Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini [2] 9791259944788


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Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini [2]
 9791259944788

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FRANCESCO PAOLO RAIMONDI

DALL’ANTICO ISRAELE AL CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI TRA MITO E STORIA TOMO II

© isbn 979–12–5994–xxx–x

prima edizione dicembre 2021

roma

indice

TOMO I

13 Prefazione 17 Introduzione 31 Abbreviazioni Parte I L’antico Israele tra mito e storia 37 Capitolo I L’ambiente storico-linguistico

1.1. Il Canaan: problematicità dei confini geografici, 37 – 1.2. Il Canaan: la natura del territorio, 42 – 1.3. Il Canaan: gli insediamenti tra il Tardo Bronzo e il Ferro II, 43 – 1.4. Chi sono i Cananei?, 47 – 1.5. L’ambiente linguistico del Canaan, 51 – 1.6. La lingua ebraica, 52 – 1.7. Ebrei: è un nome esonimo?, 60 – 1.8. Le origini della scrittura alfabetica, 61 – 1.9. Spinoza e la problematicità dell’AT, 67.

77 Capitolo II La fase politeistica

2.1. Yhwh e il politeismo, 77 – 2.2. La maturazione dello yhawismo, 86.

635

636  Indice

91 Capitolo III Dissezione anatomica della Genesi: il mito dell’antico Israele

3.1. Il carattere apografo della Genesi (‫ בראשית‬berēšit), 91 – 3.2. Il ciclo della creazione e la sua radice mesopotamica, 99 – 3.3. Il ciclo dei grandi patriarchi, 112 – 3.4. La Genesi e la tradizione culturale dei villaggi centro-settentrionali, 116 – 3.5. Due entità religiose: El / ‘êlōhîm e Yhwh; due entità politiche: Israele (Nord) e Giuda (Sud), 120.

135 Capitolo IV Le radici vetero-testamentarie: il Dio nazionale e la legislazione politico-religiosa

4.1. Il ciclo mosaico e il mito dell’uscita dall’Egitto, 135 – 4.2. Il primo codice ebraico: regolamentazione dei rapporti sociali e della vita religiosa, 143 – 4.3. Il mito dell’alleanza e le versioni dei comandamenti, 147.

151 Capitolo V Le radici vetero-testamentarie: diritto e liturgia di una teocrazia sacerdotale

5.1. Il Levitico e le tendenze teocratiche degli aronniti, 151.

161 Capitolo VI Le radici vetero-testamentarie: la pseudo-storia

6.1. Il mito del nomadismo nel deserto, 161.

171 Capitolo VII Le radici vetero-testamentarie: Il Dio dell’alleanza

7.1. L’enigma Deuteronomio, 171.

189 Capitolo VIII Le radici vetero-testamentarie: La mitizzazione della monarchia unita

8.1. Giosuè e il mito della conquista del Canaan, 189.

197 Capitolo IX Le radici vetero-testamentarie: la versione antimonarchica

9.1. Il mito dell’età dei Giudici, 197 – 9.2. Due novelle in appendice, 202.

205 Capitolo X I libri di Samuele, dei Re e delle due Cronache: lo scisma dei due regni

10.1. Dalla presunta monarchia unita allo scisma dei due regni, 205 – 10.2. La svolta dei due Samuele, 212 – 10.3. Nascita e morte del regno d’Israele e del regno di Giuda, 218.

Indice 

637

237 Capitolo XI Gli scavi archeologici

11.1. I collassi del Medio e Tardo Bronzo e i libri storici della Bibbia, 237 – 11.2. L’età patriarcale: mito o storia?, 244 – 11.3. Chi erano gli ebrei?, 251 – 11.4. L’identità di Israele, 256 – 11.5. I modelli privi di supporti archeologici: a) il modello della conquista; b) la Peasant Revolt; c) l’infiltrazione pacifica, 260 – 11.6. I due modelli dell’origine intra-cananaica di Israele: d) il modello simbiotico; e) il modello etnogenetico, 265 – 11.7. Gli scavi di Gerusalemme, 269 – 11.8. La lingua e la scrittura: matrice ebraica o canaanaica?, 278 – 11.9. La religione: matrici ebraiche o canaanaiche?, 284.

295 Capitolo XII Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco

12.1. L’inadeguatezza dell’ipotesi documentale e dell’ipotesi di una storia deuteronomista, 295 – 12.2. Limiti imposti dalle ricerche archeologiche, 299 – 12.3. Le stratificazioni cananaiche, ugaritiche e neo-babilonesi della formazione culturale di Israele, 301 – 12.4. Fluttuabilità ed evaporazione delle fonti J ed E, 303 – 12.5. Ancora sulla identità di Israele, 304 – 12.6. La tardiva comparsa della Torah, 308 – 12.7. La paternità, isrealitica o giudaita, della storia primaria, 309 – 12.8. Le fazioni politico-religiose. Profetismo, sacerdozio e monarchia, 312 – 12.9. Analisi stilistica dei libri afferenti alla storia primaria, 319 – 12.10. Il mito della fonte D e della storia deuteronomista, 350 – 12.11. Scuola deuteronomista: un’ipotesi vacillante, 353.

363 Capitolo XIII Le radici vetero-testamentarie: i Neviim

13.1. Introduzione, 363 – 13.2. Isaia, 365 – 13.3. Il profeta Geremia, 377 – 13.4. Il profeta Ezechiele, 383 – 13.5. I profeti del Nord: Osea e Amos, 385 – 13.6. I profeti minori: Gioele, Abdia, Giona, 389 – 13.7. I profeti minori: Michea, Nahum, Habacuc, 391 – 13.8. I profeti minori: Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, 393.

397 Capitolo XIV Le radici vetero-testamentarie: i Ketuvim

14.1. I Salmi ebr. ‫ תהילים‬tehillîm = lodi, 397 – 14.2. Le suppliche, 400 – 14.3. I salmi sapienziali, 402 – 14.4. I salmi di ringraziamento, 403 – 14.5. I salmi storici, 404 – 14.6. I salmi di Sion, 405 – 14.7. I salmi messianici, 405 – 14.8. Gli altri Ketuvim: Rut e le Lamentazioni, 408 – 14.9. Gli altri Ketuvim: il Qohelet, 409 – 14.10. Il libro di Ester, 412 – 14.11. Il profeta Daniele, 413 – 14.12. Ezra/Neemia e la fondazione del giudaismo, 418.

638  Indice

429 Capitolo XV I libri del canone cattolico 15.1. Il libro di Giuditta, 429 – 15.2. I due Maccabei, 430– 15.3. Tobia, 433 – 15.4. Il Siracide, 435 – 15.5. La Sapienza di Salomone, 438 – 15.6. Baruc, 441.

Parte II Il periodo intertestamentario 445 Il quadro storico 451 Capitolo I La comunità degli esseni nel Qumran

1.1. L’influsso dei culti misterici, 451 – 1.2. Gli esseni e i terapeuti nelle interpretazioni di Filone e di Giuseppe Flavio, 455 – 1.3. Rapporti tra le sette esseniche e il cristianesimo, 465 – 1.4. I qumraniani, 472 – 1.5. Il problema della datazione della letteratura qumranica, 478 – 1.6. L’organizzazione della comunità essena: la Regola della Comunità, 480 – 1.7. La Regola dell’Assemblea e la Raccolta delle Benedizioni, 489 – 1.8. La Regola della Guerra, 492 – 1.9. Gli Inni e i commenti biblici, 495 – 1.10. Il rotolo dei Salmi e il Commento ad Habacuc, 507 – 1.11. Il Documento di Damasco, 511 – 1.12. Conclusione, 516.

521 Capitolo II Dal giudaismo al cristianesimo: gli apocrifi veterotestamentari

2.1. La presenza della letteratura enochica nella biblioteca di Qumran, 521 – 2.2. Il Libro dei Giubilei (Mașḥafa Kufālē = Libro della divisione), 525 – 2.3. Il Pentateuco enochico: il Libro dei Vigilanti, 533 – 2.4. I Pentateuco enochico: dal Libro dell’Astronomia all’Epistola di Enoc, 538 – 2.5. La letteratura della diaspora dopo la distruzione del tempio: il fermento precristiano, 543 – 2.6. I Testamenti dei dodici patriarchi, 544 – 2.7. I Salmi di Salomone, 553 – 2.8. L’Apocalisse siriaca di Baruc, 557 – 2.9. Il quarto Ezra, 562 – 2.10. Il Libro segreto di Enoc, 568 – 2.11. Il Libro delle parabole (PR), 573 – 2.12. Conclusione, 579.

583 Capitolo III Dal giudaismo al cristianesimo: la Lettera agli Ebrei, l’Apocalisse di Giovanni, la Sapienza e gli apocrifi più tardi

3.1. La Lettera agli ebrei e l’Apocalisse di Giovanni sono opere giudaiche cristianizzate?,

Indice 

639

583 – 3.2. La Lettera agli Ebrei: il primo documento cristiano?, 587 – 3.3. L’Apocalisse di Giovanni, 595 – 3.4. L’Epistola di Barnaba, 601 – 3.5. La Didaché, 608 – 3.6. La Lettera a Diogneto, 613 – 3.7. Il Pastor di Erma, 617 – 3.8. Clemente ai Corinzi, 623.

TOMO II

Parte III Dall’essenismo e dall’enochismo al cristianesimo: il cristianesimo apostolico

645 Capitolo I Storicità di Cristo: le fonti extra-cristiane del i e ii secolo

1.1. Premessa, 633 – 1.2. Il cristianesimo nel giudizio di autori pagani: a) Petronio, 647 – 1.3. Apuleio, 650 – 1.4. Claudio Galeno, 651 – 1.5. Frontone, 652 – 1.6. Filosofi pagani e il cristianesimo: a) Celso, 653 – 1.7. Epitteto, 656 – 1.8. Luciano di Samosata, 656 – 1.9. Porfirio di Tiro, 658 – 1.10. La falsa lettera di Lentulo e le fattezze fisiche del Cristo, 662 – 1.11. Il cristianesimo di fronte al potere imperiale: a) Tertulliano, 667 – 1.12. Plinio il Giovane, 669 – 1.13. Dione Cassio secondo l’epitome di Xefilino, 674 – 1.14. Marco Aurelio, 676 – 1.15. Il cristianesimo e le fonti storiche: a) Serapion, 677 – 1.16. Svetonio, 679 – 1.17. Tacito, 682 – 1.18. Flegonte di Tralle, 690 – 1.19. Thallos, 691 – 1.20. Ps.-Egesippo, 694 – 1.21. Il cristianesimo nelle fonti ebraiche: il Talmud, 694 – 1.22. La falsità del Testimonium flavianum, 702 – 1.23. Il Testimonium nella Kitab alUnwan di Agapio, 727 – 1.24. La datazione del mandato di Pilato, 730 – 1.25. La falsa testimonianza flaviana su Giacomo, fratello di Gesù, 734 – 1.26. Giovanni Battista nelle Antiquitates di Giuseppe Flavio, 745.

749 Capitolo II L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini

2.1. La metamorfosi del messianismo e dello yhawismo, 749 – 2.2. I territori d’origine del cristianesimo: a) l’area anatolico-siriano-palestinese, 767 – 2.3. L’area anatolica, 771 – 2.4. L’area anatolico-greco-macedone, 772 – 2.5. L’area egizio-africana, 773 – 2.6. L’area occidentale: Roma e Lione, 774 – 2.7. I generi letterari della prima produzione cristiana, 775 – 2.8. Una breve nota sugli autori e sui luoghi di composizione dei vangeli, 778 – 2.9. La lingua e lo stile dei vangeli, 792 – 2.10. Ulteriori elementi a favore di una tarda datazione dei vangeli, 798 – 2.11. Il frammento 7Q5, 809.

640  Indice

829 Capitolo III La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni

3.1. Il problema sinottico, 829 – 3.2. La predicazione di Cristo e la sequela dei discepoli, 834 – 3.3. La cristologia taumaturgica, 838 – 3.4. L’insegnamento per parabole, 843 – 3.5. I lógia del Cristo, 856 – 3.6. La cronologia lucana: la datazione dell’inizio della predicazione, 860 – 3.7. Le contraddizioni a proposito della nascita di Cristo, 863 – 3.8. Il calendario ebraico e i dati cronologici della passione, 879 – 3.9. Le incongruenze tra i sinottici: a) la datazione della sepoltura, 887 – 3.10. L’ultima cena, 890 – 3.11. Il Getsemani, 893 – 3.12. L’arresto e i processi, 894 – 3.13. La crocifissione e la morte, 901 – 3.14. La resurrezione e le epifanie, 903 – 3.15. La datazione della passione, 906 – 3.16. I vangeli sono opere storiche?, 907 – 3.17. La costruzione del mito, 910 – 3.18. La cristologia sinottica e l’’Antico Testamento, 916 – 3.19. Il rapporto dei sinottici con la Legge e con i precetti del giudaismo, 918 – 3.20. La conoscenza del territorio palestinese nei vangeli. Incongruenze e dipendenza da Giuseppe Flavio, 925 – 3.21. La cristologia dei sinottici: la teologia del servo sofferente, 929 – 3.22. La cristologia di Giovanni, 961 – 3.23. La strategia dei criteri di storicità, 974.

983 Capitolo IV La letteratura apocrifa del Nuovo Testamento

4.1. La letteratura apocrifa, 983 – 4.2. Il Vangelo degli ebioniti, 990 – 4.3. Il Vangelo secondo gli Ebrei e il Vangelo dei Nazareni, 992 – 4.4. Il Vangelo degli egiziani, 996 – 4.5. I vangeli dell’infanzia: il Protovangelo di Giacomo, 997 – 4.6. I vangeli dell’infanzia: il Vangelo sulla nascita di Maria e il Vangelo dello Ps.-Matteo, 999 – 4.7. I vangeli dell’infanzia: il Vangelo di Tommaso e il Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore, 1001 – 4.8. I vangeli dell’infanzia: il Vangelo dell’infanzia armeno e la Storia di Giuseppe il falegname, 1002 – 4.9. I vangeli della vita pubblica: il Vangelo di Pietro, 1004 – 4.10. I vangeli della vita pubblica: le Memorie di Nicodemo, 1006 – 4.11. Il Ciclo di Pilato, 1011 – 4.12. Il Vangelo di Gamaliele, 1014 – 4.13. Il Vangelo di Bartolomeo, 1015 – 4.14. La Dormizione della Madonna, 1016 – 4.15. Gli Atti degli Apostoli apocrifi, 1019 – 4.16. Gli Atti di Pietro, 1022 – 4.17. Gli Atti di Paolo, 1026 – 4.18. Gli Atti di Giovanni, 1028 – 4.19. Gli Atti di Tommaso, 1031 – 4.20. Gli Atti di Andrea, 1033 – 4.21. Le Memorie apostoliche di Abdia, 1034 – 4.22. Le lettere apocrife, 1037 – 4.23. L’apocalittica, 1042 – 4.24. L’Apocalisse di Pietro, 1043 – 4.25. L’Apocalisse di Paolo, 1044 – 4.26. Le Apocalissi di Ezra, di Tommaso e di Giovanni, 1045 – 4.27. Conclusione, 1046.

1049 Capitolo V Incongruenze della teoria delle due fonti

Indice 



641

5.1. Lo stratagemma della teoria delle due fonti, 1049– 5.2. La teoria delle due fonti: le argomentazioni di Bradby e di Fitzmyer, 1062 – 5.3. La teoria delle due fonti: le argomentazioni di Downing, 1070 – 5.4. Stein e gli adempimenti scritturali, 1077 – 5.5. Le argomentazioni di Fitzmyer e Kloppenborg sull’ordine narrativo, 1080 – 5.6. La teoria delle due fonti: il problema dei duplicati, 1088.

Parte IV

Dal cristianesimo paolino alla chiesa istituzionalizzata 1095 Capitolo I I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi

1.1. Cristianesimo e gnosi: un intreccio sinallagmatico, 1095 – 1.2. La letteratura sethiana; caratteri generali, 1109 – 1.3. Testi sethiano-cristiani: il Libro del Grande Spirito Invisibile, 1115 – 1.4. Testi sethiano-cristiani: l’Apocrifo di Giovanni, 1116 – 1.5. Testi sethiano-cristiani; l’Ipostasi degli Arconti, 1120 – 1.6. Testi sethiano-cristiani: Protennoia trimorfe, 1122 – 1.7. Testi sethiano-cristiani: il Vangelo di Giuda, 1124 – 1.8. Testi sethiano-cristiani: Melchizedek, 1125 – 1.9. Testi gnostici valentiniani, 1127 – 1.10. Testi gnostici valentiniani: il Trattato sulla resurrezione, 1129 – 1.11. Testi gnostici valentiniani: l’Esposizione valentiniana, 1130 – 1.12. Testi di scuola valentiniana: il Trattato Tripartito, 1131 – 1.13. Testi di scuola valentiniana: L’interpretazione della conoscenza, 1135 – 1.14. Trattati di scuola valentiniana: la Parafrasi di Sem, 1136 – 1.15. Testi di scuola valentiniana: L’Esegesi dell’anima, 1139 – 1.16. Testi cristiano-valentiniani, 1140 – 1.17. Testi cristiano-valentiniani: il Vangelo della Verità, 1141 – 1.18. Testi cristiani di matrice tommasiana, 1143 – 1.19. Testi cristiano-gnostici: il Vangelo di Filippo, 1162 – 1.20. Testi cristiano-gnostici: il Secondo discorso del Grande Seth, 1173 – 1.21. Testi cristiano-gnostici: il Dialogo del Salvatore, 1175 – 1.22. Testi cristiani: Atti di Pietro, 1177 – 1.23. Testi cristiani: le Apocalissi di Pietro e di Paolo, 1177 – 1.24. Testi cristiani: l’Insegnamento di Silvano, 1179 – 1.25. Testi cristiani: il Libro segreto di Giacomo, 1182 – 1.26. Testi cristiani: le due Apocalissi di Giacomo, 1183 – 1.27. Gnosi e proto-cristianesimo: la reciproca convivenza, 1185 – 1.28. Gnosi e proto-cristianeismo: il lessico comune, 1190.

1199 Capitolo II Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici

2.1. Struttura formale delle lettere, 1199 – 2.2. La Lettera ai Romani tra giudaismo/an-

642  Indice

tigiudaismo e gnosi/antignosi, 1207 – 2.3. La prima Lettera ai Corinzi, 1218 – 2.4. La seconda Lettera ai Corinzi, 1223 – 2.5. La Lettera ai Galati, 1227 – 2.6. La Lettera agli Efesini, 1229 – 2.7. La Lettera ai Filippesi, 1231 – 2.8. La Lettera ai Colossesi, 1232 – 2.9. Le due Tessalonicesi, 1233 – 2.10. La pseudepigrafia delle lettere e il carattere fittizio della personalità di Paolo, 1238 – 2.11. Autenticità o inautenticità delle lettere paoline, 1248 – 2.12. L’epistolario paolino e la gnosi, 1258 – 2.13. Spunti per una datazione dell’epistolario paolino, 1264 – 2.14. La riscoperta del paolinismo, 1272 – 2.15. Analisi linguistico-lessicale dell’epistolario paolino, 1277 – 2.16. Gli Atti degli Apostoli e il loro rapporto con il corpus paolino, 1294 – 2.17. Conclusione, 1323.

1331 Capitolo III Verso la Chiesa istituzionalizzata

3.1. Dall’apologetica alla polemica antieretica, 1331 – 3.2. Il mito del martirio e delle persecuzioni, 1347 – 3.3. L’istituzionalizzazione della Chiesa imperiale, 1359.

1387 Indice dei nomi antichi 1421 Indice degli autori moderni

parte iii Dall’essenismo e dall’enochismo al cristianesimo: il Cristianesimo Apostolico

capitolo i

STORICITÀ DI CRISTO: LE FONTI EXTRACRISTIANE DEL I E II SECOLO

1.1. Premessa Ciò che sconcerta lo storico nella ricerca di fonti extrabibliche di prima mano relative al cristianesimo delle origini è la totale assenza di riferimenti a Cristo e allo stesso cristianesimo nelle letterature giudaica, greca e latina, coeve all’età apostolica. Non se ne trova traccia in Lucio Anneo Seneca il Vecchio (50 a.C.-40 d.C.), del quale si sono perdute tutte le opere ad esclusione dei Discorsi, né in Lucio Anneo Seneca il Giovane (4 a.C.65 d.C.), uno dei maggiori rappresentanti dello stoicismo romano, il quale aveva un grande interesse per le questioni etico-religiose, come dimostrano i numerosi trattati da lui scritti; eppure egli visse a Roma proprio negli anni in cui avrebbe avuto luogo la predicazione di Paolo. L’inspiegabile silenzio di Seneca sorprese probabilmente gli stessi falsari cristiani che si affrettarono a mettere in piedi una sorta di carteggio tra lui e Paolo che non tardò ad essere smascherato come inautentico. Non un accenno a Cristo troviamo in Plutarco (46-127 d.C), di orientamento platonico, il quale, pur vivendo prevalentemente a Cheronea nella Beozia, ebbe contatti con gli ambienti alessandrini e romani, si occupò di problematiche etiche e fu un attento osservatore dei fenomeni religiosi. Non ne troviamo in Dione Crisostomo (40-120), che tra l’altro visse in Bitinia tra il 100 e il 107 pochi anni prima che Plinio il Giovane si allarmasse per la propagazione delle sette cristiane. Non ne troviamo in Gaio Plinio Secondo il Vecchio (2379), che fu animato da una curiosità e da una sete di sapere senza pari e 645

646  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

visse in Palestina negli anni 65-70 d.C., né in Epitteto (50-125 d.C.),(1) esponente della nuova Stoa, liberto di un tale Epafrodito, talvolta arbitrariamente identificato con quell’Epafrodito, di cui parla Paolo nella Lettera ai Filippesi. Plinio il Vecchio visse tra Roma e Nicopoli nell’Epiro, ove Paolo non avrebbe mancato di svolgere il suo apostolato. Non abbiamo tracce di presenza cristiana a Roma né negli epigrammi di Marziale (38-104), né nelle satire di Giovenale (50-127). Neppure un sia pur fugace accenno ai cristiani è dato trovare in tutta la vasta produzione di Filone di Alessandria (20/15 a.C.-41/45 d.C.), ebreo platonico del primo secolo i cui interessi religiosi sono confermati dai suoi monumentali commentari ai testi veterotestamentari, interpretati in chiave allegorica. Nel De vita contemplativa (περὶ βίου θεωρητικοῦ), in cui pure ci ha lasciato, come si è detto,(2) una minuziosa descrizione della setta dei terapeuti, non ha rilevato alcuna affinità con le emergenti sette cristiane. Dal canto suo Fozio (827-898), patriarca di Costantinopoli, afferma di aver letto il Chronicon regum Judaeorum qui coronati fuerunt di Giusto di Tiberiade (del i secolo d.C.), ebreo che visse nei tempi e nei territori in cui si svolse la predicazione del Cristo, e di non avervi trovato menzione(3). Paradossale è altresì l’assenza di riferimenti non solo a Cristo, ma anche ai cristiani nei manoscritti del Qumran, che abbracciano un periodo storico che si estende dal ii secolo a.C. fino alla distruzione del tempio (70 d. C) e alla rivolta di Bar Kokhba (135 d.C.). Nel capitolo precedente si è visto come nella letteratura cristiana o cristianizzata collocabile tra la fine del primo secolo e gli inizi del secondo non solo il mito del Cristo è ancora in formazione, ma è altresì assente ogni consistente e sicuro accenno tanto ai Vangeli sinottici quanto alle lettere paoline. (1)  W. A. Oldfather, Epictetus. The Discoursus as Reported by Arrian, the Manual and Fragments, London, Heinemann, 1961. (2) v. supra, pt. II, par. 1.2. (3)  Fozio, Bibliotheca, PG. liii, col. 544: «Lectum est Justi Tiberiensis Chronicon, cujus inscriptio Justi Tiberiensis regum Judaeorum qui coronati fuerunt. Hic e Tiberiade Galileae oppidum ortum nomenque traxit. Auspicatur historiam a Moyse, perducitque ad exitum usque Agrippae septimi e familia Herodis, et Judaeorum regum postremi, qui regnum sub Claudio accepit: crevit sub Nerone, ampliusque dein sub Vespasiano: obiit autem tertio Trajani anno, quo et historiae finis ducitur. Stylus huic maxime concisus, et pleraque relatu cum primis necessaria praetermittit. Communi autem Hebraeorum vitio laborans, Judaeus genere cum esset, de Christi adventu, deque iis quae ipsi acciderunt, aut de miraculis ab illo patratis, nullam prorsus fecit mentionem».

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

647

Gli esegeti cristiani, di cui McDowell e Wilson si possono reputare le punte più avanzate, tendono a sottovalutare questa vistosa carenza delle fonti e ritengono che la storicità del Cristo sia confermata tanto nel Nuovo Testamento quanto in fonti che sono databili dal ii al iv secolo d.C.,(4) come i Padri della Chiesa, o in scrittori ecclesiastici, come Policarpo, Ireneo, Giustino, Ignazio, Origene, Eusebio e Tertulliano in merito alla conversione di Tiberio, nonché in fonti extracristiane, come Giuseppe Flavio, il Talmud in entrambe le versioni, Plinio il Giovane, Tacito, Svetonio, Thallos, Flegonte, Serapion e Luciano. Contro le tesi di McDowell e di Wilson si possono proporre le seguenti obiezioni: 1) per diverse ragioni Giustino non ha l’affidabilità dello storico; egli infatti ritiene che Tolomeo, reputato per altro contemporaneo di Erode, abbia incaricato i Settanta per la traduzione della Bibbia in greco; 2) Giustino dà credito a documenti oggettivamente discutibili, come gli Atti di Pilato; 3) Giustino, Origene e Policarpo non sembrano attingere da altre fonti se non dal NT e perciò non costituiscono una conferma indipendente della storicità del Cristo; scrivono a distanza dagli eventi che narrano e non sono pertanto testimoni diretti degli stessi; per di più accolgono acriticamente storielle inventate. Tale è per esempio la favolosa conversione di Tiberio al cristianesimo, la quale urta contro i fatti narrati da Tacito e da Svetonio, che ce lo dicono avverso a tutti i culti religiosi tanto da decretarne l’espulsione da Roma. Se Tiberio si fosse convertito al cristianesimo, ne avremmo trovato testimonianza in Paolo, che era cronologicamente più vicino agli avvenimenti. D’altra parte non ci sono altri autori che parlino della conversione di Tiberio; Tertulliano è pur sempre una fonte tardiva per attestare che le cose siano andate come egli dice. 1.2.  Il cristianesimo nel giudizio di autori pagani: a) Petronio Tra il ii e il iv secolo d.C. non pochi autori pagani alludono ai cristiani e talvolta ne parlano come di una setta nociva di recente espansione, costitu(4) J. McDowell, Evidence that Demands a Verdict, San Bernardino, Here’s Life Publishers, 1979 e successivamente con Bill Wilson: J. McDowell -B. Wilson, He Walked Among Us: Evidence for the Historical Jesus, San Benardino, Here’s Life Publishers, 1988. Di contro R. Lataster, Questioning the Plausibility of Jesus Ahistoricity Theories: A Brief Pseudo-bayesan Metacritique of the Sources, «Intermountain West Journal of Religious Studies», vi, 2015, pp. 64-96, è del parere che nessuna delle fonti neotestamentarie offre garanzie in merito alla storicità del Cristo.

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ita per lo più da seguaci affetti da insania.(5) Gli esegeti cattolici ne danno spesso una interpretazione forzata nel tentativo di piegarli alle istanze delle loro posizioni ideologiche, che sono poi quelle di trovare conferme alla veridicità dei racconti evangelici. Sono per lo più soggetti a tali forzature i testi di Gaio Petronio Arbitro (27-66), Apuleio di Madaura (125-170 d.C.),(6) Marco Cornelio Frontone (100-170 d.C.)(7) e Claudio Galeno di Pergamo (129-201 d.C.).(8) Petronio (27-66) scrisse sotto Nerone il Satyricon, uno dei più noti romanzi della letteratura latina. Non avremmo l’interesse a parlarne se non fosse per l’episodio della matrona di Efeso, che gli studiosi cattolici, vogliono dipendente dal Vangelo di Marco a differenza di Patschung che è di opposto parere. In realtà non c’è alcuna evidenza né per l’una né per l’altra delle due ipotesi; né c’è alcun legame diretto o testuale tra il Satyricon e Marco tale da giustificare una dipendenza nell’una o nell’altra direzione. Il Satyricon contiene ovviamente una satira dei costumi e delle superstizioni greche e romane che erano particolarmente frequenti nelle sette misteriche. Un primo esempio è dato dal passo,(9) in cui Petronio accenna ad una superstizione tipicamente romana secondo cui il canto del gallo fuori orario alla sera è preannunciatore di eventi funesti. Di tale superstizione si trova traccia in Plinio.(10) Trimalcione, infatti, interpreta il canto del gallo come presagio di un incendio o della morte di qualcuno; perciò, intimorito, ordina di fare gli op(5)  Sui conflitti tra cristiani e pagani nei primi secoli dell’Impero, cfr. C. H. Fouard, Les origines de l’Eglise, Paris, Lecoffre, 1884; P. de Labriolle, La réaction paienne. Étude sur la polémique antichrétienne du i au v siècle, Paris, L’Artisan du Livre, 1934; J. Moreau, Les plus anciens témoignages profanes sur Jésus, Bruxelles, Office de Publicité, 1944; W. Den Boer, Scriptorum paganorum i-iv saec. De christianis testimonia, Leiden, Brill, 1965; M. Simon, Early Christianity and Pagan Tought: Confluences and Conflicts, «Religious Studies», ix, 1973, p. 385; S. Benko, Pagan Criticism of Christianity during the First two Centuries A. D., Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, ii-32, Berlin, De Gruyter, 1980, p. 1055; P. Carrara, I pagani di fronte al cristianesimo. Testimonianze dei secoli i e ii, Firenze, Nardini, 1984; L. Padovese, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli, Roma, Dehoniane, 1988. (6) A. Portolano, Cristianesimo e religioni misteriche in Apuleio, Napoli, Federico & Ardia, 1972. (7) P. Frassinetti, L’orazione di Frontone contro i cristiani, «Giornale Italiano di Filologia», ii, 1949, pp. 239-254. (8) R. Walzer, Galen on Jews and Christians, Oxford, University Press, 1949. (9)  Petronio, Satyricon, lxxiv, 1-5, (10)  Plinio il Vecchio, Hist. Nat., x, 49.

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portuni scongiuri (spargere il vino sotto la tavola, passare l’anello dalla mano sinistra alla destra);(11) poi, fattosi consegnare il gallo, lo fa cuocere in pentola, dicendo: «Che Dio ce ne scampi! Chiunque mi porterà questo annunciatore di disgrazie, ne riceverà una ricompensa» (Longe a nobis absit! Itaque quisquis hunc indicem attulerit, corollarium accipiet). È realistico sostenere che questo passo dipenda dal vangelo di Marco? Assolutamente no! Al contrario, esso ci aiuta a capire che l’autore di Marco si riferisce ad una superstizione ampiamente diffusa nel mondo romano. E indipendentemente dal fatto che egli la traesse da Petronio o da Plinio, cade nella trappola di riferirla erroneamente al mondo palestinese e in particolare a Gerusalemme, ove l’allevamento dei galli era seriamente vietato dalla legislazione a salvaguardia della purezza del tempio. Anche l’episodio della matrona di Efeso(12) è in proposito significativo. Il relativo racconto è ovviamente d’impronta satirica: la virtuosa vedova che, per l’inconsolabile pianto del marito morto, sembra essere un esempio raro di pudicizia e di amore («pudicitia et amor»), si rivela in realtà un esempio di vergognosa immoralità, poiché si dà alle gioie di Venere nello stesso sepolcro del marito, ove ritiene di non tenere a digiuno neppure quella parte del corpo («Ne hanc quidem partem corporis mulier abstinuit»). L’interesse dei due brevi capitoli è dato dal fatto che in essi si parla della crocifissione decretata dal governatore della provincia della Ionia di due malfattori proprio nei pressi dell’edicola in cui la matrona piangeva il marito appena morto. E affinché nessuno asportasse i cadaveri dalle croci era stato posto a guardia un soldato che non tardò a stabilire la piacevole tresca con la matrona, chiudendosi con lei la notte nel sepolcro del marito. Ma quando il diavolo ci mette la coda […] ! I parenti di uno dei due ladroni crocifissi ne trafugano il corpo. Il soldato è disperato e teme il supplizio (supplicium), ma gli viene incontro la virtuosa matrona che gli consente di scambiare il corpo del marito defunto con quello del ladrone trafugato. Naturalmente il racconto regge solo in riferimento al costume greco di inumare i cadaveri e non a quello romano della cremazione. Sembra se ne debba dedurre che l’abitudine di mettere a guardia dei crocifissi un soldato era forse una prassi consolidata, volta ad impedire che i parenti potessero trafugarne segretamente il corpo per dargli ordinaria sepoltura. Nelle sue note critiche al testo di Petronio, Vincenzo Ciaffi fa presente che la novella è anteriore a Petronio, tant’è che se ne trova traccia (11) v. Plinio, Hist. nat., xxviii, 26 e 57. (12)  Petronio, Satyricon, cxi, 1-12 –cxii, 1-8.

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in Fedro.(13) Naturalmente va detto che non v’è alcun rapporto tra il Satyricon e il vangelo di Marco. È però facilmente intuibile che di fronte alla contestazione pagana della resurrezione del Cristo, l’autore di Marco ha semplicemente fatto riferimento ad un costume largamente diffuso o viceversa ha fatto mente locale ai testi di Fedro o di Petronio. L’ultimo passo,(14) cui ricorrono gli studiosi cattolici non ha nulla a che fare con la cena eucaristica. Il testo dice: «Tutti coloro per i quali ci sono dei legati nel mio testamento […] potranno percepire i miei lasciti a patto che facciano a pezzi il mio corpo e che li consumino sotto gli occhi del popolo» («Omnes, qui in testamento meo legata habent […] hac condicione percipient quae dedi, si corpus meus in partem conciderint et astante populo comederint»). Qui non c’è alcuna allusione ad una cena mistica, ma semplicemente, come rileva acutamente Ciaffi, un’ironica e satirica allusione al rigorismo vegetariano dei Crotoniati. Che d’altra parte non si alludesse all’eucaristia è provato dal fatto che Petronio accenna ad episodi di cannibalismo verificatisi a seguito degli assedi di Sagunto, di Numanzia e di Petelia. 1.3. Apuleio Ad Apuleio (125-170) si attribuiscono due probabili allusioni ai cristiani presenti nelle sue opere. Una troverebbe riscontro nelle Metamorfosi e l’altra nell’Apologia.(15) In realtà i due testi sono estremamente vaghi e generici e potrebbero riferirsi a varie sette religiose o filosofiche. Nelle Metamorfosi Apuleio ci presenta la moglie di un mugnaio come esempio di massima pravità dei costumi; non v’era vizio che le mancasse e non v’era vizio che non le venisse attribuito con gli appellativi più squalificanti; era definita ‘melmosa latrina’ («carnosa latrina» di «flagitia» d’ogni sorta, «saeva scaeva, viriosa ebriosa, pervicax pertinax»), nemica della religione («inimica fidei») e della pudicizia («hostis pudicitiae»), simulatrice della credenza in una divinità unica; tradiva spudoratamente il marito e si prostituiva tutto il giorno. Con un tono sarcastico Apuleio le attribuisce la credenza in un unico Dio e ciò ha dato modo agli interpreti cristiani di supporre che si (13) V. Ciaffi, Styricon di Petronio, Torino, Utet, 1983, p. 276. Cfr. Appendix Perrottina 15. (14)  Petronio, Satyricon, cxli, 2-11. (15)  Apuleio, Metamorphoseon, ix, 14; Apologia, lvi.

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trattasse di una cristiana, sulla cui condotta etica sarebbero state rovesciate da Apuleio, reo da intolleranza religiosa, tutte le turpitudini che l’opposizione pagana riferiva ai cristiani. Ma il testo delle Metamorfosi è troppo vago per prestarsi ad una sicura identificazione del credo della donna. Vissuto tra Cartagine ed Atene sotto l’influenza del platonismo e dei culti misterici eleusini, il filosofo di Madaura, che respirava l’aria del misticismo del medioplatonismo, ha forse voluto colpire attraverso l’allegra professione di fede della moglie del mugnaio quelle forme di ipocrisia religiosa che non dovevano essere poi tanto infrequenti nel suo tempo. Egli in fondo accenna in termini molto vago al credo della donna e forse la sua stessa genericità deve indurci a sospettare che ancora in pieno secondo secolo doveva essere difficile per un romano distinguere il cristiano dai proseliti di altri culti religiosi. Un analogo equivoco è dato riscontrare nell’Apologia, in riferimento ad Emiliano, descritto da Apuleio o come un settario che respinge il culto delle immagini e il sacrificio delle primizie o come un ateo sul modello del virgiliano Mesenzio.(16) Anche in questo caso, uno studioso come Griset,(17) ha voluto intravvedere la figura di un cristiano. Ma il testo dell’Apologia è ancor più vago e sfuggente di quello delle Metamorfosi. E da una così debole tessitura non si possono trarre certezze né sulla personalità storica di Cristo né sul credo dei cristiani. 1.4.  Claudio Galeno Non diverso il caso di Claudio Galeno (129-201). È sì vero che le sue allusioni al cristianesimo sono dirette e puntuali, ma nello stesso tempo non aggiungono nulla di nuovo alla nostra conoscenza dell’etica cristiana. Il grande maestro della medicina si dice sorpreso dalla condotta morale dei cristiani e dalla loro tenace resistenza all’impulso sessuale; anzi egli aggiunge che il loro disprezzo della morte e il loro dominio sull’istinto e sul piacere carnale è degno dei filosofi. Tuttavia, nello spirito del più puro razionalismo, non si esime dal far derivare la loro fede dai miti.(18) Nel De (16)  Virgilio, Aen., viii, 7. (17) E. Griset, Un cristiano di Sabratha, «Rivista di Studi Classici», v, 1957, pp. 35-39. (18)  Galeno, De sententiis Politiae Platonicae. Si tratta di un’opera spuria, dalla quale riporta un passo Abulfeda, Historia anteislamica arabice, ed. Henricus Orthobius Fleischer, Leipzig, Typis Vogel, mdcccxxxi, p. 109.

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differentia pulsuum non ha difficoltà ad estendere la sua critica alle leggi di Mosè e di Cristo, dichiarandole indimostrate e non credibili, tant’è che è più facile dissuadere coloro che provengono dalle fede in Mosè o in Cristo che dissuadere i medici o i filosofi che sono saldamente ancorati ai loro princìpi.(19) Galeno è un chiaro esempio di come il paganesimo guardasse criticamente al cristianesimo. Ma possiamo da ciò dedurre che la sua è una testimonianza a favore della storicità di Cristo? No assolutamente. Egli cita Cristo allo stesso modo in cui cita Mosè. Nelle sue parole non c’è nessuna adesione ad una verità storica; ma c’è solo la riflessione sui costumi dei cristiani del suo tempo: nulla più di questo. 1.5. Frontone Marco Cornelio Frontone di Cirta (100-170 d.C.) è stato chiamato in causa in quanto sarebbe stato autore di una presunta Oratio contro i cristiani (162-166 d.C.), su cui si è soffermato a lungo Minucio Felice nell’Octavius.(20) Si tratta in realtà di un testo di scarsa affidabilità, costruito per rendere credibile il clima delle persecuzioni anticristiane che si sarebbero verificate sotto Marco Aurelio e Lucio Vero. Frontone, che fu precettore dei due imperatori, fu tirato in ballo – a viva forza – come ispiratore della presunta persecuzione, nel cui clima si sarebbero consumati il martirio di Policarpo e quello dei martiri viennesi e lionesi, cui faremo cenno più avanti.(21) Ma, a prescindere dal fatto che per il carattere fantasioso delle loro narrazioni le lettere sui martiri di Smirne, di Vienna e di Lione non hanno alcuna credibilità e che poco credibile è la stessa persecuzione degli imperatori antoniniani, l’Oratio frontoniana è troppo smaccata e non sembra presentare tracce di quella elocutio novella che il retore proponeva come rinnovamento dell’arte oratoria, della quale aveva dato una equilibrata esemplificazione nelle Epistole, riscoperte da Angelo Mai. In essa c’è il manifesto compiacimento di mettere a nudo l’immoralità dei costumi (19)  Galeno, De differentia pulsuum, ii, 4; iii, 3. (20)  Minucio Felice, Octavius, ix, 1-8 e xxxi, 1-4. Cfr. l’edizione curata da Hubert Ashton Holden, Cambridge, University Press, 1853 (PL. iii, coll. 260-263, 335-338). Frammenti incompleti della Oratio sono riprodotti in Opere di Marco Cornelio Frontone, a c. di Felicita Portalupi, Torino, Utet, 1974, pp. 577-579. (21) v. infra, pt. IV, par. 3.2.

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cristiani, attingendo a piene mani ad ogni cliché e ad ogni diceria perversa sulle loro congreghe notturne («nocturnis congregationibus»), sulla loro promiscuità, sui digiuni e sui banchetti inumani, sui loro presunti incesti («ac se promisce appellant fratres et sorores, ut etiam non insolens stuprum intercessione sacri nominis fiat incestum»), sulla consacrazione di una bestia immonda come l’asino, su sacrileghi riti di iniziazione con spargimento di sangue e infine sul culto della croce e dell’estremo supplizio del Cristo. A chi avrebbe indirizzato Frontone questa sequela di maldicenze? A uno dei due imperatori? Difficile crederlo se nella corrispondenza rintracciata dal Mai non se ne trova traccia. Ma anche posto che l’Oratio sia autentica, che cosa mai proverebbe, se non la cattiva fama di cui godevano i cristiani presso i pagani? Che supporto potrebbe dare al problema della storicità del Cristo, se neppure lo nomina e – se mai – lo indica come semplice uomo condannato per un crimine al sommo supplizio e al funesto legno della croce («Hominem summo supplicio pro facinore punitum et crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur»)? 1.6.  Filosofi pagani e il cristianesimo: a) Celso In questo paragrafo tenteremo di mettere in luce le posizioni di filosofi come Celso (m. dopo il 180), Epitteto (50-130), Luciano di Samosata (120-183), Porfirio di Tiro (231-270).(22) Il Discorso vero, (Ἀληθὴς λόγος) di Celso, scritto probabilmente intorno al 175-180 d.C., ci dà la misura del contrasto profondo, ideologico e culturale, tra il mondo pagano e quello cristiano. L’attacco di Celso al cristianesimo è radicale e lo investe in tutti i suoi aspetti storici, filosofici e teologici. Prendendo le mosse dalla grande cultura ellenica, dal pitagorismo al platonismo allo stoicismo, Celso trova assurda, e razionalmente insostenibile, tutta la narrazione vetero- e neotestamentaria. Qui per ragioni di spazio non possiamo che (22)  A. von Harnack, Porphyrius - gegen die Cristen, Berlin, Reimer, 1916; P. Benoit, Un adversaire du christianisme au iii siècle: Porphyre, «Revue Biblique», liv, 1947, p. 543; P. Nautin, Trois autres fragments du livre de Porphyre. Contre les Chrétiens, «Revue Biblique», lvii, 1946, p. 408; C. Mutti, Porfirio. Discorsi contro i cristiani, Padova, Edizioni di Ar, 1977; A. Meredith, Porphiry and Julian Against Christians, Aufstieg und Niedergang der Römischen, ii-23-2, 1980, p. 1119; S. Pezzella, Il problema del Κατὰ χριστιανῶν di Porfirio, «Eos», lii, 1962, p. 87; F. Scheidweiler, Zu Porphyrios Κατὰ χριστιανῶν, «Philologus», xcix, 1955, pp. 304-312.

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passare in rassegna sommariamente e fior da fiore le sue acute argomentazioni. Da una parte egli prende a bersaglio la credulità dei cristiani; dall’altra rileva la contraddittorietà delle versioni evangeliche in ordine alla figura di Cristo. I cristiani – egli dice – respingono il confronto dialettico e razionale e si rifugiano nella fede cieca, tengono in dispregio la sapienza di questo mondo, accolgono acriticamente come vere le guarigioni e le resurrezioni narrate nei testi evangelici, non si rendono conto che la dottrina della resurrezione del Dio dopo la morte è ‘roba vecchia’.(23) Le narrazioni evangeliche sono – a suo parere – storielle inventate dagli stessi cristiani e non hanno neppure la cornice della verosimiglianza; se mai si tratta di racconti che vanno intesi allegoricamente.(24) La resurrezione del Cristo anzi non è altro che uno stratagemma per approfittare della credulità degli uomini, lo stesso a cui si fa ricorso in riferimento a numerose pseudo-divinità delle quali Celso dà un lungo elenco. La realtà è che «nessuno è mai veramente risorto con il proprio corpo».(25) Inattendibile, in quanto è una pura invenzione, è anche la nascita virginale del Cristo. Celso non si lascia sfuggire che nel testo originario di Isaia si parla di «giovane fanciulla» e non di ‘vergine’, come invece traduce la Septuaginta.(26) Egli si mostra scettico in merito alle diverse annunciazioni angeliche, al mito della creazione, ai miracoli del Cristo che sono ricondotti all’uso delle arti magiche, al mito della passione e della crocefissione; mostra di avere una certa familiarità con i testi rabbinici, come dimostra il fatto che conosce la storiella secondo cui Maria avrebbe consumato l’adulterio con Pantera.(27) Celso dedica molta attenzione al rapporto tra le vicende di Cristo e le antiche profezie. Egli non crede che l’avvento di Cristo sia stato preannunciato dai profeti;(28) se mai è vero l’opposto: è più verosimile che gli eventi che capitarono a Cristo furono ritagliati sulla base delle profezie veterotestamentarie, pur trattandosi di profezie che «possono adattarsi a migliaia di persone».(29) Scarsa credibilità hanno anche – a suo avviso – le profezie dello stesso Cristo. Che Cristo abbia predetto la sua imminente tragedia non fu che un’invenzione dei suoi discepoli.(30) Inaccettabili sono le altre profezie narrate nei Van(23) Cfr. Origene, Contra Celsum, i, 9, 13, 68; ii, 5. (24)  Ivi, ii, 26; iv, 48, 50. (25)  Ivi, ii, 55, 57. (26)  Ivi, i, 28, 34. (27)  Ivi, i, 38, 19, 6, 26, 68; ii, 49, 8-9; i, 32. (28)  Ivi, vii, 2. (29)  Ivi, ii, 28. (30)  Ivi, ii, 13.

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geli. Se Gesù predisse che qualcuno lo avrebbe tradito e che qualcun altro lo avrebbe rinnegato, evidentemente costoro – obietta Celso – non lo temettero come un Dio; anzi non è neppure credibile che Giuda e Pietro abbiano potuto tradire e rinnegare Cristo dopo aver avuto notizia della profezia.(31) E se le cose si avverarono necessariamente per essere state predette da un Dio, Dio ha la responsabilità di aver indotto i suoi discepoli a «diventare empi e scellerati».(32) Il filosofo platonico non si lascia sfuggire l’occasione per condannare il comportamento etico dei discepoli che, quando videro crocifisso il loro maestro, non solo non vollero morire con lui, ma al contrario lo rinnegarono.(33) Celso si spinge ancor oltre e mette chiaramente in dubbio la divinità del Cristo. E lo fa sia perché la trova contraddittoria alla luce della versione evangelica, sia perché la reputa inammissibile sotto il profilo filosofico. Nessuno potrebbe riconoscere un dio o il figlio di un Dio da «testimonianze così balorde» come quelle evangeliche.(34) Che la divinità di Cristo fosse solo presunta è dimostrato dal fatto che egli non fu soccorso dal Padre, né fu capace di recare aiuto a sé stesso.(35) Se poi nei Vangeli si dice che «ogni uomo è detto Figlio di Dio», sorge inevitabilmente l’obiezione: «In che cosa allora Cristo è diverso da un altro uomo?».(36) Se Gesù avesse voluto manifestare la sua potenza divina, avrebbe dovuto apparire a coloro che lo avevano condannato, invece, scrive ironicamente Celso, Gesù «non è apparso, ma in realtà è apparsa la sua ombra».(37) L’analisi critica del filosofo pagano si estende poi al concetto stesso di Dio. Com’è possibile pensare che un Dio onnipotente abbia fatto fuggire in Egitto il figlio appena nato per sottrarlo alla malevolenza di Erode? Non poteva proteggerlo là dove si trovava?(38) D’altronde Dio – egli aggiunge - non può essere generato, né può assumere un corpo, né può nutrirsi o emettere una voce umana.(39) Men che mai è possibile parlare di un Dio che tiene in odio qualcosa, perché, in quanto creatore di tutti gli esseri, li ama tutti e non (31)  Ivi, ii, 18-19. (32)  Ivi, ii, 20. (33)  Ivi, ii, 45. (34)  Ivi, ii, 30. (35)  Ivi, i, 54. (36)  Ivi, i, 57. (37)  Ivi, ii, 63; iii, 22. (38)  Ivi, i, 66. (39)  Ivi, i, 69-70.

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può avere in odio alcuna creatura.(40) Non è sensato parlare della discesa di un dio sulla terra, perché non regge sul piano filosofico: infatti, se Dio «discende fra gli uomini, è soggetto ad un cambiamento dal bene al male, dalla bellezza alla bruttezza, dalla felicità alla infelicità». Di contro Dio è per natura sempre identico e immutabile; non si muta in un corpo mortale.(41) E poi perché solo in quel momento, dopo tanti secoli, Dio si sarebbe «ricordato di render giusta la vita degli uomini?».(42) La realtà è che «nessun Dio […] nessun figlio di Dio è mai disceso fra noi, né potrebbe discendere»; se fosse nato in un corpo mortale, il figlio di Dio non potrebbe essere immortale.(43) E se Dio è onnisciente, come non ha potuto prevedere che mandava suo figlio tra uomini cattivi che lo avrebbero condannato? E la morte e la resurrezione del figlio di Dio sono poi veramente degne di un Dio?(44) 1.7. Epitteto Epitteto (50-130 d.C.), citato da Lucio Flavio Arriano (95-175 d.C.) nelle Dissertationes,(45) afferma che i Galilei «per ostinazione» non temono la morte. L’identificazione dei Galilei con i cristiani è arbitraria; è più verosimile che Epitteto si riferisca genericamente ai giudei, la cui ostinazione e il cui dispregio per la morte erano famosi. Probabilmente Epitteto o, per lui, Arriano, tiene presente la drammatica fine degli ultimi resistenti ebrei nella guerra giudaica. In ogni caso la citazione non dà alcuna certezza storica su Cristo. 1.8.  Luciano di Samosata Come fonte della storicità del Cristo si suole addurre anche Luciano di Samosata (120-192), del secondo secolo, in riferimento al De morte Perigrini, capitoli xi-xiii. Il saggio, dedicato da Luciano all’amico Cronio, forse (40)  Ivi, i, 71. (41)  Ivi, iv, 3, 14, 18. (42)  Ivi, iv, 7. (43)  Ivi, v, 2; vi, 72. (44)  Ivi, vi, 81; vii, 14. (45)  Epicteti Dissertationes ab Arriano digestae, ad fidem codicis bodleiani recensuit Henricus Schenkl, Lipsiae, in Aedibus B. G. Teubneri, 1898.

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di fede platonica, è stato scritto tra il 169 e il 170 d.C., a circa 140 anni di distanza dalla passione. In esso Luciano ironizza sulla morte del filosofo cinico Peregrino-Proteo, che nel 165 d.C. si diede la morte sul rogo. Ironicamente soprannominato Proteo per le numerose trasformazioni che conobbe nel corso della sua vita, Peregrino compie l’ultima di tali metamorfosi, passando dal cinismo al cristianesimo. Per comprendere il senso ironico del testo lucianeo, occorre tener presente che Luciano scrive poco dopo lo scoppio della grande pandemia nota anche come peste di Antonino, la quale nel volgere di circa un trentennio provocò la morte di milioni di persone, riducendo di un terzo la popolazione dell’Impero. La stessa sorte subirà l’Impero a distanza di circa un settantennio con una ulteriore pestilenza nota col nome di peste di Cipriano (249-270). La tragedia di immani dimensioni colpì la coscienza di una popolazione avvezza da lunga pezza alla superstizione e al sacro timore del divino. Ciò alimentò le schiere degli adepti ai diversi culti e in particolar modo alle religioni della salvezza. Ne fu favorito soprattutto il cristianesimo, che proprio in tali occasioni vide allargarsi la schiera dei credenti. La conversione di Peregrino è evidentemente inserita in tale contesto ed ovviamente suscita la reazione ironica di Luciano. Ciò però non significa che Luciano abbia una puntuale conoscenza del cristianesimo e, in particolare, della figura di Cristo. Egli ne parla incidentalmente e non senza qualche imprecisione di carattere storico. Ritiene che Peregrino apprese la singolare dottrina (θαυμαστὴν σοφίαν) dei cristiani in Palestina direttamente dai sacerdoti e dagli scribi (τοις ἱερεῦσι καὶ γραμματεῦσιν) e con tono spocchioso afferma che i Cristiani lo venerarono come un dio, come un legislatore e un loro capo, ponendolo in secondo piano dopo «l’uomo che era stato crocifisso in Palestina» (τὸν ἄνθωποv τὸν ἐν τῇ Παλαιστίνῃ ἀνασκολοπισθέντα) per avere introdotto fra gli uomini questa nuova legge. È appena il caso di rilevare che la ricostruzione di Luciano non è storica; egli scrive sulla base di notizie molto approssimative, di seconda mano e di derivazione cristiana. Peraltro sono restio a supporre – checché voglia farci credere Eusebio di Cesarea – che tra il 155 e il 165 d.C., in periodo tannaitico, possa essersi conservata una residua presenza cristiana in Palestina. Difficile credere che Peregrino possa essere stato istruito dai sacerdoti e addirittura dagli scribi in un ambiente di prevalente influenza giudaico-farisaica. D’altro canto da quel poco che sa del cristianesimo, Luciano sembra interpretare la figura di Cristo, non come un dio, ma come un uomo che i cristiani venerano

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come un dio. Più che dell’esistenza storica di Cristo, il De morte Peregrini è una testimonianza della fratellanza cristiana e del reciproco soccorso che essi si prestano al momento del bisogno soprattutto nell’area greco-anatolica. Interessanti sono in proposito i paragrafi 12-13, in cui lo scrittore, pur con il consueto tono ironico, parla dello spirito di solidarietà dei cristiani che tentano di tirar fuori dalla prigione Peregrino; ma l’accento sulla solidarietà è forse strumentale alla denuncia della grande disponibilità economica dei cristiani (dalle città dell’Asia vengono inviati a spese della comunità certi personaggi con l’incarico di proteggere Peregrino, il quale viene abbondantemente rifornito di denaro). Più illuminante è forse un passo in cui Luciano fa riferimento alle presunte persecuzioni anticristiane e ci dice che i cristiani erano così fermamente persuasi della loro vita eterna da disprezzare la morte e da consegnarsi spontaneamente alle autorità politiche; infatti il loro ‘primo legislatore’ (ὁ νομοθέτης ὁ πρῶτος) li aveva convinti di essere tutti affratellati dalla comune adorazione di «quel saggio medesimo che era stato crocifisso» (τὸν δὲ ἀνασκολοπισμένον […] σοφιστην) e dalle leggi da lui dettate. Ai cristiani Luciano accenna nel più tardivo (180 d.C.) Alessandro o il falso profeta (Ἀλεξάνδρος ἤ πσευδομάντις, 32, 25). Ma si tratta di una allusione molto generica: per sfuggire agli attacchi di coloro (cristiani ed epicurei) che lo volevano smascherare come pseudo-profeta, il protagonista Alessandro si inventò uno spauracchio, affermando che i cristiani e gli atei imperversavano nel Ponto (ἀθέων ἐμπεπλῆσθαι καὶ Χριστιανῶν τὸν Πόντον). 1.9.  Porfirio di Tiro L’attacco di Porfirio di Tiro (233-305) al cristianesimo ha un duplice obiettivo: demitizzare con un metodo storico-filologico l’AT e demistificare la figura del Cristo del NT. Sul primo versante egli nega alle antiche Scritture la qualità di testi ispirati e dettati da Dio; sul secondo si propone di mettere a nudo il carattere umano e non divino del Cristo.(46) Sfortunatamente le sue due opere di critica testamentaria, l’Adversus Christianos e la Philosophia ex oraculis non ci sono pervenute e siamo costretti a rico(46)  Lucidissimo in proposito il documentato saggio di Giuseppe Muscolino, Οὐκ ἔστ᾽ἔτυμος λόγος οὗτος: ‘Non è vero questo discorso’, L’attacco storico-filologico di Porfirio alle

Sacre Scritture, «Mediaeval Sophia», xvii, 2015, pp. 165-191.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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struire entro molti limiti il suo pensiero attraverso i pochi frammenti citati da Girolamo, da Severiano Gabalense, da Socrate Scolastico e da Macario. Nel suo Adversus Christianos (Κατὰ Χριστιανῶν), composto in quindici libri, Porfirio trova ingiustificato il divieto divino che impone ad Adamo di non mangiare dell’albero del bene e del male (Gn, ii, 17), in quanto impedisce all’uomo di valutare correttamente la propria condotta etica. L’incongruenza di quel divieto dimostra che il testo biblico non è ispirato, come vogliono far credere gli spiriti religiosi. Più acuto è l’attacco di Porfirio al profeta Daniele. Non solo non ne accetta il carattere profetico, ma ne dà una datazione bassa che lo colloca nel ii secolo a.C. come opera di scuola ezriana. Il suo metodo di analisi è, come scrive giustamente Muscolino, storico-filologico. Sicché – a suo avviso - il Libro di Daniele non contiene profezie, ma solo eventi storici. Il che mette in crisi i cristiani che in esso ritenevano di cogliere le profezie dell’avvento del Messia e della venuta dell’Anticristo. Entrambe sono smentite da Porfirio, il quale al contrario scorge in Daniele soltanto un libro storico che riguarda non la venuta dell’Anticristo, ma più semplicemente gli eventi relativi al regno seleucide di Antioco IV Epifane.(47) Con analoga destrezza il filosofo neoplatonico contesta la profezia della resurrezione dei morti, sostenendo che i cristiani fraintendono il relativo passo di Daniele («Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si ridesteranno, chi per la vita eterna, chi per l’ignominia», Dn, xii, 2). A differenza dei cristiani Porfirio pensa che il testo debba essere letto in chiave metaforica perché va riferito agli ebrei che, per essere difensori della legge, si erano segregati nei sepolcri e nelle grotte del deserto per non cadere vittime del potere oppressivo di Antioco IV; essi – dice il filosofo – riemergeranno alla luce del sole mentre i prevaricatori della legge saranno additati ad eterno disonore.(48) Non meno acuta è l’analisi del racconto di Susanna, la fanciulla insediata da due anziani, i quali, respinti, l’accusano di aver tradito il marito e la fanno condannare a morte. La salva l’intervento di Daniele che, interrogando i due anziani, ne scopre le malevole menzogne. Porfirio scopre che il gioco di paro(47)  Girolamo, Commentariorum in Danielem prophetam, Prol., PL. xxv, col. 491: «ea quae in consummatione mundi de Antichristo futura dicuntur, propter gestorum in quibusdam similitudinem sub Antiocho Epiphane impleta contendat. Tanta enim dictorum fides fuit, ut propheta incredulis hominibus non videatur futura dixisse, sed narasse praeterita»; cfr. anche capitolo ii, col. 504. (48)  Ivi, xii, 1, in PL. xxv, coll. 575-576: «et haec μεταφορικῶς quasi de resurrectione mortuorum esse praedicta».

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le che caratterizza i due interrogatori è possibile solo nella lingua greca, non in quella ebraica. Infatti Daniele chiese al primo dei due anziani sotto quale albero Susanna aveva consumato l’adulterio. L’anziano rispose «sotto un lentisco» (ὑπὸ σχῖνον). E Daniele replicò: «Bene, hai mentito […]. L’angelo di Dio ha già ricevuto da lui la sentenza e ti taglierà a metà (σχίσει σε μέσον). Poi fece la stessa domanda al secondo anziano, il quale rispose: «sotto un leccio» (ὑπὸ πρῖνον) e di nuovo Daniele replicò: «hai mentito […] l’angelo di Dio ti attende con la spada per segarti in due» (πρίσαι σε μέσον). Poiché σχῖνον e σχίσει hanno la stessa radice, come πρῖνον e πρίσαι Porfirio deduce che il Libro di Daniele fu originariamente scritto in greco.(49) La reazione cristiana alle testi porfiriane fu l’inevitabile demonizzazione del filosofo. Così fecero Socrate Scolastico, Teodoreto di Cirro, Epifanio di Salamina e lo stesso Girolamo.(50) L’indagine critica di Porfirio non si limita all’AT, ma si estende anche al Nuovo, mette in dubbio la storicità delle narrazioni evangeliche e segnala la pochezza dei commenti degli scrittori cristiani alle Scritture. Da Eusebio sappiamo che il filosofo tirio non risparmiò neppure Origene, di cui era stato discepolo.(51) Secondo Macario di Magnesia(52) Porfirio avrebbe detto che «gli evangelisti sono stati inventori (ἐφευρέτας) e non storici (ἵστορας) dei fatti attribuiti a Cristo». La ragione di tale giudizio sta nel fatto che egli trova contraddittori i libri neotestamentari e li giudica inattendibili ed infondati. Nella Lettera xlviii a Pammachio Girolamo afferma che molti tentarono di confutare Celso e Porfirio e nella lettera lxxviii si dichiara insoddisfatto dalla confutazione fatta da Apollinare. In effetti le obiezioni mosse da Porfirio contro i Vangeli sono puntuali ed acute, oltre che filologicamente ineccepibili. Tali sono per esempio le osservazioni critiche contro la genealogia matteana del Cristo, articolata in tre τεσσαραδεκαὶ (quattordici generazioni), nella seconda delle quali, compromettendo la struttura della Τεσσαραδεκάς, (49)  Ivi, PL.xxv, col. 492: «quam etymologiam magis graeco sermoni convenire quam hebraeo». Per il testo di Daniele, xiii, 54-59. (50)  Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica, iii, 23, in PG. lxvii, col. 446; Teodoreto di Cirro, Graecarum affectionum curatio, vii: De sacrificiis, in PG. lxxxii, col. 1002-1004, per il quale Porfirio, non avendo voluto riconoscere la verità delle sacre scritture, «simius pemansit» (πίθηκος); Epifanio di Salamina, Panarion, li, 8, 1, ove Celso, Porfirio ed un oscuro ebreo di nome Filosabbatio, sono definiti «gente ‘psichica’ e carnale, che milita secondo la carne, non può piacere a Dio e non sa nulla delle cose dello spirito». Eusebio, HE, vi, 19, 11, definisce Filosabbatio «mendacissimus homo» (ψευδηγόρος). (51)  Eusebio, HE, vi, 19, 2-4. (52)  Macarius Magnus, Apocritico, ii, 12.

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mancherebbe il nome di Yoakim, citato nelle Cronache. Inoltre egli osserva che le versioni di Matteo e di Luca (Mt, ii, 13-15; Lc, ii, 21, 23, 39) in ordine alla nascita di Cristo sono contraddittorie. Dai pochi frammenti che ci sono pervenuti si evince che Porfirio contestò il prologo del Vangelo di Marco (i, 2-3), ove sono attribuiti erroneamente ad Isaia due versetti che sono l’uno di Isaia (xl, 3) e l’altro di Malachia.(53) Più netta è l’accusa a Matteo di ignoranza poiché Porfirio afferma che il parlare per parabole era adempimento non di Isaia ma di Asaf.(54) Ulteriori osservazioni critiche denunciano la falsità dei miracoli, come il prodigio del Cristo che camminava sulle acque o le placava. Quanto alle guarigioni miracolose il filosofo obietta che esse non erano dissimili da quelle compiute dai maghi persiani o egizi.(55) Celso, Porfirio e Giuliano l’apostata rappresentarono un serio pericolo per il cristianesimo; molti si cimentarono nel tentativo di confutarli; quando tra il quarto e il quinto secolo la religione cristiana divenne supporto del potere politico, i loro scritti furono sottratti alla circolazione. Porfirio in particolare fu paradossalmente associato nel concilio di Efeso al nestorianesimo e i suoi scritti furono colpiti da una severa condanna. Nel Rescriptum legis sacrae contra Nestorium si legge infatti: La venerazione che dobbiamo alla piissima religione richiede che coloro che si comportano empiamente verso la Divinità siano puniti con pene adeguate e siano chiamati con i nomi che convengono alla loro perversità, in modo tale che, oppressi dai biasimi, sopportino per sempre l’oltraggio dei loro delitti e non siano esenti né, viventi, dal castigo né, morti, dal disonore. Dunque, poiché Nestorio, fautore del mostruoso insegnamento, è stato condannato, resta da colpire con un nome riprorevole coloro che ne accolgono i sentimenti e si associano alla sua empietà, in modo che, non abusando della denominazione di Cristiani, non si adornino del nome di quelli dalla cui dottrina si sono empiamente allontanati. Per questo stabiliamo che gli adepti della nefanda setta di Nestorio siano chiamati Simoniani (è opportuno, infatti, che coloro che nella loro avversione alla Divinità imitano la loro empietà siano chiamati con un nome affine, allo stesso modo in cui gli Ariani, (53)  Mt, xiii, 35; Ml, iii, 1. Cfr. Girolamo, Comm. in Matth., i, 3, 3, in PL. lxxvi, col. 29. (54) v. Salmo lxvii, 2. Girolamo, Comm. in Matth., ii, capitolo xiii, in PL. lxxvi, col. 92. (55)  Girolamo, Breviarium in Psalmos, Salmo lxxxi, in PL. lxxvi, col. 1066.

662  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini grazie a una legge di Costantino di divina memoria, sono chiamati Porfiriani per la somiglianza della loro empietà con quella di Porfirio, che, tentando di combattere la vera religione col rigore delle parole, ha lasciato per sé dei libri scellerati non commenti eruditi) e che nessuno osi possedere, leggere o ricopiare gli empi libri del medesimo nefando e sacrilego Nestorio in materia di venerabile religione ortodossa e contro i dogmi del santo concilio Efesino dei vescovi, i quali libri, una volta requisiti, è opportuno che siano con sollecitudine bruciati pubblicamente (in questo modo sradicata ogni empietà, la moltitudine delle persone ingenue e facilmente seducibili non potrà trovare alcun seme di errore), e in tutte le discussioni sulla religione non si menzioni la memoria di questi uomini così deviati se non con il nome di Simone, e che non gli sia fornito per riunirsi, segretamente o apertamente, né casa né terreno né podere suburbano né qualsiasi altro luogo.(56)

La persecuzione colpì anche i confutatori degli scritti di Porfirio per il fatto che potevano conservare nei frammenti citati il pensiero del filosofo pagano. Scomparvero così anche il Contra Porphyrium di Eusebio e quello di Apollinare. 1.10.  La falsa lettera di Lentulo e le fattezze fisiche del Cristo La Lettera di Lentulo, spesso invocata a conferma della storicità di Cristo, è un falso conclamato. Pubblicata per la prima volta nella Vita Jesu Christi (Colonia, 1474) da Ludolph de Carthusian o Ludolph di Sassonia (12951377) e successivamente nelle Opere di Agostino (ed. Norimberga 1491), fu verosimilmente scritta tra il xiii e il xiv secolo. Si vuole che essa sia stata scritta da Publio Lentulo,(57) presunto procuratore della Giudea, che avrebbe addirittura descritto fisicamente Cristo all’imperatore Tiberio, a ridosso del tragico evento della passione. Sfortunatamente dalla storia romana(58) non abbiamo nessuna notizia su questo presunto governatore del(56)  Acta Conciliorum Oecumenicorum testo latino in CTh. 16.5.66 (Caesares Teodosius et Valentinianus; praefectus urbis Leontius) del 436. (57)  La cui inautenticità fu dimostrata già da Lorenzo Valla. (58)  Si legge frequentemente nei testi di studiosi cattolici che Publio Lentulo fu governatore della Giudea prima di Pilato. Tuttavia va sottolineato che nelle sue Antiquitates Giuseppe Flavio ci ha trasmesso con puntualità la successione dei governatori della Giudea almeno fino a Pilato. In essa non v’è alcuna traccia di Lentulo, né ve n’è menzione al-

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la Giudea; per di più della sua lettera non si trovano tracce nella letteratura patristica. Probabilmente l’ignoto autore utilizzò per la descrizione fisica di Cristo l’Historia ecclesiastica di Niceforo Callisto Xanthopoulos (12561350).(59) La lettera ci è giunta in quattro versioni che hanno come punto comune la descrizione fisica di Gesù (alta statura, sguardo severo, capelli del colore delle noci di Sorrento, increspati e ricci dietro le orecchie, barba abbondante e biforcuta, occhi azzurri, vivaci e brillanti). Come tutta la vicenda biografica del Cristo, essa è desunta dalle antiche profezie, dalle quali dipende anche il mito del Cristo come il più bello degli uomini. Il testo di riferimento è il Salmo xlv: «Speciosus forma prae filiis hominum, diffusa est gratia in labiis tuis […]. Specie tua et pulchritudine tua intende» (Sal, xlv, 2: «Sei il più bello tra i figli degli uomini; fluisce la grazia sulle tue labbra; manifestati nella tua speciosa bellezza»). Potrebbe sorprendere la corrispondenza delle fattezze descritte nella lettera con quelle della Sindone di Lirey-Chambéry-Torino, che proprio tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo era stata trasferita dall’Oriente in Occidente come bottino delle crociate, ma in realtà la corrispondenza si spiega per il fatto che tanto la sindone quanto la lettera di Lentulo dipendono dall’iconografia prevalsa a partire da Costantino (iv secolo) in poi. Le più antiche testimonianze ci dicono che Cristo non fu di bell’aspetto, né fu il più bello degli uomini, ma al contrario parlano esplicitamente di bruttezza. Giustino, Dial. Trifone, xxxvi, 6, in sintonia con la sua concezione della prima parousía, priva di gloria, scrive: «I principi celesti lo videro senza bellezza, di aspetto privo di onore e gloria».(60) E a distanza di due capitoli aggiunge: «Era brutto di aspetto, come avevano annunciato le scritture e passava lui stesso per carpentiere».(61) La fonte biblica che egli tiene presente è Isaia: «Non est species ei, neque decor, et vidimus eum, et non erat aspectus», «Non ha aspetto né bellezza; lo abbiamo visto e non era di bell’aspetto», Is, liii, 2-3). La letteratura cristiana del ii e del iii secolo, oltre che da Isaia, è influenzata dall’iconografia presente nelle catacombe. Così la pseudo-clementina recita: «Egli è come un fanciullo, come una radice nella terra assetata: non ha apparenza né gloria. Noi lo vedemmo, non aveva una bella apparencuna in Tacito. (59)  Niceforo Callisto Xanthopoulos, Historia ecclesiastica, i, 40, cfr. PG. cxlv, coll. 748-749. (60)  Giustino, Tryph, xxxvi, 6. (61)  Ivi, lxxxviii, 8.

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za (evidente reminiscenza di Isaia), ma l’aspetto suo era spregevole, lontano dall’aspetto degli uomini».(62) Agisce forse su questa tradizione del brutto aspetto fisico del Cristo il ricordo dell’altro grande maestro dell’antichità, Socrate, le cui vicende della morte vengono spesso e inavvertitamente trasposte nella figura del Salvatore. Non diverso accento è in Clemente Alessandrino che, oscillando tra bellezza e bruttezza,(63) dopo aver definito il Cristo «brutto e deforme nell’aspetto», ne spiega le ragioni, muovendo da preoccupazioni teologiche, e scrive: «Non invano il Signore volle assumere un corpo di umili forme, affinché nessuno, ammaliato dalla sua bellezza fisica, finisse col non prestare ascolto alle sue parole». Scopriamo così che tutte le descrizioni delle fattezze fisiche del Cristo hanno per gli autori che ce le forniscono motivazioni teologiche e niente affatto storiche. Celso – secondo Origene(64) – avrebbe scritto: Qualora uno spirito divino avesse albergato nel corpo [di Cristo], questo avrebbe dovuto necessariamente superare gli altri corpi o per grandezza o per bellezza e forza o per la voce o per la maestà o per il dono della persuasione […]. Eppure il suo corpo non differiva affatto dagli altri corpi; ma – a quanto dicono – era piccolo, brutto a vedersi e volgare.

Anche Origine(65) accenna alla bruttezza del Cristo, ma invita i credenti (o meglio gli uomini spirituali) a coglierne la bellezza al di là delle apparenze materiali. Dal canto suo Agostino(66) spiega la bruttezza fisica come conseguenza dell’incarnazione e dell’assunzione della forma umana («prendendo un corpo, egli assunse su di sé anche la sua bruttezza») e ricorre alla metanoia per spiegare il passaggio dalla bruttezza (esteriore) dell’uomo carnale alla bellezza (interiore) dell’uomo spirituale. Per Ireneo l’aspetto fisico del Cristo va letto nello spirito della trasposizione teologica, per cui egli è uomo e insieme Dio: «è uomo senza bellezza e soggetto al dolore […] ma è anche Signore santo, consigliere mirabile, bello di aspetto e Dio forte».(67) Tertullia(62)  Clemente Romano, 1Cr, xvi, 3. (63)  Clemente Alessandrino, Stromata, ii, 5, 21;iii, 17, 103; vi, 17, 151; Paed., iii, 1. (64)  Origene, Contra Celsum, vi, 75 e 77. (65)  Origene, Comm. in Matth., 135, PG. xiii, col. 1786. (66)  Agostino, Enarrationes in Psalmos, cxxvii, 8, in PL. xxxvii, col. 1681; xliii, 16, in PL. xxxvi, col. 489; xliv, 14, in PL. xxxvi, col. 502; ciii, 5, in PL. xxxvii, col. 1337; Sermones, cxxxviii, capitolo vi, in PL. xxxviii, col. 766; De civ. Dei, xvii, 16. (67)  Ireneo, Adv. haer., iii, 19, 2.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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no(68) si richiama al Salmo liii: «e noi lo vedemmo; non aveva né bellezza né gloria» e al Salmo xxii, 7: «sono un verme, non un uomo». Per Cirillo(69) la «straordinaria bellezza» (eximiam pulchritudinem) del Cristo è trasfigurazione della straordinaria bellezza di Dio. Non meno ricca è in proposito la letteratura apocrifa. Per gli Atti di Giovanni,(70) un apocrifo del ii secolo, l’apostolo avrebbe visto Cristo «con la testa piuttosto calva, ma con una barba folta e fluente»; diversamente da come nello stesso tempo sarebbe apparso a Giacomo che «lo vide come un giovane la cui barba era appena spuntata». Ma gli Atti di Giovanni non sono esenti da contraddizioni manifeste, poiché ad una prima descrizione del Cristo «di bello aspetto e dallo sguardo sereno», fanno seguire quella di un Cristo «come un uomo piccolo e non di bell’aspetto e poi come uno che toccava il cielo».(71) Per gli Atti di Tommaso(72) la bruttezza del Cristo è un mezzo per ingannare il diavolo: Perché ti assimili al Dio, tuo Signore, che nasconde la sua maestà, apparve con un corpo e noi, vedendolo, credemmo che fosse un mortale […]; mentre pensavamo di poterlo assoggettare al nostro potere, egli si voltò e precipitò nell’abisso. Noi non lo conoscevamo, avendoci egli ingannato con il suo aspetto umile, con la sua indigenza e con la sua povertà.

Analoga affermazione negli Oracoli Sibillini: «Egli è venuto nel creato non in bellezza, ma come uomo povero, disonorato e insignificante per dare speranza ai miserabili».(73) Le prime icone del Cristo compaiono tra il ii e il iii secolo e ce lo rappresentano nelle sembianze più svariate (giovane imberbe, di splendente bellezza ad imitazione dell’Apollo pagano, di filosofo, di imperatore, di pastore che reca sul collo un agnello, di re, di taumaturgo, di sovrano maturo e severo ad imitazione dello Zeus pagano con capelli fluenti e folta barba). Sappiamo da (68)  Tertulliano, AdversusMarcionem, iii, 17, in PL. i-2, col. 344; De Carne Christi, ix, in PL. i-2, col. 771; Adv. Iud., xiv, in PL. i-2, col. 639. (69)  Cirillo, Glaphyrorum in Exodum, ii, De tribus aMose patratis admirandis, in PG. lxix, p. 465; Quod unus sit Christus, in PG. lxxv, col. 1328. (70)  Atti di Giovanni, 88-89. (71)  Atti di Giovanni, 89, 3. (72)  Atti di Tommaso,45, in Apocrifi del Nuovo Testamento, a c. di Luigi Moraldi, Torino, Utet, 1971, vol. ii, p. 1275. (73)  Oracoli sibillini, viii, 256.

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Elio Lampridio(74) che nel iv secolo Alessandro Severo collocò nel proprio larario accanto alle «immagini degli imperatori divinizzati […] quelle delle anime più sante, tra cui Apollonio [di Tiana], […] Cristo, Abramo e Orfeo». Il primo secolo non ci ha consegnato alcuna iconografia del Cristo. Le prime raffigurazioni le troviamo nelle catacombe romane o nei bassorilievi dei sarcofagi o in mosaici absidali. In quasi tutta l’iconografia del ii e del iii secolo prevale la figura del buon pastore o del pastore crioforo, giovane imberbe (riecheggianti motivi pagano-bucolici) o del Cristo-Orpheus. Quest’ultima, pur se derivata da forme di sincretismo, tradisce forse una significativa vicinanza del primo cristianesimo con i culti misterici. A partire dal iv secolo diventano più frequenti negli affreschi le tematiche tratte dal NT. Di particolare interesse sono la statua del Buon pastore (iii secolo), il sarcofago con Cristo e gli apostoli Pietro e Paolo (iv secolo); il sarcofago di Giunio Basso (iv secolo), i mosaici ravennati di San Vitale e di Sant’Apollinare Nuovo (mosaico dell’ultima cena, vi secolo), il mosaico del Buon Pastore nel Mausoleo di Galla Placidia, del v secolo; gli affreschi delle catacombe di Priscilla (iii-v secolo), di Domitilla (ii-iii secolo, l’affresco del Christus docens è del iv secolo) e di San Callisto (iii secolo; affresco del battesimo di Cristo; affresco del Buon Pastore; affresco del banchetto liturgico tra cristiani); in tutti Cristo è raffigurato come un pastore e un giovane imberbe. Tra il iv e il vi secolo si afferma progressivamente l’immagine del Cristo con la barba biforcuta, che prevarrà definitivamente sulle altre più antiche a partire dal vi secolo. Da tale tradizione dipende la sindone torinese. Le raffigurazioni del Cristo come filosofo, adulto e barbuto sul modello di Zeus, risalgono all’epoca costantiniana (iv secolo). È infatti facilmente intuibile che l’imperatore Costantino e la madre Elena(75) abbiano favorito la diffusione di un modello iconografico che non fosse molto lontano da quello della tradizione pagana perché ciò poteva rendere più age(74)  Scriptores Historiae Augustae, xviii: Alexander Severus di Elio Lampridio. (75)  Nonostante la tradizione cristiana abbia voluto consegnarci la memoria di Costantino come un imperatore convertito, è certo che egli invece operò sulla base di calcoli politici e conservò fino alla morte la sua fede nelle antiche divinità pagane. Ciò vale anche per la madre Elena e per la figlia Costantina. Ne fanno fede tra l’altro i loro relativi sarcofaghi in splendido porfido rosso, risalenti l’uno al 330 circa e l’altro al 354 circa e conservati nei Musei Vaticani, nella cui iconografia prevalgono tematiche pagane o comunque politico-civili. In quello di Elena prevalgono scene di guerra e in quello di Costantina sono presenti motivi afferenti ai culti dionisiaci, come gli amorini dediti alla vendemmia, o ai sacrifici e riti di origine misterica e cristiana come l’agnello (in quanto animale sacrificale) e il pavone (simbolo della resurrezione).

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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vole l’assimilazione della nuova religione. In tale logica rientrava anche l’edificazione di templi cristiani sul modello e spesso sulle rovine di quelli pagani. La prima delle raffigurazioni del Cristo-Zeus barbuto è data dall’affresco della tomba di Santa Domitilla del v secolo; analoghi affreschi sono nelle catacombe di Marcellino e Pietro (Cristo tra due apostoli del iv-v secolo), i mosaici absidali di S. Prudenziana con Cristo in trono tra gli apostoli (v secolo), di SS. Cosma e Damiano (Cristo che accoglie due santi tra i beati del vi secolo); dal vi secolo in avanti prevarrà l’icona del Cristo Pantocrator. Intorno al vii secolo cominciano a comparire le icone acheropite ovvero non prodotte da mano umana. Le prime notizie si riferiscono al leggendario Mandylion di Edessa che ben presto confluisce nella leggenda della Veronica. Di tale produzione abbiamo notizia negli apocrifi sul carteggio tra Cristo e Abgar, nel Ciclo di Pilato, ecc. Abbiamo così tutta una serie di sindoni e sudari di vario valore artistico che ripetono grosso modo le medesime caratteristiche iconografiche del Cristo barbuto. Ma a differenza di quanto sostengono alcuni storici cristiani per i quali tale iconografia sarebbe stata generata dalla Lettera di Lentulo, nella realtà storica è accaduto l’esatto contrario, poiché è la seconda che dipende dalla prima. Se mai la lettera e le stesse immagini acheropite dimostrano quanto spasmodicamente nel corso di oltre dodici secoli si sia tentato di dare una materialità fisica alla figura del Salvatore nell’intento di agganciarla, anche con la falsificazione dei documenti, alle origini stesse della sua predicazione e della sua passione, in modo da renderne inconfutabile la storicità. 1.11.  Il cristianesimo di fronte al potere imperiale: a) Tertulliano Solitamente, a supporto della storicità del Cristo, gli studiosi cristiani fanno affidamento sul seguente passo dell’Apologeticum di Tertulliano (155-230): Tiberio, al tempo in cui il cristianesimo entrò nel mondo, avuta notizia dei fatti accaduti nella Siria-Palestina, cioè che lì avevano rivelato la verità della divinità stessa, li sottopose al parere del Senato, esprimendo egli per primo voto favorevole. Il Senato, poiché non aveva esso stesso approvato quei fatti, li rigettò. Cesare restò del suo avviso e minacciò di pericolo gli accusatori dei cristiani.(76) (76)  Tertulliano, Apol., v, 2.

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Subito dopo Tertulliano(77) accenna alla persecuzione neroniana: «Nerone per la prima volta infierì con la spada imperiale contro questa setta, che proprio allora sorgeva in Roma». Entrambe le notizie sono false. Il presunto senatusconsultum, che sarebbe stato pronunciato nel 35, o è una geniale trovata di Tertulliano o è il risultato del suo fraintendimento di qualche testo a noi sconosciuto o è il prodotto di una tendenziosa manipolazione del suo testo originale. Si è anche voluto scomodare in proposito un frammento, verosimilmente porfiriano o celsiano, riportato nell’Αποκριτικός di Macario di Magnesia(78) (fine del iv secolo). Il frammento è riprodotto da Adolph von Harnack.(79) In esso Celso(80) o Porfirio si mostrano sorpresi che Cristo, dopo la passione, sia apparso alle donne, alla Maddalena e ad un’altra oscura Maria e non sia apparso invece a Pilato che lo aveva condannato o ai suoi contemporanei o ad uomini più degni di credito o allo stesso senato romano per dimostrare che in ordine alle cose che lo riguardavano non avrebbe potuto esprimere all’unanimità un voto di morte. Ma, come è facile intuire, la citazione del presunto passo porfiriano cade a sproposito perché non attesta l’esistenza di un senatusconsultum; più semplicemente il filosofo ironizza sulle apparizioni di Cristo alle donne, la cui testimonianza secondo il diritto giudaico non è fededegna, anziché ad uomini ragguardevoli o al senato che non avrebbe dovuto approvare la condanna. La versione di Eusebio(81) è ancor più subdola e sottile. Egli ripete, citandolo, l’assunto di Tertulliano e, per dargli maggiore credibilità, fa riferimento ad un’antica legge romana per la quale si rendeva necessario un senatusconsultum per il riconoscimento di una religione o di una divinità. Sicché Eusebio afferma che Pilato, secondo il costume che imponeva ai governatori di comunicare all’imperatore ciò che accadeva nei loro territori, riferì a Tiberio i fatti relativi alla resurrezione del Salvatore. Tiberio avrebbe investito il senato che avrebbe respinto la richiesta con la motivazione che l’insegnamento salvifico dell’annuncio divino non abbisognava dell’approvazione degli uomini. Tuttavia l’imperatore restò saldo nella sua valutazione e non ostentò alcuna ostilità nei confronti (77)  Ivi, v, 3. (78)  Macario di Magnesia, Apocriticus, ii, 14. (79)  Porphyrius, Gegen die Christen, a c. di Adolf von Harnack, Berlin, Königl. Akademie der Wissenschaften, 1916, fr. 64, p. 85. Il testo greco di Macario è tradotto in inglese da Thomas Wilfride Crafer, The Apocriticus of Macarius Magnes, London, Society for Promoting Christian Knowledge, 1919, p. 43. (80)  Per Celso, v. supra, III, par. 1.6a. (81)  Eusebio, HE, ii, 2, 1-2.

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del cristianesimo. Ma ciò che rende fragile la versione dei due manipolatori è che, se ci fosse stato un senatusconsultum circa l’ammissibilità del cristianesimo nel pantheon romano, esso sarebbe stato ben più famoso e, per di più, sarebbe stato costantemente rivendicato dai cristiani di fronte ai soprusi, reali o fittizi, dell’autorità imperiale. Ciò che taglia la testa al toro è che del menzionato consulto non si trova traccia nella raccolte giuridiche romane. 1.12.  Plinio il Giovane Nel suo epistolario(82) Plinio Caio Secondo il Giovane (61/62 – 113 d.C.) ci ha documentato la sua corrispondenza con l’imperatore Traiano a proposito del comportamento da tenere verso i cristiani. La sua lettera all’imperatore, sulla cui autenticità non sussistono dubbi di sorta, rappresenta il primo documento storico attendibile che ci informa circa la diffusione del cristianesimo nei primi decenni del secondo secolo. Essa è scritta in Bitinia e, essendo più prossima alla conclusione del mandato del governatore, risale presumibilmente al 112 o 113 d.C. Va tenuto presente che ciò che egli dice dei cristiani dipende da fonti cristiane, poiché, come egli stesso afferma, le sue conoscenze derivano dagli interrogatori cui li sottopose.(83) La risposta di Traiano è conseguentemente il primo atto ufficiale assunto dall’Impero verso i Cristiani. Anche se non ha la forma di un rescritto, essa riveste l’autorevolezza di un editto per il fatto che rimase un costante punto di riferimento almeno fino agli Antonini e forse anche per quasi tutto il terzo secolo fino a Diocleziano. Dalle due lettere si evince chiaramente che in precedenza Roma non si era ancora imbattuta nel fenomeno del cristianesimo. Se ci fosse stato un precedente provvedimento imperiale (per es. il presunto senatusconsultum citato da Tertulliano), certamente Plinio non avrebbe interpellato Traiano, ma avrebbe agito di conseguenza. Se ne deve dedurre che anche le presunte persecuzioni anti-cristiane di Nerone debbono ritenersi storicamente inconsistenti. Il primo contatto con il cristianesimo Roma lo ebbe nelle province orientali, tra la Bitinia, la (82)  Plinio il Giovane, Epistolae, x, 96 e 97. (83)  Anche R. L. Wilken, The Christians as the Romans saw Them, New Haven, Yale University Press, 1984, p. 16, ritiene che le informazioni che Plinio ha dei cristiani sono di seconda mano; cfr. anche R. Th. France, The Evidence for Jesus, London, Hodder and Stoughton, 1986, p. 43.

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Galazia e il Ponto, ove si sarebbe fatto sentire l’apostolato paolino. La Bitinia era diventata provincia romana fin dal 74 d.C., ma fino al governatorato di Plinio non si ha notizia di presenze cristiane in essa. Ciò induce a supporre che le comunità cristiane si erano costituite da poco e Plinio è obbligato ad affrontare per la prima volta le denunce contro i cristiani accusati verosimilmente per crimina maiestatis o per crimina religionis o per l’adesione a collegia illicita. Egli è su questo punto molto chiaro. Ci dice che nell’esercizio della sua attività forense non si è mai imbattuto in cause contro i cristiani e che pertanto non sa neppure su che cosa esse vertessero né quali fossero i limiti della relativa punizione («cognitionibus de Christianis interfui numquam; ideo nescio, quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri»). Si può dubitare se quel cognitionibus si riferisca alla conoscenza di cause trattate nei judicia ordinari o di quelle extra ordinem di competenza dell’imperatore, ma in ogni caso non si esce dal nodo centrale della questione: Plinio nella sua esperienza forense non ha mai avuto conoscenza né di istruttorie contro i cristiani, né di provvedimenti giuridici contro gli stessi: è questa la ragione principale per cui egli interpella l’imperatore. E la risposta di Traiano ne è una conferma: lo stesso imperatore non fa riferimento ad una giurisprudenza consolidata, ma affronta la questione con il buon senso. Gli altri dubbi di Plinio riguardano l’età degli accusati, il loro eventuale pentimento o la loro semplice affiliazione ad una setta, anche in assenza di crimini comuni («nomen ipsum, si flagitia careat»). Quel nomen ipsum non va inteso nel senso che i cristiani erano punibili solo per il loro stesso nome di ‘cristiani’, ma nel senso più tecnico e giuridico, in quanto affiliati ad una setta e come possibili autori di delitti connessi con il suo nome, ovvero per l’adesione alla medesima («an flagitia cohaerentia nomini»).(84) Insomma Plinio parla come se a Roma si ignorasse completamente la questione e come se essa non fosse mai stata posta da altri procuratores delle province romane. A fronte di questo vuoto giuridico egli informa l’imperatore su quello che fu il suo più immediato comportamento. Ricevute le denunce anonime, nella (84)  Per delitti connessi al nome debbono intendersi l’associazione segreta e il reato di laesae majestatis. Con il tempo i cristiani hanno accentuato, per il loro connaturato vittimismo, la portata delle accuse, dicendosi additati per cene tiestee, infanticidi, unioni edipee. Ma si tratta di reati di cui in realtà è piena la stessa letteratura cristiana da Giustino (1Apol., xxii, xxvi; Tryph., x) a Minucio Felice (Oct., ix, 28; xxx, 32), da Taziano (Pros Hellenas, xxv, 4) ad Atenagora (iii, xxxi-xxxvi), a Teofilo (iii, 4), ad Origene (Contra Celsum, vi, 27), a Tertulliano (Apol., 28; 3-3) e ad Eusebio (HE, v, 1).

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speranza di ottenere un ravvedimento, interrogò per ben tre volte gli imputati sotto la minaccia della pena capitale, liberò quelli che negavano di essere cristiani (i lapsi), sacrificavano agli dèi e veneravano l’immagine dell’imperatore o quanti imprecavano contro Cristo («maledicerent Christo»); di contro mandò a morte coloro che perseveravano con pertinacia ed inflexibilis obstinatio nel loro comportamento e spedì a Roma quelli che godevano della cittadinanza romana. Certamente questa soluzione salomonica ripugna alla nostra coscienza contemporanea, ma Plinio era un romano e considerava quella ostinazione come un crimine contro la maestà dell’imperatore, che poteva alimentare ulteriori esempi di disobbedienza nei confronti della sua autorità. D’altronde egli stesso ci fa sapere che la presenza del cristianesimo in Oriente, per quanto potesse essere di modeste proporzioni, cominciava ad attecchire; la soluzione adottata aveva l’effetto indesiderato di incrementare le delazioni fino alla pubblicazione di un libello anonimo con lunghe liste di nomi («propositus est libellus sine auctore multorum nomina continens»). Questi ultimi episodi impressionarono il governatore che credette di trovarsi davanti ad un fenomeno che si espandeva a macchia d’olio. D’altra parte le accuse di ordine morale erano facilmente smontate, perché i cristiani si dichiaravano irreprensibili e asserivano di riunirsi prima dell’alba della domenica per intonare in coro un inno a Cristo come se fosse un dio («quod essent soliti stato dieante lucem convenire carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem») e di tornare a riunirsi per consumare in comune la cena, in modo innocente. Poiché tali riunioni potevano configurarsi come collegia, potevano essere perseguibili sulla base di un editto dello stesso Plinio (edictum meum) che vietava il ricorso a tali pratiche al fine di impedire la costituzione di sodalizi (hetaerias). Molti imputati dichiararono infatti di averle sospese. Ma per essere certo della loro effettiva portata, il governatore interrogò sotto tortura due ministre del culto e si convinse che il cristianesimo non era se non una stolta ed esagerata superstizione («superstitio prava, immodica»). Il che implicitamente significava ammettere che il cristianesimo era inoffensivo e innocuo. Perciò Plinio sospese la sua istruttoria («dilata cognitione») e si rivolse all’imperatore, suggerendo la possibilità di recuperare dall’errore una gran massa di gente, se le si fosse concesso il ravvedimento. La sua preoccupazione principe era la crescita del movimento: i cristiani crescevano di numero; si infittivano le schiere di ambo i sessi, di ogni età e condizione sociale. La superstitionis contagio non toccava più solo le città, ma anche i borghi e

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le campagne; ma si trattava – a suo avviso – di un fenomeno che ancora poteva essere arginato e fatto rientrare nella norma («quae videtur sisti et corrigi posse»). Forse non mancano errori di valutazione circa la dimensione di tale espansione. Plinio accenna alla maggiore frequenza dei templi, alla ripresa dei sacrifici, evidenziata dall’incremento della vendita della carne delle vittime, ma con tutta verosimiglianza confonde le cerimonie cristiane con quelle più propriamente giudaiche («solemnia diu intermissa repeti passimque venire victimarum. cuius adhuc rarissimus emptor inveniebatur»). In ogni caso la risposta di Traiano, se pur stringata, è articolata e abbastanza sensata. Innanzi tutto essa smentisce nel modo più chiaro che esistesse una materia giuridica precedente sulla questione dei cristiani (a disconferma dei sostenitori delle presunte persecuzioni neroniana e domizianea). L’imperatore, infatti, sembra relegare al potere locale o provinciale la conoscenza delle istruttorie relative ai cristiani, ritenendo che non sia possibile formulare in proposito una norma di carattere generale. Traiano articola il suo rescritto in tre punti fondamentali: 1) il principio del non conquirendi, nel senso che non si deve promuovere la ricerca dei cristiani; 2) il principio del puniendi, nel senso che vanno puniti coloro che rifiutano di procedere alla venerazione degli dèi romani («supplicatio dis nostris»); 3) il principio della venia ex poenitentia nel senso di concedere l’indulgenza a coloro che si ravvedono; 4) il principio della inaffidabilità e inefficacia dei libelli anonimi («sine auctore»), definita «pessima pratica, non degna del nostro secolo». Non v’è dubbio che agli occhi dei cristiani il rescritto traianeo è apparso ambiguo: le aspre critiche di Tertulliano nell’Apologeticum sono in proposito esemplari, ma forse non tengono in adeguato conto né l’umanità con cui Plinio sollecita, pur tra contraddizioni e rigidità non condivisibili, una soluzione del problema, né l’equilibrio con cui l’imperatore tenta di conciliare gli interessi generali dell’Impero con le istanze dei cristiani; egli non chiede più, come aveva fatto il governatore, l’imprecazione contro Cristo (la maledictio Christo), che urtava più profondamente la coscienza cristiana, ma si limita a pretendere un formale ed esteriore tributo al culto degli dèi romani. Possiamo dire che la lettera pliniana sia una prova della storicità del Cristo? Nonostante la notevole importanza del suo contenuto, essa è assai carente. Innanzi tutto perché ciò che dice intorno a Cristo e ai cristiani non ha nulla di nuovo e originale, se non per i Romani che cominciano ad averne le prime notizie, ma dipende da quanto gli stessi cristiani dichiaravano nel corso delle istruttorie. Anzi sorprende che Plinio non faccia il minimo cen-

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no al nome (Gesù) del Cristo. Egli ne parla – giudicando con distacco la posizione dei cristiani – come di un uomo da essi reputato quasi dio, ma non sembra intenderlo come una personalità storica; relata refert, dice ciò gli riferiscono gli stessi cristiani. Una sorta di imitazione del rescritto traianeo sembra essere quello successivo di quasi un decennio (123) di Adriano. Ce lo ha trasmesso in buona fede Giustino in conclusione della sua 1Apologia. Sollecitato da Quinto Licinio Silvano Graniano, proconsole d’Asia (121-122), a proposito del comportamento da tenere con i cristiani, Adriano avrebbe risposto al nuovo proconsole (122-123) Gaio Minucio Fundano, modificando sensibilmente le disposizioni fornite in precedenza da Traiano. Se da un lato Adriano conferma l’impossibilità di una normativa di ordine generale e delega conseguentemente la materia ai governatorati provinciali, dall’altro si muove in aderenza alle aspettative dei cristiani. I contenuti del provvedimento adrianeo si possono così sintetizzare: 1) non offrire ai calunniatori l’opportunità di fare del male; 2) rimettere ai tribunali – senza cedere alle pressioni popolari – i responsabili di crimini comuni; 3) prendere in seria considerazione le denunce, ma nel caso esse si rivelino false e prodotte al solo fine di calunniare, procedere alla punizione dei diffamatori. Il rescritto di Adriano non ha lo stile secco e quasi tecnico di Traiano e tradisce nel contenuto un atteggiamento filocristiano, poiché sembra accogliere tutte le problematiche sollevate da Tertulliano dalla condanna «dei desiderata e degli schiamazzi anticristiani del popolo» alla estensione ai cristiani della garanzia di difesa nei tribunali e alla conseguente punizione dei diffamatori. Si ha quasi il sospetto che il testo attribuito ad Adriano sia ispirato alle obiezioni critiche di Tertulliano contro il rescritto di Traiano. Infatti tutto il capo ii dell’Apologeticum è una violenta requisitoria contro il testo traianeo: «sentenza necessariamente confusa! Afferma che non si devono ricercare come innocenti e nel contempo ordina che siano puniti come colpevoli; risparmia e insieme incrudelisce, dissimula e punisce».(85) Ma – a ben vedere – è lo stesso testo tertullianeo che costituisce una prova della inautenticità della lettera di Adriano, giacché stupisce che egli non ne faccia menzione, né accenni ad ulteriori, più attenuati, provvedimenti legislativi contro i cristiani. Tertulliano scrive come se, dopo il rescritto traianeo, non ci fosse stato quello di Adriano. Anzi dichiara(86) che il principio del non conquirendi vanificò le presunte leggi persecutorie che (85)  Tertulliano, Apol., ii, 8. (86)  Ivi, v, 7.

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non furono applicate né da Vespasiano né da Adriano, né da Antonino Pio, né da Lucio Vero. Nella Historia ecclesiastica Eusebio afferma di aver traslato in lingua greca il testo latino del rescritto adrianeo.(87) Sorge il dubbio che l’intero capitolo lxviii della 1Apologia di Giustino sia un’aggiunta posteriore. Se così fosse la paternità del falso rescritto andrebbe attribuita ad Eusebio, tanto più che la versione latina riportata in calce all’Apologia sembra essere una raffazzonata traduzione dal greco di Eusebio. 1.13.  Dione Cassio secondo l’epitome di Xefilino Una conferma in questa direzione può venire dal lxx libro della Storia romana di Dione Cassio (155-229?). Di esso, come sappiamo, ci è pervenuta solo l’epitome, redatta nell’xi secolo da Giovanni Xifilino, il quale scrive: «Tutti dunque convengono nel dire che Antonino fu uomo giusto e dabbene, poiché né gravò sugli altri sudditi, né sui cristiani, verso i quali usò grande rispetto e venerazione ed accrebbe l’onore con cui erano stati trattati da Adriano. Da Eusebio Panfilio è citata nella Storia ecclesiastica una lettera di Adriano, nella quale l’imperatore si mostra gravemente sdegnato verso coloro che «molestavano e denunziavano i cristiani e, per Ercole, giura di voler procedere contro essi».(88) È singolare che Xifilino citi Eusebio e non Giustino che per primo avrebbe pubblicato il rescritto. Si può forse sospettare che egli abbia avuto accesso ad una copia dell’Apologia priva della lettera a Fundano. Ma si deve invece rilevare che l’epitomatore (o forse lo stesso Dione) probabilmente fuse insieme i due presunti rescritti di Adriano e di Antonino Pio. Non a caso nel luogo citato della Storia romana egli attibuisce al rescritto di Antonino lo stesso contenuto di quello di Adriano. Se ne deduce che anche per la politica antoniniana di apertura verso i cristiani Xifilino dipende probabilmente da Eusebio che ne aveva riprodotto il rescritto.(89) Nella lettera antoniniana, edita da Eusebio, riecheggiano le argomentazioni tertullianee («Se voi li annientate rivolgendo loro l’accusa di ateismo, li confermerete ancora di più nella fede»; «i cristiani vincono perché rinunciano alla loro vita piuttosto che piegarsi al vostro volere»; l’accusa secondo cui i cristiani sono rei dei cataclismi natura(87)  Eusebio, HE, iv, 8-9. (88)  Dione Cassio (ma Xifilino), Storia romana, lxx, iii, 1-3. (89)  Ivi, iv, 13.

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li è infondata poiché essi «adorano il Dio immortale» e l’accusa dovrebbe invece ricadere «su di voi che li osteggiate». Antonino cioè avrebbe confermato le direttive del padre Adriano, secondo la versione di Eusebio che lo fa passare per un imperatore cristiano. Ma, come sappiamo, si tratta di un mito privo di fondamenta storiche poiché, come si evince dalla Vita Antonini di Giulio Capitolino,(90) egli fu un imperatore asiatico ligio alla tradizione religiosa romana. D’altro canto l’intestazione della lettera contiene indizi che portano alla sua falsificazione. Antonino Pio avrebbe scritto al concilio d’Asia, in cui erano rappresentate tutte le città delle province ed avrebbe fornito gli estremi cronologici della lettera, scritta nella sua quindicesima potestà tribunizia (160-161), dopo essere stato tre volte console. Le cose che non quadrano in questa intestazione sono almeno tre: 1) Antonino fu console per quattro volte (la quarta volta nel 145); 2) il titolo di ‘armeno’ spettò a Marco Aurelio dopo la conquista di Doura Europos nel 163; 3) Antonino ottenne la tribunicia potestas il 24 febbraio del 138 e la esercitò per 24 volte fino alla morte nel 161; di conseguenza il quindicesimo anno della sua potestà tribunizia non coincide, come si crede, con il 161, ma con il 153. Se ne deve dedurre che falsa è l’intestazione e falsa è anche la lettera trascritta da Eusebio, anche a prescindere dalle contraddittorie versioni che di essa ci danno Eusebio, Giustino e Melitone di Sardi. Ne consegue che la Historia romana di Dione è irrilevante sia riguardo alla esistenza storica di Cristo, sia riguardo alle origini del cristianesimo. Infatti si tratta di un testo tardivo, in cui peraltro si dà credito a documenti falsi quali si sono rivelate la lettera di Adriano e quella di Antonino, la cui inautenticità fu scoperta già dal Fabricius. Tra l’altro v’è il sospetto che il passo citato non sia di Dione(91) ma di uno storico modesto, come Giovanni Xifilino (xi secolo), che ne è notoriamente l’epitomatore, il quale per la lettera di Adriano sembra dipendere quasi solo da Eusebio. Inautentica è anche la lettera che nel 123 Adriano avrebbe scritto al console Lucio Giulio Urso Serviano, pubblicata nel iv secolo da Flavio Vopisco di Siracusa nella Vita Saturnini.(92) Secondo Vopisco la lettera ci è stata conservata nelle Olimpiadi di Flegonte, il quale sarebbe stato un liberto di Adriano. Ciò che è interessante è che in essa l’imperatore avrebbe espresso (90)  Vita Antonini di Giulio Capitolino, v. Scriptores Historiae Augustae. (91)  Dione Cassio, Historia Romana, lxx, 3. (92) v. Vopisco, Historia Augusta, xxix, Firmus, Saturninus, Proculus et Bonosus (i. e. Quadrigae Tyrannorum, viii).

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un giudizio drastico sui cristiani. Parlando infatti del carattere degli egiziani, Vopisco dice che essi erano «millantatori, vanagloriosi, facili all’ira, superbi, insolenti, mutevoli e privi di scrupoli (vani, ventosi, furibundi, iactantes, iniuriosi) e cita la presunta lettera di Adriano, che così reciterebbe: Adriano Augusto saluta il console Serviano. Quell’Egitto che tu mi lodavi, o carissimo Serviano, mi si è rivelato un paese di gente leggera, incostante e pronta a lasciarsi trasportare da ogni impulso legato alle voci che circolano («totam levem, pendulam et ad omnia famar momenta volitantem»). Laggiù gli adoratori di Serapide sono Cristiani, e quelli che si dicono vescovi di Cristo sono devoti di Serapide («illic qui Serapem colunt, cristiani sunt et devoti sunt Serapi, qui se Christi episcopos dicunt»); non vi è capo di sinagoga giudea, né samaritano, né sacerdote cristiano che non sia astrologo, aruspice o praticone. Anche quello stesso patriarca che è giunto in Egitto è costretto da alcuni ad adorare Serapide, da altri Cristo. È una razza di gente quanto mai turbolenta, falsa, insolente, anche se l’ambiente cittadino è opulento e ricco […]. L’unico loro dio è il denaro (Unus illis deus nummus est). Questo adorano i Cristiani, i Giudei e ogni altra gente.

Nella lettera, che è notoriamente un falso, si respira il clima della contaminazione dei culti, tipico della cultura sincretistica egiziana. 1.14.  Marco Aurelio Di notevole interesse, anche ai fini di una corretta valutazione delle persecuzioni anticristiane, sono i Colloqui con sé stesso(93) in cui Marco Aurelio (121-180 d.C.) accenna al fanatismo dei cristiani.(94) Egli parte dal tema, platonico e insieme stoico, della prontezza/preparazione dell’anima di fronte alla morte ed afferma: «questa prontezza, affinché possa dirsi proveniente da giudizio, non dev’essere prodotto d’uno sforzo pervicace di volontà, come fanno i cristiani; ma deve provenire da retta ragione e accompagnarsi a profonda gravità; se vuole poi riuscire a infondere persuasione in altri, deve rifuggire da ogni posa e da ogni ostentazione». Se c’è (93)  Marco Aurelio, Colloqui con sé stesso, xi, 3. (94) D. Bervig, Mark Aurel und die Christen, Bonn, Abelt, 1970; G. Cortassa, Scritti di Marco Aurelio. Lettere a Frontone, Pensieri, Documenti, Torino, Utet, 1984.

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un’implicita allusione ad una persecuzione, non si tratta certo di un provvedimento di origine imperiale, ma si riferisce piuttosto alla diffusa ostilità delle popolazioni locali contro i cristiani, mal tollerati per l’ostentata esibizione della loro fede. Nel testo l’imperatore non manifesta alcuna avversione per i cristiani, ma mostra di non condividerne il fanatismo e la spettacolarizzazione con cui si immolano nel tentativo di imitare il sacrificio di Cristo. A quali episodi drammatici allude l’imperatore-filosofo. Egli scrisse i suoi Colloqui nell’ultimo decennio della sua esistenza (170-180), in cui si determinò la fine violenta dei martiri viennesi e lionesi in Occidente e dei martiri smirnesi in Oriente. Nei resoconti che di tali episodi ci sono pervenuti, pur nella manifesta e razionalmente inaccettabile esagerazione dei loro ignoti autori, che li arricchiscono di dettagli miracolistici poco credibili, trova pieno riscontro il giudizio di fanatismo e di esibizionismo, espresso dall’imperatore. Ma se sono uno strumento utile per farci capire i confini storici entro cui vanno inquadrate le persecuzioni, i Colloqui non hanno alcun peso in ordine alla esistenza storica del Cristo. 1.15.  Il cristianesimo e le fonti storiche: a) Serapion In ordine alla storicità di Cristo molto affidamento è stato fatto da parte di studiosi cattolici su Mara bar Serapion (i-ii secolo d.C.), uno storico siriano che scrive al figlio, Serapion bar Mara, una lettera il cui testo ci è conservato in siriaco in un manoscritto del vii secolo.(95) La datazione della lettera è difficile e, secondo Voorst,(96) può oscillare tra il 73 e il 260 d.C. Scrive il padre al figlio: Che altro possiamo dire quando i saggi sono forzatamente trascinati dai tiranni, la loro sapienza è coperta da insulti e le loro menti sono oppresse e prive di difesa? Quale vantaggio trassero gli Ateniesi dall’aver ucciso Socrate, un fatto che dovettero pagare con la carestia e con la peste? O gli abitanti di Samo per aver bruciato Pitagora, visto che in un istante tutto il loro paese fu ingoiato dalla sabbia? O i giudei per l’esecuzione del loro saggio re, visto che da quel tempo fu loro sottratto il regno? Giustamente, infatti, Dio (95)  London, British Museum, Ayriac MS, Additional 14.658. (96)  R. E. Van Voorst, Jesus Outside the New Testament: An Introduction to the Ancient Evidence, Grand Rapids, W.. B. Eerdmans, 2000, pp. 53-58.

678  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini vendicò la sapienza di questi tre saggi: gli Ateniesi morirono di fame, gli abitanti di Samo furono sommersi dal mare; i giudei, eliminati e cacciati dal loro regno, vivono tutti nella diaspora. Socrate non è morto grazie a Platone; né Pitagora grazie alla statua di Hera, né il saggio re grazie al nuovo insegnamento (alla nuova legge) che aveva impartito.

La lettera è evidentemente impregnata dall’idea della centralità della saggezza umana di matrice stoica. All’inizio Mara afferma che l’impero, per aver assoggettato gli altri popoli, non avrà altro che «disonore e vergogna». Ma se i Romani restituiranno ad essi la loro libertà, saranno giudicati «buoni e giusti». La saggezza consente al popolo di superare stoicamente le privazioni della sottomissione, poiché consente di vivere nella virtù a dispetto dei disagi. Perciò la saggezza è la via per l’immortalità. «La vita del popolo – scrive Mara – comincia, figlio mio, dal mondo», ma «le lodi e le virtù» dei saggi «hanno una durata eterna». È in questa ottica che vengono citati gli esempi di saggi oppressi, la cui saggezza però alla fine trionfa. Si può dire che il testo di Mara, indipendentemente dalla sua datazione, si riferisca al Cristo? Se il tema centrale è quello dell’«uomo saggio», va detto che la saggezza umana non è un titolo cristologico. E questo è un primo elemento fondamentale. Inoltre Mara sembra presupporre, come del resto fanno i cristiani, che la distruzione di Gerusalemme fosse stata una sorta di punizione dei giudei che avevano mandato a morte il «saggio re»; analoghe prese di posizione troviamo in Matteo, Marco e Luca e più esplicitamente in Giustino.(97) Ma perché Mara non fa esplicitamente il nome di Gesù? Cureton(98) ha supposto che egli abbia soppresso il nome di Gesù, perché scriveva in un periodo di persecuzioni anticristiane (cioè nel periodo di Marco Antonino). Ma questo ci riporta al problema della datazione della lettera: un problema fortemente controverso. Bruce(99) pensa che essa sia stata scritta in un tempo indeterminato dopo la conquista romana del Commagene (73 d.C.) e comunque molto oltre tale data; Blinzler ed Evans(100) la collocano nel pri(97)  Giustino, 1Apol, xxxii, 4-6; 47-49; liii, 2-3; Tryph, xxv, 5; cviii, 3. (98) W. Cureton, Spicilegium Syriacum, Containing Remains of Bardesan, Meliton, Ambrose and Mara Bar Serapion, London, Rivingtons, 1855, pp. xiii-xiv. (99)  F. F. Bruce, Jesus and Christian Origins outside the New Testament, London, Hodder & Stoughton, 19842, p. 30. (100) J. Blinzler, Trial of Jesus. The Jewish and Roman Proceedings against Christ, Westminster, Newman, 1959, p. 30; C. A. Evans, Jesus in Non-Christian Sources, in Studying the Historical Jesus, Leiden Brill, 1994, pp. 443-478: 456.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

679

mo secolo; Moreau(101) la fa oscillare tra il 73 e il 399; France e Brown(102) vogliono che sia ben posteriore al 70 d.C. e forse risalente al ii secolo; per Léon Dufour(103) va collocata intorno al 260. Personalmente ritengo che l’allusione relativa alla definitiva affermazione del Cristianesimo non può essere databile se non al iii o al iv secolo. 1.16. Svetonio Molto clamore ha suscitato il passo di Svetonio (70-140 d.C.) che così recita: «Claudio espulse da Roma i Giudei che erano in costante tumulto sotto l’impulso di Cresto» («Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulsit».(104) Le domande che sorgono in proposito sono: 1) è possibile che l’espulsione riguardò anche i cristiani? 2) in quale anno essa va collocata? 3) è possibile che Chresto sia una deformazione di Christo magari per effetto dell’itacismo oppure per semplice confusione dei due nomi? A giudicare dalle versioni fornite dagli storici romani si dovrebbe supporre che nel primo secolo le espulsioni di Giudei da Roma furono più di una. Sappiamo da Giuseppe Flavio(105) che una di esse ebbe luogo nel 19 d.C., allorché Tiberio trasferì ben quattromila Giudei in Sardegna. Ma si trattò di un episodio diverso da quello a cui accenna Svetonio, se non altro perché fu assunto da Tiberio e non da Claudio. Inoltre la sua datazione al 19 d.C. è confermata da Tacito.(106) Secondo Paolo Orosio l’episodio narrato da Svetonio risale al 49 d.C., poiché nelle sue Historiae così egli scrive: Giuseppe riferisce che nel nono anno del suo regno [intendi il 49 d.C.] i Giudei furono espulsi da Roma, ma mi convince di più Svetonio il quale dice che Claudio espulse da Roma i Giudei che tumultuavano continuamente sotto l’impulso di Cristo. Tuttavia non è facile stabilire se egli ordinò (101)  J. Moreau, Les plus anciens témoignages, cit., p. 9. (102)  R. Th. France, The Evidence for Jesus, cit., pp. 23-24, e R. E. Brown, The Death of Messiah, From Getsemane ti the Greve, a Commentary on the Passion Narratives in the Four Gospels, New York, Doubleday, 1994, vol. i, p. 382. (103) L. Dufour, voce Mara bar Serapion, in Dictionnaire de la Bible, Supplémemt 6, Paris, Letouzey et Ané, 1960, pp. 1422-1423. (104)  Svetonio, Claud., xxv, 2. (105) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 81-84. (106)  Tacito, Ann., ii, 85.

680  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini di reprimere e arginare i Giudei che tumultuavano contro Cristo oppure se abbia voluto espellere anche i cristiani insieme con gli esponenti della loro connaturata religione.(107)

Orosio non ha dubbi che Chresto si identifichi con Christo; il suo dubbio, se mai, è quello di stabilire se nella espulsione furono coinvolti anche i cristiani. Ma è certamente strano che egli attribuisca a Giuseppe la datazione del decreto claudiano, poiché, com’è noto, nelle Antiquitates non si fa menzione di alcun provvedimento antigiudaico da parte di Claudio, nei cui confronti tra l’altro si esprime un sostanziale apprezzamento soprattutto per la sua politica di apertura verso gli ebrei ai quali viene lasciata la libertà di praticare i loro culti. Probabilmente Orosio confonde il decreto espulsivo di Claudio con quello di Tiberio e ne stabilisce la datazione non sulla scorta di Giuseppe, ma su quella degli Atti, il cui testo recita: «Paolo partì da Atene e si recò a Corinto. Lì trovò un giudeo di nome Aquila, oriundo del Ponto, giunto dall’Italia insieme a sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato che tutti i giudei partissero da Roma» (At, xviii 1-2). Benché indicati come giudei, Aquila e Priscilla sono nel contesto degli Atti inequivocabilmente cristiani. Ciò ha indotto gli studiosi a ritenere che il decreto claudiano coinvolgesse anche i cristiani. In realtà l’autore degli Atti, che ha la pretesa di scrivere di storia alla maniera dei Greci, tenta in ogni modo di agganciare la propria narrazione a dati storici accertati. Da ciò il suo riferimento al decreto di espulsione che egli trova citato solo da Svetonio. Una diversa versione ci fornisce Dione se si riferisce allo stesso episodio. L’espulsione sarebbe a suo avviso riconducibile al 794 ab urbe condita ovvero 41 d.C., ma – a suo parere – Claudio decise non di espellere i giudei da Roma, ma semplicemente di impedire loro di riunirsi. Scrive infatti: «Poiché il numero dei giudei si era di nuovo accresciuto moltissimo in Roma, ed essendo difficile scacciarli dalla città senza provocare tumulti, egli non li espulse, ma proibì loro di riunirsi e di condurre una vita conforme alle loro leggi patrie (cioè conforme alla Torah)».(108) (107) Paolo Orosio, Historiae adversus paganos, vii, 15-16: «Anno eiusdem nono expulsos per Claudium urbe Iudaeos Iosephus refert. sed me magis Suetonius mouet, qui ait hoc modo: Claudius Iudaeos inpulsore Christo adsidue tumultuantes Roma expulit; quod, utrum contra Christum tumultuantes Iudaeos coherceri et conprimi iusserit, an etiam Christianos simul uelut cognatae religionis homines uoluerit expelli, nequaquam discernitur». (108)  Dione Cassio, Historia Romana, lx, 6.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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Il testo di Dione sembra accordarsi con quello del papiro P. Lond. 1912, incluso nel CPJ, il quale riguarda i difficili rapporti tra Claudio e gli Alessandrini a conferma di quanto già sappiamo dalla Legatio ad Gaium, scritta da Filone probabilmente intorno al 42 d.C.(109) Dal papiro apprendiamo che Claudio confermò la libertà di culto ai giudei, ma li minacciò di provvedimenti severi se avessero avanzato altre pretese o avessero provocato disordini nell’area alessandrina. Da qui l’ordine di non avvicinarsi alle coste della Siria e dell’Egitto sotto la minaccia di contrastarli con la forza. Soprattutto negativo è il giudizio che egli esprime nei confronti dei giudei, «piaga del mondo» (τῆς οἰκουμένης νόσον). Ed è verosimile che lo stesso atteggiamento, concessivo e insieme inflessibile, l’imperatore abbia adottato in quello stesso anno nei confronti dei giudei di Roma, ove forse la situazione era più grave tanto da indurlo ad impedire agli ebrei di riunirsi e di continuare a praticare i loro culti. In ogni caso il rapporto tra Claudio e gli ebrei non fu affatto idilliaco.(110) Gli interpreti cristiani ritengono che Svetonio sia in perfetta sintonia con gli Atti, che, identificato Chresto con Christo e, confusi i Giudei con i cristiani, datano l’espulsione tra il 48 e il 49 d.C. Ma la presunta sintonia con gli Atti è in realtà costruita più che suggerita dal testo svetoviano. Troppo semplicistica è l’identificazione Chresto-Christo. Se l’itacismo fosse scontato già nei primi secoli della nostra era, Tertulliano(111) non si sarebbe limitato a dire che i pagani «pronunciano malamente crestiano» invece di cristiano, ma avrebbe giustificato l’uso di ‘crestiani’ in forza di una legge linguistica. La realtà è che il nome Chrestus era abbastanza diffuso a Roma soprattutto tra gli schiavi; ed è altrettanto certo che Svetonio si riferisce ad un personaggio reale che provocò una reale rivolta di ebrei, indipendentemente dal fatto che questa sia caduta nel 41 o nel 49 d.C. D’altro canto in Nero, xvi, Svetonio usa correttamente il nome Christiani. Ogni tentativo di interpretare Chrestus come aggettivo o come nome che starebbe per Christus è destinato al fallimento. L’aggettivo chrestus in greco significa ‘buono’. Esso è usa(109)  Tale datazione dipende dal fatto che nella Legatio si fa riferimento al principato di Claudio. In essa inoltre Pilato è qualificato come ‘procurator’ (ὑπάρχων). (110)  Cfr. in proposito E. S. Gruen, Diaspora, Jews amids Greeks and Romans, Cambridge, Harvard University Press, 2002. Per il papiro CPJ 153 occorre consultare il Corpus Papyrorum Judaicarum, V. A. Tcherikover, A. Fuks ed M. Stern (eds.), vols 3, Cambridge, Harvard University Press, 1957-1964, vol. i (1957), pp. 95-100. (111)  Tertulliano, Apol, 3, 5.

682  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

to in tal senso da Giustino(112) nella doppia forma comparativa (χρηστότατοι) e determinativa (το χρηστόν). Se attribuiamo a Svetonio tale accezione, il testo ne risulterebbe addirittura contraddittorio, poiché in tal caso la rivolta sarebbe stata prodotta da un ‘buono’. Ma anche se sostituiamo Christus a Chrestus, il quadro storico del testo perderebbe consistenza, perché dovremmo ammettere che almeno nel 41 (primo anno di regno di Claudio) Gesù fosse ancora vivo tanto da promuovere una pericolosa sedizione dei giudei. Il che lo configurerebbe più come uno zelota che come un cristiano. Allo stesso risultato giungiamo se sospettiamo che nella trasmissione dei codici manoscritti dell’opera svetoniana qualche copista abbia confuso i due nomi. E non mancano studiosi cristiani che segnalano l’esistenza di manoscritti (es. il manoscritto 68.2 della Biblioteca Laurenziana di Firenze) che contengono la confusione chrestianos-christianos. L’ipotesi surrettizia è che il testo della Vita Claudii vada inteso nel senso che la presunta agitazione cristiana sia stata condotta non da Cristo, ma in nome di Cristo. Ma anche questa interpretazione è assolutamente inaccettabile come dimostra chiaramente l’ablativo assoluto impulsore Chresto che implica la contemporaneità della forza propulsiva di Cresto e della rivolta dei suoi seguaci. 1.17. Tacito Una fonte al di sopra di ogni sospetto costituisce per gli studiosi cristiani Publio Cornelio Tacito (54? – 120 d.C.?) che scrisse le Historiae tra il 100 e il 111 e gli Annales tra il 115 e il 117. Fu senza dubbio uno storico di grande affidabilità, ma ciò non è sempre vero; non lo è quando le questioni toccano le sue motivazioni ideologiche.(113) Avendo radici nella classe degli honestiores, egli è convinto che la rovina dell’Impero è dovuta alla perdita di potere della classe senatoriale e pertanto non si lascia sfuggire nessuna occasione in cui può discreditare gli imperatori che perseguono una politica favorevole agli humiliores. Attento a tutto quanto accade in ogni angolo dell’Impero, è ben al corrente delle continue rivolte che insanguinano la Giudea; ricorda(114) quella verificatasi sotto Caligola, scongiurata per (112)  Giustino, 1Apol, iv, 1 e 5. (113)  Sulle falsità sostenute da Tacito, cfr. R. Mellor, Tacitus, New York, Routledge, 1993, p. 44; Tacitus, Annals of Imperial Rome, Michael Grant (ed.), 1995, pp. 40-43. (114)  Tacito, Ann., xii, 54 e Hist., v, 9.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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l’improvvisa morte dell’imperatore (la stessa di cui parla Filone nella Legatio ad Gaium) e le altre che interessarono il regno di Claudio nel 52 d.C. In entrambe le occasioni furono puniti i due procuratori Ventidio Cumano e Felice, responsabili rispettivamente del controllo della Galilea e della Samaria; l’agitazione di quest’ultima fu sedata grazie all’intervento di Gaio Ummidio Durmio Quadrato, procuratore della Siria. A seguito della rivolta, l’Iturea e la Giudea furono annesse alla Siria che da quel momento(115) fu governata da un procurator. Quando Tacito parla della caduta di Gerusalemme nel 70(116) accenna ai prodigi che si sarebbero verificati e alle profezie ebraiche secondo cui dalla Giudea sarebbe venuto il Messia a dominare il mondo: «I più credevano a quanto era contenuto in antichi scritti di sacerdoti, cioè che proprio in quel tempo l’Oriente si sarebbe imposto, e uomini venuti dalla Giudea avrebbero dominato il mondo» («Pluribus persuasio inerat antiquis sacerdotum litteris contineri, eo ipso tempore fore ut valesceret Oriens profectique Iudaea rerum potirentur»). Ma egli interpreta quelle profezie in tutt’altra chiave e scrive: «Questa oscura predizione annunciava l’avvento di Vespasiano e di Tito» («Quae ambages Vespasianum ac Titum praedixerat»). Sebbene sia manifesta la dipendenza da Giuseppe Flavio, in questo passo abbiamo l’autentico atteggiamento di Tacito nei confronti dei giudei. Non usa neppure il termine Messia, ma «profecti» uomini provenienti da…; egli prende lucidamente le distanze da quel popolo superstizioso («gens superstitioni obnoxia») e dai «prodigia» narrati. Il conflitto tra Roma e la Giudea è politico e si accende sui temi della tassazione. A Tacito non sfugge l’importanza della questione. Così ci fa sapere che sotto Tiberio nel 17 la Siria e la Giudea implorarono una riduzione dei tributi e nel 19, a seguito degli episodi relativi alla dissolutezza delle donne, anche di quelle appartenenti alla famiglia pretoria, come Vistilia, Tiberio decise di bandire da Roma i culti egizi e giudaici e per decreto del Senato quattromila liberti furono trasferiti in Sardegna(117) (probabilmente si tratta dello stesso episodio narrato da Svetonio).(118) (115)  Tacito, Ann., xii, 23. (116)  Tacito, Hist., v, 13. (117)  Tacito, Ann., ii, 42; ii, 85. (118)  Secondo M. J. Harris, References to Jesus in Early Classical Authors, in R. Th. France, Gospel Perspectives: the Jesus Tradition outside the Gospels, Bde5, ed. David Wehnam, Birmingham, Jsot Press, 1985, vol. i, p. 351, Tacito potrebbe aver ricevuto informazioni sui cristiani da Plinio; G. R. Habermas, The Historical Jesus, Joplin, College Press, 1999, p. 189, pensa che Tacito abbia avuto accesso a documenti ufficiali.

684  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

Nella narrazione dell’incendio del 64 prevalgono le ragioni ideologiche, poiché l’intento è solo quello di gettare discredito su Nerone. Manifesta è la sua malevolenza nell’addossarne la responsabilità sull’impratore, che, a sua volta, ne avrebbe scaricata perversamente la colpa sui cristiani. Vale la pena di riportare per intero il testo: Per troncare la diceria Nerone spacciò per colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati quelli che le loro nefandezze rendevano odiosi e che il volgo chiamava cristiani (prendevano essi il nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore [procurator] Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio): e quella funesta superstizione, repressa per breve tempo, riprendeva ora forza non soltanto in Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche in Roma ove tutte le atrocità confluiscono da ogni parte e trovano seguaci. Furono dunque arrestati dapprima quelli che confessavano, poi, su denunzia di costoro, altri in grandissimo numero furono condannati, non tanto come incendiari, quanto come odiatori del genere umano. E quando andavano alla morte si aggiungevano loro gli scherni; morivano dilaniati dai cani, dopo averli vestiti di pelli ferine, o affissi alle croci e dati alle fiamme, perché ardessero a guisa di fiaccole notturne dopo il tramonto del sole.(119)

Sono troppi gli elementi che non quadrano in questo testo, se lo si dà per autentico. Lo stesso termine procurator può costituire di per sé un segno della sua inautenticità, poiché Tacito non avrebbe potuto attribuire a Pilato una carica politico-militare, istituita nel 41 da Claudio e assegnata alla classe equestre,(120) indipendentemente dal fatto che egli avesse o meno noti(119)  Tacito, Annales, xv, 44, 3: «Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis affecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitialis superstitio rursum erumpebat, non modo per Judaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde iudicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus adfixi atque flammati, ubi defecissset dies, in usum nocturni luminis urerentur». Il passo è considerato spurio da Las Vergnas, Jésus Christ a-t-il existé, Paris, La Ruche Ouvrière, 1958; da G. A. van der Berg van Eysinga, Radical views about the New Testament, London, Watts, 1912, p. 8. (120)  Cfr. in proposito C. H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, Brescia, Paideia, 1984.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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zia dell’oscuro funzionario che ai margini dell’impero aveva il titolo di praefectus. Peraltro l’incendio del 19 luglio 64,(121) per essersi verificato in una notte di plenilunio, non fu doloso e Nerone non ne aveva alcuna responsabilità né aveva bisogno di discolparsi agli occhi di chicchessia. Si trattò in ogni caso di un incendio di vastissime proporzioni che contraddittoriamente Tacito fa partire dal Circo Massimo o dagli orti emiliani.(122) Esso divampò per più di una settimana, distrusse gran parte della città e lasciò intatti appena quattro dei quattordici distretti in cui essa era divisa. La notizia sul focolaio scoppiato negli orti emiliani è sospetta, poiché dal contesto si evince la sua funzionalità alla tesi del dolo del principe, sopraffatto dalle infami dicerie popolari secondo cui egli ambiva alla gloria di edificare una nuova Roma («Plusque infamiae id incendium habuit […] videbaturque Nero condendae urbis novae et cognomento suo appellandae gloriam quaerere»). La faziosità della citazione degli orti emiliani sta nel fatto che in essi aveva la sua dimora Tigellino e questa semplice circostanza poteva alimentare ancor più il sospetto contro l’imperatore. Poco credibile è l’affermazione che il cristianesimo sia stato represso per breve tempo per risorgere subito dopo, rinvigorito più che mai, non solo in Giudea, ma anche a Roma («Quella funesta superstizione, repressa per breve tempo, riprendeva ora forza non soltanto in Giudea […] ma anche in Roma»). Ciò presuppone non solo che nel 64 il cristianesimo fosse già ampiamente diffuso (ed è affermazione eccessiva se si pensa che esso sarebbe sorto appena nel 33 d.C.), ma anche che avesse già subito precedenti repressioni (quando? e da parte di chi?). Va poi osservato che, se riferito ai cristiani, fatebantur potrebbe assumere il significato di una professione di fede. Così infatti è nella traduzione italiana: «Furono dunque arrestati dapprima quelli che professavano apertamente la dottrina».(123) Di per sé però esso esprime solo il significato di una confessione, di una ammissione: «Furono dunque arrestati dapprima quelli che confessavano». La prima versione è in contrasto con tutto quanto ci è dato di sapere delle prime comunità cristiane, che professavano di nascosto nei propri coemeteria catacombali. Neppure Plinio il Giovane accenna a cristiani che si dichiaravano spontaneamente tali, ma parla esplicitamente di delazioni nei loro confronti. Per Plinio le delazioni sarebbero state di par(121)  Tacito, Ann., xv, 38-45. (122)  Tacito, Ann., xv, 38, 1; xv, 40, 2. (123)  Traduzione di Azelia Arici.

686  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

te pagana, nella versione italiana di Tacito vengono invece ritenute di matrice cristiana («iudicio eorum»), cioè mosse da quegli stessi che, professando apertamente la dottrina, provocarono una vera e propria strage a danno di una «ingens multitudo». Il nodo essenziale resta dunque quello della responsabilità dei cristiani e soprattutto del riferimento a Cristo condannato sotto Ponzio Pilato. Da dove attinge Tacito in materia di cristiani e di Pilato? Da dicerie, da scrittori o da archivi? Naturalmente dobbiamo escludere che egli avesse conoscenza degli scritti neotestamentari; anche perché, posto che fossero già stati compilati, certamente circolavano di mano in mano e in grande riservatezza. Tacito dedica ben sette capitoli degli Annales all’argomento, ma lo introduce con molta incertezza poiché dice che l’incendio scoppiò «non si sa se per caso o per dolo dell’imperatore» («forte an dolo principis incertum») e aggiunge che gli scrittori che lo hanno preceduto hanno tramandato ambedue le versioni («nam utrumque auctores prodidere»). Ma chi sono gli auctores a cui si riferisce? Egli non li indica. Sappiamo che sulla stessa materia hanno scritto Svetonio, Dione Cassio, lo Ps.-Seneca, Plinio il Vecchio, Eutropio, Orosio ed altri ancora più recenti.(124) Tra questi l’unico scrittore che precede Tacito è Plinio, gli altri sono tutti posteriori. Tutti addossano la responsabilità all’imperatore, ma nessuno collega l’incendio ai cristiani. Se leggiamo il testo di Plinio, restiamo delusi dalla sua stringatezza. Nella Historia naturalis, scritta nel 77, lo scienziato ci parla di alberi che sopravvissero «fino all’incendio dell’imperatore Nerone, con cui egli bruciò la città di Roma» («ad Neronis principis incendia, quibus cremavit Urbem»). Se ne deduce che anche Plinio fa ricadere la responsabilità dell’incendio solo su Nerone, senza il coinvolgimento dei cristiani. Svetonio è, tra tutti, lo storico più spietato e fazioso contro l’imperatore. Egli mette mano alle Vitae Caesarum dopo il 121, dopo essere stato dal 115-120 segretario di Adriano ed aver avuto accesso agli Acta Senatus, ma sfortunatamente contamina molto spesso le fonti ufficiali con notizie assunte in modo casuale e spesso coincidenti con dicerie di carattere popolare. Anche Svetonio, come Tacito, proviene dalla classe degli honestiores, e più precisamente dalla classe equestre, ed ha la sua stessa repulsione per ogni politica a vantaggio dei ceti meno abbienti. Il capitolo xxxviii della sua Vita Neronis è particolarmente velenoso e falso, poiché afferma che pa(124)  Svetonio, Nero, xxxviii, 2; Dione Cassio, Historia Romana, lxii, 16, Ps.-Seneca, Octavia, v, vv. 831-832; Plinio il Vecchio, Naturalis historia, xvii, 1-5; Eutropio, Breviarium ab urbe condita, vii, 14, Paolo Orosio, Historia adversus paganos, vii, 7.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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recchi consolari (plerique consulares) avevano riconosciuto tra gli incendiari gli stessi camerieri (cubicularios) del principe e che addirittura Nerone aveva fatto abbattere nelle vicinanze dell’area in cui voleva costruire la Domus aurea una serie di magazzini di grano (quaedam horrea). Infine stigmatizza la follia dell’imperatore, facendolo assistere dalla torre di Mecenate allo spettacolo di una città arsa dal fuoco, come l’antica Troia. Tace deliberatamente dei tanti provvedimenti positivi che l’imperatore assunse nella circostanza. Se Tacito non ha difficoltà ad apprezzare la politica imperiale di soccorso alle popolazioni colpite, Svetonio non ne fa la minima menzione e quando nel capitolo xvi accenna alla ricostruzione della città secondo piani urbanistici all’avanguardia, non la collega direttamente all’incendio. Tacito è assai più dettagliato; ci fa sapere che, appena rientrato da Anzio a Roma, Nerone aprì al popolo disperato il campo di Marte, gli edifici di Agrippa e i propri giardini, abbassò il prezzo del grano a tre sesterzi per moggio, fece costruire baracche improvvisate per i senzatetto e fece ricostruire la città con nuove tecniche edificatorie, secondo un piano urbanistico avanzato che prevedeva strade più larghe e porticati utili a spegnere il fuoco. Anche le persecuzioni anticristiane sono ricordate da Svetono nel citato capitolo xvi in modo da tenerle ben separate dalla terribile tragedia. E comunque egli si limita a dire che «vennero condannati al supplizio i cristiani, genere di individui dediti a una nuova e malefica religione» («afflicti suppliciis chistiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae»). Qualcuno ha supposto che Tacito abbia potuto avere notizie di prima mano dalla consultazione degli archivi. In primis è assolutamente da escludere che su Cristo e Pilato egli abbia avuto, anche indirettamente, notizie provenienti dall’archivio del tempio gerosolimitano perché con la distruzione del 70 non ne rimase alcuna traccia. Si potrebbe pensare ad una eventuale consultazione di archivi romani. Ma anche qui le ipotesi vanno valutate con cautela. Non è possibile che abbia potuto consultare i Commentarii principis che erano gli archivi contenenti documenti sulle campagne militari, editti, rescritti ed atti giuridici di competenza imperiale. E benché Tacito lamenti il loro pessimo stato, essi erano segreti e il loro accesso era impedito persino al Senato.(125) L’altro archivio romano, gli Acta Senatus, conteneva documenti di competenza senatoriale. Tacito ci dice di averli utilizzati, ma certamente in essi non v’era alcun riferimento al Cristo, perché la Giudea era una provincia imperiale, non senatoriale, e il relativo governatorato era sottratto al (125)  Tacito, Hist., iv, 40.

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Senato. Lo stesso uso del termine procurator sta a significare che le informazioni su Pilato non derivavano da atti ufficiali.(126) Pur ammettendo che non tutte le fonti tacitiane siano archivistiche, non mi pare accettabile l’ipotesi di chi vuole che egli abbia attinto dai cosiddetti Atti di Pilato che, secondo una versione fornita da Tertulliano e da Giustino(127) Pilato avrebbe inviato a Roma dopo la morte del Cristo. Si è molto discusso sull’autenticità della testimonianza tacitiana. Taluni si sono schierati per una interpolazione totale(128) del capitolo 44, altri più prudentemente per una interpolazione parziale.(129) Tra i primi Jean Rougé(130) ravvisa una somiglianza tra il rogo neroniano di Roma e quello di Galerio in Nicomedia nel 303. Per Voorst(131) è scontato il collegamento tra l’incendio e i cristiani e l’autenticità del capitolo è confermata – ma è osservazione davvero singolare – dal Chronicon di Sulpicio Severo (della prima metà del v secolo).(132) Norma Miller(133) invece pone giustamente l’accento sullo stile della narrazione che è appunto improntata alla concinnitas propria dello storico. R. Hanslik e R. Renahan(134) manifestano perplessità sul termine Christianoi, poiché nel più antico manoscritto, il Secondo Mediceo, che è il capostipite di quelli sopravvissuti, è presente la forma Chrestianoi. Pascal,(135) per avvalorarne l’autenticità, sostiene che responsabili dell’incendio furono davvero i cristiani, spinti dalla profezia di carattere apocalittico secondo cui Roma, la città malvagia, sarebbe caduta. Molto stringenti sono di contro le argomentazioni circa l’inautenticità del passo tacitiano. Esse si possono riassumere come segue: 1) non ci sono prove che Nerone perseguitò i (126)  Su quest’ultima affermazione si sofferma P. Winter, Tacitus and Pliny: the Early Christians, «Journal of Historical Studies», 1967-1968, pp. 31-40; Id., Tacitus and Pliny on Christianity, «Klio», lii, 1970, pp. 497-502. (127)  Tertulliano, Apol., xxi; AdversusMarcionem, 4, 7, 19; Giustino, 1Apol., xxxv, 6; xlviii, 3. (128) P. Hochart, De l’authenticité des Annales et des Histoires de Tacite, Paris, Thorin, 1890. (129)  Ch. H. A. Drews, The Christ Myth, London, Fisher & Unwin, 1910, pp. 231-233. (130) J. Rougé, Mélanges d’histoire ancienne offerts à William Seston, Paris, Boccard, 1974, pp. 433-441. (131)  R. E. van Voorst, Jesus Outside the News Testament, cit., pp. 42-43. (132)  Sulpicio Severo, Chronicon, ii, 29. (133)  N. P. Miller, in Tacitus, Annals xv, London, Macmillan, 1973, p. xxvii. (134) R. Hanslik, Der Erzählungskomplex vom Brand Rom und der Christenverfolgung bei Tacitus, «Wiener Studien», lxxvi, 1963, pp. 92-108 e Robert Renahan, Christus or Chrestus in Tacitus?, «La Parola del Passato», cxxii, 1968, pp. 368-370. (135) C. Pascal, L’incendio di Roma e i primi cristiani, Torino, Loescher, 1900.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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cristiani; 2) in Roma non c’era una moltitudine di cristiani all’epoca di Nerone; 3) ‘cristiano’ non era un termine comune alla fine del primo secolo; 4) Nerone fu indifferente nei riguardi dei culti religiosi; 5) Nerone non incendiò Roma; 6) Tacito non usa il nome ‘Gesù’ e 7) presume che i suoi lettori conoscano Ponzio Pilato; 8) il passo è presente parola per parola nella Cronaca di Sulpicio Severo. L’ottavo argomento è debole. Contro le argomentazioni citate si può osservare che il passo è in un contesto fortemente critico nei confronti dei cristiani.(136) Va aggiunto che nel contesto tacitiano non mancano contraddizioni tra i capitoli xxxviii e xliv. Nel primo lo storico si mostra incerto circa l’origine del fuoco, nel secondo non ha dubbi sul dolo del principe. Ma forse fin dal principio egli parte con la certezza del dolo. Poiché però nell’insieme non si può non prendere atto della autenticità dello stile tacitiano, si deve pensare che, se la versione non dipende da una fonte precedente (e sembra che non fosse presente in alcuna di esse), l’intervento manipolatorio di mano cristiana sia stato di stretta misura e di minime proporzioni, tanto da non intaccarne l’ordito stilistico. Mi pare perciò che l’attenzione debba essere richiamata sul seguente passo, che è forse l’unico oggetto dell’interpolazione cristiana: «quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitialis superstitio rursum erumpebat, non modo per Judaeam, originem eius mali». La spiegazione potrebbe essere la seguente: Tacito non torna sulle origini dell’incendio, perché aveva già dichiarato che esso era o casuale o doloso; quindi nel contesto che abbiamo isolato doveva probabilmente continuare a trattare dei provvedimenti imperiali e tra questi doveva accennare anche all’arresto degli incendiari, senza indicarne l’appartenenza ad una fede religiosa. In breve per mettere a tacere coloro che lo chiamavano in causa, l’imperatore dovette provvedere a far arrestare non solo gli incendiari denunciati, ma forse anche altri che erano innocenti. Se è vero ciò che dice Svetonio, alcuni di essi furono scoperti dai consulares che presumibilmente li denunciarono; non è improbabile che di tali denunce si trovasse traccia negli Acta Senatus. Le reazioni del potere imperiale furono spietate. Dopo i primi colti in flagranza di reato, i quali confessavano (fatebantur), per loro delazione si procedette all’arresto di altri che non erano stati scoperti; tutti furono crocifissi e furono bruciati sulle loro (136)  Per altre osservazioni su Tacito v. J. J. Lowder, Josh McDowell’s Evidence for Jesus, pp. 27-29 (www.infidels.org/library/modern/jeff).

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croci fino a notte inoltrata. Se questa ipotesi è accettabile, nel contesto successivo costituisce forse una ulteriore interpolazione cristiana solo quel ingens multitudo che non appare verosimile. Ne consegue che molto verosimilmente il testo originale doveva avere il tono seguente: Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis affecit. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde iudicio eorum plerique haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus adfixi atque flammati, ubi defecissset dies, in usum nocturni luminis urerentur. Per troncare la diceria Nerone arrestò i colpevoli e li condannò ai tormenti più raffinati. Furono dunque arrestati dapprima quelli che confessavano, poi, su denunzia di costoro, parecchi altri furono condannati, non tanto come incendiari, quanto come odiatori del genere umano. E quando andavano alla morte si aggiungevano loro gli scherni; morivano dilaniati dai cani, coperti di pelli ferine, o appesi alle croci e dati alle fiamme, perché ardessero a guisa di fiaccole notturne dopo il tramonto del sole.

1.18.  Flegonte di Tralle Si vuole che una testimonianza a favore della storicità del Cristo sia rappresentata da un passo delle Olimpiadi di Flegonte di Tralle, che visse sotto Adriano nel ii secolo. La sua opera abbraccia in 16 libri il periodo compreso dalla prima (776 a.C.) alla 229° Olimpiade (137 d.C.). L’opera è andata perduta, ma ci restano taluni frammenti citati da Eusebio,(137) da Sincello, da Africano e da Fozio. Origene la cita nel commento a Matteo e nel Contra Celsum.(138) Il passo più frequentemente richiamato dagli storici cristiani a supporto della verità evangelica è nel xiii libro delle Olimpiadi e recita: Nel quarto anno della 202° Olimpiade [intendi il 32 d.C.] ci fu un’eclissi di sole maggiore di quante si erano prima vedute. All’ora sesta del giorno si (137)  Eusebio, Chronicon, Ol. 203. (138)  Origene, Comm. in Matth., 40 e 134, in PG. xiii, coll. 1657 e 1782; Contra Celsum, ii, 14.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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levò una notte così nera che apparvero in cielo le stelle e in Bitinia un gran terremoto sconvolse molte case della città di Nicea.(139)

Non è improbabile che l’indicazione dell’ora sesta non sia altro che una suggestione proveniente dai sinottici. In ogni caso il testo non fa alcun riferimento alla pasqua ebraica e peraltro accenna ad eventi straordinari che si sarebbero verificati non in Giudea, ma in Bitinia e nella città di Nicea. Per il suo gusto per il meraviglioso, attestato dal suo De rebus mirabilibus, che ci è pervenuto, Flegonte non è certamente affidabile e in ogni caso, per essere vissuto al tempo di Adriano non può ritenersi testimone diretto di quanto narra. 1.19. Thallos Strettamente collegata alla testimonianza di Flegonte è un passo della Storia universale di Thallos. Il guaio è che si tratta di un autore pressoché sconosciuto del quale è difficile stabilire anche approssimativamente la sua collocazione storica. Né meno controversa è l’estensione della sua narrazione che, secondo Eusebio, partirebbe dalla guerra di Troia per concludersi con la 167° Olimpiade, corrispondente al 109-112 a.C. Purtroppo l’opera è andata perduta, ma diversi suoi frammenti sono citati da Sesto Giulio Africano (170-240 d.C.), che li riporta nella sua Χρονογραφία (= Chronographía). Per la verità anche l’opera di Africano è andata perduta, ma per fortuna il frammento in questione ci è stato conservato da Giorgio Sincello (ix secolo) nella Ἐκλογὴ τῆς χρονογραφίας, sicché esso è oggi consultabile nei Fragmenta Historicorum Graecorum curati dal Muller.(140) Il testo in questione recita: Un’orrenda oscurità copriva tutta la terra; un terremoto squarciò le pietre e sconvolse la Giudea e le altre regioni della terra. Nel terzo libro della sua Storia, Thallos definisce questa oscurità un’eclissi solare. Ma questa ipotesi a me sembra irragionevole.

In realtà l’oscuramento del cielo e il terremoto in occasione della croci(139)  Fragmenta Historicorum Graecorum, a c. di Karl Müller, vol. iii, fr. 14, pp. 606-607. (140)  Fragmenta Historicorum Graecorum, a c. di Karl Müller, vol. iii, fr. 8, Parisiis, Firmin Didot, 1849, pp. 517-519.

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fissione sono una pura invenzione letteraria dei sinottici,(141) ma Muller sostiene che l’episodio, narrato da Thallos si riferisce all’anno 5.533 (annus mundi) pari al 33 d.C., che a sua volta coinciderebbe con il primo anno dell’Olimpiade 203°. È verosimile che nel testo originale di Thallos non ci fosse alcuna allusione alla pasqua ebraica, ma sembra che la Giudea fosse al centro dell’evento. Se il testo di Thallos aveva un sottinteso legame con la passione del Cristo e con i prodigi descritti nei vangeli, non è improbabile che egli intendesse assegnare ad essi una qualche credibilità o che volesse darne una spiegazione razionalistica e naturalistica. Un analogo tentativo aveva condotto Celso, probabilmente suo contemporaneo, drasticamente confutato da Origene. Naturalmente la soluzione razionalistica non trova credito né in Girolamo, né in Giovanni Crisostomo e neppure nello stesso Africano, che la ritiene infondata, forse perché sa che è astronomicamente impossibile un’eclissi solare durante la pasqua ebraica che cade in giorni di plenilunio, allorché il sole si trova in fase di opposizione rispetto al satellite terrestre e non può di conseguenza dar luogo ad alcuna eclissi. Gli storici cristiani hanno attribuito una grande importanza al frammento di Thallos, affermando che esso risalirebbe all’incirca al 50 d.C.,(142) ad appena un ventennio dopo la passione. Tuttavia tale alta datazione ha preso corpo a partire da un equivoco o meglio da una distorta interpretazione di un passo delle Antiquitates,(143) in cui Giuseppe afferma che il tetrarca Agrippa ottenne un lauto prestito «da un altro samaritano» (in greco: ἂλλος Σαμαρεὺς). Poiché però nel testo flaviano manca il riferimento ad un samaritano rispetto al quale il creditore di Agrippa sarebbe stato «un altro» (ἂλλος), Hudson(144) nel xviii secolo pensò bene di aggiungere un theta davanti ad ἂλλος e così sancì la nascita di uno storico samaritano del tutto ignoto, il quale sarebbe vissuto a Roma nella metà del primo secolo. Egli anzi sarebbe stato un anticipatore dello stesso Giuseppe, che, come sappiamo, non lo menziona mai. Sicché, com’è evidente, il Thallos samaritano del primo secolo non è che un’inven(141)  Cfr. in proposito, C. Allison Dale, Studies in Matthew. Interpretation past and present, Grand Rapids, Baker Academic, 2005, p. 186; George Bradford Caird, The Language and Imagery of the Bible, Philadelphia, Westminster Press, 1980, p. 186. (142)  F. F. Bruce, The New Testament Documents. Are they Reliable?, Leicester, Inter-varsity Press, 1960, p. 114, lo data intorno al 52. (143) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 167. (144)  Flavii Josephi Opera, quae reperiri potuerunt, omnia[…] recensuit […] nova versione donavit et notis illustravit Johannes Hudosonus, Oxonii, e Theatro Sheldoniano, mdccxx, vol. ii, p. 810.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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zione di storici buontemponi. Sciolto l’equivoco, cade di conseguenza anche l’antica testimonianza che sarebbe stata precedente addirittura ai testi evangelici e paolini. Personalmente ritengo che uno dei criteri decisivi per la datazione di testi o di scrittori sia quello di partire dalla loro letteratura secondaria. È difficile che un testo sia di molto anteriore alle prime citazioni che lo riguardano; e, se ciò accade in qualche caso, ne vanno individuate le cause. Il nostro Thallos ha le sue prime menzioni in Teofilo di Antiochia, in Tertulliano, nello Ps.-Giustino, in Lattanzio e infine in Africano e in Eusebio.(145) Ciò significa che egli va collocato nella seconda metà del ii secolo. Di conseguenza l’eventuale allusione alla pasqua ebraica del 33 d.C., posto che Thallos l’abbia effettivamente proposta, perde il valore che inizialmente sembrava avere. Tuttavia, una volta scoperto l’equivoco, si tentò comunque di retrodatare il più possibile la datazione della storia di Thallos, che si sarebbe estesa fino agli eventi della 167° Olimpiade (112-109 a.C.). Karst e Peterman,(146)per avvalorare la narrazione evangelica, avanzarono l’ipotesi di un errore di trascrizione prodotto nella traduzione armena della Storia e, sfoderando una serie di argomentazioni paleografiche, rettificarono la 167° Olimpiade nella 207° (49-52 d.C.) o nella 212° (89-92 d.C.).(147) La vacillante congettura è stata debitamente confutata da France.(148) Acuta è in proposito l’osservazione di Maurice Goguel, il quale nota che se Thallos avesse parlato di una eclissi verificatasi nel 15° anno di Tiberio, Giulio Africano non l’avrebbe respinta come inaccettabile, ma l’avrebbe utilizzata a conferma della tradizione cristiana.(149) Ma come nella seconda guerra mondiale ci furono gli ultimi irriducibili giapponesi che ne ignorarono la fine, così accade spesso in campo religioso: a dispetto di ogni evidenza, ci sono sempre gli irriducibili che si ostinano a difendere le posizioni conquistate, anche quando sono ridotte in miserevoli rovine. Non si spiega infatti come Van Voorst insista sulla possibile indipendenza di Thallos da fonti cristiane. «We can conclude – egli scrive – that this element of Christian Tradition was known outside of Chri(145)  Teofilo di Antiochia, Ad Autolycum, iii, 29; Tertulliano,Apol, 10 e 19; Ps.-Giustino, Cohortatio ad Graecos, 9; Lattanzio, Divinae Institutiones, i, 13, 23; per Giulio Africano v. Eusebio, Praeparatio evangelica, x, 10, in PG. xxi, col. 811. (146) J. Karst, Die Chronik in Eusebius Caesariensis, Werke, Leipzig, Hinrichs, 1911, Bd. v, p. 125. (147) A. Mosshammer, The Chronicle of Eusebius and Greek Chronograpahic Tradition, Lewisburg, Buchnell University Press, 1979, pp. 146-155. (148)  R. Th. France, The Evidence for Jesus, cit., p. 24. (149) M. Goguel, Life of Jesus, London, Allen & Unwin, 1933, pp. 91-93.

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stian circles and that Thallos felt it necessary to refute it, thus giving it even wide exposure».(150) Al contrario France scrive che l’eventuale riferimento a Gesù nel testo di Thallos «may not have been drawn from christian sources». Correttamente Jacoby ne data il testo al secondo secolo.(151) 1.20. Ps.-Egesippo Dello Ps.-Egesippo (130- m. dopo il 189) sappiamo ben poco o quasi nulla. I pochi frammenti che ci restano delle sue Memorie (῾Υπομνήματα) in cinque libri ci sono stati trasmessi da Eusebio;(152) gli viene attribuita la traduzione latina di una copia contraffatta del Bellum Judaicum di Giuseppe Flavio. In realtà la traduzione fu opera di Ambrogio di Milano (333-397). Due sono le informazioni sulle prime comunità cristiane che vengono fatte risalire ad Egesippo. La prima è relativa alla successione dei primi vescovi di Roma e di Gerusalemme; la seconda al martirio di Giacomo, il fratello del Signore.(153) Nell’uno e nell’altro caso non possiamo essere certi che si tratti di informazioni affidabili.(154) Della seconda mi occuperò più avanti.(155) In ogni caso va tenuto presente che Egesippo scrive intorno al 189 forse durante il papato di Eleuterio(156) o dopo; ciò significa che le sue Memorie si collocano almeno ad un secolo e mezzo di distanza dalla vera e propria età apostolica. 1.21.  Il cristianesimo nelle fonti ebraiche: il Talmud L’esplorazione delle fonti giudaiche è forse la più importante se non altro perché da essa ci si attenderebbero risultati più promettenti. Sicché è (150)  R. E. van Voorst, Jesus Outside the News Testament, cit., p. 23: «Possiamo concludere che questo elemento della Tradizione cristiana era noto al di fuori degli ambienti cristiani e che Thallos ritenne necessario confutarlo, dandogli così anche ampia visibilità». (151) F. Jacoby, Fragmente der griechischen Historiker, Leiden, Brill, 1962, vol. ii, p. 1156. (152)  Eusebio, HE, ii, 23; iv, 8. (153)  Per l’una e per l’altra, v. Eusebio, HE, iv, 5, 8; ii, 23; iii, 5, 7, 11; iv, 5. (154) F. Guy, La fable de Jesus Christ. iii: Le silence des auteurs juifs, Paris, Éditions de l’Union Rationaliste, 19673. (155) v. infra, pt. III, par. 1.25. (156) Cfr. Eusebio, HE, iv, 11.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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inevitabile che ci si chieda che cosa si può cogliere nei testi giudaici scritti proprio nello stesso tempo della passione e della resurrezione del Cristo. Il Talmud (= insegnamento) è diviso in due parti: la Mishnah (‫)משנה‬ che comprende 63 tratttati (masechot = ‫)מסכת‬, divisi in sei ordini (sedarim = ‫)סדרם‬, e la Ghemara (‫ )גמרא‬contenente i commenti dei maestri amoraim (‫ = אמוראים‬interpreti, da amar = interpretare). I trattati, contenuti nella Mishnah (‫ = משנה‬ripetizione della Legge dall’ebr. shanah ‫ שנה‬che significa ‘ripetere’ nel senso della trasmissione orale) sono quelli detti dei Tannaim (‫ =תנאים‬sapienti) del periodo tannaitico. Le sentenze più antiche in essa raccolte risalgono a Hillel (60 a.C.-7 d.C.), a Shammai (50 a. C-30 d.C.), al Rabbi Johanam ben Zakkai (40 a.C.-80 d.C.), che operò nella scuola di Jamnia (da lui fondata tra il 70 e l’80 d.C. e continuata da Gamaliele). Antiche sono anche le sentenze del Sinedrio o Beth-Din (‫ = בית דין‬casa della giustizia). Tutte risalgono al periodo compreso tra il 70 e il 130 d.C., cioè tra la distruzione del tempio e la rivolta di Bar Kockba. Il suo redattore, che scrisse in ebraico mishnico, è Yehudah ha-Nasi (Giuda il Principe o il Patriarca), ma la versione attuale non è anteriore al v secolo. La Ghemara fu redatta, in aramaico ebraico babilonese, da Rav Ashi e Ravina (morto nel 499) e i commenti in essa contenuti vanno dal 200 al 600 d.C. La definitiva sistemazione del Talmud fu opera di Rabbi Aqiba e del suo discepolo Rabbi Meir (operante tra il 135 e il 150 a Sefforis, Tiberiade, Cesarea, Usha). Gli insegnamenti rabbinici ci sono pervenuti attraverso due distinte raccolte note sotto il nome di Talmud babilonese (Talmud Bavli) e Talmud palestinese o di Gerusalemme (Talmud Yerushalmi). Si tratta di due voluminosissime collazioni di testi di grande utilità per capire l’universo dottrinale giudaico. È di qualche interesse l’indagine che nell’ambito della cultura ebraica dei primi secoli dell’era cristiana ha condotto Joseph Gedaliah Klausner (1874-1958). Egli ha ricostruito la lettura che la tradizione rabbinica ci ha fornito sul Cristo e sul cristianesimo primitivo ed ha utilizzato – al fine di determinare l’evoluzione di tale tradizione – le datazioni secondo le modalità con cui vengono citate le sentenze legali nella Mishnah, cioè sulla base del nome dei rabbini che le introducono nella tradizione. La sintesi che Klausner ne ricava è la seguente: Gesù fu un ebreo che tentò di riformare la religione ebraica, pur rimanendo sempre fedele al giudaismo; Paolo invece fu un ebreo della diaspora che fu influenzato dall’ellenismo e fondò il cristianesimo. Klausner afferma che in generale nella tradizione rabbini-

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ca si preferiva tacere sulla figura di Cristo o viceversa si preferiva parlarne in chiave negativa. Più esplicitamente Brown(157) dichiara che nella letteratura talmudica non ci sono evidenze che dimostrino come il Cristo era percepito in ambito giudaico. Nel Talmud babilonese (iii-iv secolo) troviamo solo la seguente allusione al Cristo: Ecco ciò che ci è trasmesso: il giorno di preparazione della pasqua fu appeso Gesù [in uno dei codici manoscritti è aggiunto ‘di Nazareth’]. Un araldo aveva camminato quaranta giorni davanti a lui, dicendo: ‘Deve essere lapidato perché ha praticato la magia e ha sviato e sedotto Israele. Chiunque sa qualcosa a sua discolpa venga a difenderlo’. Ma non fu trovata alcuna difesa e fu appeso il giorno della preparazione della pasqua.(158)

Poiché tale testo non è indipendente dal N.T., non sembra essere una fonte affidabile sul tema della storicità del Cristo(159). Lo stesso si dica per il Talmud di Gerusalemme, su cui è opportuno consultare Ch. Herford.(160) In ogni caso in taanit troviamo i seguenti passi: «Così parla Rabbi Abbahu [279-320 d.C.]: quando uno dice ‘sono Dio’ egli mente; ‘sono figlio dell’uomo’, alla fine Egli lo rifiuterà; ‘Io salirò al cielo’, lo dice, ma non può compierlo».(161) Altrove Gesù è indicato come figlio di una pettinatrice di nome Maria e di un soldato romano di nome Pantera o Pandera (tale nome sarebbe una deformazione ebraica del greco Parthenos = vergine). Come si è visto, un’analoga versione è presente in Celso.(162) Il Talmud palestinese non nomina mai Yehōwōšua’, quello babilonese lo designa (157)  R. E. Brown, Death of the Messiah, cit., p. 526. Tale è anche l’opinione di G. Vermes, Jesus and the World of Judaism, Philadelphia, Fortress, 1984, p. 27. (158)  Sanhedrim 43a. (159)  Tale è l’opinione di J. Klausner, Jesus von Nazareth, sein Zeit, sein Leben und sein Lehre, his life, times and teaching, Berlin, Jüdischer Verlag, 1930, transl. by H. Danby, Jesus of Nazareth, his Life, Times and Teaching, London, Allen & Unwin, 1925, pp. 20, 2728, e di M. Goldstein, Jesus in the Jewish Tradition, New York, Macmillan, 1950, p. 101. Anche J. P. Meier, A Marginal Jew, New Haven - London, Yale University Press, 1991 (tr. di Luca De Sanctis: Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Brescia, Queriniana, 2001, vol. i, p. 97), dubita che il Talmud possa dare apporti sulla storicità del Cristo. R. T. Herford, Christianity in Talmud and Midrash, London, Williams & Norgate, 1903. (160)  R. T. Herford, Christianity in Talmud, cit. (161)  Taanit ii, 1; ii, 65-69. (162)  Origene, Contra Celsum, i, 32.

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con il nome Yeshu, considerato un acronimo di «yemach shemo vezichro» (= sia cancellato il suo nome e la sua memoria). Occorre tener presente che i testi talmudici non possono considerarsi testi storici, poiché sono di carattere giuridico (contengono la tradizione halakica, relativa ai 613 mitzvot ‫= מצות‬ precetti, derivati dalla legge mosaica) o etico (contengono la tradizione haggadica). Perciò può ritenersi faziosa l’interpretazione della dodicesima (Birkat ha minim ‫ = ברכת המינים‬benedizione contro gli eretici) delle diciotto benedizioni dell’Amidah o Tefilat ha Amidah (‫ )תפלת העמידה‬risalenti alle fine del primo secolo. Il testo della Birkat recita: Per i calunniatori e per gli eretici non ci sia speranza e tutti in un istante periscano; tutti i tuoi nemici siano prontamente distrutti e tu umiliali prontamente ai nostri giorni.

Anche nella versione che allude ai noserim e ai minim, non si può dire che il riferimento ai cristiani sia chiaro ed inequivocabile, perché i noserim non sono i nazareni (identificati con i cristiani), ma i nazirei (con riferimento ad una delle αἱρέσεις giudaiche) e tra i minim, cioè tra gli eretici, non sono da annoverare solo i cristiani. Ragion per cui non si può escludere che la Birkat si riferisca genericamente a tutte le eresie, senza che si possa stabilire se all’epoca fossero già comparsi i cristiani. Ma al di là di ogni questione interpretativa rimane incerta la datazione dell’Amidah che, pur rientrando nel periodo mishnico, non è facilmente determinabile, né è possibile stabilire se ci furono, e quali furono, le eventuali alterazioni prodotte dal redattore definitivo che fu Rabbi Gamaliele II (vissuto tra il i e il ii secolo). Dai passi del Talmud che citano Gesù si evince che per gli ebrei Jesua di Nazareth era un mago che compiva miracoli; egli trasse in inganno gli ebrei, schernì i testi dei sapienti, ebbe cinque discepoli, diede un’interpretazione della Torah affine a quella dei farisei, pur affermando di non volerla alterare; fu appeso (crocifisso) nel giorno della Parasceve e i suoi discepoli compirono miracoli in suo nome.(163) Strack e Billerbeck(164) hanno creduto di cogliere in taluni passi del Talmud riferimenti ad un’antica tradizione alla quale era (163)  Per questa sintesi, cfr. J. Klausner, Jesus of Nazareth, cit., p. 55. (164)  H. L. Strack - P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Bde 4, München, Beck, 1922-1928; cfr. anche J. Bonsirven, Textes rabbiniques des deux premières siècles chrétiennes pour server à l’intelligence du Nouveau Testament, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1955.

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nota la figura di Cristo, sebbene questi stessi passi fossero stati alterati per ragioni polemiche da interventi successivi. Johann Maier è invece fortemente critico verso le tradizioni rabbiniche.(165) Una posizione conciliativa hanno assunto Kippenburg e Wewers(166) i quali sostengono che ci furono sì tradizioni rabbiniche su Gesù, ma che furono censurate per effetto di disposizioni religiose dalle comunità sinagogali,(167) le quali cancellarono il nome di Gesù e lo sostituirono con uno pseudonimo come Ben-Pandera o Ben-Stada (secondo cui Maria sarebbe stata una pettinatrice, sposa di un tal Pappas o Stada).(168) Maier ne deduce che tutti i riferimenti a Gesù sono nella letteratura talmudica interpolazioni posteriori.(169) In ogni caso le poche tradizioni pervenute debbono intendersi come leggende, nate per ragioni polemiche (tali sono i testi citati). È difficile supporre una pacifica convivenza di giudaismo e cristianesimo. I punti di assoluta frizione, anche a prescindere da altri elementi di conflittualità, ruotano intorno alla figura del Cristo, soprattutto se reputato di natura divina, alla accettazione della legge mosaica e alla concezione del Dio cristiano che presenta notevoli divergenze con quella dell’AT. Ma è altresì parziale la concezione dell’ebraismo come un mondo culturalmente compatto; in esso sussistono non solo le quattro sette citate da Giuseppe Flavio, ma anche numerose forme di dissidenza che investono tanto il rispetto della legge quanto una reinterpretazione dei testi vetero-testamentari e della storia o della tradizione ebraica. Basti pensare in proposito alla varietà dei temi che circolano nella letteratura apocrifa dell’AT. Danby scorge negli accenni alla minuth (= eresia) e ai minim (= eretici), presenti nella Mishnah (cfr. Berakhot ‫ = ברכות‬benedizioni, in Zerraim ‫זרעיים‬ =semi), un eventuale riferimento ai cristiani. Ma egli stesso ammette che si (165) J. Maier, Jesus von Nazareth in der talmudischen Ueberlieferung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1978; Id, Jüdische Auseinandersetzung mit dem Christentum in der Antike, ivi, 1982 (tr. it. Gesù e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, Paideia, 1994). (166)  H. G. Kippenberg - G. A. Wewers, Textbuch zur neutestamentlichen Zeitgeschichte, Göttingen, Vendenhoeck und Ruprecht, 1979 (tr. it.: Testi giudaici per lo studio del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 1987). (167)  v. testi iii, 152-154, 156, 158-160. (168)  v. testo ii, 152. (169) J. maier, Jeus von Nazareth in der talmudischen Überlieferiung, cit., pp. 263275. Non diversamente J. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 98, riconosce che nella Mishnah «nessun testo citato di quel periodo si riferisce realmente a Gesù».

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tratta di ipotesi non sicura poiché – scrive – «there is always some uncertainty in appling any reference to minim specifically to Jewish christians»(170). Inoltre Danby tiene conto nella sua indagine anche di fonti cristiane, come Paolo, Giacomo e gli Atti, la cui datazione al primo secolo è tra l’altro data per scontata. A mio avviso in Paolo è ormai irrecuperabile la coesistenza tra giudei e cristiani, poiché egli identifica Dio con il Cristo ed esclude ogni netta distinzione tra giudeo e cristiano o tra circonciso e incirconciso. È insomma difficile credere che i cristiani abbiano potuto convivere in un territorio giudaico e secondo il credo giudaico (nel rispetto della circoncisione, delle festività del tempio, della legge sui cibi proibiti). Secondo Danby nel corso del primo secolo le poche citazioni del Cristo presenti nel Talmud non sono di carattere ostile. Egli adduce come esempio il testo Gittin (= Divorzi) 56b-57a (terzo ordine: Nashim = Donne), in cui si fa cenno ad un tal Kalonymos o Kalonikos, identificabile forse con Flavio Clemente, nipote di Domiziano, mandato a morte come ateo nel 96 d.C. Nel testo è attribuita a Cristo la citazione di una benedizione di Israele da parte del profeta Balaam. Ma è troppo poco per poter dire che il testo tannaitico ci presenta un Gesù ben disposto verso Israele e comunque si tratta di un testo tardivo che appartiene all’età domizianea. Un altro passo, citato da Danby,(171) anch’esso risalente alla fine del primo secolo, si riferisce a Rabbi Eliezer il Grande, noto anche come Eliezer ben Hyrcanos, il quale invitato ad esprimere la sua opinione su Gesù, si rifiutò di farlo perché riteneva che non avesse alcuna parte nel mondo a venire e che fosse un ebreo non degno di essere ammesso «in the sight of God». Nessun testo talmudico sembra darci una conferma dell’esistenza di giudei cristiani in territorio giudaico e in età apostolica. Danby ritiene che i testi Sanhedrin i, e xii, in Nezikin (nota 16), in cui sono presenti sentenze che denunciano coloro che deducono nuovi significati dalle scritture, non sono sic et simpliciter riferibili a giudei cristiani, perché, come dimostrano gli apocrifi dell’AT, l’attribuzione di nuovi significati alle scritture precede il cristianesimo ed è propria di un mondo culturale ebraico in forte fermento religioso. La citazione di Shabbath, 116a (nota 18), relativa all’affermazione di Tarfon, se(170) H. Danby, The Jew and Christianity, Some Phases, Ancient and Modern, of the Jewish Attitude towards Christianity, London, Sheldon Press, 1927, p. 14: «C’è sempre incertezza nell’applicare specificamente agli ebrei cristiani qualsiasi riferimento ai minim». (171)  Yebamoth, iii, 3; Yoma (= il giorno), 66b, dell’ordine ii Moed = festività; v. H. Danby, The Jew and Christianity, cit., p. 10.

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condo cui il cristianesimo fu per il giudaismo più pericoloso e più dannoso del paganesimo, è essa stessa tardiva, perché Tarfon appartiene alla generazione dei tannaim che va dal 70 al 135 d.C. Danby tenta di corroborare l’ipotesi che il cristianesimo ebbe origini dal giudaismo e che conservò per tutto il primo secolo un atteggiamento di riconoscimento delle proprie origini giudaiche. Il cristianesimo, cioè, apparve alle origini come una setta interna al giudaismo. Solo dopo alcune decadi esso si sarebbe staccato dalla propria matrice giudaica. Ma l’ipotesi di un iniziale idillio cristiano-giudaico è contraddetto proprio dai testi talmudici e dalla pressoché totale assenza di riferimenti nei testi mishnici del primo secolo alla figura del Cristo. Se quell’idillio ci fosse stato, avremmo trovato in essi più chiari riferimenti se non al Cristo divinizzato, almeno alla sua figura storica e umana. D’altronde Danby non manca di riconoscere che fino al 150 d.C. il cristianesimo era ancora un’insignificante setta diffusa tra i Gentili e, in quanto tale, non esercitava sui giudei una vera e propria attrattiva. Dal canto loro le autorità cristiane, dopo il 200 d.C., mantengono un atteggiamento ostile verso il Talmud e, reputandolo un testo anti-cristiano, ne auspicano la soppressione. Le varie edizioni del Talmud subirono una forte censura. A partire da Costantino fu varata una costante legislazione anti-ebraica. In sintesi il Talmud ci dice di Cristo quanto segue (traduco da Danby): Un certo Yeshu, chiamato il Notsri, o figlio di Stada o figlio di Pantera, nacque fuori dal vincolo matrimoniale. Sua madre si chiamava Miriam, la quale era una pettinatrice [in ebraico M’gadd’la con chiara derivazione dal nome di Maria di Magdala]. Suo marito era Pappus, il figlio di Giuda, e il suo drudo era un soldato romano di nome Pantera. Si dice che lei fosse una discendente di principi e di governanti. Questo Yeshu è stato in Egitto, dove acquisì la conoscenza di molte pratiche della stregoneria. E fu uno stregone che ingannò il popolo di Israele. Egli ha peccato e ha provocato una moltitudine di peccati; si finse sapiente e fu scomunicato. Fu contaminato dall’eresia. Si definì Dio e disse che sarebbe asceso al cielo. A Lud, davanti al tribunale, fu riconosciuto ingannatore e maestro di apostasia. Contro di lui furono prodotte prove con la convocazione di testimoni che avevano ascoltato le sue affermazioni; davanti al suo viso fu collocata una lampada, in modo che egli non avrebbe potuto vedere i suoi testimoni. La sua esecuzione avvenne a Lud alla vigilia della pasqua che cadde alla vigilia di un sabato. Per quaranta giorni un araldo proclamò che Yeshu sareb-

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be stato lapidato e in suo favore fu richiesta una controprova, ma nessuno si fece avanti. Egli fu lapidato e appeso. Sotto il nome di Balaam fu condannato a morte da Pinas il Rapinatore [probabile riferimento a Pontius Pilatus]. In quel tempo egli aveva trentatré anni. Fu punito nella Gehenna per mezzo di pece bollente. Egli fu vicino al regno – quale che sia il significato del termine – Ebbe cinque discepoli: Mattai, Naqai, Netser, Buni e Todah. Sotto il nome di Balaam fu escluso dal mondo a venire).

Come si vede siamo di fronte ad un’accozzaglia di fandonie, originate dall’odio religioso e non dallo spirito della verità storica. Ma ciò è anche indicativo del fatto che i giudei non avevano concrete notizie storiche sul Cristo. Se ci fosse stato un reale legame storico tra giudaismo e cristianesimo, avremmo quanto meno trovato nel Talmud una qualche difesa del primissimo cristianesimo ancora culturalmente imparentato con il giudaismo. Si sarebbe trattato del cristianesimo nella versione di Giacomo, ma in proposito Danby pone una netta contrapposizione tra giudaismo e cristianesimo, «two trees arising from the same stock. The one owes its existence to its acceptance of Jesus as Christ; the other […] owes its continued existence to its rejection of Jesus as Christ».(172) Non è infine il caso di annoverare tra le fonti attendibili il Sepher Toledot Yesu di ignoto autore (riscoperto da Johann Christoph Wagenseil e pubblicato nel 1681 nella Tela ignea Satanae (il secondo Sepher fu invece pubblicato da Huldrich nel 1705).(173) Si tratta di un testo inaffidabile non solo per l’epoca della sua composizione, ovvero il ii secolo della nostra era (tant’è che è citato da Celso e confutato da Origene), ma anche perché, per il suo carattere di libello diffamatorio, è infarcito di affermazioni tendenziose e comunque di seconda mano sulla vita di Gesù (figlio di Pandera, nonostante Maria fosse coniugata con Jochanan, ecc.). Il secondo Sepher è ancor più inattendibile sotto il profilo cronologico e ripete le inesattezze del primo. (172) H. Danby, The Jew and Christianity, cit., p. 1: «Queste [la chiesa cristiana e quella giudaica] sono due alberi che nascono dallo stesso ceppo. L’uno deve la sua esistenza alla sua accettazione di Gesù come Cristo; l’altro […] deve la sua duratura esistenza al rifiuto di Gesù come Cristo». (173)  J. Ch. Wagenseil, Tela ignea Satanae; hoc est Arcan et horribiles Judaeorum adversus Christum Deum et Christianam religionem libri ΑΝΕΚΔΟΤΟΙ, Altdorfii Noricorum, Excudit Joh[annes] Henricus Schönnerstaedt, mdclxxxi; J. J. Huldrich, Historia Jeschuae Nazareni a Judaieis blaspheme corrupta, ex manuscripto hactenus inedito nunc demum edita, Lug[duni] Bat[avorum], Apud Johannem Du Vivie, 1705.

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1.22.  La falsità del Testimonium flavianum Ho lasciato deliberatamente da parte Giuseppe Flavio perché per la sua importanza merita un discorso più dettagliato. In fondo si può dire che a lui si riducono le fonti più accreditate tra il i e il ii secolo. Giuseppe Flavio (37 – 100? d.C.), un intellettuale ebreo che, dopo aver preso parte alla guerra giudaica del 66 d.C. ed essersi battuto affianco ad estremisti zeloti anti-romani, come Menahem, Eleazar ed Ezechia, entrò nelle grazie di Vespasiano con il ricorso al riuscito stratagemma di predirgli il destino di futuro imperatore; assunse il nomen della gens flavia e si schierò dalla parte dei Romani. Odiato per questo dagli ebrei, il suo nome, come quello degli altri connazionali ellenizzati, come Filone d’Alessandria, non compare quasi mai nella letteratura rabbinica o nella tradizione ebraica. Ma Giuseppe fu in realtà un orgoglioso difensore delle proprie radici ebraiche e forse fu più di Filone d’Alessandria, che in Egitto subì non poco il fascino della filosofia platonica e di quella pitagorica, un tenace promotore della cultura giudaica. Non a caso le sue Antiquitates judaicae(174) sono una celebrazione della grandezza delle tradizioni ebraiche che egli vuole rendere note a tutta l’intellighentsia ellenistica e romana. In ogni caso Giuseppe è storico che possiede una profonda conoscenza della realtà politico-sociale della Palestina soprattutto per i secoli che vanno dal secondo avanti Cristo al primo dopo Cristo. Molte delle vicende di quei secoli sarebbero rimaste a noi sconosciute senza il suo decisivo apporto storiografico. Le sue fonti principali, almeno per i secoli più remoti, sembrano essere i testi entrati in seguito nel canone del Vecchio Testamento, rispetto ai quali tuttavia colpiscono certi suoi silenzi, le cui motivazioni, tutto sommato, ci sfuggono. Egli è comunque storico attendibile, pur tra imprecisioni, sviste e opportuni silenzi. Il suo progetto politico mira: 1) ad esaltare la dinastia sacerdotale degli Asmonei, da cui dichiara di discendere per parte materna; 2) a mettere in luce le nefaste conseguenze del messianismo esasperato delle correnti estreme del giudaismo e 3) a giustificare il predominio romano. Egli scrive il Bellum Judaicum negli anni 75-79. Al 94-95 risale invece la pubblicazione delle Antiquitates Iudaicae, del Contra Apionem e della sua Vita (Bíos). Vive tra la Palestina e Roma negli anni in cui secondo la tradizione cattolica sarebbero state scritte le Epistolae paoline ed avrebbe avuto (174)  Il codice manoscritto più antico (xi secolo) delle Antiquitates è l’Ambrosiano gr. 370 della Biblioteca Ambrosiana di Milano (segnatura F 128 sup.).

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una formidabile espansione il cristianesimo. Eppure, allorché nel Bellum Iudaicum prima, e nelle Antiquitates poi, ci informa sulle cosiddette sette giudaiche (farisea, sadducea, essena, zelota e nazirea), non fa il benché minimo cenno al cristianesimo. Quali le ragioni di tale silenzio? Le ipotesi proponibili non possono essere che tre: la prima è che la setta cristiana non era ancora nata; la seconda, che non si era ancora distinta da una delle sette soprammenzionate; la terza, che Giuseppe abbia voluto deliberatamente passarla sotto silenzio per la sua scarsa disponibilità ad avallare il messianismo. La terza ipotesi è ovviamente la meno verosimile, perché sappiamo che Giuseppe non trascura di dar conto anche di sette più radicali, come quella degli zeloti; non si capisce perché avrebbe dovuto tacere sui cristiani che in fondo erano molto più miti e meno antiromani e il cui velleitarismo politico era per lo più parolaio e, almeno in origine, non intaccava affatto il predominio di Roma e il suo destino imperiale. L’ipotesi che cercheremo di giustificare è che il cristianesimo negli anni tra il 70 d.C. (distruzione del tempio di Gerusalemme) e il 95 d.C. (pubblicazione delle Antiquitates), posto che sia effettivamente sorto, era ancora in una fase incoativa e andava gradatamente distinguendosi dal movimento esseno/nazireo o enochico, da cui probabilmente deriva. Non è perciò improbabile che Giuseppe lo confondesse sostanzialmente con l’essenismo o con l’hasidismo, tanto più che egli sembra darci della setta essenica un quadro complessivo che appare corrispondente grosso modo all’epoca della guerra giudaica e della distruzione del tempio. Ciò che sorprende nel testo flaviano è che, a dispetto del silenzio sui cristiani, nei passi in cui ci si aspetterebbe che ne parlasse, esso contiene, là dove meno le si attenderebbero, curiose e sospette allusioni che in larga parte collimano con i testi evangelici. I passi cui ci riferiamo sono il noto Testimonium flavianum,(175) un fugace cenno a Giacomo, fratello di Cristo, e un consistente brano relativo a Giovanni il Battista. Esaminiamo dapprima il cosiddetto Testimonium flavianum nelle versioni greca, in quella latina di Sigismondo Gelenio e nella italiana di Moraldi.(176): γίνεται δὲ κατὰ τοῦτον τὸν χρόνον Ἰησοῦς, σοφὸς ἀνήρ, εἲ γ’ἂνδρα αυτὸν λέγειν χρή. Ἧν γὰρ παραδόξων ἒργων ποιητής, διδάσκαλος ἀνθρώπων τῶν ἡδονῇ τἀληθῆ δεχομένων

(175) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 63-64. (176) Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, a c. di Luigi Moraldi, Torino, Utet, 1998, vol. ii, pp. 1116-1117.

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καὶ πολλοὺς μὲν Ἰουδαίους πολλοὺς δὲ καὶ τοῦ Ἑλληνικοῦ ὑπηγάνετο ὁ Χριστὸς οὗτος ἧν. Καὶ αὐτὸν ἐνδείξει τῶν πρώτων ἀνδρῶν παρ’ἡμῖν σταυρῷ ἐπιτετιμηκότος Πιλάτου οὐκ’ἐπαύσαντο οί τὸ πρῶτον αὐτὸν ἀγαπήςαντες ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην εχων ημέραν πάλιν ζῶν, τῶν θείων προφητῶν ταῦτά τε καὶ ἄλλα μυρία θαυμάσια περὶ αὐτοῦ εἰρηκότων. Εἰσέτι τε νῦν τῶν Χριστιανῶν ἀπὸ τοῦδε ὠνομασμῦνον οὐκ ἐπέλιπε τὸ φῦλον.

[Eodem tempore fuit Iesus, vir sapiens, si tamen virum eum fas est dicere. Erat enim mirabilium operum patrator, et doctor erorum qui libenter vera suspiciunt: plurimosque tam de Iudaeis quam de gentibus sectatores habuit. Christus hic erat: quem accusatus a nostrae gentis principibus, Pilatus cum addixisset cruci, nihilominus non destiterunt eum diligere, qui ab initio coeperunt. Apparuit enim eis tertia die vivus, ita ut divinitus de eo vates hoc et alia multa predixerunt: et usque in hodiernum Christianorum genus ab hoc denominatum non deficit]. [Allo stesso tempo, circa, visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumerevoli altre cose meravigliose su di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti Cristiani].

È appena superfluo dire che il Testimonium è stato ampiamente usato dall’esegetica di matrice cristiana per dare risposta a due questioni di capitale importanza: la storicità della figura del Cristo e la dimensione della espansione del cristianesimo nel primo secolo della nostra era.(177) Va da sé che tale operazione è legittima se, e solo se, il passo flaviano è esente dal dubbio di una possibile interpolazione. In realtà il dubbio prende ben presto la consistenza della certezza. Infatti, da un’attenta analisi del testo si evince: 1) che (177)  Sono a favore della autenticità del Testimonium K. G. Bretschneider, Capita theologiae Judeorum dogmaticae e Flavii Josephi scriptis collecta, Lipsiae, Bardt, 1812, pp. 59-22; A. von Harnack, Der Judisch Geschichtsschreiber Josephus und Jesus Christus, «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik», vii, 1913, coll., 10371068; R. J. H. Shutt, Studies in Joseph, London, Spck, 1961; P. Winter, The History of Jewish People in the Time of Jesus, New York, Schocken Book, 1961, vol. i, pp. 428-441; É. Nodet, Jesus et Jean Baptiste selon Josephe, «Revue Biblique», xcii, 1985, pp. 321-348 e 497-524, pp. 78-79. Tale è anche l’opinione di S. Bardet, Le Testimonium flavianum. Examen historique, considérations historiographyques, Paris, Cerf, 2002.

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le Antiquitates non forniscono sicuri elementi utili ad accertare la storicità di Cristo; anzi offrono materiale abbondante per confutare lo scenario prospettato dagli Atti e dai Vangeli; 2) che Giuseppe non suggerisce indicazioni sicure sugli sviluppi del cristianesimo; al contrario tutto lascia supporre che, almeno fino al 70 d.C., esso non fosse ancora sorto e che in ogni caso, dal 70 al 95-97 d.C., la sua espansione fosse ancora molto limitata. Ciò spiega perché manchino in Giuseppe riferimenti alla predicazione di Paolo, di Giacomo, di Pietro e degli altri apostoli. Per di più sorge il sospetto che le narrazioni evangeliche e gli Atti dipendano dalle Antiquitates per la cornice storica degli eventi narrati, ma ne dipendano anche per taluni errori, sviste e confusioni, cui faremo via via cenno. L’unico dato certo che emerge dal testo flaviano è che il Battista e Pilato sono inequivocabilmente figure storiche ma assai diverse da quelle descritteci dagli evangelisti. Che il Testimonium flavianum non sia nient’altro che una manifesta e maldestra interpolazione di mano cristiana,(178) risalente probabilmente al iv secolo d.C., si evince chiaramente dai seguenti elementi: Il brano appare troppo breve e scheletrico rispetto alle abitudini letterarie di Giuseppe, che di solito abbonda di notizie. Quello su Giovanni Battista è – a titolo d’esempio – assai più ricco rispetto al Testimonium. Sanders tenta di giustificare tale discrepanza osservando che probabilmente Gesù, non (178)  Ritengono che il Testimonium sia integralmente un falso E. Schürer, The SoCalled Testimony of Joseph to Christ, in The History of the Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 B.C.- A.D. 135), vol. ii, New York, Charles Scribner’s Sohn, 1891, pp. 143149 (tr. it Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (175 a. C - 135 d. C), Brescia Paideia 1985-1998; H. Chadwick, The Early Church, London, Penguin Books, 1993; S. Zeitlin, The Hoax of the ‘Slavonic Josephus’, «Jewish Quarterly Review», xxxix, 19481949, pp. 171-180; H. Colzelmann, Jesus, Philadelphia, Fortress, 1973, pp. 13-14; L. Herrmann, Chrestos. Témoignages païens et juifs sur le christianisme du premier siècle, Bruxelles, Latomus, 1970, pp. 97-98; C. M. Martini, Il silenzio dei testimoni non cristiani su Gesù, «La Civiltà Cattolica», cxiii, 1962, pp. 341-349; L. H. Feldman, Flavius Josephus Revisited, Berlin, De Gruyter, 1984, p. 822; G. A. Wells, Did Jesus Exist?, Buffalo, Prometheus Books, 1975, pp. 205-207; B. Niese, De testimonio Christiano quod est apud Josephum, Antiq. Jud., xviii, 63 sqq. disputatio, Marpurgi, Friedrich, 1894; E. Norden, Josephus und Tacitus über Jesus Christus und eine messianische Profetie, Leipzig, Teubner, 1913; G. Stein, The Jesus of History: A Replay to Josh McDowell, «American Rationalist», 1982; A. Drews, The Christ Myth, cit.; pp. 230-231 G. A. Wells, The Jesus Myth, Chicago, Open Court, 1999. Di estremo interesse è l’osservazione di J. N. Birdsall, The Continuing Enigma of Josephus’s Testimony about Jesus, «Bulletin of the John Rylands Library», lxvii, 1985, pp. 609-622: 618, il quale ci fa sapere che nelle tavole delle materie, riportate in alcuni antichi manoscritti, non v’è alcuna menzione del Testimonium.

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avendo provocato grandi scompigli in terra palestinese, sia sembrato agli occhi del popolo molto meno rilevante di quanto di solito ci facciano credere i Vangeli.(179) Ma questa argomentazione non tiene conto del fatto che gli occhi di Giuseppe e il suo metro di giudizio non possono essere assimilati sic et simpiciter a quelli del popolino. Per la figura di Giacomo, Eusebio propone come fonte di prima mano Egesippo. Tuttavia, anche a prescindere dal fatto che sia o meno un autore affidabile, Egesippo dipende in ogni caso da Giuseppe e perciò non può ritenersi una fonte autonoma e indipendente. L’esegesi cristiana presume che nei primi secoli (o almeno nel primo secolo) non fu posta la questione della storicità del Cristo, tant’è che a tale questione non fanno cenno alcuno né i primi apologeti né i primi padri della Chiesa. La verità storica però è un po’ più complessa. I dubbi sulla storicità del Cristo circolavano sotterraneamente non solo negli ambienti esterni al cristianesimo (tra gli ebrei e i Gentili), ma anche al suo stesso interno. È sì vero che forse l’attenzione doveva essere più concentrata sulla natura divina del Cristo, ma non si può trascurare il fatto che proprio l’insistenza su tale natura induceva a collocarne la figura in una dimensione non naturale e non terrena e dunque non storica. Gli ebrei ne contestavano manifestamente la realtà storica. La sua presunta natura divina risultava ai loro occhi inaccettabile e scandalosa, in netto contrasto con tutta l’antica tradizione giudaica. La loro confutazione non toccò solo la divinità del Cristo, ma si estese anche alla sua realtà storica di uomo terreno. Essi avrebbero potuto ammetterne, senza alcun danno per la loro fede, la sua esistenza terrena, ma non lo fecero. D’altra parte se si presta la dovuta attenzione alle narrazioni evangeliche ci si accorge che i loro autori sono essi stessi assillati dalle perplessità che provengono dall’esterno e dall’interno delle prime comunità cristiane; per arginare le critiche esterne sono costretti ad arricchire di dettagli biografici le loro storie in modo da renderle più credibili; questo fenomeno, che è ancora contenuto nei testi canonici, esplode fino a dettagli insulsi e ridicoli negli apocrifi. Ma la strategia è in fondo la stessa: comunque si racconti la vicenda biografica del Cristo, si danno in ogni caso vuoti inspiegabili nella sua vita e di volta in volta si tenta di riempirli scoprendo manifestamente il carattere costruttivo e spesso fantasioso delle narrazioni. Di contro, per mettere a tacere gli Zoili interni, i cristiani non hanno altro mezzo che condannarli come (179)  E. P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, London, Allen Lane, 1993 (tr. it. Gesù. La verità storica, Milano, Mondadori, 1995, pp. 50-51).

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eretici ed escludere ogni posizione di dissenso. Purtroppo non conosciamo molto bene il tenore di tali critiche perché esse, a causa della sistematica demolizione della cultura pagana e delle eresie nate dal cristianesimo a partire dal iv secolo, non ci sono pervenute se non in forma frammentaria. Perciò non è casuale il fatto che da più parti, dall’apologetica alla patristica, si insista quasi ossessivamente sulla necessità di riconoscere la verità del Vangelo. Nella Historia Ecclesiastica Eusebio scrive: «così nessuno degli evangelisti dice il falso; il vangelo pertanto dice il vero su ogni cosa»; e in seguito aggiunge: «Dunque si smaschera la falsificazione di coloro che in passato hanno scritto Memorie contro il nostro Salvatore: già da solo, infatti, il tempo indicato nel titolo (I tempi di Pilato) basta a dimostrare che i loro autori hanno raccontato il falso».(180) Eusebio(181) cerca di determinare la cronologia degli eventi sotto Pilato, ma sotto sotto si sente che ha davanti a sé il problema della storicità di Cristo. E la conferma verrebbe – a suo dire – da un autore pagano, come Giuseppe: «Mi meraviglia – scrive – il fatto che la narrazione che Giuseppe fa di questi avvenimenti e di altri ancora è altrettanto veritiera quanto quella della Sacra Scrittura». Quindi crede(182) di poter fornire una prova della sepoltura romana di Pietro e Paolo. «Il loro nome – dice – giunto fino ai nostri giorni sulle loro tombe, che si trovano a Roma, attesta la veridicità di questa storia». Ma la realtà è che lo storico di Cesarea si arrampica sugli specchi. La sua cronologia dei tempi di Pilato – come avremo modo di precisare(183) – non è affatto tale da avallare la storicità della passione. Se non fossero andate perdute quelle oscure Memorie, da lui spesso citate, probabilmente oggi potremmo ricostruire con più attendibilità le vicende storiche. E tuttavia è di estremo interesse l’esistenza stessa di quelle Memorie che contestavano – e lo facevano verosimilmente con argomentazioni stringenti – le posizioni degli evangelisti. Scrive Eusebio:(184) «Riferendo queste notizie su Giovanni, lo stesso storico [intendi Giuseppe] fa menzione, nella stessa opera [cioè le Antiquitates], anche del nostro Salvatore». Sulla base di questo passo si è pensato che in origine il Testimonium fosse collocato non nella posizione attuale,(185) ma (180)  Eusebio, HE, i, 9, 3; cfr. anche i, 7, 9. (181)  Ivi, ii, 10. (182)  Ivi, ii, 25. (183) v. infra, pt. III, par. 1.24. (184)  Eusebio, HE, i, 11. (185) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 63-64.

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dopo l’episodio di Giovanni Battista. Come spesso accade, una volta avanzata un’ipotesi, si cerca di supportarla sulla base di un’altra ipotesi con la forza logica di un cieco che si appoggia ad un altro cieco per trovare la via. Nasce così la congettura dell’esistenza di codici in cui il Testimonium aveva una diversa dislocazione nel testo. E a favore di essa si argomenta che se fossimo davanti ad un’interpolazione cristiana l’autore l’avrebbe inserita a ridosso del passo in cui si parla di Giovanni il Battista.(186) Si tratta, come è facile intuire, di un ragionamento specioso, non solo perché sembra ignorare o comunque prescindere dalla intrinseca sostanza cristiana del Testimonium, ma anche perché apre la strada ad un’ipotesi alternativa che è di fatto priva di fondamento. Perché un autore cristiano avrebbe dovuto inserire l’interpolazione dopo il passo relativo a Giovanni il Battista e non dopo quello relativo a Pilato e quindi alla condanna a morte del Cristo? In realtà per un cristiano è più forte il legame Pilato-crocifissione che non quello Cristo-Giovanni il Battista. Non è perciò affatto un caso che l’inserimento fraudolento del Testimonium cada all’interno del libro xviii. Sta di fatto che si tratta di una delle tante ipotesi vacillanti, gratuite e arbitrarie di cui è piena l’esegetica di matrice religiosa. Essa nasce da un sostanziale fraintendimento di Eusebio, il quale, collegando tra loro le due figure di Cristo e di Giovanni, non aveva affatto inteso dire che i due passi erano susseguenti l’uno all’altro, ma semplicemente che erano all’interno della stessa opera di Giuseppe. Sappiamo che nei suoi scritti Giuseppe fu fortemente critico nei confronti del messianismo(187) e che non ebbe grandi simpatie per personalità come Giuda il Galileo e simili, responsabili – a suo avviso – della rovina dello Stato ebraico. Riesce perciò difficile credere che egli abbia potuto definire Gesù «uomo saggio» (σοφὸς ἀνήρ), mettendolo sullo stesso piano di Salomone e di Daniele,(188) che nei capitoli precedenti avevano meritato la medesima qualificazione. Men che mai è credibile che egli possa avere riconosciuto a Cristo una natura divina o che abbia potuto reputarlo autore o produttore di strabilianti miracoli. In altri termini il Testimonium urta contro le concezioni politico-ideologiche di Giuseppe,(189) il quale tratta costantemente i pre(186)  Tale è l’ipotesi di E. P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, cit., p. 50. (187)  Nel BJ, vi, 312-313, Giuseppe definisce ‘ambigua profezia’ l’attesa di un messia dominatore del mondo e la riferisce non ad un profeta ebreo, ma a Vespasiano. La profezia piacque evidentemente a Tacito che la riprodusse nelle Historiae, v, 13. (188) Giuseppe Flavio, Ant., viii, 53; x, 237. (189)  Così afferma E. Doherty, The Jesus Puzzle: Did Christianity begin with a Mithical Christ, Ottawa, Canadian Humanist Publications, 1999, pp. 209-210.

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sunti messia come forsennati che nocciono alla stabilità del regno di Giudea. L’osservazione di John D. Crossan, per il quale Giuseppe mantiene una ‘prudente imparzialità’ ed un atteggiamento di neutralità nei confronti di Cristo rispetto a quello tenuto nei confronti degli altri presunti messia,(190) non ha senso, perché non si capiscono le ragioni per le quali Giuseppe abbia voluto discriminare positivamente i cristiani che tutto sommato alla fine del primo secolo costituivano un pugno di comunità assai modeste e prive di reale potere politico. D’altra parte se avessero avuto una maggiore consistenza numerica e storica come avrebbero potuto sottrarsi all’occhio di un attento osservatore del proprio tempo quale certamente egli era? L’incipit del Testimonium (γίνεται δὲ κατὰ τοῦτον τὸν χρόνον: «avvenne in quello stesso tempo») è tipico del linguaggio di Giuseppe. L’interpolatore lo ha tolto da qualche parte e lo ha inserito spezzando l’unità della narrazione tra la chiusura dell’episodio precedente (καὶ οὕτω παύεται ἡ στάσις: «e così terminò la sommossa») e l’apertura del successivo (καὶ ύπὸ τούς αύτούς χρὸνους: «e nello stesso tempo»).(191) Non si tratta di una banale frattura per crearsi il pretesto per una digressione.(192) L’anonimo cristiano non si rende conto di introdurre nel contesto flaviano una vera e propria incongruenza cronologica. Infatti egli introduce tra gli avvenimenti che si riferiscono al 18-19 d.C. o al massimo al 20 d.C., la vicenda della passione che per la tradizione si vuole risalente al 33 d.C. L’interferenza rimane in qualche modo intrappolata in un contesto improprio e per di più altera gravemente lo svolgimento cronologico dei fatti. Ed invero i due paragrafi che la precedono e la seguono(193) si riferiscono rispettivamente alla costruzione dell’acquedotto per l’approvvigionamento dell’acqua a Gerusalemme e al bando degli ebrei (190)  J. D. Crossan, Jesus. A Revolutionary Biography, San Francisco, HarperCollins, 1994 (tr. it. Gesù una biografia rivoluzionaria, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994); cfr anche J. D. Crossan, The Historical Jesus. The Life of a Mediterranean Jewish Peasant, San Francisco, HarperCollins, 1991, pp. 162-163. (191)  Su questa cesura, cfr. H. St. John Thackeray, Josephus the Man and the Historian, New York, Jewish Institute of Religion Press, 1929. (192)  C’è chi ha tentato di ridimensionare tale frattura o interruzione nel testo delle Antiquitates, osservando che spesso Giuseppe, come d’altronde, gran parte degli storici antichi, compie talune digressioni (Cfr. E. M. Smallwood, Introduction to Josephus, The Jewish War, tr. by G. A. Williamson, London, Penguin Books, 1981, pp. 20-21, pp. 470471). In realtà, però, non siamo affatto di fronte ad una qualunque digressione, ma ad una vera e propria frattura nel tessuto narrativo, come giustamente sottolinea E. Doherty, The Jesus Puzzle, cit., p. 207. (193) Cioè Ant., xviii, 60-62 e xviii, 65-84.

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da Roma con il conseguente loro trasferimento in Sardegna. I due episodi sono fatti risalire da Giuseppe agli anni 19-20 d.C., ovvero al primo periodo della prefettura di Ponzio Pilato in Giudea. Che il Testimonium sia una manifesta interpolazione si evince dal fatto che la sua esclusione lascia indenne il testo flaviano; anzi lo rende più compatto.(194) Ne consegue che il passo è di per sé superfluo ed ha l’evidente carattere di aggiunta posticcia. Il secondo episodio è introdotto da un incipit del seguente tono: Nello stesso periodo un altro orribile/luttuoso/doloroso evento provocò una rivolta/gettò scompiglio tra i giudei. E contemporaneamente avvengono azioni di natura scandalosa in connessione al tempio di Iside in Roma. Prima farò parola dell’eccesso dei seguaci di Iside, tornerò poi in seguito alle cose capitate ai Giudei.

Il nuovo evento «orribile/luttuoso/doloroso» (δεινὸν) è dunque dato come ‘altro’ rispetto a ciò che si è appena narrato. Ma proprio per questo esso non può considerarsi ‘altro’ rispetto alla morte di Cristo, che non comportò alcuna strage, né alcuna disgrazia che avesse un carattere collettivo. Giuseppe non ha mai giudicato terribile l’esecuzione di un presunto messia; è tale invece la violenta reazione di Pilato alla tragica rivolta giudaica, sorta a seguito della costruzione dell’acquedotto, la quale costò la vita a molti ebrei. L’altro evento ‘terribile’ che Giuseppe si appresta a narrare è quello dello scandalo provocato da alcuni ebrei in relazione alla vicenda della dissolutezza delle donne e forse anche alla strage dei Samaritani. L’episodio della dissolutezza delle donne turbò non poco Giuseppe, il quale non a caso prima di narrarlo accenna ad un’analoga vicenda verificatasi in seno ai seguaci dei culti misterici di Osiride, quasi a voler dare una portata più ampia all’episodio e a sottolineare che esso si estendeva anche ai seguaci romani di culti egiziani. Egli perciò narra la vicenda di Paolina e di Decio Mundo che si concluse con la crocifissione di due sacerdoti e di una certa Ida, complice di Fundo, con la distruzione del tempio di Iside a Roma e con l’esilio di Mundo. Dopo tale digressione Giuseppe accenna ad un giudeo, che per pudore non nomina, ma che definisce «fuggitivo […] perché accusato di trasgredire le leggi» e dice che a Roma «svolgeva il ruolo di interprete della legge». «Costui –scrive – arruolò tre mascalzoni suoi pari» ed insidiò Fulvia «matrona di alto rango, (194)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 82, non tiene in nessun conto l’obiezione secondo cui il Testimonium interrompe il filo della narrazione.

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diventata una proselita giudea» (è evidente l’accostamento di Paolina e Fulvia: in entrambi i casi la dissolutezza è ricondotta a culti stranieri, egiziani e giudei, ed è ritenuta la causa della loro estromissione da Roma). La conseguenza dolorosa fu che quattromila ebrei furono trasferiti in Sardegna. Ciò che all’anonimo interpolatore sfugge è che il tempo cui Giuseppe fa riferimento è il 19 d.C., come si evince da Tacito.(195) Tale datazione si ripercuote sulla costruzione dell’acquedotto, che, essendo uno dei primi atti della prefettura di Pilato, dovrebbe risalire al 18/19. L’anonimo interpolatore non si rende conto di introdurre inavvertitamente un ulteriore elemento di irragionevolezza nella posizione strategica del Testimonium, che appare collocato laddove nessuno se lo aspetterebbe. Se, infatti, la passione del Cristo fosse databile al 19, cadrebbe tutta la tradizionale cronologia più o meno deducibile dai testi evangelici. Se d’altro canto si vuole confermare la datazione del 33 d.C., va detto che essa non è compatibile con la cronologia della prefettura di Pilato. Questa, infatti, anche ammesso che abbia avuto inizio nel 19 (ma in realtà ebbe inizio almeno un anno prima), per aver avuto una durata decennale – come ci fanno sapere Giuseppe ed Eusebio – si sarebbe conclusa nel 28. La realtà è che il tardo interpolatore cristiano, partendo dalla narrazione evangelica, ha dovuto compiere una scelta tra i passi in cui Giuseppe aveva citato Pilato ed ha finito così con l’imboccare un vicolo cieco che prima o poi avrebbe smascherato la sua subdola operazione. Tali contraddizioni cronologiche, unite a ciò che diremo più avanti(196) sulla cronologia della prefettura di Pilato, costituiscono gli intoppi insormontabili per chiunque tenti, in buona o in cattiva fede, di salvare in toto o partialiter l’autenticità del Testimonium. L’espressione «fu maestro di coloro che accoglievano con piacere la verità» non solo implica una identificazione della verità con il cristianesimo, la quale non può essere stata proposta se non da parte di chi si poneva nell’ottica della verità cristiana. Per cui delle due l’una: o Giuseppe era di fede cristiana (ciò che è assolutamente improponibile) o il passo è scritto da mano cristiana. La frase «egli conquistò molti Giudei e molti Greci» è priva di senso se riferita a Cristo che conquistò ben pochi giudei e ben pochi greci. Evidentemente l’intento dell’interpolatore, di presumibili origini greche, è quello di segnalare la straordinaria espansione del cristianesimo; ma non era tale la re(195)  Tacito, Ann., ii, 85. (196) Cfr. infra, pt. III, par. 1.24.

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altà del cristianesimo delle origini. L’anonimo cioè non si accorge di attribuire alle comunità della prima ora un’espansione pari a quella del proprio tempo. Per un’analoga ragione egli non avverte il bisogno di chiarire il senso dell’espressione «egli era il Cristo», la quale per i Greci e per i Romani del primo secolo aveva il significato non del tutto comprensibile «egli era l’unto». «Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce». Si tratta di una sintesi estrema del racconto evangelico. I «principali o principi o primi nostri uomini» dovrebbero essere gli esponenti del sinedrio, ma l’accento è posto sulla responsabilità di Pilato che condannò il Cristo. Probabilmente l’ignoto autore, per accreditare il Testimonium, evita di porsi in un’ottica antigiudaica, che sarebbe stata incompatibile con le origini etniche e con l’orizzonte intellettuale di Giuseppe. E forse l’anonimo ha pensato bene che un autore di origine ebraica avrebbe scaricato la responsabilità della condanna sulle autorità romane. L’obiezione che il Pilato del Testimonium coincide con il Pilato dei Vangeli è ingenua e non tiene conto che in realtà è ben diversa l’immagine che di Pilato ci fornisce Giuseppe per il quale egli non è uomo che tentenna, né è uomo che si lava le mani e che lascia fare; al contrario è autoritario, orgogliosamente romano, schernisce gli ebrei, li provoca sul piano dei loro culti. Ma l’ignoto manipolatore del testo flaviano non poteva tener conto di ciò; se lo avesse fatto, la contraddizione con il contesto dell’opera flaviana sarebbe balzata con evidenza agli occhi di qualunque lettore. Eusebio, che è molto probabilmente da identificare con l’ignoto interpolatore, mostra di avere una accurata conoscenza di Giuseppe; infatti ci dà di Pilato un profilo conforme a quello tracciato nelle Antiquitates e tende a non trascurarne le responsabilità nella vicenda di Cristo. In particolare è significativo che subito dopo aver citato il Testimonium(197) egli ne sveli la funzione storica che era quella di mettere a tacere una serie di Memorie anonime, forse anche di matrice ebraica, che discreditavano le figure del Cristo e del Battista e scrive: «Poiché è uno storico di origine ebraica a dire, nella sua opera, queste cose su Giovanni Battista e sul nostro Salvatore, quale sotterfugio potrebbe esserci per non definire meschini quegli uomini che su costoro hanno detto il falso nelle loro Memorie?». È evidente che qui è surrettiziamente svelata la motivazione della costruzione del Testimonium. Occorreva una fonte indipendente che potesse confermare, al di là dei testi evangelici, (197)  Eusebio, HE, i, 11, 9.

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e magari anche con qualche differente punto di vista rispetto ad essi, la sostanziale veridicità della fede cristiana. Perciò nel primo libro della sua Historia Eusebio lascia passare come citazione da Flavio il Testimonium. Ma i copisti o comunque i Padri della Chiesa che ne cercavano traccia nei manoscritti delle Antiquitates non lo trovavano ed è inevitabile che a qualcuno sia venuta in mente l’idea di introdurvelo e di individuare il luogo più opportuno per farlo. Ciò spiegherebbe le ragioni per cui, nessuno, prima di Eusebio, mostra di averne conoscenza. Zeitlin(198) ritiene che ci sia un’affinità stilistica tra il Testimonium e lo stile di Eusebio e giunge alla conclusione che l’interpolazione sia stata prodotta dallo stesso storico di Cesarea.(199) Ken Olson(200) osserva che l’espressione σοφὸς ἀνήρ (uomo saggio) è usata da Eusebio nel Contra Ieroclem ove è detto che Apollonio di Tiana fu un mago e non un uomo saggio. Anche l’uso di παραδόξων ποιηθής (produttore di opere sorprendenti) e di ἔργων (opere) deriverebbe da Eusebio. Nella Demonstratio evangelica, infatti, Eusebio(201) osserva che se Cristo fosse stato un mago, i suoi discepoli lo avrebbero presto abbandonato; il fatto che essi gli rimangono fedeli prova che lo concepirono come un essere divino. Ora proprio questa tesi è decisiva per l’attribuzione ad Eusebio del Testimonium flavianum del quale la medesima argomentazione costituisce il nucleo centrale.(202) Ancora Olson fa notare che l’espressione παραδόξων ποιεῖν ha in Giuseppe(203)il significato di ‘compiere azioni contrarie al costume’, mentre la combinazione παραδόξων ποιεῖν ἔργων ri(198) S. Zeitlin, The Christ Passage in Joseph, «Jewish Quarterly Review», n. s., xviii, 1928, pp. 231-255. (199) Tra gli autori che ritengono Eusebio l’interpolatore del Testimonium v. G. Stein,The Jesus of History, cit; A. Drews, The Christ Myth, cit., p. 232; G. A. Wells, The Jesus Myth, cit. (200) K. Olson, Eusebian Fabrication of the Testimonium, groups.yahoo.com/group/ JesusMyseries. (201)  Eusebio, Demonstratio evangelica, iii, 5; 111. (202)  Significatvo è in proposito il notevole contributo di L. H. Feldman, The Testimonium Flavianum, the State of the Question, in R. F. Berkey – H. K. McArthur, Christological Perspectives, New York, Pilgrim, 1982, pp. 181-185, il quale rileva come il testimonium sia più frequentemente citato dopo il quarto secolo, ovvero dopo la pubblicazione della Historia ecclesiastica di Eusebio. Anche S. Sandmel, We Jews and Jesus, London, Gollancz, 1965, p. 18, osserva che i Padri della Chiesa, pur richiamandosi frequentemente a Giuseppe, non citano mai il Testimonium. (203) Giuseppe Flavio, Ant., xii, 87.

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corre in Eusebio in riferimento ai miracoli del Cristo.(204) Steve Mason(205) osserva che l’uso del greco ποιηθής per dire che Cristo è ‘autore/produttore’ di opere meravigliose è insolito nel greco del i secolo, in cui lo stesso termine era usato nel senso di poeta; egli inoltre rileva che il greco φῦλον, corrispondente a ‘tribù’, è solitamente usato da Giuseppe per indicare popolazioni non ebraiche, come accade in BJ per i Giudei, per i Tauri e per i Parti.(206) Di contro l’uso del termine ‘razza ‘riferito ai cristiani è presente in Eusebio.(207) Mason osserva anche che la frase «essi non cessarono» è incompleta nel testo ed ha bisogno di essere completata dal traduttore. Tale costruzione, egli dice, è assente negli scritti flaviani.(208) Alla osservazione di Mason (a proposito di φῦλον) si è cercato di dare una risposta che non è affatto convincente: si è cercato di far passare il cristianesimo come una ‘tribù a carattere internazionale’, in quanto fin dalle origini si rivolse ai pagani e ai giudei ellenizzati (in proposito vengono citati gli Atti,(209) Giustino(210) e si è persino scomodato Svetonio,(211) ove genus hominum ha il significato di ‘genere di uomini’ e non di ‘razza’). La matrice cristiana del Testimonium è attestata da due ulteriori elementi: l’accenno alla resurrezione come realizzazione delle profezie veterotestamentarie e quello alla epifania del Cristo. È superfluo ripetere che tale stretta condivisione della verità evangelica non può essere in alcun modo attribuita a Giuseppe. Se questi l’avesse proposta, avrebbe certamente usato un’espressione di distacco oggettivo, come «si dice» o «dicono che sia apparso» ecc. l) «Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui». Non c’è ragione per cui Giuseppe faccia un’affermazione di tal genere. Ha senso invece per chi, a distanza di tempo, intende confermare che l’amore dei fedeli verso il Cristo non è venuto a mancare e che anzi la setta cristiana è ormai saldamente consolidata. Significativo in proposito l’inciso «fino ad oggi non è venuta meno» che evidentemente presuppone una (204)  Eusebio, Demonstratio evangelica, 114-115, 123, 125; HE, i, 2, 23. (205) S. Mason, Joseph and the New Testament, Peabody, Hendrickson, 1992, p. 169. (206) Giuseppe Flavio, BJ, iii, 354; vii, 327; ii, 366, ii, 379. S. Mason, Joseph and the New Testament, cit., pp. 169-170. (207)  Eusebio, HE, iii, 33, 2-3 (208) S. Mason, Joseph and the New Testament, cit., p. 169. (209)  At, xi, 20; xiii, 46-48; xiv, 1, 27; xviii, 4; xix, 10; xxi, 17, ma anche Mc, xv, 23; Mt, x, 5-6; viii, 5-13; xv, 21; Gv, iv, 39-40; xii, 20. (210)  Giustino, Tryph, 119, 4. (211)  Svetonio, Nero, xvi, 2.

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notevole distanza di tempo dall’evento narrato. Difficilmente essa avrebbe senso per un autore che scrive ad appena 60 anni dalla vicenda oggetto della sua narrazione, posto che il cristianesimo abbia cominciato ad espandersi a partire dal 30 o 33 d.C. Non mi pare che si giustifichi l’intervento invasivo di Scheidweiler(212) per il quale «non cessarono» (οὐκ’ ἐπαύσαντο), che ha come sottintesa l’azione veicolata dal participio ἀγαπήςαντες, con l’ovvio significato che non cessarono di amarlo, deve intendersi come «non cessarono di provocare disordini». Se si estende l’indagine agli altri scritti di Giuseppe, si scopre che il Testimonium non ha ulteriori riscontri. Earl Doherty(213) ha fatto notare che gli stessi avvenimenti relativi alla costruzione dell’acquedotto di Gerusalemme sono narrati nel Bellum Judaicum(214) senza accompagnarsi ad alcun accenno alla figura del Cristo. Qualcuno ha tentato di far quadrare i conti e ha pensato bene di introdurre anche nel Bellum l’interpolazione cristiana. Infatti nella Bibliotheek der Rijksuniversiteit di Leiden esiste un codice Vossianus gr. F. 72, del xv secolo, contenente il Bellum Judaicum con l’inserimento del Testimonium. Purtroppo la sua operazione non fu felice per il semplice fatto che fu troppo tardiva. I manoscritti che la registrano, infatti, non sono anteriori all’viii o ix secolo, mentre essa è del tutto assente in quelli più antichi e più attendibili. La versione russo-slava del Bellum Judaicum, comprendente il Testimonium è, come opportunamente rileva Wells,(215) una prova inconfutabile che gli scrittori cristiani interpolavano i testi di Giuseppe. Una strenua difesa dell’autenticità del Testimonium è quella condotta da William Whiston nel 1737,(216) al quale Robert Grant(217) oppone la scarsa credibilità anche dei due passi relativi a Giacomo e a Giovanni Battista. Va da sé che se si espunge il Testimonium non sussiste alcun problema di (212) F. Scheidweiler, Sind die Interpolationen im altrussischen Josephus wertlos?, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft», xliii, 1950, pp. 155-178. (213) E. Doherty, The Jesus Puzzle, cit., p. 222; a pp. 210-211, nota che Giuseppe esprime sempre una condanna per i movimenti ribelli e che il Testimonium dovrebbe perciò rappresentare un’eccezione se fosse autentico. (214) Giuseppe Flavio, BJ, ii, 175-177. (215)  G. A. Wells, The Jesus Legend, Chicago, Open Court, 1996, pp. 49-50. La versione paleoslva del Bellum Judaicum di Giuseppe Flavio è riportata dal compianto maestro A. Donini, Storia del cristianesimo dalle origini a Giustiniano, Milano, Teti Editore, 1977, p. 57. (216) W. Whiston, Dissertation i:The Testimonies of Josephus Concerning Jesus Christ, John the Baptist and James the Just, Vendicated, in Josephus Flavius, Works with Three Dissertations, Baltimore, Published by Armstrong and Plaskitt, 1830, pp. 610-617. (217)  R. M. Grant, A Historical Introduction, cit., p. 291.

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raccordo tra le due opere flaviane. Di contro incombe, a chi ne vuol far passare l’autenticità, l’obbligo di spiegare perché Giuseppe non fece menzione del Cristo nel 74-75, quando scriveva il Bellum Judaicum e narrava pressoché le stesse vicende storiche, e se ne ricordò invece nel 94-95 nel corso della compilazione e pubblicazione delle Antiquitates. Le risposte suggerite non sono in realtà che tentativi di aggrapparsi agli specchi. Si è detto che lo storico maturò dalla prima alla seconda opera una maggiore consapevolezza della realtà del cristianesimo. Se così fosse se ne dovrebbero trovare tracce nel Bíos o nel Contra Apionem che furono scritti negli stessi anni delle Antiquitates. E invece niente di tutto questo. Anzi nel Bíos, allorché ricorda le sette essenica, farisaica e sadducea, affermando di averne sperimentato in giovinezza (cioè intorno al 53-55 d.C.) i rispettivi insegnamenti, ancora una volta tace sulla setta cristiana. La realtà è che non vi sono ragioni sufficienti per affermare che egli avesse scarne informazioni sui cristiani nel 75 e più consistenti nel 94 d.C. Gli episodi narrati nei due distinti periodi storici sono gli stessi, con la differenza che le vicende della vita di Cristo sarebbero distanziate di poco più di quarant’anni rispetto al Bellum e di poco più di sessanta rispetto alle Antiquitates. Se si passa all’esame del contesto storico-culturale dei primi tre secoli dell’era cristiana, si ha un’ulteriore conferma della falsità del Testimonium. Infatti, a differenza di quanto accadeva sul versante giudaico, che ignorava sistematicamente e pregiudizialmente gli intellettuali ellenizzati, sul versante cristiano Giuseppe era un autore assai studiato proprio per essere una delle principali fonti per la conoscenza della realtà storica della Palestina ai tempi del Cristo. Gli ebrei che vivevano da tempo, se non addirittura dalla nascita, fuori della Palestina, in un ambiente culturale che aveva subito una forte impronta dalla cultura greco-latina e persino gli stessi greci e latini, che aderivano al messaggio cristiano, avevano in Giuseppe un punto di riferimento essenziale per la storia ebraica. Si spiega perciò perché egli fosse ampiamente noto ad autori come Ippolito, Lattanzio, Minucio Felice, Tertulliano, Giustino, Teofilo, Ireneo, Melitone di Sardi, Clemente Alessandrino e Metodio(218). Tutti ne fanno menzione nelle loro opere, ma nessuno fa il benché minimo cenno al Testimonium flavianum, che, se autentico, avrebbe avuto per loro una straordinaria rilevanza storica. Eusebio lo cita nella Historia (218)  Tale è l’osservazione di M. Hardwick, Josephus an Historical Source in Patrisitc Literature through Eusebius, Atlanta, Scholars Press, 1989.

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ecclesiastica e nella Demonstratio evangelica.(219) Origene (185-250), sembra ignorarlo, poiché afferma che è strano che Giuseppe riconosca a Giacomo il carattere della giustizia e non riconosca a Cristo la sua missione messianica.(220) Lowder(221) sostiene che, non essendoci prove che la questione della storicità di Cristo fosse posta nel primo secolo, non sorprende che il Testimonium non sia stato citato prima di Eusebio. I codici manoscritti giudaici delle Antiquitates non contengono il Testimonium. Ancora nel xvii secolo Isaak Voss (1618-1689), accennava all’esistenza di un codice manoscritto privo dell’interpolazione. Ryland(222) lamenta che Voss non ci abbia indicato gli estremi e la fonte della notizia. Fozio – a sua volta – afferma di essere in possesso di un codice manoscritto delle Antiquitates, privo del Testimonium. I codici greci più antichi contenenti il Testimonium sono il Codex ambrosianus F. 128 (xi secolo –Milano); il Codex Medicaeus bibl. Laurentianae plut. 69, cod. 10 (xv secolo – Firenze); il Codex Vaticanus Graecus 984 (datato 1354 – Roma). Secondo Ryland(223) Isaak Vossius (1618-1689) possedeva un analogo codice. Insomma il Testimonium, tanto se analizzato in se stesso, quanto se considerato nel contesto delle Antiquitates o delle opere flaviane o della cultura cristiana dei primi tre secoli, si rivela un’interpolazione totale sia sotto il profilo filologico, sia sotto quello cronologico, sia nell’ambito delle posizioni ideologiche di Giuseppe Flavio. La mole delle argomentazioni che depongono per la sua totale falsità è tale che oggi le tesi di studiosi favorevoli alla sua integrale autenticità si possono ormai considerare largamente superate. Se la questione fosse di carattere puramente filologico, sarebbe da tempo ormai chiusa; ma poiché tocca aspetti che riguardano la vita religiosa e che hanno una forte incidenza sul problema dell’esistenza storica di Cristo, bisogna fare i conti con i tentativi di sfuggire con ogni mezzo al rigore dell’indagine scientifica e ovviamente all’evidenza dei fatti. Ci vediamo così costretti a vagliare criticamente alcuni di questi sotterfugi, almeno quelli che hanno la parvenza di una qualche scientificità. Sostenitori della parziale autenticità del Testimonium sono Thackeray e Meier.(224) (219)  Eusebio, HE, i, 11; Demonstratio Evangelica, iii, 5. (220)  Origene, Comm. in Matth., x, 17 e Contra Celsum, i, 47. (221)  J. J. Lowder, Josh McDowell’s Evidence for Jesus, cit. (222)  L. G. Rylands, Did Jesus Live?, London, Watts, 1929. (223)  Ibidem.. (224)  H. St. John Thackeray, Josephus. The Man and the Historian, New York, Jewish Institute of Religion Press, 1929, pp. 125-153; J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit.,

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Ci soffermiamo sulla tesi del Meier che delle due è la più articolata. Egli ritiene che il Testimonium si può salvare a patto di espungere da esso gli interventi di chiara marca cristiana che si riducono sostanzialmente ai tre seguenti, segnalati in corsivo nella sua versione inglese: And there was about this time Jesus, a wise man, [if indeed it is necessary to call him a man] for he was a doer of paradoxical works, a teacher of such men as receive the truth with pleasure and many Jews on the one hand and also many of the Greeks on the other he drew to himself. [This man was the Christ].And when, on the accusation of some of the principal men among us, Pilate had condemned him to a cross, those who had first loved him did not cease to do so. [For he appeared to them on the third day, living again, the divine prophets having related both these things and countless other marvels about him.]And even till now the tribe of Christians, so named from this man, has not gone extinct.

Sicché il testo, depurato dalle interpolazioni più manifeste, diventa: And there was about this time Jesus, a wise man, for he was a doer of paradoxical works, a teacher of such men as receive the truth with pleasure, and many Jews on the one hand and also many of the Greeks on the other he drew to himself. And when, on the accusation of some of the principal men among us, Pilate had condemned him to a cross, those who had first loved him did not cease to do so. And even till now the tribe of Christians, so named from this man, has not gone extinct. Tr. it: In quel tempo apparve Gesù, uomo saggio: fu, infatti, autore di fatti sorprendenti, maestro di persone che accoglievano con piacere la verità; ed attirò a sé molti Giudei e anche molti Greci. E quando Pilato, per un’accusa mossa dagli uomini notabili tra noi, lo condannò alla croce, coloro che da principio lo avevano amato non cessarono di farlo. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati cristiani.

Com’è facile intuire la proposta di Meier, anche a voler tralasciare altri dettagli di non poco rilievo, non è condivisibile non solo perché non tiene conto del contesto in cui il passaggio è inserito, ma anche perché trascura il fatto che nel testo, da lui manipolato, restano altri elementi di chiara matrice vol. i, p. 63-69.

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cristiana («a doer of paradoxical works» e soprattutto «a teacher of such men as receive the truth with pleasure»)(225) o accenni alla straordinaria diffusione del cristianesimo («many Jews […] and also many of the Greeks […] he drew to himself»), nonché la notevole distanza temporale in cui l’interpolatore colloca gli eventi («An even still now […] has not gone extinct»).(226) Ma il punto più debole della tesi di Meier sta nel fatto che, eliminando l’inciso «egli era il Cristo», diventa inesplicabile e incomprensibile per il mondo greco-latino, che ignorava quasi del tutto le tradizioni giudaiche, l’accenno a «coloro che da lui sono detti cristiani». Non solo: si perde del tutto il senso dell’accusa dei sinedriti che riguardava proprio la sua pretesa di essere il Cristo e si perde altresì il senso delle motivazioni che indussero i suoi seguaci a non cessare di amarlo come un Dio. Perde significato anche l’affermazione relativa a coloro che accolgono con piacere la verità. Ed invero la verità che essi accolgono è proprio quella che il Cristo aveva natura più che umana. Insomma se si esclude l’accenno alla natura divina del Cristo, tutto il passo non ha più senso. Ciò che Meier ha espunto è solo ciò che, intorno alla natura divina del Cristo, è di per sé più eclatante, ma l’idea di fondo resta a dispetto di tutti i tagli chirurgici dello studioso. Ciò significa che si danno ancora una volta presupposte l’esistenza del cristianesimo e la storicità del Cristo. Sicché il frammento che dovrebbe far luce su tali verità storiche, in realtà le dà per scontate; il manipolatore moderno (Meier e compagni) compie cioè la stessa operazione dell’antico: costruisce fraudolentemente un testo che possa provare l’esistenza storica del Cristo e del cristianesimo, antecedente al 70 o 80 d.C. Ma tutta l’operazione risulta, sul piano logico, meramente vana. Né giova molto, al fine di sciogliere l’impasse di cui lo studioso finisce col trovarsi prigioniero, il ricorso alla ipotesi suppletiva di Pelletier,(227) il quale presume che per la cultura greco-latina sarebbe stato offensivo nei confronti del lettore esplicitare la connessione tra il nome del Cristo e quello della setta dei cristiani. In realtà quella connessione era scontata solo dopo la diffusione del cristianesimo; prima essa era del tutto incomprensibile se non era accompagnata da ulteriori elementi di chiarificazione. Perciò anche l’ipotesi di Pelletier è viziata dal (225)  «Un produttore di opere sorprendenti»; «un maestro di uomini che accolgono con piacere la verità». (226)  «Attirò a sé molti ebrei […] e anche molti greci» […]; «e ancora adesso non si è estinto». (227) A. Pelletier, Ce que Josephe a dit (Ant. xviii 63-64), «Revue des Études Juives», cxxiv, 1965, pp. 9-21.

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solito errore logico: dà per scontato ciò che pretende di dimostrare col supporto del Testimonium. In altri termini ci si rifiuta di ammetterne l’intrinseca contraddittorietà con il contesto dell’opera flaviana per non essere costretti ad ammettere che il cristianesimo ancora negli anni 80-90 d.C. potesse essere di così modeste proporzioni da sfuggire ad un osservatore come Giuseppe. Per avvalorare la sua tesi Meier osserva che Giuseppe omette sistematicamente di spiegare le origini di taluni termini. Ma ciò non è affatto vero; lo stesso esempio da lui addotto non è del tutto convincente. Meier infatti nota che, quando deve spiegare il nome Sebastos, dato all’omonimo porto, Giuseppe scrive: «Erode, avendolo costruito con enormi spese, lo chiamò Sebastos in onore di Cesare».(228) In questo caso le Antiquitates avrebbero omesso la spiegazione del nome Sebaste (σεβαστός), che in greco significa «Augusto», semplicemente perché, essendo scritto in greco, il termine è immediatamente riferito al nome di Cesare Augusto. In realtà l’intento di Giuseppe non è quello di dare una spiegazione tecnica del nome di Augusto, ma solo di dar ragione del nome del porto. Ben diverso è invece il caso del termine christós. Meier tende a fare del Testimonium una fonte indipendente dal NT, perché a suo dire il vocabolario usato non coincide. Per di più egli si chiede come sia possibile che un anonimo cristiano dei primi secoli, senza usufruire dei moderni mezzi di ricerca, si sia impadronito a tal punto del vocabolario e dello stile di Giuseppe così da poterlo imitare nella interpolazione.(229) Ma, se da un lato enfatizza gli elementi di concordanza stilistica e lessicale, dall’altro Meier trascura o mette in ombra quelli di discordanza. Approfondiamo la questione sulla base di qualche esempio concreto. Meier osserva che le due menzioni di Cristo e di Giovanni sono collegate in qualche modo. Entrambe sono inserite in contesti specifici: la prima nel contesto del mandato di Pilato, la seconda in quello del regno di Erode Antipa. L’una e l’altra – egli dice – sarebbero inconcepibili per un cristiano in un qualsivoglia periodo («Nell’insieme, la trattazione di Gesù e Giovanni nel libro xviii delle Antichità è semplicemente inconcepibile come opera di un cristiano di qualunque periodo»).(230) Lo stesso concetto esprime in forma più articolata Charlesworth,(231) il quale scrive: (228) Giuseppe Flavio, Ant., xvii, 87. (229)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 76. (230)  Ivi, p. 81. (231)  J. H. Charlesworth, Jesus within Judaism: New Light from Exiting Archaeolog-

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Il passo, spogliato delle ovvie parole cristiane, non è di mano cristiana ed è composto in modo tale che non si potrebbe attribuire ad un cristiano. Quale cristiano si sarebbe riferito ai miracoli di Gesù in modo tale che un lettore avrebbe potuto intenderli come meramente sorprendenti? Avrebbe potuto un cristiano scrivere che ‘uomini di primo rango’ o ‘i più notabili tra noi’ lo accusarono davanti a Pilato, dando l’impressione che egli meritava un verdetto di colpevolezza? Avrebbe uno scriba cristiano concluso l’accenno a Cristo dicendo della tribù (genere, setta) cristiana che non era estinta, come se essa si fosse estinta ben presto?’(trad. mia)

Tali osservazioni sarebbero forse condivisibili se l’anonimo cristiano avesse potuto scrivere liberamente le proprie idee. Egli invece doveva tener conto del contesto flaviano, doveva cioè metterle in bocca a Giuseppe, ben sapendo che l’autore delle Antiquitates non avrebbe potuto esprimerle da un punto di vista rigorosamente cristiano. I «più notabili tra noi» ha senso proprio perché il riferimento ai sinedriti è – ex suppositione – proposto da un ebreo. L’anonimo cioè sa bene di doversi mettere nei panni di un ebreo, quale era appunto Giuseppe. La sua magagna sarebbe stata ancor più manifesta se non avesse tenuto ferma questa elementare istanza. Quanto poi all’accenno relativo alla estinzione del cristianesimo primitivo, va detto che solo per un cristiano poteva sorgere la preoccupazione che il silenzio di Giuseppe circa l’esistenza del cristianesimo poteva dipendere dalla sua eventuale estinzione. Da ciò l’esigenza, tutta cristiana, di ribadirne la continuità «fino ai nostri giorni». D’altra parte l’argomento della non estinzione del cristianesimo è di Eusebio, il quale osserva che i seguaci del Cristo non lo abbandonarono dopo la crocifissione e lo fa per evitare che fossero fraintesi i passi evangelici che alludono al senso di smarrimento degli apostoli dopo la crocifissione o al rinnegamento del Cristo da parte dei suoi stessi discepoli. Meier afferma che l’espressione παραδόξα ἔργα (= opere sorprendenti) non sarebbe stata usata da un cristiano, ma non tiene conto che essa è presente proprio in Eusebio. Anche l’argomento relativo alla responsabilità di Pilato che – a parere di Meier(232) e di Charlesworth – sarebbe in contrasto con il racconto evangelico è privo di reale consistenza per il semplice fatto che esso è presente ancora una volta in Eusebio («Le disgrazie che si riversarono sull’intero popolo giudaico ebbero inizio al tempo di Pilato e furoical Discoveries, New York, Dubleday, 1988, p. 93. (232)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, pp. 79-80.

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no la conseguenza delle pene che inflisse al nostro Salvatore […]».(233) Più avanti lo storico di Cesarea scrive: Paragonando la narrazione di questi avvenimenti [fatta da Giuseppe] con quella che ne fanno i Vangeli, ci si accorgerà che dopo non molto tempo si ritorse a danno degli stessi giudei l’approvazione da loro manifestata allo stesso Pilato, davanti al quale essi gridarono di non avere altro re che Cesare.

Meier obietta che la frase «Gesù guadagnò il consenso dei Greci» o, se si vuole, dei Gentili, non può essere di matrice cristiana perché è in contrasto con la narrazione evangelica.(234) Ma egli non tiene maliziosamente conto del messaggio paolino e di altri passi evangelici e soprattutto si lascia sfuggire che anche per Eusebio Cristo rivelò la propria natura divina sia agli ebrei che ai greci attraverso l’insegnamento e i miracoli.(235) Eusebio infatti è convinto che il cristianesimo non sia né una forma di giudaismo, né una forma di ellenismo, ma piuttosto una terza forma di religione.(236) Meier è ovviamente soddisfatto del risultato raggiunto: egli si trova tra le mani un Testimonium addomesticato che, per essere privo di interesse per i cristiani, miracolosamente spiega il silenzio tenuto dai primi Padri della Chiesa: essi – egli scrive – «non sarebbero stati eccessivamente interessati a citarlo perché non era di alcun supporto al contenuto principale della fede cristiana in Cristo come figlio di Dio risorto da morte». Si spiega così perché Origene, nel iii secolo, sosteneva che Giuseppe non credeva che Gesù fosse il Messia. È strano che chi mette in atto un gioco di prestigio si sorprenda poi dei meravigliosi risultati ottenuti che in realtà erano già stati surrettiziamente presupposti. La convinzione di Meier è che le controversie tra pagani e cristiani nei secoli ii e iii riguardassero solo la natura del Cristo e non anche la sua esistenza storica. In realtà noi non conosciamo che superficialmente i termini di tali controversie, perché ciò che di esse ci è pervenuto è passato attraverso il setaccio delle dottrine cristiane o è stato drasticamente distrutto. Ma, pur così impoverito, il Testimonium non avrebbe mancato di suscitare l’interesse dei padri della Chiesa. Basti pensare che una delle espressioni (233)  Eusebio, HE, ii, 6: (234) v. Gv, xii, 20-26; Mt, viii, 5-13; x, 5-6; xv, 21-28, a proposito della distanza dai Gentili. (235)  Eusebio, Demonstratio Evangelica, 400. (236)  Ivi, 11, PG. xxii, col. 25a.

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salvate dai tagli meieriani («maestro di coloro che ricevevano con piacere la verità») attirò – secondo la versione dello stesso Meier – l’attenzione di Isidoro Pelusiota nella lettera al diacono Eudemone, scritta intorno al 410.(237) Le manipolazioni del testo proposte da altri autori cristiani sono troppo invasive e affatto gratuite. Se Meier si limita prudentemente ad espungere ciò che gli appare superfluo, altri studiosi non si esimono dall’aggiustare arbitrariamente e senza alcun serio supporto filologico parti più o meno consistenti del passo flaviano con l’esplicito intento di salvare la testimonianza sul Cristo e sul cristianesimo primitivo. Taluni hanno persino lasciato trapelare come estrema possibilità l’ipotesi di una tardiva conversione di Giuseppe al cristianesimo; altri hanno pensato bene di aggrapparsi alla più salda realtà di un Giuseppe con scarse simpatie per il messianismo ebraico in generale. In effetti ciò che sconcerta gli studiosi di matrice cristiana è che lo storico ebreo si dilunghi talvolta anche con la sua tipica prolissità su non pochi presunti messia e non dedichi invece un minimo accenno al Cristo. Si spiega perciò perché per essi il Testimonium – pur nella sua stringatezza – sia un essenziale punto di riferimento da mantenere in piedi, costi quel che costi. La loro operazione fraudolenta consiste nel vano tentativo di rendere in qualche modo antimessianico il testo in modo da farlo rientrare nell’ideologia flaviana. Da registrare è anche la posizione di autori come Klausner e Robertson(238) i quali osservano che se il Testimonium reca in sé i segni di manipolazioni cristiane, significa che l’opera flaviana ci è stata trasmessa in seno ad ambienti cristiani; e, se ciò è vero – essi dicono – dobbiamo sospettare che l’originale flaviano può aver subito manomissioni non limitate alla sola interpolazione, ma estese anche alla esclusione o rimozione di frasi o espressioni ritenute offensive per la figura di Cristo e del cristianesimo. Klausner in particolare sostiene che Giuseppe dovette essere recepito con molta cautela e prudenza durante il regno di Domiziano, che mal tollerava tutto ciò che aveva il sapore di sedizioni soprattutto da parte di ebrei. Ma si tratta, com’è facile intuire, di posizioni affatto singolari, anche perché, come sappiamo, Giuseppe scrive abbondantemente di sedizioni e rivolte ebraiche non solo nel BJ, ma anche nelle Antiquitates e nel Bíos. Ma ciò che sconcerta in tali posizioni è che i loro autori da una parte tendono ad attenuare le manipolazioni cristiane del Testimonium, che ha il carattere di un’aggiunta al testo, e (237)  Isidoro Pelusiota, Epistolae, lib. iv, Ep. ccxxv, in PG. lxxviii, col. 1319. (238) J. Klausner, Jesus of Nazareth, cit.; A. Th. Robertson,The Origins of Christianity, London, Lawrence & Wishart, 1953.

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dall’altra tendono a privilegiare le rimozioni o esclusioni. Sicché essi finiscono col sostenere la paradossale tesi per cui le manipolazioni cristiane sono più tangibili non laddove trovano un oggettivo riscontro nel testo, ma laddove sono assenti e sono semplicemente congetturabili per via di forzature e supposizioni gratuite e fantasiose. Il risultato è che si compie ogni tentativo di attribuire a Giuseppe un giudizio negativo sul Cristo. Ne è un tipico esempio Robert Eisler(239) il quale stravolge l’incipit del Testimonium interpretandolo nel modo seguente: «Nello stesso tempo circa spuntò una nuova fonte di disordini con un certo Cristo» che è un’evidente forzatura che oltretutto non si regge sul piano grammaticale (ove Ἰησοῦς è nominativo e γίνεται [ghínetai] è impersonale). Altrettanto arbitraria è la proposta di Trackeray(240) il quale sostituisce la lectio τἀληθῆ (= la verità) con ἀηθῆ (= le cose insolite), sicché i seguaci del Cristo avrebbero accolto non le dottrine vere del cristianesimo, ma delle mere stranezze. Ma l’ipotesi non appare molto convincente, perché per le opere paradossali di Elia Giuseppe usa il termine σημεῖα (= segni).(241) Nel Nuovo Testamento le opere di Cristo sono indicate con δύναμιν δυνάμεις = potenza (Marco Matteo Luca), σημεῖον (Luca, Giovanni, Atti) e τέρατα = prodigio, miracolo (Matteo). Infine va detto che la lectio ἀηθῆ non è riscontrabile in nessun manoscritto delle Antiquitates. Richards e Shutt(242) hanno pensato bene di anteporre a Cristo l’aggiunta di un ‘cosiddetto’, in modo da accentuare il distacco di Giuseppe dalla fede cristiana. In tal modo la frase «Egli era il Cristo» diventa «Egli era il cosiddetto Cristo». Un analogo procedimento fu suggerito da Girolamo, che, consapevole forse della inaccettabilità dell’ipotesi di un Giuseppe parzialmente favorevole al messianismo, preferisce tradurre credebatur (era creduto). In ogni caso si tratta di una proposta non confermata dalla tradizione manoscritta. Più inconsistente è l’argomentazione di chi ritiene che sarebbe strana nelle Antiquitates l’omissione di ogni riferimento alla vita di Cristo. Moraldi(243) (239) R. Eisler, The Messiah Jesus and John the Baptist, According to Flavius Josephus’ Recently Rediscovered ‘Capture of Jerusalem’ and the other Jewish and Christian Sources, London, Methuen, 1931. (240)  H. St. JohnThackeray, Josephus the Man and the Historian, cit. (241) Giuseppe Flavio, Ant., ix, 182. (242)  G. C. Richards – R. J. H. Shutt, Critical Notes on Josephus’ Antiquities, «Classical Quarterly», xxxi, 1937, pp. 176. (243) L. Moraldi, Nota al Testimonium flavianum, in Giuseppe Flavio, Antichità

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così sintetizza la posizione degli studiosi più recenti: essi «ritengono che Giuseppe non poteva mancare di scrivere sui cristiani, il testo a noi giunto è stato però variamente elaborato, ma è immune da sostanziali mutazioni». La prima parte del ragionamento («non poteva mancare di scrivere sui cristiani») è un’evidente contraddizione logica: si dà per scontato ciò che si deve dimostrare ovvero si cade nell’anastrofe dell’hýsteron-próteron. In tal modo si evita capziosamente di argomentare sulla possibile autenticità del Testimonium e sulla possibilità che Giuseppe abbia accennato alla vita di Cristo e allo stesso cristianesimo, escludendo per fede che quest’ultimo fosse o del tutto inesistente o che fosse di così modeste proporzioni da sfuggire ad un attento osservatore come Giuseppe. La seconda parte del ragionamento («è variamente elaborato, ma immune da sostanziali mutazioni») è una vera e propria contradictio in adiecto: se si ammette una elaborazione non si possono escludere sostanziali mutazioni. Ma soprattutto non ci si rende conto che se si tenta di individuare le elaborazioni, mentre si fa finta di stare sul terreno della filologia, si dà in effetti la stura alle congetture più disparate e più fantasiose che nulla hanno di certo e di scientifico. Sicché tale strategia si rivela di carattere esclusivamente ideologico: l’obiettivo evidente è quello di servirsi di una manifesta interpolazione per far passare l’idea che essa sia una prova decisiva dell’esistenza storica di Cristo. Un’altra ricerca che ha tutta la parvenza di essere improntata al rigore della filologia è quella di G. J. Goldberg(244) il quale ha studiato la ricorrenza, direi in termini statistici, della combinazione triadica Ἰησοῦς, ἀνήρ e ἒργων in testi dei primi secoli per giungere alla conclusione che la loro occorrenza ravvicinata, analoga a quella del Testimonium, si riscontra solo in Luca (xxiv, 19-23). Molto clamore s’è fatto intorno a taluni costrutti che confermerebbero la supposta interdipendenza tra Giuseppe e Luca. In particolare ci si è soffermati sull’affinità che la costruzione dell’accusativo τρίτην ἡμέραν (= terzo giorno) dipendesse da un verbo e più precisamente da ἄγειν in Luca e da ἔχω in Giuseppe. Ciò che non è ben chiaro nell’indagine statistica di Goldberg è se è rara l’occorrenza della costruzione accusativo-oggetto del verbo o se la rarità dell’occorrenza dipende anche dal fatto che l’oggetto in accusativo debba contenere l’ordinale τρίτην. È evidente, infatti, che Giudaiche, cit., p. 1116. (244)  Cfr. anche G. J. Goldberg, The Coincidence of the Testimonium of Josephus and the Emmaus Narrative of Luke, «The Journal for the Study of the Pseudoepigrapha», xiii, 1995, pp. 59-77.

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se il vincolo è dato da τρίτην il campo delle occorrenze si restringe notevolmente e l’indagine del Goldberg finisce con l’essere tautologica: trova cioè nei due testi ciò che di fatto ha già assunto come coincidente. D’altra parte al di là delle sbandierate affinità linguistiche tra il Testimonium e Luca non mi pare che le coincidenze siano poi molte o che vadano molto al di là dei tre termini individuati. Ancor più paradossale è affermare che le occorrenze di τρίτην con ἡμέραν sono appena tre(245) in tutto il Nuovo Testamento e che le 25 occorrenze di τρίτον (accusativo singolare neutro) non risultano collegate con giorno. Evidentemente non può esserlo per via del genere femminile di ἡμέρα. Goldberg si spinge infine fino a supporre che lo scenario delle apparizioni di Cristo fa pensare all’esistenza di una fonte comune a Luca e a Giuseppe. Quando ci si invischia in ipotesi complicate, il miglior modo di uscirne resta sempre quello di ricorrere ad una immaginaria Quelle (fonte). In realtà anche il procedimento di Goldberg lascia il tempo che trova. Innanzi tutto perché la parola che genera l’inclusione/esclusione dei testi messi a raffronto è Ἰησοῦς (Iesous). Probabilmente l’esito dell’indagine statistica non sarebbe lo stesso se i termini presi a campione fossero ἀνήρ (uomo) παραδόξων (sorprendenti) e ἒργων (opere), o altri tre scelti a caso nel contesto del Testimonium. Ma l’elemento decisivo e discriminante è che il nesso tra il testo flaviano e Luca non è di per sé significativo: non è cioè tale da legittimare l’ipotesi che Luca, il quale, come è noto, scrive il proprio vangelo sulla base di un’indagine documentata, abbia tenuto presente Giuseppe, perché si può avanzare l’ipotesi altrettanto legittima che il falsario cristiano abbia attinto da Luca per costruire l’interpolazione in Giuseppe. Va però detto che l’esclusione della interdipendenza di Luca e del Testimonium flavianum non si estende anche all’autore degli Atti degli Apostoli e più in generale al vangelo lucano. Poiché è innegabile che i due testi assumono Giuseppe come punto di riferimento per la costruzione del contesto storico in cui inquadrare le vicende del Cristo e degli apostoli. Il quadro storico del censimento di Quirinio, della dinastia degli erodiani, del falso profeta egiziano, delle rivolte di Giuda il Galileo e dei suoi figli, le successioni del governatori romani e dei sommi sacerdoti sono chiaramente desunti da Giuseppe. Le marginali divergenze tra il testo flaviano e quello lucano non implicano una indipendenza del secondo dal primo, ma sono dovute al fatto che Luca o il suo autore subordina il contesto storico alla verità teologica che intende far prevalere. Krenkel e Belser si sono schierati per la netta di(245)  Mt, xx, 3; Lc, xxiv, 21; Ap, vi, 5.

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pendenza di Luca da Giuseppe. Mason, pur nel quadro di una maggiore circospezione, finisce col riconoscere che «è difficile spiegare il testo di Luca se si suppone che egli non abbia avuto conoscenza di Giuseppe».(246) In realtà a monte della controversia si nasconde il problema della datazione dei testi. Ciò che si vuole evitare ad ogni costo è una datazione bassa dei testi lucani; ma è una conseguenza che non può essere aggirata. Poiché quale che sia il caso, sia che Luca abbia attinto da Giuseppe o che lo abbia solo conosciuto, la pubblicazione delle Antiquitates nel 96 è inevitabilmente il terminus a quo del vangelo lucano e degli Atti. Va perciò detto chiaramente che tali tentativi che puntano a darsi una dignitosa veste scientifica sono in realtà fraudolenti. In apparenza essi sembrano trarre origine sul terreno della filologia, ma in realtà la filologia è usata più che come scienza del certo come mero gioco di parole che non ha di fatto alcun addentellato nel testo o nella sua trasmissione manoscritta. In tale ottica si muovono gli autori che mirano a manipolare il testo flaviano nel tentativo di ridurre la sua componente cristiana, così da escludere un intervento di matrice cristiana, pur tenendo saldo l’obiettivo specifico di lasciare comunque in piedi la testimonianza su Cristo. 1.23. Il Testimonium nella Kitab al-Unwan di Agapio Un inaspettato supporto alla tesi della parziale autenticità è venuto, almeno così si fa credere, nel 1971 con la scoperta del manoscritto della Kitab alUnwan (Storia universale)(247) composta in arabo in Siria nel x secolo dal vescovo Agapio di Ierapoli. La versione araba di Agapio è riportata con grande clamore da J. H. Charlesworth(248) nella seguente traduzione inglese: At this time there was a wise man who was called Jesus. And his conduct was good, and he was known to be virtuous. And many people from among (246) M. Krenkel, Josephus und Lukas; der schriftstellerische Einfluss des jüdischen Geschichtsschreibers auf den christlichen, nachgewiesen, Leipzig, Hässel, 1894; J. E. Belser, Lukas and Josephus, «Theologische Quartalschrift», lxxvii, 1895, pp. 634-662; S. Mason, Josephus and the New Testament, cit., p. 292. (247)  Agapius, Episcopus Mabbugensis, Kitāb al-ʿunwān al-mukallal bi-fadāʾil al-hikma al-mutawwag bi-anwāʿ al-falsava al-mamdūh bi-hāqaʾiq al-maʿrifa, Beryti, Typographeo Catholico, 1912. (248)  J. H. Charlesworth, Jesus within Judaism, cit., p. 95.

728  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini the Jews and other nations became his disciples. Pilate condemned him to be crucified and to die. But those who had become his disciples did not abandon his discipleship. They reported that he had appeared to them three days after his crucifixion and that he was alive. Accordingly he was perhaps the Christ concerning whom the prophets have recounted wonders. A quel tempo c’era un uomo saggio che si chiamava Gesù. E la sua condotta era buona, ed era noto per essere virtuoso. E molti tra gli ebrei e tra le altre nazioni divennero suoi discepoli. Pilato lo condannò a essere crocifisso e a morire. Ma quelli che erano diventati suoi discepoli non abbandonarono il loro discepolato. Essi riferirono che egli era apparso loro tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo. Di conseguenza egli era forse il Cristo riguardo al quale i profeti hanno raccontato prodigi.

In sintesi le novità del testo arabo sarebbero le seguenti: 1) manca la frase «se pure bisogna chiamarlo uomo»; 2) manca l’accenno alle opere miracolose; 3) i seguaci di Cristo non sono definiti cristiani; 4) infine l’affermazione che si tratti del Cristo sarebbe attenuata da un ‘forse’ e la resurrezione sarebbe data come racconto dei suoi discepoli. Ma il testo della Kitab al-Unwan si è rivelato ben presto assai controverso. In primo luogo perché esistono legittimi dubbi circa l’aderenza della traduzione araba all’originale greco o siriaco. Il passo «his conduct was good, and he was known to be virtuous/doctor» sembra essere un addomesticamento dell’originale greco «egli era autore di opere sorprendenti e fu maestro […]». Per il resto in Agapio ci sono tutti gli altri elementi del Testimonium, con la sola attenuazione di un ‘forse’ a proposito della natura di Cristo, che risulta diversamente dislocata nel testo. Charlesworth(249) si spinge fino a pensare che la versione agapiana dipenda da un manoscritto che precede le versioni greca, araba e siriaca in nostro possesso.(250) Ma, anziché avventurarsi in ipotesi fantasiose, è più semplice pensare che le discrepanze rispetto al testo greco possano dipendere dal fatto che Agapio probabilmente lo cita a memoria o più verosimilmente lo adatta alle esigenze della (249)  Anche J. H. Charlesworth, Jesus within Judaism, cit., pp. 93-94, insiste sul fatto che, se si estrapolano le frasi di chiara marca cristiana, il resto del Testimonium resta grammaticalmente intatto, perché quelle frasi sono parentetiche. In realtà quelle cosiddette ‘sezioni cristiane’ sono parte integrante del testo, al di là del fatto che esse siano parentetiche. (250)  Ivi, p. 96: «Agapius quotation in Arabic was translated from Syriac, and the Syriac had been translated from a Greek version that seems to have received some deliberate alterations by Chriastian copyists».

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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sua battaglia ideologica in un ambiente a forte prevalenza musulmana. Così «and to die» (= e a morire) è un esempio lampante di tali sue sottintese polemiche antimusulmane. Si tratta di un’aggiunta(251) che assolutamente è priva di senso, se riferita al testo flaviano, ma che ha significato in un ambiente di musulmani i quali negavano che Cristo fosse morto sulla croce. Tutto ciò deve indurci ad essere molto cauti nell’avanzare ipotesi di una Quelle, forse siriaca o greca, contenente il testo originale non ancora compromesso dalle interpolazioni cristiane, tanto più che la versione di Agapio è tutt’altro che autorevole e tutt’altro che difforme nella sostanza dal Testimonium cristianizzato, quali che siano stati i suoi passaggi dal greco al siriaco e alla eventuale manomissione di copti cristiani fino all’arabo. Quel che è inequivocabile è che la versione araba è manifestamente posteriore alla Historia ecclesiastica di Eusebio, perché non ne è che una palese deformazione, come giustamente ha fatto notare Nodet.(252) D’altro canto non si può escludere che la traduzione dal greco all’arabo, sia essa stata condotta dallo stesso Agapio o da altri, non sia del tutto affidabile. Lo stesso Pines,(253) che ha ne scoperto e tradotto il testo, è molto scettico circa il fatto che esso rappresenti l’originale flaviano. Feldman(254) ritiene che non pochi elementi del testo agapiano facciano pensare che esso sia stato compilato sulla base di più di una traduzione, così da risultare una confluenza di fonti diverse. Personalmente ritengo che sia del tutto vano ricorrere ad ipotesi più o meno verosimili per accertare o meno l’affidabilità del racconto agapiano. Esso non si differenzia significativamente dal Testimonium flavianum, se non per essere passato dal filtro della religione musulmana. Se la componente cristiana è davvero attenuata nell’originale arabo, ciò può dipendere dalla maldestra sintesi operata dallo stesso Agapio o dalle motivazioni ideologiche che reggono l’impianto della sua Storia universale. In ogni caso la versione agapiana è inscritta in un testo che appartiene indiscutibilmente al x secolo. Tutto ciò che si può immaginare (251)  Su tale aggiunta, cfr. F. F. Bruce, Jesus and Christian Origins, cit.; E. Bammel, A New Variant Form of the Testimonium Flavianum, «Expository Times», lxxxv, 19731974, p. 145. (252) É. Nodet, Jesus et Jean Baptiste, cit., pp. 321-348 e 497-524. (253)  Il primo a fornire la versione araba è S. Pines, An Arabic Version of the Testimonium Flavianum and its Implications, Yerushalayim, The Israele Academy of Science and Humanities, 1971. (254)  L. H. Feldman, Josephus and modern scholaship 1937-1980, Berlin, De Gruyter, 1984, p. 701. Cfr. anche L. H. Feldman, Josephus, Judaism and Christianity, Leiden Brill, 1987, p. 58.

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alle spalle di esso nel tormentato passaggio dal greco al siriaco all’arabo è, in assenza di una affidabile trasmissione manoscritta, mera ipotesi indimostrabile. Quello che in effetti manca, quale che sia la portata del testo arabo, è l’originale greco anteriore ad Eusebio, recante la presunta versione cristiana edulcorata. In filologia è legittimo ricorrere alla supposizione di una Quelle quando sussistano elementi testuali inoppugnabili. In tutti gli altri casi l’ipotesi di una Quelle, che risolva definitivamente la questione, è spesso un’ipotesi di comodo. 1.24.  La datazione del mandato di Pilato Nelle Antiquitates(255) Giuseppe ci fa sapere che Tiberio, tra il 15 e il 18 d.C., inviò in qualità di Iudaeorum Praeses (Ỉουδαίοις ἔπαρχος) Valerio Grato e Ponzio Pilato che lo sostituì definitivamente nello stesso periodo in cui essi nominavano e deponevano anno dopo anno i sommi sacerdoti Anano nel 15 d.C., Ismaele ben Fabo nel 16, Eleazar ben Anano nel 17, Simone ben Camitho nel 18, anno in cui il sommo sacerdozio passò nelle mani di Giuseppe detto Caifa. Le vicende della prefettura di Pilato in Giudea ci sono narrate nei paragrafi xviii, 55-89, ove Pilato è detto Ỉουδαίας ἡγεμὼν (= governatre della Giudea).(256) Uno dei suoi primi atti fu quello di inviare a Gerusalemme le insegne imperiali che contenevano i busti degli imperatori; minacciò di morte gli ebrei che lo avevano supplicato di ritirarle dalla loro città sacra; poi, sorpreso dalla loro devozione alle leggi, le riportò a Cesarea. Il secondo atto fu quello di depredare il tesoro sacro per provvedere alla costruzione dell’acquedotto che fornì acqua a Gerusalemme. In questa occasione Pilato rispose con una strage alla protesta dei giudei. Nello stesso periodo a Roma scoppiò lo scandalo della dissolutezza delle donne altolocate. Giuseppe ricorda il caso di Paolina, di nobile discendenza romana, moglie di Saturnino. Decio Mundo, appartenente all’ordine equestre, riuscì con raggiri vari, che coinvolsero i sacerdoti del culto egiziano di Iside e Anubis, ad ottenerne i favori. Un analogo episodio ai danni di una certa Fulvia, matrona di alto rango, fu perpetrato da un giudeo che a Roma svolgeva il ruolo di interprete della legge mosaica. Tiberio, sconcertato da tanta dissolutezza, mise al bando la comunità giudaica residen(255) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 35. (256)  Ivi, xviii, 55

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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te a Roma e fece trasferire quattromila giudei in Sardegna. La vicenda è ricordata da Tacito(257) sotto l’anno 19 d.C. La matrona da lui citata è una certa Vistilia appartenente alla famiglia pretoria. In ogni caso la scostumatezza delle donne indusse Tiberio a bandire i culti egiziani e giudaici. Tacito che conosce il testo flaviano, da cui in qualche passo sembra dipendere, attinge per questa vicenda da fonti sicuramente romane. Proprio per ciò è interessante la sostanziale identità del suo racconto con quello dello storico ebreo. Probabilmente allo stesso episodio fa riferimento Svetonio (75 d.C.?-140/150 d.C.) nel De vita Caesarum.(258) La prefettura giudaica di Pilato si conclude con un’ulteriore strage di Samaritani, allorché questi tentarono di conquistare il monte Garizim. Purtroppo su queste ultime circostanze storiche Giuseppe è impreciso e contraddittorio e del tutto inconfrontabili sono le versioni delle Antiquitates (xviii, 85-89) e del Bellum Judaicum (ii, 224-245; cfr. anche Ant., xx, 105-136). Non è improbabile che i due testi si riferiscano a due distinte vicende del lungo dissidio tra giudei e samaritani. L’episodio narrato nelle Antiquitates scoppiò per la difesa del monte Garizim sotto la prefettura di Pilato, immediatamente prima della morte di Tiberio (16 marzo 37); quello narrato nel Bellum Judaicum fu provocato dall’uccisione di un galileo nel 48/52 sotto il governatorato di Ventidio Cumano e fu sedato solo dopo l’intervento di Durmio Quadrato. Di quest’ultima strage parla negli Annales (xii, 54) Tacito, il quale sembra accennare ad una lunga discordia tra la Galilea e Samaria, animata da «odio reciproco senza freno […]; si depredavano a vicenda, si lanciavano l’una contro l’altra bande di ladroni, si tendevano imboscate e talvolta si misuravano in combattimenti». La contraddizione più grave di Giuseppe Flavio riguarda la permanenza di Pilato nella Giudea; da un lato egli ci dice che si protrasse per dieci anni,(259) dall’altro ci informa che il prefetto fu deposto da Lucio Vitellio (padre dell’imperatore, Aulo Vitellio e governatore della Siria, Συρίας τὴν ἡγεμονίαν ἒχοντα, dal 35 al 39). (257)  Tacito, Annales, ii, 85, 4. (258)  Svetonio, Tiberius, xxxv-xxxvi; Nero, xxxv: «Matronas prostratae pudicitiae, quibus accusator publicus deesset, ut propinqui more maiorum de communi sententia coercerent auctor fuit»; Nero, xxxvi: «Externas caerimonias, Aegyptios Iudaicosque ritus compescuit, coactis qui superstitione ea tenebantur religiosas vestes cum instrumento omni comburere. Iudaeorum iuventutem per speciem sacramenti in provincias gravioris caeli distribuit, reliquos gentis eiusdem vel similia sectantes urbe summovit, sub poena perpetuae servitutis nisi obtemperassent». (259) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 89.

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Tuttavia la cronologia del passaggio dall’amministrazione di Pilato a quella di Lucio Vitellio è nel testo flaviano lacunosa e induce il lettore ad errori di valutazione; cosa che verosimilmente è capitata ai lettori cristiani. Poiché le vicende storiche accadute durante la prefettura di Vitellio sono narrate di seguito a quelle relative al periodo di Pilato, con l’aggiunta che la deposizione di quest’ultimo fu compiuta ad opera del primo, si è facilmente tratti nell’inganno di ritenere che Pilato abbia tenuto la prefettura dal 26 al 36-37 d.C. In realtà il mandato di Pilato, come lo stesso Giuseppe riconosce, partì qualche anno dopo l’inizio del principato di Tiberio, all’incirca intorno al 18 d.C. Tant’è che taluni episodi accaduti durante la sua prefettura sono databili, sulla scorta di Tacito, al 19 d.C. Perciò i limiti cronologici del suo mandato sono certamente il 18 e il 28. Di contro la nomina di Vitellio come legato della Siria non può essere datata molto prima del 30-35 d.C., epoca in cui egli aveva 15-20 anni (essendo nato il 15 d.C.). Non è perciò possibile che abbia deposto Pilato nel 28 d.C., poiché a quell’epoca era un adolescente di appena 13 anni. Evidentemente Giuseppe si trova un vuoto tra Pilato e Vitellio; accenna timidamente ad un successore di nome Marcello o forse Marullo, ma in realtà non ne sa nulla di preciso. Ciò che sfugge a Giuseppe è che Tiberio per alcuni anni trascurò di nominare prefetti per la Siria. L’informazione viene da Svetonio,(260) il quale scrive che, dopo la morte di Germanico (19 d.C.) e di Druso (23 d.C.)(261) e dopo la catastrofe di Fidene (27 d.C.), l’imperatore si ritirò a Capri, si disinteressò dello Stato e per molti anni lasciò senza legati la Spagna e la Siria («rei publicae quidem curam usque adeo adiecit […] Hispaniam et Syriam per aliquot annos sine consularibus legatis habuerit»). Poiché Giuseppe Flavio(262) ci dice che Tiberio nominò solo due governatori della Giudea, Grato e Pilato, il vuoto amministrativo cui accenna Svetonio cadde tra gli anni 27 e 37. Secondo Giuseppe Pilato, una volta deposto, si recò a Roma, ma trovò che Tiberio era già morto. Nel seguito nelle Antiquitates egli parla di Tiberio e ne narra la morte per avvelenamento.(263) Ma nel suo testo c’è qualcosa che non funziona proprio a proposito di Vitellio, perché se il mandato di Pilato durò dieci anni non è possibile che egli sia stato deposto nel 36-37; se, invece si concluse nel 27-28 non è possibile che sia (260)  Svetonio, Tiberius, xxxix-xli. (261)  Tacito, Ann., ii, 70 e iv, 8. (262) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 170-182. (263)  Ivi, xviii, 89, 96-126.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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stato deposto da Vitellio che nel 27-28 d.C. aveva appena dodici anni. Questa incertezza cronologica si riflette anche sulla datazione della rivolta samaritana tesa alla conquista del monte Garizim. Se essa si verificò sotto il mandato di Pilato non può essere datata il 36-37, ma entro il 27-28, e viceversa se si verificò nel 36, non cadde sotto Pilato. Se Pilato combatté con Vitellio contro Areta e i nabatei, dobbiamo supporre che, scaduto il suo mandato di governatore della Giudea, egli si unì a Vitellio per supportarlo nei conflitti contro i Samaritani, i Parti e contro gli stessi Nabatei. Perciò, al rientro in patria nel 37, trovò che l’imperatore era deceduto. C’è un ulteriore elemento che bisogna prendere in considerazione: la datazione delle monete che, secondo Taylor,(264) sarebbero state coniate durante il mandato di Pilato. Si tratta di due tipologie di monete delle quali l’una reca sul dritto il simpulum, cucchiaio per attingere il vino, e l’altra il lituus, bastone ricurvo (rispettivamente simboli del Collegio dei Pontefici e del Collegio degli Auguri, ampiamente usati nella monetazione romana fin dal primo secolo a.C.). Sul rovescio recano la prima tre chicchi di grano e di orzo e la seconda una corona d’alloro. Entrambe le tipologie recano sul dritto la legenda in lingua greca ΤΙΒΕΡΙΟΥ ΚΑΙСΑΡΟС (= di Tiberio Cesare). Sul retro della moneta di primo tipo si legge: ΙΟΥΛΙΑ ΚΑΙСΑΡΟС (Giulia di Cesare). La loro datazione è indicata dalla lettera L che sta per il greco λύκαβας (= anno) seguita dai numeri ιS, ιZ, ιH (= 16°, 17°, 18°, sott. del regno di Tiberio, corrispondenti al 29, 30, 31 d. C). Taylor attribuisce il conio di tali monete a Pilato sulla base della datazione presunta del suo mandato dal 26 al 36. Ma se il mandato di Pilato si concluse intorno al 28/29, solo il conio del primo tipo potrebbe risalire a Pilato. Sfugge in ogni caso a Taylor che il racconto di Giuseppe sulla vicenda dei Samariani è contraddittoria. I Samaritani che si erano dato convegno a Tirathana, tentarono di occupare il monte Garizima con le armi. Pilato fu assai abile militarmente da precederli e punirli severamente. La sua azione tempestiva non era meritevole di punizione, né Vitellio, suo collega, avrebbe potuto deporlo dall’incarico di prefetto (compito che spettava all’imperatore). Per di più l’affermazione che Pilato si ritirò a Roma dopo la morte di Tiberio ed una permanenza di dieci anni in (264)  Joan E. Taylor, Pontius Pilate and the Imperial Cult in Roman Iudaea, «New Testament Studies», lii, 2006, pp. 555-582: Le medesime monete sono invocate da G. S. Brandon, Gesù e gli zeloti, Milano, Rizzoli, 1983, ai fini della datazione della prefettura pilatiana.

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Giudea(265) confligge con la precedente affermazione che fa partire intorno al 18 la sua carica prefettizia.(266) Quale ripercussione abbia tutto ciò sulla vita di Cristo è facilmente intuibile. Viene a cadere uno dei pochi dati certi su cui punta la tradizione cattolica. Se la sua condanna a morte fu pronunciata nell’anno 30 d.C., o, come si preferisce, nel 33, essa non ebbe nulla a che fare con Ponzio Pilato. Tale contraddizione cronologica è di per sé la prova della interpolazione del Testimonium flavianum. 1.25.  La falsa testimonianza flaviana su Giacomo, fratello di Gesù Le Antiquitates contengono un ulteriore riferimento a Cristo,(267) allorché, parlando di Anano il Giovane [Anano ben Anano], Giuseppe accenna alla morte di Giacomo, fratello di Gesù, il quale, condotto davanti al Sinedrio con altri facinorosi con l’accusa di aver trasgredito la legge, fu condannato alla lapidazione. Il testo flaviano recita: καὶ παραγαγὼν εἰς αὐτὸ τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ Ἰάκωβος ὄνομ’αὐτῷ καί τινας ἑτέρους.

Tr. di Gelenio: Statumque coram eo fratrem Iesu Christi Iacobum nomine, et una quosdam alios. Tr. it.: «Introdusse davanti ad esso Giacomo, fratello di Gesù, detto Cristo e con lui taluni altri […]».

Secondo Feldman il passo è universalmente ritenuto autentico.(268) Tuttavia, gli elementi che lo rendono sospetto sono sostanzialmente due: 1) la costruzione grammaticale appare contorta,(269) poiché se Ἰάκωβος ὄνομ’αὐτῷ si configura come una parentetica, ci si sarebbe atteso l’accusativo Ἰάκωβον prima di τὸν ἀδελφὸν (il fratello). Il che sul piano meramente formale fa pensare ad una manomissione; 2) A ciò si aggiungono talune discrepanze concettuali e dissonanze stilistiche che non sembrano compatibili con l’ideolo(265) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 89. (266)  Ivi, xviii, 35. (267)  Ivi, xx, 200-201. (268)  L. H. Feldman, voce Josephus, in D. N. Freedman (ed.), Anchor Bible Dictionary, cit., vol. iii, pp. 981-998. (269) Nelle Antiquitates tale costruzione è rarissima.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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gia e con la metodologia storica di Giuseppe. In primo luogo è dubbio che Giuseppe da ebreo abbia potuto identificare un personaggio in rapporto al fratello e non al padre: egli avrebbe certamente detto «Giacomo, figlio di […]». È altresì poco credibile che un ebreo abbia potuto usare la formula τοῦ λεγομένου Χριστοῦ (del cosiddetto Cristo), come se Cristo (ovvero l’unto, il messia che in ebraico indica il re)(270) fosse una sorta di soprannome, come δίκαιος (il giusto) lo era per Giacomo. È interessante notare che la costruzione dell’inciso Ἰάκωβος ὄνομ’αὐτῷ ricorre in Eusebio (cfr. Ἀριστόβουλος ὄνομα ἦν αὐτῷ).(271) È escluso che il copista del manoscritto originario abbia introdotto nel testo una glossa marginale come τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ (il fratello di Gesù, cosiddetto Cristo), per il semplice fatto che essa avrebbe alterato gravemente il testo sotto il profilo grammaticale. Perciò è più ragionevole pensare ad una vera e propria manomissione di matrice cristiana. Verosimilmente il testo originale doveva suonare in questi termini: καὶ παραγαγὼν εἰς αὐτὸ Ἰάκωβοv τὸν τοῦ […] καί τινας ἑτέρους. E introdusse davanti ad esso Giacomo, figlio di […] e taluni altri […]

In alternativa, se Giuseppe non avesse avuto altre notizie su Giacomo, avrebbe detto, come suggerisce Doherty, ‘un certo Giacomo’ o ‘un tale di nome Giacomo’. In entrambi i casi (ipotesi mia e quella di Doherty) l’interpolazione sarebbe stata possibile con una lieve modifica del testo. È comunque strano che Giuseppe menzioni una seconda volta il Cristo (270) E. Doherty, The Jesus Puzzle, cit., e S. Mason, Joseph and the New Testament, cit., pp. 227-228, osservano che Giuseppe non dà mai una spiegazione del termine ‘Cristo’. R. E. van Voorst, Jesus Outside the New Testament, cit., pp. 83-84, ritiene che l’espressione «detto Cristo» sia autentica di Giuseppe, perché se fosse stata un’interpolazione di un cristiano, questi avrebbe usato un tono più rispettoso nei confronti di Giacomo e del Signore. J. McDowell - Bill Wilson, He Walked Among Us, cit., notano che Luca, pur utilizzando ampiamente Giuseppe, non usa l’espressione «chiamato Cristo» e perciò escludono che essa possa essere stata scritta da una mano cristiana. Inoltre, essi dicono, poiché il passo su Giacomo sarebbe incompleto senza il Testimonium, esso è anche una prova dell’autenticità di quest’ultimo; anzi − a loro avviso − il Testimonium si configurerebbe come una conferma della storicità di Cristo indipendente dal NT, costantemente presente in tutti i manoscritti [ciò che in realtà risulta essere falso], citato da Eusebio nel iv secolo e scritto con un vocabolario e in uno stile tipici di Giuseppe e in contrasto con il NT per il fatto che assegna a Pilato la responsabilità della condanna. (271)  Eusebio, HE, i, 6:

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senza riallacciarsi alla citazione precedente. Quando parla di Giuda il Galileo ripete costantemente la sua partecipazione alla rivolta del 6-7 d.C. Giustamente Carr(272) ha fatto notare che il lettore del tempo non disponeva di indici che gli consentissero di rintracciare altre citazioni del testo; perciò Giuseppe ricorreva a richiami espliciti in modo da evitare che il lettore confondesse i personaggi. Ma questa metodologia non è stranamente utilizzata nel passo relativo a Giacomo. In realtà la relazione tra le due citazioni di Cristo è ancor più problematica. Due sono le possibili ipotesi: o la seconda citazione si incrocia con la prima o no. Se la seconda citazione è autonoma, ci si dovrebbe attendere che Giuseppe ai fini di una più puntuale individuazione del personaggio e dei fatti esposti dicesse qualcosa di più su Gesù, fratello di Giacomo. Se d’altra parte la seconda s’incrocia con la prima, Giuseppe avrebbe dovuto esplicitare il collegamento. Ma non è ciò che egli fa perché la locuzione ‘detto Cristo’ è in contrasto con il Testimonium ove si dice che il Cristo è Gesù. La difficoltà di gettare un ponte tra i due passi può essere dovuta al fatto che entrambi furono interpolati. Doherty(273) osserva che il nome Giacomo era ampiamente diffuso nel primo secolo. Perciò non si può escludere che Giuseppe abbia accennato ad uno dei tanti personaggi del tempo, che un anonimo cristiano identificò con Giacomo il Giusto: «Josephus may have said something else which Christians subsequently changed» (Giuseppe potrebbe aver detto qualcos’altro che i cristiani successivamente hanno modificato). Il sintagma τοῦ λεγομένου Χριστοῦ non è – secondo Meier(274) – di mano cristiana per il semplice fatto che non è quello che avrebbe usato un cristiano, il quale avrebbe detto «Giacomo, fratello del Signore», come troviamo in Paolo (Gal, i, 19; 1Cor, ix, 5). È sì vero che esso è presente in Matteo e in Giovanni (Mt, xxvii, 17, 22; Gv, iv, 25), ma in entrambi i casi non è attribuito a personaggi cristiani. In Matteo è pronunciato da Pilato che peraltro lo sostituisce a «re dei Giudei» usato da Marco (xv, 9, 12); in Giovanni è pronunciato in tono ironico dalla samaritana. Tuttavia nella genealogia del primo vangelo è lo stesso autore del testo che ne fa uso (Mt, i, 16). In ogni caso non si può escludere che l’anonimo interpolatore possa averlo attribuito a Giuseppe, proprio in quanto storico estraneo al cristianesimo. Poiché la morte di Giacomo ebbe luogo sotto il governatorato di Albino, (272) S. Carr, citato nel sito internet Gesù non è mai esistito. (273) E. Doherty, The Jesus Puzzle, cit., p. 216. (274)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, pp. 60-61.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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la sua datazione deve essere collocata tra il 62 e il 63 d.C. Per quanto ne facciano un capo carismatico, né gli Atti né le epistole paoline alludono mai alla sua tragica fine. Le Antiquitates menzionano un altro Giacomo con il fratello Simone, figli di Giuda il Galileo. La loro morte per crocifissione fu decisa da Tiberio Alessandro nel 48 d.C. In questo caso Giuseppe ha bisogno di puntualizzare che si tratta appunto del figlio di Giuda il Galileo, già precedentemente citato, come capostipite di una dinastia di zeloti e come capo della rivolta del 6-7 d.C.);(275) dei suoi figli Giacomo e Simone Giuseppe ricorda la partecipazione alla rivolta di Teuda nel 45-46 d.C. Se dunque Giuseppe si limitò ad indicare semplicemente l’appartenenza parentale di Giacomo, figlio di […], senza aggiungere ulteriori dettagli su di lui, sebbene ne parlasse in un contesto in cui il centro del discorso verteva su Anano il Giovane, è segno che lo considerava un personaggio noto che godeva di alto prestigio. E tale doveva essere certamente Giacomo se è vero che per salvargli la vita le «persone più equanimi della città» inviarono legati al re Agrippa e al procuratore Albino, ottenendo da quest’ultimo un intervento minatorio nei confronti di Anano. Ma proprio qui si cela l’inghippo maggiore. Com’è possibile che Giacomo, fratello del Cristo, di umili origini, proveniente da un villaggio pressoché sconosciuto della Galilea e per giunta di fede cristiana, così invisa ai sinedriti e agli uomini più in vista nella città di Gerusalemme, sia da identificare con una personalità di alto rango? È evidente che qualcuno ha manipolato le carte ed oggi ignoriamo chi fosse il vero Giacomo citato da Giuseppe, dal momento che la manipolazione del testo ce ne ha occultato per sempre l’identità.(276) Per giustificare l’autenticità del passo si è osservato che Giuseppe non sempre presenta i personaggi con l’indicazione del padre. Infatti, quando introduce Antonio Felice, come governatore della Giudea, lo dice «fratello di Pallante».(277) Nella fattispecie Felice è citato per la prima volta e Giuseppe non avverte il bisogno di aggiungere su di lui ulteriori dettagli. L’obiezione in realtà non è molto sensata, perché quasi mai Giuseppe introduce per(275) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 4, 9, 23; xx, 102. (276)  Va tenuto presente che Giuseppe cita nelle sue opere altre quattro persone di nome Giacomo: il figlio di Giuda di Gamala detto il Galileo, crocifisso per ordine di Tiberio Alessandro nel 48 d.C. (Ant., xx, 102); Giacomo figlio di Sosas (BJ, vi, 148), un altro Giacomo (Bíos, 18), che era la sua guardia del corpo e che lo salvò dagli emissari di Giovanni, figlio di Levi, i quali in Tiberiade tentarono di ucciderlo, ed infine Giacomo, settimo figlio di Eleazar e di Solomona, sacrificato per decisione di Antioco (De Maccabaeis). (277) Giuseppe Flavio, BJ, ii, 247; Ant. xx, 137.

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sonalità romane allo stesso modo in cui introduce quelle ebraiche. In genere i nomi romani sono accompagnati dalla loro funzione politico-amministrativa, come prefetto, console, governatore, legato ecc. Così accade per Cassio Longino, Cuspio Fado, Vitellio, Cumano, Coponio, Quirinio, Marco Ambivolo, Rufo e Grato, Pilato, Porcio Festo, Albino, Gessio Floro,(278) ecc. Unica eccezione è Tiberio Alessandro, presentato come «figlio di quell’Alessandro che era stato alabarca di Alessandria»;(279) ma in questo caso siamo di fronte ad un personaggio di razza ebraica, essendo egli figlio di Alessandro Lisimaco, fratello di Filone di Alessandria. Nel caso di Felice la puntualizzazione che ce lo dà come fratello di Pallante è dovuta alla chiara fama di quest’ultimo che era un liberto di Antonia, madre di Claudio, ed era assurto ad alte cariche amministrative fino a diventare amministratore del patrimonio dell’impero romano. Fu ricordato nell’immaginario collettivo come uomo di sproporzionata ricchezza; come tale ce ne parlano Giovenale e Svetonio.(280) Tacito ne mette in risalto la notevole influenza politica.(281) Si ritiene comunemente che il passo in esame sia citato da Origene tanto nel Commentario a Matteo(282) quanto nel Contra Celsum. In realtà la citazione origeniana non è affatto testuale e nell’insieme non sembra riferirsi al testo flaviano,(283) come a noi oggi è nota. Nel Commentario a Matteo Origene ricorda Giacomo per la reputazione e la rettitudine di cui godeva tanto che Giuseppe avrebbe affermato che la sua morte fu la causa della rovina del tempio. Più puntuale il Contra Celsum,(284) in cui Origene dice che Giuseppe, poiché non credeva che Gesù fosse il Cristo, riteneva che la causa della rovina del tempio di Gerusalemme fosse stata non la morte del Cristo, ma (278)  Ivi, xv, 406, 405; xx, 103; xviii, 2, 1, 31, 55; xx, 182, 197; xix, 366. (279)  Ivi, xx, 100. (280)  Giovenale, Sat., i, 106-109); Svetonio, Claud., xxviii; Vitell., ii. (281)  Tacito, Annales, xii, 1-2, 25, 53, 65; xiii, 2, 14; xiv, 65. (282)  Origene, Comm. in Matth., interprete Hieronymo, x, 17: «Flavius Joseph […] rationem reddere volens, quare talia perpessus fuerit popolus, ut templum etiam dirutum fuerit, dicat haec illis ira Dei contigisse, propter ea quae adversus Jacobum fratrem Jesu, qui Christus dicitur, perpetraverunt». Il testo greco relativo al passo di Cristo dice: Ἰάκωβοv τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ. Identico testo in Contra Celsum, I, 47: Ἰάκωβος…ἀδελφὸς Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ. Analoga la versione del Contra Ceslum, ii, 13: «Titus solo aequavit Jerusalem, ut Josepho videtur propter Jacobum Justum, qui vocabatur frater Iesu Christi» (il testo greco relativo a Giuseppe è sempre lo stesso: διὰ Ἰάκωβοv τὸν δίκαιον τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ). (283) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 198. (284)  Ivi, ii, 13.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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quella di Giacomo, uomo che si distingueva per la sua rettitudine. Tale connessione non trova riscontro nel testo di Giuseppe; mi pare perciò che bisogna convenire con Winter(285) che probabilmente Origene confuse Giuseppe con Egesippo. In ogni caso in tutti e tre i loci citati troviamo la medesima espressione «Giacomo, fratello di Gesù, detto il Cristo», che grosso modo coincide con l’interpolazione delle Antiquitates. Sulle citazioni origeniane si è arzigogolato non poco. Innanzi tutto si è rilevato – e ciò è corretto – che Origene ignorasse il Testimonium flavianum per il semplice fatto che la relativa interpolazione fu introdotta in epoca successiva. In secondo luogo si è preteso che egli abbia conosciuto un testo flaviano diverso dall’attuale, perché privo di ogni supporto oggettivo a quanto egli afferma a proposito della morte di Giacomo come causa della distruzione del tempio. Ciò ha indotto alcuni autori di matrice cristiana a supporre che il testo originario delle Antiquitates, o comunque una delle opere flaviane, contenesse un passo in cui il Cristo ne usciva con un giudizio negativo e in cui appariva più chiaro il rapporto tra la morte di Giacomo e la demolizione del tempio.(286) È la solita strategia giustificatrice, analoga a quella di chi postula l’esistenza di una Quelle riparatrice di tutti i nostri fraintendimenti. E l’assurdo è che si vuole che Giuseppe abbia potuto scrivere ciò che egli da ebreo filo-fariseo e di origini asmonee non avrebbe mai potuto dire. Lo prova il fatto che reputa ambiguo il profetismo messianico e perciò non avrebbe mai potuto collegare la tragica fine del tempio né con la morte di Giacomo, né con quella di Gesù, ma molto più realisticamente la collegò con la politica scellerata e devastante della corrente zelotica. Chi cerca altro in Giuseppe cerca la luna nel pozzo. Ma allora come spiegare le citazioni origeniane? Si tratta di spiegarle per quello che sono: non come citazioni dirette, ma come interpretazioni dei testi flaviani. Origene registra il fatto che Giuseppe tacque intorno al Cristo ed interpretò questo silenzio come una dichiarazione di disconoscimento della sua figura messianica. Quando credette di poter identificare il Giacomo delle Antiquitates con Giacomo il Giusto, menzionato da Paolo come fra(285) P. Winter, Notes par. 17.3, Excursus ii: Josephus on Jesus and James, in E. Schürer, The History of the Jewish People in the Age of Jesus Christ (175 B.C. - AD. 135), A New English Version, revisited and edited by G. Vermes and F. Millar, London, Bloomsbury, 1973, vol. i, p. 430. (286)  Su queste posizioni si attesta anche R. H. Eisenman, Codice Gesù, cit., pp. 5874; Id., Giacomo il fratello di Gesù, cit., pp. 316-322.

