Dante. Storia della Commedia 8882128954, 9788882128951

L'opera su Dante di Mario Apollonio, figura di grande studioso del secolo scorso, maestro di letteratura in Univers

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Dante. Storia della Commedia
 8882128954, 9788882128951

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L'opera su Dante di Mario Apollonio, figura di grande studioso del secolo scorso, maestro di letteratura in Università Cattolica, riconsegna alla cultura italiana uno studio irrinunciabile sulla Commedia. «L'originalità intrinseca e il non essere stato letto e me­ tabolizzato a suo tempo lo rendono perfettamente fruibile oggi», scrive il curatore Carlo Annoni. Apollonio riconosce e ricostruisce la presenza del capolavoro dantesco in tutte le forme espressive della civiltà italiana ed europea lungo i secoli, fra la poesia, ovvia­ mente, il teatro, le arti figurative, la musica, il costume in genere.

ISBN

euro 48

978-88-8212·895-1

Studi 73

Mario Apollonio

DANTE STORIA DELLA COMMEDIA a cura di Carlo Annoni e Corrado Viola

INTERLINEA

Edizione promossa con patrocinio e contributo di Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Direzione generale per le Biblioteche, gli Istituti culturali e il Diritto d’autore Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Università Cattolica del Sacro Cuore, sedi di Milano e Brescia © Novara 2013, Interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-895-1 L’editore ringrazia gli eredi dell’autore e avendo attuato le necessarie pratiche di richiesta diritti resta a disposizione per eventuali omissioni In copertina: illustrazione di Gustave Doré per l’Inferno, VIII (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Sonzogno, Milano 1868)

Sommario

Come un astro senza atmosfera. Il «Dante» di Mario Apollonio (CARLO ANNONI) Nota al testo (CORRADO VIOLA)

p. VII » LVII

LETTURA DELLA COMMEDIA Prologo all’“Inferno” Tre preludi Commiato dalla gloria e dall’amore terreni Cammino verso la città e assedio Rapsodia dei Violenti La città della frode L’Inferno dell’irascibile I traditori superbi

» 3 » 17 » 27 » 35 » 49 » 67 » 77 » 107

Prologo al “Purgatorio” Ritratti La valle delle stragi Superbia Invidia Ira Accidia Avarizia Gola Lussuria Paradiso e Parnaso Trionfo e mistero

» » » » » » » » » » » »

115 121 131 145 157 165 173 177 185 195 205 213

Cielo della Luna Canto della gloria del mondo Trittico del cielo di Venere Il segno dello Spirito Il segno del Figlio Il segno del Padre «Contento di pensier contemplativi» Il trionfo della Chiesa

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229 249 257 265 279 295 303 311

La confessione Adamo e la terra Gli Angeli Empireo

p. » » »

317 327 335 341

Preambolo sulla fortuna Gli elogi funebri Le rime della dottrina Petrarca Aneddotica Boccaccio I commenti Polemiche dell’intelligenza umanistica La vulgata cinquecentesca Immagini nell’arti Sannazaro, Vida e il sincretismo romano Vico Difesa di Dante Dante nelle letterature d’Occidente Fra i poeti nuovi d’Italia Letteratura del Risorgimento De Sanctis Cronache letterarie della terza Italia

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359 367 377 389 407 415 435 447 465 473 499 505 521 533 567 597 607 615

TAVOLA BIBLIOGRAFICA

» 635

Indice dei nomi (a cura di CORRADO VIOLA)

» 661

STORIA DELLA FORTUNA

CARLO ANNONI

Come un astro senza atmosfera. Il «Dante» di Mario Apollonio

Noi, leggendo, dal golfo mistico della Commedia non possiamo trarre che poche linee di pochi temi, per non poterli tutti ad uno ad uno indicare: e seguir ciascuno nell’intreccio della polifonia significherebbe ripercorrere dal cerchio al centro l’intero poema. Ché ognuno consuona con tutti e altrove non sta l’unità intrinseca dell’arte dantesca, se non in questa universale e organica rispondenza delle immagini in una. (MARIO APOLLONIO, Dante. Storia della «Commedia»)

Leggendo le prime pagine di questo Dante capita di imbattersi in un errore di stampa, che ricorre di nuovo anche più avanti e che però verrà assunto, paradossalmente, nei termini di un’indicazione di metodo.

Il maestro delle parentesi e il sermo familiaris Voglio dire che l’autore apre talvolta delle parentesi le quali non sempre vengono chiuse; ma, si badi, l’apparente trascuratezza riflette in realtà, a livello meccanico, un’abitudine mentale dello studioso e una prassi didattica del professore: una specie di odio dei confini, detto con molta approssimazione, e il gusto del digredire, apparentemente senza limite, come il volare e il poggiare dell’ippogrifo di Astolfo o lo spaziare di Argo cent’occhi entro l’intero cerchio dell’orizzonte: non bisognerebbe correggere, insomma, poiché la menda esprime uno stilema e un abito mentale.1 Tutto significa, dunque: si svelano così paesaggi poetici fuori dell’ordinario, anche se resta sempre la difficoltà del ricondurre ad unum, che pure il testo esige, e del contornare i margini per una buona visione d’insieme; e pare ci si debba rassegnare, in conclusione, a lasciare dei nodi al loro intrico e dei fili non ricondotti nel tessuto. Non sempre, peraltro, ed è un’altra delle caratteristiche di quest’opera voluminosa: il primo ingresso nella quale appare senza dubbio poco agevole, ma già il secondo affascina, quando cominciano a sollevarsi le cortine del troppo denso e del troppo pieno, mentre il terzo ci spinge ai successivi, con la promessa di una specie di patto fiduciale, che cioè, alla fine, il palazzo delle parole si aprirà, cosicché il lettore vi abiterà e passeggerà per sale e sale di «ricchezza», di «gentilezza», di «antica possession d’avere», di «reggimenti belli».2 E tanto VII

