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Italian Pages 70 [58] Year 2018
Aurelio Porfiri
DELLE CINQUE PIAGHE DEL CANTO LITURGICO
Trattatello sulle deviazioni nella musica di Chiesa
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First Ebook edition: November 2018
ISBN: 9789887896982
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Indice dei contenuti
Prefazione Introduzione Prima piaga: il clericalismo Seconda piaga: l'antropocentrismo Terza piaga: il sentimentalismo Quarta piaga: il dilettantismo Quinta piaga: l'opposizione alla tradizione Bibliografia
Prefazione
Prof. Giacomo Baroffio
Ispirato da Antonio Rosmini non solo nella scelta del titolo, ma anche nell’argomentazione di momenti particolarmente forti nell’esperienza liturgica della Chiesa cattolica, Aurelio Porfiri tratteggia con un respiro universale cinque scenari che offrono spunti di riflessione su il clericalismo, l’antropocentrismo, il sentimentalismo, il dilettantismo, l’opposizione alla Tradizione. Non si tratta di semplici e isolate deformazioni individuali nella pratica quotidiana. Ognuno di questi ambiti rivela un’intricata connessione che ormai da secoli – tanti e pochi a seconda della situazione specifica – costituiscono un sistema. Non sono errori o devianze casuali, spesso inavvertite, di singoli. Si tratta di vere piaghe che minano nel profondo la vita dell’organismo Chiesa, piaghe che si propongono, a seconda dei casi, come causa o effetto di un malessere generale. Il M° Porfiri non scopre nulla di nuovo, scopre una realtà ammalata che per sua natura si diffonde come un’epidemia grazie al fascino di ideologie pseudoculturali e alla non conoscenza dei fatti reali. A partire dall’aver coscienza degli aspetti fondamentali della fede cristiana: la Santissima Trinità, l’incarnazione del Verbo di D-i-o, la Chiesa fondata su Pietro e gli Apostoli, la liturgia quale azione di Cristo e del suo Corpo mistico, la Parola di vita, la grazia e il peccato, il Paradiso e l’Inferno… Molti guai deturpano il volto della Chiesa nella celebrazione dei misteri. Guai che si riflettono in modo macroscopico nelle azioni liturgiche e nello stato, perlopiù miserevole, della musica nella liturgia. Ma la crisi non è musicale, bensì si radica altrove, nel cuore dell’essere cristiano, cioè nella vita in Cristo. Cristo sempre al di là dei nostri orizzonti, ma pur sempre vicino al nostro cuore e alla nostra mente. Nella misura in cui è amato per essere conosciuto, è conosciuto per essere adorato, è adorato per essere in ciascuno di noi l’uomo nuovo che s’incarna in ogni persona quando si accoglie la sua grazia, il dono della
redenzione, l’eredità che accomuna tutti i figli di D-i-o. Le “cinque piaghe” non esauriscono la casistica che deturpa l’armonia della liturgia. Si potrebbe scrivere un grosso volume affrontando altre situazioni pietose. Urgente è prendere coscienza di un fatto: non si può ignorare lo sfacelo attuale che rischia di abbattere l’edificio ecclesiale. Occorre iniziare dall’ambito che meglio si conosce, in cui è possibile compiere gesti concreti. Bisogna pertanto affrontare il capitolo “musica nella liturgia” senza illudersi di eliminare abusi e colmare lacune: quello che conta è una vita di fede animata dalla Parola, illuminata da maestri, guidata da pastori, sorretta dall’esempio dei santi.
Introduzione
Quando Antonio Rosmini nel 1848 pubblicava il suo opuscolo sulle cinque piaghe della Santa Chiesa, egli certamente intendeva mettere in risalto quali fossero le sofferenze che la Chiesa attraversava in quel dato momento storico, o perlomeno quelle che lui percepiva come tali. L'autore, una delle menti più elevate della cultura cattolica, aveva con il suo pensiero spaziato negli ambiti più diversi, anche a volte controversi, ma mai perdendo di vista il suo essere figlio della Chiesa, come viene reso più ancora evidente dall'ardore da lui dimostrato nel lavoro sulle cinque piaghe. Un lavoro in cui lui certo muoveva alcune critiche, alcune obiezioni, ma sempre tenendo di fronte a lui la maternità della Chiesa come elemento fondante del suo agire. Non è possibile anche criticare la propria madre senza cessare di amarla? Oggi ci sembra che ogni critica debba essere considerata alla stregua di un tradimento, di una mancanza imperdonabile di rispetto, di un affronto ai diritti della nostra santa religione. Ma in realtà è attraverso critiche costruttive che possiamo evolvere, correggere, modificare per il meglio. Se una persona cara beve troppo, non glielo dici? Sarebbe vero amore quello di tacere e lasciare la persona intossicarsi con l'alcol? A volte penso che questa è tutta una bella scusa per poter mantenere lo status quo, in modo da poter conservare certi privilegi a scapito della salvezza dell'istituzione. Forse lo pensava anche il buon Rosmini. Ma noi siamo certamente in un periodo storico di questo tipo, un periodo storico in cui si è colpiti non perché viene dimostrato che le proprie idee sono sbagliate ma malgrado la giustezza o meno delle stesse. Ecco perché si colpisce la persona e non le idee, in quanto la persona è molto più vulnerabile, come si dice, nessuno è perfetto. Questo lavoro, quello delle cinque piaghe, scritto in realtà 16 anni prima, si collocava in un periodo storico pieno di turbolenze per la Chiesa e per il mondo. Rosmini decideva di paragonare le sofferenze del corpo di Cristo, le piaghe, a quelle che la Chiesa stava attraversando, un coraggio critico e una parresia che gli costeranno la condanna all'indice dei libri proibiti. Ieri, come oggi, il coraggio critico non rende certo in termini di carriera, come detto sopra, anzi crea molti problemi per chi ritiene che si debba decidere di parlare chiaramente quando c'è in gioco qualcosa di molto più grande della propria traiettoria
professionale, dei propri interessi personali, del proprio orticello. Plinio Corrêa de Oliveira, importante pensatore cattolico brasiliano, affermava: " Equilibrio non è la posizione di un uomo seduto pacatamente su una poltrona. Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo, mentre realizza con la massima intensità tutte le sue potenzialità". Lo stesso pensatore aggiungeva con un'altra frase molto significativa: " Nell'egoista frustrato che sei stato, comincia a sorgere, come un giglio che nascesse dal pantano, oppure una fonte in un arenile desertico, qualcosa di nuovo. È l'amore. Non l'egoismo, che è amore esclusivistico di te stesso. Ma l'amore dei principi eterni, degli ideali folgoranti, delle cause elevate e senza macchia, che vedi risplendere nella dama ineffabile, e che cominci a volere servire. Servire, dedicare te stesso, immolare te stesso, e tutto quanto ti appartiene, ecco il nome della tua nuova felicità. Questa felicità la trovi in tutto quanto evitavi: la dedizione non ricompensata, la buona volontà incompresa, la logica derisa da ipocriti oppure ignorata da sordi volontari, il confronto con la calunnia che ora ulula come un uragano, ora agita discreti sonagli come un serpente, ora, infine, mente come una brezza tiepida e carica di miasmi fatali. Ora la tua gioia consiste nel resistere a tanta infamia, nell'avanzare, nel vincere benché ferito, rifiutato, ignorato". Fu certamente un pensatore singolare il Dottor Plinio (come veniva chiamato all'uso brasiliano), come lo fu Antonio Rosmini. Un pensatore che forse non è stato ancora completamente compreso. Nel giorno della sua beatificazione il 18 novembre 2007, Papa Benedetto XVI così ne parlava nel suo Angelus: " Oggi pomeriggio verrà beatificato a Novara il venerabile Servo di Dio Antonio Rosmini, grande figura di sacerdote e illustre uomo di cultura, animato da fervido amore per Dio e per la Chiesa. Testimoniò la virtù della carità in tutte le sue dimensioni e ad alto livello, ma ciò che lo rese maggiormente noto fu il generoso impegno per quella che egli chiamava "carità intellettuale", vale a dire la riconciliazione della ragione con la fede. Il suo esempio aiuti la Chiesa, specialmente le comunità ecclesiali italiane, a crescere nella consapevolezza che la luce della ragione umana e quella della Grazia, quando camminano insieme, diventano sorgente di benedizione per la persona umana e per la società". Anche Rosmini ebbe le sue sofferenze all'interno della Chiesa, come abbiamo detto sopra, insieme al sostegno di vari pontefici, come Gregorio XVI, Papa che godrà anche di cattiva stampa grazie alla penna corrosiva, ma geniale, di
Giuseppe Gioachino Belli. Ma alcuni pontefici ebbero con lui atteggiamenti ondivaghi, come il buon Pio IX, certamente grande per altri aspetti ma che non seppe pienamente difenderlo quando il "prete roveretano" si trovò in alcune difficoltà. Ho cercato di prendere ispirazione dal nome del lavoro del Rosmini per la stesura di questo testo (nato come conferenza tenuta a L'Aquila il 21 settembre 2016), cercando di identificare quali sono le cinque piaghe del canto liturgico oggi. Direi che c'è più di Rosmini che solo l'ispirazione presa dal titolo di un suo libro. C'è tanto di più come ispirazione di certe parti ma c'è anche una certa influenza di un grande figlio di Rosmini, il poeta Clemente Rebora che diverrà poi sacerdote rosminiano. Una figura veramente affascinante quella di Clemente Rebora, morto nel giorno della commemorazione dei santi. Ci sono alcune premesse che devo fare prima di elencare le cinque piaghe.
La prima premessa è che il numero cinque è un omaggio al Rosmini, ma non nego che ne potrebbero essere identificate molte di più di piaghe. Credo comunque che queste cinque di cui dirò, per la loro importanza e forza dirompente, sono certamente tra le più significative. E esse anche contengono le altre, in una certa qual misura. Per questo ritengo che non vadano prese sotto gamba, anzi devono essere sempre presenti alla mente proprio per cercare di evitarle, cosa che in alcuni casi si presenta come estremamente complessa e difficile. La situazione oramai è talmente compromessa che mi sembra veramente di essere una voce che grida nel deserto, pur non avendo certo la santità del Battista. E questo non per colpa del Concilio (che fu certamente la porta attraverso cui molte di queste tendenze erronee entrarono nella pratica corrente della Chiesa) ma per colpa della sua interpretazione. Si badi bene, non che il Concilio stesso possa essere stato completamente esente da ambiguità nei suoi documenti, ci sono stati molto compromessi tra diverse sensibilità che si sono poi pagati successivamente. Ma l'ermeneutica dello stesso, poi analizzata da Benedetto XVI, ha certamente sferrato un colpo decisivo, piegando gli stessi documenti ad esigenze di parte che dal Concilio stesso non erano mai state promosse. La seconda premessa è che quello che andrò a dire intende guardare non solo alla situazione italiana, ma avere uno sguardo più ampio. Avendo avuto in sorte
di lavorare nel campo della musica liturgica in contesti internazionali, come quello asiatico, quello nordamericano, oltre che quello italiano, mi ha dato probabilmente uno sguardo più ampio che quello della semplice situazione nostrana. Non nego che alcune delle cose che dirò si applicano con più forza alla situazione italiana; cercherò di distinguere le emergenze propriamente italiane, che in alcuni punti sono veramente drammatiche. Ma c'è un filo che comunque lega la crisi nostra con quella che si verifica in altri paesi. Alcune piaghe da noi sono devastanti mentre in altri contesti non sono avvertite come tali. Cercherò di notare tutto questo dove è possibile. La terza premessa è che questa esposizione intende manifestare e condannare una situazione, cercando di mantenere il rispetto per le persone coinvolte, sulle cui intenzioni può giudicare soltanto Dio. Io cerco di far capire che la Chiesa ha delle "malattie" che ne rendono l'azione più faticosa e alcune volte inefficace. Causa di questa può essere trovata in queste cinque piaghe, per quello che riguarda la musica liturgica (e anche la liturgia, a cui la musica è inestricabilmente legata). Se queste cause non vengono riconosciute e affrontate, il male andrà sempre più in profondità. Non ho la presunzione di pensare che da queste piaghe si potrà completamente guarire, forse non è possibile. Ma sarà possibile perlomeno contenerne i danni o ritardarne la degenerazione che purtroppo è già abbastanza avanzata. Parliamoci chiaro, non stiamo parlando di problemi secondari, parliamo di una situazione di malattia conclamata, sotto gli occhi di tutti. La liturgia e la sua musica sono in gravissima crisi, direi quasi "terminale" se non volessi sembrare apocalittico. Ma tutti possono rendersi conto della situazione girando per le nostre chiese e osservando anche quello che accade in molte altre parti del mondo. La quarta premessa riguarda la terminologia: qui uso il termine "canto liturgico" per definire l'oggetto di questo testo, che è la musica che si usa per la liturgia. Non entro nelle diatribe terminologiche su musica sacra, musica di Chiesa, musica rituale e via dicendo, perché ci porterebbero lontano e non sono strettamente rilevanti per quello che si andrà a dire qui. Non nego che la definizione terminologica ha una sua grande importanza, prima chiarire i nomi come direbbe il mio buon Confucio. Ma qui uso anche musica sacra o liturgica in modo interscambiabile, quando e se necessario. Mi riprometto di affrontare prima o poi la questione terminologica, magari in una altro testo, se Dio mi darà salute, forza, coraggio e perseveranza.