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tello del Signore (Ἰάκωβον τὸν ἀδελφὸν τοῦ Κυρίου, Gal, i, 19), la cui morte è ricordata da Giuseppe nella immediatezza della distruzione del tempio, si sorprese di non trovarvi al suo posto il ricordo della morte del Cristo e pensò che Giacomo il Giusto avesse guadagnato una grande reputazione per la sua rettitudine e che proprio per questo Giuseppe ne avesse fatto menzione. Sono interpretazioni; giuste o sbagliate, lo giudichi chi vuole; ma non sono niente di più. Eusebio è il genio risolutivo dell’inghippo lasciato in eredità da Origene. In lui l’interpretazione origeniana, che lascia un’eco in Girolamo,(287) diventa citazione testuale. Ma il vero colpo di genio è il raccordo tra la distruzione di Gerusalemme e la morte di Cristo attraverso il martirio di Giacomo. Così Eusebio inventa ciò che nel iv secolo non poteva che ignorare: lo svolgersi dei fatti in occasione del martirio di Giacomo, la cui condanna fu opera non dei Sinedriti, ma direttamente del popolo giudaico, che, non avendo ottenuto successo contro Paolo, si scagliò contro Giacomo, chiedendogli di rinnegare la fede in Cristo. Ma Giacomo riconfermò che il Cristo era il Salvatore e il figlio di Dio. Sicché la folla, che pure lo reputava un uomo giusto, lo uccise. Per avvalorare la sua tesi Eusebio ricorre a Clemente e ad Egesippo, di cui riporta un lungo e risibile brano, in cui la leggenda e l’immaginazione si sostituiscono alla storia. Giacomo, che come Cristo sarebbe stato «santo già nel ventre materno», aveva paradossalmente accesso al Sancta Sanctorum, pur non essendo sommo sacerdote; aveva le ginocchia incallite come i cammelli ed era soprannominato il Giusto e Oblias,(288) che in greco significa ‘fortezza del popolo e giustizia’. Da Egesippo(289) dipenderebbe la storiella dell’interrogatorio di Giacomo e della sua ostinata difesa della divinità del Cristo. Per quanto il messaggio della divinità del Cristo incontrasse difficoltà di ogni sorta per essere accettato, le parole di Giacomo fecero il (287)  Girolamo, De viris illustribus, i, ii. (288) Cfr Eusebio, HE, ii, 23, 7. (289)  Egesippo (che secondo la tradizione sarebbe vissuto nel ii secolo tra il 110 e il 180) è forse storico fittizio. Delle sue opere (Le memorie) non si conservano se non le poche citazioni lasciateci da Eusebio, che è tra l’altro l’unico padre della Chiesa che sembra averne conoscenza. Di tale parere sono M. Baigent- R. Leigh, I misteri del mar morto, cit., p. 198. Sotto il nome Josippon (che corrisponderebbe ad Egesippo) circolò nel iv secolo un rifacimento di mano cristiana delle Antiquitates di Flavio. Chiunque sia tale fantomatico Egesippo, egli è comunque autore fabuloso, che supplisce nei suoi scritti a gran parte delle lacune della storia ecclesiastica. Il carattere fabuloso della sua narrazione fu forse la causa per cui la sua opera passò ben presto sotto silenzio.

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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miracolo. «Quanti credettero lo fecero grazie a Giacomo». Poiché molti dei capi credettero, gli ingenui giudei, farisei e sadducei, si rivolsero a Giacomo affinché i neoproseliti tornassero sui loro passi. Lo invitarono a mettersi sul pinnacolo del tempio per arringare la folla riunita in occasione della celebrazione della pasqua. L’ingenuo Giacomo, saggio ma sprovveduto, ci cascò, si lasciò trascinare sul pinnacolo del tempio e gli scribi e i farisei, dopo vari tentativi di indurre il popolo a ravvedersi sulla natura del Cristo, lo scaraventarono giù e lo lapidarono. Un comune mortale sarebbe deceduto sul colpo, ma Giacomo ebbe il tempo e la forza di imitare il messia e, inginocchiatosi, a dispetto della caduta e della lapidazione, esclamò: «Signore perdona loro perché non sanno quello che fanno». Mentre la lapidazione continua sembra che il Giusto pregasse per i suoi assassini; allora un sobillatore, preso il legno con il quale batteva gli abiti, colpì alla testa il Giusto. E questa volta fu veramente la fine. Subito dopo – aggiunge Egesippo – Vespasiano assediò Gerusalemme. La risibilità e la stranezza del racconto egesippiano non meritano commenti. Per di più il dato cronologico aggiunto in conclusione è sconcertante: l’assedio a Gerusalemme fu posto non da Vespasiano, ma da Tito nel 70 d.C.(290) Se ne deduce che il Giacomo mandato alla lapidazione dovrebbe essere morto nel 69 d.C., ma dalle Antiquitates risulta che la sentenza del Giacomo, condannato da Anano, fu eseguita nel 62-63 d.C. È evidente che lo storico Egesippo, che funge da fonte di Eusebio, sa ben poco sulle vicende svoltesi nel i secolo che dovrebbero essere a lui prossime. In realtà a confondere tutto non è il povero Egesippo, che, come forse fa intuire il suo stesso nome Josippon, altri non è che un tardo epitomatore delle Antiquitates di Giuseppe, arricchite peraltro con particolari e narrazioni assai fantasiose, ma è soprattutto Eusebio che confonde date in più di un’occasione. Infine conclude con il riconoscimento che la fama e la reputazione di Giacomo avessero indotto «i più assennati tra i Giudei» a considerare la sua morte causa della distruzione del tempio.(291) Ed a conferma trae due citazioni da Giuseppe: la prima del tutto falsa, la seconda manipolata. La prima è la seguente: Giuseppe con sicurezza conferma questo pensiero nella sua opera, dicendo: ‘Queste sciagure si riversarono sui Giudei come punizione della loro efferatezza nei riguardi di Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, detto il Cristo, che essi uccisero, sebbe(290) Cfr. Tacito, Historiae, v, 1-2. (291)  Eusebio, HE, ii, 23, 19.

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ne fosse l’uomo più giusto’ (ταῦτα δὲ συμβέβηκεν Ἰουδαίοις κατ’ἐκδίκησιν Ἰακώβου τοῦ δικαίου ὃς ἦν ἀδελφὸς Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ ἐπειδήπερ δικαιότατον αὐτὸν ὄντα οἱ Ἰουδαῖοι ἀπέκτειναν).

Come si vede si tratta dell’interpretazione di Origene tradotta sotto forma di citazione. Se accolta da qualche amanuense essa si sarebbe trasformata in un’interpolazione del testo. Ma l’operazione non riuscì e rimase senza esiti concreti, perché il passo era difficilmente collocabile nel contesto delle Antiquitates. La seconda citazione è effettivamente tratta, pur con qualche taglio, dalle Antiquitates (xx, 197-203). Ciò che è interessante è che proprio in questa seconda citazione Eusebio suggerisce la versione relativa a Giacomo, fratello di Gesù, riproducendo ancora una volta l’interpretazione origeniana:

καὶ παραγαγὼν εἰς αὐτὸ τὸν ἀδελφὸν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ Ἰάκωβος ὄνομ’αὐτῷ καί τινας ἑτέρους («e introdusse davanti a lui un uomo di nome

Giacomo, fratello del cosiddetto Cristo e taluni altri»). A differenza della prima questa seconda operazione ebbe successo perché il testo, manipolato sulla scorta di Origene, diventò parte integrante delle Antiquitates. Bisogna, infatti, tener conto che i più antichi manoscritti delle Antiquitates non sono anteriori al decimo secolo. E le autorità cristiane, dacché il cristianesimo divenne nel v secolo religione di Stato, ebbero tutto il potere per far sparire la versione originale del testo flaviano per far prevalere quella più vicina all’ideologia cristiana. In merito alla identificazione di Giacomo una ipotesi suggestiva è stata avanzata da Eisenman, il quale scrive: Capo della Chiesa primitiva o assemblea di Gerusalemme dal 40 al 60, Giacomo trovò la morte per mano dell’establishment ostile prima degli avvenimenti che culminarono con la rivolta antiromana […] L’essere capo o vescovo della Ecclesia, la Chiesa di Gerusalemme, voleva dire essere il leader dell’universo cristiano del tempo […]. Ci sono notevoli parallelismi tra la comunità guidata da Giacomo e quella di cui si parla nei Rotoli del mar Morto, parallelismi che appaiono particolarmente evidenti se si accosta Giacomo al Maestro di Giustizia o Maestro Giusto […]. Anche senza insistere su qualsiasi parallelismo e persino sull’identificazione con il Maestro di Giustizia di cui parlano i Rotoli, apparirà chiaro che il movimento guidato da Giacomo […] fu qualcosa di assai diverso dal cristianesimo così

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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come siamo abituati a considerarlo […]; una delle tesi centrali di questo libro è l’identificazione di Giacomo nel fulcro del movimento di opposizione che a Gerusalemme portò alla sollevazione antiromana del 66-70 d.C.(292)

Più avanti il medesimo studioso aggiunge: Il Giacomo storico è un fanatico della Legge, xenofobo, ostile a qualsiasi contatto con i forestieri […] e decisamente apocalittico […]. L’ascesa di Giacomo a leader della Chiesa primitiva […] si rivelerà l’evento che si cela dietro l’elezione del dodicesimo apostolo, in sostituzione di Giuda Iscariota. Quanto al movimento associato a Giacomo e al suo insegnamento, viene normalmente indicato come Chiesa di Gerusalemme […] ma esiste anche la designazione ‘cristianesimo palestinese’ […] e persino ‘cristianesimo giudaico’.(293)

Il punto debole della tesi di Eisenman sta nello spazio limitato di tempo tra il 30/33, presumibile anno della morte di Cristo, e gli anni 40/60, in cui Giacomo avrebbe esercitato il suo primato su Gerusalemme. Soprattutto eccessivo sembra quell’accenno al «leader dell’universo cristiano del tempo», che fa pensare ad una grande espansione della comunità gerosolimitana, inspiegabile in un così ristretto lasso di tempo. Per di più Eisenman sembra oscillare tra una leadership giudeo-cristiana, essena o zelota, con qualche scivolone circa la probabile identificazione con il Maestro di Giustizia, venerato dalle comunità essene. Per quanto si possa dare una datazione bassa della morte del Maestro di giustizia, non credo che si possa oltrepassare la soglia del secondo secolo a.C. E questo dato evidentemente esclude ipso facto ogni sua eventuale identificazione con Cristo. Tuttavia Eisenman risolve tutte le sue incertezze, riconoscendo in Giacomo il capo di una comunità cristiano-palestinese o meglio di una comunità giudeo-cristiana. E tale sarebbe il suo orientamento ideologico per il fatto che Giacomo sarebbe stato oltre che xenofobo e apocalittico, fanatico della Legge. È però difficile accettare che tale fanatismo potesse conciliarsi con la sua eventuale fede cristiana. D’altra parte non deve sfuggire che secondo la versione flaviana la sua condanna fu conseguente all’accusa di aver trasgredito la Legge. Se le eventuali comunità cristiane di Gerusalemme furono caratterizzate da una qualche osservan(292) R. Eisenman, Giacomo il fratello di Gesù, cit., pp. 10-11. (293)  Ivi, pp. 24-31.

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za della Legge, è difficile credere che siano entrate in rotta di collisione con il potere politico-religioso locale come trasgressori. È più facile supporre che la comunità di cui parla Giuseppe fosse di matrice essena e che il Giacomo che la dirigeva fosse emerso come un nuovo maestro di giustizia o maestro giusto, così da meritare l’appellativo di ‘il giusto’. La sua condanna da parte dell’establishment palestinese fu probabilmente dovuta al fatto che il movimento esseno metteva sempre più radici e si espandeva a vista d’occhio. Preso dal timore di un possibile sconvolgimento politico, il potere decise di chiudere la partita e di infliggere una battuta d’arresto al proselitismo esseno, colpendo la figura del leader più in vista e più prestigioso. Giuseppe sembra conservare un’antica simpatia per quel movimento e ricorda che «le persone più equanimi della città» reagirono ed inviarono suppliche ad Albino per mettere fine all’abuso di potere di Anano. È più ragionevole pensare che si trattasse di un leader esseno più che cristiano, perché l’essenismo, a differenza del cristianesimo, aveva avuto il tempo di incrementare le proprie fila. È sufficiente escludere dal testo flaviano l’inciso «fratello di Gesù, il cosiddetto Cristo», per ricostruire, pur con una irrecuperabile mutilazione, la lectio originaria nella seguente forma: «portarono davanti a lui [ad Anano] Giacomo figlio di […] e taluni altri».(294) Questa ipotesi è compatibile con il contesto storico e con i dati che emergono dalle fonti letterarie del primo/secondo secolo. Le prime comunità cristiane si svilupparono soprattutto dopo il 70, ma per alcuni decenni non ebbero ancora grande visibilità, erano per lo più marginali, influenzate da predicatori itineranti di diverso orientamento e di diversa provenienza il cui unico punto comune era dato dalla speranza della salvezza mediata da un messia, profeta di un dio che muore e risorge. Ma non c’era ancora una definita cristologia, perché non c’era ancora una letteratura apostolica. Ciò spiega da una parte il silenzio delle fonti del primo secolo su Cristo e sui cristiani e dall’altra la progressiva crisi e l’estinzione dell’essenismo tra la prima e la seconda rivolta giudaica. Il cristianesimo ne prese il posto e ne ereditò la funzione storica. Nella memoria dei primi cristiani quel Giacomo conservò il proprio prestigio e fu assorbito all’interno della mitologia cristiana, ma fu relegato in una sorta di limbo, in cui non era né carne né pesce, perché se da una parte conservava il prestigio di essere «fratello del Signore» (Ἰάκωβον τὸν ἀδελφὸν τοῦ κυρίου), (294)  Non è improbabile che Giuseppe abbia indicato Giacomo come figlio di Teuda, il rivoltoso del 45-46, generando così un equivoco che persistette nelle due Apocalissi che gli vengono attribuite nei manoscritti di Nag Hammadi.

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secondo la formula paolina, dall’altra era il Giacomo minore,(295) così denominato per non appartenere alla élite apostolica. È comunque discutibile la tesi di Brandon(296) per il quale Giacomo apparteneva al clero maggiore e fu perciò vittima dei contrasti interni ai due rami del sacerdozio. Certamente le funzioni religiose di più alto rango erano appannaggio dell’aristocrazia sacerdotale rappresentata dai Sadducei ed è indubbio che per secoli si è protratto l’insanabile conflitto tra l’alto e il basso clero addetto per lo più a funzioni di servizio nelle cerimonie liturgiche, ma il Giacomo di cui parlano le lettere paoline non può essere relegato ad ruolo sacerdotale secondario se gli era riconosciuto il crisma di capo della setta cristiana. 1.26.  Giovanni Battista nelle Antiquitates di Giuseppe Flavio Il terzo passo delle Antiquitates che si suole addurre a conferma delle narrazioni evangeliche si riferisce a Giovanni il Battista.(297) Si tratta senza alcun dubbio di un passo autentico. Il problema è che esso non ha nulla a che fare né con il Cristo, né con i cristiani. La descrizione che ce ne fa Giuseppe è assai più stringata di quella fornitaci dai tre sinottici. Se ne ricava l’impressione che per lo storico asmoneo Giovanni il Battista era un esseno o tutt’al più un nazireo o un asideo. Egli è descritto come un ‘uomo buono’, che esortava ad una vita corretta, alla pratica della giustizia e alla (295)  Gal, i, 19; Mc, xv, 40. Sono almeno tre, o forse più, le personalità che compaiono con il nome Giacomo nel NT. Due di essi sono apostoli, Giacomo Maggiore, figlio di Zebedeo (Mc, i, 19, 29; iii, 17; v, 37; ix, 2; x, 35, 41; xiii, 3; xiv, 33; Mt, iv, 21; x, 2; xvii, 1; Lc, v, 10; vi, 14; viii, 51; ix, 28, 54; At, i, 13; xii, 2), e Giacomo figlio di Alfeo (Mc, iii, 18; vi, 15; Mt, x, 3). Il terzo è il fratello del Signore, menzionato in Mc, vi, 3; xv, 40; xvi, 1; Mt, xiii, 55; xxvii, 56; Lc, xxiv, 10; At, xii, 17; xv, 13; xxi, 18; 1Cor, xv, 7; Gal, i, 9; ii, 9, 12. Oscura è l’espressione «Giuda di Giacomo» (Ἰούδαν Ἰακώβου) che si rinviene in Lc, vi, 16. Potrebbe trattarsi dello stesso Giuda che, nella lettera pseudepigrafa pervenuta a suo nome, si dichara servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo (Ἰούδας Ἰησοῦ Χριστοῦ δοῦλος, ἀδελφὸς δὲ Ἰακώβου). Pseudepigrafa ed assai tarda è altresì la lettera pervenutaci a nome di Giacomo (Ἰάκωβος θεοῦ καὶ κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ δοῦλος), difficilmente identificabile con il fratello del Signore, il quale peraltro di rivolge anacronisticamente «alle dodici tribù che vivono nella dispersione» (ταῖς δώδεκα φυλαῖς ταῖς ἐν τῇ διασπορᾷ), ma che in realtà erano da tempo scomparse. (296)  S. G. F. Brandon, The Trial of Jesus of Nazareth, London, Batsford, 1968 (tr. it. di Matilde Segre, Il processo a Gesù, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, pp. 103-104). (297) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 116-119.

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pietà verso Dio; la sua dottrina centrale era fondata sul battesimo, ovvero sull’idea della purificazione del corpo come via per la purificazione dell’anima. Il suo messaggio andava diffondendosi con straordinario successo e perciò Erode, nel timore che conquistasse ancor più le masse, lo fece rinchiudere nel Macheronte e lo lasciò morire. L’ingiusta fine urtò la coscienza popolare così che ad alcuni giudei parve che la sconfitta di Erode Antipa da parte di Areta, re di Petra, fosse una punizione divina. Quali i punti di convergenza con la narrazione evangelica? Molto pochi per la verità, tranne il fatto che egli fosse un battezzatore di successo presso il popolo e che la sua opera si svolse nella Giudea. Nessun cenno al fatto che egli preparasse la via del Signore. Giovanni non è un semi-profeta o un profeta dimidiato che agisce in funzione di un profeta sopravveniente. Egli ha una sua propria dottrina; la sua azione è del tutto autonoma; il suo interesse è quello di richiamare Israele ai temi della giustizia, della pietà e della condotta irreprensibile. Giuseppe ignora la sua paternità, ma colloca cronologicamente la sua fine sotto l’impero di Tiberio, tra la morte di Erode Filippo e quella di Tiberio (tra il 34 e il 37 d.C.). Ben diversa la versione evangelica: Giovanni battezzava nelle acque del Giordano ed era per lo più un eremita, vissuto nel deserto, ricoperto di pelli di cammello; si nutriva di locuste e di miele selvatico. Gesù stesso fu da lui battezzato nel fiume Giordano: i cieli si aprirono e una colomba scese su di lui (Marco costruisce lo scenario sulla base di Isaia, xl,3: «Voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore»). Matteo di suo aggiunge che Giovanni svolgeva un’azione antifarisaica, in modo da rendere più tangibile il suo ruolo di anticipazione del Cristo, che sarebbe venuto a battezzare non nell’acqua, ma nello Spirito Santo e nel fuoco. Il profeta dimezzato, che predica la vita santa e pacificata, preannunzia secondo Matteo il profeta serafico che predica la fine dei tempi. La narrazione diventa più articolata in Luca, secondo lo strano schema per cui chi viene dopo ne sa di più di chi è più vicino agli avvenimenti. Così veniamo a sapere che Giovanni era figlio di un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, e che la madre Elisabetta, che discendeva dalle figlie di Aronne, pur essendo sterile e troppo avanti negli anni, era destinata a generarlo secondo l’annunciazione dell’angelo Gabriele. Lo scenario immaginato da Luca (ma in realtà da un suo interpolatore) è quanto mai ricco di dettagli che fanno non poco sorridere il lettore attento. L’angelo Gabriele viaggia dalla Giudea alla Galilea per annunciare nascite miracolose. Non si sa come

III.1  Storicità di Cristo: Le fonti extracristiane del I e II secolo 

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potessero conoscersi Maria ed Elisabetta che abitavano territori così lontani ed avevano un legame di parentela che era ancor più oscuro che labile (l’una discendeva dalle figlie di Aronne, l’altra era sposata con un discendente della dinastia di David). L’evidente intento dell’interpolatore lucano è quello di collegare le due figure di Giovanni e del Cristo rispettivamente alla classe sacerdotale e alla dinastia regale; quindi riduce lo spazio territoriale tra le due partorienti, facendo compiere a Maria, pur in attesa di un figlio, un estenuante viaggio dall’uno all’altro capo della Palestina. Ma l’operazione ha successo perché ha come inevitabile effetto quello di ricondurre la figura del Battista all’interno della mitologia cristiana.

capitolo ii

L’AMBIENTE STORICO-GEOGRAFICO DEL CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI

2.1.  La metamorfosi del messianismo e dello yhawismo L’esplorazione della letteratura qumranica e di quella apocrifa veterotestamentaria, passando attraverso testi protocristiani, come la Lettera agli ebrei, l’Apocalisse di Giovanni e forse anche la Didachè e l’Epistola di Barnaba, ci permette di far luce sul percorso evolutivo delle prime comunità cristiane e di intuire quale possa essere stata l’origine della produzione evangelica e di quella epistolografica nel corso della prima metà del secondo secolo. Per rendere più agevole l’ipotesi di lavoro, che svilupperò in questi ultimi capitoli, ne fisserò qui di seguito i punti fondamentali. a) Dall’essenismo-enochismo al cristianesimo. Da un’attenta analisi della letteratura qumranica, possiamo dire che, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), si generarono dal seno del movimento essenico almeno due costole: la prima, sulla scia del giudaismo, approdò al tardo giudaismo o più verosimilmente al rabbinismo; si sviluppò prevalentemente in Palestina e percorse la strada della purificazione e della santificazione che era fin da tempi remoti una delle più profonde aspirazioni dell’anima giudaica (si pensi al nazireato, all’hasidismo, ecc.). Ai tempi del Cristo essa si espresse nella purificazione battistica propagandata da Giovanni la quale finì con lo sfociare nel mandeismo. La seconda si sviluppò tra le comunità della diaspora, soprattutto tra gli ebrei che lasciarono la Palestina subito dopo le grandi tragedie del 70 e del 135. Esse concentrarono la loro riflessione sui temi della 749

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giustizia e del male, vissero nel terrore del peccato, si attesero la purificazione dallo sterminio dei peccatori e dalla salvezza dei giusti, sentirono come imminente la fine dei tempi ed ebbero accenti marcatamente apocalittici; tale fu la produzione enochica, dal Pentateuco di Enoc al Libro segreto di Enoc, intorno a cui si costituirono le comunità che si affiancarono nell’isolamento qumranico a quelle rimaste fedeli all’essenismo. L’una e l’altra costola, nella dispersione della diaspora, incrociarono la cultura ellenistica e ne subiscono l’influenza. Tra le testimonianze qumraniche vi sono tracce di un’altra setta d’origine giudaica, come quella degli zeloti; sappiamo da Giuseppe che a costoro si affiancarono gli esseni per fronteggiare il comune nemico romano nel decennio antecedente il 70. Ben presto però lo zelotismo finì con l’affogare nel sangue della rivolta di Bar Kokhba (132-135) e col condurre alla definitiva estinzione la dinastia di Giuda il Galileo. La conversione dell’essenismo-enochismo in cristianesimo primitivo si consumò nei centri della cultura ellenistica come Alessandria, Antiochia, Corinto, Efeso e Roma; il cristianesimo in altri termini nacque come trasformazione ellenistica dell’originario impianto dottrinale essenico-enochico. In questo processo è verosimile che abbiano esercitato un qualche influsso non secondario i culti misterici,(1) isiaci e mitraici, e, più in generale, quelle tipiche forme di sincretismo religioso, attestate soprattutto dalla iconografia delle catacombe, ove spesso, come nelle grotte vaticane, Gesù si confonde con Mitra ed è rappresentato come Sol invictus o come Orfeo o Zeus. Nella seconda metà del primo secolo il cristianesimo è sotto l’impulso di stimolazioni culturali diverse: l’organizzazione settaria è probabilmente di radici esseniche; l’attesa messianica, l’imminenza della fine dei tempi, la trasformazione del messia nazionale nel figlio di Dio sono tutte tematiche di derivazione enochica; l’immortalità dell’anima e l’universalismo sono di marca ellenistica; il mito del Dio che muore e risorge, la credenza nelle potenze demoniache e nel magismo, il ricorso alla taumaturgia e all’esorcismo sono tutti di provenienza misterica. Il passaggio dall’enochismo al cristianesimo è costellato da quel senso di smarrimento e di disperazione, che Daniele aveva magnificamente espresso nella formula dell’«abominio della desolazione» (βδέλυγμα των ερημώσεων, Dn, ix, 27). Se però il profeta ebbe come punto di riferimento la profanazio(1)  Sulla influenza dei culti misterici sul cristianesimo primitivo v. F. R. Zindler, Existió Jesus?, in F. R. Zindler - E. Doherty - S. Acharya, Existió Jesus de Nazareth? cit., pp. 22-25.

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ne del tempio da parte di Antioco IV Epifane nel 167 a.C., le prime comunità esseno-enochiche che si dispersero nelle aree siriana, anatolica ed egiziana, sperimentarono sulla loro pelle la distruzione del secondo tempio. Esse furono sconvolte da un’esperienza tragica: quella di assistere al crollo del loro mondo, della loro fede religiosa, della vana attesa del messia che avrebbe arginato la potenza dei Romani. La desolazione di Daniele torna pressoché negli stessi termini in Marco e Matteo (τὸ βδέλυγμα τῆς ἐρημώσεως).(2) Nei testi cristiani l’abominio assume una dimensione più universale; non è più soltanto il crollo di un mondo di valori, ma è qualcosa di più totale e totalizzante; è la percezione della imminente fine del mondo, accompagnata da toni apocalittici; è l’attesa di un imminente intervento divino che avrebbe cancellato tutte le ingiustizie del mondo terreno ed avrebbe instaurato un regno celeste e divino, in cui ciascuno sarebbe stato ricompensato secondo il proprio merito. (2)  Mc, xiii, 14; Mt, xxiv, 15. S. G. F. Brandon, Gesù e gli zeloti, cit, p. 236; Id., Il processo a Gesù, cit., pp. 82-87, sulla scorta della spuria Legatio ad Gaium, attribuita a Filone, ritiene che i due sinottici si riferiscano alla ventilata minaccia da parte di Gaio di introdurre nel tempio di Gerusalemme un’immagine dell’imperatore: «c’è ragione di credere – scrive Brandon – che il passo dell’abominio della desolazione sia stato tratto da un’apocalisse di origine zelota o cristiano-ebrea, riferentesi al tentativo dell’imperatore Gaio, nel 39-40 d.C., di far erigere la sua immagine nel tempio». In realtà non è ben chiaro a quale episodio alludono gli autori di Marco e Matteo. Escluso che abbiano avuto in mente la profanazione di Antioco IV, ormai troppo lontana nel tempo, si può supporre che pensassero: 1) all’episodio di Pilato che nel 19 d.C. tentò di introdurre nel tempio le insegne militari con i busti degli imperatori (versione di Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 55-59; BJ, ii, 169174) o gli scudi d’oro su cui erano incisi i nomi di Pilato e di Gaio (cfr. lettera di Agrippa a Gaio, Legatio, 290-306); Pilato ritirò le insegne e la vicenda non ebbe altro seguito; 2) all’episodio di Petronio che nell’ultimo scorcio del 40 cercò di introdurre nella città santa una colossale statua che rappresentava Gaio nelle vesti di Zeus. Anche questo incidente non ebbe gravi conseguenze perché fu scongiurato dalla improvvisa morte dell’imperatore il 24 gennaio del 41 (cfr. Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 257-309; BJ, ii, 184-203; Tacito, Ann., xii, 54; Hist., v, 9; cfr. Philo Alexandrinus, Omnia quae extant Opera, ex accurratissima Sigismundi Gelenii […] interpretatione, Francofurti, Apud Jeremiam Schrey et J. G. Conradi, 1700, p. 1034; E. M. Smallwood, Legatio ad Gaium, Edited with an Introduction, Translation and Commentary, Leiden, Brill, 1970); 3) alla violazione del tempio nel 70; 4) alla distruzione di Gerusalemme (135). La prima ipotesi è inaccettabile perché si riferirebbe ad un episodio precedente la predicazione del Cristo. Le ipotesi più verosimili sono le 2) e la 4) perché i due evangelisti fanno chiaramente riferimento all’abominio determinato dal fatto che qualche immagine «stava laddove non doveva stare». In entrambi i casi siamo comunque oltre la vita di Gesù. Anche la terza ipotesi risulterebbe fuori termine. Resta il fatto che la narrazione evengelica non può essere che tardiva.

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Ed è in questa prospettiva che avviene la grande metamorfosi delle coordinate religiose del cristianesimo. Già l’enochismo aveva avviato il processo di spiritualizzazione del messia. Le comunità cristiane lo portano a termine: il messia non è più il re-unto, liberatore del popolo ebraico dal dominio romano, ma è il sacerdote-salvatore, profeta, ritagliato sul modello di Mosè e di Giosuè, e figlio di Dio. Tutta la letteratura profetica è reinterpretata per dar corpo alla nuova figura del messia, secondo la logica per cui le profezie del passato preannunciano il presente. Ma ancora nella seconda metà del primo secolo il messia ha una personalità sfumata, è per lo più un concetto teologico, non ha ancora assunto una fisionomia storica, non ha un volto, non ha un nome. Prima della Lettera agli ebrei non compare il nome di Gesù; compare la sua funzione di salvatore, ma non ancora il nome. Il messianismo è assai antico, ma prima della Lettera agli Ebrei non si è ancora calato nella fisionomia di Gesù. Dapprima è un mito dai contorni generali, poi diventa il mito di Gesù, quando la stessa funzione di salvatore si traduce nel nome ebraico Yehōwōšua che significa appunto ‘salvatore’. Quando ciò accade il messia non è più il profeta del futuro che deve ancora venire, ma è il profeta storico, in carne ed ossa, umano-divino, figlio, parola e sapienza di Dio. Contrariamente a quanto sostengono gli esegeti confessionali, non è Cristo che ha fondato il cristianesimo, ma al contrario le prime comunità cristiane hanno costruito il mito di Cristo.(3) Naturalmente nel messianismo cristiano si possono ravvisare sopravvivenze del messianismo giudaico soprattutto di quelle che sono le sue manifestazioni politico-nazionaliste più recenti come le rivolte degli zeloti galilei che facevano capo a Giuda di Gamala, associato a Saddok, e ai suoi figli Giacomo e Simone.(4) Gesù stesso è, secondo la tradizione, residente nella Galilea e due suoi fratelli hanno gli stessi nomi dei figli di Giuda. Ciò forse ci aiuta a capire la persistenza nei vangeli di lógia e di comportamenti del Cristo che hanno favorito la sua interpretazione come un seguace della resistenza giudaica. In altri termini il grande mito del messianismo è una sorta di contenitore che assorbe dentro di sé altri miti o residui di eventi storici che confluiscono in esso (3)  Questa posizione è analoga alla tesi di W. Wrede, The Origin of the New Testament, London, Harper and Brother, 1909, p. 9, per il quale «a christian society exited at least two decades before the first of the New Testament writings was written». Di contro mi pare non condivisibile la tesi wrediana (v. pp. 10-11), secondo cui le epistole paoline avrebbero preceduto la compilazione dei vangeli. (4)  Cfr. Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 4-10; BJ, ii, 118.

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senza provocarne un collasso interno sotto il profilo dottrinale. Tutto ciò è possibile perché gli stessi testi evangelici non sono narrazioni organiche, non hanno un vero e proprio filo logico, né storico; non sono in senso proprio delle biografie del Cristo, ma accolgono da più parti o da più comunità il bagaglio delle loro credenze e delle loro tradizioni e le affastellano secondo un ordine fittizio: dapprima il mito del Cristo taumaturgico, guaritore, esorcista, wonder-worker; poi gli insegnamenti per parabole con qualche istruzione relativa alle condizioni per la sequela; infine il mito del servo sofferente. Che tale figura abbia tratti contradditori e incompatibili, che vanno dall’assoluto dominio sulle forze e sulle leggi della natura all’assoluta impotenza davanti alla morte, non è cosa percepita dagli autori dei sinottici. L’altro nodo essenziale che costituisce l’ossatura del cristianesimo è la trasformazione del concetto di Dio. Ne fossero o meno consapevoli, le prime comunità cristiane e gli stessi primi scrittori cristiani provocarono la crisi dello yahwismo. Sul processo probabilmente incise la versione della Septuaginta che, com’è noto, non usa mai termini come Yhwh ed ĕlōhîm, ma li traduce sempre e sistematicamente con il greco Θεός (theós). Certamente i primi scrittori cristiani furono influenzati dalla Septuaginta, ma forse non si trattò solo di un fattore puramente linguistico; non è improbabile che la devastazione di Gerusalemme rendesse meno credibile l’antico mito del dio poliade, protettore della città santa. Anche se un processo di revisione era già stato avviato con la letteratura sapienziale e profetica, il Dio cristiano non è più lo stesso Yhwh della Genesi. Al Dio vendicatore e sterminatore, Dio degli eserciti e della inflessibile retribuzione, si oppone il Dio cristiano dell’amore e della conciliazione, anzi della fratellanza anche con il nemico. Nell’universo ellenistico, in cui si incrociavano le più disparate etnie e forme di religione, il Dio d’amore e padre universale era innanzi tutto un’esperienza vissuta, prima che un concetto teologico. Nei sinottici questo distacco dalla tradizione è icasticamente simboleggiato dal passaggio dal battesimo dell’acqua, praticato da Giovanni Battista, ultimo dei profeti antichi, al battesimo del fuoco introdotto da Cristo, profeta della nuova alleanza e della salvezza eterna. A corollario di tali grandi metamorfosi teologiche mutano anche le coordinate del patto tra Dio e l’uomo, che non ha più ad oggetto il possesso della terra e la moltiplicazione delle generazioni, ma la salvezza oltre la morte e la sostanza del ‘regno’, che non coincide più con il potere terreno degli arconti e dei dominatori, ma con il ‘regno di Dio’ o ‘regno dei cieli’, in cui Dio coabita con l’uomo.

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In quest’ottica possiamo dare una soluzione ad un dato sconcertante che ha accompagnato la scoperta dei rotoli del Mar Morto: tutta la letteratura qumranica, che si estende fino al 70 d.C., e nell’area della Murabba at fino alla rivolta di Bar Kochba, presenta ricchissime testimonianze sulle comunità esseniche ed enochiche, ma nessuna traccia, se non nella fervida fantasia di qualche esegeta confessionale, di quelle cristiane. Per converso nella primitiva letteratura cristiana ad essere del tutto ignorati sono l’essenismo e l’enochismo. L’unica spiegazione possibile di tale reciproca ignoranza è che le sette che le rappresentano siano le une in continuità con le altre. L’essenismo è fiorente dal secondo secolo a.C. fino agli anni Settanta del primo secolo d.C.; l’enochismo esplode con il Pentateuco e con il Libro segreto di Enoc ed è attivo fino a tutto il primo secolo d.C.; il cristianesimo mette le sue prime radici tra il 70 e il 135 d.C. In altri termini l’essenismo e l’enochismo sono il passato del cristianesimo e il cristianesimo ne è il futuro. È questa la ragione per cui essi non sembrano intersecarsi nel cammino della storia, perché sono tappe successive di uno stesso intricato percorso. Ce ne dà conferma il fatto che non tutto il materiale rinvenuto nelle grotte qumraniche è riconducibile ad una sola setta religiosa; vi sono forse tracce di presenze zelotiche, ma più cospicue sono quelle che fanno pensare ad una comunità enochica, staccatasi dal ramo essenico. Nell’enochismo si può già individuare la prima rudimentale forma di cristologia che è più avanzata rispetto alla figura essenica del maestro di giustizia, più distaccata dal messianismo giudaico e più prossima alla cristologia cristiana. Ed è lungo la traiettoria tracciata dall’enochismo che si passa dal messia come figura teologica per approdare a Gesù come messia storicizzato. In questo processo evolutivo c’è qualcosa che si conserva e qualcosa che muta. Si conserva la struttura organizzativa della comunità nella divisione in gruppi, nella vita collettiva, nelle prime forme di «comunità domestiche» (prevalenti nella diaspora), nell’ordinamento gerarchico dei presbiteri e degli episcopi, ma si conservano anche alcune acquisizioni teologico-culturali, come il mito della passione e morte, su cui si fonda il tema della salvezza, il mito del Cristo non più in chiave regalistico-giudaico-nazionalistica, ma nell’ottica dell’universalismo ellenistico e nel mito enochico del figlio di Dio. Dal «Cristo», come re unto, si passa al Cristo come sacerdote unto e a «Gesù» come salvatore e redentore. L’anello di congiunzione tra l’enochismo e il cristianesimo primitivo è dato da un lato dal Libro delle parabole e dal Libro segreto di Enoc e dall’altro dall’Apocalisse giovannea e dalla Lettera agli Ebrei. È assai verosimile che

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queste sette enochiche, forse nella diaspora, abbiano cominciato a definirsi cristiane per essere dotate di una propria cristologia (del Cristo figlio di Dio e soccorso divino per la salvezza degli uomini). Esse perciò assunsero in Antiochia di Siria la denominazione di cristiani, in quanto artefici della grande metamorfosi del mito messianico. Se l’apocalittica di Giovanni è sotto l’influsso dell’enochismo, la Lettera agli Ebrei attua invece il trasferimento della cristologia enochica, puramente teologico-letteraria, da Enoc al Cristo-Gesù, proiettato nella storia. Essa rappresenta in qualche modo l’anello di congiunzione che ci permette di assistere in vitro, o meglio in literis, al processo di mutazione genetica. Ma nella Lettera agli Ebrei il processo è ancora nella fase embrionale, perché il mito messianico è ancora sfumato e indefinito; ci sono tracce del messia apocalittico, c’è il mito del sacerdozio eterno secondo Melchizedek; ma ancora fino all’ultimo scorcio del i secolo non si è definita nettamente la figura di Gesù. Ed è questa la ragione per cui la produzione storica, filosofica, letteraria e religiosa del primo secolo è assolutamente priva di testimonianze dirette o indirette circa l’esistenza di un movimento cristiano propriamente detto. Troviamo sì tracce di numerosi fermenti afferenti alle religioni della salvezza, ampiamente diffuse in tutto l’orbe greco-romano, dall’Egitto alla Siria, all’Anatolia, alla Macedonia, alla Grecia, all’area romana, ma nulla che abbia un riferimento preciso e puntuale a Gesù e al cristianesimo. Ancora nella lettera di Plinio il Giovane i cristiani ci sono descritti come seguaci di un messia dai tratti indefiniti, senza alcun chiaro riferimento alla figura di Gesù. Sicché possiamo supporre che il cristianesimo sia sorto dapprima intorno alla figura teologica del Cristo e che solo successivamente il Cristo sia stato identificato con Gesù, in quanto salvatore. b) Enochismo e cristianesimo tra divergenze e affinità. In generale gli esegeti credenti mirano a valorizzare le divergenze più che le affinità tra le sette cristiane e quelle coeve. Accade così che essi accentuino la diversità tra la cena essenica e quella eucaristica, tra la figura del maestro di giustizia e il Cristo, tra l’ordine gerarchico delle comunità enochiche e quello delle comunità cristiane, tra le visioni e le parabole dell’enochismo e quelle cristiane, tra la concezione del figlio di Dio dell’una o dell’altra setta. Ciò accade perché il confronto è portato a livello di prodotti finiti. Questi infatti sono definitivi nella loro individualità e specificità sincronica, ma se sono analizzati nei loro processi diacronici, ci si accorge che tra gli e gli altri ci sono rapporti di filia-

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zione o comunque di reciproca suggestione. Sicché è verosimile che nell’arco del cinquantennio che va dal 70 al 120 d.C. le prime comunità cristiane, in assenza di una letteratura che ne definisse i contorni dottrinali e sotto l’influenza di un diffuso sincretismo religioso oscillasse tra posizioni teologiche non del tutto coerenti e compatibili. Probabilmente ciascuna si raffigurava il Cristo secondo parametri specifici. Senza un testo sacro di riferimento regnava l’anarchismo. È questa la fase che di solito associamo alle tradizioni orali. Si badi non di un’unica tradizione orale, ma di più canali di trasmissione, ciascuna costruttrice di mitologie, se non divergenti, certamente concorrenti. Ciò spiega le molteplici sfaccettature del Cristo che dalla tradizione orale passano nella letteratura evangelica, per la quale il Cristo è, nello stesso tempo, il figlio dell’uomo e il figlio di Dio, figlio adottivo e parola o sapienza di Dio, giudice universale e profeta sul modello mosaico o profeta apocalittico, politico e ribelle o rivoltoso antiromano, maestro di sapienza, sacerdote e predicatore, servo sofferente e Dio vincitore della morte e del peccato, ipostatizzato nell’Uno-Tutto del quarto vangelo. Gesù è in questo complesso intreccio sincretistico di tradizioni, giudaiche, ellenistiche, egizie, anatoliche ed infine romane, una figura indecifrabile ed è, come nell’icastica espressione pirandelliana, «uno, nessuno, centomila». È questo lo scoglio contro cui si scontrano gli esegeti moderni, che siano o meno credenti, agnostici o atei. Ciascuno ritaglia a proprio piacimento una fetta dei testi, privilegiando le pericopi più convenienti al proprio disegno ermeneutico; ciascuno costruisce su misura il proprio Cristo, predicatore sapienziale,(5) profeta mosaico o apocalittico,(6) ribelle o rivoluzionario,(7) taumaturgo, esorcista, wonder-worker, redentore di natura umana e divina, cinico itinerante(8) e così via. Ciascuno crede di avere ragioni a proprio vantaggio e trascura o mette in (5) M. Borg, Conflict, Holiness and Politics in the Teaching of Jesus, Toronto, Mellen, 1984, pp. 239-246. (6) A. Schweitzer, The Quest of the Historical Jesus, cit., pp. 222-268; cfr. anche C. Allison Dale - R. J. Miller, The Apocalyptic Jesus. A Debate, Santa Rosa, Polebridge Press, 2001; E. P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, cit. (7)  R. A. Horsley, Jesus and Spiral of Violence: Popular Jewish Resistance in Roman Palestine, San Francisco, Harper and Row, 1987, pp. 147-166; Id., Sociology and the Jesus Movement, New York, Crossroad, 1989, pp. 105-129; Id., The Liberation of Christmas: The Infancy Narrative in Social Context, New York, Crossroad 1989, pp. 125-172. (8) B. Mack, Mark and Christian Origins, A Myth of Innocence, Philadelphia, Fortress, 1988, pp. 390-392; J. D. Crossan, The Historical Jesus, cit., pp. 394-395; Id., Jesus: A Revolutionary Biography, cit., pp. 178-180 (tr. it. Gesù: una biografia rivoluzionaria, cit., pp. 210-212).

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ombra come secondari gli altri tratti della personalità del Cristo, che invece occupano larga parte dei testi evangelici. Ciascuno si chiude in una sorta di prigione ermeneutica da cui è difficile uscire. Non ci si rende conto che proprio questa molteplicità di tratti caratteriali è la prova più sicura della non storicità della figura del Cristo. c) La crisi del mondo ellenistico. Il cristianesimo è impensabile senza la cultura ellenistica, come è impensabile senza quella giudaica. Esso è in qualche modo il punto di confluenza di due civiltà in profonda crisi. Abbiamo già accennato alla crisi cui andò incontro il mondo giudaico tra le due rivolte del 70 e del 135. È ora il caso di accennare, sia pure per sommi capi, alla profonda crisi spirituale e religiosa del mondo ellenico, con cui entrarono in contatto le comunità della diaspora. Essa fu il risultato di una lenta evoluzione dell’ellenismo che, dopo la fine dell’età classica, con la conquista macedone della Grecia e la nascita dell’impero di Alessandro e subito dopo con la costituzione dei regni macedoni, fece perdere al cittadino greco la sua centralità nell’amministrazione della pólis. Il cittadino si trasformò in suddito, si ritirò a vita privata, perseguendo l’ideale del «vivi nascostamente» (láthe biōsas), e trovò nelle religioni della salvezza l’àncora cui aggrapparsi per dare un senso alla propria esistenza. Alla civiltà classica fondata sui valori della laicità, della razionalità e della partecipazione attiva e diretta alla vita politica si sostituì una civiltà più magmatica e meno lineare in cui finirono col prevalere l’irrazionalità e il misticismo. Si fecero sentire le pressioni culturali dell’Oriente, dalla Siria all’Anatolia; dall’Egitto affluirono forme di sincretismo religioso; si diffusero riti misterici e arti magiche che il razionalismo di Celso e di Porfirio non riuscì ad arginare. L’universo della κοινὴ διάλεκτος (koinē diálektos = lingua comune) è un mondo globalizzato, in cui si snaturano le identità nazionali e le tradizioni religiose. Viene meno la classica armonia greca tra l’individuo e la collettività, l’accento non è più posto sulla stabilità e sulla conservazione dello Stato, ma sulla salvezza dell’individuo. Si fa strada l’individualismo con tutti i suoi aspetti, positivi e negativi. Il suddito vive nella condizione della separatezza, si chiude in se stesso e dà a sé stesso un senso, respingendo la morte sia come destino individuale o come evento naturale ineludibile sia come destino comune del genere umano; all’universalismo classico si affianca, fino a prevalere, il tema della salvezza personale. Le divinità che diventano oggetto della venerazione popolare non sono più le luminose figure dell’Olimpo, ma

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sono divinità astrali o collegate con i ritmi e con i cicli produttivi della natura. Tutte si associano all’alternarsi delle stagioni, dell’aurora e del tramonto, che simbolizzano la morte e la resurrezione del dio. Perciò i culti che più prendono piede sono centrati sul tema del superamento della morte, sulla speranza escatologica e soteriologica della sopravvivenza dell’anima e della continuità della vita nel mondo ultraterreno. La morte e la resurrezione del dio diventano garanzia e promessa della morte e della resurrezione dell’uomo: salvarsi significa sconfiggere la morte, vivere la vita del dio. Non a caso uno dei miti enochico-cristiani è quello della Gerusalemme celeste in cui Dio abita con gli uomini. Naturalmente il ciclo della morte e della resurrezione si applica alla vita dell’anima. Nei culti misterici infatti il mista si identifica o si assimila al dio nelle forme più disparate: o attraverso l’imitazione del percorso tragico del dio o attraverso i riti orgiastici o attraverso forme di autopunizione o attraverso processioni mimetiche, in cui i fedeli si sottopongono a danze sfrenate o a mutilazioni ad imitazione della passione del dio. Di tale natura è la profonda e inestinguibile aspirazione cristiana al martirio, sia che essa sia il risultato di una narrazione fittizia (il che accade frequentemente negli Acta sanctorum), sia che si traduca nella reale provocazione delle autorità pubbliche costrette ad attenersi alla legislazione vigente per garantire la continuità del potere imperiale. I culti più diffusi sono quelli di Attis e Cibele, di Demetra e Persefone, del dio Mitra, di Apollonio di Tiana, i culti egizi di Iside e Osiride e quello di Dioniso Zagreus. In questo clima il sincretismo è d’obbligo ed incide anche sulle comunità più restie a lasciarsi contaminare, come quelle giudaiche e cristiane. Naturalmente ci sono sfumature diverse e spesso anche indiscutibilmente profonde tra il culto cristiano e i culti misterici, ma tutti sono accomunati da una comune aria di famiglia. Ed è proprio ciò che li rende reciprocamente concorrenti. Almeno fino al iii secolo il cristianesimo li contrastò e ne dovette subire la concorrenza, ma tra il terzo e il quarto secolo il processo di cristianizzazione dell’area greco-anatolico-siriana, nonché di quella romana ed egiziana, ne provocò l’inesorabile estinzione; molti luoghi di culti pagani furono demoliti e convertiti in santuari cristiani; molte religioni della salvezza subirono un colpo fatale. Ma spesso le loro pratiche rituali e i loro cerimoniali sopravvissero nella forma cultuale vincente. Ciò perché le forme religiose che oppongono maggiore resistenza al cambiamento sono proprio le pratiche rituali (i digiuni, i riti lustrali, le processioni, i manufatti dell’idolatria, le ierogamie o partecipazione alla vita del dio), le

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quali si innestano nelle abitudini consolidatesi degli strati popolari. Le nuove forme religiose possono riuscirne vittoriose solo nella misura in cui assimilano le abitudini più inveterate. d) La produzione letteraria dei vangeli. Dopo le prime timide esperienze letterarie della Lettera agli ebrei, dell’Apocalisse e della Epistola di Barnaba, si affermò la grande produzione letteraria dei vangeli. Essi rappresentarono un genere narrativo del tutto singolare, poiché si posero a metà strada tra il romanzo e la narrazione storica. Nessuno dei loro autori fu testimone oculare degli eventi; nessuno scrisse nella loro immediatezza, né poté utilizzare documenti d’archivio. La personalità del Cristo biografato era del tutto sconosciuta ai loro autori. Ma allora – ci si potrebbe chiedere – come procedettero nell’elaborazione del tessuto narrativo? Le ipotesi possibili sono poche: possiamo supporre che: 1) fecero ricorso alla tradizione orale; 2) cercarono di corrispondere alle istanze, agli interessi e alla curiosità delle loro comunità di appartenenza; 3) ciascuno degli evangelisti costruì il racconto sulla base della cristologia che si era personalmente fabbricata. Tutti e tre gli autori dei sinottici avevano però alle spalle un terreno comune, che, come abbiamo detto, aveva le sue radici nell’essenismo e nell’enochismo ed era dato dalle grandi metamorfosi che nella seconda metà del primo secolo stravolsero l’apparato teologico dell’AT. La loro teologia aveva i suoi saldi punti di riferimento in un nuovo concetto di messia, un nuovo concetto di Dio, una nuova idea di patto (diathēkē), una profonda trasformazione del concetto di regno e la saldatura dell’idea di salvezza con la fede nella resurrezione e con la concezione dell’immortalità dell’anima. Il nuovo genere letterario ebbe ampia fortuna dal ii al iv secolo, tant’è che in riferimento al medesimo arco temporale abbiamo notizie di decine di vangeli, dei quali alcuni non ci sono pervenuti, altri ci sono pervenuti in versioni diversificate. Alcuni sono più modesti sotto il profilo letterario e contenutistico, come la maggior parte degli apocrifi, altri sono degli autentici capolavori dell’arte della comunicazione, come i vangeli canonici e una manciata di apocrifi. Tutti debbono essere considerati dei prodotti redazionali, nel senso che prima di giungere alla forma definita a noi nota, hanno attraversato fasi di revisione e di transizione, di cui ci restano solo pochissime tracce nelle varianti registrate dai diversi manoscritti. Sulla loro definitiva redazione il nascente potere ecclesiale esercitò un duplice controllo o nella forma del silenzio o in quella della interpretazione veicolata. Il silenzio fu per lo più adottato nei confron-

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ti dei testi reputati apocrifi. È significativo che Eusebio consideri il silenzio come un indizio che milita in direzione della non autenticità di un testo. In realtà con l’affermarsi del cristianesimo come religione di Stato, il silenzio si trasformò in soppressione o tentativo di soppressione di tutta la produzione letteraria non in linea con le posizioni della Chiesa romana. Il controllo fu altresì esercitato con non minore efficacia attraverso l’interpretazione veicolata, che spesso costituì il presupposto per la manipolazione dei testi o con l’aggiunta di interpolazioni ad hoc o di interi capitoli (si pensi alla finale lunga di Marco o ai due primi capitoli di Matteo e di Luca) o con l’eliminazione di passi sospetti o non graditi. Fece il resto la pseudepigrafia, già ampiamente nota e praticata nella cultura ebraica, la quale diventò il canale per l’allestimento di opere dottrinali (dalle epistole paoline alle pastorali, alle cattoliche, alle clementine, alle ignaziane, ecc), spesso soggette a clamorosi abbagli circa la loro datazione. Dobbiamo pensare che si tratta di falsi? Certamente sì, se li valutiamo rispetto alla loro presunta paternità,(9) ma sono anche autentici se li esaminiamo sotto il profilo dei messaggi veicolati. In fondo ha poca importanza che un testo sia stato scritto da Paolo o da un autore ignoto che si cela sotto il suo nome, perché la qualità e la natura del suo messaggio resta in tutta la sua pregnanza. Ciò che muta è solo la prospettiva storica, perché il testo pseudonimo non appartiene più al tempo storico dell’autore presunto, bensì a quello del suo redattore finale. Il creatore della letteratura evangelica è giustamente considerato Marco, il primo dei tre sinottici, che indica la strada non solo ai due suoi successori, Matteo e Luca, ma anche alla vasta produzione degli apocrifi. Per lo storico è di prioritaria importanza stabilire la datazione del Vangelo di Marco, poiché essa dà luogo a difficoltà apparentemente insormontabili. Se infatti lo si fa risalire ai decenni immediatamente successivi alla crocifissione, non si ha modo di spiegare perché per le prime citazioni del testo bisognerà attendere l’Exēgēsis di Papia a quasi un secolo di distanza. Di contro se lo si data intorno al 110, si rischia, secondo gli esegeti, di non poterne spiegare la tardiva comparsa. Per di più in quest’ultima ipotesi ci si chiede: se l’autore non fu un discepolo di Cristo e se non ne ebbe una diretta conoscenza, da dove trasse il materiale per il suo vangelo? Una gran parte degli esegeti è convin(9)  Sulla produzione di falsi storici è utile consultare il saggio di B. D. Ehrman, Sotto falso nome Verità e menzogna nella letteratura cristiana antica, Roma, Carocci, 2013, il quale però salva l’autenticità dei vangeli e dell’epistolario paolino.

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ta che il testo sia stato redatto a Roma, ove si presume che esistesse una comunità cristiana fin dal primo secolo, la stessa a cui Paolo avrebbe indirizzato la sua lettera teologicamente più importante. E tuttavia questa certezza è smontata dalle ricerche archeologiche, dalle quali si evince sì la presenza di nuclei ebraici nella capitale dell’impero, ma di fede giudaica e non cristiana, come dimostra il complesso catacombale romano risalente al primo secolo. Le opinioni circa la datazione del vangelo marciano sono le più disparate. In generale dipendono dal collegamento della piccola apocalisse alla distruzione del tempio con la conseguente collocazione del vangelo prima o dopo il 70. Una datazione posteriore al 70 è accolta da McNeile e da M. Goguel,(10) il quale si avvale non della piccola apocalisse, ma della falsa accusa secondo cui il Cristo avrebbe minacciato di distruggere e ricostruire il tempio nell’arco di tre giorni (Mc, xiv, 58). Più drastica la posizione di Hermann Detering,(11) il quale ritiene che il vangelo marciano sia posteriore alla rivolta di Bar Kochba. Le datazioni anteriori al 70 sono più speciose perché sminuiscono il riferimento alla piccola apocalisse, ritenendola derivata da profezie veterotestamentarie e mettono in primo piano il clima persecutorio, riferendolo al periodo neroniano. Tale è la posizione di Mary Healy e Peter Williamson.(12) Per Michael Coogan(13) invece la permanenza del muro occidentale costituisce una smentita della presunta distruzione ‘pietra su pietra’ del tempio. Tentativi avventurosi di datazioni ancor più alte sono stati condotti da John Robinson, Marta Sordi, Willibald Bosen, Rudolph Pesch.(14) Secondo Robinson la compilazione di Marco dovrebbe aggirarsi intorno al 55 e non potrebbe andar oltre il periodo neroniano per il semplice fatto che non potrebbe essere successiva al 62, anno in cui termina la narrazione degli Atti. Ma (10)  A. H. McNeile, An Introduction to the Study of the New Testament, Oxford, University Press, 1927, Chap. ii, part 2: The Synoptic Gospels; M. Goguel, Introduction au Nouveau Testament, Paris, Ernest Leroux, 1925, pp. 373 e sqq. (11) H. Detering, The Synoptic Apocalypse (Mark 13 par): A Document from the Time of Bar Kokhba, «Journal of Higher Criticism», vii-2, 2000, pp. 161–210. (12) M. Healy - P. Williamson, The Gospel of Mark, Grand Rapids, Baker Academic, 2008, p. 20. (13)  M. D. Coogan, The Oxford Encyclopedia of the Books of the Bible, Oxford, University Press, 2011, p. 46. (14)  J. A. Th. Robinson, Redating the New Testament, Philadelpjhia, Westminster Press, 1976, p. 352; M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Milano, Jaka Book, 1984, p. 61; W. Bosen, L’ultimo giorno di Gesù di Nazareth, Rivoli, Elledici, 2007, p. 30; R. Pesch, Il vangelo di Marco, Brescia, Paideia, 1982, p. 597.

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si tratta di una posizione debole, poiché procede alla datazione di un documento non facilmente databile sulla scorta di un altro documento di ancor più incerta datazione, posto che tra i due testi sussista una qualsivoglia connessione logica. Per la Sordi Marco scrisse prima del 70 in quanto il suo testo risulterebbe noto al Satyricon di Petronio, scritto nel 64/65. In realtà, come si è già detto nel capitolo precedente, non c’è nessuna certezza che Petronio abbia voluto colpire con la sua sottile ironia la setta cristiana; nulla vieta che abbia avuto in mente un’altra delle tante sette religiose del primo secolo. Non manca chi, partendo dal presupposto che Marco sia stato discepolo di Pietro a Roma, secondo la testimonianza di Papia e di Ireneo, ritiene di poter stabilire, sulla scorta di Eusebio, che la predicazione petrina risalga ai primi anni di Claudio e che la data del vangelo sia prossima al 42. Bosen, spingendosi oltre, propone una datazione più alta e, rilevando che Marco non cita il nome del sommo sacerdote Caifa, è convinto che l’evangelista abbia scritto quando ancora il sacerdote era nell’esercizio delle sue funzioni (cioè prima del 37). Analogamente Pesch presume che la narrazione dell’arresto e del processo del Cristo derivi da una fonte premarciana, risalente agli anni immediatamente successivi alla crocifissione. Ma si tratta di ipotesi del tutto campate in aria, fondate più sulla fede che sulla ragione. Il capitolo relativo al processo e all’interrogatorio di Cristo davanti al Sinedrio (Mc, xiv, 53-65) è vago quanto tutto il resto del vangelo marciano; non c’è modo di collocarlo in un definito arco di tempo storico e soprattutto è generico non solo in ordine alla identità del sommo sacerdote, ma anche agli anziani, ai cosiddetti ‘grandi sacerdoti’ e agli scribi. La genericità con cui Marco accenna all’interrogatorio dimostra che egli non ha una conoscenza diretta degli avvenimenti; non cita il nome del sommo sacerdote, perché di fatto non lo conosce. Anzi a voler essere più rigorosi, proprio la mancanza di puntuali indicazioni storiche sta a significare che egli scrive a notevole distanza spazio-temporale dall’evento narrato e non ha la possibilità di risalire alla identità delle persone che ne sarebbero state protagoniste. Se avesse voluto tenere in riserbo il nome del sommo sacerdote, probabilmente avrebbe fatto altrettanto per il governatore romano. Per una datazione tardiva dei vangeli milita anche l’episodio di Giuseppe di Arimatea(15) che, pur essendo un membro del sinedrio, chiese a Pilato il corpo di Cristo per dargli degna sepoltura: infatti, se i vangeli fossero stati scritti a ridosso della passione e morte del Cristo, il dissenso di Giuseppe (15)  Mc, xv, 43; Mt, xxvii, 57; Lc; xxiii, 51; Gv, xix, 38.

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con i farisei e i sadducei sarebbe venuto alla luce e gli evangelisti lo avrebbero messo in serio pericolo, rivelando le sue simpatie filocristiane, mentre era ancora in vita. Sotto un profilo rigorosamente storico-filologico se la piccola apocalisse allude alla demolizione del tempio, se ne deve dedurre che Marco scrisse dopo il 70. Qualcuno pensa intorno al 100;(16) personalmente sono convinto che bisogna spingersi verso il 110. Quali le ragioni di tale tarda datazione? Sono presto dette: oltre l’assenza di notizie del primo secolo e la tardiva testimonianza di Papia, la scrittura del primo sinottico fu resa possibile solo dopo che la Lettera agli ebrei procedette alla identificazione del messia enochico con la figura di Giosuè-Gesù. E questo accadde sicuramente dopo il 100. Gli esegeti di fede cristiana tentano di sanare il vulnus, ricorrendo ad ipotesi fantasiose e del tutto ingiustificate. Essi si inventano una raccolta di detti in lingua aramaica (ma al tempo si parlava anche l’ebraico mishnico), che successivamente sarebbe stata tradotta in greco e sarebbe pervenuta agli evangelisti. Sfortunatamente di tale raccolta non si trova alcuna testimonianza negli scritti dei Padri della Chiesa. Si dirà: essa ha però un testo similare, una sorta di testo-cugino, come il Vangelo copto di Tommaso del secondo secolo, che ne giustifica la probabile esistenza. Ma non è così semplice. Primo, perché il testo tommasiano è, come vedremo, abbondantemente testimoniato dai Padri della Chiesa; secondo, perché probabilmente l’idea di una raccolta di lógia, rappresentativa di una tradizione orale, nacque con Papia e dopo Papia. Gli esegeti che fanno capo alla cosiddetta Formgeschichte ricorrono alla distinzione tra materiale della tradizione e redazione finale dei testi.(17) I tre evangelisti cioè avrebbero operato su un materiale di tradizione, costituito da detti o brevi storie, e li avrebbero inquadrati nella redazione finale in circostanze di luogo e di tempo e in contesti più ampi. In altri termini essi avrebbero tratto da una presunta fonte Q dei detti o delle brevi storielle e avrebbero conseguentemente costruito il quadro delle occasioni in cui furono pronunciati. Gli scenari sarebbero stati pure creazioni degli evangelisti, ma l’operazione complessiva avrebbe portato ad isolare il materiale di più antica tradizione e quindi ci avrebbe restituito i lógia originari del Cristo. Ciò presuppone l’esistenza o di una tradizione orale direttamente legata al (16)  G. A. Wells, The Jesus Legend, cit., p. 22, data il vangelo di Marco verso il 90. (17)  K. L. Schmidt, Der Rahmen der Geschihte Jesu, Berlin Trowitzsch, 1919; Rudolf Bultmann, Storia dei vangeli sinottici, Bologna Dehoniane, 2016, pp. 29-35.

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Cristo o di una tradizione scritta presinottica. Siamo così di fronte ad un ennesimo tentativo di retrodatare il materiale della tradizione per farlo risalire all’età apostolica. È pur vero che Bultmann(18) procede con la dovuta cautela, riconoscendo che in esso non tutte le relazioni sono storiche e che tutta la letteratura primitiva (orale e scritta) può avere il carattere della creazione letteraria, ma allora perché ricorrere ad una inutile e arbitraria distinzione tra tradizione e redazione? Si potrebbe rispondere che ciascuno degli evangelisti ha utilizzato a suo modo i lógia in contesti differenti e che proprio per questo essi sono isolabili dai rispettivi scenari; ma si può altrettanto legittimamente, e forse più razionalmente, supporre che ciascuno degli evangelisti ha costruito tanto i lógia quanto gli scenari come mere creazioni letterarie. Bultmann colloca la data dei primi tre vangeli «fra il 70 e il 100, probabilmente più vicino al 100 che al 70»(19) e ne dà la seguente motivazione: «i sinottici – scrive – non mostrano ancora nessun influsso dei problemi e delle contese della Chiesa, che sono caratteristiche del ii secolo». Naturalmente ciò vale soprattutto per il vangelo di Marco e in parte anche per quello di Matteo, i quali non risentono ancora del clima culturale né della gnosi, né delle prime forme di eresie e sono perciò stesso databili ai primi decenni del secondo secolo. Ma allora come spiegare una così tardiva datazione? E se diciamo che si è trattato di forme letterarie, come spiegare che la figura del Cristo abbia preso corpo così tardivamente? La realtà è che prima è maturato il mito di Cristo, poi quello di Gesù. Paradossalmente il cristianesimo è nato, sia pure di qualche decennio, prima del mito di Gesù. Le comunità esseno-enochiche che si dispersero nella diaspora, dopo le tragiche vicende di Gerusalemme, portavano già con sé forme di misticismo e di messianismo che avevano già subito grandi trasformazioni rispetto alla tradizione. Il loro Messia era assai meno il re nazionale, chiamato a riscattare Israele, e assai più il sacerdote, figlio di Dio; è cioè il mito in cui Ernst Bloch scorge le radici dell’ateismo nella religione cristiana.(20) Nel mondo ellenistico il regno ter(18) R. Bultmann, Storia dei vangeli, cit., p. 32. (19)  Ivi, p. 20. (20) E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno «Chi vede me vede il Padre», a cura di F. Cappellotti, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 32: «Il Nuovo nella Bibbia si identifica nella più forte eresia dello stesso figlio dell’uomo che si pone in posizione messianica all’interno di ciò che un tempo aveva il nome di Dio. Fino a poter sostenere: solo un ateo può essere un buon cristiano, ed anche: solo un cristiano può essere un buon ateo, come avrebbe potuto in altro modo il figlio dell’uomo dirsi identico a Dio?» (corsivo dell’autore).

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reno assunse i connotati del regno celeste; il messia si trasformò nel mito di derivazione misterica del Dio che muore e ritorna in vita, il culto del messia si associò alla figura del servo sofferente.(21) Quando questi passaggi nella Lettera agli Ebrei si saldarono con la figura umana e divina di Gesù, salvatore e redentore, cominciò a prendere corpo il mito del messia spirituale che fu veicolato dai tre sinottici, in cui confluì il patrimonio della originaria tradizione giudaica, riletto e ri-creato da Marco e passato nelle mani di Matteo e poi di Luca. e) Rapporto tra la letteratura evangelica e l’epistolografia paolina. Il cristianesimo delle origini fu in qualche modo il punto di confluenza di due distinti filoni: l’uno, probabilmente di matrice siriana o magno-greca e perfino latina, dato dai due vangeli marciano e matteano, riorganizzati poi in quello lucano; l’altro dato dalla epistolografia paolina, di matrice sicuramente anatolica, ma con forti ascendenze egiziane. Entrambi rappresentano tappe più mature rispetto all’Apocalisse di Giovanni e alla Lettera agli Ebrei e sono databili entro la prima metà del secondo secolo. I più sicuri punti di riferimento per la loro datazione sono per i vangeli la testimonianza di Papia; per le epistole paoline la trasmissione marcionita. In entrambi i casi è singolare il silenzio sia di Giuseppe Flavio, sia della letteratura apocrifa veterotestamentaria. Ciò significa che per entrambi i filoni Giuseppe rappresenta un termine a quo e Marcione un termine ad quem. Ma ciò che soprattutto è opportuno rilevare è che fino a tutta la prima metà del secondo secolo, i due percorsi si sviluppano autonomamente, come se fossero due parallele che non si incontrano mai. Essi hanno in comune la figura del Cristo, ma seguono due direzioni diverse: l’uno, il filone evangelico, ha interesse alla registrazione storica degli atti e dei detti del Messia; l’altro, quello paolino, punta all’indottrinamento, teologico ed etico, delle comunità cristiane. La fonte evangelica ignora la componente dottrinale di matrice paolina e quella paolina, a sua volta, sembra per lo più ignorare la componente storico-evangelica. La ragione di tale dualismo sta nel fatto che probabilmente le comunità anatolico-siriane sono ancora dominate dalla idea messianica mentre quelle anatolico-elleniche sembrano preferire l’elaborazione ideologico-dottri(21)  Sulla profonda differenza tra il messianismo palestinese e quello del cristianesimo ellenistico v. W. Bousset, Kyrios Christòs Texte imprimé Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenaeus, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1921, p. 312.

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nale. Purtroppo i relativi testi, evangelici e paolini, ci sono pervenuti nella loro redazione definitiva che non ce ne fa conoscere le fasi di transizione. Ne consegue che non abbiamo la possibilità di ricostruire il processo storico della loro elaborazione e gli eventuali aggiustamenti in funzione di una dottrina unitaria e canonica. Ma è assai probabile che gli aggiustamenti più consistenti abbiano riguardato le epistole paoline, in modo da accordarle il più possibile con la cristologia evangelica. Questa operazione di coordinamento dei due filoni è manifestamente il compito che si assunse l’autore degli Atti. È tuttavia presumibile che le lettere paoline siano posteriori ai vangeli per la semplice ragione che in esse è possibile cogliere taluni sporadici riferimenti ai testi evangelici, i quali invece le ignorano del tutto.(22) Il problema non è di facile soluzione anche perché non abbiamo se non vaghe notizie su Paolo e sulla sua vita. Van Manen è giunto alla conclusione che l’epistolario paolino ha subito profondi interventi correttivi e si è infine convinto che esso abbia subito una doppia redazione, la prima paolina, la seconda redazionale di chiara marca gnostica. Diciamo subito che l’ipotesi di una doppia redazione è probabilmente invocata per salvaguardare la storicità di Paolo. Non ho difficoltà ad accogliere la tesi della storicità di Paolo, credo tuttavia che non gli si possa attribuire quella complessa teologia gnostica che emerge dal suo epistolario e che non può essere anteriore al secondo secolo. L’ipotesi più plausibile è quella di pensare che Paolo sia stato un oscuro predicatore itinerante del primo secolo, che operò in un ambiente di ebrei fortemente ellenizzato e che si sia fatto promotore di una teologia della salvezza fortemente intrecciata con i culti misterici. Le tracce di questa teologia del Dio che muore e risuscita residuano nell’epistolario a noi pervenuto, ma sono sapientemente messe in ombra da una sopravveniente riscrittura improntata allo gnosticismo. Non è escluso che tale riscrittura sia stata operata dallo stesso Marcione, che, come sappiamo, veicolò il messaggio paolino nel cuore della città di Roma intorno al 140-150. Marcione aveva egli stesso marcate propensioni gnostiche e, com’è noto, aveva proprio sulla base della spinta gnostica, rotto i ponti con la tradizione giudaica dell’AT, riducendo Yhwh al ruolo di un demiurgo, di rango inferiore alla vera divinità. Se già in origine c’erano in Paolo tracce di antigiudaismo, Marcione le accentuò e forse operò anche sul (22)  Di opposto parere B. Ehrman, Jesus interrupted, Revealing the Hidden Contradictions in the Bible (and Why We don’t know about Them), New York, Harper, 2009, p. 145, il quale si allinea sulle posizioni tradizionali che sanciscono la priorità dell’epistolario paolino.

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vangelo lucano un’analoga azione di ripulitura, poiché sappiano che il terzo vangelo è dei tre sinottici il meno propenso ad attingere alle fonti vetero-testamentarie. A Roma tra il 140 e il 160 soggiornava Valentino, il massimo esponente della gnosi di origine alessandrina, di forte impronta filosofica, con tracce di prossimità al cristianesimo delle origini; si può facilmente supporre che in tale ambiente culturale l’epistolario abbia subito un’ulteriore e definitiva redazione, ricevendo, o in chiave di assimilazione o in chiave controversistica, una più forte impronta gnostica. L’ipoteca marcionita pesò non poco sulla fortuna di Paolo. Per gran parte del secondo secolo le sue lettere furono guardate con sospetto, anche dopo la loro ‘riscoperta’ da parte di Policarpo e dell’autore della prima clementina. 2.2.  I territori d’origine del cristianesimo: a) l’area anatolico-sirianopalestinese L’area geografica in cui sorge e si sviluppa il cristianesimo primitivo è in linea di massima quella mediterranea. Come si è già detto, esso va distinto in una componente apostolica, alimentata dalle narrazioni evangeliche, ed una componente paolina, fondata sostanzialmente sul messaggio teologico dell’epistolario paolino. Per comodità possiamo distinguere l’area geografica in quattro distretti regionali: quello anatolico-siriano-palestinese, quello anatolico-greco-macedone, l’area egizio-africana e quella occidentale (Roma, Lione, Spagna). Il cristianesimo siriano-palestinese ebbe i suoi centri in Antiochia di Siria, in Cesarea Marittima, in Doura Europos e in Edessa (od. Şanliurfa). Sono questi i centri in cui sorgono le prime comunità afferenti al cristianesimo apostolico a partire dalla seconda metà del primo secolo fino al terzo secolo inoltrato. Esse prendono corpo attraverso una più matura riflessione sui temi del messianismo e sono perciò le prime comunità che si definiscono cristiane. Nella prima metà del secondo secolo, sotto l’influsso della Lettera agli Ebrei, il messianismo si concretizza nella figura di Gesù, come ci viene trasmesso dai vangeli di Marco e di Matteo, che presumibilmente videro la luce nell’area siriana o siriano-palestinese. Tra la seconda metà del secondo secolo e la prima metà del terzo comparvero le comunità cristiane di Doura Europos e di Edessa, come si evince dai reperti archeologici. Gerusalemme dovrebbe in teoria occupare un posto di rilievo, ma in realtà a causa dei due

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conflitti del 66/70 e del 132/135, nonché della forte presenza e prevalenza farisaica, ebbe tutto sommato un ruolo marginale almeno fino al iv secolo allorché, su sollecitazione del vescovo Macario, fu investita dal superattivismo edificatorio di Costantino e di sua madre Elena. Nacque allora la Gerusalemme cristiana; furono abbattuti i templi pagani e sulle loro rovine furono edificate le basiliche cristiane. Il cristianesimo istituzionalizzato dai Romani ereditò in parte le radici pagane e, mettendo in ombra la tradizionale vocazione anti-idolatrica e aniconica degli ebrei, si alimentò di testimonianze tangibili e visibili. La coppia imperiale intuì che bisognava dare corpo materiale alle credenze e perciò promosse la spasmodica ricerca dei luoghi della narrazione neotestamentaria per tramandarli alla credulità popolare con una serie di apposite opere monumentali. Si trattò, come è ovvio, di falsa archeologia, che mirava ad appagare la curiosità e l’idolatrismo dei fedeli. Sorsero così la Chiesa del Santo Sepolcro, costruita intorno al 335, la quale comprendeva il Golgota, il presunto luogo delle crocifissioni, e quello, scavato nella roccia, di presunta sepoltura del Cristo, la Chiesa delle Nazioni o Basilica del Getsemani (iv secolo sul monte degli ulivi), la Basilica della dormizione di Maria (non anteriore all’xi secolo). A Betlemme fu edificata nel 330 la Chiesa della natività nella presunta grotta ove avrebbe miracolosamente visto la luce Gesù. A Nazareth tra il iv e il v secolo furono elevate la Basilica dell’Annunciazione, al cui interno, nella cripta inferiore, si trova la grotta dell’incarnazione, e la Chiesa francescana di Santa Maria del Tremore, in memoria della paura di Maria alla notizia della condanna del figlio. La casa santa invece sarebbe stata miracolosamente traslata nel xiii secolo da Nazareth a Loreto. Della vasta mole edificatoria di Costantino e di sua madre ci ha ampiamente documentati nel 337 Eusebio nella Vita Constantini,(23) dandoci anche conto della demolizione di antichi templi pagani. Ad Elena risale anche la scoperta di numerose reliquie cristiane, la più nota delle quali è la cosiddetta «Vera croce». Il racconto della sua scoperta, manifestamente fabulosa, ci è stato tramandato da Eusebio nella citata Vita Constantini e, con dettagli più fantasiosi, da Socrate Scolastico, seguito da Sozomeno, da Teodoreto di Cirro e dall’Itinerarium Egeriae (iv secolo).(24) Ma l’instancabile Elena non si fermò alla scoperta della croce; volle documentare, reliquie alla mano, tutta la sequenza della (23)  Eusebio, Vita Constantini, iii, xxviii-lviii. (24)  Socrate Scolastico, Hist. eccl., i, xvii; Sozomeno, Hist. Eccl., ii; Teodoreto di Cirro, Hist. Eccl., i, xvii; Itinerarium Egeriae, xxxvii, 1-9.

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passione e morte di Cristo. Perciò fece sì che si trovassero i chiodi della crocifissione, la lancia di Longino (in greco il nome Longino deriva da λόγχη= lancia), il palo della flagellazione, la corona di spine. La leggenda ovviamente è ricca di dettagli: uno dei chiodi sarebbe stato fuso nell’elmo di Costantino; un secondo chiodo, fuso nel morso del suo cavallo, sarebbe stato conservato nella Basilica di Santa Tecla, su cui fu in seguito costruito il Duomo di Milano; il terzo sarebbe stato inglobato nella corona ferrea conservata nel Duomo di Monza. La corona di spine fu trasferita da Costantinopoli a Parigi ove fu appositamente costruita la Sainte chapelle per la sua conservazione; ma le spine della stessa corona sono sparse in numerosissime chiese del mondo, così come del resto sono sparsi in tutto il mondo i frammenti della croce (se ne trovano nelle chiese di Alberobello, nel Monastero di S. Toribio di Liébana, nell’abazia di S. Silvesro I di Nonantola, a Mola di Bari, Milano, Fermo, Alessano, Rutigliano, Notre Dame, Pisa, Santa Maria del Fiore, Civitella Casanova, Chiaramonte Gulfi, Gerace, S. Nicola di Bari). Ad Antiochia di Siria o Antiochia ad Orontem, oggi Antakya, in Turchia, viveva una comunità ebraica nel quartiere Kerateion. Era una città popolosa; nel primo secolo contava all’incirca 300.000 abitanti. Nel 115 d.C. fu devastata da un terremoto. Costantino vi fece costruire una Domus Aurea, perduta. Secondo la tradizione vi predicarono Pietro e Paolo e successivamente Barnaba, che avrebbe guidato una comunità locale. Vi si trova la chiesa rupestre di S. Pietro che però in origine era una grotta dedicata al culto di Dioniso e fu cristianizzata sotto Teodosio I. Sulla scorta degli Atti (xi, 26) si vuole che in Antiochia sia stato usato per la prima volta il nome ‘cristiani’. Esso tuttavia non prova che vi fosse la presenza di sette cristiane, perché è probabile che si riferisca ad una forma di messianismo pre-cristiano. Infatti la derivazione di christianoi da christós non implica di per sé una automatica identificazione con i discepoli di Gesù, ma semplicemente e in senso generico con i seguaci di un messia. Finché tale messia non è riconosciuto nel nome di Gesù, non siamo ancora in presenza di sette cristiane. Tanto più che Epifanio di Salamina accenna alla denominazione di Jessaei che forse allude alla discendenza del messia da Jesse. Il vescovo locale godette a lungo di notevole prestigio e autorità ed assunse il titolo di patriarca di Antiochia. Gli scavi archeologici sono tuttavia deludenti perché non ci hanno consegnato evidenze cristiane del primo secolo. Altra città importante della fascia siriana è Cesarea Marittima o di Palestina, capitale della Provincia romana della Giudea, denominata Syria Pa-

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laestina. Qui forse la comunità cristiana risale alla prima metà del ii secolo, quando la città ospitò molti ebrei sfuggiti alla tragica conclusione della rivolta di Bar Kokhba. Secondo gli Atti vi avrebbero soggiornato gli apostoli Pietro e Paolo. Nel iii secolo Origene vi fondò una scuola di teologia ed una biblioteca. Più fortunati sono stati gli scavi archeologici di Doura Europos, una strategica fortezza della dinastia arsacide, che era un vero e proprio centro multiculturale ospitante comunità latine, greche, hatraniane, palmirene, persiane ed ebraiche. Sotto Lucio Vero la città venne incorporata nella Provincia di Siria. Di grande rilevanza sono le numerose iscrizioni che vi sono state trovate. Ma la più prestigiosa scoperta archeologica è quella della domus ecclesiae del iii secolo (235 d.C.), nel cui battistero si trovano i pregevoli affreschi superstiti del buon pastore e del Cristo che cammina sulle acque. A Doura Europos aveva sede anche un mitreo, sotto forma di casa privata, le cui prime tracce risalgono al 168-171 (sotto Lucio Vero). Ad Edessa invece il cristianesimo sembra essere stato introdotto nel terzo secolo d.C. in stretto rapporto con la leggenda del famoso Mandylion, cioè di un’icona acheropita il cui nome è di incerta etimologia (deriverebbe forse dal latino mantellum o dall’arabo mandīl). Si tratta in realtà di un falso sudario risalente al vi secolo e legato alla leggenda della conversione di Abgar V Ukama da parte di Addai-Thaddai. La fonte della leggenda è il solito Eusebio.(25) A causa della spontanea proliferazione delle reliquie oggi siamo in possesso di tre sudari: il mandylion di Genova (Chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni), quello di Manoppello (Basilica del Volto Santo) e quello di Roma (Cappella di Matilda in Vaticano). Lo stesso accade per le sindoni sparse in tutto il mondo; oltre quella di Lirey-Chambéry-Torino, si conservano lenzuoli santi ad Alvernia, Arles de Pancy, Cadouin, Chaors, Compiègne, Carcassone, Clermont, Enxobregas (Lisbona), Magonza, Milano; a Roma si venerano quelle di S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, S. Pietro in Vaticano. A queste bisogna aggiungere i frammenti di sindoni della Sainte Chapelle di Parigi, della cattedrale di Chartres, dell’abazia di Montdieu, di S. Salvador, di Albi de Pancy.

(25)  Eusebio, HE, i, 13; v, 23.

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2.3.  L’area anatolica La penisola anatolica si può considerare la vera e propria culla del cristianesimo paolino. Sono numerosi i centri in cui è attestata le presenza cristiana nel secondo e nel terzo secolo. Vanno in particolare ricordate nella Galazia Ancyra (oggi Ankara) e Pessinunte (od. Ballihisar); nella regione della Lidia le città di Tralles (od. Aydin o Guzel Hissar), Efeso (moderna Selçuk), Smirne (oggi Izmir), Magnesia ad Sipylum (oggi Manisa) e Philadelphia (od. Alaşehir); nella Frigia le città di Colossi (nei pressi dell’odierna Honaz) e di Antiochia di Pisidia (oggi Yalvaç provincia turca di Isparta). Antiochia fece parte della provincia romana di Galazia a partire dal 25 a.C. Sotto Augusto prese il nome di Cesarea. Fu un centro di incontro di culture diverse e di grande importanza dal punto di vista economico, militare e religioso. Vi fiorivano culti misterici, tra cui quello di Men o Menes, un dio lunare di origine mesopotamica, associato forse ai culti di Cibele e di Attis.(26) Roma curò, probabilmente per motivi propagandistici, il consolidamento del culto di Men, come attesta la presenza della sua icona nel conio di monete romane fino al periodo di Antonino Pio. Secondo la tradizione cristiana vi predicarono Paolo e Barnaba. Ma se in essa furono presenti comunità cristiane, devono essere rimaste a lungo minoritarie, perché della loro esistenza nei primi secoli dell’era cristiana non si conserva traccia. Dubbia è la presenza fin dal primo secolo del cristianesimo nelle città di Laodicea (presso Denizli), Smirne, Pergamo (attuale Bergama), Sardi, Tiatira (oggi Akhisar), annoverate tra le sette chiese della rivelazione, perché forse le comunità citate nell’Apocalisse dovevano essere prossime più all’enochismo che al cristianesimo. Negli scavi archeologici che le riguardano sono emersi resti di edifici pagani, ma nessuna traccia cristiana risalente al primo secolo. A Sardi, nella Lidia, era particolarmente vivo il culto di Artemide. A Tiatira al culto di Artemide si aggiungeva una grande venerazione per Apollo e per Dioniso. A Smirne il cristianesimo fu probabilmente introdotto intorno alla metà del secondo secolo da Policarpo. Tralles si vuole evangelizzata da Filippo, diacono scelto dagli apostoli, ma i resti archeologici rinvenuti appartengono ad un santuario dedicato a Dioniso. Efeso dovrebbe essere stata sede di una delle più antiche comunità paoline, poiché secondo la tradizione vi avrebbero predicato Paolo, Giovanni e Timoteo e vi si sarebbero (26)  Cfr. E. Lane, Corpus Monumentorum religionis dei Menis, Bde 4, Leiden, Brill, 1976, Bd. iii, p. 73.

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stabiliti anche Giovanni il presbitero e Maria. Ma, come si dirà a breve,(27) Giovanni il presbitero è probabilmente un personaggio fittizio e altrettanto fabulosa dovrebbe essere la notizia che in Efeso sarebbero stati sepolti sia i due Giovanni, il presbitero e l’evangelista, sia Maria. Tale versione è, infatti, smentita già da Epifanio.(28) Di certo Efeso era un centro in cui era fiorente il culto di Artemide, assimilato a quello della dea Cibele (grande madre). Gli scavi archeologici della città ci hanno restituito numerosi edifici pagani, mentre quelli cristiani sono certamente di tarda datazione. La basilica di Giovanni, costruita sulla collina di Ayasuluk (ove sarebbe ospitata la presunta tomba dell’apostolo), e quella della Vergine sono di epoca bizantina; risalgono al vi secolo e sono forse ricostruite su precedenti basiliche di epoca costantiniana. Nei pressi di Efeso si trova il Meryem Ana Evi (Casa della madre Maria), che è anch’esso un edificio bizantino sussistente su un precedente edificio del i-ii d.C., dedicato al culto di Artemide. Magnesia ad Sipylum era nota per la colossale Niobe di Sipylus, identificabile forse con la grande madre degli dèi (opera di Broteas), descritta da Pausania. Dalle monete ritrovate si deduce che doveva essere un centro religioso del culto di Cibele, associato a quello di Artemide. Non vi sono tracce archeologiche cristiane del primo secolo. Meno ancora sappiamo sulla presunta comunità cristiana di Colossi. Dalla Lettera ai Colossesi si evince che Paolo non l’ha mai visitata; e nella Lettera a Filemone lo stesso apostolo ci dice che sperava di visitarla non appena si fosse liberato dalla prigionia. 2.4.  L’area anatolico-greco-macedone La Macedonia divenne provincia senatoria dal 44 d.C. I centri più notevoli sono Tessalonica (attuale Salonicco), Filippi (oggi Kavala) e Corinto. A Tessalonica, nota per l’editto teodosiano del 27 febbraio 380, ebbero grande diffusione i culti egizi di Iside ed Osiride, di Anubis e di Serapide; il che fa pensare che la città subì moltissimo l’influsso di Alessandria di Egitto. Secondo la tradizione la predicazione di Paolo fu molto ostacolata dalla presenza di una forte comunità giudaica. Alla comunità cristiana di Filippi avrebbero inviato lettere Paolo e Policarpo. Anche la comunità di Corinto sarebbe stata attenzionata da Paolo e da Clemente. Se le notizie intorno (27) Cfr. infra, pt. III, par. 2.4. (28)  Epifanio di Salamina, Panarion, lxxviii, 11.

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alle continue divisioni interne non sono un tópos letterario, doveva trattarsi di una comunità fortemente litigiosa, percorsa al suo interno da contrasti insanabili tra personalità dominanti, come quella di Apollo. Ma va detto che tutto ciò che sappiamo intorno ad essa è di fonte cristiana (Paolo). Corinto era certamente uno dei maggiori centri del culto di Apollo e di Afrodite, a cui si fa risalire la nota licenziosità dei Corinzi. Per essere sede di una sinagoga ebraica, doveva registrare una consistente presenza giudaica. Gli scavi archeologici hanno fatto emergere a Filippi la Chiesa dell’Ottagono, la Basilica C, la Basilica B e la Basilica di S. Paolo, tutte paleocristiane. L’ultima in particolare contiene un mosaico con un frammento del vescovo Porfirio del 343. Anche a Tessalonica e a Corinto si sono rinvenuti resti di monumenti e necropoli pagane, ma non si è scoperta alcuna traccia di presenza cristiana databile al i secolo. Le aree anatolico-siriana e anatolico greco-macedone sono quelle in cui sorsero tra la fine del primo secolo e la prima metà del secondo le comunità paoline. Questo dato emerge non solo dall’epistolario di Paolo, ma anche dagli Atti degli Apostoli. La Siria, probabilmente Antiochia e più tardi anche Roma, costituì il punto d’incontro tra le due anime del cristianesimo primitivo. 2.5.  L’area egizio-africana I due centri più cospicui dell’area sono Alessandria e Cartagine. Alessandria fu prestigiosa per essere stata sede della celebre biblioteca. Vi si praticavano i culti di Serapide, di Iside e di Osiride, come attestano le catacombe di Kom-el-sukafa. Fin dal primo secolo a.C. abbiamo notizie della presenza di una fiorente comunità giudaica il cui esponente di maggior spicco fu Filone. Non a caso in essa fu condotta la famosa traduzione della Septuaginta. La presenza giudaica doveva essere davvero imponente, se è vero che gli ebrei costituivano addirittura un terzo della popolazione. Vi aveva preso piede la comunità dei cosiddetti ‘terapeuti’ assai affini agli esseni, su cui ci ha minutamente ragguagliato Filone nel De vita contemplativa. Alessandria costituiva senza meno il terreno più favorevole per l’attecchimento delle prime comunità cristiane. Sappiamo che Atanasio vi condusse la lotta contro l’arianesimo e la tradizione vuole che Marco vi abbia predicato il vangelo. Alessandrini furono i maggiori padri della chiesa, da Clemente ad Origene. Il locale vescovo assurse al titolo di patriarca ed eser-

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citò a lungo un notevole prestigio culturale e dottrinale, con un’autorità talvolta superiore a quella di Roma e di Antiochia, soprattutto se si considera che il patriarcato di Roma fu più tardivo e fu attribuito a Leone I (440-461) da Teodosio II. Nel Concilio di Nicea (325) il patriarca di Antiochia si fece interprete di tutte le chiese dell’Oriente e quello di Alessandria di tutte le chiese d’Egitto. Solo con il Concilio di Calcedonia (451) nacque il patriarcato di Gerusalemme. Ciò nonostante, dagli scavi archeologici non sono emerse tracce di cristianesimo nel primo secolo d.C. Lo stesso si può dire di Cartagine, sede vescovile di Cipriano, ove, accanto alle prime comunità cristiane, persistevano antichi culti greci, etruschi ed egiziani, come quello della coppia divina di Baal-Hammon e di Tanit (Astarte) di origini fenicie. 2.6.  L’area occidentale: Roma e Lione Il cristianesimo approdò a Lione con il vescovo Potino sotto Marco Aurelio tra il 170 e il 177. Poiché dai dati archeologici non si hanno testimonianze cristiane prima del terzo secolo, si deve supporre che le prime comunità cristiane si riunivano in case private, spesso denominate ‘ecclesie domestiche’, ove il termine ‘ecclesia’, cioè ‘chiesa’, non aveva ancora il significato istituzionale acquisito in seguito, ma aveva quello più elementare di «luogo di incontro», in cui gli adepti praticavano il banchetto dell’agape e le preghiere comunitarie. Col tempo, intorno al terzo secolo, compaiono le cosiddette domus ecclesiae (in greco οἶκος ἐκκλησίας). La più antica a noi nota è quella già citata di Doura Europos in Siria. Ma forme più avanzate di domus sono presenti a Roma (sotto S. Clemente) agli inizi del quarto secolo, in cui esse assumono il titulus, ovvero recano sulla facciata una tavoletta marmorea con il nome del donatore dell’edificio alla comunità. Ne è un esempio il titulus Equitii (poi divenuto titulus Sylvestri) sotto S. Martino ai Monti. In generale tali primitivi edifici avevano un atrio interno adibito alle cerimonie religiose. Le altre testimoniane archeologiche dei primi secoli dell’era cristiana sono rappresentate dalle catacombe. Le più note sono quelle romane, ma non mancano testimonianze catacombali in Sicilia e nel territorio abruzzese. Esse si diffondono fuori della Palestina già a partire dal primo secolo avanti Cristo. Ma sono per lo più catacombe giudaiche e non cristiane. Le più re-

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centi ricerche archeologiche hanno dimostrato che era già in uso presso gli Ebrei la pratica dell’inumazione che poi proseguì nelle sepolture cristiane. Il problema è che la gran parte delle catacombe (a Roma ve ne sono una sessantina) risalgono tra il iii e il vi secolo e quindi non dicono granché sul cristianesimo primitivo. A Roma si contano appena sei catacombe ebraiche del primo secolo, delle quali solo due sono in buone condizioni. Ciò che le contraddistingue da quelle cristiane è ovviamente la simbologia usata. Nelle catacombe ebraiche è costante la presenza della menorah, dell’arca e di scene tratte dall’Antico Testamento; in quelle cristiane più antiche (fine secondo secolo) predominano il monogramma X-ro, il pesce, il pavone, ma ben presto si aggiungono icone del Cristo-buon pastore e del Cristo-Orfeo con gli animali, nonché scene ispirate al NT. 2.7.  I generi letterari della prima produzione cristiana Le prime forme letterarie cristiane sono dunque l’apocalittica, l’epistolografia e le narrazioni evangeliche. Abbiamo anche rilevato che l’Apocalisse e, all’interno dell’epistolografia, la Lettera agli Ebrei sono documenti di estremo interesse storico, poiché ci permettono di cogliere il passaggio dalle comunità enochiche a quelle cristiane. Per un complesso di ragioni che tenteremo di sviscerare nel presente e nei prossimi capitoli, riteniamo che almeno i primi due sinottici siano anteriori alle epistole paoline, la cui datazione dovrebbe collocarsi negli anni Quaranta del secondo secolo, cioè negli stessi anni in cui vedeva la luce il terzo vangelo lucano, poco prima della definitiva redazione degli Atti. Ciò che è importante segnalare è che le epistole pervenuteci, per essere tutte pseudepigrafe, costituiscono un genere letterario come un genere letterario sono anche le narrazioni evangeliche che sono acefale, prive del nome dell’autore. Naturalmente si tratta di due generi letterari che corrispondono alla diversa natura delle due anime del cristianesimo primitivo. Il cristianesimo apostolico, per essere vincolato ad una narrazione biografica, è più soggetto alle profonde diversificazioni delle relative comunità. La biografia di per sé è soggetta ad incrementi, dilatazioni e proliferazioni di varia natura. Ciascuna comunità se la costruiva su misura ed estendeva il racconto alle diverse figure degli apostoli. Si spiega così la diversificazione della produzione evangelica canonica e apocrifa. Essa dipende dal fatto che il cristianesimo apostolico fu sostanzialmente acefalo.

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Non ci fu una figura carismatica che ebbe la funzione di uniformare le narrazioni e gli orientamenti delle diverse comunità. Il collante era dato soltanto dal messianismo di Cristo e degli apostoli. Ma chi si proclamava apostolo o erede/interprete degli apostoli era legittimato ad introdurre spinte centrifughe sul piano dottrinale e narrativo. Tutt’altro il carattere del paolinismo. Le epistole rappresentano forse lo strumento più idoneo per l’affermazione di una sorta di potere centrale o se si vuole di prestigio ecclesiale. Le comunità paoline ammettono un’autorità riconosciuta, un Maestro di dottrina. Le epistole trasmettono una teologia, una morale ed una definita organizzazione settaria. Il paolinismo è governato dall’alto da un unico profeta, o se vogliamo, da uno sparuto gruppo di intellettuali che però elaborano una precisa dottrina priva di tendenza centrifughe. Il cemento unificatore del paolinismo sta nell’impianto dottrinale. Col pretesto, reale o fittizio, di sanare le scissioni interne alle comunità cristiane, l’epistolografia esercita un’autorità dottrinale e teologica e definisce i contorni intellettuali e filosofico-teologici del cristianesimo. Essa serve tra l’altro a contenere le spinte centrifughe di comunità che sono geograficamente distanti e che tendono ad assumere posizioni dottrinali autonome o contrastanti, anche perché spesso, comunità come quelle di Smirne, Efeso, Antiochia di Siria, Alessandria e Roma, sono dominate da forti personalità che mirano ad imporre il proprio prestigio non solo nella organizzazione gerarchica, ma anche sotto il profilo dottrinale. In altri termini il messaggio epistolare presuppone l’assunzione di una superiore autorità in forza della quale chi scrive pretende di indirizzare le altre comunità e di farsi riconoscere – magari anche in nome di un imminente martirio, come è il caso di Pietro, di Paolo e di Ignazio di Antiochia – come autorità morale di rango superiore. Se le epistole sembrano stabilire un dialogo di alto livello tra i vertici delle comunità esistenti, le narrazioni evangeliche sono più scopertamente dirette alla base dei fedeli, i quali per credere hanno bisogno di più concreti punti di riferimento in un racconto o nello sviluppo di un romanzo o in uno scenario fatto di immagini capaci di captare l’immaginazione popolare. Non c’era solo bisogno di una cristologia d’impronta teologica, ma anche di una cristologia narrata, biografata, scenografata e riempita di atti e detti del Cristo. Le comunità esseniche ed enochiche, che, dopo il 70 d.C., si disperdono nei grandi centri dell’Asia minore, in Anatolia, nell’area greco-macedone, in Siria e in Egitto, portano già con sé un bagaglio di rappresentazioni storiche o pseudo-storiche relative alla passione del maestro di giustizia o

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alla apocalittica enochica; i vangeli non fanno altro che assorbirle in un quadro presuntivamente storico più definito e più ricco di suggestioni, tale da incidere profondamente sulla mente e sui sentimenti dei credenti. E ciò riesce tanto più felicemente quanto più il nuovo messaggio (il NT), depotenzia il vecchio (l’AT), inglobandone le attese messianiche. Il sincretismo filosofico-religioso, cui abbiamo fatto cenno, costituisce il terreno più fertile in cui si producono le grandi trasformazioni dottrinali. Da un lato si trasforma l’attesa messianica dall’enochismo al cristianesimo, dall’altro assume connotazioni diverse l’idea essenica di comunità (come separatezza – scissione – ascetismo, nazionalismo) sotto l’influsso di quella ellenica (come vita comune – armonia – concordia, universalismo). La nuova fusione è forgiata con gli strumenti intellettuali del mondo ellenico, se non altro per la loro maggiore raffinatezza. In fondo l’ellenismo era il punto d’approdo di una grande tradizione filosofica, oratoria e letteraria. I giudei o gli esseni ellenizzati ne subiscono il fascino, cominciano a ragionare con le categorie mentali della cultura greca, come già aveva fatto prima di loro Filone, uno degli spiriti più elevati del giudaismo del primo secolo. L’epistolografia di Paolo è impensabile senza la retorica di matrice ellenistica. Ma nell’ultimo scorcio del primo secolo si trattò solo di fermenti che cominciavano a circolare ancora confusamente: tutto ruotava attorno alla figura del Cristo, che da messia nazionale assunse le connotazioni del dio della salvezza dei culti mitraici e isiaci o artemisici. Ci volle il grande genio di un intellettuale come l’autore delle più importanti lettere di Paolo per dare alle comunità cristiane quella compattezza ideologico-dottrinale e filosofico-teologica che in origine non avevano. Far passare il cristianesimo non come un prodotto storico, ma come un processo iscritto nell’economia della volontà divina, significa muoversi in un’atmosfera rarefatta di cui non siamo in grado di comprendere tutte le coordinate. Non v’è nulla di incontaminato nella storia, perché tutto si forma nel crogiolo di diverse spinte sociali, culturali e religiose. Anche quando insistiamo sulla inconfondibilità e specificità di un fenomeno religioso, facciamo sì un’operazione di verità, ma a condizione che riconosciamo che esso è il risultato di un processo storico-evolutivo. Quella inconfondibilità e specificità sono solo il risultato finale di un processo storico, perché tutti i prodotti storici si plasmano nel crogiolo della transizione. L’epistolografia cristiana fiorisce tra la fine del i secolo e il ii secolo inoltrato. Prende le mosse con la Lettera agli Ebrei, la prima epistola con un saldo impianto dottrinale, intorno al 100 d.C., tocca l’acme con le lettere paoline tra il

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125/130 e il 140 e prosegue fino al 170/180 con le pseudo-clementine, con le lettere di Ignazio e di Policarpo, e infine con le pastorali e le cattoliche. Il filone dei vangeli canonici chiude prima il suo ciclo produttivo tra il 120 e 140 d.C. Questa elementare verità, che tenteremo di provare fra breve,(29) è solitamente disconosciuta dagli autori credenti i quali sono indotti a retrodatare di circa 90-120 anni gli eventi narrati per un duplice obiettivo: 1) dare alla produzione neotestamentaria l’autorevolezza di un passato più o meno remoto e 2) sottrarla al controllo della memoria dei contemporanei che potrebbero contestarne la veridicità (si pensi per esempio alle contestazioni di Celso e di Porfirio). In altri termini il testo letterario interviene quando il movimento cristiano ha già conosciuto una prima espansione, sia pure parziale e difficoltosa, soprattutto nell’area anatolico-siriana. Nella misura in cui si disperde in una rete di comunità separate, esso è nelle sue origini acefalo o, forse meglio si potrebbe dire, policefalo. Ciascuna comunità ha una propria autonomia e proprie istanze religiose. I primi documenti cristiani sono in parte lo specchio di tale dispersione; trasmettono le differenti concezioni del messaggio cristologico, conservano le impronte della loro eccentricità originaria, sebbene tendano a farla convergere in un unico alveo o almeno in un alveo destinato a diramarsi in due diverse direzioni: quella orientale e quella occidentale. Se i Vangeli e le lettere paoline fossero stati composti nel primo secolo, la letteratura cristiana si sarebbe sviluppata almeno un cinquantennio prima e noi avremmo trovato citazioni degli uni e delle altre in testi più antichi e forse ne avremmo anche trovato testimonianza in papiri più antichi. Invece nulla di tutto questo. La prima testimonianza storicamente affidabile sul cristianesimo ci è data, piuttosto tardivamente, dalla lettera di Plinio il Giovane, il quale, pur entrando in contatto con comunità cristiane, non sembra avere una puntuale conoscenza delle loro coordinate dottrinali e non sembra avere alcuna informazione su fonti cristiane scritte. 2.8.  Una breve nota sugli autori e sui luoghi di composizione dei vangeli Non conosciamo gli autori dei quattro vangeli canonici né quelli dei vangeli apocrifi. Le loro intitolazioni Κατὰ Μᾶρκον, Κατὰ Ματθαῖον, Κατὰ Λουκᾶν, Κατὰ Ιωάννην sono posticce e non sembrano indicare una vera e propria paternità degli scritti, anche perché, se si eccettua il quarto vange(29) v. infra, pt. III, par. 2.10.

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lo, non v’è nulla nei testi che si riferisca inequivocabilmente ai loro autori o che consenta di individuarli. La tradizione vuole che solo due di essi, Matteo e Giovanni, abbiano fatto parte della sequela del Cristo; ma il primo non dà segni di avere una conoscenza diretta del Cristo e il secondo è del tutto inaffidabile sotto il profilo storico. Nessuno degli evangelisti scrive in prima persona o si dichiara testimone oculare dei fatti narrati, eccetto Luca che usa la prima persona solo nel prologo, pur senza dichiarare la propria identità. Nulla ci assicura che il primo vangelo canonico sia stato scritto da Matteo, discepolo di Gesù, posto che Matteo e Levi siano identificabili come la stessa persona, per essere entrambi gabellieri o pubblicani. Il Vangelo di Marco Marco è spesso identificato con il cugino di Barnaba,(30) menzionato nella Lettera ai Colossesi (iv, 10). Il sintagma «Giovanni soprannominato Marco» (ἰωάννου τοῦ ἐπικαλουμένου μάρκου), usato negli Atti (xii, 12, 25), è ambiguo e induce a pensare che ‘Marco’ sia una sorta di soprannome.(31) La realtà è che sulla sua figura gli scritti neo-testamentari sono discordanti: per gli Atti (At, xv, 37-39) Paolo, contro la volontà di Barnaba, non volle che gli si aggregasse per predicare nelle chiese dell’Asia; perciò lasciò che Marco insieme a Barnaba evangelizzasse Cipro. Per la 2Timoteo (2Tm, iv, 11), invece, Paolo lo reputò un prezioso collaboratore e, invitando Timoteo a Roma, lo pregò di portarlo con sé «perché mi è molto utile nel ministero» (ἔστιν γάρ μοι εὔχρηστος εἰς διακονίαν). Anche per Filemone (24) Marco è annoverato tra i «collaboratori» di Paolo (οἱ συνεργοί μου). Tuttavia nella 1Pietro (v, 13), egli è inquadrato nella corrente petrina, tant’è che Pietro usa l’espressione «Marco, mio figlio» (μᾶρκος ὁ υἱός μου). Ma forse l’autore di Pietro scrive così per convalidare la linea di Papia, condivisa successivamente da Ireneo ed Eusebio, secondo cui Marco avrebbe scritto come interprete petrino.(32) Salvo poi a scoprire che nel testo marciano non si riscontrano tracce inequivocabili né di petrismo né di paolinismo.(33) Analoghe incertez(30)  Tale è l’opinione di Bernd Kollmann, Joseph Barnabas, Leben und Wirkungsgeschichte, Stuttgart, Bibelwerk, tr. ingl. di Miranda Henry, Joseph Barnabas, his Life und Legacy, Collegeville, Liturgical Press, 2004, p. 30. (31) L’ipotesi che l’autore del primo vangelo sia stato Giovanni soprannominato Marco, formulata da J. Redford, è reputata da W. G. Kümmel, Introdution to the New Testament, London, SCM Press, 1966, p. 97, di scarsa affidabilità. (32) Cfr. Ireneo, Adv. haer., iii, 1, 1; 10, 6; Eusebio, HE, ii, 15; vi, 25, 5. (33) U. Schnelle, The History and Theology od the New Testament Wrintings, Minne-

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ze abbiamo circa il luogo di composizione del vangelo di Marco; v’è chi lo vuole scritto a Roma (per la presenza di latinismi) e chi in alternativa preferisce la Siria o Alessandria d’Egitto o una generica provincia romana. Ciò che di sicuro possiamo dire intorno al vangelo marciano è quanto segue: 1) esso comparve tardivamente perché prima della sua pubblicazione fu necessario che si sviluppasse la metamorfosi del messianismo di stampo enochico in messianismo cristiano; 2) la critica biblica è concorde nello stabilire che quello di Marco costituisce il primo vangelo scritto (priorità di Marco); 3) il terminus ad quem della sua datazione è rappresentato dalla pubblicazione dell’Exēgēsis di Papia intorno al 130-140(34); 4) la sua compilazione non dovrebbe essere di molto anteriore al testo di Papia, altrimenti avrebbe avuto una risonanza ancor prima dello stesso;(35) 5) per la stessa ragione anche la compilazione di Matteo deve ritenersi assai vicina nel tempo e nello spazio a quella di Marco; 6) per la presenza di latinismi, per i suoi tentativi di spiegare termini di origine ebraica e per la sua imprecisa conoscenza della realtà fito-zoo-geografica della Palestina Marco era verosimilmente un ebreo vissuto a Roma o sotto l’influenza dell’area romana, il quale, trasferitosi presumibilmente nell’area siriana (forse Antiochia), aveva perso da tempo il legame ombelicale con la terra d’origine; 7) la data presumibile del suo vangelo dovrebbe aggirarsi intorno al 110.(36) Qualsiasi tentativo di definirne più dettagliatamente l’identità mi pare votato sostanzialmente al fallimento. Il Vangelo di Matteo L’esegesi confessionale resta saldamente legata alla tesi secondo cui il vangelo di Matteo sarebbe stato l’espressione del giudeo-cristianesimo e conseguentemente del cristianesimo della prima ora. Di fronte al rischio di dover riconoscere che la paternità dell’apostolo Matteo è tutt’altro che paapolis, Fortress Press, 1998, p. 200, ritiene che non sia presente in Marco nessuna chiara e inconfondibile traccia della tradizione petrina. (34)  C. K. Barrett, The Gospel According to St. John: An Introduction with Commentary and Notes on the Greek Text, London, Speck, 1978, p. 106, data l’Exēgēsis di Papia verso il 140. Per avvalorare la dipendenza di Papia dall’apostolo Giovanni R. H. Gundry, Mark: A Commentary on his Apology for the Cross, Grand Rapids, Eerdmans, 1993, p. 1034, preferisce datarla tra il 101 e il 108. (35)  Eccessivamente tarda è comunque la datazione proposta da Hermann Detering, The Synoptic Apocalipse, cit., pp. 161-210, che fa risalire il vangelo di Marco all’epoca della rivolta di Bar Kokhba (132-135). (36)  Gli esegeti della Scuola di Tubinga propendono per una datazione intorno al 120.

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cifica, si ricorre ad ipotesi sostitutive ma convergenti con le posizioni tradizionali. Ne è un esempio la tesi sostenuta da Gerd Theissen,(37) il quale, pur riconoscendo che il testo attuale non è di Matteo, ipotizza l’esistenza di una fonte Q che sarebbe dello stesso Matteo. Per Howard Clark Lee(38) invece i lógia di Cristo, trasmessi dai vangeli, deriverebbero da una precedente tradizione orale; ciò spiegherebbe la presenza in altri scritti cristiani di detti del Signore o di loro varianti (i cosiddetti ágrapha) che non trovano corrispondenza nei sinottici. L’ebraismo di Matteo, secondo l’esegetica cristiana, sarebbe attestato dal costante riferimento al profetismo giudaico.(39) Torneremo al più presto su questo punto fondamentale;(40) ora ci preme sottolineare che la presunta componente giudaica di Matteo è contraddetta dal fatto che nel suo testo sono frequenti gli spunti anti-giudaici.(41) A proposito dell’esistenza di una versione aramaica di Matteo vengono citati autori come Papia, Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Origene, Panteno, Eusebio, Epifanio di Salamina e Girolamo.(42) In realtà al di là dell’apparente coro di voci, la fonte è una sola ed è Papia. Gli altri ne sono solo la cassa di risonanza. Papia tra l’altro parla di una versione in lingua ebraica e non in aramaico. L’ipotesi di un testo aramaico(43) nasce dal presupposto che l’aramaico fosse la lingua parlata da Gesù e che quindi i suoi detti non potevano essere stati espressi in un altro idioma. D’altra parte si riteneva erroneamente che l’ebraico si fosse (37) G. Theissen. Il Nuovo Testamento, Roma, Carocci, 2003. (38)  H. C. Kee, Beginnings of Christianity: An Introduction to the New Testament, New York – London, Clark, 2005. (39)  D. J. Harrington, The Gospel of Matthew, Collegeville, Liturgical Press, 1991. (40) Cfr. infra, pt. III, par. 3.19. (41)  G. N. Stanton, The Gospels and Jesus, Oxford, University Press, 1989, p. 60. (42)  Oltre al citato Papia, cfr. Ireneo, Adv. haer., i, 26; iii, 1; Clemente Alessandrino, Stromata, i, 21; Tertulliano, Adversus Marcionem, iv, 2; Origene (citato da Eusebio, HE, vi, 25), Panteno (citato da Eusebio, HE, v, 10), Eusebio, HE, iii, 24; Epifanio di Salamina, Panarion, xxix, 9, e Girolamo, De virisillustribus, iii. Tra gli autori moderni W. G. Kümmel, Introduction to the New Testament, cit., pp. 120-121, ritiene del tutto falsa l’esistenza di una versione aramaica di Matteo; cfr. anche Id., The New Testament: the History of the Investigation of its Problems, transl. by McLean Gilmour and Howard C. Lee, Nashwille, Abingdon Press, 1972, pp. 77-79. (43)  J. A. Th. Robinson, Redating the New Testament, cit.; R. H. Gundry, Matthew. A Commentary on His Literary and Theological Art, Grand Rapids, Mich., Erdmans, 1983; R. A. Pritz, Nazarene Jewish Christianity From the End of the New Testament Period Until Its Disappearance in the Fourth Century, Jerusalem, Magnes - Leiden, Brill, 1988; R. Th. France, Matthew, Evangelist and Teacher, Grand Rapids, Academic Books, 1989.

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estinto tra il iv e il iii secolo a.C.; oggi questa congettura non regge più perché tra i manoscritti del Mar Morto abbiamo trovato numerosi testi scritti in ebraico mishnico. Tuttavia, a prescindere da questi dettagli, va tenuta in grande considerazione l’acuta obiezione di Erasmo che già in età rinascimentale osservò che nessuno degli autori che ricorre all’ipotesi di una fonte aramaica ne parla in termini di testimonianza diretta; nessuno cioè afferma di averne visto, oculis suis, il testo aramaico. Del tutto fantasiosa è poi la tesi di Browning,(44) per il quale il redattore del vangelo di Matteo è probabilmente uno dei discepoli provenienti da una città evangelizzata da Matteo. Ehrman(45) sostiene che l’attribuzione del primo vangelo canonico a Matteo rientra forse nel progetto politico-teologico antieretico di Ireneo; soprattutto contro quegli eretici che sdoppiavano il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento. Ma il punto debole di questa supposizione è che anche Papia, almeno cinquant’anni anni prima di Ireneo, attribuiva il vangelo a Matteo. In realtà le fonti da cui prende le mosse la tradizione circa la paternità e provenienza geografica dei vangeli sono proprio Ireneo ed Eusebio. Ireneo, rispolverando la versione di Papia, scrive: Matteo tra gli Ebrei pubblicò nella loro stessa lingua una forma scritta del Vangelo, mentre a Roma Pietro e Paolo predicavano il vangelo. Dopo la loro morte Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise anch’egli per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro. Quindi anche Luca, compagno di Paolo, conservò in un libro il vangelo da lui predicato. Poi anche Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul suo petto, pubblicò anch’egli il vangelo, mentre dimorava ad Efeso in Asia.(46)

Clemente Alessandrino(47) nelle perdute Ipotiposi afferma che Marco scrisse mentre Pietro predicava a Roma ed aggiunge che Pietro, avendolo saputo per rivelazione dello Spirito Santo, lo approvò. Eusebio sostiene che Marco portò il messaggio evangelico in Egitto, istituendovi la chiesa di Alessandria.(48) Da (44)  W. R. F. Browning, Gospel of Matthew, in D. N. Freedman (ed.), A Dictionary of Bible, Oxford, University Press, 2009, pp. 245-246. (45) B. Ehrman, Jesus: Apocalyptic Prophet of the New Millennium, Oxford, University Press, 2001, p. 44. (46)  Ireneo, Adv. haer., iii, 1, 1. (47)  Citato da Eusebio, HE, vi, 14; 6; v, 8, 3; ii, 151, 2. (48)  Eusebio, HE, ii, 16.

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Papia e da Ireneo dipende Tertulliano(49) il quale insiste sulla matrice petrina del vangelo marciano. Girolamo, invece, riproduce la versione eusebiana. Ambrogio e Crisostomo si spingono ben oltre e suppongono che Marco, identificato con quel giovane che fuggì nudo dal Getsemani (Mc, xiv, 51-52), abbia conosciuto direttamente Cristo. Tot capita, quot sententiae. Di certo v’è che nessuno degli evangelisti si dichiara testimone diretto degli eventi che narra. Tutti scrivono in terza persona. L’uso della narrazione oggettiva esclude che l’autore del primo vangelo canonico sia Matteo; egli infatti non si lascia coinvolgere in prima persona neppure quando parla della propria chiamata («Incontrò un uomo di nome Matteo seduto al banco delle imposte», Mt, ix, 9). Il che significa che Matteo non identifica sé stesso con il gabelliere.(50) Un’ulteriore prova che Matteo non sia il discepolo pubblicano sta nel fatto che in una notissima pericope in cui per la prima volta nei sinottici è citata la chiesa(51) (sebbene il termine ‘chiesa’ possa essere inteso sia in senso istituzionale sia nel senso più generale di comunità riunita per decidere o pregare) egli esprime una valutazione negativa dei pubblicani, che sono assimilati ai pagani. Il testo recita: «Se non ascolterà neppure la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano» (Mt, xviii, 17). In un altro brano, anch’esso proprio di Matteo (Mt, xvii, 24-27), si assiste ad un interessante dibattito circa il pagamento della tassa del tempio. Poiché si parla di tributo che deve gravare sugli stranieri è possibile che il testo si riferisca al tempio di Giove Capitolino e al principato di Adriano (117-138).(52) La pericope citata, oltre ad essere preziosa per la datazione del primo vangelo canonico, è in contraddizione con i tre sinottici (Mt, xxii, 21; Mc, xii, 17; Lc, xx, 25), poiché non è un invito a dare a Cesare ciò che gli è dovuto, ma è un invito ad un atto sovversivo con una forte carica nazionalistica, perché è un invito a pagare simbolicamente una moneta d’argento. E non è quello che si potrebbe definire un sano comportamento da esattore di tasse, anche se si tratta di tassazione (49)  Tertulliano, Adversus Marcionem, iv, 5. (50)  Affatto diversa la posizione di W. G. Marx, Money Matters in Matthew, «Bibliotheca Sacra», cxxxvi, 1979, pp. 148-157. Ma è ridicolo pensare che anche l’allusione alle trenta monete d’argento relative al tradimento di Giuda possa essere assunta come prova della dimestichezza matteana con il denaro. (51)  I versetti Mt, xvi, 18;xviii, 17, contengono le uniche tre occorrenze della parola ‘chiesa’ (ἐκκλησίᾳ·) in tutti e quattro i vangeli. (52) S. Brandon, Gesù e gli zeloti, cit., p. 233, ritiene che l’episodio del pagamento della tassa si riferisca alla prima rivolta del 66/70. In entrambi i casi si tratterebbe di un anacronismo messo in bocca al Cristo.

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dovuta a stranieri (ἀπὸ τῶν ἀλλοτρίων). Mi pare che l’ipotesi più credibile sia quella di Saldarini(53) che fa di Matteo uno scriba («Per questo ogni scriba, divenuto esperto del Regno dei Cieli, è simile ad un padrone di casa che dal suo tesoro tira fuori cose nuove e non vecchie», Mt, xiii, 52), ove soprattutto il tema del Regno dei Cieli (che, come sappiamo, è di radice enochica), come novità contrapposta alle «cose vecchie», si riferisce al nodo centrale del vangelo matteano. Possiamo concludere che il vangelo di Matteo fu scritto nell’area siriano-anatolica, probabilmente nella stessa Antiochia di Siria, come ipotizza Rudolf Schnackenburg.(54) Ciò spiegherebbe la prossimità temporale tra i primi due vangeli che sarebbero comparsi a distanza di appena un decennio l’uno dall’altro e sarebbero stati noti a Papia di Ierapoli. Il Vangelo di Luca Analoghe perplessità possono sorgere sugli altri vangeli canonici. Si vuole che Luca, originario di Antiochia di Siria, di cultura ellenistica, di dubbia origine ebraica, sia da identificare con il «caro medico» (λουκᾶς ὁ ἰατρὸς ὁ ἀγαπητὸς), seguace e collaboratore di Paolo.(55) Alcuni studiosi vogliono che egli abbia scritto in Grecia e che sia vissuto 84 anni senza prendere moglie. A conferma della sua professione, si aggiunge che la sua competenza medica emergerebbe dalla sua più accurata descrizione delle malattie degli infermi miracolosamente guariti dal Cristo. Eppure non vi è un solo caso in cui in materia di malattie il terzo vangelo sia significativamente più ricco di dettagli rispetto agli altri evangelisti. Né sembra che vi sia una ragione sufficiente per individuare nel terzo evangelista il discepolo di Paolo, come pretendono Ireneo ed Eusebio,(56) tanto più che nel testo lucano non vi sono evidenti tracce di paolinismo. Insomma non siamo in grado di stabilire né se egli fu un ebreo cristiano né se fu un pagano cristianizzato. (53) A. Saldarini, Matthew, in J. D. G. Dunn - J. W. Robertson (Hrgs.), Eerdmans Commentary on the Bible, Grand Rapids, Eerdmans, 2003, p. 1000. (54) R. Schnackenburg, The Gospel of Matthew, Grand Rapids, Eerdmans, 2002, p. 5. Pur condividendone l’ipotesi, trovo che la base su cui lo studioso si fonda (esistenza di gruppi giudeo-cristiani e ellenistico-cristiani ed assenza di influenze paoline), sia malcerta, perché se è vero che le prime citazioni del vangelo vengono dall’area siriana (la lettera di Ignazio agli Smirnesi e la Didaché) è altrettanto vero che queste sono fonti tardive o tardivamente rielaborate e dubbie (cfr. G. Theissen, Il nuovo Testamento, cit.). (55) Cfr.Col, iv, 14; 2Tm, iv, 11; Fm, 24; At, xvi, 10; xvii, 20. (56)  Ireneo, Adv. haer, iii, 1, 1; Eusebio, HE, v, 8, 3; vi, 25, 6.

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Assai variegato è altresì il panorama delle ipotesi circa il luogo della composizione del terzo vangelo. Theissen(57) ritiene che sia stato scritto a Roma; Franklin(58) vuole che sia stato scritto ad Antiochia di Siria; Klijn(59) pensa a Cesarea. Altrettanto si dica sui destinatari di Luca. Barclay(60) è convinto che siano i Gentili; il che spiegherebbe – a suo avviso – la rarità delle citazioni dell’AT (ma questa affermazione non è del tutto vera) e il tentativo di far ricadere la responsabilità della condanna del Cristo sugli Ebrei e non su Pilato. Dal Prologo si evince piuttosto che Luca si rivolge ai cristiani, poiché scrive: «Ti renderai conto di quanto sia solido il fondamento su cui poggia l’insegnamento che hai ricevuto» (Lc, i, 4); e tra l’altro il passo fa pensare che le comunità cristiane destinatarie fossero ormai consolidate. I limiti cronologici del terzo vangelo sono facilmente individuabili. Infatti il testo accenna alla devastazione di Gerusalemme, e quindi non può essere anteriore al 135, e compare a Roma intorno al 140-150, e pertanto non può essere posteriore a tale data. Quanto al luogo di composizione si può pensare ad Antiochia, che era probabilmente la sede della più antica comunità cristiana Il Vangelo di Giovanni La prima citazione di Giovanni è in Ireneo nel passo sopra citato.(61) Eusebio(62) vuole che Ireneo abbia conosciuto in gioventù (tra i quattordici e i sedici anni e quindi intorno al 134-136, sotto i governatorati di Tito Aurelio Fulvo Antonino o di Quinto Pompeio Falco) l’eretico presbitero Florino, un fuoriuscito dalla chiesa e «ben introdotto presso la corte imperiale», al seguito di Giovanni nella provincia d’Asia. La lettera citata da Eusebio aveva per argomento la monarchia divina, ovvero l’eresia che faceva di Dio l’autore del male. In essa Ireneo scrive: Ricordo dove il beato Policarpo si sedeva a discutere […] come raccontava i suoi rapporti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore, come ricordava le loro parole e quali erano le cose che aveva udito da loro sul Signore, sui suoi miracoli e sul suo insegnamento. (57)  Ivi. G. Theissen, Il nuovo Testamento, cit. (58) E. Franklin, Luke, in The Gospels, Oxford, University Press, 2010. (59)  A. F. J. Klijn, Luke, in AnIntroduction to the New Testament, Leiden, Brill, 1967. (60) W. Barclay, The Gospel of Luke, Philadelphia, Westminster Press, 1975, p. 3. (61)  Ireneo, Adv. haer., iii, 1, 1. (62)  Eusebio, HE, v, 20, 4-8.

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Ma il testo conservato da Eusebio contiene non poche imperfezioni formali, come l’accenno all’Asia inferiore (mentre noi sappiano che la provincia d’Asia era unica) e l’imprecisa allusione alla corte imperiale, ecc. Si aggiunge la difficoltà di far quadrare i dati sotto il profilo cronologico. Infatti in un’altra lettera di Ireneo a Florino (24, 16), avente per oggetto la datazione della pasqua, il vescovo lionese afferma che Policarpo giunse a Roma al tempo di Aniceto (155-166). Il che induce ad assegnare una datazione bassa al martirio di Policarpo, in merito al quale le oscillazioni degli studiosi, registrate da Hefele nei Prolegomena alla lettera di Policarpo,(63) vanno dal 147 al 178, con la conseguenza che l’età del vescovo smirnese al momento dell’incontro con Giovanni doveva essere troppo prematura per garantire la sua affidabilità come reporter dell’apostolo. Non molto lineare è anche la versione del Canone muratoriano(64) per il quale Giovanni sarebbe stato esortato a scrivere dai discepoli e dai vescovi a lui fedeli; ciascuno avrebbe comunicato all’altro le rivelazioni di Andrea e Giovanni le avrebbe messe per iscritto a proprio nome. Scrive, infatti, in un latino stentato l’ignoto autore: Quarti euangeliorum Iohannis ex decipolis, cohortantibus condescipulis et eps suis dixit conieiunate mihi hodie triduo et quid cuique fuerit reuelatum alterutrum nobis ennarremus eadem nocte reuelatum Andreae ex apostolis, ut recongniscentibus cuntis Iohannes suo nomine cun[c]ta describ[e]ret.(65) [Nel quarto vangelo Giovanni, uno dei discepoli, per esortazione dei condiscepoli e dei loro vescovi, disse: ‘digiunate con me oggi terzo giorno e raccontiamoci l’un l’altro ciò che sarà rivelato a ciascuno e sarà rivelato nella medesima notte da Andrea, uno dei discepoli, così che Giovanni scriva a suo nome tutto ciò che era noto a tutti’].

Non si capisce perché Giovanni, che era testimone diretto della crocifissione e della resurrezione, avrebbe dovuto fare ricorso alla rivelazione di un altro discepolo, come Andrea. Né è possibile che il Canone si riferisca a Giovanni il presbitero, peraltro inesistente. (63)  K. J. Hefele, Patrum apostolicorum opera, cit., pp. lxvi-lxvii; v. anche PG. v, col. 998. (64) Sul Canone muratoriano, cfr. A.Donini, Il canone muratoriano, «Ricerche religiose», i, 1926. (65)  S. P. Tregelles (ed.), Canon Muratorianus, the earliest catalogue of the books of the New Testament, Oxford, Clarendon Press, 1867, p. 18.

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Secondo la tradizione Giovanni, figlio di Zebedeo e di Salome, fratello di Giacomo Maggiore, nato a Betsaida, già discepolo del Battista, si sarebbe recato ad Efeso dopo la morte di Maria e sarebbe stato perseguitato da Domiziano. Alla morte dell’imperatore sarebbe ritornato ad Efeso, ove morì centenario.(66) Non è inverosimile che qualcuno dubitasse dell’autenticità del quarto vangelo, altrimenti non si spiegherebbe la preoccupazione di Eusebio di sciogliere qualsiasi dubbio in proposito. Infatti scrive: «Per prima cosa si deve riconoscere autentico il vangelo di Giovanni, noto a tutte le chiese della terra».(67) Sta di fatto che Giovanni introduce nella narrazione evangelica dettagli che sono in palese contraddizione con i sinottici. L’esempio più eclatante riguarda la durata della predicazione e della passione che, mentre per i sinottici si chiude nell’arco di un anno se non addirittura di qualche mese, per Giovanni si estenderebbe a tre anni. Ma si deve considerare che non è agevole proporre confronti tra il quarto vangelo e i tre precedenti, perché in Giovanni agiscono simbolismi non sempre di facile interpretazione e non si può escludere che egli assegni alla durata triennale un particolare significato teologico. Eusebio tenta di nascondere non solo tale contraddizione ma anche le dicerie intorno alla non autenticità del quarto vangelo. Il sospetto di inautenticità sembra essere alimentato dallo stesso epilogo che recita testualmente: «Questi è quel discepolo [intendi Giovanni] che ha testimoniato intorno a queste cose e le ha scritte e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv, xxi, 24). In più occasioni l’autore di Giovanni avverte il bisogno di assicurare il lettore che la sua testimonianza è vera. Quando infatti accenna al soldato che colpisce con la lancia il fianco di Cristo, aggiunge: «Chi ha visto dà testimonianza e la testimonianza è vera e sa di dire il vero perché anche voi crediate» (Gv, xix, 34-35). Quali le ragioni di tale bisogno di garantire la veridicità della sua testimonianza? C’era forse qualcuno che l’aveva messa in dubbio? Se sì, quali erano le motivazioni del dubbio? Nasceva forse il dubbio dal fatto che il suo testo fosse troppo difforme dai sinottici? La risposta è positiva per almeno due ragioni. La prima è che Giovanni si rivolge ad una comunità gnostica e prossima all’eresia; oggi si tenta di occultare questa possibile verità supponendo che egli avesse formato intorno a sé ad Efeso una scuola o un circolo. Ad una predicazione giovannea ad Efeso fanno pensare Ireneo e Policrate. Ma gli interpreti moderni(68) vanno ben (66)  Ireneo, Adv., haer., ii, 22, 5; Eusebio, HE, iii, 23, 3-4. (67)  Eusebio, HE, iii, 24, 2. (68)  Cfr. in proposito B. Maggioni, Introduzione all’opera giovannea, Milano, Paoli-

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oltre ed ipotizzano che il frequente uso del ‘noi’ nel quarto vangelo (ii, 17, 22; xii, 16) sia riferito alla Chiesa. In tutte e tre le citate pericopi si fa cenno ai ricordi dei discepoli e Ratzinger, presupponendo l’esistenza di una comunità giovannea, commenta: «Il soggetto del ricordo che qui parla è sempre il noi della Chiesa»). Ma si tratta di una manifesta forzatura, perché nei passi indicati i soggetti del ricordo sono sempre e soltanto i discepoli; e per giunta i ricordi sono sempre collegati a luoghi dell’AT; perciò non si può dare ad essi alcuna privilegiata suggestione. La seconda ragione riguarda gli obiettivi che l’autore di Giovanni si proponeva di raggiungere con la scrittura del quarto vangelo. In proposito la notizia più preziosa ci vien data da Clemente Alessandrino (citato da Eusebio(69)) secondo il quale Giovanni avrebbe scritto per contrastare la narrazione dei sinottici troppo schiacciata sul versante della materialità delle cose umane del Cristo ed avrebbe pertanto concepito il suo come «un vangelo spirituale». Lo stesso Girolamo, forse sulla scorta di Clemente, conferma che Giovanni avrebbe scritto ad Efeso contro gli eretici che negavano la divinità del Cristo, in quanto negavano la sua pre-esistenza a Maria. Dunque ci sarebbe un contrasto tra l’umanità del Cristo dei sinottici e la divinità del Cristo del quarto vangelo; nei primi la divinità sarebbe appena abbozzata, nel secondo passerebbe in secondo piano l’umanità. Nello slittamento dagli uni all’altro la cristologia prese definitivamente corpo. Anche qui siamo davanti ad un innegabile processo storico. Nel tentativo di giustificare la differenza con i sinottici, uno studioso come Percival Gardner-Smith(70) ha supposto che Giovanni ne conoscesse una redazione diversa da quella che è oggi a noi nota. Ma sono solo scappatoie congetturali. Non è pensabile il quarto vangelo senza i sinottici; il problema è che non riusciamo a spiegarci le loro discrepanze. Come si possono giustificare le divergenze tra Matteo e Giovanni, considerato che, trattandosi di testi ispirati, non dovrebbero essercene di così grandi? La questione è tanto più rilevante quanto più si stabilisce una dipendenza di Giovanni da Marco, come crede di poter fare Theissen.(71) Per Baur, della scuola di Tune, 2009; J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Milano, Rizzoli, 2007. (69)  Eusebio, HE, vi, 14, 7. (70) P. Gardner-Smith, Saint John and the Synoptic Gospels, Cambridge, University Press, 1938, pp. ix sqq., condiviso da R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1941; Ch. H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo, cit.; R. E. Brown, The Gospel According to John, Garden City, Doubleday, 1970; Id., The Gospel and Epistles of John, Collegeville, Liturgical Press, 1988, pp. 12-13. (71) G. Theissen, Il nuovo Testamento, cit.

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binga, le differenze di opinioni tra gli estensori dei testi possono dipendere dai tentativi di correggerli. Viviano(72) ha cercato invano di sciogliere le perplessità su 12 discrepanze tra Matteo e Giovanni. Per la verità ci sono inequivocabili tracce di dipendenza del vangelo giovanneo dai sinottici, ma l’esegetica cattolica insiste sulla sostanziale autonomia di Giovanni. Anche quando ci si imbatte in casi di evidente dipendenza, si tende a sottolineare che il quarto vangelo utilizza diversamente il materiale veicolato dai sinottici. Ma perché Giovanni ne farebbe un utilizzo così profondamente diverso? Si replica che egli scrisse in una realtà storica diversa e fu fortemente polemico con la sinagoga perché, pur utilizzando categorie giudaiche (Figlio dell’Uomo, Messia, Abramo, Giacobbe ecc.), conobbe il clima della distruzione del tempio, quando si era ormai prodotta la frattura tra giudaismo e cristianesimo e gli ebrei si erano ormai chiusi nella rigorosa fedeltà alla Torah. Ma ciò significa procedere per schematismi. È troppo ingenuo credere che la reazione ebraica alla demolizione del tempio sia così semplificabile. La distruzione del tempio portò certamente ad una profonda diversificazione di posizioni e fu indubbiamente causa di una riflessione filosofico-teologica che si articolava in diverse ideologie, anche in contiguità con l’ellenismo e con i culti misterici; ciò si verificò almeno fino alla rivolta di Bar Kochba. Se Matteo e Luca, che ruotano attorno al tema del «regno di Dio» non sembrano ancora avere spezzato il cordone ombelicale di matrice enochica, il vangelo di Giovanni è forse pensabile come espressione di un cristianesimo ellenizzato o gnosticizzato, a meno che non si vogliano scorgere anche nella cristologia giovannea radici esseniche ed enochiche nella trasformazione del concetto di «Figlio di Dio» dall’uomo calato nel tempo storico alla personificazione della sapienza e della parola di Dio. A differenza dei sinottici che pongono l’accento più sul regno di Dio che sulla persona del Cristo, Giovanni si concentra nella costruzione di una cristologia teologizzata, più che storicizzata. Secondo Flusser Giovanni scrive tra i Gentili e per i Gentili e forse con punte di antisemitismo,(73) ridimensionato da Pesch(74) e attribuito dallo stesso Flusser ad un falsario ebreo, il quale – a suo dire – avrebbe manipo(72) B. Viviano, Matthew and his World. The Gospel of the Open Jewish Christians Studies in Biblical Theology, Göttingen, Vandenhoeck and Ruprecht, 2007, pp. 193-217. (73) D. Flusser, Anti-Jewish Sentiment in the Gospel of Matthew, in Judaism of the Second Temple Period, vol. ii, Grand Rapids, Michigan, Eerdmans, 2009, pp. 351-353. (74) R. Pesch, Antisemitismus in der Bibel? Das Johannesevangelium auf dem Prüfstand, Augsburg, Sankt Ulrich Verlag, 2005.

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lato il quarto vangelo dopo la distruzione del tempio. Altri ritengono che Giovanni si rivolga a cristiani di origine pagana e di formazione ellenistica. Qualche studioso vuole che il vangelo sia stato scritto nel momento in cui si produsse la separazione della chiesa dalla sinagoga.(75) Delbert Burkett(76) è convinto che Giovanni scrisse per i giudeo-cristiani espulsi dalla sinagoga e, per spiegare il diverso ordine degli eventi rispetto ai sinottici, afferma che il suo vangelo è una ricucitura di brani differenti. Anche Burkett fa riferimento ad una scuola giovannea, ma lo fa sapendo che non è sostenibile la tradizionale attribuzione della paternità del vangelo a Giovanni. In alternativa Charles Kingsley Barrett(77) suppone che i redattori di Giovanni avevano conoscenza dei sinottici ma non avevano accesso alle loro copie. In realtà la separazione della chiesa dalla sinagoga è una congettura che manca di supporti storici. In primo luogo perché il cristianesimo ha le sue origini in moti settari che già da tempo avevano rotto i ponti con la sinagoga rimasta sotto influenze farisaiche e sadducee. In secondo luogo perché l’organizzazione delle comunità cristiane in una chiesa istituzionalizzata fu un percorso lento e si concretizzò solo tra il secondo e il terzo secolo. Tutta questa congerie di congetture ha un solo obiettivo: quello di assicurare al vangelo giovanneo una datazione alta. Ma la realtà è ben diversa; il quarto vangelo non è che una elaborazione tardiva, teologicamente influenzata dalla gnosi, scritto forse in Egitto, da cui proviene il primo papiro che ce lo trasmette, e non ad Efeso, come vuole la tradizione. È significativo che si sia segnalata l’affinità tra il vangelo giovanneo e la Protennoia trimorfica,(78) opera gnostica del 150 d.C. Ma forse queste presunte parentele sono più frutto di arzigogoli che di dimostrazioni, perché non è improbabile che entrambe le opere, siano figlie di uno stesso clima cul(75)  Qualche perplessità sorge in merito all’ordinamento sinagogale. Sappiamo che le sinagoghe si svilupparono a seguito di una intuizione di Yochanan ben Zakkai nel primo secolo dopo Cristo. Le più antiche sinagoghe a noi note (quella di Alessandria, citata nella legatio di Filone e quella di Iamnia del 45) non sono anteriori al 40 d.C. La loro diffusione ebbe luogo soprattutto dopo la distruzione del tempio nel 70, allorché, come scrive R. Bultmann, Cristianesimo primitivo e religioni antiche, Genova, Edizioni Culturali Internazionali, 1995, p. 52, il ruolo di quest’ultimo «a poco a poco […] fu assunto dalla sinagoga», come sede di insegnamento e di lettura e commento dell’Antico Testamento. (76) D. Burkett, An Introduction to the New Testament and the Origins of Cristianity, Cambridge, University Press, 2002, p. 224. (77)  Ch. K. Barrett, The Gospel Acconding to St. John, cit., p. 17. (78)  J. D. Turner, The Nag Hammadi Library in English, San Francisco, Harper, 1990.

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turale e religioso. Al di là della attendibilità o meno di tale supposizione, resta il fatto che il vangelo giovanneo era apprezzato in area gnostica come dimostra il commento che ne fece Eracleone.(79) A pro di ascendenze gnostiche si attesta anche Rudolf Bultmann,(80) che ne riconosce senza difficoltà le impronte nell’idea dell’incarnazione. Per Marin Hengel,(81) invece, per il quale il vangelo giovanneo è ascrivibile al primo secolo, non esisterebbe alcun mito gnostico pre-cristiano. Non poche polemiche sono sorte in merito alla paternità. Raymond Brown(82) vuole che l’autore si identifichi con Giovanni di Zebedeo. Ma l’ipotesi è contestata da Delbert Burkett,(83) il quale rileva che difficilmente un semplice popolano, figlio di un pescatore, avrebbe potuto avere la cultura teologica evidenziata nel vangelo. Avvalendosi delle tesi di Henri Cazelles,(84) secondo cui i sacerdoti ebrei avevano una propria professione, Ratzinger non esclude che lo stesso Zebedeo potesse essere un sacerdote. Ma sono ipotesi campate sul nulla. Se Zebedeo fosse stato un sacerdote, i sinottici ce lo avrebbero fatto sapere. D’altro canto nel testo di Giovanni l’ambiente sacerdotale è sempre percepito come sostanzialmente ostile. Per ovviare a tali inconvenienti una più farraginosa ipotesi è stata proposta da Peter Stuhlmacher,(85) per il quale il vangelo risalirebbe sì a Giovanni di Zebedeo, come teste oculare, ma sarebbe stato messo per iscritto da Giovanni il presbitero, suo fedele portavoce. Per paradossale che possa sembrare anche Ratzinger fa affidamento sulla figura di Giovanni il presbitero. Anzi la sua coesistenza ad Efeso con Giovanni di Zebedeo sarebbe – a parere di Ratzinger(86) – una conferma che nell’Asia Minore si fosse costituita una comunità giovannea, dotata di una propria teologia e di una propria cristologia. Ne farebbero fede la seconda e la terza lettera di Giovanni nelle quali l’autore è designato appun(79)  Cfr. E. H. Pagels - Ch. W. Hedrick, Nag Hammadi Codices xi, xii, xiii, Leiden, Brill, 1990, pp. 371-375. (80) R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes, cit. (81) M. Hengel, Der Sohn Gottes: die Entstehung der Christologie und die judisch-hellenistischen Religionsgeschichte, Tübingen, Mohr, 1975; Id., Die Johanneische Frage: ein Lösungsversuch, Tübingen, Mohr, 1993. (82)  R. E. Brown, Giovanni. Commento al vangelo spirituale, Assisi, Cittadella, 1979. (83) D. Burkett, An Introduction to the New Testament,cit. (84)  H. de Cazelles, Johannes. Ein Sohn des Zebedäus, Priester und Apostel, «Internationale katholische Zeitschrift Communio», xxxi, 2002, pp.479-484. (85) P. Stuhlmacher, Biblische Theologie des Neuen Testaments, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1999. (86) J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, cit.

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to con l’appellativo di presbitero. Sicché l’eminente studioso ne trae la conclusione che, fermo restando che l’autore del quarto vangelo sia Giovanni di Zebedeo, il presbitero ne sarebbe stato il portavoce e conseguentemente l’estensore materiale. Tutto sembra quadrare. Peccato che tutta la costruzione presenta una falla insanabile: Giovanni il presbitero è esistito solo nella fantasia di Papia o forse solo di Eusebio, tant’è che di lui non v’è traccia fino alla Historia ecclesiastica. Tutto ciò che possiamo dire è che il redattore delle due lettere giovannee, il quale scrive nel tardo secondo secolo poco prima della compilazione del Canone muratoriano, ricorre alla pseudepigrafia e le attribuisce ad un imprecisato ‘presbitero’ (ὁ πρεσβύτερος), forse lo stesso Giovanni citato da Papia in un contesto tutt’altro che limpido e chiaro. D’altro canto, se attribuiamo al ‘presbitero’ tanto la forma redazionale del quarto vangelo quanto le due citate lettere giovannee, l’ipotesi dovrebbe trovare riscontro nella identità dello stile o almeno del contenuto. Ma siamo ben lontani dal conseguire un tale risultato. È poi paradossale che taluni studiosi affermino che in Giovanni, in merito ai tempi e ai luoghi, si avvertono conoscenze che possono essere ammesse solo da parte di chi era stato presente agli eventi. Per la verità le cose stanno in senso del tutto opposto, perché la narrazione di Giovanni è esclusivamente teologica e non si cura affatto della verità storica. Giovanni procede ad una costante alterazione del dettato dei vangeli sinottici e persegue una propria finalità filosofico-teologica. Né può sorprendere che egli faccia frequenti riferimenti all’AT, perché ciò accade in forma più o meno accentuata in tutti i vangeli. Concludendo questo breve paragrafo, conviene riconoscere che non siamo in grado di individuare l’identità degli autori dei quattro vangeli canonici e che incerta e puramente ipotetica risulta l’individuazione dell’area geografica della loro provenienza. Tutto ciò che possiamo dire è che siamo di fronte ad ignoti autori cristiani che scrivono per comunità cristiane. È un magro raccolto, ma di più non possiamo dire se non a rischio di imbatterci in mere congetture, neppure verosimili. 2.9.  La lingua e lo stile dei vangeli Si ritiene che Marco abbia scritto in un ambiente bilingue in cui si parlavano comunemente il greco e il latino, come dimostra il fatto che il suo vangelo è contaminato da latinismi, ma si rivolge a comunità che parlano

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abitualmente la koinē. Probabilmente egli è di origine ebraica poiché in lui sono frequenti anche i semitismi e discreta è la sua conoscenza delle tradizioni ebraiche e della lingua ebraica. Ciò si evince dal fatto che egli spiega il significato delle parole greche ed ebraiche al lettore. Infatti scioglie, sia pure con scarsa affidabilità filologica, l’appellativo Boanerges (βοανηργές), riferito ai due figli di Zebedeo, in υἱοὶ βροντῆς· = ‘figli del tuono’; spiega l’uso della purificazione delle mani; chiarisce che il primo giorno degli azzimi è il giorno in cui si celebrava la pasqua.(87) Traduce (anzi trascrive e traduce) dall’aramaico al greco le seguenti parole o espressioni: talika koum (ταλιθα κουμ) in κοράσιον, σοὶ λέγω, ἔγειρε = «fanciulla, ti dico, alzati»); korban (κορβᾶν) in δῶρον = ‘offerta’; efhfhatà εφφαθα in διανοίχθητι = ‘apriti’; Bartimeo (βαρτιμαῖος) in ὁ υἱὸς τιμαίου = ‘il figlio di Timeo’; τὸν γολγοθᾶν τόπον (= il luogo del Golgota) in κρανίου τόπος = il luogo del cranio; abba (αββα) in πατήρ = padre; parasceve (παρασκευή) in προσάββατον = vigilia del sabato.(88) Infine traduce le ultime parole di Cristo «Eloì Eloì, lema sabactàni» (ελωι ελωι λεμα σαβαχθανι) nel greco ὁ θεός μου ὁ θεός μου, εἰς τί ἐγκατέλιπές με = «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc, xv, 34). La dipendenza di Marco dal mondo latino si rivelerebbe nell’uso di termini di origine latina come μόδιον/modius = moggio, λεγιὼν/ legio = legione, σπεκουλάτορα/speculator = soldato di guardia, δηναρίων/denarius = denario, ξεστῶν da sextarius, κοδράντης per quadratus, πραιτώριον per Praetorium, κεντυρίων per Centurion.(89) Se si esclude μόδιον, si tratta di termini relativi prevalentemente alla organizzazione militare romana e alla monetazione corrente i quali erano probabilmente comuni in tutte le regioni sottoposte al dominio romano. Ciò significa che essi non ci danno alcuna certezza in merito all’ipotesi che il vangelo marciano sia stato redatto a Roma per la prima comunità cristiana romana, come suppone Brandon.(90) L’esegeta, anzi, si spinge oltre e sull’onda della esigenza di interpretare il vangelo marciano nel suo ambiente d’origine (Sitz im Leben), ricostruisce le coordinate del protocristianesimo romano a partire dalla rivolta giudaica del 66 d.C. Osta a questa congettura il fatto che non abbiamo alcuna evidenza archeologica relativa alla presenza cristiana a Roma nel primo secolo. Abbiamo sì la presenza di giudei, ma non di cristiani. La (87)  Mc, iii, 17; vii, 3; xiv, 12. (88)  Mc, v, 41; vii, 11, 34; x, 46; xv, 22; xiv, 36; xv, 42. (89)  Mc, iv, 21; v, 9, 15; vi, 27, 37; vii,4; xii, 42; xv, 16, 39, 44-45. (90)  S. G. F. Brandon, Il processo a Gesù, cit., p. 118.

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più antica testimonianza romana risale alla metà del ii secolo ed è costituita dall’edicola scoperta sulla presunta tomba di Pietro in Vaticano. Poiché non è verosimile che il testo marciano sia così tardo, è forse più ragionevole supporre che sia stato scritto in un ambiente cristiano più antico, quale fu certamente Antiochia di Siria. L’importanza di Marco sta soprattutto nel fatto che egli fu l’inventore di quel genere letterario che noi conosciamo come vangelo (in greco εὐαγγέλιον = buona novella). Il vangelo marciano costituisce, infatti, la prima storia degli atti e dei detti di Cristo. Non è però una vera e propria biografia, perché non è la narrazione della vita di Cristo; anzi l’autore non ha affatto l’intento di scrivere una storia. Lo si capisce dalla genericità con cui indica i tempi della narrazione. Non ci sono vere e proprie coordinate temporali o, meglio, quelle che ci sono sono solo fittizie, perché si riducono a pochi avverbi temporali (allora, subito, di nuovo, frattanto) o a scarne locuzioni (in quei giorni, essendo sabato, venuta la sera, al mattino, dopo alcuni giorni, un giorno, in quel medesimo giorno, venuto il sabato, sei giorni dopo, il giorno dopo, la mattina seguente, mancavano due giorni alla festa della pasqua e degli azzimi, il primo giorno degli azzimi, passato il sabato) e a vaghe indicazioni spazio-temporali (mentre usciva dal tempio, mentre saliva sul Monte degli Ulivi, mentre era a Betania). Tutto il racconto resta sfumato, indefinito, fabuloso. Per qualsiasi altro autore non avremmo difficoltà a dire che egli inventa; che non scrive una storia, ma un romanzo. Ma su questo punto torneremo a breve.(91) Il lessico di Marco è povero. Il suo vangelo è appena una bozza della vita di Cristo; consta in tutto di 662 versetti e di 11.230 parole con un lessico di base che è forse inferiore a 2.000 vocaboli. Il suo stile popolare eredita dalla lingua ebraica la prevalenza della paratassi e del discorso diretto. Ciò rende il suo testo accessibile anche agli strati più umili della popolazione e ne determina lo straordinario successo. In mancanza di referenti storici concreti, Marco ricorre al presente storico per vivacizzare e attualizzare la narrazione. La povertà lessicale e stilistica si traduce spesso nell’abuso di taluni termini, come il verbo ‘insegnare’ e il connesso sostantivo ‘insegnamento’,(92) nella frequenza di (91) Cfr., infra, pt. III, par. 3.16. (92)  La parola διδαχὴ occorre 5 volte in Marco (i, 22, 27; iv, 2; xi, 18; xii, 38); il verbo διδάσκω presenta 17 occorrenze (i, 21, 22; ii, 13; iv, 1, 2; vi, 2, 6, 30, 34; vii, 7; viii, 31; ix, 31; x, 1; xi, 17; xii, 14, 35; xiv, 49).

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verbi ausiliari, servili e aspettuali(93) o di alcuni costrutti, e nella riproduzione di determinati moduli narrativi. Il caso più manifesto di narrazione modulare è dato dalle guarigioni del sordomuto e del non vedente,(94) il cui schema è il seguente: presentazione del malato; imposizione delle mani, separazione dalla folla, uso della saliva, guarigione miracolosa, ordine di tacere ovvero mistero esoterico. Con poche varianti o con omissioni di qualche passaggio il modulo si ripete per la guarigione del lebbroso, della figlia di Giairo, dei malati di Gennesaret.(95) Alla stessa logica obbediscono gli esorcismi a Cafarnao,(96) le due moltiplicazioni dei pani e dei pesci(97) e le tre profezie della passione.(98) La trasfigurazione è, invece, reminiscenza da Enoc.(99) Il testo di Marco rivela, anche solo ad una lettura superficiale, tutta la fragilità di una narrazione disordinata, ove l’attività predicativa del Cristo si frantuma nella occasionalità degli atti e dei detti, in spasmodici spostamenti spesso in località non definite all’interno della Galilea e sulle rive del lago senza un piano o un progetto prestabilito. L’impressione che se ne ha è che molti dettagli della narrazione sono riempitivi, servono a dilatarla, fanno da contorno o sono preparatori al racconto della passione, che rappresenta il cuore della narrazione ed è il vero e proprio oggetto della fede cristiana. Matteo avverte il bisogno di dare un ordine alla materia, ma non ha davanti a sé che il testo marciano e perciò concepisce il suo intervento come un tentativo di dare ai detti frammentari del Cristo la veste unitaria e organica del discorso. Ma se scarsa è la credibilità del racconto marciano per la sua frammentarietà, ancor meno credibile è la versione matteana che, pur lasciando pressoché inalterati gli itinerari della predicazione galilea, la riorganizza in soli cinque discorsi. Luca dispone la materia ripristinando, ove più ove meno, l’ordine di Marco, ma ovviamente tiene sott’occhio Matteo e, (93)  È noto che Marco usa frequentemente il verbo ἄρχω, soprattutto nella forma dell’aoristo ἤρξατο (i, 45; iv, 1; v, 20; vi, 2, 7, 34; viii, 31, 32; x, 28, 32, 47; xi, 15; xii, 1; xiii, 5; xiv, 33, 69, 71; xv, 8), ma l’uso è abbastanza frequente anche in Matteo (iv, 17; xi, 7, 20; xvi, 21, 22; xxvi, 37, 74) e in Luca (iv, 21; vii, 15, 24, 38; ix, 12; xi, 29; xii, 1; xiv, 30; xv, 14; xix, 45; xx, 9). Tali occorrenze confermano la reciproca dipendenza dei tre sinottici. (94)  Mc, vii, 32-36; viii, 22-26. (95)  Mc, i, 40-44; v, 41-43;vi, 56. (96)  Mc, i, 23-28; 34, ix, 14-29. (97)  Mc, vi, 30-44; viii, 1-10. (98)  Mc, viii, 31; ix, 31; x, 33-34. (99)  Mc, ix, 2-10; Ens, xxi, 6-10.

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laddove la soluzione matteana risulta più convincente, la fa propria. Matteo scrive in un buon greco e il suo stile è assai prossimo a quello della Septuaginta. Ma non mancano le radici semitiche, come si evince dall’uso frequente della paratassi. Secondo Ricciotti(100) d’impronta semitica sarebbe anche la tipica espressione matteana ‘Regno dei Cieli’ che, a suo avviso, deriverebbe dall’aramaico: malkuta dishemajja (ebr. malkut shammayim) usata in ossequio al divieto di nominare Dio. Lo stile di Luca è apprezzato anche sotto il profilo letterario; una maggiore eleganza si riscontrerebbe nei primi due capitoli (con un greco affine a quello della Septuaginta). In genere non sarebbero presenti in Luca forme di semitismi (tranne nei primi due capitoli, in cui dipendono dalla materia trattata che è appunto ispirata ai testi dell’AT). A differenza di Marco e Matteo Luca evita la paratassi, si serve di brani introduttivi e sviluppa molto le conclusioni. Secondo Sabourin(101) il suo greco è più fluido nella narrazione ed ha caratteristiche ebraiche nella citazione dei detti di Cristo. Ma va detto che il testo lucano non è più attendibile degli altri due sinottici per il semplice fatto che Luca non è più fedele alla parola del Cristo, ma più semplicemente attinge i lógia da Marco e da Matteo. Egli ha la pretesa di scrivere un’opera storiografica sul modello della cultura greco-ellenistica. Nel prologo, che peraltro sembra ricalcare l’Ẻξηγήσις di Papia,(102) rivolgendosi ad un oscuro Teofilo, non identificabile, stigmatizza le linee direttive del suo progetto storiografico nel seguente ordine: 1) molti si sono cimentati nel dare ordine (ἀνατάξασθαι) alla narrazione (διήγησιν) di quanto è «accaduto in mezzo a noi» (e qui l’allusione a Matteo è fuori di ogni dubbio); 2) essi (con probabile riferimento a Marco) li hanno narrati così come ci sono stati trasmessi dai testimoni oculari, custodi della parola (αὐτόπται καὶ ὑπηρέται γενόμενοι τοῦ λόγου); 3) Luca vuole scrivere un resoconto ordinato (καθεξῆς) intorno agli stessi fatti; 4) afferma di aver «aver fatto su tutto diligenti ricerche»; 5) scrive con l’obiettivo di stabilire la solidità/certezza (τὴν ἀσφάλειαν) delle parole/narrazioni (περὶ ὧν […] λόγων) (100) G. Ricciotti, Vita di GesùCristo, Milano, Mondadori, 1962; cfr. P. Coda, I quattro vangeli. Introduzione, Milano, Rizzoli, 2005. (101) L. Sabourin, Il vangelo di Luca, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1989. In realtà le caratteristiche ebraiche dei lógia sono invocate per mera opportunità ermeneutica. Di fatto Luca formula i lógia quasi nella stessa forma di Marco e di Matteo, salvo una maggiore attenzione all’eleganza stilistica, del tutto indipendente da una presunta fonte aramaica o ebraica. (102)  Eusebio, HE, iii, 39, 3-4.

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dei testimoni oculari. Sulla base di questo prologo si è spesso preteso che la storiografia di Luca avesse un carattere scientifico e si è sostenuto che egli volesse in ciò imitare la storiografia greca; ma è sufficiente riflettere sulla fragilità della impostazione del prologo per accorgersi che egli ne è assai lontano. In primo luogo bisogna chiedersi chi sono i «molti» (πολλοὶ) che si sono cimentati nel mettere ordine nella narrazione evangelica. Se sono veramente molti, v’è da pensare che egli scrive a notevole distanza dagli eventi narrati (il che conferma la tarda datazione del suo vangelo), poiché evidentemente tra i ‘molti’ include anche gli apocrifi, quali potrebbero essere il Vangelo degli Ebrei, attestato da Papia, o altri apocrifi, forse il Vangelo di Tommaso o testi gnostici. Naturalmente è doveroso pensare anche a Marco e a Matteo, soprattutto a Matteo che aveva già tentato di mettere ordine nella versione marciana. D’altronde se quei ‘molti’ hanno scritto secondo i racconti forniti dai testimoni oculari, i quali si erano addirittura fatti testimoni/servitori della parola, a che pro fare ricerche diligenti (ἀκριβῶς) su altre fonti? Se l’autore di Luca intende dire che ha fatto ricerche su altri testimoni oculari, cioè su altri apostoli, avrebbe dovuto indicarcene il nome. Se invece si è trattato di ricerche su fonti indirette, non si capisce a che pro prenderle in considerazione, dal momento che quei ‘molti’ avevano trasmesso una narrazione conforme alle fonti dirette. Ma più a monte c’è da chiedersi: da dove nasceva il bisogno di garantire la certezza e la solidità delle narrazioni trasmesse dai testimoni oculari? Erano forse emersi dubbi sulle versioni di Marco e di Matteo? O forse su quelle degli apocrifi? Luca sembra scrivere in una situazione caotica, in cui la trasmissione del messaggio originario è compromessa dall’accavallarsi di interpretazioni diverse che rendevano sempre più sfumato e nebuloso il messaggio cristiano. Da ciò l’esigenza di appoggiarsi, nelle sue diligenti ricerche, a Marco e a Matteo, considerati come i testi più affidabili. Sicché probabilmente il suo progetto è sì quello di mettere ordine nella materia evangelica, ma nel senso di dare una più organica veste alle narrazioni marciana e matteana, visto che altri, i ‘molti’, gli apocrifi, l’avevano trattata in modo disordinato. Più che un progetto storiografico, quello di Luca era un progetto catechetico-religioso che puntava a dare conferma della fondatezza di una narrazione e della fede in un insegnamento. Si vuole che Luca abbia fatto altrettanto negli Atti, il cui prologo è indirizzato allo stesso oscuro, questa volta non più definito ‘illustre’, Teofilo. In realtà il prologo degli Atti è assai più striminzito e vago di quello del ter-

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zo vangelo. Non c’è l’indicazione di un vero e proprio progetto o programma di scrittura, né è esplicitato l’obiettivo che l’autore intende perseguire. C’è solo l’aggancio con il terzo vangelo nel quale afferma di aver trattato degli atti e degli insegnamenti (ποιεῖν τε καὶ διδάσκειν) del Cristo sino alla sua ascensione al cielo. Il testo prende l’avvio dalla epifania del Cristo ai discepoli, ma ne fornisce una versione che non è coerente con il testo lucano.(103) Pertanto il prologo resta campato in aria, poiché non ha alcun rapporto con il testo se non nella accidentale citazione dei discepoli. In realtà ciò che induce l’autore degli Atti a scrivere quel prologo è solo l’esigenza di nascondere dietro uno schermo la forma pseudepigrafa. L’ignoto autore cioè vuole accreditare il suo racconto riagganciandolo ad una personalità che era nota come l’autore del terzo vangelo. È possibile che entrambi i testi pseudepigrafi fossero opera dello stesso autore? Si vuole che essi abbiano in comune lo stile.(104) Per la verità, a giudicare dai due prologhi non si direbbe, ma in ogni caso rinviamo tale questione ad un luogo più opportuno.(105) Per ora ci basti dire che la presunta storiografia scientifica di Luca sul modello di quella greca non è che una colossale montatura. Non c’è nulla nel testo lucano che faccia pensare ad un’indagine scientifica e critica; c’è solo l’aggiunta, rispetto agli altri due sinottici di presunti dati storici che dovrebbero costituire la cornice entro cui inquadrare la narrazione evangelica. Vedremo più avanti quanto tale cornice regga o meno; qui possiamo anticipare che essa è in gran parte desunta dalle Antiquitates e dal Bellum judaicum di Giuseppe Flavio. 2.10.  Ulteriori elementi a favore di una tarda datazione dei vangeli Che i vangeli siano tardivi e che non possano farsi risalire al primo secolo è provato sia da elementi interni che esterni ai testi. I primi dati inconfuta(103)  Per gli Atti (i, 3) l’epifania di Cristo sarebbe durata quaranta giorni, ma di ciò non v’è traccia nel Vangelo di Luca, come non v’è traccia dei lógia riportati in Atti, i, 4-8 (almeno in relazione all’epifania). (104) U. Schnelle, The History and Theology,cit., p. 259. Per altri riferimenti incrociati tra essi, cfr. W. Barclay, The Gospel of Luke, cit.; D. Horrell, An Introduction to the Study of Paul, London, Clark, 2006, p. 7; W. L. Knox, The Acts of the Apostles, Cambridge, University Press, 1948, pp. 2-15; F. F. Bruce, The Acts of the Apostles, Grand Rapids, Eerdmans, 1990, pp. 2-3. (105) v. infra, pt. IV, par. 2.16.

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bili sono la citazione della distruzione di Gerusalemme e la probabile allusione ad una persecuzione anticristiana; a questi si aggiungono la datazione dei manoscritti o papiri e le testimonianze dei Padri del secondo e del terzo secolo, i quali, nel tentativo di collegare i vangeli direttamente alla predicazione di Pietro o di Paolo, procedono alla identificazione dei loro presunti autori, pescando tra i personaggi menzionati nelle epistole paoline. Si può certo concedere che nella cosiddetta «piccola apocalisse»,(106)che ricorre in tutti e tre i sinottici,(107)con la predizione della distruzione di Gerusalemme, i tre autori abbiano tratto dalle profezie di Daniele e di Isaia(108) suggestioni letterarie, ma non v’è chi non vede che ad essa si accompagna la loro diretta esperienza di un momento tragico della storia ebraica. Il dramma della sofferenza («Sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre […] insorgerà popolo contro popolo, regno contro regno […] Questo è l’inizio delle doglie») non può assolutamente derivare dai due antichi profeti perché è manifestamente il risultato di un’esperienza vissuta, che, in quanto tocca le corde dei sentimenti più profondi di un’intera comunità, si fissa indelebilmente nella memoria collettiva. L’abominio della desolazione non consiste più, come in Daniele, nella profanazione del tempio, ma nella sua distruzione; anzi, nella distruzione della stessa città santa. In entrambi i casi siamo di fronte ad una grave sfasatura cronologica, un disallineamento tra il tempo della predicazione e quello della distruzione del tempio. Chi scrive il vangelo di Marco scrive dopo il 70 e cade nel banale anacronismo di attribuire a Cristo una profezia post festum.(109) L’esperienza di patrioti, esseni o zeloti, che, che dalla guerra giudaica alla rivolta di Bar Kochba, si sono sacrificati per la fede, gli fa prevedere l’imminenza delle persecuzioni. Particolarmente significative sono le seguenti pericopi:

(106)  La piccola apocalisse di Marco sembra in parte ispirata alla piccola apocalisse del Libro dei Giubilei, cfr. pt. III, par. 2.2. Tuttavia la specificità di Marco sta nel fatto che egli la pone in stretta relazione con le persecuzioni anticristiane, come fatto storico. (107)  Mc, xiii, 1-30, Mt, xxiv, 1-34, Lc, xxi, 5-32. (108)  Dn, vii, 13; ix, 26-27; xii, 1; Is, xiii, 10; xxxiv, 4. (109)  Sulle profezie ex eventu, cfr. P. J. Achtemeier, The Gospel of Mark, in D. N. Freedman (ed.), The Anchor Bible Dictionary, cit., vol. iv, p. 545; J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. ii, pp. 1154-1156; R. Helms, Who Wrote the Gospels, Altadena, Millennium Press, 1997, p. 8; R. W. Funk - R. W. Hoover, The Five Gospels; the Search for the Authentic Words of Jesus; New York, Macmillan, 1993; J. D. Crossan, Historical Jesus, cit.

800  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle assemblee, comparirete davanti ai governatori e re per causa mia […]. Prima è necessario che l’evangelo sia annunciato a tutte le genti […] il fratello farà morire il fratello, il padre il figlio […] sarete odiati da tutti a causa del mio nome.

La fantasia degli storici si è sbizzarrita non poco su questi dettagli. C’è chi ha voluto scorgervi le persecuzioni neroniane,(110) chi quelle domizianee e chi le traianee. Le persecuzioni neroniane sono generalmente invocate da chi ha la preoccupazione di retrodatare la narrazione evangelica per farla coincidere con i tempi della passione. Ma è noto che non ci furono persecuzioni anticristiane da parte di Nerone, il quale cercò, se mai, di arginare la diffusione dei collegia illicita; in ogni caso i suoi provvedimenti non erano diretti a colpire coloro che si professavano cristiani («a causa del mio nome»). Lette con la dovuta perspicacia, si intuisce che le pericopi citate non chiamano in causa provvedimenti imperiali, ma semplicemente poteri locali, come sovrani dell’area palestinese e governatori romani. Esse in effetti sembrano collimare perfettamente con la versione che sui cristiani fornisce a Traiano Plinio il Giovane intorno al 112. Se assumiamo come punto di riferimento la lettera pliniana tutti i tasselli trovano la loro giusta collocazione. Plinio, che è appunto il governatore romano della Bitinia, parla di un clima di delazioni e Marco afferma che esse dilaniarono persino le famiglie («Il fratello farà morire il fratello, il padre il figlio»); il governatore romano si chiede se deve perseguire i cristiani per il loro stesso nome e Marco conferma che essi saranno odiati a causa del nome. L’evangelista accenna implicitamente ad una distanza temporale che è quella presupposta dalla predicazione del vangelo a tutte le genti («Ma è prima necessario che l’evangelo sia annunciato a tutte le genti») e Plinio conferma che nei primi decenni del secondo secolo il messaggio cristiano cominciava ad avere una prima diffusione, tant’è che egli, come sappiamo, ne è seriamente preoccupato. Insomma il clima della lettera pliniana è lo stesso che ha presente l’autore di Marco. Se ne deve dedurre che egli scrive verosimilmente intorno al 110, che pertanto costituisce il terminus a quo della composizione del suo vangelo e, pour cause, del vangelo di Matteo. Non mi pare invece credibile l’ipotesi di chi(111) mette in relazione la pic(110)  R. E. Brown, Introduction to the New Testament, New York, Doubleday, 1997, pp. 596-597. (111) J. Marcus, The Way of the Lord: Christological Exegesis of the Old Testament in

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cola apocalisse con la rivolta di Bar Kochba; il versetto nove della parabola dei vignaioli omicidi in cui si parla di un trasferimento della proprietà della vigna («Il signore della vigna […] verrà e ucciderà quei contadini e darà la vigna ad altri») è – a mio avviso – troppo vago e insieme troppo debole per essere riferito alla occupazione romana di Gerusalemme del 135. Diverso è invece il caso del vangelo di Luca la cui datazione è posteriore al 135. Lo si deduce mettendo a confronto i tre sinottici. Marco e Matteo alludono genericamente alla profezia di Daniele: «Quando vedrete l’abominio della desolazione» (ὅταν δὲ ἴδητε τὸ βδέλυγμα τῆς ἐρημώσεως).(112) Luca è più circostanziato e scrive: «Quando vedrete Gerusalemme circondata dagli eserciti, sappiate che allora la sua desolazione è vicina» (ὅταν δὲ ἴδητε

κυκλουμένην ὑπὸ στρατοπέδων ἰερουσαλήμ, τότε γνῶτε ὅτι ἤγγικεν ἡ ἐρήμωσις αὐτῆς, Lc, xxi, 20). È evidente che qui siamo di fronte ad una diversa inter-

pretazione dell’abominio della desolazione preconizzato da Daniele. Per i primi due sinottici la profezia si riferisce alla distruzione del tempio; per il terzo si riferisce alla distruzione di Gerusalemme. Ne deriva che il terminus a quo del vangelo lucano non può essere anteriore al 135. La successione Marco-Matteo, opposta a quella tradizionale Matteo-Marco si evince da Papia, vescovo di Ierapoli,(113) il quale, secondo la testimonianza di Ireneo di Lione e di Eusebio di Cesarea, avrebbe scritto nella Κυριακῶν λογίων ἐξηγήσις quanto segue: Non esiterò ad aggiungere alle mie interpretazioni anche ciò che sono venuto a sapere un tempo dai presbiteri, e che ricordo bene, sicuro che hanno detto il vero. Perché io non mi sono dilettato ad ascoltare chi parla molto, ma chi insegna la verità; non chi cita comandamenti degli altri, ma chi cita quelli dati alla fede dal Signore e provenienti dalla verità stessa. E se da qualche parte veniva qualcuno che era stato seguace dei presbiteri, io lo interrogavo sulle loro parole, su ciò che dissero Andrea e Pietro e Filippo e Tommaso e Giacomo e Giovanni e Matteo e altri discepoli del Signore, e su ciò che dicevano Aristione e il presbitero Giovanni, discepoli del Sithe Gospel of Mark, London, Clark, 2004, p. 115; cfr. anche H. H. Ben-Sasson, A History of the Jewish People, Cambridge, Harvard University Press, 1976, p. 334. (112)  Mc, xiii, 14; Mt, xxiv, 15. (113) Papiae Fragmenta, in O. von Gebhardt - A. von Harnack - Th. von Zahn, Patrum apostolicorum opera, Lipsiae, J. C. Hinrichs, 1906, pp. 69-78; Papia di Hierapolis, Esposizione degli oracoli del Signore. I frammenti a c. di Enrico Norelli, Milano, Paoline, 2005.

802  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini gnore. Non credevo infatti che le notizie dei libri mi sarebbero state utili quanto quelle che mi venivano da una voce viva e sicura» (οὐ γὰρ τὰ ἐκ τῶν βιβλίων τοσοῦτόν με ὠφελεῖν ὑπελάμβανον, ὅσον τὰ παρὰ ζώσης φωνῆς καὶ μενούσης).(114)

Poi aggiunge a proposito del vangelo marciano: E diceva il presbitero: Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine tutto ciò che ricordava delle cose dette e fatte da Gesù, non avendo né udito, né seguito Cristo, ma essendo stato soltanto compagno di Pietro. Questi impartiva i suoi insegnamenti secondo la necessità del momento, senza fare una raccolta ordinata dei detti del Signore, cosicché non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa egli si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso.(115)

Riguardo al Vangelo di Matteo Papia, secondo la testimonianza di Eusebio, avrebbe scritto: «Matteo mise per iscritto i lógia del Signore nella lingua ebraica; ciascuno poi li tradusse come poté» (Ματθαῖος μὲν οὖν

Ἑβραῑδι διαλέκτῳ τὰ λόγια συνεγράψατο, ἡρμήνευσε δ’αὐτὰ ὡς ἦν δυνατὸς ἕκαστος).(116) Si tratta tuttavia di un passo meno attendibile del precedente relativo a Marco perché si può sospettare che Ἑβραῑδι διαλέκτῳ (nella lingua

ebraica) sia una aggiunta di Eusebio per il semplice fatto che non ci è pervenuta una versione di Matteo né in aramaico né in ebraico. Se i frammenti di Papia, che scrive la sua Ẻξηγήσις intorno al 130/150,(117) non sono stati manipolati da Eusebio, dovremmo trarne le seguenti conclusioni: 1) È sancito il principio della priorità marciana, implicita nella sequenza per cui Marco scrisse disordinatamente e Matteo mise in ordine il materiale evangelico. Sembra tuttavia che Papia abbia cercato di accertare la veridicità dei due vangeli citati, ricorrendo ad ulteriori testimonianze indirette, quale

(114)  Eusebio, HE, iii, 39, 3-4. (115)  Ivi, 39, 15. (116)  Ivi,HE, iii, 39, 16: (117)  Su tale datazione concordo con Adolf von Harnack, Geschichte der altchristlichen Litteratur bis Eusebius, Leipzig, Hinrichs, 1897; e Pierre Batiffol, L’eglise naissante et le catholicisme; Paris, Lecoffre, 1922, p. 205.

III.2  L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini 

803

è quella di un oscuro personaggio come Giovanni il presbitero. Quanto poi all’affermazione secondo cui il vangelo di Matteo sarebbe stato scritto in lingua ebraica e tradotto in versioni diverse («ciascuno lo tradusse come poté» ἡρμήνευσε δ’αὐτὰ ὡς ἦν δυνατὸς ἕκαστος), si può supporre che Papia, volendo accreditare come autentica la parola del Cristo, che evidentemente non era in lingua greca, abbia ipotizzato che il Matteo greco, di cui aveva notizia, dovesse essere una traduzione dall’ebraico. 2) In ordine alle generazioni da Cristo a Papia il frammento citato appare alquanto confuso. Il vescovo di Ierapoli sembra, infatti, presumere che dalla generazione apostolica al tempo in cui scrive siano intercorse due generazioni: quella di Cristo e dei suoi discepoli e quella dei presbiteri. Ma poi aggiunge anche la generazione dei seguaci dei presbiteri, per cui la situazione dovrebbe essere la seguente: la prima è la generazione apostolica (sebbene nei frammenti papiani non ricorra mai il termine ‘apostoli’) ovvero quella di Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni e Matteo; la seconda è la generazione dei presbiteri che hanno conosciuto i discepoli di Cristo; la terza è la generazione dei seguaci dei presbiteri che hanno notizie di terza mano su Cristo; infine viene la generazione dello stesso Papia. Ma la narrazione è contraddittoria perché Papia (o per lui Eusebio) tende ad accorciare le distanze tra i due capi della trasmissione ed afferma di aver appreso «tanto dai presbiteri quanto dai loro seguaci». Il problema si complica se tentiamo di stabilire le date estreme della vita di Papia. Per accorciare il più possibile la distanza tra i tempi di Papia e quelli della generazione apostolica, è invalsa l’ipotesi secondo cui egli sarebbe nato intorno al 70 e la sua morte sarebbe sopravvenuta verso il 140 o poco oltre. Questo accomodamento temporale va in crisi sulla base del frammento di Filippo di Side (380-431) che nella Storia Ecclesiastica scrive: «Di coloro che furono da Cristo resuscitati dai morti [Papia] dice che vissero fino ai tempi di Adriano» (117-138).(118) Prescindendo dalla credibilità di ciò che è narrato, il frammento sembra collocare la testimonianza di Papia ad una certa distanza temporale dal principato di Adriano, con la conseguenza che l’Esegesi dovrebbe essere datata almeno intorno al 140 o oltre. Ne deriva che il termine ad quem della morte di Papia dovrebbe porsi verso il 150, come pare evincersi da Eusebio dal quale (118)  A patire dal frammento di Filippo di Side, M. Hengel, Die johanneische Frage, cit., p. 77, giunge a risultati diversi poiché ritiene che l’Exēgēsis di Papia può essere stata scritta tra il 120 e il 135, ma evidentemente egli non tiene conto della distanza temporale tra Papia e l’età adrianea, presupposta da Filippo.

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sappiamo che nella stessa data risultava vescovo di Ierapoli Claudio Apollinare di Laodicea.(119) Ora, nella misura in cui si sposta più avanti la morte di Papia, occorre evidentemente fare altrettanto per la sua nascita e ciò riduce notevolmente la possibilità che egli possa essere stato discepolo di Giovanni. 3) Abbiamo detto che Papia conosce i vangeli di Marco e di Matteo e forse anche il Vangelo degli Ebrei,(120) gli unici da lui menzionati esplicitamente. Ma ciò che sorprende è che egli si richiami a tradizioni orali, pur in presenza di documenti scritti. Anzi respinge esplicitamente, ma in modo ambiguo e sospetto, le «notizie dei libri» (le «cose scritte nei libri») le quali sarebbero, a suo parere, meno affidabili delle testimonianze cosiddette «a viva voce»; sorprende però che egli non si renda conto che queste ultime, se non sono dirette, non sono più affidabili di quelle consegnate nei libri. Sorge perciò l’interrogativo: a quali libri fa riferimento Papia? Se si escludono Marco e Matteo, non conosciamo altri vangeli precedenti. Probabilmente egli allude agli stessi vangeli citati, che verosimilmente erano stati da poco pubblicati. Ma quando dice di essersi servito di fonti orali e non di testi scritti, sembra dare per scontato di non averli utilizzati. Ciò significa che quando scrive la sua Exēgēsis doveva essere assai viva l’istanza di conoscere ciò che aveva veramente detto il Cristo. Probabilmente fu proprio Papia con la sua Exēgēsis a dare la stura a questa linea di ricerca. Nacque con lui l’idea di raccogliere i lógia del Cristo attraverso la trasmissione orale. E non essendoci più i testimoni diretti, egli fece ricorso a quelli di seconda e terza mano. Tale è la tipologia del vangelo tommasiano che tenta di includere nella propria raccolta tanto i lógia provenienti dalle fonti scritte (Marco e Matteo) quanto quelli derivanti da discutibili fonti orali, con l’ovvia conseguenza che tali tipologie di raccolte, cui gli esegeti, in particolare i fondatori del JS (Jesus Seminar), come Funk e Crossan, accordano la massima attendibilità, spesso includevano detti di dubbia provenienza e di altrettanto dubbia autenticità. Naturalmente per l’esegetica confessionale la scoperta del vangelo tommasiano è stata vista come la manna dal cielo. Ci si è affrettati a collocarne la datazione nei primi decenni dopo la crocifissione per evidente convenienza ermeneutica; ma, in realtà, tali raccolte risalgono alla prima metà del secondo secolo, quando si avvertì il bisogno di cristallizzare la trasmissione orale per scongiurarne la definitiva diluizione. Ancorché avvalorare l’esistenza di una improbabile fonte Q, in realtà quelle raccolte contengono molti lógia che (119)  Eusebio, HE, iv, 26, 1; v, 19, 2. (120)  v. in proposito Eusebio, HE, iii, 39, 16.

III.2  L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini 

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sono di un tono di gran lunga minore di quelli trasmessi dai testi canonici. 4) La prematura scomparsa dell’opera papiana fa pensare che essa non avesse carattere prettamente ortodosso. Probabilmente i λόγια del Signore, raccolti per via di testimoni indiretti, non dovevano essere in perfetta sintonia con quelli registrati nei vangeli di Marco e di Matteo. Se così non fosse, l’Exēgēsis sarebbe stata tenuta in grande considerazione per la stessa metodologia con cui era stata pensata e compilata; invece su di essa cadde un silenzio tombale e, dopo le note menzioni di Ireneo e di Eusebio, fu ben presto osteggiata e relegata nel dimenticatoio. Anzi Eusebio non esitò a screditarne l’autore e a dichiarare che era «uomo d’ingegno molto limitato».(121) 5) Non sembra che Papia abbia notizie del vangelo di Luca, né di quello di Giovanni, né delle lettere paoline; se, infatti, li avesse conosciuti ne avrebbe parlato e, se ne avesse parlato, Eusebio non avrebbe mancato di farcelo sapere. Il silenzio sul vangelo giovanneo ha sorpreso non poco gli studiosi credenti, i quali hanno compiuto le più mirabolanti acrobazie ermeneutiche per far dire a Papia ciò che egli non ha mai detto. Ne è un esempio la pretesa di far dipendere da Papia l’attribuzione al vangelo giovanneo di taluni λόγια κυριακά (lógia kyriaká = detti del Signore), citati da Ireneo.(122) Questi, infatti, verso la conclusione della sua opera ricorda il seguente detto: «Per questo il Signore ha detto che nel regno del Padre suo ci sono molte dimore». Il passo suggerisce una manifesta dipendenza dal vangelo giovanneo (Gv, xiv, 2), ma il vescovo lionese non fa alcuna menzione né di Papia né dei presbiteri ed anzi dal contesto emerge che è egli stesso a richiamarsi implicitamente a Giovanni. Ne consegue che è del tutto arbitrario ricondurre il lógion citato a Papia. Un’ulteriore conferma che Papia non conosce il vangelo giovanneo sta nel fatto che in esso non trova riscontro l’unica parola del Signore che Papia dice trasmessa da Giovanni. Mi riferisco al noto passo in cui, in riferimento alla fine dei tempi, Cristo avrebbe profetizzato la straordinaria fecondità della vigna del regno messianico, in un lógion che si direbbe di matrice enochica. Ireneo, che di tutto ciò ha lasciato memoria,(123) non indica come fonte il vangelo, ma i presbiteri e dice: «Così i presbiteri, che hanno visto Giovanni, il discepolo del Signore, ricordano di aver udito da lui come il Signore, a proposito di questi tempi, insegnava…». Questa nota introduttiva ci lascia interdetti. Se infatti Papia era stato discepolo di Giovanni, per(121)  Ivi, iii, 39, 13) (122)  Ireneo, Adv. haer., v, 33, 3-4; 36, 2. (123)  Ibidem.

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ché mai avrebbe appreso il detto del Signore non direttamente da Giovanni, ma da imprecisati presbiteri, che verosimilmente dovrebbero essere deceduti prima dell’apostolo? Non si capisce perché il vescovo ieropolitano invochi l’attendibilità del racconto non a partire da una fonte di prima mano quale era Giovanni, ma da una di seconda mano, cioè dai presbiteri. Inoltre – secondo la versione di Ireneo – Papia avrebbe aggiunto: Queste cose sono credibili per quelli che credono […]; infatti Giuda il traditore non credeva e gli [a Cristo] domandò: come potranno essere creati da Dio frutti così grandi? Il Signore rispose: ‘lo vedranno quelli che arriveranno fino a quel tempo’.(124)

Se passiamo in rassegna i testi dei primi trenta/quarant’anni del secondo secolo, dalla Lettera di Barnaba alla Didaché e più tardi fino alla prima clementina, ove spesso i lógia kyriaká risultano di oscura provenienza, possiamo giungere ad una prima generalizzazione, cioè che ancora in quegli anni non si era definita una puntuale tradizione intorno ai detti e agli atti di Cristo, tant’è vero che i diversi autori ne parlano con non poche oscillazioni. Ce ne dà conferma lo stesso Papia che – stando alla testimonianza di Eusebio(125) – «ci fornisce altre notizie pervenute a lui dalla tradizione non scritta, alcune strane parabole e alcuni insegnamenti del Salvatore, e altre cose piuttosto favolose»; e poi aggiunge che taluni parlavano ‘molto’, nel senso che nella costruzione della figura del Cristo erano approssimativi o contraddittori o del tutto fantasiosi. In breve prima della pubblicazione di Marco, dovevano circolare versioni orali caotiche e puramente immaginarie tanto sugli atti quanto sui detti del Cristo. Altro che fonte Q ! 6) Un vero e proprio rebus è quel Giovanni il presbitero, ricordato nel frammento citato. Non siamo in grado di stabilire né se si tratta di personaggio storico né se possa identificarsi con Giovanni, figlio di Zebedeo, il discepolo amato dal Signore (si noti che «amato dal Signore» è pressoché il significato etimologico del nome Giovanni che in ebraico significa «grazia di Dio»). La difficoltà sta innanzi tutto nell’uso del termine ‘presbitero’, equivalente ad ‘anziano’, che Papia sembra accogliere nell’accezione di testimone diretto dell’età apostolica ovvero di testimone delle cose dette dai discepoli di Cristo. Ma questa accezione non trova riscontro né in Marco né in Mat(124)  Ivi, v, 33, 3-4. (125)  Eusebio, HE, iii, 39, 11.

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teo, per i quali i presbiteri sono o gli ‘antichi’ o gli ‘anziani del Sinedrio’.(126) In Matteo(127) ricorre anche l’ambigua espressione «anziani del popolo» (οἱ πρεσβύτεροι τοῦ λαοῦ), che forse non è riferibile sic et simpliciter agli anziani del sinedrio. Per giunta Papia afferma di avere interpellato non i presbiteri (fonte di seconda mano), ma i loro seguaci (fonte di terza mano), per sapere che cosa avessero detto i discepoli di Cristo, tra i quali vengono ricordati due Giovanni (il discepolo amato da Cristo e il presbitero) e uno sconosciuto Aristione. Ireneo ignora l’esistenza di Giovanni il presbitero ed anzi dice che Papia fu discepolo-uditore di Giovanni evangelista e compagno di Policarpo.(128) Eusebio(129) invece trova nel frammento papiano la conferma della esistenza di due Giovanni che sarebbero stati sepolti ad Efeso. Girolamo(130) attribuisce all’evangelista il quarto vangelo e la prima lettera cattolica e al presbitero le altre due lettere. A prescindere dal fatto che dagli scavi archeologici risulta che la presunta tomba efesina dell’apostolo risale al iv secolo e che la basilica di Giovanni è databile al vi secolo, è difficile credere che fino ad Eusebio nessun apologeta o nessun padre della chiesa sia stato incuriosito dalla Esegesi papiana; anzi è singolare che lo stesso Ireneo si sia lasciato sfuggire un passo di tale rilevanza storica. Ciò ci induce a sospettare che il presbitero sia una pura invenzione di Eusebio che forse aveva bisogno di postulare un intermediario che garantisse la trasmissione da Giovanni evangelista allo stesso Papia. 7) Sul legame Marco-Pietro Papia fa un’affermazione generica, perché non si sa bene se essa si riferisca solo marginalmente ad aspetti dottrinali o se insista soprattutto sul disordine con cui Marco scrive in sintonia con il disordine e l’occasionalità con cui Pietro impartiva i suoi insegnamenti. La filiazione di Marco da Pietro (Μάρκος μὲν ἑρμηνευτὴς Πέτρου nel doppio senso di traduttore e di interprete di Pietro), se presa nel senso di una dipendenza dottrinale, non trova conferma nel testo marciano, perché in esso non si trova traccia delle posizioni petrine così come ci vengono riportate dalla tradizione.(131) Da Papia dipendono Ireneo e Girolamo. Ireneo è il teorico della (126) v. Mc, vii, 3 e 5; Mt, xv, 2 e Mc, viii, 31; xi, 27; xiv, 43 e 53; xv, 1; Mt, xvi, 21; xxvi, 57; xxvii, 12, 20, 41; xxviii, 12. (127)  Mt, xxi, 23; xxvi, 3, 47; xxvii, 1. (128)  Ireneo, Adv. haer., v, 33, 4. (129)  Eusebio, HE, iii, 39, 3-4, 14; vii, 25, 16. (130)  Girolamo, De viris illustribus, ix. (131)  In realtà nelle lettere petrine che ci sono pervenute non v’è traccia di una netta discrasia tra il messaggio di Paolo e quello di Pietro. Anzi vi ritroviamo quasi tutti i temi

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diretta derivazione dei vangeli dalla predicazione apostolica; Marco e Luca sarebbero stati rispettivamente interpreti di Pietro e di Paolo (ma Paolo non era stato discepolo di Cristo).(132) Per Ireneo il Vangelo è uno solo ed è quello consegnato da Cristo ai suoi discepoli; egli dice che dapprima gli apostoli lo predicarono, poi lo misero per iscritto.(133) Il vescovo di Lione non si pone neppure il problema se i quattro testi siano tra loro così concordanti da supportare l’ipotesi della derivazione da un’unica fonte. A suo avviso i vangeli contengono tutta la rivelazione divina ed è perciò escluso tassativamente che possano contenere una conoscenza imperfetta degli eventi storici e del messaggio cristiano; perciò egli mette a tacere coloro che «osavano dire, vantandosi, di essere correttori degli Apostoli».(134) Ma chi erano questi correttori degli apostoli? E su quali punti vertevano le loro correzioni? Non v’è dubbio che Ireneo si riferisce ad eretici, in particolare agli gnostici, ma non è escluso che tra gli eretici vi fossero anche i docetisti o più radicali contestatori della incarnazione. Non a caso talvolta Eusebio(135) sembra accennare a taluni che contestavano la storicità del Cristo. Non abbiamo in proposito conoscenze puntuali, perché i loro scritti sono andati irrimediabilmente perduti. 8) È dubbio che si possa parlare di una tradizione orale unitaria, come vogliono farci credere Papia ed Eusebio, perché è difficile ammettere che essa raccogliesse in una unità le testimonianze di tutti i discepoli citati da Papia (Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo), oltre ad Aristione (il quale, pur essendo annoverato tra i discepoli, non ci è noto dai testi evangelici) e Giovanni il presbitero; non solo perché ognuno di loro poprettamente paolini dall’amore fraterno al tempio spirituale e al sacerdozio santo, dalla sottomissione degli schiavi ai padroni a quella delle mogli ai mariti, dalla grazia all’imminenza della fine dei tempi, fino all’esplicito riconoscimento della grandezza del messaggio paolino: «In questi termini anche il nostro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data, confermandolo anche in tutte le sue lettere dove parla di questi temi. In esse ci sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli instabili travisano» (2Pt, iii, 15-16). In realtà le due petrine sono pseudonime e, per la presenza del sintagma ‘Gesù Cristo’ (ben 10 occorrenze nella prima lettera su 22 del lemma ‘Cristo’ e 8 su 8 nella seconda lettera), sono anche manifestamente tardive, risalenti agli ultimi decenni del secondo secolo. (132)  Ireneo, Adv. haer, iii, 1, 1; 10, 6, citato anche da Eusebio, HE,v, 8, 3. Tale è anche il parere di Origene, Comm. in Matth., i,PG. xiii, col. 830, citato da Eusebio, HE,vi, 25, 5. (133)  Ireneo, Adv. haer., i, 1,1. (134)  Ibidem, cfr. anche Adv. haer., ii, 1. (135) v. Eusebio, HE, i, 7, 9; 9, 3.

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teva avere ricordi diversi, ma soprattutto perché, secondo la tradizione, essi si erano dispersi in città anche lontanissime tra loro. D’altra parte lo stesso Papia sembra che abbia proceduto ad una selezione delle versioni fornite da discepoli o da presbiteri, poiché dice di avere scartato le narrazioni di quelli che «parlano molto» e di essersi attenuto a quelle di coloro che dicono la verità. Ci si potrà chiedere come abbia fatto a distinguere gli uni dagli altri. Probabilmente lo ha fatto scartando le narrazioni manifestamente più favolose, ma non deve essere stata impresa semplice perché il favoloso e il miracoloso sono spesso di casa anche nei testi evangelici a noi pervenuti. Perciò si deve supporre che la presunta trasmissione orale non sia altro che una pura fictio che aveva il solo obiettivo ideologico di ricondurre ogni possibile versione dei lógia a Cristo come unica fonte, e insieme di stabilire una continuità diretta della trasmissione da Cristo ai suoi successori. 2.11.  Il frammento 7Q5 Come si è più volte sottolineato, gli esegeti cristiani mirano a stabilire datazioni alte dei vangeli, il più possibile prossime alla predicazione e alla passione del Cristo, nella convinzione che così se ne possa accreditare il carattere storico. Così Matteo viene datato tra il 50 e il 60 e per Marco si propone una datazione intorno al 53. José O’ Callaghan e Carsten Peter Thiede(136) fondano questa loro ipotesi sulla base del frammento qumranico 7Q5. Vale forse la pena di soffermarci brevemente su tale frammento. Si tratta del papiraceo n. 5, non identificato, rinvenuto nella grotta 7 di Khirbet Qumran. Esso misura millimetri 39x27, è scritto solo da un lato e reca, disposte su cinque righe, appena 20 lettere maiuscole in stile zierstil, delle quali solo la metà sono chiaramente leggibili. È importante rilevare che lo stile zierstil, cioè ornato, è paleograficamente caratteristico del periodo compre(136) J. O’Callaghan, Papirios neotestamentarios en la cueva 7 de Qumran?, «Biblica», liii, 1972, pp. 91-100; C. P. Thiede, 7Q, Eine Rückkehr zu den neutestamentlichen Papyrusfragmenten in der Siebten Höhle von Qumràn, «Biblica», lxv, 1984, pp. 538-559; tr. it. in F. Dalla Vecchia (a c. di), Ridatare i Vangeli?, Brescia, Queriniana, 1997, pp. 2552. C. P. Thiede, Il più antico manoscritto dei vangeli? Il frammento di Marco di Qumràn e gli inizi della tradizione scritta del Nuovo Testamento, Roma, Biblical Institute, 1987, p. 13, suggerisce una datazione più alta di tre anni e fa risalire il frammento al 50 d.C.; cfr. anche C. P. Thiede, The Earliest Gospel Manuscript?: the Qumran Papyrus 7Q5 and its Significance for New Testament Studies, Exeter, Paternoster Press, 1992.

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so tra la metà del i secolo a.C. e la metà del i secolo d.C. Il teologo O’Callaghan, nel 1972, e Thiede, nel 1980, hanno supposto(137) che esso contenesse i seguenti versetti di Marco: «Perché non avevano capito il fatto dei pani: il loro cuore era indurito. Compiuta la traversata, giunsero nella terra di Gennesaret e approdarono» (οὐ γὰρ συνῆκαν ἐπὶ τοῖς ἄρτοις, ἀλλ᾽ ἦν αὐτῶν ἡ καρδία πεπωρωμένη. καὶ διαπεράσαντες ἐπὶ τὴν γῆν ἦλθον εἰς γεννησαρὲτ καὶ προσωρμίσθησαν, Mc, vi, 52-53). Per dare al lettore la possibilità di ca-

pire l’interpretazione del teologo spagnolo, riproduco il testo greco indicando tra parentesi quadre per ciascuna delle cinque righe le lettere che si ritengono identificate:

1- συνῆκαν [ἐ]πὶ τοῖς ἄρτοις, 2- ἀλλ᾽ ἦν α[ὐτῶν ἡ] καρδία πεπωρω3- μέν[η. καὶ τι]απεράσαντες 4- ἦλθον εἰς γε[ννησ]αρὲτ καὶ 5- προσωρμίσ[θησα]ν

(137)  La loro tesi è condivisa da R. E. Brown, The New Jerome Biblical Commentary, in R. E. Brown - J. A. Fitzmyer, R. E. Murphy, The New Jerome Biblical Commentary, London, Chapman, 1990, p. 164; J. A. Fitzmyer, Qumran, Queriniana, Brescia, 1994, pp. 37-38; J. H. Charlesworth, Jesus within Judaism, cit., pp. 71-72.

III.2  L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini 

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Le obiezioni che sono state mosse contro tale lettura sono le seguenti: 1) non poche lettere, che di per sé non sono chiaramente decifrabili, sono state identificate arbitrariamente: tale è il caso della lettere epsilon della prima riga, di ni ed eta della seconda, di iota della terza, di ni e sigma della quarta, di theta e alfa della quinta riga; 2) non sembra essere rispettata rigorosamente la sticometria non solo perché la seconda riga contiene 22 lettere a differenza delle altre che ne contengono 20, ma anche perché è arbitrariamente omesso il sintagma ἐπὶ τὴν γῆν (nella terra), attestato in tutti i codici e i manoscritti; 3) la sostituzione di tau a delta in διαπεράσαντες (attraversarono) è inaccettabile; 4) in tutta la produzione qumranica risultano del tutto assenti testi della letteratura cristiana; la presenza di un frammento marciano costituirebbe un unicum che non si giustifica neppure rispetto al materiale fornito dalla grotta 7, ove su 19 frammenti almeno otto contengono passi dell’apocrifo di Enoc; 5) a prescindere dal contenuto, la datazione del quinto frammento intorno al 50 resta comunque arbitraria, perché non si può escludere che lo stile zierstil si sia conservato più a lungo in Palestina, tant’è che sono noti documenti nello stesso stile la cui datazione va ben oltre il 50; 6) l’ulteriore ipotesi di O’Callaghan, secondo cui le varianti rispetto al testo canonico si potrebbero giustificare come redatte in fase di transizione o si potrebbero addirittura ritenere proprie di una redazione antecedente al testo attuale, avrebbe bisogno di prove ben più solide per essere accolta. Anche perché, se si percorre tale strada, si rischia di rendere malleabili e addomesticabili i testi, compromettendo i crismi della scientificità; senza dire che si cade in una grave contraddizione, perché da un lato si pretende di identificare un determinato passo, dall’altro, nel momento in cui si scopre che non c’è la perfetta corrispondenza testuale, si ricorre allo stratagemma di dire che non è il testo individuato, ma qualcosa che gli si avvicina tanto da poterne essere una redazione antecedente. Tuttavia, nonostante la manifesta incongruenza e la fragilità scientifica, l’ipotesi O’Callaghan-Thiede continua a imperversare negli ambienti religiosi nell’entusiasmo di poter disporre di una fonte di primissima mano che si collocherebbe a poco più di un decennio dalla passione e morte del Cristo. Ad essa però si sono opposti numerosi studiosi, tra cui Maria Spottorno Diaz-Caro,(138) che nel 1992 ha identificato il frammento con Zaccaria (138)  M. V. Spottorno, Una nueva posible identificación de 7Q5, «Sefarad», lii, 1992, pp. 541-543.

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(vii, 4-5) nella versione della Septuaginta, Paul Garnet,(139) che pensa ad Isaia (xxxvi, 10-11), Daniel Wallace (1992), che lo attribuisce a Filone di Alessandria, Ernst Muro, Puech e Craig Evans, che lo identificano con l’apocrifo di Enoc.(140) La recente polemica circa l’esistenza di un vangelo segreto di Marco si fonda su un falso moderno, come la Lettera di Mar Saba, così detta perché sarebbe stata scoperta nel 1958 da Morton Smith(141) nel Monastero di Mar Saba e da lui attribuita a Clemente Alessandrino. La lettera, che peraltro conterrebbe solo due sporadiche citazioni di un Vangelo segreto di Marco vuol farci credere che l’evangelista lo avrebbe scritto come un vangelo più ‘spirituale’ di quello canonico. Nella sua lettera Clemente avrebbe interpretato come manipolazione carpocraziana le allusioni a pratiche omosessuali. Ma lo scritto è chiaramente reputato un falso da Stefen Carlson.(142) C’è poi chi pretende che il terzo vangelo, essendo antecedente agli Atti, i quali interrompono la narrazione al 62, debba essere anteriore a tale data e debba risalire presumibilmente al 55-60. Ma è argomento poco convincente per almeno due ragioni: 1) perché il fatto che gli Atti si concludono prima del martirio di Pietro e Paolo non implica che siano stati scritti intor(139) P. Garnet, Salvation and Atonement in the Qumran Scrolls, Tübingen, Mohr Siebeck, 1977, pp. 8-9; v. F. Rohrhirsch, Markus in Qumran? Eine Auseinandersetzung mit den Argumenten für und gegen das Fragment 7Q5 mit Hilfe des methodischen Fallibilismusprinzips, Wuppertal, Brockhaus, 1990, pp. 122-124. (140)  E. A. Muro, The Greek Fragments of Enoch from Qumràn cave 7 (7Q4, 7Q8 & 7Q12 = 7QEn gr = Enoch 103:3-4, 7-8), «Revue de Qumràn», xviii, 1997, pp. 307-311; É. Puech, Notes sur les fragments grecs du manuscrit 7Q4 = 1 Hénoch 103 et 105, «Revue Biblique», ciii, 1996, pp. 592-600; trad. ital. in F. Dalla Vecchia (a c. di), Ridatare i Vangeli?, cit., pp.149-162; C. A. Evans, Holman Quick Source Guide to the Dead Sea Scrolls, Nashville, Tenn., Publishing Group, 2010. (141) M. Smith, Clement of Alexandria and a Secret Gospel of Mark, Harvard, University Press, 1973. (142) S. C. Carlson, The Gospel Hoax, Morton’s Smith Invention of Secret Mark, Waco, Tex, Bailor University Press, 2005, v. in particolare il capitolo vi, pp. 73-86; P. Jeffery, The Secret Gospel of Mark Unveiled: Imagined Rituals of Sex, Death and Madness in a Biblical Forgery, New Haven, Yale University Press, 2006. La lettera in realtà non è mai stata resa accessibile agli studiosi, se non attraverso una foto in bianco e nero prodotta da Smith. In seguito il manoscritto è scomparso. Ritrovato da Gay G. Stroumsa e trasferito nella Biblioteca del Patriarcato ortodosso di Gerusalemme, è stato nuovamente fotografato, ma subito dopo è andato nuovamente perduto. Il fitto mistero che circonda la lettera conferma i sospetti sulla sua autenticità. In ogni caso, la sua possibile connessione con la gnosi, ne farebbe un documento tardivo e poco affidabile.

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no al 64; essi possono essere stati scritti molto tempo dopo, ferma restando la loro seriorità rispetto a Matteo; 2) perché non sempre è profittevole legare tra loro le datazioni di due documenti, in quanto il loro rapporto di anteriorità o posteriorità può essere mantenuto anche quando si fa slittare la loro collocazione storico-temporale. Non mancano studiosi che ritengono Marco testimone oculare degli eventi narrati. Essi basano la loro certezza sulla identificazione dell’autore marciano con il giovinetto (adulescens – νεανίσκος) avvolto in un lenzuolo, il quale, dopo il tradimento di Giuda, fu il solo a seguire il Cristo e fuggì nudo quando tentarono di prenderlo. Anche questa è evidentemente ipotesi fantasiosa, perché il singolare dettaglio, narrato in Mc, xiv, 51-52, ha sicuramente nell’economia della narrazione marciana un significato simbolico e forse sta ad indicare che la fede è più forte nella ingenuità giovanile (concetto d’altronde ribadito più volte). Un’ulteriore datazione alta del vangelo marciano è ipotizzata da Jean Carmignac.(143) Questi rileva giustamente la presenza in esso di semitismi, ma trae da tale dato indiscusso, conclusioni indimostrabili, poiché afferma che esso sarebbe stato redatto in ebraico intorno al 42-45 e sarebbe stato tradotto in greco tra il 50 e il 63. Ciò che sfugge a Carmignac è che la presenza di semitismi può essere spiegata sulla base delle origini semitiche dell’autore che scrive in greco e che introduce nella koiné forme dialettali della propria lingua madre o che ricorre a parole o espressioni derivanti direttamente dalla lingua ebraico-aramaica.(144) Non meno numerose sono le congetture circa la datazione del vangelo di Matteo. In generale le datazioni anteriori al 70 sono proposte da chi ritiene che autore del testo sia l’apostolo gabelliere o da chi è convinto che Matteo sia testimone oculare della passione. Molte ipotesi sono forzate e talvolta anche sofistiche poiché pretendono di dimostrare ciò che in realtà si dà già per assunto in partenza. In generale gli esegeti credenti tendono a suggerire datazioni molto alte per la preoccupazione di salvare la credibilità e la storicità delle narrazioni. Ne sono esempi studiosi come Francesco Spatafora e Bernad Orchard,(145) i quali propongono una datazione addirittura anteriore al (143) J. Carmignac, Nascita dei vangeli sinottici, Cinisello Balsamo, Paoline, 1986, p. 74. (144) Cfr. Mc, vii, 11, 34; xv, 34. (145) F. Spatafora, L’escatologia di San Paolo, Roma, Studium, 1957; B. Orchard, Thessalonians and the Synoptic Gospels, «Biblica», xix, 1938, pp. 19-42.

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50, poiché ritengono di poter individuare una dipendenza di Matteo (xxiii, xxiv) dalla 1Tessalonicesi, datata intorno al 50-51. L’identità o similarità di concetti, se non è rigorosamente testuale, può essere semplicemente indicativa di una comune area culturale e religiosa; d’altra parte anche quando si pongono i testi in termini di dipendenza non si può essere sicuri su quale dei due sia anteriore o posteriore. L’insidia che l’uno o l’altro o entrambi siano oggetto di manipolazioni è sempre possibile. Più fragile è la congettura di Gerard Garitte,(146) il quale accoglie acriticamente le notizie tardive conservate nei codici georgiani del decimo e undicesimo secolo secondo cui Matteo, Marco, Luca e Giovanni avrebbero scritto rispettivamente 8, 11, 15 e 32 anni dopo l’ascensione del Cristo. Il fatto che Matteo parli per primo della chiesa e che assegni a Pietro il primato sui successori di Cristo ha fatto pensare che il testo sia stato scritto allorché maturò la separazione della chiesa dalla sinagoga, intorno al 6070.(147) Ma si tratta di ipotesi di comodo, perché il distacco dalla sinagoga, come si è detto,(148) deve essersi verificato fin dalle origini quando ancora il cristianesimo era in gestazione nel seno dell’essenismo e dell’enochismo. Non mancano tuttavia pareri favorevoli ad una datazione posteriore al 70, come quelli di Brown, Ehrman, Stephen Harris, Schnackenburg, Daniel Harrington e Allison.(149)Alcune ipotesi sono assai discutibili. Così, a titolo di esempio, Gerd Thiessen, Foster, Gregory e Tuckett,(150) partendo dal presupposto che Matteo è citato nelle epistole ignaziane e nella Didaché, ne danno per scontata la priorità redazionale. Ma si tratta di ipotesi vacillanti, perché le lettere ignaziane sono pseudepigrafe e ci sono pervenute in molteplici versioni non sempre tra loro facilmente compatibili; le edizioni curate (146) G. Garitte, Catalogue des manuscripts georgiens littéraires du Mont Sinai, Louvain, Durbecq, 1956. (147)  R. Th. France, The Gospel of Matthew, Grand Rapids, Eerdmans, 2007. (148) v. supra, pt. III, par. 2.8. (149)  R. E. Brown, Introduction to the New Testament, cit., p. 172; B. Ehrman, The New Testament: A Historical Introduction to the Early Christian Writings, New York, Oxford University Press, 2004, p. 110; S. Harris, Understanding the Bible, Palo Alto, Calif., Mayfield, 1985; R. Schnackenburg, The Gospel of Matthew, cit.; D. J. Harrington, The Gospel of Matthew, cit.; C. Allison Dale, Matthew, in J. Muddiman - J. Barton, The Gospels - The Oxford Bible Commentary, Oxford, University Press, 2010. (150) G. Theissen, Il Nuovo Testamento, cit.; P. Foster, The Epistles of Ignatius of Antioch and the Writings of the later formed the New Testament, in A. F. Gregory - Ch. Tuckett, The Reception of the New Testament in the Apostolic Fathers, Oxford, University Press, 2005, pp. 159-186.

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da Cureton(151) sulla base di una lectio siriaca del sesto secolo d.C. ci hanno fornito una lectio brevior e pertanto potior dell’Epistola agli Smirnesi, nonché delle altre epistole, in cui non ci sono esplicite citazioni dei vangeli e quelle implicite o indirette possono reputarsi tanto antecedenti quanto posteriori ai testi evangelici. Lo stesso discorso vale per la Didaché, ove qualche citazione di Matteo potrebbe dipendere dall’AT., senza dire che la stessa Didaché è un testo di difficile datazione. C’è un brano in Matteo, di grande interesse. La pericope (Mt, xvii, 2427) è, com’è noto, propria di Matteo ed è chiaramente un’aggiunta al testo marciano. L’impressione che si ha è che l’evangelista non si renda conto di introdurre con essa una contraddizione nel tessuto narrativo. Infatti egli ci fa assistere ad un interessante dibattito in ordine al pagamento della tassa per il tempio. Gli esattori chiedono a Pietro se il Maestro paga la tassa dovuta. Quando Pietro entra in casa, Gesù lo previene e gli domanda: da chi ricevono i re della terra tributi e tasse, dai loro figli o dagli stranieri? Pietro risponde che le tasse sono dovute dagli stranieri, in quanto sono in condizione di sottomissione, mentre i figli sono nella condizione di uomini liberi. Allora Gesù suggerisce a Pietro di pagare uno statere che troverà nella bocca di un pesce pescato. Questo passo, da cui emerge una forte avversione alla tassazione da pagare a sovrani stranieri, è in palese contraddizione con i sinottici,(152) ove è sanzionato il principio di dare a Cesare quel che è di Cesare. Si può forse osservare che in Mt, xxii, 21, Gesù parla davanti al potere sinedriale, mentre in Mt, xvii, 24-27, parla in privato, ma la figura di un Cristo che fa ricorso alla doppiezza e che predica in pubblico diversamente da come fa in privato, non è molto esaltante. Inoltre la seconda pericope allude chiaramente ad una occupazione militare straniera (intendi romana) che prima del 70 non era ancora stata consumata. Ne consegue che la tassa per il tempio a cui essa fa riferimento non può essere altra che quella per il tempio di Giove Capitolino; se così è, il sovrano terreno cui essa allude è senz’altro Adriano (117-138) con particolare riguardo agli ultimi tre anni del suo principato. Analoghe avventure ha subito il vangelo lucano. Anche su di esso si sono (151) W. Cureton, Vindiciae Ignatianae; or the Genuine Writings of St Ignatius, London, Rivingtons, mdcccxlvi; Corpus Ignatianum. A Complete Collection of the Ignatian Epistles, Genuine, Interpolated and Spurious, together with Numerous Extracts from Them, as Quoted by Ecclesiastical Writers down to the Tenth Century, in Syriac, Greek and Latin, an English Traslation of the Syriac Text, Copious Notes and Introduction by William Cureton, London, Rivington, mdcccxlix. (152)  Mt, xxii, 21; Mc, xii, 17; Lc, xx, 25.

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accavallate le ipotesi di datazione più disparate. Le argomentazioni utilizzate a favore di quelle più alte sono le solite e si riferiscono alle presunte persecuzioni neroniane(153) o alla presenza di semitismi.(154) Una argomentazione più sofisticata è quella di chi ritiene di poter identificare il Teofilo a cui è dedicato il terzo vangelo con il sommo sacerdote Teofilo ben Anano che esercitò la sua funzione dal 37 al 41.(155) Ma tale presunta identificazione non è attestata. Non è tuttavia escluso che l’autore di Luca abbia attinto da Giuseppe Flavio(156) (Ant., xviii, 123) il nome del sommo sacerdote e se ne sia servito per avvalorare l’autenticità della intestazione dei due suoi libri, né si può essere certi che egli non si sia rivolto ad alcun personaggio reale, ma abbia usato l’espressione κράτιστε θεόφιλε (che in greco vale «colui che ama Dio» o anche «colui che è amato da Dio»), nel senso generico di «ottimo cristiano». Non meno fantasiosa è l’ipotesi di Guthrie,(157) il quale, sulla scorta della 2Corinzi (viii, 18-19),ritiene che Luca abbia fatto tesoro di materiali raccolti durante la prigionia patita insieme a Paolo a Cesarea. Egli osserva che l’episodio della raccolta di fondi per i fratelli della Macedonia, menzionato nella lettera, è riportato anche negli Atti, ove Luca, «il fratello lodato in tutte le chiese a causa del vangelo», usa la prima persona plurale facendoci pensare di aver preso parte al viaggio insieme a Paolo.(158) Sabourin associa la citazione degli Atti alla nota espressione paolina «il mio vangelo» che, a suo avviso, si riferirebbe al vangelo lucano. Ma, a prescindere dalla presunta identità dell’autore degli Atti e del terzo vangelo, su cui torneremo in seguito,(159) contro le due citate congetture militano tre argomenti difficilmente sormontabili: 1) l’uso del ‘noi’ dovrebbe implicare la compartecipazione del soggetto ‘noi’ a tutti le azioni narrate nelle relative sezioni degli Atti e ciò probabilmente ne complicherebbe l’interpretazione; 2) se il vangelo lucano (153) L. Sabourin, Il vangelo di Luca, cit. (154) J. Carmignac, Nascita dei Vangeli sinottici, cit., pp. 23-52. (155)  A. von Harnack, The Date of Acts and the Synoptic Gospels, London, Williams & Norgate, 1911, p. 90; I. H. Marshall, Luke: Historian and Theologian, Exeter, Paternoster Press, 1970, p. 35; A. J. Mattill Jr., ‘The Date and Purpose of Luke-Acts: Rackham Reconsidered, «Catholic Biblical Quarterly», xl, 1978, pp. 335-350 (cfr. A. von Harnack, The Date of Acts and the Synoptic Gospels, cit., p. 90). (156) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 123. (157) D. Guthrie, New Testament, cit., p. 131. (158)  Cfr. J. M. García, Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo, Milano, BUR, 2008, pp. 55-61. (159) Cfr. infra, pt. IV, par. 2.15, let. a.

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fosse di ispirazione paolina, dovremmo trovare in esso tracce della cristologia paolina. Ma ciò non accade; anzi la cristologia e la teologia lucane sembrano approssimarsi alle lettere pastorali di Paolo che sono notoriamente pseudepigrafe e databili alla seconda metà del secondo secolo;(160)3) l’uso del termine ‘vangelo’ nelle lettere paoline non va inteso come vangelo scritto, ma semplicemente come predicazione della buona novella tanto presso gli ebrei quanto presso i pagani. Gli studiosi di matrice religiosa propongono le datazioni più disparate del vangelo lucano: al 60-70 esso risalirebbe secondo Léopold Sabourin;(161) all’80-90 secondo Klijn, Franklin, Brown e Meier.(162) Helmut Köster,(163) pur datando Luca al primo secolo, riconosce che esso non è citato prima del 150. D’altra parte difficilmente lo si può datare molto al di là del 150. La prima citazione sicura che ne abbiamo è quella di Marcione che cadde appunto intorno al 150 (va però tenuto presente che il celebre eretico non assegnò al terzo vangelo il titolo katà Loukan, ma quello più generico di Vangelo del Signore). Quanto poi alle citazioni presenti nella Didaché, in Basilide e Valentino e nelle due Apologie di Giustino, a prescindere dal fatto che sono in ogni caso posteriori a Marcione, ritengo un sano criterio quello di prenderle in considerazione solo a condizione che siano testuali e non siano mere suggestioni, suggerite da affinità o consonanze dei testi. Dopo il canone marcionita, l’altro documento che conferma una tarda datazione di Luca è il Codice muratoriano. Di contro non molto affidamento si può fare sui manoscritti. Ancora tra la fine del ii e gli inizi del iii secolo si trovano papiri (il papiro P4) nella cui intestazione Luca non è presente; invece il papiro P75(iii secolo) reca il titolo katà Loukan. È assai verosimile che la composizione del testo lucano risalga a poco oltre il 140. A favore di una sua tarda datazione militano i seguenti elementi: a) la sua indubbia seriorità rispetto ai primi due sinottici, collocabili tra il 110 e il 140; b) la sua comparsa solo con il canone marcionita; c) l’assenza di testimonianze relative ad esso che siano anteriori alla seconda metà del secondo secolo e infine d) la già accennata puntuale descrizio(160)  Cfr. R. E. Brown, Introduction to the New Testament, cit., pp. 27-29; G. A. Wells, The Jesus Legend, cit., pp. 79-82. (161) L. Sabourin, Il vangelo di Luca, cit. (162)  A. F. J. Klijn, Luke, cit.; E. Franklin, Luke, in J. Muddiman - J.Barton, The Gospels, cit.; R. E. Brown, Introduction to the New Testament, cit., p. 226; J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 48. (163) H. Köster, From Jesus to the Gospels: Interpreting the New Testament in its Context, Minneapolis, Fortress Press, 2007.

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ne della distruzione di Gerusalemme nella cosiddetta «piccola apocalisse». Non diversa la sorte del vangelo giovanneo. Gran parte di studiosi lo colloca poco prima del 100;(164) altri lo pongono tra il i e il ii secolo,(165) ma non manca chi, come Thiede, lo ritiene anteriore al 70.(166) Le argomentazioni con cui si cerca di avvalorare una datazione alta sono le seguenti: 1) Giovanni parla della piscina di Betsaida come ancora funzionante(167); 2) Giovanni non accenna affatto alla distruzione di Gerusalemme;(168) 3) dall’esame linguistico si evincerebbe l’esistenza di un precedente testo aramaico che ne accrediterebbe l’attendibilità storica.(169) La prima congettura non tiene conto del contesto della citazione della piscina di Betesda o Betsaida (entrambe le forme sono attestate dalla tradizione manoscritta), il cui nome però non è mai menzionato nell’AT, ove in 2Re (xviii, 17) e in Isaia (vii, 3) si fa genericamente cenno ad una piscina superiore. Per vivacizzare il racconto, Giovanni usa il presente storico, pur interrompendolo con forme verbali dell’imperfetto: «C’è (ἔστιν) una piscina […] sotto giaceva (κατέκειτο) […] discendeva (κατέβαινεν) […] agitava (ἐτάρασσε) […] diventava sano (ὑγιὴς ἐγίνετο) […] C’èra (ἦν) […] ha (ἔχει) […] dice (λέγει) […] vuoi (θέλεις) […] non ho (οὐκ ἔχω)». Con questa complessa costruzione l’evangelista consegue due risultati: attualizza il racconto come se l’evento si svolgesse davanti ai suoi occhi e nello stesso tempo lo colloca nel passato. Ne consegue che quell’ἔστιν è un presente per attrazione del presente storico, mentre gli imperfetti ristabiliscono la distanza temporale dell’uso della piscina. Si potrebbe pensare ad una costruzione dipendente dalla lingua ebraica, ma se ne possono trovare esempi anche nella lingua greca. Di certo v’è che essa non ci dà alcuna certezza in merito al fatto che la (164)  Cfr. P. Stefani, La bibbia, Bologna, il Mulino, 2004; B. Maggioni, Introduzione all’opera giovannea, cit.; A. Hunter, The Gospel According to John, Cambridge, Univeristy Press, 1965, p. 1, colloca il vangelo giovanneo in età traianea (98-117); J. Dickson, Alla ricerca di Gesù: le indagini di uno storico, Milano, Paoline, 2011. (165) G. Theissen, Il Nuovo Testamento, cit., data il vangelo giovanneo tra il 100 e il 120; D. Burkett, An Introduction to the New Testament, cit., tra l’80 e il 110. (166)  C. P. Thiede, Jesus: la fede, i fatti, Padova, Ed. Messaggero, 2009; sul papiro 53, cfr. C. P. Thiede, Il papiro di Magdalen. La comunità di Qumran e le origini del vangelo, Casale Monferrato, Piemme, 1997. (167)  Gv, v, 2. Cfr. C. P. Thiede, Jesus, cit.; Julian Carron, Un caso di ragione applicata. La storicità dei vangeli, «Il Nuovo Areopago», xiii, 1994, p. 16. (168) K. Berger, Qumran und Jesus: Wahrheit und Verschluss?, Stuttgart, Quell Verlag, 1993. (169)  Cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, cit.

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piscina fosse attiva al tempo di Cristo, né che lo fosse al tempo in cui Giovanni scriveva. La seconda osservazione non è determinante, poiché, pur non accennando alla distruzione di Gerusalemme, il vangelo giovanneo presuppone comunque i tre sinottici e ne è certamente posteriore. Anzi si può affermare che la mancata citazione della distruzione di Gerusalemme si spiega per il fatto che essa è ormai remota rispetto al tempo in cui Giovanni scrive (intorno al 170-175). Quanto alle congetture circa l’esistenza di fonti ebraiche o aramaiche, credo che fino a che non ne troviamo gli eventuali esemplari manoscritti, esse sono solo comodi stratagemmi che non provano nulla. Le prove decisive circa la tarda datazione del vangelo di Giovanni sono due: 1) le prime testimonianze che lo riguardano non sono anteriori al 170/180; 2) il canone marcionita lo ignora del tutto a differenza di quello muratoriano. Il canone marcionita è di grande interesse soprattutto per ciò che può portare alla luce in merito alle epistole paoline e al vangelo di Luca. È noto che Marcione di Sinope nel Ponto giunse a Roma o vi fiorì in una data di non facile determinazione, che potrebbe oscillare tra il 140 e il 150 (dopo la morte di papa Igino, come vuole Epifanio di Salamina, o sotto Igino fino al tempo di Aniceto, come preferisce Ireneo).(170) Epifanio ci fa sapere che il canone marcionita comprendeva solo il Vangelo di Luca e l’ἀποστολικόν (apostolikón), ovvero le 10 lettere paoline secondo il seguente ordine: Galati, 1e 2Corinzi, Romani, 1e 2Tessalonicesi, Efesini, Colossesi, Filemone, Filippesi, alle quali vanno aggiunti pochi frammenti della lettera ai Laodicesi. Sappiamo che Tertulliano(171) identifica quest’ultima con quella agli Efesini, ma Epifanio le tiene ben distinte; anzi afferma che della Lettera ai Laodicesi ci sono pervenuti solo pochi frammenti («particulas aliquot» – μέρη), sebbene poi individui in Efesini uno dei frammenti della stessa. In ogni caso tutte le lettere paoline, possedute da Marcione, erano decurtate di interi capitoli o anche di porzioni di capitoli. Le mutilazioni più consistenti riguardano il terzo capitolo di Galati e i capitoli i, ix-xi e xv di Romani. Lo stesso Vangelo di Luca, secondo il vescovo cipriota, era mutilato dei primi due capitoli; iniziava da iii, 1, era privo di riferimenti all’AT, mancava del capitolo xxiv e, com’egli aggiunge, era in tutto simile ad un abito corroso dalle tigne («liber evangelium Lucam […] ab eo mutilatus est, initio, medio et fine decurtatis, corrosi a tineis vestimenti simillimus est»). Dunque l’incipit del (170)  Epifanio di Salamina, Panarion, i, iii, 1; 9-10; Ireneo, Adv. haer., iii, 4, 3. (171)  Tertulliano, AdversusMarcionem, v.

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Vangelo di Luca era secondo Marcione: «Anno xv Tiberii Caesaris» (ἐν ἔτει δὲ πεντεκαιδεκάτῳ τῆς ἡγεμονίας τιβερίου καίσαρος). Per le ulteriori varianti marcionite del testo lucano è utile consultare Epifanio.(172) Tertulliano fu sorpreso per l’assenza nel canone marcionita delle cosiddette lettere pastorali (1e 2Timoteo e Tito), ma non si rese conto che all’epoca in cui Marcione soggiornò a Roma esse non erano ancora apparse, come dimostra il fatto che furono testimoniate più tardivamente e che tardo era anche il greco in cui furono scritte. In ogni caso il canone marcionita pone inevitabilmente un problema. Baur si chiede quale delle due versioni del messaggio cristiano è quella originale: quella del Messia giudaico che è propria del vangelo matteano o quella del redentore dell’umanità intera, quale ci è rappresentato dal Vangelo lucano e dalle lettere paoline?(173)E più concisamente: quale è stato l’iter di composizione del messaggio neotestamentario? Poiché la formazione del canone neotestamentario è un’operazione complessa, è naturale attendersi che su di esso si siano registrate divergenze non lievi. Ireneo annovera come canonici i quattro vangeli, le lettere di Paolo, il Pastor di Erma e l’Apocalisse di Giovanni.(174) Eusebio invece accoglie come testamentari i quattro vangeli, la 1Giovanni, la 1Pietro, gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo; reputa controverse le lettere di Giacomo, di Giuda, la 2Pietro, la 2 e la 3Giovanni e la Lettera agli Ebrei;(175) esprime dubbi sull’autenticità dell’Apocalisse di Giovanni, include tra gli scritti non testamentari gli Atti di Paolo (contestati anche da Tertulliano(176)), l’Apocalisse di Pietro, la Lettera di Barnaba, la Didaché, il Vangelo secondo gli Ebrei, il Pastor di Erma (accettato anche da Tertulliano(177) e da Origene)(178) e, infine, reputa di matrice eretica e pertanto apocrifi i vangeli di Pietro, di Tommaso, di Mattia, gli Atti di Andrea, di Giovanni e degli altri apostoli; considera auten(172)  Ivi, i, iii, 11. (173)  È questa l’ipotesi di F. Ch. Baur, Paul, the Apostle of Jesus Christ, his Life and Work, his Epistles and Doctrine. A Contribution to a Critical History of Primitive Christianity, London, Williams and Norgate, 1878, pp. 236-247; Id., The Church History of the First Thrre Centuries, London, Williams and Norgate, 1878, pp. 77-78. Di contro A. Ritschl, Das Evangelium Marcions und das kanonische Evangelium des Lucas: eine kritische Untersuchung, Tübingen, Osiander, 1846, ritiene che le versioni marcionite siano più antiche e originarie. (174)  Ireneo, Adv. haer., iii, 1, 1; iv, 20, 2; v, 30, 1, 3. (175) Cfr. Eusebio, HE, ii, 15, 2; iii, 24, 2; 3, 5, 17; 25, 3-6. (176)  Tertulliano, De baptismo, 17. (177)  Tertulliano, De pudicitia, 10. (178)  Origene, Princ., iv, 11.

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tica la prima clementina(179)sulla base del fatto che essa riprende molti concetti della Lettera agli Ebrei (il che in realtà avvallerebbe la sua inautenticità). Attribuito da Muratori e da Galland(180) a Gaio (Disputatio adversus Proclum), presbitero romano, il canone muratoriano(181) cita nel seguente ordine il Vangelo di Luca (f. 10r, l. 1-8), il Vangelo di Giovanni (f. 10r, l. 9-26), le epistole (epistolae suae) di Giovanni, dalla prima delle quali trae una citazione diretta (f. 10r, l. 27 - 10v, l. 3), gli Acta apostolorum (f. 10v, l. 3-8), attribuiti a Luca; quindi enumera sette lettere paoline indirizzate a sette chiese (Corinzi, Efesini, Filippesi, Colossesi, Galati, Tessalonicesi, Romani; poi aggiunge la 2Corinzi e la 2Tessalonicesi (f. 10v, l. 8-30), le lettere a Filemone, a Tito e le due a Timoteo (f. 10v, l. 28-31) e le lettere non pervenuteci ai Laodicesi e agli Alessandrini (f. 11r, l. l-5); cita la Lettera di Giuda, due Lettere di Giovanni (f. 11r, l. 5-7), le Apocalissi di Giovanni e di Pietro (f. 11r, l. -11), il Pastor di Erma (f. 11r, l. 11-16). Include il Vangelo di Luca e quello di Giovanni rispettivamente come terzo e quarto. Essendo il documento monco al principio non è escluso che nella parte iniziale citasse i Vangeli di Matteo e di Marco: Il canone recita testualmente: Epistolae autem Pauli, quae, a quo loco, vel qua ex causa directae sint, volen[ta]tibus intelligere Ipsae declarant[ur]. Primu[m] omnium Corintheis scysmae haeresis Interdicens, deInceps callatis circumcisionem, Romanis autem or[ni]dine scripturarum, sed et principium earum esse xpm Intimans, prolixius scripsit;de quibus sincolis necesse est ad nobis disputari; cum ipse beatus apostolus paulus sequens prodecessoris sui Iohannis ordine[m], nonnisi [n]ominati[m] septaem eccles[ii]es scribat ordine tali: a Corenthios prima, ad ephesios seconda, ad philippinses tertia, ad colosensis quarta, ad calatas quinta, ad tensaolenecinsis sexta, ad romanos septima. Uerum coreintheis, et t[h]esaolenecinsis licet pro correbtione Iteretur, una tamen per omnem orbem terrae ecclesia deffusa esse denoscitur. Et Iohannis eni[m] In apocalebsy licet septe[m] eccleseis scribat, tamen omnibus dicitueru[m] ad filemonem una, et attitum una, et ad tymotheu[m] duas pro affecto et dilectione; In honore tamen eclesiae catholice In ordinatione eclesiastice deiscepline s[an]ctificatae sunt.Fertur etiam ad Laudecenses, alia ad (179)  Eusebio, HE, iii, 25 e 38. (180) A. Galland, Prolegomena, in Bibliotheca Veterum Patrum, Venetiis, Ex typographia Johannis Baptistae Albritii, t. ii, p. xxxiii. (181)  Edito da S. Prideaux Tregelles (ed.), Canon Muratorianus, cit.

822  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini alexandrinos pauli nomine fincte ad he[re]sem marcionis, et alia plura, quae In chatholicam eclesiam recipi non potest; Fel enim cum melle misceri non congruit.(182)

Com’è noto il manoscritto originario, risalente all’ottavo secolo, è stato trovato da Ludovico Antonio Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. L’illustre studioso non tardò ad accorgersi che esso doveva essere la copia di un manoscritto più antico la cui datazione fissò al 170 d.C. La ragione di tale datazione sta nel fatto che il testo, allorché accenna alla composizione del Pastor di Erma, dice che si tratta di un’opera scritta nuperrime e ne attribuisce la paternità al fratello di Papa Pio I («In eclesia nolunt Pastorem vero nuperrime et temporibus nostris In urbe roma herma conscripsit sedente cathedra urbis romae aeclesiae Pius eps [episcopus] frater eius».(183) Tenuto conto che l’episcopato di Pio cadde tra il 140-155, si è ritenuto che la datazione del canone dovesse collocarsi a ridosso di tali date. È interessante notare, ai fini della datazione delle lettere paoline, che il Canone le ritiene posteriori all’Apocalisse di Giovanni, generalmente datata intorno al 100. Infine per la datazione dello stesso documento muratoriano va tenuto presente che in esso compare un paio di volte l’espressione ‘chiesa cattolica’ (ff. 10v, l. 3031; 11r, l. 4, 7), che difficilmente può farsi risalire all’epoca della sua compi(182)  «Riguardo alle lettere di Paolo, esse da sole dichiarano a coloro che vogliono capire che cosa [siano], da che luogo o per quale ragione siano state scritte. La prima di tutte è quella ai Corinzi, che proibisce le loro divisioni ereticali; la seconda, ai Galati, contro la circoncisione; poi scrisse più diffusamente ai Romani, spiegando l’ordine delle Scritture e anche che Cristo è il loro principio. Ma è necessario per noi esaminare queste lettere una per una, perché il santo apostolo Paolo in persona, seguendo l’esempio del suo predecessore Giovanni, scrive nominativamente a solo sette chiese nel seguente ordine: ai Corinzi la prima, agli Efesini la seconda, ai Filippesi la terza, ai Colossesi la quarta, ai Galati la quinta, ai Tessalonicesi la sesta, ai Romani la settima. È vero che egli scrive ancora una volta ai Corinzi e ai Tessalonicesi per ammonimento, eppure si riconosce facilmente che c’è una sola chiesa sparsa su tutta la terra. Perché anche Giovanni nell’Apocalisse, benché scriva a sette chiese, nondimeno parla di tutte. [Anche Paolo scrisse] per affetto e amore una lettera a Filemone, una a Tito e due a Timoteo; tuttavia queste sono considerate sacre nella stima della chiesa universale (cattolica) per la regolamentazione della disciplina ecclesiastica. È in circolazione anche [una lettera] ai Laodicesi [e] un’altra agli Alessandrini, [entrambe] falsificazioni scritte sotto il nome di Paolo per [promuovere] l’eresia di Marcione, e diverse altre che non possono essere accettate dalla chiesa universale, perché non è opportuno che il fiele sia mischiato con il miele». Il testo latino è riprodotto da S. Prideaux Tregelles (ed.), Canon Muratorianus, cit., pp. 19-20. (183)  Ivi, p. 20.

III.2  L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini 

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lazione. Molto verosimilmente fin quasi alla fine del secondo secolo il cristianesimo era ancora acefalo o policefalo. Ciascuno dei grandi centri dell’area mediterranea aveva voce in capitolo su questioni teologiche. Non c’era ancora una Chiesa cattolica, nel senso di una Chiesa istituzionalizzata e universale che esercitava una egemonia su tutte le comunità cristiane. C’era la pretesa o l’aspirazione universalistica della chiesa occidentale, ma mancava ancora la formula «chiesa cattolica», tant’è vero che essa non è usata neppure da Ireneo, allorché ne definisce i contorni dottrinali. Egli infatti scrive che, in ragione della sua «origine più eccellente, con la chiesa di Roma doveva necessariamente accordarsi ogni altra chiesa».(184) Ora è evidente che in proposito si possono avanzare due ipotesi: 1) o la formula «Chiesa cattolica» è un’aggiunta del copista che ha prodotto il manoscritto del secolo viii; 2) o essa era già presente nel manoscritto capostipite che non è in nostro possesso. Nel primo caso è possibile una datazione più alta del testo originale; nel secondo bisogna forse pensare ad una sua datazione verso la fine del secondo secolo, di poco precedente la pubblicazione dell’Adversus haereses di Ireneo. D’altra parte va tenuto presente che quel nuperrime, che sembra così decisivo per una datazione più alta, non va riferito ovviamente ai tempi del papato di Pio I, ma a quelli della composizione del Pastor di Erma. E anche se si riconosce che l’autore era il fratello del papa, nulla vieta che egli fosse di lui più giovane o che abbia potuto scrivere la sua opera in tarda età. Si potrebbe perciò supporre che è assai più verosimile che il Pastor sia stato composto intorno agli anni Ottanta o Novanta e che il Canone sia databile agli ultimi anni del secolo. Non v’è dubbio che il documento muratoriano fu prodotto all’interno della Chiesa romana, ma è strano che Ireneo non ne abbia contezza. Strettamente legate ai problemi di datazione sono naturalmente l’attendibilità, l’affidabilità e l’autenticità dei testi. Generalmente gli esegeti cristiani ritengono che esse siano garantite dalla antichità dei manoscritti a nostra disposizione. Ma i manoscritti e i papiri pervenutici sono in gran parte del terzo e del quarto secolo e presentano tra l’altro varianti di cui ci sfugge la provenienza. Se ciò accade per le lezioni più tardive a noi note, è assai probabile che più consistenti varianti e interpolazioni fossero presenti nelle versioni originali o di transizione che sono andate perdute. In altri termini i vangeli canonizzati sono giunti a noi in una versione già evidentemente manipolata e adattata alle istanze politico-teologiche della Chiesa istituzionalizzata del quarto secolo. Solo pochi sono i frammenti pa(184)  Ireneo, Adv. haer., iii, 3, 2.

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piracei anteriori al quarto secolo e di per sé non sufficienti per ricostruire la storia dei testi. Il più antico manoscritto di Marco è il papiro P45 della seconda metà del iii secolo.(185) Seguono il Codex Vaticanus e il Codes Sinaiticus del iv secolo. Talvolta manoscritti di epoca posteriore possono conservare lezioni più antiche. Un esempio è dato da Marco i, 1, che nel Vaticanus conserva la lectio «figlio di Dio» (υἱὸς θεοῦ), la quale è assente nel Sinaiticus, nel Codex Koridheti del ix secolo e nel Minuscolo 28 dell’xi secolo. Sotto il profilo filologico e scientifico è ovviamente più attendibile la lectio brevior secondo la regola lectio brevior praeferenda. Ed è evidente che in casi come questo la manipolazione del testo non è ingenua o non intenzionale, poiché è di notevole rilevanza teologica. Le interpolazioni più consistenti riguardano i primi due capitoli di Matteo e di Luca e la cosiddetta finale lunga di Marco. I papiri (P1, P70) che riportano cascami dei due citati capitoli di Matteo risalgono alla fine del terzo secolo. Un solo papiro (P4), che porta tracce del primo capitolo lucano, in riferimento alla nascita di Giovanni il Battista, è databile al terzo secolo. Il testo di Marco presenta nei vari manoscritti ben quattro finali, due corte e due lunghe. Il Codex Sinaiticus, il Codex Vaticanus del iv secolo, il Minuscolo 304 del xii secolo, i manoscritti della versione copta sahidica(186) terminano con il versetto xvi, 8 (finale corta). Nel Codex Bobbiensis in latino dopo il versetto xvi, 8, è introdotta una seconda finale corta che così recita: Omnia autem quaecunque praecepta erant et qui cum Petro erant breviter exposuerunt. Post haec et ipse J[esu]s adparuit et ab oriente usque usque inorientem misit per sanctam et incorruptam praedicationem salutis aeternae.

La finale lunga (Mc, xvi, 9-20), conservata nel Codex Alexandrinus, ha probabilmente lo scopo di creare una corrispondenza tra Marco e gli altri evangelisti ed è nota ad Ireneo(187) che cita il versetto, xvi, 19; ma sembra essere ignorata da Girolamo che non ne fa mai menzione. Eusebio nell’epi(185)  Conservato nella Chester Beatty Library di Dublino e nella Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. (186)  Per i quali v. J. K. Elliot, The Last Twelve Verses of Mark: Original or Not?, in D. A. Black, D. Bock, J. K. Elliot, M. Robinson, D. Wallace, Perspectives on the Ending of Mark: Four Views, Nashville, B&H Publishing Group, 2008, pp. 80-102. (187)  Ireneo, Adv. haer., iii, 10, 6.

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stola ad Marinum(188) afferma che la maggior parte dei manoscritti consultati ometteva la finale lunga. Una seconda finale lunga ci è trasmessa dal Codex Washingtonianus (iv-v secolo), che inserisce una pericope tra i versetti xvi, 14 e xvi 15. Non sembrano sussistere ragioni valide o comunque convincenti per ritenere che il vangelo marciano non terminasse con il versetto xvi, 8. La resurrezione del Cristo è chiaramente dichiarata in xvi, 6 e l’imminente epifania ai discepoli in Galilea è preannunciata in xvi, 7. Rispetto ad essi la finale lunga è apparentemente pleonastica. La conclusione naturale del vangelo che chiude con il timore delle donne non compromette affatto l’annuncio della buona novella, anzi la resurrezione riaccende la speranza nella promessa divina. Tuttavia la finale lunga è un’aggiunta necessaria sotto il profilo teologico, perché i due versetti xvi, 6 e 7, non danno la certezza della resurrezione per un motivo semplicissimo: perché la presentano come deduzione logica del fatto che le donne trovarono vuoto il sepolcro. Si trattava di una deduzione non cogente, poiché si poteva anche supporre un trafugamento della salma; quest’ultima ipotesi veniva fatta cadere per via dell’esplicita dichiarazione dell’angelo: «Gesù di Nazareth, il crocifisso è risorto». Il guaio è che tale dichiarazione, essendo affidata alla testimonianza delle donne, non aveva alcun valore per il diritto ebraico; ed in effetti l’autore di Marco annulla la loro testimonianza nel momento stesso in cui la pone; poiché aggiunge: «ed esse non dissero niente a nessuno tanto erano spaventate». Se non dissero niente a nessuno, com’è possibile che la loro testimonianza sia giunta fino a noi? Insomma Marco, agli occhi dei credenti e delle autorità ecclesiastiche, non appariva teste incontestabile della resurrezione del Cristo. Da qui la necessità di aggiungere la finale corta o quella lunga, in modo da far quadrare il cerchio e confermare la natura divina del Cristo attraverso la sua assunzione in cielo. Con essa il testo di Marco si uniformava a quelli di Matteo e di Luca. Questa è la ragione per cui fu necessario l’intervento correttivo della ignota mano posteriore, forse la stessa che nella intestazione del vangelo aveva ritenuto opportuno aggiungere accanto al nome del Cristo la puntualizzazione che si trattava del figlio di Dio (ἰησοῦ χριστοῦ υἱοῦ θεοῦ, Mc, i, 1). L’analisi dei papiri a noi pervenuti ci permette di stabilire due conclusioni di grande rilievo. In primo luogo quasi tutti i frammenti papiracei partono dal terzo secolo d.C., solo tre (P104, P52, P90) potrebbero essere attribuiti al secondo secolo. In secondo luogo, proprio per essere tutti relativamente (188)  Eusebio, Ad Marinum, PG. xxii, col. 937.

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tardivi ci hanno consegnato, salvo varianti e omissioni più o meno significative, una versione pressoché definitiva dei vangeli.(189) Ai manoscritti papiracei si aggiungono nel iv secolo il Codex Sinaiticus e il Codex Vaticanus. Il Codex Bezae del v secolo omette Lc, xxii, 19-20 (si tratta di un passo di estrema importanza, poiché è relativo alla nuova alleanza e all’eucaristia con il simbolismo di pane-corpo e vino-sangue). I versetti Lc, (189)  I papiri più antichi relativi al Vangelo di Marco sono due (indico in parentesi tonde le pericopi contenute, ma solo per i papiri più antichi del terzo e del quarto secolo): P45 del iii secolo (il quale contiene i seguenti versetti: Mc, iv, 36-40; v, 15-26; v, 38 - vi, 3; vi, 16-25, 36-50; vii, 3-15; vii, 25 - viii, 1; viii, 10-26, viii, 34 - ix, 9; ix, 18-31; xi, 27 - xii, 1; xii, 5-8; xiii, 19, 24-28) e P88 del iv secolo (il quale contiene solo i versetti Mc, ii, 1-26). P84 è invece del vi secolo Più numerosi sono i papiri relativi a Matteo. Di essi è databile alla fine del secondo secolo solo P104 (xxi, 34-37, 43, 45. Datano al terzo secolo P1 (i, 1-9, 12, 14-20), P45 (xx, 24-32; xxi, 13-19; xxv, 41 - xxvi, 39), P53 (xxvi, 2940), P64 (iii, 9, 15; v, 20-22, 25-28; xxvi, 7-8, 10, 14-15, 22-23, 31-33), P67 (iii, 5, 26), P70 (ii, 13-16; ii, 22 - iii, 1; xi, 26-27; xii, 4-5; xxiv, 3-6, 12-15), P77 (xxiii, 30-39), P101 (iii, 10-12; iii, 16 - iv, 3), P103 (xii, 55-56; xiv, 3-5). In particolare Il papiro P64, noto anche come papiro di Magdalen, di fatto risalente al terzo secolo e contenente frammenti del Vangelo di Matteo in greco, è stato di recente datato al primo secolo, tra il 30 e il 70 d.C. da C. P. Thiede, Il papiro di Magdalen, cit., il quale crede di poter giustificare con tale ipotesi un’origine dei vangeli quasi a ridosso della passione e morte del Cristo. Ma l’uso dei nomina sacra e la divisione della pagine in due colonne dimostrano chiaramente che il papiro è sicuramente di epoca posteriore. D’altronde la tesi di Thiede dovrebbe indurre a mettere fuori gioco la possibile esistenza di un Matteo ebraico o aramaico, perché comporta una notevole riduzione di tempo tra la passione e la compilazione del vangelo. Risalgono al iv secolo: P25,P35, P37,P62, P71, P86, P102, P110; al quinto secolo: P19, P21; al sesto secolo: P83, P96, P105; al settimo secolo: P44b, P73. I papiri del terzo secolo relativi a Luca sono: P4 (i, 58-59; i, 62 - ii, 1; ii, 6-7; iii, 8 - iv, 2; iv, 29-32, 34-35; v, 3-8; v, 30 vi, 16), P45 (vi, 31-41; vi, 45 - vii, 7; ix, 26-41; ix, 45 - x, 1; x, 6-22, 26-42; xi, 1, 6-25, 28-46; xi, 50 - xii, 12; xii, 18-37; xii, 42 - xiii, 1; xiii, 6-24; xiii, 29 - xiv, 10; xiv, 1733); P69 (xxii, 41, 45-48, 58-61), P75 (iii,18-22; iii, 33 - iv, 2; iv, 34 - v, 10; v, 37 - vi, 4; vi, 10 - vii, 32; vii, 35-39, 41-43; vii, 46 - ix, 2; ix, 4 - xvii, 15; xvii, 19 - xviii,18; xxii, 4 - xxiv, 53), P111 (xvii, 11-13, 22-23); del iv secolo: P7; del quinto secolo: P82; del settimo secolo P97; dell’ottavo secolo: P3, P42. I papiri relativi a Giovanni, risalenti agli ultimi scorci del ii secolo, sono: P52 (xviii, 3133, 37-38) e P90 (xviii, 36 - xix, 7); terzo secolo: P5 (i, 23-31, 33-40; xvi, 14-30; xx, 1117, 19-20, 22-25), P22 (xv, 25 - xvi, 2; xvi, 21-32), P28 (vi, 8-12,17-22), P39 (viii, 14-22), P45 (iv, 51-54; v, 21-24; x, 7-25; x, 30 - xi, 10; xi, 18-36, 42-57), P66 (i, 1 - vi, 11; vi, 35 - xiv, 26; xiv, 29-30; xv, 2-26; xvi, 2-4, 6-7; vi, 10-20; xx, 22-23, xx, 25 - xx, 9), P75 (i, 1 - xi, 45; xi, 48-57; xii, 3 - xiii, 10; xiv, 8-31; xv, 1-10), P80 (iii, 34), P95 (v, 26-29, 3638), P106 (i, 29-35, 40-46), P107 (xvii, 1-2, 11), P108 (xvii, 23-24; xviii, 1-5), P109 (xxi, 1820, 23-25), P119 (i, 21-28, 38-44), P121 (xix, 17-18, 25-26); quarto secolo P6 e P120; quinto secolo: P93 e P122; al sesto secolo: P58, P63, P76, P84, P2, P36; settimo secolo: P55, P60, P44a.

III.2  L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini 

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xxii, 43-44 (relativi al Cristo nel Getsemani, all’epifania di un angelo e al sudore-sangue) sono omessi da diversi manoscritti più antichi. Thiede(190) ha enfatizzato eccessivamente l’importanza del papiro P52 al fine di confermare la datazione del vangelo giovanneo intorno al 100 d.C. Infatti, accettata la datazione del 125 proposta dal papirologo Roberts,(191) ipotizza che la diffusione dal luogo di composizione (Efeso) e quello di reperimento del papiro (Egitto) comporti un arco temporale di almeno 20 anni così da farci supporre che Giovanni lo abbia scritto in epoca traianea. Tuttavia contro tale ricostruzione si sono opposte diverse obiezioni. In primo luogo si dubita della attendibilità di una datazione effettuata su basi esclusivamente paleografiche o papirologiche, priva di eventuali referenti esterni; in secondo luogo le datazioni paleografiche non possono mai essere così puntuali come crede il Thiede, poiché oscillano molto spesso di un certo arco temporale (talvolta di più o meno cinquant’anni) che spesso dipende dal luogo in cui il papiro è stato compilato; in terzo luogo il frammento papiraceo, oggi conservato nella biblioteca John Rylands di Manchester, per essere scritto sul recto e sul verso, sembra appartenere non ad un rotolo ma ad un codice e in quanto tale dovrebbe ritenersi più tardo di altri papiri. In quarto luogo del P52 sono state proposte datazioni più attendibili da parte di Culpepper e di Schmidt.(192) Il primo lo colloca tra il 150 e il 175; ad analogo risultato giunge anche il secondo che lo data intorno al 170 con un margine in più o in meno di circa 25 anni. Ed è da osservare che tale datazione è compatibile con tutti gli altri dati che riguardano il vangelo giovanneo (in particolare la sua assenza dal canone marcionita e la sua presenza in quello muratoriano, nonché l’appartenenza alla seconda metà del secondo secolo dei testi che lo citano). Il luogo di reperimento dovrebbe se mai indurci a rettificare la tradizione per la quale esso sarebbe stato composto ad Efeso; forse è più probabile che il quarto vangelo abbia visto la luce in Egitto, probabilmente in Alessandria, ove era particolarmente diffuso lo gnosticismo. Volendo trarre le conclusioni di questo paragrafo, possiamo dire che il Vangelo di Marco è stato scritto presumibilmente intorno al 110-115; quel(190)  C. P. Thiede, Il papiro di Magdalen, cit. (191) C. Roberts, An Unpublished Fragment of the Fourth Gospel in the John Rylands Library, «Bulletin of the John Rylands Library», xx, 1936, pp. 45-55. (192)  R. A. Culpepper, John, the Son of Zebedee: the Life of a Legend, Columbia, SC, University of South Carolina Press, 1994, p. 108; A. Schmidt, Zwei Anmerkungen zu P. Ryl. III 457, «Archiv für Papyrusforschung und verwandte Gebiete, xxxv, 1989, pp. 1112.

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lo di Matteo, alla fine dell’età adrianea o immediatamente dopo, tra il 135 e il 140; quello di Luca, sicuramente posteriore alla rivolta giudaica, tra il 140 e il 145; quello di Giovanni, non incluso nel canone marcionita, intorno al 170-175. Le epistole paoline considerate autentiche dalla tradizione (Romani, 1 e 2Corinzi, Galatie1Tessalonicesi), risalgono intorno al 120-140; le altre (Efesini, Filippesi, Colossesi, 2Tessalonicesi) invece dovrebbero essere databili tra il 140 e il 150 al massimo. Gli Atti degli Apostoli dovrebbero collocarsi tra il 140 e il 160. Le epistole pastorali (1 e 2Timoteo, Tito, Filemone), la 1Pietro, la 1 e la 2Giovanni, la lettera di Giuda, citate per la prima volta nel canone muratoriano, dovrebbero risalire al 160-180. La lettera di Giacomo, la 2Pietro, la 3Giovanni, che sono sconosciute ad Ireneo, vanno datate verso la fine del secondo secolo. Le epistole pseudoepigrafe di Ignazio e di Clemente, comparse insieme alla lettera di Policarpo, furono scritte molto probabilmente tra il 170 e il 180. Di contro i primi documenti neotestamentari, come l’Apocalisse e la Lettera agli Ebrei, per le ragioni già esposte, sono rispettivamente databili dal 100 al 110. Le due anime del cristianesimo primitivo, quella apostolica e quella paolina, si svilupparono nell’arco della prima metà del secolo ii. La prima attecchì nell’area siriano-palesinese ed egizia; la seconda trovò fertile humus nell’area anatolico-siriana. La Siria fu la regione in cui i due filoni entrarono in contatto, si scontrarono sotto il profilo ideologico-culturale, ma infine si amalgamarono in una sintesi che costituì l’ossatura portante della chiesa imperiale e istituzionalizzata. La trattazione di questi aspetti sarà oggetto dei prossimi capitoli conclusivi.

capitolo iii

LA CRISTOLOGIA DEI SINOTTICI: CONTRADDIZIONI E DERIVAZIONI

3.1.  Il problema sinottico Com’è noto, il termine ‘sinottico’ in greco si riferisce a testi o racconti che sono insieme confrontabili sott’occhio. I tre vangeli sinottici sono così detti perché i loro contenuti e le loro forme linguistiche possono essere messi a confronto su tre colonne parallele. Ciò ha consentito la pubblicazione di ‘sinossi’ che hanno permesso uno studio parallelo dei tre testi. L’iniziatore di questa produzione editoriale è stato il Griesbach, seguito da Huck, Larfeld e Tischendorf.(1) Naturalmente tale sostanziale confrontabilità dei tre vangeli è all’origine del cosiddetto «problema sinottico». Quale spiegazione si può dare della loro affinità? Intanto si può dire che essa è di tre tipologie: ci sono 1) pericopi trascritte letteralmente dall’uno all’altro testo; 2) pericopi parzialmente modificate e 3) pericopi aggiunte o omesse dall’au(1)  J. J. Griesbach, Synopsis evangeliorum Matthaei, Marci et Lucae cum parallelis Johannis Pericopis […] Concinnaverunt et breve argumentorum notationes adjiecerunt Guil(elmus) Mart(inus) Leber(echt) De Wette et Fried(ericus) Lücke, Berolini, impensis et typis G. Reimeri, mdcccxviii; A. Huck, Synopse der drei ersten Evangelien, Tübingen, Mohr, 1928; W. Larfeld, Griechische Synopse der vier neutestamentlichen Evangelien, nach literarhistorischen Gesichtspunkten und mit textkritischen Apparat, Tübingen, Mohr, 1911; K. von Tischendorf, Synopsis evangelica, Lipsiae, Avenarius et Mendelssohn, mdcccli; J. Perk, Synopsis latina quattuor evangeliorum secundum vulgatam editionem, Paderborn, Schoeningh, 1935; K. Aland, Synopsis quattuor evangeliorum, Stuttgart, Deutsche Bibelstiftung, 1976.

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tore successivo. L’ipotesi più naturale ed anche più verosimile è che l’autore che è venuto dopo ha tenuto sott’occhio il testo di chi è venuto prima. Noi sappiamo dal paragrafo precedente che l’ordine cronologico di elaborazione dei tre vangeli è il seguente: Marco ha scritto per primo ed è stato seguito a sua volta da Matteo e poi da Luca. Ne deriva che Matteo ha lavorato su Marco e Luca su Marco e Matteo. Questa ipotesi può essere confermata sulla base di dati quantitativi. Infatti circa i tre quarti (76%) dei versetti di Marco sono comuni a Matteo e a Luca; poco meno di un quinto (18%) sono comuni a Matteo soltanto e poco meno del 3% sono comuni a Luca soltanto. Ciò significa che Matteo e Luca assorbono nel complesso il 97% del vangelo marciano. Più specificatamente il 45% di Matteo e il 41% di Luca sono di derivazione marciana. Nulla più di questi dati quantitativi consacra il principio della priorità marciana. Benché universalmente ammesso dalla gran parte degli studiosi, la Chiesa ha ribadito nel recente passato (1911) la tradizionale priorità di Matteo nei lavori della Pontificia Commissione Biblica (Commissio Pontificia de re biblica), la quale tra l’altro ha ostinatamente confermato che il testo originario di Matteo è stato redatto in lingua aramaica; oggi in realtà, dopo la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, sappiamo che in età apostolica era ancora circolante l’ebraico mishnico e che il vangelo di Matteo, in sede puramente teorica, potrebbe essere stato compilato in mishnico. Una volta accolto il principio della priorità marciana, l’ipotesi che, a mio avviso, spiega il più razionalmente possibile l’accrescimento della narrazione evangelica è quella che potremmo definire della «progressiva costruzione della vicenda biografica del Cristo». Resta da chiarire previamente l’uso del termine ‘costruzione’. Con esso si vogliono segnalare due cose: 1) la totale indifferenza della storicità del Cristo rispetto alla narrazione evangelica. Il mito è tale sia che si riferisca ad un personaggio storico reale, sia che si riferisca ad un personaggio fittizio. In altri termini il racconto evangelico non ci dà certezza alcuna circa la sua storicità; 2) la prova che si tratti della costruzione di un mito è esplicitata negli stessi testi attraverso i loro continui riferimenti alle profezie veterotestamentarie. Quasi ogni passo della biografia del Cristo, e spesso anche parte dei suoi detti, delle sue parabole o dei suoi discorsi, sono presentati come adempimento scritturale. Ammessa la priorità marciana, il problema sinottico potrebbe considerarsi prossimo alla definitiva soluzione, se non fosse per il fatto che le narra-

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zioni seriori risultano più ricche e più dettagliate delle precedenti.(2) Chi scrive dopo ed è più lontano dagli eventi narrati mostra di sapere di più di chi è più vicino ad essi. Come spiegare una tale anomalia? In generale se si tratta di prodotti letterari la spiegazione che se ne può dare è che si tratta di racconti inventati che possono essere accresciuti a dismisura e secondo lo specifico gusto di chi scrive. Se si tratta di opere storiche è possibile che chi scrive dopo ha potuto acquisire alla conoscenza storica fonti letterarie o archivistiche prima sconosciute o comunque ignote ai suoi predecessori. Tali fonti per essere al di sopra di ogni sospetto debbono costituire un’acquisizione accessibile a tutti gli storici che intendono riesaminare le relative narrazioni. Per quanto riguarda i vangeli la soluzione dipende dal valore che ad essi assegniamo. Se li pensiamo come prodotti letterari, allora essi sono pure finzioni e finzioni sono di conseguenza i loro accrescimenti. Se li pensiamo come prodotti storici, dobbiamo poter giustificare con documenti alla mano il loro accrescimento. Tutte le ipotesi che non stanno sul versante della spiegazione scientifica sono ovviamente campate in aria. Ognuno di noi può inventarsi fonti perdute per avvalorare le proprie pregiudizievoli convinzioni.(3) (2)  Cfr. in proposito F. R. Zindler, Cognitive Dissonance. The Ehrman-Zindler Correspondenec, in F. R. Zindler - R. M. Price, Bart Ehrman and the Quest of the Historical Jesus of Nazareth: An Evolution of Ehrman’s Did Jesus Exist?, Cranford, American Atheist Press, [2013], p. 95. (3)  Gli esegeti di matrice confessionale tendono a crearsi dei modlli di metodologia storiografica di una certa elasticità in modo da poter giustificare la storicità delle narrazioni bibliche. P. Fredriksen, Jesus of Nazareth, King of the Jews: A Jewish Live and the Emergence of Christianity, New York, Vintage Books, 2000, pp. 36-37, per esempio, ritiene che se i racconti evangelici si adattano ad una «responsabile ricostruzione» in linea con il periodo storico di Cristo, abbiamo argomenti per poter supportare la storicità del Cristo; se essi si adattano alla ricostruzione dell’ambiente palestinese degli anni Trenta del primo secolo, abbiamo ragioni per preferirli ad altre possibili ipotesi. Il problema è che le ‘ricostruzioni’ sono sempre soggettive se non sono supportate da una adeguata documentazione. E quando sono di tale natura non c’ è nessuna linea di demarcazione tra quelle affidabili e le inaffidabili, tanto più che la stessa autrice riconosce che Matteo e Luca non furono solo gli autori, ma anche i redattori dei loro specifici testi. J. D. Crossan, Jesus: A Revolutionary Biography, cit., pp. 8-11, propone come presupposto metodologico l’incrocio di tre vettori, individuati 1) in quello antropologico; 2) in quello della storia greco-romana e giudaica; 3) in quello letterario e testuale. Ma il nodo essenziale sta tutto nel terzo vettore, la cui affidabilità è strettamente legata all’esistenza di fonti testuali molteplici e indipendenti. Se l’indipendenza è fittizia, fittizia è anche la ricostruzione storica. Se l’esegeta moltiplica le fonti (per esempio con l’aggiunta di un inesistente Ur-Markus e di un’altrettanto inesistente fonte Q) e se per giunta postula arbitrariamente una reciproca indipenden-

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Ma si dirà: i testi biblici, in quanto ispirati, sono per principio sottratti alla possibilità dell’errore o della narrazione fittizia. Purtroppo questo è un presupposto di ordine fideistico-religioso; lo storico non può percorrere tale strada, ma deve necessariamente documentare ciò che dice. Se lo studioso credente si rivolge solo ai credenti, nulla quaestio: ognuno è libero di credere ciò che vuole. Se però egli pretende di proporre o imporre allo storico la propria interpretazione, lo deve fare con le procedure che sono proprie della ricerca storico-critica e nello spirito del crisma della scientificità. Il che implica che quando una ipotesi cade sulla base di rigorose argomentazioni scientifiche, muore definitivamente e non può più avere diritto di cittadinanza tra gli studiosi del settore. Le scappatoie o i rattoppi che apparentemente la fanno restare in vita per accanimento terapeutico (vedi il caso della difesa ad oltranza dell’autenticità della Sindone, del Testimonium flavianum, della interpretazione del papiro 7Q5 o della datazione del papiro P52), servono solo a creare inutile confusione. Il problema è che l’accrescimento dei sinottici non è giustificato dalla scoperta di apposite fonti, ma semplicemente dalla comoda supposizione della loro presunta esistenza. L’invenzione di Quellen ad hoc è quasi un puro gioco intellettuale. Lo schema che dà la stura alla pura immaginazione è di questo tipo: se X scrive che «qrs» e Y, dopo X, scrive che «qrst», si fa presto ad inventarsi una Quelle T che presenta la variante «st» invece di «s». In apparenza l’argomentazione è filologica, nella realtà è pseudo-scientifica ovvero è una pura invenzione per il semplice fatto che la spiegazione della variante «st» non è l’unica possibile; poiché è possibile anche che Y abbia semplicemente arricchito con «t» la narrazione «qrs». Ma c’è di più: le aggiunte di Matteo a Marco e di Luca a Marco e a Matteo in parte sono pleonastiche e in parte riempitive e risolutive. Sono pleonastiche quando non aggiungono nulla al quadro complessivo della narrazione, ma semplicemente lo arricchiscono di ulteriori esempi. Tale è il caso dell’aggiunta di altre guarigioni o di ulteriori parabole, ecc. Riempitive sono le aggiunte che mirano a coprire vuoti lasciati nelle precedenti versioni; tale è il caso delle genealogie, della disputa del Cristo dodicenne e così via. Infine risolutive sono le aggiunte che mirano a sciogliere dubbi e contraddizioni dell’autore precedente oppure a rettificare le precedenti narrazioni nell’ottica di una diversa concezione cristologica; queste sono particolarmente frequenti nella narrazione della passione e morte di Cristo. Le aggiunte pleoza di Luca e Matteo, come fa Crossan a p. 28, il suo metodo è levantino, non scientifico.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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nastiche possono essere spiegate tanto in termini di invenzioni degli autori quanto in termini di derivazioni da eventuali Quellen. Ma, poiché queste non ci sono pervenute, è più razionale puntare sulla fantasia degli autori. Le aggiunte riempitive sono indicative dei bisogni di conoscenza emersi in seno alle collettività di riferimento di ciascun autore (es. il bisogno di sapere qualcosa intorno alla nascita o alla attività predicativa del Cristo). Le aggiunte risolutive mirano a sciogliere incongruenze dell’autore precedente o a escludere perplessità sorte in seno ad una determinata comunità; esse non possono assolutamente dipendere da improbabili fonti, poiché sono indicative di una rielaborazione del mito da parte dell’autore successivo. Se prendiamo in considerazione ciascuno dei vangeli sinottici nel proprio sviluppo interno, non possiamo non rilevare che essi presentano una frammentarietà intrinseca. La narrazione non ha né uno svolgimento logico, né uno svolgimento storico. I singoli episodi, i detti, le parabole e le guarigioni si succedono come tessere di un mosaico il cui ornato non è definito che per linee molto generali, che sono la predicazione galilea, la predicazione giudaica, l’ingresso in Gerusalemme, i processi, la passione e morte, la resurrezione, l’ascensione in cielo e le epifanie. Tale è la cornice generalissima, in cui le singole tessere possono essere diversamente collocate con una certa maggiore libertà, come se non avessero un proprio svolgimento storico, nella fase predicativa, e con una minore libertà nella fase acuta, ove l’ordine è imposto dal dramma della passione. In altri termini le sequenze spazio-temporali della attività predicativa si possono considerare non vincolanti né vincolate; si spiega perciò la grande differenziazione più o meno accentuata dei luoghi, dei tempi e dell’ordine della narrazione in ciascuno dei tre autori. Ciò d’altronde prova che essi, non essendo stati testimoni oculari degli eventi, non avevano davanti a sé una cornice storica a cui fare affidamento. Passando dall’uno all’altro testo assistiamo al moltiplicarsi degli esorcismi, delle guarigioni miracolose, di altri miracoli come la moltiplicazione dei pani e dei pesci, il cammino sulle acque e, infine, la crescita per superfetazione delle parabole. I singoli pezzi del racconto (potremmo dire i gruppi di pericopi) si formano per una sorta di attrazione modale, prendono forma come la polvere di ferro sotto l’effetto di una calamita. Non assumono una forma definita, ma ne assumono una per ciascun sinottico, perché le singole tessere del mosaico non sembrano avere una collocazione predefinita, ma possono accorparsi in modi diversi. Ciascuno dei tre autori vuole dare infatti una propria tessitura al racconto, come se in esso si coagulasse la propria impronta perso-

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nale. In tutti e tre, a differenza del quarto vangelo,(4) c’è la comune preoccupazione di sottolineare spesso la componente che potremmo definire esoterica, di verità segrete da tenere in riserbo. Tale è lo stesso silenzio messianico, la raccomandazione costantemente ripetuta di non dire a nessuno dei miracoli e delle guarigioni, che testimoniano la natura divina e messianica del Cristo. Spesso sono segreti racchiusi nel cuore, com’è il caso di Maria, sorpresa dall’annunciazione, o dei discepoli, sorpresi dalla epifania del Cristo o delle donne che scoprono il sepolcro vuoto. Se da un lato possiamo pensare che dei miracoli e delle guarigioni abbiamo notizia perché di fatto il segreto messianico (non dire niente a nessuno)(5)fu costantemente violato (i beneficiati sparsero la voce e la fama del Cristo si sarebbe accresciuta e si sarebbe sparsa nella gran parte della Galilea), dall’altro lato non riusciamo a capire come abbiano potuto gli evangelisti venire a conoscenza dei pensieri segreti di Giuseppe, allorché l’angelo gli comunica la nascita del figlio, o di Maria al momento dell’annunciazione, se né Giuseppe, né Maria, né Elisabetta, né Zaccaria, né le donne, ecc. fecero parola a nessuno. Spesso le testimonianze vengono vanificate nel momento stesso in cui l’autore le propone. Le donne sono testimoni della resurrezione, ma se non dissero nulla a nessuno, com’è possibile che i tre evangelisti abbiano avuto notizia della loro testimonianza? E i soldati posti a guardia del corpo di Cristo sulla croce come poterono testimoniare che il corpo non fu trafugato, se si erano addormentati? Come possiamo accettare la storicità di narrazioni così sfumate? 3.2.  La predicazione di Cristo e la sequela dei discepoli La prima fase della predicazione del Cristo si svolge in Galilea ed è immediatamente successiva all’arresto di Giovanni nella fortezza del Macheronte. Questa pièce però, comune a tutti e tre i sinottici, è cronologicamente incompatibile con gli altri dati storici forniti, perché, come sappiamo, l’arresto e la morte del Battista sono databili tra il 35 e il 36 e, pertanto, dovrebbero essere posteriori alla passione (30 o al massimo 33 d.C.). Matteo arricchisce l’episodio con la schermaglia verbale («razza di vipere») contro i farisei e i sadducei che in Luca diventano anonimi. Inoltre egli viva(4) Cfr. Gv, xviii, 20. (5) Cfr. Mc, i, 44; iii, 12; v, 43; vii, 36; viii, 30; ix, 9; ix, 30; Mt, viii, 1; xvi, 20; xvii, 9; Lc, iv, 41; v, 14; viii, 56; ix, 36.

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cizza con accenti ironici le tentazioni del diavolo nel deserto, nella città di Gerusalemme e «su un alto monte» e fa iniziare la predicazione di Cristo con l’insistenza circa l’imminenza del «Regno di Dio» (Marco) o «Regno dei Cieli» (Matteo). Luca di suo aggiunge un excursus penitenziale, à côté del quale esprime una condanna del levirato, cui aveva fatto ricorso Erode Antipa, che, alla morte di suo fratello Filippo, ne aveva sposato la moglie Erodiade. Giovanni avrebbe usato la sferza contro tali unioni, sebbene ammesse nella legislazione mosaica, e si sarebbe perciò attirata l’avversione di Erodiade che lo avrebbe fatto rinchiudere nella fortezza del Macheronte. Luca riproduce con poche varianti le tentazioni del diavolo narrate da Matteo; in particolare la tentazione che per Matteo si svolge su un alto monte per Luca si svolge nel deserto. Il vangelo marciano si delinea così più come una serie di episodi, più che di detti; anzi i detti del Cristo risultano per lo più occasionati da eventi. Questa struttura prevalentemente biografica ha dato fin dall’antichità l’impressione che fosse un vangelo disordinato (Papia). Ma ad un’attenta lettura un certo disordine narrativo si può cogliere anche negli altri due sinottici, che, tutto sommato, assumono Marco come loro canovaccio comune. Alquanto tormentata è la narrazione relativa alla sequela dei discepoli.(6) All’inizio della predicazione Gesù sceglie i suoi discepoli; presso il mare della Galilea (Marco e Matteo) o presso il lago di Gennesaret (Luca); egli chiama a sé Simone-Pietro e il fratello Andrea, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, tutti pescatori e tutti analfabeti. Nessuno di loro, Gesù compreso, figlio di un carpentiere e pertanto analfabeta, poté trasmettere neppure uno iota del messaggio cristiano. I tempi di tale pesca di discepoli sembrano differenziarsi; Luca pospone la loro chiamata all’uscita da Cafarnao. La seconda chiamata(7)avviene «lungo il mare»; Gesù prende con sé Levi, esattore (Marco e Luca), figlio di Alfeo (Marco) o Matteo, esattore (Matteo). Si tratterebbe di una palese contraddizione, ma l’esegetica cristiana scioglie la difficoltà affermando che Levi e Matteo sono la stessa persona. Anche qui i tempi si differenziano, perché per Marco e Luca la chiamata di Matteo segue la guarigione del paralitico, per Matteo invece la precede.(8) Da più passi(9) è evidente che l’istituzione dei discepoli è pensata in funzione di una predicazione da svol(6)  Mc, i, 16-25; Mt, iv, 18-22; Lc, v, 1-11. (7)  Mc, ii, 13-17; Mt, ix, 9-13; Lc, v, 27-28. (8)  Mc, ii, 13-17; Mt, ix, 9-13; Lc, v, 27-32. (9)  Mc, iii, 13-19; Mt, x, 1-4; Lc, vi, 12-16.

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gersi tutta all’interno del popolo ebraico; non a caso essi sono dodici quante le tribù di Israele, che erano ormai diventate mitiche, poiché il cosiddetto «resto di Israele» si era ridotto alle sole tribù di David, di Levi e di Beniamino. Evidentemente sugli evangelisti ha pesato l’influenza dell’Apocalisse di Giovanni che immaginò dodici apostoli a custodia delle porte di Gerusalemme. Essi, come si è detto, vennero chiamati ‘apostoli’ nel senso generico di ‘inviati’ e non nel senso di discepoli di Cristo.(10) Ai precedenti discepoli si aggiungono Filippo, Bartolomeo, Tommaso, Giacomo, figlio di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota.(11) Luca si differenzia rispetto agli altri due sinottici, perché sostituisce Giuda di Giacomo a Taddeo. In un primo momento Matteo e Luca ci danno come figlio di Alfeo Levi; poi tutti e tre i sinottici ci dicono che figlio di Alfeo è solo Giacomo. La contraddizione è interna a Marco (Mc, ii, 14; iii, 18). Si potrebbe sciogliere l’enigma supponendo che Levi e Giacomo siano fratelli oppure si deve pensare che siano figli di due distinti genitori di nome Alfeo; ma si tratta di ipotesi arbitrarie studiate apposta per mettere una toppa ad una vistosa falla. Inoltre Simone è definito da Marco e da Matteo come «il Cananeo», Luca invece lo definisce «zelota». Anche qui le ipotesi possibili sono due: o il Cananeo è un abitante del Canaan che potrebbe aver aderito al movimento degli zeloti, oppure, se il nome ‘cananeo’ viene dalla radice ebraica ‘qana’ con cui erano indicati gli zeloti, i due soprannomi potrebbero sovrapporsi. Simone-Pietro e Andrea, indicati da Marco come fratelli, nella definitiva istituzione della sequela sono da lui nominati separatamente e non insieme, come accade per i figli di Zebedeo (Mc, i, 16, 29; iii, 16-18). Evidentemente l’incongruità è avvertita da Matteo che, seguito da Luca, la rettifica (Mt, x, 2; Lc, vi, 14). Solo Matteo ci fa sapere che Simone-Pietro è figlio di Giona (Mt, xvi, 17). Egli è certamente lo stesso Simone di cui, secondo Luca (iv, 3839), Gesù guarisce la suocera. Un caso a sé è il nome Giuda Iscariota perché l’appellativo Iscariota vale in aramaico ‘traditore’ (išqaryā = traditore). Siamo cioè di fronte ad un ennesimo esempio di un nome che indica la funzione esercitata dal personaggio nella narrazione evangelica e fa di Giuda un traditore ancor prima che tradisca il Cristo. Per ovviare a questo inconveniente (10)  Il termine ‘apostolo’ ricorre solo nove volte nei quattro vangeli: una sola volta in Marco (Mc,vi, 30), Matteo (Mt, x, 2) e Giovanni (Gv,xiii, 16) e ben 6 volte in Luca (Lc, vi, 13; ix, 10; xi, 49; xvii, 5; xxii, 14; xxiv, 10). (11)  Mc, iii, 13-19; Mt, x, 2-4; Lc, vi, 13-16.

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gli studiosi credenti hanno tentato di stabilire etimologie alternative dell’epiteto; taluni hanno proposto īsh Qĕriyyōt = Uomo di Qĕriyyōt. In realtà una soluzione più semplice potrebbe essere quella di pensare che l’appellativo di traditore sia stato affibbiato a Giuda a posteriori a seguito del suo tradimento. I tre sinottici escludono che ci sia stata una gestazione o un’incubazione della dottrina da predicare. I discepoli vengono inviati senza una preventiva formazione alla predicazione.(12) Le istruzioni del Cristo riguardano il loro vestiario e il comportamento da tenere quando non sono bene accolti; inoltre essi hanno il compito di predicare affinché la gente si converta. Ma a che cosa si doveva convertire, se la loro predicazione non aveva ancora un contenuto teologico? Che cosa potevano predicare se non avevano ancora assistito alla passione e morte di Cristo? L’impressione è che essi dovessero ottenere conversioni per effetto delle suggestioni prodotte dalle guarigioni e dagli esorcismi; essi stessi erano dotati di carismi taumaturgici («scacciavano i demoni, ungevano con olio molti malati e li curavano»). Avrebbero potuto predicare l’imminenza della fine dei tempi e l’instaurazione del regno di Dio e del regno dei cieli. Matteo, avvertita l’incongruenza di Marco, la rettifica («Annunciate che il regno dei Cieli è vicino»), ma non fa alcun accenno alla salvezza e alla nuova alleanza e per di più vieta che il messaggio sia portato ai pagani e ai samaritani. Luca rettifica ancor meglio: «passavano di villaggio in villaggio, portando la buona notizia della salvezza e guarendo i malati». Ma si tratta di aggiustamenti fatti a posteriori, perché l’escatologia della salvezza legata alla resurrezione del Cristo non era ancora stata teorizzata. Di grande interesse sono poi le condizioni della sequela(13) che si possono riassumere nella profonda aspirazione al martirio, ovvero alla testimonianza della propria fede in Cristo attraverso l’imitazione delle sue sofferenze. Il simbolo della testimonianza è la croce, cioè la perdita della vita a causa del vangelo; qui la parola ‘vangelo’ ha un uso ambiguo, perché si riferisce alla buona novella, se pensiamo ai tempi più prossimi alla passione del Cristo, o al vangelo scritto, se immaginiamo tempi più dilatati. La persecuzione, il martirio, meglio se spettacolarizzati, sono una componente essenziale della vita del cristiano ed una sottile esca per il proselitismo; il cristiano non si sente tale se non è vittima del leone(14) e se non testimonia la sua fede fino alla perdita della vita. (12) Cfr. Mc, vi, 7-13; Mt, x, 1, 5-14; Lc, ix, 1-6. (13) Cfr. Mc, viii, 34-38; x, 28-31; Mt, xvi, 24-27; xix, 39; Lc, ix, 23-27; xviii, 28-30. (14)  Salmi vii, 3; xvi, 12; xxii, 14.

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3.3.  La cristologia taumaturgica Tutti e tre i sinottici, dall’inizio fino alla passione, sono infarciti di episodi miracolistici, di guarigioni e di esorcismi scarsamente credibili. Chiunque sia dotato di buon senso non ha difficoltà a parlare di falsi storici. La cristologia taumaturgica di Marco fa la parte del leone nei tre sinottici. Gli esorcismi, le guarigioni, i miracoli occupano una parte consistente dei tre testi. Tuttavia non si tratta di un semplice corredo meramente estrinseco e pleonastico. Per quanto possa avere radici nella mentalità miracolistica di origine pagana, i poteri taumaturgici del Cristo sono perfettamente complementari al concetto che della divinità avevano gli autori dei sinottici. Per essi la divinità non può essere sottoposta ad un ordinamento, né se questo è imposto dall’esterno, né se è determinato da una necessità interna. Il Dio ebraico non è una potenza limitata come è pensato nella cultura greca; la sua onnipotenza non ha limitazioni. Non ci sono regole vincolanti, non ci sono leggi ferree dell’essere o della natura; anzi la divinità è tale se piega tutte le cose al suo volere arbitrario. È in questa idea, ancora veterotestamentaria, ma anche in larga parte ellenistica e pagana, la radice delle guarigioni miracolose e dei poteri carismatici. Stevan Davies(15) interpreta il Cristo come un guaritore posseduto dallo spirito divino che in lui opera come seconda persona che sovrasta la prima persona umana. Per spiegare il complesso fenomeno della possessione divina Davies scomoda le scienze psicologiche e antropologiche. Per la nostra forma mentis moderna le pagine dedicate alle guarigioni prodigiose fanno sorridere, soprattutto se pensiamo che esse sono state prese per vere per quasi due millenni e se pensiamo che il culto dei miracoli, più che sulla fede, illuminata dalla ragione, fa ancora oggi presa sulla ingenuità umana. L’attività esorcistica di Cristo inizia a Cafarnao (secondo Marco e Matteo Gesù si trasferisce dal Mare della Galilea a Cafarnao; secondo Luca invece da Nazareth; Matteo vuole che egli si stabilisse a Cafarnao nei territori di Zabulon e di Neftali). Data la ripetitività delle guarigioni, mi limito solo ad elencarle, non senza aver notato che esse rispondono, come si è già detto, ad uno schema modulare (Cristo comanda agli spiriti impuri e questi gli (15)  S. L. Davies, Jesus the Healer, London, SCM, 1995, pp. 22-42. Cfr. anche G. W. H. Lampe, The Holy Spirit and the Person of Christ, in S. W. Sykes - J. P. Clayton (eds.), Christ, Faith and History: Cambridge Studies in Christology, Cambridge, University Press, 1972.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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obbediscono, poiché lo riconoscono nella sua potenza infinita) che spiega il loro carattere ripetitivo. Le tentazioni di Satana, teologicamente oltre che storicamente discutibili, sono poste da Marco all’inizio del suo Vangelo e, se prese in senso simbolico, forse stanno a segnalare che la missione del Cristo è quella di combattere il male e il peccato,(16) in un confronto diretto con Satana.(17) Gli esorcismi narrati sono i seguenti: un indemoniato incontrato nella sinagoga di Cafarnao (Mc, i, 21; Lc, iv, 31-37), omesso da Matteo; esorcismi seriali;(18) esorcismi in Galilea(19) con divieto di parlarne secondo Marco e Luca; gli indemoniati di Gadara per Matteo, di Gerasa per Marco e Luca;(20) l’indemoniata pagana di Tiro (Mc, vii, 24-30; Mt, xv, 21-28); l’epilettico-indemoniato, in occasione del quale Gesù ha un incomprensibile scatto d’ira;(21) la liberazione di Maria Maddalena da sette demoni (Mc, xvi, 9; Lc, viii, 2); un muto indemoniato (Mt, ix, 32-33); un indemoniato cieco e muto per Matteo, solo muto per Luca (Mt, xii, 22; Lc, xi, 14-15). Marco e Luca, non seguiti da Matteo, accennano ad un tale che scacciava i demoni in nome di Gesù (Mc, ix, 38-40; Lc, ix, 49-50). Cospicuo è anche lo spettro delle guarigioni miracolose di cui do l’elenco: guarigione della suocera di Simone,(22)di un lebbroso in una località imprecisata con divieto di parlarne;(23) di un paralitico a Cafarnao;(24) di un uomo con la mano paralizzata;(25) guarigioni seriali con obbligo di tacere;(26)guarigione dell’emorroissa;(27)di coloro che toccano il mantello di Cristo (Mc, vi, 53-56; Mt, xiv, 34-36); del cieco di Betsaida (Mc, viii, 22-26); del cieco di Gerico;(28)del sordomuto nel territorio della Decapoli (Mc, vii, (16)  Mc, i, 12-13; Mt, iv, 1-11; Lc, iv, 1-13. (17)  Mc, iii, 20-35; Mt, xii, 24-32, 46-50; Lc, xi, 15-22; xii, 10; viii, 9-21, ove però ciascuno dei tre evangelisti fornisce in forma diversa e con varianti i lógia di Cristo. (18)  Mc, i, 32-34; Mt, viii, 16; Lc, iv, 40-41. (19)  Mc, i, 39; Mt, iv, 24; Lc, iv, 41-42. (20)  Mc, v, 1-20; Mt, viii, 28-34; Lc, viii, 26-39. (21)  Mc, ix, 14-29; Mt, xvii, 14-21; Lc, ix, 37-43. (22)  Mc, i, 29-31; Mt, viii, 14-15; Lc, iv, 38-39. (23)  Mc, i, 40-45; Mt, viii, 1-4; Lc, v, 12-16. (24)  Mc, ii, 3-12; Mt, ix, 1-8; Lc, v, 17-26. La guarigione del paralitico in Matteo è preceduta, in parallelo con Luca, dalle condizioni per la sequela (Mt, viii, 18-21; Lc,ix, 5762) e dall’episodio della tempesta sedata (Mc, iv, 35-41; Mt, viii, 23-27; Lc,viii, 22-25). (25)  Mc, iii, 1-6; Mt, xii, 9-14; Lc, vi, 6-11. (26)  Mc, iii, 10-12; Mt, xii, 15-16; Lc, vi, 17-19. (27)  Mc, v, 24-34; Mt, ix, 20-22; Lc, viii, 43-48) Matteo non cita Giario, ma un notabile. (28)  Mc, x, 46-52; Mt, xx, 29-34; Lc, xviii, 35-43). Per Marco il cieco era Bartimeo,

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31-37), riportata solo da Marco e sostituita in Matteo e Luca dalla guarigione del servo del centurione a Cafarnao.(29)Marco e Matteo aggiungono guarigioni collettive a Gennesaret (Mc, vi, 53-56; Mt, xiv, 34-36), omesse da Luca; Matteo narra di una guarigione collettiva prima della moltiplicazione dei pani, di altre guarigioni in Giudea, di una ulteriore guarigione di due ciechi, che è sostanzialmente una variante della guarigione dei due ciechi di Gerico, di ciechi e storpi nel tempio.(30) Luca aggiunge dal canto suo la guarigione della donna curva, quelle di un malato di idropisia in un giorno di sabato e di dieci lebbrosi.(31) A Nazareth(32) Gesù non dà segni del proprio potere taumaturgico (Nemo propheta in patria); nella relativa pericope si parla dei fratelli e delle sorelle del Signore. Nella versione di Marco e Matteo i loro nomi sono: Giacomo, Giuseppe (o Ioses), Giuda e Simone. Luca ci parla della lettura di un rotolo da parte di Gesù, ma tace sul nome dei suoi fratelli. La famiglia di sangue è presente in un altro brano,(33) ma solo per anteporle la nuova famiglia che è la stessa comunità dei fedeli. Altri eventi prodigiosi derogano dalle leggi della natura. Sono tali la tempesta sedata,(34) Gesù che cammina sulle acque, omesso da Luca;(35) la maledizione del fico, omessa da Luca (Mc, xi, 12-14; Mt, xxi, 18-22); la restituzione dell’orecchio al figlio del sommo sacerdote (Lc, xxii, 49-51); le epifanie del Cristo risorto;(36) l’ascensione;(37) le resurrezioni del figlio della vedova di Nain (Lc, vii, 11-17) e della figlia di Giairo.(38) Si aggiungono i miracoli narrati solo da Giovanni: la resurrezione di Lazzaro, la tramutazione dell’acqua in vino (Gv, xi, 1-44; ii, 1-11). Prodigiose sono anche le capacità attribuite a Cristo, come quella di previsione (il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro e la fuga dei discepoli)(39) o di predizione (la già citata piccola apocalisse) o di leggere nel pensiero altrui (Mc, ii, 7-8; viii, 17). Una il figlio di Timeo; per Matteo i ciechi di Gerico erano due. Per Luca il cieco è uno ma non è nominato. (29)  Mt, viii, 5-13; Lc, vii, 1-10; Gv, iv, 46-54. (30)  Mt, xv, 29-31; xix, 1-2; ix, 27-31; xx, 29-34; xxi, 14. (31)  Lc, xiii, 10-17; xiv, 1-6; xvii, 11-19. (32)  Mc, vi, 1-6; Mt, xiii, 53-58; Lc, iv, 16-30. (33)  Mc, iii, 20-35; Mt, xii, 24-32, 46-50; Lc, xi, 15-22; xii, 10; viii, 9-21. (34)  Mc, iv, 35-41; Mt, viii, 23-27; Lc, viii, 22-25. (35)  Mc, vi, 45-52; Mt, xiv, 22-23; Gv, vi, 16-21. (36)  Mc, xvi, 1-18; Mt, xxviii, 1-20; Lc, xxiv, 1-49; Gv, xx, 1-23. (37)  Mc, xvi, 19-20; Lc, xxiv, 50-53. (38)  Mc, v, 21-43; Mt, ix, 18-26; Lc, viii, 40-56. (39)  Mc, xiv, 18; Gv, xiii, 26-30; Mc, xiv, 27-31; Mt, xxvi, 31-35; Lc, xxii, 31-34.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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particolare attenzione meritano le due moltiplicazioni dei pani e dei pesci e la trasfigurazione. A tratti tuttavia il carisma della previsione sembra venir meno. Per esempio nella parabola del fico, come poteva egli attendersi che l’albero avesse maturato dei frutti, se non era ancora «la stagione dei fichi»? (Mc, xi, 12-14; Mt, xxi, 18-19). La prima moltiplicazione, ma forse meglio sarebbe dire distribuzione dei pani e dei pesci(40) avviene per Matteo in un luogo deserto, per Luca a Betsaida. Per Marco il trasferimento di Cristo a Betsaida è successivo e si riferisce al cammino sulle acque, pur non essendo Betsaida sulle rive del lago. Matteo vuole che la distribuzione dei pani sia preceduta da una guarigione collettiva di infermi e seguita dalla notizia della morte del Battista, resa nota dai suoi stessi discepoli. Dopo la duplicazione del miracolo, omessa da Luca,(41) Gesù «andò dalle parti di Dalmanutha»; Matteo, non avendo notizie della città di Dalmanutha, rettifica dicendo che il Cristo si recò a Magadan. Così come sono presentate, le due distribuzioni dei pani e dei pesci sembrano avere un significato misterioso, strettamente connesso al valore simbolico che i numeri avevano nella tradizione giudaica. Non si capisce né l’utilità né il significato della duplicazione; l’idea che la prima distribuzione sia rivolta agli ebrei e che la seconda sia indirizzata ai pagani non trova alcuna giustificazione nel testo. Né è un caso che Luca ometta di accennare alla seconda versione del miracolo. La Chiesa ritiene che la sovrabbondanza dei pani sia simbolo di una sovrabbondanza dell’eucaristia, ma questa ipotesi pone problemi di ordine teologico; se si ammette che l’eucaristia sia di per sé efficace, non v’è nessuna necessità di sovrabbondanza. E poi tale sovrabbondanza sarebbe stata paradossalmente dichiarata prima ancora della istituzione del sacramento. Non è improbabile che Marco abbia voluto predire attraverso la moltiplicazione dei pani e dei pesci lo straordinario proselitismo che avrebbero realizzato gli apostoli, conquistando numerosi adepti alla cena eucaristica. In fondo è per questa ragione che i sinottici parlano di pesca abbondante e non è un caso che i primi discepoli sono scelti dal mondo dei pescatori; sono tutti simboli che chiaramente indicano non tanto l’opera di proselitismo, quanto piuttosto il suo successo; ma se così è, dobbiamo pensare che chi scrive colloca il proprio racconto ad una certa distanza temporale dal tempo apostolico. In altri termini il senso che il miracolo riveste per il narratore non potrebbe es(40)  Mc, vi, 30-44; Mt, xiv, 13-21; Lc, ix, 10-17; Gv, vi, 1-13. (41)  Mc, viii, 1-10, 14-26; Mt, xv, 32-39; xvi, 5-12.