infatti avviene, nel guadagno progressivo di un’indagine «che conduce a render sempre [meno estesa] la zona delle incomprensioni, sempre più scarsi i divieti all’intelligenza, sempre più penetrativo il senso, e sottile l’analisi».3 La fatica dell’andare, la periegesi del lettore, dunque, attorno all’esegesi del critico, troveranno la propria certa ricompensa, grado a grado, nella «gioia dell’insegnare e dell’apprendere»:4 fatto per il quale andrà sottolineato, fra l’altro, l’uso frequentissimo del «tu» allocutivo nella prosa di un tale monumento, abitudine che è insieme un’imitazione intenzionale di De Sanctis e la ricostituzione ideale di un’aula d’alta scuola. Oggi appare con ancora maggior chiarezza il carattere peculiare dell’operazione scientifica posta da Apollonio in quella particolare stagione critica. Si trattava, in primo luogo, di superare definitivamente l’esegesi, in sostanza frammentaria e impressionistica, avallata dalla distinzione crociana fra poesia e non poesia, la quale abbatteva a terra la cattedrale dantesca, estraendone in rilievo un florilegio di bellezze non contaminate dalla teologia del poeta e dalle categorie “cattoliche” della sua lettura del mondo. Bisognava, d’altra parte, andare anche oltre alcuni parziali superamenti delle interdizioni del filosofo napoletano: oltre il commento di Momigliano, ad esempio, troppo intriso di “aura” crepuscolare, per quanto latore di nuovi e suggestivi risultati di lettura; ed oltre il commento di Sapegno, eccellente nella delucidazione della lettera, meno significativo, e talora non sicuro, nell’accertamento dei valori d’arte. Si trattava poi, in secondo luogo, di collocare al posto debito, più che di negarli, i risultati delle ricerche delle mature e tarde scuole positivistiche, rifiutando la riduzione della persona e dell’opera di Dante all’accertamento dei fatti eruditi, dal momento che – afferma Apollonio – è sempre l’autore con la sua poesia5 a creare il tempo e la prospettiva del quadro che lo contiene e non viceversa, per numerosi che siano i nuovi realia riportati in vista dai lavori di scavo e di restauro. Valga, al riguardo, la consueta notazione di metodo impartita a lezione dal docente, in ordine al saper “proporzionare” con correttezza la ricerca: che cioè tutto quel che si viene a sapere sull’autore empirico (e su questo particolare autore empirico!) non lo illumina, ma, al contrario, ne viene illuminato, di tanto la forza modellizzante dantesca eccede, spiegava Apollonio, qualsiasi notizia le si possa raccogliere attorno. È qui indispensabile una breve collocazione cronologica, nella quale si toccherà rapidamente del maggior dantismo attorno alla metà del secolo scorso e per i vent’anni successivi, considerandolo summatim nei suoi vertici, per mostrarne la relazione con il maestro della Cattolica: il quale non giunse in tempo a versare nella propria monografia – 1951, alla data della princeps – né i risultati di Auerbach né quelli di Spitzer (i tempi di guerra e dell’immediato dopoguerra non erano del resto i più favorevoli all’immediato aggiornamento bibliografico); mentre lesse Curtius, solo quando il Dante. Storia della «Commedia» si trovava a uno stadio di elaborazione troppo avanzato per poterne tener conto. I maggiori saggi di Contini sono invece tutti, senza eccezioni di rilievo, successivi ai due volumi di Apollonio (ben conosciuto, e utilizzato e discusso è, invece, il commento einaudiano VIII

dello stesso Contini, 1939, alle Rime del poeta). Via via letto e assimilato fu poi l’insieme dei contributi danteschi di Giuseppe Billanovich, soprattutto a partire dall’instaurarsi temporale di un contiguo magistero in Università (e dunque con schede aggiunte anche nelle stampe successive alla princeps, del 1958 e del 1965).6 Molto altro tralasciamo, perché ci tocca ora scorciare in epilogo la sommaria storicizzazione, anche se riteniamo di avere detto l’indispensabile: a partire dagli anni settanta,7 presero avvio il metodo e la moda dello strutturalismo, quasi immediatamente assorbito dal sistema planetario e totalizzante delle semiologie; e la porta di questo Dante, nonché non venire riaperta, scomparve dalla vista. Si parlò, a riguardo del Dante di Apollonio, di critica ermetica, a causa dell’innegabile difficoltà di molte pagine. In realtà l’espressione, quae talis, è ossimorica, dal momento che può esistere, ed è, come ben noto, storicamente esistita, con risultati spesso assai alti, una poesia di tipo ermetico, cioè intenta a spingere agli estremi, anche vertiginosamente, il linguaggio dell’analogia, fino a farlo sconfinare nella musica, al limite della collana di parole-perle sonore. Ci troviamo interni a un troppo ovvio truismo di storiografia letteraria; con una particolarità: i critici che si vollero chiamare ed essere ermetici caddero nell’obscurisme e nel gusto di un arcanismo imprendibile (penso, si capisce, alla tipologia ben rappresentata, ad esempio, da Macrì e da Bigongiari, anche lirici in proprio, con risultati non di rado di forte suggestione ma, qualora si tratti di pagine aventi intento saggistico-interpretativo, quasi sempre di ineffabilità ai limiti dell’asemantico, con risposte alla lettura davvero ardue). Il caso di Apollonio è totalmente diverso, pur tenuto conto di alcune marche stilistiche colore del tempo (facilmente coglibili, ma non decisive), e di amicizie individuali, dal momento che, per un certo tratto, l’ermetismo, di fondo soprattutto fiorentino, e lo spiritualismo cattolico camminarono insieme. Definiamo e trasportiamo piuttosto, con esattezza concettuale, il senso della difficoltà entro i limiti della complessità, aggiungendo alla spettacolare ricchezza culturale del maestro, quanto all’ambito delle arti (tutte, e non solo quelle verbali), una preparazione storiografica e filosofica non comune, implicata nel ciclo della fondazione delle Università cattoliche in Europa e nello sviluppo imponente, lì promosso, del neo-tomismo e degli studi medievistici.9 La scrittura del Dante non conviene davvero nella categoria di una prosa quasi iniziatica; è invece ricca, questo sì, talvolta al limite dell’eccesso, interamente di seconda mano (nel senso dato all’espressione da André Compagnon): cosicché il rapporto ineludibile tra ridondanza e informazione viene largamente spostato sulla seconda polarità, mentre la prima è già non di rado collocata a un livello assai alto, quando non troppo alto. Peraltro, seppure la tessera appena introdotta appaia corretta, non è davvero insolito che, leggendo questo grande companion a Dante, avvenga l’incontro con una specie di lingua più comune, nata da una consuetudine e da un’intesa strette, orma su orma, quasi che Apollonio funga da terzo incluso, accanto al poeta fiorentino e alle sue guide; ed è proprio così, insomma: sermo familiaris ad ogni effetto, purché si intenda della specifica famiglia dei dotti.10 IX

