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Italian Pages 630 Year 2021
Ad Andrzej Nowicki, maestro di vita e di pensiero.
FRANCESCO PAOLO RAIMONDI
DALL’ANTICO ISRAELE AL CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI TRA MITO E STORIA TOMO I
© isbn 979–12–5994–xxx–x
prima edizione dicembre 2021
roma
indice
TOMO I
13 Prefazione 17 Introduzione 31 Abbreviazioni Parte I L’antico Israele tra mito e storia 37 Capitolo I L’ambiente storico-linguistico
1.1. Il Canaan: problematicità dei confini geografici, 37 – 1.2. Il Canaan: la natura del territorio, 42 – 1.3. Il Canaan: gli insediamenti tra il Tardo Bronzo e il Ferro II, 43 – 1.4. Chi sono i Cananei?, 47 – 1.5. L’ambiente linguistico del Canaan, 51 – 1.6. La lingua ebraica, 52 – 1.7. Ebrei: è un nome esonimo?, 60 – 1.8. Le origini della scrittura alfabetica, 61 – 1.9. Spinoza e la problematicità dell’AT, 67.
77 Capitolo II La fase politeistica
2.1. Yhwh e il politeismo, 77 – 2.2. La maturazione dello yhawismo, 86.
6 Indice
91 Capitolo III Dissezione anatomica della Genesi: il mito dell’antico Israele
3.1. Il carattere apografo della Genesi ( בראשיתberēšit), 91 – 3.2. Il ciclo della creazione e la sua radice mesopotamica, 99 – 3.3. Il ciclo dei grandi patriarchi, 112 – 3.4. La Genesi e la tradizione culturale dei villaggi centro-settentrionali, 116 – 3.5. Due entità religiose: El / ‘êlōhîm e Yhwh; due entità politiche: Israele (Nord) e Giuda (Sud), 120.
135 Capitolo IV Le radici vetero-testamentarie: il Dio nazionale e la legislazione politico-religiosa
4.1. Il ciclo mosaico e il mito dell’uscita dall’Egitto, 135 – 4.2. Il primo codice ebraico: regolamentazione dei rapporti sociali e della vita religiosa, 143 – 4.3. Il mito dell’alleanza e le versioni dei comandamenti, 147.
151 Capitolo V Le radici vetero-testamentarie: diritto e liturgia di una teocrazia sacerdotale
5.1. Il Levitico e le tendenze teocratiche degli aronniti, 151.
161 Capitolo VI Le radici vetero-testamentarie: la pseudo-storia
6.1. Il mito del nomadismo nel deserto, 161.
171 Capitolo VII Le radici vetero-testamentarie: Il Dio dell’alleanza
7.1. L’enigma Deuteronomio, 171.
189 Capitolo VIII Le radici vetero-testamentarie: La mitizzazione della monarchia unita
8.1. Giosuè e il mito della conquista del Canaan, 189.
197 Capitolo IX Le radici vetero-testamentarie: la versione antimonarchica
9.1. Il mito dell’età dei Giudici, 197 – 9.2. Due novelle in appendice, 202.
205 Capitolo X I libri di Samuele, dei Re e delle due Cronache: lo scisma dei due regni
10.1. Dalla presunta monarchia unita allo scisma dei due regni, 205 – 10.2. La svolta dei due Samuele, 212 – 10.3. Nascita e morte del regno d’Israele e del regno di Giuda, 218.
Indice
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237 Capitolo XI Gli scavi archeologici
11.1. I collassi del Medio e Tardo Bronzo e i libri storici della Bibbia, 237 – 11.2. L’età patriarcale: mito o storia?, 244 – 11.3. Chi erano gli ebrei?, 251 – 11.4. L’identità di Israele, 256 – 11.5. I modelli privi di supporti archeologici: a) il modello della conquista; b) la Peasant Revolt; c) l’infiltrazione pacifica, 260 – 11.6. I due modelli dell’origine intra-cananaica di Israele: d) il modello simbiotico; e) il modello etnogenetico, 265 – 11.7. Gli scavi di Gerusalemme, 269 – 11.8. La lingua e la scrittura: matrice ebraica o canaanaica?, 278 – 11.9. La religione: matrici ebraiche o canaanaiche?, 284.
295 Capitolo XII Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco
12.1. L’inadeguatezza dell’ipotesi documentale e dell’ipotesi di una storia deuteronomista, 295 – 12.2. Limiti imposti dalle ricerche archeologiche, 299 – 12.3. Le stratificazioni cananaiche, ugaritiche e neo-babilonesi della formazione culturale di Israele, 301 – 12.4. Fluttuabilità ed evaporazione delle fonti J ed E, 303 – 12.5. Ancora sulla identità di Israele, 304 – 12.6. La tardiva comparsa della Torah, 308 – 12.7. La paternità, isrealitica o giudaita, della storia primaria, 309 – 12.8. Le fazioni politico-religiose. Profetismo, sacerdozio e monarchia, 312 – 12.9. Analisi stilistica dei libri afferenti alla storia primaria, 319 – 12.10. Il mito della fonte D e della storia deuteronomista, 350 – 12.11. Scuola deuteronomista: un’ipotesi vacillante, 353.
363 Capitolo XIII Le radici vetero-testamentarie: i Neviim
13.1. Introduzione, 363 – 13.2. Isaia, 365 – 13.3. Il profeta Geremia, 377 – 13.4. Il profeta Ezechiele, 383 – 13.5. I profeti del Nord: Osea e Amos, 385 – 13.6. I profeti minori: Gioele, Abdia, Giona, 389 – 13.7. I profeti minori: Michea, Nahum, Habacuc, 391 – 13.8. I profeti minori: Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, 393.
397 Capitolo XIV Le radici vetero-testamentarie: i Ketuvim
14.1. I Salmi ebr. תהיליםtehillîm = lodi, 397 – 14.2. Le suppliche, 400 – 14.3. I salmi sapienziali, 402 – 14.4. I salmi di ringraziamento, 403 – 14.5. I salmi storici, 404 – 14.6. I salmi di Sion, 405 – 14.7. I salmi messianici, 405 – 14.8. Gli altri Ketuvim: Rut e le Lamentazioni, 408 – 14.9. Gli altri Ketuvim: il Qohelet, 409 – 14.10. Il libro di Ester, 412 – 14.11. Il profeta Daniele, 413 – 14.12. Ezra/Neemia e la fondazione del giudaismo, 418.
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429 Capitolo XV I libri del canone cattolico 15.1. Il libro di Giuditta, 429 – 15.2. I due Maccabei, 430– 15.3. Tobia, 433 – 15.4. Il Siracide, 435 – 15.5. La Sapienza di Salomone, 438 – 15.6. Baruc, 441.
Parte II Il periodo intertestamentario 445 Il quadro storico 451 Capitolo I La comunità degli esseni nel Qumran
1.1. L’influsso dei culti misterici, 451 – 1.2. Gli esseni e i terapeuti nelle interpretazioni di Filone e di Giuseppe Flavio, 455 – 1.3. Rapporti tra le sette esseniche e il cristianesimo, 465 – 1.4. I qumraniani, 472 – 1.5. Il problema della datazione della letteratura qumranica, 478 – 1.6. L’organizzazione della comunità essena: la Regola della Comunità, 480 – 1.7. La Regola dell’Assemblea e la Raccolta delle Benedizioni, 489 – 1.8. La Regola della Guerra, 492 – 1.9. Gli Inni e i commenti biblici, 495 – 1.10. Il rotolo dei Salmi e il Commento ad Habacuc, 507 – 1.11. Il Documento di Damasco, 511 – 1.12. Conclusione, 516.
521 Capitolo II Dal giudaismo al cristianesimo: gli apocrifi veterotestamentari
2.1. La presenza della letteratura enochica nella biblioteca di Qumran, 521 – 2.2. Il Libro dei Giubilei (Mașḥafa Kufālē = Libro della divisione), 525 – 2.3. Il Pentateuco enochico: il Libro dei Vigilanti, 533 – 2.4. I Pentateuco enochico: dal Libro dell’Astronomia all’Epistola di Enoc, 538 – 2.5. La letteratura della diaspora dopo la distruzione del tempio: il fermento precristiano, 543 – 2.6. I Testamenti dei dodici patriarchi, 544 – 2.7. I Salmi di Salomone, 553 – 2.8. L’Apocalisse siriaca di Baruc, 557 – 2.9. Il quarto Ezra, 562 – 2.10. Il Libro segreto di Enoc, 568 – 2.11. Il Libro delle parabole (PR), 573 – 2.12. Conclusione, 579.
583 Capitolo III Dal giudaismo al cristianesimo: la Lettera agli Ebrei, l’Apocalisse di Giovanni, la Sapienza e gli apocrifi più tardi
3.1. La Lettera agli ebrei e l’Apocalisse di Giovanni sono opere giudaiche cristianizzate?,
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583 – 3.2. La Lettera agli Ebrei: il primo documento cristiano?, 587 – 3.3. L’Apocalisse di Giovanni, 595 – 3.4. L’Epistola di Barnaba, 601 – 3.5. La Didaché, 608 – 3.6. La Lettera a Diogneto, 613 – 3.7. Il Pastor di Erma, 617 – 3.8. Clemente ai Corinzi, 623.
TOMO II
Parte III Dall’essenismo e dall’enochismo al cristianesimo: il cristianesimo apostolico
645 Capitolo I Storicità di Cristo: le fonti extra-cristiane del i e ii secolo
1.1. Premessa, 633 – 1.2. Il cristianesimo nel giudizio di autori pagani: a) Petronio, 647 – 1.3. Apuleio, 650 – 1.4. Claudio Galeno, 651 – 1.5. Frontone, 652 – 1.6. Filosofi pagani e il cristianesimo: a) Celso, 653 – 1.7. Epitteto, 656 – 1.8. Luciano di Samosata, 656 – 1.9. Porfirio di Tiro, 658 – 1.10. La falsa lettera di Lentulo e le fattezze fisiche del Cristo, 662 – 1.11. Il cristianesimo di fronte al potere imperiale: a) Tertulliano, 667 – 1.12. Plinio il Giovane, 669 – 1.13. Dione Cassio secondo l’epitome di Xefilino, 674 – 1.14. Marco Aurelio, 676 – 1.15. Il cristianesimo e le fonti storiche: a) Serapion, 677 – 1.16. Svetonio, 679 – 1.17. Tacito, 682 – 1.18. Flegonte di Tralle, 690 – 1.19. Thallos, 691 – 1.20. Ps.-Egesippo, 694 – 1.21. Il cristianesimo nelle fonti ebraiche: il Talmud, 694 – 1.22. La falsità del Testimonium flavianum, 702 – 1.23. Il Testimonium nella Kitab alUnwan di Agapio, 727 – 1.24. La datazione del mandato di Pilato, 730 – 1.25. La falsa testimonianza flaviana su Giacomo, fratello di Gesù, 734 – 1.26. Giovanni Battista nelle Antiquitates di Giuseppe Flavio, 745.
749 Capitolo II L’ambiente storico-geografico del cristianesimo delle origini
2.1. La metamorfosi del messianismo e dello yhawismo, 749 – 2.2. I territori d’origine del cristianesimo: a) l’area anatolico-siriano-palestinese, 767 – 2.3. L’area anatolica, 771 – 2.4. L’area anatolico-greco-macedone, 772 – 2.5. L’area egizio-africana, 773 – 2.6. L’area occidentale: Roma e Lione, 774 – 2.7. I generi letterari della prima produzione cristiana, 775 – 2.8. Una breve nota sugli autori e sui luoghi di composizione dei vangeli, 778 – 2.9. La lingua e lo stile dei vangeli, 792 – 2.10. Ulteriori elementi a favore di una tarda datazione dei vangeli, 798 – 2.11. Il frammento 7Q5, 809.
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829 Capitolo III La cristologia dei sinottici: contraddizioni e derivazioni
3.1. Il problema sinottico, 829 – 3.2. La predicazione di Cristo e la sequela dei discepoli, 834 – 3.3. La cristologia taumaturgica, 838 – 3.4. L’insegnamento per parabole, 843 – 3.5. I lógia del Cristo, 856 – 3.6. La cronologia lucana: la datazione dell’inizio della predicazione, 860 – 3.7. Le contraddizioni a proposito della nascita di Cristo, 863 – 3.8. Il calendario ebraico e i dati cronologici della passione, 879 – 3.9. Le incongruenze tra i sinottici: a) la datazione della sepoltura, 887 – 3.10. L’ultima cena, 890 – 3.11. Il Getsemani, 893 – 3.12. L’arresto e i processi, 894 – 3.13. La crocifissione e la morte, 901 – 3.14. La resurrezione e le epifanie, 903 – 3.15. La datazione della passione, 906 – 3.16. I vangeli sono opere storiche?, 907 – 3.17. La costruzione del mito, 910 – 3.18. La cristologia sinottica e l’’Antico Testamento, 916 – 3.19. Il rapporto dei sinottici con la Legge e con i precetti del giudaismo, 918 – 3.20. La conoscenza del territorio palestinese nei vangeli. Incongruenze e dipendenza da Giuseppe Flavio, 925 – 3.21. La cristologia dei sinottici: la teologia del servo sofferente, 929 – 3.22. La cristologia di Giovanni, 961 – 3.23. La strategia dei criteri di storicità, 974.
983 Capitolo IV La letteratura apocrifa del Nuovo Testamento
4.1. La letteratura apocrifa, 983 – 4.2. Il Vangelo degli ebioniti, 990 – 4.3. Il Vangelo secondo gli Ebrei e il Vangelo dei Nazareni, 992 – 4.4. Il Vangelo degli egiziani, 996 – 4.5. I vangeli dell’infanzia: il Protovangelo di Giacomo, 997 – 4.6. I vangeli dell’infanzia: il Vangelo sulla nascita di Maria e il Vangelo dello Ps.-Matteo, 999 – 4.7. I vangeli dell’infanzia: il Vangelo di Tommaso e il Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore, 1001 – 4.8. I vangeli dell’infanzia: il Vangelo dell’infanzia armeno e la Storia di Giuseppe il falegname, 1002 – 4.9. I vangeli della vita pubblica: il Vangelo di Pietro, 1004 – 4.10. I vangeli della vita pubblica: le Memorie di Nicodemo, 1006 – 4.11. Il Ciclo di Pilato, 1011 – 4.12. Il Vangelo di Gamaliele, 1014 – 4.13. Il Vangelo di Bartolomeo, 1015 – 4.14. La Dormizione della Madonna, 1016 – 4.15. Gli Atti degli Apostoli apocrifi, 1019 – 4.16. Gli Atti di Pietro, 1022 – 4.17. Gli Atti di Paolo, 1026 – 4.18. Gli Atti di Giovanni, 1028 – 4.19. Gli Atti di Tommaso, 1031 – 4.20. Gli Atti di Andrea, 1033 – 4.21. Le Memorie apostoliche di Abdia, 1034 – 4.22. Le lettere apocrife, 1037 – 4.23. L’apocalittica, 1042 – 4.24. L’Apocalisse di Pietro, 1043 – 4.25. L’Apocalisse di Paolo, 1044 – 4.26. Le Apocalissi di Ezra, di Tommaso e di Giovanni, 1045 – 4.27. Conclusione, 1046.
Indice
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1049 Capitolo V Incongruenze della teoria delle due fonti
5.1. Lo stratagemma della teoria delle due fonti, 1049– 5.2. La teoria delle due fonti: le argomentazioni di Bradby e di Fitzmyer, 1062 – 5.3. La teoria delle due fonti: le argomentazioni di Downing, 1070 – 5.4. Stein e gli adempimenti scritturali, 1077 – 5.5. Le argomentazioni di Fitzmyer e Kloppenborg sull’ordine narrativo, 1080 – 5.6. La teoria delle due fonti: il problema dei duplicati, 1088.
Parte IV
Dal cristianesimo paolino alla chiesa istituzionalizzata 1095 Capitolo I I rapporti del cristianesimo delle origini con la gnosi dei testi copti di Nag Hammadi
1.1. Cristianesimo e gnosi: un intreccio sinallagmatico, 1095 – 1.2. La letteratura sethiana; caratteri generali, 1109 – 1.3. Testi sethiano-cristiani: il Libro del Grande Spirito Invisibile, 1115 – 1.4. Testi sethiano-cristiani: l’Apocrifo di Giovanni, 1116 – 1.5. Testi sethiano-cristiani; l’Ipostasi degli Arconti, 1120 – 1.6. Testi sethiano-cristiani: Protennoia trimorfe, 1122 – 1.7. Testi sethiano-cristiani: il Vangelo di Giuda, 1124 – 1.8. Testi sethiano-cristiani: Melchizedek, 1125 – 1.9. Testi gnostici valentiniani, 1127 – 1.10. Testi gnostici valentiniani: il Trattato sulla resurrezione, 1129 – 1.11. Testi gnostici valentiniani: l’Esposizione valentiniana, 1130 – 1.12. Testi di scuola valentiniana: il Trattato Tripartito, 1131 – 1.13. Testi di scuola valentiniana: L’interpretazione della conoscenza, 1135 – 1.14. Trattati di scuola valentiniana: la Parafrasi di Sem, 1136 – 1.15. Testi di scuola valentiniana: L’Esegesi dell’anima, 1139 – 1.16. Testi cristiano-valentiniani, 1140 – 1.17. Testi cristiano-valentiniani: il Vangelo della Verità, 1141 – 1.18. Testi cristiani di matrice tommasiana, 1143 – 1.19. Testi cristiano-gnostici: il Vangelo di Filippo, 1162 – 1.20. Testi cristiano-gnostici: il Secondo discorso del Grande Seth, 1173 – 1.21. Testi cristiano-gnostici: il Dialogo del Salvatore, 1175 – 1.22. Testi cristiani: Atti di Pietro, 1177 – 1.23. Testi cristiani: le Apocalissi di Pietro e di Paolo, 1177 – 1.24. Testi cristiani: l’Insegnamento di Silvano, 1179 – 1.25. Testi cristiani: il Libro segreto di Giacomo, 1182 – 1.26. Testi cristiani: le due Apocalissi di Giacomo, 1183 – 1.27. Gnosi e proto-cristianesimo: la reciproca convivenza, 1185 – 1.28. Gnosi e proto-cristianeismo: il lessico comune, 1190.
12 Indice
1199 Capitolo II Le fonti cristiane: il paolinismo tra gnosi e culti misterici
2.1. Struttura formale delle lettere, 1199 – 2.2. La Lettera ai Romani tra giudaismo/antigiudaismo e gnosi/antignosi, 1207 – 2.3. La prima Lettera ai Corinzi, 1218 – 2.4. La seconda Lettera ai Corinzi, 1223 – 2.5. La Lettera ai Galati, 1227 – 2.6. La Lettera agli Efesini, 1229 – 2.7. La Lettera ai Filippesi, 1231 – 2.8. La Lettera ai Colossesi, 1232 – 2.9. Le due Tessalonicesi, 1233 – 2.10. La pseudepigrafia delle lettere e il carattere fittizio della personalità di Paolo, 1238 – 2.11. Autenticità o inautenticità delle lettere paoline, 1248 – 2.12. L’epistolario paolino e la gnosi, 1258 – 2.13. Spunti per una datazione dell’epistolario paolino, 1264 – 2.14. La riscoperta del paolinismo, 1272 – 2.15. Analisi linguistico-lessicale dell’epistolario paolino, 1277 – 2.16. Gli Atti degli Apostoli e il loro rapporto con il corpus paolino, 1294 – 2.17. Conclusione, 1323.
1331 Capitolo III Verso la Chiesa istituzionalizzata
3.1. Dall’apologetica alla polemica antieretica, 1331 – 3.2. Il mito del martirio e delle persecuzioni, 1347 – 3.3. L’istituzionalizzazione della Chiesa imperiale, 1359.
1387 Indice dei nomi antichi 1421 Indice degli autori moderni
PREFAZIONE
Questo saggio non nasce da pregiudizievoli posizioni antireligiose o irreligiose. L’orizzonte intellettuale da cui prendo le mosse è lo stesso già delineato nel mio saggio teoretico, intitolato Dalla ragione assoluta alla razionalità storica Filosofia senza essere ed essenza. In esso la religione, in una prospettiva di matrice ateistica, è ricondotta entro i confini della sfera della spiritualità umana, intesa non in senso spiritualistico con connessioni trascendentistiche e ipostatizzazioni sovraumane, ma nel senso più laico e più terreno della creatività umana, capace di produrre in sovrapposizione al mondo fisico delle cose, un mondo di valori, espressi attraverso l’arte, la poesia, la filosofia, la scienza, la matematica, la religione, nel quale trovano soddisfazione i più profondi bisogni e le più profonde aspirazioni dell’animo umano. Il saggio tuttavia nasce dall’esigenza di compiere un’indagine, il più possibile imparziale e scientifica, capace di ristabilire non una presunta verità assoluta, ma una ragionevole, o meglio razionale, lettura di tutta la vasta letteratura religiosa che va dall’AT al NT, passando per la corposa produzione degli apocrifi vetero- e neo-testamentari ai testi quumranici, relativi alle comunità esseniche ed enochiche, fino agli sviluppi della gnosi e ai suoi rapporti sinallagmatici con il cristianesimo delle origini. Sul fronte delle ricerche archeologiche mi sono ovviamente avvalso delle risultanze delle più aggiornate e accreditate indagini, sposando per lo più le tesi minimaliste portate avanti da studiosi del calibro di Israel Finkelstein, 13
14 Prefazione
Niels Peter Lemche, Thomas Thompson ed altri, le quali esibiscono i crismi della acribia scientifica ed evidenziano tutta la fragilità del concetto di ‘antico Israele’. Il che significa che tutta la cosiddetta storia primaria e la sua presunta vetustà non risultano sufficientemente suffragate da una attendibile documentazione storica e sono invece riconducibili a fantasiose ricostruzioni eziologiche e conseguentemente alla tradizione, al folclore e alla mitologia di origine popolare, ma anche sacerdotale. In questo quadro cadono anche le ricostruzioni storico-filologiche a lungo consolidate, come quella dell’ipotesi documentale di Julius Wellhausen o quella della storia deuteronomista e della scuola deuteronomista, proposte da Martin Noth. Ad una attenta analisi critica i testi veterotestamentari risultano composti attraverso la giustapposizione di blocchi narrativi e accresciuti attraverso la sovrapposizione di stratificazioni successive, che rendono complessa ed incerta ogni loro possibile datazione. In ordine al NT vengono poste numerose questioni che possono essere così riassunte: datazione alla prima metà del secondo secolo della produzione evangelica e di quelle paolina, loro interrelazione (in particolare in merito alla priorità dell’uno o dell’altro filone di pensiero), loro rapporti con l’essenismo, con l’enochismo, con la gnosi incipiente e con quella matura del secondo secolo. L’indagine critica della teoria delle due fonti ha evidenziato la fragilità della ipotesi di una fonte Q, che non gode né di testimonianze antiche da parte dei padri latini e greci, né di effettivi riscontri documentari. Anche su questo versante mi sono mosso sul solco delle tesi miticiste, secondo le ricostruzioni di Robert Price, George Albert Wells, Earl Doherty ed altri. Se può sembrare che le abbia sviluppate in una forma radicale, è perché essa mi è stata imposta dalla problematicità e contraddittorietà dei testi. In questa ottica è apparsa marginale la questione dell’esistenza storica di Cristo, perché nel momento in cui si intuisce che le prime comunità cristiane, sotto l’influenza dell’essenismo e dell’enochismo, hanno reinterpretato il messianismo ed hanno costruito, sulla scorta degli antichi testi profetici, il mito del Cristo, l’esistenza di una personalità storica di riferimento si rivela del tutto irrilevante. Anche se se ne postulasse la storicità, il mito la trascenderebbe. Ciò non significa che il mio saggio abbia solo intenti divulgativi, che peraltro sarebbero già meritori in una realtà come quella italiana, in cui per complesse ragioni storiche la critica biblica è evidentemente ostacolata, ma ha anche l’obiettivo di dare un apporto scientifico, non solo nel senso di una messa a punto dello stato dell’arte o nel senso di un più organico riordino di
Prefazione
15
tutta la materia sulla base della più ampia esplorazione di tutta la documentazione più antica, ma anche in quello, più aderente alla mia formazione culturale, di una rilettura critica e filologica dei testi, prescindendo da principi discutibili e difficilmente accettabili, quali la divina ispirazione e l’ inerranza della bibbia. Ho letto criticamente il testo biblico, come si legge criticamente il corpus delle opere platoniche o di quelle aristoteliche. Sono certo che questa impostazione non troverà il consenso degli studiosi che operano nelle accademie di studi biblici, dei quali non metto in dubbio le competenze di livello tecnico. Ciò che però è in essi intollerabile è la loro pretesa di ergersi ad unici depositari della verità, spesso associata al deprezzamento e alla svalutazione del lavoro altrui, soprattutto quando nasce da posizioni terze e oggettivamente fondate su argomentazioni razionali. Nella nostra età contemporanea, in cui pure affiorano sempre più consistenti rivoli di irrazionalismo sotterraneo o manifesto, non si può prescindere dall’argomentare ragionato e fondato. Purtroppo però la ragione umana, se assunta in funzione strumentale, è in grado di validare, come ha mostrato Kant, l’uno e l’altro partito di segno opposto. Gli stessi esegeti credenti, pur partendo da posizioni fideistiche, sono costretti a dare alle proprie teorie la patina di ricostruzioni razionali, che, pur rivelandosi il più delle volte fragili e caduche, sono tuttavia tenute in vita con una sorta di accanimento terapeutico per salvaguardare i presupposti della fede. Purtroppo nelle scienze umane manca uno strumento di creazione del consenso, come è quello della matematica nell’ambito delle scienze fisiche. Ciascuno costruisce la propria visione e la propria interpretazione dei testi; in apparenza tutte le versioni sembrano interfungibili, ma la realtà è che la loro autentica razionalità si evince solo dalla capacità di resistenza che esse esibiscono nel contrasto alle versioni opposte. Solo la spiegazione razionale può aspirare ad una validazione oggettiva e universale. Le spiegazioni persuasive, fondate sulla fede e sulle categorie emotive delle credenze tramandate, pur legittime ed assolutamente postulabili in uno Stato laico, fondato sulla pluralità delle opinioni, hanno valore solo per il singolo o per una comunità di con-credenti, che sia almeno disponibile a riconoscere accanto a sé la legittimità dell’esistenza di altre comunità di credenti e di non credenti. Il saggio ha la voluminosità dovuta alla complessità delle questioni affrontate; non vuol essere una bibbia, non una verità rivelata, ma solo una proposta ermeneutica aperta e, in certo senso, anche dialetticamente confrontabile. Nell’intento di fornire la più ampia esplorazione dei testi, ho voluto dare
16 Prefazione
al lettore una equilibrata panoramica di tutta la letteratura antica che ha influenzato, sotto il profilo teologico ed etico, il cristianesimo nascente. Senza compromettere l’intelligenza del testo, il lettore può omettere la lettura di paragrafi e capitoli che non rientrano nei suoi interessi o non sollecitano la sua curiosità. Le citazioni dal greco e dall’ebraico, originario o traslitterato, apportate per lo più a dimostrazione della fedeltà della lettura critica del testo, sono sempre accompagnate dalla loro traduzione, implicita o esplicita, in lingua italiana. Esse possono essere eventualmente omesse, senza alcun danno, se non si è mossi da interessi di natura tecnica. Le analisi linguistiche e stilistiche, sebbene smentiscano o almeno ridimensionino talune ipotesi che hanno avuto nel passato ampia fortuna, mirano in realtà, più che a sciogliere alcuni inveterati nodi interpretativi, a proporre soluzioni ermeneutiche alternative, comunque esposte al confronto dialettico. So per certo che l’intero impianto del saggio urterà la sensibilità dei lettori più tradizionalisti; probabilmente i più fondamentalisti, come spesso è accaduto nel passato, respingeranno anche con acrimonia le mie tesi, ma io purtroppo non posso farci niente; non ho scritto per chi parte già con il presupposto di possedere una verità depositata apriori, ma per chi la cerca con le forze della sua mente libera. E comunque in extrema ratio ho scritto per me stesso, nel tentativo di comprendere e di mettere ordine in un mondo di credenze, che mi è stato propinato fin dall’infanzia e che alla ragione si è disvelato, se non falso, almeno soggetto al dubbio. Francesco Paolo Raimondi
INTRODUZIONE
I dati storici cui fanno riferimento il Pentateuco, Giosuè, il Libro dei Giudici e buona parte dei Libri dei Re non trovano riscontro né negli scavi archeologici, né nella storia esterna al popolo ebraico. Le ragioni della sfasatura, interna ed esterna, a tali testi sono dovute al fatto che essi ci hanno trasmesso una narrazione teologica e non una narrazione storica. Ne consegue che oggi, a differenza di quanto accadeva in passato, siamo indotti a pensare che il Pentateuco non costituisca un’opera storica; anzi riteniamo che gli antichi ebrei mancassero del tutto del senso della storia, come noi la intendiamo. Essi non scrivevano per tramandare fatti o eventi, ma semplicemente per tramandare una concezione religiosa e insieme politica per il semplice fatto che su di essa puntavano per costruire una propria identità etnica e culturale; per questa stessa ragione avevano lo sguardo volto al tempo in cui scrivevano più che tempo storico narrato o idealizzato. Se ci si pone nell’ottica di attribuire una consistenza storica ai testi protocanonici si finisce col rimanere impigliati in una interminabile serie di contraddizioni insanabili non solo all’interno della storia ebraica, ma anche in relazione a quella degli altri popoli entrati in contatto con il mondo giudaita. Tutta la cosiddetta storia primaria (d’ora in poi GR, cioè dalla Genesi ai due Re), dalla creazione del mondo alle due monarchie d’Israele e di Giuda non è altro che un mito costruito, non in un lontano passato, ma nel presente degli autori che lo hanno elaborato per motivi politico-religiosi o nel periodo dell’esilio o in quello post-esilico. Solo a partire dall’ultimo 17
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scorcio del viii secolo e dal vii secolo in poi si incominciano ad intravvedere le coordinate più generali della storia ebraica. Ma bisogna procedere con le dovute cautele, perché sono molte le imprecisioni e le incertezze, soprattutto sul fronte della cronologia, che intaccano la credibilità del racconto. Spesso siamo costretti ad affidarci alle fonti esterne per pervenire a dati storici più degni di fede. In questa breve introduzione tenterò di delineare per sommi capi la linea interpretativa che svilupperò nella prima parte di questo volume. Lo snodo fondamentale da cui prendere le mosse è quello del rapporto tra Israele e Giuda, ovvero tra un regno settentrionale e un regno meridionale. La versione fornita dal Pentateuco è che essi costituirono un unico popolo che, uscito dall’Egitto sotto tutela divina, conquistò manu militari le regioni del Canaan. Ciò che invece ci dicono i dati archeologici è che con il collasso del Tardo Bronzo (1200) si verificò un’ondata migratoria sugli altopiani, centro-meridionale e centro-settentrionale, di popolazioni diverse che nell’arco di circa tre secoli si organizzarono, con una differenza di almeno mezzo secolo l’uno dall’altro, in un regno del Nord, regno di Israele, con capitale Samaria e centri religiosi, Sichem e Garizim, e in un regno del Sud, regno di Giuda, con capitale Gerusalemme. Due regni che ci vengono descritti come ‘fratelli’, ma che in realtà fino alla loro definitiva devastazione, furono in perenne e reciproca conflittualità. Profondamente diversa fu la loro etnogenesi; il Nord assimilò la religione e la cultura cananea, estremamente variegata e fondata su una sorta di politeismo improntato ad un sincretismo,(1) in cui confluivano ritualità e mitologie di matrice ugaritica, sidonia, asssiro-babilonese ecc.; il Sud, pur subendo l’influsso della cultura cananea ed egiziana, cercò di darsi una identità culturale centrata sulla religione yhawista, enoteista e monolatrica. Si costituirono così due regni culturalmente ed etnicamente distinti, i quali, a partire dalla loro devastazione, si incrociarono e si fusero fino a dar vita ad una nuova realtà etnico-culturale, in cui la religione giudaita assorbì e subordinò a sé quella israelita. Questo processo ebbe inizio con la caduta di Samaria nel 721 e procedette fino alla espugnazione di Gerusalemme (586). La classe scribale e sacerdotale di Samaria trovò rifugio in Gerusalemme non per ragioni di fratellanza, ma per effetto dell’assetto geo-politico della regione, che era a nord sotto (1) Sul sincretismo, cfr. G. W. Ahlström, Aspects of Synchretism in Ancient Israel, Lund, Gleerup, 1963; Id., An Archaeological Picture of Iron Age Religions in Palestine, Helsinki, Helsingin yliopiston monistuspavelu Paunatusjaos, 1984.
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dominio assiro e ad est e ovest rispettivamente sotto dominio babilonese e fenicio. Nell’arco di questi primi 135 anni i rifugiati del Nord si incrociarono non solo culturalmente ma anche etnicamente con la popolazione giudaita. Cominciò a sorgere il mito della comune origine o della comune identità risalente ai tre grandi patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe. La prima versione del mito patriarcale e delle dodici tribù è probabilmente di matrice settentrionale, anche perché è il prodotto di una classe colta certamente più evoluta. Il nodo centrale di quel mito sta nella figura di Giacobbe, che riceve il nome ‘Israele’ e rappresenta l’eponimo della nuova etnia costruita. Israele è il nuovo vertice identitario, da cui dipende lo stesso Giuda. Ed è interessante notare che tutto l’impianto è giustificato sulla base del volere di Yhwh, il dio di Giuda. Per la verità non sappiamo quali siano le origini di questa divinità. Talune iscrizioni fanno pensare ad una divinità di Samaria, associata alla paredra Asherah. Ma è certo che se essa fu secondaria nel pantheon settentrionale, ebbe un ruolo primario nella religione giudaita, almeno a partire dal vii secolo. La seconda fase della assimilazione dei due regni si apre con la devastazione del regno di Giuda e con il lungo periodo della cattività babilonese. In tale circostanza effettivamente le due etnie condividono la stessa sorte e le stesse funeree prospettive. Nella comune disgrazia si accentua il senso o forse l’istanza della identità, sebbene qua e là affiorino, ora più ora meno, le differenze e i richiami alle reciproche origini. Non siamo ancora di fronte ad un vero e proprio panisraelitismo, che è fenomeno più tardo, ma è certo viva l’istanza di ripensare tutta la storia passata non solo nell’ottica di una comune radice, ma anche in quella di una chiarificazione teologica che giustificasse la disgrazia come punizione divina delle colpe commesse, secondo uno schema intellettuale, ma anche teologico e politico, che era frequente nelle popolazioni storiche vicino-orientali. A questa fase (vi-v secolo) appartiene il nucleo centrale dell’Esodo, che non a caso verte sul tema del patto, per il quale si stabilisce una sorta di vassallaggio tra il popolo e Yhwh. Nel corso del v secolo vengono elaborati gli altri testi storici, come Numeri, Giosuè, Giudici, il romanzo di Giuseppe, i due Samuele e i due Re. Dopo la ricostruzione del secondo tempio, durante il predominio persiano-achemenide prima e macedone poi, tra il v-iv secolo, grazie alla relativa autonomia religiosa riconosciuta alle province persiane, riprese ad esercitare le sue funzioni la classe sacerdotale, che, in assenza di un ceto amministrativo o palatino, ormai ridotto ai minimi termini, si assunse l’onere di ricostru-
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ire lo Stato in un’ottica prevalentemente teocratica. È questa una fase piuttosto convulsa e confusa in cui le forze in gioco spingono in direzioni diverse, sotto l’influenza dei profeti o degli scritti profetici (in gran parte pseudoepigrafi) e della radicale frattura tra correnti fortemente conservatrici e correnti più moderate all’interno della classe sacerdotale, tra fazioni levitiche, aronnite e sadocite. Si accentua per un verso la vocazione nazionalistica giudaica da una parte e, dall’altra, sotto l’influsso dell’ellenismo, si apre la prospettiva di un universalismo più o meno sincero e più o meno autentico. Appaiono in questo periodo i grandi testi profetici, i codici giuridici, come l’intero Levitico, interposto tra Esodo e Numeri, i mini-codici, prescrittivi anche di norme relative a ritualità e a festività religiose, i quali, interpolati, accrescono la voluminosità di Esodo e Numeri. Tra il v e il iv secolo compare il Deuteronomio, che è un testo parentetico che riscrive l’esodo e la legge. Quali le ragioni che inducono l’autore, d’indubbia matrice sacerdotale, a proporre una «seconda legge»? Per capirlo è sufficiente enucleare gli obiettivi che egli si prefigge di conseguire. Egli scrive in un periodo in cui il conflitto tra le fazioni religiose è quanto mai acuto; ciascuno dei tre partiti rivendica il primato e la supremazia nel governo dello Stato. I leviti e gli aronniti vantano un’antica tradizione che risale per i primi alle generazioni di Giacobbe e per i secondi alla legislazione mosaica; più tardi nascerà la fazione dei sadociti in stretta connessione con la monarchia davidica. Le fazioni sacerdotali sono tutte di origine levitica, ma di fatto esercitano ormai poteri consolidati e in reciproco conflitto. L’Esodo aveva sancito il primato degli aronniti (cap. xxix: «Prenderai l’olio dell’unzione e lo verserai sul suo [di Aronne] capo e così lo ungerai; quanto ai suoi figli [...] otterranno la carica sacerdotale in statuto perenne: consegnerai l’investitura ad Aronne e ai suoi figli») ed aveva gettato un’ombra sinistra sui leviti che nella loro fedeltà a Mosè avevano massacrato 3.000 parenti, tra figli, fratelli ed amici (Ex, xxxii, 25-29); anche i leviti incaricati della costruzione del tabernacolo erano sacerdoti aronniti che operavano sotto la direzione di Itamar, figlio di Aronne (Ex, xxxviii, 21). Il Deuteronomio è invece un documento levita, perché assegna ai leviti spazi di potere politico di fondamentale importanza. Quando ricorda la morte di Aronne e la successione di Eleazar, riporta in primo piano i leviti e il loro esercizio sacerdotale («In quel tempo Yhwh destinò la tribù di Levi a portare l’arca dell’alleanza di Yhwh, a stare alla presenza di Yhwh, a servirlo e a benedire il suo nome, come è ancora oggi», Dt, x, 8). Quando sancisce la centralità e unicità del
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santuario, il Deuternomista esalta la gioia che il levita condivide con il popolo dopo i sacrifici rituali e raccomanda a ciascun israelita: «Guardati bene dal dimenticare il levita per tutti i giorni che vivrai sul tuo suolo».(2) Egli ne delinea i ruoli politici che vanno dalla funzione giudiziaria in materia di omicidio o di contenzioso («Ti rivolgerai ai sacerdoti leviti [hakkōhănîm halwîym] [...] li consulterai ed essi ti indicheranno la soluzione del caso») a quella educativa, alla celebrazione dell’alleanza in cui si stabilisce la reciproca appartenenza di Yhwh al popolo e del popolo a Yhwh, alla pronuncia delle maledizioni sul monte Ebal, alla custodia della legge e alla sua lettura davanti a tutto il popolo.(3) I «sacerdoti leviti» sono ulteriormente ricordati in quanto titolari del diritto alla decima o alla «parte dovuta al sacerdote» (Dt, xviii, 1-8.), e in quanto incaricati di «officiare nel nome di Yhwh» (lešarêt bešêm yhwh). In altri termini l’autore del Deuteronomio si fa promotore di una teocrazia sacerdotale, affidata nelle mani dei sacerdoti leviti; una teocrazia compatibile con il potere monarchico a condizione che questo fosse soggetto alla classe dei leviti, i quali avevano il potere di trasmettere al re (sottintendi: interpretare) il testo della legge e di promuovere o meno la guerra santa (Dt, xvii, 18; xx, 2-4). Insomma siamo di fronte ad un testo anti-Esodo e velatamente anti-giudaita, di ispirazione settentrionale, come dimostra il fatto che la localizzazione del tempio rimane indeterminata non per non cadere in un anacronismo, come ritengono gli esegeti confessionali, ma perché è tacitamente contestata la centralità di Gerusalemme, tant’è che le benedizioni e le maledizioni connesse al patto sono riservate a Sichem, ad Ebal e a Garizim. Il Deuteronomio è dunque un documento singolare e contraddittorio (si pensi al Dio amore e misericordia che è insieme terrore e sterminio; alla responsabilità personale vs quella collettiva, v, 9; xxiv, 16), stilisticamente difforme dagli altri testi della storia primaria, maturato verosimilmente in epoca tarda, come si dovrebbe evincere dalla distanza temporale dagli eventi narrati, ripetutamente dichiarata.(4) L’autore si ispira liberamente ai libri di Giosuè, dei Giudici, dei due Samuele e dei due Re, tutti risalenti al v secolo, con i quali condivide il tema – di derivazione assiro-babilonese – della guerra santa come sterminio (hērem), ma se ne distacca su contenuti teologici fondamentali come il reciproco amore tra Dio e il popolo, la sostituzione del(2) Dt, xii, 12, 18-19; xiv, 27; xvi, 11, 14; xxvi, 1-13. (3) Dt, xvii, 9; xxi, 5; xxiv, 8; xvii, 1-11; xvii, 13-26; xxxi, 9, 25. (4) Dt, i, 10, 39; ii, 25, 30; iii, 14; iv, 2, 4; 20; v, 3; vi, 25; viii, 19; x, 8, 15; xii, 8; xxix, 14; xxxiv, 6, 10.
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la circoncisione del cuore a quella fisica e, soprattutto, per la più accentuata curvatura monoteistica dello yhawismo. Cade con ciò il mito della storia deuteronomista. La diversità di stile ci dice che non c’è un unico autore dietro i libri della storia primaria; l’assenza di una ideologia condivisa ci fa intuire che non c’è neppure una «presunta scuola deuteronomista». Per Giosuè i sacerdoti leviti sono solo portatori dell’arca (Js, iii, 3; viii, 33), del tutto privi di vere e proprie funzioni religiose o comunque di compiti politici. I passi che sembrano collegarsi al Deuteronomio sono in realtà manifeste interpolazioni. Tale è anche in Giosuè l’accenno alle maledizioni e benedizioni pronunciate sui monti Ebal e Garizim (Js, viii, 30-35). Per il Deuteronomio esse sono pronunciate dai rappresentanti delle dodici tribù dopo la stipulazione del patto e la proclamazione della legge; per il libro di Giosuè è il successore di Mosè che costruisce un altare sul monte Ebal e pronuncia le maledizioni e le benedizioni in occasione dello sterminio della città di Ai. Frutto di interpolazione è anche il capitolo xxiii che, per stile e per l’impostazione sostanzialmente soggettiva della narrazione, rivela forse la mano dello stesso Deuteronomista. Nel capitolo xxi si fa una gran confusione tra i sacerdoti leviti e i sacerdoti figli di Aronne, su cui l’autore mostra di non avere le idee chiare e di non rendersi conto della conflittualità tra le due fazioni. Ma l’incompatibilità tra i due testi è ancor più netta sotto il profilo ideologico: Giosuè riconferma a Galgala la circoncisione fisica, superata dal Deuteronomio, e propone una teologia, priva di spessore intellettuale, che fa di Yhwh una divinità combattente e sterminatrice. Analogo è il quadro teologico-culturale offerto dal libro dei Giudici, ove il levita, nominato sacerdote da Mica, è un realtà un idolatra (capp. xvii-xviii); scialba è anche la figura dell’altro levita, ospitato a Gabaa, il quale, per salvarsi dalle insidie di giovani beniaminiti, cede la sua concubina che viene stuprata per tutta la notte. Il Levitico, che è un documento di qualche decennio posteriore al Deuteronomio, è invece un prodotto della fazione sacerdotale degli aronniti, a cui sono attribuite tutte le principali funzioni ritualistiche, come si evince facilmente dalla frequenza con cui sono menzionati «i sacerdoti figli di Aronne» (benê ‘ahărōn hakkōnănîm); le sue ben 168 occorrenze(5) del termine ‘sacerdote’ (kōhên) si riferiscono tutte ai figli di Aronne. In altri termini ogni documento interpreta nell’ottica dell’una o dell’altra fazione sacerdotale la Torah dettata da Yhwh sul Sinai. (5) Le occorrenze, nella forma hakkōhên, sono 163; nella forma kōhên sono 5; cfr. anche 11 occorrenze nella forma lakōhên e 9 nella forma hakōhănšm.
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Così accade anche con i quattro libri di Samuele e Re, che rappresentano un documento di matrice sadocita. Il 1Samuele si apre con gravi accuse a carico del sacerdozio levitico, impersonato da Eli, di cui ignoriamo il ramo ascendente, e dai suoi figli Cofni e Fineas. Questi ultimi sono esplicitamente definiti corrotti (belîyā’al) perché consumavano a proprio vantaggio le carni offerte in olocausto (1Sm, ii, 11-35). Alla condanna segue la sostituzione del ramo di Abimelech-Ebiatar-Gionata, schierato in occasione della successione di Davide in favore di Adonia, con quello sadocita, che, a partire da Sadoc, favorisce l’unzione di Salomone, ed esprime, dalla monarchia unitaria al regno di Giuda, i sommi sacerdoti, Sallum, Hilqiyahu e Azaria che sono i veri sostenitori della monarchia e fondatori dello yhawismo, come supporto ideologico del potere monarchico. Il passaggio del potere sacerdotale alla linea sadocita è emblematicamente profetizzato da Yhwh: «Poi susciterò per me un sacerdote fedele [intendi Sadoc] che si comporti secondo il mio cuore e secondo il mio spirito. Gli edificherò una casa sicura e lavorerà davanti al mio messia, per sempre» (1Sm, ii, 35). Sul piano pratico ciò comportò una articolazione del sacerdozio in due livelli: quello propriamente sacerdotale dei leviti-sadociti di grado superiore, incaricato di officiare i riti, e quello secondario di puro servizio, appannaggio degli altri rami levitici. Naturalmente sotto la guida dei sadociti divenne più aspra la lotta contro i culti baalistici, i cui sacerdoti furono o votati allo sterminio o costretti all’inattività.(6) Se pensiamo che tutta la narrazione sulla creazione del cosmo e dell’umanità e sul diluvio noachico è di matrice neobabilonese, ci rendiamo conto che il più antico corpus veterotestamentario non può essere fatto risalire a prima della cattività babilonese. Ciò spiega peraltro le numerose influenze che la religione babilonese ha lasciato su quella yhawista sotto il profilo dottrinale della concezione di Dio, e sotto quello organizzativo del potere religioso, dalle pratiche rituali alle festività solenni, dal calendario alla articolazione interna del potere sacerdotale. Giuda e Israele acquistano la propria comune identità etnica e culturale proprio nel momento della loro massima debolezza, quando il regno del Nord era ormai scomparso dalla scena della storia e quello del Sud si era ridotto in provincia persiana. Nei secoli viii e vii lo yhawismo era ancora una credenza religiosa non ben accolta, perché non era saldamente attecchita in nessuno dei due regni a causa della forte influenza della religione assiro-babilonese e più in generale del baalismo cananaico. Solo dopo la caduta (6) 2Re, x, 11, 19; xxiii, 20, 4-10.
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di Ninive (612) Giosia tentò (o sognò) di ricostruire il regno di Giuda e di espanderlo fino ad inglobare quello del Nord e forse puntò sullo yhawismo, ancora allo stato incoativo, come comune fondamento religioso. Gli studiosi confessionali sono portati ad interpretare lo yhawismo del nord e quello del Sud alla luce di una dicotomia tra la teologia della promessa (Sud) e la teologia del patto (Nord). Ma questa linea interpretativa non trova riscontro nei testi storici che stiamo esaminando, anche perché l’eventuale dicotomia religiosa presuppone la scissione dei due regni. Di fatto neppure nel 2Re compare una netta contrapposizione teologica tra Nord e Sud. Anzi emerge chiaramente che nel Nord lo yhawismo era malamente attecchito. Il realtà esso prende forma nel Sud nella fase dell’esilio e non a caso si concentra sulla teologia della promessa che era funzionale alla legittimazione divina al possesso della terra assegnata ai grandi patriarchi. È nella fase esilica che si elabora la storia ebraica o il mito dell’antico Israele, fondato sull’idea del popolo eletto e sulla teologia della promessa. Le due teologie non sono sincroniche, ma sono diacroniche. Non coesistono in quanto distribuite in territori geograficamente diversi, ma si snodano in un processo storico. Dopo l’esilio la teologia della promessa perde ogni mordente, perché l’obiettivo principale, che era quello del rientro, era ormai stato raggiunto e per giunta era stato raggiunto sotto la tutela della classe sacerdotale, che nella fase della riorganizzazione dello Stato era interessata al consolidamento del proprio potere politico-religioso. Le sezioni del Pentateuco in cui compare la teologia del patto (con più forza nell’Esodo e più debolmente nel Deuteronomio) sono inconfutabilmente interpolazioni più tardive della classe sacerdotale. Il nuovo corso storico della fase post-esilica impone una nuova esigenza, che non è più quella di rivendicare l’eredità della terra promessa, ma è quella di stabilire il perimetro del potere politico della classe sacerdotale, ormai assurta a ruolo di guida spirituale, etica e religiosa del popolo. La teologia del patto è funzionale a questa istanza, perché la classe sacerdotale si pone come interprete e come garante della stabilità del patto con Dio. La terra promessa fu tale solo dopo l’effettivo possesso e valse come promessa della stabilità del dominio acquisito. La promessa del Dio coincideva in realtà con l’aspirazione del popolo; promessa e aspirazione destinate al fallimento. Il dramma del popolo ebraico sta proprio nel progressivo sperimentare questo radicale fallimento. I vari scenari di questo dramma sono chiaramente leggibili tra le pieghe dei testi sacri. Il messianismo è l’altra fac-
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cia della promessa e sarà anch’esso destinato al fallimento. Ed è nella esperienza di questi fallimenti la radice dell’apocalittica, sviluppatasi tra il i secolo a. C. e il i secolo d. C. I libri più antichi, dalla Genesi ai Re, più che nella prospettiva di un passato, che è solo una ricostruzione fantasiosa, vanno letti nella prospettiva di un futuro da costruire. Essi tratteggiano il passato come una sorta di Aetas aurea cui fare riferimento per il futuro, ma di fatto non hanno di vista il passato, bensì solo il futuro. Da ciò la proposta di una disciplina ferrea, di una morale rigorosa, sebbene discutibile nei suoi principi di base, di un sostanziale e sostanzioso sequestro della vita privata, di una precettistica minuziosa e ipertrofica (613 precetti) quanto vuota e inconsistente, di un ossessivo rituale liturgico, di una legislazione che mette sullo stesso piano i delitti più atroci con i reati più lievi e sancisce quasi sempre la pena di morte o la feroce legge del taglione nelle sue forme più crude e gratuite. I testi non accendono i fari se non sulle personalità di più alto rango; il popolo resta nell’ombra o, bene che vada, nella penombra. Come spesso accade le norme giuridiche costituiscono spesso la cartina di tornasole dei reati più comuni, dai quali possiamo arguire fino a che punto le prescrizioni religiose avevano presa sul popolo. Naturalmente occorre procedere con la dovuta cautela, perché il diritto ebraico aveva le sue radici in quello hammurabico. Ma il fatto stesso che talune norme si conservassero nel «cosiddetto codice mosaico» significa che esse non avevano perduto la loro funzionalità e che quindi servivano a reprimere reati comunemente commessi. Forse si potrebbe sostenere, sulla base dei testi profetici settentrionali (Amos, Osea), che il Nord fu tendenzialmente antimonarchico, a differenza del Sud ove sopravvisse il mito della monarchia unitaria. La realtà è che il regno del Nord era ormai scomparso. Il compito della ricostruzione dello Stato giudeo-israelitico era una faccenda meridionale e ricadeva interamente sulle spalle della Giudea, ove la sussistenza dello Stato, sia pure come provincia persiana, era interpretata in termini di restaurazione, ovvero di ritorno ad una monarchia nazionale, auspicata con l’avvento di un Messia nazionale, discendente da David, capace di ridare centralità allo Stato. Il fermento innovatore è tutto all’interno della ideologia del Sud; l’idea di salvezza si salda con quella del Messia, virgulto di Davide, e con quella dell’adempimento scrupoloso della Legge (Torah). Tutto ciò comporta anche una profonda revisione della morale e della teodicea. Il male non è più concepito come una scheggia conficcata nella carne e radicata nella natura umana; nella fase della devastazione e dell’esilio
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l’idea che il male fosse strettamente connesso alla punizione divina e all’insondabile volere divino era l’unica spiegazione possibile che il popolo, colpito dalla sofferenza, potesse darsi delle proprie calamità. Ad una disgrazia collettiva corrispondeva una responsabilità collettiva. In quanto radicata nella natura di ogni uomo, l’inclinazione al male e al peccato sembrava ineliminabile (Gn, xii, 10-20); era una sorta di tarlo corrosivo che sottraeva all’uomo ogni autonomia etica e lo poneva toto corde nelle mani del Signore. All’uomo non restava che il pentimento e la possibilità di fare breccia sulla misericordia divina. Nella fase post-esilica, anche per effetto dell’influenza ellenistica, si fece sempre più strada l’idea di una maggiore autonomia etica o, se si preferisce, di una più marcata collaborazione del singolo nel processo di salvezza. Ezechiele contestò la teologia della retribuzione poiché riteneva che le colpe dei padri non potessero ricadere sui figli. Egli inaugurò – come fa notare Sacchi(7) – una teologia della speranza, che, pur non escludendo la teologia del patto, puntò sulla responsabilità del singolo. Qualche parola va spesa anche per chiarire il rapporto tra universalismo e nazionalismo. È il secondo che costituisce l’anima più profonda della società giudaita anche quando sembra aprirsi allo straniero; di fatto non siamo mai in un clima di autentico universalismo, perché qualsiasi apertura verso le altre nazioni è sempre mediata dal nazionalismo messianico che conquista a sé e assoggetta tutte le genti. Se si vuole comprendere a fondo l’AT, lo si deve intendere come lo strumento intellettuale e ideologico che è servito a costruire lo yhawismo; il che equivale ad intenderlo come un testo che è nella sua totalità giudeo-centrico. Tutti i libri che lo compongono sono di matrice giudaita, persino quelli dei cosiddetti profeti del Nord, che, in tanto sono accolti nel canone, in quanto parteggiano per l’ideologia del Sud. Il Deutero-Isaia identifica ormai tutto Israele con Giuda, tant’è che dichiara Israele, uscito «dalle viscere di Giuda» (ūmimmê yehūdāh וממי יהודה, Dt, xlviii, 1). Questa dichiarazione non è un semplice aggancio storico al figlio di Giacobbe, ma è chiaramente nella cornice del contesto storico dell’anonimo autore. Solo il regno di Giuda ha la speranza di una prospettiva futura soprattutto per lo spirito di apertura con cui nel corso del v-iv secolo Gerusalemme accoglie i pagani. Purtroppo la presenza dei Sanballatidi di Samaria e dei Tobiadi di Ammon costituiva un ostacolo perché risultava indigesta ai conservatori, soprattutto a quelli confinati nella diaspora, i quali temevano (7) P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo Riflessioni sul giudaismo antico e medio, Brescia, Morcelliana, 2010, pp. 234-235.
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che Gerusalemme si trasformasse in una capitale palestinese e non ebraica o giudaita. Alle frange più estreme del conservatorismo ebraico appartenevano, tra il iv-iii secolo, gli autori di Neemia e di Ezra, che si celavano dietro lo schermo della pseudepigrafia, nell’intento di imporre la teologia del patto in una forma radicale, intransigente e intollerante, che risultò inaccettabile al rinascente samaritanismo. Ciò che inficia il carattere storico delle scritture (AT e NT) è l’uso frequentissimo della pseudepigrafia. L’autore biblico si serve dell’anonimato e scrive a distanza di secoli dagli eventi narrati; per garantire la circolazione dei propri scritti li attribuisce a personalità storiche o fittizie famose, quali possono essere Mosè, Salomone, Isaia, Ezra e così via. Le ragioni di tale propensione alla pseudepigrafia vanno ricercate nella natura teologica e ideologica dei testi.(8) Ma proprio perciò è escluso che essi abbiano un contenuto storico; la loro storicità è tutta riferibile all’epoca e all’ideologia dell’autore che scrive. Si spiega così come il quadro complessivo che ne risulta è un intricato intreccio di storicità e di mitizzazione, ove spesso è impossibile sceverare l’una dall’altra. A ciò si aggiunge il fatto che quasi tutti i testi hanno subito, sempre per finalità ideologiche, rielaborazioni e interpolazioni successive così da essere strutturati in una variegata multistratificazione, che spesso ne rende malcerta l’interpretazione. Al di là dei rocambolismi dell’esegesi cristiana o cattolica, la loro analisi scientifica non può prescindere dalla loro sostanziale falsità. Ciò vale anche per i testi di profeti come Ezechiele, Geremia, Isaia, Daniele, Ezra, che spesso sono personalità fittizie, il più delle volte sconosciute agli altri libri veterotestamentari; sicché i loro scritti non risalgono all’epoca loro assegnata, ma sono apografi e risalgono all’epoca assai più tarda dell’autore che scrive. Se ci troviamo tra le mani un dialogo del i secolo a.C. con la pretesa di essere attribuito a Platone, non v’è dubbio che siamo di fronte ad un falso storico; quel testo non ha evidentemente nulla a che fare né con Platone né con il suo tempo storico. Ciò nonostante quel dialogo è un documento storico, per il fatto che si riferisce ad un autore del primo secolo ed ha contenuti che si inquadrano nelle problematiche cul(8) Scrive W. G. Dever, Did God Have a Wife, Archaeology and Folk Religion in Ancient Israel, Grand Rapids, Eerdmans, 2005, cap. ii: la Bibbia è una «historical fiction». Non è la storia nel senso moderno, disinteressata, oggettiva, bilanciata, accademica; è sì fondata su qualche genuino evento storico, ma questo è preso sempre secondo l’agenda ideologica degli autori e degli editori. In ultima analisi la Bibbia è per Dever letteratura più che storia.
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turali del primo secolo: esso veicola, attraverso una narrazione storicamente falsa, l’ideologia del proprio autore. Tratterò più specificatamente di yhawismo e di elohismo nell’apposito capitolo(9) dedicato alla Genesi. Qui mi preme solo anticipare che Yhwh ed êlōhîm non sono nomi di due divinità diverse, né sono nomi che afferiscono rispettivamente al monoteismo e al politeismo. Yhwh è stato concepito a lungo come un dio tra gli dèi (enoteismo) e solo in epoca più matura è approdato a forme di monoteismo. Êlōhîm, pur essendo plurale, non necessariamente implica una concezione politeistica. In primo luogo perché è usato come nome comune della divinità che ha come nome proprio Yhwh (il che significa che Yhwh ed êlōhîm sono interfungibili e spesso compaiono in una sorta di endiadi); in secondo luogo perché l’uso del plurale riferito alla divinità era un costume derivato dagli egizi. Più che parlare di elohismo a me pare più corretto parlare di matrice settentrionale, nel senso che nella Genesi si avverte chiaramente, accanto allo yhawismo d’impronta meridionale, spunti storici e comunque culturali che si richiamano alle ideologie settentrionali. Noi siamo abituati a considerare lo yhawismo come un forma di culto puro e incontaminato, ma spesso non teniamo conto della complessa realtà culturale delle popolazioni che abitavano la terra del Canaan, in cui si intrecciavano culti di matrice fenicia, egiziana, caldaica, ugaritica, persiana, con radici sumeriche, accadiche ecc. In questa complessa realtà culturale non c’è nulla di puro e incontaminato. Chi ha inserito nel Libro dei Re un accenno alla riforma giosiana, ha semplicemente voluto garantire allo yhawismo una datazione più antica, facendolo risalire al vii secolo, ma di fatto si è tradito perché, dichiarando che il Libro dell’alleanza è leggibile in un breve arco di tempo, ha contemporaneamente svelato che esso non coincideva con il più voluminoso tomo dell’Esodo. Insomma il Pentateuco è scritto da più mani che utilizzano materiali pre-esistenti che non sono di origine ebraica, ma sono la rielaborazione ebraica di testi assiro-babilonesi, di matrice sumero-accadica, di testi ugaritici, egiziani ecc. I punti salienti della narrazione storica, sono per lo più falsi acclarati; ciò che invece appare più autentico è la curvatura ideologica che lo yhawismo assume in un determinato momento storico. La lettura dell’AT è resa più complicata dalla struttura della lingua in cui ci è stato trasmesso. La scriptio continua dell’ebraico rende estremamente fluttuante il testo, che può risultare aperto a molteplici letture. Naturalmen(9) V. infra, pt. i, cap. iii.
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te è prevalsa l’interpretazione della Septuaginta, la quale è stata fondamentale per la ricostruzione in epoca medievale del testo masoretico, che pertanto risulta essere una lettura evidentemente tardiva. Ma la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che non c’è perfetta corrispondenza non solo tra la versione della Septuaginta e il testo masoretico, ma non c’è neppure una perfetta armonizzazione tra questi due testi e quelli qumranici. L’ulteriore fluttuabilità della lingua ebraica viene da presupposti mistico-numerico-cabalistici. L’interrelazione tra il valore fonetico e il valore numerico delle lettere dell’alfabeto ebraico non solo rende i testi suscettibili di letture cabalistiche, ma inficia anche ogni riferimento cronologico, perché ogni datazione può assumere un carattere simbolico e tipologico. Simbolici sono i numeri 12, 7, 70 (anche nella formula iterativa «settanta volte sette»), 14, 1.260, 49, 42, 144, 144.000, 400. Per il NT 14 sono le generazioni da Abramo a David, 14 da David all’esilio, 14 dall’esilio a Cristo. Allo stesso modo nell’AT simbolico è il tempo che trascorre da Mosè a Giosuè; simbolico il tempo dei giudici (circa 430 o 480 anni); simbolico il tempo della monarchia unitaria, simbolico il tempo della monarchia del Nord, simbolici sono i numeri dei nomi. Tutto dipende dall’idea che ogni cosa è sottoposta ad un rigido disegno divino; il tempo e la struttura sociale si articolano secondo ritmi prestabiliti, come quelli dei cicli astronomici. L’idea è che se la storia e la società hanno ritmi divini, sono sottratte al controllo umano. Nella narrazione biblica il tempo è una sorta di flusso della memoria soggettiva, non è la registrazione matematica e oggettiva dello scorrere del tempo storico con le sue articolazioni definite. Dall’AT al NT quasi tutte le indicazioni temporali sono indefinite, generiche, inafferrabili, indeterminabili: le espressioni ricorrenti sono «in quel tempo», «il mattino», «la sera», il «giorno dopo» et similia; altrettanto imprecise sono le indicazioni geografiche spesso di non facile identificazione; molti degli episodi narrati sembrano rientrare nella logica dell’eziologia perché sono appositamente costruiti per spiegare il nome di una località o le origini di un costume o di una tradizione. Persino i nomi di non pochi personaggi sono, potremmo dire, endofunzionali, perché hanno spesso una radice etimologica che si collega alla funzione che i personaggi espletano all’interno della narrazione. Emblematico è in proposito il libro di Rut, i cui personaggi, proprio per i loro nomi endofunzionali, si rivelano mere finzioni letterarie. Infine va detto che il Pentateuco non è, come spesso si è ritenuto, un’opera organica, neppure nel senso che risponde ad un progetto organico, come
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ritiene Spinoza. I singoli libri che lo compongono non hanno una sistemazione preordinata, perché sono testi di diversa origine e provenienza, spesso giustapposti o intrecciati senza che il redattore compisse un lavoro di revisione critica. A differenza di quanto pensano gli autori dell’ipotesi documentale per i quali i libri storici avrebbero fruito di materiali archivistici, siamo in realtà del parere che si tratti di materiali provenienti, almeno quelli più antichi, dalla tradizione mesopotamica. Soprattutto il substrato settentrionale-politeistico, che ha come punto di riferimento l’umanità intera, è di matrice cananeo-mesopotamica, forse anche con qualche ascendenza egiziana. Ad esso si sostituisce progressivamente quello yhawista, cioè un enoteismo che evolve verso un monoteismo nazionale come fondamento cultuale e religioso di una monarchia teocratico-sacerdotale.(10)
(10) Sul monoteismo ebraico, cfr. E. A. Knauf, Yahwe, «Vetus Testamentum», xxxiv, 1984, pp. 467-472; Th. Thompson, How Yhaweh Became God, «Scandinavian Journal of the Old Testament», lxviii, 1995, pp. 57-74.
ABBREVIAZIONI
AB = Apocalisse di Baruc Abd = Abdia Am = Amos Ant = Antiquitates Judaicae di Flavio Ap = Apocalisse aram. = aramaico (lingua) AT = Antico Testamento At = Atti BJ = Bellum Judaicum di Giuseppe Flavio Bn = Lettera di Barnaba Br = Baruc CD = Documento di Damasco 1Chr = Primo Cronache 2Chr = Secondo Cronache cit = opera citata CL = Catalogo Liberiano CM = Canone muratoriano col/coll = colonna/colonne Col = Colossesi 1Cor = Prima Corinzi 2Cor = Seconda Corinzi 1Cr = 1 Corinzi di Clemente CPJ = Corpus Papyrorum Judaicarum Dd = Didachè Dg = Lettera di Diogneto
Dn = Daniele Dt = Deuteronomio EA = Lettere di Amarna Eadem = stessa autrice ebr. = ebraico (lingua) Ebr = Lettera agli Ebrei EE = Epistola di Enoc Ef = Efesini (Paolo) Efes = Lettera agli Efesini (Ignazio) eg. = egiziano (lingua) En = Libro di Enoc Ens = Libro Segreto di Enoc Er = Il Patore di Erma Ex = Esodo Ez = Ezechiele Ezr = Ezra f, ff = foglio fogli Fil = Lettara ai Filadelfiesi (Ignazio) Flp = Lettera ai Filippesi (Policarpo) Fm = Filemone Fp = Filippesi (Paolo) Fram = frammento Gal = Galati Gc = Giacomo Gd = Giuda Gn = Genesi gr. = greco (lingua)
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GR = Storia primaria (Genesi-Re) Gv = Giovanni 1Gv = Prima Giovanni 2Gv = Seconda Giovanni 3Gv = Terza Giovanni H = Inni Hab = Habacuc Hag = Aggeo HE = Historia Ecclesiastica di Eusebio Id = stesso autore Iidem = stessi autori Is = Isaia Jb = Giobbe Jdc = Giudici Jr = Geremia Js = Giosuè LA = Libro dell’Astronomia Lc = Luca LG = Libro dei Giubilei LP = Liber Pontificalis LS = Libro dei sogni Lv = Levitico LV = Libro dei Vigilanti Magn = Ai cristiani di Magnesia (Ignazio) Mc = Marco 1Mc = Primo Maccabei 2Mc = Secondo Maccabei Mi = Michea Ml = Malachia MN = Memorie di Gamaliele Mt = Matteo n. = numero Nah = Nahum Neh = Neemia Nm = Numeri n. n. = pagine non numerate NT = Nuovo Testamento
Os = Osea par. = paragrafo PG = Patrologia Graeca PL = Patrologia Latina Pol = Lettera a Policarpo (Ignazio) PR = Libro delle Parabole Prov. = Proverbi pt. = parte 1Pt = Prima Pietro 2Pt = Seconda Pietro Qt = Qohelet 1Re = Primo Re 2Re = Secondo Re Rm = Lettera ai Romani (Ignazio) Rom = Romani Sal = Salmo, Salmi Sf = Sofonia 1Sm = Primo Samuele 2Sm = Secondo Samuele Smir = Lettera agli Smirnesi (Ignazio) Sp = Sapienza SR = Samuele-Re Sr = Siracide SS = Salimi di Salomone sum = sumero (lingua) t/tt = tomo/tomi TAs = Testamento di Asher Tb = Tobia TBn = Testamento di Beniamino TDn = Testamento di Dan TGd = Testamento di Gad TIs = Testamento di Issacar TLv = Testamento di Levi 1Tm = Prima Timoteeo 2Tm = Seconda Timoteo TNf = Testamento di Neftali Trall = Lettera ai Tralliani (Ignazio)
Abbreviazioni
TRb = Testamento di Ruben 1Ts = Prima Tessalonicesi 2Ts = Seconda Tessaloniccesi TSm = Testamento di Simeone Tt = Tito TZb = Testamento di Zabulon v. = vedi
ugar = ugaritico VG =Vangelo di Gamaliele vol/vols = volume/volumi VP = Vangelo di Pietro Yl = Gioele Zc = Zaccaria
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parte i L’antico Israele tra mito e storia
capitolo i
L’AMBIENTE STORICO-LINGUISTICO
1.1. Il Canaan: problematicità dei confini geografici Per la sua natura di terra intermedia e di crocevia della comunicazione tra le più grandi civiltà del passato la complessa realtà del Canaan può essere intesa solo attraverso un’indagine di tipo sistemico che ne colga le dinamiche interne ed esterne con l’apporto di un insieme di saperi disciplinari, dalla filologia alla linguistica, dalla storia alla sociologia, all’economia, al diritto e alla demografia, dall’archeologia alla storia e alla scienza delle religioni, che ci consentano di individuarne tanto la specificità culturale quanto le più generali coordinate antropologico-culturali comuni a quella più vasta area civilizzata che fu la fascia afroasiatica del Vicino Oriente e dell’Egitto. Sfortunatamente la nostra conoscenza del Canaan è assai lacunosa sia sotto il profilo linguistico sia sotto quello storico. Non solo non sappiamo quale fu l’origine dei cananei, ma non sappiamo neppure se essi rappresentarono una specifica entità etnica o se il Canaan fu una più o meno definita regione geopolitica. Incerta è anche la radice etimologica della parola ‘Canaan’ (= Ki’nani nelle lettere amarniane). Nessuna delle due ipotesi etimologiche avanzate è soddisfacente: non lo è la derivazione dalla radice verbale semitica kn (ebr. ORPK chanaan) che significa ‘essere umile, depresso’, né lo è la derivazione dall’hurrita kinahhu attestata nelle tavolette di Nuzi (xv-xiv secolo) o dall’accadico kinahnu. Nel primo caso Canaan significherebbe «terra bassa» e, in questo senso, potrebbe adattarsi solo alla regione interna del 37
38 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
Mar Morto e del Mar di Galilea. Nel secondo caso assumerebbe il significato di terra della porpora che, com’è noto, è la denominazione data ai Fenici, il cui nome greco Phoiníke non è che il corrispondente dell’hurrita kinahhu.(1) Ma anche in questo caso l’ipotesi avrebbe senso solo se riferita alla fascia costiera. Se da un lato siamo sicuri che il termine Canaan compare in tutto l’arco del secondo millennio nella documentazione archivistica di varia provenienza, dall’altro, come ha evidenziato Niels Peter Lemche,(2) le diverse menzioni che riscontriamo negli archivi di Mari, di Ugarit [od. Ras Shamra] e di Tell el-‛Amārnah non consentono di definirne in modo univoco i confini geografici. Una lettera amarniana del re Abi-Milku di Tiro recita quanto segue: Il mio signore, il re, mi ha scritto: scrivimi ciò che sai dal Canaan: il re di Danuna è morto, suo fratello è diventato re dopo di lui e il suo paese à salvo. Il fuoco ha distrutto il palazzo di Ugarit; ne ha distrutto una metà, l’altra metà è scomparsa. Non ci sono truppe hittite nell’area. Etakkama è il principe di Qidšu e Aziru è in guerra con Biryawasa (EA, 151:49).
L’opinione del monarca di Tiro è che il Canaan abbraccia tutta l’Asia occidentale da Damasco, al sud, ai confini hittiti, al nord. La sua descrizione di ciò che accade in Canaan include anche ciò che accade nella Cilicia orientale (Danuna), in Ugarit, nella Siria settentrionale, a Qidšu (Qadeš) e in Amurru e Damasco all’interno della Siria. L’interpretazione della lettera è discussa da Rainey(3) che la interpreta nel senso che in essa il sovrano di Tiro ci fa sapere ciò che accade nel Canaan e nel proprio paese. Non meno interessante è una lettera del re cassita Burra-Buriaš di Karduniaš (Babilonia) che scrive: «Nei giorni di Kurigalzu, mio predecessore, i Cananei scrissero e dissero: vieni ai confini dello Stato e noi ci ribelleremo e saremo tuoi alleati». Burra-Buriaš comunica al faraone che tale alleanza non ebbe successo. In ogni caso il re babilonese non ci dice che cosa intende per Canaan, ma ammette (1) Questa seconda ipotesi etimologica è stata contestata da R. De Vaux, Histoire ancienne d’Israel, Paris, Gebalda, 1973, e da Ephraim A. Speiser, Genesis, Introduction, Translation and Notes, New York, Doubleday, 1964. Non è improbabile che con il termine kinahhu gli hurriti si riferissero esclusivamente ad una regione geografica. (2) N. P. Lemche, The Canaanites and Their Land, the Tradition of the Canaanites, Sheffield, Jsot Press, 1991. (3) A. F. Rainey, Ugarit and the Canaanites Again, «Israel Exploration Journal», xiv, 1964, p. 101.
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che le città che ne fanno parte erano soggette al faraone fin dai tempi del suo predecessore Kurigalzu. In un’altra lettera Burra-Buriaš è più preciso: parla di maltrattamenti subiti dai suoi mercanti nella terra di Canaan: Ora i miei mercanti che ho lasciato con Ahutabu sono stati maltrattati a causa degli affari. Dopo Ahutabu continuò il suo viaggio verso mio fratello (il faraone), nella città di Hinnatuni in Canaan Šum-Adda, figlio di Balume, e Šutatna, figlio di Šaratum, mandò da Acca i suoi uomini e uccise i miei mercanti e si impadronì del loro denaro […] Il Canaan è una tua regione e i suoi re sono tuoi servitori. Nel tuo paese io sono stato derubato (EA, 8:25).
Qui sono citate due città cananaiche, Acri (Acca) e Hinnatuni, forse corrispondente al biblico Hannaton (Js, xix, 14), una città al confine del territorio zabulonita, nella valle di Yzre’el; deve trattarsi di una città della Galilea. In questo caso, secondo Lemche,(4) il Canaan include la Galilea. Di contro da un testo ugaritico si evince che un mercante cananeo è reputato straniero nella città di Ugarit. Dalla corrispondenza di Rib-Adda, re di Biblos, sembra si debba dedurre che la Galilea sia da considerare parte integrante del Canaan. Lo stesso si evince dalla risposta del faraone a Indaruta di Akšapa (vicino Acca/Acri). In linea di massima si può dire che la corrispondenza di Tell el-‛Amārnah tende ad identificare l’orizzonte geografico del Canaan con la Palestina settentrionale. Una sola citazione dei cananei è della prima metà del ii millennio ed è quella di Mari del xviii secolo,(5) ove troviamo un riferimento a habbatum ù LUKi-na-ah-nummeš. L’accadico habbatum significa briganti e corrisponde al sumero SA.GAZ, normalmente identificato come logogramma di habiru (ebrei ?). È possibile che qui la designazione sia di ordine sociologico: i cananei sarebbero non un popolo straniero, né riferito ad un’area geografica, ma alla condizione di rifugiati e di briganti di origine straniera. Tra il 1500 e il 1200 il termine compare nei documenti siro-palestiniani, in testi hittiti, nello Stato di Arrapha (Nuzi), nelle lettere di Tell el-‛Amārnah, in Ugarit e in Alalakh. Dalle fonti egiziane della xix e xx dinastia sappiamo che il Canaan è ufficialmente una provincia egiziana. Tale è il senso di una lettera del re (4) N. P. Lemche, The Canaanites, cit. (5) Cfr. G. Dossin, Une mention de Cananéen dans une lettre de Mari, «Syria», l, 1973, pp. 277-282.
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di Alasia al faraone (EA, 36:15), nel cui testo il Canaan è indicato come provincia egiziana: [p]i-ha-ti ša ki-na-hi = la provincia di Canaan. La correttezza della trascrizione Ki-na-hi non può essere provata a causa della corruzione del testo. Pihatum è parola accadica che significa ‘provincia’. Nelle lettere di Tell el-‛Amārnah abbiamo 12 citazioni del Canaan: 11 volte in riferimento al territorio e una volta alla popolazione. Dalle lettere del faraone emergono due sole citazioni. La prima dice: «Compi dunque il tuo servizio per il re, tuo signore, e vivrai. Tu stesso sai che il re non viene meno quando va in collera contro tutto il Canaan» (EA, 162, 41). È probabile che qui si faccia cenno alla ribellione di Aziru di Amurru, situato al Nord della Siria, il quale aspirava a creare un interno dissidio tra i vassalli asiatici del faraone per poter mantenere l’indipendenza del suo regno. In tal caso Amurru farebbe parte del Canaan. Se ne deve concludere che il Canaan comprendeva un territorio molto più esteso di quello indicato nelle lettere del re babilonese. Nella lettera del faraone ad Indaruta di Akšapa si dice: «Ora il re ti ha mandato Hanni, il supervisore delle stalle del re in Canaan» (EA, 367:6-8). Akšapa è la biblica Akšaph nell’area tribale assegnata ad Asher nella Galilea settentrionale. Ciò conferma che la Galilea era compresa nel Canaan. Hanni dovrebbe essere una persona di alto rango, ma non abbiamo altre informazioni sulla sua funzione nei distretti amministrativi egiziani. Due altre lettere provengono dai re del Libano, Rib-Adda di Biblos e Abi-Milku di Tiro. Una delle lettere di Abi-Milku è già stata citata; ma ce n’è un’altra che recita: «Il re di Hasura ha abbandonato la sua città ed ha raggiunto gli habiru. Il re ha dedotto […] la terra del re si è unita agli habiru. Possa il re domandare il suo supervisore che conosce il Canaan» (EA, 148: 41-47). In questa lettera Abi-Milku accenna ai problemi che egli ha con il suo vicino, il re di Sidone, descritto come nemico del faraone. Egli informa il faraone dei tentativi del re di Hazor di allearsi con gli habiru. L’orizzonte geografico di questa lettera è ancora confinante con la Galilea ed è evidente che il re tiriano considera cananaica la Galilea. Nella corrispondenza di Rib-Adda di Byblos il Canaan è menzionato quattro volte nei seguenti testi: Vedendo l’uomo dall’Egitto, i re del Canaan voleranno davanti a lui (EA, 109:46); Non ci sono navi armate con la consegna di lasciare il Canaan (EA, 110:49); Egli [il faraone] non è indifferente alla sua città. Se non deve mandare trup-
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pe ad essi, a Byblos, essi [i nemici] la conquisteranno e […] la terra del Canaan non apparterrà più al faraone (EA, 131:57-62); Se il re sarà indifferente a Byblos, tutte le città del Canaan non gli apparterranno più (EA, 137:76).
Rib-Adda scrive al faraone in questi termini: Se il re non presterà accuratamente ascolto alle parole del suo servo, Biblus sarà suo [di Abdi-Ashirta di Amurru, cioè del nemico] alleato e tutte le terre del re fino all’Egitto si uniranno agli habiru» (EA, 88:28); Se gli arcieri non arriveranno, tutte le terre si uniranno agli habiru» (EA, 79:18).
Il faraone si mostra talvolta stanco delle lamentele di Rib-Adda. In una lettera di risposta dice: «Perché mi scrivi ciò che per me è troppo? Perché scrivi molto più degli altri hazanu?» (EA, 148: 41-47). Hazanu è il titolo dei re vassalli. In un’ulteriore lettera Rib-Adda lamenta: «Inoltre tu sai che la terra di Amurru attende giorno e notte gli arcieri» (EA, 82: 47). Gli Amurru sono nemici storici dell’Egitto e di Byblos. Concludendo non possiamo non rilevare che le citazioni di Rib-Adda e di Abi-Milku sono generiche e vaghe. Nelle lettere amarniane non c’è alcuna precisa indicazione del territorio del Canaan. Dalla corrispondenza di Tell el-‛Amārnah sembra che il Canaan coincidesse per lo più con la Palestina settentrionale. Yohanan Aharoni(6) ne trae la conclusione che la corrispondenza amarniana autorizza a considerare il Canaan ai tempi della xviii dinastia come una provincia dell’impero egiziano dell’Asia occidentale inclusiva della Palestina e della Siria settentrionale. Quando Abi-Milku indica il Danuna (la Cilicia), che non è mai stato soggetto all’Egitto, come territorio del Canaan, mostra evidentemente tutta l’incertezza che sussisteva in ordine alla definizione territoriale del Canaan.
(6) Y. Aharoni, The Archaeology of the Land of Israel from the Prehistoric Beginnings to the End of the First Temple Period, Philadelphia, Westminster, 1982.
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1.2. Il Canaan: la natura del territorio Il territorio del Canaan è caratterizzo da catene montuose con pendii ripidi e da valli di grande fertilità, sfruttate per lo più per i lavori agricoli di produzioni del grano, dell’olio e del vino. Gli altopiani più importanti sono quello del Negev a sud, quello centrale tra Gerusalemme e Sichem, l’altopiano del Gabaon, a Nord di Sichem, l’altopiano della Galilea e l’altopiano transgiordanico che costeggia ad oriente tutta la valle del Giordano. Alle regioni montuose si contrappongono quelle pianeggianti che comprendono la fascia costiera, la valle di Yzre’el, che separa i due altopiani di Galilea e del Gabaon, la valle della Shephelah, che si estende a ovest di Gerusalemme fino a Gaza, la valle di Be’er-sheba, a sud di Hebron (od.: al-Khalil) e a nord dell’altopiano del Negev, ed infine la valle del Giordano. Le principali vie di comunicazione sono la via del Mare, denominata anche Via dei Filistei, che partiva da Memfi e risaliva verso il Nord, passando per Gaza, Ašdot, Giaffa, fino a Dor, dove deviava verso Damasco e si ricongiungeva con la via del Re, che partiva da Memfi, tagliava la penisola arabica, attraversava l’altopiano centrale da Gerusalemme a Sichem, proseguiva per Damasco, Tadmor, Resafa, ove si congiungeva con un’arteria che conduceva ad Harran e a Karkemiš. A Dor, la Via Maris si univa ad una ulteriore via di comunicazione passante per Acco, Tiro, Sidone, Byblos, Arvad fino ad Ugarit. Da Arvad partiva un’arteria che portava ad Hamat e in Anatolia. A Sud da Hebron partiva una strada in direzione di Babilonia ove si congiungeva ad un’altra strada diretta a Nord fino ad Harran. Questo complesso sistema viario consisteva sostanzialmente in una rete di comunicazione collocata nelle zone basse e rendeva possibili tanto i traffici commerciali, quanto gli spostamenti militari da Nord a Sud e da Ovest ad Est e viceversa. Essa era di fondamentale importanza per gli imperi confinanti, l’Egitto, l’Assiria e Babilonia che di fatto dominavano i piccoli staterelli cananei ridotti allo stato di vassallaggio. Alla fine del Tardo Bronzo, intorno al 1150, le aeree citate risultano occupate dagli Aramei al Nord tra la Siria e il Regno di Damasco, dagli Ammoniti e dai Moabiti nell’altopiano transgiordanico a sud di Yabbok, l’affluente del Giordano, dagli Edomiti a sud di Tamar e ad oriente di Qadesh-Barnea, e dagli Ismaeliti nel territorio del Negev; la fascia costiera era invece abitata a sud dai Filistei e a nord dai Fenici.
I.1 L’ambiente storico-linguistico
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1.3. Il Canaan: gli insediamenti tra il Tardo Bronzo e il Ferro II Com’è facile intuire l’intera area è stata oggetto di minuziosi e scrupolosi scavi archeologici e di sofisticate analisi al radiocarbonio. I dati archeologici ci dicono(7) che dal terzo al primo millennio essa ha conosciuto tre ondate migratorie: la prima nell’età del Bronzo Antico (3500-2200), i cui insediamenti entrarono in crisi tra il 2200 e il 2000; la seconda nel Bronzo Medio (2000-1550), i cui insediamenti entrarono in crisi nel Tardo Bronzo (1550-1150) e la terza nel Ferro I (1150-900) con relativa crisi nel Ferro II (900-586). Grazie alla scoperta dell’archivio di Tell el-‛Amārnah, che ci ha trasmesso in ben 370 tavolette il carteggio ufficiale tra i faraoni egiziani Amenofi III (1387-1350) e Amenofi IV o Akhenaton (1350-1334) e gli apparati amministrativi dei regni vassalli del territorio cananaico, abbiamo una discreta conoscenza della situazione storico-politica del Tardo Bronzo. Nel carteggio sono menzionate le città più importanti, come Damasco e Ashtarot in Siria; Tiro, Acco, Akšaph, Ginti-kirmil, Giaffa e Gezer nella fascia costiera; Megiddo, Tel Yoqueam, Shimeon e Anahrat nella valle di Yzre’el; Hazor, Rehov, Pehel e Bet-She’an (od: Tell el Husn) nella valle del Giordano; e infine Sichem nell’altopiano di Samaria. Si tratta di potenti città-Stato, dotate di maestose architetture come palazzi e templi, i cui più splendidi esempi sono stati rinvenuti in Lakish (od: Tell edDuweir), Megiddo e Hazor. Dalla stele di Khu-Sobek, databile al xix secolo, apprendiamo che Sichem, città spesso menzionata nell’AT, costituiva un importante centro amministrativo nell’età del Bronzo Medio ed esercitava nel Tardo Bronzo, all’epoca dell’archivio di Tell el-‛Amārnah (xiv secolo), una politica espansiva; assai attivo fu in particolare Lab’aya, re di Sichem, coalizzato con Abdi Ashirta e Aziru di Amurru (territorio del Libano e della Siria occidentale). Dopo il collasso del Tardo Bronzo la situazione mutò profondamente; i grandi centri delle zone pianeggianti subirono una forte battuta d’arresto e la vita cittadina si spostò sulle aeree montuose, in particolare sull’altopiano centrale. Si trattò di insediamenti di modestissima entità che si estendevano per poco più di mezzo ettaro fino ad un massimo di due ettari, con un numero di abitanti che si aggirava intorno a cinquanta o cento unità. In genere i villaggi erano costruiti a forma rettangolare o ovale ad imitazione degli (7) I. Finkelstein, N. A. Silberman, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, Roma, Carocci, 2018, p. 127.
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accampamenti dei beduini; al centro lasciavano lo spazio per la conduzione del bestiame (per lo più greggi di pecore), sicché sviluppavano un’economia mista di pastorizia e di agricoltura. Il numero dei villaggi era considerevole; le ricerche archeologiche ne hanno registrati circa 250 su una superficie totale di circa 50 ettari ed una popolazione complessiva di circa quaranta-cinquantamila abitanti. In linea di massima i villaggi erano autosufficienti anche perché per l’approvvigionamento idrico sfruttavano sorgenti vicine. La popolazione, che forse era composta di diversi gruppi etnici (ma comunque cananei), passati dal nomadismo e dalla pastorizia alla vita sedentaria e alle attività agricole, conduceva una vita semplice, priva di beni voluttuari, in case modeste di circa cinquanta o sessanta metri quadrati, costruite in pietra non lavorata. La sua cultura materiale era assai povera: a parte gli utensili di uso quotidiano, il vasellame, per lo più privo di decorazioni, era funzionale alla conservazione del grano, dell’olio e del vino. È difficile parlare di vera e propria organizzazione statale perché nei villaggi si raggruppava una manciata di famiglie o di famiglie allargate, forse tra loro imparentate. Perciò non c’era una vera e propria organizzazione amministrativa; non c’era una classe di scribi e di conseguenza non c’era l’uso della scrittura. Lo splendore delle antiche città cananee del Tardo Bronzo era ormai solo un lontano ricordo; i villaggi non disponevano né di palazzi sontuosi, né di templi. Non è stato pertanto facile risalire ai loro culti religiosi, anche a causa dell’assenza di documenti scritti. La scoperta nell’altopiano settentrionale di un statuetta di bronzo, rappresentante un toro, ha fatto pensare ai culti tradizionali delle popolazioni cananaiche. Si può dire che questa terza ondata di insediamenti fu opera di israeliti? L’ipotesi per la verità dipende unicamente dal fatto che gli israeliti (ysrir) sono menzionati nella stele di Merenptah fin dal 1207. Ma la stele ci dice che essi furono sterminati e che di loro non rimase neppure il seme. È sufficiente ciò per escludere del tutto che si trattasse di Israeliti? Non ne abbiamo nessuna certezza, anche perché le dichiarazioni così catastrofiche come quelle della stele di Merenptah, erano puramente propagandistiche. Probabilmente non si trattò di uno sterminio totale, ma è certo che gli ysrir subirono una sonora sconfitta da parte degli egiziani. D’altra parte la spedizione di Merenptah comportò la devastazione di città e di popolazioni costiere e forse l’effetto disastroso fu aggravato dalle massacranti incursioni dei cosiddetti «popoli del mare» che rasero al suolo le città fortificate del Tardo Bronzo e resero insicura la vita nelle valli e nelle vie di comunicazione. Ai po-
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chi gruppi nomadi scampati alla strage non rimase altra possibilità che rifugiarsi sull’altopiano centrale, disperdendosi in un arcipelago di villaggi disseminati a macchia di leopardo. È fuor di luogo pensare che si sia trattato di un progetto unitario, perché non pare che i villaggi avessero tra loro rapporti commerciali o relazioni di altro tipo; erano per lo più isolati, come se non avessero un’origine comune. Tutto fa pensare che si trattava di gruppi di nomadi di diversa provenienza o di famiglie sradicate dalle città della pianura dalla violenza devastante degli invasori; erano probabilmente cananei e solo nell’arco del nono secolo emerse dal loro interno un gruppo che, per un complesso di circostanze, quale può essere stata la nascita di un regno, attorno alla dinastica omride, si riconobbe come identità etnica. Circondato da regni più potenti e politicamente più avanzati, il Canaan è naturalmente l’anello debole della catena vicino-orientale ed è perciò più esposto all’imperversare di bande di fuggiaschi di ogni tipo; ma è anche e soprattutto crocevia di comunicazione, terra di transito delle grandi linee commerciali e perciò stesso oggetto delle mire espansionistiche dei vicini più potenti. Dalla documentazione egiziana sappiamo che nell’Età del Medio e Tardo Bronzo esso fu una provincia dell’Egitto, organizzata in un sistema di città-stato, rette da re o governatori locali, chiamati hazanu, vassalli del faraone. Essi accettavano di sottoporsi alla tassazione egiziana in cambio della protezione militare. Per tutto il secondo millennio l’influenza egiziana sulla cultura cananaica fu di vaste proporzioni ed ebbe riflessi sulla organizzazione politica, sul commercio, sull’architettura delle grandi costruzioni pubbliche delle città, sulla tipologia della ceramica, sui prodotti culturali materiali e su quelli lussuosi e voluttuari. I reperti archeologici mostrano che soprattutto in prossimità della fascia costiera non sono mancate influenze culturali provenienti dall’area egea, micenea e cipriota. A nord l’area siro-palestinese era sotto l’influsso dell’impero hittita e mitanno. Il Canaan dell’Età del Bronzo ha tutte le caratteristiche dell’organizzazione statale del secondo millennio. I grandi centri urbani del Medio Bronzo (Lachish, Arad, Hazor, Gezer, ecc.) presuppongono l’esistenza di uno Stato organizzato in grado di provvedere attraverso lo sfruttamento delle risorse alla sussistenza e alla sopravvivenza della popolazione. Il cuore del centro urbano è il palazzo da cui vengono gestite tutte le attività economico-amministrative, politiche e territoriali. Al potere politico è strettamente associato il potere religioso che si espleta nei templi. Ma il vero elemento costitutivo dello Stato è il territorio; non un territorio definito e li-
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mitato da confini precisi, ma «il territorio controllato», i cui confini erano soggetti alle alterne vicende militari, alle invasioni e penetrazioni di nuove popolazioni e agli inevitabili scontri con gli Stati viciniori. Si tratta come ha rilevato Liverani(8) di Stati territoriali, non etnico-nazionali. Questi ultimi si affermarono nella successiva Età del Ferro; i primi furono tipici dell’Età del Bronzo. Nello Stato territoriale il potere si esercitava sulla popolazione indipendentemente dalle origini etnico-linguistiche o dall’appartenenza religiosa. Non c’era vera e propria purezza etnica, la quale peraltro era resa impossibile dall’alta frequenza dei matrimoni misti, né una vera e propria purezza di culti religiosi, per via del prevalente sincretismo. Nel territorio coesistevano e si integravano diverse etnie; il bilinguismo era ampiamente diffuso e a livello di classe scribale non era infrequente il plurilinguismo.(9) Ciò vale non solo per il sistema delle città-stato cananaiche, ma anche per i grandi regni mesopotamici, per l’impero egiziano e per quello hittita. Tutta la storia del Vicino Oriente è caratterizzata da grandi fenomeni migratori che rendono le civiltà del Bronzo fortemente multietniche e plurilinguistiche. Il collasso con cui si chiude l’età del Medio Bronzo (1550) induce gli Hyksos a spostarsi, prima sotto la guida di Kamose e poi sotto quella di Ahmose, nel territorio cananaico. Sul finire del Tardo Bronzo a seguito di nuove invasioni di popoli del mare, si insediano sulla fascia costiera Fenici e Filistei.(10) Non sappiamo se gli Shasu siano o meno penetrati nelle aree immediatamente a nord del Sinai o se si siano fermati all’altezza del Delta del Nilo o nell’area sinaitica. Dal nord premono popolazioni come gli hurriti, i mitanni, gli amurru, gli aramei, gli hittiti. Tutto lascia supporre che nel Canaan si siano sovrapposti in luoghi e tempi diversi gruppi etnici di diversa natura e provenienza. È facilmente comprensibile che in una realtà così fluttuante e variegata sia mancata nel corso della sua lunga storia un’identità etnica ed una vera e propria unità linguistica.
(8) M. Liverani, Oltre la Bibbia Storia antica di Israele, Bari-Roma, Laterza, 2012, pp. 59-87. (9) C. de Miguel Mora, Gli stati territoriali nel Vicino Oriente nel II millennio a.C.: modelli di funzionamento e difficoltà di applicazione, in C. Bearzot, F. Landucci, G. Zecchini, Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 3-10. (10) I filistei non risalgono al tempo di Mosè e di Giosuè: essi occuparono la striscia di Gaza tra il 1100 e l’800 a.C.
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1.4. Chi sono i Cananei? Di difficile soluzione sembra essere la questione della identità etnica dei Cananei. Probabilmente essi non costituivano un ethnos in senso proprio e forse non ebbero neppure una identità linguistica vera e propria. La più antica citazione che di essi ci è pervenuta è quella contenuta nella lettera di Mari, edita da Dossin,(11) e sembra avere una connotazione sociologica, poiché ce li descrive come habbatum che, come si è detto, in accadico significa briganti e corrisponde ad habiru. L’identificazione con gli habiru sembra avere un carattere sociologico, più che etnico, perché è indicativa di una condizione di vita o di uno stato sociale. Gli habiru che spesso sono stati erroneamente identificati con gli ebrei(12) non sono affatto un popolo, ma sono gruppi di sbandati e di rifugiati, schiavi, debitori insolventi, rei di delitti vari, sfuggiti alla giustizia e spesso nomadi di diversa provenienza. Privi di una vera e propria organizzazione statale, si raggruppavano in bande ed erano costretti per la propria sopravvivenza a compiere razzie nei piccoli villaggi o ad assalire le carovane di passaggio. La loro presenza metteva in serio pericolo la sicurezza del commercio e della vita cittadina. Uno dei tratti comuni della politica degli stati vicino-orientali era quello di compiere ogni tentativo per assorbirli e inquadrarli entro lo Stato allo scopo di integrarli. Tutti i grandi regni dell’Età del Bronzo, dalla Mesopotamia all’Egitto e agli hittiti ci confermano questa ossessione per i danni causati dagli habiru. La loro presenza in Canaan è attestata da un documento autobiografico (del xvi secolo a.C.) lasciatoci dal re Idrimi e trovato a Tel Atchana (Alalakh), in cui il sovrano ci fa sapere di essere vissuto in gioventù per ben sette anni con gli habiru e di essersi spostato con essi dalla terra di Aleppo verso la città di Ammiah attraverso il deserto.(13) Nella Bibbia abbiamo notizie di diverse popolazioni stanziate nella terra di Canaan: perizziti o ferezei, keniti o chenei, kenizei o kenizziti, kadmoniti, refaim, refidim, amorrei o amorriti, ammoniti, gergesei o ghirgasei, ghersoniti, ashdoditi, gebusei, Kaphtoriti, ivvei o evei o avviti o gabaoniti, ama(11) G. Dossin, Une mention de Cananéen, cit. (12) La loro identificazione con gli ebrei è ormai considerata ampiamente superata ed è tenuta in piedi solo da chi crede di poter confermare con essa l’antichità degli israeliti e la storicità della narrativa patriarcale. (13) S. Smith, The Statue of Idrimi, London, Harrison, 1949, il quale pubblica l’iscrizione autobiografica apposta sulla statua di Idrimi.
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leciti, anachiti, moabiti, edomiti, ecc. Della gran parte di tali popolazioni non abbiamo menzioni extrabibliche; tale è il caso dei kaphtoriti, abitanti di Kaphtor (antico nome di Creta), che occuparono le terre dei perizziti, dei kadmoniti, dei kenizziti, dei gergesei, degli avviti (spesso citati come ashdoditi, gaziti, ashkeloniti, gittiti e eqroniti, rispettivamente abitanti di Ashdod, Gaza, Ashkelon, Gat, ‘Eqron). Questi ultimi cinque casi si riferiscono evidentemente alla popolazione filistea, giacché le denominazioni dipendono chiaramente dal nome delle cinque città della Filistia. Anche i nomi dei kaphtoriti e degli avvei fanno riferimento all’area della Filistia e alla città di Kaphtor nei pressi di Gaza. I gebusei non sono altro che gli abitanti della Gerusalemme pre-giudaita, la quale nel libro dei Giudici è chiamata anche con il nome di Gebus o Yebūs.(14) I ferezei o perizziti(15) (= abitanti del villaggio) sono citati insieme con gli amorrei (‘emōrim), gli ivvei, i gebusei, gli hittiti, i kadmoniti, come antiche popolazioni cananaiche, di cui non sappiamo nulla. I keniti sembrano essere una tribù di madianiti e quindi presumibilmente originari del deserto del Sinai. Si è tentato di identificarli con la tribù di Efa, figlio di Madian, e quindi in ultima analisi con gli Haypapa, menzionati in un’iscrizione di Tiglat Pileser III (745-727 a.C.). In altri casi i nomi si riferiscono a tribù o a discendenti di tribù: tale è il caso dei kenizziti o kenizei che sarebbero discendenti di Chenaz, figlio di Elifaz, a sua volta discendente di Esaù; i gergesei, gli amorrei e i gebusei sarebbero discendenti di Canaan, discendente a sua volta di Cam e di Noè (Gn, x, 16); i ghersoniti, discendenti di Gherson, figlio di Levi.(16) Taluni studiosi(17) pretendono di identificare gli amorrei con i Martu, citati da fonti extrabibliche, sulla base della presunta identità dell’accadico amar o amurru, vicino all’ebraico אמרי, con il sumerico Mar.tu; sicché essi si identificherebbero con gli ‘occidentali’ (rispetto a Babilonia), di cui si ha notizia nei testi di Ur (III) e di Isin-Larsa. L’ipotesi però presuppone che il semitico occidentale corrisponda al cananaico orien-
(14) Jdc, xix, 10-11; v. anche Js, xv, 63 e 1Chr, xi, 4-5. Nella Genesi Gerusalemme è citata anche con il nome di Shalem e Urusalim. Dalle fonti egiziane risulta che la città già nel xviii secolo era fortificata, costruita con mura massicce. (15) Gn, xiii, 7; Ex, xxxv, 11-16; Dt, vii, 1-5; Js, xi, 3; xvii, 14-15; 1Re, ix, 21; Ezr, ix, 1-2. (16) v. Nm, iii, 24; iv, 22, 38-41; xxvi, 57; Js, xxi, 6, 27, 33. (17) É. Dhorme, Recueil Édouard Dhorme, Études bibliques et orientales, Paris, Imprimerie Nationale, 1951, p. 103; U. Oldenburg, The Conflict between El and Baal in Canaanite Religion, Leiden, Brill, 1969.
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tale.(18) Tale identificazione non è accolta da Gelb(19) il quale ritiene che la lingua degli amorriti non ha le caratteristiche delle lingue cananaiche. In ogni caso tutta la pericope di Gn, x, non è che un arbitrario e mal riuscito tentativo di inquadrare tutti i popoli della terra nella discendenza noachica postdiluviana con evidenti forzature e incongruenze, su cui è inutile soffermarci. I refa’im = defunti (Gn, xiv, 5; xv, 20), e nefilîm vanno forse identificati perché entrambi sarebbero popoli giganti. I nefilîm o ‘ănāqîm (= giganti), secondo il Deuteronomio, sarebbero discendenti del gigante Anak, figlio di Arba, citato anche in Numeri; la loro capitale dovrebbe essere Hebron, denominata anche Kiriat-Arba.(20) Refa’im è, come indica il suffisso – im, un plurale ebraico; si tratterebbe di un popolo che, stanziato nella Palestina orientale a est del Giordano, sarebbe stato nel Canaan fin dai tempi di Abramo ed avrebbe avuto statura gigantesca (4,5 metri di altezza e due metri di larghezza).(21) Il loro ultimo re sarebbe stato Og di Bašan e il loro territorio sarebbe stato assegnato da Mosè alla metà della tribù di Manasse (Dt, iii, 11, 13). In realtà tale narrazione non sembra trovare conferma nei dati archeologici, poiché gli scavi condotti da Emmanuel Eisenberg(22) nella Valle dei Refa’im, a circa 6 km a sudovest di Gerusalemme, hanno portato alla luce due villaggi dell’Età del Bronzo: il primo, risalente all’Antica Età del Bronzo (2200-2000), è sostanzialmente un villaggio agricolo; il secondo del Medio Bronzo (1750-1550), sorto sulle rovine del primo, è un villaggio cananaico, il cui più importante edificio è un tempio. L’esistenza di popoli giganti è ovviamente una leggenda, nata per giustificare il reperimento di ruderi megalitici e di mura ciclopiche, per lo più dell’Età del Bronzo.(23) Il Deuteronomio ricorda il reperimento a Rabba degli ammoniti di un gigantesco «letto di ferro» (o scambiato per tale, Dt, iii, 11) che misurava 9 per 4 cubiti, pari a circa 4 metri per 1,80. (18) B. Landsberger, Über die Völker Vorderasiens im dritten Jahrtausend, «Zeitschrift für Assyriologie», xxxv, 1924, p. 238; H. Bauer, Die Entzifferung der neuentdecken Sinaischrift und zur Entstehung des semitisches Alphabets, Halle, Niemeyer, 1918, pp. 2, 69; Id., Semitische Sprachprobleme, Leipzig, Brockhaus, 1917. (19) I. J. Gelb, The Early History of the West Semitic People, «Journal of Cuneiform Studies»; xv, 1961, pp. 27-47. (20) Nm, xiii, 33; Dt, ix, 2; Js, xxi, 11. (21) Gn, xiv, 5. Cfr. Dt, iii, 11. (22) E. Eisenberg, Nahal Refa’im - A Bronze Age Village in Southwestern Jerusalem, Qadmoniot, ciii-civ, 1993, pp. 82-95. (23) Cfr. M. Liverani, Oltre la Bibbia, cit., p. 304.