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sere attribuito allo stesso Cristo. In ogni caso Marco non scioglie il mistero, ma si limita a rimproverare i discepoli per non averlo capito. Matteo rabbercia una possibile spiegazione, affermando che i discepoli compresero che Gesù non intendeva suggerire di guardarsi dal lievito del pane, ma dalla dottrina dei farisei e dei sadducei. Luca (xii, 1) tenta un’ulteriore puntualizzazione, asserendo che il Cristo aveva inteso dire di guardarsi «dal lievito dei farisei, che è ipocrisia». Ma le loro spiegazioni appaiono chiaramente poco azzeccate, sicché sono uno dei punti deboli della narrazione. Più complessa è la trasfigurazione connessa alla venuta di Elia.(42) In presenza di Pietro, Giacomo Maggiore e Giovanni, Gesù si trasfigura in un essere divino; le sue vesti diventano splendenti e bianchissime (con evidente reminiscenza enochica). Una voce tra le nubi lo dichiara figlio di Dio, ma i presenti sono invitati a mantenere il segreto messianico fino alla sua resurrezione. E tuttavia i discepoli non capiscono il significato di resurrezione. Perché ci viene raccontata questa trasfigurazione? Si vuol forse dare una prova della natura divina di Gesù? Tale era probabilmente l’intento di Marco. Ma che bisogno c’era di una prova siffatta, se già i discepoli lo avevano riconosciuto come figlio di Dio? La realtà è che la trasfigurazione è un espediente letterario di derivazione enochica che Matteo, nel tentativo di dare un più coerente significato alla versione marciana, utilizza per identificare l’attesa venuta di Elia con quella di Giovanni il Battezzatore; Luca probabilmente trovò cervellotica l’identificazione matteana e perciò omise ogni accenno ad Elia. Quale valore dobbiamo assegnare ai miracoli narrati nei testi evangelici? Escluso che essi possano essere dei reports di fatti storici, per la loro stessa grossolanità e per il fatto che, se fosse stato vero che le leggi della natura fossero state improvvisamente e inesplicabilmente sospese per un determinato arco di tempo, avrebbero avuto una risonanza ben più vasta e significativa di quella assicurata dai tre sinottici. Non ha neppure senso che essi possano avere un significato allegorico, né che possano aver lasciato nei discepoli sensazioni di alcunché di straordinario. Anche qui mi pare opportuno avere ben saldi i piedi per terra e riconoscere che gli evangelisti stessi se li sono costruiti unicamente per provare il carattere divino del Cristo.

(42)  Mc, ix, 2-10; Mt, xvii, 1-9; Lc, ix, 28-36.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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3.4.  L’insegnamento per parabole Le parabole(43) costituiscono una sorta di capitolo intermedio tra la taumaturgia e la passione. Esse racchiudono quello che le prime comunità cristiane considerarono il vero e proprio insegnamento di Cristo e il senso più profondo del kērygma. Il termine ‘parabola’ (παραβολή) è tratto dalla Septuaginta, ove traduce sistematicamente l’ebr. māšal, mešālîm, mašalōw ed è usato nel senso generico di ‘detto’, ‘proverbio’, ‘sentenza’(44) e talvolta anche di ‘storiella’.(45) Il Siracide (xxxix, 2-3; xlvii, 15) sembra intendere le parabole come metafore intricate (εν στροφαίς παραβολών συνεισελεύσεται) che contengono in sé degli enigmi (εν αινίγμασι παραβολών) (εν παραβολαίς αινιγμάτων). La medesima accezione è in Ezechiele, (xvii, 2: «figlio d’uomo, proponi un enigma, narra una parabola alla casa d’Israele» (υιε ανθρώπου, διήγησαι διήγημα και ειπόν παραβολήν προς τον οίκον του Ισραήλ) il quale in xxiv, 3-12, costruisce la parabola della pentola sul fuoco che simboleggia l’incendio di Gerusalemme. Il testo più prossimo ai sinottici è il Sal, lxxviii, 2, che è certamente la fonte di ispirazione di Marco: «aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi del passato» (ανοίξω εν παραβολαίς το στόμα μου, φθέγξομαι προβλήματα απ’αρχής). Le parabole evangeliche preannunciano per lo più il regno dei cieli e la fine dei tempi e impartiscono alcuni principi morali, ovvero una sorta di morale provvisoria nella imminenza della fine della storia. È lo stesso Cristo che ci dice di parlare per parabole (Mt, xiii, 34-35), cioè per esempi o per storielle metaforiche o allegoriche, storielle di confronto o di paragone che servono per mettere a confronto il senso letterale e quello simbolico, velato, nascosto; esse hanno la duplice natura di essere narrazioni essoteriche, ma con (43) Sull’insegnamento per parabole, cfr. B. B. Scott, Hear then the Parabole: A Commentary on the Parables of Jesus, Minneapolis, Fortress, 1990, cfr. in particolare il paragrafo Parabolē in the Synoptics, pp. 21-30; C. H. Dodd, The Parables of the Kingdom, London, Nisbet, 1936, cfr. capitolo ii, pp. 34-80, sul concetto di ‘regno di Dio’; R. W. Funk, The Parables of Jesus: Red Letter Edition, Sonoma, Poleridge 1988; M. A. Tolbert, Perspectives on the Parables, Philadelphia, Fortess, 1979; J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia, Paideia, 1967. (44)  Nm, xxiii, 7, 18; xxiv, 3, 15, 20, 21, 23; 1Sm, x, 12; xxiv, 14; 2Sm, xxiii, 3; 1Re, v, 12; Tb, iii, 4; Sal, xlix, 5; Prov, i, 6; Qt, i, 17; xii, 9; Sr, i, 25; iii, 29; xlvii, 17; xxxviii, 33; Jr, xxiv, 9; Ez, xii, 22, 23; xvi, 44; xviii, 2-3; xx, 49. (45)  Dt, xxviii, 37; 2Chr, vii, 20; Sal, xliv, 15; lxix, 12; Sp, v, 4; Mi, ii, 4; Hab, ii, 6; Ez., xxiv, 3.

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significato esoterico. Sono comunicate al pubblico, ma il loro significato è riservato alla cerchia dei discepoli o, forse in senso allargato, dei fedeli. Le lontane origini di tale forma letteraria sono ovviamente da ricercare nella tradizione profetica e nella letteratura enochica. Come si è detto Marco intende l’insegnamento per parabole («Insegnava molte cose con parabole»)(46) come adempimento del Salmo lxxviii: «Aprirò la bocca in parabole, dirò cose che sono nascoste». Nel suo vangelo la parabola non è che un parallelo, un confronto tra qualcosa di più semplice e qualcos’altro di più complesso allo scopo di facilitarne la comprensione. Ma tale comprensione – è questa la novità di Marco rispetto ai testi veterotestamentari – ha (sulla scorta di Isaia, vi, 9-10) un carattere esoterico, poiché serve a nascondere più che a divulgare, a velare più che a svelare, tant’è che la spiegazione della parabola è riservata alla ristretta cerchia dei discepoli e non è detto che i discepoli siano aquile pronte a coglierne il significato. Le parabole riescono ostiche agli stessi Dodici, i quali per intenderle hanno bisogno della spiegazione di Gesù. Così infatti dice il Cristo secondo Marco: «A voi è stato dato il mistero del Regno di Dio, a quelli che stanno là fuori invece tutto è detto con parabole, affinché guardino e non vedano, ascoltino e non comprendano». Analoga è la posizione di Matteo per il quale Gesù, enunciata la parabola del seminatore davanti alla folla, si ritira in privato e spiega ai Dodici: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio, ma per quelli che sono di fuori, tutto si fa mediante parabole; affinché guardino bene, ma non vedano; odano bene, ma non intendano, perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato». Così intesa, la parabola diventa un elemento discriminante; privilegia i discepoli, ma lascia nell’oscurità gli esterni (i non cristiani? I gentili?), come se ci fosse a monte una predeterminazione degli uni e degli altri o come se fosse vano l’intento di fare proseliti. Forse questo esoterismo discriminante è attenuato nella pericope della lampada sotto il moggio. Ma anche qui sorge qualche problema. Il testo recita: Non c’è niente di nascosto che non debba essere manifestato e niente di tenuto segreto che non sia per venire alla luce […] con la misura con cui avrete misurato sarà misurato a voi […] poiché a chi ha, sarà dato, e a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha.

Matteo intende le parabole diversamente da Marco, poiché, a suo avviso, esse non rappresentano un impedimento alla comunicazione, ma al (46)  Mc, iv, 2, 10-12; Mt, xiii, 3, 10-17, 34-35; cfr. Lc, viii, 9-10.

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contrario sono funzionali al disvelamento di tutto quanto «è stato nascosto fin dalla fondazione del mondo» (ἀνοίξω ἐνπαραβολαῖς τὸ στόμα μου, ἐρεύξομαι κεκρυμμένα ἀπὸ καταβολῆς κόσμου, Mt, xiii, 35). In generale la struttura della parabola è complessa, come accade in quella del seminatore, ove ciascuno dei suoi elementi svolge una funzione simbolica. Ma non è escluso che la parabola abbia una struttura semplice o elementare, come quella dell’albero che preannuncia l’estate, il cui simbolismo è di più immediata evidenza. È comunque importante che la funzione che i singoli elementi hanno all’interno della parabola abbia una corrispondenza analogica con la sua spiegazione simbolica. In linea di massima le parabole hanno una valenza etica e trasmettono un insegnamento morale oppure ne hanno una religiosa in riferimento alla natura di Dio o alla imminenza della fine dei tempi e della conseguente salvezza dei giusti e punizione dei peccatori. Tale genere letterario, che gli esegeti confessionali reputano del tutto originale e caratteristico dei testi evangelici, ha la sua più lontana origine nelle parabole rabbiniche e in Filone, che ci dà esempi di letture analogiche dell’AT, ed esplode soprattutto nella letteratura enochica. Il Libro delle Parabole con le tre parabole già ricordate e il Libro Segreto di Enoc ne sono gli esempi più rappresentativi. Una parentela ancor più lontana può essere rinvenuta nei miti platonici. In tutte queste forme letterarie c’è da una parte un testo e dall’altra una sua interpretazione simbolica e non meramente letterale. Uno degli esempi più classici è certamente dato dalla dottrina socratica dei semi, che non a caso ricorda la parabola del seminatore.(47)Anche il mito della caverna nella sua costruzione metaforica e simbolica e nelle sue valenze esoteriche ed essoteriche presenta analogie con la struttura compositiva delle parabole del Cristo. Credo perciò che sia eccessiva l’insistenza sulla loro assoluta originalità da parte di esegeti, come Davies.(48) I teorici della Formgeschichte riconoscono che nella costruzione delle parabole ci sia la mano degli evangelisti, ma nel contempo ammettono che il loro nucleo essenziale sia riconducibile alla personalità del Cristo. In realtà ogni volta che in un testo pretendiamo di setacciare ciò che è autentico da ciò che è posteriore, corriamo il rischio di inquinare la nostra interpretazione con i presupposti del nostro metodo ermeneutico. Il fatto stesso che gli evangelisti ricorrono ad una diversa terminologia per indicare concetti essenziali della dottrina, ci fa ca(47)  Mc, iv, 1-21; Mt, xiii, 1-15, 18-23; Lc, viii, 4-15. (48) D. Davies, Jesus the Healer, cit., pp. 121-123.

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pire che essi agiscono sul tessuto narrativo. Per Marco e Luca i lógia di Cristo si riferiscono al mistero del ‘regno di Dio’ (τὰ μυστήρια τῆς βασιλείας τοῦ θεοῦ) per Matteo invece al ‘regno dei cieli’ (τὰ μυστήρια τῆς βασιλείας τῶν οὐρανῶν). Talune parabole, come per esempio quella del seminatore, presentano significative varianti tra i tre evangelisti; la caduta del seme sul terreno roccioso per Marco e Matteo allude alle tribolazioni e alle persecuzioni (εἶτα γενομένης θλίψεως ἢ διωγμοῦ); per Luca invece a tentazioni (ἐν καιρῶ πειρασμοῦ). Marco costruisce una sorta di variante della parabola del seminatore nella forma di un seme (la parola di Dio) che, gettato per terra, germoglia da sé e cresce, fino a che, giunto alla maturità, non è falciato al momento della mietitura (Mc, iv, 26-29). Da quest’ultimo caso comprendiamo che la struttura della parabola non è sempre corrispondente alla simbologia che l’autore ha in mente. Oltre alla parabola del seminatore, sono comuni ai tre sinottici le parabole del grano di senape,(49) dei vignaioli assassini e della pietra angolare,(50) del sale,(51) del fico che preannuncia l’estate. In qualche caso la parabola può essere utile per ricostruire l’ambiente (Sitz im Leben) e l’epoca della sua elaborazione e ovviamente incide sulla datazione del testo. Ne è un esempio la parabola dei vignaioli, strettamente collegata al tema della pietra angolare, tratta dal salmo cxviii. Marco narra che un uomo piantò la sua vigna (il regno di Dio) e, dopo averla data in affitto ai contadini (gli israeliti), partì per un viaggio. Al momento della vendemmia mandò i suoi servi (i profeti) per ritirare una parte dei frutti, ma essi furono uccisi uno dopo l’altro dai vignaioli. Il padrone della vigna decise quindi di mandare suo figlio (il Cristo) pensando che i contadini lo avrebbero rispettato, ma essi lo uccisero come avevano fatto con i servi. Sicché il Signore, quando tornerà (la parousía) «vorrà uccidere quei contadini e dare la vigna ad altri». Alla parabola seguono immediatamente le pericopi sulla pietra d’angolo (la chiesa), che da pietra scartata diventa il caposaldo della costruzione. Infine Marco aggiunge, lasciando in sospeso il soggetto, «cercarono di catturarlo [Gesù], ma ebbero paura della folla». A parte le varianti della costruzione del testo, Marco sembra lasciarne sottinteso il significato perché non specifica chi sono coloro che tentarono di catturare il Cristo e non lo fecero per paura della folla. Matteo è costretto a decriptare il testo marciano, ma lo fa con ulteriore ambigui(49)  Mc, iv, 30-32; Mt, xiii, 31-32; Lc, xiii, 18-19. (50)  Mc, xii, 1-12; Mt, xxi, 33-45; Lc, xx, 9-19. (51)  Mc, ix, 50; Mt, v, 13; Lc, xiv, 34-35.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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tà. Innanzi tutto puntualizza che il senso della parabola è che il regno di Dio (nella metafora: la vigna) sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare. È possibile che ciò significa che il favore divino passerà dal popolo ebraico a quello dei gentili, ovvero dal giudaismo al cristianesimo? Se è così dobbiamo pensare ad una tardiva elaborazione del testo. L’ulteriore spiegazione matteana, per cui la pietra angolare (nella metafora: la Chiesa) è quella su cui si sfracellerà chiunque cadrà sulla stessa, è artificiosa e non consona alla struttura complessiva della parabola. Nella pericope successiva Matteo precisa che i sommi sacerdoti e i farisei (οἱ ἀρχιερεῖς καὶ οἱ φαρισαῖοι) capirono che si parlava di loro, perciò tentarono di catturare il Cristo, ma temettero la reazione della folla. Luca tace sulla prima, più significativa spiegazione matteana, e riproduce la seconda, più tortuosa, individuando nei persecutori del Cristo gli scribi e i sommi sacerdoti (οἱ γραμματεῖς καὶ οἱ ἀρχιερεῖς). Mack e Wells(52) leggono la parabola in relazione alla storia di Israele e alla tragica fine del Messia. In quest’ottica la vigna è rappresentata da Israele; il proprietario è, sulla scorta di Isaia, iii, 1-3, Dio stesso; i servi inviati sono i profeti dell’AT; il figlio di Dio è il Messia. In altri termini Cristo avrebbe predetto nell’oscuro linguaggio delle parabole, la propria morte e la distruzione del popolo (Israele). Mack e Wells assumono come punto di riferimento la distruzione del tempio (70), ma forse la parabola, parlando di trasferimento della vigna ad un altro popolo, allude alla più drammatica distruzione di Gerusalemme. Se questa interpretazione è congrua, il testo marciano si conferma posteriore al 70, ma quello matteano, che allude ad un nuovo popolo (i gentili), dovrebbe essere datato intorno al 135 o poco oltre. I tre capitoli marciani (xi-xiii) che contengono il nocciolo dell’insegnamento del Cristo sono decisivi per la datazione del testo, perché alludono con frequenza ad eventi che vanno oltre la vita stessa del Cristo (le profezie della demolizione del tempio, delle persecuzioni anticristiane, della distruzione di Gerusalemme, della venuta dei falsi profeti). Essi corrispondono in Matteo ai capitoli xxi-xxiv e in Luca ai capitoli xix-xxi. In quanto presuppongono una salda affermazione della fede cristiani i capitoli citati corrispondono alle aspettative delle comunità per le quali i vangeli furono scritti. Il momento clou dell’insegnamento del Cristo è la rivelazione di Cesarea di Filippo. Cristo rivela la propria identità divina.(53) Siamo ormai nel (52)  B. L. Mack, A Myth of Innocence: Mark and Christian Origins, Philsdelphia, Fortress, 1988, p. 169; G. A. Wells, The Jesus Legend, cit., p. 23. (53)  Mc, viii, 27-29; Mt, xvi, 13-19; Lc, ix, 18-21.

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cuore della narrazione. Ha inizio la predicazione in Giudea. Cristo giunge a Gerusalemme su un puledro (per Marco) o su un puledro e un’asina (per Matteo) e si muove tra Betfage, Betania e il Monte degli Ulivi. Sopraggiunta l’ora tarda, si ritira con i Dodici presso Betania (od. Al Ayzariyah).(54) La parabola del fico sterile all’uscita da Betania(55) sembra contenere uno spunto antigiudaico; se non prende esplicitamene di mira il mondo giudaico, farisaico e sadduceo, certamente contiene una implicita condanna del culto tradizionale. Dopo la cacciata dei venditori dal tempio, il «fico seccato fin alle radici» (Mc, xi, 20) è forse metafora del giudaismo ormai scaduto nelle pratiche liturgiche e nella commercializzazione del sacro per aver trasformato quella che doveva essere «la casa di preghiera per tutte le genti» in un «covo di ladri».(56) Per converso è metafora della nascente fede cristiana il fico che, mettendo le foglie, preannuncia l’estate (ovvero la parousía per Marco e per Matteo e l’approssimarsi del regno di Dio per Luca).(57) Il collegamento tra i due passi merita qualche chiarimento. La purificazione del tempio è in qualche modo una sorta di parabola ed è in sé un atto sovversivo, perché è la contestazione del potere, materiale e terreno, della classe sacerdotale, che era quella che traeva i maggiori profitti dal commercio del sacro. Il tempio non era solo un centro religioso, ma aveva anche un ruolo decisivo sulla vita economica della città santa. In esso i fedeli cambiavano le valute e acquistavano gli animali per i sacrifici. Il giudaismo era ormai sclerotizzato, ridotto in pra(54)  Mc, xi, 1-11; Mt, xxi, 1-11; Lc, xix, 28-38; Gv, xii, 12-16. D. Donnini, Il matrimonio di Gesù. Ipotesi sull’unione tra Cristo e Maria Maddalena, Roma, Coniglio Editore, 2007, pp. 98-100, ritiene che il Cristo, durante la permanenza in Gerusalemme, si ritirasse ogni sera in Betania. L’ipotesi è compatibile con i testi (Mc., xi, 1, 11, 12; xiv, 3; Mt, xxi, 17; xxvi, 6; Lc, xix, 29; xxiv, 50; Gv, i, 28; xi, 1, 18; xii, 1). Ciò che va oltre la lettera del testo è l’ipotesi che egli fosse ospitato da Lazzaro, fratello di Maria Maddalena. Donnini è altresì convinto che Lazzaro, e non Giovanni, fosse il discepolo amato da Gesù. I passi da lui citati sono congruenti con la sua tesi nel senso che Lazzaro era amato da Gesù (Gv, xi, 3: «Ecco, Signore, colui che ami è malato»: κύριε, ἴδε ὃν φιλεῖς ἀσθενεῖ; Gv, xi, 5: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» ἠγάπα δὲ ὁ ἰησοῦς τὴν μάρθαν καὶ τὴν ἀδελφὴν αὐτῆς καὶ τὸν λάζαρον; Gv, xi, 36: «vedi quanto lo amava» ἴδε πῶς ἐφίλει αὐτόν). L’inghippo sta nel fatto che da nessuna parte risulta che il redivivo di Betania fosse annoverato nella sequela del Cristo. Sono due le persone di nome Lazzaro. L’uno è «il povero Lazzaro» πτωχὸς δέ τις ὀνόματι λάζαρος, citato da Luca (xvi, 20, 23, 24, 25); l’altro è Lazzaro di Betania, citato da Giovanni (xi, 1, 2, 5, 11, 14, 43; xii, 1, 2, 9, 10, 17). (55)  Mc, xi, 12-14; Mt, xxi, 18-19; episodio omesso da Luca. (56)  Mc, xi, 15-19; Mt, xxi, 12-17; Lc, xix, 45-48; Gv,ii, 14-16. (57)  Mc, xiii, 28; Mt, xxiv, 32-36; Lc, xxi, 29-32.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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tiche meramente esteriori. Esso era ormai l’albero seccato fino alle radici. Le prime comunità cristiane, invece, si ispiravano alla tradizione deuteronomista o comunque profetica per la quale il tempio è «la casa» del Signore, «casa di preghiera per tutte le genti». Perciò il protocristianesimo è come il fico che mette le foglie e annuncia l’estate, la parousía e il regno di Dio, la nuova creazione. L’atto sovversivo c’è, ma non è di natura politica. Credere che Cristo sia stato un resistente, un rivoltoso antiromano fa perdere di vista la dimensione spirituale del cristianesimo. Le prime comunità cristiane si sviluppano dopo la rivolta politica del 66/70, quando ormai l’illusione nazionalistica è caduta definitivamente.(58) Il mito del Cristo Salvatore si sostituisce ormai al mito del Cristo sovrano terreno. Dopo il 70 il messianismo non è più lo stesso; non è più centrato sulla prospettiva del regno terreno, ma del regno celeste, di un regno in cui la giustizia distributiva premia i buoni e punisce i malvagi, un regno, in cui Dio coabita con l’uomo; si apre una nuova stagione, l’estate, come creazione di un nuovo mondo e di una nuova umanità. Quando questo mito messianico si fonderà con il mito di Gesù, nasceranno le prime comunità cristiane. La parabola del sale è la più emblematica; il suo senso è sfuggente. Ciascuno dei tre evangelisti la utilizza a proprio modo. Per Marco è un invito ad avere sale in sé stessi e alla reciproca pacificazione («Abbiate sale in voi stessi, e siate in pace gli uni con gli altri»). Per Matteo il sale della terra sono i credenti; ma se il sale diventa insipido (probabile allusione alla fede dei giudei), deve essere gettato e calpestato dalla gente; per Luca, se non è neppure utile come concime, il sale va gettato. Marco ha inventato il genere delle parabole, ma lo ha impiegato con molta parsimonia; il vero ideatore è Matteo, seguito frequentemente da Luca. I loro vangeli condividono le parabole dell’albero buono e dell’albero cattivo (Mt, xii, 33-37; Lc, vi, 43-45), del lievito della pasta (Mt, xiii, 33; Lc, xiii, 20-21), della pecora smarrita (Mt, xviii, 11-14; Lc, xv, 3-7), del banchetto nuziale (Mt, xxii, 1-14; Lc, xiv, 16-24), del servo fedele (Mt, xxiv, 45-51; (58)  Per spiegare l’animosità di Marco nei confronti della chiesa di Gerusalemme, S. G. F. Brandon, Il processo a Gesù, cit., p. 136, osserva acutamente che quando Marco scrive «la chiesa di Gerusalemme non esisteva più, essendo scomparsa nell’olocausto del 70 d.C. […]. Può darsi che il vangelo di Marco rappresenti una reazione, ispirata da un comprensibile risentimento, nei confronti del controllo che la chiesa madre aveva esercitato sulla comunità dei gentili». In realtà nel 70 era scomparso l’essenismo che, atttraverso i miti enochiani, si era trasformato in protocristianesimo.

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Lc, xii, 41-46), dei talenti o delle mine.(59) La parabola dell’albero parte da un’ovvietà: l’albero buono dà buoni frutti e l’albero cattivo frutti cattivi. Essa presuppone una sorta di predestinazionismo: l’uomo cattivo non può diventare buono e viceversa; tutti dovranno rendere conto del loro operato nel giorno del giudizio. Luca ne accentua la portata predeterministica: «dalle spine non si colgono fichi né si raccoglie uva dai rovi»; poi aggiunge di suo un’ingenuità: «con la bocca si esprime tutto ciò che si ha nel cuore». La parabola del lievito della pasta non dice nulla sulla natura del ‘regno di Dio’, ma si limita ad evidenziarne la progressiva crescita; ciò che non può intendersi se non in riferimento alla espansione delle comunità cristiane; se così è, anche questa parabola è frutto di un intervento tardivo. La parabola della pecora smarrita, a prescindere dal verso 11, che è un’aggiunta posteriore, fa riferimento alla volontà del padre celeste di non perdere neppure «uno di questi piccoli». Essa presenta in Luca una superfetazione con accenno alla gioia del pastore che, tornato a casa, festeggia con gli amici per aver ritrovato la pecora perduta. Tale accrescimento fa slittare il significato della parabola, per la quale «ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove che non hanno bisogno di conversione». Quanto alla parabola del banchetto nuziale è la struttura stessa del racconto che subisce notevoli variazioni. Per Matteo è il re (ὁ βασιλεὺς) che dispone il banchetto e manda i suoi servi a chiamare gli invitati. Avendo costoro assassinato i suoi servi, il re reagisce facendoli sterminare e bruciando le loro città. Poi fa entrare nella sua casa tutti quelli che, buoni o cattivi, si trovano per le strade. Infine fa scaraventare nelle tenebre uno degli ospiti che non indossava l’abito nuziale. A prescindere dalla probabile influenza gnostica, la parabola ha per Matteo un preciso significato: «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti». In Luca il tessuto narrativo è profondamente mutato: non il re, ma il padrone (ὁ κύριος), manda a chiamare gli invitati, i quali adducono scuse per non prendervi parte. Di conseguenza il padrone manda i servi a raccogliere per le strade poveri, storpi, ciechi e zoppi e conclude «vi dico che nessuno di quelli che ho invitato per primi parteciperà alla mia cena». Sicché il significato della parabola è diverso per Mat(59)  Mt, xxv, 14-30; Lc, xix, 12-27. Il significato di questa parabola non mi pare inoppugnabile né sotto il profilo morale, né sotto quello sociale. Si direbbe una parabola fondata sul calcolo economico e sull’investimento bancario e si conclude con un principio inaccettabile, espresso in questi termini: «a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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teo e per Luca. Il primo intende significare che la salvezza è riservata a pochi; il secondo che da essa sono esclusi i chiamati che non si convertono. Anche la parabola del servo fedele presenta varianti significative. Per Matteo il padrone premia il servo fedele e punisce quello infedele. Per Luca si determina una casistica a seconda del comportamento del servo: se egli conosce la volontà del padrone e non si attiene ad essa, è punito severamente (δαρήσεται πολλάς); se non conosce la volontà del padrone e compie cose degne di castigo, merita una punizione lieve (δαρήσεται ὀλίγας). Poi l’evangelista conclude incongruentemente e in difformità rispetto a Matteo: «chi ha ricevuto molto, di molto renderà conto (πολὺ ζητηθήσεται) e a chi è stato dato molto (πολὺ), sarà chiesto ancora di più (περισσότερον)». Analogo è il senso della parabola dei talenti per la quale i servi che fanno fruttare al doppio il denaro ricevuto in affidamento sono premiati e il servo che riceve un solo talento e lo conserva per il padrone viene punito. Essa è, come al solito, modificata da Luca in alcuni dettagli. In particolare l’evangelista aggiunge che il padrone si era allontanato dalla città per ricevere un’investitura regale, nonostante fosse odiato dai suoi concittadini. Il senso della parabola è identico in entrambi i vangeli ed è espresso con la formula: «a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Questo contenuto, immorale e socialmente perverso, è acuito da Luca il quale aggiunge che il padrone è un uomo esigente che pretende «quello che non ha depositato» (αὐστηρός εἰμι, αἴρων ὃ οὐκ ἔθηκα) e raccoglie «quello che non ha seminato» (καὶ θερίζων ὃ οὐκ ἔσπειρα) e conclude ordinando che coloro che non lo volevano come re fossero uccisi in sua presenza. Matteo e Luca aggiungono la parabola della porta stretta (Mt, vii, 13-14; Lc, xiii, 22-30) che conduce alla vita. In Matteo la parabola è costruita con tratti essenziali: la porta stretta simboleggia la difficoltà di accedere alla salvezza; quella larga la via della rovina e del peccato. Molti sono quelli che si perdono e solo pochi sono quelli che entrano nel regno dei cieli. Il racconto lucano è più articolato ma ha una diversa semiologia: è il padrone di casa che chiude la porta e, quando ciò accadrà, non ci sarà scampo per coloro che si trovano fuori; essi saranno scacciati là dove ci sarà pianto e lamento. Busseranno alla porta, ma si sentiranno rispondere: non vi conosco! Non so di dove siete! I giusti prenderanno posto nel regno di Dio: gli ultimi saranno i primi e alcuni dei primi saranno gli ultimi (Lc, xiii, 30). Quest’ultima è un’espressione ambigua: chi sono gli ultimi? Sono tali per posizione sociale? Per adesione alla fede? Da altri passi si evince che i primi sono tali per am-

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bizione e gli ultimi sono coloro che si predispongono a servire gli altri, perché anche il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la vita in riscatto di molti (ἀντὶ πολλῶν): la salvezza non è per tutti, ma per molti.(60) Dalle parabole esaminate si evince facilmente che esse sono manipolate e riadattate da chi scrive dopo: gli aggiustamenti sono di varia natura e riguardano la struttura del tessuto narrativo, le scelte lessicali e stilistiche, che si estendono anche agli stessi lógia del Cristo, la simbologia e i significati della parabola, gli accrescimenti o superfetazioni di parti del racconto e infine la loro collocazione nel più ampio contesto del vangelo. Tutto ciò significa che le parabole non hanno alcuna valenza storica né sono riconducibili alla personalità storica del Cristo, ma sono solo espedienti narrativi che spesso riempiono il vuoto in una narrazione biografica che in realtà non ha concreti episodi storicamente circostanziati, come accade nella storiografia greco-romana in autori come Svetonio e Plutarco. Sono tramandate solo da Matteo (Mt, xiii, 24-30, 36-43) le parabole del grano e della zizzania (il cui significato ha ascendenze enochiche), del tesoro del campo, del mercante di perle, della rete per la pesca, dello scriba esperto del regno celeste, del debitore insolvente, degli operai nella vigna; dei due figli, delle dieci vergini, del pastore che separa le pecore dai capri.(61) Discutibile sotto il profilo morale la parabola del tesoro del campo, perché è una frode perpetrata a danno del proprietario. Minacciosa è quella della rete: come i pescatori separano i pesci buoni e gettano in mare i cattivi, così alla fine del mondo verranno separati i giusti e i cattivi saranno gettati nella fornace ardente dove sarà «pianto e stridore di denti».(62) L’elitarismo della fede si accompagna in Marco ad una vena di predestinazionismo.(63) Il testo di Matteo è più scopertamente essoterico, ma è ugualmente venato di pessimismo: i discepoli sono la luce del mondo che deve risplendere davanti alla gente: «Ciò che vi dico nelle tenebre, ditelo alla luce». Il senso della morte e della perdizione ritorna nella parabola della zizzania: colui che semina il buon seme è il Figlio di Dio; il campo è il mondo; (60) Cfr. Mc, ix, 33-37; x, 41-45; Mt, xviii, 1-5; xx, 20-21, 24-28; Lc, ix, 46-48; xxii, 24-27. (61)  Mt, xiii, 24-30, 36-43; xiii, 44; xiii, 45-46; xiii, 47-51; xiii, 51-52; xviii, 23-35; xix, 30 - xx, 1-16; xxi, 28-32; xxv, 1-13. (62)  La pericope matteana: «Lì ci sarà pianto e stridore di denti» (Mt, xxiv 51: ἐκεῖ ἔσται ὁ κλαυθμὸς καὶ ὁ βρυγμὸς τῶν ὀδόντων) è chiaramente una reminiscenza enochica. (63)  Mc, iv, 21-25; Mt, v, 14-16; vii, 1-2; x, 26-27; xiii, 12.

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il buon seme sono i figli del Regno; la zizzania è data dai figli del maligno; il nemico che la semina è il diavolo; la mietitura è metafora della fine di questo mondo (Mt, xiii, 24). Ma perché il Figlio dell’Uomo lascia sussistere il seminatore della zizzania? Qual è la responsabilità di chi ne è vittima? Luca a sua volta ha inglobato nel suo vangelo le parabole del creditore e dei due debitori insolventi,(64) del buon samaritano sul concetto di ‘prossimo’, dell’amico importuno, del ricco stolto, della moneta smarrita, del padre buono e del figlio perduto, dell’amministratore astuto,(65) del fariseo e del pubblicano, della vedova e del giudice.(66) C’è qualcosa di inesplicabile in tutto l’insegnamento per parabole: come si può spiegare l’attività di proselitismo attraverso uno strumento esoterico? Può avere un senso l’esoterismo all’interno di una scuola filosofica, come il pitagorismo, il platonismo, l’aristotelismo, o all’interno di sette misteriche che non si danno per principio al proselitismo, ma non sembra averne per una setta che vuole espandersi e proliferare. Forse c’è una sottintesa polemica contro la gnosi, poiché si tratta di una predicazione senza proselitismo. Tutto infatti è già deciso: il Regno di Dio è già stato assegnato; si entra per una porta stretta; molti vi troveranno accesso, ma non tutti. A chi ne è fuori è riservato l’insegnamento per parabole, che non ha alcun effetto, se non quello negativo di chiudere ogni canale di comprensione; costoro debbono solo guardare, ma non vedere; ascoltare e non intendere; ad essi è preclusa la via del perdono. Il perdono divino non è infinito, non c’è modo di salvare tutta l’umanità. Si salvano solo i cristiani che hanno l’ingenuità di un fanciullo e non hanno la pretesa dello gnostico di ‘conoscere’ e di ‘comprendere’ il mistero delle cose. I primi sono coloro che rinunciano alla conoscenza, sono dotati dell’ingenuità del fanciullo e sono pronti ad umiliarsi in servilismo o forse in schiavitù psicologica. Non c’è primato tra i cristiani, ma la condizione di servilismo diffuso prepara il terreno per l’affermarsi di una autorità riconosciuta, per lo meno dell’autorità che si dichiara erede del Maestro. L’ambiguità delle parabole preoccupava anche Ireneo, il quale così scrive:

(64)  Il significato di questa parabola non è eticamente apprezzabile, poiché mette in relazione la quantità dell’amore con la quantità del denaro non restituito. (65)  Anche il significato di questa parabola mi sembra eticamente fragile, poiché il padrone si complimenta con l’amministratore disonesto per aver agito con astuzia. (66)  Lc, vii, 41-43; x, 29-37; xi, 5-8; xii, 16-21; xiii, 6-9; xv, 8-10, 11-32; xvi, 1-9; xviii, 9-14; xviii, 1-8.

854  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Le parabole debbono essere comprese alla luce di insegnamenti non ambigui, perché chi le spiega così le spiega senza pericolo e le parabole riceveranno da tutti una spiegazione simile e il corpo della verità rimane intatto, armonioso quanto al collegamento delle membra e senza sconnessioni. Ma è una stoltezza usare per le spiegazioni delle parabole, che ciascuno trova come vuole ciò che non è stato detto chiaramente e non ci è stato posto davanti agli occhi. Così infatti nessuno avrà la regola della verità, ma quanti saranno coloro che spiegano le parabole, altrettante appariranno le verità, contrastanti fra loro, che stabiliscono dottrine opposte fra loro, come le questioni dei filosofi pagani.(67)

Poi chiama in causa gli eretici, i quali dicono che Il Signore ha insegnato queste cose di nascosto e non a tutti, ma ad alcuni discepoli in grado di comprenderle […]. Arrivano a dire che altro è colui che è proclamato Dio e altro colui che è indicato come Padre per mezzo delle parabole e delle figure.

Va detto che il taglio antignostico che si è individuato è un’ulteriore prova della seriorità dei testi evangelici. Abbiamo visto che Matteo e Luca arricchiscono il quadro delle guarigioni e delle parabole, ma non è necessario che ciascuna di esse presupponga una fonte. La spiegazione più semplice e più razionale è che i due evangelisti aggiungono guarigioni e parabole pensandole come ulteriori esempi rispetto alle poche narrate da Marco oppure si servono delle parabole per trasmettere con maggiore plasticità i valori che ritengono prevalenti. Le parabole matteane sono per lo più relative all’avvento dei regno dei cieli. Quella del lievito (Mt, xii, 33-35) ha forse la funzione di rinviare a tempo indeterminato la fine dei tempi che era ritenuta imminente ma che tardava a venire. La parabola delle dieci vergini (Mt, xxv, 1-13) ci avverte che della fine dei tempi ignoriamo «il giorno e l’ora». La pecora smarrita (Mt, xviii, 12-24) vuole significare che il Cristo è venuto per salvare (per il regno dei cieli) ciò che era perduto. Il tesoro nascosto (Mt, xiii, 44) è lo stesso regno dei cieli, che è tutto ciò che possediamo. Lo stesso significato hanno le parabole dello scriba esperto del regno dei cieli e quella delle perle (Mt, xiii, 51-52; xiii, 45-46). La parabola del debitore incoerente (Mt, xviii, 23-35) ci dice che il regno dei (67)  Ireneo, Adv. haer, ii, 27, 1-2.

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cieli è aperto solo a coloro che perdonano col cuore. La parabola della zizzania (Mt, xiii, 24-30, 36-43) è una variante di quella del seminatore, ma è riferita al regno dei cieli, per il quale si raccoglierà il grano e si brucerà la zizzania. Talune parabole appaiono forzate nella loro costruzione. Tale è il caso del banchetto di nozze (Mt, xxii, 1-14), che vuol essere un avvertimento circa il fatto che gli eletti che accederanno al regno dei cieli sono pochi; lo stesso significato ha la parabola della rete (Mt, xiii, 47-50). La parabola della vigna (Mt, xx, 1-16) non solo è maldestra nella costruzione, ma pone inavvertitamente in Dio l’insanabile conflitto tra la giustizia e la bontà. Una sola parabola matteana è di carattere etico, quella dei talenti (Mt, xxv, 14-30); ma è, per il suo carattere antisociale, una infelice sortita dell’evangelista il cui insegnamento è: «A chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E questo servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti». Come si vede tutte le parabole matteane sono compatte nella trasmissione del loro messaggio. Esse svelano un interesse prevalente di Matteo per il regno dei cieli, per la fine dei tempi e per la seconda parousía. Ma proprio per questa coerenza e compattezza non è necessario invocare una fonte Q da cui egli attinge, perché Matteo si limita semplicemente ad aggiungere a Marco alcuni spunti che sono o suoi personali o afferiscono alla peculiarità della comunità cui egli fa riferimento. Ma Matteo è il vero artista della parabola; salvo qualche piccola caduta di stile, egli le sa elaborare finemente e sa creare intorno ad esse il clima dell’attesa della realizzazione del regno dei cieli. Da questo punto di vista Luca è forse più raffinato stilisticamente, ma non ha la potenza immaginativa né di Marco né di Matteo. Le sue parabole sono più scialbe e sono calibrate per lo più su tematiche etiche. Quella del buon samaritano (Lc, x, 29-37) verte sul concetto di ‘prossimo’ e fa cadere gli steccati tra giudei e samaritani; l’amico importuno (Lc, xi, 5-8) tocca il tema dell’assistenza ai bisognosi. Il ricco stolto (Lc, xii, 16-21) distingue tra la ricchezza terrena e la ricchezza «davanti a Dio». La parabola della moneta smarrita è una variante della pecora smarrita ed è, insieme a quella dei due figli, centrata sulla salvezza di chi è perduto nel peccato (Lc, xv, 8-10; xv, 11-32). Anche l’episodio di Gesù nella casa di Zacheo (Lc, xix, 1-10) ha lo stesso significato, sicché Luca fa dire al Cristo: «Il figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare proprio chi era perduto». La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc, xviii, 9-14) contiene un esemplare insegnamento sulla vera e la falsa preghiera. Non mancano in Luca manifeste forzature o para-

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bole dagli esiti discutibili. Ne è un esempio la parabola dell’amministratore disonesto (Lc, xvi, 1-9), il quale viene elogiato per aver agito con astuzia; c’è nell’evangelista un retropensiero che gli fa dire amaramente che «i figli di questo mondo si dimostrano più accorti dei figli della luce». La parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc, xvi, 19-31) sembra confermare che negli ambienti del tempo non ci fosse una buona disponibilità ad accogliere il mito della resurrezione del Cristo; infatti, il ricco, finito all’inferno, chiede che siano avvertiti i suoi parenti ancora vivi della sorte cui vanno incontro e si sente rispondere che, «se non ascoltano la parola di Mosè e dei profeti, non si lasceranno convincere neppure se uno risorge dai morti». La parabola del giudice e della vedova (Lc, xviii, 18) non è molto felice nella sua struttura, soprattutto se, pur volendo significare che la preghiera è necessaria, si conclude con un inatteso dubbio sulla persistenza della fede: «Il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?». Anche le altre aggiunte di Luca vertono su temi etici. Il passo sulla divina provvidenza (Lc, xii, 22-4) vuol essere un insegnamento sulla priorità della vita rispetto al cibo, del corpo rispetto al vestito, perché «se Dio veste così l’erba dei campi […] quanto più avrà cura di voi. Cercate il regno di Dio e queste cose vi saranno date in aggiunta». 3.5. I lógia del Cristo Rudolf Bultmann(68) ha opportunamente distinto i lógia del Cristo in tre specifiche tipologie. La prima è data dalle sentenze che sono per lo più di carattere sapienziale, tratte dai Proverbi, dal Siracide, dalla Sapienza o forgiate ad imitazione di una così illustre tradizione. In alcuni casi si tratta di affermazioni tautologiche, lapalissiane o anche paradossali. A titolo di esempio richiamo alla mente le seguenti pericopi: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati», «Come può Satana scacciare Satana?», «Si accende la lampada per metterla sotto il moggio?», «A ogni giorno basta la sua pena» (Mc, ii, 17, 23, iii, 21; Mt, vi, 34). Come ammette lo stesso Bultmann è difficile credere che questi siano lógia genuini del Cristo e che possano darci certezze intorno alla sua esistenza storica. La seconda tipologia è quella dei detti profetici e apocalittici. In linea di massima si tratta di profezie interne alla narrazione stessa, come quelle relative alla passione e (68) R. Bultmann, Storia dei vangeli, cit., pp. 58-68.

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alla crocifissione, al rinnegamento di Pietro, al tradimento di Giuda, ecc. A queste vanno aggiunte profezie che presuppongono eventi storici posteriori alla vita del Cristo, come la distruzione del tempio di Gerusalemme e le persecuzioni cui sono destinati gli apostoli. Carattere apocalittico ha soprattutto l’insistenza sull’imminenza della fine dei tempi, sulla parousía del Cristo e sulla prossimità del regno celeste. Anche questa tipologia di lógia attinge o si ispira alle profezie veterotestamentarie, senza dire che la cultura ebraica era ampiamente imbevuta di spirito profetico e che ancora nel primo e nel secondo secolo circolavano non pochi profeti falsi o sedicenti autentici. Anche in questo caso non abbiamo certezza di genuinità. Anzi il fatto che il destino del Cristo fosse già precostituito dalle antiche profezie dimostra che siamo di fronte a miti ampiamente consolidati più che ad eventi di portata storica. La terza tipologia bultmanniana è quella dei detti sulla Legge, incluse le norme morali sul divorzio, sul digiuno, sulla connotazione del puro e dell’impuro, sul superamento della Torah almeno rispetto ai precetti del sabato, della circoncisione, ecc. Su questo fronte possiamo dire di essere sul versante storico, non però nel senso che acquisiamo certezze in ordine alla esistenza del Cristo, ma nel senso che conosciamo meglio la regolamentazione etico-politica delle prime comunità cristiane. Alle tre tipologie individuate da Bultmann bisogna forse aggiungerne altre tre o quattro. Non pochi lógia si riferiscono alla sequela dei discepoli e alle istruzioni ad essi impartite; altri, come le espressioni che il Messia pronuncia nel corso della sua attività di taumaturgo e di esorcista, sembrano presupporre un potere magico. I detti che potrebbero pretendere di avere una qualche genuinità sono forse quelli che esprimono l’estremo sconforto e il tratto più autenticamente umano del Cristo. A titolo di esempio rammento dal vangelo di Marco i lógia pronunciati nel Getsemani e l’ultimo grido sulla croce. Pochissimi, almeno nei tre sinottici, sono i detti che potrebbero avere una connotazione teologica. Tale è la risposta al sommo sacerdote durante il processo: Alla domanda «Sei tu il Cristo, il figlio del Benedetto?» (σὺ εἶ ὁ χριστὸς ὁ υἱὸς τοῦ εὐλογητοῦ), Gesù risponde: «lo sono» (ἐγώ εἰμι). Ma in Matteo lo stesso detto perde la pregnanza semantica che ha in Marco, perché la risposta del Cristo è evasiva: «Tu lo hai detto» (σὺ εἶπας). Luca preferisce accogliere entrambe le lezioni e fa dire al Cristo: «voi lo avete detto, io lo sono» (ὑμεῖς λέγετε ὅτι ἐγώ εἰμι). Tuttavia «tu lo hai detto» è una risposta ambigua, non degna del figlio di Dio; potrebbe rientrare in quella che Cardano e Vanini definiscono l’astuzia del Cristo. L’astuzia è l’arma che Cristo oppone ai vari

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tentativi dei sacerdoti del tempio di farlo cadere in fallo. I capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani gli chiedono con quale autorità predica ed egli si toglie d’imbarazzo, mettendoli a sua volta in difficoltà sull’autorità di Giovanni Battista.(69) I farisei e gli erodiani tentano di metterlo alle corde sul tributo a Cesare, ma finiscono con l’ammirarlo per aver distinto la sfera politica da quella religiosa.(70) I sadducei ridicolizzano la resurrezione dei morti con riferimento alla legge del levirato e Gesù risponde che la resurrezione non riguarda la vita terrena, ma quella celeste.(71) Uno scriba lo interroga sul primo comandamento, ma alla fine è costretto ad ammettere che Gesù risponde con sapienza, tanto che «nessuno osava più interrogarlo».(72)Si tratta più di sortite letterarie ad effetto e di escamotages escogitati dagli autori dei sinottici che di raffinatezze riconducibili al Cristo storico. D’altro canto è sufficiente rilevare che taluni detti sono formulati in una forma non del tutto comprensibile o cadono in un contesto non propriamente acconcio. Per esempio: qual è il nesso tra il discorso sul digiuno e il rattoppo nuovo o la conservazione del vino nuovo negli otri vecchi? (Mc, ii, 18-22; Mt, ix, 14-17; Lc, v, 33-39). E quale è il nesso tra il battesimo del fuoco e il sale? (Mc, ix, 49: πᾶς γὰρ πυρὶ ἁλισθήσεται). È significativo che il verso marciano, che stabilisce un legame tra i due termini, cade nei vangeli di Matteo e di Luca, ma lascia comunque in essi la parabola del sale. Occorre altresì prendere atto che le edizioni moderne dei vangeli frazionano il testo in piccoli paragrafetti contrassegnati da titoli non originali, celando così il brusco passaggio da un tema all’altro e tutte le inesplicabili cesure interne a ciascun sinottico. È evidente che nelle edizioni antiche la lettura dei testi doveva risultare assai più complessa. Pur ammettendo le numerose incertezze che si sono segnalate, Bultmann esclude che esse possano condurre allo scetticismo. In nessun caso – egli scrive – ci si affida ai sistemi di quelli che dubitano o contestano del tutto che Gesù sia vissuto. Deve essere chiaro che la realtà (69)  Mc, xi, 27-33; Mt, xxi, 23-27; Lc, xx, 1-8. (70)  Mc, xii, 13-17; Mt, xxii, 15-22; Lc, xx, 20-26. Credo che abbia ragione S. G. F. Brandon, Il processo a Gesù, cit., pp. 120-123, a ritenere che le pericopi sul tributo a Cesare siano indicative di una datazione dei sinottici posteriore al 70, poiché in effetti la questione del tributo, non più al tempio né a sovrani di origine ebraica, ma ai romani, nacque allorché le regioni palestinesi passarono sotto il diretto controllo di Roma; non a caso essa costituì una delle cause principali della rivolta del 66/70. (71)  Mc, xii, 18-27; Mt, xxii, 23-33; Lc, xx, 27-38. (72)  Mc, xii, 28-34; Mt, xxii, 34-40; omesso da Luca.

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storica, che noi possiamo attingere innanzi tutto nella tradizione, è l’antichissima comunità. Noi vediamo che il quadro di questa comunità presenta lati caratteristici di un nuovo spirito che con propria forza storica si stacca dal giudaismo; e vediamo alla fine che questa comunità è cosciente di dovere la sua esistenza e il suo contenuto spirituale all’opera di Gesù. Attraverso il medium della comunità appare la figura storica di Gesù.(73)

Purtroppo il problema non è se rischiamo di scivolare verso lo scetticismo o se ci dobbiamo affidare a coloro che dubitano o contestano l’esistenza storica di Cristo. La questione fondamentale che lo storico deve risolvere è quella di stabilire se c’è, e quale è, il nucleo storico delle credenze religiose e teologiche delle comunità antichissime che si staccarono dal giudaismo sulla scia dell’essenismo e dell’enochismo. Se la figura di Cristo dipende in toto da tale nucleo dottrinale, è evidente che essa resta ancorata ad un mito o ad un complesso di credenze che costituiscono comunque il retaggio culturale soggettivo di una comunità. Se lo storico non riesce ad uscire da questa sorta di gabbia o di prigione, non può né avere né dare certezze in ordine alla esistenza del Cristo. Per farlo, dovrebbe disporre di fonti extra-evangeliche che purtroppo non ci sono. Egli perciò resta intrappolato nella narrazione sinottica che è parte integrante di un complesso di credenze. Bultmann tenta in qualche modo di uscirne, ma si esibisce in voli pindarici che non sono oggettivamente accettabili nell’ottica di una sana e critica metodologia scientifica. Egli da una parte riconosce che nei sinottici «il quadro chiaro della sua [di Cristo] personalità e della sua vita non è più riconoscibile», ma dall’altra si dice convinto che «sarà sempre più chiaramente riconoscibile la cosa più importante: il contenuto del suo annunzio». Il che sorprende non poco, perché proprio quel kērygma costituisce il cuore delle credenze della comunità antichissima. Bultmann ritiene che «la prova decisiva della genuinità della parola di Gesù» è data dai detti profetici e apocalittici. Ma quali sono gli elementi su cui poggia tale certezza? Nessuno, perché anche i temi della salvezza, del regno dei cieli, della fine imminente, sono il riflesso delle attese e delle speranze di una comunità provata dalle tristi vicissitudini del tempo. Insomma, se non troviamo nei sinottici elementi che provino la loro oggettività, il loro slittamento nella sfera soggettiva del medium, ovvero di una comunità antichissima, non scioglie il nodo sulla storicità del Cristo. (73) R. Bultmann, Storia dei vangeli, cit., p. 65.

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3.6.  La cronologia lucana: la datazione dell’inizio della predicazione Luca, che vuol darsi le arie di storico documentato al pari degli storici greco-romani, tenta una datazione dell’inizio della predicazione galilea di Cristo, che – a sua avviso – sarebbe caduta nell’anno quindicesimo del regno di Tiberio (29 d.C.), sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea, durante il regno di Erode Antipa (4 a.C.-39 d.C.), allorché Erode Filippo reggeva l’Iturea e la Tetraconitide (4 a.C.-34 d.C.). Ma noi sappiamo che Ponzio Pilato non era più governatore della Giudea a partire dal 28 d.C. Sommi sacerdoti sarebbero stati Hanna ovvero Anano ben Seth (6-15) e Caifa (18- 36 ?) che, secondo il terzo vangelo, formavano una sorta di diarchiereato.(74) L’arresto di Giovanni il Battista deve ritenersi anteriore alla sconfitta di Erode Antipa da parte di Areta (inverno tra il 36 e il 37) nel corso della quale fu distrutta la fortezza di Macheronte; è assai verosimile infatti che Giovanni sia stato imprigionato tra il 34 e il 35 e sia morto, come sembra evincersi da Giuseppe Flavio, tra il 35 e il 36, allorché sommo sacerdote era Jonathan ben Anano (36-37). Questi dati, come vedremo, incidono sulla datazione della morte di Cristo, il quale iniziò la sua predicazione quando Giovanni era ancora vivo (presumibilmente tra il 3536) e subì la crocifissione dopo la sua morte nel 36 o al massimo nel 37. Luca aggiunge un’ulteriore chicca: Giovanni – egli dice – venne messo nella prigione del Macheronte per aver condannato l’immoralità di Erodiade, moglie di Erode Filippo, la quale si era unita in matrimonio con il co(74)  Caifa non è citato da Marco, ma da Matteo (xxvi, 3, 57). Luca (iii, 2) e Giovanni (xi, 49; xviii, 13, 14, 24, 28) affiancano a Caifa il sacerdote Hanna (Anano), deposto da Grato nel 15 d.C. Gli Atti (iv, 6) ripropongono una scenario analogo in occasione dell’arresto di Pietro e di Giovanni, i quali sarebbero stati interrogati davanti ad Hanna e a Caifa e a Giovanni ed Alessandro, esponenti delle famiglie sacerdotali. Ma la compresenza dei due sommi sacerdoti è del tutto ingiustificata e inusuale ed è un ulteriore elemento che inficia la storicità delle narrazioni evangeliche. Infatti il testo di Giovanni equivoca sulla datazione della carica sacerdotale di Hanna e di Caifa, poiché per un verso (xviii, 13) asserisce che Hanna «era… sommo sacerdote di quell’anno [cioè dell’anno del processo]») e per un altro verso dice la stessa cosa di Caifa: «sommo sacerdote in carica quell’anno» (xi, 49). I tentativi di sciogliere tale nodo non si possono dire fortunati. P. Winter, On the Trial of Jesus, Berlin, Gruyter, 1961, p. 33, suggerisce di distinguere il sommo sacerdote Hanna da Anano, W. Bauer, Das Johannesevangelium, Tübingen, Mohr, pp. 213-214, dal canto suo sostiene che Hanna fu presente al processo per il suo prestigio di sacerdote di alto rango la cui carica era durata dal 6 al 15 d.C. Ma si tratta di ipotesi che non si accordano con il vangelo giovanneo che esplicitamente parla, come si è detto, di carica di «quell’anno».

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gnato Erode Antipa. Erodiade era nipote tanto di Filippo quanto di Erode Antipa per essere figlia del loro fratello Aristobulo. La sconfitta di Antipa fu, secondo Luca, una punizione divina per la sua condotta scostumata. Da chi trae Luca questi dettagli? Da Giuseppe, il quale, proprio quando ci informa sull’attività di Giovanni,(75) parlando della passione di Erode per la cognata-nipote Erodiade, non mette affatto in rapporto tra loro le due vicende. Per Giuseppe il Battista è messo agli arresti dal tetrarca semplicemente perché la sua predicazione riscuoteva un forte successo popolare. È evidente che la storiografia di Luca fa acqua da tutte le parti. Egli ci fa sapere che Cristo aveva trent’anni quando iniziò a predicare in Galilea, cioè nel 28-29. Ma se aveva quell’età nel 28, doveva essere nato il 2 a.C., quando Erode il Grande era già morto da due anni e il censimento di Quirinio era ancora di là da venire. Né ci vuol molto a capire che la data del 28 è incompatibile con l’arresto e la morte di Giovanni Battista. Senza dire che la durata del ministero di Cristo secondo i sinottici non sembra essersi protratta oltre una manciata di mesi. In tutti i suoi spostamenti nella Galilea e nella Giudea non si fa cenno ad alcuna festa ebraica; ed è veramente strano. Non c’è traccia né della festa delle capanne (sukkot) che ricorreva il 14-22 del mese di tishri (settembre-ottobre), né del giorno dell’espiazione (yom kippur) del 10 di tishri, né della festa delle settimane (shavuot) o della pentecoste con scadenza 6-7 del mese di sivan (maggio-giugno), né della festa della dedicazione (hanukka) del 25 kislev (novembre-dicembre), per citare solo le feste di maggior peso. L’unica festa citata è la Pesach, in cui si consuma la tragica esecuzione del messia. Gli studiosi cattolici ricorrono a diversi espedienti per dilatare la durata della predicazione di Cristo, in modo da renderla più compatibile con la peregrinazione di Gesù nella Galilea e nella Giudea. Uno degli argomenti da essi usati è che in Marco (ii, 23; vi, 39) si possono riscontrare due accenni alla primavera.(76) Nel primo caso egli dice che i discepoli in un giorno di sabato si trovavano in un campo di grano e si misero a sgranare le spighe; nel secondo caso in occasione della moltiplicazione dei pani ci fa sapere che i discepoli erano seduti sull’erba verde. Se ne deduce che tra le due situazioni deve essere intercorso almeno un anno. Ma è una deduzione arbitraria poiché nulla vieta che i due eventi si riferiscano alla stessa primavera, tant’è che, come abbiamo appena detto, non ci sono tracce di feste religiose ebraiche (75) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 116-119. (76)  v. J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 406.

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nella narrazione. C’è una sola spiegazione possibile per questa stranezza. Ed è che l’attività predicativa del Cristo non incrociò nessuna festività importante sotto il profilo religioso. Ne consegue che tutto il suo ministero galileo e giudaico si concluse in pochi mesi, tra il gennaio e l’aprile di uno stesso anno del calendario romano. Questo risultato contrasta ancor più con la narrazione lucana, perché si accorda ancor meno con la vicenda dell’arresto e della morte del Battista, che certamente supera la durata di un anno. Non credo che ci sia la possibilità di sanare il quadro storico contraddittorio consegnatoci da Luca; anzi esso conferma due cose: 1) che gli evangelisti non avevano le idee chiare sulla vicenda biografica di Gesù; 2) che scrissero a notevole distanza di tempo (Marco almeno 80 anni dopo; Luca non meno di 100) dall’epoca in cui immaginavano che si fossero svolti i fatti. Molti indizi, talvolta appena percettibili, confermano questa valutazione. Spesso gli stessi autori indicano chiaramente una discreta distanza temporale dagli eventi oggetto della narrazione. In occasione dell’episodio di Betania e della donna che unge di nardo Gesù,(77) la predizione che la sconosciuta sarà ricordata «dovunque sarà predicato il vangelo per il mondo intero», fa pensare che gli autori scrivono quando già il messaggio cristiano ha avuto una certa diffusione nell’area mediterranea. Anche l’accenno alla fama del Cristo che si espande per tutta la regione e per la Siria, ricordata da tutti e tre i sinottici,(78) presuppone una distanza temporale del narratore rispetto agli eventi narrati. Lo stesso vale per la parabola del granello di senape (la chiesa?) e del lievito (Mc, iv, 30-32; Mt, xiii, 31-33; Lc, xiii, 18-19), se la si vuole intendere in riferimento alla crescita del cristianesimo e allo sviluppo della Chiesa. Talune profezie del Messia sono manifestamente post festum. Tale è il caso del noto brano in cui Gesù piange su Gerusalemme (Mt, xxiii, 37-39; Lc, xiii, 34-35; xix, 41-44) e prevede l’abbandono delle case («Ecco la vostra casa sarà abbandonata»), poiché si tratta di una profezia che non può essere anteriore al 135. Si può obiettare che il versetto è tratto da Geremia (vii, 14; xii, 7; xxvi, 4-6) e che non è una vera e propria profezia ma una semplice reminiscenza veterotestamentaria. In realtà Geremia allude al tempio, che, in quanto casa abbandonata da Yhwh, non è la casa di tutti i gerosolimitani («la vostra casa»); Luca invece ci dà una descrizione dettagliata dell’assedio della città tale da non poter essere ricondotta al testo profetico: (77)  Mc, xiv, 3-9; Mt, xxvi, 1-8, omesso da Luca. (78)  Mc, i, 28; i, 45; v, 14; v, 16; Mt, iv, 24; ix, 26; ix, 31; Lc, iv, 37.

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I tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte, distruggeranno te e uccideranno i tuoi figli […] e non lasceranno in te pietra su pietra, poiché non hai riconosciuto il momento in cui Dio ti ha visitata.

3.7.  Le contraddizioni a proposito della nascita di Cristo Com’è noto il vangelo di Marco si limita a narrare la predicazione galilea e giudaica del Cristo e la sua passione e morte. Evidentemente la comunità destinataria del suo vangelo chiedeva di conoscere gli atti e i detti del messia più che la storia della sua vita. Ma l’autore di Marco avrebbe potuto estendere la narrazione alla nascita, all’infanzia e all’adolescenza del Cristo, se solo avesse potuto averne una qualche cognizione. Non lo fece, perché non ne sapeva nulla. Non aveva neppure l’idea di quale fosse la sua patria nativa. Lo definisce erroneamente nazareno, ritenendolo proveniente da Nazareth (Mc, i, 9), una città che presumibilmente non esisteva ai tempi di Cristo. Luca fornisce altri dettagli che contrastano con la realtà storica: (iv, 16) ci dice che Gesù predicò nella sinagoga di Nazareth e che al termine della sua esibizione «quelli che erano nella sinagoga si infuriarono e tentarono di gettarlo dalla cima della montagna. Il problema è che dalle ricerche archeologiche non risultano evidenziate nel piccolo villaggio galileo tracce di alcuna sinagoga risalente all’età apostolica(79) e per di più la som(79) A. Destro – M. Pesce, L’uomo Gesù, cit., p. 31, sulla base del lavoro di J. S. Kloppenborg, Dating Theodotos, «Journal of Jewish Studies», li, 2000, pp. 243-280, ritengono accertata l’esistenza di sinagoghe in età apostolica. L’esistenza della sinagoga di Gerusalemme sarebbe dimostrata dall’iscrizione di Theodotos. Quella di Cafarnao sarebbe stata edificata con il patronato di un centurione romano perché tale è la tardiva, inaffidabile e anacronistica testimonianza di Luca (vii, 5). È difficile accettare l’idea che un centurione romano abbia potuto provvedere alla costruzione di una sinagoga in una località in cui la presenza romana, almeno nel primo trentennio del primo secolo, era ancora molto limitata. L’iscrizione di Teodoto, che peraltro si dichiara nipote di un capo della sinagoga, difficilmente può collocarsi nel corso del primo secolo. In realtà la sinagoga di Cafarnao risale al iv-v secolo d.C., né è certo che il basamento basaltico sottostante, scoperto dall’archeologia francescana, ansiosa di confermare il racconto evangelico, appartenga ad una sinagoga del primo secolo. Ancor più sfumata storicamente è la presunta sinagoga di Nazareth, se si pensa che lo stesso villaggio di Nazereth non ha dato evidenze della sua esistenza ai tempi del Cristo. Significativo è di contro l’incremento delle occorrenze del lemma ‘sinagoga’ passando da Marco (8) a Matteo (9) a Luca (15) e agli Atti (19).

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mità della collina non ci ha restituito rovine di edifici del primo secolo. Per di più ‘nazareno’ non è un nome che possa derivare grammaticalmente da Nazareth. Ma il vero colpo di genio del vangelo marciano sta nell’aver posto un nesso tra Giovanni il Battista e il Cristo sulla base di una interpretazione delle profezie di Isaia e di Malachia (Is,xl, 3; Ml, iii, 1-23). In realtà nessuno dei due antichi profeti si riferiva a Giovanni o a Cristo. Isaia nel versetto citato («Nel deserto preparate una strada a Yhwh, raddrizzate nella steppa un sentiero per il nostro Dio») allude all’imminenza della schiavitù babilonese; Malachia si riferisce al profeta Elia. L’autore di Marco, forse ispirandosi al modello allegorico filoniano, suggerisce per la prima volta una lettura tipologica dell’AT e fa di Giovanni il precursore di Cristo. Perciò nel suo programma cristologico egli parte dalla attività pubblica di Giovanni come preparatoria rispetto alla predicazione del Cristo. Allorché con l’arresto si conclude l’opera del Battista, prende l’avvio l’attività del Cristo. L’ultimo degli antichi profeti passa la consegna al primo dei nuovi. È uno straordinario scenario quello che Marco propone sullo sfondo del suo vangelo. A distanza di qualche anno le comunità che si erano addottrinate sul testo marciano, ne avvertono i limiti e manifestano il bisogno di sapere di più sulla vita del Cristo: ci si chiedeva dove fosse nato, chi ne fossero i genitori e se fossero di discendenza davidica; è anche probabile che taluni ponessero dubbi sulla sua nascita virginale. A questa istanza rispondono i redattori di Matteo e di Luca, i quali danno puntuali ragguagli sulla nascita del Cristo nei primi due capitoli dei rispettivi vangeli. In realtà in entrambi i casi quei capitoli furono il risultato di una clamorosa interpolazione compiuta da due distinte mani. La prima lavorò su Matteo; la seconda, a distanza di qualche anno, operò su Luca.(80) Ma per comprendere la questione, occorre entrare nei dettagli. Matteo tenta di riempire i vuoti lasciati da Marco. Dopo aver costruito una rabberciata genealogia di Cristo sulla scorta della storia ebraica e sulla base del simbolismo numerico ebraico, egli procede alla narrazione della sua nascita virginale. Maria rimane incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe pensa in un primo momento di ripudiarla, ma l’angelo del Signore lo informa che (80)  In entrambi i casi l’interpolazione dei primi due capitoli sembra risalire al terzo secolo, poiché ne troviamo traccia nei papiri P1 e P71 (per Matteo) e P4 (per Luca). Ma per correttezza va anche detto che non abbiamo fonti manoscritte anteriori a tale epoca, fata eccezione per P104, molto frammentario.

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la sua promessa sposa è stata ingravidata dallo Spirito Santo e che il nascituro sarà chiamato «Gesù» che, come sappiamo, in ebraico significa «salvatore», «redentore», «soccorso divino». Si tratta in breve della nascita miracolosa già preannunciata da Isaia (vii, 14), nella versione della Septuaginta: «Ecco una vergine concepirà e partorirà un figlio che chiameremo Emmanuele» (ebr. = Dio è con noi). Luca si spinge fino a descrivere la copula tra lo Spirito Santo e Maria: («Scenderà su di te lo Spirito Santo e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dall’alto» (Lc, i, 35). Per la verità, a prescindere dal fatto che il testo della Septuaginta traduce erroneamente l’ebraico ‘giovane donna’ (hā’almāh ‫ )העלםה‬con ‘vergine’ (gr. παρθένος), la profezia isaiana non ha nulla a che fare con la nascita del Cristo, ma riguarda la nascita di Ezechia-Emmanuele, figlio di Achaz. In adempimento della profezia isaiana, anche il neonato Gesù avrà il nome Emanuele. Per corroborare la tesi della verginità della Madonna, Matteo (i, 25) spiega che Giuseppe si astenne dall’avere rapporti con lei «finché non partorì il figlio» (ma per la verità dovette astenersi sia prima che dopo, se è vero che la verginità di Maria si conservò prima, durante e dopo il parto). In realtà la nascita virginale non si capisce né filosoficamente, né fisicamente e tanto meno teologicamente, a prescindere dal fatto che Gesù sia il figlio unigenito μονογενὴς o primogenito πρωτότοκον·di Maria.(81) A differenza di Marco che fa provenire Gesù da Nazareth, Matteo ricorre ad una vera e propria acrobazia per poter mantenere la propria lettura tipica dell’AT. Lo fa nascere a Betlemme secondo la profezia di Michea («E tu Betlemme […] da te uscirà un condottiero che guiderà il mio popolo, Israele», Mi, v, 1). In realtà Michea aveva profetizzato l’avvento di un re guerriero che doveva essere il messia-re nazionale, liberatore del popolo, il quale, in quanto discendente da David, sarebbe nato a Betlemme. La nascita a Betlemme, più che un fatto storico, era logicamente connessa alla discendenza davidica. Quanto poi al termine nazareno, con la erronea pretesa di una derivazione della famiglia di Cristo da Nazareth, era invece conseguente alla connessione tra Gesù e Giovanni Battista. Poiché questi era considerato un nazireo, si riteneva che tale dovesse essere anche il Cristo. L’autore di Matteo, interpre(81)  Gv, i, 18; Lc, ii, 7. Per gli esegeti credenti Giuseppe si astenne dall’avere rapporti sessuali con Maria prima e dopo la nascita di Cristo. Ne consegue che, come spiega Girolamo, i fratelli di Cristo, ricordati nei vangeli, furono figli che Giuseppe aveva avuto da un precedente matrimonio. Sono però congetture che presuppongono la fede nella verginità della madonna.

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tando la profezia isaiana in relazione a Cristo, l’arricchisce di dettagli fantasiosi, come l’adorazione dei magi, la fuga in Egitto (affinché si adempisse la profezia di Osea, xi, 1: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio», la quale riguardava il popolo di Israele e non, come ritiene Matteo, il rampollo di stirpe davidica), la presunta strage degli innocenti (adempimento della profezia di Geremia: «Una voce si udì in Roma […] Rachele piange i suoi figli»), della quale tuttavia non abbiamo alcuna menzione in Giuseppe Flavio.(82) Infine, un angelo, allorché (4 a.C. - 6 d.C.) nella Giudea si insediò Erode Archelao, suggerì a Giuseppe di rientrare in Galilea nella città di Nazareth (anche tale rientro è collegato ad una presunta profezia veterotestamentaria, di cui non abbiamo alcuna notizia: «sarà chiamato nazareno»). A questo punto il maldestro interpolatore ci ha fornito, non so fino a che punto consapevolmente, qualche coordinata temporale, poiché fa nascere Gesù sotto il regno di Erode il Grande, vale a dire prima del 4 a.C., e tenuto conto della storiella della strage degli innocenti, fa slittare la nascita di almeno uno o due anni prima per giungere così al 6-5 a.C. Il ritorno a Nazareth ha in Matteo (ii, 23) l’unico scopo di riallineare la narrazione con quella di Marco. Ma in tale operazione si scorgono le tracce della manipolazione, la quale si evince dall’incipit del capitolo iii («In quei giorni Giovanni» – ἐν δὲ ταῖς ἡμέραις ἐκείναις), che mal si concilia con la conclusione del capitolo ii, in cui si dice che la famiglia di Giuseppe si stabilizzò a Nazareth. C’è di conseguenza una cesura nella narrazione tra il terzo capitolo, in cui il Cristo ci è presentato in età matura come prosecutore del Battista, e il capitolo ii che si chiude con un riferimento ai primi anni di regno di Archelao (circa 4-2 a.C.). E il collegamento tra i due passi è affidato ad un laconico «in quei giorni», cronologicamente del tutto assurdo. Matteo comunque è assai più parco di dati storici; il suo vangelo non ha al suo interno contraddizioni di carattere cronologico, semplicemente perché non indica in quali anni ebbe inizio la predicazione di Cristo, ma si limita a ripetere con Marco che essa fu successiva alla decapitazione del Battista (intorno al 36 d.C.), anche se, per la verità, questo dato indurrebbe ad asserire che alla presunta data della passione l’età del Cristo si sarebbe aggirata tra i 42 o 43 anni (in netto contrasto con la tradizione). (82)  Jr, xxxi, 15. È significativo che Giuseppe, che tratteggia a tinte fosche la figura dell’odiato Erode, accentuandone la innata crudeltà, non menzioni la presunta strage degli innocenti. Un episodio così violento e disumano non sarebbe passato sotto silenzio tra i letterati e gli storici del tempo. Quanto meno ne avremmo trovato un accenno in Filone.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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Possiamo ora mettere a confronto i primi due capitoli matteani con i corrispettivi lucani. La prima cosa che balza agli occhi è che Luca è relativamente indipendente da Matteo o, meglio, conosce per sommi capi o, se si preferisce, per informazione indiretta la ricostruzione di Matteo e la usa come modulo da ripetere tanto per la nascita di Giovanni il Battista, quanto per quella del Cristo. In questo l’autore di Luca è più fedele a Marco nel senso che mantiene il legame tra Giovanni e Cristo fin dalla narrazione delle loro nascite, ma il modulo narrativo (l’annunciazione, la nascita miracolosa, la predeterminazione del nome) è desunto, sia pure indirettamente, da Matteo. Luca è più ricco di dettagli; ascrive Giovanni alla classe sacerdotale di Aronne per parte materna e Cristo alla discendenza regale di origine davidica. Essendo Giovanni il precursore di Cristo, la sua nascita precede quella di Gesù di sei mesi e cade, come aveva già affermato Matteo, durante il regno di Erode. L’angelus faciei Gabriele annuncia al sacerdote Zaccaria, della classe di Abia, e a sua moglie Elisabetta, sterile (secondo un classico modulo veterotestamentario), «entrambi avanti negli anni», che nascerà un figlio a cui sarà dato il nome Giovanni. Dopo sei mesi lo stesso angelo annuncia ad una vergine di nome Maria, promessa sposa a Giuseppe della casa di David, che avrà un figlio che sarà chiamato Gesù, perché sarà il Salvatore e redentore («è nato per voi nella città di David il Salvatore, cioè il Cristo Signore») in adempimento di Isaia (Lc, ii, 11; Is, vii, 14). La profezia è ribadita in Luca («Ecco concepirai nel ventre e partorirai un figlio e lo chiamerai Gesù»; καὶ ἰδοὺ συλλήμψῃ ἐν γαστρὶ καὶ τέξῃ υἱόν, καὶ καλέσεις τὸ ὄνομα αὐτοῦ ἰησοῦν); «Il bambino che da te nascerà sarà santo e verrà chiamato Figlio di Dio» (τὸ γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται, υἱὸς θεοῦ, Lc, i, 31, 35). Il racconto prosegue con la visita di Maria ad Elisabetta, con il Magnificat di Maria, che riecheggia il cantico di Anna del 1Samuele (ii, 1-10), con il Benedictus di Zaccaria, che è un intreccio di brani veterotestamentari,(83) con il Nunc dimittis di uno sconosciuto Simeone, dotato di spirito profetico, e con l’esplosione di gioia della profetessa Anna, figlia di Fanuele. I versetti Lc, ii, 39-52, sono un po’ ingarbugliati, ma ci fanno capire, per via della loro incongruenza, che i due capitoli introduttivi sono un’interpolazione tardiva. Infatti in quei versetti, dopo il rientro in Galilea, successivo alla nascita di Gesù, ci troviamo di fronte all’inaspettato balzo cronologico del Gesù dodicenne che discetta nel tempio con i dottori della Legge. Il ri(83)  Salmo xli, 14; cv, 8-9; Jr, xi, 5; Is, xl, 3; ix, 1; xi, 6.

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entro a Nazareth non è l’ovvio rientro dopo l’annuale visita al tempio di Gerusalemme, ma è il definitivo stabilizzarsi della famiglia nel proprio abituale domicilio; esso però era già stato narrato (Lc, ii, 51-52; Lc, ii, 39-40). Ciò significa che nella narrazione si avvertono tracce della manipolazione. Tra l’altro c’è una sfasatura tra la chiusura del capitolo i e l’incipit del capitolo ii. Il versetto Lc, i, 80 (ἕως ἡμέρας ἀναδείξεως) si riferisce al giorno della manifestazione di Giovanni dinanzi ad Israele, cioè all’inizio della sua attività pubblica. Il secondo capitolo, invece, alludendo alla nascita di Gesù in concomitanza con il censimento quiriniano, usa l’espressione «in quei giorni» (ἐν ταῖς ἡμέραις ἐκείναις) che è cronologicamente inappropriata. Infatti essa dà luogo a due contraddizioni: l’una di natura grammaticale, in quanto relaziona il plurale ἐν ταῖς ἡμέραις ἐκείναις con il singolare ἕως ἡμέρας ἀναδείξεως; l’altra di natura storico-temporale poiché presuppone una continuità temporale tra l’avvio della predicazione di Giovanni e la nascita di Cristo. La soluzione più semplice è quella di ammettere che i primi due capitoli sono una manifesta aggiunta posteriore. D’altra parte sappiamo che secondo Marcione(84) il vangelo lucano cominciava con l’attuale versetto iii, 1. Che il racconto di Luca sia fantasioso si evince dal fatto che tutti i personaggi da lui citati (Zaccaria = il Signore ha ricordato, Elisabetta = dote di Dio, Simeone = Dio ha ascoltato, Anna = grazia) non hanno alcuna identità storica e sono chiaramente fittizi. Né si capisce come possa l’evangelista conoscere i dettagli dell’annunciazione se, secondo quanto egli scrive, Maria conservò in gran segreto nel proprio cuore tutto ciò che le era accaduto («Sua madre conservava nel suo cuore il ricordo di tutto quanto accadeva», καὶ ἡ μήτηρ αὐτοῦ διετήρει πάντα τὰ ῥήματα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς, Lc, ii, 51). La soluzione proposta da Ratzinger, secondo cui Luca avrebbe attinto direttamente da Maria, è, come lo stesso studioso riconosce, una mera ingenuità. Anzi, se vogliamo, il segreto dell’annunciazione è di per sé indice della ingenuità dello stesso narratore evangelico, che non scrive secondo canoni razionalistici, ma secondo una mistica che non ha spiegazioni possibili in termini naturali e logici. Va detto che anche solo a fermarci ai primi due capitoli, Luca fornisce coordinate storiche contraddittorie, perché per un verso colloca la nascita del Cristo durante il regno di Erode (cioè prima del 4 a.C.) e per un altro verso la fa cadere in prossimità del censimento di Publio Sulpicio Quirinio (6 d.C.) (84) Cfr. Epifanio di Salamina, Panarion, xlii, 9; R. W. Funk, Birth and Infancy Stories, in The Acts of Jesus: the Search of the Autentic Deeds of Jesus, New York, Harper, 1998, pp. 497-526.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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utilizzato come escamotage per far rientrare i genitori del Cristo a Betlemme, propria città d’origine. Matteo dà la nascita a Betlemme come adempimento di una profezia veterotestamentaria. Luca fa ricorso ad una geniale sortita letteraria: fornisce coordinate temporali più puntuali, ma inquadrate in uno scenario fanta-storico, meno credibile di quello di Matteo. Betlemme è scelta come città d’origine perché il Cristo è presentato come rampollo di provenienza davidica e, secondo l’AT, essa era la città natale di David. Ma da David a Cristo erano passati ben 1.000 anni ed è ridicolo pensare che il censimento imponesse il trasferimento in località d’origine così remote nel tempo. Tuttavia al di là di questa incongruenza resta insormontabile il conflitto, interno al testo manipolato, tra la nascita in età erodiana e quella coeva al censimento quiriniano, perché tra le due date corre un intervallo di ben dieci anni, mentre per l’autore testamentario i due eventi sono pressoché contemporanei. Il censimento è datato il 6 d.C. da fonti extrabibliche come Giuseppe Flavio e Tacito. Giuseppe, infatti, ci dice che la rivolta di Giuda Gaulanita, che fu conseguente al censimento, ebbe luogo nel trentasettesimo anno dopo la battaglia di Azio del 31 a.C., cioè nel 6. d.C. I tentativi di ‘aggiustare’ le date in modo da sanare l’incongruenza non sono scientificamente accettabili. Va detto altresì che la data del 6 a.C. non deriva dal testo di Luca ma – se mai, come si è detto – da quello di Matteo. Ma per ora prescindiamo dal problema della compatibilità tra Luca e gli altri sinottici e ci limitiamo a valutare l’eventuale coerenza interna al terzo vangelo. Luca non dice che Cristo è nato sotto il regno di Erode, ma ci fa sapere che durante tale regno è avvenuto il concepimento di Giovanni; nel contempo afferma che Cristo fu concepito sei mesi dopo. Ne consegue che, a suo avviso, la nascita del Cristo potrebbe essersi verificata sia prima del 4 a.C. sia nei primi sei mesi del 3 a.C. Ma il punto debole della cronologia lucana sta nel citato editto di Augusto che – secondo l’autore – promuoveva un censimento universale («ut describeretur universus orbis» ἀπογράφεσθαι πᾶσαν τὴν οἰκουμένην), ritenuto il «primo» eseguito durante il governatorato siriano di Quirinio. Per sanare la contraddizione interna a Luca, Ricciotti, seguito da Sanders,(85) suppone che i censimenti di Quirinio siano stati due: il primo intorno al 6 a.C. e il secondo il 6 d.C. Essi perciò ritengono che il testo evangelico si riferisca al primo e non al secondo. Sfortunatamente il presunto censimento del 6 a.C. (85) Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù, cit.; E. P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, cit.

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non è attestato da alcuna fonte storica. Altri studiosi(86) ripropongono in forma più sofisticata la medesima ipotesi e ritengono che il versetto lucano ii, 2, andrebbe interpretato non come «primo censimento», ma come «precedente censimento» (cioè il censimento del 6 a.C.). Ma l’interpretazione di ἀπογραφὴ πρώτη (= ‘prima registrazione’) nel senso di ‘precedente registrazione’ è del tutto illegittima grammaticalmente; giustamente Sherwin-White(87) ha fatto notare che nel significato di ‘precedente’ Luca usa il greco πρὶν, come si evince dai passi citati in calce.(88) Erronea è anche la lettura che della pericope è suggerita da Augustinus Merk, S. J.:(89) Haec descriptio prima facta est a praeside Syriae Cirino et ibant omnes ut profiterentur singuli in suam civitatem. La vulgata traduce più correttamente: Haec descriptio facta est Praeside Syriae Cirino. La versione latina di Merk non è perfettamente aderente al testo greco che recita: αὕτη ἀπογραφὴ πρώτη ἐγένετο ἡγεμονεύοντος τῆς συρίας κυρηνίου, ove il πρώτη è rigorosamente associato ad ἀπογραφὴ e la costruzione del genitivo assoluto è conforme al testo della vulgata che la rende con l’ablativo assoluto. Pertanto la traduzione corretta è la seguente: «Questo primo censimento fu eseguito sotto il governatorato di Quirinio in Siria» («allorché Quirinio era governatore della Siria »). La datazione del censimento emerge dal quadro storico complessivo. Sappiamo che Augusto depose, nel 6 d.C., Erode Archelao, integrò nella Siria la Giudea ed inviò come governatore Coponio e Quirinio con l’incarico di procedere al censimento. Nel Bellum Judaicum e nelle Antiquitates Judaicae Giuseppe(90) ci fa sapere che il censimento di Quirinio, databile intorno (86) M.-J. Lagrange, Où en est le problème du recensement de Quirinius?, «Revue Biblique»,viii (1911); N. Turner, Grammatical Insights into the New Testament, Edinburgh, Clark, 1965, pp. 23-24; P. W. Barnett, Apographē and Apographesthai in Luke 2, 1-5, «Expository Times», lxxxv, 1973-1974, pp. 337-380; F. F. Bruce, Jesus and Christian Origins, cit., p. 192; H. W. Hoehner, Chronological Aspects of the Life of Christ, Grand Rapids, Zondevan, 1977, p. 21; W. Brindle, The Census and Quirinius: Luke 2, 2, «Journal of the Evangelical Theological Society», xxvii, 1984, pp. 48-49; J. M. Garcìa, La vita di Gesù, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 59-60; B. Witherington III, What Have They Done with Jesus?, Beyond Strange Theories and Bad History, Oxford, Monarch, 2007, p. 101. (87)  A. N. Sherwin-White, Quirinius: a Note, in Roman Society and Roman Law in the New Testament, Oxford, University Press, 1963, p. 167. (88)  Lc, ii, 26, xxii, 61; Atti, ii, 20; vii, 2; xxv, 16. Il lemma πρὶν è usato anche in Mc, xiv, 30, 72; Mt, i, 18; xxvi, 34, 75; Gv, iv, 49; viii, 58; xiv, 29. (89) A. Merk, S. J. (ed.), Novum Testamentum graece et latine, Romae, Sumptibus Pontificii Instituti Biblici, 1984, p. 194. (90) Giuseppe Flavio, BJ, ii, 117-118; Ant., xvii, 335 e xviii, 1-10.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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al 6-7 d.C., fu un censimento provinciale che riguardava la provincia della Siria alla quale era stata annessa la Giudea. È assai verosimile che l’autore di Luca, ben sapendo che quello di Giuseppe era l’unico testo in cui si accennava al censimento di Quirinio, abbia attinto da esso, non senza qualche fraintendimento sia in ordine alla natura, universale o provinciale, dell’editto augusteo, sia in ordine alla sua collocazione temporale. Il testo lucano è contraddittorio anche perché intende il censimento come universale, ma nello stesso tempo si tradisce alludendo ad un censimento provinciale, come fa supporre l’espressione: «Questo primo censimento». Sotto Augusto ci furono tre altri censimenti universali: il 28 a. C, l’8 a.C. e il 14 d.C. Ma nessuno di essi coincide con quello di Quirinio, anche perché i censimenti universali, come sappiamo da Tacito,(91) riguardavano solo i titolari della cittadinanza romana. Le scappatoie escogitate dagli esegeti cattolici, per ovviare alle incongruenze del vangelo lucano, sono frutto di pura immaginazione: Joseph Ratzinger e Alois Stöiger(92) ritengono, senza alcun supporto documentario, che il censimento si sarebbe svolto in due fasi (promulgazione ed esecuzione; oppure registrazione della proprietà e successiva determinazione della tassa) a distanza di un po’ di anni l’una dall’altra. In realtà il censimento del 6 d.C. non si prolungò oltre un anno e si concluse nel 7 d.C. Il racconto di Luca contrasta anche con la consuetudine dei censimenti romani che non comportavano lo spostamento di popolazioni per raggiungere le proprie città d’origine, ma erano in generale censimenti residenziali. Anche su questo punto gli storici cattolici si sono aggrappati agli specchi ed hanno tirato in ballo il censimento provinciale egiziano del 104, attestato dal Papiro London 904, in cui è riportata la disposizione del governatore Gaio Vivio Massimo, la quale prevedeva esplicitamente il trasferimento e recitava: «Poiché si avvicina il conteggio di tutte le famiglie, è necessario ordinare a tutti coloro i quali per qualsiasi motivo si trovino fuori dal proprio distretto di fare ritorno al proprio luogo di origine affinché possano sottoporsi alle normali procedure del censimento». Il testo cioè lascia intendere che l’obbligo al rientro nelle proprie sedi originarie non va riferito alle sedi ancestrali, ma solo alle momentanee assenze dai luoghi residenziali e quindi solo agli spostamenti occasionali. Spostamenti massicci di popolazione avrebbero crea(91)  Tacito, Ann., i, 11 e vi, 41. (92) J. Ratzinger, L’infanzia di Gesù, Milano, Rizzoli, 2012, e A. Stöger, Das Evangelium nach Lukas, Düsseldorf, Patmos, 1963.

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to disagio e forse anche forme di insurrezione, come spesso accadeva nei territori palestinesi. Si potrebbe superare l’impasse solo se supponessimo che in i, 5, Luca alluda ad Erode Archelao e non ad Erode il Grande. Il problema è che il versetto i, 5, sembra dipendere da Matteo (Mt, ii, 1-3), il quale, a sua volta, si riferisce senza alcun dubbio al primo dei due sovrani. Ma possiamo prescindere da Matteo e supporre che Luca abbia in mente Erode Archelao con la conseguenza che la nascita del Cristo si debba collocare il 6 d.C. Anche ricorrendo a tale stratagemma non salviamo Luca dalle sue contraddizioni, perché nel capitolo iii egli data l’inizio della predicazione di Giovanni nel 15mo anno dell’impero di Tiberio (29 d.C.) e senza accennare ad alcun intervallo di tempo, introduce nella narrazione il battesimo di Cristo, che è prodromico all’avvio della predicazione in Galilea. Tuttavia, tenuto conto che Luca (iii, 1-20), riassume tutta la carriera di Giovanni fino al suo arresto, si potrebbe supporre che tra i due eventi, l’inizio della predicazione di Giovanni (29) e il battesimo di Cristo, intercorra un arco di tempo non facilmente determinabile per il fatto che la diffusione della fama del Battista può aver richiesto un certo margine temporale. Ma di questo arco temporale non v’è traccia in Luca. Tutto dunque lascia pensare che – a suo avviso – Cristo iniziò la sua predicazione nel 29. Anzi egli aggiunge (Lc, iii, 23) che Gesù aveva circa trent’anni quando incominciò il suo ministero. Questo nuovo dato scombussola tutta la cronologia della narrazione lucana. Perché, tenuto conto che Cristo e Giovanni, secondo lo stesso vangelo, nacquero a distanza di sei mesi l’uno dall’altro, se ne deve dedurre che nel 29, allorché ebbe inizio la predicazione di Cristo, se la loro nascita cadde nel 4 a.C. (ipotesi Erode il Grande), dovevano avere 33 anni; se invece la loro nascita cadde nel 6 d.C., dovevano avere circa 23 anni. Al contrario, se alla nascita aggiungiamo i trent’anni dell’inizio della predicazione, abbiamo le seguenti conseguenze; se partiamo dal 4 a.C., la predicazione andrebbe collocata il 26 d.C.; se invece partiamo dal 6 d.C., essa slitterebbe al 36 d.C. Nessuna delle due datazioni sarebbe compatibile con il 15 anno dell’impero di Tiberio (29). Le altre date suggerite da Luca sono del tutto irrilevanti: la circoncisione nell’ottavo giorno dalla nascita dipende dal Deuteronomio; la presentazione al tempio 40 giorni dopo la nascita dipende dall’Esodo e dal Levitico (Ex, xiii, 12; Lv, v, 7); la disputa del dodicenne Gesù con i dottori della Legge è solo un riempitivo volto a mascherare il grande salto narratologico tra la nascita e la predicazione in Galilea. Comunque si tenti di aggiustarla e di adattarla, la cro-

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nologia lucana fa acqua da tutte le parti. Se l’intento dell’autore era quello di costruire una cornice storica al mito, le sue indicazioni cronologiche non potevano essere combinate in modo peggiore. Se tentiamo di conciliare le cronologie di Matteo e di Luca l’impresa diventa gigantesca e se si pretende di far quadrare il cerchio con il vangelo di Giovanni diventa impossibile, poiché i dati relativi alla nascita del Cristo, suggeriti da Matteo, sono del tutto incompatibili con il censimento di Quirinio. Qualche studioso cristiano, per conciliare Luca e Matteo, ha elaborato una complessa e fantasiosa esegesi ed ha sostenuto che nell’annunciazione l’angelo Gabriele non indicò a Maria quando sarebbe avvenuto il concepimento. Il che significa che l’intervallo di tempo presupposto da Luca (Lc, i, 80) corrisponde al raggiungimento del tredicesimo anno di età, con cui Giovanni aveva acquisito titolo a manifestare in pubblico. L’intervallo dei dodici anni trascorsi da Giovanni nel deserto corrispondono in pieno al tempo intercorso tra il 6 a.C. e il 6 d.C., sicché – si suppone – Cristo nacque non dopo sei mesi la nascita di Giovanni, ma dopo dodici anni. In altri termini la nascita di Cristo sarebbe stata predetta dall’angelo quando in Giudea era re Erode il Grande, ma sarebbe materialmente avvenuta quando Giovanni aveva raggiunto l’età di dodici anni. L’ipotesi tuttavia non soddisfa, perché il versetto i, 80, non menziona affatto l’età di Giovanni; anzi fa pensare non al raggiungimento dell’età per l’esercizio dei doveri religiosi, ma al momento in cui Giovanni è chiamato nel deserto da Dio per impartire il battesimo; e questo, secondo la narrazione lucana, sarebbe avvenuto nel quindicesimo anno di regno di Tiberio (29 d.C.). L’ipotesi che Quirinio abbia esercitato due volte la carica di governatore della Siria non è supportata da nessuna documentazione storica. Secondo gli studiosi cattolici il lapis tiberinus, una lapide funeraria, scoperta a Tivoli nel 1764, e databile dopo la morte di Augusto (14 d.C.), come si evince dal fatto che all’imperatore è attribuito il titolo di divino, potrebbe riferirsi a Quirinio, il quale risulterebbe così nominato due volte governatore della Siria. L’ipotesi non ha alcun fondamento, poiché nel lapis manca il nome del governatore. Infatti in un testo molto frammentario esso recita: [r]egem quare facta in pote[statem][…]Augusti populique romani Senatu[s] […] supplicationes binas ob res prosp[…]ipsi ornamenta Triumph[alia][…]pro consul Asiam Provinciam op[…]Divi Augusti iterum Syriam et Ph[oeniciam]. Il re ha conferito il potere […] di Augusto e del Senato del popolo romano

874  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini […] perciò è stato onorato con le celebrazioni di due vittorie […] e con gli ornamenti trionfali […] in qualità di proconsole ha ottenuto la provincia d’Asia […] ancora del divino Augusto la Siria e la F(enicia).

Come si vede, non è possibile risalire né alla datazione della lapide funeraria né al nome del proconsole a cui è dedicata. Essa è perciò invocata invano e in malafede da coloro che pretendono di conciliare le contrastanti versioni di Matteo e di Luca. Ancor più spudorato è il tentativo di tirare in ballo il lapis venetus, la lapide funeraria di un tal Emilio Secondo, trovata a Beirut intorno al 1674 e acquistata da mercanti veneziani, dalla quale veniamo a sapere, se non si tratta di uno dei tanti falsi dell’archeologia palestinese, ciò che ci era già noto da Giuseppe Flavio a proposto del censimento del 6 d.C. Il lapis, infatti, ci informa che Emilio Secondo, figlio di Quinto, della tribù palatina, fu al servizio di Publio Sulpicio Quirinio e, allorché questi era governatore della Siria, lo aiutò nel censimento di 117.000 abitanti della città siriana di Apamea e nella conquista di una fortezza sulle montagne libanesi. Ancor meno utile è il ricorso alla stele funeraria di Gaio Caristanio Sergio, scoperta nel 1912 ad Antiochia di Pisidia, in cui Quirinio è citato come duumviro e non come legato di Siria, tanto più che Antiochia di Pisidia non va confusa con Antiochia di Siria anche perché, essendo geograficamente collocata tra la Cilicia e la Galazia, è fuori del raggio di azione del governatorato della Siria.(93) Infine del tutto privo di qualsiasi valore scientifico è il tentativo di Jerry Vardaman(94) di stabilire datazioni concordanti con i testi evangelici sulla base della presunta presenza di microlettere confermanti la nascita del Cristo nel 12 a.C. sulle monete del i secolo. Ma a prescindere da alcuni anacronismi (come la presenza della lettera J che, com’è noto, non è anteriore al Medioevo) e dall’assurdità di reperire lettere latine in monete greche, le microlettere sono solo il frutto di allucinazioni dello stesso Vardaman, le cui proposte non hanno trovato seguito tra gli esperti di numismatica. Ad accrescere la confusione non manca chi suppone che Quirinio abbia (93)  v. G. L. Cheesman, The Family of the Caristanii at Antioch in Pisidia, «Journal of Roman Studies», iii, 1913, pp. 253. (94) J. Vardaman, Jesus’ Life: A New Chronology, in J. Vardaman - E. M. Yamauchi, eds., Chronos, Kairos, Christos: Nativity Chronological Studies Presented to Jack Finegan, Winona Lake, Eisenbrauns, 1998, pp. 55-84; J. Vardaman, Chronology and Early Church History in the New Testament, Kowloon, Hong Kong Baptist Theological Seminary, 1998.

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ricoperto per la prima volta la carica di governatore della Siria in associazione a Quintilio Varo tra il 2 e l’1 a.C. Ma se così fosse la nascita del Cristo non sarebbe caduta sotto il regno di Erode il Grande, morto nel 4 a.C. Tuttavia, anche posto che Quirinio sia stato governatore della Siria sotto Erode (ciò che non è rilevabile da alcuna fonte), resta il fatto che in quello stesso lasso di tempo non ci fu un censimento provinciale. Né vale a sanare il conflitto tra Matteo e Luca l’eventuale slittamento forzato della morte di Erode dal 4 all’1 a.C., come ritiene di poter fare Filmer.(95) Easton, confutato da Evans,(96) ipotizza che Luca sia caduto in errore e che abbia confuso Publio Sulpicio Quirinio con Publio Quintilio Varo. Ne sarebbe una prova il fatto che agli inizi del terzo secolo Tertulliano afferma che i censimenti, sulla base dei quali si potrebbe ricostruire la famiglia di Gesù, compresi i fratelli nati da una precedente moglie di Giuseppe, sono quelli registrati sotto il governatorato di Senzio Saturnino («Sed et census constat actos sub Augusto nunc in Iudaea per Sentium Saturninum, apud quos genus eius inquirere potuissent»).(97) Tertulliano, per la verità, inventa tale circostanza per contrastare gli eretici che negavano la verginità di Maria; la sua versione è del tutto inaffidabile. In ogni caso è escluso che Luca possa essere stato tratto in un errore così grossolano da confondere un cognomen (Quirinius) con un nomen (Quintilius). In ogni caso è da escludere anche un eventuale errore di un copista, perché nel greco onciale si può ritenere paleograficamente improbabile lo scambio di kurhnios con kunthlios o kunkthlios. In ogni caso la lectio kunktēlios non è attestata da nessun manoscritto, né è attestata l’esistenza di un manoscritto da cui Tertulliano avrebbe tratto la citazione di Senzio Saturnino. Checché ne dicano gli esegeti cristiani, i loro tentativi di accordare Luca con Matteo o Luca con sé stesso (limitatamente ai primi due capitoli) in ordine alla datazione della nascita del Cristo sono tutti inevitabilmente fallimentari per il semplice fatto che gli interpolatori dei due evangelisti hanno proceduto a tentoni, partendo dai pochi dati suggeriti da Marco in relazione alla morte del Battista. E non avendo fonti storiche palestinesi a cui fare ri(95)  W. E. Filmer, The Chronology of the Reign of Herod the Great, «Journal of Theological Studies», xvii, 1966, p. 284. (96)  B. S. Easton, The Gospel According to St. Luke, New York, Scribner, 1926, p. 20; Ch. F. Evans, Tertullian’s References to Sentius Saturninus and the Lukan Census, «Journal of Theological Studies», xxiv, 1973, pp. 24-39. (97)  Tertulliano, AdversusMarcionem, iv, xix, 10.

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ferimento, hanno cercato di ricostruire il quadro storico partendo dalle opere di Giuseppe Flavio. Ma questa operazione, come vedremo nel prossimo paragrafo, si è rivelata gravida di incongruenze non più eliminabili dai testi evangelici. Di nessuna utilità è, infine, il vangelo di Giovanni al fine di accertare la storicità della narrazione evangelica, poiché il testo è scritto nel secondo secolo inoltrato quando l’istanza più viva della intellighentsia cristiana non era quella di soddisfare l’interesse della base popolare in ordine alla vita del Cristo, ma era quella di teologizzarne la figura e di ipostatizzarlo sullo sfondo dell’eternità, come ‘parola’ e come ‘sapienza’, per contrastare sul loro stesso terreno le processioni degli enti di matrice gnostica e per stigmatizzare la natura divina del Cristo non con le favole evangeliche, ma in termini più rigorosamente filosofico-teologici. È questo il senso più profondo del prologo giovanneo, ma il tono filosofico scade ben presto nel banale racconto biografico, spesso incompatibile con i tre sinottici. Difficoltà di ordine teologico pongono le versioni sinottiche in ordine al battesimo di Cristo. Per la verità il battesimo messianico è di per sé teologicamente inaccettabile: perché Cristo, che era Dio, doveva sottoporsi al battesimo? A che pro Dio invia sulla terra un precursore che gli prepari la strada? Su questo tema il racconto evangelico tradisce una certa ingenuità dei suoi autori; essi hanno davanti a sé l’esperienza di un rito purificatorio che le comunità cristiane avevano ereditato da quelle esseniche, e per dargli una giustificazione ideale o spirituale lo applicano anche al Cristo, senza accorgersi che tale estensione aveva discutibili implicazioni teologiche. Comunque lo si voglia intendere e per quanto si inviti a non fraintenderlo o confonderlo come sacramento che libera dal peccato originale, il battesimo resta un rito di purificazione e di santificazione che non ha senso se riferito al Figlio di Dio. Ma nei testi evangelici le insidie si nascondono in ogni passo. Tutti e tre gli evangelisti ci dicono che il messaggio trasmesso dalla voce dal cielo, ovvero da Dio, al momento del battesimo è il seguente: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te, mi sono compiaciuto» (σὺ εἶ ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν σοὶ εὐδόκησα).(98) «Prediletto» indica chiaramente una «elezione», una «predilezione» tra tanti. Ma è possibile attribuire a Dio tanti figli? Se riferiamo quella predilezione ad una tra le tante creature, rischiamo di perdere il senso più profondo per cui quel «figlio» è il Cristo. Ma allora come spiegare il messag(98)  Mc, i, 9-11; Mt, iii, 13-17; Lc, iii, 21-22.

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gio della voce divina. L’unica spiegazione possibile è che gli autori dei sinottici si sono ispirati alle profezie veterotestamentarie ed hanno finito col provocare uno slittamento di senso del loro significato originario dal popolo al messia. Marco, volendo presentare il Cristo come il profeta atteso, si rammenta di Isaia (xliii, 1) che, a proposito del servo del Signore, scrive: «nel mio eletto mi compiaccio». Il testo di Isaia è ambiguo e controverso perché nel suo contesto il servo del Signore rappresenta lo stesso Israele, come popolo eletto. Marco invece riferisce direttamente a Cristo il versetto isaiano; ma così facendo, apre la strada ad un’interpretazione adozionistica del passo peraltro condiviso da tutti e tre i sinottici. Più tardi nel Codex Bezae (v secolo) e in alcuni manoscritti latini qualcuno ha provveduto a manipolare il testo lucano sostituendo all’originario versetto isaiano quello tratto dal Salmo ii, 7: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato». Ma è una manifesta forzatura. Infine inconciliabili sono anche le genealogie di Cristo tramandateci da Matteo e da Luca (Mt, i, 2-16; Lc, iii, 23-38). Il prologo di Matteo ha il pretenzioso titolo «Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo», forse nel tentativo di far passare le genealogie come se fossero archivisticamente documentate. Matteo fa nascere Cristo dalla stirpe di David e di Abramo e procede nell’ottica della simbologia ebraica: individua 14 generazioni da Abramo a David (cronologia presunta 1750-1000), 14 da David all’esilio per 413 anni (1000-587), 14 dall’esilio a Cristo per 587 anni e un totale di 42 generazioni (Mt, i, 1-17). Per Luca (iii, 23-38) le generazioni da Adamo, «figlio di Dio», ad Abramo sono 21; da Abramo a David, per circa 750 anni, sono 14; da David a Cristo per circa 1.000 anni sono 42 (28 per Matteo). Al di là della incompatibilità cronologica tra le due genealogie non c’è alcuna corrispondenza tra i nomi che vi compaiono. La durata generazionale nei tre periodi indicati da Matteo non è uniforme, perché nel primo periodo 14 generazioni in un arco di 750 anni danno una durata media di 53 anni; nel secondo periodo in 413 anni danno una durata media di 29 anni; nel terzo periodo in 587 anni danno una durata generazionale di 41 anni. Per Luca la durata generazionale coincide con Matteo per i 750 anni da Abramo a David, ma è appena di 23 anni per le 42 generazioni del periodo tra David e Cristo. Per la verità le generazioni elencate da Matteo non sono 42, come egli dice, ma 41. Per colmare questa lacuna si sono avanzate le ipotesi più improbabili. Personalmente credo che non valga la pena escogitare nessuna congettura, perché è più realistico accettare che le due genealogie sono zeppe di

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contraddizioni. Per via del misticismo numerico Luca inserisce nel novero lo stesso Dio, in modo da avere, da Dio ai venti patriarchi fino ad Abramo, 21 generazioni, cioè un multiplo di 7. Ma si tratta di una evidente forzatura, perché tra Dio ed Adamo non c’è generazione biologica. I numeri 7 e 14 hanno un valore simbolico. Nella ghematria ebraica, analoga alla isopsefia greca, il numero 14 è la somma delle lettere della parola (‫)דוד‬ Dwd (Davide), dove dalet (‫ )ד‬ha valore 4 e waw (‫ )ו‬valore 6 (totale 4+6+4=14). Le due genealogie sono l’una inversa dell’altra: Matteo parte da Abramo per terminare con la nascita di Gesù; Luca parte da Gesù per concludere con Adamo e Dio. Ciò significa che Matteo pone il Cristo alla fine della storia ebraica; Luca invece lo pone alla fine della storia umana. La mistica del numero 7 sembra venir meno in Matteo, poiché David è incluso sia al termine del primo macro-periodo, sia all’inizio del secondo. Ne consegue che, se escludiamo David, il primo macro-periodo conta 13 generazioni. Alcuni manoscritti, per uniformare Matteo a Luca, rettificano questa anomalia e sostituiscono ad Aram, Arni o Admin, in modo da accrescere di una unità le generazioni. Il che dimostra quanto contasse la storia per gli autori dei sinottici. Inoltre Matteo in tre casi aggiunge i nomi delle mogli (Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli con la moglie Tamar; Naason con la moglie Racab; Salmon con la moglie Rut) e in un caso (Giosia-Ieconia), confonde il nonno con il padre. Del tutto incongruente ai fini della linea generazionale discendente è la citazione dei fratelli di Giuda. Per lo stesso periodo le discrepanze con il testo lucano sono le seguenti: la sostituzione già citata di Aram con Arni e Admin, e la sostituzione del nome Salmon con Sala. Per il secondo e il terzo macro-periodo di Matteo, che dovrebbero essere quelli storicamente più controllabili, regna tra i due sinottici il caos più totale. In Matteo Ieconia è annoverato due volte: alla fine del secondo periodo e all’inizio del terzo. Tra i nominativi inclusi da David a Ieconia non ce n’è neppure uno che coincide con la lista di Luca. I nomi da Abiud a Giuseppe, nella lista matteana, e ben 37 dei nomi da Mattatà a Giuseppe, in quella di Luca, non compaiono mai nell’AT. Tra Ieconia e Salatiel Luca aggiunge sei generazioni (Er, Elmadam, Cosam, Addi, Melchi, Neri) che sono del tutto assenti in Matteo. Gli studiosi credenti ritengono di poter occultare tale incongruenza asserendo che quelle sei generazioni sono relative al periodo della cattività babilonese, appositamente escluse da Matteo. Ma la giustificazione non regge, perché le due genealogie non si accordano sulla generazione di Salatiel. Per Matteo egli è figlio di Ieconia e per Luca è figlio di Neri. Inoltre da David a Cristo nelle rispettive

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genealogie solo quattro nomi si corrispondono (David, Salatiel, Zorobabele e Giuseppe); anzi esse non trovano l’accordo neppure su nomi famosi come Salomone, Roboamo, Ozia, Achaz, Manasse, Giosia, ecc. Un’ulteriore e più grave incongruenza riguarda la generazione di Giuseppe, padre adottivo di Cristo. Per Matteo egli è figlio di Giacobbe, per Luca è figlio di Eli. È noto che Giulio Africano spiegò tali divergenze sulla base della legge del levirato, secondo cui la madre di Giuseppe avrebbe sposato in seconde nozze suo cognato. Ma posto che ciò sia vero e che solo uno dei due, Giacobbe o Eli, sia il padre biologico di Giuseppe, resta il fatto che la discendenza biologica da David si chiude con Giuseppe che non è a sua volta il padre biologico del Cristo. Sicché siamo di fronte ad una assurda costruzione che teorizza 42 generazioni per spiegare la discendenza davidica di Giuseppe e di Cristo, ma nello stesso tempo la nega, perché esclude che Cristo sia figlio di Giuseppe (e della stessa Maria) e quindi che sia un rampollo davidico. Concludendo possiamo dire che i vangeli non vanno intesi come libri storici, perché la storia è ben lontana dalle loro prospettive teologiche; essi sono di fatto testi mitologici che costruiscono un mito come oggetto di credenza religiosa. La loro componente storico-biografica nasce dal bisogno di offrire alla prime comunità cristiane una base tangibile e concreta alla loro fede. Sfortunatamente per far questo la loro narrazione doveva necessariamente scandirsi in tappe e punti di riferimento storici. Ma in questa operazione era inevitabile cadere in contraddizioni e incongruenze insanabili. 3.8.  Il calendario ebraico e i dati cronologici della passione Prima di aprire il grande capitolo della cronologia della passione, è opportuno fare alcune premesse fondamentali sul calendario ebraico. In primo luogo va detto che il giorno ebraico aveva inizio per antica tradizione dopo il tramonto del sole e terminava con il successivo tramonto del sole. Ciò è attestato fin dalle prime pagine del Pentateuco, all’esordio della Genesi, nella ricorrente espressione «così della sera e della mattina si compì il primo [secondo, terzo, ecc.] giorno». Il settimo giorno coincideva con il sabato, giorno del riposo che chiudeva la settimana. Infatti in ebraico ‘sabato’ shabbat ‫ שבת‬potrebbe derivare dal verbo shabat che significa smettere, sott. di lavorare, oppure da shev’ah, che significa sette.(99) Un’ulteriore confer(99)  Gn, ii, 1-3; Ex, xx, 8-11; xxiii, 12; xxxi, 12-17; xxxv, 2-3; Lv, xxiii, 1-3; Dt, 12-15.

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ma che l’inizio del giorno coincidesse con la sera è nel Levitico (xxiii, 32), ove si dice: «Celebrerete i vostri sabati da una sera all’altra». Nel mondo greco-romano al contrario il giorno iniziava alle sei del mattino e si concludeva dopo le 24 ore e la settimana si concludeva con la domenica, giorno dedicato al Sol invictus. In entrambi i casi il calendario era calibrato sulle attività cicliche della produzione agricola con la differenza che presso le popolazioni semitiche della terra del Canaan prevaleva un calendario di tipo lunare e presso quelle occidentali prevaleva un calendario di tipo solare. Gli ebrei erano verosimilmente dediti ad attività agro-pastorali, per le quali avevano un’importanza fondamentale le variazioni stagionali della primavera e dell’autunno per essere legate rispettivamente alla semina e alla mietitura e al raccolto delle specie vegetali (agricoltura) e alla transumanza nei due processi di montificazione e di demontificazione (pastorizia). Entrambe le attività facevano riferimento ai due equinozi di primavera e di autunno, sicché l’anno sembrava distinguersi in due semestri che avevano rispettivamente inizio nelle date dei due equinozi. Di questa tradizione si trova traccia nel Pentateuco, in cui si accenna ad un capodanno primaverile e ad uno autunnale. Nel primo caso il capodanno coincideva con l’inizio del primo mese dell’anno, cioè con il primo giorno (sabato) del mese di abib, che sotto l’influenza babilonese assumerà successivamente il nome di nisan, corrispondente a circa metà marzo-metà aprile, ovvero in coincidenza con l’equinozio di primavera: «Questo mese sarà per voi il principio dei mesi, sarà il primo dei mesi dell’anno», Ex. xii, 2). Nel secondo caso il capodanno cade il primo giorno (sabato) del settimo mese, tishri, corrispondente a metà settembre/metà ottobre (Lv, xxiii, 23-25). In realtà il Levitico sembra essere in contraddizione, perché per un verso afferma che il decimo giorno di tishri è un sabato: «Ai dieci di questo mese sarà il giorno solennissimo delle espiazioni […] è un sabato di riposo»), dall’altro, parlando della festa dei Tabernacoli o delle Capanne, afferma che esse cadono di sabato il primo, l’ottavo e il quindicesimo giorno del mese di tishri (Lv, xxiii, 25-32; xxiii, 33-43). La contraddizione si scioglie se si suppone che il giorno delle espiazioni (dieci del mese di tishri) è detto ‘sabato’ non nel senso che cade effettivamente di sabato, ma nel senso che è giorno di riposo come un sabato. In merito agli altri giorni, se il primo giorno è un sabato, sono tali anche l’8, il 15 e il 22, ovvero tutti i giorni del mese che sono x≡1 mod. 7 (cioè 1, 8, 15, 22, 29). L’ottavo giorno di cui parla il Levitico (xxiii, 36, 39) inoltre non va inteso come giorno 8 del mese di tishri,

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ma come l’ottavo giorno dopo i sette di offerta degli olocausti e perciò va identificato con il giorno 22 del mese di tishri. Lo stesso discorso vale per Nm, xxix, 1-28. Dai testi citati si evince che il calendario ebraico privilegiava la predeterminazione dei giorni del mese e della settimana, in modo tale che ogni primo di nisan e di tishri cadeva di sabato con la conseguenza che cadevano di sabato i successivi giorni congrui a uno modulo sette dei due mesi citati, in cui si celebravano le festività più solenni della comunità. Ma il calendario lunare poneva problemi di carattere astronomico, dovuti alla differenza del ciclo mensile lunare e di quello annuale solare. Le lunazioni hanno la durata di 29 giorni, 12 ore, 44 primi e 3 secondi; l’anno solare medio consta invece di 365 giorni, 5 ore, 48 primi e 46 secondi. Nei primi tempi gli ebrei per far coincidere le lunazioni con la durata dell’anno solare ricorrevano all’alternanza di anni di 12 mesi con anni di 13 mesi e periodicamente aggiungevano mesi embolistici in modo da far coincidere i due equinozi rispettivamente con il primo giorno di nisan e con il primo di tishri. Con la scoperta del ciclo di Metone fu possibile un aggiustamento più raffinato, poiché si scoprì che 235 lunazioni erano pressoché pari a 19 anni (più precisamente 12 anni di 12 mesi + 7 anni di 13 mesi danno un totale di 235 lunazioni). Nella letteratura enochica, nel Libro dell’Astronomia (cfr. Libro di Enoc, capitoli lxxii-lxxxii) e nel Libro dei Giubilei (capitolo vi), l’anonimo autore elaborò un calendario lunisolare più sofisticato che corrispondeva appieno alle istanze liturgiche della sua comunità. Divise l’anno in 364 (multiplo di 7) giorni distribuiti in quattro stagioni, ovvero in trimestri di 91 giorni; ciascuno trimestre iniziava di sabato, in corrispondenza della luna nuova, ed era composto di due mesi di 30 giorni e di un mese di 31. Poiché 91 è congruo a zero modulo sette, il novantaduesimo giorno che coincide con il primo del trimestre successivo riparte da sabato così che la successione dei giorni settimanali si ripeteva identica in ciascuna delle quattro stagioni. Naturalmente, poiché l’anno solare è di 365 giorni e 5 ore, erano necessari aggiustamenti periodici di tipo embolistico. Il calendario enochico, manifestamente polemico nei confronti di quello farisaico che calcolava l’anno in 354 giorni e i mesi in 29 o 30, fu concepito dall’autore come un calendario «stabilito e scolpito sulle tavole del cielo».(100) Ciò che accomuna i due calendari ebraici è che ciascuno dei due capodanni cade di sabato, nella fase della luna nuova. Si conserva così l’antica tradizione, registrata in Esodo, secondo cui la pasqua cade nella fase della luna piena: (100)  Libro dei Giubilei, vi, 31; Libro di Enoc, lxxxi, 1.

882  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Nel decimo giorno di questo mese ciascuno prenda un agnello per famiglia e per casa […]. Lo serberete fino al quattordicesimo giorno di questo mese, e verso sera lo immolerà tutto il popolo dei figli di Israele […], perché è la pasqua del Signore […]. Per sette giorni mangerete pani azzimi: fin dal primo giorno non vi sarà lievito nelle vostre case […]. Alla sera del quattordicesimo giorno del primo mese mangerete pane azzimo fino alla sera del ventunesimo giorno».(101)

Così però la festa degli azzimi ha una durata di otto e non di sette giorni. Per il Levitico la pasqua inizia con il crepuscolo del quattordicesimo giorno del primo mese e i sette giorni degli azzimi partono dal quindicesimo giorno.(102) Ma ulteriori ambiguità introduce il Deuteronomio, perché, dopo aver affermato che la pasqua cade nel primo mese della primavera (nisan) e che i giorni degli azzimi sono sette («Immolerai la pasqua la sera, al tramontare del sole nell’ora in cui uscisti dall’Egitto), aggiunge: «per sei giorni mangerai azzimi e al settimo giorno non lavorerai» (Dt, xvi, 1-8). Analoga la versione di Giosuè: «Ai quattordici del mese, verso sera, fecero la pasqua nelle pianure di Gerico. Il dì seguente mangiarono dei frutti della terra, pani azzimi e paste del grano di quell’anno» (Js, v, 10-11). Per il 2Cronache (xxxv, 17) gli israeliti «celebrarono la pasqua e la festa degli azzimi per la durata di sette giorni», ove non si capisce se i sette giorni si riferiscono solo agli azzimi o includono anche la pasqua. Più chiaro Ezra (v, 19-21) per il quale i rimpatriati celebrarono la pasqua «il quattordici del primo mese […] e per sette giorni la festa degli azzimi». A sua volta Ezechiele (xlv, 21) scrive: «Il quattordici del primo mese sarà per voi la pasqua, festa di sette giorni, nei quali si mangeranno gli azzimi». Come si vede l’AT non è univoco circa la ricorrenza della pesach; non è ben chiaro se i sette giorni degli azzimi includano o meno anche la sera del quattordici. Gli unici elementi sicuri sono due: 1) nel giorno che va dalla sera del quattordici alla sera del quindici del primo mese cade il sacrificio pasquale; 2) è verosimile che le comunità vicine agli esseni utilizzassero nel primo secolo dopo Cristo un calendario simile a quello prospettato dal Libro dei Giubilei, il quale prevedeva la cadenza predeterminata dei giorni della settimana nei quattro cicli stagionali e nei due semestri dell’anno. Con molta probabilità ciascun trimestre iniziava di sabato con la luna nuova e la pasqua cadeva tra il tramonto del quattordicesimo giorno e quello del quin(101)  Ex, xii, 3-18; cfr. anche Ex, xxiii, 15; xxxiv, 25. (102)  Lv, xxiii, 4-14; Nm, ix, 1-4; xxviii, 16-18; xxxiii, 3.

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dicesimo giorno (ebraico) in fase di luna piena. Non è escluso che la cronologia dei quattro vangeli presupponga la struttura di tale nuovo calendario. Di recente questo dato, così profondamente radicato nella tradizione giudaica, è stato stravolto da Annie Jaubert nel tentativo di coerentizzare il racconto evangelico della pasqua e della passione di Cristo. La studiosa si richiama ad un testo tardivo e non privo di contraddizioni, come la Didascalia, databile almeno al iii secolo d.C., secondo la quale Gesù consumò l’ultima cena l’11 di nisan (martedì, terzo giorno della settimana) e fu condotto davanti a Caifa il 12 (mercoledì, quarto giorno) e davanti a Pilato il 13 (giovedì, quinto giorno) per essere poi crocifisso venerdì 14. Lo stesso calcolo è presente in Epifanio di Salamina, il quale riconduce allo scisma degli Audiani o Odiani la datazione della pasqua proposta dalla Didascalia (capitolo xxi), contraddittoriamente presentato come scritto controverso, ma non spregevole.(103) In realtà tanto la Didascalia, o per essa gli Audiani, quanto Epifanio tentano di diluire in un più ampio arco di tempo la forte concentrazione di eventi (arresto, processi, crocifissione) fissata dai sinottici in appena ventiquattro ore. Il punto debole dell’analisi della Jaubert sta nel riferirsi a fonti tardive, come Vittorino di Petavia, che datano tra il iii e il iv secolo dopo Cristo. E quando tenta di risalire a fonti del ii secolo non si rende conto che non è un caso se la questione della pasqua, in connessione alla passione di Cristo, esplode solo durante il principato di Lucio Vero con Apollinare di Ierapoli, Melitone di Sardi e Clemente Alessandrino. L’accesa controversia prova evidentemente che la composizione dei sinottici era relativamente recente e recentissima era soprattutto quella del vangelo giovanneo. La polemica riguardò la fine del digiuno, il giorno della resurrezione e, conseguentemente, la celebrazione della pasqua. Eusebio(104) ci fa sapere che nel decimo anno dell’impero di Commodo, all’inizio del pontificato di Vittore e quindi intorno al 190, si determinò uno scisma tra le chiese asiatiche, attestate sulla cosiddetta pasqua quartodecimana, secondo le tesi di Melitone (di Apollinare e di Clemente), il quale nel Chronicon paschale, tentava di conciliare i sinottici con il testo giovanneo e con la chiesa romana, che celebrava la pasqua la domenica, giorno della resurrezione e della fine del digiuno. La Jaubert si sofferma sulla datazione della cena e si propone di stabilire se essa fu consumata il giovedì, come − a suo avviso − fa pensare Clemen(103)  Epifanio di Salamina, Panarion, li, 26; lxx, 10-12; lxx, 10-13. (104)  Eusebio, HE, v, 22-25.

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te Alessandrino, o il martedì, come si evince dalla Didascalia. Convinta che il digiuno del mercoledì sia legato all’arresto di Gesù e che quello del venerdì ricordi la sua crocifissione, ritiene più verosimile che la cena sia stata consumata il martedì. Ma ciò che sorprende è che Jaubert dà per scontato che la tradizione del martedì dipenda dal calendario enochico, trasmesso nel Libro dei Giubilei (vi, 34, 38), ove invece è additata in negativo la posizione dei farisei che con il loro calendario di 354 giorni conducono a inevitabili confusioni circa l’inizio dell’anno, il sabato e la ricorrenza delle feste. In altri termini la studiosa ritiene che i vangeli sinottici e quello giovanneo facciano riferimento a due calendari distinti, l’uno sacerdotale antico, seguito dai sinottici, per il quale la cena sarebbe stata consumata martedì sera, e l’altro più recente, seguito da Giovanni, per il quale la cena sarebbe caduta nel giorno della parasceve della pasqua legale ebraica. Sicché i testi evangelici risultano armonizzati per il semplice fatto che si riferiscono a due pasque diverse, quella sacerdotale antica e quella legale giudaica. Il calendario sacerdotale antico, secondo Jaubert, coinciderebbe con quello enochico e farebbe slittare l’inizio dell’anno nel quarto giorno (mercoledì) della creazione, perché nella Genesi si dice che in tale giorno furono creati i luminari del cielo, il sole per illuminare le ore del dì e la luna per illuminare le ore della notte e li indica entrambi come «segni dei tempi, dei giorni e degli anni». Ma per la fonte sacerdotale elohista il giorno preesiste alla distinzione della notte e del dì, tant’è che in precedenza aveva parlato dei primi tre giorni della creazione (Gn, i, 14-19, 1-13). In ogni caso è al sabato che viene assegnato un ruolo preminente per essere il giorno del riposo del Signore. Per la fonte yhawista (Ex, xii) l’istituzione del calendario è strettamente collegata all’istituzione della pasqua. L’equivoco in cui cade Jaubert è quello di retrodatare, facendola risalire alla più antica tradizione ebraica, la tardiva fissazione del calendario cristiano-cattolico o comunque l’altrettanto tardiva congettura elaborata dall’autore della Didascalia nel tentativo di coerentizzare i dati forniti dai testi evangelici.(105) Ma sono poi realmente conciliabili i controversi dati cronologici suggeriti dai sinottici e da Giovanni? Anzi, in forma più radicale, ci si può chiedere: è veramente coerente e non contradditoria ciascuna delle ricostruzioni evangeliche? Tentiamo di dipanare il bandolo della matassa. Purtroppo i vangeli non ci forniscono dati cronologici sicuri e chiari sulla pasqua e sulla pas(105)  Per una più puntuale confutazione delle tesi di Jaubert rinvio a J. P.Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i. pp. 384-391.

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sione del Cristo. Le espressioni, «venuta la sera». «il mattino seguente», «in quei giorni», non permettono di temporizzare gli eventi; la stessa predicazione giudaica è misteriosamente avvolta nella nebbia. Il capitolo x di Marco non presenta neppure una indicazione cronologica; vi si dice che Gesù predicò l’indissolubilità del matrimonio, esaltò l’innocenza dei bambini, mise in guardia contro la ricchezza, invitò alla totale dedizione al vangelo, predisse per la terza volta la sua passione, diede ulteriori istruzioni ai discepoli e guarì il cieco di Gerico. Tutto è sfumato. Salvo qualche dettaglio, il quadro si ripresenta, con la medesima assenza di coordinate temporali, nei capitoli xix-xx di Matteo. Altrettanto indefinito, ma notevolmente arricchito, è il viaggio di Gesù verso Gerusalemme che in Luca occupa più di dieci capitoli (ix, 51 - xix, 27), con una cospicua fetta di materiale prettamente lucano. La sezione più specificatamente dedicata alla predicazione giudaica è più ristretta (Lc, xvii, 11-xix, 27) ed è per lo più originaria di Luca. La predicazione gerosolimitana occupa in Marco i capitoli xi-xiii, in cui si ricordano l’ingresso nella città, la parabola del fico sterile, la cacciata dei venditori dal tempio, la parabola dei contadini omicidi, la tassa ai Romani, la resurrezione dei morti, i comandamenti dell’amore verso Dio e verso il prossimo e la piccola apocalisse. Con qualche variante la narrazione è ripetuta da Matteo (capitoli xxi-xxv) e da Luca (capitoli xix-xxi). Il primo indizio temporale è riferito alla passione: tutti e tre gli evangelisti ci dicono che si era in prossimità della Pesach ebraica: «Mancavano due giorni alla festa della pasqua e degli azzimi» (Mc, xiv, 1-2: Mt, xxvi, 2-5; Lc, xxii, 1-2). Il primo dubbio è contenuto nella denominazione «festa della pasqua e degli azzimi», poiché lascia irrisolta la perplessità già insita nei testi veterotestamentari, i quali, come si è detto, oscillano tra una durata di otto giorni (la pasqua più sette giorni di azzimi) ed una di sette (la pasqua inclusa nei sette giorni di azzimi). Il secondo dubbio riguarda il calendario lunare vigente alla data della passione. Negli scritti del Pentateuco, e più in generale della storia primaria, non appare ben chiaro quale sia l’articolazione dell’anno e della cadenza dei giorni settimanali secondo i cicli lunari delle neomenie e dei pleniluni. Il terzo dubbio dipende dal fatto che le indicazioni cronologiche di tutti e quattro i vangeli sono assai approssimative e per di più intrecciano tra loro l’uso e le modalità del calendario cristiano o romano (es. le indicazioni relative alle ore) con quelli del calendario giudaico. L’unico dato su cui si registra una convergenza tra i sinottici è che «mancavano due giorni alla festa della pasqua e degli azzimi»; si era cioè dopo il crepusco-

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lo del mercoledì 12. Si può dire che l’accordo sia sostanziale, anche se Luca si tiene sul generico ed afferma che «si approssimava la festa degli azzimi detta pasqua» (Lc, xxii, 1). Marco e Matteo si accordano anche su altri dettagli: il giovedì 13, prima del crepuscolo del 14, Gesù venne unto in Betania nella casa di Simone il lebbroso e Giuda predispose la rete del tradimento. Dal canto suo Luca accenna solo al tradimento di Giuda. La contraddizione insormontabile sta nel successivo passaggio di Marco, riproposto da Matteo e da Luca: «il primo giorno degli azzimi, quando si immolava la pasqua» (καὶ

τῇ πρώτῃ ἡμέρᾳ τῶν ἀζύμων, ὅτε τὸ πάσχα ἔθυον); (τῇ δὲ πρώτῃ τῶν ἀζύμων); (ἦλθεν δὲ ἡ ἡμέρα τῶν ἀζύμων, ἐν ᾗ ἔδει θύεσθαι τὸ πάσχα, Mc, xiv, 12; Mt,

xxvi, 17; Lc., xxii, 7) Gesù manda i discepoli a preparare la sala per la cena. L’inghippo sta nel fatto che il primo giorno degli azzimi, secondo la tradizione giudaica, coincide o con la stessa pasqua o con il giorno ad essa successivo. Se, nell’ipotesi più favorevole, si fa coincidere «il primo giorno degli azzimi» con il venerdì 14, a partire dal crepuscolo della sera, quando i discepoli poterono preparare la sala? Potrebbero averlo fatto il giorno precedente, ma esso non era «il primo giorno degli azzimi». Tale inghippo fa forse sospettare che i sinottici usassero il termine ‘giorno’ non nel senso giudaico di passaggio tra due crepuscoli successivi, ma secondo l’uso greco-latino. Di conseguenza la preparazione della sala sarebbe avvenuta nelle ore di luce di giovedì 13. Infatti Marco colloca la cena dopo il crepuscolo, poiché scrive «venuta la sera, egli [Gesù] arrivò con i Dodici» (καὶ ὀψίας γενομένης ἔρχεται μετὰ τῶν δώδεκα, Mc, xiv, 17). Lo stesso fa Matteo (ὀψίας δὲ γενομένης ἀνέκειτο μετὰ τῶν δώδεκα, Mt, xxvi, 20). Luca (xxii, 14) evita i dettagli cronologici puntuali e, tenendosi sul generico, scrive che la cena si consumò «quando fu l’ora» (καὶ ὅτε ἐγένετο ἡ ὥρα). Monsieur de Lapalisse non avrebbe saputo far meglio! In ogni caso l’equivoco marciano passa indisturbato negli altri due sinottici, con la conseguenza ulteriore che nello spazio di poco meno di un giorno si produsse un sorprendente e incredibile accavallarsi degli avvenimenti dalla cena pasquale alla morte di Gesù alle tre del pomeriggio successivo; in così ristretto arco di tempo si espletarono, contro ogni logica ed ogni ordinamento giudiziario, l’ultima cena, il ritiro nel Getsemani, i due processi, uno religioso, davanti al sommo sacerdote (Caifa per Matteo e Hanna e Caifa per Luca e Giovanni) e uno politico (davanti a Pilato) nelle prime ore del ‘mattino’,(106) l’esecuzione della sentenza che portò alla morte dell’imputa(106)  Mc, xv, 1:καὶ εὐθὺς πρωῒ «subito al mattino»; Mt, xxvii, 1: πρωΐας δὲ γενομένης

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to, il recupero della salma da parte di Giuseppe di Arimatea e, infine, la sua sepoltura provvisoria. 3.9.  Le incongruenze tra i sinottici: a) la datazione della sepoltura Riguardo alla sepoltura del Cristo(107) la cronologia si inceppa nuovamente: il passo da interpretare è il versetto marciano xv, 42: «venuta la sera, poiché era la parasceve, cioè la vigilia del sabato» (καὶ ἤδη ὀψίας γενομένης, ἐπεὶ ἦν παρασκευή, ὅ ἐστιν προσάββατον), Giuseppe d’Arimatea, oscuro personaggio proveniente da una città non identificata, si recò da Pilato per chiedere il corpo di Cristo. Così è anche per Matteo che scrive: ὀψίας δὲ γενομένης «fattasi sera» (Mt, xxvii, 45). Luca, ben consapevole della contraddizione cronologica introdotta dai due sinottici, evita opportunamente di fare riferimento alla sera (Lc, xxiii, 50-53), ma si tradisce ugualmente, poiché, ricordando la sepoltura del Cristo, ci dice che le donne prepararono gli aromi per la sepoltura, ma dovettero sospendere i lavori perché la notte del venerdì era sul punto di passare e già spuntavano le prime luci del sabato: «Era il giorno della parasceve e già si illuminava il sabato» (καὶ ἡμέρα ἦν παρασκευῆς, καὶ σάββατον ἐπέφωσκεν). Questa puntualizzazione conferma che l’evangelista ha in mente la giornata del calendario solare e non quella ebraica (Lc, xxiii, 54).(108) E questo equivoco rende insanabil«giunta l’alba»; Lc, xxii, 66: καὶ ὡς ἐγένετο ἡμέρα «quando si fece giorno». Qui si deve intendere il mattino ebraico di venerdì 14. Alle 9 del mattino Gesù viene crocifisso (Mc, xv, 25: ἦν δὲ ὥρα τρίτη καὶ ἐσταύρωσαν αὐτόν «era l’ora terza quando lo crocifissero»); a mezzogiorno si fa buio su tutta la terra (Mc, xv, 33: καὶ γενομένης ὥρας ἕκτης σκότος ἐγένετο ἐφ᾽ ὅλην τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης «giunta la sesta ora si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona»; cfr. Mt, xxvii, 45: ἀπὸ δὲ ἕκτης ὥρας σκότος ἐγένετο ἐπὶ πᾶσαν τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης; Lc, xxiii, 44: καὶ ἦν ἤδη ὡσεὶ ὥρα ἕκτη καὶ σκότος ἐγένετο ἐφ᾽ ὅλην τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης); alle tre del pomeriggio il Cristo esalò l’ultimo respiro (Mc, xv, 34: καὶ τῇ ἐνάτῃ ὥρᾳ ἐβόησεν ὁ ἰησοῦς «all’ora nona Gesù gridò»). (107)  Mc, xv, 47 - xvi, 1-8; Mt, xxvii, 57-61; xxviii, 1-7; Lc, xxiii, 50-56; xxiv, 1-7; Gv, xix, 38-42; xx, 1-2. (108)  La medesima concezione della giornata è confermata in altre pericopi: Mc, xvi, 2: «il mattino presto, il primo giorno della settimana» (καὶ λίαν πρωῒ τῇ μιᾷ τῶν σαββάτων); Mt,xxviii, 1: trascorso il sabato, allo spuntare del primo giorno della settimana» (Ὀψὲ δὲ σαββάτων, τῇ ἐπιφωσκούσῃ εἰς μίαν σαββάτων); Lc,xxiv, 1; «il primo giorno della settimana, di mattino presto» (τῇ δὲ μιᾷ τῶν σαββάτων ὄρθρου βαθέως). Non diversa la posizione di Giovanni: «il primo giorno dopo il sabato, prestissimo» (xx, 1) che si conclude con la sera:

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mente contraddittorio tutto il racconto, poiché è evidente che, se la sera e la notte di cui parlano Marco e Matteo è quella della parasceve, ovvero del venerdì 14, se ne deve dedurre che la morte di Cristo non può essere avvenuta alle tre pomeridiane del venerdì ebraico, che era ovviamente successivo alla sera, ma dovrebbe essersi verificata alle tre del giovedì ebraico precedente. Sfortunatamente però tale giovedì non coincide con la parasceve. Siamo chiusi in una sorta di vicolo cieco, da cui non riusciamo ad uscirne. Se diciamo che la cena fu consumata nel giorno della parasceve, cioè la sera del venerdì 14, dobbiamo dedurre che la morte del Cristo cadde alle tre del pomeriggio di quello stesso venerdì ebraico, ma in questa ipotesi la sepoltura non può essere avvenuta durante la notte successiva e poco prima delle prime luci del sabato, perché quella notte era già parte del sabato ebraico e comportava la sospensione di ogni attività lavorativa. Se poi intendiamo che Giuseppe provvide alla sepoltura prima che calasse la sera del sabato, allora il termine ‘sera’ (ὀψία) diventa inappropriato. Insomma non c’è modo di uscire dall’impasse. Matteo (xxvii, 68) complica ulteriormente la cronologia, poiché aggiunge con una tortuosa espressione che «il giorno dopo, cioè quello dopo la parasceve» (τῇ δὲ ἐπαύριον, ἥτις ἐστὶν μετὰ τὴν παρασκευήν), ovvero il sabato, i sacerdoti e i farisei chiesero a Pilato di custodire la tomba del Cristo per impedire che i discepoli trafugassero la salma e mettessero in circolazione la diceria relativa alla resurrezione del Cristo. Che è una curiosa anticipazione della risposta alle tardive insinuazioni, avanzate in particolare nel secondo secolo, circa la falsità della resurrezione. In ogni caso anche qui siamo di fronte ad un enigma: di quale sera stiamo parlando? Non della sera della parasceve ma di quella del sabato successivo. Il che, se da un lato confermerebbe che Giuseppe di Arimatea chiese il corpo di Cristo la sera di venerdì, non si capisce perché il controllo sulla salma fu differito di un giorno! In realtà la puntualizzazione cronologica di Matteo costituisce un’altra spia che ci fa dire che nei sinottici i giorni sono computati secondo il costume greco-latino. E ne è un conferma il fatto che le donne si recano al sepolcro alle pri«la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato» (xx, 19: Οὔσης οὖν ὀψίας τῇ ἡμέρᾳ ἐκείν ῃ τῇ μιᾷ σαββάτων). Analoga concezione in Mc, iv, 35: «in quello stesso giorno, fattosi sera» (ἐν ἐκείνῃ τῇ ἡμέρᾳ ὀψίας γενομένης). Un più evidente ricorso allo stile latino è presente in Mc, vi, 48: «intorno alla quarta vigilia della notte» (περὶ τετάρτην φυλακὴν τῆς νυκτὸς); Mt, xiv, 25: «alla quarta vigilia della notte» (τετάρτῃ δὲ φυλακῇ τῆς νυκτὸς); Mt, xxiv, 43: «in quale vigilia [della notte]» (ποίᾳ φυλακῇ); Lc, xii, 38: «nella terza vigilia [della notte]» (ἐν τῇ τρίτῃ φυλακῇ). Con lo stile latino risultano anche indicate le ore.

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me luci della domenica. In alternativa dovremmo sospettare che i loro autori abbiano usato in due diverse accezioni il termine ‘parasceve’, intendendolo ora come preparazione della pasqua, ora come vigilia del sabato. Nel primo caso la parasceve coinciderebbe con il giovedì 13 e nel secondo con il venerdì 14. Tale equivoco sul concetto di parasceve è forse più evidente nel quarto vangelo. Comunque stiano le cose, dobbiamo trarre la conclusione che gli autori dei sinottici hanno definitivamente perso i legami più profondi con la tradizione ebraica o in alternativa che i loro testi siano stati elaborati molto più tardivamente rispetto ai presunti tempi apostolici. Le loro incongruenze, non solo rendono inesplicabile la cronologia della passione, ma ci confermano altresì che la letteratura evangelica non è di origine palestinese. Sicché è una vera impresa di Sisifo quella di far quadrare i loro dati cronologici. La lascio volentieri agli equilibristi di tutte le tempre. V’è da chiedersi se la tempistica della passione si conservi nel vangelo di Giovanni, prescindendo dal suo complesso impianto dottrinale di stampo gnostico. Il primo elemento che sorprende è la mancanza della cena pasquale. Giovanni (xiii, 2) allude ad una cena del corso della quale (καὶ δείπνου γινομένου) il diavolo aveva già deciso in cuor suo che Giuda di Simone Iscariota sarebbe stato il traditore. Ma quella cena si consumò «prima della festa di pasqua» (πρὸ δὲ τῆς ἑορτῆς τοῦ πάσχα), quando Gesù era ormai consapevole che era giunta la sua ora; quindi non fu una cena pasquale. La narrazione della passione riprende in Giovanni a distanza di ben cinque capitoli, con scarsissime indicazioni temporali. Attingendo dai sinottici, l’autore afferma che «era mattina» (ἦν δὲ πρωΐ), quando il processo fu trasferito da Caifa a Pilato e che la crocifissione ebbe luogo «il giorno della preparazione della pasqua, intorno all’ora sesta» (ἦν δὲ παρασκευὴ τοῦ πάσχα, ὥρα ἦν ὡς ἕκτη, Gv, xviii, 28; xix, 14). Se dunque si trattò non della parasceve, vigilia del sabato, ma della parasceve, vigilia della pasqua, per Giovanni la crocifissione cadde il giovedì 13. Più avanti però, a distanza di qualche versetto, la parasceve è di nuovo intesa come vigilia del sabato, poiché Giovanni scrive: «Era il giorno della parasceve. I giudei dunque affinché i cadaveri non rimangano sulla croce in quel sabato [intendi il giorno dopo la parasceve], quel sabato era infatti un giorno solenne, chiedono a Pilato di spezzare loro le gambe e di portarli via» (οἱ οὗν ἰουδαῖοι, ἐπεὶ παρασκευὴ ἦν, ἵνα μὴ μείνῃ ἐπὶ τοῦ σταυροῦ τὰ σώματα ἐν τῶ σαββάτῳ, ἦν γὰρ μεγάλη ἡ ἡμέρα ἐκείνου τοῦ σαββάτου, ἠρώτησαν τὸν πιλᾶτον ἵνα κατεαγῶσιν αὐτῶν τὰ σκέλη καὶ ἀρθῶσιν, Gv, xix,

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31). Qui siamo di nuovo di fronte ad un inghippo insormontabile, perché la parasceve o è un pre-sabato, cioè un venerdì, o un pre-pasqua, cioè un giovedì: ma se quel pre-pasqua è poi inteso come sabato, allora vuol dire che per Giovanni la pasqua cadeva, secondo il costume cattolico, la domenica successiva. In tal caso una tradizione simile non può risalire al primo secolo, ma presuppone il consolidamento della prassi liturgica propria del cristianesimo più maturo del secondo secolo. La confusione si ripete più avanti, ove Giovanni (xxix, 42) accenna alla frettolosa sepoltura del Cristo a causa «del giorno della parasceve dei giudei» ἐκεῖ οὗν διὰ τὴν παρασκευὴν τῶν ἰουδαίων. L’affermazione presuppone, come nel precedente versetto xix, 31, una presa di distanza dal mondo giudaico. Ma ciò che sorprende è soprattutto il fatto che Giovanni mostra di non aver più un concetto giudaico di parasceve. La sua narrazione è assolutamente inconciliabile con quella dei sinottici. Se ne deduce che la narrazione della passione, oltre ad essere poco credibile per l’affannosa calca degli eventi, è cronologicamente così raffazzonata da non poter essere riferibile a testimoni oculari. L’impresa di conciliare e di coerentizzare le quattro versioni dei vangeli, come hanno tentato di fare Meier, Jeremias e Blinzer, è del tutto vana e non mette capo a risultati di qualche consistenza, per la semplice ragione che ci si ostina ad interpretare in chiave storica un racconto che ha solo una valenza simbolica e teologica.(109) 3.10.  L’ultima cena Per Matteo è Gesù che preannuncia che «tra due giorni è la pasqua e il figlio dell’Uomo sarà tradito e crocifisso». Nello scenario marciano il primo atto è l’unzione del Cristo a Betania in casa di Simone il lebbroso.(110) (109)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., pp. 377-291; J. Jeremias, Eucharistic Words of Jesus, London, SCM, 1966, pp. 15-84; J. Blinzer, Der Prozess Jesu, Regensburg, Pustet, 1969, pp. 102-103; cfr. anche R. E. Brown, The Gospel According to John, cit., pp. 787-802. (110)  Lo scenario immaginato dall’autore di Marco è inverosimile (Mc, xiv, 3-9; Mt, xxvi, 6-13). Come ha giustamente osservato S. Capo, Gli Esseni e Gesù, in V. Polidori, Studi sul cristianesimo primitivo (2007-2014), Tricase, Yooucanprint Self Publisher, 2015, p. 5, non è possibile che un lebbroso ospitasse commensali nella propria casa, né è possibile che vivesse nel villaggio di Betania. Infatti a norma del Lv, xiii, 46, i lebbrosi erano costretti a vivere segregati o relegati presso la porta d’ingresso della città (2Re, vii, 3-4). La soluzione proposta da P. Lapide, Bibbia tradotta Bibbia tradita, tr. it. di Romeo Fabbri, Bologna, Dehoniane, 2000, pp. 142-146, secondo cui un copista avrebbe scambia-

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Poiché il Cristo non poteva essere insignito dalle autorità religiose, Marco, seguito da Matteo (Mc, xiv, 3-9; Mt, xxvi, 6-13), si inventa l’unzione da parte di una donna sconosciuta che versa sul capo del Cristo un unguento di puro nardo (non dunque l’olio dell’unzione tradizionale). Su questo episodio la confusione tra i quattro evangelisti è pressoché totale. Per Marco e Matteo Gesù, due giorni prima della pasqua, era a Betania nella casa di Simone il lebbroso, allorché una donna, non altrimenti nota, trae da un vaso d’alabastro di pregevole valore un unguento di puro nardo e lo versa sul capo del Cristo. I presenti sono indignati per lo spreco di un profumo costoso. Gesù la difende ed afferma che la donna sarà ricordata dovunque sarà predicato il vangelo in tutto il mondo. Tutt’altra la versione di Luca. Non c’è alcun riferimento a Betania; la donna è una peccatrice, verosimilmente una prostituta. Simone non è un lebbroso, ma un fariseo che invita a pranzo Gesù. Gli altri ingredienti del racconto sono comuni: la donna porta con sé un vaso di alabastro da cui trae un unguento di purissimo nardo per ungere i piedi del Signore e poi asciugarli con i suoi capelli. Il fariseo pensa tra sé: «se costui fosse un profeta, saprebbe che tipo di donna è quella che lo tocca»; poi Gesù rimprovera Simone per non avere avuto nei suoi confronti le stesse attenzioni della donna; infine scioglie la peccatrice da ogni trasgressione e le dice: «La tua fede ti ha salvato». Per Giovanni lo scenario è analogo a quello di Luca, ma con qualche differenza. Gesù è invitato a cena nella casa di Lazzaro a Betania sei giorni prima della pasqua; la donna è Maria, sorella di Lazzaro, la quale unge i piedi del Signore con una libbra di nardo purissimo e poi li asciuga con i suoi capelli. Giuda Iscariota critica la donna per il consumo di un profumo costosissimo, non perché era preoccupato per i poveri, ma perché, essendo ladro, pensava che avrebbe potuto sottrarre dalla cassa i trecento denari che avrebbe ricavato dalla vendita del nardo. Gesù difende la donna dicendo che aveva riservato il profumo per il giorno della sua sepoltura. L’esegesi cattolica dito la lectio ha-tsanua (‫ = צנוץ‬il pio) con ha-tsarua (‫ = צרוץ‬il lebbroso), è suggestiva, ma si scontra contro il fatto che i testi evangelici non risultano essere traduzioni dall’ebraico al greco. È invece significativo che Zenua è termine impiegato nel Talmud Babilonese con il significato di ‘esseno’. Se il lebbroso ricordato da Marco è identificabile con Simone l’esseno di cui parla Giuseppe (BJ, ii, 111-113; Ant., xvii, 345-348) potremmo stabilire un concreto elemento di raccordo tra l’essenismo e il protocristianesimo. Purtroppo l’esseno flaviano fu attivo, e potremmo aggiungere floruit, tra il 5 e il 6 d.C., nella imminenza della decadenza dell’etnarchia di Archelao. Non resta che ipotizzare un’ennesima derivazione dei testi evangelici dagli scritti flaviani.

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stingue due episodi, l’uno narrato da Luca e Giovanni e l’altro da Marco e Matteo; la donna è identificata o con Maria di Magdala (ma senza alcuna giustificazione)(111) o con Maria di Betania. Per Marco e Luca Cristo manda i discepoli a preparare la sala per la cena. Si tratta di una sala che Gesù ben conosceva, poiché sapeva che essa era allocata al piano superiore di una certa casa e che conteneva divani. Egli infatti invitò i suoi a seguire un uomo con la brocca d’acqua e a farsi indicare la sala dal padrone della casa. Luca aggiunge che i discepoli erano Pietro e Giovanni e che la sala era ornata di tappeti (a che pro tramandare un dettaglio così irrilevante?). È però probabile che tali dettagli ci siano stati trasmessi per farci intendere che Gesù era già stato in precedenza in Gerusalemme. Durante la cena Gesù predice il tradimento di Giuda, indicandolo come colui che «mette con me la mano nel piatto» ὁ ἐμβαπτόμενος μετ᾽ἐμοῦ εἰς τὸ τρύβλιον (versione di Marco e Matteo; Luca preferisce tenersi nel vago). Marco e Matteo condannano il tradimento in termini che ricordano i testi enochici: «Sarebbe meglio per quell’uomo non essere mai nato» (καλὸν αὐτῶ εἰ οὐκ ἐγεννήθη ὁ ἄνθρωπος ἐκεῖνος). Matteo, per conto suo, aggiunge che Giuda chiese a Gesù «Sono forse io, Rabbi?». E Gesù rispose con la solita ambiguità: «Tu l’hai detto». Non mancano tuttavia le varianti: si può dire che il cerimoniale della cena non è del tutto uniforme nei tre sinottici, né corrisponde rigorosamente alla tradizione ebraica. Per Marco Cristo pronuncia la benedizione prima di spezzare il pane; Matteo aggiunge che il Cristo recita la preghiera di ringraziamento prima della consegna delle coppe di vino; Luca inverte l’ordine della cena, fa precedere la consumazione del vino a quella del pane e in entrambi i casi fa recitare al Cristo la preghiera di ringraziamento (εὐχαριστία). I lógia di Cristo si differenziano nelle tre versioni. Per Marco e Matteo, all’atto della consumazione del pane Gesù dice: «questo è il mio corpo» (τοῦτό ἐστιν τὸ σῶμά μου). Luca, invece, istituzionalizza l’eucaristia: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi: fate questo in memoria di me» (il che conferma la posteriorità del terzo vangelo rispetto ai due precedenti). Secondo Marco all’atto dell’assunzione del vino Cristo dice: «Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti» (τοῦτό ἐστιν τὸ αἷμά μου τῆς διαθήκης τὸ ἐκχυννόμενον ὑπὲρ πολλῶν); secondo Matteo: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, sparso per molti per la remissione dei peccati» (τοῦτο γάρ ἐστιν τὸ αἷμά μου τῆς διαθήκης τὸ περὶ πολλῶν ἐκχυννόμενον εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν); per Luca: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio san(111)  Tale è anche il parere di D. Donnini, Il matrimonio di Gesù, cit., pp. 51-57.

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gue, sparso per voi» (τοῦτο τὸ ποτήριον ἡ καινὴ διαθήκη ἐν τῶ αἵματί μου, τὸ ὑπὲρ ὑμῶν ἐκχυννόμενον). Per quanto possa sembrare paradossale nell’atto stesso di istituzione della nuova alleanza sussiste l’ambiguità nei due sintagmi «per molti» ὑπὲρ πολλῶν (che non significa «per tutti» e non ha perciò una portata universalistica) e «per voi» ὑπὲρ ὑμῶν, che può essere indirizzato o solo ai discepoli o solo al mondo ebraico. È evidente che tutta la cerimonia si svolge in difformità rispetto alla tradizione registrata dall’Esodo (xii), per il quale i preparativi della cena cadono il decimo giorno di nisan e consistono nella scelta di un agnello di un anno. I sinottici sostituiscono all’agnello il consumo del pane e del vino, secondo il sacramento dell’eucaristia, già presente negli esseni, nei terapeuti e nella gnosi. Per Giovanni è lo stesso Cristo che diventa l’agnello sacrificale che toglie tutti i peccati del mondo. 3.11.  Il Getsemani Finita la cena, Cristo e i discepoli escono verso il Monte degli Ulivi e giungono ad un podere chiamato Getsemani, che in ebr. significa frantoio. L’espressione «e giungono in un podere» (καὶ ἔρχονται εἰς χωρίον, Mc, xiv, 32) sembra indicare una continuità cronologica; siamo ancora nella notte tra il 14 e il 15 nisan. Cristo si isola con Pietro, Giacomo Maggiore e Giovanni (Marco e Matteo) o si allontana da tutti i discepoli (Luca). L’angoscia nel Getsemani(112) è il momento della sofferenza del Cristo-uomo («Lo spirito è pronto, ma la carne è debole», omesso da Luca). Il tema dell’angoscia del Messia era già frequente nei Salmi davidici. Le versioni di Marco e di Matteo sono abbastanza fedeli l’una all’altra. Cristo cominciò ad essere sopraffatto dalla paura e dall’angoscia per Marco (ἤρξατο ἐκθαμβεῖσθαι καὶ ἀδημονεῖν), dalla tristezza e dall’angoscia per Matteo (ἤρξατο λυπεῖσθαι καὶ ἀδημονεῖν). Luca non menziona il Getsemani, ma solo il Monte degli Ulivi; in compenso arricchisce il racconto con il conforto dell’angelo ed accentua lo stato di paura del Cristo, affermando che, entrato in agonia, sudò gocce di sangue che cadevano a terra (καὶ γενόμενος ἐν ἀγωνίᾳ ἐκτενέστερον προσηύχετο· καὶ ἐγένετο ὁ ἱδρὼς αὐτοῦ ὡσεὶ θρόμβοι αἵματος καταβαίνοντος ἐπὶ τὴν γῆν). Per Marco e Matteo Gesù durante la preghiera

trova i discepoli addormentati per tre volte, per Luca si erano addormen(112)  Mc, xiv, 32-42; Mt, xxvi, 36-46; Lc, xxii, 40-46.

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tati una sola volta. Ma se i discepoli dormivano, come fa il narratore a conoscere i pensieri e l’angoscia del Cristo? La condizione umana del Cristo è accentuata nell’implorazione al Padre con la richiesta di far passare quell’ora e di allontanare da lui «il calice» (ποτήριον). Il termine ‘calice’, pur essendo ampiamente presente nel salterio davidico, sembra essere una reminiscenza socratica. Ma Socrate è figura più eroica, perché non mostra segni di fragilità e di paura davanti alla morte. È inutile sottolineare che sotto un profilo filosofico quella implorazione non solo è del tutto vana, se è vero che gli eventi sono già da sempre sottoposti al volere divino, ma è anche teologicamente inopportuna, perché le volontà del padre e del figlio, se si identificano in un’unica persona, non possono essere divergenti, come fa pensare la pericope «ma non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (ἀλλ᾽οὐ τί ἐγὼ θέλω ἀλλὰ τί σύ) o, come recita Luca, «sia fatta la tua volontà non la mia» (πλὴν μὴ τὸ θέλημά μου ἀλλὰ τὸ σὸν γινέσθω). 3.12.  L’arresto e i processi Tra l’episodio del Getsemani e l’arresto di Gesù(113) non c’è frattura temporale, come suggerisce chiaramente il «subito» (καὶ εὐθὺς) del versetto marciano (xiv, 43). Il che significa che siamo ancora nella notte della parasceve. Secondo Marco (xiv, 43-49) e Matteo (xxvi, 47) l’arresto fu eseguito secondo la volontà dei sommi sacerdoti, [degli scribi] e degli anziani i quali si accompagnarono ad uno dei Dodici (Giuda) e a «molta gente armata con spade e bastoni». Luca (xxii, 52-54) aggiunge le guardie del tempio ed esclude la folla, ritenendo forse poco verosimile il racconto marciano. Giovanni (xviii, 3-4) costruisce uno scenario diverso e ci dice che l’arresto fu opera dei romani e dei sacerdoti che operarono di comune accordo, come se la sentenza di condanna fosse prestabilita. Infatti il quarto vangelo afferma che Giuda si mise alla testa di una coorte; (τὴν σπεῖραν), cioè un manipolo di 600 romani, e di guardie dei sacerdoti e dei farisei (καὶ ἐκ τῶν ἀρχιερέων καὶ ἐκ τῶν φαρισαίων ὑπηρέτας). Queste rappresentazioni manifestamente esagerate ci fanno capire che tutti e quattro gli evangelisti hanno trasferito all’arresto di Gesù i ricordi di vicende ben più drammatiche relative ad insurrezioni più violente come quelle della dinastia galilea di Giuda o di altre rivolte giudaiche. (113)  Mc, xiv, 42-50; Mt, xxvi, 47-56; Lc, xxii, 47-53; Gv, xviii, 2-11.

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Prima dell’arresto Luca (xxii, 35-38) aggiunge di suo spunti sull’uso delle armi e sull’invito ai discepoli ad armarsi: «Chi non ha una spada, venda pure il mantello, ma se la compri». Il passo è proprio di Luca e non ha riscontri né in Marco né in Matteo; ma il tema del confronto armato ricorre in altre pericopi dei sinottici. Secondo Marco è Giuda che si presenta circondato da una folla armata di spade e di bastoni. Gesù protesta: «Siete venuti a prendermi […] come contro un brigante» (ὡς ἐπὶ λῃστὴν ἐξήλθατε μετὰ μαχαιρῶν καὶ ξύλων συλλαβεῖν με) e – aggiunge – «affinché si compissero le scritture» ἀλλ᾽ ἵνα πληρωθῶσιν αἱ γραφαί, Mc, xiv, 48-49). La versione di Matteo è significativamente diversa: è «uno di quelli che erano con Gesù» (καὶ ἰδοὺ εἷς τῶν μετὰ ἰησοῦ) che sfodera la pada e stacca l’orecchio al servo del sommo sacerdote. Qui le discrepanze si estendono ai lógia di Cristo, il quale rimprovera il discepolo: ἀπόστρεψον τὴν μάχαιράν σου εἰς τὸν τόπον αὐτῆς, πάντες γὰρ οἱ λαβόντες μάχαιραν ἐν μαχαίρῃ ἀπολοῦνται. ἢ δοκεῖς ὅτι οὐ δύναμαι παρακαλέσαι τὸν πατέρα μου, καὶ παραστήσει μοι ἄρτι πλείω δώδεκα λεγιῶνας ἀγγέλων; πῶς οὗν πληρωθῶσιν αἱ γραφαὶ;

Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che usano la spada di spada periscono. Oppure pensi che non possa ricorrere al Padre mio, che mi manderebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si adempirebbero le scritture? (Mt, xxvi, 51-54).

Luca (xxii, 48, 51, 53) attinge da entrambi; non fa alcun riferimento alle scritture; presenta in armi tanto i discepoli del Cristo quanto gli ufficiali preposti all’arresto; i discepoli gli chiedono se debbono ricorrere alle armi ed uno di loro, come in Matteo, stacca con la spada l’orecchio al servo del sommo sacerdote; Gesù li invita a lasciar perdere (ἐᾶτε ἕως τούτου) e nel contempo guarisce con un tocco l’orecchio del servo. Ma è armata anche la cricca che si accompagna a Giuda e Luca (xxii, 53), sulla scorta di Marco, fa dire a Cristo: «Siete usciti con spade e con bastoni come per arrestare un brigante» (ὡς ἐπὶ λῃστὴν ἐξήλθατε μετὰ μαχαιρῶν καὶ ξύλων); poi di suo aggiunge per bocca di Cristo «Ora le tenebre possono scatenare tutto il loro potere» (ἡ ὥρα καὶ ἡ ἐξουσία τοῦ σκότους). Tra l’arresto e il processo davanti al sommo sacerdote non c’è cesura temporale.(114) Marco tace sul nome del sommo sacerdote, Matteo ci fa sapere che era Caifa; Luca, seguito da Giovanni, affianca a Caifa Hanna. Marco e (114)  Mc, xiv, 53-65; Mt, xxvi, 57-68; Lc, xxii, 54, 63-71.

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Matteo ritengono che il processo si sia svolto nell’atrio del palazzo del sommo sacerdote (εἰς τὴν αὐλὴν τοῦ ἀρχιερέως); Luca dice che Gesù fu condotto nella casa del sommo sacerdote (εἰς τὴν οἰκίαν τοῦ ἀρχιερέως).(115) Le versioni di Marco e Matteo sullo svolgimento del processo sono sostanzialmente concordi. Vengono interrogati i falsi testimoni intorno alla presunta minaccia di distruggere e ricostruire il tempio nell’arco di tre giorni, ma si trova che le loro testimonianze erano contraddittorie (καὶ ἴσαι αἱ μαρτυρίαι οὐκ ἦσαν; καὶ οὐδὲ οὕτως ἴση ἦν ἡ μαρτυρία αὐτῶν, Mc, xiv, 56; xiv, 59). La situazione precipita allorché Caifa chiede a Gesù se è lui il Cristo e Gesù risponde «Sì sono io!» (ἐγώ εἰμι). Che è quanto dire che si dichiara reo confesso ed è subito oggetto di maltrattamenti con una intollerabile ironia sulle sue capacità profetiche. A parte le solite varianti dei lógia del Cristo, in Luca (xxii, 68-69) mancano le false accuse sulla distruzione del tempio. Tuttavia non ci vuol molto per capire che tutto il processo davanti ai sacerdoti e agli anziani è manifestamente fantasioso.(116) In primo luogo, come sappiamo dalla Mishnah,(117) i procedimenti giudiziari avevano luogo nel sinedrio e non nel palazzo del sommo sacerdote; in secondo luogo le sedute erano vietate nei giorni festivi e nei rispettivi giorni di preparazione; inoltre era prevista, in caso di condanne capitali, un’attenta discussione sulle opinioni dei componenti il collegio e solo in una seconda fase si procedeva alla votazione. In terzo luogo è improbabile che una sentenza capitale fosse pronunciata nel corso di una seduta notturna.(118) In quarto luogo il capo d’imputazione, che verteva intorno alla natura divina del Cristo, per essere inconsueto e fuori del comune, non era suscettibile né di una valutazione positiva, né di una negativa. La domanda del sommo sacerdote è inverosimile: come poteva egli chiedere «Sei tu il Cristo?». Se il senso della domanda (115)  Ma si tratta di una versione inaffidabile, perché il consiglio si teneva nel Palazzo del sinedrio che, come ci fa sapere Giuseppe Flavio, BJ, v, 144, sorgeva in prossimità della torre Ippico e del portico occidentale del tempio. (116)  Sulla inattendibilità del processo secondo la legge giudaica è opporutno consultare W. Fricke, Il caso Gesù: il più controverso processo della storia, Milano, Rusconi, 1989. (117)  Betza,v, 2; Sanhedrin, iv, 1. Si è obiettato che il trattato midrashico risale al 200 d.C. e che non sappiamo se i procedimenti giudiziari avessero lo stesso andamento all’epoca di Cristo. La risposta è che esso ci dà le informazioni più antiche che possiamo avere in ordine al diritto ebraico e queste sono certamente più affidabili di quelle inventate ad hoc per salvare una verità pregiudizialmente fissata. Né ha senso sostenere con David Flusser, Jesus, Morcelliana, 1997, che non si trattò di un vero e proprio processo ma di una decisione di rinviare al potere giudiziario romano la questione. (118) Cfr. Sanhedrin, iv, 1.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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era quello che avrebbe avuto per qualunque ebreo, cioè «Sei tu il re?», come poteva egli non sapere che Gesù non era il re? Se invece la domanda verteva sull’unto in senso sacerdotale, come poteva ignorare che Gesù non era un sacerdote, nel senso della tradizione ebraica? E se intendeva il Cristo come figlio di Dio, come poteva un sommo sacerdote sadduceo anche solo sospettare che qualcuno potesse essere figlio di Dio? La domanda presupponeva evidentemente la fede e la dottrina cristiane, presupponeva cioè un patrimonio ideologico che certamente il sommo sacerdote non aveva; è qui l’inghippo fondamentale di questo controverso processo. Nella stessa notte, concluso il processo religioso, l’imputato, secondo la versione marciana e matteana, viene condotto davanti a Pilato di primo mattino,(119) cioè all’alba del 15 nisan che per il calendario ebraico era ancora venerdì 14, giorno della parasceve. Luca più prudentemente preferisce non dare indicazioni temporali. Il processo civile secondo Matteo (xxvii, 19) si svolge nel tribunale (ἐπὶ τοῦ βήματος); Marco e Luca non danno indicazioni di luogo.(120) Senza darci alcuna spiegazione i tre sinottici ci prospettano un sostanziale mutamento del capo d’imputazione. Non si tratta più dell’investitura divina del Cristo e quindi di blasfemia, ma della sua regalità terrena. Ciò significa che non c’è continuità tra i due processi o, se c’è, si limita all’equivoco significato di «unto» (= Cristo), che il sommo sacerdote interpreta in chiave soprannaturale e il potere romano in chiave terrena. Mutatis mutandis la scena è analoga a quella del processo religioso. Cristo tace di fronte alle accuse e, alla domanda «Sei tu il re dei Giudei?», risponde con la solita astuzia: «Tu lo dici» (σὺ λέγεις) che può essere ambiguamente interpretata come assenso o come dissenso. Ma anche qui si pone l’interrogativo: come poteva Pilato fare una domanda così balorda? Come poteva non sapere che Cristo non era il re dei giudei, lui che era il prefetto romano? Ma ciò che sorprende è che il processo davanti a Pilato non ha nulla di ineccepibile sul piano giuridico. Se Pilato non aveva nelle mani alcuna prova di colpevolezza, avrebbe dovuto lasciare in liberà il prigioniero; invece non pronunciò nessuna sentenza, ma fu solo «meravigliato» (ὥστε θαυμάζειν τὸν πιλᾶτον) per il comportamento del Cristo. (119)  Mc, xv, 1. Lo slittamento del processo dal sinedrio al governatore romano sembra essere ispirato al Bellum Judaicum di Giuseppe, vi, 300-309, in cui si narra di un tal Gesù ben Anano, rozzo contadino che, fin dalle prime avvisaglie della guerra giudaica, avrebbe profetizzato la distruzione del tempio; gli anziani della città lo fecero arrestare e flagellare. Ma, non avendo ottenuto alcun risultato, lo deferirono al governatore romano Lucceio Albino (62-64), che, ritenendolo folle, lo lasciò libero. (120)  Mc, xv, 1-19; Mt, xxvii, 1-2, 11-23, 27-31; Lc, xxiii, 1-5, 18-25.

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Luca si rende conto che la narrazione marciana e matteana è vacillante e, nel tentativo di rettificarla, peggiora le cose; introduce nella procedura giuridica romana, posto che fosse tale, l’intervento dei sommi sacerdoti e, avuta da essi notizia che l’imputato era un galileo, lo fa deferire all’autorità di Erode Antipa. Siamo così di fronte ad un terzo inverosimile processo, in cui il tetrarca, all’inizio è preso da straordinaria ammirazione per il Cristo e alla fine lo ridicolizza e lo riconsegna nelle mani di Pilato. Tutta la narrazione dei due o tre processi non regge non solo sotto il profilo giuridico, ma neppure sotto quello logico e temporale. La stessa personalità di Pilato ci è rappresentata in modo assai difforme rispetto a quella che ce ne dà Giuseppe Flavio. Ma, a prescindere da ciò, se non aveva accertato la responsabilità dell’imputato, come poté Pilato affidarlo al giudizio popolare? Marco ha la geniale idea di inventarsi uno stratagemma: Pilato – egli dice – in occasione del giorno di festa rimetteva in libertà il prigioniero che fosse stato richiesto (κατὰ δὲ ἑορτὴν ἀπέλυεν αὐτοῖς ἕνα δέσμιον ὃν παρῃτοῦντο).(121) Non spiega però perché tale liberazione doveva avvenire sulla base di un giudizio popolare. Matteo (xxvii, 15) cerca di rimediare dicendo che il governatore era solito rilasciare il prigioniero «che una folla, una moltitudine voleva» (κατὰ δὲ ἑορτὴν εἰώθει ὁ ἡγεμὼν ἀπολύειν ἕνα τῶ ὄχλῳ δέσμιον ὃν ἤθελον). Luca rettifica («Egli doveva rilasciare uno di loro nel giorno di festa») inventandosi un obbligo non previsto da alcuna legge. Marco si inventa la figura di Barabba (ebr. = figlio del padre), cioè di un personaggio manifestamente fittizio che è la controfigura in chiave ironica dello stesso Cristo, che era appunto il figlio del Padre. Nella versione sinaitica del vangelo di Matteo egli è indicato con il Jesous Barabbas, Gesù, figlio del Padre. Per Marco e Luca era stato imprigionato con alcuni riottosi per aver commesso un omicidio (φόνον) nel corso di una rivolta (ἐντῇστάσει). Per Matteo era un prigioniero famoso (δέσμιον ἐπίσημον); per Giovanni era un brigante (λῃστής). La folla, aizzata dai sacerdoti, chiede la crocifissione di Cristo. Nella narrazione matteana troviamo gli episodi del suicidio di Giuda (che risponde al bisogno dei fedeli di sapere che fine avesse fatto il traditore), del sogno della moglie di Pilato (com’è possibile che l’evangelista abbia conoscenza di un’esperienza privata di una persona peraltro per lui irraggiungibile?) e del lavaggio delle mani, che equivale anche a scaricare tutta la responsabilità sulle spalle dei giudei («il suo sangue ricada su di noi e sui nostri (121)  Mc, xv, 6. Tale presunta consuetudine, che i sinottici attribuiscono a Pilato, dandocene un’immagine piuttosto edulcorata, non è menzionata da Giuseppe Flavio.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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figli» (τὸ αἷμα αὐτοῦ ἐφ᾽ἡμᾶς καὶ ἐπὶ τὰ τέκνα ἡμῶν), una agghiacciante dichiarazione che ha significato secoli di persecuzioni contro il popolo ebraico. Secondo Marco e Matteo, dopo la sentenza popolare, Gesù viene condotto nel cortile del Pretorio. Qui viene schernito dai soldati romani, i quali lo vestono di porpora, gli mettono sul capo una corona di spine e, secondo Matteo, gli mettono nella mano destra una canna (metafora dello scettro). Del tutto diverso il racconto lucano: Cristo è accusato di essere un sobillatore politico (incitava a non pagare le tasse) e un sobillatore religioso (creava disordini con i suoi insegnamenti); nessun accenno invece alla derisione da parte dei soldati. È evidente che gli autori dei tre sinottici, i quali scrivono quando il potere romano sulla Palestina è ormai consolidato, evitano di far ricadere la responsabilità della crocifissione sui romani e preferiscono ricorrere ad un processo sommario davanti al popolo, quasi ad invocare una responsabilità collettiva del popolo ebraico. Ma la procedura narrata è storicamente insostenibile. Nella prima metà del primo secolo la Giudea era una prefettura della provincia romana di Siria e il sinedrio non aveva più poteri giudiziari. Il governatore romano, in quanto Procurator Augusti, esercitava i pieni poteri giudiziari cum iure gladii. Anche posto che abbia avuto luogo un processo davanti al Sinedrio, non è possibile che esso sia stato celebrato in occasione di una festa così solenne come la Pesach, che rievocava l’uscita dall’Egitto. In tali occasioni il sinedrio non solo non celebrava processi, ma non procedeva neppure all’esecuzione di condanne capitali. Si direbbe che i sinottici abbiano un’idea piuttosto vaga del Sinedrio, come organo giudiziario, e del suo funzionamento. Esso fu pienamente attivo durante il periodo asmoneo fino a tutto il regno di Erode e a suo figlio Archelao. Allorché la Giudea passò sotto il governatorato romano i suoi poteri furono notevolmente ridotti e subirono forti limitazioni nella pronuncia di sentenze capitali che peraltro consistevano nella decapitazione, nella lapidazione, nel soffocamento per mezzo di pece ardente, nell’impiccagione e non nella crocifissione.(122) Gli evangelisti sembrano non avere una cognizione puntuale neppure sulla collocazione del Sinedrio, che si trovava nella struttura esterna del Tempio, nell’Aula delle Pietre Squadrate. Marco e Matteo usano il termine ‘sinedrio’ tre volte,(123) ma in senso generico oppure specificando con qualche incertezza che esso comprendeva «tutti i capi dei sacerdoti, degli anziani e degli scribi» «tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani, gli scribi e tutto il (122)  Cfr. in proposito Dt, xxi, 22-23; Est, vii, 9. (123)  Mc, xiii, 9; xiv, 55; xv, 1; Mt, v, 22; x, 17; xxvi, 59.

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sinedrio» (Mc, xv, 1); Matteo: «i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio»). È significativo che per i primi due sinottici il processo si svolge nel palazzo del sommo sacerdote (per Matteo nel palazzo di Caifa); ciò potrebbe significare che l’Aula delle Pietre Squadrate era stata abbattuta durante la distruzione del tempio (70). Luca, che si rende conto della discrasia, evita di indicare il luogo specifico della riunione. Altrettanto ingiustificato appare il processo civile, poiché la procedura descritta non è in nulla conforme alle rigorose prescrizioni della lex Julia iudiciorum publicorum, varata da Augusto; essa esigeva un puntuale atto di accusa rilevabile dal libellus inscriptionis; senza dire che ciò comportava tempi certamente più lunghi delle poche ore entro cui i sinottici vogliono chiudere i due o tre o addirittura quattro processi (se consideriamo anche il giudizio popolare). Ma soprattutto è paradossale che la sentenza capitale sia di tipo romano (la crocifissione) e che il processo davanti al governatore si sia concluso con un nulla di fatto. Non è neppure pensabile che Pilato abbia potuto sottoporre ad un giudizio sommario un imputato che non era risultato manifestamente colpevole. È una cosa che va contro tutto il diritto romano. Discordi sono anche le versioni sul rinnegamento di Pietro.(124) Secondo Marco Pietro rinnega tre volte Cristo: «questa notte prima che il gallo canti due volte mi rinnegherai tre volte»; Matteo e Luca dicono semplicemente «prima che il gallo canti». Durante il processo religioso Pietro si nasconde tra i servi del sacerdote; secondo Marco lo fa per riscaldarsi davanti ad un improbabile fuoco (καὶ θερμαινόμενος πρὸς τὸ φῶς); per Matteo lo fa «per vedere come andava a finire» (ἰδεῖν τὸ τέλος). Luca omette l’episodio perché evidentemente non lo convince. Inoltre per Marco e Matteo il rinnegamento di Pietro cade tra i due processi; Luca invece lo anticipa e lo fa cadere subito dopo l’arresto. Il loro racconto è diversificato: per Marco Pietro è riconosciuto due volte dalla stessa serva (μία τῶν παιδισκῶν; ἡ παιδίσκη); per Matteo le serve che lo riconoscono sono due (μία παιδίσκη; ἄλλη)(125) e il gallo canta per la prima volta; la terza volta Pietro è riconosciuto dai presenti e il gallo canta per la seconda volta (per Matteo il gallo canta una sola volta). Luca invece vuole che Pietro sia riconosciuto da «una serva» (παιδίσκη τις), da «un altro» (ἕτερος) e da «un altro ancora» (ἄλλος τις). Qui il terzo sinottico usa l’episodio del rinnegamento come un tassello che si può comodamente spostare nell’economia generale del racconto. Ciò significa che egli (124)  Mc, xiv, 30-31, 66-72; Mt, xxvi, 31-35, 69-75; Lc, xxii, 17, 25-27, 31-34. (125)  Mc, xiv, 66, 69; Mt, xxvi, 69, 71.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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non utilizza fonti per noi perdute; le sue aggiunte, le sue omissioni e gli slittamenti degli episodi sono tutti prodotti sulla base del canovaccio marciano e degli aggiustamenti matteani. 3.13.  La crocifissione e la morte Giungiamo infine al momento clou della crocifissione e della morte.(126) La versione marciana è la seguente: Gesù percorre la via crucis, cioè la via che conduce al Golgota, luogo della crocifissione. Un tale di nome Simone di Cirene, padre di Alessandro e Rufo, non altrimenti noti, è costretto a portare la croce (ovvero il patibulum); a Cristo offrono da bere vino misto a mirra, ma ne ricevono un rifiuto. È l’ora terza (ἦν δὲ ὥρα Τρίτη corrispondente alle nove del mattino), i soldati si spartiscono le vesti; il titulus del cartello (motivazione della condanna) recita: «il re dei Giudei» (ὁ βασιλεὺς τῶν ἰουδαίων). I presenti lo scherniscono: se hai – dicono – il potere di distruggere e ricostruire il tempio in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce; se hai salvato gli altri, salva te stesso. La versione di Matteo presenta poche varianti: non è indicata l’ora dell’esecuzione; a Gesù offrono vino e fiele, anziché mirra, e infine il titulus recita: «Questi è Gesù, il re dei giudei» (οὖτός ἐστιν ἰησοῦς ὁ βασιλεῦς τῶν ἰουδαίων). Luca ignora la provenienza di Simone e aggiunge la sequela delle donne piangenti, un accenno forse di stampo enochico alle donne sterili e l’esclamazione di Cristo: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno». Infine ricorda che il titulus, scritto in ebraico, greco e latino, recitava: «Costui è il re dei giudei» (ὁ βασιλεὺς τῶν ἰουδαίων οὖτος). Da notare che le ore sono indicate nello stile romano da tutti e tre i sinottici. La morte è preceduta da fenomeni prodigiosi: dall’ora sesta (mezzogiorno) alla nona (le tre di pomeriggio), ora della morte, si fa buio su tutta la terra (καὶ γενομένης ὥρας ἕκτης σκότος ἐγένετο ἐφ᾽ὅλην τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης). Gesù pronuncia le sue ultime parole: «Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato!» (ὁ θεός μου ὁ θεός μου, εἰς τί ἐγκατέλιπές με, tratte dal Salmo xxii). I presenti credono che egli stia chiamando Elia, gli danno da bere con una spugna impregnata di aceto; infine il Cristo emette un forte grido e spira. La morte è accompagnata dal prodigioso squarcio del velo del (126)  Mc, xv, 21-41; Mt, xxvii, 32-56; Lc, xxiii, 26, 33-39, 44-49; Gv, xix, 17-22, 28-30.

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tempio; il centurione si converte (Matteo è più generoso di prodigi e aggiunge che la terra si spezza, le tombe si aprono e i morti risuscitano). Ad osservare da lontano l’esecuzione ci sono le donne; ed è forse un altro dettaglio che ricorda la vicenda di Socrate e delle donne che gli fecero visita prima che bevesse la cicuta. Per Marco le donne presenti sono: Maria di Magdala, Maria, madre di Giacomo Minore e di Ioses, Salome(127) e molte altre: μαρία ἡ μαγδαληνὴ καὶ μαρία ἡ ἰακώβου τοῦ μικροῦ καὶ ἰωσῆτος μήτηρ καὶ σαλώμη. Per Matteo, oltre alle donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea davanti al patibolo v’erano Maria di Magdala, Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo (μαρία ἡ μαγδαληνὴ καὶ μαρία ἡ τοῦ ἰακώβου καὶ ἰωσὴφ μήτηρ καὶ ἡ μήτηρ τῶν υἱῶν ζεβεδαίου, Mt, xxvii, 56). Per Giovanni le donne sono Maria, madre del Cristo, Maria di Cleofa, sorella di sua madre, e Maria Maddalena (Gv, xix, 25). Come si vede, non è ben chiaro quale sia l’identità delle donne. Le versioni di Marco e di Matteo sono ingarbugliate. Luca (xxiii, 49) se ne accorge e, tenendosi sul generico, evita di identificarle ed accenna evasivamente alle donne che seguivano il Cristo dalla Galilea (καὶ γυναῖκες αἱ συνακολουθοῦσαι αὐτῶ ἀπὸ τῆς γαλιλαίας). Marco e Matteo concordano sulla presenza di Maria di Magdala. Più difficile è capire chi fosse l’altra Maria; se è la madre di Giacomo Minore (Marco) o comunque di Giacomo e di Ioses/Giuseppe (Matteo), fratelli del Cristo, è evidentemente la madre di Gesù; per Giovanni si trattava della zia di Gesù. Per Marco è presente anche una non identificabile Salome, nominata solo due volte e solo da Marco in tutto il Nuovo Testamento; per Matteo invece l’altra donna è la madre di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. Com’è facile intuire, le quattro versioni sono inconciliabili. Altrettanto impossibile è coerentizzare le narrazioni sugli ultimi lógia del Cristo: per Marco e per Matteo Gesù gridò in ebraico: Eloi, Eloi, lemà sabactani? (tradotto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»). Per Luca, invece, le ultime parole di Cristo sono: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (πάτερ, εἰς χεῖράς σου παρατίθεμαι τὸ πνεῦμά μου) tratte dal Salmo xxxi); Giovanni vuole che Gesù abbia detto: «È compiuto» (τετέλεσται).(128) (127)  Salome è nota solo a Marco (xv, 40; xvi, 1). Per armonizzare il suo vangelo con quello di Matteo, gli esegeti hanno ipotizzato che Salome sia identificabile con la madre dei figli di Zebedeo (Cfr. D. Donnini, Il matrimonio di Gesù, cit, p. 101). (128)  Mc, xv, 34; Mt, xxvii, 46; Lc, xxiii, 46; Gv, xix, 30.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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Per tutti e tre gli evangelisti(129) il corpo viene avvolto in un lenzuolo (σινδόνι la sindone) e deposto in una tomba scavata nella roccia non senza aver fatto rotolare la pietra all’ingresso del sepolcro. A tutta l’operazione assistono Maria di Magdala e Maria, la madre di Ioses, forse il fratello di Gesù. Matteo non comprende bene chi fosse la madre di Ioses e perciò la lascia indeterminata e dice che assistettero alla sepoltura Maria di Magdala e l’altra Maria (ἡ ἄλλη μαρία). Così scrivendo, mostra di citare implicitamente Marco. Più prudente Luca non menziona nessuna donna. La confusione riprende allo scadere del sabato, vale a dire la domenica mattina allorché le donne portano gli aromi per ungere il corpo di Cristo: per Marco esse sono Maria di Magdala, Maria, Madre di Giacomo, e Salome. Potrebbe trattarsi delle stesse donne che hanno assistito al seppellimento, se Giacomo è il fratello di Gesù. Anche in questo secondo caso Matteo non è sicuro di chi sia la seconda Maria e preferisce tenersi nel vago dicendo che le due donne erano la Maddalena e l’altra Maria. Per Luca invece le tre donne sono: Maria di Magdala, Maria di Giacomo (μαρία ἡ ἰακώβου), e Giovanna, forse la stessa Giovanna di Cusa da lui precedentemente citata (Lc, viii, 13) ma ignota a tutto il resto del Nuovo Testamento. La costante presenza della Maddalena sotto la croce e nel sepolcro ha fatto pensare che il suo legame con il Cristo fosse assai più profondo di quanto gli evangelisti abbiano voluto farci sapere. Thiering e Donnini(130) sospettano che Maria fosse la sposa del Cristo, ma l’ipotesi non è chiaramente supportata dai testi. 3.14.  La resurrezione e le epifanie Analoghe sono le incertezze in merito alle epifanie.(131)Il primo giorno della settimana (vale a dire domenica 16 di nisan secondo il calendario ebraico, non secondo quello cristiano),(132) le donne citate trovano la pietra del (129)  Mc, xv, 46; Mt, xxvii, 59; Lc, xxiii, 53. (130) B. Thiering, Gesù l’uomo, Roma, Mondo Ignoto, 2008, pp. 118-121; D. Donnini, Il matrimonio di Gesù, cit., pp. 109-115. (131)  Mc, xvi, 9-20; Mt, xxviii, 16-20; Lc, xxiv, 36-42, 50-53; Gv, xx, 19-20. (132)  I sinottici si servono del calendario ebraico per indicare i giorni della settimana in relazione alla Pesach, ma poi ricorrono all’uso romano per indicare le ore della giornata della parasceve. A. Jaubert, La date de la cène, Paris 1957, per conciliare i sinottici con il vangelo giovanneo suppone che in essi sia stato utilizzato il calendario solare degli esseni, per il quale la pasqua cadrebbe sempre di mercoledì. Ma è ipotesi insostenibile, perché

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sepolcro già rotolata e all’interno vedono un giovane seduto a destra; è un angelo che le informa che Gesù è risorto: «Dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli li precede in Galilea»; esse fuggono piene di spavento e, per la paura, non dicono niente a nessuno (καὶ οὐδενὶ οὐδὲν εἶπαν). La loro testimonianza è vanificata non solo dal silenzio, ma anche dal fatto che per il diritto ebraico era nulla. Insomma Marco annulla la testimonianza delle donne nel momento stesso in cui la propone. Matteo si rende conto di tale incongruenza e perciò aggiunge nella narrazione eventi prodigiosi che dovrebbero essere stati di pubblico dominio. Prima di entrare nella tomba – egli dice – le donne sono sorprese da un terremoto e dalla discesa dal cielo di un angelo che, seduto sulla pietra sepolcrale, le informa che Gesù è risorto e che precederà i discepoli in Galilea. Secondo Luca le donne entrano nella tomba, la trovano vuota e, riflettendo sul da fare, si imbattono in due uomini in vesti splendenti (ovviamente due angeli) che le informano della resurrezione; le donne si recano a dare la notizia agli Undici ma la loro versione viene presa per un vaneggiamento. Poiché per gli ebrei la testimonianza delle donne non aveva alcun valore, Luca tenta di produrre una testimonianza più credibile e ci informa che Pietro corse al sepolcro e, trovate le bende usate per la sepoltura, «se ne tornò, meravigliato per quanto era accaduto» (καὶ ἀπῆλθεν πρὸς ἑαυτὸν θαυμάζων τὸ γεγονός); in altri termini la resurrezione è sottintesa; l’autore di Luca non ne fa esplicita menzione. L’esigenza di dare certezza della resurrezione induce Matteo a costruire in modo artificioso un ulteriore stratagemma che non ha né capo né coda. I soldati messi a guardia della tomba comunicarono la sparizione del corpo ai sacerdoti, i quali, temendo che si potesse diffondere la voce che il Cristo era risorto, li corruppero con somme di danaro affinché dicessero che il suo corpo era stato trafugato dai discepoli, mentre erano stati sopraffatti dal sonno. «Così – commenta Matteo – questa diceria [intendi: del trafugamento] si è diffusa presso i giudei fino al giorno d’oggi» (διεφημίσθη ὁ λόγος οὖτος παρὰ ἰουδαίοις μέχρι τῆς σήμερον ἡμέρας). Ci si poteva mai inventare uno stratagemma più balordo? A che pro inventarsi un corpo di guardia per poi vanificarne la testimonianza dicendo che i saldati si erano addormentati? Se Matteo avesse scritto a ridosso della crocifissione, il suo espediente sarebbe stato incomprensibile. Ma egli scrive a distanza di tempo dall’evento e deve mettere a tacere una diceria che nel frattempo aveva trovato numerose adesioni tra gli ebrei e forse anche tra i pagani, e cioè che qualcuno dei discepoli aveva in tutti i testi evangelici si asserisce chiaramente che la morte del Cristo cadde di venerdì.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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trafugato il corpo di Cristo per far credere che il messia fosse risorto. E questa diceria, che egli dice circolante «fino al giorno d’oggi», è ciò che Matteo vuol mettere fuori gioco. Per comprendere meglio la questione, bisogna tener presente che i capitoli conclusivi di Matteo e Marco sono molto sospetti. Sappiamo che la cosiddetta finale lunga di Marco è un’aggiunta posteriore, come dimostra il fatto che essa è assente nei manoscritti. Ma è dubbio anche il capitolo 28 di Matteo, in cui le epifanie sembrano essere un’aggiunta tardiva, perché i versetti 8-10 sono forse un duplicato dei versetti 5-7. A questo si aggiunga che egli è molto prudente quando accenna alla apparizione di Cristo ai discepoli riuniti dopo un lungo viaggio da Gerusalemme verso un imprecisato monte della Galilea, poiché afferma che alcuni discepoli erano rimasti dubbiosi sulla resurrezione (καὶ ἰδόντες αὐτὸν προσεκύνησαν, οἱ δὲ ἐδίστασαν). Insomma i due testi di Matteo e di Marco sembrano lasciare un vuoto increscioso su tutta la vicenda della resurrezione. Luca crede di poter ovviare ad esso, dando come prove certe le epifanie di Cristo: prima alle donne, poi ai due discepoli sulla via di Emmaus e infine agli Undici, a cui è affidato l’incarico di darne testimonianza (ὑμεῖς μάρτυρες τούτων). In tutto questo tortuoso percorso le discrepanze tra i tre sinottici diventano insuperabili; per Matteo Cristo si manifesta due volte: a Maria di Magdala e all’altra Maria la prima volta; agli Undici la seconda volta. Per l’interpolatore marciano compare a Maria di Magdala, poi a due di loro (cioè a due discepoli), mentre erano in cammino; infine agli Undici. Nei primi due casi i testimoni non sono creduti. Nel terzo caso Gesù rimprovera i discepoli per la loro incredulità, li invita a predicare il vangelo in tutto il mondo e a battezzare i credenti; per garantire il successo alla loro attività di proselitismo i discepoli sono dotati dei carismi dell’esorcismo, della taumaturgia, della glossolalia e della immunità dai veleni. Luca invece elabora un racconto più dettagliato delle epifanie; molto prolisso è quello dei due discepoli che camminano insieme a Cristo sulla via di Emmaus. Uno di loro si chiamava Cleopa, citato una sola volta in tutto il Nuovo Testamento. Non avendo capito che si trattava di Cristo (il particolare è curioso: evidentemente Cristo aveva assunto un’altra veste; ma perché apparire in un’altra veste, se doveva testimoniare la resurrezione?), i due discepoli raccontano allo sconosciuto che sono in attesa della resurrezione del nazareno, che sono un po’ scettici, perché è ormai giunto il terzo giorno dalla morte e di lui non si ha alcuna notizia se non quella delle donne che hanno trovato il sepolcro vuoto. Poi fortunatamen-

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te lo trattengono a cena e, durante la consumazione del pane, riconoscono in lui il Signore; si recano dagli Undici ed apprendono che il Cristo è apparso anche a Simone (Pietro). Infine Gesù appare in carne ed ossa ai discepoli riuniti e per dare loro la certezza della resurrezione chiede di essere toccato nelle sue carni. Anzi la materialità del risorto è tale che egli ha fame e i discepoli gli danno da mangiare un po’ di pesce arrostito. Tutto si è compiuto – egli dice – in conformità delle scritture e voi ne «sarete testimoni». Marco e Luca chiudono la loro narrazione con l’ascensione (Mc, xvi, 9; Lc, xxiv, 5053), omessa da Matteo. 3.15.  La datazione della passione È possibile determinare l’anno della morte di Cristo sulla base dei dati forniti dai vangeli? Se teniamo conto della brevità del suo ministero, che, come abbiamo detto, non superò i quattro mesi, tenuto conto che esso avrebbe avuto inizio nel 15mo anno del principato di Tiberio (cioè tra il settembre 28 e il settembre 29), si dovrebbe concludere che egli morì nei primi giorni di aprile del 29. Ma è un’ipotesi da prendere con le pinze, perché, come si è visto, tutte le indicazioni cronologiche dei vangeli sono traballanti. Da questo punto di vista il vangelo meno affidabile è quello di Giovanni che è eccessivamente eccentrico rispetto ai tre sinottici. Per Luca Gesù doveva avere circa trent’anni quando incominciò il suo ministero, per Giovanni doveva essere vicino ai cinquanta (Lc, iii, 23; Gv, viii, 57). Se si fa risalire la sua nascita al 6 o al 4 a.C. o al 6 d.C., e se il suo ministero si estese per pochi mesi (Marco-Matteo-Luca) o al più per due o tre anni (Giovanni), la sua morte dovrebbe essere caduta tra il 24/26 o tra il 26/28 o tra il 36/38, secondo la cronologia lucana. Non possiamo valutare l’eventuale proposta di Giovanni per il semplice fatto che egli non ci fornisce alcuna datazione della nascita del Cristo. Si è però pensato di fare riferimento al brano, in cui il quarto vangelo (ii, 20) parla della durata della ristrutturazione del Tempio («Questo tempio è stato ristrutturato in 46 anni» Τεσσεράκοντα καὶ ἓξ ἔτεσιν οἰκοδομήθη ὁ ναὸς οὗτος). Poiché nel testo compare l’aoristo passivo οἰκοδομήθη si deve pensare che il restauro del tempio si era ormai concluso. Da Giuseppe Flavio sappiamo che Erode il Grande lo avviò nel 18mo anno del suo regno (20-19 a.C.); per il Bellum Judaicum (i, 401) invece i lavori ebbero inizio nel quindicesimo anno di

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regno (23-22 a.C.).(133) Nel primo caso i 46 anni di lavori di restauro si sarebbero conclusi nel 26-27 d.C., nel secondo caso nel 23-24 d.C. Se a tale datazione si aggiungono i due o tre anni del ministero di Cristo (secondo Giovanni), si perviene, nell’ipotesi più conveniente, approssimativamente all’anno 30. Ma una siffatta ricostruzione cronologica è discutibile perché l’aoristo indica un’azione compiuta nel passato, ma non dice nulla circa la sua distanza dal presente; sicché nulla vieta che dalla conclusione dei lavori di restauro possano essere passati anche decenni. In ogni caso gli esegeti, partendo dal mandato di Pilato, che, secondo un’opinione abbastanza diffusa, ma errata, daterebbe dal 26 al 36, hanno pensato di poter individuare in tale arco temporale le pasque ebraiche che cadono di venerdì. Sono così pervenuti alle ipotesi possibili del 23 marzo del 31, del 7 aprile del 30 o del 3 aprile del 33.(134) Ma a prescindere dalla artificiosità della congettura, contro di essa vanno sollevate almeno due obiezioni. La prima riguarda il mandato di Pilato che, come sappiamo, andò dal 18 al 28, cioè in un arco di tempo rispetto al quale tutte e tre le date indicate risulterebbero fuori termine. La seconda concerne il fatto che il computo delle presunte pasque ebraiche è compiuto sulla base di un calendario solare e non lunare e senza tener conto del fatto che gli ebrei, per adattare il loro calendario alla reale situazione astronomica, erano costretti a ricorrere agli anni o ai mesi intercalari o embolismici. Sicché per onestà intellettuale si deve riconoscere che, stanti i dati sfortunatamente incongrui, forniti dai tre sinottici e da Giovanni, non esiste alcuna possibilità di datare la morte del Cristo. E questo è un ulteriore tassello che conferma la non storicità della loro narrazione. 3.16.  I vangeli sono opere storiche? La risposta all’interrogativo proposto è immediata e negativa. Gli autori di Marco e di Matteo non si pongono neppure il problema di darsi una metodologia storica critica. I loro vangeli contengono manifestamente un rac(133) Giuseppe Flavio, Ant., xv, 380; BJ, i, 401. (134)  Tale è l’ipotesi di J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 404, che a sua volta la trae da J. Jeremias, Eucharistic words of Jesus, cit., pp. 39-41. Sulla loro scia si pone S. Migliasso, Introduzione al Vangelo secondo Matteo, in Cristianesimo La Bibbia, Nuovo Testamento, Milano, Mondadori, 2007, p. 7.

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conto mitologico e di carattere agiografico. Giovanni ha un’evidente vocazione teologica ed è ben lontano dal bisogno di trasmettere una verità storica. La verità alla quale spesso si richiama è quella teologica condivisa da una ristretta comunità di fedeli. Se c’è un criterio seguito da tali narrazioni evangeliche è quello che dà per scontata la verità delle antiche profezia. Tutto ciò che è predetto nelle antiche scritture viene da Dio ed è pertanto indiscutibilmente vero. Sfortunatamente questa posizione parte da un presupposto che è sostanzialmente soggettivo e vale solo per coloro che accettano il principio dell’ispirazione divina dell’AT. Il criterio invece cui deve attenersi uno storico deve avere il carattere della oggettività e deve muovere da una indagine critica delle fonti primarie da cui si attinge. In altri termini il criterio storiografico che deve essere perseguito dallo storico deve avere il crisma della scientificità. L’autore di Luca è l’unico evangelista che sembra adottare una qualche metodologia storica. Nel prologo del suo vangelo ci dà conferma di aver scritto a distanza di un tempo indefinito dagli eventi narrati, poiché ci dice di averlo fatto dopo che già molti (πολλοὶ) si erano cimentati nella operazione di mettere in ordine (ἐπεχείρησαν ἀνατάξασθαι) la narrazione (διήγησιν) sui fatti/avvenimenti (περὶ τῶν […] πραγμάτων) accaduti in mezzo a noi (πεπληροφορημένων ἐν ἡμῖν). Già questo primo proposito appare molto limitativo: si tratta cioè solo di mettere in ordine la materia già trattata da altri suoi predecessori. E va detto che il vangelo lucano per molti versi sembra corrispondere in pieno a questo criterio, poiché in effetti sembra rimettere ordine nello scompiglio prodotto da Matteo che aveva alterato in modo significativo il tessuto narrativo di Marco. Nulla ci dice Luca sui ‘molti’ che hanno scritto prima di lui. Intuiamo facilmente che tra essi debbano essere inclusi Marco e Matteo, ma forse anche altri autori di vangeli apocrifi che non sono stati accolti nel canone cattolico. Altrimenti l’uso di ‘molti’ non sarebbe stato appropriato. Se Luca li avesse menzionati, oggi conosceremmo meglio la linea evolutiva delle narrazioni evangeliche. In ogni caso il fatto stesso che egli abbia scritto dopo molti altri e verosimilmente dopo alcuni apocrifi ci dice che il suo vangelo difficilmente può essere datato molto prima della metà del secondo secolo. Nella seconda pericope l’autore conferma che intende ordinare la materia secondo l’ordine trasmesso da quanti sono stati fin dal principio (ἀπ᾽ ἀρχῆς) testimoni oculari (οἱ […] αὐτόπται) e sono poi diventati ‘ministri della parola’ (ὑπηρέται […] τοῦ λόγου). Anche questo secondo criterio appare discutibi-

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le, perché Luca mette sullo stesso piano elementi oggettivi (i testimoni oculari fin dal principio) ed elementi soggettivi (ovvero gli stessi testimoni che sono diventati ministri della parola, cioè di una verità precostituita). Nulla ci dice l’evangelista sui testimoni oculari. Chi sono? Quali elementi egli ha per definirli tali? Quale la loro credibilità? Se giudichiamo dallo sviluppo del suo racconto evangelico dovremmo concludere che Luca sembra credere nella attendibilità della versione marciana, che è quella che egli tenta il più delle volte di ristabilire. È possibile che egli pensasse a Marco come testimone oculare? Non abbiamo elementi per dirlo; possiamo solo congetturarlo. Più difficile stabilire se annoverasse anche Matteo tra i testimoni diretti. La terza pericope ci dice che egli intende fornire a Teofilo una narrazione ordinata delle cose dopo aver condotto una ricerca accurata (παρηκολουθηκότι […] ἀκριβῶς). Sfortunatamente non ci fa sapere in che cosa è consistita tale sua indagine accurata. Come si vede la metodologia storica proposta dall’evangelista è traballante, a dispetto della smaccata esaltazione degli esegeti cattolici che lo considerano degno del nome di storico.(135) Molto opportunamente Carrier, da una analisi critica del prologo lucano, deduce che «Luke never offers any methodology, nor shows any interest in a critical assesment of any evidence at all».(136) Il vangelo lucano non fa che riprodurre Marco e Matteo, più Marco che Matteo, senza che sia esplicitata una valutazione critica dei due testi. Le poche date suggerite nel testo non sembrano affidabili e comunque di esse ci vengono sistematicamente taciute le fonti. Scrive Carrier: «anche se Luca copia Marco, non ci dice mai di averlo fatto, tanto meno per quale materia, e modifica ciò che Marco ha detto in diversi punti. Ciò implica che Luca fabbrica o preferisce qualche altra fonte che contraddice Marco […]. Luca non ci dice nulla sulla relativa affidabilità delle sue fonti […], non cita nemmeno alcuna storia, né mostra molta preoccupazione per stabilire una cronologia precisa».(137)

(135)  Tale è il parere di F. F. Bruce, The Acts of the Apostles, cit., vedi Luke as a Historian, pp. 27-34. (136) R. Carrier, Not the Impossible Faith Why Christianity didn’t Need a Miracle to Succed, Vignate, Rotomail Italia, 2009, p. 178. (137)  Ivi, p. 185.

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3.17.  La costruzione del mito Come appare chiaro dalla sinossi appena tracciata ci sono numerose discrepanze tra i tre testi; alcune sono più rilevanti, altre meno. In più punti emerge che chi scrive dopo ha sotto mano i vangeli scritti in precedenza e tenta di rettificarne le eventuali incongruenze. Se le varianti linguistiche possono essere spiegate in rapporto allo stile, al gusto e persino alla più o meno robusta conoscenza della lingua greca, quelle contenutistiche si possono spiegare solo in funzione della necessità di aggiustare il quadro complessivo e di renderlo più credibile o più coerente. Per queste ultime varianti non v’è alcuna necessità di ricorrere all’ipotesi di fonti Q le quali non sono mai state trovate per il semplice fatto che non sono mai state scritte. Chi ne parla come se le avesse davanti agli occhi fa un’operazione che è solo pseudo-filologica. L’ambiguità dei tre vangeli dipende dal fatto che essi pretendono di storicizzare un mito che attiene alla fede religiosa. Ciò deriva dal fatto che il Cristo è insieme Dio e uomo ed ha quindi una sua storicità in rapporto alla sua dimensione umana. È nella costruzione di questa storicità che si determinano inevitabilmente le discrepanze tra un vangelo e l’altro. Se consideriamo le versioni dei processi, della morte, della resurrezione, delle epifanie e dell’ascensione, che grosso modo dovrebbero rientrare in quella che l’esegesi cattolica considera la tripla tradizione, dovremmo inventarci un numero grandissimo di fonti misteriose per spiegare le differenze, anche minime tra un testo e l’altro, oltre a quelle interne ad uno stesso testo. Ogni piccolo dettaglio, anche apparentemente insignificante, che modifica il quadro complessivo dovrebbe giustificarsi sulla base di una fonte; ed altre fonti dovrebbero essere invocate per giustificare la combinazione o coesistenza di tali dettagli in ciascun testo o in più testi. È come se, volendo semplificare l’esegesi, si ritenesse di non poterlo fare se non complicandola. La soluzione più razionale è ipotizzare che la narrazione evangelica sia stata costruita progressivamente a partire da Marco. Marco è stato il grande genio che ha inventato il genere letterario del vangelo, traendo forse ispirazione dalla figura, assai nota ed affascinante, di Apollonio di Tiana o da figure più mitiche, come Mitra, Attis, Vishnu Krsna ecc.(138) (138)  Sulle influenze di culti extragiudaici vedi R. Carrier, Not the Impossible Faith, cit., pp. 85-127; il classico J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Roma, Newton, 2006; M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. ii: Da gautama Buddha al trionfo del Cri-

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Spesso si dice che egli scrive in uno stile povero e meno elegante degli altri due sinottici; ciò certamente è vero e dipende forse dal fatto che non aveva una piena padronanza della lingua greca o quanto meno che non disponeva di un lessico più qualificato; ma la genialità di Marco sta nella costruzione complessiva; nello straordinario scenario in cui sa inserire il fascino della figura divina del Cristo. Gli altri evangelisti hanno solo ampliato questo quadro, non lo hanno inventato. È difficile caratterizzare ciascuno dei tre sinottici sotto il profilo contenutistico; qualsiasi tentativo di farlo va incontro a difficoltà inevitabili. Si dice che il Cristo di Marco ha tratti umani; ma è così anche quello di Matteo e di Luca (si pensi per esempio all’angoscia nel Getsemani). Si dice che il testo di Matteo è di chiara impronta giudaica, ma in realtà è anche zeppo di spunti antiebraici e tracce di giudaismo sono chiaramente presenti anche negli altri vangeli. Si dice che Matteo attinge dall’AT, ma poi si scopre che Marco lo fa tacitamente e che rinvii alla tradizione veterotestamentaria non mancano neppure in Luca. Si vuole che Luca sia il vangelo diretto alle genti, ma tracce di apertura verso i gentili non mancano né in Marco né in Matteo e tracce di chiusura sono presenti anche in Luca. Purtroppo i facili e comodi schematismi sono sempre opacità che ci impediscono una lettura più diretta dei testi. Se mai il carattere di Matteo e di Luca può emergere dai passi che ciascuno di loro introduce rispetto a Marco. Ma anche per questi passi non è necessario ricorrere a fonti inesistenti. Il punto più alto della genialità artistica di Matteo è dato dalla elaborazione dei cinque discorsi: il discorso della montagna e quello sulla fine della storia(139) sono degli autentici capolavori letterari. Il primo dei due è il discorso che getta le basi dell’etica cristiana, fondata sui valori della misericordia, del perdono, della fratellanza, dell’amore verso tutto il prossimo, della benevolenza disinteressata, del giuramento della verità. Se questi sono i valori più universali, ad essi si associano valori più prettamente religiosi, in parte anche legati alla tradizione giudaica, come il rispetto della Torah, l’indissolubilità del matrimonio, la necessità della preghiera e l’obbligo del digiuno. Il discorso sulla fine della storia ingloba in sé quel piccolo capolavoro che è l’apocalisse marciana, sulla distruzione del tempio e sull’imminente e improvviso avvento del regno dei cieli, quando cioè il figlio dell’uomo separerà i giusti dai stianesismo, Milano, Rizzoli, 2006, vedi capitoli xxv-xxix; E. Bossi, Gesù Cristo non è mai esistito, Ragusa, La Fiaccola, 1976. (139)  Mt, v, 1 - vii, 27; xxiv, 1 - xxv, 46.

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peccatori, come il buon pastore separa i capri dalle pecore; e con una chiara reminiscenza enochiana destinerà gli uni «alla pena eterna» e gli altri «alla vita eterna». Il discorso della missione (Mt, ix 35 - xi, 1) non contiene solo istruzioni sull’attività predicativa che i discepoli sono chiamati a svolgere, ma contiene anche avvertimenti sulle persecuzioni che subiranno per essere cristiani e forse mette un accento eccessivo sulla divisione (non sono venuto a portare la pace, ma la spada; sono venuto a mettere il figlio contro il padre). C’è insieme il tema dell’isolamento proprio degli esseni e quello della lotta estrema proprio degli zeloti, sebbene tradotta nella forma di una lotta spirituale più che materiale. Il discorso in parabole (Mt, xiii, 1-52) contiene una buona parte delle parabole marciane e matteane, talvolta riprese da Luca. Il discorso sulla ingenuità e sul perdono (Mt, xviii, 1-35) è il più modesto; l’ingenuità e l’innocenza, come quelle di un bambino, sono le condizioni per entrare nel regno dei cieli e ai discepoli Cristo raccomanda di non scandalizzare coloro che hanno la purezza dell’età prematura, di pregare in gruppo e di perdonare ad oltranza. Nella sua Exēgēsis Papia ha lasciato intendere che i discorsi matteani non sono altro che una messa in ordine dei lógia disseminati nella versione marciana. Ma la dimostrazione che egli condusse una lettura approssimativa dei due vangeli è data dal fatto che la sua affermazione è più falsa che vera. Basta mettere a confronto i testi per rendersene conto. Il discorso della montagna si articola in 109 versetti di cui solo 23 (= 21%) sono presenti in Marco; 94 di essi (pari a circa l’87%) sono riprodotti da Luca. Il discorso sulla missione si compone di 43 versetti di cui 17 (= 39%) sono propri di Matteo; il discorso in parabole conta 49 versetti di cui 27 (= 55%) sono originari di Matteo; il discorso sull’ingenuità e sul perdono consta di 35 versetti di cui 25 (= 71%) sono di Matteo; il discorso sulla fine dei tempi comprende 96 versetti di cui 55 (= 57%) matteani. Tuttavia, indipendentemente dalla originalità di Matteo, il riordino di cinque discorsi organici dovrebbe apparire meno credibile della versione marciana, perché è difficile credere che la gran parte della predicazione del Cristo, pur tenuto conto della brevità della durata della sua attività galilea e giudaica, si sia risolta nel pronunciamento di solo cinque discorsi anche se abbastanza esaustivi. Luca sembra ritenere più verosimile che i ‘detti’ di Cristo si riferiscano ad una molteplicità di episodi, tant’è che egli smembra i lunghi discorsi matteani per ritornare alla formula marciana. Per quale ragione Matteo altera e nello stesso tempo accresce il testo marciano? Le ragio-

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ni possono essere molteplici. Ci sono motivazioni stilistiche che attengono al gusto e alla personalità di chi scrive. Ma non è solo una questione di stile, né solo l’esigenza di corrispondere alle attese e al bisogno di conoscenza della propria comunità di riferimento o l’esigenza di riempire i vuoti lasciati da Marco; ci sono sicuramente tutte queste istanze, ma in più ci sono le pressioni che vengono dai fratelli con cui Matteo condivide la vita cristiana; c’è soprattutto il fatto che la sua cristologia si è formata sulla scorta della lettura tipica dei testi messianici e profetici. Ciò che Marco aveva fatto timidamente, diventa programmatico in Matteo, indipendentemente dal fatto che egli appartenga o meno ad una comunità più fortemente giudaica e forse meno ellenizzata; la grande originalità di Matteo sta nel fatto che egli crede in una verità eterna, in un messaggio che il Dio di Giacobbe, di Abramo e di Mosè ha rivelato all’uomo fin dalle origini della storia ed ha poi costantemente ribadito attraverso le visioni profetiche di Isaia, Geremia, Michea, Osea, Malachia, Daniele, ecc. Il Cristo di Matteo è costruito sul modello mosaico; è un novello Mosè, una guida politica e religiosa, ma nello stesso tempo è ancora il Messia della tradizione; vive l’attesa messianica come una sorta di verificazione, come un adempimento di una verità già rivelata. Sotto la suggestione della letteratura enochica, Matteo lega la figura del Cristo e le sue parousie alla fine dei tempi e all’avvento del regno celeste. Luca è tra i tre sinottici il più prudente e il più accorto. I suoi interventi sui testi di Marco e di Matteo non sono solo stilistici, ma sono aggiunte o tagli mirati; si ha l’impressione che egli si muova sul filo del rasoio, come se di volta in volta valutasse attentamente ciò che della narrazione dei suoi predecessori va salvato e ciò che va mandato al macero. Gli è che egli scrive forse nel momento più difficile del suo secolo; da poco si era consumata l’immane tragedia della distruzione di Gerusalemme (135); il mondo ebraico era allo sbando; tutto un complesso di valori sembrava in pericolo insieme alla caduta della città simbolo del giudaismo; nelle città della diaspora l’ellenismo era invasivo e dominante e si esprimeva nelle forme del platonismo, mai estinto, e dello gnosticismo. L’intellettualità pagana non mancava di manifestare dubbi sulle credenze cristiane, sulla resurrezione e sulla stessa figura del messia. Luca crede di poter trasformare la narrazione evangelica da un racconto fantastico, e forse mitico, in una narrazione storica, sul modello della storiografia greca, in modo da tacitare qualsiasi forma di contestazione. Ma se ha il fascino di un greco più elegante ed incisivo, Luca non ha né la genialità di Marco, né quella di Matteo. Il suo tentativo di camuffa-

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mento del vangelo nella storiografia critica e scientifica dei greci non si può dire riuscito. La storiografia scientifica, infatti, non si esaurisce nella citazione di poche date (il quindicesimo anno di regno di Tiberio, il censimento di Quirinio, l’età erodiana), ma si sostanzia in una narrazione documentata sulla base di ricerche archivistiche oggettivamente verificabili e criticamente vagliate. Se si prescinde dalle poche date citate, il vangelo lucano non differisce sostanzialmente dai due precedenti se non per una più smaccata prudenza nel riferire gli eventi. Luca scrive in un momento in cui la letteratura gnostica ha conquistato le frange più avanzate e intellettualmente più evolute delle comunità cristiane. La sua cristologia è perciò più meditata, più pretenziosa. Il suo Cristo è sì il redentore e il salvatore dei suoi predecessori, ma per essere tale Luca lo pensa come dotato di una veste e di una natura più marcatamente divine. Per quanto si possano differenziare le cristologie dei tre sinottici, al di là delle divergenze si coglie un comune terreno di fermentazione intellettuale. Ciò potrebbe essere inteso dagli esegeti confessionali come una sorta di benedizione: il riconoscimento di una unità originaria del messaggio trasmesso. In realtà le cose non stanno proprio in questi termini, perché quel nucleo comune della narrazione sinottica, quel common core che le dà in apparenza la verosimiglianza storica, non è in sé un contenuto organico e coerente, ma presenta, oltre alle affinità e concordanze, contraddizioni e divergenze che si riverberano sia all’interno di ciascuno dei tre sinottici, sia nel loro reciproco rapporto. Accade così che i tratti umani e i tratti divini del Cristo collidono tra loro ove più ove meno tanto nei singoli testi quanto nel loro fondamento teologico. Lo stesso accade nel rapporto con il mondo giudaico e con quello pagano, nella accettazione più o meno forte della tradizione vetero-testamentaria, nel carattere profetico-sacerdotale o politico-rivoluzionario o più semplicemente ribellistico del Messia. E si potrebbe continuare segnalando tutte le incertezze e le collisioni all’interno del quadro concettuale di riferimento. Da che cosa dipende questa interna sfasatura del nucleo centrale del messaggio sinottico? Non ho in proposito dubbi di sorta: dipende dal fatto che il cristianesimo apostolico non fu un movimento compatto come noi siamo abituati a pensarlo. Consapevolmente o meno noi proiettiamo ingenuamente i nostri schemi interpretativi fino alle origini del movimento cristiano. Lo concepiamo come un movimento sostanzialmente compatto dalla nascita. Intendiamo le disparità tra i sinottici come letture diverse di una medesima vicenda storica. Ma non è così. Il cristianesimo apostolico non fu

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un fulmine improvviso, non un moto compatto che da un epicentro si diramò in tutte le direzioni, ma fu il prodotto di un complesso contesto culturale dell’area mediterranea orientale, fu una complessa galassia di stimoli culturali e intellettuali diversi, che confluirono da più versanti geografici e da più ambienti culturali in un unico alveo. Nel corso del primo secolo le diverse comunità ebraiche disperse nell’area medio-orientale, in quella egizia e in quella siriano-anatolica, sperimentarono la crisi dei valori tradizionali, entrarono in contatto con le diverse sfaccettature delle sette misteriche, ma portarono con sé il patrimonio di idee generato del travaglio intellettuale dell’essenismo e dell’enochismo, la speranza che la salvezza passasse attraverso un messia o un maestro di giustizia o una straordinaria irruzione del divino nella storia umana. Erano comunità minuscole e disperse, ciascuna con una propria storia, con una propria visione del mondo, ma tutte attraversate dal filo conduttore dell’essenismo-enochismo, che andava progressivamente trasformandosi in cristianesimo. È in questo crogiolo che viene forgiata nel corso della seconda metà del primo secolo la figura del Cristo con tratti comuni e con tratti divergenti. Ma era ancora una figura evanescente finché nei primi decenni del secondo secolo non la misero a fuoco i testi evangelici, assorbendo inevitabilmente le spinte centripete e insieme centrifughe della molteplicità delle fonti d’ispirazioni e delle diverse comunità che se ne facevano portatrici. Da esse derivavano insieme l’unità e le divergenze implicite nel common core della narrazione evangelica. Si spiega così come il Cristo fosse insieme il profeta apocalittico, quello soteriologico ed escatologico,(140) l’esorcista, il taumaturgo, il figlio di Dio e il figlio dell’uomo, il novello Mosè, il fariseo,(141) lo zelota resistente,(142) il Rabbi, il maestro,(143) il mago,(144) il carismatico,(145) il capo dell’ala radicale dell’essenismo,(146) il messia regale della tradizione e insieme il nuovo messia spirituale aperto al mondo dei gentili, il profeta sapienziale,(147) il sacerdote, il predicatore itinerante, un cinico (140)  E. P. Sanders, Jesus and Judaism, Philadelphia, Fortress, 1985. (141) H. Falk, Jesus the Pharisee, New York, Paulist Press, 1985. (142)  S. G. F. Brandon, Gesù e gli zeloti, cit. (143)  H. J. Cadbury, The Peril of Modernizing Jesus, London, Spck, 1962. (144) M. Smith, Jesus the Magician, San Francisco, Harper and Row, 1978. (145) G. Vermes, Jesus the Jew; a Historian’s Reading of the Gospels, London, Collins, 1973. (146) B. Thiering, Gesù l’uomo, cit., v. in particolare i capitoli 29-35. Trattasi di una ricostruzione romanzesca, priva di ogni supporto scientifico. (147) S. Patterson, The Gospel of Thomas and Jesus, Salem, Polebridge, 1993.

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contadino ebreo,(148) il servo sofferente e così via. E tutte queste sfaccettature si coagularono in ciascuno dei testi evangelici, dando forma ad una personalità impossibile, la cui intrinseca fragilità concettuale, nell’entusiasmo o nella esaltazione delle loro convinzioni ideologiche, sfuggiva agli stessi artefici di quella operazione culturale. Questa polivalenza e multiformità della personalità di Cristo è alla base delle indagini ermeneutiche di Earl Doherty, che non a caso legge il Cristo come un complicato puzzle in cui confluiscono tradizioni diverse e divergenti, e di Robert Price, che pone l’istanza della sua decostruzione.(149) Particolarmente avvincente è la ricerca di Price, che, preso atto della configurazione non di uno, ma di molti Gesù, procede alla decostruzione delle immagini attraverso cui la personalità poliedrica del Cristo ci è pervenuta, per filtrarle, nel tentativo, per la verità vano, di isolare il Cristo storico. Questa stessa complessa configurazione del Cristo presuppone un tempo, più o meno lungo di incubazione del racconto evangelico e un tempo più o meno lungo di maturazione delle singole comunità cristiane, che furono travagliate e tormentate dai temi del male, della giustizia e del peccato, del messianismo e dell’attesa apocalittico-escatologica della fine dei tempi, della legge, del patto e della salvezza, così come erano stati veicolati dalla letteratura apocrifa precristiana. È questa la ragione per cui per oltre un quarantennio o un cinquantennio dopo il 70 non abbiamo ancora una letteratura cristiana, né abbiamo notizie sul cristianesimo nascente, ancora troppo marginale per via della dispersione ed esiguità delle prime comunità. 3.18.  La cristologia sinottica e l’Antico Testamento Abbiamo detto che la cristologia biografata non è che una progressiva costruzione letteraria che prende le mosse da Marco, si sviluppa in Matteo e in Luca e si dilata in una forma non più controllabile nei numerosi vangeli apocrifi. Ma come procedette la costruzione del messianismo e della figura del Cristo? La risposta è che essa prese corpo non solo sulla base del(148)  J. D. Crossan, The Historical Jesus, cit., pp. 394-395. (149) E. Doherty, The Jesus Puzzle, cit., successivamente ampliato e riedito con il titolo Jesus: Neither God nor Man The Case for a Mythical Jesus, Ottawa, Age of Reason Publications, 2009; Id., rec. di Price, Deconstructing Jesus, «Higher Critical Review», vii, 2000, pp. 126-140.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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la lettura tipologica dell’AT, ma fu anche, come dire, il precipitato delle profezie vetero-testamentarie; da queste furono tratti tanto gli atti quanto i lógia del Cristo. Non essendo stati testimoni oculari degli eventi narrati e non conoscendo pressoché nulla della vicenda biografica del Cristo, gli autori dei tre sinottici trovarono nei testi profetici quasi tutti gli ingredienti e il materiale occorrente alla bisogna. Il lettore può farsi un’idea delle procedure adottate dagli evangelisti, partendo dagli episodi evangelici presentati come adempimenti delle profezie veterotestamentarie. I legami dei sinottici con la produzione profetica sono più forti di quel che appare a prima vista. Se si leggono attentamente i testi messianici (Salmi, Isaia, Ezechiele, Zaccaria, Malachia, Michea, Osea, Daniele, il Siracide, la Sapienza), si scopre che in essi è prefigurata quasi per intero la personalità del messia, sia nei suoi atti che nei suoi detti. Emerge pertanto che quattro sono le direttrici entro cui cresce il racconto evangelico: 1. La lettura tipologica dell’AT, attraverso cui si scorgono nei diversi personaggi della storia ebraica prefigurazioni del Cristo e delle sua passione. Essa, come s’è detto, parte con la Lettera agli Ebrei, ma trova eco in quasi tutta le letteratura cristiana successiva. 2. Quasi tutta la cornice biografica del Cristo è concepita come adempimento delle profezie veterotestamentarie. I miracoli, le guarigioni, la nascita, l’infanzia, la predicazione galilea e giudaica, la passione dall’ingresso in Gerusalemme alla resurrezione, tutto è pensato come verificazione delle antiche profezie. 3. La fisionomia culturale ed intellettuale degli autori dei vangeli, nonché i loro interessi personali, la loro visione del mondo, la loro assiologia sono tutti fattori che incidono sulla specifica curvatura della loro cristologia e persino sui lógia del Cristo. Ciò esclude che essi siano veri e propri reporters dei detti del Cristo. La facile obiezione dell’esegeta cristiano per il quale ciascuno degli evangelisti ha colto nel messaggio del Cristo le coloriture più affini ai propri interessi, è solo una vuota scappatoia. 4. Sul lavoro degli evangelisti incise anche la necessità di rispondere ai dubbi e alle perplessità espressi dalle diverse comunità, sotto la spinta di fazioni interne, ma anche dagli ambienti ad esse esterni. Si trattava in sostanza di arginare il più possibile il rischio di scivolare nelle più disparate eresie, cui fanno riferimento gli stessi scritti neotestamentari.

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3.19.  Il rapporto dei sinottici con la Legge e con i precetti del giudaismo L’aggettivo aposynágōgos (ἀποσυνάγωγος = allontanato dalla sinagoga, scomunicato), coniato da Giovanni (Gv, ix, 22; xii, 42; xvi, 2), che lo usa tre volte, esprime un’inclinazione anticristiana da parte giudaica ed è indicativo del fatto che i farisei (ebr. = «separati», i quali avevano in comune con gli esseni l’ideale della separatezza) erano diventati un gruppo egemone del giudaismo, dopo la distruzione del tempio. Nell’ultimo scorcio del primo secolo il potere politico-religioso ebraico, di matrice farisaica e sadducea, accentuò il principio della rigorosa osservanza della Legge mosaica, tradotta in una minuziosa precettistica, soprattutto dopo le drammatiche esperienze del 70 e del 135. Il cristianesimo nascente, con le sue radici esseno-enochiche, fu avversato a causa del suo fondamentale isolazionismo. Ciò significa che fin dalle loro origini i cristiani non ebbero un ideale rapporto con la sinagoga e contestarono l’osservanza ottusa e rigorosa della Legge. Gli stessi vangeli ci presentano Gesù come un profeta che è sempre in conflitto dottrinale con la sinagoga soprattutto sui temi del rispetto dei precetti (‫= מצות‬mitzvot), sia nella loro forma positiva (mitzvot aseh = ‫עשה‬ ‫ )מצות‬dell’obbligo di fare qualcosa (circoncisione, purificazione ecc.), sia nella loro forma negativa di divieti (mitzvot lo taaseh = ‫)מצות לא תשעה‬, come l’astensione dal lavoro in ricorrenza del sabato, ecc. Lo schema tradizionale che articola il cristianesimo delle origini in una corrente petrina, filogiudaica, ed una paolina, universalistica, andrebbe rettificato o quanto meno precisato. Non ci furono vere e proprie comunità giudeo-cristiane, perché i principi stessi del cristianesimo, il Dio che muore e risuscita, la salvezza e la remissione dei peccati, nella loro dimensione escatologica confliggono con quelli del giudaismo.(150) La comunità giacobita, come si è rilevato, fu verosimilmente di matrice essena. Si potrebbe tutt’al più sostenere, non senza una qualche forzatura, che nei testi evangelici l’accessibilità al nuovo patto è riservata solo al popolo ebraico e che il vero e proprio universalismo nasce successivamente con Paolo. D’altro canto va detto che la reazione farisaica all’auto-isolamento degli esseni e degli stessi cristiani fu naturale ed inevitabile. A fronte di un atteggiamento di rottura con la tradizionale leg(150)  Di opposto parere è R. Bultmann, Cristanesimo primitivo, cit., p. 62, il quale, dichiarando Gesù «non cristiano, ma giudeo», ne colloca la predicazione, sulla linea della contestazione profetica del legalismo giudaico, «entro l’orizzonte e il mondo concettuale del giudaimo, anche quando contrasta con la religione tradizionale».

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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ge mosaica, le sinagoghe reagirono allontanando coloro che, come Nicodemo, se pure si tratta di personalità storica, propendevano più o meno occultamente per il cristianesimo. L’idea che il cristianesimo fosse compatibile con il giudaismo e che anzi potesse esserne considerato una sorta di compimento può essere accreditata solo con una buona dose di strabismo. È sì vero che Cristo dice: «Non sono venuto per abolire, ma per portare a compimento la legge; non sparirà della legge neppure uno iota» (Mt, v, 17-19; Lc, xvi, 17), ma questa affermazione è un clamoroso falso, perché nell’esercizio del suo ministero egli scardina i principi della circoncisione, dell’offerta sacrificale, del riposo del sabato,(151) del levirato,(152) dell’ipocrisia farisaica nella pratica del digiuno e della preghiera,(153) della indissolubilità del matrimonio associata alla condanna delle pratiche di ripudio della moglie (Mc, x, 1-12; Mt, xix, 1-9), della caduta di ogni steccato nella frequentazione dei peccatori.(154) All’antica teologia della promessa e all’antico patto si sostituisce la nuova alleanza fondata sulla promessa escatologica della continuazione della vita. Tale teologia non costituisce il compimento della Legge, ma è – se mai – il suo totale sradicamento. Matteo e Luca tracciano una netta linea di demarcazione tra la vecchia e la nuova alleanza e pongono come elemento separatore il Battista, che rappresenta l’ultimo dei profeti tradizionali rispetto a Cristo che apre il nuovo percorso storico (Lc, xvi, 16-17; Mt, xi, 12-13, 18). Chi scrive i testi evangelici sa molto bene che una nuova forma di religione non può affermarsi se non nella continuità, almeno apparente, con la vecchia; perciò ricorre all’astuzia di far credere che il cristianesimo fosse un compimento del giudaismo. Ma la contestazione del tradizionalismo più pertinace fu radicale. L’applicazione farisaica della legge si esaurì nella pura formalità e ritualità e perse di vista lo spirito e il senso del rapporto tra gli uomini e tra gli uomini e Dio. Da ciò l’accusa di ipocrisia soprattutto a proposito delle offerte materiali, anziché quelle spirituali suggerite dal cuore (Mc, vii, 5-8; Mt, xv, 7) e dell’ossequio puramente formale nei confronti dei genitori (Mc, vii, 10-13; Mt, xv, 4-6). Si pensi in proposito al dibattito sulle tradizioni giudaiche (Mc, vii, 1-13; Mt, xv, 1-9), omesso da Luca, ma in parte recuperato successivamente (Lc, xi, 37-40). La discussione sul digiuno (Mc, (151)  Mc, ii, 23-28; iii, 1-5; Mt, xii, 1-8, 9-14; Lc, vi, 1-5, 6-11. (152)  Mc, xii, 19-26; Mt, xxii, 23-33; Lc, xx, 27-38. (153)  Mc, ii, 18; Mt, vi, 16-18; ix, 14; Lc, v, 33. (154)  Mc, ii, 16-17; Mt, ix, 11-13; Lc, v, 30-32.

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ii, 18-22; Mt, ix, 14-17; Lc, v, 33-39) è un ulteriore esempio di rottura non solo con la tradizione ebraica, ma anche con la predicazione del Battista. Su questo punto Marco è drastico: Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo tira sul vecchio e lo strappo diventa maggiore. Nessuno mette vino nuovo in vecchi otri altrimenti il vino spaccherà gli otri e andranno perduti vino e otri. Dunque vino nuovo in otri nuovi (Mc, ii, 2122; Mt, ix, 16-17; Lc, v, 36-39).

La discussione sul riposo del sabato (Mc, ii, 23-28; Mt, xii, 1-8; Lc, vi, 1-5), associata all’episodio della guarigione di un uomo con la mano paralizzata in una sinagoga (Mc, iii, 1-6: Mt, xii, 9-14; Lc, vi, 6-11), segna lo smantellamento di un altro caposaldo della precettistica giudaica: «Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato. Il Figlio dell’uomo è il signore anche del sabato […]; è lecito in giorno di sabato fare il bene […] e salvare una vita umana». Gesù predica ai farisei, accusandoli di essere portatori solo di «dottrine che non sono che precetti umani» (Mc, vii, 1, 7); essi trascurano il comando di Dio per osservare tradizioni umane; vanificano la parola di Dio per salvare una tradizione tramandata da se stessi. Che poi il fariseismo si fosse storicamente ridotto ad una miserevole precettistica è questione che è estranea alla presente ricerca. Quel che conta è che tale è l’impressione che ne avevano in buona o in cattiva fede gli evangelisti. Del resto i loro spunti antigiudaici sono numerosi e frequenti e forse traggono ispirazione dal Trito-Isaia (lvi sqq). Nella parabola del buon samaritano (Lc, x, 29-37), che verte sul concetto di ‘prossimo’, Luca fa cadere gli steccati tra giudei e samaritani, ma il suo intento è chiaramente antigiudaico, perché l’uomo percosso, a cui egli fa riferimento, non è soccorso né dal sacerdote, né dal levita, ma da un samaritano. Per Luca il ‘prossimo’ non è più il connazionale, ma è anche lo straniero, colui che da sempre è stato guardato come un nemico. Sulla stessa linea è l’episodio della guarigione di dieci lebbrosi, a proposito del quale il terzo vangelo ci fa sapere che solo uno, il samaritano, ringraziò il Cristo (Lc, xvii, 16). Ma il rapporto con i samaritani resta comunque controverso; i pregiudizi sono duri a morire anche nelle anime religiose. Il Cristo di Matteo si attesta su posizioni più conservatrici poiché dice «Non andate dai pagani e non entrate in città dei samaritani. Rivolgetevi piuttosto alle pecore smarrite della casa d’Israele»; «Sono stato

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mandato solo alle pecore smarrite della casa di Israele» (Mt, x, 5-6; xv, 24). Da tali posizioni pregiudiziali non sfugge neppure Luca che narra in forma concisa l’episodio in cui Gesù non è accolto in un imprecisato villaggio samaritano (Lc, ix, 51-56). Ma la punta estrema dell’antigiudaismo sta nella più radicale condanna degli ebrei che avrà tristi conseguenze nella storia futura. Ad essi il Cristo addossa la responsabilità della sua condanna capitale: «Ricadrà su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, a cominciare dal sangue di Abele […] fino al sangue di Zaccaria» (Mt, xxiii, 35; Lc, xi, 50-51). Anche l’insistente condanna della generazione presente,(155) indipendentemente dal fatto che si tratti della generazione di Cristo o di quella degli autori dei sinottici, è manifestamente antigiudaica.(156) L’episodio dell’indemoniata greca, siro-fenicia di Tiro (Mc, vii, 24-30; Mt, xv, 21-28), è emblematico dell’idea che la predicazione della salvezza interessa in primis il mondo ebraico. Cristo è duro nei confronti della donna greca che chiede pietà per la figlia; risponde con insensibilità alla sua richiesta: «Lascia prima che si sazino i figli […] non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Matteo è ancora più crudo: «Sono stato mandato solo alle pecore perdute della casa di Israele». Ma è la donna pagana che dà lezioni di universalismo: “Anche i cagnolini si nutrono di briciole che cadono dalla mensa dei padroni». Ai pagani sono riservate le briciole del pane che spetta ai figli di Israele. Se qui non c’è ancora universalismo, non c’è neppure giudaismo, ma solo il vecchio e mai morto nazionalismo ebraico. Il rapporto tra cristianesimo e giudaismo è insieme di continuità e di discontinuità. Di certo v’è una rottura quasi netta con la precettistica giudaica, mentre sussiste l’impianto generale del pensiero ebraico in merito al Messia e alla sua discendenza davidica che serve ad iscrivere Gesù nella dinastia dei sovrani del Regno di Giuda, eletti da Dio. Cristo ha una paternità umana (fittizia) ed una paternità divina (reale); è il figlio di Dio con il doppio nome, Emmanuele e Gesù; il primo lo collega al mondo terreno (Dio è con noi); il secondo al mondo divino (salvatore, redentore, soccorso di Dio). Del giudaismo restano tracce in una certa simbologia: così il viaggio di Cristo (155)  Mt, xi, 16-19; 20-27; Lc, vii 31-35; x, 12-15, 21-22. (156)  Altrettanto violenta è la condanna espressa da Matteo (xii, 43-45), a proposito dello spirito impuro, uscito dall’uomo, il quale, quando tenta di rientrare in lui, se trova la casa libera, pulita e in ordine, va a chiamare altri sette spiriti, che con lui entrano e la devastano; «così – dice il Cristo di Matteo – capiterà a questa generazione». Luca (xi, 24-26) riproduce la pericope matteana, omettendone però la conclusione, sicché essa perde il suo significato simbolico.

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in Egitto e il ritorno in Galilea ha forse il significato di presentarcelo come il nuovo Mosè, il profeta della nuova alleanza. Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni ha il significato della consegna dall’ultimo profeta dell’antica alleanza al nuovo profeta della nuova alleanza. Se Mosè è alle origini della storia e guida il popolo verso la terra promessa, Cristo preannuncia la fine della storia e l’avvento del Regno di Dio. Questo messaggio è in realtà miseramente fallito. La vera profezia, che il cristianesimo della prim’ora si porta nel grembo come messaggio strettamente associato al kērygma (κήρυγμα), non trova nessuna reale verificazione ed è spostata in un tempo indefinito via via che non si realizza. Nella logica del simbolismo il più forte elemento di continuità con il giudaismo resta la lettura tipologica dell’AT. Ma su questo versante giudaico si innesta la decisiva influenza della cultura ellenistica, che fin dal quarto secolo a.C. aveva cominciato a scardinare le più inveterate concezioni ebraiche, aprendo la strada ai temi del cuore, dell’amore e della fratellanza universale. Sicché gli insegnamenti di Cristo, anche quando sembrano avere radici nel giudaismo, sono in realtà dominati dalla cultura greca. Lo stesso concetto del Messia che muore e risorge e promette ai fedeli la vittoria sulla morte non ha più nessuna parentela con la concezione nazionalistica e regalistica dell’AT, ma ha radici ellenistico-misteriche ai confini dell’orfismo e del mitraismo iraniano. D’altra parte il Cristo taumaturgico che esercita un potere o una potenza o onnipotenza che agisce su tutto il creato attraverso i miracoli (esorcismo e guarigioni taumaturgiche, ecc.) è un concetto che ha le sue radici nella religiosità popolare ed è comune a tutte le religioni, pagane e non pagane, compreso il giudaismo. Dalla stessa matrice trae origine il Dio dei vangeli (ma più in generale dell’AT) che è in parte minaccioso e in parte misericordioso e protettivo. Forse più che l’antigiudaismo nei sinottici prevale l’antifarisaismo; spesso infatti affiora nei testi il conflitto contro i farisei, legalisti e nazionalisti intransigenti (che ammettono l’immortalità dell’anima e la resurrezione), e contro l’élite dei sadducei (negatori dell’immortalità dell’anima e della resurrezione, appartenenti alla gerarchia sacerdotale). Per Matteo il ministero di Giovanni è antifarisaico e antisadduceo: il suo battesimo è negato tanto ai farisei quanto ai sadducei; contro gli uni e contro gli altri Cristo ha un tono minaccioso: «Dio può suscitare i figli di Abramo da queste pietre; la scure sta già alla radice degli alberi […] pulirà la sua aia […] brucerà la paglia nel fuoco inestinguibile» (Mt, iii, 1-12). Le invettive matteane contro i farisei sono

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dettate dalla ripulsa nei confronti della loro ipocrisia; essi pagano le decime, si attengono ai loro precetti, ma trascurano i princìpi ben più rilevanti della giustizia, della misericordia e della fedeltà; appaiono giusti all’esterno, ma dentro sono pieni di ipocrisia e di iniquità (Mt, xxiii, 23, 28). Quando Cristo dichiara di essere venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori (Mt, ix, 13), rivoluziona l’impianto assiologico del giudaismo, schiacciato sulla condanna inappellabile del peccato. La più autentica trasmutazione dei valori sta nella opposizione della legge dell’amore e del perdono all’antica legge del taglione (Ex, xxi, 24). Già il Levitico aveva attenuato il principio etico-giuridico dell’Esodo, proponendo l’amore per il prossimo; ma il prossimo era inteso in senso nazionalistico e l’amore era riservato ai propri connazionali; gli evangelisti sconvolgono questa prospettiva; delegittimano l’odio verso il nemico(157) e nel contempo giustificano l’amore pacificante che vanifica l’inimicizia. Ma si tratta comunque di un principio proposto in opposizione ai pagani, poiché Matteo fa dire a Gesù: «Se salutate solo i vostri fratelli, che cosa fate di più? Non fanno lo stesso anche i pagani?».(158) Per Matteo e Luca la sintesi della legge può essere esposta in questi termini: «Fate agli altri quello che volete che gli altri facciano a voi» (Mt, vii, 12; Lc, vi, 31). Questi nuovi valori negli ultimi secoli dell’era antica si erano via via venuti affermando nel mondo greco e avevano già scosso fortemente l’etica giudaica, come si evince dagli ultimi scritti del canone veterotestamentario e soprattutto da quelli intertestamentari. La centralità di Israele si va progressivamente scardinando. Tracce di questo processo si avvertono nel vangelo di Matteo allorché allude allo slittamento della promessa e del patto da un popolo all’altro, cioè da Israele ai gentili: «Il regno di Dio sarà tolto a voi e sarà dato ad un popolo che lo faccia fruttificare» (Mt, xxi, 42-43). Tuttavia le aperture dei vangeli verso il prossimo e verso i pagani sono sempre sorvegliate; sotto sotto c’è sempre un residuo ineliminabile di frattura e di discordia. Lo stesso Cristo dichiara di essere venuto a seminare la discordia e mettere il padre e la madre contro il figlio e il fratello contro il fratello(159). Più drastico è Matteo (Mt, x, 36) che fa dire al Cristo: «I nemici di ciascuno sono proprio i suoi familiari». Le prime comunità cristiane sono ‘pro’, ma sono anche ‘contro’, per il semplice fatto che le sette religiose sono inevi(157)  Mc, xii, 28-34; Mt, v, 38-42; Lc, vi, 27-36; x, 25-28. (158)  Mt, v, 43-47. L’ulteriore accenno ai pagani in Mt, xviii, 17, è, com’è noto, frutto di una tardiva interpolazione. (159)  Mc, x, 28-30; Mt, xix, 29; Lc, xii, 51-53; xviii, 28-30.

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tabilmente chiuse al loro interno. In esse è frequente la contrapposizione tra chi sta da una parte e chi sta dalla parte opposta: «Chi non è con me è contro di me» «Chi non è contro di voi, è con voi»; «Chi non è contro di noi è per noi».(160) Anche l’universalismo va preso con molta cautela, poiché presuppone comunque la centralità di Gerusalemme e del suo tempio. È Marco ad aprire la prospettiva di una predicazione del vangelo a tutte le genti; la sua predizione di persecuzioni cui andranno incontro i cristiani ha tutto il sapore di essere una predizione post factum (Mc, xiii, 10). Per Matteo l’universalizzazione del cristianesimo è rinviata alla fine dei tempi; di contro l’invito a predicate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Mt, xxiv, 14; xxviii, 19), è esplicitato in una formula che presuppone la formalizzazione del dogma trinitario che non era ancora stato chiaramente formulato nelle comunità cristiane delle origini. Luca, che generalmente è reputato il meno giudaizzante degli evangelisti, non ha, nei versetti paralleli a quelli di Marco e di Matteo, la medesima apertura universalistica, perché o omette la premessa marciana «prima è necessario che l’evangelo sia annunciato a tutte le genti»(161) o, ispirandosi ad Isaia («La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti», Is, lvi, 7), citato per intero da Marco, taglia in sintonia con Matteo l’estensione a «tutte le genti».(162) Tra l’altro va forse ridimensionato lo stesso presunto universalismo del capitolo lvi di Isaia, per il semplice fatto che esso presuppone la centralità della religione giudaica e del suo santuario gerosolimitano. Gli evangelisti conservano insuperato il pregiudizio verso il mondo pagano che si considera fondato su valori materiali e non spirituali come quelli della tradizione ebraica.(163) Si potrebbe obiettare che nel nunc dimittis di Simeone è proclamata l’universalità della salvezza preparata per tutti i popoli (Lc, ii, 30-31), ma i primi due capitoli lucani, per essere sospettati di manipolazione, non sono probabilmente ascrivibili all’autore del vangelo.

(160)  Mt, xii, 30; Lc, ix, 50; xi, 23; Mc, xi, 38-40. (161)  v. le pericopi parallele Lc, xxi, 12-19; Mc, xiii, 9-13; Mt, xxiv, 6-14. (162)  v. le pericopi parallele Lc, xix, 46; Mc, xi, 17; Mt, xxi, 13. (163)  Cfr. in proposito Mt, vi, 32.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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3.20.  La conoscenza del territorio palestinese nei vangeli. Incongruenze e dipendenza da Giuseppe Flavio Gli autori dei vangeli esibiscono una imperfetta conoscenza della geografia e dell’ambiente fito-faunistico della Palestina.(164) È dubbio che in Palestina, ma in particolare a Gerusalemme, ci fossero allevamenti di galli, poiché essi erano proibiti nel timore che potessero contaminare i kohanim (= sacerdoti). In tutta la bibbia il gallo è menzionato solo in Giobbe (xxxviii, 36) e solo nella versione della Septuaginta; in quella ebraica non c’è alcuna menzione del gallo. La conoscenza del territorio palestinese, che gli evangelisti mostrano di possedere, sembra essere molto approssimativa. Così per esempio la città di Dalmanutha non è menzionata in nessun testo né greco né ebraico. Nella parallela pericope di Matteo troviamo al posto di Dalmanutha un’altra località, Magadan, del tutto sconosciuta (Mc, viii, 10; Mt, xv, 39), che gli studiosi credenti tentano di identificare con Magdala o con un villaggio nei pressi di Magdala. Ma si tratta di toppe escogitate per tappare le falle del testo. Un ulteriore esempio è la strana sequenza degli spostamenti di Cristo dall’approdo a Gennesaret all’arrivo a Tiro e del passaggio da Tiro a Sidone, cioè più a nord, per raggiungere più a sud la Galilea (Mc, vi, 53 vii, 24, 31). Matteo rettifica il testo marciano, escludendo dall’itinerario Sidone (Mt, xiv, 34; xv, 21, 29); Luca, imbarazzato dalle due versioni divergenti, preferisce omettere del tutto l’episodio. Nella medesima pericope Marco colloca la Decapoli a ovest della Galilea e non ad est come è nella realtà. È altresì curioso che Marco (v, 1) faccia approdare il messia e i suoi discepoli a Gerasa che dista dal mare circa trenta miglia. Matteo rettifica sostituendo a Gerasa il villaggio di Gadara che è più prossimo, ma è comunque distante dal Mare della Galilea. Anche Betania,(165) come Dalmanutha e Nazareth, è località mai menzionata nell’AT e in Giuseppe Flavio. Una vexata quaestio ha a lungo tormentato gli studiosi e gli archeologi circa l’esistenza o meno di Nazareth al tempo di Cristo. Tutto lascia suppor(164)  Cfr. D. E. Nineham, Saint Mark, London, SCM Pr, p. 193; B. Ehrman, The New Testament, cit., p. 74; L. M. McDonald - S. E. Porter, Early Christianity and its Sacred Literature, Peabody, Ma., Hendrickson, 2000, p. 286); R. J. Miller, Complete Gospels, Sonoma, Calif., Polebridge, 1992. (165)  Mc, xi, 1, 11, 12; xiv, 3; Mt, xxi, 17; xxvi, 6; Lc, xix, 29, xxiv, 50; Gv, i, 1, 28, xi, 1, 18, xii, 1.

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re che l’attuale città sia sorta attorno alla Basilica dell’Annunciazione, voluta da Elena, madre di Costantino. Ciò trova conferma nel fatto che essa non è mai ricordata in fonti storiche anteriori al iii/iv secolo. Ne fa appena un cenno Giulio Africano allorché parla dei despósynoi provenienti da Nazareth e da Kochaba (δεσπόσυνοι καλούμενοι διὰ τὴν πρὸς σωτήριον γένος «erano detti despósynoi per la loro parentela con Cristo»);(166) da lui dipendono Eusebio ed Epifanio di Salamina.(167)Citata solo dagli evangelisti,(168) Nazareth è del tutto sconosciuta all’Antico Testamento, al Talmud e a Giuseppe Flavio che pure ci descrive accuratamente la Galilea. È verosimile che il suo nome sia conseguenza di un’erronea interpretazione marciana della parola nazoráios (ναζωραῖος). Benché gli scavi archeologici, condotti da Camillo Bellarmino Bagatti,(169)siano di solito addotti a supporto della narrazione evangelica, in realtà restano molte perplessità non solo riguardo alla consistenza del tessuto urbano, ma anche alla sua possibile datazione. A prescindere dal fatto che l’archeologia ci restituisce un modesto villaggio, abitato da poche anime, che non corrisponde alla dimensione della pólis, come la qualificano Matteo e Luca (Mt, ii, 23; Lc, i, 26; ii, 4, 39), di difficile interpretazione risultano i dati cronologici. Da una parte, infatti, essi registrano una continuità abitativa nella seconda età del ferro (all’incirca 900-600 a C.), dall’altra i manufatti di ceramica e vetro rinvenuti sono databili in un ampio arco temporale che si estende dal i al iv secolo d.C.(170) Ciò significa (166)  Sesto Giulio Africano, Epistola ad Aristidem, v, PG. x, coll. 61-62; v. anche M. J. Routh, Reliquiae sacrae: sive auctorum fere jam perditorum secundi tertiique saeculi post Christum natum quae supersunt, Editio altera, vol. ii, Oxonoii, e Typographeo Academico, 1846, pp. 236-237. (167)  Eusebio, HE, i, 7, 14; Epifanio di Salamina, Panarion, i, xxx, 11. (168)  Mc, i, 9; Mt, ii, 23; xxi, 11; Lc, i, 26; ii, 4, 39, 51; Gv, i, 45-46; At, x, 38. (169)  C. B. Bagatti, Excavations in Nazareth, vol. i, Jerusalem, Franciscan Printing Press, 1969. (170)  Di tanto in tanto fanno scalpore notizie sensazionali sulla presunta scoperta a Nazareth di una casa romana dei tempi di Cristo o di una iscrizione su marmo trovata a Cesarea, contenente una lista delle classi sacerdotali con un riferimento a Nazareth (cfr. in proposito M. Avi-Yonah, A list of Priestly Courses from Caesarea, «Israel Exploration Journal», xii, 1962, pp. 137-139). A prescindere dal fatto che l’iscrizione è situata in un settore il cui materiale appartiene all’età ellenistica con tracce di età tardo-romana e bizantina, determinando così la conseguente difficoltà della sua datazione, la lettura (‫ )נצרת‬del secondo rigo non è sicura per almeno due motivi: 1) perché non è chiaramente decifrabile la lettera nun; 2) perché le altre lettere tsadi, resch e taw possono essere variamente interpretate (si è anche pensato a Gennhsar o Kinneret). Non sembra che siano stati ancora dati alle stampe i risultati archeologici realizzati da Yardenna Alexandre, ma dalle poche

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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che per le finalità della nostra ricerca gli scavi non ci forniscono apprezzabili certezze. Dobbiamo perciò ritenere più verosimile che gli evangelisti abbiano confuso nazoráios con nazarēnós. La lectio nazoráios (ναζωραῖος) è presente in Matteo, Luca, Giovanni e Atti,(171) mentre nazarēnós (ναζαρηνός) è lezione preferita da Marco e da Luca.(172) Marco usa quattro volte il termine nazarēnós e mai nazoráios; al contrario Matteo usa solo due volte nazoráios e mai nazarēnós; Luca ricorre una volta a nazoráios e due volte a nazarēnós. Il che fa pensare che i tre evangelisti non abbiano sufficiente dimestichezza con le tradizioni ebraiche più antiche. Il termine nazir (‫)נזיר‬, reso nella Septuaginta anche con naziráios, in ebraico significa separazione ed è relativo al voto di nazireato su cui ci ragguagliano Numeri, ma anche il 1Maccabei, e, a proposito di Sansone, Giudici.(173) Si tratta cioè di un voto di consacrazione o di santificazione con il quale il fedele per un periodo prestabilito si obbligava ad astenersi dal consumo del vino (e più in generale di bevande alcoliche), a non accostarsi ai defunti, a non passare il rasoio sul capo e a compiere alcune offerte sacrificali nell’ottavo giorno. Il termine nazarēnós è invece del tutto sconosciuto alla Septuaginta, sicché si deve credere che Marco lo abbia forgiato deformando nazoráios nella convinzione che indicasse il nome degli abitanti di una inesistente Nazareth, la cui denominazione deve ritenersi successiva alla presunta identificazione del luogo dell’annunciazione. Probabilmente l’autore di Matteo reputò nazarēnós un termine dialettale o comunque inappropriato e, pur mantenendo paradossalmente il legame con Nazareth, gli preferì nazoráios senza tener conto del suo specifico significato. Luca, che è ancor più remoto dalla tradizione e dalla lingua ebraica, usò indifferentemente l’uno e l’altro. Un esempio di incoerenza storica è dato dalla decapitazione di Giovanni il Battista. La versione biblica è in forte contrasto con il testo di Giuseppe Flavio, per il quale la vicenda del Battista è del tutto autonoma e indipendente da quella del Cristo. Egli ci dice che la decisione di Erode Antipa di eliminare il Battista fu di natura politica e fu determinata dal grande fascino destato dalla predicazione del battesimo purificatore, la quale era tale informazioni trapelate non sembra che vi sia la possibilità di datare con sicurezza al primo secolo dell’era cristiana la casa rinvenuta. (171)  Mt, ii, 23; xxvi, 71; Lc, xviii, 37; Gv, xviii, 5, 7; xix, 19, At, ii, 22; iii, 6; iv, 10; vi, 14; xxii, 8; xxiv, 5; xxvi, 9. (172)  Mc, i, 24; x, 47; xiv, 67; xvi, 6; Lc, iv, 34; xxiv, 19. (173)  Nm, vi, 2-21; 1Mc, iii, 49; Jdc, xiii, 7, 14.

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da far temere eventuali rivolte popolari. Purtroppo Giuseppe Flavio non è sempre puntuale nelle indicazioni cronologiche, sicché spesso i suoi testi possono fuorviare il lettore. Marco, che per primo si serve delle Antiquitates per trarre notizie su Giovanni, evita prudentemente di avanzare ipotesi sulla data d’inizio della predicazione di Cristo. Lo stesso fa Matteo. Cade invece nel tranello Luca a causa della sua pretesa di scrivere un’opera storiograficamente attendibile. Egli fa cadere l’episodio della decapitazione intorno al 28-30, ma, come si è già detto, i suoi dati cronologici sono contraddittori, perché l’arresto e la morte di Giovanni (tra il 35 e il 36) precedono di poco la sconfitta di Areta IV (36-37). I giudei infatti interpretarono tale sconfitta come una punizione divina nei confronti del Re di Petra che aveva mandato a morte Giovanni.(174) Erode non poté sposare Erodiade se non dopo la morte di Filippo (34 = ventesimo anno di Tiberio) e non poté sentenziare la morte del Battista se non prima della sconfitta di Areta. Se l’avvio del ministero di Cristo oscilla tra il 34 e il 36, è evidente che siamo ben lontani dal 15mo anno di regno di Tiberio. Inoltre in Giuseppe è del tutto assente il fantasioso scenario costruito da Marco e riprodotto da Matteo e da Luca a proposito di Salome e di Erodiade che pretesero la decapitazione di Giovanni;(175) Matteo per di più aggiunge che i suoi discepoli ne chiesero il corpo e andarono a darne notizia a Gesù. Ma se la morte del Battista cadde intorno al 35 d.C., come fecero i discepoli a darne l’annuncio al Cristo, che era già stato crocifisso nel 30 o nel 33? Tra l’altro la versione eusebiana in merito al collegamento tra Giovanni e Cristo è di natura polemica e nasce dal bisogno di contestare gli inidentificati autori di Memorie che, a quanto pare, non la condividevano.(176) In altri termini si deve prendere atto che il rapporto tra i vangeli e Giuseppe Flavio va capovolto: non i vangeli precedono Giuseppe, ma al contrario Giuseppe precede i vangeli ed è la loro principale fonte di informazione in ordine al quadro storico in cui collocare le rispettive narrazioni. Il che conferma che gli evangelisti scrivono a notevole distanza di tempo dagli eventi narrati. Le allusioni del capitolo xiii di Luca circa la dura repressione di una sommossa di ebrei ordinata da Pilato dipendono certamente da Giuseppe.(177) Quanto poi alla morte di 18 ebrei a causa del crollo della torre di Siloe o Siloam (Lc, xiii, 4-5) non sappiamo quale possa essere stata la (174) Giuseppe Flavio, Ant., xvii, 116-117. (175)  Mc, vi, 14-29; Mt, xiv, 1-12; Lc, iii, 19-20; ix, 7-9. (176)  Eusebio, HE, i, 11, 9. (177)  Ivi, 60-62.

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fonte di Luca; ciò che è certo è che egli utilizzò maldestramente tale episodio per affermare che i malcapitati non erano probabilmente tutti peccatori e che tale sarà la fine di tutti i galilei, lasciando passare inavvertitamente l’idea che la provvidenza divina è cieca così da colpire tanto i giusti quanto i peccatori. Di altre utilizzazioni delle Antiquitates flaviane si è già fatto cenno nel capitolo precedente. 3.21.  La cristologia dei sinottici: la teologia del servo sofferente Premetto che questo paragrafo non è dedicato alla cristologia, che è di per sé materia teologica e, in quanto tale, esula dai miei interessi scientifici. Mi interessa comprendere come si delinea la figura del Cristo nei tre sinottici, come prende forma, passando dall’uno all’altro, e quali sono le convergenze e le eventuali differenze tra l’uno e l’altro. Il presupposto essenziale dell’indagine è ovviamente la priorità marciana, tanto nel caso che Marco sia semplicemente il portavoce di una comunità a noi sconosciuta, quanto in quello che sia l’ideatore di una narrazione destinata ad incidere fortemente sulla vita emotiva dei cristiani. Dal punto di vista storico sarebbe ideale conoscere quali interpretazioni del Cristo diedero le prime comunità cristiane, ma è un compito che nessuno può assumersi in assenza di documenti della prima ora. Non siamo in grado di intuire quali furono le differenti immagini del Cristo, che maturarono in comunità che peraltro erano diverse per cultura e per ambiente storico-geografico. Ed è verosimile che prima della comparsa dei vangeli regnasse in esse una qualche confusione sul piano dottrinale. In generale in ambito teologico si tende a sottolineare le specificità di ciascuno dei tre vangeli, ma va tenuto conto che la prima grande rivoluzione intellettuale fu compiuta dall’autore della Lettera agli Ebrei che per primo indicò con il nome Gesù l’atteso messia spirituale, profeta e sacerdote nello stesso tempo. Marco ne schizzò la prima biografia quasi nella forma di un commento midrashico ai testi profetici dell’Antico Testamento. Matteo e Luca ne svilupparono l’intuizione, approfondirono qua e là taluni aspetti, lo alterarono in parte, lo arricchirono di spunti nuovi, ma ne lasciarono immodificato l’impianto generale. Se così non fosse stato, non avremmo neppure potuto parlare di una sinossi dei loro racconti. Ciò che ormai è irrimediabilmente perduto è il processo evolutivo di elaborazione dei testi. I sinottici che abbiamo tra le mani sono prodotti finiti

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così come si presentano a noi nella loro definitiva veste redazionale; non ne conosciamo il processo di compilazione che certamente fu complesso e passò attraverso diverse fasi di transizione. L’ipotesi secondo cui la loro crescita redazionale è passata da una ignota fonte Q, peraltro moltiplicata in Q1, Q2, Q3, o da presunte redazioni originarie di Marco (Ur-Markus, Deuteoro-Markus o altre avventurose congetture) è solo funzionale a salvare la loro storicità che invece appare sempre più evanescente. Perciò per evitare inutili voli pindarici e arbitrarie conclusioni credo che la ricostruzione del processo evolutivo della letteratura evangelica debba sotto il profilo filologico attenersi rigorosamente al testo, al linguaggio, al lessico e all’occorrenza dei lemmi. Si è detto che Marco costruisce la figura di Cristo attraverso la lettura tipologica dell’AT, già proposta dalla Lettera agli Ebrei. Il tema cardine di questa lettura è la figura del servo sofferente quale emerge nel Deutero-Isaia e in Malachia. Questi aveva scritto: Ecco io mando il mio angelo a preparare la strada davanti a me; e subito verrà al suo tempio il Dominatore da voi cercato, e l’Angelo del Testamento da voi bramato. Eccolo viene, dice il Signore degli eserciti. E chi potrà indovinare il giorno della sua venuta? (Ml, iii, 1).

Isaia accenna alla preparazione della via del Signore: Voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore; raddrizzate nella solitudine i sentieri del nostro Dio [di Dio, non del figlio di Dio], ogni valle sarà colmata; ogni montagna, ogni collina abbassata; le vie storte diventeranno dritte e le malagevoli piane. Allora apparirà la gloria del Signore (Is, xl, 3).

Marco va ben oltre i loro testi. Egli interpreta l’epifania della gloria del Signore del testo deutero-isaiano e del testo malachiano identificandola con l’annuncio della parousía del Figlio di Dio. La sua è una lettura evidentemente teologica, anche se le tentazioni nel deserto (Mc, i, 12-13; Mt, iv, 1-11; Lc, iv, 1-13), a cui lo Spirito espone il Cristo, si possono giustificare solo se il Cristo è creatura umana, non se è creatura divina. Il servo sofferente è sicuramente il nodo centrale della costruzione di Marco; gli altri sinottici ne hanno arricchito con altre immagini la figura, ma non l’hanno sostituita. Per comprendere appieno l’originalità di Marco non

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è sufficiente fermarci alle matrici isaiane e malachiane perché assai più rilevanti sono le fonti enochiane, veicolate attraverso la Lettera agli Ebrei, il Pentateuco di Enoc, il Libro dei segreti di Enoc e il 4Ezra. Nel Deutero-Isaia Marco non trova solo lo straordinario ritratto del profeta-servo, ma anche quel linguaggio messianico che tanto fascino ha assicurato alla sua narrazione. È sufficiente citare i punti salienti del messaggio isaiano per rendersene conto. Il kērygma di Isaia è la liberazione di Gerusalemme e il profeta ne è il portavoce: «Ecco, il Signore Yhwh viene come un forte […] come un pastore pascola il suo gregge». La salvezza è vicina: «Chiamo dall’Oriente un avvoltoio, da terre lontane l’uomo del mio piano: avendolo io detto, lo farò accadere» (Is, xl; xlvi). Egli è l’eletto del Signore, luce delle genti: Nel mio eletto mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui: porterà giustizia alle genti […] Io, Yhwh […] ti ho posto come patto del popolo, luce delle genti, per aprire gli occhi ai ciechi, per far uscire il prigioniero dal carcere […] le cose passate sono avvenute. Ma io ve ne annuncio di future. È venuto dal levar del sole […] calpesterà governatori come argilla, come un vasaio pesta la creta (Is, xlii; xli).

Il secondo canto del servo del Signore è forse alle origini del mito della nascita virginale: «Ascoltatemi […] Yhwh dal ventre di mia madre mi ha chiamato, dalle viscere di mia madre ha pronunciato il mio nome […] io ti porrò come luce delle genti, perché la mia salvezza raggiunga le estremità della terra». Il terzo canto accenna alle sofferenze del profeta: «Ho prestato il dorso ai flagellatori […], non ho sottratto la mia faccia agli scherni e agli sputi […]; vicino è colui che mi rende giustizia». Il quarto canto del servo del Signore è la rappresentazione poeticamente più alta del testo isaiano (Is, xlix; liii): il servo sofferente è cresciuto come un ramoscello […], come una radice che spunta in terra arida, senza forma, senza avvenenza […], disprezzato, ignorato dagli uomini, uomo dei dolori […]. Eppure erano le nostre malattie che lui portava, erano i nostri dolori di cui si era caricato […] un umiliato […] trafitto dalle nostre colpe, schiacciato dalle nostre iniquità […]. Yhwh ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di tutti noi.

Cristo è il capro espiatorio che si sacrifica per noi Come agnello condotto al macello o come pecora muta davanti ai suoi tosa-

932  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini tori […]. Dopo essere stato arrestato e giudicato fu condotto via […], fu reciso dalla terra dei viventi: per colpa del suo popolo fu percosso a morte. Gli fu assegnato un sepolcro insieme agli empi […]. Yhwh ha voluto prostrarlo col dolore […]; se avrà dato la sua vita in espiazione vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni […] il mio servo giustificherà molti, lui si caricherà delle loro iniquità […]; si è lasciato annoverare tra i peccatori, mentre lui portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori.

Qui sono le radici del mito del Servo di Yhwh che redime l’umanità dal peccato, il quale è giudicato e condannato ed è annoverato tra i peccatori. Ma ho l’impressione che si tratta di un tópos letterario. La stessa tematica è presente in Platone che scrive: E diranno che, se è così come l’ho descritto, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in ceppi, avrà bruciati gli occhi e infine, dopo avere sofferto ogni sorta di mali, verrà impalato [crocifisso].(178)

La lettura di Gesù come servo sofferente era già stata proposta dall’autore della Lettera agli Ebrei. Marco ha semplicemente tradotto la teologia della Lettera agli Ebrei in una narrazione fascinosa. Le suggestioni isaiane presenti nel suo vangelo sono numerose. Egli trova nel Trito-Isaia l’accentuazione sul tema della salvezza e dell’imminenza di un tempo nuovo, sebbene in relazione alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Isaia aveva scritto: «La mia salvezza è prossima, la mia giustizia è sul punto di rivelarsi»; «Saprai che io sono Yhwh, tuo salvatore, tuo redentore, il forte di Giacobbe» (Is, lvi; lx). L’annuncio (il kērygma) del profeta è per gli umili: «Lo spirito del Signore è su di me dal momento che Yhwh mi ha unto, mi ha inviato a dare un lieto annuncio agli umili». Gerusalemme ha ormai bevuto il suo «calice della vertigine dalla mano di Yhwh». Il messaggio di Isaia non è universalistico, ma è indirizzato ad Israele e a Gerusalemme: «Scuotiti di dosso la polvere, siediti sul trono Gerusalemme». C’è l’idea di una seconda creazione che tanta fortuna avrà nei testi enochici: «Ecco io creo un nuovo cielo e una «nuova terra»: «Il cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is, lxi; lii; lxv; lxvi). Ed infine un’allusione al giudizio finale; «Ecco Yhwh viene con il fuoco […] perché è con il fuoco e con la spada che Yhwh giudica ogni essere di carne e sono molti i trafitti da Yhwh». (178)  Platone, Rep., ii, 361e-362a.

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Naturalmente il contesto storico di Isaia è profondamente diverso da quello in cui scrive Marco. Per una causa a noi sconosciuta il servo sofferente, di cui egli ci parla, fu processato, torturato, schernito e condannato a morte. Tutto ciò è iscritto per Isaia nel progetto o piano divino. La distruzione del tempio e la riduzione del popolo d’Israele in schiavitù sono avvenute per volontà di Dio che con esse ha inteso punire le sue continue trasgressioni della legge e le violazioni del patto. Ciro e il servo sofferente sono gli strumenti della giustizia divina e del risorgere di Gerusalemme. Con le stesse precauzioni bisogna guardare ai tre sinottici prima di avventurarsi in ipotesi infondate. Marco si riallaccia al mito del profeta Elia, che è al centro del testo di Malachia, per il quale il profeta dell’ottavo secolo sarebbe il precursore del Messia e nello stesso tempo l’annunciatore della fine dei tempi e del giudizio universale. Ecco – scrive Malachia (iii, 1-23) – io mando il mio messaggero per preparare la strada davanti a me! Subito entrerà nel suo santuario Yhwh che voi cercate, l’angelo dell’alleanza che voi attendete […] brucerà come il fuoco dell’orafo e come la liscivia dei lavandai! Siederà per fondere e raffinare: purificherà i figli di Levi come si fa con l’oro e con l’argento. Ecco arriva il giorno, ardente come una fornace, non scamperà né radice né germoglio […]; travolgete gli empi, calpestandoli come polvere sotto i vostri piedi […]. Ecco io vi mando il profeta Elia prima che arrivi il giorno di Yhwh.

Ma Marco altera il testo di Malachia, lo adatta alle sue esigenze; si impadronisce del tema del precursore e lo riferisce a Giovanni Battista, di cui trova tracce nelle Antiquitates di Giuseppe Flavio. L’identità Elia-Giovanni Battista è tale che egli descrive il modo di vestire di Giovanni («Era vestito di pelli di cammello e di una cintura di pelle ai fianchi») ispirandosi al 2Re(i, 8), ove ci viene detto che Elia «era coperto di pelo, con una cintura di cuoio ai fianchi». Nel testo marciano Elia occorre ben 9 volte;(179) 9 sono le occorrenze in Matteo e 7 in Luca.(180) Marco e Matteo sono in perfetta sintonia circa l’identità di Elia-Giovanni Battista; condividono la simbolica trasfigurazione di Cristo in Mosè ed Elia, che forse è metafora del superamento della legge mosaica e della fede giudaica nel cristianesimo. Luca cita l’episodio della (179)  Mc,vi, 15; viii, 28; ix, 4, 5, 11, 12, 13; xv, 35-36. (180)  Mt, ix, 14; xvi, 14; xvii, 3, 4, 10, 11, 12; xxvii, 47, 49; Lc, i, 17; iv, 25, 26; ix, 8, 19, 30, 33.

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trasfigurazione, omette la presunta invocazione sulla croce, accenna alla resurrezione della figlia della vedova di Sarepta, ma è prudente sulla identità con il Battista, poiché si limita a dire che «Giovanni camminerà davanti al Cristo con la forza del profeta Elia». Elia è una figura profetica assai cara agli enochiani per essere stato ricordato nei Libri dei Re come il profeta che, al pari del patriarca Enoc, godette del privilegio di essere stato sottratto alla morte per essere asceso al cielo in corpo e anima. Ed è questo un elemento importante che ci aiuta a capire come Marco appartenesse probabilmente ad una comunità cristiana di matrice enochica. Quando infatti diciamo che i testi isaiani non sono sufficienti a comprendere il suo vangelo, intendiamo dire che l’apporto decisivo viene dalla letteratura enochica, veicolata dalla Lettera agli Ebrei. Nei testi enochici egli scopre la figura del «Figlio di Dio», come creatura più che angelica e divina e come messia-sacerdote, che preannuncia l’imminenza della fine dei tempi ed una seconda creazione. Marco ha la genialità di fondere il servo sofferente del Deutero-Isaia con il messia, sommo sacerdote di natura divina e umana. Egli trova nella letteratura enochica non solo gli elementi per costruire la sua figura messianica, ma anche il linguaggio e il lessico messianico; vi trova le immagini, le visioni, le parabole in cui ricorrono i più comuni tópoi della mitologia ebraica. Nel Libro delle parabole l’autore di Enoc è interamente proiettato sulla rivelazione della fine dei tempi: Quando apparirà il Giusto […], apparirà la luce ai giusti e agli eletti che vivono sulla terra […]; i peccatori (meglio sarebbe se non fossero mai nati!) saranno giudicati e gli empi saranno scacciati e […] non potranno vedere la faccia dei Santi (LPr, xxxviii).

Molto verosimilmente le comunità enochiche ebbero vita breve, perché le loro credenze avevano una curvatura prevalentemente apocalittica;(181) esse (181)  J. D. Crossan, Historical Jesus, cit., pp. 222-224, facendo tesoro delle ricerche di Köster sulla 1Corinzi, di Kloppenburg sulla fonte Q e di Davies sul Vangelo di Tommaso, ovvero su tre documenti che – a suo avviso – risalirebbero agli anni Cinquanta, ritiene di poter individuare i due orientamenti del Cristo che definisce ‘equiprimordial visions of Jesus’. In realtà l’apocalittica, che peraltro è una costante del pensiero ebraico, si sviluppa nella forma più drammatica dopo il 70, a seguito della devastazione del tempio, che è percepita come foriera della immiente fine dei tempi. I testi che esprimono questa linea visionaria, immaginifica e drammatica della apocalittica sono da una parte i testi enochici e dall’altra l’Apocalisse giovannea. Nel vangelo di Marco e nei due successivi sinottici l’apoca-

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erano certe della imminenza della fine dei tempi e si attendevano una nuova discesa degli angeli sulla terra, non per cadere nel peccato della concupiscenza, ma per condividere la comune discendenza con i figli degli uomini (LPr, xxxix). Tuttavia una ideologia apocalittica, centrata sulla vicinanza della fine, non può avere vita lunga, non può protrarsi oltre una generazione, perché ben presto entra in conflitto con la realtà ed è costretta a procrastinare inevitabilmente i tempi della fine, trasformandosi in un’apocalittica dai toni meno inquietanti e più rassicuranti. In Marco questo passaggio è chiaramente avvertibile. Egli insite sì sulla immediatezza della parousía, ma allude anche ad una seconda parousía rinviata a un tempo indefinito. L’apocalittica di Marco è cioè stemperata, attenuata, proiettata in un futuro dai contorni sfumati. La fine della storia è il primo messaggio che egli trasmette nel suo vangelo («Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino» (Mc, i, 15; Lc, xxi, 8, 31); è ciò che accadrà a «questa generazione»; alcuni «non morranno prima di aver visto il regno di Dio venuto con potenza» (Mc, ix, 1, Mt, xvi, 28; Lc, ix, 27); «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme sulla terra […] il seme germoglia e cresce»); «A questa generazione non sarà dato nessun segno» (Mc, iv, 26-27; viii, 12). Matteo e Luca sono più drastici sulla generazione del Cristo, sugli scribi e i farisei, «serpenti e razza di vipere», su cui ricadrà «il sangue innocente versato» (Mt, xxiii, 36; Lc, xi, 49-51). Per entrare nel regno dei cieli occorrerà avere la stessa innocenza e ingenuità dei fanciulli,(182) essere santificati nel battesimo, bere l’amaro calice dell’afflizione e delle tribolazioni del Cristo (Mc, x, 38-39; Mt, xx, 22), privarsi di organi, come il piede, la mano e l’occhio, responsabili del peccato; anche perché l’accesso al regno di Dio è limitato; molti infatti sono i chiamati, pochi gli eletti (Mc, ix, 43-49; Mt, xxii, 14). Se gli stessi prodigi fossero stati compiuti a Tiro e a Sidone, città pagane, i loro abitanti si sarebbero convertiti da lungo tempo ed avrebbero cambiato vita (Mt, xi, 20-23; Lc, x, 13-15). Anche il mito della fine dei tempi è un tópos letterario, un cascame proveniente dalla letteratura enochica. Le parabole del seminatore, del regno di Dio che cresce come un granello di senape (Mc, iv, 30; Mt, xiii, 31-32), l’immagine del ladro che giunge all’improvviso nel cuore della notte fanno pensare ad una dilatazione dei tempi (Mc, xxiv, 43-44; Lc, xii, 39-40). Più esplicito è Marco (Mc, x, 30), per il quale il guadagno della vita eterna è proiettato «nel secolo futuro»; «Questo deve ancora accadere, ma non è ancora littica è ormai mitigata e la rivelazione divina è rinviata ad una seconda parousia del Cristo. (182)  Mt, xi, 16; Lc, xxxi, 35; cfr. anche Mc, ix, 36-37; Mt, xviii, 1-4; Lc, ix, 46-48.

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la fine» (Mc, xiii, 7; Mt, xxiv, 48; xxi, 8-11); «Quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino e alle porte. In verità vi dico non passerà questa generazione prima che tutto questo accada» (Mc, xiii, 29-30; xxiv, 35-36). Ma poi rinvia: «Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, né gli angeli in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre» (Mc, xiii, 32) (il versetto nega implicitamente l’identificazione del Padre con il Figlio); «Non sapete quando è il momento […] fate in modo che, venendo all’improvviso, non vi trovi addormentati».(183) In tutto l’AT l’espressione ‘figlio dell’uomo’ indica, l’uomo, ‘nato dall’uomo’. I concetti di «Figlio dell’Uomo» e «Figlio di Dio» sono molto antichi. Nel cristianesimo delle origini finiscono con il coincidere, ma solo dopo un lungo processo evolutivo. A prescindere dalla loro probabile derivazione dalla letteratura sumerica, il concetto di ‘figlio dell’uomo’ è presente nella sua forma singolare in Numeri, Giobbe, nei Salmi, nel Qohelet,(184) in Isaia, Geremia ed Ezechiele.(185) Nella sua forma plurale compare solo nel Qohelet (i, 13; ii, 3; iii, 10; ix, 12). In tutti i casi ha il significato prevalente di ‘uomo’, ‘uomini’. Il sintagma ‘figlio d’uomo’ comincia a subire una metamorfosi in Daniele (vii, 13; viii, 17; x, 16), ove l’espressione «uno simile ad un figlio d’uomo» che giunge dall’Antico dei giorni e scende dal cielo sulle nubi fa pensare ad una entità di natura divina e di parvenza umana. Nell’AT non incontriamo mai il sintagma ‘figlio di Dio’ nella forma singolare che è più pregnante, ma lo troviamo solo nella Genesi (vi, 1-4) nella forma plurale «figli di Dio» i quali sono identificati con gli angeli. In tre altre occorrenze, riscontrabili nel Deuteronomio e nei Salmi, ‘figli di Dio’ assume il significato generico di ‘uomini’, ‘creature di Dio’.(186) Nel Deuteronomio il sintagma compare solo nella versione della Septuaginta ed è assente nel testo ebraico; nei Salmi invece sono presenti le versioni ebraiche benê ‘êlîm‫אלים(י‬ ‫)בנ‬, bibnê ‘êlîm (‫)בבני אלים‬. Se ne deve dedurre che nei testi più antichi «Figlio dell’uomo» e «Figlio di Dio» non sono ancora titoli messianici.(187) È nel te(183)  Mc, xiii, 33, 36; Mt, xxiv, 36, 42, 44, xxv, 13; Lc, xii, 40. (184)  Nm, xxiii, 19; Jb, xvi, 21; xxv, 6; xxxv, 8; Sal, viii, 5; lxxx, 16, 18; cxliv, 3; Qt, ii, 8; iii, 18, 19, 21; viii, 11; ix, 3. (185)  Is, li, 12; Jr, ii, 6; l, 40; li, 43; xlix, 12. In Ezechiele il sintagma ‘figlio dell’uomo’ compare ben 93 volte e identifica il profeta stesso, non in quanto figlio di Buzi, ma in quanto figlio dell’umanità. (186)  Dt, xxxii, 43; Sal, xxix, 1; lxxxix, 7. Il sintagma ‘figli di Dio’ (υἱοὶ τοῦ θεοῦ) è presente nella Septuaginta. (187)  Salvo forse nel versetto 7 del Salmo ii.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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sto di Enoc che il figlio dell’uomo è l’uomo elevato al rango delle nature angeliche per avere una comune discendenza da Dio. Prende così gradatamente corpo una figura teandrica che ha insieme natura divina e umana; non è un semplice profeta mediatore tra il mondo terreno e quello celeste, tra l’uomo e Dio, ma è partecipe dell’una e dell’altra natura. In una delle sue visioni Enoc è rapito in cielo e condotto al cospetto di Dio. Qui vede «come è suddiviso il regno del cielo, come è soppesato sulle bilance l’operato umano», conosce «la sede degli eletti e quella dei santi» (PR, xli); viene confermata la dicotomia essenica della netta separazione della luce per i giusti e delle tenebre per i peccatori. Nel capitolo xliii è presente un altro titolo messianico: la sapienza che ha sede nei cieli presso Dio: «venne a stare tra i figli degli uomini, ma non trovò posto «sulla terra» e «ritornò alla propria sede tra gli angeli». La seconda visione (PR, xlv-lvii) è quella centrale in cui viene elaborata la figura del salvatore. Nel giorno del giudizio l’eletto siederà sul trono di gloria del Signore: «In quel giorno porrò in mezzo a loro il mio eletto e muterò il cielo, ne farò benedizione e luce eterna». Ritorna il tema isaiano della seconda creazione, che è un costante presupposto dei sinottici. Compare al centro della visione il Figlio dell’uomo, che è sì simile all’uomo, ma ha la stessa natura angelica di Enoc: Costui è il figlio dell’Uomo per il quale fu fatta la giustizia […]; egli paleserà tutti i luoghi di deposito dei misteri […], toglierà i re e i potenti dalle loro sedi ed i forti dai loro troni, scioglierà i freni dei forti e spezzerà i denti dei peccatori (PR, xlvi).

La forte avversione per i potenti, già chiaramente presente in Isaia, induce le comunità enochiche ad abbandonare la vecchia concezione del messia come re nazionale del popolo ebraico. Il messia enochico non è più un mediatore tra la sfera divina e quella umana, non è più un profeta, ma è costituito messia al cospetto di Dio ed ha il nome che risponde al suo destino: E in quell’ora questo Figlio dell’Uomo fu nominato presso il Signore degli spiriti e il suo nome era al cospetto del Capo dei Giorni, prima che fosse creato il sole […]; egli sarà il bastone dei santi […]; perciò fu scelto e nascosto innanzi a Lui da prima che fosse creato il mondo e per l’eternità (PR, xlviii).

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Il messia, cioè non è uomo, ma è una creatura eterna che, se pure ha somiglianza con l’uomo, è per essenza una creatura spirituale. L’autore di Enoc si colloca cioè sulla strada che sarà poi percorsa da Marco o dalla comunità di sua appartenenza che trasforma la figura del germoglio di David, che in Isaia è ancora un re terreno e nazionale, nel messia uomo-Dio. Il nome Gesù, come abbiamo già visto a proposito della Lettera agli Ebrei, nasce nel processo di definizione della figura del messia; la tipica concezione ebraica, secondo cui il nome corrisponde al destino del personaggio, dà luogo nei racconti evangelici al nome che si rapporta alla funzione che lo stesso personaggio svolge nella narrazione. Se Cristo è il soccorso divino, il nome che corrisponde al suo destino è Yehōwōšua’, che nel racconto evangelico diventa Gesù e corrisponde alla funzione da lui esercitata nello stesso racconto. Oltre alla figura dell’Eletto Marco trova nel testo di Enoc i temi della immortalità, necessaria per la salvezza escatologica, e della resurrezione dei morti. Il capitolo li è in proposito emblematico: «In quei giorni la terra e l’inferno restituiranno quel che è stato loro affidato e il regno dei morti restituirà quel che deve». Un tema analogo è presente nel 4Ezra (vii, 29-33), in un libro in cui però il messia è un uomo. Se mettiamo a confronto il testo isaiano e quello enochico troviamo i due poli che in Marco si ricongiungono: da una parte il servo sofferente, dall’altro il messia uomo-Dio. Ispirandosi alla Lettera agli Ebrei Marco fonde insieme i due poli e crea la complessa figura del messia cristiano. Il punto saliente del vangelo marciano è nella risposta che il Cristo dà al sommo sacerdote che gli chiede: «Sei tu il Cristo?» ed egli risponde «Sono io! E vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra delle potenze e venire con le nubi del cielo», con evidente allusione ai testi di Daniele e del Salmo, noto come salmo di Melchizedek (Dn, vii, 13; Salmo cx). Il che ci fa supporre che quando le comunità cristiane delle origini si staccarono dall’enochismo il punto di rottura riguardò proprio la figura del messia. D’altronde anche il 4Ezra ci fa cogliere elementi di contrasto all’interno delle comunità della diaspora. Il gruppo degli ezriani della fine del primo secolo dopo Cristo probabilmente fu equidistante dal cristianesimo nascente e dalla svolta enochiana dell’essenismo. Non condivise dei cristiani il ruolo assegnato al messia nel giudizio alla fine dei tempi. Per gli ezriani la funzione giudicante spetta solo a Dio e non al messia («La fine verrà attraverso me e non attraverso altri», 4Ezra, vi, 6); perciò essi non sposarono l’impianto dottrinale enochico che assegnava al messia una natura spirituale. L’Unto, a loro avviso, era dotato di natura umana. Nel Libro dei segreti di Enoc invece

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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il Messia è lo stesso Enoc, il sacerdote unto con l’olio benedetto, che, dopo l’unzione, non ha più una natura umana: «Da quando il Signore mi ha unto dell’olio della sua gloria, non c’è stato cibo in me, né il cibo m’è gradito, né ho voglia di cibo terrestre» (Ens, xxii, 8-10; lvi, 2). Gli anziani del popolo (espressione che troviamo nei sinottici) salutano in Enoc l’Eletto del Signore, il capro espiatorio: «Il Signore ti ha scelto per porti come colui che toglie i nostri peccati» (Ens, lxiv, 3-5). Qui la vicinanza con il servo isaiano è notevole. Ma la differenza sta nel fatto che il servo di Enoc non è sofferente, ma è un sacerdote pre-levitico e pre-aronnita (Ens, lxxi, 19-37); anzi è superiore ai sacerdoti leviti e agli aronniti. Nei quattro vangeli «Figlio dell’Uomo» (ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου) è ormai definitivamente un titolo messianico e presenta ben 82occorrenze: 14 in Marco, 30 in Matteo, 25 in Luca, e 13 in Giovanni.(188) Gesù è il messia atteso.(189) In Marco ha fin dall’inizio il significato di un messia di natura prevalentemente umana e divina che ha «il potere di sciogliere dal peccato», è padrone del sabato, nel senso che ha il potere di porsi al disopra della legge, si identifica con il servo sofferente, che non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita per il riscatto di molti, risorgerà da morte e salirà al cielo, siederà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi, alla destra delle potenze e verrà con le nubi del cielo. Sarà cioè santificato e divinizzato. Dunque il figlio dell’uomo ha una natura divina e si identifica con il «Figlio di Dio» (ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ). Tale titolo messianico ha 32 occorrenze nei quattro vangeli: 6 in Marco, 10 in Matteo, 7 in Luca e 9 in Giovanni.(190) Ma mentre la formula «figlio dell’uomo» compare in discorsi diretti o indiretti del Cristo, quella «Figlio di Dio» non è mai pronunciata dal Cristo e, a parte una sospetta interpolazione (Mc, i, 1), compare solo due volte nei lógia di Dio, sotto forma di una voce (188)  Mc, ii, 10, 28; viii, 31, 38; ix, 9, 12, 31; x, 33, 45; xiii, 26; xiv, 21 (2), 41, 62; Mt, viii, 20; ix, 6; x, 23; xi, 19; xii, 8, 32, 40; xiii, 37, 41; xvi, 13, 27, 28; xvii, 9, 12, 22; xix, 28; xx, 18, 28; xxiv, 27, 30 (2), 37, 39, 44; xxv, 31; xxvi, 2, 24 (2), 45, 64; Lc,v, 24; vi, 5, 22; vii, 34; ix, 22, 26, 44, 58; xi, 30; xii, 8, 10, 40; xvii, 22, 24, 26, 30; xviii, 8, 31; xix, 10; xxi, 27, 36; xxii, 22, 48, 69; xxiv, 7; Gv, i, 51; iii, 13, 14; v, 27; vi, 27, 53, 62; viii, 28; ix, 35; xii, 23, 34 (2); xiii, 31. Cfr. anche Ebr, ii, 6. (189)  Mc, viii, 27-30; xiv, 61-62; Mt, xvi, 13-20; xxvi, 63-64; xxii, 66-70. (190)  Mc, i, 1, 11; iii, 11; v, 7; ix, 7; xv, 39; Mt, ii, 15; iv, 3, 6; viii, 29; xiv, 33; xvi, 16; xxvi, 63; xxvii, 40, 43, 54; Lc, i, 35; iii, 22; iv, 3, 9, 41; viii, 28; xxii, 70; Gv, i, 34, 49; iii, 18; v, 25; x, 36; xi, 4, 27; xix, 7; xx, 31. Cfr. anche Ebr, i, 2; iii, 6; iv, 14; v, 5; vi, 6; vii, 3 (Melchizedek); x, 29; xii, 5, 6, 8. Il plurale ‘figli di Dio’ è presente in Mt, v, 9; Lc, x, 36 e nella forma τέκνα θεοῦ in Gv, i, 12; xi, 52.