Nella partita del dare e dell’avere è peraltro egualmente vero che, forse con altrettanta frequenza, capiti di dover cedere, almeno per un momento, le armi, quando il discorrere di Apollonio si interna in un suo chiuso latino, come il racconto di Cacciaguida a Dante (Pd XV, 39: «Ch’io non lo intesi, sì parlò profondo»); o quando l’ansia di attestare una verità critica la quale già s’intravede, mentre si sta mettendo a fuoco la precedente, fa sì che entrambe s’intorbidino (è di nuovo un rescritto di Dante, trasgredito, questa volta, dal nuovo discepolo, Pg V, 16-18: «Ché sempre l’omo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l’un de l’altro insolla»). Ci si tuffa poi, invece, quasi a risarcimento, in pagine «leggere e vaganti», le quali sembrano possedere l’aire e la naturalezza di chi ha deciso di spogliare il mantello delle troppe cose sapute e il peso degli scrupoli metodologici: pagine di pura letizia e ricche di movimenti di commedia serena, quali se ne incontrano, ad esempio, nel capitolo sulla fortuna settecentesca del poeta («Richiamare nel circolo dell’intelligenza europea, come il Romanticismo si apprestava a fare, le persone dei vecchi poeti ed opere immense […], sarebbe stato come far scendere in Piazza, dall’alto del frontone di San Pietro, le statue degli Apostoli: Voltaire e Benedetto XIV lo sapevano […]. Le smanie shakespeariane dilatate sulla faccia della terra, e la gigantomachia dantesca per dar la scalata al cielo, basta vietarle alla porta della ragionevole convivenza del genere umano: nerboruti valletti, il buon gusto e la buona creanza»);11 o nei rapidi schizzi dedicati a episodi di costume romantico, allorché la Commedia sale sulle tavole del teatro («E per cercare in qualche modo di contornare con una cornice di finzione scenica la recita dei versi, gli attori amavano travestirsi da Dante, con il lucco rosso e la corona d’alloro sulla faccia che il cerone e il nerofumo rendevano grifagna […]; e passeggiavano per il palco, declamavano i versi, fingendo di dettarli a uno scrivano, o di rimeditarli fra sé, o d’improvviso tonando»).12 Ancora: l’impegno domandato dallo stile interpretativo del maestro nasce anche dal suo caratteristico movimento di assedio verbale, un procedere a raggiera e per accumulo, modi posti in essere allo scopo di tentare da più parti l’oggetto dell’indagine; e sembra scialo, mentre il metodo deve venir piuttosto accostato a quello del compositore in musica, il quale arriva a notare l’accordo esatto sul pentagramma, dopo aver interrogato con insistenza e ripetutamente una larga parte della tastiera (e, si badi, la tastiera di Apollonio è la sua cultura, cosicché egli raggiunge la profondità cercandola, paradossalmente, nell’estensione: fascino e incanto, insomma, ma anche dura fatica del seguirlo). Debitamente caratteristica può sembrare, al riguardo di quanto appena affermato, l’analisi del canto di Pier delle Vigne, laddove l’atto interpretativo si sforza di definire la restituzione dantesca del personaggio e della sua storia, attraverso un grandinare di definizioni teatrali, come didascalie che segnano minutamente, di seguito, le svolte dell’episodio, ma non sembrano attingerne il nucleo, restando infatti nell’ambito di una verità generica e un po’ tuttodire: «tragedia», «cabaletta», «intermezzo di commedia», «farsa allegorica», «sarabanda», «ballo degli ardenti», «coro delle dignità cortigiane». In realtà, pur considerando esatta la X

lingua del teatro, appare ancora non ben precisata la scena da individuare, che è un’altra: ed ecco la via finalmente aperta da Apollonio, con le persone drammaturgiche dell’Anticristo e del secondo Pietro che appaiono nella Sacra Rappresentazione, non più collocata a svolgersi sul sagrato e sulla piazza cittadina, ma rovesciata in Inferno e ambientata nel bosco spettrale degli uomini-pianta. La parodia blasfema viene affidata al tema scritturale delle chiavi, If XIII, 5860: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando […]»; dal quale tema procede assai preciso il commento dello studioso: «Il suo primo ingresso [Pier delle Vigne] lo fa in figura di primo apostolo (si sa, dalle cronache, quanto insistette la polemica politica nell’esaltare o nel deprimere questo secondo Pietro, che dichiarava agli uomini il messaggio di Federico, l’Anticristo: la “lite” che invase i secoli di ferro, immensa, trovò nel nome e nelle ambizioni blasfeme alimento»). Apollonio osserva e riusa più volte in termini esegetici l’intentio della sconsacrazione deformante, trovata da Dante nel canto dei suicidi e conclusa con la profezia terribile e macabra della ballade des pendus. Il poeta (e il critico lo rincalza) seguita dunque ad attestare, talvolta con esiti di assoluto virtuosismo linguistico, la fenomenologia di modi di esistenza inauditi e mai veduti, disposti a frangere i limiti di qualsiasi “credibile” di esperienza, un medesimo processo stravolgendo tutti i segni santi della città cristiana e dell’intero mondo creato. Il Trionfo della morte svolge, dunque, in Inferno, alcuni paradigmi del Credo cattolico, accostandovi però glosse di strazio osceno. Basti pensare alla pena degli indovini (If XX, 1-25), quando Dante pellegrino sembra sdoppiarsi dal se stesso poeta-inventore, commovendosi di fronte ai dannati con la testa retrorsa, obbligati a far cadere le lacrime nel «fesso delle natiche» (su cui il nuovo lettore: «Il canone cristiano e umanistico della persona umana, il rispetto della figura dell’uomo immagine di Dio, qui è contraddetto e deriso; ma il poeta non insorge con ira; sì s’accora […]. Piange lui pure, quasi sopraffatto dalla sua stessa invenzione, che irrideva il segno più nobile della pietà umana, le lacrime sul volto divino»).15 E alla pena degli indovini venga accostato subito lo strazio di Bertram dal Bornio (If XXVIII, 118-126);16 il quale ha la testa tagliata dal busto e cammina alzandola in alto, «a guisa di lanterna». Apollonio non manca di riconoscere il processo del contrappunto empio che forgia l’immagine del dannato, tramite uno scambio tra divino e diabolico: «Beltrame bestemmia […] il capovolgimento di ogni imitazione del Padre e del Figlio nella vita umana: il dogma dell’unità è qui atrocemente alluso: “[E]d eran due in uno ed uno in due: / com’esser può, quei sa che sì governa”».17 Da capo e di nuovo sul metodo. C’è sempre il problema ineludibile dell’inizio: se aprire con avvertenze di carattere generale o proporre subito degli esempi di lettura da cui dedurre con agio i principi che ordineranno l’interpretazione. Ci affideremo alla seconda via, mostrando subito la complessità dell’approccio di Apollonio, dal momento che, ad esempio immediato, lo splanamento di If I, 76-78, di una zona assai limitata di testo, quindi, coinvolge subito anche un problema di attribuzione, relativo, e non è davvero poco, alla costituzione XI