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Un discorso a parte meritano i moabiti, gli ammoniti e gli edomiti; la Genesi fa discendere le prime due popolazioni da Lot, rispettivamente attraverso i figli Moab e Ben-Ammi (Gn, xix, 37, 38); gli edomiti invece sarebbero discendenti da Esaù. In realtà la versione della Genesi è anacronistica perché non fa che retrodatare in una età assai lontana le origini di popolazioni che fanno la loro comparsa non nel Medio o Tardo Bronzo, ma nel Ferro II intorno al ix-viii secolo. Evidentemente gli autori o redattori del testo biblico proiettano ingenuamente nel passato la realtà del proprio tempo. Dei moabiti, stanziati ad oriente del Mar Morto, a sud dell’Aro’er, al confine con gli ammoniti, ci restano taluni sigilli reali del vii secolo; ma la più rilevante delle attestazioni è sul piano storico la stele di Mesha dell’840 a.C. Degli ammoniti gli scavi archeologici ci hanno restituito le iscrizioni di Yerah’azar, di Tell Siran e di quella detta ‘del teatro’, oltre all’ostrakon di Heshbon e ad alcuni sigilli che insieme coprono un arco di tempo che va dal vii al vi secolo. Ma si tratta di ben poca cosa e soprattutto insufficiente per farci un’idea del loro regno, del quale conosciamo a mala pena i nomi di due sovrani, Aminadab e Hissil’el. Non si può dire che siano ricchi i reperti archeologici relativi agli edomiti, stanziati nel deserto del Negev, ma provenienti forse dal Sinai e dal monte Se’ir.(24) In compenso abbiamo più puntuali notizie bibliche ed extrabibliche. Dalla Genesi (xxv, 25) sembra evincersi che il nome Edom (Gn, xxxvi, 1) fu dato ad Esaù perché egli era rosso (‘ אדמוניadmōnî in ebraico significa ‘rosso’) e peloso. Per Genesi (xxv, 29) rossa era la minestra per la quale Esaù vendette i diritti di primogenitura. In Deuteronomio si dice che il territorio degli edomiti si estendeva dal monte Se’ir, attraverso la via araba (Wadi Araba), fino ad Eilat ed Ezión-geber o Aqaba (Dt, ii, 8). Nella Genesi troviamo una lista di otto sovrani edomiti, precedenti la monarchia israelitica (Gn, xxxvi, 31-43). Ma ciò che è più rilevante è che gli edomiti sono citati nelle iscrizioni assire come Udumi o Udumu; esse ci fanno conoscere i nomi di tre re dell’viii-vii secolo, due dei quali sono nomi teofori: Qaus-malaka, contemporaneo di Tiglat-Pileser III (745 aC.), Malik-rammu, del periodo di Sennacherib (705 a.C.) e Qaus-Gabri, vissuto al tempo di Assarhaddon (680 a.C.). I dati archeologici comunque confermano che Edom non è anteriore al x-ix secolo. Ciò rende difficilmente attendibile il racconto biblico di Numeri e di Giudici, per il quale gli edomiti sarebbero stati contemporanei dell’esodo (Nm, xx, 14-23; Jdc, xi, 17-18). (24) Cfr. in proposito W. G. Dever, Who Were the Early Israelites? cit., il quale ci informa che dagli scavi archeologici emerge che il regno di Edom non è anteriore al vii secolo.
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1.5. L’ambiente linguistico del Canaan Se in generale la comprensione di un testo è resa più agevole da un’accurata indagine sul contesto storico in cui esso si colloca e sul retroterra culturale che ne è il presupposto, per l’Antico Testamento, e in particolare per il Pentateuco, tale indagine preliminare va estesa innanzi tutto all’ambiente linguistico entro cui i testi furono composti e alla scrittura da essi utilizzata. E ciò non soltanto perché le lingue e i sistemi di scrittura furono i veicoli di più arcaiche tradizioni culturali, ma anche perché dalla loro storia e dalla loro diffusione si possono trarre utili indicazioni per la composizione di testi ritenuti così antichi. Nonostante la sua complessità di realtà multietnica e la circolazione di lingue e dialetti che spesso si contaminarono reciprocamente, il Canaan progressivamente si costituì come un’area culturale più o meno uniforme, caratterizzata da un avanzato sincretismo in materia di credenze religiose e da entità politico-statali che dominarono la regione e che nella loro organizzazione socio-economica trassero profitto dai rapporti con i più potenti imperi e regni confinanti. Ma fu anche nel contempo un vero e proprio arcipelago di lingue semitiche o, se si preferisce, di dialetti semitici molto affini tra loro e naturalmente diversificati sia per la diversità etnica dei parlanti sia per condizioni locali e per influenze culturali. Quattro furono in ogni caso le lingue semitiche che ebbero un decisivo impatto culturale su tutta l’area. La prima fu il protosinaitico che fu forse veicolo della cultura egiziana. La seconda fu l’ugaritico che fu certamente strumento di mediazione con le civiltà settentrionali anatoliche e orientali come quelle di Ebla e di Mari. La terza fu la lingua accadica in cui si trasmise l’immenso patrimonio letterario, giuridico e scientifico delle civiltà mesopotamiche. Infine il ruolo più decisivo non può non essere assegnato all’aramaico caldaico che si affiancò all’accadico e fu cinghia di trasmissione oltre che della cultura mesopotamico-babilonese anche di quella iranico-persiana. Per tutto il primo millennio a.C., che è l’epoca che ci interessa per meglio comprendere l’Antico Testamento, le lingue ancora vive sono l’accadico, che persiste fino al i secolo a.C., il caldeo-babilonese, trasformatosi ormai in tardo-babilonese, e l’aramaico, parlato durante il Nuovo Impero anche dagli Assiri (932-612 a.C.). La lingua elamitica si estingue intorno al iv secolo a.C. Il persiano antico, scritto in cuneiforme achemenide, si evolve intorno al v-iv secolo in persiano pahlavi, scritto in caratteri aramaici. Il sumero
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e le lingue degli hurriti, dei gutei e dei cassiti sono ormai estinte. Sopravvivono il fenico, il moabita, l’edomita, l’ammonita, l’arameo, l’assiro e il babilonese. L’ugaritico scompare nel xii secolo a.C., ma certamente trasmette il grande patrimonio letterario e religioso alla civiltà cananaica; l’aramaico diventa il veicolo della grande produzione religiosa sumerico-assiro-babilonese per un verso e persiana per l’altro. Infine il protosinaitico, che è di per sé un ponte tra il mondo fenicio e quello egizio, diventa il veicolo delle loro tradizioni culturali, le quali, penetrando nella terra del Canaan, si intrecciano con le altre tradizioni provenienti dal Nord e dall’Oriente. 1.6. La lingua ebraica In quale rapporto sta l’ebraico con le citate lingue semitiche, cui potrebbe aggiungersi, il fenicio? A lungo si è ritenuto che una delle prime testimonianze della lingua ebraica fosse rappresentata dal calendario di Gezer della fine del decimo secolo, tipico esempio di scriptio continua e di orthographia defectiva, priva cioè di spazi o segni per distanziare le parole e di matres lectionis per la segnalazione delle vocali. Ma in proposito le interpretazioni più recenti sono di segno opposto, poiché si è rilevato che non abbiamo alcuna certezza che il calendario di Gezer sia un documento ebraico; molto più verosimilmente fu per lingua e scrittura fenicio. Di contro le prime attestazioni della esistenza di una lingua ebraica, come l’iscrizione del tunnel di Silo, la stele di Tel Dan ( תל דןoggi Tel el-Qadi),(25) l’iscrizione di Sebnayahu e l’ostrakon di Tel Kassileh, sono successive e risalgono all’viii-vii secolo. La gran parte degli ostraka di Samaria, di Lachish e di Arad e un gran numero di sigilli e di bullae sono databili ai secoli viii-vi. La scrittura è in tutti i casi quella detta paleo-ebraica, che non è altro che una variante del fenicio,(26) la quale continuò ad essere utilizzata nel conio delle monete giudaiche fino al periodo asmoneo e a quello di Bar Kochba (135 d.C.). (25) L’iscrizione è stata pubblicata da A. Biran, J. Naveh, An Aramaic Stele Fragment from Tel Dan, «Israel Exploration Journal», xliii (1993), 81-98; Iidem, The Tel Dan Inscription. A New Fragment, «Israel Exploration Journal», xlv (1995), pp. 1-18; A. Lemaire, The Tel Dan Stela as a Piece of Royal Historiography, «Scandinavian Journal of the Old Testament», lxxxi, 1998, pp. 3-14. (26) Cfr. R. W. Suder, Hebrew Inscriptions: a Classified Bibliography, Selinsgrove, Susquehanna Univ. Press, 1984; G. Davies, Ancient Hebrew Inscriptions, Cambridge, University Press, 1991.
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Le ricerche archeologiche inducono a ritenere che la composizione dei testi biblici non può farsi risalire a prima della fine del settimo secolo. È infatti noto che, ad eccezione di pochi passi scritti in aramaico(27), che è una lingua semitica orientale, i libri protocanonici(28) dell’AT furono scritti in ebraico, lingua semitica occidentale, a differenza dei testi deuterocanonici(29) che invece furono scritti sia in ebraico che in greco. La datazione di tali libri ha subito negli ultimi decenni oscillazioni significative. Il Pentateuco, che la tradizione pretende scritto da Mosè tra il xvi e il xiii secolo, dopo gli studi di Wellhausen(30) e l’elaborazione della nota ipotesi documentale, ha conosciuto datazioni sempre più basse. Oggi la tendenza di una buona parte degli studiosi è quella di far ricadere la redazione dei testi biblici nel periodo esilico o post-esilico (cioè dal vi secolo in poi). Le ricerche filologiche più recenti sulla struttura morfo-sintattica del testo o sulla sua ortografia confermano sostanzialmente tali tardive datazioni. Un ostacolo pressoché insormontabile è dato dalla nostra imperfetta conoscenza delle strutture morfosintattiche più arcaiche della lingua ebraica, proprio perché di fatto anche i testi che un tempo erano considerati più antichi risultano invece molto più recenti. Se si dovesse supporre una composizione più antica rimaneggiata in una redazione più recente, il risultato non cambierebbe, perché in ogni caso la stratificazione linguistica apparterrebbe alla redazione successiva e più recente. Gesenius(31) indica nel Pentateuco taluni arcaicismi che potrebbero essere (27) L’aramaico biblico è in realtà un aramaico post-achemenide ed è presente nei seguenti luoghi: Gn, xxxi, 47; Jr, x, 11; Ezr, 4, 8 - 6, 18; 7, 12-26; Dn, 2, 4 - 7, 28. (28) Protocanonici sono, secondo i canoni del Concilio di Trento, i libri che sono stati riconosciuti come ispirati da Dio, senza alcuna contestazione. Essi coincidono con i 39 libri del canone ebraico inclusi nel Tanakh, le cui tre consonanti ת, נe ( כtnkh) in ebraico indicano rispettivamente i cinque libri della Torah (Pentateuco), i 21 dei Nevi’im (profeti), cioè i profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele) e i minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahun, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia) con l’aggiunta di Giosuè, Giudici, 1 e 2Samuele, 1 e 2Re) e i 13 dei Ketuvim o agiographica (Rut, Cronache, Ezra, Neemia, Ester, Giobbe, Salmi, Proverbi, Qohelet, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Daniele). (29) Sette libri (Tobia, Giuditta, 1 e 2Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc) del canone cattolico sono detti deuterocanonici perché, secondo il canone tridentino, sono stati riconosciuti come ispirati da Dio dopo lunghe discussioni. Non accolti nel canone ebraico, né in quello dei protestanti, essi furono scritti tutti in greco, sebbere del Siracide si siano trovati frammenti in ebraico nei rotoli del Mar Morto (2Q28Sir). (30) J. Wellhausen, Prolegomena zur Geschichte Israels, Berlin, Reimer, 1883 (tr. ingl.: Prolegomena to the History of Israel, Cambridge, University Press, 2013). (31) W. Gesenius, Hebrew grammar, transl. by Thomas Jefferson Conant, New York - Philadelphia, Appleton, 1846, pp. 22-28.
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indicativi di una lingua ebraica precedente l’esilio. Sarebbero tali il pronome personale האhe= egli) e il sostantivo ( נערna’ar = giovane uomo), usati entrambi come privi di genere e quindi indifferentemente con il significato di ‘lui’ e di ‘lei’, di ‘giovane uomo’ e di ‘giovane donna’. Di contro i libri scritti dopo l’esilio risentirebbero, secondo lo stesso autore,(32) di influenze aramaiche. Ora a prescindere dal fatto che gli arcaicismi potrebbero essere voluti, il dato che emerge con forza dall’analisi ortografica del testo è che tanto i libri più antichi (Pentateuco-Re), quanto quelli più recenti (Cronache – profeti minori – agiographica) risultano influenzati dall’aramaico; meno fortemente i primi, più invasivamente i secondi. Andersen e Forbes,(33) hanno analizzato la frequenza dell’orthographia defectiva (haser), più antica e priva delle matres lectionis e di quella plena (male’), più recente e con l’uso delle matres lectionis. Ne è risultato che l’influenza dell’aramaico è presente fin dai testi del Pentateuco, ed è altresì progressiva passando da questi agli scritti databili intorno al iii/ii secolo a.C. Più ellitticamente si può dire che l’ortographia defectiva in senso pieno, come la si rinviene nel calendario di Gezer, è del tutto assente. Vi è se mai una ortografia tendenzialmente defectiva nel Pentateuco, il cui testo scritto ( כתיִבketib) è accompagnato dal testo letto ( קריqere) nelle annotazioni rabbiniche di epoca posteriore, fino a diventare ortografia plena negli scritti più tardi. Nei testi qumranici prevale ovviamente la plena. La puntuazione introdotta nei testi masoretici, sia manoscritti sia stampati, determina variazioni ortografiche che talvolta incidono sui tempi verbali. Tutto ciò potrebbe indurci a supporre un passaggio dallo stile ortografico fenicio a quello aramaico, ma il problema è che noi conosciamo la lingua ebraica, come si presenta nel testo biblico, già nella forma dello stile ortografico aramaico. E tutto ciò vale indipendentemente dall’uso della scrittura quadrata (ketab merubba’), che è di marca più accentuatamente aramaica. Insomma fin dalla fine dell’età del Bronzo (c. 1200) l’alfabeto fenicio, composto di 22 lettere, è puramente consonantico e la sua orthographia è defectiva. Nell’età del ferro l’aramaico utilizza l’alfabeto fenicio, ma usa tre consonanti (he, waw e yod) come matres lectionis (la seconda e la terza rispettivamente per ‘u’ e ‘i’ e la prima per le altre vocali). Esemplare in proposito l’iscrizione bilingue (assiro-aramaica) di Tell Fekheriye (ix sec.), la quale mostra nella parte aramai(32) W. Gesenius, Geschichte der hebräischen Sprache und Schrift, Leipzig, Vogel, 1815, pp. 21-30. (33) F. I. Andersen - A. Dean Forbes, Spelling in the Hebrew Bible, Rome, Biblical Institute Press, 1986.
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ca l’uso delle tre consonanti-vocali. Lo stesso accade per l’ebraico che in seguito riprenderà dall’aramaico l’uso di una quarta consonante, aleph, come mater lectionis. Il testo biblico appartiene allo stadio in cui si è già prodotto lo spostamento dallo stile fenicio a quello aramaico. Esso pertanto non può collocarsi se non nel periodo esilico o post-esilico (vi-v secolo) per i testi più antichi e nel iv-ii secolo per quelli più recenti, in cui prevale nettamente l’orthographia plena. In ogni caso l’AT non fa menzione della lingua ebraica. La profezia di Isaia (xix, 18) contro l’Egitto si limita a predire che nella terra d’Egitto, presumibilmente nel Delta orientale, ci saranno cinque città «parlanti la lingua di Canaan». Se la profezia nasce dal ricordo di un lontano passato, è probabile che Isaia alluda ad una lingua cananaica, precedente la comparsa dell’ebraico. Dal 2Re sappiamo(34) che sotto il regno di Ezechia (715-686), durante l’assedio di Lachish da parte di Sennacherib, Elyāqîm, figlio di Hilqîyāhū, avrebbe chiesto al coppiere del re assiro di parlare in aramaico (ארמית ‘ărāmît) e non in giudaico per evitare di essere inteso dalla gente che era sulle mura. In xviii, 28 e Is, xxxvi, 13, si conferma che il gran coppiere parlò in giudaico ( יהודיתyehūdît). Il Libro di Neemia, xiii, 24, ci fa sapere che a causa dei matrimoni misti la metà dei giudei parlava la lingua ashdodita (אשדודית ‘ašdōdît) e non era più in grado di comprendere il giudaico (yehūdît). Giuseppe Flavio, nelle Antiquitates,(35) tentando di suggerire il significato etimologico del nome ‘Adamo’, spiega che nella ‘lingua degli ebrei’ (κατὰ γλῶτταν τὴν Ἑβραίων) esso significa ‘rosso’. È possibile che tali fonti non siano in disaccordo se si suppone che l’AT fu scritto in giudaico, che, nato come variante del cananaico, si affermò col tempo come lingua ebraica, distinta dal samaritano. Naturalmente è appena il caso di sottolineare che la ricostruzione della Genesi, che fa dell’ebraico la lingua originaria dell’umanità, è priva di senso dal punto di vista storico e non è che un mito assai frequente nelle popolazioni arcaiche mesopotamiche o più in generale afro-asiatiche. Per la Genesi l’ebraico è la lingua parlata da Dio ed è quella in cui le cose hanno ricevuto la loro denominazione naturale ed assoluta. Probabilmente si tratta del mito con cui ciascuna delle popolazioni antiche si presentava come popolo primogenito dell’umanità quasi a voler rivendicare per sé i diritti di primogenitura a garanzia di un rapporto privilegiato con la divinità e di una rela(34) 2Re, xviii, 26 e in Is, xxxvi, 11. (35) Giuseppe Flavio, Ant., i, 34.
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zione di predominio sugli altri popoli. In realtà la pretesa di Israele di risalire alle origini dell’umanità è priva di ogni fondamento. Per quanto ci è dato di sapere e per quanto emerge dai dati archeologici lo stesso concetto di ‘antico Israele’ non è che un mito privo di reale consistenza storica, così da mettere seriamente in crisi tutta la storia patriarcale, che storici credenti pretendono di datare a partire dal xviii secolo a.C.(36) Il vocabolario usato nei protocanonici conta circa 10.000 parole ebraiche, di cui solo 490 compaiono come hapax legoumena, e 648 parole aramaiche, di cui 236 hapax. Le difficoltà ermeneutiche del testo biblico dipendono da un lato dalla nostra imperfetta conoscenza della lingua ebraica e, dall’altro, dalle imperfezioni e imprecisioni proprie della stessa. L’ebraico è una lingua morta nel iv secolo a.C.; gli antichi ebrei, come sottolinea Spinoza,(37) non ci hanno trasmesso né un dizionario, né una grammatica, né una retorica. Il significato di molti nomi e di molti verbi che ricorrono nella Bibbia o si ignora del tutto o è oggetto di discussione. Non conosciamo né la fraseologia, né le locuzioni della lingua ebraica. I primi rudimenti di una grammatica ebraica risalgono a Saadia Gaon nel ix d.C. a circa 13 secoli di distanza dalla scomparsa della lingua. Nel 538 a.C., a seguito della conquista persiana, l’ebraico fu sostituito dall’aramaico: nell’arco di poche decine di anni e quindi presumibilmente nel corso del v secolo esso non fu più una lingua popolare o parlata, ma una lingua nota ad una sempre più ristretta cerchia di dotti. L’uso della scrittura quadrata (ketab merubba’) si affermò durante l’esilio babilonese (vi secolo) e sostituì quello della scrittura arrotondata che oggi è detta paleo-ebraica, perché è la scrittura che gli ebrei adottarono nella terra di Canaan ad imitazione di quella fenicia. La scrittura quadrata di origine aramaica sembra a sua volta dipendere dalla cuneiforme sumero-accadico-assiro-babilonese, ma restano in piedi talune difficoltà, come quella segnalata dai Sabbah,(38) i quali hanno evidenziato in modo piuttosto convincente la dipendenza dell’alfabeto ebraico dai geroglifici egizi. Dopo i tentativi di Solomon Jarco, di Aben Ezra (1092-1167) e dei fratelli David (1160-1235) e Moses Kimhi (1127-1190), una prima ricostru(36) Ph. R. Davies, In Search of Ancietn Israel, Sheffield, JSot, 1992, nega l’esistenza di un antico o biblico Israele e ritiene che la narrazione veterotestamentaria sia solo una costruzione intellettuale, artatamente retrodatata sulla base dell’immagine che gli autori si erano fatta del loro passato. (37) B. de Spinoza, Tractatus Theologico-Politicus, cap. vii. (38) M. Sabbah, R. Sabbah, Les Secrets de l’Exode. L’origine égyptienne des Hébreux, Paris, Godefroy, 2000, pp. 23-27.
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zione della grammatica fu compiuta nel 1525 da Elias Levita (1469-1549), il quale nel 1541 si fece carico anche della stampa del primo Lexicon Hebraicum.(39) A costoro seguirono Abramo de Balmes (1440-1523), Johann Buxtorf (1564-1629), Johann Drusius (1550-1616), Salomon Glass (15931656),(40) fino a Spinoza e infine al Gesenius.(41) Spinoza, che come è noto era un olandese di origine ebraica, condusse un’accurata indagine sulla struttura e sulla natura della lingua ebraica per segnalarne le ambiguità, le imperfezioni e le incertezze. La prima fonte di ambiguità e di oscurità della lingua è da lui individuata nella interfungibilità delle consonanti afferenti allo stesso organo vocale: ciò significa che sono sostituibili l’una all’altra le gutturali, così come le palatali, le dentali, le labiali, le linguali. Tali sostituzioni incidono sul significato delle parole: l’esempio addotto da Spinoza si riferisce alle gutturali aleph ()א, cheth ()ח, ayin ()ע, he ( ;)הsicché la parola el (aleph con seghol sottoscritto + lamed) che significa ‘verso’ viene spesso usata in luogo di ‘al (ayin con pattach sottoscritto + lamed), che significa ‘sopra’, ma anche ‘contro’. Una seconda fonte di ambiguità deriva dalla natura polisemantica delle congiunzioni e degli avverbi ebraici. Spinoza fa l’esempio del waw, che ha la funzione di congiungere e di disgiungere; cioè può significare ‘e’, ma anche ‘ma’, ‘perché’, ‘però’, ‘allora’; la congiunzione ki (col cheth daghesciato e con il chireg breve) può significare ‘perché’, ‘benché’, ‘quando’, ‘se’, ‘che’, ecc. Lo stesso si dica di quasi tutte le particelle. Una terza fonte di ambiguità è dovuta alla insufficienza delle forme verbali, che non indicano i tempi dell’azione ma semplicemente la sua modalità di completezza o incompletezza. Le regole attraverso cui si cerca di suppli(39) E. Levita, Lexicon Hebraicum utilissimum sexcentorum vocabulorum copia vel etiam ultra instructum, quorum quaedam hebraica, nonnulla chaldaica, pleraque etiam arabica et graeca sunt, passim tum in Bibliis tum rabbinorum scriptis obvia, hactenus a nemine explicata, Basileae, Soter, 1557. (40) J. Buxtorf, De linguae hebraicae origine et antiquitate, Basileae, König & Decker, 1644; Id., Epitome grammaticae hebreae, Lugduni Batavorum, Luchtmans, 1701; Id., Thesaurus grammaticae linguae sanctae hebreae, Basileae, Decker, 1663; J. Drusius, Decas exercitationum philologicarum de vera pronuntiatione nominis Jehova, Trajecti ad Rhenum, Coster, 1707; S. Glass, Phylologiae sacrae qua totius sacrosanctae Veteris et Novi Testamenti scripturae tum stylus et literatura, tum sensus et genuinae interpretationis ratio expenditur, Francofurti et Hamburgi, Hertel, 1653. (41) Spinoza, Compendio di grammatica della lingua ebraica, in Tutte le opere, a cura di Andrea Sangiacomo, Milano, Bompiani, 2010, pp. 2289-2480; W. Gesenius, Hebrew Grammar, cit.
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re a tali insufficienze sono in realtà tardive e ignote agli antichi scrittori. Una quarta fonte di ambiguità è data dal fatto che l’antica scrittura ebraica ricorre alla scriptio continua in cui le parole non sono separate l’una dall’altra e per giunta non sono separate dai più elementari segni di interpunzione. Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che mancano i segni vocalici. L’assenza di vocali è in parte sopperita dalle matres lectionis per cui consonanti come yod ()י, waw ()ו, he ()ה, ayn ( )עsegnalano la presenza di vocali. La puntuazione masoretica che introdusse segni diacritici per l’indicazione delle vocali è tardiva ed è stata studiata e applicata a partire dal x secolo d.C. dalla scuola di Ben-Asher (palestinese) e successivamente da quella di Ben Neftali (babilonese). In entrambi i casi i sistemi di puntuazione sono stati costruiti sulla base della pronuncia che le lingue semitiche più vicine all’ebraico avevano in età assai tarda. Senza dire che la stessa puntuazione masoretica è sovrabbondante e non esente da possibili confusioni. Benché non compaiano nella scrittura, le vocali sono decisive ai fini della individuazione della parola e quindi del significato. Se si tiene conto che nelle parole mancano le vocali il dominio semantico di ciascun gruppo consonantico risulta troppo ampio. Un esempio ci è dato dal Gesenius, il quale fa notare che il gruppo קטל può leggersi qatal, qatel, qatol, q’tul, qotel, qittel, qattel, quttal. Ciò significa che ogni parola ebraica, se priva di puntuazione vocalica, presenta un ampio spettro di possibili significati. Si può facilmente immaginare quanto sarebbe insidioso e minato il terreno della lettura e decrittazione del testo biblico se non avessimo una versione ormai prevalente o predominante fondata sulla tradizione. Va tuttavia precisato che la stessa tradizione presenta oscillazioni di non poco conto e che in proposito non poche, e talvolta notevoli, sono le discrepanze tra la tradizione ebraico-rabbinica e quella dei Settanta, prevalsa in ambito cristiano. Né l’una né l’altra possono avanzare pretese di fondata autorialità o di priorità temporale. L’una e l’altra sono il frutto di ambienti culturali diversi: giudaico-palestinese la prima, samaritano-egiziana la seconda. L’una influenzata dall’attività intellettuale e didattica delle scuole rabbiniche; l’altra frutto della interpretazione di comunità di ebrei egizi di Alessandria, in cui probabilmente prevaleva una forte componente samaritana. In ambito rabbinico si è tentato di retrodatare al massimo il sistema della puntuazione, in modo da stabilire una linea di continuità del testo che ci è stato trasmesso, facendo valere il principio della ‘inerranza’ della Bibbia. Il Medioevo lo faceva risalire ad Ezra e alla Grande Sinagoga. Elias Levita ipotizzò che esso fosse già in uso nella scuola di Tiberiade intorno al
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vi secolo d.C. Resta però il fatto che la Septuaginta presenta maggiori affinità con il cosiddetto Pentateuco samaritano anziché con quello giudaico. Ed è questa la ragione per cui il testo della Septuaginta fu respinto dai giudei, che tentarono, con Aquila in particolare, ma anche con Simmaco e Teodozione, di fornire in greco una versione più aderente al testo ebraico. Un’ulteriore fonte di ambiguità, segnalata da Spinoza, è data dalla impossibilità di conoscere tutte le vicende dei libri sacri, cosa che ci è impedita dal fatto che ignoriamo chi ne siano gli autori. Secondo il filosofo olandese la Scrittura fu opera di autori provenienti da diversi dialetti (diverse tribù), i quali ormai non si distinguono più nel testo biblico. Non è improbabile che il grande filosofo abbia ragione su questo punto. A me pare tuttavia che tutti i testi protocanonici siano opera prevalentemente giudaita, per cui mi sembra che il nucleo centrale della lingua sia quello giudaico (ciò spiegherebbe tra l’altro la sostanziale identità che i testi biblici presuppongono tra ebraico e giudaico), senza tuttavia escludere che in questo alveo fondamentale abbiano potuto affluire apporti di altri dialetti semitici. Infine la sintassi ebraica è prevalentemente paratattica e ricorre assai raramente alla ipotassi. Ciò spiega tra l’altro il frequentissimo ricorso al discorso diretto più che al discorso indiretto. I numerosissimi discorsi messi in bocca alla divinità più che essere presi come reali discorsi divini sono innanzi tutto riconducibili ad una caratteristica tipologia della sintassi ebraica. Il passaggio dalla prima alla terza persona deve essere visto come una caratteristica della retorica ebraica, la quale privilegiava evidentemente il discorso diretto, per la sua maggiore efficacia oratoria e per la sua più forte presa sul lettore. Viene in mente quell’ebreo che ogni volta che nel testo biblico leggeva le parole dettate da Yhwh, si stracciava le vesti (espressione tipica della lingua ebraica) ed esplodeva in lacrime per la commozione che provava sapendo che Yhwh si era abbassato al livello del linguaggio umano. Quello che conta per l’ebreo antico è la parola e il suo effetto carismatico. Gli ebrei antichi erano privi di una cultura filosofica e per ciò stesso la loro teologia, checché ne dicano i teologi nostrani, è povera, ridotta all’essenziale, priva quasi assolutamente di analisi critica. La distanza dai greci è incolmabile almeno fino al iv secolo, allorché gli stessi ebrei, pur in un rapporto conflittuale, cominciano a subire l’influenza dell’ellenismo dilagante. Non a caso i testi prodotti tra il iv e il i secolo a.C. sono rivelatori di una maggiore vivacità intellettuale e di un progressivo distacco dalle concezioni più ingenue della tradizione giudaita. Naturalmente non tutto avvenne
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in modo pacifico: i contrasti tra i tradizionalisti e gli ellenizzati furono forse più aspri di quanto ci appaiano e in ogni caso il formalismo legalistico – che escludeva per ciò stesso un’indagine filosofica sui principi della tradizione – appariva alle sette più intransigenti, come quella dei farisei, una solida rocca entro cui asserragliarsi e rifugiarsi al riparo da ogni temibile e temuta novità. Proprio per questo la ricerca veniva a coincidere non con l’esplorazione di nuove prospettive, ma con un puro lavoro di parole sulle parole ricevute, una pura ermeneutica – o forse ad un livello ancora più elementare – una pura esegesi del testo. D’altro canto il testo stesso, in quanto afferente ad una lingua morta, diventava pressoché immodificabile e suscettibile solo di una esplicazione didattica e/o dottrinale, quali furono appunto i metodi ermeneutici di lettura e di commento, dal midrash al pesher. 1.7. Ebrei: è un nome esonimo? Il nome ‘ebrei’ è certamente esonimo, poiché, se deriva da ( עברibr) che significa ‘che sta/passa oltre’, nel senso ‘che è oltre il fiume’, non può essere altro che il nome con cui Israele era chiamato dagli stranieri. Più fragile la derivazione proposta da taluni genealogisti, i quali pretendono di farlo dipendere da Eber, figlio di Sela, che, a sua volta, era figlio di Arpacsad, figlio di Sem. Se così fosse il nome ‘ebreo’ sarebbe endonimo; ma in tal caso non si spiegherebbe la sua rara comparsa nel testo biblico. D’altro canto il termine ‘ebreo’ compare per lo più nel romanzo di Giuseppe, il cui redattore, nel farne uso, sembra porsi nell’ottica degli egiziani. Infatti nella Genesi, in cui Giuseppe ricorda di essere stato portato via dalla terra degli Ebrei ( םארץ העבריםmê’eres hā’ibrîm) e in cui ci vien detto che per gli egiziani era abominio sedere a mensa con gli ebrei (‘ עבריםibrîm, Gn, xl, 15; xliii, 32), il punto di vista adottato dal redattore sembra essere quello degli egiziani. Nello stesso romanzo il termine ‘ebreo’ compare ancora tre volte,(42) ove Giuseppe è indicato come ‘ebreo’ da parte di egiziani: nei primi due casi dalla moglie di Potifar e nel terzo dal gran coppiere del faraone.(43) (42) Gn, xxxix, 14, 17; xli, 12. (43) In merito alle diverse ipotesi circa l’identificazione del Faraone cui si fa riferimento nel romanzo di Giuseppe, v. J. R. Battenfield, A Consideration of the Identity of the Pharaoh of Genesis 47, «Journal of the Evangelical Theological Society», xv, 1972, pp. 77-85. Ma forse è più ragionevole rinunciare ad ogni possibile tentativo di identificazione
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E tuttavia tutte le citazioni fatte nella storia romanzata di Giuseppe sono anacronistiche, perché il nome ‘ebrei’ non era ancora in uso al tempo del soggiorno egiziano, se è vero che la stele di Merenptah li indica come Israeliti. Il nome ‘israeliti’ (più correttamente: ‘figli di Israele’) è invece patronimico e endonimo: è il nome, di uso frequente nel testo biblico, con cui gli ebrei nominano se stessi. Geremia, che ha come costante punto di riferimento i giudei ( יהודיםyehūdîm),(44) con una chiara allusione al Deuteronomio («un tuo fratello, un ebreo o un’ebrea» ‘ אהף העברי או העברי חahîkā hā’ibrî ‘ōw hā’ibrîyāh, Dt, xv, 12), usa rispettivamente l’espressione bîhūdî ‘āhîhū (fratello giudeo) e ‘āhîmhā ‘ibrî (fratello ebreo) come equivalenti così da far pensare che, dopo l’esilio, la denominazione ‘ebreo’ fosse stata estesa a tutto il popolo di Giuda. 1.8. Le origini della scrittura alfabetica Nel Canaan si verificò presumibilmente il passaggio dalla scrittura geroglifica o da quella cuneiforme alla scrittura protosinaitica (che forse coincide con quella protocananaica) o a quella fenicia, a lungo ritenuta la madre di tutti gli alfabeti moderni. Dopo la scoperta della biblioteca di Ugarit siamo ormai pervenuti a conclusioni diverse, perché si è potuto accertare che la lingua ugaritica, di origine semitica, utilizzava già trecento anni prima del xii secolo una scrittura alfabetica, composta di trenta lettere, ricavata per semplificazione dei logogrammi cuneiformi; tra l’altro è assai probabile che l’alfabeto ugaritico derivi a sua volta da una scrittura alfabetica protocananaica. Checché ne dica la Genesi, le origini della lingua e della scrittura ebraiche non possono farsi risalire molto indietro nel tempo. Numerose incertezze sono presenti negli studiosi che fanno derivare la scrittura ebraica ora dal fenicio ora dall’ugaritico o dal protosinaitico. In realtà la prima forma di scrittura ebraica fu quella fenicia, caratterizzata da 22 segni fonetici, dalla scriptio continua e dalla orthographia defectiva. La mediazione tra le due scritture fu forse esercitata dagli Aramei, i quali, sebbene non riuscissero a costituire uno Stato autonomo o ad esercitare un dominio politico-statale, diffusero l’aramaico su gran parte della zona costiera, sulla Siria e sulla Turchia, fino ad Ur. La loro lingua era intesa in tutta la terdal momento che siamo di fronte ad un racconto privo di valore storico. (44) Jr, xxxii, 12; xxxviii, 19; xl, 11; xliii, 9; xxxiv, 9, 14.
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ra del Canaan e nell’area persiana. Nella regione assiro-babilonese essa sostituì progressivamente l’accadico come lingua franca e finì con l’ereditare l’immenso patrimonio letterario della cultura sumerico-assiro-babilonese. In questo senso l’aramaico esercitò una funzione storica di primissimo piano nella conservazione e trasmissione delle tradizioni culturali più antiche, fece da cerniera tra la cultura dei popoli mesopotamici settentrionali ed orientali e la cultura cananaica. Gli Aramei utilizzarono fin dal x-ix secolo la scrittura fenicia applicandola alla loro lingua. Ne sono esempi l’iscrizione di Zakur, re di Hamat (ix-viii secolo), primo re degli Aramei, quelle di Bar-Hadad (ix secolo), re di Sam’al, e di Bar Rakib (seconda metà dell’viii secolo), re di Sam’al e figlio di Panamuwa (viii secolo): tutte in alfabeto fenicio e in lingua aramaica. I fenici comparvero sul versante occidentale forse in concomitanza con le periodiche invasioni dei cosiddetti popoli del mare, Libu o libici, Akawaša, cioè gli Achei, Turša, identificabili forse con i Tirreni o Etruschi; Šardana ovvero i Sardi, Lukka o Lici, Šekleš o Sicani, tutti di origine indoeuropea. I popoli del mare invasero ad ondate successive la regione costiera e l’alto Egitto, spesso devastando città fiorenti. Essi produssero un vero e proprio collasso dell’età del Bronzo, soprattutto con l’invasione dorica (probabilmente i Danuna o Denyen, verosimilmente i Danai), che provocò il crollo della civiltà micenea e hittita. Ai popoli del mare apparterrebbero anche i Filistei, identificabili con i Peleset, forse di stirpe indoeuropea, i quali occuparono intorno al 1175 la fascia costiera di Gaza, sottraendola ai cananei, dei quali finirono con l’assimilare la lingua semitica. I fenici, la cui presenza sulla fascia costiera del Canaan, è attestata, almeno per Byblos, dagli inizi del secondo millennio, furono invece di stirpe semitica, si stanziarono sulla fascia costiera fra Giaffa e Ugarit, consolidarono il loro dominio atomistico costituito da potenti città-stato come Sidone e Tiro, intorno al 1200 a.C., e lo conservarono, tra alti e bassi, fino alla conquista macedone. La loro lingua, almeno per gli stadi più arcaici sembra confondersi con quella cananaica. Non sappiamo in quale rapporto possa essere la loro scrittura con quella ugaritica, che è il primo esempio di scrittura fonetica, ma è indubbio che il loro alfabeto, almeno sul piano grafico, presenta maggiori affinità con il protocananaico e con il protosinaitico. Abbiamo un certo numero di documenti protofenici, come le punte di frecce trovate nella valle della Beqā’ (xi secolo), il cono di Byblos (xii secolo), l’iscrizione di Cipro (ix secolo), il frammento di Abdo (xii secolo), le iscrizioni di Ahiram (ix secolo),
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di Elib’al, di Shiftiba’al (x secolo), di Yehimilk (xii secolo), di Kilamuwa (ix secolo), le quali sembrano appartenere al ramo cananaico del gruppo semitico occidentale. Conosciamo assai poco e assai male il protofenicio, la cui scrittura è di tipo alfabetico consonantico detta abjad, ma conosciamo ancor meno il protocananaico, con il quale il protofenicio sembra confondersi. Anche per il protocananaico abbiamo un gruppo di punte di frecce, trovate a El-Jadr, presso Belen (xii secolo), cui si aggiungono documenti più antichi come le iscrizioni di Gezer e di Sichem del xviii secolo, il pugnale di Lachish (xiv secolo), l’ostrakon di Bet-šemeš (xv secolo), l’iscrizione di Izbet Sartah (xiii secolo), ma sono tutti testi di difficile ed incerta interpretazione. Ciò che si può dire è che siamo di fronte ad un evidente stadio della scrittura che da caratteri più arcaici, protofenici o protocananaici, posto che si possano distinguere gli uni dagli altri, tende a svilupparsi nella scrittura fenicia vera e propria. Non meno problematico è il rapporto tra il protocananaico e il protosinaitico. Sfortunatamente la decrittazione di queste ultime scritture è ancora ben lontana dal fornire risultati sicuri e definitivi. Il numero limitato di caratteri con cui il protosinaitico si presenta nelle iscrizioni a noi pervenute fa pensare ad una scrittura fonetica, ma non è escluso che al fonetismo possano essere associati segni di natura logosillabica. Si suppone che essa denoti una lingua semitica e naturalmente non mancano studiosi che si spingono fino a farne una sorta di proto ebraico.(45) La realtà è che vaghiamo ancora nel buio e che le diverse ipotesi si sovrappongono, dandoci solo la certezza di non avere raggiunto risultati condivisibili e incontrovertibili. Soprattutto non riusciamo a stabilire in maniera inequivocabile il grado di parentela della scrittura protosinaitica o protocananaica con quella egiziano-geroglifica o ieratica da una parte e con quella protofenicia dall’altra. Le iscrizioni protosinaitiche più antiche provengono da Wadi Maghara e da Serabit el-Khadem sulla costa occidentale del Mar Rosso. Le prime risalgono ai faraoni che vanno dalla prima (Semerkhet) alla quarta dinastia (Cheope-Khufu, 2551-2528) per un arco di tempo che si estende dal 2950 al 2530 e sono tutte in caratteri egiziani. Le seconde, invece, sono protosinaitiche e attestano che i lavori nelle miniere di rame e di turchese (in egizia(45) W. M. F. Petrie, Researches in Sinai, London, Murray, 1906; W. F. Albright, The Proto-sinaitic Inscriptions and their Decipherment, Cambridge, University Press, 1966; Id., Recent Progress in North Canaanite Research, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», lxx, 1938, p. 21.
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no mafek, ragion per cui il Sinai era in esse designato con il nome Mafkait, cioè «terra del turchese») furono ripresi nel periodo della xii dinastia (19851795) e, dopo la parentesi dei faraoni Hyksos, furono incrementati sotto la xviii e xix dinastia da Thutmosis III (1479-1425) a Ramses II (1279-1212) (cioè tra gli anni 1479 e 1213 del Nuovo Regno). In esse, come ha rilevato Leibovitch,(46) si fa menzione dei Maziu, una tribù non ebraica,(47) ma africana, che fu in costante contatto con l’Egitto e fu spesso utilizzata per i lavori nelle miniere sinaitiche. I Maziu, secondo Leibovitch,(48) erano originari di Punt, nella terra di Kush (Etiopia) e praticavano nel Sinai il culto della dea Hathor e del dio Tahuti (ovvero il dio Thot ricordato dai greci come il mitico inventore della scrittura). Essi potrebbero identificarsi con i midianiti o madianiti, abitanti la terra di Madian (ebr. Midyān) oppure potrebbero esserne gli antenati, se si tiene conto del fatto che ‘u’ è il suffisso plurale egizio corrispondente ad ‘an’ nella lingua protoaraba e che il gruppo dj = z può facilmente degenerare per dissimilazione in d. In ogni caso il protosinaitico, che è composto tra i 24 e i 31 caratteri, presenta somiglianze grafiche con gli alfabeti più arcaici e, secondo Leibovitch,(49) sembra essere derivato da un prototipo egiziano geroglifico e non ieratico, come suppongono Grimme e Zoller,(50) i quali nella costruzione della loro ipotesi prescindono dal valore fonetico dei prototipi ieratici. Per di più il Leibovitch ritiene che sotto il profilo grafico la scrittura protosinaitica presenti somiglianze poco significative con la scrittura fenicia e dubita altresì che le iscrizioni rinvenute a Wadi Maghara, a Serabit el-Khadem, a Gezer, a Tell el-Hesi e a Midyān, possano considerarsi redatte in una lingua semi(46) J. Leibovitch, Les inscriptions protosinaïtiques, Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale, 1934; W. M. F. Petrie, Researches in Sinai, cit.; A. H. Gardiner, The Inscriptions of Sinai, «The Egypt Exploration Fund», London, Oxfort University Press, part. i, 1917; Id., The Sinai Script and the Origin of the Alphabet, «Palestine Exploration Quarterly», lxi, 1929, pp. 48-55; W. F. Albright, A Neglected Hebrew Inscription of the Thrteenth Century BC, «Archiv für Orientforschung», v, 1929, pp. 150-152; R. Weil, Recueil des inscriptions égyptiennes du Sinai, Paris, Société Nouvelle de Librairie et d’Édition, 1904; W. F. Albright, The Proto-sinaitic Inscriptions, cit. (47) Tale è l’opinione di F.-J. Chabas, Mélanges égyptologiques, iii ser., t. i, Paris, Maisonneune, 1873, pp. 121-125. (48) J. Leibovitch, Les inscriptions protosinaïtiques, cit. (49) Ivi, p. 27. (50) H. Grimme, Die altsinaitischen Buchstaben-Inschriften auf Grund einer Untersuchung der Originale, Berlin, Reuter & Reichard, 1909, pp. 17-18; I. Zoller, Studi sull’alfabeto, «Rivista di Antropologia», xxviii, 1928-1929, p. 6.
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tica. Di contro Lenormant e Rougé, pur riferendosi a documenti a noi più vicini, come la stele di Mesha (ix secolo)(51) e il sarcofago di Eshmunazar II (v secolo), stimano il protosinaitico una lingua semitica che avrebbe avuto come prototipo l’egiziano ieratico.(52) Ulteriori progressi si sono avuti con le ricerche di Darnell e Dobbs Allsopp,(53) ma non siamo ancora in grado di stabilire se il protosinaitico rappresentò l’anello di congiunzione tra l’egiziano e il protofenicio. In linea di massima si può dire che il protosinaitico e il protocananaico presentano affinità grafiche tali da far supporre che si tratti di un’unica lingua o tutt’al più di due lingue di origine comune. Si dà ormai per certo che il valore fonetico di almeno una quindicina di caratteri sia stato individuato. L’orientamento metodologico con cui procedono gli studi del protosinaitico è quello di presupporre un fenomeno di alloglottografia, cioè della utilizzazione della scrittura di una lingua (es. i geroglifici egizi) a servizio di un’altra lingua (es. semitica). È cioè probabile che al pittogramma egiziano sia stato dato il nome semitico, modificandone così il valore fonetico. Ne è un esempio il geroglifico = n che in egiziano significa ‘acqua’, il quale, assumendo – secondo il principio acrofonico – il nome semitico mayumma (acqua), acquista il valore fonetico m. Un buon numero di iscrizioni cananaiche ci sono pervenute in documenti cuneiformi accadici che datano dall’inizio del xiv secolo. La gran parte di questi documenti che ammontano a circa 400 sono stati rinvenuti a Tell el-‛Amārnah e rappresentano la corrispondenza dei faraoni egiziani con i regni vicino-orientali. L’accadico di queste lettere è probabilmente una ‘lingua di scuola’, elaborata dagli scribi e perciò detta dagli studiosi ‘codice scribale’.(54) Si tratta di un linguaggio ibrido non facilmente compren(51) Trovata a Dhiban, ovvero la biblica Dibon, capitale dei moabiti; su di essa cfr. K. A. D. Smelik, Converting the Past. Studies in Ancient Israelite and Moabite Historiography, Leiden, 1992, pp. 59-95; N. Na’aman, King Mesha and the Foudation of the Moabite Monarchy, «Israel Exploration Journal», xlvii, 1997, pp.83-92. (52) Ch. Lenormant, Cours d’histoire professé à la Faculté des Lettres, Paris, Angé, 1837; E. de Rougé, Mémoires sur l’origine égyptienne de l’alphabet phoenicien, Paris, 1874. L’ipotesi è stata ripresa da A. H. Gardiner, The Egyptian Origin of the Semitic Alphabet, «The Journal of Egyptian Archaeology», iii, 1916, pp. 1-16, il quale ha suggerito la lettura di Baalat nell’iscrizione 369, studiata da Leibovitch. (53) J. C. Darnell-F. W. Dobbs-Allsopp, Two Early Alphabetic Inscriptions from the Wadi el-Hol: New Evidence for the Origin of the Alphabet from the Western Desert of Egypt, «The Annual of the American Schools of Oriental Research», lix, 2005, pp. 63-124. (54) Sulla classe scribale è essenziale il saggio di Ph. R. Davies, Scribes and Schools: the
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sibile da parte di chi parlava la lingua semitica locale e accessibile solo a chi aveva dimestichezza con la lingua accadica. Il sistema di scrittura adottato a Tell el-‛Amārnah non si può ancora dire fonetico, poiché assegna ai singoli segni molteplici valori. La documentazione delle lingue cananaiche non è data solo dall’accadico amarniano, ma, come si è detto, anche dalle iscrizioni protocananaiche e protosinaitiche.(55) E tuttavia anche su questo terreno le oscillazioni interpretative non mancano. Così per esempio il testo della iscrizione di Izbet Sartah non sembra essere stato redatto in una lingua semitica, nonostante l’uso della scrittura fenicia. Di contro l’iscrizione della brocca di Lachish sembra appartenere ad una lingua semitico-occidentale. Purtroppo si tratta di iscrizioni prive di matres lectionis e ciò complica notevolmente il processo di decifrazione. Pur essendo lontani dalla soluzione del problema, l’iscrizione della brocca di Lachish fa supporre che la lingua cananaica sia stata una lingua semitica molto affine al fenicio e all’ugaritico e che sia stata la probabile matrice della più tarda lingua ebraica. D’altro canto l’influenza della cultura egiziana nella terra di Canaan è stata certamente favorita dalla presenza di gruppi semitici in Egitto e dal fatto che lo stesso egiziano era una lingua afro-asiatica con innesti berberi e semitici. A sud della Terra Nera il regno di Kush (Etiopia), spesso menzionato nella Bibbia, è di matrice semitica e, per altro verso, la presenza di popolazioni semitiche, e nel primo millennio anche ebraiche, è ampiamente attestata soprattutto nell’isola di Elefantina, come risulta dalle numerose iscrizioni aramaiche ivi rinvenute. Gli stessi Hyksos (Hyksos è forma grecizzata dell’egiziano Hykau khasut, ovvero ‘sovrani di un paese straniero’), che governano l’Egitto nel Secondo Periodo Intermedio dal 1650 al 1550, sono di lingua semitica. Accanto all’etnia egizia la Terra Nera era abitata dai berberi (cioè gli Imazighen) una popolazione autoctona del Nordafrica che parlava una lingua, il tamazight, affine al semitico: di origini berbere erano anche i libici e i mashuash, per lo più nomadi che si spostavano nell’area del deserto libico. Un vero e proprio enigma resta ancora oggi la presenza degli Shasu, di cui abbiamo notizia per tutto il Terzo Periodo Intermedio (1550-750 Canonization of the Hebrew Scripture, London, Spck, 1998. (55) Studi sul protocanaaico sono stati condotti da D. Sivan, Grammatical Analysis and Glossary of the Northwest Semitic Vocables in Akkadian Texts of the 15th - 13th C.B.C. from Canaan and Syria, Kevelaer, Butzon & Bercker, 1984; da A. F. Rainey, Canaanite in the Amarna tablets. 1. Orthography, Phonology, Morphosyntactic Analysis of the Pronouns, Nouns, Numerals, Leiden, Brill, 1996, e da W. L. Moran, Les lettres d’El-Amarna correspondance diplomatique du pharaon, Paris, Édition du Cerf, 1987.
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a.C.), i quali erano forse nomadi del deserto del Sinai o del Delta orientale del Nilo. La loro lingua non ci è nota, anche se taluni studiosi tendono ad identificarla con l’ebraico. Le altre popolazioni, che entrarono in contatto con gli egizi e che in qualche modo vennero assorbite all’interno del loro regno, sono gli Šardana e i Keftiu, ovvero popoli del mare di stirpe indoeuropea. Più controversa è la presenza nel deserto del Sinai dei madianiti, perché sulla loro collocazione geografica abbiamo solo informazioni, non del tutto congruenti, nei libri del Pentateuco.(56) La scoperta dei grandi archivi di Sippar, di Ninive, di Kalhu, di Assur, di Isin, di Mari, di Ebla, e in Egitto quello di Tell el-‛Amārnah, ci ha restituito un immenso patrimonio letterario, ma anche scientifico, giuridico, amministrativo-diplomatico e rituale-religioso, assai utile per comprendere le diverse stratificazioni culturali del Canaan e, conseguentemente, gli stessi testi biblici. Il passaggio decisivo dal cuneiforme alla scrittura fonetica fu opera della civiltà ugaritica, di lingua semitica, dal xviii al xii secolo. A nord del Canaan, oltre agli hittiti e agli hurriti, che dominavano prevalentemente la regione anatolica, una qualche organizzazione statale fu messa in piedi dai Mitanni o Hanilgalbat, il cui gruppo linguistico non è stato ancora identificato. Sappiamo tuttavia dagli annali assiri che essi estesero la loro influenza fino a Yamhad (Aleppo), ad Alalakh (od. Tell Atchana) e ad Ugarit, per essere poi soggiogati dagli stessi assiri nel xiii secolo. 1.9. Spinoza e la problematicità dell’AT Un dato ormai definitivamente acquisito dalla critica storico-filologica fin dal xvii secolo (grazie agli studi di Hobbes, Spinoza, Simon, Astruc, ecc.)(57) è che tutta la produzione protocanonica e deuterocanonica, ad eccezione del Siracide (Σειράχ), è pseudoepigrafa. I testi che la tradizione attribuiva a Mosè o a Giosuè o a questo o a quel profeta, almeno nella loro redazione definitiva, non possono essere autografi, poiché contengono tracce manifeste di epoche successive a quella dei presunti autori. Spinoza (56) Gli archeologi hanno esplorato piccoli borghi come Qurayyah e Teima, ma non hanno rinvenuto nel Midian insediamenti anteriori all’viii-vii secolo. (57) [J. Astruc], Conjectures sur les memoires originaux dont il paroit que Moyse s’est servi pour composer le livre de la Genese, A Bruxelles, Chez Ficx, 1753; Richard Simon, Histoire critique du vieu Testament, Rotterdam, Chez Reinier Leers, 1785.
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ha segnalato con estrema lucidità talune delle contraddizioni più evidenti, traendo spunto dai commentari al Deuteronomio di Ibn Ezra.(58) I passi cui egli fa riferimento sono i seguenti: Dt, i, 1; xxvii, 8; xxxi, 9; Gn, xii, 6. Il primo passo riguarda il prologo del Deuteronomio: «Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele al di là del Giordano». La contraddizione sta nel fatto che Mosè, come attesta lo stesso Pentateuco, non attraversò il Giordano. La pericope Dt, xxvii, 8, ci dice che il testo della Torah, scritto da Mosè, doveva essere contenuto sulle pietre di un unico altare. Se ne deduce che si trattava di un testo breve e quindi non coincidente con quello che ci è pervenuto. In Dt, xxxi, 9, le parole «Poi Mosè scrisse questa legge» non sono evidentemente riferibili a Mosè, ma ad un altro scrittore. In Gn, xii, 6, si asserisce che quando Abramo giunse nella terra di Canaan, essa era abitata dai cananei. Se ne dovrebbe dedurre che Mosè scrisse quando i cananei erano stati scacciati dalla loro terra. Ciò però non è possibile perché la conquista del Canaan fu successiva alla morte di Mosè e tra l’altro non portò alla definitiva scacciata dei cananei. La pretesa di far derivare dalla discendenza di Noè (cfr. Gn, x) tutte le etnie stanziate nel mondo medio-asiatico e afro-settentrionale è assurda non solo perché tali etnie erano di origini diverse, ma anche perché erano dotate di consuetudini linguistiche non sempre afferenti al ceppo semitico. Non meno grave è la contraddizione individuata da Spinoza in Gn, xxii, 14: vi si asserisce che Abramo fu invitato a sacrificare il figlio Isacco sul monte Moria, che ricevette in tale occasione il nome «Dio provvede»; «per questo – aggiunge l’anonimo autore – si dice ancora oggi: ‘sul monte Dio provvede’». L’espressione «ancora oggi» si riferisce ovviamente al tempo dello scrittore, che è quello in cui il tempio gerosolimitano era già stato edificato; ma tale non può essere il tempo di Mosè, che sarebbe vissuto tra i 500 e i 300 anni circa prima della costruzione salomonica. Spinoza osserva altresì che l’autore del Pentateuco si riferisce a Mosè in terza persona e cade spesso in contraddizione: «Dio parlò con Mosè» (Nm, i, 1; ii, 1); Dio parlava con Mosè «faccia a faccia» (Ex, xxxiii, 11); «Mosè era il più umile di tutti gli uomini» (Nm, xii, 3); «Mosè si adirò contro i capi dell’esercito» (Nm, xxxi, 14); «Mosè uomo divino» (Dt, xxxiii, 1); «Mosè servo di Dio morì» (Dt, xxxiv, 5). L’’affermazione «Mai esistette in Israele un profeta simile a Mosè, che conosceva Yhwh faccia a faccia» (Dt, xxxiv, (58) Abraham ben Meir ibn Ezra, Perush ha Torah, Neapel, Yosef ben Ya’akov Hashkenazi, 1488.
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10) presuppone un confronto con i profeti successivi che evidentemente non può essere stato fatto da Mosè. Nel Deuteronomio Mosè parla in prima persona: «Dio mi parlò»; «ho pregato Dio»; per poi riprendere l’uso della terza persona.(59) Nell’epilogo, alludendo al sepolcro di Mosè, il redattore scrive: «Nessuno ne ebbe conoscenza fino ad oggi» (Dt, xxxiv, 6), confermando così la distanza tra il tempo del narratore e il tempo del ‘narrato’. Nella Genesi ci vien detto che Abramo inseguì i nemici fino a Dan e in Deuteronomio che Mosè dall’alto del monte Nebo guardò il territorio del Canaan fino a Dan (Dt, xiv, 14; xxxiv, 1); entrambe le pericopi sono in contraddizione con il fatto che la città ebbe tale nome molto tempo dopo Mosè, come ci fa sapere Giosuè.(60) In Esodo (Ex, xvi, 34) il racconto si protrae paradossalmente oltre la morte di Mosè, poiché veniamo informati che gli ebrei mangiarono per 40 anni la manna nel deserto. Analoga contraddizione è nella Genesi (xxxvi, 31), in cui è scritto: «Questi sono i re di Edom, prima che il re regnasse sui figli di Israele»; ciò significa che il tempo indicato è di ben oltre 200 o 500 anni posteriore alla morte di Mosè. Ma le contraddizioni sul regno di Edom non finiscono qui. Nel 2Re è detto: «Allora [cioè durante il regno di Achab] in Edom non vi era un re, ma era re un deputato»; poi nello stesso testo si dice che sotto Yoram «Edom si ribellò a Giuda e si costituì un re»; sicché il re di Edom compare come alleato del re d’Israele. Infine in riferimento all’età di Giacobbe, sono elencati i re che regnarono in Edom prima della monarchia di Israele.(61) In merito alla redazione mosaica della Torah Spinoza si sofferma sui seguenti passi: Ex, xvii, 14 («Metti per iscritto sul libro in memoria perenne e trasmettilo oralmente a Giosuè: voglio cancellare radicalmente la memoria di Amalek da sotto il cielo»; di quale libro si tratta? Potrebbe trattarsi del Libro delle guerre di Yhwh, citato in Nm, xxi, 14? Non possiamo esserne sicuri. Il libro del patto è menzionato in Esodo («Mosè scrisse così tutte le parole di Yhwh; prese anche il libro del patto e lo lesse mentre il popolo era in ascolto»); nel Deuteronomio il libro in oggetto risulta essere quello della Legge. Infatti il testo recita: «Mosè espose la Torah al popolo», ovvero la impo(59) Dt, ii, 2, 17; ix, 26; xxxii, 44 sqq. (60) Js, xviii, 29. Secondo Giuseppe Flavio (Ant., iii, 11) Dan è una città prossima al Giordano, il cui nome deriverebbe dalle due sorgenti Jor e Dan. In Gn, xiv, 14 e in Dt, xxxiv, 1, Dan non è citata con il nome antico di Lachis o di Lesem. Giosuè (xix, 47), infatti, ci fa sapere che i daniti diedero il nome di Dan alla città di Lesem. (61) 2Re, xxii, 48; viii, 20; iii, 9; Gn, xxxvi, 31.
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se come obbligo.(62) Se si tratta di due testi distinti, si può giungere alla conclusione che la Torah fu posteriore al libro dell’alleanza. Ad un ulteriore libro accenna Numeri, per il quale, in occasione del viaggio dall’Egitto a Moab, Mosè «mise per iscritto i punti di partenza, tappa per tappa, dietro ordine di Yhwh» (Nm, xxxiii, 2). Si tratta ancora del Libro delle guerre di Yhwh? Non è chiaro. Scrive il Deuteronomio: Mosè scrisse questa legge [cioè il secondo patto] e la diede ai sacerdoti figli di Levi […] Mosè diede loro questo ordine […] ‘quando tutto Israele verrà a vedere il volto di Yhwh, tuo Dio, nel luogo che sceglierà, leggerai questa legge agli orecchi di tutto Israele’ (Dt, xxxi, 9-13).
In che senso il popolo verrà a vedere il volto di Yhwh, se ‘vedere Dio’ comporta la morte? La scelta del luogo, che ovviamente si riferisce al tempio, fu evidentemente compiuta in un tempo di gran lunga posteriore a quello di Mosè. Infine nei testi storici i patti si moltiplicano: ce n’è un primo, un secondo, un terzo. Giustamente Spinoza osserva: con il primo patto Mosè impegna i presenti; con il secondo impegna anche tutti i loro discendenti: «Non con voi soltanto io contraggo quest’alleanza […] ma anche con chi non è qui con noi oggi» Dt, xxix, 14). Il terzo patto è in Giosuè: Giosuè stipulò in quel giorno un’alleanza [cioè il terzo patto], per il popolo e dispose per lui uno statuto e un diritto a Sichem. Giosuè scrisse queste cose nel Libro della legge di Yhwh, prese una grossa pietra e la rizzò sotto la quercia che si trova nel santuario di Yhwh (Js, xxiv, 25-26).
Ciò che sfugge a Spinoza è che ciascun patto è una tappa nel processo evolutivo della teologia ebraica ed ha come referenti gruppi sacerdotali diversi. In ogni caso dai passi citati egli deduce che il libro scritto da Mosè «non fu il Pantateuco, ma tutto un altro, che l’autore del Pentateuco inserì per ordine nella propria opera». Con analoghe argomentazioni Spinoza nega che Giosuè sia l’autore dell’omonimo libro. Infatti chi scrive in Js, vi, 27: «Yhwh stava con Giosuè e la sua fama si diffuse per tutta la terra», è manifestamente un autore diverso da Giosuè. Alle medesime conclusioni si giunge a partire dai seguenti passi: (62) Ex, xxiv, 4, 7; Dt, i, 5; xxix, 14.
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Non ci fu parola di quelle comandate da Mosè, che Giosuè non lesse davanti a tutta l’assemblea d’Israele (Js, viii, 35); Come Yhwh aveva ordinato a Mosè […] e come Mosè aveva ordinato a Giosuè, così fece Giosuè. Non trascurò nulla di ciò che Yhwh aveva ordinato a Mosè (Js, xi, 15:); Dopo questi fatti Giosuè morì […] all’età di 110 anni e lo seppellirono nel territorio a lui assegnato (Js, xxiv, 29); I figli di Efraim e di Manasse «non scacciarono i cananei che risiedevano a Gezer e così i cananei ancor oggi abitano in mezzo ad Efraim (Js, xvi, 10:)
Quest’ultima spiegazione eziologica presuppone un tempo successivo a quello di Giosuè. Lo stesso accade nel Libro dei Giudici: Nemmeno la tribù di Efraim scacciò via i cananei […] e così i cananei abitarono a Gezer in mezzo a Efraim. La tribù di Zabulon non scacciò via gli abitanti di Kitron né gli abitanti di Naalol; i cananei abitarono in mezzo a Zabulon (Jdc, i, 29-30); I figli di Giuda non riuscirono a scacciare i gebusei, che risiedevano in Gerusalemme. Così ancora oggi i gebusei abitano in Gerusalemme con i figli di Giuda (Js, xv, 63); I figli di Beniamino non scacciarono i gebusei da Gerusalemme, così che i gebusei risiedettero a Gerusalemme con i figli di Beniamino fino al presente (Jdc, i, 21).
È evidente che dall’uno o dall’altro dei due testi con l’uso della stessa formula si sono sostituiti i figli di Giuda a quelli di Beniamino. Tutto il passo di Giosuè, xv, 13-19, è letteralmente corrispondente a Jdc, i, 10-15: ciascuno dei due testi dipende dall’altro. È inutile pensare ad una fonte comune, solo perché l’ordine espositivo è diverso; in realtà entrambi contengono esattamente le stesse informazioni. Spinoza ammette che Giosuè possa aver scritto il Libro di Jashar (ossia il libro del giusto), citato in Js, x, 13 (il passo manca nella Septuaginta), nel quale si sarebbe ricordata la vittoria di Gabaon: «Fermati sole su Gabaon e tu luna sulla valle di Aialon […]. Questo è scritto nel Libro di Jashar». Tale posizione di Spinoza è paradossale, perché nel passo citato è evidente che l’autore si richiama ad un libro più antico come se invocasse a proprio sostegno una fonte documentale più antica e più autorevole. Ma se il Libro di Giosuè
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ha la pretesa di essere autografo, a che pro ha bisogno di una attestazione di autorità? Non sarebbe già di per sé autorevole la testimonianza stessa di Giosuè che era presente all’evento? È chiaro che la citazione del Libro di Jashar è di per sé una prova che il Libro di Giosuè non è autografo. Che poi il tempo del redattore sia distante da quello di Giosuè è attestato altresì dal successivo versetto x, 14: «Non ci fu più, né prima né dopo, un giorno come quello». Insomma il Libro di Jashar è solo un comodo pretesto per avvalorare un evento, che era difficilmente credibile. Sulla natura di questo libro si è fantasticato non poco. Studiosi come Masius, Junius, Tremellius(63) lo credettero un libro delle gesta di Israele; Grozio(64) pensò che si trattasse di un epinicio celebrativo della vittoria di Gabaon. La mia impressione è che la citazione del Libro di Jashar sia un’aggiunta posteriore, poiché su di essa non sembra sussistere una adeguata convergenza con la versione siriaca che lo cita come Libro dei cantici e con la Septuaginta che lo ignora del tutto. Spinoza ritiene che il Libro dei Giudici sia stato scritto dopo che i re si impadronirono del potere e crede che il suo redattore abbia utilizzato fonti documentali più antiche. Tuttavia anche nel Libro dei Giudici rinveniamo numerose incongruenze. A titolo d’esempio ricordiamo le seguenti: I gebusei risedettero con i figli di Beniamino in Gerusalemme fino ad oggi (i, 21); Quell’uomo [innominato] emigrò nella terra degli hittiti e vi fondò una città che chiamò Luz, nome che conserva ancora oggi (i, 26); Gedeone costruì un altare e lo chiamò ‘Yhwh è pace’. L’altare esiste ancora oggi nel villaggio di Ofra (vi, 24); Altrettante città della regione di Galaad […] si chiamano ancora oggi ‘villaggi di Ya’ir’ חות יאירhavvwōt yā’îr, x, 4); La sorgente En-Korè [= fonte di colui che invoca] esiste ancora oggi (xv, 19); Mica ebbe così un santuario di Dio, oggetti sacri […] e diede ad uno dei (63) A. Masius, Iosuae Imperatoris historia illustrata atque explicata, Antverpiae, Ex officina Christophori Plantini, 1574, p. 189; Testamenti Veteris Biblia Sacra sive Libri canonici priscae Judaeorum ecclesiae traditi […] illustrati ab I. Tremellio et F. Junio, Hanoviae, Typis Wechelianis, Apud Claudium Marnium, et heredes Joannis Aubrii, 103, seconda numerazione p. 4v. (64) H. Grotius, Annotata ad Vetus Testamentum, Lutetiae Parisiorum, Sumptibus Sebastiani Cramoisy […] et Gabrielis Cramoisy, mdcxliv, t. i, p. 183: «videtur poema aliquod fuisse ἐπινίκιον in quo ישראלcontracte ישרdicebatur, quasi caeteris gentibus aequitate praestans».
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suoi figli l’incarico di sacerdote […] in quel tempo non c’era un re in Israele, ognuno poteva fare quello che gli piaceva (xvii, 4-6); I daniti collocarono l’idolo per il loro culto; Gionata, figlio di Gherson, figlio di Manasse, e i suoi figli furono sacerdoti della tribù di Dan fino al tempo dell’esilio (xviii, 30).
Tutti questi passi dimostrano che il redattore del libro è posteriore agli eventi narrati e scrive durante o dopo l’esilio. Vi è poi da rilevare una incongruenza tra il Pentateuco e i Giudici a proposito della sottomissione di Sicon e della terra degli amorrei. Secondo Numeri-Deuteronomio-Giosuè(65) la conquista di Sicon e degli amorrei cadde in epoca mosaica; di contro per Giudici (xi, 19-21) essa cadde durante il periodo in cui era giudice Iefte. Una ulteriore incongruenza riguarda Ya’ir che sembra moltiplicarsi come personaggio. Egli è citato per la prima volta in Numeri («Ya’ir, figlio di Manasse, andò e prese i loro villaggi e li chiamò ‘villaggi di Ya’ir’», xxxii, 41), poi nel Deuteronomio («Ya’ir, figlio di Manasse, prese tutto il distretto di Argob […] e chiamò col proprio nome le regioni del Bašan, ossia ‘accampamenti di Ya’ir’, così chiamati ancora oggi») e in Giosuè, come figlio di Manasse e in riferimento a trenta città denominate borghi di Ya’ir in Galaad (Dt, iii, 14 Js, xiii, 30). Il 1Cronache cita un Ya’ir, figlio di Segub, che ebbe 23 città nella regione di Galaad, denominate ‘borghi di Ya’ir’; per Giudici Ya’ir Galaadita era un giudice che aveva trenta città, denominate ‘borghi di Ya’ir’.(66) Per il 1Re al tempo di Salomone i borghi di Ya’ir erano in possesso del figlio di Gheber (1Re, iv, 13). Secondo ibn Ezra(67) il libro dei Giudici si identificherebbe con il Libro delle guerre di Yhwh; per David Kimhi sarebbe stato composto da Samuele;(68) per Masius e Simon(69) ne fu autore Ezra; secondo i teologi moderni(70) fu opera di Samuele, il quale scriveva nell’epoca in cui la monarchia non si (65) Nm, xxi, 21-31, 34; xxxii, 33; Dt, i, 4; ii, 24-35; iii, 2, 6; iv, 46; xxix, 6; xxxi, 4; Js, ii, 10; ix, 10; xiii, 21. (66) 1Chr, ii, 22-23; Jdc, x, 3-5. (67) A. ben Meir ibn Ezra, Perush ha aTorah, cit. (68) David ben Joseph Kimhi, The Commentary of Rabbi David Kimhi on the Book of Judges, Toronto, Celniker, 1983. (69) A. Masius, Biblia sacra Hebraice, Chaldaice, Graece et Latine, Antverpiae, Ex officina Christophori Plantini, 1571; Id., Iosuae Imperatoris historia illustrata atque explicata, Antverpiae, Ex officina Christophori Plantini, 1574; R. Simon, Histoire critique, cit., pp. 4, 25. (70) Cfr. M. Sales, La sacra Bibbia, ii, Torino, Libreria del Sacro Cuore, 1928, p. 82.
74 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
era ancora divisa nei due regni. Ma è ipotesi incompatibile con il fatto che nel testo si fa chiaramente allusione all’esilio. Anche il primo e il secondo Samuele ( – )שמואלsecondo Spinoza – sono stati scritti molti secoli dopo il loro presunto autore. Ce ne darebbero conferma i seguenti passi: Anticamente in Israele così diceva ciascuno, quando si recava a consultare Dio: ‘orsù andiamo dal veggente’, giacché veggente si chiamava anticamente colui che oggi si chiama profeta (1Sm, ix, 9); In ricordo di ciò [cioè della caduta dell’idolo di Dagon] i sacerdoti di Dagon e tutti quelli che entrano nel suo tempio in Ašdod non calpestano la sua soglia fino ad oggi (1Sm, v, 5); A testimonianza di ciò ancor oggi, nel campo di Giosuè a Bet-šemeš, c’è la grossa pietra dove avevano deposto l’arca di Yhwh (1Sm, vi, 18); I filistei furono così umiliati e non si infiltrarono più nel territorio israelita: la mano di Yhwh fu contro i filistei per tutti i giorni di Samuele (1Sm, vii, 13); Samuele fu per tutta la vita giudice di Israele (1Sm, vii, 15); Ziglat appartiene alla corona di Giuda fino al giorno d’oggi (1Sm, xxvii, 6); Da quel giorno in poi questa decisione divenne legge per Israele fino ad oggi (1Sm, xxx, 25); Quel luogo venne chiamato Perez-Uzzà fino al presente (2Sm, vi, 8).
L’autore dei Libri dei Re (Sèfer melachiìm )ספר מלכיםsembra avere la pretesa di basarsi su fonti archivistiche o su cronache più antiche. Egli infatti per le imprese di ciascun sovrano si richiama a cronache di cui non abbiamo altre notizie. Nel 1Re, parlando del regno di Salomone, scrive: «Il resto delle azioni di Salomone e tutto ciò che fece e la sua sapienza sono cose scritte nelle Cronache di Salomone» (1Re, xi, 41). La stessa espressione, con riferimento alle Cronache dei re di Giuda, si ripete per Roboamo (rĕhab’ām, 1Re, xiv, 29), Abiyam e Asā (xv, 6, 23), Yoas (yĕhĕô’āš, 2Re, xii, 20), Azaria (‘ăzaryāh) e Yôtām (xv, 6, 36), Achaz (‘āhāz, xvi, 19), Ezechia (yehizqîyāh, xx, 20), Manasse (mĕnaššeh) e Amon (‘āmôn, xxi, 17, 25), Giosia (yo’šîyāh, xxiii, 28) e Yôyāqîm (xxiv, 5); con riferimento alle Cronache dei re d’Israele si ripete per Geroboamo (yārob’ām, 1Re, xiv, 19), Nadab (nādāb, xv, 31), Baasa (ba’šā’), Ela (‘ēlāh), Zimri (zimrî), Omri (‘omrî, xvi, 5, 14, 20, 27), Achab (‘ah’āb, xxii, 39), Yoachaz (yô’āhāz, 2Re, xiii, 8), Geroboamo II (xiv, 28), Zaccaria
I.1 L’ambiente storico-linguistico
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(zĕkaryāh), Šallum (šallûm), Menahem (mĕnahēm), Peqahya (pĕqayāh) e Peqah (xv, 11, 15, 21, 26, 31). Spinoza è convinto che unico sia il redattore del Pentateuco, di Giosuè, dei Giudici, dei due Samuele e dei due Re: egli deduce l’unità redazionale dall’unità progettuale, che, a suo avviso, ne è alla base: Tutti questi libri – scrive – convergono ad uno stesso scopo, quello, cioè, di istruire intorno alla dottrina e agli editti di Mosè e di dimostrarne la validità attraverso gli eventi. Dalla simultanea considerazione di queste tre cose, la semplicità dell’argomento di tutti questi libri, la loro connessione, e la loro qualità di opere apografe, scritte molti secoli dopo i fatti raccontati, concludiamo […] che furono tutti scritti da un unico storico. Chi, poi, sia stato costui, non posso dimostrarlo con altrettanta evidenza; suppongo tuttavia che sia stato lo stesso Ezra; e non sono lievi i motivi che mi inducono a formulare questa congettura. Siccome, infatti, lo storico […] protrae il racconto fino alla liberazione di Yoyaqin, aggiungendo che questi si assise alla mensa del re per tutta la sua vita (cioè, o dello stesso Yoyaqin o del figlio di Nabucodonosor, giacché il senso è del tutto ambiguo), ne segue che non può trattarsi di uno scrittore anteriore ad Ezra. D’altra parte la Scrittura di nessun altro che sia fiorito allora, salvo che di Ezra (Ezr, vii, 10), attesta che si applicò alla interpretazione e alla sistemazione della legge di Dio (Ezr, vii, 6) e che era scrittore esperto della legislazione mosaica.(71)
Il Deuteronomio sarebbe quindi per il filosofo olandese il libro della legge spiegato e commentato da Ezra. Ne farebbero fede i due seguenti esempi: 1) Dt, ii, 12: «E in Se’ir abitarono prima gli hurriti, ma i figli di Esaù li cacciarono e li sterminarono e ne presero il posto, come fece Israele nella terra del suo retaggio, assegnatagli da Dio». Questa pericope non è che un commento ai precedenti versetti, ii, 3-4, poiché spiega che il monte Se’ir, ricevuto in eredità dai figli di Esaù, non era deserto quando fu occupato, ma era abitato dagli hurriti. 2) la pericope Dt, x, 6-9, non è che un commento alle parole di Mosè, poiché serve a spiegare che Dio, nel tempo al quale si riferiscono le parole di Mosè, aveva scelto la tribù di Levi, la quale per ciò non aveva parte all’eredità. Spinoza giunge così alla convinzione che il Deuteronomio è il primo libro scritto da Ezra, poiché – a suo avviso – non è ben connesso o coordinato con gli altri libri del Pentateuco. (71) B. Spinoza, Tract. theol.-politicus, tract viii.
capitolo ii
LA FASE POLITEISTICA
2.1. Yhwh e il politeismo I testi sacri vogliono farci credere che Israele costituisse una razza pura e privilegiata, garantita dalla protezione e dall’elezione divina, ma questo è un mito ezriano, sebbene in parte sia uno dei Leitmotiv comuni a tutte le stirpi semitiche. Si trattò di un mito quanto mai falso. Gli stessi testi sacri sono obbligati ad ammettere che la mescolanza, anche sanguinea, con le popolazioni locali fu di notevoli proporzioni; frequenti furono i matrimoni di ebrei con donne moabite, egizie, edomite, ecc., persino presso le classi dirigenti o addirittura presso i presunti discendenti della stirpe davidica. La purezza della razza ebraica era più un mito che una realtà; o, se vogliamo, era nella logica ezriana un tentativo di costruirla e di preservarla dalla mescolanza con gli altri popoli (si pensi alla insistenza ezriana circa il divieto di matrimoni misti). Come un mito era la purezza della razza ebraica, così era un mito la purezza del culto yhawista, anch’esso di matrice ezriana. Infatti, la convivenza con i culti stranieri è attestata non solo dalle iscrizioni pervenuteci, ma anche dagli stessi testi biblici, ove assai spesso si fa cenno alle deviazioni idolatriche cui il popolo giudaita ed israelita si abbandonò sia a seguito di conquiste o di sconfitte militari, sia a seguito di unioni miste. Quasi tutti i sovrani menzionati nei Libri dei Re sono giudicati sotto il profilo religioso ovvero riguardo al rispetto o meno del culto yhawista; solo di pochi di essi si dice che fecero ciò che è bene agli occhi di Yhwh; al contrario, di molti si dice che operarono in contrasto con la pre77
78 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
sunta fede tradizionale. La realtà è che la fede tradizionale era appunto di origine politeistica e idolatrica. L’idolatria del vitello d’oro proprio nella fase culminante della stipulazione del patto sinaitico ci dice che nella tradizione religiosa del popolo ebraico erano presenti i culti politeistici; anzi, il testo vetero-testamentario si tradisce ammettendo la realtà di un culto che era ampiamente diffuso in terra cananea e che era legato al dio Êl, dio del cielo, e a Baal, dio della fertilità. Il loro corrispettivo nella religione egiziana era la dea Hathor (eg. Hwt-Hert; Het-Heru; Het-Hert), alla quale si collega il mito della distruzione dell’umanità che troviamo nel racconto biblico di Noè e in quello babilonese di Gilgameš e di Atramhasis. Hathor, dea dell’amore e della creazione, era rappresentata con le corna del toro o comunque come una giovenca. Fin dalle dinastie xi e xii del Regno Medio le fu attribuito l’appellativo Nwbt, cioè ‘d’oro’ e il suo culto si diffuse ampiamente nella Fenicia e nella Palestina, ove Hathor fu spesso identificata con Astarte. Le frequenti invettive bibliche contro il culto di Astarte e contro quello di Baal sono in realtà volte a coprire un’origine sgradita della tradizione religiosa ebraica.(1) La Bibbia rimarca a più riprese l’esistenza di un culto del toro. In Esodo è lo stesso Aronne che chiede al popolo i pendenti d’oro per costruire il vitello,(2) presentato come «il dio che ha fatto uscire Israele dalla terra d’Egitto» (‘elōhekā yiśrā’êl ‘ăšer he’elukā mê’eres misrāyim )אלהיך ישראל אשר העלוך מארץ מצרים, un appellativo quest’ultimo quasi sempre riservato a Yhwh. Anzi il versetto successivo (Ex, xxxii, 5) identifica senz’altro il nuovo dio con Yhwh. La narrazione dell’Esodo è di capitale importanza perché ci fa capire che il suo redattore era a conoscenza dei culti siro-cananei praticati prima ancora che gli israeliti si stanziassero nella terra promessa. C’è un altro episodio biblico che, al di là della sua veridicità storica o del suo carattere mitologico, ci fa capire quanto radicata fosse tra gli ebrei la religione cananea. Si tratta della distruzione del tempio di Baal da parte di Gedeone, secondo quanto ci è narrato da Giudici (vi, 31-32). Egli distrusse l’altare, spezzò il palo sacro e bruciò il secondo toro: l’indomani il popolo voleva condannarlo a morte per aver profanato il tempio e gli rifilò l’appellativo di Ierub-Baal (=«Baal si difenda da lui»). Per riconquistarne le simpatie dovette (Jdc, viii, (1) Sulla religione cananea, cfr. A. F. Rainey, Who Is a Canaanite? A Review of the Textual Evidence, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», 304, 1996, pp. 1-15. (2) Ex, xxxii, 1-6. P. Y. Hoskisson, Aaron’s Goden Calf, «The Farms Review», xviii, 2006, pp. 375-387, sminuisce la gravità del gesto di Aronne.
I.2 La fase politeistica
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24-27) costruire in Ofra un idolo di Yhwh con gli anelli offerti dal popolo e probabilmente riprodusse un toro sacro; d’altronde Gedeone non doveva essere estraneo al culto della fertilità se «generò 70 figli dalle molte mogli che aveva». Non sappiamo se siamo di fronte ad un mito o ad un fatto storico. Ciò che è importante rilevare è che i testi sacri ci trasmettono episodi attestanti forme di sincretismo religioso, in cui il culto yhawista, sia esso originario o derivato, si contamina con quelli siro-cananei. Un ulteriore esempio ci è fornito in 1Re (ripetuto nel 2Cronache),(3) a proposito della costruzione degli altari di Betel (od.: Beitin) e di Dan (Tell el-Qadi): Geroboamo costruì sulle due alture due vitelli d’oro e li presentò al popolo come il Dio che li fece uscire dalla terra d’Egitto. Nominò sacerdoti non leviti e istituì un duplicato della festa della pasqua, spostandola dal mese di nisan (aprile, in primavera, in occasione della rinascita della vegetazione) all’ottavo mese (ottobre-novembre), con chiaro intento anti-yhawista. Il culto della coppia ierogamica Baal-Anat era certamente di origine agraria ed era strettamente legato al processo di morte e di rigenerazione della vegetazione terrestre e al ritmo periodico delle stagioni. Baal è il Dio alla cui morte si associano la siccità, la sterilità e l’illanguidimento della vegetazione, ma è anche il dio della vita e della riproduzione. La sua assenza, genera la morte; quando Anat, la sorella-sposa, lo sottrae al mondo ctonio e lo riconduce nel mondo terreno, la vegetazione riprende a rifiorire, la sterilità è sopraffatta dalla fecondità, la vita vince la morte, la festa annienta il dolore. Il massēbāh (la stele) e l’ăšērāh (l’albero) sono rispettivamente i simboli della sessualità maschile e di quella femminile, da cui dipende la riproduzione della vita. Il culto di Baal e di Anat rappresenta in qualche modo un anello essenziale nel passaggio dalle divinità celisolari, onniveggenti, per lo più maschili, proprie dei popoli cacciatori e raccoglitori, che divinizzano il cielo o il sole, come divinità sapienti e onniscienti, alle divinità della madre terra, per lo più femminili, procreatrici, proprie dei popoli agricoltori che divinizzano la terra, come dea generatrice inconsapevole. Baal è una divinità celeste, preposta alle tempeste e alla pioggia con cui feconda la terra; perciò è salvatore, è il dio che salva tanto l’umanità quanto il cosmo; emargina il più antico dio celisolare Êl, del quale però resta traccia nella divinità ebraica, sebbene nella forma plurale di ‘êlōhîm, dovuta al terreno di coltura sincretistico-politeistico in cui si sviluppa. Nel crogiolo del sincretismo i caratteri di Baal si trasferiscono in Yhwh. (3) 1Re, xii, 28 (ripetuto in 2Chr, xi, 15; xiii, 8).
80 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
In Giudici Yhwh è il dio delle steppe di Edom (Jdc, v, 4-5), è enosigeo, scuotitore del cielo e della terra, provoca la tempesta, fa tremare le montagne e lo stesso monte sacro, il Sinai. Per il redattore del Pentateuco il culto yhawista è assimilato ai culti cananei delle alture, come dimostra il fatto che la Torah è dettata sul Sinai. Nel baalismo la visione della vita è sostanzialmente positiva; non c’è il tema del peccato e della relativa punizione divina; la sofferenza e la festa sono intrinseche al ritmo delle stagioni e al ritmo della morte e resurrezione del dio; alla siccità estiva e alla sterilità seguono, secondo il ritmo della vita del cosmo, la rigenerazione e la rivitalizzazione della terra. La sessualità non è vista, come accade nello yhawismo, come inviolabile patrimonio divino e non è associata al pessimismo della deviazione e del peccato, ma è collegata alla positività della riproduzione ed esaltata fino al riconoscimento delle prostitute sacre e dei prostituti sacri. Quanto il baalismo fosse radicato nel territorio cananeo e presso le più antiche generazioni israelitiche ce lo fa comprendere un passo di Geremia (xliv, 15-19) che riflette evidentemente una cultura religiosa di antichi tempi: quando il profeta si rivolge alle comunità ebraiche residenti nel territorio egiziano di Patros, invitandole ad abbandonare i loro culti e a venerare Yhwh, si sente rispondere che il popolo non ha alcuna intenzione di accettare lo yhawismo e che manterrà l’uso dell’incenso e delle libagioni offerte alla regina del cielo (verosimilmente Anat), come era stato sempre fatto dai loro padri, dai loro re e dai loro prìncipi. Il sincretismo religioso è un processo che si accompagna quasi sempre all’innesto di nuove forme di vita religiosa; le nuove si intrecciano inevitabilmente con le precedenti, per il semplice fatto che il popolo non sopporta o teme il brusco abbandono delle antiche pratiche liturgiche e delle divinità venerate dai propri padri. Nel nuovo culto si trasferiscono o comunque sopravvivono, giustapponendosi, vecchie concezioni. Un esempio può essere trovato in Ezechiele, ove si dice che il profeta, visitando la porta settentrionale del tempio di Yhwh a Gerusalemme, rimase scandalizzato dal fatto che le donne piangevano Tammuz (Ez, viii, 14). Il divieto della prostituzione sacra, sancito nel Deuteronomio (Dt, xxiii, 18-19), era sistematicamente violato. In Giudici si dice che, dopo la morte di Gedeone, Israele ricominciò a prostituirsi a Baal-Berit (Jdc, viii, 33). La prostituzione sacra, per essere uno dei principali bersagli dei profeti, doveva essere ampiamente diffusa tra gli israeliti. Osea ci ha lasciato un impressionante quadro della realtà del suo tempo: la prostituzione sacra era dilagante; persistevano i culti delle altu-
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re e degli alberi (la quercia, il pioppo, il terebinto); da ciò il divieto di recarsi a Galgala (con probabile allusione a Salomone) e di non salire a Bet-Aven (Os, i, 2; iv, 11-18). Più significativa la metafora usata per indicare la caparbietà di Israele (intendi: la resistenza degli antichi culti), paragonato ad una giovenca selvaggia (si pensi alla raffigurazione della Hathor egizia come giovenca). Un’ulteriore conferma è data da Geremia (v, 7-8), che condanna l’adulterio e la prostituzione in termini assai crudi: i giudei sono paragonati a cavalli lussuriosi; ciascuno nitrisce dietro le mogli del suo vicino (rê’êhū). Gli autori di Giudici, del 1Re e del 2Cronache,(4) tutti fervidi fautori dello yhawismo, capovolgono il processo storico del passaggio dal baalismo allo yhawismo e tentano di farci credere l’opposto, sebbene alludano alla facilità con cui gli israeliti cedono alle divinità (i Baal) dei popoli stranieri. I molteplici culti siro-cananei ebbero facile presa sul popolo che servì Baal e Astarte, gli dèi della Siria, quelli di Sidone, di Moab, degli ammoniti e dei filistei. Che i culti di Baal e Anat-Astarte avessero grande diffusione è attestato anche dal 1Samuele, dai due Re, da Geremia e da Osea.(5) Un episodio cruento della lotta dello yhawismo contro il baalismo è riportato in 1Re: si tratta della sfida lanciata dal profeta Elia sul monte Carmelo (1Re, xviii, 16-40). Veniamo a sapere che durante il regno di Achab i profeti di Baal e quelli di Astarte avevano raggiunto rispettivamente la rispettabile cifra di 450 e 400, mentre a favore dello yhawismo non era rimasto che il solo Elia. La sfida tra il dio del toro e il dio del fuoco (Yhwh) si risolse ovviamente con la vittoria di quest’ultimo che bruciò miracolosamente con il fuoco gli olocausti, consumò la legna e le pietre e prosciugò l’acqua delle fosse. Dopo la vittoria di Yhwh, Elia ordinò lo sgozzamento di tutti i profeti di Baal e di Astarte presso il torrente Chison (qîšōn). La persecuzione contro il baalismo proseguì sotto Yehu, il quale convocò con l’inganno i profeti, i sacerdoti e gli adoratori di Baal e Astarte con il pretesto di voler compiere uno spettacolare sacrificio, mentre machiavellicamente aveva già dato ai suoi l’ordine di sterminarli.(6) La forte resistenza del culto idolatrico durò per tutto il periodo delle due monarchie del Nord e del Sud. Il culto di Astarte fu pratica(4) Jdc, ii, 3; x, 10; 1Re, xviii, 18; 2Chr, xvii, 3. (5) 1Sm, xii, 9-10; 1Re, xxii, 54; 2Re, xvii, 16; xxi, 3; Jr, ii, 8; ix, 12-14; Os, ii, 7-9, 11-14. (6) Cfr. 2Re, x, 18-28. Sulla persecuzione contro il baalismo, cfr. Ex, xxxiv, 13; Dt, vii, 5; xii, 3; xvi, 21; 1Sm, vii, 3-4; 2Re, xi, 18; xxiii, 4-7, 13-15; 2Chr, xiv, 2; xv, 16; xvii, 6; xix, 3; xxxi, 1; xxxiv, 3-7. Sulla resistenza del baalismo, cfr. Jdc, ii, 3; iii, 7; x, 6; 1Sm, xii, 10; 1Re, xi, 33; xiv, 15, 23; 2Chr, xxiv, 18; Is, xvii, 8; xxvii, 9; Jr, xii, 2; Mch, v, 13.
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to da Salomone (1Re, xi, 5; xxiii, 13), da Achab (1Re, xvi, 30-33), da Geroboamo (1Re, xii, 25-33; xiii, 33), da Roboamo (1Re, xiv, 22-24; 2Chr, xii, 1), da Nadab (1Re, xv, 26), da Omri (1Re, xvi, 25), da Yoachaz (2Re, xiii, 1-6), da Yoas (2Re, xiii, 10-11), da Geroboamo II (2Re, xiv, 24), da Zaccaria (2Re, xv, 9), da Menahem (2Re, xv, 18), da Peqahya (2Re, xv, 24), da Peqah (2Re, xv, 28), da Achaz, che addirittura sacrificò suo figlio (2Re, xvi, 2-4), da Osea (2Re, xvi, 2), da Manasse (2Re, 21, 3-7; 2Chr, 33, 3 e 19), che osò porre nel tempio di Yhwh il simbolo di ‘ăšērāh, da Amon (2Re, xxi, 2022), da Yoyaqim (2Re, xxiii, 37) e da Sedecia (2Re, xxiv, 19). L’espressione ricorrente per tutti questi sovrani è che essi fecero: «ciò che è male agli occhi del Signore», oppure che non si allontanarono «dai peccati di Geroboamo, figlio di Nebat, che aveva fatto peccare Israele». Altri re, pur essendo yahwisti, lasciarono sussistere i culti baalici. Così fecero Yosafat e Yotam.(7) In questo caso l’espressione ricorrente è la seguente: «egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore […] però le alture non furono rimosse, e sulle alture il popolo continuava a sacrificare e a bruciare incenso». Oltre il baalismo gli ebrei subirono anche il fascino del culto di Milkom-Malcam-Moloch, divinità ammonita,(8) che fu venerata da Manasse (2Re, i, 6). Il culto di Baal-zebub, divinità di ‘Eqron-Accaron, fu praticato da Azaria (‘ăhazyāhû) e dai samaritani. Naaman di Aram, pur convertito allo yhawismo, si prostrò nel tempio di Rimmon (2Re, i, 3; v, 18). Rimmon, che significa «colui che tuona», è uno dei titoli del dio siriano Hadad. Salomone si fece altresì promotore del culto di Milcom e di quello del moabita Kemosh (1Re, xi, 7, 33). Ulteriori riferimenti ai culti cananei sono presenti in tutti i casi in cui sono adombrati culti di alberi, di pietre, di alture, di grotte: tale è il caso di Abimelech, che fu proclamato re da tutta la gente di Bet-Millo presso la quercia della stele a Sichem (Jdc, ix, 6), e di Abram che si stabilì ad Hebron, presso le querce di Mamre e vi costruì un altare,(9) o di Assalonne che, a memoria di sé stesso, fece erigere nella Valle dei Re una stele commemorativa (2Sm, xviii, 18). Che lo yhawismo fosse in origine un culto idolatrico non dissimile dagli altri culti cananei lo si intuisce dall’appendice dei Giudici, da cui si evince che il culto yhawista praticato da Mica a Silo nel territorio efraimita era (7) 1Re, xxii, 44; 2Re, xv, 34-35. (8) 1Re, xi, 5, 7, 33; 2Re, xxiii, 10, 13; Lv, xviii, 21; xx, 2-5; Jr, xxxii, 35; Sf, i, 5; Salmo cvi, 38. (9) Gn, xiii, 18; xviii, 1; xxiii, 17, 19.
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idolatrico, poiché Mica si era costruito un idolo e lo aveva trasmesso ai daniti (Jdc, xvii, 1 - xviii, 29). Il testo tende a mascherare la cosa facendo credere che il tempio, costruito da Mica e gestito da un levita, fosse privato; nella realtà esso era meta di pellegrinaggio e comunque oggetto di antica venerazione.(10) Infatti il tempio di Silo fu abbandonato proprio perché idolatrico. Che si trattasse di uno yhawismo in vesti idolatriche emerge dai profeti,(11) ove la distruzione di Silo è assunta a modello della maledizione divina. Un tema di grande interesse è anche quello del rapporto tra il culto di Yhwh e quello del dio egiziano Aton. Nel v secolo a.C. nell’isola di Elefantina in Egitto si era stanziata una comunità ebraica, forse proveniente dalla Giudea e legata alle antiche tradizioni. Eppure se analizziamo le iscrizioni in lingua aramaica, trasmesseci da alcuni papiri, troviamo che le tracce di un culto yhawista sono sorprendentemente scarse. L’iscrizione edita da Cowley,(12) relativa ad una richiesta di affrancamento dopo il divorzio, è datata 14 di Ab ovvero 19 di Pahon (corrispondente al 26 agosto del nostro calendario) dell’anno 25 di Artaserse I (440). Da essa apprendiamo che Mibtahiah, figlia di Mahseiah, figlio di Yedoniah, un ebreo del distaccamento di Varezath, aveva stipulato con Peu, figlio di Pahe, un egiziano costruttore della rocca di Elefantina, un accordo circa la divisione dei beni ed aveva giurato per la dea egiziana Sati. In un’altra iscrizione(13) ci è conservata una lettera con prescrizioni intorno alla celebrazione della pasqua e della festa degli azzimi, senza alcun puntuale riferimento al culto di Yhwh: si tratta di una lettera scritta da Hananiah a Yedaniah (potrebbe essere lo stesso Yedoniah dell’iscrizione precedente) e alla guarnigione di Varezath. Essa è datata il quinto anno di Dario II (419) ed afferma che il satrapo persiano Arsames concesse alla medesima guarnigione la celebrazione della festa pasquale e della successiva festa degli azzimi nei sette giorni dal 15 al 21 di nisan. Hananiah dovrebbe essere una personalità dotata di qualche potere, ma non sembra che si possa identificare con nessuno dei sette Anania menzionati nel libro di Ne(10) Come si evince da Js, xviii, 1-10; xix, 51; xxi, 2; xxii, 9, 12; da 1Sm, i, 3, 9; ii, 14; iii, 21; iv, 3-4, 12; xiv, 3; da 1Re, ii, 27. (11) Salmo lxxviii, 60; Jr, vii, 12-14; xxvi, 6, 9. (12) A. Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century B.C., Oxford, University Press, 1923, pp. 42-43. Cfr. B. Porten, The Elephantine Papyri in English: three Millennia of Cross-Cultural Continuity and Change, Documents and Monumenta Orientis Antiqui, Leiden, Brill, 1996, pp. 188-190. (13) A. Cowley, Aramaic Papyri, cit., pp. 44-45; B. Porten, The Elephantine Papyri, cit., pp. 125-126.
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emia, che, oltre tutto, si riferisce ai dodici anni, dal 21mo al 32mo, di Artaserse II (cioè 444-432). Ancor più interessante è l’iscrizione relativa alla ricostruzione del tempio di Elefantina(14) contenuta nel papiro P13495. La lettera scritta da Yedaniah a nome suo e dei sacerdoti che risiedevano nella rocca di Elefantina è datata 407 ed è indirizzata al governatore della Giudea, Bagohi, del quale non abbiamo notizie nell’AT. Dopo un’inaugurale invocazione del Dio dei cieli (‘LH ŠMY’), individuato in Yanu, il mittente ci informa che nel mese di tammuz del 14mo anno di Dario II (411-410), approfittando dell’assenza del satrapo Arsames, i sacerdoti del tempio di Khnub (ma Khnum), sito nella rocca di Elefantina, in combutta con il locale amministratore Vidranga, diedero ordine al figlio di costui, Nefayan, di distruggere il tempio ebraico del dio Yahu (il nome Yhw, trilitterale e scritto con ayin, difficilmente potrebbe coincidere con Yhwh, nome tetralitterale), risalente ad almeno un secolo e mezzo prima, essendo già costruito al tempo della venuta in Egitto di Cambise (529-522). Yedaniah ci fa inoltre sapere che appena si verificò la catastrofe furono informati per lettera lo stesso governatore Bagohi, il sommo sacerdote Yehochannan, un tale Ostan, parente di Anani, e i vertici del potere giudaico; ma fino alla data dell’iscrizione, cioè 17mo anno di Dario (406), non era pervenuta alcuna risposta alla loro lamentela e alla richiesta di ricostruzione del tempio. Yedaniah inoltre afferma di aver mandato la medesima richiesta a Delaiah e a Shelemiah, figli di Sanballat, governatore di Samaria. La lettera reca la data 20 del mese di marheshwan (25 novembre) del 17mo anno di Dario. Non ha senso osservare che del nome Bagohi esistono le varianti ebraiche, Bigvai,(15) o greca, Bagoas (Jdc, xii, 11), perché in ogni caso il governatore menzionato nell’iscrizione è sconosciuto all’AT, pur posto che il suo nome sia il corrispondente aramaico dell’ebraico Bigvai, che è tuttavia mera ipotesi. Né ha senso identificare Sanballat con l’omonimo coronita citato da Neemia,(16) fiero avversario della ricostruzione del tempio e in nessun caso indicato come governatore di Samaria. Quali possono essere le ragioni del silenzio dei due governatorati di Gerusalemme e di Samaria? Era forse (14) A. Cowley, Aramaic Papyri, cit., pp. 111-113; H. L. Ginsberg, Aramaic Letters, in J. B. Pritchard (ed.), Ancient Near Eastern Texts, Princeton, Princeton University Press, 1969, pp. 491-492; B. Porten, The Elephantine Papyri, cit., pp. 139-144. (15) Ezr, ii, 2; Neh, vii, 7; Jdc, xii, 11. (16) Neh, ii, 10; iii, 33 - iv, 7; vi, 1-14; xiii, 28.
I.2 La fase politeistica
85
dettato dal mancato riconoscimento di una tradizione cultuale propria della comunità ebraica di Elefantina fin dagli inizi del vi secolo? Di grande interesse è la stele di Mesha, re di Moab, figlio di Kemosh-yatt, che aveva regnato prima di lui per 30 anni. L’iscrizione, inventariata con il cod. AO 5066 del Louvre e proveniente dalla regione giordana di Dhiban, è stata datata intorno al 930 a.C. Tale datazione tuttavia non è accettabile perché è incompatibile con i dati cronologici che la stessa iscrizione ci fornisce: essa, infatti, parla del regno di Omri e di suo figlio Achab, come già scaduto e quindi non può essere anteriore alla metà del nono secolo. Poiché lo scontro decisivo con il regno del Nord si ebbe sotto Yoram (852-841), l’iscrizione è verosimilmente posteriore di qualche anno a tale data ed è incisa su pietra di basalto in lingua moabita, cioè in una lingua semitica occidentale, con caratteri di origine fenicia. Eretta sulle alture di Qarcho (forse un nuovo quartiere della capitale) in onore di Kemosh, dopo aver descritto le nuove costruzioni nei siti Medeba, Baal-Meon e Qiryataim, Aro’er, la strada militare per Arnon, Bet-Bamot e Bezer, l’autore ricorda le imprese militari del sovrano contro Israele (presumibilmente il regno del Nord), contro Atarot, Nebo e Jahaz. Dopo aver ricordato che Omri, re d’Israele (885-874), oppresse Moab per molti giorni e si impossessò della regione di Medeba, provocando l’ira di Kemosh, e che Achab (874-853), figlio di Omri, regnò con lo stesso intento di sottomettere Moab, Mesha dichiara di aver sconfitto per sempre Israele: Kemosh me l’ha restituita nei miei giorni. Ho edificato il Baal-Meon [citato nell’AT] e una riserva d’acqua. Ho edificato Qiryaten [nota nell’AT con il nome di Chiriataim] e i gaditi vivono nella regione di Atarot [citata nell’AT] da tempo antico. Il re di Israele fondò Atarot per sé, ma io l’ho combattuto e mi sono impossessato della città. Ho ucciso tutto il popolo della città in offerta a Kemosh e a Moab. Ho portato via il focolare di suo zio e l’ho posto davanti alla faccia di Kemosh in Qerioit ed ho lasciato che lì vivessero gli uomini di Sharon e di Maharit [non citati nell’AT)]. Kemosh mi disse: va’ e prendi Nebo [cioè monte Nebo] da Israele. Io sono venuto di notte e l’ho combattuto dall’alba a mezzogiorno e ho ucciso l’intera popolazione: ho fatto prigionieri settemila uomini, donne e serve. E ho emesso un bando per Asthar Kemosh. Ho preso i vasi di Yhwh e li ho posti davanti a Kemosh. Il re di Israele ha fondato Yahaz [località non citata nell’AT] e si è accampato lì contro di me. E Kemosh lo condusse lontano dal mio sguardo. Io ho preso duecento uomini di Moab e con tutta la
86 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini divisione mi sono recato a Yahaz e l’ho occupata per unirla a Dibon. Ho eretto a Qarcho le mura, le porte, le torri, la casa del re e una doppia riserva di acqua per la primavera. Ho costruito a Qarcho un fossato con l’impiego di prigionieri israeliti. Ho costruito Aro’er e la strada militare per Arnon. Ho ricostruito Bet-Bamot [non citata nell’AT] che era stata distrutta. Ho ricostruito Bezer [non citata nell’AT], che era in rovina. Ho costruito Beth-Medeba, Beth-Diblaten [citata da Geremia con il nome Beth-Diblatain], Beth-Baal-Meon. E Haraunen [non citato nell’AT] viveva lì […] Kemosh mi disse: combatti contro Haraunen.