Prima piaga: il clericalismo
La prima piaga è quella del clericalismo . Il clericalismo, nel canto liturgico come nella vita della Chiesa, è uno dei mali terminali della fede. Con esso il clero abusa della sua posizione per fini che non sono propri alla vocazione clericale stessa. C'è un evidente abuso di potere. Insomma, per dirlo in termini molto più semplici, se ne approfittano. Il gesuita George B. Wilson ha affrontato questo problema in un testo [1] molto interessante di una decina di anni fa. Questo è un libro importante che esamina in un certo dettaglio questo problema del clericalismo, andando alla radice di certi comportamenti e cercando di comprenderne le ragioni. Abbiamo avuto alcuni tentativi in Italia di definire questo fenomeno, ma è sempre molto difficile in quanto siamo sotto la cappa e il controllo della struttura clericale che cerca di difendersi con tutti i mezzi, leciti e non. Posso raccontare un breve aneddoto per far capire il problema. Molti anni fa avevo potuto leggere un libro di un giornalista Italiano che affrontava con un certo coraggio e da cattolico, non da anticlericale, il problema del clericalismo nella Chiesa. Questo libro mi era molto piaciuto in quanto non era la tiritera di chi ce l'ha con la Chiesa a prescindere, ma una disamina dei mali portati dal fenomeno del clericalismo. A quel tempo ero uno degli organisti della Basilica di San Pietro in Vaticano. Mi capitò di parlare con una suora che lamentava anch'essa i problemi derivanti dal problema del clericalismo. Le consigliai di leggere questo libro di cui riferivo sopra, scritto come dicevo da un giornalista cattolico e impegnato in un giornale cattolico (nel senso di finanziato direttamente dalla Chiesa). La mi raccontò che era andata in una libreria cattolica molto vicina a Piazza San Pietro e che era stata apostrofata quasi in malo modo dall'addetto alle vendite, dicendo che loro non tenevano questi libri di nemici della Chiesa...ma se si va in librerie cattoliche si nota che libri di nemici della Chiesa, interni ed esterni, ce ne sono a iosa, libri di autori che mettono in discussione anche i punti più delicati della dottrina cattolica, l'Eucarestia, la Risurrezione, la Virginità di Maria e molto altro. Ma guai a toccare i privilegi portati dal clericalismo, nella mente di alcuni questo è divenuto una sorta di dogma inespugnabile. Tutti i pontefici, non ultimo Papa Francesco, almeno a parole hanno condannato
questo male terribile, ma le condanne non hanno mai sortito una cura vera e propria. E una cura probabilmente è difficile da trovare, in quanto si tratta, per certi versi di un male sistemico, di un male che attiene al "sistema Chiesa", che deve essere distinto dal "mistero Chiesa". Il mistero della Chiesa è qualcosa di più grande e profondo della sua incarnazione terrena, che si fa giocoforza sistema, a volte sistema non sano. Quindi bisogna ben schivare coloro che cercano di far tacere le giuste critiche agli abusi nella Chiesa come un attacco alla Chiesa in se stessa, questo è profondamente falso. Se dici che tuo padre beve troppo, non significa che non ami tuo padre, anzi proprio perché lo ami ti permetti di dire che bere troppo potrebbe causare gravi danni alla sua salute. Ma oggi i metodi inquisitori di chi difende privilegi vari lasciano poco spazio alla discussione, purtroppo. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (763-766) questo essere mistero della Chiesa viene spiegato in questo modo: " È compito del Figlio realizzare, nella pienezza dei tempi, il piano di salvezza del Padre; è questo il motivo della sua « missione ». «Il Signore Gesù diede inizio alla sua Chiesa predicando la Buona Novella, cioè la venuta del regno di Dio da secoli promesso nelle Scritture». Per compiere la volontà del Padre, Cristo inaugurò il regno dei cieli sulla terra. La Chiesa è « il regno di Cristo già presente in mistero»". Ecco che ci viene fatto intravedere che la Chiesa ha come suo fine principale non una attività terrena, ma una missione soprannaturale a cui tutto il suo agire deve essere teso. Ecco che questo essere Chiesa si manifesta chiaramente nella disciplina che si configura per chi crede e che da come conseguenza anche quella di avere una preghiera propria, una propria liturgia, come di dice sempre il Catechismo: " « Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo». Accogliere la parola di Gesù significa accogliere « il regno stesso di Dio ». Il germe e l'inizio del regno sono il « piccolo gregge » (Lc 12,32) di coloro che Gesù è venuto a convocare attorno a sé e di cui egli stesso è il pastore. Essi costituiscono la vera famiglia di Gesù. A coloro che ha così radunati attorno a sé, ha insegnato un modo « nuovo di comportarsi », ma anche una preghiera loro propria". Il Catechismo poi ci spiega come fosse naturalmente necessario anche dotarsi di
una struttura umana per svolgere la propria missione apostolica: " Il Signore Gesù ha dotato la sua comunità di una struttura che rimarrà fino al pieno compimento del Regno. Innanzi tutto vi è la scelta dei Dodici con Pietro come loro capo. Rappresentando le dodici tribù d'Israele, essi sono i basamenti della nuova Gerusalemme. I Dodici e gli altri discepoli partecipano alla missione di Cristo, al suo potere, ma anche alla sua sorte. Attraverso tutte queste azioni Cristo prepara ed edifica la sua Chiesa". Non ci facciamo illusioni: certo la struttura è importante e non ci potrebbe essere Chiesa senza che ci sia una struttura che ne consenta l'azione nel mondo. Ma mai dovrebbe perdere il senso della sua origine soprannaturale per cui non si è nella Chiesa per una voglia di carriera o per esercitare un predominio sugli altri, peccato ancora più grande quando si pensa che le anime si affidano ai sacerdoti e ai chierici con fiducia e con il giusto desiderio che la loro confidenza sia rispettata e non usata come mezzo di dominio. Ecco, il clericalismo è proprio il segno del sacerdote o del chierico (ma c'è anche un clericalismo dei laici) che abusa del suo potere per dominare, non solo sessualmente, ma anche in altri modi. Tutto ciò che allontana le anime dalla sorgente della vita, che è Dio, quando è compiuto nella Chiesa ha spesso alla sua radice il clericalismo. Ripeto, non è semplice da evitare, in quanto gli uomini sono deboli e tendono a peccare, questo vale anche per i sacerdoti. Quando si trovano a gestire un potere tendono a fare due cose, se non hanno un comportamento retto: cercano vantaggi personali, proteggono gli altri membri del sistema (clericale) il che gli fa sperare in un ritorno di qualche tipo. Insomma, il clericalismo è la Chiesa che si ripiega su se stessa, che non è capace di andare verso nessuna periferia, come chiederebbe il Pontefice. E in effetti questa categoria delle "periferie" è di per sé anche pericolosa, nella situazione di clericalismo, in quanto essa permette di sviare il "centro", la dottrina e il dogma, per ammannirci un cattolicesimo liquido, malleabile, elastico, che fa perfettamente il gioco di chi cerca nella fede non un messaggio di salvezza ma un mezzo di autopromozione. Più le cose sono sfumate più è facile imporre le proprie distorte visioni. Non si pensi che questo male del clericalismo sia un portato recente nella vita della Chiesa. Ricordo una mia conversazione di alcuni anni fa con una persona di cultura, fortemente tradizionalista. Alla mia domanda se non c'era nulla che avrebbe criticato della Chiesa pre-conciliare egli mi rispose proprio "il clericalismo". E ho avuto esperienza che anche conversando con altre persone di tendenze certamente non anti ecclesiali, il clericalismo veniva fuori come il
problema grande sempre da affrontare. Io credo che una differenza ci sia fra il passato e il presente e questa differenza è che il clericalismo è notevolmente peggiorato. Prima esisteva questa piaga, ma la struttura di pensiero e liturgica della Chiesa era comunque forte, ben solida sui suoi fondamenti, come detto più in alto. Quindi coloro che avessero voluto introdurre innovazioni balzane a loro capriccio, avevano poco margine di manovra. Non che non lo facessero comunque, ma c'era un argine. Il peccato esisteva senz'altro, ma si capiva il bene e il male. Ora questa struttura non è così forte, lasciando così i fedeli in balia delle mode più o meno solide introdotte da questo o quel membro del clero, da questo o quel membro della gerarchia. Essi stessi non riescono più a vedere che il loro comportamento non è certamente quello che ci si aspetterebbe da un consacrato. E non parlo solo degli orribili abusi sessuali che gridano vendetta al cospetto di Dio, ma anche di altri abusi di potere, come quelli in materia liturgica, dove il sacerdote si erge a protagonista quando egli è soltanto un mediatore fra l'umano e il sacro. A me non interessa il sacerdote come persona, mi interessa in quanto esso compie ciò per cui ha ricevuto l'ordinazione sacerdotale. La sua personale simpatia o antipatia, le sue abilità varie, sono solo elementi accessori e di poca importanza, rispetto al suo ruolo nel grande Sacrificio della Messa. Ma ho ben conosciuto sacerdoti che usavano la Messa come spazio di espressione personale, la infarcivano di "tropi verbali" ad ogni momento, commentavano qualunque cosa. C'è da dire che purtroppo questa tendenza non è stata sfavorita da certe istruzioni in materia liturgica che non hanno ben chiarito che la Messa non è del sacerdote, non è il luogo per la sua esibizione. Ricordo un sacerdote che lavorava presso la CEI moltissimi anni fa e che mi chiamava a suonare nella sua bellissima Chiesa del centro storico di Roma. Una persona anche cordiale e gentile, ma durante la Messa le parole del rito divenivano un'appendice per tutte le sue delucidazioni, spiegazioni ed elucubrazioni. Insomma, la Messa come rito spariva dietro la verbosità del celebrante. Un liturgista non conservatore, professore presso un'università pontificia, mi disse che il clericalismo in Italia è molto forte, ma a Roma è terribile. Il motivo di questo è certamente comprensibile: a Roma si trova il Vaticano, il potere centrale, quindi a Roma godiamo dei benefici e dei difetti di questo potere. Il clero a Roma è certo più invadente che in altre parti e questo ha conseguenze in molti ambiti. Spesso, parlando con amici statunitensi, ho l'impressione che loro non riescano a capire questo clericalismo invadente nella musica liturgica, perché da loro non esiste o esiste marginalmente. Ma in Italia e specialmente a Roma è qualcosa di veramente terribile. Bisogna tenere presente questa
importante prospettiva, il clericalismo esiste ovunque ma da noi è veramente terrificante. Lo stesso papa Francesco nella sua Lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018 riconosceva il problema del clericalismo: " E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita. Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente». Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo". Purtroppo questi richiami rimangono inascoltati in quanto questo fenomeno, come altri di cui parleremo, è così radicato e quasi connaturale all'agire di molto clero che sembra quasi inestirpabile. Inoltre il collegamento, giusto in principio, con i casi di abusi sessuali dice parte della verità, che in realtà è molto più complessa. Quando il corpo si sente minacciato manda gli anticorpi, che cercano di distruggere le cellule ritenute come non buone per la propria sopravvivenza. E il clericalismo è oramai così profondo che neanche ci si rende conto essere un abuso. Antonio Rosmini nel suo testo sulle cinque piaghe della Chiesa da questa spiegazione del clericalismo, anche se non lo chiama con questo nome: " Allora il clero, senza saper come, si vide alla testa delle nazioni; e mentre si era piegato all’invito irresistibile della carità che lo pressava ed urgeva perché soccorresse la società distrutta, si ritrovò in un baleno padre delle città orfane e reggitore degli affari pubblici. Fu allora che la Chiesa si trovò all'improvviso abbondantemente piena degli onori e delle ricchezze del secolo, le quali si riversarono in essa e per il loro peso la sdrucirono come le acque del mare che entrano in una nuova ansa apertasi laddove il continente si è ritirato. Questa
nuova occupazione, che cominciò per il clero del VI secolo, era infinitamente gravosa e molesta a quei santi prelati, che da una parte vedevano la Chiesa gravata dal fardello dei beni terreni, perdendo essa quella povertà preziosa che gli antichi Padri avevano tanto raccomandata; e dall’altra vedevano il clero oppresso dalla mole delle cure secolari, che allontanavano i loro animi dalla contemplazione delle cose divine e rubavano il loro tempo prezioso e le loro forze dal dispensare la parola di Cristo ai fedeli, nell'educazione del clero, e nell’assiduità alle pubbliche e private preghiere". Come si manifesta il clericalismo nel canto liturgico? Si manifesta con l'idea che il canto liturgico deve essere gestito e controllato direttamente o indirettamente da elementi del clero, quando ci sono anche nel laicato validissimi musicisti di Chiesa. Ora, è vero che la Chiesa ha il compito di regolare le leggi liturgiche, ma non nel senso che ognuno può far quello che vuole. Fra un prete che agisce di arbitrio e un laico che segue le leggi liturgiche, è certamente più cattolico il laico. Noi non seguiamo delle persone, siano essi preti, vescovi, cardinali o il Papa stesso. Noi li seguiamo solo in quanto essi presentano e custodiscono la dottrina cattolica tramandata attraverso al Scrittura e la Tradizione. Al di fuori di questo, le opinioni di questi prelati, pur se illustri, rimangono opinioni private e non dogma di fede. Si pensi che in alcune istituzioni romane, come la Cappella Musicale Pontificia detta Sistina, esiste la prassi per cui il direttore del coro deve essere un sacerdote, restringendo a poche persone la scelta quando aprendo anche ai laici ci sarebbero 1000 volte più scelte, il che andrebbe ad incidere anche sulla qualità. Questa prassi che risale in definitiva alla fine del XIX secolo ha prodotto alcuni validissimi sacerdoti musicisti, ma essa oggi è non più proponibile, per almeno due motivi. Il primo è che non c'è una ragione valida (se non vogliamo includere quella di poter controllare meglio la persona se fa parte del clero) di dover avere un sacerdote a dirigere un coro. La perizia artistica non ha a che fare direttamente con lo stato sacerdotale e quindi è indifferente se c'è un laico o un sacerdote. La seconda ragione, che fa pendere a favore dei laici, è che oggi l'educazione musicale è drasticamente di livello più basso nella società, quindi pochissimi sacerdoti (tra quelli rimasti, visto il calo delle vocazioni) sarebbero forse in grado di poter gestire un coro di quel calibro. Purtroppo viene da pensare che tutto viene ridotto all'esigenza di dover controllare il direttore da parte dei responsabili ecclesiastici, la paura che i laici possano non essere così facilmente gestibili. Ma in questo modo sempre torniamo al problema della Chiesa come sistema clericale di potere che poi genera il clericalismo, un