del catalogo dell’opera dantesca. Un problema maturato negli anni della Scuola storica, assai dibattuto fino a un trentennio fa e, al presente, quasi completamente rimosso, se pur certamente destinato a riaffiorare: una specie di numero periodico, insomma.18 Il maestro della Cattolica si arresta alla terzina citata, dopo che Virgilio, a seguire un’auto-presentazione da manuale («Il programma di una monografia, diresti: la vita, i tempi e l’opera»), esorta Dante «con elegante distacco»: «Ma tu perché ritorni a tanta noia? / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?» Non sbagliamo, intanto, se troviamo qualche irritazione e fastidio nell’appunto dell’interprete: «L’ultima parola, “gioia”, riaccenna appena alle allegorie cortesi: nel gioco delle reminiscenze, ma più altrove, avrà una parte, e grande, il Roman de la Rose: non per nulla un pettegolezzo letterario gli appose un apocrifo Fiore, quasi a rinfacciare, con quell’osceno allegorismo della mondanità internazionale, la sua moralità cristiana e cittadina».19 Apollonio ottiene un risultato imprevisto: Virgilio non risulta ancora bene “in parte”, sembrerebbe, e ci viene proposto quale una figura manierata e abbastanza generica, mentre la rima noia : gioia non è ancora decisiva, al pari della prima pagina di un’opera aperta: può magari rimandarci all’indietro, all’enueg e al plazer di tradizione trobadorica, o prendere subito la consistenza originale del racconto della Commedia, con il significato di antitesi fra male e bene, ma anche coincidere, in avanti, con l’epitome del mondo tardo-feudale e della poesia cortese, con la noglia : zoglia del grande epos ferrarese di Boiardo, ormai in gran parte eccentrico a Dante20 (così come il «dilettoso monte», se si vuole, richiama troppo facilmente il topos del paradisus deliciarum,21 traguardando, perché no, fino al «porto del mondo», raggiunto dai due “peregrini” del Tasso, dopo la faticosa ascesa e dopo aver vinto il contrasto con le belve, Gerus. lib. XV, LXIII, 1-2: «Questo è il porto del mondo; e qui il ristoro / delle sue noie»).22 Apollonio avrebbe, dunque, portato, senza volerlo, carte in favore dell’ipotesi attribuzionistica continiana? Più probabilmente egli ci ha resi accorti dell’apertura e dell’oscillazione semantica del canto primo e di una materia non ancora posseduta dall’artefice con la lingua sua propria. L’explication du texte viene infatti subito sospinta da un’integrazione che la orienta esattamente (e, insieme, mostra la parzialità e la scarsa attendibilità di ogni sosta nell’analisi del frammento): «La terza di queste immagini, il Sole [dopo la Selva e il Monte], dichiara che il poeta si è avviato in altra direzione, che la parola in lui, più che accrescersi delle vecchie stratificazioni concettuali, ama aprir la ventura di nuovi sensi: canto di un mattino di primavera [If I, 37-40]: “Temp’era dal principio del mattino / e ’l sol montava ’n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle”». L’interpretazione dell’esordio all’intero poema, che è un po’ anche specimen e prova generale, alterna, come necessario, esercizi di lettura puntuali su parti ristrette, e accessus più articolati (uno per tutti, il lungo discorso sull’allegoria e sul polisenso), non sottraendosi neppure al dovere di dichiarare trascurabili questioni su cui si è esercitata una puntigliosità secolare o mostrandosi capace di recuperarle, spostandone il fulcro; e ad esempio luminoso porremo il tanto XII

dibattere sull’identità del Veltro che Apollonio non respinge, ed anzi riepiloga assai persuasivamente, ma cui sottopone ben altra sostanza, scrivendo che «[la parola del poeta] suona subito commossa intorno ai temi che davvero [egli] attende a far vivi: la comunione eucaristica dell’Eroe con la divinità una e trina (Sapienza e Amore e Virtute)».23 Ad altra riflessione ci guidano le pagine dedicate all’incanto della prima apparizione di Beatrice nel poema, dove Dante lavora, per così dire, su occasioni dantesche, riprese dalla Vita nova, con un preciso ricordo cavalcantiano (squisito, e però subito trasvalutato dal poeta maggiore: «In un boschetto trova’ pasturella, / più che la stella – bella, al mi’ parere»). Il ritratto della donna riceve un incremento di individuazione in un non lungo giro di terzine, sia mediante il dialogato partecipe con Virgilio, sia mutando dagli usus del giovanile Stilnovismo verso una nuova concretezza animata della persona («trepida di tanti e tanti ricordi», sottolinea Apollonio, aggiungendo: «e piange, mentre così ragiona»; per cui la donna beata: «gli occhi lucenti lacrimando volse»; e la poesia propizia una rinascita: Beatrice è tornata). Splendidamente narrata, poi, pensando giustamente a un episodio d’arte sacra, era già stata la processione delle investiture, il prologo in cielo sopra Dante smarrito nella selva, allorché un intervento del critico, esterno, ma coevo a questa Storia della «Commedia», raccomandava di guardare «allo squarcio allusivo delle donne celesti nel lembo estremo della pala d’altare, alte fra le nuvole luminose, che diventerà un modello tanto diffuso nella iconografia popolare della grazia ricevuta: “Poscia che tai tre donne benedette / curan di te ne la corte del cielo”».26 A seguire l’ex voto, Apollonio prospetta anche un originalissimo “coro senza parole” per il passaggio nel Limbo della «loda di Dio vera», allorché egli interpreta If II, 52-53 quale una specie di ysteron proteron; e scrive: «Sospesi significa (ed è il senso che meglio s’attaglia qui a Virgilio) assorti nella meraviglia dell’apparizione beata»; per cui, ubbidendo a questa nuova proposta, la scena di attesa e di stupore di fronte allo straordinario uccello del Paradiso, la donnaangelo, si propaga dal poeta latino a tutte le anime del Limbo, dai magnanimi del nobile castello agli infanti, dalle femmine ai viri.27 Sempre a proposito dei «sospesi», ma da un altro punto di applicazione, Apollonio pare anche rispondere, con un suggerimento ripetuto due volte entro poche righe, al quesito della salvezza dei pagani: «Il corteo di Cristo [del “possente / con segno di vittoria coronato”] era mosso e gagliardo; l’accolta degli “spiriti magni” è statica e solenne: si adatta alla immobilità di una vita sospesa, glorificata da quel sentore di gloria empirea che è la luce “ch’emisperio di tenebre vincia” [If IV, 69], pallida luce, che non è che un riflesso della luce empirea». Il maestro era stato ancora più esplicito nell’oralità del corso universitario, commentando If IV, 76-78: «E quelli a me: “L’onrata nominanza / che di lor suona su nella tua vita / grazia acquista nel ciel che sì li avanza”». Egli addizionava con sicurezza la fama e la grazia, concludendo: «Allora tutta la scenografia del nobile castello, tutto il suo apparato, viene a costituire una replica del Cielo Empireo, del Cielo senza tempo e senza luogo, dove tutte le XIII

