo costretti ad ammettere questa limitatezza, ad essere audaci nella ricerca ma umili nell’uso della ragione, perché non ci è mai data la verità assoluta, visto che sempre il tutto in quanto tale è destinato a sfuggirci. Diderot cerca di far capire alla Marescialla che, poiché le nostre possibilità di conoscenza sono circoscritte dai limiti stessi dell’essere umano, se anche il filosofo ateo si fosse sbagliato e Dio esistesse, è difficile credere che sarebbe punito per questo. È ciò che sosteneva Bayle e che Diderot ribadisce nella conclusione della storia del giovane messicano: in entrambe le versioni nel momento decisivo in cui il giovane si trova a faccia a faccia con l’essere a cui non credeva (rappresentato da un vecchio nel Colloquio e da un genio nella versione tratta dall’Histoire de Mme de Montbrillant di Mme d’Épinay) viene perdonato per la sua mancanza di fede, non invece per non aver agito virtuosamente. Nel Colloquio di un filosofo con la Marescialla di *** si legge: – Alzatevi, gli disse il vecchio, non siete voi ad aver negato la mia esistenza? – È vero.– E quella del mio impero? – È vero. – Ve lo perdono perché io sono colui che vede infondo ai cuori, e ho letto nel fondo del vostro che eravate in buona fede; ma il resto dei vostri pensieri e delle vostre azioni non erano egualmente innocenti.51
Nella storia il genio sorride per la franchezza dello straniero, e gli risponde con tono solenne e canzonatorio: «Mi importa molto poco, amico mio, che voi e i vostri simili neghiate o crediate nella mia esistenza. […] dovete credermi, figlio mio, ho altre cose da fare che istruire un monello come voi. Andate a vivere da qualche parte, e lasciatemi riposare finché il tempo e la necessità disporranno ancora di voi. Buonasera». Così lo straniero, ritirandosi, dice a se stesso: «Sapevo che se
51. Infra, p. 90.
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c’era un genio su questa riva, era buono e indulgente, e che non avremmo avuto niente da spartire insieme. In ogni caso, non c’è niente di meglio per non sbagliarsi, che essere sempre sinceri con se stessi». Questa è la stessa conclusione a cui giungono Diderot e la sua interlocutrice: non essendo possibile dimostrare l’esistenza di Dio la cosa migliore è agire sempre nel modo più virtuoso possibile ed essere onesti nel proprio esercizio critico. Il tono scherzoso, burlesco e vivido delle ultime battute, anche da parte della Marescialla ci regala un ultimo sorriso, quasi che con un’ultima battuta terminasse la commedia, o «la parodia borghese del dialogo socratico»52, in cui l’ateismo non è stato espresso solo come posizione filosofica, ma anche come cifra di una sensibilità gioiosa. Così quello scambio di battute che sancisce l’esito del dialogo, cioè un “nulla di fatto”, ci offre il suggerimento di una forma di riconciliazione tra due parti, di una differenza che non sfocia in scontro, ma che, accordandosi alla natura fondamentalmente socievole dell’uomo, dialoga in un rapporto di reciproca tolleranza che si dispiega su un fondo di gaiezza condivisa. Con quest’opera, Diderot offriva il suo contributo all’educazione al dialogo, all’ingentilimento della società, alla diffusione dei lumi e della virtù, privilegio che, come sosteneva D’Alembert nel Discorso preliminare dell’Encyclopédie, le Lettere contendono alla morale53.
52. Cfr. J. Gayraud, op. cit., p. 53. 53. D’Alembert, «Le Lettere contribuiscono certamente a rendere più amabile la società; sarebbe difficile provare che gli uomini sono resi migliori da esse, e che la virtù è più comune: ma è un privilegio che possiamo contenderci con la Morale stessa», Encyclopédie, vol. I, p. XXXIII.
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Nota editoriale
Delle tre versioni dell’Entretien d’un philosophe avec Madame la Maréchale de *** si è scelta quella corrispondente alla copia conservata nel fondo Vandeul e a San Pietroburgo datata 1777. Le variazioni rilevanti rispetto alla copia della Corréspondance littéraire di Grimm (aprile-maggio 1775) sono riportate in nota. Il testo intitolato Qu’en pensez-vous si rifà a quello pubblicato nella Corréspondance littéraire del 1761 curata da J. Assézat e M. Tourneux, Garnier frères, Paris 1877, vol. IV, pp. 443-448. Il frammento noto come Pensée philosophique riproduce il testo pubblicato nell’edizione a cura di Lewinter delle opere di Diderot: D. Diderot, Œuvrès complètes, a cura di R. Lewinter, 15 vol., le Club français du livre, Paris 1969-1973, vol. V, pp. 182-183.
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Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***
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Dovevo trattare non so quale affare con il duca di ***; mi recai al suo palazzo di mattina; era assente, così mi feci annunciare alla duchessa1. È una donna affascinante; bella e devota come un angelo; la dolcezza è dipinta sul suo viso; e poi, ha un timbro di voce e una naturalezza nel parlare in armonia con la sua fisionomia. Si stava imbellettando. Mi fu avvicinata una poltrona, mi sedetti, e iniziammo a conversare, a proposito di qualche mio discorso che la edificava e la sorprendeva, perché era del parere che chi nega la Trinità sia un pendaglio da forca2, che finirà per essere impiccato. Mi disse: Non siete voi il signor Diderot? – Si signora. – Siete dunque voi che non credete in niente? – Proprio io. – Tuttavia la vostra morale è quel-
1. Manteniamo nella traduzione la discrepanza presente nel testo francese fra l’appellativo di “marescialla” indicato nel titolo e quelli utilizzati nel dialogo di “duca” e “duchessa”. 2. Il proverbio francese “un homme de sac et de corde” utilizzato da Diderot indicava uno scellerato, un uomo da niente. Tale espressione deriva dall’antico francese “sak” termine che indicava un misfatto e da “sacha”, che si riferiva a una pena o un’ammenda giudiziaria, a sua volta deriva dalla parola sassone “sach”, che significa processo.
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la di un credente. – Perché no, se si è un uomo onesto3? – E mettete in pratica questa morale? – Faccio del mio meglio. – Suvvia! Voi non rubate, non uccidete, non saccheggiate? – Molto raramente. – Cosa ci guadagnate allora a non credere?4 – Niente di niente, duchessa. Si crede forse perché c’è qualcosa da guadagnare? – Non so; ma i motivi d’interesse non guastano per nulla le faccende di questo mondo, né quelle dell’altro. – Sono un po’ dispiaciuto per la nostra povera specie umana5. Noi valiamo di più. – Ma come! Voi non rubate affat-
3. Nelle Osservazioni su Hemsterhuis Diderot aveva scritto: «Conosco un po’ le persone di cui parlate. Siate certo che esprimono francamente il loro modo di sentire senza alcuno spirito di proselitismo. Che la loro opinione è sincera quanto la vostra. Che hanno una morale pari a quella dei più onesti cittadini. Che è tanto facile essere atei e persone per bene, quanto essere credenti e malvagi. Che sono ben lontani dal credere che la loro opinione conduca all’immoralità. Che sono diversi da voi solo per il fondamento che danno alla virtù, che basano sui rapporti degli uomini tra di loro. Che gli uni sono virtuosi, perché naturalmente portati alla virtù, grazie al loro carattere reso più forte da una buona educazione. Gli altri, perché l’esperienza ha insegnato loro che, tutto sommato, è meglio essere uomini onesti in questo mondo, per la propria felicità, piuttosto che malvagi. Che se il loro sistema portasse alla depravazione, non sarebbero depravati a causa di esso, perché non c’è niente di più inconseguente; sarebbero atei e buoni, come si è credenti in Dio e malvagi. In una parola che la maggior parte di loro ha tutto da perdere e niente da guadagnare dalla negazione di un Dio remuneratore e vendicatore. Siate certo che sono tutti abbastanza filosofi da sapere che, quando ci sono due motivi per abbracciare un’opinione, non si sa quale sia quello che ci determina. E che ce ne sono di abbastanza nemici dell’annientamento da preferire l’Inferno alla distruzione totale». D. Diderot, Observations sur Hemsterhuis, in DPV, vol. XXIV, pp. 386-387. Dove non indicato diversamente la traduzione dal francese è nostra. 4. Diderot qui inizia una critica al famoso argomento della scommessa avanzato da Pascal nei Pensées (Brunschvicg, 233; Le Guren, 397; Sellier, 680) nella sua versione volgarizzata. 5. All’epoca della sua traduzione del Saggio sul merito e la virtù di Shaftesbury, Diderot condivideva con il filosofo inglese l’idea secondo cui se si compie un’azione virtuosa nella speranza di ottenere una ricompensa, in