problema che come detto non mi sembra veramente di facile soluzione. Vedendo poi i recenti problemi del coro della Cappella Sistina, già menzionato in questo paragrafo, le pesanti accuse (che certo dovranno essere dimostrate), non sembra poi che la gestione affidata ad un sacerdote metta al riparo da pesanti imprevisti. Non dimentichiamo che problemi simili, anche con sacerdoti a capo delle cappelle musicali, si sono verificati anche nel recente passato. Quindi l'idea che un sacerdote metta al riparo da possibili guai non è ben fondata. In paesi di grande tradizione corale di grande livello qualitativo, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, i direttori dei cori e gli organisti sono per il 99% laici, non sacerdoti. Questo non incide sulla qualità, anzi la qualità è - mediamente enormemente più alta di quella che abbiamo qui. L'idea che un sacerdote sia in una posizione migliore per quello che riguarda il canto liturgico non solo è un idea sbagliata, ma è profondamente deleteria. Se siamo tutti chiamati all'incontro con nostro Signore, perché un sacerdote dovrebbe avere per quello che riguarda la musica nella liturgia un accesso privilegiato rispetto a tanti laici? Certo, egli ha un ruolo nella liturgia che gli è proprio e a quel ruolo i laici non devono accedere. Ma qui si sta parlando della specificità del sacerdote, uomo del sacro. Non ha nulla a che fare con il saper essere un buon musicista, pittore o medico. Queste sono cose accessorie, in fondo. Certo non ci nascondiamo che questo, voglio ripeterlo, per quanto riguarda la musica è problema veramente importante qui da noi in Italia, meno nei paesi di tradizione anglosassone. Tempo fa ho scritto una dichiarazione sulla musica sacra con un mio amico americano, insigne studioso. Quando ho proposto il paragrafo sulle insidie del clericalismo, lui non riusciva a capire perché fosse importante inserirlo non perché non riteneva il clericalismo un pericolo, ma perché nel suo paese non esisteva la pressione clericalista che esiste qui da noi, almeno nel campo della liturgia e della musica (e lì poi, forse sotto l'influenza protestante, cadono a volte nel problema contrario). Quindi non capiva la mia insofferenza verso questo fenomeno. Da quel momento ho capito che veramente il clericalismo è un grande male ma che in alcune parti del mondo diviene veramente una emergenza colossale. Certo l'Italia è una di questa parti del mondo, forse la più colpita e devastata. Non è difficile capire il perché, visto la nostra vicinanza con il centro del potere. Il ridicolo è che le tendenze clericaliste si sono accentuate dopo il Concilio, non prima. Per meglio dire, le tendenze riformatrici di fine XIX secolo, che hanno di fatto un poco clericalizzato la musica liturgica (visto che la riforma aveva a capo molti sacerdoti, si pensi per esempio al gesuita Angelo de Santi, vero deus ex
machina e al fondatore del movimento ceciliano, il sacerdote tedesco Franz Xaver Witt), dopo il Concilio non sono affatto passate ma anzi si sono radicate, come in fondo il fenomeno del clericalismo in se stesso. In passato anche le Cappelle romane erano dirette per lo più da laici e nessuno ne moriva spiritualmente. Certo, ci potevano essere laici più o meno capaci, la cui musica era più o meno spirituale, ma questo poteva valere anche nel caso che ci fossero stati dei sacerdoti. Il problema non era laico o sacerdote ma era lo spirito del tempo, che influenzava in egual misura l'uno e l'altro. Io non dico che i sacerdoti debbano essere esclusi totalmente da dirigere cori, ma messi sullo stesso piano dei laici quando ci sono da fare scelte. Ma capisco che chiedo qualcosa che non è possibile, in quanto è ovvio che coloro che decidono, i vescovi nelle diocesi, avranno sempre un occhio di riguardo per i propri sacerdoti che per qualunque laico. Mi raccontava un noto professionista romano, che lavorava per la curia, che un cardinale di primo piano gli aveva detto che lo considerava come il primo nella sua considerazione fra tutti i laici, ma che sarebbe sempre venuto dopo l'ultimo dei suoi sacerdoti. Purtroppo è proprio così. Questa tendenza clericalista, come detto, si fa forte anche per quello che riguarda la gestione, per così dire, del canto liturgico, una gestione che spesso passa dalle conferenze episcopali dove le voci dei laici non sono veramente ascoltate o se lo sono, spesso in profonda subordinazione a quelle dei sacerdoti o sono scelte in funzione di questa subordinazione. Anche questo è un problema molto italiano, molto in linea con quella paura della perdita dei poteri vari che si pensa lo stato clericale garantisce. Questo si ripercuote poi nella comprensione delle problematiche intorno al canto liturgico, problematiche la cui comprensione non può essere efficace senza il contributo dell'elemento laicale. I laici infatti sono nel mondo in un modo più profondo e diretto in relazione alla natura della loro vocazione. Prendiamo per esempio il concetto di partecipazione: quante volte vi sarà capitato di disputare con un parroco intorno ai canti che "fanno partecipare il popolo", quando spesso si ha un'idea del popolo stereotipata o venata di ottimismo antropologico, ma non corrispondente a quello che il popolo veramente è, al modo in cui partecipa, alla sua estraneità all'intellettualismo liturgico. Tempo fa ho sentito - e spero non sia vero - che un liturgista anche stimato avrebbe risposto ad una domanda sul come comportarsi se il sacerdote impone dei canti non propri nella liturgia. Il liturgista avrebbe detto che si dovrebbe comunque seguire il sacerdote. Ripeto, mi auguro che sia una fake news, mal riportata o non ben capita. Certo se il liturgista ha veramente espresso quell'opinione ha detto una cosa profondamente errata, in quanto dei canti inappropriati nella liturgia sono un errore e l'errore non ha diritti. Sarebbe come
dire che bisognerebbe seguire un sacerdote nell'errore in campo morale, dottrinario o filosofico. L'errore non diviene accettabile se a portarlo avanti è un sacerdote, fosse pure il Papa. Purtroppo oggi questo è campo di aspra disputa nella Chiesa, ma dobbiamo cercare sempre di tenere la barra ben dritta e di non farci ingannare dalla propaganda clericalista. I laici hanno il diritto, anzi il dovere, di riprendere sacerdoti che li portano su una cattiva strada e che cercano di attentare alla santità della liturgia con le loro idee balzane, malsane, devianti. Ricordiamo che essi non sono i padroni o i creatori della liturgia, che anche loro la devono rispettare e custodire. Se si ritiene che questo non viene fatto, è lecito intervenire con rispetto quando si è ben informati del vero ruolo che deve avere la musica nella liturgia. Naturalmente c'è una parte del clero che capisce questo, ma spesso sono soffocati nelle loro opinioni per paura di andare contro la narrativa dominante, che si nutre di parole come "partecipazione", "assemblea", "primavera della Chiesa", "sussidi liturgici", "come ha detto il Concilio..." senza pesarne le valenze e, soprattutto, le conseguenze. Il Papa emerito Benedetto XVI, parlando della sua esperienza come perito del Concilio, ha detto: " Abbiamo agito in modo corretto, anche se non abbiamo valutato correttamente le conseguenze politiche e gli effetti delle nostre azioni. Abbiamo pensato troppo da teologi e non abbiamo riflettuto sulle ripercussioni che le nostre idee avrebbero avuto all'esterno" (BENEDETTO XVI 2016, pag. 135). Questa ammissione onesta di Papa Benedetto ci fa capire come questo sia esattamente il pericolo, le riforme fatte a tavolino per qualcuno o qualcosa che forse non si conosce pienamente. Così è nel canto liturgico. Se si guarda chi dirige Cappelle musicali, uffici liturgici, associazioni, uffici della curia e via dicendo, si vedrà che più ci si avvicina a Roma più l'elemento clericale predomina. E in questa situazione prospera un altro elemento, forse anche peggiore del clericalismo fatto dal clero: quello del laico clericalizzato, del laico che esiste in funzione dell'approvazione del sacerdote, ne ho parlato in precedenza. Mi sembra ne ha parlato anche il presente Pontefice, ma io credo si possa veramente fare poco per debellare questo male che come ho detto, mi sembra sistemico, parte del modo in cui l'istituzione funziona. Quante volte vediamo che i laici che vengono impiegati in compiti che hanno a che fare con il canto liturgico (ma anche con altro), lo sono in funzione non della loro competenza ma della possibilità di essere controllati con facilità ed
addomesticabili. Non vale certo per tutti, ma questa è una tendenza forte. Vi prego di riflettere su un fatto: questa atmosfera pesante di clericalismo non è normale! Come detto, se si guarda ad alcuni paesi esteri dove l'elemento laico nel campo della musica liturgica è predominante, la situazione non è peggiore, ma molto migliore. Uno dei motivi, come detto in precedenza, è che la scelta è molto più ampia se si danno pari diritti ai laici in questo campo, come ai sacerdoti. Io come musicista di Chiesa laico non mi sento inferiore a nessun sacerdote. Riconosco l'enorme contributo di musicisti sacerdoti nel campo della musica liturgica, ma allo stesso modo riconosco quello di tanti musicisti laici che hanno fatto la storia della musica liturgica e ne rimpiango, almeno nel nostro paese, il mancato contributo presente in quanto sottomessi in un modo o nell'altro non alle leggi della Chiesa, ma all'ermeneutica di parte e scorretta in voga in molti circoli clericali. Si lamenta spesso la mancanza di vocazioni. Forse, se molti sacerdoti che si dedicano ad attività varie in uffici liturgici ed associazioni, lasciassero il posto a competenti laici e si occupassero di più delle anime nelle Parrocchie, stando di più nei confessionali, questo problema non sarebbe probabilmente risolto, ma senz'altro attenuato. Io credo che abbiamo bisogno di santi sacerdoti, più che di sacerdoti che si occupano di tutto lo scibile umano. Me lo ha detto un sacerdote oratoriano: cosa potrebbe cambiare se avessimo santi sacerdoti! Io condivido con lui, più che di sacerdoti musicisti, professori, architetti, intrattenitori, abbiamo bisogno di santi sacerdoti. Clemente Rebora, di cui si è parlato all'inizio, in una sua bella poesia dedicata ai sacerdoti diceva: " Il sacerdote è come una campana/ Che vien dal Santo Spirito percossa/ Perché chiami a Gesù la gente umana". Ecco in fondo la missione del sacerdote, quello di essere come la campana, di far risuonare quello che lo Spirito suggerisce, non in primo luogo le loro idee o talenti, per quanto a volte possano essere validi e anche desiderabili. Laici, non vi fate togliere quello che è vostro. Soffrirete molto, verrete emarginati, ma come diceva Sant'Agostino, meglio correre zoppi sulla via della verità che correre spediti su quella della menzogna.
[1] WILSON 2008.
Seconda piaga: l'antropocentrismo
La seconda piaga del canto liturgico è quella dell' antropocentrismo , cioè quella di mettere l'uomo al centro come termine e misura di tutto. L'antropocentrismo non è certamente tema recente, già almeno dal XV secolo con l'umanesimo si tentò di reagire contro una società a modello teocentrico, come quella che veniva in certa misura dal medioevo. Il passaggio dell'Illuminismo ha senz'altro fatto in modo che questo processo si radicasse in profondità e che questo accentramento sull'uomo razionale a discapito di Dio divenisse quasi un dogma. Ma una deriva antropocentrista in campo cattolico si è certamente sentita con più forza negli anni intorno al Concilio Vaticano II, una deriva che venne denunziata dal grande teologo stimmatino Cornelio Fabro, con speciale riferimento al lavoro dell'influentissimo teologo Karl Rahner. Cornelio Fabro, nel suo "La svolta antropologica di Karl Rahner" ne denuncia la "depravazione ermeneutica del tomismo". In una recensione di questo testo apparsa sull'agenzia di stampa "Corrispondenza Romana", così viene detto: " Secondo il Nostro, il gesuita «ha fatto la sua opzione a favore del principio moderno di immanenza» (p. 25): è l’uomo che ora stabilisce i confini dell’essere, è il pensiero pensante che pone Dio nella misura dell’utile (Kant). Inutile insistere. Nuovi recentissimi studi, come quelli di padre Cavalcoli, hanno confermato ad abundantiam l’assunto fabriano e cioè che «l’impianto della sua interpretazione [di Rahner] era viziato nel suo fondamento» (p. 49), e le conseguenze non potevano non coinvolgere tutta la dottrina cattolica: dogmatica, morale, ecclesiologica,liturgica, etc" (CANNONE 2012). Mi fa piacere che venga citato il padre Giovanni Cavalcoli, domenicano, che alla confutazione di Karl Rahner e di altri teologi degli ultimi decenni ha dedicato importanti studi. Ora, come deborda questa svolta nel canto liturgico? Deborda quando viene capovolto il principio che la liturgia e la musica sacra sono per la gloria di Dio e l'edificazione/santificazione dei fedeli, principio ribadito anche dal Concilio Vaticano II, nella Sacrosanctum Concilium (112) quando si stabilisce in linea con la tradizione precedente:
" Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue...". Ora la musica si fa per la gloria dei fedeli, si mettono al centro i loro interessi particolari, le loro "culture" senza avere una pre-comprensione delle stesse, c'è una accettazione acritica di culture musicali che sono nate in opposizione alla cultura cattolica e cristiana. Si accetta tutto con l'idea che questo attiri di più la gente in Chiesa. Ma la realtà è differente. Sembra come quelle persone che prendono sempre più medicine per guarire senza capire che sono proprio le medicine che stanno prendendo ad avvelenarli. Dice bene Mons. Antonio Livi, ultimo autorevole rappresentante della scuola teologica romana che ha visto grandi nomi come Corneli Fabro già citato in precedenza, Antonio Piolanti, Dario Composta, Brunero Gherardini, Enrico Zoffoli, Luigi Bogliolo ed altri, quando denuncia la moderna confusione fra pastorale, teologia e dottrina. Un tempo la dottrina, il dogma, era all'origine e da questo si elaboravano teologie che poi sfociavano in azioni pastorali. Oggi è il contrario, si parte dai bisogni soggettivi senza fare nessun riferimento all'oggettività (dogma) degli insegnamenti perenni della Chiesa. Ecco che questo comportamento non può che essere enormemente deleterio e portare alle conseguenze nefaste che oggi stiamo scontando. Tutto questo è veramente frutto del mettere l'uomo davanti a Dio, quello che è necessario all'uomo prima di quello che è dovuto a Dio, quello che piace avanti a quello che è giusto. Questa tendenza si è fatta molto sentire nella Chiesa degli ultimi decenni, anche malgrado le azioni dei Papi recenti che hanno tentato a volte di frenare la deriva. Ma gli stessi hanno anche lanciato a volte messaggi ambigui, messaggi che potevano essere letti su piani diversi. Ecco perché si è addivenuti all'idea che il dialogo sia un fine, non un mezzo. Ma come diceva il recentemente scomparso Cardinal Tauran, si dialoga solo quando si è sicuri della propria identità. In nome del supposto dialogo per "rispetto umano", si mette in secondo piano la verità. Paolo VI, recentemente canonizzato, nella sua Enciclica Ecclesiam Suam ebbe a dire: "80. Com'è chiaro, i rapporti fra la Chiesa ed il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatemitizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e
così via. Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all'indole dell'interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall'abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell'uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall'educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo. 81. Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d'inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell'interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni. 82. Suppone pertanto il dialogo uno stato d'animo in noi, che intendiamo introdurre e alimentare con quanti ci circondano: lo stato d'animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell'umano discorso". Si vedrà che l'adattamento all'interlocutore si è spesso mutato in trasformazione, in perdita del proprio senso di appartenenza per sposare quello dell'altro. Certo non voglio dire che questa fosse l'intenzione di Paolo VI, ci mancherebbe. Anzi, nel libro di Jean Guitton in cui il filosofo francese dialoga con lo stesso Pontefice, c'è una chiarificazione sui termini adeguati per avere un dialogo, fra cui quello di essere chiari sulla propria identità. Ma un certo modo di argomentare in favore della preminenza dei rapporti umani sui dati oggettivi, ha portato certamente a pensare che essi costituissero il fulcro dell'essere Cattolici. Ma si può essere Cattolici anche rinunciando ad avere rapporti umani con gli altri, come sanno bene gli eremiti. Poi il dire che questo dialogo " non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell'interlocutore" può essere anche equivocato. Spesso questa conversione si perde completamente. Mi viene forzatamente da pensare a quello che è successo recentemente con la Cina, in cui si diceva che prima bisognava cercare l'amicizia senza preoccuparsi di altre cose,