dignità, tutte le opere dell’attività umana assistita dalla Grazia, trovano la loro foce e il loro coronamento. Così la trascendalità suprema ha anche nel mondo della gloria umana un riflesso, un’immagine, uno specchio».28 Abbiamo mantenuto fede, almeno così crediamo, all’intento propostoci, quello cioè di mostrare quanto gli interventi puntuali appartengano poi insieme a una sistematica generale dell’interpretazione. La prassi trova conferma anche conducendoci da qui molto più in alto, nei canti XXVII e XXVIII del Paradiso terrestre: e se abbiamo appena colto la capacità dello studioso di modulare su un ritratto unitario, notabile è anche la sicurezza grande di gusto e l’abilità di lavorare discriminando su quanto potrebbe sembrare la ripetizione, a breve distanza, di un analogo atto para-liturgico con la medesima officiante; mentre, le minori “beatrici” che introducono il poeta alla bellezza della natura edenica e ai riti della purificazione per acqua, Lia e Matelda, dunque, appaiono contigue ed assimilabili nella favola dell’agens, ma si diversificano nella mitopoiesi dell’auctor, pur essendo la seconda sempre riconoscibile, per più d’un tratto, nella figura sorella che la precede. Apollonio è ora domestico di Dante in modo ben singolare: lo studioso, quasi assistendo alla nascita della poesia e sciogliendo il mistero del poeta, individua, infatti, il momento originario del “trovare” e quello successivo del “derivare”, distinguendo tra l’invenzione assoluta che compete alla prima giovane della coppia e la «medietà aurea» che tocca alla successiva. Così per Lia, che è la polarità della poesia (Pg XXVII, 97-99: «[G]iovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andar per una landa / cogliendo fiori; e cantando»), egli detta: «È il tema sorgivo, l’abbozzo che conserva dell’invenzione poetica tutta la commozione del primo apparire, la primordiale immagine pura» (e viene in mente quanto Heidegger diceva di alcuni libri e di alcuni scrittori biblici e cioè di una vicinanza delle loro parole/immagini all’origine, aurorali, trasparenti senza scorie alla res, di purezza assoluta).29 Apollonio precisa poi, coerentemente, che Matelda è invece quasi una nuova Proserpina ovidiana, dal momento che riassume in sé la polarità della letteratura: «Il ritratto di Matelda [è] un’applicazione sin troppo puntuale [dei modi del precedente]; la [sua] apparizione è celebrata col rito della parola: prelusa, introdotta, riassunta e decorata d’ogni ornamento di retorico discorso».30 Qualsiasi creduta limitazione della poesia di Dante esige, comunque, un’indispensabile avvertenza: «Un [inventore] di stile così prodigioso, [quale Dante], è eccellente, anche quando si adatta a procedimenti facili». Abbiamo fatto ricorso, per comodità, a una terminologia crociana, restando inteso come ci si muova sempre a livelli altissimi; e che noi non si saprebbe rinunciare a nessuno dei due quadri della danzatrice con i fiori, né a Lia, né a Matelda (né, insomma, al «ritratto», né al «ritrattino»). Apollonio aveva già proposto un’analoga introduzione all’intero Paradiso terrestre, come vicinanza della fantasia “nativa” e della fantasia “applicata”, e come continuità fra il poeta, rifattosi ingenuo, delle «stupende pastorali meridiana e notturna [del preludio]» e il poeta classicista del «vento astrale [della foresta], ma più calcolato e dedotto quest’ultimo». È continuo il nostro desiderio XIV

di compiere atti di sottrazione dalla gioielleria, o si dica cabinet des merveilles, di Apollonio; ma l’unico furto possibile si concreta naturalmente in una nuova citazione dall’opera dell’estroso e brillantissimo uomo; il quale, sempre nell’Eden, fa apparire e dileguare tra radure e quinte d’alberi, con tratto splendidamente romanzesco, la salonnière di un quadro settecentesco («Matelda che spiega l’origine del vento e dell’acqua non è commedia di un didascalismo che s’avventa ad ogni occasione, una specie di anticipato Niutonianismo per le dame»); e poi ci induce ad ammirare entro una grande pagina, magari un po’ in anticipo sul tempo storico, eppure con assai agevole pertinenza, un breve compendio illustrativo di segno botticelliano, di scuola o d’autore, secondo avverrà di fatto per l’edizione laurenziana commentata dal Landino («Come un pastore virgiliano e miltoniano […] può sedere sempre all’ombra e svelare verità arcane, così questa donna stilnovistica […] può dissertare dell’[origine delle perturbazioni della montagna santa], in una danza di gesti cristallini, sullo specchio dell’onda bruna di Lete»). Di grande qualità è, peraltro, tenuto conto della materies anfrattuosa, tutto il gruppo delle riflessioni critiche dedicate all’ultimo Purgatorio,31 che Apollonio definisce, iniziando, come appartenente al genere “trionfale”, benché lontanissimo da qualsivoglia proposito petrarchesco e meglio confrontabile con la complessità dei “misteri” di area francese: «I simboli del divino [confortano] la concretezza dell’esperienza umana», dice lo studioso, mentre la lunga sfilata, con tutti gli atti teatrali che la pausano, appare la sintesi di «cerimonie, muri, musiche, mimi, al giro millenario del rito del tempo». Egli non si arresta di fronte alla difficoltà del «groviglio di sensi e sovrasensi» del lungo e sorprendente spettacolo, cercando di distinguerne e caratterizzarne lo svolgersi, soprattutto con l’appoggiarsi a una metaforizzazione molto comune in quella cultura (mentre nella sua lettura ci sarà forse la memoria, almeno per l’avvio, del Sogno d’estate carducciano). Così egli scrive, prestandosi e prestandoci occhi familiari: «[Il referente] liturgico salva il narratore dal ridurre la visione a un divertissement letterario: si tratta, infatti, di libri sacri che prendon vita di simboli, del giuoco libresco di uno che s’addormenta in biblioteca […]. Comunque ricordanze di scuola, ora che dalla salita della montagna è uscito all’aperto di quel chiostro arboreo». Se non sfuggono all’uomo di palcoscenico né «l’arguzia un po’ fredda dei riscontri», né il «concettismo cincischiato», né il tratto complessivo di «commedia letteraria» e di «accademismo»; egli riesce in ogni caso ad accompagnare, passo dopo passo, le ardue metamorfosi attorno al tema della “guerra” grande fra Chiesa e Impero. Noi, senza seguirlo, ci rifugeremo in un particolare prezioso, ma non secondario, una specie di tenuto bordone musicale, che Apollonio rileva, quando Dante interpola un verso dell’Eneide – «Manibus o date lilia plenis» – nel saluto della domenica delle palme a Cristo, ora qui presente nella sua “figura”, Beatrice – «Benedictus qui venis [in nomine Domini]».32 Apollonio spreme ulteriore succo poetico dall’intarsio classico, e dalla minima aggiunta moderna, precisando storicamente una già acutissima notazione del commento di Momigliano; questa: «Dante ricorre a una frase di Virgilio […] che, interpolata da una o, acquista l’apparenza di un versetto di coro sacro»; alla quale il nuovo lettore aggiunge, con sicura efficacia: «[L’interpolazione] dell’o è quasi per una melodia alleluiatica». XV