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dal cielo, due volte in quelli dei demoni che ne riconoscono la divina potenza, ed una volta nell’affermazione del centurione al momento della crocifissione. Non meno importante è il titolo di «Messia/Cristo» (χριστός) che ricorre 7 volte in Marco, 16 in Matteo, 12 in Luca e 19 in Giovanni per un totale di 54 occorrenze.(191) L’identità messianica è riconosciuta da Pietro e dai demoni(192) con l’obbligo del segreto messianico,(193) ma Pietro ne è respinto: «Allontanati da me Satana! Perché non hai il senso delle cose di Dio, ma di quelle degli uomini» (Mc, viii, 32-33; Mt, xvi, 22-23). In Marco e in Matteo (Mc, ix, 41; Mt, xxiii, 10) è lo stesso Gesù che dice ai discepoli: «siete di Cristo». Messianico è anche il titolo di «giusto» (δίκαιος) che viene attribuito a Gesù dal centurione romano dopo la crocifissione (Lc, xxiii, 47). Alla unicità e alla ipostatizzazione del messia sono rispettivamente dovuti i titoli di «unigenito» μονογενὴς e di «primogenito» πρωτότοκον.(194) L’uso di «Cristo» (χριστός) può essere utile per orientarci intorno alla datazione dei testi. Infatti per indicare la specificità o unicità del messia atteso, i sinottici ricorrono al determinativo e scrivono ὁ χριστός. Con il passare del tempo si perde il senso del titolo messianico e lo si unisce a Gesù come se insieme costituissero un nome proprio (Gesù Cristo = ἰησοῦς χριστός o Cristo Gesù = χριστός ἰησοῦς). Ciò accade una sola volta in Marco (Mc, i, 1) in un versetto che è una chiara interpolazione; 2 volte in Matteo (Mc, i, 1; Mt, i, 1, 18), delle quali la prima è un’interpolazione e la seconda è una variante (e quindi un’aggiunta successiva) che non compare in alcuni manoscritti; due volte in Giovanni (Gv, i, 17; xvii, 3), entrambe presenti nel testo redazionale. La spiegazione che se ne può dare è che il quarto vangelo è di qualche anno, o forse di qualche decennio, seriore. Più in generale possiamo dire che la forma unita «Gesù Cristo», cioè l’uso di Cristo come nome, rappresenta un chiaro indizio della seriorità di un testo. Il che prova che le lettere paoline sono state composte dopo i tre sinottici, poiché in esse compare frequentemente il titolo messianico accorpato al nome di Gesù. (191)  Mc, i, 1; viii, 29; ix, 41; xii, 35; xiii, 21; xiv, 61; xv, 32; Mt, i, 1, 16, 17, 18; ii, 4; xi, 2; xvi, 16, 20; xxii, 42; xxiii, 10; xxiv, 5, 23; xxvi, 63, 68; xxvii, 17, 22; Lc, ii, 11, 26; iii, 15; iv, 41; ix, 20; xx, 41; xxii, 67; xxiii, 2, 35, 39; xxiv, 26, 46; Gv, i, 17, 20, 25, 41; iii, 28; iv, 25, 29; vii, 26, 27, 31, 41 (2), 42; ix, 22; x, 24; xi, 27; xii, 34; xvii, 3; xx, 31. Cfr. anche Ebr, iii, 6, 14; v, 5; vi, 1; ix, 11, 14, 24, 28; x, 10; xi, 26; xiii, 8, 21. (192)  Mc, viii, 29; Mt, xvi, 16; Lc, ix, 20; Mc, i, 34; Lc, iv, 41. (193) v. Mc, i, 44; iii, 12; v, 43; vii, 36; viii, 30; ix, 9, 30; Mt, viii, 4; ix, 30; xvi, 20; Lc, v, 14; viii, 56; ix, 21. (194)  Gv, i, 18, 34; iii, 16, 18; Lc, ii, 7. Per il Siracide (xvii, 18) primogenito è Israele.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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Il titolo messianico più utilizzato dagli autori dei vangeli è senz’altro «signore» (κύριος). Escludendo il significato di ‘padrone’, esso può assumere due referenti: Dio e il Cristo. Nel significato di Signore-Dio ricorre 9 volte in Marco, 26 in Matteo, 35 in Luca e 3 in Giovanni(195) per un totale di 73 occorrenze. Nel significato di Signore-Cristo ricorre 7 volte in Marco, 26 in Matteo, 42 in Luca e 46 in Giovanni,(196) per un totale di 121 occorrenze. Solo raramente però il Cristo si rivolge a sé stesso con l’appellativo ‘Signore’;(197) negli altri casi o il titolo è incastonato nei testi veterotestamentari o è usato da interlocutori del Cristo oppure è iscritto nel tessuto narrativo.(198) Tuttavia la generazione divina del Cristo si può evincere in modo più manifesto dall’uso del termine ‘padre’ (πατήρ).(199) Marco introduce il tema della paternità divina in modo molto sorvegliato. Probabilmente egli non si allon(195)  Mc, v, 19; xi, 9; xii, 11, 29 (2), 30, 36, 37; xiii, 20, 35; Mt, i, 20, 22, 24; ii, 13, 15, 19; iv, 10; v, 33; vii, 21 (2), 22 (2); ix, 38; xi, 25; xxi, 9, 42; xxii, 37, 43, 44, 45; xxiii, 39; xxiv, 42; xxv, 11 (2); xxvii, 10; xxviii, 2; Lc, i, 6, 9, 11, 15, 16, 17, 25, 28, 32, 38, 45, 46, 58, 66, 68; ii, 9 (2), 15, 22, 23 (2), 24, 39; iv, 8, 12, 18, 19; v, 17; x, 21, 27; xiii, 35; xix, 38; xx, 37, 42, 44. Cfr. anche Ebr, i, 10; ii, 3; viii, 2, 8, 9, 10, 11; x, 16, 30; xii, 5, 6, 14; xiii, 6, 20. (196)  Mc, i, 3; ii, 28; vii, 28; xi, 3; xii, 36; xvi, 19, 20; Mt, iii, 3; iv, 7, 10; viii, 2, 6, 8, 21, 25; ix, 28; xii, 8; xiv, 28, 30; xv, 22, 25, 27; xvi, 22; xvii, 4, 15; xviii, 21; xx, 30, 31, 33; xxi, 3; xxv, 37, 44; xxvi, 22; Lc, i, 45, 76; ii, 11, 26; iii, 4; v, 8, 12; vi, 5, 46 (2); vii, 6, 13, 19; ix, 54, 59, 61; x, 1, 17, 39, 40, 41; xi, 1, 39; xii, 41; xiii, 15, 23; xvii, 5, 6, 37; xviii, 6, 41; xix, 8 (2), 31, 34; xxii, 33, 38, 49, 61 (2); xxiv, 3, 34; Gv, i, 23; iv, 1, 11, 15, 19, 49; v, 7; vi, 23, 34, 68; viii, 11; ix, 36, 38; xi, 2, 3, 12, 21, 27, 32, 34, 39; xii, 13, 38 (2); xiii, 6, 9, 13, 14, 25, 36, 37; xiv, 5, 8, 22; xx, 2, 13, 18, 20, 25, 28; xxi, 7 (2), 12, 15, 16, 17, 20, 21. Cfr. Ebr, vii, 14, 21. (197)  Mc, xi, 3; Mt, xii, 8; xxi, 3; Lc, vi, 5; xix, 31; Gv, xiii, 14. (198)  Lc, vii, 13, 19; x, 1, 39, 41; xi, 39; xiii, 15; xvii, 6; xviii, 6; xix, 8; xxii, 61 (2); Gv, iv, 1; vi, 23; xi, 2; xx, 20; xxi, 12. (199)  ‘Padre’ (πατήρ) riferito a Dio presenta 4 occorrenze in Marco, 43 in Matteo; 17 in Luca e ben 113 in Giovanni per un totale di 177 occorrenze (Mc, viii, 38; xi, 25; xiii, 32; xiv, 36; Mt, v, 16, 45, 48; vi, 4, 6 (2), 8, 9, 14, 15, 18 (2), 26, 32; vii, 11, 21; x, 20, 29, 32, 33; xi, 25, 26, 27(3); xii, 50; xiii, 43; xv, 13; xvi, 17, 27; xviii, 10, 14, 19, 35; xx, 23; xxiii, 9; xxiv, 36; xxv, 34; xxvi, 29, 39, 42, 53; xxviii, 19; Lc, ii, 49; vi, 36; ix, 26; x, 21 (2), 22 (3); xi, 2, 13; xii, 30, 32; xxii, 29, 42, xxiii, 34; 46; xxiv, 49; Gv, i, 14, 18; ii, 16; iii, 35; iv, 21, 23 (2); v, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 26, 36 (2), 37, 43, 45; vi, 27, 32, 37, 40, 44, 45, 46, 57 (2), 65; viii, 16, 18, 19 (2), 27, 28, 38 (2), 41, 42, 49, 54; x, 15 (2), 17, 18, 25, 29 (2), 30, 32, 36, 37, 38 (2); xi, 41; xii, 26, 27, 28, 49, 50; xiii, 1, 3; xiv, 2, 6, 7, 8, 9, 10 (2), 11 (2), 12, 13, 16, 20, 21, 23, 24, 26, 28 (2), 31 (2); xv, 1, 8, 9, 10, 15, 16, 23, 24, 26 (2); xvi, 3, 10, 15, 17; 23, 25, 26, 27, 28 (2), 32; xvii, 1, 5, 11, 21, 24, 25; xviii, 11; xx, 17, 21). Cfr. Ebr, i, 5.

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tana molto dalla tradizione ed intende il figlio dell’uomo come una creatura umana e il figlio di Dio come una creatura angelica. Siamo in realtà noi che riversiamo sulle espressioni marciane i significati teologici che esse assumono nei tre vangeli posteriori. Quando Marco scrive che «il figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc, viii, 38), non significa che egli identifica il figlio dell’uomo con il figlio di Dio; la pericope infatti può essere intesa in senso tradizionale come se si riferisse ad una creatura angelica. Che Marco abbia in mente una figura umana più che divina si evince dall’episodio del Getsemani in cui il Cristo, nel momento della tristezza e della angoscia, invoca Dio nei seguenti termini: «Padre, tutto per te è possibile. Allontana da me questo calice, ma non fare ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc, xiv, 36), ove le due volontà sono tenute distinte con la conseguenza che quel «padre» è da intendersi come il creatore onnipotente che ha la paternità su tutto il creato. Significativa è in proposito l’espressione «il padre vostro», riferita ai discepoli e ai fedeli, proprio perché la paternità è estesa e non è una prerogativa del Cristo; ne farà invece un largo uso Matteo, nel quale v’è una più massiccia presenza di pericopi in cui il Cristo si riconosce figlio del padre-Dio; lo stesso accade in Luca. Ma il testo in cui il rapporto padre-figlio, Dio-Cristo, straripa come un fiume in piena è quello di Giovanni. Anche questi elementi, come la frequenza di certi termini e di certi concetti, possono essere assunti come indicativi della anteriorità o posteriorità di un testo. Il titolo «Figlio di David» è fortemente radicato nella tradizione ebraica; ma, una volta assorbito nella teologia cristiana, crea qualche difficoltà per il fatto che il Cristo è reputato «Figlio di Dio». Ed invero nelle loro genealogie di Cristo Matteo e Luca sono costretti ad interrompere la discendenza davidica allorché giungono a Giuseppe che, pur essendo dato come un rampollo davidico, non è tuttavia il padre biologico del Cristo. Il titolo comunque occorre 7 volte in Marco, 15 in Matteo, 12 in Luca ed una sola volta in Giovanni.(200) Ma in alcuni dei passi citati Gesù respinge l’idea di essere figlio di David.(201) Forse una reminiscenza essenica è il titolo di maestro (διδάσκαλος) che conosce ben 47 occorrenze(202) e che si accompagna al verbo insegna(200)  Mc, ii, 25; x, 47, 48; xi, 10; xii, 35, 36, 37; Mt, i, 1, 6, 17, 20; ix, 27; xii, 3, 23; xv, 22; xx, 30, 31; xxi, 9, 15; xxii, 42, 43, 45; Lc, i, 27, 32, 69, ii, 4, 11; iii, 31; vi, 3; xviii, 38, 39; xx, 41, 42, 44; Gv, vii, 42. (201)  Mc, xii, 35-37; Mt, xxii, 41-45; Lc, xx, 41-44. (202)  Mc, iv, 38; v, 35; ix, 17, 38; x, 17, 20, 35; xii, 14, 19, 32; xiii, 1, xiv, 14; Mt,

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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re (διδάσκω) per altre 45 occorrenze.(203) Altri titoli messianici, per lo più di origine ebraica e poco frequenti, sono Rabbi (ῥαββί),(204) Rabbouni (ραββουνι),(205) pastore (ποιμέν),(206) «messia» (μεσσίας) che in tutto il NT è usato solo da Giovanni (i, 41; iv, 25). Il termine ‘profeta’ (προφήτης)(207) è assunto nel senso che aveva nell’AT. Pochi sono i passi in cui esso è riferito al Cristo. Nella pericope marciana «nemo propheta in patria» (Mc, vi, 4) è implicito il riconoscimento del Cristo come profeta. Per Matteo (xxi, 46), a conclusione della parabola dei vignaioli omicidi, è la folla che lo reputa tale; ma una posizione analoga troviamo in Marco,(208) ove la folla lo proclama «profeta come uno dei profeti» ed Erode sospetta che fosse Giovanni redivivo. Luca (Lc, vii, 16), dopo la resurrezione del figlio della vedova di Naim, dichiara: «Un grande profeta è sorto in mezzo a noi! Dio ha visitato il suo popolo». L’impressione che ci danno questi testi è che per i loro autori nel concetto di profeta prevale più l’aspetto miracolistico-taumaturgico che quello del maestro che parla in nome di Dio. L’unico passo in cui è lo stesso Cristo a proclamarsi profeta è in Luca: «Bisogna che io proceda per la mia strada, poiché non è possibile che un profeta muoia fuori Gerusalemme. Gerusalemme che metti a morte i profeti e uccidi a colpi di pietre quelli che ti viii, 19; ix, 11; x, 24, 25; xii, 38; xvii, 24; xix, 16; xxii, 16, 24, 36; xxiii, 8; xxvi, 14; Lc, ii, 46, iii, 12; vi, 40 (2), vii, 40; viii, 49; ix, 38; x, 25; xi, 45; xii, 13; xviii, 18; xix, 39; xx, 21, 28, 39; xxi, 7; xxii, 11; Gv, i, 38; iii, 2, 10; xi, 28; xiii, 13, 14; xx, 16. (203)  Mc, i, 21, 22; ii, 13; iv, 1, 2; vi, 2, 6, 30, 34; vii, 7; viii, 31, ix, 31; x, 1; xi, 17; xii, 14, 35; xiv, 49; Mt, iv, 23; v, 2, 19; vii, 29; ix, 35; xi, 1; xiii, 54; xv, 9; xxi, 23; xxii, 16; xxvi, 55; xxviii, 15, 20; Lc, iv, 15, 31; v, 3, 17; vi, 6; xi, 1; xii, 12; xiii, 10, 22, 26; xix, 47; xx, 1, 21; xxi, 37; xxiii, 5. (204)  Mc, ix, 5; xi, 21; xiv, 45; Mt, xxiii, 7, 8; xxvi, 25, 49; Gv, i, 38, 49; iii, 2, 26; iv, 31; vi, 25; ix, 2; xi, 8. L’uso di Rabbi non è compatibile con il i secolo. Ne segnalano il carattere anacronistico, ossevando che «il relativo titolo non esisteva ai tempi di Gesù», F. C. Grant e H. H. Rowley, voce Rabbi, in J. Hastings, Dictionary of the Bible di Edinburgh, Clark, 1963. (205)  Mc, x, 51; Gv, xx, 16. (206)  Mc, vi, 34; xiv, 27; Mt, ix, 36; xxv, 32; xxvi, 31; Lc, ii, 8, 15, 18, 20; Gv, x, 2, 11, 12, 14, 16. (207)  Presenta 5 occorrenze in Marco (i, 2; vi, 4, 15; viii, 28; xi, 32); 34 in Matteo (i, 22; ii, 5, 15, 17, 23; iiii, 3; iv, 14; v, 12, 17; vii, 12; viii, 17; x, 41; xi, 9, 13; xii, 17, 39; xiii, 17, 35, 57; xiv, 5; xvi, 14; xxi, 4, 11, 26, 46; xxii, 40; xxiii, 29, 30, 31, 34, 37; xxiv, 15; xxvi, 56; xxvii, 9); 28 in Luca (i, 70, 76; iii, 4; iv, 17, 24, 27; vi, 23; vii, 16, 26, 39; ix, 8, 19; x, 24; xi, 47, 49, 50; xiii, 28, 33, 34; xvi, 16, 29, 31; xviii, 31; xx, 6; xxiv, 16, 25, 27, 44). Atti (30 occ.); 13 occorrenze nelle lettere paoline; Ebr, i, 1; xi, 32. (208)  Mc, vi, 14-16; viii, 28; cfr. anche Mt, xvi, 14; xix, 2-4; xxi, 11; Lc, ix, 7-9.

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sono inviati!» (Lc, xiii, 33-34). In Giovanni il termine profeta è più frequentemente riferito a Gesù.(209) Un motivo ricorrente è quello del primato tra i discepoli;(210) la direttiva impartita dal Cristo è che chi vuol essere primo o grande deve porsi al servizio degli altri ed è forse una reminiscenza essenica, tratta dalla Regola: «Nessuno scenda al di sotto del suo posto né s’innalzi al di sopra della sua sorte» (1QS, ii, 23). In alcuni casi tuttavia gli stessi termini assumono un valore messianico. Così in Marco (Mc, x, 45, Mt, xx, 28; Lc, xxii, 27) Cristo dice: «Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Il significato di questo lógion è esattamente quello che ha in Isaia il servo sofferente. Del resto Luca (Lc, xxii, 37; Is, liii, 12) cita esplicitamente il quarto canto del servo: «Sono stato annoverato tra i malfattori». Ma ciò che fa del «servo» un titolo messianico per eccellenza non sono tanto le citazioni quanto la stessa narrazione della passione e morte del Cristo che è manifestamente esemplata sulla figura isaiana. Messianico è anche il titolo «salvatore», che però ricorre solo due volte in Luca (i, 47; ii, 11). I concetti di ‘redenzione’ (λύτρωσις lýtrōsis), e ‘redimere’ (λυτρόομαι lytróomai) ricorrono solo in Luca e sempre in riferimento alla liberazione di Israele e di Gerusalemme (Lc, i, 68; ii, 38; xxiv, 21); di contro ‘riscatto’ (λύτρον lýtron) come prezzo della redenzione è riscontrabile in Marco e in Matteo (Mc, x, 45; Mt, xx, 28). I tre sinottici presentano grosso modo la stessa struttura. Ciò deriva dal fatto che Matteo e Luca non sconvolgono la struttura generale del vangelo marciano. Tutti e tre i sinottici infatti si articolano in due parti fondamentali: la prima contiene la rappresentazione del Cristo nella sua attività predicativa (i suoi detti) e nella sua attività esorcistico-taumatologica (i suoi atti) con l’obiettivo di affermarne la natura divina (il Cristo-Figlio di Dio) e insieme umana (il Figlio dell’uomo) con le sue debolezze umane; la seconda parte contiene i due processi e la passione del Cristo-Figlio dell’Uomo-Figlio di Dio in perfetta analogia con il destino finale del servo sofferente. Nelle pagine dei sinottici l’oscuro personaggio isaiano rivive come se fosse una figura storica recente, identificabile non come uno dei tanti messia, ma come l’unico messia, il messia per antonomasia. Da un certo punto di vista è irrilevante stabilire se il Cristo fu o meno un personaggio storico, poiché la figura che emerge dai sinottici è comunque una costruzione mitica calibrata sui testi (209)  Gv, iv, 19, 44; vi, 14; vii, 40; ix, 17. (210)  Mc, ix, 33-37; Mt, xviii, 1-5; Lc, ix, 56-48; xvi, 14-15; xix, 7-11.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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messianici. Marco dà infatti una consistenza narrativa alle frammentarie pericopi del libro isaiano; dà corpo alla figura del servo del Signore; riempie di dettagli quei passaggi, il giudizio, lo scherno, la flagellazione e la condanna, che nel racconto isaiano sono tratteggiati con poche ed essenziali pennellate. Ed attingendo ampiamente al lessico e alle immagini simboliche e metaforiche dei testi vetero- e inter-testamentari, eleva l’isaiano servo del Signore al rango dell’enochico Figlio di Dio. Ciò che sorprende è che nessuno dei vangeli ci fornisce informazioni sulle comunità cristiane. Troviamo solo notizie confuse sulla sequela dei discepoli, sulle condizioni per farne parte, ma nulla fa pensare a vere e proprie comunità. In generale i discepoli sono indicati con il greco (μαθητής) che ha ben 220 occorrenze nei quattro vangeli; 26 negli Atti e nessuna in Paolo e negli altri testi. Altrettanto frequente è l’uso di Dodici (δώδεκα).(211) Di contro infrequente è il termine apostolo (ἀπόστολος) che ricorre una sola volta in Marco, Matteo, Giovanni e nella Lettera agli Ebrei e 6 volte in Luca;(212) di contro compare 28 volte negli Atti, 33 nelle epistole paoline e 3 nell’Apocalisse giovannea. A dispetto della sovrabbondanza di termini come μαθητής, δώδεκα e ἀπόστολος, i discepoli del Cristo sono figure scialbe, sfuggenti, sulla cui esistenza storica non abbiamo nessuna certezza; sono i personaggi fittizi e immaginari di un romanzo, più che quelli in carne ed ossa di una narrazione storica. Ambiguo è anche il termine ‘vangelo’ (εὐαγγέλιον), che può avere il duplice significato di «buona novella» e di libro scritto. È evidente che la prima accezione, che si riferisce alla predicazione di una promessa di salvezza, di sconfitta della morte, della speranza escatologica di prosecuzione della vita spirituale nel mondo celeste, è più antica; la seconda, che coincide sostanzialmente con una biografia romanzata del Cristo, come se essa stessa fosse il nucleo teologico del «nuovo messaggio», è posteriore anche se solo di qualche decennio. Per la verità la centralità di una personalità carismatica è un tratto comune alle religioni della salvezza, concorrenti del cristianesimo. C’è sempre una individualità, fittizia o reale, mitica o storica (Apollonio di Tia(211)  Mc, iii, 14, 16; iv, 10; v, 25, 42; vi, 7, 43; viii, 19; ix, 35; x, 32; xi, 11; xiv, 10, 17, 20, 43; Mt, ix, 20; x, 1, 2, 5; xi, 1; xiv, 20, xix, 28; xx, 17; xxvi, 14, 20, 47, 53; Lc, ii, 42; vi, 13; viii, 1, 42, 43; ix, 1, 12,17; xviii, 31; xxii, 3, 30, 47; Gv, vi, 13, 67, 70, 71; xi, 9; xx, 24. Sono 4 le occorrenze negli Atti e solo una nelle lettere paoline. (212)  Mc, vi, 30; Mt, x, 2; Lc, vi, 13; ix, 10; xi, 49; xvii, 5; xxii, 14; xxiv, 10; Gv, xiii, 16; cfr. Ebr, iii, 1.

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na, Mitra, Iside e Osiride, Serapione, Zeus), attorno a cui si snoda il messaggio della salvezza. E sempre nella narrazione il mito e la storia si intrecciano e si confondono fino ad essere indistinguibili l’uno dall’altra. Cristo, Mitra, Apollonio sono essi stessi il messaggio della salvezza. Il contenuto teologico è la stessa vita del Cristo, di Mitra o di Apollonio. Ciascuno di essi perde il carattere storico, umano, se c’è, per assumere una dimensione divina. Questo complesso intreccio di teologia e biografia è presente in Marco fin dalla intestazione del testo in cui la nuova promessa teologico-soteriologica è strettamente legata alla figura di Cristo: «Inizio dell’evangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio» (ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου ἰησοῦ χριστοῦ υἱοῦ θεοῦ). È assai probabile che questa intestazione sia una tardiva interpolazione per due ragioni: 1) perché il sintagma «figlio di Dio» (υἱοῦ θεοῦ) non è presente in alcuni manoscritti; 2) perché la denominazione Gesù Cristo (ἰησοῦ χριστοῦ), come si è detto, è davvero singolare e rarissima nei vangeli. Mi pare di aver riscontrato solo un altro paio di esempi (Mt, i, 1; Gv, i, 17). In tutto il resto del NT invece Cristo è sempre preceduto dal determinativo, per indicarne la specificità e l’unicità, connesse alla sua natura regale o divina, come nell’espressione «il Cristo» (ὁ χριστός): il solo Cristo reale, non un Cristo fra gli altri. Ma anche se dovesse essere un’interpolazione, quella intestazione esprime comunque il nocciolo essenziale del testo marciano. La buona novella è nello stesso tempo di Cristo e verte su Cristo. È di Cristo, in quanto da lui annunciata; è su Cristo in quanto è la stessa vita di Cristo che si snoda tra i suoi atti e i suoi detti. L’evangelista ne è solo lo strumento umano che la trasmette. Tuttavia il rischio è che nei tre sinottici la buona novella resti nel vago e nell’indeterminato; occorrerà la genialità dell’autore di Paolo per fare del cristianesimo un’autentica promessa di salvezza. L’espressione «buona novella», presente in Marco e Matteo,(213) ricorre 56 volte nelle lettere paoline, una volta nella 1Pietro e nell’Apocalisse ed è del tutto assente in Luca, in Giovanni e nella Lettera agli Ebrei. Ciò che lascia perplessi nel testo marciano è il mancato riferimento all’oggetto della buona novella. Si dice che si tratta dell’evangelo di Dio, ma non si dice quale sia il suo contenuto. Il che fa pensare che l’autore, senza rendersene conto, ha nella mente l’idea di un testo scritto; non a caso nel versetto successivo ammonisce: «Convertitevi e credete nel vangelo». Ma in che cosa dovevano credere i discepoli se in precedenza Marco aveva solo accennato al battesimo di (213)  Mc, i, 1, 14, 15; viii, 35; x, 29; xiii, 10; xiv, 9, xvi, 15; Mt, iv, 23; ix, 35; xxiv, 14; xxvi, 13.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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Cristo? Nelle altre pericopi citate l’autore sembra collocarsi ad una certa distanza dagli eventi narrati poiché parla di persecuzioni «a causa del vangelo» e fa riferimento al tempo in cui il vangelo «è annunciato a tutte le genti». Al contrario di Marco, Matteo indica costantemente l’oggetto della buona novella perché utilizza sempre il sintagma εὐαγγέλιον τῆς βασιλείας («vangelo del Regno»). Ma anch’egli (Mt, xxiv, 14; xxvi, 13) si pone a distanza dal tempo di Cristo quando prevede che «questo vangelo del Regno sarà annunciato su tutta la terra abitata come testimonianza per tutti i popoli» (καὶ κηρυχθήσεται τοῦτο τὸ εὐαγγέλιον τῆς βασιλείας ἐν ὅλῃ τῇ οἰκουμένῃ εἰς μαρτύριον πᾶσιν τοῖς ἔθνεσιν), ove «questo vangelo» (τοῦτο τὸ εὐαγγέλιον) è manifestamente il libro scritto. Paradossalmente in Luca non compare il termine «vangelo»; egli preferisce usare il verbo ‘evangelizzare’ (εὐαγγελίζω),(214) che trova un ampio impiego nella Septuaginta nella ordinaria accezione di «comunicare». Tuttavia in tre casi, uniformandosi a Matteo, Luca (iv, 43; viii, 1; xvi, 16) lo utilizza nel senso di comunicare/annunciare la buona novella del «Regno di Dio» (τὴν βασιλείαν τοῦ θεοῦ). È noto che Matteo ricorre per lo più all’espressione βασιλεία τῶν οὐρανῶν («Regno dei cieli»)(215) e solo in quattro casi (Mt, xii, 28; xix, 24; xxi, 31, 43) al «Regno di Dio», che è costantemente presente in Marco e Luca.(216) Non credo che ci sia una sostanziale differenza tra «Regno di Dio» e «Regno dei cieli», considerato che in entrambi i casi l’idea di fondo è un Regno di santi che, in virtù della loro santità, sono salvi e sono degni di coabitare con Dio e di condividerne la tavola. Ne è prova il fatto che nelle pericopi parallele Matteo sostituisce il «Regno dei cieli» al «Regno di Dio» presente in Marco(217) o in Luca.(218) Ciò che muta da un vangelo all’altro è l’accento posto su singoli aspetti. Matteo sottolinea che il regno celeste è più facilmente accessibile ai pubblicani e alle (214)  Lc, ii, 10; iii, 18; iv, 43; viii, 1; ix, 6; xvi, 16, xx, 1. v. anche Mt, xi, 5. Il verbo εὐαγγελίζω occorre 15 volte negli At, 19 nelle lettere paoline, 2 nella Lettera agli Ebrei (iv, 2, 6) e 2 nell’Apocalisse (x, 7; xiv, 6). (215)  Mt, iii, 2; iv, 17; v, 3, 10, 19, 20; vi, 10; vii, 21; viii, 11; x, 7; xi, 12; xiii, 11, 24, 31, 33, 44, 45, 52; xvi, 19; xviii, 1, 3, 4, 23; xix, 12, 14, 23; xx, 1; xxii, 2; xxiii, 13; xxv, 1. (216)  Mc, i, 15; iv, 26, 30; ix, 1, 47; x, 14, 15, 23, 24, 25; xii, 34; xiv, 25; xv, 43; Lc, iv, 43; vi, 20; vii, 8; viii, 1, 10; ix, 2, 11, 27, 60, 62; x, 9, 11; xi, 20; xiii, 18, 20, 28, 29; xiv, 15; xvi, 16, xvii, 20, 21; xviii, 16, 17, 24, 25, 29; xix, 11; xxi, 31; xxii, 16, 18; xxiii, 51. Il «Regno di Dio» è citato due volte nelle lettere paoline; una sola volta nell’Apocalisse ed è del tutto assente negli Atti. (217)  Mc, 1-15; Mt, iv, 17; // Mc, iv, 11; Mt, xiii, 11; // Mc, x, 14; Mt, xix, 14. (218)  Mt, v, 3; Lc,vi, 20; // Mt, x, 7; Lc, ix, 2; // Mt, xiii, 11; Lc,viii, 10; // xiii, 33; Lc, xiii, 20; // Mt, xix, 14; Lc, xviii, 16; // Mt, xix, 23; Lc, xviii, 29; // Mt, xxii, 2; Lc, xiv, 15.

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prostitute e che sarà tolto agli ebrei per consegnarlo nelle mani di un altro popolo (Mt, xxi, 31, 43). Luca sottolinea che il tempo della legge e dei profeti si conclude con Giovanni, perché dopo di lui v’è l’annuncio del regno di Dio. Ma l’avvento del regno di Dio sfuma nel vago, viene meno l’attesa, perché esso è già innestato nel presente: «Il regno di Dio non viene in modo spettacolare e nessuno potrà dire: ‘eccolo qua’, ‘eccolo là’! Il regno di Dio è in mezzo a voi»; ma poi di nuovo esso è proiettato in un tempo indefinito come ricompensa (Lc, xvi, 16; xvii, 21; xiv, 14) che i giusti otterranno al momento della resurrezione: «Io vi farò eredi del regno che il Padre mio ha donato a me […] mangerete e berrete alla mia tavola […] siederete su dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Lc, xxii, 29-30). Si tratta probabilmente di una rievocazione del regno dei cieli di cui troviamo tracce nell’enochismo (cfr. LPr, xli, 1). Il Regno di Dio ha due presupposti, entrambi essenziali per il destino escatologico dell’uomo: da una parte l’esistenza di un mondo spirituale,(219) dall’altra l’immortalità dell’anima come condizione per una vita eterna. In tal senso il kērygma acquisisce connotati più puntuali, perché è insieme l’annuncio della prima parousía del Cristo, dell’imminenza della fine dei tempi, dell’avvento del regno di Dio, della salvezza eterna per i giusti e dell’eterna dannazione per i peccatori. Il contenuto più profondo del kērygma è l’alleanza (διαθήκη) in funzione della salvezza. Il termine διαθήκη occorre solo una volta in Marco e Matteo e due volte in Luca,(220) mentre è ben presente nella Lettera agli Ebrei.(221) Il momento culminante dell’eucaristia è anche il momento culminante della sofferenza del Servo del Signore; egli si immola come capro espiatorio e versa il suo sangue per la salvezza degli uomini. Siamo così di fronte ad un nuovo patto? Marco e Matteo non sembrano invocare un nuovo patto con Dio, nonostante il concetto di ‘nuovo patto’ fosse già presente nella Lettera agli Ebrei; essi danno più l’impressione di marciare nell’ottica del patto antico; ciò perché, bevendo il vino, Cristo rievoca il sangue sacrificale della vittima con cui esso era stato siglato. Luca compie la svolta decisiva e trasforma la sostanza teologica dell’eucaristia in sigillo-simbolo di una nuova (219)  Sul carattere spirituale del regno di Dio sono fondamentali i saggi di J. Weiss, Predigt Jesu vom Reiche Gottes, Göttingen, Vanehoeck und Ruprecht, 1892; R. Bultmann, Jesus Christ and Mythology, London, SCM Press, 1960. (220)  Mc, xiv, 24; Mt, xxvi, 28; Lc, i, 72; xxii, 20. Due sono le occorrenze di διαθήκη negli Atti, 9 nelle lettere paoline ed una nell’Apocalisse. (221)  Ebr, vii, 22; viii, 6, 8, 9, 10; ix, 15, 20; x, 16, 29; xii, 24; xiii, 20.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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alleanza con Dio, in cui la ricompensa spettante all’uomo redento è la salvezza eterna: «Questo calice – fa dire Luca al Cristo – è la nuova alleanza nel mio sangue che è sparso per voi» (τὸ ποτήριον ἡ καινὴ διαθήκη ἐν τῶ αἵματί μου, τὸ ὑπὲρ ὑμῶν ἐκχυννόμενον). Qui per la prima volta si invoca chiaramente una nuova alleanza (NT), come si evince dall’aggettivo καινὴ (nuova). Viene così riproposto il concetto di nuova alleanza che la Lettera agli Ebrei aveva ricavato dalla lettura di Geremia (xxxi, 31-34). Lo stesso concetto è presente nel Documento di Damasco(222) e nel Commento ad Habacuc (1QpAb, ii, 3). Le altre fonti di ispirazione dei sinottici sono i Salmi messianici e il Libro di Daniele. I primi forniscono le metafore o immagini che si riferiscono al Cristo; e sono per lo più le stesse che riscontriamo nella letteratura apocrifa intertestamentaria. Di Daniele affascina il misticismo delle visioni che si trovano in forme diverse nel 4Ezra e nel Libro delle parabole. Tutta la letteratura apocrifa è influenzata dai Salmi, da Isaia, Ezechiele, Zaccaria e Daniele. Ma il messia dei Salmi è il Re che libererà Israele e sottometterà gli altri popoli. Il Salmo ii è uno dei primi testi in cui il Re Messia è presentato come «Figlio di Dio». Nel Salmo vii c’è l’ossessione della persecuzione, riferita al popolo d’Israele che teme di essere sbranato da leoni.(223) Lo stesso tema è presente nel Gesù di Matteo che presagisce ai discepoli: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi: siete odiati a causa del mio nome»; «possono uccidere il corpo, ma non l’anima» (Mt, x, 16-22; Mt, x, 28). Ed è questo un Leitmotiv che ricorre frequentemente nei racconti dei martiri. Nel Salmo viii il ‘figlio dell’uomo’ è definito «poco meno di un Dio». Ma più in generale i salmi sono un serbatoio di tematiche messianiche. Vi troviamo i temi dell’angoscia,(224) dei poveri che erediteranno la terra,(225) della salvezza del messia, del giusto sofferente, della coabitazione nella dimora di Yhwh,(226) della lampada che rischiara le tenebre, della fragilità dell’uomo che è un soffio e si agita come vento, del servo del Signore, del Dio vivente, del Dio salvezza e salvatore più potente della morte, del messia che siede alla destra di Yhwh,(227) del sacerdozio eterno secondo l’ordine di Melchizedek (Salmo cx; 11QMelch), della ingenuità (222) CD, vi, 19; xix, 33-34, xx, 12; v. Lc, xxii, 20. (223)  Salmo xvii; Dn, vi; 1QH, v, 6-7. (224)  Salmi ix e xiii; 1QH, iii, 7; v, 12, 34. (225)  Salmi x, xxxvii, lxxxii; CD, vi, 20-21; 4Q171, iii, 10. (226)  Salmi xx, xxii, xxiii, xxvii, lxxxiv. (227)  Salmi xviii,xxxix,xl, xlii, lxviii,cx.

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fanciullesca, della discendenza davidica, della giustizia da dare agli oppressi, del parlare per parabole e di ‘êl-’elyōn il redentore,(228) dell’imminenza della fine,(229) del Dio misericordioso, del messia sposo, della salvezza dei miseri e degli oppressi,(230) dell’essere consegnati come agnelli al macello,(231) della derisione e dello scherno,(232) del camminare sulle acque, del giudice della terra,(233) della nuova alleanza e della legge iscritta nel cuore (Jr, xxxi, 31-33), della circoncisione del prepuzio del cuore,(234) del Dio che «scruta gli abissi […], penetra tutti i loro segreti […], scruta i segni dei tempi […], svela i misteri nascosti» (Sr, xlii, 18-19), di Elia, profeta che viene come fuoco, rapito in alto in un turbine con schiere di fuoco verso il cielo (xlviii), della giovane che concepirà Emanuele, del servo sofferente a cui è dato da mangiare il fiele e da bere l’aceto.(235) Le immagini e le metafore più ricorrenti vengono da testi come i Salmi, il Siracide, la Sapienza, Isaia e dagli apocrifi intertestamentari. Tali sono le metafore del calice; della roccia, del rifugio, del redentore,(236) del bastone, del pastore,(237) dei giusti saggiati come oro nel crogiolo,(238) della vigna del Signore o della piantagione eterna (Is, v, 1-7; 1QH, viii, 20), della pietra d’intoppo, del sasso d’inciampo, del laccio, della trappola,(239) della pietra d’angolo e delle pietre di costruzione (1QS, viii, 5-7; 1QH, vi, 26), dell’inciampare e incespicare,(240) del germoglio o ramo del tronco di Iesse,(241) dei misteri, delle cose nascoste e del loro interprete,(242) dello sgabello dei suoi (228)  Salmi cxvi, cxxxii, cxlvi. Salmo lxxviii. Per il tema della parabola, v. anche Sr, xxxix, 2-3. (229)  Salmo lxxxv; v. anche Commento al Salmo xxxvii, 4Q171, ii, 6-7. (230)  Salmi lxxxix, ciii, cxvi, xlv, lxxii. (231)  Salmo xliv, anche Jr, xi, 19; 1QH, vii, 1. (232)  Salmo xliv; v. anche Jr, xx, 7-8; 1QH, ii, 33. (233)  Salmo lxvi; Is, xliii, 2; Salmo xciv. (234)  Jr, iv, 4; Ez, xi, 19; xxxvi, 26; Salmo li; Regola della Comunità, 1QS, 26. (235)  Is, vii, 10-15; Salmo lxix; 1QH, iv, 11. (236)  Salmi xi, xvi, xxiii;xviii, xix, xxvii, xxxii, lxxxix, xc, cxi, cxv, cxlii; 1QH, iv, 3; vi, 26; vii, 8-9; ix, 28; xi, 15. (237) CD, vi, 4-7;Salmi xxiii, c; Ez, xxxiv, 11-31; CD, xiii, 9; 11QPsa, xxviii, 2. (238)  Sp, iii, 6; Regola della Comunità, 1QS, viii, 4; CD, xx, 3; 1QH, v, 16; 4Q171, ii, 18. (239)  Salmo viii, 14; xci; v. anche 1QS, ii,12; xi, 12; 1QH, ii, 8. (240)  Sr, xli, 2; 1QS, iii, 24; 1QH, iv, 15; ix, 21. (241)  Salmo xi, 1; Jr, xxiii, 5; xxxiii, 15; Zc, vi, 11-13; 1QH, vi, 15; vii, 19; viii, 6, 8, 10. (242) 1QS, iv, 6; iii, 14; 1QH, ii, 13; iv, 27; viia, 27.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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piedi (Salmi, xcix, cx), delle doglie della partoriente, della pesca e dei pescatori (1QH, iii, 7; v, 31-32; v, 7-8), dell’uomo che è polvere, argilla impastata con acqua, che ritorna in polvere,(243) dell’abbreviare i giorni della vita, del dare da mangiare agli affamati (Salmi cix; cxlvi). La piccola apocalisse di Isaia è la fonte ispiratrice di tutte le guarigioni miracolose del Cristo («Si apriranno gli occhi dei ciechi, si schiuderanno gli orecchi dei sordi […], lo zoppo salterà come un cervo e canterà di gioia la lingua del muto» (Is, xxxv). Le benedizioni di Daniele (iii) sono forse un modello per il discorso della montagna in Matteo e delle benedizioni del testo lucano. L’insistenza sulla sordità e indifferenza di questa generazione viene forse da Geremia (viii, 3). Il Documento di Damasco apre uno squarcio sul maestro di giustizia, «chiamato dal seno della madre», il quale, se non è un messia, ha caratteri messianici; se non è il servo sofferente, è comunque oggetto di persecuzioni,(244) cade nell’angoscia, si fortifica nell’afflizione,(245) forse comparirà alla fine dei tempi,(246) è in conflitto con le sinagoghe e con il potere sinedriale, fa della comunità una pianta eterna ed una casa santa, attende la parousía del profeta e dei due messia di Aronne e di Israele,(247) prepara la via del Signore, conduce i suoi seguaci nel deserto e li separa dalla società corrotta e dagli uomini della fossa; infine è mandato a morte.(248) Il servo è per la comunità essenica colui che si pone al servizio di Yhwh, ama la verità, ha in abominio l’ingiustizia, è uno spirito di carne; Yhwh infonde in lui il suo spirito santo e purifica da ogni iniquità il suo cuore; apre nella sua bocca una fonte; scolpisce sulla sua lingua gli statuti divini; il servo è il messaggero di Dio e annuncia la buona novella ai poveri.(249) Dio ha scelto il maestro di giustizia per stare al suo cospetto,(250) per edificare un’assemblea e per spianare la via alla verità (4Q171, iii, 15-17). Il predeterminismo essenico, strettamente connesso al piano e all’economia di Yhwh (4Q171, iii, 15-17) e alla logica dei tempi (243)  Salmo ciii; Sr, xl, 11; 1QH i, 21; iii, 23-24, xii, 26; xiii, 14-15. (244) CD, i, 20; 1QH, ii, 21;v, 30; 1QpAb, viii, 16 - ix, 2; 4Q171, iv, 8. (245) 1QH, ix, 30; 1QS, xi, 16; 1QH, iv, 36. (246) CD, vi, 10-11; 4Q161, fr. 8, 9, 10. (247) 1QS, viii, 5-7; CD, viii, 3; 1QSa, i, 12, 14; 1QS, ix, 11. (248) 1QS, viii, 13-14; CD, xiii, 14; xx, 14. (249) 1QH, xi, 27, 30, 33; xiii, 18; xiv, 25; xvi, 10-11; xvii, 21, 26; xviii, 10-14; 4Q171. (250)  Ma l’autore della Regola dubita che l’uomo nato da donna possa stare al cospetto di Dio («colui che è nato da donna come potrà abitare al tuo cospetto?» (1QS, xi, 21).

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stabiliti (1QS, iv, 18; 4Q171, iii, 3; 1QH, xii, 17), riaffiora qua e là nei testi evangelici, nella parabola del seminatore, in quella della zizzania e altrove. Altre suggestioni letterarie ed altri spunti dottrinali vengono dalla produzione essenica ed enochiana: l’opposizione di luce e tenebre, come opposizione di verità-santità e peccato, ha le sue radici nel Siracide e nella Regola della comunità (Sr, xxxii, 14; 1QS). Da questo testo si evince che il Dio della salvezza è anche il Dio della punizione e della vendetta, poiché punisce Israele per le sue deviazioni dalla legge e lo consegna schiavo ai suoi nemici (1QS, i, 26; ii, 15, v, 12; ix, 22, 23); ma è anche il Dio che consegna alla spada della vendetta del patto il suo popolo (CD, i, 13-17; xix, 9-13; 1QH, vi, 29), senza lasciare «né resto né scampo» (CD, ii, 6-7; 1QM, xiv, 16; 1QH, vi, 32). Alla salvezza dei giusti fa riscontro lo sterminio dei peccatori (1QS, iv, 19; 1QM, i, 10). Vi troviamo il tema della purificazione e santificazione con le acque lustrali e quello della cena eucaristica.(251) Gli studiosi cattolici obiettano che essa non aveva presso gli esseni carattere sacramentale, ma si lasciano sfuggire il fatto che non aveva tale carattere neppure presso le prime comunità cristiane. Le stesse problematiche hanno un tono più prossimo alla ideologia cristiana nel Libro delle parabole; vi troviamo l’ipostatizzazione del Figlio dell’Uomo, annunciato prima della creazione, la seconda creazione, il tema degli oppressi che attendono la vendetta; vi troviamo espressioni tipiche dei vangeli, come «meglio sarebbe che non fossero mai nati».(252) Non a caso Charles(253) ha segnalato la stretta dipendenza letteraria e ideologica tra Enoc e il NT. Il vangelo di Marco è il vangelo delle folle che assistono con stupore alla attività taumaturgica del Cristo e delle folle dei malati e degli indemoniati che chiedono la guarigione. La parola ὁ ὄχλος (= la folla), talvolta sostituita da πολλοὶ (= molti) ha ben 36 occorrenze in Marco, 47 in Matteo, 41 in Luca e 19 in Giovanni. Nel vangelo marciano l’umanità di Cristo è prevalente. Ne sono prova le debolezze umane di Gesù che talvolta è paziente, talaltra scontroso, minaccioso, incollerito, si commuove o è preso da compassione, geme nello spirito, ammonisce severamente,(254) maledice, redarguisce, intima, è impaziente (Mc, xi, 14; viii, 21, 33; ix, 9, 19), si indigna (251) 1QS, iii, 4; vi, 4-5; Regola dell’Assemblea, 1QSa, i, 17-21. (252) LPr, xlviii, 3; xlv, 5; lxxii, 6; xxxviii, 4. (253)  R. H. Charles, The Ethiopic Version,cit., pp. 180-181; cfr. P. Sacchi, Apocrifi, cit., pp. 425-429. (254)  Mc, i, 25; ix, 25;iii, 5; i, 41; vi, 34; viii, 2, 12; i, 43; iii, 12; viii, 15.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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(Mc, x, 14; Lc, xii, 49-50), ha paura e si angoscia, chiede a Dio di allontanare da sé il calice, ora legge nei pensieri altrui, ora non riesce ad individuare chi lo ha toccato tra la folla o non sa di che discutono gli scribi, ignora che un fico fogliato, visto da lontano, è sterile,(255) non conosce l’ora e il giorno della fine della storia, o finge di non conoscere l’oggetto della discussione dei suoi discepoli (Mc, xiii, 32; ix, 33-35); ora dà l’impressione di avere natura divina, ora dichiara di non avere poteri divini («Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo»); dà ai suoi familiari l’impressione di essere fuori di sé, ad altri appare «uno spirito impuro» (Mc, x, 40; iii, 21, 30). Infine umano è, sebbene tratto dal Salmo xxii, l’ultimo grido sulla croce: «Dio mio! Dio mio! perché mi hai abbandonato» (Mc, xv, 34). Ma quali sono i tratti divini del messia? Per Marco sono innanzi tutto i poteri taumaturgici ed esorcistici: scacciare i demoni e guarire le folle dei malati. Divino è anche – a suo avviso – il potere di perdonare i peccati: «Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?», Mc, iii, 15; ii, 5, 7, 9-10). Ma questo è un requisito che vale solo per i credenti. Restano solo due punti salienti nel racconto marciano: il primo è la voce dal cielo che al momento del battesimo dichiara Gesù figlio di Dio; ma questa dichiarazione può essere anche intesa in senso tradizionale in riferimento alle creature angeliche; il secondo è la trasformazione del servo sofferente da creatura umana, come era nella fonte isaiana, a natura divina destinata a risorgere. Si è già detto che i titoli messianici che gli vengono attribuiti non alludono ancora ad una figura divina. Gesù ci è presentato come un uomo che «insegnava come se avesse una certa potestà/autorità» o un uomo dotato di una sapienza non comune e di poteri taumaturgici (Mc, i, 22; vi, 2). Nelle tre profezie della passione(256) si accentua il carattere divino del servo sofferente, che risorgerà entro tre giorni dalla morte. Si tratta in realtà di profezie che sono fictiones interne al tessuto narratologico; sono cioè semplici anticipazioni di ciò che il narratore si accinge a narrare. I lógia di Cristo in Marco sono occasionali, concisi, essenziali, spesso afferenti alla tradizione profetica. Le stesse considerazioni valgono su altri versanti. In generale si ritiene che il Cristo di Matteo sia il messia preannunciato dall’AT; lo dimostrerebbe il fatto che il suo vangelo contiene numerosi rinvii che segnalano gli adempimenti delle Scritture. Non si può tuttavia sostenere che questa sia una spe(255)  Mc, xiv, 33-34, 36; ii, 7-8; viii, 17; v, 30-33; ix, 16; xi, 11-14. (256)  Mc, viii, 31; Mt, xvi, 20-21; Lc, ix, 21-22; Mc, ix, 31-32, Mt, xvii, 22-23; Lc, ix, 43-45; Mc, x, 33-34; Mt, xx, 17-28; Lc, xviii, 31-34.

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cificità di Matteo, perché anche il Cristo di Marco è tratteggiato sulla scorta delle antiche scritture. In Marco i rinvii diretti alle scritture sono pochi, perché molto più spesso sono sottaciuti. Matteo non fa che esplicitare la lettura tipologica che dell’Antico Testamento è implicitamente contenuta in Marco. Luca è sulla stessa scia di Marco. Ciò che emerge da questo procedimento narrativo è la non storicità del Cristo, almeno nella forma in cui ci viene trasmessa nei quattro vangeli canonici.(257) Sicché in fin dei conti la presunta specificità di Matteo viene meno, per il fatto che egli assorbe nel suo testo il 90 % del vangelo marciano. Si potrebbe tutt’al più parlare di maggiore e minore accento posto su taluni aspetti della figura di Cristo. Non v’è dubbio che in Matteo si riscontra un più forte accento sul magistero e sull’uso stesso di ‘maestro’, interprete della legge, pastore, roccia, giudice o anche una maggiore attenuazione del carattere umano del Cristo. Che ‘maestro’ sia un (257) B. Bauer, Christus und die Caesaren. Der Ursprung des Christenthums aus dem römischen Griechenthum, Berlin, Grosser, 1877 (v. anche Kritik der evangeslischen Geschichte der Synoptiker, Bde 2, Leipzig, Wigand, 1841-1847), fu in età moderna tra i primi a contestare la storicità di Cristo e l’autenticità dei Vangeli. Per altri miticisti, limitatamente ai più noti, cfr. D. F. Strauss, La vita di Gesù. Milano, Francesco Sanvito, 1863, t. i, pp. 198 sqq; A. Drews, The Christ Myth, cit., pp. 214-230; K. Graves, The World’s Sixteen Crucified Saviors, or Christianity before Christ, Boston, Colby and Rich, 1876; Willem Christiaan van Manen, Paulus, Leiden, Brill, 1896; P. Alfaric, Jésus a-til existé, et autrestexts, Paris, Coda, 2005; M. M. Mangasarian, The Truth About Jesus. Is he a Myth?, Chicago, Independent Religious Society, 1909, pp. 25-33, Id., How the Bible was invented, Chicago, Independent Religious Society, 1912; Id., The Bible Unveiled, Chicago, Independent Religious Society, 1911, pp. 173-180; J. M. Robertson, Christianity and Mythology, London, Watts, 1900, pp. 317 sqq; Id., The Jeusu Problem, A Restatement of the Myth Theory, Lonodn, Watts, 1917, pp. 72 sqq; Id:; Jesus: Myth or History, London, Watts, 1946, pp. 93-107; H. Cutner, Jesus: God, Man, or Myth?, New York, Truth Seeker, 1950, G. A. Wells, The Jesus of the Early Christians. A Study in Christian Origins,London, Pemberton, 1971, Id., Did Jesus Exist? cit.; Id., The Jesus Legend, cit., pp. xxii-xxxii; Id., The Jesus Myth, cit.; H. Detering, Paulusbriefe ohne Paulus? Die Paulusbriefe in der Holländischen Radikalkritik, Frankfurt am Main, Lang, 1992; G. Lüdemann, Virgin Birth? The Real Story of Mary and her Son Jesus, Harrisburg, Trinity Press International, 1998, Id., The Great Deception: And What Jesus Really Said and Did, Amherst, Prometheus, 1999; E. Doherty, The Jesus Puzzle, cit.; Robert Price, Deconstructing Jesus, cit.; Th. L. Thompson, The Messiah Myth, the Near Eastern Roots of Jesus and David, New York, Basic Books, 2005; R. Viklund, Den Jesus som aldrig funnits: en kritisk granskning av Bibelns Jesus och kristendomens uppkomst, Röbäck, Vimi, 2005; F. R. Zindler, Existió Jesus?, in F. R. Zindler - E. Doherty - S. Acharya, Existió Jesus de Nazareth? cit., pp. 1-19; S. Acharya (i. e. Dorothy Milne Murdock), Les origines del cristianismo y la búsqueda del Jesús histórico, ivi, pp. 97-144.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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titolo messianico si evince dal fatto che è ritenuto un titolo proprio di Dio: «Non fatevi chiamare Rabbi, perché solo uno è il vostro Maestro e voi tutti siete fratelli; non chiamate padre nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il vostro Padre, quello celeste» (Mt, xxiii, 8-9). Matteo espunge dal testo marciano quasi tutto ciò che presuppone la natura umana del Cristo; conserva sì tutti gli episodi marciani da cui si evince la sua umanità, ma esclude ogni riferimento ai suoi sentimenti umani, fatta eccezione per pochi versetti che alludono alla compassione e all’angoscia (Mt, ix, 36; xv, 32; xxvi, 37). Forse un più marcato accento rigorista si può scorgere nelle proposte etiche del vangelo matteano: sono disapprovati il ripudio della moglie, l’elemosina fatta per essere lodati, l’abuso del giudicare gli altri; è raccomandata la riservatezza in materia di cose sacre («Non mettete le perle davanti ai porci»); è bandita la doppiezza di chi in materia di religione pretende di servire Dio e mammona;(258) è severamente condannato l’adulterio che può consistere persino nel posare lo sguardo su una donna sposata con il desiderio di possederla. Non v’è dubbio che tale rigorismo è di evidente matrice giudaica; anzi non è improbabile che la prima circolazione dei testi evangelici sia avvenuta sotto lo sguardo vigile di comunità ancora legate alla tradizione giudaica, come forse dimostra il fatto che uno scriba meticoloso ha fatto sparire dai manoscritti più antichi del testo giovanneo l’episodio dell’adultera perdonata perché poteva far pensare ad una attenuazione della condanna dell’adulterio.(259) (258)  Mt, v, 28, 31;vi, 1-4;vii, 1, 6; vi, 24; Lc, xvi, 13. (259)  Gv, viii, 2-11. La pericope dell’adultera non è presente nei manoscritti siriaci del v-vii secolo, curati dal Cureton, nel Codex Sinaiticus, nel Codex Vaticanus, in codici del Peshito, in traduzioni copte e armene, nei papiri, P66, P75, P45 del iii e iv secolo. Il codice più antico in cui essa compare è il Codex Bezae del v secolo. Agostino, De adulterinis coniugiis, ii, 6-7, sostiene che l’episodio fu escluso da alcuni manoscritti per evitare l’impressione che Gesù giustificasse l’adulterio. Dello stesso parere è Ambrogio. Gerd Theissen, Il nuovo Testamento, cit., sostiene che la pericope dimostra che il vangelo giovanneo non è il risultato di un’unica redazione, ma presenta tracce di due distinte stratificazioni. Secondo G. Zevini, Vangelo secondo Giovanni, Brescia, Queriniana, 2009, esso spezza l’unità del discorso, che è presumibilmente quello dell’ultimo giorno della festa delle capanne. Ed in effetti sussiste una evidente cesura tra la fine del capitolo vii e il versetto viii, 12. In altri codici, generalmente minuscoli, la pericope è collocata dopo Giovanni, xxxi, 25 o dopo Luca xxiv, 53 o xxi, 38. La critica moderna ha rilevato la presenta di varianti stilistiche e anche lessicali con il resto del testo giovanneo. Naturalmente l’esegetica cristiana tende a salvare l’autenticità dell’episodio e ritiene che esso sia compatibile con lo stile di Giovanni (cfr. in proposito Catholic Encyclopedia, voce Gospel of Saint John).

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Se da una parte attenua il carattere umano del Cristo, dall’altra Matteo dà maggiore risalto al Cristo come creatura divina. Il titolo messianico più frequente nel suo vangelo è quello di «padre mio celeste» o «padre mio che sei nei cieli»,(260) che è in qualche modo complementare a quello di «regno dei cieli». Si potrebbe pensare che il termine ‘padre’ sia preso in un’accezione più generale, come padre comune, se non a tutto il genere umano, almeno a tutti i figli di Israele, come sembra suggerire la formula «padre vostro»,(261) ma non v’è dubbio che l’espressione «padre mio celeste» è indicativa di uno speciale rapporto tra Dio e il Cristo. Il passo più significativo in proposito è il seguente: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio. Per questo nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio lo voglia rivelare» (Mt, xi, 27; Lc, x, 22). Matteo e Luca ritornano su questo rapporto (Mt, xi, 19; Lc, vii, 35): sono venuti i profeti, Giovanni e il Figlio dell’Uomo, e non sono stati creduti, «eppure la sapienza di Dio si è manifestata nelle sue opere»; ove tra le opere va inclusa la parousía del Cristo e la stessa attività esorcistica; Cristo scaccia i demoni «nello spirito di Dio» (Mt, xii, 28) o «nel dito di Dio» e questo suo stesso carisma è segno che «per voi è arrivato il regno di Dio» (Lc, xi, 20). Questo processo di scarnificazione e smaterializzazione del Cristo, che in sé è anche un processo di destoricizzazione, prosegue in forma più accentuata in Luca. Solo pochissime volte egli si lascia sfuggire accenni ai sentimenti umani del Cristo. Solo in Luca Gesù si dice angustiato nell’attesa del suo battesimo con evidente allusione alla crocifissione. Lo stesso scenario della meditazione sul monte degli Ulivi, eccetto la preghiera di allontanare il calice, è depurato da ogni elemento che possa far pensare alla umanità del Cristo (Lc, xii, 50; xxii, 42). In Luca (vi, 36) la scena è dominata da Dio, non più il Dio vendicatore della più antica tradizione ebraica, ma il Dio misericordioso del neo-giudaismo, ormai influenzato dall’ellenismo. I toni apocalittici sono stemperati: l’oggetto della buona novella è per Luca la salvezza; il compito del Figlio dell’Uomo è quello di salvare ciò che era perduto. Si ingigantisce il dubbio sulla persistenza della fede: «Il Figlio dell’uomo, quan(260)  La locuzione è titpica di Matteo nel cui vangelo presenta ben 16 occorrenze: v, 45; vi, 1, 14, 26, 32; vii, 21; viii, 11, x, 32, 33; xv, 13; xii, 50; xvi, 17; xviii, 10, 14, 35; xxiii, 9. (261)  «Padre vostro» ricorre in Mt, v, 16; x, 20, 29; xxiii, 9, e in Lc, vi, 36; xii, 30, 32. Negli stessi autori è meno frequente l’espressione «padre mio» (Mt, xi, 27; xx, 23; xxv, 34; xxvi, 29, 53; Lc, ii, 49; x, 22; xxii, 29) o semplicemente «padre» (Mt, xxviii, 19; Lc, ix, 26; x, 21, 22; xxiv, 49).

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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do verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc, xx, 1; xix, 10; xviii, 8). L’attesa del regno diventa sempre più esasperante e la speranza di entrarvi non è garantita, perché le porte di accesso sono strette (Lc, xiii, 22-30; Mt, vii, 13-23; viii, 11-30). Ma in altri passi Luca cambia registro e rende il regno celeste a portata di mano: «il regno di Dio è in mezzo a noi»; è cioè la stessa presenza del messia promesso da Dio. Gli eredi del regno che «il padre mio ha dato a me» sono gli stessi credenti. Come in Marco, anche in Luca Gesù è il servo sofferente che si riconosce figlio di Dio (Lc, xvii, 21; ix, 20; xxii, 28, 37). Se per Marco Cristo si dichiara ‘figlio del Benedetto’ (titolo tradizionalmente attribuito a Dio) per Luca è esplicitamente ‘figlio di Dio’, ‘primogenito’, ‘Salvatore’, ‘Cristo Signore’ (Mc, xiv, 62; Lc, xxii, 70; ii, 11). Anche l’angelo Gabriele annuncia a Maria che il figlio che le nascerà sarà chiamato ‘figlio di Dio’ (Lc, i, 36). Ma qui sorge una difficoltà perché «figlio di Dio» non coincide esattamente con il nome Gesù (= soccorso di Dio). Luca (Lc, ii, 21) afferma che il primogenito fu chiamato Gesù, ovvero con «quel nome che l’angelo aveva indicato»; Gabriele però aveva detto che sarebbe stato chiamato «figlio di Dio». Le due versioni non coincidono; perciò dobbiamo pensare o ad una svista dell’interpolatore dei primi due capitoli lucani o alla voluta identificazione del «soccorso di Dio» con il «figlio di Dio». Discutibile è anche un ulteriore spunto dei tre sinottici in ordine alla bestemmia, in cui, a ben riflettere, cade il principio del trinitarismo, sebbene mai esplicitamente ammesso: ci viene infatti detto che colui che dirà una parola contro il figlio dell’uomo, sarà perdonato; chi bestemmierà contro lo Spirito Santo non sarà perdonato (Mc, iii, 28-30; Lc, xii, 10), che è quanto dire che le persone della trinità sono autonome e distinte. Qui forse Luca segue pedissequamente Marco, che certo non aveva la stoffa del teologo. Può essere utile anche un’analisi del termine ‘spirito’ che sembra avere le seguenti accezioni: lo spirito è a) una potenza spirituale che interviene nel battesimo;(262) b) lo spirito divino che scende dal cielo sotto forma di colomba;(263) c) un principio che spinge all’azione; all’opposto del demone socratico che invita ad astenersi dall’agire, lo spirito di cui parlano gli evangelisti induce a fare qualcosa, come per esempio a isolarsi nel deserto.(264) In quanto tale è l’interiorità, la mente che conosce le cose o penetra nei pensieri altrui;(265) cor(262)  Mc, i, 8; Mt, iii, 11; Lc, iii, 16; Gv, i, 33, iii, 5, 6, 8, 34; iv, 23, 24; xiv, 26; xx, 22. (263)  Mc, i, 10; Mt, iii, 16; Lc, iii, 22; Gv, i, 32, 33. (264)  Mc, i, 12; Mt, iv, 1; xxii, 43; Lc, ii, 27; iv, 1. (265)  Mc, ii, 8; viii, 12; xiv, 38; Lc, x, 21; xxiii, 46; xi, 33; xiii, 21.

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risponde in qualche modo al nostro concetto di anima. In questa accezione rientrano anche le espressioni «poveri di spirito», indicative di una semplicità e ingenuità spirituale, «spirito di Maria» o quello dello stesso Cristo che «cresceva e si fortificava» (Lc, i, 47; Mt, v, 3; Lc, i, 80); d) gli spiriti impuri o maligni sono i demoni, che, secondo la tradizione ebraica, sono di natura spirituale, per essere angeli caduti in disgrazia;(266) e) lo ‘spirito’ è anche il ‘respiro’, nel senso di identità di animazione e respiro; Gesù emise lo spirito (Mt, xxvii, 50; Gv, xix, 30); f ) infine lo ‘spirito’ è anche un fantasma; in questa accezione è presente solo in Luca (xxiv, 37, 39). In Giovanni lo spirito come potenza spirituale ha una più marcata evidenza soprattutto nei seguenti passi: «lo spirito è Dio» πνεῦμα ὁ θεός, «lo spirito vivifica» τὸ πνεῦμά ἐστιν τὸ ζῳοποιοῦν, «lo spirito della verità» τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας, inteso come lo spirito della verità di Dio.(267) Particolare è poi la pericope in cui Giovanni dice che i credenti non ricevono lo spirito (probabilmente nel senso della santificazione) finché Gesù non è ancora glorificato (ὅτι ἰησοῦς οὐδέπω ἐδοξάσθη, Gv,vii, 39). Essa presuppone che la glorificazione si riferisca alla crocifissione e al ritorno al Padre celeste; il che significa che per Giovanni la salvezza è strettamente legata alla tragica fine del Cristo e alla sua resurrezione. Mentre le sei accezioni individuate si riferiscono allo spirito umano, la formula «Spirito Santo» sembra riferirsi ad una potenza divina, come si evince dal fatto che la bestemmia contro di esso è irremissibile.(268) La potenza divina è una potenza che assiste, protegge, induce all’azione, per es. a trovare le parole adatte nei momenti difficili (Mc, xiii, 11; Lc, xii, 12). In questo senso forse si dice che Gesù, Maria e Zaccaria sono ricolmi dello Spirito Santo (Lc, i, 41, 67; iv, 1; xiv, 18) o che Maria rimase incinta ad opera dello Spirito Santo (Mt, i, 18, 20; Lc, i, 15). In quanto tale, lo spirito è la potenza del Padre che sovrasta, sta sopra Gesù o sopra Simeone, conferisce il potere di scacciare i demoni, ma è anche un dono che il padre celeste può dare a coloro che lo chiedono.(269) Particolare è nel quarto vangelo lo spirito santo che si configura come un soffio forte che santifica chi lo riceve (καὶ τοῦτο εἰπὼν ἐνεφύσησεν καὶ λέγει αὐτοῖς, λάβετε πνεῦμα ἅγιον, Gv, xx, 22). Ciò signifi(266)  Mc, i, 23, 26, 27; iii, 11, 30; v, 2, 8, 13; vi, 7; vii, 25; ix, 17, 20, 25; Mt, viii, 16; x, 1; xii, 43, 45; Lc, iv, 33, 36; vi, 18; vii, 21; viii, 2, 29, 55; ix, 39, 42; x, 20; xi, 24, 26; xiii, 11. (267)  Gv, iv, 24; vi, 63; xiv, 17; xv, 26; xvi, 13. (268)  Mc, iii, 29; xii, 36; Mt, xii, 31, 32; Lc, xii, 10. (269)  Mt, x, 20; xii, 18; Lc, ii, 26; Mt, xii, 28; Lc, xi, 13.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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ca che nei sinottici non c’è il trinitarismo come noi lo intendiamo oggi, perché non c’è una precisa idea della personalità dello Spirito Santo. La formula battesimale e trinitaristica del «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» è evidentemente tardiva ed è riconducibile al momento in cui il battesimo viene sacramentalizzato; essa, come è noto, è presente in Matteo (Mt, xxviii, 19) in un passo che nel suo complesso ha i tratti tipici della manipolazione. Non mi pare che nei tre sinottici emergano cristologie nettamente differenziate. Tutt’al più si può dire che in essi sia diverso il peso che viene riconosciuto a ciascuno degli aspetti della personalità del Cristo. In tutti e tre il tema di fondo è quello della giustizia e della salvezza. La giustizia che deve sconvolgere l’ordine esistente; la salvezza come promessa se non terrena, escatologica. Gli autori dei vangeli sembrano vivere la stessa tragedia che i loro padri hanno vissuto nel periodo della cattività babilonese. Allora il nemico era il popolo babilonese, ora il popolo che domina sulla scena del mondo è quello romano. Come era accaduto nel passato, il popolo ebraico è di nuovo soccombente, subisce una nuova diaspora; il tempio è distrutto, lo Stato giudaico è soppresso, le religioni pagane si diffondono e compromettono la purezza della cultura e della religione giudaica. Il culto di Yhwh crolla. La Giudea cade nelle mani della dinastia idumea di Erode. La salvezza è cercata nell’isolamento; vana è l’attesa dell’eroe nazionale che, come strumento di Dio, vendica i torti subiti dai padri e distrugge i popoli dominatori e gli arconti del mondo. Le visioni messianiche dei Salmi, di Isaia, di Ezechiele, di Geremia e degli altri profeti diventano pregnanti e accendono la speranza di un riscatto; affascina la nuova teologia di Daniele. Ma i concetti di ‘figlio di Dio’, ‘figlio dell’uomo’, ‘regno celeste e divino’, sono sfumati e non hanno contorni definiti; non è neppure chiara nei testi profetici l’identità del Servo sofferente che può essere intesa come il messia atteso o come lo stesso popolo di Israele. Il processo di ellenizzazione è già in atto da qualche secolo; la fuga dalla Palestina, le diverse fasi della dispersione degli ebrei nell’area mediterranea orientale hanno già prodotto i primi contatti con la civiltà ellenica, hanno già cominciato ad intaccare e ad erodere il mondo dei valori della tradizione. La stessa produzione pseudepigrafa dei profeti maggiori e minori tra il quarto e il terzo secolo risente dell’influenza greca e non è più perfettamente allineata con i modelli assiologici della storia primaria. Le ellenizzazioni forzate di Menelao e di Giasone, per quanto possano essere state aspramente avversate, hanno lasciato nella cultura ebraica tracce profonde, non solo nelle

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frange che le hanno accettate, ma anche in quelle che le hanno contrastate. Dallo sgretolamento del giudaismo tradizionale nascono nuove sette o comunque si generano processi di transizione e di trasformazione di quelle esistenti. È in questo crogiolo di fermentazione culturale che assume la propria fisionomia l’essenismo, generando dal suo seno forme di dissenso che sfociano in forme di enochismo prima e di cristianesimo dopo. Tra il primo secolo avanti Cristo e il primo dopo Cristo si sviluppa una produzione apocrifa veterotestamentaria in cui sono veicolate le nuove ideologie precristiane. Le tragiche distruzioni del tempio e successivamente di Gerusalemme (tra il 70 e il 135) sono percepite dagli ebrei come la fase conclusiva della storia. Perciò l’attenzione si sposta dal piano terreno a quello divino; il regno materiale, che non è possibile costruire sulla terra, è rinviato nella sfera celeste; il tempo materiale e storico è percepito come compiuto; il regno dei cieli è sentito come prossimo o nella sua dimensione trascendente o come irruzione del divino nella storia umana. Per chi geme nel dolore le illusioni sono l’unico farmaco. Di certo v’è che in tale arco di tempo il messianismo ebraico cambia pelle; non è più la pretesa di un regno giudaico materiale, che faccia una carneficina degli altri popoli, ma si trasforma nell’attesa di un regno spirituale; un regno di Dio, come dono gratuito della divinità, o un regno che apra le porte alla salvezza, non ad una salvezza che viene dall’uomo, ma ad una salvezza che nasce dalla giustizia divina che è insieme una promessa e una minaccia; è la promessa della liberazione dal peccato e della vittoria sulla morte, ma è anche la minaccia del giudizio divino che si abbatte sugli uomini come un ladro che viene a sorpresa di notte; è una minaccia per coloro che non sono preparati e che non si predispongono ad un radicale mutamento dello «stile di vita» o ad una conversione/metanoia. Tutte le immagini evangeliche legate all’attività predicatoria, come la pesca, la semina, il raccolto, il granaio, la zizzania veicolano questo concetto della aleatorietà della salvezza. Non è un caso che i discepoli sono pescatori; essi infatti non sono personaggi storici, sono simboli teologici, sono pescatori di uomini. Nel passaggio dall’enochismo al cristianesimo il punto di svolta si sviluppa sui temi del peccato e del peccatore; per la comunità più prettamente giudaica i peccatori sono schiere di uomini destinati allo sterminio e allo stridore di denti. Questo tema resta nel proto-cristianesimo, ma gradualmente è sopraffatto dal tema opposto della giustizia per gli oppressi, della salvezza dei poveri, del recupero di coloro che sono perduti, perché l’annuncio della salvezza è più pregnante per i malati che per i sani, per i peccatori più che per i giusti: «Non sono i sani che

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc, ii, 16-17). Certo è uno strano Dio questo Figlio dell’Uomo che sembra seminare molto e raccogliere poco anche quando fa mostra di possedere poteri sovrumani; perché non è ascoltato, non è compreso neppure dai suoi discepoli più stretti. È il Dio che si umilia nella materialità del corpo umano, che si sacrifica nell’obbrobrio e nella ignominia della pena più umiliante, che mantiene il riserbo sulla sua natura divina, ma fa sfoggio di una onnipotenza che spezza tutte le leggi della natura e promette ai suoi lo stesso potere di scacciare e dominare i demoni. Satana in fondo è la sua controfigura: se Satana non esistesse, i suoi poteri divini non sarebbero manifestabili. In fondo è vero che il Cristo scaccia Satana attraverso Satana (Mc, iii, 22-27), almeno nel senso che se non ci fosse, Satana non potrebbe essere scacciato. La realtà è che tutta la narrazione relativa ai miracoli e alle guarigioni, al Cristo esorcista e taumaturgo, cui Paula Fredriksen(270) è disposta a dare credito, è la parte più debole dei testi evangelici. Ha lo stesso effetto del folclorismo dei fuochi di artificio che chiudono una festa. Non ha senso fare la conta dei miracoli veritieri e di quelli poco credibili; è tutta l’area miracolistica che è priva di fascino ed è tutto sommato ingenuo pensare che i prodigi possano rivestire il significato teologico della onnipotenza divina. Essi sono in realtà solo una inutile superfetazione della predicazione del Cristo elaborata in omaggio alle antiche profezie veterotestamentarie. 3.22.  La cristologia di Giovanni Cristo è il verbo, è Sapienza e Dio stesso come principio creatore (Gv, i, 1-18). La sua esistenza è pre-storica o pre-patriarcale («Prima che fosse Abramo, io sono», Gv, viii, 58). Un concetto questo che già presente, anche in forma personificata, in Sapienza (ix, 9) e in Proverbi (viii, 22-31), è espresso da Giovanni in una forma poeticamente più suggestiva; ma sul piano filosofico tanto il sapere, quanto il Verbum ovvero il Lógos o ‘parola’, essendo meri atti, non possono essere sostanzializzati. Ipostatizzato è anche lo ‘spirito’ (ebr. rū’ah ‫)רוח‬, reso con il greco pnéuma (πνεῦμα). Giovanni lo utilizza nell’accezione di ‘alito’, ‘respiro’, ‘soffio divino vivifican(270) P. Fredriksen, Jesus of Nazareth, cit., pp. 115-118. Non dissimile è la posizione di J. D. Crossan, Jesus: A Revolutionary Biography, cit., pp. 82-84.

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te’, santo e santificante, materializzato in colomba oppure come sostanza spirituale, come Dio («Dio è spirito») o come Paraclito con funzione docente o come interiorità, intimità, anima, mente o infine come verità ipostatizzata ed eterna.(271) Sebbene non si possa parlare di vera e propria trinità nel senso più pregnante del termine, Giovanni è il costruttore di una metafisica, appena abbozzata, e di una teologia che diventerà centrale nella dottrina cristiana dei secoli successivi. La divinità di Cristo è affermata nello stretto rapporto di parentela con il padre celeste; non c’è in Giovanni quella timidezza che si riscontra nei tre sinottici e che è tipica di chi batte per primo una strada nuova. Giovanni ha una formazione, se non filosofica, teologica, che gli deriva non solo da fonti come la Sapienza e i Proverbi, ma anche dal fatto che egli incrocia in qualche modo la gnosi del nuovo secolo emergente. Cristo è apertamente e senza mezzi termini ipostatizzato, divinizzato. Non ci sono più in lui tracce umane, se non sporadicamente e come cascami provenienti dai sinottici (freme, sospira, si turba, piange, gioisce, la sua anima è turbata).(272) Il figlio dell’uomo è ormai un’entità divina: ha ricevuto da Dio il potere di giudicare; è il figlio di Dio glorificato nella crocifissione e la sua gloria è la gloria di Dio.(273) Infine è lui che conferisce la vita eterna; la sua sede è il cielo da cui discende e in cui torna come alla propria dimora.(274) Natanaele e Marta lo riconoscono «figlio di Dio»; Pietro e Marta lo invocano come Cristo, ma egli stesso non manca di dichiararsi apertamente Cristo e Figlio di Dio.(275) I morti udiranno la sua voce e lo stesso vangelo, inteso come testo, è scritto affinché si rafforzi la fede nel figlio di Dio (Gv, v, 25, 39; xx, 31). Tutto ciò dà ad interpreti come Davies(276) l’opportunità di affermare che il Cristo di Giovanni ha la duplice natura della persona umana e della persona divina che vi si sovrappone. Sicché i lógia del Cristo sono di fatto lógia dello spirito divino. Per questa stessa ragione esegeti come Burney ritengono che il testo greco di Giovanni sia una traduzione da un originale aramaico.(277) (271)  Gv, xix, 30; vi, 63; iii, 5, 6, 8, 34; iv, 24; i, 32, 33;iv, 24; xiv, 26; xi, 33; xiii, 21; xiv, 17; xv, 26; xvi, 13. (272)  Gv, xi, 33; xi, 35; xv, 11; xii, 27; xiii, 21. (273)  Gv, (v, 27; viii, 28; ix, 35; xii, 23; xi, 4. (274)  Gv, vi, 27, 53; iii, 13, 14; vi, 62. (275)  Gv, i, 41, 49; xi, 27; iii, 25, 26; x, 36. (276)  S. L. Davies, Jesus the Healer, cit., pp. 154-162. (277)  C. F. Burney, The Aramaic Origin of the Fourth Gospel, Oxford, Clarendon, 1922, cfr. in particolare l’introduzione, pp. 1-27.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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Il Cristo è per Giovanni l’elemento separatore tra la legge tradizionale e il cristianesimo. Mosè – egli dice – ha dato la legge, Cristo ci ha elargito «la grazia e la verità»; la sua origine è misteriosa: nessuno può sapere da dove egli viene; la sua identità divina è al di sopra di ogni sospetto, perché non si possono dare più segni di quanti egli ne ha dati (Gv, vii, 27, 31). Giovanni usa il termine ‘Signore’ esclusivamente in riferimento a Gesù e il termine ‘Padre’ esclusivamente in riferimento al padre celeste, del quale Gesù è un ‘inviato’. Il rapporto Padre-Figlio è espresso nella forma teologicamente più matura e, pour cause, più recente: numerose sono in proposito le formule da lui adottate. Ne do un’ampia campionatura: Io e il Padre siamo uno (x, 30). Sono Figlio di Dio (x, 36). Esco dal Padre e vengo in questo mondo. Di nuovo lascio il mondo e vado al Padre (xvi,28). Io non sono solo, poiché il Padre mio è con me (xvi, 32). Io sono la via, la verità e la vita; nessuno giunge al Padre se non attraverso me (xiv, 6). Rabbi, noi lo sappiamo! Tu vieni da Dio (iii, 2). Colui che mi ha veduto, vede il Padre […] non credi che io sia nel Padre e che il Padre sia in me? Le parole che di dico non vengono da me stesso, ma è il Padre che, albergando dentro di me, compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non credete a me, credete nelle sue opere (xiv, 6-11; x, 37-38). Io vivo e anche voi vivrete. In quel giorno saprete perché io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (xiv, 20). Il Figlio non può fare se non quello che ha visto fare dal Padre […] come infatti il Padre risuscita i morti e li restituisce alla vita, così il Figlio fa vivere chi vuole (v, 19, 21).

Ed è come dire che la salvezza è nell’assoluto arbitrio del Cristo (Gv, v, 19-21); meglio sarebbe dire che c’è un misto di arbitrarismo e di predestinazionismo, poiché se è vero che la salvezza dipende dalla libera scelta della fede («Questa è la volontà del Padre mio che mi ha mandato: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»), è altresì vero che tutto è già predeterminato («Nessuno può venire a me se non per un dono del Padre»; «Non voi avete scelto me, ma io ho scel-

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to voi. E io vi ho istituiti perché andiate e portiate frutto»; «Non sono stato forse io stesso a scegliere voi, i Dodici, ed uno di voi che è un diavolo?».(278) Lo stesso tradimento di Giuda, che peraltro è adempimento del Salmo xli, 10, è predeterminato da Cristo: «Per lui intingo questo boccone e glielo porgo. Poi intinge nel boccone e lo porge a Giuda Iscariota. Ed ecco, dopo quel boccone, Satana entra in lui. E Gesù gli dice: ‘Quel che vai facendo, affrettalo’» (Gv, xiii, 26-27). Predeterminata è altresì la persecuzione dei discepoli: «Io vi ho prescelti dal mondo: ecco perché il mondo vi odia […]; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi […]. Chi odia me, odia anche il Padre mio»; «Mi hanno odiato senza un perché. Non conoscono né il Padre, né me» (Gv, xv, 19-25; xvi, 3). C’è forse qualche radice di docetismo nella eccessiva insistenza del Cristo di non essere di questo mondo, sebbene pretenda che il mondo creda in lui come inviato da Dio (Gv, viii, 23; xvii, 12 e 16; xvii, 20-21). Ma c’è in Giovanni, più che negli altri vangeli, la delusione per la mancanza di fede, per la difficoltà di fare proselitismo. Il mondo non ha riconosciuto il Cristo; egli è venuto nella sua casa, ma i suoi abitanti non lo ricevettero; «Voi vi rifiutate di venire a me, per avere la vita» «Voi, che pur mi vedete, non credete!» (Gv, iii, 1-9: v, 40; vi, 36). E il suo tono si fa minaccioso: «Voi non ascoltate, perché non siete da Dio!»; chi non crede nel Figlio, non vedrà la vita eterna, anzi sopra di lui incombe l’ira di Dio (Gv, viii, 47; iii, 36). All’incredulità degli uomini si aggiunge l’incredulità e l’incomprensione dei discepoli: «Di cosa stia parlando non capiamo»; «Come può darci la sua carne da mangiare? […] Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo e se non bevete il suo sangue, non avrete vita in voi […]; la mia carne è il vero cibo, il mio sangue la vera bevanda […]; è lo spirito a dare vita, la carne non serve a nulla» (Gv, xvi, 18; vi, 52-55, 63-65). Se voi non credete quando vi parlo di cose terrene, come crederete se parlo di cose celesti? Nessuno è asceso al cielo, se non colui che è disceso dal cielo […]. Dio ha tanto amato il mondo che ha sacrificato il suo Figlio Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna; chi crede non è condannato, ma chi non crede è già condannato […] e la causa sta in questo che la luce venne nel mondo, ma gli uomini le preferirono le tenebre […]. Infatti chi fa il male odia la luce» (Gv, iii, 12-20). (278)  Gv, vi, 36-40; vi, 65; xvii, 9; xv, 16; vi, 70.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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Anche l’autorevole testimonianza del Battista sembra essere travolta dalla incredulità: egli attesta ciò che ha veduto e udito; eppure «nessuno accetta la sua testimonianza» (Gv, iii, 31). Altrove Giovanni accenna alla defezione di taluni discepoli («Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui», Gv, vi, 66). Tutto fa pensare che l’autore di Giovanni coglie tale stato di disagio nelle comunità cristiane nel momento in cui egli scrive presumibilmente tra il 150 e il 160. Cominciava forse a fermentare la disillusione della lunga attesa messianica. Tra l’altro Giovanni gioca ambiguamente su due fronti: da una parte denuncia l’effettiva caduta della fede, dall’altro la inquadra nel profetismo veterotestamentario e si richiama alla parola di Isaia: «Signore chi ha creduto al nostro annuncio?» (Gv, xii, 37-43). Sicché diventa sempre difficile stabilire quanta parte della narrazione è data come presunto fatto storico e quanta dipende invece dal profetismo antico. A conferma che la comunità giovannea era attraversata da una crisi spirituale che investiva la fede in Cristo e l’attendibilità dell’avvento del regno dei cieli sta l’ossessiva insistenza di Giovanni sulla verità della narrazione evangelica; nel suo testo l’aggettivo ‘vero’ (ἀληθὲς) e il sostantivo ‘verità’ (ἀλήθεια) hanno una frequenza che non trova riscontro nei tre sinottici. Solo due volte (Gv, iii, 33; viii, 26) l’aggettivo ‘vero’ è riferito a Dio; in tutti gli altri casi Giovanni è preoccupato di far passare per vera la sua testimonianza, ma non in quanto relativa ad una verità storica (l’esistenza stessa del Cristo), ma in quanto relativa ad una verità metafisico-teologica. Di particolare interesse è in proposito il seguente passo: Se io testimoniassi a me stesso – egli fa dire a Cristo – la mia testimonianza non sarebbe vera, ma per me ha testimoniato il Battista ed io so che la sua testimonianza è vera; tuttavia se qualcuno dovesse metterla in dubbio, dico che io ricevo testimonianza non da un uomo […], ma da una fonte più grande di quella di Giovanni, perché è lo stesso Padre mio che attesta di avermi inviato (Gv, v, 31-38).

Ma l’autore di Giovanni non si rende conto che così posta la questione, la testimonianza del Cristo torna ad essere una testimonianza a favore di sé stesso. Non so quale possa essere la robustezza teologica della sua posizione, se è compromessa dalla sua fragilità filosofica. Dall’impasse egli esce solo puntando sulla ipostatizzazione della verità, la quale viene da Dio o da Cristo, che la produce, o è Cristo stesso o è la parola di Dio o è il paraclito, come

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«spirito della verità».(279) Un significato analogo ha la pericope vii, 18, ove la veridicità del Cristo è giustificata dal fatto che egli non cerca la gloria per sé, ma per chi lo ha mandato. Questa posizione è contraddetta nel capitoloviii (14-17), ove si dice che anche la testimonianza a proprio vantaggio resta vera, poiché – puntualizza il Cristo – «io so da dove vengo e dove vado» e il mio giudizio, essendo condiviso dal Padre che mi ha mandato, è conforme alla legge per la quale «la testimonianza di due uomini è valida». Ma due uomini non sono un uomo ed un dio. Altrove il Cristo dichiara «cibo vero» la sua carne e «bevanda vera» il suo sangue, senza alcun rapporto con la cena eucaristica (Gv, vi, 55). Gli altri casi riguardano la verità della testimonianza del Battista e quella del presunto autore del vangelo, il discepolo amato da Cristo, il quale scrive: «Questi è quel discepolo, che dà testimonianza di queste cose ed è l’autore che le scrisse e lo sappiamo perché la sua testimonianza è vera» (Gv, xix, 35; xxi, 24). A chi si riferisce quel ‘noi’? È evidente che quel ‘noi’ si distanzia dal tempo di Giovanni e contemporaneamente dal tempo di Cristo e si riferisce non tanto ai lettori del vangelo, quanto ai soggetti di quella comunità per la quale l’autore di Giovanni scrive. Tutti questi indizi inducono a pensare che Giovanni scrive in una fase di crisi delle comunità cristiane, quando non solo il tempio era stato distrutto, ma la stessa nazione ebraica aveva subito un colpo fatale con la distruzione di Gerusalemme (135). Giovanni scrive quando ormai la rottura con il mondo ebraico e con il giudaismo è un fatto compiuto. Lo dimostra il fatto che egli usa il termine ‘giudei’ nel senso generico di ‘ebrei’, citati per ben 66 volte(280) a differenza di Marco e di Matteo che li menzionano rispettivamente sette e sei volte.(281)È evidente che nel panorama religioso palestinese il termine ‘giudei’ è comprensivo di tutte le formazioni settarie; ad esso si affianca in proporzioni più modeste quello di ‘farisei’, usato 18 volte.(282) Il che significa che Giovanni scrive quando ormai in Palestina il partito vincente e dominante è quello farisaico, tanto che dire ‘giudei’ equivale a dire ‘farisei’. In Marco e in Matteo (279)  Gv, viii, 40; viii, 32, 45; iii, 21; xiv, 6; xvii, 17; xiv, 17; xv, 26; xvi, 7, 13. (280)  Gv, i, 19; ii, 6, 13, 18, 20; iii, 1, 25; iv, 9, 9, 22; v, 1, 10, 15, 16, 18; vi, 4, 41, 52; vii, 1, 2, 11, 13, 15, 35; viii, 22, 31, 48, 52, 57; ix, 18, 22; x, 19, 24, 31, 33; xi, 8, 19, 31, 33, 36, 45, 54, 55; xii, 9, 11; xiii, 33; xviii, 12, 14, 20, 31, 33, 35, 36, 38, 39; xix, 3, 7, 12, 14, 19, 20, 21, 31, 38, 40, 42; xx, 19. (281)  Mc, vii, 3; xv, 2, 9, 12, 18, 26; Mt, ii, 2; xxvii, 11, 29, 37; xxviii, 15. (282)  Gv, i, 24; iii, 1; iv, 1; vii, 32, 45, 47, 48; viii, 13; ix, 13, 15, 16, 40; xi, 46, 47, 57; xii, 19, 42; xviii, 3.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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il termine ‘giudei’ ricorre nella formula «Re dei giudei». Marco ricorda i giudei a proposito del precetto di purificare le mani; Matteo li cita per dire che presso di loro si era diffusa la diceria secondo cui il corpo del Cristo morto era stato trafugato dai discepoli (Mc, vii, 3; Mt, xxviii, 15). In Giovanni invece i giudei, nel senso generico di ebrei, non sono più le folle acclamanti le straordinarie guarigioni del Cristo, ma sono coloro che si dimostrano scettici nei confronti del suo operato, cominciano a contestarle, sono in particolare diffidenti a proposito della guarigione del cieco e si spingono fino a chiedere ai genitori se il miracolato fosse cieco dalla nascita. I genitori però non danno una risposta univoca, ma si limitano a dire: «Egli è adulto, chiedete a lui!» (Gv, ix, 18-22). Siamo cioè ormai lontani dai tempi di Cristo; nel frattempo si sono imposte dicerie di vario genere che i vangeli lasciano intravvedere velatamente e che riguardavano certamente non solo l’operato del Cristo, ma anche la sua storicità. Giovanni è costretto a barcamenarsi alla meglio, ma non sembra avere concreti argomenti per contrastare le critiche dei giudei. Ciò che però possiamo rilevare è che quel ‘giudei’, assunto in senso generico e attestato negli Atti (per ben 77 volte) e nelle lettere paoline (24 volte), sembra essere indicativo della seriorità dei testi che vi ricorrono, perché evidentemente chi scrive ha perso ormai da tempo i contatti con il mondo palestinese. Anche le presunte spiegazioni etimologiche di Giovanni,(283) se da una parte possono sembrare un’imitazione di Marco, dall’altra sembrano attestare che nelle comunità della diaspora il tempo trascorso aveva reso obsoleta la lingua ebraica in coloro che vivevano fuori della Palestina. Altrettanto ambiguo è l’atteggiamento di Giovanni nei confronti del giudaismo. Da una parte egli lo accetta in sintonia con i sinottici («La legge è data con Mosè»; «La salvezza viene dai giudei»; «Noi siamo discepoli di Mosè»; «La scrittura […] non si può abolire», Gv, i, 17: iv, 22: ix, 28: x, 35); dall’altra, pur ponendo il Cristo in continuità con le profezie veterotestamentarie, fa del cristianesimo un superamento della tradizione giudaica («Gesù ci ha dato la grazia e la verità»), dei suoi precetti (es. il riposo del sabato) e del suo rigoroso nazionalismo, come dimostra la sua apertura verso i samaritani e i greci.(284) Alla samaritana incontrata presso il pozzo di Giacobbe Cristo dà da bere l’acqua che disseta in eterno; i samaritani a loro volta, quando egli passa dalla Samaria, lo salutano come «Salvatore del mondo»; di contro nelle pericopi successive Giovanni fa passare come sinonimi i samari(283)  Gv, i, 38, 41, 42; iv, 9, 25; ix, 7; xi, 16; xix, 17; xx, 15, 24. (284)  Gv, v, 39, 45-47; i, 17; v, 1-18; vii, 19-24; ix, 14; iv, 6-30; 39-42; xii, 20-21.

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tani e gli indemoniati (σαμαρίτης εἶ σὺ καὶ δαιμόνιον ἔχεις) o maledice esplicitamente i giudei e addirittura attribuisce loro una sottomissione a Cesare che probabilmente nessun ebreo avrebbe mai sottoscritto.(285) Tutto ciò fa pensare che Giovanni scrive tardi il suo vangelo, quando lo spirito di rivolta era ormai sopito da tempo nelle comunità giudaiche. Tanto più che egli fa chiaro riferimento alla dispersione e alla diaspora (Gv, xi, 52). Gli esegeti cattolici tentano di far risalire la compilazione del quarto vangelo all’incirca intorno alla fine del primo secolo, allorché, a loro dire, si sarebbe consumata la separazione della Chiesa dalla sinagoga. Ma le pericopi da cui traggono spunto si riferiscono sì ad espulsioni dalla sinagoga, ma non nel senso che da essa si separano comunità di diverso orientamento teologico. Per parlare di separazione dei cristiani dai giudei o dai farisei, bisognerebbe dimostrare che almeno per un certo tempo essi coesistettero nella frequentazione delle sinagoghe. Ma questa è ipotesi tutta da dimostrare, perché tanto l’essenismo, quanto l’enochismo e il cristianesimo nacquero già in contrapposizione con l’establishment sinagogale. Le espulsioni di cui parla Giovanni sono quelle che potremmo definire di tipo nicodemistico, se è vero che vi fossero taluni (gli ἀποσυνάγωγοι) che praticavano, foris ut moris est, la fede ufficiale e tradizionale e, intus ut libet, quella cristiana (Gv, ix, 22; xii, 42; xvi, 2). Le radici ebraiche dell’autore di Giovanni si riducono ormai solo alle citazioni vetero-testamentarie dei sinottici con nuove aggiunte.(286) Lo stile giovanneo è ricco di simbolismi in cui le cose della natura e della storia diventano cifre del Cristo. Giovanni ricorre spesso all’equivoco (capire una cosa per un’altra) e all’ironia (dire o capire il contrario); talvolta usa una stessa parola nel suo doppio significato. Paradossalmente il suo testo è il più delle volte manipolato nelle traduzioni italiane condotte nella linea della scuola francese, preferendo arbitrariamente l’uso del singolare là dove nel testo si trova il plurale (per esempio: «Lui non da sangue, né da voglia di carne, né da voglia d’uomo, ma da Dio generato!» (Gv, i, 13). Nel testo originale si riferisce ai figli dell’Uomo ai quali diede la potestà di diventare figli di Dio per essere stati generati da Dio: ἔδωκεν αὐτοῖς ἐξουσίαν τέκνα θεοῦ γενέσθαι, τοῖς πιστεύουσιν […] οἳ […] ἐκ θεοῦ ἐγεννήθησαν). In altri casi ri(285)  Gv, iv, 14; iv, 42; viii, 48; vii, 49; xix, 15. (286)  Is, xl, 3 (Gv, i, 23); Salmo lxix, 10 (Gv, ii, 17); Salmo lxxviii, 24 (Gv, vi, 31); Is, liv, 13 (Gv, vi, 45); Is, lv, 1-2 (Gv, vii, 38); Zc, ix, 9 (Gv, xii, 15); Is, liii, 1 (Gv, xii, 38); Is, vi, 10 (Gv, xii, 40); Salmo xli, 10 (Gv, xiii, 18); Salmo xxxv, 19 e Salmo lxix, 5 (Gv, xv, 25); Salmo xxxiv, 21 (Gv, xix, 36); Zc, xii, 10 (Gv, xix, 37).

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corre all’uso del presente storico in sostituzione di verbi coniugati al passato, falsando in tal modo la narrazione per dare l’impressione che l’autore sia teste oculare degli eventi narrati oppure per accorciare le sue distanze temporali dagli eventi o in alternativa per dare una dimensione eterna ed universale al suo messaggio. Per quanto sia monotono se non addirittura monocorde e ripetitivo, Giovanni è ricchissimo di immagini messianiche, attinte qua e là dalla letteratura essenica e apocrifa. Sicché Cristo è acqua, «luce che risplende nelle tenebre, senza essere da esse ricevuta»; «vita e luce degli uomini»; «agnello di Dio che toglie i peccati del mondo»; «eletto di Dio», «sposo»; «pane di Dio che discende dal cielo» («pane della vita»; «Chi viene a me non patirà la fame e chi crede in me non avrà sete»); porta delle pecore («Chi non entra per la porta del recinto delle pecore […] è ladro e brigante. Ma chi entra per la porta delle pecore è pastore delle pecore»; «Sono io la porta delle pecore: tutti quelli venuti prima di me sono ladri e briganti»). «Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore»; «via, verità e vita»; «resurrezione e vita»;(287) «vite e tralci»: La vite sono io e il Padre colui che la lavora. Toglie ogni tralcio che in me non porta frutto […] la vite sono io e i tralci siete voi. Chi in me dimora, e io dimoro in lui, porta molti frutti; chi non dimora in me è già buttato fuori e si dissecca; i tralci si gettano sul fuoco e vengono bruciati. (Gv, xv, 1-6).

Cristo ha altresì il titolo messianico di ‘maestro’ che nel vangelo giovanneo ricorre per ben sei volte.(288) Infine Cristo è il tempio, il suo corpo è il santuario materiale, è «il Verbo che si fece carne e dimorò con noi» (Gv, ii, 19-21; i, 14). La coabitazione con Dio, che nei testi enochici era pensata nel Regno dei Cieli, è provvisoriamente calata nel mondo terreno. Ma la vera sede del Regno di Dio è il mondo celeste. Se da Mosè venne la Legge, da Cristo ci sono date la grazia e la verità, sicché per entrare nel regno di Dio occorre rigenerarsi dall’alto (Gv, i, 17; iii, 1-9). Solo due volte Giovanni parla esplicitamente del Regno di Dio; nel resto del vangelo ne dà una rappresentazione celestiale con qualche reminiscenza enochica («Voi vedrete il cielo aperto e gli Angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’Uomo») o come una realtà irraggiungibile («Mi cercherete, ma non mi troverete: dove (287)  Gv, iv, 14; i, 29, 34, 35; iii, 28-30; vi, 33; 34-35; x, 1-2, 7-8,11-16; xi, 25. (288)  Gv, i, 38; iii, 10; xi, 28; xiii, 13, 14, xx, 16; una sola volta è riferito a Dio: Gv, iii, 2.

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io vado voi non potete venire!»), perché il regno di Cristo «non è di questo mondo» e il compito del Cristo non è quello di «condannare il mondo, ma di salvarlo» (Gv, i, 51; vii, 34; xviii, 36; xii, 47). La fede è il viatico per la vita eterna («Chiunque crede abbia vita eterna», Gv, iii, 12-17; v, 24), poiché tutti coloro che accolgono il Cristo e credono nel suo nome ricevono il potere di diventare figli di Dio. Numerose sono le incongruenze nel vangelo giovanneo. Ne diamo alcuni esempi. – Il primo capitolo si apre con la profezia del Battista, collocato a Betania, oltre il Giordano; seguono ben tre indicazioni cronologiche con la formula «il giorno dopo» (Gv, i, 28, 29, 35, 43). Se ne dovrebbe dedurre che dall’evento di Betania sono trascorsi 4 giorni, ma la successiva indicazione cronologica, a proposito delle nozze di Cana, dice incomprensibilmente: «il terzo giorno» (Gv, ii, 1). – Giovanni sembra collocare Gesù nella sequela del Battista: in un primo momento ci dice che Gesù battezzava, ma poi rettifica: «Gesù battezzava più di Giovanni; tuttavia non battezzava lui, ma battezzavano i suoi discepoli» (Gv, iii, 22; iv, 1-2). – Il tema del Nemo propheta in patria, ripreso dai sinottici, non si accorda con il contesto, perché altrove (Gv, iv, 44, 45) si dice che, quando Gesù giunse in Galilea, gli abitanti gli riservarono buona accoglienza. – L’ordine dei capitoli 5 e 6 dovrebbe essere invertito, poiché nel capitolo quinto l’autore di Giovanni commette l’errore di anticipare le guarigioni compiute a Gerusalemme; poi fa rientrare Gesù in Galilea nel capitolo sesto; la narrazione continua nel capitolo settimo, in cui, accennando alla festa delle capanne o festa delle Sukkot, che si teneva per otto giorni a partire dal 14 del mese di tishri (settembre-ottobre), ci vien detto che Gesù passò per la Giudea, pur restando in Galilea e all’improvviso la narrazione riprende da Gerusalemme (Gv, vii, 8, 3, 9, 10), ove il Cristo sale al tempio «in piena festa », vale a dire nei primi due giorni di Sukkot che così erano denominati. Ciò che non si capisce è come sia stato possibile percorrere in così breve tempo un cammino così lungo. – Il riferimento a Maria (Gv, xi, 2), come colei che unse il Signore, anticipa l’episodio che ci viene narrato nel capitolo xii. – Altri episodi si direbbero del tutto oscuri: nel capitolo xii (36-44) il Cristo si nasconde agli apostoli per darsi alla meditazione; poi improvvisamente, senza essere sollecitato da nessuno, proclama che la fede in Cristo è equivalente alla fede in Dio. Segue la disarmante dichiarazione della incredulità degli stessi di-

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scepoli davanti ai quali Gesù aveva operato tanti miracoli; ma la sorpresa svanisce non appena ci si rende conto che si tratta di adempimento di Isaia (vi, 10). Subito dopo troviamo incomprensibilmente l’esclamazione ad alta voce: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato! E chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv, xii, 44). Altrettanto imprevisto è l’invito ad alzarsi e ad andar via, la cui narrazione prosegue, dopo una brusca interruzione sulla vite e i tralci senza dare informazioni sugli spostamenti del Cristo (Gv, xiv, 31; xv, 16). – L’autore di Giovanni non sembra avere le idee chiare sui discepoli di Cristo: dice per la prima volta che essi erano «i Dodici», ma in precedenza non erano mai stati nominati; anzi non ci vengono mai trasmessi tutti i loro nomi, poiché ne risultano menzionati solo sette (Tommaso, Andrea, Pietro, Simone, Filippo, Giovanni e Giuda), cui si aggiunge Natanaele, sconosciuto ai sinottici (Gv, vi, 67). Non sono ricordati i figli di Zebedeo, se non nell’ultimo capitolo (il xxi), che è frutto di una interpolazione posteriore. Di Simone ci vien detto che è figlio di Giovanni, a differenza di Matteo che lo dice figlio di Giona (Gv, i, 42; Mt, xvi, 17).(289) Inoltre Giovanni sembra includere nella sequela la madre e i fratelli di Gesù ed è forse il primo ad impiegare il termine ‘fratelli’ per indicare i con-fedeli che aderiscono al cristianesimo (Gv, ii, 12; xx, 17; xxi, 23). – Talvolta ci troviamo di fronte più che a doppioni, a ripetizioni di concetti affini: per es. le pericopi iii, 12-21 e 31-36 sembrano essere scritte a specchio di xii, 44-50 (andrebbe tra l’altro rilevato che il concetto di «Figlio, mandato dal Padre», cioè di ‘inviato’, è più compatibile con i sinottici che con il prologo teologico di Giovanni). La pericope vii, 28 («Certo mi conoscete e sapete da dove vengo! Eppure io non vengo da me stesso, ma colui che mi ha mandato è vero e voi non lo conoscete») è affine a viii, 14 («Io so da dove vengo e dove vado, voi invece non sapete da dove vengo e dove vado»). Analogo è il caso di vii, 34-36 («Dove sta per andare costui, così che noi non potremo trovarlo? Vuol forse andare nella diaspora dei greci?») che è assimilabile a viii, 21 («Io me ne vado e voi mi cercherete […]; dove me ne vado, non potete venire»). – Infine il vangelo di Giovanni presenta una evidente doppia chiusura xx, 2031 e xxi, 24-25. Per la verità, l’intero capitolo xxi non solo è eccentrico rispetto a tutto il testo giovanneo, ma scade anche in banalità (come l’episodio della consumazione di pesce alla brace βλέπουσιν ἀνθρακιὰν κειμένην καὶ ὀψάριον ἐπικείμενον καὶ ἄρτον, dopo che Pietro ebbe fatto una pesca infruttuosa ed una (289)  Sulla identità Giona-Giovanni v. M. Bockmuehl, Simon Peter’s Names in Jewish Sources, «Journal of Jewish Studies», iv, 2004, pp. 58-80: 62-67.

972  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini sovrabbondante) o in palesi incongruenze (come il ricordo di Giovanni: «il discepolo che posò il capo sul petto del Signore, durante un’ultima cena mai narrata) o in misteriose predizioni o fraintendimenti (come il caso dei fratelli che interpretano le parole del Signore nel senso che Giovanni non sarà soggetto alla morte).(290)

Lo stile di Giovanni non appare uniforme forse a causa del fatto che il quarto vangelo, per via delle sue divergenze con i sinottici, ha subito più di un intervento di revisione. Ce ne danno prova l’episodio dell’adultera che manca in taluni manoscritti e la citata doppia conclusione nei capitoli xx e xxi. Ma ne è prova anche lo stile che passa dalla plasticità poetico-letterario-teologica dell’incipit alla stentata pesantezza del racconto relativo alla guarigione presso la piscina di Betesda, ove il passato e il presente si intrecciano in una forma poco lineare. In fondo lo stile di Giovanni risente molto delle divergenze stilistiche e linguistiche dei tre sinottici da cui attinge nella prospettiva di volerli superare. Proprio l’impianto fortemente teologizzato ci dice che esso è il meno affidabile dei vangeli, perché è il più elaborato, travagliato, tormentato e manipolato. La sua cristologia è più il frutto di una riflessione intellettualistica che una narrazione storica. Ma neppure la riflessione teologica si svolge con la coerenza e l’organicità che ci si attenderebbe, poiché in parte emerge alla luce del sole, in parte resta latente e quasi soffocata dall’esigenza di collegarsi alla narrazione sinottica. In teoria non ci sarebbe da restar sorpresi del fatto che Giovanni aggiunga di suo rispetto ai suoi predecessori; anche Matteo aveva fatto altrettanto rispetto a Marco; e lo stesso aveva fatto Luca rispetto a Marco e a Matteo. Ma le aggiunte di Giovanni non sono della stessa natura; non puntano ad arricchire la biografia del Cristo, ma a darne una lettura profondamente diversa. Ciò che soprattutto sorprende è l’abissale dissonanza tra il quarto vangelo e i tre sinottici. Giovanni richiama qua e là taluni lógia presenti nei tre testi precedenti e li adatta agli episodi della vita di Cristo in modo profondamente difforme da essi. Si conferma così l’impressione che gli evangelisti utilizzas(290)  Il primo a mettere in dubbio la paternità giovannea del capitolo xxi è stato H. Grotius, De veritate religionis Christianae. Per l’esegesi cattolica esso è di vitale importanza per l’affermazione del primato di Pietro e della morte di Giovanni in tarda età. Perciò si insiste sulla sua identità di stile con tutto il testo. Tale è la posizione di K. A. Credner, Einleitung in das Neue Testament, Halle, Verlag der Buch der Waisenhauses, 1836, e di A. Marchadour, Vangelo di Giovanni, Cinisello Balsamo, Paoline, 1994.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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sero come tessere di un mosaico da comporre a proprio piacimento tanto gli atti quanti i lógia del Cristo, dando così nell’insieme un’impressione di sconvolgente confusione. Ben poco resta in Giovanni della biografia del Cristo e della cronologia dei suoi spostamenti frenetici da Nazaret a Cafarnao, dalla Galilea alla Giudea. La stessa durata del magistero, che per i sinottici, non si estendeva oltre tre o quattro mesi, comprende i due o tre anni che intercorrono tra la prima pasqua ebraica e la terza, passando per una sola festa delle capanne ed una sola hannukah (‫)חנוכה‬, la festa della dedizione celebrata il 25 di kislev (dicembre) per una durata di 29 giorni (Gv, ii, 13; xi, 55; vii, 14; x, 22). Comuni ai sinottici sono solo gli episodi della moltiplicazione dei pani e dei pesci, del cammino sul mare e della unzione di Betania (Gv, vi, 1-15, 1620; xii, 1-8). Non mancano le guarigioni miracolose del figlio di un funzionario regio, di un malato, di un cieco nella piscina di Siloe (Gv, iv, 45-54; v, 1-18; ix, 1-41). Le malattie e le menomazioni in genere sono concepite come conseguenze del peccato (Gv, v, 14; ix, 3) o, in aggiunta, come manifestazioni della potenza divina. Esemplare in proposito l’episodio del cieco nato sulla cui sventura i discepoli chiedono a Gesù: per essere nato cieco chi ha peccato, lui oppure i suoi genitori? E il Cristo risponde: né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma così è perché in lui si manifestino le opere di Dio! (Gv, ix, 3). Giovanni ci presenta Gesù come un uomo vicino ai cinquant’anni (Gv, viii, 57), inviato da Dio con poteri speciali, come quello di giudicare e di elargire la salvezza, fino a rendere gli altri uomini figli di Dio, perché egli stesso è figlio di Dio, così intrinseco alla paternità divina da identificarsi con Dio. Del tutto originali di Giovanni sono gli episodi, spesso prolissi, delle nozze di Cana, di Nicodemo, dell’incontro con la Samaritana a Sicar nei pressi del pozzo di Giacobbe, dell’adultera perdonata e della resurrezione di Lazzaro, morto quadriduano.(291) Ma il quarto vangelo è ancor più sorprendente per quello che manca: non c’è traccia della sofferenza nel Getsemani né dell’ultima cena, né della via crucis e del Cireneo; non si fa mai menzione né di «vangelo» né di «alleanza». Lo scenario dei processi, religioso e civile, è quanto mai confuso. Scompare del tutto il Sinedrio. Cristo è processato davanti ad Hanna, ma si tratta di un processo inconcludente, alla fine (291)  Gv, ii, 1-11; iii, 1-20; iv, 2-39, 39-42; viii, 1-11; xi, 1-49. Tanto in occasione della morte di Lazzaro (Gv, xi, 44) quanto in quella della morte di Cristo (Gv, xix, 40) Giovanni ci dà una puntuale informazione delle modalità di sepoltura da parte degli ebrei: il corpo del defunto veniva avvolto in bende ed il viso veniva ricoperto di un lenzuolo. Questo dato storico da solo smentisce l’autenticità della sindone torinese.

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del quale l’imputato è rinviato a Caifa, sommo sacerdote di quell’anno (Gv, xviii, 12-24). Di quest’ultimo sappiamo che in materia di sacrificio aveva ragionato in termini di convenienza, affermando che è da preferire la morte di un solo uomo, anziché quella di un’intera nazione (Gv, xi, 50-52). Ma data la presunta età di circa cinquant’anni del Cristo, la cronologia del processo dovrebbe essere incompatibile non solo con la cronologia della prigionia, ma anche con quella della morte del Battista, con il sacerdozio di Hanna e di Caifa, con il regno di Erode, ecc. Manca un processo davanti a Caifa, ma paradossalmente Giovanni narra del secondo e del terzo rinnegamento di Pietro (Gv, xviii, 25-27) che si sarebbero verificati nel suo corso. Caifa comunque si limita a consegnare Gesù nelle mani di Pilato (Gv, xviii, 28). Il pletorico processo davanti a Pilato occupa lo spazio di 37 versetti ed ha un andamento del tutto inconcludente sotto il profilo giuridico. Infine Giovanni introduce, traendola forse da Isaia, la misteriosa figura del Paracleto o Paraclito (Gv, xiv, 16, 26; xv, 26; xvi, 7) nella forma itacistica, definito «spirito della verità» ed identificato dalla Chiesa con lo Spirito Santo, come terza persona della trinità. La sua funzione è quella di coabitare con i fedeli, istruirli e testimoniare a favore del Cristo (Gv, xiv, 16, 26; xv, 26). Anche del Paracleto si prevede una parousía («Se io non vado via non viene da voi il Paracleto», Gv, xvi, 7). Per la sua difformità rispetto alle altre fonti evangeliche, per la sua matrice fortemente teologizzata e per la sua avanzata seriorità, il testo giovanneo appare ormai oggi ad un largo stuolo di esegeti il meno affidabile dei quattro vangeli canonici. 3.23.  La strategia dei criteri di storicità Abbiamo detto che allorché si costruisce un mito intorno ad una figura, la dimensione storica di quella stessa figura diventa del tutto irrilevante, perché, anche se se ne ammette la storicità, la sua fisionomia reale non corrisponde a quella tracciata dalla mitologia. Il mito è un mito indipendentemente dal fatto che sia ricucito addosso ad un personaggio storico. Se supponiamo che Cristo fu un personaggio storico, quale fu la sua fisionomia? Fu una personalità marginale o un ribelle, uno zelota o un nazireo?(292) Se ci poniamo in quest’ottica, la prima cosa da cui dobbiamo guar(292)  Per una interpretazione di Cristo come zelota, cfr. S. G. F. Brandon, Gesù e gli zeloti, cit., vedi in particolare il capitolo 7, pp. 327-349; R. Aslan, Zealot. The Life and the

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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darci è di proporre congetture che presuppongano un atto di fede, perché in tal caso la nostra indagine non avrebbe il crisma della scientificità, ma sarebbe solo votata a salvare una posizione pregiudiziale. Tale è – a mio parere – il tentativo ermeneutico proposto da Meier.(293) Il Cristo, egli pensa, non fu che un carpentiere provinciale, oscuro, marginalizzato, che «abbandonò il suo mestiere e la sua città […] per intraprendere un ministero profetico» e che incontrò nel suo cammino, più che il favore, l’ostilità del popolo giudaico. Questa impostazione non è per nulla peregrina, né è motivata da ragioni scientifiche; essa non è altro che il tentativo di giustificare il fatto che la figura di Gesù rimase pressoché ignota e ignorata fino al secondo secolo da parte della cultura ebraica e pagana. Egli fu ignorato – spiega Meier – perché la sua esistenza non era stata focalizzata, ma era al margine di quel mondo. «Dal punto di vista della letteratura ebraica e pagana del secolo successivo a Gesù – egli scrive – il Nazareno fu al massimo un puntino sullo schermo del radar». I suoi insegnamenti e le sue pratiche erano marginali, perché troppo distanti dalle opinioni diffuse nel mondo giudaico. Insomma l’idea della marginalità del Cristo è un comodo schema per spiegare come per quasi un secolo non si sia trovata la benché minima traccia della sua esistenza. «Gesù – suggerisce Meier – fu un ebreo marginale che guidò un movimento marginale in una provincia marginale dell’immenso impero romano».(294) Non intendo entrare nel merito di alcune questioni e rilevare che gli insegnamenti del Cristo avevano le loro profonde radici nella letteratura veterotestamentaria e condividevano con i movimenti esseni ed enochici una serie di fermenti culturali e religiosi, tali da smentire qualsivoglia destino alla marginalità, mi preme però osservare che l’ipotesi costruita da Meier non è che una toppa per tappare una delle più gravi falle che squarciano la dimensione storica del Cristo. Ed è una toppa che nasce non da una istanza scientifica, ma da un pregiudizievole atto di fede, che induce lo studioso a dire che, se nello schermo del radar «quel puntino» non si vede, deve pur esserci da qualche parte. Times of Jesus of Nazareth, New York, Random House, 2013; A. Schweitzer, The Quest of the Historical Jesus. A Critical Study of its Progress from Reimarus to Wrede, London, Black, 1956, pp. 293-327; R. A. Horsley, Sociology and Jesus Movement, New York, Crossroad, 1989. Sulla stessa linea interpretativa si pone F. Tommasi, Non c’è Cristo che tenga. Silenzi, invenzioni e imbarazzi alle origini del Cristianesimo. Qual è il Gesù storico più credibile?, Lecce, Manni, 2014, pp. 103-120; D. Donnini, Il matrimonio di Gesù, cit., pp. 81-96. (293)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 16. (294)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 57.

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Gli esegeti credenti, per superare l’impasse di una narrazione evangelica per molti versi inaffidabile, si sono costruita un’apposita metodologia, consistente nei cosiddetti «criteri di storicità». Su questo terreno i due massimi capisaldi sono Ehrman e Meier.(295) Il loro obiettivo sembra essere quello di addomesticare in qualche modo la filologia. La procedura ehrmaniana è subdola nelle sue premesse; in primo luogo perché dà per scontato che i miticisti non hanno la necessaria competenza a trattare la materia in quanto per la maggior parte non provengono dal mondo delle scuole di teologia. Che è un’affermazione che sfiora il circolo vizioso: i miticisti sono tali perché non provengono dalle scuole di teologia; se provenissero dalle scuole di teologia non sarebbero miticisti. L’argomento potrebbe tradursi in questi termini: «Noi che insegniamo nelle scuole di teologia siamo competenti ad affrontare le problematiche esegetiche; perciò noi, e quelli che la pensano come noi, siamo schierati dalla parte della verità storica». Che è il modo più sbrigativo per mettere fuori gioco gli avversari. Ma Ehrman è subdolo soprattutto perché si dichiara «agnostico molto vicino all’ateismo», facendo credere che le sue conclusioni circa la storicità dei racconti evangelici siano super partes. Ma il problema, sotto il profilo storico, non è quello dell’appartenenza dello (295) B. Ehrman, Gesù è davvero esistito?, Milano, Mondadori, 2013. Diversa è la strategia di A. Clarcke Wire, Holy Lives, Holy Deaths: A Close Hearing of Early Jewish Storytellers, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2001, la quale ritiene di poter distinguere gli aspetti storici che – a suo avviso – provengono dalla tradizione orale, da quelli che invece risultano leggendari. Quello di A. Destro - M. Pesce; L’uomo Gesù (Giorni, luoghi, incntri di una vita), Milano, Mondadori, 2008, è uno stratagemma più subdolo e più levantino, perché i due studiosi tentano un approccio antropologico, apparentemente scientifico, per ricostruire lo ‘stile di vita’ e le mappe concettuali di Gesù e riconoscerle nel contempo come corrispondenti al periodo storico del protocrisitanesimo, affermandone la relativa consistenza storica. Ciò che sfugge agli autori è che l’indagine antropologica non consente di distinguere il presunto versante storico del Cristo dal contesto delle mappe concettuali degli autori del testo. Con analoga metodologia si potrebbe dedurre che Renzo, Lucia e don Abbondio erano personaggi storici perché il loro stile di vita e le loro mappe concettuali corrispondono ai parametri storici del Seicento. Peraltro i due studiosi evitano prudentamente tutti i più nodosi nuclei della problematica ermeneutica e si ritrovano tra le mani un Cristo che ha più caratteri umani (frutto appunto della presunta costruzione antropologica) che quelli di un essere soprannaturale. Essi fanno scomparire gli anacronismi presenti nei testi evangelici ed accolgono ogni piccolo dettaglio nel coacervo della dimensione storica: tutto passa attraverso le maglie dello ‘stille di vita’ e delle ‘mappe concettuali’ del vissuto in territori della cui configurazione geografica gli evangelisti mostrano di avere una vaga conoscenza. Naturalmente passano anche i miracoli e, attraverso il corpo prodigioso del Cristo, le guarigioni fabulose.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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studioso ad uno schieramento ideologico, ma quello della forza e insormontabilità delle ragioni che adduce. Quali sono le armi con cui Ehrman vuole sconfiggere il miticismo? Egli si riallaccia alla strategia meieriana che mira a fissare i criteri essenziali della storicità. Ben inteso: non si tratta di condurre un’indagine critica del metodo storico, ma della pretesa di stabilire il livello di storicità di un racconto attraverso l’individuazione di taluni criteri. Uno dei criteri fondamentali individuato è quello cosiddetto dell’imbarazzo o della dissomiglianza. Esso è formulato in maniera diversa dai due esegeti. Meier così lo sintetizza concentrando l’attenzione su azioni o detti di Gesù che, a suo dire, avrebbero imbarazzato la chiesa primitiva: «difficilmente – egli scrive – la chiesa primitiva avrebbe creato del materiale che avrebbe messo in imbarazzo il suo creatore o indebolito la sua posizione nelle discussioni con gli avversari».(296) Ne rappresenterebbe un esempio il battesimo di Cristo da parte di Giovanni: l’imbarazzo consiste nel fatto che colui che è superiore e senza peccato si sottopone ad un battesimo destinato ai peccatori. L’altro esempio è l’affermazione del Cristo di non conoscere l’ora esatta e il giorno della fine dei tempi: l’imbarazzo consiste nel fatto che, in quanto Dio, Gesù dovrebbe conoscere tutti gli eventi, passati, presenti e futuri. Diciamo innanzi tutto che la questione è mal posta, perché presuppone l’esistenza di una chiesa istituzionalizzata fin dalle origini, capace di impedire la diffusione di dottrine non canonizzate. La realtà è che le prime comunità cristiane erano ancora acefale e ancora prive ci una dottrina organica e coerente. Furono i vangeli che elaborarono le prime configurazioni dottrinali con tutte le inevitabili incertezze dei primi teorizzatori. Quando la chiesa si istituzionalizzò, le sue manovre di intervento su testi ormai consolidati erano limitate, mentre erano amplissime nei confronti di testi eretici e apocrifi. D’altro canto quelle posizioni imbarazzanti avevano nei testi una loro logica interna; il collegamento tra Giovanni e il Cristo rappresenta il passaggio dall’antico profetismo e dalla vecchia alleanza alla nuova. Il battesimo di Cristo, più che imbarazzante, è semplicemente una contraddizione dal punto di vista teologico. Ma è una contraddizione per il nostro tempo e per la nostra cultura filosofica. Ciò che è imbarazzante per noi non è detto che lo fosse per le comunità cristiane primitive che non avevano ancora un organico e compatto quadro teologico di riferimento. I vangeli non sono stati scritti da una mente divina o da un genio filosofico, capace di controllare i minimi dettagli della narrazione, ma furono opera di fedeli più o meno ac(296)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 160.

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culturati, animati dall’entusiasmo proprio dei neofiti e perciò soggetti all’incoerenza e alla contraddizione, che sono frequenti nei loro testi. Che Cristo non conoscesse i termini della fine dei tempi può imbarazzare solo i credenti che gli attribuiscono una natura divina; ma la contraddizione non era percepita come tale dalle comunità cristiane che vivevano nell’imminenza di una fine della storia che andava sempre più sfumando. I credenti sono credenti proprio perché non razionalizzano. Chi scrive i vangeli e chi li legge e ne segue il dettato non ne fa la dissezione anatomica, ma li accoglie come oggetto di fede, non suscettibile di spiegazioni razionali. Ciò che imbarazza noi non imbarazzava affatto le comunità primitive, tant’è che il mito della fine dei tempi sopravvisse fino al tardo Medioevo, e si potrebbe dire che in taluni ingenui sopravvive ancora oggi, nonostante le innumerevoli smentite della storia. Il nostro imbarazzo ha le sue premesse nella logica aristotelica, ma per i credenti del primo e del secondo secolo la razionalità consiste nella consequenzialità e nella verificazione delle profezie veterotestamentarie. Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni non è che il commento midrashico della profezia della preparazione della via del Signore. I proto-cristiani ne erano pienamente soddisfatti. Al criterio dell’imbarazzo fanno riferimento anche i sostenitori di un Cristo ribelle, rivoltoso armato, resistente, se non addirittura terrorista e zelota. Anche in questo caso l’imbarazzo è in noi, non è tale rispetto al tempo storico degli autori dei vangeli. Suppongo che per gli ebrei che vivevano tra le due rivolte giudaiche la vita sociale dovesse essere piena di insidie e che viaggiare con un’arma di difesa doveva essere un comportamento prudente. Soprattutto non deve affatto stupirci che spiriti religiosi come gli esseni prendessero parte alla lotta armata e che anime sante come i cristiani prendessero le dovute precauzioni. Gli esseni avevano nel loro patrimonio bibliografico testi come la Regola della Guerra e il loro dualismo tra luce e tenebre era anche in parte un conflitto con i kittim, identificati con i Romani. Non è improbabile che la quarta filosofia, quella zelota, fosse nata dal seno stesso dell’essenismo. Di certo v’è che gli esseni non si astennero dal conflitto contro i Romani. D’altra parte noi non sappiamo entro quali confini dobbiamo intendere la loro presunta vocazione bellicistica o come dobbiamo intendere i passi evangelici che pendono per la guerra più che per la pace. Perché non è escluso che quei passi abbiamo solo un valore simbolico o forse metaforico e che probabilmente la conflittualità invocata sia di ordine spirituale, che sia cioè una messa in discussione di una determinato mondo di valori. Cer-

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to nei testi evangelici non mancano gli spunti per avvalorare l’ipotesi di una Cristo ribelle, ma il difetto d’origine della congettura sta nel privilegiare talune pericopi rispetto al contesto complessivo della narrazione evangelica. Il gioco ermeneutico è presto fatto: basta accorpare l’uno dopo l’altro i passi in cui si parla di guerra, di contrapposizione tra chi è con Cristo e chi è contro Cristo, di fratture all’interno delle famiglie, del discepolo zelota, dell’invito a armarsi di spada, dell’orecchio staccato al servo del sommo sacerdote, ed ecco che il Cristo diventa un ribelle iscritto al partito dei discendenti di Giuda il Galileo. Ma se egli avesse esercitato un ruolo, anche solo marginale, di carattere politico, sarebbe mai sfuggito all’occhiuta vigilanza di Giuseppe Flavio che per queste cose aveva il naso fino? Se poi la predicazione di Cristo si svolse intorno agli anni Trenta, cadde evidentemente in una fase di relativa stagnazione della lotta dopo le scaramucce prodotte da Giuda il Galileo nel 6 dopo Cristo e prima della insurrezione di Teuda e del più drammatico conflitto del 66/70. In fondo fa sorridere l’idea che la storicità del Cristo debba dipendere dall’invito a portare con sé una spada, o forse una più maneggevole sica, in funzione della difesa personale. Non c’è nulla nei vangeli che autorizza a pensare che il movimento cristiano fosse rivoluzionario o ribelle, né che Cristo fosse un rivoltoso. La realtà è che il mito messianico includeva in sé le potenzialità della rivolta politica e il ricordo dello spirito nazionalista degli zeloti, da Giuda di Gamala in poi. Chi scrive i sinottici dopo il 70 e forse anche dopo il 135 non può tenere sotto silenzio l’esempio eroico di Giuda e della sua discendenza. Il messianismo nella memoria collettiva degli ebrei era anche il ribellismo della dinastia di Giuda. Ma nello stesso tempo va detto che la rivolta giudaica non è tutto il messianismo, anzi ne è solo un aspetto secondario; dopo il 70, dopo il fallimento politico, esso assume sempre più nettamente la veste di un movimento di carattere spirituale. Non deve affatto imbarazzare il fatto che in esso si conservino tracce, peraltro assai deboli, di più antiche aspirazioni. Piuttosto possiamo aggiungere che non c’è proposta ermeneutica più limitativa di quella che spiega il senso generale di un testo solo a partire da una parte opportunamente selezionata. È troppo semplice scegliere all’interno di un testo ciò che fa comodo alla teoria. Il Cristo che ne esce fuori è un Cristo mutilato, semplificato e il processo ermeneutico è di conseguenza inficiato. Altri esegeti infatti ricorrono alla medesima strategia e, privilegiando altri passi secondo la stessa logica della convenienza ermeneutica, estrapolano dai vangeli le più disparate cristologie, dal pro-

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feta sapienziale al redentore e salvatore, dal taumaturgo al predicatore soteriologico e escatologico, e così via. Ma sono tutte prospettive unilaterali; giochi fatti a tavolino. Ciascun esegeta pretende di coerentizzare ciò che nei testi è un magma incandescente perché è il punto di confluenza di tradizioni diverse e disparate spesso contrastanti e inconciliabili, assorbite tra l’altro in un contesto narrativo che non fa capo alla logica bivalente. Perciò Cristo è insieme creatura umana e divina, sofferente e glorioso, soggetto alla morte e vincitore sulla stessa, identico al Padre e da Lui distinto, Parola che parla nel tempo, ma Verità Eterna, che ha la sua patria nel regno celeste, ma abita nel mondo con noi, porta la pace e l’amore, ma anche la guerra e la divisione all’interno della famiglia e così via. Ogni lettura ermeneutica di questo tipo è destinata al fallimento perché il nucleo dottrinale dei testi evangelici è in forte contraddizione interna; questa è la ragione più profonda per cui l’attendibilità storica dei vangeli è pressoché nulla. Ugualmente fragile sotto il profilo logico è il criterio della discontinuità proposto da Meier nei seguenti termini: «Il criterio di discontinuità si concentra su parole e fatti che non possono derivare né dal giudaismo del tempo di Gesù, né dalla chiesa primitiva dopo di lui».(297) Il che significa che noi cristallizziamo da una parte il giudaismo del tempo di Gesù, dall’altra le dottrine della chiesa primitiva e reputiamo storicamente accertato tutto ciò che è in linea di discontinuità con entrambi i pacchetti precostituiti. La realtà è che tutti i processi storici presentano margini di continuità e di discontinuità. Ma la loro storicità precede ed è a monte di ogni continuità e discontinuità. Solo nel divenire del processo storico si può definire ciò che è continuo e ciò che è discontinuo. È un atteggiamento da manicheo la pretesa di accordare la storicità solo a ciò che è nella continuità o nella discontinuità dei processi. Meier si costruisce criteri di storicità tali che siano ab ovo funzionali a garantire la storicità del Cristo: sono tali i criteri della coerenza, del rifiuto e della esecuzione della crocifissione, degli indizi aramaici, dell’ambiente palestinese, della vivacità della narrazione, delle tendenze di sviluppo della tradizione sinottica, della persecuzione storica.(298) Insomma Meier si costruisce una serie di strategie che già di per sé presuppongono la storicità della narrazione evangelica. In ciò Ehrman è più prudente e si limita ad invocare solo i criteri della contestualità e delle attestazioni multiple. In altri termini la sto(297)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, p. 165. (298)  Ivi, pp. 471-484.

III.3  La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni 

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ricità di un evento o di un determinato personaggio, è provata da eventuali prove materiali o eventuali testimonianze indirette a condizione che queste siano numerose, convergenti (ovvero non contraddittorie), prodotte da testimoni oculari, prossime al periodo storico di riferimento, indipendenti l’una dall’altra e disinteressate. Il criterio più forte sul piano epistemologico è quello della pluralità delle fonti indipendenti, poiché è chiaro che l’attendibilità storica di un racconto non dotato di credibilità contestuale, ma confortato da numerose attestazioni tutte sicuramente indipendenti, non è seriamente compromessa. D’altra parte, bisogna tener presente che la credibilità contestuale non è una sorta di dono divino, metafisicamente assodato; essa è il risultato di tutte le possibili letture della produzione letteraria e storiografica di un determinato periodo, nonché di tutte le indagini di tipo archeologico. Il contesto di un periodo storico si definisce nel corso delle nostre ricerche storico-archeologico-letterarie; perciò è soggetto a revisioni e nulla vieta che un racconto che di primo acchito appare non contestualizzato, possa risultare tale a seguito di più approfondite indagini. I metodi cristallizzati in formule schematiche non sempre sono utili all’indagine storica. Lo storico deve avere la flessibilità necessaria per leggere il corso della storia nel suo moto e nel suo divenire. Prima della scoperta dei manoscritti qumranici nessuno aveva un preciso concetto del contesto storico-culturale della Palestina del primo secolo, come possiamo averlo oggi. Il secondo criterio delle attestazioni multiple è scientificamente incontestabile a condizione che le attestazioni siano veramente e accertatamente indipendenti. Finché sussiste il più piccolo dubbio che esse possano derivare da un’unica fonte, il criterio non trova applicazione. Quando Ehrman dice che la crocifissione o altri episodi della vita del Cristo sono attestati dai quattro vangeli, dalle fonti Q, L ed M, dai testi paolini, da Giuseppe Flavio ed altro, compie un’operazione che è levantina ed è agli antipodi del criterio delle attestazioni multiple indipendenti, perché si nasconde il fatto che i vangeli possano essere derivati da un’unica fonte (da Marco) e nasconde altresì il fatto che non abbiamo alcun criterio oggettivo per stabilire un rapporto tra i testi evangelici e le lettere paoline. A prescindere poi dal fatto che egli conferisce una ingiustificata credibilità al testimonium flavianum che è filologicamente inaccettabile. Se l’indipendenza delle fonti è costruita, tutta la narrazione, che sulla loro base è accreditata, non possiede alcuna garanzia di oggettiva validità.

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Nessuno dei criteri indicati si applica pacificamente ai nostri testi evangelici. Infatti non esistono prove materiali che attestino l’esistenza storica del Cristo, poiché tutte le reliquie circolanti nel mondo cristiano sono produzioni artigianali di epoca posteriore e risalenti per lo più alla fabbrica delle reliquie particolarmente fiorente nel Medioevo bizantino. Non ci sono testimonianze oculari perché nessuno dei tre sinottici è scritto, per comune consenso degli studiosi, da discepoli diretti del Cristo. Le prime testimonianze (Marco) che ci sono pervenute distano a dir poco (e nella migliore delle ipotesi) di almeno un settantennio dagli eventi narrati e per giunta è altamente probabile che le due versioni successive (Matteo e Luca) siano riconducibili alla prima (Marco). Infine esse non sono né indipendenti, né convergenti né disinteressate, perché sono zeppe di contraddizioni, dipendono manifestamente l’una dall’altra e sono peraltro espressione di comunità per le quali costituiscono la più profonda ragione di vita.

capitolo iv

LA LETTERATURA APOCRIFA DEL NUOVO TESTAMENTO

4.1.  La letteratura apocrifa Niente più di un canone, ovvero di una norma per la selezione e la discriminazione di ciò che è autentico da ciò che non lo è, ci impedisce di comprendere a fondo la fluidità e la magmaticità del cristianesimo primitivo. Noi confondiamo il cristianesimo istituzionalizzato e cristallizzato nei canoni ecclesiastici con quel complesso fenomeno religioso e vulcanico che attecchì tra le due crisi politico-spirituali del giudaismo (la devastazione del tempio e la successiva distruzione di Gerusalemme) negli strati popolari o più o meno dotti che con la diaspora ebraica si dispersero nel mondo greco-romano e ne subirono l’influsso. Esso fu un movimento composito, estremamente variegato; subì curvature dottrinali fortemente diversificate a seconda del taglio culturale delle regioni (medio-orientali, anatoliche, greco-illiriche, italiche, egizie ed ispaniche) in cui si diffuse. L’area mediterranea era di per sé un mondo straordinariamente ricco di fermenti culturali, ma era altresì travagliato da una grave crisi spirituale. Erano tramontati i grandi imperi del passato ed erano caduti i grandi ideali che ne erano stati la linfa vitale. L’impero romano assumeva sempre più l’aspetto di un enorme leviatano, un coacervo di culture e di stili di vita, in cui il singolo si sentiva come atomizzato e dissociato dalla collettività. L’età ellenistica volgeva al tramonto; si accentuava ancor più nelle comunità il senso dell’isolamento, della privatezza, dello smarrimento di fronte ad un percorso storico che l’uomo non si illudeva più di poter dominare come nell’età classica. 983

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Si avvertiva una grande caduta dei valori morali e nello stesso tempo si paventava qualcosa di più grave e di più drammatico come la fine della storia e del mondo. Molti si rifugiavano nei culti misterici più variegati, dall’orfismo ai miti isiaci o artemisici. Sotto la spinta di questi culti si alimentava la speranza della salvezza, si aprivano le prospettive di una escatologia individuale o collettiva, si accendeva e si infiammava nelle anime di un’umanità sofferente lo spirito religioso del nume sofferente. Significativo è in proposito il lógion 58 del Vangelo copto di Tommaso: «Beato l’uomo che ha sofferto. Egli ha trovato la vita». Si confrontano tra loro e si scontrano le religioni della salvezza e della povertà. L’ebreo della diaspora fugge da un mondo in crisi e ne incontra un altro, quello ellenico, che è alla ricerca di un senso della vita e della storia. Egli ha l’impressione di vivere un dramma più grave e più profondo di quello vissuto nella cattività babilonese. Si infittiscono i toni apocalittici: dalle pagine di Isaia, di Daniele, di Enoc si alimenta lo spirito dell’attesa della fine. Ma se entra in contatto con un mondo intellettualmente variegato, l’ebreo della diaspora reca con sé esperienze culturali diverse che, pur derivando dal troncone del giudaismo, si articolano in forme che in parte derivano dall’essenismo, in parte dall’enochismo. E queste, a loro volta, nell’incontro-scontro con la cultura ellenica subiscono una inevitabile metanoia. È la condizione tipica in cui si fa strada il sincretismo, in cui tutte le prospettive culturali si trasformano, si integrano, si confondono, si arricchiscono anche, ma si compenetrano in modo tale da non essere più percepibili nella loro genuina purezza. Il proto-cristianesimo è una di queste tante sfaccettature di un mondo culturale in perenne fermento. In realtà l’originalità del cristianesimo è più presunta che reale, perché esso ha le sue radici nel tessuto culturale che caratterizzò il passaggio dal primo al secondo secolo della nostra era. La pretesa degli studiosi cattolici, ma anche cristiani in genere, di trovare alle origini lo stesso cristallino impianto dottrinale imposto dalla Chiesa assai più tardivamente, è il risultato di un grande travisamento dello storia. Il taglio tra l’ortodossia e l’eresia, almeno nei primi due secoli dell’era cristiana, non è mai stato così netto come si vuol far credere. È solo a partire da Giustino, Clemente Alessandrino ed Ireneo che comincia a delinearsi una ipotesi di ortodossia. Fin oltre la metà del secondo secolo le diverse anime del sentimento religioso cristiano convivono, magari talvolta si scontrano, ma sono tutte espressioni di una ricerca dottrinale in corso d’opera, in cui coabitano l’apocalittica, l’ebionismo, l’encratismo, la gnosi, il marcionismo, il simonianismo, il montani-

III.4  La letteratura apocrifa del Nuovo Testamento 

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smo, il docetismo, l’adozionismo, il priscillianismo e così via. Ciascuna di queste forme religiose ha un andamento storico che somiglia un po’ a quello dei fiumi carsici: ora affonda nelle cavità della terra e lievita nell’oscurità, ora emerge in piena luce del sole. Ma ciascuno ha una durata assai più lunga di quanto si creda e solo con una violenta repressione la chiesa istituzionalizzata riuscirà ad averne ragione. Gli stessi vangeli canonici, a ben vedere, conservano tracce più o meno evidenti di questo intrecciato sincretismo; anzi già nella linea evolutiva da Marco a Matteo e a Luca si coglie il processo di coerentizzazione dottrinale. Con il quarto vangelo e con l’epistolografia paolina si apre un altro fronte dottrinale che è espressione di una ricerca filosofico-teologica più matura, pur nella immancabile tessitura sincretistica. Ciò che soprattutto è necessario comprendere è che il processo di normalizzazione del cristianesimo fu lungo e fu in parte favorito dagli sviluppi politici e istituzionali dell’Europa medievale. Fu un percorso intricato, pieno di incertezze, come si evince anche dalla difficoltà di concordare un canone definitivo dei libri del Nuovo Testamento. Esso comunque fu un punto d’approdo, non di partenza. È sì vero che fu un approdo necessario, data la sterminata quantità di materiale circolante, ma fu in ogni caso un’operazione che smorzò lo spirito rivoluzionario e di incessante ricerca che caratterizzò il protocristianesimo. Dico proto-cristianesimo e non proto-ortodossia, perché quest’ultimo termine, per le ragioni enucleate, è evidentemente fuorviante e produce una retro-interpretazione del próteron sulla base dell’esito conclusivo dell’hýsteron. Nella congerie delle problematiche che confluiscono nello spirito religioso dei primi due secoli c’è l’idea del ‘mistero’, del «messaggio nascosto», di uno strato dottrinale che deve essere riservato e protetto nelle maglie dell’esoterismo, il quale non è solo gnostico, ma ha radici assai più remote non solo nel pitagorismo, ma anche nelle filosofie classiche da quella platonica a quella aristotelica, per non parlare della letteratura essenica ed enochica. Spunti mistici ed esoterici si riscontrano già a partire dal Vangelo di Marco. Con il termine απόκρυφος (apókryphos) gli gnostici designarono i loro libri esoterici, destinati ad una circolazione interna alla setta per la preziosità e segretezza dei loro contenuti. Le sette cristiane, sviluppatesi ab origine in contiguità con quelle gnostiche, adottarono lo stesso termine, ma con il trascorrere del tempo ne diedero un’accezione negativa riferendolo a testi che contenevano dottrine non accolte. È difficile dire quando il cosiddetto canone assunse una veste definitiva.

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Quello che impropriamente è chiamato canone muratoriano, pur esprimendo un parere tra ciò che può essere recepito e ciò che non può esserlo, non ha il crisma di una vera ‘norma’, ma piuttosto di una registrazione dell’impiego che dei testi circolanti si fa nelle comunità cristiane di fine secondo secolo. Mancano all’appello quattro testi canonici come la Lettera agli Ebrei, le due lettere petrine e la Lettera di Giacomo; sono respinte, per essere macchiate di marcionismo, le epistole pseudo-paoline ai Laodicesi e agli Alessandrini; è esclusa l’Apocalisse di Pietro che taluni non vogliono che sia letta in Chiesa; è respinto il Pastore di Erma per non essere risalente all’età apostolica; di contro è accolto il libro della Sapienza, che oggi è parte del canone veterotestamentario. Come si intuisce facilmente da questi pochi dati il documento muratoriano presenta vuoti e incertezze, che per altro persistono in epoche successive. Basti pensare alle difficoltà di Eusebio, il quale respinge l’autenticità della Lettera di Giacomo e tutta la letteratura ascritta a Pietro (Atti, Vangelo, Predicazione e Apocalisse) sulla base del fatto che si tratta di testi non menzionati se non da pochi autori(1) e dice contestata l’autorità della Lettera agli Ebrei, degli Atti di Paolo e del Pastore di Erma.(2) Tra la fine del secondo e l’inizio del terzo secolo perplessità sul canone sono evidenti in personalità di primo piano come Ireneo, Tertulliano e Origene(3)che reputano canonico il Pastore. Non si può tenere in gran conto l’esito del Sinodo di Laodicea (363-364) non solo per la sua natura di concilio regionale che coinvolse appena una trentina di rappresentanti, ma anche perché il Canone che uscì vincente non risponde appieno alle istanze della Chiesa; esso infatti esclude dal Nuovo Testamento tanto la Lettera agli Ebrei quanto l’Apocalisse giovannea. Con la definitiva sanzione del canone cattolico, come il complesso degli scritti contenenti la verità, apocrifo finì con l’acquisire il significato di ‘falso’ e, naturalmente, la lettura dei testi non canonici fu vietata. In realtà fin dal secondo secolo taluni apocrifi si erano affermati con tale prepotenza che la Chiesa, pur respingendoli come non ispirati, dovette riconoscerne l’importanza non solo ai fini di una più ricca conoscenza della biografia del Cristo, ma anche a causa della loro fortissima influenza sulla letteratura e sull’arte dei secoli successivi. Il Canone laodiceno non è che una copia di quello elaborato da Ci(1)  Eusebio, HE, ii, 23, 25; iii, 3, 2. (2)  Ivi, iii, 3, 5-6. (3)  Ireneo, Adv. haer., iv, 20, 2; Tertulliano, De pudicitia, 10; Origene, Princ., iv, 11.

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rillo di Gerusalemme nelle Catecheses(4) in cui risulta menzionato e respinto il Vangelo di Tommaso, in quanto frequentato da sette manichee. La Sticometria di Niceforo annovera tra i testi contestati le Apocalissi di Giovanni e di Pietro, la Lettera di Barnaba, il Vangelo secondo gli Ebrei e, tra gli apocrifi, gli Atti di Pietro, di Paolo, di Giovanni, di Tommaso e il Vangelo secondo Tommaso.(5) Il Catalogus claromontanus(6) omette la Lettera agli Ebrei, la Lettera ai Filippesi, le due Tessalonicesi e in compenso include la Lettera di Barnaba, il Pastore, gli Atti di Paolo e l’Apocalisse di Pietro. Il Decreto gelasiano, attribuito a Damaso (iv secolo) o a Gelasio (v secolo), non è né dell’uno né dell’altro, ma risale al vi secolo ed elenca ben 62 scritti apocrifi.(7) Giovanni Damasceno accoglie come canoniche le Constitutiones apostolicae pseudo-clementine. Come genere letterario il vangelo è, come sappiamo, una sorta di biografia del Cristo, non dissimile in linea generale dalle biografie proprie della letteratura pagana, in cui si ricordavano le gesta e i detti famosi dei grandi protagonisti della storia greca o di quella romana. Il vangelo naturalmente, a differenza delle biografie pagane, non ha carattere storico, ma è un racconto, ai limiti della mitologia, che ha al centro la figura di Cristo, descritta con caratteri insieme umani e divini, portatrice di un kērygma o annuncio di salvezza. Gli elementi che caratterizzano tale genere letterario sono soprattutto due: quello miracolistico e quello della passione, morte e resurrezione del Cristo. L’elemento miracolistico è quello da cui più fortemente si evince il carattere mitico del racconto. Esso si giustifica nell’ottica della natura divina del protagonista, il quale ci viene descritto come dotato di una serie di carismi, da quello taumaturgico a quello profetico, dal potere di comandare e di scacciare i demoni al potere di sciogliere e di legare i peccatori, dal potere di piegare al proprio volere le forze della natura al potere di imporre le mani o di comandare per mezzo della parola, anzi di essere in possesso del potere di disporre della parola divina creatrice, quella che all’inizio della Genesi pone in essere le cose della natura. Perciò la parola del Cristo risana gli ammalati, comanda ai demoni, domina sulla natura, fa risorgere i morti. Insomma l’elemento miracolistico rivela la presenza del divino; nella progressione del (4)  Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, iv, 36, PG. xxx, coll. 499-502. (5)  Il testo della Stichometria di Niceforo è in Th. Von Zahn, Geschichte des neutestamentlichen Kanons, t. ii-1, Erlangen und Leipzig, Deichert, 1890, pp. 298-301; cfr. anche, PG. c, coll. 996-1060. (6)  Il testo del catalogus claromontanus è in Th. Von Zahn, Geschichte, cit., pp. 157-172. (7)  Gelasio, Canones, PL. lix, coll. 157-164.

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racconto dei quattro canonici il Cristo è sempre meno uomo e sempre più Parola e Sapienza di Dio; si identifica sempre più in un Dio pre-esistente fin dall’eternità. Il secondo elemento è quello in cui il carattere ancora giudaico del servo sofferente cade sotto la suggestione dei culti misterici, potremmo dire generalmente di derivazione ellenistica o egizia, per cui avviene la trasformazione della teologia del patto giudaico nella teologia del patto cristiano. Il messaggio di salvezza diventa il messaggio della speranza escatologica individuale o collettiva e si associa al tema greco-platonico della immortalità dell’anima e del dualismo tra corporeità ed incorporeità. Tutti i vangeli apocrifi presentano questi elementi in forme più o meno accentuate, più o meno genuine o più o meno alterate. Si distinguono i cosiddetti vangeli dell’infanzia che mancano della narrazione della passione e mirano a riempire i vuoti della biografia del Cristo, ma lo fanno spesso con una disarmante ingenuità e con una risibile sprovvedutezza tale da sottrarre alla figura del Cristo quel fascino e quell’incanto che ha nei vangeli canonici. Chi passa dalla lettura dei vangeli canonici a quelli apocrifi ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un genere letterario più libero e meno controllato. La narrazione che essi ci trasmettono, fatte le dovute distinzioni, appare di primo acchito meno affidabile e più fantasiosa. L’elemento ‘prodigioso’ e ‘sorprendente’ dà la stura alla fantasia dello scrittore. Il miracolismo, che nei vangeli canonici aveva una motivazione teologica, assume negli apocrifi una curvatura irrazionale e a tratti bizzarra e teologicamente aberrante. Per l’autore canonico l’apparato miracolistico è nella logica della natura divina del Cristo, che, in quanto Dio, esercita un potere straordinario sulla natura. Le práxeis del Cristo vincolano alla fede, perché egli comanda, come nessuno prima di lui, ai venti, alle tempeste, ai demoni ed ha persino ragione delle malattie e della morte. Benché sia filosoficamente contraddittorio che il creatore e ordinatore-legislatore dell’universo sconvolga l’ordine della natura da lui stesso stabilito, è tuttavia comprensibile che, in forza della sua onnipotenza, egli abbia sulle sue stesse creature un potere smisurato e illimitato. Gli apocrifi di contro ce lo presentano assai spesso come una entità a tratti diabolica, capricciosa, irresponsabile. Eppure tra i vangeli canonici e quelli apocrifi c’è una linea di continuità se non altro perché i secondi proseguono nella logica di costruzione della personalità storica del Cristo. Non è tuttavia facile orientarsi nel mare magnum degli apocrifi. Sappiamo che moltissimi sono andati perduti. Il fatto stesso che non furono ammessi nel cosiddetto canone segnò il loro desti-

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no. Di molti conosciamo a mala pena il titolo e non sempre ne siamo sicuri a causa delle numerose varianti con cui sono stati citati. Di altri ci restano scarni frammenti. In generale il loro valore storico-letterario è abbastanza diversificato. Pregevole è senza meno il Vangelo copto di Tommaso, ma in gran parte gli apocrifi non sono affidabili sotto il profilo storico, anche perché paradossalmente si mostrano tanto più informati sulla vita del Cristo quanto più la loro compilazione appare tardiva (secondo lo schema che chi è più lontano dagli avvenimenti sembra saperne di più di chi è più vicino). Sotto il profilo letterario possiamo dire che essi si distinguono in vangeli, atti, epistole e apocalissi. Più difficile è orientarsi in ordine alla loro datazione. Si può forse supporre che i testi relativamente più attendibili risalgano tra il secondo e il quarto secolo dopo Cristo. Uno dei criteri utili per la loro datazione è quello di tenere nel debito conto le relative testimonianze. Così per esempio possiamo dire che il Vangelo degli Ebrei è della prima metà del secondo secolo (scritto probabilmente tra Matteo e Luca), perché è citato da Papia. Luca nel prologo del suo vangelo allude, come sappiamo, a ‘molti’ che prima di lui hanno scritto vangeli, che egli verosimilmente mostra di non condividere in pieno; sfortunatamente non ci dice di quali vangeli si trattava, ma certamene alludeva a Marco, Matteo, al Vangelo degli Ebrei e forse al Vangelo di Tommaso. Al secondo e al terzo secolo dovrebbero risalire il Vangelo secondo gli Egiziani, il Vangelo secondo Basilide, il Vangelo secondo Mattia, il Vangelo dei Dodici, poiché, com’è noto, risultano citati da Origene nella Homilia in Lucam.(8) Più articolato è il giudizio di Eusebio che, dopo aver annoverato tra i libri oggetto di controversia la 1Giovanni, la 1Pietro e l’Apocalisse di Giovanni, include nella categoria degli scritti spuri apocrifi come gli Atti di Paolo, il Pastore di Erma, la Lettera di Barnaba, la Didaché degli apostoli, l’Apocalisse di Pietro, il Vangelo secondo gli Ebrei ed annovera nella categoria dei testi eretici i vangeli di Pietro, di Tommaso, di Mattia, gli Atti di Andrea, di Giovanni e di altri apostoli.(9) Con il passare del tempo il numero degli apocrifi aumentò a dismisura. Il già citato Decreto gelasiano del tardo quinto secolo ne enumera ben 62. Se il cristianesimo ebbe le sue radici nella Palestina, si è in genere indotti a pensare che le prime comunità cristiane fossero fortemente influenzate dal giudaismo. Ma forse vale la pena porsi un interrogativo che per gli esegeti confessionali è imbarazzante: sono davvero esistite vere e proprie comuni(8)  Origene, Homilia I in Lucam, PG. xiii, col. 1802. (9)  Eusebio, HE, iii, 25.

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tà giudeo-cristiane? Per rispondere a questa domanda occorrerebbe definire il giudeo-cristianesimo, individuarne il perimetro dottrinale e teologico, ma questa impresa sembra essere assai ardua, perché, pur ammettendo che il giudaismo costituisca la scaturigine più prossima delle prime sette cristiane, soprattutto in considerazione dello stretto nesso tra la figura del Cristo e le profezie antico-testamentarie, non si può sottovalutare la costante e ineliminabile conflittualità tra il proto-cristianesimo e le altre ideologie giudaiche, in particolare quella farisaica e quella sadducea. È difficile immaginare che il giudaismo abbia potuto condividere o convivere con le istanze dottrinali del dio che muore e che risorge. Le prime comunità cristiane, sotto l’influsso dell’essenismo o dell’enochismo, erano ormai in rotta di collisione con l’establishment culturale giudaico. Forse ne condividevano in parte riti e precetti residuali, ma ne erano ormai teologicamente fuori. Probabilmente il quadro storico sarebbe stato più puntuale se avessimo potuto avere accesso a testi di presumibile derivazione giudeo-cristiana. Purtroppo la gran parte dei vangeli composti tra il secondo e il terzo secolo o sono andati perduti o non ci danno nessuna chiara attestazione di una fusione di giudaismo e di cristianesimo. 4.2. Il Vangelo degli ebioniti Probabilmente la setta che più sembra avere caratteri giudo-cristiani è quella degli Ebioniti. Sfortunatamente è particolarmente arduo stabilire quali sono i suoi contorni dottrinali e le poche notizie che ne abbiamo fanno pensare non ad una setta della prima ora, ma ad una comunità giudaica piuttosto tardiva (metà dl secondo secolo) che in reazione al cristianesimo, ne giudaizzò, nei limiti del possibile, le dottrine. Infatti Ireneo ci fa sapere che gli ebioniti condividevano le idee di Cerinto e di Carpocrate in ordine alla impossibilità della nascita virginale del Cristo, usavano solo il vangelo di Matteo, respingevano la predicazione paolina, si facevano circoncidere e conservavano le usanze giudaiche.(10) Nel terzo libro dell’Adversus haeresess Ireneo(11) ci dice che gli ebioniti, attenendosi alle versioni della Septuaginta date da Aquila del Ponto e da Teodozione di Efeso (entrambi di fede giudaica e della prima metà del ii secolo), osavano tradurre il noto passo di (10)  Ireneo, Adv. haer., i, 26, 2. (11)  Ivi, iii, 21, 1.

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Isaia: «la giovane concepirà e partorirà un figlio»(12) secondo il dettato del testo ebraico e non in conformità alla lettura della Septuaginta. Più avanti il vescovo lionese confutò gli ebioniti affermando che essi «non accettavano nelle loro anime […] l’unione di Dio e dell’uomo, ma rimanevano nel vecchio lievito della loro nascita»(13). Che è come dire che di fatto non aderivano al credo dei cristiani. Gli argomenti retorici, a cui egli ricorre,(14) vertono sullo stesso tema dell’unità Dio-uomo, incompatibile con la cultura ebraica. Eusebio(15) ci dà degli ebioniti una rappresentazione manifestamente ostile, poiché – dice – credevano in Cristo come uomo e in ogni caso negavano la sua preesistenza come Verbo e Sapienza. Poiché respingevano in blocco le lettere di Paolo, Eusebio afferma che avevano «concezioni misere e meschine del Cristo» (ove il significato di ‘ebionim ‘‫אביונים‬, che in ebraico equivale a «poveri», è maliziosamente esteso alle loro dottrine, ritenute prove della povertà della loro intelligenza).(16) Il Cristo era, a loro avviso, un uomo comune, nato dall’unione di Maria con un uomo. Essi ritenevano che la salvezza non venisse dalla fede in Cristo, ma dalla osservanza della Legge. Secondo Eusebio alcune comunità ebionite accettavano la nascita virginale di Maria, ma non riconoscevano al Cristo la preesistenza come verbo e sapienza di Dio; respingevano le lettere paoline e facevano uso del Vangelo degli Ebrei. Erano rispettosi del sabato e della Legge giudaica, ma osservavano anche la domenica in memoria della resurrezione. È appena il caso di osservare che il quadro fornito da Eusebio, evidentemente dettato ab ira, è inaffidabile. Da lui forse dipende Epifanio di Salamina che cita diversi brani del Vangelo degli Ebioniti(17) che però sembrano per lo più tratti dai canonici. Anche per Epifanio gli ebioniti concepirono Gesù «nato da seme umano» e scelto da Dio al momento del battesimo (forma di adozionismo). Negando che fosse figlio di Dio, essi attribuivano al Cristo una natura angelica, sebbene – forse sulle tracce dell’enochismo – lo reputassero superiore a tutti gli angeli e a tutte le altre creature di Dio. Secondo Epifanio dal Vangelo secondo gli Ebrei gli ebioniti attinsero l’idea che il Cristo fosse venuto per abolire i sacrifici rituali della tradizione giu(12)  Is, vii, 14 (13)  Ireneo, Adv. haer., v, 1, 3. (14)  Ivi, iv, 33, 4. (15)  Eusebio, HE, iv, 7. (16)  Ivi, iii, 27. (17)  Epifanio di Salamina, Panarion, xxx, 13, 2-8; 14, 5; 16, 4-5; 22, 4.

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daica. Gli esegeti cattolici si arrampicano sugli specchi e credono di poter individuare nel Vangelo degli Ebioniti la fatidica Quelle ebraica o aramaica di Matteo, ma dalle poche citazioni riscontrabili in Epifanio emerge che il loro vangelo presupponeva tutti e quattro i canonici e non solo Matteo. In particolare la dipendenza da Matteo è smentita da almeno due dati: 1) secondo Epifanio nel Vangelo degli Ebioniti Giovanni battezza anche i farisei mentre, secondo i tre sinottici, essi sono aspramente respinti dal Battista; 2) tutte le testimonianze concordano nel farci sapere che non accoglievano la nascita virginale del Cristo; il che significa che la loro accettazione di Matteo era solo presunta. 4.3. Il Vangelo secondo gli Ebrei e il Vangelo dei Nazareni Giudeo-cristiano è reputato anche il Vangelo secondo gli Ebrei, occasionalmente citato da Papia, Clemente Alessandrino ed Eusebio. Papia – secondo quanto racconta Eusebio(18) – avrebbe ricordato che nel Vangelo secondo gli Ebrei è menzionato l’episodio della peccatrice condotta davanti al Signore, ovvero dell’adultera perdonata di cui parla Giovanni (Gv, viii, 1-8). Eusebio lo annovera tra gli scritti non testamentari, dicendolo «gradito agli Ebrei che hanno accolto il Cristo». Dalle poche testimonianze che ci sono pervenute non è agevole stabilire il grado di apparentamento con il Vangelo di Matteo. Infatti i brani riportati da Origene, da Eusebio e da Girolamo(19) non sono esclusivi di Matteo, ma si riscontrano anche in Marco e Luca e, oltre tutto, presentano spesso varianti non irrilevanti anche rispetto al testo matteano. Non conoscendo la storia della compilazione e delle relative fasi di transizione di tali testi, non siamo in grado di stabilire la precedenza o meno del Vangelo degli ebrei rispetto a quello di Matteo. Il testo, a cui Girolamo ed Eusebio sembrano fare riferimento, apparteneva ad un gruppo collaterale degli ebioniti, perché ci vien detto che «altri membri della stessa setta» [intendi degli ebioniti] credevano nella nascita virginale del Cristo e facevano uso soltanto del Vangelo secondo gli Ebrei.(20) Secon(18)  Eusebio, HE, iii, 39, 17. (19)  Origene, Comm. in Matth., xv, 14; Eusebio, Theoph., iv, 12; Girolamo, De viris illustribus, ii, iii e xvi, Comm. in Matth., xii, 13; Comm. in Isaiam, iv, xi, PL. xxiv, coll. 144-145; In Mich., vii, 6, Tract. in Ps., 135. (20)  Eusebio, HE, iii, 27, 4.

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do Eusebio allo stesso vangelo avrebbe attinto notizie sulle sette ebraiche Egesippo.(21) Clemente Alessandrino(22) ci fa sapere che esso conteneva il seguente lógion: «Chi si stupirà, regnerà; chi regnerà, riposerà («qui admiratus fuerit, regnabit; et qui regnabit, requiescet»).(23) In realtà il titolo stesso «secondo gli Ebrei» è generico e vago, perché non consente di individuare una tipologia di setta giudaica. Forse è opportuno richiamarsi a quanto scrive Epifanio sui Nazarei, sebbene la sua analisi sia imprecisa ed ambigua, a causa dell’equivoco in cui lascia sussistere i termini Nazareno, Nazareo o Nazireo. Epifanio crede che i Nazarei si identificassero con i Cristiani (πάντες δε Χριστιανοὶ ναζωραῖοι τότε ὡσαύτως ἐκαλοῦντο – Siquidem Christiani tum omnes Nazaraei vocabantur), i quali, per un tempo esiguo, si chiamarono Jessaei (ἐπ’ολίγῳ χρόνῳ καλεῖσθαι Ίεσσαίους, πριν ἢ ἐπί τῆς Ἀντιοχείας ἀρχηὴν λάβωσιν οἱ μαθηταὶ καλεῖσθαι Χριστιανοὶ) da Jesse per essere Cristo di discendenza davidica («Quanquam pro exiguo tempore Jessaeorum penes illos nomen residit, antequam Christiani Antiochiae nominari coeperint. Ac Jessaei, ut opinor, ab Jesse vocati sunt»). È evidente che qui Epifanio confonde i cristiani con i nazirei che costituivano una delle sette di tradizione giudaica. Egli sa bene che il termine ‘nazareo’ non va confuso con ‘nazireo’ («Apostoli […] ex eo nomen sibi ipsi imponunt, ut Nazaraei vocentur, non naziraei»), che è termine relativo al nazireato. L’equivoco, in cui cade Epifanio, deriva dalle stesse comunità protocristiane, le quali collegarono la predicazione di Cristo a quella di Giovanni il Battista che si era verosimilmente votato al nazireato. Tutto dunque lascia supporre che il Vangelo secondo gli Ebrei e il Vangelo dei Nazarei, se non erano addirittura coincidenti, avevano come referente una medesima comunità, staccatasi dall’originario troncone dell’ebionismo. Ma Epifanio cade in un’ulteriore confusione sul termine Jessaei. È molto interessante la notizia che egli ci dà intorno alla denominazione dei Cristiani, i quali prima che assumessero il nome ‘cristiani’ in Antiochia furono denominati per un breve tempo Jessaei. Ciò che Epifanio si lascia sfuggire è che l’originaria denominazione esseni è da lui fraintesa con Jessaei. A conferma egli cita un’opera De Jessaeis di Filone di Alessandria. Filone però non ha mai composto tale scritto ed evidentemente le frammentarie informazioni, di cui dispone Epifanio, (21)  Ivi, iv, 22, 8. (22)  Clemente Alessandrino, Stromata, ii, 45; v, 96. (23)  Ivi, ii, 45; v, 96. Lo stesso lógion è presente nell’Ox. Pap. 564 e nel Vangelo copto di Tommaso.

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si riferiscono a quanto Filone aveva detto intorno ai terapeuti. D’altronde l’equivoco si evince dal fatto che egli interpreta lo stesso nome ‘Gesù’ in relazione ai terapeuti e dichiara: «Il nome di Gesù in lingua ebraica significa terapeuta, cioè medico e salvatore» (Ἰησοῦς γὰρ κατὰ τὴν Ἑβραϊκὴν διάλεκτον θεραπευτὴς καλεῖται,ἥτοι ἰατρὸς καὶ σωτήρ).(24) Ciò significa che nelle testimonianze contemporanee da lui raccolte si conservava evidentemente il ricordo di un’origine del cristianesimo dall’essenismo. Un’ulteriore ambiguità di Epifanio sta nel fatto che egli considera queste comunità come caratterizzate da una sorta di giudeo-cristianesimo. Come se cioè ci fossero comunità giudaiche che, pur restando tali, avessero accolto anche la fede cristiana. Ma quando leggiamo tra le righe il testo del Panarion, intuiamo che la loro cristianità consisteva unicamente nell’accogliere come personaggio storico il Cristo, ma non nella forma del figlio di Dio, bensì in quella di un comune mortale. I ‘Nazarei’ – egli scrive – professano tutti i loro dogmi secondo le prescrizioni della Legge e secondo i costumi dei giudei, non dissentono in nulla dai essi salvo che per il fatto di credere in Cristo («a quibus [Iudaeis] Nazaraei nulla re dissentiunt, qui ad legis praescriptum ac judaeorum more omnia sua dogmata profitentur, nisi quod in Christum credunt»). Più icasticamente dirà di loro Girolamo: «mentre vogliono essere giudei e cristiani, non sono né giudei né cristiani» («dum volunt esse et Judaei et Christiani, nec Judaei sunt nec Christiani».(25) Ma Girolamo abbonda di notizie sui giudeo-cristiani. Nel De viris illustribus(26) dice di aver tradotto in greco e in latino il Vangelo secondo gli Ebrei di cui si era servito anche Origene. Nel capitolo iii(27) della stessa opera sostiene che il Vangelo di Matteo composto in lingua ebraica, e forse tradotto in greco, si trovava nella biblioteca di Cesarea fondata da Panfilo, il maestro di Eusebio: Quod quis postea in graecum transtulerit, non satis certum est. Porro ipsum hebraicum habetur usque hodie in caesariensi bibliotheca quam Pamphilus Martyr studiosissime confecit. Mihi quoque a Nazaraeis, qui in Beroea urbe Syriae hoc volumine utuntur, describendi facultas fuit. Non è sufficientemente certo che qualcuno lo [il vangelo di Matteo] abbia (24)  Epifanio di Salamina, Panarion, xxix, PG. xli, col. 397. (25)  Girolamo, Epistola ad Augustinum, cxii, PL. xxii, col. 924, cfr. anche Agostino, Contra Cresconium, i, 31; PL. xliii, col. 465. (26)  Girolamo, De viris illustribus, ii. (27)  Ivi, iii.

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tradotto in greco. Poi si è conservato fino ad oggi in ebraico nella biblioteca di Cesarea fondata dal martire Panfilo. Anche a me dai Nazarei, che usano questo volume in Berea, città della Siria, è stata data la facoltà di copiarlo.

La stessa notizia è confermata nel Dialogus contra Pelagianos: «In evangelio juxta Haebreos, quod Chaldaico quidem syroque sermone, sed hebraicis litteris scriptum est, quo utuntur usque hodie Nazareni, secundum Apostolos, sive, ut plerique autumant, juxta Matthaeum, quod et in caesariensi bibliotheca […]».(28) Dai Nazarei, che si servono del Vangelo secondo gli Ebrei, fu data a Girolamo la facoltà di prenderne visione e di copiarlo. Così egli ci fa sapere che in tutti i casi in cui l’evangelista, a nome suo o a nome del Signore, utilizza a testimonianza la sacra scrittura, non si serve della Septuaginta, ma del testo ebraico. Nel Commento a Matteo(29) aggiunge di aver tradotto dall’ebraico al greco il Vangelo dei Nazareni e degli ebioniti che molti considerano il Matteo autentico. Non è facile districarsi in questo labirinto di testimonianze, ma l’impressione che se ne ricava è che il presunto Matteo ebraico non ha nulla a che fare con la Quelle ebraica sognata dagli esegeti cristiani. Per coerentizzare l’intera versione geronimiana bisogna supporre che nel secondo capitolo del De viris illustribus, per un madornale errore di copisti o per un’interpolazione maliziosa, il testo sia stato alterato e che originariamente Girolamo si limitasse a dichiarare di aver tradotto il Vangelo dei Nazarei dal greco in latino, tant’è che afferma che il testo greco era già stato utilizzato da Origene. Ed è giusto il dubbio avanzato da Jean Martianay, curatore del testo edito dalla Patrologia latina, il quale asserisce di non capire perché Girolamo si sia cimentato in una ritraduzione in greco, dal momento che essa era già esistente e nota ad Origene («Non intelligo, cur graece librum refunderet, qui jam graece extabat»«non capisco perché abbia tradotto in greco un libro che era già in versione greca»).(30) Se ne deve dedurre che non c’è mai stato un Matteo in lingua ebraica e che pertanto la tesi, così ampiamente diffusa tra gli esegeti cattolici e cristiani in genere, della esistenza di un Matteo ebraico è frutto (28) «Nel Vangelo secondo gli Ebrei, che è in lingua siro-caldaica ed è scritto in caratteri ebraici, usato fino ad oggi dai Nazarei, ovvero il Vangelo secondo Matteo a giudizio degli apostoli, come molti opinano, il quale anche si trova nella biblioteca di Cesarea […]», Girolamo, Dialogus contra Pelagianos, iii, 2, PL. xxiii, col. 598. (29)  Girolamo, Comm. in Matth., xxii, 13. (30) Jean Martianay, Note al De viris illustribus di Girolamo, PL. xxiii, col. 642.

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di un aggiustamento manipolatore. Il fatto stesso che Girolamo lo dica reperibile nella biblioteca di Cesarea, fa pensare che si trattasse di un testo raro e pertanto non identificabile con il Vangelo di Matteo che certamente tra il quarto e il quinto secolo doveva avere ampia diffusione. Perciò non è improbabile che il testo ebraico di cui egli parla non sia che una tardiva (del iii secolo) traduzione ebraica del Matteo greco, tra l’altro adattato alle istanze intellettuali dei Nazirei. Una retroversione che non era evidentemente una pura e semplice versione integrale, non solo perché mancava dei primi due capitoli introduttivi, che forse non erano presenti neppure nel testo originale, ma anche perché agiva in modo selettivo sullo stesso contenuto narrativo. Ed è altresì evidente che il presunto vangelo, non ebraico ma greco, di Matteo e il Vangelo dei Nazarei, non a caso entrambi rinvenuti nella Biblioteca di Cesarea, erano lo stesso testo. 4.4. Il Vangelo degli egiziani Ancor più oscuro è il cosiddetto Vangelo degli Egiziani, di cui ci hanno conservato tracce Clemente Alessandrino e lo Ps.-Ippolito. Probabilmente si tratta di un testo della seconda metà del ii secolo. Dalle informazioni provenienti da Clemente due sembrano essere i suoi nuclei centrali: una forte propensione per l’esoterismo ed una esasperante ricerca di tipo monistico, non solo in relazione al mondo celeste e divino, rispetto al quale il Cristo è presentato come una unità superiore, in cui confluiscono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma anche rispetto al mondo terreno, con l’abolizione del femmineo o, se si preferisce, con l’identificazione del maschile e del femminile, dell’interno e dell’esterno. Un terzo elemento caratteristico è certamente il rigorismo etico che condanna la vita materiale e il corpo, come abito della vergogna.(31) Da Epifanio(32) sembra si debba dedurre che il Vangelo degli Egiziani esercitò un fascino sui Sabelliani, che si votarono al monarchianesimo. Sono spunti che potrebbero far pensare ad una matrice gnostica, ma ben poco induce a credere che il testo costituisse un punto di riferimento per una comunità giudeo-cristiana. Lo stesso si dica delle Tradizioni di Mattia, anch’esse di impronta esoterica, gnostica e ri(31) Cfr. Clemente Alessandrino, Stromata, iii, 6, 9, 13, PG. viii, coll., 1149, 1165, 1193; Ps.-Ippolito, Élenchos, v, 7. (32)  Epifanio di Salamina, Panarion, lxii, 2, PG. lxi, col. 1051.

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goristica sul piano etico, per le quali è fonte indispensabile di informazioni il solito Clemente Alessandrino.(33) 4.5.  I vangeli dell’infanzia: il Protovangelo di Giacomo La discriminazione tra gli scritti reputati di ispirazione divina, e per ciò canonici, e quelli contestabili e spuri è di ordine teologico. Per lo storico tutti i testi hanno una loro indiscutibile valenza se non altro perché ci permettono di conoscere le comunità cristiane delle origini, il loro diversificarsi, il loro intrecciarsi con dottrine di matrice ereticale, nonché l’evolversi del sentimento religioso non solo sotto il profilo alto della religiosità più pura, ma anche in quello delle forme della superstizione. Si può forse rimanere stupiti di fronte all’ingente moltiplicazione degli apocrifi, ma tale fenomeno va inquadrato nel naturale processo di diffusione o di divulgazione del messaggio cristiano. Esso ci dà testimonianza, nella sua molteplice varietà di posizioni, della natura multiforme e variegata delle comunità cristiano-apostoliche. La sua diffusione in tempi e territori molto diversificati per composizione sociale e per cultura produsse inevitabilmente una corrispondente diversificazione dottrinale, su cui agirono componenti gnostiche, apocalittiche e, più genericamente, eretiche. In linea di massima la letteratura apocrifa si sviluppò lungo due direttive: la prima era quella di raccogliere quanto più possibile atti (práxeis) e detti (lógia) di Cristo; la seconda era quella di rispondere alle obiezioni immancabili dei pagani che contestavano la credibilità delle narrazioni evangeliche. Quanti interrogativi erano senza risposta? Chi erano i componenti della famiglia di Gesù? Come era avvenuta la sua nascita? Quante obiezioni sulla presunta nascita virginale venivano opposte dai pagani? E quante ancora sulla resurrezione, sull’ascensione, sulla vita oltremondana? Non c’era solo il problema di conoscere di più e meglio la vita di Cristo; c’era anche quello di dare le risposte più idonee alle obiezioni del mondo pagano. Naturalmente le risposte furono spesso ingenue o maldestre o del tutto prive di qualsivoglia legame con la realtà storico-geografica della Palestina. Si prendano per esempio in esame i vangeli dell’infanzia. Ce ne sono pervenuti una manciata, in redazioni diverse per tempo e per estensione, nonché (33)  Clemente Alessandrino, Stromata, iii, 4, vii, 13 e 17, PG. viii, col. 1131; PG. ix, coll. 513, 551.

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per la presenza di variabili lessicali e contenutistiche. Oggi abbiamo a nostra disposizione il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo della nascita di Maria, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo dello Ps.-Matteo, la Storia di Giuseppe falegname, il Vangelo armeno dell’infanzia. Naturalmente – ma questo vale anche per tutta la letteratura canonica – si tratta sempre di scritti anonimi o pseudepigrafi. L’anonimo che scrive a nome di Giacomo Minore o di Matteo o di Tommaso lo fa solo per dare autorità ai propri scritti, retrodatandoli il più possibile in prossimità dell’età apostolica. Il Protovangelo costituisce un po’ il modello dei vangeli dell’infanzia. Pubblicato nel 1552 da Guillaume Postel, esso sembra essere ignoto agli autori dei primi quattro secoli poiché non è mai da essi esplicitamente citato.(34) Le testimonianze di Giustino e di Clemente Alessandrino(35) sono troppo generiche e non consentono di stabilire con certezza quale sia stato il rapporto temporale tra i loro scritti e il Protovangelo. Chi lo ha scritto non sembra avere contezza della Palestina e dei costumi ebraici; ci fa sapere che i genitori di Maria sono Gioacchino e Anna, la quale è – secondo un abusato schema – sterile. Ci sono i soliti luoghi comuni sulla sterilità di Anna, la madre di Maria, sulle due annunciazioni angeliche a Gioacchino e ad Anna. L’infanzia di Maria è prodigiosa; i sacerdoti del tempio riconoscono in lei ad appena un anno dalla nascita il suo radioso destino. Viene allevata nel tempio come una colomba; all’età di dodici anni le viene scelto il marito tra i vedovi del popolo. Zaccaria decide che Maria andrà sposa al vedovo il cui bastone darà un segno (che è reminiscenza di un analogo episodio mosaico). La scelta cade su Giuseppe, vecchio e con figli (il che sottintende che i fratel(34) G. Postel, Protovangelium seu de natalibus Iesu Christi et ipsius matris virginis Mariae, Basileae, 1552. W. Wright, Contributions to the Apocryphal Literature of the New Testament, London, Williams, 1865 (versione siriana); K. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, Lipsiae, Avenarius et Mendelssohn, 1853, pp. 1-49, (versione greca); A. S. Lewis, Apocrypha Syriaca. The Protoevangelium Jacobi and Transitus Mariae, «Studia Sinaitica», xi, 1902; E. A. Th. W. Budge, The History of the Blessed Virgin Mary and the History of the Likeness of Christ, t. v, London, Luzac, 1899, pp. 3-168; M. Chaine, Apocrypha de B. Maria Virgine, Scriptores Aethiopici, in Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Romae, C. De Luigi, 1909, pp. 2-19 (versione etiopica; tr. it. a c. di M. Craveri (a c. di), I vangeli apocrifi, Torino, Einaudi, 1969, pp. 5-25; L. Moraldi, a c. di, Apocrifi, cit., pp. 61-87. (35)  Giustino, Tryph, 78 (PG. vi, p. 658), la cui affermazione secondo la quale Cristo nacque in una grotta (ἐν δὲ σπηλαίῳ) potrebbe dipendere da Is, xxxiii, 16. Per Clemente Alessandrino, Stromata, vii, 16, 81 (PG. ix, pp. 529-530), l’osservazione che Maria fu «inspectam ab obstetrice» potrebbe non dipendere dal Protovangelo per il quale le ostetriche furono due.

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li del Signore erano nati da un precedente matrimonio), perché dal suo bastone era uscita una colomba. Per assicurare al Cristo l’ascendenza davidica il Protovangelo la ascrive direttamente a Maria, anziché a Giuseppe. L’angelo annuncia a Maria che partorirà il figlio dell’Altissimo, a cui darà il nome Gesù (cioè salvatore) per essere destinato a «salvare il suo popolo dai suoi peccati».(36) Giuseppe sospetta uno stupro, ma è tranquillizzato dall’arcangelo Gabriele. Accusati dagli scribi e dai sacerdoti, Giuseppe e Maria sono sottoposti all’ordalia e costretti a bere l’acqua amara. Superata la dura prova, i due coniugi fuggono in Egitto. Maria partorisce in una grotta. Per attestare ai pagani e ai posteri la sua verginità, viene ispezionata da due levatrici (una non nominata e l’altra di nome Salome), secondo il principio giuridico che sono necessarie almeno due testimonianze. La prima levatrice grida al miracolo perché Maria le appare come una gran luce che gli occhi non possono sopportare. Salome, invece, più scettica, volendo accertare la nascita miracolosa, introduce la mano, ma la ritira bruciata. Il testo si chiude con la strage degli innocenti (fatta cadere in occasione del censimento di Quirinio, con manifesta dipendenza da Luca), con la morte di Zaccaria e con la nomina di Simeone a sommo sacerdote (ma nella cronotassi dei sommi sacerdoti non è registrato né l’uno né l’altro). Nell’epilogo il testo è attribuito a Giacomo senza ulteriore precisazione.(37) 4.6.  I vangeli dell’infanzia: il Vangelo sulla nascita di Maria e il Vangelo dello Ps.-Matteo Il Vangelo sulla nascita di Maria, molto frammentario, presenta un contenuto affine al Protovangelo, dal quale si discosta solo per pochi punti: non accenna ad un precedente matrimonio di Giuseppe, che si conferma di discendenza davidica, «avanti negli anni», più che vecchio. Si chiude con la promessa della nascita del Cristo. Il Vangelo dello Ps.-Matteo, pubblicato da Thilo nel 1832 e successivamente da Tischendorf,(38) riprende con ulte(36)  Protovangelo di Giacomo, xi, 3. (37)  Ivi, xxv, 1. (38)  J. K. Thilo, Codex apocryphus Novi Testamenti, Lipsiae, W. Vogel, 1832, pp. 340400 (versione latina con il titolo Historia de nativitate Mariae et de infantia Salvatoris); K. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, cit, pp. 50-105 (versione latina; tr. it. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 63-111; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 199-239.

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riori dettagli il Protovangelo, ma prosegue il racconto giungendo fino all’adolescenza di Gesù. Maria si conferma di discendenza davidica, perché sua nonna Achar o Isachar appartiene alla tribù di Giuda e alla stirpe di David. Il sacerdote che le assicura lo sposo è Abiatar e non più Zaccaria. Giuseppe è di nuovo vecchio e con precedenti figli. Le due ostetriche che ispezionano la Vergine si chiamano Zelomi e Salome. Salome ritira la propria mano inaridita, ma subito è guarita per aver adorato il salvatore del mondo. Lo scenario della mangiatoia con la presenza del bue e dell’asino non è che una interpretazione di Isaia e di Abacuc: «Ti farai conoscere in mezzo a due animali».(39) Dopo la nascita di Gesù l’autore prosegue tenendo sott’occhio il Vangelo di Luca; accenna a Simeone, l’uomo di Dio, perfetto e giusto, alla sacerdotessa Anna e alla storiella dei magi e della fuga in Egitto. La nascita di Gesù ha del paradossale: la grotta è piena di draghi che adorano Gesù appena esce dal grembo di sua madre. Procedendo verso il deserto lo adorano anche i leoni e i leopardi; poi una reminiscenza isaiana (Is, xi, 6) fa dire all’autore: «camminavano tra i lupi e si avverò quanto era stato detto dal profeta: i lupi pascoleranno con gli agnelli; il leone e il bue mangeranno insieme la paglia». Essendo tormentati dalla fame, Gesù fa abbassare una palma che offre ai tre viandanti i propri frutti. Quando entrano nella regione di Ermopoli, nella città di Sotine, 355 idoli del suo santuario si prostrano ai piedi di Maria e di Gesù, secondo una profezia isaiana: «Entrerà in Egitto e al suo cospetto saranno scosse tutte le opere manufatte degli Egiziani» (Is, xix, 1). Ne resta esterrefatto Affrodisio, il governatore della città, il quale, insieme a tutto il popolo di quella città «credette nel Signore Dio per mezzo di Gesù Cristo», che ancora non aveva compiuto i due anni. Ritornato in Galilea, aveva quattro anni allorché giocava sul letto del Giordano e formava con il fango fossatelli e laghetti. Un fanciullo, «figlio del diavolo, con animo invidioso» mandò all’aria le sue costruzioni e Gesù reagì provocandone la morte. Rimproverato amorosamente dalla madre per la sua cattiva azione, Gesù percosse col piede il sedere del fanciullo e lo riportò in vita. Lo stesso episodio si ripete con un altro fanciullo identificato con «un figlio di Anna». Poi un altro fanciullo lo colpisce alle spalle e Gesù ne decreta la morte. Di nuovo si ripetono le lamentele dei genitori del malcapitato e le preghiere di Giuseppe; mosso da tali sollecitazioni Gesù lo riporta in vita, «prendendolo per l’orecchio e tenendolo sospeso alla presenza di tutti». Più tardi frequenta la (39)  Is, i, 3. Il passo è presente nella versione della Septuaginta, Hab, iii, 2: εν μέσω

δύο ζώων γνωσθήση.

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scuola di Zachia, ma ne è rimandato indietro perché si scopre che la sua sapienza non è di questo mondo. Maria lo manda ad attingere l’acqua con una brocca; la brocca si rompe e Gesù la raccoglie nel proprio mantello. A otto anni presso Gerico entra in una caverna in cui aveva partorito una leonessa; i leoni gli vanno incontro e lo adorarono. Un giorno a Giuseppe capita di tagliare il legno secondo una misura più corta; Gesù tira uno dei due capi della tavola e lo accomoda secondo la misura giusta. A Cafarnao un uomo molto ricco, di nome Giuseppe, muore e Gesù lo riporta in vita. Sempre a Cafarnao suo fratello Giacomo è morso nell’orto da una vipera; Gesù soffia sulla sua mano e gliela guarisce. 4.7.  I vangeli dell’infanzia: il Vangelo di Tommaso e il Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore Il Vangelo di Tommaso israelita, pubblicato da Fabricius, Cotelier, Thilo e Tischendorf,(40) da non confondere con il Vangelo copto di Tommaso, ci è noto anche in una versione siriaca, in una etiopica, in una slava e in una georgiana. I manoscritti siriaci potrebbero risalire al vi-vii secolo. Il testo è scritto sulla falsariga degli altri vangeli dell’infanzia, rispetto ai quali presenta qualche episodio in più. All’età di cinque anni Gesù impasta dodici passeri di argilla, poi batte le mani e i passeri volano. Ad un ragazzo che tagliava la legna, sfugge la scure e si spacca la pianta del piede; Gesù interviene e lo guarisce. Per il resto il testo non si distacca molto dagli altri vangeli apocrifi. Il Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore(41) è scritto secondo gli stessi parametri. Gesù parla fin dalla culla e dichiara a sua madre: «Io sono Gesù, (40)  J. A. Fabricius, Codex apocryphus Novi Testamenti, cit., pp. 159-167; J. K. Thilo, Codex apocryphus Novi Testamenti, cit, pp. 277-315 (versione greca e latina); K. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, cit., pp. 134-149 (versione greca A), pp. 150-155 (versione greca B), pp. 156-170 (versione latina); W. Wright, Contributions to the Apocryphal Literature, cit. (versione siriaca); E. A. Th. W. Budge, The History of the Blessed Virgin Mary, cit. (versione siriaca); S. Grébaut, Les miracles de Jésus, «Patrologia Orientalis», xii (1919), pp. 555-649 (versione etiopica), tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 32-61; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 253-279. (41)  J. K. Thilo, Codex apocryphus Novi Testamenti, cit., pp. 63-131 (versione araba e latina), con successive note, pp. 12-158; tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 113-148; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 281-311.

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figlio di Dio, il Lógos». Si reca a Betlemme nel 309 (= 3 a.C.) dell’era di Alessandro, in concomitanza con il censimento di Quirinio; guarisce dalla paralisi una vecchia di Gerusalemme; i pastori lo adorano. Seguono nella narrazione la circoncisione e la presentazione al tempio, l’adorazione dei magi, la fuga in Egitto secondo la versione dei canonici, le guarigioni di indemoniati, di lebbrosi, la liberazione di uno sposo da un sortilegio, la trasformazione di un mulo in uomo. Le dipendenze dai sinottici sono abbastanza manifeste: Gesù guarisce un appestato a Gerusalemme, un fanciullo agonizzante; un altro fanciullo, gettato nel forno, non si brucia. Il futuro apostolo Bartolomeo, agonizzante, guarisce per essere stato posto sul letto ove giaceva Gesù. Seguono gli episodi di due lebbrose, di un’indemoniata, della cacciata di Satana dal corpo di Giuda Iscariota. Non mancano i soliti episodi fantasiosi, quasi giochi di prestigio: Gesù ed altri coetanei impastano il fango, gli danno forme di vari animali e Gesù le vitalizza. Il giorno successivo, dopo aver gettato i panni in una botte piena di azzurro indiano, di fronte alla disperazione del tintore, Gesù li tira fuori facendo sì che ogni panno avesse il colore da lui desiderato. Un giorno tramuta in capretti dei ragazzi e poi, sopraffatto dalle preghiere delle loro madri, li tramuta nuovamente in ragazzi. Un altro giorno guarisce il futuro apostolo Simone il Cananeo, morso da un serpente. 4.8.  I vangeli dell’infanzia: il Vangelo dell’infanzia armeno e la Storia di Giuseppe il falegname Di esasperante prolissità è il corposo Vangelo dell’infanzia armeno,(42) modellato per lo più sulla falsa riga del Protovangelo di Giacomo e del Vangelo dello Ps-Matteo. Esso percorre anno per anno dalla nascita fino ai dodici anni la vita di Gesù, infarcendola con una serie infinita di miracoli e prodigi talvolta persino banali e comici e in qualche caso anche crudeli. Tra le varie sue curiosità elenchiamo la conceptio per aurem, già sostenuta da Ephrem Siro nel iv secolo, l’assistenza al parto di Maria, ovvero di colei che redime l’umanità dal peccato, da parte di Eva, che al contrario introdusse il peccato nel mondo. L’annuncio della nascita del Salvatore è retrodatato fino ad Adamo e a Seth (residuo di gnosi sethiana?) i quali avrebbe(42)  Il testo è pubblicato da I. Daietsi, Livres apocryphes du Nouveaux Testament, in Trésor de littérature arménienne, anciene et moderne, t. ii, Venezia, 1898, pp. 1-126; tr. it. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 14-210.

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ro ricevuto un messaggio segreto da Dio. Si ripetono i soliti racconti sulle lettere dell’alfabeto, sul tintore e il mescolamento dei colori, sulla colomba che esce dalla tavoletta su cui è scritto il nome di Maria. Al Cairo Gesù, trovandosi in cima ad un altissimo castello, per scivolare giù si aggrappa ad un raggio di sole; a Mesrin fa crollare gli idoli e distrugge la statua di Apollo, compiendo una strage di sacerdoti, ottantadue dei quali vengono riportati in vita. In una città della regione di Moab, mentre giocava con i bambini, ne colpisce uno e gli schiaccia l’occhio destro, ma subito gli restituisce la vista. Accusato di aver ucciso Abias, figlio di Thamar, lo fa risuscitare e lo fa testimoniare per poi riconsegnarlo al sonno eterno. A Sahaprau (località sconosciuta), percuote con una bacchetta una rupe e fa sgorgare acqua abbondante e deliziosa (episodio che ricorda le narrazioni eziologiche greche, perché spiegherebbe l’esistenza di un sorgente d’acqua nella località menzionata). A Madiam soffia su un passero d’argilla e lo fa volare, poi trasforma la polvere in mosche, in zanzare e in api e vespe che tormentano i bambini che giocavano con lui. Nella città di Tiberiade si esibisce in trasfigurazioni che lo fanno apparire ora bambino ora vecchio. Ad Arimatea guarisce un cieco, un lebbroso e un epilettico. Ad Efthaiea spiega ad un lebbroso che egli ha il potere di «guarire tutti i mali con una semplice parola»; a Buboron spiega ad un tal Hiram che «la trinità è una e perfetta».(43) Il testo si chiude con un interessante colloquio di Gesù con un gruppo di soldati; ad essi egli spiega di essere «senza padre sulla terra e senza madre nel cielo»; afferma che la sua prima nascita «è stata dal Padre, prima di tutti i tempi» e che la seconda «è stata su questa terra». Infine dichiara: «Io sono con mio Padre, nel cielo, e qui abito con mia madre, e sono insieme con lui per l’eternità». Al che i soldati riconoscono che «Egli è il Verbo incarnato, inviato da Dio», ma sanno anche che «certuni dicono che non è quello, ma che è un impostore e un imbroglione».(44) La Storia di Giuseppe il falegname, pubblicata da Georg Wallin nel 1722,(45) poi da Thilo e da Tischnedorf, ci è pervenuta in tre recensioni, ara(43)  Vangelo dell’infanzia armeno, xxiv, 4; xxvi, 3. (44)  Ivi, xxviii, 3-11. (45) G. Wallin, Historia Josephi fabri lignarii. Liber apocryphus ex codice manuscripto Regiae Bibliothecae Parisiensis, Lipsiae, A. Zeidler, 1722, pp. 1-110 (versione araba e latina); J. K. Thilo, Codex apocryphus Novi Testamenti, cit., pp. 3-61 (versione araba e latina); K. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, cit., pp. 115-133 (versione latina); tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 227-256; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 319-352.

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ba, sahidica e bohairica. Ha lo stesso sviluppo fantasioso degli altri analoghi apocrifi. Secondo il testo Giuseppe visse 111 anni e morì il ventisei di abib (marzo-aprile), corrispondente al mese di ab. Di stirpe davidica, sacerdote del tempio, generò in prime nozze quattro figli (Giuda, Giusto, Giacomo e Simeone) e due figlie (Assia e Lidia). La narrazione è in parte in terza persona, in parte è lo stesso Cristo che narra. Giuseppe scopre che Maria è incinta, ma i suoi dubbi sono subito fugati dall’arcangelo Gabriele. Il testo accenna al censimento di Quirinio e alla strage degli innocenti, ma nel complesso il racconto è squilibrato, perché è concentrato sul tema della morte di Giuseppe. Infatti, dopo aver narrato gli stessi episodi ripresi dai canonici, si dilunga sulla morte di Giuseppe con accenti di dolore. Nessun tentativo viene condotto per riportarlo in vita. Lo seppelliscono i patrizi della città. Si direbbe che nell’apocrifo ci sia l’eco di un cristianesimo ormai consolidatosi tra le classi privilegiate. Dall’epilogo si intuisce che il testo si pretende scritto dagli apostoli, ai quali lo stesso Cristo narra la morte di Giuseppe con grandissimo amore filiale. Non mancano citazioni di Enoc e di Elia, ricordati per essere stati gli unici, non soggetti alla morte e perché i loro corpi non conobbero la corruzione. Nella versione copto-bohairica ci vien detto che la narrazione di Cristo agli apostoli è avvenuta sul Monte degli Ulivi e che la morte di Giuseppe è datata il 26 di epep o epifi (giugno-luglio). 4.9.  I vangeli della vita pubblica: il Vangelo di Pietro Il Vangelo di Pietro(46) (VP) tratta esclusivamente della passione e della morte di Cristo. Lo si può considerare un maldestro rifacimento dei vangeli canonici, a partire verosimilmente da Matteo (episodi di Pilato che si lava le mani, della custodia della tomba, della tacitazione delle guardie) e con spunti tratti da Luca (processo davanti ad Erode, episodio del buon ladrone) e da Giovanni (irresponsabilità di Pilato e crurifragium, datazione (46) U. Bouriant, Fragments grecs du livre d’Enoch, «Mémoires Publiées par les Membres de la Mission Archéologique Française au Caire», ix (1892), pp. 94-147; J. A. Robinson - M. R. James, The Gospel According to Peter and the Revelation of Peter, London, C. J. Clay, 1892, pp. 83-88 (testo greco); A. Lods, L’évangile et l’apocalypse de Pierre, Paris, Leroux, 1893, pp. 17-24 (testo greco); H. B. Swete, The Akhmim Fragment of the Apocryphal Gospel of St. Peter, London, Macmillan, 1893, pp. 1-24 (testo greco); tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 289-297; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 511-519.

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della morte fissata il giorno della parasceve) o comunque comuni a tutti e quattro i canonici (oscuramento del cielo, squarcio del velo del tempio di Gerusalemme, deposizione ad opera di Giuseppe di Arimatea e successivo seppellimento, visita delle donne il giorno dopo la pasqua). Talune incongruenze fanno pensare che la compilazione del testo sia piuttosto tardiva e che non possa essere anteriore alla seconda metà del ii secolo. Non siamo sicuri che il testo fosse già noto a Giustino.(47) È paradossale che gli studiosi ritengano derivata dall’apocrifo l’espressione «lo fecero sedere sulla sedia» (VP, iii, 7) con riferimento alla derisione da parte dei soldati, perché è più verosimile che essa dipenda da Giovanni («Lo fece sedere su di una tribuna in un luogo chiamato lithostrotos», Gv, xix, 13). In ogni caso l’autore non sembra avere dimestichezza con il mondo ebraico. Il titulus della croce («Questo è il re di Israele», VP, iv, 11) è in netto contrasto con i vangeli canonici, per i quali è indicato come re di Giuda. Molto approssimativa è la sua conoscenza della pesach, la quale comprendeva i sette giorni degli azzimi. Ma l’anonimo autore crea un pasticcio sulla festa degli azzimi che, a suo avviso, partiva dal venerdì della parasceve per concludersi la domenica successiva (VP, xiv, 58); egli non si rende conto che dal venerdì alla domenica passano appena tre giorni e non sette; se poi si devesse fare riferimento alla seconda domenica successiva alla pasqua i giorni trascorsi sarebbero dieci e non sette. È altresì strano che egli definisca kuriakē (dominicus), secondo il costume cristiano e non ebraico, il giorno successivo al sabato, impiegando una denominazione tardiva. E anche se si fa notare che la stessa denominazione era già presente in Ignazio e nella Didaché, siamo comunque di fronte a testi databili, almeno nella forma redazionale a noi pervenuta, tra la metà e la fine del secondo secolo. Nello stesso arco di tempo Melitone di Sardi compose un Περὶ κυριαχῆς.(48) Negli Atti e nella 1Corinzi per indicare la domenica è usata l’espressione «il primo giorno della settimana» o «ogni primo giorno dopo il sabato» (At, xx, 7; 1Cor,xvi, 2). Quanto al crurifragium, omesso dai sinottici, sappiamo che per la giurisprudenza romana era praticato solo se previsto dalla sentenza ed aveva lo scopo di accelerare la morte del condannato. Giovanni (xix, 32-33) ci dice che i soldati non spezzarono le gambe al Cristo perché era già morto. Il vangelo petrino invece fornisce una versione opposta ed afferma che i soldati non lo praticarono per accrescerne i tormenti e i dolori (VP, iv, 14). Ulte(47)  Giustino, 1Apol., xxxv, 6. (48)  Cfr. PG. v, col. 1193.

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riori elementi di contrasto con i testi canonici sono nel par. vi, 19 e 21, ove l’invocazione finale del Cristo è «mia forza, mia forza,(49) mi hai abbandonato!» e non «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Nella narrazione della deposizione si presume che la crocifissione sia avvenuta con l’impiego di chiodi quanto meno alle mani del Cristo (anche tale particolare è forse suggerito dal Sal, xxii, 17-19). Se così è, non si capisce il silenzio dei sinottici su questo dettaglio non irrilevante. Giovanni ne parla solo in occasione del riconoscimento della resurrezione da parte di Tommaso (Gv, xx, 25). Infine, non si capisce perché i discepoli dovessero essere perseguitati per il sospetto di voler incendiare il tempio (VP, vii, 26). Che l’autore inventi di propria iniziativa è provato dal fatto che attribuisce al centurione di Pilato il nome Petronio che è manifestamente connesso al nome Pietro; ma soprattutto è strana la sua versione della resurrezione; a differenza dei canonici, essa sarebbe avvenuta in presenza del centurione e degli anziani e con la discesa di due giganteschi angeli dal cielo, seguiti da una croce parlante, mentre il Cristo risorto, per essere di natura sopraceleste, superava in altezza i cieli. Il testo si chiude con il ritorno alla pesca da parte di Pietro, di suo fratello Andrea e di Levi, figlio di Alfeo; è probabile che per questa scenografia l’autore avesse sotto mano la conclusione interpolata di Giovanni. La prima testimonianza relativa al Vangelo di Pietro ci è data da un frammento del De evangelio Petri di Serapione di Antiochia della prima decade del iii secolo, conservatoci da Eusebio.(50) In esso Serapione respinge l’autenticità del vangelo petrino, reputandolo, per la sua propensione al docetismo, attribuibile a Marcione. Il problema è che nel testo a noi pervenuto non vi sono tracce né manifeste né occulte di docetismo e tanto meno di marcionismo. Perciò delle due l’una: o il vangelo noto a Serapione non coincide con il testo pubblicato da Vaganay(51) o, in alternativa, Serapione ha preso fischi e per fiaschi ed ha esagerato sulle matrici ideologiche del testo. 4.10.  I Vangeli della vita pubblica: le Memorie di Nicodemo Trattano della passione e morte del Cristo le Memorie di Nicodemo, note anche con il nome Vangelo di Nicodemo o Atti di Pilato, cui in taluni ma(49)  L’identificazione di Yhwh con «mia forza» dipende dal Salmo xxii, 20. (50)  Eusebio, HE, vi, 12. (51) L. Vaganay, L’évangile de Pierre, Paris, Lecoffre, 1930.

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noscritti è associata, ma forse come opera autonoma, una Discesa di Gesù agli Inferi, pervenutaci in versioni copta, greca e latina,(52) con varianti dell’una rispetto all’altra. Il primo a darci testimonianza degli Atti di Pilato è Giustino, il quale li cita nella 1Apologia.(53) Nel capitolo xxxv egli si sofferma in particolare sulla crocifissione per sottolineare che la verità sulla stessa si può comprendere a partire dagli Atti redatti sotto Ponzio Pilato. Nel capitolo xlviii Giustino accenna alle miracolose guarigioni del Cristo, ripetendo ancora una volta che la loro verità può essere accertata dagli Atti di Pilato.(54) In entrambi i capitoli l’espressione usata da Giustino in greco é «ταῦτα ὃτι γέγονε, δύνασθε μαθεῖν ἐκτῶν ἐρὶ Ποντίου Πιλάτου γενομένων ἄκτων», tradotta in latino «atque haec ita gesta esse ex Actis sub Pontio Pilato confectis discere potestis» («che queste cose siano accadute in questo modo potete apprenderlo dagli Atti redatti sotto Ponzio Pilato».(55) In realtà l’affermazione di Giustino pone qualche problema. Innanzi tutto «Atti redatti sotto Ponzio Pilato» non significa necessariamente Atti di Pilato. Gli autori che pretendono di farne risalire la compilazione all’epoca di Pilato compiono un tentativo levantino, con l’assurda presunzione non solo che si tratterebbe di atti ufficiali, ma anche con il mascherato proposito di fornire una testimonianza risalente direttamente all’epoca di Cristo. Il testo è introdotto da un prologo di un tal Anania nella recensione greca «A», Ainia nel papiro copto di Torino, e Enia o Enea nella recensione latina, il quale si dichiara «ufficiale pretoriano, di origine ebraica, ma convertito al cristianesimo». Egli avrebbe trovato delle memorie scritte in ebraico e divulgate dagli Ebrei su Ponzio Pilato (recensione greca) o sotto Ponzio Pilato (papiro copto) o al tempo di Pilato (recensione latina) e le avrebbe tradotte in greco o in lingue etniche (cioè greco e latino) intorno al 425 (di(52)  J. A. Fabricius, Codex Apocryphus, cit., pp. 238-298 (testo latino); J. K. Thilo, Codex apocryphus Novi Testamenti, cit., pp. 489-713 (testo greco e latino); K. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, cit., pp. 200-409; E. Revillout, LesApocryphes coptes: ii: Acta Pilati, «Patrologia Orientalis», t. ix, 1913, pp. 57-132 (versione copta); F. C. Conybeare, Acta Pilati, «Studia Biblica et Ecclesiastica», iv, 1896, pp. 59-132 (retroversione greca del testo armeno e testo latino); I. E. II Rahmani, Apocryphi Hypomnemata Domini Nostri seu Acta Pilati, In monte Libano, Sem. Scharfensi, 1908, «Studia Syriaca», ii, pp. 1-38; tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 302-376; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 539-653. (53)  Giustino, 1Apol., xxxv, xlviii. (54)  K. von Tischendorf, Evangelia Apocrypha, cit., p. lxv, ritiene che i presunti Atti di Pilato fossero già noti nel ii secolo. (55)  Giustino, 1Apol., xxxv, PG. vi, coll. 384, 400.

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ciassettesimo anno del regno di Flavio Teodosio, quinto del «nobilissimo» Flavio Valentiniano, nona indizione».(56) In una sorta di secondo prologo si precisa che il racconto viene da Nicodemo; l’inizio della predicazione di Cristo è fissato presumibilmente al 29 d.C., quindicesimo anno di Tiberio, sotto il consolato di Rubellione e Rufo,(57) nel quarto anno della 202sima olimpiade (ma il 29 corrisponde al primo anno della medesima olimpiade), nel diciannovesimo della dominazione di Erode Antipa (che però corrisponde al 15 d.C. e non al 29), mentre era sommo sacerdote Giuseppe detto Caifa. Come si intuisce da tali indicazioni cronologiche si tratta di un testo assai tardo che non può corrispondere a quello citato da Giustino. È infatti strano che la 1Apologia, a proposito delle guarigioni miracolose, non citi direttamente il testo delle Memorie («Costui ha guarito maliziosamente nel giorno di sabato zoppi, sordi, impostori, paralitici, ciechi, lebbrosi e indemoniati»), ma quello di Isaia (MN, i, 1; Is, xxxv, 5-6), da cui esso dipenderebbe. La frase citata da Giustino («Mi trafissero le mani e i piedi e buttarono a sorte sulla sua veste»), tratta dal Sal, xxii, 17-19, manca nelle Memorie in cui è scritto: «I soldati si divisero le sue vesti» (MN, x, 1). I miracolati, cioè il paralitico, il cieco e l’emorroissa testimoniano nel processo pilatesco a favore del Cristo. Forse può essere legittimo chiedersi perché l’autore degli Atti non attinga direttamente dai vangeli canonici. La risposta sta nella natura stessa della finzione narrativa. L’autore vuol far risalire la propria narrazione ad un tempo anteriore a quello delle narrazioni evangeliche, ovvero alla diretta ricerca degli Atti ufficiali di Pilato da parte di Nicodemo, cioè di colui che, pur essendo un esponente del sinedrio, in privato credeva in Cristo. La medesima domanda però è ancor più legittima se posta in riferimento a Giustino. Perché non troviamo mai esplicite e dirette citazioni evangeliche o delle epistole paoline in Giustino? La risposta – credo – può essere solo congetturale. È probabile che egli conoscesse solo indirettamente i testi canonici, che forse tardavano a diffondersi nell’ambiente greco-romano in cui operava. Le Memorie ci presentano: 1) una stucchevole, prolissa e inconcludente dilatazione del processo davanti a Pilato, con episodi suggeriti dai canonici; 2) una insistenza sull’accusa secondo cui la nascita del Cristo sarebbe stata originata da fornicazione; 3) la testimonianza di dodici ebrei, citati per (56)  In realtà il quinto anno di Flavio Valentiniano è il 431, ma non è escluso che l’autore si riferisca al quinto anno dell’acquisizione del titolo di «nobilissimo» che Valentiniano assunse nel 421. In ogni caso si tratta di una datazione raffazzonata. (57)  I consoli del 29, sono Gaio Fufio Gemino e Lucio Rubellio Gemino.

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nome, che smentiscono l’accusa, affermando di essere stati presenti al matrimonio di Giuseppe e Maria; 4) l’ostinazione del popolo ebraico a voler processare e condannare il Cristo; 5) l’adorazione del cursore, le insegne dei vessilliferi che si inchinano e venerano il Cristo, il caloroso intervento di Nicodemo, l’episodio di Giuseppe di Arimatea, chiuso in una camera sigillata, che, al momento dell’apertura, risulta vuota; i due ladroni (Gesta e Disma), la resurrezione testimoniata dalle guardie, corrotte dagli ebrei, un sacerdote (Finee), uno scriba (Adas) e un levita (Aggeo) che dichiarano di aver visto il risorto sul monte di Mamilch. Da xiv, 3 in poi la posizione degli ebrei si capovolge; si pentono e si convertono; scompare l’antigiudaismo della prima sezione; il racconto diventa a lieto fine, in una pacificazione generale che coinvolge Hanna e Caifa e l’intero sinedrio. Gli esegeti cattolici tendono ad accreditare l’ipotesi del carattere ufficiale degli Atti di Pilato, che sarebbero stati trovati tra i «registri pubblici». Ne farebbero fede i codici Ambrosiano, Eisidlense e Halense e ne darebbero confermale testimonianze di Giustino, di Tertulliano, di Epifanio e di Eusebio, limitandoci a citare quelle più antiche. Ma, come si è detto, è dubbio che Giustino si riferisca al testo delle Memorie. Del senatusconsultum citato da Tertulliano si è discusso in un capitolo precedente e in ogni caso la citazione dell’Apologeticum è indizio troppo debole per convalidare l’ipotesi di una corrispondenza ufficiale tra Pilato e Tiberio. La testimonianza di Eusebio è più complessa, perché egli sembra accennare a due distinti scritti intitolati Atti di Pilato. Il primo è citato(58) con il titolo generico di Memorie contenenti falsità «contro il nostro Salvatore». Secondo Eusebio la loro falsità emergerebbe già dal titolo (Memorie o Atti di Pilato?) nel senso che la loro narrazione farebbe risalire la passione al settimo anno di Tiberio (21 d.C.), quando ancora Pilato – secondo la cronologia tradizionale – non era prefetto della Giudea. Infatti in precedenza Eusebio aveva precisato che Pilato divenne governatore nel dodicesimo anno di Tiberio (26 d.C.) e ricoprì la carica per dieci anni (26-36 d.C.). La fonte da cui lo storico attinge è Giuseppe Flavio, ma i dati cronologici da lui forniti non sono confermati né nelle Antiquitates, né nel Bellum Judaicum. È assai verosimile che Eusebio abbia citato a memoria Giuseppe e abbia pertanto confuso la durata del mandato di Pilato con quella di Grato. Dal testo delle Antiquitates comunque si evince che Pilato subentrò a Grato nello stesso anno in cui questi, dopo aver nominato sommo sacerdote Caifa (18 d.C.) si ritirò a Roma. Ne consegue che (58)  Eusebio, HE, i, 9, 3.

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Pilato ebbe l’incarico di prefetto della Giudea quattro anni dopo l’inizio del principato di Tiberio (e non dodici anni dopo come vuole Eusebio).(59) In ogni caso le Memorie di cui Eusebio parla nel passo appena citato sono verosimilmente gli Atti di Pilato, menzionati nel libro nono, ove vengono definiti «inventati» e attribuiti alla responsabilità di Massimino Daia (311-313), il quale, mentre nelle province orientali pubblicava l’editto di tolleranza di Serdica, avrebbe ripreso in Occidente le politiche persecutorie anticristiane. Nei confronti di tali Atti Eusebio esprime un giudizio fortemente negativo, poiché li definisce «pieni di ogni bestemmia contro il Cristo» ed aggiunge che furono «inventati per oltraggiarci».(60) Lo storico di Cesarea cita(61) un lungo brano tratto dal presunto editto di Massimino, ove però, indipendentemente dalla sua autenticità o meno, non c’è alcuna esplicita condanna dei cristiani, né si può dire che esso fosse in contrasto con l’editto di Serdica. Nello spirito della tolleranza religiosa poteva essere legittimo che Massimino incoraggiasse i suoi sudditi alla fedeltà verso le antiche tradizioni romane. Sicché, parlando delle catastrofi naturali ne individua la causa nello smarrimento, nell’errore e nella vanità di coloro che se ne sono allontanati, suggerendo che costoro «siano esclusi – come avete richiesto – e cacciati dalle vostre città e dal territorio circostante». Ciò che è indubbio è che gli Atti a cui si fa qui riferimento non hanno nulla a che fare con le Memorie di Nicodemo, per il semplice fatto che queste ultime non contengono alcun oltraggio verso i cristiani e, se mai, possono considerarsi un ingenuo tentativo di supportare con più ricchi dettagli le narrazioni canoniche. Diverso è invece il testo degli Atti di Pilato, citati da Eusebio,(62) il quale li ricorda in una luce positiva, facendo credere che fossero parte della documentazione archivistica romana:

(59)  Eusebio, HE, i, 9. Anche nel paragrafo successivo (HE, i, 10) la cronologia eusebiana è ingarbugliata. Egli infatti afferma che Gesù, all’eta di trent’anni, nel quindicesimo anno del regno di Tiberio, il quarto anno dalla nomina di Pilato (data presumibile il 26), ricevette il battesimo da Giovanni; infine deduce che la sua predicazione durò quattro anni da Anna (15 d.C.) a Caifa (18 d.C.): «il tempo della predicazione del nostro Salvatore […] non abbraccia neppure quattro anni, essendosi succeduti da Anna a Caifa quattro sommi sacerdoti in quattro anni, uno per ogni anno. Il Vangelo dice che la passione del nostro Salvatore ebbe luogo nell’anno del pontificato di Caifa».. (60)  Eusebio, HE, ix, 5, 1; ix, 7, 1. (61)  Ivi, ix, 7, 3-14. (62)  Eusebio, HE, ii, 2, 1-2.

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Pilato secondo un’antica testimonianza che imponeva ai governatori di comunicare all’imperatore ciò che di nuovo accadeva nei loro territori […]; riferì all’imperatore Tiberio i fatti riguardanti la resurrezione dai morti del nostro Salvatore Gesù, ormai nota a tutti gli abitanti dell’intera Palestina.

A parte i toni entusiastici di Eusebio il testo, a cui qui si allude, potrebbe benissimo coincidere con le Memorie di Nicodemo. Ma ciò significa che circolarono due diverse versioni degli Atti di Pilato, una forse di fonte ebraica, avversa alla figura del Cristo (a noi non pervenuta), e l’altra di fonte cristiana (ovvero le Memorie di Nicodemo a noi note),(63) in qualche modo conciliativa verso gli ebrei, forse nel tentativo di attenuare i toni critici della prima o più semplicemente per far credere che la conflittualità tra le due religioni si fosse ridotta o fosse addirittura scomparsa. Di sicuro non abbiamo elementi che possano supportare una datazione alta dei presunti Atti di Pilato. È assai probabile che Epifanio ne conoscesse una versione anteriore alla copia redazionale contenente il primo Prologo con la datazione della translatio greca, che, com’è noto, non può essere datata prima del 425 d.C. Il che significa che la copia che egli ebbe nelle mani, se coincide con quella di cui parla Eusebio nel libro ii della Storia, non fu compilata prima della fine del iii secolo o agli inizi del iv. Di contro gli Atti di cui parla Giustino debbono ritenersi una prima elaborazione, ancora molto approssimativa e molto meno ricca di dettagli di quella a noi pervenuta e risalente forse alla seconda metà del ii secolo. La recensione greca e le recensioni latine A e B delle Memorie di Nicodemo contengono la Discesa di Gesù agli inferi, un testo modesto e di nessun rilievo storico, accompagnato (ma solo nella latina A) da un falso conclamato come la lettera di Pilato all’imperatore Tiberio Claudio Cesare, la quale è zeppa di cedimenti alle credenze cristiane che certamente erano estranee al funzionario romano. 4.11. Il Ciclo di Pilato Alla figura di Pilato si collega anche il cosiddetto Ciclo di Pilato, ovvero una serie di scritti, lettere e narrazioni fantasiose, che hanno solo un debo(63)  Sono forse le stesse citate con il titolo Atti di Pilato da Epifanio di Salamina (Panarion, l, 1; PG. xli, 1, coll. 885-886), come sembra confermare la datazione della crocifissione all’ottavo giorno (25 marzo) prima delle calende di aprile (cfr. MN, prologo).

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le legame con i vangeli canonici. Sono per lo più testi assai tardivi, mancano del tutto di una adeguata conoscenza della realtà storico-geografica della Palestina e sono il frutto di un cocciuto antigiudaismo se non addirittura antisemitismo. Del Ciclo fanno parte le lettere (tra Pilato e Tiberio e tra Pilato ed Erode), le relazioni (l’Anafora di Pilato), le tradizioni (la Paradosi di Tiberio) e i racconti (la Morte di Pilato che condannò Gesù, la Vendetta del Salvatore e la Guarigione di Tiberio).(64) Si tratta di testi poco affidabili sotto il profilo storico per essere risalenti ad un’epoca non inferiore al ix secolo. Solo la versione siriaca delle Lettere tra Erode e Pilato è segnalata da Wight(65) come risalente al vii secolo per essere scritte «in two columns, in a good, regular Estrangĕlā of the sixth or seventh century» («su due colonne in un buon, regolare Estrangĕlā [caratteri siriaci] del sesto e del settimo secolo»). A differenza degli Atti di Pilato che tendono a cristianizzare il governatore della Giudea, il Ciclo di Pilato lo colpevolizza. Nella Lettera di Pilato ad Erode cresce il numero dei testimoni della resurrezione: il Cristo risorto appare a «più di cinquecento uomini timorati di Dio, a Procla (moglie di Pilato) e a Longino (il presunto centurione che avrebbe colpito il costato di Gesù con una lancia). Nella lettera di Erode a Pilato, riferen(64)  J. A. Fabricius, Codicis Novi Testamenti pars iii, Hamburgi, Apud Christianum Herold, 1743, 456-465, ha pubblicato la versione greca B e la relativa traduzione latina dell’Anafora di Pilato; K. von Tischendorf, Evangelia Appocrypha, ha pubblicato in latino la Lettera di Pilato, pp. 411-12; la Morte di Pilato, pp. 432-435, e la Vendetta del Salvatore, pp. 448-463, e in greco l’Anafora di Pilato, versione A, pp. 413-419, versione B, pp. 420-425, e la Paradosi, pp. 426-431. J. K. Thilo, Codex apocryphus Novi Testamenti, cit., t. i, ha pubblicato la versione latina della Lettera di Pilato a Claudio, pp. 795-800, della Lettera di Pilato a Tiberio, pp. 801-802, la recensione greca dell’Anafora di Pilato, pp. 803-813, la Paradosi di Pilato, pp. 813-816. A. Birch, Auctarium codicis apocryphi N. T. Fabriciani, f. i, Hafniae, Apud Arntzen et Hartier, 1804, ha pubblicato in latino la Lettera di Pilato a Claudio, pp. 154-158, e in greco l’Anafora, pp. 160-171, la Lettera di Tiberio a Pilato, pp. 172-175, e la Paradosi, pp. 176-180. A J. A. Robinson, Apocrypha Anecdota, «Texts and Studies Contributions to Biblical and Patristic Literature», vol. v, Cambridge, University Press, 1897, si deve l’edizione del testo greco della Lettera di Pilato ad Erode, pp. 66-67; di Erode a Pilato, pp. 68-70; la Lettera di Tiberio a Pilato, pp. 78-81; A W. Wright, Contributions to the Apocryphal Literature,cit., quella della versione siriaca della Lettera di Pilato a Erode. I. E. II Rahmani, Hypomnemata Domini nostri seu Acta Pilati, Antiqua versio syriaca, «Studia Syriaca», f. ii, In monte Libano, in seminario scharfensi, 1908, ha stampato in versione siriaca le Lettere di Pilato ad Erode e di Erode a Pilato, pp. 17-18, 32-37. M. D. Gibson, Apocrypha Sinaitica, «Studia Sinaitica», v, 1896, ha curato le versioni siriaca e araba dell’Anafora di Pilato. (65) W. Wright, Contributions to the Apocryphal Literature,cit., p. 6.

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dosi alla decapitazione del Battista, narrata da Marco (vi, 17-29), l’autore confonde Erodiade con la figlia Salome, e, in una sorta di contrappasso, asserisce che, per la forza delle acque, la testa di Erodiade rimase troncata tra le mani della madre. Nella lettera di Tiberio a Pilato l’antiebraismo è esasperato: Tiberio infatti avrebbe ordinato di «passare a fil di spada tutto il popolo ebraico» insieme con i sacerdoti Caifa e Hanna. Raab eseguì la condanna e fece uccidere tutti gli ebrei maschi, lasciando le loro consorti in preda allo stupro da parte dei gentili. Quando Caifa morì la terra non volle riceverlo e fu sepolto per lapidazione. Pilato, rinchiuso in una caverna, morì casualmente per una freccia destinata ad uccidere un animale. Nell’Anafora vengono ricordate le guarigioni miracolose del Cristo, tratte dai canonici, e le resurrezioni dai morti, mentre «un gran numero di ebrei perirono inghiottiti negli abissi della terra e, al mattino, fu impossibile rintracciare la maggior parte di quelli che si erano accaniti contro Gesù».(66) La Paradosi riprende l’antiebraismo (gli ebrei sono definiti «colpevoli e criminali»), narra della caduta delle icone di tutti gli dèi pagani ed allega una lettera di Tiberio a Liciano, non altrimenti noto e definito «principe del settore orientale», in cui viene ordinata la cacciata degli ebrei dalla Giudea e la loro dispersione su tutta la terra. Un arconte di nome Albio, incaricato di mozzare la testa a Pilato, eseguì la condanna, ma «un angelo del Signore la prese». Ancor più fantasiosi sono i racconti negli altri testi. Nella Morte di Pilato si narra della malattia di Tiberio, il quale, venuto a conoscenza delle guarigioni miracolose del Cristo, manda Volusiano (personaggio di fantasia) a cercarlo. Questi viene a sapere che Pilato lo ha fatto crocifiggere in Giudea; poi fortunosamente si imbatte in Veronica (= vera icona), che reca con sé una icona miracolosa del Cristo (più nota come Mandylion). Volusiano la porta con sé a Roma, non senza aver fatto arrestare Pilato, che indossa la tunica del Signore, la quale ha un effetto miracoloso su Tiberio, impedendogli di far esplodere la sua ira. Spogliato della tunica taumaturgica, Pilato è condannato ad una morte ignominiosa, ma preferisce il suicidio. I romani ne gettano il corpo prima nel Tevere e poi nel Rodano, in una località, Vienne, che è «quasi come via della gehenna, perché […] luogo maledetto». La Guarigione di Tiberio è un prolisso racconto scritto ad imitazione della Morte di Pilato, rispetto alla quale aggiunge la conversione di Tiberio al cristianesimo e la condanna del patriziato romano («Tiberio […] fece trucidare[…] parecchie nobilissime persone del senato, perché non avevano acconsentito a (66)  Anafora, rec. greca A, 12.

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Cristo»), secondo la mistificante versione di Tertulliano. La narrazione prosegue, dopo una forte cesura, con l’aggiunta della Lettera di Pilato a Claudio e si estende fino al principato di Nerone. Secondo la Guarigione Nerone fece riscoprire la lettera nella Biblioteca del Campidoglio. Dopo la condanna di Simon Mago sulla base di un’attestazione di Pietro, Nerone condannò Pilato all’esilio in Ameria, ove egli morì suicida. L’ultimo accenno è per Nerone, «empio e pagano uccisore di martiri» che perì «percosso dal diavolo».(67) Chiude il Ciclo la Vendetta del Salvatore, certo il più raffazzonato dei racconti sotto il profilo storico e geografico. Basti pensare che Tito vi è presentato come un sovrano che regge «nella regione dell’Aquitania una città della Libia, detta Burgidalla» ed è cristianizzato con somministrazione del battesimo. Inoltre uno sconosciuto Natan, figlio di Nahum, «della stirpe degli Ismaeliti»,(68) è dato come uno degli apostoli. L’autore narra altresì della distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e di Vespasiano, poi riprende il mito di Volusiano e della Veronica. Ciò che è incredibile è che tali risibili narrazioni esercitarono un indiscutibile fascino lungo tutto il Medioevo senza che nessuno sollevasse la questione della loro affidabilità. 4.12. Il Vangelo di Gamaliele Non meno singolare è il Vangelo di Gamaliele (VG), che potrebbe definirsi il vangelo della resurrezione, la cui narrazione occupa più di due terzi del testo. Pubblicato da van den Oudenrijn(69), il testo è selezionato all’interno della omelia Laha Māryām (che in lingua copta significa Lamentazione di Maria) di Heryâqos, vescovo di el-Bahnasa. Dal colophon sappiamo che il presunto autore dell’apocrifo è addirittura Gamaliele, uno dei più illustri Rabbi del giudaismo, un fariseo di puro sangue, deceduto intorno al 48 d.C., presunto maestro di Paolo e nipote del grande maestro Hillel. Come si vede la scelta dei presunti autori di vangeli della passione cade sistematicamente su personaggi di primo piano che appartengono ai tempi di Cristo, come se sotterraneamente circolasse il dubbio che i vangeli canonici non potessero vantare un’antichità così alta. È questa la motivazione più profonda e inconfessata che (67)  Guarigione di Tiberio, 14, 20. (68)  Vendetta del Salvatore, 1, 4. (69)  M. A.van den Oudenrijn, Aethiopische Texte zur Pilatusliteratur. Das Evangelium Gamaliel, Freiburg in Schw., Univer. Verl., 1959.

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induce ad attribuire i testi apocrifi a personalità come Pilato, Pietro, Nicodemo, Gamaliele, Giuseppe di Arimatea. Dopo un breve racconto sulla morte del Cristo e sul suo seppellimento senza sostanziali novità rispetto ai canonici, l’autore mostra una vena inventiva nei seguenti episodi: Gesù che consola la madre e si mostra a lei risorto; l’epifania di Gesù ad un Pilato cristianizzato; la falsa testimonianza delle guardie; la visita al sepolcro da parte di Pilato e delle autorità ebraiche; la complessa identificazione delle bende mortuarie del Cristo; i miracoli (guarigione del capitano della guardia romana, cieco da un occhio, e resurrezione del buon ladrone) che si compiono nel sepolcro, come se quelli narrati dai canonici non fossero sufficienti. Sullo sfondo è presente un antigiudaismo o antisemitismo del tutto conforme a quello dei canonici («Vedi, fratello, quanto è grande l’odio degli ebrei contro Gesù!»; «Il suo sangue e la sua morte sia su di noi in eterno», VG, vii, 36: viii, 13). Anche la Narrazione di Giuseppe da Arimatea(70) è concentrata sul tópos della crocifissione con il solito ritornello dell’antisemitismo (per il quale gli ebrei sono «omicidi e deicidi»). Grande rilievo è dato alla vicenda dei due ladroni e al tradimento di Giuda, ad una strana lettera dei cherubini e alla straordinaria trasfigurazione del Cristo «diventato tutto luce».(71) 4.13. Il Vangelo di Bartolomeo Nel prologo del suo Commentarium in Evangelium Matthaei Girolamo cita tra gli altri testi evangelici un Vangelo di Bartolomeo,(72) senza darcene ulteriori notizie.(73) Epifanio Ieromonaco (xiv-xv secolo) nel De vita Sanctissimae Deiparae fa riferimento al Vangelo di Bartolomeo,(74) secondo il quale la Vergine, sentendosi prossima alla morte, fece testamento. Euse(70) A. Birch, Auctarium codicis N. T. fabriciani, Havniae, Arntzen et Hartier, 1804, pp. 183-185; tr. it. a c. di L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 585-692. (71)  Narrazione di Giuseppe da Arimatea, i, 1; v, 1. (72) E. Revillout, Les évangiles des douze apôtres et de Saint Barthélemy, «Patrologia Orientalis», ii, 1907, pp. 185-198 (versione copta); A.Vassiliev, Quaestiones S. Bartholomaei apostoli, «Anecdota Graeco-Byzantina», i, 1893, pp. 10-22 (versione greca); tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 425-444; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 759-800. (73) Cfr. Girolamo, Comm. in Matth., PL. xxvi, col. 17. Cfr. anche Dionigi l’Areopagita, De mystica theologia, i, 3 (PG. iii, p. 1000). (74)  Epifanio Ieromonaco, De vita Sanctissimae Deiparae Liber, capitolo xxv, Romae, Apud Benedictum Francesium, mdcclxxiv, pp. 52-53.

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bio ci fa sapere che Bartolomeo predicò in India, tant’è che, quando Panteno si recò tra gli indiani, trovò che essi conoscevano il Vangelo di Matteo che era stato ivi predicato da Bartolomeo.(75) V’è da chiedersi se il Vangelo di Bartolomeo, edito dal Dulaurier, corrisponda a quanto è stato tramandato dalle antiche fonti. Se prescindiamo dalla generica citazione di Girolamo e di Dionigi, le poche notizie consegnateci da Epifanio Ieromonaco e da Eusebio non trovano il ben che minimo riscontro nel testo a noi pervenuto. Si deve perciò dedurre che esso è una tardiva compilazione, presumibilmente dell’xi secolo, come sembra essere databile il cod. M di Gerusalemme, ovvero codice greco Sabbaitico 13.(76) Tentare di far risalire il Vangelo di Bartolomeo al iii secolo è impresa faraonica del tutto insostenibile. Tra l’altro la discesa di Gesù all’Ade appare ispirata ad altri apocrifi. Soprattutto il vangelo sembra essere privo di organica unità, per essere articolato in parti frammentarie in cui Maria si intrattiene a colloquio con gli apostoli senza svelare come ha potuto concepire colui che è inconcepibile. Tra le altre cose il testo narra di Cristo che mostra agli apostoli l’abisso, di Maria che conferma il primato di Pietro, e di Bartolomeo che chiede di vedere Satana e a mala pena lo domina. 4.14. La Dormizione della Madonna La Dormizione della Madonna è un apocrifo pervenutoci in diverse versioni (latina, greca, siriaca, etiopica, copta, araba e armena).(77) Si tratta di (75) Cfr. Eusebio, HE, v, 10, 3. (76)  Pubblicato da A. Wilmart - E. Tisserant, Fragments grecs et latins de l’évangile de Barthélemy, «Revue Biblique», x, 1913, pp. 160-190, 321-368; la recensione del cod. C Casanatense è assai più prolissa e altrettanto inconcludente. (77) K. von Tischendorf, Apocalypses Apocryphae, Lipsiae, Mendelssohn, 1866, ha pubblicato il testo greco e il testo latino rispettivamente a pp. 95-112 e 124-136; il De transitu Virginis, opera spuria di Melitone di Sardi, è edito in PG. v, pp. 1231-1240; il testo latino (codex silensis secundus) con il titolo Adsumtio sancte Marie Virginis et genitricis Domini, que adsumta est post Ascensionem Domini, xviii° Kal. Setembres, è edito da M. Férotin, Le liber Mozarabicus sacramentorum et les manuscrits mozarabes, t. vi, Parisiis, Firmin-Didot, 1912, pp. 786-795; il testo copto è stato pubblicato da P. de Lagarde, Aegyptiaca, Gottingae, Arnold Hoyer, 1883, pp. 38-63; da J. A. Robinson, Sahidic Fragments of the Life of the Virgin, in Coptic Apocryphal Gospels, «Texts and Studies», iv, 1896, pp. 1-40; da E. Revillout, Les apocryphe coptes, première partie: Les évangiles des douze apotres, «Patrologia Orientalis», t. ii, Paris, Firmin-Didot, 1907, pp. 174-183; da E. A. Th. W. Budge, Book of

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una ampollosa e immaginifica narrazione relativa al transito o alla dormizione della panaghia Teotoco, Maria Vergine, ovvero della sua ascensione al cielo. Taluni manoscritti ne attribuiscono la paternità a Giovanni il teologo,(78) altri (recensione lat. B) la ascrivono a Melitone di Sardi. Il cod. Parigi, 1173, la vuole scritta da Giovanni di Tessolonica; il cosiddetto Transito Colbertiano(79) omette di indicarne l’autore. Poiché fino al Medioevo inoltrato nessuno citò tali manoscritti, va detto che essi non possono farsi risalire né all’apostolo Giovanni, né a Melitone (ii secolo). Più probabile è che il testo originario sia attribuibile a Giovanni di Tessalonica (vii secolo), sebbene i manoscritti più antichi non siano anteriori all’xi secolo. Gli ingredienti della narrazione sono i seguenti: Giovanni l’apostolo è trasportato su una nube da Efeso «alla porta di Maria», che si accinge ad affrontare la morte. Maria gli fa dono di una palma miracolosa con cui egli ridà la vista agli ebrei ciechi che credono nel Cristo. Sopraggiungono gli altri apostoli, compreso Paolo, su altrettante nubi. Gli angeli vi compaiono sempre immersi in una luce ineffabile. Al letto della vergine giungono anche Gesù, tutti i suoi parenti ed amici. La terra trema. Un tuono improvviso scuote tutti gli astanti. Si ribadisce tra gli apostoli il primato di Pietro. Verso l’ora terza del giorno stabilito Maria muore e nel cielo tuonante si presenta Gesù «con una innumerevole moltitudine di angeli» (33). Cristo abbraccia l’anima santa della madre e affida il corpo agli apostoli affinché lo the Resurrection of Jesus Christ by Bartholomew, the Apostle, in Coptic Apocrypha in the Dialect of Upper Egypt; London, By Order of the Trustees, 1913, pp. 1-48 (versione copta), pp. 179-230 (traduzione inglese). Il testo greco dello Ps.-Giovanni (Iohannis Liber De dormitione Mariae) è stato curato da K. von Tischendorf, Apocalypses Apocryphae, cit., pp. 95112; il testo greco (con relativa versione latina) di Giovanni di Tessalonica da Martin Jugie, Homélies mariales byzantines, «Patrologia Orientalis», t. xix, Paris, Firmin-Didot, 1926, pp. 344-405; il testo greco di Giovanni di Tessalonica, tramesso dalla Εὐθυμιακῆ ἰστορία, è edito anhe in PG. xcvi, pp. 747-752; il testo etiopico (in traduzione inglese) è stato curato da E. A. Th. W. Budge, The History of the Death of the Virgin Mary as told by St. John, in Legends of Our Lady Marythe Perpetual Virgin and her Mother Hanna, London, Medici Society, 1915, pp. 152-167; il testo siriaco è stato pubblicato da W. Wright, Contributions to the Apocryphal Literature,cit., pp. 18-51 e relative pagine siriache; W. Wright, The Departure of my Lady from the World, «Journal of Sacred Literature and Biblical Record», vi, 1865, pp. 417448, vii, 1865, pp. 1-160; A. S. Lewis, Apocrypha Syriaca, cit., Transitus Mariae, pp. 12-69 (traduzione inglese) e relativa versione siriaca; tr. it. a c. di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 449-472; L. Moraldi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 827-926. (78)  v. ms. cod. Vat., 1982. (79)  cod. Parigi lat. 2672.

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seppelliscano con cura. D’improvviso entra in scena Satana, deciso ad uccidere gli apostoli; ma gli angeli li proteggono ed innalzano il letto incoronato. Iefonia tenta di fermare il lettuccio, ma le sue mani restano attaccate ad esso e si staccano solo nel momento in cui si pente e si converte. Ritorna Gesù dal cielo accompagnato da Gabriele e Michele. A quest’ultimo è affidato il compito di far assurgere in cielo il corpo di Maria, naturalmente su una nube. Il corpo stesso viene deposto nell’Eden sotto l’albero della vita. Nella versione da lui redatta, Giovanni di Tessalonica accenna a scritti sulla fine della Vergine, respinti dai padri della Chiesa, in quanto «in nessun modo concordavano con la chiesa cattolica»; avanza il sospetto che gli eretici li abbiano ‘contaminati’ e infine aggiunge: «Con l’andare del tempo si scoprì che fecero lo stesso anche alle epistole dell’Apostolo e agli stessi santi vangeli». Sicché non esita a parlare di «malizia dei falsari».(80) Tuttavia, mutatis mutandis, il suo racconto non diverge dalle altre Dormizioni, salvo forse per l’accento di universalità dato al trapasso della Vergine, che «non è morte, ma vita eterna».(81) In più l’autore ha un gusto per la parabola e per l’esagerazione tale da fargli dire che il corpo di Maria, pur vinto dalla morte, continuava a parlare. Infine identifica Satana con un sommo sacerdote del sinedrio, ma in generale si allinea alla narrazione delle altre Dormizioni. La recensione latina A, intitolata Transito della beata vergine Maria, è più ricca di dettagli sui nomi degli apostoli, poiché vi sono inclusi Paolo, Barnaba, Mattia, Nicodemo e Massimiano. Dà all’ebreo che tenta di ostacolare il transito celestiale il nome di Ruben e attribuisce a Tommaso il merito di attestare la resurrezione del corpo mariano. Il testo, attribuito a Melitone di Sardi (la cosiddetta recensione latina B), riprende la battaglia contro i falsari e ci parla di un certo Leucio (altrimenti sconosciuto, salvo che non si tratti di deformazione del nome di Luca) che, vissuto con gli apostoli, «si allontanò con animo temerario dalla via della giustizia e inserì nei suoi scritti molte notizie sugli atti degli apostoli, molte e diverse cose scrisse sui loro miracoli, ma disse molte cose false sulla loro dottrina».(82)

(80)  Morte di nostra Signora sempre vergine teotoco Maria, i, 3; ii, 1. (81)  Ivi, ix, 2. (82)  Transito della beata vergine Maria, rec. B, attribuita a Melitone di Sardi, i, 1.

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4.15. Gli Atti degli Apostoli apocrifi Gli Atti degli apostoli sono anch’essi un genere letterario e si presentano in un certo senso come la fotocopia dei vangeli con la differenza che il protagonista della narrazione non è più il Cristo, ma uno degli apostoli. In tono minore si riproducono gli stessi elementi dei racconti evangelici: c’è sempre l’elemento miracoloso e quasi sempre quello del martirio dell’apostolo. Naturalmente, essendo stati inviati a predicare fino ai confini del mondo, la componente biografica degli atti è arricchita dai cosiddetti viaggi degli apostoli (ragion per cui nei loro titoli compare spesso il termine περίοδοι períodoi = viaggi) che ovviamente manca nei testi evangelici. L’apostolo è in un certo senso l’alter-ego del Cristo, non ne possiede la divinità, ma è santo o santificato e soprattutto è erede dei carismi del Cristo; ha capacità profetiche, taumaturgiche, esercita un potere sui demoni e sulle forze della natura. D’altronde in assenza di tali carismi non potrebbe essere credibile agli occhi della gente. L’elemento miracoloso è nello stesso tempo la prova del suo essere inviato da Cristo e da Dio; è l’evidenza che soggioga la volontà e la fede del credente. Molto limitato è invece lo spazio riservato al martirio dell’apostolo, che è però reputato necessario, in quanto la sua morte, resurrezione e ascensione sono concepite ad imitazione di quelle del Cristo. A differenza delle narrazioni evangeliche l’elemento miracolistico domina da cima a fondo il tessuto narrativo degli atti ed anzi spesso sconfina anche nel momento del martirio, a testimonianza del fatto che l’apostolo gode della protezione divina. Gli atti sono generalmente anonimi o pseudepigrafi. Spesso non è agevole stabilire né i tempi né i luoghi della loro composizione. Ma in generale si può dire che essi sono comparsi tra il secondo e il quarto secolo con punte fino al vii-viii secolo. Molti erano i punti oscuri sugli apostoli. Gli stessi vangeli non avevano in proposito brillato per chiarezza e coerenza. La curiosità, spesso morbosa, delle comunità protocristiane era sconfinata. Si voleva conoscere tutto della loro vita e della loro attività. Si sapeva dai vangeli che erano stati inviati per predicare la buona novella fino ai confini della terra, ma dove erano andati? Quali popoli avevano evangelizzato? Quale era stata la loro fine? Era stata naturale o in odore di martirio? Naturalmente ci si auspicava che avessero coronato la loro esistenza con il martirio, che era ritenuto più consono alla loro missione apostolica. Gli Atti canonici e quelli apocrifi assolvono a questa funzione informativa. Tanto gli uni quanto gli altri non vanno scambia-

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ti come documenti storici, ma solo come documenti teologici e di edificazione religiosa. Gradatamente nel corso di oltre due secoli si costituisce e si consolida una determinata tradizione in ordine alla predicazione degli apostoli. Una informazione più adeguata ci è data da Origene, il quale ci dice che Tommaso predicò nella regione dei Parti, Andrea nella Scizia, Giovanni in Asia e più particolarmente ad Efeso, Pietro nel Ponto, nella Galazia, nella Bitinia, nella Cappadocia, in Asia e a Roma, Paolo nell’Illiria e a Roma.(83) È evidente che per Pietro Origene ripete quanto si evince dall’intestazione della 1Pietro e per Paolo dall’epilogo della Lettera ai Romani. Ma gli Atti canonici non erano comunque in grado di fornire una informazione sufficiente sulla predicazione apostolica, per il semplice fatto che erano concentrati sulle práxeis di due apostoli (Pietro e Paolo) e lasciavano in ombra tutti gli altri. L’operazione di riempimento e di completamento fu condotta dagli Atti apocrifi. Solo in una prospettiva teologica si può porre la questione se i contenuti degli apocrifi siano o meno compatibili con quelli dei canonici. Di fatto gli uni e gli altri assolvevano alla medesima funzione: miravano a rendere più familiari, e quindi più esemplari, gli apostoli alla comunità dei fedeli, indipendentemente dal fatto che le loro narrazioni fossero o meno credibili. Tutt’al più possiamo dire che negli Atti canonici predomina l’idea di registrare il percorso della parola di Cristo da Cristo stesso «fino all’estremità della terra» (At, i, 8), mentre negli apocrifi sembra essere privilegiato l’elemento fantasioso e immaginifico, ovviamente meno credibile sotto il profilo storico. Ma non bisogna spingersi oltre su questo terreno, perché l’autore degli Atti canonici non è il Tucidite della storia cristiana, come qualcuno vuol farci credere e l’elemento fantasioso attraversa, più di quanto si creda, il suo testo. L’impressione che egli abbia condotto un lavoro storiograficamente più serio deriva semplicemente dal fatto che ha innestato la sua narrazione su coordinate storico-cronologiche desunte da Giuseppe Flavio e forse anche da storici romani come Svetonio e Tacito. Almeno formalmente gli Atti apocrifi sembrano rientrare in un genere letterario che aveva già conosciuto ampia diffusione nel mondo greco-romano. Gli stessi titoli práxeis e períodoi si riallacciano alle storie di grandi personalità o di viaggi esoterici. Giustamente gli studiosi hanno richiamato l’attenzione su autori come Senofonte, Isocrate, Erodoto, Callistene, ecc. o sui viaggi di divinità come Dioniso e Demetra, o ancora sulle biografie di taumaturghi come Apollonio di Tiana e così via. L’atteggiamento della Chiesa (83) Cfr. Origene, Comm. in Genesim, iii.

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nel corso dei secoli è stato, si può dire, d’amore e d’odio verso questi apocrifi. Da un lato essi sono respinti senza mezzi termini; tale è l’atteggiamento di Eusebio che dichiara inaffidabili gli Atti di Pietro, di Paolo, di Giovanni, di Andrea e degli altri apostoli, fondandosi sul fatto che non erano stati menzionati da nessuno degli autori ecclesiastici.(84) Tuttavia tra gli autori del iv-vii secolo si fece strada l’idea che gli Atti apocrifi fossero originariamente testi canonici, adulterati e manipolati dagli eretici.(85) In seguito su di essi piovvero le condanne di papa Leone I, di Teodoreto e di Agostino. Fozio nella sua celebre Bibliotheca ne ascrive la paternità a Leucio Carino. Ma si tratta di una congettura fantasiosa, perché il nome del presunto compilatore è del tutto sconosciuto e non è mai menzionato prima di Fozio. Per giunta Leucio e Carino sono due personaggi, altrettanto chimerici, che si incontrano nella Discesa di Gesù agli Inferi. Preso singolarmente il nome di Leucio ricorre in Epifanio di Salamina, in Agostino ed Evodio, in Toribio de Astorga e nello Ps-Melitone. In ogni caso egli è verosimilmente un personaggio fantomatico, passato dalla romanzesca Discesa di Gesù alla storia per probabili banali fraintendimenti. Sappiamo tuttavia che tra i discepoli di Valentino ci fosse un tal Leucio, che forse curò la redazione degli Atti di Giovanni e probabilmente a lui, per estensione, furono attribuiti tutti gli altri Atti degli apostoli. Ma è in ogni caso un dato che non ha i crismi della storicità. È inutile supporre che gli atti apocrifi avessero un comune substrato dottrinale e teologico o che fossero esclusivamente il prodotto di manipolazioni eretiche. Quando ci poniamo in quest’ottica, lo facciamo sovrapponendo la nostra immagine del cristianesimo istituzionalizzato e teologicamente controllato (che decorre a partire dal quarto secolo sotto l’impulso dell’azione costantiniana) alla realtà assai più magmatica e fluida del proto-cristianesimo, in cui ancora non si era prodotta la netta separazione dell’ortodossia dall’eresia. Non v’è dubbio che dal secondo al quarto secolo gli atti apocrifi subirono più adattamenti e manipolazioni, dettati sempre dall’istanza di colmare i vuoti lasciati dai testi canonici.

(84)  Eusebio, HE, ii, 25. (85)  Cfr. in proposito Giovanni di Tessalonica, Turribio di Astorga, Filastrio, Melitone ed altri.

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4.16. Gli Atti di Pietro Gli Atti di Pietro ci sono pervenuti in diverse versioni con non poche varianti(86) le quali dimostrano chiaramente che il testo subì nel corso dei primi secoli numerosi rimaneggiamenti. La versione più antica aveva al suo centro lo scontro tra Pietro e Simon mago come si evince dalla testimonianza dataci dallo Ps.-Ippolito. Se così è, possiamo supporre che essa risalga alla prima metà del iii secolo, come per altro è confermato da una testimonianza origeniana, trasmessa da Eusebio(87) e tratta dal perduto terzo libro del monumentale Commentarium in Genesim, iniziato ad Alessandria nel 225, e dalla Didascalia Apostolorum, che sembra sintetizzarne il contenuto.(88) I primi quattro capitoli del manoscritto di Vercelli sono dedicati a Paolo che si approssima a partire da Roma per recarsi in Spagna. Una folla di donne e di uomini di alto rango, della classe equestre e senatoriale (Dioniso, Balbo, Demetrio), membri della corte (Cleobio, Ifito, Lisimaco, Aristea), matrone (Berenice e Filostrate) e presbiteri (Narciso) lo invitano invano a fermarsi. Dopo la sua partenza, giunge a Roma Simon mago. A giudicare dalle malcerte notizie che ne abbiamo, Simone avrebbe prodotto un gran danno alla locale comunità, la quale era fortemente attratta dalle sue straordinarie opere di magia. È perciò giocoforza far venire da Gerusalemme Pietro per contrastarlo. Informato, Pietro si imbarca a Cesarea con Teone, che per l’occasione si converte, ed approda a Pozzuoli, ove è ospitato in albergo da Ariston, che lo sa ministro dei misteri [intendi: dei sacramenti]. Giunto a Roma, Pietro viene ospitato nella casa del presbitero Narciso; di contro Simone è alloggiato nella casa del senatore Marcello. Assistiamo così allo spettacolare scontro tra Simone e Pietro, anzi tra gli incantesimi magici di Simone e la forza miracolosa esercitata in nome di Dio e di Cristo da parte (86)  R. A. Lipsius, Acta Apostolorum Apocrypha, t. i, Lipsiae, Hermann Mendelssohn, 1891, ha pubblicato a pp. 45-78, il manoscritto latino di Vercelli, a pp. 78-103 il ms. 48 di Patmos, a pp. 78-103 il ms. 79 di Vatopedi, a pp. 1-22 lo Ps.-Lino (Martyrium beati Petri apostoli a Lino episcopo conscriptum), e a pp. 118-222 lo Ps.-Marcello in greco e in latino (per il testo greco dello Ps-Marcello v. anche J. K. Thilo, Acta Petri et Pauli, Halle, Saale, 1837, t.i, pp. 1-28, e K. von Tischendorf, Acta Apostolorum Apocrypha, Lipsiae, Mendelssohn, 1851, pp. 1-39). (87)  Eusebio, HE, iii, 1, 2. (88)  Didascalia Apostolorum, iii, 7-9, in F. X. Funk, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Paderbornae, F. Schoeningh, 1905, pp. 316-321.

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dell’apostolo. Pietro si reca a casa di Marcello e sfida Simone che si rifiuta di comparire davanti a lui. L’apostolo gli invia un cane parlante. Dopo lunghe trattative, qualche miracolo di contorno (Pietro fa rivivere un’arringa appesa ad una finestra, guarisce una cieca e poi altre vedove cieche, quindi appare Cristo in aspetto cangiante da un vecchio ad un adolescente) e una prolissa narrazione dei trascorsi di Simone a proposito del furto degli ori di Eubula nella Giudea, si giunge finalmente allo scontro tra i due. Come se si trattasse di uno spettacolo, ciascuno dei presenti «si guadagna il posto con una moneta d’oro», mentre i due sfidanti si contendono la potenza del proprio dio. Simone sbeffeggia Pietro e contesta che un dio possa «nascere ed essere crocifisso».(89) Pietro risponde facendo sfoggio di citazioni vetero-testamentarie, che attestano la divinità del Cristo; quindi assicura che vanificherà qualunque sua opera di magia. Il prefetto Agrippa propone una prova per entrambi. Simone provocherà la morte di un suo servo e Pietro lo farà risorgere. Detto, fatto. L’azione di Pietro sembra rinviare ad una divinità più potente. Anche Simone vuol dare prova di potenza divina. Una donna ha già bell’e pronto il cadavere di Nicostrato, «molto nobile e molto amato dal Senato», a Simone spetta la prova di poterlo riportare in vita.(90) Il vecchio volpone ricorre ancora alla magia illusionistica; fa credere che il morto sia risorto, ma Pietro scopre le sue carte, perché di fatto il morto non si alza dal sepolcro. È quindi la volta di Pietro che riporta in vita il giovane e per di più opera guarigioni multiple di diversi malati. Nei giorni successivi Pietro accetta la donazione di danaro da una tal Crise, prostituta, ed è contestato da Simone. Seguono nuove guarigioni multiple di Pietro (paralitici, gottosi, affetti da febbre terzana e quartana), mentre Simone compiva le sue stregonerie. Ultimo scontro tra i due sfidanti: Simone decide di mostrare il suo potere con una prova di levitazione in aria e Pietro, in reazione, lo fa precipitare per terra. La vittoria del Dio cristiano sulle stregonerie di Simone è assodata. Fin qui il manoscritto di Vercelli. La vicenda prosegue nella versione dello Ps.-Lino, intitolato Martirio di San Pietro, in cui si narra di quattro concubine (Agrippina, Nicaria, Eufemia e Doris) del prefetto Agrippa, le quali, attratte dalla predicazione di Pietro, si votano alla castità, suscitando l’ira dei rispettivi mariti.(91) Lo stesso accade con Santippe, «moglie di Albino, amico di Cesare». E (89)  Atti di Pietro, 23, 1, 4. (90)  Ivi, 27. 4. (91)  In questo invito alla castità ci sono forse tracce di encratismo, molto apprezzato, com’è noto, dai seguaci della gnosi.

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poiché il fenomeno si spandeva a macchia d’olio, «si scatenò un grande tumulto» nella città. Qualcuno suggerì a Pietro di darsela alle gambe. Ma Pietro scelse la crocifissione a testa in giù. Davanti ad una moltitudine di gente, l’apostolo tenne un discorso quasi socratico o, se si preferisce, d’impronta gnostica: «Allontanate le anime vostre da tutto ciò che è materiale, da tutto ciò che è apparenza, ma non realtà […] e conoscerete ciò che riguarda Cristo e tutt’intero il mistero della salvezza».(92) Sotto la suggestione di lontane radici gnostiche il capovolgimento della croce simbolizza il capovolgimento dell’ordine naturale: Il primo uomo – egli dice – […] manifestò una natura diversa da quella che aveva una volta; non avendo movimento, [essa] è morta. Egli aveva gettato a terra il suo stato primitivo e così rovesciato, organizzò tutto l’ordine di questo mondo […], fece vedere destra la sinistra e sinistra la destra; cambiò tutti i segni della sua natura tanto da considerare bello ciò che non lo è, e buono ciò che è cattivo.(93)

È quella sorta di inversione dei valori, lamentata da Socrate nell’Apologia. Infine, come accadde al Cristo, Pietro fu sepolto e risorse manifestandosi a Marcello. Quando Nerone ebbe notizia dell’accaduto si adirò con Agrippa, non perché avrebbe voluto salvo l’apostolo, ma perché avrebbe voluto «punirlo con un tormento più doloroso e più duro».(94) Nel frammento copto di Berlino entra in scena anche la figlia di Pietro, semiparalizzata. Il popolo rimprovera l’apostolo per non aver guarito la figlia. Pietro (92)  Martirio di Pietro, 37 (8), 2. (93)  Ivi, 38 (9) 1. Altre tracce di gnosticismo si riscontrano nella concezione del peccato come conseguenza dell’ignoranza e nell’accento posto sull’importanza della conoscenza (ms. di Vercelli, 2, 3; 8, 2), sul concetto secondo cui la mancanza di fede deriva dalla mancata comprensione (10, 3: «coloro che non sono con me non mi hanno compreso») e sul concetto di misteri (6, 3). L’autore del testo di Vercelli ha notizia dell’iscrizione dedicata al «giovane dio, Simone», tratta ovviamente da Giustino (i Apol., xxvi). Tuttavia il Cristo invocato nell’inno (capitolo 20, 4) è il punto di confluenza di diverse prospettive cristologiche (cristiano-gnostiche e giovannee) che sembrano in esso intrecciarsi (egli è «bello e brutto, giovane e vecchio, visibile nel tempo e totalmente invisibile nell’eternità […], è la parola udita e ora conosciuta; non può soffrire, ma ora conosce la sofferenza […], esiste prima di tutti i secoli, è il grande principio di ogni principio […]. Egli è porta, luce, via, pane, acqua, vita, resurrezione, conforto, pietra preziosa, tesoro, seme in abbondanza, grano di senape, vigna, aratro, grazia, fede, parola». (94)  Martirio di Pietro, 41 (12), 1.

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dà prova di poterlo fare. La guarisce, ma subito dopo la fa ritornare allo stato precedente e rivela che è costretto a lasciarla in quella condizione, perché è stato avvertito dal Signore che se fosse guarita avrebbe potuto far molto danno al mondo, inducendo molti uomini alla perdizione a causa della sua avvenenza. Nel manoscritto dello Ps.-Marcello rientra in gioco Paolo che da Malta si imbarca per Pozzuoli (nel testo greco: Ποντιόλη), ma a Baia una catastrofe fa sprofondare Pozzuoli per circa due braccia verso il mare (in greco ποντίζεσθαι). Il testo si dilunga noiosamente in un lungo interrogatorio dei due apostoli davanti a Nerone, in cui le coordinate storico-geografiche saltano del tutto. Infine, Agrippa suggerisce a Nerone di decapitare Paolo e di crocifiggere Pietro. Il sudario di Paolo ridona la vista a Perpetua. Poi Paolo è decapitato «presso il fondo delle Acque Salvie». Pietro racconta l’episodio del quo vadis, poi viene sepolto «sotto il terebinto, accanto al luogo della naumachia in Vaticano». Condannate da Nerone, muoiono anche Perpetua e Potenziana, «fanciulla timorata di Dio», sorella di Livia, moglie di Nerone.(95) Un’atroce fine attende anche Nerone, che è sbranato dai lupi. I corpi di Pietro e Paolo vengono traslati in una catacomba al terzo miglio della via Appia, ove rimangono custoditi per un anno e mezzo. Dopo di che Pietro viene sepolto in Vaticano vicino alla naumachia e Paolo sulla via Ostiense. Come si vede si tratta di un racconto fantasioso, che, tuttavia, per aver avuto ampia diffusione nel corso del Medioevo, ha lasciato non poche tracce nella tradizione cattolica, al di là degli spregiativi giudizi espressi da Eusebio e da altri Padri della Chiesa. Naturalmente quasi tutti i personaggi che incontriamo nel tessuto narrativo sono fittizi, tanto quanto lo è la narrazione stessa. D’altro canto una costante di questa letteratura apocrifa è la ricchezza dei dettagli pseudo-storici. Veniamo infatti a conoscere episodi ignoti alle fonti più antiche e si infittisce la schiera dei personaggi di cui ci vengono trasmessi nomi fantasiosi. Ma la narrazione fittizia non costituisce una novità; essa era già ampiamente presente anche nei testi canonici; solo ora, negli apocrifi, assume una dimensione ipertrofica.

(95)  Atti dei beati apostoli Pietro e Paolo, manoscritto dello Ps.-Marcello, 84.

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4.17. Gli Atti di Paolo Ne sono un ulteriore esempio gli Atti di Paolo(96). Essi sono molto più frammentari di quelli di Pietro poiché contengono racconti autonomi su singoli episodi, come per esempio, quello di Tecla e del suo martirio. Anche qui non bisogna cedere alle lusinghe del testo. Si tratti di episodi e di personaggi puramente inventati, poiché sono parte integrante di narrazioni per lo più popolari o comunque finalizzate alla edificazione morale e religiosa. D’altra parte la loro specifica incuranza circa la realtà materiale e storica deriva da una svalutazione della vita sensibile e materiale, che forse è più prossima alla gnosi che al proto-cristianesimo. Come gli Atti di Pietro, anche quelli di Paolo, risalgono, almeno in una versione originaria che non siamo più in grado di ricostruire, alla seconda metà del ii secolo. Ne fa fede la menzione che ne fa Tertulliano(97) nel De baptismo, che presumibilmente fu scritto prima del 200. In seguito il testo fu menzionato, spesso in termini critici, da numerosi Padri della Chiesa, come Eusebio, Atanasio, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nisseno, Gregorio Nazianzeno, Girolamo, Agostino e Ambrogio. Benché abbiano utilizzato gli Atti canonici, quelli apocrifi non presentano alcuna convergenza con essi, neppure sotto il profilo degli itinerari e dei viaggi di Paolo. Ai tre viaggi missionari se ne sostituisce uno solo che da Iconio conduce Paolo a Roma attraverso le tappe intermedie di Listra, Antiochia (di Siria o di Pisidia), Mira, Sidone, Tiro, Corinto, Filippi, Smirne, Efeso. A Iconio l’apostolo è ospitato da Onesiforo e da sua moglie Lettra. È interessante notare che tra i macarismi pronunciati in casa di Onesiforo l’accento è posto sulla castità, la continenza, la verginità, la rinunzia al mondo materiale e alla pratica sessuale («Beati coloro che hanno la moglie come se non l’avessero»).(98) Come negli Atti di Pietro, anche in quelli di Paolo deve essere stata molto forte l’influenza dell’encratismo che ritorna nell’episodio di Tecla, la quale rinuncia al matrimonio con Tamiri e si offre al sacrificio (96)  R. A. Lipsius, Acta Apostolorum Apocrypha, t. i, Lipsiae, Mendelsshon, 1891, ha pubblicato il testo greco, pp. 235-272, il testo latino della Passio Sancti Pauli Apostoli, pp. 2344, e il relativo testo greco pp. 104-117. Il papiro copto di Heidelberg, tradotto in tedesco, è pubblicato in lingua copta in appendice da C. Schmidt, Acta Pauli Übersetzüng, Untersuchungen und Koptischer Text, Leipzig, Hinrichs, 1905, pp. 1-54; per i frammenti papiracei, cfr. B. P. Grenfell - A. S. Hunt, The Oxyrinchus Papyri, pt. iii, London, Kegan Paul, 1903. (97)  Tertulliano, De baptismo, xvii. (98)  Atti di Paolo e Tecla, 5.

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davanti al governatore Castelio. Il suo Dio è in parte il Dio della tradizione giudaica (il Dio della vendetta, il Dio geloso), in parte quello della tradizione cristiana (il Dio vivo, il Dio che desidera la salvezza degli uomini). Castelio la condanna al rogo; perciò si prepara il teatro per il grande spettacolo. Tecla sale nuda sul rogo, ma le fiamme non la bruciano, perché una provvidenziale pioggia di grandine le spegne. Salvata dal rogo, Tecla si reca con Paolo ad Antiochia. Si innamora di lei un siro, tal Alessandro, che, dopo aver tentato di abusarne, la consegna al governatore che la condanna ad essere sbranata dalle fiere. Nuovo spettacolo: una leonessa si getta a suoi i piedi e la difende prima da un’orsa, poi da un leone e infine da «molte altre fiere». Nel frattempo Tecla, veduta una fossa piena d’acqua, vi si getta dentro e si autobattezza. Le fiere continuano a ruggirle intorno, ma, «attanagliate dal sonno, non la toccano».(99) È poi la volta dei tori; la situazione si ripete. Infuriato, il governatore la libera. Ma le disavventure di Tecla non sono finite. Ritornata ad Iconio, rischia di cadere vittima di stupro nella casa di Ermia, quando una voce dal cielo le suggerisce di gettarsi in una roccia aperta, la quale si chiude custodendola al suo interno. Il papiro copto di Heidelberg riprende la narrazione dalla tappa di Mira, ma il testo è molto frammentario. Paolo è aggredito con la spada da Ermippo, il quale però perde all’improvviso la vista e non può condurre a termine il suo proposito. A Sidone lo raggiungono diversi fratelli da Perge, dalla Pisidia e dalla Panfilia. Scambiati per sodomiti, due cristiani (forse Trasimaco e Cleone) sono rinchiusi nel tempio di Apollo, ma prima ancora di essere torturati, il tempio crolla. Paolo si salva e si reca a Tiro, ove restituisce alla vita Frontina. Quindi si reca a Corinto, ove la comunità è tormentata da una frattura interna. Alcuni, come Simone e Cleobio affermano che non c’è resurrezione della carne, ma solo dello spirito; dicono che il corpo dell’uomo e il mondo non sono stati creati da Dio; ed anzi che Dio non conosce il mondo. Dicono inoltre che Gesù non è stato crocifisso nella realtà, ma solo in apparenza (forma di docetismo) e che non era né figlio di Maria, né discendente di Davide.(100) La vicenda prosegue con il Papiro greco di Amburgo e con il Papiro copto di Bodmer. In essi Paolo, giunto ad Efeso, evoca il ricordo di Damasco, allorché in compagnia di Lemma e di sua figlia Ammia, viene aggredito da un leone, che, per effetto delle preghiere, si getta ai suoi piedi e gli chiede di essere battezzato. Paolo lo immerge tre volte nell’acqua nel nome (99)  Atti di Paolo e Tecla, 35. (100)  Papiro copto di Heidelberg, 12.

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di Gesù. All’improvviso la casa di Ammia gli si rivolta contro. Paolo battezza Procla, ma ben presto finisce nelle grinfie del governatore Girolamo. Portato di nuovo in teatro, l’apostolo è condannato alle fiere. Artemilla ed Eubula, mogli rispettivamente di Girolamo e di Diofanto, chiedono di essere battezzate in mare, ma Paolo è impedito dalle catene per essere prigioniero. Cristo, nelle vesti di un «giovane bello e affabile», lo scioglie dalle catene.(101) Egli può quindi celebrare il battesimo e rientrare in carcere, senza essere visto dalle guardie. Il giorno dopo è quello fissato per la teriomachia. Il leone che gli viene presentato contro è lo stesso da lui battezzato in precedenza. I due anzi si scambiano battute di affetto. Girolamo manda in teatro nuove fiere ed arcieri con il compito di uccidere il leone, ma una nuova pioggia di grandine vanifica gli effetti della sua ira. Salvatosi, Paolo si reca a Filippi e di lì, passando per Corinto, raggiunge Roma su una nave guidata da Artemone. Entrato in Roma, gli compare il Signore che gli preannuncia: «Sto per essere nuovamente crocifisso».(102) Nuovo miracolo: risorge Patroclo, coppiere di Cesare. È interessante in proposito l’espressione «Cristo Gesù, il re dei secoli»,(103) che richiama alla mente non solo la 1Timoteo («Al re dei secoli» τῶ δὲ βασιλεῖ τῶν αἰώνων) e l’Apocalisse, ma anche il testo gnostico della Preghiera dell’Apostolo Paolo.(104) Dopo un accenno ad un fantomatico editto di Nerone contro i cristiani, Paolo viene decapitato, ma appare risorto a Longino e a Cesto che lo vanno a trovare nel sepolcro. 4.18. Gli Atti di Giovanni Zeppi di episodi miracolistici sono anche gli Atti di Giovanni.(105) Ad Efeso Giovanni guarisce Cleopatra, moglie di un tal Licomede, dalla paralisi e riporta in vita lo stesso Licomede, morto per amore. Quindi fa radunare nel teatro tutte le donne anziane affette da qualche malattia e le guari(101)  Papiro greco di Amburgo, 3. (102)  Ivi, 7. Questa formula fa pensare ancora alla gnosi, per la quale ogni adepto si identificava con Cristo. (103)  Martirio di S. Paolo apostolo, 2. (104)  1Tm, i, 17; Ap, xv, 3; NHC i, 1. (105)  K. von Tischendorf, Acta Apostolorum Apocrypha, cit., pp. 266-276; Th. Von Zahn, Acta Joannis, unter Benutzung von C. von Tischendorf ’s Nachlass, Erlangen, Andreas Deichert, 1880, pp. 1-165 (pubblica il testo di Procoro); R. A. Lipsius, Acta Apostolorum Apocrypha, cit., t. i-2, pp. 151-216.

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sce in contemporanea. In una pubblica sfida con gli Efesini, per dimostrare che il Dio dei cristiani è più potente di Artemide, provoca la distruzione del tempio e, poiché nella distruzione era deceduto il sacerdote, Giovanni lo fa risuscitare. Poi riporta in vita il padre di un giovane parricida pentito. Dopo una sosta a Laodicea, rientra in Efeso, ma nel letto è disturbato da una torma di cimici. Comanda loro di starsene «tranquille in un luogo» ed esse gli obbediscono.(106) Più tetro l’episodio di Drusiana, della quale era follemente innamorato Andronico. Per mantenersi pura, Drusiana si diede la morte. Ma Andronico, violò la tomba ed avrebbe tentato un atto di necrofilia, se la giovane donna non fosse stata protetta dal Signore. Infine Giovanni, dopo aver fatto risorgere Drusiana, si abbandona ai suoi ricordi soprattutto in merito ai momenti vissuti con Cristo. Per metterne in evidenza la natura umana e divina afferma che quando toccava Gesù a volte aveva l’impressione di toccare un corpo materiale, ma altre volte si imbatteva in una «sostanza che era immateriale e incorporea quasi che fosse assolutamente inesistente». Vedendolo camminare, si accorse che Gesù non lasciava sul suolo le impronte dei suoi piedi, perché «si sollevava da terra».(107) Prima di essere condannato, una volta Gesù si esibì in una danza pasquale, intonando un inno. Il testo presenta uno stacco netto tra i capitoli 1-87 e 88-105, perché alla narrazione fantasiosa della prima parte segue la conclusione che è densa di significato teologico ed è fortemente influenzata dalla gnosi. A parte l’uso del vocabolario platonico nella distinzione di un «corpo materiale e solido» da una «sostanza immateriale e incorporea», nell’inno riscontriamo un lessico che ha ascendenze giovannee («io sono porta», «io sono via») e suggestioni gnostiche («luce nella quale non abita alcuna tenebra», «l’Ogdoade che salmodia con noi», «i misteri», «Tu che hai visto ciò che soffro mi hai visto come un sofferente», «Tu mi hai come un luogo di riposo, riposati in me», «ciò che ora io sembro, non lo sono», «Ciò che tu non conosci, io stesso te lo insegnerò», «impara la parola della sapienza»).(108) Molto più interessante è la Rivelazione del mistero della croce che verte su una misteriosa apparizione: al momento della crocifissione si manifesta a Giovanni «una croce di luce […] sulla quale il Signore non aveva alcuna (106)  Atti del Santo apostolo ed evangelista Giovanni il teologo, 60, 2. (107)  Ivi, 93, 1-3. (108)  Ivi, 94, 3, 14, 26, 27, 30, 35, 37, 39, 43.

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forma, ma solo una voce».(109) Alla multiforme epifania del Cristo fa riscontro la multiforme epifania della croce, che è Lógos, mente, Gesù, Cristo, porta, via, pane, semente, risurrezione, figlio, padre, spirito, vita, verità, fede, grazia; essa è la croce «che unisce in sé tutte le cose insieme». La «folla uniforme» che la circonda è la natura inferiore: non ha un unico aspetto perché «ancora ogni membro non è congiunto con colui che è disceso». Ognuno, infatti, nell’ottica gnostica, congiungendosi a Cristo, è Cristo («poiché è da me che tu sei ciò che io sono […]; impara che io sono tutt’intero presso il Padre e il Padre è presso me»).(110) Da ciò segue la conoscenza progressiva per cui «Tu in primo luogo conosci il Lógos, poi conoscerai il Signore e, in terzo luogo, l’uomo e ciò che egli ha patito». V’è un misto di docetismo e di gnosticismo, perché l’apostolo non dice «di venerare un uomo, ma un Dio immortale, un Dio invincibile, un Dio superiore a ogni autorità e a ogni potere, più antico e più forte di tutti gli angeli, delle cosiddette creature e di tutti gli eoni».(111) Del tutto diversa è la versione dello Ps.-Melitone(112) con gli episodi del filosofo Cratone (forse Cratete di Tebe), che professa una sorta di ascetismo connesso con il disprezzo del mondo. L’arricchiscono la storia di Attico e di Eugenio e della trasformazione di sassolini in gemme, la resurrezione di Stacteo, il miracolo della tunica di Giovanni che ridà la vita ai defunti. Pur trattandosi di un testo letterariamente inferiore, non è privo di vocabolario gnostico soprattutto nei capitoli 103-109, in cui tornano i temi del riposo, della conoscenza, della radice dell’immortalità, della sorgente dell’incorruttibilità e della sede degli eoni. Il testo si chiude con la morte di Giovanni, che fa scavare per sé una fosse in cui trovare riposo. Giovanni si dice scelto per l’apostolato fra i gentili, ovvero tra gli eretici o i pagani, e ‘vergine’ per essersi custodito «intatto da qualsiasi contatto con donna».(113) La sua non è una morte fisica, ma solo un lungo sonno che durerà fino al giorno della parousía.

(109)  Ivi, 98, 1. (110)  Ivi, 99, 1; 100, 1-2. (111)  Ivi, 101, 3; 104, 1. (112)  Il testo è pubblicato in PG. v, coll. 1239-1250. (113)  Versione dello Ps.-Melitone, 113, 1.

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4.19. Gli Atti di Tommaso Una menzione degli Atti di Tommaso(114) si trova nel solito informatissimo Epifanio di Salamina,(115) il quale ci fa sapere che essi erano impregnati di encratismo ed erano venerati dalle sette gnostiche, insieme con gli Atti di Andrea e con gli Atti di Giovanni. Il racconto parte da una sorta di conciliabolo di tutti gli apostoli a Gerusalemme, i quali, dopo l’ascensione del Signore, si spartirono le regioni in cui svolgere la loro attività predicativa. A Tommaso toccò l’India meridionale che era sotto il governatorato di Gūdnafar. La leggenda vuole che egli raggiungesse l’India con l’aiuto di un mercante di nome Habbān. Il racconto è infarcito di miracoli, come la guarigione della mano sbranata da un cane nero, la resurrezione di una donna, uccisa da un giovane(116) e la resurrezione di un’altra donna uccisa dal serpente nero, che, innamoratosi di lei, non ne tollerava il rifiuto. Gli animali, come il puledro e il serpente nero, figlio di colui che ha il potere sulle creature tormentate,(117) sono dotati di linguaggio umano; gli asini selvatici scacciano dalla donna e dai suoi figli i demoni che li tormentavano. L’episodio centrale e conclusivo è quello, assai prolisso, di Migdonia, moglie di Carisio e parente del re Mazdai, la quale vuole «vedere il nuovo aspetto del nuovo Dio predicato dal nuovo apostolo» e si vota alla castità, mandando su tutte le furie il marito. Cristo è definito medico delle anime e non dei corpi.(118) Battezzata con il rito dell’unzione con l’olio, Migdonia subisce una vera e propria metanoia, aspira a partire da questo mondo per andare a contemplare colui in cui «non c’è né la notte, né il giorno, non ci sono tenebre ma solo la luce, non c’è né il bene né il male, né il ricco né il povero, né il maschio né la femmina, né gli schiavi, né i liberi».(119) Il suo esempio è seguito da Narchia, che chiede di essere battezzata nel segno (114)  Cfr. per la versione greca R. A. Lipsius, Acta Apostolorum Apocrypha, cit., t. ii2, pp. 99-291; K. von Tischendorf, Acta Apostolorum Apocrypha, cit., pp. 190-234; per la versione siriaca W. Wright, Apocryphal Acts of the Apostle. Edited from Syriac Manuscripts in he British Museum and other Libraries, London, Williams and Norgate, 1871, pp. 171-333; per la versione latina, J. A. Fabricius, Codex Apocryphus Novi Testamenti, cit., t. ii, pp. 687-736. (115)  Epifanio di Salamina, Panarion, ii, 47, 1. (116)  Atti di Tommaso, 51-55. (117)  Ivi, 32. (118)  Ivi, 82, 95. (119)  Ivi, 129.

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del Signore. Terza tenta di farla rinsavire, ma finisce con il convertirsi anche lei. Carisio chiede l’intervento del re Mazdai, il quale, ritenendo Giuda Tommaso responsabile della conversione alla castità di Migdonia e di Terza, lo condanna ad essere posto a piedi nudi su due piastre di ferro rovente. Ma dalla terra sgorga acqua abbondante e il re è costretto a chiedere allo stesso apostolo di liberarlo dall’alluvione. Poi lo mette in prigione e nel frattempo le conversioni si moltiplicano; si converte anche Vizan, figlio di Mazdai. Portato da Mazdai in tribunale, Tommaso, colpito dai soldati, muore, ma subito dopo risorge ed appare a Sifur e a Vizan. Si tratta forse del testo più fortemente influenzato dall’encratismo gnostico, come si evince dall’inno di cui al par. 6 («La mia chiesa è figlia della luce […] edificata dal primo demiurgo […] splendente la sua camera nuziale […] lodarono lo Spirito che è la di lui sapienza»). Nell’atto xiii, v’è l’idea del Cristo ‘multiforme, simile alla nostra povera umanità» e nell’atto viii vi sono tracce di docetismo («Gesù ti sei rivestito del corpo, sei divenuto uomo e sei apparso a tutti noi»).(120) L’autore familiarizza moltissimo con un lessico prettamente gnostico, i cui simboli sono i segreti nascosti e le parole misteriose, l’albero, la grazia perfetta, la potenza, la sapienza, l’intelligenza, il riposo del Padre, la camera nuziale, in cui la sposa si spoglia del velo della corruzione e rimuove le opere di vergogna.(121) Nel passaggio dalla vita materiale a quella eterna della castità e della purezza, la stessa camera nuziale subisce una profonda trasformazione. A Carisio che le chiede di soddisfare i suoi desideri materiali, Migdonia risponde che non è più «l’epoca iniziale della vita temporale, transeunte; questo è il tempo della vita perpetua; quella camera nuziale fu abbattuta, questa dura per sempre».(122) Ed aggiunge «tu non hai notizie della nuova novella, indossi abiti che invecchiano, non aneli ad abiti eterni». L’ossessiva insistenza contro la fornicazione e l’esaltazione della castità sono temi fondamentali degli encratiti.(123) Nel testo ci sono indubbi richiami ai vangeli canonici, v’è la preghiera del padre nostro, vi sono rievocazioni delle parabole della zizzania, della vigna,(124) del pastore e delle pecore; v’è la centralità del battesimo, inteso come segno del Signore, ma più spesso, con terminologia gnostica, come (120)  Ivi, 153, 72. (121)  Ivi, 15. (122)  Ivi, 124. (123)  Ivi, 135, 28. (124)  Ivi, 144-146.

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sigillo. Perfino il nome dell’Apostolo Giuda Tommaso Didimo, ove Tommaso e Didimo significano ‘gemello’, a prescindere dall’ambiguo riferimento a Giuda Iscariota («Io non sono Giuda, sono il fratello di Giuda»),(125) serve a sottolineare che l’apostolo è gemello del Cristo e che, come lui, possono essere tali tutti i fedeli. Non a caso il puledro parlante apostrofa Tommaso come «fratello gemello di Cristo».(126) Ancor più esplicito è lo stesso Tommaso che dice a Terza «Il tesoro del re celeste è aperto, chiunque ne è degno vi attinge e trova riposo e, trovato il riposo, diventa re» (cioè Cristo).(127) Il che significa che ogni credente diventa Cristo, che, come dice in una predica parenetica l’apostolo, è «la quiete delle vostre anime, il medico e il datore di vita per i vostri corpi».(128) 4.20. Gli Atti di Andrea Gli Atti di Andrea, non risultano mai citati prima di Eusebio.(129) Il che autorizza a pensare che almeno nella forma a noi nota, non sono anteriori al iv secolo, sebbene non si possa escludere che le influenze encratite possano risalire al secondo secolo. Li troviamo menzionati in epoche successive in Epifanio di Salamina, Filastrio, Toribio e in Epifanio Ieromonaco.(130) Il testo ci è noto nella versione fornita da Gregorio di Tours ed edito da M. Bonnet.(131) Non sembra che in esso siano presenti spunti di riflessione teologica di qualche rilevanza. Prevale certamente l’elemento miracolistico, interpretato come prova della potenza divina di Andrea e come segno e strumento efficace a piegare e soggiogare psicologicamente chi vi assiste. Sicché la narrazione non è che una lunga e stucchevole enumerazione di (125)  Ivi, 11. (126)  Ivi, 39. (127)  Ivi, 136. (128)  Ivi, 37. (129)  Eusebio, HE, iii, 25, 1. (130)  Epifanio di Salamina (Panarion, xlvii, 1; lxi, 1; lxiii, 2; PG. xli, coll. 852, 1040, 1064), che però ricorda gli Atti di Andrea e quelli di Tommaso in modo assai generico; Filastrio di Brescia, De haeresibus, lxxxviii, PL.xii, coll. 1199-1200, Toribiode Astorga, Epistula ad Idatium ed Ceponium, 5; A. Dressel, Epiphanii monachi edita et inedita, Paris-Leipzig, Brockhaus et Avenarius, 1843, pp. 44-83, PG. cxx, 215-260. (131)  A. M. Bonnet, Acta Andreae cum laudatione contexta, «Analecta Bollandiana», xiii, 1894, pp. 309-352.

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prodigi dalla liberazione di Matteo, perseguitato a Mirmidona, ad una serie di guarigioni che riguardano un cieco indemoniato, Gratino di Sinope, tormentato da un demone, Adimato, figlio di Carpiano Filionide, figlio di un tal Medea di Filippi, la figlia di un tal Nicola e uno sconosciuto indemoniato.(132) Inoltre Andrea sventa i matrimoni consanguinei dei figli di due fratelli a Filippi (11) e salva dall’incendio la casa di Essuo a Tessalonica (12).(133) Qui il proconsole Virino lo condanna alle fiere per aver tentato di distruggere i templi degli dèi. Nel teatro entrano una dopo l’altra le fiere più feroci, dapprima un cinghiale, poi un toro, un leopardo, che soffoca il figlio del proconsole, ovviamente risuscitato dall’apostolo, il quale, com’era da attendersi, esce illeso dalla teriomachia, anzi doma un serpente velenoso, che si avvolge ad una quercia e si dà la morte. Abbondano le resurrezioni: da quella di Demetrio di Amasea a quelle della madre incestuosa di Sostrato, di un giovane di Nicomedia dilaniato da sette cani, di un altro soffocato dal demonio, di Callista, moglie del proconsole Lisbio, di Filopatore e di un giovane annegato.(134) Da Tessalonica Andrea si trasferisce a Patrasso, ove i suoi rapporti con il proconsole Lisbio si incrinano a causa della sua predicazione della castità da cui viene avvinta Teofima, concubina del proconsole. Dopo un’ulteriore serie di guarigioni miracolose, il racconto si chiude con la morte in croce dell’apostolo. 4.21. Le Memorie apostoliche di Abdia Il testo delle Memorie apostoliche di Abdia di Babilonia si concentra più sulle azioni prodigiose che sull’attività predicativa degli apostoli. Non sembra avere il pregio della originalità, poiché spesso non fa che sintetizzare narrazioni già note. Ritenuto il primo vescovo di Babilonia, Abdia è molto probabilmente un personaggio fittizio, collocato in piena età apostolica per dare autorevolezza al testo e al suo presunto contenuto storico. È per lo più uno scritto squilibrato per lo spazio diseguale riservato ai singoli apostoli. Dedica un intero capitolo solo a Pietro (i), Paolo (ii), Andrea (iii), Giacomo (iv), Giovanni (v), Matteo (vii), Bartolomeo (viii), Tommaso (ix) e Filippo (x). E tratta in modo molto succinto di Simone Cananeo, di (132)  Miracoli del beato Andrea apostolo, i. 1; ii, 1, v, 1; xiii, 1; xv, 1; xvi, 1; xvii, 1. (133)  Ivi, xi, 1; xii, 1. (134)  Ivi, iii, 1; iv, 1; vi, 1; xiv, 1; xxiv, 1.

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Giuda Taddeo e di Giacomo Minore nel capitolo sesto. Gli apostoli trattati sono undici, perché manca Mattia, che è sostituito da Paolo, non annoverato nella sequela del Cristo. I capitoli più ampi sono quelli (Pietro, Paolo Giovanni, Andrea Tommaso) per i quali Abdia può disporre delle narrazioni più ricche che erano state elaborate da comunità encratite o comunque gnostiche. Il libro su Pietro è una sintesi piuttosto rabberciata degli Atti di Pietro, che forse Abdia non conosceva direttamente. Invece i libri dedicati ad Andrea e a Giovanni riprendono più o meno fedelmente i rispettivi Atti di Andrea, di Giovanni e di Tommaso, omettendo prudentemente sia il lessico di matrice gnostica, sia i contenuti dottrinali di origine encratita. All’inizio del libro nono sembra che l’autore citi gli Atti di Tommaso. Infatti scrive: «Ricordo di aver letto tempo fa un libro, nel quale si trattava del suo viaggio e delle opere da lui compiute in India; poiché la sua attendibilità è sospetta e da alcuni non è accettata, lasciando da parte le cose inutili, ricorderò da questo libro ciò che è accaduto, per fare cosa gradita ai lettori e per rafforzare la Chiesa». Questo passaggio è veramente istruttivo non solo perché ci informa che gli Atti di Tommaso (ma è verosimile che lo stesso accadeva per altri testi) erano contestati e sospettati di inattendibilità, ma anche perché ci fa comprendere con quale spirito e con quali motivazioni venivano scritti i testi di edificazione religiosa: essi miravano da un lato a corrispondere alla curiosità dei fedeli e dall’altro a «rafforzare la Chiesa». Il libro dedicato a Giacomo Maggiore è interamente inventato da Abdia, salvo qualche dettaglio desunto dai testi canonici. Dopo aver convertito Fileto, Giacomo riesce a vincere l’ostilità di Ermogene e lo converte alla fede in Cristo. Quindi riscuote un successo immediato presso i giudei, invitandoli a liberarsi dai peccati soprattutto per essere stati responsabili della sua morte. Infine sotto Erode (Antipa), figlio di Archelao, l’apostolo viene decapitato insieme allo scriba Giosia, reo di aver accolto la fede cristiana. Nel libro sesto Abdia non sembra avere le idee chiare sui figli di Alfeo, Simone e Giuda Taddeo. Infatti scrive: «Simone il Cananeo, Giuda Taddeo e Giacomo, che alcuni chiamano il fratello del Signore, furono fratelli carnali […] nati dai coniugi Alfeo e Maria, figlia di Cleofa». Poi aggiunge: L’ultimo di essi [intendi Giacomo Minore] nacque dalla stessa madre, ma da padre diverso, e cioè da Giuseppe […] quello a cui andò in sposa la beatissima Madre di Dio, Maria. Perciò Giacomo fu detto fratello del Signore,

1036  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini quanto alla carne; a Giuseppe infatti, padre di Giacomo, era sposata, sebbene a lui non sia mai stata unita la Vergine Maria, resa poi incinta dallo Spirito Santo.(135)

Come ciò possa conciliarsi con le narrazioni canoniche forse non lo sa neppure Abdia. Ma egli ha anche una strana concezione degli apostoli, poiché dice che «i tre figli di Maria di Cleofa furono assunti da Cristo tra i discepoli e più tardi furono elevati alla dignità di apostoli.(136) In ogni caso gli atti e la passione di Giacomo Minore sono narrati riportando lunghi stralci da Egesippo, secondo la versione fornita da Eusebio. Le vicende di Simone il Cananeo e di Giuda Taddeo si intrecciano con l’ostilità dei maghi persiani Zaroên e Arfaxat, messi in fuga da Matteo dal territorio etiope. La loro predicazione ha ragione delle antiche divinità persiane, ma nei confronti dei maghi peccatori i due apostoli predicano il perdono, affermando che la fede cristiana li induce ad amare anche il nemico perché è una fede della vita e non della morte. All’interno dello stesso libro sesto Abdia cita sé stesso e il suo stesso libro di Memorie, dicendolo composto da un non meglio identificato Cratone e tradotto in lingua latina da Giulio Sesto Africano. Il libro vii narra le gesta di Matteo in Etiopia, lo scontro da lui avuto con i maghi, Zaroên e Arfaxat. Non manca l’elemento prodigioso (due draghi che vengono portati contro l’apostolo, appena si avvicinano a lui cadono in letargo), accompagnato dalle resurrezioni del figlio del re Eglippo e di sua moglie Eufenissa e dalla costruzione della Chiesa della Resurrezione. Ifigenia, figlia del re Irtaco si vota alla castità ed è questa la causa per cui Irtaco fa assassinare Matteo alle spalle mentre prega nel tempio. Il settimo libro presenta cascami di tematiche gnostiche. Poco convincente è anche il libro su Bartolomeo, destinato ad evangelizzare l’India; egli combatte le divinità locali, Astarot e Berit, e ne fa demolire gli idoli. Ciò provoca l’ira del re Astiage che manda contro l’apostolo un esercito di mille uomini armati e, poiché cade anche l’idolo del dio Vualdath, Astiage fa decapitare l’apostolo. Il più striminzito è il libro decimo in cui si narra di Filippo e della sua attività in Scizia, in compagnia di Natanaele, l’apostolo menzionato solo da Giovanni. Si direbbe quasi privo di contenuto, perché si limita a farci sapere che l’apostolo smantellò la fede nel dio Marte e la sostituì con quella cristiana. Poi, spo(135)  Memorie apostoliche di Abdia, vi, 1. (136)  Ibidem.