non riflettendo sul fatto che "amicizia" per noi significa una cosa e per loro un'altra. Inoltre non basta solo l'amicizia per ottenere quello che poi è lo scopo ultimo della Chiesa, la conversione alla vera dottrina. Mi rendo conto che quando si tratta con uno stato comunista e professo ateo, non si può incominciare un dialogo proponendo il catechismo, ma bisogna sempre essere chiari sul fatto che anche loro hanno il diritto di ascoltare l'annuncio della buona novella, più che di trovare nuovi amici. In fondo tutti i missionari del passato tentavano di convertire anche la classe politica del tempo, capendo che questa classe politica, se convertita, avrebbe anche facilitato la conversione degli altri strati della popolazione. Come ha detto il Cardinale Sarah il 5 luglio di quest'anno durante una conferenza a Londra, la liturgia non è il posto per promuovere la mia cultura, ma è il posto dove la mia cultura viene battezzata, viene elevata al livello del divino. Molti sacerdoti e liturgisti compiono un errore fondamentale. Accusano coloro che difendono la tradizione cattolica, musicale e artistica, di voler imporre la "propria cultura" (sottointeso occidentale). Ma in realtà questa cultura non è una cultura occidentale usata dalla Chiesa Cattolica, ma è una cultura nativa del cattolicesimo che ha poi forgiato la cultura occidentale. C'è molto della cultura musicale dell'occidente che non potrebbe trovare il proprio posto in Chiesa. Non si intende imporre la propria cultura, ma ritornare ad una cultura cattolica. Ciò non significa disprezzare culture altre rispetto a quella cattolica, ma significa non accettare tutto acriticamente e basarsi sui grandi modelli che abbiamo. Questo antropocentrismo, questo fare dell'uomo il centro e il limite di tutto, lo viviamo giorno per giorno nelle nostre liturgie quando alcuni celebranti pensano di fare un buon servizio ad un popolo che forse conoscono molto superficialmente, smontando pezzo dopo pezzo le connessioni del rito liturgico pensando di fare una buona cosa per una migliore comprensione di chi partecipa. In realtà, come ogni bambino di 5 anni potrebbe insegnare, una volta che un giocattolo è smontato poi non funziona più. Il rito funziona per sua esigenza intrinseca se è un rito coerente con una tradizione. Non serve spiegare e rispiegare, il rito parla a suo modo e con i mezzi propri del mondo simbolico che con esso viene in essere. Come detto, c'è veramente confusione fra cultura occidentale e cultura cattolica. Non si può negare che le due sono progredite una influenzando l'altra, ma per amore dell'esotico non sarebbe giusto distruggere quello che i nostri padri hanno donato a noi anche nel campo dell'arte, nel campo della bellezza, nel campo della liturgia. E distruggere per cosa? Per sottoprodotti della cultura
contemporanea, neanche per cose di buon livello. L'idea che bisogna fare tutto più "semplice" (non comprendendo il significato vero di questa parola) è veramente una idea offensiva per il popolo di Dio. Sarebbe come dire che se io invito delle persone a cena gli servo il cibo in piatti di plastica perché non li ritengo in grado di apprezzare il mio servizio di piatti molto costoso e raffinato. Sarebbe questo un comportamento da non giudicare come offensivo? Se io valuto importanti gli ospiti gli offrirò il meglio che la mia casa può dare. E non sarà Dio, che oltretutto nella Chiesa è il padrone di casa, più degno di lode e onore di ogni ospite terreno? Quindi questa idea che bisogna partire dai bisogni dell'uomo non è solo stupida, ma anche deleteria. L'antropocentrismo ha spostato l'attenzione sulla conseguenza piuttosto che sulla causa. Per salvarci, come mi diceva un mio direttore spirituale, non possiamo arrampicarci su noi stessi, dobbiamo sempre raggiungere qualcosa che è fuori di noi e che è di livello più alto. Questa idea che l'adesione al "quotidiano" aiuta tutti a partecipare meglio alla liturgia ha già dimostrato la sua inefficacia e il suo fallimento. Purtroppo in questo paghiamo anche una certa influenza dagli Stati Uniti, dove il "comfort" viene messo al primo piano, lo stare bene della persona rispetto a qualsiasi esigenza esteriore. Ecco perché il mio "io al centro" giustifica anche pratiche come aborto e divorzio, in quanto non si valuta come cosa buona il sacrificio (di avere un figlio, di mandare avanti un matrimonio) ma si cerca di trovare una soluzione che risolva il problema sempre con al centro le mie esigenze, piuttosto che i miei doveri. Da questo antropocentrismo deriva anche il centrare l'attenzione sul sacerdote celebrante nella liturgia piuttosto che sul Sacrificio che si compie. Questo porta come conseguenza, non disgiunta dall'intellettualismo già denunciato, quell'odiosa verbosità ben denunciata da don Roberto Tagliaferri: " La liturgia soffre della stessa idiosincrasia. È sospettata di essere solo formale nella sua messa in scena. Invece quel che conta dovrebbe essere il contenuto portato dalla Parola. La liturgia dovrebbe rappresentare l'evento di Parola, ma l'evento non sta nella esteriorità della forma rituale, ma nell'interiorità del contenuto. Dal momento che la spettacolarizzazione è solo pedagogica e psicologica, non metafisica, la forma esterna deve evitare di soffocare il vero contenuto con la sua enfatizzazione scenica. Imperativo categorico del presidente-regista di liturgia è di attenuare il più possibile i miasmi dello spettacolo per dar corpo al contenuto della vera liturgia. Così permane il dualismo tra interno ed esterno e si assiste, specialmente dopo il Vaticano II, a quell'esercizio di "logomachie esplicative", in cui si tenta di salvare il
sacramento dagli attentati formalistici della sua messa in scena rituale. Si tratta di una problematica analoga al dibattito dalla demitizzazione di R. Bultmann, quando si pensava che vi fosse nel racconto evangelico un mito da rigettare e un nocciolo kerygmatico da salvaguardare. Solo più tardi si è capito che non si può disimbricare dal mito il Logos, perché tutto è nella buccia e non nel nocciolo, come quando si pela una cipolla. La prassi liturgica soffre di questa deformazione mentale per cui si pensa che i contenuti verbali siano più potenti e originari delle percezioni sceniche. Si può invocare dunque una crudeltà per la liturgia, intesa come necessità improrogabile di ritorno alla scena, cioè ai linguaggi estetici della musica, della festa, della danza, del travestimento, del profumo, ecc. Tutto questo ambito è stato liquidato dai cultori della riforma conciliare con il fantasma del ritualismo, confondendo la problematica epistemologica dei linguaggi del Sacro con le derive giuridiciste e clericali del rubricismo post- tridentino. La suggestione antiscenica del post-concilio è arrivata a invocare una piena secolarizzazione del rito a favore dei linguaggi verbali e psicologico-morali, come condizione per accedere alla veritas del sacramento cristiano. La stessa chiesa italiana dopo il concilio ha inaugurato la linea di evangelizzazione per salvare i sacramenti dalla loro formalità perché da soli non offrivano garanzie sufficienti di appartenenza totale al Credo esplicito della chiesa. Secondo questa visione solo chi crede e conosce la dottrina dei misteri attraverso la catechesi può accostarsi fruttuosamente alla liturgia cristiana. Neppure un sospetto che vi potrebbe essere un livello linguistico più complesso alla fede, oltre la parola esplicita!" [1] . Ecco, questa dinamica è sempre più insidiosa e sempre più difficile da estirpare. Anzi, sembra un male che è capace di crescere in modo vorticoso. Si ritorce su se stessa e diviene poi parte del modo di pensare in modo così forte che "l'interlocutore" non si rende neanche conto di cosa c'è in palio.
[1] TAGLIAFERRI 2009, 44-45.
Terza piaga: il sentimentalismo
La terza piaga del canto liturgico è quella del sentimentalismo . Questa è una piaga interessante, in quanto in un certo senso deriva dalla precedente, ma anche si ritorce contro lo stesso uomo che intende servire, lasciandolo nella condizione in cui si trova e non facendolo elevare. Il sentimentalismo è la tendenza ad accentuare l'elemento affettivo e soggettivo su quello razionale e oggettivo. Il sentimentalismo è diverso dal sentimento, in quanto esso è una sollecitazione dell'affettività fine a se stessa, una sollecitazione la cui commozione non porta alla successiva elevazione dell'elemento che si commuove, come nel sentimento, ma è una sorta di atto autoerotico che ha fine in se stesso, appellandosi a facoltà inferiori e primarie dell'animo umano. Mentre il sentimento è autentico, il sentimentalismo è artificiale. Ecco perché alcuni che sono più formati provano fastidio di fronte alle manifestazioni del sentimentalismo mentre quasi gioiscono quando si trovano davanti all'espressione di sentimenti autentici. In campo religioso questo sentimentalismo può essere fatto risalire allo scisma luterano e all'enfasi sul soggettivismo rispetto all'oggettività del dogma. La libera interpretazione ha aperto le porte al primato dell'essere di coscienza sull'essere in se. In un interessante blog in cui si da molta attenzione alla liturgia, compresa quella ortodossa, troviamo questa definizione: "Se la liturgia, come di fatto è, è un luogo in cui, attraverso i simboli, avviene una comunicazione ineffabile con la divinità, la sua efficacia può essere compromessa anche totalmente se un uomo non si dispone correttamente seguendo quel modo che la tradizione ha suggerito. Infatti: "Chi non raccoglie con me disperde" (Mt 12,30). D'altronde, quando si perde il vero approccio spirituale, succede un impazzamento in due direzioni: il razionalismo e il sentimentalismo. Nella storia delle chiese protestanti possiamo ampiamente rinvenire questi due aspetti. Da un lato vi sono chiese con uno stile molto razionalistico, contraddistinte da un'atmosfera molto fredda, con un approccio biblico di tipo molto intellettuale, praticamente universitario (quell'approccio che ora è entrato pure in molti commentari biblici cattolici). Dall'altro, vi sono chiese sentimentali (pentecostali, comunità ecumeniche come quella di Taizé, ecc.)" (Pietro C. 2012).
Insomma, il razionalismo e il sentimentalismo sono due eredità che ci derivano dal protestantesimo. Ma il sentimentalismo è particolarmente pericoloso: "Il sentimentalismo, in realtà, è una "colla zuccherosa", una specie di onanismo, che chiude i canali spirituali. In questo modo, lo Spirito non può giungere perché trova l'uomo chiuso, occupato con se stesso mentre assapora le proprie emozioni, e, per lo stesso motivo, non può salire nemmeno la preghiera perché trova un cuore indisposto, occupato in altro. Il movimento della preghiera finisce per essere ostacolato analogamente a chi cammina guardando i propri piedi invece dei margini e della direzione della strada" (Pietro C. 2012). Il sentimento non è il sentimentalismo, in quanto il primo non perde mai contatto con l'elemento oggettivo della liturgia, non è al servizio di un auto celebrazione di quello che siamo, ma i cuori sono sempre rivolti al Signore. In questo senso penso fu diretta la polemica di Antonio Rosmini contro Beniamino Constant, che propugnava un sentimento fine a se stesso e non diretto alla oggettività della dottrina, un moto interno dell'uomo che però non si esplicitava in una adesione a qualcosa che lo superava e che gli era superiore ma si esprimeva in un vago sentire, una sensazione verso il divino che però non era compiuta in se stessa: " Beniamino Constant pretende dimostrare "che il sentimento religioso, naturale all'uomo, sia il principio di tutte le religioni". Le quali, agli occhi suoi, non sono più che altrettante manifestazioni di quel sentimento. Poiché quel sentimento cerca di manifestarsi, e non riesce però mai a poter esprimere se stesso compiutamente, chè tutte le forme esteriori ch'esso ritrova sono a lui inadeguate, e riman sempre in esso qualche cosa d'immenso, d'infinito, che non può circoscriversi, e non può rappresentarsi. Di qui, secondo il Constant, tutte le religioni sono in un continuo mutare, e nessuna raggiunge mai forma stabile. Le forme esteriori prese dal sentimento religioso si fanno troppo anguste, dopo alcun tempo; e allora il sentimento le depone, e ne cerca di nuove più dignitose, e più ampie, le quali pure alla loro volta esso disdegna e rimuta con altre migliori" [1] . Ecco che in Rosmini ci appare una distinzione religiosa fra il sentimento religioso come moto soggettivo e non aperto all'oggettività del dogma e il sentimento religioso come movimento dell'animo verso il Dio vero. Il sentimentalismo è una corruzione del primo sentimento, una religione senza Dio, una religione dell'io che cerca al di fuori di se stesso ciò che non può trovare all'interno eppure continua sempre a cercarsi, a non aprirsi all'altro. Rosmini
identifica questo cercare nel racconto del peccato originale nel libro della Genesi, quando l'uomo cerca la conoscenza disobbedendo al comando di Dio di non toccare i frutti dell'albero. Insomma, questo sentimentalismo è veramente poi la porta del relativismo, in quanto è veramente efficace nell'ammorbidire i confini tra bianco e nero. Ecco perché si ritiene essere un pericolo veramente importante in cui, del resto, siamo già pienamente immersi. Un relativismo che, come notava san Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor (33), con la pretesa di liberarci in realtà ci tiene saldamente schiavi: "Parallelamente all'esaltazione della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di «scienze umane», hanno giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza, come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà stessa della libertà umana. Si devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale". Sempre dello stesso Pontefice possiamo ammirare l'analisi fatta nella Fides et Ratio (48): " Ciò che emerge da questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque, la constatazione di una progressiva separazione tra la fede e la ragione filosofica. E ben vero che, ad una attenta osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il cammino della verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle approfondite analisi sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e l'inconscio, sulla personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i valori, sul tempo e la storia. Anche il tema
della morte può diventare severo richiamo, per ogni pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della propria esistenza. Questo tuttavia non toglie che l'attuale rapporto tra fede e ragione richieda un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte all'altra. La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. E illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell'essere". Come detto, quando ci si riferisce in modo generico al "sentimento" si parla di quella accezione negativa dello stesso, non del sentimento come slancio dell'essere creato verso l'Essere creante. Naturalmente la religione non è solo ragione, noi siamo fatti di emozioni e sentimenti oltre che di ragione, ma il loro sfruttamento deleterio non porta ad una vera conversione del cuore, ma ad una sorta di pericolosissima malattia spirituale. Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI (oggi santo), in una lettera pastorale alla Arcidiocesi di Milano nella Quaresima dell'anno 1957 affermava: " Occorre una riabilitazione razionale del senso religioso. Dobbiamo comprendere come esso sia non solo parte naturale e spontanea, ma legittima, della psicologia umana; e non solo legittima, ma parte necessaria e bellissima. È stato troppo confuso con forme inferiori dello spirito, imperfette, infantili, sentimentali, ingenue, superstiziose; bisogna assegnargli il posto e la funzione che gli sono dovuti. L'uomo insensibile alla religione non è un essere affrancato da un antico complesso d'inferiorità; è lui stesso un essere diminuito e mortificato. La libertà maggiore, di cui sembra godere, è quella dell'ignorante che non conosce le regole del gioco e se ne spaccia maestro. Bisogna ricordare tutto questo per avere un'immensa riverenza per il fanciullo. Già gli è dovuta come nuova e tenera creatura della terra; ricordate il saggio pagano Giovenale: “Grande rispetto è dovuto al fanciullo"". Riprendo alcuni passaggi da un interessante articolo che si trova online [2]: " Secondo il «Dizionario di Teologia Dommatica» pagg. 308 e 309, alcuni