Il ritratto drammatico e la poesia del ramo gemmato L’acquisto poetico che stacca la Commedia da tutte le opere volgari, poche, e dalle tante mediolatine che la precedono sta però, secondo lo studioso, nella scoperta del ritratto drammatico. Dante, spiega Apollonio, impara a studiare la sostanza creaturale non in una condizione di fermezza contemplativa, la quale approdi ad una composta resa di stile, ma nel dinamismo dell’azione: fare il poema della salvezza cristiana voleva dire, infatti, «vedere» (il verbo figurans per eccellenza della Commedia) l’uomo nella forma realizzata del giudizio finale, rendendo evidente (poetica dell’evidenza!) il mettersi in moto di ognuno e di tutti, e il giungere al proprio fine, nel campo di forze delineato da una vita operativa, tra il peccato e la grazia. Ricorreremo a un verso proverbiale di Mallarmé per una definizione perfetta di stato del personaggio dantesco: «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change», scrive il lirico;33 e noteremo, subito accanto, la quasi esatta coincidenza con il concetto auerbachiano di figura, destinato a catalizzare intorno a sé nel secondo dopoguerra tanta parte del dantismo italiano.34 L’oltretempo dell’autore francese ferma la parola e l’atto che vincono il tritume dei giorni, cogliendo la sostanza profonda, l’individuum che l’uomo ha deciso di essere e che lo conduce, quando egli entra «nel passo» di confine e si conferma in anima eterna; analogamente, nella tensione “figurale” istituita dal filologo ebreo-tedesco fra la storia e il regno perenne degli spiriti, il secondo cronotopo compie un lavoro di vaglio, portando in poesia il quantum di verità appartenente al primo, lasciandone cadere le sovrastrutture empiriche (allo stesso modo di Pd XXX, 91-3, se estendiamo a legge generale il caso particolarissimo della «gente stata sotto larve», la quale veste finalmente la «sembianza […] sua»). Come, dunque, l’opera maggiore di Dante appartiene all’apocalittica del Giudizio universale, essendo a pieno titolo de temporum fine comoedia, così il «ritratto drammatico» di Apollonio è il kairós, in ordine alla condanna o alla salvezza, che il poeta estrae, “narrativizzandolo”, dal chronos indifferenziato di ogni vita individuale. La tecnica del ritratto, abbozzata con Beatrice (eppure sembra già mantegnesco, se non addirittura leonardesco, e pronto ad erompere dalla cornice, il disegno a sanguigna di «Cesare armato con gli occhi grifagni»), attende di essere verificata con Francesca. I canti iniziali appartengono alle moltitudini; solo più avanti sarà il personaggio a emergere sulla folla, chiamando attorno a sé la vicenda e il suo cronotopo e dominandoli (Francesca, si diceva, poi Ciacco, Farinata, Pier delle Vigne, Ulisse, Ugolino: le grandi pagine monografiche di De Sanctis, se ci si pensa). Fino al canto quinto c’è incertezza, dal momento che il poeta non riesce a trovare chi sia in grado di diventare centro gravitazionale del racconto (e se è interessantissimo, certamente, il «vidi e conobbi» di If III, 59, quando «il poeta pare avviarsi di slancio a un modo di ritrattistica bene individuata»,35 frustranti riescono però l’arresto e il subito procedere oltre; del resto, anche il ritratto di Caronte, If III, 82-99, è «più circostanziato descrittivamente che suggerito drammaticamente, XVI

disperso nella sua fisiognomica enfatica e un po’ di maniera, più che colto “nella prospettiva di un moto in azione”»).36 Uno degli aspetti fondanti del ritratto drammatico diviene naturalmente il gesto, riassuntore di tutta una vita, di concretezza insieme somatica e semantica: «In Inferno [è] l’azione sorpresa in atto […], un’indicazione definitiva (il volo di Francesca, il procombere di Ciacco, l’ergersi di Farinata, il teschio di Beltrame del Bornio, alto come lanterna); [nell’Anti-Purgatorio] il gesto è accennato, e subito trattenuto: Casella che si trae avanti e, alla delusione di quel vano abbraccio, sorride; Manfredi che mostra una piaga a sommo il petto, “poi sorridendo disse”; e il gesto di Belacqua, che muove lo sguardo “su per la coscia”, e spinge al sorriso Dante» (la tecnica del ritratto conoscerà altri modi nel Purgatorio della pena e nell’Eden; fino a divenire più rara, con qualche importante eccezione, in Paradiso).37 Singolare, ma non poi troppo, che si arrivi ad una ulteriore definizione comprensiva di questa scoperta poetica di Dante, una delle sue maggiori, al parere di Apollonio, studiando un capitolo della fortuna della Commedia. È infatti Boccaccio che si mette alla sequela dantesca, per servire all’intenzione di porre in scena e raccontare la vacanza dalla stagione della peste in una villa del contado di Firenze (del resto, la novella degli amanti di Romagna del canto V di Inferno converrebbe perfettamente nella Giornata decima del Decameron, certo risolta assai più pateticamente dal narratore in prosa, senza l’assoluto di delitto e castigo, e nel tempo-spazio della fenomenologia misurata, non nell’aldilà senza fine del poema, Pd XXV, 1-2, «al quale han posto mano e cielo e terra»). «Con [Boccaccio]»,38 constata Apollonio, «è […] acquisito il canone dantesco del ritratto che crea e determina la situazione drammatica […], la potenza del proiettare un personaggio ad un’azione, rivelandolo così per quel che è […], la capacità a osservare la realtà in quanto avviata e conformata da un ritmo di carattere». Qualsiasi lettura integrale della Commedia è, come noto e come d’obbligo, attesa al paragone con Francesca; con la quale inizia, abbiamo appena anticipato, la galleria dei ritratti drammatici. Per introdurla si ha uno schema nomenclatorio, il catalogo dei personaggi illustri dell’erotica classica e romanza; che peraltro s’interrompe ex abrupto su un nome proverbiale, se mai altri, quello di Tristano, mentre non sono nuovi re e dame d’antan quelli che si annunciano con urgenza, ma qualcosa di più attuale, la storia di un’anima dell’età di Dante. Progressivamente il poeta ci situerà ancora maggiormente nel vivo, non soltanto in una zona appunto contemporanea, italiana, e cronachistica, ma in una corte da lui stesso frequentata, quella dei Malatesta di Rimini (mentre, di pari passo il personaggio raccoglierà attorno a sé indicazioni precise della sua geografia, If V, 97-99: il delta del Po e il mare in cui il fiume sfocia). Il poeta esplora la realtà di peccato che determina gli «argomenti umani» di una vicenda cortese; e il suo lettore critico commenta: «Solo così [Dante] giunge a liberarsi del tema dell’amore […]: con un ritratto drammatico, la storia tragica di una morte, un giudizio espresso circostanziando l’estrema avventura d’una vita». XVII