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statosi a Ierapoli, mandò in rovina la setta degli Ebioniti; infine, morì di morte naturale a 87 anni. Le numerose contraddizioni, sia di carattere storico che geografico, la folla dei personaggi fittizi, gli episodi spesso comici o puerili, la sovrabbondanza dei miracoli ci dicono chiaramente che si tratta di racconti inventati da cima a fondo. Non vale neppure la pena tentarne la datazione, poiché essi sono certamente un prodotto finale e redazionale, pensati forse e compilati verso la fine del secondo secolo, quando si faceva strada l’istanza di consolidare l’idea della successione apostolica intesa come garanzia della trasmissione del messaggio cristiano direttamente da Cristo. Naturalmente la fragilità delle narrazioni relative agli atti e ai viaggi dei discepoli diretti di Cristo rende di per sé debole anche l’idea stessa di successione apostolica. Ma, pur non essendo storici in ordine al loro contenuto, gli Atti apocrifi sono in ogni caso storici in quanto sono una testimonianza del sentire religioso tra il secondo e il quarto secolo. Di grande interesse sono in proposito gli spunti gnostici, encratiti e docetisti che abbiamo più volte segnalato. Ma su questo tema ritorneremo più avanti allorché accenneremo agli apocrifi copti scoperti a Nag Hammadi. 4.22.  Le lettere apocrife Accanto ai Vangeli e agli Atti uno dei generi letterari che più caratterizza la produzione cristiana è certamente l’epistolografia, quasi sempre pseudepigrafa. Come le narrazioni evangeliche e quelle degli Atti, le epistole sono attribuite direttamente ai protagonisti dell’età apostolica. Esse si presentano come testimonianze dirette o come documentazione di prima mano degli eventi dell’età apostolica. In genere sono caratterizzate da un’intestazione e da un colophon, dai quali si evincerebbe il loro presunto autore. Il più delle volte sono indirizzate a comunità domestiche o a chiese già più mature (quando non sono inviate a tutta la collettività cristiana come avviene nelle cosiddette epistole cattoliche) o a singole personalità. Generalmente hanno un carattere pastorale e un contenuto parenetico e morale oppure affrontano le problematiche interne ad una comunità o le fratture che rischiano di comprometterne la vitalità. Spesso si ha l’impressione di una ripetizione o di una riproduzione di argomentazioni proprie dell’epistolografia paolina, come se si trattasse di luoghi comuni e tutto sommato arte-

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fatti. La produzione più genuina appartiene sicuramente al ii secolo. Naturalmente anche le epistole sono utilizzate per riempire i vuoti lasciati dalle narrazioni evangeliche. Ce ne dà un esempio la Lettera di Lentulo, già esaminata,(137) la quale, come sappiamo, ha la pretesa di farci conoscere, almeno descrittivamente, le fattezze fisiche di Cristo. L’esempio più eclatante di falsità storica ci è fornito dal carteggio tra Abgar e Gesù, che risalirebbe al 340 dell’era edessena, corrispondente al 2829 dell’era cristiana. Eusebio di Cesarea lo accoglie acriticamente. Secondo la leggenda Abgar V Ukkama (= il nero), che regnò dal 13 al 50 nella regione dell’Osroene, con capitale Edessa, avrebbe scritto a Gesù chiedendogli di guarirlo da un morbo incurabile. Il Nazareno gli avrebbe risposto per lettera, dicendosi impossibilitato a raggiungerlo per via degli impegni relativi alla propria missione; tuttavia gli avrebbe promesso di inviargli uno dei propri discepoli con il compito di guarirlo.(138) La vicenda si intreccia con l’altra leggendaria storia di Taddeo (o Addai), che, inviato ad Edessa da Giuda Tommaso, procedette alla guarigione di Abgar senza l’uso di medicine e di erbe.(139) Va detto che prima di Eusebio nessuno dei Padri della Chiesa menziona il carteggio edesseno.(140) Per di più la cristianizzazione di Edessa, come attestano i Chronica minora, pubblicati da Ignazio Guidi, fu opera del vescovo Kūnē che fondò la comunità cristiana intorno al 313 d.C.(141) Ciò significa che il carteggio non è riconducibile neppure al regno di Abgar IX (177-212). La falsità delle due epistole è altresì attestata dal fatto che in esse i vangeli sono citati sulla base del Diatessaron pubblicato da Taziano nel 174. Sorge inevitabilmente il sospetto che le due lettere siano (137) Cfr. supra, III, par. 1.10. (138) Cfr. Eusebio, HE, i, 13. (139)  Ivi, ii, 1, 6-7. (140) Nelle Costituzioni apostoliche (vi, 16), pseudo-clementine, si avanza il sospetto che i libri apocrifi siano stati appositamente composti «a Simone et Cleobio, pestilentes sub nomine Christi et Apostolorum» per ingannare i cristiani. Girolamo e Agostino escludono tassativamente l’esistenza di lettere scritte da Cristo. Girolamo, Ad Ezechielem, xliv, 29, PL. col. 443, sottolinea che «il Salvatore non ha lasciato nessun volume sulla sua dottrina e sono deliramenti le cose che si inventano molti apocrifi, poiché egli parla ogni giorno al cuore dei credenti solo con lo spirito suo e del Padre». Sulle medesime posizioni è Agostino, Retractationum, ii, 16; De consensu evangelistarum, i, 7 e 9; Contra Faustum, xxviii, 4. (141)  «Anno 624 iecit fundamenta ecclesiae Edessene Kune episcopus», Chronica minora, p. 5. Tenuto conto che l’era edessena comincia nel 312 a.C., l’anno 624 corriponde al 312-313 d.C.

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un falso perpetrato dallo stesso Eusebio che le pubblicò per la prima volta nella sua Storia ecclesiastica. Egli infatti scrive: Di questi testi si ha una testimonianza scritta negli archivi di Edessa […]. Infatti tra i documenti pubblici ivi custoditi […] si trova questa storia, custodita da allora fino ad oggi. Ma nulla vale quanto leggere il contenuto delle epistole, che ho preso dagli archivi e che ho tradotto letteralmente dalla lingua siriaca.(142)

Nei paragrafi successivi segue la versione greca delle due lettere, accompagnata dalla storia di Addai, che sarebbe anch’essa stata reperita in versione siriana negli archivi edesseni e che si conclude con la datazione al 340 dell’era edessena.(143) D’altro canto la versione siriaca, cui fanno riferimento i Chronica minora, risulta essere del vii secolo ed è assai verosimilmente una retroversione siriaca del testo greco eusebiano.(144) Le successive versioni fornite da Efrem Siro e dalla dottrina di Addai, del iv e del v secolo, non modificano sostanzialmente il quadro storico complessivo, perché sono entrambe posteriori alla narrazione eusebiana. Il primo a rilevarne la falsità fu Lorenzo Valla nel De professione religiosorum il quale sarebbe finito sotto le grinfie dell’Inquisizione se non lo avesse protetto il re Alfonso V d’Aragona. Le ragioni della scelta eusebiana stanno forse nel fatto che la storiella del carteggio aveva il doppio vantaggio di fornire da una parte una presunta testimonianza coeva al Cristo e dall’altra di suggerire l’esistenza di una reliquia (il mandylion) che ne ritraeva per contatto diretto l’immagine. Ancor più sconcertante è un altro falso noto come Lettera degli Apostoli, che Cristo avrebbe rivelato ai suoi discepoli («Cristo ha rivelato questa lettera del collegio degli apostoli») per contrastare l’eresia di Simone e di Cerinto. Gli apostoli (Giovanni, Tommaso, Pietro, Andrea, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Natanaele, Giuda Zelota e Kephas) scrivono «in conformità di quanto abbiamo visto, udito e toccato dopo che egli era risorto dai morti».(145) In realtà, a parte il paragrafo 3, 1, che contiene espressioni che ri(142)  Eusebio, HE, i, 13, 5. (143)  Ivi, HE, i, 13, 22. (144)  «Chronicon tantum in Codice Vatic. Syr. clxiii saeculi fere vii asservatur», I.Guidi, Chronicon Edessenum, p. 1, in Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Scriptores syri, series tertia, tomus iv, Chronica minora, Parisiis, Poussielgue, 1903. (145)  Lettera degli apostoli, 1, 2.

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chiamano alla mente la Preghiera dell’apostolo Paolo, ritrovata tra i testi gnostici di Nag Hammadi, e qua e là reminiscenze gnostiche (l’ogdoade del par. 18, la distinzione di anima e spirito del par. 22, gli arconti del par. 28, la camera nuziale del par. 43), l’epistola è d’impronta indiscutibilmente cristiana in quanto vuole rappresentare la difesa della fede cristiana, quale emerge dai vangeli canonici, con preferenza per Giovanni, e dalle lettere paoline, gli uni e le altre abbondantemente citati nel testo. Ma non credo che si possa parlare di un testo giudeo-cristiano, né mi pare che costruisca argomentazioni convincenti contro i simoniani o i cerintiani, le cui dottrine non emergono con chiarezza. Sorprende che nelle argomentazioni difensive compaiano spunti gnostici (soprattutto nei par. 13, 17 e 18), ma in fondo l’autore confida in particolare nel paolinismo con cui chiude l’epistola. Tutto sommato si tratta di un documento modesto e forse anche privo di interesse e storicamente incongruo, come si evince dal fatto che la crocifissione (par. 9) è fatta cadere sotto Pilato e Archelao (che, com’è noto, muore nel 6 d.C.). Non varrebbe forse neppure la pena parlare di un altro falso, come la cosiddetta Lettera celeste che si vuole scritta da Cristo,(146) trasmessa dal cielo, e miracolosamente rinvenuta sulla tomba di Pietro in caratteri d’oro. La prima menzione che ne abbiamo è del vi secolo e ci è data da Liciniano di Cartagine, in una lettera indirizzata a Vincenzo, vescovo di Ibiza.(147) Lo stesso Liciniano è fortemente critico nei confronti dell’apocrifo, poiché scrive: Non so da chi possa essere stata scritta la lettera che va sotto il nome di Gesù Cristo, potresti credere che sia sua se non vi si può rinvenire né un sermone elegante, né una sana dottrina?

E poi aggiunge: A nessun profeta o apostolo sono mai state mandate epistole dal cielo […]. Dopo la predicazione del vangelo queste cose non sono necessarie. E se per caso ti lusingò la stessa novità, perché la medesima epistola, come ha scrit(146)  Cfr. M. Bittner, Der vom Himmel gefalene Brief Christi in seinen morgenländischen Versionen und Rezensionen, «Denkschriften der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften», Philosophisch-historische Klasse, li, 1906, pp. 11-40 (versione greca), pp. 48-91 (versione armena), pp. 100-129 (versione siriaca), pp. 141-185 (versione Karschunisch), pp. 192-215 (versione araba); pp. 222-230 (versione etiopica), pp. 232-234 (versione ebraica). (147)  Liciniano di Cartagine, Epistola iii ad Vincentium episcopum Ebositanae insulae, in PL. lxxii, coll. 699-700.

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to il suo simulatore, è scesa dal cielo sull’altare di Cristo nel tempio dedicato al santo apostolo Pietro, sappi che si tratta di un inganno del diavolo e che tutte le scritture divine, l’epistola o le epistole sono celesti e ci sono state trasmesse dal cielo.

La lettera, che è data come «olografo del Padre invisibile»,(148) è sotto il profilo dottrinale di scarso rilievo, perché ha come suo unico obiettivo di sollecitare l’osservanza del giorno del Signore, ovvero della domenica, tra l’altro più nello spirito delle minacce di maledizioni che in quello dell’intima acquisizione(149). Tralascio di accennare alla Corrispondenza apocrifa di Paolo (Lettera ai Laodicesi, Lettera agli Alessandrini; la Lettera dei Corinzi a Paolo e la relativa risposta di Paolo ai Corinzi), compilata con ampia utilizzazione dell’epistolografia paolina e sostanzialmente priva sia di valore storico sia di valore dottrinale. Né credo sia il caso di soffermarci su un ulteriore clamoroso falso storico qual è la Corrispondenza tra Seneca e Paolo. Di questo presunto carteggio ci sono pervenute 14 lettere, metà attribuite al filosofo stoico e metà all’apostolo delle genti. L’obiettivo del falsario era probabilmente quello di riempire un vuoto storico. Le comunità cristiane non riuscivano a spiegarsi come era stato possibile che Seneca, filosofo di grande sensibilità per i fenomeni religiosi, contemporaneo di Cristo e di Paolo, informatissimo su quanto accadeva nel territorio dell’impero, esponente di corte sotto il principato di Nerone e quindi possibile testimone diretto della tragica fine di Pietro e di Paolo, tacesse nelle sue opere sia sui due apostoli sia sulla consistenza dei gruppi cristiani. Individuato il problema, si trovò subito la soluzione. Ci si inventò un falso carteggio tra Paolo e Seneca, nelle cui lettere non c’è né la profondità teologica dell’uno né quella filosofica dell’altro. Le lettere 1014, per avere maggiore credibilità, vengono datate in riferimento ai consolati romani. La lettera 10 reca la data del 27 senza indicazione del mese sotto il consolato di Nerone e Marco Valerio Messalla Corvino (58 d.C.), la 11, che riprende da Svetonio e Tacito l’episodio dell’incendio di Roma, è datata 28 marzo sotto il consolato di Gaio Lecanio Basso e di Marco Licinio Crasso Frugi (64 d.C.). Paradossalmente la 12, che dovrebbe essere posteriore è invece incongruentemente datata il 23 marzo sotto il consolato di Gaio Vipstano Aproniano e Gaio Fonteio Capitone (59 d.C.). Ma più sconcer(148)  Lettera celeste, xiii. (149)  Ivi, xiv-xvi.

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tante è la datazione delle lettere 13 e 14, che fanno riferimento al consolato di Lurcone e Sabino. Probabilmente Lurcone, console inesistente, è confuso con Licinio e il consolato di riferimento potrebbe essere quello di Gaio Licinio Murciano e Tito Flavio Sabino i quali però nel 72 erano consoli suffecti. Ma il 72 come data è fuori termine perché, com’è noto, Seneca morì nel 65. Ed è evidente che l’unico consolato utile, successivo a quello del 64, sarebbe stato quello di Aulo Licinio Nerva Siliano e di Marco Giulio Vestino Attico (65), nel quale tuttavia non sarebbe stato console Sabino. La lettera di Tito De dispositione sanctimonii è un falso sgrammaticato e a tratti anche oscuro, in cui l’anonimo autore condanna i cosiddetti συνείσακτοι o subintroductae ovvero la coabitazione di presbiteri e di vescovi con vocazione ascetica e di donne con voto di castità. Il principio è che alla vergine sposata a Cristo è fatto divieto di unirsi con un uomo. Esemplare in proposito l’episodio del giardiniere che prega per la figlia vergine affinché si conservi nella castità. Il Signore – dice l’apocrifo – le concede quello che è meglio per la sua anima e nello stesso istante la fanciulla cade morta. Le trasgressioni al principio della castità sono condannate dal tribunale; naturalmente lo stesso vale per gli uomini. L’anonimo autore non manca di ricordare gli esempi biblici che confermano che lo stato di santità non può essere conseguito cedendo alle tentazioni della concupiscenza. Mancano elementi sicuri per stabilire la data e il luogo di composizione della lettera. 4.23. L’apocalittica L’altro genere letterario che caratterizza la letteratura canonica e apocrifa è notoriamente l’apocalittica. Come è noto, l’apocalisse, come appunto dice il greco αποκάλυψις (apokálypsis = rivelazione), non è che una rivelazione che ha come oggetto la fine dei tempi, la seconda parousía e il giudizio universale che stabilirà la definitiva condanna dei peccatori e la salvezza dei giusti. È noto che come genere letterario l’apocalittica ha le sue radici nell’Antico Testamento e negli apocrifi veterotestamentari. Il modello a cui si sono ispirati gli autori cristiani è quasi certamente la cosiddetta Grande apocalisse di Isaia (capitoli xxiv-xxvii). In essa sono presenti quasi tutti gli elementi dell’apocalittica successiva; vi sono il lessico, le immagini, le suggestioni (le doglie della partoriente, la vigna e il custode, la spada, il serpente Leviatano, il dragone del mare, le incertezze sulla resur-

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rezione, se individuale o collettiva, se limitata o generale). V’è il tema della grande distruzione, della catastrofe che travolgerà la terra e in particolare Gerusalemme («la città del nulla» in cui «è chiuso l’ingresso di ogni casa»). Ad essa si affianca la cosiddetta Piccola apocalisse (capitoli xxxiv-xxxv), che allo sterminio, al fetore dei cadaveri, al giorno della vendetta di Yhwh, fa seguire la speranza della rifioritura dal deserto e la ricompensa della salvezza («Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo e canterà di gioia la lingua del muto, perché sgorgherà l’acqua nel deserto»). Ma se il testo isaiano è calibrato sulla realtà storica di Israele, l’apocalittica cristiana ha un respiro universale. Con Daniele l’apocalittica giudaica si arricchisce dell’elemento delle visioni profetiche (capitoli vii-xii), con l’idea dello svelamento dei segreti nascosti, del simbolismo, della spiegazione dei misteri da parte degli angeli interpreti, del tempo della collera. Ma in Daniele tutti questi apporti sono ancora all’interno della tradizione e della storia giudaica. Il vero modello archetipo dell’apocalittica, anche dell’apocalisse canonica di Giovanni, è il Pentateuco enochico, ove Enoc è un messia spirituale; è in qualche modo la parola stessa di Dio, ha nelle visioni un approccio al mondo celeste e conosce la destinazione finale dei peccatori e dei giusti con la guida degli angeli interpreti, in una prospettiva in cui il destino escatologico si accompagna al problema del male. Il Pentateuco enochico elabora una serie di simbolismi, di visioni, di immagini, di terminologie che entreranno nella tradizione apocalittica. Tali testi apocrifi, insieme con quello giovanneo, rappresentano le sorgenti più fresche e più vivide di una letteratura che esprime il meglio di sé tra il primo secolo e i primi lustri del secondo, ma poi ripiega su sé stessa nella ripetizione più o meno stanca e più o meno fiacca nelle apocalissi apocrife di Pietro, di Paolo, di Abbaton, di Ezra, di Tommaso e di Giovanni. Esse sono tutte pseudonime; sono tutte più o meno tardive, comunque non anteriori al iii secolo e, sul piano storico, attestano l’esistenza di un’onda lunga dell’apocalittica. 4.24. L’Apocalisse di Pietro Le testimonianze più antiche dell’Apocalisse di Pietro risalgono a Clemente Alessandrino, a Macario di Magnesia e ad Eusebio.(150) Credo pertanto che (150)  Clemente Alessandrino, Eclog., xli, xlviii-xlix, PG. ix, coll. 717-720; Ma-

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la sua composizione debba collocarsi poco oltre la metà del ii secolo, fermo restando che il testo oggi a noi noto sia lo stesso capitato tra le mani di Clemente Alessandrino. L’autore mostra di conoscere la letteratura canonica. Dal capitolo xviii alla fine sembra esserci uno stacco narrativo rispetto alla prima parte; si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una seconda versione dell’Apocalisse, testimoniata soltanto dalla versione etiopica, con l’introduzione di una seconda personalità come Clemente, che inspiegabilmente nel capitolo xxxii parla in prima persona. Essa è sicuramente seriore rispetto alla prima parte e forse è imparentata con le pseudo-clementine. Di certo fa riferimento ad una chiesa abbastanza evoluta come dimostra il lungo elenco delle festività annuali (capitolo xxxiv) secondo i calendari, ebraico ed egiziano. Si tratta comunque di un’opera modesta e sostanzialmente priva di originalità. Non si può dire che si avverta in essa una forte presenza di giudaismo vero e proprio. Anzi «la casa di Israele» è paragonata al fico sterile che l’ortolano suggerisce di curare e di irrigare, ma che darà negli ultimi giorni «falsi messia», che il Cristo «ucciderà con la spada e vi saranno molti martiri» (capitolo ii). Pur essendo scritti cristiani più che giudaici, l’Apocalisse e il Vangelo di Pietro hanno in comune solo il nome di Pietro. Di fatto sono due opere profondamente diverse per dottrina e per stile e tra l’altro difficilmente riconducibili al presunto apostolo. 4.25. L’Apocalisse di Paolo Benché l’autore dell’Apocalisse di Paolo voglia farci credere che il testo è originale di Paolo perché rinvenuto, insieme ai sandali dell’apostolo nelle fondamenta della sua casa di Tarso a circa tre secoli e mezzo di distanza dalla sua compilazione, quando erano consoli tardo-imperiali Teodosio Augusto II e Materno Cinegio (388 d.C.), in realtà è assai più probabile che la sua elaborazione sia posteriore al citato consolato. C’è tutto l’armamentario che ci si attende di trovare in una apocalisse: la visione del tartaro per i dannati e quella del paradiso per i giusti. Ma l’autentico spirito apocalittico è ormai ampiamente sopito. Si avverte la stanchezza della riproposizione del tema della fine del mondo che sfuma sempre più in un tempo indefinito. Le visioni del mondo celeste somigliano più ad un viaggio nell’oltretomba, nell’inferno, ove le pene sono rapportate alla qualità e gracario, Apocriticus, iv, 6 e 16; Eusebio, HE, iii, 3 e 25.

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vità del peccato, o nel paradiso, dove Paolo incontra Isaia, Geremia, Ezechiele e gli altri grandi profeti veterotestamentari e conosce gli innocenti della strage erodiana. Segue una seconda visione del paradiso ove sotto l’albero della vita Paolo incontra Maria, poi Abramo, Isacco e Giacobbe, poi Mosè, Lot, Giobbe e Noè e infine Elia ed Eliseo. Insomma è più una specie di Divina Commedia ante litteram che un’Apocalisse. 4.26. Le Apocalissi di Ezra, di Tommaso e di Giovanni Tardiva e scadente è anche l’Apocalisse di Ezra, che è costituita da due interpolazioni innestate (capitoli 1-2 e 15-16) nel corpo del 4Ezra, rispettivamente citate come 5Ezra e 6Ezra. La prima delle due risale quasi certamente al v-vi secolo, come si evince dal fatto che contrappone al giudaismo la «madre buona» (verosimilmente la Chiesa cattolica) cui il Signore affida i suoi figli. Più che un tono apocalittico, ne ha uno parenetico e comunque è un invito all’attesa («Aspettate il vostro pastore! Vi concederò il riposo della vostra eternità»). Della prospettiva apocalittica resta come sottofondo la contrapposizione tra il tempo presente e quello della fine della storia («Fuggite l’ombra di questo secolo»). La seconda interpolazione è più centrata sui temi della distruzione, delle calamità, delle tribolazioni e dei flagelli; ritorna il tema delle doglie della partoriente; ma anche qui non mancano i toni parenetici con l’invito a cessare di peccare. L’Apocalisse di Tommaso, non testimoniata dalla letteratura patristica, desta interesse per la minuziosa indicazione dei «segni» o «sigilli» relativi alla fine dei tempi. La catastrofe finale si determinerà nell’arco di sette giorni ed ogni giorno sarà accompagnato da uno specifico segno: il primo giorno da una pioggia di sangue; il secondo le porte del cielo libereranno fumo e fuoco; il terzo giorno si apriranno i pinnacoli del firmamento; il quarto giorno la terra sarà scossa da un terremoto; il sesto giorno dall’alto del cielo verrà «la luce del Padre mio con la potenza e l’onore degli angeli santi».(151) Infine nel settimo giorno i giusti e gli eletti saranno salvati dalla distruzione del mondo. Più nota è l’Apocalisse apocrifa di Giovanni, che non va ovviamente confusa con quella canonica. Essa ha tutto l’aspetto di un’intervista o di un vero e proprio interrogatorio cui Giovanni sottopone il Signore. Non c’è tuttavia la vivacità tipica della forma dialogica, perché le domande di Giovanni (151)  Apocalisse di Tommaso, 3.

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sono ripetute e scontate e sono del tipo: che cos’è questo? Chi sono questi? Che cosa accadrà dopo? Non poche sono le curiosità presenti nel testo. C’è una descrizione fisica dell’anticristo, che sarà confutato da Enoc ed Elia,(152) e una singolare interpretazione della resurrezione (tutti risorgeranno avendo un’età di trent’anni; non ci saranno differenze tra gli uomini; «Non ci sarà più giallo o rosso o nero, neppure l’etiope o volti diversi, bensì tutti risorgeranno d’una sola forma e d’una sola età, tutta la natura umana risorgerà incorporea»).(153) La fine dei tempi consiste in una catastrofica distruzione della terra, dopo la quale si scatenerà la forza degli angeli; le schiere angeliche faranno scendere sulla terra ogni cosa preziosa e il profumo degli aromi; faranno scendere anche Gerusalemme «abbigliata come una sposa». L’apertura del libro trovato sul monte Tabor si accompagnerà all’apertura dei sette sigilli: con il primo sigillo cadranno le stelle, con il secondo si occulterà la luna, con il terzo si oscurerà il sole, con il quarto si scioglieranno i cieli, con il quinto si spaccherà la terra, con il sesto scomparirà la metà del mare e con il settimo si aprirà l’Ade. Infine ci sarà il giudizio universale, sulla base del quale la salvezza non sarà riservata a coloro che hanno ricevuto il battesimo, ma solo ai giusti, che gli angeli provvederanno a separare dai peccatori. Saranno puniti anche i patriarchi, i sacerdoti e i leviti secondo la gravità delle loro colpe. Infine, quando si manifesterà il paradiso, i giusti erediteranno la terra e la quantità degli angeli sarà pari a quella degli uomini, perché il profeta aveva predetto: «Dio stabilì i confini dei popoli secondo il numero degli angeli».(154) 4.27. Conclusione Pochi avrebbero la disponibilità ad accogliere la storicità della letteratura apocrifa. La ragione è che in essa l’elemento straordinario, prodigioso e fabuloso è troppo smaccato e manifesto. Eppure è indubbio che i relativi testi furono composti sotto la suggestione dei vangeli. Gli apocrifi ne amplificarono la narrazione, puntarono a riempire tutti i vuoti lasciati scoperti dalla letteratura canonica, perché le comunità di base avevano avvertito l’esigenza di conoscere meglio la biografia del Cristo, ma anche di (152)  Apocalisse apocrifa di Giovanni, 7-8. (153)  Ivi, 10-11. (154)  Ivi, 26.

III.4  La letteratura apocrifa del Nuovo Testamento 

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avere più dettagliate notizie sugli altri apostoli, in particolare sui due maggiori, Pietro e Paolo. Come per il Cristo l’elemento miracolistico è utilizzato come prova della natura divina degli apostoli. Quale maggiore credibilità hanno le strabilianti guarigioni e gli esorcismi del Cristo rispetto a quelli che costellano le narrazioni degli apocrifi? Perché dare agli uni il sigillo della storicità e relegare gli altri nel labirinto della favola? Il pensiero razionale non può accettare la veridicità di racconti fantasiosi, tanto più se si tratta di eventi riconducibili ad un potere divino che è lo stesso ritenuto responsabile della creazione. C’è negli apocrifi un innegabile decadimento del grande mito messianico che, tra la seconda metà del secondo secolo fino al quarto, scade, si deteriora e si impoverisce, passando dai vertici della grande riflessione teologica alle credenze e alle superstizioni popolari che preludono al Medioevo; la Chiesa istituzionalizzata le impiegherà come utili strumenti per una più efficace evangelizzazione delle masse tanto urbane che rurali.

capitolo v

INCONGRUENZE DELLA TEORIA DELLE DUE FONTI

5.1.  Lo stratagemma della teoria delle due fonti Secondo la teoria delle due fonti, proposta da Weisse e da Holtzmann,(1) il Vangelo di Luca e il Vangelo di Matteo sono stati scritti l’uno indipendentemente dall’altro. Il materiale comune a Marco, Matteo e Luca (la cosiddetta ‘tripla tradizione’) sarebbe derivato da Marco. Anzi secondo un’ipotesi più estrema la fonte comune dei tre sinottici sarebbe non Marco, ma un ipotetico Ur-Markus, di cui non abbiamo nessuna notizia, il quale sarebbe stato scritto prima dei tre sinottici. Un’ipotesi più strampalata consiste nel ritenere che il materiale della tripla tradizione derivi da un Deutero-Markus, scritto successivamente al Vangelo di Marco, il quale sarebbe stato utilizzato in totale indipendenza da Matteo e da Luca. Secondo la formula più accreditata la teoria delle due fonti consiste nell’ipotizzare che Matteo si sia ispirato a Marco e alla cosiddetta fonte Q (dal tedesco Quelle = fonte) contenente i lógia del Cristo. Sicché la fonte Q fornirebbe le parti comuni a Matteo e a Luca (le tre tentazioni di Gesù, le beatitudini, il padre nostro e singoli detti).(2) Streeter suppone l’esistenza di una terza fonte, detta M, la qua(1) Ch. H. Weisse, Die Evangelische Geschichte kritisch und philosophisch bearbeitet, Leipzig, 1838; H. J. Holtzmann, Die Synoptischen Evangelien, ihr Ursprung und geschichtlicher Charakter, Leipzig, Engelmann,1863; cfr. anche Ch. Guignebert, Gesù, Torino, Einaudi, 1950, pp. 47-54. (2)  G. N. Stanton, The Gospels and Jesus,cit., pp. 63-64; B. Ehrman, The Text of the New Testament in Contemporary Research: Essays on the «Status quaestionis»; a Volume in Honor of Bruce M. Metzger, Eugene, Wipf and Stock Publ., 2001, pp. 80-81; B.

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le conterrebbe i versetti peculiari di Matteo. Pierson Parker,(3) seguendo l’ipotesi di Streeter, ipotizza un Proto-Matteo, come fonte comune a Marco e a Matteo (Matteo si sarebbe servito in aggiunta a Marco anche della fonte Q). Farrer propone una soluzione più ragionevole e più semplice poiché ritiene che Matteo si sia ispirato a Marco e che Luca abbia scritto per ultimo, inspirandosi ai due precedenti vangeli.(4) Goodacre è fortemente critico nei confronti dell’ipotesi Q,(5) invocata per spiegare l’esistenza di un materiale comune solo a Matteo e a Luca (la cosiddetta ‘doppia tradizione’). Dalla presunta fonte Q i due evangelisti avrebbero attinto l’uno indipendentemente dall’altro. In sostanza l’ipotesi consiste nel postulare l’esistenza di due fonti: Marco (o in alternativa l’Ur-Markus o il Deutero-Markus) come base della tripla tradizione e la fonte Q, come base della doppia tradizione. La prima obiezione che sorge spontanea di fronte a tali ipotesi è che parliamo di fonti fantasiose di cui non abbiamo nessuna traccia nella documentazione a noi pervenuta. Gli studiosi di matrice cattolica parlano dell’Ur-Markus, del Deutero-Markus e della fonte Q come se ne avessero davanti agli occhi i rispettivi testi. Ma i testi citati sono di fatto inesistenti. Da un punto di vista razionale questa sola obiezione sarebbe sufficiente per mettere fuori campo la teoria delle due fonti. Ma poiché essa gode in ambito religioso di notevole prestigio, procederò ad una più dettagliata analisi. La prima domanda che viene da fare è la seguente: perché puntare sulla totale indipendenza e autonomia dei tre sinottici? Non sarebbe più logico analizzare i testi nell’intento di stabilire il progressivo accrescimento della narrazione evangelica? Una volta stabilito il principio della priorità di Marco, oggi ormai generalmente accolto, è facile intuire quale sia stato lo sviluppo delle narrazioni evangeliche. Matteo scrisse a partire da Marco e lo arricchì sulla base di un proprio progetto cristologico; Luca fece altrettanto, partendo da Marco e da Matteo, e perseguì un progetto cristologico alternativo o – se si vuole – complementare rispetto ai suoi due predecessori. In una ipotesi così semplice ed elementare è evidente che nella narrazione si costituì inevitabilH. Streeter, The Four Gospels. A Study of the Origins Treating the Manuscript Tradition. Sources, Authorship and Dates, London, MacMillan, 1924, p. 225. (3) P. Parker, The Gospel before Mark, Chicago, University Press, 1953. (4)  A. M. Farrer, On Dispensing with Q, in D. E. Nineham (ed.), Studies in Gospels. Essays in Memory of R. H. Lightfoot, Oxforf, Blackwell, 1955, pp. 55-88. (5) M. Goodacre, A Monopoly on Marcan Priority? Fallacies on the Hearth of Q, «Society of Biblical Literature Seminar Papers 2000», cxxxvi, 2000, pp. 538-622; così anche Michael D. Goulder, Is Q a Juggernaut?, «Journal of Biblical Literature», cxv, 1996, 667-681.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1051

mente un nucleo comune ai tre sinottici (corrispondente alla cosiddetta tripla tradizione) e un nucleo comune a Matteo e a Luca (la presunta doppia tradizione). Matteo assorbì nel proprio testo quasi tutto Marco; Luca, a sua volta, utilizzò la gran parte del Marco assorbito da Matteo, recuperò una parte del Marco tralasciato da Matteo, attinse da gran parte delle aggiunte matteane e arricchì ulteriormente la versione dei suoi due predecessori. In realtà è proprio questa ipotesi che l’esegesi cattolica vuole evitare a tutti i costi per almeno tre ragioni: la teoria dell’accrescimento progressivo o della derivazione diretta 1) fa dipendere tutta la narrazione evangelica da un’unica fonte, quale è quella marciana; 2) configura la narrazione come un prodotto storico e come una elaborazione umana, determinata in gran parte dalla specifica personalità degli autori; 3) esclude che la veste definitiva dei testi evangelici possa risalire agli anni immediatamente successivi alla presunta morte di Cristo. Di converso la teoria delle due fonti si rivela priva di una cogenza scientifica e/o filologica ed appare anzi dettata da istanze meramente teologiche per il semplice fatto che è concepita come lo strumento più utile per indurre a credere che la narrazione evangelica a) sia accreditabile per essere il risultato di una molteplicità di fonti; b) sia documentata in ogni sua parte da fonti di prima mano ed abbia una forma definiva fin dall’origine; c) sia retrodatabile agli anni immediatamente successivi alla vita del Cristo. Queste congetture sono inaccettabili, perché noi sappiamo che ciascuno dei tre sinottici ha subito un processo di transizione prima di giungere a noi nell’attuale versione definitiva. Sappiamo che il processo di aggiustamento e di limatura avvenne assai per tempo e che era già in gran parte cosa fatta intorno alla metà del secondo secolo. Ce lo dimostrano le numerose interpolazioni sedimentatesi nei tre sinottici (i primi due capitoli di Matteo e i primi due di Luca, la digressione sull’ecclesia in Matteo, la finale lunga di Marco e probabilmente anche le finali di Matteo e di Luca). Sappiamo altresì che a metà secolo Marcione segnalava nel Vangelo di Luca ben 78 varianti rispetto al testo canonico.(6) Il principio della crescita progressiva esclude automaticamente qualsiasi ipotesi non fondata sulla priorità marciana. Ciò significa che si escludono tanto l’ipotesi di Agostino e di Griesbach, ripresa recentemente da Wenham,(7) fondata sulla priorità matteana, quanto l’ipotesi detta della (6) Cfr. Epifanio di Salamina, Panarion, xlii, 11. (7)  J. W. Wenham, Redating Matthew, Mark and Luke: A Fresh Assault on the Synoptic Problem, Westmont (Ill.), InterVarsity Press, 1992.

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scuola di Gerusalemme, fondata sulla priorità lucana. Se l’ipotesi agostiniana può vantare a proprio supporto la tradizione dei Padri della Chiesa che concordemente indicano come primo vangelo Matteo, la tesi della priorità lucana è del tutto insostenibile. In ogni caso entrambe queste ipotesi non sono in grado di dar conto della redazione corta di Marco. Come spiegare che Marco, tenendo sotto mano Matteo e Luca o anche solo l’uno dei due, abbia potuto tralasciare il 58% del testo lucano e circa il 45% di Matteo? Il principio della priorità marciana deve reputarsi definitivamente acquisito a partire da Gottlob Christian Storr(8) in poi. Tale principio non è bene accolto dagli esegeti cattolici perché Marco presenta una cristologia di più basso rango e tende a configurare il Cristo più sul versante della natura umana che su quello della natura divina.(9) A titolo di esempio si può rammentare la pericope in cui «i suoi», probabilmente riferito ai parenti, danno del pazzo al Cristo (Mc, iii, 21). Altre pericopi risultano enigmatiche e non sembrano avere un logico collegamento con il contesto: tale è il caso del giovane, coperto di un lenzuolo, che fugge nudo, o l’episodio del cieco di Betsaida (Mc, xiv 51-52; viii, 22-26), alquanto oscuro e confuso. Accettare la priorità marciana significa ammettere che sulla cristologia marciana di basso rango Matteo e Luca introdussero stratificazioni successive di più alto respiro teologico con la conseguenza di riconoscere che essi furono i veri artefici della costruzione di una cristologia fondata sulla divinizzazione del Cristo. In altri termini il processo di divinizzazione del Cristo fu un processo storico. Ma la teoria dualistica non regge neppure sul piano filologico, per il semplice fatto che i tre sinottici, nell’area della triplice tradizione, ma anche in quella della doppia tradizione, presentano «concordanze minori» che forse meglio sarebbe definire «discordanze lessicali, stilistiche e contenutistiche». Cerchiamo di fare il punto sulla questione. Nel tentativo di superare l’impasse di carattere filologico, Simons e Morgenthaler(10) hanno proposto una dottrina trialista, cosiddetta delle tre fonti, secondo la quale Matteo avrebbe utilizzato Marco e la fonte Q e Luca avrebbe utilizzato tutte e tre le fon(8)  G. Ch. Storr, Über den Zweck der evangelischen Geschichte und der Briefe Johannis, Tübingen, Heerbrandt, 1786. (9)  Cfr. in proposito W. D. Davies - D. C. Allison, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel According to Saint Matthew, in three volumes, Edinburgh, Clark, 1988-1997. (10) E. Simons, Hat der dritte Evangelist den kanonishen Mattäus benutzt?, Bonn, Universitäts-Buchdruckerei von Carl Georgi, 1880; R. Morgenthaler, Statistische Synopse, Zürich, Gotthelf Verlag, 1971.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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ti: Marco, Matteo e Q. Si tratta di un’ipotesi che cade in manifesta contraddizione perché Q è, per principio, alla radice dell’indipendenza reciproca di Matteo e Luca. E tale indipendenza nell’ipotesi trialista verrebbe a cadere. Ma per andare al nodo della questione è necessario procedere ad un esame quantitativo dei rapporti tra i tre sinottici. Non v’è dubbio che vi sono inconfutabili relazioni tra essi. Il problema è di stabilire se si tratta di rapporti diretti o indiretti. In generale qualsivoglia teoria delle relazioni presuppone un principio di dipendenza, sicché i tentativi di spiegare la sinossi secondo un principio di indipendenza dovrebbe essere destinato al fallimento. In linea di massima, tenuto conto delle puntualizzazioni di Streeter,(11) il quale ha richiamato l’attenzione sulle frazioni proprie di ciascun sinottico, possiamo individuare nella loro composizione i seguenti tipi di materiali: 1) il materiale α comune a tutti e tre gli evangelisti, cioè quello che per i dualisti coincide con la presunta tripla tradizione; 2) il materiale β comune a Matteo e Luca, cioè quello che per i dualisti coincide con la fonte Q; 3) il materiale γ, comune a Marco e Matteo e non a Luca; 4) il materiale δ, comune a Marco e a Luca e non a Matteo; 5) il materiale ε, proprio di Marco; 6) il materiale ζ, proprio di Matteo e infine 7) il materiale η, proprio di Luca. Premesso che il seguente conteggio è effettuato non sulla base di corrispondenze testuali, ma solo di corrispondenze contenutistiche nel tessuto narrativo, abbiamo i seguenti dati. Il vangelo di Marco si compone di 678 versetti di cui almeno 12 sicuramente interpolati (Mc, i, 1 e xvi, 9-20). Essi si possono suddividere come segue: 515 versetti (pari al 76 %) sono comuni a Matteo e a Luca (materiale α); 122 versetti (pari al 18 %) comuni a Matteo (materiale γ); 20 (pari al 3 %) comuni a Luca (materiale δ); 20 (3 %) propri di Marco (materiale ε). Ciò significa che Matteo ha assorbito 515+122=637 versetti marciani pari a circa il 93 % del totale, mentre Luca ne ha utilizzati 515+20=535, pari al 78 % del totale. Analogamente Matteo si compone di 1.071 versetti, dei quali 515 (pari al 48 %) sono comuni a Marco e Luca (materiale α); 122 (pari al 11 %) sono comuni solo a Marco (materiale γ), 244 (23 %) comuni solo a Luca (materiale β) e 190 (18 %) propri di Matteo (materiale ζ). Del materiale ζ almeno 53 versetti(12) sono oggetto di interpolazione. Se ne deduce che Matteo attinge per circa il 59 % da Marco (515+122 = 637) e presta a Luca il 18 % del proprio testo per la sua successiva rielaborazione narratologica. (11)  B. H. Streeter, The Four Gospels, cit. (12)  Mt, i, 1-24; ii, 1-22; xvi, 18; xviii, 17; xxviii, 16-20.

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Di contro Luca consta di 1.151 versetti, di cui almeno 135 interpolati (Lc, i, 1-80; ii, 1-51; xxiv, 50-53). L’area comune a tutti e tre i sinottici (materiale α) comprende 515 versetti, pari al 44 % del totale. L’area comune a Matteo (materiale β) si estende per 244 versetti (22 %); quella comune a Marco e non a Matteo (materiale δ) è ridotta ad appena 11 versetti (1 %) e quella propria di Luca (materiale η) riguarda 381 versetti, pari al 33 %. In altri termini circa il 45 % del vangelo lucano dipende direttamente o indirettamente da Marco; il 22 % dipende da Matteo soltanto e il 33 % costituirebbe il materiale proprio di Luca. Non ci si rende conto che se Marco, Matteo e Luca fossero realmente indipendenti l’uno dall’altro nelle loro parti comuni (tripla e doppia tradizione) potrebbero contenere divergenze contenutistiche più o meno rilevanti; invece presentano solo differenze stilistiche o linguistiche, che sono chiaramente riconducibili alla personalità, al gusto letterario e alla ideologia di ciascuno dei tre autori. In realtà la teoria delle due fonti fa slittare le difformità sussistenti tra i sinottici dai testi pervenutici alle loro presunte fonti, come se questa operazione le sanasse. Il vantaggio ottenuto dalla retrodatazione dei vangeli e dalla correlata ipotesi della loro derivazione da testi scritti in lingua aramaica, ha come contropartita in negativo il rinvio a pre-testi di oscura origine. Ma ciò che la teoria si lascia sfuggire è che il nodo ermeneutico fondamentale non è tanto quello di giustificare le convergenze o affinità testuali tra l’uno e l’altro testo quanto quello di dar conto delle loro rispettive parti specifiche o proprie che corrispondono al 3% del Vangelo di Marco, al 20 % del Vangelo di Matteo e al 33 % del Vangelo di Luca, salvo che per queste rispettive specificità non si invochino ulteriori Quellen. In altri termini il problema sinottico non consiste solo nel dare spiegazione delle aree comuni e condivise, pur tra divergenze stilistiche e lessicali, ma anche quello di spiegare le più consistenti divergenze delle aree specifiche di ciascuno dei tre testi. Ciò che può essere fatto solo nell’ottica della teoria dell’accrescimento progressivo. Il punto debole della teoria delle due fonti è che essa conduce ad una inutile proliferazione delle fonti, perché le aree comuni (della doppia e tripla tradizione, cioè dei materiali α, β, γ e δ), si possono a loro volta distinguere in tre tipologie: i) per identità testuale (che indichiamo con l’apice’); ii) per affinità testuale (che indichiamo con l’apice’’) per unicità testuale (che indichiamo con l’apice’’’). Sicché le fonti comuni subiscono un’ulteriore articolazione; il materiale α si articola in α’ α’’ α’’’e così per β’ β’’ β’’’, per γ’ γ’’ γ’’’,

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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per δ’ δ’’ δ’’’. Il che significa che la teoria delle due fonti rischia di essere particolarmente complessa, poiché conduce ad una gratuita e inutile moltiplicazione delle fonti. A complicare ulteriormente la questione si aggiunge la distribuzione o, se si vuole, l’organizzazione della materia nell’economia del testo. La cornice storico-geografica della narrazione, a prescindere dalle incongruenze di carattere geografico, consta di una serie di tappe della predicazione messianica, che, proposte da Marco, si possono così sintetizzare: battesimo nel Giordano, tentazioni nel deserto, Galilea, Cafarnao, Galilea, Cafarnao, spostamenti sul mare, famiglia di Gesù a Nazareth, di nuovo sul mare, Gerasa, sul mare, luogo deserto, Betsaida, Gennesaret, Tiro e Sidone, Mare di Galilea, Decapoli, Dalmanutha, Betsaida, Cesarea di Filippo, monte della trasfigurazione, attraversamento della Galilea, Cafarnao, Giudea, Gerico. Matteo inserisce tra la prime due soste a Cafarnao il Discorso della Montagna, sostituisce Gadara a Gerasa, che è invece accolta da Marco e da Luca; aggiunge in imprecisati villaggi e città il Discorso sulla missione, dopo il quale fa rientrare Gesù in Giudea; sullo sfondo della sinagoga dei giudei lo fa deviare senza alcun preavviso su Nazareth, accenna alla vera famiglia, inserisce sulla riva del mare il Discorso in parabole, traendo spunto dalla parabola marciana del seminatore, fa ritornare Cristo «nella sua patria» (episodio di Erode) e aggiunge durante la discesa dal monte della trasfigurazione il Discorso sulla vita ecclesiale. Luca anticipa la sosta a Gennesaret (che per gli altri due evangelisti precede il viaggio a Tiro e Sidone) dopo la prima visita a Cafarnao, ma è molto più vago nelle indicazioni topiche (un luogo solitario, un centro abitato, un luogo pianeggiante, un monte, in paesi e villaggi, un villaggio, a casa di un fariseo); dopo la seconda sosta a Cafarnao inserisce un soggiorno a Nain e aggiunge una permanenza in Samaria. La sosta a Betsaida è ignorata da Matteo; quelle nella Decapoli e a Dalmanutha sono omesse da Matteo e da Luca, quella a Cesarea di Filippo è tralasciata da Luca. I soggiorni a Cafarnao sono tre per Marco e Matteo e due per Luca. Insomma la cornice storico-geografica fissa dei paletti nell’attività predicativa del Cristo, ma al suo interno ciascuno dei tre autori si muove con relativa autonomia e con una certa elasticità che consente di allargare, restringere, adattare alla proprie esigenze il tessuto narrativo, variandone anche in parte i contenuti su aspetti per lo più secondari. Le teorie dualiste o trialiste non sono in grado di spiegare tali divergenze, poiché per esse la fonte Q è solo una raccolta di detti. In realtà proprio questa notevole elasticità della narrazione ci dice che

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essa è il risultato della progressiva elaborazione dei tre evangelisti. Ma questo è esattamente il nodo che la teoria delle due fonti vuole evitare, inchiodando ciascuna variante ad una fonte antecedente. Che è come dire che ogni variante, introdotta dall’uno o dall’altro dei tre evangelisti, sarebbe giustificata e autorizzata da una fonte fantasma, la cui credibilità sarebbe assoluta per essere assai prossima agli eventi narrati. Ora, a prescindere dal fatto che, facendo slittare indietro le varianti, non si sana la contraddittorietà tra i testi, anzi, se mai la si estende, più gravemente, alla presunte fonti originarie, la teoria delle due fonti potrebbe godere di una certa validità se si potesse accertare l’identità del testo che è all’origine della tripla tradizione e l’identità del testo che è all’origine della doppia tradizione. Ma noi siamo ben lontani dal conseguire questo duplice obiettivo, per il semplice fatto che non siamo in grado di incanalare e costringere in un alveo predeterminato le scelte stilistiche, lessicali e contenutistiche di ciascuno dei tre autori. Non è in alcun modo possibile conciliare gli organici e compatti cinque discorsi di Matteo con i frammentari lógia di Marco e di Luca, perché si tratta di differenze che attengono alla personale organizzazione della materia da parte dello scrittore, la quale non ha nulla a che fare con una presunta tradizione storica. La tripla tradizione, per il principio della priorità marciana, coincide in toto con il cospicuo assorbimento del Vangelo di Marco da parte di Matteo e di Luca. Qualunque Ur-Markus o Deutero-Markus, che la nostra fantasia ci suggerisce, non è che lo stesso Marco, arbitrariamente retrodatato intorno alla metà del primo secolo. Marco non è altro che un canovaccio, scritto qualche decennio dopo il 70 per una comunità cristiana che sentiva il bisogno di avere sicuri punti di riferimento a conforto delle credenze religiose maturate nel confronto con l’essenismo, con l’enochismo e con la gnosi incipiente. Se fosse esistito un autorevole Ur-Markus, nessuno dei tre evangelisti avrebbe osato alterarne il testo neppure per una virgola. Ciò vale ancor più per la fonte Q: se essa conteneva i genuini detti del Cristo, nessuno degli evangelisti avrebbe osato cambiarne neppure uno iota. Invece non è così. Matteo e Luca attingono da Marco come se si trattasse di un romanzo, come se contenesse solo una bozza della ricostruzione della vita del Cristo; ciascuno dei due avverte il bisogno di corrispondere alle istanze più mature emerse in seno alle proprie comunità di riferimento, che chiedevano di riempire i vuoti lasciati dai testi canonici. Sicché quel racconto, quel romanzo, appena abbozzato, si arricchisce e prende forma, passando da una cristologia di tipo naturale ad una di matrice divina.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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Analoghe osservazioni valgono per la doppia tradizione. Si vuole che Luca abbia scritto utilizzando due fonti: Marco e Q. Marco avrebbe fornito la cornice storico-cronologica del racconto e Q avrebbe avuto la funzione di cinghia di trasmissione dei lógia del Cristo. Lo stesso avrebbe fatto Matteo, lavorando indipendentemente da Luca. Meier e Funk sono del parere che Luca sia stato più fedele di Matteo alla fonte Q.(13) Funk ritiene(14) che Matteo abbia ammorbidito alcuni detti; per es. nel Discorso della montagna Luca avrebbe preferito attenuare in ‘poveri’ l’espressione matteana ‘poveri di spirito’. Martin Hengel(15) invece ritiene che Luca abbia seguito Matteo. Secondo Kirby l’ipotesi di una redazione indipendente sarebbe corroborata dal fatto che sussistono in Luca e Matteo materiali che in ordine alle medesime questioni (es. la natività di Cristo) non sono compatibili tra loro.(16) Ma se ci si riferisce ai primi due capitoli di Matteo e di Luca, occorre tener presente che la loro reciproca indipendenza dipende dal fatto che in entrambi i casi siamo di fronte a grossolane interpolazioni. Più problematica appare l’interpretazione dei materiali propri di Matteo, assenti in Luca, e di quelli propri di Luca, assenti in Matteo. Essi non possono confluire né nella tripla, né nella doppia tradizione. A rigore, procedendo nella logica della retrotrasmissione, si dovrebbe postulate una ulteriore fonte M per Matteo ed una ulteriore fonte L per Luca. Ma la soluzione più razionale è che l’indipendenza di M e di L è la naturale conseguenza della crescita del materiale narratologico da Marco a Matteo e a Luca, la quale dipende sicuramente dal fatto che la costruzione cristologica è per lo più elaborata sulla base delle suggestioni provenienti dall’AT, sicché i materiali propri di Matteo e di Luca potrebbero trovare una spiegazione nel fatto che, nella ricostruzione della vicenda biografica del Cristo, ciascuno dei due ha scavato nella letteratura veterotestamentaria ed ha arricchito il tessuto narrativo sulla scorta delle antiche profezie o dell’interpretazione tipologica delle figure veterotestamentarie come prefigurazioni del Cristo. Gli studiosi pretendono anche di poter individuare l’origine geografica di Q, che sarebbe ovviamente, è appena il caso di dirlo, palestinese. Con una (13)  J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. ii, pp. 159, 179-235; R. W. Funk, The Sayings Gospel Q, The Text of Q, reperibile in internet sito: Early Christian Writings. (14)  Cfr. R. W. Funk, Matthew, Bonner, Polebridge Press, 1998, pp. 129-270. (15) M. Hengel, The Four Gospels and the One Gospel of Jesus, An Investigation of the Collection and Origin of the Canonical Gospels, London, SCM Press, 2000, pp. 169-207. (16)  Cfr. P. Kirby, The Existence of Q, Early Christian Writings, 2006.

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buona dose di dogmatismo ci viene detto: 1) che l’ambiente geografico e culturale di Q è la Palestina (in realtà il proto-cristianesimo che attecchisce in Palestina è ancora fortemente influenzato dall’essenismo e dall’enochismo; quello che si espande con la diaspora risente di più dell’influenza ellenica e della gnosi; le due anime potrebbero essere rappresentate rispettivamente da Giacomo e da Pietro); 2) che i lógia esprimono una posizione anti-farisaica (il che è vero indipendentemente da Q); 3) che coloro che ci hanno tramandato la fonte Q si muovono all’interno della tradizione giudaica, pur esprimendo una chiara condanna delle città palestinesi (in realtà la condanna delle città palestinesi è un tópos classico del proto-cristianesimo che sorge e si diffonde fuori dei confini della antica patria); 4) che la composizione di Q sarebbe avvenuta nella Galilea (ma in questo caso resterebbero tagliati fuori da Q i lógia connessi alle vicende della passione e morte); 5) che, a dispetto delle profezie relative alla distruzione del tempio, Q sia anteriore al 70 d.C.; 6) che la fonte Q presuppone una persecuzione degli ebreo-cristiani da parte di ebrei palestinesi legati al giudaismo tradizionale (in realtà la presunta separazione della chiesa dalla sinagoga è solo una congettura;(17) quando i cristiani si costituirono in comunità nella seconda metà del primo secolo disponevano di luoghi di incontro molto occasionali; le prime assemblee o ecclesie dovrebbero risalire al secondo secolo e le prime domus ecclesiae al terzo); 7) che Q presenta i Gentili in chiave positiva; segno che il cristianesimo cominciava a diffondersi in aree non palestinesi (in realtà proprio ciò dovrebbe indurre a pensare che l’ambiente d’origine di Q, posto che sia realmente esistita, non fosse la Palestina). Ci sono ragioni filologiche ineccepibili per sostenere la teoria delle due o quattro o più fonti? Sotto il profilo filologico è legittimo supporre l’esistenza di fonti non pervenute quando i capostipiti di due famiglie di manoscritti presentano varianti tali da giustificare il rinvio ad una fonte comune. Ma ciò implica due cose; 1) che il testo esaminato sia unico; 2) che il suo autore sia unico. Evidentemente non è questo il caso dei sinottici, i quali, per essere riconducibili a tre autori diversi e a tre narrazioni diverse, non giustificano il ricorso ad una fonte Q. Ne consegue che le ragioni filologiche per le (17)  Non è pertanto sorprendente che non siano state trovate sinagoghe prima del 79 d.C. in Cesarea Marittima, Gerusalemme e Tiberiade. Ci sono sinagoghe pre-70 in Gamla, Masada (opera di zeloti) e tale è l’Herodium (opera di zeloti). Taluni studiosi contestano che tali edifici avessero funzioni religiose; altri ritengono che non siano esistite sinagoghe prima del iii secolo d.C.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1059

quali si invoca un fonte sconosciuta non sono scientifiche, ma teologiche e sono pensate per contrastare le tesi miticiste. Si capisce perciò l’importanza che ha per gli esegeti cristiani la dottrina delle due fonti. Ci troviamo cioè di fronte ad uno stratagemma ben congegnato che tuttavia si fonda sul nulla. I sostenitori di tale dottrina parlano delle fonti, in particolare della fonte Q, contenente esclusivamente lógia, non dissimile dal Vangelo di Tommaso.(18) Ciò che ad essi sfugge è che la loro è una fonte costruita artificiosamente di cui non possiamo avere alcuna certezza; anzi, l’unica certezza che abbiamo è che essa non è mai stata reperita. Inoltre si pretende che la loro redazione originale sia stata elaborata in lingua ebraica o aramaica e non in greco. Anche su questo terreno siamo come in un mare in tempesta. Non solo non abbiamo testi ebraici o aramaici di nessuno dei vangeli, ma da essi emerge anche che la realtà della Palestina è palesemente deformata sia sotto il profilo geografico che sotto quello faunistico; la conoscenza che gli evangelisti hanno del mondo palestinese sembra dipendere, soprattutto sotto il profilo storico, dalla lettura di documenti importanti come i testi flaviani. Non è mai sufficiente abbastanza rammentare che i sinottici non sono mai stati citati in tutta la letteratura extra-cristiana del primo secolo d.C. Ciò che si vuol nascondere è che la letteratura cristiana nasce nella prima metà del secondo secolo, come attestano le prime testimonianze che ci sono pervenute, le quali risalgono approssimativamente agli anni 130/140 d.C. con la pubblicazione dell’Exēgēsis di Papia. La scoperta dei manoscritti qumranici ha vieppiù complicato la questione, perché abbiamo ormai la certezza che in tutta la produzione letteraria degli esseni non v’è traccia né del Cristo né del cristianesimo, ma ci sono chiare tracce di una elaborazione ideologica che si approssima al cristianesimo. Per di più i testi qumranici ci hanno restituito una massa di documenti apocrifi in cui si respira un’aria di pre-cristianesimo; in essi, tuttavia, anche quando la datazione è ritenuta posteriore al 70 d.C., non si fa alcuna menzione del Messia cristiano; al contrario molti suoi tratti distintivi sembrano essere il frutto di una elaborazione teologica esterna al cristianesimo (si pensi per esempio al Libro di Enoc). La più forte resistenza ad intendere il cristianesimo come una evoluzione dell’essenismo sta proprio nel fatto che in tale supposizione il miticismo ne uscirebbe vincente. L’argomento principe dei teorici delle due fonti è espresso da Ehrman in (18) Il Vangelo di Tommaso, che si presenta quasi come una variante dei lógia, non è di per sé prova che esistesse una fonte Q; anzi, se mai è prova del fatto che si era alla ricerca della costruzione di una fonte contenente i lógia.

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questi termini: «Matteo e Luca si servirono del testo di Marco, ma porzioni consistenti dei loro vangeli non hanno alcuna relazione con i racconti di Marco». Pertanto ci si domanda: è proprio necessario supporre che quelle ‘porzioni’ presuppongano una fonte indipendente? La letteratura qumranica ci mostra come spesso testi provenienti da ispirazioni teologiche non del tutto convergenti erano incorporati in un unico progetto. Il libro apocrifo di Enoc contiene testi di datazione differente che si interfacciano fra di loro sulla base di comuni presupposti, ma anche di divergenti e non ben amalgamate visioni teologiche. Ciò è accaduto frequentemente nella letteratura ebraica fin dalla confluenza dei due filoni yhawista ed elohista; ed accade altresì in Neemia e Daniele, nelle Cronache e negli scritti maccabaici. Il che significa semplicemente che nella cultura ebraica non c’è un preciso concetto di storia o meglio non c’è un’idea di storia autonoma da una Weltanschauung teologica. La storia è materia prodotta all’interno di una concezione divina del mondo; essa perciò si arricchisce o si deforma passando da un autore all’altro, perché ciò che conta per l’ebreo è il problema del male e della salvezza; la storia e le sue vicende cambiano a seconda di come si evolve il rapporto tra il problema del male e quello della giustizia e della salvezza. Per un autore ebreo, che appartenga al passato più o meno remoto o ai tempi del cristianesimo primitivo, il problema non è quello della verità storica, ma quello della verità di una teologia che spieghi il male e giustifichi la salvezza. Qualunque manipolazione dei testi è in quest’ottica ammessa come legittima. Nella tradizione ebraica era perfettamente legittimo che il metodo di interpretazione di un testo si esplicitasse in una sua parafrasi o ampliamento. Ciò rientrava nel metodo interpretativo denominato Midrash o in alternativa all’uso del pesher. Le manipolazioni matteana e lucana di Marco sembrano rientrare nella metodologia midrashica o pescheriana. È come se Matteo e Luca, partendo dal presupposto che il testo marciano fosse ispirato, lo parafrasassero e lo ampliassero, ne smussassero le incoerenze, riempissero i vuoti ed esplicitassero il non-detto secondo una consuetudine che solitamente si applicava all’Antico Testamento. Tutto ciò, se non ha termini di paragone nella letteratura greca o romana, è invece del tutto legittimo nella letteratura ebraica. Dal punto di vista redazionale i vangeli sono un prodotto della stessa tradizione letteraria e culturale. Non v’è nessuna ragione che ci obblighi a giustificare le ‘porzioni’ di testo aggiunte sulla base di documenti che le autorizzino, anche perché ciascun autore è portatore di una propria intuizione teologica, che è in evoluzione rispetto alle proprie fonti e ovvia-

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1061

mente dipende dalla propria capacità argomentativa. Le posizioni teologiche di Luca e di Matteo divergono solo marginalmente da quelle di Marco; l’autore di Giovanni scrive in una fase più avanzata della riflessione teologica; egli conosce Paolo e, a differenza dei tre sinottici, conosce gli apporti fecondi della gnosi del secondo secolo; perciò il suo racconto è di un livello teologico più maturo. Sarebbe assurdo – e tra l’altro cadrebbero in profonda contraddizione gli esegeti – se pretendessero che le novità di Giovanni fossero autorizzate sulla base di testi risalenti al primo cristianesimo. La critica delle forme, elaborata da autori come Karl Ludwig Schmid, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann e altri, può agevolmente dar conto delle aggiunte matteane e lucane non solo in riferimento ad episodi, ma anche ai ‘detti’. Possiamo dire che essa è applicabile ad una grossissima fetta della letteratura ebraica, che spesso riproduce, come divertissement del tema principale, le variazioni che una stessa forma assume nei diversi contesti. È probabile che le forme agevolassero il consolidamento della tradizione orale o forse al contrario che la tradizione orale si sclerotizzasse nella riproduzione delle stesse forme; ciò che conta è che questa tipologia di letteratura è propria di una lingua povera e di una cultura monolitica sviluppatasi intorno a nuclei concettuali che hanno resistito nel tempo. Per la lingua ebraica in particolare non è improbabile che l’uso di forme schematizzate sia almeno in parte dipeso dalla fluttuabilità della scrittura e dalle associazioni mentali che essa suggeriva naturalmente, per il fatto che uno stesso gruppo consonantico poteva essere tradotto in vocalizzazioni diverse. Sicché all’interno di una stessa forma letteraria il medesimo gruppo consonantico poteva fornire suggestioni diverse all’autore. Se si obietta che i vangeli furono redatti in lingua greca, si può replicare che l’osservazione non perde consistenza, perché il greco di un autore di madre lingua ebraica o aramaica era naturalmente influenzato dalle associazioni di idee suggerite dalla propria lingua madre, quale che fosse il livello di radicazione della lingua sopravveniente e quale che fosse il livello di perdita delle proprie radici linguistiche. Molti semitismi possono aver avuto origine da questo fenomeno. Ma anche su questo versante occorre procedere con molta cautela, perché non pochi semitismi possono essere stati mediati dal greco della Septuaginta, oltre che da particolari concezioni maturate nella letteratura intertestamentaria o apocrifa. Tale può essere il caso di ‘figlio dell’uomo’ (aramaico barnasch), di ammona (= denaro: ebr. mammon) e così via. Soprattutto interessante è il caso delle parole che contengono un doppio senso. Mentre il doppio senso della parola ebraica può essere spiegato tenen-

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do conto del fatto che può essere stato suggerito all’autore del testo da una associazione di idee derivante dalla lingua materna, non è invece possibile il caso opposto di una parola greca il cui doppio senso non può essere retrotradotto in lingua ebraica o aramaica. Nel vangelo giovanneo il dialogo tra Gesù e Nicodemo si fonda sull’equivoco generato dal greco ἄνωθεν, che può valere sia «per la seconda volta» sia «dall’alto». Nell’affermazione di Gesù ἐὰν μή τις γεννηθῇ ἄνωθεν («Così sia, ti dico, a meno che qualcuno non sarà rinato dall’alto, non potrà vedere il regno di Dio», Gv, iii, ), ἄνωθεν dà luogo ad una possibile doppia lettura; Nicodemo, che intende ἄνωθεν nell’accezione «per la seconda volta», non comprende il senso dell’affermazione di Gesù e si chiede come sia possibile per l’uomo rientrare nel grembo materno e rinascere nuovamente; da ciò la puntualizzazione di Gesù: δεῖ ὑμᾶς γεννηθῆναι ἄνωθεν («È necessario che voi siate generati dall’alto»). È evidente che tale gioco di parole non può presentarsi nella lingua ebraica. 5.2.  La teoria delle due fonti: le argomentazioni di Bradby e di Fitzmyer Uno degli argomenti di Bradby(19) a favore della teoria delle due fonti è il seguente. A partire da quattro passi afferenti alla tripla tradizione, come (19)  E. L. Bradby, In Defence of Q, «The Expository Times», lxviii, 1957, pp. 315318, ristampato in A. J. Bellinzoni, The Two Source Hypothesis. A Critical Appraisal, Macon, Mercer, 1985, pp. 287-293. Un ulteriore tentativo di dimostrare la teoria delle due fonti è stato compiuto da Fitzmyer con un procedimento davvero singolare, il quale consiste nel dedurre che, se le pericopi in cui Matteo amplifica il testo di Marco sono assenti in Luca, evidentemente Luca lavora indipendentemente da Matteo. Tale procedimento ha tutto il sapore di un’argomentazione sofistica, anche perché non tiene conto che all’interno della presunta tripla tradizione in più di un caso Luca segue le scelte lessicali e in parte stilistiche di Matteo e quindi ne dipende. Se dovessimo continuare a ipotizzare l’esistenza di fonti insussistenti, stante l’ipotesi della indipendenza di Luca da Matteo, dovremmo postulare l’esistenza di una fonte, duplicato di Marco, che contenga tutte le varianti stilistiche e lessicali di Matteo accolte da Luca. Ma questa ipotesi sarebbe manifestamente assurda. Perciò è più razionale escludere che Luca abbia scritto indipendentemente da Matteo. Se poi ipotizziamo che la fonte Q, oltre a contenere le pericopi comuni a Matteo e a Luca, contenesse anche le varianti matteane accolte da Luca, rischiamo di cadere nell’equivoco di ritenere superfluo lo stesso testo marciano come fonte di Luca. Insomma la teoria delle fonti, supposte e mai riscontrate, somiglia molto alla tesi di coloro che dovessero sostenere l’esistenza dell’araba fenice fino a che qualcuno non provi la sua inesistenza; ma non esiste prova della non esistenza dell’inesistente.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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la violazione del sabato,(20) la parabola del seminatore,(21) la missione degli apostoli(22) e la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo,(23) si evince che in tutti e quattro i casi Matteo ci dà una versione più ampia e più completa della pericope marciana, ma in nessun caso Luca si serve delle aggiunte di Matteo: Se Luca – scrive Bradby(24) – ha avuto davanti a sé tanto Matteo quanto Marco, si può immaginare che egli abbia seguito testualmente Marco ogni volta che lo aveva a disposizione, e che abbia seguito testualmente Matteo quando non aveva Marco. Ma che cosa è accaduto quando si è trovato di fronte a versioni contrastanti di uno stesso episodio ricordato da Marco e da Matteo? Ciò che di norma dovremmo attenderci da uno storico coscienzioso è che egli segua la versione posteriore e più completa, cioè Matteo (poiché per ipotesi Luca sapeva, come sappiamo noi, che Matteo aveva incorporato il più breve vangelo di Marco nel proprio più lungo). Potremmo anche concedere che per determinati motivi letterari egli abbia potuto seguire talvolta l’uno e talvolta l’altro. Ma se troviamo, come di fatto riscontriamo nei quattro passi importanti, che la versione successiva e più ampia è costantemente respinta a favore della precedente e più breve, e che non sussiste in queste sezioni neppure un caso evidente di un brano non marciano che Luca abbia derivato da Matteo, difficilmente possiamo essere biasimati se ritorniamo, con sollievo, all’ipotesi alternativa, secondo cui in molti passi Luca ha utilizzato Marco e in molti altri Luca e Matteo hanno ciascuno per proprio conto utilizzato una fonte comune diversa da Marco, cioè la Q.

Una sintesi più completa di questa argomentazione ci è fornita da Fitzmyer,(25) il quale, per dimostrare l’indipendenza di Luca da Matteo nella tripla tradizione, ha compilato la seguente Tabella 3, relativa alla lista delle aggiunte matteane assenti in Luca.

(20)  Mc, ii, 23-28; iii, 1-6, Mt, xii, 1-15; Lc,vi, 1-11. (21)  Mc, iv, 1-20, Mt, xiii, 1-23; Lc, viii, 4-15. (22)  Mc, vi, 7-11, Mt, x, 1-42; Lc,ix, 1-5. (23)  Mc, viii, 27; ix, 1, Mt, xvi, 13-28; Lc, ix, 18-27. (24)  E. L. Bradby, In Defence of Q, cit., p. 293. (25)  J. A. Fitzmyer, S. J., To Advance the Gospel. New Testament Studies, Grand Rapids, Eerdmans, 1998, p. 17.

1064  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Tabella 3. Prospetto di Fitzmyer.

Luca iii, 22 v, 3 v, 27 vi, 4-5 viii, 18 viii, 10-11 ix, 1-5 ix, 20

Matteo iii, 17   iv, 18   ix, 9  xii, 5-7  xiii, 12  xiii, 14  x, 7    xvi, 16  

Proclamazione pubblica Chi è chiamato Pietro Matteo violazione del sabato dare in eccesso citazione di Isaia vicinanza del regno confessione di Pietro

Marco i, 11 i, 16 ii, 14 ii, 26-27 iv, 25 iv, 12 vi, 7-11 viii, 29

Per ragioni di spazio limiteremo la nostra analisi al primo caso citato da Bradby, in merito alla violazione del sabato. Marco (ii, 23-28) ci dice che Gesù e i discepoli passavano per un campo di grano e i discepoli si misero a sgranare delle spighe; protestarono i farisei, appellandosi al divieto del sabato. Gesù rispose ricordando l’esempio di Davide che di sabato, quando era sommo sacerdote Abiatar (tale riferimento storico è assente in Matteo e Luca), entrò nel tempio e mangiò i pani della presenza riservati ai sacerdoti, dicendo a: «il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato»; b: «il figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (ὥστε κύριός ἐστιν ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου καὶ τοῦ σαββάτου). Matteo (Mt, xii, 1-8) scrive che i discepoli «sgranavano e mangiavano» le spighe; poi, ispirandosi ad Osea (Os, vi, 6), ricorda che i sacerdoti nel tempio violano la legge del sabato restando incolpevoli, perché il tema della misericordia è più importante delle offerte sacrificali e, omettendo la pericope a, riproduce la pericope b nella seguente forma: «il Figlio dell’Uomo è padrone del sabato» (κύριος γάρ ἐστιν τοῦ σαββάτου ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου). La citazione di Osea è tipica dello stile di Matteo, che ama arricchire il testo sotto la suggestione dell’Antico Testamento (Mt, xii, 7). Luca (vi, 1-5) scrive: «I discepoli strappavano e mangiavano le spighe sgranandole con le mani». Più sintetico dell’uno e dell’altro, egli omette la citazione di Osea e quella marciana di Abiatar e nel contempo accoglie nello stile di Matteo la pericope b: «il Figlio dell’Uomo è padrone del sabato» κύριός ἐστιν τοῦ σαββάτου ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου. Il lógion, riportato da Luca, è identico a quello di Matteo, non a quello di Marco. Per quanto riguarda

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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il contesto invece Luca dipende tanto da Marco, quanto da Matteo, perché se è vero che non contiene le aggiunte di Matteo, è anche vero che con lui condivide le omissioni (di Abiatar e della pericope a). Inoltre la dipendenza di Luca da Matteo si evince in parte dalle sue scelte lessicali. Per es. Marco si limita a dire che i discepoli staccavano le spighe (τίλλοντες τοὺς στάχυας), Matteo (Mt, xii, 1) aggiunge che le staccavano e le mangiavano (τίλλειν στάχυας καὶ ἐσθίειν), seguito da Luca che usa la forma ἔτιλλον (staccavano) […] ἤσθιον τοὺς στάχυας (mangiavano le spighe) ψώχοντες ταῖς χερσίν (sfregandole con le mani). Ov’è da notare che le scelte lessicali ἤσθιον e ψώχοντες sono assenti in Marco e ψώχοντες è assente in Matteo). Al versetto 24 Marco usa ἔλεγον, sostituito in Matteo da εἶπαν, condiviso da Luca. Anche il verso 26 di Marco (οὓς οὐκ ἔξεστιν φαγεῖν εἰ μὴ τοὺς ἱερεῖς, καὶ ἔδωκεν καὶ τοῖς σὺν αὐτῶ οὗσιν = «Non è lecito mangiare se non ai soli sacerdoti e ne diede anche ai suoi compagni») è reso da Matteo nella forma ὃ οὐκ ἐξὸν ἦν αὐτῶ φαγεῖν οὐδὲ τοῖς μετ᾽αὐτοῦ, εἰ μὴ τοῖς ἱερεῦσιν μόνοις («che non era lecito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma ai soli sacerdoti»). Luca, a sua volta, ricorre alla forma καὶ ἔδωκεν τοῖς μετ᾽αὐτοῦ, οὓς οὐκ ἔξεστιν φαγεῖν εἰ μὴ μόνους τοὺς ἱερεῖς («ne diede agli altri, sebbene soltanto ai sacerdoti fosse lecito mangiarne) e sembra dipendere da entrambi (si vedano le espressioni τοῖς μετ᾽ αὐτοῦ di Matteo e οὓς οὐκ ἔξεστιν φαγεῖν di Marco). L’assurdità della tesi di Bradby sta nel dare un peso squilibrato alle singole parti della narrazione. Egli, come del resto gli altri teorici del dualismo, dà un peso rilevante alle variazioni minime ed uno irrilevante all’ossatura complessiva del racconto. L’episodio della violazione del sabato è riprodotto da tutti e tre gli evangelisti almeno nel suo significato di fondo; le variazioni minime sono di ordine stilistico e lessicale o comunque di richiami all’AT. Ciò che è innegabile nei testi esaminati è la dipendenza di Matteo da Marco e quella di Luca dall’uno e dall’altro. L’unica variante lessicale prettamente lucana è ψώχοντες ταῖς χερσίν; per il resto egli fonde τοῖς μετ᾽ αὐτοῦ con οὓς οὐκ ἔξεστιν φαγεῖν. Dobbiamo per ciò ipotizzare una fonte Q per darne ragione? Se lo facciamo, le fonti Q dovranno moltiplicarsi a dismisura. Il secondo episodio della violazione del sabato riguarda la guarigione nella sinagoga di un uomo con la mano paralizzata. Marco (iii, 1-6) scrive: i farisei e gli erodiani osservarono Gesù per vedere se infrangeva il divieto del sabato al fine di trarne motivo per accusarlo. Gesù, mettendo in crisi i farisei, chiese loro: «È lecito il giorno di sabato fare il bene o fare il male, salvare una vita o ucciderla?» (ἔξεστιν τοῖς σάββασιν ἀγαθὸν ποιῆσαι

1066  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini ἢ κακοποιῆσαι,ψυχὴν σῶσαι ἢ ἀποκτεῖναι). Essi tacquero e Gesù, «rattristato per la durezza del loro cuore» (συλλυπούμενος ἐπὶ τῇ πωρώσει τῆς καρδίας αὐτῶν), guarì il paralitico. Al che «i farisei uscirono subito e con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo uccidere» καὶ ἐξελθόντες οἱ φαρισαῖοι εὐθὺς μετὰ τῶν ἡρῳδιανῶν συμβούλιον ἐδίδουν κατ᾽αὐτοῦ ὅπως αὐτὸν ἀπολέσωσιν. Matteo (Mt, xii, 9-14) omette l’interrogazione dei fari-

sei da parte di Cristo e la sostituisce con un richiamo alla parabola della pecorella smarrita; poi conclude in sintonia anche formale con Marco (escluso l’accenno agli Erodiani) affermando che i farisei presero insieme la decisione di eliminarlo («i farisei, appena usciti, presero la decisione di eliminarlo» ἐξελθόντες δὲ οἱ φαρισαῖοι συμβούλιον ἔλαβον κατ᾽αὐτοῦ ὅπως αὐτὸν ἀπολέσωσιν). Luca (Lc, vi, 6-11) qualifica gli osservatori come scribi e farisei, omette come Matteo l’accenno agli erodiani e ripropone l’interrogazione di Cristo ma non rinuncia ad introdurre una variante lessicale persino nel corpo del lógion («vi pongo una domanda: in giorno di sabato è permesso di fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla?» ἐπερωτῶ ὑμᾶς, εἰ ἔξεστιν τῶ σαββάτῳ ἀγαθοποιῆσαι ἢ κακοποιῆσαι,ψυχὴν σῶσαι ἢ ἀπολέσαι). Il testo del lógion è in Luca stilisticamente diverso da quello di Marco. La sua conclusione, inoltre, non è conforme a Marco e a Matteo, poiché dice che «i farisei si infuriarono e discutevano tra loro su ciò che avrebbero potuto fare a Gesù» (αὐτοὶ δὲ ἐπλήσθησαν ἀνοίας, καὶ διελάλουν πρὸς ἀλλήλους τί ἂν ποιήσαιεν τῶ ἰησοῦ). Anche questo episodio non sembra confermare la teoria delle due fonti, perché Luca si muove con autonomia rispetto ai suoi due predecessori e non rinuncia alle sue preferenze stilistico-lessicali che talvolta lo accomunano a Matteo più che a Marco. Questi, infatti, scrive che l’uomo presente nella sinagoga «aveva la mano paralizzata» (ἐξηραμμένην ἔχων τὴν χεῖρα); lo seguono gli altri due sinottici, ma la scelta stilistica di Matteo (xii, 10: «aveva una mano paralizzata» χεῖρα ἔχων ξηράν) è più affine alla costruzione di Luca (vi, 6), che di suo aggiunge che si trattava della mano destra: «c’era là un uomo con la mano destra paralizzata» ἐκεῖ καὶ ἡ χεὶρ αὐτοῦ ἡ δεξιὰ ἦν ξηρά. Da un punto di vista strettamente filologico non si può dunque parlare di indipendenza di Luca né da Marco né da Matteo. È comunque evidente dall’analisi appena condotta che la struttura lessicale e stilistica dei testi è assai più complessa di quanto le teorie dualistiche facciano pensare. La dottrina dualistica è solo un aprioristico schema concettuale che funziona solo nel suo astratto apriorismo; quando è calata nel groviglio della costruzione dei testi rivela tutta la sua fragilità.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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In generale possiamo dire che Luca tende a ripristinare l’ordine della materia suggerito da Marco, ma nella struttura delle singole pericopi è sempre difficile stabilire se assume come modello Marco o Matteo; spesso anzi altera con aggiunte o con tagli il testo di entrambi e quasi sempre le sue scelte stilistiche sono autonome. Se pensiamo che ciò accade anche in riferimento ai detti di Cristo, possiamo arguire che non è mai esistita una fonte Q che li contenesse. Se infatti fosse esistita, la trascrizione dei lógia sarebbe stata rigorosa, poiché nessuno avrebbe osato modificarne la forma. Insomma il rapporto tra i tre vangeli all’interno della tripla tradizione è assai più complesso di quanto credano Bradby e i teorici delle due fonti. Bisogna tuttavia guardarsi dal credere, come fa il gesuita Fitzmyer,(26) che le incoerenze tra i sinottici possano ricondursi sic et simpliciter alle presunte aggiunte matteane; indubbiamente queste ci sono e sono anche frequenti; ma lo stesso accade per Luca. Ci fa comodo puntare il dito su quelle matteane perché sono ritenute funzionali alla teoria delle due fonti, ma il rischio che si corre è quello di cadere in una tautologia o nel vizio logico dell’hýsteron-próteron: una volta ammessa l’indipendenza di Luca da Matteo, si tenta surrettiziamente di far dipendere le incoerenze dei testi dalle presunte aggiunte o varianti di Matteo. Gli esempi citati da Fitzmyer possono essere illuminanti. Le pericopi matteane – egli dice – sono più ampie di quelle marciane. Ne sono esempi l’esclusione del divorzio, la promessa di Gesù a Pietro, assente in Marco, l’episodio di Gesù che cammina sulle acque che si riferisce solo a Cristo, ma che Matteo vuole imitato da Pietro),(27) e i peculiari episodi matteani del racconto della passione (la morte di Giuda; il terremoto e la resurrezione dei santi, Mt, xxvii, 3-10; xxvii, 51-66). In tutti questi casi Luca non accoglie gli accrescimenti matteani. In realtà in tema di esclusione del divorzio, manca in Luca (Lc, xvi, 18) tutto il contesto marciano-matteano relativo ai farisei che interrogano subdolamente Cristo per segnalarne la lontananza dalla Legge mosaica (Mc, x, 1-10 e Mt, xix, 1-8). Va poi detto che l’indissolubilità del matrimonio è proclamata con alcune varianti in ciascuno dei tre sinottici. Marco esplicita l’adulterio sia sul versante maschile (è adultero l’uomo che sposa un’altra donna) che su quello femminile (è adultera la donna che sposa un altro uomo). Matteo è più conciso: salvo che lo scioglimento del matrimonio non sia con(26)  J. A. Fitzmyer, S. J., To Advance the Gospel, cit.,pp. 3-40. (27)  Mt, xix, 9, rispetto a Mc, x, 11; Mt, xvi, 16-19, rispetto a Marco che chiude con viii, 29; Mt, xiv, 28-31, rispetto a Mc, vi, 50.

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seguente ad una unione illegale, ritiene adultero l’uomo che sposa un’altra donna. Luca reputa adulterio non solo il caso dell’uomo che sposa un’altra donna, ma anche quello dell’uomo che sposa una donna ripudiata. Qui i tre sinottici sembrerebbero l’uno indipendente dall’altro, ma in effetti non è così perché ciascuno arricchisce la casistica dell’adulterio, ben tenendo presente ciò che è stato detto dai suoi predecessori. Matteo rettifica Marco, puntualizzando che è escluso dall’adulterio colui che è vittima di una unione illegale; Luca specifica in più che l’adulterio si estende anche a colui che, pur non ripudiando la moglie, si unisce ad una donna adultera. L’episodio di Pietro che cammina sulle acque, dovuto ad una superfetazione di Matteo (xiv, 28-33), è fortemente sospetto, perché forse in esso si profila un’ulteriore metafora del primato di Pietro, capace di operare come il Cristo, se è da Lui assistito. Se è così, v’è da sospettare una probabile interpolazione successiva. Il passo matteano è comunque assente in Marco (vi, 4552) ed è altresì ignorato da Luca. L’episodio della morte di Giuda (Mt, xxvii, 3-10) non prova nulla perché manca tanto in Marco quanto in Luca e dipende dalla propensione di Matteo a reinterpretare l’AT in funzione del Nuovo; infatti nella sua ottica la fine di Giuda è adempimento di Geremia e di Zaccaria (Jr, xviii, 2-3; Zc, xi, 12-13). Circa il terremoto e la resurrezione dei santi (Mt, xxvii, 51-53) va detto che ciascuno dei sinottici propone fenomeni prodigiosi che tengono seguito allo spirare del Cristo. La versione di Marco e di Matteo allude ad un’eclisse solare dalla sesta all’ora nona («giunta la sesta ora si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona» καὶ γενομένης ὥρας ἕκτης σκότος ἐγένετο ἐφ᾽ ὅλην τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης. Così in Matteo (Mc, xv, 33-41; Mt, xxvii, 45-56): «dall’ora sesta fino alla nona si fece buio su tutta la terra» ἀπὸ δὲ ἕκτης ὥρας σκότος ἐγένετο ἐπὶ πᾶσαν τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης). Luca (xxiii, 44-45) scrive: «ed era ormai quasi la sesta ora e si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona» καὶ ἦν ἤδη ὡσεὶ ὥρα ἕκτη καὶ σκότος ἐγένετο ἐφ᾽ὅλην τὴν γῆν ἕως ὥρας ἐνάτης, ma aggiunge una spiegazione astronomica: «il sole si eclissò e il velo del tempio si squarciò a metà» τοῦ ἡλίου ἐκλιπόντος, ἐσχίσθη δὲ τὸ καταπέτασμα τοῦ ναοῦ μέσον. Lo squarcio del velo del tempio è posposto da Marco e da Matteo «e il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso» = καὶ τὸ καταπέτασμα τοῦ ναοῦ ἐσχίσθη εἰς δύοἀπ᾽ἄνωθεν ἕως κάτω; («ed ecco il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso, la terra tremò e le rocce si spaccarono» = καὶ ἰδοὺ τὸ καταπέτασμα τοῦ ναοῦ ἐσχίσθη ἀπ᾽ ἄνωθεν ἕως κάτω εἰς δύο, καὶ ἡ γῆ ἐσείσθη, καὶ αἱ πέτραι ἐσχίσθησαν, Mc, xv, 38; Mt, xxvii, 51). La coda della pericope matteana manca in Luca, il quale tuttavia si

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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allontana stilisticamente (ἐσχίσθη […] μέσον) da Marco e da Matteo (ἐσχίσθη ἀπ᾽ἄνωθεν ἕως κάτω εἰς δύο). Di tali fenomeni prodigiosi non troviamo traccia in Giuseppe Flavio che pure descrive con ricchezza di dettagli il trionfo dei flavi (BJ, vii, 116-162) in cui nello sfarzo dei bottini depredati erano esibiti i tesori sottratti al tempio di Gerusalemme, la menorah, la tavola d’oro della presenza dei pani, il candelabro d’oro, una copia della Legge e i «velari color porpora» del santuario gerosolimitano. Divergenti sono anche le versioni relative alle ultime parole di Cristo sulla croce. Secondo Marco e Matteo esprimono il dolore dell’abbandono («Dio, Dio, perché mi hai abbandonato» (Marco: ελωι ελωι λεμα σαβαχθανι; Matteo: ηλι ηλι λεμα σαβαχθανι). Secondo Luca (xxiii, 44-49) invece il Cristo avrebbe detto: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (πάτερ, εἰς χεῖράς σου παρατίθεμαι τὸ πνεῦμά μου). Contrastanti sono anche le versioni sulle presenze. Secondo Marco e Matteo (Mc, xv, 35-36; Mt, xxvii, 47-49) gli astanti pensarono che Cristo avesse invocato Elia; gli diedero da bere una spugna impregnata di aceto e ironizzarono su Elia dicendo: ‘vediamo se Elia viene a salvarlo’. Entrambi questi episodi sono assenti in Luca. Secondo Marco (Mc, xv, 40-41) le donne presenti, che «osservavano da lontano» (ἀπὸ μακρόθεν θεωροῦσαι) erano Maria di Magdala, Maria, madre di Giacomo il Minore e di Ioses, Salome (Μαρία ἡ Μαγδαληνὴ καὶ Μαρία ἡ Ἰακώβου τοῦ μικροῦ καὶ Ἰωσῆτος μήτηρ καὶ Σαλώμη), le donne che lo seguivano fin dalla Galilea e molte altre (αἳ ὅτε ἦ νἐντῇ Γαλιλαίᾳ ἠκολούθουν αὐτῷ καὶ διηκόνουν αὐτῷ καὶ ἄλλαι πολλαὶ). Matteo (xxvii, 55-56) parla di «molte donne» (γυναῖκες πολλαὶ), non nomina Salome, ma aggiunge Maria, madre dei figli di Zebedeo (Μαρία ἡ Μαγδαληνὴ καὶ Μαρία ἡ τοῦ Ἰακώβου καὶ Ἰωσὴφ μήτηρ καὶ ἡ μήτηρ τῶν υἱῶν Ζεβεδαίου) e le donne che lo avevano seguito dalla Galilea per servirlo (αἵ τινες ἠ κολούθησαν τῷ Ἰησοῦ ἀπὸ τῆς Γαλιλαίας διακονοῦσαι αὐτῷ). Luca si mantiene sul generico, accenna alle folle, ai conoscenti di Gesù (εἱστήκεισαν δὲ πάντες οἱ γνωστοὶ αὐτῶ) e alle donne che lo seguivano dalla Galilea (καὶ γυναῖκες αἱ συνακολουθοῦσαι αὐτῶ ἀπὸ τῆς γαλιλαίας) e che osservavano tutto da lontano (ἀπὸ μακρόθεν […] ὁρῶσαι ταῦτα). Ancora una volta non solo le sue preferenze lessicali e stilistiche, ma anche quelle contenutistiche, segnano un distacco da entrambi i predecessori.

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5.3.  La teoria delle due fonti: le argomentazioni di Downing Nel suo saggio «Towards the Rehabilitation of Q» Francis Gerald Downing(28) per dimostrare la teoria delle due fonti prende in esame i seguenti passi: la proclamazione del Battista,(29) la controversia con Beelzebub,(30) la missione dei Dodici(31) e la cosiddetta apocalisse sinottica.(32) Per agevolarsi il compito egli divide il testo matteano in tre tipologie di materiali; il materiale A in cui Matteo segue molto da vicino Marco; il materiale B, in cui Matteo presenta affinità con Marco; e il materiale C, specifico di Matteo. L’obiettivo è lo stesso di Fitzmyer: se le estensioni di Matteo non compaiono in Luca, questi non ne dipende. Il problema è che tali interventi chirurgici riescono bene nell’astrazione teorica, ma nella realtà si rivelano assai più complessi, perché assai più spesso di quanto si creda i materiali non sono così nettamente distinguibili. L’esistenza di un materiale A potrebbe rivelarsi una finzione, perché dalle analisi che abbiamo compiuto è facile rendersi conto che anche nei più fedeli ricalchi Matteo introduce sempre – e direi inevitabilmente – alcunché di suo o nella scelta linguistica o nelle preferenze stilistiche o nella utilizzazione delle fonti dell’AT. Di fatto non esiste un vero e proprio materiale A, perché anche quando procedono in perfetta sintonia sotto il profilo narratologico, i due testi subiscono comunque una curvatura individualizzante della quale è responsabile l’autore che reca con sé il proprio bagaglio culturale e letterario. In apparenza sembra più semplice ammettere un materiale B, ma anche qui, se si pone attenzione alla complessità dell’operazione, ci si accorge di camminare sulle sabbie mobili. Che cosa significa dire di un testo che ha affinità con un altro? Non è forse evidente che anche in questo caso ci stiamo ritagliando un materiale fittizio? Se diciamo che è affine, diciamo nello stesso tempo che non lo è; se infatti fosse testualmente identico al testo di Marco, lo classificheremmo come materiale A e non B. Perché non lo facciamo? Perché sappiamo che esso contiene anche discordanze che tentiamo di nascondere a noi stessi. Un passo affine a Marco può essere evidentemente un passo (28)  F. G. Downing, Towards the Rehabilitation of Q, «New Testament Studies», xi, 1965, pp. 169-181. (29)  Mt, iii, 1-4; xi; Mc, i, 1-13; Lc, iii, 1-22; iv, 1-13. (30)  Mt, xii, 22-45; Mc, iii, 20-29; Lc,xi, 14-26. (31)  Mt, ix, 35-10: 16; Mc, vi, 13-19; vi, 6- 11, 34; Lc, ix, 1-5; vi, 13-16; x, 1-12. (32)  Mt, xxiv, 4-26; Mc, xiii, 5-37; Lc, xxi, 8-36.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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in cui non mancano talune scelte matteane che magari arbitrariamente riteniamo secondarie. Il problema è che Downing sembra concepire i tagli arbitrari all’interno di un testo solo su base contenutistica, ma occorre rendersi conto che assai più rivelativa è la struttura grammaticale, linguistica e stilistica del tessuto narrativo. Ed è chiaro che sotto questo profilo la connotazione concettuale del materiale B rischia di perdersi. Più corretta dovrebbe essere invece la delimitazione concettuale del materiale C. Quest’ultimo si riferisce specificamente al contenuto presente in Matteo ed assente in Marco. Tuttavia questa specificità va vagliata scrupolosamente, perché di per sé non sembra rinviare necessariamente ad una fonte occulta. Anzi a rigore l’invocazione di una fonte a noi ignota contraddice la natura concettuale del materiale C, che è tale proprio per essere specifico di Matteo. Per di più: le prove negative, come quelle cui ricorre Downing, non sono mai scientificamente inconfutabili. Noi non sappiamo perché Luca non attinge il materiale proprio di Matteo ed attinge invece quello presumibilmente presente in Q. Gli accrescimenti matteani comprendono sia l’uno che l’altro materiale. Perché mai Q dovrebbe contenere solo il materiale β e non anche il materiale ζ. Ma per giustificare fino in fondo le varianti e gli accrescimenti lucani, Q dovrebbe contenere, oltre al materiale β, anche il materiale η (se si vuole risparmiare un’ulteriore moltiplicazione di fonti) e dovrebbe essere priva dei materiali ζ. Insomma Q dovrebbe contenere una strana e strampalata versione di Matteo, arbitrariamente diviso in una fetta condivisa da Luca e in una fetta lasciata cadere. Eppure le due porzioni matteane presentano una unità di stile ed un bagaglio lessicale tali da non giustificare alcuna frattura interna. Ed è in questo l’artificiosità della costruzione della fonte Q. Se entriamo nella logica secondo cui i testi evangelici sono stati elaborati come tutti i testi di questo mondo, evidentemente siamo più propensi a comprendere che nella narrazione di un mito o, se si vuole, di una vicenda storica, ogni autore dà il proprio apporto narrativo secondo il proprio progetto o programma ideologico e che in ogni testo esiste inevitabilmente una componente specifica che dipende dalla complessa personalità dell’autore; ciò vale tanto per il materiale C quanto per tutto il resto del documento. La specificità di Matteo sta nella lettura tipica dell’AT con i conseguenti riflessi sulla costruzione del mito o comunque della storia del Cristo; la specificità di Luca sta nella aspirazione a costruire una cornice storica e cronologicamente coerente in modo da dare alla narrazione evangelica la stessa autorevolezza della storiografia romana e greca. A differenza di Matteo, il suo sguardo è rivolto ai testi storici; l’auto-

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re di Luca, che è certamente uomo di più raffinata formazione rispetto a Marco e a Matteo, è assai meno interessato alla interpretazione tipologica dell’AT, tanto più che tale operazione di rivisitazione della tradizione era già stata condotta e completata parzialmente da Marco e più scrupolosamente da Matteo. Ma al tempo in cui Luca scrive – certamente dopo la rivolta di Bar Kochba – il materiale storiografico sulla Palestina del secolo precedente era piuttosto scarso; l’unico sicuro punto di riferimento era Giuseppe Flavio. Anche gli autori di Marco e Matteo, che, a causa della diaspora, vivono in un ambiente geografico e culturale ormai estraneo alla Palestina, utilizzano con molta cautela e prudenza gli scritti flaviani; soprattutto evitano il più possibile di cadere nel tranello di stabilire dati cronologici puntuali; perciò la loro narrazione è come sospesa in un tempo indefinito. Marco non ha nessuna coordinata temporale, salvo quella di ritenere che la predicazione del Cristo iniziò dopo la decapitazione del Battista. Matteo è altrettanto vago, ma forse, pressato dalle insistenze della sua stessa comunità, nel tentativo di colmare le lacune più vistose sulla vita del Cristo, ne fissò la nascita – non senza qualche contraddizione – negli ultimi anni di Erode il Grande. In merito alle tentazioni di Satana Downing scrive:(33) Se Luca ha davanti a sé Marco e Matteo è abbastanza ovvio che usa solo Matteo. Egli riproduce il materiale C di Matteo quasi per intero; e dove Matteo ha affinità con Marco egli è molto più vicino a Matteo che a Marco. Matteo conserva il contesto marciano, limitandosi semplicemente a spostare la chiamata dei Dodici che in Marco precedeva immediatamente l’alterco con Beelzebul; anche Luca conserva il contesto marciano, ma non ha significative affinità indipendenti da Marco. Se Luca ha davanti a sé Marco e Matteo è abbastanza ovvio che usa solo Matteo. Ma usa veramente Matteo? Abbiamo osservato che Luca non usa nessuno dei materiali A, nessun materiale in cui Matteo riproduce con puntuale precisione Marco. Egli utilizza la maggior parte del materiale C (solo Matteo), e una gran fetta di materiale B, che in gran parte, abbiamo suggerito, potrebbe essere stato in origine solidale con il materiale C nella fonte di Matteo. Luca, infatti, sembra utilizzare materiale estraneo a Matteo senza ovviamente le aggiunte marciane. Ma materiale estraneo a Matteo senza le aggiunte marciane non è il Vangelo di Matteo, è un’altra fonte (s) di Matteo. (33)  F. G. Downing, Towards the Rehabilitation of Q, cit, p. 177.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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Vediamo di raccapezzarci in questo guazzabuglio ed accostiamoci ai testi. Premetto che la dipendenza di Luca da Matteo per quanto riguarda la Iesu tentatio (Mt, iv, 1-11; Lc, iv, 1-13) è talmente forte che negarla significa negare i più elementari principi della filologia. Il testo di Marco (i, 12-13) che si compone di soli due versetti è talmente striminzito che non può assolutamente costituire la fonte delle più corpose pericopi, matteana e lucana. Che il testo sia originario di Matteo si evince dal fatto che il passo è comprensibile solo nel riferimento al Deuteronomio (viii, 3; vi, 13 e 16), tant’è che Matteo lo ha costruito sulla sua base. D’altro canto si tratta di uno dei passi contenutisticamente più fragili dei sinottici; in primo luogo perché la tentatio, avvenuta nel deserto, non ebbe ovviamente testimoni, sicché la ricostruzione della disputa con Satana è frutto di immaginazione dell’evangelista, che non a caso attinge dal Deuteronomio; in secondo luogo non si capisce perché lo Spirito Santo (e questo vale per tutti e tre gli evangelisti) abbia spinto il figlio di Dio nel deserto per essere tentato da Satana; probabilmente gli autori contano di suggestionare il lettore credente presentando il Messia come vincitore della potenza e dell’astuzia di Satana. Ma questo significa puntare sulla dabbenaggine. La pericope lucana è pressoché una copia testuale di quella matteana e presenta, come al solito, le poche varianti lucane che sono dovute a diverse scelte lessicali e stilistiche. Almeno in questo caso non v’è alcuna necessità di invocare una fonte Q, comune a Matteo e a Luca, perché è evidente che il passo è una palese costruzione di Matteo. Se mettiamo a confronto i versetti 1 di Matteo e 12 di Marco, possiamo studiare il comportamento di Luca. Scrive Marco: «E subito lo Spirito lo spinse nel deserto e nel deserto rimase per quaranta giorni tentato da Satana» (καὶ εὐθὺς τὸ πνεῦμα αὐτὸν ἐκβάλλει εἰς τὴν ἔρημον. καὶ ἦν ἐν τῇ ἐρήμῳ τεσσεράκοντα ἡμέρας πειραζόμενος ὑπὸ τοῦ σατανᾶ). Matteo scrive: «In seguito Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito affinché fosse tentato dal diavolo; dopo quaranta giorni e quaranta notti di digiuno ebbe fame» (τότε ὁ ἰησοῦς ἀνήχθη εἰς τὴν ἔρημον ὑπὸ τοῦ πνεύματος, πειρασθῆναι ὑπὸ τοῦ διαβόλου. καὶ νηστεύσας ἡμέρας τεσσεράκοντα καὶ νύκτας τεσσεράκοντα ὕστερον ἐπείνασεν). Come si vede Matteo introduce varianti lessicali e con-

tenutistiche nel testo marciano. Come si comporta Luca in proposito? Egli scrive: «Gesù, pieno di Spirito Santo, lasciò il Giordano» ἰησοῦς δὲ πλήρης πνεύματος ἁγίου ὑπέστρεψεν ἀπὸ τοῦ ἰορδάνου [trattasi di lapalissiana aggiunta lucana] e fu indotto dallo Spirito nel deserto (καὶ ἤγετο ἐν τῶ πνεύματι ἐν τῇ ἐρήμῳ), dove rimase quaranta giorni, tentato dal diavolo. Per tutti que-

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sti giorni non mangiò nulla e alla fine ebbe fame» (ἡμέρας τεσσεράκοντα

πειραζόμενος ὑπὸ τοῦ διαβόλου. καὶ οὐκ ἔφαγεν οὐδὲν ἐν ταῖς ἡμέραις ἐκείναις, καὶ συντελεσθεισῶν αὐτῶν ἐπείνασεν).

È evidente che Luca si serve contemporaneamente di Marco e di Matteo; ha in comune con Marco i quaranta giorni senza menzionare le quaranta notti, trae da Marco il participio πειραζόμενος, e da Matteo il complemento d’agente ὑπὸ τοῦ διαβόλου e l’aoristo ἐπείνασεν). A questo punto il testo di Marco è concluso, ma Matteo prosegue: «E accostandosi (προσελθὼν) il tentatore (ὁ πειράζων) gli dice: ‘se sei il figlio di Dio, di’ a queste pietre di trasformarsi in pani’ (ἵνα οἱ λίθοι οὖτοι ἄρτοι γένωνται). Rispondendo (ἀποκριθεὶς), Gesù gli disse (εἶπεν): ‘sta scritto (γέγραπται): non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio». Luca scrive: «disse (εἶπεν) a lui il diavolo: ‘se sei il figlio di Dio, di’ a questa pietra di diventare pane (ἵνα γένηται ἄρτος) e rispose (ἀπεκρίθη) a lui Gesù: ‘sta scritto (γέγραπται) che non di solo pane vive l’uomo». È chiaro che Luca continua ad avere l’occhio sul testo di Matteo, se non altro perché l’episodio è assente in Marco. Che l’aggiunta sia matteana si evince dal fatto che la citazione veterotestamentaria rientra nella fisionomia della scrittura matteana. Naturalmente ci sono le solite varianti stilistiche e lessicali di Luca, c’è la decurtazione della citazione deuteronomistica, ma qua e là c’è l’uso degli stessi verbi che tradisce la dipendenza da Matteo. È necessario per questo invocare una fonte Q da cui traggono Matteo e Luca? A quale scopo? Si può dire: avremmo il vantaggio di spiegare le divergenze tra i due testi. Ma ovviamente c’è da chiedersi: questa presunta fonte Q dobbiamo pensarla testualmente più vicina al testo matteano o a quello lucano? È evidente che, quale delle due ipotesi caldeggiamo, il problema rimane irrisolto, perché comunque ci resterebbe da spiegare le difformità tra i due testi. Potremmo presumere che Q stia come dire nel mezzo; per un verso prossima a Matteo, per l’altro a Luca. Ma ancora una volta non abbiamo risolto il problema, poiché in ogni caso ci incombe il compito di spiegare perché l’uno e l’altro autore si siano allontanati qua e là da Q. Non è invece più semplice e più razionale imboccare la strada maestra e meno cervellotica ed ammettere che ciascuno dei due autori che scrive dopo Marco si permette la libertà di aggiustare il testo secondo i propri gusti letterari e secondo i propri obiettivi più o meno facilmente individuabili? La soluzione più cristallina è che Matteo è intervenuto sul testo di Marco, quasi sempre, o con semplici scelte lessicali e con alternative costruzioni grammaticali o con aggiunte contenutistiche che

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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rispondevano al suo progetto narrativo o alle aspettative della comunità da cui egli proveniva. E se riconosciamo che lo stesso può aver fatto Luca sui testi di Marco e di Matteo, il problema delle fonti svanisce. Allo stesso risultato giungiamo, se proseguiamo l’esame della tentatio e mettiamo a confronto Matteo (iv, 5-7: «Poi il diavolo lo portò nella città santa e lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: se sei il figlio di Dio, gettati giù. Sta scritto infatti: che comanderà ai suoi angeli per te; essi ti sorreggeranno con le loro mani; non urterai con il tuo piede neppure una pietra. Gesù rispose: ‘sta pure scritto: non sfidare il Signore Dio tuo’»; τότε παραλαμβάνει αὐτὸν ὁ διάβολος εἰς τὴν ἁγίαν πόλιν, καὶ ἔστησεν αὐτὸν ἐπὶ τὸ πτερύγιον τοῦ ἱεροῦ, καὶ λέγει αὐτῶ, εἰ υἱὸς εἶ τοῦ θεοῦ, βάλε σεαυτὸν κάτω· γέγραπται γὰρ ὅτι τοῖς ἀγγέλοις αὐτοῦ ἐντελεῖται περὶ σοῦ καὶ ἐπὶ χειρῶν ἀροῦσίν σε, μήποτε προσκόψῃς πρὸς λίθον τὸν πόδα σου. ἔφη αὐτῶ ὁἰησοῦς, πάλιν γέγραπται, οὐκἐκπειράσεις κύριον τὸν θεόν σου) e Luca (iv, 9-10: «Lo

condusse a Gerusalemme e lo fece sostare sul pinnacolo del tempio; poi gli disse:’se sei il figlio di Dio, gettati giù. Infatti sta scritto che comanderà ai suoi angeli per te affinché ti proteggano; essi ti sorreggeranno con le loro mani e non urterai con il tuo piede neppure una pietra. Rispondendo Gesù gli disse: ‘è stato anche detto: non sfidare il Signore Dio tuo’»;

ἤγαγεν δὲ αὐτὸν εἰς ἰερουσαλὴμ καὶ ἔστησεν ἐπὶ τὸ πτερύγιον τοῦ ἱεροῦ, καὶ εἶπεν αὐτῶ, εἰ υἱὸς εἶ τοῦ θεοῦ, βάλε σεαυτὸν ἐντεῦθεν κάτω· γέγραπται γὰρ ὅτι τοῖς ἀγγέλοις αὐτοῦ ἐντελεῖται περὶ σοῦ τοῦ διαφυλάξαι σε, καὶ ὅτι ἐπὶ χειρῶν ἀροῦσίν σε μήποτε προσκόψῃς πρὸς λίθον τὸν πόδα σου. καὶ ἀποκριθεὶς εἶπεν αὐτῶ ὁ ἰησοῦς ὅτι εἴρηται, οὐκ ἐκπειράσεις κύριον τὸν θεόν σου).

A prescindere dal fatto che il pinnacolo fa venire in mente l’idea di una probabile reminiscenza egesippiana relativa alla morte di Giacomo, a dispetto delle poche varianti, la dipendenza di Luca da Matteo è evidente, anche perché le citazioni bibliche (Dt, viii, 3; vi, 13; Sal, xci, 11-12) sono le stesse suggerite da Matteo. Non diversa la situazione dei versetti 8-11 di Matteo e 5-7 di Luca. Scrive Matteo: «Ancora il diavolo lo condusse (πάλιν παραλαμβάνει αὐτὸν) su un alto monte (εἰς ὄρος ὑψηλὸν λίαν) e gli mostrò (δείκνυσιν) tutti i regni della terra (τοῦ κόσμου) e la loro gloria (τὴν δόξαν αὐτῶν). E gli disse (εἶπεν αὐτῶ): ‘tutto questo ti darò (ταῦτά σοι πάντα δώσω), se tu, prostrato, ti inchinerai davanti a me’ (ἐὰν πεσὼν προσκυνήσῃς μοι). Poi Gesù gli dice (λέγει αὐτῶ): ‘Vattene Satana! Sta scritto: (γέγραπται) ‘adorerai (προσκυνήσεις) il Signore Dio tuo e onorerai lui soltanto’ (αὐτῶ μόνῳ λατρεύσεις). Allora il diavolo lo lasciò

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ed ecco che gli si avvicinarono gli angeli e lo servivano». Scrive Luca: «E lo condusse in alto (ἀναγαγὼν: in alcuni manoscritti: εἰς ὄρος ὑψηλὸν) e gli mostrò (ἔδειξεν) tutti i regni della terra (τῆς οἰκουμένης) in un istante (ἐν στιγμῇ χρόνου) e il diavolo gli disse (εἶπεν): ‘Ti darò (σοὶ δώσω) tutto il loro potere (τὴν ἐξουσίαν ταύτην ἅπασαν) e tutta la loro gloria (καὶ τὴν δόξαν αὐτῶν), poiché essa è stata data a me (ἐμοὶ παραδέδοται) e la do a chi voglio (ἐὰν θέλω δίδωμι αὐτήν). Perciò se tu ti inchinerai davanti a me (ἐὰν προσκυνήσῃς ἐνώπιον ἐμοῦ), saranno tutti tuoi’ (ἔσται σοῦ πᾶσα). E Gesù, rispondendo (ἀποκριθεὶς), gli disse (εἶπεν): ‘Sta scritto (γέγραπται): adorerai (προσκυνήσεις) il Signore Dio tuo e onorerai lui soltanto’» (αὐτῶ μόνῳ λατρεύσεις). Come si vede il testo di Luca risulta ridondante rispetto a quello di Matteo. Ciò però non significa che Luca sia indipendente da Matteo, perché l’episodio, con i suoi riferimenti veterotestamentari, è ancora una volta ascrivibile alle strategie narratologiche di Matteo. Luca si limita ad arricchirlo e a dargli una veste letteraria più elegante. In ogni caso, al di là delle varianti da lui introdotte, nelle parti contenutisticamente condivise, sussistono sul piano lessicale sia la dipendenza (τὴν δόξαν αὐτῶν, εἰς ὄρος ὑψηλὸν, προσκυνήσῃς, αὐτῶ μόνῳ λατρεύσεις), sia le divergenze (παραλαμβάνειvs ἀναγαγὼν; τοῦ κόσμου vs. τῆς οἰκουμένης). Ma la presenza di tali fluttuazioni nel testo, giustifica forse l’ipotesi di una fonte Q? La giustificherebbe, se ci trovassimo di fronte a divergenze radicali e confliggenti. Ma finché siamo sul terreno del gusto stilistico e di parafrasi dell’un testo da parte dell’altro, la tesi della doppia fonte non ci conduce ad alcun risultato evidente e inconfutabile. Se ci chiediamo qual è il materiale A o B o C nelle pericopi della tentatio, rischiamo di frantumare il testo di ciascuno dei due vangeli (Matteo e Luca) in frammenti difficilmente componibili, ma soprattutto del tutto inutilizzabili ai fini di una ricostruzione della pretesa fonte Q. Qual è il materiale A (Matteo=Marco)? Cominciamo col dire che i versetti 12-13 di Marco e 1-2 di Matteo non costituiscono materiale A, perché tra essi non c’è corrispondenza letterale. Potrebbero essere materiale B (Matteo equivalente a Marco); questa ipotesi può esserci utile solo per giustificare le varianti lessicali di Matteo rispetto a Marco. Il guaio è che tra i due testi si inseriscono elementi frammentari di Matteo che non appartengono a Marco e che affluirebbero quindi al materiale C. Ma dovremmo prendere in considerazione anche un ulteriore materiale D che è di Marco e non è presente in Matteo e talvolta neanche in Luca. Così possiamo classificare come materiale C le seguenti frasi di Matteo πειρασθῆναι ὑπὸ τοῦ διαβόλου; καὶ νύκτας τεσσεράκοντα;

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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ὕστερον ἐπείνασεν e come materiale D le seguenti di Marco: ἦν μετὰ τῶν θηρίων, καὶ οἱ ἄγγελοι διηκόνουν αὐτῶ.

D’altra parte come possiamo considerare dettagli anche apparentemente banali, come τότε (allora) in Matteo, a cui fa riscontro in Marco καὶ εὐθὺς (e subito)? Essi incidono evidentemente sulla cronologia del racconto. E poi come considerare la discrepanza tra νηστεύσας nēstéusas = digiunò (Matteo) e πειραζόμενος peirazómenos = tentato (Marco)? A quale materiale li ascriviamo, a B o a C? Giacché dire ‘dopo’ o ‘a quel tempo’ invece di ‘subito’ non è una semplice affinità; tanto meno lo è parlare di tentazioni ‘per quaranta giorni’ e di ‘digiuno per quaranta giorni’. Qual è il preciso confine tra l’affinità e l’estraneità? E quale il confine tra l’affinità e l’identità testuale? Se la nostra analisi è rigorosa e disinteressata, se non ha obiettivi precostituiti, non possiamo non renderci conto che l’ipotesi di una fonte Q ci aiuta ben poco se non proprio per nulla. Tralascio di argomentare contro le tesi di Wallace,(34) poiché non si distaccano da quelle di Downing e di Fitzmyer. 5.4.  Stein e gli adempimenti scritturali Robert H. Stein(35) fa notare che la formula matteana «questo è accaduto per adempiere […]» non è riprodotta da Luca, il quale preferisce la formula marciana «sta scritto» (γέγραπται). Va però osservato che le dichiarazioni di adempimenti delle sacre scritture sono molto più numerose in Matteo (19) e in Luca (12) che in Marco (9).(36) Inoltre va detto che la forma concisa γέγραπται presenta 7 occorrenze in Marco, 9 in Matteo e 8 in Luca.(37) L’altro sintagma di Marco («Avete letto questa scrittura» τὴν γραφὴν ταύτην ἀνέγνωτε) sembra influenzare Matteo («Non avete mai letto nelle scritture?» οὐδέποτε ἀνέγνωτε ἐν ταῖς γραφαῖς; «Non avete letto ciò che Dio (34) D. Wallace, The Synoptic Problem, accessibile via internet (35)  R. H. Stein, The Synoptic Problem: An Introduction, Grand Rapids, Baker, 1987. (36)  Mc, i, 2; vii, 6; ix, 12, 13; xi, 17; xii, 10; xiv, 21, 27, 49; Mt, ii, 15, 17, 23; iii, 3; iv, 14; viii, 17; xi, 10; xii, 17; xiii, 14, 35; xv, 7; xxi, 4, 42; xxii, 31; xxiv, 15; xxvi, 31, 54, 56; xxvii, 9; Lc, ii, 23; iii, 4; iv, 17; xviii, 31; xix, 46; xx, 17, 37, 42; xxi, 22; xxii, 37; xxiv, 27, 44; Gv, i, 23; ii, 17; vi, 45; vii, 38, 42; x, 34; xii, 14, 37, 41; xiii, 18; xvii, 12; xviii, 9; xix, 22, 28, 36; xx, 9. (37)  Mc, i, 2; vii, 6; ix, 12, 13; xi, 17; xiv, 21, 27; Mt, ii, 5; iv, 4, 6, 7, 10; xi, 10; xxi, 13; xxvi, 24, 31; Lc, ii, 23; iv, 4, 8, 10; vii, 27; x, 26; xix, 46; xxiv, 46.

1078  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

vi ha detto?» οὐκ ἀνέγνωτε τὸ ῥηθὲν ὑμῖν ὑπὸ τοῦ θεοῦ λέγοντος)(38) e non avere riscontri in Luca. Infine il sintagma marciano (xiv, 49: «affinché si realizzino le scritture» ἵνα πληρωθῶσιν αἱ γραφαί) è riutilizzato da Matteo xxvi, 54, 56, e del tutto ignorato da Luca. Ne è una variante «affinché si realizzi la parola» ἵνα πληρωθῇ τὸ ῥηθὲν che è assai frequente in Matteo.(39) Più variegato il formulario di Luca, che è del tutto autonomo da Marco e da Matteo. Le sue espressioni sono: «Come è scritto nel libro di Isaia il profeta», ὡς γέγραπται ἐν βίβλῳ λόγων ἠσαΐου τοῦ προφήτου; «gli fu consegnato il libro del profeta Isaia», ἐπεδόθη αὐτῶ βιβλίον τοῦ προφήτου ἠσαΐου; «tutte le cose scritte per mezzo dei profeti riguardo al figlio dell’uomo», πάντα τὰ γεγραμμένα διὰ τῶν προφητῶν τῶ υἱῶ τοῦ ἀνθρώπου; «che cosa significa questo passo della scrittura», τί οὗν ἐστιν τὸ γεγραμμένον τοῦτο;(40) «Mosè […] dice», μωϊσῆς […] ὡς λέγει; «David dice nel libro dei Salmi», δαυὶδ λέγει ἐν βίβλῳ ψαλμῶν; «affinché si compiano tutte le cose che sono state scritte», τοῦ πλησθῆναι πάντα τὰ γεγραμμένα; «deve realizzasi in me quel passo della scrittura», τοῦτο τὸ γεγραμμένον δεῖ τελεσθῆναι ἐν ἐμοί;(41) «cominciando da Mosè e da tutti i profeti svelò loro tutto ciò che lo riguardava nelle scritture», καὶ ἀρξάμενος ἀπὸ μωϊσέως καὶ ἀπὸ πάντων τῶν προφητῶν διερμήνευσεν αὐτοῖς ἐν πάσαις ταῖς γραφαῖς τὰ περὶ ἑαυτοῦ; «è necessaro che si realizzi tutto ciò che è stato scritto», ὅτι δεῖ πληρωθῆναι πάντα τὰ γεγραμμένα (Lc, xxiv, 27, 44). Altre formule matteane sono: «ciò che era stato detto dal profeta Isaia», ὁ ῥηθεὶς διὰ ἠσαΐου τοῦ προφήτου; «il segno del profeta Giona» σημεῖον ἰωνᾶ τοῦ προφήτου; «profetizzò su di voi il profeta Isaia», ἐπροφήτευσεν περὶ ὑμῶν ἠσαΐας λέγων; ciò «di cui parla Daniele», τὸ ῥηθὲν διὰ δανιὴλ.(42) La perifrasi matteana («per essi si realizza la profezia di Isaia che dice», καὶ ἀναπληροῦται αὐτοῖς ἡ προφητεία ἠσαΐου ἡ λέγουσα) fornisce le indicazioni topiche del testo di Isaia, non esplicitate in Marco e neppure in Luca.(43) Luca (vii, 27) è in parallelo a Marco (xi, 10). Tutte le altre locuzioni sono specifiche di Matteo, che, come sappiamo, si muove con più convinzione nell’ottica dell’adempimento delle antiche profezie. Per di più nell’uso della forma laconica γέγραπται la dipendenza di Luca da Matteo è attestata dal fatto che il primo (Lc, iv, 4, 8, 10, 12), ricalca il secondo (Mt, iv, 6, 7, 10). Matteo (xxi, 13) (38)  Mc, xii, 10; Mt, xxi, 42; xxii, 31. (39)  Mt, ii, 15, 17, 23; iv, 14; viii, 17; xii, 17; xiii, 35; xxi, 4; xxvii, 9. (40)  Lc, iii, 4; iv, 17; xvi, 31; xx, 17. (41)  Lc, xx, 37,42; xxi, 22; xxii, 37. (42)  Mt, iii, 3; xii, 39; xv, 7; xxiv, 15. (43)  Mt, xiii, 14; Mc, iv, 10; Lc, viii, 9.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1079

ricalca Marco (xi, 17) ed è ripreso testualmente da Luca (xix, 46). Ed ancora: Matteo (xxvi, 24) scrive a specchio di Marco (xiv, 21) e diventa modello di Luca (xxii, 22) con qualche variante (il testo lucano non dice καθὼς γέγραπται, ma κατὰ τὸ ὡρισμένον πορεύεται). Luca (x, 26) riprende Marco (xii, 29-30) e Matteo (xxii, 37), esplicitando la citazione del Levitico (xix, 18) e del Deuteronomio (vi, 5). Mi sembra perciò che l’argomento di Stein sia sostanzialmente infondato. Si è fatto altresì notare che non compare mai in Luca il sintagma ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν, che invece occorre ben 32 volte in Matteo.(44) Se ne è dedotto che Luca è indipendente da Matteo. Non sembra che questo sia un argomento decisivo. Non v’è dubbio che Matteo predilige βασιλεία τῶν οὐρανῶν a βασιλεία τοῦ θεοῦ. È possibile che la scelta non sia solo di ordine stilistico; probabilmente presuppone una visione teologica o una sfumatura teologica che la differenzia dall’espressione marciana. Ed è altresì verosimile che per diverse motivazioni ideologiche Luca abbia preferito evitare l’uso matteano. D’altro canto l’espressione βασιλεία τοῦ θεοῦ è preponderante in Marco con 16 occorrenze(45) e in Luca con ben 32 occorrenze.(46) Non si può tuttavia non rilevare che quattro delle 6 occorrenze matteane(47) di βασιλεία τοῦ θεοῦ non dipendono da Marco, ma sono originarie di Matteo. Le altre due vengono rispettivamente da Marco e passano in Luca.(48) È interessante notare che l’occorrenza relativa a Matteo, vi, 33, è assente in alcuni codici e quindi potrebbe essere stata interpolata successivamente. Non siamo ovviamente in grado di stabilire se ci sia stata una sostituzione di τοῦ θεοῦ a τῶν οὐρανῶν, poi passata nel testo definitivo. Questo ci fa comunque capire che i testi a noi pervenuti per lo più in papiri e manoscritti della fine del secondo secolo, ma in prevalenza del terzo e quarto secolo, sono il prodotto di un rimaneggiamento che deve essersi concluso assai presto, sicché le lectiones che ci rimangono, probabilmente per ragioni religiose, sono state subito incastrate in una veste letteraria pressoché definitiva. (44)  Mt, iii, 2; iv, 17; v, 3, 10, 19, 19, 20; vii, 21; viii, 11; x, 7; xi, 11, 12; xiii, 11, 24, 31, 33, 44, 45, 47, 52; xvi, 19; xviii, 1, 3, 4, 23.; xix, 12, 14, 23; xx, 1; xxii, 2; xxiii, 13; xxv, 1. (45)  Mc, i, 15; iii, 24; iv, 11, 26, 30; ix, 1, 47; x, 14, 15, 23, 24, 25; xi, 10; xii, 34; xiv, 25; xv, 43. (46)  Lc, iv, 43; vi, 20; vii, 28; viii, 1, 10; ix, 2, 11, 2, 60, 62; x, 9, 11; xi, 20; xii, 18, 20, 28, 29; xiv, 15; xvi, 16; xvii, 20, 20, 21; xviii, 16, 17, 24, 25, 29; xix, 11; xxi, 31; xxii, 16,18; xxiii, 51. (47)  Mt, vi, 33; xii, 28; xxi, 31, 43. (48)  Mt, xix, 24 e xxvi, 29, deriva da Mc, v, 25 e xiv 25 e passa in Lc, xviii, 25 e xxi, 16.

1080  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

Molto spesso i teorici delle due fonti vanno molto al di là di ciò che è possibile trarre da un testo. Un esempio valga per tutti: essi confrontano all’interno della doppia tradizione Matteo xii, 28 e Luca xi, 20. In effetti le due pericopi variano solo per una parola. Per Matteo Gesù dichiara di scacciare i demoni per mezzo dello spirito del Signore (ἐν πνεύματι θεοῦ ἐγὼ ἐκβάλλω τὰ δαιμόνια), per Luca invece li scaccia col dito del Signore (ἐν δακτύλῳ θεοῦ ἐκβάλλω τὰ δαιμόνια). Chissà per quale ragione il teorico delle due fonti si convince che il testo lucano è esattamente quello originario della Q e contro ogni logica, stante la priorità di Matteo rispetto a Luca, ritiene che la versione lucana sia quella più primitiva: ma da che cosa si evince che il dito è più primitivo dello spirito? Perché la versione profetica della sapienza di Dio, espressa con il futuro ‘invierò’ ἀποστελῶ deve essere più primitiva della versione al presente ‘invio’ ἀποστέλλω, suggerita da Matteo? (Lc, xi, 49; Mt, xxiii, 34). E ancora perché la pericope sui poveri (οἱ πτωχοί) deve essere più originaria della matteana «poveri di spirito» (οἱ πτωχοὶ τῶ πνεύματι)? (Lc, vi, 20; Mt, v, 3). 5.5.  Le argomentazioni di Fitzmyer e di Kloppenborg sull’ordine narrativo Fitzmyer non ha dubbi che il discorso della montagna nella versione lucana (Lc, vi, 20-49) sia quello contenuto originariamente nella Q. Il discorso di Matteo (Mt, v, 3-vii, 27) è più corposo; si estende per ben tre capitoli; quello di Luca è più striminzito e si chiude nell’arco di un solo capitolo. Indubbiamente la parte introduttiva delle 9 beatitudini è più solenne in Matteo; a tratti è persino banale in Luca, vi, 21: «Beati voi che ora piangete, perché riderete!» (μακάριοι οἱ κλαίοντες νῦν, ὅτι γελάσετε). Forse nel terzo vangelo predomina il contrasto sociale tra la povertà e la ricchezza; in Matteo invece il conflitto è spirituale. Ai quattro versetti delle beatitudini Luca (vi, 24-26) aggiunge di suo tre altri versetti di maledizioni, tese a colpire e a condannare quasi esclusivamente la ricchezza. Dopo di che Luca omette tutto il testo di Matteo, dal versetto 13 al 37, e ne dissemina le pericopi tra i capitoli xiv, xvi e xii. Il suo discorso riparte da Matteo 38 fino a Matteo 48 e di nuovo si interrompe, omettendo buona parte del sesto capitolo matteano, le cui pericopi vengono sparse nei capitoli xi, xii e xvi. Infine Luca utilizza il capitolo vii di Matteo non senza tralasciarne alcune

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1081

pericopi. Nello stesso tempo introduce aggiunte a Matteo, ne altera stilisticamente il testo, ma sostanzialmente lo frantuma in unità distinte. L’operazione matteana di costruire un discorso organico, che non era sfuggita all’attenzione di Papia, fallisce miseramente. Per converso il discorso della pianura di Luca è forse il punto più debole del terzo vangelo. Questa caduta di tono fa credere a Fitzmyer che il testo lucano rifletta una fonte anteriore a Matteo e perciò lo ascrive senza incertezze alla fonte Q. In realtà è nello stile di Luca fare la cura dimagrante ai testi di Matteo e di Marco; in generale la sua operazione si conclude in una forma letterariamente più raffinata; nel caso specifico forse gli orpelli hanno pagato il prezzo di una eccessiva semplificazione del contenuto. Fatto sta che tutte le operazioni lucane di taglio, di imbellettamento, di accrescimento e di alterazione non sono indipendenti da Matteo, né lo precedono, ma sono interventi prodotti sul corpo materiale della scrittura matteana, perché se così non fosse, dovremmo supporre che siano state formulate versioni diverse anche nella stessa Q, tali da giustificare le varianti lucane. Un tentativo così disperato è stato di fatto condotto da Taylor e da Kloppenborg.(49) La loro magica soluzione consiste nello spezzettare l’unità del contesto matteano in microstrutture, in piccole serie di lógia, per dimostrare che esse sono poi ricomponibili nei cinque sermoni secondo l’ordine lucano. Il che proverebbe che Luca attinge direttamente da Q e che Q è più primitivo rispetto a Luca. Si tratta in realtà di un procedimento che pretende di avere il crisma della scientificità e del rigore filologico, ma è solo una sorta di gioco di prestidigitazione che permette di far dire ai testi ciò che si ha già fin da principio in mente. Il punto debole di tutta questa procedura sta nel fatto che già l’esistenza di una fonte Q è una supposizione di comodo; se poi si aggiunge l’ulteriore pretesa di definirne i confini contenutistici e persino i contorni testuali con l’immancabile fiducia di poter stabilire quale dei due sinottici è più primitivo rispetto all’altro, allora davvero si costruiscono ipotesi su ipotesi, castelli di sabbia su castelli di sabbia, congetture traballanti su congetture traballanti. Un ulteriore esempio di Kloppenborg è dato dal discorso sulla missione (Mt, ix, 35 - x, 42; Lc, x, 2-16). Sappiamo che Matteo raccoglie in un sermone unitario i lógia che attengono al medesimo argomento della missione. (49) V. Taylor, The Order of Q, «The Journal of Theological Studies», iv, 1953, pp. 27-31; J. S. Kloppenborg, The Formation of Q, Trajectories in Ancient Wisdom Collections, Harrisburg, Trinity Press, 1999; Id., Q Parallels Synopsis. Critical Notesand Concordance, Sonoma, Polebridge, 1988.

1082  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

Luca, osserva Kloppenborg, chiude il discorso in x, 16, e si volge ad altri oggetti, mentre Matteo continua ad impiegare diversi materiali, alcuni tratti da Marco e altri da Q, i quali sono dispersi nel testo di Luca. Kloppenborg trova sorprendente che Matteo, x, 24-39, comprenda 10 lógia, presentati nello stesso ordine lucano, sebbene in Luca non siano in continuità. Da ciò lo studioso deduce che Matteo dopo avere riorganizzato il discorso sulla missione e dopo avere interpolato parte di Marco xiii, copia Q e rimuove, nell’originale ordine [= lucano] di Q, 11, detti appropriati al tema della missione […]. Solo nel caso di Q 17:33 (Mt, x, 39), che occorre in un gruppo di detti sul discepolato (Q 14:26, 27 // Mt,x, 37, 38), è probabile che l’ordine di Matteo sia originario. In caso contrario, la soluzione più economica e comprensibile è quella di supporre che Matteo abbia copiato Q e abbia raccolto quei detti anziché sostenere che Luca li abbia distribuiti in maniera capricciosa.

I dieci lógia cui fa riferimento Kloppenborg, riportati in forma sintetica sono i seguenti: 1) nessun discepolo è più grande del suo maestro; 2) non c’è nulla di nascosto che non possa essere svelato; 3) non temete coloro che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima; 4) non si vendono due passeri per un asse; 5) i capelli del capo sono contati; 6) dichiararsi discepolo in pubblico; 7) non sono venuto a portare la pace sulla terra; 8) chi preferisce il padre e la madre, non è degno di me; 9) chi non prende la sua croce […] non è degno di me; 10) chi pensa di salvare la propria vita, la perderà. Il discorso matteano sulla missione è molto più organico; prima dei dieci lógia menzionati (Mt, ix, 37 - x, 23), ne contiene altri, tralasciati da Kloppenborg per il semplice fatto che rompono l’ordine con cui procede Luca. Essi possono essere riprodotti in forma sintetica, come segue: a) la messe e gli operai; b) non andate dai pagani e dai samaritani; c) il regno dei cieli è vicino; d) non portate monete, sandali, bastoni, tuniche; e) scuotete la polvere dai piedi; f) vi porteranno davanti ai sinedri; non sarete voi a parlare, ma lo spirito santo; g) il fratello consegnerà a morte il fratello; h) sarete odiati a causa mia, ma chi avrà perseverato, si salverà. L’ordine di Luca è il seguente: a = x, 2; b = omesso; c potrebbe essere solo parzialmente affine a ix, 2; d = ix, 3 (in duplicato = x, 4); e = ix, 4-5 (in duplicato più esteso = x, 5-11); f = xii, 11-12 (in duplicato = xxi; 12-15); g = xxi, 16; h = xxi, 17, 19. Ma non mancano problemi neppure per i dieci lógia

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1083

individuati da Kloppenborg, perché, se è vero che la loro sequenza è in Luca conforme a quella di Matteo, è anche vero che tra essi sono inframmezzati testi e lógia che non hanno attinenza con il discorso sulla missione. In altri termini il discorso matteano è spezzettato da Luca in più parti: i lógia 2-6 si collocano in Lc, xii, 2-9. Tra i lógia 6 e 7 l’ordine è interrotto dalla interposizione del lógion f. Poi Luca si dilunga sui temi della povertà, a lui molto cari, sulle possibili cause di discordie interne, a proposito delle quali inserisce il lógion 7 (xii, 51-53); quindi prosegue sull’urgenza della conversione, su guarigioni varie e su parabole. Allorché torna sulle condizioni della sequela, inserisce i lógia 8 e 9 in xiv, 25-27, a notevole distanza dal nucleo principale. Infine il lógion 10 è relegato a distanza siderea in xvii, 33, dopo ulteriori digressioni di parabole e un’ulteriore escursione sulla ricchezza. Quali dipendenze si possono stabilire tra Matteo e Marco? Possiamo dire che i lógia a-h seguono in Matteo lo stesso ordine che hanno in Marco (a, b e c omessi da Marco; d = Mc, vi, 8-9; e = vi, 10, 11; f = xiii, 9-11; g = xiii, 12; h = xiii, 13); ma nel contempo dobbiamo rilevare che nel vangelo marciano mancano i lógia 2-8 e che i lógia 9 e 10 sono distaccati (cfr. Mc, viii, 34-35). Il discorso lucano si sviluppa nel seguente ordine: il capitolo ix accoglie Marco (vi, 8-10) e Matteo (x, 7, 9-14); il capitolo x accoglie Marco (vi, 8-9) e Matteo (ix, 37 e x, 10-14) con un incongruo intermezzo sulla maledizione di Corazim e di Cafarnao. Il capitolo xi spezza il sermone matteano, poiché si sofferma sulla preghiera, sui demoni, sulla vera beatitudine, sul segno di Giona e sulle ostilità dei farisei. Nessun versetto del capitolo xi è tratto dal discorso matteano. Il capitolo xii riprende il sermone sulla missione, ma inserisce talune digressioni sulla cupidigia e sulla ricchezza, che, come sappiamo, gli sono specifiche, oltre a pericopi prese qua e là da Marco(50) e da Matteo.(51) Nello stesso tempo Luca utilizza, pur con qualche variante, frammenti del discorso matteano e marciano(52) e attinge dal discorso della mon(50)  In particolare Luca attinge da Mc, viii, 15, sul lievito dei farisei, citato da Matteo in xvi, 6; da Mc, viii, 38, contenente il lógion 6, citato da Matteo, x, 32-33; da Mc, iii, 28-29, relativo al peccato contro lo Spirito Santo, citato da Matteo xii, 31-32; da Mc, xiii, 11, relativo al lógion f, citato da Matteo x, 18-20. (51)  Nel seguente ordine: da Mt., xvi, 5-6, sul lievito dei farisei; da Mt, x, 26-33, in merito ai lógia 2-6; da Mt, xii, 31-32, sul peccato contro lo Spirito Santo; da Mt, vi, 1934, contro la ricchezza; da Mt, xxiv, 42-51, sulla imprevedibilità della parousía; da Mt, x, 34-36, relativo al lógion 7; da Mt, xvi, 2-3, sul segno prodigioso; da Mt, v, 25-26, sul rapporto con gli avversari. (52)  In particolare v. Lc, xii, 5-8 da Mt, x, 28-33 per i lógia 3-6; Lc, xii, 11-12 da Mt, x,

1084  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

tagna e da Matteo xii e xvi ciò che può essere appropriato al discorso sulla missione. Ciò che sembra emergere da questi dati è che Luca tenta di concentrare, pur spezzandolo, il materiale matteano e marciano relativo alla missione dei discepoli. Ma questo significa che egli ha lavorato sì su Marco, ma soprattutto su Matteo, al quale ha aggiunto di suo lógia non altrimenti noti. Quanto poi al fatto che Luca presenti 10 lógia nello stesso ordine di Matteo non è che una mera finzione iperfilologica, poiché tra quei lógia ne sono collocati altri che non corrispondono all’ordine matteano. Si è altresì osservato che all’interno della doppia tradizione gli inserimenti di Matteo, che risultano sempre appropriati, non corrispondono mai a quelli lucani. Ciò darebbe motivo di pensare che Luca scrive indipendentemente da Matteo. Ma per accogliere una siffatta argomentazione dovremmo essere certi che l’ordine marciano costituisca una direttrice rigida e rigorosamente seguita dagli altri due sinottici; dovremmo cioè riscontrare nella tripla tradizione un unico ordine nella disposizione della materia dei tre sinottici. Ciò però non accade: l’ordine c’è, ma è in qualche modo approssimativo e spesso è violato sulla base delle strategie delle diverse narrazioni. Ne consegue che gli inserimenti della doppia tradizione seguono criteri e linee interpretative che ovviamente non obbligano ad una convergenza. Tanto Luca quanto Matteo hanno davanti a sé il testo di Marco come guida fondamentale, ma ciascuno dei due si ritiene legittimato ad alterarlo almeno in parte, ad inserire o sottrarre microstrutture lessicali o contenutistiche. Lo stesso lavoro che Luca e Matteo fanno su Marco, Luca ritiene di poterlo fare su Matteo. Ciò che, se mai, sorprende è che in generale gli inserimenti matteani sembrano più conformi e più adeguati di quelli lucani al contesto di riferimento. E ciò dovrebbe essere argomento a favore della maggiore originarietà di Matteo rispetto a Luca. Infine è singolare che, a proposito della difesa di Gesù dall’accusa di operare guarigioni con l’aiuto di Satana, Kümmel(53) sia convinto che Matteo (xii, 22-30) ricalchi alternativamente Marco (iii, 22-27) e Luca (xi, 14-23). In realtà la pericope matteana non è altro che una rielaborazione di quella marciana e quella lucana dipende a sua volta da Marco attraverso Mat17-20 per il lógion d; Lc, xii, 51-53 da Mt, x, 34-36 per il lógion 7; da Mc, xiii, 9 per il lógion f. (53)  In realtà W. G.Kümmel, The New Testament, cit., p. 80 (tr. it.: Il Nuovo Testamento. Storia dell’indagine scientifica sul problema neotestamentario, Bologna, il Mulino, 1976, p. 104), è convinto della esistenza di un vangelo originale ebraico, del quale i testi di Marco, Matteo e Luca non sono altro che traduzioni.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

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teo. La dipendenza di Luca da Matteo è provata dai lógia che sono comuni ad entrambi ed assenti in Marco. Così è in Luca, xi, 17 («Egli [Gesù] conoscendo i loro pensieri»; αὐτὸς δὲ εἰδὼς αὐτῶν τὰ διανοήματα) che dipende, pur con diversa terminologia, da Mt, xii, 25 («intuì i loro pensieri», εἰδὼς δὲ τὰς ἐνθυμήσεις αὐτῶν). Luca, xi, 19 («Ma se io scaccio i demoni con il potere di Beelzebul, i vostri figli con il potere di chi li scacciano? Per questo essi saranno i vostri giudici», εἰ δὲ ἐγὼ ἐν βεελζεβοὺλ ἐκβάλλω τὰ δαιμόνια, οἱ υἱοὶ ὑμῶν ἐν τίνι ἐκβάλλουσιν; διὰ τοῦτο αὐτοὶ ὑμῶν κριταὶ ἔσονται) che è un ricalco testuale di Matteo (xii, 27: καὶ εἰ ἐγὼ ἐν βεελζεβοὺλ ἐκβάλλω τὰ δαιμόνια, οἱ υἱοὶ ὑμῶν ἐν τίνι ἐκβάλλουσιν; διὰ τοῦτο αὐτοὶ κριταὶ ἔσονται ὑμῶν). Infine Matteo e Luca, a differenza di Marco, concludono con il seguente lógion: «Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde» (ὁ μὴ ὢν μετ᾽ἐμοῦ κατ᾽ἐμοῦ ἐστιν, καὶ ὁ μὴ συνάγων μετ᾽ ἐμοῦ σκορπίζει, Mt, xii, 30) riprodotto alla lettera da Luca (ὁ μὴ ὢν μετ᾽ἐμοῦ κατ᾽ ἐμοῦ ἐστιν, καὶ ὁ μὴ συνάγων μετ᾽ἐμοῦ σκορπίζει, Lc, xi, 23). Fitzmyer(54) con la solita chiarezza che lo contraddistingue ci ha fornito la seguente lista di pericopi (vedi Tabella 4) che nella doppia tradizione presentano una pressoché testuale concordanza di Luca e di Matteo. Tabella 4. Secondo prospetto di Fitzmyer. Matteo

Luca

Numero di parole comuni

iii, 7-10

iii, 7-9

60 su 63 parole sono comuni

vi, 24

xvi, 13

27 su 28 parole sono comuni

vii, 3-5

vi, 41-42

50 su 64 parole sono comuni

vii, 7-11

xi, 9-13

59 su 74 parole sono comuni

xi, 4-6; 7-11

vii, 22-23; 24-28

100 su 121 parole sono comuni

xi, 21-23

x, 13-15

43 su 49 parole sono comuni

xi, 25-27

x, 21-22

50 su 59 parole sono comuni

xii, 43-44

xi, 24-25

53 su 61 parole sono comuni

xxiii, 37-38

xiii, 34-35

46 su 55 parole sono comuni

xxiv, 45-51

xii, 42-46

87 su 104 parole sono comuni

(54)  J. A. Fitzmyer, To Advance Gospel, cit., p. 20.

1086  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

Ponendo tra parentesi quadre le parole non comuni, ne do alcuni esempi tratti dalla lista: Lc, xvi, 13: οὐδεὶς [οἰκέτης] δύναται δυσὶ κυρίοις δουλεύειν· ἢ γὰρ τὸν ἕνα μισήσει καὶ τὸν ἕτερον ἀγαπήσει, ἢ ἑνὸς ἀνθέξεται καὶ τοῦ ἑτέρου καταφρονήσει. οὐ δύνασθε θεῶ δουλεύειν καὶ μαμωνᾷ (Nessun servo può servire due padroni: o odierà l’uno

ed amerà l’altro; o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro; non potete servire Dio e mammona). Mt, vi, 24: οὐδεὶς δύναται δυσὶ κυρίοις δουλεύειν· ἢ γὰρ τὸν ἕνα μισήσει καὶ τὸν ἕτερον ἀγαπήσει, ἢ ἑνὸς ἀνθέξεται καὶ τοῦ ἑτέρου καταφρονήσει· οὐ δύνασθε θεῶ δουλεύειν καὶ μαμωνᾷ.

Lc, x, 13-15: οὐαί σοι, χοραζίν· οὐαί σοι, βηθσαϊδά· ὅτι εἰ ἐν τύρῳ καὶ σιδῶνι [ἐγενήθησαν] αἱ δυνάμεις αἱ γενόμεναι ἐν ὑμῖν, πάλαι ἂν ἐν σάκκῳ καὶ σποδῶ [καθήμενοι] μετενόησαν. πλὴν τύρῳ καὶ σιδῶνι ἀνεκτότερον ἔσται ἐν [τῇ κρίσει] ἢ ὑμῖν. καὶ σύ, καφαρναούμ, μὴ ἕως οὐρανοῦ ὑψωθήσῃ; ἕως [τοῦ] ᾅδου καταβήσῃ (Guai a te

Corazin; guai a te Betsaida, perché se in Tiro e in Sidone fossero avvenuti i prodigi che sono stati compiuti tra di noi, già da tempo si sarebbero ravvedute, cospargendosi di cilicio e di cenere. Ebbene vi dico: nel giorno del giudizio sarà usata più tolleranza con Tiro e Sidone che con voi. E tu Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai). Mt, xi, 21-23: οὐαί σοι, χοραζίν· οὐαί σοι, βηθσαϊδά· ὅτι εἰ ἐν τύρῳ καὶ σιδῶνι [ἐγένοντο] αἱ δυνάμεις αἱ γενόμεναι ἐν ὑμῖν, πάλαι ἂν ἐν σάκκῳ καὶ σποδῶ μετενόησαν. πλὴν [λέγω ὑμῖν], τύρῳ καὶ σιδῶνι ἀνεκτότερον ἔσται ἐν [ἡμέρᾳ κρίσεως] ἢ ὑμῖν. καὶ σύ, καφαρναούμ, μὴ ἕως οὐρανοῦ ὑψωθήσῃ; ἕως ᾅδου καταβήσῃ.

Lc, x, 21-22: εἶπεν, ἐξομολογοῦμαί σοι, πάτερ, κύριε τοῦ οὐρανοῦ καὶ τῆς γῆς, ὅτι [ἀπέκρυψας] ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ συνετῶν, καὶ ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις· ναί, ὁ πατήρ, ὅτι οὕτως εὐδοκία ἐγένετο ἔμπροσθέν σου. πάντα μοι παρεδόθη ὑπὸ τοῦ πατρός μου, καὶ οὐδεὶς [γινώσκει τίς ἐστιν ὁ υἱὸς] εἰ μὴ ὁ πατήρ, [καὶ τίς ἐστιν ὁ πατὴρ] εἰ μὴ ὁ υἱὸς καὶ ᾧ ἐὰν βούληται ὁ υἱὸς ἀποκαλύψαι (disse: ‘ti rendo lode, o padre, signore del

cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelati ai piccoli; sì, padre, perché così hai voluto nella tua bontà. Tutto mi è stato dato dal padre mio; nessuno conosce il figlio se non il Padre e nessuno conosce il padre se non il figlio e colui al quale il figlio vorrà rivelarlo). Mt, xi, 25-27: εἶπεν, ἐξομολογοῦμαί σοι, πάτερ, κύριε τοῦ οὐρανοῦ καὶ τῆς γῆς, ὅτι [ἔκρυψας] ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ συνετῶν καὶ ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις· ναί, ὁ πατήρ,

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1087

ὅτι οὕτως εὐδοκία ἐγένετο ἔμπροσθέν σου. πάντα μοι παρεδόθη ὑπὸ τοῦ πατρός μου, καὶ οὐδεὶς [ἐπιγινώσκει τὸν υἱὸν] εἰ μὴ ὁ πατήρ, [οὐδὲ τὸν πατέρα τις ἐπιγινώσκει] εἰ μὴ ὁ υἱὸς καὶ ᾧ ἐὰν βούληται ὁ υἱὸς ἀποκαλύψαι.

Lc, xi, 24-25: ὅταν τὸ ἀκάθαρτον πνεῦμα ἐξέλθῃ ἀπὸ τοῦ ἀνθρώπου, διέρχεται δι᾽ ἀνύδρων τόπων ζητοῦν ἀνάπαυσιν, καὶ [μὴ εὑρίσκον], λέγει, [ὑποστρέψω] εἰς τὸν οἶκόν μου ὅθεν ἐξῆλθον· καὶ ἐλθὸν εὑρίσκει σεσαρωμένον καὶ κεκοσμημένον

(quando lo spirito maligno esce da un uomo, si aggira per luoghi deserti in cerca di riposo; se però non lo trova, allora dice: ‘tornerò nella casa da dove sono uscito’. Tornato, la trova pulita e ordinata). Mt, xii, 43-44: ὅταν δὲ τὸ ἀκάθαρτον πνεῦμα ἐξέλθῃ ἀπὸ τοῦ ἀνθρώπου, διέρχεται δι᾽ ἀνύδρων τόπων ζητοῦν ἀνάπαυσιν, καὶ οὐχ εὑρίσκει. τότε λέγει, εἰς τὸν οἶκόν μου [ἐπιστρέψω] ὅθεν ἐξῆλθον· καὶ ἐλθὸν εὑρίσκει [σχολάζοντα] σεσαρωμένον καὶ κεκοσμημένον.

Secondo Fitzmyer la sopracitata lista costituisce la prima fondamentale argomentazione che induce a postulare l’esistenza di una fonte Q. Sicché − egli dice − se Luca e Matteo concordano quasi con le stesse parole, evidentemente dipendono entrambi da una fonte comune. In realtà la conseguenza tratta non è rigorosamente necessaria, perché nulla vieta di pensare che Luca abbia più semplicemente ricalcato il testo matteano. I testi citati sono tra quelli che presentano la massima concordanza stilistica tra Luca e Matteo. Eppure in essi Luca introduce delle varianti, sia pur minime (le parole registrate in parentesi quadre), che la teoria delle due fonti non è in grado di giustificare. Se esse sono ricondotte a preferenze stilistiche degli autori, nulla quaestio; ciò significa che Luca adatta alle proprie esigenze stilistiche il testo di Matteo. Ma se ciò vale per le pericope che sono maggiormente affini, vale a fortiori per quelle in cui le concordanze sono minori. In altri termini la teoria non riesce a spiegare le discordanze. E per farlo avrebbe bisogno di moltiplicare a dismisura le fonti, ipotizzando l’esistenza di tante fonti Q quante sono le possibili varianti nel contesto generale dei due vangeli. Ma quando una teoria diventa troppo complicata è evidentemente inutile. La variante più recente della teoria delle due fonti cade in palese contraddizione, perché vanifica i principi su cui essa si fonda e riconosce che le discrepanze minime si possono spiegare o postulando che Luca e Matteo abbiano subito l’influenza di due distinte e indipendenti fonti orali o ammettendo che Luca abbia avuto in qualche modo sotto mano il testo di Matteo ed abbia

1088  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

sbirciato tra le righe.(55) Cade così il principio della reciproca indipendenza delle due fonti che è uno dei capisaldi della teoria. Ne deriva il paradosso, per cui la fonte Q è invocata sia per spiegare le pericopi in cui Luca diverge da Matteo sia le pericopi in cui Luca segue pressoché testualmente il testo matteano. Il che significa che la fonte Q è invocata comunque sia costruito il testo: essa è cioè un a priori ideologico che non dipende da motivazioni filologiche. Tale apriorismo è implicito nei concetti stessi di tripla e di doppia tradizione, i quali presuppongono appunto una trasmissione del messaggio evangelico, anteriore a quello dei tre sinottici. Il vizio di fondo della teoria sta proprio nel postulare da una parte l’esistenza di un Ur-Markus, capace di spiegare la tripla tradizione e dall’altra l’esistenza di una fonte Q capace dispiegare la doppia tradizione. Sicché la teoria delle due fonti dal punto di vista logico risulta essere viziata da una sorta di diallele: le fonti primitive giustificano i fenomeni di discrepanze e di concordanze tra i tre o almeno tra due sinottici e a loro volta le discrepanze e le concordanze giustificano l’esistenza delle fonti primitive. Tutte queste incongruenze si superano solo ammettendo l’ipotesi dell’accrescimento progressivo della narrazione da Marco a Matteo a Luca. 5.6.  La teoria delle due fonti: il problema dei duplicati Fitzmyer, puntando l’attenzione sui duplicati, adduce un’ulteriore argomentazione a favore dell’esistenza della fonte Q. I duplicati cioè costituirebbero la prova «Matteo e Luca hanno mantenuto nei loro vangeli la doppia versione dello stesso evento o la duplicazione dei detti così come li hanno ricevuti indipendentemente da Marco e da Q».(56) L’osservazione è accompagnata da un’apposita lista, riprodotta nella Tabella 5, di duplicati che Luca deriva rispettivamente da Marco e da Matteo.

(55)  Cfr. in proposito D. Marguerat, Le dieu des premiers chrétiens, Ginevra, Labor et Fides, 1997, pp. 147-163. (56)  J. A. Fitzmyer, S. J., To Advance the Gospel, cit., p. 21.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1089

Tabella 5. Prospetto dei duplicati. Dupl. Luca

Fonte marciana

Dupl. Luca

Fonte Q

viii, 16

mc, iv, 21

xi, 33

mt, v, 15

viii, 17

mc, iv, 22

xii, 2

mt, x, 26

viii, 18 ix, 3-5

mc, iv, 25; mt, xiii, 12 mc, vi, 8-11

mt, xxv, 29 mt, x, 1, 10-12, 14

ix, 23-24

mc, viii, 34-35; mt, xvi, 24-25 mc, viii, 38; mt, xvi, 27

xix, 26 x, 4, 5-7; 10-11 xiv, 27 xii, 9

mt, x, 33

ix, 26

mt, x, 38-39

Innanzi tutto va detto che i duplicati sussistono in tutti e tre i sinottici. In Matteo ne troviamo cinque ed hanno per oggetto lo scandalo del piede e dell’occhio, il ripudio della moglie, la guarigione dei due ciechi e il dare in eccesso, le persecuzioni nel nome di Cristo.(57) In Marco ve n’è uno solo e riguarda il primeggiare sugli altri.(58) Dei quattro duplicati matteani due (lo scandalo della mano e dell’occhio e la guarigione dei due ciechi) non trovano riscontro in Luca. La pericope sul ripudio della moglie non è duplicata nel terzo vangelo. Quindi per verificare la tesi di Fitzmyer resta utile solo la duplicazione della pericope del dare in eccesso. Se Matteo e Luca hanno attinto da Q la seconda versione, i loro rispettivi versetti dovrebbero essere identici e inseriti nello stesso contesto. Possiamo ovviamente estendere l’analisi a tutti i duplicati lucani, dei quali i seguenti sembrano essere i più promettenti ai fini di giungere ad una conclusione: Lc, viii, 16: οὐδεὶς δὲ λύχνον ἅψας καλύπτει αὐτὸν σκεύει ἢ ὑποκάτω κλίνης τίθησιν, ἀλλ᾽ ἐπὶ λυχνίας τίθησιν, ἵνα οἱ εἰσπορευόμενοι βλέπωσιν τὸ φῶς. «Nessuno accende

una lampada e poi la copre con un vaso o la mette sotto il letto; la porrà invece sul lampadario, perché quanti entrano in casa possano avere luce». Mc, iv, 21: μήτι ἔρχεται ὁ λύχνος ἵνα ὑπὸ τὸν μόδιον τεθῇ ἢ ὑπὸ τὴν κλίνην; οὐχ ἵνα ἐπὶ τὴν λυχνίαν τεθῇ. (57)  Mt, xviii, 8-9 e v, 29-30; Mt, xix, 9 e v, 32; Mt, ix, 27-31 e xx, 29-34; xiii, 12 e xxv, 29; x, 18-19, 22 e xxiv, 9. (58)  Mc, ix, 35 e x, 43-44.

1090  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Lc, xi, 33: οὐδεὶς λύχνον ἅψας εἰς κρύπτην τίθησιν ἀλλ᾽ἐπὶ τὴν λυχνίαν, ἵνα οἱ εἰσπορευόμενοι τὸ φῶς βλέπωσιν. Mt, v, 15/Q: οὐδὲ καίουσιν λύχνον καὶ τιθέασιν αὐτὸν ὑπὸ τὸν μόδιον ἀλλ᾽ἐπὶ τὴν λυχνίαν, καὶ λάμπει πᾶσιν τοῖς ἐν τῇ οἰκίᾳ. Lc, viii, 17: οὐ γάρ ἐστιν κρυπτὸν ὃ οὐ φανερὸν γενήσεται, οὐδὲ ἀπόκρυφον ὃ οὐ μὴ γνωσθῇ καὶ εἰς φανερὸν ἔλθῃ. «Non c’è niente di nascosto che non sarà manifestato; niente di segreto che non sarà conosciuto e non apparirà chiaro». Mc, iv, 22: οὐ γάρ ἐστιν κρυπτὸν ἐὰν μὴ ἵνα φανερωθῇ, οὐδὲ ἐγένετο ἀπόκρυφον ἀλλ᾽ ἵνα ἔλθῃ εἰς φανερόν. Lc, xii, 2: οὐδὲν δὲ συγκεκαλυμμένον ἐστὶν ὃ οὐκ ἀποκαλυφθήσεται, καὶ κρυπτὸν ὃ οὐ γνωσθήσεται. Mt, x, 26: οὐδὲν γάρ ἐστιν κεκαλυμμένον ὃ οὐκ ἀποκαλυφθήσεται, καὶ κρυπτὸν ὃ οὐ γνωσθήσεται. Lc, viii, 18: βλέπετε οὗν πῶς ἀκούετε· ὃς ἂν γὰρ ἔχῃ, δοθήσεται αὐτῶ, καὶ ὃς ἂν μὴ ἔχῃ, καὶ ὃ δοκεῖ ἔχειν ἀρθήσεται ἀπ᾽ αὐτοῦ. «Badate bene a come ascolate: a colui che ha sarà dato; a chi non ha sarà tolto anche quello che crede di avere». l- Mc, iv, 25: βλέπετε τί ἀκούετε. [ἐν ᾧ μέτρῳ μετρεῖτε μετρηθήσεται ὑμῖν καὶ προστεθήσεται ὑμῖν]. ὃς γὰρ ἔχει, δοθήσεται αὐτῶ· καὶ ὃς οὐκ ἔχει, καὶ ὃ ἔχει ἀρθήσεται ἀπ᾽ αὐτοῦ;

m- Mt, xiii, 12: ὅστις γὰρ ἔχει, δοθήσεται αὐτῶ καὶ περισσευθήσεται· ὅστις δὲ οὐκ ἔχει, καὶ ὃ ἔχει ἀρθήσεται ἀπ᾽ αὐτοῦ. n- Lc, xix, 26: λέγω ὑμῖν ὅτι παντὶ τῶ ἔχοντι δοθήσεται, ἀπὸ δὲ τοῦ μὴ ἔχοντος καὶ ὃ ἔχει ἀρθήσεται. o- Mt, xxv, 29: τῶ γὰρ ἔχοντι παντὶ δοθήσεται καὶ περισσευθήσεται· τοῦ δὲ μὴ ἔχοντος καὶ ὃ ἔχει ἀρθήσεται ἀπ᾽ αὐτοῦ.

In apparenza le pericopi citate sembrano confermare la tesi dualistica. Luca – ci vien detto – introduce i duplicati perché in un caso attinge dalla tripla tradizione (Marco) e nell’altro dalla doppia tradizione (Matteo/Q). Ma in realtà non è così. Innanzi tutto bisogna notare che Luca conserva la sua autonomia stilistica allorché ha sotto mano Marco (tale è il caso di a rispetto a b, di e rispetto ad f, di i rispetto ad l). Conserva meno la sua autonomia quando ricalca Matteo (sono infatti marginali le varianti di c, g, n rispetto a d, h, o). In ogni caso le varianti linguistico-lessicali presenti nelle pericopi da a a o sono troppe per giustificare una derivazione indipendente da Marco e da Q.

III.5  Incongruenze della teoria delle due fonti 

1091

Se passiamo all’analisi dei contesti in cui sono incorporati i duplicati, possiamo osservare quanto segue: in riferimento a Marco, ovvero alla tripla tradizione, Luca colloca i tre detti sapienziali (non si accende la lampada per metterla sotto il moggio, non c’è nulla di nascosto che non possa essere rivelato, il dare in eccesso) in continuità e nello stesso contesto (Mc, iv, 21-25; Lc, viii, 16-18) della parabola della semina. In Matteo i tre detti sapienziali risultano invece frammentati in v, 15 (il detto «non si accende la lampada sotto il moggio» segue immediatamente le benedizioni del discorso della montagna), x, 26 («non c’è nulla di nascosto» segue il preannuncio delle persecuzioni); il dare in eccesso è incorporato nella parabola dei talenti in xxv, 29. I duplicati di Luca, che sarebbero attinti da Q, ovvero dalla doppia tradizione, non ricorrono negli stessi contesti né rispetto a Marco, né rispetto a Matteo. Infatti in Lc, xi, 33, il detto sapienziale della lampada viene collocato dopo il segno di Giona e si sviluppa, come in Mt, vi, 28, con il tema dell’occhio, luce del corpo; in Lc, xii, 2, il detto sulla segretezza è incorporato nel discorso contro l’ipocrisia. Quanto al lógion del dare in eccesso, va detto che nella versione duplicata di Matteo (xiii, 12) il contesto è quello del perché Cristo fa uso di parabole. Luca (xix, 26) invece ingloba la sua seconda versione nella parabola dei servi messi alla prova. In altri termini non c’è tra Matteo e Luca una sintonia tale da poter dire che entrambi abbiano attinto da una medesima fonte. Altrettanto accade con il duplicato lucano relativo alla missione dei discepoli («ne bastoni, né bisacce, né denaro né tuniche; scuotete la polvere dai vostri piedi»). Nella prima versione derivata da Marco (tripla tradizione) Luca (ix, 3-5) si rivolge ai Dodici, ricalca più o meno fedelmente Marco (vi, 8-11), ma trae da Matteo (x, 10-14) l’accenno all’imminenza del regno dei cieli; nella seconda versione si riferisce alla missione dei 72, ignota agli altri due sinottici, segue più o meno fedelmente Matteo (ix, 37 - x, 15) e ripete lo stesso lógion del bastone e della bisaccia pronunciato ai Dodici (x, 5-7; 10-11). Paradossalmente i duplicati relativi alle persecuzioni sono quelli in cui i contesti coincidono maggiormente (Mc, xiii, 9, 13; Mt, xxv, 9; Lc, xxi, 1217) poiché sono incorporati nel discorso sulla fine dei tempi; le pericopi Mt, x, 18-19, 22 e Lc, xii, 11-12, che si riferiscono alla istruzione per la missione dei discepoli, al contrario di quanto è prevista dalla teoria dualistica, presentano una più forte varianza lessicale. I due testi da mettere a confronto sono i seguenti:

1092  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

Lc, xii, 11-12: ὅταν δὲ εἰσφέρωσιν ὑμᾶς ἐπὶ τὰς συναγωγὰς καὶ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἐξουσίας, μὴ μεριμνήσητε πῶς ἢ τί ἀπολογήσησθε ἢ τί εἴπητε. τὸ γὰρ ἅγιον πνεῦμα διδάξει ὑμᾶς ἐν αὐτῇ τῇ ὥρᾳ ἃ δεῖ εἰπεῖν. Mt, x, 17-20: γὰρ ὑμᾶς εἰς συνέδρια, καὶ ἐν ταῖς συναγωγαῖς αὐτῶν μαστιγώσουσιν ὑμᾶς. καὶ ἐπὶ ἡγεμόνας δὲ καὶ βασιλεῖς ἀχθήσεσθε ἕνεκεν ἐμοῦ εἰς μαρτύριον αὐτοῖς καὶ τοῖς ἔθνεσιν. ὅταν δὲ παραδῶσιν ὑμᾶς, μὴ μεριμνήσητε πῶς ἢ τί λαλήσητε· δοθήσεται γὰρ ὑμῖν ἐν ἐκείνῃ τῇ ὥρᾳ τί λαλήσητε. οὐ γὰρ ὑμεῖς ἐστε οἱ λαλοῦντες ἀλλὰ τὸ πνεῦμα τοῦ πατρὸς ὑμῶν τὸ λαλοῦν ἐν ὑμῖν.

Come spiegare allora la presenza di duplicazioni nei due vangeli di Matteo e di Luca? Essa è dipesa unicamente dalla struttura narrativa dei testi, costituita di tante micro-unità tra le quali non sussiste una stretta correlazione logica, tanto da renderle suscettibili di essere spostate all’interno del contesto complessivo del racconto. La realtà è che né Matteo né Luca sono riusciti a sganciarsi dalla struttura a tessitura libera elaborata da Marco. Matteo ha tentato di farlo con la costruzione dei suoi cinque grandi discorsi, ma a ben vedere anche questi sono un ensamble di micro-unità. C’è un più grave limite teoretico nell’argomentazione relativa ai duplicati. Come si può giustificare la presenza delle pericopi duplicate nella fonte Q? Se essa contiene solo i lógia comuni a Matteo e a Luca, è evidente che i duplicati, per essere per ipotesi duplicazioni di pericopi marciane, ne dovrebbero essere esclusi. Se invece li includiamo, ci troviamo di fronte non più a Q, ma ad un documento speculare a Matteo. Insomma l’ipotesi dualistica risulta assai fragile per i seguenti motivi: 1) se Q contiene solo lógia perché comprende solo quelli comuni a Matteo e a Luca? E se è veramente tale, non è un vangelo striminzito e incompleto? Quali raffinate arti mantiche avrebbe dovuto avere il suo autore per mettere insieme solo i materiali che, sfuggiti a Marco, avrebbero costituito la base comune a Matteo e a Luca? 2) L’ipotesi delle due fonti non è in ogni caso in grado di spiegare l’esistenza dei materiali propri di Matteo e di quelli propri di Luca, salvo che non si moltiplichino le fonti Q, distinguendole in una fonte Q1 contenente il materiale comune più quello proprio di Matteo ed una fonte Q2 contenente il materiale comune e quello proprio di Luca. Il solo vantaggio dell’ipotesi dualistica è quello di retrodatare la formazione dei vangeli. Ma questo è solo uno studiato e ben congegnato artificio.

parte iv Dal cristianesimo paolino alla Chiesa istituzionalizzata

capitolo i

I RAPPORTI DEL CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI CON LA GNOSI DEI TESTI COPTI DI NAG HAMMADI

1.1.  Cristianesimo e gnosi: un intreccio sinallagmatico Possiamo ora cominciare a trarre le prime conclusioni sulla nascita delle comunità cristiane. I dati che emergono sono i seguenti: 1) il silenzio delle fonti pagane non ci dà alcuna certezza circa l’esistenza di comunità cristiane prima degli ultimi tre decenni del primo secolo; 2) fino ai primi lustri del secondo secolo non abbiamo alcuna testimonianza né diretta né indiretta delle fonti cristiane (i quattro vangeli, le lettere paoline e l’Apocalisse giovannea), le quali sono o anonime (i quattro vangeli) o pseudepigrafe (le lettere paoline e l’Apocalisse) e potrebbero essere databili a partire dai primi decenni fino alla metà del secondo secolo; 3) l’area di origine delle prime comunità cristiano-apostoliche va individuata in quella siriano-palestinese-egiziana e in misura minore in quella romana, ove la presenza ebraica, già consolidata fin dalla prima metà del primo secolo, subisce un ulteriore incremento tra il 70 e il 135 e anche oltre per effetto di una più consistente diaspora dalla Palestina; 4) l’area in cui si svilupparono le prime comunità paoline nella prima metà del secondo secolo coincide con quella anatolico-greco-macedone, corrispondente a quella che dalle lettere paoline risulta essere la regione in cui si svolse la predicazione di Paolo; 5) gli autori che scrivono i sinottici e le lettere paoline non mostrano di avere una conoscenza diretta dell’ambiente palestinese e ne attingono il quadro storico-geografico dalle Antiquitates di Giuseppe Flavio; essi appartengono a comuni1095

1096  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

tà ebraiche di seconda, se non addirittura, di terza generazione del processo migratorio della diaspora; 6) le prime comunità cristiane sembrano essere nate da una costola della setta degli esseni, in particolare da quella che potremmo definire la setta che segnò una svolta enochica dell’essenismo; 7) l’originaria matrice culturale, religioso-teologica ed ebraica, subì consistenti contaminazioni a contatto con la cultura, filosoficamente più evoluta, greco-ellenistica, con i riti, i culti e le religioni misteriche, orfiche, mitraiche, isiache, ecc. particolarmente diffuse nelle aree geografiche interessate dalla diaspora; 8) per quanto messa in ombra o apprezzata solo marginalmente, la componente ellenistica è essenziale per comprendere la fisionomia culturale o, se si preferisce, l’evoluzione culturale delle prime comunità cristiane. Per meglio caratterizzare le origini del cristianesimo possiamo procedere schematicamente nel modo seguente: a) I vangeli sinottici sembrano essere espressione di una religiosità popolare, più manifesta in Marco, più attenuata in Matteo e in Luca. Al di là di una cornice cristologica, essi mancano di un impianto dottrinale e teologico evoluto e maturo. Di contro le lettere paoline sono il prodotto di una più alta consapevolezza filosofico-teologica, di una più chiara prospettiva etico-escatologica e di una più matura idea dell’organizzazione ecclesiale. b) Per quanto possa apparire paradossale i testi evangelici sembrano ignorare le lettere paoline e, viceversa, le lettere paoline sembrano ignorare i vangeli; ciò può autorizzare solo due ipotesi: o si suppone che le lettere paoline e i vangeli siano stati scritti in parallelo e in contemporanea, ma in aree geografiche diverse, o che siano stati prodotti in momenti successivi. c) Pur essendo inequivocabilmente documenti storici, in quanto attestano il livello di maturità ideologica del cristianesimo primitivo dei primi decenni del secondo secolo, per essere scritti di matrice religiosa, gli uni e le altre non hanno contenuto storico, ma sono semplicemente il frutto di una elaborazione dottrinale-mitologica, in cui trovarono progressivamente la propria identità comune gruppi di ebrei immigrati in aree diverse del mondo mediterraneo. d) Le comunità protocristiane che precedettero l’elaborazione dei sinottici non avevano ancora una fisionomia ideologico-religiosa ben definita; avevano rielaborato e reinterpretato i temi del messianismo, ma non avevano ancora identificato il Messia con Gesù. Successivamente i vangeli costituirono il veicolo attraverso cui talune comunità, di matrice ebraica, presero coscienza della loro nuova identità religiosa.

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

1097

e) Il discrimine tra il proto-cristianesimo e le altre forme religiose del tempo non sta nel concetto di Cristo o di Unto, che è ovviamente più antico ed è comune a diversi orientamenti settari, ma sta nella sua identificazione con Gesù o, per dirla più esplicitamente, sta nella personificazione del Salvatore, passata attraverso l’ebraico Yehōwōšua’, fermo restando che il Salvatore non è più per i cristiani il liberatore nazionale, ma è un’entità divina a carattere sacerdotale, garante della salvezza. f) L’escatologia cristiana è di matrice ellenistica e presuppone un impianto filosofico-teologico che, anche quando si ispira alla tradizione giudaica, è in realtà mutuato dalla filosofia greca.

Sulla fisionomia dottrinale del proto-cristianesimo esercitarono un’influenza decisiva gli sviluppi della gnosi tra la fine del primo secolo e il secondo o terzo secolo della nostra era. Non ci si può nascondere che ci fu fin dalle rispettive origini una forte coesistenza o compromissione tra gnosi e proto-cristianesimo(1) e che altrettanto forte fu il processo di ellenizzazione delle originarie matrici ebraiche delle prime comunità cristiane. Anzi, considerato che la gnosi subì il fascino della filosofia greca nelle sue varie sfaccettature ellenistiche (stoicismo, medioplatonismo, ecc.), si può dire che essa contribuì non poco a consolidare l’impianto filosofico-teologico del proto-cristianesimo. Spesso noi guardiamo a questa complessa realtà storica a partire da schemi predefiniti; operiamo come se fossimo biologi che isolano un virus, sicché tendiamo ad isolare e a distinguere le tendenze settarie del tempo come se fossero entità pure e incomunicabili; confondiamo i processi di incoazione e di formazione con i prodotti finiti. Eppure siamo ben consapevoli del fatto che fu estremamente complessa la tendenza sincretistica non solo delle religioni, ma anche delle filosofie del tempo. La realtà è che le forme culturali, religiose e filosofiche, non sono delle astrazioni dai contorni netti, ma sono processi in corso, idee che camminano, si diffondono, si intrecciano con altre nella misura in cui rispondono alle istanze più profonde di comunità tormentate dalle ingiustizie e dalla perdita della libertà, le quali aspirano a costruirsi una propria identità culturale sulla base di sentimenti ed emozioni condivise, nella ricerca di una salvezza che, non potendo essere ancorata alla realtà terrena, è saldamente rinviata in una prospettiva escato(1)  Cfr. in proposito le pregevoli osservazioni di B. Bauer, Christus und die Caesaren, cit., sulla presenza di tematiche gnostiche nei sinottici (pp. 309-317), in Giovanni (362366) e nelle epistole paoline (pp. 371-279).

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logica. Dobbiamo abituarci a leggere queste realtà storiche come movimenti, non come soste; e quando le leggiamo come processi, dobbiamo tentare di darne una lettura a parte ante, nel loro stesso processo evolutivo e nel loro intreccio con le altre forme religioso-filosofiche, come se tutte uscissero da un unico grembo, che è poi la ragione per cui tutte sembrano avere una comune aria di famiglia. Talvolta accade che i nostri schematismi storiografici sono pensati come tessuti elastici che si possono allargare e stringere a piacimento in modo da adattarli più o meno convenientemente alla estensione che noi stessi diamo a certi fenomeni storici. Un esempio può essere dato dagli studi sullo gnosticismo, sul mandeismo, sull’orfismo, sul mitraismo e sull’ermetismo. La tendenza di taluni studiosi è quella di risalire molto più indietro nel tempo e di ipotizzare un mandeismo pre-mandeo o un manicheismo pre-manicheo che hanno influenzato la gnosi precristiana. Il mandeismo è esso stesso una forma di gnosi, poiché manda o manda naye in lingua mandea significa appunto ‘gnosi’, conoscenza, saggezza. Collegato da Spengler(2) alla cultura araba, il mandeismo è da taluni studiosi strettamente intrecciato con le origini del cristianesimo. Rudolph,(3) che è il teorico di maggior spicco di questa ipotesi, pone l’accento sulle radici antichissime del mandeismo così da ritenerlo precedente rispetto alle prime comunità cristiane. In realtà il mandeismo, come movimento storico a noi noto, non data prima del ii secolo d.C., poiché i suoi testi sacri risalgono al ii-iii secolo. È di tutta evidenza che Rudolph confonde le radici più remote del mandeismo con il vero e proprio mandeismo storicamente noto nelle sue definite coordinate dottrinali. Non v’è dubbio che il dualismo mandeo e la concezione di un Dio superiore, inconoscibile e nascosto, affondano le loro radici in un remoto passato iranico-orientale, ma il mandeismo, come religione e come complesso di dottrine organizzate, non è databile anteriormente al ii secolo. Senza dire che, come ha giustamente rilevato Festugière,(4) le medesime concezioni circolavano ampiamente e liberamente all’interno della cultura e della filosofia greca. Un caso analogo è l’estensione smisuratamente esagerata che dà allo gnosticismo Jonas(5) tanto da fargli perdere i suoi veri e propri connotati dottri(2) O. Spengler, The Decline of the West, Form and Actuality, transl. by Charles Francis Atkinson, London, Allen and Unwin, 1932,p. 72. (3) K. Rudolph, Die Mandäer, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1961. (4)  A. J. Festugière, La révélation d’Hermès Trismègiste, Paris, Lecoffre, 1944. (5) H. Jonas, Gnosis una spätantiker Geist, Göttingen, Vendenhoeck und Ruprecht,

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nali, tra l’altro appiattiti in una visione pessimistica, letta come reazione al presunto ottimismo della filosofia ellenistica, in una forte accentuazione della sua componente ebraico-giudaica. Ostano a questa lettura ermeneutica almeno due elementi: il mito del redentore redento, che ridimensiona fortemente il pessimismo, e l’identificazione del Dio dell’AT, Yhwh, come una divinità di ordine inferiore, per lo più inquadrata in una teologia emanatistica e spesso associata al mito platonico del demiurgo; questi due elementi ne ridimensionano non poco le presunte radici giudaiche. Oggi abbiamo la possibilità di condurre l’indagine sulla formazione della gnosi e sui suoi rapporti con il cristianesimo delle origini grazie alla scoperta dei manoscritti copti di Nag Hammadi. Sebbene siano stati scoperti nel 1945 nel monastero pacomiano di Chenoboskion presso Nag Hammadi in Egitto, i manoscritti hanno richiesto un lungo lavoro di trascrizione e di traduzione che si è concluso solo nei primi anni del 2000. Sono venuti alla luce tredici codici papiracei, contenenti 52 testi dei quali ben 41 erano a noi precedentemente sconosciuti. Essi hanno rivoluzionato la nostra conoscenza della gnosi che prima era fondata quasi esclusivamente sui reports lasciatici dai maggiori eresiologi del ii-iv secolo. Di riflesso i manoscritti hanno gettato nuova luce sul cristianesimo primitivo. Si tratta per lo più di testi anonimi o pseudepigrafi o di autori identificati o presunti. Scritti originariamente in greco, essi sono stati tradotti in lingua copta nel corso del quarto secolo. Quasi tutti ci sono pervenuti in una forma redazionale che è quella data da un ignoto scriba e da uno sconosciuto compilatore. Nella gran parte dei casi non è difficile scorgere le parti originarie, le più antiche delle quali potrebbero risalire alla fine del primo secolo o a tutto il corso del secondo. Spesso la comprensione dei manoscritti è compromessa dallo stato frammentario e lacunoso con cui essi ci sono pervenuti. In compenso la loro dislocazione in un arco temporale abbastanza lungo ci permette di apprezzare gli sviluppi dottrinali tanto del cristianesimo quanto della gnosi. Il quadro complessivo che ci restituiscono delle dottrine gnostiche è assai variegato, per il semplice fatto che gli gnostici si articolarono in una molteplicità di sette o di comunità tanto da rendere pressoché impossibile individuare i termini di un loro comune sistema teologico-dottrinale. D’altro canto altrettanto approssimativa è la nostra conoscenza delle fasi evolutive e di transizione delle dottrine cristiane per il fatto che i testi a noi pervenuti sono di natura 1934; Id., The Gnostic Religion, the Message of the Alien God and the Beginnings of Christianity, Boston, Beacon Press, 1963.

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redazionale e rappresentano il punto di arrivo di una complessa elaborazione teologica. Ancor più oscure sembrano essere le differenze dottrinali o, se si vuole, le affinità ideologiche che forse in origine sussistevano tra le comunità protocristiane e quelle gnostiche. In linea di massima si può sostenere che nella produzione letteraria gnostica prevale una più solida radice filosofica, quasi sempre di derivazione ellenistica e platonica o, meglio, medioplatonica, laddove i vangeli sinottici e gli stessi Atti degli apostoli sembrano per lo più confluire nel filone di una scrittura di carattere più marcatamente popolare; di contro proprio per la presenza di un ingombrante simbolismo e di una irresistibile tendenza alla personificazione di concetti e alle facili ipostatizzazioni, la scrittura gnostica ha tutti i caratteri di una scrittura dotta. E forse proprio per questo essa sembra presentarsi più prossima al vangelo giovanneo e alle epistole paoline che non ai sinottici e agli Atti. In linea di massima i manoscritti di Nag Hammadi ci pongono di fronte alle seguenti tipologie di testi: 1) scritti gnostici, che si possono articolare in: 1a) testi gnostici sethiani; 1b) testi gnostici valentinani; 1c) testi gnostici di probabile ascendenza valentiniana; tali testi presentano tracce più o meno consistenti di cristianesimo e sono stati tutti compilati, nelle loro versioni originali, dalla prima metà del secondo secolo alla prima metà del terzo; 2) scritti cristiani, con tracce di gnosticismo; 3) scritti cristiani afferenti al cosiddetto «cristianesimo tommasiano»; 4) scritti ermetici, che sono fuori della nostra disamina. Manlio Simonetti(6) ritiene che si debba aggiungere un’ulteriore categoria di scritti che egli definisce decristianizzati, in quanto sarebbero successivi alla definitiva rottura tra cristianesimo e gnosticismo ovvero successivi alla esplicita condanna dello gnosticismo, come eresia, da parte dei cosiddetti eresiologi. Naturalmente se si parla di testi decristianizzati, si ammette implicitamente una precedente fase in cui gli stessi testi erano cristianizzati; e con ciò stesso si riconosce che almeno intorno al secondo secolo doveva esserci un forte intreccio di cristianesimo e gnosi. Si è detto che le sette gnostiche si presentano spesso con notevoli differenziazioni dottrinali, ma non mancano inequivocabili elementi di convergenza che possono essere riassunti nei termini seguenti: i) un’accentuata predilezione per la rivelazione segreta; questa, quando ha una curvatura cristiana, è riferita ad un insegnamento riservato da Cristo per lo più (6) M. Simonetti, Introduzione, in Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano, Mondadori, 2009.

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a pochi eletti nel breve intervallo – non quantificabile con puntualità – tra la resurrezione e l’ascensione; ii) il carattere superiore, elitario e spirituale di tale rivelazione; iii) l’insanabile dualismo di origine platonica tra la corruttibilità del mondo inferiore e l’incorruttibilità ed eternità di quello superiore; il primo associato alla presenza del male e del peccato; il secondo a quella del bene e della virtù. A tale dualismo si collega, o ne dipende, l’altro dualismo tra il corpo e l’anima, o meglio, tra il corpo e la scintilla divina, che, appartenendo al mondo incorruttibile, è imprigionata nel corpo materiale solo in forma transitoria. In generale tale scintilla più che con l’anima (psychē) coincide con lo spirito (to pnéuma); da qui la nota tripartizione degli uomini in spirituali o pneumatici, psichici e coici o materiali; iv) un impianto metafisico riconducibile all’emanatismo che garantisce la purezza della sfera trascendente e permette di spiegare il male come progressiva degradazione e allontanamento dal principio di tutte le cose, generalmente indicato come l’Uno. L’emanatismo, a sua volta, si esplica attraverso una serie intermedia di eoni, dei quali l’ultimo, il più basso, è generalmente il demiurgo, tratto dal Timeo platonico, ed identificato, come divinità inferiore, con Yhwh, il dio dell’Antico Testamento; v) il ruolo centrale della conoscenza, anche e soprattutto come conoscenza di sé; questa consiste nella scoperta della scintilla divina presente in noi, attraverso la quale si può conseguire la salvezza in un percorso a ritroso dal mondo sensibile al divino. Ciò implica che la redenzione riguarda innanzi tutto l’anima e non il corpo.

Così caratterizzate, le sette gnostiche conoscono una grande diffusione tra il secondo e il terzo secolo; nel corso del terzo secolo si ravvisano sintomi di infiacchimento del movimento che tuttavia continua a sopravvivere almeno fino al quinto secolo. Sui rapporti tra cristianesimo e gnosticismo le posizioni degli studiosi sono quanto mai contrastanti. La controversia si è accesa in ordine alla precedenza dell’uno o dell’altro movimento. Ci si domanda se è esistito uno gnosticismo precristiano, come vogliono autori come Rudolph e Schenke,(7)o se, viceversa, il cristianesimo ha preceduto le prime forme di gnosi. (7)  H. M. Schenke, Der Gott ‘Mensh’ in der Gnosis, ein religionsgeschichter Beitrag zur Diskussion uber die paulinische Anschauung von der Kirche als Leib Christ, Göttingen, Vanednhoeck und Ruprecht, 1962.

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Ma forse può essere fuorviante porre in termini così nettamente alternativi la questione, poiché non è improbabile che lo sviluppo delle dottrine cristiane e di quelle gnostiche si sia prodotto in contemporanea e in parallelo. E ciò sembra essersi verificato sia nelle loro rispettive fasi incoative tra la fine del primo secolo e i primi decenni del secondo, allorché compaiono i sinottici, sia nelle loro rispettive fasi più mature, ove le reciproche influenze emergono con più evidenza nel vangelo giovanneo e nelle lettere paoline. È significativo che la questione della precedenza dell’uno o dell’altro movimento sembra essere affiorata già verso la fine del ii secolo, come dimostra il fatto che se ne sia occupato Clemente Alessandrino.(8) Evidentemente gli gnostici vantavano la loro priorità ed erano contestati da Clemente, il quale così scrive: «Non occorrono molte parole per dimostrare che essi abbiano tenuto i loro conciliaboli umani posteriormente al sorgere della chiesa cattolica». Ed aggiunge che l’insegnamento del Signore risale al periodo di Tiberio e che la predicazione di Paolo si compì al tempo di Nerone. Di contro «gli iniziatori delle eresie sono sorti in tempi più recenti, all’incirca intorno al regno di Adriano e giunsero fino all’età di Antonino Pio». Basilide, infatti, sarebbe stato discepolo di Glaucia, interprete di Pietro, e Valentino sarebbe stato discepolo di Teoda che, a sua volta, sarebbe stato familiare di Paolo. Marcione fu loro contemporaneo e Simone avrebbe ascoltato la predicazione di Pietro. «Sicché – osserva Clemente – se così stando le cose, è evidente che rispetto alla più antica e vera chiesa tutte queste eresie sono venute dopo». Ciò che è singolare è che in prossimità della fine del secondo secolo non sembrano esserci certezze assodate circa le radici storiche dell’uno e dell’altro movimento e ci si muove per lo più sulla base di pregiudizi acquisiti. Naturalmente la realtà storica è assai più complessa di quanto Clemente voglia farci credere, perché la questione non può prescindere dall’epoca della composizione dei primi scritti cristiani e dei primi scritti gnostici, che sono da collocare, sia gli uni che gli altri, nei primi decenni del secondo secolo. Sicché la questione veramente pregnante non verte sulla priorità dell’una o dell’altra filosofia, ma verte sulle eventuali reciproche influenze dell’una sull’altra. E ciò vale tanto se facciamo risalire indietro le origini della gnosi e del proto-cristianesimo alla seconda metà del primo secolo, quanto se le spostiamo entrambe più avanti nel tempo intorno ai primi decenni del secondo secolo. Ciò che è certo è che in entrambi i casi il punto di massima oscurità sotto il profilo storico sta all’inizio dell’una e dell’altra religione. Da (8)  Clemente Alessandrino, Stromata, vii, 17.

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una parte la gnosi si fonda su una figura storicamente sfumata, come Simon Mago, dall’altra il cristianesimo si fonda su una figura altrettanto storicamente sfumata, come quella del Cristo. Paradossalmente l’esistenza storica dell’uno o dell’altro protagonista è indifferente o irrilevante, per il semplice fatto che ciascuno dei due vive nel mito (cristiano o simoniano). Le analogie che sussistono tra i due miti tradiscono la loro comune origine in un ambiente che era sostanzialmente cristiano-gnostico. Le testimonianze di Clemente Alessandrino e di Epifanio di Salamina,(9) nel momento stesso in cui pongono una linea di demarcazione tra gnosi e cristianesimo, si tradiscono riconoscendone una comune origine nella insuperabilità della gnosi o conoscenza, altrimenti non avrebbe avuto senso la loro discriminazione di una gnosi eretica, falsa, in contrapposizione ad una gnosi cristiana, data per vera. La figura di Simon mago è certamente leggendaria; di origini samaritane, egli sarebbe vissuto sotto il principato di Claudio, in un’epoca in cui, secondo la tradizione cristiana, sarebbero stati composti i vangeli sinottici e le epistole paoline. La sua figura è però avvolta nella nebbia; non ne conosciamo le dottrine se non da fonti assai tardive. Gli Atti degli apostoli, della metà del secondo secolo, ne parlano in termini molto vaghi. Ci dicono che egli viveva in una imprecisata città della Samaria, che praticava la magia e si spacciava per un personaggio divino. La popolazione della Samaria gli credette, perché sarebbe stata incantata dalle sue arti magiche; anzi ne sarebbe stata affascinata tanto da ritenere che in lui si manifestasse «la potenza di Dio, quella che è chiamata grande» (At, viii, 9-10). Secondo la contraddittoria narrazione degli Atti, Simone abbracciò la fede cristiana e si fece battezzare, ponendosi al seguito dell’apostolo Filippo. Ma presto si rese protagonista di un episodio di simonia (da Simone infatti prese nome la vendita di cariche ecclesiastiche) per aver offerto denaro a Filippo al fine di ottenere da lui il dono della imposizione delle mani. Rimproverato e anatemizzato per questo da Pietro, fu allontanato dalla comunità cristiana.(10) (9)  Clemente Alessandrino, Stromata, ii, 52; Epifanio di Salamina, Panarion, xxi. (10)  La versione degli Atti non è del tutto conforme a quella fornita dallo Ps.-Ippolito, Élenchos, vi, 20, 2, il quale non accenna ad episodi di simonia e riferisce il contrasto con gli apostoli e con Pietro non all’area samaritana, ma a Roma. Simone inoltre avrebbe predetto ai suoi discepoli che, se fosse stato sepolto vivo, sarebbe risorto il terzo giorno, ma i suoi discepoli attesero invano la sua resurrezione. Del tutto fantasiosa è la versione fornita da Clemente Romano, Recognitiones, ii, il quale pretende di sapere il nome del padre (Antonio) e della madre (Rachele) di Simone, ma confonde il nome della moglie Elena con Selene, «hoc est, Luna» e fa nascere l’eresia simoniana da un tal Dositeo, perso-

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È possibile stabilire la datazione degli episodi cui fanno riferimento gli Atti? La loro dislocazione nel testo cade dopo la lapidazione di Stefano, che, secondo la tradizione cattolica, risalirebbe al 36 d.C. Ma la cronologia degli Atti è poco affidabile. Infatti, il martirio di Stefano sarebbe successivo all’intervento di Gamaliele (At, vi, 1: come si inferisce dalla locuzione «in quei giorni» con cui si allude all’intervento di Gamaliele, At, v, 34-42). Nel suo discorso ai sinedriti Gamaliele ricorda che tempo addietro un tal Teuda radunò intorno a sé quattrocento uomini e si fece promotore di una rivolta; ed aggiunge che «dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento e persuase molta gente a seguirlo». È evidente che l’autore degli Atti attinge da Giuseppe Flavio, ma confonde l’ordine cronologico dei fatti. Giuseppe,(11) invero, colloca la rivolta di Giuda il Gaulanita o il Galileo in prossimità del censimento di Quirinio (6 d.C.) e reputa il ribelle fondatore della quarta filosofia, cioè degli zeloti. Nel Bellum Judaicum conferma la datazione,(12) collocando la rivolta di Giuda sotto Archelao e durante il governatorato di Coponio (6-8 d.C.). Ne consegue che la rivolta di Giuda non può essere, come vogliono gli Atti, posteriore a quella di Teuda che per Giuseppe si sviluppò sotto Cuspio Fado (45-46 d.C.).(13) Per di più Gamaliele si pone a distanza di tempo dalla rivolta di Teuda (l’espressione «prima di questi giorni» πρὸ γὰρ τούτων τῶν ἡμερῶν in At, v, 36, equivale a «qualche tempo fa») e il suo intervento è strettamente collegato al martirio di Stefano con l’espressione «in quei giorni» (ἐν δὲ ταῖς ἡμέραις ταύταις, vi, 1); sicché se ne deve dedurre che la narrazione relativa a Simon mago si riferisce ad una data posteriore al 4546. Per giunta lo stesso intervento di Gamaliele davanti al sinedrio dovrebbe essere posteriore al 45-46 e, pour cause, non sarebbe più riconducibile al martirio di Stefano. Di Simone non troviamo traccia in Giuseppe Flavio, salvo che egli non si debba identificare con quell’oscuro Simone di Gerusalemme (e non di Samaria) ricordato nelle Antiquitates(14) per essersi procacciata la fama «di scrupolosa religiosità» sotto Agrippa I (37-44) e quindi durante il principato di Claudio (41-54). In assenza del re, Simone rimproverò il popolo di non essere santo e di non essere degno di accedere al tempio riservato solo agli uonaggio storicamente molto sfumato. (11) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 4-23; xx, 102. (12) Giuseppe Flavio, BJ, ii, 117-118. (13) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 97-98. (14)  Ivi, xix, 332-334.

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mini puri. Altrettanto malcerte notizie su Simone ci vengono date da Giustino,(15) il quale ci dice che egli era un samaritano, nativo del villaggio di Gitton, e che al tempo di Claudio gli fu eretta una statua nell’isola Tiberina, recante l’iscrizione «Semoni Sanco Deo Fidio Sacrum» («Sacra a Semo Sanco Dio fidio»), malamente interpretata da Giustino: «Simoni sancto deo» (a Simone Dio santo). È evidente che l’apologeta confonde Semo Sanco, che è la divinità sabina preposta alla sacralità dei patti (perciò ‘sanco’ da ‘sancire’ e ‘fidius’, cioè fedele, affidabile) con il mitico Simon mago. Ciò che però è degno di rilievo in Giustino è il fatto che egli colleghi Simone alla gnosi, facendoci sapere che i samaritani lo veneravano come il primo dio, il quale si accompagnava con una certa Elena, tratta da un bordello e indicata come il suo «primo pensiero» (Ennoia). Né Giustino né Ireneo si rendono pienamente conto delle matrici gnostiche delle dottrine attribuite a Simone e, ironizzando sulla prostituzione di Elena, si lasciano sfuggire il fatto che nella antropogonia gnostica Elena era il simbolo dell’estremo decadimento del divino che, nella realtà del mondo, diventa succube della sessualità fino al punto più basso della prostituzione per poi intraprendere il cammino inverso della risalita e del processo ascensivo alla realtà divina. Dopo Giustino, con Ireneo e con lo Ps.-Ippolito, sulle figure di Simone e di Menelao il mito o la leggenda e la storia si sovrappongono, ma le dottrine che Giustino ed Ireneo attribuiscono a Simone sembrano appartenere ad una gnosi ancora in fase incoativa. Simone si presenta, nella versione di Ireneo, come «Potenza altissima» o «come Padre che è tutto» e si manifesta nella forma trinitaria del Figlio ai giudei, del Padre ai Samaritani e dello Spirito Santo ai gentili. Il processo discensivo dalla sfera spirituale del ‘primo pensiero’ al mondo materiale del peccato non è tanto un processo emanatistico quanto una progressiva trasmigrazione, d’ispirazione pitagorica, di Ennoia da un corpo all’altro fino alla estrema decadenza nel bordello. Simone incarna il mito cristiano della potenza superiore che è scesa trasfigurata tra gli uomini, del dio che è «apparso uomo pur non essendo uomo. E si è creduto che abbia patito in Giudea, mentre invece non ha patito». Egli è lo strumento della salvezza, la quale, anziché venire dalle opere giuste, viene dalla sua grazia. Da quale fonte attinge Ireneo le notizie sulla dottrina di Simone? Non lo sappiamo, perché egli non ce ne dà alcuna indicazione. Ma certamente si tratta di una fonte che fin dalla prima metà del ii secolo ha reinterpretato Simone in una cornice cristiana. (15)  Giustino, 1Apol., xxvi.

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Le dottrine che invece gli ascrive lo Ps.-Ippolito sembrano essere troppo mature come se fossero il prodotto di una gnosi più evoluta che viene retrotrasmessa ad una figura embrionale quale poteva essere quella di Simone. Il Simone che esce dalla sua penna ha indifferentemente tratti eraclitei, empedoclei, platonici, aristotelici, gnostici e cristiani con una forte predominanza della concezione del ‘fuoco’, principio di tutte le cose, e con un cedimento alle teorie aristoteliche della potenza e dell’atto. Su tutto confluiscono le radici ebraiche risalenti soprattutto ai versetti isaiani del «nuovo germoglio amato», dando così alla fine l’impressione che la Grande rivelazione (μεγάλη ἀπόφασις), che egli sembra avere sotto mano, non sia altro che un testo pseudepigrafo del tardo secondo secolo, scritto probabilmente per retrotrasmettere agli gnostici della prima ora i nuclei principali della gnosi più matura, nel tentativo di ricollegare il sistema valentiniano – o la mitologia valentiniana, come si esprime l’eresiologo – a quello simoniano. Ciò che è certo è che noi abbiamo solo una vaga idea di quelli che furono i contorni dottrinali dei primi gnostici. E forse ciò ci dà la più sicura conferma che la gnosi, nella forma storica in cui la conosciamo, fu, come il contemporaneo cristianesimo delle origini, il frutto di un lento processo di maturazione e di elaborazione intellettuale. è interessante notare che tanto gli Atti quanto l’Élenchos dello Ps.-Ippolito e le Recognitiones pseudo-clementine si richiamano ad una tradizione secondo cui la gnosi simoniana sarebbe nata come eresia all’interno del cristianesimo. Naturalmente i loro autori presuppongono un punto di vista cristiano. Ma tutto fa pensare che entrambe le forme settarie (cristiana e simoniana) derivino da un unico grembo ed assumano due direzioni diverse sulla base del modo di concepire il Cristo. Lo stesso Epifanio sembra accennare a questa situazione storica allorché nel Panarion,(16) introducendo i simoniani, scrive: «La prima eresia che cominciò dal tempo di Cristo in poi è quella di Simone il mago. Essa è di quelle che sono sorte nel nome di Cristo». Secondo Epifanio, Simone si presentava come Cristo e presentava Elena, la sua prostituta, come la sua Ennoia, ovvero come lo Spirito Santo o Prunikos, raffigurata anche come Atena, corazzata di giustizia (per Paolo, Ef, vi, 14: ἐνδυσάμενοι τὸν θώρακα τῆς δικαιοσύνης) o di fede (per Simone, Panarion, xxi, 3, 4; ἐνδυσάσθε τὸν θώρακα τῆς πίστεως). Ad Elena si riallaccia secondo Epifanio la parabola della pecora smarrita, intesa come creatura caduta nel peccato della vita terrena, ma dotata di una scintilla divina, per la cui salvez(16)  Epifanio di Salamina, Panarion, ii, xxi, 1.

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za il Salvatore-Redentore-Cristo discende nel mondo. Infine, secondo Epifanio, con Simone avrebbe avuto inizio la condanna dell’Antico Testamento e del dio della tradizione ebraica, declassato a divinità inferiore. L’eresiologo combatte aspramente le dottrine simoniane e dice che esse, per essere intrinsecamente contraddittorie, si demoliscono da sé; ma ciò che egli non riesce a nascondere è che alle loro rispettive origini la gnosi e il cristianesimo si nutrono di comuni principi dottrinali che solo nel corso degli ultimi anni del primo secolo e della prima metà del secondo si riconoscono progressivamente come afferenti a due diversi orientamenti ideologici. La pregiudizievole malevolenza degli eresiologici non ci consente di avere certezze sulla figura di Simone, ma non v’è dubbio che essa presenta non pochi tratti comuni a quella del Cristo; non tanto perché lo stesso Simone si sarebbe identificato con il Cristo o con «la grande potenza di Dio, discesa dall’alto», quanto per una certa affinità con le radici dottrinali dei primi sinottici. Infatti, egli dichiarava di essere il Padre e nello stesso tempo il Figlio: «Diceva di aver subito la passione, ma solo in apparenza».(17) Tale accusa di docetismo investiva non solo il simonismo, ma anche il proto-cristianesimo. Da Ireneo ad Epifanio Simone è accusato in coro di praticare la magia; ma lo stesso si potrebbe dire del Cristo, la cui attività miracolistica occupa circa un quarto del vangelo marciano e presenta tutti i tratti di un agire magico, quale può essere la potenza occulta assegnata alla parola (si pensi al valore carismatico di parole come effatà; talità kum; lo voglio, sii purificato; alzati e cammina) o al contatto fisico con la parte malata o all’imposizione delle mani. Entrambi propongono un insegnamento esoterico che ha come oggetto dei misteri che possono essere rivelati solo ai discepoli. Cristo insegna per parabole che sono inaccessibili a coloro che sono fuori («A quelli che sono fuori, tutto è detto per parabole», Mc, iv, 11; «alla folla annunciava la parola» per mezzo di parabole, le quali costituiscono nello stesso tempo una conoscenza riservata e accessibile ai discepoli: «in disparte ai suoi discepoli spiegava ogni cosa»). La comprensione delle parabole è il disvelamento del segreto: «Non c’è nulla di nascosto se non per essere manifestato, non c’è cosa segreta che non possa essere manifestata. Chi ha orecchi per intendere, intenda» «ὃς ἔχει ὦτα ἀκούειν ἀκουέτω».(18) Quest’ultima espressione non è un semplice invito all’ascolto, ma all’uso dell’intelligenza e della comprensione. L’intelligenza e la conoscenza sono strumenti essenziali per penetrare nei (17)  Epifanio di Salamina, Panarion, xxi, 1, 3. (18)  Mc, iv, 9, 22-24; vii, 16; Mt, xi, 15; xiii, 9, 43; Lc, viii, 8; xiv, 35.

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misteri divini (Mc, iv, 11-12). Infatti, coloro che non comprendono sono ἀσύνετοι (asýnetoi), privi di intelligenza. Tutto lascia supporre che nel primo cristianesimo, anche in quello trasmesso attraverso i sinottici, ci sia una matrice gnostica, di una gnosi tutto sommato ancora incipiente, fin dal vangelo di Marco. Sembrerebbe che la differenza più marcata, almeno stando alle versioni degli eresiologi, stia soprattutto nel mito del servo sofferente, che è senz’altro centrale nei sinottici, ma è solo accennato a proposito di Simone, il quale si sarebbe dichiarato pronto a risorgere entro il terzo giorno se fosse stato sepolto vivo. Ma forse questa sfasatura dipende dalla distorta versione fornita dagli eresiologi, che mirano a segnare la distanza tra Simone e Cristo e nel contempo non si lasciano sfuggire(19) che anche Simone sperimentò la passione. Sulla questione Epifanio sembra essere piuttosto reticente, mentre le fonti più tarde non si risparmiano di ridicolizzare la presunta ascensione di Simone, scambiandola con un fenomeno da baraccone quale la levitazione. Infine in entrambe le sette circolava una larvale idea del trinitarismo di Padre, Figlio e Spirito Santo. Per Marco e Matteo il Figlio è la stessa sapienza divina («Molti […] dicevano: da dove vengono queste cose? E che sapienza è questa che gli è stata data?»; «La sapienza del Signore si è manifestata nelle sue opere», Mc, vi, 2; Mt, xiii, 54; xi, 19). Anche Simone si presenta come Cristo, inteso come sapienza divina. La differenza più sostanziale sta nella figura dello Spirito Santo, che per Simone è femminile e si identifica con Elena ovvero con il ‘primo pensiero’, per i cristiani è invece figura maschile, sebbene all’atto del battesimo di Cristo, scenda sotto forma di colomba (καὶ τὸ πνεῦμα ὡς περιστερὰν καταβαῖνον εἰς αὐτόν), cioè di una figura femminile (Mc, i, 10; Mt, iii, 16; Lc, iii, 22; Gv, i, 32). Da questo punto di vista il simonismo sembra attecchire in gruppi ancora fortemente ebraici, per i quali lo spirito (in ebr. rū’ah) è di genere femminile e la trinità è concepita come un’unione familiare sul modello della trinità isiaca; di contro le prime comunità cristiane dipendono dalla lingua greca ove spirito (τὸ πνεῦμα) è sostantivo neutro. Forse una reminiscenza dell’ebraico rū’ah si può scorgere nella discesa della colomba, la quale non è più solo l’oggetto dell’offerta di riscatto secondo la legge mosaica (Lv, v, 7), ma è «figura “femminile dello Spirito Santo, come femminile è Ennoia in Simone. Ciò che emerge è che l’impianto dottrinale di fondo comune alle prime comunità gnostiche e a quelle cristiane è quello medioplatonico per cui il (19)  Epifanio di Salamina, Panarion, xxi, 1.

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rapporto tra mondo celeste e mondo terreno è caratterizzato dai processi discensivi e ascensivi; sicché il divino assume forma umana in funzione della salvezza dell’uomo e l’uomo, che ha in sé una scintilla divina, ritorna alle sue origini divine. In questo contesto la parabola matteana della pecora smarrita sembra essere più coerente nell’impianto simoniano, ove la pecora smarrita, che simboleggia la creatura caduta nel peccato, è salvata dal Cristo con la sua discesa dal cielo; in Matteo, invece, questa valenza escatologico-soteriologica sembra passare in ombra. Di contro l’elemento di maggior contrasto è nell’atteggiamento verso l’Antico Testamento. Le sette gnostiche hanno ormai varcato il Rubicone ed hanno preso le distanze dalla tradizione ebraica fino al punto di abbassare il ruolo di Yhwh al rango di un demiurgo; le sette cristiane al contrario si muovono nell’ottica di una radicale revisione della legge mosaica. 1.2.  La letteratura sethiana: caratteri generali Il termine ‘Sethiani’ è notoriamente presente negli eresiologi cristiani come Epifanio(20)ed è ampiamente utilizzato per indicare una specifica forma di gnosi e specifiche comunità gnostiche. A partire da Ireneo gli eresiologi, come Filastrio, lo Ps.-Tertulliano, Giovanni Damasceno, Teodoreto, lo Ps.-Ippolito ed Epifanio(21) ce ne hanno dato versioni diverse e talvolta contrastanti o non sempre perfettamente corrispondenti al quadro più genuino che emerge dai manoscritti di Nag Hammadi. Ireneo non sembra distinguere nettamente gli Ofiti dai Sethiani e li accomuna nella denominazione di Barbelioti, data la centralità del mito di Barbelo. Tuttavia nel complesso ci fornisce una accurata esposizione delle loro dottrine cosmogoniche e sostiene che da essi, come da un’idra di Lerna, sarebbe nata la scuola di Valentino. Ciò autorizza a supporre che le sette sethiane, almeno nei loro filoni principali, siano state anteriori al 130-140. Lo Ps.-Ippolito(22) ci dà un ampio panorama della dottrina dei Naasseni, la quale risulta (20)  Epifanio di Salamina, Panarion, iii, 39. (21)  Ireneo, Adv. haer., i, 6; Filastrio, De haeresibus, 3; Pesudo-Tertulliano, De praescriptionibus adversus haereticos, 2; Giovanni Damasceno, De haeresibus, 39; Teodoreto, Haereticarum fabularum, i, 14; Ps.-Ippolito, Élenchos, v, 19-22; Epifanio di Salamina, Panarion, iii, 39. (22)  Ps.-Ippolito, Élenchos, v, 7-9.

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così intrinsecamente fusa con quella cristiana da far pensare ad un complesso intreccio sinallagmatico tra proto-cristianesimo e gnosi ofito-sethiana, tanto da indurre l’autore a far luce sui testi neotestamentari attraverso le dottrine gnostiche e viceversa ad illustrare queste ultime attraverso passi, metafore e simbologie dei primi. Così l’uomo nuovo, di cui troviamo traccia in Efesini (ii, 15), è interpretato come figura androgina; l’invettiva paolina contro gli operatori del male (Rm, i, 20-27) è letta alla luce della dottrina gnostica; lo stesso accade per l’acqua viva in Giovanni (iv, 10); il mistero del tutto, prima svelato e poi scoperto è posto alla conoscenza di tutti, come lume che non sta sotto il moggio, ma sopra il candelabro (Mc, iv, 21; Mt, x, 27). In più ci sono suggestioni lessicali e simboliche: la pietra d’angolo, come sostanza da cui trae distinzione ogni paternità (Ef, iii, 15), Adamo e l’uomo interiore, l’opera d’argilla, la Gerusalemme, madre dei viventi, e infine l’acqua, il lievito, il sangue e la carne, la via, la porta, la voce che scende dall’alto da colui che è senza figura (ἀπώ τοῦ ἀχαρακτερίστου).(23) Non siamo di fronte a stratificazioni sovrapposte, come suggerisce Reitzenstein;(24) non c’è un originario strato pagano cui si sovrappone una stratificazione giudaica, seguita da un’integrazione cristiana; sono invece dottrine che nascono nel crogiolo sincretistico in cui le diverse sfaccettature ideologiche prendono la forma che hanno nei testi a noi pervenuti. Sicché alla fine gli apporti provenienti dal cristianesimo e quelli provenienti dalla gnosi risultano inscindibili. Più generico è Epifanio il quale afferma di essersi imbattuto in gruppi di Sethiani in Egitto e di conoscerne le dottrine anche a partire da fonti scritte (tra le quali cita una manciata di Allogeni, un libro di Abramo ed un’Apocalisse, forse di Allogene). Lo Ps.-Ippolito ritorna sui Sethiani per illustrarci il contenuto della cosiddetta Parafrasi di Seth. Si tratta certamente di uno scritto sethiano, che va però tenuto ben distinto dalla Parafrasi di Sem, la quale presenta un impianto metafisico-cosmologico pressoché simile (tre principi, la luce, le tenebre e lo Spirito puro, dotati di infinite potenze) ma ne differisce profondamente nella concezione del battesimo. Inoltre a differenza della Parafrasi di Sem, quella di Seth è uno scritto cristiano. È (23)  Rm, vii, 22; 2Cor, iv, 7; Gal, iv, 26; Gv,x, 9; v, 37. (24) R. Reitzenstein, Poimandres, Studien zur griechisch-ägyptischen und frühchristlichen Literatur, Leipzig, Teubner, 1904, p. 83; Id., Hellenistic Mystery Religions; their Basic Ideas and Significance, Pittsburgh, The Pickwick Press, 1978, conferma le radici ermetiche delle lettere paoline.

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tuttavia di grande interesse la spiegazione che essa ci dà del concetto di sigillo (σφραγίς), vocabolo, come si sa, ben noto nella letteratura neotestamentaria, spiegato in termini di effetto o impronta che nello scontro delle potenze, una potenza lascia nell’altra; e poiché le potenze sono infinite, infiniti sono anche gli scontri e infiniti i sigilli. La definizione di testi sethiani dipende dal fatto che essi hanno in comune il tema della «grande generazione» e del «seme di Seth» come l’autentica generazione di Adamo dopo la tragica conclusione della vita di Abele e di Caino. Questo accento sulla nuova generazione umana è presente tanto nella fonte yhawista, quanto in quella sacerdotale della Genesi: per la prima il punto di riferimento è Gn, iv, 25 («Adamo si unì ancora a sua moglie, che partorì un figlio e lo chiamò Seth: ‘Dio mi ha dato un altro discendente al posto di Abele, ucciso da Caino’ […]. Allora si cominciò a invocare il nome di Yhwh»); per la seconda il punto di riferimento è Gn, v, 3 («Adamo aveva centotrent’anni quando generò un figlio a sua somiglianza e sua immagine e lo chiamò Seth»). Ed essendo stato Adamo creato ad immagine e somiglianza di Dio, anche Seth è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. È in questo senso che i sethiani parlano di generazione divina o di ‘seme’ o di ‘discendenza’ di Seth. Hans-Martin Schenke,(25) che coglie nei testi in esame un «pensiero sethiano» e ne definisce i contorni dottrinali, individua giustamente nella mitologia della generazione sethiana uno dei tratti tipici della gnosi sethiana. In altri termini per definirsi sethiano, un testo deve contenere i tratti salienti di una mitologia che si può così sintetizzare: l’appartenenza alla discendenza di Seth, considerato come il Salvatore celeste, partecipe della divina trinità del Padre o spirito Invisibile, della madre Barbelo e del figlio Autogene. Da questi derivano i quattro luminari (Harmozel, Oroiael, Davethai e Eleleth). Da Eleleth deriva Sophia che, a sua volta, genera Yaldabaoth (talvolta denominato anche Sakla o Samael), per lo più identificato con Yhwh, il Dio dell’A.T., creatore del mondo materiale e del male e dotato di un potere demoniaco con il quale mette in atto azioni distruttive, tese a far scomparire il seme santo di Seth, dapprima con il diluvio e poi con il fuoco che devasta Sodoma e Gomorra. Alla fase discensiva dall’essere supremo al mondo dominato dal male, per una probabile influenza platonica, si oppone una fase ascensiva, che è quella soteriologica ed escatologica, per cui attraverso l’azione salvifica della Madre Barbelo, viene rivelata agli uomini la (25) H. M. Schenke, Das sethianische System nach Nag Hammadi-Handschriften, «Studia Coptica», 1974, pp. 165-172.

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loro scintilla divina, trasmessa da «Eva spirituale» (Epinoia); è così garantita la salvezza attraverso Seth, o attraverso Cristo come figura di Seth, per cui viene impartito il battesimo dei cinque sigilli. Come spiegare questo radicale stravolgimento della figura divina dell’Antico Testamento, se pensiamo che la mitologia sethiana è chiaramente di ispirazione giudaica? Essa nacque nelle comunità giudaiche della diaspora le quali radicalizzarono sempre più il problema del male. L’esistenza del male aveva già a lungo assillato le comunità giudaiche fin dai tempi della cattività babilonese, ma non aveva ancora prodotto la rottura con la fede tradizionale nel mito di Yhwh, dio nazionale, e di Israele, popolo eletto. Sono espressione di questa fase storica, tra il terzo secolo a.C. e il primo d.C., i testi del Trito-Isaia, di Daniele, del 4Ezra, della Sapienza e la grande letteratura essenica ed enochica. Il trauma subito con la distruzione del tempio (70) e di Gerusalemme (132-135) contribuisce a rendere sempre più ossessiva l’idea del male fino a travolgere il mito di Yhwh, non più considerato il dio misericordioso, ma una sorta di divinità inferiore, in quanto creatore del mondo, dominato dal male. Questa rivisitazione della tradizionale mitologia giudaica avviene anche grazie all’incontro con la cultura ellenistica soprattutto nella forma del medioplatonismo, non senza manifesti influssi della filosofia stoica. Si tratta di forme di ellenismo diffuse nel territorio siriano, in Antiochia prima, e in parte anche in Edessa, e nel territorio egizio-alessandrino, da cui derivano le divinità teriomorfe e le prime forme di emanatismo. In ogni caso la presenza ellenistica è manifesta nella curvatura filosofico-metafisica del dualismo mondo celeste-mondo terreno (che forse ha radici sia greche sia iraniche), nell’idea della creazione affidata agli dèi inferiori,(26)nel duplice processo di discesa e di ascesa dalla sfera divina a quella materiale del peccato e viceversa, nel pitagorismo connesso alla trasmigrazione delle anime, nella concezione dell’immortalità dell’anima, etc. Le influenze giudaiche si riscontrano in particolare nella mitizzazione di Sophia secondo una linea di pensiero che passa attraverso i Proverbi, il Siracide e la Sapienza. La sapienza nei Proverbi, pur essendo personificata, è ancora prevalentemente in una dimensione umana e soggettiva, come scelta o ricerca della conoscenza di Dio o come dono di Yhwh (Pr, ii, 5; iii, 13; Pr, ii, 6), ma è anche ipostatizzata come possesso eterno del Signore, che esiste fin dall’inizio e precede le origini della terra, gli abissi, le fonti d’acqua, le montagne, etc. (Pr, viii, 22-31). Non diversa è la mitologia presente nella Sapienza di Salomone (vii, 17-21, (26) Cfr. Platone, Timeo, 42e-43a.

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ove la sapienza è un dono divino che si concretizza in conoscenza infallibile della realtà, comprensione del cosmo, del principio e della fine dei tempi, dell’alternarsi delle stagioni, dei cicli astrali, della natura degli animali, della varietà delle piante) e nell’elogio della sapienza nel Siracide (xxiv), ove essa è parola dell’Altissimo, parola attraverso cui Dio crea, alimenta ed illumina il mondo. Nella mitologia sethiana Sophia si articola in una serie di principi femminili, dalla Madre Barbelo, che è il primo pensiero (Protennoia, Pronoia) dello Spirito Invisibile, fino ad una Sophia inferiore che genera Yaldabaoth e fino ad Epinoia o Eva spirituale che riaccende nell’umanità la scintilla divina lasciata dall’essere supremo. La gnosi o conoscenza svolge in tutto questo processo un ruolo decisivo perché è solo attraverso la conoscenza della propria matrice divina che si giunge alla salvezza. L’azione salvifica si svolge o dall’alto in via discensiva o dal basso in via ascensiva. Discensiva è l’azione della Madre della trinità sethiana che risveglia nell’uomo l’aspirazione a ricongiungersi con il divino o quella della discesa del Lógos o Salvatore che può essere lo stesso Seth o Gesù (su questa linea discensiva si pongono testi come l’Apocalisse di Adamo, la Protennoia triforme, il Libro segreto di Giovanni, il Vangelo di Giuda). Ascensiva è invece l’azione salvifica che riscontriamo in testi sethiani come Zostriano, l’Allogene, Marsane e le Tre stele di Seth. Per quanto riguarda la datazione dei testi sethiani va detto che il Vangelo di Giuda e il Libro segreto di Giovanni, per essere noti ad Ireneo,(27) sono certamente anteriori al 180-190. D’altra parte, nella sua Vita di Plotino, Porfirio ci fa sapere che i testi di Zostriano e Allogene circolavano tra i membri della scuola neoplatonica di Roma ed erano altresì oggetto di confutazione da parte dello stesso Plotino.(28) John Turner ritiene che almeno la sezione finale della Protennoia trimorfe risalga al 125-150; infatti scrive che essa «sembra riflettere il dibattito sulla interpretazione del quarto Vangelo che ebbe luogo nel tempo in cui fu scritta la prima lettera di Giovanni, forse intorno al 125-150 d.C.».(29) Ma ciò dà come presupposta, prima del 125, la composizione del vangelo giovanneo che non può essere anteriore al 150; sicché il dibattito cui fa riferimento Turner va spostato nella seconda metà del secondo secolo. Turner assegna (27)  Ireneo, Adv. haer., i, 29. (28) Cfr. Plotino, Enneadi, iii, 8, 30; v, 5, 22; ii, 9, 33. (29)  J. D. Turner, The Sethian School of Gnostic Thought, in M. Meyer (ed.), The Nag Hammadi Scriptures, New York, 2007, pp. 784-789: «seems to reflect the debate over the interpretation of the Fourth Gospel that occurred around the time of the writing of the first Letter of John, perhaps around 125-150 CE».

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alla prima metà del secondo secolo la Protennoia trimorfe, il Libro segreto di Giovanni e il Vangelo di Giuda, mentre colloca nel tardo secondo secolo o nel primo terzo secolo l’Ipostasi degli arconti, il Libro sacro del Grande Spirito Invisibile, il Pensiero di Norea, Melchizedek e l’Apocalisse di Adamo. La versione fornita da Ireneo(30) è piuttosto confusa e poco rispondente ai testi sethiani di Nag Hammadi. È però di grande rilievo il fatto che l’eresiologo colleghi gli gnostici sethiani o, come egli li chiama, Barbelioti, alla setta dei simoniani. Infatti scrive: «Da quelli che prima abbiamo denominato Simoniani è nata una moltitudine di gnostici, che sono usciti dalla terra come funghi». La sua esposizione dottrinale appare confusa perché egli ha la pretesa di sintetizzare le diverse teorie propugnate dai sethiani e finisce con il tracciare un panorama che non si adatta forse a nessuno degli scrittori gnostici a cui fa riferimento. Se però li fa derivare dai Simoniani significa che ne dà una datazione che potrebbe risalire alla seconda metà del primo secolo, certamente dopo la distruzione del tempio. Naturalmente tale datazione varrebbe per i primi testi sethiani che di fatto noi non conosciamo, perché quelli a noi pervenuti sono già il frutto di una compilazione redazionale più matura. Ciò non toglie che, pur in questa veste, i testi di Nag Hammadi sono di straordinaria importanza, perché ci lasciano intravvedere alcune dottrine che sembrano essere più antiche. Un esempio può essere dato dal concetto di Spirito Santo. In origine la trinità gnostica sembra essere stata concepita sulla scorta di un modello familiare, con la composizione del Padre (l’Uno Invisibile), della Madre o Spirito verginale e del Figlio. Poiché nel passaggio dalla lingua ebraica al greco lo spirito (tó pnéuma) è neutro, si perde il significato della relazione coniugale (in senso spirituale) tra il Padre e la Madre. Ciò emerge chiaramente nella sintesi che ce ne dà Ireneo: C’è nell’Abisso una prima luce incorruttibile, infinita; questo è il Padre, invocato come primo Uomo. Il Pensiero, che da lui procede, è il Figlio dell’Uomo, il Secondo Uomo. Sotto costoro c’è lo Spirito santo e sotto stanno gli elementi separati: acqua, tenebre, abisso, caos; al di sopra passa lo Spirito che chiamano Prima Donna; poi, esultando il Primo Uomo per la bellezza dello Spirito, cioè della donna, e illuminandola, da lei generò una luce incorruttibile, il Terzo Uomo, che chiamano, Cristo, figlio del Primo e del Secondo Uomo e dello Spirito Santo, Prima Donna.(31) (30)  Ireneo, Adv. haer., i, 29. (31)  Ireneo, Adv. haer., i, 30.

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Da qui si evince non solo che il Cristo è ormai inglobato nella catena delle ipostatizzazioni gnostiche, ma anche che lo Spirito Santo aveva una originaria natura femminile. Ciò significa che la nuova natura maschile che si stabilisce sulla scorta della lingua greca è posteriore rispetto a quella originaria di origine ebraica. 1.3.  Testi sethiano-cristiani: il Libro del Grande Spirito Invisibile Una manciata di testi sethiani, restituitici fortunosamente tra i manoscritti di Nag Hammadi, ha incrociato in un modo o nell’altro il cristianesimo fin dalle sue origini nella prima metà del secondo secolo. Ne do uno sguardo panoramico per ragioni di completezza e per gettare una luce su quello che può essere stato il comune terreno di coltura della gnosi e del protocristianesimo. Il Libro del Grande Spirito Invisibile (NHC III, 2; NHC IV, 2), pervenutoci in due copie, è chiaramente un testo ascrivibile alla corrente gnostica dei sethiani, benché subisca solo epidermicamente l’influenza cristiana. Il titolo citato è nel prologo, ma il colophon suggerisce il titolo Vangelo degli Egiziani. Esso tuttavia non mostra alcuna corrispondenza con il Vangelo degli Egiziani menzionato da Clemente Alessandrino. Si tratta in ogni caso di un trattato molto complesso e di difficile lettura soprattutto per la sovrabbondanza di nomi affatto sconosciuti e per la presenza di formule liturgico-rituali di non facile interpretazione. Si compone di una cosmologia, di una narrazione degli atti di Seth e di una arzigogolata liturgia del battesimo. Non è ben chiaro se l’autore identifichi il Cristo con Gesù, ma soprattutto è curioso il ruolo di semplice veste che egli assegna al Figlio di Dio: «Seth – egli scrive – ha istituito il santo battesimo che supera i cieli per mezzo di un incorruttibile generato dalla Parola, il Gesù vivente, con cui il grande Seth si è vestito». Ma la cosa più sorprendente è la chiusura del saggio, in cui il copista dichiara di chiamarsi Congessos, come nome mondano, ed Eugnosto, come nome spirituale; asserisce che «il Vangelo degli Egiziani, è un sacro libro segreto» ed è «scritto da Dio»; dichiara che l’intelligenza, la grazia, la percezione e l’intelletto sono i suoi colleghi luminari e che Gesù è il Figlio di Dio, Ikhthys (che in greco significa ‘pesce’ ed è l’acrostico greco di «I[esous] Kh[ristos] TH[eou] Y[ios] S[oter]», ragion per cui il pesce entra nella simbologia cristologica). Il nome di Eugnosto ritorna nell’Epistola di Eugnosto il Benedet-

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to» (NHC III, 3; NHC V, 1), che non presenterebbe particolare interesse per la storia delle prime comunità cristiane, se non fosse per il fatto che la dottrina in esso contenuta è puntualmente la stessa esposta nella Sapienza di Gesù Cristo (NHC III, 4; Berlin. Gnostic Codex 8502; P. Oxy 1081), un noto dialogo gnostico-cristiano scoperto nei codici di Nag Hammadi. 1.4.  Testi sethiano-cristiani: l’Apocrifo di Giovanni Sethiano è anche l’Apocrifo di Giovanni, citato anche con il titolo Libro segreto di Giovanni, pervenutoci in quattro recensioni, due lunghe (NHC II, 1; NHC IV, 1) e due brevi (NHC III, 1; Codex Berolinensis Gnosticus BG 2). Era forse noto ad Ireneo, allo Ps.-Tertulliano e a Teodoreto di Cirro.(32) Molto probabilmente la versione lunga dovrebbe essere più tardiva e dovrebbe risalire alla seconda metà del secondo secolo; quella più corta è forse databile alla prima metà dello stesso secolo. Difficile dire quali possano essere stati i rapporti tra l’Apocrifo e il Vangelo di Giovanni, perché, per essere stati scritti entrambi intorno alla metà del secondo secolo, si possono supporre influenze tra l’uno e l’altro in entrambe le direzioni. Il testo si apre con un dibattito di Giovanni con i farisei che genera nell’apostolo alcuni dubbi sulla venuta del Nazareno. I dubbi sono: perché egli è stato mandato nel mondo dal Padre? Chi è il Padre che lo ha mandato? Quale tipo di regno eterno ci sarà assegnato? Perché ce ne ha parlato come un regno modellato sulla realtà incorruttibile, ma non ci ha insegnato che tipo di eone egli è? A monte di tutti questi dubbi e interrogativi la vera domanda che sottende tutta la narrazione è la seguente: come si è originato il male nel mondo? Com’è stato possibile che dalla sorgente purissima di tutte le cose siano derivati il male e la menzogna? Per dare una risposta a questo interrogativo l’autore ricostruisce la genesi del mondo; riscrive e reinterpreta il primo libro dell’Antico Testamento, spostando il principio di tutte le cose dal Dio all’Uno. Nel compiere questo passaggio egli fonde insieme tematiche provenienti dalla Genesi ebraica con altre di origine stoica e platonica in una cosmogonia sincretistica, in cui i principi del pensiero filosofico-teologico vengono personificati sconfinando in una visione di stampo mitologico. Infatti mentre si trova nel deserto, Giovanni assiste ad una ierofania; all’im(32) Ps-Tertulliano, De praescriptionibus adversus haereticos, xlvii, PL. II, col. 62; Teodoreto di Cirro, Compendium haereticarum fabularum, i, 14, PG. lxxxiii, coll. 363-368.

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provviso il Salvatore, che non assume mai il nome di Gesù e si trasforma da giovane in anziano, gli appare in una luce splendente, al cui interno si staglia una figura triforme, che è nel contempo il Padre, la Madre e il Figlio e si dichiara incorruttibile e senza macchia. Si tratta, com’è evidente, della trinità gnostica in cui lo Spirito Santo (ebr. rū’ah ‫)רוח‬, è sostituito dalla «Madre». Essa non va confusa con la trinità cristiana, perché è piuttosto il frutto di una confluenza di concetti provenienti dalla tradizione giudaica con quelli derivanti dalla filosofia medioplatonica. Della stessa natura è l’esposizione della storia del creato, che è insieme una cosmogonia e una teogonia. Il principio sovrano di tutte le cose è l’Uno, il quale è il Padre del Tutto, l’invisibile che è sul Tutto, incomprensibile, pura luce. Più grande di un Dio, non ha nulla sopra di sé e nella sua assoluta trascendenza non è nelle cose inferiori, benché ogni cosa esista in Lui. Ed è descrivibile solo nei termini di una teologia apofatica, per via di negazioni che ci dicano che cosa egli non è piuttosto che ciò che egli è. L’Uno infatti è illimitabile, insondabile, immisurabile, invisibile, eterno, inesprimibile, ineffabile; è luce pura, santa, immacolata, perfetto nella incorruttibilità, non è né corporeo né incorporeo, né grande né piccolo; nessuno può comprenderlo. Egli è il regno che dà un regno, la vita che dà vita, il benedetto che dà la benedizione, il bene che dà bontà, misericordia e redenzione, è grazia che dà la grazia. I contorni teologici dell’Uno sono, come si vede, chiaramente definiti. La teologia apofatica ha la funzione di esaltare l’eccentricità e la trascendenza dell’Uno, il quale, proprio per questa sua trascendenza, non può essere mescolato con il male, con la divisione e con la corruttibilità delle cose terrene. Da ciò deriva la necessità di una teologia dell’emanazione, in cui il passaggio dal bene al male sia diluito in una serie di divinità intermedie, che generano il mondo corruttibile, allontanandosi dall’origine di tutte le cose. Ma come può introdursi la divisione in un ente così perfetto? La spiegazione dell’Apocrifo è che la divisione nasce platonicamente da una sorta di riflessione; nella sua luce circonfusa, il padre è la primavera dell’acqua viva e riflette in essa, come nel mito di Narciso, di ovidiana memoria, la primavera dello Spirito. Così il suo pensiero diviene realtà; la luce si fa avanti dalla sua mente come Pronoia (Preconoscenza o prescienza) del Tutto; risplende come quella del Padre; come potenza perfetta è immagine dello Spirito Vergine, Perfetto e Invisibile. Protennoia (il primo pensiero) è dunque la prima potenza, la divina Madre Barbelo, il grembo universale, che si congiunge con Pronoia, con Aphtharsia (incorruttibilità/indistruttibilità), con Zoe (vita eterna) e

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con Aletheia (verità). Queste sono tutte entità femminili (in greco sono tutti nomi femminili) e costituiscono la Pentade che, unita alle corrispondenti entità maschili (syzygie), dà luogo alla Decade. Il Padre guardò in Barbelo (nome derivante dal copto berber = traboccare) e dalla sua luce circonfusa generò l’unico Figlio di Metropater, il quale in presenza dello Spirito fu unto. Il Figlio chiese di congiungersi con la Mente, la quale volle creare qualcosa per mezzo della Parola dell’Invisibile Spirito. Nacque così il divino Autogene, che creò tutte le cose per mezzo della Parola. Dall’Autogene derivarono quattro luminari (Harmozel, Oroiael, Daveithai ed Eleleth) ciascuno dei quali generò tre eoni per un totale di dodici eoni. Da Pronoia della Mente perfetta attraverso il volere dell’Autogene e dello Spirito invisibile si genera Pigeradamo o Geradamo (in ebr. ger Adam = l’Adamo santo o spirituale), l’uomo perfetto, che unge il Figlio Seth per il regno eterno. Questa prima parte non ha di cristiano se non la cornice generale con un generico accenno al Nazareno e all’apostolo Giovanni. Viene spontaneo pensare che si tratti di un testo originariamente di matrice gnostico-sethiana, manipolato da un autore cristiano. Alla prima parte, dominata da una sorta di armonia universale in cui «le creature glorificano lo Spirito Invisibile», si contrappone la seconda in cui Sofia, che è «la sapienza di Epinoia» (Epinoia = intuizione), rompe l’ordine dell’universo, non agisce in armonia con il suo consorte (sýzygos σύζυγος) e genera un figlio mostruoso, Yaldabaoth, l’arconte che ha la forma di un serpente con la testa di leone, con evidente reminiscenza delle divinità teriomorfe di origine egiziana. La stessa Sofia è contrariata dalla mostruosità del figlio; perciò avvolge Yaldabaoth in una nube di luce e lo colloca su un trono nel mezzo della nube in modo che nessuno, eccetto lo Spirito Santo, possa vederlo. Dal canto suo Yaldabaoth (dall’aramaico = figlio del caos), che, come Yhwh si proclama Dio unico («Io sono Dio e non c’è altro dio fuori di me»), genera da sé altri dodici eoni (collegati con i dodici segni zodiacali), dei quali sette regnano sui sette cieli (i pianeti allora conosciuti, associati ai sette giorni della settimana) e cinque governano le profondità dell’abisso. Da essi dipende la luminosità o l’oscurità delle cose. Ciascun eone genera sette potenze e ciascuna potenza genera sei angeli per un totale di 365 angeli (pari al numero dei giorni di un anno solare). In realtà il conto non torna perché 12 x 7 x 6 = 504. In ogni caso la distribuzione degli eoni, delle potenze e degli angeli pone l’intero ordine universale sotto il potere di Yaldabaoth, il quale, vedendosi circondato da angeli, dice ad essi: «Io sono un dio geloso» e svela così l’esistenza di un

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altro Dio, perché se non ci fosse un altro dio, non avrebbe senso dichiararsi ‘geloso’. Il senso generale del racconto è che il male è comparso nell’universo ancor prima della creazione dell’uomo ed ha origine, più che dalla caduta di Adamo nel peccato, dalla caduta di Sofia, che, sconvolgendo l’ordine universale, ha dato vita ad un arconte mostruoso e ignorante. Sofia sente che le vien meno la luminosità, comprende che la sua caduta deriva dalla mancata collaborazione con il proprio partner, si pente e le sue preghiere giungono fino al Plérōma, con il cui consenso può accedere al nono cielo, ove rimarrà fino a che non sarà ristabilito ciò che le è mancato. A partire da questo punto la narrazione non è che un sorta di rifacimento della Genesi. Una voce dall’alto dei cieli enuncia: «Esiste l’uomo ed esiste il figlio dell’uomo». Yaldabaoth ha le stesse funzioni di Yhwh e dice «Facciamo una creatura umana ad immagine di Dio e a nostra somiglianza, in modo che essa possa darci luce». Viene creato Adamo, come uomo perfetto, costituito di sette anime (bontà, prescienza, divinità, signoria, regalità, gelosia, intelligenza). Infine Yaldabaoth soffia su Adamo e il suo corpo assume la vita. Venuto alla luce da tutte le potenze, «Adamo era più intelligente dei suoi creatori e del primo arconte. Quando questi si resero conto che egli era illuminato e poteva pensare più chiaramente di loro ed era libero dal male, lo presero e lo gettarono nel luogo più basso di tutto il regno materiale». Ne ebbe compassione il Metropater che gli mandò in ausilio Epinoia (l’intuito), la quale fu nascosta in lui in modo che gli arconti non potessero scorgerla. «Essa tuttavia era capace di ristabilire le mancanze della Madre». Ciò significa che in Adamo c’è il marchio del male, ma c’è anche la scintilla divina che può ricondurlo sulla via della salvezza escatologica. Poiché l’Adamo spirituale si era rivelato una creatura superiore, gli arconti decisero di ricrearlo. Impastarono nuovamente i quattro elementi (terra, acqua, fuoco e spirito) e crearono l’Adamo carnale e terrestre (la doppia nascita di Adamo serve all’autore per spiegare la doppia narrazione della sua nascita nel testo della Genesi). Dopo di che lo condussero nell’Eden e lo invitarono a mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma Adamo disobbedì al primo arconte, che si vide costretto a sottrargli parte dei suoi poteri, lo fece cadere in un sonno profondo, in modo da fargli perdere il ricordo della sua origine divina e creò Eva, la figura femminile, che suscitò in lui il desiderio sessuale e lo fece cadere nel peccato. Il primo arconte profanò Eva e generò due figli, ‘êlōhîm e Yhwh. Ma il pessimismo degli gnostici, soprattutto in merito alla corruttibilità del mondo, è attenuato da quella scintilla divina che è Epinoia, sicché nel paragrafo

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sul destino umano (25, 16 -30, 11) la via della salvezza è indicata nel battesimo («Coloro sui quali discenderà lo spirito della vita saranno salvi»). Il testo si chiude con l’Inno del Salvatore. 1.5.  Testi sethiano-cristiani; l’Ipostasi degli Arconti Di grande interesse è anche l’Ipostasi degli Arconti (NHC II, 4) il cui titolo compare nel colophon. Di autore ignoto, esso è un testo sethiano-cristiano, come dimostra il fatto che fin dalle prime battute contiene la citazione dell’Epistola ai Colossesi e di quella agli Efesini (Col, i, 13; Ef, vi, 12). In realtà la citazione più o meno testuale è tratta dagli Efesini. Non è improbabile che le citazioni siano il risultato di un intervento posticcio, ma in sé sono significative, poiché conferiscono al testo paolino una lettura gnostica, se la lotta è intesa come combattimento contro le «potenze malvagie» ovvero contro gli arconti. L’opera ha la forma letteraria di un’epistola scritta in risposta alla domanda sulla natura o sostanza degli arconti. Il capo degli arconti è cieco, ignorante e arrogante. Si dichiara Dio: «Io sono Dio e non c’è altro Dio fuori di me». Gli risponde dal cielo l’Incorruttibilità e lo accusa di falso. Allorché l’Incorruttibilità guardò verso la regione delle acque, apparve in esse riflessa la sua immagine; gli arconti dell’oscurità se ne innamorarono, ma non poterono afferrarla perché ciò che appartiene alla sfera dell’anima non può afferrare ciò che appartiene alla sfera dello spirito. Infatti, gli arconti appartenevano ad un mondo inferiore, l’Incorruttibilità ad uno superiore. La sua immagine riflessa portò, per volere del Padre, la luce ad unirsi alla luce. Gli arconti decisero di creare Adamo ed Eva, ovvero delle creature terrene, a somiglianza dell’immagine divina riflessa nell’acqua. Samael soffiò sul loro volto e gli uomini acquisirono la loro anima. Ma gli arconti, per volontà del Padre, non poterono catturare l’immagine divina. Il racconto prosegue come una sorta di commento midrashico della Genesi. Gli arconti invitarono Adamo a mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma non ottennero alcun risultato. Lo fecero cadere in un sonno profondo e su di lui scese la «donna spirituale» o «Eva spirituale». Gli arconti tentarono di possederla, ma, quando l’afferrarono, Eva si trasformò in albero (una metamorfosi che ricorda da presso il mito greco di Dafne). A questo punto Eva spirituale assume la forma di Eva fisica e induce Adamo a mangiare dei frutti dell’albero; subito la loro imperfezione si manifesta

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nella loro ignoranza ed essi capiscono di essere stati privati della spiritualità. Adamo ed Eva fecero sesso; generarono Abele e Caino e, dopo la loro morte, diedero alla luce Seth. Dopo Seth Eva generò Norea «una vergine in aiuto a molte generazioni di uomini». Così l’umanità si moltiplicò. Gli arconti progettarono di punire l’umanità con il diluvio ed ordinarono a Noè di costruire un’arca. Norea si oppose al loro piano che era quello di sedurre la madre Eva. Perciò li ostacolò provocando più volte l’incendio dell’arca e proclamandosi entità superiore. L’arconte minacciò di possederla e Norea invocò il Padre del Tutto. Scese in suo aiuto dal cielo l’angelo Eleleth e la istruì sulle sue radici divine. L’angelo, il cui viso e la cui voce sono ineffabili, dice a Norea di essere l’Intelletto, uno dei quattro luminari che stanno al cospetto del Grande Spirito Invisibile, e le rivela che, essendo dotata di una radice divina, non è soggetta ai poteri degli arconti, che non hanno su di lei alcun potere, perché la sua casa è l’Incorruttibilità «dove dimora lo Spirito verginale che è superiore alle potenze del caos e del mondo». Eleleth riprende la storia partendo da Pistis Sophia che, da un’ombra formata sotto la tenda degli eoni, ha creato senza un partner un androgino, una bestia di natura materiale come un feto abortito. Vedendosi circondata da un ammasso di materia senza limiti, la bestia (Sakla-Yaldabaoth) divenne arrogante, si dichiarò Dio, al di fuori del quale non ce n’è altri e creò per sé una discendenza di sette androgini, simili al padre. Ma Zoe, la figlia di Sophia, lo accusò di menzogna, soffiò su di lui e il suo respiro divenne un angelo che gettò Yaldabaoth nel Tartaro. Sabaoth, figlio di Yaldabaoth, di fronte alla potenza dell’angelo, si pentì e detestò la madre materia; invocò l’aiuto di Sophia e di Zoe, le quali lo collocarono nel settimo cielo e lo nominarono Dio degli eserciti. Zoe gli insegnò le cose che riguardavano l’ottavo cielo. Quando Yaldabaoth vide che Sabaoth era così esaltato lo invidiò e la sua invidia divenne un sorta di androgino. Così l’invidia entrò nel mondo e produsse la morte. Ma ogni cosa è accaduta secondo il volere del Padre del Tutto. Nella conclusione l’ignoto autore chiede al Signore se viene dalla materia. E il Signore gli risponde: «Tu e la tua generazione venite dal Padre che esisteva fin dall’inizio. L’anima viene dal mondo superiore, dalla luce incorruttibile». Sicché gli arconti non possono approcciarli, perché dentro di sé essi hanno lo spirito di verità e «tutto ciò che conosce questo cammino della verità è immortale». Tuttavia questa discendenza non è destinata ad apparire ora, ma apparirà dopo tre evi e sarà libera dall’errore degli arconti, quando cioè gli uomini saranno liberati dal «pensiero cieco».

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1.6.  Testi sethiano-cristiani: Protennoia trimorfe Protennoia Trimorfe (NGC XIII, 1) presenta il tipico impianto ontologico della gnosi sethiana, della quale la cosmogonia e la teogonia sembrano essere più presupposte che esplicitate. Vi compare comunque la triade gnostica, ispirata al Timeo platonico,(33) articolata nel Padre, che è l’Uno-Tutto ed è lo Spirito Invisibile, la madre Barbelo e il Figlio. Il quadro di fondo è ovviamente la metafisica sethiana con la lunga processione degli eoni, i quattro luminari, la caduta e il recupero di Sophia, la creazione di Yaldabaoth, come demiurgo o divinità inferiore. Non mancano formule rituali di tipo teurgico; soprattutto non mancano nel grande monologo di Pronoia o di Protennoia le tipiche aretalogie di derivazione isiaca. Protennoia non è che la voce divina, dapprima disarticolata (ma poi sempre più articolata nel discorso e nella parola) del Primo pensiero del Grande Spirito Invisibile. Essa si manifesta ai suoi membri, cioè ai suoi fratelli e sorelle, per salvarli dal mondo del caos. Perciò compie tre discese per largire loro il battesimo dei cinque sigilli. Il testo si divide in parti narrative e in parti poetiche. L’influenza della matrice ebraica e del pensiero ellenistico sono evidenti in particolare nel concetto della divina sapienza e nel mito della creazione e della caduta di Sophia, nella concezione stoica della ragione come pensiero interno e come espressione esterna nel linguaggio. Si avvertono anche ascendenze enochiche. Nella sua veste originaria il testo sembra risalire ai primi decenni del secondo secolo. La redazione che ci è pervenuta o ha subito un processo di cristianizzazione o era già in origine sotto l’influenza cristiana. Infatti non è detto che ogni riferimento al Cristo (es. nelle col. 37 e 38, ove peraltro il Cristo è detto «solo Dio») o al Salvatore sia da interpretare come manipolazione cristiana, poiché si deve tener conto che il sacramento dell’unzione non era estraneo alle sette gnostiche. Di contro è indiscutibile l’interpolazione cristiana nella col. 50 («Ed ho indossato la veste di Gesù. L’ho partorito dal legno maledetto e l’ho stabilito nelle dimore di suo Padre. E quelli che vegliano sulle loro dimore non mi hanno riconosciuto»). Mi pare perciò corretta l’osservazione di John Turner, secondo il quale «le tre glosse cristiane che nel primo trattato […] identificano il figlio Autogene come Cristo, probabilmente derivano dal tradizionale materiale teogonico barbelionita, comune al Libro Segreto di Giovanni e all’Adversus haereses di Ireneo (i, 29), su cui l’autore costruisce il primo inserto narrativo. Queste glosse cristiane potrebbero essere sta(33)  Platone, Timeo, 50 d.

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te suggerite sulla base di una equivalenza tra la designazione cristiana di Cristo come monogenēs e ciò che sembra essere una designazione pre-cristiana del terzo membro della triade barbelonita Padre-Madre-Figlio, cioè del Figlio auto-creato o auto-generato (autogenēs)».(34) Giustamente Turner invita a non sovrapporre alla terminologia sethiana di Protennoia, come Cristo, Amato, Figlio di Dio, Figlio dell’Archigenitore, Figlio dell’uomo, «interpretazioni cristologiche tendenziose», come se cioè fossero polemicamente dirette contro una interpretazione docetistica della figura di Cristo.(35) Partendo da tali presupposti lo studioso suggerisce una sua ricostruzione delle tre fasi di composizione del testo: la prima, che non è né sethiana, né gnostica né cristiana, in cui si delinea «la triade originale dell’autopredicazione aretologica di Protennoia» ed è di matrice giudaico-sapienziale; la seconda integrata da «tradizionali materiali teogonici barbelioniti affini a quelli contenuti nel Libro Segreto di Giovanni; la terza che incorpora in sé il materiale della polemica cristiana, «specificatamente quello di matrice giovannea».(36) Il punto debole di tale ricostruzione sta nella prima fase che Turner vuole risalente al primo secolo e del tutto estranea ad influenze cristiane. Essa è ricostruita come se fosse il risultato di un processo di isolamento in vitro. In realtà non è possibile escludere che il testo fosse già fin dall’origine, ovvero dalla metà del secondo secolo, sotto suggestioni cristiane e gnostiche. Le reminiscenze della tradizione sapienziale erano già in origine intrecciate con le tematiche gnostiche; le ultime manipolazioni cristiane della terza fase debbono ritenersi puramente marginali e di tono polemico. Il continuo riferimento di Protennoia agli adepti, come fratelli e sorelle, fa supporre che il nostro fosse un testo sacro per una particolare comunità di Sethiani cristiani o cristianizzati, forse siriani o egiziani. La salvezza è scandita dalla tre discese di Protennoia, dai tre misteri da lei rivelati (l’annientamento delle potenze inferiori, il rovesciamento delle potenze cosmiche, le tre discese in incognito di Protennoia) e dal battesimo dei cinque sigilli (l’investitura, il battesimo, l’intronizzazione, la glorificazione e il rapimento). Con i cinque sigilli si dissolveranno le tenebre e scomparirà l’ignoranza («Ho proclamato loro gli ineffabili Cinque Sigilli affinché potessi dimorare in loro e anche loro potessero dimorare in me»). Protennoia è androgino e perciò le sue discese sono dapprima come (34)  J. D. Turner, Introduction to Three Forms of First Thought, in M. Meyer (ed.), The Nag Hammadi Scriptures, cit., p. 717. (35)  Ivi, p. 718. (36)  Ibidem.

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voce maschile, poi come voce femminile, e infine come parola maschile. 1.7.  Testi sethiano-cristiani: il Vangelo di Giuda Il Vangelo di Giuda (Codex Tchacos 3), scoperto nel 1970 a Minya (Egitto) in un manoscritto copto del iii/iv secolo e pubblicato nel 2006, è stato verosimilmente composto in greco intorno alla metà del ii secolo ed era già noto ad Ireneo,(37) il quale sembra interpretarlo come un testo cainita, poiché afferma che Caino, Esaù, Core e i Sodomiti furono avversati dal creatore, in quanto provenienti da un «principato superiore». Le stesse dottrine, definite dall’eresiologo ‘invenzioni’, avrebbe sostenuto Giuda nel suo vangelo. Si tratta certamente di un testo sethiano, come dimostra non solo il suo impianto dottrinale, ma anche il fatto che il Codex Tchacos contiene, oltre al Vangelo di Giuda, la Prima Apocalisse di Giacomo, la Lettera di Pietro a Filippo e un frammento dell’Allogene. Due di tali testi sono inequivocabilmente di matrice sethiana. Il titolo Vangelo di Giuda (Euaggelion Ioudas), anziché, come ci si attenderebbe «Vangelo secondo Giuda» (katà Joudan), si discosta dagli altri testi evangelici, perché indica direttamente come presunto autore del testo Giuda Iscariota. Esso si presenta come la rivelazione segreta che Gesù fece a Giuda tre giorni prima della passione. Ai discepoli riuniti nell’atto di celebrare l’eucaristia Gesù compare e ride della loro cerimonia. Poi spiega ai discepoli che non ride di loro, ma della loro convinzione di fare la volontà di Dio, poiché credono che egli sia il figlio di Dio. Gesù li smentisce e puntualizza: «Nessuna generazione mi conoscerà tra la gente che è con voi». Compreso il loro disappunto, il Messia li invita ad essere forti e ad andare oltre la loro esistenza umana. Tutti si ritirano, tranne Giuda, il quale asserisce di sapere chi egli sia e da dove viene: «Tu – gli dice – sei venuto dal regno immortale di Barbelo e io non sono degno di pronunciare il nome di colui che ti ha inviato». In una nuova apparizione di Gesù i discepoli gli parlano di una visione del tempio di Gerusalemme; dicono di aver visto «un’enorme casa in cui c’era un grande altare, dodici sacerdoti, impegnati nell’offerta sacrificale, e un nome» (probabilmente ‘Dio’ o ‘Cristo’). Gesù chiede: chi sono questi sacerdoti? E i discepoli rispondono dandone un’immagine fortemente negativa: «Alcuni di essi – dicono – si astengono per due settimane, altri sacrifica(37)  Ireneo, Adv. haer., i, 31.

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no i loro figli, altri le loro mogli […]; alcuni fanno sesso con gli uomini, altri commettono omicidi». Si tratta, com’è evidente, di una ingenerosa rappresentazione della classe sacerdotale ebraica, ma non credo che essa sia dettata dal fatto che l’autore vi scorge una prefigurazione della nascente chiesa ortodossa. Molto probabilmente le tinte fosche sono dovute al fatto che quella classe appare agli occhi dell’autore di Giuda responsabile, per i suoi errori e forse anche per i suoi peccati, della distruzione del tempio. La rivelazione segreta (o meglio i misteri che Gesù rivela a Giuda) si inquadra nella cornice della teologia sethiana; il dio della tradizione giudaica è identificato con il demiurgo, che è una divinità inferiore, al di sopra della quale si colloca il Grande Spirito Invisibile, luce trascendente, inconoscibile, descrivibile solo nei termini della teologia negativa. Il Grande Spirito genera «un grande angelo, l’Autogenerato, Dio di luce», il quale, a sua volta, genera Adamo e i luminari, i sei cieli e i firmamenti. Si generano per volontà dello Spirito 72 luminari (astri) nella generazione incorruttibile. Questi, a loro volta, rivelano 360 firmamenti. Altri dodici angeli sono creati da Nebro (etimologicamente = ribelle) o altrimenti denominato Sakla o Yaldabaoth, per governare il caos e gli inferi. Il testo, parzialmente corrotto, accenna ad altri cinque angeli, dei quali «il primo è Seth, chiamato Gesù». Si giunge così alla creazione dell’umanità, che, essendo destinata alla morte, per essere salvata è dotata di anima e di spirito: «Per questa ragione Dio ordinò a Gabriele di dare lo spirito e l’anima alla grande generazione senza re». Ad Adamo e «a coloro che sono con lui» Dio concesse la gnosi (la conoscenza) in modo che i re del caos e degli inferi non potessero avere potere su di essi. I malvagi andranno incontro alla distruzione. E i battezzati? Gesù dice a Giuda: «Tu li supererai tutti, perché sacrificherai l’uomo che mi indossa». Il testo si chiude con la trasfigurazione-ascensione di Giuda: «Giuda alzò gli occhi, contemplò la nube di luce ed entrò in essa». Tra le tante sette religiose quella destinata ad essere santificata è la setta dei sethiani, la quale discende dal seme di Seth, che nella lettura tipologica del Vangelo di Giuda, è figura di Gesù. 1.8.  Testi sethiano-cristiani: Melchizedek Di non trascurabile rilievo è il trattato, giunto a noi in forma molto frammentaria, con il titolo Melchizedek (NHC IX, 1), il sommo sacerdote del

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Dio Altissimo (Gn, xiv, 18), che ha esercitato una grande influenza sul cristianesimo nascente, in particolare sulla Epistola agli Ebrei. Il trattato si articola in tre punti. Nella prima l’angelo Gamaliele rivela a Melchizedek che Cristo discenderà dal cielo per compiere un’azione salvifica sulla terra e solleciterà i potenti e gli arconti a chiedere la sua crocifissione. Gamaliele si presenta come un angelo che ha il compito di riportare in cielo gli eletti che appartengono all’«assemblea dei discendenti di Seth»; egli pronuncia una invocazione liturgica di entità divine in cui vengono citati Autogene, Barbelo, gli arconti, i quattro luminari (Harmozel, Oroiael, Davethei, Eleleth) e Pigeradamo; invita Melchizedek a rinunciare ai sacrifici animali e a battezzarsi; polemizza contro i docetisti, forse sethiani, che negano l’esistenza fisica di Cristo; ricostruisce la storia della nascita di Adamo ed Eva. Le altre parti del testo sono troppo frammentarie e non facilmente interpretabili, ma si evince che l’autore parla di una guerra tra potenze opposte, cui segue l’azione salvifica del Cristo, che distrugge la morte. La rivelazione di Gamaliele è in parte essoterica e in parte esoterica; una parte è destinata ad essere comunicata agli altri; un’altra è destinata a restare segreta («Ciò che è segreto non rivelarlo a nessuno, salvo che non ti sia permesso di farlo»). Melchizedek glorifica il Signore, perché la rivelazione di Gamaliele lo ha liberato dall’ignoranza e gli ha fatto «guadagnare la vita dalla morte». La seconda parte, molto danneggiata, è caratterizzata da una liturgia dossologica con la ricorrente formula del trisagion (tre volte santo) e con l’invocazione dei quattro luminari. Infine nella terza parte il testo tratta delle apparizioni di Melchizedek e dei messaggeri celesti, ma è una parte gravemente lacunosa; accenna brevemente alla morte e alla resurrezione del Cristo e si chiude con la vittoria di Melchizedek sugli arconti e con la finale ascensione dei confratelli nelle regioni che si trovano al di sopra dei cieli. L’importanza del trattato sta nel fatto che in esso si dimostra che il sommo sacerdozio di Melchizedek non fu assunto come modello solo dal cristianesimo delle origini, ma anche dalle prime forme di gnosi. Forse la stessa comunità melchizedekiana si divise in un ramo cristiano e in uno gnostico. In quello cristiano ben presto la figura di Melchizedek fu sopraffatta da quella di Cristo fino a scomparire del tutto; in quello gnostico, invece, essa continuò ad esercitare la sua influenza fin verso la seconda metà del ii secolo. In ogni caso il trattato, scritto verosimilmente in Egitto, è databile intorno alla seconda metà del ii secolo.

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1.9.  Testi gnostici valentiniani Tra il 130 e il 160 Valentino, del quale sappiamo ben poco, diede vita in Roma ad una vera e propria scuola in parte a carattere filosofico e in parte a carattere religioso. Su di lui hanno scritto Clemente Alessandrino, Ireneo, Tertulliano, lo Ps.-Tertulliano, Filastrio, Origene, Tolomeo, Eusebio, Epifanio(38) e lo Ps.-Ippolito. Quest’ultimo ci ha lasciato una discreta sintesi del suo pensiero. Ireneo, ben consapevole dell’affinità culturale e lessicale tra valentinianesimo e cristianesimo, scrive: «parlano come noi, ma pensano altrimenti». Le sue notizie sulla gnosi valentiniana dovrebbero essere di prima mano, poiché afferma di essere entrato in contatto con i suoi esponenti e di averne appreso il pensiero in forma diretta. La sua esposizione delle dottrine gnostiche è puntuale e sostanzialmente accurata, ma tende a nascondere le reciproche influenze tra valentiniani e cristiani. Egli è convinto che gli gnostici abbiano utilizzato il NT a proposito del concetto di aborto, di tripartizione degli uomini in pneumatici, psichici e coici, di parabole come quella del lievito e della pecora smarrita, della teologia giovannea del Lógos, della centralità di temi come la luce, la vita, l’unigenitura. Epifanio,(39) dopo aver sollevato l’accusa di immoralità e di sacrifici cannibaleschi, si mostra più prudente nei confronti dei valentiniani, che, articolati in una decina di gruppi, sorsero – a suo dire – dalla terra come funghi (ὡς μύκητες) e furono posteriori a Basilide, Satornilo, Cerinto, ecc. La loro teogonia si sarebbe ispirata a quella esiodea o comunque avrebbe subito il fascino dell’invenzione poetica delle dottrine greche. Al vertice della loro struttura metafisica essi ammettono il Plérōma, da cui sarebbe scesa la madre Sophia che chiamano in ebraico Achamot (= sapienza), ma anche Salvatore. Gesù, venuto attraverso Maria come ‘attraverso un tubo’ (ὡς διὰ σωλῆνος), è chiamato Luce a causa della luce superiore, Cristo, a causa del Cristo superiore, e Lógos, a causa del Lógos superiore. I valentiniani rifiutano la resurrezione dei corpi, perché ritengono che essa riguardi non il corpo terreno, ma quello pneumatico (spirituale). Insegnano (38)  Clemente Alessandrino, Stromata, ii, 36, 114; iii, 59; iv, 89-90; vi, 52; Excerpta ex Theodoto; Ireneo, Adv. haer., i, 11; Tertulliano, Adversus Valentinianos; Pesudo-Tertulliano, De praescriptionibus adversus haereticos, 4; Filastrio, De haeresibus, 38; Origene, Comm. in Johannem, passim; Tolomeo, Lettera a Flora; Ps.-Ippolito, Élenchos, vi, 29-36; Eusebio, HE, iv, 22; Epifanio di Salamina, Panarion, ii, 31. (39)  Epifanio di Salamina, Panarion, ii, 26.

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che ciascuna essenza ritorna alle proprie origini: la materia alla materia; gli uomini pneumatici, ovvero gli stessi gnostici, hanno la garanzia della salvezza; gli uomini psichici, invece, possono salvarsi solo se si riscattano attraverso le opere. Epifanio colloca la loro fioritura in Egitto ed afferma di attingere il loro pensiero direttamente dalle loro opere. Cita un lungo brano da un testo, senza darcene il titolo, ma non sembra avere una accurata dimestichezza con gli scritti valentiniani, se poi è costretto a ricorrere ad una lunga citazione di Ireneo.(40) Ben poco sappiamo anche dei discepoli di Valentino, Eracleone, Tolomeo, Marco, Assionico e Teodoto. Valentino vuol dare un assetto teoretico alla cristologia cristiana. Il tema che diventa centrale nel suo pensiero è il netto dualismo tra l’Uno e la molteplicità, tra l’incorruttibile mondo superiore e il mondo inferiore della dissoluzione. Al vertice del suo sistema egli colloca il Padre, l’Uno trascendente, spesso indicato come ‘profondità’, Bythós o Báthos. Dall’auto-conoscenza del Padre nasce il Figlio, la Mente, il quale è insieme uno e due; da tale ambiguità si origina la pluralità degli esseri, che sono personalità individuali, spesso definite «Membri del Tutto» o Interezze sul modello del Plérōma (pienezza). Segue il processo emanativo degli eoni che sono accoppiati per formare le syzygie. Fino a che non si giunge a Sophia, il cui primo sentimento è quello di essere in grado di comprendere la Totalità del Padre, ma non può perché è semplicemente un eone individuale. Ai sentimenti di Sophia si associano le varie fasi della creazione del mondo. Sophia soffre ed è divisa in due, una parte è spirituale ed è destinata a ritornare al Padre, l’altra invece è estromessa; anzi un vero e proprio confine (Horos) è tracciato in modo che la parte inferiore di Sophia non possa accedere al Plérōma. Fuori del Plérōma Sophia perde lo stato di interezza e acquisisce quello di deficienza; è contaminata e soggetta alle passioni irrazionali. Perciò si pente e invoca l’aiuto degli eoni confratelli. In questa seconda fase, quella del pentimento, Sophia produce la sostanza psichica, come l’anima. Il Plérōma, a seguito della sua invocazione, nella sua funzione unificatrice, le invia il Salvatore, il quale è appunto una unità di eoni. Davanti al Salvatore e agli angeli Sophia guarisce e prova un terzo sentimento, quello della gioia. In questa condizione Sophia produce una terza generazione di esseri spirituali. Così in corrispondenza dei suoi sentimenti (emozioni) Sophia genera la sostanza materiale, l’anima e lo spirito. Queste sono le sostanze che costituiscono il cosmo. La creazione del cosmo è affidata a Sophia e al Salva(40)  Ivi, 31, 5-6; ii, 31, 9-32.

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tore, ma il lavoro manuale è opera del demiurgo. Il cosmo è costituito dalle sfere planetarie che sono mosse dalle sostanze psichiche degli arconti. Sophia dimora nella regione dell’Ogdoade ovvero nella regione intermedia tra i cosmi e il Plérōma. Come il cosmo è costituito di materia e di sostanza psichica, così il primo uomo è costituito di corpo e di anima. Ma Sophia inserisce nascostamente in Adamo una sostanza spirituale, tratta dai figli da lei generati nella fase dell’emozione di gioia e di somiglianza del Salvatore, allorché era in contemplazione del Signore e dei suoi angeli. Lo spirito è l’uomo interiore, tormentato dal demone che dimora nel corpo e che è soggetto alle passioni. Ciò significa che la lotta dell’uomo contro l’istinto e la corporeità necessita di un sussidio divino. Perciò scende sulla terra il Salvatore nelle vesti di Gesù, il quale porta all’uomo la conoscenza, gli fa conoscere le sue origini nel Padre, sconfigge per lui la materialità e la morte e la sua azione è proseguita dalla chiesa attraverso i riti sacramentali, come il battesimo, l’eucaristia, l’unzione, la redenzione e la camera nuziale. In quest’ultima Sophia guarisce dalla divisione e si unisce al Salvatore come una sposa; gli stessi figli di Sophia si uniscono nel Salvatore. 1.10.  Testi gnostici valentiniani: il Trattato sulla resurrezione Il Trattato sulla resurrezione (NHC I, 4), scritto in forma epistolare, in cui un tal Regino, non altrimenti noto, è istruito da un valentiniano (forse dallo stesso Valentino) in materia di resurrezione, è perfettamente in linea con quanto ci è riferito da Tertulliano,(41) il quale afferma che uno degli insegnamenti del noto eresiarca era quello di credere nella «resurrezione già avvenuta». Il Trattato prende le mosse dalla natura duplice, umana e divina, del Cristo. In quanto figlio di Dio egli può sconfiggere la morte, in quanto uomo è soggetto alla morte. Quando abbandona il mondo corruttibile, egli lo scambia con la realtà eterna ed incorruttibile: risorge, inghiotte il visibile nell’invisibile e ci indica la strada per l’immortalità.(42) Noi soffriamo con lui e risorgiamo con lui. Perciò finché indossiamo gli abiti mondani, anche noi siamo nel mondo visibile. Ma, come è spirituale la sua resurrezione, così è anche la nostra. Anzi la nostra stessa natura (41)  Ps.-Tertulliano, De praescriptionibus adversus haereticos, 33, 7; De resurrectione mortuorum, 19, 2-7. (42)  Trattato sulla resurrezione, NHC I, 4, 44, 39 - 45, 23.

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autentica è spirituale e perciò la resurrezione non è un evento che ci capiterà dopo la morte, ma è qualcosa che è già in atto, poiché noi siamo nella resurrezione, tanto più che il mondo è un’illusione. La rivelazione è una transizione ad una realtà nuova, perché l’incorruttibilità scorre sulla corruzione, la luce sull’oscurità, la inghiotte; la pienezza riempie la mancanza. Questi sono i simboli [i segni] e le immagini della resurrezione».(43) 1.11.  Testi gnostici valentiniani: l’Esposizione valentiniana L’Esposizione valentiniana (NHC XI, 2) contiene il solito sistema valentiniano che ha al vertice il Plérōma, il padre del Tutto, e si chiude con la salvezza escatologica della generazione spirituale. Il Padre è la radice del Tutto; è l’Uno ineffabile; in quanto esiste solo nel silenzio, è anche duplicità, poiché il silenzio è il suo partner. Dio generò il Figlio, la Mente del Tutto. Il Figlio è Pensiero e Volontà del Padre. L’autore tratta del Confine che separa il Padre e la Profondità dagli eoni. Il Confine ha quattro poteri: di separazione, di potenziamento, di formazione e di sostanzializzazione. Questi sono i veri poteri. Ma poi l’autore riduce i poteri del Confine a due: quello di separazione e quello di potenziamento, in quanto essi separano la Profondità dagli eoni. Il trattato procede con l’esposizione della Pienezza o Plérōma, della caduta e redenzione di Sophia, della creazione del mondo e degli uomini, degli angeli e della caduta nel peccato. Il Plérōma produce la Parola e la Vita: la Parola per la gloria dell’Ineffabile, la vita per la gloria del Silenzio. Da questi nascono i trenta eoni; 360 vengono all’essere come pienezza dell’anno. Per correggere l’errore di Sophia è inviato dal Plérōma Gesù. Sophia si pente e invoca l’intervento del Padre; poi insieme a Gesù prepara la creazione; crea una generazione senza forma, mentre Gesù le rivela il Plérōma. Ma, essendo la creazione un’ombra del pre-esistente, Gesù separa le creature le une dalle altre; pone le passioni più sane nello spirito e quelle più cattive nella carne; si attiene all’economia divina e segna il Tutto con imitazioni, immagini e ombre. La creazione dell’essere umano è affidata al demiurgo. Segue la narrazione della caduta e delle sue conseguenze (Adamo ed Eva, Abele e Caino). Infine la salvezza:

(43)  Trattato sulla resurrezione, NHC I, 4, 48, 19 - 49, 9.

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Quando Sophia riceve il suo partner e Gesù riceve il Cristo e le generazioni si uniscono con gli angeli, allora il Plérōma riceverà Sophia con gioia e il Tutto sarà ricongiunto e ristabilito. Allora gli eoni riceveranno la loro abbondanza perché avranno compreso che, anche se cambiano, essi restano sempre immutabili.(44)

Il testo si chiude con inni liturgici per l’Unzione («Gesù unge noi»). Il primo battesimo è «l’oblio dei peccati», il passaggio «dalla corruzione alla incorruttibilità, che è il Giordano»; «il Battista significa l’eone; il Giordano significa la discesa che è l’ascesa, il nostro esodo dal mondo nell’eone». Il secondo battesimo è il passaggio «dalle cose del mondo alla vista di Dio», il passaggio dal carnale allo spirituale, «dai corpi seminali alla perfezione». 1.12.  Testi di scuola valentiniana: il Trattato Tripartito Di scuola valentiniana è certamente il Trattato tripartito (NHC I, 5), la cui denominazione è moderna; è così denominato perché diviso dallo scriba in tre parti con decorazioni inserite alle coll. 104 e 108. La prima parte tratta della creazione del cosmo e contiene la cosmogonia valentiniana; la seconda parte tratta della creazione dell’uomo e contiene l’antropogonia; la terza parte contiene l’escatologia e la soteriologia. L’impianto dottrinale non è del tutto corrispondente alle versioni che ci sono state fornite dai Padri della Chiesa, ma ciò non deve sorprendere, poiché le discordanze sono state riscontrate anche in altri testi. La prima sezione parte dal vertice del processo creativo: il Padre «è la radice di tutto»; è l’unità nella molteplicità; è come «un albero che ha tronco, rami e frutti»; è immutabile, ingenerato e imperituro, «senza inizio e senza fine», immortale ed eterno, inconoscibile, «incomprensibile nella sua grandezza, imperscrutabile nella sua sapienza, invincibile nel suo potere, insondabile nella sua dolcezza»; senza di lui nulla può venire all’essere. Egli soltanto è Padre e Dio singolare, che non manca di nulla. Il Padre è per sé stesso mente, occhio, bocca, forma; è in termini aristotelici pensiero che pensa sé stesso; in lui dimora un figlio, che è «l’ineffabile nell’ineffabile, l’invisibile, l’inafferrabile, l’inconcepibile nell’inconcepibile», il quale esiste prima di ogni altro essere; è il primogenito, perché nessuno è esistito prima di Lui». (44)  Esposizione valentiniana, NHC XI, 2, 39.

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Ma il Padre «a causa della sua abbondante dolcezza, vuole essere conosciuto», perciò da lui si genera non solo il figlio, ma anche la preesistente assemblea degli eoni. Questa è l’assemblea celeste e spirituale che prefigura quella terrena. Tutto esiste nella mente del Padre e finché gli eoni sono nel suo pensiero sono «nella profondità nascosta», esistono «come seme o come embrione»; il Padre li ha creati «nella forma della parola, che esiste nello stato seminale prima che le cose vengano all’essere». C’è dunque un’economia divina, un piano del Padre, nel quale, nel pensiero divino, è già presente il progetto della creazione del mondo. Ma il mondo non è perfetto fin dall’inizio, perché il Padre crea il tutto come un bambino, che giunge, aristotelicamente, al compimento o perfezione. Perciò gli eoni non sono perfetti fin dall’inizio. Restando nella sua profondità invisibile e ineffabile, il Padre rivela sé stesso nel pensiero del Figlio. Finché la creazione si produce a livello spirituale, cioè finché gli eoni «sono spiriti della mente e parole», non c’è bisogno di una voce. Dal figlio si generano dapprima gli eoni degli eoni, generati «dalla natura procreativa», i quali attraverso la stessa natura procreativa generano in un processo emanativo per la glorificazione del Padre. Gli eoni che glorificano il Padre hanno la loro discendenza eterna; procreano in armonia e in reciproco aiuto. Nella loro brama di trovare il Padre essi sono in una unione irreprensibile. Per volontà del Padre vengono a conoscenza di che cosa sia lo spirito che «affratella i membri del tutto e dà loro il pensiero della ricerca della conoscenza». Attraverso gli eoni il Padre «si manifesta anche se non può essere nominato». Per questa ragione gli eoni tacciono sul modo in cui il Padre esiste nella sua forma e nella sua grandezza, ma sono diventati degni di conoscerlo attraverso lo spirito. Perché, pur essendo inaccessibile e innominabile, il Padre offre sé stesso attraverso lo spirito, che è la cifra in cui egli può essere visto. Ciascun eone corrisponde alle qualità e ai poteri del Padre e, poiché sono innumerevoli le qualità e i nomi del Padre, innumerevoli sono anche gli eoni. L’autore spiega che il processo procreativo non è un processo di divisione, ma di emanazione, attraverso il quale il Padre, ovvero l’‘Uno che è’, «emana sé stesso in ciò che vuole». E, pur essendo ciascun eone un singolo, si divide in età, anni, stagioni, mesi, giorni, ore. Gli eoni sono dotati di libero arbitrio e di sapienza. L’eone più giovane è la Parola; poiché è uno degli eoni a cui fu data la sapienza, le sue idee esistono nella sua mente in modo indipendente; egli è perciò in grado di «indagare sull’ordine nascosto». Inoltre, essendo dotato di libero arbitrio, è in grado di «fare ciò che vuole, senza che nessuno glielo impedisca». Gli intenti del-

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la «Parola» erano buoni perché essa era originata dal Padre, ma «si diede un compito che oltrepassava i suoi poteri, poiché desiderò produrre qualcosa di perfetto da una unione non condivisa e senza aver ricevuto ordini». La sua azione non poteva infrangere i confini tracciati dal Padre; perciò è errato condannare il movimento-azione della Parola, perché è attraverso la Parola che poté realizzarsi «un’ordinata economia». Ma le cose che la Parola voleva «afferrare e raggiungere erano prodotte come ombre, fantasmi, imitazioni». La parte perfetta della Parola rientra nel Plérōma. La generazione nata dal Pensiero presuntuoso è una generazione presuntuosa di esseri che credono di essere i soli ad esistere e di non avere un inizio: «Essi esibiscono disobbedienza e ribellione e non vogliono sottomettersi a chi li ha posti in essere. Ciascuno vuole comandare sull’altro. Perciò è una generazione di combattenti, guerrieri, facinorosi, ribelli, popoli disobbedienti, che vogliono dominare». La Parola fu la causa per cui tutte queste cose vennero in essere. Con il pentimento ebbe luogo la conversione per cui la Parola ritornò al bene e si allontanò dal male. Nacque di conseguenza un nuovo ordine di poteri più grandi e migliori di quelli che erano imitazioni. I primi erano i poteri dell’oblio e del sonno pesante, come se fossero tormentati da sogni, in cui qualcuno li perseguitava e da cui si sentivano circondati. I secondi, invece, i poteri del ricordo, erano come esseri di luce in attesa del sole nascente. Tra i due ordini ci fu una guerra. I «poteri del ricordo» si ornarono dei nomi del preesistente di cui essi erano fatti a somiglianza. La Parola, sperando in ciò che è superiore, si allontanò da ciò che appartiene alle ombre. Per intercessione del Plérōma gli eoni acconsentirono, con gioia e in armonioso accordo, a soccorrere chi era nella deficienza. Nella manifestazione del loro accordo si rivelò il Figlio del volere divino, il quale si mosse per dare perfezione a colui che è nella mancanza. Egli era colui che è chiamato il Salvatore e Redentore, l’amato, l’avvocato (il paraclito), Cristo e luce di coloro che sono destinati alla salvezza, Figlio che «è conoscenza del Padre, che desidera essere conosciuto»; è colui in cui dimora il Padre e in cui dimorano i membri del Tutto; si rivela a colui che ha perso la facoltà di vedere, ma che ha voglia di riconquistarla. Diversa è la rivelazione del figlio a coloro che appartengono al ricordo e a coloro che appartengono all’imitazione, perché ai primi si rivela al loro interno, a poco a poco, dandosi nella gioia di una visione; agli altri «si rivela in un soffio e poi si ritira senza permettere loro di vederlo». La Parola incrementò la loro cooperazione e le loro attese speranze; essi sperimentarono la felicità, il profondo riposo e i piaceri incontaminati:

1134  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Le cose che in un primo momento [la Parola] aveva solo ricordato, quando non erano davanti a lei nella loro perfezione, ora le ha prodotte come oggetto di visione davanti a lei. Le è stato rivelato, ma rimanendo nella speranza e nella fede del Padre, poiché l’Uno completamente perfetto, non le si è ancora unito per timore che quelli che sono venuti all’esistenza possano perire, guardando la luce, poiché non possono sopportare la grandezza di tale suprema magnitudine.(45)

Questo pensiero della Parola fu chiamato ‘eone’ per tutti quelli che vengono all’essere in conformità di una decisione degli eoni. Inoltre è chiamato ‘assemblea di salvezza’, poiché si allontana dalla dispersione che accompagna il pensiero multiforme e ritorna al pensiero singolo ed è detto ‘deposito’, ‘sposo’, ‘regno’, ‘gioia del Signore’; esso è l’eone dell’immagine, superiore ai due ordini di poteri che si combattono l’un l’altro; ha la forma dell’uno dal momento che è un’immagine delle cose che esistono nel Plérōma; ed è venuto all’essere dall’abbondanza dell’«Uno che è». I membri individuali di questo eone hanno il nome di ‘assemblea’, perché somigliano all’armonia che regna nell’assemblea di quelli che si manifestano da sé. Al loro livello spirituale gli eoni formano l’assemblea che ha la forma dell’assemblea che esiste tra gli eoni che glorificano Dio. Questo stato spirituale è un potere spirituale diverso da quello che appartiene al ricordo, il cui potere consiste in un’immagine di ciò che separa la Parola dal Plérōma. Il potere è attivo nella profetizzazione. I due ordini più bassi sono: quelli che appartengono al ricordo e alla somiglianza, chiamati «quelli di destra», ‘psichici’, ‘fuoco’, ‘quelli di mezzo’; quelli che appartengono al pensiero presuntuoso» sono chiamati «quelli di sinistra», ‘materiali’, ‘oscurità’, ‘gli ultimi’. Poiché ciascuno dei due ordini aspirava al dominio, la Parola assegnò a ciascuno un appropriato rango nell’esercizio del comando. Si determinò così una gerarchia di comandanti e di subordinati di diverso tipo. Su tutti questi arconti Egli pose un solo arconte che non è a sua volta comandato ed è il demiurgo, chiamato ‘padre’, ‘creatore’, ‘giudice’, ‘legge’. La Parola si serve di Lui per governare il mondo inferiore e per pronunciare le profezie. Si costituiscono così da una parte il regno psichico e dall’altra il regno materiale. L’intera costituzione della materia è divisa in tre parti: il primo potere, che la Parola spirituale ha prodotto dall’illusione e dalla presunzione, lo ha po(45)  Trattato Tripartito, NHC I, 5, 92.

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sto al primo rango spirituale. Quelli che ha prodotto per mezzo del desiderio sfrenato di dominio, li ha posti nella regione intermedia, in modo che fossero poteri del desiderio di dominio e potessero governare e comandare l’ordine a loro sottoposto con forza e violenza; infine quelli che erano venuti all’essere dall’invidia e dalla gelosia e tutte le altre progenie prodotte dallo stesso tipo di disposizione, li pose nel livello più basso come un ordine servente in grado di controllare le ultime cose e di comandare tutte le cose esistenti e tutto il creato; da questi derivano le malattie che conducono istantaneamente alla morte, sebbene la loro esistenza non sia nulla nel luogo da cui sono usciti e al quale una volta o l’altra torneranno.(46)

La seconda parte del testo riguarda l’antropogonia. La creazione dell’umanità avviene allo stesso modo di tutte le altre cose. La Parola spirituale prende corpo attraverso il demiurgo e gli angeli servienti, uniti nella loro attività modellatrice dalla presunzione. L’uomo diventa un’ombra terrena. In lui la Parola attraverso il demiurgo immette, senza farsi conoscere, la conoscenza dell’esistenza di qualcosa di più alto. L’anima del primo uomo deriva dalla Parola spirituale. Tre sono le tipologie di uomini: spirituali, psichici e coici. La seconda sezione si chiude con la storia del paradiso e della trasgressione e con la cacciata di Adamo ed Eva. Nella terza parte l’autore mette a confronto la cultura greca e quella ebraica respingendo in termini di errori e confusione la prima ed esaltando la seconda per essere la più prossima all’uomo spirituale e per essere il popolo ebraico l’eletto dal cui seno nascerà il Salvatore. Attraverso il figlio di Dio sarà possibile la redenzione dell’uomo dal peccato e si realizzerà l’economia divina che predispone nel battesimo la salvezza dei giusti. 1.13.  Testi di scuola valentiniana: L’interpretazione della conoscenza L’Interpretazione della conoscenza (NHC XI, 1) è un testo molto frammentario e conseguentemente oscuro in diversi punti, ma si situa certamente all’interno della produzione della scuola valentiniana orientale; ha la forma di un’omelia o di una lettera, con l’esortazione all’umiltà e alla fede, indirizzata ad una comunità che appare divisa per effetto della gelosia. Nel suo contenuto soteriologico e cristologico ha al centro il Cristo incarnato, che soffre (46)  Ivi, NHC I, 5, 103-104.

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e muore ed è egli stesso redento (figura del Redentore redento o del Salvatore salvato) dalla Grandezza del Padre che scende al momento del suo battesimo. Egli pianse e gridò, fu separato e mostrò la via del Padre. Sembra tuttavia che la descrizione del Cristo sofferente avvenga all’interno di un discorso parenetico, che fa pensare ad una comunità che pativa essa stessa le medesime sofferenze o che fosse oggetto di critiche e persecuzioni da parte di altre comunità. È particolarmente interessante l’accenno al corpo di Cristo se non altro perché richiama alla mente gli analoghi passi delle epistole paoline.(47) Più difficili da ricostruire, a causa della corruzione del testo, i contorni dottrinali relativi alla vergine (Sophia è citata solo una volta). Il trattato si apre ponendo l’accento sulla fede, come fondamento della persuasione: Ciascuno è persuaso per mezzo di ciò in cui già crede. Se non ha credenze, nulla può persuaderlo. È importante possedere la fede per chi vive nella miscredenza cioè nel mondo che è la sede della miscredenza e della morte.(48)

Il corpo di Cristo è in qualche modo il corpo di Dio; ciascuno «è afferrato per mezzo delle tracce divine che ha in sé» e «Dio conosce le sue articolazioni e le membra del suo corpo». L’autore mostra di conoscere in particolare Matteo, perché contiene tracce della parabola della semina e del buon samaritano; presenta il Salvatore sofferente come un modello per i fedeli ed interpreta la Chiesa (assemblea) come insegnamento di immortalità. Nella incarnazione il Salvatore si è umiliato per salvare coloro che erano caduti nel peccato; è stato disprezzato, ma è stato salvato dall’emanazione del nome. Come la carne ha bisogno di un nome, così questo eone è stato generato da Sophia, ha ricevuto la Grandezza del Padre, si è liberato dalla sua pelle vergognosa ed ha indossato la veste che è nella carne e nel sangue del Salvatore; ha mostrato la via ed ha tratto la chiesa fuori della fossa. 1.14.  Trattati di scuola valentiniana: la Parafrasi di Sem La Parafrasi di Sem (NCH VII, 1) si presenta nella forma di un’Apocalisse, poiché tratta della rivelazione fatta da Derdekeas, «il figlio della Luce infinita», a Sem, figlio di Noè. Ci viene narrata l’ascesa di Sem e la sua trasfor(47) v. 1Cor, xii; Rm, xii, 4-8; Ef, i, 22-23; Col, i. 18; ii, 19. (48)  Interpretazione della conoscenza, NHC XI, 1, 1.

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mazione/trasfigurazione. La rivelazione si articola in una cosmogonia e in un’antropogonia, seguita dalla storia del diluvio, dalla distruzione di Sodoma e dall’avvento, battesimo e crocifissione del Cristo. Il testo si chiude con i due discorsi escatologici di Derdekeas. Vi compare la solita tripartizione degli uomini in pneumatici, psichici o materiali e noetici o mentali. Infatti gli uomini sono costituiti da quattro elementi: un corpo formato dall’Oscurità e dal Fuoco, un’anima, contaminata dai venti e dai demoni, una particella di mente, che, caduta in possesso dell’oscurità, è salvata dallo Spirito e dal Salvatore e un pensiero prodotto dallo Spirito. La storia dell’umanità è contrassegnata dall’intervento della generazione spirituale per la salvezza di quella noetica e si articola in tre fasi: l’armonia primordiale, la caduta dello Spirito e la salvezza della Mente. All’origine della creazione ci sono tre poteri: l’Oscurità, la Luce e lo Spirito. Il principio supremo della creazione è la Mente che pensa sé stessa (aristotelismo) o la Mente che contiene le idee delle cose create (platonismo). La luce, per la sua assoluta trascendenza, non è mai a contatto con la creazione, che è riservata allo Spirito e alla Mente. Lo Spirito, che è il principio intermedio, è costituito da una luce umile e cade nel caos allorché si rivela all’Oscurità, ma si attiva per separare la Mente dall’Oscurità. Il terzo principio è l’Oscurità, il principio pre-cosmico del male che governa sugli elementi, il fuoco, l’acqua e il vento. L’Oscurità è un principio maschile, l’acqua e i venti sono principi femminili; dai loro grembi si generano l’umanità e i demoni. Ma se la Mente è assolutamente trascendente, come si spiega la sua presenza nel caos pre-cosmico? Michel Roberge(49) ha giustamente supposto che l’autore del trattato sia stato influenzato dal sistema di Numenio di Apamea e dagli Oracoli Caldaici, per i quali esistono due Menti. La prima che coincide con il primo Dio ed è una monade indivisibile, Padre del secondo Dio, il demiurgo. Questi ha una natura ancipite perché può volgersi sia alla contemplazione del mondo delle idee e degli archetipi sia alla materia per immettervi le forme ed organizzare il mondo sensibile. Tenendo ferma la trascendenza del primo principio, l’autore concepisce la formazione dell’universo non come una creatura dello stesso, ma come un processo embriologico, in cui allo spirito è assegnato un qualche ruolo attivo. Ma la Parafrasi di Sem aggiunge alle due menti derivate dagli oracoli caldaici una terza Mente che procede dalla generazione delle forme della Natura e governa sull’u(49) M. Roberge, Introduction to the Paraphrasis of Shem, in M. Meyer (ed.), The Nag Hammadi Scriptures, cit., p. 438.