L’iscrizione non trova corrispondenza con la narrazione dei libri storici: in particolare con l’autore di 2Re, che attribuisce a Yoram la vittoria contro Mesha (2Re, i, 1; iii, 4-27). Ma è evidente che egli mente, perché l’occupazione moabita delle terre menzionate nell’iscrizione è riconosciuta tanto da Isaia, quanto da Geremia. 2.2. La maturazione dello yhawismo Nella fase post-esilica non c’è più Israele; ogni sua traccia è stata cancellata dalla faccia della terra. Tutto ciò che di esso rimane, sopravvive nella Giudea, in totale sottomissione teologica e culturale. Alla teologia della promessa, che non ha più senso, subentra la teologia del patto, approntata tanto per la comunità giudaita che per quella israelita. Con la prima il popolo è totalmente nelle mani di Dio; è macchiato dal peccato e dalla infedeltà; le sue colpe sono collettive e la sua salvezza può venire solo da Yhwh. Con la seconda si stabilisce una sorta di equilibrio tra Yhwh e il popolo. Per le frange sacerdotali più liberali e moderate (più vicine all’autore di Ezechiele o al cosiddetto Deuteronomista) la salvezza richiede la cooperazione umana; per quella più rigorista (di ispirazione ezriana) la salvezza può venire solo dalla purezza e santità del singolo come della collettività. In ogni caso il patto è una sorta di do ut des: l’idea della fertilità è legata alla concezione dell’appartenenza a Dio della primogenitura e delle primizie; l’offerta a Dio della primogenitura del ventre e del bestiame ha come contropartita la moltiplicazione della discendenza e l’abbondanza del bestiame; l’offerta delle primizie ha come contropartita la fertilità della terra. La circoncisione è l’offerta della sessualità come libido in cambio della fe-
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condità. Il sacrificio cruento, che in origine era anche sacrificio umano (v. Isacco, Iefte), è l’offerta della vita per avere in cambio la moltiplicazione della vita. Nel sacrificio stesso è implicito un patto con Dio. Io sacrifico, do qualcosa a Dio, per avere in cambio qualcosa. La venerazione disinteressata, come puro sentimento religioso, non appartiene agli antichi, ma è un lusso dei popoli più evoluti. L’alleanza, progettata dalla classe sacerdotale ebraica come un atto di vassallaggio a Dio, è un’alleanza che ha un chiaro profilo giuridico, è un giuramento che implica un impegno da ambo le parti, ma fa ricadere sul contraente più debole i vantaggi (le benedizioni) e gli svantaggi (le maledizioni), conseguenti all’obbedienza e al tradimento. Yhwh è il dio che punisce non secondo il principio della responsabilità personale, ma punisce i figli per le colpe dei padri fino alla terza e alla quarta generazione o punisce la popolazione intera per le colpe di un singolo individuo. Il patto con dio è scritto col fuoco o con il dito di Yhwh su tavole di pietra. Yhwh è il dio temibile, il dio del terrore, il dio combattente, il dio degli eserciti che mette i nemici nelle mani di Israele o di Giuda, ma è anche il dio vendicativo e vendicatore, pronto allo sterminio e alla distruzione totale non solo dei nemici, ma anche del proprio popolo fedifrago. È la logica dello sterminio (hērem) che è frutto del sincretismo religioso, che fa di Yhwh una copia conforme delle divinità vicino-orientali, che sono tutte divinità nazionali o poliadi, ispiratrici della guerra santa e punitrici di ogni forma di infedeltà. Yhwh (Giuda), Assur (Assiria), Kemosh (Moab), Šamaš (Babilonia, Sippar e Larsa), Marduk (Babilonia), Melqart (Tiro), Moloch-Milkon (Ammon), Ba’al-shamim (Hanat), Hadad (Damasco), Qaus (Edom) sono tutte divinità che pretendono il sacrificio totale degli sconfitti ad essi votati; un sacrificio che non lascia in vita alcun superstite tra gli uomini, le donne e i bambini, né lascia segni di vita tra gli animali. Come per le altre religioni orientali non c’è un vero e proprio oltremondo, non ci sono prospettive escatologiche: le benedizioni e le punizioni cadono e colpiscono su questa terra. Le astrazioni teologiche presuppongono un pensiero filosofico più maturo. Il mondo ebraico delle origini è tutto chiuso nella concretezza della vita terrena. Quando l’autore ebreo scrive che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, in realtà rivela – senza avvedersene – che egli concepisce Dio a sua immagine e somiglianza: il Dio degli ebrei è concreto, tangibile, reale, quanto lo sono la terra e i suoi frutti, il bestiame e la ricchezza che ne deriva, le tribù, i clan, le famiglie e gli individui. È un Dio presente nella nube e nel fuoco, che vive in mezzo al popolo, parla al popolo
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e si fa udire, manda messaggeri e profeti, suscita giudici liberatori, fa sentire il suo spirito (il suo respiro, il vento), guida il popolo nei suoi spostamenti e nelle sue escursioni contro i nemici, stende la sua mano contro i nemici, incide col dito la pietra, si mostra faccia a faccia a Mosè. È solo sottratto alla vista e perciò non è raffigurabile o rappresentabile (aniconismo): chi dovesse vedere Yhwh, ne morirebbe. E tuttavia Yhwh, come ogni altra divinità vicino-orientale, è un Dio antropomorfizzato, manca di attributi essenziali sotto il profilo filosofico; non è onnisciente: interroga Adamo per sapere come ha scoperto la nudità; sa cosa passa per la testa del popolo per averne ascoltato i mormorii; è ‘êl-šadday, il Dio delle steppe o delle montagne, il dio che dà continui segni della propria potenza, con la quale soccorre il popolo e semina il panico tra i nemici, ma all’occorrenza lo semina anche nello stesso popolo israelita, quando non osserva le clausole del patto. La realtà è che intorno a tali culti monolatrici trovano la propria sussistenza le classi sacerdotali. Quella giudaita punta sul culto di Yhwh, dio nazionale, per rafforzare il senso dell’appartenenza e dell’isolamento (idea dell’elezione). Le fazioni fautrici dell’isolamento persistono nonostante la realtà storica imponga progressive assimilazioni con altri popoli. Persino nella diaspora persiste il senso dell’appartenenza, pur sotto l’influenza di culture straniere. Il rapporto tra Yhwh e Israele è un rapporto di reciproca protezione: le due peculiarità di Yhwh (l’ineffabilità del nome, l’invisibilità e l’infigurabilità) rientrano tra le protezioni a favore del dio e insieme del popolo, che, per essere frequentemente a contatto con popolazioni straniere, teme dalla loro parte azioni di malocchio o di appropriazione della potenza di Yhwh. Chi conosce il nome di Yhwh può maledirlo e scagliare la maledizione contro Israele; allo stesso modo chi conosce le fattezze di Yhwh, può rappresentarselo come idolo, appropriarsene o demolirlo o servirsene per assoggettare Israele. Yhwh protegge Israele a condizione che resti nell’isolamento etnico-religioso, perché Yhwh è un dio geloso; è un dio isolato nel pantheon degli dèi allo stesso modo in cui è isolato Israele tra gli altri popoli. Il rapporto tra Yhwh e Israele non è suscettibile di spiegazioni razionali: è un rapporto di reciproca elezione: Yhwh sceglie Israele senza una precisa ragione e Israele sceglie Yhwh. Solo in seguito, a partire dal Deuteronomio, la scelta è spiegata in termini d’amore; Dio ama Israele e Israele ama Dio. Ma anche in questo caso le ragioni di quest’amore restano occulte e non suscettibili di spiegazioni. Nello stesso tempo Yhwh comincia ad acquisire una dimensione più umana: non
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è più solo il dio della vendetta e dello sterminio o del terrore, ma è anche il dio della misericordia, capace di pietà verso un popolo dalla dura cervice che difficilmente osserva i suoi (ma in realtà sacerdotali) precetti. Nello stesso tempo il precetto della circoncisione perde il carattere della mera fisicità e subisce una sorta di progressiva trasposizione sul piano del sentimento, come circoncisione del cuore. La definitiva traduzione in termini spirituali avverrà solo con il cristianesimo. Paradossalmente a dispetto della narrazione biblica, spesso ricca di dettagli insignificanti e priva di notazioni cronologiche puntuali, per altro sospette per via del valore simbolico dei numeri, spesso ricorrenti, tutta la storia ebraica anteriore al vii secolo è incerta, insicura. Il trauma che lasciò un segno profondo nel popolo giudaita fu quello della cattività babilonese. Sul piano religioso si trattò di passare da un ambiente politeistico ad un altro ambiente altrettanto politeistico. Non tutti assunsero lo stesso atteggiamento di fronte al nemico oppressore. Nell’arco di un quarantennio non pochi si integrarono perfettamente nella cultura babilonese. Altri sognarono il ritorno alle antiche radici e alla propria indipendenza. Il popolo che passa attraverso il crogiolo della schiavitù ne esce profondamente trasformato. Non ci sono più i regni di Giuda e di Israele. Non c’è il mito dell’antico Israele; o meglio, esso è in fase di incubazione; è di fatto un mito giudaita che nasce dal bisogno di rivendicare, nel momento di massima prostrazione, un passato glorioso che per la verità non c’è mai stato. Così l’antico Israele è pensato nei termini della grandezza e magnificenza dell’antico popolo babilonese. Babilonia e il suo mondo religioso, ricco di miti e tradizioni, trasformano profondamente il culto di Yhwh; lo arricchiscono di tutta la variegata mitologia dell’Atramhasis, dell’Enūma Eliš e del Gilgameš, gli forniscono un apparato dottrinale, rituale e liturgico. Vengono assimilati il mito della creazione (v. Atramhasis, vv. 190-215) e del diluvio universale, l’idea dell’ascensione al cielo (Atramhasis: ascensione di An: v. 170: «Con te in cielo io salirò»), il concetto del tempio centralizzato, il patto con il dio, il rapporto di reciproca protezione tra il dio poliade e la città, il calendario, la legislazione hammurabica, l’olocausto e lo sterminio, la pasqua e la festività dell’anno nuovo. La gran parte dei giudei restò definitivamente in Babilonia. Un ristretto gruppo, più conservatore, fece ritorno nella Giudea quando, con l’avvento dei Persiani, si allentò la morsa sui deportati. Costoro portarono con sé un materiale di antichissima tradizione che non era di produzione ebraica, ma sumero-accadico-assiro-babilonese. Già da tempo quegli antichi poemi ba-
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bilonesi erano stati rimaneggiati e adattati a circostanze diverse; dalla primitiva redazione sumerica erano state ricavate le versioni accadiche, poi assire e infine babilonesi, le quali si erano diversificate in relazione alle diverse póleis e alle diverse divinità poliadi. Il Pentateuco rappresenta in qualche modo l’ultima variante di quegli stessi antichissimi miti.
capitolo iii
DISSEZIONE ANATOMICA DELLA GENESI: IL MITO DELL’ANTICO ISRAELE
3.1. Il carattere apografo della Genesi ( בראשיתberēšit) Il Pentateuco proietta l’età patriarcale verso la fine del terzo millennio. Gli esegeti confessionali ne hanno stabilito i confini cronologici a partire dal 2100. Essi hanno preso in esame le indicazioni suggerite in 1Re, ove la datazione dell’esodo dall’Egitto è fatta risalire a 480 anni prima della fondazione del tempio di Gerusalemme, e in Esodo, da cui si evince che il periodo della schiavitù in Egitto si protrasse per 430 anni (1Re, vi, 1; Ex, xii, 40). Sommando a tali cifre altri duecento anni relativi alla durata della vita dei patriarchi si giunge approssimativamente al 2100. Purtroppo tale datazione è incompatibile non solo con il testo della Genesi, ma anche con le risultanze archeologiche. Un esame dettagliato ci induce a affermare che gli scritti protocanonici che vanno dalla Genesi ai Re e che contengono la cosiddetta storia primaria sono apografi e sono stati scritti diversi secoli dopo gli eventi narrati. L’ipotesi più probabile, come vedremo nel corso di questo capitolo, è che la loro scrittura non può essere anteriore al vi secolo e che risalga al periodo post-esilico. Dire che si tratta di una narrazione mitologica, che assorbe in sé una serie di leggende(1) per lo più di origine ca(1) J. van Seters, Prologue to History: the Yahwist as Historian in Genesis, Zürich, Theologischer Verlag, 1992, p. xi sqq., rileva giustamente che la Genesi si caratterizza per la presenza di miti e di leggende riguardanti l’origine del mondo e di narrazioni eziologiche che sono incompatibili con la storiografia.
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nanaica, ugaritica, egizia e assiro-babilonese, non significa dire che non contenga anche elementi di storicità. Molte delle tessere che compongono il mosaico della Genesi indicano che la storia primaria altro non è che una saga familiare, una studiata cucitura di miti, leggende, tradizioni più o meno recenti, con l’obiettivo di individuare un eroe eponimo (Abramo), come radice comune degli israeliti del Nord e dei giudaiti del Sud. In altri termini ciò che di storico essa contiene si riferisce in particolare alla vita politico-sociale e al contesto storico del vi-v secolo. Finkelstein,(2) illustre archeologo israeliano, ha acutamente stigmatizzato tutti gli anacronismi che militano in tale direzione. Ne riportiamo in sintesi i più importanti: 1) Ur-Kasdim (ovvero Ur dei Caldei), indicata come patria d’origine di Abramo, è notoriamente una città sumerica, distrutta dagli elamiti all’inizio del ii millennio; ricostruita dai sovrani di Isin e di Larsa, cadde sotto il dominio cassita nel xiv secolo e successivamente sotto quello babilonese. Non fu mai sotto il controllo dei Caldei se non quando costoro si insediarono presso il Golfo Persico, ovvero intorno al x secolo, ben lungi dalla presunta età patriarcale. 2) La Genesi accenna spesso all’uso del cammello da parte dei patriarchi.(3) Ma noi sappiamo dalle ricerche archeologiche che esso fu introdotto in Palestina non prima del 1000 e che fu impiegato come animale da soma nel commercio carovaniero. Il versetto Gn, xxxvii, 25, è di particolare interesse perché ci fa sapere che Giuseppe fu venduto schiavo dai fratelli ad una carovana di Ismaeliti che praticava il commercio di «gomma, balsamo e resina». E poiché tale commercio fu sviluppato dagli arabi sotto il protettorato assiro è ovviamente databile all’viii-vii secolo. La scoperta a Tell Iamnia di ossa di esemplari adulti dimostra che si trattava di cammelli da soma e non di cammelli allevati (altrimenti si sarebbero trovate anche ossa di animali giovani). 3) Isacco, secondo Gn, xxvi, 1, si recò a Gerar (od. Tel Haror), ove sarebbe stato ospite del re dei filistei Abimelech. Anche questo è un dato anacronistico, perché i filistei comparvero sulla fascia costiera della Palestina intorno al 1200 e Gerar, come si evince dagli scavi archeologici, nell’età del Ferro I era un modestissimo villaggio che assurse a cittadella amministrativa solo tra l’viii e il vii secolo. 4) Il ciclo di Giacobbe accenna agli aramei; dai testi medio-orientali sappiamo che (2) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., pp. 51 sqq. (3) Gn, xii, 16; xxiv, 10, 11, 22, 30, 32, 35, 46, 61, 63, 64; xxx, 43; xxxi, 17, 34; xxxii, 8, 15; xxxvii, 25.
I.3 Dissezione anatomica della Genesi: il mito dell’antico Israele
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essi non compaiono se non dopo il 1100; fondano il regno di Aram-Damasco (Siria) nel ix secolo e, pur avendo una comune origine con gli israeliti, entrano spesso in conflitto con loro. 5) Un ulteriore anacronismo riguarda Edom e gli edomiti, citati frequentemente nella Genesi, in cui ci viene spiegato che il loro perenne conflitto con Israele ha le sue radici nella contesa per la primogenitura tra Esaù e Giacobbe. La Genesi ci dà anche la lista dei re di Edom (Gn, xxxvi, 1-19, 31-43), ma noi sappiamo dagli archivi assiri che il regno edomita si sviluppò solo a partire dall’viii secolo e raggiunse il suo apice a seguito del commercio arabo tra il vii e il vi secolo. 6) Ismaele, ricordato in Gn, xvi, 11-16; xxv, 12-17, come l’asino selvaggio, che abiterà lontano dal fratello e sarà l’eterno rivale di tutti i popoli, è l’eponimo degli ismaeliti, divisi anch’essi in dodici tribù e stanziati tra il confine dell’Egitto e quello dell’Assiria. Dei suoi figli le fonti assire dell’viii e del vii secolo citano Abdeel e Nebaiot. Il figlio Tema è probabilmente collegato all’oasi carovaniera di Teima, fiorita tra il 600 e il 400 a.C. 7) Gli scavi di Mispa (od: Tell en-Nasbe), Qadesh-Barnea (od. Tell el-Qudeirat, nel Sinai orientale) e di Tamar (od. Ayn Haseva) hanno dimostrato che tali siti sono stati occupati tra il settimo e il sesto secolo. 8) Ninive e Calah (Gn, x, 11) furono capitali assire tra l’viii e il vii secolo. 9) Nella Genesi ci vien detto che Giacobbe e i suoi figli furono ospitati in Egitto nella «parte migliore del paese» (Gn, xlvii, 11), ovvero nella regione di Ramses. Ciò ci permette di ipotizzare che l’innominato faraone di cui si parla nel romanzo di Giuseppe sia quanto meno posteriore ai due Ramses (1291-1212) della xix dinastia o addirittura posteriore ai Ramses (1184-1075) della xx dinastia. In entrambi i casi siamo ben lungi dalla presunta epoca patriarcale. 10) La Genesi ci fa sapere che Tera, padre di Abramo, si trasferì da Ur a Carran (Carrhae od. Harran nel sud della Turchia), al confine con la Siria (Gn, xi, 31). Ma è singolare che il testo usi il nome Crn (corrispondente al tardivo nome greco Κάῤῥαι, lat. Carrhae), anziché al più antico nome accadico Harrânu. Il che conferma che l’autore scrive in epoca più tarda.
Tutti questi anacronismi, segnalati da Finkelstein, dimostrano inequivocabilmente che la Genesi, ma più in generale il Pentateuco, non può essere anteriore al vi secolo. E ciò significa che il sottilissimo e mirabile ordito della storia primaria è solo il frutto di una elaborazione fantasiosa, che tra l’altro trasferisce i pochi dati geografici e storici che contiene in un lontano passato che con essi non ha nulla a che fare. Trattandosi di una storia inventata, in-
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ventati sono anche i nomi dei personaggi. Spesso sono infatti nomi derivati dalla funzione che i personaggi svolgono nella narrazione. Potremmo definirli nomi endonimi o endofunzionali, in quanto costruiti all’interno della stessa narrazione, che è peraltro di natura eziologica, come figure simboliche e tipologiche. Ne diamo qualche esempio: il nome Adamo ( )האדמsignifica in ebraico ‘terra, polvere’ o anche ‘umanità’ ed indica l’umanità nata dal fango; il nome Eva ( )חוהsignifica ‘vita’ e designa la «madre di tutti i viventi». Abram, che ha origini aramee (‘ab = padre rm =Aram, significa «padre di Aram»), è mutato da Dio in Abrāhām (‘ab = padre hrm = moltitudine) che significa ‘padre della moltitudine», cioè ‘patriarca’, eroe eponimo di un popolo. Ma nella nuova veste il Dio di Abrāhām(4) non è più il Dio di Noè, non ha più il respiro universale del dio dell’intera umanità, ma è ormai un Dio nazionale o un Dio familiare, perché così si presenta in Gn, xvii, 7: «Io sono il Dio tuo e della tua discendenza futura. Darò a te e alla tua discendenza futura in possesso perpetuo la terra […] del Canaan». Rebecca ( )ריבקהsignifica ‘trappola’ perché induce con stratagemmi ingannevoli Isacco a dare a Giacobbe la benedizione della primogenitura. Il nome Isacco ( )יצקחha la stessa radice del verbo ebraico zahaq = ‘sorridere’, perché Sara, ormai vecchia e sterile, sorrise per la sua nascita; Giacobbe ( )יץקבsignifica ‘inganno’ perché fece spesso ricorso a strategie ingannevoli e fu da Dio denominato Israele, che, dal verbo ebraico śārāh, significa combattere, perché combatté inconsapevolmente contro un uomo misterioso che si rivelò essere Dio. Sara ( )שרהsignifica ‘signora’, ‘principessa’, in quanto consorte dell’eponimo della nazione; Caino ( )קיןsignifica ‘lancia’, perché è strumento di uccisione; Abele ( )הבלsignifica ‘effimero’, in relazione alla brevità della sua vita, o ‘lutto’, in relazione alla sua tragica fine. Hagar è chiamata ‘fuggitiva’ (ebr. hāgār = fuggitiva), perché fuggì nel deserto con il figlio Ismaele. Noè da nōah (= «avere riposo») allude al riposo dopo il diluvio. Che la Genesi sia uno scritto apografo, compilato a distanza di secoli, non solo dall’età patriarcale, ma anche dalla prima età del Ferro, si evince anche dalle numerose eziologie che sono in esso presenti e che rispondono all’esigenza di spiegare sia taluni costumi ormai radicati nel tempo in cui l’autore scrive (vi-v secolo) sia talune denominazioni toponimiche del cui significato si era persa la memoria. Il divieto di mangiare il nervo sciatico è spiega(4) In Gn, x, xiv, 26, un servo definisce Yhwh «Dio del mio Signore Abramo»; Gn, xxvi, 24: «Io sono il dio di tuo padre Abramo».
I.3 Dissezione anatomica della Genesi: il mito dell’antico Israele
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to come conseguenza della lunga lotta notturna tra Yhwh e Giacobbe (Gn, xxxii, 33). Il detto «come Nimrod, valente cacciatore davanti a Yhwh», si spiega semplicemente per il fatto che l’etiope era un potente cacciatore (Gn, x, 8-9). Le altre eziologie riguardano nomi di località, come Betel (= casa di Dio) e Penu’el (= a faccia a faccia con Dio, Gn, xxxv, 1, 7, 15 xxxii, 31). «Il pozzo del vivente che mi vede», tra Qadesh e Bered, è così chiamato perché dio apparve ad Hagar. Il «pozzo del giuramento» (in ebr. Be’er-scheba, da cui il nome Bersabea) è così denominato perché Abramo e Abimelech strinsero un patto; ma più avanti, la stessa denominazione è spiegata in relazione ad un patto tra Isacco e Abimelech (Gn, xvi, 14; xxi, 31; xxvi, 33). Abramo chiamò il monte Moria «Dio provvede», perché Yhwh risparmiò la vita di Isacco; dallo stesso episodio deriva il detto «sul monte Yhwh provvede». A Gerar è chiamato ‘litigio’ o ‘contesa’ il pozzo presso cui i pastori di Isacco si scontrarono con quelli dei Filistei. Ad Efrata (Betlemme) Giacobbe eresse sulla tomba di Rachele una stele che «esiste ancora oggi».(5) A Geren-Atad in Transgiordania, il luogo in cui si svolsero i solenni funerali di Giacobbe fu denominato Abel-Mizraim = «lutto dell’Egitto». In qualche caso l’autore tenta di dare anche una spiegazione della legislazione egiziana ed afferma che fu Giuseppe a stabilire «la legge che vige ancora oggi sulle terre dell’Egitto: al faraone spetta un quinto del raccolto [in Egitto gli ebrei si sarebbero trasformati da nomadi in agricoltori; Giuseppe avrebbe fornito loro la semente per la coltivazione]. Soltanto le terre dei sacerdoti non furono soggette alla tassa del faraone» (Gn, xlvii, 26). Il romanzo di Giuseppe non ha probabilmente altra funzione se non quella di legare la vita dei villaggi centro-settentrionali con l’Egitto. Ciò è dovuto al fatto che su di essi la potenza egiziana esercitò a lungo un ruolo di protettorato. Soprattutto l’area centro-meridionale era di fatto sotto il diretto controllo dell’Egitto. Probabilmente l’influenza egiziana fu anche di carattere culturale e religioso, come si può arguire dagli accenni alle ritualità egizie, alla organizzazione sacerdotale, all’imbalsamazione di Giacobbe secondo il costume egizio (Gn, l, 2) e al seppellimento di Giuseppe in un sarcofago in Egitto (Gn, l, 26). I 430 anni di schiavitù in Egitto, predetti da Yhwh (Gn, xv, 13), sono in parte riconducibili alla memoria collettiva di tale dipendenza dall’impero egiziano e in parte sono un’anticipazione del racconto dell’Esodo. In ogni caso costituiscono una prova della tarda composizione della Genesi. Va altresì detto che l’autore mostra non poche incertezze circa la definizione dei confini (5) Gn, xxii, 14; xxvi, 20-21; xxxv, 20.
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del Canaan. Egli è molto vago e indica tutto il territorio che da Betel si osserva a Settentrione e a Meridione, a Oriente e a Occidente (Gn, xiii, 14-15). Altrove Yhwh promette ad Abramo la «terra del suo pellegrinare» (Gn, xvii, 8). Per un verso – a suo avviso – il Canaan si estende dal torrente d’Egitto all’Eufrate; per l’altro i confini vanno da Sidone a Gaza («da Sidone, verso Gerar, fino a Gaza, in direzione di Sodoma e Gomorra, Adma e Zeboim, fino a Lesa») ed è abitato da popoli come «i gebusei, gli amorrei, i gergesei, gli evei, gli architi, i sinei, gli harvaditi, i semariti e gli amatiti» (Gn, xv, 18; x, 19). In Gn, xlviii 22, si accenna ad una spartizione dell’eredità tra i figli di Giacobbe, poiché si dice che a Giuseppe è assegnata in più la città di Sichem, sottratta agli amorrei «con la spada e con l’arco». Ci sono ulteriori elementi che ci inducono a ritenere che l’assetto socio-economico ed etnico rappresentato nella Genesi sia tardivo. Sappiamo che i villaggi stanziati negli altopiani centrali erano numerosi, minuscoli e per di più etnicamente non uniformi per essere immersi e circondati da vari gruppi di cananei e di popolazioni autoctone. Ciò ci fa supporre che il processo di etnogenesi degli israeliti sia stato lungo e complesso. Assai verosimilmente si passò dalla famiglia nucleare (geber) a quella allargata (bêt’āb) al clan (mišpāhāh) e alla tribù (šēbet/matteh). Ora, a prescindere dal fatto che la terminologia impiegata, in particolare šēbet/matteh è tardiva e databile all’epoca esilica e post-esilica, è di scarsa credibilità l’articolazione del popolo israelita in dodici tribù (a parte il simbolismo del numero dodici, corrispondente ai dodici segni zodiacali e alla conseguente divisione dell’anno in dodici mesi) e alla loro organizzazione in una sorta di anfizionia.(6) La Genesi ci presenta tale processo di aggregazione nel senso opposto rispetto a quello che fu il suo naturale sviluppo. Essa ci fa credere che sono le tribù le cellule originarie e più antiche, le quali sono per ciò proiettate in un lontano passato. In realtà le tribù furono un punto d’approdo e furono il prodotto del lento sviluppo delle famiglie e dei clan. La popolazione settentrionale-israelitica ebbe, come sappiamo, maggiori chances rispetto a quella meridionale sia per ragioni geografiche sia per ragioni storiche. Il territorio occupato dagli israeliti era assai più accessibile rispetto a quello più impervio della regione montuosa di Gerusalemme. Non possiamo dilungarci sulle ragioni storiche, ma alcuni dati importanti non possono essere sottaciuti. (6) Cfr. in proposito M. Noth, Das System der zwölf Stämme Israels, Stuttgart, Kohlammer, 1928; R. Smend, Yahweh War and Tribal Confederation; Reflecions upon Israel’s earlist History, Nashville, Abingdon, 1970.
I.3 Dissezione anatomica della Genesi: il mito dell’antico Israele
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Con il collasso del Tardo Bronzo (1200) crollano i due grandi imperi, egizio al sud ed hittita (la grande Khatti) a Nord. Per l’impero hittita la fine fu radicale: scomparve del tutto dalla scena del mondo. Per l’impero egiziano invece fu solo l’inizio di una lenta agonia. In questo vuoto di potere le sorti di Israele e di Giuda sono ovviamente diverse. Entrambi sono regni di modesta entità e formalmente tributari delle grandi potenze. Ma mentre Israele, fino a che non si ricostituisce la grande potenza assira, ha margini di manovra più ampi, Giuda è ancora vincolato e controllato dal potere egiziano. L’etnogenesi dei due popoli è diversa: il processo di formazione etnica e di organizzazione statale di Israele precede di almeno 50/100 anni quello di Giuda. Anche sotto il profilo culturale e religioso le sorti sembrano essere diverse. Israele subisce il fascino e l’influenza dei culti settentrionali, da quello ugaritico a quello assiro-babilonese, che hanno al centro del loro pantheon divinità come Êl, il dio creatore del cielo e della terra, e Baal, il dio della tempesta e della fertilità. Giuda ruota nell’orbita della cultura egizia, nella quale compaiono le prime forme di monoteismo, a partire dal dio Aton e dal dio Sole. A sud di Gerusalemme una città ha il significativo nome di Bêt-šemeš che significa «casa del dio sole». Egiziano era anche l’uso di riferirsi al faraone non come ‘dio’, ma come ‘dèi’ al plurale; il che spiega il plurale ebraico ‘êlōhîm; analoga era anche la formula assira riferita «ad Assur e agli altri grandi dèi». Gran parte dell’antropomorfismo (mancanza dell’onniveggenza e dell’onniscienza) che serpeggia nella Genesi ha le sue radici nella divinizzazione del faraone, che è elevato al rango della divinità, ma è di fatto un uomo con caratteri umani. Di matrice egiziana è altresì l’idea del giuramento di fedeltà assoluta e di totale sottomissione dei re locali all’autorità del faraone, il dio, paragonato al Sole, che dà vita attraverso il soffio vitale e benefico che esce dalla sua bocca. Lo stesso rapporto gerarchico che si stabilisce tra il faraone e i sovrani vassalli, si stabilisce anche tra il Dio Yhwh e il popolo. Le prime forme di patto tra Yhwh ed Israele somiglino assai più ad un giuramento di fedeltà che a un concordato ispirato a reciproco vantaggio. In altri termini ‘êlōhîm ed ‘ĕlōhê non implicano una linea elohista contrapposta a quella yhawista. Yhwh ed êlōhîm sono nomi interfungibili come si evince dal fatto che compaiono indifferentemente in espressioni come «voce di yhwh» o «voce di êlōhîm», «faccia di yhwh/êlōhîm», «altare di yhwh/ êlōhîm», «angelo di yhwh/êlōhîm», «casa di yhwh/êlōhîm», «bocca di yhwh/ êlōhîm», «nome di yhwh/êlōhîm», «arca di yhwh/êlōhîm», «parola di yhwh/
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êlōhîm»; «timore di yhwh/êlōhîm»; «gloria di yhwh/êlōhîm», «spirito di yhwh/ êlōhîm». Diverso è il caso di Êl che per le popolazioni cananee del Nord era una divinità creatrice che coesisteva accanto a quella di Baal. Lo yhawismo non è altro che il prodotto del processo evolutivo del politeismo settentrionale. Originariamente esso è all’interno del politeismo e si configura come enoteismo, in cui è ammessa l’esistenza degli altri dèi (êlōhîm ăhêrîm). Presso i giudei di Elefantina ancora nel quinto secolo il culto di Yhwh (Yhw) convive con il politeismo. Prima di approdare al monoteismo assoluto con il Secondo Isaia, lo yhawismo è sostanzialmente una religione sincretistica, in cui si avvertono i residui dei culti cananei; in altri termini la figura di Yhwh, che forse è di origine meridionale, si assimila alle divinità cananee di Êl e di Baal. Le tracce di questo sincretismo si individuano nello stesso tessuto della Genesi con accenni alle divinità della pioggia e della fertilità (Yhwh rende fertili le donne sterili), ai culti degli alberi (la quercia di Mamre, la quercia di More), degli altari sulle alture, dei pozzi e delle grotte (grotta di Macpela), delle stele e delle pietre, dei sacrifici sui monti.(7) Ce ne danno una conferma le iscrizioni di Kuntilled Ajrud (corrispondente all’antica Teman), ove il nome di Yhwh coesiste accanto a quello di Baal e di Êl. Gli scavi archeologici dell’antica Teman hanno portato alla scoperta di ceramica giudaita e di frammenti di origine israelitica; ciò forse fa pensare alla convivenza di giudei e israeliti nella regione meridionale dopo la devastazione assira di Samaria. Le iscrizioni pervenuteci sono tre: la prima è apposta sul Pithos A e recita: «dice: dì a yehallelel e a yoash e […] ti benedico per yhwh di shomron [Samaria] e per asherah»; la seconda sul Pithos B recita «Amaryau dice: parla con il mio signore hshlm. Ti benedico per yhwh di teman e per asherah. Possa egli benedirti e osservarti ed essere con il mio signore»; la terza molto frammentaria, perché pervenuta su porzioni di intonaco, contiene un ulteriore riferimento a Yhwh e ad Asherah. Di analogo tono è una iscrizione di Khirbet el-Qom la quale recita: «Sia benedetto uriyahu da yhwh e dalla sua asherah, dai suoi nemici lo ha salvato». L’esistenza di Asherah come paredra di Baal è attestata da 1Re, xviii, 19. Un’ulteriore prova del carattere mitologico della narrazione della Genesi è dato dalla presenza in essa di numerose duplicazioni e ripetizioni, le qua(7) Per gli altari v. Gn, xii, 6, 8; xviii, 1; xxiii, 17, 19; xxvi, 25; xxxiii, 20; xxxv, 1, 3; xxxv, 4, 8; per i pozzi: xvi, 14; xxi, 31; xxiv, 11, 62; xxvi, 20-21, 33; xxxiii, 19; per le grotte: xxiii, 17; xxv, 9; l, 13; per le stele e le pietre: xxviii, 22; xxxi, 13, 45; xxxv, 14; per i sacrifici: xxxi, 54.
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li in parte si possono spiegare come conseguenza della cucitura di più documenti, ma in parte dipendono dalle molteplici varianti con cui i miti sono stati registrati nella memoria popolare e in parte dipendono dalla struttura stessa della composizione che è di carattere modulare. L’autore o gli autori procedono per schemi e per analogie. Talune vicende di Sara e di Rebecca sembrano essere costruite per analogie. Così anche accade per le storie di gemelli, per i conflitti di primogeniture, per le numerose genealogie, per le eziologie dei toponimi e così via. Ciò che è essenziale per il redattore non sono i dettagli della narrazione, i quali hanno per lui un significato simbolico, ma il messaggio politico che intende trasmettere. 3.2. Il ciclo della creazione e la sua radice mesopotamica La Genesi è costituita da tre nuclei fondamentali: 1) il mito della creazione e del diluvio e 2) la saga familiare che si sviluppa intorno alla figura di Abramo e della sua discendenza; 3) il romanzo di Giuseppe. Nessuno dei tre nuclei costituisce un documento storico e ciascuno presenta al suo interno incongruenze e duplicazioni, eziologie e genealogie di scarsa credibilità. Ciò tuttavia non esclude che nel testo si possano individuare tracce di reminiscenze, memorie, testimonianze di un passato più o meno remoto. In primo luogo il redattore finale intendeva dare attraverso la successione patriarcale una identità etnica e culturale ad Israele e a Giuda. Tale progetto presupponeva in secondo luogo la fondazione dei principi fondamentali di un’etica comune ed una riforma religiosa che trasformasse le divinità universali di matrice medio-orientale in divinità poliadi, protettrici dell’ethnos israelitico-giudaita. Il terzo obiettivo consisteva nella rivendicazione del diritto all’eredità (nāhălāh) e al possesso (‘ăhuzzāh) della terra del Canaan, che era stata sottratta o stava per essere sottratta ad entrambi i regni semitici. Questo terzo obiettivo ci aiuta a capire che il testo fu elaborato durante il periodo persiano nel corso del quinto secolo, allorché si profilava il rientro dei deportati negli altopiani centrali e ci si predisponeva a costruire gli strumenti per la rivendicazione, non certo facile, del diritto ad impadronirsi delle terre sottratte e ormai occupate dai ‘rimanenti’ o da popolazioni di origine cananea. Dei tre nuclei citati il secondo era forse quello originario, perché, come vedremo, era più commisurato al progetto politico-religioso della dinastia omride. Il mito della creazione fu
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forse aggiunto in seguito manipolando materiali religiosi per lo più esogeni,(8) tratti dalla produzione letteraria mesopotamica e ugaritica. I testi più manifestamente saccheggiati sembrano essere l’Atramhasis, redatto o compilato da Ku-Aja, l’Enūma Eliš, il capolavoro della teologia babilonese, e il Gilgameš, un romanzo laico che godette di ampia fortuna in tutta l’area medio-orientale.(9) (8) Sulle fonti esogene del Pentateuco è indispensabile il saggio di Victor Harold Matthews - Don C. Benjamin, Old Testament Parallels: Laws and Stories from the Ancient Near East, Mahwah, Paulist Press, 2006, che individuano in esso matrici egiziane e mesopotamiche. Così la Genesi sembra ispirarsi all’inno di Ptah (stele di Shabaka). Ptah è il dio creatore. L’inno si apre con l’enneade, cioè con l’assemblea dei nove patroni più importanti che ratificano l’unione del Nord e del Sud. Horus, il patrono del Nord, assume le responsabilità di Seth, patrono del Sud, e diventa il governatore dell’Egitto. Avendo creato tutte le cose, Ptah riposò e fu contento della sua opera, v. Gn, i, 31. Va aggiunto l’inno ad Atum, pervenutoci su papiro. Atum è dio creatore e governatore che accompagna i faraoni dalla nascita alla morte. A lui erano dedicati santuari ad Eliopoli, Ermopoli, Edfu. L’inno recita: «Al momento della creazione Atum disse. Io solo sono il creatore; quando io vengo all’esistenza, tutte le cose cominciano a svilupparsi. Quando l’onnipotente parla, tutte le cose vengono alla vita. Non c’erano né cielo, né terra, non c’era alcuna regione secca (Gn, i, 2) né c’erano rettili». L’Enūma Eliš presenta, secondo gli stessi autori, evidenti paralleli con Esodo e Salmi viii, xix, l, civ. In Gilgameš Enkidu è il paradigma di Adamo; Utnapishtim di Noè; Dilmun, la regione alla bocca dei fiumi, dell’Eden. Altre fonti di Genesi sono individuabili in Atramhasis e nelle Storie di Adapa, negli archivi di Nuzi, negli annali di Dedumose II, di Kamose, di Hatshepsut, nelle storie di Anubis a Bata, di Aqhat, di Kirta. Fonti dell’Esodo sono la storia di Sargon di Agade; il trattato tra Ramses II e Hattušilis III, gli annali di Merenptah. Fonti del Levitico, di Numeri e del Deuteronomio sono il codice di Shulgi, il codice sumerico, il codice di Hammurabi, il codice hittita, il codice medio-assiro, le storie di Balaam. Fonti di Giosuè e dei Giudici sono il racconto di Sinuhe, gli annali di Thutmosis III, gli annali di Ramses III, il Gezer almanach. Fonti di Samuele e Re: gli annali di Tiglat Pileser I, gli annali di Mesha, quelle di Tel Dan, gli annali di Karatepe di Azitiwada, gli annali di Salmanassar III, gli annali di Tiglat Pileser III, quelli di Sargon II, di Sennacherib, la storia di Siloam, gli annali di Nebuchadnezzar II, le lettere di Arad e quelle di Lachish. (9) Cfr. in proposito N. K. Sandars (ed.), L’epopea del Gilgameš, Milano, Adelphi, 1986; v. in particolare il par. 7, pp. 43-63. L’Epopea di Gilgameš, risalente al periodo mediobabilonese (1200-1100), è compilata dal sacerdote Sinleqiunnini sotto ispirazione divina: «La rivelazione che un capo aveva ripetuto prima di lui, egli [Sinleqiunnini], la mise per iscritto, in modo che i posteri potessero udirla». Ciò fa pensare che anche il Gilgameš sia un testo apografo, scritto a notevole distanza dall’epoca della rivelazione. Sinleqiunnini è un sacerdote, vissuto forse nel xiii-xii secolo. Un testo pubblicato dal sumerologo van Dijk contiene un elenco di sovrani antidiluviani e postdiluviani di Uruk. Tra i sovrani postdiluviani sono menzionati Enmerkar, che ha come consigliere l’apkallu Nungalpiriggal, e Gilgameš, che ha come consigliere l’ummanu (= Maestro) Sinleqiunnini.
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È facile intuire quali sono le possibili obiezioni a questo tipo di lettura. L’esegetica di matrice confessionale solleva la questione delle differenze, dei distinguo che fanno di un testo un qualcosa di originale, individuale e inconfondibile, non assimilabile né confrontabile con altri testi di diversa matrice culturale e altrettanto specifici e incomparabili. Ma le differenze non escludono le affinità. Le operazioni fatte a ricalco possono essere di vario tipo; si può andare dal plagio vero e proprio a forme di manipolazione, di derivazione più o meno generica o più o meno acconcia, a forme di ispirazione, di suggestione o di influenza o anche di trasformazione di un materiale assunto come modello. Ciò che lo storico ha il dovere di fare è di spiegare tanto le affinità quanto le differenze. Nei primi capitoli del libro (Gn, i, 1 – xi, 26) le divinità celisolari vengono soppiantate da quelle creatrici o comunque demiurgiche, proprie dei popoli agricoltori, a cui si deve il concetto stesso di creazione. Nel mito della Genesi il ‘creare’ sembra confondersi con l’’ordinare’, articolato nei due processi di unione (mare = ammasso delle acque, Gn, xv, 18; x, 19) e di separazione (della luce dalle tenebre o delle acque di sopra da quelle di sotto). Il poema dell’Atramhasis è in proposito assai più netto: la creazione è per esso come un parto della dea madre: «È presente Belet-ili, la dea madre; possa la dea madre partorire creando […]. Tu sei la dea madre, creatrice dell’umanità».(10) Rispetto al poema assiro-babilonese le divinità celisolari, come la trinità e gli Annunaki, restano nella Genesi innominate o genericamente accorpate sotto la denominazione plurale ‘êlōhîm. Dai versetti i, 20-21; 24-25, si intuisce che la grammatica della creazione presenta non poche défaillances. La prima difficoltà sta nello stabilire quale valore dobbiamo dare ai primi due versetti (i, 1-2). Si tratta cioè di decidere se essi servono da introduzione o da cappelletto alla storia della creazione in sei giorni o se ne sono una sintesi e sono già nel contesto narratologico, pur precedendo il primo giorno di creazione. L’espressione «in principio (berêšît) Dio creò (bārā ‘êlōhîm) il cielo (‘êt haššamayim) e la terra (we’êt hā’āres)» è troppo generica e soprattutto non è ben chiaro in che rapporto siano il cielo e la terra con le tenebre e con l’abisso, il quale a sua volta richiama alla memoria l’Apsu dell’Enūma Eliš. Si capisce che la terra si identifica con «l’informe (tōhū) e vuoto (wābōhū)», ma le tenebre (wehōšek) e l’abisso (hōwm), che non sono identificabili né con il cielo, né con la terra, non sembrano (10) Atramhasis, i, iv, 189-194, in Mitologia assiro-babilonese, a cura di G. Pettinato, Torino Utet, 2005, p. 323.
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essere l’effetto di un atto creativo. Lo stesso si dovrebbe dire delle acque (māyim), su cui si librava lo spirito di Dio (werū’ah ‘ĕlōhim), e della luce. Le acque non sembrano essere incluse nella terra, dal momento che questa è dichiarata informe e vuota, e la luce (‘ōwr), se nata per separazione dalle tenebre (Gn, i, 4), era evidentemente contenuta nelle tenebre e nell’abisso. Com’è poi possibile che nel primo giorno della creazione siano stati separati il giorno (yōwm) e la notte (lāyelāh), se i luminari astronomici, il sole, la luna e le stelle furono creati il quarto giorno? E com’è possibile che Dio creò il cielo prima del primo giorno, se plasmò il firmamento (rāqîa’ ), denominato ‘cielo’ (šāmāyim), solo nel secondo giorno? La dipendenza dai poemi assiro-babilonesi sta soprattutto nel concetto di creazione dell’universo e dell’umanità. Anche Marduk crea gli astri e i pianeti a immagine e somiglianza degli dèi. Tutte le divinità sono a lui assoggettate come re degli dèi, che crea le bestie del Sumuqan, le bestie della steppa, il Tigri e l’Eufrate ed assegna loro il nome proprio, come fa Adamo in Gn, ii, 19. C’è però una differenza tra le due teologie: l’idea di una creazione a immagine e somiglianza del Dio integra la teogonia babilonese ed è limitata alla generazione tra dèi o tutt’al più all’ordinamento dell’universo; tale è la logica dell’Enūma Eliš, per il quale Anu genera Nudimmud a sua immagine e somiglianza,(11) e della Creazione del sole, della luna e delle stelle in cui la trinità Anu, Enlil ed Ea assegna un nome alle stelle, ne stabilisce la traiettoria e le organizza «a loro somiglianza»;(12) nel testo biblico invece la «creazione a somiglianza» integra l’antropogonia e si riferisce alla formazione dell’uomo. Per la cosmogonia babilonese la creazione costituisce il lavoro degli dèi superiori e inferiori o comunque di Marduk, i quali generano l’umanità per passarle il canestro del lavoro: «Tu sei la dea madre[…] crea l’uomo primigenio, perché possa portare il giogo […]. Possa l’uomo sollevare il canestro del lavoro degli dèi»).(13) L’uomo è fatto di argilla, a cui è mescolato il sangue del dio We’e, «dio dell’intelligenza». Tale è anche la versione dell’Enūma Eliš,(14) che recita: «[Marduk] con il suo [di Kingu] sangue creò l’umanità, le addossò la corvée degli dèi e liberò gli dèi». Un residuo di tale concezione è in (11) Enūma Eliš, i, 16, in Mitologia assiro-babilonese, cit., p. 104. (12) Creazione del sole, della luna e delle stelle, vers. B, 1-5, in Mitologia assiro-babilonese, cit., p. 168. (13) Atramhasis, i, 194-197, in Mitologia assiro-babilonese, cit., p. 323. (14) Enūma Eliš, vi, 33-34, p. 138.
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Genesi, ii, 5-15, ove al fango è mescolato il soffio divino, «l’alito della vita» (nišmat hayyîm), che per l’epopea del Gilgameš è Enlil, la tempesta, il vento, l’alito, la parola di Anu (sum. = An). A differenza degli dèi celisolari, come Šamaš, che vede e conosce tutte le cose, il Dio della creazione non è onniveggente, come si evince dal fatto che ignora che Adamo aveva mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male. Il Dio della Genesi è, d’altronde, come tutte le divinità cananaiche, un Dio antropomorfizzato che passeggia nell’Eden al fresco della sera e si pente di aver creato l’uomo sulla terra (Gn, iii, 8; vi, 5-7). Le prerogative della divinità sono la conoscenza e la vita. Chi se ne appropria si divinizza. Mangiando dell’albero della conoscenza del bene e del male, Adamo è divenuto «come uno di noi» (ke’ahad mimmennū), cioè come uno degli dèi, ove il sintagma ‘uno di noi’ non può essere inteso come plurale majestatis. Il timore di Yhwh è che Adamo mangi anche dell’albero della vita, perché ciò lo trasformerebbe ipso facto in «un dio» a tutti gli effetti, capace di dominare la morte e di vivere in eterno come gli dèi. In altri termini il peccato di Adamo è quello di essersi impadronito di una delle prerogative essenziali della divinità. Perciò Yhwh pone dei Cherubini(15) davanti all’Eden affinché custodiscano l’albero della vita.(16) Nel Gilgameš il mistero della vita è custodito da una pianta lacustre che l’eroe, si lascia rapire da un serpente, dopo essersene impossessato. La spasmodica ricerca dell’immortalità (come tentativo di appropriarsi della vita) si conclude nel Gilgameš con la presa d’atto della fatalità della morte, sicché l’ostessa divina Siduri ricorda all’eroe che «quando gli dèi crearono l’uomo, gli diedero in fato la morte, ma tennero per sé la vita». La morte, che per il poema mesopotamico è iscritta nell’ordine universale della natura («Soltanto gli dèi vivono per sempre con Šamaš glorioso; invece noi uomini abbiamo i giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento»), è per il testo biblico una punizione divina (Gn, ii, 17). (15) Trattasi di angeli protettori. Il termine è di origine assira, ove karabu significa ‘benedicente’. Ezechiele (i, 6-11) si raffigura i cherubini come entità teriomorfe e tetracefale (leone, aquila, toro e uomo). (16) Gn, iii, 24. L’Eden è collocato (ii, 8-14) tra la Mesopotamia e l’Egitto ed è delimitato dal Nilo (Gihon? che scorreva intorno a tutto il paese di Etiopia), dal Pison (il Giordano che scorreva intorno al paese di Avila, dove c’è l’oro: Pison in lingua babilonese significa «scorrente»), dal Tigri (Hiddekel) e dall’Eufrate (Perath). Tali versetti dimostrano che l’origine dei miti della Genesi sono riferibili ad un’area geografica egizio-mesopotamica medio-orientale.
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Non avendo potuto mangiare dell’albero della vita, Adamo è condannato al lavoro e alla morte («Con fatica trarrai il nutrimento»; «Mangerai il pane con il sudore della tua fronte […] finché non tornerai polvere», Gn, iii, 1819). Alla condanna di Adamo corrisponde a carico di Eva la condanna alle doglie del parto (Gn, iii, 16). Le divinità della prima parte della Genesi hanno un carattere di apparente universalità proprio come accade nei poemi babilonesi: sono gli dèi di tutta l’umanità sebbene l’umanità si identifichi con l’etnia dapprima sumero-accadica e poi assiro-babilonese. Sono, perciò, divinità tipiche di una popolazione stanziale, dedita all’agricoltura, organizzata in agglomerati urbani, ben distinta dal popolo ebraico che era presuntivamente nomade fin dalle origini. L’anonimo redattore si richiama talvolta a fonti per noi oscure. All’inizio del capitolo v, per avvalorare la storicità del suo racconto, cita il cosiddetto «Libro della posterità di Adamo» (zeh sêper tōldōt ‘ādām). Molto probabilmente anche tale presunta fonte, certamente tardiva, ha le sue radici nella cultura sumero-babilonese, come si evince dall’età dei personaggi, che, per la durata della loro vita, si caratterizzano come semi-dèi o semi-eroi. Adamo, infatti, sarebbe vissuto 930 anni, Seth 912, Enos 905, Kenan 910, Maalaleel 895, Yared 962, Enoc 365, Matusalemme 959, Lamec 777, Noè 950, Sem 600, Arpacsad 468, Sela 463, Eber 464, Peleg 239, Reu 239, Serug 239, Nacor 230. La trasgressione e la corruzione implicano la logica della retribuzione: ad ogni mancanza corrisponde una punizione. Adamo ed Eva sono puniti con la cacciata dall’Eden, i semi-eroi o figli degli dèi sono puniti con la limitazione a centoventi anni della durata della vita: lo spirito divino, che è l’alito vitale, «non rimarrà per sempre nell’uomo; dal momento che egli è carne, la sua vita non durerà più di centoventi anni» (Gn, vi, 3). E poiché la malvagità degli uomini cresceva sulla terra, Yhwh, mostrando per la prima volta il volto di un Dio sterminatore, mandò contro l’umanità il diluvio: «Sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato» («Ecco sto per mandare sulla terra le acque del diluvio per sterminare ogni carne che ha l’alito della vita – rūah hayyîm – sotto il cielo», Gn, vi, 7; vi, 17). Il racconto del diluvio presenta nella letteratura sumero-babilonese diverse varianti. Quelle da noi meglio conosciute si riscontrano nell’Atramhasis e nel Gilgameš, dai quali il ciclo noachico dipende.(17) Il tema del diluvio (17) Atramhasis, ii, 42 - vii, 35, pp. 334-340. Il racconto è affine a quello del ciclo noachico, ma la versione ricalcata nel racconto biblico è quella del Gilgameš (xi, 1-198, pp 380-398). Il Noè babilonese si chiama Utanapištim.
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è presente anche in Erra e la nascita della guerra e in altri miti minori della letteratura babilonese (Ninurta e Anzu).(18) L’idea della rivelazione e della dettatura divina del testo sacro è presente in Erra.(19) Un’attenta lettura dei testi religiosi assiro-babilonesi rivela una forte comunanza di temi (il tema della vita e della morte, il riposo divino dal lavoro della creazione e il passaggio della corvée del lavoro agli uomini,(20) il carattere universale della creazione dell’umanità,(21) l’idea della coabitazione del dio Marduk e degli dèi con gli uomini nell’Esagila,(22) il calendario lunisolare, con l’inizio del mese nel novilunio,(23) il peccato degli uomini e la punizione divina).(24) Vi è infine una notevole comunanza di terminologia e di immagini,(25) di concet-
(18) Enūma Eliš, Erra, vv. 122-146, ove però gli uomini, nonostante la distruzione, «sopravvivono ancora»; 1, 170-178, p. 250; iv, 51; cfr. anche Ninurta e Anzu, in Mitologia assiro-babilonese, cit., ii, 20, p. 216; ii, 54, p. 225. (19) cfr. Erra, in Mitologia assiro-babilonese, cit., v, 43-44, p. 270: «Kabti-ilani-Marduk, figlio di Dbibi, è il compositore della sua tavoletta: il dio gliene fece la rivelazione nel corso della notte e, quando al mattino la recitò, non tralasciò alcuna riga: una sola riga non vi aggiunse di suo». (20) v. Atramhasis, i, 1-197, pp. 314-323, ove la dea Mami è «la creatrice dell’umanità»; «crea l’uomo primigenio», servendosi dell’argilla (v. 203). Al momento della creazione dell’uomo il dio Enki propone l’immolazione di un dio, così che «gli altri dèi si purificheranno mediante immersione. Con la sua carne e il suo sangue possa Ninurta mescolare l’argilla, in modo che dio e uomo siano mescolati insieme nell’argilla»; questo sacrificio con il sangue richiama alla mente il patto mosaico sul Sinai. v. anche Ea creatore, vv. 37, p. 182. (21) v. Marduk creatore, vv. 20, in Mitologia assiro-babilonese, cit., p. 184. (22) Marduk creatore, vv. 10-20, p. 184. (23) v. Creazione del sole della luna e delle stelle, vv. 3-4, in Mitologia assiro-babilonese, cit., p. 167. (24) cfr. Erra, i, 120-124, p. 247. La punizione divina è generalizzata come nel racconto della Genesi. Essa colpisce i colpevoli e gli innocenti: «Oh Eroe Erra, il giusto tu hai ucciso; chi non peccò contro di te hai ucciso […], i vecchi nella camera da letto hai ucciso, le giovani fanciulle nei loro talami hai ucciso […] e così dicesti nel tuo cuore: ‘ essi mi hanno disprezzato’ […]. Il seno voglio disseccare, sicché il bimbo non possa sopravvivere!» (Erra, iv, 104-121); «Come chi devasta un paese, non feci distinzione tra buoni e cattivi, tutti insieme atterrai» (Erra, v, 10). In Atramhasis, i, vii, 352, l’umanità si ribella agli dèi e ne subisce come conseguenza tre piaghe: un’epidemia, una carestia e il diluvio. (25) Per il pastorato del popolo, v. Ninurta e Anzu, iii, 129, 158, pp. 233- 234; «Signore della saggezza, tu sei il più alto, il più acuto»; per il sancta sanctorum, v. Enūma Eliš, vi, 111, p. 141; ii, 5, p. 235; ii, 22, p. 236: «Colui che maledice è votato a diventare polvere».
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ti,(26) di simbologie,(27) di pratiche liturgiche,(28) di organizzazione del potere sacerdotale.(29) L’Atramhasis e il Gilgameš sono testi molto frammentari che lasciano in ombra parti essenziali della narrazione. Ma la loro influenza sulla Genesi è indiscutibile. L’articolazione complessiva del racconto è sostanzialmente la stessa, pur nella diversità di taluni dettagli. Yhwh (Gil. = Ea; Atr. = Enki) avverte Noè (Atr. = Utnapistim) che sull’umanità sta per piombare l’immensa catastrofe (Atr. = il diluvio è preceduto da tre piaghe: l’epidemia, la carestia e la siccità) e gli suggerisce di costruire un’arca di determinate misure (300 x 50 x 30 cubiti; Atr: = le sue misure sono uguali; Gil. = la lunghezza è pari all’altezza) e costituita di tre piani (Gil. = sette piani). In essa Noè farà entrare la propria famiglia e una coppia di ogni essere vivente, uccelli, quadru(26) La coppia Anu-Ištar presenta analogie con la coppia Yhwh-Asherah. In Ninurta e Anzu compare il concetto di «divino primogenito», i, vv. 2, p. 214; cfr. anche Erra, 1, 2, p. 242. L’assemblea dei grandi dèi richiama alla mente l’assemblea dei santi, cfr. Enūma Eliš, i, 147, 153; ii, 33, pp. 110, 112; Ninurta e Anzu, iii, 39, p. 218; Atramhasis, viii, ii, 36. Per la potenza sterminatrice del dio (Anzu), v. Atramhasis, iii, 53, 74: «Quando egli parla, colui che egli maledice si trasforma in creta»; v. anche Erra, i, 4, 12-13; ii, 239, pp. 254-255: «Annienterò il paese e lo ridurrò in cumulo di macerie. Abbatterò le città e le ridurrò in deserto. Distruggerò le montagne e ne atterrerò il bestiame. […], devasterò il canneto e il giuncheto con il fuoco. Atterrerò la gente e la vita. Non ne salverò neppure uno […]; il figlio non si darà premura della salute del padre e il padre non di quella del figlio». Sul culto dell’albero, v. Erra, i, 148-153, p. 249; sul creatore della saggezza, v. Enūma Eliš, ii, 58, p. 113: il padre Ansar ha «il potere di creare e di distruggere» (Enūma Eliš, ii, 62, p. 113). Sull’agnello sacrificale v. Erra, ii, 22, p. 256; Gli amanti di Istar, 31, p. 291. Sul toro celsete v. Gli amanti di Istar, vv. 45, 94, pp. 292 e 296. Ancora sulla devastazione v. Erra, iv, 27-30, p 262: «Non temere alcun dio, non paventare alcun uomo: piccolo e grande insieme consegna alla morte! Sia lattante sia bimbo, non risparmiare nessuno. Dei beni conservati a Babilonia fa’ pieno saccheggio!». Sul dio-fuoco v. Enūma Eliš, i, 161, p. 110. Sul concetto di ira della divinità e su quello di ‘resto’ v. Erra, v, 41: «Erra arse d’ira e progettò di abbattere i paesi e di distruggere la loro gente, Isum, invece, suo consigliere, lo placò e lasciò indietro un resto!». (27) Es. il verbo di Anu, il puro, il padre degli dèi, è inesauribile v. L’esaltazione di Ištar, in Mitologia assiro-babilonese, cit., pp. 190-195. Per la simbologia del sette, v. Ninurta e Anzu, ii, 30-35, p. 224; v. i sette Sibitti in Erra, i, 23-44, pp. 243-244; Erra, iv, 75, p. 264; i, 113, p. 247: «Nel canneto io sono il fuoco» e «Io soffio come il vento». L’espressione «esco nella steppa» fa pensare al dio delle steppe o delle montagne (il biblico êl šadday). (28) Per la creazione dell’uomo il dio Enki istituisce riti purificatori da celebrare il primo, il settimo e il quindicesimo giorno del mese, v. Atranhasis, i, 206-207, p. 324. (29) Al vertice del potere sacerdotale c’era un sommo sacerdote, v. Ea Creatore, vv. 36, in Mitologia assiro-babilonese, cit., p. 182.
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pedi e rettili. Nel capitolo vii le coppie di animali puri da far entrare nell’arca diventano sette; sette sono anche i giorni (Atr. = idem) che precedono il diluvio della durata di quaranta giorni e quaranta notti (Atr. = sette giorni e sette notti; Gil. = sei giorni e sette notti). Yhwh chiude l’arca dal di fuori. Galleggiando sulla superficie dell’acqua, l’arca si incaglia sul monte Ararat (Gil. = monte Nisir). Dopo quaranta giorni (Gil. = sette giorni) Noè fa uscire un corvo (Gil. = una colomba), poi una colomba (Gil. = una rondine), la quale torna indietro, non trovando dove posare (Gil. = idem); dopo sette giorni manda fuori una seconda colomba (Gil. = un corvo) la quale torna avendo nel becco una foglia d’olivo. Uscito dall’arca, Noè edifica un altare ed offre a Dio un olocausto (Gil. = idem). Yhwh ne odora la fragranza (Atr. e Gil. = idem). Il racconto nelle fonti babilonesi sembra monco all’inizio e alla fine, sicché non siamo sicuri di quale sia il suo senso complessivo. Cos’è che scatena in Dio l’ira e la volontà di sterminare la razza umana? La Genesi dà una motivazione che, a sua volta, non sembra pienamente giustificata, poiché Yhwh aveva già punito l’uomo con la cacciata dal paradiso terrestre e con l’assegnazione della morte. La motivazione data in Gn, vi, 5-6, è che «la malvagità degli uomini sulla terra era cresciuta […] che il loro cuore concepiva sempre e soltanto disegni malvagi» e che addirittura Dio «si pentì di aver creato l’umanità». Ma quali sono gli episodi di degrado morale ai quali fa riferimento? Si tratta ancora una volta di un peccato sessuale, ma questa volta riguarda la decadenza del divino, poiché sono i figli di Dio che trovarono belle le figlie dell’uomo e si unirono ad esse (Gn, vi, 1-2). È il famoso mito della nascita dei giganti che avrà tanta fortuna nella letteratura apocrifa, ma che non ha alcuna giustificazione razionale. Nei poemi babilonesi c’è forse una spiegazione più ragionevole. Per il Gilgameš la causa scatenante è la ribellione degli uomini: «In quei giorni il mondo pullulava, la gente si moltiplicava, il mondo mugghiava come un toro selvaggio e il grande dio venne destato dal clamore. Enlil udì il clamore e disse agli dèi in consesso: ‘lo strepito dell’umanità è intollerabile e il sonno non è più possibile a causa di questa babele’. Così gli dèi si accordarono per sterminare l’umanità». Il testo del Gilgameš è su questo punto lacunoso. Non è ben chiaro quale sia la natura di quel clamore e quale la ragione di quella ribellione. Atramhasis è in proposito più esaustivo. L’uomo era stato creato per portare il canestro del lavoro degli dèi, ma dopo 1.200 anni egli si ribellò e volle affrancarsi dal peso delle corvées. Da ciò l’istanza di uno stermi-
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nio (che è in realtà un falso sterminio) dell’umanità e di tutti gli esseri viventi i quali vengono salvati nella articolazione delle loro molteplici specie. La conclusione del racconto è nel testo biblico l’istituzione di un patto tra Dio e l’uomo. La conclusione dell’Atramhasis è lacunosa, ma sembra alludere ad un altro mito che passerà in seguito alla letteratura apocrifa e attraverso essa al cristianesimo nascente: il mito di una nuova creazione, di una rigenerazione radicale dell’umanità e del mondo, per passare dal mondo corruttibile a quello incorruttibile. E forse in questo si ricollega all’epopea del Gilgameš, dell’eroe che cerca l’immortalità, il cui mito si chiude con la reprimenda di Ea ad Enlil; «Imponi sul peccatore il suo peccato; imponi sul trasgressore la sua trasgressione; puniscilo un poco quando evade, ma non incalzarlo troppo, altrimenti perisce». Ma torniamo al patto che è l’elemento più pregnante della narrazione della Genesi. L’idea di un patto tra Dio e gli uomini è assente nella narrativa babilonese. Vi si trova, se mai, traccia di un patto tra Marduk e gli altri dèi, che è però tutt’altra cosa rispetto al patto biblico che ha come contraenti Dio e il popolo. Le versioni del patto sono tre: quello noachico, quello abramitico e quello mosaico. Il primo è il più generico, ma è anche il più universale, poiché coinvolge come contraenti, non solo l’umanità, ma anche tutti gli esseri viventi (Gn, ix, 10): Dio si impegna a non sterminare più i viventi e a non distruggere più la terra; l’umanità è invitata a crescere e a moltiplicarsi; tutti gli animali sono sottoposti al potere dell’uomo, al quale è fatto divieto di spargere il sangue o di mangiare carne con il sangue, perché «il sangue è la vita della carne» (Gn, ix, 4). A ciascun vivente Dio chiederà conto del sangue e della vita. Segno di tale patto è l’arcobaleno che ha la funzione di ricordare a Dio l’accordo statuito con tutti i viventi (Gn, ix, 15). Non si tratta di un vero e proprio patto: 1) perché da parte di Dio c’è una componente che consiste in una sorta di promessa, quella di non riprodurre il diluvio sterminatore; 2) perché tra la due parti non c’è uno scambio in positivo, un do ut des, ma uno scambio in negativo, un impegno a non fare dall’una e dall’altra parte: Dio si vincola a non distruggere ed i viventi si impegnano a non spargere il sangue e la vita. Ha più la natura di un patto giuridico l’alleanza che Dio stabilisce con Abramo. Ma anche in questo caso l’alleanza comporta una promessa: Dio promette ad Abramo di assegnargli una terra fertile come il Canaan, ove egli vive ‘da straniero’ («alla tua discendenza io darò questa terra»), e di assicurargli una discendenza numerosa come la polvere o come le stelle («Farò di te un grande popolo»; «Renderò la tua discendenza come
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la polvere della terra; se qualcuno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti»; «Guarda in cielo e conta le stelle […] così sarà la tua discendenza»).(30) Il dispositivo dell’accordo sta nella reciprocità dell’appartenenza: Yhwh sarà il Dio della progenie di Abramo e la progenie di Abramo avrà solo Yhwh come Dio. Il segno di tale alleanza è la circoncisione. In altri termini entrambi i patti, noachico e abramitico, vertono sempre e comunque sulla vita come prerogativa essenziale della divinità. Tale sarà, come vedremo, anche il patto mosaico. La concezione di un forte legame Dio-popolo o Dio-luogo è comune alle religioni cananaiche, ma l’impianto teologico è senza dubbio tratto dall’Enūma Eliš o apoteosi di Marduk. Nei suoi aspetti politico-organizzativi la religione giudaita ha i suoi presupposti in quella babilonese, ove la casta sacerdotale vanta una discendenza da Dio. Nabu è, infatti, figlio di Marduk, erede della saggezza di Enki; è patrono del lavoro intellettuale e della casta degli scribi. Babilonia significa «porta del Dio», «luogo santo», «luogo abitato da Dio», secondo una concezione religiosa per cui la divinità abita con gli uomini. Lo stesso concetto è presente nell’idea giudaita dell’unicità del tempio. Marduk-Lugaldukuga crea la città e costruisce l’Esagila, il tempio a lui dedicato. Nette sono le affinità tra Babilonia e Gerusalemme. Con la trasformazione della tenda del convegno da tempio mobile di un popolo nomade a tempio stabile di un popolo ormai insediato in un territorio, Yhwh diventa un Dio poliade. Di matrice babilonese sono anche i ritualismi, le liturgie giudaite, la celebrazione del sacrificio e talune festività religiose, come la festa del Nuovo Anno, una sorta di pasqua babilonese, che cadeva all’inizio dell’anno nei primi undici giorni del mese di nisan (aprile), a ricordo della vittoria di Marduk su Tiamat, la dea delle acque salate. Il racconto veterotestamentario del passaggio del Mar Morto non è che una trasposizione del mito babilonese. La festa culminava con la processione della statua del Dio Marduk che veniva portata dall’Esagila al tempio Akitu, edificato fuori le mura (le porte del tempio Akitu si aprivano una sola volta all’anno). È interessante notare che nel corso della festa il Sommo Sacerdote innalzava per ben due volte le tavole su cui era scritto il poema Enūma Eliš. Il ciclo della creazione si chiude con una strana digressione (Gn, x, 1 -xi, 32) che ha la pretesa di far derivare da Noè l’origine di tutti i popoli della terra o almeno di tutti gli eponimi dei popoli dell’area afro-asiatica. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un nuovo documento, ma è in realtà una (30) Gn, xvii, 2-7; xii, 7; xiii, 16; xii, 2; xv, 5.
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ricostruzione fantasiosa, dominata dalla concezione assiro-babilonese dei semi-eroi capostipiti di popoli o fondatori di città. La durata della loro vita supera i 120 anni stabiliti da Dio in occasione del diluvio. Gli eponimi citati sono per lo più privi di notorietà o in qualche caso traggono il nome dalle popolazioni cui fanno riferimento (es. Cus-Etiopia, Mesraim-Egitto, Canaan-Canaan, Elam-Elamiti, Assur-Assiria, Aram-Siria). La redazione del testo è sicuramente di datazione post-esilica, come si evince dal giudizio negativo riservato a Babilionia, centro di origine della confusione delle lingue e della diaspora dei popoli (Gn, xi, 8-9). Il testo che costituì un modello teologico per la Genesi è certamente l’Enūma Eliš. Ritenuto di ispirazione divina e scritto in sette tavole probabilmente nel periodo di Nabucodonosor I (1100 circa), il poema babilonese contiene nella parte conclusiva il «Canto di Marduk», che era recitato il quarto degli undici giorni della festa del Nuovo Anno. Il testo parte dalla creazione: tutto si origina dalle acque primordiali che sono le acque dolci (Apsu) e quelle salate (Tiamat). Dal matrimonio di Tiamat e Apsu nascono dapprima la coppia divina, Lahmu e Lahamu, poi la coppia Ansar-Kisar, da cui è generato An, dio del cielo. Da An nasce Nudimmud (chiamato anche Ea o Enki). Da Enki nasce Marduk. Il ciclo biblico della creazione, con la separazione delle acque primordiali,(31) è modellato sul racconto dell’Enūma Eliš,(32) da cui trae il respiro universale della creazione dell’umanità. Nel poema babilonese il mito di Marduk comprende il racconto di due creazioni: la prima è la più remota nel tempo, «quando in alto i cieli non avevano un nome» ed esistevano soltanto le acque primordiali, quelle di sopra e quelle di sotto; «nel loro seno furono creati gli dèi». Agli dèi superiori (gli Annunaki) si ribellarono gli Igigi (che ricordano gli angeli che peccarono unendosi alle donne). Anu creò la polvere, i venti e l’uragano. Questa prima creazione è quella degli dèi (fase politeistica, accostabile agli ‘êlōhîm della Genesi). La seconda creazione è quella di Marduk, che ha molti tratti in comune con Yhwh, tanto da far pensare che il secondo sia fatto ad immagine e somiglianza del primo. Marduk è il dio che «trasuda di terrore»;(33) è un guerriero, «comandante dell’esercito»;(34) è l’eccelso che nell’assemblea dei suoi padri divini non ha eguali. Tanto Marduk quanto Yhwh rappresen(31) Enūma Eliš, i, 1-70, pp. 104-106. (32) Ivi, ma v. anche Erra, i, 1-2, p. 242. (33) Enūma Eliš, ii, 112, p. 115. (34) Ivi, iv, 25, p. 262.
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tano divinità che segnano il passaggio da una religione politeistica ad una enoteistica. Marduk fa un patto con gli dèi: combatterà il male a condizione di essere riconosciuto come un dio supremo, il «saggio tra gli dèi», superiore a tutti gli altri dèi. Egli chiede per sé pieni poteri: «Tutto quello che io decido non deve essere mai mutato, né un mio ordine deve essere cambiato o revocato».(35) I suoi cinquanta appellativi (per lo più associabili alle settanta e più denominazioni assunte da Yhwh nel testo biblico) esplicitano i suoi poteri: Marduk è Belo = Signore (corrispondente al biblico Adonai), è colui che rifornisce i pascoli e le pozze d’acqua e fa proliferare la stalla; è il figlio, il dio-sole degli dèi, colui che ha il potere di creazione e di distruzione, di perdono e di punizione. Come Yhwh, Marduk è un Dio ‘vendicatore’ che distrugge «i nemici contorti»; egli è e non ha uguali, è accigliato ma equilibrato, è pronto all’ira ma è tollerante. Anche il concetto di misericordia divina viene da Babilonia, perché Marduk è il Dio dal soffio benefico, il misericordioso nel cui potere è la resurrezione.(36) Marduk abita nel suo santuario, l’Esagila; siede «su un trono principesco», possiede «la regalità su tutto l’universo», ha in suo potere «l’innalzare e l’umiliare»,(37) «la sua parola è efficace», il suo comando «non può essere contraddetto; nessuno degli dèi potrà oltrepassare il confine da lui stabilito»; nell’assemblea «la sua parola è preminente». «Le sue armi non devono fallire, ma colpire i nemici»; egli «annienta il dio che ha tramato il male»; ha il potere di «ordinare e causare la sparizione e la riapparizione. Con la parola fa scomparire la costellazione; con un nuovo ordine la costellazione ricompare».(38) A Marduk si deve la seconda creazione: egli creò le stelle, il sole, la luna e i loro percorsi periodici, stabilì i limiti dell’anno, dei mesi e dei giorni; fece sgorgare il Tigri e l’Eufrate, diede un nome alle cose, creò l’uomo a cui fu imposta la fatica degli dèi, in modo che gli dèi ottenessero il riposo; l’umanità fu creata con il sangue di Tiamat, cioè con sangue divino (secondo la tradizione di Nippur Enlil infuse nell’uomo lo spirito vitale di origine divina). Il suo santuario, l’Esagila, e la sua sede, Babilonia, ricordano l’unicità del tempio e la centralità Gerusalemme. Marduk istituì la festa del Nuovo Anno (Akitu) da celebrarsi nei primi undici giorni del mese di nisan (corrispettiva alla pasqua ebraica). A lui appartiene la volontà di creare e (35) Ivi, ii, 158-162, pp. 117-118. (36) Ivi, vii, 30, p. 145. (37) Ivi, iv, 8, p. 124. (38) Ivi, iv, 9-10, 14, 16, 22, pp. 124-125.
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di distruggere, di perdonare e di punire; è «il signore del cielo e della terra»; è lui che «dona la vita»; è il distruttore sterminatore dei nemici; è il dio degli eserciti; il suo «soffio (spirito) divino è benefico»; «crea ricchezza e benessere, procura l’abbondanza», fa «rivivere i morti», è «misericordioso», «conosce il cuore degli uomini», fa «proliferare la verità» e la separa dalla falsità; «stermina con le armi tutti i suoi nemici e li trasforma in vento»; «sradica tutti i malvagi che lo contrastano, ne annienta la discendenza»; è il «custode del paese», il «fedele pastore» del popolo; «attraversa di continuo il mare»; è «creatore di tutti gli uomini», è «onnicomprensivo nella saggezza», è colui che «rende fiorente il suo paese»; «il suo verdetto è immutabile»; «nessun dio può cambiare la parola che esce dalla sua bocca»; quando «il suo furore si scatena, nessuno può contrastarlo». «La sua mente è profonda, il suo cuore insondabile; peccatori e malvagi devono comparire davanti a lui!»). Egli ha fatto mettere per iscritto la sua rivelazione «in modo che i posteri potessero udirla». Come nell’Enūma Eliš Marduk soppianta i più antichi dèi superiori e inferiori e fornisce un’identità al popolo e al paese che ha il suo centro in Babilonia e il suo santuario nell’Esagila, così nella Genesi Yhwh soppianta le antiche divinità, gli ‘êlōhîm, per assumere il volto del dio supremo, sul cui culto si fonda l’identità del popolo di Giuda che ha il suo centro in Gerusalemme e nel suo santuario. 3.3. Il ciclo dei grandi patriarchi Abramo è una figura ibrida; per un verso è l’eponimo di un dinastia settentrionale, per l’altro la sua origine è meridionale. Il padre Tera, originario di Ur-Kasdim (od. Tell el-Mukayyar), nella bassa Mesopotamia, in prossimità del Golfo Persico, si trasferisce a Carran. Alla morte di Tera, Yhwh invita Abramo a lasciare Carran («Va’ via dalla tua terra», Gn, xii, 1) per recarsi in Canaan. Nel corso di tale viaggio il patriarca si comporta secondo le prescrizioni rituali della religione cananea settentrionale: fedele ad êl, sale sul monte di Betel (= casa di êl), pianta la sua tenda a ponente di Betel e a levante di Ai e costruisce un altare. Poi, tolto l’accampamento, migra nel Negev (= deserto, terra arida) a sud. A causa di un carestia è costretto a scendere in Egitto. Qui la vicenda diventa grottesca, poiché presenta sua moglie Sarai al Faraone come sorella. Tiene cioè un ignobile comportamento: per salvare se stesso, cede la moglie al Faraone e riceve in cambio pecore, buoi,
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asini, servi, serve, asine e cammelli. Non è escluso che la vicenda si inquadri in un antico costume consistente nel barattare le prestazioni sessuali della moglie. La purezza di Sara è comunque salvata da un provvidenziale intervento di Yhwh che colpisce l’Egitto con grandi piaghe. Tornato nel Negev, e poi di nuovo a Betel, Abramo entra in conflitto con Lot. La lite trova una soluzione pacifica: Lot decide di occupare la parte orientale del Canaan e Abramo la parte occidentale. Perciò il patriarca smonta la tenda da Betel e si accampa presso la quercia di Mamre (culto degli alberi), presso Hebron nel sud. Ben presto egli è coinvolto nella battaglia di Siddim (la valle del Mar Morto) che vede schierate da una parte una lega di quattro re (Amrafel di Sennaar, Arioch di Ellasar, Chedorlaomer di Elam, Tideal «re dei popoli») e dall’altra una lega di cinque re (Bera di Sodoma, Birsa di Gomorra, Sinab di Adma, Semeber di Zeboim, e al re di Bela, detta anche Zoar). In difesa di Lot, suo nipote, Abramo allestisce un esercito di 318 uomini e sconfigge la lega di Chedorlaomer. Melchizedek, sacerdote di Êl-’elyōn, gli rende omaggio, gli porta pane e vino e lo benedice. Mentre si appresta ad un sacrificio, gli viene in sogno il Signore che gli annuncia la lunga schiavitù in Egitto: «I tuoi discendenti dimoreranno come stranieri in una terra non loro, dove saranno schiavi e oppressi per quattrocento anni». Si tratta ovviamente di una profezia post-festum, poiché l’autore scrive evidentemente dopo il presunto rientro dall’Egitto, allorché Dio gli promette di consegnare alla sua discendenza la terra di Canaan dal torrente d’Egitto fino all’Eufrate, cioè il paese ove abitano i keniti (forse una tribù di madianiti), ed altre tribù di origine cananea come i kenizziti (forse discendenti di Elifaz, figlio di Esaù), i kadmoniti (= orientali), i perizziti (= abitanti del villaggio) o ferezei, i refaim (= defunti, immaginati come giganti), gli amorrei, i gergesei, gli evei e i gebusei (tribù cananea che abitava la città di Gebus/Iebus che prima si chiamava Shalem = Gerusalemme). Il capitolo xx riproduce con qualche variante la versione fornita nel capitolo xii. Recandosi nel Negev, Abraham si stabilisce tra Qadesh e Sur (un deserto a Nord-Ovest del Sinai) e poi a Gerar (presso Gaza) e presenta ad Abimelech (= il re è mio padre), re filisteo, sua moglie Sara come sorella. Questa volta Yhwh avverte il sovrano di Gerar prima che si unisca a Sara. È da notare che l’unione con una donna sposata era considerata un peccato, benché Dio non avesse ancora dettato il decalogo. Comunque in tale contesto veniamo a sapere che Sara, per essere nata dallo stesso padre, era sorellastra di Abramo (Gn, xx, 12). Non è però chiaro come ciò si possa spiegare,
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perché Sara non è annoverata tra i discendenti di Tera. Infatti in Gn, xi, 2729, si dice che Tera generò Abram, Nacor e Aran. Aran generò Lot, Milca e Isca. Milca sposò suo zio Nacor. Il sacrificio di Isacco è un sacrificio umano scampato; segno che nella più antica tradizione non doveva mancare l’olocausto più cruento. In ogni caso Isacco è sostituito da un montone impigliatosi in un cespuglio. Abraham compra da Efron, figlio di Zocar, la grotta di Macpela a Kiriat-Arba, presso Hebron, nella terra di Canaan, ma sotto dominio hittita e vi seppellisce Sara. In seguito Abraham incarica un servo di cercare una moglie per Isacco nel suo paese natale, che dovrebbe essere Ur-Kasdim. Invece il servo si reca nella città di Nacor nella Siria mesopotamica e sceglie come moglie di Isacco Rebecca. Infine Abraham prende una nuova moglie, Chetura, ed ha da lei e dalle concubine nuovi figli destinati ad esser eponimi degli Assiri, dei letusim e dei leummin (figli di Dedan) e dei madianiti (figli di Madian). Alla sua morte, all’età di 175 anni, viene sepolto nella grotta di Macpela. Pur proseguendo l’attività pastorale, Isacco sembra invece preferire la vita stanziale e dedicarsi all’agricoltura (Gn, xxvi, 20, 12); si ferma a lungo presso Abimelech, re dei Filistei, a Gerar a sud di Gaza. Quando entra in conflitto con i Filistei si sposta nello wadi di Gerar. Trascorre il resto della sua vita a Be’er-sheba (Bĕ’ēr-šceba = pozzo del giuramento, Gn, xxvi, 23). Il ciclo dei patriarchi continua con Giacobbe, figlio di Isacco e di Rebecca. Anche in questo caso siamo di fronte ad una sorta di romanzo, che contiene tracce di antiche pratiche incestuose e poligamiche ed ha lo scopo di far derivare tutte le popolazioni della terra dal ceppo di Abramo, attraverso il mito delle dodici tribù giacobite. Ad Israele-Giacobbe è così assegnato un ipertrofico ruolo nella storia universale. Ingannato dallo zio Labano, egli è costretto a sposare le sue due figlie Lia e Rachele (Rachel = pecora; i figli di Giacobbe erano allevatori di ovini). Con uno stratagemma di scarsa credibilità, Giacobbe si impadronisce delle greggi di Labano e torna nella terra di suo padre. Nel capitolo xxviii si ripete la teofania a Betel con la mistica visione della scala degli angeli (Gn, xxviii, 10-22). Yhwh si dichiara a Giacobbe («Io sono il Dio di Abraham, tuo padre, e il Dio di Isacco») e conferma la promessa di una discendenza numerosa: («Ti darò una discendenza in cui saranno benedetti tutti i popoli della terra»). A Betel Giacobbe avverte la presenza di Yhwh: «In questo luogo c’è la presenza di Yhwh e io non lo sapevo […] questa è davvero la casa di Dio […] egli chiamò quel luogo Betel che prima si chiamava Luz; vi eresse a stele la pietra su cui ave-
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va dormito e la unse con l’olio; quella pietra diventerà un tempio» (Gn, xxviii, 19). Nella fase del conflitto con il clan di Labano Yhwh si dichiara ancora una volta a Giacobbe: «Io sono il Dio di Betel» ‘ānōki hā’êl bêt-’êl (Gn, xxxi, 13). Con qualche variante lo stesso episodio era già capitato a suo nonno Abraham; entrambi danno al luogo della teofania la denominazione Betel (Gn, xii, 1-8). La separazione di Giacobbe da Labano è corredata da una serie di astuzie, di inganni e di ruberie. La stessa Rachele ruba gli idoli di suo padre (Gn, xxxi, 20). Yhwh continua ad essere considerato un dio familiare, non dissimile dai latini Lares; Giacobbe infatti lo definisce «Dio di mio padre, il Dio di Abraham e il terrore (ūpāhad) di Isacco» (Gn, xxxi, 42). E quando a Be’er-sheba gli offre sacrifici, Dio si presenta come divinità del clan: «Io sono Êl, il dio di tuo padre» (Gn, xxvi, 24; xxviii, 13). Fuggito da Labano, Giacobbe si reca a Galaad. Labano lo raggiunge, ma la contesa si conclude con un patto: Giacobbe erige una stele, poi prende delle pietre e forma una piattaforma rotonda su cui mangiano insieme. Labano la chiama Iegar-Saaduta (= mucchio della testimonianza, in lingua aramaica); Giacobbe la chiama Gad-Ed e Mispa (luogo della vendetta, in ebraico): la piattaforma rotonda segna il confine tra Labano e Giacobbe. Il racconto prosegue con la riconciliazione con il fratello Esaù, ma presso Yabbōk (= lottare) Giacobbe combatte con un uomo misterioso che si rivela essere Yhwh (Gn, xxxii, 23 sqq) ed è colpito al nervo sciatico. Da quel momento per volere di Dio egli non si chiamerà più Giacobbe ma Israele (êl śārāh = che combatte per il signore) e il luogo dello scontro sarà chiamato Penu’el (pĕnû’ēl da panim = faccia, ‘êl= Dio), perché «ho visto Dio faccia a faccia». Nonostante abbia ricevuto un nuovo nome, il testo continua a citarlo con il suo vecchio nome. Solo negli ultimi capitoli della Genesi prevale il nome ‘Israele’. Mentre Esaù muove verso Se’ir, Giacobbe si reca a Sukkot, ove costruisce una casa per sé e capanne per il gregge («per questo quel luogo si chiama – sottinteso ancora oggi – Capannelle», Gn, xxxiii, 17) e si ferma a Sichem, ove acquista dall’eveo Camor, padre di Sichem, una campagna per erigervi un altare dedicato a êl. Sichem rapisce e stupra Dina (la figlia di Giacobbe nominata tra i suoi discendenti nel capitolo xxx, ma non nel capitolo xxxv; Gn, xxx, 21; xxxv, 23-26). Per vendicarla i fratelli ricorrono ad un inganno: fanno credere a Sichem di cedergli in moglie la sorella Dina a condizione che tutti i maschi degli evei si circoncidessero: ma di notte Simeone e Levi li passano a fil di spada e saccheggiano la città. L’episodio si conclude con una nuova teofania:
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Dio, che per la prima volta si presenta come ‘êl šadday ()א ל שדי, divinità di origine ugaritica,(39) invita Israele a salire a Betel e a costruirvi un altare, come se ciò non fosse già stato fatto secondo lo stesso rito (erezione di una stele e sua unzione con l’olio).(40) Giacobbe rinomina ancora una volta quel luogo Betel o êl-betel e nuovamente êl-šadday cambia il nome di Giacobbe in Israele.(41) Partiti da Betel, Giacobbe e i suoi si recano ad Efrata (Betlemme), ove Rachele partorisce Ben-Oni (= figlio della sfortuna), ma il padre muta il suo nome in Beniamino (= figlio della fortuna). A Betlemme muore Rachele e sulla sua tomba Giacobbe erige una stele «che esiste ancora oggi» (Gn, xxxv, 20). A Hebron muore Isacco all’età di 180 anni ed è sepolto a Mamre. Giacobbe si stabilisce nella terra di Canaan, in cui «suo padre aveva soggiornato da forestiero» (Gn, xxxvii, 1). Il passo deve essere inteso nel senso che Giacobbe abbandona la vita nomade dei pastori e si stabilisce da agricoltore nella terra di Canaan. È importante notare che l’espressione «vivere da forestiero» equivale a «vivere in qualità di nomade». È infatti assai probabile che le popolazioni cananee abbiano tollerato minuscoli clan di ebrei finché erano nomadi. 3.4. La Genesi e la tradizione culturale dei villaggi centro-settentrionali Abbiamo detto che nel tessuto narrativo della Genesi affiorano qua e là non poche tracce di una cultura più antica che probabilmente caratterizzò le popolazioni dei numerosi villaggi dell’area montuosa centro-settentrionale del Canaan. Sappiamo che con il collasso del Tardo Bronzo, che portò alla devastazione le più fiorenti città delle fertili valli, gruppi di pastori, ma forse anche di piccoli agricoltori, si rifugiarono negli altopiani centrali al fine di ripararsi dalle temibili incursioni dei popoli del mare. Probabilmente si trattò di migrazioni di cananei e cananea appare la cultura materiale ed etico-religiosa delle comunità dei villaggi. Non ci furono veri e propri di trasferimenti di massa. L’esiguità e la povertà dei villaggi che sorsero a decine e a centinaia dimostra che si trattò di spostamenti di piccoli nuclei familiari autonomi che procedettero ad occupare le zone collinari e a sperimentare in esse una conduzione della vita agricola in concomitanza (39) W. F. Albright, From the Stone Age, Monotheism and the Historical Process, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1940, pp. 197, 199. (40) Gn, xxxv, 15, come in xxviii, 19. (41) Gn, xxxv, 10, come in xxxii, 29.
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con quella pastorale. Ciò spiega perché nella Genesi la vita pastorale e quella agricola risultano assai spesso associate. È assai verosimile che tali piccoli gruppi fossero o per lo più di origine cananaica o gruppi di sbandati come gli hapiru che da nomadi si convertirono in sedentari. Per circa tre secoli essi prosperarono e ingrandirono i loro minuscoli villaggi. Nel testo biblico la comune origine cananaica affiora con prepotenza a partire dalle affinità dei costumi, della religione e delle caratteristiche dei beni materiali. I più antichi villaggi israeliti erano circondati da popolazioni cananaiche, come gli amorrei, i gergesei, gli evei, i gebusei, i ferezei, ritenuti discendenti da Canaan, figlio di Noè. I patriarchi ebbero con essi rapporti continui, inizialmente di amicizia, poi sempre più conflittuali. Alcuni discendenti di Noè sposarono donne di origini cananee; nella Transgiordania, ad Atad, i solenni funerali di Giacobbe furono accompagnati dal cordoglio dei cananei, ma ad Isacco fu fatto divieto di sposare donne cananee (Gn, l, 10-11; xxiv, 3). Certo è che nel corso di circa tre secoli, a partire dal 1200, i villaggi israeliti e giudaiti cominciarono a differenziarsi sotto il profilo culturale-religioso dalle comunità cananee, ma la loro comune radice cananaica non fu mai cancellata del tutto. I villaggi e le relative popolazioni prendevano il nome dal capoclan o dalla personalità più in vista. Infatti spesso nel testo della Genesi lo stesso nome si riferisce tanto ad una persona quanto ad una città. Ne sono esempi nomi come Efron, Betuel, Enoch, Esaù-Edom, Sichem, Se’ir, Mamre, Bela, Sidone, Canaan, Nacor e numerosissimi altri. Il gran numero di popoli, a noi spesso sconosciuti, citati nella Genesi probabilmente sono da identificare con i vari clan dispersi nei villaggi. Anche l’autore di Numeri (capitolo xxvi) ci fornisce alcuni esempi, come i suamiti da Suam, gli eberiti da Eber, i sauliti da Saul, i simeoniti da Simeone, gli ozniti da Ozni, i malchieliti da Malchiel. Lo scenario politico, che la Genesi fotografa, è verosimilmente quello del tempo del narratore. Tuttavia in ordine alle attività lavorative delle popolazioni stanziate nei villaggi, i testi letterari sono assai meno utili degli scavi archeologici, perché ci forniscono notizie non del tutto coerenti. Il mito della creazione sembra essere il prodotto culturale di un popolo sedentario. Adamo è creato per lavorare la terra e la sopraffazione di Caino su Abele sembra simboleggiare il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura. Lo stesso Noè è dato come un agricoltore che pianta la sua vigna (Gn, ix, 20). Di contro nel ciclo patriarcale sembra prevalere il nomadismo collegato alla pastorizia e ai tradizionali per-
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corsi della transumanza. Abramo, Isacco e Giacobbe sono pastori che si spostano di continuo nella terra del Canaan. Solo di Ruben, tra i figli di Giacobbe, ci vien detto che praticava la coltivazione del grano (Gn, xxx, 14). La Genesi ci fornisce ulteriori informazioni sulla vita delle prime comunità ebraiche, tanto sui loro costumi, quanto sui loro principi etico-religiosi. Naturalmente essa va letta con molta prudenza perché in più di un caso ci troviamo di fronte ad una inconsapevole retrodatazione di norme fissate successivamente dalla fonte sacerdotale. Per esempio il levirato (capitolo xxxviii) e il divieto di unirsi ad una donna sposata non possono essere retrodatati all’età patriarcale, se è vero che furono istituiti in età mosaica. Lo stesso vale per la decima e per l’esenzione dalla stessa della classe sacerdotale, che l’autore fa derivare dalla legislazione egiziana (Gn, xxviii, 22; xlvii, 26). Certamente antichissimo doveva essere il costume di benedire il primogenito con l’imposizione della mano destra sul suo capo (Gn, xlviii, 14). L’«avere in abominio» e il «non condividere la tavola» sono invece costumi che nascono dalla presunzione di superiorità; gli egiziani praticavano tali forme di dispregio nei confronti degli ebrei;(42) questi, a loro volta, ne fecero uso contro gli altri popoli e in particolare contro i Samaritani. Quanto alle norme etico-giuridiche in materia di matrimonio si può forse comprendere che esse fossero piuttosto elastiche, perché probabilmente nei piccoli villaggi una istanza fondamentale era quella di assicurare l’incremento o almeno la stabilità del flusso demografico. La poligamia e il concubinaggio erano perciò pratiche molto diffuse e condivise. Poligamo era Esaù che ebbe due mogli hittite (Iudit, figlia di Beeri, e Basemat, figlia di Elon, Gn, xxvi, 34), e a Paddan-Aram (Mesopotamia), «oltre alle mogli che aveva, sposò Macalat, figlia di Ismaele». Per essere chiamato anche Edom, egli era il capostipite degli edomiti o idumei (Gn, xxxvi, 1). Ma forse Edom è un altro personaggio confuso con Esaù, perché di lui si dice che sposò donne cananee: Ada, figlia di Elon, capostipite degli eloniti, l’hittita, Oolibama (figlia di Ana, figlio di Zibeon, l’hurrita) e Basemat, figlia di Ismaele (ma in precedenza si era detto che Basemat era hittita e che figlia di Ismaele era Macalat). Il divieto di sposare donne cananee (Gn, xxviii, 1) non deve far pensare all’istanza di conservare la purezza della razza, tant’è che le unioni con donne straniere non erano infrequenti e talvolta in comunità ristrette come quelle dei villaggi erano anche necessarie. Abramo ebbe due mogli (Sara e Chetura) e una concubina (Hagar); Giacobbe ebbe due mogli, Rachele e Lia, e due (42) v. Gn, xliii, 32; xlvi, 34; xlvii, 3.
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concubine, Bila, schiava di Rachele, e Zilpa, schiava di Lia. Esaù, come si è appena detto, ebbe tre donne. Per l’esiguità dei villaggi i matrimoni erano in generale programmati all’interno dello stesso villaggio o comunque tra villaggi che condividevano parentele di ramo maschile. Non a caso le mogli di Isacco e di Giacobbe sono cercate in Paddan-Aram, ove vivevano Milcha e Labano rispettivamente sorella e fratello di Abramo. Ciò ovviamente comportava il rischio dell’incesto, a dispetto del presunto rigorismo della morale sessuale. Infatti Abramo era fratellastro di Sara; Rebecca era figlia di Beteul, cugino di Isacco; Giacobbe era cugino di Rachele e di Lia. Giuda si unì con la nuora Tamar. Lot si accoppiò, a sua insaputa, con le sue due figlie e generò Moab, capostipite dei moabiti, e Ben-Amm, capostipite degli ammoniti (Gn, xix, 30-38). Ma non è escluso che l’autore abbia inventato una unione incestuosa solo per attribuire un’origine vergognosa ai moabiti e agli ammoniti, storici rivali di Israele. Le comunità dei villaggi erano ossessionate dalla sterilità che poteva comprometterne la continuità demografica. Il concubinaggio era ovviamente un rimedio a tale male estremo. Sterili erano Sara e Rachele, ma entrambe partorirono in tarda età. Sono moduli narrativi che si ripetono, tessere di un mosaico che si alimenta di analogie. L’incontro a Carran, nella terra di Nacor, tra il servo di Abramo e Rebecca presso il pozzo dell’acqua ha somiglianze con l’incontro tra Giacobbe e Rachele, probabilmente presso lo stesso pozzo, nella stessa città di Carran; nell’uno e nell’altro caso Rachele e Rebecca portano sulle spalle una brocca e danno da bere ai cammelli (Gn, xxiv, 13-26, 45-50). Il conflitto circa la primogenitura tra Perez e Zerach, figli di Giuda, ricorda quello tra Esaù e Giacobbe (Gn, xxxviii, 27-30; xxv, 25-34). Le norme relative all’etica sessuale ci appaiono per un verso assai rigide e per l’altro permissive. Sono rigidi i divieti di scoprire le nudità dei propri genitori, di accoppiarsi con le concubine del padre, di unirsi con una donna sposata, nonché il divieto di stupro. Cam, antenato di Canaan, vide suo padre nudo e fu colpito dalla maledizione di Noè, che lo condannò ad essere schiavo dei suoi fratelli, Sem e Iafet (Gn, ix, 22-27). Rubek, che si era unito con la concubina del padre e ne aveva profanato il letto, non poté avere la ‘preminenza’ sui fratelli. Dina, la figlia di Giacobbe, stuprata da Sichem l’eveo, fu vendicata con uno sterminio di massa dai fratelli Simeone e Levi (capitolo xxxiv). In altri casi la morale è a maglie più larghe. Abramo cede Sara al faraone e, presentandola come sorella, riceve in cambio pecore, buoi, servi, serve, asine e cammelli (Gn, xii, 10-20). L’episodio si ripete con Abi-
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melech, re dei Filistei (Gn, xx, 1-17). E per via della composizione modulare del racconto, anche Isacco a Gerar presentò ad Abimelech Rebecca come sua sorella (Gn, xxvi, 6-11). Alla stessa logica è verosimilmente riconducibile l’episodio di Lot, che, per difendere due ospiti, aggrediti da una masnada di uomini di Sodoma, cedette le proprie figlie («Porterò fuori le figlie e fate loro quel che vi pare», Gn, xix, 8). Anche in merito alla distruzione di Sodoma e Gomorra, colpite da un’accusa imprecisata e indeterminata, sorge il problema etico di salvare, per pochi che fossero, gli innocenti. Si salvò per volere di Yhwh la famiglia di Lot, poi sulla città si abbatté la collera divina. Si ha l’impressione che l’incendio di Sodoma e Gomorra sia così vivo nella memoria dell’autore («Yhwh fece piovere dal cielo su Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco di origine divina; distrusse quelle città e tutta la valle, tutti gli abitanti della città e la vegetazione del territorio […] Abramo […] vide un fumo che saliva dalla terra, come il fumo di una fornace», Gn, xix, 24-25, 28) da far pensare che egli avesse una qualche reminiscenza della distruzione che subirono le città nella fase del collasso del Tardo Bronzo. 3.5. Due entità religiose: Êl / ‘êlōhîm e Yhwh; due entità politiche: Israele (Nord) e Giuda (Sud) Ma ciò che la Genesi ci permette di ricostruire almeno per sommi capi è la vita religiosa delle comunità stanziate nei villaggi degli altopiani centrali. Emerge innanzi tutto una diffusa concezione politeistica, con la conseguenza che l’enoteismo giudaita va fatto slittare ad una età relativamente più tarda. Il substrato politeistico è attestato chiaramente dai nomi che compaiono nelle numerose discendenze citate nel testo e dalla stessa pluralità dei nomi divini. Nelle genealogie compaiono nomi composti con il teoforico Êl come Mecuiael, Metusael, Maalaleel (discendenza di Caino, iv, 17-23), Maalaleel (discendenza di Adamo, v, 12-28), Kamuel e Betuel (discendenza di Nacor, xxii, 21-22), Ismaele, Rachele, Iemuel, Iacleel, Malchiel, Asbel, Iacseel (discendenza di Giacobbe, xlvi, 8-25), Adbeel (discendenza di Ismaele, xxv, 13-16), Reuel (discendenza di Esaù: xxxvi, 1-5; 9-14; 15-19); nessuno di essi reca il teoforico Yhwh. La più antica onomastica ebraica è dunque di matrice vicino-orientale. Quanto ai nomi divini possiamo dire che in origine erano più frequen-
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ti ‘êl, ‘êlōhîm, ‘êl-’elyōn, ‘el-’ōlām, sui quali più tardi si sovrappose quello diYhwh. Il nome ‘êl compare nella Genesi 9 volte, cui vanno aggiunte altre 10 occorrenze in associazione con ‘elyōn, con šadday e con ōlām.(43) Il nome ‘ĕlōhê presenta 12 occorrenze, cui se ne aggiungono altre sette in associazione con Yhwh.(44) Yhwh, che conta un totale di 164 occorrenze, è associato una sola volta ad ‘êl-’elyōn ed una a ‘el-’ōlām (Gn, xiv, 22; xxi, 33). È interessante notare che spesso tali denominazioni si riferiscono a divinità locali o familiari. Per esempio êl-’elyōn o yhweh êl-’elyōn è il Dio di Shalem e di Melchizedek; yhwh ‘el-’ōlām è il Dio di Be’er-sheba; ‘êl è il Dio di Betel(45) oppure è il dio familiare, «il Dio di tuo padre», ovvero «il Dio di Israele»;(46) êl šadday è citato una sola volta in relazione ad Abramo e quattro volte in relazione a Giacobbe;’ĕlōhê è un nome generico, ma è usato per indicare per lo più un dio familiare e ricorre nelle espressioni «il Dio di mio (tuo, vostro) padre», «il Dio di Abramo», «il Dio di Isacco»; anche quando si riferisce a Yhwh ha il significato di «dio familiare»: infatti Yhwh è il Dio di Sem, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe.(47) È evidente da questi passi che alla figura di êl, come Dio d’Israele, si sovrappone quella di Yhwh. Gli esegeti hanno supposto che nel testo della Genesi fossero confluite e si fossero giustapposte due distinte tradizioni religiose, identificate nelle fonti J ed E, rispettivamente ascritte al regno di Giuda (Sud) e al regno d’Israele (Nord). Le prime ipotesi in proposito furono formulate allorché si avviò l’esame critico del testo biblico tra il Sei e il Settecento. Jean Astruc(48) fu il (43) v. Gn, xvi, 13; xxxi, 13; xxxv, 1, 3, 7, 13; xlvi, 3; xlix, 25; associato ad ‘elyōn: xiv, 18, 19, 20, 22; a šadday: xvii, 1; xxxv, 11; xliii, 14; xlix, 25 (per altre citazioni di šadday, cfr. Gn, xxviii, 3; xlviii, 3), ad ‘ōlām: xxi, 33: (44) Gn, xxvi, 24; xxxi, 42 (2), 53 (2); xxxii, 9; xxxiii, 20; xxxv, 2, 4, xlvi, 3; l, 17; in associazione con Yhwh: ix, 26; xxiv, 3, 7, 12, 27, 42, 48. (45) v. Gn, xxxi, 13; xxxv, 1, 3, 7, 13. (46) Gn, xlvi, 3; xlix, 25; xxxiii, 20. (47) Gn, ix, 26; xxiv, 12, 27, 42, 48; xxvii, 20; xxviii, 13. (48) [J. Astruc], Conjectures sur les memoires originaux, cit., pp. 9-17: «Je prétends donc que Moyse avoit entre les mains des mémoires anciens, contenant l’histoire de ses ancetres, depuis la création du monde […], il les a partagez par morceaux, suivant les faits qui y estoient raccontez; qu’il a inseré ces morceaux en entier, les uns à la suite des autres et que s’est de cet assemblage que le Livre de la Genese a esté formé […]. Il estoit naturelle de décomposer la Genese, de séparer tous les differents morceaux qui y sont confondus, de réunir ceux qui sont d’une mesme espece et qui paroissent avoir appartenu aux mesmes mémoires […]. L’entrprise n’estoit pas aussi difficile […], je n’ai eu qu’à joindre ensemble tous les endroits, où Dieu est costamment appellé ‘êlōhîm: je les ai placez sur
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primo ad osservare che i due nomi ‘êlōhîm e yhwh afferissero a due distinte tradizioni e che il tessuto narrativo della Genesi fosse il risultato della loro cucitura o giustapposizione. L’individuazione delle due tradizioni, come fonte yhawista (J) e fonte elohista (E), fu il passo compiuto successivamente dal tedesco Julius Wellhausen. La plausibilità della congettura fu fortemente rafforzata dal fatto che essa permetteva di dar conto di talune, apparentemente inesplicabili, duplicazioni, in particolare la duplice narrazione del mito della creazione. La prima versione era ricondotta alla fonte elohista e la seconda a quella yhawista. E con la stessa logica si dava conto degli altri numerosi duplicati di cui è riccamente intessuta la Genesi. La dottrina wellhauseniana ebbe uno strepitoso successo ed ancora oggi è accolta da un gran numero di studiosi. Pur riconoscendone l’efficacia e la genialità, mi permetto in questo paragrafo di rilevarne i seguenti aspetti critici, proponendomi di trarne le debite conclusioni ad esame compiuto. La prima e più importante duplicazione è, come sappiamo, quella relativa al mito della creazione (capitoli i-iii). L’idea di Wellhausen è che le due versioni sono assemblate insieme, l’una dopo l’altra, senza che nessuna delle due abbia subito alterazioni di sorta nell’operazione di reciproca cucitura. Ma nella realtà le cose non sono così nette come si vuol far credere. Il primo capitolo della Genesi, che copre l’intera prima versione del mito, presenta ben 32 occorrenze di ‘êlōhîm e nessuna di Yhwh. Nei capitoli ii e iii, che contengono la seconda versione, le citazioni di ‘êlōhîm sono 7, quelle di Yhwh 21. Più precisamente la divinità che nel primo capitolo era denominata ‘êlōhîm è invece denominata yhwh ‘êlōhîm nei due capitoli successivi. La realtà è che non ci sono due documenti, uno nettamente elohista e l’altro nettamente yhawista. Le due tradizioni sono così strettamente intrecciate tra loro che è impossibile delineare i contorni ideologici dell’una e dell’altra. Le duplicazioni sono una costante in tutto l’AT e non sono mai tali da giustificare la contrapposizione tra elohismo e yhawismo. Yhwh ed êlōhîm non sono due divinità contrapposte, ma sono entrambi nomi, l’uno proprio e l’altro comune, della medesima divinità. Perciò è preferibile evitare l’uso di termini come ‘fonte elohista’ e ‘fonte yhawista’; più corretto è forse parlare di componente settentrionale e componente meridionale. Tutto ciò che possiamo dire è che il culto yhawista del Nord era più fortemente intrecciato une colomne, que je’ai nommée A […]. J’ai placé à costé sur une autre colomne, que j’appelle B, tous les autres endroits, où l’on ne donne point à Dieu d’autre nom, que celui de Jehovah».