«ritengono che il sentimento deriva da una facoltà affettiva o emotiva distinta sia dalla facoltà volitiva ( motiva) sia dalla facoltà percettiva-intellettiva; altri riducono i sentimenti a «moti e fenomeni psicologici»; infine altri ne fanno «delle funzioni rappresentative o intellettive». La teoria scolastica formulata dall’Aquinate sulle tracce di Aristotele: «nonostante l’antichità, presenta le migliori garanzie di verità» ( ivi.). Nell’uomo, quindi, ci sarebbero «due sole facoltà psichiche: la conoscitiva e l’ appetititiva», ognuna delle quali può essere sensibile o soprasensibile(quindi spirituale). Dice il Dizionario: «Si ha quindi la zona sensitiva con gli organi sensori, le sensazioni e le passioni, che appartengono insieme al corpo e all’anima che lo informa. Da essa si passa alla zona spirituale, in cui funzionano intelletto e volontà, che sono facoltà immateriali. Propria delle facoltà sensitive è la sensazione, che da impressione passiva del mondo esterno sui sensi diventa percezione dell’oggetto e sua rappresentazione ( fantasma – immagine), cui corrisponde nella facoltà appetitiva il movimento verso l’oggetto percepito, ossia quell’impulso accompagnato da emozione fisica, che suol chiamarsi passione (amore, odio, gioia, tristezza ecc.)». Quale spiegazione poteva meglio disegnare il movimento verso l’oggetto percepito, ossia quell’impulso accompagnato da emozione fisica? Ancora: «Come l’appetito sensitivo ha le sue passioni subordinate alle rappresentazioni sensibili, così l’appetito razionale o volontà ha le sue affezioni subordinate alle rappresentazioni intellettive ( concetti-idee). Tra queste affezioni della volontà va collocato il sentimento, il quale pur risiedendo in una facoltà spirituale, come la volontà, ha ripercussioni nella zona sensitiva e, a somiglianza della sensazione, ha insieme carattere passivo e attivo, in quanto può dirsi impressione ordinata ad una azione» ( ivi.)". Poi l'articolo prosegue parlando più specificamente del sentimentalismo: "Spiega il Dizionario: «Indefinita è la gamma dei sentimenti, che ha alla base l’amore». Per esempio, il sentimento religioso «nasce dalla conoscenza di Dio Creatore, che ispira all’uomo umile soggezione, adorazione, timore, soprattutto amore». Secondo la dottrina cattolica, il Magistero, « il sentimento religioso non precede, ma accompagna e segue la conoscenza di Dio ed è energia preziosa per lo sviluppo della pietà e della perfezione spirituale». Il sentimento, dunque, non può precedere la conoscenza di Dio, che noi abbiamo correttamente illustrata dal Magistero della Chiesa, ma deve seguire la guida ( Chiesa docente) che opera per la santificazione dell’uomo così come abbiamo visto in precedenza (insegnamento, Sacramenti, governo, etc…). Purtroppo dal dannato Luteranesimo in avanti, « il sentimento è diventato per molti l’unica o la
principale fonte della religione ridotta a una semplice esperienza psicologica individuale ». Questa « esperienza religiosa» è oggi, dal comune fedele (sovente ignorante, in buona o cattiva fede), « elevata a criterio di conoscenza e di vita etico religiosa »". Molti parlano della religione meramente come una "esperienza", come se essa si risolvesse soltanto in un incontro emotivo che non necessita di una base razionale. Ma in realtà è vero che si fa una esperienza di Dio, ma essa non è al di fuori della nostra capacità razionale, almeno nei suoi dati conoscitivi immediati, come ci insegna il Concilio Vaticano I. Questo problema del sentimentalismo è naturalmente molto più grande della sua influenza nella Chiesa stessa. Come dice Philippe Muray: " Siamo affetti da un bene incurabile". Molto interessante questo testo di Muray, da leggere per avere davanti agli occhi una visione completamente privata delle specifiche imposizioni della narrativa dominante. Leggere passaggi come quello che segue, mi rendo conto, può certo dare fastidio ad alcuni: " Ah! Le opere dei Misericordiosi! Oggi sono i cantanti, gli attori, gli sportivi, i creativi della pubblicità, sono loro, lo sappiamo, i veri modelli del nuovo esercizio di apologetica spettacolare. Vi sbattono in faccia il loro entusiasmo senza colpo ferire, con così tanto trasporto, si lanciano con così tanto fervore contro la droga, contro la miopatia congenita, contro le alluvioni, contro la fame nel mondo, per i diritti dell’uomo, per salvaguardare l’esistenza dei curdi, e con toni così convincenti, partecipi, commossi, che anche voi avete la sensazione, nel vederli scagliare le loro frecce coraggiose in pertugi tanto inesplorati, anche voi credete, per un attimo, che quelle Cause le abbiano scoperte loro. Che spettacolo palpitante! Management degli affetti speciali! Predatori del Bene perduto! Telefono azzurro dei Perseguitati! È troppo, vi prego, abbiate pietà di me!" [3]. Oggi tutto deve essere ridotto allo zuccheroso, al buonismo che è falso e ipocrita ed il sentimentalismo per tutto questo è perfetto. Non c'è di meglio per scardinare la ragione e ciò che è giusto e sbagliato, per fare in modo che il bianco non sia proprio bianco, ma forse anche nero. Ma questo "bene" di cui parla Muray, non è certo il vero bene, semmai lo potremmo chiamare "buonismo", con un nome che meglio riconosciamo. Continua Muray: " Eh sì, il Bene ha invaso tutto; un Bene un po’ speciale però, elemento che
complica ulteriormente le cose. Una pagliacciata di Virtù, o meglio, più esattamente: quello che resta di una Virtù non più pungolata dalla furia del Vizio. Un Bene riscaldato" [4]. Certo, veramente "un bene riscaldato", non un bene vero, reale, ma un bene di seconda mano, come il pane che oramai non è più buono e che cerchiamo di riusare mettendolo al forno per farlo ridiventare caldo. Ma questo bene non si scalda e non ci scalda, perché non è il vero bene che è basato sulla verità delle cose, ma è una menzogna e il sentimentalismo è la sua arma più potente. Oggi siamo figli di verità di seconda mano, spesso più confinanti con la menzogna: " La vita si riduce oggi a ciò che ne resta in apparenza, la ferma esigenza di «verità» altro non è naturalmente che l’ennesima illusione ottica, un altro effetto discorsivo, un’ulteriore velleità di stile, un modo di dire come un altro. La «verità» spiattellata negli studi televisivi ha più o meno la stessa utilità dei farmaci scaduti o delle tonnellate di burro perossidato che l’azione umanitaria scarica sui paesi in stato di povertà assoluta. Dovete crederci e basta. La verità vera non vi appartiene" [5]. E non vi chiedete come mai non è possibile dire che una mela è una mela o che 2+2 fa ancora 4. Questo fa parte di quello che dobbiamo, anzi DOBBIAMO credere, una narrativa che ci viene imposta e che ci lascia poca manovra: " La libertà di pensiero è sempre stata una malattia. Oggi, finalmente, possiamo dirci completamente guariti. Chi non declama il catechismo collettivo è additato come pazzo. Mai come oggi il gregge di coloro che guardano scorrere le immagini ha temuto che un minimo scarto, una variazione, potessero danneggiarlo. Mai come oggi il Bene è stato sinonimo di una condivisione così assoluta" [6]. Insomma, come dice sempre lo stesso Muray, "il bene genera disastri orribili". Non dimenticate che questo devastante buonismo necessita del sentimentalismo, che ammollisce gli animi, li rende docili. Ma questo non è mai stato il vero cattolicesimo, che è sempre stato forte e virile. Anche le gradi donne nella Chiesa, come Maria SS.ma, Santa Teresa d'Avila, Santa Caterina da Siena e moltissime altre, erano virili proprio perché pienamente donne, non mascoline. Virile qui è una qualità che è propria del maschio ma la si intende anche, prescindendo dal sesso, come sinonimo di forza interiore, di coraggio, di risolutezza. In questo senso possiamo definire virili anche certe donne, non
certamente come copie dei maschi, cosa che purtroppo è stato un portato di certo femminismo che ha preteso le donne essere come gli uomini, quando in molti sensi esse sono sempre state molte meglio. Eppure ecco cosa genera quel bene di cui parla Muray, un bene falso che non si basa sui dati di fatto della natura. Il sentimentalismo è entrato nella musica sacra anche attraverso la musica pop, che si rivolge ad un pubblico molto ampio e che con il sentimentalismo cerca di sollecitare le nostre facoltà inferiori, come diceva Montini appena sopra, nel rimanere ad ascoltare quel dato genere di canzoni per lungo tempo, in quanto il sentimentalismo è come una droga: ti sembra che ti fa bene, ma in realtà ti lascia peggio di prima. Il sentimentalismo nel canto liturgico, non un fenomeno nuovo e certamente era molto presente nella musica sacra del XIX secolo (e anche in quelli precedenti, per verità, in una certa misura) influenzata dall'opera, è poi entrato nel XX secolo anche grazie ad alcune proposte musicali di alcune associazioni che tentavano di reagire alla musica sacra di stampo operistico. Negli ultimi decenni questo sentimentalismo si è fatto signore ed imperatore delle nostre liturgie, grazie all'abbraccio mortale fra due entità che sarebbero state destinate a rimanere ben distinte: il canto liturgico e il canto popolare. L'uno che doveva rappresentare l'oggettività della liturgia e l'altro l'espressione della devozione popolare. Le due entità, valide nei loro rispettivi ambiti, sono state confuse grazie alle applicazioni distorte della Sacrosanctum Concilium, applicazioni distorte che si ritrovano già nella Musicam Sacram del 1967, documento che ha più di 50 anni dalla sua promulgazione e che dovrebbe essere riletto oggi alla luce dei mutamenti intercorsi e dei problemi irrisolti di questo lungo ed interminabile post concilio. Ecco l'importanza di tenere presente come modello il canto gregoriano o la grande polifonia, che sono un mix perfetto di sentimento e oggettività liturgica. Ecco l'importanza che aveva nella sana tradizione la complementarità fra canto liturgico e canto popolare, una complementarità che non andava barbaramente confusa. Ogni compositore sa come rimestare nel sentimentalismo se vuole, ci sono dei giri armonici, delle soluzioni melodiche che si usano con parsimonia proprio per evitare questo rischio, allo stesso modo in cui si dosa lo zucchero per non rischiare malattie. Ma purtroppo noi oggi viviamo questa sorta di "alta glicemia spirituale", per cui molti dei nostri canti sono così impregnati di sentimentalismo che, di fatto, impediscono di elevarsi pur a coloro che hanno la sensazione che in quel momento stanno pregando profondamente, in realtà non rendendosi conto che stanno solo celebrando se stessi. Lo dice bene Corrado Gnerre, in un passaggio di un libro dedicato al '68:
" L’uomo ha in sé una gerarchia che deve necessariamente rispettare pena la sua autodistruzione. Essa può essere simboleggiata da una piramide, dove alla base vi sono gli istinti, nella linea mediana la ragione e al vertice la volontà. Facciamo un esempio. Gli istinti ci spingono a bere. Se non ci sono elementi che ce lo impediscono dobbiamo seguire gli istinti altrimenti rischieremmo di morire disidratati. Cambiamo l’esempio. Dinanzi a noi vi è una brocca piena di acqua ghiacciata; abbiamo da poco mangiato abbondantemente e per giunta siamo sudati. Gli istinti ci spingono a bere quanto prima e quanto più velocemente possibile. Interviene la ragione che ci dice di non bere od eventualmente di attendere per evitare di danneggiarci. Sarà poi la volontà a rendere possibile l’obbedienza alla ragione piuttosto che il seguire gli istinti. Ecco la gerarchia di cui parlavamo prima: la ragione ha bisogno della volontà e gli istinti hanno bisogno della ragione" (GNERRE 2008). Eccoci invece con questi canti che attraverso procedimenti armonici e melodici cercano sempre di appellarsi agli istinti inferiori, una sorta di "porno melodie" come mi disse un musicista di Chiesa e sacerdote. Se la gente, il famoso "popolo" che tutti nominano, viene dato solo questo tipo di nutrimento basato sul sentimentalismo, lo si fa camminare costantemente sulle sabbie mobili. Ma purtroppo questo sentimentalismo è imperante con l'illusione che in questo modo si tiene la gente in chiesa. Ma la si tiene allo stesso modo con cui la droga rende le persone tranquille. E poi, come mi è stato detto da venerandi sacerdoti, se vuoi tenere le persone in chiesa allora meglio ingaggiare delle piacenti ballerine e inscenare uno spogliarello. Ma è questo un modo valido? Naturalmente non ogni mezzo è lecito e questa musica liturgica neomelodica non fa bene a chi la produce e fa ancora meno bene a chi la fruisce. Perché il problema non è a volte nei testi, che possono anche essere presi dalla Scrittura e che è più facile denunciare quando presentano evidenti deviazioni, ma nella musica stessa, il che è più difficile da capire per chi non conosca il linguaggio musicale con una certa profondità. Per carità, in alcuni momenti dei canti vanno pure bene dei passaggi emotivamente più forti, con uno scopo ovviamente inscritto nella dinamica del canto intero. Ma quando essi divengono culmen et fons del canto intero, quando essi non sono un momento di particolare espansione ma la stessa ragione d'essere del canto stesso, quando l'emozionalismo è la scaturigine di tutto, allora c'è qualcosa che veramente non funziona. Non facciamo confusione qui: certi canti popolari, specie quelli di un tempo, erano autentiche perle di devozione, veramente si sentiva che sgorgavano da un animo popolare. Ricordo sempre, come esempio, una mattina di tantissimi anni fa, mentre partecipavo alla Messa in un paese di campagna a 60 kilometri da Roma. Durante la stessa celebrazione
si erano cantati alcuni di questi canti osceni che infestano oramai le nostre liturgie, ma alla fine le contadine, oramai anziane, avevano intonato a cappella un "O bella mia speranza", con una melodia che io non conoscevo. Rimasi veramente incantato perché vi sentivo una purezza, una autenticità, una devozione struggente alla Madre di Dio. Era vero, era qualcosa che potevi veramente capire sgorgava dai loro cuori. C'era sentimento ma non sentimentalismo, un protendersi semplice dell'animo sulle ali della preghiera. Ecco, certo io non parlo di questi canti quando me la prendo con certo canto definito come popolare. Questi canti popolari di un tempo, a volte, non ce lo nascondiamo, inclinano su un certo sentimentalismo, specie nei testi, ma hanno uno spazio nella liturgia se subordinati al vero canto liturgico, lo hanno sempre avuto. Non dobbiamo nasconderci che questo sentimentalismo è anche figlio di una cultura omosessuale che, come ampiamente visto negli ultimi decenni, è molto rappresentata all'interno della Chiesa. Bisogna anche qui distinguere, in quanto ci sono omosessuali che non amano questi sdilinquimenti e hanno temperamento più virile di molti eterosessuali. Ma qui si parla di quella fazione omosessuale con tratti di comportamento molto effeminati, che ricerca questi sfoghi sentimentalistici come necessità del proprio stato. Non dico che i canti sentimentalistici siano un prodotto della cultura gay di per se stessi, perché questo non sarebbe esatto; ma certamente questa cultura ne favorisce la sopravvivenza e la diffusione. Come detto, essi trovano anche terreno fertile in persone non educate al canto liturgico (il 99% dei fedeli, allo stato attuale). Questa ricerca della svenevolezza, del sentimento fine a se stesso, del gesto emotivo non appoggiato sulla dottrina è certamente deleterio, e lo è in un modo veramente pesante. A volte questi canti vengono resi da voci ambigue, di cui non capisci il genere sessuale. Mi viene da pensare al fenomeno dei castrati, questi cantanti vocalmente straordinari e che erano famosi per la loro capacità di provocare pianti e commozione nell'ascoltatore. Parliamo di enormi artisti. Qui non stiamo a quel livello di virtuosità, ma questa natura ambigua di alcune esecuzioni dei canti sentimentalistici che vanno per la maggiore ci induce a supporre, certamente con la necessaria prudenza, se anche la componente omosessuale che abbiamo capito essere così importante oggi nella Chiesa e contro cui si tenta di porre, inutilmente, un argine, possa aver giocato un ruolo nella loro diffusione così ampia e così capillare. Diffusione, sia ben chiaro, spesso non frenata dai responsabili ecclesiastici, ma anzi quasi favorita apertamente.
[1] ROSMINI 1957, 17.
[2] GUELFONERO, 5 maggio 2015 in https://www.radiospada.org/2015/05/il-sentimentalismo-ovvero-la-teologiadel-sentimento-che-porta-ad-eresia-e-scisma/
[3] MURAY 2017, 28.
[4] MURAY 2017, 30.
[5] MURAY 2017, 33.
[6] MURAY 2017, 36.