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niverso. Fin qui domina l’armonia primordiale, la quale è dovuta al fatto che l’Oscurità è nascosta nell’acqua e non può mettere in atto le sue malizie. La Seconda fase della storia della creazione riguarda la caduta dello Spirito. A seguito di un improvviso moto dell’Oscurità, lo Spirito scopre l’esistenza del male e attraverso questo comprende anche che esiste l’infinita Luce. La terza parte della storia della creazione non è che la storia degli interventi salvifici di Derdekeas, il figlio della luce infinita, il Salvatore. Alla radice del male v’è la sessualità, la copula tra l’Oscurità e l’acqua. Il processo embriologico, come opportunamente rileva Roberge, è concepito sul modello della embriologia di Sorano di Efeso. La stirpe di Sem è sortita dalla nube di luce. Dopo la nascita della generazione iletica e di quella noetica, si genera quella pneumatica. La storia prosegue articolandosi in tre periodi di crisi: il diluvio, la distruzione di Sodoma e la crocifissione del Salvatore; le crisi sono intese come tentativi della Natura di annientare la generazione pneumatica. Il diluvio è concepito come il risultato del peccato della Natura di sequestrare la luce e di allontanarla dalla fede. Ma si tratta di un tentativo fallito, perché il Salvatore fece costruire l’arca, in cui la generazione di Sem si salvò e poté tornare alla sua radice, cioè allo spirito ingenerato. Con il battesimo la Natura tenta di sottoporre al proprio potere la generazione dei noetici, obbligandoli alla circoncisione, alla legge e infine al battesimo. I pneumatici coesistono con i noetici, i quali, per guadagnare la salvezza, disprezzano la contaminazione della natura e ricevono «una parte della parola innocente». Dopo il diluvio l’arconte della creazione governa sul mondo e sui suoi membri, le stelle, e progetta la distruzione di Sodoma. Infine viene il battesimo con Giovanni Battista e con l’avvento di Cristo. Roberge ritiene che l’autore della Parafrasi conosce la tradizione evangelica e l’interpretazione paolina della crocifissione e scrive: Se noi prendiamo in considerazione il significato della missione di Sem, l’interpretazione antipaolina della Fede nella storia della Salvezza (cfr. Ebrei, xi), le allusioni al carattere universale-cattolico della dottrina di Sem […], il totale rigetto di qualsivoglia rito battesimale e il significato dell’allegoria della decapitazione del Ribelle, possiamo concludere che il trattato è meglio inteso come prodotto di un gruppo vivente al margine della cristianità e un gruppo in cui i membri della grande chiesa erano sollecitati a separarsi e ad unirsi a coloro che possedevano la gnosi. Non è tuttavia im-

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possibile che la polemica fosse diretta contro gli Elcasaiti, che praticavano molteplici battesimi dell’acqua e soprattutto bagni terapeutici.(50)

Il testo presenta tratti sethiani e tratti valentiniani e perfino tratti ermetici; probabilmente fu composto in Siria nella prima metà del terzo secolo. 1.15.  Testi di scuola valentiniana: L’Esegesi dell’anima L’Esegesi dell’anima (NHC II, 6), il cui titolo è ripetuto nel prologo e nel colophon, ci presenta in forma pressoché romanzata la storia dell’anima, articolata in tre fasi principali: lo stato primordiale di permanenza con il Padre in una forma virginale ed androgina; la caduta nel mondo inferiore nella condizione di prostituzione, cui segue il pentimento, l’invocazione del Padre affinché intervenga in suo aiuto e, infine, il ritorno allo stato originario. Sullo stato di prostituzione l’autore cita Geremia, Osea, Ezechiele, la 1Corinzi e la lettera agli Efesini.(51) Invocato, il Padre ha pietà di lei e la trasforma da femmina in maschio con gli organi genitali che non sono all’interno del corpo, ma all’esterno. Nel contempo l’anima è battezzata; una volta liberata dalle polluzioni esterne, può riguadagnare la sua natura originaria con il battesimo. Ma, per la sua natura femminile, l’anima desidera entrare nel travaglio del parto e, poiché non può concepire da sé un figlio, il Padre le invia un uomo dal cielo, suo fratello, il primogenito. Lo sposo scende per le nozze e l’anima è purificata nella camera nuziale, in cui non si consuma una unione fisica, ma una spirituale.(52) Nel rapporto sessuale, l’anima riceve il seme che è lo Spirito che dona la vita e porta nel suo seno i buoni figli avuti dal suo amato: «Questa è la grande, perfetta, meravigliosa nascita. Il matrimonio è consumato per volere del Padre. L’anima ha bisogno di rigenerarsi e di ritornare al suo stato originario». Seguono citazioni da Giovanni, Matteo, Luca; Isaia e Omero.(53) Infine il testo si chiude con una citazione del Salmo vi. Gli elementi gnostici dello scritto si possono individuare nella mitologia dell’anima, assimilata a Sophia nella sua caduta e nella sua risalita, e nel rito misterico-sacramentale della camera nuziale. Sono elementi tipici del(50) M. Roberge, Introduction to the Paraphrasis of Shem, cit., p. 445. (51)  Jr, iii, 1-4; Os, ii, 2-7; Ez, xvi, 23-26; 1Cor, v, 9; Ef, vi, 12. (52)  L’autore cita in proposito Gn, ii, 24; iii, 16; Sal, xlv, 10-11; Gn, xii, 1. (53)  Gv, vi, 44; Mt, v, 4; Lc, xiv, 26; Is, xxx; Omero, Odissea, i, 48-59; iv, 260-264.

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la gnosi valentiniana. Si direbbe scritto in Alessandria intorno alla metà del terzo secolo. 1.16.  Testi cristiano-valentiniani Tralascio di approfondire testi come il Trattato sull’origine del mondo (NHC II, 5; xiii, 2; Brit. Lib. Or. 4926, 1), il Discorso autentico (NHC VI, 3), Tuono, la mente perrfetta (NHC VI, 2), perché, pur essendo di grande interesse, non si discostano dalle linee generali della dottrina valentiniana. D’altro canto di scarsa originalità è anche la Sapienza di Gesù Cristo (NHC III, 4; Berlin Codex 8502; P. Oxy, 1081), probabilmente un testo di matrice valentiniana che sembra riproporre le stesse tesi dell’Eugnosto. Il titolo compare sia nel prologo che nel colophon. La parte più interessante è quella iniziale in cui l’autore parla della epifania del Cristo ai dodici discepoli. Il Cristo appare ad essi Non nella forma precedente, ma in spirito invisibile. Sembrava un grande angelo di luce, ma non posso descriverne l’aspetto, perché egli non indossava la carne mortale, ma quella pura e perfetta, come si manifestò in Galilea sul monte degli Olivi.(54)

Dei dodici discepoli intervengono nel dialogo con il Cristo solo Filippo, Matteo, Tommaso, Bartolomeo e Maria Maddalena. Generalmente le domande sono brevi e le risposte sono lunghe. Gli studiosi(55) sono concordi nello stabilire che il contenuto dottrinale delle risposte è tratto dall’Eugnosto. Il che è senza dubbio vero a condizione di puntualizzare che la Sapienza di Gesù Cristo manca di quella pregnanza filosofica che è evidente nell’Eugnosto. Infatti non si può dire che le risposte del Cristo siano sempre perfettamente calibrate rispetto alle domande. Nel complesso tuttavia l’autore traccia in grandi linee una storia dell’umanità. Le domande dei discepoli (54)  Sapienza Gesù Cristo, NHC III, 4, 91. (55) M. Tardieu, Écrits gnostiques, Codex de Berlin, Paris, Cerf, 1984, p. 56; D. M. Parrot, Nag Hammadi Codices iii, 3-4 and v, 1 with Papyrus Berolinensis 8502, 1 and 4; Leiden, Brill, 1991; C. Barry, La sagesse de Jésus Christ, Québec, Les Presses de l’Université Laval, 1993, p. 20; M. Scopello, The Wisdom of Jesus Christ, Introduction, in The Nag Hammadi Scriptures, cit., pp. 283-286.

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vertono sulla natura dell’universo e sull’economia della salvezza, sulla possibilità di accedere alla verità, sulla modalità in cui l’‘Uno che è’ appare a coloro che sono perfetti, su quanti sono i regni che superano i cieli e domande simili. Le risposte muovono dalla mitologia gnostica della caduta di Sophia, della discesa salvifica del Cristo, delle potenze intermedie fino al demiurgo Yaldabaoth, della catena degli eoni, dell’Adamo carnale e di quello spirituale, della salvezza e unificazione dell’umanità. 1.17.  Testi cristiano-valentiniani: il Vangelo della Verità Il Vangelo della verità (NHC I, 3; NHC XII, 2) pervenutoci in due copie, l’una in copto sub-achmimico e l’altra in copto sahidico, ma scritto in origine in lingua greca, prima della fine del ii secolo, come è dimostrato dal fatto che se ne trova menzione, sebbene, molto generica, in Ireneo, il quale lo dichiara piuttosto recente («non olim conscriptum») e lo attribuisce direttamente a Valentino e alla comunità dei valentiniani, che – dice – Si vantano di possedere più vangeli di quelli che esistono [intendi dei canonici]. Essi, infatti, sono arrivati a tal punto di audacia da intitolare ‘vangelo di verità’ il vangelo scritto da loro non molto tempo fa, un vangelo che non concorda affatto con i vangeli degli apostoli; per cui presso di lui [Valentino] neppure il vangelo è esente da bestemmia.(56)

In realtà il Vangelo della Verità, sia esso un sermone omiletico con tratti parenetici o un vangelo o un semplice commento a un vangelo, è in ogni caso un testo di alta spiritualità cristiana e gnostica nello stesso tempo. Il nodo centrale è nel processo ascensivo che dal Tutto riconduce all’Uno. La condizione per compiere la risalita verso il mondo spirituale è nella conoscenza della verità ovvero nella grazia di conoscere il Padre per mezzo del Lógos, «uscito dal Plérōma e immanente nel pensiero e nella mente del Padre». È questa la ragione per cui il Lógos è chiamato «il Salvatore»; con tale termine ci si riferisce «all’opera che egli deve compiere per la salvezza di chi non ha conosciuto il Padre».(57) Il cammino della verità è opposto a quello dell’errore. Dall’Errore nacque il mondo, come finzione, come un bell’artifi(56)  Ireneo, Adv. haer., iii, 11, 9. (57)  Verità, NHC I, 3; 16, 31 - 17, 1.

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cio, come una sorta di controfigura della verità. Ma le sue finzioni non erano nulla, non intaccarono per nulla la verità che restò salda e inalterabile. Dalla nebbia dell’oblio, che rende prigionieri dell’errore, ci salva la conoscenza del Padre che fa scomparire l’oblio. Perciò il vangelo della verità è il vangelo di colui che è cercato, è il mistero nascosto che Cristo ha rivelato ai perfetti ed è illuminazione, via alla verità. V’è una sorta di teologia del Libro della vita dei viventi, del quale troviamo traccia nell’AT. Menzionato nell’Esodo (xxxii, 32-33), esso non è definito «libro della vita», ma è piuttosto indicato come il libro in cui Yhwh registra i nomi dei giusti e cancella i nomi di chi cade nel peccato. Mosè infatti dice a Yhwh: «Se perdoni il loro peccato […], cancella anche me dal libro che ti sei scritto». Nell’AT non abbiamo altre menzioni del libro della vita. Malachia (iii, 16) ne parla come di un libro delle memorie. È nell’Apocalisse (xvii, 8) che il libro citato nell’Esodo viene interpretato come «libro della vita», in cui sono registrati tutti i nomi dei giusti. Nel Vangelo della Verità esso diventa il «libro della vita dei viventi», che è «scritto nel Pensiero e nella Mente del Padre» ed è, «ancor prima della fondazione del tutto, nella parte più nascosta di lui che è incomprensibile»; chiunque avesse avuto la possibilità di prenderlo, sarebbe stato immolato. Gesù «ha preso su di sé quel libro […], pur essendo rivestito di vita immortale; egli si è abbassato fino alla morte […], è divenuto conoscenza e perfezione […]. Coloro che ne ricevono l’insegnamento sono i vivi, iscritti nel libro della vita».(58) I vivi cioè sono i perfetti che si sono elevati alla conoscenza attraverso il Cristo. Ne consegue che colui che «possiede la gnosi è un essere dall’alto», risponde a chi lo chiama e «compie la volontà di colui che lo ha chiamato. Desidera piacergli e riceve il riposo» (anapausis).(59) Ciò che di nascosto era in Dio «è suo Figlio»; «egli è il riposo». Il Cristo «ha abolito la figura della mancanza», che è la figura o immagine di questo mondo, in cui dominano invidia e disaccordo; là – scrive l’autore – c’è mancanza; mentre nel luogo in cui c’è unità, c’è perfezione».(60) Anche questo percorso di abolizione della mancanza è segnato dalla gnosis; infatti «la mancanza è venuta all’esistenza perché non si conosceva il Padre; così appena si conoscerà il Padre, all’istante scomparirà la mancanza». In altri termini «la verità è la bocca del Padre e la sua lingua è lo Spirito Santo». (58)  Ivi, NHC I, 3; 20-21. (59)  Ivi, NHC I, 3; 22. (60)  Ivi, NHC I, 3; 24.

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Naturalmente non manca il caratteristico lessico della gnosi con il ricorso a termini come luce, pensiero, intelletto, sigillo, lógos, grazia, pastore (in riferimento alla parabola della pecora smarrita), la «fede che abolisce la separazione e porta la calda pienezza dell’amore», la buona novella per «coloro che aspettano la salvezza che viene dall’alto».(61) Cristo è la parola; attraverso il crisma da lui somministrato ai perfetti «si ritrova il ritorno». Il Padre è il loro inizio, come è anche la loro fine. C’è l’idea della potenza e dell’efficacia delle parole, secondo la tradizione tipicamente ebraica dello shem hammephoresh (‫ )שם המפורש‬pur non essendo pronunciabile il nome del Padre, Egli si è rivelato attraverso il Figlio, perché il Figlio è il nome del Padre. È Dio che «all’inizio ha dato nome a quello che è uscito da lui, e che era Egli stesso, e che Egli ha generato come Figlio. Egli gli ha dato il suo nome, che apparteneva a Lui, poiché è Lui il Padre».(62) C’è qui l’idea della natura assoluta del nome. Tutte le emanazioni del Padre sono pienezze; tutte rivolgono il proprio pensiero alla propria radice; tutte sono «messe in comunione con il volto di Lui per mezzo dei baci».(63) Giunte all’«incommensurabile grandezza» dell’«Uno, unico e perfetto», non trovano «riposo per mezzo della morte, ma per mezzo di colui che riposa; non penano né sono preoccupati nella ricerca della verità, perché sono essi stessi la Verità».(64) Tra i testi gnostici il Vangelo della Verità è forse il più estraneo alla letteratura canonica. La gran parte degli studiosi lo reputa un’omelia più che un vangelo o addirittura una sorta di vademecum per oratori. 1.18.  Testi cristiani di matrice tommasiana Il Vangelo copto di Tommaso (NHC II,2) è una raccolta pseudepigrafa di lógia segreti di «Gesù il Vivente» che si vogliono collazionati da Giuda Didimo Tommaso.(65) Gli studiosi presumono che il compilatore sia l’apostolo Tommaso, il cui nome significa in ebraico ‘gemello’, come il corrispondente greco ‘Didimo’. Sicché nel nome ‘Giuda Didimo Tommaso’ (61)  Ivi, NHC I, 3; 34. (62)  Ivi, NHC I, 3; 38. (63)  Ivi, NHC I, 3; 41. (64)  Ivi, NHC I, 3; 42. (65) M. Meyer (ed.), The Nag Hammadi Scriptures, New York, Harper One, 2007, pp. 133-153. Cfr. anche H.-Ch. Puech, Das Thomas Evangelium, in E. Hennecke, Neutestamentliche Apokryphen, i, Tübingen, Mohr, 1959, pp. 199-223.

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ci sarebbe una ripetizione di ‘gemello’. Per di più l’anonimo lascia intendere che ‘gemello’ si riferisca a Cristo e che dunque Giuda ne fosse il fratello gemello. Per capire come nasce questo equivoco dobbiamo risalire ai tre sinottici, nei quali Giuda è ricordato come fratello di Cristo in Marco e in Matteo (Mc, vi, 3; Mt, xiii, 55) e Tommaso è annoverato tra i discepoli (Mc, iii, 18; Mt, x, 3; Lc, vi, 15). Lo sconosciuto autore greco che ha compilato il vangelo tommasiano, essendo di origine ebraica, ha interpretato ‘Tommaso’ come ‘gemello’ e lo ha affiancato al greco ‘Didimo’; ma, non essendo ‘gemello’ un nome di persona, lo ha arbitrariamente associato ad uno dei fratelli di Cristo, citati da Marco e da Matteo. Giovanni attinge da lui il sintagma «Tommaso, chiamato Didimo» e lo utilizza tre volte nel suo vangelo (Gv, xi, 16; xx, 24; xxi, 2). Già questo primo elemento depone in favore della seriorità del vangelo copto rispetto ai sinottici. Se, infatti, Marco e Matteo avessero saputo che Tommaso era fratello gemello di Cristo, ce lo avrebbero detto. Il vangelo copto è in ogni caso uno dei testi più enigmatici e oscuri a noi pervenuti ed è facile intuire che ha ingenerato discussioni ed analisi interpretative le più disparate. Prima della scoperta del 1945 ne avevamo solo frammentarie citazioni nello Ps.-Ippolito,(66) in Origene nella prima metà del iii secolo e in Eusebio e Cirillo di Gerusalemme nel quarto,(67) oltre alle immancabili menzioni del Decreto gelasiano e della Sticometria di Niceforo, (66) Lo Ps.-Ippolito, Élenchos, v, 7, 20, ci dice che il vangelo copto circolava all’interno della setta dei Naasseni e cita da esso il seguente detto: «Colui che mi cerca mi troverà nei bambini a partire da sette anni, perché lì, nascosto nella quattordicesima età, io vengo manifestato». Tra l’altro egli aggiunge che si tratta di un’idea che non è propria di Cristo, ma di Ippocrate. La citazione comunque non trova piena corrispondenza nel Vangelo di Tommaso, ove il detto che più vi si approssima è il numero 4, che testualmente recita: «un uomo carico d’anni non esiterà ad interrogare un bambino di sette giorni sul luogo della vita». La differenza dei due testi potrebbe essere spiegata in riferimento a due diverse redazioni del testo tommasiano. (67)  Origene, Homiliae in Lucam, Praefatio, PG. xiii, col. 1803; Eusebio, HE, iii, 25; Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, iv, 36; vi, 31. Eusebio cita il vangelo tommasiano come eretico; gli fa eco Cirillo di Gerusalemme, che lo dice diffuso tra i manichei, «evangelicae appellationis fragrantia coloratum», tanto da essere nocivo alla salute delle anime più semplici (PG. xxxiii, coll. 499-500). I vangeli di Tommaso e di Filippo sono anche menzionati da Leonzio di Bisanzio, De sectis, iii, ii, PG. lxxxvi, coll. 1213-1214: «Quippe commemorant evagelium scriptum a Thoma et alterum a Philippo, quae nos ignoramus», e da Timoteo di Costantinopoli, De receptione haereticorum, Manichaei, PG. lxxxvi, coll. 21-22.

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che lo registrano come non canonico. Frammenti più o meno consistenti erano contenuti anche in taluni papiri di Ossirinco, pubblicati da Grenfell e Hunt.(68) In particolare il papiro POxy 1, della Bodleian Library di Oxford, contiene i detti 26-30, 77 e 31-33; l’Oxy 654 della British Library di Londra contiene i detti 1-7 e infine l’Oxy 655 della Houghton Library della Harvard University contiene i detti 36-40. I codici di Chenoboskion ci hanno restituito l’intero documento che in realtà non può considerarsi un vero e proprio vangelo, così come noi siamo abituati a concepire questo genere letterario, ma ha più l’aspetto di una raccolta di «detti sapienziali» sul modello del Qohelet e dei Proverbi. Nel confronto con i vangeli canonici, il testo ci sorprende sotto molti punti di vista: non presenta infatti una cornice storico-biografica del Cristo, non fa alcun accenno alla passione e alla morte, né alla resurrezione e all’ascensione; si limita a ricordare tra i discepoli solo Matteo, Pietro, Giacomo e Tommaso e lascia in penombra la figura di Giovanni il Battista; non fa alcuna allusione alla croce o al sepolcro, né presenta alcun apparato miracolistico. Non fa uso di titoli, come Cristo, Messia, Signore, Salvatore, Verbo o Lógos,(69) che di consueto nei canonici accompagnano la figura di Gesù. In tre detti (28, 86 e 108) compare il titolo «Figlio dell’Uomo», il quale, però, non solo non è riferito a Cristo ma non ha neppure il senso pregnante di un’origine divina; è invece usato unicamente nel senso generico di ‘uomo’. In un solo caso Gesù è definito ‘maestro’, ma con qualche riserva, poiché l’autore presuppone che la conoscenza abbia una scaturigine divina (detto 13: «Io non sono il tuo maestro, giacché hai bevuto e ti sei inebriato alla fonte gorgogliante che io ho misurato»). Sicché Gesù ci è descritto nella veste di un maestro di sapienza, forse sul modello del filosofo stoico o dello gnostico che penetra nei segreti della conoscenza divina. Non sono sicuro che l’autore lasci all’indagante una grande autonomia intellettuale,(70) perché se per un verso pone l’accento sulla ricerca interiore, per l’altro il rapporto con il discepolato non è proposto in termini imitativi (68)  B. P. Grenfell - A. S. Hunt, The Oxyrinchus Papyri, cit., pt. i, pp. 1-10; pt. iv, pp. 1-22, 23-36. (69)  Cfr. S. J. Patterson, The Gospel of Thomas Comes of Age, in S. J. Patterson - H. G. Bethge - J. M. Robinson, The Fifth Gospel, The Gospel of Thomas Comes of Age, Harrisburg, Trinity Press International, 1998, p. 43. (70)  Cfr. in proposito R. Valantasis, The Gospel of Thomas, London and New York, Routledge, 1997, p. 7; M. Meyer (ed.), The Gospel of Thomas with the Greek Gospel of Thomas, in The Nag Hammadi Scriptures, cit., pp. 134.

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o formativi, ma in termini identificativi. Illuminante è in proposito il detto 108: «Colui che beve dalla mia bocca diventerà come me, ed io diventerò come lui e gli saranno rivelate le cose segrete». L’appellativo più frequentemente ricorrente nel testo è «il vivente», che già nel titolo contrappone Gesù all’uomo terreno, il cui spirito è sepolto nella carne. Il che apre uno squarcio su una prospettiva dualistica, fondata sulla profonda contrapposizione tra mondo spirituale e mondo materiale, la quale potrebbe essere di derivazione platonica o gnostica. In ogni caso la via della sapienza è individuale, intima, personale. La stessa raccolta di detti ha l’obiettivo di mettere a disposizione di chi ne ha le doti appropriate un immenso patrimonio sapienziale, la cui spiegazione permetterà all’indagante di «non gustare la morte». Il tema della conoscenza di sé ricorda naturalmente più che l’oracolo delfico, l’insegnamento socratico o più verosimilmente reminiscenze stoiche e gnostiche. Alla ricerca interiore è comunque affidata la salvezza come conquista individuale. Su tale questione le dissonanze con i canonici sono fortemente accentuate. Per i tre sinottici la salvezza si ottiene mediante la fede in Cristo, per il vangelo copto è il risultato della conoscenza e dello scavo profondo della propria interiorità. La salvezza è insieme conquista interiore e frutto dell’illuminazione divina; c’è qui in qualche modo una sorta di agostinismo ante litteram, anch’esso di derivazione platonica. La salvezza non viene da Cristo se non come sollecitatore-maestro-guida di una ricerca interiore, ma il presupposto è che essa è resa possibile dal fatto che ‘dentro’ ciascuno di noi c’è una sorta di scintilla divina: «Quando in voi stessi genererete ciò che avete, esso vi salverà» (detto 69); «Colui che conosce tutto, ma non conosce sé stesso, ignora tutto» (detto 67); «Conoscersi significa riconoscersi figli del Padre vivente» (detto 3), «Conoscere il principio equivale a conoscere la fine, l’essere presente nel principio» (detto 18) e l’«essere prima del divenire» (detto 19). Ciò che sta davanti a voi non è il visibile o il sensibile, ma il divino, il mistero: «ciò che è nascosto e si manifesta» (detto 4: «ciò che sta davanti alla tua faccia ti manifesterà ciò che ti è nascosto»). Gli uomini sono come ubriachi e assopiti, non hanno occhi per ciò che si manifesta e che ci sta davanti, non sono assetati di sapere (detto 28): «mettono alla prova la superficie del cielo e della terra, ma non conoscono ciò che sta davanti a loro» (detto 91). Ovviamente la conoscenza, il mistero, il segreto aprono le porte a prospettive elitaristiche e ricordano da vicino i riti iniziatici e i culti misterici: «Io comunico i miei misteri a coloro che sono degni dei miei misteri» (detto 62); «Molti stanno alla porta, ma solo i solitari entreranno nella camera nuziale» (detto 75).

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Il mondo della verità e del divino è il mondo della luce: «Noi infatti siamo venuti dalla luce, dal luogo ove la luce si fece da sé stessa […]; siamo figli ed eletti del Dio vivente; egli è il movimento e il riposo» (detto 50). Il riposo, che, come riparo dalla vita materiale e cadaverica (detti 56, 80), torna nel detto 60, è uno temi cari alla gnosi; ad esso è associata l’idea del «nuovo mondo», che ricorda la «seconda creazione» di reminiscenza enochica. Perciò «il nuovo mondo, quel riposo che aspettate, è venuto, ma voi non lo avete riconosciuto» (detto 51). Il regno del Padre non è più una prospettiva futura, ma è insieme l’origine e la fine: veniamo da esso e ad esso torneremo (detto 49); anzi esso è diffuso su tutta la terra e gli uomini non lo vedono (detto 113). Ne consegue che nel Vangelo di Tommaso mancano la dimensione apocalittica e la prospettiva dell’attesa. Il dualismo metafisico si riverbera sul dualismo di anima e corpo, di spirito e materia, che è il terreno comune da cui traggono alimento il proto-cristianesimo e la gnosi. «Il mondo – recita il detto 111 – non è degno di colui che troverà sé stesso»; «Guai all’anima che dipende dalla carne» (detto 112). Probabilmente l’espressione «Cristo si manifesta in carne» (detto 28) va letta in chiave docetistica; se così è, il Cristo del vangelo tommasiano è un redentore sovrumano alla stregua degli eoni, quali si riscontrano in posizioni gnostiche più mature e più prossime a concezioni emanatistiche. Non si può escludere che vi siano tracce di marcionismo non solo per il fatto che la legge non sembra più essere interpretata come veicolo della salvezza, ma anche perché, a differenza dei vangeli canonici, è svilita la funzione profetica dell’AT. Richiamarsi agli antichi profeti equivale per l’autore di Tommaso a rispolverare un mondo ormai sepolto: «Avete davanti a voi il Vivente e parlate di coloro che sono morti?» (detto 52). Non si può dire che l’autore brilli per chiarezza; taluni detti del Cristo appaiono criptici ed enigmatici o comunque di difficile interpretazione. Taluni concetti sono sfumati, in parte ambigui. Tale è per esempio il concetto di ‘regno’ o di ‘regno di Dio’, perché in parte richiama alla memoria una realtà celeste, ma più esplicitamente è un regno interiorizzato, sulla base della conoscenza di sé stessi: «Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i figli del Padre vivente. Ma se non vi conoscerete, allora sarete nella povertà [probabilmente di spirito] e voi sarete la povertà». Nel detto 22 si specifica che l’accesso al regno ha come precondizione una conoscenza unificante per cui la parte interna è come la parte esterna, la superiore come l’inferiore, il maschio come la femmina «come un unico essere». Il

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concetto è ribadito nel detto 114: «ogni femmina che si fa maschio entrerà nel regno dei cieli» (con evidente espressione matteana). L’identità, l’onnipresenza, l’Uguale sono la radice di tutte le cose e la luce che le riempie di senso: «Io sono colui che proviene dall’Uguale […] quando uno sarà uguale sarà riempito di luce» (detto 61); «Io sono la luce che sovrasta ogni cosa. Io sono il tutto. Il tutto uscì da me e il tutto giunge fino a me; spaccate il legno, io sono là dentro; sollevate la pietra e lì mi troverete» (detto 77). Numerosi sono i punti di contatto con i testi evangelici canonici. Possiamo dire che buona parte del testo tommasiano si sovrappone ad essi, pur escludendone la cornice storico-biografica. Una esclusione che per la verità è coerente con l’atteggiamento gnostico, volto a privilegiare la dimensione spirituale e la ricerca intellettuale («Colui che cerca non desista dal cercare fino a quando non avrà trovato»). Se non si tratta di un testo gnostico, si può dire, in sintonia con Marvin Meyer,(71) che «potrebbe essere appropriatamente considerato un vangelo di detti con una incipiente prospettiva gnostica». Ma al di là del carattere più o meno incipiente dello gnosticismo del «vangelo di detti», il nodo ermeneutico fondamentale sta nel rapporto che esso ha con i tre sinottici. Credo che per affrontare la questione sia opportuna un’analisi statistica preliminare per determinare, sia pure in termini approssimativi, le tre aree 1) di sovrapposizione, 2) di convergenza e 3) di esclusione nella interrelazione tra i sinottici e il Vangelo di Tommaso. Da tale analisi si rileva quanto segue: ben 63 (pari al 55,2%) dei 114 lógia corrispondono ovvero si sovrappongono, pur con minime varianti, a quelli tràditi dai tre vangeli sinottici,(72) mentre non emerge nessuna sicura dipendenza letterale dal quarto vangelo; 24 lógia (pari al 21 %), pur non presentando una corrispondenza testuale, si possono considerare convergenti con lo spirito della narrazione sinottica;(73) di contro 27 lógia (pari ad un ulteriore 23,6 %) risultano nettamente (71) M. Meyer (ed.), The Gospel of Thomas with the Greek Gospel of Thomas, in The Nag Hammadi Scriptures, cit., p. 133. (72)  Afferiscono all’area di sovrapposizione a tutti e tre i sinottici i seguenti lógia: 9, 12, 14, 16, 20, 21, 22, 25, 31, 33, 35, 41, 44, 65, 99, 100, 104 (17 lógia comuni a Marco, Matteo e Luca); 2, 5, 6, 11, 24, 26, 34, 36, 45, 46, 47, 54, 55, 61, 64, 69, 73, 78, 86, 89, 92, 94, 95, 96, 101, 107 (26 lógia comuni a Matteo e a Luca); 4, 8, 30, 32, 39, 40, 48, 62, 76, 90, 93, 106, 109 (13 presenti solo in Matteo); 3, 10, 38, 63, 72, 79, 113 (7 presenti solo in Luca). (73)  L’area della convergenza è rappresentata dai seguenti lógia: 13, 15, 17, 18, 19, 28, 37, 43, 49, 50, 51, 52, 53, 57, 58, 59, 66, 71, 77, 83, 91, 97, 102, 103.

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extra-canonici.(74) Se sommiamo insieme le prime due aree emerge che esse coprono il 76% del totale dei lógia. Quali conclusioni si possono trarre da queste valutazioni puramente statistiche? Si dovrebbe dedurre che il Vangelo di Tommaso fu composto tra Luca e Giovanni, ovvero dopo Luca e prima di Giovanni, perché se l’autore avesse conosciuto il testo giovanneo, lo avrebbe probabilmente utilizzato. Per tale ragione si deve supporre che il sintagma «Tommaso chiamato Didimo» sia originario di Tommaso e non di Giovanni. Tenuto conto che il quarto vangelo non è anteriore alla metà del secondo secolo, si può affermare che la sua datazione costituisca il terminus ad quem del vangelo tommasiano. D’altro canto i papiri di Ossirinco, che rappresentano la sua più antica versione greca sono stati paleograficamente datati da Grenfell e Hunt intorno al 140.(75) Preoccupazioni di ordine religioso hanno indotto altri studiosi, come Søren Giversen,(76) a rivedere le valutazioni di Grenfell e Hunt e a sottolineare che sono possibili datazioni alternative e più alte. Per comprendere i termini della controversia bisogna ulteriormente approfondire il rapporto tra i sinottici e il testo copto. La spiegazione più semplice è quella di pensare che l’autore di Tommaso abbia concepito il suo testo in sintonia con le aspettative di una comunità cristiana, che si può sospettare influenzata da una sorta di gnosi ibrida. Ciò spiegherebbe l’obiettivo di piegare un certo numero di lógia dei sinottici nella nuova chiave ermeneutica di un Cristo spogliato di ogni carattere uma(74)  Sono extracanonici i seguenti lógia: 1, 7, 23, 27, 29, 42, 56, 60, 67, 68, 70, 74, 75, 80, 81, 82, 84, 85, 87, 88, 98, 105, 108, 110, 111, 112, 114. In generale essi vanno ad incrementare le raccolte dei cosiddetti ágrapha che, a partire da Alfred Resch (1889), hanno conosciuto un discreto numero di edizioni. Gli ágrapha sono, come è noto, i detti non scritti del Signore. A rigore essi sono i lógia extraevangelici citati da diversi autori, spesso Padri della Chiesa, ma non dotati di una apposita testimonianza originaria. (75)  B. P. Grenfell - A. S. Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, cit., pt. i, p. 2. La datazione del Vangelo di Tommaso al secondo secolo è brillantemente fissata da A. J. Hultgren, The Parables of Jesus: A Commentary, Cambridge, UK, William B. Eerdmans Publishing, 2002, p. 432, sulla base del detto 52, in cui si trova un chiaro riferimento al canone ebraico dell’AT, chiuso in 24 libri. Sebbene qualcuno abbia tentato di far risalire tale canone al primo secolo, una smentita decisiva viene da Giuseppe Flavio che nel Contra Apionem, i, 8, a fine primo secolo, mostra di conoscere il canone ebraico come composto di 22 e non di 24 libri. (76) S. Giversen, The Palaeography of Oxyrhynchus Papyri 1 and 654-655, saggio presentato nel novembe 1999 al meeting annual della Society of Biblical Literature, citato da M. Meyer, Albert Schweitzer and the Image of Jesusin the Gospel of Thomas, in Jesus Then and Now, Images of Jesus in History and Christology, Harrisburg, Trinity Press International, 2001, p. 87.

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no e per ciò stesso non più ispirato al carisma del servo sofferente, non più tormentato da prospettive apocalittiche, pacificato con una élites di seguaci, convinti di scoprire in sé stessi il regno di Dio e di guadagnare la salvezza per mezzo della conoscenza di sé e di Dio. C’è in questo un incipiente gnosticismo? Ci sono certamente convergenze con la gnosi, ma c’è soprattutto un singolare intreccio sincretistico di temi e di problematiche che ormai non appartengono più al primo secolo. Tale è il parere di Sanders e di Meier,(77) per i quali il vangelo copto è ascrivibile al secondo secolo e, in quanto tale, non è un utile strumento per la ricerca sulla storicità del Cristo, né sulla storicità e autenticità dei suoi detti. Perché queste puntualizzazioni? Perché, come spesso accade, si costruiscono ipotesi complesse e strabilianti, pur di pervenire a risultati compatibili con le istanze religiose. In sostanza quei lógia possono assurgere a testimonianze storiche del Cristo solo a condizione che siano riconducibili alla prima metà del primo secolo. Ma è verosimile tale congettura? Le argomentazioni utilizzate, a titolo esemplificativo, da Nicolas Denzey Lewis,(78) sono le seguenti: 1) le caratteristiche formali dei detti rinviano al primo piuttosto che al secondo secolo; 2) sappiamo che la fonte Q da cui attingono Matteo e Luca, secondo la cosiddetta teoria delle due fonti, conteneva esclusivamente detti del Signore e cominciò a circolare subito dopo la sua morte e la sua resurrezione; 3) le collezioni dei detti, composte a ridosso della morte di Cristo, furono successivamente incorporate nei vangeli neotestamentari; 4) vi sarebbe una netta differenziazione tra i detti aventi una forma più arcaica, risalenti al primo secolo, e i detti più tardi che pure compaiono nei sinottici; 5) è possibile sceverare i primi dai secondi sulla base del vocabolario specifico e dei contenuti teologici tipici del secondo secolo, attraverso una loro comparazione con altri scritti coevi. Cerchiamo di approfondire la questione. Qual è la forma arcaica dei detti che risalirebbero al primo secolo? Prescindiamo dal fatto che Lewis considera precristiani e quindi esclusivamente sapienziali o puri aforismi taluni detti (26, 31, 33, 34, 35, 39, 45, 47, 67, 92, 93, 94) che pure sono ampiamente utilizzati nei sinottici. L’arcaicità starebbe nella formula: «Gesù disse», «Egli disse» e in parte nella cripticità di taluni detti. Vi è chi rileva che l’uso del passato (‘disse’) è proprio del copto peje i(esou)s, pejaf, poiché nei papiri greci (77)  E. P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, cit.; J. P. Meier, Un ebreo marginale, cit., vol. i, pp. 128-154. (78)  N. D. Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi. Una biblioteca gnostica del iv secolo, Carocci, Roma, 2015, pp. 172-173.

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troviamo il presente ‘legei Iesous’, ‘legei’,(79) da cui si dedurrebbe che si tratterebbe di detti pronunciati da Gesù nella attualità del suo tempo. Ma questa interpretazione è semplicemente ridicola. È come se qualcuno, leggendo in Tacito l’uso del presente storico in riferimento, poniamo, ad eventi di epoca neroniana, deducesse che quegli eventi furono a lui contemporanei. Ma v’è di più: la formula citata introduce non solo i detti extracanonici, ma anche quelli che sono nell’area della corrispondenza e della convergenza. Se è la forma che implica l’arcaicità, perché essa vale per gli uni e non per gli altri? Insomma chi ci assicura che l’operazione chirurgica che separa i presunti detti del primo secolo da quelli del secondo non ci conduca a conclusioni gratuite e arbitrarie? Quanto alla difficoltà di datare i contenuti, mi sembra utile segnalare il circolo vizioso in cui si chiude Lewis. Egli afferma che l’escatologia del Vangelo di Tommaso può essere letta in due modi diversi. Da un lato essa […] potrebbe risalire alla fine del primo o al secondo secolo, quando la carica apocalittica […] si era decisamente affievolita. Dall’altro lato, se questi detti sono autentici, se davvero sono stati pronunciati da Gesù, potrebbero indicare che Cristo stesso non credeva che la fine del mondo fosse imminente.(80)

Monsieur de Lapalisse non avrebbe fatto meglio! La realtà è che l’affievolimento della carica apocalittica è un chiaro ed inequivocabile indizio della seriorità del vangelo copto rispetto ai sinottici, nei quali l’escatologia di stampo apocalittico è ancora nell’aria soprattutto nei primi lustri del secondo secolo quando scrive Marco, dal quale poi dipendono Matteo e Luca. L’autore di Tommaso scrive invece verso la metà del secolo, quando le attese del regno messianico erano ormai affievolite. Scrive Lewis: «Il Vangelo di Tommaso distoglie l’attenzione dalla fine del mondo per reindirizzarla sull’inizio».(81) Sì, è proprio così! E ciò accade allorché si avvia il processo di normalizzazione della fede cristiana e significa che siamo ancora nel secondo secolo. Può essere in proposito significativo il rapporto tra il detto 8 e la pericope matteana xiii, 47-50. I due testi sono perfettamente corrispondenti fino a che Matteo non sconfina nell’apocalittica e mette in relazione la pesca e la selezione dei pesci con la fine del mondo in (79)  B. P. Grenfell - A. S. Hunt, The Oxyrhynchus Papyri, cit., pt. iv, p. 2. (80)  N. D. Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi, cit., p. 180. (81)  Ibidem.

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cui si procederà alla separazione dei giusti dai peccatori. Il secondo termine di paragone (selezione alla fine del mondo), che è quello che dà senso al primo (selezione dei pesci), manca in Tommaso, il quale se la cava con una conclusione allusiva: «Chi ha orecchie da intendere, intenda». Qui siamo, come dire, di fronte ad una evidenza innegabile. Ha una completezza di significato il testo matteano, ma non quello tommasiano. Che cosa più di questo può dimostrare che il primo precede il secondo? Una situazione analoga troviamo nel detto 107 che trova riscontro in Matteo e in Luca (Mt, xviii, 12-14; Lc, xv, 4-7). Il testo di Tommaso è monco della conclusione che contiene il senso della parabola della pecora smarrita (Matteo scrive: «Così è la volontà del padre mio che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda»). La conclusione di Tommaso, che fa dire a Gesù: «Ti amo più delle novantanove», fa perdere il senso della parabola. Ma il top della logica raffinata degli studiosi credenti sta nel cosiddetto «criterio di dissomiglianza». Lewis lo espone in questi termini: Secondo questo criterio, il fatto che di un detto si abbia una sola attestazione potrebbe indicare che Gesù lo abbia pronunciato davvero, perché non sarebbe stato inventato e incluso in una collezione cui non si adatta se non fosse stato percepito dal redattore come autentico. In altri termini, se un detto è in disaccordo con la tradizione, ossia se afferma qualcosa di radicalmente contrario a quanto dicono gli altri detti, potrebbe davvero essere autentico, in quanto è difficile spiegare perché possa essere stato inventato.(82)

Non capisco perché una singola attestazione possa valere più di attestazioni pluriconfermate. Nel campo delle indagini storico-filologiche una singola attestazione è naturalmente più debole di più conferme. Non so poi come si possa parlare di disaccordo con la tradizione, se ci riferiamo ad un periodo storico in cui la tradizione stessa è in corso di formazione. C’è poi l’equivoco di confondere i piani del tempo storico dell’evento, quello della percezione del narratore dell’evento e quello della percezione che ne abbiamo noi che interpretiamo il racconto del narratore. Se diciamo che il racconto dell’evento storico è una redazione o una compilazione che dipende dalla valutazione soggettiva del redattore, evidentemente quella attestazione non ha le garanzie della storicità; ché, se le avesse, sarebbe una mera registrazione dell’evento, come può essere quella di un testimone diretto dei (82)  Ivi, p. 184.

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fatti. Se parliamo di valutazione soggettiva del narratore, dobbiamo mettere in conto che essa potrebbe anche non essere quella di aderire ai fatti, ma più semplicemente di far prevalere motivazioni ideologiche più o meno recondite. Va da sé che il livello ermeneutico diventa più vacillante e instabile quando ci aggiungiamo noi come interpreti che arbitrariamente avvaloriamo la dissomiglianza più che la congruenza. Il rischio che corriamo è che il confine della storicità resta assegnato da un lato dalla unicità dell’attestazione e dall’altro dalla dissolvenza della tradizione, posto che la tradizione abbia già assunto i suoi connotati definiti all’epoca in cui scrive il narratore. Lewis si serve di tale strumento euristico per argomentare a favore dell’autenticità dei due detti 97 e 98. Per comprendere il problema è necessario riportare per intero le due parabole extracanoniche: Detto 97: Gesù disse: ‘Il regno del Padre è simile a una donna portante una brocca piena di farina; mentre cammina per una lunga strada, si rompe l’ansa della brocca e la farina fuoriesce sulla via; lei non se ne accorge e non avverte l’incidente. Giunta a casa sua posò giù la brocca e la trovò vuota’. Detto 98: ‘Il regno del Padre è simile a un uomo che vuole uccidere una persona potente: in casa sua estrasse la spada e trapassò una parete, per provare se la sua mano era forte abbastanza. Poi uccise quella persona potente’.

Non ci vuol molto per capire che la parabola della donna manca di una conclusione che le dia senso; quella dell’assassino, se non è stata fraintesa dal traduttore copto, non è solo in contrasto con la tradizione, ma è anche del tutto priva di senso. Dobbiamo dire che esse sono autentiche solo per la loro dissomiglianza? Dobbiamo considerarle come effettivamente pronunciate da Cristo? Personalmente credo che la parabola 97, come le precedenti 8 e 107, manca del suo significato forse per il fatto che l’autore, sotto l’influenza dello stoicismo, vuole mantenere il segreto di un insegnamento esoterico; sicché demanda al credente la ricerca del senso nel processo di autointerrogazione e di autoconoscenza. Probabilmente lo stesso accade per la parabola del detto 98, salvo che non ci sia stata trasmessa in modo maldestro dallo sprovveduto copista copto. Altrettanto arzigogolata è l’argomentazione di Lewis a favore dell’ipotesi dell’esistenza di una fonte Q, la quale sarebbe costituita dal materiale condiviso da Matteo e da Luca. Così infatti egli scrive:

1154  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Q è semplicemente l’insieme dei materiali condivisi da Matteo e da Luca che non sono presenti in Marco. In questo senso Q esiste. Ciò che non esiste, tuttavia, è un manoscritto antico che la contenga: questo, naturalmente non significa che non sia mai esistita, ma solo che non ne è sopravvissuta alcuna copia.(83)

Insomma la fonte Q esiste, in quanto non esiste, e non esiste, in quanto esiste. Con la stessa metodologia euristica e logica potremmo argomentare in favore dell’esistenza del centauro come l’essere che ha in comune l’uomo e il cavallo e non ha alcunché dell’asino. Ma la scoperta dei codici di Nag Hammadi – ritiene Lewis – ha fatto il miracolo. La fonte Q l’abbiamo sempre concepita come una collezione di detti, ed ecco che vien fuori una collezione proprio come l’avevamo immaginata. Ma è poi vero che le cose stanno così? Innanzi tutto va detto che della esistenza di un Vangelo di Tommaso avevamo notizia da parte dei citati Padri della Chiesa; non altrettanto si può dire di una fonte Q, che è solo una scappatoia della più recente ricerca esegetica. Va poi considerato che le raccolte di detti e di sentenze per lo più sapienziali non costituiva una novità. Se n’erano avuti importanti esempi nell’AT con i testi dei Proverbi e del Siracide. Non è escluso che l’autore di Tommaso, più che avere la pretesa di trasmettere i lógia del Cristo, abbia voluto ispirarsi a tale più antica tradizione giudaica nel tentativo di ricostruire il quadro dei suoi insegnamenti. Per di più il Vangelo di Tommaso è sì una raccolta di detti, ma per certi versi è deludente: innanzi tutto perché non contiene tutti i detti che ci saremmo aspettati; in secondo luogo perché non contiene molti detti che sono presenti nei sinottici; su 87 detti che appartengono all’area di sovrapposizione o di convergenza con i sinottici solo 17 sono i detti comuni a Marco, Matteo e Luca, 26 sono comuni a Matteo e Luca, 13 propri di Matteo e 7 propri di Luca. Insomma che sorta di fonte Q sarebbe mai il vangelo tommasiano se l’area comune a Matteo e Luca risulta piuttosto striminzita! E poi come spiegare la presenza di quei detti che sono extracanonici e che non sembrano allinearsi sulle posizioni degli autori dei sinottici? Come spiegare la radicale distanza ideologica che fa della salvezza una ricerca interiore e non invece una prerogativa della fede in Cristo? Come spiegare l’assenza di ogni riferimento alla passione? Che Cristo vien fuori, se manca proprio quell’elemento della sofferenza e della morte intorno a cui ruota la speranza dei fedeli e la pro(83)  Ivi, p. 181.

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messa di sconfiggere con Cristo e in Cristo la morte? E come spiegare l’impianto gnostico del testo? Dobbiamo pensare che già nella prima metà del primo secolo Cristo fosse portatore di una gnosi incipiente? E come spiegare l’assenza di un’attesa apocalittica? Insomma l’unica spiegazione possibile è che l’autore del Vangelo di Tommaso sia uno gnostico che disdegna gli aspetti biografici delle narrazioni sinottiche e che punta a ricostruire la figura di Cristo attraverso una serie di detti, in parte tratti dai testi canonici, nella prospettiva di costruire una fisionomia del Cristo di più alto profilo e dai tratti meno popolari. Se proviamo a chiedere a Lewis qual è il contenuto che apparterrebbe al primo secolo, sembra che egli abbia presente un certo numero di parabole che coinciderebbero con i detti 9, 57, 61, 64, 65, 76, 96, 107, 109. Diciamo subito che nessuna di esse è extracanonica; la 9 e la 65possono essere ricondotte alla tripla tradizione; le parabole 61, 64, 96, 107 sono comuni a Matteo e Luca; le parabole 65, 76, 109 sembrano derivare dal materiale proprio di Matteo. Fatta questa operazione chirurgica, tutto il resto del testo si collocherebbe – a parere di Lewis – nel secondo secolo. Ce ne darebbe conferma anche il lessico usato (detto 28: «l’ubriachezza del mondo»; detto 42: «siate capaci di passare oltre») che non si riscontra in testi del primo secolo. «Tutto fa pensare – egli scrive(84) – che a un certo punto nel secondo secolo qualcuno abbia ri-composto ex novo il Vangelo di Tommaso, oppure che un redattore ne abbia rielaborato il testo aggiungendovi alcuni detti (potrebbe averli composti egli stesso o averli tratti da una fonte dell’epoca)». Ma come! Proprio l’area dei detti extracanonici, che è quella della dissomiglianza, sarebbe stata inventata! E se è stata inventata questa, perché non potrebbe essere stata inventata anche l’altra che si presume del primo secolo? Chi può escludere che uno sconosciuto autore del primo secolo abbia potuto inventare al pari di altri autori del secondo? Insomma il tentativo di costruire una linea di demarcazione tra il contenuto del primo secolo e quello del secondo non approda a niente di serio e di affidabile. Lewis e gli altri esegeti che ricorrono a simili stratagemmi trovano nei testi ciò che essi stessi presuppongono: la storicità dei detti e della figura di Cristo che non può essere in alcun modo dimostrata. Il Vangelo di Tommaso ci pone di fronte ad un altro interrogativo: qual è il rapporto tra il suo impianto dottrinale cristiano e la gnosi? Lewis esamina le ragioni pro e contro l’ipotesi di una matrice gnostica. Militano – a suo av(84)  Ivi, p. 186.

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viso – in direzione negativa il fatto che il Vangelo di Tommaso: a) potrebbe risalire al primo secolo ed essere pertanto anteriore alla diffusione della gnosi; b) non contiene alcun riferimento alla figura del demiurgo e degli arconti, che sono centrali nella cosmogonia gnostica. Pendono invece per il versante positivo: i) la ricerca interiore o autoconoscenza; ii) la trasmissione esoterica della conoscenza salvifica e il processo di identificazione del credente con Cristo. Le ragioni negative mi sembrano alquanto deboli perché la tesi a è un presupposto non dimostrato e la tesi b fa riferimento ad una specifica forma di gnosi. Di contro sono più convincenti le ragioni esposte sul versante positivo. Ciò potrebbe significare che la gnosi veicolata dal vangelo copto non è una gnosi matura e che probabilmente ha ragione Meyer a parlare di gnosi incipiente. In realtà ciò che a me pare assai più rilevante è che, per il suo stesso curioso intreccio di spunti gnostici e cristiani, il Vangelo di Tommaso dimostra che almeno nella prima metà del secondo secolo le due componenti convivevano pacificamente non solo all’interno di uno stesso testo, ma probabilmente anche all’interno di una stessa comunità, senza che ciò scatenasse reciproche accuse di eresia. In altri termini le fratture e le divisioni denunciate dai Padri della Chiesa appartengono ad una fase storica successiva. Nella fase di gestazione dei loro reciproci impianti dottrinali, la gnosi e il proto-cristianesimo coesistono e si influenzano reciprocamente come se fossero uno stesso fiume che ad un certo punto si dirama in più direzioni diverse. Ciò che soprattutto è rilevante è che la scrittura e la tipologia del vangelo tommasiano, nonché la seriorità del suo frasario, non autorizzano né il ricorso ad un’ipotetica tradizione orale né quello ad una fantomatica collezione di lógia pre-sinottici. Se il Vangelo di Tommaso si configura come una collezione di detti, ciò non è dovuto al fatto che noi ne avevamo mirabilmente prevista l’esistenza, ma è dovuto al semplice fatto che l’autore, sotto l’influenza della gnosi, era più interessato a soffermare la sua attenzione sul messaggio soteriologico del Cristo che sulla sua avventura umana e terrena. D’altro canto va detto che il genere letterario a cui si ispira il Vangelo di Tommaso era stato inaugurato da Papia, la cui Κυριακῶν λογίων ἐξηγήσις era verosimilmente una raccolta di detti, tratti dalla tradizione scritta e orale, commentati e spiegati. Il buon vescovo di Ierapoli avvertì, nella prima metà del secondo secolo, l’esigenza di conservare e tramandare ogni possibile ricordo del Cristo o meglio di tutto ciò che il Cristo aveva effettivamente detto. Egli perciò saccheggiò Marco e Matteo ed aggiunse una buona dose di detti

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tratti dalla tradizione orale. L’operazione, come abbiamo detto,(85) non dovette essere felice, perché sulla sua Exēgēsis la Chiesa fece calare un provvido silenzio. Ma di per sé la sua opera ci lascia intuire, come, a distanza di tempo dall’età apostolica, prese corpo l’istanza di disporre di raccolte di detti del Cristo. Marco e Matteo ne avevano costruito la biografia, mettendo ordine alle tante versioni della tradizione orale; ma non era sufficiente, occorreva che una raccolta di detti sostanziasse l’insegnamento del Cristo. Retrodatare il Vangelo copto di Tommaso ci fa correre il rischio di retrodatare la gnosi. È vero che gli studi di Rudolf Kessler(86) hanno segnalato l’esistenza di radici gnostiche fin dal sincretismo del v secolo a.C., ma, per non fare di tutta l’erba un fascio e per non perdere i necessari punti di riferimento nell’indagine storica, è più importante individuare le specifiche curvature che un movimento religioso-intellettuale, come la gnosi, ha assunto nel determinato periodo storico in cui è emerso, tra il primo e il secondo secolo, a partire da Simon mago (seconda metà del i secolo), Cerinto (a cavallo tra il i e il ii secolo), Menandro (i-ii secolo), Carpocrate (epoca adrianea), Saturnino (prima metà del secondo secolo), Basilide (fl. 117-138), Marcione (prima metà del ii secolo) e Valentino (fl. 135-165). Gli scritti polemici e antieretici di Ireneo, Tertulliano, Ippolito ed Epifanio prendono di mira specificatamente la gnosi del ii secolo. Ma la frattura o l’opposizione che essi pongono tra gnosi e cristianesimo è il frutto di un processo di progressiva normalizzazione del cristianesimo e solo nella loro ottica posteriore sussiste quella opposizione che a priori, in corso d’opera, nel naturale processo di evoluzione ideologica, non era affatto presente. Di fatto nel Vangelo copto di Tommaso c’è un cristianesimo a curvatura gnostica ed una gnosi a curvatura cristiana. Pensare che esso possa aver seguito un modello precedente a quello di Papia e risalente alla prima metà del primo secolo è una pia illusione. Se una raccolta di detti del Cristo fosse stata così antica, avrebbe avuto certamente molta risonanza e noi avemmo trovato nel corso dello stesso secolo numerose testimonianze su Cristo e sulle prime comunità cristiane. Ciò che, come sappiamo, non è accaduto. Ci sono due altri aspetti sui quali occorre fermare la nostra attenzione: il primo è il primato di Giacomo il Giusto e il secondo è il rapporto che il Vangelo di Tommaso ha con le epistole paoline. Sul primo punto è illuminante il (85) Cfr. supra, pt. III, par. 2.10. (86) R. Kessler, Über Gnosis und altbabylonische Religion, in Verhandlungen des fünften Internationalen Orientalisten-Kongresses, Berlin, Asher, 1882, pp. 288-305.

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lógion 12, ove a proposito della questione di chi è tra gli apostoli il più grande si dice: «Dal luogo ove sarete giunti, andrete da Giacomo il Giusto, per il quale sono stati fatti il cielo e la terra». Generalmente si ritiene che Giacomo il Giusto sia il fratello del Signore, ma è verosimile che si tratti di una personalità da lui distinta. In ogni caso ciò che qui ci interessa sottolineare è che il testo copto si attesta su un primato di Giacomo, anziché di Pietro. Che Giacomo fosse assurto ad un ruolo importante presso alcune comunità siriano-antiochene o egiziane si evince dal fatto che a lui sono attribuiti apocrifi come il Protovangelo e manoscritti copti, come il Libro segreto di Giacomo e le due Apocalissi contenute nel quinto codice di Nag Hammadi. Se potessimo essere sicuri della paternità di tali testi, potremmo tentare di ricostruire i contorni dottrinali del loro autore. Sfortunatamente si tratta di testi pseudepigrafi che non ci danno alcuna affidabilità sotto il profilo storico. Tuttavia, quanto più si conferma l’ipotesi che le origini delle comunità cristiane siano state extragiudaiche, tanto più cade il mito della esistenza di comunità giudeo-cristiane, delle quali Giacomo sarebbe stato il capo carismatico. D’altro canto inizialmente Giacomo non sembra emergere come figura di spicco nel cristianesimo nascente. Nei sinottici non ha che un’esistenza umbratile, indefinita, marginale, sfumata. Era nato da un precedente matrimonio di Giuseppe o da un successivo marito (Teuda) di Maria? Ci confondono i diversi appellativi che lo riguardano: Giacomo Minore (Ἰακώβου τοῦ μικροῦ), Giacomo il Giusto, Giacomo fratello del Signore (Ἰάκωβον τὸν ἀδελφὸν τοῦ κυρίου). Nei tre sinottici (Mc, vi, 3; xv, 40; xvi, 1; Mt, xiii, 55; xxvii, 56; Lc, xxiv, 10) Giacomo è indicato come fratello di Cristo, ma non gli è attribuito alcun primato, anzi Marco segnala una forte conflittualità del Cristo con la famiglia d’origine, da cui è reputato un pazzo. Inoltre nessuno dei tre sinottici include Giacomo nella sequela dei discepoli. L’appellativo Giacomo Minore è usato per la prima volta da Marco (xv, 40). Secondo la versione eusebiana (HE, ii, 1, 23) Egesippo e Clemente Alessandrino sono i primi a denominarlo «il Giusto». Per le lettere paoline egli è «fratello del Signore», ma acquisisce un ruolo di rilievo perché secondo Galati, i, 19, Paolo, recatosi a Gerusalemme, avrebbe incontrato solo lui; la 1Corinzi (xv, 7) ne fa uno dei testimoni della resurrezione (episodio del tutto ignorato dai sinottici). La lettera ai Galati lo fa protagonista principale del cosiddetto concilio di Gerusalemme e lo presenta come il sostenitore del più rigido legalismo, tanto da indurre Pietro a non sedere più a mensa con i gentili dopo l’arrivo di Giacomo ad Antiochia. A differenze delle lettere, gli Atti (xii, 17; xv, 13; xxi, 18)

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non lo citano mai come «fratello del Signore», ma gli riconoscono autorevolezza (Pietro, liberato dalla prigione, raccomanda che la cosa sia riferita a Giacomo; Paolo, giunto a Gerusalemme, si reca a fargli visita alla presenza di tutti gli anziani della città), gli attribuiscono una strenua difesa della tradizione e ci fanno sapere che la sua massima apertura verso i pagani convertiti fu quella di concedere loro di osservare almeno il comandamento noachico (Gn, ix, 4) di non mangiare carni di animali immolati. Nella letteratura canonica ci sono pervenute due lettere attribuite una ad un tal Giacomo, che non si proclama ‘fratello’, ma ‘servo’ del Signore, e l’altra ad un tal Giuda che si dichiara «fratello di Giacomo». Anche quest’ultimo è un personaggio oscuro e avvolto nella nebbia. Non è chiaro se egli fu ‘fratello di Giacomo’ come vuole la lettera di Giuda (i, 1: ἰούδας ἰησοῦ χριστοῦ δοῦλος, ἀδελφὸς δὲ ἰακώβου) o se fu ‘figlio di Giacomo’ come vogliono gli Atti (i, 13: ἰούδας ἰακώβου) e Luca (vi, 16: ἰούδαν ἰακώβου), il quale lo include nel novero dei discepoli, distinguendosi dagli altri due sinottici per i quali uno solo dei Dodici si chiamava Giuda. Sulla sua scia sembra muoversi Giovanni (xiv, 22) che tra i discepoli annovera due Giuda, uno dei quali è definito «non Iscariota» (ἰούδας, οὐχ ὁ ἰσκαριώτης). Sono incongruenze molto gravi perché non ci permettono di avere le idee chiare neppure sugli apostoli che seguirono Cristo dalla predicazione alla morte. Ciò che possiamo rilevare è che la figura di Giacomo assunse sempre più rilievo nel corso della evoluzione delle prime comunità cristiane. Da fratello del Cristo, appena menzionato nei sinottici, diventa personaggio di primo piano nei testi di Egesippo e di Clemente, nel Vangelo di Tommaso e nelle lettere paoline; tant’è che a lui si attribuiscono gli scritti canonici e apocrifi sopra citati. Ciò significa che Giacomo acquista un prestigio tale da essere considerato una sorta di sommo sacerdote presso le comunità cristiane del secondo secolo. E con ciò possiamo dire di aver dato risposta al primo quesito, confermando la datazione tardiva (ii secolo) sia dell’epistolario paolino e del vangelo tommasiano sia del ruolo carismatico del fratello del Signore. Il secondo quesito verte, come si è detto, sul rapporto tra il Vangelo di Tommaso e il paolinismo. Mentre utilizza abbondantemente i sinottici, l’autore di Tommaso non ha alcuna sicura citazione tratta da Paolo. Non sono sufficienti due spunti molto vaghi che alludono alla circoncisione fisica e a quella dello spirito (detto 53) o alla cecità dell’occhio e alla sordità dell’orecchio, cui Paolo si riferisce nella 1Corinzi tanto più che quest’ultima citazione dipende da Isaia (1Cor, ii, 9; Is, lxiv, 3). Troppo poco, dunque, per pen-

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sare ad una dipendenza di Tommaso dai testi paolini, anche perché, per la loro stessa esiguità, quegli spunti potrebbero essere riferibili alla fase redazionale con cui il testo ci è pervenuto. Si riproduce dunque anche nel Vangelo di Tommaso la stessa situazione che emerge dai sinottici. I vangeli sembrano ignorare le lettere paoline e queste viceversa presentano solo vaghe allusioni ai primi. Ma come si spiegano questi reciproci silenzi? Si ha come l’impressione che i due generi letterari viaggiassero su binari paralleli, senza incontrarsi, pur essendo piuttosto ampio l’arco temporale della loro composizione. Perché? Una ipotesi ragionevole può essere quella di pensare che gli uni e le altre siano stati prodotti pressoché in contemporanea in aree geografiche distanti, tanto da non potersi influenzare reciprocamente. Ma su tale questione avremo modo di ritornare nei capitoli seguenti. Analogo è il problema del rapporto tra il Vangelo di Tommaso e il Vangelo di Giovanni. L’unico dato sicuro è che Giovanni scrive dopo Tommaso. Ciò ha indotto alcuni interpreti, come Riley e Pagels,(87) a supporre che Giovanni abbia inteso confutare Tommaso nel suo orientamento teologico volto a valorizzare nella conquista della salvezza più la ricerca interiore che la fede in Cristo. Non v’è dubbio che questa dissonanza tra i due testi sia presente, ma non bisogna trascurare il fatto che lo stesso Giovanni si muove in un’ottica tendenzialmente gnostica. Lo si percepisce plasticamente nella cornice del primo capitolo giovanneo, ove è particolarmente significativo il tema della luce che è invece del tutto assente in Marco ed è, tutto sommato, marginale in Matteo e soprattutto in Luca. Si tratta tuttavia di una tematica di estrema complessità. L’identificazione di Cristo con la luce è esplicita nei seguenti versetti giovannei: «Io sono la luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre»; «Finché sono nel mondo, sono luce per il mondo»; «Io sono venuto quale luce del mondo» (Gv, viii, 12; ix, 5; xii, 46). L’identificazione di Cristo con la luce presuppone l’identificazione della luce con Dio. Lewis va troppo oltre il segno quando dice che per Giovanni la luce primordiale della Genesi si identifica con Gesù; bisogna tener conto del fatto che il Vangelo di Giovanni è assai problematico e i passi citati vanno inquadrati nella cornice del canto introduttivo, ove il Verbo è presso Dio ed è Dio stesso, luce e vita (potremmo dire in termini tommasiani: riposo e moto): «La luce era vita per quegli uomini. E la luce brilla nelle tenebre, imprendibile alle te(87)  G. G. Riley, Resurrection Reconsidered: Thomas and John in Controversy, Minneapolis, Fortress Press, 1995; E. H. Pagels, Il vangelo segreto di Tommaso: indagine sul libro più scandaloso del cristianesimo delle origini, tr. it. di C. Lazzari, Milano, Mondadori, 2018.

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nebre»; «Era la vera luce che rischiara ogni uomo a venire al mondo» (Gv, i, 4-5, 9). In Giovanni l’accento è posto sulla trascendenza della luce divina e del Cristo come luce divina; luce e Cristo, luce e verità («La verità viene dalla luce», Gv, iii, 21) sono in unione con il Padre. La prima parousía del Cristo non implica l’immanenza della luce nel mondo; anzi ne sottolinea la transitorietà. Scrive infatti Giovanni: «Voi della sua luce avete voluto gioire solo per un momento»; «La luce sta tra di voi per poco ancora! Camminate finché avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre»; «Finché avete luce, credete nella luce, per diventare figli della luce»; («La luce venne nel mondo, ma gli uomini amarono le tenebre piuttosto che la luce» (Gv, v, 35; xii, 35, 36; iii, 19). In Matteo sembra prevalere un orientamento immanentistico, poiché l’evangelista allude ad una luce che è presente nell’uomo, come se fosse una scintilla divina: «Se dunque la luce che è in te è tenebra, come sarà densa la tenebra!» (Mt, vi, 22-23). Per Matteo sono luce del mondo anche gli apostoli (Mt, v, 13, 16), ma nel complesso non sembra esserci una specifica teologia della luce. Lo stesso accade in Luca, che segue da vicino Matteo: «Bada che la luce presente in te non diventi tenebra», ma nel Nunc dimittis accenna a Cristo come luce di rivelazione (Lc, xi, 34; ii, 32) e altrove (Lc, xvi, 8) forse interpreta i «figli della luce» come creature angeliche. Se dai sinottici volgiamo lo sguardo al Vangelo di Tommaso troviamo una evoluta teologia della luce che ha addentellati con i quattro canonici: in primo luogo si ribadisce, con più chiarezza di Matteo e di Luca, che la luce è immanente, è «nell’intimo dell’uomo» e da lì «illumina tutto il mondo» (detto 24), ma è insieme trascendente, in quanto entità fontale e autocreatrice, manifestantesi per riflesso nell’immagine dell’uomo: «Siamo venuti dalla luce, dal luogo ove la luce si fece da se stessa; stette e si manifestò nella loro immagine […] Noi siamo i suoi figli, siamo gli eletti del Padre vivente», il quale «è il movimento e il riposo» (detto 50). Il fine della ricerca è l’identificazione, l’indiamento, l’uguaglianza, che è appunto pienezza di luce: «Perciò io dico quando uno sarà uguale, sarà riempito di luce» (detto 61). L’identità di Cristo con la luce è forse ancor più pronunciata nell’autore di Tommaso che fa dire a Gesù: «Io sono la luce che sovrasta ogni cosa. Io sono il tutto. Il tutto viene da me e il tutto giunge fino a me. Spaccate il legno, io sono lì dentro. Alzate la pietra, e lì mi troverete» (detto 76). L’immanenza della luce, che è in ogni cosa, è anche la trascendenza della luce che sovrasta ogni cosa. Non c’è un contrasto con il trascendentismo giovanneo; anche per Tommaso Gesù è la luce,

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ma non è una luce che si concede al mondo nella provvisorietà; al contrario essa è costitutiva del mondo ed è nel contempo la luce del Padre, la cui luminosità esponenziale ingloba, nasconde e offusca o rende impercettibile la luce dell’uomo» (detto 83). 1.19.  Testi cristiano-gnostici: il Vangelo di Filippo Il Vangelo di Filippo NHC II, 3,(88) la cui versione copta deriva da un originale greco, ma potrebbe anche derivare da un originale siriaco, come fa pensare il fatto che nel par. 19 l’autore dà spiegazione del termine siriaco Meshīhā (= Messia). Tuttavia se si tiene conto che nel secondo secolo le persone colte parlavano fluentemente il greco e il siriaco, si può anche supporre che l’originale fosse scritto in greco. Il testo è emblematico; apparentemente privo di un ordine nella trattazione della materia,(89) trasmette comunque attraverso concetti chiave il pensiero dell’autore, indicato nel colophon della traduzione copta in Filippo, identificabile verosimilmente con l’apostolo, citato per altro nel par. 91. Non è escluso che tale attribuzione pseudepigrafa non sia nel testo originale, ma sia postulata dal traduttore copto. Profonda è la disparità dei giudizi degli studiosi in merito alla natura del trattato. Per Wesley Isenberg(90) è una sorta di sintesi della catechesi gnostica, per Bentley Layton è un’antologia del pensiero valentiniano, per Bucley(91) è un trattato organico che presuppone un complesso sistema simbolico. Madeleine Scopello lo definisce «una collezione di detti e meditazioni che si ispirano a diversi generi – para(88)  Pubblicato da P. Labib, Coptic Gnostic Papyri in the Coptic Museum at old Cairo, Cairo, Government Pr, 1956; H. M. Schenke, Das Evangelium nach Philippus, «Theologische Literaturzeitung», lxxxiv, 1859, pp. 1-26; Id., Koptisch-gnostische Schrifften aus den Papyrus-Codices von Nag Hamadi, Kamburg, Bergstedt, 1960; J.-É. Ménard, L’Evangile selon Philippe, Paris, Letouzey et Ané, 1967; tr. it., di M. Craveri, I vangeli apocrifi, cit., pp. 507-546. (89)  Tale è il parere di E. Segelberg, The Coptic Gnostic Gospel According to Philip and its Sacramental System, «Numen», vii, 1960, pp. 189-200. (90) W. W. Isenberg, The Coptic Gospel According to Philip, Chicago, University Press, 1968. (91) B. Layton (ed.), Nag Hammadi Codex II, 2-7, Leiden, Brill, 1989, pp. 129-217; J. J. Buckley, Conceptual Models and Polemical Issues in the Gospel of Philip, in Religion (Vorkonstantinisches Christentum: Leben und Umwelt Jesu; Neues Testament [Kanonische Schriften und Apokryphen], Forts), Berlin, De Gruyter, 1988, pp. 4.167-4.194.

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bole, parenesi, dialoghi, detti canonici, aforismi e analogie – non organizzati in una forma logica».(92) Martha Lee Turner(93) lo colloca sulla scia delle collezioni di sentenze tipiche dell’antichità e lo considera una collezione di appunti messa in piedi per essere di ausilio alla memoria. Sono tutte osservazioni utili e degne della massima considerazione, ma non si può non prendere atto che, pur mantenendo l’aspetto di una congerie di materiali diversi e probabilmente di origine diversa, le matrici cristiane e gnostiche sono chiaramente prevalenti; si fondono il più delle volte nella prospettiva del valentinianesimo e, pur con qualche incertezza e con espressioni talvolta criptiche, delineano un pensiero o una visione religiosa del mondo fortemente coerente. Certamente non è un vangelo nel senso in cui noi intendiamo questo genere letterario, ovvero come un testo in cui i detti del Cristo sono inquadrati in una cornice biografica, ma lo è nel senso più generale del kērygma dell’annuncio della buona novella della speranza e della salvezza. Il testo si apre con uno spirito d’impronta elitaristica; da una parte ci sono coloro che vivono nella verità, dall’altra chi vive nell’ignoranza; gli uni sono i viventi, gli altri i morti; i primi sono in grado di creare ovvero di generare dei proseliti, i secondi ereditano solo ciò che è morto; gli uni sono nella fede, gli altri ne sono fuori: chi crede nella verità ha trovato la vita; il pagano non muore perché non ha mai vissuto. Il rischio della morte lo corre il credente, perché, essendo vivo, può morire. Per converso chi è morto, se eredita da chi è vivo, vivrà di nuovo. In altri termini c’è una separazione tra i morti e i viventi, ma non è una separazione metafisica, poiché è sempre possibile il passaggio dalla vita della fede alla morte della fede e viceversa. Dopo questa premessa l’autore introduce la figura di Cristo. Cristo è la vita, porta la fede, crea il mondo, nel senso che lo converte alla fede, e getta via tutto quanto è morto, nel senso che vince e sconfigge la morte. In questo mondo terreno (che è l’eone inferiore) occorre prepararsi per riconquistare il regno dei cieli (l’eone superiore). In altri termini occorre seminare d’inverno per guadagnare il raccolto d’estate. Tutto ciò si intreccia con la funzione salvifica di Cristo che riscatta gli uni (gli uomini spirituali o pneumatici), libera gli altri (gli uomini ilici o soggetti alla passioni materiali) e salva altri ancora (gli uomini psichici, che sono perfettibili). Essi sono così detti per(92) M. Scopello, Introducion to Gospel of Philip, in M. Meyer (ed.), The Nag Hammadi Scriptures, cit., p. 158. (93)  M. L. Turner, The Gospel According to Philip. The Sources and Coherence of an Early Christian Collection, Leiden Brill, 1996.

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ché hanno in sé il pnéuma (πνεῦμα), la hýle (ὕλη) o la psychē (ψυχή). Fin dalla creazione il Cristo ha deposto la sua anima nella materia (si è cioè incarnato) come pegno; e quando ha voluto è venuto a riprendersela, perché era imprigionata nella materia; e, riscattandola, ha salvato i buoni ed anche i cattivi. Riaffiora qui il tipico dualismo gnostico, di matrice platonica, di corpo e spirito, di mondo terreno e mondo celeste. Il primo è il mondo della divisione, della corruttibilità, dell’immagine, della copia; il secondo il mondo dell’unità, della incorruttibilità e dell’immortalità. È il dualismo di luce e tenebre, di vita e morte, di destra e sinistra, di interno ed esterno, di autentico e di inautentico, di molteplice e di uno. Da una parte la verità, dall’altra l’errore. Il nostro linguaggio umano è inautentico, inadeguato per concetti come Padre, Figlio, Vita, Luce, ecc., perché, per la nostra imperfezione umana, noi li intendiamo in maniera inautentica; essi sono nomi ingannevoli. Solo l’élite che si eleva alla conoscenza dell’autentico può coglierne la pienezza di significato. Riagganciandosi alla tradizione ebraica dello shem hammephoresh (l’ineffabilità del nome di Dio), l’autore di Filippo sembra affermare l’ineffabilità del nome di Gesù.(94) Il suo nome «è al di sopra di tutto; è il nome di Padre, perché il figlio non diventerebbe Padre se non avesse rivestito se stesso del nome di Padre. Coloro che lo posseggono, lo intendono, ma non lo pronunciano». In realtà l’impronunciabilità è solo dichiarata, perché nelle colonne successive l’autore ritorna a più riprese sul nome di Cristo. Infatti afferma: Gesù è un nome segreto, Cristo è un nome manifesto. Infatti Gesù non esiste in nessuna lingua [in realtà l’autore sa bene che questa sua dichiarazione è falsa], tuttavia il suo nome è Gesù, come lo hanno chiamato. Quanto a Cristo il suo significato è Messia [Meshīhā in siriaco] e χριστός in greco […]. Nazareno è l’unica cosa che è stata rivelata di ciò che è sconosciuto.(95)

Qui evidentemente ‘nazareno’ è fatto derivare da natzar, nel senso di segreto, nascosto. Sulla questione l’autore ritorna in un passo, in cui attribuisce al redentore il nome «Gesù Nazareno Cristo»,(96) ove ‘Cristo’ coprirebbe lo stesso valore semantico dell’ebraico Messia, ma anche l’etimologia siriaca di ‘il limitato’; ‘Gesù’ di contro sarebbe ricondotto all’ebraico Yehōwōšua’ (94)  Filippo, NHC II, 3, 54, 5-15. (95)  Ivi, NHC II, 3, 56, 3-12. (96)  Ivi, NHC II, 3, 62, 6-15.

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nel senso di Salvatore, redentore. Nazareno si conferma nel significato di ‘nascosto’, ma, forse sotto la suggestione del greco alētheia, acquisisce il significato di ‘Verità’. Altrove,(97) in una nuova esplorazione etimologica, Gesù è detto ‘eucaristia’ sulla scorta del siriaco pharisata che significa «colui che è steso», ovvero colui che «è venuto a crocifiggere il mondo», a congiungere nel punto di incontro dei due bracci della croce il mondo superiore delle anime dei perfetti con il mondo inferiore. La cosmologia del Vangelo di Filippo è quella gnostica, fondata non sul concetto di ‘creazione’, ma su quello di ‘emanazione’. Una cosmologia il cui intento principale è di evitare di fare del Dio Padre il responsabile del male del mondo. Perciò dall’Uno sarebbero stati emanati gli eoni a coppie (syzygie) fino all’eone Sophia, il terzo eone inferiore, che, volendo generare da solo, senza l’apporto del sýzygos Σωτήρ, diede vita al demiurgo o proto-arconte (protárchon), cioè ad un Dio malvagio, identificato con Yhwh ebraico, dal quale avrebbero avuto origine il male, la materia, l’uomo e tutto il mondo inferiore. Gli arconti – dice l’autore di Filippo – ingannarono l’uomo, «presero il nome delle cose buone e lo diedero alle cose che non sono buone e deviarono gli uomini dalla retta via; presero l’uomo libero e lo resero schiavo per sempre».(98) Ad essi risale la tradizione dei sacrifici di animali sugli altari. Prima della venuta di Cristo non c’era sulla terra il pane spirituale per gli uomini. Con la parousía fu seminata la verità dappertutto; molti la videro durante la semina, ma pochi la raccolsero. Ne seguirono perciò gli errori. Taluni dissero che Maria ha concepito dallo Spirito Santo, cosa che per gli ebrei è un grande anatema, perché nessuna donna può concepire ad opera di un’altra donna [questa affermazione deriva dal fatto che in ebraico spirito = rū’ah è femminile]. Qui scopriamo un’ulteriore caratteristica della gnosi, cioè la dottrina di stampo adozionista: Gesù era biologicamente figlio di Giuseppe e adottivamente figlio di Dio. Infatti egli dice nei vangeli canonici «Mio padre che è nei cieli» per distinguerlo dal padre biologico. Se fosse stato figlio solo di Dio avrebbe detto semplicemente ‘Mio padre’». Capovolto è anche il rapporto tra la morte e la resurrezione, perché precede la resurrezione spirituale alla morte fisica.(99) Allo stesso modo sono in errore coloro che negano la resurrezione, perché non è la carne che risusciterà, ma lo spirito. La termino(97)  Ivi, NHC II, 3, 63, 21-24. (98)  Ivi, NHC II, 3, 54, 18-31. (99)  Ivi, NHC II, 3, 56.

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logia di Filippo ricorda quella giovannea (il Lógos, la Porta, la luce, l’agnello) e, in parte, quella paolina (l’Adamo celeste e l’Adamo carnale). La rigenerazione avviene dalla bocca: Se di lì è uscito il Lógos dovrà essere nutrito dalla bocca e diventare perfetto, perché il perfetto diventa fecondo per mezzo di un bacio e genera. Per questo motivo noi ci baciamo l’un l’altro e concepiamo l’uno dall’altro, per opera della grazia che è in noi.(100)

Il Vangelo di Filippo condivide con quello di Tommaso il tema della identificazione del fedele con Cristo: «Tu hai visto lo spirito e sei diventato Spirito. Tu hai visto Cristo e sei diventato Cristo. Tu hai visto il Padre e diventerai il Padre». Insomma se il processo emanativo è un distacco dall’Uno, il processo di conversione e di conoscenza di sé stessi è un processo di risalita dal mondo imperfetto al Perfetto, dal molteplice all’Uno; questo processo deve avvenire con l’unificazione delle sizigie, attraverso la loro unione gamica che ricompone l’unità dell’universo. I due veicoli di questo ritorno sono la fede e l’amore: la fede che riceve e l’Amore che dà. Le tappe del percorso sono i misteri o sacramenti. Lo Ps.-Filippo conosce i cinque sacramenti gnostici, il battesimo, l’eucaristia, il crisma o unzione, la redenzione e la camera nuziale,(101) e contiene una vera e propria teologia sacramentale. Il battesimo è menzionato di sfuggita.(102) Ci vien detto(103) che se il battezzato non riceve lo spirito santo, riceve solo il nome di cristiano, ma non il dono della salvezza. Più avanti(104) ci vien detto che il battesimo è veicolo alla vita eterna e quindi alla resurrezione: «Se si riceve [il battesimo], si vivrà». Il battesimo senza la luce non conduce ad un autoriconoscimento: «Nessuno potrebbe vedere sé stesso né nell’acqua né in uno specchio, senza la luce […]. Per questo occorre essere battezzati in ambedue: nella luce e nell’acqua».(105) Gesù – dice l’autore – ha reso perfetta l’acqua del battesimo ed ha svuotato la morte.(106) Perciò quando discendiamo nell’acqua non siamo riconsegnati allo spirito del mondo o all’inverno, perché quando soffia lo spirito san(100)  Ivi, NHC II, 3, 31. (101)  Ivi, NHC II, 3, 67, 27-30. (102)  Ivi, NHC II, 3, 61, 12-20. (103)  Ivi, NHC II, 3, 64, 25-30. (104)  Ivi, NHC II, 3, 73, 1-7. (105)  Ivi, NHC II, 3, 69, 4-26. (106)  Ivi, NHC II, 3, 77, 7-14.

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to viene l’estate, cioè la rigenerazione nel mondo spirituale. Tutto sommato non sembra che il battesimo goda di un ruolo particolare nell’economia del testo cristiano-gnostico di Filippo, a differenza di quanto accade nella religione cristiana. Bisogna però tener presente che il Battesimo istituito da Giovanni ha acquisito una sua centralità nella fede cristiana solo nel secondo secolo. Lo stesso Cristo, secondo i canonici, pur facendosi battezzare da Giovanni, non è a sua volta battezzatore. L’unico passo di Marco che contiene il senso cristiano del battesimo, salvo che non sia interpolato, recita: «Chi crederà sarà battezzato» (ὁ πιστεύσας καὶ βαπτισθεὶς σωθήσεται,Mc, xvi, 116). Lo stesso accade in Matteo, ove l’unica citazione del battesimo cristiano è in un passo interpolato («Andate e insegnate a tutte le genti battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (βαπτίζοντες αὐτοὺς εἰς τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος, Mt, xxviii, 19). In altri termini quando gli evangelisti scrivono i tre sinottici, il battesimo cristiano (non quello meramente purificatorio di Giovanni) non è ancora stato istituito. Se spostiamo l’attenzione sugli Atti, le menzioni del battesimo cristiano abbondano.(107) Altrettanto accade in Paolo (1Cor, i, 17; xii, 13) per citare i luoghi più sicuri. Sorprendente è poi in Paolo la pericope di Galati, ove il battesimo, inteso come «rivestirsi di Cristo» (ὅσοι γὰρ εἰς χριστὸν ἐβαπτίσθητε, χριστὸν ἐνεδύσασθε, Gal, iii, 27), ricorda da vicino la terminologia gnostica dei vangeli di Filippo e di Tommaso («È necessario che ci rivestiamo dell’Uomo Vivente. Per questo, quando uno viene per discendere nell’acqua si leva gli abiti per rivestirsi di quello»).(108) L’altro mistero gnostico è il sacramento dell’eucaristia, che è o appena accennato o sembra essere limitato alla consumazione del vino come simbolo del sangue, ripieno di Spirito Santo; il vino è prerogativa dell’Uomo interamente perfetto e produce in noi la metánoia (cambiamento) per cui, bevendolo, «riceviamo in noi stessi l’Uomo perfetto».(109) L’eucaristia è condizione per ereditare il regno di Dio,(110) con la puntualizzazione che la carne di Cristo non è il pane, ma il lógion. Pur traendo spunto dai vangeli canonici, la concezione dell’eucaristia sembra essere uno sviluppo dei testi paolini, ove essa non è ancora un vero e proprio sacramento, ma si avvia ad esserlo, (107)  At, ii, 38, 41; viii, 12, 13, 16, 36, 38; ix, 18; x, 47, 48; xvi, 15, 33; xviii, 8; xix, 5; xxii, 16. (108)  Filippo, NHC II, 3, 75, 20-21: (109)  Ivi, NHC II, 3, 58, 10-14; 75, 14-21. (110)  Ivi, NHC II, 3, 57, 3-8.

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soprattutto laddove il termine ‘eucaristia’ non è più un generico ringraziamento, ma assume il carattere di un rito, come accade nella 1 e nella 2Corinzi (1Cor, xiv, 16; 2Cor, ix, 11-12). Il più oscuro dei sacramenti valentiniani sembra essere il crisma (χρῖσμα unzione), menzionato sempre in termini molto generici per dire che dall’albero dell’ulivo viene l’olio usato per l’unzione o per sottolineare che l’unzione, insieme all’eucaristia, ha la funzione di farci abbandonare serenamente il mondo materiale o per dire che si è chiamati cristiani per mezzo del crisma e non per mezzo del battesimo.(111) Ciò significa che l’unzione ha un ruolo di primo piano nella teologia valentiniana, poiché implica una continuità e una unità sacramentale dal Padre alla comunità dei fedeli («Infatti il Padre ha unto il Figlio, il Figlio ha unto gli apostoli e gli apostoli hanno unto noi. Colui che è stato unto possiede il Tutto. Egli possiede la resurrezione, la luce, la croce, lo Spirito santo»).(112) Questa idea di una trasmissione per effetto di una ritualità oggettiva, e non per un’adesione soggettiva del credente, è assai vicina alla concezione cattolica dei sacramenti e rinvia al tema dell’efficacia ex opere operato di parole e di gesti, che aveva le sue radici nell’AT e nei culti misterici. L’espressione «possiede il Tutto» permette di associare al crisma le riflessioni contenute nella colonna 76, ove si dice che «coloro che posseggono il Tutto, non conoscono necessariamente sé stessi» e perciò non colgono l’Uomo perfetto se non a condizione di «rivestirsi» della Luce perfetta e di diventare «luce perfetta». Il che significa che «è necessario diventare uomini perfetti prima di uscire dal mondo». Il crisma è direttamente identificato con la Luce,(113) senza la quale il credente non può accedere alla conoscenza di sé né nell’acqua né nello specchio [intendi nel battesimo]. Nella letteratura cattolica il χρῖσμα fa la sua comparsa in un testo tardivo (seconda metà del secondo secolo) come la 1Giovanni (ii, 20, 27), per la quale l’unzione è una sorta di sigillo dell’identità cristiana («l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi dia degli insegnamenti»). Gli ultimi due misteri valentiniani non hanno trovato seguito né nella teologia né nella liturgia cattolica. La redenzione (ἀπολύτρωσις) o riscatto (ἄφεσις) è però un tema ricorrente nei vangeli canonici e nelle lettere paoline ed è ispirato ad Is, xl. Il termine ἀπολύτρωσις è presente in Luca (Lc, xxi, (111)  Ivi, NHC II, 3, 73, 15-19; 75; 74. (112)  Ivi, NHC II, 3, 74. (113)  Ivi, NHC II, 3, 69.

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28), ma è ampiamente utilizzato nelle epistole paoline talvolta anche con valore sacramentale e addirittura in vista della giustificazione.(114) Per la Lettera agli Ebrei il Cristo, mediatore della nuova alleanza, riscatta con la sua morte le trasgressioni del tempo della prima alleanza (Ebr, ix, 15). Se non è passata come sacramento nella liturgia cattolica, l’ἀπολύτρωσις ha comunque assunto in Luca e in Paolo un ruolo di rilievo. Negli altri testi neotestamentari prevale invece il termine ‘riscatto’ spesso collegato al battesimo, all’eucaristia o al sacrificio del Cristo.(115) Così è anche in Atti.(116) In Efesini e in Colossesi (Ef, i, 7; Col, i, 14) i due termini ἀπολύτρωσις e ἄφεσις sembrano coprire la stessa area semantica. Concettualmente sullo stesso piano sembra collocarsi il Vangelo di Filippo,(117) che però subordina gerarchicamente la redenzione alla «camera nuziale» (νυμφών),(118) allo stesso modo in cui sono subordinate le strutture del tempio. Assumendo, infatti, come termine di confronto il tempio di Gerusalemme, l’autore di Filippo distingue il ‘Santo’, che è l’edificio aperto verso l’Occidente, il ‘Santo del Santo’, che è l’edificio aperto ad Oriente, e il ‘Santo dei Santi’, accessibile solo al Sommo Sacerdote. Il primo recinto contiene gli altri due. Così il battesimo, assimilato al Santo (ebr. qōdesh), contiene la redenzione, assimilata al Santo del Santo, e la camera nuziale, che è paragonata al Santo dei Santi. Nei tre sinottici troviamo l’espressione «figli della camera nuziale» οἱ υἱοὶ τοῦ νυμφῶνος (Mc, ii, 19; Mt, ix, 15; Lc, v, 34) e l’assimilazione di Cristo allo ‘sposo’ ὁ νυμφίος. La parabola matteana delle dieci vergini (Mt, xxv, 1-13) sembra avere tracce di gnosticismo in quanto allude all’unione mistica dello sposo (Gesù) con le dieci vergini e nel contesto contiene riferimenti alla teologia sacramentale del crisma: Il regno dei cieli – scrive Matteo (xxv, 1-10) – è simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo; poiché lo sposo tardava, si assopirono […]. Ora, in mezzo alla notte, si levò un grido: ‘Ecco lo sposo, andategli incontro! […]; arrivò lo sposo e quelle che erano pronte entrarono con lui nella camera nuziale e la porta fu chiusa (ἦλθεν ὁ νυμφίος, καὶ αἱ ἕτοιμοι εἰσῆλθον μετ᾽ αὐτοῦ εἰς τοὺς γάμους, καὶ ἐκλείσθη ἡ θύρα). (114)  Cfr. rispettivamente Rm, viii, 23; 1Cor, i, 30; Ef, i, 7; Rm, iii, 24; Ef, i, 14; iv, 30; Col, i, 14. (115) Cfr. Mc, iii, 29; Mt, xxvi, 28; Lc, i, 77; iii, 3; xxiv, 47. (116)  At, ii, 38; v, 31; x, 43; xiii, 38; xxvi, 38. (117)  Filippo, NHC II, 3, 52-53. (118)  Ivi, NHC II, 3, 69, 23-27.

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Anche la parabola del banchetto nuziale (Mt, xxii, 1-14; Lc, xiv, 15-24) risente di suggestioni gnostiche: il re prepara il banchetto per le nozze del figlio (Dio il Padre prepara le nozze del figlio Sōtēr che si ricongiunge con Sophia) ma alla festa non possono prendere parte se non coloro che hanno l’abito nuziale (cioè gli uomini pneumatici). In Giovanni lo sposo ha un’accezione mistica: nell’episodio delle nozze di Cana (Gv, ii, 1-12) il rito ebraico della purificazione nell’acqua («i sei recipienti di pietra, di quelli usati per la purificazione dei giudei») è trasformato nel rito cristiano dell’eucaristia, sicché il capotavola (ὁ ἀρχιτρίκλινος) dice che lo sposo offre il vino buono (τὸν καλὸν οἶνον), ovvero il vino spirituale, come «inizio dei segni» (ἀρχὴν τῶν σημείων) manifestati da Cristo. L’affermazione di Giovanni: «Sposo è chi ha la sposa» (ὁ ἔχων τὴν νύμφην νυμφίος ἐστίν) non è una banale ovvietà, ma è un residuo delle sizigie gnostiche. Ne conserva tacce anche l’Apocalisse a proposito del banchetto per le nozze dell’agnello e della sua sposa (Ap, xix, 7-9). Alle sizigie gnostiche fa riferimento l’autore di Paolo nella Lettera ai Filippesi (iv, 3), ove per altro accenna al libro della vita, menzionato nel Vangelo. Il passo è il seguente: Prego anche te, mio sincero compagno (γνήσιε σύζυγε) di aiutarle, perché hanno lottato con me per il vangelo insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono scritti nel libro della vita (ὧν τὰ ὀνόματα ἐν βίβλῳ ζωῆς in ebr. sefer ha chaim).

Nel Vangelo di Filippo la camera nuziale rappresenta il vertice dell’ascesa sacramentale; essa costituisce il grado più alto dei riti di iniziazione, quello in cui gli spiriti pneumatici, o meglio gli spiriti perfetti, sono rigenerati e possono ricongiungersi con la loro natura angelica.(119) Ciò implica che solo con la venuta di Cristo è possibile il processo ascensivo dal mondo inferiore a quello superiore. «La camera nuziale – dice l’autore di Filippo – non è per le bestie, né per gli schiavi, né per le donne già possedute, ma è per gli uomini liberi e per le vergini»; essa è il corrispettivo spirituale dell’unione carnale: come nella sessualità si uniscono due corpi fino a diventare uno, così nella camera nuziale si uniscono in una sessualità meramente spirituale le sizigie, perché «attraverso Cristo noi siamo stati rigenerati a due a due».(120) Comincia cioè il percorso a ritroso rispetto a quello dell’emanazione. Se la genera(119)  Ivi, NHC II, 3, 68-69. (120)  Ivi, NHC II, 3, 69.

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zione del male fu opera della separazione di Sophia da Sōtēr, il percorso inverso riprende dalla unione sacramentale della terza sizigie: il Lógos, Σωτήρ, il Cristo si ricongiunge con la vergine Sophia e ristabilisce l’ordine universale.(121) L’itinerario ascetico, che ha le sue tappe intermedie nella contemplazione (θεωρία) e nella visione (ὀπτασία), si conclude con l’indiamento ovvero con l’identificazione con Dio (θέωσις). Il termine θεωρία è presente solo in Luca (xxiii, 48), ma derivati del verbo θεωρέω sono presenti nei sinottici e soprattutto in Giovanni e negli Atti. Anche il termine ὀπτασία ricorre in Luca, ove però la prima citazione si trova in un passo interpolato e la seconda negli Atti, in un contesto che è sospetto di interpolazione, e in Paolo (Lc, i, 22; xxiv, 23; At, xxvi, 19; 2Cor, xii, 1). Nei vangeli la fine dei tempi non è associata alla rivelazione (ἀποκάλυψις); così è invece per Romani e per la 1Corinzi (Rm, ii, 5; viii, 19; 1Cor, i, 7). Il termine ἀποκάλυψις compare solo una volta in Luca, una volta in Apocalisse, 3 volte nella 1Pietro e ben 12 volte in Paolo.(122) In tutti i casi il termine ha legami di parentela con la gnosi: per Luca è il Cristo la luce della rivelazione; per Paolo il giorno del giudizio è il giorno dell’ira e della rivelazione; anche per la 1Pietro e per la stessa Apocalisse di Giovanni la rivelazione del Cristo si collega alla fine dei tempi; nella 1Corinzi è associata alla conoscenza, alla profezia e all’insegnamento (ἐν ἀποκαλύψει ἢ ἐνγνώσει ἢ ἐν προφητείᾳ ἢ ἐνδιδαχῇ); nella 2Corinzi è connessa alle visioni del Cristo (εἰς ὀπτασίας καὶ ἀποκαλύψεις κυρίου); negli Efesini allo spirito di sapienza e alla conoscenza del Cristo (δώῃ ὑμῖν πνεῦμα σοφίας καὶ ἀποκαλύψεως ἐν ἐπιγνώσει αὐτοῦ) o alla conoscenza del mistero (κατὰ ἀποκάλυψιν ἐγνωρίσθη μοι τὸ μυστήριον); nella 2Tessalonicesi è trasmessa con la potenza degli angeli celesti (ἐν τῇ ἀποκαλύψει τοῦ κυρίου Ἰησοῦ ἀπ’οὐρανοῦ μετ’ἀγγέλων δυνάμεως αὐτοῦ). Sono pochi i detti del Cristo che risultano presenti tanto nei canonici quanto nel Vangelo di Filippo. Ve n’erano molti di più nel Vangelo di Tommaso. Ma questa disparità dipende dal fatto che il vangelo tommasiano si presentava come collezione di detti, quello di Filippo vuole invece offrirci una sintesi della teologia gnostica di stampo valentiniano. La maggior parte delle citazioni da testi canonici sembrano venire da Matteo;(123) da Mar(121)  Ivi, NHC II, 3, 71. (122)  Lc, ii, 32; Ap, i, 1; 1Pt, i, 7, 13; iv, 13; 1Cor, iv, 6, 26; 2Cor, xii, 1, 7; Gal, i, 12; ii, 2; Ef, i, 17; iii, 3; 2Ts, i, 7, oltre i tre luoghi citati. (123)  Filippo, NHC II, 3, 55, 33-34, da Mt, xvi, 17; NHC II, 3, 68, 8-12, da Mt, vi,

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co e da Matteo;(124) da Matteo e da Luca;(125) da Giovanni(126) e dalla 1Corinzi.(127) Vi sono naturalmente non pochi detti extracanonici, come i seguenti: Entrate nella casa del padre, ma non prendete nulla nella casa del Padre e non portate via nulla (55, 37-56, 3); Tu che hai congiunto la Perfezione, la Luce, con lo Spirito Santo, congiungi gli angeli con noi, immagini» (58, 10-14); Domandala a tua Madre ed ella ti darà qualcosa di diverso (59, 25-27); Il Figlio dell’Uomo è venuto come un tintore (63, 29-30); Perché non amo voi tutti come lei [Maria Maddalena]? (64, 29); Beato colui che era prima di venire al mondo! Perché chi è, era e sarà (64, 10-12); Io sono venuto a rendere le cose di sotto come le cose di sopra, le esterne come le interne, e ad unirle tutte nel Luogo (67, 30-35); Alcuni sono entrati nel Regno dei cieli ridendo e sono usciti ridendo da questo mondo (74, 25-27).

Molti sono anche i punti di contatto con il Vangelo copto di Tommaso (per es. il citato detto 64, 10-12 è perfettamente corrispondente al detto 20 di Tommaso). Ma le affinità con Tommaso vanno ben oltre i singoli detti e si estendono al lessico e più in generale al complessivo impianto gnostico. Tutto lascia pensare che nel corso del secondo secolo si costituì almeno in parte un linguaggio comune con uno slittamento del lessico dall’una all’altra comunità cristiana. Ciò conferma che fino a tutto il secondo secolo le comunità cristiane, di diversa ispirazione e di diverse radici, convivessero in relativa sintonia e senza scontri e opposizioni. Solo nell’ultimo quarto del secolo comincia a delinearsi lo scontro ideologico tra le diverse anime del cristianesimo e nasce via via che si approfondisce la divaricazione dei marcioniti e degli gnostici. Le prime avvisaglie sono in Giustino, poi in Clemente Alessandrino. Ma il vero artefice della frattura fra ortodossi ed eretici fu Ireneo di Lione. Lewis, come d’altronde, la gran parte degli esegeti cristiani, si pone il so6; NHC II, 3, 72, 33 - 73, 1, da Mt, iii, 15; NHC II, 3, 85, 29-31 da Mt, xv, 13. (124)  Filippo, NHC II, 3, 68, 26-27, da Mt, xxvii 46 e da Mc, xv, 34. (125)  Filippo, NHC II, 3, 83, 11-13, da Mt, iii, 10 e da Lc, iii, 9. (126)  Filippo, NHC II, 3, 57, 3-5, da Gv, vi, 53; NHC II, 3, 84, 7-9, da Gv, viii, 32. (127)  Filippo, NHC II, 3, 77, 18, da 1Cor, viii, 1.

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lito problema se i detti extracanonici citati nel Vangelo di Filippo si possono considerare autentici di Gesù. Ed ovviamente egli propende per la soluzione positiva sulla base del presupposto, per la verità del tutto arbitrario, per cui «essi potrebbero essere molto antichi».(128) Tuttavia non riesco a capire come si possa sostenere sia la loro presunta antichità sia la loro presunta autenticità. Come già è accaduto con Tommaso, i pochi detti extracanonici del Vangelo di Filippo sono così chiaramente innescati nella dottrina gnostica da non poter essere né retrodatati al primo secolo, né attribuiti direttamente al Cristo. 1.20.  Testi cristiano-gnostici: il Secondo discorso del Grande Seth Il Secondo discorso del Grande Seth (NHC VII, 2) il cui titolo, che compare nel colophon, non è chiaro perché non si capisce rispetto a quale altro discorso si definisce ‘secondo’. Nei testi gnostici di Nag Hammadi infatti non troviamo alcun primo discorso. Dal titolo il discorso si direbbe sethiano, ma in realtà la gnosi sethiana è in esso appena sfumata. Probabilmente Seth compare nel titolo semplicemente perché è considerato, nell’interpretazione tipologica dell’AT, figura di Cristo. Secondo Riley(129) il testo è stato scritto forse in Alessandria nella seconda metà del secondo secolo ed ha la forma di un’omelia come discorso esortativo a mantenere la fede cristiano-gnostica, probabilmente in opposizione alla emergente chiesa ortodossa. Il discorso verte sulla discesa del Salvatore nel mondo inferiore dominato da Yaldabaoth e dagli arconti. Gesù, l’Unto, lancia un messaggio gnostico di unità con coloro che sono con lui affratellati e poi ritorna nei cieli per celebrare «le nozze di verità». I credenti possono esperire attraverso il Cristo la gioia, la verità e l’amore che li realizza nell’unità con il Signore e con l’«Uno che è», ovvero con il Padre del Tutto. In questo scenario il vecchio Adonai della tradizione giudaica non è altro che un arconte buono. Nel testo non mancano tracce di docetismo perché è condivisa la tesi di Basilide, secondo cui Simone di Cirene sarebbe stato crocifisso al posto di Gesù.(130) L’autore si contrappone alla emergente chiesa ortodossa che ha (128)  N. D. Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi, cit, p. 160. (129)  G. G. Riley, Second Treatise of the Great Seth, in A. P. Birger, Nag Hammadi Codex vii, Leiden, Brill, 1996, pp. 129-200. (130)  La medesima congettura è presente nel Corano, sura 4.

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frainteso la crocifissione ed ha interpretato il battesimo come la morte in Cristo («Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?», Rm, vi, 1-14), mentre il vero battesimo è l’unione in Cristo, analoga all’unione di Cristo con il Padre. Da questo punto di vista la teologia ortodossa è giudicata una dottrina «centrata sull’uomo morto»; gli ortodossi servono due maestri: Cristo e Yaldabaoth. L’autore tratta della triade del Padre, luce ineffabile e verità, della Madre di tutte le cose e del Figlio e forse presenta spunti antipaolini quando scrive: «È materia degna di schiavitù dire: noi moriremo con Cristo, che significa che moriremo secondo un pensiero imperituro e incontaminato. Che affermazione incomprensibile! La scrittura, a proposito dell’acqua ineffabile in uso tra noi, si esprime con questa parola: ‘Io sono in te e tu sei in me, come il Padre è in me e in te’».(131) Tutti i componenti dell’assemblea furono preparati da Sophia «a ricevere la parola salvifica dell’Uno ineffabile», ma Yaldabaoth diceva in tono arrogante («Io sono Dio e non ce n’è altri fuori di me») e gli arconti erano ostili al Salvatore: Essi mi hanno punito, ma non sono morto realmente, ma solo in apparenza […]; ho sofferto solo ai loro occhi e nel loro pensiero […] La morte, che secondo loro io ho sofferto, essi l’hanno sofferta nel loro errore e nella loro cecità. Essi inchiodarono l’uomo alla loro morte. Pensavano di non percepire me, perché erano sordi e ciechi. Facendo ciò pronunciarono il giudizio contro sé stessi […]; un altro, Simone, portò la croce sulle sue spalle. Simeone indossò la corona di spine. Ed Io ero in alto, deridendo tutti gli eccessi dei governanti e tutti i frutti dei loro errori (coll. 55-56); Quando scesi, nessuno mi vide, perché ho continuato a cambiare le mie forme in alto e passavo da una forma all’altra e quando ero alle loro porte ho assunto la loro somiglianza, sicché passai tra loro tranquillamente (col. 56). Venimmo a prendere il figlio della Maestà, nascosto nella regione inferiore per portarlo in alto. Lì sono Io, nell’eone che nessuno ha visto o compreso, dove è il matrimonio della veste nuziale. È il nuovo matrimonio, non l’antico, non soggetto alla morte, perché la nuova camera nuziale è nei cieli ed è perfetta (col. 57). Quando venni all’unità con me stesso, non ci fu bisogno di molte paro(131)  Secondo Discorso del Grande Seth, NHC VII, 2, 50, 1.

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le. Il nostro pensiero era uno con il loro pensiero, così essi compresero ciò che io avevo detto. Facemmo progetti per la distruzione degli arconti e in questo ho fatto la volontà di mio Padre. Questo è ciò che io sono (col. 59). Siamo stati odiati e perseguitati dagli ignoranti e da quelli che affermano di essere ricchi del nome di Cristo, pur essendo vacui e ignoranti. Come animali irrazionali essi non sanno ciò che sono […] non mi hanno realmente conosciuto. Piuttosto hanno servito due maestri e forse più […]; proclamano la dottrina di un uomo morto […]; nella loro dottrina si legano alla paura e all’ignoranza […],non accolgono la nobiltà della verità […]. Non hanno conoscenza della Maestà che viene dall’alto, dalla fonte della verità e non da quella della schiavitù, della gelosia, della paura e dell’amore del mondo materiale[…].Coloro che vivono nell’armonia e nella fraternità dell’amore di fratelli e sorelle […] riflettono veramente il volere del padre. Questo è l’amore universale e perfetto (coll. 59-62).

Adamo, Abramo, Davide, Salomone, i dodici profeti, Mosè furono tutti zimbelli, in quanto servi dei governanti del mondo. «Essi non conobbero mai la verità e non la conosceranno mai, a meno che non conoscano il Figlio dell’Uomo». Quanti dei detti citati, nel vangelo di Filippo e in quello di Tommaso, possono essere attribuiti a Cristo? Per la verità, nessuno! Perché il Cristo, da essi delineato, è un Cristo gnostico e quei detti non sono riferibili al primo secolo. 1.21.  Testi cristiano-gnostici: il Dialogo del Salvatore Il Dialogo del Salvatore (NHC III, 5) reca il titolo all’inizio e alla fine del testo. Tuttavia, a dispetto del titolo, non si colloca propriamente nel genere letterario del dialogo, per essere in prevalenza un monologo, diviso in due parti. Nella prima parte il Salvatore istruisce i suoi discepoli sui tempi della salvezza, data come imminente e come un evento che capiterà alla generazione presente; nella seconda invece il tema della salvezza è rinviato ad un futuro per lo più indefinito non senza un accenno agli ostacoli che, secondo la mitologia gnostica, saranno frapposti all’anima dagli arconti per impedirle di guadagnare il regno della verità. La preghiera che divide le due parti del monologo fa allusione al ritorno del Salvatore presso il Padre.

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Nella parte più propriamente dialogica il Salvatore dibatte con tre discepoli, Matteo, Tommaso e Maria Maddalena e affronta i temi della cosmogonia con spunti apocalittici. Le coordinate temporali del dialogo, in quanto taciute, sono sfuggenti. D’altra parte nella elaborazione dei detti del Signore, l’autore sembra ispirarsi a diverse tradizioni e a diversi testi che risultano presenti nella collazione di Nag Hammadi, ma le fonti da cui egli attinge apparterrebbero – secondo Scopello, che si pone sulla scia di Köster(132) – «to various generations of Christianity», la più antica delle quali potrebbe risalire alla fine del primo secolo per via delle affinità che i detti del Salvatore presentano con quelli del Vangelo di Giovanni. Tale datazione però dipende dalla presunta e pregiudiziale datazione di Giovanni alla fine del primo secolo. Ha indubbiamente ragione la Scopello a scorgere una qualche dipendenza tra il vangelo giovanneo e il Dialogo del Salvatore, ma la loro datazione va spostata in avanti intorno alla metà del secondo secolo, come sembrano suggerire Köster e Pagels.(133) La tardiva datazione al terzo secolo proposta da Létourneau(134) non sembra essere del tutto convincente. Il Dialogo è certamente cristiano per ispirazione, ma non è privo di influenze gnostiche (per es. la camera nuziale, la contrapposizione dei figli della luce e i figli dell’oblio, le coppie che collegano l’eletto sulla terra al syzygos nei cieli), sebbene sia privo di taluni dei temi più caratteristici della gnosi, come la contrapposizione di divinità inferiori e divinità superiori. Vi si potrebbero scorgere anche tracce di stoicismo e di ermetismo, in particolare nella interpretazione della Genesi, che richiama alla mente il Pimandro.(135) Il Dialogo sembra essere in qualche relazione con gli apocrifi Atti di Tommaso, non tanto per le comuni suggestioni gnostiche, che sono appena affioranti nei secondi e più marcati nel primo, quanto per la comune citazione di due diverse varianti dell’Inno alla perla.

(132) M. Scopello, Introduction to the Dialogue of the Savior, in M. Meyer (ed.), The Nag Hammadi Scriptures, cit. p. 299. (133) H. Köster – E. H. Pagels, Report on the Dialogue of the Savior (CG III, 5), in Nag Hammadi and Gnosis: Papers read at the first International Congress of Coptology (Cairo, December 1976), edited by Robert MacLachlan Wilson, Nag Hammadi Studies, 14; Leiden, Brill, 1978, pp. 66-74. (134) P. Létourneau, Le dialogue du Sauveur, Bibliothèque Copte de Nag Hammadi, Sections Textes, 29; Québec, Presses Université Laval, Louvain, Peeters, 2003. (135)  Pimandro, v, 1-11.

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1.22.  Testi cristiani: gli Atti di Pietro Gli Atti di Pietro e dei dodici apostoli (NHC VI, 1), forse risalenti alla seconda metà del secondo secolo, hanno per lo più la forma letteraria di una novella. Pietro e i dodici giungono in una città e si imbattono in un uomo che grida: «Perle, perle!». Pietro gli si accosta per chiedergli indicazioni circa un possibile alloggio. Ma l’uomo si dichiara forestiero e inadeguato a dare suggerimenti. Intanto la gente lo circonda. L’attenzione dei ricchi dura poco tempo; i poveri invece, pur non potendo permettersi l’acquisto di perle, sono attratti dall’annuncio. Il mercante straniero promette di mostrare loro le perle (intese come simbolo della salvezza) se si predispongono a visitare la sua città. Pietro gli chiede di rivelare il suo nome ed egli dice di chiamarsi Lithargoel che significa «luce che illumina la pietra» (dal greco Líthos = pietra e argós = splendente). Poi il mercante descrive il cammino che porta alla sua città, la quale dispone di nove porte. Il percorso è pericoloso, perché si può essere attaccati da ladri e da bestie e la città è circondata da mura e da fossati. Pietro decide di intraprendere il cammino con i suoi compagni. Quando giungono alla porta della città, Lithargoel gli va incontro, non però nelle vesti del mercante, ma in quelle di un medico. Gli apostoli non lo riconoscono, tant’è che Pietro gli chiede dove si trova la casa di Lithargoel. Ma in breve tempo egli si rivela essere il Cristo che esorta i discepoli a portare la medicina alla gente che crede in lui e spiega che non si tratta di una medicina che guarisce i corpi, ma le anime. Il tema delle perle è presente in Matteo (xv, 46) e negli apocrifi Atti di Tommaso. 1.23.  Testi cristiani: le Apocalissi di Pietro e di Paolo Nel quinto codice di Hag Hammadi troviamo una manciata di Apocalissi (l’Apocalisse di Paolo, l’Apocalisse di Adamo, la Prima e la Seconda Apocalisse di Giacomo). Un testo singolare è l’Apocalisse di Paolo. Si ritiene ispirato ai passi in cui l’apostolo accenna alle sue esperienze estatiche. In Galati (i, 1-17) Paolo parla della rivelazione del vangelo ricevuta direttamente da Cristo e si dice prescelto fin dal seno di sua madre per annunciarla ai gentili. Sulla medesima rivelazione l’apostolo torna in un’altra pericope di Galati, ma il passo più decisivo è nella 2Corinzi (Gal, ii, 2; 2Cor, xii, 2-4),

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ove accenna ad un «uomo in Cristo», che gli interpreti identificano con lo stesso Paolo, il quale fu rapito fino al terzo cielo con il corpo o senza il corpo (lo sa solo Dio!) e «ascoltò cose indicibili, che non è lecito a nessun uomo riferire». Questa esperienza estatica incuriosì moltissimo gli autori del secondo secolo, che furono spesso indotti a descriverla più dettagliatamente. Uno dei testi che affrontò la questione fu la nota Visione di Paolo, che sembra essere stata utilizzata da Dante nella Divina Commedia. Più genuina l’Apocalisse di Paolo, della quale sembrano avere notizie gli eresiologi Ireneo, Tertulliano, lo Ps.-Ippolito ed Epifanio di Salamina. In realtà la versione menzionata da Ireneo,(136) pur riferita ad un testo gnostico, non sembra avere alcun rapporto con il testo di Nag Hammadi, non solo perché è una specie di glossa del citato passo della 2Corinzi, ma anche perché non fa il minimo accenno ad un’ascesa oltre il terzo cielo. Anche le citazioni dello Ps.-Tertulliano, dello Ps.-Ippolito e di Epifanio,(137) il quale peraltro ricorda una Ascensione di Paolo, sono troppo vaghe per essere riferibili al testo gnostico. L’Apocalisse di Paolo (NHC V, 2) è un ulteriore esempio del sincretismo gnostico del secondo secolo; vi si avverte l’influenza dell’apocalittica giudaica (da Daniele al Libro di Enoc e al Testamento di Abramo), della mitologia greca, del mandeismo persiano, oltre alle influenze del Timeo platonico. L’autore non sembra avere dimestichezza con la geografia palestinese, perché parla del monte di Gerico da cui avrebbe avuto inizio l’ascensione di Paolo e il suo viaggio verso la Gerusalemme celeste in compagnia di un fanciullo. Sebbene molti tendano ad identificare il fanciullo con Gesù, questi non è mai citato nel testo apocalittico. La narrazione parte dal terzo cielo ed approda immediatamente al quarto cielo, ove Paolo assiste al giudizio e alla fustigazione delle anime che vengono dalla terra della morte. Nel quinto cielo scorge gli apostoli che gli vengono incontro e un grande angelo accompagnato da altri tre angeli. Gli si apre la porta che lo conduce al sesto cielo, ove vede lo Spirito Santo che conduce davanti a lui gli apostoli; si apre la porta per il settimo cielo; gli compare in mezzo ad una intensa luce un vecchio seduto su un trono che è sette volte più splendente del sole. Il vecchio gli chiede dove è diretto e Paolo risponde che va nel luogo da cui è venuto. Di nuovo il vecchio lo interroga e gli chiede da dove viene. Paolo risponde: «Vengo (136)  Ireneo, Adv. haer., ii, 30, 7. (137)  Ps.-Tertulliano, De praescriptionibus adversus haereticos, xxiv, 5-6; Ps.-Ippolito, Élenchos, v, 8, 25; Epifanio di Salamina, Panarion, xxxviii, 2, 5.

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

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dal mondo della morte, per fare prigioniera la cattività che fu assunta nella cattività di Babilonia»).(138) Infine, accompagnandosi agli apostoli, sale fino all’ottavo, nono e decimo cielo. Sono evidenti in questi processi di ascesa e nelle correlate visioni mistiche forti influenze enochiche. Il testo è forse risalente alla fine del secondo o agli inizi del terzo secolo. 1.24.  Testi cristiani: l’Insegnamento di Silvano L’Insegnamento di Silvano (NHC VII, 4) è certamente un testo cristiano, che però rivela influssi provenienti dall’etica stoica, dalla filosofia filoniana, dal medio platonismo, dalla tradizione giudaica e da problematiche gnostiche. Molto verosimilmente è uno scritto pseudepigrafo per la sua pretesa di essere ascrivibile a Sila o Silvano, il discepolo più volte menzionato nelle lettere paoline, negli Atti degli apostoli e nella 1Pietro.(139) Le matrici culturali rinviano comunque ad Alessandria come luogo di composizione. Più complessa invece la questione della sua datazione, poiché in esso sembrano confluire nuclei che potrebbero risalire ad epoche diverse. Probabilmente il nucleo più antico è costituito dalla prima parte,(140) ove sono più marcate le ascendenze filoniane, quelle stoiche e quelle provenienti dalla Sapienza di Salomone. Ed è assai verosimile che questa prima parte si collochi intorno alla fine del primo secolo. In essa Gesù è menzionato solo una volta;(141) nella gran parte dei casi è citato come Cristo. Frutto di una più tardiva interpolazione è certamente il passo (97,3 98,20) che, come ha rilevato Wolf-Peter Funk,(142) presenta una stretta affinità con un manoscritto(143) pergamenaceo attribuito a S. Antonio. Il che fa pensare che la redazione definitiva del testo debba collocarsi tra il iii e il iv secolo. La prima parte dell’Insegnamento di Silvano al figlio è parenetica ed è un invito a combattere la follia, che, per essere guidata dall’ignoranza, è irrazionale; è un’esortazione a non perseguire le passioni umane, (138)  Apocalisse di Paolo, NHC V, 2, 23. (139)  2Cor, i, 19; 1Ts, i, 1; 2Ts, i, 1; At, xv, 27, 32, 40; xvi, 19, 25, 29; xvii, 4, 10, 14, 15; xviii, 5; 1Pt, v, 12. (140)  Insegnamento di Silvano, NHC VII, 4, 84, 16 - 98, 20. (141)  Ivi, NHC VII, 4, 91. (142) W.-P. Funk, Ein doppelt überliefert Stücks spätägyptischer Weisheit, «Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde», ciii, 1976, pp. 18-20. (143)  British Museum, 979.

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a munirsi di torce (cioè di parole) prima di attraversare le porte e aspirare alla «vita tranquilla». L’anima è rappresentata come una città, che, se è piena di ladri, va incontro alla distruzione: «Non essere un animale perseguitato dagli uomini; sii piuttosto un uomo che perseguita le bestie cattive». Se prevalgono la ragione e la mente, «Dio potrebbe dimorare nel tuo campo e il suo Spirito potrebbe proteggere le tue porte». L’autore si richiama alla paideia greca: Figlio mio, accetta per te stesso l’educazione e l’insegnamento. Non fuggire l’educazione e l’insegnamento. Quando sei educato in ogni materia, fai ciò che è bene […], cerca di essere nobile nella tua buona condotta. Guadagnati l’austerità di una buona disciplina. Giudica te stesso come un saggio giudice […], non allontanarti dal divino […], respingi la natura animale che è in te e tieniti lontano dai cattivi pensieri […]. Perché allora ti preoccupi per una causa sbagliata? Figlio mio, non temere nessuno, tranne Dio solo l’Eccelso. Accogli la luce per i tuoi occhi e tieni in spregio l’oscurità. Vivi in Cristo e otterrai un tesoro in cielo (coll. 87-88).

L’appello che viene dalla Sapienza personificata (Sophia) è quello di fuggire dalla follia: «Indossa la sapienza come se fosse un abito e la conoscenza come se fosse una corona». Da ciò l’invito a «ritornare alla tua natura divina» e a prendere «Cristo come vero amico», perché «se ti separi da Dio, il santo Padre, la vera vita, la primavera della vita, riceverai di conseguenza come padre la morte e l’ignoranza come madre». Molto interessante è l’interpretazione che l’autore dà del «conosci te stesso», inteso nel senso di conoscere di quale sostanza, di quale radice o di quale specie sei fatto. E la soluzione suggerita è che in noi sussistono tre nature (radici): la terra, il plasma e lo spirito; queste corrispondono tutto sommato alle tre tipologie umane proposte dagli gnostici, in particolare dai valentiniani: iletici, psichici e pneumatici. Partendo da una lettura allegorica mutuata da Filone, l’autore interpreta il testo della Genesi, e, intrecciando la fonte elohista con quella yhawista, afferma che l’uomo è costituito da una sostanza materiale, ma è formato dal plasma divino (cioè dall’anima) e infine è creato da Dio a sua immagine e somiglianza, ovvero è dotato da Dio di una mente attraverso lo Spirito divino (o soffio divino). È sottintesa la concezione dell’androgino e della separazione della parte maschile da quella femminile. Se si cede alla carne, si ritorna androgini, se si vive in conformità dell’anima, si fa pre-

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valere la parte femminile; se si vive in conformità della mente, si fa prevalere la parte maschile: Vivi in accordo con la mente. Non pensare alle cose della carne, prendi forza per te stesso, perché la mente è forte. Se cadi da quest’altra [cioè se cadi dalla parte della carne], diventi un maschio femmina. E se ti privi della sostanza della tua mente, che è pensiero, tagli la parte maschile e ti trasformi solo nella parte femminile (col. 93).

L’animalità guida l’uomo verso le radici terrene, la sua natura intellettuale lo guida verso le forme intelligibili. La matrice gnostica si fa sentire anche nella critica implicita al battesimo cristiano: «Quando entrasti in una nascita corporea, fosti generato. Quando rinascesti, ti trovasti nella camera nuziale e fosti illuminato nella mente». Ciò significa che il sacramento gnostico della camera nuziale costituisce un superamento del battesimo cristiano o anche gnostico. In altri termini l’autore dell’Insegnamento di Silvano, se da una parte rivela radici cristiane, dall’altra la sua adesione alla gnosi è critica di altre posizioni gnostiche; è questa in fondo la ragione per cui egli parla di «strano tipo di conoscenza» o di «conoscenza spuria». Cristo è la vera luce, «che illumina la mente e il cuore»; «la luce di Cristo è la ragione, perché tutto ciò che è visibile è una copia di ciò che è invisibile». Nella seconda parte prevalgono le questioni più prettamente teologiche, pur in un impianto filosofico saldamente platonico. La domanda se la mente è confinata in un posto riceve una risposta negativa, perché la mente è l’elemento che è in somiglianza con la divinità e, come la divinità, che è incorporea, non è ristretta in uno spazio definito, così è anche per la mente. Dio può essere conosciuto, ma è impossibile comprendere ciò che egli è: noi possiamo conoscere Dio attraverso Cristo, il quale reca in sé l’immagine del Padre. E l’immagine ce lo rivela «nella vera somiglianza con Dio in un modo visibile». Ne consegue che Dio è dappertutto e non è in nessun luogo. Cristo è la luce del Padre, ma, «come è impossibile guardare il sole, così è impossibile guardare Cristo», perché «se Dio vede ogni cosa, nessuno vede Dio». Anche Cristo è da un lato comprensibile e dall’altro incomprensibile, perché «Cristo è il Tutto e chi non possiede il Tutto non può conoscerlo». Dio è ineffabile, la sua luce viene dall’alto, «illumina la tua mente con una luce celeste, affinché tu possa tornare alla luce del cielo». Il cammino della salvezza è la via indicata da Cristo, è la sua opera salvifica. Cristo è la Sa-

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pienza di Dio: gli attributi (parola, vita, porta, luce, angelo, buon pastore, vigna, tempio) che l’autore gli ascrive sono tratte dai vangeli e dalle lettere paoline. C’è qualche tratto origeniano nell’idea della coeternità del Padre e del Figlio («l’Onnipotente che esiste sempre non ha mai regnato come re senza aver bisogno anche del Figlio divino»). Il colophon si chiude con il già citato acronimo Ikhthus. 1.25.  Testi cristiani: il Libro segreto di Giacomo Il Libro segreto di Giacomo (NHC I, 2) non è che una singolare lettera, per lo più scritta in forma dialogica, in cui l’apostolo è visitato da Cristo e riceve da lui un insegnamento segreto. Esso ha la pretesa di essere stato scritto 550 giorni (un anno e mezzo circa) dopo la resurrezione. Ma in realtà la sua composizione risale intorno alla metà del iii secolo, quando le persecuzioni si fecero reali e una gran parte di cristiani preferì salvare la vita più che confermare con il sacrificio la propria fede. Si spiega così perché il martirio è il tema centrale della lettera.(144) L’autore vuole evidentemente rafforzare la fede ed argomenta a favore del sacrificio della vita: Non sai – dice il Signore a Giacomo – che non sei ancora stato abusato, ingiustamente accusato, chiuso in prigione, illegalmente condannato, crocifisso senza ragione o bruciato nella sabbia come lo sono stato io da un demone? Hai tu il coraggio di risparmiare la carne, tu per il quale lo spirito è un muro di protezione? Se pensi quanto a lungo il mondo è esistito prima di te e come a lungo esisterà dopo di te, capirai che la tua vita non è che un giorno e che la tua sofferenza non dura che un’ora.(145)

La sofferenza è effimera, la salvezza dura per tutta l’eternità. Il cristiano deve patire il sacrificio della croce, come lo ha patito il Cristo, perché in verità ti dico; nessuno si salverà senza credere nella mia croce, perché il regno di Dio appartiene a coloro che hanno creduto nella mia croce. Siate cercatori della morte, dunque, come la morte è cercatrice della vita […]. (144)  Libro segreto di Giacomo, NHC I, 2, 4, 22 - 6, 21. (145)  Ivi, NHC I, 2, 5.

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In verità ti dico: nessuno che teme la morte si salverà, perché il regno della morte appartiene a coloro che sono messi a morte.(146)

Non mancano suggestioni provenienti dai canonici (es. la parabola del regno dei cieli come un granello di grano). L’impianto gnostico è poco consistente; persiste solo il tema della conoscenza di sé stessi.(147) Più interessanti le osservazioni sul regno dei cieli e sulla promessa della vita eterna, che talvolta sembra essere prossima e talvolta lontana. Giacomo è invitato ad aver fede: egli ha avuto la vita attraverso la conoscenza e la fede e deve essere felice di attendersi la vita eterna: «In verità ti dico – gli rivela il Signore – chiunque riceverà la vita e crederà nel regno non lo lascerà mai, neppure se il Padre lo vuole bandire».(148) 1.26.  Testi cristiani: le due Apocalissi di Giacomo La Prima (NHC V, 3; Codex Tchacos 2) e la Seconda Apocalisse di Giacomo (NHC V, 4) sono entrambe frutto di una fusione di cristianesimo e di gnosticismo, sebbene il nome di Gesù non sia mai pronunciato e rimanga sottinteso in relazione al fratello Giacomo, che non è tuttavia «fisicamente fratello», ma è figlio di Teuda. Nessuno dei due testi ha il carattere e la struttura della letteratura apocalittica; entrambi rappresentano la rivelazione di Giacomo sotto forma di conversazione o di dialogo tra il ‘maestro’ identificabile con Gesù e lo stesso Giacomo. In entrambi i casi si fa riferimento alla passione di Cristo e al martirio di Giacomo.(149) Il punto di partenza è dato nell’uno e nell’altro caso dalle Antiquitates di Giuseppe Flavio e dalla epitome di Egesippo, in riferimento al martirio di Giacomo. Nella Prima Apocalisse il Maestro spiega a Giacomo che la sua sofferenza fu apparente. Nel contempo egli prepara Giacomo a tenersi pronto per il proprio martirio. In nessuno dei due casi si fa menzione della morte. Le risposte che Giacomo dà al maestro dimostrano che egli è di origine superiore. Le domande e le risposte tra i due interlocutori, preparatorie all’ascesa di Giacomo, sono le stesse che erano ritenute rilevanti per l’asce(146)  Ivi, NHC I, 2, 26. (147)  Ivi, NHC I, 2, 12, 17 - 13, 25. (148)  Ivi, NHC I, 2, 13, 26 - 15, 5. (149)  Prima apocalisse di Giacomo, NHC V, 3, 30, 11-15; 43, 7 - 44, 8.

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sa del credente gnostico. Ne troviamo traccia anche in Ireneo e in Epifanio.(150) La cornice è sostanzialmente gnostica. L’origine di tutte le cose è ‘l’Uno che è’. Persistono tracce di teologia apofatica: «l’Uno è innominabile e ineffabile». Il primo discorso del maestro verte sulla ostilità dei poteri mondani che sono alla base della passione e del martirio. Essi saranno distrutti: Io sono colui che era dentro di me. Non ho mai sofferto nulla e non sono stato afflitto. Questo popolo non mi ha fatto alcun danno. Tutto questo è stato inflitto a una figura dei governanti ed era giusto che questa figura fosse distrutta da loro […]. Io ti dico la verità, tu hai messo in moto una grande rabbia e ira contro te stesso. Ma è accaduto così affinché altre cose potessero accadere.(151)

Il maestro rivela a Giacomo come egli sarà liberato dalla sofferenza: quando cadrà nelle mani del potere e gli chiederanno: chi sei? E da dove vieni? Egli dovrà rispondere: ‘Io sono un figlio e vengo da un Padre’. Ti chiederanno: ‘che tipo di figlio sei e a che tipo di padre appartieni?’. La risposta deve essere: ‘Vengo dal Padre pre-esistente e sono figlio nel pre-esistente’. Ti chiederanno: con quale mandato sei venuto? Risponderai: ‘sono venuto per ordine del pre-esistente per vedere le cose che sono nostre e quelle che sono estranee, non estranee interamente, ma appartenenti ad Achamot, che è femmina […]. E torno alla mia patria da dove sono venuto’.(152)

Achamot (corrispondente all’ebraico Hokhmah) è nella tradizione valentiniana la forma più bassa di sapienza, figlia di Sofia, che è la sapienza più alta. Le domande e risposte suggerite dal maestro hanno tutta l’aria di essere formule rituali, forse caratteristiche della liturgia valentiniana, sebbene siano attribuite da Epifanio agli Eracleoniti e da Ireneo ai valentiniani marcosiani. Infine il maestro, assicurando la trasmissione della propria rivelazione, stabilisce che dopo i dodici apostoli sarà compito di Addai fondare la comunità siriana. Dal che si deduce che molto verosimilmente il testo fu compila(150)  Ireneo, Adv. haer., i, 21, 5; Epifanio di Salamina, Panarion, xxxvi, 3, 1-6. (151)  Prima apocalisse di Giacomo, NHC V, 3, 32-32. (152)  Ivi, NHC V, 3, 33-34.

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to in Siria intorno al terzo secolo sulla base di un testo risalente alla fine del secondo secolo. La Seconda Apocalisse di Giacomo, scritta per mano dello scriba Mareim, è altrettanto complessa e si presenta come una sorta di report che un oscuro prete avrebbe fatto a Teuda padre di Giacomo. Evidentemente l’autore suppone che Teuda sia, dopo Giuseppe, il secondo marito di Maria. Il nodo centrale della rivelazione è il martirio, per mezzo della lapidazione, di Giacomo. Accusato di blasfemia per un discorso da lui tenuto davanti alla folla, Giacomo viene condotto sul pinnacolo del tempio e da lì fatto precipitare a terra e infine lapidato. Il martirio, così narrato, dipende da Egesippo, che a sua volta si ispira a Giuseppe Flavio,(153) ed è ripreso da Eusebio.(154) Ma nessuno dei tre autori citati dice nulla su Teuda come padre di Giacomo, salvo che l’ignoto autore dell’Apocalisse non abbia equivocato sui testi di Giuseppe Flavio ed abbia creduto di poter identificare nel rivoltoso del 46, rampollo della dinastia di Giuda il Galileo, il padre di Giacomo. Non è escluso che Teuda fosse indicato da Giuseppe Flavio come padre di Giacomo, proprio nel paragrafo in cui lo storico accenna alla sua lapidazione in compagnia con altri rivoltosi, suoi amici o parenti, prima che nel terzo o quarto secolo fosse manipolato da mano cristiana. Le affinità stilistiche fra le due Apocalissi giacobite fanno pensare: 1) che siano state scritte in continuità l’una con l’altra; 2) che entrambe siano frutto della stessa mano; 3) che risalgano alla fine del secondo secolo d.C. 1.27.  Gnosi e proto-cristianesimo: la reciproca convivenza Clemente alessandrino, che scrive a qualche decennio di distanza dagli sviluppi del valentinianesimo e del paolinismo, è consapevole del fatto che i due movimenti, pur divergendo, si toccano e si intrecciano sotto il profilo dottrinale, terminologico e simbolico. Egli coglie che il tema comune, di chiara derivazione platonica, è la conoscenza come contemplazione (θεωρία) o come assimilazione a Dio (ὁμοίωσις θεῷ), dato il presupposto dell’essere fatti a somiglianza di Dio (καθ’ὁμοίωσιν θεοῦ,1Gc, iii, 9). Fede e gnosi si integrano a vicenda. Infatti scrive: (153) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 200. (154)  Eusebio, HE, ii, 1.

1186  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini C’è chi distingue: fede riguardo al Figlio, gnosi riguardo al Padre. Ma in tal modo sfugge che […] è necessario conoscere anche chi è il Figlio di Dio. Insomma non c’è gnosi senza fede, né fede senza gnosi; come non c’è Padre senza Figlio […] e il Figlio è verace maestro intorno al Padre […] dalla fede alla gnosi, attraverso il Figlio e il Padre; e gnosi del Figlio e del Padre è il conseguimento e il discernimento della verità attraverso la verità, secondo il canone gnostico, quello veramente gnostico.(155)

A Basilide e a Valentino Clemente rimprovera l’appiattimento della conoscenza di Dio in termini di natura. Non ci si salva per natura, ma per «assenso razionale di un’anima libera e responsabile».(156) D’altro canto la gnosi è perfezionamento della fede: «è […] una sorta di perfezionamento dell’uomo in quanto uomo; […] Per mezzo della gnosi diventa perfetta la fede». Ma il perfezionamento porta con sé l’elitarismo: La gnosi è data a coloro che ne sono idonei ed eletti, per il fatto che richiede speciale preparazione e addestramento, sia per ascoltare gli insegnamenti comunicati, sia per regolare la propria vita e pervenire con ferma disposizione a una giustizia superiore a quella della legge.(157)

Lo gnostico muove da «una vera e nobile concezione dell’universo […] e dalla contemplazione della creazione»; in altri termini muove da una cosmogonia e da un’antropogonia. Il maestro della gnosi «è il Signore; il Signore che si fa sentire attraverso la bocca umana; e per questo ha assunto la carne». L’ascesa dello gnostico dal mondo terreno a quello divino è etica ed intellettuale; egli è stoicamente «imperturbato nell’anima, perché sa che tutti questi mali sono una necessità della creazione, ma possono diventare per potenza di Dio, ‘farmaco di salvezza’». «Vera immagine terrena della divina potenza», l’anima gnostica diventa, come in Paolo, «un tempio dello Spirito Santo».(158) È significativo che la teologia di Clemente, nella sua ispirazione greco-platonica, sia assai prossima a quella genericamente gnostica, nella concezione del Padre, come l’Uno-Tutto (ἕν-πάντα), che è incomprensibile e inconoscibile. (155)  Clemente Alessandrino, Stromata, v, 1. (156)  Ivi, v, 2. (157)  Ivi, vii, 10. (158)  Ivi, vii, 11.

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L’influenza gnostica si fa sentire anche su tematiche fondamentali del cristianesimo. I riti lustrali e di purificazione sono certamente di antichissima tradizione. Per via del diffuso sincretismo religioso, ne troviamo traccia nelle sette misteriche, in cui compare anche l’uso del verbo βαπτίζω, nei culti di Iside in Egitto, di Attis in Frigia, di Marduk in Babilonia, di Mitra in Persia. Ma è solo nelle comunità cristiane e gnostiche che il battesimo assume la dignità di un sacramento. Nei testi gnostici, come abbiamo visto, c’è una vera e propria teologia dell’acqua. Non diversamente accade nel corpus del NT, ove l’immersione del Cristo nelle acque del Giordano si accompagna al tema gnostico della discesa dello Spirito.(159) E lo stesso motivo ricorre in Giovanni: «Se uno non è generato da acqua e spirito non può entrare nel regno di Dio»; «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non patirà più la sete in eterno, anzi l’acqua che gli darò diventerà una sorgente d’acqua zampillante per la vita eterna» (Gv, iii, 5; iv, 14; vii, 38); «Chi ha sete venga a me e beva colui che crede in me»: Cristo ha dato sé stesso alla chiesa e l’ha purificata con l’acqua per mezzo della Parola; «Purificati con un’aspersione nei cuori da ogni cattiva coscienza e lavati nel corpo con acqua pura»; «Gesù Cristo non è venuto con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue» (Ef, v, 26; Ebr, x, 22; 1Gv, v, 6, 8); «L’Agnello […] li guiderà alle sorgenti delle acque della vita»; «A colui che ha sete darò della fonte dell’acqua della vita gratuitamente»; «Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva, limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello»; «Chi ha sete, venga; chi vuole, attinga acqua di vita gratuitamente» (Ap, vii, 17; xxi, 6; xxii, 1, 17). Altro tema centrale nella filosofia gnostica è quello della luce. Non si può dire che sia presente in Marco una teologia della luce; nel suo vangelo φῶς compare una sola volta nel senso di ‘fuoco’ presso cui Pietro si riscalda nell’atrio del palazzo del sommo sacerdote (Mc, xiv, 54; cfr. anche Lc, xxii, 56). In Matteo l’idea del Cristo-luce per chi vive nelle tenebre è suggerita dalla profezia isaiana (Mt, iv, 16; Is, viii, 23-ix, 1). Più in generale egli concepisce i discepoli come «luce del mondo» (τὸ φῶς τοῦ κόσμου) per la loro attività di proselitismo (Mt, v, 14. 16; x, 27; cfr. anche Lc, xii, 3). Luce del corpo è l’occhio (Mt, vi, 23; cfr. anche Lc, xi, 35); nell’episodio della trasfigurazione sono le vesti del Cristo che splendono come luce. Anche Luca si muove nella stessa ottica: «Cristo è luce di rivelazione per le genti»; Figli della luce (159)  Mc, i, 7-11; Mt, iii, 11, 16-17; Lc, iii, 16, 21-22; Gv, i, 25-28, 30-34; iii, 2328; At, i, 5; viii, 36-39; x, 47-48; xi, 16; 1Pt, iii, 20-21.

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sono i fedeli (Lc, ii, 32; viii, 16; xvi, 8). Si è già fatto cenno(160) alla centralità del tema della luce in Giovanni. Per gli Atti (ix, 3; xxii, 6, 9, 11; xxvi, 13, 18, 23) la luce sfolgorante che all’improvviso abbaglia Paolo sulla via di Damasco è Dio stesso, secondo un filone di pensiero che va dall’enochismo alla gnosi. Luce abbagliante è anche l’angelo del Signore che assicura a Pietro una miracolosa liberazione dalla prigione (At, xii, 7). In Paolo il tema della luce è centrale: la salvezza è strettamente associata alla potenza della luce (Rm, xiii, 12). Più strettamente gnostica è la concezione professata nella 2Corinzi, ove la luce, che rifulge dalle tenebre, nella versione della Genesi «fece risplendere nei nostri cuori la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Gesù» (2Cor, iv, 6; Gn, i, 3). Negli Efesini (Ef, v, 8, 9, 13, 14) il passaggio dalle tenebre alla luce segna un salto qualitativo, per cui si diventa figli della luce, attraverso cui tutto è manifestato e tutto ciò che è manifestato (Dio-Cristo) è luce. In Colossesi (Col, i, 12) la prospettiva è escatologica: il Padre ci ha resi degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce. Nella 1Tessalonicesi (1Ts, v, 5) i cristiani sono garantiti dalla imprevedibilità della fine dei tempi, perché sono figli della luce e non delle tenebre. In 1Timoteo (1Tm, vi, 16) Cristo è «il solo che possiede l’immortalità ed abita una luce inaccessibile che nessuno ha mai visto né potrà mai vedere». Nella Lettera di Giacomo c’è solo un cenno al Padre dei luminari (Gc, i, 17) o delle stelle da cui viene ogni dono e «per il quale non esiste né mutamento, né ombra di vicissitudine». Nella 1Pietro (ii, 9) i fedeli sono chiamati dalle tenebre alla luce meravigliosa per proclamare la potenza di Dio. Nella 1Giovanni si annuncia: «Dio è luce e in lui non esistono tenebre»; «se diciamo che procediamo nelle tenebre, mentiamo […], ma se procediamo nella luce, come egli stesso è nella luce, entriamo in comunione gli uni con gli altri, ed il sangue di Gesù Cristo ci purifica dal peccato». «Le tenebre passano e la luce vera già risplende»; nella luce non c’è odio, ma solo amore per il fratello (1Gv, i, 5, 7; ii, 8, 9-10). Nell’Apocalisse la luce di Gerusalemme non sarà più né la lampada, né il sole, perché essa è illuminata da Dio e la sua luce sarà l’Agnello (Ap, xviii, 23; xxi, 24; xxii, 5). Gnosi e cristianesimo condividono anche la teologia del mistero. In Marco, Matteo e Luca (Mc, iv, 11; Mt, xiii, 11; Lc, viii, 10) mistero mystērion (μυστήριον) non ha ancora il significato di sacramento, ma ha quello di verità segreta che coincide con il mistero del Regno di Dio (Mt: regno (160) Cfr., supra, pt. III, par. 3.22.

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

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dei cieli), la cui verità è riservata (è fatta conoscere) ai fedeli ed è esposta a «quelli di fuori» per mezzo di parabole. Mistero è in Romani il disegno imperscrutabile di Dio per salvare «tutto Israele» attraverso la salvezza della totalità dei gentili: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per usare misericordia verso tutti» (Rm, xi, 25-32). Più manifestamente prossima alla gnosi è la 1Corinzi (ii, 7-16), ove il mistero è nascosto nella sapienza di Dio, precedente tutti i secoli e sconosciuta a tutti i potenti. Essa ci è rivelata attraverso lo Spirito Santo («noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conoscessimo i doni della grazia che Dio ci ha dato»), il quale scruta le profondità di Dio. Come lo spirito umano conosce le cose umane, così lo spirito di Dio conosce le cose di Dio. L’uomo spirituale ha ricevuto lo spirito che viene da Dio, attraverso il quale riceve i doni di Dio e li esprime in termini spirituali. Di contro l’uomo psichico non è in grado di recepire e di conoscere le verità che gli vengono comunicate da Dio. Nella 1Corinzi (1Cor, iv, 1) il termine mystērion μυστήριον ha la valenza di sacramento, secondo un’accezione più comune presso gli gnostici. I fedeli sono perciò «amministratori dei misteri di Dio». Ma più avanti (1Cor, xiii, 2) alla gnosi, come mera conoscenza e come possesso del dono della profezia, di tutti i misteri e di tutta la scienza, si contrappone l’amore («Potrò muovere le montagne, ma, se non posseggo l’amore, non sono nulla»). Colui che possiede i doni della spirito, parla di misteri ed annuncia il mistero della resurrezione: «non tutti ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio […]; i morti risorgeranno e noi saremo trasformati» (1Cor, xiv, 2; xv, 51). In Efesini la gnosi è la conoscenza della volontà di Dio «per la realizzazione della pienezza dei tempi»; il mistero che Paolo riceve «per rivelazione» è che i gentili sono coeredi e sono partecipi della promessa divina in Gesù Cristo per mezzo del vangelo, di cui Paolo, «il più piccolo di tutti i santi, è ministro». Mistero è il sacramento del matrimonio e mistero è il vangelo del quale Paolo è «l’ambasciatore in catene» (Ef, i, 9; iii, 3-4, 9; v, 32; vi, 19). Impronte gnostiche sono ravvisabili anche in Colossesi, ove il mistero è il martirio ad imitazione delle sofferenze di Cristo e la presenza di «Cristo in voi», sicché occorre che tutti abbiano «la ricchezza e la pienezza dell’intelligenza ed una profonda conoscenza del mistero di Dio-Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza di ciò che è nascosto». Perciò Paolo chiede che ci siano aperte le porte (termine giovanneo e gnostico) della Parola (o del

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Lógos) affinché possiamo annunciare il mistero di Cristo (Col, i, 26-27; ii, 2; iv, 3). Nella 1Tessalonicesi, il mistero è l’iniquità, l’anomia, che è sotto la tutela di Satana e che potrà essere rimossa solo con la rimozione delle potenze demoniache (2Ts, ii, 7-9). Marco fonde insieme la figura del Cristo taumaturgico e quella del Cristo servo sofferente. Ma anche il miracolismo e il magismo marciani sembrano avere la loro radice nel sincretismo del tempo, perché analoghe sono le narrazioni che allo scadere del i secolo ci vengono rappresentate in merito a figure come Simon Mago e Apollonio di Tiana, che taluni studiosi identificano con Paolo di Tarso o con quell’Apollo citato nelle lettere paoline. Credo poco in tali azzardate identificazioni, ma è indubbio che le affinità tra le tre figure di Gesù, Simone e Apollonio trovano spiegazione nel clima culturale e nel proto-gnosticismo a cavallo tra il i e il ii secolo della nostra era. 1.28.  Gnosi e proto-cristianesimo: il lessico comune Tuttavia il segno più manifesto della comune origine o della co-originarietà di gnosi, cristianesimo e sette misteriche e della loro reciproca confluenza è nella comune terminologia che è propria di gran parte della letteratura religiosa fiorita nel medesimo arco di tempo. Da una rapida esplorazione del lessico emerge quanto segue: – Il termine báthos βάθος (profondità) assume un valore simbolico in Luca: «Gettate le reti in profondità e lasciatele per la pesca» (Lc, v, 4). Esso ricorre in Romani, forse in chiave polemica contro gli gnostici per ribadire che non ci sono profondità o altezze che possano separare il cristiano dall’amore che Dio ha per lui. Ma più avanti il termine torna nell’accezione gnostica: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio (ὦ βάθος πλούτου καὶ σοφίας καὶ γνώσεως θεοῦ), come sono imperscrutabili i suoi giudizi e insondabili le sue vie!» (Rm, viii, 39; xi, 33). Nella 1Corinzi (ii, 10) βάθος è utilizzato ancora in un’accezione affine a quella gnostica, poiché ci vien detto che lo Spirito scruta ogni cosa, anche «le profondità di Dio» (καὶ τὰ βάθη τοῦ θεοῦ). In Efesini (iii, 18) Paolo è nuovamente polemico nei confronti degli gnostici, poiché accenna alla profondità della fede in Cristo, il cui amore trascende la conoscenza (Ef, iii, 18).

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

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– Un altro termine caro alla gnosi, come βυθός (abisso), ricorre una sola volta in tutto il Nuovo Testamento nella 2Corinzi, xi, 25, (ἐν τῷ βυθῷ), ove l’abisso è assimilato al mare. Più significativo è l’uso del termine plérōma πλήρωμα (pienezza, ma anche nel senso di perfezione; in quest’ultimo significato è usato nel ii secolo) che in Marco e Matteo ha ancora un’accezione comune, ma in Giovanni ha lo stesso significato che ha per la gnosi.(161) Egli infatti scrive che noi riceviamo dalla pienezza (perfezione) di Dio (dal Plérōma: ἐκ τοῦ πληρώματος αὐτοῦ) grazia sopra grazia (χάριν ἀντὶ χάριτος). Ancora nell’accezione comune è presente in Romani, nella1Corinzi e in Galati (la pienezza dei tempi: τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου), ma in Efesini ha una chiara curvatura gnostica, poiché l’assemblea, ovvero la chiesa, è definita ‘corpo di Cristo’, rappresentante del «plérōma (perfezione) di Dio che riempie tutte le cose» (τὸ πλήρωμα τοῦ τὰ πάντα ἐν πᾶσιν πληρουμένου).(162) Così è anche in Efesini (iii, 19), in cui si accenna alla pienezza-plérōma di Dio, e più oltre nella pericope iv, 13, ove riemerge il tema caro a Clemente Alessandrino dell’unità della fede e della gnosi, connesso all’idea della perfezione, nella misura che conviene al plérōma di Cristo. Lo stesso accade in Colossesi (i, 19; ii, 9), ove il Cristo è presentato come colui in cui si compiacque di abitare il plérōma della divinità (πᾶν τὸ πλήρωμα τῆς θεότητος σωματικῶς, Col, i, 19; ii, 9). – La yiothesía υἱοθεσία (adozione, termine presente anche in Diogene Laerzio) ricorre solo nelle lettere paoline (Rm, viii, 15, 23; Gal, iv, 5; Ef, i, 5) ed indica l’adozione dei cristiani da parte di Dio; gli stessi israeliti, che si considerano eletti, sono figli di Dio per adozione (Rm, ix, 4). In Filippesi (iv, 3) compare l’unica menzione in tutto il NT del termine gnostico syzygos σύζυγος (consorte). Prónoia πρόνοια (previsione, pensiero, provvidenza), un lemma che ha conosciuto una grande fortuna presso la gnosi, ha solo un paio di occorrenze negli Atti e nelle lettere paoline (At, xxiv, 2; Rm, xiii, 14). Solo una volta compare negli Atti (viii, 22) il lemma Epínoia ἐπίνοια, assai frequente nella letteratura gnostica; vi compare non come una delle ipostasi (eoni), ma nel significato di ‘intuizione-intenzione’. Pneumatikós πνευματικός (pneumatico, spirituale), che negli scritti gnostici si riferisce alla tripartizione degli uomini in pneumatici, psichici ed iletici o coici, è abbondantemente usato nelle lettere paoline (soprattutto nella 1Corinzi). Paolo si auspica che i cristiani (161)  Mc, ii, 21; vi, 43; viii, 20; Mt, ix, 16; Gv, i, 16. (162)  Rm, xi, 12, 25; xiii, 10, xv, 29, 1Cor, x, 26; Gal, iv, 4; Ef, i, 23.

1192  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini siano uomini spirituali e contrappone se stesso come uomo carnale alla legge che è spirituale (Rm, i, 11; vii, 14). Più allineata con le dottrine gnostiche è la 1Corinzi, ii, 6-15, ove l’uomo spirituale esprime la sapienza umana in termini spirituali, a differenza dell’uomo psichico (ψυχικός) che è inadeguato ad accogliere lo Spirito di Dio; gli spirituali sono perfetti (téleioi τέλειοι), parlano di una sapienza che non è di questo mondo, giudicano tutte le cose e non sono giudicati da nessuno. Nella 1Corinzi Paolo non ha ancora parlato ai suoi fratelli come uomini spirituali, ma come uomini carnali; ma più oltre accenna alla necessità di seminare nei fedeli beni spirituali ed osserva che gli antichi padri mangiarono lo stesso cibo spirituale e bevvero la stessa bevanda spirituale da una roccia spirituale che è il Cristo (1Cor, ii, 6-15; iii, 1; ix, 11; x, 3-4). Nella 1Corinzi (xii, 1; xiv, 1, 37) dono spirituale è la conoscenza, in contrapposizione all’ignoranza; pneumatico è il profeta. Nella stessa lettera Paolo teorizza uno stretto legame tra lo spirituale e lo psichico: «se c’è un corpo psichico, ce n’è anche uno spirituale»; e in chiave polemica con la gnosi postula la precedenza dello psichico: «Non c’è stato prima lo spirituale, bensì lo psichico e poi lo spirituale» (1Cor, xv, 43-46). Anche in Galati (vi, 1) si ribadisce che i cristiani sono uomini spirituali. Spunti gnostici residui sono presenti in Colossesi (i, 9; iii, 16), ove ci si auspica che i cristiani abbiano una perfetta conoscenza della volontà divina, accompagnata da ogni sapienza e intelligenza spirituale. Giovanni (Gv, iii, 15) distingue una sapienza dall’alto (spirituale) da una psichica, terrena, demoniaca. Per Giuda (i, 19) psichici e privi di spirito sono gli eretici in quanto fautori di divisione. Il termine ‘coico’ è sostituito nel NT da sarkikós σαρκικός (carnale), come si può riscontrare in Romani, 1 e 2Corinzi e in 1Pietro.(163) – Un’eco gnostica di téleios τέλειος (perfetto) è nell’invito alla perfezione in Matteo, v, 48: «Siate perfetti, come lo è il vostro Padre celeste» (ἔσεσθε οὗν ὑμεῖς τέλειοι ὡς ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος τέλειός ἐστιν). Polemica contro la gnosi è invece la 1Corinzi, in cui l’amore assume un ruolo preminente rispetto alla profezia e alla scienza; queste sono imperfette, ma «quando verrà la perfezione, scomparirà ciò che è imperfetto». Per Efesini l’uomo perfetto è colui che realizza l’unità delle fede e della conoscenza del Figlio di Dio. Per Filippesi la perfezione del credente è la fede in Cristo. La perfezione in Cristo è anche l’obiettivo di Colossesi.(164) (163)  Rm, xv, 27; 1Cor, iii, 3; ix, 11; 2Cor, i, 12; x, 4; 1Pt, ii, 11. (164)  1Cor, xiii, 10; Ef, iv, 13; Fp, iii, 15; Col, i, 28; iv, 12.

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

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– Altro termine caro alla gnosi è nymphios νυμφίος (sposo). Nei tre sinottici(165) lo sposo è il Cristo. Più ambiguo il testo di Giovanni (iii, 29), che ha una venatura gnostica nel concetto dello sposo (Cristo) come colui che ha una sposa (lo Spirito Santo?). Manca tuttavia nel cristianesimo il sacramento gnostico della camera nuziale. Riguardo alla redenzione (dal verbo exagorázō ἐξαγοράζω = redimere, termine presente anche in Plutarco) Galati sembra conservare traccia del mito gnostico del redentore redento: Cristo infatti riscatta dalla maledizione della Legge, in quanto è diventato egli stesso maledizione (maledetto chiunque è appeso al legno) per noi; ed è attraverso la sua redenzione che noi riceviamo la figliolanza dal Padre (Gal, iii, 13; iv, 5). – Il lemma sophía σοφία (sapienza) è utilizzato da Marco (vi, 2) nell’accezione comune nel momento in cui si interroga: «Quale sapienza è stata data al Cristo che insegna nelle sinagoghe?». Per Matteo la Sapienza di Dio si manifesta nelle opere del Cristo (Mc, vi, 2; Mt, xi, 19), in analogia al processo discensivo della gnosi. Anche per la 1Corinzi Cristo è sapienza di Dio, in quanto per opera di Dio è diventato nostra sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Come sapienza Cristo è potenza di Dio; anzi la sapienza di Dio è nascosta nel mistero che Dio ha prestabilito prima di tutti i secoli e che lo stesso Dio ci ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo (1Cor, i, 24, 30; ii, 4-5, 7, 13). Per Efesini la sapienza è associata alla rivelazione della conoscenza di Dio (Ef, i, 17). Per Colossesi la perfetta conoscenza della volontà divina si accompagna alla sapienza e alla intelligenza spirituale. La sapienza e la conoscenza ci rendono perfetti in Cristo; la conoscenza di Cristo «è il mistero di Dio in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col, i, 9, 28; ii, 3). – Il lemma gnōsis γνῶσις (conoscenza) compare tra i sinottici solo in Luca (Lc, i, 77; xi, 52), inteso nel senso di conoscenza della salvezza attraverso la remissione dei peccati, ma è ampiamente presente nelle lettere paoline.(166) Per la 2Corinzi (ii, 14), attraverso il profumo della conoscenza di Cristo, noi «siamo davanti a Dio il profumo di Cristo». La datazione della 1Timoteo cade quando le distanze tra la gnosi e il cristianesimo si sono ormai nettamente profilate; infatti in essa la vera gnosi è contrapposta alle cosiddet(165)  Mc, ii, 19-20; Mt, ix, 15; Lc, v, 34-35. (166)  Rm, ii, 20; xi, 33; xv, 14; 1Cor, i, 5; viii, 1, 7, 10, 11; xii, 8; xiii, 2, 8; xiv, 6; 2Cor, ii, 14; iv, 6; vi, 6; viii, 7; x, 5; xi, 6; Ef, iii, 19; Fp, iii, 8; Col, ii, 3; 1Tm, vi, 20.

1194  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini te «opposizioni della falsa gnosi» (ἀντιθέσεις τῆς ψευδωνύμου γνώσεως, 1Tm, vi, 20). – Centrale è nei testi gnostici il termine Sōtēr σωτήρ (Salvatore). Esso manca nei primi due sinottici. Luca lo mutua da Habacuc: «Ed io mi rallegrerò nel Signore, ed esulterò in Dio mio Salvatore» (εγώ δε εν τω Κυρίω αγαλλιάσομαι, χαρήσομαι επί τῷ Θεῷ τῷ σωτήρί μου, Lc, i, 47; ii, 11; Hab, iii, 18). Nell’AT (Septuaginta) il termine ricorre con frequenza.(167) In Giovanni Cristo è indicato come il vero salvatore del mondo; per gli Atti egli è ancora un salvatore-redentore di Israele; per Efesini è il capo della chiesa e salvatore del corpo; per Filippesi è il salvatore attraverso la redenzione e la resurrezione; per la 1Timoteo il salvatore è Dio e Cristo è la speranza; per la 2Timoteo il salvatore è Cristo, in quanto distruttore della morte; per Tito salvatore è Dio, ma anche Cristo.(168) Nella 2Pietro (i, 1, 11; ii, 20; iii, 2, 18) Salvatore è Cristo in quanto apre l’ingresso nel regno eterno o in quanto è strumento attraverso la cui conoscenza si evitano le corruzioni del mondo. Per la 1Giovanni (iv, 14) Cristo è il Figlio inviato dal Padre come salvatore del mondo. Per la Lettera di Giuda (i, 25) il nostro salvatore è Dio per mezzo di Gesù Cristo. Sōtērios σωτήριος (nel significato di salvezza) è termine presente in Luca, in Atti, in Efesini e in Tito.(169) Sōtēria σωτηρία (salvezza) ricorre in Marco, in un passo interpolato, in Luca, in Giovanni, in Atti, in Romani, nella 2Corinzi, in Efesini, in Filippesi, nella 1Tessalonicesi, nella 2Tessalonicesie in 2Timoteo.(170) – Il termine sphragís σφραγίς (sigillo), che non compare nei sinottici, è frequente nell’Apocalisse, ma è anche presente nelle lettere paoline: in Romani il segno della circoncisione è il sigillo della giustizia che viene dalla fede; per la 1Corinzi i seguaci di Paolo sono il sigillo del suo apostolato nel Signore; per la 2Timoteo (Rm, iv, 11; 1Cor, ix, 2; 2Tm, ii, 19) il fondamento di Dio sta in questo sigillo: «Dio conosce i suoi». Il verbo sphragízō σφραγίζω (sigillare) ha una significativa accezione in Giovanni, ove si dice che il Padre imprime sul Figlio il suo sigillo; nella 2Corinzi, ove si dice che Dio ha impresso in noi il sigillo di (167) Cfr. Dt, xxxii, 15; 1Re, x, 19; Salmi xxiii, 5; xxiv, 5; xxvi, 1, 9; lxi, 3, 7; lxiv, 6; lxxviii, 9; xciv, 1; Sp, xvi, 7; Sr, xxiv, 24; li, 1; Mi, vii, 7; Hab, iii, 18; Is, xii, 2; xvii, 10; xlvi, 15, 21; lxii, 11. (168)  Gv, iv, 42; At, v, 31; xiii, 23; Ef, v, 23; Fp, iii, 20; 1Tm, i, 1; ii, 3; iv, 10; 2Tm, i, 10; Tt, i, 3, 4; ii, 10, 13; iii, 4, 6. (169)  Lc, ii, 30; iii, 6; At, xxviii, 28; Ef, vi, 17; Tt, ii, 11. (170)  Mc, xvi, 8; Lc, i, 69, 71, 77; xix, 9; Gv, iv, 22; At, iv, 12; vii, 25; xiii, 26, 47; xvi, 17; xxvii, 34; Rm, i, 16; x, 1, 10; xi, 11; xiii, 11; 2Cor, i, 6; vi, 2; vii, 10; Ef, i, 13; Fp, i, 19, 28; ii, 12; 1Ts, v, 8, 9; 2Ts; ii, 13; 2Tm, ii, 10; iii, 15.

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

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Cristo ed ha posto nei nostri cuori la caparra dello Spirito. Per Efesini nel vangelo della salvezza i cristiani sono stati sigillati con lo Spirito della promessa e con lo Spirito Santo di Dio per il giorno della redenzione (Gv, vi, 27; 2Cor, i, 22; Ef, i, 13; iv, 30). – Imitatore mimetes μιμητής compare spesso nel senso di imitatore di Cristo (1Cor, iv, 16; xi, 1), imitatore di Dio (Ef, v, 1), di Paolo e di Cristo (1Ts, i, 6), delle chiese che si trovano in Giudea (1Ts, ii, 14), degli eredi della promessa (Ebr, vi, 12). Più forte di mimetes è l’ὁμοίωσις θεοῦ (somiglianza di Dio, Gc, iii, 9), che è di evidente matrice gnostica. C’è un gruppo di termini che si riferisce alla sfera della conoscenza e della comprensione (es. νοῦς intelletto, γνωρίζω (rendere noto), ἐπαγγελία (promessa), ἀλήθεια (verità), ἐπιγινώσκω (conoscere), ἐπίγνωσις (conoscenza puntuale), εὐαγγελίζω (annunciare), εὐαγγέλιον (annuncio), εὐαγγελιστής (evangelista), κήρυγμα (annuncio), λόγος (discorso, parola), πρόνοια (previdenza, provvidenza), ἐπίνοια (pensiero), διδαχή (insegnamento). Altre derivazioni gnostiche del lessico paolino ed evangelico sono lemmi come ἀνάλημψις (assunzione), ἀνάστασις (resurrezione), ἀόρατος (invisibile), ἀπάτωρ (senza padre), ἀρχή (principio, arconte), ἄρχων (arconte), ἀσύνετος (privo di intelligenza), γάμος (nozze, matrimonio), δέσμιος (prigioniero), διωγμός (persecuzione), δοῦλος (servo), ἐνθύμησις (pensiero), θλῖψις (tribolazione), κρυπτός (nascosto, segreto), μαρτυρία (testimonianza), νοῦς (intelletto), ὁδός (via), παρθένος (vergine), πέτρα (roccia), ποιμήν (pastore), σταυρός (croce), φωνή (voce), φῶς (luce, fuoco), χοϊκός (coico, materiale). Tutto induce a pensare ad una fase di stretta collaborazione del cristianesimo con la gnosi; ma nello stesso tempo si intuisce che, in una successiva fase di conflittualità, in cui la gnosi è respinta come eresia, i testi canonici subirono una maldestra ripulitura da reminiscenze gnostiche. Ne consegue che i testi che ne furono maggiormente influenzati (il vangelo giovanneo, le lettere paoline e le epistole cattoliche) non possono essere anteriori al secondo secolo inoltrato. – Afferiscono al lessico gnostico anche termini come αἰών (eternità, eone), αἰώνιος (che esiste sempre), ἀνάπαυσις (riposo), πνεῦμα (spirito), χάρις (grazia), παράκλητος (paracleto), εὐχαριστία (eucaristia), εὐχαριστέω (ringraziare), κρυπτός (nascosto), μυστήριον (mistero), παρουσία (avvento), πίστις (fede), ζωή (vita), ποιμήν (pastore), ὕδωρ (acqua). Un’ulteriore conferma della seriorità del NT è data dal fatto che termini afferenti alla struttura ecclesiale o alle funzioni ministeriali e ritualistiche, come ἀπόστολος

1196  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini (apostolo), διακονία (servizio), διάκονος (servitore, diacono), ἐπίσκοπος (vescovo), κοινωνία (comunione), πρεσβύτερος (presbitero) hanno scarne occorrenze nei sinottici e diventano più frequenti nell’area giovannea e paolino-cattolica. Si è già detto(171) che il lemma ‘apostolo’ ἀπόστολος ha più numerose occorrenze in Atti (28) e nella 1Corinzi (10) rispetto ai sinottici. Il lemma diathēkē διαθήκη sembra essere veicolato dalla Lettera agli Ebrei, in cui occorre ben 14 volte; aiōn αἰών ha i suoi picchi in Giovanni, Ebrei e Apocalisse (rispettivamente 12, 13, 14 occorrenze); aiōnios αἰώνιος ha la massima frequenza in Giovanni (17 occorrenze). Il tema della grazia χάρις è poco presente nei sinottici, ma è l’ossatura centrale e costante delle lettere paoline e della 1Pietro. Il tema del martirio e della testimonianza (μαρτυρέω, μαρτύριον, μαρτυρία) è sviluppato da Giovanni (45 occorrenze) e dagli Atti (14 occorrenze), ma appare più ridimensionato nelle lettere paoline. – Il tema della πίστις ha uno sviluppo ipertrofico negli Atti e nelle lettere paoline, con un considerevole apice in Romani (35 occorrenze) e nella Lettera agli Ebrei (32 occorrenze). Il termine ἐκκλησία (riunione, chiesa), del tutto assente in Marco, Luca e Giovanni, compare 3 volte in Matteo in passi interpolati ed ha nel resto del NT un totale di 108 occorrenze.(172) – Χριστιανός Chistianós presenta solo 3 occorrenze, due in Atti e una in 1Pietro (At, xi, 26; xxvi, 28; 1Pt, iv, 16.). Un discorso a parte meritano i sintagmi Χριστός Ἰησοῦς e Ἰησοῦς Χριστός perché, salvo che non appartengano ad una pericope interpolata, possono essere indicativi della seriorità di un testo. Lo si intuisce perché via via che ci si allontana nel tempo e nello spazio dalla Palestina e dall’età apostolica, termini come Cristo e Gesù perdono il nesso con le radici ebraiche di messia e di salvatore e si uniscono insieme come se costituissero un nome proprio. Ed in effetti le forme Χριστός Ἰησοῦς o Ἰησοῦς Χριστός tradiscono una notevole distanza temporale dagli eventi narrati e non possono risalire ad un’età antecedente al secondo secolo inoltrato. Da un’accurata analisi testuale e dalla maggiore o minore frequenza dei due sintagmi si evince che sono databili alla seconda metà del secondo secolo il (171) v. supra, pt. III, par. 3.21. (172)  Ha 21 occorrenze in Atti, 5 in Romani, 22 nella 1Corinzi, 9 nella seconda, 3 in Galati, 9 in Efesini, 2 in Filippesi, 4 in Colossesi, 2 in 1Tessalonicesi, 2 nella seconda, 3 in 1Timoteo, una in Filemone, 2 in Ebrei, una in Giovanni e 20 in Apocalisse.

IV.1  I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi 

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vangelo giovanneo e gli Atti; nello stesso arco di tempo hanno ricevuto la loro redazione definitiva le lettere paoline e ancora più tardi le lettere pastorali e le cattoliche.(173)

(173)  La forma Χριστός Ἰησοῦς presenta le seguenti 94 occorrenze: 5 in Atti (iii, 20; v, 42; xviii, 5, 28; xxiv, 24); 17 in Romani (i, 1; ii, 16; iii, 24; vi, 3, 11, 23; vii, 1, 2, 11, 39; viii, 1, 2, 11, 39; xv, 5, 16, 17; xvi, 3); 8 in 1Corinzi (i, 1, 2, 4, 30; iv, 15, 17; xv, 31; xvi, 24); 2 in 2Corinzi (i, 1; iv, 5); 7 in Galati (ii, 4, 16; iii, 14, 26, 28; iv, 14; v, 6); 11 in Efesini (i, 1, 1; ii, 6, 7, 10, 13, 20; iii, 1, 6, 11, 21); 12 in Filippesi (i, 1, 1, 6, 8, 26; ii, 5; iii, 3, 8, 14; iv, 7, 19, 21); 3 in Colossesi (i, 1, 4; ii, 6); 2 in 1Tessalonicesi (ii, 14; v, 18); 11 in 1Timoteo (i, 1, 2, 12, 14, 15, 16; ii, 5; iii, 13; iv, 6; v, 21; vi, 13); 11 in 2Timoteo (i, 1, 1, 2, 9, 13; ii, 1, 3, 10; iii, 12, 15; iv, 1); 1 in Tito (i, 4); 3 in Filemone (1, 9, 23). Di contro la forma Ἰησοῦς Χριστός presenta le seguenti 136 occorrenze: 1 in Marco (i, 1, interpolata); 2 in Matteo (i, 1, 18 interpolate); 3 in Giovanni (i, 17, 27; xvii, 3); 11 in Atti (ii, 38; iii, 6; iv, 10; viii, 12; ix, 34; x, 36, 48; xi, 17; xv, 26; xvi, 18; xxviii, 31); 17 in Romani (i, 1, 4, 6, 7, 8; iii, 22; v, 1, 11, 15, 17, 21; vii, 25; xiii, 14; xv, 6, 30; xvi, 20, 24); 10 in 1Corinzi. (i, 2, 3, 7, 8, 9, 10; ii, 2; iii, 11; viii, 6; xv, 57); 7 in 2Corinzi (i, 1, 2, 3, 19; viii, 9; xiii, 5, 13); 8 in Galati (i, 1, 3, 12; ii, 16; iii, 1, 22; vi, 14, 18); 7 in Efesini (i, 2, 3, 5, 17; v, 20; vi, 23, 24); 8 in Filippesi (i, 2, 11, 19; ii, 11, 21; iii, 20; iv, 23, 24); 1 in Colossesi (i, 3); 5 in 1Tessalonicesi (i, 1, 3; v, 9, 23, 28); 9 in 2Tessalonicesi (i, 1, 2, 12; ii, 1, 14, 16; iii, 6, 12, 18); 2 in 1Timoteo (vi, 3, 14); 2 in 2Timoteo (i, 10; ii, 8); 3 in Tito (i, 1; ii, 13; iii, 6); 2 in Filemone (3, 25); 3 in Ebrei (x, 10; xiii, 8, 21 interpolate); 2 in Giacomo (i, 1, 2); 9 in 1Pietro (i, 1, 2, 3, 3, 7, 13; ii, 5; iii, 21; iv, 11; 7 in 2Pietro (i, 1, 8, 11, 14, 16; ii, 20; iii, 18); 6 in 1Giovanni (i, 3; ii, 1; iii, 23; iv, 2; v, 6, 20); 2 in 2Giovanni (i, 3, 7); 6 in Giuda (i, 1, 1, 4, 17, 21, 25); 3 in Apocalisse (i, 1, 2, 5 interpolate). Le due forme danno un totale di 230 occorrenze su un totale di 528 del termine Χριστός.

capitolo ii

LE FONTI CRISTIANE: IL PAOLINISMO TRA GNOSI E CULTI MISTERICI

2.1.  Struttura formale delle lettere A nome di Paolo il tradizionale canone cattolico registra 14 epistole. Ma da tutti gli studiosi è ormai riconosciuta come non paolina la Lettera agli Ebrei. Delle altre 13 lettere solo quattro (Romani, 1 e2Corinzi e Galati) sono generalmente accolte come autentiche. Le rimanenti nove (Efesini, Filippesi, Colossesi, 1 e 2Tessalonicesi, 1 e 2Timoteo, Tito e Filemone) sono per lo più reputate apocrife da una gran parte degli esegeti. Studiosi come Steck, Loman e van Manen sono invece dell’opinione che l’intera epistolografia paolina sia apocrifa e risalga alla prima metà del secondo secolo.(1) L’analisi di van Manen, scrupolosa e filologicamente ineccepibile, si fonda sulle seguenti argomentazioni: le lettere 1) presentano numerose contraddizioni dottrinali le quali o sono riconducibili ad interpolazioni o inducono a pensare che l’autore si sia servito di fonti diverse;(2) 2) mani(1)  J. R. J.Steck, Der Galaterbrief nach seiner Echtheit untersucht nebst kritischen Bemerkungen zu den paulinischen Hauptbriefen, Berlin, Reimer, 1888; A. D. Loman, Quaestiones paulinae, Ch. van Manen, Oud christelijke Letterkunde, Il testo olandese di van Manen è stato ampiamente analizzato e sintetizzato da Th. Whittaker, The Origins of Christianity with an Outline of van Manen Analysis of the Pauline Literatture, London Watts, 1904. (2)  Tra le contraddizioni individuate da van Manen segualo il contrasto tra Rm, ii, 13 (giusto è colui che mette in pratica la Legge) e iii, 20 (nessuno è giustificato davanti a Dio con le opere della Legge, perché per mezzo della Legge si ha soltano la conoscenza del peccato διὰ γὰρ νόμου ἐπίγνωσις ἁμαρτίας). Più grave la contraddizione tra iii, 24, per il quale la redenzione è una grazia o un dono gratuito di Cristo e viii, 20, ove invece essa

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1200  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

festano incongruenze di vario genere;(3) 3) fanno riferimento ad una Gerusalemme devastata e sottomessa;(4) 4) sono state scritte in un ambiente culturale gnostico, dominato dalla filosofia alessandrina e da una gnosi siriano-orientale;(5) 5) sono piene di indizi che presuppongono una notevole distanza dai tempi apostolici;(6) 6) accennano spesso ad una maturazione ideologica e dottrinale del cristianesimo e ad una proliferazione delle chiese cristiane che non possono essere databili al primo secolo; 7) risentono di duplici tradizioni.(7) Van Manen ne trae la conclusione che la resembra essere contrastata da un potere che si oppone a Dio. La lode ai Corinzi che con la fede in Cristo si sono arricchiti di ogni conoscenza (i, 4-9) non si accorda con le colpe che successivamente vengono ad essi attribuite. Allorché Paolo parla delle divisioni interne alla comunità corinzia, non è chiaro se le fazioni cui fa riferimento sono due (Paolo e Apollo, 1Cor, iii, 4-5), tre (Paolo, Apollo e Cefa, iii, 22-23) o quattro (Paolo, Apollo, Cefa e Cristo, i, 12). Le funzioni di Paolo sono molteplici, perché egli è nel contempo un ordinario mediatore per la comunità (1Cor., xi, 1), ha un potere ed un’autorità ecclesiastica precattolica («così dispongo in tutte le chiese» καὶ οὕτως ἐν ταῖς ἐκκλησίαις πάσαις διατάσσομαι, vii, 17) ed è dotato di spirito divino («credo di avere anch’io lo Spirito di Dio» δοκῶ δὲ κἀγὼ πνεῦμα θεοῦ ἔχειν, vii, 40). In 1Cor, v, 13, si attribuisce a Dio il giudizio sul mondo, in vi, 2, invece, esso è prerogativa dei santi. (3)  A titolo d’esempio van Manen osserva che in 2Cor, i, 15 si dice che Paolo visita Corinto per la seconda volta, ma in xii, 14 e in xiii, 1, si dice che la visita per la terza volta. La 2Corinzi sarebbe stata scritta da Paolo e da Timoteo, ma nel testo si alternano l’uso della prima persona plurale e quello della prima persona singolare e in i, 19, si parla di Timoteo come persona terza. La speranza di andare a Corinto sembra essere un luogo comune condiviso da entrambe le lettere ai Corinzi (cfr. 1Cor, iv, 18-21; xi, 34; xvi, 2-7 e 2Cor, i, 15-16, 23; ii, 1, 3; xi, 14; xii, 20; xiii, 1, 2, 10). Il contenuto della lettera menzionata nella 2Corinzi (ii, 3-11) non sembra corrispondere a quello della 1Corinzi. (4) In Gal, iv, 25, la Gerusalemme attuale, che è schiava con i suoi figli (δὲ τῇ νῦν ἰερουσαλήμ, δουλεύει γὰρ μετὰ τῶν τέκνων αὐτῆς), è rappresentata dalla schiava Hagar. Le altre citazioni di Gerusalemme (Rm, xv, 25-26; 1Cor, xvi, 3) fanno costantemente riferimento ad una grave situazione di povertà. (5)  Van Manen segnala più volte le matrici gnostiche del paolinismo. Esse sono – a suo avviso – chiaramente riconoscibili nella concezione teologica del Dio, superiore al demiugo, Dio uno, invisibile ed eterno, nella esaltazione della conoscenza e della sapienza, nei dualismi di carne e spirito (σάρξ e πνεῦμα), di luce e tenebre (φῶς e σκότος), giustizia e iniquità (δικαιοσύνη e ἀνομία), Cristo e Beliar (Χριστός e Βελιάρ). (6)  Van Manen segnala numerosi indizi che provano che le lettere paoline risalgono ad un tempo storico ben distante da quello apostolico. A mio avviso l’elemento decisivo che avvalora tale ipotesi è dato dalla presenza in esse, tanto in chiave critica quanto nell’ottica di un’assimilazione, di uno gnosticismo troppo maturo e di chiara marca valentiniana, che non può essere ricondotto al primo secolo. (7)  Così in 1Cor, xi, 7-9, prevale la tradizione giudaica che si attesta sulla superiorità

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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dazione delle epistole, quale a noi è pervenuta, fu preceduta da una versione più corta che rappresentava il testo originale ormai perduto. L’esistenza di tale versione più corta sarebbe provata dalle testimonianze che ci hanno lasciato Tertulliano e Ireneo,(8) i quali accusavano Marcione di aver mutilato le epistole paoline. Evidentemente essi possedevano una versione precanonica che non era conforme all’attuale. C’è però una contraddizione in questa ipotesi, perché da un lato si dice che la versione più corta era quella originariamente posseduta da Basilide e da Marcione, dall’altro si afferma che quella più lunga a noi pervenuta è intrisa di gnosticismo e di marcionismo. Si può uscire dall’impasse se supponiamo che il redattore finale (versione lunga) sia intervenuto sui testi portati a Roma da Marcione (versione corta) e che lo abbia fatto non solo con il deliberato proposito di edulcorare la gnosi marcionita e l’originario, più forte, antisemitismo delle lettere, ma anche per introdurre più manifesti legami con i vangeli e con gli Atti,(9) in modo da unificare le due anime del cristianesimo, quello apostolico del Cristo Messia e quello paolino, più dottrinale, più ideologico e d’impronta gnostica, del Cristo «figlio di Dio», ipostasi di tipo gnostico. Solo dopo questa operazione culturale il paolinismo cominciò ad essere accolto e legittimato all’interno del cristianesimo, fino a costituire il caposaldo delle dottrine teologiche del cattolicesimo. Sotto l’aspetto formale e strutturale le lettere presentano un saluto iniziadell’uomo sulla donna; di contro in xi, 10-12, l’autore sembra schierarsi per la parità dei sessi. In xi, 23-25, l’eucaristia è presentata come commemorazione della morte del Signore; di contro in xi, 27-29, è intesa come partecipazione al corpo e al sangue del Cristo. In merito ai doni spirituali in 1Cor, xiv, 34-35, alle donne è negato il carisma della profezia, ragion per cui ad esse è fatto divieto di parlare in assemblea; ma in xi, 5, le si riconosce il diritto di pregare e di profetizzare. (8)  Tertulliano, Adversus Marcionem, iii, 5, ove Paolo, edito e mutilato da Marcione, è ricordato come haereticorum apostolus sulla base di spunti tratti dalla 1Corinzi, da Galati ed Efesini. Ireneo, Adv. haer., i, 27, 2, sostiene che Marcione mutilò il vangelo di Luca, escludendo la genealogia del Cristo e i passi in cui Gesù riconosce come suo Padre il creatore di questo mondo; inoltre ritiene che dalle epistole paoline Marcione abbia tagliato tutti i passi in cui si afferma che Dio ha creato il mondo e tutti i luoghi in cui sono citati i testi profetici che preannunciano la parousía. Anche per Clemente Alessandrino Paolo è uno gnostico, la cui dottrina è però reputata di origine ebraica (Stromata, iv, 21, 134) con conseguente deprezzamento della filosofia greca, degradata a sapienza mondana (vii, 8, 62 e 68). (9)  A titolo d’esempio si vedano le inserzioni di matrice evangelica in 1Cor, xi, 23-28 e xv, 3-11. Th. Whittaker, The Origins of Christianity, cit., pp. 186-187, registra con accuratezza le derivazioni della 1Corinzi dal vangelo lucano (1Cor, vii, 10 da Lc, xvi, 18; 1Cor, ix, 4 da Lc, x, 7; 1Cor, ix, 14 da Lc, ix, 3; 1Cor, x, 27 da Lc, x, 8; 1Cor, xiii, 2 da Lc, xvii, 6).

1202  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

le, generalmente diretto a intere comunità e in qualche caso a singoli confratelli. Al prologo seguono di prammatica i ringraziamenti alla comunità per la tenuta della fede; infine le lettere si chiudono con un congedo quasi sempre accompagnato da ulteriori saluti a singoli confratelli da parte di fedeli o di intere comunità. Tanto l’incipit quanto l’explicit delle lettere paoline sono sempre privi di indicazioni relative al luogo di emissione. I mittenti sono Paolo (Romani, Galati, Efesini, 1 e 2Timoteo, Tito), Paolo e Sostene (1Corinzi), Paolo e Timoteo (2Corinzi, Filippesi, Colossesi, Filemone), Paolo, Silvano e Timoteo (1 e 2 Tessalonicesi). Nel contesto dell’intestazione sono presenti elementi dottrinali (resurrezione dei morti, liberazione dal peccato, «riscatto da questo secolo malvagio») in Romani, Galati e Tito. L’intestazione delle due Tessalonicesi è piuttosto striminzita, ma nella prima delle due è assai prolisso il ringraziamento, come d’altronde accade in Romani. Nella 2Corinzi e in Galati l’esordio sostituisce i ringraziamenti. In Efesini l’esordio è preceduto da un inno dossologico secondo un uso tipico della gnosi. In generale i ringraziamenti, che accompagnano le intestazioni, sono più o meno consistenti e di maniera (Romani, 1Corinzi, Efesini, Filippesi, Colossesi, 1 e 2Tessalonicesi, 1 e 2Timoteo, Filemone) fino ad essere del tutto assenti nella 2Corinzi, in Galati e in Tito. In uno schematismo standardizzato rientrano anche i congedi contenenti per lo più saluti a confratelli che si presumono residenti nella città dei destinatari e da confratelli che verosimilmente risiedono nella città di emissione. Talvolta ai congedi si accompagnano raccomandazioni varie (Romani raccomanda Febe, diaconessa di Cencre; 1Corinzi raccomanda Timoteo e le famiglie di Stefana, di Fortunato e di Acàico; Colossesi raccomanda Archippo). La più generosa è la lettera ai Romani, che manda saluti a 26 fratelli (Prisca, Aquila, Epèneto, Maria, Andronìco e Giunia, «miei connazionali e compagni di prigionia, che si sono segnalati tra gli apostoli e sono in Cristo prima di me», Ampliato, Urbano, Stachi, Apelle, Aristòbulo, Erodione, Narciso, Trifena e Trifosa, Pèrside, Rufo, Asìncrito, Flegònte, Erme, Pàtroba, Erma, Filòlogo e Giulia, Nèreo e sua sorella Olimpias). La stessa lettera manda saluti da parte di Timoteo, Lucio, Giàsone, Sosìpatro, Gaio, Erasto e Quarto. Nella 1Corinzi i saluti vengono dalle chiese dell’Asia, da Aquila e da Prisca. La Lettera ai Colossesi si chiude con l’invio di Tichico e Onesimo, con i saluti da parte di Aristarco, «mio compagno di prigionia», di Marco, cugino di Barnaba («questi sono gli unici collaboratori […] che provengono dal popolo ebraico»), di Epafra, Luca, «il caro medico», Dema, cui si aggiungono

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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raccomandazioni ad Archippo. La 2Timoteo manda saluti a Prisca, Aquila e alla famiglia di Onesìforo e saluti da parte di Eubùlo, Pudente, Lino, Claudia. La lettera agli Efesini si chiude con l’invio di Tichico, in compagnia di Onèsimo, su cui insiste anche la lettera ai Colossesi, che tra l’altro contiene saluti da parte degli stessi fratelli citati nel congedo della lettera a Filemone. Se le lettere fossero autentiche, i fedeli citati nei congedi dovrebbero essere seguaci della prima ora. Purtroppo non è così perché, come vedremo fra breve, i congedi sono frutto di interpolazioni tardive. Ne è una prova la Filippesi che si chiude con i saluti «dalla casa di Cesare», lasciando intendere che la fede cristiana sia attecchita anche nella famiglia imperiale. Se la ‘casa di Cesare’ è interpretata come domus ecclesiae, non è chiaramente riconducibile al primo secolo e, se si riferisce alla famiglia imperiale, presuppone la maturazione della fede cristiana negli strati sociali altolocati; ciò che verosimilmente accadde nel secondo secolo. Ne è una conferma anche la citazione di Prisca, Aquila, Epèneto, Maria, Andronìco e Giunia, che, pur annoverati tra gli apostoli che erano in Cristo prima di Paolo, non sono ricordati nei sinottici. Resta il fatto che l’assenza di un luogo di emissione non consente di localizzare con sufficiente certezza i fratelli che si scambiano i saluti, sicché tutto resta in un’aria rarefatta, in cui sfuma qualsiasi contorno storico.(10) Escluse le lettere pastorali (1 e 2Timoteo, Tito), le altre dieci lettere, come sappiamo da Epifanio,(11) comparvero a Roma, portate da Marcione dopo la morte di Igino, tra il 140 e il 150. La loro redazione originaria non doveva essere quella che ci è pervenuta, perché Epifanio ci fa sapere che esse erano «mutilate di alcuni paragrafi» e «modificate in altri» (τινὰ αὐτῶν περιτέμνων, τινὰ δὲ ἀλλοιώςας κεφάλαια).(12) Il corpus marcionita era a parere del vescovo di Salamina, zeppo di falsificazioni, di mutilazioni e di omissioni. Poiché l’apostolikón non era noto prima di Marcione, è evidente che le mutilazioni e le omissioni di cui parla Epifanio sono tali rispetto al testo in suo possesso, il quale conteneva aggiunte, rettifiche e alterazioni rispetto a quello originario dell’eresiarca. Il che equivale a dire che la versione redazionale a noi (10)  Hanno sollevato la questione della inautenticità delle lettere paoline A. Pierson e S. A. Naber, Verisimilia lacerma conditionem Novi Testamenti, Amstelodami, Apud Van Kempen, mdccclxxxvi. Th. Whittaker, The Origins of Christianity, with an Outline of van Manen’s Analysis of the Pauline Literature, London, Watts, 1904, ci ha fatto conoscere le argomentazioni di van Manen circa l’inautenticità dell’epistolario paolino; G. A. van der Berg van Eysinga, Radical views about the New Testament, cit., pp. 59-60. (11)  Epifanio di Salamina, Panarion, xlii, 1, 7) (12)  Ivi, xlii, 11, 3, 7, 9; 13, 8.

1204  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

pervenuta è stata oggetto di non poche manipolazioni. Quali possono essere state le ragioni di tali interventi? Possiamo sospettarne qualcuna. Una potrebbe essere quella di depurarle dal marcionismo; un’altra era forse dettata dall’istanza di renderle il più possibile compatte proprio a causa dei numerosi interventi subiti. Fermiamoci sulla prima delle due ragioni. Se l’eresiarca le aveva fatte proprie è perché Paolo aveva propensioni gnostiche e nella versione originaria dell’apostolikón doveva essere probabilmente più consistente la presenza della gnosi. La loro depurazione doveva quindi consistere nella loro demarcionizzazione ovvero nella loro degnosticizzazione. Ma si trattò di una operazione che non poté essere condotta fino in fondo, pena la grave compromissione del senso del testo. Sicché in esso sono rimasti taluni cascami della gnosi, sebbene siano stati resi più innocui. Ed è proprio ciò che si riscontra nella definitiva redazione a noi pervenuta, la quale, pur nella diversità di stili, di lessico e di contenuto, mostra la compattezza di un corpus, dotato di organicità. Secondo van Manen le tracce gnostiche residuate nell’epistolario paolino sono molto più consistenti; egli infatti ritiene che il Dio di Paolo è il Dio uno, invisibile, eterno, trascendente, superiore alle potenze che governano il mondo alle quali appartiene il Dio dell’AT, interpretato, secondo la dottrina gnostica, come demiurgo di grado inferiore. Paolo è, secondo lo studioso olandese, un greco, non un ebreo; non fu il fondatore del cristianesimo, ma dello gnosticismo ed esercitò un’influenza culturale ed intellettuale su Basilide e su Marcione. In ogni caso per effetto delle manipolazioni citate, le lettere ci appaiono nello stesso tempo disconnesse e disorganiche e insieme compatte e in qualche modo uniformate. Ma tutto ciò è il risultato dell’azione di un supervisore finale, che ha provveduto a compattarle il più possibile, ricucendo insieme le loro diverse parti e introducendo formule, sintagmi e stilemi che potessero dare il più possibile l’idea di un’unica paternità. Le tracce di questa azione di compattamento sono nella relativa uniformità delle intestazioni, dei ringraziamenti, delle raccomandazioni, dei saluti conclusivi, delle ostentate dichiarazioni di autenticità; in una parola le tracce sono nella approssimativa uniformità strutturale delle lettere. Tuttavia il più delle volte le lettere paoline risultano prive di una unità vera e propria e recano i segni di manipolazioni, le quali possono essere aggiunte successive più o meno manifeste e operazioni di cucitura di testi di diversa provenienza. Per la loro prevalente politematicità, spesso le lettere mancano di uniformità tanto nel loro insieme quanto all’interno di ciascuna.

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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Per dare maggior risalto alla nostra ipotesi ci sembra opportuno anticiparne almeno le linee essenziali. È tradizione scorgere alle origini del cristianesimo una contrapposizione tra petrismo e paolinismo, cioè tra una corrente giudeo-cristiana ed una aperta all’universo dei gentili. In realtà il giudeo-cristianesimo è più un mito che una realtà storica; innanzi tutto perché le comunità cristiane si svilupparono fuori della Palestina, dopo il 70, negli ambienti della diaspora, in cui il giudaismo fu fortemente contaminato dal pensiero ellenico; e in secondo luogo perché l’immagine di un Pietro, schiacciato sul versante giudaico, non regge alla luce della stessa letteratura neotestamentaria. Ma soprattutto è importante sottolineare che non sempre si è prestata la dovuta attenzione alla reciproca indipendenza dei sinottici e delle epistole paoline, che in realtà formano due corpora, portatori di due distinte ideologie cristiane. Per comodità distinguerò in tutto questo capitolo un cristianesimo ‘apostolico’ (che è quello più popolare, fondato sul kērygma trasmesso attraverso i sinottici) e un cristianesimo ‘paolino’ (di più alto profilo dottrinale, fondato sulle epistole). Per ragioni che cercheremo di esplicitare più avanti entrambi i corpora non sono databili al primo secolo e verosimilmente furono elaborati nel corso della prima metà del secondo secolo.(13)A tale periodo infatti risale la loro ricezione: l’uno ad opera di Papia di Ierapoli e l’altro ad opera di Marcione di Sinope. In linea di massima i due corpora si sviluppano in quasi totale indipendenza o in pressoché totale ignoranza l’uno dell’altro. Quando nello scenario romano, dopo la morte di papa Igino, irrompe tra il 140 e il 150 la figura di Marcione che reca con sé l’apostolikón, il paolinismo è guardato con sospetto per essere associato – e forse non a torto – con la gnosi marcionita. Sicché le due forme di cristianesimo fino al tardo secondo secolo marciano in parallelo come due binari che non si incontrano. Prende piede il cristianesimo apostolico, mentre conduce una vita stentata quello paolino, non solo per le difficoltà di ordine dottrinale, ma anche perché necessitava di un’azione di depurazione dalle originarie matrici gnostiche.(14) La svolta venne (13) H. Detering, Paulusbriefe onhe Paulus, cit., puntando sulle influenze gnostiche, ha validamente arogomentato a favore di una datazione del corpus paolino al secondo secolo d.C. Dubbi sull’autenticità dell’epistolario erano già stati espressi da A. Drews, The Christ Myth, cit., pp. 165-213; Id., The Witnesses to the Historicity of Jesus, London, Watts, 1912, p. 117. (14)  Contrariamente alla nostra ipotesi R. Price, Does the Christ Myth Theory Require an Early Date for the Pauline epistles?, In Th. L. Thompson - Th. S. Verenna, Is this not

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con la riscoperta del messaggio paolino da parte di Policarpo e di Clemente Alessandrino, intorno al 170-180. Si potrebbe in proposito parlare di «rinascita del paolinismo». Policarpo, l’autore di Clemente Romano, Clemente Alessandrino e l’autore o gli autori della epistolografia di Ignazio conducono un’operazione complessa che mira alla fusione delle due forme di cristianesimo, non senza avere prima operato una sorta di epurazione del corpus, attraverso un’azione di degnosticizzazione o quanto meno di smussamento delle punte più estreme dello gnosticismo marcionita presenti nei testi paolini. L’operazione fu resa possibile dal fatto che entrambe le correnti cristiane ruotavano attorno alla figura centrale di Cristo. La differenza tra l’una e l’altra stava nella diversa prospettiva della rivelazione. Nei sinottici è Cristo che rivela il kērygma; gli apostoli sono ‘chiamati’ e ‘scelti’ da Cristo, che è insieme ‘uomo’ e ‘figlio di Dio’. Anche Paolo si dichiara ‘apostolo’ per mezzo di Cristo, ma la sua chiamata e la sua scelta vengono direttamente da Dio; egli è colui che ha rivelato la potenza e la parola di Dio. Non è improbabile che questa concezione affondi le sue radici nell’essenismo e nell’enochismo, ma è certo imparentata con la gnosi, che, come vedremo, nell’epistolario presenta più forti tracce che nei sinottici. A ciò si aggiunga che il paolinismo ha una forza più stringente e più coattiva; l’azione di Paolo è diretta («Così dispongo per tutte le chiese») e subordinatrice (esige obbedienza, subordinazione alle autorità); è tutto sommato più funzionale alla istituzionalizzazione della chiesa. Non a caso le lettere spesso assumono toni ecclesiali e puntano alla concreta organizzazione della gerarchia con minuziose prescrizioni per i vescovi, per i presbiteri, per i diaconi e per gli stessi fedeli. Né sorprende che dalla epistolografia emerga una morale rigorosa e imperativa sia sul versante negativo della liberazione dalla sessualità o del suo contenimento, sia su quello positivo dell’amore fraterno universale. A fronte dei sinottici che esaltano la figura del Cristo taumaturgico e del servo sofferente, Paolo è il teologo che universalizza la sofferenza sulla croce, la morte e la resurrezione del Cristo e le rende intrinseche al percorso salvifico delle comunità cristiane. Nell’apprestarmi a condurre l’analisi dell’epistolografia paolina, mi preme segnalare che mi muoverò in tre ben definite direzioni: quelle cioè di sviscerare 1) il suo legame con il giudaismo; 2) il rapporto di assimilazione e the Carpenter?The Question of the Historicity of the Figure of Jesus, Sheffield, Equinox, 2012, p. 116, ritiene che il mito di Cristo sviluppato nelle lettere paoline sia storicamente anteriore a quello attestato nei vangeli.

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conflitto con la gnosi; e 3) la difficile convivenza di Paolo con il cristianesimo ‘apostolico’. Naturalmente in ciascuno dei tre versanti sarà dedicata particolare attenzione alle eventuali affinità/divergenze tra una lettera e l’altra. 2.2. La Lettera ai Romani tra giudaismo/antigiudaismo e gnosi/antignosi Qualche volta, come è il caso della Lettera ai Romani, le lettere paoline hanno più la forma del trattato che dell’epistola e qualche altra volta assumono toni omiletici o esortativi. Talvolta la materia ha carattere ecclesiale e pastorale, ma in quasi tutte non sono assenti le problematiche etiche. Nello specifico Romani si configura come un trattato teologico nei capitoli i, 16-xi, cui forse una mano successiva ha aggiunto i capitoli xii-xv che, in tono minore e con qualche slittamento verso l’omelia e la parenesi, trattano di morale. Non è improbabile che tale seconda parte costituisse in origine un documento autonomo che si chiudeva con un proprio saluto augurale (Rm, xv, 13). L’epilogo del capitolo xv è sospetto non solo perché si chiude con un ulteriore augurio finale (Rm, xv, 14-33), ma anche perché sembra contenere elementi posticci, quali possono essere il progetto di un viaggio in Spagna (che fa pensare all’ultima fase della predicazione paolina) e la colletta per i poveri di Gerusalemme (che invece si riferisce alla prima fase dell’apostolato). Infine l’autore fonda la propria autorevolezza sul presupposto di essere egli testimone di segni e di prodigi («Non oserei dire nessuna di queste cose se non le avesse compiute Cristo per mezzo mio, con la parola e con l’azione, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello spirito», ἐν δυνάμει σημείων καὶ τεράτων, ἐν δυνάμει πνεύματος , Rm, xv, 18). Il capitolo xvi, che è un’ulteriore aggiunta, vuol essere un poscritto contenente un lungo elenco di saluti. Si ritiene che la lettera sia stata scritta a Corinto perché Paolo, mandando i saluti di Gaio, ivi battezzato (Rm, xvi, 23; 1Cor, i, 14), si dice ospite dello stesso. Il trattato teologico sviluppa sostanzialmente le seguenti tesi: 1) il vangelo è potenza divina, garanzia di salvezza per chiunque crede, sia greco o giudeo; 2) il giusto si salva mediante la fede. Paolo è l’apostolo della buona novella della salvezza che si ottiene attraverso la morte e resurrezione del Cristo: «Annuncio il vangelo del figlio di Dio» e poco più oltre: «Non mi vergogno del vangelo: è la potenza di Dio per la salvezza» (Rm, i, 9, 16). Talvolta (Rm,

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ii, 16) parla addirittura di «mio vangelo» (τὸ εὐαγγέλιόν μου). Va subito detto che l’autore di Paolo non fa riferimento a un vangelo scritto, ma ad un kērygma, alla rivelazione di una verità, alla predicazione di una fede. È singolare che egli tragga l’idea del ‘vangelo’ dal Salmo cix e da Isaia, liii, 2 («Chi ha creduto a ciò che abbiamo predicato?»), il quale pone in stretta relazione la fede (il credere) con l’annuncio. Tutto ciò implica che il kērygma di Paolo è del tutto autonomo dai sinottici; il ‘suo’ vangelo è polemicamente ‘altro’, diverso e distinto dal messaggio dei sinottici. Pur attraverso le depurazioni subite, l’epistolario paolino è uno dei pilastri fondativi del cristianesimo. Senza il paolinismo sarebbe difficile pensare ad una chiesa istituzionalizzata. Ha certamente ragione van Manen nel sottolineare che la teologia paolina trae solo in parte ispirazione dalla tradizione giudaica. Forse le lettere più compatibili con il giudaismo sono le più antiche e quelle più accentuatamente antigiudaiche sono il frutto di ambienti in cui era venuta meno la fiducia nelle antiche tradizioni. Paolo costruisce la propria missione e il mito del Cristo-salvezza non sulla scorta di una vicenda storica, ma sul fondamento del Vecchio Testamento. La sua interpretazione della storia, il suo rapporto con il divino, declinabile in termini di alleanza e di promessa, la sua idea della peccaminosità dell’uomo, le sue attese apocalittiche, la sua convinzione che la storia si chiude con la fine dei tempi e con il definitivo e reciproco adempimento di un patto con la divinità sono tutte all’interno delle categorie mentali e religiose del mondo giudaico. Ma l’atteggiamento paolino nei confronti della Torah è contraddittorio perché è insieme critico e giustificativo, incerto, altalenante e flessuoso: per un verso sembra mettersi fuori della tradizione legalistica, per l’altro sembra volerla recuperare all’interno di un progetto di più ampio respiro, in cui giudaismo ed ellenismo si compongono lasciando però tracce delle proprie origini. Ciò che è indubbio è che Paolo universalizza il dramma di Israele: esso non è più il dramma di un popolo, ma dell’intera umanità. Questa nuova dimensione ha inevitabili riverberi sui concetti di alleanza, di giustizia, di salvezza e sull’idea stessa di popolo eletto. Il rapporto tra Paolo e il giudaismo è complesso. In lui vi sono indiscutibili residui di giudaismo, ma vi è anche una drastica presa di distanza da esso. Giudaica è l’ossessiva insistenza sul peccato, la visione cupa e pessimistica del mondo e della condizione umana: «tutti hanno peccato», «tutto il mondo è colpevole davanti a Dio» (Rm, iii, 23, 19). Il male e il peccato dominano nel mondo perché «Dio ha consegnato gli uomini all’impurità» (Rm, i, 24).

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Paolo condivide con la cultura ebraica l’ossessiva idea della peccaminosità della vita sessuale, la quale è reputata veicolo di perversioni omosessuali (Rm, i, 25-27). Ma il male e il peccato si annidano anche nell’invidia, nell’avarizia, nella cattiveria, nella lite, nella malizia, nella diffamazione, nell’arroganza e nella presunzione (Rm, i, 29-30). Per un verso la corruzione è radicata nell’umanità, in quanto consegnata da Dio al peccato: l’uomo è «venduto schiavo al peccato»; «il peccato abita in me». Per un altro verso Paolo allude alla corruzione dei tempi presenti, alle «sofferenze del tempo presente» (Rm, vii, 14; viii, 18). La radice giudaica di Paolo è in questa ossessiva idea che il corpo è il veicolo del peccato, della perdizione e della morte: «nel mio intimo acconsento alla Legge di Dio, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che combatte la Legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che si trova nelle mie membra». Questo dualismo radicale, incomponibile e insanabile, è di matrice giudaica e non ellenistica. Pur essendo presenti in Paolo motivi di derivazione o di reminiscenza platonica, tuttavia non si tratta del conflitto platonico tra la ragione e l’istinto, che implica una lotta interiore per la conquista della vita etica; in Paolo – ed è questo il residuo di giudaismo – la conquista della vita etica non è una conquista del soggetto agente, non dell’individuo, ma dipende dal volere di Dio, come dal volere di Dio è dipeso l’essere consegnato come schiavo al peccato. Nel platonico o nello stoico la conquista soggettiva comporta un impegno etico, un dovere; non c’è un disegno divino in cui siano inquadrabili le vicende individuali e quelle collettive; in Paolo al contrario tutto è interpretabile alla luce di un disegno divino. La lettura del peccato o della peccaminosità nell’ottica del disegno divino fa sì che qualunque cedimento o caduta nel peccato getti nella disperazione: «Sono un uomo disperato. Chi mi libererà da questo corpo» (Rm, vii, 24). La concezione paolina della resurrezione presuppone una catastrofe, non solo a livello del singolo soggetto, ma anche a livello dell’intera comunità; anzi presuppone una catastrofe della stessa creazione; ad essa si collega lo spirito apocalittico: L’impaziente attesa della creazione aspetta con ansia la rivelazione dei figli di Dio. Infatti, la creazione è stata sottomessa alla caducità […] nella speranza che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione […]; tutta la creazione geme e soffre fino al presente le doglie del parto […], gemiamo aspettando con ansia la figliolanza, la redenzione del nostro corpo» (Rm, viii, 19-23).

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Da che cosa dipende quest’ansia di espiazione, di redenzione, di resurrezione? La risposta non può essere che quella di rievocare la peccaminosità del corpo, che è una condizione umana che risale alla caduta di Adamo. L’insistenza sulle sofferenze del presente implica una catastrofe del presente e questa non può essere che la distruzione del tempio e di Gerusalemme. Il progetto di Paolo si capisce solo in relazione alla sconfitta morale e religiosa della distruzione del tempio. Essa porta con sé la crisi dei valori e delle certezze della tradizione giudaica: «Forse inciamparono per cadere in modo definitivo? Non sia mai! Ma a causa della loro caduta, è giunta la salvezza ai gentili» (Rm, xi, 11). Emblematico è il discorso sull’olivo: «Se la radice è santa, lo saranno anche i rami», ma, poiché si tratta di un olivastro, alcuni rami sono stati tagliati per innestare l’olivo (Rm, xi, 16-24). Fuor di metafora: il giudaismo è l’olivastro, il paolinismo è l’olivo: l’indurimento di Israele è in atto fino a che «sarà entrata la totalità dei Gentili e così tutto Israele sarà salvato» (Rm, xi, 25). Non che questo processo non fosse già in atto da tempo. I rotoli del Mar Morto ci fanno conoscere una setta giudaica, quella essena, in cui la crisi dei valori tradizionali comincia a prendere corpo fin dai primi contatti con la civiltà romana. Ma Paolo scrive quando il processo è ormai giunto al suo compimento. È da qui che inizia l’opera di revisione e di critica del giudaismo. Abituato come ebreo a leggere ogni avvenimento in funzione del disegno-economia di Dio (Rm, viii, 28), egli stravolge l’impianto della vecchia alleanza. L’osservanza della Legge non è bastata; il vecchio patto con Dio non ha salvato Israele dalla profanazione del tempio e infine dalla sua distruzione. I residui di giudaismo di Paolo sono nella conservazione di questo rapporto stretto tra il peccato e la punizione e l’ira divine. Finché l’uomo resta intrappolato nelle maglie della peccaminosità che Adamo ha introdotto nel mondo, non c’è scampo: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e mediante il peccato la morte, così la morte ha raggiunto tutti gli uomini per il fatto che tutti hanno peccato». Ma poi precisa: «Il peccato non può essere imputato se non quando c’è la Legge» (Rm, v, 12, 13). Tuttavia la morte regnò anche prima di Mosè e della Legge. Se il peccato di Adamo ha avuto come conseguenza la morte, la croce è simbolo della resurrezione: «Se per la caduta di uno solo morirono molti, quanto più nella grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, sovrabbondò la grazia di Dio»; «Come per la caduta di uno solo si è riversata la condanna su tutti gli uomini, così anche per la giustizia di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la giustizia

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che dà la vita» (Rm, v, 15, 18). L’equivoco della vecchia alleanza sta nel fatto che l’uomo resta consegnato al peccato e alla morte. In tale ottica non c’è via di scampo. L’osservanza della Legge non può mai essere esaustiva, perché persino il giusto non può ottemperare in pieno alla Legge. Di conseguenza il peccato, la morte e la distruzione sono inevitabili. Paolo si convince che la fine di Gerusalemme era già segnata nelle maglie del disegno divino. Ma allora qual era il senso dell’elezione? Com’è possibile che la distruzione più umiliante si abbatta sul popolo eletto? Evidentemente occorre ripensare il concetto di elezione. Nella tradizione giudaica esso ha un peccato d’origine, che induce nel popolo giudaico sentimenti di orgoglio, di arroganza e di superbia rispetto agli altri popoli per essere i prediletti da Dio: «I miei fratelli israeliti – dice l’apostolo – hanno nel cuore la figliolanza, l’alleanza, il culto, la legislazione, le promesse». Ma proprio questa idea dell’elezione va sovvertita: il popolo eletto non è tale perché destinato ad esercitare un dominio temporale nel mondo. Tutti hanno davanti agli occhi l’invincibile potenza dei Romani. A lungo essi sono stati i kittim, i nemici storici da combattere, ma contro la loro potenza ogni sforzo è stato vano. L’elezione dunque deve essere intesa nel senso che il popolo ebraico è stato scelto perché dalla discendenza abramitico-isacchiana fosse annunciato un messaggio di salvezza (il vangelo) diretto tanto al giudeo quanto al greco. L’alleanza con Dio deve stipularsi ad un livello più alto. Si tratta per Paolo di un passaggio sofferto. Ce lo dichiara egli stesso: «Ho nel cuore una grande tristezza. Io stesso vorrei essere separato da Cristo a favore dei miei fratelli, per i miei consanguinei. Essi sono israeliti: hanno la figliolanza, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, hanno i patriarchi: da loro proviene il Cristo secondo la carne» (Rm, ix, 2-5). Il capitolo ix contiene le critiche più violente contro il giudaismo, condotte all’interno della visione giudaica della storia e dell’antico Testamento. La promessa di una discendenza abramitica o isacchiana è fondata sull’elezione, rientra nel ‘disegno’ di Dio, ma questo non dipende dalle opere, ma «dalla volontà di colui che chiama». Il provvidenzialismo giudaico è radicale: la misericordia e la pietà sono interamente nelle mani di Dio, non dipendono «dalla volontà né da colui che si affatica, ma da Dio», dalla grazia divina come dono gratuito; è riconfermata la radicalità del dualismo e del predestinazionismo propri del giudaismo, ma sono sottoposti al vaglio della critica il formalismo e il rigorismo della Legge. La forma del vaso dipende esclusivamente dal vasaio:

1212  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Può il vaso dire al vasaio: ‘perché mi hai fatto così? (Rm, ix, 20); Dio, volendo manifestare l’ira e far conoscere la propria potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso dei vasi di misericordia, già predisposti per la gloria […] ha chiamato anche noi non solo dai Giudei, ma anche dai Gentili (Rm, x, 12); Non c’è distinzione fra giudeo e greco, poiché il Signore è di tutti.

L’universalismo è di matrice ellenistica. Paolo tenta di giustificarlo in termini scritturistici (Rm, xiv, 8-12), ma le citazioni desunte dai Salmi, da Isaia e dal Deuteronomio, non implicano una reale parità tra giudei e gentili. È insomma la fine del rigorismo legalistico delle opere: i pagani, che non hanno conosciuto la Legge, ottengono la giustizia per la fede, gli israeliti, che perseguono la Legge in vista della giustizia, sono incappati nella «pietra d’inciampo» o «pietra di scandalo» (Rm, ix, 32-33). Ci sono forse incertezze in Paolo circa il superamento della Legge. Così per esempio in Romami dice: Coloro che hanno peccato sotto la Legge, verranno condannati mediante la Legge. Infatti, davanti a Dio saranno considerati giusti non coloro che ascoltano la Legge, ma coloro che la mettono in pratica. Tutte le volte che i Gentili, che non hanno la Legge, seguendo la natura mettono in pratica le cose della Legge, pur non avendo la Legge, sono Legge a se stessi (Rm, ii, 12-16).

Ma ancora una volta il presupposto è la catastrofe di Gerusalemme. Non è possibile, pur nel contatto con culture ellenistiche, un così profondo senso della crisi dei valori tradizionali della Torah, senza che si sia verificato qualcosa di grave come la distruzione della città santa. Al tempio materiale si contrappone ora un tempio spirituale: il rapporto con Dio non è più mediato nel tempio materiale di Gerusalemme; il sacrificio dell’agnello di Dio non è più riservato ad un luogo privilegiato come il Sancta Sanctorum, né ad una personalità prestigiosa e autorevole come il sommo sacerdote; al contrario il tempio di Dio sono i credenti riuniti nella armonica unità del corpo di Cristo e l’agnello di Dio è il Figlio di Dio che sacrifica se stesso per la salvezza dell’umanità. Il sangue e la carne del Cristo diventano il nostro sangue e la nostra carne; il Dio che si sacrifica, che muore e risorge, introduce nel mondo la propria natura divina ed eterna. Solo così si può sconfiggere la morte:

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l’abolizione della morte è la resurrezione. Per quanto sia critico nei confronti del giudaismo, Paolo tenta di rileggere la condizione umana all’interno delle Scritture: la critica al giudaismo non è mai per lui l’abbandono della Scrittura. Nelle sue lettere non mancano le annotazioni scritturistiche anche se le nuove concezioni che egli propone possono apparire persino sacrileghe ad un giudeo. Paolo crede di trovare proprio nelle scritture l’indicazione per la sua nuova lettura allegorica, tale da giustificare la Nuova Alleanza con Dio. Se il tempio di Gerusalemme fosse stato ancora saldamente in piedi, Paolo non avrebbe osato contrapporre ad esso il corpo della collettività dei credenti: «Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (ὑμεῖς δὲ χριστοῦ, χριστὸς δὲ θεοῦ, 1Cor, iii, 23); «Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio lo distruggerà; infatti, il tempio di Dio, che siete voi, è santo» (1Cor, iii, 16-17). Qui l’allusione è manifesta e inequivocabile: il tempio della vecchia alleanza è stato distrutto, perché la vecchia alleanza era una alleanza nella carne e non nello spirito; di contro il tempio, che siete voi, è eterno, perché è costruito nello spirito. Paolo non è solo colui che elabora un così complesso impianto dottrinale, ma è anche colui che assicura al messaggio evangelico la continuità nel tempo attraverso l’esaltazione della passione di Cristo e il desiderio di imitarla. Il vero cristiano è un imitatore di Cristo. Questa idea avrà una enorme fortuna nella dottrina cristiana e ispirerà gli spiriti più autenticamente religiosi dell’età medievale e dell’età moderna. Il cristiano è colui che è incatenato in Cristo, che è prigioniero per Cristo e che attende con stoica fermezza il martirio e il sacrificio. Egli è agnus dei come lo è stato Cristo. Paolo compie un’audace trasposizione dell’antico sacrificio giudaico nel sacrificio cristiano, passando attraverso i culti ellenistici e misterici del figlio di Dio che soffre e risorge. La salvezza è tutta in questo annuncio della resurrezione come abolizione della morte. Ciò significa che egli lega più intrinsecamente l’idea della salvezza al ciclo tragico della passione del Cristo. L’identità del credente con il Cristo è nello stesso tempo garanzia della morte e della resurrezione: il credente muore e risorge in Cristo; è questo il senso più profondo della sconfitta della morte. La comunità cristiana è un corpo mistico; è il corpo mistico di Cristo. L’ultima cena è la sublimazione di tale intrinsecazione dell’umano con il divino; il corpo e il sangue di Cristo diventano il corpo e il sangue dei credenti; il divino si materializza, si mondanizza, si umanizza, ma l’uomo in compenso si divinizza. Qui è la radice del mistero dell’ascetismo e del misticismo connesso al

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tema dell’imitazione. Il Messia della tradizione giudaica è ellenizzato; non è più il salvatore nazionale; ma è il salvatore di tutti i popoli, che, perdute le antiche libertà, sentono compromessi i valori tradizionali e attendono un nuovo messaggio di salvezza. Il segreto della grande espansione del cristianesimo sta nel fatto che esso fa vibrare le corde più profonde della sensibilità ellenistica in spasmodica ricerca di una libertà interiore dopo che è andata smarrita quella politica. La vecchia alleanza giudaica riceve una nuova connotazione: non è più l’assurdo e insostenibile patto di un Dio con un popolo eletto e privilegiato; niente di tutto questo poteva far presa sul mondo ellenistico che aveva ormai acquisito i caratteri del cosmopolitismo e dell’universalità; perciò per la nuova alleanza il patto del Dio-Padre dell’intera umanità è siglato nel sangue dell’universalità dei popoli. Delle vecchie sette essene nel cristianesimo rimangono, pur riadattati, solo gli aspetti più estrinseci della loro organizzazione comunitaria, con una profonda revisione del battesimo, della cena comunitaria, del comunismo dei beni e di una diversa fruizione del patrimonio scritturale dell’AT. Gli autori delle lettere paoline e dei vangeli, che certamente hanno avuto contatti con le comunità alessandrine, conoscono l’allegoresi filoniana e la utilizzano per innestare nel Vecchio Testamento l’annuncio della nuova buona novella. Ma ciò che è soprattutto fuori di ogni dubbio è che l’autore di Paolo attinge all’immenso patrimonio della gnosi, tanto in chiave critica, quanto in termini di vicinanza e di affinità. In ogni caso la sua reazione alla gnosi è singolare; non è mai una vera e propria liberazione da essa, perché la teologia paolina non riesce a scrollarsene del tutto. Le suggestioni gnostiche, anche in presenza di atteggiamenti critici, le restano attaccate addosso. Quanto di gnostico residua in Romani fin dal capitolo primo? Dalla conoscenza visibile di Dio attraverso la creazione del mondo alla contemplazione dei suoi attributi invisibili ed eterni? Del Dio che si rende visibile attraverso l’invisibile intelligenza? E quanto c’è di gnostico o forse di antignostico nella polemica contro i sapienti del mondo che sono diventati stolti o nella concezione dell’ascesa dallo stato di corruzione e di prostituzione alla gloria dell’incorruttibile Dio? Anche il concetto di ‘grazia’, di dono divino, uno dei concetti cardini della teologia paolina,(15) richiama alla mente la scintilla gnostica che (15)  Quanto sia centrale il tema della grazia nella teologia paolina ce lo fa capire la sua straordinaria occorrenza nell’epistolario. Su 155 occorrenze nell’intero NT, ben 108 riguardano le epistole paoline (25 in Romani, 10 in 1Corinizi, 18 in 2Corinzi, 7 in Galati; 12 in Efesini, 3 in Filippesi, 5 in Colossesi, 2 in 1Tessalonicesi, 4 in 2Tessalonicesi, 4 in 1Ti-

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ci libera dalle potenze terrene e ci riconduce alla vita spirituale. Si potrebbero forse scambiare per venature platoniche, ma non si può trascurare il fatto che la stessa gnosi è di matrice platonica. Il cuore della teologia paolina è concentrato nella Lettera ai Romani ed ha probabilmente una funzione antignostica. Se la conoscenza del divino si era scontrata nella gnosi con l’idea del Dio invisibile e inaccessibile, il messaggio paolino parte dal presupposto che Dio non è nascosto e, se è oggetto della conoscenza umana, l’uomo è inescusabile; ci sarà il giorno dell’ira e della rivelazione del giudizio di Dio. Il vero elemento di novità della teologia paolina è dato dall’universalismo, forse mediato dalla gnosi. Il bene e il male non sono prerogativa di giudei o di greci; che sia greco o giudeo, chi opera il male andrà inevitabilmente incontro ad angosce e tribolazioni; chi opera il bene riceverà pace e onori. C’è in questo una punta di antigiudaismo? Niente affatto; c’è solo il superamento dell’asfittica concezione della elezione del popolo giudaico. Le pericopi Rm, ii, 12-15, distinguono i peccatori senza la legge (i gentili) dai peccatori sotto la legge (i giudei). In apparenza esse segnano un superamento del legalismo mosaico, perché pongono sullo stesso piano i greci e i giudei, ma di fatto universalizzano la Legge, poiché affermano che l’opera comandata dalla Legge è scritta nei cuori dei gentili, che, pertanto, agendo in conformità della natura, mettono in pratica la Legge. Ne consegue che non c’è antigiudaismo nella contrapposizione tra circoncisione e incirconcisione nella carne e nel cuore, ma la Legge è in qualche modo declassata a cartina di tornasole del peccato, è strumento per la conoscenza del peccato. La giustizia divina è indipendente dalla Legge e si realizza attraverso la fede in Cristo (Rm, iii, 21-26). L’antigiudaismo di Paolo non è quello radicale della gnosi, che rompe i ponti con l’Antico Testamento e delegittima Yhwh al rango di un demiurgo inferiore. Paolo non va oltre la soglia dell’antigiudaismo. Quando è sul punto di tirare le somme, si ferma: «mediante la fede abroghiamo dunque la Legge? Non sia mai! Al contrario, confermiamo la Legge» (Rm, iii, 31). Ma è una conferma che ha tutto il sapore di una disconferma, perché è ormai chiaro che il Dio di Paolo, Dio dei giudei e dei gentili («È Dio dei giudei soltanto? Non lo è anche dei gentili? Anzi, anche dei gentili» ἢ ἰουδαίων ὁ θεὸς μόνον; οὐχὶ καὶ ἐθνῶν; ναὶ καὶ ἐθνῶν), è sempre meno il Dio poliade della tradizione ebraica e somiglia sempre più al moteo; 5 in 2Timoteo; 4 in Tito; 2 in Filemone, 7 in Ebrei). Per gli altri testi le occorrenze sono 8 in Luca, 4 in Giovanni, 17 in Atti, 2 in Giacomo, 10 in 1Pietro, 2 in 2Pietro, una in 2Giovanni, una in Giuda, 2 in Apocalisse.

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Dio-Uno della gnosi. Quanto più si fa trascendente e invisibile la divinità, tanto più si accentua il dualismo tra lo spirito e la carne, tra la spiritualità della Legge e la materialità della carne, tra la vita in Cristo e la morte nel peccato. E nel passaggio dalla schiavitù della corruzione alla speranza dell’invisibile si gioca il ruolo della doppia predestinazione, perché noi siamo chiamati secondo il disegno divino; siamo stati prescelti al bene o condannati al male; solo i prescelti sono conformi all’immagine di Cristo. Per questo Cristo è il primogenito tra molti fratelli: è il primo dei figli di Dio e noi siamo i suoi fratelli posteriori. Gli uni sono i vasi della collera, gli altri i vasi della misericordia. Ma la promessa della discendenza non discrimina i gentili rispetto ai giudei, perché Dio chiama e salva tanto gli uni quanto gli altri. Cadono gli steccati tra giudeo e greco. Dovremmo dire allora che Dio ha ripudiato il suo popolo? Non sia mai detto! Solo si è aperto un fronte più alto di giustizia: la giustizia fondata sulla Legge è quella mosaica ed è rivolta solo agli ebrei; quella fondata sulla fede è per tutti. Ci sarà un innesto per Israele; non resterà nella infedeltà ed avrà la sua salvezza quando sarà entrata la totalità dei gentili. La nuova alleanza con Israele consisterà in questo: Israele sarà salvo quando Dio distruggerà i suoi peccati. Il popolo di Dio conserverà l’elezione poiché è diletto a causa dei suoi padri. I doni e la chiamata di Dio sono, infatti, irrevocabili. La caduta nel peccato e la redenzione hanno due opposti referenti: Adamo e Cristo. Con Adamo, cioè con un solo uomo, il peccato e la morte sono entrati nel mondo, con Cristo, cioè con un solo uomo, si riversa sull’umanità la giustizia divina. Ma c’è uno squilibrio tra Adamo, che è un uomo, e Cristo, che è il figlio di Dio. Evidentemente l’autore di Romani banalizza il tema gnostico dell’Adamo spirituale che riconduce al mondo celeste sanando l’opera dell’Adamo terrestre, responsabile della peccaminosità umana. Ad ogni modo l’uomo battezzato in Cristo diventa partecipe di Cristo nella vita e nella morte; l’uomo è battezzato nella sua morte e nella sua resurrezione; l’uomo vecchio, l’Adamo carnale, è crocifisso con Cristo; con la morte di Cristo l’uomo muore al peccato e diventa libero; con la resurrezione l’uomo diventa partecipe del Dio vivente. La libertà cristiana non ha connotazioni politiche, ma solo teologico-metafisiche: è la libertà dalla morte e dal peccato; ma è anche libertà dalla tradizione e dalla Legge. La distanza di Paolo dalla gnosi sta nella conservazione della Legge. Anzi il passaggio dalla Legge alla fede cristiana è spiegato nei termini della stessa Legge. Come la Legge permette alle vedove di sposare un altro uomo senza essere accusate di adulterio, così con Cristo ci si libera dalla Legge per legarsi a Cristo (Rm, vii, 1-6).

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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Con i capitoli xii-xv improvvisamente la lettera da dottrinale diventa pastorale e in parte ecclesiale. È possibile che tale sezione sia un’aggiunta posteriore? Il nucleo centrale dovrebbe essere il concetto del corpo di Cristo. Ma esso più che riferito alla sofferta partecipazione al sacrificio di Cristo nella duplice dimensione della morte e della resurrezione, sembra riferirsi più banalmente alla organizzazione ecclesiastica. È la chiesa che si configura come «un solo corpo in Cristo» (ἓν σῶμά ἐσμεν ἐν χριστῶ, Rm, xii, 5) in cui le diverse membra svolgono funzioni diverse ed hanno in dotazione carismi diversi. Il vecchio legalismo giudaico è sopraffatto dal nuovo comandamento dell’amore fraterno e universale, che è ancora una componente ellenistica del messaggio paolino. Ma accanto all’amore si affacciano i precetti dell’obbedienza, della sottomissione, della perseveranza nella tribolazione e nella vocazione alla persecuzione. La sottomissione non è solo interna alla Chiesa, ma è tale anche rispetto alle autorità civili. Il cristianesimo paolino non è rivoluzionario, non è una forma di resistentismo non solo contro le autorità romane, ma neppure contro le autorità civili in generale. L’autorità trae la sua origine da Dio, è al servizio di Dio, porta la spada per chi compie il male; per ciò stesso essa è incontestabile; opporsi ad essa equivale ad opporsi a Dio. La pericope «date a ciascuno ciò che gli è dovuto; la tassa a chi è dovuta la tassa», sembra presupporre i sinottici e, come tale, è un unicum in Romani; non ci sono altri passi imparentati con la tradizione evangelica. Ciò forse autorizza il sospetto che si tratti di interpolazione tardiva. Altri motivi gnostici che riaffiorano in Romani sono quelli del dualismo tra la veglia e il sonno, la notte e il giorno, la luce e le tenebre, accompagnati da una prospettiva appena accennata dell’ora dell’apocalisse e della fine dei tempi, che, se non è imminente, è tuttavia «più vicina» (νῦν γὰρ ἐγγύτερον ἡμῶν ἡ σωτηρία, Rm, xiii, 11-13). Talune esortazioni ad evitare le orge e l’ubriachezza, la lussuria e la dissolutezza, le discordie e la gelosia lasciano intravvedere che le comunità cristiane dovevano essere fin dalle origini travagliate da comportamenti non del tutto in linea con la fede. Altrimenti le esortazioni non avrebbero avuto senso. Le discordie e le gelosie dovrebbero far pensare ad una comunità di non recente costituzione. Il che tra l’altro è confermato dal congedo, ove è detto: «Da Gerusalemme e dintorni sino all’Illiria ho condotto a termine l’annuncio di Cristo, facendomi in tal modo un punto d’onore di evangelizzare dove ancora non era giunto il nome di Cristo» (Rm, xv, 20). Poiché il passo fa pensare ad una lunga attività di predicazione svolta, l’epistola ai Romani dovrebbe essere più tarda rispetto alle altre.

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2.3.  La prima Lettera ai Corinzi La 1Corinzi non raggiunge i vertici dottrinali della Lettera ai Romani, né si presenta nella forma di un trattato, ma ha per lo più toni parenetici (capitoli iv-vii). È un testo composito, carente sotto il profilo dell’organicità se non altro per la sua politematicità. Ha un indubbio carattere ecclesiale: vi è la concezione della Chiesa come corpo di Cristo, tempio spirituale, chiesa santa. Paolo si conferma «apostolo di Cristo per volontà di Dio» (ἀπόστολος χριστοῦ ἰησοῦ διὰ θελήματος θεοῦ, 1Cor, i, 1). Non ci viene detto da chi è stata evangelizzata la comunità di Corinto, ma si presume che si tratti di una comunità di non recente costituzione («La testimonianza di Cristo si è fatta così consolidata tra voi che non avete più bisogno di nessun dono», 1Cor, i, 6-8), la cui fondazione è attribuita allo stesso Paolo («Io ho piantato, Apollo ha irrigato; io ho posto il fondamento, un altro vi costruisce sopra»). L’occasione per la scrittura della lettera è indicata in i, 10-17: informato dalla casa di Cloe circa la sussistenza di profonde divisioni e contese interne alla comunità di Corinto, Paolo è invitato, in qualità di autorità superiore, a dirimere la contesa tra il partito di Apollo e quello di Cefa. È assai verosimile che le fratture interne alle comunità cristiane fossero frequenti soprattutto nei centri più esposti alle influenze delle religioni misteriche e in particolare alla rilassatezza dei costumi. Poiché non ci sono tracce archeologiche della presenza di comunità cristiane a Corinto nel corso del primo secolo, dobbiamo pensare che la lettera risalga al secondo secolo e che l’autore abbia voluto assumere la comunità corinzia come esempio tipico delle possibili cause di disgregazione delle comunità cristiane. Il concetto cardine da lui elaborato, quello del corpo mistico di Cristo, costituisce l’appropriata risposta alla voglia poco cristiana di primeggiare. La lettera si suppone scritta da Efeso, ove l’apostolo dice di essersi fermato fino alla pentecoste (1Cor, xvi, 8). Ma sul capitolo xvi grava il sospetto della manipolazione, perché posticci appaiono sia l’allusione alla colletta, sia i progetti di viaggi, sia i congedi conclusivi. Di contro nelle parti di più alto profilo dottrinale (da i, 18 a iii, 23 e capitoli xi-xvi) si scorgono tracce della gnosi. L’invettiva contro la sapienza dei sapienti deriva da Isaia (1Cor, i, 18-19; Is, xxix, 14), ma è probabilmente polemica contro la gnosi o contro la filosofia ellenica, che, come sapienza del mondo, è stata resa da Dio stoltezza. Il mondo non ha conosciuto Dio attraverso la sapienza, ma attraverso

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la stoltezza della predicazione. La crocifissione segna il distacco dal mondo giudaico e da quello greco; gli uni chiedono segni, gli altri sapienza. La crocifissione è scandalo per gli uni, la stoltezza lo è per gli altri. Fin qui si può dire che gli influssi gnostici sono convergenti con quelli presenti in Romani. Tuttavia in 1Corinzi la matrice gnostica agisce sul concetto di Cristo, che è potenza di Dio, sapienza di Dio (χριστὸν θεοῦ δύναμιν καὶ θεοῦ σοφίαν) e insieme «nostra sapienza, giustizia, santificazione e riscatto» (σοφία ἡμῖν ἀπὸ θεοῦ, δικαιοσύνη τε καὶ ἁγιασμὸς καὶ ἀπολύτρωσις,1Cor, i, 24, 30). Cristo cioè è la sophia gnostica, viatico di salvezza, strumento di santificazione e di ricongiungimento con il divino. Le radici della gnosi sono presenti negli stessi concetti di rivelazione del mistero e di perfezione; e il lessico è desunto dai testi gnostici. «Tra i perfetti (ἐν τοῖς τελείοις) parliamo di sapienza, ma non di una sapienza di questo mondo, né degli arconti di questo mondo (οὐ τοῦ αἰῶνος τούτου οὐδὲ τῶν ἀρχόντων τοῦ αἰῶνος τούτου τῶν καταργουμένων); parliamo della sapienza di Dio, nascosta nel mistero prestabilito da Dio prima dei secoli per la nostra gloria» (ἀλλὰ λαλοῦμεν θεοῦ σοφίαν ἐνμυστηρίῳ, τὴν ἀποκεκρυμμένην, ἣν προώρισεν ὁ θεὸς πρὸ τῶν αἰώνων εἰς δόξαν ἡμῶν).(16) Dio ha rivelato a noi il mistero; «noi non abbiamo ricevuto lo spirito dal mondo, ma lo spirito che viene da Dio […]; non parliamo con parole insegnate dalla sapienza umana, ma con parole insegnate dallo Spirito», che scruta le profondità di Dio (τὰ βάθη τοῦ θεοῦ); «esprimiamo lo spirituale in termini spirituali; l’uomo psichico (ψυχικὸς δὲ ἄνθρωπος) non accoglie la realtà dello spirito di Dio […]; al contrario l’uomo spirituale (ὁ δὲ πνευματικὸς) giudica tutte le cose e non è giudicato da nessuno». La rivelazione deve procedere secondo gradualità dalla materialità della carne alla immaterialità dello spirito. Prima si parla agli uomini carnali (ὡς σαρκίνοις), poi a quelli spirituali (ὡς πνευματικοῖς); bisogna crescere nella spiritualità prima di accedere al mistero; prima bisogna bere il latte, poi il cibo solido (1Cor, iii, 2). È Dio che fa crescere e fa sì che non ci sia più differenza tra chi pianta e chi irriga; tutti siamo collaboratori di Dio («Voi siete il campo e Dio è l’edificio di Dio» θεοῦ γεώργιον, θεοῦ οἰκοδομή ἐστε,1Cor, iii, 9). Ciò non toglie che Paolo sia il maestro, colui che ha ricevuto la grazia di Dio e che ha costruito come un «sapiente architetto» (ὡς σοφὸς ἀρχιτέκτων): «Io ho posto il fondamento, un altro costruisce sopra», ma «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che è già stato posto, cioè Gesù Cri(16)  1Cor, ii, 6-7, fonte Isaia, lxiv, 3.

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sto» (1Cor, iii, 10-11). Egli è detentore del mistero della crocifissione per diretta rivelazione di Dio: «Dio lo ha rivelato a noi mediante lo Spirito» (1Cor, ii, 10). Tutto il profetismo paolino reca l’impronta dello Spirito Santo: «Io vi ho generati mediante il vangelo in Gesù Cristo» (1Cor, ii, 13; iv, 15). Vuol forse dire che non è più necessario il battesimo di Giovanni? Dopo il capitolo terzo di contenuto teologico, i capitoli iv-v segnano una frattura; dal vertice della teologia scivolano su tematiche etiche, pratiche ed ecclesiali-organizzative. Paolo accenna alle difficoltà del suo apostolato, deluso dalla chiesa di Corinto che, a distanza di anni, si è rivelata carnale, dominata dall’ambizione e dall’orgoglio, dalla superbia e dalla ricerca della ricchezza. Il tema dell’imitazione ha toni omiletici: «Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (μιμηταί μου γίνεσθε, καθὼς κἀγὼ χριστοῦ,1Cor, xi, 1). È una sorta di mimesi di secondo grado: mimesi della mimesi, in cui Paolo si propone come modello-archetipo, come apostolo perseguitato: noi, «apostoli di Dio, collocati all’ultimo posto, come dei condannati a morte, perché siamo diventati uno spettacolo per il mondo», «siamo affamati, assetati, veniamo denudati, schiaffeggiati, vaghiamo senza dimora […]. Insultati, benediciamo; perseguitati, perseveriamo; scherniti, esortiamo; al momento presente siamo diventati come la spazzatura del mondo, immondezza per tutti […]; pertanto vi supplico: siate miei imitatori» (Questo desiderio della persecuzione, dell’imitazione di Paolo e, attraverso Paolo, di Cristo, presuppone un cristianesimo sofferente, quale certamente fu quello della prim’ora. Nei capitoli v-vii, ci vien fatto conoscere il livello di immoralità delle comunità cristiane: si fa cenno a fenomeni di incesto, avarizia, idolatria, maldicenza, ubriachezza, ladrocinio; una «immoralità che non trova riscontro neppure tra i gentili». Sono pressappoco le stesse accuse che si ritrovano nella lettera di Plinio il Giovane e in altre fonti pagane. È la morale del «tutto è lecito» e della libertà sessuale, per la quale Paolo propone l’anatema e l’espulsione dalla comunità. Coloro che sono immorali non erediteranno il regno di Dio. Il corpo non è fatto per l’impurità, ma per il Signore: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? (τὰ σώματα ὑμῶν μέλη χριστοῦ ἐστιν). Possono mai diventare membra di una prostituta?». L’etica sessuale si fonda su principi rigorosi: l’uomo e la donna devono darsi nei limiti del dovuto; le vedove e le vergini debbono «rimanere come me», cioè non debbono sposarsi se non quando sono dominate dall’ardore. L’astinenza (encratismo moderato) è la scelta migliore per la preghiera: «d’ora in avanti quelli

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che hanno moglie vivano come se non l’avessero». Le separazioni e i divorzi debbono essere evitati. Nessuna incidenza deve avere la condizione di cristiano sullo stato civile. «Ciascuno rimanga nella condizione che il Signore gli ha assegnato quando lo ha chiamato»; lo schiavo e il libero restino schiavo e libero. Paolo si erge a legislatore: «Così dispongo in tutte le chiese» (οὕτως ἐν ταῖς ἐκκλησίαις πάσαις διατάσσομαι, 1Cor, vii, 17). Ed interviene su tutto; stabilisce che le contese interne siano portate non davanti al tribunale degli ingiusti, ma davanti al tribunale dei santi («è possibile che tra di voi non si trovi neppure un saggio che possa fare da arbitro?»), condanna l’idolatria, perché «si deve credere in un solo Dio», conferma il divieto ebraico di consumare carni immolate. Infine assegna un significato teologico all’eucaristia (εὐχαριστία= riconoscenza, gratitudine, ringraziamento), intesa come partecipazione del divino. Traendo ispirazione da un verso dell’Esodo («Si sedette il popolo a mangiare e a bere; poi si alzò per divertirsi», Ex, xxxii, 6), l’autore interpreta il mangiare e il bere in termini simbolici: da atti materiali diventano sostanza spirituale: «Il calice della benedizione che benediciamo non è forse partecipazione al sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è forse partecipazione al corpo di Cristo?». L’eucaristia, cioè, non è la semplice commemorazione dell’ultima cena, ma è la nuova somatologia paolina: un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo; tutti condividiamo l’unico pane. Nella pasqua ebraica, ricordata nell’Esodo (xxxii, 6), tutti furono battezzati nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale dalla stessa roccia spirituale che era Cristo. In ciò si può leggere una sorta di processo di astoricizzazione e atemporalizzazione del Cristo e quindi un processo di miticizzazione. In xii, 12- 27, nella elaborazione del concetto di corpo mistico di Cristo, l’autore sembra in parte richiamare alla mente l’apologo di Menenio Agrippa: i cristiani formano un solo corpo, dotato di molte membra; ognuno ha i suoi doni, i suoi carismi e i suoi ministeri («A ciascuno è stata data una manifestazione dello Spirito per l’utilità comune, a un altro doni per compiere guarigioni, a un altro il dono di discernere gli spiriti, a un altro la profezia, a un altro la glossolalia, a un altro l’interpretazione delle lingue»), ma il Signore è uno solo (1Cor, xii, 4-11); tutti siamo battezzati in un solo Spirito per formare un unico corpo, giudei e greci, schiavi e liberi; tutti abbiamo bevuto un solo Spirito. Ancora una volta si scorge un velato contrasto con il cristianesimo apostolico. Lo stesso Paolo ci fa sapere che il suo apostolato era contrasta-

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to proprio dalle comunità apostoliche: «Non sono un apostolo? Non ho visto il Signore? Non siete la mia opera nel Signore?» (οὐκ εἰμὶ ἀπόστολος; οὐχὶ ἰησοῦν τὸν κύριον ἡμῶν ἑώρακα; οὐ τὸ ἔργον μου ὑμεῖς ἐστε ἐν κυρίῳ). Se per gli altri non sono un apostolo, almeno per voi lo sono. Infatti, «voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore» (ἡ γὰρ σφραγίς μου τῆς ἀποστολῆς ὑμεῖς ἐστε ἐν κυρίῳ, 1Cor, ix, 1-2). E il confronto continua sul tema dei diritti. Paolo rivendica il diritto di mangiare e bere (nel senso eucaristico), di accompagnarsi ad una donna credente, come fanno «gli altri apostoli fratelli del Signore e Cefa; dispensati dal lavoro, chi pascola si nutre del latte del gregge; chi ara, lo fa nella speranza di avere una parte del raccolto; quelli che lavarono per il tempio, traggono profitto dal tempio». Nei capitoli xiii e xv si avvertono nuovamente ascendenze gnostiche. Nel capitolo xiii in tono polemico con la gnosi si dice che i doni della profezia e della scienza si annullano senza l’amore. L’amore è lo strumento per procedere da una conoscenza imperfetta a una conoscenza faccia a faccia: «Allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto». Nel capitolo xv il discorso ritorna sulla resurrezione, poiché nella comunità di Corinto si erano manifestati dubbi sulla stessa. Per Paolo questo è un punto decisivo che rischia di mettere in crisi il paolinismo: «Come possono dire alcuni tra voi che non c’è resurrezione dei morti? Se non c’è risurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto, allora è vana la nostra predicazione». Cristo dominerà su tutte le cose, anche sulla morte, perché la morte è conseguente al peccato e alla peccaminosità. Essa è entrata nel mondo con il peccato di Adamo: «Così se a causa di un uomo è giunta la morte, a causa di un uomo è giunta la resurrezione dei morti». Paolo ha una visione apocalittica della resurrezione, intesa come trasformazione dei corpi da materiali in spirituali. Ciò implica che egli non si distacca dal dualismo gnostico di corruttibile e incorruttibile, di corpo naturale e corpo spirituale. La conversione dell’uomo è un processo di ascensione: «non è venuto prima l’uomo spirituale ma l’uomo psichico, poi è venuto lo spirituale» (ἀλλ᾽ οὐ πρῶτον τὸ πνευματικὸν ἀλλὰ τὸ ψυχικόν, ἔπειτα τὸ πνευματικόν, 1Cor, xv, 46). Viene prima l’Adamo carnale, poi l’Adamo spirituale. Il primo è l’uomo tratto dalla terra, il secondo viene dal cielo. Al momento della parousía non tutti ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati; i morti risorgeranno senza corruzione. Il corpo corruttibile si rivestirà d’incorruttibilità, il mortale di immortalità. Quali sono i confini della compatibilità della 1Corinzi con Romani? Prendiamo in considerazione le tre questioni che ci interessano. Primo: la gnosi

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che in Romani ha contorni appena sfumati, rivela in 1Corinzi una presenza più manifesta persino nell’uso del lessico. Secondo: la Lettera ai Romani affronta di petto la questione dei rapporti con il giudaismo, sia pure con oscillazioni e incertezze; la 1Corinzi la ignora. Terzo: in Romani non riscontriamo nessuna traccia dei vangeli, nella 1Corinzi c’è più di un rinvio ad essi. Innanzi tutto è ambigua la citazione di Cefa, perché non è chiaro se l’autore è o meno consapevole della identità Cefa = Pietro. Se lo è, poiché egli assegna a Paolo il compito di dirimere la controversia, evidentemente gli attribuisce un’autorità superiore a quella del primo degli apostoli. Il che induce a supporre che ci fosse un sotterraneo conflitto tra le comunità ‘paoline’ e quelle ‘apostoliche’. Dalle prime Paolo è riconosciuto come apostolo, dalle seconde il suo apostolato è fortemente contestato. E forse alla stessa conflittualità si riferisce la contrapposizione tra la «predicazione del vangelo» (con allusione al cristianesimo paolino) e il ‘battesimo’ (con allusione al cristianesimo ‘apostolico’: «Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo», 1Cor, i, 17). Ad ogni modo, almeno per ora, tale contrasto è appena percettibile e sta sullo sfondo delle due epistole. Non sono tuttavia senza significato due elementi: 1) se l’autore della 1Corinzi ha notizie di Cefa e degli apostoli, fratelli del Signore, che si arrogano il diritto di farsi accompagnare da una donna credente, probabilmente ha scritto dopo i vangeli, pur avendone una vaga conoscenza; 2) se il concetto di ‘tempio spirituale’ supplisce al tempio materiale, distrutto nelle due rivolte, la datazione della 1Corinzi non può essere anteriore al ii secolo, anche perché il suo autore scrive quando erano emersi i primi dubbi sulla veridicità della resurrezione. La lettera si chiude con una nota di autenticazione: «Il saluto è di mio pugno, di Paolo. Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema. marān ‘athā». Tuttavia proprio l’autenticazione è sospetta perché non trova riscontro nelle altre lettere, tranne in Colossesi e nella 2Tessalonicesi, che sono sicuramente apocrife, e nella Lettera a Filemone. 2.4.  La seconda Lettera ai Corinzi La 2Corinzi è una lettera fortemente composita e disorganica, tanto che taluni studiosi, come Edgar Goodspeed e Norman Perrin,(17) hanno suppo(17)  E. J. Goodspeed, An Irroduction to the New Testament; Chicago, University Press, 1956, pp. 58-59; cfr. anche N. Perrin, The New Testament. An introduction, Har-

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sto che essa sia il risultato della cucitura di più testi o di più missive (ii, 14 – vii, 4; i,1 – ii, 13 e vii, 5-16; x, 1 – xiii, 10). È definita lettera ‘apologetica’, perché contiene due autodifese di Paolo (capitoli ii-vii e x-xiii) per la verità molto fragili e di scarso respiro teologico. Si vuole che sia stata scritta da Efeso, ma in vii, 1, Paolo si dichiara giunto in Macedonia. Gli esegeti confessionali(18) vogliono che la 2Corinzisia stata scritta tra il 54 e il 56 ad appena vent’anni dalla crocifissione. Ma a smentirli provvede la pericope iii, 14, che così recita: «le loro menti sono rimaste ottuse: sino ad oggi rimane quello stesso velo, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento (τῆς παλαιᾶς διαθήκης), perché è in Cristo che viene eliminato». La citazione dell’Antico Testamento ci dice che siamo di fronte ad un testo tardivo; tale valutazione può riferirsi o alla pericope citata, che potrebbe essere una interpolazione successiva, o all’intera lettera. Essa comunque presuppone la fissazione del canone veterotestamentario. Non sappiamo se la lettera fa riferimento al canone ebraico o a quello cristiano. In ogni la sua datazione non può essere inferiore al ii secolo dopo Cristo. Per di più sorge un’ulteriore interrogativo: se si parla di un Antico Testamento non è data per presupposta l’esistenza di una nuova διαθήκη o Nuovo Testamento? Noi sappiamo che il canone neotestamentario, o canone muratoriano, fu compilato nell’ultimo scorcio del ii secolo. Poiché però non è possibile che la lettera sia così tardiva, bisogna supporre che essa faccia riferimento al canone marcionita che comprendeva l’epistolario paolino e il vangelo lucano. È da ingenui pensare che a soli vent’anni dalla crocifissione si fosse già costituito un canone testamentario con una netta distinzione tra Antico e Nuovo Testamento. Rispetto a Romani e alla 1Corinzi c’è una più scoperta sfasatura nel rapporto con Cristo e con Dio. Nelle prime due lettere Paolo è mandato da Cristo, il quale è il mediatore tra l’apostolo e Dio e più in generale tra l’uomo e Dio. Nella 2Corinzi permane naturalmente la mediazione di Cristo («Venga ad abitare in me la potenza di Cristo» ἵνα ἐπισκηνώσῃ ἐπ᾽ἐμὲ ἡ δύναμις τοῦ χριστοῦ, 2Cor, xii, 9), ma si accentua il rapporto diretto con Dio («È Dio stesso che ci conferma insieme a voi in Cristo e che ci ha consacrati, ha impresso in noi il suo sigillo e ha posto nei nostri cuori la caparra dello spirito» ὁ δὲ βεβαιῶν ἡμᾶς σὺν ὑμῖν εἰς χριστὸν καὶ χρίσας ἡμᾶς θεός, ὁ καὶ court, Brace Jovanovich, 1982, pp. 104-105. (18)  Cfr. in proposito S. Dockx, Chronologies néotestamentaires et vie de l’église primitive: recherches exégetiques, Paris, Duclot, 1976, pp. 110-113; J. A. T. Robinson, Redating the New Testament, cit., pp. 54-55.

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σφραγισάμενος ἡμᾶς καὶ δοὺς τὸν ἀρραβῶνα τοῦ πνεύματος ἐν ταῖς καρδίαις ἡμῶν (2Cor, i, 21-22); e più oltre: «Come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, parliamo in Cristo» ἀλλ᾽ ὡς ἐκ θεοῦ κατέναντι θεοῦ ἐν χριστῶ λαλοῦμεν;

«Voi siete la lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro ma con lo Spirito del Dio vivente (πνεύματι θεοῦ ζῶντος), non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» 2Cor, ii, 17; iii, 3). Paolo cioè rivendica per sé un’autorità superiore nel momento in cui è chiamato a difendersi dagli attacchi concentrici dei giudei, delle comunità apostoliche e delle sette gnostiche. Tentiamo di entrare nello specifico. In polemica con il mondo giudaico egli si dichiara «ministro di un nuova alleanza», «non un’alleanza della lettera, ma dello Spirito, poiché la lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2Cor, iii, 6). Paolo non è, come Mosè, il profeta velato, che nasconde la scomparsa di ciò che è transitorio, ma propone la predicazione del kērygma a viso aperto. Le menti non restano più vittime dell’ottusità, ma si liberano. Il Cristo che era nascosto o addirittura eliminato nell’Antico Testamento torna a risplendere come gloria del Signore (2Cor, iii, 4-18). Il vangelo di Paolo non è velato se non per coloro che si perdono per non essere credenti (2Cor, iv, 3). Nel confronto con la gnosi sono assai significative le pericopi iv, 13-18, ove è sviluppato il tema dell’uomo esteriore che è in corso di disfacimento e dell’uomo interiore che si rinnova, dello sguardo dei cristiani che non fissa le cose visibili, ma le invisibili, non le transitorie, ma le eterne. Si potrebbe pensare a reminiscenze platoniche, ma in realtà il testo ripropone il tema dell’ascesa gnostica dal mondo carnale a quello spirituale, com’è confermato nel capitolo v, in cui si profila l’ascesa dal corpo, «come nostra dimora terrena», alla dimora eterna nel cielo in coabitazione con Dio. È un radicale mutamento di prospettiva: come la morte di uno solo [di Cristo] è la morte di tutti, così è anche per la sua resurrezione («Da questo momento non conosciamo più nessuno secondo la carne»); chi è in Cristo è una nuova generazione. Le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove. Il terzo fronte è dato dalla polemica con il cristianesimo apostolico; una polemica suscitata dal fatto che i discepoli della sequela contestavano l’autorità di Paolo («Siamo considerati impostori, ma siamo veritieri, sconosciuti eppure veritieri», ὡς πλάνοι καὶ ἀληθεῖς ὡς ἀγνοούμενοι καὶ ἐπιγινωσκόμενοι, 2Cor, vi, 8-9). L’accusa, neppure tanto velata, verteva sulla venalità e sulla illegittimità del suo apostolato. Gli si rimproverava di agire secondo la carne e di non aver avuto la conoscenza di Cristo. Paolo si difende dicendo di non

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vivere né di combattere secondo la carne, né di mercanteggiare la parola di Dio, poiché le sue armi hanno la potenza di Dio (τὰ γὰρ ὅπλα τῆς στρατείας ἡμῶν οὐ σαρκικὰ ἀλλὰ δυνατὰ τῶ θεῶ, 2Cor, x, 4); e per quanto concerne la conoscenza di Cristo, esclude ogni discrimine: se costoro sono convinti di essere in Cristo, lo è anche lui. In altri termini egli è legittimato dall’autorità che Dio gli ha dato per l’edificazione della Chiesa; se si vanta, è perché predica il vangelo ed è pronto ad evangelizzare le regioni più lontane; non si raccomanda da sé come fanno gli altri, ma è raccomandato dal Signore (2Cor, x, 2-8, 12-18). I Corinzi si lasciano ingannare da chiunque predichi un Gesù diverso o un vangelo diverso da quello predicato da Paolo, ma – scrive – «io non sono per nulla inferiore a questi ‘superapostoli’», ovvero a coloro che legittimano la loro autorità per aver fatto parte della sequela del Cristo. Egli ha annunciato «il Vangelo di Dio»; ha fruito sì del sostegno economico delle chiese, ma ha cercato di non essere di peso a nessuno. Essi invece sono ‘falsi apostoli’, ‘operai fraudolenti’ che si mascherano da apostoli di Cristo (οἱ γὰρ τοιοῦτοι ψευδαπόστολοι, ἐργάται δόλιοι, μετασχηματιζόμενοι εἰς ἀποστόλους χριστοῦ, 2Cor, xi, 13); se si vantano secondo la carne (ovvero per appartenenza etnica), lo farà anche lui; se dicono di essere ebrei e della stirpe di Abramo, lo è anche lui; se si vantano per essere stati percossi, anche lui ha ricevuto i quaranta colpi meno uno, è stato bastonato ed è stato perseguitato da Areta a Damasco; se dicono che i segni dell’apostolo sono quelli di operare con miracoli e prodigi, anche lui è «un uomo in Cristo», rapito fino al terzo cielo per ascoltare cose indicibili. Come si vede con la 2Corinzi siamo alle prese con un nuovo mutamento di prospettiva: la polemica contro il giudaismo è più diretta che in Romani; di contro emerge in primo piano l’opposizione alle comunità apostoliche, che contestano l’autorità di Paolo. In generale gli esegeti sono del parere che Paolo si difende dagli attacchi delle comunità giudeo-cristiane, ma non è così; l’apostolo conduce una battaglia tanto contro le accuse provenienti dal mondo giudaico, quanto contro quelle provenienti dagli ambienti cristiani formatisi attorno ai cosiddetti ‘apostoli’ della prim’ora. Ad essi oppone il proprio vangelo senza veli e santifica le proprie comunità come «tempio del Dio vivente» (ναὸς θεοῦ ἐσμεν ζῶντος, 2Cor, vi, 16).

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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2.5. La Lettera ai Galati In Galati prevale la polemica antigiudaica. I primi due capitoli hanno carattere prevalentemente biografico, perché Paolo vuol dimostrare che il suo vangelo non è opera dell’uomo, ma è rivelazione ricevuta direttamente da Cristo. I capitoli iii-iv vogliono essere una confutazione del giudaismo e presentano evidenti influenze gnostiche. Il capitolo v tratta di morale; il capitolo vi, conclusivo, affronta in chiave antignostica il tema dell’opposizione carne/Spirito. Si vuole che la lettera sia stata scritta dalla Macedonia o da Corinto, ma in essa non si fa esplicito riferimento al luogo di emissione. In sintonia con la 2Corinzi più che con la prima e con Romani, Paolo si presenta, in evidente polemica con il cristianesimo apostolico, come «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma mediante Gesù Cristo e da parte di Dio» (Gal, i, 11-14). La mediazione di Cristo è subordinata alla scelta di Dio («il Signore mi prescelse dal seno materno e mi chiamò mediante la sua grazia; a lui piacque rivelarmi suo figlio affinché lo annunciassi tra i gentili», Gal, i, 15-17). Galati, come la 1Corinzi, è una lettera scopertamente polemica con il cristianesimo apostolico. Fin dall’esordio denuncia i Galati (Gal, i, 6-8; 2Cor, xi, 4) per essere passati in fretta ad «un altro vangelo» (ἕτερον εὐαγγέλιον) e ad un «altro Gesù» (ἄλλον ἰησοῦν), diverso da quello da lui predicato; si sono fatti vittime di «coloro che vogliono sconvolgere il vangelo di Cristo» (θέλοντες μεταστρέψαι τὸ εὐαγγέλιον τοῦ χριστοῦ, Gal, i, 7). Contro costoro, Paolo pronuncia l’anatema e formula la tesi di fondo della sua lettera: «il vangelo, che vi ho annunciato, non è umano, né io l’ho ricevuto […] da un uomo, ma l’ho ricevuto attraverso la rivelazione di Gesù Cristo» (Gal, i, 11-12). Il corpo della lettera sviluppa le argomentazioni che corroborano la tesi di fondo in una duplice direzione: contro il giudaismo e contro il cristianesimo apostolico. La prima argomentazione è antigiudaica e consiste nell’affermare che la salvezza si ottiene mediante la fede in Gesù Cristo e non mediante le opere della Legge (capitolo ii); la Legge – egli argomenta – contiene in sé le ragioni del suo superamento: «mediante la Legge sono morto alla Legge per vivere in Dio» (διὰ νόμου νόμῳ ἀπέθανον ἵνα θεῶ ζήσω, Gal, ii, 19). In altri termini la Legge uccide sé stessa, perché se per un verso è lo strumento che mi fa conoscere il peccato, per l’altro non può darmi la salvezza. Il senso più profondo della morte alla Legge sta proprio in questo: che essa non è la via della salvezza. La salvezza viene solo da Cristo che vive in noi e

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si è sacrificato per noi. Eppure in Galati tornano le oscillazioni di Romani, perché il giudaismo è recuperato attraverso la figura di Abramo. I cristiani che vivono nella fede in Cristo non sono altro che la discendenza promessa ad Abramo (patto abramitico). Ciò significa che la Legge è stata per noi come un pedagogo fino alla venuta di Cristo» (Gal, iii, 24). È così recuperata l’antica tradizione giudaica? No, perché con l’arrivo della fede, non abbiamo più bisogno di un pedagogo, ma tutti siamo figli di Dio; non c’è più distinzione tra greci ed giudei, tra schiavi e liberi, tra maschio e femmina; tutti siamo «uno» in Cristo. La seconda argomentazione è condotta in termini allegorici ed ha ancora una volta come punto di partenza la figura di Abramo, il quale ebbe due figli, uno dalla schiava Hagar, e l’altro dalla moglie Sara; l’uno generato secondo la carne, l’altro secondo la promessa. Rispolverando l’allegorismo filoniano, l’autore di Paolo interpreta le due donne come le due alleanze; Hagar è simbolo dell’alleanza mosaica sul monte Sinai e perciò genera la schiavitù, corrispondente alla Gerusalemme attuale, che è schiava con i suoi figli; Sara è simbolo della Gerusalemme celeste. Il giudaismo ci schiavizza; la fede cristiana ci libera. I cristiani sono figli della promessa, perché Cristo ci ha liberati per restare liberi [dalla legge]. Chi sta sotto la Legge è obbligato ad osservare la Legge, ma decade dalla grazia. Perciò scrive Paolo: chi si fa circoncidere è in obbligo verso la Legge; ma, se è separato da Cristo e se vive sotto la Legge, decade dalla grazia (Gal, v, 2-11); al contrario i cristiani attendono dalla fede la giustificazione. È con ciò spezzato il cordone ombelicale con la Legge? No, perché una nuova interpretazione dell’amore, riapre la prospettiva della Legge. Questa infatti non muore ma trova la sua più profonda verità nell’amore verso il prossimo: «Tutta la Legge è adempiuta in una parola: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal, v, 14), ove però il prossimo non è più il consanguineo, com’era nell’Antico Testamento, ma è l’altro nel senso più universale dell’umanità intera. La lettera si chiude con reminiscenze gnostiche sulla contrapposizione carne-spirito. Coloro che sono guidati dallo Spirito non sono più sotto la Legge, ma in Cristo hanno crocifisso la carne con le passioni e con i desideri. Perciò chi semina per la propria carne raccoglierà rovina; chi semina per lo spirito raccoglierà dallo Spirito vita eterna. La circoncisione e l’incirconcisione non contano più nulla: ciò che conta è l’essere una creatura rigenerata. L’importanza di Galati sta nel fatto che ci aiuta a comprendere meglio i rapporti tra paolinismo e cristianesimo apostolico.

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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2.6. La Lettera agli Efesini La lettera agli Efesini è tra le più enigmatiche. Non sappiamo neppure se gli Efesini furono i destinatari, perché l’intestazione manca nei codici più antichi. È probabilmente la più gnostica delle epistole paoline. Il primo capitolo, dall’eulogia all’esordio, all’inno per la chiesa, contiene reminiscenze lessicali e concettuali proprie della gnosi. Tali sono in particolare i temi della sapienza e intelligenza, della conoscenza del mistero della volontà divina, dei principati, autorità, potenze e signorie (Ef, i, 8, 9, 17, 21). Tracce della gnosi si avvertono anche nel capitolo ii dedicato alla chiesa dei redenti (basti pensare che la redenzione è uno dei sacramenti gnostici), ovvero di coloro che sono stati salvati attraverso il dono divino della grazia. La matrice gnostica si fa sentire anche nel terzo capitolo nel concetto di rivelazione del mistero: «Io Paolo, prigioniero di Cristo per voi gentili […] certamente avrete sentito parlare del ministero della grazia di Dio che mi è stata data per voi: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero» (κατὰ ἀποκάλυψιν ἐγνωρίσθη μοι τὸ μυστήριον) di Cristo, affinché mediante la chiesa «la multiforme sapienza di Dio sia resa nota ai principati e alle potenze dei cieli» (ἵνα γνωρισθῇ νῦν ταῖς ἀρχαῖς καὶ ταῖς ἐξουσίαις ἐν τοῖς ἐπουρανίοις διὰ τῆς ἐκκλησίας ἡ πολυποίκιλος σοφία τοῦ θεοῦ, Ef, iii, 1-3, 10). Gnostiche sono la «pienezza di Dio» (εἰς πᾶν τὸ πλήρωμα τοῦ θεοῦ, Ef, iii, 19), l’idea delle «generazioni del secolo dei secoli» (εἰς πάσας τὰς γενεὰς τοῦ αἰῶνος τῶν αἰώνων), che potrebbero tradursi anche come «generazioni dell’eone degli eoni»; gnostico è altresì il concetto dell’uomo interiore e della comprensione con tutti i santi della larghezza e della lunghezza, dell’altezza e della profondità e della conoscenza dell’amore di Cristo che oltrepassa la conoscenza per giungere alla pienezza di Dio. Nel capitolo iv affiorano i temi gnostici del Dio-Uno, trascendente e immanente: Io prigioniero di Cristo […]: un solo corpo, un solo spirito; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Padre di tutti che è al di sopra di tutti, per mezzo di tutti ed è presente in tutti (Ef, iv, 1-6).

Vi compare anche il tema dell’ascesa-discesa del Cristo, per cui «tutti giungiamo all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, alla misura che conviene alla pienezza di Cristo» (Ef, iv, 13). Af-

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fiorano anche i temi della metánoia dall’uomo vecchio all’uomo nuovo («Spogliatevi dell’uomo vecchio, della vostra vita di prima […]; rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità»; «Imitate Dio come figli diletti») e del passaggio dalle tenebre alla luce («Una volta eravate nelle tenebre, ora siete nella luce; camminate perciò come figli della luce», Ef, iv, 23-24; v, 1, 8). Anche le ultime raccomandazioni che chiudono la lettera risentono della influenza gnostica nell’idea del combattimento contro le potenze e i dominatori del mondo (πρὸς τὰς ἀρχάς, πρὸς τὰς ἐξουσίας, πρὸς τοὺς κοσμοκράτορας τοῦ σκότους τούτου, πρὸς τὰ πνευματικὰ τῆς πονηρίας ἐν τοῖς ἐπουρανίοις, Ef, vi, 12-13). In Efesini l’antigiudaismo è più radicale che nelle lettere precedenti, perché viene teorizzato un superamento e quindi un accantonamento della Legge. La Legge cioè non ha più ragione di essere dopo che è stato abbattuto il muro di separazione, perché dei due popoli, l’ebreo e il greco, si è fatto un solo popolo, un solo uomo nuovo, riconciliato in Dio in un solo corpo (Ef, ii, 15-18). I gentili sono ammessi a partecipare all’alleanza, perché hanno ricevuto la grazia; un tempo erano senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei all’alleanza della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Le fede in Cristo li ha resi partecipi del sangue di Cristo, consanguinei del popolo eletto. Cristo è la pietra angolare dell’edificio che cresce per diventare tempio santo del Signore (il che fa pensare che l’autore scrive dopo la distruzione del tempio o dopo la distruzione di Gerusalemme). Cristo è «il capo della chiesa, che è il suo corpo, la pienezza di colui che riempie immensamente tutte le cose» (Ef, i, 22-23). Il verticismo della organizzazione politica ha la sua corrispondenza nel verticismo e nella gerarchia dell’organizzazione ecclesiastica. Le relazioni familiari e sociali sono improntate alla totale subordinazione: le mogli debbono essere sottomesse ai mariti come al Signore; perché l’uomo è capo della donna,(19) come Cristo è capo della chiesa; sui mariti incom(19)  Gli autori delle lettere paoline assegnano alla donna un ruolo subordinato e sono in ciò specchio dei pregiudizi del tempo. Non credo perciò che si possa usare l’antifemminismo come cartina di tornasole per stabilite la loro autenticità o meno. Tale è la posizione di E. H. Pagels, The Gnostic Paul: Gnostic Exegesis of the Pauline Letters, Philadelphia, Trinity Press International, 1992, che respinge come inautentica la lettera a Timoteo e reputa come interpolazioni o contraffazioni i passi antifemministi di Efesini e Colossesi. Robert Nguyent Cramer, Women’s Roles in Early Church (testo presente in internet) respinge la tesi secondo cui le lettere pastorali furono scritte per emarginare le donne. Sulla stessa scia si pone Jerome Murphy O’Connor, New Jerome Biblical Commentary, in R. E. Brown

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be il dovere di amare le mogli come Cristo ha amato la chiesa (Ef, v, 22-24, 28). Allo stesso modo i figli sono obbligati alla totale obbedienza ai genitori. Il principio della sottomissione governa anche i rapporti sociali. Gli schiavi debbono obbedire ai padroni. Non c’è in Paolo l’idea della rivoluzione sociale, perché per lui la rivoluzione è la fede, per mezzo della quale «ciascuno schiavo o libero, riceverà la ricompensa del Signore in base al bene che avrà compiuto» (Ef, vi, 8). Perciò non è necessario liberare l’uomo dalla schiavitù; è sufficiente raccomodare ai padroni un trattamento umano verso gli schiavi, che sono fratelli in Cristo («Padroni mettete da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un unico Signore nel cielo», Ef, vi, 9). Non c’è dubbio che Efesini, per la sua forte dose di gnosticismo, è troppo eccentrica rispetto alle altre lettere, ma non ci si può nascondere dietro un paravento; la gnosi di Efesini è più esorbitante, ma non è diversa da quella, più o meno velata, che si riscontra nell’intero corpus. Efesini è un’omelia non paolina, impregnata di concetti paolini, espressi con stile e linguaggio non paolino. A differenza della 1Tessalonicesi, che è un’omelia di carattere etico, Efesini intreccia le problematiche morali con i principi teologici. Essa è certamente anteriore alla lettera ai Colossesi la quale è impregnata di concetti tratti da Efesini, ma espressi con uno stile ed un linguaggio che solo parzialmente le assomigliano. Se ne deduce che le due lettere non sono né di Paolo, né di uno stesso autore. Entrambe però presuppongono la conoscenza di Romani (soprattutto per i temi della grazia) e, almeno, della 1Corinizi (soprattutto per i temi del corpo mistico di Cristo). 2.7. La Lettera ai Filippesi Abbastanza diseguale e disorganica, la Lettera ai Filippesi è, come Efesini, una lettera delle catene («Le mie catene sono diventate note in tutto il pretorio e dovunque», (Fp, i, 13). Non ci sono elementi per stabilire quale sia il luogo di emissione. Il testo a tratti sfiora l’idolatria («Cristo verrà glorificato nel mio corpo, sia con la vita che con la morte», Fp, i, 20), sconvolgendo il concetto paolino di corpo di Cristo. La fede di Filippesi è prevalentemente sacrificio, sofferenza fino alla morte e imitazione della sofferenza di Cristo. In questo senso il sacrificio paolino, la sua morte nella sofferenza per Cristo è glorificazione del Cristo. Ma questa fine glorio– J. A. Fitzmyer, R. E. Murphy, TheNew Jerome Biblical Commentary, cit., pp. 811-812.

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sa nel martirio non poteva essere predetta da Paolo, se non come profonda aspirazione. Se invece quella glorificazione è un’allusione al sacrificio reale («Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, gioisco e me ne rallegro»), evidentemente non può essere stata narrata se non da chi gli era posteriore. L’antigiudaismo di Filippesi è analogo a quello espresso in Efesini. Se i veri circoncisi sono i cristiani, la Legge è superata. Anzi Cristo è un guadagno rispetto alla Legge, perché in Cristo si trova non la giustizia derivante dalla Legge, ma quella derivante dalla fede (Fp, iii, 8-9). C’è in Filippesi un’accentuazione della centralità della figura di Paolo rispetto alle altre lettere paoline. Rivelatore è il passo in cui Paolo si propone come oggetto di imitazione: non dice «Siate imitatori di Cristo», ma «Siate miei imitatori»; egli è un modello di vita per i cristiani: «Osservate quelli che si comportano secondo il modello che avete in noi» (Fp, iii, 17). In ciò la lettera è al limite dell’eterodossia. 2.8. La Lettera ai Colossesi Analoghe osservazioni vanno fatte per la Lettera ai Colossesi la quale è in più punti scritta a ricalco di Efesini. Gli stessi sono i temi trattati e identica è la loro matrice gnostica. C’è tutto l’apparato concettuale e lessicale della gnosi: il mistero nascosto per secoli e generazioni, la tensione verso una ricca e perfetta conoscenza, il mistero di Dio, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza, la salvezza dal dominio delle tenebre e il trasferimento nel regno del figlio (Col, ii, 2-3; i, 13), il tema della perfezione in Cristo. Prettamente gnostica è la cristologia di Colossesi, soprattutto nella formulazione dossologica dell’inno a Cristo: Cristo è immagine del dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, creatore delle cose visibili e invisibili. In quanto ipostasi gnostica, Cristo esiste prima di tutte le cose, è il capo del corpo, cioè della chiesa, ed è il principio; in lui abita tutto il plérōma della divinità (ὅτι ἐν αὐτῶ εὐδόκησεν πᾶν τὸ πλήρωμα κατοικῆσαι), in lui si riappacificano, attraverso il sangue della croce, le cose che sono sulla terra e quelle che sono nei cieli; egli è il capo di ogni principato e potestà (Col, i, 15-20). I cristiani partecipano della sua pienezza; sepolti con lui nel battesimo, in lui sono risuscitati (Col, iii, 1-4): la loro vita è nascosta con Cristo in Dio («Vi siete spogliati dell’uomo vecchio e vi siete rivestiti dell’uomo nuovo» (Col, iii, 9-10). Analogo a quello di Efesini

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è l’antigiudaismo di Colossesi. Le fede in Cristo segna il superamento della Legge. Non c’è più greco, né giudeo, circonciso e incirconciso, schiavo o libero, perché Cristo è tutto in tutti. Giudei e greci, che erano stranieri e nemici, sono riconciliati nella fede e nel sacrificio della croce, sicché davanti a Dio sono «santi, immacolati e irreprensibili», rivestiti come eletti di Dio, uniti dal vincolo dell’amore, che è «vincolo di perfezione» ὅ ἐστιν σύνδεσμος τῆς τελειότητος (Col, i, 22; iii, 11-14). Analoga la polemica contro la filosofia ellenica che avvince con argomenti persuasivi e inganna per essere condotta non secondo la logica di Cristo, ma secondo quella della tradizione degli uomini e degli elementi del mondo (Col, ii, 4, 8). Infine anche per Colossesi, come per Efesini, il principio che regge le relazioni familiari (mogli-mariti, genitori-figli) e sociali (schiavi-padroni) è la totale sottomissione (Col, iii, 18 - iv, 1). 2.9.  Le due Tessalonicesi Sono in prevalenza di esortazione etica i contenuti della 1Tessalonicesi. Più che una lettera si direbbe un’omelia. Scritta da Atene (1Ts, iii, 1), è priva di una motivazione; nulla ci vien detto intorno all’occasione per cui è stata composta. Taluni indizi fanno pensare che si tratti di un testo tardivo. Il suo antigiudaismo, infatti, è troppo radicale, a differenza delle altre lettere paoline: i giudei sono accusati di «aver ucciso il Signore Gesù» (τὸν κύριον ἀποκτεινάντων ἰησοῦν, 1Ts, ii, 15) e tale accusa difficilmente può ritenersi indipendente dai testi evangelici. Nei ringraziamenti la lettera sembra essere indirizzata ad una comunità che già da tempo ha accolto le fede cristiana, tant’è che i Tessalonicesi sono elogiati per essere «imitatori nostri e di Cristo, modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia», nonché «imitatori delle chiese di Dio in Gesù Cristo che si trovano in Giudea» (1Ts, ii, 14). Il che presuppone che la chiesa di Tessalonica sia stata fondata dopo le altre chiese di Dio con la conseguenza che non è possibile far risalire la lettera alla prima fase della predicazione paolina. Inoltre Paolo ricorda di aver avuto il coraggio di predicare il vangelo ai Tessalonicesi nonostante fosse stato insultato a Filippi (1Ts, ii, 2), ma nella lettera ai Filippesi non v’è traccia di tali insulti. L’antigiudaismo della 1Tessalonicesi è in sintonia più con Efesini e Colossesi che con le altre epistole, poiché, parlando dei giudei che impediscono di frequentare i gentili, dice che è giun-

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ta su di loro l’ira per la fine (ἔφθασεν δὲ ἐπ᾽ αὐτοὺς ἡ ὀργὴ εἰς τέλος, 1Ts, ii, 16), con evidente allusione o alla demolizione del Tempio o alla caduta di Gerusalemme. Gli esegeti espungono questo passo per rendere la lettera più compatibile con il messaggio paolino; di fatto però esso non introduce alcuna cesura all’interno del contesto e la sua soppressione non ripristina una continuità omiletica che sia più compatta di quella che lo accetta come originario. Ad una comunità consolidata nel tempo alludono anche i capitoli iv e v che accennano alla sua storia tormentata e alla frattura tra coloro che sono addormentati nel Signore (τοὺς κοιμηθέντας) e coloro che sono «i viventi e i rimasti» (οἱ ζῶντες οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου). Sulla tarda datazione della lettera incidono anche l’uso della forma «Gesù Cristo» come nome proprio (ciò per la verità vale per tutte le lettere paoline) e il fatto che l’ἔσχατον (éschaton = ultimo), pur ritenuto imminente, sembra essere differito nel tempo, come evento imprevedibile: Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo […]. Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriviamo […]. Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte […], irromperà su di loro la rovina, come le doglie di una donna partoriente [reminiscenza essenico-enochica]. Voi non siete nelle tenebre […]. Tutti voi siete figli della luce […]. Non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.

La metafora del ladro e quella delle doglie della partoriente ricordano gli analoghi usi che ne vengono fatti nei sinottici; e ciò presuppone la seriorità della lettera rispetto ad essi. La 1Tessalonicesi è con la 1Corinzi e con la Efesini una delle lettere della imitazione. Nella 1Corinzi il modello da imitare è lo stesso Paolo (μιμηταί μου γίνεσθε), in Efesini invece è Dio («dunque imitate Dio come figli diletti» γίνεσθε οὖν μιμηταὶ τοῦ θεοῦ, ὡς τέκνα ἀγαπητά), nella 1Tessalonicesi, oltre a Paolo e a Dio, l’archetipo è dato dalle chiese che si sono consolidate nella fede (μιμηταὶ ἐγενήθητε […] τῶν ἐκκλησιῶν τοῦ θεοῦ). Nella 2Tessalonicesi il modello è di nuovo Paolo, ma il lessico è cambiato; a μιμηταὶ (imitatori) l’autore preferisce il verbo μιμέομαι (μιμεῖσθαι = imitare).(20) Scritta nella forma di un’omelia, ha il suo nucleo centrale nel giorno (20)  1Cor, iv,

16; xi, 1; Ef, v, 1; 1Ts, i, 6; ii, 14; 2Ts, iii, 7-9.

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del giudizio e nella seconda parousía (παρουσία); fa esplicito cenno ai falsi profeti e alle epistole falsamente attribuite a Paolo («Non lasciatevi confondere e turbare né da pretese ispirazioni né da parole, né da qualche lettera fatta passare per nostra, come se il giorno del Signore sia imminente», 2Ts, ii, 2). La fine dei tempi è ormai rinviata: «dovrà prima giungere l’apostasia e dovrà essere rivelato l’uomo iniquo», il figlio della perdizione, cioè l’anticristo, predetto da Isaia, xi 4 («il Signore lo distruggerà con il soffio della sua bocca»). Da ciò l’esortazione a rimanere «saldi nella tradizione che vi è stata insegnata», a sopportare le tribolazioni e le persecuzioni, perché «il mistero dell’iniquità è già in atto» e coloro che hanno fede in Cristo saranno la primizia per la salvezza mediante santificazione (2Ts, ii, 15, 7). Spesso si è assegnata al cristianesimo una vocazione rivoluzionaria, se non addirittura eversiva, che esso non aveva né poteva avere per ragioni storiche. La libertà del cristiano non era una liberazione sociale, non una liberazione dalla schiavitù o dalla povertà, ma era semplicemente una liberazione dal peccato. Questo concetto è ben delineato nella lettera ai Romani, ove si teorizza il passaggio dall’asservimento al peccato e alla carne all’asservimento alla fede, a Cristo e alla Chiesa. Il cristiano diventa così sevo di Dio, prigioniero in Cristo, vincolato nelle catene della fede, pronto a sopportare tutte le sofferenze che essa comporta, le quali sono a loro volta forme di imitazioni del Cristo. In altri termini il cristiano deve patire le sofferenze della croce e morire alla carne per risorgere in Cristo e nello spirito. L’imitazione di Cristo o di Paolo, che si presenta come modello da emulare, è il senso più profondo del kērygma paolino ed è il nodo centrale su cui esso si scontra con il cristianesimo apostolico. Tale problematica attraversa tutte le epistole, indipendentemente dal fatto che siano autentiche o pseudepigrafe, perché è l’essenza stessa del paolinismo a cui si richiamano tutti gli autori che si ispirano alla lettera ai Romani. Molti esegeti hanno frainteso i testi soprattutto in alcune espressioni come «servo di Dio», «prigioniero in Cristo», «essere in catene»(21) ed hanno pensato ad una vera e propria prigionia dell’apostolo. In realtà la prigionia è solo una metafora del totale abbandono alla fede nella irremovibile certezza della salvezza eterna e del ritorno alla vita dopo la morte. Le lettere paoline, al di là di ogni apparenza, sono estremamente variegate e diversificate tanto nel lessico e nello stile quanto in numerose sfu(21)  Rm, i, 1; vi, 16-20; 1Cor, vii, 21-23; Gal, i, 10; Ef, vi, 6; Fp, i, 1; ii, 7; Col, iv, 12; 2Tm, ii, 24; Tt, i, 1; «prigioniero in Cristo» (Ef, iii, 1; iv, 1; 2Tm, i, 8; Fm, 9), «essere in catene» (Fp, i, 7, 13, 14, 17; Col, iv, 18; 2Tm, ii., 9; Fm, 10, 13).

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mature concettuali. La loro struttura passa dal trattato teologico (Romani) all’apologetica e alla difesa del proprio ministero e della propria predicazione (2Corinzi e Galati), alle omelie e alla esortazione alla vita etica cristiana (Efesini, Filippesi, Colossesi, 1 e 2Tesalonicesi), alle raccomandazioni per la fondazione delle comunità paoline (1Corinzi), che finiranno col prevalere su quelle di origine apostolica, basate sui testi evangelici, fino alla imposizione degli obblighi connessi alla vita ecclesiale (1 e 2Timoteo e Tito). La loro posteriorità rispetto ai sinottici è attestata da puntuali citazioni dei testi. Galati, ii, 7, 8, è l’unica lettera che cita Pietro (Πέτρος); le altre lettere paoline ignorano la colonna portante su cui si fonderà la chiesa. Anche la citazione con il nome Cefa (Κηφᾶς) compare raramente; la riscontriamo solo nella 1Corinzi (i, 12; iii, 22; ix, 5; xv, 5) e in Galati (i, 8; ii, 9, 11, 14). È singolare che tale denominazione non compaia nei tre sinottici e trovi invece riscontro in Giovanni che la desume dalle lettere paoline e la raccorda ai sinottici, dicendola una mera traduzione del nome Pietro (Gv, i, 42: κηφᾶς ὃ ἑρμηνεύεται πέτρος). La 1Corinzi (xi, 23-26) conosce l’eucaristia secondo la formula istituzionalizzata da Marco, Matteo e Luca. La polemica delle due lettere ai Corinzi e ai Galati contro coloro che professano «un altro vangelo» e «un altro Cristo» presuppone i sinottici. Galati potrebbe essere definita la lettera della riconciliazione del paolinismo con il cristianesimo apostolico. L’incontro di Gerusalemme con Giacomo, Cefa e Giovanni, le ‘colonne’ del cristianesimo apostolico, si conclude con la divisione delle zone di azione: a Paolo è lasciato l’azione di proselitismo presso i gentili incirconcisi e a Cefa quella presso i giudei circoncisi (Gal, ii, 1-14). Ma il passo è per molti versi oscuro: non è sicuro che i due nomi Pietro e Cefa si riferiscano alla stessa persona e non è chiaramente identificabile la personalità di Giacomo. L’autore di Galati sembra vagare al buio; è probabile che egli alludesse ai discepoli di Cristo, a Giacomo Maggiore, a Giovanni di Zebedeo ed a Cefa non ben identificato con Pietro. Solo la sovrapposizione della narrazione degli Atti è servita a creare una versione passata ormai alla tradizione, secondo cui Giacomo era il fratello di Cristo. È sì vero che l’autore di Galati in occasione del primo viaggio a Gerusalemme e a distanza di tre anni dalla conversione, afferma che Paolo si recò a Gerusalemme per incontrare Giacomo e Cefa, ma lo fece con l’intento di intrattenersi con «coloro che erano apostoli» prima di lui. Come poteva pensare che tra costoro fosse annoverato Giacomo, il fratello del Signore, che non aveva fatto parte della sequela? L’inghippo si è probabilmente originato a causa dell’improv-

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vido intervento di una ignota mano che evidentemente ha aggiunto l’annotazione «fratello di Cristo». Attestata ad una fase di riconciliazione, Galati è comunque posteriore alle due lettere ai Corinzi, che registrano la fase più acuta di contrapposizione tra l’originario cristianesimo apostolico e quello paolino. La riconciliazione è intesa da Paolo con la solita pregiudiziale della superiorità di Israele su tutti gli altri popoli; è, come dire, l’universalizzazione di un privilegio che la tradizione riservava solo agli israeliti. Paolo estende a tutte le etnie la figliolanza di Dio, la vita spirituale e la morale cristiana. L’apostolo rivendica il diritto di professare il proprio kērygma, teologicamente più avanzato, e contesta l’autorità e l’arroganza delle comunità cristiano-apostoliche che erano di più antica formazione. Da qui le sue oscillazioni in ordine alla rivelazione che viene da Cristo o da Dio. Dalla 2Corinzi sappiamo che egli era contestato nelle originarie comunità cristiane per non essere un apostolo e quindi per non aver fatto parte della sequela del Cristo. Gli veniva chiesto di esibire le lettere di raccomandazione e Paolo rispondeva che le sue lettere di raccomandazione erano le stesse comunità paoline (2Corinzi, iii, 2) da lui edificate a Corinto, ad Efeso, a Filippi, nella Galazia, in Tessalonica. Se dobbiamo credere a Paolo, la conflittualità tra le due forme di cristianesimo doveva essere tale da mettere in pericolo la vita stessa dei suoi fedeli («veniamo esposti alla morte a causa di Gesù»). Egli definisce sarcasticamente i suoi rivali ‘superapostoli’ (2Corinzi, xi, 7-15) e, rivendicando la superiorità del proprio ministero, fa discendere la propria autorità direttamente da Dio («la nostra capacità viene da Dio») e ritiene di poterlo provare sulla base dell’esperienza estatica capitatagli sulla via di Damasco (2Corinzi, xii, 1-7). Probabilmente le comunità paoline dovevano essere messe a dura prova, circondate com’erano nell’area greco-anatolica, dalla prevalenza delle religioni misteriche e pagane, e compromesse dalle infiltrazioni – soprattutto nell’area siriana – di cristiano-apostolici (i falsi apostoli, gli operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo) che tentavano di minarle alla radice. Non è un caso se Paolo parla frequentemente delle fratture interne alle sue comunità e delle divisioni prodotte da chi punta ad esercitarvi un primato. Le sue argomentazioni difensive sono chiaramente rivolte contro le accuse provenienti dalle comunità cristiano-apostoliche; «se qualcuno è convinto di essere di Cristo, tenga presente che, come lui è di Cristo, lo siamo anche noi» (2Corinzi, x, 7). Paolo respinge l’accusa secondo cui le sue comunità erano carnali e vanta una superiorità rispetto ai suoi accusatori («sono ministri di Cristo? Io lo sono più di loro», 2Cor, xi, 23).