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to? – No, sul mio onore. – Se non siete né ladro né assassino, convenite almeno che non siete coerente. – Perché mai? – Se non avessi nulla da sperare, nulla da temere quando non ci sarò più, mi sembra che sarebbero davvero pochi i piccoli piaceri di cui mi priverei, ora che ci sono. Confesso che presto a Dio a usura.6 – Lo immaginate. – Non lo immagino, è un fatto. – Ed è possibile chiedervi quali sono queste cose che vi permettereste, se foste incredula? – No, questo riguarda solo la mia confessione. – Per quanto mi riguarda, investo a fondo perduto7. – È la risorsa dei pezzenti. – Mi preferireste usuraio? – Ma sì! si può fare dell’usura con Dio finché si vuole, non lo si manda in rovina. So bene che tutto ciò non è molto delicato, ma che importa? Dato che la questione è guadagnarsi il cielo con l’astuzia o con la forza, bisogna tener conto di tutto e non trascurare nessun vantaggio. Ahimè! Per quanto ci si sforquesta vita o in quella futura, tale azione non ha alcun valore morale (rinvio alla traduzione in francese di Diderot, Essai sur le mérite et la vertu, DPV, I, p. 345). A partire dal 1756, con la Lettera a Landois, la posizione di Diderot cambia: egli ammetteva allora che l’azione morale non è completamente disinteressata, poiché l’uomo ha interesse a essere virtuoso, dato il vantaggio che ne trae. Il Diderot personaggio nel presente dialogo sostiene quest’ultima posizione, tuttavia sottolinea che il vantaggio derivante dall’essere virtuosi va inteso come la soddisfazione che deriva da questo tipo di azione, non come un tornaconto personale di altro tipo. 6. Nel testo francese “prêter à la petite semaine”, espressione che indica un prestito a brevissimo termine, a tasso di interesse molto elevato, come quelli applicati dagli usurai. Si osservi il ricorso da parte della Marescialla di termini propri del linguaggio economico che rafforza l’interpretazione volgarizzata della scommessa pascaliana. 7. L’espressione è utilizzata in senso figurato e indica il comportamento virtuoso di chi non spera in una ricompensa, tuttavia la risposta della Marescialla si basa sul senso letterale di quest’espressione, che va intesa come il costituire un vitalizio per trarne un profitto elevato, per questo viene definita come “risorsa dei pezzenti”: essa intende che solo chi non ha un patrimonio sufficiente per trarne un reddito, sceglie di alienare i propri beni, al contrario di un investimento di un buon padre di famiglia.
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zi, la nostra offerta sarà sempre molto meschina in confronto alla rendita che ci aspettiamo. E voi non vi aspettate nulla? – Nulla. – Tutto ciò è triste. Convenite che siete davvero malvagio, o davvero folle. – In verità, non sono d’accordo, duchessa. – Che motivo può avere un incredulo di essere buono, se non è folle? Mi piacerebbe proprio saperlo. – E io ve lo dirò. – Ve ne sarò obbligata8. – Non pensate che si possa essere nati in una condizione tanto felice e che si possa trarre grande soddisfazione facendo il bene? – Lo penso. – Che si possa aver ricevuto un’eccellente educazione capace di fortificare la tendenza naturale alla generosità? – Sicuramente. – E che, in età più avanzata, l’esperienza ci abbia convinti che, a conti fatti è preferibile, per la propria felicità in questo mondo, essere un uomo onesto piuttosto che un furfante9? – Perbacco, sì! ma come si fa a essere persone oneste quando dei cattivi principi si uniscono alle passioni per trascinarci al male? – Oh si è inconseguenti; e non c’è niente di più comune che essere incoerenti! – Ahimè! Sfortunatamente è così; si crede, e ci si com8. Il seguito della discussione può essere considerato come la versione più breve e concisa di quella che si svolge tra due personaggi in Jacques il fatalista e il suo padrone: Madame de La Pommeraye e il marchese di Arcis. 9. Nella Refutazione di Helvétius, Diderot aveva scritto: «Sono convinto che, anche in una società disordinata come la nostra, dove il vizio che riesce viene spesso applaudito, e il fallimento della virtù viene quasi sempre considerato ridicolo, sono convinto, dico, che a conti fatti, la cosa migliore da fare per la propria felicità è di essere uomini onesti […] è una questione che ho meditato molte volte e con tutta la concentrazione mentale di cui sono capace; avevo, credo, i dati necessari. Ve lo confesserò? Non ho osato prendere la penna per scriverne la prima riga. Mi dicevo, se non fossi uscito vittorioso da questo tentativo, sarei diventato l’apologeta della malvagità. Avrei tradito la causa della virtù. Avrei incoraggiato l’uomo al vizio. No, non mi sento all’altezza per questo lavoro sublime. Consacrerei ad esso inutilmente tutta la mia vita». D. Diderot, Réfutation d’Helvétius, DPV, vol. XXIV, p. 589. Dopo il 1770 Diderot rinuncerà definitivamente a dimostrare l’equazione “virtù = felicità” poiché il dilemma morale si risolverà in una questione politica: essere virtuosi significa perseguire la propria felicità secondo la giustizia.
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porta sempre come se non si credesse. – E senza credere, ci si comporta pressoché come se si credesse10. – Meno male; ma quale inconveniente ci sarebbe ad avere una ragione in più, la religione, per fare il bene, e una ragione in meno, l’incredulità, per fare il male? – Nessuno, se la religione fosse un motivo che spinge a fare il bene, e l’incredulità, un motivo per fare il male. – E c’è forse qualche dubbio riguardo a questo? Lo spirito della religione non è quello di contrariare continuamente questa cattiva natura corrotta; e quello dell’incredulità, di abbandonarla alla sua malizia affrancandola dalla paura? – Questo, duchessa, ci porterà a una lunga discussione. – E che importa? Il duca non rientrerà tanto presto; ed è meglio che ragioniamo piuttosto che sparlare del nostro prossimo. – Bisognerà che riprenda il discorso da più lontano. – Da quanto lontano vorrete, purché io vi comprenda11. – Se voi non mi capiste, sarebbe colpa mia. – Molto educato da parte vostra; ma bisogna che sappiate che non ho mai letto nient’altro che il mio libro delle preghiere12, e che le mie uniche occupazioni sono state di mettere in pratica il Vangelo e fare figli. – Sono due doveri che avete assolto benissimo. – Sì, per quanto ri10. Si tratta della tesi secondo cui non c’è alcuna ragione per cui il comportamento di un ateo dovrebbe essere moralmente peggiore di quello di un credente che era già stata avvallata da Bayle nei Pensieri sulla cometa (1680). Quest’ultima era un’opera di riferimento per Diderot, in particolare nel pensiero §CXLV in cui si trovano alcune argomentazioni qui sviluppate dal filosofo: la tendenza alla virtù non dipende dalla fede in Dio, bensì dal temperamento di ciascuno, dall’educazione ricevuta, dall’interesse personale e da altri fattori. 11. Come nelle Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Bernard de Fontenelle, la Marescialla chiede una semplificazione delle argomentazioni filosofiche. 12. “Heures” significa letteralmente “ore”; secondo la definizione che si trova nell’Encyclopédie: «Indica certe preghiere che si fanno in chiesa in momenti stabiliti, come il mattutino, le laudi, i vespri, ecc.», Encyclopédie, vol. VIII, p. 194.