Contini, per citare l’interpretazione divenuta paradigmatica, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, ha avvicinato, con impeccabile pertinenza, la peccatrice lussuriosa di Dante ad Emma Bovary, nella condivisa attitudine di «lettrici di provincia»;39 Apollonio aveva già visto il problema, ma vi aveva aggiunto subito una preoccupazione pratica, annotando: «Si tratta di condannare i romanzi cavallereschi, [poiché] “galeotto fu il libro e chi lo scrisse”: si tratta di leggere dietro gli orpelli della galanteria cortese la sostanza del peccato». Dante “missionario” attende sempre «ad accertare le responsabilità morali del costume», in ragione di cui il motivo pedagogico, per così dire, viene tenuto a guidare l’intera esegesi, sollecitando, ad esempio, l’attenzione a due salienti acuti, in negativo, della vicenda, «il vanto dell’unione eterna» e «il piacere della vendetta» (ma l’orgoglio senza pentimento e lo spirito immisericorde fanno anche parte della grandezza noire del personaggio, della fedeltà per sempre alla sua «passione funesta»).40 Apollonio è persuasivo non tanto nel rifiutare ogni possibile romanzatura41 che sia venuta a colmare il silenzio sospeso di Dante («quel giorno più non vi leggemmo avante»), quanto piuttosto nel sigillo di descensus irrevocabile che vi pone: «Il primo bacio ha in sé ogni caso ulteriore: sapore di morte e di peccato»; ma ancora più singolare egli si mostra nella lettura di fine canto, e perentorio: «Il giudizio sacrale sull’anima non deflette in nulla dal suo rigore, accentuato dalla debolezza sentimentale di Dante e di Paolo: due complici». Qualcosa di analogo veniva, del resto, già detto dallo studioso, ad avvio di lettura, nel mostrare gli impigli e le impurità della tradizione di ars amandi e di sensualità profana persistenti entro i manifesti spiritualistici delle nuove rime: «[Dante] incomincia dal tema memorando del “Savio” […]: “Al cor gentil rempaira sempre amore”: se Guinizelli segnava il termine di un processo di affinamento e di purificazione, il suo stesso dettato è risospinto ad essere inizio di una storia di morte, anziché di vita, di Inferno anziché di Paradiso». Eppure… eppure bisogna dar ragione del prodigio del vento che tace, della trasfigurazione degli amanti in colombe, della quasi preghiera di Francesca («Se fosse amico il re de l’universo»), del vasto paesaggio fluviale riassunto nella parola della «pace» (anche il Po e i suoi affluenti vengono accompagnati nella fatica dell’andare e nel riposo dell’approdo al mare: un altro tratto non sufficientemente osservato della “cordialità” larga di Francesca). Bisogna dar ragione, in una parola, del quanto di ‘dolcezza’ e di ‘gentilezza’ che abita l’episodio, sia pure attraversato dalla vena luttuosa della morte violenta e in stato di peccato e per entro il mugghiare della «briga» incessante, rigettando una volta per tutte la misinterpretazione di origine romantica, la quale tiene aperto il divario fra Dante teologo che condanna e Dante uomo che assolve (un errore critico che non manca di ripresentarsi anche nel Novecento e successivamente). Apollonio pone la propria lettura complessiva nella chiave dello spiegarsi diffusivo di un fenomeno formatore, descritto da Stendhal in De l’amour, 1822.42 La spiegazione del maestro della Cattolica di Milano si integra e conclude – ed è prospettiva critica assai innovativa, ma perfettamente motivata - con il sogno della Femmina Balba (Pg XIX, 1-33), il quale giustificherebbe, ad evidenza didascalica, XVIII

e quasi dimostrerebbe tecnicamente, à rebours, i modi che presiedono al formarsi della coppia di amanti di If V (e, più nello specifico, alla nascita del personaggio di Francesca). Ci pare così di essere ammessi nell’ergasterion di Dante, camera di palazzo o di castello, in concreto, o cella di monastero e di convento che fosse, e di assistere alle sue operazioni di alchimista grande, qualora traguardiamo al processo di nuova fioritura di ogni immagine che venga chiamata ad entrare «nell’alone del [suo] sguardo»; e, dunque, teniamo in evidenza, anche per Dante, il passaggio/paesaggio dalla figura del legno spoglio alla conversione nella figura del legno gemmato: un’esperienza di metamorfosi cui Stendhal, l’Andrea Cappellano di primo Ottocento, s’affida per raccontare la storia poetica di Eros e che Apollonio rintraccia nell’episodio celeberrimo del poema. Si tratta, in effetti, di un mito generativo: d’inverno, narra l’autore romantico, le ragazze di Salisburgo raccolgono da terra grandi rami d’albero, ormai secchi, con i loro rami minori e rametti, e biforcazioni e triforcazioni, depositandoli poi nel grembo della terra, entro gallerie di miniere di sale abbandonate; quando la primavera è matura, le medesime ragazze tornano a riprenderli ed essi sono come contesti di gemme luminose: i cristalli di sale hanno aderito ai rami e hanno fatto nascere altrettanti complessi e appariscenti gioielli. L’analogo avviene della poesia: gli innamorati e il loro mondo, trasportati dalla dimensione degli accadimenti empirici nell’assoluto dell’inventio letteraria, entrano in un processo di nuovo stato della materia, appunto, che li muta da se stessi e li esalta, non solo considerati singolarmente, ma anche nel quadro di ciò che li circonda (tutti i tempi, in tal modo, convergono agevolmente e sempre nella «gioia» della «stagion che il mondo foglia e fiora»). Secondo Apollonio è un fenomeno di questo tipo che presiede alla nascita del canto di Paolo e Francesca e delle «donne antiche» e dei «cavalieri» (pur restando sempre incombenti «l’aura nera che li castiga» e l’urlìo perpetuo dei venti come su un mare in tempesta. E però quasi meno importa, al momento, che si tratti di un comune adulterio e di un truce delitto cortigiano: Dante poietés lo ingemma e lo attornia di figure e di fatti a loro volta ingemmati). Non solo: anche il lettore e la lettura vengono attratti nella medesima esperienza e ad essa collaborano, potendo persino farsi, in qualche modo, alleati del poeta nell’estrarre la favola riminese dal corteo doloroso degli amanti, dando a due delle «mille ombre» una vita individuata.43 Per concludere il proprio percorso esegetico Apollonio guarda comunque, secondo si anticipava, alla «figura d’alta scuola» costituita dalla Femmina Balba, perché si tratta di un altro capitolo di storia della seduzione, del farsi e del disfarsi a vista della «cristallizzazione amorosa», tramite un anti-canone costruito rovesciando le lodi di madonna nel loro contrario: come se il ramo di Stendhal venisse mostrato nella sua realtà d’origine morta e spenta, squallida, in sostanza, e poi fatto rinascere e rivivere nel processo di gemmazione sopra descritto e infine, di nuovo, abbattuto a terra, tornato da monile un resto di ramaglia disseccata, prima che le ragazze-muse lo raccolgano per deporlo, ancora una volta, nella coscienza o nell’inconscio del poeta (le mines di Salisburgo possono ben accettare questa rilettura simbolica). Al complesso e al significato ultimi XIX