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con il politeismo cananeo e vicino-orientale e quello del Sud era d’impronta più prettamente enoteistica. Tutto dunque fa supporre che la Genesi non sia, come si era immaginato, il frutto di una giustapposizione di due distinti documenti più antichi, ma sia più verosimilmente il risultato di una rielaborazione di mitologie afferenti per lo più alla tradizione orale settentrionale, risalente alla dinastia omride, che nel mito patriarcale aveva costruito la propria identità etnico-culturale. Il testo tuttavia fu messo per iscritto assai dopo (tra il sesto e il quinto secolo) nell’area meridionale da esponenti della classe colta israelita, rifugiatasi, dopo la devastazione di Samaria, nel regno di Giuda. L’ignoto autore intrecciò il mito patriarcale con quello della creazione di derivazione neo-babilonese. Su tale testo non tardò ad operare una mano giudaita che nel corso del v secolo aggiunse il romanzo di Giuseppe, piegato alle istanze del regno meridionale, e diede al libro un più coerente taglio yhawista. Questa strategia emerge dal contesto complessivo della Genesi in cui le occorrenze dei due nomi divini si intrecciano lungo tutto il tessuto narrativo. Quelle di ‘êlōhîm sono in totale 187, quelle di yhwh sono 164. Spesso (Gn, vii, 16) troviamo entrambe le denominazioni nello stesso contesto narrativo: ‘êlōhîm è citato, come colui che aveva dato ordini a Noè, e yhwh, come colui che chiuse dall’esterno la porta dell’arca. In ogni caso la sovrapposizione yhawista è manifesta: ci sono infatti interi capitoli(49) in cui ricorre solo ‘êlōhîm e altri(50) in cui compare solo yhwh. Ci sono capitoli (xxiii, xxxiv, xxxvi, xxxvii, xlvii) in cui le divinità non sono nominate, altri in cui prevale l’uno o l’altro dei due nomi.(51) Possiamo forse stabilire che la matrice settentrionale affiora qua e là nella prima versione del mito della creazione (capitolo i), nel mito (49) Citano solo ‘êlōhîm i seguenti capitoli: i, 1, 2, 3, 4 (2), 5, 6, 7, 8, 9, 10 (2), 11, 12, 14, 16, 17, 18, 20, 21 (2), 22, 24, 25 (2), 26, 27 (2), 28 (2), 29, 31; xxxiii, 5, 10; xxxv, 1, 5, 7, 9, 10, 11,13, 15; xl, 8; xli, 16, 25, 28, 32 (2), 38, 39, 51, 52; xlii, 18, 28; xliii, 29; xliv, 16; xlv, 5, 7, 8, 9; xlvi, 1, 2; xlviii, 9, 11, 15 (2), 20, 21. I numeri in parentesi tonda indicano il numero delle occorrenze nello stesso versetto. (50) Citano solo Yhwh i seguenti capitoli: x, 9; xi, 5, 6, 8, 9 (2); xii, 1, 4, 7, 8 (2), 17; xiii, 4, 10, 14, 18; xiv, 22; xv, 2, 4, 6, 7, 8, 18; xvi, 2, 5, 7. 9, 11 (2), 13; xviii, 1, 13, 14, 17, 19 (2), 20, 22, 26, 27, 28, 30, 31, 32, 33; xxiv, 1, 2, 3 (2), 7, 12, 21, 26, 27 (2), 31, 35, 40, 42, 44, 48, 50, 51, 52, 56; xxvi, 2, 12, 22, 24, 25, 28, 29; xxix, 31, 32, 33, 35; xxxviii, 7 (2), 10. (51) Per ciascuno dei seguenti capitoli (esclusi i capitoli i-iiii) la prima cifra indica le occorrenze di Yhwh, la seconda quelle di ‘êlōhîm: iv = 10/1; v = 1/5; vi = 5/8; vii = 3/2; viii = 3/3; ix = 1/7; xvii = 1/9; xix = 7/4; xx = 1/6; xxi = 2/11; xxii = 5/5; xxv = 3/1; xxvii = 3/1; xxviii = 4/4; xxx = 3/8; xxxi = 2/8; xxxii = 1/4; xxxix = 8/1;
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del diluvio (capitoli vi-ix, parzialmente ritoccato dalla mano yhawista), nella riconciliazione di Giacobbe ed Esaù con l’erezione di un altare a Êl, dio d’Israele (capitolo xxxiii), nella teofania di Betel (xxxv), nel ciclo di Giuseppe (dall’interpretazione dei sogni del Faraone alla fine) e nella conclusione del ciclo di Giacobbe in Egitto (xl-xlviii). Gli altri capitoli dal xvi al xviii contengono la promessa della discendenza numerosa come le stelle e come la polvere e la predizione della nascita di Isacco, nonostante la sterilità di Sara. La mano yhawista interviene anche sulla successione da Abramo a Giacobbe; fa di Isacco un patriarca tutto sommato meridionale, stabilito tra Gerar e Be’er-sheba, e denuncia gli inganni con cui Giacobbe ottiene la primogenitura (xxiv-xxix). Il capitolo iv è un evidente inserimento yhawista che ha lo scopo di datare in tardissima età (al tempo di Enos) l’origine del culto di Yhwh. Anche la triplice narrazione di Sara, ceduta al faraone, e di Sara e Rebecca, cedute ad Abimelech,(52) non è spiegabile in termini di intreccio di fonti. La prima versione è un racconto yhawista, la seconda è inserita in un conteso settentrionale, ma nella conclusione (Gn, xx, 18) si sovrappone ancora una volta Yhwh; la terza è nettamente yhawista. Ciò significa che i duplicati o triplicati non si spiegano semplicisticamente nella logica delle due fonti, come se una versione dipendesse da un documento e l’altra dipendesse da un altro documento. La nascita di Isacco è di matrice settentrionale (Gn, xxi, 1, 21). Un altro duplicato riguarda il giuramento di Be’er-sheba tra Abramo e Abimelech e tra Isacco e Abimelech (Gn, xxi, 27-33; xxvi, 23-33). Il primo dei due è in un contesto settentrionale, ma la conclusione, con la citazione di Yhwh (Gn, xxi, 33), lo fa slittare in funzione yhawista e tale è anche la versione del secondo giuramento. Infine i capitoli xxx-xxxxii, che sono centrati sulla figura di Giacobbe, afferiscono ovviamente alla fonte settentrionale. Le linee che si sono delineate sono quanto mai generali; sono, come dire, quelle che emergono da uno sguardo d’insieme, come quando si guarda una foresta da lontano; quando si entra nei dettagli dei singoli versetti, l’esplorazione può essere insidiosa. L’equivoco spesso nasce dal fatto che attribuiamo ad una delle due fonti versetti che non citano nessuno dei due nomi divini e sono più o meno vicini o lontani da altri versetti in cui incontriamo o yhwh o ‘êlōhîm. In tal caso ci capita spesso di attribuirli ad un presunto contesto elohistico o yhawistico e più di una volta notiamo che lo stesso passo, sulla base di tale logica, è tirato dall’una all’altra parte da questo o da quell’inter(52) Gn, xii, 11-20; xx, 1-18; xxvi, 6-11.
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prete. Per essere troppo presi dalla logica dell’incastro o dell’assemblaggio di due fonti distinte, finiamo col perdere di vista il vero senso dell’operazione culturale messa in atto dai redattori giudaiti. Cioè che il testo della Genesi, quale ci è pervenuto, altro non è che un documento settentrionale asservito e adattato ad istanze giudaite. Ciò che emerge dal testo è che su una narrazione originariamente afferente ad un culto politeistico è venuta a sovrapporsi un culto fondato su Yhwh e su una concezione enoteistica. Lo stesso redattore finale della Genesi ne è pienamente cosciente, tant’è vero che esplicitamente afferma che il culto di Yhwh fu posteriore a quello di ‘êl, ‘êlōhîm, di origine cananaica o ugaritica. Egli, infatti, ci fa sapere (Gn, iv, 6) che quando nacque Enos, figlio di Seth, «si cominciò ad invocare il nome di Yhwh». Naturalmente egli proietta la nascita dello yhwhismo nel passato più remoto, ma noi intuiamo dal contesto del Pentateuco, che il nuovo culto fu strettamente legato alle sorti del regno di Giuda e che probabilmente cominciò a scalzare il più antico culto di Êl e di Baal intorno al settimo secolo, quando Giuda si ingrandì con gli apporti demografici e culturali del distrutto regno del Nord. La religione originaria dei villaggi centro-settentrionali era sostanzialmente idolatrica, fondata sulle alture, sulle stele di pietra, sugli alberi, sulle piogge. Le tracce di questi culti sono ampiamente presenti nel testo. Quando Giacobbe fugge da Labano, Rachele ruba gli idoli del padre e riesce a non farsi scoprire, nascondendoli nel basto del cammello (Gn, xxxi, 20, 34). Quando Giacobbe sale a Betel, ingiunge alla sua famiglia di eliminare gli idoli posseduti (Gn, xxxv, 2-4). Êl è verosimilmente un Dio affine a Baal, il dio della tempesta e della fertilità, il quale pretende per sé le primogeniture della vita umana e animale e le primizie della produzione agricola. È questa la radice dei riti sacrificali cruenti fino all’immolazione della vita umana. Solo tre sono i sacrifici narrati nella Genesi: il primo è quello di Noè che, dopo il diluvio, offrì in olocausto a Yhwh un numero impressionante di vittime, poiché immolò «ogni specie di animali puri e di uccelli puri» (Gn, viii, 20). Gli altri due sono opera di Abramo, che sacrificò un montone in sostituzione del mancato olocausto di Isacco e, dopo la promessa divina di una discendenza numerosa, offrì una giovenca, una capra e un ariete di tre anni, una tortora e un piccione; il patriarca divise le vittime a metà e tra le due parti Yhwh fece passare una torcia di fuoco (Gn, xxii, 1-10; xv, 17). Si direbbe che nella Genesi c’è tutto sommato una scarsa attenzione per le ritualità, nonostante abbondino gli incontri e le comunicazioni tra Dio e i patriarchi. Anche le figure sacerdotali risultano tutto sommato in ombra.
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L’unico sacerdote citato è Melchizedek (Gn, xiv, 18) che per altro era anche re di Shalem (Gerusalemme). Di contro si fanno risalire alla classe sacerdotale egizia (Gn, xlvii, 20-26) le prerogative (l’assegnazione inalienabile delle terre e il diritto al quinto del raccolto) che entreranno poi nel codice sacerdotale mosaico. La difficoltà di lettura della gran parte degli scritti veterotestamentari sta nel fatto che si tratta di testi multistratificati, compilati da più mani in tempi diversi; perciò non è sempre agevole distinguere al loro interno le diverse stratificazioni né gli obiettivi perseguiti dai singoli redattori. In generale possiamo dire che è possibile condurre due tipologie di lettura: l’una centrata sul tempo narrato, l’altra su quello del narrante. La prima ci fa conoscere i miti in tutte le loro articolazioni, la seconda ci permette di comprendere le finalità e gli obiettivi perseguiti dal narratore. Per quanto fosse mitologica – anzi proprio perché mitologica e quindi di matrice ideologica – la storia primaria è innanzi tutto una storia identitaria; essa persegue l’obiettivo di dare un’identità etnico-culturale al popolo israelita. Ma proprio su questo punto sorge uno dei più complessi problemi ermeneutici. Dobbiamo pensare che sui rilievi centro-settentrionali della Palestina si sia stanziata un’unica popolazione già fin dall’inizio dotata di una propria identità etnica o possiamo avanzare ipotesi alternative? La risposta a questo interrogativo è affidata ai prossimi capitoli. Sebbene i tre cicli che la compongono non abbiamo carattere storico, la Genesi tuttavia conserva tracce di un lontano passato, a lungo conservato nella memoria popolare, come memoria collettiva delle comunità che occuparono i villaggi delle zone montuose centro-settentrionali. V’era senza dubbio il ricordo di un lungo nomadismo nelle terre del deserto e di scontri e conflitti sia con le popolazioni autoctone come i cananei, sia con i fenici e i filistei che da tempo avevano occupato il Canaan. È innegabile che nel loro pantheon avessero una posizione di rilievo divinità come êl o gli ‘êlōhîm, «signori del cielo» (con molta probabilità si trattava di divinità celisolari, tipiche dei popoli cacciatori e nomadi). Il titolo «Signore del cielo e della terra» è verosimilmente più tardivo e presuppone il passaggio alla vita stanziale. È però difficile parlare di un vero e proprio popolo. Le centinaia di villaggi, occupati negli altopiani centro-settentrionali a seguito della terza ondata migratoria, erano modestissimi; spesso ciascun villaggio coincideva con pochissimi nuclei familiari. È difficile pensare che quelle popolazioni così disperse sul territorio montuoso costituissero un’identità etnica. I diversi nomi
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divini usati nella Genesi fanno pensare ad una costellazione di divinità locali, poliadi e, in fondo, familiari, data la dimensione familiare dei villaggi. La loro religione era politeistica come quella cananea e si alimentava di miti per lo più ugaritici e forse anche assiro-mesopotamici. I loro dèi erano divinità della pioggia e della fertilità e il loro pantheon era popolato da Êl, Baal, con le paredre Asherah-Astarte. Il loro ricorso a sacrifici cruenti, animali e umani, fa pensare che avessero già un rapporto di reciprocità con il divino. Le loro ritualità riguardavano l’erezione di stele, il culto della pietra, dell’acqua, degli alberi e delle alture. Siamo così ricondotti indietro alle origini della terza ondata migratoria di popolazioni che si stanziarono in centinaia di villaggi (circa 250) degli altopiani centro-settentrionali. I loro culti erano legati ai luoghi e agli dèi poliadi, oppure al clan o alla famiglia allargata e quindi a dèi familiari come i latini Lares. Si può supporre che con il passare del tempo tali comunità agro-pastorali, in origine povere e per lo più autarchiche, si siano organizzate in anfizionie, più o meno consistenti, fino a sfociare nella organizzazione di uno Stato territoriale, che, pur schiacciato dalle grandi potenze medio-orientali, aveva una capitale come Samaria e centri religiosi come Sichem e Betel. Nel corso del nono secolo tale Stato territoriale si trasformò in Stato tribale. Ed è in questa fase che si costituisce l’identità etnica degli israeliti. Essi erano forse gli stessi yzrir registrati nel 1207 nella stele di Merenptah, ma non avevano ancora quella identità culturale che è data dai miti e dalle saghe popolari. Questa più profonda trasformazione fu possibile grazie all’affermarsi di una dinastia come quella degli Omridi (885-852), la quale ebbe tra i suoi esponenti personalità come Omri (885-874), Achab (874-853), Azaria (853-852) e Yoram (852-841). Ma uno Stato tribale presuppone la costruzione di una identità etnica e culturale e tale fu appunto il programma ideologico-politico della dinastia omride. Questa si riappropriò forse di antichi miti, li sviluppò e li arricchì piegandoli alla proprie finalità politiche e fece di Abramo, Isacco e Giacobbe gli eponimi del popolo. Giacobbe ebbe anzi un primato sugli altri due patriarchi perché, per il mutamento del nome decretato da Dio, diventò l’eponimo di Israele (con rifermento inizialmente al regno del Nord e successivamente a tutto il popolo ebraico). In questo la Genesi rispecchia le aspettative che si delinearono nella letteratura profetica tra il settimo e il sesto secolo, ove, accanto ad una relativa marginalizzazione delle figure di Abramo e di Isacco, emerse quella di Israele/Giacobbe; per Isaia Yhwh è «il Dio della casa
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di Giacobbe» e sul «resto di Giacobbe» puntano le sue speranze di un ritorno in Gerusalemme.(53) Tuttavia, per quel che sappiamo, il regno di Israele nel nono secolo non aveva ancora sviluppato l’uso della scrittura, perciò quella saga familiare passò attraverso la tradizione orale, penetrò e si radicò nella memoria collettiva soprattutto sotto forma di narrazioni romanzesche che subivano nella trasmissione popolare accrescimenti e superfetazioni non sempre coerenti nonché varianti e duplicazioni varie. Quando nel settimo secolo si passò all’uso della scrittura tutto questo patrimonio fu tradotto in una prima bozza della Genesi. Che ne era nel contempo del regno di Giuda? La popolazione dell’altopiano meridionale subì la trasformazione in stato territoriale e tribale a circa un secolo di ritardo rispetto al Nord, intorno alla prima metà dell’viii secolo. Martin Noth ha giustamente ipotizzato che si trattasse di un popolo distinto da quello israelita. Ed in effetti a prescindere dagli scontri continui con il regno del Nord, Giuda sembra avere tradizioni culturali e religiose diverse da Israele. La sua religione non è politeista, ma monolatrica(54) ed eno(53) Is, x, 21. La figura di Abramo, che è centrale nei due testi della Genesi e dell’Esodo, diventa marginale nel Levitico, in Numeri, in Giosuè e nei due Re per riacquisire fortuna nel Deuteronomio (i, 9; vi, 10; ix, 5, 27; xxix, 13; xxx, 20; xxxiv, 4) e nei profeti: Isaia, xxix, 22; xli, 8; li, 2; lxiii, 16; Salmi xlvii, 9; cv, 6, 9, 42; Geremia, xxiii, 26; Ezechiele, xxxiii, 24; Neemia, ix, 7; Michea, vii, 20. Analoga sorte toccò ad Isacco, rivalutato dal Deuteronomio (i, 8; vi, 10; ix, 5, 27; xxix, 13; xxx, 20; xxxiv, 4; Js, xxiv, 3, 4). Ma la figura veramente centrale è Giacobbe per la particolare attenzione riservatagli, oltre che dal Deuteronomio (i, 8; vi, 10; ix, 5, 27; xxix, 13; xxx, 20; xxxii, 9; xxxiii, 4, 10, 28; xxxiv, 4), dai Salmi (xiv, 7; xx, 1; xxii, 23; xxiv, 6; xliv, 4; xlvi, 7; xlvii, 4; liii, 6; lix, 13; lxxv, 9; lxxvi, 6; lxxvii, 15; lxxviii, 5, 21, 71; lxxix, 7; lxxxi, 1, 4; lxxxiv, 8; lxxxv, 1; lxxxvii, 2; xciv, 7; cv, 6, 10, 23; cix, 4; cxiv, 1, 7; cxxxii, 2, 5; cxxxv, 4; cxlvi, 5; cxlvii, 19); dal Proto-Isaia (ii, 3, 5, 6; viii, 17; ix, 8; x, 21; xiv, 1; xvii, 4; xx, 10; xxvii, 6, 9; xxix, 22, 23); dal Deutero-Isaia (xl, 27; xli, 8, 14, 21; xlii, 24; xliii, 1, 22, 28; xliv, 1, 2, 5, 21, 23; xlv, 4, 19; xlvi, 3; xlviii, 1, 12, 20; xlix, 5, 6, 26; dal Trito-Isaia, lviii, 1, 14; lix, 20; lx, 16; lxv, 9); da Geremia (ii, 4; v, 20; x, 16, 25; xxx, 7, 10, 18; xxxi, 7, 11; xxxiii, 26; xlvi, 27; 28; li, 19; Lam, i, 17; ii, 2, 3); Ezra (xx, 5; xxviii, 25; xxxvii, 25; xxxix, 25); Osea (x, 11; xii, 3, 13); Amos (iii, 13; vi, 8; vii, 2, 5, 9; viii, 7; ix, 8); Abdia (i, 10, 17, 18; Michea, i, 5; ii, 7, 12; iii, 1, 8, 9; iv, 2; v, 7, 8; vii, 20); Nahum (ii, 2); Malachia (i, 2; ii, 12; iii, 6). Più sfumata invece la figura di Giuseppe sia nel Deuteronomio (xxvii, 12; xxxiii, 13, 16) e in Giosuè (xiv, 4; xvi, 1, 4; xvii, 1, 2, 14, 16, 17; xviii, 5, 11; xxiv, 32, 33) che nei profeti (Ez, xxxvii, 16, 19; xlvii, 13, xlviii, 32; Am, v, 6, 15; vi, 6; Salmi lxxvii, 15, 67; lxxx, 1; cv, 17; Ezr, x, 42; Neh, xii, 14, Abd, i. 18; Zc., x, 6). Tutto ciò fa pensare che la composizione della Genesi sia coeva quanto meno alla prima produzione profetica. (54) Di monolatria intollerante parla J. Pakkala, Intolerant Monolatry in the Deuteonomistic History, Göttingen, Vandenhoeck and Ruprecht, 1999, pp. 140-153.
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teista e il suo pantheon è abitato esclusivamente da Yhwh. Per il resto i suoi usi e costumi sono inevitabilmente influenzati dalle popolazioni viciniori, per lo più cananee, e dalla cultura egiziana e forse anche da quella filistea. D’altronde il regno del Sud ruotava nell’orbita della potenza egiziana che su di esso esercitava una sorta di protettorato. Le sorti del regno di Giuda mutarono radicalmente nel corso dell’viii secolo, allorché Israele si avviò alla sua fase conclusiva: lo scontro con la potenza assira divenne fatale e Samara e gli altri centri limitrofi vennero rasi al suolo. I giochi geo-politici della regione hanno fatto sì che Israele scrivesse le ultime pagine della sua storia proprio nello stesso torno di tempo in cui a Sud il regno di Giuda si rafforzava ed inglobava al suo interno la classe colta sopravvissuta al Nord. L’Intellighentsia israelitica riparò presso il regno di Giuda e si fuse con la popolazione gerosolimitana. Ci si può chiedere: perché gli israeliti si spostarono verso il Sud? Erano forse spinti ad unirsi con i giudei per affinità etniche? È dubbio che sia così, perché se avessero avuto una comune matrice etnica, probabilmente avrebbero condiviso lo stesso credo religioso. D’altra parte sappiamo dal Pentateuco che i rapporti tra Giuda ed Israele non furono sempre felici e idilliaci. È più facile supporre che il loro trasferimento al Sud sia stato in qualche modo una scelta obbligata, poiché lo sbocco verso occidente ed oriente era impedito da potenti nemici come i fenici, i filistei e i babilonesi e a nord dagli stessi assiri. Gli intellettuali del Nord si fecero portatori degli antichi miti dell’età patriarcale. Probabilmente in questa fase si realizzò la difficile fusione delle due etnie, israelita e giudaita, difficile soprattutto sotto il profilo religioso. L’istanza di trovare una comune origine era risolvibile sotto il profilo mitologico: l’età patriarcale poteva facilmente essere pensata come radice comune di entrambi i popoli. I grandi patriarchi Abramo e Giacobbe acquisirono un respiro più ampio; non rappresentarono più le radici del regno del Nord, ma di tutto Israele. L’identità etnica che gli Omridi avevano costruito come un vestito su misura per il Nord, si estese fino ad includere anche il Sud. Ma in questa estensione l’epos originario subì inevitabilmente un profondo mutamento ideologico e politico. Il nome di Israele, che prima designava il solo regno del Nord, designò anche il Sud. Giacobbe non era più soltanto la radice dell’etnia israelitica, ma lo era anche dell’etnia giudaita. La stessa Genesi subì una radicale metamorfosi e si trasformò da testo israelita in testo giudaita. Il nodo che non si poteva facilmente sciogliere era tutto sul versante religioso. Il politeismo del Nord resistette a lungo ad ogni tentativo di oppres-
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sione e di sradicamento; l’enoteismo oscillò tra Êl e Yhwh. Ma le fila del gioco erano ormai condotte dal regno di Giuda, che era lo Stato sopravvissuto alla catastrofe e che era destinato a durare altri 136 anni. Gli artefici di questa straordinaria metamorfosi furono Ezechia e, soprattutto, Giosia, che nel Pentateuco ci vengono rappresentati come riformatori religiosi. Ad essi si deve il successo del culto di Yhwh. Essi gestirono nello stesso tempo la crisi del Nord e la crescita dello stato del Sud. Consapevoli che nel campo religioso il popolo non sopporta le brusche fratture con la tradizione, gli editori della Genesi conservarono il patrimonio letterario del Nord, ma lo piegarono alle istanze del Sud; trasformarono la Genesi da documento israelita in documento giudaita; sovrapposero il nome proprio di Yhwh a quello comune di ‘êlōhîm, inserirono il romanzo di Giuda tra le pieghe del romanzo di Giuseppe e lasciarono qua e là nel testo numerose tracce del mutamento di prospettiva politico-religiosa. Il romanzo di Giuseppe si sviluppa tra i capitoli xxxvii, 2, e l, 26 ed ha tutte le caratteristiche della letteratura romanzesca; ci sono in esso tutti gli ingredienti della favola popolare: la rivalità tra fratelli, la vendita del fratello come schiavo, la sua scalata ai vertici del potere politico, non infrequente nei testi biblici, la straordinaria abilità nella interpretazione dei sogni, e infine lo studiato processo di agnizione. Giuseppe è venduto prima ai madianiti e poi a Potifar, ministro del faraone (come al solito il faraone non è mai nominato). È strano che il redattore conosca i nomi dei capi più oscuri delle tribù più sconosciute, ma ignori sistematicamente i sovrani dei popoli più famosi. Ad ogni modo Giuseppe (Zafnat-Paneach per il faraone) dapprima è imprigionato per essere vittima delle voglie della moglie del suo padrone e poi è elevato al rango di capo o governatore di tutta la casa e di tutto il popolo egiziano per avere interpretato il sogno del faraone (capitoli xl-xli). Il faraone gli assegna in moglie Asenat, figlia di Potifar, sacerdote di On (= Eliopoli in Egitto). Dalla loro unione nascono Manasse (ebr. mĕnaššeh = «che fa dimenticare») ed Efraim (= «Dio mi ha reso fecondo»). Il racconto suggerisce che taluni costumi degli ebrei erano di origine egiziana. Infatti ci vien detto (Gn, xliii, 32) che gli egiziani non potevano prendere cibo con gli ebrei, perché per loro ciò sarebbe stato un abominio, come più tardi gli ebrei non potranno prendere cibo con i gentili. Anche l’esenzione dei sacerdoti dalla tassazione sembra essere derivata dall’Egitto. Vi sono tracce di un antico conflitto tra agricoltori e pastori o comunque del passaggio dalla pastorizia all’agricoltura. Quando Giacobbe si trasferisce in Egitto gli è con-
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sentito di risiedere nel territorio di Gosen perché i pastori di greggi sono un abominio per gli egiziani (Gn, xlvi, 33). Ma il testo è contraddittorio, perché in Gn, xlvii, 5, è detto che il faraone permise a Giacobbe e ai suoi figli di abitare «nella parte migliore del paese» e di risiedere nella terra di Gosen.(55) Quali prove abbiamo che alla versione israelita della saga familiare del Nord si sia sovrapposta quella yhawista del Sud? Possiamo sintetizzarle nel modo seguente: 1) In primo luogo è significativo il numero di occorrenze del nome Yhwh che, come abbiamo detto,(56) si avvicina molto al numero delle occorrenze di ‘êlōhîm. Ciò significa che lungo tutto il percorso della Genesi la mano yhawista ha fatto tutto il possibile per avvicinare il testo alla ideologia meridionale. Si spiega così come il nome Yhwh sia associato agli altri nomi divini nelle forme yhwh ‘êlōhîm, yhwh ‘êl-’elyōn, yhwh ‘êl-šadday, yhwh ‘êl-’ōlām. Yhwh diventa il cemento comune su cui si costruisce l’identità di un’etnia più ampia di quella israelitica. 2) Un’impronta giudaita è chiaramente riconoscibile nella scrupolosa e quasi assillante cura con cui ci vengono trasmesse le discendenze, spesso contraddittorie, di diversi capostipiti, le quali nascono dal bisogno di ritrovare l’identità di un clan o di individuare comuni radici che possano permettere di iscriversi in una storia comune. La Genesi è ricchissima di «discendenze» o genealogie. Oltre alle due versioni contraddittorie della discendenza di Adamo, troviamo quella noachica (capitolo x), ripetuta con la pretesa di rappresentare la ricostruzione dell’origine di tutti i popoli;(57) quella di Sem, ripetuta due volte (Gn, x, 22-31; xi, 10-26) in due versioni non coincidenti; le dieci generazioni da Adamo a Noè e le altrettante generazioni da Noè ad Abramo (Gn, xi, 10-26), ove il dieci ha evidentemente carattere simbolico e tipologico. Vi sono poi le discendenze di Abramo (Gn, xi, 27-32), di Caino, che sembra interferire con quella di Seth, narrata due volte (Gn, iv, 2526; v, 3-6), di Nacor (Gn, xxii, 20-24), di Abramo e Chetura (Gn, xxv, 1-4), di Ismaele (Gn, xxv, 13-18), di Giacobbe (Gn, xxix, 31 - xxx, 22), ripetuta in Gn, xxxv, 23-26, e in Gn, xlvi, 8 - 27, ove vengono citati 68/70 nomi con un conteggio non del tutto chiaro. Un caso particolare è la discendenza (55) Cfr. anche Gn, xlvii, 21. (56) v. supra, pt. i, par. 3.5. (57) Gn, iv, 17-26; v, 1-31; x, 1-32.
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di Esaù che è ripetuta ben quattro volte.(58) Seguono la discendenza dei figli di Se’ir, hurrita, nel paese di Edom (Gn, xxxvi, 20-30) e l’elenco dei Re di Edom, precedenti la monarchia israelitica (Bela, Iobab, Usam, Adad, Samla, Saul, Baal-Canan, Adar). 3) Dalle peregrinazioni dei tre patriarchi deduciamo che Abramo operò tanto al Nord (Carran, Sichem, Betel) quanto al Sud (Hebron), Isacco fu attivo quasi esclusivamente al sud, tra Gerar e Be’er-sheba; Giacobbe trascorse gran parte della sua vita nel Nord del Tigri e dell’Eufrate e nell’area settentrionale degli altopiani centrali e solo negli ultimi anni si spostò a Hebron e in Egitto. Soprannominato da Dio ‘Israele’, egli è di fatto l’eponimo dell’etnia settentrionale. Ma l’interpolatore yhawista ha l’abilità di dare una sterzata giudaita al ciclo di Abramo. Al mito di Giacobbe-Israele egli sovrappone il mito di Abramo-padre della moltitudine, eponimo di tutta la nazione, comprensiva della discendenza di Giuda, innestata sul ceppo di Giacobbe e dei suoi dodici figli, capostipiti delle dodici tribù. I due versetti Gn, xvii, 4-5, infatti, pur essendo inseriti in un contesto apparentemente elohista (tra i versetti 3 e 7), in realtà sono introdotti da Gn, xvii, 1, ove Yhwh si identifica con ‘êl šadday (il dio di Giacobbe) e gli si sovrappone. Come ha giustamente rilevato Finkelstein,(59) ad Abramo è assegnata la funzione di unificare le tradizioni settentrionali e meridionali. Non a caso egli innalza altari a Yhwh ad Hebron, a Sud, ma anche a Sichem e a Betel (Gn, xiii, 18; xii, 7-8), a Nord, ovvero proprio nel luogo in cui Êl appare a Giacobbe. Particolarmente simbolica è l’erezione a Betel di un altare dedicato a Yhwh. I versetti Gn, xii, 7-8, non dicono nulla circa il cambiamento del nome da Luz a Betel. Ne consegue che, quando Abramo costruisce l’altare a Yhwh, a Betel esisteva già un precedente altare dedicato ad Êl (altrimenti non avrebbe avuto senso la denominazione del luogo). Davanti allo stesso altare di Betel, Abramo invoca Yhwh (Gn, xiii, 3-4), ma poi ci vien detto che il nome Betel fu assegnato da Giacobbe, il quale, per avervi avuto la famosa visione della scala degli angeli, mutò il nome del luogo da Luz in Betel (Gn, xxviii, 19). Qui però sorgono due difficoltà: come poteva Abramo usare il nome Betel, se non era ancora stato attribuito alla città di Luz? E perché nel ciclo abramitico non viene usato il nome Luz, come sarebbe stato più naturale? Inoltre, se Giacobbe mutò il nome di Luz in Betel, non era evidentemente ancora legato al culto di Êl, anziché a quello di Yhwh? La (58) Gn, xxxvi, 1-5; 9-14; 15-19; 40-43. (59) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tacce di Mosè, cit., p. 58.
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cosa si complica allorché Giacobbe erige un altare ad Êl e non a Yhwh e ricorda che a Luz, e non a Betel (ché tale era ormai il nome della città), gli era apparso ‘êl šadday e non Yhwh (Gn, xxxv, 3; xlviii, 3). Non c’è altro modo di sciogliere le incongruenze se non ammettendo che la mano yhawista sovrappose il suo credo a quello israelita. Abramo divenne il patriarca di riferimento per entrambe le comunità israelitiche e giudaite ed ebbe la funzione di legittimare la sacralità dei siti del Nord, facendola risalire ad un periodo anteriore allo loro contaminazione durante la monarchia idolatrica. Né è un caso che Melchizedek (Gn, xiv, 19) invochi la benedizione di Abramo da parte di yhwh’êl-’elyōn, ove la sovrapposizione di Yhwh ad Êl è manifesta e programmatica. 4) Ma ciò che dimostra in modo inequivocabile che il testo originario fu acconciato alle istanze della monarchia giudaita è il capitolo xxxviii, contenente il ciclo di Giuda, interpolato all’interno del ciclo di Giuseppe, come un romanzo nel romanzo, con evidenti anacronismi e contraddizioni interne. Innanzi tutto va notato che Giuda (aram. Jehudah) è l’unico tra i dodici nomi dei figli di Giacobbe che reca il teoforico yhwh. Il che induce a pensare che anche qui l’interpolatore yhawista ha contaminato in qualche modo il ciclo di Giacobbe per includere al suo interno il nome di Giuda. La vicenda di Giuda è appena abbozzata: egli pianta la sua tenda presso Chira di Adullam e ne sposa la figlia, Sua, da cui nascono Er, Onan e Sela. A causa della prematura scomparsa di Er, egli induce Onan a sposare sua cognata Tamar, vedova del fratello, in ottemperanza al principio del levirato, che, tuttavia, risalendo alla legislazione mosaica, non era ancora stato sancito. Alla morte di Onan Tamar si prostituisce sulla strada di Timma e si unisce a Giuda, suo suocero. Dalla loro unione nascono due gemelli, Perez (= breccia) e Zerach con il filo scarlatto attorno alla mano (si riproduce il conflitto per la primogenitura, analogo a quello che oppose Esaù a Giacobbe). Ma il passo più rilevante è contenuto nel capitolo xlix, in cui, benedicendo i suoi dodici figli eponimi delle tribù d’Israele, Giacobbe riconosce a Giuda una sorta di primato su tutta la sua discendenza e lo proclama sovrano universale ed eterno, re cui non sarà tolto lo scettro: Ti loderanno i tuoi fratelli […] a te si prostreranno i figli di tuo padre. Un giovane leone è Giuda […] non sarà tolto lo scettro da Giuda, né il bastone di comando in mezzo ai suoi piedi, finché gli verrà portato il tributo e l’obbedienza dei popoli. Lega alla vite il suo asino e a scelta vite il suo pu-
134 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini ledro; lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; più scuri del vino i suoi occhi e i suoi denti più bianchi del latte (Gn, xlix, 8-12).
È questo il messaggio fondamentale della Genesi: il mito di una dinastia indelebile ed eterna; forse nella mente del redattore è già in nuce l’idea di un messianismo nazionale e insieme universale, garantito dalla protezione divina di Yhwh. Si tratta di un progetto politico, non di una speculazione filosofica. Manca nella primordiale teologia veterotestamentaria un ragionevole impianto filosofico; sicché il suo tessuto dottrinale è molto fragile. Molti sono gli spunti di carattere antropomorfico; non sono filosoficamente ben delineati i concetti di onniscienza, onniveggenza, onnipotenza del Dio. Altrettanto fragile è l’idea di un Dio che fa promesse e stipula patti con il popolo. A rigore si può dire che c’è confusione o, se si preferisce, convergenza tra la promessa (šĕbû’āh) e il patto (bĕrît); non c’è ancora quel rigido discrimine tra due teologie così fortemente conclamato dalla esegesi confessionale; non c’è una dislocazione geo-politica della teologia del patto al Nord e della teologia della promessa al Sud, perché di fatto fino alla presunta monarchia unitaria non ci sono ancora un regno del Nord e un regno del Sud. Nei due cicli che abbiamo esaminato la promessa è interna al patto e il patto si sostanzia nella promessa. L’una e l’altro sono le due facce della stessa medaglia. Ciò che possiamo dire è che il redattore nutre forse l’obiettivo di giustificare la speranza di rinascita di uno Stato giudaita dopo le devastazioni operate dagli Assiri e dai Babilonesi. Nella Genesi le due teologie non confliggono; anzi se mai si integrano. La promessa della terra del Canaan, ricca di latte, e quella di una prolifica discendenza si consolidano nel patto in cui ad Adamo è fatto divieto di impadronirsi della conoscenza e della vita, che sono prerogative della divinità, e a Dio è fatto divieto di distruggere l’umanità; ma questo respiro universale scade in forme di particolarismo e di nazionalismo; da una parte Dio si obbliga a fare di Abramo il padre di una moltitudine e ad assicurargli il possesso della terra del Canaan; dall’altra Abramo e il suo popolo si obbligano a venerare Yhwh come divinità nazionale, giudaita (sicché tutto l’AT va interpretato come un documento giudaita), lasciando su «ogni maschio»(60) il segno della circoncisione come marchio di sottomissione a Dio e insieme di limitazione della sessualità.
(60) Gn, xvii, 1-8; xxii, 15-19; xvii, 8; xvii, 10-14.
capitolo iv
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: IL DIO NAZIONALE E LA LEGISLAZIONE POLITICO-RELIGIOSA
4.1. Il ciclo mosaico e il mito dell’uscita dall’Egitto La cornice narratologica dell’Esodo (ebr. שמותShemòt) è assolutamente priva di consistenza storica ed è evidentemente un’artificiosa ricostruzione di un redattore del vi-v secolo per giustificare e corroborare le istituzioni religiose del nascente giudaismo. Il redattore non ha che una vaga conoscenza del mondo egiziano: lo stanziamento del clan di Giacobbe nella zona di Gosen nelle città di Pitom (eg. Pi-Atun = la casa di Atun) e Ramses (eg. Pi-Ramses = la casa di Ramses) gli è nota dalla Genesi.(1) I nomi dei faraoni gli sono del tutto sconosciuti. Non ha cognizione della vita sociale egiziana e crede che in Egitto si pratichino la schiavitù e i lavori forzati. I tempi in cui si svolgono le vicende narrate restano indeterminati: non è chiaro quanti anni siano passati dalla generazione di Giuseppe a quella di Mosè. La moltiplicazione delle generazioni dagli iniziali settanta discendenti di Giacobbe ai seicentomila che escono dall’Egitto con Mosè è affatto incredibile e insostenibile, se si pensa che l’Egitto contava due mi(1) Pi-Ramses, identificata con Avari, la vecchia capitale degli Hyksos, a Tell ed-Dab’a, esplorata da Naville, non ha evidenziato l’esistenza di canpi di schiavi. La città fu abbandonata durante il Nuovo Regno (1550-1075) e fu ricostruita nel xiii secolo sotto Ramses II. La sua cronologia è pertanto incompatibile con la narrazione dell’Esodo sia nella ipotesi di un esodo alto che in quella di un esodo basso. Anche Pi-Atun, identificata con Tell el-Maskhuta, è risultata disabitata dalla fine del Medio Regno (1660) al periodo Saita (672-525).
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lioni di abitanti e che la fuoriuscita di un numero così rilevante di persone avrebbe determinato una gravissima crisi nello Stato. La costruzione delle città di Pi-Atun e di Pi-Ramses avvenne rispettivamente sotto i regni di Horemheb (1323-1295; xviii dinastia) e di Ramses II (1279-1213; xix dinastia).(2) La loro collocazione in età mosaica è un manifesto anacronismo. Ogni tentativo di inquadrare in una cornice storica il racconto biblico è votato al fallimento. Se l’esodo cadde sotto Ramses II o sotto Merenptah (1213-1203; xix dinastia) si sarebbe verificato in uno dei periodi di più grande affermazione della potenza egiziana. Inoltre se la permanenza degli ebrei in Egitto durò 430 anni, l’arrivo di Giuseppe sarebbe caduto intorno al 1550, in un’età in cui l’Egitto era sotto il dominio degli Hyksos. Le pericopi Ex, i, 1-6, fungono da raccordo con la chiusura della Genesi. Alla morte di Giuseppe, i figli d’Israele destinati ad entrare nel Canaan sono i dodici figli di Giacobbe, capostipiti delle dodici tribù ebraiche. La storiella del faraone che invita le levatrici ebree ad uccidere i figli maschi ebrei fa semplicemente sorridere per la sua ingenuità. Se il faraone avesse dato un simile ordine avrebbe inferto un duro colpo all’economia del proprio paese, se è vero che i lavori pesanti erano caricati sulle spalle degli ebrei. Il testo è in proposito chiaramente contraddittorio. Ciò che è sconcertante è che il redattore dell’Esodo ignori le radici del Profeta, non sa chi siano i suoi genitori e sa solo che era un rappresentante della tribù di Levi (e che quindi apparteneva alla classe sacerdotale). Per di più egli ci fornisce un’erronea etimologia ebraica del nome ‘Mosè’ (moseh), facendolo derivare da mašitihu con il significato «salvato dalle acque». In realtà il nome è di origine egiziana e deriva da mss (che significa ‘nato’, ‘figlio’, come accade nel nome composto Ramss, che significa ‘figlio del dio Ra’, ovvero ‘figlio del Faraone’ o ‘figlio di Dio’. D’altro canto il nome sarebbe stato assegnato a Mosè dalla figlia del faraone, la quale evidentemente non avrebbe potuto dargli un nome di origine ebraica o di derivazione etimologica ebraica. Ma secondo il racconto biblico Mosè non fu un vero trovatello, perché sua sorella riuscì a convincere la figlia del faraone a farlo allattare da sua madre. Tutta la vicenda ha comunque del romanzesco ed è priva di affidabilità. Per aver ucciso un egiziano che picchiava un ebreo, Mosè è costretto a lasciare l’Egitto e a rifugiarsi nel paese del clan di Madian, nella penisola est del Mar Rosso. Qui prende in moglie Zippora, figlia di Reuel, dalla quale ha due (2) Cfr. in proposito, Ch. F. Aling, The Biblical City of Ramses, «Journal of Evangelical Theological Society», xxv, 1982, pp. 129-137.
I.4 Le radici vetero-testamentarie: il Dio nazionale e la legislazione politico-religiosa
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figli, rispettivamente di nome Gherson ed Eliezer (nome con teoforico Êl). Ma sulle relazioni parentali di Mosè c’è molta confusione. Il padre Amran, figlio di Keat, prese in moglie sua zia Iochebed, sorella di Keat (Nm, vi, 18, 20). Non è però ben chiaro se Zippora fosse figlia di Reuel o di Ietro(3) o se Reuel e Ietro debbano considerarsi la stessa persona. Quanto ad Obab non sappiamo se fu suocero oRiporto cognato Profeta nécorretto se fu kenita o madianita. qui didel seguito il testo delle parole o frasi ebraiche che non sono state Nel testo del saggio sono state evidenziate in giallo, Per il libro di Giudici, egli era suocero di Mosè e kenita; per Numerinell’area era ma-dei commenti. Ho usato (4) rendere più chiare le lettere che spesso possono essere confuse l’una co dianita, figlio di Reuel, eper di conseguenza cognato delebraiche, Profeta. Ma secondo Bisogna fare attenzione a rispettare l’ordine da sinistra a destra. Suggerisco di ricorre la narrazione di Numeri (xii, 1), Mosè sposò una kushita, ovvero una donna del copia-incolla, ma di verificare ogni volta che nel corso di tale operazione nell’ordin etiope. Insomma un guazzabuglio di dati contrastanti, tra i quali non vale la lettere o delle parole non sia mutato nulla. Poiché può accadere che le lettere o le pa pena tentare una qualcheinvertano fantasiosa conciliazione. spontaneamente, nei casi più complicati suggerisco di procedere in questo Dio si ricordò dell’alleanza Abraham, Isacco e Giacobbe e si rivelò a le lettere all’intern due casicon possibili: 1) se nella operazione di incollaggio si invertono Mosè in un roveto ardente sul monte Horeb (da identificare probabilmenparola, conviene cancellare la parola errata e procedere ad una nuova operazione di i te con il Sinai). Ciò conferma che Yhwh è ancora un dio delleinserire altureleeparole un una alla volta. Attenz se si invertono le parole in una frase, conviene di inserimento, il cursore deve mai essere posto accanto ad un’altra parola e dio familiare («Io sono ilfase Dio di tuo padre, Dio non di Abramo, Dio di Isacco bisogna due‘ĕolōhê tre spazi vuoti ed‘ĕinserire la parola ebraica tra gli spazi vuoti cre e Dio di Giacobbe» ‘anōki ‘ĕlōhêcreare ‘abîkā ‘abrāhām lōhê yishāq wêhōlê ya’āq אלהי יצחק ואלהי יץק בUltimo אברהם אלהי אביך אלהי ).(5) caso Diovuole affida a Mosè la suggerimento: se inאנכי qualche eliminare eventuali spazi vuoti tra due missione di condurre il popolo verso il Canaan, terra rigogliosa, ricca di latebraiche, non usare il tasto cancella, ma usi il tasto ‘taglia’. te e di miele. Poi manda Mosè dal faraone e gli rivela il suo nome: ‘ehyeh Capisco quanto sia fastidioso tutto ciò; tuttavia voglio congratularmi con lei per aver i ‘ăšer ‘ehyeh « אהיה אשר אהיהIo sono colui che sono».(6) E aggiunge: «Dirai ai alla perfezione le non poche rettifiche che ho segnalato nei commenti. A parte le paro figli d’Israele ‘Eheyeh Yhwh, il dio dei vostri padri Abraham, Isacco e Giacobla rettifica delle seconde bozze, dovrebbe essere assai più agevole. be, mi ha mandato’». Questo passo è interpretato dai teologi come una defi52.semplicemente דן תל nizione di Yhwh. Invecep.qui ‘ĕlōhîm assicura Mosè che, nel presentarsi agli israeliti e al faraone, Dio è con lui e che il suo nome è Yhwh p. 74: מ ל כ ים פ ר ס e non ‘el šadday con cui si presentò ad Abraham, Isacco e Giacobbe: «Io p. 78: ad Abraham, שראל אלהיךIsacco ך אשר יeלוGiacobbe רים מאר ץהעcome ‘ מצel šaddsono Yhwh, mi sono rivelato ay, mentre il mio nome Yhwh non l’ho rivelato loro» (ūšemî yhwh lō nōwdp. 137: רשא a’tî lahem, )ושמי יהוה לא נודעתי להם.(7) In Ex, vi, 6, 8, ribadisce il proprio nome p. 137:yhwh )אני יהוה. A conferma che si tratta di un Yhwh: «Io sono Yhwh» (‘ănî Dio nazionale dichiara di essere «Dio degli ebrei» = ‘ĕlōhê hā’ibrîyîm העבריים pp. 137-138:
p. 146:
ה ע ב ר יי ם א ל ה י
ה ב רית א ר ון
(3) Nm, ii, 16-21; iii, 1; iv, 18; xviii, 1, 5. (4) Jdc, i, 16; iv, 11; Nm,x, 29. p. 146: ות ומ ים א ור ים (5) Ex, iii, 6. (6) Ex, iii, 14. Per unanime consenso degli p. 147: מועדesegeti אהלsi ritiene che Yhwh derivi dal verbo hayah (= essere) o nella forma causativa (hiphil) con il significato «Io sono colui che fa p. 147: קנא esistere» o nella forma semplice (qal) con ilאלsignificato «io sono colui che sono». (7) . Ex, vi, 3.
p. 176
ה ת ור ה ה זא ת
p. 218
מ ל כ ים פ ר ס
p. 445
מ דר ש ם
138 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini (אלהי8) e «Dio d’Israele»(9) = ‘ĕlōhê yisrā’êl אלהי ישראל, assicurando il popolo
ebraico che porterà via dall’Egitto oro e argento. Mosè chiede a Yhwh di conferirgli poteri straordinari che possano dargli la certezza di essere un suo inviato e un suo profeta. Ottiene tre segni: il bastone che si trasforma in serpente, la mano lebbrosa e l’acqua che diventa sangue; d’altro canto la sua lingua è inceppata;(10) perciò sarà suo fratello Aronne la sua parola e la sua bocca. Da dove spunta fuori questo fratello maggiore di nome Aronne? Come è stato possibile accertare che Aronne fosse suo fratello, se non se ne conoscevano neppure i genitori? Il testo in proposito tace. Il rapporto tra Mosè ed Aronne ha la stessa configurazione del rapporto tra Dio e il profeta: Mosè è come un Dio per Aronne ed Aronne è la sua ‘bocca’, colui che parla in nome di Dio-Mosè (Ex, vii, 1). Con così solida rassicurazione, Mosè parte per l’Egitto in groppa ad un asino e Yhwh gli preannuncia che lì compirà miracoli davanti al faraone, al quale provvederà ad indurire il cuore. È certamente singolare (ed altresì incomprensibile) che per far mostra di prodigi, Dio induca all’ostinazione il faraone. Ancor più sorprendente è che Yhwh suggerisca a Mosè di comportarsi secondo l’istituto del גאליgo’el («Se uno straniero uccide ad un ebreo il primogenito, il padre ha il dovere di uccidere il primogenito dell’uccisore»). Ove si dà per inteso che Israele è il primogenito di Yhwh e l’Egitto è il primogenito del dio faraone: sicché Yhwh induce Mosè a dire al faraone: «Se ti rifiuterai di far uscire il mio primogenito, io ucciderò il tuo primogenito». Ma l’intera vicenda è oscura, perché durante il cammino verso l’Egitto una notte Yhwh tenta di uccidere il primogenito di Mosè, Gherson, il quale è salvato da un provvido intervento di Zippora, che gli recide il prepuzio. Può darsi che il testo abbia subito manipolazioni o sia stato soggetto a fraintendimenti: è infatti proba(8) Ex, iii, 18; v, 3; vii, 16; ix, 1, 13; x, 3. (9) Di particolare interesse è il sintagma «Dio d’Israele» che forse indica eventuali legami di parentela tra i testi veterotestamentari. Esso presenta una sola occorrenza in Genesi (xxxii, 20), benché riferita ad Êl e non a Yhwh, 4 in Esodo (v, 1; xxiv, 10; xxxii, 27; xxxiv, 23), una in Numeri (xvi, 9), nessuna nel Deuteronomio e nel Levitico, 15 in Giosuè (vii, 13, 19, 20; viii, 30; ix, 18, 19; x, 40, 42; xiii, 14; xiv, 14, 33; xxii, 16, 24; xxiv, 2, 23), 7 in Giudici (iv, 6; v, 3, 5; vi, 8; ix, 21, 23; xxi, 3), 17 nel 1Samuele (i, 17; ii, 30; v, 7, 8, 8, 8, 10, 11; vi, 3, 5; x, 18; xiv, 41; xx, 12; xxiii, 10, 11; xxv, 32, 34); 3 nel 2Samuele (vii, 27; xii, 7; xxiii, 3), 19 nel 1Re (i, 30, 48; viii, 15, 17, 20, 23, 25, 26; xi, 9, 31; xiv, 7, 13; xv, 30; xvi, 13, 26, 33; xvii, 1, 14; xxii, 54), 9 nel 2Re (ix, 6; x, 31; xiv, 25; xviii, 5; xix, 15, 20; xxi, 12; xxii, 15, 18). Cfr. anche le occorrenze di 1Cronache (11), 2Cronache (21), Ezra (9); Salmi (4), Isaia (5). (10) Ex, iv, 10; vi, 9, 30; vii, 1.
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bile che la minaccia di uccidere il primogenito fosse rivolta proprio a Mosè che si era rifiutato di circonciderlo (forse per questo Zippora interviene di nascosto dal marito). Mosè ed Aronne si incontrano sulla montagna di Dio (Horeb-Sinai). Mosè riferisce ad Aronne tutti i discorsi di Yhwh sulla sua missione ed Aronne li ripete al popolo. Il primo incontro con il faraone ha come risultato l’ulteriore inasprimento della schiavitù. La pericope Ex, vi, 26-28, sembra costituire un’inserzione estranea al testo. Probabilmente si tratta di un’aggiunta posteriore, come confermano le espressioni «questi sono quel Mosè e quell’Aronne», «questi sono quelli che andarono a parlare dal faraone», le quali, per essere un richiamo alla memoria del popolo, presuppongono una notevole distanza di tempo del narratore. Tra l’altro l’autore mostra di avere le idee confuse sulla identità delle dodici tribù che seguirono Mosè, perché dà solo conto della discendenza di Ruben, di Simeone e di Levi. Le altre tribù di Israele sono del tutto ignorate. In compenso scopriamo che Mosè è inquadrato nella etnia ebraica per essere un levita, figlio di Amran (vissuto 137 anni) e di Iochebed. Amran era a sua volta figlio di Keat, figlio di Levi. Il che significa che tra i figli di Giacobbe e Mosè intercorrono tre generazioni con la conseguenza che la permanenza degli ebrei in Egitto, posto che sia storicamente attendibile, non si sarebbe protratta oltre i 120 anni e che la fuga dall’Egitto sarebbe posteriore all’epoca di Giuseppe di appena un secolo o poco più e non potrebbe quindi essere proiettata in avanti fino all’età di Ramses II o di Merenptah. Che è quanto dire che il contesto storico della vita di Mosè non è riconducibile a dati storicamente accettabili. Il secondo incontro di Mosè con il faraone ha sullo sfondo lo scenario fantasioso delle dieci piaghe (la trasformazione dell’acqua in sangue, le rane, le zanzare, i mosconi, la peste, le ulcere, la grandine, le cavallette, le tenebre, la strage degli innocenti): una storiella di giochi di prestigio e di magia, se non assumesse i toni tragici e tenebrosi della strage dei primogeniti (bekōwr) umani e animali (indubbia reminiscenza di sacrifici cruenti), in cui Yhwh si esibisce nello sfoggio del suo potere distruttivo («Yhwh avvertì Mosè: […] solo così potranno moltiplicarsi i miei prodigi nella terra d’Egitto», Ex, xi, 9). Viene così stravolto il senso della festività del Nuovo Anno celebrata dai babilonesi nel capodanno primaverile nel mese di nisan, il primo mese dell’anno. Essa diventa nel testo biblico la commemorazione della strage dei primogeniti egiziani: «Questo è il sacrificio pasquale per Yhwh, poiché egli stesso passò oltre [pasqua in ebr. pesach significa «passaggio ol-
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tre»] le case degli israeliti in Egitto quando venne per colpire gli egiziani risparmiando le vostre case» (Ex, xii, 27). Infatti, Yhwh aveva ordinato che ogni capofamiglia il decimo giorno del mese di abib ( אביבcorrispondente al mese di nisan) si sarebbe procurato un agnello di un anno, maschio, puro e senza difetti, e lo avrebbe custodito fino al quattordicesimo giorno, allorché al crepuscolo lo avrebbe immolato ed avrebbe intinto di sangue gli stipiti e gli architravi delle case; quindi ne avrebbe consumato le carni nel corso della notte. Così Yhwh, non dotato di onniscienza, passando durante la notte, avrebbe riconosciuto le case degli israeliti e non ne avrebbe uccisi i primogeniti («Il sangue sulle case sarà per voi il segno della vostra presenza, io vedrò il sangue e passerò oltre le vostre case»), limitando la strage ai soli primogeniti egiziani. Dal 14 al 21 nisan per sette giorni durava la festa degli azzimi («Alla sera del quattordicesimo giorno del primo mese mangerete pane azzimo fino alla sera del ventunesimo giorno», Ex, xii, 18). V’è però da rilevare che le sere dal 14 al 21 sono otto e non sette. Ciò che l’autore non dice è che la sera del venerdì 14 si consumava l’agnello pasquale e che le sere degli azzimi erano quelle comprese dal 15 al 21. Dopo una permanenza di ben 430 anni in schiavitù, gli israeliti uscirono dall’Egitto facendosi consegnare un immenso bottino di oro e di argento (Ex, xii, 40, 31): partirono a piedi da Ramses verso Sukkot in 600.000, senza contare i bambini. Entrambi i dati, come si è già rilevato, sono storicamente inaccettabili. Eccessiva è anche la presunta permanenza di 430 in Egitto. È evidente che l’autore dell’Esodo non persegue una verità storica, ma una esclusivamente teologica ed ha in mente non l’incremento demografico dell’età di Mosè, ma quello del periodo post-esilico. Tutto il suo racconto non è che un fantasioso romanzo al servizio della teologia e del potere politico della classe sacerdotale. Non a caso le prescrizioni imposte da Yhwh sono di fatto quelle imposte da una classe sacerdotale avida e ingorda che trae beneficio dalla conversione dei sacrifici cruenti dei primogeniti in riscatto. In Ex, xiii, 1, Yhwh impone che gli siano consacrati tutti i primogeniti: «ogni primo nato tra gli israeliti, uomini o animali, è mio»; i primogeniti degli animali vanno sacrificati; quelli degli uomini vanno riscattati (Ex, xiii, 13). All’uscita dall’Egitto Yhwh non volle condurre gli israeliti direttamente nella Philistia (pelištîm), per il timore che il popolo, all’infuriare della guerra, si pentisse di aver lasciato l’Egitto. Li condusse quindi attraverso il deserto, verso Sukkot e Etam. Camminavano divisi in schiere di cinquanta persone, protetti da Dio che li precedeva di giorno in una colonna di nube e di
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notte in una colonna di fuoco. Ad Etam, nel mezzo del deserto, si accamparono per poi spostarsi verso Achirot tra Migdol e il mare, di fronte a Baal-Zefon.(11) Durante la traversata del Mar Rosso (yam sūp) la nube-Yhwh con vento orientale separò le acque; il faraone allestì un esercito per inseguire gli ebrei, ma Yhwh, ancora nella forma di nuvola, si frappose tra i due accampamenti e, quando gli egiziani giunsero al Mar Rosso, chiuse le acque e impedì loro il passaggio. Nel deserto non mancarono gli interventi provvidenziali divini; a Mara le acque amare (mārāh in ebr. significa ‘amaro’) diventarono dolci; nel deserto di Sin, tra Elim e il Sinai, una terribile carestia fu compensata da una prodigiosa pioggia di manna (manna deriva dall’interrogativo mah-hū? = che cos’è questo?). Gli ebrei infatti non sapevano cosa fosse la manna e tuttavia ne mangiarono per quarant’anni nel deserto. Sul monte Horeb, in un luogo che poi assumerà il nome di Massa (massāh= tentazione) e Meriba (merîbāh = contesa), da una roccia sgorgò acqua. Nel contempo Mosè istituì la festa del sabato, il giorno del riposo.(12) In realtà la festa era già stata istituita nella Genesi. Ma mentre nella Genesi era collegata al riposo divino, in Esodo è posta in relazione al raccolto della manna che era doppio il sesto giorno, in modo da permettere al popolo di riposare il settimo giorno. La curiosa chiusura del capitolo xvi («l’omer è la decima parte di un efa»), in quanto presuppone l’esistenza del tempio, è affermazione che non può risalire all’epoca mosaica, ma ad una assai più tarda. A Rephidim Giosuè si scontra contro Amalek, presumibile capostipite degli Amaleciti. La descrizione delle alterne fasi di questa battaglia ha del comico: Mosè si pone sulla cima di un’imprecisata altura e tiene il bastone di Yhwh in mano; quando tiene alta la mano vince Israele; quando la mano cede, vince Amalek. Al tramonto del sole Giosuè passa a fil di spada Amalek e il suo popolo e Yhwh ordina a Mosè di mettere per iscritto l’evento in un libro a perenne memoria (evidente stratagemma per far credere che il libro citato fosse l’Esodo, se non l’intero Pentateuco). Nel deserto gli va incontro Ietro, il quale, dichiarando la propria conversione alla fede yhawista (Ex, xviii, 11), gli porta sua moglie Zippora e i figli Gherson (ger = forestiero) e Eliezer (El = Dio, ezer = aiuto). Infine Ietro suggerisce a Mosè l’istituzione di (11) Dagli scavi archeologici risulta che Migdol era una fortezza egiziana sul bordo del Delta orientale del Nilo, abitata nel periodo Saita (vii-vi secolo). La sua cronologia è incompatibile con l’Esodo (cfr. W. G. Dever, Who Were the Early Israelites, cit., pp. 20-23). (12) Ex, xvi, 21-35. L’istituzione del sabato è ripetuta in Ex, xxiii, 12; xxxv, 1-3. In Ex, xxxi, 12-17, si sancisce la morte per i profanatori del riposo sabbatico.
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giudici minori o di prima udienza (capi di mille, di cento, di cinquanta e di dieci) che fossero virtuosi, amanti della verità e spregiatori dell’ingiustizia, in grado di amministrare la giustizia sul popolo. Nel terzo mese dall’uscita dall’Egitto gli israeliti giungono nel deserto del Sinai. Il passo (Ex, xix, 5-6) è rivelativo dell’intento del redattore: quello cioè di progettare l’istituzione di una teocrazia sacerdotale: «Se ascolterete la mia voce e osserverete la mia alleanza, io vi terrò gelosamente come un prezioso tesoro su tutti i popoli[…] Voi diverrete per me un regno governato da sacerdoti (mamleket kōhănîm) e una nazione santa (wegōw kādōwōš)» (Ex, xix, 5-6). Yhwh si presenta a Mosè sotto forma di nube e gli chiede di purificare il popolo prima che possa ascoltare la sua voce. Tutti debbono essere pronti per il terzo giorno, perché allora Yhwh scenderà alla presenza del popolo. In quel giorno tuoni e lampi accompagnarono una nube molto densa e il popolo si accampò alle falde del monte: Mosè parlava a Dio e Dio gli rispondeva nel tuono. La prima raccomandazione di Yhwh al popolo è il divieto di vederlo «per impedire che molti di loro muoiano». Poi Mosè scende dal monte ed enuncia i comandamenti («tutte queste parole»: kāl haddebārîm hā’êlleh): 1-«Io sono Yhwh Dio tuo che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù» (preambolo); 2- «Non avrai altri dèi davanti a me» (politeismo implicito); 3- «Non ti fabbricherai per te immagini intagliate o alcuna immagine di ciò che è su nei cieli o giù sulla terra o nelle acque sotto la terra»; 4- «Non ti inchinerai ad essi, non li servirai, poiché io Yhwh, tuo Dio, sono un Dio geloso che scorge l’iniquità dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione di coloro che mi odiano, ma che mostra misericordia a migliaia di coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti»; 5- «Non invocherai il nome di Yhwh, tuo Dio, invano, poiché Yhwh non lascerà impunito colui che invoca il suo nome invano»; 6- «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo; sei giorni lavorerai e farai tutti i tuoi lavori, ma il settimo è il sabato di Yhwh, tuo Dio, non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, tua figlia, il tuo schiavo, la tua schiava, il tuo bestiame, e lo straniero che è entro i tuoi cancelli. Infatti in sei giorni Yhwh ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi ed ha riposato il settimo giorno; perciò Yhwh ha benedetto e consacrato il sabato»; 7- «Onora tuo padre e tua madre affinché siano lunghi i giorni sulla terra che Yhwh tuo Dio sta per darti»; 8- «Non uccidere»; 9- «Non commettere adulterio»; 10- «Non rubare»; 11- «Non essere falso testimone contro il tuo vicino (nel senso di connazionale)»; 12-
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«Non desiderare la casa del tuo vicino; non desiderare la moglie del tuo vicino, né il suo servo, né la sua serva, il suo bue, il suo asino né tutto ciò che appartiene al tuo vicino» (Ex, xx, 1-17). Mosè si avvicina alla nube e di nuovo Dio gli raccomanda di non rappresentarlo come un idolo d’oro o di argento; gli ordina di edificare un altare con pietre non intagliate, di sacrificare pecore e vitelli, di non salire sull’altare per mezzo di gradini per non esporre su di esso la sua nudità. 4.2. Il primo codice ebraico: regolamentazione dei rapporti sociali e della vita religiosa I capitoli xxi-xxii costituiscono una bozza del diritto ebraico in cui sono disciplinati i rapporti sociali, economici e penali tra i membri di una collettività divisa in liberi e schiavi. Esso risente certamente dell’influenza di codici più antichi, i quali per conferire un carattere sacrale alle leggi, in modo che fossero incontestabili e durature, le presentavano come dettate dalla viva voce della divinità. Così accade per il codice di Hammurabi (1792-1750), scritto su una stele, e contenente 282 leggi, dettate da Šamaš, dio del sole, o da Marduk. Si può risalire più indietro con il codice di Ur-Nammu,(13) re di Ur, che regnò tra il 2112 e il 2095, o di suo figlio Shulgi. Esso sarebbe stato redatto intorno al 2100-2050 a. C, in forma casuistica secondo la condizionale: se-crimine, allora-punizione. Fondato sulla legge del taglione, caratteristica del diritto babilonese, il codice presentava una forte prevalenza della pena di morte che colpiva tanto l’omicidio quanto l’adulterio e il furto. Anche in questo caso siamo di fronte ad una società classista, frazionata in uomini liberi lu, schiavi, maschi (arad) e femmine (geme). Analoghe sono le leggi di Eschunna, città a nord di Ur; il (13) Il Codice di Ur-Nammu, risalente alla fine del terzo millennio, sancisce le pene per i reati di omicidio, rapina, rapimento e adulterio; regola i rapporti tra schiavi e liberi, le relazioni matrimoniali e le relative violazioni («Se un uomo viola il diritto di un altro e deflora la vergine moglie di un giovane, uccideranno quel maschio. Se la moglie di un uomo ha seguito un altro uomo e ha dormito con lui, uccideranno quella donna, ma quel maschio sarà liberato. Se un uomo procede con la forza e deflora la vergine schiava di un altro uomo, quell’uomo deve pagare cinque sicli d’argento. Se un uomo divorzia dalla moglie per la prima volta, le deve pagare una mina d’argento. Se divorzia da una [ex] vedova, deve pagarle mezza mina d’argento»). Altre norme concernono il divieto di far uso della stregoneria, i danni arrecati a persone e cose e l’affidabilità delle tesimonianze in giudizio.
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cui codice, databile al 1930 a.C., scritto in accadico su due tavolette, prevedeva sentenze condizionali (se-allora) e si riferiva ad una collettività articolata nelle due classi degli awilum, uomini liberi, e dei muškenum, schiavi. Non dissimili erano il codice di Lipit-Ishtar,(14) in vigore presso la dinastia di Isin, redatto intorno al 1934-1924, e il codice delle leggi hittite, composto di circa 200 leggi, scritte su tavolette ritrovate ad Hattusa. Il redattore dell’Esodo aveva quindi davanti a sé un cospicuo bagaglio culturale a cui ispirarsi. Egli tentò di regolamentare in forma più equa la schiavitù, ma applicò rigorosamente per i reati penali la legge del taglione. I principi basilari della sua concezione giuridica si possono così riassumere: 1) l’ebreo maschio può essere tenuto schiavo fino a sei anni; il settimo anno dovrà essere liberato; 2) se il padrone gli ha dato una moglie, la stessa e i suoi figli resteranno proprietà del padrone; se lo schiavo non vuole essere affrancato, sarà portato di fronte alla porta e allo stipite; il padrone gli forerà l’orecchio ed egli resterà suo schiavo per sempre; 3) la schiava ebrea non sarà liberata salvo che non sia privata del vitto, del vestiario e dei diritti coniugali; 4) chi uccide un uomo, sarà messo a morte; se però ha agito per volere di Dio, potrà trovare rifugio in un luogo d’asilo; 5) chi sequestra un uomo, sarà messo a morte; chi maledice suo padre e sua madre, sarà messo a morte; il riscatto avviene «vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, contusione per contusione»; 6) se il padrone colpisce un occhio o un dente dello schiavo, questi sarà rimesso in libertà; 7) se un bue uccide con le corna un uomo, sarà lapidato e la sua carne non potrà essere mangiata; 8) se il bue che uccide con le corna un uomo è abituato a colpire con le corna e il padrone non lo ha custodito, sarà lapidato anche il padrone; 9) per i furti o per i danni causati è prevista la restituzione del doppio del danno; 10) se un uomo seduce una vergine, dovrà sposarla; se il padre si rifiuta di dargliela, egli dovrà pagare il prezzo matrimoniale delle vergini; 11) la donna che pratica la magia sarà messa a morte; 12) chi ha rapporti sessuali con una bestia, sarà messo a morte; 13) chi offre un sacrificio agli dèi e non a Yhwh, sarà messo a morte. Blande forme di tutela sono previste nei confronti dei deboli (straniero, vedova, orfano ecc.). (14) Il codice di Lipit-Ishtar ci è pervenuto in diversi frammenti parziali, che tuttavia hanno consentito di ricostruire alcune leggi che regolano i rapporti di proprietà (cessione di frutteti, furto dei frutti, abbattimento di alberi in giardini altrui), di schiavitù e/o di servitù e i rapporti parentali (soprattutto in riferimento alla prole legittima o naturale).
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Inevitabilmente il codice sfocia nel settore religioso. Ed è ancora Yhwh che comanda: «Non bestemmierai Dio e non maledirai il tuo sovrano; mi consegnerai il primogenito dei figli, dei buoi, delle pecore e le primizie dei campi; non mangerai carne di animali sbranati, non diffonderai false dicerie [ovvero false testimonianze]; seminerai la tua terra per sei anni e non la coltiverai il settimo anno». Dopo aver dato al popolo un codice di leggi, Mosè istituisce tre feste religiose per potenziare il culto di Yhwh: Celebrerete tre volte all’anno la festa in mio onore: conserverete la festa degli azzimi (hag hammassōwt); per sette giorni mangerete pane azzimo come vi ho comandato nel tempo stabilito e nel mese di ‘ābîb (= marzo-aprile) poiché in esso sei uscito dall’Egitto; nessuno si presenti a me a mani vuote. Osserverete la festa della mietitura (hag haqqāsîr) e delle primizie del tuo lavoro […] infine la festa del raccolto (hag hā’āsip) in conclusione dell’anno […] recherai alla casa di Yhwh, tuo Dio [cioè al tempio], il meglio delle primizie della tua terra (Ex, xxiii, 14-19).
Anche per il redattore dell’Esodo la promessa e il patto non sono due teologie distinte, ma sono fuse insieme: in Ex, xxiii, 21-31 è confermata la promessa: «Manderò un angelo [cioè un profeta, Mosè e Giosuè] davanti a te, perché ti protegga nel cammino […]; se ascolterete la sua voce […] io sarò nemico dei tuoi nemici […]. Stabilirò i tuoi confini dal Mar Rosso fino al Mare dei Filistei». Segue in continuità la teologia del patto: salito sul Sinai, Mosè ascolta le parole di Dio e le riferisce al popolo; poi le scrive nel Libro dell’Alleanza; il mattino seguente edifica un altare ai piedi del Sinai ed erige dodici stele per le dodici tribù d’Israele; quindi offre dei torelli in olocausto, versa metà del sangue sull’altare e, dopo aver letto al popolo il Libro dell’Alleanza, gli versa sopra l’altra metà del sangue depositato nei recipienti. Il sangue è il segno dell’alleanza: «Ecco il sangue dell’alleanza che Yhwh ha stipulato con voi su tutte queste parole [ovvero sui comandamenti]». Yhwh invita nuovamente Mosè a salire sul monte per consegnargli «delle tavole di pietra con insegnamenti e comandamenti» scritti «per istruire il popolo» (Ex, xxiv, 12). Tutta la narrazione sembra essere di matrice sacerdotale, ricca di simbolismi e, soprattutto nella parte prescrittiva, dettagliatissima. Sul Sinai la nube, la gloria di Yhwh, avvolge Mosè per sei giorni; il settimo giorno Yhwh lo chiama di mezzo alla nube. Gli israeliti vedono un fuoco divoran-
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te in cima al monte, ove Mosè resta quaranta giorni e quaranta notti. Le prescrizioni iniziano con l’offerta spontanea per il santuario, costituita da oro, argento e ogni bene prezioso, minutamente indicato. Il santuario da costruire è, per un popolo nomade, un’arca mobile, l’arca dell’alleanza (ebr. ‘ārōn habberît ) ארון הברית, forse in ricordo di quella noachica. La sua costruzione è prestabilita nei minimi dettagli (lunghezza, larghezza, legno d’acacia, rivestito in oro puro, quattro anelli per i quattro basamenti, due cherubini d’oro battuto). Essa custodisce le tavole della testimonianza ed è il luogo di incontro di Mosè con Yhwh: «In quel luogo io ti incontrerò […]; lì ti darò gli ordini riguardo ai figli d’Israele». Con altrettanta minuziosa puntualità Yhwh comanda la costruzione della tavola dei pani della presenza (haššulhān lehem pānim), del candelabro a sette lampade (menōrat), del tabernacolo (miškhān )משכןcon veli, tenda (‘ōhel) e velo della separazione tra il Santo e il Sancta Sanctorum (pārōqet bên haqqōdeš ūbên qōdeš haqqodāšim), dell’altare degli olocausti, del recinto del tabernacolo (hăsar hammiškān) e del bacile per le abluzioni. Le prescrizioni proseguono con la preparazione altrettanto dettagliata dell’olio per l’unzione, dell’incenso e dei paramenti sacerdotali: l’efod ( )אפודo veste sacerdotale (che recherà su due pietre di onice i nomi delle dodici tribù), il pettorale (hōšen) «per l’esercizio del giudizio» (coperto di pietre recanti i dodici nomi delle tribù e con gli urim e i tummim ( )אורים ותומיםper l’esercizio del giudizio), il mantello per la veste sacerdotale (con una lamina d’oro che recherà il sigillo: «consacrato a Yhwh»), le tuniche, i copricapo, le cinture e i calzoni di lino per coprire le nudità. Seguono (Ex, xxix-xxxi) le prescrizioni relative ai riti: dal rito di consacrazione di Aronne e dei suoi figli (con sacrificio di un giovenco e di due arieti), agli olocausti quotidiani (ovvero il sacrificio di due agnelli di un anno, uno al mattino e uno alla sera). Infine è prescritta (Ex, xxx) la costruzione di un piccolo altare in legno per bruciare l’incenso. Nulla è lasciato al caso: anche la scelta degli artisti per la costruzione del santuario è scrupolosamente prescrittiva: essa è affidata a Bezaleel, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda, affiancato da Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. Sugli israeliti incombe l’imposta per il censimento, una sorta di imposta piatta: ogni israelita maggiore di vent’anni dovrà pagare il riscatto della sua vita al momento del censimento; ciascuno verserà mezzo siclo, secondo il valore depositato nel santuario, per il quale un siclo equivale a venti ghera (l’osservazione potrebbe presupporre non una tenda mobile, ma un tempio edificato). Il ricco non darà più di mezzo siclo e il povero non darà meno di mezzo siclo.
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4.3. Il mito dell’alleanza e le versioni dei comandamenti Yhwh consegna a Mosè le due tavole della testimonianza, mentre a valle il popolo si costruisce un vitello d’oro con il coinvolgimento di Aronne. Si scatena l’ira di Yhwh che vuole sterminare il popolo. Lo placa Mosè che, con abile diplomazia, gli ricorda l’uscita dall’Egitto e la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo (Ex, xxxii, 13). Mosè scende dal monte con le due tavole, scritte da Yhwh, sul retto e sul verso, ma, quando vede il vitello d’oro, va su tutte le furie, spezza le tavole della legge e, circondatosi di leviti armati, ordina una strage, in cui perdono la vita 3.000 israeliti. Poi sale nuovamente sul Sinai e ottiene da Yhwh il rinnovo della promessa della terra di Canaan (Ex, xxxiii, 1). La narrazione è un po’ ingarbugliata, perché per un verso fa pensare che tutti potessero consultare Yhwh nella tenda dell’incontro (‘ אהל מועדōhel mōwêd) o della testimonianza fuori dell’accampamento, per un altro verso sul Sinai Yhwh dice a Mosè: «Tu non potrai vedere la mia presenza; nessun uomo può vedermi e restare in vita». In realtà il redattore introduce una seconda versione della scrittura delle tavole: Yhwh infatti ordina a Mosè: «Scolpisciti due tavole di pietra, come le prime, e io scriverò sulle tavole le stesse parole che erano state scritte sulle prime tavole […] domattina […] salirai sul monte Sinai e ti presenterai a me sulla cima del monte» (Ex, xxxiv, 1-2). Anche qui siamo di fronte ad una promessa e ad un patto. Yhwh promette di operare prodigi a favore di Israele e di sterminare tutti i popoli nemici che incontrerà nel suo cammino verso la terra del Canaan. Il patto, a differenza dei precedenti comandamenti, impone: 1) di non stipulare alleanze con i cananei, di demolire i loro altari e di non prostrarsi ad un altro dio, perché Yhwh è «un Dio geloso» ( אל קנאel-qanna); 2) di non combinare matrimoni con le loro figlie; 3) di non farsi «idoli di metallo fuso»; 4) di «osservare la festa del pane azzimo»; 5) di «riscattare ogni primogenito umano, ovino o bovino»; 6) di osservare il «riposo del sabato; 7) di celebrare «la festa delle settimane, quella delle primizie e quella del raccolto»; 8) di non immolare «sul pane lievitato il sangue della vittima sacrificale»; 9) di portare al tempio di Yhwh le primizie del suolo; infine 10) impone ad ogni maschio di presentarsi «tre volte all’anno di fronte all’arca». Ristabilito il patto con Dio, senza rinnovare il sacrificio cruento, Mosè raccoglie le cospicue offerte del popolo e ordina la costruzione dell’arca con tutti gli accessori prima elencati e puntualmente ripetuti nei capitoli conclusivi del testo.
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È evidente che anche l’Esodo è un testo composito, oggetto di numerose manipolazioni da parte di rappresentanti della classe sacerdotale. L’impressione che si ha è che il libro sia stato rivisitato non da una sola, ma da almeno due fonti sacerdotali, tra loro contrastanti per essere l’una più rigida e più fortemente conservatrice e l’altra più moderata. Significative sono in proposito le due diverse versioni dei comandamenti. La prima (Ex, xx, 1-17) ha come presupposto un Dio vendicatore, spietato sterminatore dei primogeniti egiziani, ma anche intransigente punitore che colpisce «le colpe dei padri nei figli fino alla terza e quarta generazione» (Ex, xx, 5) e non lascia impunito chi invoca il nome di Yhwh invano; Yhwh è il Dio della legge del taglione, per il quale il riscatto si compie «vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano» (Ex, xxi, 24); è il Dio della guerra («Yhwh è un uomo di guerra, il suo nome è Yhwh» (yhwh îš milhāmāh yhwh šemōw, Ex, xv, 3), il giudice severo che condanna a morte le maghe, i reati sessuali e chi offre sacrifici agli altri dèi (Ex, xxii, 17-19); ed è infine il Dio che pretende per sé la consegna dei primogeniti umani e animali, oltre che le primizie del raccolto. La seconda versione, che attiene al rinnovo dell’alleanza, non è più fondata sul sacrificio cruento, ma sul riscatto delle primogeniture e delle primizie. Il testo recita: Osserva ciò che io oggi ti comando: […]1) non stipulare un’alleanza con gli abitanti del paese dove stai per entrare; potrebbe essere per te una trappola; di contro distruggerete i loro altari e i loro idoli; non venererai un altro dio, perché il nome di Yhwh è ‘Geloso’; egli è un dio geloso; 2) non combinerai matrimoni delle loro figlie con i tuoi figli, perché come si prostituiscono quelle ai loro dèi, così ad essi si prostituiranno i tuoi figli; 3) non ti farai dèi modellati; 4) osserverai la festa dei pani azzimi; mangerai per sette giorni pane azzimo come ti ho comandato […]; 5) ogni primogenito nato dal grembo appartiene a me; ogni maschio nato dal grembo, ovino o bovino. Riscatterai il primogenito dell’asino […], riscatterai ogni primogenito tra i tuoi figli e non ti presenterai a me a mani vuote; 6) Sei giorni lavorerai, ma nel settimo riposerai […]; 7) celebrerai la festa delle settimane [hag šābu’ōt], la festa delle primizie della mietitura del frumento e la festa del raccolto al volgere dell’anno; 8) tre volte all’anno si presenterà ogni tuo maschio di fronte all’arca di Yhwh, Dio d’Israele; 9) non immolerai sul pane lievitato il sangue della vittima sacrificale […]; 10) porterai al tempio di Yhwh tuo
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Dio le primizie del tuo suolo […]. [Mosè] restò quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare pane e senza bere acqua e scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole [‘ăseret haddebārîm].(15)
(15) Ex, xxxiv, 13-28
capitolo v
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: DIRITTO E LITURGIA DI UNA TEOCRAZIA SACERDOTALE
5.1. Il Levitico e le tendenze teocratiche degli aronniti Come già era accaduto nell’Esodo, ove all’interno del tessuto narrativo della storia d’Israele dalle origini all’invasione del Canaan, si erano inseriti redattori di matrice sacerdotale, così accade con il Levitico (ebr. wayqrà )ויקרא, redatto verosimilmente intorno ai primi anni del quarto secolo. Esso interrompe bruscamente il filo logico della narrazione del Pentateuco per disciplinare tutta la materia religiosa nella molteplicità delle sue ritualità, dalle offerte e dai sacrifici alle investiture sacerdotali fino alla scansione delle norme giuridiche nello spirito della più intransigente teocrazia ezriana ovvero della più alta concentrazione del potere politico nelle mani della classe sacerdotale di matrice ezriana. Il punto di frattura o di inserimento del redattore è, come nell’Esodo, la sosta di Mosè alle falde del Sinai. L’autore è probabilmente uno solo, il quale si propone l’obiettivo di regolamentare i riti, le investiture, le feste religiose in maniera più minuziosa e dettagliata di quanto era stato fatto nell’Esodo. Sicché passando dall’Esodo al Levitico la materia si arricchisce di dettagli ed assume un ordinamento più organico: il primo si limita ad abbozzare uno scarno codice giuridico con i comandamenti e uno scheletrico accenno alle feste religiose; approfondisce tutte le prescrizioni relative alla costruzione della tenda, dell’arca e del tabernacolo, quelle relative alla preparazione dei paramenti sacri, ma è molto approssimativo sui riti sacrificali e sulle feste re151
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ligiose. Nel Levitico la fonte sacerdotale sviluppa fin nei più minuti dettagli le prescrizioni relative ai riti sacrificali e purificatori, alla consacrazione dei sacerdoti e alla celebrazione delle festività religiose. È da notare che gran parte della sua attenzione è rivolta ai sacerdoti. I riti sacrificali sono distinti in olocausti (sacrifici di animali), oblazioni (offerte di alimenti), sacrifici pacifici incruenti, sacrifici espiatori cruenti (per l’espiazione di colpe del sacerdote, dell’intero popolo, del capotribù, di un uomo del popolo).(1) Nei capitoli v-vii si individua la tipologia dei peccati da espiare, si definisce la loro minore o maggiore gravità e si stabiliscono le incombenze dei sacerdoti nell’officiare i vari riti. Il popolo deve mantenersi nello stato di santità, perché Yhwh è santo («Siate santi perché io, Yhwh, vostro Dio, sono santo», Lv, xix, 2). Perciò chi mangia in stato di impurità carne del sacrificio pacifico incruento, chi tocca impurità e poi mangia carne di un sacrificio incruento o mangia grasso del bestiame offerto a Yhwh o sangue di qualunque specie, deve essere reciso (ucciso) dal popolo. I capitoli viii-x vertono sulla investitura dei sacerdoti e sulla regolamentazione del loro ministero. Vi è contenuto l’episodio di Nadab e di Abiu, figli di Aronne, i quali furono bruciati da Yhwh per aver offerto con un fuoco non regolare. Il capitolo xi contiene una minuziosa indicazione degli animali puri e impuri, seguita nei capitolo xii e xiii dalla problematica delle impurità dopo il parto: se la donna concepisce un maschio, è impura per sette giorni e l’ottavo giorno sarà dedicato alla circoncisione del neonato; se partorisce una femmina, è impura per due settimane; nell’uno e nell’altro caso, dopo il periodo di purificazione, i genitori porteranno al sacerdote un agnello di un anno. Le malattie, considerate impure sono la dermatosi, la lebbra inveterata, le piaghe, le ustioni, le infezioni alla testa, ovvero la tigna, le macchie o leucoplasie, la calvizie. Seguono le impurità sessuali: flusso seminale nell’uomo; flusso mestruale nella donna; in tal caso l’impurità si estende a tutte le cose da lei toccate. Nei capitoli xvi e xxiii è trattata la festa dell’espiazione delle colpe di Israele (coincidente con la festa del kippur), la quale cade, con l’obbligo del digiuno il decimo giorno del settimo mese e consiste nel sacrificio di un montone e di due capri. Il sacerdote sorteggia, probabilmente con gli urim e i tummim, quale dei due capri sarà offerto a Yhwh e quale ad Azazel, il demone. Dopo tale operazione il primo dei due capri è sacrificato sull’altare; sul secondo il sacerdote stende le mani e, confessando tutti i peccati del popolo, li trasferisce sulla testa del (1) Lv, i, 1-17; ii, 1-16; iii, 1-17; iv, 1-35.
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capro espiatorio; infine lo manda nel deserto perché sia sacrificato ad Azazel. La purificazione passa attraverso il sangue, perché «nel sangue è la vita della carne». Per questo – dice Yhwh – «Ve l’ho destinato all’altare, per fare l’espiazione sulle vostre vite; infatti il sangue espia in quanto è vita». Deriva da ciò l’obbligo «di non mangiare qualsiasi specie di sangue», perché la prerogativa della vita spetta a Yhwh: chiunque uccide animali dentro o fuori l’accampamento e non ne fa offerta a Yhwh è condannato a morte; chiunque mangia sangue, deve essere eliminato. Il capitolo xviii ci offre un quadro delle colpe sessuali del clan e nello stesso tempo ci pone sotto gli occhi il quadro delle più frequenti deviazioni sessuali diffuse all’interno di ciascuna tribù. Le deviazioni condannate sono: scoprire le nudità di una consanguinea (genitori, sorelle, nipoti, zia, cognata, figlia) o di una donna durante il mestruo. Si sancisce così il divieto, pena la morte, di giacere con la moglie del vicino, con un maschio (rapporto omosessuale), con gli animali. Il capitolo xix ci fornisce una terza versione dei comandamenti che sono così elencati: 1- divieto di venerare gli idoli e di farsi divinità fuse in metallo; 2- divieto di mangiare la carne sacrificata oltre il terzo giorno e 3- di mietere fino ai margini del campo; 4- divieto di rubare, di ingannare, di mentire; 5- divieto di opprimere il vicino, di maledire il sordo e di porre inciampi davanti al cieco; 6- divieto di commettere ingiustizie in giudizio; 7- di odiare il proprio fratello; 8- di serbare rancore verso i figli del proprio popolo; 9- di accoppiare bestie di specie diverse e di seminare semenze di specie diverse; infine 10-, in positivo: amare il proprio vicino (lerê’ăkā). Gli ulteriori divieti riguardano la pratica della divinazione o della magia e del tatuaggio, nonché il divieto di favorire la prostituzione della figlia e di consultare negromanti e indovini. Per i trasgressori (capitolo xx) è prevista la pena di morte o l’espulsione dalla collettività (scomunica). Nel capitolo xxi le norme per i sacerdoti sono: non rendersi impuro a contatto con un morto della propria parentela, non fare tonsure sul capo, non radersi la barba, non fare incisioni sul corpo, non prendere in moglie una prostituta profana o sacra né una donna ripudiata dal marito. Se la figlia di un sacerdote si prostituisce, sarà bruciata. Alle persone deformi è vietato l’accesso al sacerdozio. Il capitolo xxiii presenta una più minuziosa articolazione delle feste civili e religiose. Si conferma ancora una volta la festa del sabato. In ordine alla pasqua e alla festa degli azzimi si precisa che la prima deve essere consumata al crepuscolo del 14 del primo mese e che i sette giorni degli azzimi van-
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no dal quindicesimo al ventunesimo giorno dello stesso mese. La festa della mietitura consiste nell’offerta delle primizie del raccolto al sacerdote. A questa fa seguito la festa delle settimane che cade la domenica successiva al settimo sabato dopo l’offerta del primo covone e consiste nell’oblazione di due decimi di efa di fior di farina, di sette agnelli, di un capro e di altri due agnelli. Il sabato, primo giorno del settimo mese, è il gran sabato della memoria (šabbātōwn zikrōwn) cioè il giorno del secondo capodanno, accompagnato dal suono della tromba e dalla convocazione sacra con divieto di lavorare. Il decimo giorno dello stesso mese cade la festa dell’espiazione (yōm hakkipurîm) in cui si pratica il digiuno con divieto di lavorare. La pena per chi non rispetta il digiuno è la morte. La festa delle capanne (hag hassukkōt) cade il quindicesimo giorno del settimo mese, dura sette giorni e segna la «chiusura solenne dell’anno»; le due domeniche di inizio e fine della festa sono equiparate al «gran sabato» e comportano il divieto di lavorare; per sette giorni gli israeliti dimorano nelle capanne per tener viva la memoria della vita condotta subito dopo l’uscita dell’Egitto. Il capitolo xxiv contiene ulteriori prescrizioni, come quelle di portare la lampada della fiamma perenne e di offrire agli aronniti dodici pani. I versetti xxiv, 10-23, interrompono l’elencazione delle feste e sono evidentemente cascami di un testo contenente prescrizioni giuridiche; vi si narra dell’episodio del figlio di Selomit, figlia di Dibri, della tribù di Dan, il quale pronunciò il nome del signore maledicendolo; fu portato fuori dell’accampamento e lapidato per volontà di Yhwh. L’episodio offre l’occasione per ribadire la legge del taglione. Di grande interesse è nel capitolo xxv l’istituzione dell’anno sabbatico e dell’anno giubilare. Ogni settimo anno (anno sabbatico) è dedicato a Yhwh e comporta il divieto di seminare il campo, di potare la vigna, di mietere e di vendemmiare. L’anno giubilare è l’anno successivo a sette anni sabbatici e cade di conseguenza ogni cinquanta anni. Il giubileo è così detto da yōbêl, dal corno al cui suono si apre l’anno, ed ha rilevanza sia sul piano sociale che economico: vi è proclamato solennemente l’indulto per tutti gli israeliti, accompagnato dall’obbligo di consumare solo i prodotti spontanei della terra. Ciascuno tornerà in possesso della sua proprietà alienata; ciò significa che il valore delle proprietà vendute o acquisite è in funzione della distanza dall’anno giubilare. Nessuna vendita è irrevocabile, perché la proprietà del paese spetta a Yhwh e gli israeliti sono «solo dei forestieri e degli ospiti» nella loro terra; il diritto di riscatto può essere esercitato solo entro il primo
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anno. Nelle città levitiche i leviti hanno un diritto di riscatto permanente; i campi annessi alle città levitiche non potranno essere venduti. Quanto ai rapporti tra fratelli si legifera quanto segue: se un uomo si impoverisce, sarà ospite di suo fratello; se si vende al fratello, questi non deve farlo lavorare come schiavo, ma come salariato e il suo servizio durerà solo fino al giubileo, allorché tornerà libero. Di contro gli schiavi comprati tra i figli degli ospiti, saranno di proprietà in eterno. Nel capitolo xxvi si enunciano le benedizioni e le maledizioni e ancora comandamenti che si accompagnano rispettivamente alla fedeltà o alla trasgressione del patto. Si tratta in realtà di una tradizione risalente ai culti cananei e nei contenuti conserva tracce delle divinità della pioggia e della fertilità: Non fatevi idoli, non erigetevi immagine scolpita, né stele […]; osservate i miei sabati e rispettate il mio santuario […]. Vi darò le vostre piogge (wenātattî gišmêkem) a tempo opportuno, il paese vi darà i raccolti e gli alberi del campo vi daranno frutti […] la mietitura durerà fino alla vendemmia […] darò pace al paese […], i vostri nemici cadranno davanti a voi […], vi renderò fecondi […], piazzerò il mio tabernacolo in mezzo a voi […]; io sono il vostro Dio che vi ha fatto uscire dall’Egitto.
Terribili maledizioni colpiscono coloro che non osservano i comandamenti divini; essi saranno soggetti al terrore, alla febbre, alla consunzione; saranno castigati sette volte più dei loro peccati (concetto ripetuto quattro volte); saranno sconfitti dai nemici; mangeranno la carne dei loro figli; mangeranno, ma non saranno saziati; saranno decimati dalla peste, dagli animali feroci, dispersi tra le genti, vivranno tra i loro nemici, le loro città saranno desolate, il loro santuario sarà devastato. Yhwh, che li ha deportati nel paese dei loro nemici, rompe con loro l’alleanza; il loro cuore è incirconciso. Queste ultime annotazioni denotano una certa consonanza con il Deuteronomio. Entrambi i testi infatti sembrano risalire al v-iv secolo. Il capitolo xxvii è manifestamente un’aggiunta posteriore e tratta dei prezzi di riscatto. La vita di un uomo dai venti a sessant’anni è valutata cinquanta sicli d’argento; quella di una donna, trenta; quella di un minorenne, venti: seguono le valutazioni degli animali, delle case, dei campi. Lo sterminio (hêrem) riguarda tutto ciò che è dato in voto perenne a Yhwh e non può essere né venduto né riscattato. Neanche un essere umano, votato pe-
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rennemente (hêrem) a Yhwh, può essere riscattato, ma deve essere messo a morte. Il testo si chiude con un accenno alla decima: ogni decima della semenza, dei frutti, delle greggi o degli armenti, è cosa sacra per Yhwh (intendi per i leviti). «Questi – scrive il redattore – sono i precetti che Yhwh prescrisse a Mosè sul monte Sinai». Il Levitico è, come si è detto, un documento redatto dal sacerdozio aronnita ed è rispetto all’Esodo e a Numeri, anch’essi di matrice aronnita, assai più tardo e posteriore rispetto al Deuteronomio di almeno qualche decennio. Tutti e tre i testi citati evidenziano da una parte l’assoluta assenza del potere monarchico e della figura di un re, e dall’altra l’ingombrante invadenza del potere sacerdotale. Essi presuppongono almeno tre eventi decisivi: 1) la ricostruzione del tempio; 2) il rientro dei deportati in Gerusalemme e in parte del territorio settentrionale; 3) la riduzione del regno del Sud a provincia persiana. In tale contesto storico il potere politico e decisionale è concentrato nelle mani degli aronniti, i quali sono – a loro volta – contrastati dai leviti (si pensi all’episodio di Core). L’equilibrio tra le due classi sacerdotali fu trovato in una organizzazione gerarchica per la quale le funzioni sacerdotali più alte furono riconosciute al ramo di Aronne e quelle di servizio agli altri rami dei leviti. Ne risultò una società fortemente teocratica, rigidamente moralistica, ossessionata dall’idea della propria purezza e della propria santità, dotata di una legislazione penale fondata sulla legge del taglione, di una legislazione tributaria a tutto vantaggio della classe sacerdotale e di una legislazione sociale, che, pur prevedendo forme di tutela verso i più deboli (i poveri, gli orfani e le vedove, gli ammalati), li lasciava sussistere ai margini della società. Il quadro cominciò a scricchiolare nel corso del quarto secolo sotto l’influenza della cultura ellenica; cominciarono allora a circolare i temi dell’amore reciproco tra Dio e l’uomo e la convinzione che la vera circoncisione non è quella fisica, ma è quella del cuore (è la fase del Deuteronomio e del Levitico). In Esodo e in Numeri è più accentuata l’idea di un governo di sacerdoti (Ex, xix, 6: mamleket kōhănîm). L’Esodo in particolare ci dà la misura della pochezza normativa e strutturale dei due ex-regni del Nord e del Sud, poiché non sembra aver ereditato da essi una legislazione evoluta; anzi ce ne trasmette una striminzita che, pur nella forma solenne dei dieci comandamenti divini, tocca contemporaneamente la sfera dell’etica e quella penale, non ancora nettamente distinte l’una dall’altra. Di contro l’autore si concentra sulle prescrizioni minuziose per l’edificazione dell’altare e dell’arca con una scrupolosa descrizione degli ar-
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redi sacri (tabernacolo, velo di separazione, recinto, olio per l’illuminazione), dei paramenti sacerdotali (efod, pettorale, manto per la veste sacerdotale) e dei diversi riti. Il contesto storico di Numeri sembra essere quello delle diverse fasi del rientro dei deportati nel corso del quinto secolo. Forse l’autore con i suoi due censimenti intende legittimare i diritti ereditari dei clan e delle famiglie strappati alla loro terra dalla invasione babilonese. Egli scrive nel momento di massima tensione tra aronniti e leviti (v. l’episodio di Core e la fioritura della verga di Aronne). Sul piano normativo l’autore arricchisce le prescrizioni cultuali e stigmatizza i diritti e i doveri delle due classi sacerdotali; si sofferma sul concetto di impurità e sulla relativa casistica e sui riti di purificazione. Con il Levitico la legislazione sacerdotale giunge al suo culmine, perché si presenta estremamente più articolata per insistere tanto nel solco della tradizione, quanto sulla via del rinnovamento. Le prescrizioni ritualistiche, relative ad olocausti, oblazioni, a varie forme di sacrifici (pacifici, espiatori e riparatori) e a riti di consacrazione, sono abbondantemente dettagliate. Più sviluppata rispetto all’Esodo è la casistica delle impurità, ma soprattutto è interpretato in una luce nuova il dettato dei comandamenti, sintetizzato in due punti fondamentali: 1) «Non odiare nel tuo cuore tuo fratello»; 2) «Ama il tuo vicino/il tuo prossimo come te stesso». Anche la connotazione delle feste diventa più puntuale passando da un libro all’altro. Il sabato è la festa che rimane inalterata dall’Esodo al Deuteronomio: essa comporta il riposo dal lavoro e la sua trasgressione è punita con la morte.(2) In ordine alla pasqua (pesach) l’Esodo (xii, 6, 15-18) presenta incertezze inspiegabili, poiché l’autore, pur dichiarando sette i giorni degli azzimi, li fa partire dal 14 di abib fino al 21 per un totale di otto giorni. L’equivoco è assente in Numeri (xxviii, 16-25), per il quale il 14 di abib si consuma la pasqua con il sacrificio di un toro, due montoni e sette agnelli e con la donazione di fior di farina in quantità commisurata alle vittime sacrificali e i sette giorni degli azzimi vanno dal 15 al 21. Il Levitico (xxiii, 6-8) conferma le date, ma tace sulle vittime sacrificali e sulla donazione di fior di farina. Il Deuteronomio (xvi, 1-8) fa cadere la festività nel mese di abib ma non indica date precise; nel giorno della pasqua prevede il sacrificio di un agnello o di un vitello e fissa in sette i giorni degli azzimi, aggiungendo che la ce(2) Ex, xvi, 21-31; xx, 10; xxxi, 12-18; xxxv, 1-3; Lv, xvi, 31; xxiii, 3-4, 32; xxv, 2, 4, 6; Nm, xxviii, 9-10; Dt, v, 14. Per la trasgressione v. Nm, xv, 32-36.