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guarda i figli: ne avete trovati sei intorno a me, e tra qualche giorno potrete vederne uno in più sulle mie ginocchia13, ma cominciate. – Duchessa, esiste al mondo un bene che sia privo di inconvenienti? – Nessuno. – E un male che non abbia i suoi vantaggi? – Nessuno. – Cosa chiamate dunque male e cosa bene? – Il male sarà ciò che implica più inconvenienti che vantaggi; e il bene al contrario ciò che comporta più vantaggi che inconvenienti14. – La duchessa avrà la bontà di ricordarsi della sua definizione di bene e male? – Me ne ricorderò. Voi chiamate questa una definizione? – Sì. – Questa allora è filosofia? – Delle migliori. – E io ho fatto della filosofia! – Così voi siete persuasa che la religione abbia più vantaggi che inconvenienti; è per questo che la definite un bene? – Sì. – Personalmente, non dubito che il vostro amministratore rubi un po’ meno la vigilia di Pasqua che il giorno dopo la festa, e che di tanto in tanto la religione impedisca un certo numero di piccoli mali e produca un certo numero di piccoli beni15. – Poco 13. La Marescialla de Broglie a cui Diderot qui si ispira ebbe dieci figli, di cui due morirono in tenera età. 14. In precedenza la Marescialla aveva chiesto l’aiuto del filosofo per poter seguire la discussione, e questi con garbo, l’aveva portata a dare una definizione di bene e male tratta da Human Nature di Hobbes (VII, 7), testo tradotto in francese nel 1770 dal barone d’Holbach con il titolo De la nature humaine, citato anche in altre opere di Diderot come la Refutazione di Helvétius. 15. È quello che pensava Caterina II stando a quanto sostiene Diderot: «Sua Maestà Imperiale non condivide l’opinione di Bayle secondo cui una società di atei può essere altrettanto ben regolata di una società di deisti, e meglio di una società di superstiziosi. Essa non pensa, come Plutarco, che la superstizione abbia degli effetti più pericolosi e che offenda Dio più dell’incredulità; essa non definisce con Hobbes, la religione, una superstizione autorizzata dalla legge; e la superstizione, una religione che la legge vieta. Essa pensa che il timore delle pene a venire abbia molta influenza sulle azioni degli uomini, e che la cattiveria che non viene fermata dalla vista della forca, può essere contenuta dal timore di un castigo lontano; malgrado i mali infiniti che le opinioni religiose hanno fatto all’umanità; malgrado gli inconvenienti
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a poco, si fa il totale. – Ma voi credete che i terribili danni che ha causato nei tempi passati e che causerà nei tempi a venire, siano sufficientemente compensati da questi vantaggi irrilevanti16? Tenete conto del fatto che essa ha creato e che perpetua la più violenta avversione tra le nazioni. Non c’è musulmano che non penserebbe di fare un’azione gradita a Dio e al suo Profeta, sterminando tutti i cristiani, che da parte loro non sono certo più tolleranti. Riflettete sul fatto che essa ha creato e perpetuerà nello stesso paese divisioni che si sono raramente appianate senza spargimento di sangue. La nostra storia ce ne offre esempi fin troppo recenti e funesti. Tenete presente che la religione ha creato e perpetua tra i cittadini e nelle famiglie, tra i parenti, gli odi più intensi e durevoli. Cristo ha detto di essere venuto per separare il marito dalla moglie, la madre dai suoi figli, il fratello dalla sorella, l’amico dall’ami-
di un sistema che ripone la fiducia dei popoli nelle mani del prete, che è sempre un pericoloso rivale del sovrano; che dà un superiore, al capo della società; che istituisce delle leggi più sante e più rispettabili delle sue; essa è persuasa che la somma dei piccoli beni giornalieri che la credenza produce in tutti gli stati, compensi la somma dei mali provocati tra i cittadini dalle sette e tra le nazioni dall’intolleranza, specie di furore maniaco al quale non c’è rimedio». D. Diderot, Plan d’une université, in Œuvres complètes, vol. III, a cura di J. Assézat - M. Tourneux, Paris vol. XI, pp. 810-811. 16. Diderot utilizza il termine “guenilleux” che significa letteralmente “cenciosi”. Egli è il primo a servirsi di questo aggettivo sia in senso letterale sia figurato, come in questo caso. Il termine “guenilleux” compare anche nel Salon 1765 laddove Diderot elogia il pittore Carle Van Loo per aver raffigurato la mendicità «né opulenta né cenciosa», «ni opulente ni guenilleuse» (in DPV, vol. XIV, p. 42) e nel Salon 1767 dove dei veri bambini apparivano come «piccoli pezzenti, scarmigliati, cenciosi», «petits bélîtres, ébouriffés, guenilleux» (in DPV, vol. XVI, p. 130).
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co17, e la sua predizione si è compiuta fin troppo fedelmente18. – Ecco, questi sono gli abusi; ma non è l’essenziale. – È l’essenziale, se gli abusi ne sono inseparabili19. – E come mi dimostrerete che gli abusi della religione sono inseparabili dalla religione? – Molto facilmente. Ditemi, se un misantropo si fosse proposto di causare la sventura del genere umano, cosa avrebbe potuto inventare di meglio della credenza in un essere incomprensibile, sul quale gli uomini non avrebbero mai potuto intendersi e al quale avrebbero attribuito più importanza che alla loro stessa vita?20 Ora, è possibile separare dalla nozione di una divinità l’incomprensibilità più profonda e l’importanza più grande? – No. – Potete trarne la conclusione. – Concludo che è un’idea non priva di conseguenze nella testa dei folli. – E a ciò si aggiunga che i folli ci sono sempre stati e saranno sempre la maggioranza, che i più pericolosi sono quelli generati dalla religione, e che da essi gli agitatori della società sanno trarre vantaggio se si presenta l’occasione. – Nondimeno ci vuole qualcosa che intimorisca gli uomini per cattive azioni, che sfuggono alla severità delle leggi; e se distruggeste la religione, con che cosa la sostituireste? – Anche 17. Matteo, 10,35-36 «Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa». 18. Diderot aveva sviluppato la critica agli effetti nefasti della religione nell’articolo Intolleranza scritto per l’Encyclopédie e anni dopo in una lunga lettera scritta al fratello Didier nel novembre 1772 (si veda D. Diderot, Correspondance, vol. XII, testo stabilito da G. Roth e J. Varloot, Minuit, Paris 1955-1970, nei Colloqui con Caterina II, e nei suoi contributi alla Storia delle due Indie). 19. Nell’Histoire naturelle de la superstition ou Contagion sacrée (1768) d’Holbach sosteneva la stessa tesi secondo cui si deve cercare la fonte delle sventure umane nell’idea di Dio, e nelle funeste idee ad essa correlate a cui credono le persone, alla base della religione e non negli eccessi delle passioni umane. 20. Sulla favola del misantropo si rinvia al saggio introduttivo.
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se non avessi niente con cui sostituirla, sarebbe sempre un terribile pregiudizio in meno; senza contare che, in nessun secolo e presso nessuna nazione, le opinioni religiose sono servite come base per i costumi nazionali. Gli dèi che adoravano gli antichi Greci e gli antichi Romani, le persone più oneste del mondo, erano le canaglie più dissolute: un Giove, da bruciare vivo; una Venere, da rinchiudere in ospedale21, un Mercurio, da mettere a Bicêtre. – E voi pensate che sia assolutamente indifferente se siamo cristiani o pagani; come pagani saremmo peggiori e come cristiani non siamo migliori? – Certo, ne sono convinto, con la differenza che saremmo più allegri. – Questo non è possibile. – Ma, duchessa, esistono dei cristiani? Io non ne ho mai visti. – È a me che state dicendo questo, proprio a me? – No signora, non a voi; a una delle mie vicine che è onesta e pia, come lo siete voi, e che si credeva una cristiana con la miglior fede del mondo, come lo credete voi. – E voi le avete dimostrato che si sbagliava? – In un attimo. – Come? – Ho aperto il Nuovo Testamento, di cui essa doveva servirsi molto, giacché era davvero logoro. Le ho letto il Discorso della montagna22, e a ciascun articolo le ho chiesto: Voi fate questo? E questo allora? E anche questo? Mi sono spinto oltre. È una bella donna, e anche se è molto devota, ne è consapevole.
21. Diderot si riferisce qui alla Salpêtrière dove venivano rinchiuse le prostitute. Alla vigilia della rivoluzione l’ospedale poteva accogliere fino a diecimila malati – era il più grande ospizio del mondo – e la prigione contava più di trecento detenuti. I criminali, gli alienati, i mendicanti, gli omosessuali e altri soggetti considerati all’epoca “indesiderabili” venivano rinchiusi invece a Bicêtre, citato subito dopo. L’immoralità degli dei Greci era già stata affermata da Diderot nelle Osservazioni su Hemsterhuis, dove li definisce come degli scellerati, da d’Holbach nel Bon sens e da Voltaire nelle Questions sur l’Encyclopédie. Quest’ultimo osservava che al briccone Mercurio, così come all’impudica Venere e all’adultero Giove, nemmeno i Greci avevano mai dedicato un tempio. 22. Matteo, da 5,1 a 7,28.