dell’operazione ci conduce del resto, esplicitamente, lo stesso scrittore d’oltralpe: «Ce que j’appelle cristallisation c’est l’operation de l’esprit qui tire de tout ce qui se présente la découverte que l’objet aimé a des nouvelles perfections». Essa, la Femmina, appare in sogno a Dante, quale persona di finzione che introduce all’ultima parte del Purgatorio, dove si espiano i peccati di incontinenza.45 A far da cornice al quadro il poeta costruisce una specie di preludio astrologico; quando, nel freddo, che è insieme del nostro pianeta, della Luna, di Saturno, compare, 58, l’«antica strega»: balbuziente, strabica, con i piedi storti, le mani rattrappite, il colorito malsano (e poi, alla fine della scena, avvolta da cattivo odore). Dante “cristallizza”, opera liricamente una metamorfosi amorosa: «Io la mirava», 10, dice lo scrittore, e la sua affabulazione poietica (la lente dell’amore, goethianamente, l’Augenglas del noto sonetto: «Ich sehe heut durchs Augenglas der Liebe») agisce come il caldo del sole che, rianimando la terra, nello stesso tempo scioglie la lingua legata del personaggio, restituisce bellezza agli occhi «guerci», raddrizza il corpo prima apparso così sbilenco, dipingendo da ultimo il volto scialbo con il colore della perla. La Femmina canta, ed è il canto dell’amore e della morte, il canto della sirena, 19-21: «Io son», cantava, «io son dolce serena / che i marinari in mezzo mar dismago; / tanto son di piacer a sentir piena» (si trattengano ad evidenza i lemmi della dolcezza e del piacere; mentre la ripresa, quasi una messa in voce: «Io son […] Io son», indica esitazione e incertezza che poi divengono canto sonoro: come se la parola e l’accento passassero attraverso il medesimo processo di trasformazione estetica del corpo). Quasi all’istante si manifesta, accanto a Dante, 26, una «donna santa e presta», la quale strappa le vesti della femminasirena, e libera, rendendolo intensamente percepibile, il «puzzo» che le esce dal ventre-sesso, 33. Dante torna di nuovo presente a se stesso, destato dal torpore: nell’apologo sognato l’immagine del femminile vizioso è stata mostrata e vinta dall’immagine del femminile virtuoso (e dall’Inferno ci siamo condotti in Purgatorio, mentre la «donna santa e presta» va senz’altro ricondotta a una delle tre donne di Paradiso che vegliano sul poeta, le stesse di cui abbiamo avuto notizia da Virgilio tanto prima: Maria, Lucia, Beatrice; cosicché il breve episodio può, in ultima analisi, venir accolto nella stessa poesia dell’ex voto, là trovata). Apollonio aveva inteso con precisione il carattere di exemplum della «Femmina balba», disposto a una svolta dell’itinerario di penitenza: «Il poeta fa cammino a ritroso, piegando verso dilettazioni sensuali la stessa elevazione spiritualistica del suo primo poetare. L’“intento” lavora insomma a rovescio; e il miracolo della vita dello spirito si esercita in una mediocre operazione d’inganno per un abbaglio consentito […]. La poesia […] ha due volti: rivelazione della verità […], ma anche maschera della realtà». D’altra parte, commenta di nuovo Apollonio, per purificarsi in tutto dagli attraits dell’amor sensuale, Dante dovrà attraversare la cortina di fiamme dell’ultima stazione di Purgatorio e ricevere il congedo di Arnaut Daniel. Francesca ritrova se stessa, concludendo, come in suo parziale doppio spirituale, nell’agiografia amorosa di Piccarda fiorentina, nelle sue bellezza e bontà, XX

nel «piacer dello Spirito Santo», nella pace della volontà delle anime in Diomare, mentre l’ipotesi del dittico fra la familiaris e concittadina del poeta e la “signora” di un’altra terra prende conferma dal medesimo stile dell’inchiesta dantesca (che è anche nella giovane suora una delle ultime apparizioni dei modi del ritratto drammatico: la beata e il poeta trascendono così la prossimità della loro amicizia terrena, trasfigurandola nelle linee spirituali della scena in cielo, tra quinte fatte di luce). La nobildonna romagnola era peraltro già stata riascoltata da Apollonio nell’Anti-Purgatorio, prima nel “ritratto d’artista” che Dante dedica a Casella («l’obbedienza dell’[anima] alle ispirazioni naturali della vita ha la levità volante e commossa di Francesca, ma non gravata dal peso della passione») e poi nel quadro del «gentile» Manfredi, con la similitudine dei colombi (mentre nuovamente di Francesca si parlerà nella contigua area purgatoriale, a proposito di Jacopo del Cassero e di Pia de’ Tolomei).47 Sono queste, ed altre che non cito, tutte concordanze segnalate dall’autore del Dante, beninteso: da più parti si rendono, dunque, visibili, le ragioni seminali di cui è gravido il V di Inferno. Lo studioso ha messo in gioco molto, fra il realismo della cronaca di provincia e l’irrealismo della fiaba della strega,48 fino alla santità degli «specchiati sembianti» del cielo della Luna, tenendo sempre in qualità di filo conduttore il primo personaggio della Commedia, Francesca. Si tratta di una linea di lettura complessa, e del cammino in progress da una damnata Beatrix ad una beata Beatrix (dal «disiato riso» alle innumerevoli variazioni sul riso sempre più raggiante della «benedetta», fino al congedo di Pd XXXI, 92-93: «[S]orrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana»). Una linea di lettura, questa di Apollonio, estranea alla storia della fortuna del canto V, e non entrata nel discorso critico corrente;49 andava perciò riproposta. «Tutto è in attesa di Farinata», annuncia la nuova pagina critica, perché la somma dei temi toccati dopo Francesca prenda corpo e anima in un nuovo ritratto drammatico. Accetteremo dallo studioso, giunti al canto X dell’Inferno,50 la prima indicazione, “costumistica”, ancora di stampo castellano, del dialogo tra i due fiorentini in forma di un duello cavalleresco, con i colpi annunciati; e la seconda indicazione, figurativa, dell’immagine sculturale in cui si riassumono ed esprimono l’amor di patria e l’amor di padr