Quarta piaga: il dilettantismo
La quarta piaga del canto liturgico è quella del dilettantismo . Naturalmente tutte queste piaghe sono collegate e questa è diretta conseguenza delle altre. Se ad occuparsi del canto liturgico non sono persone professionalmente preparate è ovvio che il livello non può essere decente. Meglio intendersi qui sul significato che si da al termine "dilettantismo". Coloro che fanno per diletto qualcosa non devono per forza essere tecnicamente scarsi. Ci sono casi di persone che, pur facendo altro nella vita, hanno per altri motivi conseguito una ottima preparazione musicale e quindi sono più che adeguati per il ruolo che svolgono. Qui non si fa una questione di diplomi o titoli, ma del livello di preparazione per svolgere un determinato compito nella liturgia. Ci sono persone che si preparano, seguono corsi, leggono, umilmente cercano di imparare e certo queste persone non sono da disprezzare. Ma certo sarebbe meglio poter avere qualcuno che professionalmente possa coordinare tutti coloro che svolgono un servizio musicale nella liturgia. In fondo questo è stato sempre l'uso nella Chiesa. Anzi la stessa si era ben preoccupata che coloro che svolgevano un servizio liturgico avessero anche un certo comportamento, pensiamo per esempio ai canoni del Concilio di Laodicea (IV secolo) o pensiamo alla Schola Cantorum che qualche secolo più tardi verrà costituita presso la corte papale e i cui membri erano i futuri sacerdoti, vegliati nel loro sviluppo spirituale ma anche musicale. Ma ci viene oggi detto che non si deve pagare coloro che prestano servizio come musicisti in Chiesa, facendoci intendere che non dobbiamo mettere in discussione la gratuità del nostro servizio. Perché lo stesso discorso non viene fatto al sacrestano, al fiorista, al sacerdote stesso che in un modo o nell'altro ricevono una forma di compenso proprio per il servizio per il culto divino? Se si effettua un servizio professionale non è solo giusto, ma anche profondamente cristiano, essere pagati. Non diceva il Catechismo di san Pio X che non pagare la giusta mercede all'operaio è uno dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio? Ma basta leggere il codice di Diritto Canonico per capire che questo è un abuso anche dal punto di vista della Chiesa: " Can. 231 - §1. I laici, designati in modo permanente o temporaneo ad un
particolare servizio della Chiesa, sono tenuti all'obbligo di acquisire una adeguata formazione, richiesta per adempiere nel modo dovuto il proprio incarico e per esercitarlo consapevolmente, assiduamente e diligentemente. §2. Fermo restando il disposto del can. 230, §1, essi hanno diritto ad una onesta rimunerazione adeguata alla loro condizione, per poter provvedere decorosamente, anche nel rispetto delle disposizioni del diritto civile, alle proprie necessità e a quelle della famiglia; hanno inoltre il diritto che in loro favore si provveda debitamente alla previdenza, alla sicurezza sociale e all'assistenza sanitaria". Mi sembra chiaro che la Chiesa preveda questo, e in effetti in altri paesi come Stati Uniti, Germania, Svizzera ed altri ancora, questo è considerato normale, è giusto e profondamente cristiano che la comunità sostiene anche economicamente qualcuno che presta servizio a suo favore. Ma no, da noi questo non è normale. Perché chiedere ad un laico che devo pagare quando posso avere un sacerdote, un seminarista, una suora gratis? Il problema è proprio in questa domanda e nella tristezza della risposta che certamente ne conseguirebbe. Perché non si ha veramente l'idea del valore delle cose ci si rifugia nell'essere un cinico che, come diceva Oscar Wilde, è colui che "conosce il prezzo di tutto, ma il valore di nulla". Domande di quel tipo, o dubbi di quel tipo, non dovrebbero neanche affiorare. Sarebbe come dire: perché pagare un insegnante per dare ripetizioni di inglese a tuo figlio quando puoi fartele offrire dal panettiere (che ha buona volontà ma non sa l'inglese)? Certo, ci sembra anche stupido fare una domanda del genere, ma guardate che per quanto riguarda la musica di Chiesa questo è quanto viene fatto regolarmente. Persone con studi decennali, che hanno dedicato tutta la vita alla musica liturgica, non vengono neanche considerate se in contrappeso c'è il "giovane" che suona la chitarra e magari sa far il giro di DO. Penso che ci si renda conto del livello di sottosviluppo in cui siamo. Poi capita che gli stessi che lamentano di non avere soldi per pagare un'organista non si fanno mancare altre cose. Io ho conoscenza di parroci che non avevano mai un euro per l'organista ma poi magicamente se ne ritrovavano centinaia di migliaia per altre spese. Certo, ci sono veramente le chiese povere, ma non è il caso di tutte. E questo del livello deprecabile della musica liturgica oramai è divenuto un problema generalizzato. Si ha poi paura del professionista perché di solito, al contrario dei ragazzetti con la chitarra, è uno che può essere ben informato e che può controbattere alle scempiaggini che certi sacerdoti vanno ammansendo riguardo al ruolo della musica nella liturgia. Antonio Rosmini diceva che una delle piaghe della Chiesa era l'ignoranza del clero:
" Quando si comincerà ad istruire e a formare ad un vero e grande pensare sacerdotale, gli alunni che s’accostano alla scuola della Chiesa così impreparati! Spogli dei primi rudimenti, che dovrebbero supporsi in essi, e di cui l’educazione ecclesiastica non dovrebb'essere che un progressivo sviluppo, essi non hanno neppure l’idea di ciò che vuol dire scienza del sacerdote, non sanno che cosa vogliano volendo essere sacerdoti, e che vadano a intraprendere entrando alla scuola del santuario. Ed è ancor più deplorabile che non ci si accorga, ad un primo contatto, di un tale mancanza di adeguata preparazione in coloro che si ascrivono al clero per ricevervi l’educazione di sacerdoti. Perché non si può edificare dove non c’è un terreno sodo, soprattutto trattandosi di una dottrina come quella del prete cattolico, che suppone necessariamente il cristiano; giacché il cristiano non è che il primo grado del sacerdozio. Il che è motivo per cui gli alunni del santuario portino con sé una nullità di pensare ecclesiastico, se non anzi le idee di questo secolo da essi assai bene apprese, appunto perché non ebbero altra vera scuola in contrario, e colle idee lo spirito del mondo, il quale spirito si annida per un po’ di tempo anche sotto l’apparenza di una condotta passabile di un ecclesiastico; ciò illude i superiori, i quali non s’accorgono che tale modo di pensare non basta alla Chiesa del Cristo, venuto a riempire di sé tutte le cose, e molto più le menti dei sacerdoti destinati a conoscere e far conoscere agli altri tutto il grande di quella Religione che deve conquistare e salvare l’umanità intera; quando al contrario la povertà e la miseria d’idee e di sentimenti che forma il mezzo ed il seme della moderna istituzione ecclesiastica, non fa ottenere che sacerdoti ignari di ciò che è il laicato cristiano, e di ciò che è il sacerdozio cristiano, e del vincolo sacro di questo con quello. Tali ministri di cuore tormentato, di mente gretta, sono poi quelli che, fatti adulti, sacerdoti e capi delle chiese, educano altri sacerdoti che riescono anche più fiacchi e più meschini di essi: e questi si fanno padri e istitutori ad altri decrescenti necessariamente di età in età, perché «Un discepolo non è da più del maestro», finché Iddio stesso non giunga in aiuto, muovendosi a compassionevole misericordia per la sua diletta Chiesa" (ROSMINI 1966, 3940). L'ignoranza del clero, purtroppo frutto di false idee e di un malsano rapporto con la contemporaneità, si è fatta crassa per quello che riguarda la liturgia ed enorme per quello che riguarda la musica liturgica. I Seminari in passato erano luoghi dove si svolgeva anche una intensa vita liturgica e musicale, cantando opere della grande tradizione della Chiesa. Questo non significava che tutti i sacerdoti poi divenivano musicisti, ma significava che tutti avevano un gusto musicale ben orientato per le cose della liturgia. Quando ero a Macao (Cina) ho spesso
collaborato con gli ex alunni del Seminario di San Giuseppe, istituzione storica della cittadina. Molti di loro non sono divenuti sacerdoti ed alcuni lavorano nella industria del gioco d'azzardo, quanto di più lontano dalla vita sacerdotale (a meno che non si intenda il gioco d'azzardo nel senso pascaliano della scommessa). Eppure ricordo che ancora si incontravano - uomini adulti, anziani - per cantare le composizioni polifoniche e in latino dei loro maestri di musica nel Seminario, riconoscevano (quasi tutti cinesi!) che questa era la musica per la celebrazione, non altra. Eppure qui non stiamo parlando di "fanatici tradizionalisti", ma di gente che poi nella vita aveva preso tutt'altra strada. Ma quella formazione musicale profonda non li aveva (e non li ha) mai abbandonati. Racconto un episodio significativo che mi è capitato anni fa, al tempo in cui collaboravo con la rivista La Vita in Cristo e nella Chiesa. Avevo scritto un articolo sempre battendo su questi temi (cioè del dovere di pagare coloro che svolgono un servizio professionale nella liturgia) ed ecco un sacerdote che mi risponde su un altra rivista, Vita Pastorale. Leggiamo la sua lettera: " Sono rimasto sorpreso e confuso da un articolo ("Cieli e terre nuove") pubblicato sulla rivista di animazione liturgica La vita in Cristo e nella Chiesa a firma del maestro Aurelio Porfiri (novembre 2005, pp. 60-61). Egli, in merito alla partecipazione ai servizi liturgici, afferma, giustamente, ciò che l’OGMR nella terza edizione ribadisce: «Tutti perciò, sia ministri ordinati sia fedeli laici, esercitando il loro ministero o ufficio, compiano solo e tutto ciò che è di loro competenza» (n. 91). Troppi, infatti, fanno tanto, troppo e spesse volte, male. La stessa Chiesa mai si stanca di chiedere con forza ai laici di formarsi, per meglio qualificare l’annuncio, e le tante iniziative messe in campo dalle varie diocesi lo testimoniano. Una formazione che, a dire il vero, lo stesso maestro sottolinea con fermezza e convinzione, sino al punto che introduce un concetto di preparazione e professionalità secondo il quale l’animatore musicale, che deve occuparsi «dell’edificazione del programma musicale di ogni comunità», debba essere remunerato perché «offre un servizio professionale e dedica molto tempo a preparare il programma (!), fare le prove (!), preparare le parti(!), confezionare i foglietti per i canti (!)». A supportare le sue tesi cita la sua personale esperienza di director of music della chiesa dei cattolici di lingua inglese in Roma, dove, apprendiamo con piacere che «la chiesa è sempre piena, tutta l’assemblea partecipa nel canto». Sorvolo sul lungo spot personale dove, tra l’altro, apprendiamo ancora che non ci vuole nessuna grande cifra per retribuire un animatore musicale. Sciocchi noi che lo abbiamo timorosamente pensato. Ora io mi chiedo: se, come dice ancora una volta l’OGMR al n. 97, «i fedeli non
rifiutino di servire con gioia il popolo di Dio, ogni volta che sono pregati di prestare qualche ministero o compito particolare nella celebrazione», qualche conto inevitabilmente non torna. Il concetto di servizio gratuito, secondo il quale nulla va fatto per il proprio tornaconto, non avrebbe più motivo di essere. Se dovessi retribuire qualsiasi persona per un servizio prestato nelle nostre comunità, piccole o grandi che siano, avrei non poche difficoltà a guardare negli occhi coloro che lavano l’aula liturgica, coloro che servono un pasto caldo a persone che non ne hanno, coloro che si preparano con diligenza per annunciare la parola ai bambini e ai giovani, coloro che prestano servizio all’altare. Mi fermo e mi scuso, ma non sono riuscito a sintetizzare più di quello che ho fatto". A questa lettera, dove si evince che il sacerdote fa confusione fra servizio professionale e volontariato, si potrebbe anche rispondere che, pur parlando di servizio gratuito, lui non si rende conto che in realtà è il primo ad essere retribuito, avendo dalla Conferenza Episcopale Italiana uno stipendio, magari pure modesto (come tante persone, del resto) che gli permette di compiere il suo servizio di parroco e potendo contare sulle offerte dei fedeli, per poche che siano. E perché non dice le stesse cose all'elettricista che gli va a riparare l'impianto luce, al contadino che gli vende il vino per la Messa, all'azienda elettrica che gli fornisce la luce per tenere la chiesa illuminata? Quale è la ragione della sua sorpresa e confusione, quella di scoprire che è giusto compensare onestamente un professionista o qualcuno preparato per un servizio che fa alla comunità? Come si può servire la comunità con libertà interiore, quando anni di studi e di spese ingenti per gli stessi rimangono senza frutto, costringendo un direttore di coro o un'organista ad arrabattarsi per mantenere se stesso e la sua famiglia? Ma lasciamo stare le mie considerazioni e leggiamo insieme la risposta che a questa lettera, nello stesso numero della rivista, diede Padre Silvano Sirboni, noto liturgista: " La proposta che sembra suscitare stupore non è in contrasto né con la gratuità del servizio liturgico, né con la tradizione storica. D’altra parte essa non riguarda tutte le chiese, ma soltanto quelle dove il servizio musicale esige una dedizione a tempo pieno o quasi (e le entrate permettano questo onere economico!). Caso emblematico è il servizio prestato dalla "Cappella Sistina". Nelle nostre parrocchie la cura del luogo di culto è in genere affidata al volontariato. Un servizio gratuito che, nelle grandi chiese o santuari, non è affatto oscurato o reso inutile dalla presenza di un sacrista che, regolarmente stipendiato, serva ugualmente con gioia e amorosa dedizione il popolo di Dio (...)".