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Ha la pelle chiarissima, e anche se non dà molta importanza a questa esile dote, non le dà fastidio che venga elogiata. Ha un seno perfetto e, anche se è molto modesta, le fa piacere se viene notato. – Purché lo sappiano solo lei e suo marito. – Credo che suo marito lo sappia meglio di chiunque altro; ma per una donna che si picca di essere una cristiana fervente, questo non basta. Le dissi: Non è scritto nel Vangelo, che chi ha desiderato la donna del suo prossimo, ha commesso adulterio nel suo cuore? – Vi rispose di sì? – Le dissi: E l’adulterio commesso nel cuore non fa dannare con altrettanta certezza che un adulterio meglio concepito? – Vi rispose ancora di sì? – Le dissi: E se l’uomo è condannato per l’adulterio che ha commesso nel suo cuore, quale sarà la sorte della donna che invita tutti quelli che le si avvicinano a commettere questo delitto? Quest’ultima domanda la mise in imbarazzo. – Capisco; il fatto è che essa non copriva molto bene questo seno, almeno non quanto avrebbe potuto. – È vero. Mi disse che era una moda, come se non ci fosse niente più alla moda che dirsi cristiani e non esserlo. Aggiunse che non ci si deve vestire in modo stravagante, come se fosse possibile paragonare una miserabile piccola ridicolaggine alla propria dannazione eterna e a quella del nostro prossimo; che si lasciava vestire dalla sua sarta, come se non fosse meglio rinunciare alla propria sarta, piuttosto che rinunciare alla propria religione; che era il capriccio di suo marito, come se un marito fosse abbastanza insensato da esigere dalla propria moglie di dimenticare la decenza e i suoi doveri, e che una vera cristiana dovesse spingere la propria obbedienza al marito stravagante fino al punto di sacrificare la volontà del suo Dio, e fino a disprezzare le minacce del suo Redentore! – Conoscevo fin dall’inizio tutte quelle puerilità; e forse io vi avrei risposto come la vostra vicina; ma sia lei sia io saremmo state in malafede. Che partito prese dopo le vostre rimostranze? – Il giorno successivo a questa conversazione, era un giorno di festa, io risalivo verso casa mia e lei scendeva
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da casa sua per andare a messa. – Vestita come di consueto? – Vestita come di consueto. Io sorrisi, lei mi sorrise, e passammo l’uno accanto all’altra senza parlarci. Duchessa, una donna onesta! Una cristiana! Una devota!23 Dopo questo esempio, e altri centomila dello stesso genere, che influenza reale posso accordare alla religione sui costumi? Praticamente nessuna, e tanto meglio. – Come tanto meglio? – Si, signora, se a ventimila abitanti di Parigi venisse l’estro di conformare strettamente la loro condotta al Sermone della montagna… – Ebbene, ci sarebbe qualche bel seno più coperto. – E così tanti folli che il tenente della polizia non saprebbe come comportarsi, perché le nostre Petites-Maisons24 non basterebbero a rinchiuderli tutti. Ci sono due morali nei libri sacri: una generale e comune a tutte le nazioni e a ogni culto, alla quale si crede, e una che si prega nei templi, e si raccomanda nelle case, ma che non si rispetta affatto. – E perché questa stramberia? – Per il fatto che è impossibile assoggettare un popolo a una regola adatta solo a qualche uomo melanconico che l’ha stabilita modellandola sul suo carattere25. Alle religioni accade la stessa cosa che alle istituzioni monastiche, tutte si rilassano col tempo. Sono delle follie che non possono reggere contro l’impulso costante della natura, la quale ci riconduce sotto la sua legge. E fate in
23. La descrizione della vicina ricorda molto i «devoti civilizzati» (dévots civilisés) vanto del gesuita Pierre La Moyne o Le moine, autore di un’opera intitolata La Dévotion aisée (1652) a cui si riferisce criticamente Pascal nelle Lettere Provinciali, cap. IX. 24. Petites-Maisons: nome dell’ospedale fondato nel 1557 in Place de la maledrerie Saint-Germain (attualmente la collocazione coincide con lo spazio compreso tra Rue Velpeau e Square Boucicaut nel VI arrondissement di Parigi) destinato agli indigenti, gli infermi e ai folli, all’epoca definiti genericamente «alienati». 25. Nel Bon sens d’Holbach descrive l’idea di Dio come qualcosa di tanto affliggente che solo l’immaginazione di qualche sognatore triste e malinconico può soffermarsi a lungo su di essa, non certo la maggior parte dell’umanità.
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modo che il bene dei privati sia strettamente legato al bene generale, che un cittadino non possa nuocere alla società senza nuocere a se stesso; assicurate alla virtù la sua ricompensa come avete assicurato il castigo alla cattiveria; che il merito, senza alcuna distinzione di culto, qualunque sia la condizione in cui si trova, conduca alle alte cariche dello Stato26; e gli unici malvagi che potrete contare saranno quel piccolo numero di uomini trascinati nel vizio da una natura perversa, che niente può correggere. Duchessa la tentazione è troppo vicina; l’inferno troppo lontano: non aspettatevi nulla di cui varrebbe la pena che un saggio legislatore si occupasse, da un sistema di opinioni bizzarre che incute timore solo ai bambini, e che incoraggia al delitto con la facilità delle espiazioni; che invia il colpevole a chiedere perdono a Dio dell’offesa fatta all’uomo, e che avvilisce l’ordine dei doveri naturali e morali, subordinandoli a un ordine di doveri chimerici. – Non vi comprendo. – Mi spiego; ma mi sembra di sentire la carrozza del Duca, che rientra proprio al momento giusto per impedirmi di dire una sciocchezza. – Dite, dite la vostra sciocchezza, io non la intenderò; mi sono abituata a capire solo ciò che preferisco. Mi avvicinai al suo orecchio, e le dissi a voce bassa: Duchessa, domandate al vicario della vostra parrocchia, quale tra questi due crimini è il più odioso, pisciare in un vaso sacro o screditare la reputazione di una donna onesta27? Fremirà d’orrore al primo, griderà al sacrilegio, e la legge civile, che prende a ma-
26. Nelle Osservazioni su Hemsterhuis Diderot si chiede come sia possibile creare un amore durevole dei cittadini per la patria e insiste nel sostenere che esso può fondarsi solo su una legislazione che riconosca il merito e leghi la felicità privata a quella pubblica, castigando il vizio e eliminando i privilegi determinati dalla ricchezza o dalla classe a cui si appartiene per nascita. D. Diderot, op. cit., p. 384. 27. La medesima questione riportata in termini quasi identici nelle Osservazioni su Hemsterhuis, cit., pp. 367-368.
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lapena in considerazione la calunnia, mentre punisce il sacrilegio con il fuoco, finirà col confondere le idee, e corrompere gli spiriti. – Conosco più di una donna che si farebbe scrupolo a non mangiare magro il venerdì, e che… anch’io stavo per dire la mia sciocchezza. Continuate. – Ma, signora, bisogna assolutamente che parli al Duca. – Ancora un momento, e poi andremo da lui insieme. Non so bene cosa rispondervi, eppure non mi convincete. – Non mi sono proposto di convincervi. Per la religione vale quel che è vero anche per il matrimonio. Il matrimonio, che ha causato l’infelicità di molti altri, ha fatto la vostra felicità e quella del Duca; entrambi avete fatto molto bene a sposarvi. La religione che ha generato, che genera e che genererà ancora molti malvagi, ha reso voi ancor più buona; fate bene a conservarla. Vi conforta immaginare accanto a voi, sopra la vostra testa, un Essere grande e potente, che vi guarda camminare sulla terra e fortifica il vostro passo. Continuate, signora, a godere di questo augusto garante dei vostri pensieri, di questo spettatore, di questo modello sublime delle vostre azioni28. – Voi non avete, a quel che vedo, la mania del
28. Un’idea simile di Dio, concepito come presenza costante e garante della buona condotta, era già stata espressa da Diderot nei Pensieri filosofici: «Ci parlano troppo presto di Dio: altro difetto, non si insiste abbastanza sulla sua presenza. Gli uomini hanno bandito la presenza della divinità dai loro rapporti; l’hanno relegata nei santuari; le mura del tempio limitano la sua vista; Dio non esiste che al di là. Insensati che non siete altro, distruggete queste cinta che restringono le vostre idee, rimettete Dio in libertà: vedetelo ovunque dove si trova, o dite che non c’è affatto. Se dovessi educare un fanciullo, farei della Divinità una compagnia così reale, che forse gli costerebbe meno diventare ateo che allontanarsene. Invece di citargli l’esempio di un altro uomo che conosce a volte è più cattivo di lui; gli direi bruscamente, Dio ti ascolta, e tu menti. I giovani vanno presi attraverso i sensi: moltiplicherei dunque attorno a lui i segni indicativi della presenza divina. Se si creasse, per esempio, un circolo a casa mia, vi assegnerei un posto a Dio e abituerei il mio allievo a dire: “Siamo quattro, Dio, il mio amico, il mio precettore, e io”». D. Diderot, Pensées philosophiques, in DPV, vol. II, pp. 32-33, § XXVI.