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lebrazione deve avvenire solo nel luogo scelto da Yhwh per sua dimora (tesi della centralità del tempio). Analoghe sono le incertezze relative alle altre festività. La festa delle settimane (hag šăbu’ot), chiamata anche festa della mietitura (hag aqqāsîr) e festa delle primizie (yom habbikkūrîm),(3) secondo il Levitico e il Deuteronomio cade il cinquantesimo giorno, coincidente con la pentecoste, ovvero il giorno successivo a sette settimane dopo la raccolta del primo covone. Tenuto conto che la mietitura iniziava a pasqua, la festa cadeva con la fine della raccolta del grano il 6-7 del mese di Siwan. A differenza dell’Esodo che si limita ad enunciarla, Numeri ci fa sapere che essa comportava il sacrificio di due tori, di un montone, di sette agnelli e la donazione di fior di farina, intrisa di olio, nella misura di tre decimi di efa per toro, due decimi per montone, un decimo per i sette agnelli e un capretto per il sacrificio espiatorio. Per il Levitico (xxiii, 15-22) l’offerta è di due pani di due decimi di efa di fior di farina, sette agnelli, un vitello e due montoni; un capro per il sacrificio espiatorio e due agnelli per il sacrificio pacifico. Per il Deuteronomio (xvi, 9-12, 16), invece le offerte sono volontarie. Non menzionata nell’Esodo, la festa delle capanne, chiamata nel Levitico festa dei tabernacoli (hag hassukkōt), è fissata, senza alcuna denominazione, il 15 del settimo mese (tishri) per la durata di sette giorni. Secondo l’autore di Numeri (xxix, 12-39) comportava il sacrificio di fuoco di tredici tori, due montoni, quattordici agnelli, fior di farina intrisa nell’olio, tre decimi di efa per i tori, due decimi per i montoni, un decimo per gli agnelli e un capretto espiatorio. Dal primo all’ottavo giorno il numero dei tori si riduceva di una unità al giorno. Per il Levitico (Lv, xxiii, 33-36) invece comportava l’offerta libera di doni a Yhwh. Il Deuteronomio (xvi, 13-15) non dà indicazioni cronologiche, non parla di donazioni, ma si limita a dire che si tratta di una festa di gioia. Nessuna delle tre fonti fa riferimento alla peregrinazione nel deserto. Anche il giorno dell’espiazione, il 10 del mese di tishri, giorno di dolore, non è ricordato dall’Esodo ed è collegato in Numeri (xxix, 7-11) all’olocausto di un toro, di un montone e di dodici agnelli, con relative donazioni di farina e sacrificio di un capro espiatorio. Nel Levitico (Lv, xvi, 1-31; xxiii, 26-32) il rito è più nettamente dettagliato: il sacerdote impone le mani sul capo del capro espiatorio, trasferisce su di esso tutti i peccati degli israeliti e infine lo invia nel deserto. Come si intuisce facilmente Esodo, Numeri e Levitico sembrano collocarsi in una linea evolutiva che va gradualmente smussando le punte più (3) Ex, xxxiv, 22; Dt, xvi, 10; Ex, xxiii, 16; Nm, xxviii, 26.
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crude della legislazione sacerdotale. Esodo e Numeri sono probabilmente l’espressione di una fazione di aronniti più rigida e si potrebbe aggiungere più famelica; il Levitico invece, pur restando nell’ambito di una concezione rigorosa dei rapporti sociali, sembra aprirsi verso posizioni più moderate. Il Deuteronomio, che è espressione di sacerdoti leviti, anti-aronniti, si pone a sua volta su versanti maggiormente innovativi; e lo si intuisce soprattutto sulla base di certi spunti di natura sociale e culturale. A titolo d’esempio possiamo notare che in esso (ma anche nel Levitico) non si parla più dei primogeniti come proprietà di Yhwh (come in Ex, xiii). Entrambi i testi mostrano una maggiore apertura verso il povero (‘ebyiōn); ci si auspica che nella terra promessa non ce ne siano o, se ci fossero, che nessuno indurisca il proprio cuore, ma apra la propria mano e li aiuti nella misura sufficiente a soddisfare i loro bisogni. Il Deuteronomista raccomanda che chi è stato schiavo in terra d’Egitto non si dimentichi nel raccolto dell’orfano, della vedova e del povero (Dt, xv, 4-11; xxiv, 17-22). Analogamente per il Levitico (xxv, 23-34) se un uomo si impoverisce deve essere soccorso dal fratello e deve essere da lui trattato non come schiavo, ma come salariato; se uno schiavo fugge, non va restituito al padrone. Alcune norme sono per così dire di garanzia: per esempio non è sufficiente ad esprimere un sereno giudizio un unico testimone; la prigioniera può essere presa in moglie;(4) colui che calunnia una donna dovrà pagare un’ammenda; non si può fare un prestito ad interesse ad un fratello; non possono essere presi in prestito gli strumenti di lavoro, come le pietre della macina e la mola, perché sarebbe come prendere in pegno la vita; il salario va dato il giorno stesso prima del tramonto del sole. La responsabilità è personale: ciascuno è messo a morte per le proprie colpe.(5) Ad un attento esame non sfugge che la collocazione del Levitico tra Esodo e Numeri ha un carattere parentetico. Il redattore finale interrompe abilmente la narrazione dell’Esodo per introdurre la complessa regolamentazione della legislazione teocratica e per riagganciare il tessuto narrativo con l’esordio di Numeri. Se ne deve dedurre che il Levitico non faceva parte della prima redazione del Pentateuco, il quale, probabilmente, doveva essere originariamente un Triteuco (Genesi, Esodo, Numeri) in una redazione assai più striminzita di quella a noi pervenuta. Il tono rigido e severo delle prescrizioni che vi sono contenute fanno pensare ad un redattore artefice di (4) Dt, xxiii, 16-17; xix, 15-21; xxi, 10-14. (5) Dt, xxii, 13-19; xxiii, 20-21; xxiv, 6, 10, 13, 14-15, 16.
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una rigorosa riforma religiosa con una forte restrizione delle libertà individuali e con l’imposizione di un codice etico-politico rigidamente controllato dalla classe sacerdotale. Per queste ragioni il Levitico potrebbe essere riconducibile ad una personalità forte e intransigente come quella di Ezra o comunque ad una personalità di scuola ezriana.(6)
(6) La nozione di redattore appare sospetta a J. Van Seters, The edited Bible. The Curious History of the Editor in Biblical Criticism, Winona Lake, Eisenbrauns, 2006, p. xiii. Il redattore – egli dice – è infatti una sorta di Deus ex machina che ci permette ci sciogliere le difficoltà del testo. In realtà non è necessario che l’intero corpus o che l’intero testo sia concepito come l’elaborazione di un redattore, perché è possibile che i vari scrittori si siano succeduti l’uno dopo l’altro e che ciascuno sia stato dipendente dai suoi precedessori e abbia incorporato nella propria opera i testi preesistenti. In questa prospettiva cade la tradizionale distinzione tra autori e redattori; il testo è spiegato i termini di stratificazioni successive, in cui il ruolo del redattore non è secondo o secondario rispetto a quello dell’autore.
capitolo vi
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE LA PSEUDO-STORIA
6.1. Il mito del nomadismo nel deserto Dopo la brusca cesura del Levitico la narrazione riprende il suo filo logico con Numeri (ebr. במדברbemidbàr = nel deserto). L’intero testo è di matrice sacerdotale aronnita, ma è l’intreccio di più documenti tra loro distinti e non sempre congruentemente accorpati. Esso si può dividere in cinque sezioni. I primi quattro capitoli, che costituiscono la prima sezione, sono dedicati al censimento di tutti i discendenti delle dodici tribù. Tutta l’operazione è condotta da dodici sovrintendenti, uno per ciascuna tribù, fatta eccezione dei leviti, che non sono rappresentati e della tribù di Giuseppe che ha due rappresentanti, uno per il ramo di Efraim e l’altro per quello di Manasse. Tra tutti i nomi che compaiono nella lista dei sovrintendenti cinque recano il teoforico Êl (Selumiel, Nataneel, Gamliel, Paghiel, Deuel), uno reca il teoforico Šadday (Amnishaddai), nessuno reca il teoforico Yhwh. Lo stesso accade nel secondo censimento ove i nomi contenenti il teoforico Êl (Eliab, Nemuel, Arel, Iacleel, Asiel, Asbel, Malchiel) sono in generale desunti dalla Genesi.(1) Di matrice elohistico-settentrionale sono anche i nomi che compaiono nella ripartizione del Canaan tra le tribù (Elidad, Anniel, Kamuel, Elisafan, Paltiel, Pedael). Alle falde del Sinai, il primo giorno del secondo mese del secondo anno dall’uscita dall’Egitto, Mosè riceve da Yhwh l’ordine di censire i figli di Isra(1) Nm, xxvi, 8-39; Gn, xlvi, 10-21.
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ele, secondo le rispettive famiglie e i rispettivi capitribù. I lavori si concludono in venti giorni: «il venti del secondo mese del secondo anno i figli d’Israele partirono dal deserto del Sinai» (Nm, i, 1; x, 11). Il censimento dà un risultato incredibilmente esagerato di ben 603.550 maschi di età superiore a vent’anni, esclusi i leviti. Ed è tanto più esagerato se si pensa che, aggiungendo i leviti, le donne e i figli minorenni, si sfiorerebbero i due milioni di persone, che era di fatto quasi tutta la popolazione dell’Egitto. Ai leviti sono assegnate funzioni minori e potremmo dire di servizio sotto la sorveglianza dei sacerdoti aronniti. Tali sono la cura della tenda della testimonianza e di tutti gli arredi sacri, le operazioni di montaggio e smontaggio della tenda e l’obbligo di accamparsi attorno ad essa. Ivi Yhwh detta le disposizioni che ciascuna tribù deve eseguire durante la sosta in accampamento e durante la marcia. I leviti aronniti sono Nadab e Abiu (morti), Eleazar e Itamar e sono riscattati da Yhwh in sostituzione di ogni primogenito d’Israele: «Nel giorno in cui colpii tutti i primogeniti d’Egitto, consacrai a me ogni primogenito d’Israele» (Nm, iii, 12-13). Dal censimento dei leviti, secondo le discendenze di Gherson, Keat e Merari, figli di Levi, risulta che la famiglia di Gherson contava 7.500 persone; quella di Keat 8.600; quella di Merari 6.200, per un totale di 22.000 (in realtà 22.300) leviti. Paradossalmente il loro numero era pressoché corrispondente a quello dei primogeniti maschi di Israele di età superiore ad un mese. Infatti dal loro censimento, effettuato per ordine di Yhwh, risultò che essi erano in totale 22.273 con una eccedenza di 273 primogeniti (in realtà erano 27 di meno) rispetto al totale dei leviti. Dal loro riscatto, stabilito da Yhwh in cinque sicli a testa, Mosè ricavò 273x5 = 1.365 sicli, che diede a suo fratello Aronne e ai suoi figli per il servizio sacerdotale. Colpisce in particolare la sproporzione tra il numero dei primogeniti di una sola tribù e quello dei primogeniti di ben 11 tribù. Ai keatiti, che era il ramo di appartenenza degli aronniti, fu riservata la cura delle cose più sacre; ai ghersoniti spettò il servizio del trasporto; i merariti furono consacrati al servizio nella tenda dell’incontro, sotto la sovrintendenza di Itamar, figlio di Aronne. Il censimento dei leviti da trent’anni in su avrebbe dato i seguenti risultati: 2.750 keatiti; 2.630 ghersoniti; 3.200 merariti per un totale di 8.580. Nel capitolo xxvi, dopo la strage di coloro che avevano ceduto al culto di Baal-Peor e si erano prostituiti con le figlie di Moab, a seguito del conflitto con i madianiti, cioè dopo la permanenza di 38 anni a Qadesh-Barnea,(2) Yhwh (2) Qadesh-Barnea, identificata con Tell el-Qudeirat, ha restituito agli scavi archeo-
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ordinò un nuovo censimento, condotto per famiglie e non per figli maschi maggiorenni. Ne risultò una popolazione di 601.730 israeliti e 23.000 leviti (soli maschi di età superiore ad un mese). Fin dal censimento il sacerdozio risulta articolato in due livelli, il primo di grado superiore (gli aronniti) a cui sono demandate le funzioni sacerdotali vere e proprie e il secondo di grado inferiore (i leviti) con funzioni di mero servizio per il grado più alto. Tale gerarchia è così esplicitamente rivendicata dall’autore: Aronne presenterà i leviti come offerta da agitare davanti a Yhwh (Nm, viii, 11); Io me li [i leviti] sono presi al posto di tutti quelli che aprono il ventre materno (Nm, viii, 16); Li [i leviti] consegnai come donati ad Aronne e ai suoi figli dal mezzo dei figli di Israele (Nm, viii, 19) I tuoi fratelli, della stirpe di Levi, tuo padre, ti siano accanto e ti servano […]; essi saranno a disposizione tua e di tutta la tenda, ma non si accosteranno agli arredi del santuario e all’altare, per non morire sia voi che loro (Nm, xviii, 2); Per lui [per Fineas, figlio di Eleazar e nipote di Aronne] e per la sua discendenza sarà un’alleanza di sacerdozio eterno, perché ha avuto zelo per il suo Dio e ha fatto l’espiazione per i figli d’Israele (Nm, xxv, 13).
Naturalmente una così netta frattura all’interno del servizio sacerdotale non poteva non provocare forti frizioni interne, come dimostra chiaramente la ribellione della fazione di Core. Ma ciò che è importante rilevare è che il contesto storico che l’autore ha presente non è in realtà quello mosaico, ma quello assai più frammentato del v-iv secolo. La seconda sezione (capitoli v-ix) contiene prescrizioni liturgico-rituali. Vi sono enunciate le leggi relative alla protezione della purità del popolo: gli impuri (i lebbrosi, coloro che sono soggetti al flusso seminale e coloro che sono entrati in contatto con cadaveri) sono espulsi dalla comunità. Tra le altre prescrizioni divine è annoverata l’ordalia dell’acqua amara: per fugare la gelosia del marito, la donna è sottoposta alla prova dell’acqua amara della maledizione; se sopravvive vuol dire che è fedele; se muore, è infedele. L’autore di Numeri ci informa circa l’istituzione del voto del nazireato per Yhwh (capitolo vi). Il nazireo si impegna ad astenersi dal vino e dalle bevande inelogici solo una fortezza databile tra il x e il vii secolo, incompatibile con l’esodo biblico.
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brianti per tutta la durata del voto; egli non deve bere succo di uva o consumare uva secca o fresca; non deve radersi i capelli, né avvicinarsi a cadaveri. Quando scade il voto ha l’obbligo di offrire in olocausto un’agnella di un anno, un canestro di schiacciate di fior di farina azzime; deve radersi il capo e bruciare i capelli «sul fuoco che sta sotto il sacrificio dell’offerta di pace» (Nm, vi, 18). Nel testo vengono altresì normate la dedicazione dell’altare e le offerte dei capi delle dodici tribù (capitolo vii), la costruzione delle lampade e del candelabro e la consacrazione dei leviti (capitolo viii). Il capitolo ix ritorna, con le solite incertezze, sulla celebrazione della pasqua, la quale, senza alcun accenno all’osservanza dei sette giorni degli azzimi, cade il 14 del primo mese «tra le due sere». Agli impuri per contatto di cadavere si impone l’obbligo di ritardarla di un mese; di contro coloro che omettono di celebrarla debbono essere «eliminati dal popolo». Tuttavia la celebrazione della prima pasqua dopo l’uscita dall’Egitto presenta le incongruenze già sopra rilevate. Con la terza sezione (ix-xx) riprende la narrazione storica della peregrinazione mosaica nel deserto. Il venti del secondo mese del secondo anno dall’uscita dall’Egitto gli israeliti partono dal Sinai ed intraprendono un viaggio contrassegnato da mormorii popolari contro Yhwh e contro Mosè e da correlate punizioni divine. Durante la marcia il popolo è guidato da una nube di giorno e da un fuoco di notte. La nube si ferma nel deserto di Paran e a Tabera il fuoco di Yhwh divampa contro coloro che mormoravano contro Mosè. Si riproduce l’episodio della caduta della manna e il bisogno di divorare carne è soddisfatto dalle quaglie, portate dal mare con la forza del vento. A Kibrot-Taava si scatena nuovamente l’ira di Yhwh contro chi si era macchiato di ingordigia (si tratta in realtà di una spiegazione eziologica del nome del luogo). In tutta la narrazione l’antropomorfismo è di casa: Dio conosce i mormorii del popolo perché vi presta ascolto; suggerisce a Mosè di inviare in Canaan dodici esploratori (uno per ogni tribù) per trarre notizie sulla potenza dei loro abitanti. Esibisce per lo più la sua natura di dio irato, che talvolta si placa per intercessione del profeta, il quale sembra ricorrere ad argomentazioni più sagge e più accorte della stessa divinità. In ogni caso Yhwh è nello stesso tempo un Dio nazionale, inflessibile, che massacra il suo popolo nel deserto ed ignora, contestato da Mosè, il principio della responsabilità personale. Nonostante le numerose esplosioni dell’ira di Yhwh, Mosè dichiara che Dio «è lento all’ira e largo in misericordia; sopporta colpa e ribellione, ma non lascia nulla senza punizione; castiga la colpa dei pa-
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dri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Nm, xiii, 18). Anche il perdono divino si traduce di fatto in una tremenda punizione: non c’è scampo per il popolo che non ha mantenuto la fede in Yhwh: nessuno degli israeliti partiti dal Sinai, fatta eccezione di Caleb, figlio di Iefunne, e di Giosuè, figlio di Nun, vedrà la terra promessa; il deserto sarà la loro tomba. «Se avete impiegato quaranta giorni per esplorare la terra di Canaan, impiegherete quarant’anni per scontare le vostre colpe» (Nm, xiv, 34). I 40 anni di peregrinazione nel deserto sono simbolici e corrispondono ad una generazione, perché nella prospettiva mistico-simbolica dell’autore la generazione che penetrerà nel Canaan non sarà la stessa uscita dall’Egitto. Non è la prima volta che i testi ricorrono al computo per generazioni. Dalla fuga dall’Egitto alla costruzione del primo tempio trascorrono 480 anni, che è un tempo simbolico corrispondente a dodici generazioni (12 x 40 = 480). Al ritorno dal Canaan gli esploratori (tra i cui nomi compaiono Ammiel, Michael e Gheuel con teoforico Êl), che erano saliti per il Negev fino ad Hebron, riferiscono che la terra promessa era abitata dagli amaleciti nella regione del Negev, da hittiti, gebusei e amorrei nella regione montagnosa, e da cananei nella fascia costiera e sulle rive del Giordano. Riferiscono anche che si tratta di una terra fertile, ricca di latte e di miele, ma abitata da popolazioni forti e di alta statura, come i Nefilim, dai quali discendono i figli di Anak. Yhwh suggerisce agli israeliti di dirigersi verso il deserto per la strada del Mar Rosso; ma a Corma, per aver trasgredito l’ordine divino, essi subiscono una pensante sconfitta. Con il capitolo xv si interrompe bruscamente la narrazione storica e la mano passa ad un’altra oscura fonte che traccia per grandi linee la legislazione che andrà in vigore dopo l’entrata in Canaan. Vengono prescritte le offerte vegetali da bruciare in onore di Yhwh e le offerte del pane; per i trasgressori che oltraggiano Yhwh o che violano il sabato è previsto lo sterminio. Tanto la concezione di Dio quanto la legislazione sono funzionali al potere teocratico ed incontrastato dei sacerdoti. Dopo l’excursus legislativo, riprende il filo della narrazione storica con una poco verosimile contestazione del potere del sacerdozio aronnita, contro il quale protestarono Core, Datan e Abiram (capitolo xvi). La protesta, che coinvolse ben 250 persone, fu repressa con un intervento punitore divino che fece sì che sotto i loro piedi la terra si spalancasse e li divorasse. Il popolo protestò per la morte di Core e dei suoi affiliati, ma l’insano gesto valse solo a provocare nuovamente l’ira di Yhwh che scatenò un altro flagello (hannāgep) in cui persero la vita ben
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14.700 ebrei. La soluzione (per la verità ingenua e fantasiosa) della controversia fu suggerita dallo stesso Yhwh: ciascuno dei dodici capitribù doveva consegnare una verga; Dio avrebbe scelto colui la cui verga sarebbe fiorita. Poiché fiorì la verga di Aronne, si confermò che il potere sacerdotale era appannaggio degli aronniti. Sciolta la contesa, si sancirono i diritti e i doveri dei sacerdoti (capitolo xviii). Al dovere di prendersi cura del santuario e dell’altare e di officiare i riti sacrificali, corrisponde il diritto perpetuo di consumare tutte «le offerte e le cose santissime destinate al fuoco»; ad essi Yhwh fa dono di «tutto il meglio dell’olio, tutto il meglio del vino e del grano, cioè di tutte le primizie […] ogni cosa votata allo sterminio […] ogni primo nato di qualsiasi essere vivente […] sia d’uomo sia d’animale» (Nm, xviii, 8-15) e financo la decima delle decime dei leviti. Infine viene istituito il rito purificatorio del sacrificio della vacca rossa, immolata fuori del campo, le cui ceneri sono conservate come acqua lustrale per la comunità (capitolo xix). A Qadesh muore Miriam, sorella di Mosè. A Meriba (merîbāh o merîbot = contesa), così denominata perché i figli di Israele contesero con Yhwh e patirono di nuovo la sete a causa della carenza d’acqua,(3) Yhwh fece sgorgare l’acqua dalla roccia, ma castigò Mosè ed Aronne e sancì: «Poiché non avete creduto in me, non condurrete questa assemblea nella terra di Canaan». Tuttavia la colpa attribuita ai due fratelli rimane avvolta nel mistero. A Qadesh Mosè chiese al re di Edom (ma in epoca mosaica non esisteva alcun re di Edom) il permesso di attraversare la loro terra; ottenutone il rifiuto, il Profeta fu costretto a ripiegare in direzione del monte Or, ove si spense Aronne e la sua veste sacerdotale passò ad Eleazar, suo figlio. Nel Negev il re cananeo di Arad attacca gli israeliti e fa alcuni prigionieri. Yhwh concede agli israeliti di votarli allo sterminio. Quel luogo venne chiamato Corma (hārmah = sterminare; v. Nm, xxi, 3), ma in realtà per Nm, xiv, 45, aveva già assunto il nome Corma). Mosè decide di partire dal monte Or in direzione del Mar Rosso per aggirare la terra di Edom.(4) La quarta sezione (capitoli xxi-xxv) che comprende le tappe successive nelle steppe di Moab, al di là del Giordano, è quanto mai composita e denota interventi di mani diverse. Per di più taluni apporti sembrano derivare da fonti non ebraiche. Ne sono esempi il capitolo xxi, con la storia della puni(3) Cfr. Ex, xvii, 7; Dt, xxxii, 51; xxxiii, 8. (4) In realtà Corma (ebr. Hormah, od. Tel Masos) risulta dagli scavi archeologici un modesto villaggio, mai occupato da cananei, che secondo il testo biblico sarebbero stati sconfitti da Israele.
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zione divina attraverso un’invasione di serpenti, e i capitoli xxii-xxv con la curiosa storia di Balaam. Il capitolo xxi si apre con una nuova protesta del popolo per la mancanza di acqua; Yhwh lo punisce mandando serpenti velenosi che provocano un’ulteriore strage di israeliti. Questi protestano ancora una volta contro tale punizione e Yhwh suggerisce a Mosè di farsi un serpente di bronzo che salva coloro che sono morsi (Nm, xxi, 8-9). L’episodio è in sé inspiegabile e incomprensibile, ma forse è solo un residuo di culti teriomorfi egiziani. Avanzando nell’area della Transgiordania, gli israeliti si accampano prima ad Obot e a Iie-Abarim nel deserto di fronte a Moab, e poi a Zered, sulla sponda dell’Arnon (oggi Wadi el-Mojib). Le imprese militari condotte da Mosè sono in realtà opera dello stesso Yhwh e sono perciò narrate nei Libri delle guerre di Yhwh (Nm, xxi, 14). Sconfitti gli Amorrei ed avuta ragione del re di Bašan, Mosè conquista la Transgiordania.(5) Uno degli innesti interpolati (capitoli xxi-xxv) è costituito dalla fatua digressione sugli accordi tra Balak, re di Moab, e il mago-indovino Balaam, figlio di Beor. Nel contesto Beor sembra confondersi con Peor/Petor che è nel contempo un nome di persona e un nome di luogo. Per giunta il nome Balaam sembra essere una deformazione del nome Bela, figlio di Beor, rammentato in Genesi come re di Edom (Gn, xxxvi, 32-33). È interessante notare che nella quarta sezione troviamo tutte le 7 occorrenze di ‘êlōhîm presenti nel testo dei Numeri e otto delle dieci occorrenze di ‘êl. Ciò significa che siamo di fronte ad una evidente interpolazione di tutta la quarta sezione. I quattro oracoli in versi di Balaam,(6) in cui la divinità invocata è ‘êl, si inseriscono in un contesto che era originariamente settentrionale, a cui si sovrappone l’impianto yhawista. Il terzo e il quarto oracolo hanno in comune quasi tutta la prima strofa. Ma è errato credere che si tratti di documenti poetici più antichi, inglobati in Numeri, perché i riferimenti ad Edom e alla devastazione del regno del Nord da parte degli Assiri(7) impongono come terminus a quo per la datazione del documento il 721. La vicenda ha comunque dell’incredibile ed ha qualche tratto di comicità: Balak, re di Moab, all’arrivo degli israeliti, manda ambasciatori da Balaam, figlio di Beor, a Petor, pa(5) Come rileva W. G. Dever, Who were Early Israelites, cit., p. 23, sarebbe stata conquistata sotto la guida di Yhwh, che avrebbe condotto Israele per la strada verso la Filistia. Ma l’episodio è un manifesto anacronismo, perché i Filistei si stabilirono nel Canaan non prima di Ramses III (1180). (6) Nm, xxiii, 7-10; 19-24; xxiv, 3-9; 15-24. (7) Nm, xxiv, 18, 22.
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ese dei figli di Amau, per convincerlo a maledirli. L’indovino prende tempo e si consulta con Yhwh che gli consiglia di lasciar perdere. Ma Balak gli invia una seconda ambasciata con lo stesso intento. Balaam decide di recarsi da lui in groppa ad un’asina la quale per ben tre volte vede l’angelo di Yhwh e infine parla per difendersi dal padrone che la bastona. Giunto da Balak, Balaam pronuncia i quattro oracoli suggeriti da Yhwh, i quali anziché contenere una maledizione di Israele, contengono una benedizione e la predizione della sconfitta dei moabiti. A Sittim gli israeliti si uniscono in matrimonio con le moabite e sacrificano ai loro dèi in ossequio al culto di Baal-Peor. Su richiesta di Yhwh Mosè ordina ai giudici di sterminare tutti gli idolatri che avevano aderito al culto dei moabiti. Una punizione esemplare è inferta da Fineas, figlio di Eleazar, il quale uccide con la lancia Zimri che si era unito ad una madianita di nome Cozbi. Ne segue un flagello in cui muoiono 24.000 ebrei. In compenso Yhwh premia Fineas e gli promette un’alleanza di pace, che sarà per lui e per la sua discendenza un’alleanza di sacerdozio eterno. La quinta sezione (xxvi-xxxvi) contiene gli ultimi capitoli che tuttavia mancano di una vera e propria unità. Il capitolo xxvi, come si è già detto, ci informa di un nuovo censimento resosi necessario dopo il flagello. Ne risulta che la popolazione maschile di età superiore ad un mese era pari a 601.730 unità e che tutti i leviti erano pari a 23.000 unità. Il comando passa dalle mani di Mosè in quelle di Giosuè; un’intera generazione era scomparsa nel deserto e la popolazione si era totalmente rinnovata: Non c’era più nessuno dei censiti da Mosè e dal sacerdote Aronne, quando fecero il censimento dei figli di Israele nel deserto del Sinai, perché Yhwh aveva detto loro che sarebbero morti nel deserto. Di essi infatti non rimase alcuno, se non Caleb […] e Giosuè (Nm, xvi, 64-65).
I capitoli xxviii e xxix contengono un’ulteriore legiferazione in materia di olocausti e di festività religiose: vi si parla della celebrazione del sabato, del novilunio all’inizio di ogni mese, della pasqua (14mo giorno del primo mese) e della festa degli azzimi (giorni 15-21 del primo mese), della festa delle settimane o giorno delle primizie,(8) della festa delle acclamazioni (primo giorno del settimo mese), del giorno dell’espiazione (decimo giorno del (8) Ex, xxxiv, 22; Lv, xxiii, 15 sqq.
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settimo mese),(9) e della festa delle capanne (quindicesimo giorno del settimo mese, cfr. Lv, xxiii, 33-36). La festa delle capanne era forse una variante della festa della mietitura (Ex, xxiii, 16), ma la sua trasformazione in festa commemorativa della peregrinazione nel deserto non può ovviamente essere avvenuta in epoca mosaica. Il capitolo xxx è dedicato alla legislazione sui voti: se uno fa un voto a Yhwh si obbliga sotto giuramento a una rinuncia; se una donna fa un voto e il padre e il marito, quando ne vengono a conoscenza, non si oppongono ad esso, il voto stesso è valido; se invece si oppongono, il voto è annullato. Nel capitolo xxxi Mosè conduce, per suggerimento di Yhwh, una sorta di guerra santa contro i madianiti: ogni tribù gli fornisce mille uomini per un esercito composto da dodicimila uomini. Vengono fatte prigioniere tutte le donne madianite e i loro fanciulli; il popolo viene depredato di tutto il bestiame e di tutte le ricchezze; vengono rase al suolo tutte le città, uccisi tutti i sovrani. Per di più Mosè ordina l’uccisione di tutti i fanciulli e di tutte le donne che avevano conosciuto l’uomo, ricavandone un bottino di 675.000 pecore, 72.000 bovini, 61.000 asini, 32.000 vergini. Dopo la schiacciante vittoria, il Profeta procedette all’assegnazione del territorio transgiordanico: i regni di Sicon e di Og furono assegnati ai figli di Ruben e di Gad e a metà dei figli di Manasse. Il capitolo xxxiii è riepilogativo di tutto il viaggio dall’Egitto a Moab ed è manifestamente un’interpolazione, che procede fino alla descrizione dei confini della terra di Canaan. Ne vien fuori l’estensione ipertrofica di un regno che Israele non ha mai posseduto. Il confine meridionale della terra promessa sarebbe costituito dal deserto di Sin fino ad Edom e dal mare salato (Mar Morto) fino all’Egitto; il confine occidentale dal grande mare (il Mediterraneo); quello settentrionale da Zedad, Zifron, Cazar-Enan, e quello orientale da Sefam, Ribla, Ain e dalla sponda orientale del mare di Gennesaret fino al Giordano. Il territorio sarebbe stato frazionato tra le undici tribù, esclusa quella dei leviti, ai quali sarebbero state riservate 48 città (ovvero le sei città d’asilo più altre 42 città). Le città d’asilo sono quelle in cui poteva rifugiarsi l’omicida reo di aver ucciso per inavvertenza. Tre di esse erano situate al di là del Giordano e tre nella terra di Canaan. Si stabiliscono norme sui processi contro gli omicidi involontari, i quali possono essere messi a morte sulla base di testimonianze. È però esclusa la testimonianza di una sola persona. Infine si stabilisce che l’omicida non può essere riscattato, ma deve essere messo a morte. (9) Cfr. Lv, xvi; xxiii, 26-32.
capitolo vii
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: IL DIO DELL’ALLEANZA
7.1. L’enigma Deuteronomio Il Deuteronomio (ebr. Devarìm = רבדיםparole; gr. Δευτερονόμιον ovvero seconda legge o ripetizione della legge) non è che una replica non solo della narrazione pseudo-storica, ma anche del codice legislativo-sacerdotale già esposti in Esodo e Numeri. Quali le ragioni di tale replica? La risposta che si desume dal testo è che occorreva spiegare come mai il popolo eletto e protetto da Yhwh avesse potuto subire una così clamorosa devastazione che lo aveva reso schiavo dei nemici. Occorreva cioè riscrivere la Torah in modo da includere in essa le maledizioni divine che potevano colpire anche il popolo d’Israele. Il Deuteronomio è un testo composito, disorganico e in alcuni punti nevralgici non del tutto coerente. Lo si può dividere in cinque sezioni. La prima (capitoli i-iii) è data da una sorta di prologo storico che vuol essere un riepilogo della narrazione dei quarant’anni di peregrinazione nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. C’è da chiedersi: perché questo riepilogo? Non era già stata dettagliatamente descritta la peregrinazione nel deserto in Numeri? Aveva forse il Deuteronomista l’esigenza di rettificare taluni dettagli o di accrescere o completare ciò che era stato scritto? Assolutamente no! La sua versione corrisponde almeno nelle tappe essenziali a quella di Numeri, se mai è meno dettagliata e più concisa. Il prologo è introdotto da un narratore metamosaico (Dt, i, 1-5) e prose171
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gue con un racconto in prima persona da parte di Mosè il quale richiama alla memoria le vittorie israelite su Sicon, re degli amorrei, e su Og, re di Bašan; due veri massacri, voluti da Yhwh, dai quali non si salvò anima viva nei territori devastati. Già narrate in Numeri,(1) le due stragi sono rammentate nel Deuteronomio per essere divenute esemplari ed emblematiche della temibile potenza distruttiva di Yhwh e della stessa temibilità di Israele che godeva di tale divina protezione: Ho messo in mano tua Sicon l’amorreo […] e la sua terra; inizia a conquistarla, aggrediscilo con la guerra. Oggi inizio a porre il terrore e il timore di te sulla faccia dei popoli sotto tutti i cieli […] votammo allo sterminio le sue città: uomini, donne e bambini, senza lasciare un superstite.(2)
La seconda sezione è data dai capitoli iv-xi, con una narrazione in prima persona, tranne i versetti Dt, iv, 41-49 e v, 1, che, per essere dedicati alla istituzione delle città-rifugio e alla riepilogazione dello sterminio dei regni di Sicon e di Bašan, sono fuori tema e probabilmente costituiscono una interpolazione successiva. Si apre in tale sezione lo scenario della rivelazione sull’Horeb e della consegna della Torah da parte di Yhwh. La cronologia del Deuteronomio non sembra essere in linea con quella dell’Esodo o comunque genera qualche confusione. Infatti per l’Esodo Yhwh dettò a Mosè i dieci comandamenti «nel terzo mese, calcolato dal giorno in cui i figli di Israele erano usciti dalla terra d’Egitto; in quello stesso giorno giunsero nel deserto del Sinai» (Ex, xix, 1) e a distanza di una decina di giorni Mosè celebrò l’alleanza con Dio (Ex, xxiv, 1-8). Per il Deuteronomio lo stesso episodio, sebbene forse si tratti solo del ricordo di un avvenimento lontano nel tempo, cade alla fine della peregrinazione nel deserto, «il quarantesimo anno, l’undicesimo mese, il primo giorno» dalla fuga, dopo aver attraversato il Mar Rosso, Paran, Tofel, Laban, Cazerot, Di-Zaab, l’Horeb (il che farebbe supporre che l’Horeb non coincide con il Sinai), la valle di Escol, Se’ir, Elat, Ezión-geber, Ar e Zered, località non citate nei libri precedenti, fatta eccezione per Cazerot, l’Horeb, la valle di Escol, Ar e Zered.(3) D’altro canto dei quaranta accampamenti(4) in cui, secondo la versione di Numeri (xxxiii, 3-29), Mosè pian(1) Nm, xxi, 21-31, 34; xxxii, 33. (2) Dt, ii, 24-37. Cfr. anche Dt, iii, 2-7; 21-22. (3) Nm, xii, 15 ed Ex, iii, 1-2; Nm, xiii, 23-24; xxxii, 9; xxi, 15, 28; xxi, 12. (4) Sukkot, Etam, Pi-Achirot, Migdol, Mara, Elim, deserto di Sin, Dofka, Alus, Re-
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tò le tende nel lungo percorso da Ramses ad Abel-Sittim, il Deuteronomio menziona solo Kibrot-Taava, Qadesh-Barnea, Iotbata, Ezión-geber e Abarim.(5) Le località citate non sono state identificate, né in tutta l’area desertica si sono riscontrate tracce archeologiche del passaggio degli ebrei. Sukkot (ebr. = capanne) è forse una denominazione posteriore all’istituzione della festa delle capanne, che per essere una commemorazione della peregrinazione nel deserto, è da ritenersi successiva alla penetrazione nel Canaan. È difficile far quadrare le cronologie; dopo quaranta anni e undici mesi dall’esodo Yhwh ordinò agli israeliti di lasciare l’Horeb e di mettersi in cammino verso Qadesh (Dt, i, 3-7); il viaggio dall’Horeb a Qadesh durò 11 giorni. Lunghe, ma indefinite, furono invece le soste a Qadesh («Dimoraste in Qadesh per molti giorni secondo il numero di giorni in cui dimoraste» = watešebu bekadeš yamin rabbim kayyamim ‘ašer yašabtem) e sul Se’ir («Molti giorni girammo intorno al monte Se’ir»= wannasab ‘et har šeir yamim rabbim). Infine il tempo impiegato per passare da Qadesh a Zered fu di 38 anni (Dt, i, 46; ii, 1, 14). A giudicare dalla pericope i, 7, la terra promessa doveva avere, nelle pretese degli ebrei, confini smisurati, poiché si estendeva dal monte degli Amorrei alla valle di Araba, dal Negev alla costa del mare, dalla terra dei Cananei al Libano fino all’Eufrate. Di certo v’è che le fonti di tale sezione sono chiaramente sacerdotali di matrice levitica. Le prospettive politiche della seconda sezione sembrano mutate rispetto alla prima: il primato di Israele non è più fondato sul terrore, ma sulla Torah, cioè su un corpo di leggi che contraddistinguono la sapienza e l’intelligenza degli israeliti rispetto a tutti gli altri popoli: «Questa grande nazione è il solo popolo sapiente e intelligente» (Dt, iv, 6). Il popolo ha ascoltato la voce di Yhwh senza vederlo, perché altrimenti avrebbe potuto costruirne un idolo o farsene immagini (di maschio o di femmina, di qualsiasi bestia della terra o di uccello alato o di rettili o di pesci; oppure forme di deificazione del sole, della luna o delle stelle). La versione della rivelazione, fornita dal Deuteronomista, è lievemente differente da quella dell’Esodo. Per quest’ultimo i figli d’Israele non vedono, né odono Dio; per il Deuteronomio (iv, 12) «Yhwh parlò di mezzo a voi; voi udivate il suono delle parole, phidim, Sinai, Kibrot-Taava, Cazerot, Ritma, Rimmon-Perez, Libna, Rissa, Keelata, Sefer, Adara, Makelot, Tacat, Tarac, Mitka, Asmona, Moserot, Benè-Iaàcan, Or-Ghidgad, Iotbata, Abrona, Ezión-geber, Qadesh-Barnea, Monte Or, Salmona, Punon, Obot, Lie-Abarim, Dibon Gad, Bet-Iesimot, Abel-Sittim. (5) v. nell’ordine: Dt, ix, 22; i, 19, 46; ii, 14; ix, 23; x, 7; ii, 8; xxxii, 49.
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ma non vedevate nessuna figura: solamente una voce». Tra Dio e il popolo si stabilisce una reciproca appartenenza, frutto di una reciproca scelta/elezione: Yhwh sceglie/elegge Israele come suo popolo e Israele sceglie Yhwh come suo Dio. L’uso di «tuo popolo» e di «tuo Dio» segnala la rigidità di tale vincolo. Ed è proprio da questo legame di reciproca appartenenza che trae origine la reciproca fedeltà. Qualsiasi trasgressione rispetto a questo legame profondo costituisce una profanazione e una trasgressione. Il patto tra Dio e il popolo è come un rapporto di vassallaggio, fondato sulla reciproca fiducia e ovviamente contrassegnato dalla reciproca ritorsione nell’ipotesi di fellonia. Tutto ciò che è male agli occhi di Dio comporta una punizione esemplare. Allo stesso modo in cui Dio è uno sterminatore degli altri popoli, può esserlo anche contro il popolo d’Israele: «Yhwh vi disperderà tra i popoli e rimarrete un piccolo numero tra le nazioni» (Dt, iv, 27). Ma se al contrario Israele cercherà ed amerà Dio con tutto il suo cuore e con tutta la sua anima, Dio sarà con esso misericordioso e gli darà in eredità il Canaan «come accade oggi»: Cercherai Yhwh, tuo Dio, e lo troverai se lo cercherai con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima […]. Yhwh, tuo Dio, è un Dio misericordioso; non ti abbandonerà e non ti annienterà, non dimenticherà l’alleanza che ha promesso ai tuoi padri […] e ti ha fatto uscire […] per farti entrare nella loro terra e darla a te in eredità, come accade oggi (Dt, iv, 30).
Due osservazioni: il riferimento all’oggi dell’autore ci dice 1) che egli scrive dopo l’occupazione del Canaan; 2) che probabilmente la misericordia di Yhwh non è generalizzata, ma è limitata al solo Israele. In ogni caso in questa seconda sezione l’autore ci fornisce lo schema della sua interpretazione della storia ebraica: la reciprocità del rapporto tra Dio e popolo fa sì che la storia sia contrassegnata dalla caduta nel peccato o dalla trasgressione della legge seguita dalla inesorabile punizione divina; in alternativa il rigoroso rispetto della legge o l’incondizionato amore verso Yhwh è compensato dal favore della divinità. I capitoli v-xi comprendono la seconda enunciazione dei dieci comandamenti. In realtà gli incipit delle prime due sezioni sembrano essere ripetitivi: Queste sono le parole [ovvero i comandamenti] che Mosè rivolse a tutto Israele (Dt, i, 1); Adesso Israele ascolta i decreti e le norme che io vi insegno (Dt, iv, 1);
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Queste sono le testimonianze, i decreti e i giudizi che Mosè proclamò ai figli di Israele (Dt, iv, 45); Ascolta Israele i decreti e i giudizi che io oggi proclamo alle vostre orecchie (Dt, v, 1).
Si ha l’impressione che l’autore voglia contrapporsi all’Esodo e che voglia proporsi come una fonte più autorevole o come se contenesse una rivelazione più universale, per essere non limitata «ai nostri padri», ma anche a noi «che siamo vivi oggi» con i quali «Yhwh parlò faccia a faccia […] sul monte, in mezzo al fuoco» (Dt, v, 3-4). Il patto mosaico, richiamato alla mente, sfrondato dalla ritualità del versamento di sangue, è ridotto all’essenziale ovvero al dettato delle dieci parole (i dieci comandamenti), intese come codice etico-giuridico da cui nulla deve essere tolto e a cui nulla deve essere aggiunto, come recita anche l’antico codice di Hammurabi. Ed ecco i dieci comandamenti: 1- Io sono Yhwh tuo Dio; non vi saranno altri dèi accanto a me, non ti farai un idolo né alcuna figura di ciò che è lassù in cielo e quaggiù sulla terra e nell’acqua […] perché […] sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione; 2- non pronunzierai il nome di Yhwh, tuo Dio, invano perché Yhwh non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano; 3- osserva il giorno del sabato per santificarlo; 4- onora tuo padre e tua madre; 5- non uccidere; 6- non commettere adulterio; 7- non rubare; 8- non testimoniare contro il tuo prossimo; 9- non desiderare la moglie del tuo prossimo; 10- non desiderarne la casa, i campi, lo schiavo o la schiava, il bue o l’asino e nessuna cosa che appartenga al tuo prossimo. Queste parole Dio […] le scrisse su due tavole di pietra e me le diede.(6)
Gli esegeti confessionali hanno dato molto risalto al sesto capitolo e al famoso šema’ («Ascolta Israele»); in realtà il capitolo non ha la coerenza della seconda sezione, perché il tema dell’amore («con tutto il cuore e con tutta l’anima») si mescola con quello del timore-terrore del Dio («affinché tu tema Yhwh, tuo Dio»). Il culmine dello šema ‘[ ]שּׁמעè nell’enunciato: «Yhwh (6) Dt, v, 6-22. In forma lievemente diversa sono enunciati in Ex, xx, 2-17. Che i comandamenti siano dieci è esplicitamente afferrmato in Ex, xxxiv, 28; Dt, iv, 13; x, 4.
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è il nostro Dio, Yhwh è uno» = yhwh ‘ĕlōhênū, yhwh ‘ehad,(7) che potrebbe far pensare ad un primo passo verso il monoteismo. Ma non lo è, perché l’enunciato non ha una portata universale; non ci dice che Dio è uno, ma ci dice che uno è Yhwh, cioè il dio che ha quel nome proprio e che, in quanto tale, si distingue come ‘nostro’ rispetto agli altri dèi. Yhwh è infatti un fuoco che divora, è un Dio tra altri dèi e ne è geloso (el-qanna).(8) La nuova Torah («questa Torah» התורה הזאתhattōrāh hazzōt Dt., iv, 8) non è più un patto siglato col sangue, ma è siglato con la purezza del cuore. La minaccia e lo sterminio sono sullo sfondo di un passato di disobbedienza e sono il segno di ciò che è la potenza del divino, di ciò che può di nuovo accadere al popolo trasgressore del patto. Israele ha sperimentato l’ira di Yhwh a Baal-Peor, ove furono sterminati tutti coloro che adoravano Baal. Il Deuteronomista introduce non poche novità teologiche nel suo testo poiché fonda il rapporto del popolo con Dio tanto sulla paura della potenza divina (che è un retaggio della tradizione), quanto sulla interiorizzazione del divino; il suo Dio è insieme oggetto e soggetto dell’amore. Da una parte Israele è la sua proprietà e Yhwh ne ha amato i padri; dall’altra per il popolo Dio è oggetto d’amore: «Tu amerai Yhwh tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Le parole che io oggi ti ordino siano nel tuo cuore» (Dt, iv, 31; vi, 4-5). Alla circoncisione della carne si sostituisce la circoncisione del cuore, che è come un rinnovamento dell’alleanza: Circoncidete l’impurità del vostro cuore […] perché Yhwh, vostro Dio, è il Dio degli dèi ‘ אלהי האלהיםĕlōhê ha ‘êlōhîm) e il signore dei signori (האדנים ‘ אדניadone ha ‘adonim), il dio grande, forte e terribile (ha’el haggadol haggibbor wehannora), che non guarda in faccia nessuno […] ma rende giustizia all’orfano, alla vedova e ama il forestiero […]. Amerete anche voi il forestiero, perché anche voi eravate forestieri in terra d’Egitto (x, 16-19).
L’alleanza dunque è scritta nel cuore. Questa straordinaria novità teologica deve indurci a collocare quasi tutta la seconda sezione in età ellenistica alla fine del v secolo. Le sue tematiche, infatti, sembrano subire l’influenza greca e anticipare per certi aspetti le prospettive del cristianesimo. Ma accanto alle novità persiste la tradizione: il vassallo si subordina al Signore per trarne vantaggi, che così sono chiaramente definiti (Dt, vii, 13-16): 1) fecondità del popolo e della (7) Dt, vi, 4. (8) Dt, iv, 24; v, 9; vi, 15; il sintagma è presente in Ex,xx, 5; xxxiv, 14.
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propria terra (Yhwh «benedirà il frutto del tuo ventre e il frutto della tua terra, il tuo grano, il tuo mosto, il parto delle tue vacche e la fecondità del tuo gregge»); 2) garanzia contro la sterilità («Non vi sarà in te né maschio né femmina sterile e neppure nel tuo bestiame»); 3) garanzia contro le malattie («Yhwh allontanerà da te tutte le malattie e tutte le epidemie crudeli e […] le darà in sorte a quanti ti odiano»); 4) sterminio dei nemici («Sterminerai tutti i popoli che Yhwh, tuo Dio, ti consegna: il tuo occhio non ne abbia pietà»). È un’alleanza che è di fatto un messaggio rassicurante per le classi agiate che producono grano, olio, vino e posseggono greggi. Amore e terrore sono i due pilastri del condizionamento psicologico: Yhwh è misericordioso con il suo popolo, ma è anche grande e terribile. L’insegnamento che il Deuteronomista trae dalla storia è che Yhwh protegge nella misura in cui è amato e temuto. Quando il popolo eletto entrerà nella terra promessa sterminerà tutti i popoli che Yhwh gli consegnerà nelle mani. I quarant’anni passati nel deserto sono interpretati come una prova a cui il popolo è sottoposto da Dio: Yhwh lo umilia per sapere cosa aveva nel cuore; gli fa patire la fame affinché capisca che non di solo pane si nutre l’uomo, ma di ciò che esce dalla bocca di Dio (Dt, viii, 3). Dio sterminerà i cananei non per la giustizia di Israele (popolo dalla testa dura), ma per la loro empietà. L’occupazione del Canaan seminerà il terrore: «Yhwh, vostro Dio, diffonderà la paura e il terrore di voi su tutta la faccia della terra che calpesterete» (Dt, xi, 25). Ma Israele non si deve inorgoglire per non ricadere nel peccato come fece quando si costruì una statua di vitello. Mosè ricorda al popolo tutte le sue colpe passate, quando l’ira di Yhwh si scatenò a Tabera, a Massa e a Kibrot-Taava. Solo rispettando i precetti impartiti da Dio, il popolo eletto entrerà in possesso della terra promessa, su cui si posano gli occhi di Dio dall’inizio alla fine dell’anno. Ai comportamenti degli israeliti, a seconda che scelgano il bene o il male, saranno conseguenti sul Garizim e sull’Ebal (in territorio settentrionale) le benedizioni o le maledizioni divine (Dt, xi, 20-32), che sono in qualche modo corrispettive all’amore e al terrore. Va detto che la ricostruzione deuteronomistica non ha carattere storico. L’ignoto autore scrive a distanza di secoli dagli eventi narrati e si basa sostanzialmente su una mitologia popolare che reinterpreta a modo suo. Partendo da tale presupposto il compito dello storico è quello di studiare il testo non in riferimento al tempo narrato, ma in riferimento al tempo del narrante. Qual era il messaggio che egli voleva trasmettere al popolo e in che epoca scrive? Il mito della peregrinazione nel deserto richiama alla mente un periodo di sofferenza di un
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popolo privo della propria terra, il quale, messo a dura prova da Dio, per essere caduto nel peccato, è infine salvato dalla divina misericordia. Ciò che l’autore vuole stabilire è una analogia: la peregrinazione nel deserto ha analogia con la perdita del regno e con la diaspora del popolo durante la prima fase post-esilica nel periodo persiano; in entrambi i casi la caduta nel peccato comporta la messa a dura prova; ma proprio nell’analogia e nella somiglianza degli eventi l’autore fa nascere la speranza della salvezza. I capitolo xii-xxvi costituiscono la terza sezione che al suo interno si articola in due componenti, l’una prettamente sacerdotale (xii, 1 - xvii, 3) e l’altra manifestamente legislativa (xvii 4 - xxvi, 19). Probabilmente si tratta di due fonti di diversa origine, l’una giustapposta all’altra forse in epoche diverse. Prima di avanzare un’ipotesi, illustriamone il contenuto. La fonte sacerdotale prevede una sorta di codice per il rigoroso rispetto dell’alleanza stipulata con Yhwh, quando i figli di Israele saranno entrati nella terra promessa. Esso stabilisce che agli israeliti spetta il compito: 1) di distruggere tutti i luoghi di culto dei cananei; 2) di demolire i loro altari e le loro stele; 3) di edificare per il culto di Yhwh un unico tempio, dimora di Dio, «nel luogo che Egli avrà scelto», ove ognuno dovrà recarsi per portare i suoi olocausti e le sue decime; 4) «di non dimenticare il levita per tutti i giorni che vivrai sul suo suolo»; 5) di mangiare la carne, ma non il sangue, perché il sangue è la vita.(9) Tali leggi presuppongono l’unicità del santuario, poiché prescrivono l’obbligo di macerare le carni se la dimora di Yhwh è lontana. Altri precetti mirano ad escludere il pericolo di cadere nell’idolatria della quale sono responsabili i falsi profeti che vanno messi a morte, come vanno destinati alla lapidazione i propri figli o i propri parenti che cedono al culto di divinità straniere; analogamente vanno votate allo sterminio le città idolatriche. Si tratta, com’è evidente, di una normativa capestro, il cui fine ripetutamente dichiarato è quello «di sradicare il male di mezzo a te». Seguono infine le norme relative alla distinzione di animali puri e impuri e quelle che prescrivono le decime a vantaggio dei leviti. Insomma non è più consentito che ciascuno faccia, «come facciamo oggi», secondo quanto «pare giusto ai suoi occhi»; non è più possibile offrire gli olocausti in qualunque luogo. È qui chiaramente affermato il principio della centralizzazione del culto. L’autore non menziona il luogo in cui dovrà sorgere il tempio, anche se generalmente gli studiosi pensano a Gerusalemme. È tuttavia incomprensibile la mancata citazione della città santa. L’ipotesi che essa non è menzionata per evi(9) Lo stesso concetto è il Lv, xvii, 11, 14, 14.
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tare di attribuire a Mosè un manifesto anacronismo è molto fragile e forse è strettamente collegato all’altra, se il Deuteronomio deve ritenersi un documento israelita o giudaita. Tenterò di sciogliere(10) questo nodo più avanti. Le altre disposizioni sacerdotali disciplinano l’anno sabbatico, il riscatto degli schiavi, la consacrazione dei primogeniti a Yhwh, la celebrazione delle feste religiose. La prima festività religiosa menzionata è la pasqua che, in memoria dell’uscita dall’Egitto e della strage dei primogeniti egiziani, sarà immolata nel mese di abib, senza indicazione del giorno. Seguono la festa delle settimane, cosiddetta perché cade sette settimane dopo aver falciato la messe, e la festa delle capanne, della durata di sette giorni, dopo «il raccolto dei prodotti della tua aia e del tuo torchio». Tutte le festività citate vanno celebrate nel luogo della dimora di Yhwh. La sezione prettamente sacerdotale si chiude con una estensione dei poteri giuridico-amministrativi dei leviti ai quali vengono assegnate funzioni giudiziarie con il potere di emettere condanne a morte nei confronti di coloro che si rifiutano di attenersi alle loro prescrizioni (Dt, xvii, 8-13). Da xvii, 14, in poi il testo è normativo. A differenza del precedente documento, che è manifestamente levitico e quindi favorevole alla istituzione di un potere fortemente teocratico, il testo legislativo è aperto alla eventualità di un ripristino della monarchia; infatti in apertura recita: Quando sarai entrato nella terra che Dio ti dà […] dirai: voglio porre su di me un re, come tutte le genti che mi circondano. Ebbene poni pure su di te, come re, colui che Yhwh, tuo dio, sceglierà. Costituirai re uno dei tuoi fratelli: non potrai darti per re uno straniero, uno che non sia tuo fratello.
Quando siederà sul suo trono il re avrà l’obbligo di trascrivere in un libro una copia della Torah. Il potere religioso passa anche attraverso la figura di un profeta, poiché nessuno può parlare direttamente con Dio se non a rischio di morire. Come distinguere il falso dal vero profeta, cioè colui che parla a nome degli altri dèi da colui che parla a nome di Yhwh? La risposta è semplice: «Se la parola del profeta non si realizza e non si avvera, non è parola detta da Yhwh». Nel capitolo xix è prevista l’istituzione di tre città-rifugio per gli omicidi involontari. Se poi Yhwh «allargherà i tuoi confini […], allora aggiungerai a queste altre tre città-rifugio». Si riferisce ad una estensione a partire dal regno del Nord o a partire dal regno del Sud? Se ci si pone nell’ot(10) v. infra, pt. I, par. 12.10-11.
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tica del tempo narrato, ovvero del presunto contesto mosaico, è più probabile la prima ipotesi; se invece ci si pone nell’ottica del tempo del narratore, non è da escludere la seconda. Le altre prescrizioni sono di vario contenuto. Una riguarda il divieto di spostare il confine della proprietà del vicino; ed è interessante notare che il redattore si pone a distanza di tempo dal contesto mosaico, poiché parla di confini «fissati dagli antenati» in tempi ovviamente remoti. In merito alle testimonianze rese davanti al giudice si prescrive che esse debbono essere non meno di due o tre, secondo il principio del testis unus, testis nullus. Severamente punito sarà il falso testimone, al quale «sarà fatto ciò che egli ha premeditato di fare contro il proprio fratello», secondo la scrupolosa applicazione della legge del taglione. Non mancano inoltre prescrizioni sulla guerra santa, in cui Israele è protetto da Yhwh. Prima di procedere alla guerra, va proposta la pace, ma, se il nemico non l’accetta, si procederà allo sterminio di tutti i maschi adulti, mentre le donne, i bambini e il bestiame costituiranno il bottino di guerra. Yhwh promette di sterminare l’hittita, l’amorreo, il cananeo, il perizzita, l’eveo, il gebuseo, vale a dire tutti i popoli che occupavano la terra di Canaan prima di Israele. Come evidente residuo di un culto degli alberi (‘esah) si prescrive che durante gli assedi essi non vadano abbattuti. Minuziosi sono poi i precetti che riguardano il rinvenimento di un cadavere in un campo, il trattamento da riservare alla prigioniera, i diritti di primogenitura, la punizione-lapidazione del figlio ribelle, l’impiccagione (il cadavere dell’impiccato non deve passare la notte appeso all’albero), la restituzione degli animali di proprietà del vicino, il divieto di travestirsi, il rinvenimento di un nido di uccelli, le norme edilizie per la costruzione di parapetti sulla terrazza della casa, il divieto di seminare semenze ibride, l’attestazione della verginità, le punizioni per le trasgressioni sessuali (lapidazione della donna che non è trovata vergine e dei due partner che giacciono insieme senza essere sposati). Tipicamente deuteronomista è l’espressione «assemblea di Yhwh»(11) per indicare la comunità, da cui sono esclusi il castrato, il bastardo, l’ammonita e il moabita; di contro l’idomita e l’egiziano non sono tenuti in abominio. Seguono norme sulla purità dell’accampamento, sul divieto della prostituzione sacra, sul divieto del prestito ad interesse a un fratello (lo stesso prestino è lecito nei confronti di uno straniero), sui vincoli derivanti dal voto fatto a Yhwh, sul consumo nella vigna del vicino (si può mangiare a volontà, (11) «Assemblea di Yhwh» = biqhal yhwh, in xxiii, 2 (2), 3 (2), 8.
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ma non ci si può riempire la cesta), sulla donna divorziata (la quale, se si unisce a un altro uomo, non può più ritornare dal primo marito perché si è resa impura), sul rapimento di un uomo (il rapitore va messo a morte), sui diritti del salariato (il salario va conferito in giornata), sulla responsabilità penale che è personale («Non si metteranno a morte i padri per le colpe dei figli, né si metteranno a morte i figli per le colpe dei padri; ciascuno sarà messo a morte per il proprio peccato», Dt, xxiv, 16), sulla fustigazione (chi è colpevole in una lite sarà frustato in rapporto alla sua colpa, ma le frustate non saranno più di quaranta). È da notare che il principio della responsabilità personale confligge con il primo comandamento in cui si dice che la punizione divina colpisce le colpe dei padri fino alla terza e alla quarta generazione. Evidentemente le due sezioni non sono riconducibili allo stesso autore. Con il capitolo xxvii, che sembra riprendere il discorso di matrice levitica interrotto a partire dal capitolo xii, come se cioè i due documenti, sacerdotale e legislativo, fossero interpolati, si apre la quarta sezione (capitoli xxvii-xxx). Quando Israele sarà entrato nella terra promessa dovrà erigere due stele contenenti il testo della Torah deuteronomista. Le due stele saranno poste sul monte Ebal/Sichem, ove si costruirà un altare, dedicato a Yhwh. Sul monte Ebal saranno pronunciate le maledizioni e sul monte Garizim saranno pronunciate le benedizioni. C’è da chiedersi: dov’è finito il postulato della centralità e unicità del tempio, evocato nella terza sezione? Il capitolo xxvii sembra ammettere due distinti santuari, l’uno a Sichem e l’altro a Garizim. Probabilmente la contraddizione del Deuteronomio deriva dal fatto che i redattori delle sezioni, sacerdotale e legislativa, fautori della centralizzazione del tempio, sono altri e distinti rispetto all’autore della quarta sezione. E tuttavia sorprende che le maledizioni e le benedizioni siano pronunciate in un territorio del Nord. Se si suppone che il Deuteronomio abbia voluto tentare una conciliazione tra teologia del patto (del Nord) e teologia della promessa (del Sud), si rischia di scivolare in ulteriori incongruenze. Non è possibile riferire ai tempi di Mosè una frattura tra teologia del patto e teologia della promessa, per il semplice fatto che ancora non esistevano i due regni del nord e del sud. Per di più sappiamo dal Libro dei Re che il tempio di Garizim era un centro baalistico e non yhawistico. Passato il Giordano, sul Garizim pronunceranno le benedizioni Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Giuseppe e Beniamino; sul monte Ebal pronunceranno le maledizioni Ruben, Gad, Asher, Zabulon, Dan e Neftali. Così l’autore sintetizza i termini dell’alleanza:
182 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Tu stai per entrare nell’alleanza di Yhwh, tuo Dio, con le sue relative imprecazioni: alleanza che Yhwh, tuo Dio, contrae con te per costituirti oggi stesso suo popolo ed essere egli il tuo Dio [Dio nazionale]. (Dt, xxix, 11)
L’alleanza cioè ristabilisce, come nella seconda sezione, il rapporto di reciproca proprietà tra Israele e Dio. Il patto è garantito, secondo un antico costume che risale ad Hammurabi ed anche oltre, da dodici maledizioni e da un numero imprecisato di benedizioni. Le prime colpiscono coloro che trasgrediscono il patto, le seconde beneficiano coloro che lo rispettano. Maledetto è 1- chi si fa un idolo; 2- chi disonora il padre e la madre; 3- chi sposta il confine del vicino; 4- chi fa prendere al cieco una strada sbagliata; 5chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e delle vedove; 6- chi giace con la moglie di suo padre; 7- chi giace con qualsiasi bestia; 8- chi giace con sua sorella; 9- chi giace con la suocera; 10- chi colpisce il prossimo di nascosto; 11chi si lascia corrompere per colpire a morte un innocente; 12- chi non si attiene alle parole della legge. Di contro chi si attiene alla legge è benedetto in città e in campagna, benedetto è il frutto del suo ventre, quello del suo suolo e del suo bestiame, benedetto il parto delle sue vacche e benedette la sua cesta e la sua madia (l’autore solletica nuovamente gli interessi della classe agiata). Alla maledizione di Yhwh sono conseguenti la disgrazia, il panico, la minaccia, lo sterminio, l’afflizione, la febbre, le infiammazioni, le malattie infettive e da parassiti, le ulcere dell’Egitto e i tumori fino alla follia. Il capitolo xxviii contiene un’ulteriore profezia post festum. Se Israele non rispetterà la legge, sarà schiavo dei suoi nemici; Yhwh gli scaglierà contro Un popolo da lontano […] come un’aquila che vola, una nazione la cui lingua ti è sconosciuta […], gente dalla faccia dura, senza riguardo per l’anziano e senza pietà per il giovane […]. Divorerà i frutti del tuo bestiame e della tua terra finché tu sarai sterminato […], ti assedierà in tutte le tue città […]; Yhwh colpirà te e la tua discendenza […] con flagelli grandi e persistenti, con malattie crudeli (xxviii, 49-59).
La profezia si estende fino all’esilio e alla diaspora: Sarete strappati dal suolo di cui stai per entrare in possesso; Yhwh ti disperderà in mezzo a tutti i popoli da un’estremità all’altra della terra e là dovrai servire altri dèi […]. Queste sono le parole dell’alleanza che Yhwh ordinò a
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Mosè di contrarre con i figli di Israele in terra di Moab oltre quella contratta sul monte Horeb (xxxviii, 64).
È in ciò la ragione per cui il testo assume il titolo Deuteronomio, cioè seconda legge. È evidente che l’autore ha presente o la devastazione di Samaria da parte degli assiri o la disfatta che il regno di Giuda subì da parte di Nabucodonosor II con la conseguente cattività babilonese (586-538) o entrambe. In ogni caso egli è tormentato da un interrogativo pregnante che forse lo muove a scrivere la sua opera: «Come mai Yhwh ha trattato così questa terra? Come mai l’ardore di un’ira così grande?» (Dt, xxix, 23). Si tratta di un interrogativo che può condurre o ad una definitiva frattura con la fede o ad un suo rafforzamento solo a condizione di trovare una giustificazione dell’operato divino. Proprio per questo l’autore concepisce l’alleanza come un patto vincolato o garantito dalla benedizione e dalla maledizione. Sicché la risposta diventa scontata: il male capitato ad Israele è il corrispettivo del male compiuto da Israele verso Dio. L’ira di Yhwh si è abbattuta sul suo popolo, perché il popolo ha abbandonato l’alleanza. Yhwh ha rovesciato sui figli del suo popolo «tutta la maledizione scritta in questo libro […]; li ha sradicati dal loro suolo con ira, collera e grande furore per scaraventarli in un altro paese, com’è ancora oggi» (Dt, xxix, 27). Alla profezia della schiavitù in terra straniera fa seguito la profezia del ritorno nella terra promessa: Ritornerai a Yhwh tuo Dio […] con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, ascolterai la sua voce […]. Dio avrà misericordia di te […], ti radunerà di nuovo da tutti i popoli presso cui ti ha disseminato. Se anche tu fossi disperso all’estremo orizzonte del cielo, di là Yhwh tuo dio ti radunerà […], ti ricondurrà nella terra che possedettero i tuoi padri […]. Yhwh tuo Dio circonciderà il cuore a te e al tuo seme affinché tu ami Yhwh, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima (xxix, 23 -xxx, 6).
Risulta così ben chiaro il progetto politico-teologico del Deuteronomista: egli tende a garantire la stabilità della legge con il corredo di benedizioni e di maledizioni; probabilmente ha in mente il progetto di una monarchia in cui il rapporto con il divino è affidato alla figura di un profeta-guida del popolo ed è sorretto dall’ideale di un «popolo di giusti» (Dt, xxxiii, 5), circonciso non nella carne, ma nel cuore, cioè nella fede e nella fedeltà a Yhwh
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e alla legge. L’autore forse nutre l’idea di un Dio che, come si evince dal cantico di Mosè,(12) è una roccia, nel senso che ha la fermezza e la stabilità di una roccia, un Dio che può scivolare nell’ira e nella collera, ma che è fondamentalmente misericordioso con il suo popolo, perché lo ama e lo protegge e ne è nel contempo amato. La quinta sezione (capitoli xxxi-xxxiv), con cui si chiude il testo è certamente un’aggiunta posteriore scritta con l’intento di stabilire un collegamento con il libro di Giosuè. Si accenna infatti alla sua investitura con l’ingenuità di mettere in bocca a Mosè la narrazione della sua stessa morte sulla cima Pisga del monte Nebo, da cui il profeta avrebbe guardato la terra promessa. Infine ci vien detto con buona dose di incongruenza che il profeta fu seppellito nella valle di fronte a Bet-Peor, ma che nessuno «fino ad oggi ha mai saputo dove» si trovi la sua tomba (Dt, xxxiv, 6). Come si vede il Deuteronomio è un testo profondamente enigmatico. Difficile è stabilire se esso si articoli in una sorta di metanarrazione rispetto a quella mosaica. Quest’ultima è chiaramente contraddistinta dall’uso della prima persona singolare o plurale, con cui Mosè parla di sé come singolo o di sé in associazione con il popolo. La prima è riconoscibile come prodotto di un narratore metamosaico, come accade per esempio nei seguenti versetti: Queste sono le parole che Mosè rivolse a tutto Israele […] Mosè disse ai figli d’Israele […] Mosè iniziò ad esporre questa legge (Dt, i, 1-5); Queste sono le testimonianze, i decreti e i giudizi che Mosè proclamò»; v, 1: «Mosè convocò tutto Israele e disse loro (Dt, iv, 45); Mosè, insieme agli anziani di Israele [riferimento ad un’istituzione che non era ancora in vigore ai tempi di Mosè], ordinò al popolo (Dt, xxvii, 1); Queste sono le parole dell’alleanza che Yhwh ordinò a Mosè di contrarre con i figli d’Israele (Dt, xxviii, 69); Mosè convocò tutto Israele e disse loro (Dt, xxix, 1); Mosè andò a riferire queste parole a tutto Israele (Dt, xxxi, 1);
e in ulteriori esempi.(13) (12) Sul cantico di Mosè, v. M. S. Heiser, Deuteronomy 32:8 and the Sons of God, «Bibliotheca Sacra», clviii, 2001, pp. 52-74. (13) v. Dt, xxxi, 7, 9, 14, 16, 22, 23, 24, 25, 30; xxxii, 44-45, 48; xxxiii, 1; xxxiv, 1-12.
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Il testo è inequivocabilmente apografo perché il redattore si pone a distanza di tempo dagli eventi narrati e spesso allude ad un ‘oggi’ che non coincide con l’epoca mosaica;(14) la distanza temporale è comunque indefinita, perché indefinite sono quasi tutte le indicazioni temporali(15) e nei pochi casi in sui sono puntuali generano incongruenze insormontabili nella cronologia degli eventi. Se a questo si aggiungono la pseudo-profezia della cattività babilonese, della diaspora in terre straniere, del ritorno nella terra promessa e la teologia della circoncisione del cuore, si può arguire che il Deuteronomio fu compilato in epoca assai tarda. La sezione sacerdotale sembra essere ispirata ad un rigido conservatorismo con notevoli propensioni a forme di teocrazia di matrice levitica; quella legislativa manifesta invece tendenze monarchiche, forse di matrice scribale, che vanno collegate non all’antica monarchia, ma all’aspirazione ad un futuro con un governo concentrato nelle mani di un monarca e sorretto, sotto il profilo religioso, da un profeta-guida e da una classe sacerdotale con poteri limitati. Moltissime perplessità sorgono quando si cerca di stabilire se il testo è espressione dell’israelitismo o del giudaismo. Da un punto di vista formale esso è dominato dalla ossessiva presenza di Yhwh, le cui occorrenze ammontano a ben 532 a fronte delle 30 di ‘ělōhê, 12 di ‘êlōhîm e 10 di ‘êl.(16) Ma non è il caso di parlare di influenza elohistica. La contrapposizione tra elohismo e yhawismo va limitata al solo libro della Genesi. Per il resto tutto l’AT è un documento giudaita, dominato dalla figura di Yhwh intorno a cui ormai ruota tutta la teologia ebraica a partire dalla fine del settimo secolo in poi. Le perplessità sorgono quando si riflette sul fatto che nel Deuteronomio il giudaismo sembra essere messo in ombra. Ciò si evince dal fatto che l’autore non indica Gerusalemme come sede del tempio centralizzato; anzi insiste a più riprese (14) Cfr. in proposito: Dt, iii, 14; iv, 8, 20, 37; v, 3; vi, 24; x, 15; xii, 8; xxix, 11, 13, 27; xxx, 2, 11; xxxiv, 6. (15) La generica indicazione cronologica «in quel tempo» = ba’et hahiv ricorre in Gn, vi, 4; xii, 6; xxi, 22; xxxviii, 1; Nm, xxii, 4; Dt,i, 9, 16, 18; ii, 34; iii, 4, 8, 18, 21, 23; iv, 14, v, 5; x, 1, 8; xvii, 9; per «tempo stabilito» v. Ex, xxiii, 15; Nm, ix; 3, 7, 13; xxviii, 2. Della stessa natura è la locuzione «in quel giorno» (Gn, xv, 18; xvii, 26; xxxiii, 16; xlviii, 20; Ex, viii, 22; xii, 17; xiii, 8; xiv, 30; xxxii, 28; Lv, xvi, 30; xxiii, 21, 28, 29, 30; vi, 11; ix, 6; Dt, x, 8; xxxi, 17, 18; xxxii, 48. (16) Per ‘êlōhîm cfr. Dt, iv, 7, 28, 32, 33, 34; v, 7, 24, 26; vi, 16; vii, 4; viii, 19; ix, 10; xi, 16, 28; xiii, 2, 6, 13; xvii, 3; xviii, 20; xxi, 23; xxv, 18; xxviii, 14, 36, 64; xxix, 25 (2); xxxi, 18, 20; xxxii, 17; 39. Per ‘êl cfr. Dt, iii, 24; iv, 24, 31; v, 9; vi, 15; vii, 21; xxxii, 4, 12, 18, 21.
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che la scelta del luogo è riservata allo stesso Yhwh. Di contro i due santuari da lui esplicitamente riconosciuti sono Sichem e Garizim, notoriamente localizzati nell’area settentrionale. Infine è di particolare significato il fatto che, nella benedizione delle tribù d’Israele, a Giuda (Dt, xxxiii, 7) non è riservato né uno spazio speciale, né una particolare carica emotiva; nulla che somigli alla benedizione pregnante pronunciata da Giacobbe nelle pagine conclusive della Genesi (xlix, 8-12). Di contro è ampio lo spazio dedicato alle tribù di Levi e di Giuseppe (Dt, xxxiii, 8-11, 13-17), entrambe tribù del Nord. Per affinità di contenuto, si potrebbe avanzare l’ipotesi che l’autore delle sezioni, seconda e quarta, sia lo stesso e sia distinto dai due autori delle due sezioni, sacerdotale e normativa, ma forse non dall’autore della quinta sezione. Le sezioni seconda e quarta sono probabilmente espressione di ceti piuttosto agiati appartenenti per lo più ad una classe sacerdotale-levitica di orientamento moderato. La sezione sacerdotale è chiaramente di matrice levitico-conservatrice di tendenze teocratiche, mentre quella normativa sembra doversi ascrivere ad una componente monarchica probabilmente attecchita nella classe scribale e nei discendenti dei funzionari palatini. In alternativa si potrebbe avanzare l’ipotesi che il giudaismo del Deuteronomio sia stato assorbito all’interno di un progetto panisraelitico, di forte impronta nazionalistica e dominato dalle aspirazioni teocratiche della corrente sacerdotale più conservatrice, forse nella fase in cui tale progetto era ancora allo stato larvale e il popolo ebraico era sotto le fortissime pressioni degli imperi nascenti, da quello persiano a quello macedone. Incuriosisce il fatto che il Deuteronomio ignori in blocco il Levitico; infatti non ne segue la scrupolosa articolazione delle prescrizioni liturgiche che presuppongono una riforma religiosa di tono assai più rigido e severo. Quali le ragioni di tale dimenticanza? Sono da attribuire ad una non condivisione dell’impianto teologico-religioso del testo o più semplicemente al fatto che esso non era ancora stato elaborato? Probabilmente sono valide entrambe le ragioni, ma non è escluso che la seconda ipotesi sia più verosimile. Si è spesso segnalato che, oltre che dalle frequenti ripetizioni e ricapitolazioni, che tra l’altro sono comuni a gran parte dei testi biblici, lo stile del Deuteronomista sia caratterizzato dagli aggettivi possessivi (tuo/nostro/vostro) che accompagnano il nome di Yhwh nelle forme: «Yhwh, tuo/nostro/ vostro Dio» (yhwh ‘ĕlōhêkā/’ĕlōhênū/’ĕlōhêkem). In realtà va detto che il tratto veramente peculiare dello stile dell’autore è la sostanziale narrazione soggettiva. Per quasi tutto il testo Mosè parla in prima persona singolare o plu-
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rale, se associato al popolo. La cornice metamosaica si limita a poco più che a una manciata di versetti.(17) I capitoli xxxi-xxxiv, per manifesta diversità di stile, si debbono ritenere di autore diverso. Noth ha formulato per primo l’ipotesi di una storia deuteronomista che comprenderebbe i libri storico-profetici dal Deuteronomio ai due Re e sarebbe stata scritta da un unico autore in Samaria e non in Babilonia durante la fase esilica. Altri esegeti, partendo dal presupposto che tutta la produzione letteraria dal Deuteronomio ai Re sembra condividere lo stesso stile, hanno ipotizzato che non si sia trattato di un unico autore, ma di una vera e propria scuola deuteronomista, che avrebbe operato in Gerusalemme dal tempo di Giosia in poi e sarebbe stata formata in prevalenza da scribi e sacerdoti. A me sembra che entrambe le ipotesi vadano incontro a difficoltà insormontabili. La prima obiezione è che se davvero siamo di fronte ad una identità di stile, bisogna pensare ad un unico autore e non a più autori o ad una scuola. Ma fino a che punto possiamo parlare di identità o di affinità di stile? E fino a che punto possiamo dire che sotto il profilo contenutistico due o più testi condividono o meno il medesimo progetto ideologico? Gli elementi che abbiamo a nostra disposizione sono molto labili e aleatori soprattutto perché abbiamo a che fare con testi che forse sono stati manomessi, manipolati e interpolati nell’arco di qualche secolo. Spesso i loro autori si sono reciprocamente influenzati, come appare chiaramente dal fatto che talune locuzioni sono passate per effetto di imitazione e di suggestione o di reminiscenze da un testo all’altro. Tra l’altro essi hanno impiegato un mezzo linguistico, come la lingua ebraica, che era una lingua povera, con un modus scribendi spesso standardizzato, come dimostra il fatto che il vocabolario dell’AT non supera le diecimila parole. Quali sono i confini dell’affinità stilistica o contenutistica? Parliamo di affinità sulla base di stilemi, costrutti comuni, locuzioni ricorrenti, o di principi politico-teologici condivisi? E quali sono le possibili deviazioni rispetto a tali affinità? E quanto pesano? Facciamo un esempio per comprendere meglio la questione. Il sintagma «Dio d’Israele», citato una sola volta in Genesi (xxxiii, 20) con riferimento ad Êl, presenta 4 occorrenze in Esodo, una in Numeri, nessuna in Levitico e in Deuteronomio, 15 in Giosuè, 7 in Giudici, 17 nel 1Samuele, 4 nel 2Samuele, 18 nel 1Re e 9 nel 2Re,(18) che cosa ne dobbiamo dedurre sullo stile degli autori? Dovremmo dedurre che non c’è comunanza (17) Dt, i, 1-5; iv, 41-49 - v, 1; xxvii, 1, 9, 11; xxviii, 69 - xxix, 1; xxxi, 1-2, 7, 9-10, 14. (18) v. supra, pt. i, nota n. 166.
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di stile tra il Deuteronomio e i libri più propriamente storici. A farne le spese è in primo luogo l’ipotesi di una storia deuteronomista e conseguentemente anche l’altra di una scuola deuteronomista. Su tale questione torneremo più avanti nei par. 12, 10-11.
capitolo viii
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: LA MITIZZAZIONE DELLA MONARCHIA UNITA
8.1. Giosuè e il mito della conquista del Canaan La credibilità storica del Libro di Giosuè (ebr. yehoshua = יהושעsoccorso di Dio =Salvatore = Gesù), come del resto quella di tutto il Pentateuco, è pressoché nulla. La vicenda di Giosuè è manifestamente modellata su quella di Mosè, del quale si cita in Js, i, 7-8, e in viii, 30 il Libro della legge.(1) Giosuè è una sorta di controfigura di Mosè; le sue imprese sono una ripetizione delle imprese di Mosè, perché entrambi sono strumenti della divinità. Yhwh infatti assicura il nuovo profeta: «Sarò con te come sono stato con Mosè» (Js, i, 5). Gli scontri militari con le popolazioni cananee riproducono uno schema o un cliché predefinito. Yhwh manda in soccorso degli israeliti il comandante dei suoi eserciti (Js, v, 14) e mette nelle loro mani una dozzina di città (Gerico, Ai, Gabaon, Azekah e Makkedah, tutta la zona collinare da Libna a Lachis a Eglon a Hebron a Debir, da Qadesh-Barnea fino a Gaza, da Casor a Mispa), le quali sono votate allo sterminio totale della popolazione e alla devastazione o depredazione del bestiame, sull’esempio di quanto Mosè aveva fatto contro Sicon e Og. Per ogni città conquistata si ripete il solito macabro scenario della devastazione: «Giosuè (1) Si riferisce all’Esodo o al Deuteronomio? Probabilmente in i, 8, allude all’Esodo. Più ambigua è la citazione di viii, 30, ove il riferimento ad «un altare di pietre grezze» può trovare riscontro tanto in Ex, xx, 25, quanto in Dt, xxvii, 5. Va aggiunto che il passo del Deuteronomio (viii, 30-35) ha tutta l’aria di essere una interpolazione.
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[…] passò a fil di spada la città e il suo re, votando allo stermino la città e ogni essere vivente che era in essa, senza lasciare alcun superstite». Lo schema narrativo è sempre lo stesso: le popolazioni autoctone sono terrorizzate dalla potenza di Israele, perché ne conoscono le gesta e la spietatezza, ma non possono fare a meno di ostinarsi alla guerra, perché il loro cuore è indurito dallo stesso Yhwh, che è mosso dal desiderio di esibire le sue potenzialità distruttive («affinché tutti i popoli della terra riconoscano che la mano di Yhwh è potente», Js, iv, 24). La traversata del Giordano è copia conforme della traversata del Mar Rosso: le acque del fiume si aprono davanti all’esercito del Signore, composto di quarantamila uomini armati, e si richiudono dopo il suo passaggio. L’evento è tanto più straordinario in quanto cade al tempo della mietitura, in prossimità della pasqua, quando il fiume è solitamente in piena (Js, iii, 15). In ogni caso il dieci del mese di nisan (abib), Israele si accampa a Galgala («quel luogo si chiama Galgala fino a oggi», Js, v, 9), dopo che Giosuè, a memoria del prodigioso evento, aveva fatto erigere nel letto del fiume, nel luogo in cui si erano «posati i piedi dei sacerdoti che portavano l’arca», dodici stele, una per ciascuna tribù, le quali «sono rimaste là fino ad oggi» (Js, iv, 9). Ma in Giosuè (iv, 20) ci vien detto che le dodici stele furono erette a Galgala (= cerchio di pietre) e non nel letto del fiume. Probabilmente si trattava di un santuario. Sappiamo però dai libri di Samuele che Galgala era dedicata a culti pagani.È evidente che il narratore procede sulla base di racconti popolari che erano per lo più costruiti come spiegazioni eziologiche di usi e di tradizioni o di denominazioni di luoghi. Egli non utilizza fonti scritte per il semplice fatto che prima del settimo secolo non era ancora comparsa una scrittura ebraica. Perciò la storia primaria che ci viene presentata nei testi sacri non poteva essere altro che una collazione di saghe popolari per lo più concepite come eziologie, spesso funzionali alla glorificazione della tribù di Giuda o delle tribù settentrionali. La conquista di Gerico (od. Tell es-Sultan), a prescindere dall’esistenza o meno della città nell’epoca oggetto della narrazione, stride con ogni senso della realtà e sfiora il ridicolo per essere concepita come effetto non di un’impresa militare, ma di una celebrazione liturgica: ci vien detto infatti che l’esercito fece un giro al giorno per sei giorni intorno alle mura della città, accompagnato da sette sacerdoti che portavano sette trombe di corno d’ariete. Il settimo giorno fecero sette giri intorno alle mura, al termine dei quali lo squillo di tromba e l’urlo di guerra, su disposizione di Yhwh, le fecero crolla-
I.8 Le radici vetero-testamentarie: la mitizzazione della monarchia unita
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re. Tutti gli abitanti, uomini, donne, giovani e vecchi furono sterminati, ad eccezione della famiglia della prostituta Raab, la quale «ha abitato in mezzo a Israele fino ad oggi» (Js, vi, 25). Dopo aver imposto sulla «collina dei prepuzi» (eziologia del nome del luogo) la seconda circoncisione agli israeliti nati nel deserto, il 14 del mese di nisan Giosuè celebra a Galgala la pasqua. Da quell’anno in poi gli israeliti mangiarono i prodotti della terra. Seguendo la dottrina della retribuzione che colpisce l’intera collettività per le colpe di un singolo, nella conquista di Ai Yhwh punisce Israele provocando la morte di 36 uomini a causa del peccato di Acan, figlio di Carmi, che aveva violato l’anatema. È singolare la strategia con cui viene assediata la città, poiché l’autore confonde l’assedio con l’imboscata. Gli israeliti si dividono in due gruppi, uno si nasconde alle spalle della città e l’altro davanti provoca gli assediati. Anziché proteggersi all’interno delle mura, costoro sarebbero maldestramente usciti per attaccarli, lasciando così mano libera, alle forze che si erano nascoste alle spalle, di intervenire ed invadere la città. Singolare è anche la metodologia con cui Giosuè scopre il colpevole dell’anatema. Egli convoca di buon mattino in ordine di successione dapprima le tribù, poi i clan, le famiglie e i singoli individui, e, procedendo per sorteggi successivi, individua nell’ordine la tribù, il clan, la famiglia e infine il responsabile, ovvero Acan, il quale viene lapidato insieme con i figli e con le figlie. Sui loro corpi viene eretto un cumulo di pietre (usanza cananea), nella valle che «ancora oggi» è chiamata valle di Acor (= afflizione; eziologia del nome del luogo). In Osea, ii, 17, la valle di Acor assume il significato di «porta della speranza» e il cristianesimo istituzionalizzato finirà con l’estendere tale significato alla figura di Cristo. Espiato il peccato di Acan e recuperato il favore di Yhwh, Giosuè conquista Ai, compiendo una strage di dodicimila abitanti. Il re di Ai fu appeso ad un albero e poi coperto con un tumulo di pietre «che esiste ancora oggi». Ai fu ridotta ad una collina di macerie, «una desolazione ancora oggi» (Js, viii, 28). Attenendosi alle prescrizioni imposte dal Libro della legge (in questo caso il Deuteronomio), Giosuè, secondo una pericope interpolata, costruisce un altare sul monte Ebal (Js, viii, 30-35) e, ricopiata la legge di Mosè, ne dà lettura al popolo, facendola seguire dalle benedizioni e dalle maledizioni, rispettivamente sui monti Garizim ed Ebal. La successiva battaglia di Gabaon vede alleati contro Israele cinque re: Adoni-Zedek di Gerusalemme, Oam di Hebron, Piream di Iarmut, Iafia di Lachis e Debir di Eglon. Giosuè li affronta a Bet-Coron e li insegue fino a Azekah e a Makkedah. In suo aiuto interviene Yhwh che scaglia sui fuggitivi
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una grandine di pietre: l’aiuto fu decisivo, perché «furono più quelli che morirono per le pietre che per la spada». Per avere il tempo di sterminare tutta la popolazione, Giosuè – come «sta scritto nel Libro del Giusto», ovviamente perduto – chiese a Yhwh di arrestare il corso del sole (Js, x, 13). E il miracolo si compì in violazione delle leggi ferree della natura: il sole si fermò per un intero giorno: «non ci fu più, né prima né dopo un giorno come quello» (Js, x, 14). I cinque re si rifugiarono nella grotta di Makkedah. Giosuè ne fece ostruire l’ingresso con macigni, che «esistono ancora oggi», quindi si impadronì prima di Makkedah, poi di Libna, di Lachis, soccorso da Oam, re di Gezer, di Eglon e di Hebron e procedette allo sterminio (hērem) senza lasciare superstiti (passò «a fil di spada ogni essere vivente», Js, x, 37, 39). A seguito di tali schiaccianti vittorie tutto il territorio da Qadesh-Barnea a Gaza e da Gosen a Gabaon cadde nelle mani degli israeliti. Dopo avere conquistato il Sud, Giosuè volge il suo esercito alla conquista del Nord. Si alleano contro di lui Iabin, re di Asor, Iobab, re di Madon, e Simson, re di Acsaf. Giosuè li sconfigge e li insegue fino a Sidone, a Misrefòt-Maim e alla pianura di Mispa; non lascia «alcun superstite» (Js, xi, 8). Conclusa questa sanguinosa campagna militare, il territorio non conquistato è ancora molto vasto e comprende tutti i distretti dei filistei e dei ghesuriti, da Sicor (a est dell’Egitto) ad ‘Eqron, i cinque principati di Gaza, di Ašdod, di Gat, di Ashkelon e di ‘Eqron, gli avviti a sud, tutto il paese dei cananei da Ara a Sidone, il territorio di Biblos e il Libano orientale e tutto l’altopiano del Libano fino a Misrefòt-Maim. Poiché Giosuè è ormai avanti negli anni, Yhwh gli suggerisce di ripartire con un sorteggio tanto il territorio conquistato quanto quello da conquistare tra le nove tribù e la metà di Manasse che non avevano ricevuto da Mosè alcuna eredità. Sotto la superiore sovrintendenza del sommo sacerdote Eleazar, figlio di Aronne, furono assegnate al ramo dei keatiti-aronniti 13 città, sorteggiate dalle tribù di Giuda, di Simeone e di Beniamino (Hebron, Libna, Iattir, Estemoa, Holon, Debir, Ain, Iutta,Bet-šemeš, Gabaon, Ghega, Anatot, Almon); all’altro ramo dei keatiti furono assegnate 10 città, tra cui Sichem, Gezer, Bet-Coron. Ai leviti-ghersonnidi e ai merariti vengono assegnate rispettivamente 13 e 12 città. La fittizia ripartizione del Canaan alle dodici tribù corrispondeva in realtà alle mire espansionistiche dei giudaiti e degli israeliti. L’autore di Giosuè, sulla base di presunti dati storico-militari e giuridici, fissa i paletti per tali rivendicazioni territoriali. Egli scrive certamente nel corso del sesto/quinto secolo prima, durante e dopo la ricostruzione del secondo tempio, allorché
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era in atto il progressivo rientro dei deportati nell’area gerosolimitana; il suo racconto era funzionale alle rivendicazioni delle tribù. Da ciò la cura minuziosa che egli pone nella descrizione dettagliata dei territori e delle città in essi insistenti. In realtà i due regni storici di Israele e di Giuda occuparono solo parzialmente quei territori, i cui confini erano per la verità aleatori e dipendevano dalla resistenza o meno e dalle capacità offensive delle circostanti popolazioni cananee, oltre che dalla reazione dei grandi imperi confinanti. Ma quelle rivendicazioni, sebbene corrispondessero appieno alle ipertrofiche pretese degli israeliti, erano solo ideali e irrealistiche. Taluni indizi fanno pensare che Israele e Giuda avanzassero pretese contrastanti. I dettagli, apparentemente superflui, che emergono dalla individuazione delle città levitiche, ci fanno capire che il sacerdozio aronnita era fortemente radicato nel sud. Ciò ci induce a ritenere che anche il libro di Giosuè sia un documento aronnita. Alla luce di questa intuizione si possono reinterpretare i capitoli iv e vi nel senso che i sacerdoti leviti erano di rango inferiore, in quanto addetti al trasporto dell’arca;(2) i sacerdoti che a Galgala precedevano il popolo (Js, iv, 11) o comunque i sette sacerdoti che suonavano le trombe nell’assedio di Gerico erano di rango superiore e di stretta appartenenza aronnita. La pericope viii, 30-35, che è un frammento di matrice levitica-anti-aronnita, è di chiara ispirazione deuteronomistica come si evince non solo o non tanto dal richiamo ai due centri di Ebal e di Garizim, quanto piuttosto dal fatto che include i leviti negli alti ranghi dirigenziali, ponendoli accanto agli anziani, agli ufficiali e ai giudici («Tutto Israele, cioè gli anziani, gli ufficiali e i giudici, stava di fronte […] ai sacerdoti leviti» = wekāl yiśrā’êl ūzeqênāw wešōterîm wešōpetāw ‘ōmedîm […] neged hakkōhănîm alwîyim).(3) La manipolazione si evince da un mero confronto con i versetti Js, xxiv, 1; xxiii, 2, che sono stilisticamente diversi e non includono i leviti: «convocò gli anziani d’Israele, i suoi capi, i suoi giudici e i suoi ufficiali» = wayyqrā [lekāl] leziqnê [lizqênāw] yiśrā’êl ūlerāšāw ūlešōpetāw ūlešōterāw. I contrasti sulla natura e sulle funzioni del sacerdozio emergono anche in connessione con la complicatissima questione della centralità del tempio. Sarebbe riduttivo pensare che la questione sia sorta prima o nel corso della ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Dietro la polemica sulla centralità del tempio si celavano gli interessi di due o più realtà geografiche (il sud, il nord e i territori transgiordanici) e di due classi sacerdotali in conflitto (le(2) Js, iii, 3; iv, 3, 9, 10, 16-18; vi, 6, 12; viii, 30. (3) Js, viii, 33.
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viti e aronniti). Il progetto centralizzatore di Gerusalemme si scontrava con le opposte esigenze dei centri religiosi di Sichem, di Silo e di Garizim, i cui altari erano guardati con sospetto dai giudaiti per essere oggetto di culti baalistici. L’idea della centralizzazione del tempio era sostanzialmente giudaita, ma l’intelligentsia settentrionale, ormai convertita allo yhawismo, poneva evidentemente il problema della individuazione di tale tempio centralizzato; da qui l’espressione assai significativa «nel luogo che Yhwh avrà scelto come dimora o per il suo nome». Essa, com’è noto, ricorre in Deuteronomio e, se di fatto lascia sospesa l’individuazione del luogo, rimette in discussione la centralità di Gerusalemme. È questa la ragione per cui il Deuteronomista non fa menzione della città santa come sede del tempio centralizzato. In proposito è assai istruttiva la contestazione che i rubeniti/gaditi/manassiti mossero contro i giudaiti proprio in merito alla unicità del tempio. Essi si costruirono un altare, dedicato a Yhwh, nei pressi del Giordano; non è chiaramente comprensibile se il loro altare fosse più prossimo a Sichem o a Gerusalemme; sta di fatto che si ritenevano fedeli al culto di Yhwh. La loro iniziativa mise in allarme la classe sacerdotale giudaita che temette una reazione punitiva di Yhwh a danno di tutto Israele. Si incaricò di affrontare i rubeniti Fineas, figlio di Eleazar, aronnita, il quale propose alle tribù transgiordane di trasferirsi «nel paese di proprietà diYhwh, dove si trova la dimora di Yhwh», anziché avallare il diritto di «costruire un altare, oltre l’altare di Yhwh, nostro Dio» (Js, xxii, 19). Ancora una volta il luogo misterioso dell’altare è taciuto. Si tratta di Gerusalemme, di Sichem o di Garizim? Non lo sappiamo. Ma l’episodio ci dice quali erano i termini del dibattito. A Fineas i rubeniti rispondono in modo sconvolgente: «Êl, Dio, Yhwh! Êl, Dio, Yhwh!»; quel tempio è «un testimone tra noi e voi […] affinché possiamo celebrare il culto di Yhwh alla sua presenza […] e i vostri figli non possano un giorno dire ai nostri figli: ‘non avete parte con Yhwh’». I rubeniti esprimono giustamente l’istanza di una territorializzazione del culto, ma è sconcertante quell’imprecazione « Êl, Dio, Yhwh!», che in ebraico suona: ‘êl, ‘êlōhîm, yhwh!, la quale tradisce la persistenza del culto cananaico-settentrionale di Êl, assimilato al culto di Yhwh. L’ambiguità del Deuteronomio e del Libro di Giosuè, sta nel fatto che, pur non escludendo la centralità di Gerusalemme, non trascurano di menzionare i templi di Silo e di Sichem, ove Giosuè consegna il suo ultimo solenne messaggio. Le loro posizioni non sono manifestamente filo-giudaite né filo-israelite, ma non sono neppure anti-giudaite né anti-israelite. Proba-
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bilmente sono il riflesso della grande conflittualità tra i gruppi sacerdotali. La solenne convocazione di tutte le tribù, invitate alla più rigorosa osservanza dei precetti stabiliti nel Libro della legge, è ripetuta due volte rispettivamente nei capitoli xxii e xxiii. Nell’uno e nell’altro caso il messaggio trasmesso è contenutisticamente affine: si tracciano sinteticamente le linee della storia e si riconosce la costante presenza di Yhawh a tutela del proprio popolo; tutte le promesse fatte da Dio si sono avverate; nessuna è andata a vuoto. Di conseguenza il popolo è invitato ad abbandonare tutti i falsi culti stranieri e a darsi col cuore e con l’anima al culto di Yhwh. Il primo dei due capitoli non indica il luogo di convocazione dell’assemblea, ma sollecita il rispetto del libro della Legge (Esodo);(4) il secondo indica Sichem. Se nessuno dei due è un’interpolazione, la loro coesistenza è evidentemente il frutto di un compromesso. Per l’occasione Giosuè stipula un’alleanza con il popolo e dispone uno statuto e un diritto, che però nel testo non trovano spazio; prende una grossa pietra e la rizza «sotto la quercia che si trova nel santuario di Yhwh» (ma il santuario di Yhwh è di epoca successiva a Giosuè). Il parallelismo con Mosè, la cui morte chiude il Deuteronomio, si estende fino alla morte di Giosuè e alla traslazione delle ossa di Giuseppe, che vengono deposte a Sichem. Secondo i fautori dell’ipotesi di una storia deuteronomista i libri dal Deuteronomio ai Re, per affinità stilistiche e concettuali, sarebbero riconducibili ad una vera e propria scuola deuteronomista fiorita tra il settimo e il sesto secolo. Contro questa ipotesi ostano le seguenti divergenze sotto il profilo teologico-concettuale: il libro di Giosuè: 1) è un testo di matrice aronnita, a differenza del Deuteonomio, che è ascrivibile ai leviti non-aronniti; 2) ripristina il principio della circoncisione fisica; 3) scalfisce il principio della centralità del tempio e riconosce la legittimità della sussistenza di templi alternativi a quello di Gerusalemme; 4) conferma, con l’episodio di Acan, il principio della responsabilità collettiva.