Ma insomma, come mai è così difficile capire quello che padre Sirboni, pur se fra molte prudenze, afferma? A cosa servono i tanti documenti sulla dottrina sociale della Chiesa Cattolica quando questa dottrina sociale non è applicata nella Chiesa stessa? Come si può pensare che il nostro culto sarà di livello elevato quando ci si affida alla retorica del giovanilismo (su cui ci si dovrebbe dilungare, ma non lo si può fare qui). Io non ho mai detto che chiese senza mezzi debbano impiegare organista e coro di livello professionale se non è possibile, ma anche in quel caso si può trovare una forma di collaborazione magari solo con un'organista o un cantore. Ma il problema qui non è dell'organista o del coro o del cantore, ma è una mentalità che non posso che definire come disonesta: anche nelle grandi Basiliche, nelle chiese Cattedrali che i mezzi li hanno, avendo spesso in dote possedimenti e beni vari, ci sono i soldi per molte cose, a partire dagli stipendi vari per canonici, beneficiati, assistenti, cerimonieri, ma il compenso per i musicisti, guarda caso, manca sempre. Io mi chiedo come fanno negli Stati Uniti anche semplici parrocchie a stipendiare i musicisti con tutti i benefici di un lavoro regolare quando qui da noi questo, per motivi vari, sembra quasi impossibile? I soldi spesso ci sono, quello che manca è il senso della giustizia, il dovere etico verso la dignità del lavoro, l'amore per la dignità del culto. Sembra oramai quasi un luogo comune che chi fa un servizio per la liturgia in modo professionale non ha diritto ad un compenso. Hanno tentato nel passato di mettere in atto un contratto che almeno garantisse una certa copertura per coloro che dedicano corpo e anima al servizio musicale nella liturgia...ma niente, non c'è stato nulla da fare. Ripeto: come fanno in altri paesi a garantire stipendi in parrocchie medie e piccole quando qui da noi spesso si fa fatica ad essere stipendiati pure prestando servizio in Cattedrali? A me sembra che questo sia veramente un problema che non viene poi troppo considerato, ma che in realtà è un abuso bello e buono della dottrina sociale della Chiesa: il lavoratore ha diritto alla sua mercé. Vorrei concludere questa sezione con due esperienze personali recenti. La prima quella di un sacerdote che era interessato ad avere i miei servizi in una bellissima chiesa nella zona più antica di Roma. Si è parlato un poco ma poi alla fine il sacerdote, precisando che non aveva i soldi per pagare, mi ha detto che tanto c'erano i ragazzi con la chitarra; che è come dire ad un medico che i suoi servizi non sono necessari tanto abbiamo lo sciamano (almeno lo sciamano possiede una qualche conoscenza tradizionale). Insomma, non si fa veramente distinzione fra una persona preparata e coloro che non lo sono e non lo possono essere, in quanto il loro interesse è di cantare qualche facsimile della musica commerciale, non la liturgia in se stessa. Parliamoci chiaro: questi giovani non hanno poi
colpe, le vere colpe, come detto velatamente nel documento finale nel recente sinodo dei giovani, è di coloro che mancano di educarli come sarebbe loro preciso dovere. Non lo fanno, hanno paura del loro ruolo di educatori, preferiscono fare i simpatici. Un altro esempio è in un'altra chiesa del centro storico di Roma, bellissima e piena di opere d'arte straordinarie, in cui il parroco mi ha proposto di suonare tutti i sabati ma precisando che non poteva pagarmi nulla, solo, e anche forse, un caffè a Pasqua. Ora, al parroco che era anche molto simpatico, avrei voluto fare una domanda e una affermazione; la domanda era: perché a Pasqua? L'affermazione era che a me non piace neanche il caffè. Insomma, posso veramente credere che una chiesa che possiede anche degli immobili che affitta certamente dietro un compenso economico, non possa offrire un minimo compenso (dico minimo, non sto chiedendo neanche uno stipendio) per coloro che svolgono un servizio professionale, frutto di anni e anni di studio, di spese ingenti per lezioni, libri e via dicendo? Mi scuso, ma non riesco a crederlo.
Quinta piaga: l'opposizione alla tradizione
La quinta piaga è l'opposizione alla tradizione . Vorrei chiarire che non voglio identificare qui la tradizione con i tradizionalisti, pur se alcune mie posizioni non sono lontane dalle loro. Io qui voglio intendere l'opposizione alla tradizione della Chiesa cattolica, che non appartiene ai tradizionalisti ma a tutti noi, proprio in quanto cattolici.. Questo rigetto per i tesori del passato è stata una grande tragedia, una tragedia che poi tradisce la Scrittura e il magistero. Gesù stesso ha chiarito di non voler essere un rivoluzionario, ma colui che porta a compimento qualcosa: " Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà con siderato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli" (Mt 5, 17-19). Questa logica del compimento, questo richiamarsi alla saggezza quasi naturale che potremmo descrivere con il celebre detto latino Natura non facit saltus attribuito a Gottfried Leibniz, descrive bene il modo in cui la Chiesa ha proceduto nei secoli. Quando si introdusse il canto polifonico, che veniva dal canto gregoriano, lo stesso canto gregoriano continuava ad esistere così che il modello era sempre accanto alla nuova creazione. Questa pedagogia è anche insegnata dal Concilio Vaticano II: " Per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un'accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre devono essere prese in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l'esperienza derivante dalle più recenti riforme liturgiche e dagli indulti qua e là concessi. Infine non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle
già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti" (SC 23). Questo sviluppo organico, per odio alla tradizione, non c'è stato. Anzi, si sono volutamente cancellati secoli di arte e tradizione facendo in modo che il "nuovo" nascesse sul nulla, senza un riferimento imprescindibile come quello della tradizione stessa. Naturalmente molti compositori hanno tentato di conciliare tradizione e legittimo progresso, anche con canti in lingua vernacolare, ma molto raramente questi repertori hanno avuto l'attenzione che avrebbero certamente meritato. In un articolo di Paolo Pasqualucci reperibile in rete [1] viene ben spiegato quello che la tradizione è: "Il Tridentino afferma con chiarezza che “l’integrarsi ininterrotto, da Cristo in poi fin al presente, del “tradere” e dell’”accipere”, pone sotto gli occhi di tutti il fatto della Tradizione e la legge che la comanda: ‘trasmetto ciò che ho ricevuto’”(p. 147). Conclude quindi il Tridentino professando “pari affetto e reverenza” per le fonti scritte (l’Antico ed il Nuovo Testamento, dei quali “l’unico Dio è l’autore”) e per quelle non scritte, “pertinenti sia alla fede che ai costumi, dettate dalla parola stessa di Cristo o dallo Spirito Santo e conservate dalla Chiesa cattolica per mezzo della continua successione”(ivi – DS 1501). Contro gli errori dei Protestanti, il Tridentino ribadì e precisò la natura della Tradizione: essa contiene verità che riguardano sia la fede che i costumi. La dottrina tridentina sulla tradizione, fornita del sigillo dell’infallibilità dei Concili ecumenici quando definiscono il dogma della fede o condannano in modo solenne gli errori, si può quindi riassumere nelle seguenti proposizioni esplicite: esistono la Tradizione e la Sacra Scrittura; esse sono due distinte fonti della Rivelazione, ambedue riferibili a verità da credere e da metter in pratica; ambedue da venerare con lo stesso affetto e la stessa reverenza; la Scrittura, all’origine, è Tradizione, in quanto accoglie la predicazione di Cristo, da Lui stesso consegnata agli apostoli; gli apostoli la trasmisero ad altri affinché fosse da loro ritrasmessa (p. 148). Cosa molto importante, nel dettato del Tridentino sono ricomprese anche le “tradizioni ecclesiali” ossia “quelle che dipendon direttamente dal magistero e dal governo della Chiesa e son da questa collegate con ciò ch’è doveroso e necessario credere ed operare per conseguire la vita eterna” (p. 149). Lo si deduce dalla menzione conciliare dell’azione dello Spirito Santo, sotto la cui “dettatura” le tradizioni sono giunte sino a noi, “quasi per manus traditae” o, il che è lo stesso, “continua successione in
Ecclesia catholica conservatas”. Il “trasmettere” quasi “di mano in mano”, per “continua successione” che realizza un “conservare nella Chiesa cattolica”, può riferirsi solo all’attività “dei soggetti che nella vita della Chiesa, hanno il mandato ufficiale del magistero e del governo, tra i cui compiti preminente è quello di ‘sciogliere e legare, di chiudere ed aprire’ sotto la guida costante dello Spirito Santo”(ivi). Può riferirsi solo al soggetto, all’organo che trasmette la tradizione, costituito appunto dalla Chiesa, intesa come Gerarchia ecclesiastica . E difatti nell’ecclesiologia cattolica, la Tradizione, oltre al complesso delle verità contenute nel “sacro deposito” è anche “l’organo che riceve il detto deposito con l’obbligo di custodirlo e di trasmetterlo”(p. 150). Il concetto espresso implicitamente dal Tridentino va poi integrato con quanto detto esplicitamente in quel fondamentale testo che è il Decretum Gratiani (sec. XII), che attesta (c. 5, dist. XI) esser state ricevute come “istituzioni ecclesiastiche” quelle “confermate” in base “alle scritture e alla tradizione apostolica da coloro che si sono succeduti nel magistero” (p. 149, n. 28). Il Vaticano Primo ha riproposto integralmente la dottrina tridentina (cap. 3 De fide nella costituzione dogmatica Dei Filius ), arricchendola di un significativo riferimento al Magistero della Chiesa: “Si devono pertanto credere di fede divina e cattolica tutte quelle [verità] che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata [oralmente] e che sono proposte dalla Chiesa da credersi come rivelate da Dio, sia nell’esercizio del suo magistero straordinario ( solemni iudicio ) che nell’esercizio di quello ordinario ed universale”(p. 161 – DS 3011). Deve essere chiaro, per il credente, che le due fonti della Rivelazione sono garantite unicamente dal Magistero straordinario ed ordinario della Chiesa. L’Autore sottolinea giustamente l’importanza del nesso, riaffermato dal Vaticano Primo in modo netto ed indiscutibile, tra Magistero da un lato e Scrittura e Tradizione dall’altro. Quel Concilio, infatti, “dichiara che Scrittura e Tradizione stanno su un medesimo piano, tant’è che le verità trasmesse o dall’una o dall’altra godon d’una medesima ‘nota theologica’: sono, cioè, ‘de fide divina et catholica’, rivelate da Dio e dalla Chiesa come tali riconosciute e proposte. Emerge, pertanto, la decisiva importanza, in tutta la questione, della parola magisteriale della Chiesa : da tale parola dipende la nota ‘de fide divina et catholica’”(pp. 161-162). Anche il Magistero diventa allora fonte della Rivelazione? Possiamo dire che lo diventi, ma in modo ben diverso da quello rappresentato dalle due fonti originarie. Continua infatti Mons. Gherardini: “ Alla fonte scritta ed a quella orale, può esser aggiunto, come fonte immediata , anche l’intervento magisteriale della Chiesa, tenendo conto però che tale intervento si configura come strettamente collegato con la Scrittura e la Tradizione non per identificarsi con esse, com’è stato troppo affrettatamente dichiarato, ma quale organo
autentico e divinamente istituito per la custodia, l’interpretazione e la trasmissione in ogni tempo ed in ogni luogo della divina Rivelazione”(p. 162)". Tra le tradizioni ecclesiali di grande importanza abbiamo anche quelle artistiche, liturgiche e musicali. Ora, non si faccia l'errore di pensare che questa affermazione vuole ridursi ad una sterile difesa del passato: no, non è in questo modo. Ma certamente ciò che si intende difendere sono i principi che sottostanno alle produzioni della grande arte, della grande musica, delle tradizioni liturgiche più mirabili. Come diceva una frase che ho letto un poco di anni fa, "non ciecamente contro il progresso, ma contro il progresso cieco". Da cosa viene questa opposizione alla tradizione? Certamente da una parte ci sono colpe dalla parte dei sostenitori di una tradizione non aperta al futuro, come se essa fosse chiusa in se stessa. Dall'altra non dimentichiamo influenze come quelle di un certo pragmatismo di marca anglosassone, per cui l'elemento di dottrina è meno importante dell'usare quello "che funziona" in quel momento, costruendo però un edificio che non ha una base solida. Non dimentichiamo che il Concilio si è svolto nei tormentati anni '60, quando influenze sociologiche, filosofiche e teologiche volevano abbattere il passato per dare spazio ad un avvenire che avrebbe fatto a meno dei concetti di autorità, di ordine sociale, di pensiero razionale, lucido e chiaro. Il canto liturgico che abbiamo oggi, indirettamente, è figlio del '68, di quell'atmosfera e quel clima che hanno impregnato tutto quello che ci circonda ancora oggi. Sono stati dedicati vari libri al '68. Mi sembra che l'analisi di Corrado Gnerre sia tra le più efficaci: " Dunque, il Sessantotto fu un movimento rivoluzionario che nacque per perseguire l’abbattimento di ogni forma di autorità e di vincolo giuridico e morale, ma attenzione: tanto sul piano sociale quanto soprattutto su quello individuale" (GNERRE 2008). L'analisi continua ricercando il processo storico che ha portato a questa situazione e il ruolo del '68 in questo processo: "La prima tappa è: Chiesa no -Cristo sì! Si tratta della cosiddetta Riforma protestante (meglio sarebbe definirla Rivoluzione protestante) con la quale si pretese accettare Cristo ma separandolo dalla Chiesa. La seconda tappa è: Cristo no -Dio sì! Persa la Chiesa, si perde anche Cristo. E infatti l’Illuminismo partorì il deismo, ovvero la convinzione che Dio esiste ma sarebbe così lontano da non preoccuparsi dell’uomo. Dunque Dio sì, ma Cristo no; Cristo che è
appunto il Dio che si rivela. La terza tappa è Dio no, uomo sì! Perso Cristo, si perde anche Dio. Il marxismo ha parlato di ateismo “scientifico” e ha preteso farlo affermando che solo negando Dio si possa affermare l’uomo. La quarta tappa è Uomo no! Perso Dio, si perde anche l’uomo. Questa è una tappa che si esprime tanto nella postmodernità quanto in un evento che a nostro parere s’inserisce bene nella postmodernità: il Sessantotto" (GNERRE 2008). Ora, la Chiesa si è premunita contro i pericoli insiti in questo processo? Purtroppo non abbastanza, anzi si è esposta proprie a questi venti, a queste correnti, con le famose o famigerate Messe Beat, che hanno cominciato ad imperversare dagli anni '60. Un tentativo di conciliare quello che era sacro con quello che, fatte salve le intenzioni dei partecipanti, era radicato nel diabolico. Se Dio mi da salute (il che non è poi sempre scontato), vorrò scrivere la storia di quel momento in cui prese vita la cosiddetta Messa Beat, parlando dei protagonisti, non solo fra gli esecutori, in fondo i più innocenti, ma specialmente fra gli ecclesiastici che l'hanno favorita, promossa, organizzata. In effetti leggendo le cronache dell'epoca e alcuni interessanti testi disponibili sull'argomento, non si può che rimanere basiti di fronte alla incomprensione verso le caratteristiche della musica liturgica che era presente anche in alcuni elementi del clero. Certo, una minoranza, ma una minoranza che, come accade in queste situazioni, sapeva molto bene far valere le proprie ragioni e promuovere con grande efficacia la propria agenda. Ecco che le idee propagate da uno sparuto numero di persone divengono poi patrimonio (si fa per dire) di tutti. Se ci stacchiamo dalle nostre radici, nulla può venire di buono. Non si può crescere come rami rigogliosi se si tagliano le radici dell'albero. Si è asserito che si doveva fare le cose semplici per andare incontro al popolo, non comprendendo che in questo modo si tradiva il popolo nel modo più umiliante. Pensateci bene: se invitate qualcuno a casa vostra che fate? Togliete l'argenteria buona e lo accogliete con i piatti di plastica tanto l'invitato non apprezzerebbe dei piatti di forma più elegante? Una cosa simile si è fatta nella casa di Dio. Invitiamo la gente ad andare ma non gli diamo il meglio di quello che la tradizione ci ha donato, ma prodotti deteriori. Ed abbassiamo il livello sempre di più per incontrare un gusto che sempre cambia e che mai conosceremo pienamente perché cangiante in se stesso, non ancorato a saldi principi dottrinari. Come ho già detto in precedenza, non si vuole identificare la tradizione con il passato, ma con i principi fondanti che hanno permesso anche nel passato il fiorire di repertori di livello tanto elevato. Qui il problema, e mi ripeto, non è (solo) non eseguire questo o quel repertorio, ma il disconoscere quello che c'è alla base del