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proselitismo. – Per niente. – Vi stimo ancora di più. – Permetto a ciascuno di pensare a modo suo; e poi quelli che sono fatti per liberarsi da questi pregiudizi non hanno alcun bisogno che li catechizzi. – Credete che l’uomo possa fare a meno della superstizione? – No fintanto che vivrà nell’ignoranza e nella paura. – Ebbene, superstizione per superstizione, meglio la nostra che un’altra. – Non credo. – Parlatemi sinceramente, non vi ripugna non essere più nulla dopo la vostra morte? – Preferirei esistere, benché non sappia perché un Essere che ha potuto rendermi sventurato senza ragione, non dovrebbe divertirsi due volte. – Se, malgrado questo inconveniente, la speranza di una vita futura vi sembrasse consolante e dolce, perché togliercela? – Non ho questa speranza perché il desiderio non mi ha nascosto la sua illusione, ma non la vieto a nessuno. Se si può credere che vedremo, quando non avremo più occhi; che penseremo, quando non avremo più una testa; che ameremo quando non avremo più cuore; che sentiremo, quando non ci saranno più i sensi; che esisteremo, quando non saremo da nessuna parte; che saremo qualcosa, senza estensione e senza luogo, acconsento29. – Ma questo mondo, chi l’ha fatto? – Sono io che ve lo chiedo. – Dio. – E che cos’è Dio? – Uno spirito. – Se uno spirito fa la materia,
29. «Per credere o per affermare qualcosa bisogna almeno sapere in cosa consiste ciò in cui si crede e ciò che si afferma. Credere nell’esistenza della vostra anima immateriale, è come dire di essere persuasi dell’esistenza di una cosa, della quale è impossibile formarsi una vera nozione; significa credere a delle parole senza poter attribuire ad esse un senso: affermare che le cose stanno come sostenete, è il colmo della follia». Paul Henri Dietrich baron d’Holbach, Le bon sens, ou Idées naturelles opposées aux idées surnaturelles, Stampato a Londra, M.DCC.LXXIV, 1774, §103, p. 105. Per questa serie di affermazioni, compresa la successiva definizione di Dio come “uno spirito” si rinvia ai paragrafi 102-103 della suddetta opera, pp. 103-105.
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perché la materia non può fare uno spirito30? – E perché lo farebbe? – È quel che le vedo fare tutti i giorni. Credete che le bestie abbiano un’anima? – Certo lo credo. – E potreste dirmi che cosa diventa l’anima del serpente del Perù, mentre si dissecca sospeso sopra un camino ed esposto al fumo per due anni di seguito? – Che divenga quello che vorrà, cosa mi cambia? – Il fatto è che voi duchessa non sapete che l’anima di questo serpente affumicato e disseccato, risuscita e rinasce. – Non ci credo per niente. – E tuttavia è un uomo d’ingegno che lo assicura, si tratta di Bouguer31. – Il vostro uomo d’ingegno ha mentito. – E se avesse detto la verità? – Me la caverei credendo che gli animali sono delle macchine32. – E l’uomo è solo 30. Diderot nel Sogno di D’Alemebert, dopo aver dimostrato che polverizzando una statua di marmo, mescolando la polvere alla terra e attendendo che il tutto si trasformi in una materia omogenea o humus, il quale viene assorbito dalla pianta e infine mangiato dall’uomo, quella stessa materia inerte diviene carne vivente, conclude: «Faccio dunque della carne o dell’anima, come dice mia figlia, una materia attivamente sensibile; e se non risolvo il problema che voi mi avete posto, almeno mi avvicino molto: perché ammetterete che c’è ben più distanza tra un pezzo di marmo e un essere che sente, che tra un essere che sente e un essere che pensa». D. Diderot, Rêve de d’Alembert, DPV, vol. XVII, p. 95. 31. Pierre Bourger (1698-1758) matematico, fisico, idrografo, dal 1713 membro dell’Accademia reale delle scienze, di cui fu anche direttore tra il 1748 e il 1755. Bourger aveva accompagnato La Condamine nella spedizione tenutasi tra il 1735 e il 1745 in cui si doveva misurare un grado di meridiano di distanza dall’equatore dal Perù. Il serpente a cui Diderot si riferisce viene menzionato nell’opera La Figure de la terre […] avec une rélation du voyage, Paris 1749. Diderot parla dello stesso serpente anche negli Elementi di fisiologia. 32. Nel Sogno di D’Alembert, Diderot discute con D’Alembert a proposito della coscienza, parlando della sensibilità degli animali interpella l’amico: «Pretendereste con Cartesio che sia una pura macchina imitativa? Ma i bambini si prenderanno gioco di voi, e i filosofi vi replicheranno che se esso è una macchina, voi ne siete un’altra. Se ammettete che tra l’animale e voi ci sia solo una differenza di organizzazione, dimostrerete di aver senno e ragione, sarete in buona fede; ma se ne concluderà contro di voi che con
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un animale più perfetto di altri… Ma il Duca… – Ancora una domanda, è l’ultima. Siete davvero sereno nella vostra incredulità? – Non potrei esserlo di più. – E se vi sbagliaste? – E anche se mi sbagliassi? – Tutto ciò che credete falso sarebbe vero, e sareste dannato. Signor Diderot, è una cosa terribile essere dannati; bruciare per tutta l’eternità, è davvero molto tempo. – La Fontaine credeva che vi staremo come i pesci nell’acqua. – Sì, sì, ma il vostro La Fontaine divenne molto serio in punto di morte33; ed è là che vi aspetto. – Non risponderò di nulla, se non ci sarò più con la testa; ma se finisco con una di quelle malattie che lasciano intatta la ragione all’uomo agonizzante, non sarò più turbato nel momento in cui mi attendete che in quello in cui mi vedete. – Questo coraggio mi confonde. – Trovo molto più intrepido il moribondo che crede in un giudice severo che pesa anche i nostri più segreti pensieri, e sulla cui bilancia l’uomo più giusto si perderebbe a causa della sua vanità, se non temesse di trovarsi troppo leggero; se questo moribondo allora potesse scegliere se essere annientato o se presentarsi a questo tribunale, la sua temerarietà mi confonderebbe ben di più se esitasse a scegliere la prima possibilità, a meno che non fosse più insensato del compagno di
una materia inerte, disposta in una certa maniera, impregnata di un’altra materia inerte, di calore e di movimento si ottiene della sensibilità, della vita, della memoria, della coscienza, delle passioni, del pensiero». DPV, vol. XVII, pp. 104-105. 33. Indebolito dalla malattia e sotto pressione da parte dell’abate Pouget, nel dicembre 1692, La Fontaine espresse il suo pentimento per essere stato un libertino davanti a degli accademici. L’abate Pouget ottenne la sua riconversione; La Fontaine rinnegò i suoi racconti e morì nel 1695 senza aver negato questa riconversione.
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san Bruno34, o più ebbro del suo merito di Bohola35. – Ho letto la storia del socio di Bruno, ma non conosco quella del vostro Bohola. – Era un gesuita di Pinsk, in Lituania, che lasciò morendo uno scrigno pieno di denaro, con un biglietto scritto e firmato di suo pugno. – E cosa diceva? – Era concepito in questo modo: «Prego il mio caro confratello, depositario di questa cassetta, di aprirla quando avrò fatto dei miracoli. Il denaro che contiene servirà alle spese del processo per la mia beatificazione. Ho aggiunto alcuni ricordi autentici affinché le mie virtù vengano confermate e che potranno essere utili a chi desidererà scrivere la mia vita». – Fa morir dal ridere. – A me duchessa, ma a voi? Il vostro Dio non sta allo scherzo. – Avete ragione. – Duchessa, è molto facile commettere un grave peccato contro la vostra legge. – Ne convengo. – La giustizia che deciderà la vostra sorte è molto rigorosa. – È vero. – E se voi credete agli oracoli della vostra religione sul numero di eletti,
34. Errore di Diderot. Secondo una leggenda tramandata dai certosini, il celebre dottore dell’Università di Parigi Raymond Diocrès, durante il suo funerale tenutosi nel 1082, si sarebbe sollevato per ben tre volte dal suo feretro per dichiararsi prima accusato, poi giudicato e infine condannato dal tribunale di Dio. Questo avvenimento avrebbe convinto san Bruno (10301101) a tentare con alcuni compagni, una prima prova della vita eremitica al priorato di Sèchefonatine (vicino a Reims). Il pittore Eustache La Sueur aveva dipinto per la Certosa di Parigi un ciclo dedicato alla vita di san Bruno, ispiratore dell’ordine certosino. Questo ciclo di dipinti si apriva con tre episodi di questa storia apocrifa. Diderot aveva visto i dipinti di La Sueur nella Certosa di Parigi e fa riferimento a essi anche nei Salon del 1759, 1761 e nei Pensieri staccati sulla pittura. 35. Andrzej Bobola (1591-1657), superiore dei gesuiti a Bobruisk, poi missionario a Pinsk (nel granducato di Lituania, oggi in Bielorussia). Fatto prigioniero dai cosacchi, subì torture orribili. Fu canonizzato da Pio XI nel 1938 e dal 2002 è il santo patrono della Polonia. Secondo P. Vernière la storia della cassetta sarebbe una maldicenza russa contro il martire, ma come sostengono R. Desné e G. Stenger, non è impossibile che si tratti di una pura invenzione di Diderot.