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L’affermazione del paolinismo nell’ultimo trentennio del secondo secolo, unita alle istruzioni pastorali delle due lettere a Timoteo e della lettera a Tito, segnerà il passaggio dalle comunità che si autogestiscono dal basso alla chiesa di potere e supporto del potere politico («ti raccomando prima di tutto che si facciano preghiere, suppliche, intercessioni, ringraziamenti […] per i re e per tutti coloro che hanno autorità, affinché si possa avere una vita tranquilla, con ogni pietà e dignità», 1Tm, ii, 1-2). Probabilmente il paolinismo, pur dando alle comunità cristiane un’anima ed un respiro di grande spessore teologico, contribuì ad affossare lo spirito più genuino del protocristianesimo. 2.10.  La pseudepigrafia delle lettere e il carattere fittizio della personalità di Paolo Il dubbio che l’intero corpus paolino sia pseudepigrafo va preso in seria considerazione. Non si può infatti escludere che Paolo sia stato un prestigioso maestro della prima ora su cui si è costruito un mito così da farne il teologo-fondatore del cristianesimo. Sospetto è lo stesso nome Saul (‫)שאול‬, poi latinizzato, come ci fanno sapere gli Atti, in Paulus. In latino Paulus, che significa «poco, pochino, scarso» e che taluni hanno voluto collegare alla bassa statura dell’apostolo, era anche un illustre cognomen appartenuto al Macedonico e a Lucio Emilio Paolo; perciò non si può escludere che l’apostolo fosse un liberto. Nella lingua ebraica Saul significa «chiamato, invocato, apostolo, inviato» ed era un nome ormai caduto in disuso nel i secolo dell’era cristiana. Stupisce il fatto che il nome latino sembri essere stato scelto più per affinità fonetica che per il significato etimologico. Ma stupisce ancor più il fatto che il nome ebraico corrisponde alla funzione e al ruolo che Paolo ritaglia per sé. Egli infatti si ritiene «chiamato da Dio» per predicare il vangelo del Salvatore-Messia. Sembra perciò che entrambe le figure principali della letteratura cristiana abbiano un nome correlato al loro ruolo. Il nome Saul nel senso di ‘inviato’ e il nome Gesù (‫ ישוצ‬oppure ‫ = )יהושצ‬Yoshua o Yehōwōšua’ che in lingua ebraica significa, come sappiamo, «salvatore/redentore/soccorso di Dio». Non a caso in Filippesi si dice che Dio ha dato al Cristo «il nome che è al di sopra di ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli sulla terra e negli inferi» (Fp, ii, 9-10). Sor-

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ge inevitabilmente l’interrogativo: sono nomi che si riferiscono a personaggi storici o fittizi? Che Paolo sia un ‘inviato’ o un ‘chiamato’ di nome e di fatto ce lo dice esplicitamente la Lettera ai Galati, che recita: «Colui [Dio] mi prescelse dal seno di mia madre e mi chiamò mediante la sua grazia» (ἐκ κοιλίας μητρός μου καὶ καλέσας διὰ τῆς χάριτος αὐτοῦ, Gal, i, 15). Il problema è che tale vocazione è derivazione da Isaia e da Geremia (Is, xlix, 1; Jr, i, 5). Probabilmente l’autore degli Atti ha inteso stabilire una correlazione simbolica tra Cristo e Paolo. Sapendo che il primo è un discendente di Davide, ha fatto del secondo un discendente beniaminita del re Saul. Paolo, infatti, si dichiara israelita, di fede fariseo, appartenente alla tribù di Beniamino. In Romani (ix, 3; xi, 1) scrive: «I miei fratelli, miei consanguinei sono israeliti»; «Anch’io sono israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino»; nella 2Corinzi (xi 22-33) dice: «Sono ebrei? Lo sono anch’io; sono israeliti? Lo sono anch’io; sono stirpe di Abramo? Anch’io», e in Filippesi (iii, 5) ricorda di essere stato «circonciso l’ottavo giorno, di nazione israelita, ebreo da ebreo della tribù di Beniamino, fariseo quanto alla legge […] persecutore della chiesa di Dio». Nella veste di discendente della tribù di Beniamino egli si presenta come una personalità di grande prestigio in grado di garantire il carattere di sacralità e di ispirazione divina al suo epistolario. Si potrebbe qui ripetere quanto si è già detto a proposito di Cristo. Non è rilevante la storicità di Paolo, come non lo è quella di Cristo; siano essi personaggi storici o fittizi, l’operazione che i testi evangelici e l’epistolografia paolina conducono è quella di mitizzare la loro personalità, di elevarla al rango della sfera divina in modo che possano accreditare il nuovo messaggio religioso. Ciò da cui trae origine il cristianesimo non è né la personalità di Cristo, né quella di Paolo; lo sono invece i miti religiosi che su di essi vengono ritagliati. Ben poco sappiamo della personalità e del carattere di Paolo. Galati ci fa sapere che all’origine della sua predicazione ci fu un malessere fisico («Fu a causa di una malattia fisica che vi annunciai il vangelo all’inizio e voi […] mi accoglieste», Gal, iv, 13). Ma sul suo carattere non si può dire che ci sia sintonia tra le lettere; talvolta esse fanno pensare ad un carattere duttile e quasi camaleontico, capace di farsi greco tra i greci, giudeo tra i giudei, forte tra i forti e debole tra i deboli; talaltra ci vien detto che egli era di carattere forte o di carattere debole; nella 2Corinzi emerge la sua boria, quella cioè di un uomo che ama vantarsi, ma nello stesso contesto si accenna ad una «spina nella sua carne» per evitare che si insuperbisca o al fatto che nel corpo por-

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ta i segni della sua appartenenza a Cristo (2Cor, xii, 7-8; Gal, iv, 13; vi, 17). Se si prescinde dagli Atti, che sulla vita dell’apostolo delle genti costruiscono una sorta di filo conduttore nell’intento di fornire una cornice storica della sua attività predicatoria, le notizie che abbiamo intorno a lui sono scarsissime e derivano da ciò che ci viene detto nelle Lettere. Senza la cornice fornita dagli Atti i suoi spostamenti e i suoi viaggi, così come sono accennati nelle Lettere, non sarebbero organicamente inquadrabili in una cronologia coerente. Spesso agli spostamenti fanno riferimento i congedi delle lettere, ma l’impressione che si ha è che il loro redattore finale abbia tenuto sott’occhio la cornice degli Atti per dare organicità alla materia. In generale però i dati biografici forniti dagli Atti non appaiono molto affidabili e del tutto fantasiosi sono poi quelli forniti dalla letteratura apocrifa. Gli Atti vogliono che Paolo sia nato a Tarso in Cilicia, ma poi ce lo presentano come residente in Antiochia di Siria, luogo dal quale egli parte per i suoi viaggi missionari e al quale ritorna alla loro conclusione. Quando gli Atti accennano ad un passaggio da Tarso, non mettono in bocca a Paolo nulla che riguardi i suoi legami con la città. Nelle Lettere poi non si trova nessun riferimento a Tarso. Infine gli Atti vogliono che egli si sia formato in Gerusalemme sotto la guida di Gamaliele, ma l’epistolario non ne fa il minimo cenno. L’attività missionaria di Paolo si sarebbe svolta in un’area geografica assai ampia da Gerusalemme all’Illiria (Rm, xv, 19). Le tappe di questa immane fatica sono Gerusalemme (Rm, xv; 1Cor, xvi; Gal, iv), Damasco (2Cor, xi, 32; Gal, i, 17), Antiochia di Pisidia (2Tm, iii, 11), Antiochia di Siria (Gal, ii, 11), Corinto (2Cor, i, 23: «non sono più venuto a Corinto»; 2Tm, iv, 20: «Erasto è rimasto a Corinto»), Efeso (1Cor, xv, 32; xvi, 8: mi fermerò ad Efeso fino alla pentecoste»), la Macedonia (Rm, xv, 26; 1Cor, xvi, 5; 2Cor, i, 16; ii, 13; vii, 5; viii, 1; xi, 9; Fp, iv, 15; 1Ts, i, 7, 8; iv, 10; 1Tm, i, 3; «Partendo per la Macedonia ti ho invitato a rimanere ad Efeso»), la Galazia (1Cor, xvi, 1), Troade (2Cor, ii, 12; 2Tm, iv, 13), Nicopoli (Tt, iii, 2), Creta (Tt, i, 5: «Ti ho lasciato a Creta»), Roma (Rm, i, 15; 2Tm, i, 17: «Onesimo, giunto a Roma, mi ha cercato»), Filippi (1Ts, ii, 2), Tessalonica (Fp, iv, 16; 1Ts, ii, 1), l’Acaia (2Cor, ix, 2; «L’Acaia è pronta dall’anno scorso». Particolarmente incerte sono le notizie sulla sua presenza in Gerusalemme; i rapporti con gli apostoli sono ora tesi e conflittuali, ora conciliativi. Per un verso li snobba, decide di non consultarli e di non salire a Gerusalemme, per l’altro invece si propone di consultare Cefa. Rimane a Gerusalemme 15 giorni, ma non lo incontra; entra invece in contatto solo con Giaco-

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mo, fratello del Signore, che non era nel novero degli apostoli. Fa esperienza di predicazione in Siria e in Cilicia, ma continua ad essere sconosciuto alle chiese della Giudea (Gal, ii, 1-10). Torna a Gerusalemme dopo 14 anni insieme a Barnaba e a Tito e, in atteggiamento di sottomissione, espone il vangelo che predicava tra i gentili; lo espone in privato, tra i notabili (verosimilmente sinedriali); dunque ancora una volta non agli apostoli, ma a notabili che presumibilmente erano di fede farisaica o sadducea. Costoro non avevano nessun motivo per indurre Tito, greco, a farsi circoncidere; lo fecero per l’intromissione di alcuni falsi fratelli che volevano metterli alla prova per saggiare fin dove si spingesse la loro libertà (nel senso di autonomia dalla Legge). Ad ogni modo i notabili non gli imposero nulla e lasciarono che a Paolo fosse affidata la predicazione presso i gentili e a Pietro quella presso i circoncisi. Riconoscendo la grazia a lui concessa da Dio, Giacomo, Cefa e Giovanni gli porgono le destre in segno di approvazione. Questa narrazione, che è passata alla storia come primo Concilio di Gerusalemme, ha dell’incredibile ed è tortuosa. È del tutto evidente che Galati, che è posteriore ai sinottici, cerca di conciliare, o meglio di ricondurre ad unità, i due cristianesimi, quello paolino e quello apostolico-sinottico, ma lo fa con una buona dose di ingenuità. Non si vede quale possa essere il nesso tra i notabili e il presunto vertice della chiesa gerosolimitana, posto che questa potesse convivere apertamente e tranquillamente a fronte della ostilità di farisei e sadducei. Inoltre si ha l’impressione che l’autore non si renda conto che il Pietro del versetto 8 non è altro che lo stesso Cefa dei versetti 9 e 11.(22) Non meno ambiguo e confuso è l’incidente di Antiochia di Siria (Gal, ii, 11-14): qui Paolo si sarebbe opposto apertamente a Cefa e lo avrebbe rimproverato per il suo comportamento. Infatti Cefa, prima dell’arrivo di Giacomo (il fratello del Signore o Giacomo il Maggiore?) mangiava con i gentili, dopo li evitò e si tenne in disparte, temendo la reazione della fazione filogiudaica. Paolo reagì redarguendo Cefa e lo accusò di aver agito da pagano e di non avere quindi titolo ad obbligare i gentili a vivere da giudei. Ma che senso ha questo rimprovero se la missione affidata a Cefa era quella di predicare ai circoncisi? Nella 2Corinzi il confronto con gli apostoli è sì diretto, ma è anche virtuale. Non c’è nessun reale scontro con i cosiddetti ‘superapostoli’; Paolo dichiara di non es(22)  Clemente Alessandrino, fonte Eusebio, HE, i, 12, sostenne nelle perdute Ipotiposi che il Cefa del versetto Gal, ii, 11, non sia Pietro, ma uno dei settanta discepoli. Sulla questione cfr. M. Bockmuehl, Simon Peter’s Names in Jewish Sources, cit., p. 69.

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sere inferiore a nessuno di loro, ma non ne cita neppure uno, anzi li reputa in blocco «falsi apostoli, operai fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo» (2Cor, xi, 1-33; xii, 11; xi, 13). Anche qui è evidente che l’autore del corpus non ha se non qualche vaga informazione sulla corrente cristiana legata alla tradizione apostolica. Questa semplicistica e claudicante narrazione vuol farci credere che la nascita di un fenomeno così complesso come il cristianesimo, possa essere, nel suo sviluppo e nella sua diffusione, riconducibile a singoli individui, di tempra eccezionale, o a un manipolo di collaboratori del tutto sconosciuti (Evodia, Sintiche, Tito, Timoteo, Clemente, Onesimo, Crescente, Luca, Dema, Aquila e Prisca).(23) Non v’è dubbio che il mito (di Cristo o di Paolo o di entrambi) gioca un ruolo di primo piano nella nascita di una nuova religione. Ma le nuove credenze non nascono come funghi; sono trasformazioni più o meno accentuate di precedenti credenze. C’è sempre un profondo travaglio ideologico, culturale e sociale alla radice dei mutamenti di pensiero. Le prime comunità cristiane sono impensabili senza la spinta della diaspora, della distruzione del tempio, dello scontro con l’ellenismo, del fascino delle religioni misteriche con la folla delle loro divinità che muoiono e risorgono e nascono nel solstizio d’inverno. Senza la tragedia della distruzione del tempio e della devastazione di Gerusalemme non è pensabile la speranza della salvezza e della resurrezione; nella sconfitta della morte e della distruzione si accende in modo oscuro l’idea della sopravvivenza. Nessun popolo può vivere nella disperazione; se la disperazione è la malattia mortale, la speranza e la rinascita sono i farmaci salvavita. E lo sono nella misura in cui rientrano in un disegno divino; la sorte del popolo (della morte e della resurrezione) è la stessa del Dio. Sono i sentimenti, le emozioni, le speranze, le attese, i desideri che sono il sangue e la carne della fede; il mito semplicemente li consolida. Ma il mito dapprima è magmatico, è materia incandescente, ha origini popolari, è una narrazione sfumata, variegata, multiforme presso le comunità della prima ora; poi prende corpo in uno o più testi di presunta ispirazione divina. Le prime comunità cristiane, sorte dopo la distruzione del tempio, ancora informi, si coagularono attorno a due poli dottrinali: quello più popolare dei sinottici e quello più sofisticato, nel confronto con la filosofia gre(23)  Aquila e Prisca, in quanto salutati nel poscritto di Romani (xvi, 3), sono incardinati nella chiesa di Roma; per la 1Corinzi (xvi, 19) hanno invece una chiesa domestica ad Efeso, da cui Paolo scrive la lettera. Senza la mediazione degli Atti tale nesso non risulterebbe chiaro.

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ca e con la gnosi, del paolinismo. Alla loro difficile fusione provvederanno i teologi o padri della chiesa del iii e del iv secolo. Altrettanto indecifrabile è la questione della colletta: non si capisce se essa fu fatta per venire incontro ai poveri di Gerusalemme o per il sostentamento di Paolo e dei suoi più stretti collaboratori, né si capisce se la stessa è databile all’inizio della predicazione paolina o alla fine. Per Romani si tratta di una colletta per i poveri di Gerusalemme («Per ora vado a Gerusalemme […] è piaciuto alla Macedonia e all’Acaia di fare una colletta per i poveri tra i santi di Gerusalemme» (Rm, xv, 25-26). Per Filippesi si tratta di una raccolta fondi per Paolo e per i suoi collaboratori: «Voi sapete, filippesi, che all’inizio della predicazione del vangelo, quando partii per la Macedonia, nessuna chiesa aprì un conto di dare e avere con me se non voi. Anche a Tessalonica, per due volte, mi avete mandato il necessario […] sono ricolmo dei vostri doni che ho ricevuto da Epafrodito» (Fp, iv, 16). Concetto ribadito nella 2Corinzi («Questa è la terza volta che sto per venire da voi; non vi sarò di peso; non cerco i vostri beni, ma voi» 2Cor, xii, 14; xiii, 1), non senza un malcelato senso di colpa: «Ho spogliato altre chiese accettando i loro aiuti economici per il ministero presso di voi. Quando sono venuto da voi, pur trovandomi nel bisogno, non sono stato di peso a nessuno, perché alle mie necessità hanno provveduto i fratelli venuti dalla Macedonia» (2Cor, xi, 8-9). I Tessalonicesi sono elogiati e proposti a tutti i credenti come modello per avere contribuito con le loro sovvenzioni alla diffusione del vangelo in Macedonia e in Acaia (1Ts, i, 7-8). Per la 1Corinzi la colletta è un’opera di carità per Gerusalemme e consiste in una raccolta sistematica di fondi, come quella proposta ai Galati, di accantonare ogni sabato i risparmi della settimana (1Cor, xvi, 1-3). Alla colletta allude anche la 2Corinzi, in cui si parla di «servizio verso i santi» e si esalta «la ricchezza della generosità» dei Corinzi, i quali «hanno dato secondo la loro possibilità» e sono stati i primi ad intraprendere la loro opera di generosità fin dall’anno precedente (2Cor, viii, 1-15). Non poche incertezze sussistono sulla possibile datazione di tale colletta. Se fu una raccolta sistematica, si può pensare alla sua utilità per il servizio di apostolato; se, invece, fu una raccolta di emergenza, proposta, secondo Filippesi, all’inizio della predicazione paolina, aveva carattere assistenziale. Ma questa ipotesi è contraddetta dalla 2Corinzi, che, dovendo collocarsi verso la fine dell’attività missionaria («Questa è la terza volta che sto per venire da voi», 2Cor, xii, 14; xiii, 1), fa slittare la colletta all’ultima fase dell’aposto-

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lato paolino. In Romani la contraddizione sembra essere interna, perché la raccolta, che si riferisce all’inizio della missione, è in conflitto con il progetto di un viaggio in Spagna che è invece prossimo alla tragedia romana (Rm, xv, 24, 28). Forse per sanare l’inghippo gli Atti hanno collegato la colletta con la carestia che colpì la Giudea sotto il principato di Claudio. Ma in nessuna delle lettere la raccolta dei fondi è posta in relazione con la siccità o con la carestia. D’altro canto, se la siccità colpì tutta la Giudea, perché le lettere fanno riferimento solo ai «poveri di Gerusalemme»? È più probabile che esse alludano non ad una carestia, ma piuttosto ai gravi disagi prodotti dalla distruzione della città ad opera dei Romani. Il che confermerebbe la datazione al ii secolo di tutta la produzione paolina. Abbastanza ingarbugliata è altresì la narrazione che gli Atti e le Lettere ci danno della conversione di Paolo. Per Filippesi Paolo è stato «preso», «afferrato» da Cristo (κατελήμφθην ὑπὸ χριστοῦ, Fp, iii, 12), ma nell’insieme la conversione sembra configurarsi come un processo di maturazione più che di folgorazione. Nella stessa ottica sembra muoversi la 1Timoteo, in cui l’accento è posto sulla grazia e la conversione di Paolo è prospettata come esempio per i credenti (1Tm, i, 12-17). Nella 1Corinzi più che di rapimento si parla di visione («Ultimo tra tutti, come ad un aborto, è apparso anche a me» ἔσχατον δὲ πάντων ὡσπερεὶ τῶ ἐκτρώματι ὤφθη κἀμοί, 1Cor, xv, 8). Gli Atti ci danno tre versioni fortemente differenziate della cosiddetta ‘conversione’. Nel capitolo ix, 3-20, Saulo, avvolto all’improvviso da una luce, cade a terra, ode la voce del Cristo che lo invita a rialzarsi e a recarsi a Damasco. I suoi compagni di viaggio «odono la voce, ma non vedono nessuno»; rialzatosi, Saulo si accorge di essere rimasto accecato. Rimane cieco e digiuno per tre giorni, poi a Damasco un tal Anania, discepolo cristiano, mandato dal Cristo, gli restituisce la vista. Infine, dopo essersi fermato «per alcuni giorni» (ἡμέρας τινὰς) a Damasco, giunge a Gerusalemme. Nel capitolo xxii (5-16) la visione si verifica a mezzogiorno; i compagni di viaggio vedono la luce, ma non ne sono folgorati né odono la voce del Cristo. Anania ci viene presentato come un fariseo, testimone della Legge, il quale svela a Paolo che sarà destinato all’apostolato presso i Gentili e gli dà istruzioni sul battesimo; dopo di che Paolo rientra a Gerusalemme. Una terza versione ci è data nel capitolo xxvi (18-18): la luce sfolgorante più del sole fa cadere a terra sia Paolo sia i suoi compagni; la voce, questa volta in ebraico, è udita solo da Paolo. Anania scompare dalla scena ed è lo stesso Gesù che svela a Paolo di essere destinato all’apostolato e gli impartisce le opportune istruzioni, senza alcun riferimen-

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to al battesimo. Nella 2Corinzi, ove Paolo accenna al suo rapimento fino al terzo cielo, si conferma l’eccezionalità dell’evento (2Cor, xii, 2-3). Lo stesso accade in Galati (i, 11-17), ove Paolo riceve da Cristo il vangelo ed è scelto da Dio «fin dal grembo materno» per farlo conoscere ai gentili. Mutano però le coordinate cronologiche, perché il testo allude ad una sortita verso l’Arabia e ad un soggiorno di ben tre anni a Damasco prima di raggiungere Gerusalemme. La 2Corinzi aggiunge un particolare poco credibile: dopo la conversione dell’apostolo, il governatore di Areta IV, re dei Nabatei (ὁ ἐθνάρχης Ἁρέτα τοῦ βασιλέως), avrebbe presidiato la città di Damasco nell’intento di catturare Paolo (2Cor, xi, 32). Gli Atti non fanno alcun riferimento ad Areta, ma attribuiscono ai giudei di Damasco sia il complotto per uccidere Paolo sia la decisione di tenere sotto controllo le porte della città per impedirgli di fuggire (At, ix, 24). Si tratta tuttavia di versioni inaccettabili perché Damasco era sì stata sotto il dominio dei Nabatei, ma a partire dall’85 a.C. fino al 63 a.C., allorché la Siria fu sottomessa da Pompeo. Negli anni cui si riferisce la 2Corinzi la città è ormai sotto il controllo indiretto dei Romani, dapprima con il governatorato di Lucio Pomponio Flacco (32-35) e in seguito con quello di Lucio Vitellio (35-39)(24). La contraddizione tra Galati e Atti è insanabile. Se, infatti, Paolo era osteggiato da Areta, perché avrebbe dovuto recarsi proprio in Arabia, ovvero nel cuore del regno dei Nabatei? E perché avrebbe fatto ritorno a Damasco, se la città era presidiata? Come conciliare i dati sul soggiorno di Damasco? Si trattò di «pochi giorni» o di tre anni? Insomma tutta la vita di Paolo è un rebus senza soluzioni accettabili. Ci si libera dall’inghippo solo se ci si convince che la sua è una figura fittizia, autorevole ma costruita, proprio per porre su un solido piedistallo le prime elaborazioni teoriche delle comunità cristiane, prevalentemente greco-siriano-anatoliche. L’anonimo autore che ne ha delineato i tratti dottrinali lo ha fatto sulla base di Isaia e di Geremia (Is, xlix, 1; Jr, i, 5) e lo ha pensato come il profeta «servo di Dio» (non a caso nella intestazione di talune lettere egli si presenta come δοῦλος θεοῦ servus dei), chiamato fin dal ventre materno ad essere il «profeta delle nazioni». Per il resto la narrazione della folgorazione sulla via di Damasco, oltre che contraddittoria, è manifestamente fabulosa e inaffidabile. In alcune delle tappe dei suoi viaggi missionari Paolo dice di aver subito persecuzioni. Così sarebbe accaduto a Filippi, ad Antiochia di Pisidia, a Iconio e a Listra (1Ts, ii, 2; 2Tm, iii, 11). Nella 2Corinzi parla di «tribolazione (24)  v. Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 151-154.

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capitata in Asia», ove avrebbe addirittura ricevuto la sentenza di morte; nella stessa lettera afferma di aver scritto «in un momento di grande tribolazione, tra molte lacrime» (2Cor, i, 8-11; vii, 5; ii, 4) e si dichiara: ministro di Cristo […] nella prigionia […] nelle percosse […] in pericolo di morte. Dai giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta colpi meno uno, tre volte sono stato bastonato; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde; numerosi viaggi, pericoli di briganti, pericoli dai connazionali […] dai pagani […] dai falsi fratelli (2Cor, xi, 23-26).

La 2Timoteo è la lettera degli abbandoni: lo abbandonano Figelo, Ermogene e Dema che ha preferito il secolo presente. Nella sua prima difesa in tribunale nessuno gli è stato vicino, tutti lo hanno abbandonato; soffre a causa del vangelo fino a portare le catene, come un malfattore; il suo sangue sta per essere versato; soltanto Luca è rimasto con lui. Alessandro il ramaio lo ha tradito; «Imeneo e Fileto hanno deviato dalla verità, dicendo che la resurrezione si è già realizzata» (2Tm, i, 15; iv, 10, 16; ii, 9; iv, 6, 11, 14; ii, 17-18). Eppure questa commovente rappresentazione fa sorgere più di una perplessità sulla prigionia di Paolo e sulle persecuzioni da lui subite, perché sorge il sospetto che si tratti come al solito di un tópos letterario; come se cioè non fosse pensabile il proselitismo cristiano senza il martirio, perché essere cristiano significa testimoniare (martyréin μαρτυρεῖν) di esserlo. Un gruppo di lettere (Romani, Efesini, Filippesi, Colossesi, 2Timoteo e Filemone), che potremmo definire ‘Lettere delle catene’, accenna frequentemente alla prigionia. Ma su questo terreno occorre essere prudenti, perché il tema delle persecuzioni, delle tribolazioni e delle sofferenze è in larga parte ispirato all’AT. La lettera ai Romani (viii, 36) ne fa cenno in riferimento al Salmo xliv, 23: «A causa tua siamo messi a morte ogni giorno: veniamo considerati come pecore da macello». È il salmo che potremmo definire della «persecuzione», particolarmente caro agli ebrei della grande diaspora successiva al 70 d. C, perché in esso si trovano profetizzate le condizioni del tempo presente: «Ci disperdi in mezzo alle genti […]; per te siamo uccisi ogni giorno, trattati come agnelli da macello». Lo stesso Cristo è l’agnello da macello per antonomasia e coloro che credono in Lui sono votati alla sofferenza. È qui il senso più profondo della prigionia. Essa è un concetto teologico che non va scambiato per realtà storica.(25) Ecco (25)  Ne consegue che sono prive di senso le ipotesi avanzata da Robinson e da Ramsay.

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perché il tema delle persecuzioni ricorre con frequenza nelle lettere paoline, quasi come invito alla sofferenza («Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente» (Rm, xii, 1). Salutando i suoi cognati (τοὺς συγγενεῖς μου), «Andronico e Giunia» (o Giulia a seconda dei manoscritti),(26) Paolo li dichiara suoi co-prigionieri (concaptivos; καὶ συναιχμαλώτους μου,Rm, xvi, 7) e dice che essi si sono «segnalati tra gli apostoli e sono in Cristo prima di me». Lo stesso sintagma compare in Colossesi (ἀρίσταρχος ὁ συναιχμάλωτός μου, Col, iv, 10) e in Filemone (9, 10, 23), dove il co-prigioniero è Epafra e non Aristarco (ἐπαφρᾶς ὁ συναιχμάλωτός μου ἐν χριστῶ ἰησοῦ), Onesimo è designato come un fratello «generato in catene» (ἐγέννησαἔν τοῖς δεσμοῖς) e Paolo come prigioniero di Cristo Gesù: παῦλος δέσμιος χριστοῦ ἰησοῦ. Dichiarazioni analoghe abbondano in altre lettere, come Efesini («Io Paolo, il prigioniero di Cristo per voi Gentili», ἐγὼπαῦλος ὁ δέσμιος τοῦ χριστοῦ;ἐγὼ ὁ δέσμιος ἐν κυρίῳ), Filippesi («mie catene»), Colossesi («Aristarco, mio compagno di prigionia»; «Ricordatevi delle mie catene», μνημονεύετέ μου τῶν δεσμῶν), 2Timoteo («non vergognarti […] di me che sono suo [di Cristo] prigioniero […] soffri con me per il vangelo»; «condividi le mie sofferenze»; «Onesìforo non si è vergognato delle mie catene», καὶ τὴν ἅλυσίν μου οὐκ ἐπαισχύνθη; «soffro fino a portare le catene come un malfattore», κατὰ τὸ εὐαγγέλιόν μου· ἐν ᾧ κακοπαθῶ μέχρι δεσμῶν ὡς κακοῦργος; «sofferenze come quelle che incontrai ad Antiochia, a Iconio e a Listra. Quali persecuzioni ho sofferto, ma da tutte mi ha liberato il Signore»).(27) Tutta l’attività predicatoria è associata alle persecuzioni e alla passione («persecutiones, passiones», τοῖς διωγμοῖς, τοῖς παθήμασιν). L’espressione ἐν ἁλύσει (in catene) ricorre anche in Efesini (vi, 20), ove Paolo si dichiara ambasciatore in catene del vangelo. In Filippesi (i, 17) afferma che la faziosità (ἐξ ἐριθείας) e la divisione interna alle sette cristiane aggiungono tormento e «tribolazione alle mie catene» (τὸν χριστὸν καταγγέλλουσιν, οὐχ ἁγνῶς, οἰόμενοι θλῖψιν ἐγείρειν τοῖς δεσμοῖς μου). La grande aspirazione al martirio ha la sua ragion d’essere nel desiderio di patire la passione del Cristo. Dichiararsi prigioniero di Cristo significa essere in radicale comunanza con Cristo, essere in Cristo e per Cristo, condividerne le sofferenze e la passione, votarsi al sacrificio per poi risorgere con Cristo a nuova vita. Chi dovesse confondere come fatto storico il concetto di διωγμός (prigioniero) fraintenderebbe uno dei concetti cardini della teologia paolina. Naturalmente le catene diventano strumento di proselitismo («Mi è sta(26)  Numerosi codici recano il nome Giulia. (27)  Ef, iii, 1; iv, 1; Fp, i, 13; Col, iv, 10, 18; 2Tm, i, 8; ii, 3; i, 16; ii, 9; iii, 11.

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ta concessa la grazia di essere in catene […] nella difesa e nel consolidamento del vangelo», ἔν τε τοῖς δεσμοῖς μου καὶ ἐν τῇ ἀπολογίᾳ καὶ βεβαιώσει τοῦ εὐαγγελίου συγκοινωνούς μου τῆς χάριτος; «Le mie catene per Cristo sono diventate note a tutto il pretorio […] e la maggioranza dei fratelli del Signore, incoraggiati dalle mie catene con più zelo e senza paura annunciano la Parola», ὥστε τοὺς δεσμούς μου φανεροὺς ἐν χριστῶ γενέσθαι ἐν ὅλῳ τῶ πραιτωρίῳ καὶ τοῖς λοιποῖς πάσιν, καὶ τοὺς πλείονας τῶν ἀδελφῶν ἐν κυρίῳ πεποιθότας τοῖς δεσμοῖς μου περισσοτέρως τολμᾶν ἀφόβως τὸν λόγον λαλεῖν, Fp, i, 7, 13-

14). In Filemone (13) ci vien detto che Paolo avrebbe voluto portare con sé Onesimo perché utile alla predicazione «nelle catene per il vangelo» (ὃν ἐγὼ

ἐβουλόμην πρὸς ἐμαυτὸν κατέχειν, ἵνα ὑπὲρ σοῦ μοι διακονῇ ἐν τοῖς δεσμοῖς τοῦ εὐαγγελίου). Insomma la prigionia non è altro che il sacrificio vivente

per cui il cristiano deve offrire il proprio corpo quale vittima sacrificale ad imitazione del Cristo e per compassione con lo stesso. Tale è il concetto che emerge in Romani: «obsecro […] vos […] ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum»;

παρακαλῶ οὗν ὑμᾶς, ἀδελφοί, διὰ τῶν οἰκτιρμῶν τοῦ θεοῦ, παραστῆσαι τὰ σώματα ὑμῶν θυσίαν ζῶσαν ἁγίαν εὐάρεστον τῶ θεῶ, τὴν λογικὴν λατρείαν ὑμῶν.(28) Nella 2Corinzi la persecuzione è un merito («Mi compiaccio nel-

le infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni e nelle angosce sofferte per Cristo, perché quando sono debole, allora sono forte»), emblematicamente stigmatizzato nell’ideale della morte come guadagno (ἐμοὶ γὰρ τὸ ζῆν χριστὸς καὶ τὸ ἀποθανεῖν κέρδος, 2Cor, xii, 1; Fp, i, 21). 2.11.  Autenticità o inautenticità delle lettere paoline A giudicare dalle dichiarazioni contenute nelle lettere, non dovrebbe sussistere alcun dubbio sulla loro paolinicità. Alcune infatti esibiscono chiare attestazioni di autenticità, poiché Paolo le dice scritte di suo pugno. La formula «Il saluto è di mio pugno, di Paolo» (ὁ ἀσπασμὸς τῇ ἐμῇ χειρὶ παύλου) (28)  Rm, xii, 1. Il termine ‘ostia’, a causa del suo impiego in riferimento all’eucaristia, ha finito col perdere il suo originario significato di vittima sacrificale (hostiam θυσίαν). La chiesa tende ad escludere l’elemento razionalistico presente nel concetto di τὴν λογικὴν λατρείαν rationabile obsequium, che è già traduzione non del tutto fedele. A. Pitta, Lettera ai Romani, nuova versione, traduzione e commento, Milano, Paoline, 2009, traduce incredibilmente «come vostro culto esistenziale», ove ‘esistenziale’ è in qualche modo opposto a λογικὴν.

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è presente in 1Corinzi, in Colossesi e in 2Tessalonicesi (1Cor, xvi, 21; Col, iv, 18; 2Ts, iii, 17). Il congedo della Lettera ai Galati recita: «Vedete con quali lettere vi scrivo di mio pugno» (ἴδετε πηλίκοις ὑμῖν γράμμασιν ἔγραψα τῇ ἐμῇ χειρί); quello della Lettera a Filemone: «Io Paolo vi scrivo di mio pugno» (ἐγὼ παῦλος ἔγραψα τῇ ἐμῇ χειρί). Nella 1Corinzi l’autenticazione è persino seguita dalla minaccia dell’anatema: «Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema: marān ‘athā (che significa «Il Signore è venuto» oppure «Vieni, Signore!»). La 2Corinzi si limita a dire: «scrivo da lontano» (διὰ τοῦτο ταῦτα ἀπὼν γράφω). Nella 2Tessalonicesi la formula: «Il saluto è di mio pugno, di Paolo» è una sorta di sigillo attestante l’autenticità delle sue lettere: («Questo è il segno; in tutte le lettere scrivo così», ὁ ἀσπασμὸς τῇ ἐμῇ χειρὶ παύλου, ὅ ἐστιν σημεῖον ἐν πάσῃ ἐπιστολῇ· οὕτως γράφω). Purtroppo il presunto ‘segno’ è riprodotto in Colossesi, ma è assente nella gran parte delle altre lettere paoline. Perché allora la lettera ai Romani è firmata da Terzo? («Io, Terzo, che ho scritto questa lettera, vi saluto nel Signore», ἀσπάζομαι ὑμᾶς ἐγὼ τέρτιος ὁ γράψας τὴν ἐπιστολὴν ἐν κυρίῳ, Rm, xvi, 22). Gli esegeti cattolici se la cavano dicendo che Terzo è uno scrivano di Paolo. Ma è congettura non dimostrata. Quale scarso valore abbiano le attestazioni di autenticità è dimostrato dal fatto che esse compaiono sia in lettere considerate autentiche dagli esegeti (1Corinzi e 2Tessalonicesi) sia in altre ormai riconosciute come pseudepigrafe (Colossesi). Il che toglie a quelle attestazioni ogni valore. Anzi, a dire il vero, è proprio questa smaccata insistenza sull’autenticità che appare sospetta. Se esse erano autentiche, a che pro insistere tanto sulla loro autenticità? Né Platone, né nessuno degli autori dell’antichità classica si è mai sognato di dichiarare autentici i propri scritti, perché la dichiarazione di autenticità non aggiunge né toglie nulla al testo; l’autenticità, quando sussiste, è scontata e notoria. Quando è smaccatamente esibita, è segno che qualcuno ne ha contestato l’originalità. Le presunte attestazioni servivano evidentemente ad allontanare i dubbi sulla loro natura di testi pseudepigrafi. Non è improbabile che un abile manipolatore le abbia introdotte nei testi proprio allo scopo di dissolvere ogni perplessità. Va da sé che per gli apologeti non sussistono dubbi di sorta. Il corpus paolino è assolutamente autentico. Taluni, come Michaelis e Lohfink,(29) riconoscono la paternità paolina persino alle epistole pastorali che sono ine(29) W. Michaelis, Pastoralbriefe und Gefangenschaftsbriefe, Gutersloh, Bertelsmann, 1930, pp. 99-100; G. Lohfink, La conversion de Saint Paul: démonstration de la méthode récente des science bibliques à propos des textes, Paris, Cerf, 1967.

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quivocabilmente più tarde. Più correttamente Easton la respinge.(30) Molto variegate sono le posizioni degli studiosi su singole lettere. Ferdinand Christian Baur accoglie come autentiche solo Romani, 1 e 2 Corinzi e Galati. Hilgenfeld e Holtzmann,(31) oltre alle quattro accolte da Baur, reputano genuine anche la Filippesi, la 1Tessalonicesi e Filemone. Ma nessuna delle proposte avanzate è incontestabile. Le perplessità sulla lettera ai Colossesi, come rilevò Baur, riguardano la sua scoperta polemica antignostica. L’ipotesi che il testo originale abbia potuto subire qua e là interpolazioni più o meno cospicue può prestare il destro a salvare almeno parte della sua autenticità.(32) Ma questa pia illusione cade se si pensa che quelle interpolazioni possono essere il prodotto di interventi successivi alla elaborazione pseudepigrafa. Più di uno studioso segnala divergenze tra le diverse lettere. Bujard(33) rileva che in Colossesi (i, 27; ii, 11; ii, 19; iii, 24) ci sono differenze stilistiche nell’uso del genitivo. Conzelmann(34) osserva che in essa è sviluppato un diverso concetto di speranza. Il congedo di Colossesi sembra scritto a ricalco di quello della Lettera a Filemone, poiché vi appaiono gli stessi nomi: Tichico […] vi informerà sulle cose che mi riguardano […] con lui verrà Onesimo […] vi informeranno di tutte le cose di qua. Vi salutano Aristarco, mio compagno di prigionia, Marco, cugino di Barnaba […] e Gesù detto Giusto […]. Vi saluta Epafra […] che si preoccupa molto per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Ierapoli; vi salutano Luca e Dema (Col, iv, 7-14). (30)  B. S. Easton, The Pastoral Epistles, London, SCM Pr., 1948; ma contro ogni evidenza filologica gli esegeti di matrice confessionale, come D. W. Jowers, Observations on the Authenticity of the Pastoral Epistles, «Western Reformed Seminary Journal», xii, 2005, pp. 7-11, non demordono nella difesa dell’autenticità delle epistole pastorali. (31)  F. Ch. Baur, Paul, the Apostle of Jesus Christ, cit., pp. 245-249; A. Hilgenfeld, Die beiden Briefe an die Thessalonisher, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft», v, 1862, pp. 225-264; H. J. Holtzmann, Zum zweiten Thessalonicherbrief, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft», ii, 1901, pp. 97-108. (32)  Cfr. in proposito Heinrich Julius Holtzmann, Kritik der Epheser und Kolossererbirefe auf Grund einer Analyse ihres Verwandtschaftsverhältnisses, 1872; R. McLachlan Wilson, Gnosis and the New Testament, Oxford, Blackwell, 1968, p. 175, il quale contesta l’impianto antignostico. (33) W. Bujard, Stilanalytische Untersuchungen zum Kolosserbrief als Beitrag zur Methodik von Sprachvergleichen, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973. (34) H. Conzelmann, An Outline of the Theology of the New Testament, London, SCM Press, 1969, p. 314.

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Più conciso il testo di Filemone, ove però il congedo sembra essere un’aggiunta posteriore rispetto alla firma della lettera: «te lo [Onesimo] mando […] ti salutano Epafra, mio compagno di prigionia in Gesù Cristo, Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori» (Fm, 21-25, 19). L’esegesi cattolica vuole che le due lettere siano state scritte da Efeso e che Filemone appartenga alla comunità di Colossi. Si tratta probabilmente di una deduzione tratta dai nomi presenti nei due congedi. Aristarco, Marco, Epafra, Dema e Luca avrebbero costituito il primo nucleo della comunità cristiana di Efeso. Ma è una deduzione affrettata sia perché il congedo di Filemone è manifestamente posticcio, sia perché l’invio di Tichico e di conseguenza anche quello di Onesimo, come si evince da Efesini («Tichico vi informerà su ciò che mi riguarda»), non ha come base di partenza Efeso. La questione si complica se prendiamo in considerazione il congedo della 2Timoteo, che si vuole scritta da Roma; in essa ritroviamo gli stessi nomi citati in Colossesi e in Filemone, Dema, Luca, Marco e Tichico (2Tm, iv, 9-12). Insomma Tichico parte da Efeso o da Roma? Su questo punto le lettere sono in contraddizione. Le contraddizioni aumentano ulteriormente se tiriamo in ballo il congedo della Lettera a Tito: «Quando ti avrò mandato Artema o Tichico, affrettati a venire a Nicopoli [in Epiro], perché lì ho deciso di trascorrere l’inverno» (Tt, iii, 12). Da ciò si comprende che l’invio di Tichico è una sorta di luogo comune nelle epistole paoline. Inoltre dall’incipit della lettera sappiamo che Tito si trovava a Creta e quindi presumibilmente nel corso della prigionia che condusse Paolo a Roma, ma, secondo la cronologia costruita dagli Atti, l’apostolo svernò in Epiro nel corso del terzo viaggio missionario. Un ulteriore elemento che gioca contro la paolinicità delle lettere sta nell’uso del termine ‘chiesa’. Esso ha nel corpus almeno quattro accezioni: 1) ha il significato generale di ‘assemblea’ che è in effetti il suo significato originario; 2) assume spesso il significato di ‘comunità’; 3) ha talvolta il significato di domus ecclesiae, di chiesa familiare, cioè di comunità che si riunisce nella casa di un determinato nucleo familiare; 4) ha il significato di chiesa regionale o comunque locale oppure quello di chiesa universale, cattolica. Le prime due accezioni sono compatibili con il primo secolo, ma sono rarissime nell’epistolario; le altre due sono proprie del secondo secolo più o meno inoltrato. L’accezione generica di ‘assemblea’ ricorre in 1Corinzi.(35) L’uso più comune che ne fa Paolo è quello di chiesa regionale o comunque (35)  1Cor, xi, 18; xiv, 19, 23, 28, 34, 35.

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locale. Tali sono la ‘chiesa di Cencre’, le ‘chiese dei gentili’, tutte le chiese di Cristo; le ‘chiese della Galazia’, le ‘chiese dell’Asia’(36) («Insegno ovunque in ogni chiesa»; «Così dispongo in tutte le chiese»), le ‘chiese della Macedonia’ (2Cor, viii, 1); ‘tutte le chiese’,(37) le ‘chiese della Galazia’, le ‘chiese della Giudea’ (1Cor, xvi, 1; Gal, i, 2, 22); «nessuna chiesa aprì un conto» (Fp, iv, 15); la ‘chiesa di Laodicea’, la ‘chiesa dei Tessalonicesi’ (Col, iv, 16; 1Ts, i, 1; 2Ts, i, 1). La terza accezione la troviamo in riferimento alle chiese domestiche di Aquila e Prisca (τὴν κατ’οἶκον αὐτῶν ἐκκλησίαν, Rm, xvi, 5; 1Cor, xvi, 19), di Ninfa, di Filemone (Col, iv, 15; Fm, 2) e forse anche quella di Gaio (γάϊος ὁ ξένος μου καὶ ὅλης τῆς ἐκκλησίας, Rm, xvi, 23). L’accezione di chiesa universale è riconoscibile nelle espressioni «chiesa di Dio»;(38) «posti nella chiesa come apostoli e come profeti» (1Cor, xii, 28); «capo su tutte le cose per la chiesa», «mediante la chiesa», «gloria nella chiesa», «Cristo capo della chiesa», «Cristo ha amato la chiesa», «chiesa gloriosa», «Cristo cura la chiesa»;(39) «persecutore della chiesa»;(40) «chiesa corpo di Cristo»; «non si aggravi la chiesa»; «quelli che non contano nulla nella chiesa»; «chi profetizza edifica la chiesa».(41) D’altro canto le perplessità si impongono per il fatto che nel corpus paolino, come vedremo a breve, non c’è una sufficiente compattezza dottrinale, pur ammettendo una possibile modesta evoluzione del pensiero teologico dell’apostolo. Va, infatti, tenuto presente che secondo la tradizione l’arco temporale in cui le epistole sarebbero state scritte supera di poco il decennio ed è quindi troppo breve per pensare ad una curva evolutiva di qualche significato. I primi dubbi sulla paolinicità di Efesini furono sollevati da Erasmo.(42) La sua ricezione è certamene tardiva. Citata da Clemente Alessandrino, da Ire(36)  Rm, xvi, 1, 4, 16; 1Cor, xvi, 19. (37)  1Cor, xvi, 1, 19; iv, 17; vii, 17; xiv, 33, 34, 35; 2Cor, viii, 18, 19, 23, 24; xi, 8, 28, xii, 13; Col, i, 18. (38)  1Cor, i, 2; vi, 4, x, 32; xi, 16, 22; xv, 9; 2Cor, i, 1; Gal, i, 13; 1Ts, ii 14; 2Ts, i, 4; 1Tm, iii, 5, 15. (39)  Ef, i, 22; iii, 10, 21; v, 23, 24, 25, 27, 29, 32; Col, i, 18. (40)  Fp, iii, 6. L’espressione «persecutore della chiesa», chiaramente riferita alla chiesa universale, tradisce l’inautenticità di Filippesi, perché non è pensabile una chiesa istituzionalizzata già prima della conversione paolina (37-39). (41)  Col, i, 24; 1Tm, v, 16; 1Cor, vi, 4; xiv, 4, 5, 12. (42)  Erasmo da Rotterdam, In Epistolas D[ivi] Pauli ad Galatas et Ephesios piae atque eruditae annotationes, Francoforti, Christianus Egenolphus Hadamarius excudebat, 1542;

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neo e da Tertulliano,(43) per essere inclusa nel canone marcionita, essa non può essere posteriore al 150. Ma non è escluso che dopo quella data abbia subito consistenti manipolazioni. Secondo Goodspeed e Mitton(44) il suo vocabolario è diverso rispetto alle altre epistole. Van Roon(45) mette in discussione gli esiti dell’analisi linguistica, da cui emerge che, come si è detto, il termine ecclesia è usato nel senso di chiesa universale e non di comunità locale. Inoltre i temi teologici divergono dalle altre epistole: il profilo escatologico risulta secondario rispetto alle altre lettere: non si parla dell’imminente ritorno del Cristo. Secondo Kümmel(46) la sua teologia va oltre Paolo. Si è poi osservato che Efesini e Colosssesi si possono accostare sotto il profilo testuale, nel senso che la prima sembra essere uno sviluppo o una variante della seconda o viceversa. Secondo Scott(47) l’una servì da modello all’altra, ma in qualche specifico caso è vero l’opposto. Donald Guthrie(48) ritiene che le due lettere, pur in presenza di affinità tematiche e fraseologiche, non mancano di divergenze consistenti. Va comunque notato che, nonostante Paolo abbia soggiornato a lungo nella comunità efesina, paradossalmente la lettera non contiene nel congedo saluti analoghi a quelli delle altre missive. Taluni studiosi, partendo dal fatto che in codici antichi la lettera non conteneva i destinatari, hanno supposto che l’assenza di saluti sia dovuta al fatto che i destinatari non erano solo gli efesini ma una molteplicità di chiese. Si tratta di ipotesi di comodo, costruite solo per tappare falle. Si è poi osservato che Marcione cita passi di Efesini attribuendoli alla Lettera ai Laodicesi. Da ciò James Ussher(49) trae la congettura che la lette(43)  Clemente Alessandrino, Stromata, iv, 65; Ireneo, Adv. haer., v, 2, 3; Tertulliano, Adversus Marcionem, v, 22, 17. (44)  E. J. Goodspeed, Key to Ephesians, Chicago, University Press, 1956, p. vi; Ch. L. Mitton, The Epistle to the Ephesians, its Authorship, Origin, and Purpose, Oxford, Clarendon, 1951, p. ii. (45)  A. van Roon, The Authenticity of the Ephesians, Leiden, Brill, 1974, p. 215. (46)  W. G. Kümmel, Introdution to the New Testament, cit. (47)  E. F. Scott, The Epistle of Paul to the Colossians, to Philemon and to the Ephesians, New York, Harper, 1930, p. 121. (48) D. Guthrie, New Testament,cit., p. 511, scrive: «Advocates of non-Pauline authoship find it difficult to conceive that one mind could have produced two works possessing so remarkable a degree of similarity in theme and phraseology and yet differing in so meny other respects, whereas advocates of Pauline authorship are equally emphatic that two minds could not have produced two such works so much interdependence blended with independence». (49)  J. Ussher, Annalium pars posterior. In qua praeter Maccabaicam et Novi Testa-

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ra fu inviata come «circular letter» agli Efesini e ai Laodicesi. Ma l’ipotesi non regge non solo perché presuppone un concetto di ‘lettera circolare’ che probabilmente non sussisteva nel primo e forse neppure nel secondo secolo d.C., ma anche perché nel canone muratoriano Efesini e Laodicesi sono citate come due lettere distinte. La 2Tessalonicesi è inclusa nel canone marcionita e in quello muratoriano ed è citata da Ireneo. Gli esegeti cristiani(50) ritengono che essa sia implicitamente citata in Giustino, Ignazio e Policarpo, ma si tratta di mere congetture non verificabili filologicamente. Holtzmann e Hollmann(51) segnalano affinità linguistiche tra le due Tessalonicesi. A titolo d’esempio si rileva che 1Ts, ii, 9, è uguale a 2Ts, iii, 8. Le ipotesi avanzate in proposito sono due: 1) Paolo scrisse la 2Tessalonicesi subito dopo la prima o tenendo sotto mano il testo della prima; 2) un imitatore scrisse la 2Tessalonicesi, seguendo le tracce della prima. Udo Schnelle(52) ha segnalato la notevole diversità stilistica della 2Tessalonicesi rispetto alle altre epistole paoline. Per Loisy(53) essa presuppone la conoscenza dei vangeli, che, secondo la cronologia condivisa dalla gran parte degli esegeti non erano ancora stati scritti. Ma, come si è detto, questa stessa osservazione vale anche per quasi tutte le lettere paoline. Burt Ehrman(54) la reputa un falso tardivo. Masson(55) è convinto che l’escatologia delle due Tessalonicesi sia differente. Secondo Perrin(56) esse pongono Cristo e non Dio padre come ultimo giudice (1Ts, iii, 13; 2Ts, iii, 5). Speciose e inconsistenti sono le argomentazioni contrarie di Nicholl,(57) il quale in merito alla data e alla destinazione della 2Tessalonicesi osserva: «da un lato, la data deve essere abbastanza alta affinché le lettere siano accettate come paoline menti historiam, Imperii Romanorum Caesarum, sub C[aio] Julio et Octaviano ortus, rerumque in Asia et Aegypto gestarum continetur Chronicon, Londini, Typis Flesher, impensis Johannis Crook, mdcliv, p. 686. (50)  Cfr. D. Guthrie, New Testament, cit., p. 593. (51)  H. J. Holtzmann, Zum zweiten Thessalonicherbrief, cit.; G. Hollmann, Die Unechtheit des zweiten Thessalonischerbriefs, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft», v, 1904, pp. 28-38. (52) U. Schnelle, The History and Theology, cit. (53) A. de Loisy, La naissance du christianisme, Paris, Nourry, 1933, pp. 17-18. (54) B. Ehrman, Lost Christianities: The Battles for Scripture and the Faiths We never Knew, New York-Oxford, University Press, 2003. (55) Ch. Masson, Les deux Épitres de Saint Paul aux Thessaloniciens, Neuchâtel, Delachaux & Niestlé, 1957, pp. 10-11. (56) N. Perrin, The New Testament, an Introduction, cit. (57) C. Nicholl, From Hope to Despair in Thessalonica, Cambridge, University Press, 2004.

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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[…]; dall’altro, la data e la destinazione devono essere tali che l’autore possa essere certo che nessun contemporaneo della 1Tessalonicesi […] avrebbe potuto smascherare la 2Tessalonicesi come un […] falso».(58) Tali osservazioni sono contraddette 1) dal fatto che le epistole pastorali, la cui composizione è manifestamente tardiva, non mancarono di essere accolte come paoline; 2) dal fatto che i contemporanei delle epistole paoline non avevano, intorno alla metà del ii secolo, elementi per poter stabilire né l’autenticità, né la falsità, non solo della 2Tessalonicesi, ma neppure dell’intero corpus paolino. Molto controversa è l’autenticità delle tre lettere pastorali. Sappiamo da Girolamo che Basilide la respinse. Taziano invece accolse solo quella a Tito. In ogni caso esse non risultano menzionate nel canone marcionita. Guthrie(59) respinge la 1Timoteo (i, 8) perché dà una valutazione positiva della Legge in contrasto con la teologia paolina e perché in essa il concetto di ‘deposito’ (depositum – παραθήκην, 1Tm, vi, 20) appare alquanto tardivo e di derivazione gnostica. Ehrman(60) sostiene che le pastorali sono il frutto di una falsificazione intesa a combattere lo gnosticismo delle lettere paoline. Tertulliano(61) non sa spiegarsi perché non erano incluse nel canone marcionita. Dall’indagine filologica risulta che un terzo del loro vocabolario non trova riscontro nelle altre lettere; un quinto non trova riscontro in tutto il NT.; due terzi sono comuni ad autori del secondo secolo. Secondo Harrison e Streeter(62) esse sono contemporanee agli scritti del tardo secondo secolo. Johnson respinge gli esiti dell’indagine filologica, che – a suo avviso – sarebbero fondati sull’arbitrario raggruppamento delle tre epistole; al contrario egli è convinto che sussistano affinità tra la 1Timoteo e la 1Corinzi, tra Tito e altre lettere relative ai viaggi, e tra la 2Timoteo e Filippesi. Perrin, Holtzmann, Dibelius, Goodspeed(63) rilevano che i viaggi a Creta, Efe(58)  «On the one hand, the date needs to be early enough for the letters to have accepted as Pauline… the other hand, the date and destination need to be such that the author could be confident that no contemporary of 1Thessalonians… could have exposed 2Thessalonians as a … forgery». (59) D. Guthrie, New Testament,cit., 1990, p. 610. (60) B. Ehrman, Lost Christianities, cit., p. 240. (61)  Tertulliano, Adversus Marcionem, v, 21. (62)  P. N. Harrison, The Problem of the Pastoral Epistles, Oxford, University Press, 1921, p. 177; B. H. Streeter, The Primitive Church; Studied with Special Reference to the Origins of the Christian Ministry,London, Macmillan, 1929, p. 153. (63)  Cfr. N. Perrin, The New Testament. An introduction, cit.; H. J. Holtzmann, Lehrbuch der historisch-kritischen Einleitung in das Neue Testament, Freiburg, Mohr, 1892, pp. 279-280; M. Dibelius, Studies in the Acts of the Apostles, London, Scribner’s 1956; E. J.

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so, Neapoli e Troade(64) non sono compatibili con la cornice suggerita dagli Atti. Harnack(65) e Lightfoot parlano di «seconda carriera» di Paolo. In realtà si tratta di vani tentativi volti a salvarne la paternità paolina. La tardiva composizione delle epistole pastorali risulta evidente sulla base della loro concezione dell’organizzazione ecclesiastica (vescovi, anziani, diaconi, vedove) e, sul piano teologico, per il rinvio a tempo indeterminato della parousía. Infine si rileva che le pastorali condannano forme di misticismo ellenistico e di gnosticismo, che non erano chiaramente emerse nel corso del primo secolo. Dubbia può ritenersi l’autenticità della 2Corinzi. È una lettera di maniera, non contiene elementi nuovi né sul piano dottrinale, né su quello parenetico-moralistico. Paolo in essa non ha più l’umiltà mostrata in Romani e in 1Corinzi e si difende affermando di non mercanteggiare la Parola di Dio (2Cor, ii, 14-17). Non convince l’espressione «ministro della nuova alleanza» (διακόνους καινῆς διαθήκης, 2Cor, iii, 6); le sue posizioni non sono coerenti con le altre lettere né sul piano dell’antigiudaismo né su quello della gnosi, né nell’atteggiamento critico contro il cristianesimo apostolico. Troppo aspra è infatti la contestazione dei falsi apostoli che si mascherano da apostoli di Cristo (2Cor, xi, 13). Dubbia è la 1Tessalonicesi soprattutto per il rinvio a tempo indeterminato della fine dei tempi e della seconda parousía. Non è il linea con le altre epistole paoline e sembra presupporre il linguaggio e i concetti dei sinottici, come accade per la 1Timoteo (vi, 13), in cui è citato Pilato, ignoto al resto dell’epistolario. Sulla datazione e sulla autenticità dell’epistolario paolino non può non pesare il rapporto che esso ha con i tre sinottici. Si è detto che in questi ultimi non v’è la benché minima traccia di Paolo e delle sue lettere. Non altrettanto si può dire delle epistole paoline. In esse certo sono pochissimi i riferimenti ai testi evangelici, ma sono tuttavia presenti e facilmente riscontrabili. Ciò significa, a dispetto di quanto è attestato dalla tradizione, che le lettere paoline debbono ritenersi seriori rispetto ai tre sinottici. Se così non fosse sarebbe del tutto incomprensibile la polemica paolina contro il cristianesimo apostolico. Tale polemica tra l’altro ci fa comprendere quanto sia stata Goodspeed, Paul’s Voyage to Italy, «The Biblical World», xxxiv, 1909, pp. 337-345; di contro J. A. Th. Robinson, Redating the New Testament, cit.,pp. 67-85, respinge la loro analisi. (64)  Tt, i, 5-6; 1Tm, i, 3; Tt, iii, 12; 2Tm, i, 15; iv, 13. (65)  A. von Harnack, Die Briefsammlung des Apostels Paulus, und die anderen vorkonstantinischen christlichen Briefsammlungen sechs Vorlesungen aus der altkirchlichen Literaturgeschichte, Leipzig, Hinrichs, 1926.

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1257

complicata e contrastata l’affermazione del cristianesimo paolino, il quale giunse tardi sulla scena del protocristianesimo, quando le comunità cristiane avevano già fatto propri i messaggi evangelici. Il paolinismo tardò a farsi strada per tre ragioni: 1) perché Paolo non era annoverato nella sequela del Cristo; 2) perché il suo epistolario era sospetto a causa del suo legame ombelicale con il marcionismo; 3) perché il suo pensiero teologico appariva troppo complesso e talvolta oscuro sul piano dottrinale tale da non essere facilmente digeribile da parte delle comunità di base. Da quanto s’è detto emerge altresì che le epistole paoline recano numerosi segni di interpolazioni e di rimaneggiamenti, che ne compromettono anche in parte la coerenza. Sicché tutto lascia pensare che la prima versione, portata a Roma da Marcione e risalente a qualche decennio precedente, fu sottoposta ad un lavoro di rifinitura, per depurarla dalle originarie matrici gnostiche; ed è verosimilmente in questa fase di transizione e di revisione che si inserirono i termini del confronto con il cristianesimo apostolico. Tutto lascia pensare che la redazione finale a noi pervenuta fu il prodotto di più mani, forse di più autori afferenti ad una sorta di comunità o di scuola paolina, di alto profilo culturale ed intellettuale, che, se pure a fatica, era destinata a diventare egemone nel processo evolutivo del cristianesimo del secondo secolo. Ciò significa che la datazione dell’epistolario va collocata tra la prima metà (versione originale) e la seconda metà (redazione finale) del secondo secolo. Quanto alla loro autenticità si può dire che è una questione priva di senso. Se pretendiamo che l’epistolario sia riconducibile ad una personalità del primo secolo, una sorta di predicatore itinerante, non possiamo non pronunciarci per l’inautenticità; se invece prendiamo atto che esso è il prodotto corale di una gruppo di intellettuali che per tutto il secondo secolo lavorò per dare alla chiesa un fondamento dottrinale di altro profilo, la loro autenticità è fuori di ogni dubbio. Di fronte alla sempre più emergente ipotesi della inautenticità delle lettere, gli esegeti cattolici corrono ai ripari supponendo che anche le epistole manifestamente tardive possano rientrare nella cosiddetta post-paolinicità; esse cioè rimarrebbero comunque paoline, ma non nel senso di afferire direttamente alla scrittura paolina, ma nel senso di essere espressioni della tradizione paolina. Come dire: se il loro autore non è Paolo, è uno dei suoi discepoli che conserva appunto la tradizione paolina. Tuttavia questa ipotesi è solo una vuota scappatoia, perché dall’analisi condotta su ciascuna epistola è emerso a sufficienza che rispetto alle problematiche fondamentali (il rapporto con il giudaismo, con la gnosi e con il cristianesimo apostolico) le

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divergenze tra le lettere sono tali da rendere impossibile l’attribuzione della loro paternità ad un solo autore. Tutt’al più si può, per ragioni lessicali, ipotizzare che l’intero corpus abbia ricevuto una redazione finale da parte di un singolo autore, ma è escluso che esso sia il frutto di un unico programmatico disegno editoriale. 2.12.  L’epistolario paolino e la gnosi Ci sono in Paolo elementi che militano in favore della storicità di Cristo? La risposta è positiva per gli apologeti, ma la questione è assai più complessa di quanto essi possano credere. Paolo o ignora quasi del tutto le narrazioni evangeliche o ne ha notizie vaghe; in ogni caso non ha certezze sulla vita terrena di Cristo e a tratti sembra pendere verso il docetismo. Ma è evidente che quel poco che sa su Cristo presuppone i testi evangelici. Egli parla in termini molto generici della passione e morte, della sepoltura e della resurrezione il terzo giorno, della colpevolezza dei giudei, dei fratelli del Signore, di Cefa, Giacomo e Giovanni come apostoli. Sa che Cristo è nato da Dio, Figlio di Dio, generato «dal seme/sperma di David secondo la carne» (ἐκ σπέρματος δαυὶδ κατὰ σάρκα, Rm, i, 3-4). In Galati (iv, 4) lo dichiara «nato da donna, nato sotto la Legge». Ciò non significa però che si riferisca ad una nascita umana, perché nello stesso contesto costruisce l’allegorismo tra le due donne rappresentanti simbolicamente le due alleanze: la nascita dalla schiava Hagar, simbolo della vecchia alleanza e della Gerusalemme terrena, e la nascita dalla donna libera, Sara, simbolo della nuova alleanza e della Gerusalemme celeste. Nulla che faccia pensare ad una nascita virginale. Non c’è nell’epistolario nessun dettaglio che richiami alla mente la crocifissione storica; c’è solo una citazione, per giunta tardiva, di Pilato (1Timoteo), ma nessun cenno ai processi, né alla derisione dei soldati, né al cartiglio sulla croce, né alcuna allusione al tradimento di Giuda, né alla pietà delle donne. Insomma nessun dato che attesti la sua diretta conoscenza di Cristo.(66) Anzi nella 2Corinzi (v, 16), non senza una certa ambiguità, dichiara di non averlo conosciuto: «e se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così». Il testo di questa (66)  Tale è il parere di G. Lüdemann, ‘Paul as a Witness to the Historical Jesus’, Sources of the Jesus Tradition: Separating History from Myth, Amherst, NY, Prometheus Books, 2010, pp. 196-212.

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pericope non va interpretato nel senso che Paolo conobbe Cristo storicamente: egli vuole semplicemente dire che con la morte e con la resurrezione di Cristo muta profondamente la vita dei credenti che non vivono più per se stessi secondo la carne, ma vivono per colui che è morto e risorto per loro. Infatti Paolo aggiunge: «Noi non conosciamo più nessuno «secondo la carne» (κατὰ σάρκα) e, se anche abbiamo conosciuto Cristo [ove il noi è generico e significa: «Se anche qualcuno di noi lo ha conosciuto»] secondo la carne, egli è ormai per noi l’origine di una nuova vita», sicché «se uno è in Cristo è una nuova generazione». Sono comunque pericopi che vanno lette alla luce del tendenziale, se non prevalente, docetismo paolino. Paolo non sa nulla e non ha bisogno di saper nulla sulla figura umana e storica di un Cristo vissuto prima di lui. Il Cristo della sua fede ha tutto il «profumo» della teologia gnostica; è un messia spirituale, una creatura angelica, divina, soprannaturale; è un’ipostasi, un essere che esiste fin dal principio. Così ne parla in 1Corinzi (x, 1-4): «i nostri padri bevevano da una roccia spirituale […] e quella roccia era il Cristo». In Filippesi scrive: Pur essendo in una sostanza divina [ἐν μορφῇ θεοῦ] […], [Cristo] si spogliò e prese la forma dello schiavo, divenendo somiglianza con gli uomini [ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων] e, una volta assunta la forma umana [σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος], si umiliò […] fino […] alla morte in croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di tutti i nomi, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli inferi (Fp, ii, 6-8).

Cristo è la personificazione della sapienza (sophia) di Dio; ne è un’emanazione, come nelle dottrine gnostiche. La prossimità terminologica e concettuale con la gnosi è tale che a tratti è possibile una doppia lettura, cristiana e gnostica, di taluni passi delle epistole. Nella 1Corinzi Paolo si colloca, come gli gnostici, tra i perfetti (ἐν τοῖς τελείοις) che non hanno una guida nella sapienza di questo secolo (σοφίαν δὲ […] τοῦ αἰῶνος τούτου), né nei dominatori di questo secolo (οὐδὲ τῶν ἀρχόντων τοῦ αἰῶνος τούτου) ma in una sapienza divina nascosta (ἀποκεκρυμμένην) nel mistero (ἐν μυστηρίῳ), prestabilito da Dio prima dei secoli (πρὸ τῶν αἰώνων) e ignoto ai dominatori del secolo (οὐδεὶς τῶν ἀρχόντων τοῦ αἰῶνος τούτου ἔγνωκε, 1Cor, ii, 6). Altre citazioni degli arconti:

1260  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Voi eravate morti a causa dei vostri errori e dei vostri peccati […] una volta avete vissuto secondo l’arconte della potestà dell’aria, lo Spirito che ora opera nei figli della disobbedienza (Ef, ii, 1-2).

Il compito di evangelizzare le genti gli è stato dato per illuminare (cioè far conoscere) l’economia del mistero nascosto [dagli eoni] in Dio che creò tutto, affinché sia resa nota [agli arconti] e alle potenze nei cieli la multiforme sapienza di Dio attraverso la Chiesa, [passo evidentemente tardo]. Poiché non combattiamo contro la carne e il sangue, ma contro gli arconti e contro le potestà, contro i poteri cosmici di questa oscurità, contro la spirituale malvagità che è negli esseri celesti (Ef, iii, 8-11; vi, 11-12). Poiché in lui [in Cristo] abita corporalmente tutto il plérōma della divinità e voi partecipate della pienezza di lui che è il capo di ogni arconte e potestà. Annullando il manoscritto dei decreti contro di noi […] lo tolse di mezzo e lo affisse alla croce, e disarmando gli arconti e le potestà, li accusò pubblicamente con coraggio e trionfò su di loro per mezzo di Cristo (Col, ii, 9-10, 14-15).

Spirituale è anche la liberazione dal peccato (Rm, viii, 1-4), sicché le prescrizioni della Legge si realizzano «in noi che non camminiamo più secondo la carne ma secondo lo Spirito». Lo gnosticismo di Galati è tutto in questa radicale contrapposizione di spirito e carne: l’essere secondo la carne significa essere sotto la Legge; l’essere secondo lo Spirito significa non essere più sotto la Legge; chi è di Cristo crocifigge la carne, le passioni e i desideri (Gal, v, 16-24). Ed è ancora lungo una direttrice gnostica: dapprima siamo stati in una fase primordiale schiavi degli elementi (poteri) cosmici del mondo; dapprima eravamo caduti nel peccato e nella sottomissione alla materia; poi, giunta la pienezza dei tempi (τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου), riceviamo la figliolanza di Dio (Gal, iv, 3-5). La fase discensiva verso il peccato si converte in quella ascensiva verso la salvezza. Nella gnosi questo processo si accompagna al declassamento del Dio dell’AT in divinità inferiore. Ciò però non accade in Paolo che non assimila mai Dio alla divinità dell’AT e conserva la concezione gnostica delle divinità inferiori (gli arconti cfr. 1Cor, ii, 6-8) contro le quali il Cristo deve combattere per condurre a buon fine la sua missione. La conoscenza (gnosi) che Paolo ha di Cristo non è diret-

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ta e personale, ma è una conoscenza mistica che oscilla tra la rivelazione, come rivelazione di misteri e di segreti («per rivelazione di Gesù Cristo», δι᾽ἀποκαλύψεως ἰησοῦ χριστοῦ, Gal, i, 12) e la visione o le visioni con evidenti suggestioni gnostiche (cfr. in proposito 1Cor, xv, 5-8 e ix, 1: «Non sono apostolo?», nel senso di inviato da Dio; «Non ho visto Gesù nostro Signore?» nel senso: «Ho conosciuto Cristo in una visione mistica?», con chiara allusione alla folgorazione sulla via di Damasco). Non si tratta di avere la visione di qualcuno in presenza di qualcuno, ma di visione spirituale, celeste, che trascende la sensibilità puramente fisica e fisiologica. Se Cristo parla di discepoli, Paolo parla di apostoli (=inviati, missionari) e tra gli apostoli include anche sé stesso. Nei vangeli il discepolato e il rapporto si istituisce tra il Cristo, come Maestro, e i fedeli-credenti, come discepoli; l’apostolato in Paolo non sembra nascere da Cristo, ma da Dio. Questo passaggio è particolarmente chiaro non solo in riferimento a Paolo, ma anche a Pietro: Dio non bada a persona alcuna […]; colui infatti che aveva operato in Pietro per l’apostolato della circoncisione, ha operato in me per l’apostolato tra le genti, e allorché Giacomo, Cefa e Giovanni, che sembravano essere colonne, riconobbero la grazia che mi era stata data, offrirono a me e a Barnaba la destra e ci accolsero nella comunità (Gal, ii, 8).

La passione e la crocifissione sono ricondotte agli arconti («Se gli arconti di questo secolo – τῶν ἀρχόντων τοῦ αἰῶνος τούτου – avessero conosciuto la sapienza di Dio, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria»). Paolo ne parla non in riferimento ad un evento storico, ma sulla base delle scritture (1Cor, ii, 8; xv, 3). Non poche sono le oscillazioni sul tema della fine dei giorni: ora imminente o presente («Queste cose […] sono state scritte […] per noi per i quali è giunta la fine dei tempi» (τὰ τέλη τῶν αἰώνων) ora rinviata («Poi sarà la fine, quando [Cristo] consegnerà il Regno a Dio Padre, quando verrà annientato ogni principato [arconte], potestà e potenza», 1Cor, x, 11; xv, 24). La 1Tessalonicesi sembra alludere ad una generazione dei viventi, i cui rapporti con la fine della storia non sono ben delineati. Nella 1Corinzi rinveniamo anche la classica tripartizione gnostica degli uomini in pneumatici, psichici e coici (1Cor, ii, 12-16; xv, 47-49). L’uomo pneumatico conosce i doni della grazia ricevuta da Dio; la sua sapienza non è umana, ma è trasmessa direttamente dallo Spirito; esprime in ter-

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mini spirituali le cose spirituali; le giudica e non è giudicato da nessuno. L’uomo psichico invece non accoglie la realtà dello Spirito di Dio. Il primo uomo, nato dalla terra, è coico, materiale (ὁ πρῶτος ἄνθρωπος ἐκ γῆς χοϊκός); il secondo uomo è celeste e viene dal cielo (ὁ δεύτερος ἄνθρωπος ἐξ οὐρανοῦ). Il primo reca l’immagine della terrestrità/materialità, il secondo quella della spiritualità, ovvero di quella scintilla divina che gli permette di compiere il cammino ascensionale verso il Regno di Dio. Al di là delle reminiscenze vetero-testamentarie, affiora in queste pericopi lo stesso tema gnostico dell’Adamo carnale e dell’Adamo spirituale. Qualche riflessione è opportuna sul concetto di Dio-Uno. L’uso di εἷς (uno) come attributo della divinità è presente in Marco («se non l’Uno, il Dio», εἰ μὴ εἷς ὁ θεός; «Il Signore, Dio nostro, il Signore è l’Uno», κύριος ὁ θεὸς ἡμῶν κύριος εἷς ἐστιν; «l’Uno è», ὅτι εἷς ἐστιν);(67) nella 1Corinzi (non c’è nessun Dio, se non l’Uno», ὅτι οὐδεὶς θεὸς εἰ μὴ εἷς; «per noi Dio è l’Uno, il Padre da cui derivano tutte le cose e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, da cui derivano tutte le cose e noi esistiamo per mezzo di lui», ἀλλ᾽ ἡμῖν εἷς θεὸς ὁ πατήρ, ἐξ οὖ τὰ πάντα καὶ ἡμεῖς εἰς αὐτόν, καὶ εἷς κύριος ἰησοῦς χριστός, δι᾽ οὖ τὰ πάντα καὶ ἡμεῖς δι᾽ αὐτοῦ, 1Cor, viii, 4, 6); in Giovanni («siamo perfetti e perfettibili nell’Uno», ἵνα ὦσιν τετελειωμένοι εἰς ἕν; «affinché siano uno come te, padre», ἵνα πάντες ἓν ὦσιν, καθὼς σύ, πάτερ, Gv, xvii, 23, 21); nella 1Giovanni (v, 8: «Lo spirito, l’acqua e il sangue; questi tre sono nell’Uno», τὸ πνεῦμα καὶ τὸ ὕδωρ καὶ τὸ αἷμα, καὶ οἱ τρεῖς εἰς τὸ ἕν εἰσιν). Esasperante è l’uso di ‘uno’ in Efesini: «Un solo corpo, un solo spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti, il quale è al di sopra di tutti» (Ef, iv, 4-6). Si potrebbe pensare che l’insistenza sull’unità/ unicità di Dio dipenda dalla tradizione monoteistica dell’AT, ma il fatto che essa non si riferisce esplicitamente a Yhwh, ma ad un Dio, inteso come Uno-Tutto, suggerisce evidenti influenze gnostiche. Come spiegare queste influenze gnostiche? Le ipotesi proposte non sembrano essere convincenti. La tesi di Pagels,(68) che fa di Paolo uno gnostico, è apparsa giustamente unilaterale ed eccessiva. Né costituisce una soluzione la proposta di Viklung,(69) che fa di Paolo un protognostico, riconducibile (67)  Mc, ii, 7; x, 18; xii, 29; xii, 32; cfr. anche Lc, xviii, 19. (68)  E. H. Pagels, The Gnostic Paul, cit., p. 1. (69) R. Viklund, A Fourteenth Century Text in which Jesus Taught the Kingdom of God During the Night atBethany Does It Demonstrate That Secret Mark Is an Ancient Text and

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all’ebraismo marginale, che si sviluppò sui temi, in parte essenici ed enochici, delle rivelazioni e delle visioni di un arcangelo di natura celeste. La proposta di Robert M. Price(70) è apparsa dubbia per via della datazione della gnosi. Non pochi esegeti, infatti, hanno legittimamente osservato che la forma di gnosi segnalata da Price è difficilmente riconducibile al primo secolo. Va però detto che a tal proposito emergono almeno due equivoci. Il primo è quello di dare per scontato che le lettere paoline furono composte nel primo secolo, prima ancora dei Vangeli. Il secondo è quello di ritenere che la gnosi emergente dai testi paolini possa essere compatibile con quella incipiente del primo secolo d’ispirazione simoniana. Sul primo versante diciamo subito che la compilazione tanto dei vangeli quanto dell’epistolario va fatta slittare dalla metà del primo secolo alla fine dello stesso fino alla metà e oltre del secondo secolo. È naturale pensare che il processo di mitizzazione sia stato molto lento e progressivo. Ma soprattutto è importante tenere in debita considerazione il silenzio degli autori. Nessuno, prima di Plinio il Giovane, sembra avere una sicura notizia sul cristianesimo nascente. Sul secondo versante si può dire che non sussiste più nessun conflitto tra la gnosi matura del secondo secolo e gli spunti e le influenze che emergono nell’epistolario. Il cerchio si chiude. Dai manoscritti di Nag Hammadi al vangelo giovanneo, all’epistolario paolino si evince che una grossa fetta del protocristianesimo si sviluppò in contiguità con la gnosi in parte in un rapporto di simbiosi e in parte in un rapporto di contrapposizione. Le epistole, scritte forse in un arco di tempo di quaranta o cinquant’anni (100-150), mostrano i segni dell’uno e dell’altro atteggiamento; per un verso gli autori si muovono nell’orbita della gnosi, almeno sui punti dottrinali essenziali; per l’altro sembrano contrastarne l’influenza, almeno sui punti in cui essa appare incompatibile con il cristianesimo. Dobbiamo pensare che la presa di coscienza di questo processo intricato non fu facile neppure per gli immediati protagonisti che lo vissero in prima persona. All’inizio la gnosi e il cristianesimo marciarono di pari passo forse nella comune convinzione di compiere uno stesso cammino. Molti manoscritti di Nag Hammadi suggeriscono nettamente questa impressione. Ma ben presto emersero i distinguo e le divergenze e forse si procedette dall’una e dall’altra parte rispettivamente ad una decristianizzazione di testi gnostici troppo contaminati dalle matrici cristiaNot a Modern Forgery, accessibile in internet. (70)  R. M. Price, The Amazing Colossal Apostle, the Search for the Historical Paul, Salt Lake City, Signature Books, 2012, p. 72.

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ne e ad una contrapposta degnosticizzazione di testi cristiani troppo contaminati da matrici gnostiche. 2.13.  Spunti per una datazione dell’epistolario paolino Generalmente si ritiene che l’epistolario paolino sia anteriore al 64 d.C. Tale è la posizione ufficiale della Chiesa cattolica. Questa ipotesi tuttavia non si accorda con almeno tre elementi, poiché il corpus paolino: 1) mostra segni di contiguità e/o di opposizione con la gnosi matura del secondo secolo; 2) presenta evidenti tracce di pseudepigrafia ed è estremamente variegato per scelte lessicali, per elementi stilistici e per contenuti dottrinali; 3) tradisce qua e là una dipendenza dai sinottici. A questi elementi va aggiunto che la sua ricezione risulta essere stata piuttosto tardiva. Infine è difficile credere che l’epistolario sia opera di un solo autore, sebbene tale voglia apparire. L’ipotesi più ragionevole è che le lettere siano il frutto di una elaborazione a più mani consumatasi nell’arco del secondo secolo, pur senza escludere interventi correttivi e manipolativi anche in epoca posteriore. Due sono i criteri utili a stabilire la datazione delle epistole paoline: quelli esterni e quelli interni. I primi fanno riferimento alla compattezza e coerenza del contesto storico; i secondi alla organicità formale e contenutistica delle lettere. Purtroppo nella letteratura pseudoepigrafa i referenti storici non sempre costituiscono elementi sicuri e affidabili, poiché spesso sono volutamente inseriti dal manipolatore in funzione di una retrodatazione o comunque di una convalidazione storica del documento contraffatto. D’altra parte i dati storici per essere significativi debbono essere puntuali e circostanziati; se si estendono ad un arco temporale più o meno ampio e indefinito non sono più utili ai fini della datazione. Un esempio per tutti può essere fornito dalla 1Corinzi, in cui si possono scorgere allusioni ai giochi istmici,(71) alla rilassatezza dei costumi e a culti religiosi pagani. Poiché tali circostanze perdurarono nel tempo fino al secondo secolo e oltre, evidentemente non possono essere invocate come dirimenti ai fini della datazione della Lettera al primo secolo. Lo stesso vale per la raccolta di fondi per i poveri di Gerusalemme che difficilmente può essere messa in relazione alla carestia prodottasi durante il principato di Claudio. (71)  1Cor, ix, 24-26. In realtà vi si parla genericamente di corsa nello stadio, come esempio logico; nulla ci dà la certezza che ci sia un riferimento ai giochi istmici.

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La ragione per cui non possiamo attenderci granché da criteri esterni sta nel fatto che il corpus paolino non contiene quasi nessun accenno ad eventi storici coevi, fatta eccezione per l’occupazione nabatea di Damasco sotto il regno di Areta IV, che non è storicamente accertata. La siccità e l’espulsione degli ebrei da Roma sono congetture proposte dagli Atti e non dalle lettere. La citazione di Ponzio Pilato, per essere contenuta nella 1Timoteo, è tardiva. Forse proprio questa carenza di dati storici è un elemento che gioca contro l’autenticità del corpus. Ciò che invece può avere un peso decisivo sulla sua datazione è soprattutto il sistematico silenzio delle fonti del primo secolo. Ne abbiamo già parlato a lungo nel capitolo xix. Qui ci preme segnalare che è particolarmente significativa l’assenza delle fonti cristiane del i secolo. Papia, che è la prima fonte esterna dei vangeli di Marco e di Matteo, accenna con qualche incertezza alla generazione intermedia tra quella apostolica e la sua. Tuttavia, a prescindere dal fatto che le generazioni intermedie, secondo la cronologia tradizionale, dovrebbero essere due e non una, non abbiamo di esse alcuna idea precisa. Papia accenna ad un tal Giovanni il presbitero che è per noi figura del tutto oscura, tanto da farci dubitare della sua esistenza. Se i vangeli e le epistole paoline furono scritti a ridosso della passione di Cristo, com’è possibile che non abbiano prodotto nell’immediato una letteratura di imitazione e di derivazione? Come mai tra il 50 e il 100 d.C., o poco più, nessun intellettuale appartenente alle generazioni intermedie, parla dei vangeli? Anzi, come mai di tali intellettuali non conosciamo neppure un nome? Perché bisogna attendere Papia (130-140) per avere le prime notizie sui vangeli e Marcione (150) per sapere qualcosa dell’apostolikón? La risposta è semplice: non ne parlarono, perché non erano ancora stati scritti e perché le prime comunità enochico-cristiane si staccarono dalle matrici essene molto verosimilmente dopo il 70. I primi testi cristiani non furono né le epistole paoline, né i sinottici, ma furono la Lettera agli Ebrei e l’Apocalisse giovannea. Può forse sorprendere che si proponga una tarda datazione dell’epistolario paolino, ma gli elementi che militano in questa direzione sono molti, consistenti e coerenti. In primo luogo può ritenersi dirimente la tarda ricezione dell’epistolario, su cui sono pregevoli gli studi di Dahl e di Lindemann.(72) Prima dell’arrivo a Roma di Marcione intorno alla metà del secon(72)  N. A. Dahl, The Particularity of the Pauline Epistles as a Problem in the Ancient Church, in Neotestamentaria et Patristica: eine Freundesgabe Oskar Cullmann, Leiden, Brill, 1962, pp. 261-271; A. Lindemann, Paulus im ältesten Christentum. Das Bild des Ap-

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do secolo, non abbiamo notizia alcuna del corpus paolino. Marcione portò con sé nella capitale dell’Impero il cosiddetto apostolikón, costituito dalle seguenti 10 lettere: Romani, 1 e 2Corinzi, Galati, 1 e 2Tessalonicesi, Laoniceni, Efesini, Colossesi, Filippesi, Filemone, che, per altro, come apprendiamo da Epifanio di Salamina, si caratterizzavano per la presenza di non poche varianti rispetto all’attuale testo canonico. La loro diffusione nell’area orientale deve essere stata lenta se si pensa che ancora negli anni Sessanta e Settanta del secondo secolo Giustino (100-168 d.C.), Teofilo di Antiochia (m. 183185) e Taziano (120-180) sembrano ignorarle. Teofilo di Antiochia non cita Paolo nella sua opera più importante Apologia ad Autolycum,(73) ma se ne rammenta nei Commentarii che potrebbero essere spuri, benché a lui siano generalmente attribuiti.(74) Taziano non ne fa menzione nell’Oratio ad Graecos. Nelle due Apologie e nel Dialogo con Trifone Giustino non cita mai direttamente Paolo. Ne fa menzione invece nel De Trinitate e nelle Responsiones ad Christianos, che sono opere spurie, le quali, per essere ignorate da Eusebio, debbono ritenersi posteriori al iv secolo.(75) Una generica citazione delle epistole paoline, giudicate peraltro difficili da comprendere e fonti di possibili travisamenti, si rinviene nella seconda Lettera di Pietro (iii, 15-16), che è notoriamente tardiva (fine secondo secolo). Nel frammento dell’Apolopostels und die Rezeption der paulinischen Theologie in der frühchristlichen Literatur bis Marcion, Tübingen, Mohr, 1979. (73)  Theophili, episcopi antiocheni, Ad Autolycum libri tres […] recensuit Io. Carol. Theod. Otto, accedunt Theophili qui feruntur Commentarii in quatuor evangelia, Ienae, Mauke, 1861. (74)  Teofilo di Antiochia, Commentariorum in Evangelia, lib. i, p. 287, cita Ef, v, 8; p. 291; la 2Cor, iv, 7: «hunc autem habemus thesaurum in vasis fictilibus»; ivi, p. 292, «filii dei vocemur et simus (probabile allusione a Rm, viii, 14 o a Gal, iii, 26); ivi p. 293; Fp, ii, 9-10: «Propter hoc exaltavit illum Deus et dedit illi nomen quod est super omne nomen, ut in nomine Iesu omne genus flectatur coelestium, terrestrium et infernorum»; 1Ts, iv, 17: «Et nos qui vivimus simul rapiemur in nubibus obviam Christo in aera et cum domino erimus»; ivi p. 298; 1Cor, iii, 2: «non solidus cibus sed lac»; p. 299; 1Cor, vii, 31: «ut qui utuntur hoc mundo tamquam non utantur»; 2Cor, xi, 2-3: «Timeo autem ne, sicut serpens Evam seduxit versutia sua, sic et vestri sensus conrrumpantur a charitate quae est in Christo»; lib. iii, p. 312; Ef, vi, 15: «Calciati pedes in praeparatione evangelii pacis»; ivi, p. 316; Fp, iii, 7: «et quae antea fuerant pro lucro in stercora deputari»; lib.iv, p. 318; 1Cor, viii, 4: «idolum quod scimus quia nihil est in mundo». (75)  Justini Expositio fidei de vera rectaque confessione sive de sancta et eiusdem essentiae trinitate, in cui troviamo citazioni testuali dalla 1 e dalla 2Corinzi, da Efesini e da Galati; Responsiones ad Christianos de necessariis quibusdam quaestionibus, qu. 95, 96, 102, 107, 108, 111, 112, 119, 120, 125.

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gia di Melitone di Sardi, scritta intorno agli anni Settanta del secondo secolo, e negli altri frammenti delle sue opere non c’è traccia di Paolo. Lo stesso si dica della Lettera di Barnaba, della Didaché, del Pastore di Erma e dell’Adversus Cataphrygas di Apollonio di Efeso. L’apostolo delle genti sembra essere sconosciuto anche a Papia di Ierapoli (- 150), a Quadrato di Atene (prima metà ii secolo), ad Aristide Marciano di Atene (metà del ii secolo), ad Agrippa Castore (ii secolo), ad Aristone Pelleo (ii secolo), a Claudio Apollinare di Ierapoli (seconda metà del ii secolo), ad Egesippo (110-180), a Panteno di Alessandria (- 200), a Rodone, a Massimo di Gerusalemme, a Teofilo di Cesarea (- 195), a Serapione di Antiochia (- 212) a giudicare dai pochi frammenti che ci sono pervenuti. Quasi tutta la letteratura cristiana del secondo secolo sembra trascurare l’epistolario paolino. È forse dovuto al fatto che Paolo era sospetto di collusione con la gnosi o con il marcionismo? Di certo v’è che solo a partire dall’Adversus haereses di Ireneo di Lione (130-202), dagli Stromata, dal Paedagogus e dal Quis dives salvetur di Clemente Alessandrino (150-215) abbiamo un ragguardevole numero di citazioni esteso a quasi tutte le lettere accolte nel canone, esclusa la Lettera a Filemone. Sporadiche sono ancora nel terzo secolo le citazioni di Tertulliano nell’Adversus Marcionem, nel De carne Christi, nel De resurrectione carnis, nell’Adversus Praxeam.(76) Nel De resurrectione mortuorum Atenagora di Atene (133-190) mostra di avere conoscenza della 1Corinzi.(77) La Lettera a Diogneto contiene nel capitolo xii una sola citazione testuale dalla 1Corinzi, viii, 1. A questi testi si può aggiungere lo Ps.-Ippolito (iii secolo), i cui contorni storici ci sfuggono,(78) il quale nei Philosophumena meglio (76) v. Tertulliano, Adversus Marcionem, iv, 5; v, 13; De carne Christi, capitoli vi, viii, xv, xvi; De resurrectione carnis, capitoli xxiii-xxiv; xl-xli, xlvii-xlviii; Adversus Praxeam, capitoli xxvii-xxviii, xxx-xxxi. Quasi sempre Tertulliano cita Paolo come Apostolus, il nome Paulus compare solo nell’Adversus Praxeam (xxviii), nel De carne Christi (xv) e nel testo spurio del De praescriptionibus adversus haereticos (xxiii). (77)  Athenagorae, philosophi Atheniensis, Opera […] recensuit Jo. Carol., Theod. Otto, Ienae, Mauke, 1857; v. anche PG. vi, col. 1011. (78)  Cfr. in proposito gli studi di P. Nautin, Patristica; 1: Le dossier d’Hippolyte et de Méliton dans les florilèges dogmatiques et chez les historiens modernes, Paris, Les Editions du Cerf, 1953; Ricerche su Ippolito (contributi di Vincenzo Loi), Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 1977 (Studia Ephemeridis Augustinianum, 13; Nuove ricerche su Ippolito, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 1989 (Studia Ephemeridis Augustinianum, 30); M. Simonetti, Ippolito, Contro Noeto, Bologna, EDB, 2000 (Bibliotheca patristica 35). J. F. Baldovin, Hippolytus and the ‘‘Apostolic Tradition’’: Recent Research and Commentary, «Theological Studies», lxiv, 2003, pp. 520-542; M. Guarducci, San Pietro e Sant’Ippolito:

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noti con il titolo greco Ἔλεγχος o con quello latino Refutatio omnium haeresium,(79) cita la Lettera ai Romani, la 2Corinzi e la 1Timoteo. Brandon(80) si limita ad affermare che il paolinismo si eclissò per almeno un decennio tra il 55 e il 66 d.C., ma in realtà non si trattò di un momentaneo occultamento; fino alla metà del secondo secolo Paolo è ancora ignoto alle prime comunità cristiane di Siria, dell’Asia Minore e di Alessandria. La seriorità dell’epistolario paolino è confermata da ulteriori criteri interni; spesso nelle lettere ci troviamo di fronte a indicazioni cronologiche che inducono a supporre una certa distanza temporale della loro composizione rispetto ai tempi apostolici a cui pretendono di riferirsi. Espressioni come «La vostra fede è proclamata in tutto il mondo», «Avete udito la parola di verità del vangelo, giunto a voi, come pure in tutto il mondo», «La salvezza è più vicina ora di quando abbiamo cominciato a credere», «mi onoro di evangelizzare dove non era ancora giunto il nome di Cristo», fanno pensare che l’autore scrive a distanza di tempo dall’età apostolica.(81) Lo stesso si dica per l’idea di un insegnamento trasmesso («Avete obbedito di cuore all’insegnamento che vi è stato trasmesso») o di una tradizione consolidata («Conservate le tradizioni come ve le ho trasmesse») o della «difesa e consolidamento del vangelo» (Rm, vi, 17; 1Cor, xi, 2; Fp, i, 7). Indicativi sono anche i titoli usati. Paolo si attribuisce il titolo di ‘apostolo delle genti’ che probabilmente la comunità cristiana gli attribuì a distanza di tempo dall’esercizio del suo apostolato. Di contro ‘Cristo’ perde la qualità di titolo regale ed è unito a Gesù come se fosse parte del nome ‘Gesù Cristo’; ma questo sintagma non può riferirsi né al primo secolo né ad autori greci di madre lingua ebraica (si veda in proposito la Lettera agli Ebrei). Anche la qualifica di ‘diaconessa’ (Rm, xvi, 1), attribuita a Febe, presuppone un certo travaglio nella organizzazione ecclesiale delle comunità cristiane. Lo stesso vale per l’uso abbondante di ‘chiesa domestica’ (Rm, xvi, 5) che, come abbiamo detto, presuppone un processo di evoluzione del concetto di chiesa e comunque non è certamente storia di statue famose in Vaticano, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1991. (79)  Hippolyti Philosophumena sive haeresium omnium confutatio […] recensuit Patricius Cruice, Parisiis, 1860, v, i, 7 e 8, pp. 147-148, 165-166, in cui è citata la Lettera ai Romani, i, 26 e la 2Cor, xii, 2-4 (rapimento di Paolo); vii, x, 38, p. 393, in cui ricorda Apelle il quale ritenne «humana et fallacia quae in scripturis continentur; ex evangeliis autem et ex B. Pauli epistolis quae sibi placent excerpit»; viii, vii, 20, p. 422, ove, a proposito degli encratiti, cita la 1Tim, iv, 1-5. (80)  S. G. F. Brandon, Il processo a Gesù, cit., pp. 114-115. (81)  Rm, i, 8; Col, i, 6; Rm, xiii, 11; xiv, 20.

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databile al primo secolo. Ancor più tardiva è l’idea di una chiesa centralizzata che, se compare più massicciamente in Efesini (i, 22: «Cristo capo su tutte le cose» e la chiesa «corpo di Cristo»), non è assente, come si è detto, nelle altre lettere. Anche le prime fratture interne alle comunità e soprattutto i primi travisamenti che sfiorano l’eresia sono generalmente fenomeni che si verificano dopo la fase idilliaca del neofitismo. Filippesi (i, 15-17) ci dice che taluni predicavano Cristo per invidia, per spirito di contesa e per faziosità; la 2Corinzi (xi, 4) accenna alla predicazione di un vangelo diverso; se l’osservazione non si riferisce a vangeli apocrifi, allude verosimilmente ai sinottici; nell’uno e nell’altro caso non siamo nel primo secolo. L’autore di Filippesi (ii, 21; iii, 18) si lamenta perché «tutti cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo» e perché «molti si comportano da nemici della croce di Cristo; il loro Dio è il ventre». La 2Timoteo(iv, 1-5) preconizza un tempo di crisi («Verrà il tempo in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina […], si circonderanno di maestri secondo le loro voglie e distoglieranno l’ascolto dalla verità per rivolgersi alle favole») che potrebbe essere quello del secondo secolo. Più drammatica la situazione della Galazia, ove il messaggio cristiano sembra essere fallito, perché i Galati sono ritornati all’idolatria (Gal, iv, 8-20). La 2Tessalonicesi ci mette in guardia dal pericolo della pseudepigrafia («Non lasciatevi ingannare da qualche lettera fatta passare per nostra»). L’affermazione di Galati (iv, 25) «Gerusalemme attuale schiava con i suoi figli» fa pensare alla desolante condizione della città dopo la tragica repressione della rivolta di Bar Kochba (135 d.C.). Chi scrive le lettere sa qualcosa dei sinottici; non li ha sotto mano, ma ne ha sentito parlare e sa che in essi è narrata l’ascesa del Cristo e la sua epifania presso gli apostoli. L’autore della 1Corinzi è al corrente che Cristo è risorto il terzo giorno ed è apparso a Cefa, ai Dodici e in seguito a più di cinquecento fratelli («la maggior parte dei quali vive ancora, mentre alcuni sono morti»), a Giacomo e a tutti gli apostoli e da ultimo a Paolo «come a un aborto» (1Cor, xv, 3-11). Nello stesso contesto Paolo dichiara di essere l’ultimo degli apostoli, di non essere degno di essere chiamato apostolo», in manifesto contrasto con l’alterigia con cui disprezza i cosiddetti superapostoli in 2Corinzi. In questa stessa lettera ci vien detto che Tito è inviato a Corinto con un fratello che «è noto in tutte le chiese per il vangelo», con evidente allusione a Luca.(82) Il che implica che la 2Corinzi è posteriore al vangelo lucano, che certamente non è stato scritto prima del 135. La 1Timoteo (iv, 1-11) (82)  2Cor, viii, 16-24. Cfr. J. Carmignac, Nascita dei Vangeli, cit., p. 62.

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condanna gli encratiti, la cui ideologia, per essere derivata dal dualismo carne-spirito era chiaramente di matrice gnostica e risalente almeno alla metà del secondo secolo. Nella stessa lettera e in quella a Tito vengono redarguiti coloro che inseguono «miti e genealogie interminabili» (1Tm, i, 1; Tt, iii, 9) con chiara allusione ai vangeli di Matteo e di Luca. La datazione alta (i secolo) delle epistole paoline si fonda sul presupposto che esse siano opere di un autore (Paolo) convertito alla fede cristiana pochi anni dopo la morte di Cristo. Ma molti elementi inducono a ritenerle pseudepigrafe. In questo caso, pur senza escludere l’esistenza, diventata col tempo mitica, di un predicatore itinerante del primo secolo, quale era Paolo, la produzione delle lettere non può che slittare alla prima metà del secondo secolo. Gli esegeti si servono della cornice pseudostorica degli Atti per individuare l’epoca della loro composizione. Ma quanto questo criterio sia fragile, si scopre dal fatto che la narrazione degli Atti è piena di falle e imbarca acqua da tutte le parti. La successione con cui le lettere ci sono pervenute non ci aiuta in alcun modo. L’ordine canonico, tramandato dalla tradizione, è basato sul criterio meramente estrinseco della maggiore o minore lunghezza del testo ed è tra l’altro violato dal successivo inserimento delle tre pastorali e della Lettera agli Ebrei. Un diverso ordine, pur non esplicitamente dato come cronologico, è suggerito da Marcione, che, secondo Epifanio di Salamina, collocò le lettere paoline nella seguente successione: Galati, 1Corinzi, 2Corinzi, Romani, 1Tessalonicesi, 2Tessalonicesi, Efesini, Colossesi, Filemone, Filippesi. In realtà anche questa successione è vacillane e inaccettabile, perché non è possibile che Galati abbia preceduto la compilazione delle due lettere ai Corinzi. Si è infatti detto che Galati si iscrive in una fase posteriore del paolinismo, in quanto si fa portatrice dello spirito di riconciliazione (il presunto concilio di Gerusalemme), che indubbiamente fu successivo al più aspro e aperto conflitto con il cristianesimo apostolico che, come si è accennato, affiora nella 2Corinzi. Anche la 1Corinzi sembra iscriversi nella fase della riconciliazione. Infatti, pur prendendo le distanze del cristianesimo apostolico che proseguiva la tradizione giovannea del battesimo («Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo», i, 17), la lettera mira ad armonizzare le due facce del cristianesimo primitivo («non vi siano divisione tra di voi, ma siate in perfetta unione di pensieri e di intenti», i, 10; xii, 1-27). Si deve perciò pensare che la 1Corinzi sia posteriore alla seconda. Quale può essere la collocazione della lettera ai Romani nell’epistolario paolino? Questo è uno dei più difficile nodi da sciogliere. Per la tradizio-

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ne essa è una delle ultime lettere scritte. E in realtà la cornice entro cui il testo si inscrive, tra il prologo, i ringraziamenti e l’epilogo, sembra legittimare tale posizione. Il problema è che tanto il prologo quanto l’epilogo appaiono fortemente sospetti. L’accenno ad una «fede proclamata in tutto il mondo» (i, 8) non sembra alludere ad un cristianesimo incipiente. Lo stesso si può dire delle note autobiografiche con cui l’autore dichiara di «essere diventato ministro di Cristo Gesù verso i gentili», di aver annunciato il vangelo da Gerusalemme all’Illiria e di avere «evangelizzato dove ancora non era giunto il nome di Cristo» (xv, 16, 19, 20). La contraddizione sta però nella menzione della colletta per i poveri di Gerusalemme che si riferisce alla prima fase dell’apostolato paolino (xv, 26). Se poi si pretende di datare la lettera al primo secolo, sorge qualche perplessità sulla esistenza, nello stesso torno di tempo, di comunità cristiane a Roma, non attestate da idonee evidenze archeologiche. D’altro canto il nucleo culturale e teologico della lettera, per essere concentrato sul rapporto del paolinismo con il giudaismo, sembra precedere i temi delle due Corinzie che vertono sul confronto-scontro con le comunità apostoliche. È naturale pensare che la prima preoccupazione dell’apostolo delle genti sia stata quella di accordare la Legge con i principi della fede cristiana; il suo è un atteggiamento conciliativo che tende ad attenuare gli elementi di contrasto ed anzi di respingerli con vigore («la durezza di una parte di Israele è in atto fino a che sarà entrata la totalità dei gentili») e ad insistere sull’unità di spirito e di armonia, sull’organicità del corpo di Cristo in cui tutte le membra hanno una specifica funzione (xii, 4-5). L’anteriorità di Romani è d’altra parte implicita nella sua natura di cornice ideologica delle comunità paoline, le quali, senza una compattezza dottrinale, difficilmente avrebbero potuto darsi una identità. Tuttavia nulla vieta di pensare che la lettera sia maturata dopo la nascita delle stesse comunità e che sia il frutto della più matura riflessione teologica dell’autore. D’altro canto gli autori delle altre lettere, anche quando si confrontano con le nuove insidie della gnosi o con le accuse provenienti dagli ambienti apostolici, sembrano presupporre l’impianto programmatico e ideologico-culturale del paolinismo delineato nella lettera ai Romani. Infine le altre lettere (Efesini, Filippesi, Colossesi, Tessalonicesi), sebbene attribuite a Paolo per ragioni di prestigio, sono certamente produzioni pseudonime interne alle comunità paoline. L’inautenticità paolina della 1Tessalonicesi è dimostrata dal suo esasperato antigiudaismo che non è compatibile con le altre lettere. Sulla impossibilità che essa costituisca il primo documen-

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to del NT ci siamo già pronunciati e non vale la pena ritornare sulla questione. Per ragioni stilistiche, lessicali e concettuali (in particolare in tema di parousía) la 2Tessalonicesi non sembra ascrivibile allo stesso autore della prima. Le affinità tra Efesini e Colossesi derivano, come si è detto,(83) dal fatto che la seconda è in parte un plagio della prima. Di contro è probabile che unico sia l’autore delle tre pastorali. 2.14.  La riscoperta del paolinismo La rinascita o la riscoperta della epistolografia paolina cadde tra il 170 e il 180 d.C., allorché in Smirne Policarpo, o comunque un gruppo di intellettuali della sua cerchia, si adoperarono non solo a farla conoscere, ma anche ad ispirarsi nei loro scritti alle tematiche teologiche del paolinismo. Essi compirono un’opera di recupero della letteratura paolina, svincolata dalle grinfie, poco ortodosse, del marcionismo, da cui era apparsa fortemente condizionata. In quegli stessi anni, oltre alla Lettera ai Filippesi di Policarpo,(84)comparvero le pseudo-clementine e l’epistolografia ignaziana. Si trattò di un vero e proprio revival del paolinismo. A prescindere dal fatto che la cronologia della vita di Policarpo è molto incerta, la sua Lettera ai Filippesi è indubbiamente uno scritto pseudepigrafo, databile più verso il 170 che verso il 140,(85) tant’è che nel capitolo ix Policarpo mostra di conoscere non solo le lettere ai Romani, la 1e la 2Corinzi, la 1 e la 2Tessalonicesi e la Filippesi, già note attraverso Marcione, ma anche la 1 e la 2Timoteo e la 1Pietro, sicuramente tardive. Nel capitolo xiii Policarpo afferma di aver ricevuto da Ignazio una lettera, la quale dovrebbe essere stata scritta non dopo il 110, presunto anno della morte del vescovo di Antiochia, ma le numerose citazioni delle lettere paoline a Timoteo e della 1Pietro dimostrano che quella di Ignazio è una lettera pseudepigrafa, scritta non prima del 170 d.C. D’altronde tardivo è l’intero epistolario ignaziano, come dimostra il fatto che di esso non sussistono testimonianze anteriori al terzo secolo, fatta eccezione per l’epistola di (83) v. supra, pt. IV, par. 2.6, 2.8. (84)  Policarpo ai Filippesi: «Epistolas Ignatii quae transmisse sunt vobis, habeo, et alias quantascumque apud nos habuimus transmisimus vobis, secundum quod mandastis quae sunt subiectae huius epistolae». (85)  L’autore, infatti, si pone a notevole distanza temporale dalla fondazione della comunità filippese, dichiarando: «Mi rallegro perché la salda radice della vostra fede, famosa fin dai primi tempi, è rimasta intatta fino ad oggi».

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Policarpo. Cureton, che in proposito ha condotto una puntuale ricerca,(86) segnala tra le testimonianze esterne del terzo secolo solo Origene,(87) il quale cita rispettivamente tra le epistole ignaziane quelle ai Romani, vii e agli Efesini, xix. Ulteriori testimonianze del quarto secolo si rinvengono in Atanasio, in Basilio e in Eusebio.(88) Girolamo ne ha una conoscenza approssimativa, poiché in Adversus Pelagianos, cita un passo di Barnaba e lo attribuisce ad Ignazio e nel Comm. in Matthaeum, ricorda la Lettera agli Efesini, ma dipende da Origene, da lui stesso tradotto in latino.(89) Finché l’Apostolikón rimase legato al nome di Marcione fu marginalizzato, forse per il sospetto di eventuali collusioni con la gnosi. Provvide a sdoganarlo Clemente Alessandrino,(90) riconducendolo nell’ambito della «vera gnosi» contrapposta alla falsa. Contribuirono alla valorizzazione dell’epistolario paolino gli autori della lettera di Policarpo, delle pseudo-clementine e dell’epistolografia ignaziana. Il paolinismo è la linfa di cui si nutre l’epistola di Policarpo con le sue tematiche dell’imitazione di Cristo fino al sacrificio,(91) della certezza della resurrezione in connessione con la saldezza della fede in Cristo,(92) della salvezza per mezzo della grazia e non delle opere,(93) (86) W. Cureton, External Testimonies to the Epistles of Ignatius, in Corpus Ignatianum, cit., pp. lxv-lxxviii, ha dimostrato che la ricezione delle epistole ignaziane è limitata nel terzo secolo ad Origene, nel quarto a Giovanni Crisostomo e Basilio, e nel quinto a Teodoreto di Cirro. Il vescovo antiocheno, infatti, risulta ignoto a Giustino, a Clemente Alessandrino, allo Ps.-Ippolito e ad Ireneo. (87)  Origene, Homilia vi in Lucam, PG. xiii, col. 1815. (88)  Atanasio,De synodis Arimini et Seleuciae in Isauria, PG. xxvi, col. 776, Atanasio, ricorda Efesini vii, ovvero un passo non presente nella versione siriaca; Basilio, Homilia in humanam Christi generationem, PG. xxxi, col. 30; Eusebio, HE, iii, 22, 36; v, 8, 9. (89)  Girolamo, Adversus Pelagianos, iii, 1, PL. xxiii, col. 598; Comm. in Matthaeum, i, i, 18, PL. xxvi, col. 24; Origene, Homilia vi in Lucam, i, 1, PG. xiii, col. 1814. (90)  Clemente Alessandrino, Stromata, iv, 21; vi, 8; vii, 17. (91)  Non solo le tematiche, ma anche il linguaggio di Policarpo è ispirato all’epistolario paolino. A titolo di esempio richiamo alla mente le espressioni policarpiane: «Fratelli imprigionati in Cristo»; Fil, i, 1: «Imitatori della vera carità», «Questi prigionieri avvinti da venerabili catene, le quali sono il diadema dei veri eletti di Dio»; Fil, viii, 2: «Cerchiamo dunque di imitare la sua pazienza e, se dovremo soffrire per il suo nome, rendiamogli gloria»; in Fil, ix, 1, sono citati, come esempi di martirio, Ignazio, Zosimo, Rufo, Paolo e gli apostoli; sullo stesso tema v. anche ix, 2; x, 1. (92)  «Colui che lo risuscitò dai morti, risusciterà anche noi, se […] commineremo nella via dei suoi comandamenti» (Fil, ii, 2), (93)  «Siete stati salvati per la grazia, non per le opere» (Fil, i, 3).

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del riconoscimento del magistero paolino e del suo primato.(94) In essa non mancano i toni moralistici, parenetici, pedagogici, antidocetisti,(95) ma anche disciplinari, soprattutto in ordine ai comportamenti delle donne e delle vedove, delle vergini, dei diaconi e dei presbiteri, dei giovani, invitati ad essere sottomessi ai loro superiori. La 1Corinzi di Clemente Romano ricorda Paolo nei capitoli v, xlvii, per farci sapere che egli fu imprigionato sette volte e per deprecare, sulla scorta della 1Corinzi, i, 10-17, le divisioni interne alla comunità corinzia e la formazione di partiti intorno a personalità come Apollo e Cefa-Pietro; ma tutto sommato in Clemente il paolinismo è ancora sfumato o è ancora sullo sfondo. L’epistolografia ignaziana presenta invece così stretti legami con il corpus paolino da sembrarne a tratti un mero ricalco privo di originalità. Di Ignazio di Antiochia, escludendo le epistole sicuramente spurie, ci sono pervenute le lettere agli Efesini, ai Tralliani, a Policarpo, ai Filadelfiesi, ai cristiani di Magnesia, agli Smirnesi e ai Romani. Le encomiabili ricerche di William Cureton(96) hanno portato alla luce una loro versione siriaca, datata intorno al 530-540 assai più dimagrita (potremmo definirla ‘versione corta’) rispetto al testo greco.(97) Essa può esserci utile per comprendere come funzionasse il meccanismo delle omissioni e delle interpolazioni operate probabilmente a partire dal iv secolo. La tradizione vuole che Ignazio le abbia scritte tra il 105 e il 107 o 115, ma è un’ipotesi che cade non appena ci si rende conto che le sue lettere sono pseudoepigrafe e che comparvero nel mondo occidentale insieme con la non meno nota lettera di Policarpo. Si tratta, come tutte le lettere cristiane, di scritti di carattere parenetico-moralistico, in cui sono sviluppati fino alla nausea gli stessi temi paolini: la concordia e l’unità delle sette cristiane, il riconoscimento di un ordine gerarchico dell’organizzazione ecclesiale, fondata sui principi dell’obbedienza e della sottomissione (94)  «Vostro maestro è Paolo» (Fil, ii, 3). Policarpo dichiara la superiorità dottrinale di Paolo: «Poiché né io né un altro come me potrà raggiungere la sapienza del beato e glorioso Paolo, il quale […] insegnò con tanta esattezza la parola della verità» (Fil, iii, 2). (95)  «Evitate i doceti […] chi non riconosce che Gesù Cristo é venuto nella carne, é un anticristo e chi respinge la testimonianza della croce viene dal diavolo» (Fil, vii, 3 - viii, 1). (96) W. Cureton, Corpus Ignatianum, cit., sulla datazione del codice siriaco, v. Introduction, p. xxix. Per le citazioni paoline v. in particolare pp. 28, 32, 48, 78, 92, 127, 128, 148. (97)  Di Ignazio cfr. in particolare Filippesi, i e iv; Efesini, iv, x, xiv; Romani, iv; Tralliani, v; Filadelfiani, v. Paolo è menzionato anche nelle lettere spurie; infatti nella Lettera ai Tarsiani, iii, ci sono riferimenti alla 1Cor., viii, 6: «Paulus erudiens vos dicit: unus est Deus pater Christi, ex quo omnia», a Galati, vi, 14: «Paulus dicens: Mihi absit gloriari nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi» e a Romani, vi, 10, citata attraverso gli Atti, xxvi, 23.

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ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi. Centrali sono i temi delle catene e della sofferenza legata all’ideale della imitazione di Cristo, sull’esempio di Paolo,(98) della comunità come corpo di Cristo,(99) della verginità di Maria,(100) della concordia interna,(101) della salvezza che viene dalla croce,(102) della battaglia contro le eresie,(103) in particolare contro il docetismo.(104) La posizione (98)  Cfr. in proposito i seguenti passi: «Imitatori di Cristo» (Trall, 1, 1. 1. 1); «desidero soffrire»; «perché bramo di combattere contro le fiere?»; «le catene che porto per Gesù Cristo» (Trall, 1.1.1.11, 13, 15); «incatenato nel suo nome», «essere imitatori del Signore», «in lui porto le catene», «Io sono un condannato; voi siete gli iniziati di Paolo che si è santificato, ha reso testimonianza ed è degno di essere chiamato beato. Possa io stare sulle sue orme per raggiungere Dio» (Efes, ix, xii); «Siate imitatori di Gesù Cristo come egli lo è di suo Padre» (Fil, vi, viii); «Perché mi sono offerto alla morte? Per il fuoco, per le belve? […] per patire con lui» (Smir, iv); «l’altare è pronto: immolarsi; tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (Rom, ii, iii iv). Nell’epistola ai Romani si accentua il tema del desiderio del sacrificio, che per Ignazio coincide con il vangelo: «imitare la passione di Cristo» (Rom, vi). (99)  Sul corpo di Cristo: «Il signore vi chiama essendo voi sue membra. Il capo non può nascere separatamente senza le membra, poiché Dio ci ha promesso l’unità, che è egli stesso» (Trall, 1.1.1.12); «i profeti annunziarono il vangelo. Il corpo mistico di Cristo diventa sottomissione all’autorità» (Fil, viii). (100)  Sulla verginità di Maria: «Al principe di questo mondo rimase celata la verginità di Maria e il suo parto, similmente la morte del Signore, i tre misteri clamorosi compiuti nel silenzio di Dio» (Efes, xix). (101)  Sulla concordia: «rimanete nell’unità» (Trall, 1.1.1.13. Pol, viii, 1); «nessuno vi inganni […] se non v’è discordia tra voi, allora vivete secondo Dio» (Efes,viii); cfr. anche Fil, viii; Magn,v. (102)  «Il mio spirito è vittima della croce che è scandalo per gli infedeli e per noi salvezza e vita eterna» (Efes, xviii). (103) Contro l’eresia l’autore di Ignazio è piuttosto generico: «prendete solo l’alimento cristiano e astenetevi dall’erba estranea che è l’eresia» (Trall, 1.1.1.7). A proposito degli eretici scrive: «Bisogna scansarli come bestie feroci» (Efes, vii); «Ho inteso che sono venuti alcuni portando una dottrina malvagia. Voi non li avete lasciati seminare in mezzo a voi […] voi siete pietre del tempio del Padre […] elevate con l’organo di Gesù che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo»; «Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio […] in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo» (Efes, ix); «Se qualcuno spiega il giudaismo non ascoltatelo. È meglio udire il cristianesimo da un circonciso che il giudaismo da un incirconciso. Se l’uno e l’altro non vi parlano di Gesù Cristo essi sono per me delle stele, dei sepolcri sui quali sono scritti solo nomi di uomini (Fil, viii); «Non fatevi ingannare da dottrine eterodosse né da antiche favole che sono inutili»; «se qualcuno segue lo scismatico, non erediterà il regno di Dio»; «è stolto parlare di Gesù e continuare il giudaismo» (Magn,vii, iv, x). (104)  Contro il docetismo lo Ps.-Ignazio scrive: «non abboccare all’amo della vanità ma di essere convinti della nascita, della passione e della resurrezione avvenuta sotto il governo di Ponzio Pilato» (Magn, xi); «soffrì realmente come realmente risuscitò se stesso, non come

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di Ignazio sulla schiavitù è la stessa esposta da Paolo nella Lettera a Filemone;(105) analoga è anche la sua posizione sulla resurrezione materiale e corporea,(106) sul matrimonio,(107) sulla passiva subordinazione all’autorità dei vescovi e della chiesa,(108) sul primato della chiesa romana,(109) sulla autenticità del Vangelo, pur in assenza di una documentazione archivistica.(110) dicono alcuni infedeli, essi che sono apparenza, che soffrì in apparenza» (Smir, ii). Contro coloro che negano il Cristo: «Siate sordi se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo della stirpe di David, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve. Egli realmente fu perseguitato sotto Ponzio, realmente fu crocifisso e morì alla presenza del cielo, della terra e degli inferi» (Trall, 1.1.1.10); «Siate pienamente convinti del Signore nostro che è veramente della stirpe di David secondo a carne, Figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio, nato realmente dalla vergine, battezzato da Giovanni […] Egli sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode per noi fu realmente inchiodato nella carne» (Smir, i); «Alcuni non riconoscendolo, lo rinnegano […]; non li hanno convinti né i profeti, né la legge di Mosè e sinora né il vangelo né le nostre sofferenze singole» (Smir., v); «Stanno lontani dall’eucaristia e dalla preghiera perché non riconoscono l’eucaristia […]. Conviene star lontani da essi e non parlare né in privato né in pubblico […] per seguire invece i profeti e specialmente il vangelo nel qual è manifestata la passione e compiuta la resurrezione» (Smir, vii). (105)  Sulla schiavitù, cfr. Pol., stessa posizione di Paolo: «Non disprezzare gli schiavi e le schiave, ma essi non si gonfino e si sottomettano». (106)  «Sono convinto e credo che dopo la resurrezione egli era nella carne. Quando andò da quelli che erano intorno a Pietro disse: ‘Prendete, toccatemi e vedete che non sono un demone senza corpo’. E subito lo toccarono e credettero» (Smir, iii). (107)  In merito ai doveri dei mariti: «Amare le spose, come il Signore la chiesa» (Pol, v, i). (108)  «Fuggite la faziosità e le dottrine perverse. Dove è il pastore ivi seguitelo come pecore» (Fil, iii); «Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno […] così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri» (Magn,vi; Trall., 1, 1. 1.3; 1, 1. 1.13); «Siate col vescovo […] sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi» (Pol, vi, 1); «Conviene procedere con la mente del vescovo»; la sottomisione porta con sé l’unità e la concordia: «Uniti al vescovo come la chiesa lo è a Gesù»; «onorare il vescovo come il Signore stesso» (Efes, iv, v, vi:); «bisogna obbedire» (Fil, i; viii; Magn, ii, iii); «Dove c’è Gesù Cristo ivi c’è la chiesa cattolica» (Magn, xii; Smir, viii); «Il vescovo […] è l’immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio e il collegio degli apostoli. Senza di loro non c’è chiesa» (Trall, 1.1.1.4). (109)  Sull’eucaristia: «Preoccupatevi di attendere ad una sola Eucaristia. Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice dell’unità del suo sangue, uno è l’altare, come uno solo è il vescovo con il presbiterato e i diaconi miei conservi» (Fil, v). L’unictà della chiesa è insita nella unicità del Cristo: «Non c’è che un solo medico, materiale e spirituale, generato e ingenerato, fatto Dio in carne» (Efes, vii). (110)  «Ho ascoltato alcuni che dicevano: se non lo trovo negli archivi, nel vangelo non credo. Io risposi loro che sta scritto, ed essi di rimando che questo è da provare. Per me l’archivio è Gesù Cristo. I miei archivi inamovibili la sua croce, la sua morte, la sua resurrezione» (Fil, ix; cfr. anche Fil, x). Che è un modo di contrastare con argomenti retorici ad una richiesta di prove razionali.

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2.15.  Analisi linguistico-lessicale dell’epistolario paolino Il problema della autenticità delle lettere paoline non può essere disgiunto da quello della loro compatibilità o affinità stilistica, lessicale e contenutistica. A ciò possono giovare le indagini filologiche sulla occorrenza di singoli termini o di forme idiomatiche o di costrutti morfo-sintattici. Bisogna tuttavia tenere in conto che i testi di natura religiosa hanno implicazioni ideologiche fortissime, tali da renderli più facilmente suscettibili non solo di imitazioni e di contraffazioni più o meno sospettabili, ma anche di integrazioni e rettifiche o aggiustamenti che possono escludere o includere determinate interpretazioni a seconda che siano considerate canoniche o devianti. Né si può escludere che un abile imitatore possa essersi impossessato di forme stilistiche e modi di costruzione della scrittura dell’autore imitato o che abbia dato una patina di uniformità ai testi nella definitiva fase redazionale. Non possiamo essere sicuri che i testi, quali ci sono pervenuti, siano esenti da qualsivoglia intervento esterno che possa in parte compromettere l’indagine sotto il profilo puramente filologico. Non ci sono di grande ausilio neppure i manoscritti più antichi, in parte perché spesso sono molto frammentari e in parte perché non sono mai anteriori al terzo secolo. Tali sono i papiri P27, P40, P113, P115, relativi a frammenti della Lettera ai Romani. Parti della 1Corinzi sono conservati nel papiro P15. Il P30 contiene porzioni della 1 e della 2Tessalonicesi e il P65 frammenti della 1Tessalonicesi. Lo stesso si dica per la Lettera a Tito (P32), per quella agli Efesini (P49) e per la Lettera a Filemone (P87). Di recente ha suscitato qualche interesse il papiro P46, contenente frammenti più o meno consistenti delle lettere ai Romani, 1 e 2Corinzi, Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi, 1Tessalonicesi ed Ebrei. Young Keun Kim ha ipotizzato che esso risalga alla fine del i secolo, ma la sua datazione è stata contestata da Griffin.(111) Ed è ormai ampio il consenso degli autori su una sua datazione intorno al 200 d.C. o meglio tra la prima e la seconda metà del terzo secolo, allorché le più invasive manipolazioni del testo erano già state prodotte. La lingua delle lettere paoline, nelle sue articolazioni lessicali e morfo-sin(111)  Y. K. Kim, Paleographical Dating of 46 to the Later First Century, «Biblica», lxix, 1988, pp. 248-257; B. W. Griffin, The Paleographical Dating of P-46, November 1996, accessibile su sito internet. Gli esegeti credenti hanno salutato con grande favore la datazione proposta da Kyu Kim, nella convinzione di poter ammettere una retrodatazione alta dell’epistolario paolino. Ma si tratta di un abbaglio perché il papiro P46 è documento risalente al iii secolo.

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tattiche, non sembra essere molto distante nel tempo da quella delle narrazioni evangeliche; ma, poiché queste ultime ignorano del tutto le prime, che invece mostrano di avere una qualche conoscenza delle seconde, per un elementare principio logico si può stabilire che il corpus paolino è di epoca posteriore a quello evangelico. Il termine corpus, se inteso nel senso di compattezza, organicità e paternità di testi, non è filologicamente adeguato; se invece è inteso come raccolta di testi, anche se di diversa provenienza o di diversi autori, può ritenersi appropriato. Abbiamo già rilevato che la stessa figura di Paolo emerge con tratti personali non del tutto coerenti tra una lettera e l’altra. Ma, pur riconoscendo che le lettere non sono riconducibili ad una sola personalità, non si può disconoscere che esse sembrano provenire da un unico ambiente intellettuale. Non è del resto un caso che esse comparvero in connessione con un intellettuale di primo piano come Marcione. La realtà è che le lettere, se non hanno l’unità che denota un’unica mano o un’unica mente, hanno però l’unità denotata da un unico centro culturale, una comunità di intellettuali che condividono un medesimo progetto religioso. Possiamo intuire che tale comunità fosse costituita da giudei di lingua greca, cioè da giudei che, vivendo nella diaspora fin dalla terza generazione, avevano ormai perso la padronanza della loro lingua originaria e si erano interamente ellenizzati. Inducono a tali conclusioni elementi come la schematicità strutturale delle lettere, l’uso di comuni stilemi, di comuni modi di dire, di espressioni, di scelte lessicali, modi di pensare propri di una medesima comunità religiosa. Tali sono per esempio le qualificazioni dei destinatari, che sono «diletti di Dio, chiamati santi» (ἀγαπητοῖς θεοῦ, κλητοῖς ἁγίοις) per Romani; «santificati in Gesù Cristo, chiamati santi» (ἡγιασμένοις ἐν χριστῶ ἰησοῦ, κλητοῖς ἁγίοις) per la 1Corinzi; «santi in Cristo Gesù» (τοῖς ἁγίοις ἐν χριστῶ ἰησοῦ) perFilippesi; «santi e fratelli fedeli in Cristo» (ἁγίοις καὶ πιστοῖς ἀδελφοῖς ἐν χριστῶ) e per Colossesi.(112) Nei ringraziamenti,(113) pur nella loro scontata schematicità, si coglie chiaramente l’appartenenza degli autori ad una comune cerchia religiosa, accomunati da un dono divino, ricevuto per il tramite di Cristo e della rivelazione del Signore. La formula «grazie a voi e pace da parte di Dio Nostro Padre e del Signore Gesù Cristo» (χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη ἀπὸ θεοῦ πατρὸς ἡμῶν καὶ κυρίου ἰησοῦ χριστοῦ) ricorre con qualche marginale variante in Romani, 1Corinzi, 2Corinzi, Galati, Efesini, Filippesi, Colosse(112)  Rm, i, 7; 1Cor, i, 2; Fp, i, 1; Col, i, 1. (113)  Rm, i, 8-15; 1Cor, i, 4-9; 2Cor, i, 3-7; Fp, i, 3-11; Col, 3-8; 1Ts, i, 2-10; 2Ts, i, 2-5.

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si, 2Tessalonicesi, 1Timoteo, 2Timoteo, Tito, Filemone e, in forma ellittica, in 1Tessalonicesi. Il sintagma «chiamato apostolo di Cristo, per volontà di Dio» (ἀπόστολος χριστοῦ ἰησοῦ διὰ θελήματος θεοῦ) è presente con varianti diverse in 1 e 2Corinzi, Efesini, Colossesi, 1e 2Timoteo e Tito. Il sintagma «servo di Cristo Gesù» (δοῦλος χριστοῦ ἰησοῦ) compare in Romani, Galati, Filippesi e diventa «servo di Dio» (δοῦλος θεοῦ) in Tito. Nella Lettera a Filemone compare due volte la formula: «Paolo prigioniero di Cristo Gesù» (δέσμιος χριστοῦ ἰησοῦ); la stessa formula è presente in Efesini e con qualche variante nella 2Timoteo. Lo stilema μὴ γένοιτο, presente in Luca, in Romani, in 1Corinzi e in Galati,(114) ha dieci occorrenze in Romani ed è evidentemente indicativo di uno stile che differenzia quest’ultima lettera dalle altre epistole paoline. In ogni caso il fatto che gli stessi sintagmi e le stesse fraseologie sono presenti tanto nelle lettere ritenute dalla Chiesa autentiche quanto in quelle chiaramente pseudepigrafe, dimostra che le intestazioni e i congedi non sono affidabili e che probabilmente sono ascrivibili ad aggiunte posticce. Gli stessi autori di Paolo ci danno indicazioni intorno allo stile e alla tipologia delle tecniche argomentative impiegate. Paolo, infatti, dichiara di non avere la facondia dei grandi scrittori né di avere la sapienza dei greci ed afferma di non ricorrere a sostegno delle sue tesi ad argomentazioni di tipo persuasivo: Non sono venuto da voi con sublimità di parola o di sapienza ad annunciarvi il mistero di Dio. La mia parola e la mia predicazione non hanno fatto ricorso ad argomenti persuasivi di sapienza, ma alla dimostrazione dello Spirito e alla sua potenza(1Cor, ii, 1, 4).

Si può essere d’accordo sul primo versetto; non c’è nelle lettere uno stile sublime; c’è se mai a tratti una oscurità che rende a volte sfuggente il pensiero dell’autore. Sul secondo versetto invece regna la più completa confusione. È probabile che l’autore abbia voluto semplicemente dire che le sue non sono le argomentazioni tipiche della retorica greca o comunque caratteristiche della sapienza greca; probabilmente egli aveva in mente la contrapposizione tra i segni (simbologia e mistero), che sono propri della tradizione ebraica, e la sapienza, che è propria dei greci. Ma la filosofia greca non (114)  Lc, xx, 16; Rm, iii, 4, 6, 31; vi, 2, 15; vii, 7, 13; ix, 14; xi, 1, 11; 1Cor, vi, 15; Gal, ii, 17; iii, 21.

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si fonda su argomentazioni persuasive, bensì su argomentazioni razionali. D’altro canto le argomentazioni di Paolo sono tutt’altro che dimostrative e razionali; al contrario sono fortemente persuasive, perché fanno appello ai sentimenti e alle emozioni per estorcere ai lettori il proprio consenso. Le sue sono «dimostrazioni dello Spirito e della sua potenza»; impongono una verità di origine divina, non vagliata né valutabile dalla ragione umana. Anche quando hanno tutta la parvenza di essere ragionevoli, fanno presa sulle aspirazioni o sulle paure soggettive di chi ascolta o legge. Ne do per tutte un unico esempio: nella 2Corinzi, per convincere i Corinzi a sovvenzionare il proprio servizio ministeriale, Paolo ricorre al seguente argomento: «Badate che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con generosità, con generosità raccoglierà […]. Infatti Dio ama chi dona con gioia» (2Cor, ix, 6-7). Che è evidentemente un argomento che fa presa sulle speranze e sulle paure dei fedeli. Un’analisi statistica del vocabolario usato, delle scelte lessicali, della fraseologia comune, di quella idiomatica, tenuto conto degli slittamenti semantici e lessicali del tempo, può esserci utile per studiare le correlazioni tra le lettere ai fini di stabilirne l’eventuale autenticità o la loro riconducibilità ad un unico autore. Ma in questo orizzonte di ricerca occorre essere molto prudenti, perché talvolta non sono mancate indagini di carattere pseudo-filologico, utilizzate più per pervenire ai risultati preventivamente auspicati che ad esiti autenticamente scientifici. Purtroppo ciò accade assai spesso quando i testi hanno carattere religioso e l’interprete, credente o non credente, è fuorviato dalle premesse della sua fede.(115) Possiamo osservare che in linea di massima il NT non presenta la ricchezza linguistica delle opere letterarie. Il lessico in esso impiegato è costituito da appena 5.433 lemmi per un complesso di 7.957 versetti e 138.020 parole. Si tratta di poco più del doppio di un lessico di base, cioè poverissimo, che ammonta generalmente a circa 2.000 vocaboli. Le quattordici lettere paoline (indicate con Lp) rappresentano circa un quarto del totale con 2.336 versetti e 37.308 parole. Gli altri testi neotestamentari (indicati con Al) rappresentano circa i tre quarti del totale con 5.621 versetti e 100.660 parole. I totali dei vocaboli usati (7.532 per l’epistolario paolino, 10.754 per gli altri scrit(115)  Tale è probabilmente il caso di E. J. Goodspeed, The Key to Ephesians, cit., che ritiene di poter stabilire una datazione dell’epistola agli Efesini e della clementina ai Corinzi, collocondole entrambe alla fine del i secolo, e quello di E. Percy, Die probleme der Kolosser- und Epheserbriefe, che ritiene di poter riaffermare l’autenticità della lettera ai Colossesi.

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ti neotestamentari e 18.286 per tutto il NT) comprendono un’area lessicale comune consistente in 1.550 lemmi, pari al 28,5% del vocabolario totale 5,433 lemmi. Il totale degli hapax e pari a 656 (Lp) + 1.024 (Al) = 1.680. Ho condotto l’indagine statistica su un vocabolario costituito di sole parole piene con l’esclusione di nomi propri di persona, di città e di popoli. Ho altresì escluso dall’indagine i lemmi che presentano un’altissima frequenza in tutto il NT poiché essi si possono considerare afferenti ad un lessico di base che non risulta di grande utilità ai fini della individuazione di eventuali scelte stilistiche. Ne consegue che il vocabolario preso in esame nella presente indagine statistica comprende per Lp: 829 + 228 hapax = 1057 verbi; 720+ 263 hapax = 983 sostantivi; 318 + 133 hapax = 451 aggettivi; 104 +32 hapax = 136 avverbi; per i testi Al comprende: 1095 + 389 hapax = 1484 verbi; 1035 + 394 hapax = 1429 sostantivi; 370 + 182 hapax = 552 aggettivi; 61 + 59 hapax = 120 avverbi. In aggiunta alle parole piene ho esplorato un certo numero di particelle, preposizioni e congiunzioni (rispettivamente 14 + 25 + 32 = 71 per Lp e 15 + 31 + 36 = 82 per Al), evitando le forme più diffuse e meno significative dal punto di vista della specificità stilistica. Il totale complessivo dei lemmi presi in esame è di 2.698 (per Lp)+ 3.667 (per Al) = 6.365 – 1550 (lemmi) = 4.815 (pari al 88,6 % di 5433). Da un punto di vista stilistico-lessicale risulta assai utile la distinzione dei lemmi in tre aree: i) quella dei lemmi comuni contenuti tanto nelle lettere paoline che negli altri testi neotestamentari; ii) quella dei lemmi propri delle lettere paoline e iii) quella dei lemmi propri degli altri testi neotestamentari. Le tre aree ci consentono di individuare le abitudini linguistico-lessicali degli autori dei testi e possono agevolarci nella determinazione della loro eventuale co-paternità. In particolare l’indagine mira ad accertare se esistono correlazioni: a) tra il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli; b) tra le diverse lettere paoline; c) tra il Vangelo di Giovanni, le epistole cattoliche giovannee e l’Apocalisse. a) Correlazioni tra Luca e gli Atti degli Apostoli. Dall’indagine statistica emerge che l’area comune ai due testi è di 767 lemmi (pari al 39,3 %); quella propria di Luca è di 668 lemmi (pari al 34,2%) e quella propria degli Atti è di 475 lemmi (pari al 24,3 %). Si potrebbe ritenere che la percentuale del 39,3 dei lemmi comuni possa supportare l’ipotesi della prossimità stilistico-lessicale dei due testi. In realtà non è così. Perché se si esplorano più dettagliatamente i lemmi ci si accorge che un ruolo di

1282  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

qualche rilievo è rappresentato dalla loro frequenza in ciascuna delle tre aree individuate. Infatti taluni lemmi presentano una frequenza notevolmente più alta in Luca e altri negli Atti. Ma lo stesso accade anche nell’area comune, ove le variazioni di frequenza dei lemmi sono non marginali. Naturalmente tali variazioni sono più consistenti nel caso di lemmi dotati di media o bassa frequenza; in tutte e tre le aree emergono divergenze non irrilevanti nelle preferenze lessicali che sono meno consistenti nel caso di lemmi dotati di alta frequenza. Gli esempi che in proposito potrei addurre sono numerosi, ma richiederebbero un gran numero di pagine. Mi limito pertanto a suggerire un certo numero di esempi per ciascuna tipologia morfologica. Va comunque tenuto presente che i lemmi di per sé (e ancor più per la loro frequenza) sono importanti veicoli di concetti, di simboli, intuizioni, emozioni, credenze, idee e mappe concettuali degli autori. Esempi di forme verbali preferite da Luca (per ciascun lemma indico tra parentesi tonda prima la frequenza in Luca e, separata da una barretta, la frequenza in Atti ): ἀγαπάω = amare (15/0); ἀγοράζω = frequentare la piazza (5/0); ἀκολουθέω = seguire, essere seguace (17/4); ἀπέρχομαι = partire (20/6); ἀποθνῄσκω = morire (9/4); ἀποκρίνομαι = rispondere (47/20); ἀποκτείνω = uccidere, distruggere (12/6); ἀπόλλυμι = distruggere, vanficare (27/2); ἀποστέλλω= congedare (28/0); ἅπτω = aderire, toccare (13/1); ἄρχω = governare (31/10); ἀφίημι = mandare via (31/3), ecc. Sono invece preferite dall’autore degli Atti le forme verbali: ἀναβαίνω = salire (9/18); ἀνάγω = condurre su (3/17); ἀναιρέω = alzare (2/18); ἀναλαμβάνω = prendere, ricevere (0/8); ἀνίστημι = sollevae, far nascere (27/44); ἀνοίγω = aprire (6/16); ἀτενίζω = guardare, scrutare (2/10); βούλομαι = volere, desiderare (2/14); ἐπικαλέω = soprannominare (0/20); καταγγέλλω = annunciare (0/11); μαρτυρέω = testimoniare (1/11); συνέρχομαι = riunire, accompagnarsi (2/16), ecc. Esempi di forme sostantivali preferite da Luca: ἀγρός = terra, campo (9/1); αἰών = eternità, eone (7/2); ἀμπελών = vigna (7/0); ἄρτος = cibo, pane (25/5); βασιλεία = regno (46/8); δαιμόνιον = demone, divinità (23/1): διδάσκαλος = maestro (17/1); δοῦλος = servo, schiavo (26/3); δόξα = opinione, gloria (13/4); ἐπιστάτης = soprintendente, padrone (7/0); καρπός = frutto (12/1); κώμη = villaggio (12/1); λίθος = pietra (14/2); μνημεῖον = monumento, sepolcro (8/0); παιδίον = infane, fanciullo (13/0); παραβολή = parabola, confronto, similitudine (18/0); σῶμα = corpo (12/1); σταυρός = croce (3/0); τελώνης = esattore (10/0), ecc. Sono invece preferite dall’autore

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

1283

degli Atti: αἰτία = causa (1/8); ἀνήρ = uomo, maschio (26/100); ἀπόστολος = apostolo, inviato (6/28); διακονία = servizio, ministero (1/8); ἔθνος = popolo (13/43); ἐκκλησία = chiesa (0/23); ἑλπίς = speranza (0/8); ἐπαγγελία = annuncio (1/8); ἔργον = opera, prodotto; (2/10); πρεσβύτερος = più anziano (5/18); θύρα = porta, vestibolo (3/10); λύχνος = lampada, candela (0/6); μάρτυς = testimone (2/13); ὅραμα= spettacolo (0/11); συνέδριον = sinedrio (1//14); τέρας = prodigio, miracolo (0/9); χάρις= grazia (8/17). Emblematico il caso di ὄχλος = folla, moltitudine (41/22), preferito da Luca rispetto a πλῆθος = folla, moltitudine (8/16), preferito dagli Atti. Esempi di forme aggettivali preferite da Luca: ἀγαθός = buono (15/3); ἁμαρτωλός = peccaminoso (17/0); δίκαιος = retto (11/6); ἕτερος = altro (31/17); ἐχθρός = odioso, ostile (8/2); καλός = bello (7/1); μακάριος = benedetto, felice (15/2); νέος = giovane, nuovo (7/1); νομικός = relativo alla legge (6/0); ὅμοιος = simile (9/1); πλούσιος = ricco (11/0); πρῶτος = primo (10/0); πτωχός = povero (10/0); τρίτος = terzo (9/4); τυφλός = cieco (7/1); φίλος = amichevole (15/3), ecc. Sono invece preferite dall’autore degli Atti: ἅγιος = santo (19/50); γνωστός = notabile (2/10); ἕκαστος = ogni (5/11); ἴδιος = proprio (6/16); ἱκανός = sufficiente, bastante (9/18); Ἰουδαῖος = giudeo (5/76); μηδείς = nessuno (9/22); ναζωραῖος = che ha fatto voto di nazireato (1/7); ὅσος = tanto grande quanto (9/17); πλήρης = pieno (2/8); πρεσβύτερος = più vecchio (5/18). Non meno rilevante è la frequenza di particelle, preposizioni e congiunzioni che hanno, com’è noto, una notevole incidenza sullo stile di un autore. In tale ambito Luca mostra preferenze per le particelle: ἀμήν = veramente (6/0); ἄν di diverso valore semantico (30/15); ἰδού = ecco (55/23); le elisioni ἀπ› per ἀπό = da (32/11); ἀλλ› (16/8) per ἀλλά; la condizionale ἐάν (25/9); ἕως = finché (8/1); ὅταν = quando (27/2); πλήν = oltre a (15/1); gli Atti preferiscono εἰ = se (7/12), l’elisione δι› per διά = per mezzo di (5/11); σύν = con (23/47); κἀκεῖθεν = da lì, da allora (0/8); il caso più eclatante è l’uso con altissima frequenza di τέ = non solo… ma anche, sia… che (8/136). A partire da questi dati si possono desumere due ipotesi: o i due testi messi a confronto non sono riconducibili ad uno stesso autore o, in alternativa, se l’autore è lo stesso, bisogna supporre che la loro composizione è avvenuta a notevole distanza di tempo (circa trenta o quaranta anni), cioè ad una distanza temporale tale da giustificare una profonda trasformazione dello stile e dei parametri concettuali dell’autore. Personalmente ritengo più credibile la prima ipotesi, anche se non escludo che l’autore degli Atti si sia ispirato al

1284  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

vangelo lucano nella pretesa, tutt’altro che attendibile o comunque concretizzata, di fare un lavoro da storico alla maniera degli scrittori greci e romani. b) Correlazioni tra le lettere paoline. Possiamo valutare le eventuali affinità lessicali tra gruppi di lettere, determinando la consistenza delle loro aree comuni. I dati relativi sono sintetizzati nella Tabella 6. Tabella 6. Lettere

I

II

III

IV Perc. di compat

R/1C

382

879+816-382

1313

29%

R/2C

310

879+647-310

1216

25,4%

R/G

278

879+408-278

1009

27,5%

G/1C

204

408+816-204

1020

20%

G/2Cf

168

408+647-168

887

18,9

1C/2C

274

816+647-274

1189

23%

E/C

173

439+341-173

607

28,5%

81

277+174-81

370

21,8%

1Tm/2Tm

134

449+346-134

661

20,2%

1Tm/Tt

114

449+232-114

567

20,1%

2Tm/Tt

84

346+232-84

494

17%

1Ts/2Ts

Legenda: la colonna I fornisce i totali dei lemmi comuni alla due lettere messe a confronto; la colonna II indica il procedimento per il calcolo del totale dei lemmi delle due lettere confrontate; la colonna III indica i totali dei lemmi delle due lettere confrontate; la colonna IV indica la percentuale di compatibilità delle due lettere.

Dalla Tabella 6 si evincono i seguenti risultati: l’indice di compatibilità di R/1C (29%), R/2C (25,4%), R/G (27,5%) potrebbe suggerire una eventuale loro co-paternità. Ma questa ipotesi è compromessa dai dati più deludenti, relativi a G/1C (20%), G/2C (18,9%), 1C/2C (23%). Se ne devono trarre le seguenti conclusioni: 1) è verosimile che Ramani e 1Corinzi siano frutto di una stessa mano; 2) è probabile che la 2Corinzi e Galati siano tra loro indipendenti; 3) l’indice del 28 % sembra confermare l’affinità tra Efe-

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

1285

sini e Colossesi, ma non si può escludere che esso sia dovuto al fatto che Colossesi è scritta a ricalco di Efesini; 4) potrebbero non essere riconducibili ad un unico autore le due Tessalonicesi e forse anche le tre pastorali. Tali dati meramente statistici trovano conferma nella esplorazione della frequenza dei lemmi nelle diverse lettere. Ne offro una campionatura che ovviamente per ragioni di spazio non può essere che limitata a pochi esempi relativi a quattro lettere (Romani, 1 e 2Corinzi e Galati). Le cifre indicate in parentesi tonda si riferiscono alla frequenza che i lemmi presentano in ciascuna lettera presa in esame secondo l’ordine che esse hanno nel corpus canonico. Per esigenze di semplificazione le forme verbali sono registrate nella prima voce paradigmatica e non nelle forme flesse utilizzate nei testi che pure sono più incisive sulla specificità dello stile. Preferenze lessicali di Romani: ἀγαπάω (8/2/4/2); ἀπειθέω (5/0/0/0);

ἀποθνῄσκω (22/9/3/2); ἀσπάζομαι (16/2/1/0); δικαιόω (17/2/0/6); ἐλεάω (8/1/1/=); ζάω (18/3/9/8); κατεργάζομαι (11/1/6/0); λογίζομαι (19/3/8/1); παρίστημι (8/1/2/0); πιστεύω (22/9/2/4); πληρόω (6/0/2/1); πράσσω (19/1/2/1); φρονέω (9/1/1/1); ἀδικία (7/1/1/0); ἀκροβυστία (11/2/0/3); ἁμαρτία (47/4/3/3); δικαιοσύνη (33/1/7/4); ἔθνος (28/3/1/10); εἰρήνη (10/4/2/3); ἐλπίς (13/3/3/1); ζωή (14/2/6/1); θάνατος (22/8/4/0); λαός (8/2/1/0); νόμος (75/9/0/31); παράπτωμα (9/0/1/1); περιτομή (15/1/0/7); σπέρμα (9/1/1/5); ἀγαθός (21/0/2/2); κακός (14/3/1/0). Preferenze lessicali della 1Corinzi: ἀνακρίνω (0/10/0/0); ἀπόλλυμι (2/6/3/0); βαπτίζω (2/10/0/1); γινώσκω (9/17/8/4); δοκέω (0/9/3/5); δύναμαι (5/12/3/1); βλέπω (6/10/4/1); ἐγείρω (10/21/4/1); ἐσθίω (12/27/0/0); λαλέω (3/34/10/0); μένω (2/9/3/0); μετέχω (0/5/0/0); οἰκοδομέω (1/6/0/1); πειράζω (0/6/1/1); συνέρχομαι (0/7/0/0); ἀνήρ (9/33/1/1); γλῶσσα (2/21/0/0); γυνή (1/41/0/1); ποτήριον (0/8/0/0); σῶμα (13/47/10/1); ἄλλος (0/22/4/2); ἄπιστος (0/10/3/0); ἀσθενής (1/13/1/1); ἴδιος (5/16/0/3); πνευματικός (3/15/0/1). Preferenze lessicali della 2Corinzi: ἀσθενέω (4/2/7/0); καυχάομαι (5/5/20/2); λυπέω (1/0/12/0); παρακαλέω (5/6/18/0); περισσεύω (3/3/10/0); προσεύχομαι (1/8/0/0); προφητεύω (0/11/0/0); φανερόω (2/1/9/0); διακονία (4/2/12/0).

Galati non ha significativi picchi di frequenza. L’esame statistico del vocabolario paolino può essere condotto anche per mezzo della individuazione di tre ulteriori sezioni lessicali. Possiamo cioè distinguere le sezioni non sulla base della loro frequenza interna a ciascuna lettera, ma sulla base della loro frequenza esterna o della loro presenza nell’intero corpus paolino. Abbiamo così le seguenti tre sezioni: α) quella dei lemmi

1286  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

di uso più comune, i quali occorrono in almeno sette lettere fino a quattordici; β) quella dei lemmi di frequenza media, presenti in almeno quattro lettere fino a sei; γ) quella dei lemmi di scarsa utilizzazione, presenti solo in due o al massimo in tre lettere. La sezione α è la meno appetibile, perché i lemmi che vi afferiscono rientrano per lo più in quello che potremmo considerare il lessico di base. La sezione β è certamente più promettente, ma per via del numero delle lettere, la sua esplorazione è particolarmente faticosa. Più proficua risulta invece la sezione γ, i cui dati quantitativi sono forniti dalla Tabella 7. Tabella 7. R R 1C 2C G Ef Fp Cl 1Ts 2Ts 1Tm 2Tm Tt

1C

2C

G

Ef

Fp

Cl

1Ts

2Ts 1Tm

2Tm

Tt

Fm

82

64

42

37

19

17

15

3

21

18

13

4

49

35

31

16

22

16

5

22

14

12

4

19

16

19

13

12

6

17

7

6

2

8

6

8

7

1

7

2

2

-

10

32

14

2

7

4

4

1

1

5

2

5

2

5

1

1

2

5

1

1

2

5

2

2

4

-

4

-

-

-

26

30

-

20

1 1

Fm

Ad ulteriore conferma delle conclusioni raggiunte fornisco di seguito l’elenco dei lemmi comuni a due o al massimo tre lettere: Romani: Verbi: αἰχμαλωτίζω (2C, 2Tm), ἀναγγέλλω (2C), ἀνακεφαλαιόω

(Ef), ἀντιλέγω (Tt), ἀπέρχομαι (G), ἀπιστέω (2Tm), ἀπολαμβάνω (G, Cl), ἀπολογέομαι (2C), ἀποτίθημι (Ef, Cl), ἀπωθέομαι (1Tm), ἄρχω (2C), ἀφίημι (1C), ἀφορίζω (2C, G), βαπτίζω (1C, G), βαστάζω (G), διακρίνω (1C), διψάω (1C), δυνατέω (2C), ἐγγίζω (Fp), ἐγκόπτω (G, 1Ts), εἰρηνεύω (2C, 1Ts),

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

1287

εἰσέρχομαι (1C), ἐκδικέω (2C), ἐκκλείω (G), ἐκκόπτω (2C), ἐκπίπτω (G), ἐκχέω (Tt), ἐλευθερόω (G), ἐλλογέω (Fm), ἐξεγείρω (1C), ἐξομολογέω (Fp), ἐπαινέω (1C), ἐπαισχύνομαι (2Tm), ἐπερωτάω (1C), ἐπιζητέω (Fp), ἐραυνάω (1C), εὐοδόομαι (1C), εὐφραίνω (2C, G), εὔχομαι (2C), θανατόω (2C), θησαυρίζω (1C, 2C), καθίστημι (Tt), κάμπτω (Ef, Fp), καρποφορέω (Cl), καταβαίνω (Ef, 1Ts), καταισχύνω (1C, 2C), κατακρίνω (1C), καταλύω (1C, G), κατηχέω (1C, G), κλαίω (1C, Fp), κλέπτω (Ef), κολλάομαι (1C), κράζω (G), κυριεύω (2C, 1Tm), μεταδίδωμι (Ef, 1Ts), μεταμορφόομαι (2C), μωραίνω (1C), νεκρόω (Cl), οἰκέω (1C, 1Tm), παραζηλόω (1C), παρεισέρχομαι (G), παροργίζω (Ef), πεινάω (1C, Fp), πίνω (1C), πίπτω (1C), πλάσσω (1Tm),πληροφορέω (Cl, 2Tm), ποτίζω (1C), προγράφω (G, Ef), προεπαγγέλλομαι (2C), προετοιμάζω (Ef), προκόπτω (G, 2Tm), προλαμβάνω (G), προνοέω (2C, 1Tm), προορίζω (1C, Ef), προσκαρτερέω (Cl), προσλαμβάνομαι (Fm), προτίθεμαι (Ef), πωρόω (2C), σιγάω (1C), στενάζω (2C), στηρίζω (1TS, 2Ts), στοιχέω (G, Fp), συγκλείω (G), συζάω (2C, 2Tm), συμπάσχω (1C), συναπάγομαι (G), συνεργέω (1C, 2C), συνευδοκέω (1C), συνθάπτομαι (Cl), συνίημι (2C, Ef), συνίστημι (2C, Cl), συσταυρόομαι (G), σφραγίζω (2C, Ef), τάσσω (1C), ὑπερέχω (Fp), ὑπερπερισσεύω (1C), ὑπομένω (1C, 2Tm), ὑποτίθημι (1Tm), φείδομαι (1C, 2C), φέρω (2Tm), φιλοτιμέομαι (1C, 1Ts), φορέω (1C), φράσσω (2C), χρῄζω (2C), ψωμίζω (1C). Sost. ἁγιωσύνη (2C, 1Ts), ἀλαζών (2Tm), ἁμάρτημα (1C), ἀνάθεμα (1C, G), ἀνακαίνωσις (Tt), ἀντιμισθία (2C), ἀπαρχή (1C, 2Ts), ἀπείθεια (Ef, Cl), ἀπιστία (1Tm), ἀποκαραδοκία (Fp), ἀποστολή (1C, G), ἄρχων (1C, Ef), ἀσέβεια (2Tm, Tt), βάπτισμα (Ef), βάρος (G, 1Ts), βῆμα (2C), γλῶσσα (1C, Fp), γυμνότης (2C), διάκρισις (1C), διαστολή (1C), διχοστασία (G), δοκιμή (2C, Fp), δόλος (1C, 1Ts), δουλεία (G), ἐκλογή (1Ts), ἔνδειξις (2C, Fp), ἔχθρα (G, Ef), ἥττημα (1C), θυσιαστήριον (1C), ἴχνος (2C), καταλλαγή (2C), κίνδυνος (2C), κλίμα (2C, G), κρέας (1C), κῶμος (G), λειτουργός (Fp), λίθος (1C, 2C), λιμός (2C), λογισμός (2C), μακαρισμός, (G), ματαιότης (Ef), μάχαιρα (Ef), μέθη (G), μέτρον (2C, EF), μισθός (1C, 1Tm), μόρφωσις (2Tm), νέκρωσις (2C), ὀδύνη (1Tm), ὁμοίωμα (Fp), ὀνειδισμός (1Tm) ὅπλον (2C), οὖς (1C), ὀφειλέτης (G), ὀφειλή (1C), ὀψώνιον (1C, 2C), παγίς (1Tm, 2Tm), πάθος (Cl, 1Ts), παράβασις (G, 1Tm), παραβάτης (G), παρακοή (2C), περισσεία (2C), πέτρα (1C), πικρία (Ef), ποίημα (Ef), πονηρία (1C, Ef), πόσις (Cl), πρᾶξις (Cl), προσαγωγή (Ef), πρόσκομμα (1C), προσωπολημψία (Ef, Cl),προσφορά (Ef), πώρωσις (Ef), ῥίζα (1Tm), σκάνδαλον (1C e G), σπουδή (2C), στενοχωρία (2C), συγκοινωνός (1C, Fp), συναιχμάλωτος (Cl, Fm), σφραγίς (1C, 2Tm), τάχος (1Tm), τράπεζα (1C), ὑβριστής (1Tm), υἱοθεσία (G, Ef), ὕψωμα (2C), φθόγγος

1288  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini (1C), φιλαδελφία (1Ts), φιλοξενία (Tt), φυλή (Fp), φύραμα (2C, G), χεῖλος (1C), ψεῦδος (Ef, 2Ts), ψεύστης (1Tm, Tt). Agg. ἀδιάλειπτος (2Tm), ἄδικος (1C), ἀκέραιος (Fp), ἀμεταμέλητος (2C), ἀνεξιχνίαστος (Ef), ἀνθρώπινος (1C), ἀόρατος (Cl, 1Tm), ἀπειθής (2Tm, Tt), ἄρσην (G), ἀσεβής (1Tm), ἄστοργος (2Tm), ἄφθαρτος (1C, 1Tm), βάρβαρος (1C, Cl), βέβαιος (2C), ἔκδικος (1Ts), ἑκών (1C), ἐλάσσων (1Tm), εὐλογητός (2C, Ef), εὐπρόσδεκτος (2C), ἡμέτερος (2Tm, Tt), θῆλυς (G), κλητός (1C), κοινός (Tt), κρυπτός (1C, 2C), ξένος (Ef), ὀκνηρός (Fp), περισσός (2C), ποῖος (1C), πρωτότοκος (Cl), πτωχός (2C, G), σάρκινος (1C, 2C), σοφός (1C, Ef), συγκληρονόμος (Ef), σύμμορφος (Fp), σωρεύω (2Tm), σωφρονέω (2C, Tt), ταπεινός (2C), ὑπερήφανος (1Tm), φαῦλος (2C, Tt), φθαρτός (1C), φρόνιμος (1C, 2C), χρηστός (1C, Ef), ψάλλω (1C, Ef). Avv.: ἀδιαλείπτως (1Ts), ἐκεῖ (Tt), εὐσχημόνως (1C, 1Ts), ἐφάπαξ (1C), καθό (1C), ὁμοίως (1C), πάντως (1C), πλησίον (G, Ef), ποῦ (1C, G), σήμερον (2C), τάχα (Fm): totale occorrenze = 335. I Corinzi Verbi: αἴρω (Ef, Cl), αἰτέω (Ef, Cl), ἀλοάω (1Tm), ἀναπαύω (2C, Fm), ἀπαγγέλλω (1Ts), ἀποδείκνυμι (2Ts), ἀποκρύπτω (Ef, Cl), ἀποστερέω (1Tm), ἅπτω (2C, Cl), βαπτίζω (G), βασιλεύω (1Tm), γαμέω (1Tm), γρηγορέω (Cl, 1Ts), δείκνυμι (1Tm), δέρω (2C), δηλόω (Cl), διατάσσω (G, Tt), δουλόω (Tt), ἐκκαθαίρω (2Tm), ἐκλέγομαι (Ef), ἔνι (G, Cl), ἔξεστι (2C), ἐπιτρέπω (1Tm), ἐποικοδομέω (Ef, Cl), ζηλόω (2C, G), ζημιόω (2C, Fp), ζυμόω (G), θαρρέω (5), θερίζω (2C, G), θησαυρίζω (2C), κάθημαι (Cl), καταισχύνω (2C), καταλλάσσω (2C), καταλύω (G), καταντάω (Ef, Fp), καταπίνω (2C), κατηχέω (G), κερδαίνω (Fp), κλαίω (Fp), κληρονομέω (G), κοιμάομαι (1Ts); κολαφίζω (2C), κραταιόομαι (Ef), λύω (Ef), μακροθυμέω (1Ts), μεθίστημι (Cl), μεθύω (1Ts), μεριμνάω (Cl), μετασχηματίζω (2C, Fp), μιμνῄσκομαι (2Tm), νομίζω (1Tm), οἰκέω (1Tm), παραγίνομαι (2Tm),παραχειμάζω (Tt), παραμένω (Fp), παρασκευάζω (2C), παρατίθημι (1Tm, 2Tm), πεινάω (Fp), πενθέω (2C), περιτέμνω (G, Cl), πλουτίζω (2C), προλαμβάνω (G), προορίζω (Ef), πυρόομαι (2C, Ef), σκανδαλίζω (2C), σπείρω (2C, G), σταυρόω (2C, G), στέγω (1Ts), συγκρίνω (2C), συγχαίρω (Fp), συμβασιλεύω (2Tm), συμβιβάζω (Ef, Cl), συμφέρω (2C), συναναμίγνυμι (2Ts), συνεργέω (2C), συνέρχομαι (7), συνεσθίω (G), τυγχάνω (2Tm), ὑπομένω (2Tm), ὑποφέρω (2Tm), φείδομαι (2C), φθείρω (2C, Ef), φιλέω (Tt), φυσιόω (Cl), χράομαι (2C, 1Tm), ψάλλω (Ef). Sost.: ἀήρ (Ef, 1Ts), ἀθανασία (1Tm), αἵρεσις (G), ἀκαταστασία (2C), ἀνάθεμα (G), ἀπαρχή (2Ts), ἀποστολή (G), ἀρσενοκοίτης (1Tm), ἄρχων (Ef), ἀσπασμός (Cl, 2Ts), βουλή (Ef), βοῦς (1Tm), βραβεῖον (Fp), γλῶσσα (Fp), γνώμη (2C, Fm), δαιμόνιον (1Tm), δόλος (1Ts), εἰδωλολάτρης (Ef), εἰδωλολατρία (G, Cl),

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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εἰλικρίνεια (2C), ζηλωτής (G, Tt), ζύμη (G), ἥλιος (Ef), θύρα (2C, Cl), ἰδιώτης (2C), κήρυγμα (2Tm, Tt), Κηφᾶς (G), κλέπτης (1Ts), λίθος (2C), μιμητής (Ef, 1Ts), νεφέλη (1Ts), νουθεσία (Ef, Tt), ξύλον (G), ὄρος (G), ὄφις (2C), ὀψώνιον (2C), παιδαγωγός (G), πανουργία (2C, Ef), παρθένος (2C), πλεονέκτης (Ef), πολιτεία (Ef), πονηρία (Ef), σάββατον (Cl), σάλπιγξ (1ts), σκάνδαλον (G), συγκοινωνός (Fp), σφραγίς (2Tm), σχῆμα (Fp), τάξις (Cl), ὑπεροχή (1Tm), φανέρωσις (2C), φύραμα (G), χήρα (1Tm), ψαλμός (Ef, Cl). Agg.: αἰσχρός (Ef, Tt), ἀκάθαρτος (2C, Ef), ἄκαρπος (Ef, Tt), ἄνομος (2Ts, 1Tm), ἀπρόσκοπος (Fp), ἄφθαρτος (1Tm), βάρβαρος (Cl), γυμνός (2C), δεκατέσσαρες (G), δῆλος (G), ἑδραῖος (Cl), ἐλάχιστος (Ef), ἔνδοξος (Ef), ἐνεργής (Fm), ἐπίγειος (2C, Fp), ἔρημος (G), ἔσχατος (2Tm), ἥσσων (2C), ἱερός (2Tm), ἱκανός (2C, 2Tm), ἰσχυρός (2C), κρείττων (Fp), κρυπτός (2C), μάταιος (Tt), μωρός (2Tm, Tt), ὁποῖος (G, 1Ts), περισσότερος (2C), σάρκινος (2C), σός (Fm), τοσοῦτος (G), τρίτος (2C), φρόνιμος (2C), χήρα (1Tm), χρηστός (Ef). Avv.: ἀφόβως (Fp), δικαίως (1Ts, Tt), εἶτα (1Tm), ἐκτὸς (2C, 1Tm), ἔπειτα (G, 1Ts), εὐσχημόνως (1Ts), ὅμως (G), ὄντως (G, 1Tm). Totale occorrenze = 226. II Corinzi Verbi: αἰσχύνομαι (Fp), αἰχμαλωτίζω (2Tm), ἀναγκάζω (G), ἀναιρέω (2Ts), ἀνακαινόω (Cl), ἀναπαύω (Fm), ἀπορέω (G), ἅπτω (Cl), ἀρκέω (1Tm), ἁρπάζω (1Ts), ἀφορίζω (G), βαρέω (1Tm), δέομαι (G, 1Ts), διαφθείρω (1Tm), εἰρηνεύω (1Ts), ἐπαίρω (1Tm), ἐπιβαρέω (1Ts, 2Ts), ἐπιστρέφω (G, 1Ts), ἐπιχορηγέω (G, Cl), ἐρεθίζω (Cl), εὐφραίνω (G), ζηλόω (G), ζημιόω (Fp), θερίζω (G), θριαμβεύω (Cl), ἱκανόω (Cl), καταδουλόω (G), κατεσθίω (G), κυριεύω (1Tm), κυρόω (G), μεγαλύνω (Fp), μετασχηματίζω (Fp), ναυαγέω (1Tm), περιφέρω (Ef), πλεονεκτέω (1Ts), πρεσβεύω (Ef), προνοέω (1Tm), πυρόομαι (Ef), σπείρω (G), σταυρόω (G), στέλλομαι (2Ts), συζάω (2Tm), συναποθνῄσκω (2Tm), συνέχω (Fp), συνίημι (Ef), συνίστημι (Cl), φραγίζω (Ef), σωφρονέω (Tt), ταπεινόω (Fp), ὑπεραίρομαι (2Ts), ὑπερβάλλω (Ef, 1Ts), φθείρω (Ef), φιλοτιμέομαι (1Ts), φρουρέω (G, Fp), χράομαι (1Tm). Sost.: ἁγιωσύνη (1Ts), αἰσχύνη (Fp), ἀνάγνωσις (Tm), ἄνεσις (2Ts), ἀρραβών (Ef), αὐτάρκεια (1Tm), βασιλεύς (1Tm), γνώμη (Fm), δάκρυον (2Tm), δοκιμή (Fp), εἶδος (1Ts), ἔνδειξις (Fp), εὐωδία (Ef, Fp), θησαυρός (Cl), θύρα (Cl), ἰσότης (Cl), κανών (G), κλίμα (G); λειτουργία (Fp), μάχη (2Tm, Tt), μερίς (Cl), μέτρον (Ef), μόχθος (1Ts, 2TS), νόημα (Fp), ὁμολογία (1Tm), ὀσμή (Ef, Fp), πανουργία (Ef), πεποίθησις (Ef, Fp), στρατεία (1Tm), ὑποταγή (Cl, 1Tm), ψευδάδελφος (G). Agg.: ἀκάθαρτος (Ef), ἀχειροποίητος (Cl), δεκτός (Fp), ἐπίγειος (Fp), ἕτοιμος (Tt), εὐλογητός (Ef), ἱκανός (2Tm), ὀστράκινος (2Tm), πλάνος (1Tm), πλούσιος (Ef, 1Tm), πτωχός (G), ὑπήκοος (Fp), φαῦλος (Tt). Avv.: ἀεί (Tt), ἅπαξ (Fp,

1290  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini 1Ts), ἀποτόμως (Tt), ἐκτὸς (1Tm), ἔξωθεν (1Tm). Totale occorrenze = 117. Galati. Verbi: ἀληθεύω (Ef), ἀπολαμβάνω (Cl), δέομαι (1Ts), διατάσσω (Tt), ἐγκόπτω (1Ts), ἐνάρχομαι (Fp), ἔνι (Cl), ἐξαγοράζω (Ef, Cl), ἐπιστρέφω (1Ts), ἐπιχορηγέω (Cl), θαυμάζω (2Ts), ἰσχύω (Fp), μαρτύρομαι (Ef, 1Ts), περιτέμνω (Cl), πλέω (Fp), προγράφω (Ef), προκόπτω (2Tm), στοιχέω (Fp), φρουρέω (Fp). Sost.: βάρος (1Ts), βιβλίον (2Tm), εἰδωλολατρία (Cl), ἔχθρα (Ef), ζηλωτής (Tt), ζυγός (1Tm), μεσίτης (1Tm), παράβασις (1Tm), στοιχεῖον (Cl), στῦλος (1Tm), υἱοθεσία (Ef), ὑπόκρισις (1Tm). Agg.: οἰκεῖος (Ef, 1Tm), ὁποῖος (1Ts).Avv.: ἄνω (Fp, Cl), ἔπειτα (1Ts), ὄντως (1Tm), πλησίον (Ef). To-

tale occorrenze = 41. Efesini Verbi: ᾄδω (Cl), αἴρω (Cl), αἰτέω (Cl), ἀναλαμβάνω (1Tm, 2Tm),

ἀνήκω (Cl, Fm), ἀπαλλοτριόομαι (Cl), ἀπατάω (1Tm), ἀποκαταλλάσσω (Cl), ἀποκρύπτω (Cl), ἀποτίθημι (Cl), ἐξαγοράζω (Cl), ἐποικοδομέω (Cl),θάλπω (1Ts), θεμελιόω (Cl), καθεύδω (1Ts), κάμπτω (Fp), καταβαίνω (1Ts), καταντάω (Fp), κατοικέω (Cl), μαρτύρομαι (1Ts), μεθύσκομαι (1Ts), μεταδίδωμι (1Ts),παρρησιάζομαι (1Ts), ῥιζόομαι (Cl), συγκοινωνέω (Fp), συζωοποιέω (Cl), συμβιβάζω (Cl), συνεγείρω (Cl), τιμάω (1Tm), ὑπερβάλλω (1Ts). Sost.: ἀήρ (1Ts), ἅλυσις (2Tm), ἀπείθεια (Cl),ἀσωτία (Tt), αὔξησις (Cl), ἄφεσις (Cl), ἁφή (Cl), βλασφημία (Cl, 1Tm), διάνοια (Cl), δόγμα (Cl), δόμα (Fp),ἐπιχορηγία (Fp),εὐαγγελιστής (2Tm), εὐωδία (Fp), θώραξ (1Ts), ἰσχύς (2Ts), κυριότης (Cl), λουτρόν (Tt), μιμητής (1Ts), νουθεσία (Tt), ὀσμή (Fp), ὀφθαλμοδουλία (Cl), παιδεία (2Tm), πεποίθησις (Fp), περικεφαλαία (1Ts), προσωπολημψία (Cl), σύνδεσμος (Cl), ταπεινοφροσύνη (Fp, Cl), ὕμνος (Cl), ψαλμός (Cl), ψεῦδος (2Ts), ᾠδή (Cl). Agg.: ἀνθρωπάρεσκος (Cl), ἅπας (1Tm), οἰκεῖος (1Tm), πλούσιος (1Tm), σωτήριος (Tt). Avv.: ἀκριβῶς (1Ts), ἐγγύς (Fp), ὑπερεκπερισσοῦ (1Ts). Totale occorrenze = 74. Filippesi Verbi: αἱρέομαι (2Ts), ἐπέχω (1Tm), ἐρωτάω (1Ts, 2Ts), σπένδομαι (2Tm). Sost.: ἐπίσκοπος (1Tm, Tt), κέρδος (Tt), προκοπή (1Tm), πρόφασις (1Ts), συστρατιώτης (Fm). Agg.: ἄμεμπτος (1Ts), ἐπιεικής (1Tm, Tt), σεμνός (1Tm, Tt). Avv.: ἄνω (Cl), ἅπαξ (1Ts), δὶς (1Ts), σπουδαίως (2Tm, Tt). Totale occorrenze = 21. Colossesi Verbi: ἀνήκω (Fm), κρατέω (2Ts), κρύπτω (1Tm), πληροφορέω (2Tm). Sost.: ἀσπασμός (2Ts), βλασφημία (1Tm), πάθος (1Ts), συναιχμάλωτος (Fm), ὑποταγή (1Tm). Agg.: ἀόρατος (1Tm). Avv. πλουσίως (1Tm, Tt). Tota-

le occorrenze = 12. I Tessalonicesi Verbi: ἀντέχομαι (Tt), ἐπιβαρέω (2Ts), ἐρωτάω (2Ts),

ἐφίστημι (2Tm), κατευθύνω (2Ts), νήφω (2Tm), περιέρχομαι (1Tm), στηρίζω

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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(2Ts). Sost.: γαστήρ (Tt), μόχθος (2Ts), παραγγελία (1Tm). Agg.: ἐναντίος (Tt). Avv.: δικαίως (Tt). Totale occorrenze = 13. II Tessalonicesi Verbi: ἀξιόω (1Tm). Sost.: ἡσυχία (1Tm), κρίσις (1Tm). Agg.: ἄνομος (1Tm). Totale occorrenze = 4. I Timoteo: Verbi: ἀναλαμβάνω (2Tm), ἀστοχέω (2Tm), διαβεβαιόομαι (Tt), διάγω (Tt), ἐκτρέπομαι (2Tm), κοσμέω (Tt), παρακολουθέω (2Tm), παρατίθημι (2Tm), προσέχω (Tt), τυφόομαι (2Tm), ὑγιαίνω (2Tm, Tt). Sost.: βίος (2Tm), γενεαλογία (Tt), δεσπότης (2Tm, Tt), ἐπίθεσις (2Tm), ἐπίσκοπος (Tt), εὐσέβεια (2Tm, Tt), ζήτησις (2Tm, Tt), κατηγορία (Tt), κενοφωνία (2Tm), κῆρυξ (2Tm), μαρτυρία (Tt), μῦθος (2Tm, Tt), παραθήκη (2Tm), πλήκτης (Tt), σεμνότης (Tt), ὑποτύπωσις (2Tm), ψεύστης (Tt). Agg.: αἰσχροκερδής (Tt), ἄμαχος (Tt), ἀνόσιος (2Tm), ἀνυπότακτος (Tt), ἀργός (Tt), ἀσεβής (R), βέβηλος (2Tm), βλάσφημος (2Tm), διδακτικός (2Tm), ἐπιεικής (Tt), νηφάλιος (Tt), ὅσιος (Tt), πάροινος (Tt), πρεσβύτερος (Tt), πρόγονος (2Tm), σεμνός (Tt), σώφρων (Tt), φιλόξενος (Tt), χείρων (2Tm), ὠφέλιμος (2Tm, Tt). Avv.: νομίμως (2Tm), πλουσίως (Tt). Totale occorrenze = 56. II Timoteo Verbi: ἀνατρέπω (Tt), ἀπολείπω (Tt), περιΐστημι (Tt), ὑγιαίνω (Tt), ὑπομιμνῄσκω (Tt). Sost.: αἰτία (Tt), ἀσέβεια (Tt), δεσπότης (Tt), εὐσέβεια (Tt), ζήτησις (Tt), κήρυγμα (Tt), μάχη (Tt), μῦθος (Tt). Agg.: ἀπειθής (Tt),εὔχρηστος (Fm), ἡμέτερος (Tt), μωρός (Tt), ποικίλος (Tt), ὠφέλιμος (Tt). Avv.: εὐσεβῶς (Tt), σπουδαίως (Tt). Totale occorrenze = 21. Tito sost.: πρεσβύτης (Fm). Totale occorrenze = 1.

La Tabella 7. ci fornisce il totale dei lemmi di bassa frequenza che sono comuni a ciascuna coppia di lettere paoline. Dalla stessa si ricava altresì il totale dei lemmi di bassa frequenza presenti in ciascuna lettera, che risultano essere i seguenti: 335 (Romani); 226 (1Corinzi); 117 (2Corinzi); 41 (Galati); 74 (Efesini; 21 (Filippesi)); 12 (Colossesi); 13 (1Tessalonicesi); 4 (2Tessalonicesi); 56 (1Timoteo); 21 (2Timoteo); 1 (Tito). Si confermano significative le correlazioni: Romani-1Corinzi: 82 lemmi comuni rappresentano il 24,27% rispetto al totale dei lemmi di bassa frequenza di Romani e il 26,62% della 1Corinzi; Romani-2Corinzi: 64 lemmi comuni rappresentano il 19,1 di Romani e il 27,8 della 2Corinzi; meno significativa la correlazione 1Corinzi-2Corinzi, ove i lemmi comuni scendono a 49 con percentuali rispettive di 15,9 e 21,3 %. 1Timoteo-2Timoteo: 26 lemmi rappresentano il 22,41% della 1Timoteo e il 26,8% della seconda; 1Timoteo-Tito: 30 lemmi rappresentano il 25,8%

1292  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

della 1Timoteo e il 30,6% di Tito. Il che sembra confermare che le tre lettere pastorali sono state scritte da un unico autore. Efesini-Colossesi: 32 lemmi comuni rappresentano il 19,27% di Efesini e il 30,47% di Colossesi. Questo dato può confermare che Colossesi è scritta a ricalco di Efesini. La correlazione tra le due lettere è altresì provata da altri elementi stilistici. Entrambe le lettere infatti contengono periodi molto lunghi. Sono tali Ef, i, 3-14 (201 parole); i, 15-23 (169 parole); iii, 1-7 (106 parole); iv, 1116 (124 parole); vi, 14-20 (113 parole) e Col, ii, 8-12 (89 parole). Dei 155 versetti di Efesini 73 sono copiati da Colossesi. Per esempio: Ef, iv, 1-2 = Col, iii, 12-13; Ef, v, 19-ii = Col, iii, 16-17; Ef, vi, 21-22 = Col, iv, 7-8. In Efesini ricorrono parole come ‘sapienza’, ‘mistero’, ‘verità’, ‘vangelo della salvezza’, ‘santi di Dio’ che sono presenti anche in Colossesi. Le metafore o le esemplificazioni che si riscontrano nelle altre lettere diventano in Efesini (e in taluni casi anche in Colossesi) realtà oggettive: così accade per ‘fede’, ‘vangelo’, ‘parola di Dio’, ‘riconciliazione’, ‘salvezza’, ‘nostra resurrezione e glorificazione’, ‘chiesa-corpo di Cristo’, ‘ministero’, ecc. Efesini inoltre non fa alcun cenno ai carismi e sembra avere una diversa visione della cristologia, perché attribuisce a Cristo un potere autonomo a differenza delle altre epistole in cui Cristo agisce con l’autorità di Dio. c) Correlazioni tra il Vangelo di Giovanni, le epistole cattoliche giovannee e l’Apocalisse. In particolare si tratta di stabilire quale sia la possibile correlazione tra il Vangelo di Giovanni e le epistole cattoliche giovannee e quale la possibile correlazione tra lo stesso vangelo e l’Apocalisse. I lemmi (verbi, sostantivi, aggettivi e avverbi) presi in esame sono in totale 783 per il quarto Vangelo (G), 132 per la 1Giovanni (1G), 51 per la 2Giovanni (2G), 61 per la 3Giovanni (3G), e 740 per l’Apocalisse (Ap). L’area comune a G/1G ammonta a 104 lemmi che corrispondono al 12,8% del totale degli 811 lemmi dei due documenti (783+132-104 = 811). L’area comune a G/2G è pari a 40 lemmi che rispetto al totale di 794 (783+51-40) rappresenta il 5%. L’area comune a G/3G conta 35 lemmi che costituiscono il 4,3% degli 809 totali (783+6135=809). Se si tiene presente che dei lemmi comuni afferiscono al vocabolario di base ben 70 dei 104 lemmi della 1Giovanni, 38 dei 40 lemmi della 2Giovanni e 26 dei 35 lemmi della 3Giovanni, si può essere concludere che

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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le tre lettere canoniche non hanno alcun sicuro legame di parentela con il quarto vangelo. Lo stesso si dica della correlazione G/Ap, la cui area lessicale comune è costituita di 316 lemmi che rappresentano il 26% dei 1207 totali (783+740-316=1207). Anche in questo caso ben 168 dei 316 lemmi comuni rientrano nel lessico di base, sicché la correlazione tra i due testi perde di significatività. Il che ci dice che, a prescindere dalle altre considerazioni in ordine alle divergenze stilistiche, i due documenti non sono ascrivibili ad un unico autore. Analoghe osservazioni inducono a ritenere indipendenti la 1 e la 2Pietro, i cui lemmi totali ammontano rispettivamente a 429 e 298. L’area comune è data da appena 86 lemmi che, rispetto al totale di 641 lemmi (429+298-86=641), rappresentano il 13,4%. Nessuna affinità stilistica sussiste tra l’Apocalisse e il quarto vangelo. Lo stile della prima è immaginifico, ricco di simbolismi e di allusioni misteriose. L’autore ama ripetere le espressioni più incisive e più suggestive, come «Io sono l’alfa e l’omega» (i, 8; xxi, 6; xxii, 13), «colui che è, che era e che viene» (i, 4, 8; iv, 8; xi, 17; xvi, 5); «Io sono il primo e l’ultimo» (i, 17; ii, 8; xxi, 6; xxii, 13), ecc. Nel suo testo il lemma χριστὸς ha solo 7 occorrenze, tre delle quali nella forma tardiva ‘Gesù Cristo’; 14 sono le occorrenze del lemma ἰησοῦς. In Giovanni le occorrenze di Cristo sono 19 (di cui una sola nella forma «Gesù Cristo, i, 17) e quelle di Gesù che sono 225. In ogni caso lo stile del quarto vangelo è più asciutto, più idoneo alla narrazione biografica: l’agnello di Dio è fin dal principio identificato con Gesù, ma a differenza dell’Apocalisse, che predilige il lemma ἀρνίον (agnello),(116) il quarto vangelo usa solo due volte (i, 29, 36) il termine ἀμνὸς (agnello). Ma al di là delle differenze di stile i due testi si distinguono nettamente sotto il profilo contenutistico, perché l’Apocalisse esibisce chiaramente derivazioni dall’enochismo, mentre il quarto vangelo reca le tracce di una prossimità con la gnosi, soprattutto nella concezione del verbo come ipostasi eterna. Ben lungi dall’avere affinità stilistiche con il quarto vangelo, così fortemente caratterizzato da una incontestabile densità teologica e da un linguaggio ricco di simboli e di suggestioni, le tre lettere di Giovanni sono forse il prodotto letterario di un unico autore, come è dimostrato dalla manifesta comunanza dello stile e dalla ricorrenza di comuni espressioni (es. l’alternanza dell’uso di ‘io’ e di ‘noi’, il riferimento ad una chiesa ormai consolidata, il (116)  Sono 29 le occorrenze del lemma ἀρνίον (= agnello) nell’Apocalisse: v, 6, 8, 12, 13, vi, 1, 16; vii, 9, 10, 14, 17; xii, 11; xiii, 8, 11; xiv, 1, 4 (2), 10; xv, 3; xvii, 14 (2); xix, 7, 9; xxi, 9, 14, 22, 23, 27; xxii, 1, 3.

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tema del nuovo-antico comandamento dell’amore, di cui alla 1Gv, ii, 7 e alla 2Gv, 5). La prima lettera presenta solo qualche epidermico richiamo al quarto evangelo (un vago accenno, peraltro non sviscerato, alla teologia della luce e alla sua contrapposizione alle tenebre, nonché l’identificazione del Cristo con la Parola di Dio). Ma si tratta di rievocazioni che puntano ad accreditare il testo nel nome prestigioso di Giovanni. Tale paternità è implicita nella prima lettera nella quale il mittente è lasciato nell’ombra; nelle due altre lettere il ‘presbitero’ come mittente può essere inteso, più che in riferimento ad un presunto Giovanni il presbitero, verosimilmente inesistente, all’anzianità dello stesso autore. L’impianto pseudepigrafo ha l’obiettivo di avvlorare una datazione alta delle tre lettere. Ma che si tratti di composizioni assai tardive si evince non solo dal fatto che non sono testimoniate se non tardivamente, ma anche dal fatto che la questione che per essi è vitale del contrasto con gli anticristi (1Gv, ii, 22, 26; iv, 1-5; 2Gv, 7, 10; 3Gv, 9-10) che mettono in dubbio l’incarnazione del Cristo e la sua esistenza storica, è materia che affiora non nel primo ma nel tardo secondo secolo. Ed è in proposito significativa l’insistenza del prologo della 1Giovanni («noi abbiamo visto con i nostri occhi […], abbiamo contemplato […], le nostre mani hanno toccato la Parola della vita […] lo testimoniamo […] abbiamo visto ed abbiamo inteso […], lo annunziamo […] vi scriviamo queste cose»), tesa a fugare ogni dubbio dalla mente dei fedeli. È la stessa preoccupazione che riscontriamo in testi tardivi come il quarto vangelo. L’eccessiva insistenza sulla veridicità della testimonianza è un tentativo di fugare ogni dubbio sulla autenticità. Questo forse potrebbe essere un elemento che induce a pensare che il redattore finale delle tre lettere e del quarto vangelo sia la stessa persona. 2.16. Gli Atti degli Apostoli e il loro rapporto con il corpus paolino Gli Atti degli Apostoli sono citati per la prima volta nel Canone muratoriano. Ciò induce a supporre che furono composti tra il 150 e il 180 e forse anche oltre, ma comunque prima della comparsa dell’Adversus haereses di Ireneo.(117) La congettura che li vuole databili al 62-66 d.C. è fondata su un argu(117)  Indipendentemente dal fatto che fossero stati composti prima, la gran parte degli studiosi ritiene che la circolazione degli Atti degli Apostoli non possa essere anteriore alla metà del secondo secolo; cfr. in proposito, F. F. Bruce, The Acts of the Apostles, cit., pp. 11-12; W. A. Strange, The Problem of the Text of Acts, Cambridge, University Press,

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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mentum ex silentio. Poiché l’autore non fa menzione del martirio di Pietro e Paolo, si presume che il testo sia stato scritto prima. Ma le argomentazioni ex silentio non sono mai dirimenti; in primo luogo perché non si può escludere che l’autore non fosse a conoscenza della tragica fine dei due apostoli; in secondo luogo perché su quella tragica fine non abbiamo nessuna certezza ed è pertanto possibile che gli Atti non abbiano narrato ciò che evidentemente non era accaduto, tanto più che il loro epilogo non lascia prevedere nulla di fosco e di tragico: infatti ci vien detto che Paolo rimase due anni interi a Roma «annunciando il Regno di Dio e insegnando tutto ciò che riguardava il Signore Gesù Cristo con grande franchezza e senza incontrare alcun ostacolo» (κηρύσσων τὴν βασιλείαν τοῦ θεοῦ καὶ διδάσκων τὰ περὶ τοῦ κυρίου ἰησοῦ χριστοῦ μετὰ πάσης παρρησίας ἀκωλύτως, At, xxviii, 30-31). Comunemente la paternità degli Atti è attribuita a Luca per due ragioni: 1) primo perché il loro autore dichiara nel prologo di aver scritto il terzo vangelo; 2) perché entrambi i testi sono dedicati ad un tal Teofilo, che, non si sa con quale fondatezza, è identificato da taluni studiosi(118) con un alto funzionario dell’Impero romano. È però più verosimile che l’autore, forse anche per suggerire una retrodatazione di entrambi i testi, abbia voluto identificarlo con il sommo sacerdote, Teofilo ben Anano (37-41), citato da Giuseppe Flavio. Non sono pochi gli esegeti che giurerebbero sulla identità lessicale e di stile tra i due testi. Eppure la questione non è così semplice come si crede o come si vuol far credere. In realtà la dichiarazione, di cui agli Atti, i, 1 («Il mio primo libro, o Teofilo, l’ho dedicato a esporre tutto ciò che Gesù fece e insegnò»), non è affidabile, se si pensa che il testo potrebbe rientrare, secondo un diffuso costume del tempo, nella prassi della pseudepigrafia. Non è inverosimile che il redattore del testo abbia voluto accreditarsi, presentandosi come l’autore del vangelo lucano. In realtà le differenze di stile e di impostazione della materia sono rilevanti. Luca è per lo più laconico, mira all’essenziale e all’eleganza espressiva; i lógia di Cristo da lui riportati sono quasi sempre incisivi; cede raramente alle citazioni veterotestamentarie. L’autore degli 1992, vedi capitolo 5: The composition and editing of Acts, p. 187; B. Witherington, The Acts of the Apostles: A Socio-Rethorical Commentary, Grand Rapids, Eerdmans, 1998, p. 63; R. Carrier, Not the Impossible Faith, cit., p. 198. Per le due versioni, egizio-alessandrina e occidentale, più lunga di circa il 10%, degli Atti vedi. J. Polhill, Acts: The New American Commentary, An Exegetical and Theological Exposition of Holy Scripture, Nashville, Broadman and Holman, 1992, vedi par. 6: The Text of Acts, pp. 39-40. (118) P. Tremolada, Vangelo secondo Luca, in Nuovo Testamento, Milano, Mondadori, p. 96; Id., Atti degli Apostoli, ivi, p. 198.

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Atti è assai più prolisso, si dilunga, attribuendo a Pietro e a Paolo discorsi per lo più riepilogativi, che certamente non rientrano nei gusti letterari di Luca. Ben più decisive sono le divergenze concettuali: Luca (xxiii, 14-15) ci fa sapere che Erode e Pilato ritenevano Cristo innocente; gli Atti (iv, 27) ci dicono che, a loro avviso, Egli era colpevole; Luca (xxi, 31-32) annuncia la parousía come imminente; gli Atti la procrastinano nel tempo (At, iii, 20-21). Nei primi cinque capitoli degli Atti le citazioni bibliche sono sovrabbondanti.(119) L’autore si collega («A questi stessi apostoli egli si mostrò vivo […] apparendo loro per quaranta giorni e parlando loro del regno di Dio») chiaramente alla finale interpolata del terzo vangelo (At, i, 3; Lc, xxiv, 1353), che pertanto potrebbe essere opera sua; ma ne dilata i termini; ci fa sapere che le apparizioni di Gesù durarono quaranta giorni e che i suoi insegnamenti, come nella letteratura gnostica, riguardarono il mistero del regno di Dio. L’istituzione dei Dodici è conforme a Lc, vi, 14-16, in cui Giuda, figlio di Giacomo, sostituisce il Taddeo, menzionato da Mc, iii, 18 e da Mt, x, 3; tuttavia, a differenza di Luca, l’autore degli Atti attinge da Matteo (xxvii, 3-10), suggestionato da Geremia, xviii e da Zaccaria, xi, la storiella della fine del traditore e dà il nome ebraico akeldamah ἁκελδαμάχ («campo di sangue» χωρίον αἵματος) al campo acquistato da Giuda con i trenta soldi del tradimento; poi banalizza la sostituzione di Giuda Iscariota tra i Dodici, facendola derivare da un sorteggio a favore di Mattia e a discapito di Giuseppe Barsabba (At, i, 15-26). L’autore degli Atti non riesce a tenere il filo di un disegno narratologico organico e coerente. Il suo obiettivo fondamentale è quello di documentare le origini della Chiesa e di tramandare l’attività predicatoria di ciascuno degli apostoli. Ma la sua narrazione non è molto compatta; frequenti sono le fratture tra le diverse sezioni. I primi cinque capitoli sono concentrati sull’attività di proselitismo ingaggiata da Pietro. Una prima frattura si avverte con i capitoli vi e vii, dedicati alla testimonianza del diacono Stefano. Il capitolo viii introduce Saul-Paolo, ma è bruscamente interrotto dall’attività predicativa di un altro diacono, Filippo, e dal suo scontro con la gnosi di Simon mago. Una nuova cesura è data dal capitolo ix, in cui si parla della folgorazione di Paolo sulla via di Damasco, per poi ritornare imprevedibilmente ai prodigi taumaturgici di Pietro, alla sua giustificazione davanti alla comunità di Gerusalemme, all’uccisione di Giacomo e all’arresto e liberazione di Pie(119)  Salmi lxix e cix; Yl, iii, Salmi xvi e cx; Ex, iii, Dt, xviii, Gn, xii; Salmi cxviii e ii.

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tro, alle visioni di Cornelio e di Pietro, alla diffusione del messaggio cristiano tra i gentili, con un intermezzo a sorpresa su Barnaba e la chiesa di Antiochia. Infine un nuovo stacco narrativo introduce i viaggi missionari di Paolo, su cui mi soffermerò in questo stesso paragrafo. In realtà il testo manca l’obiettivo principale di porre in luce l’attività missionaria degli apostoli, dei quali è citato il solo Pietro. Filippo e Stefano sono diaconi, Barnaba è un discepolo di seconda generazione e Paolo è un apostolo acquisito. Degli altri apostoli non v’è nessuna traccia. Persino il titolo Atti degli apostoli sembra inadeguato al contenuto del testo, poiché in realtà vi si parla sostanzialmente solo di Pietro e di Paolo. Non è improbabile che il titolo sia posticcio, perché Ireneo, che pure ne cita frequentemente ampi luoghi, non lo menziona mai. Le fratture più gravi e più consistenti sono quelle strutturali; si tratta delle due sezioni ‘Saulo’ e ‘Paolo’ e delle altre due con la narrazione in terza persona e in prima persona plurale (la cosiddetta ‘sezione noi’). La sezione Saulo Σαῦλος, si estende da vii, 58 a xiii, 9;(120) la sezione Saul Σαούλ comprende ix, 4, 17; xiii, 21; xxii, 7, 13; xxvi 14; la sezione Paolo Παῦλος va da xiii, 7 a xxviii, 25. La ‘sezione noi’ parte da xvi, 10, e riprende da xx, 4; xxvii, 1. La sezione Pietro Πέτρος si estende da i, 13 a xv, 7. In sostanza si tratta di un testo la cui narrazione è fortemente squilibrata. Pietro ad un certo punto scompare dalla scena e la narrazione oggettiva si trasforma in quella soggettiva della ‘sezione noi’, senza che si avverta una frattura stilistica. L’uso della prima persona plurale rende più drammatica e più avvincente la narrazione. La tesi comunemente accolta dagli studiosi credenti è che essa sia conseguente al fatto che l’autore degli Atti accompagnò Paolo nel secondo e forse anche nel terzo viaggio missionario. Ma è ipotesi che non regge, perché le due forme di narrazione si intrecciano indipendentemente dalle persone che si accompagnarono a Paolo. In particolare secondo gli Atti (xv, 40) Paolo iniziò il secondo viaggio missionario in compagnia di Sila. A Listra si unì a loro Timoteo; essi attraversarono la Frigia, la Galazia e la Misia e si fermarono a Troade, senza che nessun altro si unisse a loro (At, xvi, 1-9). Nel capitolo xvi l’espressione «Paolo e noi» fa supporre che il plurale della sezione xvi, 10-17, abbia per soggetti Sila e Timoteo. A Filippi furono arrestati Paolo e Sila, i quali, dopo una miracolosa liberazione, trovarono rifugio in casa di Lidia e successivamente giunsero a Tessalonica. Di Timoteo non si hanno più tracce: è possibile che sia lui l’autore che usa il plurale? È possibile, ma l’ipotesi non quadra con Atti xvi, 6, xvii, 15-16, xviii, 5, ove Timo(120)  At, vii, 58; viii, 1, 3; ix, 1, 8, 11, 22, 24; xi, 25, 30; xii, 25; xiii, 1, 2, 7, 9.

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teo compare nella trattazione impersonale. In xviii, 18, alla fine del secondo viaggio missionario, Paolo si imbarca da Corinto con Aquila e Priscilla in direzione della Siria; di nuovo si perdono le tracce di Sila e di Timoteo. Il terzo viaggio comincia senza alcun accenno ad accompagnatori. Ad Efeso Paolo si incontra con taluni imprecisati discepoli (forse seguaci di Apollo) e per ben due anni insegna nella scuola di un tal Tiranno, facendo conoscere con buona dose di esagerazione «a tutti gli abitanti della provincia dell’Asia, giudei e greci», la parola del Signore. Ad Efeso opera miracolose guarigioni ed esorcismi. Evidentemente l’autore vuole farne una figura carismatica come il Cristo. All’improvviso rispunta, non si capisce da dove, Timoteo che è inviato dall’apostolo in Macedonia in compagnia di Erasto (At, xix, 21). Poco più oltre (At, xx, 1-4), a seguito di una rivolta dei seguaci del culto artemisico, Paolo è costretto a lasciare Efeso e a recarsi in Mecedonia e in Grecia. Quando è sul punto di salpare per la Siria, ha notizia di un complotto ordito contro di lui da «alcuni giudei»; decide quindi di rientrare in Macedonia in compagnia di Sopatro, Aristarco, Secondo, Gaio, Timoteo, Tichico e Trofimo. In xx, 5-15 riprende incomprensibilmente l’uso del plurale. Il testo recita «Questi (cioè tutti gli accompagnatori citati in xx, 4) partirono prima di noi e ci aspettarono a Troade» (At, xx, 5). Ma allora chi era con Paolo, per giustificare l’uso del plurale? Non certo Timoteo, che era partito per Troade. Il testo è in ogni caso confuso. I soggetti del ‘noi’, da cui è escluso Paolo, salpano da Filippi e si uniscono a Troade con i compagni partiti in precedenza. Quivi si fermano una settimana, nel cui primo giorno l’apostolo opera la miracolosa resurrezione di Eutico. Va detto che questa predilezione degli Atti per il miracolismo non trova alcun riscontro nelle lettere paoline, che peraltro non sono mai menzionate. In ogni caso da Troade i soggetti del ‘noi’ partono per nave verso Asso e passano per Mitilene, Chio, Samo, Mileto, con l’obiettivo di recarsi a Gerusalemme. Da xx, 16 fino a xx, 38, la narrazione diventa nuovamente impersonale e oggettiva. La predicazione paolina a Mileto dovrebbe essersi protratta per circa tre anni («Ricordate che per tre anni non ho mai cessato […] di esortare ciascuno di voi», At, xx, 31). L’uso del plurale riprende in xx, 6-8, 13-15, e in xxi, 1-18, ovvero fino all’arrivo a Gerusalemme. Da xxi, 19, la narrazione prosegue in forma impersonale fino alla partenza per l’Italia,(121) ma è sorprendentemente confusa, prolissa, ripetitiva e a trat(121)  At, xxvii, 1-9; 16, 19-21, xxviii, 1-3, 7, 11-13.

IV.2  Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici 

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ti contraddittoria. Con la pretesa di documentare gli eventi, l’autore attinge chiaramente da Giuseppe Flavio il contesto storico in cui inserirli e non si fa scrupolo di servirsi di documenti di dubbia autenticità se non scopertamente fittizi, come la lettera di Claudio Lisia. Poiché non v’è alcuna possibilità di attribuire l’uso del plurale ad alcuno dei discepoli che accompagnano Paolo, ne consegue che esso ha il solo fine di accreditare ingenuamente o maliziosamente le vicende narrate come se fossero frutto di una testimonianza diretta. Poiché non sappiamo chi sono coloro che rappresentano il ‘noi’; è arbitrario pensare che tra essi fosse compreso Luca. Gli Atti non ne fanno alcuna menzione e le congetture che gli attribuiscono la paternità del testo non sembrano essere adeguatamente fondate. Certamente l’autore degli Atti vuole imitare Luca perché, come lui, ha la pretesa di dare una cornice storica alla narrazione, ma i pochi dati storici che suggerisce sono per lo più contraddittori e fantasiosi; per di più, a differenza di Luca, che si affida solo all’essenziale, introduce nel racconto un vero e proprio stuolo di personaggi e di circostanze, della cui storicità non abbiamo alcuna attestazione. Tali sono, a titolo d’esempio, Blasto, il centurione Cornelio, il comandante Claudio Lisia, l’eunuco della regina Candace, il governatore romano Sergio Paolo, il governatore Publio, l’indovino o profeta Agabo, il mago Elimas, l’avvocato Tertullo, il sommo sacerdote Anania. Altrettanto affollata è la schiera dei cristiani citati: Anania e Saffira, Enea di Lidda, Tabità di Giaffa, Simeone Niger, Lucio di Cirene, tre o quattro Anania, Procoro, Nicanore, Parmeneo, Timone, Nicola, Manaen, Lidia, Giasone, Sceva, Sopatro di Berea, Gaio di Derbe, Secondo di Tessalonica, Aristarco macedone, Giulio, Tichico, Trofimo, Dionigi l’Areopagita, Damaris, ecc. Le poche circostanze storiche richiamate (l’editto di Claudio e la carestia) non trovano nel contesto una collocazione coerente. Per esse e per diversi personaggi storici (Teuda, l’egiziano, Felice, Drusilla, Festo, Agrippa, Berenice), nonché per eventi storici (carestia al tempo di Claudio, morte di Erode Antipa) l’autore attinge da Giuseppe Flavio, ma spesso, come vedremo a breve, ne fraintende il testo. La sua narrazione farcita di prodigi e di miracoli mostra evidenti suggestioni di derivazione evangelica, ma non ne conserva la freschezza e spesso scade in una noiosa riproduzione di uno schema prefissato. A differenza di Luca, che ama la concisione e la stringatezza, l’autore degli Atti ama esagerare e dilatare oltre misura la narrazione, tanto da renderla difficilmente credibile. Il tema che ricorre con più frequenza è naturalmente quello del martirio e della sofferenza. L’autore narra in abbondanza di arresti e processi che

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si ripetono secondo schemi precostituiti; il copione di riferimento è il processo di Cristo. Tali sono gli arresti degli apostoli, di Stefano protomartire, di Paolo a Gerusalemme.(122) La sua è una narrazione di maniera, fabulosa, prolissa, a tratti levantina, priva di originalità. Non ci vuol molto per capire che essa nasce dall’istanza istituzionale di giustificare l’investitura di Pietro, la cui vicenda è condotta a ricalco degli atti di Cristo; ed è un’investitura che attraverso Pietro passa ai suoi successori, all’interno di una chiesa che va progressivamente istituzionalizzandosi. Perciò Pietro assume gli stessi carismi del Cristo: gli Atti narrano della guarigione dello storpio, della miracolosa liberazione degli apostoli dal carcere, della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, corredata da un terremoto del luogo in cui essi pregavano, del paradossale tramortimento di Anania e di Saffira (che si traduceva in terrore psicologico per chiunque deviasse dalle norme imposte dalla comunità, secondo una concezione della religione come schiavitù psicologica), di segni e prodigi, cui assiste la folla radunata sotto il portico di Salomone, di guarigioni multiple (At, v, 14-16), della voce dello Spirito Santo, che viene intesa secondo la lingua di ciascuno dei presenti. Quanto è di più basso livello la narrazione degli Atti, tanto è di più modesto livello il tono dei lógia attribuiti a Pietro, rispetto a quelli di Cristo. A differenza di Luca, che, come sappiamo, non sembra avere molta simpatia per i lunghi discorsi, l’autore degli Atti li preferisce. Nel suo testo i discorsi sovrabbondano. Abbiamo il discorso di Pietro nel giorno della Pentecoste; il discorso utilitaristico e calcolato di Gamaliele; quello di Pietro sulla potenza di Gesù risorto;(123) l’autodifesa di Stefano davanti al sommo sacerdote; il discorso di Pietro nella casa di Cornelio; quello giustificatorio di Pietro a Gerusalemme;(124) l’altro di apertura ai pagani; il discorso di Giacomo; le disquisizioni di Paolo nell’Areopago di Atene;(125) il discorso di addio alla chiesa di Efeso; il discorso agli abitanti di Gerusalemme, quello davanti al sinedrio (At, xx, 18-35; xxii, 1-21; xxiii, 1-11), l’autodifesa davanti al governatore Felice e quello davanti ad Agrippa II (At, xxiv, 10- 21; xxvi, 2-23). Ai discorsi pleonastici si aggiungono le lettere fittizie (la lettera degli aposto(122)  At, v, 17-42; vi, 1; xxi, 27 - xxvi, 30. (123)  At, ii, 14-40; v, 35-39; iii, 12-26. (124)  At, vii, 2-53; x, 34-43; xi, 5-17. (125)  At, xv, 7-11, 13-21, 22-31. Paolo parla dell’Areopago come se fosse un luogo d’incontro per dispute tra filosofi, nella realtà, come ha rilevato van Manen (cfr. Th.Whittaker, The Origins of Christianity, cit., p. 76), esso era un palazzo di giusitzia.

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li ai nuovi credenti, la lettera di Claudio Lisia al governatore Felice, At, xv, 23-29; xxiii, 26-30). Forse uno dei discorsi più interessanti sotto il profilo dottrinale è quello tenuto da Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (At, xiii, 16-31). Dopo un breve ricordo storico dell’esodo dall’Egitto, Paolo menziona il re Saul, figlio di Kis, della tribù di Beniamino. Dio gli tolse il regno e lo consegnò a Davide, figlio di Iesse, da cui viene Gesù, inviato da Dio per la salvezza (xiii, 23: «Dalla sua discendenza Dio trasse per Israele un salvatore»: non dunque un salvatore per tutti i popoli?). Gesù è il Cristo preannunciato dai profeti (con riferimento al Salmo ii, 7: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato»; ad Isaia, lv, 3: «Darò a voi le realtà sante promesse a Davide»; al Salmo xvi, 10: «Non permetterai che il tuo santo veda la corruzione» e ad Habacuc, i, 5: «Io compio ai vostri giorni un’opera straordinaria»). Il nodo centrale del discorso è in Atti, xiii, 46: «Era necessario che noi annunciassimo la parola di Dio, ma dal momento che la rifiutate […] noi ci rivolgiamo ai pagani» (con riferimento a Isaia, xlix, 6: «Faccio di te la luce delle nazioni, per portare la mia salvezza sino all’estremità della terra»). In Atti, xv, 7-11, il presunto conflitto ideologico tra Paolo e Pietro scompare, perché anche Pietro si fa fautore dell’evangelizzazione delle genti. Lo stesso accade nel successivo intervento di Giacomo (At, xv, 13-21), che, sulla scorta di Osea (ix, 1112), si apre ai Gentili. La stessa logica presenta la lettera degli apostoli (At, xv, 22-29) che sarebbe stata consegnata ai cristiani di Antiochia (ma di tutto ciò non v’è traccia nelle lettere paoline, le quali, anzi, fanno cenno a contrasti tra i fedeli). C’è evidentemente negli Atti una sotterranea simbologia che riguarda le tribù di appartenenza di Paolo e di Gesù. Entrambe rappresentano, insieme con la tribù di Levi, il ‘resto di Israele’. Paolo e Gesù vengono rispettivamente dalla tribù di Beniamino, da cui discendeva il re Saul, e dalla tribù di Giuda, da cui discendeva Davide, figlio di Iesse. Sicché Saul-Paolo è il profeta invocato e Gesù è il profeta messianico. Tuttavia in generale in tutti questi discorsi non emerge la problematica dottrinale ben più complessa e profonda delle lettere paoline. Che gli Atti si collochino a notevole distanza dalla morte di Cristo si evince da almeno due elementi: 1) la trasformazione del termine ecclesia da ‘assemblea’ a ‘chiesa’ e 2) la continua insistenza nel segnalare il successo dell’azione proselitistica degli apostoli. Il termine ἐκκλησία (assemblea, chiesa), che è del tutto assente in Luca, in Marco e in Giovanni, compare due volte in Matteo in pericopi sospette di manipolazione, ma ricorre ben 23 vol-

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te negli Atti, 5 in Romani, 21 nella 1Corinzi, 9 in 2Corinzi, 3 in Galati, 9 in Efesini, 2 in Filippesi, 4 in Colossesi, 2 in 1Tessalonicesi, 2 in 2Tessalonicesi, 3 in 1Timoteo, una volta in Filemone, 2 in Ebrei, una volta in Giacomo, 3 volte nella 3Giovanni e 19 volte in Apocalisse. Quanto al proselitismo degli apostoli l’autore vuol far passare l’idea che la chiesa fu solida e potente fin dalle origini. Narra infatti che il giorno della pentecoste successiva alla morte di Cristo un discorso di Pietro valse a guadagnare alla fede cristiana tremila adepti e che la comunità dei credenti cresceva di giorno in giorno (At, ii, 41, 48). Un secondo discorso prodigioso di Pietro avrebbe portato il numero dei credenti a circa cinquemila, «contando solo gli uomini», a soli pochi mesi dalla crocifissione. L’insistenza sulla costante crescita delle adesioni è ossessiva.(126) L’inarrestabile ascesa delle comunità cristiane è fatta ricadere su due soli apostoli, Pietro e Paolo. D’altronde lo stesso aveva fatto, prima di lui, l’autore delle lettere di Paolo, in cui sono menzionate a decine le chiese cristiane, che sarebbero cresciute come funghi nell’arco di appena un decennio dell’attività predicativa del Cristo. In generale il lessico degli Atti è più tardivo rispetto agli altri scritti neotestamentari. Il termine Χριστιανός (cristiani) compare solo 2 volte negli Atti e una sola volta nella 1Pietro. Il caso più significativo è l’uso di Χριστός, che, associato a Ἰησοῦς, si trasforma in nome proprio. L’espressione «Gesù, il cosiddetto Cristo» ἰησοῦς ὁ λεγόμενος χριστός,(127) tradisce un distacco oggettivo dal tempo apostolico, poiché il narratore si pone nell’ottica del sentito dire. D’altronde è significativo che le occorrenze del lemma ‘Cristo’ sono scarse nei testi evangelici (7 in Marco, 16 in Matteo, 12 in Luca, 19 in Giovanni), contro quelle sovrabbondanti di Romani (66), 1Corinzi (63), 2Corinzi (47), Galati (38); Efesini (48), Filippesi (37), Colossesi (25), 1Tessalonicesi (10), 2Tessalonicesi (10), 1Timoteo (15), 2Timoteo (13), Tito (4), Filemone (8). Si ha l’impressione che, rispetto alle lettere, i vangeli siano stati scritti in ambienti in cui la lingua ebraica era in qualche modo conservata; per tali ebrei il lemma χριστός manteneva ancora il suo significato originale ed era tradotto in greco sempre accompagnato dal determinativo ὁ. La medesima forma nominale, che è così scarsa nei vangeli, presenta invece occorrenze rilevanti negli Atti e nelle epistole. Il che induce a pensare che tanto gli Atti quanto le epistole siano stati scritti in ambienti formati da giudei di lingua greca, cioè da giudei ormai ellenizzati che avevano perduto la (126)  At, (iv, 4); vi, 1, 7; ix, 31; xi, 24; xiii, 49; xvi, 5; xix, 20. (127)  Presente in Mt, i, 16; xvii, 17, 22; ed anche in Gv, iv, 25.

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dimestichezza con la propria lingua originaria. Probabilmente si trattava di modeste o minuscole comunità di origine ebraica, ormai sommerse in un’area prevalentemente ellenica (forse l’area greco-anatolica). Ad essi fanno riferimento gli Atti, che tra l’altro già in precedenza (At, ix, 29; vi, 1) avevano distinto gli ebrei di lingua ebraica da quelli di lingua greca, sottintendendo che i secondi non intendevano più la loro lingua originaria; perciò è assai verosimile che, avendo perso le loro radici linguistiche, essi abbiano finito con l’accorpare il lemma χριστός a Gesù come se insieme costituissero un unico nome. Gli esegeti cattolici, o più generalmente cristiani, danno per scontato che gli Atti offrono un quadro storico coerente, in cui trovano il loro giusto inserimento gli spunti autobiografici contenuti nelle Lettere. Ciò sarebbe corretto se gli Atti fossero stati composti indipendentemente dalle Lettere paoline. In realtà uno degli scopi che il loro autore si prefisse fu proprio quello di costruire una cornice storica in cui inserire l’attività missionaria e predicativa dell’apostolo senza peraltro riuscirvi a causa delle numerose contraddizioni cui andò incontro. Se si prescinde da una più consistente permanenza ad Efeso e a Corinto, l’esperienza missionaria di Paolo è presentata come estemporanea e come poco incisiva anche a causa della brevità delle sue soste presso le comunità giudaiche greco-anatoliche. Le sollecitazioni particolari e gli stimoli occasionali con cui le comunità si rivolgono a lui non debbono trarre in inganno, non vanno confusi come dettati da precise circostanze e vicende delle medesime comunità, né come mérimna μέριμνα (preoccupazioni: 2Cor, xi, 28) dell’apostolo, ma sono da reputare come espedienti retorici per introdurre i contenuti delle lettere. È noto che nei congedi delle epistole paoline è menzionato un vero e proprio stuolo di credenti della prima ora. Un’ulteriore schiera di neofiti è ricordata negli Atti, spesso come attivi collaboratori di Paolo. Eppure tra le due liste non c’è congruenza; l’una ignora i collaboratori elencati nell’altra e, quando l’identità del nome potrebbe indurre a pensare alla identità della persona, non si riesce ad acquisire in merito nessuna certezza. Così a titolo di esempio, Tito, collaboratore di primo piano, che si fregia di 9 menzioni in 2Corinzi, 2 in Galati, una in1Timoteo, e una in Tito è del tutto ignorato dagli Atti. Epafrodito, latore della Lettera ai Filippesi, Epafra, Febe, Epeneto(128) e tutti i credenti, di cui al poscritto di Romani (xvi, 6-15) sono sconosciuti agli Atti. Stefana, Fortunato e Acaico sono ricordati solo nella 1Corin(128)  Per Epafrodito (Fp, ii, 25; iv, 18); per Epafra (Col, i, 7; iv, 12; Fm, 1, 23), per Febe (Rm, xvi, 1), per Epeneto (Rm, xvi, 5).

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zi (i, 16; xvi, 15, 17); Evodia, Sintiche e Clemente solo in Filippesi (iv, 2, 3); Onesimo solo in Colossesi e in Filemone (Col, iv, 9; Fm, 10); Crescente solo in 2Timoteo (iv, 10); Onesiforo, Eubulo, Pudente, Lino e Claudia solo in 2Timoteo, Artema e Zena il giureconsulto solo in Tito, Amphia solo in Filemone (2Tm, iv, 19, 21; Tt, iii, 12-13; Fm, 3); nessuno di loro è ricordato negli Atti. Gaio ed Aristarco sono macedoni secondo gli Atti (xix, 29; xxvii, 2), ma per gli stessi Atti Gaio è di Derbe ed è invece corinzio per Romani e per la 1Corinzi (At, xx, 4; Rm, xvi, 23; 1Cor, i, 14); quanto ad Aristarco non si può essere sicuri che sia lo stesso citato in Colossesi e in Filemone (Col, iv, 10; Fm, 24). Sila ha 12 occorrenze in Atti e nessuna nelle lettere.(129) Di contro Silvano, che si vuole coincidente con Sila, ha solo tre menzioni nelle lettere (2Cor, i, 19; 1Ts, i, 1; 2Ts, i, 1) e nessuna in Atti. Gesù il Giusto, Luca, Dema, Ninfa e Archippo, annoverati nel congedo di Colossesi,(130) non trovano riscontro negli Atti. Marco, detto cugino di Giovanni (Col, iv, 10), e non identificabile sic et simpliciter con l’altro Marco, di cui alla 2Timoteo e alla lettera a Filemone (2Tm, iv, 11; Fm, 24), si trasforma in Atti (xii, 12, 25; xv, 37, 39) in «Giovanni detto Marco». Trofimo è lasciato a Mileto secondo la 2Timoteo, ma gli Atti tacciono su questa circostanza anche quando accennano ad un passaggio da Mileto (2Tm, iv, 20; At, xx, 4; xxi, 29; xx, 17). Lucio, ricordato in Romani, potrebbe non essere il Lucio di Cirene di cui agli Atti (Rm, xvi, 21; At, xiii, 1); lo stesso si dica per Giasone (Rm, xvi, 21 e At, xvii, 5, 6, 7, 9) e per Erasto, tesoriere di Corinto (Rm, xvi, 23; 2Tm, iv, 20), che forse non è lo stesso Erasto di Atti, xix, 22. Sosipatro e Quarto (Rm, xvi, 21, 23) sono ignoti agli Atti; di contro Sopatro di Berea e Secondo di Tessalonica sono ignoti alle lettere. Tichico, della provincia dell’Asia, mandato da Paolo alla chiesa degli Efesini e a quella dei Colossesi, ricordato in Tito, è menzionato di sfuggita in Atti.(131) Barnaba, che in 1Corinzi e in Galati (1Cor, ix, 6; Gal, ii, 1, 9, 13) ha l’onore di partecipare insieme a Tito al concilio gerosolimitano 17 anni (54-57 ?) dopo la conversione di Paolo, ha lo spazio di ben 23 occorrenze in Atti e solo cinque nelle lettere.(132) Timoteo è certamente figura centrale: scrive insieme a Paolo ai Corinzi, ai Fi(129) Cfr. At, xv, 22, 27, 32, 40; xvi, 19, 25, 29, xvii, 4, 10, 14, 15; xviii, 5. (130)  Col, iv, 10-17. Per Luca (Col, iv, 14; 2Tm, iv, 11; Fm, i, 24), per Dema (2Tm, iv, 10; Fm, 1, 24), per Ninfa e Archippo (Col, iv, 17; Fm, i, 2. (131) Cfr. Ef, vi, 21; 2Tm, iv, 12; Col, iv, 7; Tt, iii, 12; At, xx, 4. (132) Cfr. At, iv, 36; ix, 27; xi, 22, 30; xii, 25; xiii, 1, 2, 7, 43, 46, 50; xiv, 12, 14, 20; xv, 2 (2), 12, 22, 25, 35, 36, 37, 39; 1Cor, ix, 6; Gal, ii, 1, 9; 13; Col, iv, 10.

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lippesi, ai Colossesi e a Filemone;(133) con l’aggiunta di Silvano scrive ai Tessalonicesi, predica con Paolo ai Corinzi, manda i saluti ai Romani, è inviato a Corinto, a Filippi e a Tessalonica,(134) è citato in Ebrei in un passo sicuramente interpolato (Ebr, xiii, 23). Per gli Atti, in parziale sintonia con le lettere, egli è detto originario di Listra, percorre con Paolo e Sila la Frigia e la Galazia, si ferma a Tessalonica, giunge a Corinto dalla Macedonia, è inviato insieme ad Erasto in Macedonia e infine la attraversa con Paolo.(135) Apollo è citato ben 7 volte nella 1Corinzi, come capo di una corrente all’interno della chiesa corinzia,(136) ed una sola volta in Tito, come collaboratore in procinto di partire (Tt, iii, 13); negli Atti (xviii, 24; xix, 1) è ricordato come egiziano, profondo conoscitore delle Scritture, il quale si trova a Corinto mentre Paolo giunge ad Efeso. Prisca ed Aquila, sono menzionati come collaboratori e come organizzatori di una chiesa domestica;(137) in Atti Prisca diventa Priscilla e si trova a Corinto con il marito Aquila a seguito del decreto di espulsione di Claudio (At, xviii, 2, 18, 26), circostanza ignorata dalle lettere. Alla folla di questi primi adepti si aggiunge quella dei credenti ricordati negli Atti, dei quali non v’è traccia nelle lettere. La situazione si fa più ingarbugliata se procediamo ad un esame, sia pure telegrafico, dei viaggi narrati negli Atti. Il viaggio della conversione (At, ix, 1-30) coincide con il primo viaggio a Gerusalemme: Saulo si reca a Damasco per arrestare alcuni cristiani e portarli a Gerusalemme. Sulla via di Damasco è folgorato; si ferma nella città per alcuni (ἡμέρας τινὰς) o per molti giorni (ἡμέραι ἱκαναί). Poi si reca a Gerusalemme. Il suo rapporto con gli apostoli non è idilliaco, ma Barnaba garantisce per lui e rende possibile il dialogo con loro. Un nuovo ostacolo sorge a causa di taluni giudei di lingua greca che complottano per ucciderlo; lo mettono al sicuro ‘i fratelli’, che lo portano a Cesarea e a Tarso. Barnaba si reca a Tarso alla ricerca di Paolo. Trovatolo, lo porta con sé ad Antiochia di Siria, ove l’apostolo si ferma per un anno intero. Secondo gli esegeti cattolici(138) la cronologia di tali eventi è la seguente: la conversione di Paolo risalirebbe al 36-37; il viaggio a Gerusalemme sarebbe datato il 39; la sosta ad Antiochia sarebbe durata per tutto il 40 o poco più. Il problema è che tale cronologia non si accorda con i dati forniti dalla (133)  2Cor; i, 1; Fp, i, 1; Col, i, 1; Fm, 1. (134)  1Ts,i, 1; 2Ts, i, 1; 2Cor, i, 19; Rm, xvi, 21; 1Cor, iv, 17; xvi, 10; Fp, ii, 19; 1Ts, iii, 2, 6. (135)  At, xvi, 2, 6; xvii, 14, 15; xviii, 5; xix, 22; xx, 4. (136)  1Cor, i, 12; iii, 4, 5, 6, 22; iv, 6, xvi, 12. (137)  Rm, xvi, 3; 1Cor, xvi, 19; 2Tm, iv, 19. (138)  v. P. Tremolada, Atti degli Apostoli, cit., pp. 201-202.

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2Corinzi (xi, 32), che fa riferimento ad Areta IV e ci consente di individuare talune contraddizioni tra la datazione della morte del Battista, quella del Cristo e quella della conversione paolina. Sulla base di Giuseppe Flavio possiamo stabilire che la fortezza di Macheronte fu distrutta durante il conflitto tra Erode ed Areta, nell’inverno tra il 36 e il 37. Ne consegue che il Battista vi fu imprigionato verosimilmente tra il 34 e il 35 e che morì, come sembra evincersi da Giuseppe Flavio tra il 35 e il 36 (o almeno il 36), allorché sommo sacerdote era Jonathan ben Anano (36-37). Il che significa che la morte del Cristo deve essere fatta risalire al 36-37. Ma se è così, non è credibile che la conversione di Paolo possa datarsi il 37. L’epoca presunta del secondo viaggio a Gerusalemme è, secondo l’esegesi cattolica, il 46. Ad Antiochia Agapo predice una carestia su tutta la terra, verificatasi sotto l’imperatore Claudio e durante il governatorato di Tiberio Alessandro (46-48) come si evince da Giuseppe Flavio.(139) I cristiani di Antiochia decidono di fare una colletta a favore degli abitanti della Giudea. Barnaba e Paolo si incaricano di consegnarla ai responsabili della comunità di Gerusalemme (At, xi, 25-30). La data presumibile di tale soggiorno antiocheno dovrebbe essere il 45-46. Agrippa I fa decapitare Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni, figlio di Zebedeo. Dopo la morte di Agrippa nel 44 d.C., Barnaba e Paolo lasciano Gerusalemme per ritornare ad Antiochia in compagnia di Giovanni detto Marco. La contraddizione consiste nel fatto che l’arrivo di Paolo e Barnaba a Gerusalemme dovrebbe essere concomitante con la carestia del 46-48, ma essi abbandonano la città nel 44 dopo la morte di Agrippa I (At, xii, 25). Per di più secondo Galati il secondo viaggio a Gerusalemme cadde a distanza di quattordici anni dal primo e di diciassette anni dalla conversione; quindi, posto che la conversione sia datata il 37, il viaggio a Gerusalemme dovrebbe risalire al 54. L’epoca presumibile del primo viaggio missionario, secondo l’esegesi cattolica, è il 47-50, ma la sua cronologia non si accorda con le indicazioni fornite da Galati. Il viaggio è narrato nei capitoli xiii-xiv: Paolo e Barnaba si recano a Seleucia, passano attraverso Cipro, Salamina, Pafo: qui trovano Elimas Bar-Jesus, un mago, che si spacciava per profeta ed era amico del proconsole romano Sergio Paolo. Elimas si oppone alla predicazione dell’apostolo, il quale lo rende momentaneamente cieco. Da Pafo il viaggio prosegue per Perge in Panfilia ed Antiochia di Pisidia. A seguito di una persecuzione Paolo e i suoi fuggono ad Iconio in Licaonia; vi rimangono «per (139) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 101.

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un certo tempo» (ἱκανὸν μὲν οὗν χρόνον); poi, perseguitati, fuggono a Listra e, presi a sassate, si recano a Derbe in Licaonia. Il viaggio di ritorno paradossalmente li conduce nuovamente a Listra e Iconio, passano attraverso Antiochia di Pisidia, Perge, Attalia e giungono ad Antiochia di Siria, ove si fermano per un periodo non breve (χρόνον οὐκ ὀλίγον). I personaggi incontrati, Elimas, Sergio Paolo, Agapo sono tutti fittizi; non li conosciamo se non attraverso gli Atti. Si sono rinvenute talune iscrizioni che sembrano riferirsi a Sergio Paolo ma in realtà la diffusione dei due nomi rende estremamente difficile la sua identificazione. L’autore degli Atti continua a rivelare una mentalità miracolistica e ad essere scarsamente credibile. Non si capisce quale consistenza potesse avere una predicazione così effimera se si considera che il viaggio non ebbe una durata eccessiva e che la permanenza nei vari luoghi era certamente molto precaria. In appendice al primo viaggio il capitolo xv accenna al presunto Concilio di Gerusalemme. Paolo, Barnaba, Giuda e Sila attraversano la Fenicia e la Samaria e giungono a Gerusalemme (50 d.C.?), ricevuti dagli apostoli e dagli anziani. Incontrano Pietro e Giacomo, i quali mostrano una certa apertura verso i pagani convertiti. Dopo il concilio, Paolo e Barnaba ritornano ad Antiochia e vi si fermano, mentre Giuda e Sila rimangono per un po’ di tempo. Infine Paolo si separa da Barnaba, il quale con Giovanni, detto Marco, si reca a Cipro. Paolo e Sila, invece, intraprendono il secondo viaggio missionario partendo da Antiochia. Ma Sila secondo gli Atti (xv, 33) era rientrato con Giuda a Gerusalemme. Il secondo viaggio missionario di Paolo risalirebbe al 50-52 d.C. Secondo l’esegesi cattolica in tale arco di tempo furono scritte da Corinto la 1 e la 2Tessalonicesi. La cronologia tra il primo e il secondo viaggio è però assai incerta, perché xv, 35, fa pensare ad una permanenza più o meno lunga di Paolo e Barnaba in Antiochia, impegnati ad insegnare e ad annunciare la parola di Dio (διδάσκοντες καὶ εὐαγγελιζόμενοι […] τὸν λόγον τοῦ κυρίου), mentre il versetto xv, 36, dice che essi «dopo alcuni giorni» (μετὰ δέ τινας ἡμέρας) partirono per il secondo viaggio. Barnaba e Marco si imbarcano per Cipro a seguito di un forte disaccordo con l’apostolo; Paolo e Sila attraversano le regioni della Siria e della Cilicia, rinvigorendovi la fede cristiana. Passano da Derbe a Listra (ove si unisce a loro Timoteo), attraversano la Frigia e la Galazia, poi la Misia e la Bitinia. Nella Misia sostano a Troade. Qui una visione induce l’apostolo a visitare la Macedonia: giungono a Neapoli, poi a Filippi in Macedonia, ove sono fatti prigionieri e sono miracolosamente salvati dal Signore. Quindi si recano in Grecia: passano da Anfi-

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poli e Apollonia a Tessalonica (= Salonicco), ove si fermano per tre giorni, presumibilmente nella casa di Giasone. Alcuni giudei facinorosi provocano una sommossa della folla contro di loro; fuggono a Berea. Una nuova istigazione contro di loro li costringe ad una nuova fuga. Sila e Timoteo rimangono in città, Paolo si reca ad Atene, la patria della filosofia, zeppa di epicurei e di stoici; predica nell’Areopago sul Dio ignoto, ma è costretto ad allontanarsi dalla città. Da Atene si sposta a Corinto, ove trova Aquila e Prisca (Priscilla), giunti dall’Italia perché scacciati da Roma a seguito dell’editto di Claudio (51 d.C. v. Svetonio e Dione Cassio). Insieme fondano la comunità di Corinto. Convertono un greco di nome Tizio, un tal Giusto e Crispo, il capo della Sinagoga. Governatore dell’Acaia era Gallione. Non sappiamo nulla di Gallione, potrebbe tuttavia trattarsi di Giunio Gallione, fratello di Seneca; dalla iscrizione di Delphi si evince che egli fu proconsole dell’Acaia nell’anno della 26° acclamazione di Claudio e nel 12° della sua tribunicia potestas. L’anno corrispondente dovrebbe essere il 53-54 d.C.). A Corinto Paolo si ferma un anno e mezzo. I giudei insorgono contro di lui e lo trascinano in tribunale. Gallione, come Pilato, se ne lava le mani. I giudei reagiscono percuotendo Sostene, capo della Sinagoga. Dopo essersi trattenuto a Corinto per diversi giorni, Paolo si imbarca per la Siria con Aquila e Priscilla; poi ritorna ad Antiochia di Siria, passando per Cencre, Efeso (ove si separa da Aquila e Prisca), Cesarea e Gerusalemme. La durata del viaggio dovrebbe aggirarsi intorno ai due anni abbondanti, dal 50 al 52, ma secondo i dati storici di riferimento, come il proconsolato di Gallione, dovrebbe cadere tra il 53 e il 54. Il terzo viaggio missionario è generalmente datato il 52-57 d.C. L’esegesi cattolica vuole che nello stesso periodo siano state scritte da Efeso la Lettera ai Galati e la 1Corinzi, dalla Macedonia la 2Corinzi e da Corinto la Lettera ai Romani. Dopo essersi trattenuto ad Antiochia per un po’ di tempo (dato impreciso), Paolo attraversa la Galazia e la Frigia. Ad Efeso, ove sosta due anni (55-57 ?) è raggiunto da Apollo, nativo di Alessandria, il quale conosceva il battesimo di Giovanni. Il capitolo xix presenta una brusca frattura, perché riprende la narrazione dalla presenza di Apollo non in Efeso, ma in Corinto. Mentre Apollo si trovava a Corinto, Paolo, attraversate le regioni montuose dell’Asia Minore, giunge ad Efeso (ma per gli Atti, xviii, 24, egli era già ad Efeso). Per tre mesi (ἐπὶ μῆνας τρεῖς, At, xix, 8) frequenta la sinagoga di Efeso e insegna nella scuola di un certo Tiranno. Negli stessi Atti (xix, 10) i tre mesi diventano due anni (ἐπὶ ἔτη δύο), in cui Paolo porta a greci e giudei la

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parola del Signore. Intanto compie miracoli non dissimili da quelli operati da Cristo (guarigioni degli indemoniati). I sette figli di Sceva, sommo sacerdote giudeo, i quali praticavano forme di esorcismi, vengono assaliti e percossi con violenza da uno spirito maligno cacciato da un ossessa. Paolo decide di attraversare la Macedonia e la Grecia per recarsi a Gerusalemme e a Roma, ma si limita a mandare in Macedonia Timoteo ed Erasto e si trattiene per un po’ di tempo nella provincia dell’Asia. A causa della ribellione dei seguaci di Artemide, provocata da un tal Demetrio, lascia Efeso. La rivolta però travolge Gaio e Aristarco. Sedata la rivolta, Paolo passa dalla Macedonia, poi dalla Grecia; dopo tre mesi salpa per la Siria, ma, sapendo che si era preparato un complotto dei Giudei contro di lui, ritorna in Macedonia (in compagnia di Sopatro di Berea, figlio di Pirro, Aristarco e Secondo di Tessalonica, Gaio di Derbe, Timoteo, Tichico e Trofimo della provincia dell’Asia); dopo la pasqua essi passano da Filippi e in capo a cinque giorni giungono a Troade, ove sostano una settimana. Il primo giorno della settimana (domenica) celebrano la cena del Signore (non dunque secondo la tradizione giudaico-orientale, ma secondo quella occidentale). Un giovane Eutico cade dalla finestra e muore, ma Paolo accorre in suo aiuto e lo risuscita. Si ferma ad Asso, poi a Mitilene, Chio, Samo, Mileto; si affretta nel tentativo di essere a Gerusalemme entro la pentecoste (il che significa che il viaggio da Troade a Gerusalemme durò cinquanta giorni o poco meno). In una predica tenuta a Mileto agli anziani di Efeso cita un lógion del Cristo («C’è più gioia nel dare che nel ricevere», non del tutto coincidente con i sinottici). Dopo essersi fermato a Mileto, riparte, passando da Cos, Rodi, Patara, Cipro, Tiro. Scende a Tiro, passa da Tolemaide e da Cesarea, ove è ospite di Filippo l’evangelista, uno dei Sette. A Cesarea giunge un certo Agabo, profeta, citato già in precedenza negli stessi Atti come il profeta che aveva predetto la carestia del 46-48). Agabo predice l’arresto di Paolo a Gerusalemme; i suoi collaboratori lo scongiurano di non recarvisi, ma Paolo non li ascolta e si reca nella città santa, ove trova ospitalità presso un tale Mnasone, discepolo della prima ora. Il giorno dopo fa visita a Giacomo, alla presenza di tutti gli anziani della comunità, i quali lo informano che si è fatta la fama di uno che pratica insegnamenti contro la Legge mosaica; perciò lo invitano a sottoporsi al rito di purificazione in modo da dare ai giudei un’attestazione della sua fedeltà alla Legge. Ciò nonostante, l’apostolo viene aggredito dai giudei della provincia dell’Asia, viene arrestato e rinchiuso «nella fortezza»; qui il comandante della guarnigione

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romana di Gerusalemme lo sottopone ad un interrogatorio, scambiandolo «per quell’egiziano» che, secondo la versione di Giuseppe Flavio(140), «aveva provocato una rivolta», senza dubbio pericolosa, perché aveva messo in piedi un esercito di ben trentamila rivoltosi. Un lungo discorso in ebraico, tenuto davanti agli abitanti di Gerusalemme, non sortisce alcun risultato. Paolo si dichiara fariseo, «formato alla scuola di Gamaliele, nella scrupolosa osservanza della Legge dei Padri»; ricorda la sua attività persecutoria nei confronti dei cristiani e si dilunga sulla mistica esperienza della folgorazione divina sulla via di Damasco (At, xxii, 7-16). Ma il discorso dell’apostolo è bruscamente interrotto dal popolo inferocito, che ne chiede la testa. Si salva dalla flagellazione, dichiarando di godere della cittadinanza romana. Davanti al Sinedrio viene celebrato un secondo interrogatorio alla presenza del sommo sacerdote Ananìa (dovrebbe trattarsi di Anania ben Nebedeo, che esercitò la funzione tra il 46 e il 53). Qui, per aver salva la vita, si dichiara fariseo «figlio di farisei, chiamato in giudizio perché crede nella resurrezione dei morti». La sua confessione provoca un gran trambusto e un’accesa discussione sulla resurrezione e sull’esistenza degli angeli e degli spiriti. Per evitare conseguenze più tragiche il comandante riconduce l’apostolo nella fortezza. A questo punto i giudei ordiscono contro di lui un attentato, ma la trama viene scoperta con l’ausilio di un suo nipote che la porta a conoscenza del comandante Claudio Lisia e, per tramite di quest’ultimo, al procuratore Marco Antonio Felice (52-58). Questi, per metterlo al sicuro, lo fa riparare ad Antipatride e a Cesarea lo fa custodire nel palazzo di Erode. Cinque giorni dopo ha luogo il processo davanti al procuratore e alla sua consorte Drusilla (fonte: Giuseppe Flavio), nel corso del quale interviene l’avvocato Tertullo, che così costruisce la sua improbabile e imprecisa arringa: «Quest’uomo – egli dice – è estremamente pericoloso. Egli è a capo della setta dei nazorei e provoca disordini dappertutto tra i giudei sparsi nel mondo». Paolo si difende, ribadendo la sua fede nella legge mosaica e nella resurrezione dei morti. In un colloquio privato il procuratore gli chiede di illustrargli la sua fede cristiana, ma il processo è ad un punto di stallo. Dopo due anni a Felice succede Porcio Festo (58-62). Audito da Festo, Paolo si difende e si appella a Cesare. Condotto di nuovo in tribunale davanti ad Agrippa II e Berenice, conferma di voler essere giudicato da un tribunale romano. Consegnato nelle mani del centurione Giulio, parte da Cesarea, insieme ad Aristarco di Tessalonica. Passano da Sidone, attraversano la Cilicia e la Panfilia, giungo(140)  BJ, ii 261-263; Ant., xx, 169-171.

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no a Mira nella Licia. Qui si imbarcano su una nave diretta in Italia, sfiorano Cnido e Creta, sostano a Buoni Porti. Una violenta tempesta li spinge verso l’isola di Caudas. Dopo due settimane, si salvano grazie ad un intervento del Signore e giungono a Malta. Vengono accolti dal governatore Publio (non altrimenti noto). Dopo tre mesi si imbarcano nuovamente; approdano a Siracusa, poi a Reggio e a Pozzuoli e infine a Roma. Qui Paolo incontra i capi delle comunità giudaiche, i quali dicono di non aver ricevuto dalla Giudea nessuna accusa nei suoi confronti. Il testo si chiude bruscamente senza alcun accenno al processo davanti ad un tribunale romano. Anzi ci vien detto che egli restò a Roma due anni interi predicando la fede cristiana senza essere in alcun modo contrastato. Da Roma, secondo l’esegesi cattolica, sarebbero state scritte le lettere ai Colossesi, agli Efesini e a Filemone. Che cosa non funziona in questo intricato intreccio di episodi pseudo-storici? Mi limito ad indicare una campionatura delle contraddizioni più eclatanti degli Atti. 1- La successione tra Marco Antonio Felice e Porcio Festo non è storicamente certa. Da una moneta coniata da Felice nel terzo anno di regno di Nerone siamo sicuri che egli era governatore della Giudea nel 56-57. Un’altra moneta coniata da Porcio Festo nel quinto anno di regno di Nerone ci fa sapere che egli governò la Giudea nel 58-59. Ci sfugge chi dei due fu governatore nel 57-58. Ma la cronologia degli Atti è quanto mai contraddittoria, perché il comandante romano, Claudio Lisia, non altrimenti noto, prima di rinchiudere Paolo nella fortezza si accertò che egli non fosse l’egiziano responsabile di una recente rivolta. L’episodio è narrato da Flavio,(141) in riferimento agli anni 56-57. A complicare le cose si aggiunge il fatto che il sommo sacerdote, Anania, che interroga l’apostolo nel Sinedrio, se è identificabile con Anania ben Nebedeo, ci riporta indietro agli anni 46-52 del suo sacerdozio, se invece è identificabile con Anano ben Anano, ci sposta troppo avanti al 63 d.C. Flavio è abbastanza puntuale in merito alla successione dei sommi sacerdoti: dal 52 al 56 ricoprirono la carica Jonathan (52-56), Ismaele ben Fabo (56-62) e Giuseppe Kabi ben Simone (62-63). Ciò che è certo è che questi dati non sono in linea con la narrazione di Atti, xxi, ovvero con la cronologia dell’ultimo viaggio verso Gerusalemme e Roma. Non c’è modo di allineare nello stesso arco temporale il governatorato di Felice (o più tardi quello di Festo), il sommo sacerdozio di Anania e la rivolta dell’egiziano. Inoltre ad appena dodici giorni dal suo arrivo a Gerusalemme (At, (141) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 167-172.

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xxiv, 11), l’Apostolo fu condotto davanti al governatore Felice, alla presenza di Anania. Il che accadde ben due anni prima che i poteri passassero da Felice a Festo (At, xxiv, 27), cioè nel 56. A Felice, che governava da appena tre anni (dal 52-53), Paolo dice: «So che da molti anni sei giudice (ἐκ πολλῶν ἐτῶν ὄντα σε κριτὴν) di questo popolo» (At, xxiv, 10). Ma quel «molti anni» è sproporzionato rispetto ai tre anni di mandato trascorso. Inoltre gli Atti aggiungono che fin dai primi giorni del suo incarico, e quindi presumibilmente nell’ottobre del 58, Festo si sarebbe recato a Gerusalemme per ascoltare la difesa di Paolo alla presenza di Agrippa II. Probabilmente per un’erronea interpretazione di Giuseppe, l’autore degli Atti ritiene che Festo governò dal 60 al 62 e che l’audizione di Paolo sia databile il 60. Ma, come sappiamo, il mandato di Festo va anticipato al 58. Ne consegue che tutta la cronologia dei processi di Paolo è contraddittoria e insostenibile. 2- In ordine alla cronologia dell’arresto di Paolo gli Atti (xxiv, 27) scrivono: «Trascorsero così due anni. Poi al posto di Felice fu nominato Porcio Festo». In altri termini dall’arresto alla successione di Festo decorrono due anni, ma la relativa narrazione, compresi i processi, non copre l’arco temporale dei due anni. Se supponiamo che la successione di Festo sia avvenuta nel 58 d.C., l’arresto dell’apostolo dovrebbe essere databile al 56. Ma se seguiamo in dettaglio la narrazione da xxi, 27 a xxiv, 26, notiamo che non trova riscontro l’intervallo di due anni. Infatti, l’arresto e il discorso agli abitanti di Gerusalemme sembrano cadere nella stessa giornata (primo giorno dell’arresto). Il comandante Claudio Lisia lo arresta; prima di chiuderlo nella fortezza si accerta che non sia il falso profeta egiziano (At, xxi, 37-39). Paolo chiede di parlare al popolo. Parla in ebraico (ma è più verosimile che parlasse solo il greco) dalla scala della fortezza. Il suo discorso provoca l’ulteriore reazione del popolo. Il comandante ordina di portare Paolo all’interno della fortezza e di frustarlo: quando l’ebbero legato, egli dichiarò la propria cittadinanza romana. Lisia se ne accerta e il giorno dopo (secondo giorno dell’arresto, At, xx, 30) gli fa togliere le catene e porta Paolo davanti al Sinedrio. Di nuovo tumulti. Il comandante decide di riportare Paolo nella fortezza. La notte seguente (At, xxiii, 11), Paolo prevede in una mistica visione il suo martirio a Roma. Fattosi giorno (terzo giorno dell’arresto): i Giudei tramano contro di lui, ma le loro beghe vengono scoperte dal nipote dell’Apostolo. La sera stessa Lisia lo fa trasferire di notte da Gerusalemme a Cesarea (At, xxiii, 12, 23, 31). Il giorno dopo (quarto giorno dell’arresto, At, xxiii, 32) alcuni cavalieri ritornano indietro, gli altri arrivano a Cesarea. Felice decide di interroga-

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re Paolo all’arrivo degli accusatori. Cinque giorni dopo (nove giorni dall’arresto) ha luogo l’interrogatorio di Paolo alla presenza di Felice, del sommo sacerdote Anania e del suo avvocato Tertullo. Felice decide di riesaminare il caso all’arrivo di Lisia. Alcuni giorni dopo (possiamo ipotizzare una decina di giorni per complessivi diciannove/venti giorni dall’arresto) Felice e Drusilla tentano di spillare denaro a Paolo e improvvisamente ci vien detto che così erano passati due anni (At, xxiv, 24, 27). 3- L’intervento di Gamaliele (At, v, 34-39), databile secondo la cronologia degli Atti intorno al 34-35 o al 36-37, vale a dire a ridosso della tragica morte del Cristo, è una fantasiosa ricostruzione. Gamaliele, nipote di Hillel, morto tra il 48 e il 52, fariseo e maestro della Legge, avrebbe difeso Pietro e gli apostoli dalle grinfie del sinedrio, avvalendosi di un’argomentazione opportunistica se non improntata alla Realpolitik: suggerì di lascar andare gli apostoli osservando che, se il loro movimento aveva radici umane, si sarebbe presto spento; se invece aveva radici divine, non ci sarebbe stato modo di contrastarli. Nel suo discorso egli rammenta le rivolte di Teuda e di Giuda il Galileo nei seguenti termini: Qualche tempo fa, infatti, sorse Teuda, dicendo di essere qualcuno, e aggregò intorno a sé circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che lo avevano seguito si dispersero. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e persuase molta gente a seguirlo. Ma anch’egli morì e tutti i suoi seguaci si dispersero.

Qui l’autore degli Atti tradisce la sua dipendenza da Giuseppe Flavio. La sua espressione «qualche tempo fa» induce a pensare ad una distanza di qualche anno. La rivolta di Teuda sarebbe avvenuta, a suo parere, prima del 30 d.C. e sarebbe stata seguita da quella di Giuda il Galileo. Da Giuseppe(142) sappiamo invece che la rivolta di Giuda il Galileo è del 6-7 d.C. e quella di Teuda del 45-46 d.C. L’equivoco, in cui cadono gli Atti, dipende da una cattiva interpretazione delle Antiquitates, che recitano: Un certo sobillatore di nome Teuda persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo […] lo stesso Teuda fu catturato, gli mozzarono la testa […]. Oltre a ciò, Giacomo e Simone, figli di Giuda Galileo, furono posti sotto processo e per ordine di Alessandro, venne(142) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 4-10; xx, 97, 102; BJ, ii, 117-118.

1314  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini ro crocefissi, questi era il Giuda […] che aveva aizzato il popolo alla rivolta contro i Romani, mentre Quirinio faceva il censimento.(143)

È evidente che la successione narratologica degli eventi nel testo flaviano, diventa per gli Atti successione temporale. 4- La fondazione della chiesa etiope ad opera dell’eunuco della Regina Candace (At, viii, 27), dovrebbe risalire al 36-37, perché gli Atti ce la presentano come successiva al sacrificio di Stefano e allo scontro di Filippo con Simon mago, e precedente la conversione di Paolo (37-39). Taluni studiosi hanno ritenuto di poter identificare Candace con la regina Gersamot Hendeke VII (Kandake Κανδάκη), che governò dal 42 al 52. Ma, com’è evidente, la cronologia del suo regno non coincide con quella degli Atti. L’episodio peraltro sembra costruito sulla base della presunta profezia di cui al Salmo lxviii, 32: «L’Etiopia si affretterà a stendere le sue mani a Dio». Per di più Candace, in onore di Candace I, che sferrò un attacco contro l’Egitto, diventò un titolo regale attribuito a tutte le regine della regione nubiana del Meroe, come faraone era il titolo dei sovrani d’Egitto. L’autore degli Atti usa invece il nome Candace come se fosse il nome proprio di una regina etiope, tant’è che lo accompagna con il titolo regale nella formula Κανδάκης βασιλίσσης (la Regina Cardace). Più prudente, Eusebio usa il termine generico di «regina di quel luogo». Non è neppure possibile pensare che gli Atti si riferiscano ad una precedente Candace, perché Gersamot Hendeke VII fu preceduta da sei sovrani di sesso maschile. Com’è evidente la narrazione degli Atti non ha valenza storica, tanto più che Tirannio Rufino nella Historia Ecclesiastica(144) ci fa sapere che la chiesa etiope Tewahedo, miafisita, risale al iv secolo e si diffuse nel Regno di Axum ad opera di Frumenzio ed Edesio. 5- Un altro episodio storicamente discutibile è quello della carestia (At, xi, 28-30). Agabo predice che sarebbe «scoppiata la carestia su tutta la terra. Il che effettivamente accadde sotto l’imperatore Claudio». Nella cronologia degli Atti l’episodio si colloca subito dopo la conversione di Paolo (37-39), allorché Barnaba lo conduce ad Antiochia, ove si fermano per un anno (3940). Anche in questo caso l’autore degli Atti dipende da Giuseppe Flavio. In realtà non vi fu nessuna carestia su tutta la terra, come si evince da tutte le fonti storiche romane. Vi fu invece, secondo le Antiquitates,(145) una carestia (143) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 97-102. (144)  Tyrannius Rufinus, Historia Ecclesiastica, i, ix, PL. xxi, coll. 478-480. (145) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 51; xx, 101. In realtà il testo di Giuseppe Flavio

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nella Giudea durante il governatorato di Tiberio Alessandro (46-48 d.C.). Se così è, i discepoli di Antiochia avrebbero deciso di mandare i soccorsi alla comunità della Giudea con un anticipo di ben sei anni, allorché Barnaba e Paolo (At, xi, 30) si sarebbero recati a Gerusalemme per consegnare i fondi raccolti. Ancor più ingarbugliato è il prosieguo della narrazione. 6- Un vero e proprio pasticcio imbastiscono gli Atti in ordine al martirio di Giacomo Maggiore, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo. Essi forniscono come punto di riferimento storico la «grande carestia su tutta la terra» (At, xi, 28), verificatasi sotto Claudio, la quale, secondo gli storici romani(146) interessò Roma e non la Giudea. Secondo Tacito essa devastò la capitale nel 51 d.C. Eusebio, in sintonia con gli Atti dichiara che essa ebbe una portata universale poiché «flagellò il mondo intero» e portò a compimento la profezia di Agapo. Le indicazioni cronologiche fornite sono vaghe («in quel tempo», «in quel medesimo tempo») e non permettono una puntuale determinazione della data. Gli storici cristiani tendono ad identificarla con una presunta carestia che avrebbe colpito la Giudea durante il regno di Erode Agrippa I (39-44). Infatti il testo degli Atti recita: «Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, e vedendo che la cosa era gradita ai giudei, diede ordine di arrestare anche Pietro» (At., xii, 1-3). Il successivo arresto di Pietro è descritto con sovrabbondanza di dettagli miracolosi (At, xii, 3-19) e la morte di Agrippa I sarebbe sopraggiunta come giusta punizione di Dio: un angelo lo colpì mentre teneva un discorso alla folla e lo fece morire corroso dai vermi. Per Giuseppe Flavio(147) Agrippa fu un uomo pio; durante la celebrazione di spettacoli a Cesarea ebbe la visione di un gufo che si posava sopra la sua testa; presagì pertanto la sua fine e dopo cinque giorni morì «straziato dal dolore al ventre». È evidente che l’autore degli Atti, pur con qualche leggera variante, assume da Giuseppe il contesto storico in cui inserire la tragica decapitazione di Giacomo Maggiore, ma si lascia sfuggire che nelle stesse Antiquitates la non è univoco. In Ant., xx, 51, la carestia è contemporanea alla venuta di Elena di Adiabene a Gerusalemme (nel 43): «la sua [della regina Elena] venuta fu di grande utilità per il popolo di Gerusalemme, perché in quel tempo la città era rattristata dalla carestia […]. Quando Izate, suo figlio, seppe della carestia, anch’egli mandò ai capi di Gerusalemme una grande quantità di denaro». In Ant., xx, 101, la carestia è datata tra il 46 e il 48 per essersi verificata sotto Tiberio Alessandro. (146) Cfr. Svetonio, Cl., 18; Tacito, Ann., xii, 43; Dione Cassio, Historia Romana, lx, 11. (147)  Giuseppe, Ant., xix, 343-350.

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carestia che colpì la Giudea cadde sotto l’amministrazione di Tiberio Alessandro (46-48), ben due o quattro anni dopo la morte di Agrippa I. Eusebio cerca di occultare la contraddizione ed anzi si dice sorpreso della perfetta corrispondenza tra le Antiquitates e gli Atti: «mi meraviglia – egli scrive – il fatto che la narrazione che Giuseppe fa di questi avvenimenti e di altri ancora è altrettanto veritiera quanto quella della Sacra Scrittura». Poi per sanare la contraddizione ipotizza che gli Atti abbiano confuso Agrippa I con Agrippa II e osserva: «Il tempo e l’avvenimento dimostrano che si tratta della medesima persona sia che il nome sia stato cambiato per un errore di trascrizione, sia che egli avesse, come molti altri, due nomi».(148) Tuttavia che non si trattasse della distrazione di un copista è dimostrato dal fatto che Giuseppe indica chiaramente le cariche governative di Agrippa I, il quale «aveva cinquantaquattro anni d’età e sette di regno. Regnò quattro anni sotto Gaio Cesare: per un triennio resse la tetrarchia di Filippo con l’aggiunta di quella di Erode nel quarto anno; regnò poi ancora tre anni sotto l’imperatore Claudio Cesare, durante i quali, oltre alla regione suddetta, ricevette pure la Giudea, la Samaria e Cesarea».(149) 7- Negli Atti ci vien detto che Erode Agrippa I era in rotta con gli abitanti di Tiro e di Sidone, quando l’amministratore era Blasto (At, xii, 20). Non sappiamo nulla intorno a tale Blasto, ma non è improbabile che l’autore confonda dati storici diversi: Agrippa I, come sappiamo da Flavio(150), dovette affrontare un conflitto tra Sidone e Damasco a proposito dei confini, quando era ancora in vita Tiberio, presumibilmente 33-37 d.C. Nel 44 – epoca cui fanno riferimento gli Atti – non risultano contrasti tra Tiro e Sidone. 8- Durante la permanenza a Corinto (At, xviii, 1-18) Paolo incontra Aquila e Prisca (Priscilla), i quali, a seguito dell’editto con cui Claudio espulse i Giudei da Roma, avevano lasciato l’Italia e si erano trasferiti a Corinto. Qui l’apostolo si ferma un anno e mezzo ed è costretto a lasciare la città per l’ostilità dei Giudei che si rivolgono al procuratore romano dell’Acaia, Lucio Giunio Gallione, fratello di Seneca filosofo. Il passo è generalmente collegato al testo di Svetonio,(151) il quale ci dice che i giudei furono espulsi da (148)  Eusebio, HE, ii, 10. La versione di Eusebio è accolta dagli storici cristiani; anzi nella traduzione del testo degli Atti, taluni si sono spinti fino a sostituire Agrippa I ad Erode. Tale è il caso della traduzione di Eusebio Tintori, La sacra Bibbia, Alba, Edizioni paoline, 1945, pp. 1740-1741. (149)  Giuseppe Flavio, Ant., xix, 351. (150)  Ivi, xviii, 153-154. (151)  Svetonio, Claudius, xxv.

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Roma per la continua agitazione di Cresto. Da Giuseppe Flavio(152)sappiamo che durante il principato di Claudio si ebbero non poche rivolte, da quella di Teuda (45-46 d.C.), sotto il procuratorato di Cuspio Fado (44-46) a quella di Giacomo e Simone (46-47 d.C.), ad un’altra sotto Tiberio Giulio Alessandro (46-48) e ad un’ulteriore sedizione giudaica in Palestina sotto il governatorato di Ventidio Cumano (48-52) presumibilmente tra il 50 e il 51. Non abbiamo notizie di altre rivolte giudaiche a Roma nello stesso periodo. È difficile stabilire a quale di tali eventi si riferisca l’autore degli Atti. Sotto il profilo cronologico si dovrebbe pensare alla rivolta sedata da Cumano e si dovrebbe perciò ritenere che il presunto editto di Claudio sia databile intorno al 51/52. Ma i dati storici non coincidono, in primo luogo perché la rivolta del 51/52 scoppiò in Palestina e non a Roma e in secondo luogo perché né in Giuseppe, né in Tacito c’è traccia di una concomitante espulsione di ebrei da Roma. Ne parla Orosio,(153) ma, com’è noto, egli è poco affidabile soprattutto sul piano cronologico. Per comprendere meglio la contraddizione degli Atti occorre stabilire a quale epoca risale il governatorato di Gallione. Nominato in qualità di proconsole, la sua carica aveva la durata di un anno. Seneca, suo fratello, ci dice nelle Epistolae ad Lucilium(154) che a causa di una pandemia rientrò a Roma prima della scadenza dell’incarico. Ma a quale anno risale la sua nomina? Per nostra fortuna nel 1905 è stata ritrovata un’iscrizione, nota come iscrizione di Delphi, che è assai utile per la datazione del proconsolato di Gallione: da essa sappiamo che egli era in carica in Acaia durante il dodicesimo anno della potestà tribunizia di Claudio e alla ventiseiesima acclamazione di imperatore, padre della patria(155). La datazio(152) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 97-105. (153) Paolo Orosio, Hist. adv., vii. (154)  Seneca, Ad Lucilium, 104, 1; cfr. anche Quaestiones Naturales, iva, Praef, 10. (155)  L’iscrizione di Delphi, nella versione italiana, è riportata da Franco Manzi, Seconda Lettera ai Corinzi: nuova versione, introduzione e commento, p. 74: «Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (nel 12° anno della sua) potestà tribunizia, acclamato imperatore per la 26° volta, padre della patria, saluta […]. Già da tempo verso la città di Delfi sono stato non solo ben disposto, ma ho avuto cura della sua prosperità e sempre ho protetto il culto di Apollo Pitico. Ma poiché ora si sente dire che viene abbandonata anche dai cittadini, come mi ha da poco riferito L. Giunio Gallione, amico mio e proconsole (anthýpatos), desiderando che Delfi conservi intatta la sua primitiva bellezza, vi ordino di chiamare anche da altre città a Delfi degli uomini liberi, come nuovi abitanti e che ad essi e ai loro discendenti sia integralmente concessa la stessa dignità di quelli di Delfi, in quanto cittadini in tutto e per tutto uguali». Il testo originale greco è edito da Jerome Murphy-O’Connor, St. Paul’s Corinth Texts and Archaeology, Wilmington (Delaware), Glazier, 1983, p. 179.

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ne dell’editto, può essere agevolmente fatta non sulla base delle acclamazioni imperiali, che sono più complesse da conteggiare, ma sulla base degli anni di potestà tribunizia. Fortunatamente Giuseppe Flavio(156) ci ha dato notizia di un editto di Claudio, datato 28 luglio 45, allorché Claudio era al quinto anno della sua potestà tribunizia. Ne consegue che l’editto di Delfi, per essere caduto nel dodicesimo anno della potestà tribunizia di Claudio, è databile al 52. All’epoca della nomina di Gallione, Paolo aveva già trascorso a Corinto un anno e mezzo, ove «da poco» (At, xviii, 2) erano arrivati Aquila e Priscilla. Se ne deduce che essi erano giunti a Corinto intorno alla metà del 50. Ma nasce un ulteriore inghippo: mentre Svetonio parla di vera e propria espulsione di ebrei da Roma, Dione Cassio, che data l’episodio al 41 (sotto Marullo), si limita a dire che agli ebrei fu fatto divieto di riunirsi e di praticare i loro culti. Come si vede siamo di nuovo in alto mare e non riusciamo a sciogliere le contraddizioni degli Atti. 9- Pietro e Giovanni vengono portati davanti al tribunale (At, iv, 5-6) alla presenza del sommo sacerdote Anano-Hanna (Jonathan ben Anano, 3637), di Caifa-Caiafas (18-36), di Giovanni e di Alessandro. Chi sono Giovanni e Alessandro che appartenevano alle famiglie sacerdotali? Non ne abbiamo alcun notizia. 10- Punti deboli della cronologia comunemente accettata e desunta da Galati e dagli Atti (Gal, i, 17-18; At, ix, 19-26). Per la prima Paolo, dopo la conversione, si ritirò nel deserto arabico e in seguito sostò a Damasco per tre anni; per i secondi, invece, si fermò a Damasco per alcuni giorni (ὡς δὲ ἐπληροῦντο ἡμέραι ἱκαναί) e poi partì per Gerusalemme. 11- Una delle difficoltà che rendono complessa la cronologia delle lettere paoline è data dal frequente riferimento alla raccolta di fondi per i poveri di Gerusalemme. Gli Atti collocano tale raccolta in occasione della carestia del 46-48. Le lettere paoline che fanno riferimento alla colletta sono Romani, 1Corinzi e 2Corinzi.(157) Per gli Atti la raccolta viene fatta ad Antiochia di Siria, per le lettere paoline in Macedonia e in Acaia, a Corinto e in Galazia. Romani è scritta dopo la raccolta greco-macedone, quando Paolo è ospite di Gaio a Corinto. L’ipotesi più verosimile è che ciò sia accaduto nel corso del secondo viaggio per due motivi: 1) perché è più lunga la sua permanenza a Corinto; 2) perché nel terzo viaggio – secondo gli Atti – non sembra esserci stata alcuna sosta a Corinto. Ne consegue che la lettera sarebbe stata scrit(156) Giuseppe Flavio, Ant., xx, 11-14. (157)  Rm, xv, 25-26, 1Cor, xvi, 1-4; 2Cor, xi, 22-33.

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ta nel 51-52 (ipotesi secondo viaggio) o nel 57-58 (ipotesi terzo viaggio). In entrambi i casi Paolo attraversa la Macedonia e l’Acaia ed è diretto a Gerusalemme, come vuole Romani. Ma che senso aveva in tali anni la colletta greco-macedone se si riferiva alla carestia del 46-48? Inoltre Paolo in Romani (xv, 20) afferma di aver evangelizzato l’Illiria e Gerusalemme, ma dagli Atti risulta che le sue permanenze in Illiria (Macedonia) e a Gerusalemme furono sempre brevi e per lo più contrastate.(158) 12- Non meno complesso il caso della 1Corinzi, anch’essa legata alla questione della raccolta dei fondi per i santi di Gerusalemme. In essa Paolo chiede che i Corinzi facciano una raccolta come i Galati. Quindi afferma che si recherà a Corinto dopo aver attraversato la Macedonia («la Macedonia l’attraversò soltanto», 1Cor, xvi, 1-2, 5). Aggiunge che vuole trascorrere a Corinto un po’ di tempo (svernerà a Corinto) e che si fermerà ad Efeso fino alla Pentecoste (1Cor, xvi, 6-7, 8). Anche in questo caso non sussiste la compatibilità cronologica con gli Atti. Non è possibile alcuna connessione con il secondo viaggio, perché il percorso va da Efeso all’Acaia e non attraverso la Macedonia, come vuole la 1Corinzi. Potrebbe essere compatibile con il terzo viaggio, ma secondo gli Atti la permanenza ad Efeso si protrasse per ben due anni, mentre per la 1Corinzi si trattò dello spazio di una invernata fino alla pentecoste; poi Paolo attraversò la Macedonia, discese verso la Grecia e risalì di nuovo in Macedonia (At, xix, 10; xx, 1-3); non si fa nessun esplicito cenno ad una ulteriore sosta a Corinto. 13- Anche la 2Corinzi è una lettera della raccolta. Vi è un lungo excursus sulla colletta fatta in Macedonia (2Cor, viii, 1-24 - ix, 1-15). Paolo ricorre ad argomentazioni retorico-persuasive per indurre a versare fondi: «Sappiate che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà, e chi semina con generosità, con generosità raccoglierà». Questa volta però il raccolto non sembra essere destinato ai poveri santi di Gerusalemme, ma allo stesso Paolo («Con ciò vogliamo evitare che qualcuno possa biasimarci per quest’abbondanza che viene da noi amministrata», 2Cor, viii, 20). L’apostolo accenna alle tribolazioni e alle persecuzioni subite in Asia: «Abbiamo addirittura ricevuto la sentenza di morte». La lettera presenta contraddizioni interne, perché per (158)  Brevi sono i soggiorni ierosolimitani dell’Apostolo (di cui agli Atti, ix, 26; xi, 30, xv, 4-41; xviii, 22) e quello illirico-macedone (di cui agli Atti, xx, 2-3). Sarebbe durata almeno un paio di anni la sosta nella città santa narrata nel capitolo xxi, che però è di scarsa credibilità, non solo per l’eccessiva lunghezza del processo, ma anche per il fatto che esso è costruito ad immagine e somiglianza del processo subito da Cristo nella versione lucana.

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un verso Paolo dichiara di voler andare a Corinto per poi passare in Macedonia, 2Cor, i, 15-16 (il che significa che la lettera non sarebbe stata scritta dalla Macedonia) e quindi rientrare a Corinto dalla Macedonia e recarsi in Giudea; poi afferma di non essersi più recato a Corinto e di essersi fermato a Troade; infine aggiunge di essere arrivato in Macedonia, 2Cor, i, 23; ii, 12; vii, 5 (con la conseguenza che la lettera sarebbe stata scritta dalla Macedonia). La contraddizione sta nel fatto che nella stessa lettera egli dichiara di essere in punto di recarsi in Macedonia e nello stesso tempo di essere arrivato in Macedonia. Un ulteriore elemento di confusione è introdotto dalla 2Corinzi (xii, 14), che recita: «Questa è la terza volta che sto per venire da voi» (intendi a Corinto). Per gli Atti (xviii, 1) invece l’Apostolo sostò a Corinto una sola volta (che potrebbe essere la sua prima visita a Corinto o al limite la sua seconda visita, se la lettera è associata al terzo viaggio). 14-Tanto per la 1 quanto per la 2Corinzi sussiste la contraddizione per cui Paolo dichiara di aver già evangelizzato la comunità di Corinto in passato («il Figlio di Dio che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo», 2Cor, i, 19). Negli Atti il soggiorno a Corinto cade all’interno del secondo viaggio; ne consegue che le due lettere ai Corinzi dovrebbero essere state scritte nel corso del terzo viaggio. Nella 2Corinzi Paolo afferma che aveva intenzione di recarsi a Corinto, ma di non esserci più andato (2Cor, i, 15-23). In altri termini nel corso del terzo viaggio egli non avrebbe messo piede a Corinto; per gli Atti però egli discese dalla Macedonia in Acaia (At, xx, 2) e quindi necessariamente attraverso Corinto. Se d’altro canto si esclude una sosta a Corinto durante il terzo viaggio, si deve dedurre che Corinto non fu il presunto luogo di emissione della lettera ai Romani. Inoltre la presenza di Tito in Macedonia, dichiarata dalla 2Corinzi (vii, 6), è taciuta o non trova riscontro negli Atti. 15- In linea di massima le lettere e gli Atti sembrano ignorarsi reciprocamente; le prime non citano i secondi e viceversa i secondi non citano le prime. Più complesso è tuttavia il caso della Lettera ai Galati, a prescindere dalla generica intestazione, che è di per sé sospetta. Abbiamo già accennato alla contraddizione con gli Atti a proposito della evangelizzazione dell’Arabia e della permanenza a Damasco, nonché della prima visita a Gerusalemme dopo la conversione; ma le discrepanze sono assai più numerose di quel che si crede. Ne diamo alcuni esempi. In Galati Paolo dichiara di avere in passato evangelizzato la Galazia (Gal, i, 11-12), ma negli Atti la Galazia non è punto menzionata. L’espressione «Colui che mi prescelse dal seno di mia madre» (Gal, i, 15) o è un’aggiunta posteriore o è un’affermazione che mili-

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ta a favore di una più tardiva datazione della lettera, poiché è analoga a quella utilizzata per Cristo e per Giovanni il Battista nei Vangeli al fine di indicare una nascita di origine divina. Galati (i, 21) ci fa sapere che dopo l’incontro con Cefa e Giacomo a Gerusalemme (non si tratta del presunto Concilio di Gerusalemme) Paolo si recò nelle regioni della Siria e della Cilicia, ma continuava a non essere conosciuto di persona dalle chiese della Giudea. Tale dato potrebbe accordarsi con il secondo viaggio, ma Galati (ii, 1-3) prosegue affermando che dopo quattordici anni (più 3 di permanenza a Damasco = 17 anni dalla conversione, cioè 54-56 d.C.) si recò con Barnaba e Tito a Gerusalemme. In tal caso l’arrivo a Gerusalemme potrebbe cadere all’interno del terzo viaggio, in cui però secondo gli Atti Paolo non si accompagnò a Barnaba. Per Galati (ii, 6-9) al presunto concilio di Gerusalemme erano presenti Barnaba e Tito, ma per gli Atti era presente solo Barnaba. Di contro Galati non fa alcun accenno all’invio di Giuda Barsabba e di Sila ad Antiochia (tra l’altro gli Atti, i, 23; xv, 22, attribuiscono il soprannome Barsabba sia ad un tal Giuseppe che a Giuda). Infine secondo Galati (ii, 11) quando Cefa giunse ad Antiochia (di Siria), Paolo gli manifestò il suo dissenso, ma di tale scontro non c’è traccia negli Atti. 16- Le lettere delle catene (Filippesi, Colossesi,1 e 2Timoteo, Tito, Filemone) dovrebbero essere tutte posteriori al 58 d.C. 17- C’è contrasto tra Galati e Filippesi, poiché nell’una Paolo pone l’inizio della sua predicazione nell’Arabia e nell’altra nella Macedonia, ove trovò la disponibilità dei Filippesi, che gli mandarono due volte aiuti economici da Tessalonica (Gal, i, 17; Fp, iv, 15). Si potrebbe sanare il disaccordo, supponendo che l’inizio della predicazione debba intendersi in senso relativo e non assoluto. Paolo cioè alluderebbe all’inizio della predicazione in Macedonia. 18- Come si giustifica una lettera ai Colossesi se Paolo non è mai passato da Colossi. Egli ci dice di aver attraversato la Licaonia nel primo e nel secondo viaggio, ma negli Atti non v’è alcuna menzione di Colossi, la cui evangelizzatore sarebbe stata opera di Epafra, che tuttavia non può considerarsi autore della lettera, la quale manda i saluti alla comunità attraverso Paolo (Col, i, 6-7; iv, 12). La lettera non contiene ulteriori dati cronologici. I fratelli salutati alla fine di Colossesi sono gli stessi salutati in Filemone. Dubito che la lettera possa essere databile tra il 60 e il 62, come vuole Tremolada,(159) perché, com’è noto, Colossi subì nel 61 un terremoto che provocò la totale distruzione della città. (159) P. Tremolada, Atti degli Apostoli, cit., p. 202.

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19- Mentre la redazione degli Atti è posteriore a quella delle nove epistole paoline esaminate, per le tre pastorali vale l’opposto; esse risultano elaborate dopo gli Atti e ne dipendono. Non è infatti un caso che le prime notizie che le riguardano sono contenute nel canone muratoriano che è dell’ultimo scorcio del secondo secolo. Il papiro P46, della collezione Chester-Beatty, risalente ai primi anni del terzo secolo e contenente tutte le altre lettere paoline, non riproduce le tre pastorali. La loro dipendenza dagli Atti è attestata dal fatto che l’autore si serve del loro scenario nel tentativo di inquadrarne gli eventi. Ciò è evidente fin dalla intestazione della 1Timoteo (i, 1-3), in cui Paolo scrive «Partendo dalla Macedonia, ti ho esortato a rimanere ad Efeso», e sembra riferirsi al terzo viaggio missionario. Mancano altri dati storici, per cui la datazione resta di fatto difficile. Ma la seriorità delle pastorali si evince non solo dallo stile e dalle scelte lessicali, ma anche dalla forte mitizzazione della figura di Paolo, presentato come modello da imitare o come autorità a cui sottomettersi. Predominante è l’interesse a definire l’organizzazione ecclesiastica e la sua disciplina interna, sul modello della organizzazione dell’amministrazione pubblica. La 2Timoteo si potrebbe definire la lettera degli abbandoni. L’autore vuole far credere che essa sia stata scritta a Roma: «Onesiforo è […] venuto a Roma, mi ha cercato» (2Tm, i, 17). L’apostolo si sente abbandonato da tutti. La Lettera a Tito sarebbe stata scritta a Nicopoli, dove Paolo avrebbe svernato: «affrettati a raggiungermi a Nicopoli (quindi è scritta da Nicopoli?), perché lì ho deciso di passare l’inverno». Ma negli Atti non c’è traccia di un passaggio da Nicopoli in Epiro. Inoltre per la 2Timoteo Tito risulterebbe in Dalmazia, invece per Tito (i, 5) risulta lasciato dall’apostolo a Creta. Secondo gli Atti Paolo sarebbe passato da Creta prigioniero, durante il suo trasferimento in Italia. Infine in Tito Paolo afferma che gli manderà Tichico, che per la 2Timoteo è stato lasciato ad Efeso (Tt, iii, 12; 2Tm, iv, 12). 20- La Lettera a Filemone è una delle lettere delle catene ed è indirizzata alla chiesa domestica di Filemone. Si tratterebbe di una chiesa organizzata da Filemone nella propria casa probabilmente a Colossi. Paolo prega Filemone di accogliere lo schiavo Onesimo e di trattarlo umanamente (Fm, 11-18). Tuttavia anche nella Lettera ai Colossesi Onesimo è mandato con Tichico a Colossi nella casa di Filemone, senza alcun riferimento alla sua condizione servile (Col, iv, 9). Le due lettere potrebbero configurarsi come copie approssimative l’una dell’altra oppure potrebbero configurarsi come accrescimento l’una dell’altra.

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2.17. Conclusione Tenuto conto delle numerose incongruenze interne, della indeterminatezza in cui vengono lasciati i dettagli di carattere temporale, della quasi assoluta assenza di riferimenti storici puntuali, nonché delle rilevanti differenze di stile e di contenuto, appare evidente che l’epistolografia paolina non è riconducibile ad un unico autore, ma ad una pluralità di mani, che verosimilmente portarono a termine il corpus tra il 130 e il 150 d.C. Ciò significa che il problema della apocrifia delle lettere è probabilmente più ampio e di più vaste proporzioni di quel che si è creduto finora. La necessità di coerentizzare l’intero corpus paolino, inquadrandolo in una cornice cronologica complessiva, è evidentemente l’istanza avvertita e perseguita dall’autore degli Atti, il quale tra l’altro, dopo la prolifica produzione evangelica (tra il 110 e il 160 d.C., ma proseguita poi con la produzione apocrifa fino al iv secolo), tentò di colmare il vuoto circa la predicazione nei primi tempi apostolici. L’impresa, condotta a termine poco oltre la metà del ii secolo, ebbe risultati positivi da un lato, ma anche negativi dall’altro. Egli arricchì le vicende del cristianesimo delle origini con dati storici desunti per lo più da Giuseppe Flavio, ma introdusse ulteriori elementi di dubbio e di confusione. Sebbene sia facilmente intuibile che l’opera di coerentizzazione dei testi (paolini, evangelici e degli Atti) sia proseguita attraverso manipolazioni varie nei secoli ii, iii, e iv, come del resto accadde per gli stessi testi profani non facilmente armonizzabili con la nascente tradizione cristiana (moltissimi sono i testi di storia profana andati perduti, perché forse in contrasto con la narrazione evangelica), le contraddizioni e le smagliature all’interno della produzione cristiana del primo e del secondo secolo sono rimaste intatte. La verità storica che viene sempre più alla luce è che le origini del cristianesimo non possono essere spiegate sic et simpliciter attraverso l’attività missionaria di un singolo o di un manipolo di discepoli della prim’ora. Le stesse lettere paoline non sono il prodotto della prodigiosa opera di persuasione e di proselitismo di pochi spiriti eletti, ma sono, sotto il profilo dottrinale, un frutto maturo, il prodotto di una elaborazione teologica più evoluta riferibile ad una più complessa organizzazione ecclesiale. Fortissima è l’aspirazione degli esegeti credenti di ricondurre ad unum il messaggio cristiano, come se fosse una verità cristallizzata fin dall’inizio, ma è difficile credere che il cristianesimo della prima ora sia il risultato dell’azione missionaria di Paolo o di uno sparuto gruppo di apostoli e

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di predicatori itineranti; non ci si rende conto che la loro permanenza in quasi tutte le località toccate, fatta eccezione per Corinto ed Efeso, non va oltre pochi giorni e non è perciò tale da lasciare tracce durature. Anzi, persino in Corinto ed in Efeso, se dovessimo credere all’azione propagandistica dei primi testi cristiani, non ebbe effetti di qualche rilievo. La realtà storica più draconiana è che mancano sia per Efeso che per Corinto evidenze archeologiche del i secolo. D’altra parte sappiamo dalla storia quanto nel Medioevo sia stata difficile e contrastata l’opera di evangelizzazione di terre e di popolazioni di diverse matrici religiose, spesso facilitata tra l’altro dall’uso spietato delle armi, dotate di forza persuasiva assai più efficace delle più sofisticate tecniche retoriche. L’innesto di una religione su un’altra è sempre un fatto complesso e mai del tutto lineare. Quasi mai si tratta di una rivoluzione radicale; il più delle volte è una fusione, in cui sopravvivono riti e culti delle credenze precedenti. La realtà è che noi assistiamo tra il ii secolo a. C e il i d.C. ad un giudaismo fortemente dinamico e in forte fibrillazione, sia sul piano politico, sia su quello, ben più complesso, dottrinale e teologico. I suoi prodromi e le sue premesse hanno una duplice paternità: da un lato il giudaismo con le sue effervescenti fermentazioni interne, dall’altro l’ellenismo, ricco di forme di sincretismo, proprie del periodo alessandristico. Quando la distruzione del tempio di Gerusalemme provocò una profonda crisi del giudaismo e produsse una nuova diaspora di ebrei, in crisi di identità, nelle terre a forte prevalenza di cultura ellenistica si accese la miccia che fece esplodere dentro il giudaismo nuovi fermenti culturali e dottrinali che in parte convogliarono in direzione del cristianesimo, in parte in direzione di altri culti sincretistici. Dobbiamo in qualche modo convincerci che il cristianesimo del primo e del secondo secolo, quale noi lo conosciamo, fu solo il punto d’approdo, l’esito di un processo, sviluppatosi per tappe successive. Anzi, dobbiamo convincersi che tale processo a tappe successive non cessò neppure nel secondo secolo, ma proseguì sempre più speditamente nel iii e iv secolo in direzione di una chiesa istituzionalizzata. Le contraddizioni e le smagliature dei testi dipendono da questi intricati processi di innesto e di intreccio e persino di contaminazioni ideologiche successive. Gli stessi testi, almeno fino a quando non diventarono prodotti definiti, furono il risultato di un continuo processo di revisione e di manipolazione. Ma per quanto nelle tappe più evolute, soprattutto nelle fasi di definitiva istituzionalizzazione, si sia esercitato un controllo sulla produzione letteraria precedente, i termini del processo e la

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sua interna fluidità restano comunque trasparenti, per il semplice fatto che il controllo non può mai essere totale ed assoluto. La realtà è che l’epistolografia cristiana della prima metà del ii secolo d.C. è un genere letterario. Le lettere non hanno cioè una funzione comunicativa, non servono a tenere o a costruire una rete di rapporti tra comunità diverse. Probabilmente dal 70 d.C. in poi le comunità cristiane cominciavano a nascere a seguito della diaspora ebraica ed essenica, ma si erano sparse o costituite nell’area mediterranea orientale in forma autonoma e spontanea; avevano in comune per lo più le forme organizzative dell’essenismo, che si coniugava con le tradizioni più prettamente giudaiche dei nuclei ebraici preesistenti nelle città della Macedonia, dell’Acaia, della Siria, dell’Anatolia. Antiochia di Siria, l’isola di Cipro, Efeso, Neapoli in Macedonia, taluni centri della Pisidia erano sedi di più o meno fiorenti comunità giudaiche; Tarso, Laodicea e Roma erano fortemente influenzate dal culto mitraico; Antiochia di Pisidia ed Efeso erano centri notevoli di culti artemisici. Tutta l’area mediorientale aveva da secoli una tradizionale cultura di matrice ellenica. In ognuna delle città in cui secondo la tradizione si costituiscono i primi nuclei del cristianesimo si determinò un incrocio culturale e religioso tra tradizioni di matrici diverse. Probabilmente le prime comunità delle origini non furono caratterizzate da una precisa identità religiosa; non erano ancora dotate di un nucleo dottrinale compatto e organico; erano sotto la spinta del magma incandescente dell’incontro di idee e di culture; talune comunità subirono forse un ripiegamento su tradizioni più vetero-giudaiche; in altre si fece sentire l’influenza del culto mitraico; in altre ancora la fusione di culti mitraici ed artemisici con l’essenismo; tutte erano comunità che soffrivano la crisi dell’età ellenistica, in cui molte popolazioni si sentivano al margine della storia, quasi prive di radici proprie entro l’impero universale di Roma. Esse perciò cercavano il senso della vita nelle religioni misteriche e soteriologiche; cercavano il senso della salvezza individuale, dopo che erano crollati i grandi ideali dell’età classica. Dall’Egitto si erano diffusi i culti isiaci. In quel crogiolo di credenze diverse, il tema ebraico del figlio di Dio si intrecciò e si confuse, fino a non più distinguersene, con analoghi temi presenti nei culti egizi, isiaci, artemisici. Il concetto del dio che muore e risuscita non era di origine ebraica; il dio che si sacrifica e redime era di derivazione orfica. La concezione ebraica del dio-re nazionale si scontrò contro gli imperi sovranazionali e finì col soccombere nel mondo universalizzato dall’elleni-

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smo. La concezione essenica del Maestro di Giustizia subì in tale crogiolo di credenze profonde e significative trasformazioni fino ad assumere la connotazione del dio che salva e redime. Che a tale figura di maestro e fondatore di una religione si sostituisse Gesù non fu casuale, indipendentemente dal fatto che si trattava di un nome largamente diffuso nel mondo ebraico; egli era Yehōwōšua’, il soccorso di dio, il dio che salva (Σωτήρ, Salvatore). Ma questa confluenza verso il cristianesimo non fu un fenomeno scontato e pacifico: fu un travaglio storico complesso. I processi sociali sono sempre processi osmotici; le idee e le credenze si diffondono da una parte all’altra e in ciascuna città o località subiscono le inevitabili deviazioni localistiche: il cristianesimo delle origini va concepito più che come un continente, come un arcipelago, in cui le differenziazioni non sussistevano solo tra una comunità e l’altra, ma spesso laceravano all’interno le stesse comunità cristiane. Ciò peraltro vale per il cristianesimo più consolidato e compatto dei secoli medievali e moderni, ma vale a fortiori per quello delle origini. D’altro canto tali dissidi interni emergono anche nelle lettere paoline o in quelle ignaziane. Il tormento dei primi teologi cristiani (gli autori di Paolo, Ignazio, Barnaba ecc.) è il tormento di tutti i grandi teorizzatori e idealisti che credono di poter uniformare o omologare il mondo. Essi si scontrano con la realtà che è insieme più dura e più amara, ma fortunatamente anche più ricca e più variegata, più aperta agli apporti dei singoli individui. Tutti i mistici del pensiero unico sono destinati al fallimento, quale che sia la categoria ideologica cui essi appartengono. Ma per le religioni il conformismo è vitale; senza di esso si scioglierebbero come neve al sole. Perciò è ben comprensibile lo sforzo propagandistico o, se si vuole, predicatorio degli autori di Paolo. Ed è questo in fondo l’obiettivo vero delle epistole paoline; non solo quello di tenere insieme una rete di comunità, ma anche quello di uniformarle sul piano dottrinale, etico-teologico e gestionale-organizzativo. Proprio per questo le lettere non hanno un destinatario privilegiato anche quando esso è manifestamente e vistosamente indicato nell’intestazione, perché la loro funzione non è specifica ma generale o universale. La destinazione alla comunità di Corinto o di Tessalonica non è che un pretesto. Ne è già di per sé un esempio l’epistola ai Galati. A quali Galati? Di quali città della Galazia? Non importa stabilirlo, perché di fatto essa è diretta a tutte le nascenti comunità cristiane. Ne è un ulteriore esempio la Lettera agli Ebrei, che è significativamente priva di destinatari. Ogni lettera è di fatto un pretesto. Forte è la suggestione di scrivere lettere sul modello di quelle che veramente possono dirsi para-

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digmatiche: la Lettera ai Romani, la 1Corinzi, la Lettera ai Galati e la Lettera agli Ebrei. Lasciamo per ora da parte l’ipotesi che esse siano riconducibili ad un unico o a più autori; la loro importanza sta nella definizione di un nucleo teologico-dottrinale: è con esse che nasce veramente il cristianesimo, trasformandosi da religione popolare di origine misterica in religione con una coerente configurazione ideologica; è da esse che cominciano a prendere una qualche somiglianza fisionomica le comunità cristiane disperse tra la Siria, la Grecia e l’Anatolia. Esse sono la pietra angolare del cristianesimo asiatico. Da quanto s’è detto si deve trarre la conclusione che il proto-cristianesimo, lungi dall’essere un fenomeno compatto, fu assai frammentario e frammentato nelle diverse e disperse comunità della diaspora. Fin dalle origini emersero al suo interno due grandi tronconi: quello orientale e quello occidentale. L’uno sotto l’influenza paolina e di matrice prevalentemente anatolica, ma anche siriana e poi via via esteso fino alla Grecia e all’area illirico-macedone; l’altro di radici alessandrino-egiziane, ben preso assorbito, insieme a quelle franco-spagnole, sotto le grandi ali del più tardivo, ma ben più potente, centro romano. Il primo si espresse prevalentemente attraverso l’epistolografia, per lo più pseudonima; il secondo attraverso una cospicua letteratura evangelica in gran parte anonima. Il canone neotestamentario non è che la fusione di queste due tradizioni letterarie. La loro fusione dottrinale fu complessa e richiese molto tempo. Alle origini i due tronconi agivano autonomamente l’uno dall’altro e sembravano ignorarsi reciprocamente, ma col tempo, soprattutto nella seconda metà del secondo secolo, si fusero e la loro fusione retroagì sulle rispettive letterature, addomesticandole nella nuova ottica. Naturalmente si trattò di un’operazione complessa almeno fino a che non si costituì un unico centro dottrinale di prestigio che facesse valere una linea unitaria. Tuttavia, va tenuto conto che in tale processo l’unificazione vera e propria restò più un miraggio che un obiettivo raggiunto, tant’è vero che, a dispetto di ogni tentativo di unificazione e di omologazione, il varco tra la religiosità dell’Oriente e quella dell’Occidente restò comunque insanabile. Ovviamente entro questi due orientamenti si innestarono ulteriori problematiche che talvolta operavano più o meno trasversalmente sull’uno e sull’altro dei due fronti. Molto più forte era nel mondo orientale l’influenza delle antiche tradizioni giudaiche e di un certo integralismo giudaico, ma non meno decisivi erano il rigorismo etico e la rigidità dottrinale, forse assai più tenaci in Oriente che in Occidente, spesso contrapposti alla concretezza più pratica e permissiva, se non lassista, del cristianesimo romano che andava configurandosi come potere centraliz-

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zato. Incertezza e contraddizioni sussistono anche sulle figure rappresentative dell’uno e dell’altro versante. Pietro e Giacomo ci vengono presentati spesso come i fautori di un cristianesimo integralista, chiuso entro i confini del giudaismo; Paolo come il nuovo profeta aperto al mondo dei gentili. In realtà Giacomo il Giusto non fu verosimilmente né il fratello del Signore, che nei vangeli è soprannominato ‘il Minore’, né fu l’antesignano di un improbabile giudeo-cristianesimo che è in sé una contradictio in adiecto storicamente ingiustificabile, ma fu se mai a capo di una comunità di esseni che entrò in rotta di collisione con il potere sadduceo-farisaico. Le oscillazioni ideologiche di Pietro dipendono dal fatto che egli assunse gradatamente il ruolo di patriarca dell’Occidente romano; di conseguenza le sue posizioni dottrinali slittano, in tale veste, verso l’universalismo. Sicché le due linee evolutive delineate non hanno nulla a che fare con la tradizionale frattura tra il petrismo, più tradizionalista, e il paolinismo, più aperto alla cultura ellenistica, il primo imbrigliato nell’idea di una rivoluzione religiosa interna al popolo giudaico, il secondo promotore di una sorta di rivoluzione permanente aperta ai gentili e quindi all’universo mondo. Esse dipendono unicamente dai contorni culturali dell’Oriente o dell’Occidente, dalla presenza più o meno massiccia (non tanto in Palestina, ove le tracce di proto-cristianesimo sono in origine molto deboli, quanto piuttosto nell’area siriana) del giudaismo tradizionale nel primo caso e dall’apertura alla cultura ellenistica nel secondo. In ogni caso il modello principe dell’epistolografia cristiana è quello che ci è pervenuto sotto il nome di Paolo. In essa sono contenuti tutti i concetti cardine del pensiero religioso cristiano. Gli autori di Paolo sono i veri fondatori del cristianesimo, non nel senso che le comunità cristiane si siano costituite intorno alla loro figura, ma nel senso che da loro trassero quella organica visione cristiana del mondo, che i vangeli non avevano saputo dare. Si potrebbe dire che sul piano dottrinale il paolinismo fu in qualche modo, se non la prima, la più promettente forma di cristianesimo. Quanto al fronte occidentale e romano, il cristianesimo maturò con gradualità e con ritardo. Il primo nucleo giudaico, stabilitosi a Roma, doveva essere assai modesto e, almeno a giudicare dai dati archeologici venuti alla luce nell’area catacombale del primo secolo, non era ancora entrato in contatto con il cristianesimo.(160)Allorché dopo la demolizione del tempio e la (160)  Il primo nucleo giudaico si stabilì a Roma intorno alla metà del primo secolo a.C. Nel 54 a.C. Marco Licinio Crasso depredò il tempio di Gerusalemme per poter finanziare la guerra contro i Parti; ne seguì una rivolta soffocata nel 53 da Cassio Longino

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successiva devastazione della città santa si determinò una nuova diaspora che forse interessò anche le comunità essene e le frange più deluse dell’estremismo zelota, si crearono le basi per un progressivo trasferimento dall’Oriente dei miti e delle forme religiose del protocristianesimo. Queste nuove ondate si innestarono naturalmente su comunità già fortemente ellenizzate. Nello scontro-incontro tra due culture profondamente diverse maturò la riflessione sulla tragedia subita e sui destini del popolo ebraico. Si pose cioè l’istanza di reinterpretare i tradizionali temi della Legge, dell’Alleanza con Dio e delle promesse divine. Questi sentimenti diffusi, più o meno latenti, ebbero bisogno di un indirizzo ideologico e dottrinale per essere incanalati e per esplodere in una nuova concezione del rapporto con Dio. Solo in questo contesto è possibile pensare alla nascita delle prime comunità cristiane occidentali, in cui si fondono in un organico progetto il kērygma evangelico e la teologia paolina. Ma questo fu un processo lento, graduale, non maturò se non a partire dalla prima metà del secondo secolo. D’altro canto se Giuseppe Flavio, Giusto di Tiberiade, Filone, Seneca, Plinio il Vecchio ignorano l’esistenza di sette cristiane non solo in Occidente, ma anche in Oriente, è segno che per tutto il corso del primo secolo esse dovevano essere di così modeste proporzioni da sfuggire all’attenzione anche di uno storico particolarmente attento ed interessato alla vita del mondo ebraico, come Giuseppe. Presunte sono infine le persecuzioni anticristiane del primo secolo. Già da tempo Roma cercava di tenere sotto controllo il fenomeno dell’estremismo antiromano da parte di gruppi giudaici particolarmente attivi e vivaci sul piano militare: tale è il caso della Lex Cornelia de sicariis (81 a.C.). Le varie rivolte giudaiche, verificatesi sotto Tiberio e Claudio, furono naturalmente represse nel sangue, ma l’espulsione degli ebrei da Roma e il loro trasferimento in Sardegna durante il principato di Tiberio fu conseguenza di un’ondata di moralismo che colpì anche i culti isiaci. Nerone mise al bando i collegia illicita, ma le persecuzioni anticristiane, attribuitegli da Tacito e da Svetonio, furono il prodotto della malevolenza con cui i due storici, appartenenti l’uno alla classe senatoriale e l’altro a quella equestre, dipinsero a tinte fosche un princeps che si prodigava nella difesa degli interessi degli humiliores anziché degli honestiores. che deportò a Roma 30.000 ebrei che costituirono la prima colonia giudaica a Roma. Ma dai dati archeologici risulta che fino a tutto il primo secolo d.C. nelle catacombe giudaiche romane non emergono tracce di cristianesimo.