(4) Js, xxiii, 6; xxiv, 26.
capitolo ix
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: LA VERSIONE ANTIMONARCHICA
9.1. Il mito dell’età dei Giudici Il Libro dei Giudici (ebr. = פשוטיםShofetìm) si articola in due sezioni e in due appendici. La prima sezione (Jdc, i, 1 - ii, 5) si sovrappone al libro di Giosuè e ripropone il tema della conquista del Canaan. La seconda (Jdc, ii, 6 - xvi, 31) narra la storia dei dodici giudici-profeti. La prima sezione si apre con la morte di Giosuè e la successiva occupazione del Canaan. Il Libro di Giosuè aveva già trattato della conquista delle città cananaiche e della ripartizione delle terre effettuata per sorteggio e per volontà di Yhwh. L’esordio del Libro dei Giudici assegna alla tribù di Giuda il primato nello scontro con i cananei. Con una serie di operazioni militari i giudei occupano i territori compresi tra Gerusalemme, il Negev, le colline della Sefela, Hebron, che un tempo si chiamava Kiriat-Arba, Debir, che si chiamava Kiriat-Sefer e la città di Sefat, che, per essere stata sterminata, assunse il nome Corma (= sterminio). Quest’ultima tuttavia, come ci fa sapere il Libro di Numeri (xxi, 3), era già stata così denominata da Mosè ed Eleazar dopo la vittoria su Arad. Il paragrafo i, 11-13, riproduce pressoché alla lettera Giosuè (xv, 17-18), in cui si parla del matrimonio di Otniel con Acsa, figlia di Caleb. Le altre imprese militari narrate sono mezze vittorie e mezze sconfitte. La tribù di Beniamino si scontra con i gebusei, ma è costretta ad accettarne la presenza nel proprio territorio. La tribù di Giuseppe conquista Betel che prima si chia197
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mava Luz; ma sappiamo che la nuova denominazione era già stata data da Abramo e paradossalmente anche da Giacobbe (Gn, xxviii, 19; xxxv, 15). Parziali furono anche le vittorie della tribù di Manasse, di Efraim, di Zabulon, di Asher, di Neftali e di Dan. Tutte le tribù dovettero accettare nel loro territorio la presenza di cananei. Le ragioni di tali sconfitte sono presto dette: gli israeliti si erano impegnati a distruggere gli altari degli dèi stranieri, ma non avevano mantenuto l’impegno. Perciò Yhwh inviò ad Israele un angelo per comunicargli che non avrebbe più scacciato davanti a lui i suoi nemici. Il popolo pianse e il luogo fu denominato, con evidente spiegazione eziologica, Bochim (= piangenti). La seconda sezione è costituita da due documenti: il più lungo comprende la storia dei giudici (Jdc, ii, 6 - xv, 20), il secondo, più breve, contiene la storia di Sansone e Dalila (capitolo xvi). Il primo documento si apre con la pericope ii, 6, da cui risulta che Giosuè, dopo essere stato dato per morto in Giudici (i, 1), è ancora in vita; infatti congeda il suo popolo e lo invita a prendere possesso delle terre assegnate. La pericope ii, 6-9, non è che la riproduzione di Giosuè (xxiv, 29). Probabilmente si tratta di un cascame di qualche documento contenente una variante del Libro di Giosuè. Tra la fine del secondo capitolo e l’inizio del terzo l’autore ci presenta lo schema teologico che spiega il rapporto tra le trasgressioni del popolo e le punizioni divine. Le fasi previste sono tre: 1) la caduta nel peccato, per cui i figli di Israele fanno ciò che è male agli occhi di Dio; abbandonano Yhwh e venerano Baal e Astarte o Aserah; 2) si scatena l’ira di Yhwh che li punisce, li mette alla prova e in battaglia contro i nemici stende la mano contro il suo popolo; 3) Yhwh, avendo compassione dei lamenti del popolo, suscita dei giudici, che non sono dei magistrati, ma sono degli eroi liberatori, dei profeti che riconducono il popolo sulla retta via. Tutta la storia dei giudici trova la sua spiegazione teologica nello schema citato. L’obiettivo dell’autore è probabilmente quello di giustificare le disgrazie del presente, richiamando alla mente quelle del passato. Come in passato Yhwh aveva messo a dura prova il popolo, così nel presente la cattività babilonese doveva essere intesa come dura prova. Posta in questi termini la riflessione sul presente, si aprivano spazi di speranza: non era possibile che Yhwh avesse abbandonato il suo popolo, che fosse sordo ai suoi lamenti e alle sue imprecazioni. Prima o poi doveva suscitare un qualche profeta che lo avrebbe condotto alla liberazione. Il messaggio di Giudici ha in fondo implicazioni teologiche e politiche. Ma le vicende che in esso sono narrate, le figure profetiche che vi si stagliano in primo
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piano, sono storiche? No, assolutamente! Appartengono alla pseudo-storia romanzata. È evidente che lo stesso autore fa fatica a delinearne la personalità che spesso appare evanescente, sfumata, sfuggente. Otto di essi meritano appena una scheletrica citazione; quattro sono invece le figure del tutto romanzate. L’autore raccoglie miti e leggende popolari e con essi tenta di riempire il vuoto tra l’esodo e la monarchia unitaria. Si spiega così come la storia dei giudici, per essere basata su uno schema, è ripetitiva e solo qua e là è arricchita da narrazioni più vivaci attinte dal folklore popolare. Poiché i figli d’Israele avevano fatto «ciò che è male agli occhi di Yhwh ed avevano venerato divinità straniere», Dio li aveva condannati ad essere schiavi di Cusan-Risataim per otto anni. Poi, mosso a compassione dalle loro sofferenze, suscitò il giudice Otniel: lo spirito di Yhwh venne sopra di lui e la sua mano fu pesante contro Cusan-Risataim. Così la regione restò in pace per 40 anni. Ma Israele è un popolo che non impara mai la lezione; anzi è provocato e messo alla prova dallo stesso Yhwh e sistematicamente ricade nel peccato, torna al culto di Baal e Asherah e commette di nuovo «ciò che è male agli occhi di Dio». Perciò una nuova punizione si abbatte sul popolo dalla dura cervice: Yhwh rende più potente Eglon, re di Moab, e Israele è costretto a patire una schiavitù di 18 anni. Il popolo invoca un salvatore e Yhwh suscita Eud, il quale uccide Eglon con l’inganno; gli israeliti sconfiggono i moabiti e ne sterminano circa diecimila. Segue un periodo di pace durata 80 anni. A Eud succede Samgar che sconfigge seicento filistei con un pungolo per i buoi. Di lui non sappiamo altro, non conosciamo neppure la durata della sua giudicatura. Probabilmente la pericope che lo riguarda è una inserzione posticcia; il sospetto nasce dal fatto che Samgar non è un nome di origine ebraica e che potrebbe essere stato aggiunto per portare a dodici i giudici liberatori. Il versetto successivo (Jdc, iv, 1) sembra ignorarlo perché riprende la narrazione dalla morte di Eud, allorché gli israeliti commettono di nuovo «ciò che è male agli occhi di Yhwh» e per punizione diventano schiavi (si noti come ritorna il tema della schiavitù) di Iabin, re cananeo di Asor. L’oppressione di Iabin dura venti anni; poi contro di lui Yhwh suscita Deborah, la quale si fa aiutare da Barak, della tribù di Neftali, per combattere il comandante cananeo Sisara. Barak lo sconfigge, ma Sisara è assassinato con l’inganno da Giaele, che, durante il sonno, gli pianta nella tempia un picchetto. Inebriati dalla vittoria, Deborah e Barak declamano i versi di un epinicio che taluni studiosi reputano molto antico. Si tratta in realtà di un poemetto di non facile interpretazione. Non è chiaro se esso è declamato da
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Deborah e da Barak, come vuole il versetto v, 1 («in quel giorno Deborah e Barak […] intonarono questo canto») o se è declamato in loro onore come vuole il versetto successivo (v, 12: «svegliati Deborah […] svegliati Barak»). Ciò che soprattutto sorprende è la lista delle tribù d’Israele che vengono elogiate per aver combattuto contro i cananei. In essa è presente la tribù di Machir al posto di quella di Manasse, la tribù di Galaad al posto di quella di Gad ed una tal tribù di Meroz, che non ha altre menzioni in tutto il testo biblico. Alla morte di Deborah, Israele è alle prese con il solito peccato. E poiché i madianiti lo avevano ridotto in miseria per sette anni, Yhwh suscita Gedeone, il quale costruisce un altare che «esiste ancora oggi» nel villaggio di Ofra. Poi, accertatosi che Yhwh era veramente dalla sua parte, Gedeone demolisce l’altare in onore di Baal ed è soprannominato Ierub-Baal (= Baal si difenda da lui). Nello scontro con i madianiti egli ricorre agli stratagemmi suggeriti da Yawh: seleziona gli uomini per la battaglia; da 24.000, in più scrutini, ne sceglie 300 (ovvero sceglie gli uomini che al torrente leccavano l’acqua per bere come i cani). Come poté Gedeone sbaragliare un esercito numeroso con appena trecento uomini? La risposta è semplice: fu Yhwh che fece sì che i madianiti si trucidassero l’un l’altro nei loro accampamenti. Così Gedeone li sconfisse e catturò i loro due principi Horeb e Zeen. Poi entrò in conflitto con gli abitanti di Sukkot e di Penu’el. Torturò gli anziani di Sukkot e sterminò quelli di Penu’el. Infine si fece consegnare gli anelli del bottino di guerra e, racimolando ben 1.700 sicli d’oro, fabbricò un idolo e lo collocò nella città di Ofra. Poiché Israele si era prostituito a Baal-Berit = (Baal del patto), Gedeone cadde in disgrazia presso Yhwh. I suoi 70 figli, avuti da «molte mogli», furono sterminati da Abimelech, figlio di Gedeone e di una sua concubina: si salvò solo Yotam. I signori di Sichem proclamarono re Abimelech, ma furono contestati da Yotam. Abimelech mantenne il potere su Israele per tre anni. Poi i signori di Sichem scelsero per capo Gaal e complottarono contro Abimelech. Il governatore Zebul lo avvertì del complotto ed egli sconfisse Gaal, lo scacciò da Sichem, rase al suolo la città, la cosparse di sale e ne massacrò tutti gli abitanti. Infine fece morire in un incendio tutti i signori (circa mille persone) di Sichem che erano riusciti a sfuggire e a trovare riparo nei sotterranei del tempio di Baal. Stessa sorte toccò alla città di Tebez. Dopo Tola e Ya’ir Israele fu oppresso per 18 anni dagli ammoniti e ritornò al culto di Baal-Astarte. In suo soccorso Yhwh suscitò Iefte, il galaadita, figlio di una prostituta, e di Galaad, il quale era a capo di un gruppo di av-
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venturieri. Proclamato capo dell’esercito nel tempio di Yhwh a Mispa, Iefte fece voto di sacrificare la prima persona che avesse incontrato al suo ritorno a casa dopo aver sconfitto gli ammoniti. Sottomise venti città da Aro’er fino a Minnit e a Abel-Cheramin; ritornato a Mispa la prima persona che incontrò fu sua figlia, che fu pertanto sacrificata in un orribile olocausto. La vicenda fornisce una spiegazione eziologica del costume secondo cui «ogni anno le ragazze d’Israele vanno per quattro giorni a fare il lamento per la figlia di Iefte il galaadita». In seguito contro Iefte si mossero gli efraimiti. Per smascherarli Iefte mise sotto controllo tutti i guadi del Giordano e ai suoi uomini ordinò di chiedere a coloro che lo attraversavano di pronunciare la parola scibbolet; tutti quelli che la pronunciavano sibbolet erano efraimiti ed erano immediatamente sgozzati. Furono così sterminati 42.000 uomini della tribù di Efraim. La carica di Iefte durò 6 anni; alla sua morte essa passò a Ibsan di Betlemme, poi ad Elon della tribù di Zabulon, ad Abdon, figlio di Illel, ed infine a Sansone, della tribù di Dan, figlio di Manoach. Sansone è uno dei tanti casi di figli nati da una donna sterile in tarda età. Infatti la moglie di Manoach era sterile ed ebbe un figlio per volontà di Yhwh. Sansone era un nazir, «consacrato a Dio fin dall’utero materno». Lo «spirito di Yhwh» si impadronì di lui. Egli si innamorò di una filistea a Timna, dove gli venne incontro ruggendo un leone, che fu squartato da Sansone «come si squarta un capretto». Romanzesco è il racconto dell’indovinello di Sansone, del tradimento di sua moglie e della cessione di lei al giovane che aveva fatto da amico di nozze. Durante la sua giudicatura si vendicò contro i filistei, ne bruciò i campi, fece una strage di filistei e andò ad abitare nella caverna della rupe di Etam. Gli uomini della tribù di Giuda lo fecero prigioniero, lo legarono e lo consegnarono ai filistei. Ma a Lechi Sansone si liberò ed uccise con una mascella d’asino mille filistei. A memoria dell’evento quel luogo fu denominato Ramat-Lechi (=mascella d’asino). Poi ebbe sete, aprì un foro nella roccia e sgorgò l’acqua; quella sorgente fu chiamata En-Korè (= fonte di colui che invoca) ed «esiste ancora oggi a Lechi». La sua carica durò 20 anni. Negli ultimi anni si innamorò di una prostituta di nome Dalila. I filistei se ne servirono per sedurlo e per carpirgli il segreto dell’origine della sua forza. Dopo due tentativi falliti, al terzo tentativo Sansone svelò a Dalila che la radice della sua forza risiedeva nelle sette trecce dei suoi capelli. Ciò permise ai filistei di catturarlo e accecarlo; ma, posto tra le colonne del tempio del dio Dagon, Sansone le fece crollare e provocò nel contempo la caduta del tempio e la morte di tremila filistei.
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Il documento più lungo si chiude con la pericope xv, 20, in cui, presupponendo la morte di Sansone, ci vien detto che la sua giudicatura durò venti anni. Se ne deve arguire che la storiella di Sansone e Dalila costituisce un diverso documento o una terza sezione, la quale inizia stranamente con la pericope «un giorno Sansone andò a Gaza…» dopo che il verso precedente aveva di fatto concluso la sua giudicatura, tant’è che alla fine della storiella di Dalila, il testo ripete: «egli era stato giudice di Israele per vent’anni» (Jdc, xvi, 31). 9.2. Due novelle in appendice Le due appendici che chiudono il libro sono verosimilmente aggiunte posteriori. Forse l’intento dell’interpolatore è quello di promuovere l’idea della monarchia. L’impronta monarchica delle due appendice si evince dai versetti xvii, 6; xviii, 1; xix, 1; xxi, 25, in cui si segnala il disordine istituzionale causato dalla mancanza di un potere centrale: «Poiché in quel tempo non c’era un re in Israele, ognuno poteva fare quel che gli piaceva». La prima appendice riguarda la storia del santuario della tribù di Dan (Jdc, xvii, 1-6). Mica, efraimita, si costruisce un suo santuario, fabbrica un idolo di metallo e nomina sacerdote uno dei suoi figli. In seguito, essendo capitato a casa sua un giovane levita di Betlemme, Mica lo nominò sacerdote. Ma la sua tranquillità fu travolta dalla turbolenza dei daniti, che «in quel tempo […] non avevano ricevuto nessun territorio». Essi perciò inviarono esploratori in cerca di una regione in cui stabilirsi e, individuata la città di Lais, partirono con seicento uomini armati per conquistarla; si accamparono a Kiriat-Ye’arim nel territorio di Giuda (perciò «quel luogo si chiama ancora Campo di Dan»), attraversarono le montagne di Efraim e, giunti alla casa di Mica. gli sottrassero il levita, l’idolo di metallo, l’efod e i terafim e si recarono a Lais, nella valle di Bet-Recob, ove trovarono un popolo pacifico. Durante la notte la passarono a fil di spada e ne mutarono il nome in quello di Dan; affidarono il sacerdozio a Gionata, figlio di Gherson, e ai suoi figli che lo esercitarono «fino al tempo dell’esilio». Questa appendice ci dice almeno due cose: 1) che il culto yhawista non era evidentemente compatto, né unitario, poiché l’idolo di metallo fa pensare alla presenza a Dan di un culto idolatrico; 2) che il testo, o almeno le due appendici, sono posteriori al tempo dell’esilio (Jdc, xviii, 30).
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La seconda appendice riguarda l’orrendo delitto degli abitanti di Gabaa. Un levita, che abitava sulle montagne di Efraim (potrebbe trattarsi di una variante dell’episodio di Mica), sposò una concubina di Betlemme, la quale lo abbandonò. Egli la raggiunse nella casa del padre e la portò con sé nella città di Iebus (cioè Gerusalemme), dopo una sosta a Gabaa (che apparteneva alla tribù di Beniamino). A Gabaa fu ospitato da un vecchio, la cui casa fu assalita durante la notte da una banda di pervertiti che voleva «conoscere» il levita. Per evitare «una così brutta azione», il vecchio cedette sua figlia, ancora vergine, e la sua concubina, la quale fu violentata per tutta la notte, fino alla morte. Il levita portò con sé il cadavere e, giunto a casa sua, lo tagliò in dodici pezzi che inviò alle tribù d’Israele. Decisi a punire i colpevoli, gli israeliti, in 400.000, organizzarono una spedizione punitiva fratricida contro la tribù di Beniamino: chiesero la consegna dei pervertiti, ma non la ottennero; al contrario i beniaminiti approntarono un esercito di 26.000 uomini ed affrontarono il nemico in tre scontri. Nel primo e nel secondo scontro uccisero rispettivamente 22.000 e 18.000 israeliti, ma nel terzo scontro subirono una dura sconfitta, in cui persero la vita 25.000 o 25.100 uomini (Jdc, xx, 46, 35). Gli israeliti passarono a fil di spada gli abitanti della città di Gabaa e incendiarono tutti i villaggi del circondario. Poiché però la strage rischiava di provocare l’estinzione della tribù di Beniamino, gli israeliti decisero di massacrare, in un ulteriore scontro fratricida, la popolazione di Iabes di Galaad, che non aveva partecipato al conflitto. Furono passati a fil di spada tutti gli uomini e le donne che avevano avuto rapporti sessuali, furono rapite 400 vergini e furono portate nell’accampamento di Silo. L’episodio è ripetuto in Jdc, xxi, 13-23, ma la seconda volta il ratto è compiuto dai benianimiti ai danni delle ragazze di Silo, ove ogni anno si faceva una festa in onore di Yhwh.
capitolo x
I LIBRI DI SAMUELE, DEI RE E LE DUE CRONACHE: LO SCISMA DEI DUE REGNI
10.1. Dalla presunta monarchia unita allo scisma dei due regni Il 1Samuele (ebr. =שמואלšemu’el) tenta di far luce sulle origini della monarchia. Fin dai primi capitoli Eli e Samuele sono annoverati tra i giudici, non però nel senso di liberatori, ma in quanto esercitano le funzioni giudiziarie. Nel libro si fa cenno ancora una volta alla tenda dell’incontro, che caratterizzò la fase tribale e nomade, ma si afferma che essa era tenuta nel santuario di Silo, ove Yhwh era venerato come «signore degli eserciti» ( = יהוה צבאותyhwh sebā’ōwt), espressione che ricorre con frequenza nei testi veterotestamentari risalenti al v-iv secolo.(1) Anche nei Libri di Samuele (1) 1Sm, i, 3, 11; iv, 4; xv, 2; xvii, 45; 2Sm, v, 10; vi, 2, 18; vii, 8, 26, 27; Os, xii, 5; Am, iv, 13; v, 14, 15, 16, 27; vi, 8; Js, v, 14; 1Re, xviii, 15; xix, 10, 14; 2Re, iii, 14; 1Chr, xi, 9; xvii, 7, 24; Salmi xxiv, 10; xlvi, 7, 11; xlviii, 8; xlix, 5; lxix, 6; lxxx, 4, 7, 14, 19; lxxxiv, 1, 3, 8, 12; lxxxix, 8; Is, i, 24; ii, 12; iii, 1, 15; v, 7, 9, 16, 24; vi, 3, 5; viii, 13, 18; ix, 7, 13, 19; x, 16, 23, 24, 26, 33; xiii, 4, 13; xiv, 22, 23, 24, 27; xvii, 3; xviii, 7; xix, 4, 12, 16, 17, 18, 20; xix, 25; xxi, 10; xxii, 5, 12, 14, 15, 25; xxiii, 9; xxiv, 23, xxvi, 6; xxviii, 5, 22, 29; xxix, 6; xxxi, 4, 5, xxxvii, 16, 32; xxxix, 5; xliv, 6; xlv, 13; xlvii, 4; xlviii, 2; li, 15; liv, 5; Jr, ii, 19; v, 14; vi, 6, 9; vii, 3, 21; viii, 3; ix, 7, 15; 17; x, 16; xi, 17, 20, 22; xv, 16; xvi, 9; xix, 3, 11, 15; xx, 12; xxiii, 15, 16, 36; xxv, 8, 27, 28, 29, 32; xxvi, 15; xxvii, 4, 18, 19, 21; xxviii, 2, 14; xxix, 4, 8, 17, 21, 25; xxx, 8; xxxi, 23, 35; xxxii, 14, 15, 18; xxxiii, 11, 12; xxxv, 17, 18, 19; xxxviii, 17, 18; xlii, 15, 18; xliii, 10; xliv, 2, 7, 11, 25; xlvi, 10, 18, 25; xlviii, 1, 15; xlix, 5, 7, 26, 35; l, 18, 25, 31, 33, 34; li, 5, 14, 19, 33, 57, 58; Mi, iv, 4; Nah, ii, 13; iii, 5; Hab, ii, 13; Sf, ii, 9, 10; Hag, i, 2, 5, 7, 9, 14; ii, 4, 6, 7, 8, 9, 11, 23 (2); Zc, i, 3 (3), 4, 6, 12, 14, 16, 17; ii, 8, 9, 11; ii, 7, 9,
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c’è una pseudo-storia romanzata: Elkana, un efraimita di Ramataim, città non identificata, aveva due mogli, Pennina ed Anna che era sterile. Anna fece un voto a «Yhwh degli eserciti» (yhwh sebā’ōwt): se le fosse nato un maschio, lo avrebbe dato a Yhwh per tutti i giorni della sua vita. Nacque Samuele (šemu’êl = Dio ha ascoltato) ed Anna elevò un cantico di lode a Yhwh: «La sterile ha partorito sette volte […] Yhwh fa morire e fa vivere, scendere negli inferi e risalire» [è una prima allusione al mondo ultraterreno?] […] Yhwh giudicherà i confini della terra, infonderà vigore al suo re e solleverà la fronte del suo messia» (si tratterebbe di una profezia, perché Israele non aveva ancora un messia). Samuele venne condotto a Silo presso il sacerdote Eli per essere assunto come addetto al culto». A Silo però il sacerdozio era entrato in crisi perché i figli di Eli, Cofni e Pincas, si comportavano in modo perverso, si appropriavano delle offerte fatte a Yhwh e giacevano con le donne che prestavano servizio davanti alla tenda. Yhwh stabilì di mettere fine alla discendenza sacerdotale e di suscitare un nuovo sacerdote (Sadoc), il quale avrebbe agito in presenza del messia per sempre. Sebbene in quel tempo la parola di Dio fosse una rarità e le visioni fossero infrequenti (1Sm, iii, 1), Yhwh parlò a Samuele e preannunciò la fine della casa di Eli. Da Dan a Betsabea tutti gli israeliti compresero che egli era un profeta. Decisero perciò di muovere guerra ai filistei; si accamparono a Eben-Ezer (ma la località non aveva ancora ricevuto questo nome) e ne uscirono sconfitti con la perdita di 4.000 uomini. Allora Israele mandò a prendere l’arca dell’alleanza a Silo, ove scoppiò un’altra battaglia, in cui persero la vita 30.000 ebrei, insieme ai figli di Eli, Cofni e Pincas. I filistei catturarono l’arca dell’alleanza ed Eli morì non appena essa venne menzionata; poi trasferirono l’arca da Eben-Ezer ad Ašdod e la collocarono nel tempio di Dagon, ove si verificò una ridicola lotta tra le due divinità: la statua di Dagon cadde due volte, le si spezzarono le mani e sulla soglia del tempio giacque solo il suo busto. Da questo episodio trasse origine l’uso dei sacerdoti di Dagon di non calpestare la soglia (narrazione eziologica). La reazione di Yhwh a questo affronto fu immediata: egli colpì con un’epidemia di peste bubbonica gli asdoditi, i quali, dopo sette mesi, restituirono l’arca con ricchi doni agli israeliti a Bet-šemeš, ove a ricordo venne eretta una grossa pietra «che esiste ancora oggi». Poiché gli abitanti di Bet-šem10; iv, 6, 9; v, 4; vi, 12, 15; vii, 3, 4, 9, 12 (2), 13; viii, 1, 2, 3, 4, 6 (2), 7, 9, 11, 14 (2), 18, 19, 20, 21, 22, 23; ix, 15; x, 3; xii, 5; xiii, 2, 7; xiv, 16, 17, 21 (2); Ml, 1, 4, 6, 8, 9, 10, 11, 13, 14; ii, 2, 4, 7, 8, 12, 16; iii, 1, 5, 7, 10, 11, 12, 14, 17; iv, 1, 3.
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eš avevano curiosato all’interno dell’arca, Yhwh si vendicò destinando alla morte settanta di loro; a seguito di tale disgrazia l’arca venne spostata a Kiriat-Ye’arim, ove rimase per vent’anni. Samuele sollecitò gli abitanti a disfarsi delle divinità di Baal e Astarte; poi convocò a Mispa gli ebrei, che nel corso dell’olocausto furono attaccati dai filistei. Ma col favore di Yhwh lo scontro si chiuse a loro vantaggio. A memoria dell’evento Samuele collocò una pietra tra Mispa e Iesana in una località chiamata Eben-Ezer (=fin qui Yhwh ci è venuto in aiuto). Samuele esercita per tutta la vita la funzione di giudice d’Israele e la trasmette ai figli Ioel e Abia. A Rama, ove costruisce un santuario, il popolo lo invita a nominare un re, ma egli ne è contrariato, perché – a suo avviso – la proposta potrebbe suonare offensiva nei confronti di Yhwh, che è il vero re d’Israele. Alla fine però cede alle insistenze del popolo e su indicazione divina sceglie come re Saul (= l’inviato), beniaminita, figlio di Kis. Saul, che in quel tempo era in cerca delle asine smarrite di suo padre, decide di rivolgersi al ‘veggente’ Samuele per averne notizie. «In quel tempo – scrive il redattore – si chiamava veggente chi oggi viene chiamato profeta»; il che significa che egli scrive a notevole distanza di tempo dal periodo della monarchia unita. Incontrato Saul, Samuele gli versa sul capo l’olio santo e pronuncia la formula: «Ecco Yhwh ti ha unto come principe della sua proprietà», la quale implica una subordinazione del potere politico a quello religioso. I diritti e i doveri del re vengono fissati per iscritto in un documento, deposto davanti a Yhwh. A conferma del fatto che è anch’egli un profeta su Saul irrompe lo spirito di Yhwh (spiegazione eziologica del detto «anche Saul è un profeta»). Il capitolo x cuce insieme due distinte versioni dell’unzione di Saul; infatti in x, 17-26, l’autore sembra ignorare che Saul era già stato unto e ripropone il problema della individuazione del re d’Israele. Nella seconda versione la scelta è affidata al sorteggio a discesa dalle tribù, ai clan, alle famiglie e ai singoli individui. Dopo aver provveduto alla loro convocazione a Mispa, il sorteggio favorisce Saul. Dopo la duplicazione dello scontro contro i filistei, Saul si prefigge di salvare Israele dalla minaccia degli ammoniti, guidati da Nacas. Forte di trecentomila uomini contro i trentamila ammoniti, Saul li sconfigge a Iades di Galaad e a Galgala è proclamato re dal popolo. Tuttavia Samuele, che di fatto è un profeta, ovvero è uno che parla a nome di Dio, briga contro la monarchia e la mette sotto accusa, dicendo che genera la prepotenza del re e l’oppressione del popolo e che sottrae a Yhwh le prerogative del potere e
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del governo. La sua proposta politica mira alla fondazione di una monarchia teocratica, in cui di fatto l’esercizio del potere passa attraverso il profeta e la classe sacerdotale: è Yhwh – egli dice – che ha scelto Saul ed è la voce di Yhwh che deve essere ascoltata: «Se non ascolterete la voce di Yhwh e vi ribellerete ai suoi comandi, la mano di Yhwh sarà contro di voi come lo fu contro i vostri padri». A conferma di ciò Samuele ricorda gli episodi della storia ebraica, in cui le vittorie e le sconfitte, l’abbondanza e la miseria, sono costantemente collegate rispettivamente all’osservanza o alla trasgressione dei precetti del Dio. I capitoli xiii e xiv ci danno una descrizione molto confusa dello scontro degli israeliti contro i filistei a Micmas. Saul e suo figlio Gionata in quello scontro si macchiano di alcuni delitti: Saul a Galgala osa attribuirsi funzioni sacerdotali e immola l’olocausto al Dio senza attendere l’arrivo di Samuele; Gionata e il suo esercito celebrano la vittoria, mangiando carne con il sangue. Nella battaglia contro gli amaleciti ad Avila il re non obbedisce all’ordine divino di sterminare «uomini, donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli ed asini»; non solo mantiene in vita il re Agar, ma consente al popolo di fare bottino di pecore e buoi, di animali grassi e di agnelli. Contro di lui esplode l’ira di Samuele, che decide di non vederlo più fino al giorno della sua morte e gli comunica che Yhwh, pentito di averlo costituito re d’Israele, gli ha strappato dalle mani il regno. Intanto Samuele briga contro Saul; Yhwh lo manda da Iesse il betlemita per scegliere un nuovo re. La scelta cade su Davide, il figlio più piccolo di Iesse. Samuele lo unge e subito lo spirito di Yhwh scende con potenza su di lui. Saul invece è tormentato da uno spirito maligno e Davide, che era stato appena presentato come pastore di greggi (1Sm, xvi, 11), diventa un salmista cortigiano ed allevia il dolore del re suonando la cetra. Nello stesso torno di tempo riprende il conflitto con i filistei accampati a Efes-Dammim, ove, nello scontro con il gigante Golia di Gat, alto circa tre metri, Davide dà prova della sua potenza e della sua destrezza. Diversa è la versione fornitaci dal 2Samuele, xxi, 19, ove Golia di Gat cade per mano di Elcanan, uno iairita di Betlemme, la cui asta «era come il subbio dei tessitori». A causa dei suoi successi militari Saul comincia ad invidiare Davide e tenta di intrappolarlo, offrendogli in moglie dapprima la figlia Merab, che però sposa Adriel di Mecola, poi la figlia Mikal in cambio di cento prepuzi di filistei (con il segreto intento di farlo cadere per mano dei filistei). Il capitolo xx ripete due volte l’episodio della cena sotto la luna nuova in cui Saul nota l’assenza di Davide e incarica Gionata di mettersi alle sue calcagna. Nel frat-
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tempo Davide si rifugia a Nob presso il sacerdote Abimelech e poi trova riparo nella grotta di Adullam. Avutane notizia, Saul scarica la sua vendetta contro Abimelech: lo convoca e lo consegna a Doeg l’idumeo, il quale lo uccide con altri 85 sacerdoti e passa a fil di spada Nob; dalla strage si salva solo Ebiatar, figlio di Achimelech. Davide si salva perché trova rifugio nel deserto del Maon, ove Saul lo raggiunge con l’intento di ucciderlo. Ma Davide, protetto da Yhwh, infligge un’ulteriore sconfitta ai filistei, si dà nuovamente alla clandestinità per non cadere vittima di Saul e trova riparo tra le balze di Engaddi nel deserto di Moan. Per catturarlo, Saul organizza un esercito di tremila uomini, ma è in realtà Davide che lo trova dormiente in una grotta e, pur potendo ucciderlo, gli salva la vita, gli strappa un lembo del mantello e il giorno dopo glielo mostra come segno della sua magnanimità. Saul riconoscente fa la pace con Davide e gli preannuncia che sarà il futuro re d’Israele (1Sm, xxiv, 1-23). L’episodio ha nel testo una seconda versione, riferita a Zif anziché al deserto di Maon, e riportata in 1Sm, xxvi, 1-25. Secondo tale versione Davide sottrae a Saul dormiente la lancia e la brocca e il giorno dopo gliele mostra, dicendogli di non aver voluto stendere la mano su un uomo consacrato a Yhwh. Morto Samuele a Rama, Davide chiede offerte di viveri a Nabal (= l’infame), il quale si predispone ad uno scontro armato. Lo salva la moglie Abigail, che, per evitare una strage, va incontro a Davide, consegnandogli pane, vino, pecore, grano e uva. Il giorno dopo Yhwh colpisce Nabal e lo fa morire. Davide sposa Abigail, sua terza moglie dopo Achinoam da Yzreel e Mikal, la figlia di Saul, che nel frattempo si ritrova ad essere moglie di Palti, figlio di Lais. Il capitolo xxvii ignora l’avvenuta riappacificazione tra i due sovrani e ci presenta Davide che, ancora in fuga, trova scampo nel paese dei filistei. Ospitato da Achis in Gat, non è accolto dai capi dei filistei, ma ottiene in dono la città di Ziklag, che «ancora oggi appartiene alla corona di Giuda». Egli rimane nel territorio dei filistei per un anno e quattro mesi, facendo razzie contro i ghersoniti, i ghirziti e gli amaleciti senza lasciare in vita né uomo né donna. Gli ultimi capitoli (xxviii--xxxi) mostrano i segni di interpolazioni: le pericopi xxviii, 3-25 interrompono bruscamente la narrazione dell’alleanza di Davide e di Achis, per riprendere il discorso dalla morte di Samuele e per introdurre l’episodio della negromante di Endor che predice a Saul la fine del suo casato. La narrazione riprende con la pericope xxix, 1-11. Non essendo ben visto dai capi filistei, Davide è costretto ad allontanarsi dal loro territorio. Nel frattempo gli amaleciti avevano compiuto incursioni nel Ne-
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gev ed avevano dato alle fiamme la città di Ziklag. Davide organizza una sorta di spedizione punitiva e con i suoi seicento uomini infligge loro una sonora sconfitta presso il torrente Besor, ove trovano scampo solo quattrocento uomini. Nel contempo a Gelboe gli israeliti sono sconfitti dai filistei; nella battaglia perdono la vita anche i figli di Saul, il quale, per non cadere per mano nemica, si dà la morte: «Saul – scrive l’autore – prese la spada e vi si gettò contro» (1Sm, xxxi, 4). Il 2 Samuele (2 Shmuel) si apre con un’altra versione della morte di Saul: un amalecita riferisce a Davide di aver ucciso Saul su sua richiesta nel campo di Gelboe. Davide ordina ad un servo di ammazzare l’oscuro amalecita e pronuncia un’elegia in onore di Saul e di Gionata, intitolata L’arco e scritta nel Libro del giusto. A Hebron Davide è proclamato re di Giuda. Di contro Abner, il capo dell’esercito di Saul, proclama re il figlio di Saul, Is-Baal, il quale conserva la carica per due anni. Da Hebron Davide governa Giuda per sette anni e sei mesi. Si produce così la prima scissione dei due regni di Israele (regno del Nord) e di Giuda (regno del Sud). La monarchia unitaria si salva a seguito di un fantasioso scontro a Gabaon: dodici giovani della tribù di Beniamino lottano contro dodici giovani della tribù di Davide. Ciascuno dei combattenti afferra la testa dell’avversario e gli conficca la lancia nel fianco; muoiono tutti insieme. Nel successivo scontro i seguaci di Davide sconfiggono Abner e Is-Baal ed uccidono 360 beniaminiti. Di conseguenza la casa di Davide si consolida e quella di Saul si indebolisce. Con l’assassinio di Abner e con la tragica fine di Is-Baal fu assicurata la riunificazione dei due regni. Davide aveva 30 anni quando fu proclamato re e governò 40 anni: 7 anni e sei mesi da Hebron su Giuda, e 33 anni da Gerusalemme su Giuda e Israele. Contro di lui i filistei ripresero la guerra, ma egli li sconfisse a Baal-Perazim (= signore delle brecce), ove essi abbandonarono i loro idoli. Conquistata Gerusalemme, Davide decise di trasferirvi l’arca di Dio da Baalà e dalla casa di Abinadab. A Nacon Uzzà, figlio di Abinabad, stese la mano sull’arca per impedire che cadesse. Subito si scatenò l’ira di Yhwh che lo colpì a morte. Per questa ragione quel luogo si chiamò Perez-Uzzà (= fece breccia su Uzzà). Dopo una sosta di tre mesi nella casa di Obed-Edom di Gat l’arca giunse a Gerusalemme. Natan profetizzò che non sarebbe stato Davide a costruire una casa per Yhwh, ma che al contrario sarebbe stato Yhwh a costruire un regno e una casa per Davide: «sarà suo figlio [Salomone] che costruirà il tempio». La profezia di Natan fu poi interpretata dai cristiani in riferimento a Cristo, ma il testo vii,
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8-16, non ha nulla a che vedere con la presunta discendenza di Cristo da Davide, poiché si riferisce chiaramente a Salomone, che farà erigere il tempio in Gerusalemme. Pseudo-storiche debbono ritenersi le conquiste di Davide, cioè le sue presunte vittorie contro i filistei, i moabiti, gli aramei e gli ammoniti. Davide non era uno stinco di santo, come dimostra l’episodio di Betsabea, figlia di Ammiel-Eliam e moglie di Uria l’hittita: egli la vede mentre faceva il bagno, se ne invaghisce e si unisce con lei. Poi per far morire Uria, chiede a Ioab di collocarlo in prima linea dove la battaglia infuria più intensamente. Morto Uria, Davide sposa Betsabea, ma la sua azione non piace a Yhwh, che decreta la morte prematura del primo figlio avuto da lei. Il secondo figlio fu Salomone, destinato da Dio a succedere al padre. Ma se Davide non era uno stinco di santo, non lo erano neppure i suoi figli Ammon e Assolonne. Ammon si macchiò di stupro e di incesto. Innamoratosi di sua sorella Tamar, la prese con violenza; poi ne ebbe repulsione e l’abbandonò. La vendicò suo fratello Assalonne, che diede ai suoi servi l’ordine di colpire Ammon quando «aveva il cuore allegro per il vino». Per sfuggire all’ira del padre, Assalonne fu costretto a fuggire. Con uno stratagemma Ioab, figlio di Zeruià, riuscì a ristabilire la pace tra Davide e Assolonne, al quale fu accordato il permesso di rientrare in Gerusalemme. Ma fu una pace di breve durata. Ben presto Assolonne riuscì a conquistare la fiducia e la stima degli israeliti del nord e a convincerli a schierarsi contro il regno di Giuda. Fattosi proclamare re in Hebron, diede il via al conflitto. Davide fu costretto ad abbandonare Gerusalemme, lasciando le concubine a custodia della reggia, e a riparare in qualche luogo sicuro; attraversato il Cedron, salì l’erta del Monte degli Ulivi, passò per Bacurim, superò il Giordano e Macanaim e si scontrò con l’esercito israelita nella foresta di Efraim. Fu una strage di ben 20.000 israeliti. Nella fuga Assalonne, che cavalcava sul dorso di un mulo, rimase impigliato tra i rami di una grande quercia. Lo raggiunsero Ioab e i suoi scudieri e lo finirono. Riconquistata l’unità della monarchia, Davide dovette affrontare la rivolta di Sebà il beniaminita, il quale incitò nuovamente gli israeliti a sottrarsi al predominio di Giuda. Di nuovo l’unità del regno è in pericolo. Davide chiede ad Amasà di radunare nel giro di tre giorni tutti i giudei; fallito Amasà, l’incarico passa ad Abisai al cui seguito si pone Ioab con i valorosi cretei e peletei. Essi raggiungono Amasà a Gabaon, ove Ioab, dandogli un bacio, gli squarcia il ventre con la sinistra. Poi Ioab e il suo esercito, giunti nella città di Abel di Bet-Maaca, la pongono sotto assedio. Per evita-
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re una inutile strage fratricida una donna chiede a Ioab di ritirare l’assedio in cambio della testa di Sebà. La testa viene gettata dalle mura e Ioab toglie l’assedio. I capitolo xxi-xxiv sono verosimilmente aggiunte posteriori. Mancano di continuità narrativa e sono evidentemente frammenti attinti da storie romanzate che sono andate perdute. Trattano di una carestia durata tre anni, della vendetta dei gabaoniti contro i discendenti di Saul, di ulteriori battaglie a Gob e a Gat contro i filistei, della sepoltura di Saul e di Gionata a Zela nel sepolcro di Kis, ed infine di un censimento del popolo ebraico, da cui Ioab, dopo nove mesi e venti giorni di lavoro, avrebbe ottenuto i seguenti risultati: Israele contava 800.000 guerrieri e Giuda 500.000. Ma Yhwh era in collera contro Davide e per punizione mandò una peste, provocando la perdita di 70.000 uomini. Su Gerusalemme stava per abbattersi una distruzione totale, quando Yhwh si pentì e fermò l’angelo demolitore presso l’aia di Araunà, il gebuseo, ove in memoria venne costruito un altare. Alcune di queste appendici contengono duplicazioni di episodi già narrati nel testo. 10.2. La svolta dei due Samuele La denominazione dei due libri è di origine talmudica e deriva dal fatto che secondo la tradizione ne sarebbe stato autore Samuele. Questa ipotesi è ovviamente insostenibile non solo perché nel testo (1Sm, xxv, 1) si narra la morte del profeta (cosa che accade, come sappiamo, anche per Mosè e per Giosuè), ma anche perché a lui è dedicato uno spazio limitato. Infatti Samuele compare solo nei primi 19 capitoli e nel ventottesimo del primo libro, il quale prosegue nella narrazione degli eventi successivi alla sua morte. L’ipotesi oggi più accreditata è che i due Samuele facciano parte del corpus della storia deuteronomista. Ma anche questa è una congettura che presenta qualche falla sia sotto il profilo stilistico, sia sotto quello ideologico. In entrambi i casi ci sono innegabili convergenze, ma anche altrettante innegabili divergenze. Non v’è dubbio che i sette libri che vanno dal Deuteronomio ai due Re sono accomunati da tratti stilistici condivisi, quali possono essere stilemi, costrutti, sintagmi, locuzioni che accompagnano tutta la grande epopea deuteronomista, ma è altrettanto indubbio che tali tratti non sembrano inquadrarsi in una identità di stile, perché da un testo all’altro sussiste una no-
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tevole varianza quanto meno sul piano della loro frequenza. In apparenza i libri citati appaiono forse più compatti sul fronte ideologico, che è poi quello tracciato dal Deuteronomio; ma anche su questa ipotesi sussistono dubbi e perplessità. I libri di Samuele e dei due Re sono documenti sadociti al contrario del Deuteronomio, che è invece un documento levita-non-aronnita. I sadociti esercitarono le funzioni religiose nel secondo tempio allorché si costituirono come ramo distinto dagli altri aronniti, probabilmente tra il v e il iv secolo e per questioni di prestigio proiettarono la loro origine al tempo della presunta monarchia davidica. Dopo l’estrema propaggine dei sadociti Onia III e Onia IV, al tempo dei Maccabei (167 a.C.), il sommo sacerdozio passò nelle mani degli asmonei.(2) Non si può dire che i due Samuele si inscrivano nella storia deuteronomista, perché a prescindere da dissonanze stilistiche, non presentano alcuna consonanza ideologico-concettuale con il Deuteronomio in particolare su temi come la responsabilità personale, le prospettive politiche di matrice settentrionale o meridionale, con lo slittamento della centralità del potere da Israele a Giuda, la concezione della divinità, che talvolta si carica di una forte componente combattiva e sterminatrice («le guerre di Yhwh» milhămōwt yhwh;(3) «Yhwh degli eserciti», ecc.), il taglio teologico, che oscilla tra il monolatrismo fanatico e intollerante e l’enoteismo ingenuo, la sopravvivenza di miti e culti di origine pre-yhawista (il culto delle alture, delle pietre, il dio della pioggia: «Yhwh manderà […] tuoni e pioggia», 1Sm, xii, 17). La realtà è che i libri della cosiddetta storia deuteronomista, sono meramente compilatori; sono documenti di diversa provenienza ricuciti insieme per affinità di contenuto fino a sfociare talvolta nella duplicazione di versioni degli stessi avvenimenti. Gli esegeti credenti, nel tentativo di salvare la storicità dei due Samuele, li ritengono fondati su dati d’archivio. Ma è ipotesi poco credibile, perché essi, come tutti i testi della storia primaria, mancano di dati cronologici sicuri. Nella loro narrazione, come abbiamo avuto modo di dire, le indicazioni temporali sono ballerine, sfumate, indeterminate. Perciò è assai più verosimile che essi contengano solo racconti popolari o, se si preferisce, versioni popolari e insieme religiose delle imprese epiche del popolo ebraico. Spesso si tratta di rac(2) Su Sadoc cfr. 2Sm, viii, 17; xv, 24, 36; xvii, 15-16; xviii, 19, 22, 27; xix, 11; xx, 25; 1Re, i, 26, 32-40, 44-45; ii, 35; cfr anche 1Chr, vi, 35, 38, 52-53; xii, 29; xv, 11; xvi, 39; xviii, 16; xxiv, 3, 6, 31; xxvii, 17; xxix, 22; 2Chr, xxxi, 10; Ezr, vii, 14; Ez, xl, 46; xliii, 19; xliv 15; xlviii, 11. (3) 1Sm, xviii, 17.
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conti eziologici, cioè di racconti nati per spiegare costumi, detti o proverbi popolari (es. «anche Saul tra i profeti», 1Sm, x, 12; xix, 24; «Saul ha battuto mille uomini, ma Davide ben diecimila»;(4) «dal malvagio proviene malvagità», 1Sm, xxiv, 14; «per questo si dice che né il cieco né lo zoppo entreranno nel tempio», 2Sm, v, 8), le origini di nomi di luoghi («rupe della separazione», Baal Perazim, Perez Uzza)(5) o di luoghi della memoria («la pietra dove era stata deposta l’arca di Yhwh», la tomba di Assolonne, che è di fattura ellenistica),(6) o le radici di talune ritualità («gli asdoditi non calpestano la soglia del tempio») o di tradizioni («in passato il profeta era chiamato veggente», 1Sm, v, 5; 1Sm, ix, 9) o di appartenenza territoriale («Ziklag appartiene alla corona di Giuda», 1Sm, xxvii, 6). I primi sette capitoli del 1Samuele sembrano essere un’appendice del libro dei Giudici. Vi si parla della giudicatura di Eli, durata quarant’anni (1Sm, iv, 19), e di Samuele, ambigua figura che sta a mezza strada tra l’eroe liberatore, il magistrato e il profeta. Sua madre Anna, nonostante ne avesse invocato la nascita a Yhwh, gli affida un nome con il teoforico Êl, che, come sappiamo, era certamente una divinità pre-yhawista, venerata nelle regioni settentrionali. Dalla stessa area geografica veniva Saul, beniaminita, figlio di Kis e nipote di Abiel. L’autore del 1Samuele lo tratteggia a tinte fosche: ce lo descrive come un profanatore delle funzioni sacerdotali, perché a Galgala si arrogò il diritto di immolare l’olocausto e, più tardi nella battaglia contro gli amaleciti, disobbedendo a Yhwh, risparmiò la vita ad Hagar e fece bottino del meglio degli animali. Saul pertanto perse il favore di Yhwh, che ormai pendeva per Davide, figlio di Iesse. Nel conflitto con Davide, Saul è moralmente riprovevole; compie l’uno dopo l’altro tentativi di assassinare il giovane re pastore, il quale al contrario lo risparmia dalla morte per ben due volte e, in obbedienza ai comandi divini, non osa stendere la sua mano su un uomo consacrato. È qui il messaggio del redattore del testo: la monarchia unitaria si salvò perché era nelle mani dei sovrani del Sud, i quali, a differenza di quelli del Nord, che spesso si prostrarono agli dèi stranieri, si mantennero fedeli a Yhwh. In altri termini egli parla non agli uomini del passato, ma a quelli del suo presente e fa capire loro che la sola speranza di salvezza sta nella fedeltà al culto monolatrico di Yhwh. Si tratta di un messaggio politico e teologico che non ha nulla di storico, come non ha (4) 1Sm, xviii, 7; xxi, 12; xxx, 5, (5) 1Sm, xxiii, 28; 2Sm, v, 20; vi, 8. (6) 1Sm, vi, 18; 2Sm, xviii, 18
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nulla di storico la straordinaria estensione territoriale del regno di Israele. Di certo v’è che il taglio della storiografia dei due Samuele è giudaita. Con essi emerge per la prima volta il tema del conflitto per l’egemonia tra Nord e Sud. Nei libri precedenti Israele(7) era ancora un’entità astratta, precedente la scissione tra Nord e Sud; era una identità per la verità immaginaria, leggendaria, pensata come la matrice identitaria delle popolazioni protagoniste della terza ondata migratoria nelle regioni montuose del Canaan. Dai due Samuele ai Re Israele non rappresenta più l’identità di tutta la popolazione stanziatasi negli altopiani palestinesi, ma rappresenta solo il popolo del Nord, che tuttavia ha una identità ormai fittizia, perché sopravvive solo nella memoria dei sopravvissuti, non ha più alcun riferimento territoriale e nella dispersione rischia di smarrire la propria fisionomia culturale e religiosa. Il mito dell’antico Israele e delle dodici tribù giacobite era servito a saldare e a cementare una unione che di fatto non c’era mai stata. Le vicende militari, che piegarono le sorti del Nord, distrussero quel mito, che pure aveva avuto la funzione di compattare gli interessi politici delle regioni montuose nella fase di instabile equilibrio dei grandi imperi. Quando quell’equilibrio si ruppe a vantaggio dell’impero assiro prima e di quello babilonese dopo, quel (7) È di particolare interesse l’indagine di L. Grappe, Israel’s Historical Reality after the Exile, in The Crisis of Israelite Religion: Transformation of Religious Tradition in Exilic and Post-exilic Times, Leiden, Brill, 1999, pp. 9-32, sull’uso del nome Israele, come endonimo del popolo ebraico. Egli rileva che l’autodesignazione Israele è frequente nell’AT ed anche in fonti esterne, come la stele di Merenptah, la citata iscrizione di Salmanassar III (ix secolo) in cui è menzionato Achab di Israele, l’iscrizione di Tel Dan e quella di Mesha. Se invece passiamo al periodo persiano e greco, le citazioni extrabibliche di Israele sono pochissime. Il nome non compare neppure nei papiri di Elefantina (v secolo) né nei papiri egiziani. Grappe fa notare che pressoché nessuno degli scrittori romani o greci menziona Israele fino a Pompeo Trogo, il quale rappresenta i giudei come provenienti da Damasco, un cui re si chiamava Israhel. In Grecia è indicata come israelita una comunità di Delos. In un’iscrizione del 200 a.C. si dice: «gli israeliti in Delos vennero a consacrare Argarizeim» (cioè il monte Garizim). Se volgiamo la nostra attenzione ai testi biblici, notiamo che il termine Israele indica nel Pentateuco e in Giosuè l’intero popolo ebraico, mentre a partire da Samuele designa il regno settentrionale. Con Ezra e Neemia esso si riferisce alle comunità di deportati rientrati nella Giudea. Per i profeti post-esilici sono Giudei anche gli israeliti. Per Tobia, che proviene dalla tribù settentrionale di Neftali, Israele è il popolo in esilio in Assiria, ma poi in xi, 8, egli parla di Giudei di Ninive. Il 1Maccabei usa prevalentemente Israele e limita l’uso di ‘giudei’ ai trattati e alle comunicazioni con gli stranieri. Il 2Maccabei invece usa prevalentemente il termine ‘giudei’. Con grande acume critico Grappe fa dipendere il culto samaritano di Yhwh, con forti propensioni sincretistiche, dalla tradizione giudaica.
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mito perse la sua funzione di saldatura. L’Intelligentsia del Nord poté sperare di conservare una funzione culturale nel minuscolo stato del Sud. Ma fu vana speranza. Quando il regno del Sud patì la medesima sorte ad opera della potenza babilonese e quando l’orizzonte si fece ancora più scuro ed incerto per l’emergenza di nuove potenze (persiani, macedoni, romani) al popolo di Giuda non restò che fantasticare su un passato glorioso che per la verità non era mai stato così glorioso come si delineò nella memoria collettiva. La storia primaria è in realtà una storia consolatoria, un mito gravido di grandi speranze, una costruzione in equilibrio instabile tra un passato di grandezza sognata ed un futuro dai contorni sempre più nebulosi. In questa situazione politica, sociale, psicologica nasce la storia primaria. Possiamo dividerla in due grandi filoni: il primo di carattere prevalentemente mitologico, di idealizzazione del passato, intessuto di memorie popolari e di leggende al cui centro ci sono l’identità astratta dell’antico Israele e la storia unitaria delle dodici (numero simbolico) tribù giacobite. È la storia narrata nella Genesi, nell’Esodo, nei Numeri, in Giosuè e nei Giudici, cui forse bisogna aggiungere i primi sette capitoli del 1Samuele. Essa fu compilata verosimilmente nel periodo esilico ed aveva l’obiettivo politico di rivendicare l’eredità, divinamente garantita, della terra del Canaan, sottratta agli ebrei dalle potenze assira e babilonese. È la fase in cui nella comune disgrazia le due componenti, meridionale e settentrionale, condividono la stessa sorte e si sentono affratellate da un comune destino. Gli autori dei libri citati condividono il medesimo progetto organico di una storia primaria che doveva avere il duplice scopo di dare un’identità culturale al popolo di Israele e di rivendicare il diritto al possesso delle terre sottratte. Le divergenze marginali sono occultate nel contesto della narrazione e spiegano l’esistenza dei molteplici duplicati e le incongruenze che altrimenti risulterebbero incomprensibili se fossero uscite dalla mente di un solo scrittore. Probabilmente il materiale originario era di provenienza settentrionale, ma ad esso si sovrappose la componente meridionale che da poco aveva scoperto le potenzialità dello yhawismo. Allo luce dello yhawismo tutta la storia primaria si configura come una storia della salvezza o di liberazione. Lo schema ideologico è etico-politico ed ha la sua potenza esplicativa nella sistematica riproduzione di un ciclo: la caduta nel peccato, la punizione divina, il pentimento, l’assoluzione. L’insistenza ossessiva su tale ciclicità quasi meccanica è dovuta al fatto che in essa sono racchiuse tutte le speranze di riscatto e di liberazione di un popolo trafitto nel suo orgoglio. In tutta questa pri-
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ma narrazione storica non c’è alcuna contrapposizione tra teologia del patto e teologia della promessa; la promessa e il patto sono due facce della stessa medaglia; l’una presuppone l’altro e viceversa. Non sono bandiere ideologiche del Nord e del Sud, anche perché, almeno in questa prima fase, le due componenti sono fortemente intrecciate tra loro nel perseguimento del comune obiettivo e il maggior peso della componente giudaita è solo dovuto al fatto che è quella che conta la maggior parte dei sopravvissuti. Allo stesso modo non c’è una matrice yhawista ed una elohista, se non nella Genesi, che fonda le radici di Israele nella remota età patriarcale. Nella generalità dei casi ‘êlōhîm ed ‘ĕlōhê sono nomi comuni della divinità, Yhwh ne è il nome proprio ed ‘êl appare talvolta una sopravvivenza di un culto più antico. Non v’è una storia deuteronomista, né una scuola deuteronomista. Il Deuteronomio e il Levitico sono due documenti parentetici che interrompono il filo logico della narrazione pentateucale. Come la chiusura dell’Esodo ha la sua naturale prosecuzione nell’incipit di Numeri, così l’epilogo di Numeri ha il suo naturale sbocco nell’esordio di Giosuè. Il Levitico e il Deuteronomio sono testi di età posteriore. Il secondo filone della storia primaria è in parte mitologico, in parte più prettamente storico. La parte mitologica è contenuta per lo più nei due Samuele e nel 1Re; quella di carattere tendenzialmente storico è trattata nel 2Re. Con essa possiamo dire concluso l’idillio dell’unità Nord-Sud e della identità etnica di Israele. Nella fase post-esilica gli interessi di Israele e di Giuda ricominciano a divergere; entrambi aspirano a ricostruire il proprio regno; risorgono gli antichi atavici conflitti, che il primo filone storiografico aveva tenuto in ombra. La frattura diventa inevitabile e non sarà mai più sanata. Fortemente preoccupato per questa situazione, l’autore del Deuteronomio decide di riscrivere l’Esodo, imitandone in parte lo stile, e di tentare, tra mille contraddizioni, di conciliare le opposte istanze dei due ex-regni. Il suo tentativo andrà incontro ad un inventabile fallimento, ma il suo testo rimarrà come pietra miliare e come punto di riferimento per tutta la successiva produzione profetica. Che cosa contiene di storico questo secondo filone? Quasi solo ciò che è riscontrabile nelle fonti esterne. Dalla Cronaca Babilonese sappiamo che nel 597, settimo anno di Yoyaqin, Nebuchadnezzar strinse d’assedio Gerusalemme. Un’iscrizione assira di Esarhaddon del 674 attesta che Manasse era tributario dell’Assiria. Un ulteriore tributo da parte di Achaz all’Assiria è ricordato in un’iscrizione di Tiglat Pileser III del 734. Gli annali di Sennache-
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rib registrano per l’anno 701 l’attacco assiro contro Gerusalemme sotto il regno di Ezechia. È altresì confermato l’attacco di Sheshonq(8) nel quinto anno di Roboamo (925). Se però tentiamo di risalire oltre Roboamo il quadro storico – sottolineano Finkelstein e Silberman(9) – si fa incerto e magmatico. Nessuna fonte extrabiblica ci parla di Davide e di Salomone. La cronologia dei loro regni ha tutto il sapore di essere ispirata a formule precostituite (40 anni) e a simbolismi cabalistici. Nei testi di Samuele ci vien detto che Davide e Salomone regnarono ciascuno per 40 anni; di fatto ignoriamo quale fu la reale durata dei loro regni e quale la loro collocazione storica. È noto che l’età del Tardo Bronzo (1550-1150) produsse la disintegrazione della civiltà dei grandi palazzi e condusse alla formazione di città-stato indipendenti nella zona costiera sotto l’influenza dei Fenici e dei Filistei. D’altra parte – rilevano Finkelstein e Silberman – molti degli episodi relativi a Davide e Salomone sono puramente immaginari. L’archeologia mostra che non ci fu nessuna monarchia unificata: «la Gerusalemme di Salomone non fu né estesa, né sontuosa, ma fu piuttosto la roccaforte di una modesta dinastia di una tribù rustica […]. La loro storia […] contiene una complessa stratigrafia di racconti popolari, ballate e narrative drammatiche». 10.3. Nascita e morte del regno d’Israele e del regno di Giuda I Libri dei Re ( ספר מלכיםsefer melachim), scritti presumibilmente intorno al v-iv secolo, ci presentano i due regni d’Israele (Nord) e Giuda (Sud) in progressiva decadenza politica e religiosa. Lo scopo del loro redattore è forse quello di giustificare come sia stato possibile che i due regni, fondati sulla base della promessa fatta da Yhwh ai patriarchi, siano stati devastati da popoli pagani. L’elementare teologia degli ebrei che si fondava sul Dio del terrore e sterminatore non regge. Il Dio, che ha manifestato una potenza iperbolica in Egitto, non ha protetto il proprio popolo e si è rivelato più debole degli dèi avversi. Il 1Re ha lo stesso carattere romanzesco e leggendario del Pentateuco, del (8) Sulla campagna di Sheshonq v. A. Faltalkin - I. Finkelstein, The Sheshonq I Campaign and th 8th Century BCE Earthquake – More on the Archaelogy and the History of the South in the Iron I-IIA, «Tel Aviv», xxxiii, 2006, pp. 18-42. (9) I. Finkelstein - N. A. Silberman, David and Salommon: in Search of the Bible’s Sacred Kings and the Roots of the Western Tradition, New York, Free Press, 2006, pp. 71-74.
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Libro di Giosué dei Giudici e dei due Samuele. Parte dagli ultimi anni di vita di Davide ed entra nel vivo del conflitto per la successione tra i due suoi figli, Adonia e Salomone. A favore di Adonia brigano Ioab e il sacerdote Ebiatar; contro di lui, a vantaggio di Salomone, si schierano Sadoc e il profeta Natan. Davide designa come suo successore Salomone, figlio di Betsabea, il quale è unto da Sadoc in Ghicon. Adonia è atterrito, ma Salomone gli promette di salvargli la vita. Quando però Adonia si rifiuta di concedergli per moglie Abisag, la sunamita che riscaldò Davide nei suoi ultimi giorni di vita, va su tutte le furie e invia Benaià con il compito di uccidere lui, Ioab e Simei. Liberatosi del temibile avversario, per garantire la stabilità del regno, Salomone ricorre alla politica matrimoniale e sposa la figlia del faraone (inidentificato). Famoso per la sua iperbolica saggezza («più grande della sapienza di tutti i figli dell’oriente e di tutta la sapienza dell’Egitto»), stimata da tutti i popoli, a Salomone vengono ascritti 3.000 proverbi e 1.005 liriche. Il leggendario racconto delle due prostitute che rivendicano la maternità sullo stesso neonato è ricordato come esempio della sua esaltata sapienza. Alla minuziosa descrizione della costruzione del tempio sono dedicati i capitoli v-vii, con non poca esagerazione sulla magnificenza e sulla sontuosità dello stesso. Concepito come «la sede ove Yhwh possa abitare per sempre», la costruzione del tempio sarebbe durata sette anni: avrebbe avuto inizio nel 480 dall’esodo, nel quarto anno di regno di Salomone (966 ?), nel mese di ziv (secondo mese) e si sarebbe conclusa nell’undicesimo anno (959) nel mese di bul (ottavo mese). Ho usato il condizionale perché la cronologia indicata è da ritenersi del tutto fantasiosa. L’alleanza con Hiram, re di Tiro (personaggio immaginario e non altrimenti noto), avrebbe garantito la fornitura di legno del Libano. Salomone avrebbe messo a lavoro 30.000 uomini, li avrebbe inviati in Libano a turni di 10.000 al mese; si sarebbe attrezzato di 70.000 portatori di carichi e di 80.000 cavatori di pietre. Non meno fastosa sarebbe stata la sua reggia, costruita in 13 anni. Iperbolica è anche la presunta estensione della monarchia: Salomone avrebbe governato su tutti i re dal fiume Giordano alla terra dei filistei fino al confine con l’Egitto, su tutto il territorio di là dal fiume, da Tifsach, sull’Eufrate, fino a Gaza (le indicazioni geografiche sono imprecise e comunque poco convincenti). Dalle fonti extra-bibliche non si ha notizia di una così potente monarchia ebraica. Poiché al tempo in cui scrive l’autore, il santuario era già stato distrutto, l’autore dei Re ce lo descrive, avendo probabilmente in mente i templi fenici, cananei, egizi, assiro-babilonesi e persino persiani. Esso misurava sessan-
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ta cubiti di lunghezza, venti di larghezza, trenta di altezza; il vestibolo anteriore = ulam ( )אלםaveva la stessa larghezza, lunghezza di venti cubiti e dieci di altezza. Intorno al tempio, e addossate ad esso, vi erano stanze su tre piani: quelle inferiori larghe cinque cubiti, le medie sei cubiti e le superiori sette cubiti. Dal vestibolo si accedeva alla parte centrale del tempio detta Santo = hekal ()הכל, ove erano sistemati l’altare dei sacrifici (altare di bronzo), quello degli incensi (altare d’oro) e la tavola dei pani. La parte più interna del tempio, rialzata, era il Sancta sanctorum = debir ( )דבירa forma di un cubo di venti cubiti per lato, in cui era custodita l’arca con le tavole della legge. In essa accedeva solo il sommo sacerdote e solo una volta l’anno. All’ingresso del vestibolo insistevano due colonne di bronzo con capitelli su cui erano scolpite le parole Iachin (= fondamento), a destra, e Boaz (= forza), a sinistra. Nell’atrio antistante si trovava il «mare di metallo fuso» = hayyam musaq ()הים מועק per le abluzioni e dei bacini più piccoli per il lavaggio delle vittime. Tutte le misure fornite dal 1Re sono in contraddizione con quelle suggerite dal Cronista (2Chr,capitoli ii-iv). Altrettanto inverosimili sarebbero state le quantità di oro e di argento che sarebbero state messe a disposizione a tonnellate per il tempio e per i suoi arredi. Non è neppure il caso di vagliare la veridicità della narrazione biblica, dal momento che dagli scavi archeologici non sono emerse tracce né del tempio, né dei relativi arredi. La dedicazione del tempio fu celebrata con una festa solenne nel mese di etanim (settimo mese), cioè nel capodanno autunnale. Nello stesso mese Salomone fece trasferire nel Sancta Sanctorum l’arca dalla città di Davide, cioè da Sion (ma sembra che l’autore non si renda conto che Sion è parte di Gerusalemme). Nella preghiera di ringraziamento Salomone accenna alla cattività babilonese e al rientro in patria, segno evidente che il testo fu scritto non prima del quinto secolo. Oltre il tempio e la reggia, Salomone costruì il Millo, cioè una sorta di terrazzamento fortificato, le mura di Gerusalemme e tre città, Cazor, Meghiddo e Gezer. Il faraone distrusse Gezer con il fuoco, uccise tutti i cananei che l’abitavano e la consegnò alla figlia, sposa di Salomone, il quale costruì Bet-Oron inferiore. Gli amorrei, gli hittiti, i perizziti, gli evei, i gebusei furono addetti ai lavori forzati «fino a questo giorno». Infine Salomone costruì una flotta in Ezión-geber, presso Elat (od: Aqaba), sulla spiaggia del Mar Rosso, nel paese di Edom. Mossa dalla fama della sua sapienza, la leggendaria regina di Saba(10) volle fargli visita per son(10) Ogni tentativo di identificarla con una regina sabea o etiope non ha il minimo supporto documentario.
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dare la sua sapienza con enigmi, ai quali Salomone rispose con prontezza. Oltre la figlia del faraone, Salomone sposò 700 mogli straniere (moabite, ammonite, idumee, sidonie, hittite) e contò nel suo harem trecento concubine. Esse fecero oscillare il cuore di Salomone e lo indussero ad adorare divinità straniere (com’è credibile che colui che aveva edificato un sontuoso tempio a Yhwh abbia potuto adorare divinità straniere?). Secondo il racconto biblico egli venerò Astarte, divinità dei sidoni, e Milcom, abominio degli ammoniti; costruì un tempio per Kemosh, abominio di Moab, e per Milcom. L’ira di Yhwh gli suscitò contro due nemici: Adad, re di Edom e l’arameo Rezon, re di Damasco. Del primo sappiamo ben poco. Dalla lista lasciataci in Gn, xxxvi, 31-39, arguiamo che la carica regale doveva essere in Edom elettiva, perché tra i sovrani citati non ci sono vincoli di parentela. In essa figura un Adad, ma non possiamo trarne alcuna conclusione, perché gli otto sovrani nominati sono tutti precedenti la monarchia israelita. Non è tuttavia escluso che, andando incontro ad un anacronismo, l’autore di Re identifichi il re idumita con l’Adad annoverato nella liste di Genesi, ove ci vien detto che Adad sconfisse i madianiti nelle steppe di Moab e forse non a caso il 1Re lo fa partire da Madian per trovare rifugio presso il Faraone che lo accoglie amichevolmente e gli dà in moglie la sorella della regina Tacpenes o Tapanes o Tafni, non altrimenti nota. Non meno problematico è il caso dell’arameo Rezon che sarebbe fuggito da Hadad’ezer, re di Soba ed avrebbe governato su Damasco in ostilità con Salomone. Anche di Rezon non abbiamo notizie esterne al testo biblico e per di più i dati archeologici non ne confermano la versione. Se poi lo si identifica, come qualche studioso ha tentato di fare con Hezion, si cade ancora una volta in un anacronismo, perché saremmo ricondotti al tempo di Asa (911-870), ben lontano dall’età salomonica. Intanto Salomone, per essersi prostrato a divinità straniere, come Astarte, Kemosh e Milcom, perde il favore di Yhwh, che decide di sostituirlo con Geroboamo, figlio di Nebat, l’efraimita, e di Zeruà. L’operazione si concretizza attraverso il profeta Achia di Silo, il quale, incontrato Geroboamo, gli strappa la veste in dieci pezzi e glieli restituisce. Nella simbologia israelitica il gesto significa che al Nord si perdono le dieci tribù e che al Sud resto solo quella di Davide, legata al regno di Giuda. Achia cioè profetizza la separazione dei due regni del Nord e del Sud. Salomone tenta di uccidere Geroboamo, ma questi fugge in Egitto, da Sisach, verosimilmente Sheshonq I (945-924) della xxii dinastia. Salomone regnò su Israele per 40 anni; fu se-
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polto nella città di Davide e sul regno di Giuda governò suo figlio Roboamo (930-913). Non sappiamo chi sia questo profeta Achia che ci è noto solo attraverso i due libri dei Re. Si potrebbe forse dire che a partire dal capitolo xiv del 1Re si passa dalla leggenda alla storia, ma in realtà occorre procedere con cautela perché gli ultimi nove capitoli del 1Re e tutto il 2Re si muovono su un terreno argilloso, dove la storia è ancora fortemente intrecciata con il mito, con la leggenda e con le istanze teologiche. Benché siano citate con frequenza, le Cronache dei re di Israele e le Cronache dei re di Giuda non si possono considerare vere e proprie fonti archivistiche, perché sono zeppe di imprecisioni e di incongruenze. Tra l’altro è assai poco verosimile che gli archivi di un regno potessero essere condizionati dal sincronismo con la cronologia di un altro regno. È evidente che l’autore non ha interessi storici ed ha solo l’intento di rafforzare il culto yhawista mostrando, sulla base della dottrina della retribuzione, come l’inosservanza dei precetti e dei comandamenti di Yhwh e il cedimento ai culti cananaici conduca alla rovina d’Israele. Non c’è in lui un vero e proprio interesse storico; non c’è una valutazione dei fatti, ma solo un giudizio etico sull’operato dei singoli sovrani, i quali sono approvati o condannati sulla base della loro fedeltà o della loro disobbedienza a Yhwh. Le valutazioni sono per altro espresse secondo formule standardizzate, per cui di ciascun re si dice che ha fatto «ciò che è bene agli occhi di Yhwh» o «ciò che è male agli occhi di Yhwh»; l’operato di ciascuno è valutato nel confronto con figure negative, come Geroboamo, Roboamo, Abiyam, Manasse, ecc., o positive, come Davide, Asa, Ezechia, Giosia, ecc. La condanna colpisce indiscriminatamente tutti i sovrani del Nord; tutti hanno operato il male, perché hanno seguito il baalismo cananeo, che probabilmente era la loro religione originaria. Alternante invece risulta il giudizio sui sovrani del regno del Sud; alcuni sono condannati per aver ceduto ai culti stranieri, altri sono esaltati per aver tenuto fede al culto yhawista che evidentemente incontrava solide resistenze popolari, perché imposto dalla classe sacerdotale in opposizione ai culti tradizionali. Il giudizio positivo cade su Asa, Yoas, Amazia, Azaria, ecc., ma in realtà il vero fondatore dello yhawismo fu forse Ezechia o più verosimilmente Giosia. In generale emerge che i due regni del Nord e del Sud erano di fatto realtà politiche modeste, in perenne conflitto con i popoli viciniori, come gli aramei, i filistei, i moabiti e gli ammoniti. Erano due minuscoli staterelli schiacciati soprattutto dai grandi imperi mediorientali o da popoli più potenti: a sud dall’Egitto, a nord dall’Assiria, a est dalla Grande Babilonia e a
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ovest dai filistei. In una realtà geopolitica così complessa, si può arguire che Giuda e Israele abbiano condotto una vita stentata, giocando la partita delle alleanze con l’una o con l’altra delle potenze in campo. Si trattò di una politica pericolosa se si pensa che quei grandi imperi erano tra loro in conflitto e probabilmente consideravano le due realtà ebraiche come due stati cuscinetto per evitare il confronto diretto sui loro confini. Sicché la politica delle alleanze sfociava inevitabilmente nel vassallaggio ora verso l’una, ora verso l’altra potenza, fino a che gli ondeggiamenti delle alleanze non provocarono la reazione più dura che condusse al totale sradicamento del regno del Nord (721) ad opera degli assiri e alla occupazione di Gerusalemme, accompagnata dalla distruzione del tempio (585), da parte dei babilonesi. Questo è sostanzialmente il quadro storico che emerge e che è chiaro nella misura in cui se ne inquadra la cornice di ordine generale. Ma nel momento in cui si scende nei dettagli, tutto diventa più sfumato, più incerto, più insicuro. Tale è il caso della cronologia dei due regni, sia nel loro reciproco rapporto, sia nel rapporto cronologico con la storia esterna dei tre grandi imperi. Il sistema di datazione adottato dal Libro dei Re è molto approssimativo e si fonda sulla durata del regno dei singoli sovrani a partire dalla morte di Salomone. Si tratta di un sistema di datazione intrecciata e sincronica, perché mette in correlazione le due cronologie del nord e del sud con la formula: «nell’anno x di Y Caio diventò re di Israele (o di Giuda)». In altri termini l’inizio del regno di ciascun sovrano d’Israele è correlato ad un determinato anno di un determinato re di Giuda e viceversa. Sfortunatamente tali correlazioni e le stesse cronologie appaiono scarsamente credibili, anzi spesso sono contraddittorie. Se assumiamo come punto di partenza il 930, presumibile data della morte di Salomone, che, come sappiamo, appartiene alla leggenda, sommando le durate dei regni dei singoli sovrani, giungiamo a risultati che vanno ben oltre la distruzione di ciascuno dei due regni. Per il regno del Nord da Geroboamo ad Osea il totale è di 251 anni, sicché dal 930 si giunge al 679, che va ben oltre il 721, che segnò la distruzione di Samaria; per il regno del sud il totale ci dà 394 anni, che ci conducono al 536, ben oltre la presa di Gerusalemme. Di conseguenza le cronologie dei regni, israelita e giudaita, presenterebbero un incolmabile sfasatura con quella dei sovrani stranieri. Ciò nonostante taluni esegeti di matrice confessionale hanno fatto salti mortali per salvare la veridicità del racconto biblico. Tale è il caso di E. R. Thiele che ritiene attendibile la cronologia dei due Libri dei Re e risolve
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le contraddizioni interne al testo nei modi seguenti: 1) ammette che ci siano co-reggenze tanto in Giuda quanto in Israele; 2) suppone che a volte gli anni di regno siano conteggiati dal giorno dell’incoronazione durante la vita del padre; e altre volte che siano computati dall’inizio del regno come sovrano indipendente; 3) ipotizza che ci sia una differenza di mezzo anno tra il calendario giudaita e quello israelita, stabilendo che per il regno del Nord l’anno iniziava il 1° di nisan e per quello del Sud il 1° di tishri; 4) è convinto che in taluni casi l’inizio del regno era stabilito sulla base del calendario giudaita e in altri sulla base di quello israelita; 5) suppone che il sistema di conteggio nei due regni non fosse costante, ma cambiasse frequentemente. A suo avviso, infatti, il sistema israelitico si basò sul metodo dell’antedatazione fino al tempo di Yoas e poi su quello della postdatazione; di contro in Giudea il metodo della postdatazione fu in uso fino al tempo di Yoram e quello di antedatazione da Yoram ad Amazia; poi di nuovo prevalse la postdatazione da Amazia alla fine del primo tempio. Le obiezioni alle congetture di Thiele sono numerose e si possono così riassumere: 1) nei Libri dei Re non troviamo nessuna esplicita traccia di co-reggenze; si può tutt’al più pensare a qualche reggenza nel caso in cui il neo-sovrano non era in età di poter governare; 2) non abbiamo notizie di incoronazioni durante la vita del padre; 3) la differenza di mezzo anno tra i due calendari giudaico e israelitico non può aver comportato la cospicua dilatazione del tempo che si è sopra segnalata; 4) non è accettabile l’ipotesi secondo cui il calendario subisse frequenti mutazioni nell’arco di pochi anni; 5) talune valutazioni di Thiele,(11) come la determinazione della data di morte di Menahem al 742, sono in conflitto con quanto ci viene trasmesso dalle iscrizioni assire. Ne consegue che le sue ipotesi non sono altro che congetture di comodo congegnate al solo fine di far quadrare dati che di per sé non sono compatibili. Con altrettanta arbitrarietà Albright,(12) per far quadrare il cerchio, accorcia la durata dei regni di alcuni sovrani come Roboamo, Azaria, Manasse, Amazia, ecc., e dà il suo totale assenso alla cronologia delle Cronache, che, per essere più tardiva, è ancor meno attendibile. La scoperta della stele di Tell al-Rimah, lo ha costretto a rivedere gran parte della cronologia da lui in precedenza ipotizzata. (11) E. R. Thiele, The Misterious Numbers of the Hebrew Kingd. A Reconstruction of the Chronology of the Kingdoms of Israel and Judah, Chicago, University Press, 1951. (12) W. F. Albright, New Light from Egypt on the Chronology and History of Israel and Judah, cit., pp. 4-11.
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Gershon Galil e Edward Lipiński(13) hanno fatto osservare che almeno trenta dati cronologici dei Libri dei Re possono essere confrontati con le iscrizioni assire non senza rilevare che tra le fonti ci sono insanabili contraddizioni. I due studiosi ci forniscono i seguenti esempi: se Yoram di Israele e Azaria di Giuda muoiono durante la rivolta di Yehu, se ne dovrebbe dedurre che dalla incoronazione di Geroboamo alla loro morte dovrebbero essere passati gli stessi anni; invece gli anni sono 115 per il regno del Nord e 96 per Giuda. Analogamente tra la data dello scisma e la morte di Achab gli anni trascorsi sono 101 per Israele e per Giuda 112. Ancora: si dice che l’incoronazione di Omri avvenne nel trentunesimo anno di Asa (880), ma altrove si dice che essa avvenne durante la campagna di Gibbethon, nel ventisettesimo anno di Asa (883-884), in cui Nadad fu ucciso da Baasa nel terzo anno di Asa (908-907). Ci sono poi contraddizioni tra Cronache e Re: se Asa fu incoronato dopo la morte del padre Abiyam (910) nel ventesimo anno di Geroboamo e se Abiyam fu incoronato nel diciottesimo anno di Geroboamo I (912), com’è possibile che Geroboamo sia morto al tempo di Abiyam? (2Chr, xiii, 20). Se Baasa morì il ventiseiesimo anno di Asa (885), come poté combattere contro Giuda nel trentaseiesimo anno (cfr. 2Chr, xvi, 1) di Asa (875)? L’iscrizione assira di Salmanassar III (858-824), datata al diciottesimo anno del suo regno (841), nella quale Yehu è dichiarato tributario, si è rivelata di assai difficile interpretazione. Ha tentato di scioglierne i nodi più intricati P. Kyle McCarter,(14) il quale, anziché leggere Yehu, legge Yaw come hypocoristikon di Yoram, figlio di Achab. Ma si tratta di ipotesi che va incontro a numerose incongruenze. Contraddittori sono infine i dati forniti dal 2Rg circa l’inizio del regno di Azaria, fissato ora nell’undicesimo anno (841), ora nel dodicesimo di Yoram d’Israele (840).(15) Contraddittori sono anche i dati cronologici relativi all’incoronazione dei due Yoram: Yoram d’Israele sarebbe stato incoronato nel secondo anno di Yoram di Giuda (846) e nel diciottesimo di Yosafat (852);(16) Yoram di Giuda sarebbe stato incoronato nel quinto anno di Yoram d’Israele (848). Come si vede sono cronologie difficilmente armonizzabili. Tra regno del Nord e regno del Sud non corse mai buon sangue; l’un (13) G. Galil, The Chronology of the Kings of Israel and Judah, Leiden, Brill, 1996; E. Lipiński, Studies in Aramaic Inscription and Onomastics, Leuven, Peeters, 2016. (14) P. K. McCarter, Yaw, Son of Omri, a Philological Note on Israelite Chronology, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», ccxvi, 1974, pp. 5-7. (15) 2Re, ix, 29; viii, 25 (16) 2 Re, i, 17; iii, 1.
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contro l’altro armati condussero per poco più di due secoli un’aspra guerra fratricida. Lo scontro partì dai due immediati successori di Salomone, Roboamo e Geroboamo. Roboamo allestì un esercito di 280.000 guerrieri, pronto a sterminare Israele; lo sconsigliò Yhwh che lo convinse a rientrare in Gerusalemme. Ma non si comprende come possa aver avuto presa su di lui Yhwh, dal momento che non praticava lo yhawismo; fece infatti costruire «alture, colonne e pali sacri» ed accolse nel suo paese «prostituti sacri». Lo scontro armato tra i due regni proseguì con Asa, fedele a Yhwh, e Baasa, fautore del baalismo. La successione di Asa ad Abiyam presuppone un grave incesto, perché Abiyam era figlio di Roboamo e di Maaca, figlia di Assalonne; anche Asa era figlio di Abiyam e di Maaca, figlia di Assalonne; sicché Maaca si trovava ad essere nel contempo nonna e madre di Asa, con la conseguenza che Abiyam si sarebbe unito a sua madre. Asa si comportò come Davide: eliminò i prostituti sacri, rimosse tutti gli idoli, tolse alla madre il titolo di regina, rea di aver sacrificato ad Asherah e riportò nel tempio i tesori consacrati. La fortuna non gli fu propizia, perché, assediato da Baasa, fu sconfitto e fu costretto a consegnare i tesori del tempio a Ben-Hadad I (900-875), re di Aram-Damasco, figlio di Tabrimmon (1Re, xv, 18). Sotto Achab (874-853), Ben-Hadad II (Hadad-ezer) di Aram-Damasco (875-845) assediò Samaria (1Re,xx, 1-34), ma fu sconfitto dagli israeliti ad Afek e fu costretto a restituire al regno d’Israele le città che suo padre, Ben Hadad I gli avava sottratto. Non sappiamo fino a che punto è veritiera la versione fornita dal testo biblico. Di certo v’è che è ancor meno credibile l’ulteriore vittoria sugli aramei narrata in 2Re, vi, 24 – viii, 15, inquadrata nel ciclo di Eliseo. Il passo 2Re, viii, 7-15, è molto confuso, perché non è ben chiaro quale sia il rapporto di parentela tra Ben Hadad e Hazael; infatti per un verso si dice che Hazael è figlio di Ben Hadad (e quindi di Ben Hadad II), per un altro verso si dice che è padre di Ben Hadad (quindi di Ben Hadad III, 800-780). Dalle fonti assire sappiamo che nell’854 l’assedio non venne dagli aramei ma dagli assiri di Salmanassar III (858-824) e che l’anno successivo Achab subì la sconfitta di Karkar (853) in cui il sovrano assiro ebbe ragione della insolita coalizione di Hadad’ezer tra Damasco e il re d’Israele. Nel monolito di Kurkh Salmanassar III ci ha lasciato memoria dei dodici regni (ma in realtà undici) da lui sconfitti nella battaglia. Analogo il caso del conflitto contro i moabiti, auspice il profeta Eliseo. Questi, secondo il Libro dei Re, aiutò Yoram (834-822), re d’Israele, a sterminare i moabiti, inducendo Mesha, loro re, a sacrificare suo figlio primo-
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genito sulle mura. In proposito abbiamo un riscontro esterno nella stele di Mesha, re di Moab, citato in 2Re, iii, 4: da essa sappiamo che dopo una sconfitta subita da parte degli israeliti con la perdita del controllo su alcune città, i moabiti sotto la guida di Mesha recuperarono le loro terre ed infersero al regno del Nord una dura battuta d’arresto. La stele fa riferimento alla «casa di Omri», che, come sappiamo, avrebbe regnato tra l’885 e l’874. Ma è più verosimile che la sconfitta israelitica risalga alla seconda metà del nono secolo anziché alla prima. Secondo la versione biblica Yehu fu di una crudeltà inaudita; uccise Yoram, fece strage di 42 fratelli di Azaria, diede in pasto ai cani la regina Gezabel e massacrò 70 figli di Achab. A Samaria fece sterminare tutti i profeti, i sacerdoti e gli adoratori di Baal, mentre offrivano al dio l’olocausto; fece bruciare il palo sacro del tempio di Baal, demolì il tempio e lo ridusse a latrina «com’è fino ad oggi». Ma dopo aver estirpato Baal da Israele, Yehu non si premurò di camminare secondo la legge di Yhwh e si diede al culto dei vitelli d’oro di Betel e di Dan. Sotto Yoas di Giuda abbiamo un esempio dello scontro sotterraneo tra il potere sovrano e quello sacerdotale. Ci vien detto infatti che il tempio di Gerusalemme necessitava di riparazioni; Yoas rifornì di danaro i sacerdoti affinché lo riparassero, ma, non essendo stato ancora riparato nel 23mo anno del suo regno (812), decise di non sovvenzionare più i sacerdoti. Reagì subito alla sua decisione il sacerdote Yoiadà che fece porre nei pressi dell’altare una cassa per la questua, stabilendo che il relativo danaro doveva essere utilizzato per le riparazioni del tempio e che quello proveniente dal sacrificio per il peccato e dal sacrificio di riparazione doveva essere di proprietà dei sacerdoti. Quando Hazael (845-800), re di Aram, stava per assalire Gerusalemme, Yoas di Giuda (835-796) gli mandò tutti i tesori accumulati da Yosafat, Yoram e Azaria. Su Israele scese l’ira di Yhwh che lo consegnò nelle mani di Hazael e di Ben-Hadad III (800-780), suo figlio. Alla morte di Hazael, Yoas d’Israele (798-783) attaccò Ben-Adad e si riappropriò delle città sottratte agli israeliti. Più in generale si può dire che da Achab a Yoas, dall’854 al 783, per circa un settantennio le scaramucce tra Israele e il regno di Aram-Damasco furono continue e con alterne vicende. Intanto nel Sud Amasia (796-781) riesce ad avere ragione degli edomiti nella Valle del Sale. Sentendosi più forte, decide di sfidare Yoas d’Israele. Lo scontro avviene a Bet-šemeš, verosimilmente nel 798, ma la sorte non gli fu favorevole e dovette cedere al suo avversario tutti gli ori, gli argenti e i tesori della corte.
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Un altro buco nero è nel regno di Menahem (743-738), il quale si impadronì di Tifsach e, poiché non gli erano state aperte le porte, sventrò tutte le donne incinte della città. Tenne a bada le mire espansionistiche di Pulu, dichiarandosene vassallo e pagando un tributo che costò ai ceti più abbienti di Samaria cinquanta sicli pro capite. Pulu è ovviamente Tiglat Pileser III (744727), che, come è noto, assunse il titolo di Pulu di Babilonia. Infatti durante il regno di Menahem in Assiria governarono Ashur-nirari V (754-745) e Tiglat-Pileser III (745-727), il quale, secondo il Libro dei Re, intervenne contro Peqah (737-732), figlio di Remalia, occupò Ilion, Abel-Bet-Maaca, Ianoach, Qedesh, Cazor, Galaad, la Galilea, la regione di Neftali e ne deportò gli abitanti in Assiria. Dal Libro dei Re sappiamo che Peqah, yhawista fondamentalista tanto «da far passare il figlio per il fuoco» (2Re, xvi, 3), si alleò con Rezin (750732), re di Aram-Damasco, contro Achaz, re di Giuda. Insieme essi assediarono Gerusalemme, ma non ebbero successo. Achaz infatti invocò l’aiuto di Tiglat-Pileser e, dichiarandosi pronto al vassallaggio, gli inviò i tesori del tempio. Tiglat si impadronì di Elat, occupò Damasco, ne deportò gli abitanti a Kit e uccise Rezin. Secondo la versione assira il regno di Giuda subì una prima sconfitta sotto Azaria, alleato di Hanath di Siria, ed una seconda nel 732 sotto Achaz, alleato di Rezin, il quale si affrettò a dichiararsi vassallo degli assiri. Tiglat impose pesanti tributi a Giuda, assassinò Rezin, debellò Damasco e nel regno di Israele sostituì d’autorità Osea a Peqah (per la versione biblica Osea, 732-724, ordì una congiura contro Peqah e lo uccise) poiché aveva sospeso i pagamenti dei tributi. Per evitare il peggio, Osea si dichiarò vassallo dell’Assiria, ma nello stesso tempo tentò di stabilire rapporti con l’Egitto del faraone So. Non sappiamo chi sia questo faraone, ma all’epoca di Salmanassar V (727-722), successore di Tiglat, in Egitto regnavano Rudamon (742-718) e Tafnakht (730-718). Mario Liverani(17) ha giustamente supposto che il testo biblico lo confonde con il generale egiziano Sib’e. Forte di tale eventuale alleanza, Osea non pagò il tributo all’Assiria per un anno, costringendo Salmanassar V a farlo prigioniero e ad assediare Samaria per tre anni. Conquistata la città, il re assiro ne deportò la popolazione a Kalakh in Assiria e nelle città della Media. Secondo il testo biblico la devastazione di Samaria fu opera di Salmanassar V. Dalla storia assira sappiamo invece che fu opera di Sargon II (721-705), suo successore, che nel 721 mise definitivamente fine al regno d’Israele, occupò la città, deportò la popolazione e (17) M. Liverani, Oltre la Bibbia, cit., p. 163.
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in sostituzione degli israeliti vi trasferì in massa genti provenienti da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat, da Sefarwayim. La devastazione di Samaria, datata nel quarto anno di Ezechia (712) e settimo di Osea (725), è narrata una seconda volta in 2Re, xviii, 9-12. Ma come al solito la cronologia è ingarbugliata, perché si fa partire il regno di Ezechia dal terzo anno (729) di Osea (732-724). Ne consegue che la presa di Samaria sarebbe caduta nel 725, dopo tre anni di assedio, ma dalla storia assira sappiamo che essa cadde il 721. Ciò comporta due conseguenze: 1) che la devastazione di Samaria precedette il regno di Ezechia; 2) che la durata del regno di Osea non si accorda con la realtà storica, perché non ha senso una durata di nove anni, se al settimo il regno si estinse. Di certo Ezechia avversò il culto di Baal; rimosse le alture, ruppe le stele, tagliò il palo sacro e schiacciò il serpente di bronzo, chiamato Necustan, fabbricato da Mosè. Particolarmente significativo è quest’ultimo episodio perché non solo rivela un residuo di divinità teriomorfe e di politeismo idolatrico nella religione mosaica, ma anche perché fa pensare che il culto yhawista non fosse ancora consolidato. Ben presto però l’aria funesta piombò anche sul regno di Giuda. Le prime avvisaglie si ebbero con Sennacherib (704681), re di Assiria e di Babilonia, che nel 701, al tempo di Ezechia, mosse contro Giuda e pose sotto assedio Gerusalemme. Memore della tragica fine del regno del Nord, Ezechia si proclamò vassallo dell’Assiria e consultò Isaia che gli predisse la sconfitta di Sennacherib. Secondo la versione biblica in una notte l’angelo di Yhwh colpì 185.000 assiri, costringendo Sennacherib a tornare a Ninive, ove morì per mano dei figli Adram-melech e Sarazer mentre era prostrato nel tempio di Nisroch, suo dio. Della improvvisa ritirata di Sennacherib ci ha parlato anche Erodoto, il quale, però, si riferisce ad un conflitto tra Assiri e Arabi contro l’Egitto, senza specificare in quale località si trovava l’esercito di Sennacherib e senza fare alcun accenno a Gerusalemme. Secondo Erodoto il faraone Setho (ma Shabaka, 713-698), che non godeva più dell’appoggio dei suoi guerrieri, ebbe in sogno una visione, in cui il dio lo confortò assicurandogli che lo avrebbe aiutato contro gli assiri. Durante la notte una miriadi di topi danneggiò gravemente le armi degli assiri e il giorno dopo a Sennacherib non rimase altro da fare che ritirarsi. Del faraone Setho, aggiunge Erodoto (ii, 141), esiste nel tempio di Efesto una statua in cui egli è rappresentato con un topo in mano. La realtà è che noi non sappiamo per quale ragione Sennacherib si ritirò a Ninive; quasi certamente si trattò di un calcolo politico e del timore
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di dissidi interni al suo regno. Naturalmente gli ebrei ne attribuirono la causa al volere di Yhwh e con buona dose di esagerazione esaltarono la potenza del regno di Giuda. La fine venne sotto i regni di Yoyaqin e di Sedecia. Yoyaqin si rese tributario all’Egitto per tre anni; poi, approfittando della guerra mossa contro l’Egitto da Nabucodonosor II (604-562), re di Babilonia, si ribellò. Nabuconodonosor riportò una schiacciante vittoria sugli egizi a Karkemiš (605); poi nel 597 cinse d’assedio Gerusalemme, ne depredò il tempio, deportò in Babilonia diecimila gerosolimitani (prima deportazione: praticamente tutta la Intellighentsia della città) e nominò vassallo Mattania che cambiò il suo nome in Sedecia. Questi commise l’errore di ribellarsi ai babilonesi, costringendo Nabucodonosor a porre nuovamente sotto assedio Gerusalemme. Ad aggravare la situazione intervenne una terribile carestia: Sedecia fu catturato e i suoi furono uccisi davanti ai suoi occhi. Il comandante delle truppe babilonesi, Nabuzaradan, bruciò il tempio e deportò il resto della popolazione (seconda deportazione); fu catturato il sommo sacerdote Seraià e sulla Giudea fu preposto Godolia, figlio di Achikam, figlio di Safan, il quale nel settimo mese del suo regno fu ucciso dalle truppe di Ismaele, figlio di Netania. Del tutto leggendari sono invece i due cicli di Elia e di Eliseo. Non è escluso che i due profeti abbiano una qualche consistenza storica, ma certamente i cicli che narrano dei loro poteri taumaturgici e preternaturali sono quanto meno fantasiosi e mitici. Mitica è la figura di Elia, il tisbita, e dei i suoi carismi; egli contrasta la siccità, compie il miracolo della farina e dell’olio che non si esauriscono mai, fa risorgere il figlio di una vedova, si confronta sul monte con 450 profeti di Baal, se li fa consegnare e li massacra nei pressi del torrente Chison. Minacciato di morte da Gezabel, è protetto da Yhwh che, dopo un cammino di quaranta giorni e quaranta notti, lo fa giungere sull’Horeb, ove passano vento, terremoto, fuoco, ma Yhwh non è né nel vento, né nel terremoto, né nel fuoco. Elia ne ascolta la voce che lo invita a recarsi a Damasco e ad ungere re di Aram, Hazael, e re d’Israele Yehu, figlio di Nimsi. Fortemente avverso al regno di Azaria, Elia non dà ascolto alle sue invocazioni e per ben tre volte fa fulminare ciascuno dei tre capitani, accompagnati da cinquanta guerrieri, che il sovrano gli manda nella speranza di ottenere la guarigione da una grave malattia. Il ciclo si chiude con i due prodigi della separazione delle acque del Giordano e con l’assunzione in cielo del profeta. Erede dello spirito di Elia, Eliseo preconizza la perdita degli israeliti che si sono piegati a Baal; predice che se ne sarebbero salvati solo 7.000 e che il
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conflitto tra Achab e gli aramei si sarebbe concluso con una grande strage di aramei. Si apre così il leggendario ciclo di Eliseo, che risana le acque di Gerico e maledice i fanciulli che lo avevano beffeggiato sul monte di Betel. La maledizione li colpisce nella foresta ove sono sbranati da due orse ben 42 bambini; quindi il profeta riproduce il miracolo dell’olio, già compiuto da Elia, riporta in vita il figlio morto della sunamita, fa fronte ad una carestia, rendendo commestibili le zucche avvelenate, compie il miracolo della moltiplicazione dei pani e guarisce Naaman dalla lebbra. La figura centrale di tutta la narrazione del Libro dei Re è certamente Giosia (640-609) che è il vero fondatore dello yhawismo ed è probabilmente colui che si è inventato lo scenario della scoperta del Libro della Legge.(18) Nell’anno 18mo del suo regno, ovvero nel 621, Giosia mandò lo scriba Safan, figlio di Asalia, nel tempio di Yhwh per una raccolta di fondi. Il sommo sacerdote Hilqîyāhu gli riferì che durante i lavori di manutenzione del tempio era stato rinvenuto il Libro della Legge. La scoperta illuminò immediatamente i sacerdoti che predissero la cattività babilonese come conseguenza del fatto che il popolo non si era attenuto a ciò che era scritto in esso. Giosia diede perciò pubblica lettura del libro nel tempio di Yhwh. Di fatto egli compì una vera e propria riforma religiosa: portò fuori dal tempio tutti gli oggetti del culto di Baal, sterminò i sacerdoti idolatri, fece bruciare il palo sacro, demolì le case dei prostituti sacri, profanò nella valle di Ben-Hinnon il Tofet (cioè l’altura su cui si sacrificavano bambini a Moloch, facendoli «passare per il fuoco»), profanò le alture e i sepolcri, bruciò le ossa sull’altare di Yhwh e infine, nel diciottesimo anno di regno (621), celebrò la pasqua, che non era più stata celebrata dal tempo dei giudici. Dunque Giosia fu il vero fondatore dello yhawismo, che prima di lui era ancora amorfo. Fu Giosia l’ideatore della fase mitica della storia ebraica. Fu lui a far credere al popolo di aver trovato il Libro della Legge (2Re,xxii, 8), che era verosimilmente una versione assai più striminzita del testo che ci è pervenuto e forse limitata alla sola narrazione del patto mosaico sul Sinai e dei relativi precetti imposti al popolo. Fu per tale stringatezza che egli poté leggerlo pubblicamente nel tempio davanti al popolo, come immaginò che avesse fatto Mosè dopo la stipula del patto, che in realtà sostituiva gli antichi sacrifici cruenti, an(18) Sulla riscoperta del libro della legge, cfr. N. Lohfink, Cutlure Shock and Theology, «Biblical Theology Bulletin», vii, 1977, pp. 12-22, e Th. Römer, On ‘Book-Finding’ and Other Literary Strategies, «Zeitschrift für alttestamentliche Wissenschaft», cix, 1997, pp. 1-11.
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che umani, con lo sversamento simbolico del sangue sull’altare e sul popolo. Probabilmente egli fu supportato da sacerdoti, come Hilqîyāhu, da profeti come Achor e da scribi come Safan, i quali facevano parte della sua cerchia. Con tutta probabilità la prima versione giosiana del Libro della Legge si fondava esclusivamente sul patto mosaico; ed è questa la ragione per cui il libro fu denominato Libro dell’alleanza in 2Re, xxiii, 2. A Giosia si deve forse anche l’istituzione della Pesah e la nascita della storiografia incardinata su miti, anziché sulla realtà storica. Le Cronache ( דברי היםימDibrey ha yamim = parole dei giorni), assai più tardive (iii-ii secolo) dei Libri dei Re, sono il riflesso dei mutamenti che nel tempo si sono prodotti nella società ebraica. In particolare è interessante notare che la classe sacerdotale risulta articolata in una gerarchia in tre gradi: i leviti-non-aronniti sono addetti al servizio liturgico; sono cantori, tesorieri e giudici e sono incaricati della custodia degli ingressi nel tempio. Ad un gradino superiore sono i sacerdoti (discendenti di Aronne) che sono addetti alle funzioni sacerdotali: infine al grado più alto si collocano i sadociti cui spetta il sommo sacerdozio con il compito di officiare gli olocausti, di far uso dell’incenso e di accedere semel in anno nel debir o Santo dei santi. Il Cronista è solitamente contrapposto al Deuteronomista, cui si ascrivono i Libri dei Re. Le divergenze tra i due testi starebbero nel fatto che le Cronache ignorano pressoché totalmente il regno del Nord, teologicamente condannato per essere nelle mani di eretici baaliani. Ma si tratta di una divergenza che è su questo punto solo apparente. Perché se è vero che il Deuteronomista traccia la storia dei due regni come se li mettesse sullo stesso piano, è altresì vero che egli condanna tutti, nessuno escluso, i sovrani del Nord per avere operato il male agli occhi di Dio. Da questo punto di vista la sua ideologia ha punti di tangenza con quella del Cronista. Per essere più precisi, se ci atteniamo ai libri storici dei Re e delle Cronache, dobbiamo dedurre che il Nord è baalista e il Sud yhawista. E questa affermazione è pregna di conseguenze, perché ci fa capire che lo yhawismo non è la religione originale del popolo ebraico e che prima della riforma giosiana esso coesisteva con il politeismo cananeo. Il divario tra i due redattori dipende innanzi tutto dal tempo storico in cui essi scrivono. Anche se scrive dopo la crisi dell’esilio babilonese, il Deuteronomista è ancora nell’alveo del progetto riformistico giosiano, non sente il bisogno di riscrivere da cima a fondo la storia del suo popolo, ma si inerisce nella ricostruzione della storia già avviata nel Pentateuco, in Giosuè, nei Giudici e nei
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due Samuele. Il Cronista, che scrive a cavallo del iii-ii secolo, ha l’esigenza di ripensare e rielaborare la storia ebraica, perché al rientro dall’esilio e dalla diaspora il suo popolo disperso sembra aver perso la propria identità e l’autore è convinto che essa può essere ristabilita sulle ceneri dello yhawismo. L’identità del popolo ebraico consiste nella identità di ciascuno nel rapporto genealogico con la propria tribù. Questo spiega la minuziosa, certosina, esposizione delle genealogie che si dilata a dismisura per nove capitoli (i-ix) e spiega altresì la cura scrupolosa che egli ha nella narrazione in ben sette capitoli (xiii-xvii e xxviii-xxix) del trasferimento dell’arca a Gerusalemme e dei preparativi per la costruzione del tempio. Yhwh è per il Cronista il dio di Davide e perciò il regno di Davide, nella sua organizzazione amministrativa, giuridica, religiosa e politica, è il suo modello ideologico. E la forza dell’ideologia è tale da indurlo a cadere in un anacronismo, nel momento in cui afferma che Davide recitò il suo cantico nel santuario di Yhwh che ancora non esisteva. Un ulteriore anacronismo è in 1Chr, xxix, 7, ove si parla di una colletta di darici per la costruzione del tempio di Salomone; cosa impossibile perché il darico fu coniato da Dario I (522-486), re di Persia, e circolò fino agli inizi dei regni macedoni. L’inaffidabilità del Cronista si evince anche da taluni piccoli dettagli della narrazione. Ce ne dà un esempio la celebrazione della pasqua nel primo anno di regno di Ezechia (716 ?). Invitando il popolo al rispetto della Legge, Ezechia afferma: Il culto di Yhwh è stato abbandonato; i vostri padri hanno volto le spalle a Yhwh e si sono macchiati di peccati; hanno chiuso le porte del portico, hanno spento le lampade e non hanno più offerto olocausti nel santuario. Perciò Yhwh ha colpito Giuda e l’ha abbandonato nelle mani degli oppressori. I vostri padri sono periti di spada e sono stati deportati (2Chr, 29, 3 – 31, 21).
Se quest’ultima affermazione si riferisce alla deportazione babilonese, è evidente che essa suona prematura nella bocca di Ezechia. Inoltre c’è da chiedersi: quali prescrizioni liturgiche furono seguite nella celebrazione della pasqua, se non era ancora stato scoperto il testo della Legge? Proprio per la sua matrice ideologica la narrazione del Cronista, come del resto anche quella dei Libri dei Re, non ha carattere storico. Possiamo dire che c’è tanto nel Deuteronomista, quanto nel Cronista, una verità storica per così dire a grandi linee (la conflittualità con i popoli confinanti, gli scon-
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tri con gli assiri e i babilonesi, il protettorato egizio), ma nei dettagli gioca moltissimo la fantasia che obbedisce alla logica della fede e del potere sacerdotale. Lo intuiamo dalla aleatorietà delle fonti a cui i due redattori fanno riferimento; non ci sono fonti archivistiche, ma testi elaborati non si sa da chi, né dove né quando. I Libri dei Re citano le Cronache dei re di Giuda e le Cronache dei re d’Israele, il Cronista invece asserisce di attingere alle Cronache del profeta Samuele (1Chr, xxix, 29), alle Cronache del Profeta Natan; alle Cronache del profeta Gad (1Chr, xxix, 29; 2Chr, ix, 29), alla Profezia di Achia di Silo, alle Visioni del profeta Iddo (2Chr, ix, 29; xii, 15;xiii, 22), agli Atti del profeta Semaia (xii, 15),(19) agli Atti di Hozai (2Chr, xxxiii, 19) e del profeta Yehu (2Chr, xx, 34), alle Cronache dei Re di Giuda e d’Israele (2Chr, xvi, 11; xx, 34; xxvii, 8; xxviii, 26; xxxv, 27; xxxvi, 8), alle Rivelazioni del profeta Isaia (2Chr, xxvi, 22; xxxiii, 18). Insomma il Cronista finge una inesistente pluralità di fonti, ma in realtà scrive sulla falsariga dei Libri dei Re e ne riproduce frequentemente il testo alla lettera. La sua attendibilità resta inferiore a quella della sua fonte, anche perché spesso le sue varianti dipendono da veri e propri fraintendimenti. D’altro canto non abbiamo notizie sicure degli scritti o delle raccolte di scritti dei profeti citati. Se tali fonti fossero state anteriori ai due Re sarebbero state ivi citate. Ma la sfasatura più grave sta nella ricostruzione delle figure di Ezechia e Giosia. Nel Libro dei Re Ezechia ha un ruolo importante per la sua fedeltà a Yhwh, «dio degli eserciti» (2Re, xix, 31) che invoca l’aiuto divino per far fronte all’assedio di Sennacherib. L’intervento diretto dell’angelo del Signore provoca una strage di 185.000 assiri costringendo il loro re a ritornarsene a Ninive. Giosia invece, come si è già detto, è l’autentico spirito religioso, fondatore dello yhawismo, che riporta alla luce il Libro della Legge, promuove la grande riforma religiosa e celebra per la prima volta la pasqua. Per il Cronista i ruoli sembrano essere invertiti: il vero artefice della riforma religiosa è Ezechia, che purifica il tempio e riprende il culto yhawista, celebra la prima pasqua solenne il 14 del mese di nisan con i successivi 7 giorni di azzimi, riorganizza le classi dei sacerdoti e dei leviti, istituisce la decima, ed è conseguentemente protetto da Yhwh contro Sennacherib. Di contro Giosia appare una figura secondaria rispetto ad Ezechia. Egli fa spezzare gli altari di Baal, purifica il (19) Le versioni su Semeia sono discrepanti: per il 1Re, xii, 22-24, per bocca di Semeia Yhwh avrebbe comandato a Roboamo di non combattere contro gli israeliti; per 2Chr, xii, 5-8, Semeia chiarisce che Yhwh punì Roboamo, reo di averlo abbandonato, per mano di Sisac, cioè del faraone Sheshonq.
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tempio di Gerusalemme, scopre il Libro della Legge, celebra una pasqua quale «non era stata più celebrata dai tempi del profeta Samuele», ma non è il riformatore religioso.(20) Forse anche questa inversione di ruoli è una spia della scelta ideologica del Cronista. Ezechia è sicuramente l’eletto di Yhwh, che interviene direttamente nel conflitto e fa miracolosamente ritirare Sennacherib, Giosia invece perisce nel 609 nella battaglia di Megiddo contro Nekau II. La narrazione del Cronista si interrompe con la deportazione in Babilonia (585), predetta da Geremia, e con un acrobatico salto di cinquant’anni di storia, passa a Ciro (559-530) e al suo presunto editto (539), redatto secondo il seguente testo: Così dice Ciro […]: ‘Yhwh, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra e mi ha ordinato di costruirgli un tempio a Gerusalemme nel paese di Giuda. Chi tra voi appartiene al suo popolo, Yhwh suo Dio sia con lui e salga.