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sapete che è molto ristretto36. – Oh, io non sono giansenista, vedo solo il lato consolante della medaglia; il sangue versato da Gesù Cristo copre un grande spazio ai miei occhi; e mi sembrerebbe molto singolare che il diavolo, che non ha immolato a morte suo figlio, nonostante ciò avesse la meglio. – Voi dannate Socrate, Focione, Aristide, Catone, Traiano, Marco Aurelio37? – Per carità! Solo le bestie feroci potrebbero pensarlo. San Paolo dice che ciascuno sarà giudicato secondo la legge che ha conosciuto; e San Paolo ha ragione38. – E secondo quale legge sarà giudicato l’incredulo? – Il vostro caso è un po’ diverso. Voi siete un po’ come quegli abitanti maledetti di Corazin e di Betsaida, che chiusero i loro occhi davanti alla luce che li illuminava e che si turarono le orecchie per non sentire la voce della verità che parlava loro. – Duchessa, questi Coroziani e di Betsaidesi, sono esistiti solo in quei luoghi, se furono padroni di credere o di non credere. – Essi videro dei prodigi che avrebbero fatto andare a ruba i cilici e la cenere, se fossero stati fatti a Tiro o a Sidone39. – Il fatto è che gli abitanti di Tiro e di Sidone erano gente di spirito, e quelli di Corazain e Betsaida erano solo degli sciocchi. Ma colui che ha creato degli sciocchi li punirà per il fatto di essere sciocchi? Vi ho raccontato poco fa una storia e mi viene voglia di raccontarvi una
36. Nell’Addizione ai Pensieri Filosofici Diderot aveva scritto: «Se ci sono centomila dannati per uno solo che si è salvato, il Diavolo ha sempre il vantaggio senza aver abbandonato suo figlio alla morte». D. Diderot, Addition aux pensées philosophiques, DPV, vol. IX, p. 361. 37. Focione (402-318 a.C.), generale e oratore ateniese condannato ingiustamente a bere la cicuta. Aristide (550-467 a.C.) generale ateniese celebre per la sua integrità, era soprannominato il Giusto. Catone il Vecchio o il Censore (234-149 a.C.), uomo politico romano, lottò per la preservazione delle virtù tradizionali di Roma. Traiano (53-117), imperatore romano. Marco Aurelio (121-180) imperatore romano e filosofo stoico. 38. Epistola ai Romani, 2, 14. 39. Matteo, 11,21.
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cosa. Un giovane Messicano… Ma il Duca? – Mando a chiedere se è possibile vederlo. Ebbene! Il vostro Messicano?– Stanco del suo lavoro un giorno passeggiava sul lungomare. Vide un’asse che da un lato galleggiava nelle acque e dall’altro si posava sulla riva. Si sedette su questa tavola, e là, posando il suo sguardo sulla vasta distesa che si dispiegava davanti a lui si disse: È certo che mia nonna farnetica con la sua storia di non so quali abitanti che, in non so quale tempo, approdarono qui da chissà dove, un posto al di là dei nostri mari. Manca di buon senso, non vedo forse il mare confinare col cielo40? E posso credere, contro la testimonianza dei miei sensi, a una vecchia favola che non si sa a quando risale, che ciascuno adatta a suo modo, e che è solo una trama di circostanze assurde, tra le quali che essi si mangiano il cuore e si strappano le cornee? Mentre ragionava così, le acque agitate lo cullavano sull’asse e si addormentò. Mentre dormiva si alzò il vento, i flutti sollevarono la tavola sulla quale era disteso, ed ecco il nostro giovane ragionatore imbarcato. – Ahimè! È proprio questa la nostra immagine: ciascuno di noi è sulla propria asse, il vento soffia e i flutti ci portano via. – Era già lontano quando si svegliò. E chi fu molto sorpreso di trovarsi in mezzo al mare? Il nostro Messicano. E chi lo fu ancora di più? Sempre lui, avendo perduto di vista la riva dove passeggiava fino a un istante prima, e vedendo che il mare confinava col cielo da tutti i lati. Allora sospettò che poteva essersi sbagliato: e che se il vento restava costante, forse sarebbe stato portato sulla riva, tra quegli abitanti di cui sua nonna gli aveva tanto spesso parlato. – E voi non dite nulla della sua preoccupazione? – Non ne aveva. Si disse: Cosa può succedermi, purché approdi da qualche parte? Ho ragionato come uno sventato, e sia; ma ero sincero con
40. Nel Supplemento al Viaggio di Bougainville Diderot usa parole simili quando descrive la scoperta dell’esistenza di un’altra terra oltre la sua isola da parte del tahitiano Aotoru.
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me stesso; ed è tutto quel che si può pretendere da me41. Se avere dello spirito non è una virtù, mancarne non è un crimine42. Tuttavia il vento continuava, l’uomo e la tavola navigavano, e la riva sconosciuta incominciò ad apparire: egli toccò terra, ed eccoli. – Ci rivedremo là un giorno, signor Diderot. – Me lo auguro duchessa; in qualunque luogo, sarò sempre lusingato di rendervi i miei omaggi. Appena lasciata la sua tavola, e messo piede sulla sabbia, scorse un venerabile anziano in piedi al suo fianco. Gli chiese dove fosse, e con chi avesse l’onore di parlare: «Sono il sovrano di questo paese», gli rispose il vecchio. Immediatamente il giovane uomo s’inginocchiò. «Alzatevi, gli disse il vecchio, non siete voi ad aver negato la mia esistenza? – È vero. – E quella del mio impero? – È vero. – Ve lo perdono perché io sono colui che vede infondo ai cuori, e ho letto nel fondo del vostro che eravate in buona fede; ma il resto dei vostri pensieri e delle vostre azioni non erano egualmente innocenti». Allora il vecchio, che lo teneva per l’orecchio, gli rimproverò tutti gli errori della sua vita; e a ciascun capo d’accusa il giovane Messicano si inchinava, si colpiva il petto e domandava perdono… Ora, duchessa, mettetevi un momento al posto del vecchio, e ditemi che cosa avreste fatto voi. Vi sareste sentita soddisfatta prendendo per i capelli que-
41. Diderot qui rivendica i diritti della “coscienza errante” come vengono descritti da Pierre Bayle in Sur la tolérance ou Commentaire philosophique sur les mots de Jésus-Christ «Contrains-les d’entrer» (1687). Anche nei Pensieri filosofici (XXIX) Diderot aveva affermato «Si può esigere da me che cerchi la verità, non che la trovi», cit., pp. 25-26. 42. Sia nei Pensieri filosofici (nel già citato pensiero XXIX) sia nell’Aggiunta, Diderot aveva ribadito il concetto che qui riprende: l’uomo in quanto essere finito ha una capacità limitata di conoscere determinata dai suoi mezzi, se questi mezzi non gli consentono di comprendere Dio non gli può certo essere imputata la mancanza di fede, sarebbe come punire i Pigmei per non essere stati in grado di camminare a passo di gigante (Aggiunta ai Pensieri filosofici, pensiero 23).
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sto giovane insensato e trascinandolo per tutta l’eternità lungo la riva? – In verità, no. – Se uno dei vostri sei bellissimi bambini, dopo essere fuggito dalla casa paterna e aver fatto delle sciocchezze, vi tornasse pentito43? – Io gli correrei incontro; lo stringerei tra le braccia, e lo bagnerei con le mie lacrime; ma il duca suo padre non prenderebbe la cosa con tanta indulgenza. – Ma il Duca non è una tigre. – È ben lungi dall’esserlo. – Si farebbe pregare un po’, ma perdonerebbe. – Certamente. – Soprattutto se considerasse che prima di dare la vita a questo bambino, ne conosceva tutta l’esistenza, e che il castigo dei suoi sbagli, non sarebbe di alcuna utilità né per lui, né per entrambi. – Volete dire che il Duca è migliore del vecchio? – Dio me ne guardi! Voglio dire che se la mia giustizia non è quella del Duca, la giustizia del Duca potrebbe benissimo non essere quella del vecchio. – Ah! Signora! Voi non comprendete le conseguenze di questa risposta. O la definizione generale della giustizia conviene egualmente a voi, al Duca, a me, al giovane Messicano e al vecchio, oppure io non so più che cos’è e ignoro come piacere o dispiacere a quest’ultimo. Eravamo attivati a questo punto quando fummo avvertiti che il Duca ci attendeva, diedi la mano alla Duchessa, che mi disse: Fa venire il capogiro, vero44? – Perché mai se se ne ha una buona? – Dopo tutto, la soluzione più sicura è di comportarsi come se il vecchio esistesse. – Anche quando non ci si crede. – E se ci si crede, di non contare troppo sulla sua misericordia.