CAPITOLO iii

VERSO LA CHIESA ISTITUZIONALIZZATA

3.1.  Dall’apologetica alla polemica antieretica Il cristianesimo del ii secolo fu prevalentemente un fenomeno suburbano, la sua diffusione avvenne soprattutto nei sobborghi: ma, dopo le grandi epidemie che devastarono la popolazione dell’impero, la sua presenza nelle grandi città e nel cuore di esse cominciò a diffondersi. Nel terzo secolo la sua espansione si fece più consistente e, alla fine del secolo, la presenza cristiana in tutto l’impero era una realtà di vaste proporzioni. Le linee direttrici fondamentali del cristianesimo del secondo secolo si possono così sintetizzare: esso dovette 1) approntare una linea difensiva e apologetica per tutelare la fede dagli attacchi culturali del mondo pagano e del mondo giudaico e dalle forti pressioni del potere politico. Si spiegano perciò le numerose Apologie di cui è ricca la letteratura cristiana del tempo; 2) approntare una linea di impronta schiettamente parenetica e moralistica ispirata per lo più alla tradizione ebraica; a ciò provvide l’epistolografia; 3) elaborare una linea di pensiero di contenuto protrettico (nel senso della introduzione alla vita religiosa) ed anche pedagogico (nel senso della istruzione circa i principi generali della fede cristiana); 4) favorire una tendenza accentuatamente monarchico-centralistica o verticistica, fondata sui principi della concordia e dell’obbedienza, volti alla costruzione di una Chiesa organizzata e diretta dapprima dai vescovi e progressivamente dal papa (verso la fine del ii secolo) e pensata come una istituzione piramidale. 5) Strettamente collegata al tema dell’unità e della concordia, dovette infine affinare 1331

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una linea di attacco e di avversione (o polemica) contro ogni possibile atteggiamento scismatico e contro ogni libertà di ricerca (eresia) nata all’interno delle stesse comunità cristiane. Dovette altresì affrontare un confronto dialettico con la paideia greca, che si esplicava in posizioni diverse e contrastanti che andavano dalla radicale chiusura di Taziano (Pros hellenas Ad graecos) alla possibile composizione conciliativa di Clemente Alessandrino (Stromata), alla incipiente vis polemica che esploderà più avanti nel tempo nella progressiva devastazione del patrimonio culturale del mondo greco-romano e persino degli stessi testi cristiani difformi dalla ortodossia in fase ancora incoativa. Tutto ciò che poteva mettere in ombra la natura umana e divina del Cristo o la sua storicità, fu immancabilmente consegnato all’oblio. La definizione di un canone segnò la sorte dei testi, ne decise la fortuna e la sfortuna presso i posteri. In ogni caso difficilmente i primi scritti cristiani possono risalire al primo secolo. Per quanto si possano retrodatare i Vangeli, è pressoché impossibile andare al di là del 70 e della distruzione del secondo tempio. Le lettere paoline, infarcite come sono di spunti gnostici, non appaiono databili prima del secondo secolo. Gli unici testi che possono farsi risalire all’età domizianea o traianea sono l’Apocalisse e la Lettera agli Ebrei. I tre sinottici e nove o dieci delle epistole paoline compaiono nel primo trentennio o quarantennio del secondo secolo. Ma il dato più sorprendente è che la gran parte della prima produzione letteraria cristiana si sviluppa tra l’età adrianea e l’antoniniana, ma lascia di sé assai debole traccia via via che si definisce il canone ufficiale dei testi reputati ispirati. È questa la ragione per cui non ci sono pervenuti i libri di Papia, di Egesippo, di Melitone di Sardi, di Dionigi di Corinto, di Apollinare, di Pinito Cretese, Filippo, Musano, Modesto, Bardesane, Panteno, Rodone, Milziade, Apollonio, Serapione, Bacchilo, Policrate, Eraclio, Massimo, Ammonio, Trifone, Ippolito, Giulio Africano, Dionigi di Alessandria. Tale perdita non si può spiegare solo in termini di ingiuria del tempo. Si deve perciò supporre che essa tenne seguito alla sistematica distruzione operata dalla ostilità delle autorità ecclesiastiche, via via che i vescovi cominciavano ad esercitare un controllo pressoché assoluto sulla circolazione delle idee all’interno delle loro rispettive diocesi, la cui azione si espletò nella deliberata soppressione di tutte le voci discordanti con le posizioni ufficiali che la Chiesa andava assumendo tra il secondo e il quarto secolo. Accolto prima nel pántheon e divenuto poi religione di Stato, il cristianesimo occidentale finì con l’organizzarsi nella forma di una monarchia assoluta. L’Occidente si avviò al Medioevo, a differenza dell’Oriente,

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che si dotò di istituzioni acefale e mantenne i contatti con la cultura classica. Della gran parte degli scrittori ecclesiastici citati non abbiamo una conoscenza puntuale, poiché le loro opere ci sono pervenute in forme molto frammentarie e le notizie che ne abbiamo dipendono in larga misura dalla Historia ecclesiastica di Eusebio, della quale si serve a piene mani Girolamo per il suo De viris illustribus. Ma la narrazione di Eusebio non sempre è affidabile poiché è dominata dal presupposto ideologico di stabilire una linea di continuità tra la generazione apostolica e quella degli scrittori di età antoniniana e persino quella di età commodiano-severiana (180-211). Tra gli autori più prossimi all’età apostolica vengono menzionati Aristide Marciano di Atene e Quadrato di Atene,(1) entrambi autori di un’apologia indirizzata all’imperatore Adriano. Si vuole che la più antica sia quella di Aristide. Nel Chronicon(2) Eusebio ci fa sapere che Aristide e Quadrato presentarono ad Adriano le loro rispettive apologie, allorché nel 125 l’imperatore prese parte alle celebrazioni dei misteri eleusini ad Atene. Nel 1878 nel convento mechitarista di S. Lazzaro degli Armeni a Venezia fu rinvenuta la traduzione latina di un frammento armeno (comprendente i primi due capitoli) dell’Apologia di Aristide. Più fortunata fu la ricerca di Rendel Harris che nel 1889 scoprì il testo in versione siriaca (in diciassette capitoli) nella Biblioteca del Convento di Santa Caterina sul monte Sinai.(3) Nel contempo Armitage Robinson si accorse che nel romanzo cristiano La vita di Barlaam e Josaphat, generalmente attribuito al Damasceno, era incorporato in versione greca un testo in larga parte corrispondente a quello siriaco. Tra le due versioni, greca e siriaca, sussistono almeno due punti di divergenza. Il testo greco nell’incipit non indica il destinatario dell’Apologia: il greco divide l’umanità in tre razze mentre il siriaco e l’armeno la dividono in quattro razze. Ma il punto più decisivo è che l’incipit del testo greco non menziona il destinatario della lettera apologetica, mentre la versione siriaca risulta dedicata ad Antonino Pio.(4) La traduzione latina del testo armeno, che sembra essere più conforme alla versione greca, reca l’intestazione: Imperatori Cae(1)  Eusebio, HE, iv, 3, 3. (2)  Eusebio, Chronicon, ed. Scaligero, pp. 47, 107. (3)  Texts and Studies. Contributions to Biblical and Patristic Literature. Edited by J. A. Th. Robinson, B.D., vol. i., n. 1, the Apologyof Aristides, edited and transl. by J. R. Harris, M. A., with an Appendix by J. A. Robinson, Cambridge, University Press, 1891. (4)  La versione greca parte direttamente dal concetto di provvidenza di Dio. Invece l’incipit della versione siriaca recita: «All-powerful Caesar Titus Hadrianus Antoninus, venerable and merciful, from Marcianus Aristides, an Athenian philosopher».

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sari Hadriano Aristides Philosophus Atheniensis; non è però escluso che il traduttore possa aver equivocato circa l’identità dell’imperatore o che possa aver omesso parte del suo nome; sicché la traduzione completa del testo armeno potrebbe essere più verosimilmente la seguente: «Imperatori Caesari Tito Hadriano Antonino». Ciò perché la versione siriaca sembra essere più credibile. Ne consegue che la narrazione eusebiana, che retrodata l’Apologia di almeno un ventennio, è smentita. L’opera rivela una indiscutibile competenza filosofica che certamente deriva dalla dimestichezza con il pensiero greco. Ma la non completa sovrapponibilità delle tre versioni dimostra che l’originale testo aristideo è stato in più punti manipolato, come dimostra la sua terminologia che in parte è posteriore al secondo secolo. Più che un apologeticum esso ha tutti i tratti caratteristici di un protrettico. L’obiettivo dell’autore è quello di convincere l’imperatore che il cristianesimo è la sola religione che conviene ad un princeps-filosofo. Nel suo bagaglio culturale non ci sono grandi tracce dell’Antico Testamento; Aristide accenna genericamente a imprecisati scritti dei cristiani ed invita a leggerli come depositari della verità.(5) Non è posta alcuna questione giuridica in merito alle persecuzioni anticristiane, alle quali si riferisce in modo molto vago nel capitolo xvii, intendendole più nel senso della calunnia e della malevolenza anticristiana, messa a punto da greci, che nel senso di persecuzioni politiche violente o di sopraffazioni di natura fisica.(6) (5)  «Their other writings things which are hard to utter and difficult for one to narrate». (6)  Anche l’explicit delle due versioni presenta notevoli divergenze. Per la versione greca esso si esaurisce in un invito ad abbracciare la concezione cristiana della divinità, come via sicura per la salvezza: «Thus far, O King, extends my discourse to you, which has been dictated in my mind by the Truth. Wherefore let thy foolish sages cease their idle talk against the Lord; for it is profitable for you to worship God the Creator, and to give ear to His incorruptible words, that ye may escape from condemnation and punishment, and be found to be heirs of life everlasting». Per la versione siriaca l’explicit consiste in una rivendicazione della libertà di parola dei cristiani e in un invito a mettere a tacere coloro che li molestano e pronunciano discorsi di vanità: «Henceforth let the tongues of those who utter vanity and harass the Christians be silent; and hereafter let them speak the truth. For it is of serious consequence to them that they should worship the true God rather than worship a senseless sound. And verily whatever is spoken in the mouth of the Christians is of God; and their doctrine is the gateway of light. Wherefore let all who are without the knowledge of God draw near thereto; and they will receive incorruptible words, which are from all time and from eternity. So shall they appear before the awful judgment which through Jesus the Messiah is destined to come upon the whole human race». Non si parla di persecuzioni di natura politica, ma di scontri ideologici con l’universo culturale greco. Sono i greci che perseguitano i cristiani con le loro calunnie e i cristiani sono costretti a sopportare

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Le notizie che abbiamo su Quadrato dipendono da Eusebio(7) e sono riprese alla lettera da Girolamo.(8) A dire di Eusebio Quadrato sarebbe stato investito del carisma profetico ed avrebbe scritto un’Apologia dedicata ad Adriano,(9) in cui avrebbe affermato che erano ancora vivi al suo tempo taluni che erano resuscitati ad opera del Cristo: Le opere del nostro Salvatore erano sempre visibili perché vere; quelli che vennero guariti e coloro che furono resuscitati dai morti non solo furono visti guariti e resuscitati, ma vissero anche per tutto il tempo in cui il Salvatore rimase tra gli uomini anche dopo la sua dipartita. Alcuni di loro poi sono ancora vivi al mio tempo (καὶ εἰς τούς ἠμετέους χρόνους τινὲς αὐτῶν ἀφίκοντο).

A prescindere dalla scarsa credibilità storica di tale dettaglio (tra la passione del Cristo e Quadrato intercorre all’incirca un secolo; anche se il risorto fosse stato beneficato appena nato non avrebbe avuto meno di 100 anni al tempo di Quadrato). È evidente che Eusebio vuole accreditare l’idea di una continuità tra l’età apostolica e quella del secondo secolo. Niceforo Xanthopoulos(10) più prudentemente, nel citare il medesimo passo dell’Apologia di Quadrato omette αὐτῶν e trasforma la frase finale nel modo seguente: «alcuni [resuscitati, non di quei resuscitati] sono ancora vivi al mio tempo». la loro malevolenza: «Now the Greeks, O King, as they follow base practises in intercourse with males, and a mother and a sister and a daughter, impute their monstrous impurity in turn to the Christians. But the Christians are just and good, and the truth is set before their eyes, and their spirit is long-suffering; and, therefore, though they know the error of these (the Greeks), and are persecuted by them, they bear and endure it; and for the most part they have compassion on them, as men who are destitute of knowledge. And on their side, they offer prayer that these may repent of their error; and when it happens that one of them has repented, he is ashamed before the Christians of the works which were done by him; and he makes confession to God, saying, I did these things in ignorance. And he purifies his heart, and his sins are forgiven him, because he committed them in ignorance in the former time, when he used to blaspheme and speak evil of the true knowledge of the Christians. And assuredly the race of the Christians is more blessed than all the men who are upon the face of the earth». Insomma non c’è la minima traccia della problematica posta dal presunto rescritto di Adriano. (7)  Eusebio, HE, iii, 37; iv, 3; v, 17. (8)  Girolamo, De viris illustribus, xx; Ep. lxx Ad Magnum oratorem urbis Romae, PL. xxii, col. 667. (9)  Eusebio, HE, iii, 37; v, 17; iii, 37; v, 17; iv, 3. (10) Niceforo Xanthopoulos, Historia Ecclesiastica, iii, xxi, col. 940: καὶ εἰς τούς

ἠμετέους χρόνους τινὲς ἀφίκοντο.

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Girolamo fa dipendere dalle due apologie il famoso rescritto di Adriano, citato da Giustino, il quale è un manifesto ricalco di quello traianeo, modificato secondo i desiderata dei cristiani, sulla scorta delle osservazioni e delle lagnanze di Tertulliano. Questi, a proposito del rescritto citato da Plinio il Giovane, aveva parlato di «sententia necessitate confusa», la quale «negat inquirendos ut innocentes et mandat puniedos ut nocentes»).(11) Stupisce che Ramelli prenda per autentico il presunto rescritto di Adriano, che non solo è ignorato da Tertulliano, ma ne dipende nel ribadire il principio del «conquirendi non sint» e nell’attribuire altresì al denunciante l’onere della prova. Ma di tutto ciò si è già detto nel capitolo xix. Ben poco sappiamo di Agrippa Castore e quel poco che sappiamo lo dobbiamo ad Eusebio, a Girolomo e a Teodoreto, che ne dipendono.(12) Sappiamo che fu un eresiologo e che contestò Basilide.(13) Scrisse ventiquattro libri sul vangelo, in cui inventò profeti inesistenti, ma di essi non ci resta pressoché nulla. Nello stesso periodo tra Adriano e Antonino visse Aristone di Pella,(14) autore della Disputatio Jasonis et Papisci, il quale parla della tragica fine della rivolta di Bar Kochba, cita un editto di Adriano che costrinse i Giudei ad abbandonare Gerusalemme e ad impedire loro non solo l’accesso nella città, ma anche nel territorio circostante; i gerosolimitani perirono tutti e la città, ridenominata Aelia capitolina, fu abitata dagli stranieri. Apologeta fu anche Melitone di Sardi, autore di un’Apologia, dedicata a Marco Aurelio Antonino (161-180) o forse a Commodo nella forma di un libercolo (Biblidion). In realtà, soprattutto nella versione siriaca scoperta da Cureton,(15) essa è piuttosto un breve trattato teologico, ove il concetto di Dio incomprensibile, ineffabile, immutabile, eterno non è raffrontabile con nessuno dei beni terreni; il concetto di Dio, verità e giustizia, creatore dell’universo, è sviscerato all’imperatore come via di uscita dall’errore. L’imperatore è invitato a non associarsi a coloro che adulano le pietre e gli idoli e a convertirsi; perciò se egli trasmetterà ai figli la ricchezza, divina ed eterna, della fede cristiana, salverà l’anima sua e quella dei suoi figli. Se conoscerà Dio, Dio conoscerà lui. Se non lo prenderà in considerazione, non sarà annoverato tra co(11)  Tertulliano, Apol., ii, 7. (12)  Eusebio, HE, iv, 7, 6, seguito da Girolamo, De viris illustribus, xxi; Teodoreto, Compendium haereticarum Fabularum, i, 4 (PG. lxxxiii, col. 350). (13)  Eusebio, HE, iv, 7. (14)  Su di lui v. Eusebio, HE, iv, 6, 3; Girolamo, Comm. ad Gal., ii, iii, 13; Origene, Contra Celsum, iv, 52. (15) W. Cureton, Spicilegium syriacum, cit., pp. 41-56.

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loro che lo conoscono e che gli rendono grazie. Tutt’altro il testo apologetico presentatoci da Eusebio, seguito da Girolamo.(16) In esso Melitone accenna a decreti persecutori contro i cristiani in Asia, che egli stesso non sa se imputare all’imperatore o ad autorità locali. Di fatto di tali decreti non si conserva alcuna traccia ed ogni ipotesi non supportata da apposita documentazione è puramente arbitraria. Più sospetto è il passo successivo citato da Eusebio, il quale fa pensare ad una tesi provvidenzialistica di stampo agostiniano, che certo non può farsi risalire al vescovo di Sardi. Infatti l’autore ricorda a Marco Aurelio che Cristo è nato in età augustea e che la religione cristiana è diventata «bene propizio» e tutela dell’impero. Ricorda altresì che solo Nerone e Domiziano furono «malvagi e osteggiarono la nostra dottrina» e che di contro Adriano scrisse a difesa dei cristiani il noto rescritto trasmesso nella lettera a Fundano. La datazione dell’Apologia al 177 si evince dal fatto che l’autore fa riferimento a Commodo, associato al potere da Marco Aurelio, e non accenna alla precedente associazione al potere di Lucio Vero. Tra il 164 e il 167 Melitone scrisse il De Paschate in cui sostenne la tradizione della pasqua ebraica (il 14° giorno di nisan, coincidente con la luna piena). Con lui si schierò Policrate di Efeso, che in difesa della pasqua ebraica scrisse una lettera a Vittore (189-199).(17) Melitone fu contestato da Clemente Alessandrino, che gli oppose il suo De Paschate in difesa della tradizione cristiana. La reazione di Vittore fu la scomunica di tutte le diocesi dell’Asia. La datazione del testo si evince dal fatto che in esso viene citato Servilio Paolo (ma Lucius Sergius Paulus), che fu proconsole d’Asia, nel 168, quando morì il vescovo di Laodicea Sagaride. Paradossalmente si vuole che Sagaride sia stato discepolo di Paolo, morto cento anni prima di lui. Degli Estratti, dedicati ad Onesimo, che lo sollecitò a fare il punto sull’Antico Testamento, ci è giunto solo il proemio conservato da Eusebio;(18) in esso il vescovo di Sardi ci dice di averli composti come una sorta di testimonia relativi ai luoghi della Legge e dei profeti che si riferiscono al Salvatore e di aver compilato una lista o meglio un canone dei libri dell’AT. Infine uno striminzito frammento del terzo libro del De incarnatione adversus Marcionem ci fa sapere che Melitone distingueva due nature in Cristo: quella umana precedente il battesimo ricevuto da Giovanni il Battista, e quella divina successiva. (16)  Eusebio, HE, iv, 26; Girolamo, De viris illustribus, xxiv. (17) Cfr. Eusebio, HE, v, 24; Girolamo, De viris illustribus, xlv. (18)  Eusebio, HE, iv, 26, 12-14.

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In età antoniniana visse anche Apollinare di Ierapoli, del quale abbiamo scarne notizie in Eusebio.(19) Nessuna delle sue opere, elencate dal vescovo di Cesarea, ci è pervenuta. Nulla sappiamo della sua Apologia, indirizzata all’imperatore Marco Aurelio, né della sua invettiva Contro i Greci e della sua confutazione dell’eresia dei catafrigi. Da un paio di frammenti del De Paschate, citati dal Chronicum paschale alexandrinum, ma ritenuti inautentici da più studiosi,(20) sappiamo che sul tema della pasqua era schierato contro la tradizione ebraica, in difformità con le comunità orientali. Secondo Eusebio(21) Apollinare avrebbe accennato alla legione di Metilene che, per essersi salvata dalla sete grazie ad una pioggia miracolosa, invocata dalle preghiere dei cristiani, sarebbe stata denominata Fulminatrice. L’episodio è narrato da Dione Cassio, dagli Scriptores Historiae Augustae e dagli Oracoli Sibillini.(22) La lettura cristiana dell’episodio risale a Tertulliano.(23) Nel Chronicon (172), Eusebio fa risalire l’episodio a Pertinace. In realtà da Dione sappiamo che la xii Fulminata preesisteva ad Augusto e risaliva all’età di Cesare. Il medesimo storico ci dice anche che i suoi legionari praticavano il culto di Zeus Keraunos.(24) Tuttavia lo stesso Eusebio è insicuro della veridicità dell’episodio, poiché scrive: «Ognuno comunque prenda queste notizie come vuole».(25) Dionigi di Corinto, forse vescovo di Atene, poi di Corinto, è noto attraverso Eusebio e Girolamo.(26)La sua attività letteraria fu prevalentemente epistolare e si sviluppò proprio a ridosso della scoperta e diffusione delle epistole paoline. Anzi la fioritura dell’epistolografia cristiana nell’ultimo quarantennio del secondo secolo, testimonia il carattere tardivo delle stesse lettere paoline, che non a caso in quello stesso arco di tempo trovarono eco nelle clementine, nelle ignaziane, nella lettera di Policarpo e in quelle dello (19)  Su di lui v. Eusebio, HE, iv, 21, 26, 27; v, 5, 16, 19, seguito da Girolamo, De viris illustribus, xxvi. (20)  L’inaffidabilità dell’ignoto autore del Chonicon Alexandrinum è sottolineata da Scaligero che lo definisce «scriptor idiota» e denuncia come farragine di stoltezze le cose da lui scritte. Taluni esegeti, tenuto conto del silenzio di Eusebio, di Girolamo, di Gennadio, di Onorio e di altri autori, dubitano che Apollinare abbia scritto un De Paschate. (21)  Eusebio, HE, v, 5. (22)  Dione Cassio, Historia Romana, 71, 8-10; Scriptores Hist. Aug., Vita Antonini, 24, Oracoli Sibillini, xii, 187-200. (23)  Tertulliano, Apol., 5, 5; Contra Scapulam, 4. (24)  Dione Cassio, Historia Romana,lv, 23, 5. (25)  Eusebio, HE, v, 5, 7. (26)  Eusebio, HE, iii, 4; ii, 25, 8; iv, 23; Girolamo, De viris illustribus, xxvii.

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stesso Dionigi di Corinto, che per l’appunto fiorì durante l’episcopato di Sotero (168-176), al quale scrisse una lettera. Ma è molto più verosimile che la sua attività epistolare si sia protratta oltre tale pontificato, poiché nella lettera indirizzata alla Chiesa di Amastri nel Ponto cita il vescovo locale Palmas che fiorì sotto Vittore (189-199). Di lui Eusebio menziona una lettera indirizzata alla sorella Crisofora e sette altre lettere, definite «cattoliche»: 1) Ai Lacedemoni, con esortazioni alla pace e all’unità; 2) Agli Ateniesi, che sembravano inclinare verso l’apostasia, con l’invito a vivere secondo il vangelo; in essa è ricordato Quadrato, come successore di Publio, e Dionigi l’Areopagita, le cui opere, com’è noto, sono apocrife; 3) Ai Nicomedi, in cui confuta Marcione; 4) Alla Chiesa di Gortina, in cui tesse l’elogio del vescovo Filippo; 5) Alla Chiesa di Amastri, già citata, in cui fornisce precetti per il matrimonio e per la castità; 6) Alla Chiesa di Cnosso in cui suggerisce al vescovo Pinito di Creta,(27) fiorito tra il 177 e il 191 sotto Lucio Vero e Commodo, di obbligare i fedeli all’osservanza della castità; in una lettera di risposta Pinito lo elogia per le sue raccomandazioni paterne; 7) Ai Romani, indirizzata a Sotero. Di quest’ultima lettera Eusebio ha voluto donarci pochi, ma significativi, frammenti. Il primo contiene un invito a conservare lo spirito di fratellanza e di reciproca assistenza «per alleviare le sofferenze dei bisognosi» e per «venire incontro ai fratelli condannati ai lavori forzati nelle miniere».(28)Più interessante il secondo frammento in cui troviamo una testimonianza storica circa la manipolazione e falsificazione delle lettere e più in generale dei testi scritturali. Dionigi, infatti, afferma: Quando alcuni fratelli mi domandarono di inviare loro delle lettere, io lo feci. Ma gli apostoli del demonio le colmarono di zizzania, ora togliendo alcuni passi ora aggiungendone altri. La maledizione incomba su di loro. Non desta quindi meraviglia il fatto che alcuni abbiano tentato di falsificare gli scritti divini, poiché hanno fatto lo stesso con questi di certo inferiori.(29)

Forse i primi tentativi di ricostruire una storia ecclesiastica furono compiuti da Egesippo, del quale il solito Eusebio, seguito da Girolamo,(30) ci ha lasciato cinque preziosi frammenti tratti dagli Ὑπομνήματα (Memorie) in 5 libri, (27) Cfr. Eusebio, HE, iv, 23; Girolamo, De viris illustribus, xxviii. (28)  Eusebio, HE, iv, 23, 10. (29)  Ivi, iv, 23,12. (30)  Ivi, iv, 8, 21; Girolamo, De viris illustribus, xxii.

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in cui egli avrebbe esposto il messaggio apostolico e avrebbe contrastato l’eresia gnostica di Marcione. Della sua contraddittoria versione del martirio di Giacomo il Giusto, del suo successore Simeone e della parentela di quest’ultimo con Cleopa parleremo più avanti.(31) Qui ci limitiamo a dire che non è molto chiara la narrazione egesippea relativa alle persecuzioni anticristiane di Domiziano contro i discendenti di Davide, e in particolare contro i nipoti di Giuda, fratello del Signore,(32) che tuttavia furono liberati. Sicché la politica anticristiana di Domiziano non ebbe esiti violenti, poiché Egesippo afferma che l’imperatore «si tirò subito indietro, richiamando anche coloro che aveva condannato all’esilio». L’affermazione, pur priva di ogni allusione ai nipoti di Giuda, trova riscontro nell’Apologeticus di Tertulliano.(33) Piuttosto ambigui appaiono Eusebio e Girolamo nel collocare storicamente la figura di Egesippo; ce lo dicono vicino all’età apostolica, vissuto in epoca traianea, ma da un frammento delle Memorie si evince che egli viveva ancora sotto Adriano, poiché menziona Antinoo, celebre schiavo di Adriano (117-138). Altrove (iv, 11, 7) Eusebio ci fa sapere che Egesippo visse sotto Aniceto (155-166) ed Eleuterio (175-189); quindi lo annovera tra gli scrittori che fiorirono sotto Lucio Vero (fino al 177), e, se dobbiamo credere all’anonimo Chronicon paschale alexandrinum, era ancora in vita durante il regno di Commodo. In ogni caso si tratta di scrittore fantasioso e di scarsissima credibilità. Tutto quello che di lui sappiamo dipende da Eusebio, prima del quale non è ricordato da alcuno scrittore cristiano. Probabilmente a lui risalgono le numerose successioni episcopali delle più importanti città dell’impero, da Gerusalemme ad Alessandria, a Roma e ad altre città minori. Egli è lo storico che riempie generosamente i vuoti che presenta la storia del cristianesimo del primo secolo. A lui attinsero a piene mani Ireneo ed Eusebio per stabilire una linea di continuità con il cristianesimo dell’età apostolica. Ma se la sua opera è andata perduta v’è da pensare che non fosse del tutto allineata con le posizioni dell’ortodossia. La sua operazione è analoga a quella condotta dall’autore degli Atti: ricostruire la storia che va dalla passione di Cristo al presente. Taluni episodi della sua narrazione, selezionati da Eusebio, sono rimasti assai vivi nell’immaginario dei fedeli. Tale è il caso della tomba di Giacomo il Giusto, fratello del Signore, la quale, secondo Egesippo, esi(31) v. infra, in questo stesso paragrafo. (32)  Eusebio, HE, iii, 19, 20. (33)  Tertulliano, Apol, v, 4.

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steva ancora al suo tempo. In realtà non è possibile che essa si sia salvata dalla radicale distruzione della città nel 70 e soprattutto nel 135. Né è possibile che Giacomo sia stato sepolto nei pressi del tempio, perché gli ebrei seppellivano fuori città. Anche per Panteno, vissuto fino all’età di Severo e di Caracalla (193217), dipendiamo in toto da Eusebio e da Girolamo.(34) Da stoico egli si convertì al cristianesimo e diresse sotto Commodo (180-192) il Διδασκαλεῖον Didaskaléion, la scuola catechetica di Alessandria, ove ebbe come discepolo Clemente Alessandrino, che lo ricorda con l’affettuoso appellativo di «ape sicula», generatore del puro frutto della ‘gnosi’ nelle anime degli ascoltatori.(35) Secondo Eusebio sarebbe stato incaricato di predicare il vangelo in India, ove «stando a quello che riferisce la tradizione, dalla testimonianza di alcuni del luogo, che avevano imparato a conoscere Cristo, scoprì che il Vangelo secondo Matteo aveva preceduto la sua venuta; tra essi infatti aveva predicato Bartolomeo, uno degli apostoli, e aveva lasciato loro l’opera di Matteo, scritta in ebraico». Inviato in India dal vescovo Demetrio, Panteno avrebbe narrato il suo viaggio sotto Commodo.(36) Non vi sono ragioni per dubitare della sua esistenza storica, ma certo la storiella che lo riguarda è manifestamente falsa: non c’è mai stato un testo ebraico di Matteo. D’altronde è significativo che Clemente Alessandrino non accenni al suo viaggio in India. Rodone, asiatico, discepolo di Taziano, ci è noto quasi solo attraverso Eusebio e Girolamo.(37) Sappiamo che egli scrisse un libro contro Marcione, indirizzato a Callistione. Eusebio si sofferma in particolare sulle obiezioni di Rodone contro il marcionita Apelle, il quale sosteneva l’unicità del principio divino a differenza di Marcione, Potito e Basilico, che propendevano per una sorta di diteismo o triteismo, come era forse il caso di Sinero. Apelle negava che la salvezza fosse riposta nella fede in Cristo, perché sosteneva che i cristiani si sarebbero salvati solo se fossero stati trovati a fare del bene. Infine Apelle contestava le profezie, le riteneva generate da uno spirito avverso (34)  Eusebio, HE, v, 10-11; vi, 6, 13, 14, 19; Girolamo, De viris illustribus, xxxvi. Per le controversie che lacerarono la Chiesa tra il secondo e il quarto secolo è utile la lettura di A. Pincherle, Introduzione al cristianesimo antico, Bari, Laterza, 1971, cfr. in particolare i capitoli vii-xiv; M. Simon - A Benoît, Giudaismo e cristianesimo, Bari, Laterza, 1978; A. Caquot – E Gugenheim, Il popolo d’Israele, in H.-Ch. Puech, Storia delle religioni, t. vi, Bari, Laterza, 1977; É. Trocmé, Il cristianeismo delle origini, in H.-Ch. Puech, Storia delle religioni, t. vii, Bari, Laterza, 1977. (35)  Clemente Alessandrino, Stromata, i, 1, 11, 2. (36) Cfr. Girolamo, Ep. lxx, Ad Magnum oratorem urbis Romae, PL. xxii, col. 667. (37)  Eusebio, HE, v, 13; Girolamo, De viris illustribus, xxxvii.

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e le dichiarava contraddittorie, menzognere e incoerenti. Secondo Rodone Apelle non sapeva dare ragione della sua credenza «in un solo Dio increato». Serapione di Antiochia, ordinato vescovo sotto Commodo nel 190, secondo Eusebio, o nel 191, secondo Girolamo,(38) scrisse contro un tale Domno, che passò dal cristianesimo al giudaismo, e contro il montanismo. Eusebio ci ha conservato qualche frammento della sua lettera a Carico e Pontio (o Pontico), entrambi del tutto sconosciuti. Nel trattato De evangelio Petri si propose di salvaguardare i fedeli della chiesa di Rhosos, che, accogliendo il Vangelo di Pietro, da lui reputato apocrifo, sarebbero caduti in una forma di docetismo. In realtà a giudicare dal testo a noi pervenuto, nel Vangelo di Pietro il docetismo o non compare o è appena larvale. Tra il 177 e il 211, sotto Commodo e Severo, fiorì Apollonio, noto a noi solo attraverso Eusebio e Girolamo,(39) il quale scrisse contro Montano, Prisca (o Priscilla) e Massimilla, ma le sue argomentazioni, almeno a giudizio di Eusebio, erano di basso profilo, poiché più che contestare le dottrine dei montanisti mettevano in dubbio la dirittura morale delle due profetesse. Egli, infatti, le accusò di predicare lo scioglimento del matrimonio, ma di non tenere fede al principio della castità, e di accettare offerte di denaro in cambio delle loro profezie. A suo avviso i montanisti proponevano nuove norme sul digiuno e credevano che, dopo il crollo del 135, la nuova Gerusalemme sarebbe risorta nei minuscoli villaggi frigi di Pepuza e di Timio. Della sua opera contro i montanisti due frammenti meritano attenzione. A parere di Eusebio,(40) sembra che Apollonio ponesse la Didachē sullo stesso piano della Sacra Scrittura. Lo stesso Eusebio(41) afferma che Temisone avrebbe scritto una lettera cattolica, osando evangelizzare coloro che erano già stati evangelizzati da Giovanni. Se il testo è degno di fede, è il primo scritto in cui compare l’espressione «lettera cattolica» (καθολικήν ἐπιστολήν), nel senso di «lettera indirizzata alla universalità delle chiese cristiane». Singolare è che tale espressione sia comparsa in un testo eretico, come quello di un oscuro personaggio come Temisone. Montanista era anche un tal Teodoto, il quale difendeva il monarchianismo (o il monoteismo stricto sensu) e, per salvaguardare la monarchia divina, accettava una forma di adozionismo, nel senso che ammetteva che Cristo non fosse figlio di Dio, ma fosse stato adottato da Dio (38)  Eusebio, HE, v, 19, vi, 12; Girolamo, De viris illustribus, xii. (39)  Eusebio, HE, v, 18;Girolamo, De viris illustribus, xl. (40)  Eusebio, HE, xviii, 4. (41)  Ivi, HE, v, 18, 5.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

1343

al momento dell’incarnazione o del battesimo o della morte/resurrezione. L’eresia montanista o catafrigia condivideva con il nicolaismo il disprezzo della carne.(42) Secondo Clemente Alessandrino,(43) i nicolaiti, per disprezzare la carne giunsero fino a prostituirsi. Oltre che da Apollinare, il montanismo fu confutato da un anonimo, citato da Eusebio,(44) e da Milziade. All’età di Commodo e Severo (180-211) appartiene Massimo, vescovo di Gerusalemme nel 185 (consolato di Triario [ma Tiberio] Materno e M. Attilio Bradua), autore cristiano pressoché sconosciuto, fugacemente citato da Eusebio(45) per aver scritto sull’origine del male e sulla materia creata, in manifesto conflitto con l’eresia valentiniana e marcionita. Un lungo brano del suo De materia è citato da Eusebio nella Praeparatio evangelica.(46) Da essa si evince l’alto profilo filosofico dello scrittore, il quale affronta in tutte le sue complesse implicazioni il problema del rapporto tra la materia, il male e l’onnipotenza divina; e lo fa soprattutto nell’intento di escludere che il creazionismo induca di per sé alla possibilità che Dio sia l’autore della materia e del male. Per evitare di cadere in tale vicolo cieco, il vescovo gerosolimitano giunge alla conclusione che la materia è sì creata, ma non è la causa del male. Il tombale silenzio caduto sulla sua opera fa supporre che la sua dottrina non fosse ritenuta del tutto in linea con l’ortodossia. Gaio, vissuto al tempo di Zefirino (199-217), scrisse una Disputatio adversus Proclum montanistam contro i montanisti.(47)Egli è il primo autore che – stando ad Eusebio – avrebbe indicato l’ubicazione delle tombe di Pietro e di Paolo. Prima di lui Dionigi di Corinto nella Lettera ai Romani aveva sostenuto che Pietro e Paolo, evangelizzatori di Roma e di Corinto, erano stati martirizzati «nello stesso tempo».(48) Gli autori cristiani che lo precedettero non sembravano avere alcuna informazione sulle tombe dei due apostoli. Nel passo citato da Eusebio Gaio dice testualmente: «Io posso indicare i trofei degli apostoli; andando infatti al Vaticano o lungo la via ostiense, troverai i trofei di quelli che hanno fondato questa Chiesa». Da dove ha tratto tale notizia? Non ci è dato saperlo. Sono tuttavia di grande interesse le infor(42)  Ivi, HE, v, 14. (43)  Clemente Alessandrino, Stromata, iii, 25-26. (44)  Eusebio, HE, v, 16. (45)  Chronicon, HE, v, 27; Praep. evangel., vii, utimo capitolo; cfr. anche Girolamo, De viris illustribus, xlvii. (46)  Eusebio, Praeparatio evangelica, vii, 22. (47) Cfr. Eusebio, HE, ii, 25; iii, 28, 31; Girolamo, De viris illustribus, lix. (48)  Eusebio, HE, ii, 15, 8.

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mazioni forniteci da Eusebio, secondo cui Gaio respingeva come non testamentarie l’Epistola agli ebrei, l’Apocalisse e il Vangelo di Giovanni. Se è Gaio l’anonimo citato da Eusebio,(49) egli avrebbe contestato ai montanisti l’ipotesi docetista. È molto interessante notare che secondo i montanisti, infatti, il docetismo fu la dottrina professata dagli stessi apostoli e dagli autori cristiani prima di Vittore. Secondo Gaio la divinità del Cristo sarebbe stata sostenuta da Giustino, Taziano, Milziade e Clemente, tutti autori anteriori a Vittore. Egli era convinto che il docetismo fosse stato introdotto da Teodoto il cuoiaio e che l’avventura di Natalio (o Natalione), citata nella sua opera, fosse manifestamente un falso, scritto a ricalco del 2Maccabei a proposito della cacciata di Eliodoro. Il che fa di Gaio uno scrittore propenso alla «menzogna lecita». Dallo stesso testo eusebiano si evince che i montanisti avevano un alto livello culturale come dimostra la loro dedizione alla geometria euclidea, alla logica aristotelica e teofrastea e alla medicina galenica. Vissero sotto Lucio Vero alcuni scrittori pressoché sconosciuti, come Musano, che scrisse contro l’encratismo, Filippo, forse vescovo di Gortina, e Modesto, non altrimenti noto, i quali scrissero contro Marcione, un siro di nome Bardesane, che confutò Marcione ed altre dottrine eretiche, e dedicò ad Antonino Vero un pregevole De Fato, ma non riuscì a scrollarsi di dosso le sue antiche simpatie per il valentinianesimo. Contro il montanismo scrisse Milziade in età commodiana. Di altri scrittori ecclesiastici, presumibilmente del ii secolo, citati da Eusebio,(50) quali Eraclito, Candido, Apione, Sesto e Arabiano, conosciamo quasi soltanto il nome. Come si vede l’apologetica non produsse un significativo sviluppo dottrinale, almeno nella prima fase che va da Adriano ad Antonino Pio. Nell’ultimo scorcio del secondo secolo, durante i regni da Lucio Vero a Commodo si approfondisce la riflessione teologica. Ciò è senza meno dovuto alla straordinaria rivitalizzazione della cultura greca che progressivamente divenne patrimonio comune delle classi medie cittadine. Ripresa da Adriano, la tradizione culturale greca fu valorizzata soprattutto dai suoi successori. Gli imperatori filosofi favorirono il sorgere in particolare a Roma, ma anche nei maggiori centri urbani, di numerose scuole (didaskaléia) che fecero ampio tesoro della filosofia greca. Due furono i filoni culturali particolarmente fertili che esercitarono una sostanziale influenza non solo sulla letteratura laica, ma anche su quella cristiana: da un lato la gnosi, rinvigorita da Marciano (49)  Ivi, v, 28. (50)  Eusebio, HE, v, 27.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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e da Valentino; dall’altro il medioplatonismo; entrambi fornivano strumenti intellettuali più raffinati per affrontare tanto le problematiche filosofiche quanto quelle teologiche. Sul fronte cristiano sembrano muoversi, almeno sotto certi aspetti, a prescindere dalle loro divergenze anche di carattere eretico, personalità minori come Melitone di Sardi e Massimo, ma anche autori di rilievo come Taziano, Teofilo di Antiochia e Clemente Alessandrino, cui terranno seguito Ireneo e Tertulliano. Nell’ultimo trentennio del secondo secolo compaiono le opere di Teofilo (Ad Autolico), di Taziano (Pros Hellenas) e di Clemente Alessandrino (Stromata). Esse vertono sulle stesse tematiche e, pur con diverse prospettive ideologico-culturali, affrontano i temi dell’essenza divina, della creazione e della resurrezione, del confronto con la paidéia greca e della speciosa disputa circa la maggiore antichità e la superiorità della tradizione ebraica, consegnata nelle scritture, rispetto a quella greca. Ma quale che sia la posizione degli autori, che sia di totale avversione nei confronti dell’hellenismos (Taziano e Teofilo) o di possibile convergenza con esso (Clemente Alessandrino), soprattutto nell’affrontare la questione centrale dell’essenza divina, lo sappiano o non lo sappiano, ne siano o no consapevoli, tutti dipendono dalla raffinatezza dei dibattiti interni alla filosofia greca, che, attraverso la gnosi e il medio platonismo, agiva incontrastata sul variegato panorama dei didaskaléia del tempo. È da essa che dipende la nuova e definitiva concezione cristiana dell’essenza del Dio-uno, accessibile attraverso le definizioni negative della teologia apofatica: Dio invisibile, immenso, incomprensibile, ecc.(51) e creatore attraverso un processo emanatistico, che se nella gnosi si traduce in una processione di eoni, nella fede cristiana si esprime nella processione del Figlio e dello Spirito Santo. Teofilo, nel tentativo di convincere alla fede cristiana il pagano Autolico, argomenta contro il politeismo ellenico e sostiene il Dio unico creatore dell’universo, che non può essere «mostrato cordis oculi», per essere la sua potenza infinita ed afferma che Dio rimarrà a noi invisibile fino a che saremo rivestiti del nostro corpo mortale. L’essenza divina – scrive Teofilo – trascende la comprensione umana: «forma Dei nec dici nec narrari potest, (51)  Analoga è la posizione di Clemente Alessandrino in Stromata, v, capitolo 11: «Dio non è apprendibile né esprimibile da parte degli uomini, ma solo è conoscibile mediante la potenza che da Lui procede. Infatti l’oggetto della ricerca è incorporeo e invisibile»; capitolo 12: «Dio non lo ha mai visto nessuno […]. Alcuni lo hanno chiamato abisso […]; irraggiungibile e infinito insieme […] potrebbe essere definito Colui che non è né genere, né alterità né specie, né individuo, né numero e nemmeno accidente né soggetto […]. L’Uno è indivisibile, per questo è anche infinito».

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nec oculis corporeis videri. Nam nec eius gloria animo capi; nec magnitudo comprehendi potest, nec altitudo cogitari». E rispolvera tutta la teologia negativa, per cui Dio è «ingenitus, immutabilis, immortalis, invisibilis», accessibile solo attraverso la sua provvidenza.(52) Anche Taziano si serve abbondantemente degli strumenti intellettuali del medioplatonismo e definisce Dio «invisibile, ingenerato, incorporeo, incorruttibile, conoscibile solo attraverso le sue creature, Spirito che aleggia su tutto il creato e soprattutto Dio perfetto.(53) In entrambi gli autori la concezione dell’anima e della immortalità risente dell’influenza medioplatonica e insieme gnostica. Più debole è l’apparato dottrinario di Teofilo, il quale, più che ad una costruzione della psicologia, è interessato a dimostrare la realtà della resurrezione. Ma i suoi argomenti sono inconsistenti: ad Autolico, che lo mette alle strette chiedendogli la prova della resurrezione, Teofilo, mostrandogli qualche redivivo, lo induce a riflettere sulle cosiddette «immagini della resurrezione», quali sono la morte e la rinascita delle piante e delle stagioni e il corso periodico della luna. Taziano, più scopertamente influenzato dalla gnosi, distingue nell’uomo due spiriti, l’uno chiamato anima e l’altro (il pnéuma) di natura superiore, perché «immagine e somiglianza di Dio». L’anima – egli dice – non è per natura immortale, ma può non morire: «muore e si dissolve col corpo se non conosce la verità, ma poi risorge col corpo alla fine del mondo per ricevere come castigo la morte nell’immortalità; di contro non muore, anche se temporaneamente si dissolve, se ha acquistato la conoscenza di Dio». Non l’anima salvò lo Spirito, ma al contrario fu da esso salvata, perché l’anima è oscurità e lo spirito è luce; l’una si volge verso la materia, l’altro verso il cielo. L’anima tuttavia possiede in sé una scintilla della potenza dello spirito, che la rende capace di porsi alla ricerca di Dio.(54) Queste prime incoative elaborazioni teologiche troveranno più tardi una loro organica sistemazione nella grande patristica del iv e del v secolo, in cui persisteranno le antiche radici gnostico-medioplatoniche. Nella misura in cui si precisava l’identità dottrinale e teologica della fede cristiana, si sviluppava nel contempo la polemica antieretica. Clemente Alessandrino vuol farci credere che la comunità cristiana delle origini, da Tiberio a Nerone, fu compatta e unita e che le eresie sorsero «in tempi più recenti intorno al tempo di Adriano e giunsero fino all’età di Antonino il Vecchio». Egli si riferi(52)  Teofilo, Ad Autolicum, i, 3; i, 4-5. (53)  Taziano, Pros Hellenas, 4, 2-4; 7, 1; 12, 7; 15, 4; 17, 6; 25, 4; 32, 1. (54)  Ivi, 13.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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sce esplicitamente a Basilide, a Valentino, a Glaucia, a Teoda e a Marcione. Tutte queste eresie innovarono, nel senso che falsificarono con interpolazioni, selezioni ed «estranee interpretazioni», la tradizione apostolica trasmessa attraverso i vangeli.(55) Al pluralismo delle eresie, che frantuma le molteplici comunità cristiane in sette, Clemente oppone il più rigoroso principio dell’unicità e cattolicità della Chiesa, forse sulla scorta dell’analoga visione di Ireneo di Lione. Così infatti scrive: «una è stata la vera chiesa, quella originaria […], poiché uno è Dio e uno il Signore […] la chiesa unica è legata alle sorti dell’Unico per natura […]. Noi diciamo una l’antica e universale chiesa, costituita nell’unità della fede unica». Ma la chiesa originaria e cattolica, che egli disegna, non è una realtà storica; è solo teorizzata o auspicata come sbocco della sua futura istituzionalizzazione. La realtà è che tra le comunità cristiane, e anche al loro stesso interno, non furono poche le voci di dissenso; il cristianesimo delle origini era di fatto tutt’altro che compatto. L’evoluzione dottrinale e culturale al suo interno fu un processo lento e progressivo. Quelle che oggi designiamo come eresie non erano che esplorazioni dottrinali, contributi alla definizione di una verità più o meno condivisibile. Per tutto il secondo secolo non v’è un vero e proprio confine netto tra eresia e ortodossia. Ne è testimone Ireneo il quale lamenta che taluni uomini falsi ingannano i cristiani, simulando e contraffacendo la predicazione dei vescovi e scrive: Questa è la trovata di uomini falsi che ingannano perversamente […]. Costoro […] presentano alla folla i loro discorsi con i quali raggiungono i semplici e li adescano, contraffacendo la nostra predicazione […]. E si lamentano spesso di noi, perché – dicono – ci asteniamo senza motivo dalla comunione con loro, sebbene abbiano i nostri stessi sentimenti, e li chiamiamo eretici, sebbene dicano le stesse cose ed abbiano la stessa dottrina.(56)

3.2.  Il mito del martirio e delle persecuzioni In generale oggi noi associamo all’idea di martirio quella di un sacrificio cruento che si espleta attraverso il versamento di sangue. Il martirio, così inteso, è direttamente collegato alle presunte persecuzioni anticristia(55)  Clemente Alessandrino, Stromata, vii, 17 e 16. (56)  Ireneo, Adv. haer., iii, 15, 2.

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ne, che in realtà furono assai meno incisive e violente di quanto si creda. Il concetto di martirio è intrinseco al modello di vita cristiana soprattutto nel passaggio dall’occultamento di tipo misterico alla aperta professione di fede. Il martirio o testimonianza è la stessa condotta di vita fino all’estrema conclusione nella morte. Assai chiara è in proposito l’osservazione fatta da Clemente Alessandrino. Egli spiega sulla scorta delle lettere paoline, ma anche della filosofia platonica, che «la separazione dell’anima dal corpo […] procura uno slancio gnostico, sì da saper sopportare serenamente la morte fisica, scioglimento dei vincoli dell’anima dal corpo». Il martirio è in questo senso una profonda aspirazione del cristiano, «una perfetta opera d’amore»,(57) che è per sé crocifissione del mondo e per il mondo crocifissione di sé. Clemente distingue il martirio come confessione di fede dal martirio come sacrificio violento. E, citando Eracleone che discrimina una «confessione nella fede e nella condotta di vita» e una «confessione a voce», propende per una «disposizione professante la fede, quella che non si piega nemmeno nella morte e opera d’un sol colpo un netto distacco dalle passioni […]. Si tratta in una parola di un pentimento accumulato nell’azione al termine della vita, una vera confessione della fede in Cristo, che ha in più l’attestazione della parola».(58) Dunque i termini ‘martire’ e ‘martirio’ (dal greco μάρτυς, μαρτυρία, μαρτύριον significano rispettivamente ‘testimone’ e ‘testimonianza’. Attraverso il martirio il cristiano dà testimonianza della propria fede per mezzo della sofferenza, per guadagnare la ‘corona’ della vittoria sul peccato. Nell’idea di ‘martirio’ sopravvive il concetto di mortificazione del corpo che è proprio di alcuni culti misterici. E al martirio è strettamente associato lo spettro della persecuzione. Martire è colui che è sacrificato come un agnello sull’altare, flagellato, violentato, dato in pasto alle bestie. Su di lui in ogni caso la sofferenza non ha alcun potere, perché il martirio è un carisma, un dono ricevuto dal Cristo, che rende il cristiano resistente, al di là di ogni sopportazione umana, alla violenza. Solitamente esso si conclude con la morte fisica, ma non senza aver dato prova di una sorta di vitalità ultraterrena. Ne deriva che il martirio e la persecuzione sono fortemente ricercati dal cristiano, perché ne mettono alla prova la fede e lo esaltano agli occhi di Dio in funzione della escatologia della salvezza. Ciò spiega perché i racconti dei martiri, come del resto le vite dei santi, sono narrazioni standardizzate, meri canovacci let(57)  Ivi, iv, 3-4. (58)  Ivi, iv, 9.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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terari, che hanno riempito di menzogne gran parte della storia ecclesiastica. Naturalmente non sempre la prova è sostenuta o sopportata con la forza d’animo o con l’estremo eroismo: migliaia furono i lapsi, che preferirono sottoscrivere i libelli, anziché andare incontro alle esecuzioni capitali. Di fatto le persecuzioni, pur restando oggetto di ferma condanna (in quanto urtano contro la nostra suscettibilità moderna), non produssero che poche vittime. Le notizie intorno alle persecuzioni di Nerone, Vespasiano e Domiziano sono molto aleatorie, non sono supportate da fonti storiche. A proposito di Nerone Eusebio rinvia genericamente a scrittori, forse in riferimento a Tacito, Svetonio e Dione Cassio.(59) Ma Svetonio, pur dichiarando Nerone responsabile dell’incendio di Roma nel 64, non fa alcuna menzione dei cristiani. Il passo di Tacito è verosimilmente manipolato. Dione sembra ripetere la versione di Svetonio e non dice nulla sui cristiani. La persecuzione neroniana di Paolo nasce da un’errata interpretazione eusebiana dell’espressione «liberarsi dalla bocca del leone»,(60) che ha il senso generico di liberarsi da una condizione di grande difficoltà. Eusebio identifica invece il leone con Nerone e dà al testo un significato che esso non possiede. La persecuzione di Vespasiano contro i discendenti di Davide non trova riscontro in nessuno degli storici antichi. Quella di Domiziano, che avrebbe colpito i Flavi, non ha nulla a che fare con il cristianesimo. Infatti Svetonio accenna alla condanna di Flavio Clemente a causa della sua pigritia (contemptissima inertia), senza alcuna allusione alla nipote Domitilla o alla sua fede cristiana. Lo stesso Egesippo, che è l’inventore di tali persecuzioni, finisce con il vanificarle affermando che Domiziano «avendo un po’ di buon senso si tirò subito indietro e richiamò anche coloro che aveva mandato in esilio».(61) È difficile credere alla persecuzione neroniana, anche perché la presenza di Pietro e Paolo a Roma è avvolta nella nebbia. Gli Atti non fanno il ben che minimo accenno ad una presenza di Pietro a Roma. Parlano invece di quella di Paolo durata un biennio, ma non accennano ad un suo eventuale martirio ed anzi ce lo dicono libero di predicare il messaggio cristiano.(62) Fino a tutto il secondo e il terzo secolo inoltrato mancano notizie sulle biografie di Pietro e di Paolo. Clemente Alessandrino cita con una certa frequenza le lettere paoline e per Pietro si affida prevalentemente alla letteratura apocrifa, (59)  Tacito, Ann., xiii-xvi; Svetonio, Nero; Dione Cassio, Historia Romana, lxi-lxiii. (60) Cfr. 2Tm, iv, 16-17. (61)  Eusebio, HE, iii, 20, 7. (62)  At, xxviii, 30-31.

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come la Predicazione di Pietro (Kήρυγμα Πέτρου), ma nulla dice sulla tragica fine dell’apostolo a Roma; anzi non ne fa cenno neppure quando afferma che «la predicazione degli apostoli […] si compì al tempo di Nerone».(63) Lo stesso Eusebio introduce l’argomento con un «si dice»,(64) pur rivendicando la storicità dell’evento sulla base della esistenza delle loro tombe rispettivamente sulla via Ostiense e nel Vaticano. Gli autori da cui egli attinge sono Gaio, che visse al tempo di Zefirino (199-217) e scrisse il Dialogo con il montanista Proclo, e Dionigi di Corinto, autore di una Lettera ai Romani. Ma entrambe queste testimonianze sono tardive: il Dialogo di Gaio è da noi conosciuto solo attraverso lo storico di Cesarea e la testimonianza di Dionigi, che visse durante l’episcopato di Sotero (174-177 circa) non sembra essere debitamente documentata. Altrettanto si dica del Pros Hellenas di Taziano. Giustino non fa menzione dei due apostoli né nelle due Apologie, né nel Dialogo con Trifone. La leggenda del sacrificio di Pietro e Paolo nasce tra il 170 e il 198 ad opera dei due autori citati da Eusebio o, in alternativa, nasce dalla stessa Historia Ecclesiastica nel iv secolo. D’altronde è lo stesso Eusebio che collega la morte di Pietro e Paolo con la persecuzione neroniana nel Chronicon, sotto l’anno 69: «Primus Nero super omnia scelera sua etiam persecutionem inter Christianos facit, in qua Petrus et Paulus gloriose occubuerunt».(65) Ireneo mostra di averne una conoscenza che dipende per intero dalla versione degli Atti.(66) Persino l’autore dell’Élenchos (230-240) non fa menzione del sacrificio dei due apostoli, né della loro sepoltura in Vaticano. In altri termini nessuna documentazione scientificamente ineccepibile prova che le ossa rinvenute nel monumento funebre di epoca costantiniana (iv secolo) possano realmente appartenere ad un uomo del i secolo identificabile sic et simpliciter con Pietro, a prescindere dalle complesse e controverse operazioni della loro traslazione. Prima del 170 non sembrano sussistere testimonianze sul sacrificio dei due apostoli. Le ricerche archeologiche condotte dal Vaticano tra il 1940 e il 1949 non hanno sciolto la questione, come rileva Margherita Guarducci.(67) Il mito del martirio romano di Pietro na(63)  Clemente Alessandrino, Stromata, viii, 17, 106. (64)  Eusebio, HE, ii, 25, 5. (65)  Chronicorum canonum omnimodae historiae libri duo, interprete Hieronymo, opera ac studio Josephi Justi Scaligeri, Amstelodami, Apud Johannem Janssonium, 1658, p. 162. (66)  Ireneo, Adv. haer., iii, 6-7; 12-18. (67) M. Guarducci, La tomba di S. Pietro: una straordinaria vicenda, Milano, Rusconi, 1989; Eadem, Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della Basilica Varicana, Cit-

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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sce all’interno della letteratura apocrifa e ne abbiamo fatto già cenno nel paragrafo iii.4. Il martirio è per Eusebio «una guerra combattuta per la pace dell’anima» o come «il combattimento di uomini coraggiosi che agirono più per la verità e la religione che per la patria».(68) Esso è il corrispettivo delle imprese militari e va registrato su stele (stelai). Eusebio riporta lunghi brani di una lettera,(69) sicuramente falsa, che sarebbe stata spedita dalle comunità di Lione e di Vienna per testimoniare i martìri ivi verificatisi sotto Lucio Vero e Marco Aurelio. In realtà tutto il racconto è poco credibile per la fantasiosa narrazione che ci viene data e per l’indeterminatezza di dati storici realmente accertabili. Il legato romano rimane nell’anonimato, l’uso della graticola non sembra essere stato praticato in Occidente, le condanne sembrano frutto più di acclamazioni popolari che di decisioni del potere politico; le procedure giuridiche non appaiono affidabili; sussiste qualche incertezza sui nomi di taluni martiri. Vezio Epagato, altrimenti ignoto, contestò il processo, ma fu egli stesso condannato nel nome di Cristo. L’obiettivo della lettera è di dimostrare che i cristiani erano processati e condannati in quanto tali e non per reati comuni. Si tratta della lunga polemica dei cristiani contro il rescritto di Traiano. Paradossalmente la lettera allude ad arresti compiuti sulla base della necessità di «completare il numero dei martiri», come se nella Gallia Comata e Narbonese non vigesse il diritto romano. Il loro martirio è dato tà del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1965. In merito agli scavi vaticani relativa alla tomba di Pietro, l’autrice ci fornisce una discutibile ricostruzione della levantina riscoperta delle ossa di Pietro che sarebbero state conservate in un’apposita urna da parte di un operaio che prese parte ai lavori. La totale assenza di criteri scientifici e la sistematica violazione di qualsivoglia metodologia archeologica emerge anche dalla versione ufficiale del Vaticano, pubblicata nei due tomi Espolrazioni sotto la Confessione di San Pietro i Vaticano: eseguite negli anni 1940-1949, città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1951. È noto che la Basilica costantiniana fu edificata su un antico cimitero pagano con l’inevitabile violazione delle originarie sepolture, in un luogo, in cui perlatro era prossimo un sito in cui era praticato il culto mitraico (Petros era infatti uno dei titoli di cui si fregiava Mitra). F. R. Zindler, De huesos y meteduras de pata: San Pedro en el Vaticano, in F. R. Zindler – E. Doherty – S. Acharya, Existió Jesus de Nazareth? cit., pp. 171-184, ha rammentato che dall’esame condotto da Gardini e Correnti le ossa custodite dal cardinale Klaas, sono risultate provenienti da animali (topo, gallo, porco) e da resti umani di due uomini e di una donna. Infine per una provvidenziale incuria la stessa scritta «petros eni» non sarebbe stata conservata in modo da renderla esplorabile e interpretabile da parte di altri studiosi. Sicché tutta la vicenda degli scavi vaticani resta oscura e tortuosa. (68)  Eusebio, HE, v, Somm. 3. (69)  Eusebio, HE, v, 1-62.

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come compimento della profezia di Giovanni: «Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà, crederà di rendere culto a Dio».(70) Vengono martirizzati Santo, Maturo, Attalo, Blandina o Biblide, Potino (che sarebbe stato novantenne discepolo di Policarpo di Smirne), Alessandro, Alcibiade e i montanisti Montano, Milziade (?) e Teodoto. Il loro atteggiamento di dispregio per le cose terrene richiama alla mente lo stoicismo. I tormenti delle torture fanno meno paura del castigo eterno della Geenna.(71) Da una parte la paura della geenna, dall’altra il premio che il martire si attende è «la grande vittoria e la grande corona dell’immortalità».(72) Purtropo però dell’anfiteatro di Lione, ove si sarebbero svolti i fatti, non si sono trovate evidenze archeologiche. Benché si parli di giudizio popolare, sembra che l’innominato legato abbia scritto a Marco Aurelio sul da fare e ne abbia ricevuto l’ordine di mettere a morte coloro che si dichiaravano cristiani e di liberare coloro che abiuravano. Sebbene non citato testualmente, il presunto rescritto è un falso, scritto a ricalco della lettera di Traiano. Le sofferenze dei cristiani sembrano essere concepite come risposta alle accuse mosse contro di loro. Così Attalo, posto sulla graticola, mentre nell’aria si spandeva l’odore del suo corpo bruciato, gridò alla folla: «ciò che voi fate è mangiare uomini. Noi invece non mangiamo carne umana e non commettiamo nessun’altra malvagità».(73) Ulteriori perplessità sulla lettera dei martiri sono le seguenti: essa sarebbe stata trasmessa dagli stessi martiri che avrebbero raccomandato ad Eleuterio il confratello Ireneo di Lione. I martiri si sarebbero rivolti ad Eleuterio con il titolo di «papa» che in realtà compare nel quinto secolo; avrebbero incaricano Ireneo di consegnare ad Eleuterio la loro lettera. Nel testo del documento v’è confusione tra i due imperatori Marco Aurelio e Antonino. Ma soprattutto la narrazione del martirio è resa sospetta dalla esagerata resistenza dei fedeli alla violenza che appare essere più che una verità storica la conferma della potenza del carisma del martirio come dono del Cristo.(74) Eusebio accenna ad altri martìri della medesima età da lui narrati nella Raccolta di martiri, non pervenuta. Ma di essi non si ha alcuna conferma presso gli (70)  Gv, xvi, 2. (71)  Geénna dall’ebraico ge himmon, cioè la valle di Ennom, in cui al tempo di Ezechia si praticava il culto di Moloch. (72)  Eusebio, HE, v, 1, 36. (73)  Ivi, v, 1, 52. (74)  In merito all’inautenticità della lettera sui martiri lionesi e viennesi si veda J. W. Thompson, The alliged persecution of the Christians at Lyons in 177, «The American Journal of Theology», xvi, 1912, pp. 389-384.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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storici. Del martirio di Apollonio,(75) ci restano gli Atti in versione armena e greca, di scarsa attendibilità. È tuttavia singolare che Sidonio Apollinare, vescovo di Lione, e Victricio di Rouen non menzionino i martiri di Lione nelle loro liste dei martiri. Altrettanto esagerata e poco credibile è la narrazione relativa ai martiri di Smirne in cui avrebbe perso la vita Policarpo. Eusebio(76) riporta ampi stralci della lettera scritta dalla comunità di Smirne sul martirio di Policarpo che si sarebbe verificato nel 156 d.C. allorché egli aveva l’età di 86 anni. La lettera, che paradossalmente Eusebio vuole scritta dallo stesso Policarpo («scritta di suo pugno e inviata dalla Chiesa che presiedeva [la chiesa di Smirne] alle altre diocesi del luogo»),(77) sarebbe stata scritta invece da Evaristo, della chiesa smirnese, ed avrebbe recato la seguente intestazione: «La comunità di Smirne alla comunità di Filomelio e a tutte le altre paroeciis della santa chiesa cattolica». È assai verosimile che la lettera sia stata scritta intorno al iii secolo, come dimostra il fatto che Ireneo non sembra averne notizia.(78) In essa si narra del martirio di Germanico, che si sarebbe verificato quando era proconsole d’Asia Lucio Stazio Quadrato (156-157), ma l’asiarca citato è un certo Filippo che rimane per noi un personaggio oscuro. Di contro Quinto, non altrimenti identificabile, per essere apostata, o meglio seguace dell’eresia dei catafrigi, non sopportò il martirio e allontanò da sé la salvezza. La lettera prosegue con il martirio di Policarpo e di altri cristiani filadelfiesi. Le narrazioni sono inverosimili e infarcite di dettagli fantasiosi. Pur avvolto nel fuoco, Policarpo non sarebbe morto se il confector non lo avesse trafitto con la spada, provocando una straordinaria fuoriuscita di sangue che avrebbe spento le fiamme. Dal cielo si udì una voce che ascoltarono solo i cristiani. L’espressione «tutta la chiesa cattolica diffusa nel mondo» (totiusque per orbem terrarum catholicae ecclesiae) mi sembra tardiva e interpolata. Alla stessa epoca risalirebbe secondo Eusebio il martirio di Metrodoro (seguace di Marcione) che invece cadde sotto Decio (249-251 d.C.). La versione del martirio è ancor più fantasiosa in Pionio che avrebbe scritto una Vita Policarpi e sarebbe stato egli stesso vittima delle persecuzioni di Decio. Ma la Vita Policarpi, a lui attribuita, sembra essere stata composta intorno al 400. La lettera si conclude con una tardiva aggiunta recante la datazione (75)  Cfr. Eusebio, HE, v, 21. (76)  Ivi, iv, 15. (77)  Ibidem. (78)  Ireneo, Adv. haer., iii, 3, 4.

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del martirio: «Xantici mensis ineuntis die secundo, ante septimum calendas majas, magno Sabbato, hora octava»(79) con l’informazione che le reliquie, nonostante l’opposizione di Niceta, padre di Erode, furono riposte «in un luogo conveniente». È appena il caso di sottolineare che dei primi due personaggi nominati non sappiamo nulla. Al martirio di Policarpo Eusebio fa seguire quello di Giustino, ma anche di quest’ultimo sacrificio non sembrano sussistere fonti documentarie sicure e, a ben riflettere, c’è da credere che esso sia stato costruito sulla base di un passo della 2Apologia, in cui Giustino(80) si dichiara preoccupato per essere oggetto di insidie da parte di magistrati e per il timore di finire impalato a causa delle calunnie di Crescente, filosofo cinico. Delle accuse di Crescente parla Taziano,(81) che ovviamente dipende da Giustino. Proseguendo con l’elenco dei martiri, Eusebio menziona Tolomeo, Lucio ed un oscuro innominato, ricordato da Giustino.(82) Si tratta comunque di martiri di non facile identificazione, la cui identità è fortemente sospetta. La portata delle persecuzioni anticristiane va dunque notevolmente ridimensionata. Di fatto non c’è mai stata una vera e propria volontà imperiale tesa a colpire sconsideratamente i cristiani. Si può se mai dire che nell’impero la violenza popolare era piuttosto frequente e che non di rado si verificavano episodi incresciosi che colpivano talvolta i cristiani vittime di ostilità popolari inconsulte. Il potere imperiale aveva solo l’interesse di autoconservarsi attraverso il culto delle divinità tradizionali e della divinizzazione degli imperatori. La linea politica che sembrava essersi consolidata nel tempo era quella che era stata tracciata da Traiano nel rescritto trasmesso a Plinio il Giovane. I cristiani non erano punibili per il nome, ma per i crimini commessi. Per uscirne indenni essi dovevano sacrificare al dio imperatore. Contrariamente a quanto si è fatto credere, solo pochissimi (ma ovviamente lo scarso numero non giustifica la persecuzione) scelsero il sacrificio, a dispetto dell’aspirazione tutta cristiana al martirio come forma di imitazione della passione di Cristo. Per convincersene basta dare uno sguardo all’epistolografia cristiana, in cui l’esaltazione del martirio, come forma di imitazione della passione del Cristo è una delle tematiche più frequenti e più dominanti. Ma (79)  Xanticus nel calendario macedone, utilizzato anche in Siria, corrisponde al messe di marzo. (80)  Giustino, 2Apol., iii. (81)  Taziano, Pros Hellenas, 18-19. (82)  Giustino, Apol., ii, 2.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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ancor più significative sono le storie dei martiri o le vite dei martiri, che nella produzione cristiana dei primi secoli rappresentò un vero e proprio genere letterario. E in quanto genere letterario obbediva a canoni ben precisi. Gli ingredienti principali erano l’eroismo del martire, il suo desiderio di affrontare la bestia, le torture subite e le flagellazioni perseguite con gli strumenti più crudeli, come la sedia di ferro, la graticola, il fuoco, la lotta contro le bestie negli anfiteatri, la lapidazione, ecc., e infine i miracoli che vanificano ogni sorta di tortura e che dimostrano che nei cristiani abita una forza spirituale che non può essere piegata dalle sofferenze fisiche. È come se gli autori di queste storielle avessero davanti a sé una sorta di canovaccio, come più tardi accadrà per le vite dei santi, perché solo quel determinato iter di tormenti e di miracoli attesta la protezione divina nei confronti dei credenti. A questo schematismo obbediscono la storia del martirio di Policarpo, di Ignazio, dei martiri lionesi e viennesi e di quelli smirnesi. Si tratta di documenti zeppi di falsità storiche che ancora oggi si vogliono far passare per autentici. Verosimile è invece la vicenda narrata da Giustino(83) di una donna che, convertita al cristianesimo, fu accusata dal marito. Ma si tratta di un episodio marginale, prodottosi all’interno di un conflitto familiare, per il quale non è possibile parlare di persecuzione. Tra l’altro esso costituisce il pretesto per scrivere la seconda Apologia con l’intento di dimostrare all’imperatore che il rescritto di Traiano poteva implicitamente dar luogo a forme di vessatorie persecuzioni. Il martirio di Giacomo il Giusto è frutto dell’accesa fantasia di uno scrittore come Egesippo, da cui attinge a piene mani Eusebio. Dello stesso martirio non si trova traccia né in Giustino, né in Ireneo. Al martirio di Ignazio di Antiochia fa vagamente cenno Eusebio,(84) con citazione tratta dalla Lettera di Policarpo ai Filippesi.(85) Ireneo, cita un passo della Lettera ai Romani di Ignazio(86) per rammentare, a proposito del martirio, che il cristiano è l’uomo plasmato per mezzo delle mani di Dio; la paglia, cioè l’apostasia, viene gettata via, mentre il frumento, cioè i fedeli, viene riposto nel granaio. Da ciò la necessità della «tribolazione per quelli che sono salvati affinché, dopo essere stati in qualche modo tritati e impastati, per mezzo della pazienza, con il Verbo di Dio e poi cotti al fuoco, siano adatti alla festa del Re». Insomma il martirio è un tópos dell’apologetica cristiana. (83)  Giustino, 2Apol., 2; la vicenda è ripresa da Eusebio, HE, iv, 17. (84)  Eusebio, HE, iii, 36, 12-13. (85)  Policarpo, Flp., ix. (86)  Rom, iv, 1.

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Possiamo ritenere quelle di Decio e di Treboniano le prime vere persecuzioni anticristiane? In realtà non abbiamo notizia di provvedimenti di tal genere promossi da Decio o da Treboniano. Il caso di Basilide e di Marziale, che, come si è detto, acquistarono il libello attestante il sacrificio sull’altare degli dèi, fa pensare che i due imperatori abbiano dato più scrupolosamente seguito al rescritto di Traiano e abbiano preteso che la sottomissione alle divinità tradizionali fosse attestata da un apposito libellus. Ma il medesimo episodio dimostra l’inefficacia della loro strategia, perché per aver salva la vita molti cristiani preferirono fornirsi del libellus più che sottoporsi all’agognato martirio. Numerose schiere di cristiani pronunciarono l’apostasia e furono perciò definiti lapsi. Sul destino dei lapsi si accese una controversia che vide schierati da una parte i catari, restii ad ogni forma di perdono nei confronti di chi non aveva testimoniato fino in fondo la fede in Cristo, e dall’altra Dionigi di Alessandria, propenso ad una loro riammissione all’interno della chiesa. Nella stessa circostanza un vescovo di Roma, Cornelio (251-253) rivendicò chiaramente la propria supremazia. Scrivendo a Fabio, vescovo di Antiochia, enunciò il principio del primato della chiesa di Roma(87) e scrisse – se la lettera è autentica – «questo vendicatore del vangelo [con riferimento a Novaziano] non sapeva che in una chiesa cattolica ci deve essere un solo vescovo?». Nel darcene la cronistoria Eusebio,(88) che si fonda sulla lettera di Dionigi di Alessandria a Germano, non sa indicare che un pugno di nomi che finirono vittime della persecuzione. È difficile stabilire quale sia la credibilità storica del documento, perché Dionigi scrive per difendersi dall’accusa, rivoltagli dal vescovo Germano, di essersi sottratto alla persecuzione. Egli si giustifica dicendo di non essere fuggito di sua iniziativa, ma di essere stato arrestato dal frumentarius per ordine di Aurelio Appio Sabino e di essere stato liberato a viva forza da un gruppo di cristiani che misero in fuga i soldati che erano di guardia alla prigione. Naturalmente nella narrazione dionisiana non è difficile riscontrare una buona dose di inventiva. Il Bardy,(89) nel suo commento alla storia eusebiana, rileva che l’episodio fa venire alla mente la storia dei briganti narrata da Apuleio.(90) Nella successiva lettera a (87)  Eusebio, HE, vi, 43, 11. (88)  Ivi, vi, 39-42. (89) G. Bardy, Eusèbe de Césarée, Histoire ecclésiastique, Paris, Éditions du Cerf, 2008, p. 144. (90)  Apuleio, Metam., iii, 38.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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Fabio, vescovo di Antiochia, Dionigi fornisce dettagli sulla persecuzione di Decio, dicendo che essa precedette di quasi un anno l’emanazione dell’editto dell’imperatore. Ma non solo di tale editto non abbiamo notizia dalle fonti romane, ma dallo stesso Dionigi sappiamo che la persecuzione si attenuò subito dopo l’acclamazione di Decio ad imperatore (249) per lo scoppio di una guerra civile interna ad Alessandria tra Filippo l’Arabo e Decio. Di contro l’editto dovrebbe essere databile al 251. Ma c’è qualcosa che non quadra sotto il profilo cronologico. Ad ogni modo la persecuzione – secondo Dionigi – riprese con più violenza, ma non fece che pochi martiri perché la gran parte «si accostarono agli altari in maniera più risoluta, sostenendo sfrontatamente di non essere mai stati cristiani». Tale fenomeno di apostasia diffusa ci è attestato anche da Cipriano nel De lapsis. Non è ben chiaro se nel corso della stessa persecuzione perirono vittime il vescovo di Roma Cornelio e il suo successore Lucio. Paradossalmente Eusebio non li annovera tra i martiri e si limita a dire che Cornelio concluse dopo circa tre anni il suo episcopato, che gli succedette Lucio il quale morì dopo otto mesi. In ordine alla persecuzione di Valeriano, Cipriano(91) accenna a due editti imperiali: il primo dei due, datato 257 d.C., oltre all’obbligo di ottemperare ai sacrifici pagani, avrebbe vietato ai cristiani di riunirsi nelle chiese e nei cimiteri. Il secondo editto del 258 sarebbe stato più pesante perché avrebbe imposto una serie di condizionamenti, tra cui la pena capitale per gli ecclesiastici e per i membri della classe equestre e di quella senatoriale che avessero aderito alla fede cristiana, con conseguente confisca dei beni. Eusebio(92) descrive Valeriano come un imperatore mite, ma persuaso alla politica anticristiana da Marco Fulvio Macriano, il «sinagogarca dei maghi d’Egitto». La sua fonte è il solito Dionigi di Alessandria, il quale nella lettera a Germano afferma di essere stato condannato all’esilio in Libia (ma l’uso del comparativo libukoterous fa pensare che Dionigi non avesse un’idea precisa dell’aggettivo «libico»), in una inidentificata località di nome Kefro e di essere successivamente passato nella Mareote; tale esilio sarebbe stato disposto da Lucio Mussio Emiliano, viceprefetto d’Egitto. Tutta la narrazione appare molto fumosa e fa pensare che la presunta persecuzione di Valeriano sia solo leggendaria. Anche perché è ben strano che Dionigi, che pure era alessandrino, mostri nella lettera di non sapere che Alessandria si trovasse in Egitto. Scrive infatti: «si riunì una numerosa chiesa, composta (91)  Cipriano, Lettere, lxxxii, PG. coll. 442-443. (92)  Eusebio, HE, vii, 10.

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dai fratelli che ci vennero dietro dalla città [intendi Alessandria] sia da quelli che vennero dall’Egitto». Eusebio cita anche un’altra lettera di Dionigi indirizzata a due oscuri personaggi, Domezio e Didimo; la persecuzione avrebbe colpito anche i cristiani di Cesarea di Palestina,(93) ove furono vittime Prisco, Malco e Alessandro. Fausto, diacono di Alessandria,(94) invece, sarebbe stato risparmiato dalla persecuzione di Valeriano per incappare poi in quella di Diocleziano (303-305). Paradossali sono poi le presunte assemblee visibili cui accenna Dionigi, il quale partecipa ad una riunione virtuale con quelli che erano in Alessandria come se egli fosse con loro, «assente nel corpo, ma, come dice la Scrittura [si riferisce alla 1Corinzi, v, 3], presente nello spirito». Con Gallieno infine si sarebbe ristabilita la pace. Sospetto è il rescritto pubblicato da Eusebio,(95) non noto da altre fonti, indirizzato al vescovo di Roma Dionigi e ad altri vescovi, in cui l’imperatore restituiva loro i beni confiscati e riapriva al culto i coemeteria. Con Eusebio(96) nasce il culto delle immagini e delle reliquie. Della persecuzione avvenuta nei palazzi imperiali egli ricorda un solo martire nel servo imperiale di nome Pietro, il quale per essere stato saldo nella fede, era degno del nome che portava (allusione a Pietro = roccia). Tra i martiri di Nicomedia o di Antiochia Eusebio ricorda Antimo e Luciano; dei martiri della Palestina ricorda Silvano, Pelo, Nilo e Panfilo, il suo maestro; tra quelli di Tiro menziona Tiramione, Zenobio e Silvano di Emesa; tra quelli della Tebaide annovera Filoromo di Alessandria e Filea di Tgmuis; dei martiri della Frigia cita solo Adaucto. Gli altri sono tutti anonimi, come una sconosciuta antiochena con le sue due figlie vergini e altre due vergini antiochene. Dopo la persecuzione di Valeriano, l’ultima sarebbe stata quella di Diocleziano.(97) Essa era diretta all’inizio contro i cristiani militari. Eusebio ritiene che ciò rientrava nella strategia di colpire più facilmente i cristiani civili, dopo aver vinto i militari. Probabilmente le ragioni dell’imperatore dovevano essere ben altre e dovevano mirare ad avere un esercito fedele su cui poter contare ciecamente. Ma lo stesso Eusebio ridimensiona la portata di questa fase della persecuzione, poiché afferma che «in quella oc(93)  Ivi, vii, 12. (94)  Ivi, vii, 11, 26. (95)  Ivi, vii, 13. (96)  Ivi, vii, 18-19, ove si parla di una scultura recante l’immagine di Gesù e del trono di Giacomo. (97)  Ivi, viii, 4.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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casione solo uno o due di loro [cioè dei militari] ebbero, per resistenza religiosa, la destituzione o la morte». I provvedimenti di Diocleziano non fecero che incrementare l’enorme schiera dei lapsi, come già era accaduto sotto Decio. Nell’uno e nell’altro caso, dopo la tempesta si presentò l’istanza della loro riammissione nel seno della chiesa. Su questo fronte Roma fu molto più permissiva di altre realtà ecclesiali ed entrò spesso in conflitto con esse (o con personalità forti come lo Ps.-Ippolito, autore dell’Élenchos, Novaziano e Dionigi di Alessandria). 3.3.  L’istituzionalizzazione della chiesa imperiale Il primo autore che ha dato alla storia ecclesiastica l’assetto storico sistematico quale ci è pervenuto dalla tradizione è senza dubbio Eusebio di Cesarea. Egli stesso ci fa sapere di essersi accinto per primo in tale ardua impresa («Mi accingo, io per primo, a trattare simili argomenti»), di essersi avventurato, come un «viandante inesperto, lungo una via deserta e inesplorata in cui non è possibile trovare neppure semplici impronte di uomini che prima di me l’abbiano intrapresa».(98) In effetti ciò che gli fa difetto è una congrua documentazione sul Cristo e sulle origini del cristianesimo. A dispetto di tutta la produzione letteraria che lo precede, da quella evangelica all’apologetica, all’apocalittica ecc., nel iv secolo in cui egli scrive la figura storica di Cristo e le origini del cristianesimo sono ancora sostanzialmente avvolte nel buio. Egli ha solo davanti a sé una tradizione da confermare e da avvalorare come tradizione apostolica. Ma la sua metodologia d’indagine è scientificamente discutibile e per più versi insostenibile. L’obiettivo principe della sua ricerca non è infatti la verità storica, ma la verità teologica. Alla seconda egli subordina strettamente la prima. E poiché gli eventi, anche quelli che hanno rilevanza teologica, debbono comunque essere inquadrati in un determinato contesto storico, dichiara di attingere a tal proposito da «taluni scrittori [intendi Giuseppe, Filone, Giulio Africano, Dione e il fantasioso Egesippo] che hanno lasciato piccoli indizi sui loro tempi».(99) Ma si tratta di contesti appena abbozzati, concepiti come cornice storica capace di accogliere e giustificare la verità teologica. Di fatto il presupposto essenziale della storiografia eusebiana è l’idea provviden(98)  Ivi, i, 1, 3. (99)  Ivi, i, 1, 3.

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zialistica della storia, di cui il vescovo di Cesarea è teorico ancor prima di Agostino. In assenza di un’apposita documentazione, egli non trova scandaloso e disdicevole costruirne una ad hoc, sebbene falsa. Tutta la Historia ecclesiastica è attraversata dall’idea che il cristianesimo rientra in un disegno provvidenziale, ovvero in quella che egli chiama «economia del nostro Salvatore e Signore Gesù, il Cristo di Dio»,(100) consistente nel piano salvifico predisposto da Dio. Le radici di tale idea sono individuate dallo stesso Eusebio in Daniele, oltre che in Ignazio di Antiochia(101) e in Giustino.(102) Ciò significa che, sulla scorta di tali autori, egli consolida quella che potremmo definire «lettura cristiana» dell’AT «entro la cui cornice tutte le teofanie che in esso compaiono sono interpretate come manifestazioni del Cristo». Gli antichi testi sacri risultano così drasticamente alterati; perdono la propria fisionomia originaria e sono assorbiti nella lettura tipica o tipologica, in modo tale che tutti i personaggi della storia patriarcale e anche quelli della storia ebraica più recente sono considerati prefigurazioni del Cristo e analogamente tutte le antiche profezie messianiche sono puntualmente riferite al Cristo, quale che sia la funzione che gli uni e le altre svolgono nella economia dei testi vetero-testamentari. Accanto a tale concezione della storia e senza neppure valutarne criticamente la compatibilità, in più occasioni Eusebio conserva il principio tipicamente giudaico della retribuzione divina che premia o castiga sulla base della condotta morale dei singoli o di intere collettività. Sicché il Dio che tutela gli uomini in un progetto finalistico è anche il Dio che punisce e si vendica per la mancata obbedienza o per il mancato rispetto dei patti. Il popolo che più di tutti ne fa le spese è quello che agli occhi di Eusebio, ma si potrebbe dire di tutto il cristianesimo delle origini (e non solo!), ha la responsabilità del male assoluto, che è il deicidio, cioè la condanna e la passione del Cristo, che pure è, paradossalmente, il nucleo centrale di quella «economia» divina che si concluderà con il trionfo del cristianesimo. Ovviamente non è il caso di fare una valutazione filosofica di tali dottrine; esse non reggerebbero in alcun modo alla critica e in ogni caso la fede dei credenti non ne sarebbe scalfita, perché la fede è l’accettazione e la difesa ad oltranza di una credenza indipendentemente da ogni fondamento razionale; essa si autotutela da ogni attacco ed è perciò in(100)  Ivi, i, 1, 2; I, 7-8; ii, 2, 11. (101)  Ivi, 1, 2, 24; Ignazio, Efes, xviii: «Il nostro Dio, Gesù Cristo, è stato portato nel seno di Maria, secondo l’economia di Dio, del seme di David e dello Spirito Santo». (102)  Giustino, Tryph., 30, 3; 45, 4; 67, 6; 85, 5; 103, 3; 120, 1.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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crollabile. Ci sono tuttavia due sole limitazioni che ad essa si impongono: le verità storiche e quelle scientifiche. La fede può legittimamente ignorarle, ma non può pretendere di giustificarsi sul piano storico e scientifico. Perché qualsiasi pretesa in tal senso è legittimamente attaccabile sotto il profilo razionale. Tutto l’impianto teologico di Eusebio è vacillante e lo è perché tale è l’impianto ideologico di qualunque credenza religiosa. Al Dio distributore della doppia retribuzione e all’idea provvidenzialistica della storia Eusebio associa la concezione propria dei culti misterici, derivante dal messaggio paolino del Dio che muore e resuscita e che conduce alla salvezza i fedeli i quali, credendo e identificandosi in lui, muoiono e risorgono in lui e per suo mezzo; è il principio teologico giovanneo del Cristo come Verbo di Dio che fin dall’atto creativo è antropomorficamente presso Dio come sapienza e come parola. Sicché Cristo non ha una dimensione umana, ma è fin da principio proiettato in una prospettiva divina ed eterna. La sua divinizzazione ed eternizzazione gli sottrae sic et simpliciter la dimensione storica. E la sottrae conseguentemente al cristianesimo, il quale– secondo Eusebio – «non è una religione nuova e straniera, apparsa di recente», ma ha di per sé «un’antichità ed un’essenza divina».(103) In quanto è «sapienza intellettiva e sostanziale preesistente ai secoli, che vive ed è in principio presso il Padre»,(104) Cristo è «anteriore alla creazione». Tutti i salmi messianici in cui Dio parla al plurale sono piegati alla lettura cristologica: così Mosè dà ad Auser-Giosuè il nome del Cristo; Cristo è il profeta-dio annunciato da Davide o profetizzato da Isaia,(105) è il Melchizedek di cui parla la Genesi (Gn, xiv, 18). Teofanie del Cristo sono le apparizioni di Dio presso la quercia di Mamre ad Abramo, quella a Giacobbe-Israele in Penuel; quella della voce che chiama Mosè dal cespuglio (Gn, xviii, 1; xxxii, 31; Ex, iii, 4-6). Le figure di Giosuè, della sapienza di Salomone corrispondono nella lettura eusebiana «al Verbo divino preesistente al mondo». Persino i «grandi cataclismi, incendi, carestie, pestilenze e guerre, i fulmini dall’alto del cielo» rientrano nel piano provvidenziale di «debellare e mettere fine con dure punizioni alla terribile e irrefrenabile malattia delle anime».(106) In questa analisi di Eusebio, già in qualche modo anticipata dagli scrittori ecclesiastici che lo hanno preceduto, l’Antico e il Nuovo Testamento si in(103)  Ivi, ii, 1. (104)  Ivi, ii, 2,3. (105)  Salmi ii, 1-2, 7-8; xlv, 7-8; cx, 1-4; Is, lxi, 1. (106)  Eusebio, HE, i, 2, 20.

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trecciano profondamente, come se facessero parte di un unico testo sacro. Le differenze radicali tra l’uno e l’altro, su cui richiameranno l’attenzione alcune delle eresie più antiche, sono deliberatamente taciute o ignorate; anzi, egli scrive: «se risaliamo da Abramo fino al primo uomo, non saremo lontani dalla verità chiamando cristiani di fatto, anche se non di nome, tutti coloro che sono stati oggetto di tradizione e testimonianza per la loro giustizia». Tutta la storia ebraica diventa in tal senso una storia cristiana, che è solo marginalmente interrotta dalla parentesi del giudaismo che va da Mosè a Cristo. Da qui la superiorità e il primato culturale degli Ebrei, il cui insegnamento divino si diffuse «in molti popoli e in ogni angolo della terra per merito dei legislatori e dei filosofi».(107) Solo allora, quando i popoli uscirono dallo stato ferino e presero conoscenza del Padre, «il Verbo divino e celeste di Dio si manifestò in un corpo umano». Come si intuisce, Eusebio ci dà una interpretazione distorta della storia ebraica in particolare e di quella umana più in generale. Com’è stata possibile una così profonda alterazione dei testi? Occorre fare qualche passo indietro verso il maggiore filosofo ebraico del primo secolo, Filone di Alessandria. Si tratta, com’è noto, di un filosofo platonico e pitagorico, il quale, postulando una lettura allegorica del testo biblico, ha reso possibile la netta separazione della lettera dallo spirito del testo. Naturalmente l’interpretazione allegorica di Filone è sempre di alto profilo esegetico, ma diventa una metodologia di facile applicazione e di discutibile abuso nelle mani dei teologi cristiani che ne traggono profitto. L’allegorismo filoniano influenzò molto probabilmente i primi scrittori cristiani, a partire dagli stessi autori di Paolo e dagli evangelisti. E sicuramente fortissimo fu il fascino che su di essi esercitò la concezione filoniana del Lógos, soprattutto sul quarto vangelo, anche al di là delle sue matrici gnostiche. Eusebio si illude di poter trovare il punto di massima convergenza con il pensiero filoniano del De vita contemplativa in cui l’Alessandrino ci descrive con ricchezza di dettagli i costumi e le credenze della setta cosiddetta dei terapeuti. Essi erano così denominati perché – scrive Eusebio – «guarivano e curavano le anime di quanti a loro si rivolgevano, liberandole come medici dai mali causati dalla malvagità».(108) La loro rinuncia alle ricchezze, la loro solidarietà reciproca, la vita in solitudine, l’utilizzazione di una stanza della casa a santuario, lo spirito di venerazione, lo studio delle Scritture, il ricorso all’allegoria («poiché ritengono l’interpretazione letterale simbolo di una re(107)  Ivi, i, 2, 23. (108)  Ivi, ii, 17, 3.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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altà nascosta, conoscibile con l’interpretazione allegorica(109)), inducono lo storico di Cesarea ad identificare la setta dei terapeuti con una primitiva comunità cristiana e a sostenere che le opere dei loro scrittori non fossero altro che i Vangeli e forse anche le lettere paoline. Sicché conclude: «Ritengo che queste parole di Filone riguardino in modo chiaro ed ineccepibile i seguaci della nostra religione».(110) Oggi sappiamo che le certezze di Eusebio sulle prime comunità cristiane sono del tutto infondate, poiché la setta dei terapeuti presenta più forti affinità con le comunità che abitarono le grotte del Qumran che con i cristiani. In realtà da un’attenta lettura del De vita contemplativa Eusebio avrebbe dovuto arguire che vi sono elementi significativamente discriminanti tra i terapeuti e i cristiani; ma un’obiezione siffatta non tiene conto del fatto che egli non andava alla ricerca della verità storica, ma di una verità preconfezionata. Tutto ciò che poteva fungere di supporto alla tesi della nascita delle comunità cristiane subito dopo la passione del Cristo, che fosse accettabile o meno, era comunque utilizzabile in funzione della dimostrazione dell’autenticità del messaggio cristiano. Se, come crediamo, Cristo è un mito, non è escluso che fin dalla primissima letteratura cristiana (Apocalisse, Lettera agli ebrei e sinottici) la sua presunta esistenza sia stata proiettata in età filoniana nella convinzione che i terapeuti non costituissero che la primitiva comunità cristiana. Riguardo alla collocazione storica della prima parousía Eusebio dipende dal Vangelo di Luca e dagli Atti; ma, avendo bisogno, come si è detto, di tracciare un contesto storico della stessa, attinge sostanzialmente da Giuseppe Flavio. Giuseppe gli suggerisce il quadro storico che va dalla conquista di Pompeo al principiato di Augusto, dalle tetrarchie ed esarchie degli Erodiani alla predicazione di Giovanni il Battista, dal censimento di Quirinio alla morte di Giacomo il Giusto, dalle rivolte di Teuda, di Giuda il Galileo e dello pseudo-messia anonimo, noto come l’egiziano, alla sospensione della ereditarietà della carica sacerdotale, letta come compimento della profezia di Daniele (Dn, ix, 24-27). Egli costruisce l’ambiente storico della Palestina del primo secolo attingendo a piene mani ai libri xviii e xix delle Antiquitates. Anzi si dichiara sorpreso di trovare una così perfetta concordanza tra i testi lucani e le Antiquitates e non sospetta neppure lontanamente che queste stesse furono le fonti storiche da cui attinse il suo prediletto evangelista. Quando però si tratta di mettere da parte le coordinate storiche generali e di (109)  Ivi, ii, 17, 10. (110)  Ivi, ii, 17, 17.

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scendere nei dettagli, Eusebio, come già prima di lui l’autore di Luca, brancola nel buio, si barcamena a destra e a manca, inventa di suo, altera i testi; non di rado ricorre a dubbie fonti apocrife e talvolta contesta in linea di principio ignoti autori di Memorie,(111) forse anch’essi cristiani, che avrebbero sostenuto tesi alternative circa l’esistenza storica del Cristo. A titolo di esempio cito le contraddizioni in cui egli cade a proposito della datazione della nascita di Cristo. Essa sarebbe caduta nel 42° anno dall’insediamento di Augusto (cioè il 2 a.C.), coincidente con il 28° anno (il 3 a. C) dalla battaglia di Azio (31 a.C.) e in concomitanza con il censimento di Quirinio e con la rivolta di Giuda il Galileo (il 6 d.C.). Non ha senso tentare di sciogliere tali contraddizioni di carattere cronologico. Esse sono insormontabili e dimostrano che gli autori cristiani, compreso l’autore degli Atti, non hanno alcuna idea della collocazione storica della nascita di Cristo. Eusebio ripercorre gli stessi sentieri di Luca: in assenza di fonti storiche cristiane affidabili, ricostruisce il contesto storico desumendolo da Giuseppe; poi si stupisce della concordanza tra le Antiquitates e gli Atti, senza accorgersi che le prime sono in realtà la fonte dei secondi. È evidente che Eusebio, partendo da una verità teologica, ritiene di poter forzare i testi storici e piegarli alle proprie istanze ideologiche. La medesima operazione egli compie accogliendo acriticamente le tesi dell’Africano miranti a conciliare le contraddittorie genealogie cristologiche esibite da Luca e da Matteo. Nella Epistola ad Aristide Giulio Africano aveva creduto di poter sciogliere l’impasse distinguendo le genealogie secondo natura o secondo la legge. Generato secondo natura è il figlio nato da un matrimonio regolare; generato secondo la legge è il figlio nato da una donna fecondata dal fratello del marito morto senza progenie. Sicché si possono enumerare le generazioni a partire da coloro che furono vere patres o da coloro che furono quasi patres.(112) Ma si tratta, com’è di per sé evidente, di uno stratagemma privo di qualsiasi fondamento, per il semplice fatto che presuppone per quasi tutte le generazioni da Abramo a Cristo la nascita di almeno un figlio secondo la legge. Eusebio sa bene che si tratta di ipotesi fantasiosa e giustifica le lacu(111)  Eusebio, HE,i, 9, 3; I, 11, 9. (112)  Epistola ad Aristidem de genealogia Servatoris in evangeliis, testo greco e latino, interprete Valesio (ex duobus codicibus msstis Vindobonensi et Coisliniano sumptum), in Reliquiae sacrae sive auctorum jam perditorum secundi tertiique saeculi post Christum natum, a c. di Martin Joseph Routh, vol. ii, Oxonii, E Typographeo Academinco, 1846, pp. 228-237. Le famiglie di Salomone e di Nathan sono tra sé intrecciate tanto da poter ritenere che gli stessi uomini ebbero diversi padri, gli uni naturali e gli altri fittizi.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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ne evidenziate dai due evangelisti, affermando che Erode (ma la notizia non trova riscontro in Giuseppe) avrebbe fatto «bruciare i libri delle generazioni, custoditi negli archivi, che comprendevano l’elenco delle stirpi ebraiche, quelle dei proseliti e quelle dei cosiddetti misti o geori», ovvero di coloro che si erano fatti circoncidere. Ma se gli archivi erano stati dati alle fiamme, da dove attinsero i due evangelisti (o i loro interpolatori) le rispettive genealogie? Sulla scorta dell’Africano (Lettera ad Aristide, ii), Eusebio si inventa una soluzione ad hoc ed afferma che taluni «di maggiore accorgimento», tra cui i non ben identificati δεσπόσυνοι ‘despósynoi’, imparentati con il Signore e provenienti dai villaggi giudaici di Nazareth e di Kochaba, conoscevano a memoria i registri personali dei nomi o in alternativa ne avevano delle copie. Ma nessuna delle due ipotesi giustifica una così grave divergenza tra le due genealogie. Tuttavia per lo storico di Cesarea l’assoluta verità dei Vangeli è ristabilita («Il Vangelo dice la verità su ogni cosa»), pur non essendo «suffragata da testimonianze».(113) Non v’è dubbio che una delle preoccupazioni costanti della Historia eusebiana è quella di stabilire la continuità della trasmissione della tradizione, ovvero del messaggio cristiano da Cristo agli apostoli e agli epíscopoi loro successori. L’istanza della continuità è un punto chiave ineludibile: essa ha il vantaggio di inchiodare la tradizione ad un presunto messaggio delle origini; in realtà più che richiamarsi ad una tradizione, l’istanza della continuità di fatto la fonda e fonda in prospettiva il potere (politico-ecclesiastico) di fissare i contorni dell’ortodossia e di respingerne tutte le possibili deviazioni eretiche. Naturalmente il contesto storico è, come al solito, desunto da Giuseppe e dagli Atti. L’autore degli Atti infatti aveva già tentato di riempire un vuoto incolmabile nella storia delle comunità cristiane: ben poco si sapeva delle attività (delle práxeis) degli apostoli e meno ancora della identità e della predicazione dei diaconi o dei settanta o dei cinquecento. Tutta la narrazione eusebiana è in proposito sfumata, priva della necessaria documentazione. Per quanto possa apparire paradossale gli unici supporti dimostrativi invocati sono dati dalla lettura tipologica o allegorica dell’AT o dal significato etimologico dei nomi, senza rendersi conto che proprio l’interpretazione cristiana delle antiche profezie è una prova della falsità della narrazione stessa. Eusebio sa bene che non è sufficiente richiamarsi agli atti e ai detti del Cristo; occorre dimostrare che quel patrimonio dottrinale non è stato alterato nel tempo e che la predicazione del Cristo ci è pervenuta in tutta la sua genuini(113)  Eusebio, HE, i, 7, 15.

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tà attraverso gli apostoli. Ma è proprio su quest’ultimo anello che non si trovano tracce concrete sotto il profilo storico. Il martirio del diacono Stefano è sospetto per il semplice fatto che ‘stefano’ in greco significa ‘corona’ e allude alla conquista della «corona dei martiri vittoriosi di Cristo» che è il titolo onorifico meritato da tutti i martiri. Ed è del tutto evidente che il lungo discorso che l’autore degli Atti (vii, 2-53) mette in bocca al protomartire non è storicamente attendibile, perché non è che una vuota e superflua ricostruzione dell’intera storia ebraica sintetizzata solo per concludere che i sacerdoti del Sinedrio, che lo interrogavano, erano responsabili della morte del Cristo. La continuità della tradizione non è dunque pensata solo come trasmissione di un messaggio dottrinale ma anche come trasmissione di un potere – se non magico – misterico o misterioso che si espleta attraverso i diversi carismi(114) che possono derivare dal Cristo; ma la continuità è altresì garantita attraverso una catena fisica di vescovi come titolari di un potere divino che per mezzo dello Spirito Santo e per volere divino passa dall’uno all’altro ed ha le sue radici direttamente nel Cristo. Il problema è che non abbiamo alcuna certezza sulla reale consistenza di questa catena, né siamo in grado di stabilire, in assenza di evidenze archeologiche, l’esistenza di comunità cristiane nel corso del primo secolo. È assai verosimile che il messaggio cristiano si sia diffuso dopo il 70 tra gli ebrei della diaspora nelle aree anatolico-siriane e alessandrine e che le prime forme di episcopato siano rinvenibili forse ad Antiochia e ad Alessandria, mentre è dubbio che siano esistite nello stesso arco di tempo vere e proprie comunità cristiane in Gerusalemme e a Roma. Della presenza di cristiani in Gerusalemme non si trova traccia nel Talmud per tutto il periodo mishnico. Per quanto riguarda Roma abbiamo tracce di catacombe ebraiche del primo secolo, ma nessuna traccia di presenza cristiana. Le espulsioni decise dal potere imperiale riguardavano i giudei e non i cristiani. Anche la rivolta provocata da Cresto, a cui accenna Svetonio, attesta la presenza a Roma di comunità giudaiche, non cristiane. Queste ultime compaiono a Roma non prima del secondo secolo. La presunzione della esistenza di una comunità cristiana, fondata sulla datazione al 57 (114)  Il carisma è il potere di compiere atti miracolosi, come quelli compiuti da Cristo. Gli apostoli, o più genericamente, «i veri discepoli» godono di tali carismi per aver ricevuto da Cristo la grazia; pertanto ciascuno, secondo il dono ricevuto, praticò nel nome di Cristo un potere per beneficare gli altri. Alcuni ebbero il carisma di scacciare i demoni; altri ebbero la prescienza del futuro (carisma profetico); altri il potere di guarire gli ammalati per mezzo dell’imposizione delle mani; altri furono dotati del carisma della scienza-sapienza. Cfr in proposito Ireneo, Adv. haer., ii, 31, 2; 32, 4; v, 6, 1.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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d.C. della lettera di Paolo ai Romani,(115) non è corroborante non solo perché si tratta di fonte cristiana, ma anche perché nulla vieta che le lettere paoline siano pseudoepigrafe come accade per gran parte delle epistole ignaziane. La Lettera ai Romani è in fondo un testo troppo maturo sotto il profilo teologico e filosofico per essere reputato un prodotto della prima ora. Né è possibile invocare la testimonianza di Tacito non solo perché per motivazioni politiche egli fu tendenzialmente ostile a Nerone, ma anche perché il passo in cui accenna alla sua persecuzione anticristiana tradisce una manipolazione cristiana. D’altra parte gli stessi scrittori cristiani si rivelano assai incerti e insicuri in materia di primitive comunità cristiane. Nelle Ipotiposi Clemente Alessandrino ci fa sapere che Giacomo il Giusto, fratello del Signore, ottenne l’episcopato di Gerusalemme da Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre apostoli a cui Cristo «diede il carisma della scienza-sapienza» ed essi la parteciparono agli altri apostoli e ai settanta, tra i quali ci viene annoverato Barnaba. Qui la trasmissione apostolica oscilla tra la conservazione e il ricordo dei lógia del Cristo e tra la trasmissione misteriosa e misterica della scienza-sapienza del Cristo e l’illuminazione ad opera dello Spirito Santo, il cui potere di sanare e di fare miracoli era trasferito per mezzo della miracolosa imposizione delle mani.(116) Quando accenna alle predicazioni apostoliche di Tommaso nella Partia, di Andrea in Scizia, di Giovanni in Asia, di Pietro in Bitinia, Ponto, Galazia e Cappadocia, Eusebio non fa riferimento ad alcuna documentazione storica, sicché sembra che esse siano frutto di sue supposizioni. Certo si preoccupa di darci una lista completa dei vescovi romani e in parte anche di quelli di Alessandria, di Antiochia, di Gerusalemme e di qualche altro piccolo centro asiatico, assumendo verosimilmente come fonte Egesippo, ma quale valore storico hanno tali liste di papi o di vescovi? Se ci riferiamo a Roma le funzioni papali vere e proprie (nel senso della eredità politico-religiosa del Pontifex maximus romano) non possono ritenersi anteriori al iv-v secolo dopo la rovinosa e definitiva caduta dell’Impero. Dal ii al iv secolo abbiamo notizie molto sospette e scarsamente attendibili circa la successione vescovile romana. Ma non è migliore la situazione degli altri centri più rinomati. Assai oscura è la presenza cristiana in Gerusalemme; incerte le origini di quella antiochena e di quella alessandrina. Sospetta è soprattutto la successione gerosolimitana, per il semplice fatto che è difficile ammettere una stabile chiesa cristiana nel cuore del territo(115)  Cfr. M. Simonetti, L’età antica, reperibile in internet. (116)  Cfr. in proposito At, 8, 18-19.

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rio palestinese, fortemente influenzato dal giudaismo, pur nel quadro di un articolato gruppo di sette. Il cristianesimo, per il suo tendenziale triteismo e per la sua idea centrale della incarnazione del dio, è di fatto incompatibile con il monoteismo oltranzista giudaico. Se a Gerusalemme fosse esistita una comunità cristiana ne avremmo trovato notizie almeno nel Talmud o anche in fonti extra-giudaiche. La tradizione vuole che Giacomo sia stato il primo a ricoprire la carica di epíscopos. Ma, anche posto che ciò sia vero, è difficile credere che le dolorose vicende interne della Palestina abbiano reso possibile la permanenza di una comunità cristiana non solo dopo il 70 ma soprattutto dopo il 132-135. Con molta probabilità le sette di origine giudaica non avrebbero tollerato la messa in discussione della Torach. Ad ogni modo secondo Eusebio in Gerusalemme si succedettero nei primi secoli dell’era cristiana i seguenti vescovi: Giacomo fino al 62 d.C.,(117) Simeone, Giusto, Zaccheo, Tobia, Beniamino, Giovanni, Mattia, Filippo, Seneca, Giusto, Levi, Efrem, Giuseppe, Giuda (in gran parte nomi di origine ebraica), seguiti poi da Narciso, Marco, Cassiano, Publio, Massimo, Giuliano, Gaio, Simmaco, Gaio, Giuliano, Capitone, Valente, Dolichiano, Narciso,(118) con una onomastica di prevalente matrice latina.(119) Quanto fossero avvolti nella nebbia i primi vescovi gerosolimitani è provato dalla oscura storicità di Simeone, il successore di Giacomo il Giusto. Il suo nome è desunto, secondo una consueta strategia, dai testi evangelici, come da Paolo erano stati desunti i nomi di Lino e di Clemente per la chiesa romana. Su di lui Eusebio(120) appare piuttosto confuso e la sua confusione dipende da Egesippo. Questi infatti aveva sostenuto che Simeone era figlio di Cleopa e cugino di parte paterna (γεγονότα = patruelis) del Signore, per essere Cleopa fratello di Giuseppe, marito di Maria Vergine. Nei vangeli incontriamo due distinte persone di nome Cleopa con due diverse forme greche: Κλεοπᾶς e Κλωπᾶς. Per Luca Κλεοπᾶς è uno dei due testimoni della resurrezione che si imbattono in Cristo sulla via di Emmaus (Lc, xxiv, 18). Costui evidentemente non ha alcun legame di parentela con il Signore. In Giovanni Κλωπᾶς è il padre di Maria, zia di Gesù ed è pour cause il padre di Maria, madre di Gesù e nonno materno dello stesso (Gv, xix, 25). Mettendo insie(117) v. Eusebio, HE, iii, 11: «la presa di Gerusalemme fu immediatamente successiva al martirio di Giacomo». (118)  Ivi, v, 12) (119)  Per una diversa successione v. Ireneo, Chronicon, anno 160; anno 185. (120)  Eusebio, HE, iii, 11; 32, 1, 3, 4, 6; iv, 22, 4.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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me i dati di Giovanni e di Egesippo risulta che Cleopa avrebbe avuto due figlie di nome Maria, l’una sarebbe stata la madre e l’altra la zia di Cristo. Ne consegue che per Egesippo Giuseppe e Maria sarebbero stati rispettivamente cognato e sorella di Simeone e Simeone sarebbe stato lo zio materno e non, come vuole Egesippo, il cugino paterno, del Cristo. Ma a complicare ulteriormente le cose Egesippo aggiunge che Cleopa era fratello di Giuseppe (τὸν γὰρ οὗν Κλοπᾶν ἀδελφὸν τοῦ Ἰωσὴφ) e che Simeone, in quanto figlio di Cleopa, era «figlio dello zio del Signore» (ὁἐκ θείου τοῦ κυρίου). Se così stavano le cose, Cleopa era nello stesso tempo zio e nonno del Signore; zio paterno, in quanto fratello di Giuseppe, e nonno materno, in quanto padre di Maria. Per di più se Cleopa era anche fratello di Giuseppe il falegname, Maria Vergine avrebbe sposato suo zio.(121) Insomma tutta la vicenda è ingarbugliata già a partire da Giovanni ed è ulteriormente complicata da Egesippo. La narrazione eusebiano-egesippea è un rebus senza soluzione. Tra l’altro su Simeone Egesippo ci ha lasciato una ancor più colorita storia, affermando che egli subì il martirio all’età di 120 anni al tempo di Traiano e del console Attico (99-104 d.C.).(122) Tornando alle successioni apostoliche, Eusebio ci fa sapere che ad Alessandria si susseguirono Anniano (62-84), Avilio (84-97), Cerdone (97-109), Primo, Giusto, Eumene, Marco, Celadione, Agrippino, Giuliano e Demetrio. I vescovi di Antiochia furono: Ignazio […] Erone, Cornelio, Eros, Teofilo […], Serapione. L’onomastica mista fa pensare a comunità multietniche. Ma soprattutto è importante tener conto della struttura amministrativa di tali comunità, che, pur inserite in grandi città, dovevano conservare un carattere locale in particolare al tempo della loro nascita. Probabilmente nessuno ancora rivendicava per sé o per il proprio episcopato un ruolo universalistico. Ad Antiochia deve essersi affermato ben presto il modello monarchico che prevedeva al vertice una egemonia da parte dell’epíscopos. Tale doveva essere, se ci fu, anche il vescovato di Giacomo in Gerusalemme. Ad Alessandria invece la gestione delle prime comunità cristiane era affidata ad un collegio di presbiteri con pari dignità e poteri decisionali. Se teniamo conto del fatto che Ireneo sembra alludere ad una analoga gestione della comunità cristiana di Roma, si può forse supporre che nel corso dei flussi migratori collegati con la diaspora giudaica, la comunità cristiana di Roma si sia costituita intorno ai primi decenni del secondo secolo come una costola di quella alessandrina. La testimonianza di Ireneo è per la verità contraddittoria, poi(121)  Eusebio, HE, iii, 32, 4 e 6. (122)  Probabile riferimento a Tiberio Claudio Attico Erode, console suffectus nel 104.

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ché per un verso egli parla di successione dei presbiteri, grazie alla quale si sarebbe conservata nella Chiesa Romana la tradizione degli apostoli, per l’altro invece, formula per primo una lista di pontefici che va da Pietro e Paolo ad Eleuterio, il pontefice che gli è contemporaneo.(123) Eusebio riproduce e insieme aggiorna la lista di Ireneo come segue: dopo il martirio di Pietro e Paolo (64 d.C.) si succedettero Lino (64-76), Anacleto (76-93), Clemente (96-100), Evaristo (100-109), Alessandro (109-119), Sisto (119-129), Telesforo (129-136), Igino (136-140), Pio (140-155), Aniceto (155-166), Sotero (166-174 o 177), Eleuterio (176-189), Vittore (189-199) e Zefirino (199-217). Fino ad Eleuterio l’onomastica è prevalentemente greca. Da Vittore in poi prevalgono i nomi latini. È superfluo sottolineare che la successione apostolica è di capitale importanza per la Chiesa di Roma. È infatti attraverso essa che, come dice Ireneo, passa la conoscenza dell’«economia della nostra salvezza».(124) Ciò deve far supporre che almeno fino a quasi tutto il secondo secolo la comunità cristiana di Roma familiarizzava più con la koinē diálektos che con il latino. È difficile stabilire quando in essa si ebbe il passaggio dal modello collegiale a quello monarchico. Certamente si trattò di un processo lungo. È probabile che una fase intermedia abbia visto distinguersi all’interno del collegio presbiteriano una sorta di primus inter pares il quale successivamente assunse il titolo di epíscopos. In ogni caso le vicende politiche e l’insorgenza di varie eresie favorirono progressivamente il processo di monarchizzazione. La nostra difficoltà a tracciare con puntualità il percorso storico delle prime comunità cristiane è fortemente condizionata dalla grave carenza di documentazione storica e spesso quel poco che ci resta, e che è di matrice cristiana, non è del tutto affidabile. Tutti i nomi dei vescovi romani dei primi due secoli si riferiscono a personalità pressoché sconosciute. In una situazione così magmatica tentare di ricostruire la storia della prima comunità cristiana di Roma è impresa fortemente aleatoria. Dopo Ireneo ed Eusebio il primo documento contenente la lista dei papi è il Cronografo del 354 o Calendario di Filocalo (mss. Codex Vaticanus Barberini latinus 2154) che confluisce nel Catalogo Liberiano (CL), voluto da Liberio (352) e redatto forse sulla base di una precedente Chronica di Ippolito di Porto, primo antipapa. Esso contiene una lista di 36 papi da Pietro a Liberio (352-366) ed è, a sua volta, alle spalle del Liber pontificalis (LP), elaborato su invito di papa Damaso, ma poi proseguito fino a Felice IV (526(123)  Ireneo, Adv. haer., iii, 2, 2; iii, 3, 3. (124)  Ivi, iii, 1.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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530) e ulteriormente fino a Stefano V (885-891). A differenza di Ireneo e di Eusebio, che forniscono solo i nomi dei pontefici, CL e LP aggiungono brevi note biografiche su ciascun seguace di Pietro, indicando gli anni consolari di inizio e conclusione del mandato. Tali note sono più ricche e più articolate a partire dal quinto secolo e sono invece molto striminzite e scheletriche soprattutto per gli episcopati dei primi due secoli ma anche per il terzo e il quarto secolo. Tutto ciò contribuisce a lasciare avvolte nell’oscurità le figure dei primi papi. Se poi si mettono a confronto le cronologie, le note e le successioni dei diversi documenti le contraddizioni tra l’uno e l’altro diventano marchiane. Tutto fa pensare che in realtà tutta la prima successione apostolica, almeno fino al secondo secolo, sia per lo più fittizia. E anche quando siamo di fronte a personalità storiche, la narrazione che li riguarda non è affidabile. Di alcuni vescovi romani la chiesa conserva anche delle lettere; forse in concomitanza con la redazione del Liber pontificalis nascono le prime lettere cattoliche. Non mi riferisco a quelle che sono note dal NT (1 e 2Pietro, 1, 2, 3Giovanni, Giacomo, Giuda); esse sono così denominate dalla Chiesa, ma in effetti hanno uno specifico destinatario o ne sono del tutto prive. Le prime timide epistole cattoliche sono riferite ad Evaristo, le cui due lettere (entrambe supposititiae) sono indirizzate Ad omnes episcopos Africanos e a tutti i fratelli cristiani di Egitto; più pretenziose le lettere di Alessandro (date per suspectae), la prima diretta ad omnes orthodoxos, la seconda a tutti i vescovi di tutte le regioni e la terza a tutti coloro che esercitano il sacerdozio. Le lettere di Sisto (dichiarate notheuontai) sono più esplicitamente cattoliche in quanto rivolte ad omnes Christi fideles e ad omnes ecclesias. Telesforo scrive Ad omnes universaliter Christi fideles e la sua lettera è ritenuta notheias, cioè suspecta. Suspectae sono anche le lettere che Igino scrive ad omnes Christi fideles e ad Athenienses. Le lettere di Pio sono dirette la prima ad universos Christi fideles, la seconda ad Italicos e le ultime due ad Justum viennensem episcopum. La lettera di Aniceto ad Galliae episcopos è ritenuta supposititia. Sotero scrive ad Campaniae episcopos e ad espiscopos Italiae. Le lettere di Eleuterio ad Gallos e il rescriptum ad Lucium Britanniae regem sono reputate la prima adulterina e la seconda spuria. La realtà è che questa epistolografia, quasi certamente pseudoepigrafa e tendenzialmente cattolica, ha la funzione di legittimare il potere universalistico del papa allorché nel quinto secolo esso si sarà effettivamente costituito. La Chiesa come potere politico-religioso è impensabile prima del iv secolo. Innanzi tutto scompare in CL e in LP la figura di Paolo dalla succes-

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sione apostolica. Essendo redatti nella fase di consolidamento del potere ecclesiastico i due documenti rispondono all’istanza di collegare direttamente il potere papale all’apostolo Pietro, come fondatore (Pietro roccia della Chiesa) di tutte le comunità cristiane (aspirazione ad un ruolo cattolico-universalistico) e come titolare del potere di sciogliere e di legare. Così, a titolo di esempio, per Eusebio l’episcopato di Lino ebbe inizio dopo il martirio di Pietro e Paolo (64 d.C.) e si protrasse per dodici anni (64-76); per il LP invece iniziò sotto il consolato di Saturnino e Scipione (56 d. C) e si concluse sotto Capitone e Rufo (67 d.C.). Se approssimativa è la cronologia di Eusebio ancor più aleatoria è quella di LP. Infatti Eusebio assegna una durata di dodici anni all’episcopato di Anacleto (76-88 d.C.), ma poi afferma che Anacleto morì nel dodicesimo anno del regno di Domiziano (93 d.C.). Per LP tra il 77 e l’83 fu pontefice Cleto, distinto da Anacleto, il quale avrebbe esercitato il proprio magistero dopo Clemente (68-76 d.C.) dall’84 al 95 d.C. Tali dati sono confermati tanto nell’Epitome Feliciana quanto in quella Cononiana. CL presenta un vuoto dopo l’episcopato di Lino, datato 56-57, poiché fa partire il magistero di Clemente con il consolato di Publio Galerio Tracalo e Tiberio Catio Asconio Silio Italico (68 d.C.) e, dopo Clemente, colloca Cleto (77-83) e Anacleto (84-95). Per quanto da parte di autori cristiani si cerchi di passare sotto silenzio tali contraddizioni, esse sono la viva testimonianza che tutta la prima successione apostolica romana è solo frutto di una tardiva rielaborazione. Sulla collocazione storica di Clemente si può dire che convergono Origene, Girolamo e Ireneo,(125) ma Tertulliano(126) è convinto che egli fu il diretto successore di Pietro. Lo stesso afferma Girolamo.(127) Agostino(128) sostiene che Clemente succedette a Lino. Secondo Eusebio Telesforo esercitò il proprio ministero per 11 anni, ma tale durata non si accorda con la successione di Igino. Inoltre Ireneo, iii, 3, 3, ci dice che Telesforo morì martire, ma LP annovera come martiri, limitandoci ai primi due secoli, i pontefici Lino, Cleto, Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto, Aniceto e Vittore. Il LP presenta vuoti tra il 67, morte di Lino e il 77, elezione di Cleto (terzo papa), ma in realtà tale vuoto è coperto da Clemente, i cui anni consola(125)  Origene, Comm. in Johannem, vi, 36 (PG. xiv, coll. 193-195); Girolamo, De viris illustribus, xv; Ireneo, Adv. haer., iii, 3, 3. (126)  Tertulliano, De praescriptionibus adversus haereticos., xxxii, PL. ii, col. 45. (127)  Girolamo, Adversus Iovinianum, i, 12, PL. xxiii, col. 239. (128)  Agostino, Ep. liii Ad Generosum, PL. xxxiii, col. 196.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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ri estremi sono quelli di Tracalo e Italico (68) e l’ottavo di Vespasiano e Tito (76). Tra Clemente e l’elezione di Anacleto (84) c’è un ulteriore vuoto di otto anni. L’elencazione di tali incongruenze potrebbe essere lunga. Un ulteriore esempio riguarda papa Sotero. Per Eusebio il suo mandato si sarebbe concluso nel diciassettesimo anno di regno di Marco Aurelio (177 d.C.); ma questa data non è compatibile con la sua durata di 8 anni;(129) di contro per LP e per CL Sotero fu vescovo di Roma dal 162 (consolato di Quinto Giunio Rustico e Lucio Tizio Plauzio Aquilino) al 170 (consolato di Marco Gavio Cornelio Cetego e Gaio Erucio Claro). Per CL la passione di Cristo cadde nell’anno consolare dei due Gemini (29 d.C.: Gaio Fufio Gemino e Lucio Rubellio Gemino) e Pietro esercitò l’episcopato romano dal 30 (consoli Marco Vinicio e Gaio Cassio Longino, allorché era ancora vivo Cristo, in modo che la successione episcopale partisse direttamente da Cristo) fino al 55 (consoli Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico e Lucio Antistio Vetere). Le note biografiche di CL sono così sintetiche da limitarsi quasi esclusivamente ad indicare gli anni consolari dei mandati di ciascun pontefice. Uno dei pochi episodi che può aiutarci a ricostruire il quadro storico del cristianesimo primitivo è forse quello della controversia sulla datazione della pasqua. Le comunità cristiane orientali, che si erano formate in seno al giudaismo, conservavano nella nuova fede cristiana antiche tradizioni giudaiche. Tra queste la più significativa riguardava la celebrazione della pasqua. Per la tradizione ebraica essa cadeva il 14 del mese di nisan, quale che fosse il giorno della settimana.(130) Nella trasposizione dalla fede giudaica a quella cristiana la pasqua perdeva il suo significato originario di commemorazione della fuga dall’Egitto e assumeva il significato di commemorazione della resurrezione del Cristo. Per i testi evangelici tale resurrezione era caduta di domenica e quindi si presumeva che la stessa pasqua dovesse essere celebrata di domenica. Com’è potuto accadere che nella conversione cristiana si sia mantenuta un’usanza ebraica in netto contrasto con il messaggio evangelico? Si può rispondere che ciò è avvenuto per consuetudine o per il protrarsi di una tradizione. Ma ciò non basta. Occorre tener conto del fatto che la circolazione dei testi evangelici nelle regioni orientali, ove pure comparvero (129)  Eusebio, HE, v, 1. (130)  Non sono convinto che la pasqua ebraica cadesse in un giorno qualsiasi della settimana. Per il Pentateuco, infatti, essa cadeva di venerdì. Ciò fa supporre che gli ebrei adattavano il loro calendario in modo che il primo giorno di nisan cadesse di sabato in occasione di una neomenia, per far sì che il 14 dello stesso mese la luna fosse in fase di plenilunio.

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per la prima volta, fu alquanto tardiva tanto da permettere che si consolidasse la consuetudine giudaica della celebrazione della pasqua all’interno delle comunità cristiane. Non possiamo cavarcela con il pretesto che si trattava di comunità giudeo-cristiane, legate alle proprie tradizioni, perché la questione della ricorrenza della pasqua è di rilevante importanza per il cristianesimo. Solo se supponiamo che nelle chiese asiatiche i vangeli si diffusero nella prima metà del ii secolo è possibile capire che non era più accettabile per le comunità orientali la rinuncia ad una consuetudine, o se si vuole ad una tradizione, ormai consolidata. Ciò significa che il cristianesimo fin dal suo esordio si presentava diviso tra Oriente ed Occidente. La Historia Ecclesiastica,(131) sebbene in modo tortuoso ed ambiguo, e forse anche con scarsa aderenza storica su alcuni dettagli, traccia assai bene i termini di questo conflitto. Eusebio abbonda di citazioni di lettere che non ci sono pervenute e che forse non sono mai state scritte. Egli cita la lettera «di coloro che all’epoca si riunirono in Palestina sotto la presidenza di Teofilo, vescovo della diocesi di Cesarea, e di Narciso, vescovo di Gerusalemme». Poi fa cenno alla lettera «di quanti per la stessa questione si riunirono a Roma e indica quale vescovo Vittore». Ulteriori lettere sarebbero state scritte dai vescovi del Ponto, presieduti da Palmas, dalla cristianità di Gallia sotto la guida di Ireneo, da Bacchillo, vescovo di Corinto, e dai vescovi dell’Osroene. Decisiva fu in ogni caso la lettera di Policrate a Vittore, il quale, secondo Eusebio, avrebbe escluso – (ma non si sa bene con quale autorità, se il suo ruolo cattolico-universale non era ancora stato riconosciuto) – «in massa dall’unità comune le diocesi di tutta l’Asia insieme con le chiese vicine, in quanto eterodosse e mediante lettere disapprovò indistintamente tutti i fratelli di quei luoghi e proclamò che erano scomunicati». Un’ulteriore causa che favorì la centralizzazione del potere nelle mani del vescovo di Roma fu la straordinaria fioritura delle eresie. Essa era la naturale conseguenza della frammentarietà delle comunità cristiane disperse in un territorio vastissimo quale era quello dell’impero. Le eresie compromettevano seriamente la forza del cristianesimo, che era insita nella sua sostanziale unità. Esse rimettevano tutto in discussione; ciascun eresiarca si riteneva legittimato ad interpretare il messaggio di Cristo. Ireneo ci fa sapere che taluni osavano «vantarsi di essere correttori degli apostoli»; altri non esitavano a discreditare le scritture affermando che «non sono corrette e non danno (131)  Eusebio, HE, v, 23-25.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

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garanzie, che il loro linguaggio è equivoco».(132) Per superare questo impasse si percorsero due strade: la teorizzazione della conoscenza perfetta e la rigorosa trasmissione della verità apostolica attraverso la successione dei vescovi romani. Sul primo punto è molto lucido Ireneo: dopo la resurrezione e l’assunzione in cielo, Cristo diede ad alcuni il carisma della conoscenza perfetta: alcuni, «attraverso la discesa dello Spirito Santo, furono pieni di certezza su tutte le cose ed ebbero la conoscenza perfetta». Anche sul secondo punto Ireneo è il primo a teorizzare la diretta trasmissione della tradizione attraverso la successione dei vescovi. «La tradizione – egli scrive – ricevuta dagli apostoli giunge a noi attraverso le successioni dei vescovi». E pone in termini rigorosamente imperativi le basi per la supremazia e il carattere universale-cattolico della Chiesa romana: «Infatti – scrive – con questa chiesa [ovvero con la Chiesa di Roma, in forza della sua origine più eccellente] deve necessariamente essere d’accordo ogni altra chiesa».(133) Ed è evidente a questo punto che la chiave di volta è data dalla diretta derivazione dell’episcopato romano dagli apostoli. Lino e Clemente diventano in questa operazione centrali. Nominati nelle epistole paoline, essi sono ordinati direttamente da Pietro che ha il potere (o il carisma) di sciogliere e di legare. Ne consegue che le testimonianze che Ireneo ed Eusebio ci forniscono sono tutte tardive e poco affidabili. Anche sul piano più strettamente teologico della concezione del Lógos si profilò un contrasto tra Roma, che, per non cadere nel triteismo, intendeva il Cristo come persona dotata della stessa sostanza del Padre, e la Chiesa di Alessandria, che, fortemente influenzata dal monarchianesimo sabelliano, preoccupato di salvaguardare il monoteismo, intendeva il Lógos più che come figlio come creatura subordinata a Dio. Tale dottrina non fu accolta dai fedeli più strettamente legati al monarchianesimo, i quali pensarono di ricorrere al vescovo di Roma. In una lettera indirizzata a Dionigi di Alessandria Dionigi di Roma contestò le sue prese di posizione, ritenendole derivate da Origene, che, ammettendo tre ipostasi, cadeva a giudizio del vescovo di Roma in una forma di triteismo. Il vescovo alessandrino rispose seccamente, dicendo di non poter accogliere la proposta del collega romano e la questione si chiuse. Importanti informazioni sulle vicende della chiesa sotto Dionigi di Roma (259-268) ci vengono date dal De sententia Dionysii e dal De decretis Nicaenae synodi di Atanasio. (132)  Ireneo, Adv. haer., iii, 1 e iii, 2. (133)  Ivi, iii, 3.

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Un ulteriore conflitto dottrinale scoppiò nel 272, durante l’episcopato di Felice, allorché un concilio di vescovi siriani e palestinesi condannò e depose Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia. Paolo non accettò la condanna e si rifiutò di consegnare i luoghi di culto di Antiochia. Il risultato fu che i suoi avversari si rivolsero all’imperatore Aureliano, il quale dichiarò legittimi proprietari i vescovi che si trovavano sulle stesse posizioni di Roma. Se questo può far pensare ad un incremento di prestigio del vescovo di Roma in realtà è un episodio foriero di un suo asservimento al potere imperiale. Ciò diventerà manifesto con l’avvento di Costantino, che chiude il ciclo delle persecuzioni e, con gli editti di Serdica (30 aprile 311) e di Milano (313), concede da un lato la libertà di culto ai cristiani, e dall’altro imbriglia la chiesa nelle strutture stesse dell’Impero, sottraendo al vescovo di Roma la propria autonomia. Molto correttamente Simonetti parla in proposito di «Chiesa imperiale». Il potere di sciogliere le controversie è ora reale. Costantino interviene nei Concili ecumenici e fa sentire il peso della sua autorità. Fortuna volle che a Nicea la posizione assunta dall’imperatore coincidesse con quella del vescovo di Roma, ma si trattò di pura coincidenza. La chiesa è imperiale perché di fatto Costantino, che gode anche del titolo di Pontifex Maximus, ne è il vero capo. Nello stesso tempo inizia per la chiesa di Roma un’aetas aurea; si avviano le trasformazioni delle grandi basiliche romane in vere e proprie chiese, che ne ereditano in gran parte la struttura; la Chiesa riceve in dono il prestigioso Laterano; viene costruita la basilica di S. Pietro; in Palestina una vasta operazione condotta dalla madre Elena assicura alla pietà dei fedeli l’individuazione dei luoghi santi, indipendentemente dalla loro credibilità storica. Ma la chiesa imperiale è in realtà una chiesa scristianizzata, paganizzata. Costantino ed Elena la contaminano con le credenze pagane, con il culto delle immagini, delle false reliquie e dei falsi siti cristiani non solo nella città di Gerusalemme, ma anche in Roma e in Efeso. Con la loro opera nasce la figura del Cristo pantocrator, con la tipica capigliatura lunga che scende fin sopra le spalle e la barba biforcuta. Essi la danno in pasto alla credenza popolare, ispirandosi alla figura dello Zeus biforcuto. Nel Concilio Lateranense del 313 e in quello di Arles dell’anno seguente è ormai l’imperatore che assume la decisione contro i donatisti, che si ribellavano al processo di imperializzazione della chiesa. Nel Concilio ecumenico di Nicea la sconfitta dell’arianesimo è frutto della volontà di Costantino che non si premurò neppure di interpellare papa Silvestro; anzi il papa di Roma non prese neppure parte al concilio. La politica primaziale riprese con

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Giulio che fu vescovo di Roma dal 337 al 352. Di lui Atanasio nell’Apologia contra Arianos ci ha conservato una lettera. Dopo la morte di Costantino (337) Giulio fu assecondato dall’imperatore Costanzo che convocò un concilio ecumenico a Serdica nel 343 per obbligare l’episcopato orientale a saldarsi con quello occidentale. Dal concilio uscirono i canoni che affidavano all’autorità del vescovo romano gli eventuali casi di condanna di un vescovo, pronunciata a seguito di concili locali. Ma per l’Impero, proprio a seguito dell’editto di tolleranza religiosa, era di capitale importanza conservare, ai fini della solidità del potere imperiale, il principio della unità religiosa. Sicché Costanzo, spinto da proprie istanze politiche, non tardò a ripercorre le orme di Costantino e tra il 353 e il 355 fece condannare Atanasio in ben due concili (di Arles e di Milano) e mandò in esilio in Tracia Liberio, vescovo di Roma, che si era rifiutato di approvare la condanna. Per recuperare il proprio ruolo Libero condannò in quattro lettere (conservate da Ilario) la dottrina atanasiana e rientrò a Roma. Alla morte di Costanzo II gli atanasiani ripresero la loro battaglia e il successivo Concilio di Costantinopoli (381) riconfermò i canoni approvati a Nicea, ribadendo nel simbolo niceno-costantinopolitano la consustanzialità del Figlio e del Padre. Ai conflitti ideologici si aggiungevano quelli di potere. Il prestigio che il vescovo di Roma andava via via assumendo nel corso del iv secolo, rese sempre più appetitosa la cattedra di Pietro. Sicché l’elezione dei pontefici diventava oggetto di conflitti talvolta anche sanguinosi. Tale fu il caso dell’elezione nel 366 di Damaso che si impose con la forza e con il sangue, costringendo il rivale Ursino ad abbandonare Roma. Damaso (366-384) e Siricio (384-399) inaugurarono una politica autoritaria proprio nel momento storico, da Teodosio in poi, in cui scemava quella imperiale. I successivi eventi, con le tragiche invasioni barbariche (i Goti di Alarico nel 410, i Vandali di Genserico nel 452, gli Unni di Attila 455) e poi la caduta dell’impero d’Occidente (476), segnarono definitivamente la trasformazione dell’episcopato di Roma in papato, che, per essere erede del fasto e del potere del vecchio impero, si secolarizzò e nel ripristino o nella conservazione delle forme esteriori e delle ritualità del paganesimo, subì un processo di paganizzazione. Almeno per i primi tre secoli non si può parlare di vera e propria storia del papato romano, perché la carenza della documentazione è gravissima, gran parte dei testi pervenuti sono apocrifi. Se diciamo che anche la comunità cristiana di Roma era afflitta da contrasti interni, facciamo forse un’affermazione generica che vale per quasi tutte le comunità cristiane sia orientali che oc-

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cidentali, come si evince dall’abbondante epistolografia più o meno coeva. Simonetti(134) suppone che essa fosse multietnica e che il collegio presbiteriale fosse distribuito tra le varie rappresentanze etniche. Ma sono supposizioni che non hanno fondamento in una puntuale documentazione. In realtà le varie etnie che aderiscono alla fede cristiana sono unite proprio in nome di essa e tendono a mantenere all’interno di una comunità cristiana una armonia e una condivisione essenziale all’unità della loro chiesa. Il primo episodio di una certa rilevanza storica che denuncia un conflitto insanabile tra le chiese cristiane è quello relativo alla celebrazione della pasqua. Esso sarebbe esploso sotto Vittore e sarebbe stato provocato da Policrate. Come si è detto le chiese orientali – e forse meglio sarebbe dire le chiese di più antica tradizione – conservarono l’uso della pasqua ebraica. Per quanto ci è dato sapere, questo conflitto non fu interno alla chiesa di Roma. Secondo la versione fornitaci da Eusebio Roma non entrava in conflitto con coloro che venivano dalle chiese orientali, ma imponeva l’uso cristiano della pasqua. L’incontro tra Policarpo e Aniceto – secondo quanto egli ci dice – si svolse in piena armonia, nonostante «qualche piccolo contrasto su alcune altre cose»; infatti né Aniceto persuase Policarpo, né Policarpo Aniceto. Allorché il caso riesplose a causa dell’intervento di Policrate, il vescovo Vittore anatemizzò le chiese orientali e decise di non accogliere all’interno della chiesa romana i sostenitori della pasqua ebraica. Questo episodio non prova alcuna superiorità politico-ideologica della chiesa di Roma, ma più semplicemente dimostra che, via via che il cristianesimo si diffondeva, si creavano al suo interno fratture e contrasti che diventavano insanabili con il passare del tempo. Se mai c’è da chiedersi con quale autorità Policarpo prima e Policrate poi si rivolgono a Roma? Lo fanno in segno di sottomissione o con la presunzione di essere depositari di una più antica tradizione? Tutto fa pensare che la seconda ipotesi sia quella esatta. Ma Vittore reagì con eccessiva energia e nello stesso Occidente – dice Eusebio – molti vescovi – e tra loro lo stesso Ireneo, che per altro era un paciere (dal gr. eirēnē = pace), come suggeriva il suo stesso nome – gli consigliarono un atteggiamento più prudente. Ciò che è dubbio in questo episodio è il potere decisionale attribuito a Vittore. Se la Chiesa romana era ancora gestita da un collegio presbiteriale, qual era il ruolo di Vittore? In nome di chi scomunicò gli asiatici? È possibile che in seno al collegio egli abbia già assunto il rilievo di un primus inter pares ed abbia caricato il suo ruolo di un peso (134) M. Simonetti, L’età antica, reperibile in internet.

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mai prima avuto? Non abbiamo elementi per poter sciogliere tali questioni. Sappiamo che la prima vera scissione interna alla chiesa romana fu prodotta dall’eresia di Florino e di Blasto, la quale verteva sulla ‘monarchia’ divina, che implicitamente faceva di Dio l’autore del male. Ma le eresie continuavano a proliferare; esse nascevano per superfetazione interna alle dottrine cristiane. Un vero e proprio terremoto dottrinale provocò il marcionismo, che assunse, come un’Idra multiforme, le più svariate configurazioni. Marcione, il lupo del Ponto, segnò una linea di netta separazione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, evidenziando come il Dio dell’antica tradizione, essendo vendicativo e punitore, era incompatibile con il Dio-amore della nuova alleanza. Il che comportava la limitazione del canone cristiano alle sole lettere paoline e ad una parte del vangelo lucano.(135) I marcioniti si frantumarono in una variopinta articolazione di sette. Apelle e Filomena contestavano le profezie e il potere profetico, ritenendolo derivante da uno spirito demoniaco; le reputavano, perciò, tutte contraddittorie e false. Inoltre negavano che la salvezza traesse origine dalla passione del Cristo e ritenevano che dipendesse solo dalle opere buone. Portico e Basilide scivolavano verso una forma di manicheismo, ammettendo due principi o una forma di diteismo. Sinero si fece promotore di una sorta di tritesimo. Un’altra tempesta colse la chiesa con l’esplosione dell’eresia montanista. Ne furono promotori Montano, le sue profetesse Priscilla e Massimilla, oltre ad un oscuro Milziade e ad un tal Teodoto, che operarono soprattutto in Asia e in Frigia (ove l’eresia assunse in nome di Catafrigi). Essi praticavano l’assoluta continenza e lo scioglimento del matrimonio. Se non si confondevano con gli encratiti, avevano con loro molti punti di contatto. Proponevano un digiuno in forme diverse dal cristianesimo e stigmatizzavano di simonia l’accettazione di doni sotto forma di offerte. Ancora sullo scadere del secondo secolo, durante l’episcopato di Zefirino, si affermò l’eresia di Artemone, ripresa a distanza di una sessantina d’anni da Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia, deposto e condannato in due sinodi (264 e 268). Il racconto eusebiano in proposito è molto contorto e soprattutto è confuso perché in esso ricorrono gli stessi nomi in riferimento a personaggi diversi che sono per noi oscuri e sconosciuti. Artemone sosteneva che Cristo fosse stato un semplice uomo e la sua eresia non era per certi aspetti che una reviviscenza di quella degli ebioniti. Ne sarebbero stati seguaci Teodoto il cuoiaio e i suoi discepoli Asclepiadote (o Asclepiade se trattasi della stessa per(135)  Ireneo, Adv. haer., iii, 27.

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sona, ma potrebbe trattarsi di due diverse persone), Teodoto il banchiere, Ermofilo e Apolloniade; Natalione se ne sarebbe proclamato vescovo. Verosimilmente essi erano influenzati dalla cultura filosofica greca, perché si dedicavano alla geometria euclidea e apprezzavano Aristotele, Teofrasto e Galeno. Condussero indagini critiche sulle Scritture ed Eusebio ci fa sapere che quelle di Ermofilo e di Apolloniade erano «del tutto discordanti»; in ogni caso non accettavano il principio della ispirazione divina delle Sacre Scritture. A detta di Eusebio ripudiarono la Legge e i profeti ed istituirono «un insegnamento senza Legge e senza Dio».(136) Il capostipite di tutte le eresie fu, a parere di Ireneo e di Eusebio,(137) Simon mago, samaritano, del quale abbiamo già parlato nel capitolo IV,2. Discepolo di Simone è ritenuto Menandro, anch’egli samaritano, il quale non mancò di presentarsi come Salvatore degli uomini; suoi discepoli furono Saturnino di Antiochia e Basilide di Alessandria,(138) i quali avrebbero professato «le stesse menzogne» di Menandro. In realtà noi sappiamo che essi furono i fondatori della gnosi, insieme con Carpocrate e furono confutati da Agrippa Castore e da Ireneo (l’eresia gnostica si affermò a Roma intorno al 140). Giustino(139) nella sua Apologia ci dice che Menandro riteneva che la salvezza sarebbe spettata a coloro che avessero praticato le sue stesse arti magiche. Saturnino sosteneva che il Salvatore è ingenerato e incorporeo, che si è manifestato solo in apparenza (docetismo); che il Padre ha inviato Cristo per distruggere il Dio dei Giudei; affermava che all’atto della creazione furono generate due tipologie di uomini; i buoni e i cattivi. Da Ireneo sappiamo che essi praticavano l’encratismo(140) ed erano convinti che il Salvatore fosse stato mandato per distruggere il genere cattivo. Basilide è forse il primo che teorizza una lunga processione o emanazione di potenze dal Padre; riteneva che la creazione fosse stata assegnata agli angeli che si trovano nell’ultimo cielo, il cui capo è il Dio dei Giudei, che ha preteso di sottomettere ai giudei tutti i popoli e ne ha provocato la rovina. Il primogenito del Padre è l’intelletto, ovvero Cristo. Ma non fu il Cristo a patire la croce, bensì Simone di Cirene, colui che portò la croce in sua vece. Simone fu crocifisso per errore perché i Giudei non capirono che Cristo lo aveva trasformato fino a fargli assume(136)  Eusebio, HE, v, 28, 13-19. (137)  Ivi, ii, 1, 10-12; 13, 1, 6; iii, 26; Ireneo, Adv. haer., iii, 23. (138)  Eusebio, HE., iv, 7; Ireneo, Adv. haer., i, 24, 1, 3. (139)  Giustino, Apol., xxvi, 4. (140)  Ireneo, Adv. haer., i, 28.

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re le sue sembianze.(141) Per Carpocrate Cristo fu un uomo più giusto degli altri; la sua anima aveva platonicamente memoria di tutte «le cose viste nel soggiorno presso il Dio ingenerato» e si era purificata di tutte le passioni immesse negli uomini per punizione. Si spiega perciò perché taluni si ritengano simili allo stesso Cristo. I discepoli di Basilide ritenevano che il linguaggio di Cristo fosse stato esoterico; la loro eresia sarebbe stata introdotta a Roma da Marcellina, che, a detta di Ireneo, ingannò molti. Precursore di Marcione sarebbe stato Cerdone, che Ireneo, nel tentativo di spiegare le eresie nell’ottica della loro partenogenesi dal capostipite Simone, lo annovera appunto tra i suoi seguaci. Egli avrebbe precorso Marcione circa il discrimine tra il Dio ebraico e quello cristiano. Sulla stessa linea si muove Eusebio,(142) che fa derivare da Simone i cleobiani (da Cleobio), i Dositani da Dositeo, i Garateni da Gortaio, i Mosbotei, non altrimenti noti, i Menandristi, i Valentiniani, i Marcioniti, i Caropocraziani, i Basilidani e i Saturnaliani. Cerinto(143) sosteneva una dottrina millenaristica, preannunciava una nuova parousía affermando che il regno di Cristo, instaurato dopo la resurrezione, ci avrebbe restituito il godimento dei piaceri. L’eresia cerintiana accentuava la trascendenza del divino e affermava che la Potenza è del tutto separata e distante e al di sopra di tutte le cose. Negando che Gesù potesse essere stato generato da una vergine, si approssimava all’adozionismo, perché lo riteneva disceso sotto forma di colomba dopo il battesimo. Gli ebioniti accettavano solo il vangelo di Matteo (o meglio il Vangelo secondo gli Ebrei) e respingevano le lettere paoline poiché Paolo – a loro avviso – avrebbe apostatato la Legge.(144) Ben poco sappiamo dei Nicolaiti, che forse presero il nome dal diacono Nicolao, ricordato negli Atti (vi, 7) e furono duramente condannati nell’Apocalissse di Giovanni. Ireneo ci dice che vivevano promiscuamente.(145) Il sabellianismo opponeva all’adozionismo il modalismo, in cui tentava di far coesistere il monarchianismo con il principio della divinità di Cristo, per cui finiva col fare di Cristo solo una modalità di manifestazione del Padre, con la conseguenza che la passione in croce sarebbe stata sofferta dal Padre (da cui la denominazione di patripassianismo). Il modalismo fu for(141)  Ivi, i, 24. (142)  Eusebio, HE, iv, 22. (143)  Su Cerinto ci sono pervenute testimonianze di Gaio e Dionigi di Alessandria in Eusebio (HE, iii, 28). (144)  Eusebio, HE, iii, 27. (145)  Ap, ii, 6, 14-15. Ireneo, Adv. haer., i, 26, 3.

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mulato da Noeto di Smirne e fu introdotto nella comunità romana da Cleomene e da Sabellio. Immediata fu la reazione di Zefirino che condannò tanto Teodoto montanista quanto Sabellio. E con loro fu altresì espulso dalla chiesa romana quello Pseudo-Ippolito, autore dell’Élenchos, che Eusebio definisce in termini ambigui «vescovo di un’altra chiesa di un’altra regione».(146) La setta degli elcesaiti, considerata assai prematura (si sarebbe diffusa intorno al 100 d.C.), è in realtà più tardiva e si affermò intorno alla metà del iii secolo. Citata da Origene,(147) è resa a noi più nota attraverso Epifanio e lo Ps.-Ippolito di Roma.(148) Le sue radici erano ebraiche e i suoi seguaci praticavano la circoncisione, respingevano del tutto il paolinismo ed avevano un proprio libro sacro cui affidavano la salvezza dei fedeli. Praticavano una morale permissiva e condannavano l’astinenza e la verginità. Tra gli elcesaiti è ricordato Alcibiade di Apamea.(149) Qual è la funzione che la chiesa di Roma esercita nei confronti di tali eresie? Almeno fino a tutto il secondo secolo non abbiamo notizia di decisioni o di provvedimenti ad hoc. Si vuole che Callisto (217-222) abbia condannato Sabellio di Tolemaide e lo Ps.-Ippolito e che li abbia espulsi dalla comunità romana. Sulle strategie della Chiesa Eusebio è assai vago e parco di notizie. Egli ci dice che Vittore condannò Teodoto il cuoiaio. Ma di tali decisioni di Callisto e di Vittore non si trova traccia nel LP. Non è escluso che da Vittore a Zefirino a Callisto, contrastando le eresie che travagliavano la comunità romana, la Chiesa, e per essa la sempre più emergente figura del primus inter pares, abbia acquisito un certo prestigio. Ma nulla fa pensare che essa potesse rivendicare un ruolo universalistico, perché gli altri episcopati di Antiochia, di Efeso, di Alessandria e di Smirne probabilmente puntavano sulla loro più sicura antichità rispetto a Roma. D’altro canto se è vero che Roma costituiva l’ombelico dell’universo imperiale, è anche vero che in essa la Chiesa era in qualche modo schiacciata sotto la ben più consistente autorità imperiale. Mentre Eusebio si arrabatta per consegnarci una verosimile successione apostolica delle chiese di Roma, di Smirne, di Antiochia, di Alessandria, di Cartagine, di Gerusalemme, di Lione ecc. Ireneo sembra preoccupato solo dalla ricostruzione della successione vescovile romana. Ciò in parte può spiegarsi partendo dal presupposto che egli era un vescovo occidentale e che ave(146)  Eusebio, HE, vi, 20, 2. (147)  Origene, Hom., Salmo 32. (148)  Epifanio di Salamina, Panariion, 19, 30, 53, Ps.-Ippolito, Élenchos, 9, 13-17. (149)  Eusebio, HE, vi, 38.

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

1383

va pertanto una maggiore familiarità con le cose che riguardavano da vicino la sua comunità di Lione. Bisogna tuttavia osservare che Ireneo è, prima ancora di Eusebio, il teologo-storico che ha un forte interesse a far passare l’idea che la Chiesa di Roma doveva aspirare a porsi in termini di Chiesa universale, unica detentrice della verità della tradizione, e per ciò in grado di imporsi per superiorità su tutte le altre chiese. Si capisce così che egli citi della chiesa di Smirne solo il vescovo Policarpo, della chiesa di Efeso dice che fu fondata da Paolo e che in essa visse l’apostolo Giovanni fino al tempo di Traiano;(150) non fa alcun accenno né a Gerusalemme, né ad altre significative realtà del cristianesimo delle origini. Ireneo taglia con il bisturi ogni tentativo di egemonia delle chiese orientali e riserva solo a Roma il titolo di chiesa Grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo […], la chiesa che mostra la tradizione ricevuta dagli apostoli e conserva le fede […] che giunge a noi attraverso le successioni dei vescovi […], la Chiesa con cui, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d’accordo ogni chiesa».(151)

È evidente che egli costruisce una teoria, un concetto di chiesa che non ha riscontro nella realtà. La sua è una favola teologica che serve a consolidare o meglio a fondare un potere. Si capisce perciò la leggenda della fondazione della Chiesa romana da parte di Pietro e di Paolo, il quale ultimo è ben presto sacrificato a vantaggio del primo. Il nodo teologico sta nel concetto di tradizione. Questa è un patrimonio teologico, una verità ricevuta direttamente dal Cristo, un passaggio diretto e ininterrotto dei carismi, per i quali è indispensabile una catena di presbiteri o di episcopi che garantiscano la continuità di quella stessa tradizione. Più che i vescovi romani, l’edificatore della Chiesa universale di Roma è Ireneo. Senza la sua teoria delle successioni apostoliche non sarebbe stata possibile la chiesa universale. E per far questo occorreva retrodatare al massimo, anche contro la verità storica, la nascita della comunità cristiana di Roma. Non potendo risalire fino a Cristo, pretesa che se mai avrebbe potuto avanzare solo Gerusalemme (ma la città che era stata lo scenario della passione era ormai solo un cumulo di macerie), Ireneo saldò l’antichità più eccellente di Roma sui nomi delle due grandi co(150)  Ireneo, Adv. haer., iii, 3, 4. (151)  Ivi, iii, 3, 2.

1384  Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini

lonne della chiesa: Pietro e Paolo. Contro tale presunta antichità non potevano reclamare alcun primato le altre metropoli orientali. Ma tutto questo sarebbe rimasto solo un velleitario progetto politico-teologico, se le vicende storiche del terzo e quarto secolo non lo avessero fatto calare nella realtà. Ed è proprio dopo Ireneo che i vescovi romani (Zefirino e Callisto) si muovono sempre più scopertamente nella direzione indicata dal Lionese. È verosimile che agli inizi del terzo secolo il vescovo di Roma non si presenti più nelle vesti di un primus inter pares nel collegio presbiteriano; anzi, la funzionalità del Collegio impallidisce sempre più, fino a ridursi ad una pura formalità se non ad una pura astrazione. Ma egli è ancora il vescovo di Roma, non il papa o il pontefice massimo. Il termine papa (dal gr. Πάππας = padre) compare solo tra il iii e il iv secolo con Marcellino (296-304), così come solo nel iv secolo compare la denominazione di epistole cattoliche. Verso la metà del terzo secolo l’eresia dello Ps.-Ippolito si ripropone nella persona di Novaziano, che Eusebio paradossalmente chiama Novato. Questi è, come Ippolito, sostenitore di un rigorismo etico che non lascia spazio alla remissione dei peccati. Dopo il battesimo, che cancella tutti i peccati, non c’è scampo né perdono per i peccatori; la penitenza è inutile e non ha efficacia; la chiesa deve essere composta solo di puri. Lo scontro con il vescovo Cornelio è inevitabile e alla fine Novaziano ne esce con una esemplare condanna, pronunciata da un sinodo di vescovi a Roma. Si affermano le scelte teologiche più popolari e più permissive di Cornelio, quelle che assicurano alla chiesa una esistenza più duratura, e si respinge il rigorismo, ricco di raffinate posizioni etico-teologiche suggerite sia dallo Ps.-Ippolito sia dal presbitero Novaziano, divenuto antipapa. Intorno alla metà del iii secolo il prestigio della chiesa di Roma tende ad affermarsi nell’area occidentale. Lo prova il fatto che su determinate questioni dottrinali a Roma si rivolgono i vescovi spagnoli. Due di essi, Basilide e Marziale, che si erano premuniti, pagandolo, del libretto (il libellus) attestante l’avvenuto sacrificio al dio imperatore, essendo stati deposti da un sinodo di vescovi spagnoli, si rivolsero a Stefano, vescovo di Roma, il quale restituì ai due querelanti la dignità di cristiani. I vescovi spagnoli si appellarono alla chiesa di Cartagine, guidata da Cipriano; questi, convocato un concilio, confermò la deposizione di Basilide e Marziale. Stefano non reagì alla decisione degli africani. Un ulteriore scontro tra Roma e Cartagine riguardò la questione del ribattezzamento dei cristiani provenienti da comunità eretiche. Nella chiesa africana essi erano ribattezzati; Roma invece am-

IV.3  Verso la chiesa istituzionalizzata 

1385

metteva come valido il battesimo ricevuto nella comunità eretica. Stefano, verosimilmente per affermare la propria autorità, pretese di imporre agli Africani l’uso romano. La cosa non ebbe seguito per la morte di Stefano e per il sopraggiungere della persecuzione di Valeriano. Questi episodi ci fanno capire quale era lo stato di fatto del potere vescovile romano nella seconda metà del terzo secolo. L’appello di Basilide e Marziale non è di per sé indicativo di una assunzione di prestigio di Roma, per il semplice fatto che la loro richiesta era motivata dal loro diretto interesse ad essere riammessi nella chiesa cristiana. Anzi, a rigore, la reazione di Cartagine dimostra che di fatto nessuna chiesa poteva avere la pretesa di estendere la propria autorità sulle altre. L’episodio relativo al ribattezzamento ci dice che Stefano avanzò una pretesa che però non portò a nulla di concreto. Ergo fino al terzo secolo Roma non è ancora una chiesa cattolica. Il primato di Pietro che Cipriano avrebbe riconosciuto al vescovo di Roma nel De unitate ecclesiae(152) è in realtà il risultato di una comoda interpolazione introdotta nel testo nel v secolo con la caduta dell’Impero romano.

(152)  Cipriano, De unitate ecclesiae, PL. iv, coll. 510-536. In particolare nel capitolo xxiii, col. 534 afferma: «Deus unus est, et Christus unus, et una Ecclesia ejus, et una fides, et plebs una in solidam corporis unitatem concordiae glutino copulata».

INDICE DEI NOMI ANTICHI

Abdeel, figlio di Ismaele, 93, 120. Abdenego v. Azaria. Abdia (profeta), 53, 128, 389-90. Abdia di Babilonia, 1034-36. Abdi-Ashirta di Amurru, 41. Abdi-Heba, re di Gerusalemme, 276-77. Abdon (gdc.), 201. Abele, 94, 117, 921, 1111, 1121, 1130. Abgar V Ukama, 667, 770, 1038. Abgar IX, 1038. Abia, figlio di Samuele, 207, 746, 867. Abias, figlio di Thamar, 1003, 1064-65. Abiatar v. Abiezer. Abiatar, sacerdote, 1000. Abisai, comandante, 211. Abiezer, sacerdote, 378. Abigail, moglie di David, 209. Abimelech, figlio di Gedeone, 200, 339. Abimelech, re della Filistia, 82, 92, 95, 113-14, 120, 124.

Abimelech, sacerdote, 23, 209. Abi-Milku di Tiro, 38, 40-41, 237. Abinadab, re ammonita, 210. Abiram (levita), 165. Abisag, sunammita, 219. Abisua, sacerdote, 347. Abiu, figlio di Aronne, 152, 162 Abiud, 878. Abiyam (re della Giudea), 74, 222, 225-26. Abner (comandante), 210, 307. Abramo (patr.), 19, 29, 49, 68-69, 92-96, 99, 108-09, 112-15, 11821, 124-25, 127-29, 131-34, 137, 198, 244-46, 248, 260, 265, 289, 292, 311, 323-25, 329, 345, 531, 592, 607, 623, 666, 789, 877-78, 913, 922, 961, 1045, 11110, 1175, 1178, 1226, 1228, 1238-39, 136162, 1364. Acaico, discepolo di Paolo, 1202, 1313. 1387

1388  Indice dei nomi antichi Acan, figlio di Carmi, 191, 195, 354. Achab, re d’Israele, 69, 74, 81-82, 85, 127, 215, 225-27, 231, 260, 281-83. Achaz, re della Giudea, 74, 82, 217, 228, 274, 277, 313, 370, 372, 865, 879. Achia di Silo, profeta, 221-222, 234. Achikam, figlio di Safan, 230. Achimaaz, padre di Ainoam, 348. Achinoam di Yzreel, moglie di Davide, 209. Achis di Gat, 209. Achisamach (tribù di Dan), 146. Achitub, figlio di Fineas, sacerdote, 347. Achor, profeta, 232. Acsa, figlia di Caleb, 197. Ada, figlia di Elon, 118. Adad, re di Edom, 132, 221. Adamo, 55, 88, 94, 100, 102-04, 117, 120, 131, 134, 437, 508, 527, 533, 546, 559, 561-64, 566, 659, 87778, 1002, 1110-11, 1113-14, 111821, 1125-26, 1129-30, 1135, 1141, 1166, 1175, 1178, 1210, 1216, 1222, 1262. Adar di Edom, 132. Adas (scriba), 1009. Adbeel, figlio di Ismaele, 120. Addai v. Taddeo. Addi, figlio di Cosam, 878. Adimato, figlio di Carpiano, 1034. Admin, padre di Amminadab, 878. Adoil, ipostasi gnostica, 571. Adonia (figlio di Davide), 23, 219, 348. Adoni-Zedek, re di Gerusalemme, 191. Adram-melech, figlio di Sennacherib, 229, 366.

Adriano (imperatore), 449, 603, 673-76, 686, 690-91, 783, 803, 815, 1102, 1333, 1335-37, 1340, 1344, 1346. Adriel di Mecola, 208. Africano Sesto Giulio, 690-93, 879, 926, 1036, 1332, 1359, 1364-65, 1371. Afrodite (div.), 452, 773. Agapio di Ierapoli, 727-29. Aggeo, profeta, 53, 355, 393-94, 397. Aggeo, levita, 1009. Agostino di Ippona, 662, 664, 955, 1000, 1021, 1026, 1038, 1051, 1360, 1372. Agrippa, prefetto, 1023-25. Agrippa Castore, 1267, 1336, 1380. Agrippa Marco Vipsanio, 687. Agrippina, cristiana, 1023. Agrippino, vescovo di Alessandria, 1369. Ahiram, re di Biblos, 62. Ahutabu, mercante, 39. Akalià, padre di Neemia, 419. Alarico, re dei Visigoti, 1377. Albino Lucceio, governatore, 736-38, 744, 897. Albino, marito di Santippe, 1023. Albio, arconte, 1013. Alcibiade (martire), 1352. Alcibiade di Apamea, 1382. Alcimo, sommo sacerdote, 430, 432, 447, 455. Alessandro alabarca di Alessandria, 738. Alessandro, falso profeta, 658. Alessandro (fam. sac.), 860, 1318. Alessandro, figlio di Simone di Cirene, 901. Alessandro Ianneo, 447, 479, 509.

Indice dei nomi antichi 

Alessandro il ramaio, 1245. Alessandro Lisimaco, 738. Alessandro Magno, 384, 388, 415-16, 430, 445, 454, 757, 1002. Alessandro, martire, 1352, 1358. Alessandro (non ident.), 1313. Alessandro Severo, imperatore, 665. Alessandro siro, 1018. Alessandro, vescovo di Roma, 1370-72. Alessandro I Bala Epifane, 430. Alfeo, padre di Giacomo, 745, 835-36, 1006, 1035. Amalek, eponimo degli amaleciti, 69, 141, 608. Aman, agaghita, 413. Amaria, sacerdote, 347. Amasà, comandante, 211, 307. Amasia, re della Giudea, 227. Ambrogio di Milano, 694, 783, 955, 1026. Aminadab, re ammonita, 50. Ammia, figlia di Lemma, 1027-28. Ammiel, esploratore del Canaan, 165. Ammiel, padre di Betsabea, 211. Amminadab, figlio di Ram, 409. Ammon (div.), 87. Ammon, figlio di David, 211. Ammonio Sacca, 1332. Amon, re di Giudea, 74, 82. Amos, profeta, 53, 128, 313-14, 359, 385, 388-89, 391. Ampliato, discepolo di Paolo, 1102. Amrafel, re di Sennaar, 113. Amran, padre di Mosè, 137-39. Ana, suocero di Edom, 118. Anacleto, vescovo di Roma, 1370, 1372-73.

1389

Anak, figlio di Arba, 49, 165 Anani, giudeo, 84. Anania ben Nebedeo, 1319. Anania/Ainia, Enea/Enia, convertito, 1007. Ananìa di Damasco, 1244. Anania, marito di Saffira, 484, 1308-09. Anania/Sadrach, 414. Anania, sommo sacerdote, 1299, 1310, 1311-312. Anano ben Anano, 730, 734, 737, 741, 744, 1010, 1311. Anano ben Seth, 860. Anano il giovane v. Anano ben Anano. Anat (div.), 79-81, 279, 288-89. Andrea, apostolo, 786, 801, 803, 808, 821, 835-36, 971, 989, 1006, 10201021, 1031, 1033-1035, 1039, 1367. Andronico, amante di Drusiana, 1029. Andronico, discepolo di Paolo, 611, 1202-1203, 1247. Aniceto, vescovo di Roma, 786, 819, 1340, 1370-72, 1378. Anna v. Anano. Anna, figlia di Fanuele, 867, 1000. Anna, madre di Maria, 998. Anna, madre di Samuele, 206, 214, 867-68. Anna, non ident., 1000. Anna, non identificata, 1000. Anniano, vescovo di Alessandria, 1369. Anniel (tribù di Manasse), 161. Annunaki (div.), 101, 110. Anu (div.), 102. Anubis (div.), 100, 102-103, 106, 110. Ansar (div.), 106, 110. Antigono XIII Asiatico, 448.

1390  Indice dei nomi antichi Antimo, martire, 1358. Antinoo, schiavo di Adriano, 1340. Antioco III il Grande, 445. Antioco IV Epifane, 415-17, 430-32, 446-47, 454-55, 603, 659, 737, 751. Antioco V Eupatore, 430, 447. Antioco VII Evergete, 447, 454. Antonia, madre di Claudio, 738. Antonino Pio, imperatore, 616, 657, 669, 674-75, 678, 771, 1102, 1333-34, 1336, 1344, 1346, 1352. Antonino Vero, imperatore, 616, 669, 1344, 1346. Antonio, padre di Simone, 1103. Antonio (santo), 1180. Anzu (div.), 105-106. Apelle, discepolo di Paolo, 1202, 1268. Apelle, gnostico, 1341-42, 1379. Apione Plistonice, 702, 716, 1149, 1344. Apollinare Claudio di Laodicea, 660, 662, 804, 1332, 1343, 1353. Apollinare di Ierapoli, 883, 1267, 1338. Apollo (div.), 665, 771, 773, 1003, 1027, 1317. Apollo, discepolo di Paolo, 587, 614, 626, 773, 1030, 1200, 1218, 1274, 1305, 1308, 1317. Apolloniade eretico, 1380. Apollonio di Efeso, 1257, 1342. Apollonio di Tiana, 666, 713, 758, 910, 945-46, 1020, 1030. Apopi, faraone, 253. Aproniano Gaio Vipstano, 1041. Apsu (div.), 101, 110. Apuleio di Madaura, 648, 650-51, 1356.

Aquila del Ponto, 59, 990. Aquila, disc. di Paolo, 680, 1202-1203, 1242, 1252, 1307, 1314, 1317, 1326-27. Arabiano, scrittore eccl., 1344. Aran, figlio di Tera, 114. Araunà, gebuseo, 212. Arba, capostipite degli Anachiti, 49. Archippo, discepolo di Paolo, 1202-03, 1304. Arel, 161. Areta IV, re di Petra, 733, 746, 860, 928, 1226, 1245, 1265, 1306. Arriano Lucio Flavio, 656. Arioch, re di Ellasar, 113, 429. Aristarco, discepolo di Paolo, 1202, 1247, 1250-51, 1298-99, 1304, 1309-1310. Aristea, patrizio, 1022. Aristide Marciano di Atene, 1267, 1333-34. Aristione, presunto apostolo, 791, 807808, 861. Aristobulo, disc. di Paolo, 1202. Aristobulo, figlio di Giovanni Ircano, 447. Aristobulo II, asmoneo, 448. Ariston, 1022. Aristone Pelleo, 1267, 1336. Aristotele, 465, 1380. Arni, padre di Admin, 878. Aronne, sacerdote, 20, 22, 78, 13839, 146-47, 152, 156-57, 162-63, 166, 168, 192, 232, 317-18, 323, 347, 432, 471, 481, 486, 489, 490, 492, 514-15, 557, 592, 626, 74647, 867, 951.

Indice dei nomi antichi 

Arpacsad, figlio di Sem, 60, 104. Arpacsad, sovrano medo, 429. Arsames, satrapo, 83-84. Arsinoe, moglie di Tolomeo III, 412. Arsinoe III, moglie di Tolomeo IV, 412. Artaserse I di Persia, 83, 412-13, 416, 421, 423, 426. Artaserse II di Persia, 84, 421-23, 42627. Artaserse III di Persia, 422-23. Artaserse IV di Persia, 412. Artema, discepolo di Paolo, 1251, 1304. Artemide (div.), 452, 771-72, 1029, 1309. Artemilla, 1028. Artemone, eretico, 1379. Artemone, nocchiero, 1028. Asa, re della Giudea, 74, 221-22, 22526, 281. Asaf, salmista, 398, 423. Asalia, padre di Safan, 231. Asbel, figlio di Beniamino, 120, 161. Asclepiade, eretico, 1379. Asenat, figlia di Potifar, 130. Asfenaz, capo degli eunuchi, 414. Asherah (div.), 19, 98, 106, 127, 199, 226, 265, 279, 286-90, 292, 774. Asher, figlio di Giacobbe, 544, 548. Ashtar v. Astarte. Ashur-nirari V, 228. Asiel, 161. Asincrito, discepolo di Paolo, 618, 1202. Asmoneo (dem.), 434. Assalonne, figlio di David, 82, 211, 226

1391

Assarhaddon di Assiria, 50. Assia, sorella di Gesù, 1004. Assionico, discepolo di Valentino, 1128. Assurbanipal, re d’Assiria, 338. Astarte (div.), 290-91. Astiage, sovrano indiano non ident., 1036. Atanasio di Alessandria, 610, 773, 1026, 1273, 1375-77. Atenagora di Atene, 543, 670, 1267. Aton/Atun (div.), 83, 97, 399. Attalo (martire), 1362. Attico (non ident.), 1030. Attila, re degli Unni, 1377. Attis (div.), 452, 758, 771, 910, 1187. Augusto (imp.), 448, 479, 567, 676, 720, 771, 869-71, 873-75, 890, 1338, 1363-64. Aureliano (imp.), 1376. Aurelio Appio Sabino, 1356. Autogene, figlio di Barbelo, 1111, 1118, 1122, 1126. Avilio, vescovo di Alessandria, 1369. Azaria, aronnita, 23, 347. Azaria, giudeo, 414. Azaria, re di Giudea, 74, 82, 127, 222, 224-25, 227-28, 230, 281, 413. Azaria, soprannominato Abdenego, 414. Azazel (dem.), 152-153, 577. Aziru di Amurru, 38, 40, 43.

Baal (div.), 78-82, 97-98, 125, 127, 176, 198-200, 207, 227, 229-31, 234, 265, 267-68, 271, 273, 279,

1392  Indice dei nomi antichi 285-89, 291, 311, 315, 320, 341, 349, 378, 380, 465, 482. Baal-berît (div.), 303. Baal-Canan, re di Edom, 132. Baal-Hammon (div.), 774. Baal-Peor (div.), 162, 168, 176, 313. Ba’al-shamim (div.), 87. Baal-zebub (div.), 82. Baasa, re d’Israele, 74, 225-26, 281. Bacchilo, scrittore eccl., 1332. Bacchillo, vescovo di Corinto, 1374. Bagoas v. Bagohi. Bagohi (governatore), 84. Balaam (mago), 100, 167-68, 290, 322-24, 334, 364, 597, 699, 701. Balak, re di Mob, 167-68. Balbo, patrizio, 1022. Balmes (de) Abraham, 57. Balume, pade di Šum-Adda, 39. Barabba, 898. Barachia, padre di Zaccaria, 394. Barak, giudice, 199-200. Barbelo (ipostasi gnostica), 1109, 1111, 1113, 1117-18, 1122, 1124. Bardesane di Edessa, 1342, 1354. Bar-Hadad, re di Sam’al, 62. Bar Kochba Simon, 52, 479, 754, 761, 789, 799, 801, 1072, 1269, 1336. Barnaba, 543, 584-85, 587, 592, 60110, 618, 629, 749, 759, 769, 771, 779, 806, 820, 987, 989, 1018, 1202, 1241, 1250, 1261, 1267, 1273, 1297, 1304-1307, 1314-15, 1321, 1326, 1367. Bar Rakib, re di Sam’al, 62. Bartimeo, apostolo, 793, 839. Bartolomeo, apostolo, 836, 1002,

1015-1016, 1034, 1036, 1039, 1140, 1341. Baruc, profeta, 53, 295, 359, 382, 441, 521, 543, 553, 558-63, 566-66. Basemat, figlia di Elon, 118. Basemat, figlia di Ismaele, 118. Basilide di Alessandria, 817, 989, 1102, 1127, 1157, 1173-74, 1186, 1201, 1204, 1255, 1336, 1347, 1356, 1379-81, 1384-85. Basilio Magno, 1273. Basso Gaio Lecanio, 1040. Beelzebub (dem.), 1070. Beeri, padre di Osea, 385. Beeri, suocero di Esaù, 118. Bela, re di Edom, 132. Bela, figlio di Beor, 167. Belet-ili (div.), 101. Beliar (dem.), 483, 486, 493-94, 497, 508, 515, 547, 1200, Belshazzar, figlio di Nabonedo, 41415, 441. Belteshazzar, soprannome di Daniele, 414. Ben Adad I (di Damasco), 226, 281. Ben Adad II (di Damasco), 226, 281. Ben Adad III (di Damasco), 226-27, 388. Benaià, figlio di Yoiadà, 219, 348, Ben-Ammi, figlio di Lot, 50. Beniamino, vescovo di Gerusalemme, 1368. Beniamino, figlio di Giacobbe, 71-72, 116, 181, 192, 203, 210, 284, 493, 512, 545, 549, 836, 1239, 1301. Beor, padre di Bela, 167, 290. Bera, re di Sodoma, 113.

Indice dei nomi antichi 

Berenice, matrona, 1022. Berenice (sorella di Agrippa II), 1299, 1310. Betsabea, figlia di Ammiel, 211, 219. Betuel, figlio di Nacor, 120. Betuel, padre di Rebecca, 117. Bezaleel, figlio di Uri, 146. Bigvai v. Bagohi. Bila, schiava di Rachele, 119. Birsa, re di Gomorra, 113. Blandina/Biblide (martire), 1352. Blasto, amministratore, 1308, 1316. Blasto (eretico), 1379. Booz, figlio di Salmon, 409. Bradua Regillo Attico Marco Appio Atilio, 1343. Bukki, aronnita, 347. Burra-Buriaš (cassita), 38-39.

Cabri, figlo di Gotoniel, 429. Caifa (sac.) Giuseppe, 730, 762, 860, 873, 886, 889, 895-96, 900, 974, 1008-1010, 1013, 1318. Caino, 94, 117, 120, 131, 1111, 1121, 1124, 1130. Caleb, figlio di Iefune, 165, 168, 197. Caligola Gaio Cesare, 751, 1316. Callista, moglie di Lisbio, 1034. Callistene di Olinto, 1020. Callistione, discepolo di Taziano, 1341. Callisto I, papa, 1382, 1384. Cam, figlio di Noè, 48, 119. Cambise II di Persia, 84. Camor, padre di Sichem, 115. Candace, regina etiope, 1299, 1314.

1393

Candido, scrittore eccl., 1344. Capitolino Giuliio, 675. Capitone Gaio Fonteio, 1041, 1372. Capitone, vescovo di Gerusalemme, 1368. Caracalla (imperatore), 1341. Carisio, marito di Migdonia, 1031-1032. Caristanio Gaio Sergio, 874. Carmi, figlio di Melchiel, 429. Carmi, padre di Acan, 191. Carpiano, padre di Adimato, 1034. Carpocrate (gnostico), 990. Cassiano, vescovo di Gerusalemme, 1368. Castelio (governatore), 1027. Cedreno Giorgio, 525. Celadione, vescovo di Alessandria, 1369. Celso, filosofo, 653-55, 660-61, 664, 668, 692, 696, 701, 757, 778. Celso Publio Iuvenzio, 433. Cerdone eretico, 1381. Cerdone, vescovo di Alessandria, 1369. Cerinto, gnostico, 990, 1039, 1127, 1157, 1381. Cesare, discepolo di Paolo, 1203. Cesare Gaio Giulio, 1338. Cesto, discepolo di Paolo, 1028. Cestio Gaio Floro, 448. Cetego Marco Gavio Cornelio, 1373. Chedorlaomer, re di Elam, 113. Chenaz, figlio di Elifaz, 48. Cheope-Khufu (faraone), 63. Chetura, moglie di Abramo, 114, 118, 131. Chezron, figlio di Perez, 409. Chilion, figlio di Elimelech, 409.

1394  Indice dei nomi antichi Cibele (div.), 452, 758, 770-772. Cipriano Tascio Cecilio, 657, 774, 1357, 1385. Cirillo di Gerusalemme, 665, 987, 1144. Ciro II di Persia, 235, 367, 369, 380, 382, 387, 415-16, 418, 420-21, 425-26, 933. Claro Gaio Erucio, 1373. Claudia, discepola di Paolo, 1203, 1304. Claudio (imperatore), 448, 634, 679684, 738, 762, 1012, 1014, 11031105, 1244, 1265, 1299, 1301, 1305-1306, 1308, 1314-1317, 1329. Clemente Alessandrino, 543, 562, 587, 601-02, 613-14, 618, 630, 664, 716, 773, 781-82, 788, 812, 883, 984, 992-93, 996-98, 1043-44, 11021103, 1115, 1127, 1159, 1173, 1186-87, 1190, 1201, 1206, 1241, 1252-53, 1267, 1273, 1332, 1337, 1341, 1343, 1345, 1350, 1367. Clemente, vescovo di Roma, 585, 587, 614, 618-19, 623-630, 663, 740, 772, 828, 1170, 1206, 1242, 1274, 1313, 1378, 1370, 1372-73, 1375. Cleobio di Corinto, 1027. Cleobio, eretico, 1380. Cleobio, gnostico, 1038. Cleobio, patrizio, 1022. Cleofa, suocero di Alfeo. Cleomene, modalista, 1382. Cleone, cristiano, 1027. Cleopa, disc., 905. Cleopa, padre di Giacomo il Giusto, 1340, 1368-69. Cleopatra, moglie di Licomede, 1028. Cleopatra II Filometore Soteira, 412.

Cleto, vescovo di Roma, 1382. Cofni, figlio di Eli, 23, 206, 348. Commodo (imp.), 883, 1336-37, 1339-44. Coponio, prefetto della Palestina, 448, 738, 870, 1104. Core, levita, 156-57, 163, 165, 318, 398. Cornelio, centurione, 1299. Cornelio, vescovo di Antiochia, 1369. Cornelio, vescovo di Roma, 1356-57, 1384. Cosam, figlio di Elmadam, 868. Costantina, figlia di Costantino, 666, Costantino (imp.), 663, 666, 700, 76869, 926, 1376-77. Costanzo II (imp.), 1377. Cozbi, madianita, 168. Crasso Frugi Marco Licinio, 1041. Cratete di Tebe, 1030. Cratone v. Cratete di Tebe. Crescente, cinico, 1354. Crescente, discepolo di Paolo, 1242, 1304. Cresto, ribelle, 679, 682, 1316, 1366. Crispo, capo della Sinagoga, 1308. Cronio, platonico, 656. Cur, giudeo, 146. Cusi, padre di Sofonia, 393. Cuspio Fado, 738, 1104, 1316.

Dagon (div.), 74, 201, 206, 325, 341. Dalila, della valle di Sorec, 198, 201-02. Damaris, cristiano, 1299. Damaso I, papa, 987, 1370, 1377. Dan, figlio di Giacobbe, 73, 146, 154, 181, 198, 201-02, 545, 549.

Indice dei nomi antichi 

Daniele, profeta, 27, 53, 313, 378, 413-18, 420, 441, 488, 519, 523, 539, 545, 558, 578, 579, 598, 60304, 659-60, 708, 750-51, 799, 801, 913, 917, 936, 938, 949, 951, 959, 984, 1043, 1060, 1078, 1112, 1178, 1360, 1363. Dario I di Persia, 233, 394, 415. Dario II di Persia, 83-84, 416, 421-22, 426. Dario III Codomano, 416. Dario il Medo, 415-16. Datan, levita, 165. Davide, re d’Israele, 23, 25, 208-212, 214, 218-22, 226, 233, 265, 267, 270, 273, 277, 279, 282-87, 30708, 339, 342, 347-48, 359, 365, 370, 382-83, 385, 389, 394-395, 398, 404, 406-07, 409, 431, 447, 489, 508, 576, 598, 608, 878, 1027, 1064, 1175, 1239, 1301, 1340, 1349, 1360. Dbibi, padre di Kabti-ilani, 105. Deborah, giudice, 199-200, 278, 339. Debir, re di Eglon, 191. Decio (imp.), 616, 1353, 1356-57, 1359. Decio Mundo, 710, 730. Dedumose II, faraone, 100. Delaiah, figlio di Sanballat, 84. Dema, discepolo di Paolo, 1202, 1242, 1246, 1250-51, 1304. Demetra (div.), 452, 758, 1020. Demetrio, patrizio, 1022. Demetrio, vescovo di Alessandria, 1341, 1369. Demetrio di Amasea, 1034.

1395

Demetrio di Efeso, 1309. Demetrio I Sotere, 430, 447, 454-55. Demetrio II Nicanore, 430. Demetrio III Eucherio, 448. Derdekeas, ipostasi gnostica, 1136-37. Deuel, sovrintendente, 161. Diblaim, padre di Gomer, 386. Dibri, della tribù di Dan, 154. Didimo v. Tommaso. Dina, figlia di Giacobbe, 115, 119. Diocleziano (imp.), 669, 1358-59. Diofanto, non ident., 1028. Diogneto, 585, 613-614, 617, 620, 1267. Dione Cassio, 674-675, 680-681, 686, 1308, 1315, 1318, 1338, 1349, 1359. Dione Crisostomo, 645. Dionigi Areopagita, 1015-16, 1299, 1339. Dionigi di Alessandria, 1332, 1356-57, 1359, 1375, 1381. Dionigi, vescovo di Roma, 1358, 1375. Dioniso (div.), 769, 771, 1020. Dioniso, patrizio, 1022. Disma, ladrone, 1009. Dolichiano, vescovo di Gerusalemme, 1368. Domezio (non ident.), 1358. Domitilla Flavia, 666-67, 1349. Domiziano (imp.), 567, 595-96, 629, 699, 723, 787, 1337, 1340, 1349, 1372. Domno, antimontanista, 1342. Doris, cristiano, 1023. Dositeo, eretico, 1381. Dositeo, gnostico, 1103.

1396  Indice dei nomi antichi Dositeo, sacerdote, 412. Drusiana, martire, 1029. Druso Giulio Cesare, 732.

Ebed-Melech, etiope, 382. Eber, eponimo degli eberiti, 117. Eber, figlio di Sela, 60, 104. Ebiatar, sacerdote, 23, 209, 219, 348. Edom v. Esaù. Efa, figlio di Madian, 48. Efraim, figlio di Giuseppe, 130, 161, 198, 201-03, 211, 386-87, 404. Efrem Siro, teologo, 1039. Efrem, vescovo di Gerusalemme, 1368. Efron, figlio di Zocar, 114, 117. Egesippo, storico, 694, 706, 739-41, 993, 1036, 1159, 1184-85, 1267, 1332, 1339-1350, 1349, 1355, 1359, 1367-79. Eglippo, re di Etiopia, 1036. Eglon, re di Moab, 199, 339. Ela, padre di Osea, 386. Ela, re d’Israele, 74, 386. Elat (div.), 289. Elcanan, iairita, 208. Eleazar ben Anano, 718. Eleazar ben Simone, 448. Eleazar ben Yair, 448. Eleazar, fariseo, 431. Eleazar, figlio di Aronne, 20, 162-63, 166, 168, 192, 194, 197, 318, 340, 347. Eleazar, figlio di Mattatia, 447, 702, 737. Eleazar, padre di Gesù ben Sirah, 434-35. Eleazar, sacerdote ezriano, 427.

Elena, madre di Costantino, 666, 768, 926, 1376. Elena, prostituta, 1103, 1105-1106, 1108. Elena di Adiabene, 1315. Eleuterio, vescovo di Roma, 694, 1340, 1352, 1370-71. Eli, giudice, 214, Eli, padre di Giuseppe, 879. Eli, sacerdote, 23, 205-06, 348. Elia, profeta, 81, 230-31, 308, 342, 361, 363, 396, 494, 579, 724, 842, 864, 901, 933-34, 1004, 1045-46, 1069. Eliab, 161. Eliachim v. Alcimo, Elidad ben Chislon, 161. Eliezer ben Hyrcanos, 699. Eliezer, figlio di Mosè, 137, 141, 290. Elifaz, figlio di Esaù, 48, 113. Elimas bar-Jesus (mago), 1299, 1306. Elimelech, suocero di Rut, 408-09, 834. Elio Lampridio, 665. Elisabetta (madre di Giov. Battista), 746-47, 867-67. Elisafan ben Parnac, 161. Eliseo, profeta, 226, 230-31, 342, 361, 363, 1045. Elkana, padre di Samuele, 206. Elon, giudice, 201, 339. Elon, padre di Ada, 118. Elon, padre di Basemat, 118. Elmadam ben Er, 866, Elyāqîm ben Hilqîyāhū, 55. Eman ezraita, 398. Emiliano Lucio Mussio, 1357.

Indice dei nomi antichi 

Emiliano, personaggio di Apuleio, 651. Emilio Secondo, figlio di Quinto, 874. Emmanuele v. Ezechia. Enea di Lidda, 1299. Enki (div. ), 105-06, 109-10. Enkidu (div.), 100. Enlil (div.), 102-03, 107-08, 111 Enmerkar di Uruk, 100. Ennatan, sacerdote, 427. Enoc, figlio di Yared, 104, 411, 449, 473, 521, 526, 528, 533-38, 540, 542, 547, 568, 570-74, 578-80, 588, 590, 592-93, 596, 598-600, 603-04, 606, 750, 754-55, 811812, 845, 881, 931, 934, 937-39, 952, 984, 1004, 1043, 1046, 10591060, 1178. Epifanio Ieromonaco, 1015-16, 1033. Epifanio di Salamina, 525, 585, 660, 769, 772, 781, 819-820, 868, 883, 926, 991, 992-94, 996, 1009, 1011, 1021, 1031, 1033, 1051, 1103, 1206-1110, 1127-28, 1157, 1178, 1184-85, 1203, 1266, 1270, 1382. Enos, figlio di Set, 104, 124-25. Epafra, discepolo di Paolo, 1202, 1247, 1250-51, 1303, 1321. Epafrodito, discepolo di Paolo, 646, 1243, 1303. Epeneto d’Asia, 1202-1203, 1303. Epitteto, 646, 653, 656. Er, figlio di Sua, 133. Er, padre di Elmadam, 878. Eracleone, discepolo di Valentino, 791, 1128, 1348. Eraclio, scrittore eccl., 1342. Eraclito, scrittore eccl., 1354.

1397

Erasto, discepolo di Paolo, 1202, 1240, 1298, 1304-1305, 1309. Erma, discepolo di Paolo, 584, 60102, 609, 613, 617-19, 622, 820-23, 986, 989, 1202, 1267. Erme, discepolo di Paolo, 618, 1202. Ermia di Iconio, 1027. Ermippo, soldato, 1027. Ermofilo eretico, 1380. Ermogene, convertito, 1035, 1046. Erode Agrippa I, 448, 479, 692, 751, 1104, 1299-1296, 1312-1316. Erode Agrippa II, 448, 687, 737, 1300, 1310, 1312, 1316. Erode Antipa, 448, 720, 746, 835, 86061, 898, 927-28, 943, 973, 1004, 1008, 1012, 1035, 1055, 1276, 1296, 1299, 1306, 1310. Erode Archelao, 448, 463, 479, 866, 870, 872, 891, 899, 1035, 1040, 1104. Erode, figlio di Niceta, 1354. Erode Filippo, 448, 746, 860. Erode il Grande, 448, 463, 479, 647, 655, 720, 861, 866-697, 872-73, 875, 899, 906, 959, 1072, 1364. Erodiade, moglie di Filippo, 835, 86061, 928, 1013. Erodione, discepolo di Paolo, 1202. Erodoto, 229, 366, 586, 1020. Erone, vescovo di Antiochia, 1369. Eros, vescovo di Antiochia, 1369. Erra (eroe babilonese), 105-06, 110. Esarhaddon d’Assiria, 217. Esaù, figlio di Isacco, 48, 50, 75, 93, 113, 115, 117-20, 124, 132-33, 390, 1124.

1398  Indice dei nomi antichi Eshmunazar II, re di Sidone, 65. Essuo di Tessalonica, 1034. Ester, figlia di Abiail, 53, 412-13, 47273. Etan, ezraita, 398, 407. Eubula, 1023. Eubula, moglie di Diofanto, 1028. Eubulo, discepolo di Paolo, 1203, 1304. Eud, giudice, 199, 339. Eufemia, concubina, 1023. Eufenissa, nuora di Eglippo, 1036. Eugenio (non ident.), 1030. Eugnosto, gnostico, 1115. Eumene, vescovo di Alessandria, 1369. Eusebio di Cesarea, 455-56, 587-88, 601, 610, 613-14, 616, 628, 647, 657, 660, 662, 668, 670, 674-75, 690-91, 693-94, 706-708, 711, 712-14, 716-17, 721-22, 729730, 735, 740-42, 760, 762, 768, 770, 779, 781-82, 784-88, 792, 796, 801-808, 820-21, 825, 883, 926, 928, 986, 989, 991-94, 1006, 1009-1011, 1016, 1021-22, 102526, 1033, 1039, 1043-44, 1127, 1144, 1185, 1241, 1266, 1273, 1314-16, 1333, 1335-45, 1349-65, 1367-75, 1378, 1380-84. Eutico, 1298, 1309. Eutropio, storico, 686. Eva, 94, 104, 528, 1002, 1111, 1113, 1119-21, 1126, 1130, 1135. Evaristo, vescovo di Roma, 1370-72. Evaristo di Smirne, 1363. Evodio, amico di Agostino, 1021. Ezechia, padre di Giuda, 702.

Ezechia, re della Giudea, 55, 74, 130, 218, 222, 229, 233-35, 272-73, 275, 291-92, 313, 365-66, 370-71, 373, 385, 391, 865, 1352. Ezechiele, profeta, 26-27, 53, 80, 86, 103, 128, 243, 313, 357-58, 364, 383-88, 410, 419, 513, 578, 598, 603-04, 843, 882, 917, 936, 949, 959, 1045, 1139. Ezra, figlio di Seraia, 27, 53, 75, 128, 138, 160, 215, 235, 284, 289, 29293, 296, 298, 312, 347, 357-58, 394, 418-24, 426-27, 433, 511, 519, 521, 562-68, 882, 1043, 1045.

Fabio, vescovo di Antiochia, 1356-57. Fanuele, padre di Anna, 575, 867. Febe di Cencre, 1202, 1268, 1303. Fedro Gaio Giulio, 650. Felice Marco Antonio, 683, 737-38, 1299-1313, 1370. Felice I, papa, 1376. Felice IV, papa, 1370. Festo Porcio, 738, 1299, 1310-1312. Filastrio di Brescia, 1021, 1033, 1109, 1127. Filea di Tgmuis, 1358. Filemone, discepolo di Paolo, 468, 772, 779, 819, 821-22, 828, 119697, 1199, 1202-1203, 1215, 1223, 1246-52, 1266-67, 1270, 127677, 1279, 1302, 1304-1305, 1311, 1321-22. Fileto, convertito, 1035, 1246. Filippo, apostolo, 801, 803, 808, 836, 971, 1034, 1036, 1103, 1124,

Indice dei nomi antichi 

1140, 1144, 1162, 1164-67, 11691173, 1175, 1309, 1314. Filippo, diacono, 1296-97. Filipppo l’Arabo, 1357. Filippo, non ident., 1332, 1353. Filippo, vescovo di Gortina, 1339, 1344. Filippo, vescovo di Gerusalemme, 1358. Filippo di Side, 803. Filippo di Tralle, 771. Filologo, discepolo di Paolo, 1202. Filomena, gnostica, 1379. Filone di Alessandria, 455-58, 461-62, 464-67, 469, 472, 477, 479, 508, 516, 518, 557, 646, 681, 683, 702, 738, 751, 773, 777, 790, 812, 845, 866, 993-94, 1112, 1181, 1329, 1359, 1362-63. Filonide, figlio di Medea, 1034. Filopatore (miracolato), 1034. Filoromo di Alessandria, 1358. Filosabbatio, filosofo, 660. Fineas, figlio di Eleazar, 23, 163, 168, 194, 340, 347. Finee, sacerdote, 1009. Flacco Lucio Pomponio, 1245. Flavio Clemente, 687, 1349. Flavio Vopisco, 675-76. Flegonte, discepolo di Paolo, 618, 1190. Flegonte di Tralle (storico), 635, 663, 690-91. Florino, corrispondente di Ireneo, 786. Florino, eretico, 785, 1379. Fortunato, discepolo di Paolo, 1202, 1303. Fozio di Costantinopoli, 646, 690, 717, 1021. Frontina di Tiro, 1027.

1399

Frontone Marco Cornelio, 648, 65253, 676. Fulvia (matrona), 710-711, 730. Fundano Gaio Minucio, 673. Fundo, patrizio, 710.

Gabinio Aulo, 448. Gabriele (ang.), 415-16, 475, 570, 574, 591, 746, 967, 873, 967, 999, 1004, 1018, 1125. Gad, figlio di Giacobbe, 169, 181, 200, 234, 307, 545, 549, 552. Gaio, presbitero, romano, 821. Gaio, scrittore eccl., 1343-44, 1350, 1381. Gaio, vescovo di Gerusalemme, 1368. Gaio di Corinto, 1318. Gaio di Derbe, 1202, 1207, 1252, 1307, 1298-99, 1304, 1309. Gaio II, vescovo di Gerusalemme, 1368. Gaio Ummidio Durmio Quadrato, 683. Galla Placidia, 666. Gallione Lucio Giunio Anneo, 1308, 1315-18. Gamaliele, rabbi, 695, 1014-15, 1104, 1125-26, 1240, 1300, 1310, 1313. Gamaliele II, 697. Gamliel, sovrintendente, 161. Gedeone, giudice, 72, 78-80, 200, 286, 339, 341. Gelasio I, papa, 987. Galeno Claudio di Pegamo, 648, 65152, 1390. Gemino Gaio Fufio, 1008, 1373. Gemino Lucio Rubellio,1008, 1373. Genserico, re dei Vandali, 1377.

1400  Indice dei nomi antichi Geremia, profeta, 27, 53, 61, 80-81, 86, 128, 235, 249, 313, 355, 359, 364, 377-83, 387-88, 391, 394, 416, 419, 441, 514, 519, 578, 594, 604, 609, 862, 866, 913, 936, 949, 951, 959, 1045, 1068, 1139, 1239, 1245, 1296. Germanico (martire), 1363. Germanico Giulio Cesare, 732. Germano, corr. di Dionigi di Alessandria, 1356. Geroboamo I, re d’Israele, 74, 79, 82, 221-23, 225-26, 344. Geroboamo II, re d’Israele, 74, 82, 290, 385, 388-89. Gersamot Hendeke VII, 1314. Gessio Floro, procuratore, 738. Gesta, ladrone, 1009. Gesù ben Anano, 897. Gesù ben Eleazar, 434. Gezabel, regina, 227, 230. Gheber, figlo di Uri, 73. Gherson, figlio di Levi, 48, 162, 202, 318, 340. Gherson, figlio di Manasse, 73. Gherson, figlio di Mosè, 137-38, 141. Ghesem, arabo, 424. Gheuel, esploratore del Canaan, 165. Giacobbe, patriarca, 19, 20, 26, 69, 92-96, 114-21, 124-39, 186, 198, 246, 249-50, 267, 289-92, 304-05, 308, 311, 313, 323-25, 329, 337, 345, 349, 359, 375, 389-90, 40102, 404-05, 431, 545, 552, 561-62, 623, 626, 799, 878-79, 913, 932, 967, 973, 1045, 1361. Giacomo, figlio di Alfeo, 836.

Giacomo, figlio di Giuda il Galileo, 752, 1313, 1317. Giacomo, figlio di Zebedeo, 706, 787, 801, 803, 808, 835, 842-43, 902, 1034-35, 1039, 1075, 1145, 1236, 1241, 1306, 1315, 1324-25, 1377. Giacomo, fratello di Gesù, 474, 586, 591, 665, 694, 699, 701, 703, 705, 715, 717, 734-45, 820, 828, 840, 872, 902-903, 986, 997-99, 10011002, 1004, 1035-36, 1058, 1069, 1124, 1158-59, 1178, 1182-85, 1188, 1197, 1215, 1236, 1241, 1258, 1261, 1269, 1296, 124041, 1302, 1307, 1309, 1321, 1328, 1340-41, 1355, 1358, 1363, 13671371. Giacomo il Giusto v. Giacomo, fratello di Gesù. Giacomo Maggiore v. Giacomo, figlio di Zebedeo, Giaele, moglie di Eber, 199. Giairo, 795. Giasone, discepolo di Paolo, 1202, 1299, 1304, 1308. Giasone, figlio di Onia III, 430-31. Giasone di Cirene, 432. Gioacchino, presunto padre di Maria, 998. Giobbe di Ur, 53, 374, 417, 541, 559, 925, 936, 1045. Gioele, profeta, 53, 389-90, 1078, 1083, 1091. Giona, padre di Simone-Pietro, 836, 971. Giona, profeta, 53, 389, 391. Gionata, figlio di Gherson, 73, 202, 340, 348.

Indice dei nomi antichi 

Gionata, figlio di Mattatia, 447. Gionata, figlio di Saul, 208, 210, 212. Gionata Maccabeo, 430-431. Giosia, re della Giudea, 24, 74, 130, 187, 222, 231-32, 234-35, 268, 278, 292, 297, 308-09, 315, 353, 377, 382, 393, 401, 446, 878-79, 1035. Giosuè, figlio di Iozedak, 394. Giosuè, profeta, 17, 19, 21, 22, 29, 46, 51, 67, 69-75, 100, 128, 138, 141, 145, 165, 168, 184, 187, 189-98, 212, 215, 217, 219, 233, 261, 286, 296, 298, 299, 304-06, 312, 318, 322-26, 331, 335-39, 342-43, 345, 349, 351, 354, 356, 360-61, 363, 378, 408, 580, 590-92, 608, 752, 763, 882, 1351. Girolamo, governatore, 1028. Girolamo di Stridone, 601, 659-61, 692, 724, 740, 781, 791, 788, 807, 824, 865, 992, 994, 995-996, 1015-16, 1026, 1038, 1255, 1273, 1333, 1335-43, 1372. Giovanna di Cusa, 903. Giovanni Battista, 396, 455, 703, 705, 707-708, 712, 715, 720, 745-47, 749, 753, 824, 834-35, 842, 858, 860-61, 864-69, 872-73, 927-28, 933-34, 943, 948, 956, 970, 977, 992-93, 1010, 1138, 1145, 1167, 1220, 1276, 1308, 1321, 1337, 1363. Giovanni Crisostomo, 585, 692, 783, 1026, 1273. Giovanni Damasceno, 987, 1109. Giovanni detto Marco, 779, 1304, 1307.

1401

Giovanni, esseno, 457. Giovanni, figlio di Levi, 737. Giovanni, figlio di Mattatia, 447. Giovanni, figlio di Zebedeo, 453, 482, 542, 560, 572, 583-84, 586, 59597, 600, 665, 724, 736, 749, 755, 765, 771-72, 779-80, 782, 785-92, 801, 803-808, 814, 818-22, 82628, 835-36, 840, 842, 848, 860, 873, 876, 884, 886-87, 889-895, 898, 902, 906-908, 922, 927, 93946, 952, 955, 958, 961-76, 978, 987, 989, 992, 1004-1006, 1017, 1020-21, 1028-1031, 1034-36, 1039, 1043, 1045-46, 1061, 1097, 1110, 1113-14, 1116, 1118, 112223, 1139, 1144, 1149, 1159-61, 1170-72, 1186-88, 1191-97, 1215, 1236, 1241, 1258, 1261-62, 1281, 1292-94, 1301-1302, 1306, 1315, 1408, 1342, 1344, 1352, 1367-69, 1381, 1383. Giovanni il presbitero, 772, 801, 803, 806-808, 1265, 1294. Giovanni il teologo, 1017, 1029. Giovanni, sacerdote, 860, 1408. Giovanni, sommo sacerdote, 347. Giovanni, vescovo di Gerusalemme, 1368. Giovanni di Ghiscala, 448. Giovanni di Tessolonica, 1017-18, 1020. Giovanni Sifilino/Xifilino, 674-75. Giovanni Xifilino v. Giovanni Sifilino. Giovanni Ircano I, 430-31, 447, 516. Giovanni Ircano II, 448, 545. Giove v. Zeus.

1402  Indice dei nomi antichi Giovenale Decimo Giunio, 634, 726. Giuda, figlio di Giacobbe, 87, 89, 97, 99, 112, 119-123, 125, 128-29, 132-33, 136, 181, 183, 186, 190, 192-93, 197, 201, 209-30, 233-35, 267, 269, 273-75, 277, 281, 284, 297, 300-07, 310, 313-16, 330-31, 338, 343-44, 348-49, 353-56, 360, 366, 369-70, 375, 378-82, 396, 388, 390, 392, 394-95, 404, 406, 416, 419, 421-22, 425, 481, 493, 510, 512, 514, 544-48, 550-51, 557, 592, 878, 1000, 1301. Giuda di Giacomo, 745, 836, 1159, 1296. Giuda, discepolo di Paolo, 1307. Giuda, esseno, 457, 463. Giuda, figlio di Ezechia di Gamala, 448, 708, 726, 736-37, 750, 752, 869, 894, 979, 1104, 1185, 13131314, 1363-64. Giuda, figlio di Mattatia, 430, 432, 447, 540. Giuda, fratello di Gesù, 840, 1004, 1340. Giuda il Galileo v. Giuda figlio di Ezechia. Giuda il patriarca, 695. Giuda Iscariota, apostolo, 655, 743, 783, 806, 813, 836-37, 840, 867, 886, 899, 891-892, 894-95, 898, 964, 1002, 1015, 1033, 1067-68, 1113-14, 1124-25, 1258, 1296. Giuda, padre di Pappus, 700. Giuda, vescovo di Gerusalemme, 1364. Giuda Barsabba, 1314. Giuda Taddeo, apostolo, 586, 745, 820-21, 828, 971, 1035-36, 1039, 1159, 1194, 1197, 1215, 1371.

Giuda Tommaso v. Tommaso. Giuditta, figlia di Merari, 53, 429-30. Giulia, discepola di Paolo, 1202, 1247. Giulia, figlia di Augusto, 733. Giuliano l’Apostata, 661. Giuliano, vescovo di Alessandria, 1369. Giuliano, vescovo di Gerusalemme, 1368. Giuliano II, vescovo di Gerusalemme, 1368. Giulio, centurione, 1310. Giulio, discepolo di Paolo, 1299. Giulio I, papa, 1377. Giunia, discepola di Paolo, 611, 12021203, 1247. Giunio Basso Teotecnio, 666. Giuseppe d’Arimatea, 762, 887-88, 1005, 1009, 1015. Giuseppe, figlio di Giacobbe, 19, 6061, 92-93, 95-96, 99, 123-24, 128, 130, 133, 135-36, 139, 161, 181, 196, 195, 197, 256, 280, 306, 319, 330, 356. 360-61, 404, 408, 414, 419-20, 544. Giuseppe, fratello di Gesù, 840, 902903, 1069. Giuseppe, sposo di Maria, 834, 860, 865-67, 875, 878-79, 942, 9981004, 1009, 1035-36, 1158, 1165, 1185, 1368-69. Giuseppe, vescovo di Gerusalemme, 1368. Giuseppe Barsabba, 1296, 1321. Giuseppe Flavio, 55, 69, 440, 455-57, 461-67, 469, 472, 477, 479, 51618, 524, 553, 557, 629, 647, 662, 679-80, 683, 692, 704, 698, 702-

Indice dei nomi antichi 

703, 705-717, 720-727, 730-741, 744-46, 750-52, 762, 765, 798, 816, 860-61, 866, 869-71, 874, 876, 891, 896-98, 894-895, 92528, 933, 979, 981, 1009, 1020, 1069, 1072, 1095, 1104, 1149, 1183, 1185, 1245, 1295, 1299, 1306, 1310-1318, 1323, 1329, 1359, 1363-65. Giuseppe Kabi ben Simone, 1311. Giustino, martire, 543, 613-14, 647, 663, 670, 673-75, 678, 682, 688, 693, 714, 716, 817, 984, 988, 1005, 1007-1009, 1011, 1024, 1105, 1172, 1264, 1266, 1273, 1336, 1344, 1350, 1354-55, 1360, 1380. Giusto, convertito, 1308. Giusto, fratello di Gesù, 1004. Giusto di Tiberiade, 646, 1329. Giusto, vescovo di Alessandria, 1369. Giusto I, vescovo di Gerusalemme, 1368. Giusto II, vescovo di Gerusalemme, 1368. Glaucia, gnostica, 1102, 1347. Godolia, re della Giudea, 230, 377. Golia di Gat, gigante, 208, 267, 342. Gomer, figlia di Diblaim, 386. Gortaio, eretico, 1381. Gotoniel, padre di Cabri, 429. Gratino di Sinope, 1034. Grato Valerio, 730, 732, 738, 860, 1009. Gregorio Nazianzeno, 1026. Gregorio Nisseno. 1026. Gregorio di Tours, 1033. Gūdnafar, governatore, 1031.

1403

Habacuc, profeta, 53, 289, 355, 39193, 473, 475-76, 478. 480, 487, 491, 507, 509-10, 515, 521, 949, 1194, 1301. Habbān, mercante, 1031. Hadad (div.), 82, 87, 286-87. Hadad’ezer, re di Damasco, 226. Hadad’ezer, re di Soba, 221. Hadad-nirari I, re di Aram, 226, 281. Hadad-nirari II, re di Aram, 226. HaAdad-nirari III, re di Aram, 226-27, 280-83. Hagar, schiava, 94-95, 118, 214, 250, 1200, 1228, 1258. Hammurabi, re babilonese, 100, 143, 175, 182, 612. Hammurabi, re di Ugarit, 286. Hananiah di Elefantina, 83. Hanna v. Jonathan ben Anano. Hanni, sovrintendente, 40. Hathor (div.), 64, 78, 81. Hatshepsut, regina egizia, 100. Hattušilis III, sovrano hittita, 100. Hazael, re di Damasco, 226-27, 230, 280-81. Heryâqos, vescovo di el-Bahnasa, 1014. Hillel, rabbi, 695, 1014, 1313. Hilqiyahu (sac.), 23. Hiram, non ident., 991. Hiram, re di Tiro, 219, Hissil’el, re ammonita, 50. Horemheb (faraone), 136. Horus (div.), 100, 253, 263, 285, 452. Hozai, scrittore, 234.

Iabin, re di Asor, 192, 199, 339.

1404  Indice dei nomi antichi Iacleel, figlio di Zabulon, 120, 161. Iacseel, figlio di Neftali, 120. Iafet, figlio di Noè, 119. Iafia, re di Lachis, 191. Ibsan, giudice, 201, 338. Ida, complice di Fundo, 710. Idrimi, Re di Siria, 47, 255. Iduelo, sacerdote, 427. Idutun, salmista, 398. Ieconia, padre di Sealtiel, 421, 878. Iefte, giudice, 73, 87, 200-01, 338. Iefunne, padre di Caleb, 165. Iemuel, figlio di Simeone, 20. Ierub-Baal v. Gedeone. Iesse, padre di Davide, 208, 214, 371, 409, 950, 1301. Ietro, padre di Zippora, 137, 142. Ifigenia, figlia di Irtaco, 1036. Ifito, patrizio, 1022. Igigi (div.), 110. Igino, vescovo di Roma, 819, 1203, 1205, 1370-72. Ignazio di Antiochia, 647, 776, 778, 784, 828, 1005, 1206, 1254, 127276, 1326, 1355, 1360, 1369. Ilario di Poitiers, 1377. Indaruta di Akšapa, 39-40. Ioab, figlio di Zeruià, 211-12, 219. Ioakim, sacerdote, 429. Iobab, re di Edom, 132. Iobab, re di Madon, 192. Iochebed, sorella di Keat, 137, 139. Ioel, figlio di Samuele, 207. Ioribo, sacerdote, 427. Ioses v. Giuseppe, fratello di Gesù Iozedak, padre di Giosuè, 394. Ippolito di Porto, 1370.

Ippolito di Roma, 455, 463-64, 715, 996, 1022, 1103, 1105-1206, 1109-1210, 1127, 1144, 1157, 1178, 1267, 1273, 1332, 1359, 1382, 1384. Ireneo di Lione, 555, 607, 613, 626, 628, 630, 635, 640, 642, 647, 664, 716, 762, 779, 781-787, 801, 805808, 819-820, 823-24, 828, 85354, 984, 986, 990-91, 1105, 1007, 2009, 1113-14, 1116, 1122, 1124, 1127-28, 1141, 1157, 1172, 1178, 1184, 1201, 1253-54, 1267, 1273, 1294, 1297, 1340, 1345, 1347, 1350, 1353-53, 1355, 1366, 13681375, 1378-84. Irtaco, fratello di Egippo, 1036. Isacco, patriarca, 19, 68, 87, 92, 9495, 114-21, 124-28, 132, 137, 246, 249, 289, 311, 323-25, 345, 1045. Isaia, profeta, 26-27, 53, 55, 85, 98, 127-28, 138, 229, 234, 249, 29192, 302, 313-14, 366, 363, 36580, 387-88, 419, 506-09, 519, 595, 598, 603-04, 608, 654, 661, 66364, 746, 799, 812, 818, 844, 846, 864-65, 867, 875, 913, 917, 920, 924, 930-38, 944, 949-51, 959, 965, 970, 974, 984, 990, 1000, 1008, 1042, 1045, 1064, 1078, 1112, 1139, 1159, 1208, 1212. 1218-19, 1235, 1239, 1245, 1301, 1360. Is-Baal, figlio di Saul, 210, 286, 307. Isca, figlio di Aran, 114. Iside (div.), 253, 452, 470, 710, 730, 758, 772-73, 946, 1187.

Indice dei nomi antichi 

Isidoro Pelusiota, 723. Ismaele, eponimo degli ismaeliti, 9394, 118, 120, 131. Ismaele ben Fabo, 730, 1311. Ismaele ben Netania, 230. Isocrate, 1020. Issacar, figlio di Giacobbe, 181, 544, 549. Ištar (div.), 106, 255. Isum, consigliere, 106. Itamar, figlio di Aronne, 20, 162, 318. Iudit, figlia di Beeri, 118.

Jonathan ben Anano, 860, 1306, 1318. Jonathan, sommo sacerdote, 1311.

Kabti-ilani-Marduk, 105. Kamose, faraone, 46, 100, 253. Kamuel, figlio di Nacor, 120, 161. Keat, figlio di Levi, 137, 139, 162, 318. Kemosh (div.), 82, 86-87, 221, 341. Kemosh-yatt, padre di Mesha, 85. Kenan, figlio di Enos, 104. Khnub (div), 84. Kilamuwa, re di Ya’diya, 63. Kimhi David, 56, 73. Kimhi Moses, 56. Kingu (eroe), 102, Kis, padre di Saul, 207, 212, 214, 1301. Kisar (div.), 110. Ku-Aja, 100. Kūnē, vescovo, 1038. Kurigalzu (cassita), 38-39.

1405

Labano, figlio di Betuel, 114-15, 119, 125, 246, 250. Lab’aya di Sichem, 43. Lamec, padre di Nir, 104, 573. Lattanzio Lucio Cecilio Firmiano, 693, 716. Lazzaro, povero, 856. Lazzaro degli Armeni, 1333. Lazzaro di Betania, 840, 848, 891, 973. Lemma, madre di Ammia, 1027. Lentulo Publio, 662-63, 667, 1038. Leone (scriba), 585. Leone I (papa), 774, 1021. Leonzio di Bisanzio Leucio (non ident.), 1018. Leucio Carino, 1021. Levi, figlio di Giacobbe, 20, 48, 70, 75, 115, 119, 136, 139, 162-63, 181, 186, 318, 331, 396, 493, 512, 54445, 547, 550-51, 836, 933, 1301. Levi, figlio di Alfeo (apost.), 779, 835836, 1006. Levi, padre di Giovanni, 737. Levi, vescovo di Gerusalemme, 1368. Levita Elias, 57-58. Lia (figlia di Labano), 114, 118-19. Liberio, papa, 1370, 1377. Liciniano di Cartagine, 1040. Licomede (non ident.), 1028. Lidia, discepola di Paolo, 1297, 1299. Lino, discepolo di Paolo, 618, 1203, 1304, 1368. Lidia, sorella di Gesù, 1004. Lino, vescovo di Roma, 628, 1022-23, 1370, 1372, 1375. Lisbio, proconsole, 1034. Lisia, comandante siriano, 447.

1406  Indice dei nomi antichi Lisia Claudio, 1299, 1301, 1310-1313. Lisimaco, gerosolimitano, 412. Lisimaco, figlio di Tolomeo II, 412. Lisimaco, fratello di Filone di Alessandria, 738. Lisimaco, patrizio, 1022. Lithargoel, mercante, 1177. Livia, moglie di Nerone, 1025. Longino, centurione, 769, 1012, 1028. Longino Gaio Cassio, 738, 1328, 1373. Lot, figlio di Aran, 50, 113-14, 119-20, 607, 1045. Luca, discepolo di Paolo, 1202, 1242, 1246, 1250-51. Luca, evangelista, 498, 586-87, 624, 661, 678, 724-727, 735, 746, 760, 765, 779, 782, 784-85, 789, 79598, 801, 805, 808, 814, 816-17, 819-21, 824-42, 846-79, 885-87, 891-914, 916, 919-929, 933, 935, 9397-49, 952, 954-58, 972, 982, 985, 989, 992, 999-1000, 1004, 1018, 1049-57, 1060-92, 1096, 1139, 1148-55, 1159-61, 1168-69, 1171-72, 1187-88, 1190, 1193-94, 1196, 1201, 1215, 1236, 1269-70, 1279, 1281-83, 1295-96, 12991304, 1363-64, 1368. Luciano, martire, 1358. Luciano di Samotracia, 647, 653, 656-58. Lucio di Cirene, 1299, 1304. Lucio, discepolo di Paolo, 1202, 1304. Lucio, martire non ident., 1354. Lucio, papa, 1347. Lucio Flavio Silva, 448. Lucio Vero (imp.), 652, 674, 770, 883, 1337, 1339-40, 1344, 1351.

Lusio Quieto, 449.

Maaca, figlia di Assalonne, 226. Maalaleel, discendente di Adamo, 120. Maalaleel discendente di Caino, 120. Maalaleel, figlio di Kenan, 104. Maasma, sacerdote, 427. Macalat, figlia di Ismaele, 118. Macario di Magnesia, 659-60, 668, 768, 1043. Maclon di Efrata, 409. Macrino Marco Pompeo, 433. Mahseiah, figlio di Yedoniah, 83. Malachia, profeta, 53, 128, 355, 393, 396, 661, 864, 913, 917, 930, 943, 1142. Malchiel, eponimo dei Malchieliti, 117, 120, 161. Malik-rammu, re edomita, 50. Mami (div.), 105. Manaen di Antiochia, 1299. Manasse, primogenito di Giuseppe, 59, 71, 73, 130, 161, 169, 192, 200, Manasse, re della Giudea, 74, 82, 217, 222, 224, 879. Manoach, padre di Sansone, 201. Mara v. Noemi. Mara Bar Serapion, 647, 677-79. Marcellina, eretica, 1381. Marcellino, martire, 667. Marcellino, papa, 1372. Marcione di Sinope, 600, 765-66, 817, 819-820, 822, 868, 1006, 1051, 1102, 1157, 1201, 1203-1205, 1253, 1257, 1265-66, 1270, 127273, 1278, 1339-41, 1344, 1347, 1353, 1379, 1381.

Indice dei nomi antichi 

Marco, cugino di Barnaba, 1202, 1250. Marco, cugino di Giovanni, 1304. Marco, discepolo di Paolo, 1251, 1307. Marco, discepolo di Valentino, 1128. Marco, vescovo di Alessandria, 1369. Marco, vescovo di Gerusalemme, 1368. Marco, evangelista, 578, 602, 648-50, 661, 678, 724, 737, 746, 751, 76067, 773, 779-83, 788, 792-810, 812-814, 821, 824-27, 830, 832, 835-49, 852-57, 860-867, 87577, 885-86, 888, 890-900, 902913, 916, 920, 924-48, 952-54, 957, 966-67, 972, 981-82, 985, 989, 992, 1013, 1049-57, 1060-85, 1088-92, 1096, 1108, 1144, 1148, 1151, 1154, 1156-58, 1160, 1167, 1187-88, 1190-91, 1193-97, 1236, 1262, 1265, 1301-1302. Marco Ambivolo, 738. Marco Aurelio (imp.), 614, 652, 67576, 774, 1337-38, 1351-52, 1373. Mardocheo, deportato, 412-13. Marduk (div.), 87, 102, 105, 108-112, 143, 413, 1187. Mareim, scriba, 173. Maria, altra, 668, 903. Maria, madre di Gesù, 591, 654, 696, 698, 701, 747, 768, 772, 787-88, 834, 864-65, 867-68, 873, 875, 879, 902-903, 957-58, 970, 971, 998-1004, 1009, 1014, 1016-18, 1027, 1036, 1045, 1069, 1127, 1158, 1165, 1185, 1275-76, 1360, 1368-69. Maria, madre di Giacomo, 902-903, 1069.

1407

Maria, discepola di Paolo, 1202-1203. Maria, sorella di Marta e di Lazzaro, 891-892. Maria di Cleofa, 902, 1035-36, 1368. Maria di Magdala, 668, 700, 839, 848, 892, 902-903, 905, 1069, 1140, 1172, 1176. Marsane, gnostico, 1113. Marta, sorella di Maria, 848, 962. Marullo, procuratore, 732, 1318. Marziale Marco Valerio, 646. Marziale, vescovo di Merida, 1356, 1384-85. Mastema (dem.), 531. Massimiano (non ident.), 1018. Massimilla, montanista, 1342. 1379. Massimo di Gerusalemme, 1267, 1343. Massimo, scittore eccl., 1332, 1345, 1368. Massimo Gaio Vivio, 870. Materno Cinegio, 1044. Materno Tiberio Claudio, 1343. Mattatia, figlio di Giovanni, 442, 459. Matteo, evangelista, 500, 542, 556, 566, 568-69, 572, 591, 602, 604, 608-09, 624, 661, 678, 690, 724, 736, 738, 746, 751, 760, 764-65, 767, 779-84, 788-89, 795-97, 800809, 813-15, 821, 824-60, 863-69, 872-879, 985-913, 916, 919-929, 933, 935, 939-56, 959, 966-67, 971-72, 982, 985, 989-990, 992999, 1002, 1004, 1016, 1034, 1036, 1039, 1049-57, 1060-1092, 1096, 1108-1109, 1136, 11391140, 1144-57, 1260-1261, 1167, 1169, 1171-72, 1176-77, 1187-88,

1408  Indice dei nomi antichi 1191-1193, 1196-97, 1236, 1265, 1270, 1296, 1301-1302, 1341, 1364, 1381. Mattia, apostolo, 820, 989, 996, 1018, 1035, 1296. Mattia, vescovo di Gerusalemme, 1368. Maturo, martire, 1352. Matusalemme, figlio di Enoc, 104, 534, 538, 573. Mazdai, re del Kushan, 1031-1032. Mecenate Gaio Cilnio, 687. Mecuiael, figlio di Irad, 120. Medea di Filippi, 1034. Melchi, figlio di Addi, 878. Melchiel, padre di Carmi, 429. Melchizedeq, sacerdote, 113, 121, 126, 133, 407, 522, 526, 569, 573, 578, 590, 592, 755, 938-939, 949, 1114, 1125-26, 1361. Melitone di Sardi, 675, 716, 883, 1005, 1016-18, 1021, 1030, 1267, 1332, 1336-37, 1345. Melqart (div.), 87. Menahem, re d’Israele, 75, 82, 224, 228, 702. Menahem, figlio di Giuda il Galileo, 430-431, 446, 447-48, 455, 959, 1105. Menandro (gnost.), 1157, 1380. Merab, figlia di Saul, 208. Meraiot, sacerdote, 347. Merari, figlio di Levi, 162, 318. Merenptah (faraone), 44, 61, 100, 127, 136, 139, 215, 250-52, 256-61, 354. Merib-Baal, figlio di Saul, 286.

Mesach v. Misaele. Mesenzio (ateo.), 651. Mesha, re di Moab, 50, 65, 85-86, 100, 215, 227, 280, 283. Mesolamo, sacerdote, 427. Messalla Corvino Marco Valerio, 1041. Metodio, santo, 716. Metone di Atene, 881. Metusael, figlio di Mecuiael, 120. Mibtahiah, figlia di Mahseiah, 83. Mica, sacerdote, 22, 72, 82-83, 20203, 340, 429. Michael, esploratore del Canaan, 165. Michea, profeta, 53, 128, 355, 391-92, 473, 521, 885, 913, 917. Michele, angelo, 416-17, 574, 1018. Migdonia, moglie di Carisio, 1031-32. Mikal, figlia di Saul, 208-09. Milca, figlio di Aran, 114. Milcha, sorella di Abramo, 119. Milcom v. Moloch. Milkon v. Moloch. Milziade, antimontanista, 1332, 134344, 1352, 1379. Minucio Felice, 543, 652, 670, 716. Miriam, sorella di Mosè, 166. Misaele, soprannominato Mesach, 414. Mitra (div.), 453, 750, 758, 910, 946, 1187, 1351. Mitridate, tesoriere di Ciro, 421. Moab, figlio di Lot, 50, 70, 81, 85, 87, 119, 162, 166-67, 169, 183, 199, 221, 227, 264, 362, 388, 408, 1003. Modesto, scrittore eccl., 1332, 1344. Moloch (div.), 82, 87, 221, 231, 1352. Montano, teologo, 1342, 1352, 1379. Mosè, profeta, 20, 22, 27, 29, 43, 46,

Indice dei nomi antichi 

49, 53, 67-71, 75, 88, 92, 13551, 156, 161-62, 164, 166-69, 172, 174-75, 177, 179, 181, 18386, 189, 191-92, 195, 197, 212, 229, 231, 255, 264, 267, 278, 288, 295, 309, 312, 317-18, 323, 33132, 335-37, 342, 347, 349, 36364, 383, 398, 402, 408, 420, 425, 476, 514, 519, 522, 525-27, 530, 558, 568, 590, 592, 608, 626, 652, 752, 856, 913, 915, 922, 933, 963, 967, 969, 1045, 1078, 1142, 1175, 1210, 1225, 1276, 1361-62. Murciano Gaio Licinio, 1042. Musano, scrittore eccl., 1332, 1344.

Naaman, comandante siriano, 82, 231. Naason, marito di Racab, 878. Nabal, marito di Abigail, 209. Nabonedo, re di Babilonia, 414. Nabucodonosor I, re di Babilonia, 75, 110. Nabucodonosor II, re di Babilonia, 183, 230, 382, 384, 388, 413-14, 429, 441, 512. Nacas, ammonita, 207. Nacor, figlio di Serug, 104. Nacor, figlio di Tera, 114, 117, 11920, 131. Nadab, figlio di Aronne, 152, 162. Nadab, re d’Israele, 74, 82. Nahum, padre di Natan, 1014. Nahum, profeta, 128, 355, 391-92, 508-09. Nain, vedova di, 840, 1055. Narchia, non ident., 1031.

1409

Narciso, discepolo di Paolo, 1022, 1202. Narciso (mit.), 1117. Narciso I, vescovo di Gerusalemme, 1368. Narciso II, vescovo di Gerusalemme, 1368, 1374. Nascon, figlio di Amminadab, 409. Natalio v. Natalione. Natalione (non ident.), 1344. Natan, figlio di Nahum, 1014. Natan, profeta, 210, 219, 234, 348. Natanaele, apostolo, 962, 971, 1036, 1039. Nathan, 1363. Nathan, sacerdote ezriano, 427. Nebaiot, figlio di Ismaele, 93. Nebat, padre di Geroboamo, 82, 221, 344. Nebuchadnezzar II, re di Babilonia, 100, 217, 273. Neemia, 27, 53, 55, 84, 128, 215, 29293, 300, 312, 357, 394, 418-20, 423-25, 430, 433, 448. Nefayan, figlio di Vidranga, 84. Neftali (ben), 58. Neftali, figlio di Giacobbe, 181, 19899, 215, 228, 544, 838. Nekau II (faraone), 235, 255. Nemuel, figlio di Eliab, 161. Nereo, discepolo di Paolo, 1202. Nergal-Sarezer, non ident., 382. Neri, figlio di Melchi, 878. Nerone (imp.), 448, 479, 646, 648, 668-69, 6842-89, 700, 1014, 102425, 1028, 1041, 1102, 1311, 1329, 1337, 1346, 1349-50, 1367, 1373.

1410  Indice dei nomi antichi Nerva (imp.), 603. Nerva Siliano Aulo Licinio, 1042. Nicanore, discepolo di Paolo, 1299. Nicaria, conc., 1023. Niceforo, 975, 1144. Niceforo Callisto Xanthopoulos, 663, 1335. Nicodemo (fariseo), 919, 973, 1006, 1008-1011, 1015, 1018, 1062. Nicolao, diacono, 1381. Nicola, discepolo di Paolo, 1299. Nicola, padre di un miracolato, 1034. Nicostrato, non ident., 1023. Nilo, martire, 1358. Nimsi, padre di Yehu, 230. Ninfa, discepola di Paolo, 1252, 1304. Ninurta (div.), 105-06. Nir, figlio di Lamec, 573. Noè, patriarca, 48, 68, 78, 94, 100, 104, 106-07, 109, 117, 119, 123, 125, 131, 329, 361, 417, 528, 530, 533, 542, 577, 1034, 1131, 1136. Noemi, moglie di Elimelech, 408-09. Noeto di Smirne, 1267, 1382. Novaziano, vescovo scismatico, 1356, 1359, 1384. Nudimmud (div.), 102, 110. Numenio di Apamea, 1137. Nungalpiriggal di Uruk, 100.

Oam, re di Hebron, 191-92. Obab, figlo di Ietro, 137. Obed, figlio di Booz, 409, Obed-Edom di Gat, 210. Og, re di Basan, 49, 172. Olimpias, disc. di Paolo, 1202.

Oloferne, generale, 429. Omri, re d’Israele, 74, 82, 85, 127, 225, 227, 274, 280, 283, 300. Onan, figlio di Sua, 133. Onesiforo, discepolo di Paolo, 1026, 1203, 1247, 1304, 1322. Onesimo, discepolo di Paolo, 12021203, 1240, 1242, 1247-48, 12501251, 1304, 1322, 1337. Onia II, sommo sacerdote, 437. Onia III, sommo sacerdote, 213, 430, 446, 532, 540. Onia IV, sommo sacerdote, 213. Ooliab, figlio di Achisamach, 146. Oolibama, figlia di Ana, 118. Orfeo (div.), 470, 507, 666, 750, 775. Origene Adamanzio, 543, 587, 601, 613-14, 618, 630, 647, 654, 660, 664, 670, 690, 692, 696, 701, 717, 722, 738-740, 742, 770, 773, 781, 808, 820, 986, 999, 992, 994-95, 1020, 1127, 1144, 1273, 1336, 1372, 1375, 1382. Orpa, moglie di Maclon, 409. Osea, profeta, 25, 53, 80-81, 128, 191, 249, 313-14, 359, 385-87, 866, 913, 917, 1064, 1139, 1301. Osea, re d’Israele, 82, 223, 228-29, 274, 371. Osiride (div.), 452, 710, 758, 772-73, 946. Ostan, parente di Anani, 84. Otniel (gdc.), 197, 199, 338. Ozia, figlio di Mica, 429. Ozia, re della Giudea, 313, 365-66, 385, 388, 879. Ozni, eponimo degli ozniti, 117.

Indice dei nomi antichi 

Paghiel, sovrintendente, 161. Pahe, egiziano, 83. Pallante, 737-738. Palmas, vescovo di Amastri, 1339, 1374. Palti, figlio di Lais, 209. Paltiel, della tribù di Issacar, 161. Panamuwa, re di Sam’al, 62. Panfilo, maestro di Eusebio, 994-995, 1358. Panteno di Alessandria, 781, 1016, 1267, 1332, 1341. Paolina, matrona, 710-711, 730. Paolo di Tarso, 453, 477, 481, 496, 586-88, 597, 601, 611, 615, 618, 624-26, 645-47, 680, 699, 705, 707, 736, 739-740, 760-761, 766767, 769-773, 776-779, 782, 790, 799, 807-808, 812, 816-817, 820, 822, 918, 945-946, 986-987, 989, 991, 1014, 1017-22, 1025-28, 1034-35, 1040-47, 1061, 1095, 1102, 1106, 1158-59, 1167, 11691171, 1177-1179, 1186, 11881195, 1200-1215, 1218-1262, 1266-1280, 1295-12323, 1326, 1328, 1337, 1343, 1349-1351, 1362, 1367-1372, 1381, 13831384. Paolo di Samosata, 1376, 1379. Paolo Orosio, 679-680, 686, 1317. Papia di Ierapoli, 760, 762-763, 765, 779-784, 792, 796-97, 801-809, 835, 912, 989, 992, 1059, 1081, 1156-57, 1205, 1265, 1267, 1332. Parmeneo, non ident., 1299. Patroba, discepolo di Paolo, 618, 1202. Patroclo, coppiere dell’imp., 1028.

1411

Pedael, della tribù di Neftali, 161. Pedaià, padre di Zorobabele, 421. Peleg, figlio di Eber, 104. Pellegrino-Proteo (pers.), 657. Pelo, martire, 1358. Pennina, moglie di Elkana, 206 Peqah, re d’Israele, 75, 82, 228, 274. Peqahya, re d’Israele, 75, 82. Perez, figlio di Giuda, 119, 133, 409. Perez-Uzzà, 74, 210, 214. Perpetua, miracolata, 1025. Perside, discepolo di Paolo, 1202. Pertinace, imperatore, 1338. Petronio Arbitro, 647-650, 762. Petronio, centurione, 751, 1006. Petuel, padre di Gioele, 389. Peu, figlio di Pahe, 83. Pietro, apostolo, 484, 543, 586, 601, 623-24, 628, 655, 666-667, 705, 707, 762, 769-770, 776, 779, 782, 800, 799, 801-802, 807, 812, 814815, 820-821, 828, 835-836, 839840, 842, 857, 860, 892-93, 900, 904, 906, 940, 946, 962, 971-972, 974, 974, 986-987, 1004, 1006, 1014-17, 1020-26, 1034-35, 10391044, 1047, 1058, 1063-64, 1068, 1102-1103, 1124, 1145, 1158-59, 1171, 1177-79, 1187-88, 1192, 1194, 1196-97, 1205, 1215, 1223, 1236, 1241, 1261, 1266-67, 1272, 1274, 1276, 1293, 1295-97, 13001302, 1307, 1213, 1315, 1318, 1328, 1342-43, 1349-1351, 1358, 1367, 1370-77, 1383-85. Pincas, figlio di Eli, 206. Pinito Cretese, 1332, 1339.

1412  Indice dei nomi antichi Pio, vescovo di Roma, 618, 822-23, 1370-71. Piream, re di Iarmut, 191. Pirro, padre di Sopatro, 1309. Platone, 27, 441, 465, 507, 678, 932, 1112, 1122, 1249. Plauzio Aquilino Lucio Tizio, 1373. Plinio Gaio Secondo il Giovane, 591, 645, 647, 669-672, 683, 685, 755, 778, 800, 1220, 1263, 1336, 1354. Plinio Gaio Secondo il Vecchio, 45556, 463, 474, 477, 516, 557, 645646, 648-49, 686, 1329. Plotino, 1113. Plutarco di Cheronea, 586, 603, 864, 1205. Policarpo, 585, 625, 630, 647, 652, 767, 771-772, 778, 785-786, 807, 828, 1206, 1254, 1272-74, 1338, 1352-55, 1378, 1383. Pompeo Magno Gneo, 432, 448, 513, 545, 553, 555, 1245, 1363. Pompeo Trogo, 215. Pontio/Pontico, 1342. Ponzio Pilato, 647, 662, 667-68, 681, 684, 686-88, 704-712, 718, 720-22, 728, 730-38, 751, 762, 785, 860, 883, 886-89, 897-98, 900, 907, 928, 974, 1004, 1006-1015, 1040, 1256, 1258, 1265, 1275-76, 1308. Porfirio di Tiro, 653, 658-662, 668, 757, 773, 778, 1113, Portico, gnostico, 1379. Potifar, ministro del faraone, 60, 130. Potino, martire, 774, 1352. Primo, vescovo di Alessandria, 1369. Prisca v. Priscilla,

Priscilla, moglie di Aquila, 666, 680, 1202-1203, 1242, 1252, 1298, 1305, 1308, 1316, 1318. Priscilla, montanista, 1342. Procla, martire, 1028. Procla, moglie di Pilato, 1012. Procoro (crist.), 1028, 1299. Potenziana, sorella, di Livia, 1025. Ps.-Marcello, 1022. Ptah (div.), 100. Publio, governatore, 1299, 1311. Publio, vescovo di Gerusalemme, 1339, 1368. Publio Quintilio Varo, 875. Pudente, discepolo di Paolo, 1203-04. Pulu v. Tiglat-Pileser III.

Qaus-Gabri, re edomita, 50. Qaus-malaka, re edomita, 50. Quadrato Gaio Ummidio Durmio, 683, 731. Quadrato Lucio Stazio, 1353. Quadrato di Atene, 1267, 1333, 1335, 1339. Quarto, discepolo di Paolo, 1202, 1304. Quinto Cassio Longino (console), 738, 1328. Quinto Licinio Silvano Graniano, 673. Quinto Memmio, non ident, 433. Quinto Pompeo Falco, 785. Quirinio Publio Sulpicio, 726, 738, 861, 868-875, 914, 999, 1002, 1004, 1014, 1314, 1363-64.

Indice dei nomi antichi 

Raab, 1013. Raab (prostituta), 191, 335, Rabbi Abbahu, 696. Rabbi Aqiba, 695. Rabbi Eliezer il Grande, 699. Rabbi Meir, 695. Rab-Mag, non ident., 382. Racab, moglie di Naason, 878. Rachele, madre di Simon mago, 1103. Rachele, moglie di Giacobbe, 95, 11416, 118-20, 125, 866. Raffaele, angelo, 434, 574. Ram, figlio di Chezron, 409. Ramses II (faraone), 64, 93, 100, 13536, 139, 244, 252, 254, 265, 280. Ramses III (faraone), 93, 100, 167, 241, 252, 258. Rav Ashi, rabbi, 695. Ravina I, rabbi, 695. Razis, eroe, 431. Rebecca, moglie di Isacco, 94, 99, 114, 119-20, 124. Remalia, padre di Peqah, 228. Resheph (div.), 286. Reu, figlio di Peleg, 104. Reuel, figlio di Esaù, 120. Reuel, padre di Zippora, 136-137. Rezin, re di Damasco, 228. Rezon, re di Damasco, 221. Rib-Adda di Biblos, 39-41. Roboamo, re della Giudea, 74, 82, 218, 222, 224, 226, 234, 879. Rodone, scrittore eccl., 1267, 1332, 1341-1342. Ruben, figlio di Giacobbe, 118, 139, 169, 181, 307, 544, 549, 1018. Rudamon, faraone, 228.

1413

Rufo, discepolo di Paolo, 1202. Rufo, figlio di Simone di Cirene, 901. Rufo, martire, 1273. Rufo Annio (procuratore), 738. Rufo Lucio Giulio, 1372. Rustico Quinto Giunio, 1373. Rut di Moab, 29, 53, 408, 878.

Saadia Gaon (rabbi), 56. Saba, regina di, 220. Sabellio di Tolemaide, 1382. Sadoc, somo sacerdote, 23, 206, 213, 219, 347-48, 451. Sadrach, soprannome di Anania, 414. Safan, figlio di Asalia, 231-32, 309. Safan, padre di Achikam, 230. Saffira, moglie di Anania, 484, 12991300. Sakla v. Yaldabaoth. Salathiel, figlio di Yoyaqin, 562. Šallum, re d’Israele, 75. Sallum, sommo sacerdote, 23. Salmanassar III, re d’Assiria, 100, 215, 225-26, 274, 282. Salmanassar V, re d’Assiria, 228, 371. Salmon, figlio di Nascon, 409. Salmon, marito di Rut, 878. Salome, non ident., 902-903, 1069. Salome, figlia di Erodiade, 928, 1013. Salome, levatrice, 999-1000. Salome, moglie di Zebedeo, 787, 902. Salome Alessandra, moglie di Aristobulo, 447-48. Salomone, re d’Israele, 23. 27, 7374, 81-82, 210-11, 218-23, 226, 233, 240, 244, 254, 265, 270, 277,

1414  Indice dei nomi antichi 296, 339, 347-48, 355, 398, 409, 438, 441, 521, 543, 553, 556, 565, 708, 879, 1112, 1175, 1179, 1300, 1361, 1364. Salomon Jarco, rabbi, 56. Samael v. Yaldabaoth. Šamaš (div.), 87, 103, 143, 286, Samgar, giudice, 199, 339. Samgar-Nebo, non ident., 382. Samla, re di Edom, 132. Samuele, profeta, 19, 21, 23, 73-75, 100, 190, 205-10, 212-19, 233-35, 278, 298-99, 304, 307, 309, 312, 319, 326, 337, 341-51, 354-56, 360-61, 363, 418. Šamši Adad I, di Assiria, 250. Sanballat, coronita, 84, 424, Sansone, giudice, 198, 201-02, 267, 339, 534, 927. Santippe, moglie di Albino, 1023. Santo, martire, 1352. Sara, moglie di Abramo, 94, 99, 113114, 118-19, 124, 1258. Šaratum, padre di Šutatna, 39. Sarezer, figlio di Sennacherib, 382. Sargon di Agade, 100. Sargon II, re d’Assiria, 100, 228, 274, 275, 280, 370-371. Sarsechim, non ident., 382. Serug, figlio di Reu, 104. Sati (div), 83. Saturnino, gnostico, 145. Saturnino, marito di Paolina, 730. Saturnino di Antiochia, 1380. Saturnino Quinto Volusio, 1372. Saul, eponimo dei sauliti, 117. Saul di Edom, 132.

Saul, re d’Israele, 207-14, 273, 286, 307, 320, 339, 342, 401. Sceva, non ident., 1299. Sceva, sommo sacerdote, 1309. Scipione Lucio Cornelio Lentulo, 446, 1372. Sealtiel, figlio di Ieconia, 421. Sealtiel, padre di Zorobabele, 394, 421. Sebà, beniaminita, 211-12. Secania, figlio di Iechiel, 423. Secondo di Tessalonica, 1299, 1304, 1309. Sedecia, re della Giudea, 82, 230, 377, 382. Segub, padre di Ya’ir, 73. Se’ir, hurrita, 132. Seknenre, principe tebano, 253. Sela, figlio di Arpacsad, 60, 104. Sela, figlio di Sua, 133. Seleuco IV Filopatore, 417, 430, 446. Selomit, figlia di Dibri, 154. Selumiel, sovrintendente, 161. Sem, figlio di Noè, 60, 104, 119, 121, 131, 1110, 1136-38. Semaia, sacerdote ezriano, 234, 427. Semeber di Zeboim, 113. Semeia, uomo di Dio, 234. Semerkhet, faraone, 63. Semo Sanco (div. sabina), 1105. Seneca Lucio Anneo il Giovane, 645, 686, 1041-1042, 1316-17, 1329. Seneca Lucio Anneo il Vecchio, 633. Seneca, vescovo di Gerusalemme, 1368. Sennacherib, re d’Assiria, 50, 55, 100, 229, 234-35, 272, 275, 277, 314, 366-67.

Indice dei nomi antichi 

Senofonte, 1020. Senzio Saturnino, 875. Seraià, padre di Ezra, 422. Seraià, sommo sacerdote, 230. Seraiah, scriba, 279. Serapion bar Mara, 677. Serapione (div.), 946. Serapione, scrttore eccl., 1332. Serapione di Antiochia, 1006, 1267, 1342, 1369. Sergio Paolo, non ident., 1299, 1306-07. Serse I di Persia, 412-13, 416, 422. Serviano Lucio Giulio Urso, 675-76. Sesbassar, principe di Giuda, 421. Sesto, scrittore eccl., 1344. Seth, figlio di Adamo, 100, 124-25, 131, 1002, 1010-1115, 1118, 1121, 1125-26, 1173-74. Seth, padre di Anano, 860. Setho v. Shabaka. Settimio Severo (imperatore), 1341-43. Seva/Seia, scriba, 279. Severiano Gabalense, 659. Shabaka, faraone, 100, 129. Shagar (div.), 290-91. Shammai, rabbi, 695. Shelemiah, figlio di Sanballat, 84. Sheshonq I, faraone, 218, 221, 234, 244, 252, 258, 274. Shiftiba’al di Biblos, 63. Shulgi, re di Ur, 100. 143. Siamon, faraone, 244. Sib’e (generale egiziano), 228. Sibitti (mostri), 106. Sichem, eveo, 111, 119. Sicon, re degli Amorrei, 73, 169, 172, 189, 264, 352, 354.

1415

Sidonio Apollinare, 1353. Siduri (div.), 103. Sifur, non ident., 1032. Sila v. Silvano. Silio Italico Tiberio Catio Asconio, 1372. Silvano, discepolo di Paolo, 587, 1179, 1181, 1202, 1204-1205, 1297-98, 1304-1305, 1307-1308, 1320-21. Silvano, martire, 1358. Silvano di Emesa, 1358. Silvestro I, papa, 1376. Simeone, non ident., 1174. Simeone, figlio di Giacobbe, 115, 117, 119, 139, 181, 192, 544, 546. Simeone, fratello di Gesù, 1004. Simeone, nipote di Sirach, 437. Simeone, profeta, 555-56, 868, 924, 958, 1000. Simeone, sacerdote, 999. Simeone, vescovo di Gerusalemme, 1340, 1368-69. Simeone II, figlio di Onia II, 437-38. Simeone Niger, 1299. Simmaco, traduttore, 59. Simmaco, vescovo di Gerusalemme, 1368. Simon (mago), 1014, 1022, 1039, 1102-1108, 1157, 1190, 1296, 1314, 1380-1381. Simone, padre di Giuseppe Kabi, 1311. Simone, profeta, 457. Simone, interprete dei sogni, 463. Simone, fratello di Gesù, 840. Simone v. Pietro. Simone, esseno, 891. Simone, figlio di Giovanni, 971.

1416  Indice dei nomi antichi Simone Iscariota, 877. Simone il Cananeo, 836, 1002, 1034-36. Simone il lebbroso, 886, 890-91. Simone, figlio di Alfeo, 1035. Simone, figlio di Camitho, 418. Simone di Cirene, 901, 1173-74, 1380. Simone di Corinto, 1027. Simone Bar Ghiora, 448. Simone Bar Kockba, 52, 449, 479, 695, 754, 761, 789, 799, 801, 1072, 1269, 1336. Simone, figlio di Giuda il Galileo, 737, 752, 1313, 1317. Simone di Gerusalemme, 1104. Simone Maccabeo, 430-31, 447-48. Simson, re di Acsaf, 192. Sinab di Adma, 113. Sincello Giorgio, 525, 690-691. Sinero, marcionita, 1341, 1379. Sinleqiunnini, sacerdote babilonese, 100. Sintiche (disc. di Paolo), 1242, 1304. Sirach, padre di Eleazar, 435. Siracide, 53, 67, 366, 378, 383, 435-38, 488, 533-34, 541, 609, 843, 856, 917, 940, 950, 952, 1112-13, 1154. Siricio, papa, 1377. Sisach v. Sheshonq I. Sisara, generale, 199. Sisto, vescovo di Roma, 1370-72. So, faraone non ident., 228. Socrate, 465, 664, 677-78, 894, 902, 1024. Socrate Scolastico, 659-660, 768. Sofonia, profeta, 53, 355, 393. Solino Gio Giulio, 455, 463. Sopatro di Berea, 1298-99, 1304, 1309.

Sophia, ipostasi gnostica, 1111-1113, 1121-22, 1127-1131, 1136, 1139, 1141, 1165, 1170-1171, 1174, 1180. Sorano di Efeso, 1138. Sosipatro, discepolo di Paolo, 1202, 1304. Sostrato, figlio di una miracolata, 1034. Sotero, vescovo di Roma, 1339, 1350, 1370-71, 1373. Sozomeno, 768. Stachi, discepolo di Paolo, 1202. Stefana, discepola di Paolo, 1202, 1303. Stefano, protomartire,1104, 1296-97, 1300, 1314, 1366. Stefano I, papa, 1384-85. Stefano V, papa, 1371. Sua, figlia di Adullam, 133. Suam, eponimo dei suamiti, 117. Sulpicio Severo, 688-89. Šum-Adda, figlio di Balume, 39. Susanna, moglie di Ioachim, 413, 417, 659-660. Šutatna, figlio di Šaratum, 39. Svetonio Tranquillo, Gaio, 647, 679683, 686-89, 714, 731-732, 738, 852, 1021, 1041, 1308, 1315-16, 1318, 1329, 1349, 1366.

Tabità di Giaffa, 1299. Tabrimmon di Damasco, 226. Tacito Publio Cornelio, 647, 663, 679, 682-89, 708, 711, 731-732, 738, 741, 751, 869, 871, 1020, 1041, 1151, 1315, 1317, 1329, 1349, 1367.

Indice dei nomi antichi 

Tacpenes, regina, 221. Taddeo, apostolo, 770, 836, 1035-36, 1038-39, 1185, 1296. Tafnakht, faraone, 228. Tafni v. Tacpenes. Tahuti v. Thot. Tamar, figlia di Davide, 211. Tamar, nuora di Giuda, 119, 133, 878. Tamiri, promesso sposo di Tecla, 1026. Tammuz (div.), 80, 383. Tanit v. Asherah. Tapanes v. Tacpenes. Taziano il Siro, 543, 613, 670, 1038, 1255, 1266,1332, 1341, 1344-46, 1350, 1354. Tecla, martire, 769, 1026-27, 1038. Telesforo, vescovo di Roma, 1370-72. Tema, figlio di Isamele, 93. Temisone, non ident., 1342. Teodoreto di Cirro, 660, 768, 1021, 1109, 1116, 1273, 1336. Teodosio I (imp.), 769, 1008, 1377. Teodosio II (imp.), 774. Teodoto, discepolo di Valentino, 1128. Teodoto il banchiere, eretico, 1380. Teodoto il cuoiaio, eretico, 1344, 1379, 1382. Teodoto, montanista, 1342, 1352, 1379, 1382. Teodoto di Cafarnao, 863. Teodozione di Efeso, 59, 413, 990. Teofilo ben Anano, 816, 1295. Teofilo, destinatario di Luca, 796-97, 816, 909, 1295. Teofilo, vescovo di Cesarea, 1267, 1374. Teofilo di Antiohia, 670, 693, 716, 1266, 1345-46, 1369.

1417

Teofima, concubina di Lisbio, 1034. Teofrasto di Ereso, 1380. Teone, converito, 1022. Tera, padre di Abramo, 93, 112, 114. Tertulliano Quinto Settimio Fiorente, 543, 562, 587, 616, 618, 628, 647, 665, 667-673, 681, 688, 693, 716, 781, 783, 819-820, 875, 986, 1009, 1014, 1026, 1109, 1116, 1127, 1129, 1157, 1178, 1201, 1253, 1255, 1267, 1336, 1338, 1340, 1345, 1372. Tertullo, avvocato, 1299, 1310, 1313. Terza, non ident., 1032-33. Terzo, discepolo di Paolo, 1249. Teuda, insorto, 737, 744, 979, 1104, 1299, 1313, 1317, 1363. Teuda, supposto marito di Maria, 1158, 1183, 1185. Thallos, storico, 647, 691-94. Thamar, genitore di Abias, 1003. Thot (div.), 64. Thutmosis I (faraone), 253. Thutmosis III (faraone), 64, 100, 23839, 244, 253. Tiamat (div.), 109-111. Tiberio (imp.), 479, 647, 662, 667-68, 679-680, 683-84, 689, 693, 73033, 737-38, 746, 860, 872-73, 906, 914, 928, 1008-1014, 1102, 1306, 1317, 1329, 1346. Tiberio Claudio Attico Erode, 1369. Tiberio Giulio Alessandro, 1315-17. Tiberio Materno, cons., 1343. Tichico, discepolo di Paolo, 12021203, 1250-51, 1298-99, 1304, 1309, 1322.

1418  Indice dei nomi antichi Tideal di Manda, 113. Tigellino Gaio Ofonio, 685. Tiglat Pileser I (re d’Assiria), 100. Tiglat Pileser III (re d’Assiria), 48, 100, 217, 228, 386. Timeo, padre di Bartimeo, 793. Timeo, padre del figlio cieco, 840. Timeo, platonico, 1101, 1112, 1122, 1178. Timone, non ident., 1299. Timoteo di Costantinopoli, 1144. Timoteo di Listra, 771, 779, 821-822, 1200, 1202, 1230, 1238, 1242, 1272, 1297-98, 1304, 1307-1309, 1320. Tiramione, martire, 1358. Tirannio Rufino, 610, 1314. Tito (imp.), 448, 683, 741, 820-22, 828, 1014, 1042. Tito, discepolo di Paolo, 1194, 1197, 1199, 1202-1203, 1215, 1236, 1238, 1241, 1242, 1251, 1255, 1269-1270, 1277, 1279, 1291-92, 1302-05, 1320-22. Tito Aurelio Fulvo Antonino, 785. Tito Flavio Sabino, 1042. Tito Manlio Torquato, 433. Tizio, greco convertito, 1308. Tobi, padre di Tobia, 433-34. Tobia, 53, 215, 387, 392, 424, 433. Tobia, vescovo di Gerusalemme, 1368. Tola, giudice, 200, 338. Tolomeo, figlio di Dositeo, 412. Tolomeo, disc. di Valentino, 1128. Tolomeo, martire non ident., 1354. Tolomeo, padre di Lisimaco, 412. Tolomeo, scrittore eccl., 1127.

Tolomeo II Filadelfo, 412. Tolomeo III Evergete, 412. Tolomeo IV Filopatore, 412. Tolomeo V Epifane Eucaristo, 412. Tolomeo VI Filometore, 412. Tolomeo VIII Evergete, 412, 437. Tommaso Didimo (apost.), 665, 763, 797, 801, 803, 808, 820, 836, 934, 971, 984, 987, 989, 993, 998, 1001, 1006, 1018, 020, 1031-45, 1038-39, 1043, 1045, 1059, 1140, 1143-45, 1147-49, 1152-52, 1154-57, 115961, 1166-67, 1367. Toribio de Astorga, 1021, 1033. Toribio di Liébana, 769. Tracalo Publio Galerio, 1372. Traiano (imp.), 449, 591, 669-670, 672-73, 800, 1351-56, 1369, 1383. Trasimaco, non ident., 1027. Treboniano Gallo Gaio Vibio (imp.), 1356. Trifena, discepola di Paolo, 1202. Trifone, scrittore eccl., 1332. Trifone Diodoto, 447. Trifosa, discepola di Paolo, 1202. Trofimo, discepolo di Paolo, 12981299, 1304, 1309.

Urbano, discepolo di Paolo, 1202. Uri, figlio di Cur, 146. Uria, hittita, 211. Uriel (angelo), 563-64, 571. Urikki, re, 284. Ur-Nammu, re di Ur, 143. Ursino, antipapa, 1377. Usam, re di Edom, 132,

Indice dei nomi antichi 

Utnapishtim, 100. Uzzà, figlio di Abinabad, 210, 534. Uzzi, sacerdote, 347.

Valente, vescovo di Gerusalemme, 1368. Valentiniano (imperatore), 1008, 1044. Valentino, gnostico, 767, 817, 1021, 1102, 1009, 1127-29, 1141, 1157, 1186, 1345, 1347. Valeriano (imperatore), 628, 1357-58, 1385. Vasti, regina, 413. Ventidio Cumano (procuratore), 683, 731, 1317. Vespasiano (imperatore), 448, 646, 674, 773, 702, 708, 741, 1014, 1349, 1373. Vestino Attico Marco Giulio, 1042. Vetere Lucio Antistio, 1373. Vezio Epagato, 1351. Vidranga, amministratore, 84. Vincenzo, vescovo di Ibiza, 1040. Vinicio Marco, cons., 1373. Vitellio Aulo (imp.), 731. Vitellio Lucio, padre di Vitellio Aulo, 731-33, 738, 1245. Vittore, vescovo di Roma, 883, 1337, 1339, 1344, 1370, 1372, 1374, 1378, 1382. Vizan, figlio di Mazdai, 1032. Volusiano, pers. fittizio, 1013-1014. Vualdath (div.), 1036.

Warpalawa, re di Ivriz, 284.

1419

Yahu (div.), 84. Ya’ir, giudice, 200, 338. Ya’ir, figlio di Manasse, 72, 73. Ya’ir, figlio di Segub, 73, 200. Yaldabaoth, ipostasi gnostica, 1111, 1113, 1118-20, 1125, 1141, 1173-74. Yam v. Yamm (div). Yamm (div), 286. Yared, padre di Matusalemme, 104, 533, 542. Yedaniah v. Yedoniah. Yedoniah di Elefantina, 83. Yehimilk di Biblos, 63. Yehochannan, sacerdote, 84. Yehu, profeta, 234. Yehu, re d’Israele, 81, 225, 227, 230, 281-83. Yehudah ha-Nasi, rabbi, 695. Yerah’azar, figlio di Zakir, 50. Yoachaz, re d’Israele, 74, 82. Yoas, re della Giudea, 74, 222, 227. Yoas, re d’Israele, 82, 224, 227. Yoiadà, padre di Benaià, 227, 348. Yoiadà, sacerdote, 227. Yoram, re della Giudea, 69, 224-25, 227, 281. Yoram, re d’Israele, 85-86, 127, 22526, 281-83. Yosafat, re della Giudea, 82, 225, 227, 281. . Yotam, re della Giudea, 74, 82, 200, 313, 391. Yoyaqim, re della Giudea, 74, 82, 382, 414 Yoyaqin, re della Giudea, 75, 217, 230, 297, 383-84.

1420  Indice dei nomi antichi Zabulon, figlio di Giacobbe, 71, 191, 198, 201, 544, 838. Zaccaria, re d’Israele, 74, 82. Zaccaria, padre di Giov. Battista, 746, 834, 867-68, 958. Zaccaria, profeta, 53, 355, 393-96, 419, 811, 917, 921, 949, 1068, 1296. Zaccaria, sacerdote, 998-1000. Zaccaria, sacerdote ezriano, 427. Zaccheo, vescovo di Gerusalemme, 1368. Zacheo, giudeo, 855. Zachia, maestro, 1001. Zafnat-Paneach, v. Giuseppe, figlio di Giacobbe. Zakkai (ben) Johanam, rabbi, 695. Zakur, re di Hamat, 62. Zaroên, mago, 1036. Zebedeo, padre di Giovanni, 595, 745, 786, 791-93, 806, 835-36, 902, 971, 1069, 1236, 1306, 1315.

Zebul, governatore, 200. Zefirino, papa, 1343, 1350, 1370, 1379, 1382, 1384. Zelomi, levatrice, 1000. Zena il giureconsulto, 1304. Zenobio, martire, 1358. Zerach, figlio di Giuda, 119, 133 Zerachia, sacerdote, 347. Zeruià, padre di Ioab, 211. Zeus (div.), 292, 432, 416, 446, 449, 452, 470, 603, 653-55, 751, 783, 815, 946, 1338, 1376. Zilpa, schiava di Lia, 119. Zimri, re d’Israele, 74, 168. Zippora, moglie di Mosè, 136-41. Zocar, padre di Efron, 114. Zorobabele, figlio di Sealtiel, 394-95, 421-22, 424, 426, 879. Zostriano, gnostico, 1113.

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI

Achtemeier Paul J., 799, Adam Alfred, 463, Adams Russell B., 251. Aharoni Yohanan, 41, 238, 261, 263. Ahlström Gösta W., 18, 245, 259, 266, 283. Aland Kurt, 829. Albright William Foxwell, 63-64, 116, 224, 246-47, 249, 260-61, 285, 371, 473. Alfaric Prosper, 942. Allison Dale C., Jr., 692, 814, 1052. Allison Dale C., 756. Alt Albrecht, 240, 262-63, 265-66. Andersen Francis I., 54, 568.69. Arici Azelia, 685. Assmann Jan, 288. Astour Michael C., 246. Astruc Jean, 67, 121, 295. Athas George, 280-81. Attridge Harold W., 587.

Audet Jean-Paul, 507, 613. Avi-Yonah Michael, 926. Avîgād Nahmān, 269, 291.

Bacchetta Enzo, 288. Bagatti Camillo Bellarmino, 926. Baigent Michael, 479, 740, Baldacci Massimo, 399. Baldovin John F., 1267. Banks Diane, 245. Baratier Jean-Philippe, 614. Barclay William, 785, 798. Bardy Gustav, 1356. Barnett Paul W., 870. Barrett Charles Kingsley, 780, 790. Barry Catherine, 1140. Barton John, 814, 817. Batiffol Pierre, 802. Bauer Bruno, 960, 1097. Bauer Hans, 49. 1421

1422  Indice degli autori moderni Bauer Walter, 860. Baumgartner Walter, 249. Baur Ferdinand Christian, 776, 820, 1250. Bearzot Cinzia, 46. Becker Jürgen, 545-46. Becking Bob, 280, 292. Belser Johannes Evangelist, 726-27. Benjamin Don C., 100. Benko Stephen, 648. Benoit André, 1341. Benoit Pierre, 541. Ben-Sasson Haim Hillel, 801. Berg van Eysinga (van der) Gustav Adolf, 684, 1203, Berger Klaus, 818. Berkey Robert F., 803. Bervig Dieter, 676. Bethge Hans-Gebhard, 1145. Billerbeck Paul, 697. Binger Tilde, 286. Biran Avraham, 52, 281-82. Birch Andreas, 1012, 1015. Birdsall James Neville, 705. Birnbaum S. A., 473. Bittner Maximilian, 1040. Black David Alan, 824. Blinzler Josef, 678. Bloch Ernst, 764. Boccaccini Gabriele, 475-78. Bock Darrell, 824. Bogaert Pierre Maurice, 558. Böhl Georg, 615-16. Bonner Campbell, 533. Bonnet Alfred Max, 1033. Bonsirven Joseph, 697. Bordreuil Pierre, 287.

Bosen Willibald, 761-62. Bossi Emilio, 911. Bouriant Urbain, 1004. Bradby E. L., 1062-65, 1067. Brandon Samuel G., 733, 745, 751, 783, 793, 849, 858, 915, 974, 1268. Bretschneider Karl Gottlieb, 704. Briggs Charles, A., 249. Bright John, 244, 261, 285. Brindle Wayne, 870. Broshi Magen, 480. Brown Francis, 249. Brown Raymond Edward, 679, 696, 788, 791, 800, 810, 814, 817, 890, 1230. Browning Wilfred Robert Francis, 782. Bruce Frederick Fyvie, 678, 692, 729, 798, 870, 909, 1294. Buckley Jorum Jacobsen, 1162. Budge Ernest Alfred Thompson Wallis, 998, 1001, 1016-17. Bujard Walter, 1250. Bultmann Rudolf, 763-64, 788, 79091, 856-59, 918, 948, 1061. Bunimovitz Shlomo, 237-38 Burkett Delbert, 790-91, 818. Burney Charles Fox, 962. Buxtorf Johann, 57.

Cabrol Fernand, 507. Cadbury Henry Joel, 915. Cahill Jane M., 275. Callaway Joseph, 266. Campbell Edward Fay, 246. Caquot André, 1341.

Indice degli autori moderni 

Cappellotti Francesco, 764. Carlson Stefen C., 812. Carmignac Jean, 492, 813, 816, 1269. Carr Stephen, 736. Carrara Paolo, 648. Carrier Richard, 909-10, 1295. Castellino Giorgio Raffaele, 399. Cazelles (de) Henri, 811. Ceriani Antonio Maria, 525, 557, 562. Chabas François-Joseph, 64. Chadwick Henry, 705. Chaine Marius, 998. Charles Robert Henry, 525, 533, 542, 544, 571, 952. Charlesworth James H., 580, 720-21, 727-28, 810. Cheesman George Leonard L., 874. Clayton John Powell, 838. Cohen Shaye J. D., 478. Conant Thomas Jefferson, 53. Conybeare Frederick Cornwallis, 1007. Coogan Michael D., 761. Coote Robert B., 245, 259. Cortassa Guido, 656. Cotelier Jean Baptiste, 629, 1001, Cowley Arthur, 83-84. Crafer Thomas Wilfrid, 668. Craigie Peter Campbell, 287. Cramer Robert Nguyent, 1230. Craveri Marcello, 998-99, 1001-1004, 1007, 1015, 1017, 1162. Credner Karl August, 628, 972. Cross Frank More, 297, 347, 473, Crossan John Dominic, 603, 709, 756, 799, 804, 831-32, 916, 934, 961. Cruice Patricius, 1268. Crüsemann Frank, 474.

1423

Cryer Frederick H., 281. Cuadrado Adolfo Muñiz, 251. Culmann Oscar, 596. Culpepper Richard Alan, 596, 827. Cumont Franz Valéry Marie, 452. Cureton William, 678, 815, 955, 1273-74, 1336. Cutner Herbert, 953.

Dahl Niels Alstrup, 1265. Dahood Mitchell, 287. Daietsi Isaia, 1002. Dalla Vecchia Flavio, 809, 812, Danby Herbert, 696. 698-701. Darnell John Coleman, 65. Davies Graham, 52, 287. Davies Philip Roger, 56, 65, 235, 243, 245-46, 259, 283, 287, 292, Davies Stevan L., 837-38, 962. Davies William David, 845, 1052. Day John, 286. Dearman John Andrew, 355. De Jonge Marinus, 544-46. Den Boer Willem, 648. De Pury Albert, 298. De Sanctis Luca, 696. Detering Hermann, 585, 761, 780, 954, 1205. De Vaux Roland, 38, 248, 421, 474, 479. Dever William G., 27, 50, 141, 167, 245, 286. De Wette Wilhelm Martin Leberecht, 353, 829. Dhorme Édouard, 48. Dibelius Martin, 1061, 1255.

1424  Indice degli autori moderni Dickson John, 818. Dietrich Walter, 285, 297. Dillmann August, 525, 533, 562. Dobbs-Allsopp Frederick W., 65. Dockx Stanislas, 1224. Dodd Charles Harold, 6842, 688, 842, Dodwell Henry, 628. Doherty Earl, 14, 596-97, 715, 73536, 750, 916, 954, 1351. Döllinger Johann Joseph Ignatius, 616. Donadoni Sergio, 399. Donhaue Douglas J., 480. Donini Ambrogio, 715, 786. Donnini David, 848, 892, 902-903, 975. Dossin Georges, 39, 47, 247. Downing Francis Gerald, 1070-72, 1077. Draper Jonathan A., 609. Dressel Albert, 1033. Drews Arthur, 688, 705, 713, 954, 1205. Drey Johann Sebastian, 611. Driver Samuel R., 249. Drusius Johannes, 57. Dufour Léon, 667. Dunn James Douglas Grant, 784. Dupont-Sommer André, 509. Dussaud René, 287.

Easton Barton Scott, 675, 1250. Edelman Diana Vikander, 235, 292, 422. Ehrman Bart, 760, 766, 782, 814, 831, 925, 956-57, 980-81, 1049, 1059, 1264-65.

Eisenman Robert H., 474, 739, 742-43 Eisler Robert, 724. Eliade Mircea, 910. Elliot J. Keith, 824. Erasmo da Rotterdam, 782, 1252. Evans Christopher F., 875. Evans Craig A., 678, 812. Ezra (Ibn) Abraham ben Meir, 56, 68, 73.

Fabricius Johann Albert, 675, 1001, 1007, 1012, 1031. Falk Harvey, 915. Farrer Austin Marsden, 1050. Fassberg Steven Ellis, 284, Feilberg Carl Gunnar, 242. Feldman Louis H., 705, 713, 729, 734. Férotin Marius, 1016. Festugière André Jean, 1098. Filmer William Edmund, 875. Finkelstein Israel, 13, 43, 92-93, 132, 218, 241, 245, 251, 254, 261, 263, 264, 266, 269, 273-78, 285, 423-24. Fisher Loren R., 301. Fitzmyer Josph Augustine, 810, 106264, 1067, 1070, 1077, 1080-81, 1085, 1087-89, 1231. Fleischer Henricus Orthobius, 651. Flusser David, 478, 789, 896. Frazer James George, 910. Forbes A. Dean, 54. Foster Paul, 814. Fouard Constant Henri, 648. France Richard Thomas, 669, 679. Franklin Eric, 785, 817. Frassinetti Paolo, 648.

Indice degli autori moderni 

Freedman David Noel, 246, 251, 603, 734, 782, 799. Fricke Weddig, 896. Friedman Richard Elliott, 251. Fritz Volkmar, 266. Fuks Alexander, Funk Franciscus Xaverius, 1022. Funk Robert Walter, 799, 843, 868, 1057. Funk Wolf-Peter, 1179.

Galil Gershon, 225, 280, 371. Galland André, 614-15, 821. Garbini Giovanni, 283. García José Miguel, 816, 870. Gardiner Alan Henderson, 64-65. Gardner-Smith Percival, 788. Garitte Gérard, 814. Garnet Paul, 812. Gebhardt (von) Oskar, 801. Gelb Ignace Jay, 49. Gelder (van) Geert Jan H., 558. Gesenius Wilhelm, 53-54, 57-58. Gibson Margaret Dunlop, 1012. Ginsberg Harold Louis, 84. Giversen Søren, 1149. Glass Solomon, 57. Gmirkin Russell, 283. Goguel Maurice, 693, 761. Golb Norman, 474. Goldberg Gary J., 725-26. Goldstein Morris, 696. Goodenough Erwin Ramsdell, 507. Goodspeed Edgar Johnson, 1223, 1253, 1255-56, 1280. Gordon Cyrus Herzl, 246, 250, 285, 287, 302.

1425

Gottward Norman Karol, 255, 262. Grabe Johann Ernst, 625, 628-29. Graham M. Patrick, 355. Grant Frederick Clifton, 943. Grant Michael, 682. Grant Robert McQueen, 588, 715. Grappe Lester, 211, 215, 235 Gratz Peter Aloys, 618. Graves Kersey, 954. Grébaud Sylvain, 1001. Greenspahn Frederick E., 285. Gregory Andrew F., 814. Grenfell Bernard Pyne, 557, 1026, 1145, 1149, 1151. Griesbach Johann Jacob, 829, 1051. Griffin Bruce W., 1257. Grimme Hubert, 64. Griset Emmanuel, 651. Grotius Hugo, 72, 972. Gruen Erich Stephen, 681. Guarducci Margherita, 1267, 1350. Gugenheim Ernest, 1341. Guidi Ignazio, 1038-39. Guignebert Charles, 1049. Gunkel Hermann, 261-62, 420. Gundry Robert Horton, 780-81. Guthrie Donald, 587, 816, 1253-55. Guy Fau, 694.

Habermas Gary R., 683. Hadidi Adnan, 280. Halpern Baruch, 302. Hanslik Rudolf, 688. Hardwick Michael, 716. Harnack (von) Adolf, 611, 653, 668, 704, 801-802, 816, 1256.

1426  Indice degli autori moderni Harrington Daniel J., 781, 814. Harris J. Rendel, 1333. Harris Murray J., 683. Harris Stephen, 814. Harrison Percy N., 1255. Hastings James, 943. Hayes John Haralson, 255, 261. Healy Mary, 761. Hedrick Charles W., 791. Hefele Karl Joseph, 623, 786. Heiser Michael S., 184. Helms Randel, 799. Hengel Martin, 791, 803, 1057. Hennecke Edgar, 1143. Herford Robert Travers, 696. Herrmann Léon, 705. Hilgenfeld Adolf, 562, 628, 1250. Hindley Clifford J., 524. Hochart Polydore, 688. Hodge Stephen, 479. Hoehner Harold W., 870. Hoffmeier James Karl, 238. Holden Hubert Ashton, 652. Holl Augustin Ferdinand Charles, 266. Hollmann Georg, 1254. Holm-Nielsen Svend, 553. Hölscher Gustav, 298, 364. Holtzmann Heinrich Julius, 1049, 1250, 1254-55. Hoover Roy W., 799. Horrell David, 798. Hoskisson Paul Y., 78. Hultgren Arland J., 1149. Hunt Arthur Surridge, 557, 1026, 1145, 1149, 1151. Hunter Alan, 818. Hurvitz Avi, 284.

Hvidberg Flemming Friis, 288.

Isenberg Wesley William, 1162.

Jacobson William, 623, 625. Jacoby Felix, 694. Jamieson-Drake David W., 270. Jaubert Annie, 883-84, 903. Jayyusi Salma Khadra, 269, 281, 283. Jeffery Peter, 812. Jellinek Adolph, 525. Jeremias Joachim, 843, 890, 907. Jeremias Jörg, 297. Jonas Hans, 1098. Jowers Dennis W., 1250. Jull A. J. Timothy, 480. Junius Francisco, 72.

Kapelrud Arvid S., 287. Karst Joseph, 693. Kaufmann Yehezkel, 285. Kempinski Aharon, 238, 240. Kenyon Kathleen Mary, 237-38, 245, 247, 276, 291. Kessler Rudolf, 1157, Killebrew Ann E., 239-40, 275, 277. Kim Young Keun, 1277. Kimhi David ben Joseph, 56, 73. Kimhi Moses, 56. Kippenberg Hans Gerhard, 698. Kitchen Kenneth Anderson, 258, 285. Kirby Peter, 1057. Klausner Joseph, 695-97, 783. Klijn Albertus Frederik Johannes. 558.

Indice degli autori moderni 

Klinghardt Matthias, 474. Kloppenborg John S., 863, 1080-83. Knauf Ernst Axel, 30, 295, 298, 355. Knox Wildred Lawrence, 798. Kochavi Moshe, 279. Kohler Kaufmann, 613. Köhler Ludwig, 249. Kollmann Bernd, 779. Kooij (van der) Gerrit, 280. Korpel Marjo Christina Annette, 292. Köster Helmut, 602-03, 605, 934, 1156, Kraft Robert A., 601. Kratz Reinhard Gregor, 297. Krenkel Max, 726-27. Kümmel Werner Georg, 779, 781, 1084, 1253.

Labib Pahor, 1162. Labriolle (de) Pierre, 648. Lagarde (de) Paul, 1016. Lagrange Marie-Joseph, 507, 870. Lampe Geoffrey William Hugo, 838. Landsberger Benno, 49. Landucci Franca, 46. Lane Eugene, 771. Lardner Nathaniel, 625, 628. Las Vergnas Georges, 684. Layton Bentley, 1162. Lazzari Carla, 1160. Leclerq Henri, 507. Leemhuis Frederik, 558. Leibovitch Joseph, 64-65. Leigh Richard, 479, 740. Lemaire André, 52, 284, 286, 297-98, 302. Lemche Niels Peter, 14, 38-39, 235,

1427

237, 240, 242, 245, 247, 254, 25960, 281, 283, 288, 293m 298-300, 310, 364. Lenormant Charles, 65. Less Gottfried, 628. Létourneau Pierre, 164. Levita Elias, 57-58. Levy Thomas Evan, 251, 266. Lewis Agnes Smith, 998, 1017. Lewis Nicolas Denzey, 1150-55, 1160, 1172-73. Lindemann Andreas, 1265. Lindner Wilhelm Bruno, 614. Lipiński Edwaad, 225, 252, Lipsius Richard Adelbert, 1022, 1026, 1028, 1031. Liverani Mario, 46, 49, 228, 248, 266, 302. Lods Adolphe, 1004. Lohfink Gerhard, 1249. Lohfink Norbert, 231, 297. Loisy (de)Alfred, 1254. Lowder Jeffery Jay, 689, 717. Lücke Friedrich, 829. Lüdemann Gerd, 954, 1258.

Macalister Robert Alexander Stewart, 280. Macchi Jean-Daniel, 298. Maggioni Bruno, 787, 818. Maier Johann, 698. Manen (van) Willem Christiaan, 585, 597, 954, 1199-1200, 1203-1204, 1208, 1300. Mangasarian Mangasar Magurditch, 954.

1428  Indice degli autori moderni Manzi Franco, 1317. Marchadour Alain, 972. Marcus Joel, 800. Marguerat Daniel, 1088. Martinetti Piero, 298. Martinez Fiorentino Garcîa, 475. Martini Carlo Maria, 705. Marshall I. Howard, 816. Marx Werner Gottfried, 783. Masius Andreas, 72-73. Mason Steve, 714, 727, 735. Massey Gerald, 257. Masson Charles, 1254. Matthews Victor Harold, 100. Mattill Andrew Jacob, 816. Māzār Amihai, 240-41, 246, 269, 271, 285. Māzār Binyāmîn, 269, 285. Māzār Êlāt, 276, 285. McArthur Harvey Kimg, 713. McCarter P. Kyle, 225. McDonald Lee Martin, 925. McDowell Josh, 647, 705, 735. Mckenzie Steven L., 296. McNeile Alan Hugh, 761. Meier John Paul, 696, 698, 710, 71723, 736, 799, 817, 861, 884, 890, 907, 975-77, 980, 1057, 1150. Mellor Roland, 682. Ménard Étienne, 1162. Mendenhall George Emery, 255, 262. Meredith Anthony, 653. Merk Augustinus, 870. Meyer Marvin, 1113, 1123, 1137, 1143, 1145, 1148-49, 1156, 1163, 1176. Meyers Eric M., 285.

Michaelis Wilhelm, 1249. Migliasso Secondo, 907. Milik Józef Tadeusz, 523-24. Millar Fergus, 739. Miller James Maxwell, 255, 355. Miller Norma Patricia, 688. Miller Robert J., 756, 925. Mitton Charles Leslie, 1253. Möhler Joann Adam., 615. Mora Clelia de Miguel, 46. Moraldi Luigi, 478, 505, 509, 665, 703, 724, 998-99, 1001, 1003-1004, 1007, 1015, 1017. Moran William L., 66. Moreau Jacques, 648, 679. Morfil William Richard, 571. Morgenthaler Robert, 1052. Morrison Martha A., 246. Mowinckel Sigmund, 405. Muddiman John, 814, 817. Mullen Everet Theodore, 296. Müller Karl, 691-92. Muro Ernest A., 812. Murphy O’Connor Jerome, 1230, 1317. Murphy Roland Edmund, 810, 1231. Muscolino Giuseppe, 658-59. Mutti Claudio, 653. Mykytiuk Lawrence J., 282.

Na’aman Nadav, 239. Naber Samuel Adamus, 1203. Najovits Simon R., 244. Nautin Pierre, 653, 1267. Naveh Joseph, 51, 281-82. Nicholl Colin, 1254.

Indice degli autori moderni 

Nicholson Ernest Wilson, 296. Niese Benedikt, 705. Nihan Christophe, 292. Nineham Dennis Eric, 925, 1050. Norden Edward, 705. Norelli Enrico, 801. Noth Martin, 14, 96, 128, 187, 247, 249, 262-63, 296.

O’Callaghan José, 809-811. Oldenburg Ulf, 48. Oldfather William Abbot, 646. Olson Ken, 713. Orchard Bernard, 813. Orelli Johann Kaspar, 628. Oren Eliezer D., 263. Otto Johann Karl Theodor, 1266. Oudenrijn (van den) Marcus Antonius, 1014. Owen David I., 246.

Padovese Luigi, 648. Pagels Elaine P., 791, 1160, 1176, 1230, 1262. Pardee Dennis, 287. Parker Pierson, 1050. Parrot Douglas M., 1140. Pascal Carlo, 688. Patterson Stephen J., 915, 1145. Pearson John, 628. Pelletier André, 719. Perk Johann, 829. Perlitt Lothar, 297. Perrin Norman, 121, 1254-55. Person Raymond Franklin, 296.

1429

Pesch Rudolf, 761-62, 789. Petermann Julius Heinrich, 562. Petrie William Matthew Flinders, 63-64. Pettinato Giovanni, 101. Pezzella Sosio, 653. Philips Long V., 261. Pincherle Alberto, 1341. Pierson Allard, 1103. Pines Shelomoh, 729. Pitta Antonio, 1248. Poirier Paul-Hubert, Polhill John, 1295. Portalupi Felicita, 652. Porten Bezalel, 83-84. Porter Stanley E., 925. Portolano Antonio, 648. Postel Guillaume, 998. Praetorius Franz, 562. Price Robert M., 14, 831, 916, 954, 1205, 1263. Prigent Pierre, 601. Pritchard James Bennett, 84. Pritz Ray A., 781. Propp William Henry C., 251. Puech Émile, 812. Puech Henri-Charles, 1143, 1341.

Rad (von) Gerhard, 262, 297. Rahmani Ignatius Ephraem II, 1107, 1012. Rainey Anson F., 38, 66, 78, 251, 263, 265, 283. Ranucci Valentina, 611. Ratzinger, Joseph, 788, 791, 868, 871. Redford Donald Bruce, 238, 257, 265 Redford John, 779.

1430  Indice degli autori moderni Reitzenstein Richard, 1110. Rendsburg Gary A., 283, 285. Rendtorff Rolf, 299. Resch Alfred, 1149. Revillout Eugène, 1007, 1015-16. Ricciotti Giuseppe, 364, 796, 818, 869. Richards G. C., 724. Richardson Peter, 603. Riley Gregory G., 1160, 1173. Ritschl Albrecht, 820. Roberts Colin, 827. Robertson Archibald Thomas, 723. Robertson John Mackinnon, 954. Robertson John William, 784. Robinson James M., 1145. Robinson John Armitage, 1333. Robinson John Arthur Thomas, 761, 781, 1004, 1012, 1016, 1224, 1256, 1323. Robinson Maurice, 824. Rofé Alexander, 296. Rogerson John William, 243, 287. Rohrhirsch Fedinand, 812. Römer Thomas C., 231, 292, 297-98. Roon (van) Aart, 1253. Rougé (de) Emmanuel, 65. Rougé Jean, 688. Routh Martin Joseph, 926, 1364. Rowley Harold Henry, 347, 943. Rubinstein Aryeh, 568-69. Rudolph Kurt, 1998, 1101. Rylands John, 705. Rylands Louis Gordon, 717, 827.

Sabbah Messod, 56. Sabbah Roger, 56.

Sabourin Léopold, 796, 816-17. Sacchi Paolo, 26, 426, 475, 524, 53334, 543, 545-46, 569, 573, 577-79, 952. Sachsse Eduard, 249. Saldarini Anthony, 784. Sales Marco, 73. Sandars Nancy Katharine, 100. Sanders Ed Parish, 706, 708, 756, 869, 915, 1150. Sanders James A., 263. Sangiacomo Andrea, 57. Schaff Philip, 611. Schechter Solomon, 478, 511, 613. Scheidweiler Felix, 653, 715. Schenke Hans Martin, 1101, 1111, 1162. Schiffman Lawrence H., 475. Schmidt Andreas, 615. Schmidt Brian B., 241. Schmidt Carl., 1026. Schmidt Karl L., 763. Schnackenburg Rudolf, 784, 814. Schnelle Udo, 779, 798, 1254. Schürer Emil, 705, 739.

Scopello Madeleine, 1140, 1162-63, 1176. Scorza Barcellona Francesco, 602. Scott Bernard Brandon, 843. Scott Ernest Findlay, 1243. Segal Alan F., 478. Segelberg Eric, 1162. Seger Joe D., 238. Segert Stanislav, 250. Semisch Carl Gottlob, 616.

Indice degli autori moderni 

Seters (van) John, 91, 160, 245-46, 265, 298. Shanks Herschel, 245. Sherwin-White Adrian N., 870. Shiloh Yigal, 269, 270, 272, 276, 285. Shukster Martin B., 603. Shutt Rowland James Heath, 704, 724. Silberman Neil Asher, 43, 92, 132, 218, 251, 254, 263-64, 269, 273-74. Simon Marcel, 648, 1341. Simon Richard, 67, 73, 295. Simonetti Manlio, 624, 1100, 1267, 1367, 1376, 1378. Simons Edward, 1052. Sivan Daniel, 66. Sjöberg Erik, 523. Smallwood Edith Mary, 709, 751. Smelik Klaas A. D., 65, 279. Smend Rudolf, 96, 297. Smith Mark S., 279, 288. Smith Morton, 812, 915. Smith Sidney, 47. Soden (von) Wolfram, 247. Sordi Marta, 749-50. Sparks Kenton Lane, 257. Spatafora Francesco, 813. Speiser Ephraim A., 38, 250. Spengler Oswald, 1098. Spinoza (de) Bento, 30, 56-57, 59, 6772, 74-75, 295, 319. Spottorno Maria Vittoria, 811. Stade Bernhard, 298. Stanton Graham N., 781, 1049. Stavrakopoulou Francesca, 273. Stein Gordon, 705, 713, 1077, 1079. Steiner Hermann, 562. Steiner Margreet, 269.

1431

Stern Ephraim, 285. Stern Menahem, 681. Stöger Alois, 870. Stolle Gottlieb, 628. Strack Hermann L., 697. Strauss David Friedrich, 954. Streeter Burnett Hillman, 1049-50, 1053, 1255. Suder Robert W., 52. Sukenik Eleazar L, 474. Stefani Piero, 478, 818. Storr Gottlieb Christian, 1052. Strange W. A., 870, 1294. Stroumsa Gary G., 812. Stuhlmacher Peter, 791. Suriano Matthew J., 280. Swete Henry Barclay, 1004. Sykes Stephen Whitefield, 838. Sznycer Maurice, 297.

Talmon Shemaryahu, 475. Tardieu Michel, 1140. Taylor Vincent, 272, 1081. Taylor Joan E., 733. Tcherikover Victor Avigdor, 681. Teicher Jacob Leon, 475. Thackeray Henry Saint John, 709, 717. Theissen Gerd, 781, 714, 785, 788, 814, 818, 955. Thiede Carsten Peter, 809-811, 826-27. Thiele Edwin Richard, 223-24, 371. Thiering Barbara, 903, 915. Thilo Johann Karl, 999, 1001, 1003, 1007, 1012, 1022. Thompson Henry, 266. Thompson James Westfall, 1352.

1432  Indice degli autori moderni Thompson Thomas L., 14, 30, 24548, 265, 269-71, 281, 283, 298, 1205. Tillemont (de) Sébastien le Nain, 629. Tischendorf (von) Konstantin, 829, 998-99, 1001, 1003, 1007, 1012, 1016-17, 1022, 1028, 1031. Tisserant Eugène, 1016. Tolbert Mary Ann, 843. Tommasi Franco, 975. Toorn (van der) Karel, 292. Tov Emanuel, 480. Treat Jay Curry, 603. Tregelles Samuel Prideaux, 786, 821-22. Tremellius Immanuel, 72. Tremolada Pierantonio, 1295, 1305, 1321. Trocmé Étienne, 1341. Tropper Josef, 281. Tuckett Christopher, 814. Turner John D., 790, 1123, 1122-23. Turner Martha Lee, 1163. Turner Nigel, 870.

Ulansey David, 453. Ulrich Eugene C., 475. Ungnad Arthur, 248. Ussher James, 1253.

Vaillant André, 568. Valantasis Richard, 1145. Valbusa Diego, 298. Valla Lorenzo, 662, 1039. Vanderkam James C., 475. Vardaman Jerry, 874.

Vassiliev Afanasij, 1015. Vaughn Andrew G., 275, 277. Veijola Timo, 297. Velikovsky Immanuel, 253. Venema Herman, 628. Vermes Geza, 696, 739, 915. Vernes Maurice, 278. Viklund Roger, 954, 1262. Viviano Benedict, 789. Volkmar Gustav, 266, 562. Voorst (van) Robert E., 677, 688, 69394, 735.

Wacholder Ben Zion, 474-75. Wallace Daniel, 587, 812, 824, 1077. Wallin Georg, 1003. Walzer Richard, 648. Ward Henry Dana, 607. Ward William A., 251. Weber Max., 262. Wehnam David, 683. Weil Raymond, 64. Weinfeld Moshe, 260, 296. Weippert Manfred, 262. Weisse Christian Hermann, 1049. Wellhausen Julius, 14, 53, 122, 285, 295-96, 299, 310. Wells George Albert, 14, 705, 713, 715, 763, 817, 847, 954. Wendelin Govaart, 629. Wengst Klaus, 613. Wesselius Jan-Wim, 281-82. Westermann Claus, 298. Wewers Gerd A., 698. Whiston William, 715. Whitelam Keith W., 245.

Indice degli autori moderni 

Whittaker Thomas, 1199, 1201, 1203, 1300. Wilken Robert L., 669. Williamson Geoffrey A., 709. Williamson Peter, 801. Wilmart André, 1016. Wilson Bill, 647, 735. Wilson Robert MacLachlan, 1176, 1250. Wilson R. A., 240. Wilson Stephen G., 603 Winter Paul, 688, 704, 739, 860. Witherington III Ben, 870, 1295. Wolff Hans Walter, 297. Woude (van der) Adam S., 475. Wrede Georg Friedrich Edward William, 580, 752, 975.

1433

Wright David P., 251. Wright George Ernest, 261, 473. Wright William, 998, 1001, 1012, 1017, 1031.

Yadin Yigael, 261, 285. Yamauchi Edwin M., 874. Yon Marguerite, 287. Yurco Frank J., 265.

Zahn (von) Theodor, 801, 987, 1028. Zecchini Giuseppe, 46. Zeitlin Solomon, 705, 713. Zevini Giorgio, 955. Zoller Israele, 64.

Finito di stampare nel mese di dicembre del 2021 dalla tipografia «The Factory S.r.l.» via Tiburtina, 912 – 00156 Roma