fare musica sacra. Nel 1955 Pio XII, nella Musicae Sacrae Disciplina, affermava: " A nessuno certamente recherà meraviglia il fatto che la chiesa con tanta vigilanza s'interessi della musica sacra. Non si tratta, infatti, di dettare leggi di carattere estetico o tecnico nei riguardi della nobile disciplina della musica; è intenzione della chiesa, invece, che questa venga difesa da tutto ciò che potrebbe menomarne la dignità, essendo chiamata a prestare servizio in un campo di così grande importanza qual è quello del culto divino. In ciò la musica sacra non ubbidisce a leggi e norme diverse da quelle che regolano ogni arte religiosa, anzi l'arte stessa in generale. Invero non ignoriamo che in questi ultimi anni alcuni artisti, con grave offesa della pietà cristiana, hanno osato introdurre nelle chiese opere prive di qualsiasi ispirazione religiosa e in pieno contrasto anche con le giuste regole dell'arte. Essi cercano di giustificare questo deplorevole modo di agire con argomenti speciosi, che pretendono far derivare dalla natura e dall'indole stessa dell'arte. Vanno, infatti, dicendo che l'ispirazione artistica è libera, che non è lecito sottoporla a leggi e norme estranee all'arte, siano queste morali o religiose, perché in tal modo si verrebbe a ledere gravemente la dignità dell'arte e a ostacolare con vincoli e legami il libero corso dell'azione dell'artista sotto il sacro influsso dell'estro. Con tali argomenti viene sollevata una questione senza dubbio grave e difficile, che riguarda qualsiasi manifestazione d'arte e ogni artista; questione che non può essere risolta con argomenti tratti dall'arte e dall'estetica, ma che invece dev'essere esaminata alla luce del supremo principio del fine ultimo, regola sacra e inviolabile di ogni uomo e di ogni azione umana. L'uomo, infatti, dice ordine al suo fine ultimo - che è Dio - in forza di una legge assoluta e necessaria fondata sulla infinita perfezione della natura divina, in maniera così piena e perfetta che neppure Dio potrebbe esimere qualcuno dall'osservarla. Con questa legge eterna ed immutabile viene stabilito che l'uomo e tutte le sue azioni devono manifestare, a lode e gloria del Creatore, l'infinita perfezione di Dio e imitarla per quanto è possibile. L'uomo, perciò, destinato per natura sua a raggiungere questo fine supremo, nel suo operare deve conformarsi al divino archetipo e orientare in questa direzione tutte le facoltà dell'animo e del corpo, ordinandole rettamente tra loro e debitamente piegandole verso il conseguimento del fine. Pertanto anche l'arte e le opere artistiche devono essere giudicate in base alla loro conformità con il fine ultimo dell'uomo; e l'arte certamente è da annoverarsi fra le più nobili manifestazioni dell'ingegno umano, perché riguarda il modo di esprimere con opere umane l'infinita bellezza di Dio, di cui essa è quasi il riverbero. Per la qual cosa, la nota espressione "l'arte per l'arte" - con cui, messo in disparte quel fine che è insito in ogni creatura,
erroneamente si afferma che l'arte non ha altre leggi che quelle che promanano dalla sua natura - o non ha valore alcuno o reca grave offesa a Dio stesso, creatore e fine ultimo. La libertà poi dell'artista - che non è un istinto cieco nell'azione, regolato solo dall'arbitrio o da una certa sete di novità - per il fatto che è soggetta alla legge divina, in nessun modo viene coartata o soffocata, ma piuttosto nobilitata e perfezionata. Ciò, se vale per ogni opera d'arte, è chiaro che deve applicarsi anche nei riguardi dell'arte sacra e religiosa. Anzi l'arte religiosa è ancor più vincolata a Dio e diretta a promuovere la sua lode e la sua gloria, perché non ha altro scopo che quello di aiutare potentemente i fedeli a innalzare piamente la loro mente a Dio, agendo per mezzo delle sue manifestazioni sui sensi della vista e dell'udito. Perciò l'artista senza fede o lontano da Dio con il suo animo e con la sua condotta, in nessuna maniera deve occuparsi di arte religiosa; egli, infatti, non possiede quell'occhio interiore che gli permette di scorgere quanto è richiesto dalla maestà di Dio e dal suo culto. Né si può sperare che le sue opere prive di afflato religioso - anche se rivelano la perizia e una certa abilità esteriore dell'autore - possano mai ispirare quella fede e quella pietà che si addicono alla maestà della casa di Dio; e quindi non saranno mai degne di essere ammesse nel tempio dalla chiesa, che è la custode e l'arbitra della vita religiosa. L'artista invece che ha fede profonda e tiene una condotta degna di un cristiano, agendo sotto l'impulso dell'amore di Dio e mettendo le sue doti a servizio della religione, per mezzo dei colori, delle linee e dell'armonia dei suoni farà ogni sforzo per esprimere la sua fede e la sua pietà con tanta perizia, eleganza e soavità, che questo sacro esercizio dell'arte costituirà per lui un atto di culto e di religione, e stimolerà grandemente il popolo a professare la fede e a coltivare la pietà. Tali artisti sono stati e saranno sempre tenuti in onore dalla chiesa; essa aprirà loro le porte dei templi, poiché si compiace del contributo non piccolo che essi con la loro arte e con la loro operosità danno per un più efficace svolgimento del suo ministero apostolico. Queste leggi dell'arte religiosa vincolano con un legame ancora più stretto e più santo la musica sacra, poiché essa è più vicina al culto divino che le altre arti belle, come l'architettura, la pittura e la scultura; queste cercano di preparare una degna sede ai riti divini, quella invece occupa un posto di primaria importanza nello svolgimento stesso delle cerimonie e dei riti sacri. Per questo la chiesa deve con ogni diligenza provvedere a rimuovere dalla musica sacra, appunto perché questa è l'ancella della sacra liturgia, tutto ciò che disdice al culto divino o impedisce ai fedeli di innalzare la mente a Dio". Da questa lunga citazione che ho voluto riportare per intero, si deduce che l'artista deve essere esso stesso non solo capace di produrre arte (musica, pittura,
scultura, etc.) che possa definirsi come "sacra", ma parte di una storia sacra, parte di una tradizione artistica che lo renda capace di poter padroneggiare quel linguaggio con cui sarà in grado di esprimere al meglio quella espressione liturgica che la Chiesa gli chiede, aprendogli i templi. L'atteggiamento anti tradizionale, non può che essere deleterio e non può che portare alla disfatta, magari dopo qualche fuoco di paglia. Purtroppo la situazione non volge al meglio, anzi sembra sempre più deperire, come vediamo da un articolo su Il Foglio di Matteo Matzuzzi (3 febbraio 2017) [2] che commenta su un convegno svoltosi in Vaticano sulla musica sacra: "Insomma, la prospettiva delineata non è quella di sostituire l'Alleluia delle lampadine (così diffuso soprattutto nelle cosiddette messe dei bambini, dove i sacerdoti si mettono a simulare l'atto di avvitare, appunto, una lampadina, alternando tale gesto a diffusi applausi) con Bach, ma di fare piazza pulita di quel che si sente cantare nelle liturgie animate dalle corali dei movimenti. Anche perché è dura immaginare i cori parrocchiali guidati da anziane pensionate alle prese con le partiture di Bach. E forse non vedremo neanche spopolare il repertorio del mitologico Fratello Metallo, detto anche Frate Rock, appassionato di heavy metal e autore di ben 16 album su quello stile. L'ultimo è Puntine metalliche. Così come avranno vita difficile i frati francescani che tempo fa improvvisarono flash mob sulle strade cagliaritane e i parroci che ballano e cantano "Mamma Maria" dei Ricchi e poveri in non meglio precisati momenti liturgici saltando di qua e di là tra l'altare e l'ambone come neanche fanno i concorrenti di Ballando con le stelle". Non ci dobbiamo ingannare: ci siamo dati anima e corpo alla profanità, come cattolici. Si è annullata la distanza che esiste fa ciò che c'è al di fuori della Chiesa e quello che invece è lecito nel tempio di Dio. Non si vince il mondo, ma ci si consegna ad esso senza condizioni. Per fare questo non c'è modo più efficace che respingere la tradizione come qualcosa che da fastidio, che non ci riguarda, a cui non dobbiamo più dare attenzione. Se questa è la premessa, la conseguenza non può che essere la triste situazione che ci troviamo a dover affrontare. In occasione della consegna di un dottorato honoris causa da parte di una istituzione musicale polacca nel 2015, il Papa emerito Benedetto XVI aveva tra l'altro affermato: "Negli anni del post-concilio, su questo punto si era manifestato con rinnovata passione un antichissimo contrasto. Io stesso sono cresciuto nel Salisburghese segnato dalla grande tradizione di questa città. Qui andava da sé che le messe
festive accompagnate dal coro e dall’orchestra fossero parte integrante della nostra esperienza della fede nella celebrazione della liturgia. Rimane indelebilmente impresso nella mia memoria come, ad esempio, non appena risuonavano le prime note della Messa dell’incoronazione di Mozart, il cielo quasi si aprisse e si sperimentasse molto profondamente la presenza del Signore. - E grazie anche a voi, che mi avete fatto sentire Mozart, e anche al Coro: dei grandi canti! - Accanto a questo, tuttavia, era comunque già presente anche la nuova realtà del Movimento liturgico, soprattutto tramite uno dei nostri cappellani che più tardi divenne vice-reggente e poi rettore del Seminario maggiore di Frisinga. Durante i miei studi a Monaco di Baviera, poi, molto concretamente sono sempre più entrato all’interno del Movimento liturgico attraverso le lezioni del professor Pascher, uno dei più significativi esperti del Concilio in materia liturgica, e soprattutto attraverso la vita liturgica nella comunità del seminario. Così a poco a poco divenne percepibile la tensione fra la participatio actuosa conforme alla liturgia e la musica solenne che avvolgeva l’azione sacra, anche se non la avvertii ancora così forte. Nella Costituzione sulla liturgia del Concilio Vaticano II è scritto molto chiaramente: «Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra» (114). (...) A questo punto vorrei esprimere un pensiero che negli ultimi tempi mi ha preso sempre più, tanto più quanto le diverse culture e religioni entrano in relazione fra loro. Nell’ambito delle diverse culture e religioni è presente una grande letteratura, una grande architettura, una grande pittura e grandi sculture. E ovunque c’è anche la musica. E tuttavia in nessun altro ambito culturale c’è una musica di grandezza pari a quella nata nell’ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Händel, sino a Mozart, Beethoven e Bruckner. La musica occidentale è qualcosa di unico, che non ha eguali nelle altre culture. E questo mi sembra - ci deve far pensare. Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua origine più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio. In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Cristo Gesù. Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto un incontro con la verità, con il vero creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è chiaro però anche che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla
celebrazione sacra, al mistero della fede" [3] . La musica è locus theologicus, cioè uno dei modi in cui la teologia si esprime. L'aderenza alla tradizione non è passatismo o amore del passato, ma semplicemente esigenza di lecito sviluppo sulla lezione che ci hanno dato in nostri grandi predecessori. L'aver abbandonato, anzi avversato la tradizione, ha anche poi prevenuto un sano sviluppo, in quanto non si costruisce sul nulla. Ci siamo dati mani e piedi al commerciale, alla moda, all'effimero. In realtà, poi, cosa ha portato questo costante deperimento? Abbiamo riempito le chiese? No, non ci sembra. Anzi, si legge spesso di chiese che vengono chiuse, vendute, trasformate. Insomma tutta questa opera di distruzione della tradizione per "avvicinarsi" alla gente, non ha portato a nulla, la gente non si è avvicinata, anzi si è allontanata sempre di più. Mi è capitato di recente di fare delle conferenze sul canto liturgico davanti a molti laici e ho visto facce di persone che volevano cose vere, solide, concrete, non i rimasugli delle mode che tanto clero vorrebbe ancora propinare. La tradizione non è una gabbia, dove rimanere chiusi per paura di quello che c'è fuori, ma un paio d'ali, che permette di elevarsi sopra le contingenze per raggiungere cieli più azzurri. Ricordiamo sempre che una delle ragioni di tanto sfacelo, come Rosmini aveva capito molto prima del Concilio Vaticano II, era proprio la diseducazione del clero, un clero incapace di formare buoni cristiani ad una vita liturgica santa e devota. Oggi non siamo in una situazione diversa da quella, anzi in un certo senso è molto peggiore. In conclusione, vorrei fare mia una bella riflessione del filosofo Marcello Veneziani, che forse spiega più di tanti discorsi il motivo per cui la mediocrità, al nostro tempo, prevale sulla bellezza: " Il guaio è che la bellezza sta, invece il brutto avanza, si muove, parla, fa. La bellezza è inerte, passiva, inerme, mentre il brutto avanza, incede, si agita. La bellezza è un retaggio, un lignaggio, a volte una rovina, comunque declinata al passato o sperduta nell’antico, mentre la bruttezza è un linguaggio, un modo di fare, di intendere e di volere, tra la tecnica e l’amministrazione. Questa è la nostra tragedia economica e metafisica, estetica e sociale, urbanistica e letteraria. Il bello è, il brutto diviene; il bello posa, il brutto è in moto perpetuo. Il bello attiene alla sfera dell’essere ma non a quella dell’eterno e dell’immutabile. Il brutto, invece, attiene alla sfera del fare e del divenire, ed è virale, espansivo, progressivo" (VENEZIANI 2015).
Succede proprio questo: la mediocrità ha maggiore dinamismo della bellezza, che molte volte si contenta solo di rimirare se stessa. Dobbiamo recuperare questo dinamismo della bellezza, ridare vita alla creatività anche per la liturgia ma con mezzi e in contesti diversi, servendosi delle possibilità che le nuove tecnologie ci offrono, senza esserne schiavi ma essendone fruitori consapevoli. Solo allora, forse, potremo ascoltare quel "canticum novum" di cui i salmi ci hanno parlato.
[1] In Riscossa Cristiana: https://www.riscossacristiana.it/il-vaticano-ii-e-latradizione-cattolica-una-rivoluzione-copernicana-di-paolo-pasqualucci/
[2] In https://www.ilfoglio.it/chiesa/2017/02/03/news/gianfranco-ravasimusica-sacra-bob-dylan-alleluia-chiesa-cattolica-frate-metallo-118639/.
[3] Reperibile in https://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/07/04/news/dio-lamusica-la-fede-parola-a-benedetto-xvi-85430/.
Bibliografia
Bibliografia BENEDETTO XVI (2016). Ultime conversazioni (Con Peter Seewald). Milano: Garzanti. CANNONE, Fabrizio (2012). C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner. In Corrispondenza Romana, http://www.corrispondenzaromana.it/recensionelibraria-c-fabro-la-svolta-antropologica-di-karl-rahner/ GNERRE, Corrado (2008). La rivoluzione nell'uomo. Una lettura anche teologica del '68. Verona: Fede & Cultura. MURAY, Philippe (2017). L'impero del bene. Traduzione e saggio introduttivo di Francesca Lorandini. Milano: Mimesis. PANGALLO, Mario (2008). Rosmini e Rebora. Armonia di Pensieri e Parole. Verona: Fede & Cultura. PIETRO C. (2012). Sentimentalismo e spiritualità nella liturgia. In Traditio Liturgica, http://traditioliturgica.blogspot.it/2012/04/sentimentalismo-espiritualita-nella.html ROSMINI-SERBATI, Antonio (1846). Opere edite e inedite. Novara: Tipografia e Libreria di Gerolamo Miglio. ROSMINI, Antonio (1957). Storia dell'empietà. Domodossola-Milano: Sodalitas. ROSMINI, Antonio (1966). Delle cinque piaghe della santa Chiesa. A cura di Clemente Riva. Brescia: Morcelliana. TAGLIAFERRI, Roberto (2009). La tazza rota. Il rito: risorsa dimenticata dell'umanità. Padova: Edizioni Messaggero di Padova.
VENEZIANI, Marcello (2015). Lettera agli italiani. Per quelli che vogliono farla finita con questo paese. Venezia: Marsilio. WILSON, George B. (2008). Clericalism. The Death of Priesthood. Collegeville (MI): Liturgical Press.