Si tratta tuttavia di un testo manifestamente falso, perché presuppone una fede e una concezione giudaica. Ciro non avrebbe mai potuto riconoscere Yhwh come padrone di tutti i regni della terra, né avrebbe potuto dire che Yhwh lo aveva incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme. Altrettanto falsa è la versione dell’editto trasmessoci da Ezra, i, 1-3, ove l’interrogativo («chi di voi appartiene al suo popolo?»), che tra l’altro dipende dal citato passo delle Cronache, mal si addice ad un editto. D’altro canto in entrambe le fonti il testo non ha la forma giuridica dell’editto. Per giunta, per essere staccato dalla narrazione della distruzione di Gerusalemme, il passo di 2Chr, xxxvi, 21-23, ha tutta l’aria di essere un’aggiunta posteriore.
(20) A partire da questa sfasatura tra le due versioni della riforma religiosa, N. P. Lemche, Did a Reform like Josiah’s Happen?, in Ph. R. Davies - D. V. Edelman, The Historian and Bible Essays in Honor of Lester L. Grappe, New York, Clarck, 2010, pp. 11-19, esclude la storicità della riforma giosiana, riconducendola ad una lettura mitica del passato da parte del deuteronomista. Ad analogo risultato giunge L. S. Fried, The High Places (Bāmôt) and the Reforms of Hezekiah and Josiah: An Archaeological Investigation, «Journal of the American Oriental Society», cxxiii, 2002, pp. 437-464. La versione deuteronomista fu revisionata dal cronista il quale scelse come riformatore religioso la figura di Ezechia anziché quella di Gioisa. La prova che si tratta di un falso storico è data dal fatto che Geremia, che avrebbe profetato nello stesso periodo, mantiene un assoluto silenzio sulla presunta riforma.
capitolo xi
GLI SCAVI ARCHEOLOGICI 11.1. I collassi del Medio e Tardo Bronzo e i libri storici della Bibbia Per vagliare l’autenticità o meno della narrazione vetero-testamentaria è necessario partire dal quadro complessivo della realtà cananaica tra il Medio e il Tardo Bronzo. Secondo Kathleen Mary Kenyon(1) il Medio Bronzo (2000 circa) si apre con la comparsa di nuove popolazioni, che fruiscono di nuove ceramiche, nuove armi, nuovi costumi funebri ed una rinascita delle città. Tali popolazioni vengono da un’area civilizzata, conoscono la scrittura e ciò fa sì che ai dati archeologici si aggiungano le fonti scritte. Ma nel passaggio dal Medio al Tardo Bronzo lo scenario muta profondamente. Dalle indagini archeologiche emerge che tutta l’area dell’oriente meridionale subì due collassi, il primo alla fine del Medio Bronzo (intorno al 1550) e il secondo alla fine del Tardo Bronzo (intorno al 1200). Il primo collasso portò alla nomadizzazione delle popolazioni cananee; il secondo comportò un processo di sedentarizzazione di nuove generazioni nel Canaan.(2) Un’eco del primo collasso si avverte nella citata(3) lettera EA 151 di Tell el-‛Amārnah, scritta da Abi-Milku di Tiro, che dà notizie sulla condizione del Canaan (Ki’nani). Secondo Lemche(4) il Canaan continuò a fiorire nel Tardo Bronzo e si arricchì di contatti culturali ed economici con l’Egitto. Un gran numero di prodotti lussuosi e voluttuari (avori, vasi, ecc.) entrarono dall’Egitto e gli ar(1) K. M. Kenyon, Archaeology in the Holy Land, London, Benn, 1970, pp. 195-220. (2) S. Bunimovitz, The Land of Israel in the Late Bronze Age: A Case Study of Socio-cultural Change in a Complex Society, Tel Aviv University, 1989, pp. 11-34. (3) v. supra, pt. I, par. 1.3. (4) N. P. Lemche, The Canaanites, cit.
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tisti cananei contribuirono allo splendore del Nuovo Regno. Nuovi apporti vennero da Cipro e dall’Egeo. Il che spiega la presenza di ceramica cipriota e micenea nella Palestina del Tardo Bronzo. Restò fuori dell’influenza egiziana la costa settentrionale con in testa Ugarit, che tra l’altro non si considerava cananea. In ogni caso nel Tardo Bronzo il Canaan e Ugarit furono stretti in una morsa tra l’Egitto, i mitanni e gli hittiti. In un suo fondamentale saggio Nadav Na’aman(5) ha documentato il collasso cananaico nel passaggio dal Medio Bronzo II al Tardo Bronzo (LB). Quasi tutti i centri urbani della regione palestinese furono distrutti o abbandonati. I dati che egli ci fornisce sono i seguenti. Nell’area collinare del centro-nord gli insediamenti si ridussero notevolmente e passarono dai 120 del MBII a 21 sopravvissuti nel LBII; nella regione montuosa meridionale passarono da 87 a 5; nella regione collinare centrale restò un solo insediamento (Gerusalemme) sui 42 iniziali. Nella zona costiera si estinse il 60/65 % degli insediamenti. Kathleen M. Kenyon attribuisce tale tracollo alle devastanti campagne militari egiziane contro gli Hyksos che si rifugiarono nel Canaan(6) e portarono sul versante egiziano al definitivo consolidamento dell’impero sotto Thutmosis III (1479-1425). Lo schema interpretativo della Kenyon è stato messo in discussione da Redford e Hoffmeier(7) che non hanno ritenuto sufficientemente documentata l’ipotesi di una crisi provocata dagli egizi. Kempinski(8) in particolare ha messo in rilievo che la distruzione dei centri urbani era iniziata già prima delle loro campagne militari. Seger(9) ha puntualizzato che il processo era già in corso da circa un secolo. Bunimovitz(10) invece individua una delle cause del collasso nella conflittualità interna alle popolazioni cananee, dovuta al loro for(5) N. Na’aman, Canaan in the Second Millennium BCE, Winona Lake, Eisenbrauns, 2005. (6) Cfr. K. M. Kenyon, Palestine in the Time of the Eighteenth Dinasty, in The Cambridge Ancient History, ii-1, Cambridge, University Press, 1971, pp. 526-556; Y. Aharoni, The Archaeology of the Land of Israel, cit. (7) D. B. Redford, A Bronze Age Itinerary in Transjordan, Nos. 89-101 of Thutmose III’ List of Asiatic Topomyms, «Journal of the Society for the Study of Egyptian Antiquities», xii, 1982, pp. 55-74; J. K. Hoffmeier, Reconsidering Egypt’s Part in the Termination of the Middle Bronze Age in Palestine, «Levant», 1989, pp. 181-193. (8) A. Kempinski, Syrien und Palastina (Kanaan) in der letzten Phase del Mittelbronze II-B Zeit (1650-1570), Wiesbaden, Harrassowitz, 1983, pp. 322-323. (9) J. D. Seger, The MB Fortifications at Sechem and Gezer: a Hiksos Retrospective, «Eretz-Israel Archaeological, Historical and Geographic Studies», xii, 1975, pp. 34-45. (10) S. Bunimovitz, The Land of Israel in the Late Bronze Age,cit., pp. 11-34.
I.11 Gli scavi archeologici
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te incremento demografico. Na’aman(11) dal canto suo preferisce parlare di una serie di concause, tra le quali ebbe un ruolo decisivo l’infiltrazione degli hurriti nel Canaan. Ciò spiegherebbe il fatto che i nomi settentrionali non compaiono in Canaan mai prima nel Medio Bronzo II, come sembrano testimoniare le lettere di Tell el-‛Amārnah. Secondo il modello di Na’aman le guerre hittite spinsero le popolazioni settentrionali, come gli hurriti, verso il sud, nella Siria settentrionale e nella Mesopotamia settentrionale e quindi nella terra di Canaan. Na’aman aggiunge che la Palestina del Medio Bronzo II aveva raggiunto un alto livello di civilizzazione urbana, con un alto grado di organizzazione politica, un efficiente assetto del sistema economico, una simbiotica collaborazione tra popolazione urbana e rurale, uno sviluppo della pastorizia, dell’agricoltura e del commercio ed un evoluto sistema viario di collegamenti tra città e campagne. Di conseguenza, a suo avviso, la causa determinante del collasso fu la conquista del Canaan da parte di Thutmosis III (1457) che giunse proprio nel momento in cui tra il xvi e il xv secolo il Canaan aveva subito l’infiltrazione. Di grande interesse è l’indagine di Ann E. Killebrew(12) che più che considerare i cananei come un gruppo etnico, reputa il Canaan una realtà geo-politica. Rifacendosi a Baumgarten, la studiosa distingue gli insediamenti cananei del Tardo Bronzo in piccole città (3,5-12 acri), città medie (12-25 acri), città grandi (25-60 acri) e megalopoli (più di 60 acri). L’unica megalopoli del Tardo Bronzo è Hazor con una copertura superiore a 200 acri. La città è il centro del potere economico, politico, amministrativo e religioso. Megiddo, il cui strato VIIB è del xiii secolo, presenta una porta e un palazzo nell’area AA, un tempio nell’area BB, ed un secondo palazzo patrizio nell’area DD. Uno degli aspetti problematici delle città del Tardo Bronzo sono le fortificazioni. Non è ben chiaro se si tratta di nuove fortificazioni o di resti delle fortificazioni del Medio Bronzo. I palazzi patrizi, residenze di governatori, sono costruzioni grandi, fornite di molte stanze e adibite a più funzioni. Il palazzo di Megiddo copriva un’area 1.500 m2; quello di Ugarit, il più splendido del Tardo Bronzo, si estendeva per una superficie di 7.000 m2 e comprendeva circa cento stanze. Analoghe sono le dimensio(11) N. Na’aman, Canaan in the Second Millennium, cit., pp. 13, 17. (12) A. E. Killebrew, Biblical Peoples and Ethnicity: an Archaeological Study of Egyptians, Canaanites, Philistines, and Early Israel, 1300-1100 BCE, Atlanta, Society of Biblical Litterature, 2005.
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ni del palazzo di Hazor. Killebrew conduce altresì un’indagine sui templi, sulla base della classificazione fatta da Māzār,(13) il quale distingue i templi monumentali simmetrici (Sichem, Megiddo, Hazor area A), i templi con il Santo dei santi (Beit-She’an VII e VI e Lachish), quelli con piano irregolare (Lachish, Tel Mavorakh, Beit-She’an IX), i piccoli templi con accesso diretto (Hazor Area C) e i templi squadrati (Hazor Area F, Amman). Si tratta di santuari tipicamente cananaici, compresi i templi monumentali simmetrici, ove si praticavano culti politeistici. Nel Tardo Bronzo il tempio assume una tipologia tripartita per essere composto di portico, sala e santo dei santi. A tale tipologia si ispira verosimilmente la descrizione della costruzione del tempio di Salomone. Nel corso del Tardo Bronzo il territorio cananaico fu sottomesso a nord dagli hittiti e a sud dagli egiziani. Questi due imperi collassarono nell’età del Ferro I tra il 1200 e il 1140 e al loro posto subentrò l’impero neoassiro (934734). Culturalmente e linguisticamente gli Stati dell’età del Ferro erano divisi tra neo-hittiti che parlavano il luvio e i popoli che parlavano aramaico in Siria, fenicio e filisteo nella costa mediterranea e ebraico e altri dialetti cananaici (giudaico, moabita, ammonita, edomita) nell’area centrale e nel sud. Tali lingue avevano in comune un sistema di scrittura con caratteristiche differenze regionali. L’impero assiro e quello successivo, babilonese, decimarono le preesistenti città-stato. In questo quadro Albrecht Alt(14) ha avanzato la tesi cosiddetta dell’infiltrazione pacifica, secondo cui gli ebrei non conquistarono militarmente il Canaan ma vi si infiltrarono gradatamente. Ciò spiegherebbe perché, accanto a Betel e ad Hazor, che mostrano segni di devastazione, si registra la totale inesistenza nel medesimo periodo di città come Ai e Gerico, che risultavano disabitate. Come rileva Lemche, Ai fu distrutta nel xvi secolo e rimase disabitata per 700 anni. Gibeon non fu abitata prima del 1200. Nell’area centrale del Canaan, che fu quasi priva di villaggi nel Tardo Bronzo, città come Megiddo, Lachis e Afek erano entrate in crisi. Popoli come i gebusei, i perizziti, gli aviti ecc., citati nei libri storici, non sono mai esistiti. Altri, come gli amorrei, erano estinti da tempo. La città di Silo, se(13) A. Māzār, Archaeology of the Land of the Bible – 10.000 – 586 BCE, New York, Doubleday, 1990, pp. 253-255; Id., Temples of the Middle and Late Bronze Age and the Iron Age, in A. Kempinski – R. Reich (eds.), The Architecture of Ancient Israel. From the Prehistoric to the Persian Periods, Jerusalem, Israel Exploration Society, 1992, pp. 161-187. (14) A. Alt, Essays on the Old Testament Hisstory and Religion, transl. by R. A. Wilson, Oxford, Blackwell, 1981, pp. 133-169.
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condo Finkelstein,(15) nel Ferro II era ridotta ad un modesto centro, a differenza di quanto fa credere il 1Samuele, i, 3, 9; ii, 14. Il collasso del Tardo Bronzo fu determinato da fattori climatici, economici e sociali. A fattori climatici furono dovute le carestie e la siccità che tormentarono le regioni dell’Anatolia, del Canaan e della Grecia e si accompagnarono a vasti fenomeni migratori (egei, sardi, sicani e peleset), spesso violenti. Molte città furono soggette a devastazioni militari. Ugarit e numerose città costiere fino al delta del Nilo subirono frequentemente gli attacchi dei cosiddetti ‘popoli del mare’. Le conseguenze economiche non tardarono a farsi sentire; decrebbero a livello internazionale gli scambi commerciali e cominciarono a scarseggiare beni come il rame. Al tracollo economico tenne seguito il tracollo di entità politiche come Hatti, Ugarit, Karkemiš, le quali furono, come recita l’iscrizione del tempio funerario di Ramses III, annientate dal faraone con la formula «non hanno più seme». Con il crollo di un potere centralizzato in Siria e in Palestina le città-stato divennero indipendenti. Tra il 1200 e il 900 si costituirono forme di vassallaggio, qual è il caso della Siria subordinata agli hittiti. Nella fascia costiera fenicia guadagnarono piena autonomia le città-stato di Biblos, Tiro e Sidone, Gaza, Gezer ed ‘Eqron (od.: Khirbet el-Muqanna). Nella Siria meridionale si consolidò il piccolo regno aramaico con i due centri di Hamat e di Damasco. L’epopea dei giudici, che per il testo biblico si colloca nell’età del Ferro I, non trova corrispondenza con i dati archeologici. Il che induce a pensare che i giudici sono eroi fabulosi, frutto di leggende popolari. Ma ciò che è più sconcertante è che non v’è traccia di Israele né nel Ferro I (1200-1000) né in parte del Ferro II (1000-700). Si è pertanto parlato di invisibilità di Israele. Invisibilità spiegata da un lato con il fatto che nel Ferro I il Canaan era una società di illetterati, com’è dimostrato dalla rarità delle iscrizioni, e dall’altro con il fatto che i manufatti, le case e gli utensili israeliti non si differenziano da quelli usati dai cananei. Se ciò che caratterizza l’ethnos è la cultura, l’individuazione di un’etnia ebraica è resa impossibile dalla uniformità del materiale culturale del Ferro I in Canaan. (15) I. Finkelstein, Digging for the Truth: Archaeology and the Bible, in I. Finkelstein - A. Māzār, edited by B. B. Schmidt, The Quest for the Historical Israel. Detanting Archaeology and the History of Early Israel, invited lectures delivered at the Sixth Biennial Colloquium of the International Institute for Secular Humanistic Judaism, Detroit, October 2005, Atlanta, GA, Society of Biblical Literature, 2007, pp. 9-20.
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Sono assai istruttive in proposito le osservazioni di Lemche.(16) Quando un villaggio della Palestina centrale del Ferro I (1200) è definito ‘israelita’ – egli osserva – tale assunzione non si basa sui resti materiali, ma è un’etichetta attaccata ad essi sulla scorta di fonti scritte. Tali villaggi dovrebbero essere definiti più correttamente cananei, nel senso cioè che afferiscono ad una cultura precedente. Si potrebbe parlare di villaggi protoisraeliti come se si trattasse di una protocultura che si svilupperà in città di epoca posteriore. Esempi dell’antica cultura materiale di Israele sarebbero la casa tipo con tre camere trovata nei villaggi dell’età del Ferro e le giare a collo tondo per l’immagazzinamento. Ma tale tipologia di casa è stata collegata agli israeliti e ai nomadi dell’antica Siria e della Palestina centrale come riflesso della tenda dei nomadi, la quale sarebbe costituita da tre scompartimenti: uno pubblico per gli ospiti e gli altri due rispettivamente per gli uomini e per le donne. La datazione che ne fa Feilberg(17) all’undicesimo secolo si basa su fonti bibliche. Naturalmente i biblisti ne trassero la conclusione che esse fossero la prova che la tenda era stata il prototipo della casa israelitica. Ma – come giustamente rileva Lemche – non abbiamo alcuna idea della data della comparsa di una forma di tenda; anzi è più verosimile che la forma di casa a tre camere rappresenti lo sviluppo di uno stile risalente al Tardo Bronzo. Pertanto essa non può ritenersi distintiva di un gruppo etnico, come se i nomadi avessero potuto inventare una nuova forma di casa appena insediati. D’altronde lo stesso stile di abitazione è rinvenibile fuori del territorio di Samaria. Analogo discorso vale per le giare a collo tondo. Anch’esse sono state trovate fuori del territorio di Israele, nella Transgiordania e altrove. Molto acutamente Lemche fa notare che il fatto che due culture materiali somiglino non significa che hanno una comune radice, perché la somiglianza può essere spiegata in termini di rapporti commerciali e interculturali. Tutta la popolazione dell’area siro-palestinese fino alla pentapoli filistea presenta un’identità culturale, parla la stessa lingua semitico-occidentale, venera gli stessi dèi e porta gli stessi nomi. Un peso decisivo sul collasso ebbe l’invasione egea, come è attestato dalla presenza di manufatti di origine egea e micenea negli strati del xii secolo nei siti costieri della Palestina. Nell’arco di poco più di un secolo la ceramica micenea (monocroma, nera) cede il passo a quella cananaica o filistea (bi(16) N. P. Lemche, The Israelites in History and Tradition, London, Spck, 1998, pp. 129-132. (17) C. G. Feilberg, La Tente noire. Contributions ethnographiques à l’histoire culturel des nomads, Copenhagen, Nordisk Forlag, 1944.
I.11 Gli scavi archeologici
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croma, nera e rossa). Se non v’è traccia di un esodo israelitico, non v’è neppure traccia di una migrazione israelitica nel Canaan. Durante il Ferro I si ha un incremento demografico della popolazione cananaica. Intorno al 1000 la regione raggiunge la cifra di 100.000 abitanti; nell’area insistono circa 300 piccoli villaggi con una popolazione dedita in prevalenza all’agricoltura. Ma i grandi centri sono ormai scomparsi. Prevalgono i piccoli villaggi con una fragile struttura sociale, i quali contano appena 100 abitanti, una ventina di case, spesso l’una a ridosso dell’altra, come effetto dell’espansione della famiglia. Davies e Rogerson(18) ci danno un’accurata descrizione della situazione economico sociale di tali piccoli villaggi. La popolazione abitava in case che imitavano lo schema a quattro camere, con la camera centrale come cortile. Molte avevano un piano superiore. In generale contenevano un nucleo familiare di cinque persone. Negli insediamenti più grandi si trovavano costruzioni pubbliche, mura difensive e piazze per i pubblici affari. Poco più di una dozzina furono le grandi città del Ferro II e di esse poche erano nuove. La loro popolazione oscillava tra i 1.000 e i 3.000 abitanti. Dan eccelleva con una popolazione di 5.000 abitanti. I villaggi vivevano del ciclo agricolo; producevano tutto l’occorrente, olio, vino, orzo, grano, cereali e legumi. Tali attività richiedevano un’organizzazione sociale, forse una struttura sociale divisa in famiglie, famiglie allargate, clan e tribù. La Bibbia parla di bêt’ab ovvero di «casa del padre», ma a differenza dei clan (mishpachah) israeliti, che a loro volta formavano una shebet (tribù), tra le famiglie non sussistevano legami di sangue. Generalmente i raccolti coincidevano con le feste; quello dell’orzo coincideva con la Festa del pane azzimo; quello del grano con la Festa delle Settimane (Pentecoste); il raccolto di frutti con la Festa delle capanne. Nel 1200 l’area occupata dal regno del Nord era costituita da città e villaggi che insistevano su Betel, Samaria e la bassa Galilea; la popolazione che vi si era insediata era cananaica. Al contrario non abbiamo certezze circa eventuali insediamenti nel regno di Giuda. Di certo non esisteva ancora un regno centrale che potesse riscuotere le tasse. Tutto fa pensare ad un’origine cananaica degli Israeliti. È significativo in proposito il versetto xvi, 3, di Ezechiele che recita: «Così dice il Signore Yhwh a Gerusalemme: ‘tu sei cananea d’origine e di nascita, tuo padre era un amorreo e tua madre hittita’». Gli amorriti compaiono alla fine del terzo millennio; tra il 2100 e il 1900 un gruppo di amorriti entrò nella Mesopo(18) Ph. R. Davies - John William Rogerson, The Old Testament World, London, T&T Clark, 2005.
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tamia. Tra il xiv e il xiii secolo gruppi di amurru erano presenti nel Libano, ma non sappiamo in quale rapporto erano con gli amorriti biblici. 11.2. L’età patriarcale: mito o storia? In generale i tradizionalisti manifestano la tendenza a confermare le cronologie e le versioni date dai testi biblici. A sostegno della storicità dell’età patriarcale essi insistono molto sulla presenza di nomi come Jacob, Joseph e Asher in talune iscrizioni egizie. Simson Najovits(19) nota che quei nomi compaiono nella lista degli schiavi in un papiro del periodo di Sobekhotep III (1745 a C). Sul cosiddetto muro di Ashkalon del tempio di Karnak, ove Ramses II narra la vittoria riportata contro Ashkalon, ci sarebbe un riferimento agli israeliti. Sulla danneggiata stele di Beit She’an di Ramses II, in un passo molto frammentario, si pretende di interpretare l’espressione t ssw yhw nel senso «yhw della terra di Shasu». Si enfatizza il fatto che nelle liste topografiche di Ramses II e Ramses III (1184-53) sarebbe citato un luogo chiamato Jacob-El, che comparirebbe anche nella lista topografica di Thutmosis III (1475-1425) a Karnak. Inoltre Ramses II menzionerebbe Joseph-El e Ramses III Levi-El. Joseph-El e Asher sarebbero citati sul tempio di Amenofi III (1387-1350) a Soleb (Nubia). Tuttavia non si può escludere che i luoghi citati appartengano ad altri popoli e non necessariamente agli ebrei. A Djanet (Tanis) è stato trovato un rilievo che descrive il massacro di Cananei e filistei a Gezer durante il regno di Siamon (978960). Siamo evidentemente nell’epoca di Salomone, il quale avrebbe sposato una figlia del Faraone, e forse proprio la figlia di Siamon. Viene poi ricordato l’attacco di Sheshonq I, riportato sul portale del tempio di Karnak. Ma il portale, almeno nelle parti non danneggiate, non cita Gerusalemme, ma Bet-Oron, Megiddo, Arad, Rabbith e un presunto «campo di Abramo». John Bright(20) segnala che nomi ebraici, come Jacob, sono presenti nella Mesopotamia e nella Palestina del secondo millennio. In un testo del 1700 proveniente da Chagar-Bazar nella Mesopotamia settentrionale uno dei capi hyksos ha il nome ya’qub’al. (19) S. R. Najovits, Egypt, Trunk of the Tree, vol. ii: The Consequences, how Egypt Became the Trunk of the Tree: a Modern Survey of an Ancient Land How Egypt Became the Trunk of the Tree, New York, Algora, 2004. (20) J. Bright, A History of Israel, cit., p. 70.
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È ciò sufficiente a dimostrare la storicità dell’età patriarcale? Possiamo dire che in proposito ci sono due fronti che si combattono con argomentazioni contrapposte. Da un lato ci sono gli studiosi che Diane Banks definisce minimalisti come Thomas Thompson, Niels Peter Lemche, Israel Finkelstein, Philip Davies, Keith Whitelam, supportati a loro volta da Gösta Ahlström e da Ernst Axel Knauf,(21) e dall’altra gli esegeti confessionali, capeggiati da William Dever e Herschel Shanks, che dirigono la Biblical Archaeological Review.(22) In realtà il problema che sta alla base della vexata quaestio è quello della storicità del testo biblico. C’è come dire una profonda divergenza di carattere metodologico: da una parte si interpretano i dati archeologici sulla base delle narrazioni bibliche e, tutto sommato, se ne cercano le conferme a tutti i costi; dall’altra si interpretano le informazioni storiche del testo biblico sulla base dei dati archeologici e si espunge da esso tutto ciò che non ha il conforto delle risultanze scientifiche. Per Thompson i testi biblici hanno il carattere di testi sociologici, politici e religiosi e spesso sono soggetti a clamorose contraddizioni, perché hanno a loro fondamento non una memoria storica, ma uno schema teologico. Le genealogie e le (21) E. A. Knauf, Jerusalem in the Late Bronze and Early Iron Periods: A Proposal, «Tel Aviv», xxvii, 2000, pp. 73-89. (22) D. Banks, Writing the History of Israel, New York, T&T Clark, 2006, per il quale la frangia massimalista e conservatrice sarebbe rappresentata da William G. Dever, Ceramics, Ethnicity and the Question of Israel’s Origins, «Biblical Archaeologist», lviii, 1995, pp. 200-213, e da Herschel Shanks, Ancient Israel; from Abraham to the Roman Destruction of the Temple, Washington, Biblical Archaeology Society, 1999, pp. 33-54. Cfr. anche W. G. Dever, Recent Archaeological Discoveries and Biblical Research, Seattle, University of Washington Press, 1990, pp. 85-117, K. Kenyon, Royal Cites of the Old Testament, New York, Barrie and Jenkins, 1971, pp. 53-70. Per le tesi dei minimalisti v. Th. L. Thompson, The Historicity of the Patriarchal Narratives: the Quest for the Historical Abraham, Berlin, De Gruyter, 1974, J. van Seters, Abraham in History and Tradition, New Haven, Yale University Press, 1975; N. P. Lemche, Early Israel: Anthropological and Historical Studies on the Israelite Society before the Monarchy, Leiden, Brill., 1985; Id., Ancient Israel: a New History of Israelite Society, London, Bloombury T & T Clark, 2015; Id., The Israelites in History and Tradition, cit.; Th. L. Thompson, The Origin Tradition of Ancient Israel, Sheffield, Jsot, 1987; Id., The Early History of the Israelite People, Leiden, Brill, 1992; Id., The Bible in History. How Writers Create a Past; London, Cape, 1999; I. Finkelstein, The Archaeology of the Israelite Settlement, Jerusalem, Israel Exploration Society, 1988; Ph. R. Davies, In Search of Ancient Israel, Sheffield, JSot, 1992; R. B. Coote - K. W, Whitelam, The Emergence of Early Israel in Historical Perspective, Sheffield, Almond, 1987; G. W. Ahlström, The History of Ancient Palestine from the Paleolithic Period to Alexander’s Conquest, Minneapolis, Fortress, 1993, pp. 1-32.
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cronologie della Genesi sono simili a quelle babilonesi e assire e quindi non sono anteriori al periodo dell’esilio. Secondo Thompson la narrativa patriarcale è folkloristica. Van Seters è convinto che essa sia stata costruita in parallelo con i documenti di Mari e di Nuzi,(23) e punta il dito su una serie di incongruenze, come l’anacronismo dell’uso del cammello, riferito al secondo millennio, l’incompatibilità di Be’er-sheba con un sito sacro del secondo millennio. In ultima analisi Thompson e van Seters giungono alla inevitabile conclusione che la storia patriarcale è frutto di un’elaborazione di data posteriore. A risultati più estremi giunge Davies per il quale l’antico Israele non è che una costruzione letteraria, prodotta da una società in cerca di una propria identità. L’antico Israele fu perciò un mito prodotto dell’establishment di Gerusalemme. Questa letteratura e questo mito vengono associati col tempo ad una cultura tradizionale e vengono fatti risalire ad essa. Albright(24) è un fermo sostenitore della storicità di Abramo, considerato un carovaniere hapiru del ii millennio. Ricorrendo all’interpretazione metaforica egli ritiene che il capitolo xiv della Genesi sia un ricordo della distruzione del Medio Bronzo I in Transgiordania e nel Negev. Analogamente il patto tra Giacobbe e Labano rappresenterebbe un’interpretazione allegorica dei buoni rapporti tra confinanti come gli israeliti e gli aramei. Il viaggio di Abraham da Ur ad Harran e al Canaan è interpretabile come la migrazione di un popolo. Ad una migrazione di aramei da Paddan-Aram alla Palestina e all’Egitto Albright associa il nome ebraico Abram e i bene Ya’qob (figli di Ya’qob). Quando viene scoperta una tomba a Beni Hasan, lo studioso sostiene che essa prova che i patriarchi entrarono in Palestina dal Nord Mesopotamia e non con gli Hyksos, ma durante il Medio Bronzo I. La scoperta delle lettere di Mari lo induce a confermare che i patriarchi migrarono da Harran. Insomma Albright sfugge alla presa come le anguille. Una notevole controversia è sorta anche in merito ai beniaminiti di Mari. (23) Sulle tavolette di Nuzi, cfr. M. A. Morrison - D. I. Owen - M. C. Astour, Studies on the Civilization and Culture of Nuzi and Hurrians, Winona Lake, Eisenbrauns, 1993, C. H. Gordon, Biblical Customs and the Nuzi Tablets, in E. F. Campbell - D. N. Freedman (eds.), The Biblical Archaeologist Reader, Garden City, Doubleday, 1964, t. ii, pp. 21-33. (24) Cfr. in particolare W. F. Albright, Abraham the Hebrew: A New Archaeological Interpretation, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», clxiii, 1961, pp. 3654; Id., From the Stone Age, cit., pp. 182-183, il quale difende la storicità dell’intera storia patriacale da Abramo a Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Cfr. anche B. Māzār, The Early History Period Historical Studies, Jerusalem, Israel Exploration Society,1986, pp. 49-62.
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Per von Soden(25) essi furono ebrei, che, per essere chiamati anche Jarihu, potrebbero essere stati i fondatori di Gerico. Ma, com’è noto, circa l’esistenza di Gerico nel Medio Bronzo, non abbiamo evidenze archeologiche. Il dibattito ebbe inizio nel 1938, allorché Dossin(26) identificò nelle lettere di Mari i nomi dumu.meš-ia-mi-na e dumu.meš-si-im-a-al. Egli interpretò dumu.mešcome bene = figli (plurale: meš) e tradusse i due nomi rispettivamente in «figli del Sud» e «figli del Nord». Nel 1958 la pubblicazione di nuove lettere di Mari costrinse Dossin ad affermare la coesistenza di molte forme corrispondenti a iamina (iaminaa, iamini, iaminim, iamena, iamii) oltre all’esistenza di forme abbreviate come iami e mii. Ciò lo indusse a concludere che il nome era probabilmente una forma mista di accadico e di semitico occidentale. Ipotesi contestata da Thompson(27) per il quale maru indica una tribù, sicché maru-iamina dovrebbe tradursi «la tribù di Iamina». Certo è che la tribù di Mari non è identificabile con i beniaminiti.(28) Ne consegue che la presenza di nomi patriarcali nella Ur del Terzo Periodo Intermedio non implica nulla, non solo perché gli stessi nomi ricorrono per tutto il secondo millennio, ma anche perché sono presenti in tutto il Vicino Oriente nei testi assiri, aramaici e arabi. Circa l’identificazione dei beniaminiti israeliti con quelli di Mari (1800) Lemche si dichiara piuttosto scettico, poiché ritiene che tra le due tribù non sussiste alcuna parentela. Albright, Kenyon e Noth(29) tentano di salvare il nucleo storico della Genesi, ipotizzando che all’inizio del secondo millennio ci sia stata un’immigrazione protoaramea. Ce ne darebbero una conferma i nomi dei patriarchi che ricorrerebbero in fonti extra-bibliche. Tutto – obietta Thomas Thompson(30) – diventa pretesto per affermare un nucleo storico: la migrazione di un gruppo di nomadi, identificati come amorriti, da Ur ad Harran; poi la scoperta di un gruppo seminomade di beniaminiti a Mari. Per salvarne la storicità si sono considerate le genealogie della Genesi come eziologiche e i (25) W. von Soden, Bibel und Alter Orient, Berlin, De Gruyter, 1985. (26) G. Dossin, Les Archives épistolaires du Palais de Mari, Paris, Geuthner, 1938. (27) Th. Thompson, The Historicity of the Patriarchal Narratives, cit., p. 64. (28) Su tutta questa materia, cfr. D. Fleming, The Legacy of Israel in Judah’s Bible. History, Politics and Reinscribing of Tradition, Cambridge, University Press, 2012, pp. 145161. (29) W. F. Albright, From the Stone Age, cit., pp. 37, 46-47, 178-184, 207; K. M. Kenyon, Archaeology in the Holy Land, cit., pp. 135-161; M. Noth, The History of Israel, transl. by S. Godman, New York, Harper, 1960, pp. 99-100, 139. (30) Th. L. Thompson, The Historicity of the Patriarchal Narratives, cit.
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nomi dei patriarchi come eponimi. Ma, come drasticamente chiude la questione Thompson, la ricerca sul nome non equivale alla ricerca sulla storicità di Abramo. Uno specioso argomento è tirato in ballo da De Vaux,(31) il quale osserva che il significato originario del nome Abram è «il padre è esaltato» (se la componente verbale è rum = esaltare). Di contro la forma Abraham potrebbe avere il significato «padre della moltitudine», che è un’interpretazione popolare. Ne consegue – a suo avviso – che, se la tradizione ha perso il significato originale del nome, è segno che esso era antico. A capovolgere la sua tesi è intervenuto Thompson, il quale ha osservato che la tradizione si è formata tardivamente dopo l’uso del nome; ed in effetti tutte le etimologie della Genesi possono essere considerate come ricostruzioni tardive di nomi che appartengono alla prima tradizione della Bibbia. D’altro canto in Genesi il nome Abraham è presentato come nome nuovo con un nuovo significato, sebbene di carattere eziologico; il che implica che esso non è originario. La questione è stata riproposta da Gressman dopo la scoperta da parte di Ungnad(32) della presenza del nome accadico A-ba-ra-am-ra-am o A-ba-raam-ra-ma o A-ba-ra-ma nelle lettere da Dilbat. Gressman credette che esso potesse identificarsi con il nome Abram. Ma successivamente cambiò opinione, convinto che le due forme nominali, Abram e Abraham, appartengono a due diverse lingue semitiche, la occidentale e l’orientale. Perciò scrive Thompson: «Tra i due nomi non c’è alcuna relazione: essi sono niente più che omonimi»; e conclude che la tesi secondo cui il nome Abram è presente solo nella prima metà del secondo millennio è falsa, perché nomi analoghi si riscontrano nei testi di Mari, in quelli assiri e in altri della seconda metà del secondo millennio. Sicché esso è un comune nome semitico occidentale. Più in generale Thompson rileva che la presenza di nomi correlati all’età patriarcale non costituisce una prova utile né per la datazione della Genesi né per la storicità della tradizione patriarcale.(33) I nomi, infatti, non sono databili ad uno specifico periodo. Giustamente egli osserva che Gia(31) R. de Vaux, I patriachi ebrei e la storia, Brescia, Paideia, 1967, pp. 12-18. (32) H. Gressmann, Sage und Geschichte in den Patriarchenerzählungen, «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaften», xxx, 1910, pp. 1-34; A. Ungnad, Untersuchungen zu den im 7. Hefte der vorderasiatischen Schriftdenkmäler veröffentlichten Urkunden aus Dilbat, Leipzig, Hinrichs, 1909, p. 51; Id., Urkunden aus Diblat, «Beiträge zur Assyriologie», vi, 1909, pp. 1-149. (33) Th. L. Thompson, The Historicity of Patriarchal Narratives, cit. Sul nome Abramo v. anche M. Liverani, Un’ipotesi sul nome di Abramo, «Henoch», i, 1979, pp. 9-18.
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cobbe e Isacco sono nomi ipocoristici formati dal solo elemento verbale e sono forme accorciate degli originali Yaqob-el e Itsahaq-el. Ma va detto che le rispettive forme piene sono solo ipotetiche, perché l’originale potrebbe essere anche Jacob-baal o Jacob-am. D’altronde – osserva Thompson – la Genesi assume il nome Yaqob con diverse accezioni, tranne quella di Yaqob-el. Infatti nella Genesi (xxv, 26) e in Osea (xii, 4) il nome è collegato a aqeb (= calcagno) con il significato «egli ha seguito il calcagno». Nella Genesi (xxvii, 36; xxv, 26) e in Geremia (ix, 3) è usato nel senso «egli fa lo sgambetto»; in Isaia (xvii, 9) è usato nel senso di «ingannevole» o «insidioso»; nella Genesi (xxx, 40) è collegato al significato «striato». Analogamente assai diversificata è l’interpretazione del nome Israel. Per la verità la sua etimologia è molto difficile. Sia nella Genesi (xxxii, 28) che in Osea (xii, 5), sebbene formulato in modo grammaticalmente ed etimologicamente scorretto, il nome presuppone l’elemento teoforico. Ma nella forma ipocoristica ha il significato «Israele [non El] è retto». Anche il nome Itsahaq sembra derivato dall’imperfetto ed è una forma ipocoristica del teoforico. La radice verbale è tsahaq = ridere, giocare, accarezzare, o shahaq = beffarsi, deridere, giocare, ecc. Sulla radice del nome Israel non c’è accordo: Brown, Driver e Briggs(34) ricorrono al verbo «persistere, contendere»; Koehler-Baumgartner(35) propendono per «combattere»; Noth(36) propone «governare»; Albright(37) suggerisce la radice yasar (= tagliare, segare), il cui significato sarebbe derivato dall’arabico wasara e dall’etiopico šaraya. Sachsse propone la radice «essere retto».(38) Nomi simili ad Israel si sono trovati in fonti extrabibliche. Da Mari abbiamo il nome semitico-occidentale Ha-am-mi-e-sa-a[r] e la forma ipocoristica Ya-sa-rum. Da Alalakh abbiamo Ia-aš-šar-hu e Ia-aš-ri-e-da. Non è chiaro se queste forme derivino da un imperfetto o se si tratta di un perfetto (in tal caso corrisponderebbe all’accadico išar = essere giusto, retto). Cor(34) F. Brown - S. R. Driver - C. A. Briggs, A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament with an Appendix Containing the Biblic Aramaic, Oxford Clarendon, 1907, ad vocem. (35) L. Köhler - W. Baumgartner, Hebräisches und aramäisches Lexikon zum Alten Testament, Leiden, Brill, 1990, ad vocem. (36) M. Noth, Die israelitische Personennammen im Rahmen der gemeinsemitischen Namengebung, Hildescheim, 1966. (37) W. F. Albright, Yahweh and the Gods of Canaan: a Historical Analysis of Two Contrasting Faiths, London, Athlone Press, 1968. (38) E. Sachsse, Die Bedeutung des Namens Israel: eine geographisch- geschichtliche Untersuchung, Gütersloh, Bertelsmann, 1922:
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rispondenti ai nomi teoforici semitico-occidentali, troviamo le forme I-sarli-im e I-šar-be-li. Ciò suggerisce che il nome Iš-re-il, trovato su un sigillo del periodo di Naram-Sin di Akkad, sia un nome accadico di radice išar e non può essere identificato con il semitico occidentale Israel. Ad Ugarit troviamo il nome Yšril che corrisponde all’ebraico Israel e che ha la stessa forma ysrir della stele di Merenptah.(39) Il nome Yaqob è risultato presente anche nell’iscrizione di Hatra: qb; qwb; nšr-qb; šmš-qb; qb-šm. Un gran numero di nomi simili si sono riscontrati in Egitto, in Mesopotamia e nel periodo vetero-babilonese. Un ulteriore esempio è stato trovato nel Livello I di Chagar Bazar al tempo di Iasmah-hadad, figlio di Šamši-Adad I di Assiria nella forma Iaah-qu-ub-an. Ad Ugarit troviamo la forma Ia-qub-ba’al. In Egitto troviamo diverse forme del nome: kbtw e kbi. Negli scarabei egiziani degli Hyksos il nome compare con l’elemento teoforico hr. Cyrus Gordon ed Ephraim Speiser(40) traggono spunto dalla scoperta delle tavolette di Nuzi del xv secolo per notare che esse presentano analogie con la legislazione e i costumi cui fa riferimento la narrativa patriarcale. Va detto che le tavolette provengono da archivi familiari e ci danno un ritratto dei costumi degli hurriti, popolo non semitico, che si sostituì ai mitanni nella Mesopotamia settentrionale intorno al 1500. Esempi di affinità con l’età patriarcale sono: il dovere della donna sterile di cedere una schiava al marito al fine di garantirne la discendenza (si pensi a Sarah e Hagar, Gn, xvi); l’opportunità per le coppie senza figli di adottare gli schiavi (esempio di Eliezer, Gn, xv, 2-3); l’uso della tipologia di accordi analoghi a quelli tra Giacobbe e Labano. Ma ci si chiede: sono sufficienti tali analogie per confermare la verità storica dell’età patriarcale? Assolutamente no. Perché, pur prescindendo dal fatto che gli hurriti non erano semiti a differenza dei patriarchi, va tenuto conto del fatto che in quella sorta di fucina di scambi interculturali, quale era il Canaan, i costumi di un popolo spesso influivano sulla vita dei popoli viciniori. Gli hurriti esercitarono una non trascurabile influenza culturale sul Canaan, che lasciò tracce fin nel primo millennio, anche dopo la scom(39) Il nome Yšril compare nel glossario della lingua ugaritica compilato da S. Segert, A Basic Grammar of the Ugaritic Language with Selected Texs and Glossary, Berkeley, California University Press, 1997, p. 188. (40) C. Gordon, Biblical Customs and Nuzu Tablets, «Biblical Archaeologist», iii, 1940, pp. 1-12; Id., Nouns in the Nuzi Tablets, Paris, Geuthner, 1936; Id., The Background to Jewish Studies in the Bible and in the Ancient East, «Sophar: An Interdisciplinary Journal of Jewish Studies», xii, 1994, pp. 1-46; E. Speiser, One Hundred New Selected Nuzi Texts for 1935 - 1936, New Haven, American Schools of Oriental Research, 1936.
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parsa del loro regno nel Medio Bronzo (intorno al 1300), quando il Canaan – osserva Finkelstein(41) – era in un’avanzata fase di vita urbana, con grandi costruzioni, palazzi, templi nelle città-stato come Megiddo e Hazor, città massicciamente fortificate. In altri termini «la storia biblica patriarcale non è la storia del Canaan». 11.3. Chi erano gli ebrei? In merito alla identità degli ebrei sono state avanzate tre ipotesi, secondo le quali essi si identificherebbero: 1) con gli shasu; 2) con gli habiru o hapiru; 3) con gli hyksos. La prima ipotesi è stata proposta da Thomas E. Levy, Russell B. Adams, Adolfo Muñiz.(42) Le loro ricerche si riferiscono all’area del Wadi Fidan in Giordania e riguardano il nomadismo degli shasu nell’antica età del Ferro II (1000-700 secolo), con l’intento di confermare le tesi di Rainey,(43) per il quale Israele si identifica con uno dei gruppi shasu che si mossero dalla terra delle steppe per ragioni di sopravvivenza. Tuttavia la presunta identificazione degli ebrei con gli shasu presenta non poche difficoltà. La prima e fondamentale è che conosciamo poco gli shasu. Sappiamo che erano verosimilmente pastori nomadi (se il loro nome deriva dall’egizio ‘girovagare’) o predatori (se deriva dal semitico ‘saccheggiare’). Li conosciamo solo da testi egizi, come d’altra parte ci dice la desinenza u del plurale egizio. La loro presenza in Egitto è attestata su monumenti della xviii dinastia (1550-1202) e del Terzo Periodo Intermedio (1075656). Ciò ha indotto Ward(44) a ritenere più probabile un’origine egiziana (41) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., p. 336. (42) Th. E. Levy - R. B. Adams -A. M. Cuadrado Muñiz, Archaeology and the Shasu Nomads: Recent Excavations in the Jabal Hamrat Fidan. Jordan, in R. E. Friedman and W. H. C. Propp, Le-David Maskil, A Birthday Tribute for David Noel Freedman, Winona Lake, Eisenbrauns, 2004, pp. 63-90. Sugli Shasu v. anche R. Giveon, Les Bédouins Shasou des documents égyptiens, Leiden, Brill, 1971. (43) A. F. Rainey, Israel in Merenptah Inscription and Reliefs, «Israel Exploration Journal», li, 2001, pp. 57-75; Id., Shasu or Habiru, «Biblical Archaeology Review», xxxiv, 2008, pp. 51-55; Id., Unruly Elements in the Late Bronze Canaanite Society, in D. P. Wright – D. N. Freedman – A. Nurvitz (eds.), Pomegranates and Golden Bells, Wilona Lake, Eisenbrauns, 1995, pp. 481-496. (44) W. A. Ward, Shasu, in D. N. Freedman (ed.), The Anchor Bible Dictionary, New York, Doubleday, 1992, vol. v, pp. 1165-1167; Id., The Shasu ‘Bedouin’: Note on a Recent Publication, «Journal of the Economic and Social History of the Orient», xv, 1972,
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degli ebrei e degli shasu. Nelle liste dei nomi di luoghi che si trovano sui templi di Amenofi III (1387-1350) e di Ramses II (1279-1212) sono indicati sei toponimi nella «terra degli shasu». La stele di Ramses II dice che il faraone saccheggiò la loro terra e occupò il monte Se’ir. Una lettera della xix dinastia menziona gli «shasu tribù di Edom». Il papiro Harrys I, risalente a Ramses III (1182-1151), recita: «Ho distrutto il popolo di Se’ir tra le tribù degli shasu: ho fatto razzia delle loro tende, del loro popolo, delle loro proprietà e del loro bestiame e li ho fatti prigionieri tributari dell’Egitto». Nell’viii anno di Merenptah (1204) il termine Edom compare per la prima volta nel Papyrus Anastasi VI (linee 51-61), il quale recita: abbiamo concesso al clan degli shasu di Edom di passare il forte di Merenptah che si trova a Sukkot (Tjeku), i pozzi di Pi-Atum di Merenptah che sono in Sukkot, per prenderli vivi e per prendere vivo il loro bestiame, per volere del faraone LPH, il buon sole.
Ma il legame tra gli Shasu ed Edom è tutt’altro che assodato. Edward Lipiński(45) ha fatto notare che la nozione geografica di Edom è successiva all’età del tardo Bronzo, quando il nome, scritto in caratteri logosillabici i-d-m e seguito dal determinativo della montagna, compare nei geroglifici egiziani. Un’altra ipotesi è che gli shasu si identifichino con i mashuash che potrebbe essere un nome composto da ma e shuash. Se shuas può derivare da shasiu, che contiene il concetto di nomadismo, oppure da uashshu, che significa straniero e contiene il concetto di ‘viaggiare’, si potrebbe giungere ad una identificazione dei masuash con gli shasu. Ma i mashuash sembrano identificarsi con gli stessi egiziani, perché l’iscrizione della tomba di Sheshonq I (945-924) a Tanis definisce il faraone «grande capo dei mashuash» e recita: «Amon-Ra-Horakhty viaggia nei cieli ogni giorno per proteggere il grande capo dei mashuash». Ciò che soprattutto si oppone all’identificazione degli ebrei con gli shasu è che questi ultimi erano libici e quindi non semitici. Si è anche tentato di identificarli con gli hyksos, ovvero con gli hykau khasut, ma pp. 35-60. (45) E. Lipiński, On the Skirts of Canaan in Iron Age. Historical and Topographical Researches, Leuven, Peeters, 2006, vedi il capitolo x: Edom. Cfr. I. Finklstein, Edom in the Iron I, «Levant», xiv, 1992, 159-172; N. Na’aman, Israel and Egypt in the 10th Century BCE, «Tel Aviv», xix, 1992, pp. 71-93.
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è ipotesi debole perché fondata su una sofisticata ricostruzione filologica; si ipotizza infatti che in greco hykau khasut diventi hyk sos per via della trasformazione di kh in s, ove sos corrisponderebbe a shas con il plurale egiziano in u. Nella stele di Kamose il faraone hyksos è descritto come asiatico e come uomo del Retenu (termine che indica l’oriente). Gli scavi di Tell ed-Daba mostrano che nel Delta orientale si stabilì una popolazione di origini non egiziane con uno stile funerario diverso da quello egiziano. Il sito si sviluppò verso la fine del xvii secolo quando gli Hyksos dominavano in Egitto con la xv dinastia. In ogni caso l’origine degli hyksos è incerta; forse erano mitanni di razza ariana oppure sciti o israeliti. Quest’ultima ipotesi deriva da Manetone, che scrive in greco e dice che gli hyksos erano re pastori: hyk = re; sos = pastori. Nella letteratura egiziana erano chiamati Amu ed erano reputati feroci distruttori. Non eressero neppure una stele o un monumento né scrissero un’opera letteraria. Il Papiro di Ipuwer ci dice che provenivano dall’Asia e che con continue escursioni tormentarono l’Egitto, finché non lo invasero, ne decimarono la popolazione, distrussero i templi, derubarono i sepolcri e si impadronirono del potere. Il primo faraone hyksos fu Salatis o Salitis con sede ad Avari. Furono fortemente avversi al culto di Iside e Horus. Il loro ultimo sovrano fu Apopi che regnò a Tebe. Immanuel Velikovski(46) identifica gli Hyksos con gli amaleciti. Il Papiro Sallier I ci fa sapere che l’umiliante arresto del principe tebano Seknenre da parte del messaggero di Apopi segnò la fine del loro regno, perché Kamose, figlio di Seknenre, come raccontano la sua stele e l’iscrizione sul muro della tomba di un ufficiale di Ahmose, fu l’artefice della loro espulsione dall’Egitto e del loro insediamento in Canaan. Gli egiziani condussero una serie di campagne armate contro il Canaan: la città di Sharuhen (identificata con l’odierna Tel Fara) subì un lungo assedio durato tre anni. L’archeologia ha evidenziato tracce di queste devastazioni alla fine del Medio Bronzo (1550). Sappiamo che Thutmosis I (1525) penetrò in Palestina, nella Siria fino all’Eufrate ove lasciò una stele commemorativa. All’avanzata egizia si opposero gli hurriti, sotto controllo dei mitanni. Una coalizione di siriani e cananei fermò le armate di Thutmosis III (1470) a Megiddo. Ma la battaglia si concluse con il controllo egiziano sulla Palestina e sulla costa sud-centrale della Siria. Le città stato del Canaan furono sottoposte alla tassazione egiziana e in compenso godettero della sicurezza e della protezio(46) I. Velikovsky, Ages in Chaos i: from the Exodus to King Akhnaton, Garden City, N.Y, Doubleday, 1952.
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ne.(47) Secondo Manetone gli Hyksos lasciarono l’Egitto in 240.000 e attraversarono il deserto fino alla Siria. Poi, atterriti dalla potenza degli Assiri, fondarono Gerusalemme nella Giudea. L’iscrizione dell’ufficiale di Ahmose ci fa sapere che, dopo la cacciata dall’Egitto, gli Hyksos ripararono a Sharuhen nella Palestina meridionale. Non è tuttavia escluso che Manetone abbia confuso Sharuhen con Jerusalem. Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman(48) hanno rilevato che i nomi dei governatori hyksos sono semiti-occidentali, cioè cananaici. Se così è, sembra si possa stabilire una certa analogia tra la penetrazione degli hyksos in Egitto e la loro successiva cacciata violenta e la narrazione dell’Esodo. Ma ciò che costituisce un ostacolo a questa tesi è la cronologia: l’espulsione degli hyksos è datata al 1570 sulla base di memorie egizie e di dati archeologici; la fuga degli ebrei dall’Egitto sarebbe caduta 480 anni prima della costruzione del tempio di Salomone (1Re), cioè intorno al 1440, a distanza di un secolo dalla cacciata degli hyksos. Per Finkelstein e Silberman la complicazione più seria sta nell’accenno ai lavori forzati cui sarebbero stati costretti gli ebrei nella costruzione delle città di Pi-Ramses e di Pi-Aton. Queste due città, infatti, non esistevano nel quindicesimo secolo. Le fonti egiziane ci dicono che Pi-Ramses (od. Khatana Kantir) fu costruita sul Delta al tempo di Ramses II (12791212) e fu sede dei faraoni della xix e xx dinastia fino al loro trasferimento nella vicina Tanis. Ciò ha indotto gli esegeti a far slittare al xiii secolo l’esodo ebraico. Ma anche questa ipotesi presenta un ostacolo insormontabile. Finkelstein obietta che durante la dominazione Hyksos non si è trovata alcuna menzione degli Israeliti, né se ne sono trovate tracce in iscrizioni posteriori o nell’immenso archivio cuneiforme di Tell el-‛Amārnah del xiv secolo, le cui lettere descrivono in dettaglio le condizioni sociali, politiche e demografiche del Canaan del tempo. Più complesso è il caso di Pi-tom, che, come ha rivelato Lemche,(49) si riferisce ad una città del periodo saitico dal settimo secolo in poi. Il nome fu usato anche prima del settimo secolo ma non in riferimento ad una città, bensì al nome di un tempio. Lavorando sulle rovine di Tell el-Mashkuta nell’Egitto nordorientale, gli archeologi sono pervenuti (47) Cfr. N. P. Lemche, The Canaanites, cit.; J. N. Tubb, Canaanites, London, University of Oklahoma Press, 1999. (48) I. Finkelstein - N. A. Silberman, The Bible Unhearted: Arch London, Univeristy of Oklaoma Press, 1999, Archaeology’s New Vision of Ancient Israel and the Origin of its Sacred Texts, New York, London, Free Press, 2001, p. 55. (49) N. P. Lemche, It is still Possible to Write a History of Ancient Israel?, «Scandinavian Journal of Old Testament», viii, 1994, pp. 165-190.
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alla conclusione che si tratta della città di Pi-tom, fondata dal faraone Nekau II (609-606 a.C.). Ne consegue che l’informazione biblica, secondo cui gli Israeliti lavorarono a Pi-Ramses e a Pi-tom prima dell’esodo è anacronistica. La terza ipotesi è che gli ebrei si identifichino con gli hapiru, considerati nomadi orientali. Nelle lettere di Tell el-‛Amārnah(50) troviamo riferimenti agli hapiru/apiru o habiru. Alcune lettere ne parlano come di mercenari. In altre sono menzionati come contadini schiavi. Il termine hapiru sembra significare ‘bandito’, quindi ha un significato spregiativo, che indica una calunnia o una maledizione non un gruppo sociale o un popolo. Esso non ha pertanto alcuna connotazione etnica. George Emery Mendenhall(51) ritiene che un piccolo gruppo di ebrei, sotto la guida di Mosè, con una concezione monoteistica e con patto egalitario, uscì dall’Egitto nell’età del Bronzo. Questo gruppo, sostanzialmente costituito da hapiru, non conquistò il Canaan, ma si mescolò con altre popolazioni semitiche, indoeuropee ed hurrite e impose loro il culto di Yhwh. Norman Karol Gottward(52) accentua l’ipotesi di Mendenhall e sostiene che gli habiru erano economicamente e socialmente oppressi dai Canaaniti e che si ribellarono ad essi, instaurando un patto egalitario tra israeliti e giudei. Ma gli studi di John Hayes e di Maxwell Miller(53) hanno sottolineato che nelle lettere di Tell el-‛Amārnah non si parla mai di migrazione degli hapiru in Canaan. Troviamo traccia degli hapiru nella iscrizione cuneiforme accadica di Idrimi, re di Siria (xv secolo). Scritta dallo scriba Sharruwa, essa è apposta alla statua di Idrimi che si trova nel tempio di Alalakh. Il testo recita: Io sono Idrimi, figlio di Ilimilimma, servo di Hadad, Hepat e Istar, la signora di Alalakh. Un atto di ostilità costrinse la mia famiglia a lasciare Aleppo e a rifugiarsi in Emar […]. Venni nella terra del Canaan nella città di Ammiah, in cui vivono cittadini di Halab, Mukis, Miya ed Amae. Ho abitato in mezzo ai guerrieri habiru per sette anni. Ho imparato ad esaminare le viscere delle pecore. (50) EA 318, 9; 185, 47; 186, 50. (51) G. E. Mendenhall, The Hebrew Conquest of Palestine, «Biblical Archaeologist», xxv, 1962, pp. 66-87. (52) N. K. Gottward, The Tribes of Yhaweh: A Sociology of the Religion of Liberated Israel, 1250–1050 B.C.E., London, SCM, 1980, pp. 401-409. (53) J. H. Hayes - J. M. Miller, A History of Ancient Israel and Judah, Philadelphia, Westminster Press, 1986, pp. 56-66, 78.
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Al di fuori del sistema vi erano i gruppi tribali di seminomadi (privi di organizzazione politica e dediti per lo più alla pastorizia. Gli Stati tentarono di assorbire al proprio interno queste organizzazioni tribali. Una categoria sociale che si incontra frequentemente nel vicino oriente è quella dei fuggiaschi (schiavi, debitori, insolventi, colpevoli di reato). Questi fuggitivi si aggregavano per ragioni di sopravvivenza in bande che razziavano e assalivano le carovane di passaggio. Tali erano dunque gli habiru; la loro identificazione con gli ebrei è del tutto inaccettabile. Ne consegue che non conosciamo l’origine degli ebrei o, forse meglio sarebbe dire, che non conosciamo l’origine del loro nome. E se non approdiamo a risultati concreti sulle matrici del loro nome esonimo, forse migliori sono le prospettive delle ricerche sul loro nome endonimo (Israele). 11.4. L’identità di Israele Ci sono evidenze archeologiche che confermano l’esistenza di Israele in Canaan o in Egitto prima del decimo secolo? Tutto ciò che abbiamo è la citata stele del tempio funebre di Merenptah del 1207, la quale si riferisce a vittorie riportate su popolazioni esterne all’Egitto. Secondo un folto numero gli studiosi, la sua importanza sta nel fatto che essa attesterebbe per la prima volta l’esistenza di Israele alla fine del xiii secolo. Il faraone Merenptah elenca le sue vittorie contro i Nove Archi, che è il nome con cui gli egizi indicavano i loro classici nemici, come i libici e i loro alleati. Il testo recita: I principi sono prostrati e dicono: ‘pace!’. Nessuno dei Nove Archi alza la testa. Desolazione è per Tehenu (Libia); Hatti è pacificato; saccheggiato è il Canaan con ogni male, Ashkalon è deportata; atterrata è Gezer; Yanoam è come se non esistesse; ysrỉr è desolato, privo del suo seme, Hurru(54) è diventato vedovo per l’Egitto! Tutte le terre sono pacificate; tutti i predatori sono stati sottomessi dal re dell’Alto e del Basso Egitto, Banere-meramun, Figlio di Ra, Merneptah, contento di Maat. (54) Tehenu è la Libia; Gezer è un villaggio prossimo a Gerusalemme, Yanoam, forse od. Tell Shihab. La terra di Hurru, menzionata anche nel Papiro Anastasi III, 1, 9-10, si stendeva da Sillô a Ôpa nella regione damascena.
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Donald B. Redford e Gerald Massey(55) respingono l’identificazione di ysrỉr con Israele, perché essi erano confederati con i Nove Archi, i quali erano predatori nordafricani, come i Kheta o i canaaniti o i nord-siriani, che facevano frequenti incursioni in Egitto ecc. Infatti, riferendosi ad una campagna libica, il testo recita: «Chiunque fu un predatore è stato assoggettato dal re Merenptah che dà vita ogni giorno come il dio sole», aggiungendo che tutti i predatori furono sterminati. Di conseguenza anche il popolo di ysrỉr fu sterminato e non ebbe più discendenza. Redford e Massey sono pertanto convinti che il faraone identifichi il popolo ysrỉr con gli shasu provenienti dalla terra di Aduma, confederati con i Libu e stanziati nella regione del Delta in cerca di sopravvivenza. Ciò troverebbe conferma nel report di un ufficiale egiziano, riportato nel papiro Anastasi vi: Un altro motivo di soddisfazione per il cuore del mio signore: noi abbiamo portato ad effetto il passaggio della tribù di shasu dalla terra di Aduma, dalla fortezza (khetam) di Merenptah-Hetephima, che è situata in Thuku (Sukkot), ai laghi della città di Pa-Tum, di Merenptah-Hetephima, che è situata nella terra di Thuku, al fine di nutrirli e di nutrire il loro bestiame nei possedimenti del faraone che è benefico come il sole.
Tutto ciò, però, non conferma l’esodo biblico, perché gli shasu furono condotti dalla terra di Edom a Sukkot e furono fedeli all’Egitto. L’invasione libica è un fatto e lo è anche la vittoria riportata su di essi da Merenptah. Poiché il popolo di ysrir fu distrutto, si deve pensare che esso si identificava con un contingente nord-siriano, alleato dei libici. Si è a lungo discusso se ysrir coincida con Israele. Giustamente Kenton L. Sparks(56) ha fatto notare che a differenza delle città, che nella stele di Merenptah sono precedute da un determinativo di località, ysrir è preceduto da un determinativo di popolo. Ma si tratta di Israele? È possibile che ysrỉr sia la trascrizione egizia dell’ebraico ysrl, tenuto conto che nell’antico egizio manca la lettera l che è sostituita da r? La difficoltà sta nel fatto che Israele è un nome endonimo ed è più precisamente un nome teoforico, composto da Êl (55) D. B. Redford, The Wars in Syria and Palestine of Thutmose III, Leiden, Brill., 2003; G. Massey, Ancient Egypt the Light of the World, vol. ii, Altenmünster, Jazzybee Verlag, 2013. (56) K. L. Sparks, Ethnicity and Identity in Ancient Israel. Prolegomena to the Study of Ethnic Sentiments and Their Expression in the Hebrew Bible, Winona Lake, Eisenbrauns, 1998, p. 108.
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e da śara (combattere, prevalere) o da śrr (governare) o forse da yšr’šr (essere retto). Comunque lo si interpreti, è un nome coniato dagli stessi ebrei, che così designavano sé stessi, e non un nome esonimo come potrebbe far pensare la stele. D’altro canto se si riflette più a fondo sulle località menzionate da Merenptah, si evince chiaramente che le popolazioni sconfitte erano tutte stanziate lungo l’arco del Mediterraneo dalla costa libica a quella fenicia, cananaica e siriano-anatolica. I loro territori sono indicati nell’ordine geografico; dapprima Tehenu, che si identifica con la Libia, poi Ashkelon, Gezer, nell’area fenicia, Yanoam, villaggio inidentificato della Siria meridionale, infine la terra di Hurru, menzionata anche nel Papiro Anastasi III, 1, 9-10, la quale si estendeva da Sillô a Ôpa nella regione damascena. Da questo punto di vista non c’è nulla che autorizzi ad identificare ysrir con Israele; anzi si potrebbe pensare che il nome si riferisca a qualche gruppo di assiri i quali in quello stesso periodo subivano un processo di espansione verso il nord-ovest a danno degli hittiti. Nell’ottavo anno (1176) del suo regno, Ramses III (1184-1153) si trovò a fronteggiare nuovamente i cosiddetti nemici dei Nove Archi e fece incidere sulla parete del proprio tempio funerario a Medinet Habu una iscrizione che ricordasse le sue vittorie. Ad essa fece precedere un’altra iscrizione che richiamava alla memoria l’impresa del quinto anno di Merenptah. Dalla iscrizione di Ramses sappiamo che il capo dei libici era Merai, figlio di Ded, e che gli infiltrati in territorio egiziano fino alle colline di Farafra erano popoli del mare, come i Serden (Shardana), Seskles (Shakalasha), Eqwes (Aqayuasha), Lukku (Luka), Tursa (Turusha). Nessuna traccia degli ysrir. Ma è evidente l’obiettivo militare dei faraoni della xx dinastia, i quali erano interessati a demolire lungo la costa mediorientale dalla Libia alla Siria le basi di appoggio dei popoli del mare. Né v’è menzione degli ysrir nell’iscrizione dell’ottavo anno, meglio conservata nel noto papiro Harrys. Men che mai si può sostenere che tra le città cananaiche menzionate sul tempio di Karnak, per essere state conquistate da Sheshonq I (945-924), vi sia traccia di un presunto ‘campo di Abramo’.(57) Se l’obiettivo era quello di tagliare le basi di appoggio ai popoli del mare, a causa delle loro frequenti incursioni lungo le coste, non è improbabile che gli ysrir fossero gruppi di Filistei (= uomini del dio El) (57) W. Spiegelberg, Die Aufenthalt Israels in Ägypten im Lichte der ägyptischen Monumente, Strassburg, Schlesier und Schweikhardt, 1904; K. A. Kitchen, Ramesside Inscription, Translated and Annotated, Oxford, Blackwell, 1999.
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o gruppi siriani della fascia costiera. Davies(58) anziché Israel, legge Yizre’el, sulla base del fatto che in egiziano s e z ebraici possono essere rappresentati sotto lo stesso simbolo. D’altro canto è significativo che nel testo biblico non sia mai menzionato Merenptah né un conflitto militare contro di lui. Anche secondo Lemche(59) la stele di Merenptah (1213-1204) si riferisce ad una vittoria sui libici. A lungo essa è stata considerata una prova dell’immigrazione israelitica nella Palestina, di una immigrazione che, oltre tutto, per essere caduta intono al 1207, non troverebbe nessuna conferma nei testi storici della Bibbia. A suggerire maggiore prudenza è intervenuta la scoperta delle lettere di Tell el-‛Amārnah nelle quali Israele non è punto menzionato. Ahlström(60) ritiene che ysrir sia un’indicazione territoriale riferita alla regione collinare centrale della Palestina. A suo avviso la localizzazione di Yano’am è sconosciuta, Hurru sarebbe costituito dal Canaan e da Israele: il Canaan indicherebbe la zona costiera e Israele quella interna. Una interpretazione analoga è stata proposta da Coote nel 1991.(61) In ogni caso i dati archeologici indicano che c’è stata una continuità tra la cultura del Tardo Bronzo e l’età del Ferro. E ciò esclude una massiccia immigrazione israelitica nel Canaan. Le risultanze archeologiche e l’analisi critica dei testi biblici non possono non condurre che ad un’unica conclusione: tutta la narrazione dalla Genesi ai Libri di Samuele e al 1Re non ha alcuna attendibilità storica. Nel 2Re e in parte nelle Cronache la leggenda e la realtà storica si confondono così da non essere l’una distinguibile dall’altra. Dalla creazione del mondo alla monarchia unitaria abbiamo solo una cornice pseudo-storica, fantasiosa, romanzesca e leggendaria, del tutto inaffidabile. Di contro la storia che va dall’origine dei due regni del Nord e del Sud, fino al rientro postesilico è un intreccio di verità storiche spesso alterate per ragioni teologiche e per l’apporto di ulteriori elementi leggendari e scarsamente affidabili. Sorge pertanto l’istanza di verificare sotto il profilo archeologico la vasta mole di dati forniti dai cosiddetti libri storici della Bibbia. Dire che il popolo ebraico passò dallo stato di nomadismo a quello residenziale significa fare un’affermazione generica, (58) Ph. R. Davies, Memories of Ancient Israel: an Introduction of Biblical History Ancient and Modern, Louisville, Ky, Westminster John Knox Press, 2008. (59) N. P. Lemche, The Israelites in History and Tradition, cit., pp. 35-38. (60) G. W. Ahlström, The History of Ancient Palestine, cit.,pp. 38-44. (61) R. B. Coote, In the Beginning: Creation and Priestly History, Minneapolis, Fortress Press, 1991; Id., In Defence of Revolution: the Eloist History, Minneapolis, Fortress Press, 1991.
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anche perché il passaggio dal nomadismo alla sedentarizzazione fu comune a diverse popolazioni che passarono attraverso i due collassi del Medio e del Tardo Bronzo. Nell’AT Israele è rappresentato come etnicità o nazione, cioè come un gruppo che ha un sangue comune, una religione comune e una lingua comune, che gode del possesso di una specifica terra, ha un capostipite comune ed un simbolo fisico-corporeo nella circoncisione. Ma fu veramente tale fin dall’origine? E se non lo fu, quando si costituì come gruppo etnico? La risposta a questo interrogativo può venire solo dopo l’esame di diverse questioni complesse, partendo dal presupposto, come suggerisce Lemche,(62) che l’AT non è una fonte primaria, ma secondaria della storia di Israele; anzi che l’AT non è una fonte storica, sebbene non sia privo di informazioni storiche. Ma prima di procedere alla lettura dei testi, valutiamo l’attendibilità dei modelli esplicativi che sono stati proposti per giustificare la presenza di Israele nel territorio del Canaan. 11.5. I modelli privi di supporti archeologici: a) il modello della conquista; b) la Peasant Revolt; c) l’infiltrazione pacifica I modelli proposti per spiegare lo stanziamento di tribù nomadi nel Canaan sono cinque: a) il modello della conquista, b) quello della Peasant revolt ovvero di una grande ribellione popolare o contadina, c) quello dell’infiltrazione pacifica, d) quello della simbiosi ed e) quello dell’etnogenesi. Il modello della conquista(63) è quello tradizionale secondo cui gli israeliti avrebbero conquistato la regione collinare interna, ma non la piana costiera o Valle di Yizre’el (od. Zer’in). Gli autori di tale ipotesi pongono la presenza di Abramo in Canaan tra il 2200 e il 1900, Giuseppe in Egitto tra il 2000 e il 1900 e l’esodo intorno al 1550. Questo modello, che è del tutto incompatibile con i dati archeologici, si può ormai ritenere obsoleto. Gli stessi autori che insistono sulla conquista armata del Canaan fanno slittare la datazione (62) N. P. Lemche, The Israelites in History and Tradition, cit., pp. 8-19. (63) Ne è teorico W. F. Albright, The Israelite Conquest of Canaan in the Light of Archaeology, «Bulletin of American School of Oriental Research», lxxiv, 1932, pp. 11-23, che tende a confermare la veridicità di tutta la narrazione biblica. Più recentemente il modello della conquista è stato condiviso da M. Weinfeld, The Promise of the Land. The Inheritance of the Land of Canaan by Israelites, Berkeley, University of California Press, 1993, pp. 103-104.
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dell’esodo alla fine del xiii secolo per allinearsi alla data della costruzione di Pi-Rames e a quella della stele di Merenptah.(64) Tuttavia non ci sono tracce archeologiche né di una presenza ebraica in territorio egiziano, né di una conquista violenta del Canaan. D’altra parte il Canaan era sotto protettorato egiziano, sicché se gli israeliti vi fossero penetrati dall’Egitto, si sarebbero ritrovati in un territorio che era sotto il controllo della potenza egiziana. Le devastazioni, anche con il fuoco, che sono venute alla luce a seguito degli scavi archeologici riguardano siti non menzionati nella Bibbia; di contro le città ricordate da Giosuè non recano tracce di devastazioni violente. Probabilmente l’idea di una conquista del Canaan ha le sue radici nel folklore popolare. La tesi della conquista ha trovato adesioni in Yadin e in Aharoni. Il primo fu condizionato dalle risultanze dei suoi scavi di Hazor,(65) fortemente ridimensionate da indagini successive. Il secondo invece sostenne che la conquisa fu il risultato di due migrazioni, quella a sud verso Qadesh-Barnea e quella descritta nell’Esodo. Al modello della conquista Bright(66) oppose quello dell’infiltrazione pacifica degli hapiru, i quali poi, oppressi dai loro signori, trovarono in Giosuè la guida che li condusse alla penetrazione della Transgiordania. All’interno delle ipotesi tradizionaliste si possono distinguere due approcci:(67) da un canto c’è quello confessionale, che resta per lo più abbarbicato al testo biblico, e dall’altro c’è quello conservatore di Albright e della sua scuola, i cui seguaci sono convinti di poter confermare il racconto dei testi sacri con l’apporto di dati archeologici extrabiblici. Più moderato è il fronte storico-tradizionale di Hermann Gunkel, seguito da Al(64) Tale è la posizione di W. F. Albright, A History of Israel, Philadelphia, Westminster Press, 1981, pp. 129-143; Id., The Israelite Conquest of Canaan in the Light of Archaeology, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», lxxiv, 1959, pp. 11-23; cfr. anche G. E. Wright, Epic of Conquest, «Biblical Archaeologist», iii, 1940, pp. 166182. Per una critica alla teoria della conquista militare, cfr. I. Finkelstein, The Archaeology of the Israelite Settlement, cit., pp. 295-302. (65) Y. Yadin, Hazor, the Head of All Those Kingsdoms, London, Oxford University Press, 1972, pp. 147-164; Id., Hazor. The Discovery of a Great Citadel of the Bible, London, Weidenfeld and Nicolson, 1975, pp. 147-248; Id., Is the Biblical Account on the Israelite Conquest of Canaan Historically Reliable?, «Biblical Archaeological Review», viii, pp. 16-23; Y. Aharoni, The Land of the Bible. A Historical Geography, Philadelphia, Westminster Press, 1967, pp. 174-253. (66) J. Bright, A History of Israel, Philadelphia, Westiminster Press, 1981, pp. 120-127. (67) V. Philips Long, Israel’s Past in Present Research. Essay in Ancient Israelite Historiography, Winona Lake, Eisenbrauns, 1999. J. H. Hayes, The History of the Study of Israel and Judean History from the Renaissance to the Present, London, SCM, 1977, pp. 7-42.
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brecht Alt, da Martin Noth e da Gerard von Rad,(68) i quali ritengono che la scrittura biblica sia stata preceduta da una tradizione orale e che gli autori dei testi non siano che i redattori che li misero per iscritto. Nella redazione dei testi essi utilizzarono unità narrative della tradizione patriarcale risalenti alle saghe popolari con il proposito di dare spiegazioni eziologiche; ovvero di spiegare l’origine di costumi, pratiche e relazioni etniche. Per Noth le principali unità narrative sono l’uscita dall’Egitto, il nomadismo nel deserto, la promessa ai patriarchi, la guida verso la terra, la rivelazione sul Sinai. Poiché il modello della conquista ha perso gran parte dei suoi sostenitori, i tradizionalisti spesso percorrono strade alternative che si incrociano con il modello della infiltrazione pacifica o con quello della peasant revolt. Tale è il caso di Mendenhall, che, a partire da talune intuizioni di Max Weber,(69) sostiene che la confederazione tribale ebraica si è originata nella terra del Canaan a seguito di una rivolta contadina contro le strutture economiche e politiche dei canaaniti; si creò in tal modo un nuovo ordine sociale fondato su un patto; la monarchia rappresentò un ritorno al primitivo stadio premonarchico e significò la paganizzazione della vita e della fede di Israele. Il modello fu ulteriormente sviluppato da Gottward.(70) Ma il limite delle tesi di Alt, Noth, Weippert, Mendenhall e Gottward sta nel loro tentativo di salvaguardare la religione israelitica anche contro l’evidenza storica.(71) Mendenhall afferma senza mezzi termini che per lui la religione è più importante della storia. Egli ritiene che la religione israelitica si sia originata nel deserto nel xiii secolo. Anzi lo stesso Israele si è originato a seguito di sconvolgimenti sociali e demografici nella Palestina del Medio Bronzo. Perciò se si è costituito nel deserto come nazione straniera, la religione israelitica è anch’essa una religione straniera. Secondo il modello dell’infiltrazione pacifica la presenza di Israele in Canaan è spiegata non in forza della violenza, ma attraverso una lenta e gradua(68) H. Gunkel, The Legends of Genesis, Chicago, The Open Court Publications, 1901, v. in particolare il capitolo iv, pp. 88-122; M. Noth, A History of Pentateuchal Traditions, Chigo, Scholar Press, 1981, pp. xvi-xvii, 3; Id., The Deuteronomistic History, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1981; G. von Rad, Studies in Deuteronomy, London, SCM, 1953. (69) M. Weber, Ancient Judaism, 1920, ed. London, MacMillan, 2010, capitolo iii, pp. 61-89. (70) G. E. Mendenhall, The Hebrew Conquest of Palestine, cit., pp. 66-87; N. K. Gottward, The Tribes of Yahweh, cit., pp. 210-219 e 345-357. (71) M. Weippert, Yahwe und die anderen Götter, Tübingen, Siebeck, 1997.
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le migrazione di gruppi di semiti, conclusasi alla fine con la nascita dello Stato israelita in opposizione alla oppressione esercitata su di loro dai filistei. Suggerito da Albrecht Alt e da Aharoni il modello ha incontrato da subito il favore di Martin Noth(72) il quale ha sostenuto che l’organizzazione tribale non fu precedente ai flussi migratori e che i nomi delle tribù furono assunti sulla base delle località regionali ad esse associate. Secondo Noth le poche città bruciate non furono distrutte dagli israeliti, ma dagli egiziani o dai filistei. Si tratta tuttavia di un modello esplicativo che non è molto felice, perché le migrazioni di pastori non superano in genere il 15 % della popolazione e tale dato, che è sempre stato costante, è del tutto inadeguato a spiegare grandi modificazioni nell’assetto demografico. L’ipotesi della penetrazione, pacifica o violenta, di Israele nella terra del Canaan va incontro ad ulteriori difficoltà segnalate da Finkelstein.(73) Questi ha fatto notare che le ricerche di Eliezer Oren(74) nel deserto settentrionale del Sinai hanno evidenziato l’esistenza di stazioni egizie lungo la strada, caratterizzate da fortificazioni di architettura militare egiziana, da un magazzino per le provviste e da un sistema idrico per l’acqua. Sicché è difficile pensare che abbia potuto verificarsi una fuga di schiavi dall’Egitto in un territorio fortemente sorvegliato per mezzo di solide fortificazioni nel deserto da una cospicua presenza militare egiziana nel Canaan. Si potrebbe ritornare all’ipotesi di un girovagare nel deserto del Sinai. Ma anche tale possibilità è contraddetta dai dati archeologici, perché, per la loro lunga permanenza nel Sinai in quarant’anni di nomadismo, gli ebrei avrebbero dovuto lasciare tracce archeologiche. Ma nonostante gli sviluppi della tecnologia consentano oggi di scovare anche le più minute tracce di vita, non è stato possibile trovare nessun segno di vita, nessuna struttura, nessun accampamento. Fin(72) A. Alt, Kleine Schriften zur Geschichte des Volkes Israel, München, Beck, 1953, t. i, pp. 256-273; Id., Essays On the Old Testament, cit., che alle pp. 133-169, contiene la traduzione inglese del saggio Die Landnahme der Israeliten in Palästina, Kleine Schriften, Leipzig, Werkgemeinsch, 1925, t. i, pp. 89-125; Y. Aharoni, Nothing Early and Nothing Late. Rewriting Israel’s Conquest, «Biblical Archaeologist», xxxix, 1976, pp. 55-76; Id., New Aspects of the Israelite Occupation in the North, Near Eastern Archaeology in the Twentieth Century (ed. James A. Sanders), Garden City, N.Y.: Doubleday, 1970, pp. 254-267; M. Noth, The History of Israel, cit., pp. 68-84. (73) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., pp. 115-117. (74) E. D. Oren, The ‘Way of Horus’ in North Sinai, in A. F. Rainey (ed.), Egypt, Israel, Sinai: Archaeological Relationships in the Biblical Period, Tel Aviv, University Press, 1987, pp. 69-119.
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kelstein ne trae la conclusione che non ci fu nessun esodo.(75) La conferma viene altresì dagli scavi condotti nelle città menzionate in Numeri. Secondo tale testo (Nm, xxxiii) gli israeliti si sarebbero accampati per 38 anni a Qadesh-Barnea, identificata con l’odierna oasi di Tell el-Qudeirat nel Sinai orientale; vi si sono trovati resti di un piccolo fortilizio dell’età del Tardo Ferro e la totale assenza di attività nell’età del Tardo Bronzo (1550-1200). Gli stessi risultati si sono riscontrati per Ezión-geber, identificata con una città sul golfo di Aqaba, anch’essa menzionata in Nm, xxxiii, 35-36. Il testo biblico aggiunge che il re di Arad, che abitava nel Negev, attaccò gli israeliti e li fece prigionieri, (Nm, xxi, 13) ma Yhwh ascoltò la loro preghiera e consegnò nelle loro mani la città votandola allo sterminio. Gli scavi, condotti in 20 anni a Tel Arad, a est di Be’er-sheba, hanno rivelato resti dell’Antico Bronzo e un forte del Tardo Ferro. Analoghi risultati si sono ottenuti con gli scavi nell’intera valle di Be’er-sheba e a Heshbon (od: Tell Hesban), capitale di Sicon, re degli amorriti, che secondo Numeri, Deuteronomio e Giudici,(76) avrebbero tentato di bloccare il passaggio di Israele. Anche in proposito Finkelstein(77) rileva che gli scavi di Tel Heshbon, a sud di Amman, non hanno evidenziato tracce del Tardo Bronzo. Inoltre, secondo il testo biblico, Mosè avrebbe incontrato la resistenza di Moab, di Edom e di Ammon, ma le ricerche archeologiche ci dicono che tutta l’area della Transgiordania era pressoché disabitata nel Tardo Bronzo. Nessuna popolazione vi si era ancora insediata, né ci furono re di Edom. Scrive Finkelstein: Molti dei toponimi del libro dell’Esodo, come il Mar Rosso (in ebr. yām sūph), il fiume Shihor sul delta orientale e il luogo di sosta a Pi-ha-hiroth, sembrano avere etimologie egizie. Tutti si riferiscono alla geografia dell’Esodo, ma non forniscono chiare indicazioni sulla loro appartenenza ad uno specifico periodo della storia egiziana. La vaghezza storica del racconto dell’Esodo consiste nel non menzionare per nome alcun monarca del Nuovo Regno egiziano […] L’identificazione di Ramses con il faraone dell’Esodo fu il risultato delle deduzioni degli studiosi moderni, basate sull’identificazione del toponimo Ramses con Ramsete.(78)
(75) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., pp. 61-65, 133. (76) Nm, xxi, 21-31, Dt, ii, 24-37; Jdc, xi, 20-28. (77) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., p. 77. (78) Ivi., p. 78.
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Se ne deve perciò concludere, come sembra fare Redford,(79) che non ci fu nessun esodo dall’Egitto. 11.6. I due modelli dell’origine intra-cananaica di Israele: d) il modello simbiotico; e) il modello etnogenetico Un’alternativa all’ipotesi di Alt è il modello dell’origine intra-cananaica di Israele. Si tratta di un modello complesso che mi sento di condividere per il suo carattere organico ed esaustivo. Esso è il risultato di indagini archeologiche dalle quali si evince che la ceramica israelita è indistinguibile da quella cananaica e che altrettanto indistinguibili sono lo stile architettonico e il sistema idrico degli israeliti e dei cananei. È interessante notare – sulla scorta di Frank Yurco(80) – che nella seconda versione della vittoria di Merenptah sulle popolazioni della costa occidentale del Canaan, gli israeliti sono rappresentati come cananei, poiché nella iconografia del muro di Ashkalon del tempio di Karnak di Ramses II, portano gli stessi costumi, guidano un carro e sono equipaggiati allo stesso modo. In altri termini l’Israele di Merenptah è pensabile come un gruppo di cananei allocati nella valle di Yizre’el. Si può aggiungere un dato ancor più significativo e più pregnante: comune alle due popolazioni era il politeismo e il culto di Êl e di Baal accompagnato dalla paredra Asherah. Si tratta, come è facile intuire, di un’ipotesi più radicale della tesi dell’infiltrazione pacifica, poiché esclude tassativamente la presenza di Israele in Egitto, la sua riduzione allo stato di schiavitù e tutta la storia dell’esodo e dell’intero ciclo dell’età patriarcale. Con la conseguenza che l’intera narrazione dalla creazione del mondo a Salomone fu elaborata dopo l’esilio. Ce ne dà conferma il fatto che non ci sono evidenze archeologiche relative a Davide e a Salomone. Soprattutto si esclude ogni ipotesi di infiltrazione di Israele in Canaan. Il modello simbiotico è assimilabile al modello di Alt, il quale si convinse che non vi fu alcuna invasione o infiltrazione semitica nel Canaan, ma ci (79) D. B. Redford, A Study of the Biblical Joseph Story, Leiden, Brill, 1970; Id., An Egyptological Perspective on the Exodus Narrative, in A. F. Rainey, Egypt, Israel Sinai, cit., pp. 137-161. Su analoghe posizioni si collocano Th. E. Thompson, The Historicity of the Patriarchal Narratives; cit., J. Van Seters, Abraham in History and Tradition, cit. (80) F. J. Yurco, Merenptah’s Canaanite Campaign, «Journal of the American Center of Research in Egypt», xxiii, 1986, pp. 189-215.
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fu una lenta e graduale evoluzione dei cananei in israeliti, allorché nell’età del Ferro mutarono le condizioni economico-sociali dell’area. Influenzato dal testo biblico, Alt ritiene che nel Canaan si ebbero due formazioni politico-statali controllate dall’Egitto: una rete di città-stato nella pianura e un regno unificato nelle regioni montuose. Secondo Callaway(81) gli israeliti assimilarono gradualmente le conoscenze e la tecnologia dei cananei. Anche Gösta Ahlström,(82) suppone che vi sia una continuità tra la cultura materiale cananaica e quella israelita e rileva come il nome di Israele, per essere un teoforico, dipendente da Êl, appartiene allo stadio evolutivo del Ferro I. Più articolata la tesi di Volkmar Fritz,(83) che parla di un rapporto simbiotico tra le popolazioni dedite all’agricoltura e prevalentemente stanziate nelle valli e nelle città e quelle stanziate nella regione collinare. La loro migrazione sarebbe avvenuta tra il xv e il xiv secolo; poi, a seguito degli sconvolgimenti prodottisi nell’età del Ferro, gli israeliti avrebbero soppiantato i cananei nelle città. Il modello etnogenetico è – a mio parere – il più conforme alla verità storica.(84) L’etnogenesi è in generale il processo di formazione di un gruppo etnico, cioè di un gruppo che, all’interno di una determinata cultura (per es. cananea), gradualmente se ne differenzia, produce una nuova cultura materiale, politico-sociale ed etico-spirituale e, in virtù di essa, si costituisce come ethnos distinto dal popolo originario. Tale modello non fa più ricorso né alla ipotesi della conquista militare né a quella dell’infiltrazione, né ad una eventuale rivolta contadina. Potrebbe se mai sembrare convergente con il modello simbiotico, ma – a mio avviso – possiede una forza esplicativa maggiore, perché ci permette di comprendere come gli ebrei si distinsero gradualmen(81) J. Callaway, Village Subsistence: Iron Age Ai and Raddana, in H. Thompson, Answers Lie Below, Lanham, University Press of America, 1984, p. 64. (82) G. W. Ahlström, Another Moses Tradition, «Journal of Near Eastern Studies», xxxix, 1980, pp. 65-69. (83) V. Fritz, Conquest or Settlement? The Early Iron Age in Palestine, «Biblical Archaeologist», 1987, pp. 84-100; Id., Die Landnahme der israelitischen Stämme in Kanaan, «Zeitschrift des Deutschen Palestina-Vereins», cvi, 1990, pp. 63-77. (84) Per il modello etnogenetico, v. I. Finkelstein, Ethnicity and Origin of then Iron I Settlers in the Highland of Canaan, «Biblical Archaeologist», lix, 1996, pp. 198-212; Th, E. Levy - A. F. Ch. Holl, Migrations, Ethnogenesis, and Settlement Dynamics: Israelites in Iron Age Canaan and Shuwa-Arabs in the Chad Basin, «Journal of Anthropological Archaeology», xxi, 2002, pp. 83-118; M. Liverani, Le ‘origini’ di Israele: progetto irrealizzabile di ricerca etnogenetico, «Rivista Biblica», xxviii, 1980, pp. 9-31; Id., Nuovi sviluppi nello studio della soria dell’Israele antico, «Biblica», viii, 1999, pp. 488-505; Id., Oltre la Bibbia, cit., pp. 66-68.
I.11 Gli scavi archeologici
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te dai cananei e comparvero come nazione solo tra il nono e il settimo secolo, quando si diedero faticosamente un’unità religiosa attraverso il culto dello yhawismo, consolidarono la propria identità in un regno, si diedero un’etica e un’organizzazione politica specifica, si posero in forte conflitto con il resto dei clan e delle tribù cananaiche, rivendicarono la loro purezza e santità rispetto alle forme politeistiche legate al baalismo e furono costretti a fondare un mito sulla loro origine antica e a costruirsi una storia in cui potessero riconoscere la loro identità nazionale. Questo processo fu duplice perché si sviluppò in due fasi successive: la prima riguardò la formazione del popolo d’Israele al Nord; la seconda riguardò la formazione dei giudei del Sud. L’identità d’Israele fu di natura politico-militare. I villaggi dell’area settentrionale riconobbero la propria identità nell’unità di una monarchia territoriale e nella forza militare, costituita da carri, cavalieri e dalla qualità degli armamenti. Ciò fece sì che gli israeliti emergessero sul resto dei cananei. Ma, pur distinguendosi da essi, conservarono in gran parte le loro stesse tradizioni religiose; praticarono una politica di alleanze piuttosto spregiudicata; ruotarono attorno ai grandi imperi, assiro, egizio e babilonese, e spesso approfittarono dei loro momenti di crisi per tentare di consolidare le proprie posizioni territoriali. Si trattò di un politica pericolosa che, come sappiamo, alla lunga, finì col penalizzarli. Non è escluso che essi avessero nel loro pantheon la figura di Yhwh, ma, se ce l’avevano, certamente non occupava i primi ranghi riservati ad Êl e a Baal. Il merito della formazione e organizzazione dello Stato territoriale va forse ascritto alla dinastia degli omridi (876-842). Per dare una identità alla loro monarchia essi ebbero bisogno di creare dei miti che cementassero l’unità dello Stato. Nacquero allora i miti dell’età patriarcale, delle dodici tribù di Israele, dell’eponimo Giacobbe/Israele, del patto con la divinità (concezione per la verità di origine cananaica), della fuga dall’Egitto e miti minori, quasi corollari di quelli a più forte carica identitaria, come il mito dell’adolescente Davide che batte il gigante Golia, quello di Sansone che sconfigge i filistei, di Mosè che guida il popolo verso la terra promessa. Non si trattava ancora di una vera e propria produzione letteraria, perché non esisteva ancora una scrittura ebraica. Però cominciava a svilupparsi una tradizione orale, in cui, tra leggende e saghe popolari, prendeva corpo una storia che poteva essere narrata con varianti più o meno sostanziali. La seconda fase è quella della formazione di Giuda, che fu del tutto indipendente dal regno del Nord, anche perché per la legge della gravitazione
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subì il fascino della potenza egizia. La Giudea era in origine un regno molto modesto e in fondo poco appetibile per essere situato in una regione montuosa ed impervia nell’altopiano centro-meridionale. La capitale, Gerusalemme, era poco più che un piccolo villaggio, che esercitava una forza centripeta sui villaggi viciniori. Qui il processo etnogenetico fu molto più lento, perché fu anche più lenta la produzione di miti e leggende. Il processo di formazione identitaria cominciò a prendere forma nello scontro con le popolazioni viciniori, come i filistei, gli ammoniti, gli edomiti e i madianiti. Ma molto verosimilmente si trattava di piccole scaramucce che sostanzialmente lasciavano inalterata la situazione geopolitica dell’area meridionale. Il nodo centrale dell’identità culturale del Sud fu quello religioso. Tutto mutò nel corso dell’ottavo secolo, allorché si profilò il lento declino di Israele, sotto gli attacchi della potenza assira. Quando nel 721 il regno del Nord fu devastato, la classe dirigente di Samaria, gli scribi, i sacerdoti, gli ufficiali dell’amministrazione non ebbero altra possibilità che rifugiarsi nella Giudea, portandovi la loro esperienza e le loro antiche mitologie. Si produsse così un processo di amalgama di due distinte etnie, ciascuna delle quali aveva una propria identità e si creò una nuova etnia israelitico-giudaita, fondata su valori politico-militari, sulla cultura religiosa e sul rigorismo etico. Nell’arco di 135 anni due popoli distinti ne partorirono uno solo, che ebbe il compito di revisionare la storia e la mitologia elaborata nel Nord al fine di darsi una radice comune e di rileggere la storia in modo da includere in un’organica tessitura tutto il loro passato. L’elemento unificatore fu trovato nella nascita dello yhawismo. L’idea geniale fu quella di puntare su Yhwh, che fino ad allora era stato uno dei tanti dèi del pantheon meridionale e forse anche di quello settentrionale, per farne un dio nazionale, protettore e insieme punitore del popolo israelitico-giudaita, e per ciò stesso capace di dare una lettura unitaria della sua storia. Le tappe fondamentali di questo processo furono da un lato la progressiva assimilazione delle divinità del Nord e del Sud (Yhwh ed Êl divennero come due facce della stessa medaglia) e dall’altro la progressiva radicalizzazione del culto monolatrico di Yhwh. Da una parte Yhwh finì con l’assorbire tutti i caratteri teologico-cultuali e liturgici di Êl e di Baal, in modo che i fedeli avessero l’impressione di vivere all’interno della propria tradizione religiosa (in ambito religioso non sono mai possibili le brusche fratture con il passato); dall’altra, soprattutto sotto i regni di Ezechia e di Giosia, il culto yhawistico assunse una sua specifica fisionomia; Yhwh assunse le vesti di un
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dio condottiero (il dio degli eserciti, devastatore dei nemici), che chiedeva per sé, al pari di tutte le divinità vicino-orientali, lo sterminio (hērem) delle popolazioni oppresse, e insieme le vesti del dio misericordioso, il dio della fede e del reciproco amore, che rivendica a sé il proprio popolo come proprietà personale, non lo abbandona e lo soccorre nel momento del bisogno. Proprio tra il settimo e il sesto secolo le mitologie che in precedenza erano affidate alla tradizione orale, vengono messe per iscritto. Nasce una letteratura storico-teologico-religiosa, in cui tutta la storia antica e la mitologia settentrionale viene rivisitata alla luce del nascente yhawismo, tanto più che la stessa sorte che aveva travolto il regno del Nord, colpisce inesorabilmente anche il regno del Sud. Israele e Giuda si fondono insieme, formano un unico popolo, perché Giuda si configura come una creatura «uscita dal grembo di Israele» ed emerge come la tribù più fedele a Yhwh tra le dodici di generazione giacobita. Di conseguenza la storia dei due popoli diventa una storia comune, ma con una forte impostazione teologica, per cui le sorti avverse e quelle propizie dipendono dalla fedeltà o dalla trasgressione alla legge imposta da Yhwh. Tutta la storia identitaria che Israele si era costruita viene rivisitata sulla scorta del nuovo parametro yhawista. I documenti della mitologia israelitica o, come vengono spesso indicati, elohistici, se c’erano o anche se erano rimasti al livello di tradizione orale, vengono riletti alla luce dello yhawismo. È questo processo che spiega le doppie versioni, le contraddizioni, i cascami di un elohismo superato che caratterizzano gran parte dei testi biblici, in particolare la Genesi. 11.7. Gli scavi di Gerusalemme Tutti i nodi si sciolgono sulla base degli scavi archeologici.(85) Gli scavi di Gerusalemme sono stati condotti nel 1967 da Māzār nell’area di Haram al Šharīf (spianata delle Moschee), da Avîgād nel quartiere giudaico della città vecchia, da Yigal Shiloh(86) sulla collina sudorientale. I risultati sono (85) M. Steiner, Expanding Borders: the Developpment of Jerusalem in Iron Age, in Th. L. Thompson - S. K. Jayyusi, eds.., Jerusalem in Ancien History and Tradition, London - New York, T.& T. Clark, 2003, pp. 68-79; Id, David’s Jerusalem, Fiction or Reality? It’s not there: Archaeology Proves Negative, «Biblical Archaeology Review», xxiv, 1998, pp. 34-41; I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., p. 138. (86) B. Māzār, The Mountain of the Lord, Garden City, Doubleday, 1975; A. Māzār, Archaeology of the Land of the Bible, cit.; N. Avîgād, Archaeological Discoveries in the Jew-
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molto controversi. La città antica è stata localizzata non entro i confini dell’attuale città vecchia, ma più a sud sul lato sudorientale della collina, oggi chiamata «città di Davide» la quale sorse presso la sorgente del Gihon. Già nell’età dell’Antico Bronzo (3000) alcune popolazioni abitarono questa collina, poiché ci hanno lasciato i resti di un piccolo altare e di alcune tombe. Tradizionalmente si riteneva che nell’età del Ferro (1200-587) la città antica fosse abitata dai Gebusei e fosse stata trasformata da Davide in capitale. I reperti archeologici raccontano tutt’altra storia. Sulla collina sudorientale presso la sorgente del Gihon è stata scavata una serie di terrazze costruite con pietre e terra su una precedente costruzione che presenta una serie di colli di giara, giacenti su un piano intonacato. La tipologia delle giare è la stessa di quelle rinvenute all’interno del Canaan, sia ad ovest che ad est del Giordano, risalenti al Ferro I. Il sistema di terrazze consiste di sette piani che scendono sul versante della collina e sono fermate a sud da un solido muro. L’intera struttura è alta almeno 20 metri. Anche la ceramica trovata in corrispondenza delle terrazze appartiene al Ferro I. Perché fu costruito questo sistema di terrazzamenti? Dall’analisi della roccia si evince che sulla vetta della collina una roccia alta tre metri formava un naturale muro di protezione da est a ovest su tutto il fronte settentrionale. Esso ha funzionato come tale nel Medio Bronzo. Sul versante sud invece c’è stata un’erosione della roccia. Gli abitanti dell’età del Ferro, per continuare ad utilizzare il muro settentrionale come muro di protezione, non costruirono una città completa, ma solo una struttura protettiva perché avevano bisogno di una costruzione che consolidasse il muro settentrionale. Di questa struttura non è rimasto nulla. Potrebbe essersi trattato di un cascinale o di un santuario. In ogni caso si trattò di una fortificazione del muro settentrionale. Non si può escludere che la fortificazione sia stata opera di egiziani intorno al xiii secolo. Tuttavia né la ceramica, né le fortificazioni mostrano influenze egiziane. Nell’età del Ferro intorno all’xi secolo si costruì un villaggio annesso alle fortificazioni. All’inizio del Ferro II (1000-587) la situazione cambiò. L’immagine tradizionale di una Gerusalemme grande, fortificata con palazzi e magazzini è quella del testo biblico (Salomone e Davide), ma i recenti saggi di D. Jamieson-Drake e di T. L. Thompson(87) ci descrivoish Quartier of Jerusalem, Jerusalem, Israel Exploration Society, 1976; Y. Shiloh, Underground Water Systes in the Land of Israel in the Iron Age, in A. Kempiski (ed.), The Architecture of Ancient Israel from the Prehistoric to the Persian Period, cit., pp. 271-293. (87) D. W. Jamieson-Drake, The Scribes and Schools in Monarchic Judah: A Socio-ar-
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no il sito come una piccola città mercato. Nel decimo/nono secolo Gerusalemme non fu affatto una grande città reale, ma un centro amministrativo di importanza regionale. Sfortunatamente non è stato possibile datare la ceramica. Quella che di solito è datata al decimo secolo potrebbe essere degli inizi del nono secolo o forse anche più tarda. Si sono trovate parecchie strutture del decimo e del nono secolo. La più cospicua è la cosiddetta struttura di pietra impregnata, la quale consiste di un mantello di pietre e di alcune terrazze adiacenti che si trovano su una precedente costruzione e su detriti del versante della collina. Originariamente doveva essere di 27 metri di altezza e 40 di larghezza e forse aveva una funzione difensiva. Legato a questa struttura c’era un muro a casamatta. Alcuni elementi della costruzione furono riutilizzati per altre costruzioni, tale è il caso di un capitello protoeolico, datato al nono secolo. Si è anche trovata una mano di bronzo che potrebbe appartenere a Baal. Tutto fa supporre che ci fossero fortificazioni, edifici pubblici e forse un tempio dedicato a Baal. Sorprende la scarsità delle case. Nella città del Medio Bronzo era stata usata la scarpata della collina per costruire le case; in quella del decimo e del nono secolo, l’area relativa alla costruzione sembra essere stata molto ristretta. Gli scavi a nord, condotti da Māzār, hanno portato alla luce una grande struttura a forma di torre, forse un’uscita databile al nono secolo. Sulla base dei dati archeologici la Gerusalemme del nono secolo è una piccola città occupata da edifici pubblici. La sua grandezza non doveva superare i 12 ettari e doveva essere abitata da non più di 2.000 abitanti. Ciò significa che la città edificata tra il decimo e il nono secolo fu un piccolo centro amministrativo o al più la capitale di un piccolo Stato. Gerusalemme cioè era simile ad altre città dello stesso periodo, come Hazor, Megiddo, Gezer e Lachish, tutte piccole città con analoghe caratteristiche: grandi fortificazioni, pubblici edifici e poche case. Nel settimo secolo la situazione cambia. Si può ricostruire la situazione della città nella seconda metà del settimo secolo prima della distruzione. Ora la sua grandezza è di 50 ettari e la popolazione raggiunge forse i 10.000 abitanti. La città è fortificata con mura di 5-7 metri di larghezza, costruiti alla fine del 700. Non sono emersi resti di edifici pubblici o palazzi costruiti nel settimo secolo. Sono state scavate le case della cosiddetta élite di Gerusalemme. La città presenta strade larghe di 2 metri ad angoli retti per l’accesso alle case, alte uno o due piani. Ciascuna chaeological Approach, Sheffield, Almond Press, 1991; Th. L. Thompson, Early History of the Israelite People: from the Written and Archaeological Sources, Leiden, Brill, 1992.