43. Si può vedere in questo passaggio un’allusione alla parabola del figliol prodigo, Luca XV, 11-32. 44. Nella versione del testo pubblicata nella Corréspondance littéraire di Grimm (aprile-maggio 1775) Diderot fa dire alla Marescialla: «C’est la bouteille à l’encre, n’est-ce pas?» l’espressione significa letteralmente: «È come la boccetta per l’inchiostro, vero?» e designa un problema insolubile, una situazione oscura e indistricabile, così come la boccetta dell’inchiostro rimane sempre opaca, anche quando l’inchiostro che conteneva finisce.
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– Forse non è tanto educato, ma almeno è più sicuro45. – A proposito, se voi doveste rendere conto dei vostri principi ai nostri magistrati, li ammettereste? – Farei del mio meglio per risparmiar loro un’azione atroce. – Ah! Vile! E se foste in punto di morte, vi sottomettereste alle cerimonie della Chiesa? – Non mancherei mai. – Via, via! brutto ipocrita –.
45. Nella versione del testo pubblicata nella Corréspondance littéraire Diderot fa dire al suo personaggio: «San Nicola, nuota sempre e non fidarti». Facendo allusione al proverbio che consiglia ai marinai che temono di annegare: «Prie saint Nicolas mais nage ferme» («Prega san Nicola ma nuota con decisione»). Il significato è che è meglio aiutarsi da sé e non contare troppo sull’aiuto altrui.
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Appendice 1
Cosa ne pensate?
Un giorno, un uomo si trovò gettato sulla riva di una terra straniera. Era abitata da uomini e donne di ogni aspetto e di ogni età. Dopo aver rivolto il suo sguardo sui diversi oggetti che lo colpivano, cercò in mezzo alla folla del popolo che lo circondava, qualcuno che potesse insegnargli le leggi e i costumi; perché il posto gli piaceva e desiderava stabilirsi lì. Vide un po’ discosti tre vecchi con la barba lunga che discutevano. Si avvicinò a loro. – Signori, sareste così gentili da dirmi dove sono, e a chi appartengono questi luoghi? Se la morale degli abitanti corrisponde alla saggezza e all’ordine che noto nella coltivazione delle vostre terre, siete governati dal migliore e dal più grande dei principi. – Niente è più facile che soddisfare la vostra curiosità, rispose uno dei vecchi allo straniero. Voi siete negli Stati del genio dei benefattori, che abita sulla riva opposta, voi siete stato gettato su questa vostro malgrado e per suo ordine. Ha la mania di rendere felici le persone, ed è in questa prospettiva che fa naufragare gli stranieri. Quelli che non annegano, vengono presi sotto la sua protezione e rinchiusi per un certo periodo
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di tempo in questo paese che giustamente voi ammirate. Io e questi signori siamo dei ministri, incaricati da lui di istruire i suoi sudditi delle sue volontà, di far osservare le leggi che prescrive, e di promettere pene o ricompense. – Ma signori, poiché questo paese è bello, perché egli non resta in mezzo alle persone che protegge e che cos’ha da fare sull’altra riva? – Quello che portiamo avanti al suo posto, rispose il vecchio, lo dispensa dal mostrarsi, perché noi siamo ispirati da lui in persona… Ma bisogna che vi informiamo delle condizioni prescritte dal genio per vivere felici in questi Stati… – Delle condizioni? Riprese lo straniero; non mi avete detto che sono qui per volontà del genio e che dipendeva solo da me restarci? – È vero, rispose il vecchio. – Dunque è assurdo impormi delle condizioni, replicò lo straniero, poiché non sono libero di accettarle o di rifiutarle… – Voi non siete libero? Riprese il vecchio; che blasfemia! Sbrigatevi a liberarvi di questo errore… – Lasciatelo dire, rispose a voce bassa il suo compagno, e guardatevi dal credere alla libertà, perché offenderete la bontà del genio… – Per di più, signore, continuò il primo, con aria modesta e carezzevole, prima di procedere oltre sappiate che vengo chiamato monsignore; così ha ordinato il genio benefattore che mi ha dato l’incarico per fare eseguire i suoi ordini. In tutto il paese non c’è nessun uomo al di sopra di noi tre: è per questo che il sommo genio lo ha nominato servitore dei servitori; perché il sovrano geniale è pieno di equità e prudenza, e non sbaglia mai nei suoi giudizi.
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Lo straniero non sapeva cosa pensare, vedendo degli uomini di buon senso, a giudicare dal loro contegno, la loro età e gli onori che venivano resi loro, spacciare simili stravaganze. Mentre discutevano, sentirono un grande brusio insieme a delle grida, alcune di dolore, altre di gioia. Lo straniero, sempre tanto curioso quanto meravigliato, chiese chi fosse e il terzo vecchio riprese: – Succede che ogni tanto il genio, per mettere alla prova la pazienza dei suoi sudditi e la loro fede in lui, permette che vengano uccisi professando la sua bontà, la sua clemenza e la sua giustizia. Quest’onore è riservato solo ai suoi favoriti, Non tutti i suoi sudditi sono obbligati a crederlo perfetto, perché si sono impegnati a crederlo perfetto durante il loro primo sonno. – Come, monsignore, nel vostro paese si giura dormendo? Gridò lo straniero. – È la regola, rispose il vecchio, e voi stesso avete fatto altrettanto mentre eravate gettato su questa riva. – Io, ho giurato? Continuò lo straniero; che possa morire se ne so qualcosa. – Voi siete altrettanto legato, riprese il ministro, ed ecco com’è avvenuta questa cerimonia, senza la quale non potreste essere considerato un cittadino di quest’isola. A partire dal momento in cui veniamo a sapere che uno straniero è arrivato nel nostro paese, andiamo a riceverlo; in seguito scegliamo a caso due cittadini che si sono sempre distinti per la conoscenza delle nostre leggi, i nostri costumi e i nostri usi. Ciascuno tiene lo straniero in piedi dai due lati. Mentre è coricato a terra e dorme, lo interroghiamo, lo informiamo delle condizioni necessarie affinché possa essere ammesso come cittadino dell’isola. E i due che rispondono pronunciano per lui il giuramento con il quale s’impegna ad adeguarsi per tutta la sua vita alle credenze e alle leggi del paese.
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– Voi mi prendete in giro, replicò lo straniero in collera. E per favore potrei sapere a cosa si è preteso di impegnarmi? – Ma, rispose il vecchio, tra le altre cose, a credere che il genio ha tre teste, e che un solo spirito anima queste tre teste; che è pieno di giustizia e di bontà, perché ama i suoi sudditi e non li rende mai infelici se non per il loro bene, o per loro colpa, o per quella degli altri; che il suo cuore non è soggetto alle passioni; che la collera che dimostra non è una passione; che non lo è il dolore che sente, perché la sua anima ha un tale grado di perfezione, che può essere scossa solo in apparenza e per modo di dire. Il resto dei vostri obblighi è contenuto, per sommi capi, in questi dodici volumi in-folio che, ecco, imparerete a memoria per vostro piacere; ma bisogna che sappiate che se interpreterete erroneamente una sola parola, sarete perduto e non ci sarà pietà per voi. La serietà con la quale gli venivano propinate queste assurdità, per un momento gli fece credere che il cervello di questi vecchi o il suo fosse alterato; li lasciò, attraversò la città, ricevette le stesse istruzioni da persone diverse. L’impossibilità di lasciare quest’isola gli fece prendere la decisione di agire più o meno come gli altri, nonostante il fatto che in fondo non poteva risolversi a credere a una sola parola di tutto quel che gli era stato detto di credere. Un giorno, stanco dopo una lunga corsa, si sedette su una tavola sul bordo della riva e si lasciò andare alle fantasticherie. Si accorse di essere stato inavvertitamente trascinato sulla riva opposta, solo quando vi approdò. – Ah! Perbacco, disse, dunque infine vedrò questo genio bizzarro. – e si sentì in dovere di cercarlo. Dopo aver cercato in tutti gli angoli dell’isola, infine, lo trovò, o meglio non lo trovò; perché bisogna convenire che nonostante tutte le mie più profonde conoscenze nella storia dei viaggi, non potrei dire nulla di positivo in proposito.
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– Signor genio, sapete quel che si dice di voi dall’altro lato, io credo che voi ne ridiate di tutto cuore. Per di più, non è colpa mia se non ho voluto credere a una sola parola di tutto quello che pretendete di aver fatto per me, e se ho quasi dubitato della vostra esistenza; mi è stato raccontato tutto ciò in un modo tanto ridicolo, che non c’era modo di crederci. – Verosimilmente il genio dopo aver sorriso per la franchezza dello straniero, e gli avrebbe detto con tono maestoso e canzonatorio: – Mi importa molto poco, amico mio, che voi e i vostri simili neghiate o crediate nella mia esistenza. Tranquillizzatevi, del resto. Non è né per il vostro bene né per il vostro male che avete percorso questi paesi. Quando una volta che ci si trova lungo il percorso che stavate seguendo, è necessario entrare in quel paese, la corrente dell’acqua non conduce in nessun altro posto. Per la stessa necessità per cui la corrente vi ha condotto qui; su questo avrei molte cose molto belle da dirvi; ma dovete credermi, figlio mio, ho altro da fare che istruire un monello come voi. Andate a vivere da qualche parte, e lasciatemi riposare finché il tempo e la necessità disporranno ancora di voi. Buonasera. – Lo straniero, ritirandosi, avrà detto a se stesso: – Sapevo che se c’era un genio su questa riva, era buono e indulgente, e che non avremmo avuto niente da spartire insieme. In ogni caso, non c’è niente di meglio per non sbagliarsi, che essere sempre sinceri con se stessi –. Che cosa ne pensate?
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Appendice 2
Pensiero filosofico
Un uomo era stato tradito dai suoi figli, da sua moglie e dai suoi amici; alcuni soci infedeli avevano rovesciato la sua fortuna e l’avevano sprofondato nella miseria. Penetrato da un odio e da un disprezzo profondo per la specie umana, abbandonò la società e si rifugiò da solo in una caverna. Là, con i pugni sugli occhi, e meditando una vendetta proporzionata al suo risentimento, diceva: «Che crudeli! Cosa farò per punirli delle loro ingiustizie e renderli tutti tanto infelici quanto meritano di essere? Ah! Se fosse possibile immaginare, metter loro in testa una grande chimera alla quale dessero più importanza che alla loro stessa vita, e sulla quale non potessero mai accordarsi!...» In quello stesso istante si slanciò nella caverna gridando: «Dio! Dio!» Echi innumerevoli si ripeterono intorno a lui: «Dio! Dio!» Questo nome temibile portato da un polo all’altro e ovunque ascoltato con meraviglia. Prima gli uomini si prosternano, poi si alzano, s’interrogano, discutono, si esasperano, si anatematizzano, si odiano e si scannano tra loro, e il desiderio fatale del misantropo è compiuto. Perché tale è stata nei tempi passati, e tale sarà nei tempi a venire la storia di un essere sempre egualmente importante e incomprensibile.
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Bibliografia
Essendo impossibile citare tutte le edizioni francesi e italiane delle opere di Denis Diderot, di seguito si propone una scelta delle edizioni di riferimento, nonché di quei testi di Diderot connessi alla presente traduzione per gli argomenti trattati. Si è seguito lo stesso criterio per la bibliografia secondaria cercando di proporre un’ampia selezione titoli significativi, ma senza pretesa di esaustività.
Opere di Diderot: Choix d’articles de l’Encyclopédie, a cura di M. Leca-Tsiomis, Éditions du C.T.H.S., Paris 2001. Contes et Romans, a cura di M. Delon, Gallimard, Paris, 2004. Correspondance, 16 vol., testo stabilito da G. Roth e J. Varloot, Minuit, Paris 1955-1970. Dialoghi filosofici, a cura di M. B. Savorelli, Le lettere, Firenze 1990.
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Œuvres complètes, 20 vol., a cura di J. Assézat-M. Tourneux, Paris 1875-1880. Id., 5 vol., a cura di L. Versini, Éditions Robert Laffont, Paris 1994-1997. Id., edizione critica a cura di H. Dieckmann, J. Proust, J. Varloot, Hermann, Paris, 1975-…, 34 vol. previsti. Œuvres philosophiques, a cura di M. Delon, Gallimard, Paris 2010. Opere filosofiche, a cura di P. Rossi, Feltrinelli, Milano 1963. Entretien d’un philosophe avec la Maréchale de ***, a cura di J. Gayraud, Éditions mille et une nuit, Paris 2007. Id., a cura di J.-C. Bourdin, C. Duflo, Flammarion, Paris 2009. Id., testo stabilito da R. Desné, G. Goggi, D. Kahn et al., Hermann, Paris 2009, estratto del volume XXVII dell’edizione a cura di H. Dieckmann, J. Proust, J. Varloot. La promenade du sceptique tr. it. di M. Brini-Savorelli, La passeggiata dello scettico, Serra e Riva Editori, Milano 1984. La religieuse, a cura di S. Spero, La religiosa, Marsilio, Venezia 2002. Le Rêve de D’Alembert, a cura di C. Duflo, Flammarion, Paris 2005. Pensées détachées, ou Fragments politiques échappés du portefeuille d’un philosophe, a cura di G. Goggi, G. Dulac, Hermann, Paris 2011. Pensées philosophiques, a cura di J.- C. Bourdin, Flammarion, Paris 2007. Pensieri filosofici, a cura di. T. Cavallo, Pisa, Jacques e i suoi quaderni, 1998.
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Quatres contes, a cura di J. Proust, Droz, Genève 1964. Scritti politici: con le voci politiche dell’Encyclopédie, a cura di F. Diaz, UTET, Torino 1967. D. Diderot, J.-B. Le Rond D’Alembert et al., Encyclopédie, ou Dictionnaire Raisonné des Sciences, des Arts et des Métiers, 28 vol., Le Breton-Briasson-David-Durand, Paris 1751-1772. Id., Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 17 vol. e 11 vol. di tavole, University of Chicago: ARTFL Encyclopédie Project (Spring 2011 Edition), Robert Morrissey (ed), http://encyclopedie. uchicago.edu/. Id., Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, a cura di P. Casini, Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alembert, Laterza, Roma-Bari 2003. D. Diderot, G.-T. F. Raynal, Histoire philosophique et politique des deux Indes, [1770], tr. it. di A. Pandolfi, Storia filosofica e politica degli insediamenti e del commercio degli europei nelle due Indie, BUR Rizzoli, Milano 2010. Altre fonti primarie: P. Bayle, Pensées diverses écrites à un docteur de Sorbonne à l’occasion de la Comète qui parut au mois de décembre 1680, Reinier Leers, Rotterdam 1682, tr. it. di G. Cantelli, Pensieri sulla cometa, Laterza, Roma-Bari 2009. Id., De la tolérance. Commentaire philosophique, 16861687, Honoré Champion, Paris 2006; edizione critica del Commentaire philosophique sur ces paroles de
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Indice
Prefazione Ateismo e morale nel colloquio con la Marescialla di Diderot di Colas Duflo
p. 9
La scommessa rovesciata: sulla tolleranza in Diderot di Valentina Sperotto
p. 27
Nota editoriale
p. 68
Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***
p. 69
Appendice 1 Cosa ne pensate?
p. 93
Appendice 2 Pensiero filosofico
p. 99
Bibliografia
p. 101
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Canone europeo | 1
Collana diretta da Andrea Tagliapietra
L’intreccio è semplice: Diderot si reca in visita a casa dell’amico maresciallo che però è assente. In attesa del suo ritorno s’intrattiene con la moglie, la Marescialla, mentre questa si dedica alla sua toeletta. È un luogo inconsueto per una discussione filosofica, ma insolita è anche l’interlocutrice: una donna cattolica devota e madre di sette figli, stupita ed entusiasta di “fare della filosofia”. In quest’opera Diderot mette in scena se stesso e si interroga in materia di morale e di fede: gli argomenti sono quelli tipici del materialismo ateo del XVIII secolo, non manca qualche provocazione e la sua caratteristica ironia. Il dialogo però è sempre garbato, per questo Joël Gayraud lo ha definito “limpido, leggero come una fuga di Bach”.
ISBN E-book 9788885716230
€ 7,00