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casa è dotata di acqua e di servizi igienici. Si sono trovati pezzi di ferro e di bronzo, un’officina del bronzo e una collezione di pesi di pietra. La cosiddetta casa delle bullae ha fornito 51 bullae, i resti di un archivio. Shiloh(88) lo ha interpretato come un archivio di Stato, ma in realtà le bullae sono state trovate su pezzi di ceramica e su altri piccoli oggetti di uso familiare: un coltello di ferro, un pestello di pietra. Si è perciò pensato adun archivio privato. Nella zona sud è stato trovato un suburbio dominato da una costruzione denominata ‘la casa bugnata’. Prima del 701 esisteva un sistema di insediamenti strutturato gerarchicamente, in cui Gerusalemme era la città più importante; le altre erano città amministrative (Be’er-sheba, Lachish), città con produzioni specializzate (Tell Beit Mirsim, Gibeon) o città residenziali (Tell en-Nasbeh). Si trattava di una complessa struttura economica. Molti prodotti dell’agricoltura erano immagazzinati in piccole città; l’olio e il grano erano esportati con contratti interregionali, concentrati a Gerusalemme. Il sistema scompare all’inizio del vii secolo a causa della distruzione assira. Nel prisma di Taylor, scoperto a Ninive, Sennacherib annota: «Poiché Ezechia, il giudeo, non ha voluto sottomettersi al mio giogo, ho assediato e catturato 46 delle sue città fortificate più forti così come le città più piccole nelle loro vicinanze». In realtà egli non distrusse solo le città della Giudea, ma anche le intere infrastrutture urbane. Molte delle città non si risollevarono più dopo il fatidico 701. Dagli scavi di Be’er-sheba, Tell en-Nasbeh, Tell Beit Mirsim e Bet-šemeš emerge che le fortificazioni non furono più riparate. A Lachish furono costruite nuove fortificazioni, ma le attività al loro interno furono limitate. Altre città importanti, come Gezer e Timnah (od: Tell Batash) furono consegnate dagli assiri ai filistei. La Giudea si spopolò parzialmente. I sopravvissuti si insediarono altrove; molti rientrarono nelle loro case dopo la partenza degli Assiri. Le città persero i loro precedenti ruoli amministrativi, quali lo sviluppo del commercio e dell’industria, la raccolta delle tasse, la protezione dei villaggi. Si salvò solo Gerusalemme, l’unico centro amministrativo e commerciale. Nella seconda metà del vi secolo si hanno nuovi insediamenti, lungo il Mar Morto, nell’oasi di Gerico, mentre a Ramat Rachel si costruì un nuovo palazzo reale. Probabilmente questa attività costruttiva fu determinata dal fatto che il re voleva stabilire un forte stato centralizzato. Ma gli insediamenti riguardavano le nuove città; le vecchie non furono rivitalizzate. Né è possibile stabilire se le élites ebbero po(88) Y. Shiloh, Excavations at the City of David: Inscriptions, Jerusalem, The Hebrew University of Jerusalem, vol. vi, 2000, pp. 19, 29, 97, 115.
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tere nella seconda metà del secolo. Gli annali di Nebuchadnezzar non fanno riferimento ad alcuna città fortificata. Nella Cronaca di Babilonia si dice: «Nel settimo anno, nel mese di kislev, il re di Akkad, ammassò le sue truppe, marciò contro la terra degli Hatti e si accampò contro la città di Giuda e nel secondo giorno del mese di adar assediò la città e catturò il re». In una delle costruzioni vicine al palazzo reale, forse un magazzino, furono trovati gli ostraka su cui compaiono nomi che sono presenti nell’AT; ma ci sono anche nomi di origine egiziana, nomi con il teoforico di Baal e nomi che contengono la forma abbreviata di Yhwh. È evidente che lì c’era una popolazione mista di canaaniti che veneravano Baal e di israeliti che veneravano Yhwh. Nel testo biblico risulta che anche gli israeliti ricorrevano al nome Baal. Tali erano per esempio i nomi Jerub-baal (Jdc, vi, 32) e quelli di due discendenti di Saul, cioè Ishbaal (Ishbosheth) e Meribaal (Meribosheth). L’iscrizione del tunnel di Silo, la cui costruzione, ricordata in 2Re, 2Cronache e in Sirach,(89) fu opera di Ezechia, ma il testo biblico non fa riferimento alla ribellione di Ezechia contro gli Assiri. Il pozzo di Silo, da cui esce il tunnel, non si trova dentro le mura della città di Davide, ma appena fuori. Si è supposto che il muro occidentale, costruito da Ezechia, comprendesse all’interno il pozzo, ma mancano le prove per questo assunto. In sostanza non sappiamo se il tunnel fu costruito per ragioni militari. Esso copre una lunghezza di 320 metri, ma a causa di numerose curve la sua lunghezza effettiva è di 534 metri. L’iscrizione di Silo, scoperta nel 1890, non cita nessun re, ma solo i maestri della pietra e gli scalpellini. Come segnala Francesca Stavrakopoulou,(90) secondo Finkelstein la formazione degli stati di Israele e di Giuda avvenne separatamente sia sul piano cronologico che su quello geografico. Egli ritiene che lo stato di Giuda non può essere anteriore all’viii secolo, mentre la regione settentrionale (regno del Nord) presenta fin dagli inizi del nono secolo insediamenti fortificati e costruzioni pubbliche nelle città di Samaria, Megiddo e Yzre’el. Gli insediamenti abitativi mostrano un incremento demografico tra il decimo e (89) 2Re, xx, 20; 2Chr, xxxii, 30; Sr, xlviii, 17. (90) F. Stavrakopoulou, King Manasseh and the Child Sacrifice: Biblical Distorsions and Historical Realities, Berlin, De Gruyter, 2004, p. 7; I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., pp. 167-172; Iidem, Temple and Dynasty: Ezekiah, rhe Remaking of Judah and the Rise of the Pan-Israelite Ideology, «Journal of the Study of the Old Testament», xxx, 2006, pp. 259-285; I. Finkelstein, An Archaeology of the United Monarchy: An Alternative View, «Levant», xxviii, 1996, pp. 177-187; Id., The Settlement History of Jerusalem in the Eighth and Seventh Centuries BC, «Revue Biblique», cxv, 2008, pp. 499-515.
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l’ottavo secolo e l’esistenza di un sistema gerarchico tra le città che presuppone una statalità sviluppata. Nei centri residenziali del Nord sono presenti costruzioni bugnate, come in Hazor, Megiddo, Gezer, Dan, Ta’anach e soprattutto a Samaria. Secondo Finkelstein e Silberman Giuda e Samaria si svilupparono indipendentemente. Con tutta probabilità Israele fu uno stato indipendente un secolo prima (nono) di Giuda (ottavo). Nel nono secolo Giuda era poco più che un gruppo di insediamenti rurali. Alcuni dati archeologici sono significativi. Nell’iscrizione di Karnak, relativa alle vittorie di Sheshonq I, Gerusalemme non è menzionata, ma lo sono Megiddo, Ta’anach e Bet-She’an. Lo Stato del Nord esercitava un ruolo di predominio nell’area siro-palestinese. Non c’è traccia della discendenza da un’unica monarchia. Le fonti assire non danno riscontro della presunta alleanza siro-efraimita contro l’Assiria. Gli assiri intervennero spesso contro le rivolte in Siria e in Palestina. Tre iscrizioni sintetizzano la campagna assira contro le città della Palestina nel 734 e includono Achaz di Giuda tra i tributari. Tra il 733 e il 732 Tiglat conquista e spopola lo stato di Samaria. I territori annessi diventano province assire (Du’ru, Magidu, e Gal’aa). Gli annali assiri dicono di aver deportato gli abitanti della casa di Omri e di aver rimpiazzato Peqah con Osea. Nell’arco di un decennio il regno di Israele cessa di esistere. Nelle iscrizioni mesopotamiche sia Salmanassar che Sargon II dicono di aver conquistato Samaria. Il 721 segna in ogni caso la sua fine. Nel prisma di Nimrud, redatto da Sargon leggiamo: gli abitanti di Samaria che si accordavano e complottavano con un re ostile a me per non pagare il tributo ad Assur e mi diedero battaglia, io li ho combattuti con il potere dei grandi dèi, miei signori. Ho catturato 27.280 uomini con i loro carri e gli dèi in cui credevano. Con 200 dei loro carri ho formato una unità per la mia forza reale. Gli altri li ho trapiantati nel mezzo dell’Assiria. Ho ripopolato Samaria più di prima. Ho portato ivi popoli dalle regioni conquistate con le mie mani. Ho messo il mio eunuco come governatore su di loro. E li ho conteggiati come assiri.
Giuda in quello stesso tempo era vassallo dell’Assiria, come ci fa sapere un’iscrizione di Tiglat che annovera Achaz come tributario. Con la distruzione di Samaria, il regno del sud si ritrova alle porte l’impero assiro. Ciò fu – secondo Finkelstein e Silberman(91)- un fatto positivo sotto il profilo eco(91) I. Finkelstein - N. A. Silberman, Le tracce di Mosè, cit., pp. 243-244.
I.11 Gli scavi archeologici
275
nomico, perché Giuda incrementò le sue opportunità commerciali e si sviluppò in termini demografici. Gli scavi archeologici dimostrano che alla fine dell’viii secolo Gerusalemme si sviluppò con pubblici edifici; l’area residenziale si estese rapidamente sulla collina occidentale e nel giro di qualche decennio la città conobbe un rapido sviluppo che la trasformò in città regale. La fine di Israele ebbe un impatto sull’ideologia religiosa di Giuda. In previsione di un attacco assiro, Ezechia (716-687) fortificò la città. L’attacco venne nel 701 e fu disastroso. Così lo descrive Sennacherib: Come Ezechia, il giudeo, io ho assediato 46 delle sue città fortificate sparse nella valle. Usando rampe; con attacchi di mines, brecce e macchine d’assedio le ho conquistate. Ho catturato 200.150 uomini, giovani e vecchi, maschi e donne, cavalli, muli, donkeys, cammelli, bestiame e sheep e li ho presi come spoglie. Ho collocato lui stesso [Ezechia] in Gerusalemme, sua città reale, come un uccello in […].
I giudei interpretarono la disfatta samariana come conseguenza di una mancanza contro gli dèi o dell’abbandono del santuario di Samaria. Sargon II spogliò il tempio, portò via le statue e mise fine al culto di Samaria. La stessa fine capitò agli dèi primari, a Yhwh di Samaria, come dice una iscrizione di Kuntillet Ajrud. Si rafforzò l’idea che se Yhwh di Samaria non tutelò gli israeliti, quello di Gerusalemme avrebbe protetto i giudei. Nella iscrizione ebraica n. 12 (vi secolo a.C.) di Khirbet Beit-Lei, vicino a Lachish, è scritto: «Yhwh è il dio di tutta la terra. La terra di Giuda appartiene al dio di Gerusalemme». Sulla base di un esame al radiocarbonio 14 Finkelstein(92) ha proceduto ad un abbassamento della cronologia tradizionale dell’età del Ferro in relazione all’area centromeridionale della Palestina. I risultati da lui ottenuti sono i seguenti: l’età del Ferro I passa dal 1200-1000 al 1150-925; il Ferro IIA dal 1000-900 al 925-875; il Ferro IIB dal 900-734 all’875-725; il Ferro IIC dal 734-586 al 725-575. Andrew Vaughn e Ann E. Killebrew(93) hanno posto in rilievo che sotto (92) I. Finkelstein, To Date or not to Date; Radiocarbon and the Arrival of the Philistines, «Ägypten und Levante: Internationale Zeitschrift für ägyptische Archäologie», xxvi, 2016, pp. 275-284. (93) A. G. Vaughn -A. E. Killebrew, Jerusalem in Bible and Archaeology, the First Temple Period, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2003, cfr. J.- M. Cahill, Jerusalem
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il profilo archeologico non c’è una vera e propria stratificazione archeologica di Gerusalemme, perché le costruzioni erano in pietra e poggiavano direttamente sulla roccia; pertanto gli strati successivi, essendo anch’essi poggiati sulla roccia comportavano la totale distruzione di quelli precedenti. In sintesi emerge che gli insediamenti del Tardo Bronzo appaiono più piccoli e meno numerosi di quelli del Medio Bronzo. Per la loro frammentarietà tali resti hanno indotto a pensare che nel Tardo Bronzo Gerusalemme fosse o disabitata o fosse sede di uno Stato baronale. Ma lo Stato di Gerusalemme è attestato da sei lettere cuneiformi trovate a Tell el-‛Amārnah e scritte dal re Abdi-Heba. Da esse si evince che il Canaan nel Tardo Bronzo era diviso in una rete di regni di varia grandezza e retto da governatori considerati vassalli del Faraone, il cui centro politico era il palazzo reale. Lo stesso Abdi-Heba era probabilmente a capo di un piccolo stato vassallo dell’Egitto. Gli insediamenti del Tardo Bronzo non erano significativamente diversi da quelli del Medio Bronzo. Sappiamo che il Tardo Bronzo si concluse con il collasso dell’impero egiziano e con la distruzione di molte città-stato, ma i reperti archeologici non mostrano tracce di distruzione di Gerusalemme. Ciò che è sorprendente è che delle costruzioni bibliche, il tempio, la cittadella di Sion, il palazzo reale, il Millo, non c’è traccia né si riesce ad individuare la loro possibile localizzazione. Le ricerche archeologiche sono proseguite a ritmo frenetico nel tentativo di smontare le tesi di Finkelstein. Vi si sono cimentati Shiloh, Kenyon e Māzār(94) sulla base del principio che l’assenza di evidenze non equivale all’evidenza dell’assenza. Ma è un bel dire: l’assenza prova ciò che non c’è e che ci si aspettava che ci fosse. La realtà è che delle grandi costruzioni bibliche non c’è alcuna traccia. Basandosi su uno scrupoloso studio della ceramica palestinese e sulle sue somiglianze con quella trovata negli scavi di Ussishkin, risalente al nono secolo, con quella trovata sui pavimenti di Tel Jezreel e dei livelli IVA e IVB di Megiddo e con quella di altri siti, come Gezer e Hazor, Finkelstein conclude che tutta la ceramica rinvenuta risale alla metà del nono secolo.(95) Ne consegue – a suo avviso – che Israele non esisteva come at the Time of United Monarchy; the Archaeological Evidence, in Jerusalem in Bible and Archaeology, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2003, pp. 13-80. (94) Y. Shiloh, Excavations at the City of David: Inscriptions, cit.; K M. Kenyon, Jerusalem: Excavating 3000 Years of History, London, Hudson, 1967; E. Māzār, Excavate King David Palace, «Biblical Archaeological Review», xxiii, 1997, pp. 50-57; Id., Iron Age Chronology. A Riply to I. Finkelstein, «Levant», xxix, 1997, pp. 155-165. (95) I. Finkelstein, Il regno dimenticato, Roma, Carocci, 2014, p. 141.
I.11 Gli scavi archeologici
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etnicità autonoma nel Ferro I e non esisteva come Stato prima del nono secolo; di contro lo Stato giudaita non esisteva prima dell’viii secolo. Sulla questione Finkelstein(96) è ritornato in un successivo saggio, in cui ha sintetizzato i risultati degli scavi condotti a Gerusalemme per circa un secolo. Ne risulta che le evidenze archeologiche riguardano due periodi: il Medio Bronzo II e III e il Ferro II (viii-vii secolo). Il periodo intermedio che va dal 1550 al 750 contiene sì tracce di abitazioni, ma non di costruzioni monumentali. Di contro è certo che nella seconda metà dell’ottavo secolo l’area costruita di Gerusalemme si estese dalla città di Davide alla collina occidentale; nello stesso tempo dozzine di insediamenti di piccolo calibro comparvero nella regione montuosa a sud di Gerusalemme. L’incremento demografico di Giuda si spiega per effetto della fuga dalle città devastate dagli assiri; in particolare dalla devastazione del regno del Nord nel 721 e della Shephelat giudaita da parte di Sennacherib nel 701. Nel 730 il re Achaz di Giuda decise di cooperare con l’Assiria e di integrarsi nel sistema economico siriano, nella convinzione di poter esercitare un ruolo strategico nell’area meridionale. Finché prosperò il regno del Nord, Giuda restò uno Stato marginale; la caduta del Nord comportò lo sviluppo del Sud. La Gerusalemme del decimo secolo (presunta monarchia) non era più che un piccolo insediamento limitato alla vecchia città di Davide del Medio Bronzo. I dati archeologici relativi al periodo sono così magri da escludere il ruolo di capitale. La Giudea era relativamente vuota, abitata da piccoli gruppi in modestissimi villaggi. Sulla base di tali ragioni Finkelstein ritiene che Giuda assurse ad un ruolo di rilievo solo nel tardo viii secolo.(97) L’obiezione è che Giuda sembra essere sorto dal nulla. Come si può spiegare il passaggio dagli scarsi insediamenti del decimo secolo e quelli più intensi del tardo viii secolo? La storia della conquista davidica di Yebus è priva di rilevanza storica. La descrizione biblica dello splendore di Gerusalemme ai tempi di Salomone è un quadro idilliaco. Nel decimo secolo abbiamo una situazione analoga a quella di Abdi-Heba (Tell el-‛Amārnah) con due centri di potere (Sichem e Gerusalemme) e insediamenti sparsi. Il processo di incremento demografico partì dal Nord, ove si ebbe un sistema denso di insediamenti. Inoltre nella valle settentrionale nel decimo secolo si ebbe una ripresa della cultura cananaica e del sistema politico-territoriale del secon(96) I. Finkelstein, The Rise of Jerusalem and Judah: the Missing Link, in A. G. Vaughn - A. E. Killebrew, Jerusalem in Bible and Archaeology, cit., pp. 81-101. (97) I. Finkelstein, Il regno dimenticato, cit., pp. 142, 152.
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do millennio. I centri principali di quelli che Finkelstein definisce «nuovo Canaan»(98) sono Megiddo VIA, Dor, Tel Rehov e Kinneret V. L’idea che la povera Gerusalemme con insediamenti sparsi fosse un centro prospero e sontuoso è semplicemente assurda. La biblica descrizione di una monarchia unita rappresenta più che una realtà storica un’ambizione territoriale della Giudea del settimo secolo. Essa è una mitica costruzione dei tempi di Giosia. 11.8. La lingua e la scrittura: matrice ebraica o canaanaica? Si è detto(99) che non è possibile pensare che il racconto dei Re e di Samuele possa risalire al decimo secolo, perché non abbiamo notizie di una scrittura ebraica prima della fine del decimo secolo. Il primo esempio è il calendario di Gezer (910 a.C.), ma non abbiamo nessuna certezza che si tratti di un documento ebraico. Nei testi biblici non ci sono tracce di un linguaggio ebraico arcaico; se mai si può parlare in taluni casi di linguaggio arcaicizzato. Forse solo un paio di canti sembrano avere una redazione più antica. Potrebbero essere tali il cantico di Deborah e quello di Mosè (Jdc, v, 1-31; Dt, xxxii, 1-43). Tuttavia a parere di Vernes(100) il primo, per la presenza di forme di derivazione aramaica, non sarebbe stato composto prima del v secolo; infatti, tali sono i termini middîn = arazzi ( )מךיןal decimo rigo; il pronome relativo she (– )שinvece di ‘ăšer ( )אשדdue volte al settimo rigo; amamim = popolo ( )עמםinvece di עםal rigo 14; šāray = principi ()שרי al rigo 15; tsavrê = collo ( )צואריal rigo 30. In altri testi non biblici, quali alcune iscrizioni dell’viii secolo, gli scrittori usavano un sistema di numeri ieratico, usato dagli egiziani fin dal Ferro II. Uno dei centri in cui tale sistema si conservò fino all’viii secolo è Gerusalemme. Si vuole che il sistema sia stato recepito dai Gebusiti, che, però, a giudicare dai dati archeologici, non sono mai esistiti. Secondo Noll(101) i passi più arcaici sarebbero i seguenti: i poemi del 1Samuele e del 2Samuele;(102) la lista di amministratori locali nel 2Samuele (viii, 16-18; xx, 23-25), le pericopi (98) Ivi, p. 161; Id., Tel Rehov and Iron Age Chronology, «Levant», xxxvi, 2004, pp. 181-188. (99) v. supra, par. 8.1. (100) M. Vernes, Le cantique de Débora, «Revue des Études Juives», xxiv, 1892, pp. 52-67, 225-255: 249. (101) K. L. Noll, The Face of David, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1997. (102) 1Sm, ii, 1-10; 2Sm, i, 19-27, xxiii, 1-7.
I.11 Gli scavi archeologici
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relative alla battaglia contro filistei e moabiti (viii, 1-14) ed altre su cui non vale la pena soffermarsi. In generale gli studiosi sono portati a pensare che sia arcaico il linguaggio poetico o che siano arcaici anche i nomi degli amministratori di regni più antichi. La realtà è che non siamo in grado di distinguere una lingua ebraica da una cananaica non solo nel Tardo Bronzo ma anche nel Ferro I e IIA. Secondo Mark S. Smith(103) la cultura cananaica e quella ebraica non si distinguevano nel periodo dei Giudici. Nel Tardo Bronzo il Canaan era un’unità geografica che costituiva una provincia egiziana, il cui confine settentrionale era Ugarit, ove i mercanti cananaici erano considerati stranieri. È significativo che gran parte della terminologia religiosa sia comune tanto al culto di Baal quanto a quello di Yhwh. Le iscrizioni del Tardo Bronzo e del Ferro I indicano che le divinità della regione erano le stesse: Êl, il dio del cielo, Baal, Asherah e Anat. Baal era il dio del tuono e della pioggia, ma anche il dio della fecondità e della sessualità: non a caso le pietre innalzate in suo onore erano simboli fallici; un riferimento alla sessualità aveva anche il serpente e sacro era l’albero (asherah), che spesso si identificava con le dee Anat e Astarte. I luoghi sacri dei cananei erano le alture, gli alberi, le pietre, il cui allineamento era denominato massēbāh o gilgil. Klaas A. D. Smelik(104) ha osservato che fino al nono secolo fu usato l’alfabeto fenicio. Perciò per i documenti più antichi del nono secolo non è possibile stabilire se si tratta di materiali israelitici o meno. Tutte le ricerche archeologiche confermano che l’uso della scrittura da parte degli israeliti non può essere anteriore al nono secolo. Il 2Samuele (viii, 17 e xx, 25) indica i nomi di due scribi di Davide: Seraiah e Seia o Seva, ma il secondo nome è verosimilmente egiziano. L’ostrakon di Izbet Sartah, identificata con la biblica Ebenezer, databile tra il xii e il x secolo, contiene 83 lettere ed è forse un esercizio di scrittura. Evidentemente qualcuno in quel periodo ha cercato di imparare a scrivere. Si trattò di un israelita? Per M. Kochavi(105) la risposta è affermativa, perché l’ostrakon fu scoperto in un silo presso una casa che egli riteneva essere di un israelita. Da successivi studi archeologi è emerso che la tipologia della casa e della ceramica non è ebraica, ma più verosimilmente (103) M. S. Smith, The Early History of God: Yhaweh and Other Deities in Ancient Israel, Grand Rapids, Mich., Eerdmans, 2002, pp. xxi, 1-42 sqq. (104) K. A. D. Smelik, Writings for Ancient Israel. A Handbook for Historical and Religious Documents, Louisville, Knox, 1991, p. 18. (105) M. Kochavi, An Ostracon of the Period of the Judges from Izbet Sarkah, «Tel Aviv», i, 1977, pp. 1-13.
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cananaica. La stessa scrittura del Calendario di Gezer, scoperto da Macalister,(106) potrebbe essere interpretato come iscrizione cananaica o israelitica. La scrittura della stele di Mesha, trovata a Dhiban, ovvero nella biblica Dibon, capitale dei moabiti, che compaiono per la prima volta nel testo topografico di Ramses II, è priva di matres lectionis, per cui la pronuncia delle parole è incerta ed è per lo più associata a corrispondenti parole della Bibbia. Non si tratta di scriptio continua, poiché presenta divisori tra le parole. Il pronome ‘io’, che è piuttosto raro nelle lingue semitiche, ricorre molto frequentemente nella stele. La scoperta del palazzo reale di Omri ci ha consegnato un’iscrizione contenente la parola Asher, e un frammento di un’iscrizione in cuneiformi del tempo di Sargon II, che fu responsabile della distruzione del 721. In una delle costruzioni vicine al palazzo reale, forse un magazzino, sono stati trovati ben 102 ostraka di non facile interpretazione.(107) Gli specialisti li datano tra l’800 e il 750 in un’epoca successiva al regno di Achab e precedente la distruzione del 721.(108) Spesso tuttavia sorge il problema o la difficoltà di individuare i falsi, soprattutto quando sono costruiti con tecniche molto raffinate. Ciò vale per numerosi osrtaka, ma forse vale anche per l’iscrizione molto controversa che compare sulla stele di Tel Dan. Essendo divisa in tre frammenti, il primo problema che essa pone è se si tratta di un’unica iscrizione o di due distinte.(109) Il dibattito si è acceso anche sulla datazione, sulla lingua, se è ebraica o aramaica o dialetto misto, e sull’oscuro personaggio che scrive in prima persona. Si ritiene che questi possa identificarsi con Ben Hadad di Siria o con suo padre Hazael,(110) che, (106) R. A. S. Macalister, The Excavation of Gezer, 1902-1905 and 1907-1909, London, Murray, vol. iii, 1912, Plate cxxvii. (107) Sugli ostraka di Samaria, v. W. H. Shea, The Date and Significance of the Samaria Ostraka, «Israel Exploration Journal», xxvii, 1977, pp. 16-27. (108) A. Hadidi, Studies in the History and Archaeology of Jordan, vol. iii, London, Routledge and Kegan Paul, 1987; cfr. G. van der Kooij, The Identity of Transjordanian Alphabetic Writing in the Iron Age, in Studies in the History and Archaeology of Jordan Departement of Antiquity, Amman, Department of Antiquity, 1987, vol. iii, pp. 107-121. (109) B. Becking, From David to Gedaliah: the Book of Kings as Story and History, Fribourg, Academy Press, 2007, p. 56. (110) Per la prima ipotesi si schierano M. J. Suriano, The Apology of Hazael: A Literary and Historical Analysis of the Tel Dan Inscription, «Journal of Near Eastrern Studies», lxvi, 2007, pp. 163-176, e G. Galil, Re-arrangement of the Fragment of the Tel Dan Inscription and the Relations between Israele and Aram, «Palestine Exploration Quarterly», cxxxiii, 2001, pp. 16-21; per la seconda G. Athas, The Tel Dan Inscription, A Reappraisal and a New Introduction, «Journal for the Study of the Old Testament», London, Shef-
I.11 Gli scavi archeologici
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a differenza della versione biblica (2Re, ix, 16-29) avrebbe ucciso Yoram e Azaria. Per Wesselius(111) invece è Yehu che parla. Ma in realtà nei frammenti non compare né il nome di Hazael, né quello di Yehu. Boeking(112) contesta a Wesselius che si tratti di un’unica iscrizione, ma poi si dice convinto dalle analisi condotte da Atlas. Non meno complessa è la datazione della stele. Datata all’inizio al nono secolo, è invece attribuita all’viii da Frederick Cryer,(113) il quale deduce la datazione dalla comparazione delle lettere con quelle dell’iscrizione di Sfire in Siria (725 a.C.). Thompson e Lemche(114) ritengono che l’ortografia plena sia inusuale nell’età del Ferro. Uno studio più accurato, condotto da Josep Tropper,(115) fa risalire il frammento A all’800. Nella iscrizione comparirebbero anche i nomi dei re Azaria (ma si leggono solo le due ultime lettere yh), Achab, Yoram e Yehu. La battaglia di riferimento dovrebbe essere quella tra Ben-Adad II di Aram e Achab di Israele, alleato di Yosafat di Giuda (1Re,xxii, 29-38) o, alla luce del secondo frammento, tra Hazael di Aram e Yoram di Israele, alleato di Azaria, re di Giuda (2Re, viii, 28-29; ix, 14-16). In realtà tali nomi non compaiono con chiarezza nel testo della stele, ma sono aggiunti ad esso dagli interpreti sulla base dei relativi passi dei due Libri dei Re, salvo poi a scoprire che tra la fonte biblica e la stele non sussiste una perfetta concordanza. Entrambe le battaglie citate ebbero luogo a Ramot di Galaad in Transgiordania non nei pressi di Dan. Si potrebbe anche pensare, sulla scorta di 1Re (xv, 16-22), alla battaglia che ebbe luogo tra Ben Hadad I di Aram e Baasa di Israele, in cui Ben Hadad occupò Dan. Ma in questo caso Asa, re di Giuda, combatté, secondo lo stesso Libro dei Re, al fianco ad Hadad contro Baasa. Il linguaggio dell’ifield Academic Press, 2003, pp. 175-191; A. Biran - J. Naveh, An Aramic Stele Fragment from Tel Dan, cit.; Iidem, The Tel Dan Inscription: A New Fragment, «History Exploration Journal», cxlv, 1995, pp. 1-18. (111) J. W. Wesselius, The first Royal Inscription from Ancent Israel: the Tel Dan Inscription Reconsidered, «Scandivian Journal of the Old Testament», xiii, 1999, pp. 163-186. (112) L’ipotesi che i tre frammenti costituiscano un’unica iscrrizione, proposta da Biran-Naveh e da Wesselius, è contestata da B. Beking, Did Jehu write the Tel Dan Inscription, «Scandinavian Journal of the Old Testament», xiii, 1999, pp. 187-201, il quale alla fine si dice convinto dalle argomentazioni di Athas. (113) F. H. Cryer, On the Recently Discoverd House of David Inscription, «Scandinavian Journal of the Old Testament», viii, 1994, pp. 3-19. (114) N. P. Lemche, House of David: the Tel Dan Inscription(s), in Th. L. Thompson – S. K. Jayyusi, eds.., Jerusalem in Ancien History, cit., pp. 46-67. (115) J. Tropper, Eine Altaramäische Steleninschrift aus Dan, «Ugarit-Forschungen», xxv, 1993, pp. 395-406.
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scrizione è aramaico,(116) lingua documentata dalle iscrizioni assire di Salmanassar III (858-824). Va detto che del testo di Tel Dan sono state proposte versioni diverse e, su punti decisivi, contrastanti anche a causa della sua frammentarietà. Esso recita: 1 […] / 2 […] mio padre […] /3 e mio padre morì. Egli venne […] a Is/4 rael era già nella terra di mio padre […] / 5 io, e Hadad venne davanti a me […] /6 mio re ed io uccisi re [carri] /7 e migliaia di cavalieri /8 re di Israele ed uccisi […] 9 / betdwd ed io spinsi […] /10 la loro terra fu […] 11/ altri […] 12/ assedio di […] Testo dell’iscrizione B1 e B2: /1 tagliò […] /2 guerra in […] /3 e il mio re sorse […] /4 Hadad fece re […] /5 ed io venni da […] /6 prigionieri […] /7 figlio […] /8 yhw figlio di […]
La versione proposta da Biran e Naveh, fondata sull’unione dei tre frammenti, è la seguente: […] e tagliò […] mio padre venne contro di lui mentre combatteva a […] E mio padre giacque e venne dai suoi avi. E il re di Israele entrò dapprima nella terra di mio padre. E Hadad mi fece re. E Hadad venne davanti a me ed io mi separai dai sette […] del mio regno ed io ammazzai settanta re, che avevano bardato migliaia di carri e migliaia di cavalieri. [Io uccisi Yoram, figlio di Achab], re d’Israele, e [io] uccisi [Acaz]iahu, figlio di [Yoram re] della casa di Davide. Ed io mandai [in rovina le loro torri e mandai] la loro terra in [desolazione] […] altri […]. e Yehu go[vernò] su Is[raele ed io lasciai] l’assedio su […]
Ov’è da rilevare che il nome Ahab è aggiunto nel testo. Jan Wim Wesselius(117) invece legge: Io sono il comandante dei servi del re e il suo giudice [Aza]el, mio padre, lo afflisse quando combatté contro mio padre e giacque. Mio padre venne alla sua città e il re di Israele entrò dapprima nella terra di mio padre e Ha(116) L. J. Mykytiuk, Identifying Biblical Persons in Northwest Semitic Inscriptions of 1200-539 BCE, Leiden, Brill, 2004. (117) J. W. Wesselius, The First Royal Inscription from Ancient Israel: the Tel Dan Inscription Reconsidered, «Scandinavian Journal of the Old Testament», xiii, 1999, pp. 163-186.
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dad mi fece re. Ed Hadad venne davanti a me ed io lasciai […] del mio regno ed uccisi due re che avevano bardato migliaia di carri e migliaia di cavalli. [Io uccisi Io]ram figlio di [Achab], re d’Israele, ed uccisi Ahaz[iahu], figlio di Yoram, re della casa di Davide, ed io mandai in rovina la loro terra […] altro […] re su Israele […] assedio.
Il nodo centrale della polemica va individuato nel morfema ביתדודbetdvd scritto senza punto di separazione ed interpretato come «casa di Davide» o «casa di Dod».(118) Nella linea 8 del frammento A è menzionato il re di Israele, nella linea 9 abbiamo la sequenza k betdwd. Nell’AT le parole Bet Dawd sono sempre riportate come distinte, né troviamo mai neppure nelle iscrizioni l’espressione «re della casa di X». Inoltre in una iscrizione assira Yehu compare come figlio di Omri, ciò che non era. Di contro si fa rilevare che nelle iscrizioni del Medio Oriente compare spesso il sintagma ‘casa di’ per indicare il nome di dinastie (es. si indicano gli stati aramei di Siria e Mesopotamia come Bit Adana; Bit Gusi ecc., scritti sempre con due parole sia in accadico che in aramaico). Solo nel nome Betel, bet ed Êl (casa del Signore) appaiono come un’unica parola. Non è improbabile che bitdwd sia il nome di una località vicina a Dan oppure il nome di un qualche oggetto o, come pensa Gösta W. Ahlström,(119) il nome di un tempio dedicato a dwd. Ed in effetti nel rigo 12 non è menzionata la casa di David, ma più verosimilmente il tempio di Dvd, sempre che l’iscrizione sia autentica. Giovanni Garbini(120) la ritiene un falso ed osserva che le parole e le frasi in essa contenute erano già note da precedenti iscrizioni aramaiche e in particolare da quella di Mesha. Il che induce a pensare che essa sia stata costruita. Tale è anche il parere di Russell Gmirkin(121) e di Lemche. (118) La lettura «casa di David» è preferita da A. F. Rainey, The House of David and the House of the Deconstrucionists, in «Biblical Archaeology Review», xx, 1994, p. 47, e da G. A. Rendsburg, On the Writing ביתדודin the Aramaic and Jehu’s Revolt, in «Israel Exploration Journal», xlv, 1995, pp. 22-25. Tale lettura è contestata da Ph. R. Davies, House of David, Built on Sand; The Sins of the Biblical Maximizers, in «Biblical Archaeology Review», xx, 1994, il quale ipotizza che btdwd possa leggersi byt dod («casa dell’amante» o «casa dello zio») o come nome di luogo. Th. L. Thompson - S. K.Jayyusi, eds.., Jerusalem in Ancien History, cit., hanno fatto osservare che sono possibili molteplici letture di dwd; cfr. in proposito anche N. P. Lemche, House of David: the Tel Dan Inscription(s), cit. (119) G. W. Ahlström, Psalm 89: Eine Liturgie aus dem Ritual des leidenden Königs, Lund, Gleerup, 1959. (120) G. Garbini, L’iscrizione aramaica di Tel Dan, «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei», cccxci, 1994, pp. 461-471. (121) R. Gmirkin, Tool Slippage and the Tel Dan Inscription, «Scandinavian Journal
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Nell’viii secolo abbiamo evidenze di plurilinguismo. Ne sono esempi l’iscrizione fenicio-luviana trovata a Çineköy e incisa dal re Urikki,(122) quella fenicio-luviana di Karatepe (700), incisa da Urikki, e quella fenicio-luviana di Ivriz, incisa dal re Warpalawa. V’è poi la stele trilingue di Incirli (data: 750) in geroglifico luviano, cuneiforme neo-assiro e fenicio. Gli scavi di Arslan/Tash Hadatu ci hanno restituito iscrizioni neo-assire ed aramaiche. L’iscrizione di Tell Fekheriye (fine del nono secolo) è bilingue (neo-assiro e aramaico). Vi sono poi iscrizioni (Til Barsip, Tel Shiukh el-Fawqani, Tell Sheikh Hamad/Dur Katlimmu) che confermano che l’impero assiro era un impero aramaico già a partire dal ix-viii secolo. Le ricerche di Fassberg-Hurvitz e di André Lemaire(123) dimostrano che l’ebraico arcaico è assai poco attestato nella documentazione del x-ix secolo, così da far pensare che gli israeliti parlassero una lingua cananaica. Spingendoci oltre si potrebbe pensare che gli ebrei ancora non si distinguevano dai cananei. Vi era inoltre la possibilità che talune lingue fossero reciprocamente comprensibili. Tali erano forse il fenicio e il filisteo, la lingua di Gile’ad e di Ephraim (Jdc, xii, 5-6). Nel periodo successivo (vii-vi secolo), meglio noto attraverso le iscrizioni, si differenziarono i dialetti di Israele e di Giuda. Anche se quella israelitica ci è meno nota per essere stata sopraffatta dall’aramaico a causa della estinzione del regno del Nord (721), la lingua del sud si distinse come giudaica (yehudit). L’ebraico israelita è conosciuto soprattutto dagli ostraka di Samaria, che presentano differenze linguistiche con il giudaico. Nel successivo periodo di Ezra (v-iv secolo) l’ebraico fu parlato nei territori di Beniamino, con centro a Mispa, la nuova capitale, ma passò ben presto sotto il controllo edomita, neo-babilonese e qedarita, prima di cadere sotto il dominio persiano. 11.9. La religione: matrici ebraiche o canaanaiche? Possiamo considerare lo yhawismo una religione originaria, cioè propria di Israele fin dalle sue origini, come vuol farci credere il Pentateuco o è inveof the Old Testament», xvi, 2002, pp. 293-302. (122) A. Lemaire, Hebrew and Aramaic in the first Millennium B.C.E. in the Light of Epigraphic Evidence, in S. E. Fassberg - A. Hurvitz, Biblical Hebrew in its Northwest Semitic Setting: Typological and Historical Perspectives, Jerusalem, Magnes Press, 2006, pp. 177-196. (123) S. E. Fassberg - A. Hurvitz, Biblical Hebrew, cit.; A. Lemaire, Hebrew and Aramaic, cit., pp. 177-196.
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ce il prodotto di un processo evolutivo all’interno del mondo religioso cananaico? È evidente che la questione è strettamente connessa all’altra circa l’antichità o meno di Israele come etnia. L’ipotesi tradizionalista è sostenuta da Albright e da Dietrich,(124) che, fedeli al teso biblico, distinguono una religione cananaica depravata e pagana da una religione israelitica propria di un popolo puro e santo. La prima avrebbe contaminato la seconda o comunque tra le due religioni si sarebbe determinato un conflitto insanabile. Gary A. Rendsburg, Cyrus Gordon e John Bright in America e Benjamin Māzār e Yigael Yadin(125) in Israele mirano a salvare sempre e comunque la storicità della Bibbia; ce ne darebbero conferma – a loro avviso – le centinaia di iscrizioni, sigilli e bullae, trovati a Samaria, Gerusalemme, Lachis e Arad, recanti nomi teofori, composti da Yah o da Yahu.(126) Ma è un argomento specioso, poiché accanto a nomi yhawistici, sia pure preminenti, compaiono nomi teofori elohisti e nomi derivati da divinità pagane come Baal e Horus. Sono yhawistii nomi Ahiyahu, Amaryahu, Gedalyahu, Hoshi’yahu, Hananyahu, Yeho’ab, Yeho’az, Yonatan; sono elohisti i nomi Eli’ur, Elya(124) W. F. Albright, From the Stone Age, cit., pp. 226-228; W. Dietrich, Ein Gott Allein? Jhwh-Verehrung und biblischer Monotheismus im Kontext der israelitischen und altorientalischen Religionsgeschichte, Freiburg, Univ. Verl., 1994. Per una difesa ad oltranza delle tesi tradizionaliste e il rigetto dell’ipotesi documentale di Wellhausen, cfr. Y. Kaufmann, The Religion of Israel from its Beginnings to the Babylonian Exile, Chicago, University Press, 1960, pp. 1-4. Altrettanto pregiudiziale è la posizione di K. A. Kitchen, The Bible in its World; the Bible and Archaeology Today, Exeter, Paternoster Press, 1977, pp. 56-74. (125) G. A. Rendsburg, Israel without the Bible, in F. E. Greenspahn, The Hebrew Bible: New Insights and Scholarship, New York - London, New York University Press, 2008, pp. 3-23: A. Māzār - E. Stern - E. M. Meyers, Archaeology of the Land of the Bible: the Assyrian, Babylonian and Pesian Periods 732-332, New York, Doubleday, 2001, p. 538; I. Finkelstein - A. Māzār, The Quest for the Historical Israel, cit., 2007, p. 174; E. Māzār - B. Māzār, Excavations in the South of the Temple Mount, vol. i: The Ophel of Biblical Jerusalem, Jerusalem, Hebrew University of Jerusalem, 1989, p. 131; Y. Shiloh, A Group of Hebrew Bullae from the City of David, «Israel Exploration Journal», xxxvi, pp. 16-38; W. F. Albright, The Archaeology of Palestine and the Bible, New York, Fleming Revell, 1932; C. H. Gordon, Gechichtliche Grundlagen des Alten Testaments, Wiesbaden, Uma, 1961; Id, The Background to Jewish Studies, cit., pp. 19-36; J. Bright, A History of Israel, cit., v. in particolare i capitoli 4 e 5. (126) Occorre tuttavia tener presente che spesso vengono messe in circolazione iscrizioni false nel tentativo di giustificare l’autenticità della Bibbia. Tra l’altro esse sono prodotte con tecniche di sofisticazione molto avanzate tanto da rendere difficile il compito di decidere della loro autenticità o meno. Un esempio di falso clamoroso è l’iscrizione di Yoas, comparsa nel 2003, la quale parla di riparazioni del tempio con offerte pubbliche (a conferma della narrazione di 2Re, xii, 5-6).
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qim, Elishama, Yshma’el. Ma nello stesso testo biblico compaiono nomi composti da Baal, come Jerub-Baal (Gedeone), Is-Baal, figlio di Saul, Merib-Baal, nipote di Saul. La scoperta di testi (lettere di Lachish, iscrizioni di Arad), in cui compare il tetragramma Yhwh (talvolta nella forma di un trigramma, Yhw), non è di per sé indicativa, poiché è importante il contesto in cui cade la citazione. Anche la semplice citazione di byt Yhwh [= casa di Yhwh] va valutata nel contesto, poiché è possibile che si riferisca ad un tempio locale dedicato a Yhwh. Le iscrizioni di Khirbet el Qôm e di Kuntillet Ajrud, ove sono menzionati Yhwh e la sua consorte Asherah, cioè la dea di Ugarit(127) e dell’Arabia oltre che dei Filistei, ci fa capire che in origine il culto di Yhwh aveva un carattere cananeo e, tutto sommato, dimostra che nel periodo pre-esilico lo yhawismo non aveva ancora assunto una definita fisionomia. Una conferma che esso era parte di una concezione religiosa politeistica e che si andava evolvendo in senso enoteistico è data dal fatto che Yhwh coesisteva accanto a Êl, Baal, Asherah, Hadad, il dio della tempesta del pantheon ugaritico. Benché Ugarit guardasse con distacco la realtà del Canaan, la sua influenza sulla cultura cananaica, anche religiosa, fu decisiva. Essendo l’estremo baluardo settentrionale di una vasta area sotto protettorato egizio, fu fortemente influenzata dalla cultura egiziana e da quella cipriota. Tra il xiii e il xii secolo la sua civiltà scomparve con il suo ultimo re Hammurabi, coevo dell’hittita Šuppiluliuma. Tra le divinità ugaritiche, oltre ad Êl, Baal, Asherah troviamo Yam o Yamm, il dio del mare, Resheph il dio della pestilenza, Dagan (ebr. Dagon) il dio del grano e della fertilità (venerato anche dai Filistei), Šamaš, il dio sole, Yarih, il dio della luna, forse lontano antenato di Yhwh, come fa pensare la radice egiziana yah = luna, collegata tra l’altro al calendario lunare adottato dagli ebrei. Nell’età del Ferro I il pantheon (127) Cfr. in proposito T. Binger, Asherah Goddesses in Ugarit, Israel and the Olde Testament, Copenhagen International Seminar 2, Sheffiled Academic Press, 1997; è da consultare in particolare il capitolo vi, dedicato alla presenza di Asherah nell’AT, pp. 110-141. Cfr. anche J. Day, Asherah in the Hebrew Bible and Northwest Semitic Literature, «Journal of Biblical Literature», cv, 1986, pp. 385-408, che segnala le radici ugaritiche del mito; A. Lemaire, Les inscriptions de Khirbet el-Qôm et Ashérat de Yhwh, «Revue Biblique», lxxxiv, 1977, pp. 597-608, che riconduce il culto di Asherat a quello dell’albero; W. G. Dever, Did God Have a Wife, cit., v. in particolare i capitoli vi e vii; Id., Asherah, Consort of Yahweh? New Evidence from Kuntillet Ajrûd, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», cclv, 1984, pp. 21-37, che scorge nel culto di Asherah un residuo del sincretismo religioso fenicio-cananaico (pp. 31-34).
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di Ugarit fu conservato dai fenici, presso i quali però mutano sia i nomi degli dèi sia le loro funzioni. Baal Hadad diventa Baal-Shamim (dio dei cieli); Asherah diventa Tanit. Yhwh, il dio degli israeliti, assomma in sé le funzioni del Dio supremo Êl, padre degli dèi, con quelle del Dio della fertilità e del dio della tempesta. Che in origine Yhwh fosse associato anche per gli ebrei con la paredra Asherah è provato dal fatto che in molti siti israelitici si sono rinvenute statuine di terracotta della dea. Il loro culto continuò ad essere venerato nell’età del ferro. Le iscrizioni eseguite sui pithoi ceramici di Kuntillet Ajrud (od. Horvat Teiman) dell’viii secolo recano le benedizioni di «Yhwh e della sua Asherah».(128) In generale ci fu un vero e proprio travaso di miti e leggende dalla letteratura ugaritica a quella cananaica e a quella israelitica.(129) Lo stesso accade per le ritualità liturgiche per il culto delle alture (bibl. bamah bamoth )במות במה, degli altari sacri, dei pilastri (ebr. masseboth). Non è difficile cogliere tracce di questa stratificazione religiosa pre-esilica, la quale, in forma residuale è sopravvissuta nel periodo post-esilico, in allusioni a incesti, poligamie, prostituzione sacra, sacrifici cruenti ecc., che certamente erano parte della religiosità cananaica. I culti ugaritici presupponevano il sacerdozio limitato ad una famiglia e quindi l’esistenza di famiglie sacerdotali e di prostitute e prostituti sacri. Anche la cultura del tempio sembra derivata dal mondo egizio e ugaritico. Gli scavi ci hanno restituito templi squadrati, templi egizi, i cosiddetti migdol del Medio Bronzo e i templi con la tripartizione del portico, della sala e del santo dei santi, che diventa tradizionale nell’età del Ferro. Il tempio di Hazor è detto tempio delle stele, perché composto di una sola (128) G. Davies, Ancient Hebrew Inscriptions, cit.; cfr. Ph. R. Davies - J. W. Rogerson, The Old Testament World, cit. (129) Sulla letteratura ugaritica, cfr. C. H. Gordon, Ugaritic Literature: a Comprehensive Translation of the Poetic and Prose Texts, Roma, Pontificium Institutum Biblicum, 1949; M. Dahood, Ebla, Ugarit and the Old Testament, Lonodn, s. n. t., 1978; P. C. Craigie, Ugarit and the Old Testament, Grand Rapids, Eerdmans, 1983; Id., Deuteronomy and Ugaritic Studies, «Tyndale Bulletin», xxviii, 1977, pp. 155-169; L. R. Fischer, Creation at Ugaarit and in Old Testament, «Vetus Testament», xv, 1965, 313-324; R. Dussaud, Les origines cananéennes du sacrifice israélite, Paris, Léroux, 1921; A. S. Kapelrud, Baal in the Ras Shamra Texts, Copenhagen, Gad, 1952; Id., The Ras Shamra Discoveries, Norman, The Oklahoma University Press, 1963; P. Bordreuil - D. Pardee, A Manual of R., Wilona Lake, Eisenbrauns, 2009; M. Yon- M. Sznycer - P. Bordreuil, Le Pays d’Ougarit autour 1200 av. Jesus Christ, histoire et archéologie, Paris, Éditions Recherche sur les Civilisations, 1995; D. Pardee, Ugaritic and Hebrew Poetic Parallelism; a Trial Cut (‘nt I amd Prov. 2), Leiden, Brill, 1988.
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camera e contiene di fronte all’entrata una nicchia con una sequela di stele, una delle quali mostra due mani alzate che sorreggono una luna crescente. Doveva verosimilmente trattarsi di un tempio dedicato al dio lunare Yarih. Lemche e Hvidgerg(130) hanno evidenziato i rapporti che sussistono tra la letteratura ugaritica e quella biblica ed hanno mostrato come il ciclo di Baal fosse caratteristico della cultura religiosa del Canaan. In una realtà così intrinsecamente interculturale come il Canaan è legittimo supporre una contaminazione di tipo sincretistico dei diversi culti religiosi. È ciò che Mark S. Smith e Jan Assmann(131) definiscono traducibilità infraculturale del concetto di divinità. Infatti essi osservano che i termini ebraici el, ‘êlōhîm, eloah sono imparentati con quelli della letteratura ugaritica ‘il, ‘ilm e di quella accadica ilu, ilanu. Spesso gli ‘êlōhîm nella Bibbia sono considerati angeli o figli divini (bene ‘êlōhîm) in contrapposizione ai šedim (= demoni). Mark S. Smith,(132) convinto della identità di cultura cananaica ed israelitica fin dall’età del Tardo Bronzo, fornisce numerosi esempi di tale osmosi di concetti religiosi. Egli si sofferma perciò su parole chiave, come zebah che indica il sacrificio offerto sia a Yhwh che a Baal; Zebah hayyamim che è il sacrificio annuale; šelāmîm (= sacrificio di pace) è presente anche ad Ugarit. Lo stesso vale per l’offerta del voto (= neder, in ugar. ndr o mdr), dell’offerta del minhah (= tributo), del kalil (= olocausto). Sono evidentemente culti che hanno una comune origine semitico-occidentale. Tanto il culto ebraico quanto quello cananaico prevedono la presenza del sacerdote (kohen), di addetti al servizio liturgico (i netunim o netinim, ugar. ytnm), di un funzionario del culto (qōdeš) e del sommo sacerdote (kōhên haggādôl, ugar. = rb khnm). Anche il culto della tenda dell’incontro (‘ōhel mōw’êd) deriva dalla cultura cananaica e ugaritica. È interessante notare che il termine biblico qedêšāh, interpretato come «prostituta» (Gn, xxxviii, 21-22), trova corrispondenza nell’ugar. qdšt e nell’accadico qadištu e presuppone un culto della prostituzione sacra. Le iscrizioni del Tardo Bronzo e del Ferro I indicano che le divinità della regione erano le stesse (Êl, Baal, Asherah, madre di 70 dèi, e Anat). Il sin(130) N. P. Lemche, The Canaanites, cit.; F. F. Hvidberg, Weeping and Laughter in the Old Testament, Leiden, Brill, 1962. (131) M. S. Smith, God in Translation, Deities in Cross-Cultural Discourse in the Biblical World, Tübingen, Mohr Siebeck, 2008, p. 131 sqq.; J. Assmann, Moses the Egyptian, the Memory of Egypt in Western Monotheism, Cambridge, University Press, 1997, p. 3 (tr. it. di E. Bacchetta: Mosè l’egizio, decifrazione di una traccia di Memoria, Milano, Adelphi, 2000). (132) M. S. Smith, The Early History of God, cit., pp. 19 sqq.
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tagma ‘y’l = «dov’è El» compare per la prima volta in un’iscrizione di Qubur el Walaydah a dieci km a sud di Gaza. L’iscrizione della brocca di Lachish, datata xiii secolo, contiene un riferimento alla dea Elat: mtn. s [l] [rb]ty ‘lt = mattan («un’offerta alla mia signora Elat»). Signora (= rbt, letteralmente «la grande») ed Elat sono probabilmente epiteti di Anat. Su una punta di freccia di El Khadr (nei pressi di Betlemme, databile al 1100, si legge bn nt = figlio di Anat. Baal è menzionato fin dal xiv secolo in una lettera di Taanach e in una lettera di Tell el-‛Amārnah, EA, 147). Gli elementi b’l (Baal) e b’lt (signora) ricorrono anche in iscrizioni di Lachish. Il dio di Sichem è detto in Giudici ‘êl-Berît (= dio del patto), ma per lo stesso testo è invece baal berît (= il dio Baal del patto, Jdc, ix, 46; viii, 33). La dea Asherah, menzionata in Giudici e in Genesi (Jdc, vi, 25-26; Gn, xlix, 25) è più spesso citata nell’AT con il nome Astarte. Giustamente Smith sintetizza questa mole di dati osservando che il dio originario di Israele è ‘êl, al quale si aggiunse in seguito yhwh, il dio guerriero, proveniente dal Sinai/Paran/Edom/Teiman. Êl è il capo degli dèi, il dio padre, dio-toro. Col tempo Êl finisce col diventare il nome generico di ‘dio’, come in Js, xxii, 22, nel morfema êl ‘êlōhîm yhwh = «Yhwh è il dio degli dèi». Gradualmente Êl e Yhwh si identificano, mentre Yhwh e Baal coesistono. Ma Yhwh ha anche caratteristiche comuni con Baal. Come Baal viene dal monte Zaphon, Yhwh viene dal Sinai, Se’ir e Paran. Asherah è la Dea paredra di Baal, ma anche di Yhwh. Gli dèi minori assistono Baal, come una miriade di santi assiste Yhwh; Baal cavalca le nubi, Yhwh cavalca i cieli; Baal combatte contro gli altri dèi, Yhwh li sostituisce; Baal scuote le montagne come Yhwh (cfr. Jdc, v, 4-5; Hab, iii, 6), Yhwh è preceduto dalla pestilenza (Deber) e seguito dalla febbre Reshep (Hab, iii, 5). La lamentazione di Habacuc (iii, 3-8) sembra fare riferimento ad una lotta tra Yhwh e divinità come Yam, dio del mare, e Nabar (i fiumi). Anche Baal ha i suoi nemici in Yam/Nahar. Da Ex, vi, 2-3 («Mi sono rivelato ad Abramo, Giacobbe e Isacco come El-Šadday, ma non ho rivelato loro il mio nome Yhwh») Smith deduce acutamente che Yhwh si fece conoscere dai patriarchi come Šadday. Quindi i patriarchi non conobbero Yhwh, ma piuttosto venerarono Êl. Nella iscrizione di Deir’Alla (in Transgiordania), forse dell’viii secolo, risultano attestati l’epiteto Šadday e l’assemblea dei santi, che in Ezra, come rileva Smith, diventa qaddiše elyonin (i santi dell’Onnipotente) dall’antico qedošim (= i santi). Altri epiteti yhawisti sono in Giosuè («comandante dell’esercito di Yhwh», śar sebā’ Yhwh),(133) nell’Esodo (il (133) Js, v, 14.
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distruttore = mašhit, Ex, xii, 13) e nella Genesi (mašhitim).(134) In Gn, xlix, 24-26, Smith legge come epiteti di Asherah le mammelle e il grembo (šādayim wārāham), presenti anche nei testi ugaritici. Infine epiteti divini sono: abir ya’aqob (= il toro di Giacobbe); ro’eh ‘eben yiśrā’êl (= pastore e pietra di Israele). L’iscrizione di Deir’Alla fa riferimento a Balaam, figlio di Beor, noto peraltro da testi come Nm, xxii-xxiv, xxv, 1-3, forse imparentato con la religione egiziana. Tenuto conto che Deir’Alla era inglobata nella Gile’ad (quindi nel regno di Israele), è di estremo interesse il fatto che nella iscrizione non si trovi nessuna menzione di divinità israelitiche, ma solo di divinità non israelitiche. Ne consegue che l’iscrizione appartiene più alla cultura aramaica che a quella israelitica, nonostante la Bibbia ci dica che la regione fosse stata conquistata da Geroboamo II (783-743). Una possibile lettura dell’iscrizione è la seguente: Questo [è un documento] su [Bala]am, [figlio di Be]or, l’uomo che è un profeta degli dèi. He! E gli dèi vanno da lui la notte e [dicono a l]ui, secondo il comando di Elm ed essi dicono a [Bala]am così: Egli farà […] E Balaam sorse il giorno successivo e non poté [mangiare]. Ed [egli digiunò] e il suo popolo venne da lui. Ed essi [dissero] a Balaam, figlio di Beor: perché digiuni? E perché piangi? Ed egli rispose: sedetevi, io vi predico ciò che Shagar farà. E venite a vedere l’opera degli dèi. Gli dèi si riunirono e gli dèi Šadday presero posto in assemblea ed essi dissero a Shagar: tu puoi spezzare i catenacci del cielo; tra il tuo popolo lascia che ci sia oscurità e non chiarezza, oscurità e non il tuo […]. Tu puoi far paura per mezzo della tua oscura [nub]e, ma non puoi essere irato per sempre! Veramente il rondicchio schernisce l’aquila e il giovane avvoltoio lo struzzo, la cicogna […] il falcone, e la civetta la nidiata dell’airone, […] bevi il vino […] ognuno vede l’oppressione di Shagar e Ashtar[…]».
Va detto che il Balaam di Deir’Alla, pur disponendo del carisma profetico, come è in Numeri, il cui racconto dei capitoli xxii-xxiv non ha carattere storico, è posteriore alla presunta epoca di Numeri di almeno 800-500 anni. Ciò induce a pensare che l’autore di Numeri riflette la realtà del vi secolo. Infine va detto che nelle benedizioni e maledizioni deuteronomiste i significati di šagar «frutto del tuo bestiame» e di ‘aštarōt «fecondità del tuo greg(134) Gn, xix, 13.
I.11 Gli scavi archeologici
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ge» sono verosimilmente reminiscenze delle dee cananee Shagar e Ashtar.(135) Dalle ricerche di Kenyon e di Avîgād(136) sono emerse ulteriori iscrizioni. Una di esse è stata trovata a Gerusalemme nel villaggio di Silwan (Siloam, Shiloah), incisa sulla tomba di un sovrintendente reale databile forse tra viii e vii secolo. Secondo Avîgād essa reciterebbe: «Questo è [il sepolcro di[…] yahu, sovrintendente della casa (‘asher ‘al habbāyt). Qui non c’è né argento, né oro ma solo [le sue ossa e le ossa della sua concubina. Maledetto sia colui che la apre». Il titolo ‘sovrintendente della casa’ ricorre in Genesi, 1Re; 2Re e Isaia.(137) Il nome del sovrintendente purtroppo non ci è noto, perché yahu è evidentemente elemento teoforico, frequente nei nomi personali ebraici. Ogni tentativo di identificazione è arbitrario senza un supporto documentario, così come è arbitraria la datazione dell’iscrizione al periodo di Ezechia. Scarsamente utili sono l’ostrakon di Ophel, trovata ad Ophel, in parte intraducibile, e gli ostraka molto danneggiati rinvenuti negli scavi di Gerusalemme dalla Kenyon.(138) La straordinaria mole di dati emersi dalle ricerche archeologiche ci ha permesso di disporre di una più accurata conoscenza della religione israelitica pre-esilica. Comprendiamo così che nell’età del Ferro II le divinità ebraiche non si distinguevano da quelle pagane della cultura cananaica, quali che siano stati gli influssi, ugaritici o egizi da essa subiti. Cade il mito di uno yhawismo antico e originario e con esso cade anche il mito dell’antico Israele. Se l’etnia si definisce sulla base di una cultura differenziata e se della cultura la religione è una componente essenziale, vuol dire che fino a tutto il settimo secolo Israele non si era ancora costituito come etnia e lo yhawismo non aveva ancora assunto la sua fisionomia definita. Innanzi tutto esso non fu la religione del regno del nord, i cui sovrani sono tutti accusati di essere claudicanti verso il baalismo, in secondo luogo nel sud confluì sempre più strettamente nel giudaismo. Ma per aderire più agevolmente alla fluttuante realtà storica occorre liberarsi dell’idea di uno yhawismo standardizzato; esso fu un processo in divenire, in cui la figura di Yhwh assunse connotazioni diverse; in parte fu concepito come dio poliade, il dio di Gerusalemme, in par(135) Cfr. Dt, vii 13; xxviii, 4, 18, 51. (136) K M. Kenyon, Jerusalem: Excavating 3000 Years of History, cit.; N. Avîgād, Archaeological Discoveries, cit. (137) Gn, xliv, 1; 1Re, iv, 6; xvi, 9; xviii, 3; 2Re, x, 5; xv, 5; xviii, 18; xix, 2; Is, xxii, 15; xxxvi, 3. (138) K M. Kenyon, Excavations in Jerusalem 1961-1967, vol. vi: Sites on the Edge of the Ophel, Oxford, Council of Britisch Research in Levant, 2017.
292 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
te come dio familiare,(139) il dio di un clan (di Abramo, di Giacobbe, ecc.), in parte una sorta di Penate, il dio di un popolo, un dio nazionale, in parte, sotto l’influsso dell’ellenismo, un dio universale; ora è concepito come dio delle steppe, ora come dio sterminatore, scuotitore, come Giove, del cielo e della terra, geloso degli altri dèi, ora vendicatore, ora misericordioso; un dio fatto a somiglianza d’uomo, che sa e ignora allo stesso modo dell’uomo. Tutti questi cascami del paganesimo cananaico persistono nel tempo nello yhawismo. Secondo Becking e Korpel(140) la religione ebraica subì profondi mutamenti a seguito degli sconvolgimenti politico-sociali del periodo immediatamente successivo al ritorno post-esilico. Con la distruzione del tempio, con l’esilio e con la restaurazione, lo yhawismo entrò in crisi e ne uscì disarticolato in forme diverse: taluni abbandonarono la religione tradizionale e si votarono alle divinità babilonesi; altri si richiamarono alla sue radici cananaiche; altri ancora ne consolidarono la vocazione monoteistica; gli antigeremiani ritornarono al culto della Regina dei cieli, cioè Asherah, consorte di Yhwh nel periodo pre-esilico. Ezra e Neemia scelsero il fondamentalismo; il Deutero-Isaia, il Deuteronomista e il Cronista tentarono una riformulazione della tradizione. Personalmente penso che la tarda redazione dell’AT compromette non poco la nostra conoscenza degli sviluppi dello yhawismo. Quale fu la sostanza dello yhawismo pre-esilico? Quello di Ezechia e di Giosia? Cosa sappiamo della sua componente dottrinale? Ben poco. Essi concepirono verosimilmente la religione come un necessario supporto politico nel tentativo di consolidare la monarchia in modo che potesse resistere all’avanzata degli assiri e dei babilonesi. Avevano alle spalle la devastazione di Samaria e guardavano al futuro; pensavano alla religione come cemento di un popolo capace di affrontare una prevedibile invasione. La religione di Ezechia e di Giosia non è ancora lo yhawismo, ma un substrato che lo prepara. Diana Edelman(141) ritiene che lo yhawismo pre-esilico è monoteistico, aniconico e orientato ad un tempio centralizzato; è lo yhawismo definito nazionale o del primo tempio. Ma quanto dell’immagine di esso dipende dalla defini(139) K. Van der Toorn, Family Religion in Babylonia, Syria and Israel: Continuity and Change in the Forms of Religious Life, Leiden, Brill, 1996, pp. 181 sqq. (140) B. Becking, Continuity and Discontinuity after the Exile: Some Introductory Remarks, in B. Becking - M. Ch. A. Korpel, The Crisis of Israelite Religion: Transformation of the Religious Tradition in Exilic and Post-Exilic Times, Leiden, Brill, 1999, pp. 1-9. (141) D. V. Edelman - Ph. R. Davies - Ch. Nihan - Th. Römer, Openinig the Books of Moses, London, Routledge, 2012, pp. 7-8.
I.11 Gli scavi archeologici
293
tiva redazione del testo? Quanto è invece una ideale proiezione di posizioni fondamentaliste? Quale fu la reale compattezza religiosa del giudaismo attorno allo yhawismo? Quando il giudaismo e lo yhawismo finirono per identificarsi? La risposta non può essere che quella che emerge dalle risultanze archeologiche. La loro fusione fu possibile solo sulla base del fondamentalismo di personalità rigide come Ezra e Neemia. Le conclusioni più congruenti con le risultanze archeologiche sono state proposte da Lemche(142) nei seguenti termini: 1) Israele è il risultato di un’evoluzione interna alla società cananea; il che significa che la presenza ebraica in Canaan trova la sua spiegazione in un modello etnogenetico; 2) la religione israelitica è originariamente una religione cananea e politeistica, approdata al monoteismo molto tardi, verso il vi-v secolo; 3) le fonti dell’AT sono databili al massimo al vii-vi; 4) la storia di Israele anteriore al 1000 non è ricostruibile sulla base del solo AT; 5) l’idea di una storia vetero-testamentaria è frutto di catastrofi politiche, come l’esilio babilonese; 6) il mito dell’antico Israele è il prodotto di un «riorientamento ideologico del popolo deportato»; 7) il monoteismo giudaico è «un prodotto del periodo post-esilico; il vecchio politeismo continuò ad esistere anche dopo l’esilio»; 8) tutta la storiografia dell’AT è post-esilica; 9) «il concetto dell’Antico Israele è una costruzione ideologica dei biblisti»; 10) la religione israelitica, come ci è trasmessa nell’AT, ci è presentata da un punto di vista giudaico; 11) l’elaborazione definitiva degli scritti dell’AT, ovvero la loro fase redazionale, è databile all’età ellenistica.
(142) N. P. Lemche, The Old Testament between Theology and History: a Critical Survey, Louisville, Westminster John Knox Press, 2008, pp. 80-98.
capitolo xii
IL CROLLO DELL’IPOTESI DOCUMENTALE: EPOCA DELLA COMPOSIZIONE E DELLA REDAZIONE DEL PENTATEUCO
12.1. L’inadeguatezza dell’ipotesi documentale e dell’ipotesi di una storia deuteronomista L’ipotesi documentale, elaborata dal tedesco Julius Wellhausen nel 1878, fu il punto di approdo di una lunga tradizione di studi critici sul testo biblico i cui capisaldi sono da individuare in Baruch de Spinoza, Jean Astruc, Richard Simon, Henning Bernhard Witter e Abraham Kuenen.(1) Partendo dalle incongruenze e dalle contraddizioni interne al Pentateuco, essi ebbero le seguenti intuizioni: 1) che Mosè non ne era l’autore; 2) che la formazione del testo presupponeva vari documenti tra i quali i più consistenti erano due, indicati da Astruc con le lettere A (fonte elohista, successivamente indicata con E da Wellhausen) e B (fonte yhawista indicata da Wellhausen con J). La formulazione di Wellhausen(2) è più articolata. Egli ritiene che il Pentateuco sia stato redatto a partire da quattro fonti: J, E, D e P. La fonte J (yhawista), datata al decimo secolo, risalirebbe ai tempi (1) B. de Spinoza, Tractatus Theologico-Politicus, cit.; [J. Astruc], Conjectures sur les memoires originaux, cit.; R. Simon, Histoire critique, cit.; H. B. Witter, Iura Israeliticarum in Palaestinam Terram chananaeam commentatione in Genesim perpetua sic demonstrata, Hildesiaae, Sumtibus Ludolphi Schröderi, [1711]; A. Kuenen, Histoire critique des livres de l’Ancient Testament, t. i, Paris, Michel Lévy, 1866. (2) J. Wellhausen, Prolegomena to the History of Israel, cit.
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296 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
del regno di Salomone e rifletterebbe l’ideologia del sud, ovvero la teologia della promessa, una concezione antropomorfica di Dio e l’idea di una salvezza universale. La fonte E (elohista), datata all’undicesimo secolo, rifletterebbe l’ideologia del nord, la teologia del patto e il carattere trascendentale del dio; J ed E si sarebbero intrecciate in Genesi e nell’Esodo in quella che Wellhausen chiama fonte yehowista (JE). A tale documento si sarebbe aggiunta la fonte D (deuteronomista), datata alla fine del vii secolo, ovvero al periodo giosiano in cui fu scoperto il Libro della Legge. La fonte P (sacerdotale), di epoca postesilica, sarebbe a fondamento dell’intero Levitico e di parti frammentarie (le cosiddette parti P) della Genesi, dell’Esodo e di Numeri, le quali rifletterebbero l’ideologia della classe sacerdotale. Infine la redazione conclusiva del Pentateuco sarebbe stata opera della scuola ezriana. Quest’ultima congettura dipende dall’apocrifo 4Ezra in cui ci vien detto che nello spazio di quaranta giorni e quaranta notti (si noti l’allusione alla rivelazione sinaitica) Ezra avrebbe dettato per ispirazione divina ben 94 libri sacri. L’ipotesi ebbe grandissima fortuna e dominò a lungo il dibattito novecentesco sulla formazione del corpus pentateucale. Nel 1943 nei suoi Überlieferungsgeschichtlichen Studien Martin Noth(3) avanzò la tesi secondo cui il Deuteronomio e i libri storici da Giosuè ai Re costituiscono un compatto lavoro letterario prodotto da un unico autore, come sarebbe dimostrato dalla omogeneità del loro stile e del loro contenuto. Nasce così l’idea di una storia deuteronomista (DtrH) sviluppata secondo un progetto organico e caratterizzata da un impianto pessimistico per cui gli eventi sono letti in termini di progressivo declino fino all’esilio assiro-babilonese. Ben presto dall’ipotesi di un unico autore si passò a quella di una «scuola deuteronomista» che nel tempo, prima (Rofé, McKenzie), durante (Mullen, Weinfeld, Nicholson) o dopo l’esilio (Person),(4) a seconda degli autori, avrebbe elaborato i te(3) M. Noth, The Deuteronomistic History, «Journal for the Study of the Old Testament», xv, 1981, pp. 1-110. (4) A. Rofé, The Prophetical Stories, The Narratives about the Prophets in the Hebrew Bible, their Literary Types and History, Jerusalem, Magnes Press, 1988; M. S. McKenzie, The Trouble with Kings: the Compositions of the Book of Kings in the Deuteronomistic History, Leiden, Brill, 1991; E. T. Mullen, Narrative History and Ethnic Boundaries, Atlanta, Scholar Press, 1993; M. Weinfeld, Deuteronomy and the Deuteronomic School, Oxford, Clarendon, 1972, pp. E. W. Nicholson, Deuteronomy and Tradition, Philadelphia, Fortress, 1967; R. F. Person, The Deuteronomic School: History, Social Setting and Literature, Leiden Brill, 2002.
I.12 Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco
297
sti storici, ispirandosi alla teologia del Deuteronomio. Attingendo agli archivi storici, la storia deuteronomista sarebbe stata il riflesso dell’ideologia della retribuzione divina, articolata in quattro tempi: il patto con dio (P), la trasgressione del patto (T), la punizione divina (P) e il pentimento del popolo (P); sequenza PTPP. Altri autori (von Rad)(5) esplorarono il rapporto dei libri storici con le fonti profetiche più antiche e ne attenuarono la portata pessimistica, rilevando note positive come la liberazione dalla prigionia di Yoyaqin. Wolff e Na’aman(6) richiamarono l’attenzione sulla continuità del culto yhawista, come complesso di valori che si conservarono anche dopo la distruzione del regno di Giuda. Una svolta nell’ambito della critica biblica ha rappresentato nel 1968 la proposta da parte di Cross(7) della cosiddetta ipotesi della doppia redazione, secondo cui la storia deuteronomista (DtrH) avrebbe avuto una prima originale edizione (Dtr1) elaborata negli anni di Giosia con l’obiettivo di rivivificare il sogno del regno davidico ed una seconda edizione (Dtr2), composta nel periodo esilico. All’editore esilico andrebbe attribuito il blocco narrativo che riscontriamo in 2Re, xxiii-xxv. Al modello crossiano della crescita del materiale narrativo per blocchi si contrappose da parte di Smend,(8) e sulla sua scorta anche di Dietrich e di Veijola,(9) quello trialistico per stratificazioni successive secondo cui alla redazione originaria (DtrH) si sarebbe aggiunta una fonte nomista (DtrN) ed una sacerdotale (DtrP). Secondo Dietrich il processo redazionale si sarebbe concluso nel periodo esilico intorno al 560; Smend invece ritiene che esso abbia richiesto più tempo e che si sia concluso nel periodo achemenide (559-331). Gli studi successivi (Lohfink, Römer, Kratz, Lemaire)(10) si sono sviluppati lungo le seguenti direzioni: 1) so(5) G. von Rad, Old Testament Theology, New York, Harper and Row, 1962. (6) H. W. Wolff, Das Kerygma des deuteronomistischen Geschichtswerk, «Zeitschrift für die alttesctamentliche Wissenschaft», lxxiii, 1961, pp. 171-186; N. Na’aman, The Deuteronomist and Voluntary Servitude to Foreign Powers, «Journal for the Study of the Old Testament», lxv, 1995, pp. 37-53. (7) F. M. Cross, Canaanite Myth and Hebrew Epic, cit., pp. 287-290. (8) R. Smend, Die Entstehung des Alten Testaments, Stuttgart, Kohlhammer, 1989. (9) W. Dietrich, Prophetie und Geschichte, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1972; T. Veijola, Die ewige Dynastie. David und die Entstehung seiner Dynastie nach den deuteronomistischen Darstellung, Helsinki, Suomalaisen Tiedeakademian, 1975. (10) N. Lohfink, Kerygmata des deuteronomistischen Geschichtswerk, in J. Jeremias – L. Perlitt (eds.), Die Botschaft und die Boten, Neukirchen-Vluyn, Neukirchener Verlag, 1981, pp. 87-100; T. R. Römer, The So-Called Deuteronomistic History. A Sociological, Historical and Literary Introduction, London, Clark, 2007; R. G. Kratz, Die Komposition
298 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
stanziale fusione dei due modelli per blocchi e per stratificazioni successive; 2) progressivo abbassamento della cronologia (Lemche, Thompson); 3) delegittimazione della storia deuteronomista e 4) analisi di Giosuè, Giudici, Samuele e Re come testi indipendenti o comunque disgiunti (Westermann, Knauf, Van Seters).(11) La lettura critica del Vecchio Testamento ha dovuto ben presto fare i conti con le risultanze archeologiche che sono alla base delle cosiddette tesi minimaliste, riconducibili alla scuola di Copenhagen. Queste sono sintetizzate da Lemche(12) in tre punti cardini: a) l’antico Israele è un concetto ideologico creato dagli storici moderni; b) la costruzione di una storia d’Israele e del mito della sua fondazione nazionale fu un prodotto del giudaismo; c) gli scritti del Vecchio Testamento sono per lo più databili al periodo achemenide. Ulteriori studi hanno puntato l’attenzione sul ruolo della classe sacerdotale. Hölscher(13) ritiene che essa si sia servita della personalità di Ezra per condurre in porto la sua azione di restaurazione politico-teocratica. Dello stesso parere è Martinetti.(14) Stade(15) è convinto che l’inserimento della fonte sacerdotale sia stato avviato già in epoca esilica e in quella immediatamente postesilica. Nella stessa epoca sarebbe stata rielaborata la storia primaria. Perciò più che ad Ezra la restaurazione politico-religiosa andrebbe attribuita alla classe sacerdotale. Ezra è presentato come scriba sopher ()סופר, non nel senso tradizionale di funzionario amministrativo, ma in quello di dotto, esperto della legge mosaica, cioè proprio come componente di quella classe che finì per soppiantare la classe sacerdotale e che costituì uno dei perni del der erzählenden Bücher der Alten Testaments: Grundwissen der Bibelkritik, Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 2000; A. Lemaire, Les écoles et la formation de la Bible dans l’Ancient Israel, Fribourg, Editions Universitaires, 1981. (11) C. Westermann, Die Geschichtsbücher des Alten Testaments; gab es ein deuteronomistisches Geschichtswerk?, Gütersloh, Kaiser, 1994; E. A. Knauf, L’historiographie deutéronomiste (DtrG) existe-t-elle?, in A. De Pury - T. Römer - J. D. Macchi (eds.), Israël construit son histoire: l’historiographie deutéronomiste à la lumière des recherches récentes, Genève, Labor et Fides, 1996; J. van Seters, In Search of History, New Haven, Yale University Press, 1983. (12) N. P. Lemche, Ancient Israel. A New History of Israel, cit., pp. 2-3. (13) G. Hölscher, Geschichte der israelitischen und jüdischen Religion, Gießen, Töpelman, 1922, pp. 64-68. (14) P. Martinetti, Gesù Cristo e il cristianesimo, Milano, Edizioni della Rivista di Filosofia, 1934, p. 13. (15) B. Stade, Storia del popolo di Israele, tr. it. di Diego Valbusa, Milano, Vallardi, 1890, vol. ii, p. 180.
I.12 Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco
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giudaismo. Un duro colpo all’ipotesi documentale e alla storia deuteronomista fu inferto da Rendtorff(16) il quale concentrò la sua attenzione sul problema della datazione delle fonti, in particolare della yhawista. Fino agli anni settanta del secolo scorso c’era stato un generale consenso circa la datazione di J alla prima monarchia. Ma a seguito di più recenti ricerche gli studiosi si sono orientati per una più tardiva sua datazione al periodo dell’esilio. Rendtorff è del parere che tale slittamento di J implichi la negazione dell’esistenza delle fonti, lo smantellamento dell’ipotesi documentaria di Wellhausen e la perdita di significato di una ricostruzione della storia della monarchia. In realtà la più bassa datazione di J, che non è un capriccio, ma è un’evidenza sempre più netta, implica, come vedremo fra breve,(17) una radicale revisione della nostra interpretazione dell’intero corpus vetero-testamentario. È ora opportuno procedere ad un esame delle ragioni che ci hanno indotto ad accantonare le due ipotesi sopra citate. 12.2. Limiti imposti dalle ricerche archeologiche Qualsiasi interpretazione dei testi letterari non può prescindere dalle risultanze fornite dalle fonti extrabibliche. I dati archeologici non possono non costituire i necessari punti di ancoraggio dei testi letterari alla realtà storica e ad una corretta cronologia degli eventi. Niels Peter Lemche(18) ha lucidamente delineato la cornice storica entro cui va inquadrata la storia d’Israele: non abbiamo tracce archeologiche della presenza ebraica in Egitto, né di una fuga dall’Egitto, né di una monarchia unita e tanto meno di una conquista del Canaan. Tutta la narrazione che va dalla Genesi a Giosuè, ai due Samuele e a parte dei due Re, quale che sia la finalità politico-religiosa perseguita dai rispettivi autori, non ha assolutamente carattere storico. Comunque la si chiami, storia primaria o storia deuteronomista, si tratta di una raccolta di leggende e di miti di carattere popolare e folcloristico. Il Libro dei Giudici appartiene ad un genere letterario, quale è quello della idealizzazione o mitizzazione di un’età eroica, che è comune a gran parte delle (16) R. Rendtorff, The Paradigm is Changing: Hopes and Fears, in R. Rendtorff, Der Text in seiner Endgestalt, Schritte auf dem Weg zu einer Theologie des Alten Testament, Leiden, Brill, 2001, pp. 51-68. (17) Cfr. infra, pt. I, par. 12.9-11. (18) N. P. Lemche, Ancient Israel, cit., pp. 3-15.
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culture antiche dalla Mesopotamia alla Grecia. Prima dell’esilio babilonese Gerusalemme era solo un modesto villaggio agricolo-pastorale verosimilmente privo di una classe colta in grado di elaborare un complesso corpus di testi letterari. Nel decimo secolo la città santa non era tra i maggiori centri della Palestina e difficilmente poteva essere la capitale di un regno di qualche rilevanza. «All’inizio del primo millennio – scrive Lemche(19) – non ci fu nessun impero israelita e probabilmente neppure uno Stato di qualche rilevanza. Perciò quell’unità politica chiamata ‘Israele’ […] non è esistita […]. Il regno di Israele, conosciuto anche come Samaria o ‘casa di Omri’, fu probabilmente fondato solo nel nono secolo a.C., mentre il regno di Giuda non comparve come Stato prima dell’ottavo secolo». In queste condizioni è difficile pensare ad una fonte J pre-esilica. Non c’è nessuna prova che la distruzione assira della Samaria abbia prodotto una crescita demografica del regno di Giuda. Secondo l’Antico Testamento il secondo tempio sarebbe stato ricostruito nel 516 dopo settanta anni di esilio, ma le evidenze archeologiche inducono a porre tale ricostruzione verso la metà del quinto secolo. Nel suo libro Neemia ci informa che nel quinto secolo ci fu una consistente migrazione verso Gerusalemme e che, oltre alla costruzione del tempio, furono edificate le mura della città, ma di tale travaglio edificatorio e di tale fenomeno migratorio non si dà traccia alcuna negli scavi archeologici. Se ancora nel periodo persiano Gerusalemme e la Giudea erano «un luogo desolato con un’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento su piccola scala, non avrebbero neppure potuto esercitare il ruolo di centri di attività intellettuale».(20) Se per gli archeologi la ricostruzione della città santa ebbe luogo tra il terzo e il primo secolo a.C., è evidente che all’età ellenistica va trasferita anche la produzione della letteratura veterotestamentaria. Dalla Genesi ai Giudici l’attenzione posta su Giuda e sulla Giudea sembra essere marginale o meramente occasionale; se nella loro storia come Stati indipendenti spesso entrano in conflitto, v’è da chiedersi: quando nacque l’idea che Giuda fosse parte di Israele? Lemche(21) ritiene che ciò non fu possibile né nel periodo pre-esilico, né in quello pre-ellenistico; non resta che pensare all’età ellenistica e ad Alessandria come centro di alto livello culturale.
(19) Ivi, p. 8 (traduzione mia). (20) Ivi, p. 12 (traduzione mia). (21) Ivi, pp. 13-14.
I.12 Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco
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12.3. Le stratificazioni cananaiche, ugaritiche e neo-babilonesi della formazione culturale di Israele L’ipotesi documentale presuppone l’esistenza di documenti più antichi e quindi di epoca pre-esilica (in particolare le fonti J ed E) che furono utilizzate dal redattore JE. In realtà, come vedremo a breve,(22) non c’è mai stato né un documento E né un documento J, per il semplice fatto che tra il decimo e l’undicesimo secolo non è attestata l’esistenza di uno Stato israelita con una propria identità culturale. La presenza di Israele nel Canaan ha la sua spiegazione più razionale nel modello etnogenetico. Israele cioè si costituì come ethnos con un proprio patrimonio religioso e culturale, distinguendosi da un sostrato cananaico. Questo a sua volta fu fortemente influenzato fin dalla metà del xv secolo dalle grandi civiltà dell’Egitto, di Ebla, Mari, Nuzi e Ugarit. Il sincretismo, dovuto ai frequenti rapporti interculturali tra le diverse etnie e al diffuso fenomeno del plurilinguismo, almeno a livello di strati colti (scribali e sacerdotali), era una costante in tutta l’area medio-orientale. Pur costituendosi come identità distinta, Israele assorbì nella propria ideologia religiosa riti, festività, liturgie, credenze e perfino divinità del pantheon dei popoli cananaici.(23) Una delle figure centrali del proprio mondo divino fu Êl, di origine ugaritica. Una delle divinità o uno dei nomi divini in uso in Ugarit era yw, corrispondente forse a yhw venerato nella colonia ebraica di Elefantina alla fine del quinto secolo. È cioè assai probabile che le coordinate del pantheon israelita derivassero le loro origini dalla cultura ugaritica. Il che induce a pensare che la tradizione culturale di Israele (le saghe, le credenze popolari e persino le fonti letterarie) costituissero almeno in parte un’eredità cananaica o più specificatamente ugaritica. Insomma prima dell’esilio non sembra che Israele abbia elaborato una propria mitologia nelle sue articolazioni cosmogoniche e antropogoniche, tant’è che in età postesilica l’autore della Genesi è costretto a ricorrere alle tradizioni neobabilonesi (mito della creazione e del diluvio noachico), alla grande teologia dell’Enūma Eliš, dell’Atramhasis e del Gilgameš e a riadattarle alle proprie istanze ideologiche. La recente scoperta degli archivi di Ras Shamra conferma questa intuizione. Assai significativi sono in proposito gli esempi di dipendenza letteraria dei testi ebraici (22) Cfr. infra, pt. I, par. 12.9-11. (23) Cfr. in proposito L. R. Fisher, Creation at Ugarit and in the Old Testament, pp. 313-324, accessibile in internet.
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da quelli ugaritici. Gordon(24) ce ne fornisce un paio: Il primo esempio riguarda la Genesi. – UT, ‘nt II, 39-40: tl šmm […] šmn ars («rugiada del cielo […] grasso della terra») corrisponde a Gn, xxvii, 28: mtl h-šmym […] w-m-šmny h’rs («dalla rugiada del cielo e dal grasso della terra»). Il secondo riguarda il Proto-Isaia: – UT, V, 7-8: ydn dn almnt […] ytpt tpt ytm («egli giudica il caso della vedova […] giudica la causa dell’orfano») corrisponde al Proto-Isaia, i, 17: šptw ytwm rybw ‘lmnh («giudicate il caso dell’orfano, difendete la causa della vedova»).
La datazione post-esilica (probabilmente quinto secolo a.C.) del libro dei Re che, pur tra incertezze, faziosità e imprecisioni soprattutto di ordine cronologico, contiene un nucleo storico di grande interesse (1Re, xii-xvi; 2Re, viii-16 - xxii; xxv, 23-30), è dimostrata dal fatto che il suo redattore dipende in toto dalla storiografia neobabilonese. A tale conclusione è pervenuto in un suo pregevole contributo Mario Liverani,(25) il quale ha evidenziato quanto segue: a) le cronache ebraiche non possono essere anteriori al periodo babilonese perché per lo più dipendono dalle cronache babilonesi; b) la cronologia dei due regni (Giuda e Israele) si fonda su un sistema di datazione incrociata dei sovrani dell’uno e dell’altro regno proprio come accade per la cronologia sincronica dei regni, assiro e babilonese; c) l’intronizzazione di ciascun sovrano (del Sud o del Nord) è sempre associato al corrispondente anno di regno del sovrano suo coevo; d) il giudizio su ciascun sovrano dipende dal suo comportamento, positivo o negativo, in ordine alla tenuta e alla osservanza del culto; e) alla morte di ciascun re segue l’indicazione del luogo della sua sepoltura; f) a differenza delle cronache babilonese il libro dei Re non registra gli eventi secondo la sequenza annalistica, ma cita tra le sue fonti gli Annali dei re di Giuda e gli Annali dei re di Israele, lasciando supporre che la loro registrazione fosse annalistica; g) gli eventi narrati sono sempre guer(24) C. Gordon, The Background to Jewish Studies in the Bible and in the Ancient East, cit., p. 3. (25) M. Liverani, Ancient Near Eastern and Biblical Historiography, in B. Halpern - A. Lemaire, The Books of Kings, Source, Composition, Historiography and Reception, Leiden, Brill, 2010, pp. 163-184.
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re, trattati e matrimoni politici; h) gli eventi umani sono spiegati sempre in termini di decisioni divine; i) le guerre si concludono generalmente con lo sterminio (hērem) del nemico. 12.4. Fluttuabilità ed evaporazione delle fonti J ed E Le fonti J ed E sono state per così dire isolate sulla base dell’uso dei nomi divini. La fonte E è pensata come un documento in cui ricorre l’uso di ĕlōhîm e J come un documento in cui ricorre il nome Yhwh. Il vantaggio di tale operazione chirurgica starebbe nel fatto di poter ricondurre alle due fonti le due narrazioni della creazione; la versione elohistica nei versetti i, 1 – ii, 4, e la versione yhawista nei versetti ii, 4-25. Gli esegeti hanno poi esteso questa artificiosa dissezione delle fonti all’interpretazione di tutta la Genesi e di gran parte dei libri veterotestamentari. In realtà non è facile incastonare le fonti J ed E entro contorni ideologici rigidamente definiti, perché non lo consente la fluttuabilità del testo; lo dimostra il fatto che spesso gli esegeti non riescono a stabilire un netto consenso circa l’interpretazione, elohista o yhawista, degli stessi versetti. Se poi pensiamo a J e ad E come fonti rispettivamente meridionale e settentrionale, il discorso si complica perché nell’intero Pentateuco non compare ancora una chiara divisione tra Israele e Giuda. Anche l’idea di una netta differenziazione tra una teologia del Nord fondata sul patto e una teologia del Sud fondata sulla promessa è manifestamente artificiosa, non solo perché il Canaan rappresenta la terra promessa di tutto Israele, ma anche perché la trasgressione del patto colpisce tanto il regno del Nord quanto quello del sud. Nei Libri dei Re, ciascun sovrano, che sia meridionale o settentrionale, è giudicato sulla base del fatto che il suo operato è stato o meno conforme a ciò che è retto o è male agli occhi di Dio. Se ciò significa la trasgressione o la fedeltà al patto, vale evidentemente sia per Israele che per Giuda. D’altra parte sembra che la teologia del patto sia di origine cananaica, come si evince dal fatto che i testi conservano traccia di un Baal-berît (il dio Baal del patto) e di un El-berît (Gn, xxxiii, 20). L’ipotesi delle due fonti E e J parte, come si è detto, dall’analisi dell’uso dei nomi divini. È del tutto fuorviante supporre che l’uso di ĕlōhîm e di Yhwh sia riconducibile a due diverse concezioni religiose. Ĕlōhîm è solo un nome generico della divinità, Yhwh ne è il nome proprio. L’uso del plurale non è che un’eredità di un
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costume egiziano e ugaritico e forse esteso a tutta l’area mesopotamica. Se torniamo alle due versioni della creazione, possiamo dire che con esse non c’è una frattura formale tale da giustificare le due fonti. La cosiddetta versione elohista (Gn, i, 1 - ii, 4) contiene 33 occorrenze di ĕlōhîm e nessuna di Yhwh. Quella yhawista (Gn, ii, 4-25) contiene 12 occorrenze di Yhwh in associazione con ĕlōhîm nel sintagma Yhwh ĕlōhîm. In tutto il resto della Genesi e nei primi cinque capitoli dell’Esodo ĕlōhîm e Yhwh si alternano spesso all’interno dello stesso capitolo o della stessa pericope senza alcuna relazione con distinte e contrapposte concezioni ideologiche. D’altro canto finché non si produsse lo scisma o la frattura tra un regno del Nord ed uno del Sud non è possibile parlare di fonti J ed E, come espressioni di due entità culturalmente distinte. Se gli autori del Pentateuco hanno attinto materiale dalla mitologia dei popoli mesopotamici, possiamo supporre che l’autore della Genesi abbia trovato nelle tradizioni da essi ereditate le due versioni della creazione e le abbia riportate senza neppure porsi il problema della loro sovrapponibilità. 12.5. Ancora sulla identità di Israele Nei libri storici il termine ‘Israele’ è usato con una certa ambiguità perché talvolta è riferito a Giacobbe, come nome impostogli da Dio, talaltra allude o a tutto il popolo ebraico o solo al regno del Nord. Le sue occorrenze sono 39 in Genesi, 166 in Esodo, 62 nel Levitico, 217 in Numeri, 62 nel Deuteronomio, 149 in Giosuè, 255 in Giudici, 128 nel 1Samuele, 105 nel 2Samuele, 193 nel 1Re, 74 nel 2Re. Il più compatto è il testo della Genesi ove quasi tutte le occorrenze riguardano Giacobbe; una sola (Gn, xxxvi, 31) allude, con manifesto anacronismo, alla monarchia unita («prima che un re regnasse sui figli di Israele» lipnê melāk melek libnê yiśrā’êl) e due altre (Gn, xlix, 16, 28) accennano alle tribù di Israele (šibtê yiśrā’êl), intese come popolo. Sempre nella logica degli anacronismi nel contesto delle benedizioni di Giacobbe (Gn, xlix, 8-13) si percepisce l’assegnazione di un destino speciale alla discendenza di Giuda, tanto da far pensare alla sovrapposizione di una stratificazione giudaita al testo originale. Diverso è il caso dei libri che vanno dall’Esodo ai due Samuele, ove il termine ‘Israele’ è impiegato solo nell’accezione generale che si riferisce a tut-
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to il popolo ebraico. Negli stessi libri possiamo riscontrare una terminologia comune, ma anche una diversificazione di lessico e di stile. Le circonlocuzioni comuni sono: benê yiśrā’êl (figli di Israele), ziqnê yiśrā’êl (gli anziani di Israele), kāl benê yiśrā’êl (tutto Israele), ‘ădat yiśrā’êl o kāl ădat benê yiśrā’êl o kāl ădat yiśrā’êl o kāl qehal ădat yiśrā’êl, (l’assemblea o tutta l’assemblea dei figli di Israele o tutta la comunità di Israele o tutta l’assemblea della comunità di Israele). In Ex, iv, 22, il popolo dei figli di Israele è ormai designato come primogenito di Yhwh: benî bekōrî yiśrā’êl. In odore di anacronismo sono anche i sintagmi «casa di Israele», bêt yiśrā’êl (Ex, xvi, 31; Lv, x, 6; xxii, 18) e «casa di Giacobbe» bêt ya’ăqōb (Ex, xix, 3), poiché fanno pensare ad una stabilizzazione residenziale o comunque ad un casato o dinastia propria di un regno. Sul fronte della diversificazione stilistica la particolarità di Levitico e Numeri consiste nella ripetizione ossessiva della circonlocuzione dabbêr ‘el benê yśrā’êl («parla ai figli di Israele»).(26) Proprie del Deuteronomio sono invece le formule šema’ yiśrā’êl o yiśrā’êl šema’ «ascolta Israele» (iv, 1; v, 1; vi, 3, 4; ix, 1; xxvii, 9). I sintagmi ‘ammekā yiśrā’êl «Israele il tuo popolo» (Dt, ix, 12, 26, 29; xxi, 8 (2); xxvi, 15) e kāl šibtê yiśrā’êl («tutte le tribù di Israele») sono riscontrabili anche in Giosuè (Dt, xxix, 21; xxxiii, 5; Js, xxiv, 1). In quest’ultimo libro, almeno fino all’undicesimo capitolo, ‘Israele’ continua a riferirsi a tutto il popolo ebraico, ma nel contempo, nel corso della conquista del Canaan, la popolazione del Nord (Israele) comincia a differenziarsi da quella del Sud (Giuda). I versetti Js, viii, 30-35, in cui si narra dell’edificazione di un altare sul monte Ebal e delle benedizioni e maledizioni recitate secondo il Libro della Legge, sono chiaramente un’interpolazione che dipende dal Deuteronomio. Nelle pericopi Js, xi, 16, 21, le espressioni har yiśrā’êl e har yehūdāh (altopiano di Israele e altopiano di Giuda) sanciscono per la prima volta la divisione del popolo ebraico in due entità distinte. Tuttavia l’autore insiste sull’unità di ‘Israele’: infatti scrive: «Giosuè conquistò tutto il paese [il Canaan] […] e lo diede a Israele, secondo la sua ripartizione per tribù». Il libro dei Giudici sembra fare un passo indietro, perché fa pensare che il territorio già conquistato secondo Giosuè, o almeno parte di esso, debba essere ancora conquistato. In questa prospettiva Israele torna ad essere il popolo unito che precede la divisione tra Nord e Sud. Ma in realtà la contrapposizio(26) Lv, i, 2; iv, 2; vii, 29; xi, 2; xii, 1; xv, 2; xvii, 2; xviii, 2; xix, 2; xxii, 2; xxiii, 2, 10, 24, 34; xxiv, 15; xxv, 2;xxvii, 2; Nm, v, 6, 12; vi, 2; ix, 10; xv, 2, 18, 38; xvii, 17; xix, 2; xxxiii, 51; xxxv, 9.
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ne sussiste nella stessa divisione del lavoro con cui procede la conquista: la tribù di Giuda si impadronisce del Sud e quella di Giuseppe del Nord. L’autore delinea lo schema ciclico della storia d’Israele, la quale passa dalla trasgressione/peccato («i figli d’Israele, facendo ciò che è male agli occhi di yhwh, prestarono culto a divinità straniere») alla punizione («si accese contro Israele la collera di Yhwh»), alla misericordia/compassione divina («allora Yhwh suscitò dei giudici perché li sollevassero dalle mani dei predoni»; «Yhwh aveva compassione dei lamenti che essi facevano sotto l’oppressione dei loro persecutori»), alla salvezza («Yhwh proteggeva il giudice e li [gli israeliti] salvava dalla mano dei loro nemici per tutta la vita del giudice»). Lo schema ciclico è sintetizzabile nella formula TPMS (Trasgressione, Punizione, Misericordia, Salvezza). A ciascun ciclo è associata la figura di un giudice, forse uno per ciascuna tribù, per un totale di dodici giudici (numero simbolico). Alla morte di ciascun giudice lo schema si ripete, perché Israele ricade nella trasgressione («quando il giudice moriva, [gli israeliti] tornavano a comportarsi peggio dei loro padri, seguendo divinità straniere»). L’unità di Israele è di nuovo fittizia o quanto meno è legata ad una unità territoriale, come si evince dalle espressioni «tutto il territorio di eredità di Israele» kāl śedêh nahălat yiśrā’êl (Jdc, xx, 6) e «popolo di Israele» ‘îš beyśrā’êl (Jdc, xx, 31). Le due appendici che chiudono il libro sono aggiunte posteriori di un autore favorevole all’instaurazione della monarchia, come suggerisce la frase «in quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno poteva fare quel che gli pareva». Va altresì rilevato che Giosuè, 1Samuele, 1Re e 2Re sono i testi in cui, come sappiamo, maggiormente sovrabbonda il sintagma ‘ĕlōhê yiśrā’êl «Dio d’Israele». Nel 1Samuele la formula «tutto Israele» (ii, 14, 22; iv, 5; vii, 5; xi, 2; xiii, 4; xiv, 40; xvii, 11; xix, 5; xxiv, 3; xxviii, 3) o «tutti gli israeliti» è resa anche con ‘îš yiśrā’êl (xiii, 6; xiv, 22; xvii, 19, 25) oppure con kāl anšê yiśrā’êl (viii, 22; xi, 15; xvii; 52; xxxi, 1, 7). Le formule «tutta la terra» o «tutto il territorio» di Israele sono rese rispettivamente con kōl ‘eres o con kōl gebūl (xi, 3, 7; xiii, 19). L’autore introduce un lessico nuovo: il profeta (nābî) è indentificato con il veggente (hārō’eh), termine che ricorre solo nel 1Samuele (ix, 9); il capo o principe del popolo è indicato con nāgid (ix, 16; xxv, 30). Il vertice della monarchia è Yhwh, secondo la formula: «vostro re è Yhwh» yhwh ‘ĕlōhêkem malkekem (xii, 12). Per la prima volta si parla esplicitamente di ‘regno di Israele ‘mamleket/mamlekūt yiśrā’êl (xv, 28; xxiv, 20) e di ‘eserciti di Israele’ ma’arkōt iśrā’êl (xvii, 8, 10, 26, 36, 45; xxiii, 3). Fino al capitolo xi Israele è tutto il popolo; in xi, 8, si distinguono due compo-
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nenti con una sottile differenza lessicale per cui gli israeliti, che erano trecentomila, sono qualificati come ‘figli di Israele’ (benê iśrā’êl), i giudaiti, che erano trentamila, sono qualificati come ‘uomini di Giuda’ (we ‘iš yehūdāh). Nel 2Samuele le novità lessicali e concettuali riguardano «il trono di Davide su Israele e Giuda» = kissê dāwid ‘al yiśrā’êl we ‘al yehūdāh (iii, 10), «il conflitto tra la casa di Saul e la casa di David» = hammilhāmāh bên bêt šā’ūl ūbên bêt dāwid (iii, 6), la scelta, in sostituzione di nāgîd, del lemma śar, largamente impiegato in Genesi e reimpiegato nei due Samuele (5 occorrenze in 1Samuele e 6 in 2Samuele) e nei due Re (9 occorrenze in 1Re e 9 in 2Re). La circonlocuzione «tutto il popolo di Giuda […] e metà del popolo di Israele» kāl ‘am yehūdāh […] wegam hăsî ‘am yiśrā’êl (2Sm, xix, 40) induce a pensare ad una frattura interna al fronte israelitico. In ogni caso il 2Samuele accenna ad una temporanea divisione interna alla monarchia unitaria. Infatti ci dice che alla morte di Saul l’incoronazione di David non fu condivisa da tutte le tribù. David venne unto ad Hebron come re riconosciuto dalla sola tribù di Giuda (2Sm, ii, 4) e l’esercito rimasto fedele a Saul acclamò Is-Baal re di Galaad (regione orientale del Giordano comprendente i territori di Gad, Ruben e Manasse). Probabilmente non si trattava solo di una scissione in nord e sud poiché comprendeva anche una frattura tra Oriente e Occidente del fiume Giordano (2Sm, ii, 8-11). Il 1Re riutilizza nāgid nella espressione «capo di Israele e di Giuda» nāgîd ‘al yiśrā’êl we ‘al yehūdāh (i, 35, vedi anche xiv, 7; xvi, 2), ma, come si è detto, fa un più ampio uso di śar. In ii, 11, si ha l’impressione che l’autore ritenga il regno di Davide non tanto una monarchia unitaria quanto un’unione personale, poiché scrive che David regnò su Israele 40 anni, su Ebron sette anni e su Giuda 33 anni. D’altronde l’articolazione della monarchia in due rami è già implicita nella distinzione dei due eserciti: quello israelita, capeggiato da Abner e quello giudaita, capeggiato da Amasà (ii, 32). Prima ancora del presunto scisma tra Nord e Sud, Giuda e Israele sono ricordate come entità distinte, le quali sono «numerose come la sabbia del mare» (iv, 20) e dimorano «ciascuna sotto la propria vite e sotto il proprio fico» (v, 5). Ma che qualcosa non funzioni nella narrazione ce lo fa capire la versione della costruzione del tempio. In tale occasione Yhwh promette: «abiterò in mezzo ai figli di Israele e non abbandonerò il mio popolo Israele» (vi, 13). Il problema è che il tempio è sbilanciato rispetto ai due assi del regno, tanto più che a partire dal capitolo xii Israele e Giuda, dopo lo scisma politico-religioso, costituiscono ormai due regni distinti; anzi l’autore dei capitoli xii-xxii del 1Re e di tutto il 2Re sembra essere un anti-israelita, perché non solo ne sottolinea la continua ca-
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duta nella trasgressione, ma ne dichiara anche la pervicace ostilità antigiudaica: «così Israele rimase ribelle contro la casa di Davide fino a oggi» (xii, 19). Dopo il capitolo xii, il sintagma «tutto Israele» kāl yiśrā’êl, che prima si riferiva alla totalità del popolo ebraico, designa ormai solo il regno del Nord (xii, 20); ma l’ambiguità continua a sussistere nel passo in cui ci vien detto che Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, rammentando la parola di Yhwh «il tuo nome sia Israele» (xviii, 31). L’analisi lessicale e concettuale dei testi storici ci induce a stabilire, in armonia con le risultanze archeologiche, che non c’è mai stata una storia unitaria dell’antico Israele e che anzi le due realtà, israelitica e giudaita, erano già fin dall’inizio due entità distinte, costituitesi sui due versanti, settentrionale e meridionale, degli altipiani centrali. Ne consegue che dobbiamo abituarci a considerare i libri storici non in funzione di un passato che non c’è mai stato, ma in funzione delle aspettative e degli obiettivi politici che i redattori finali intendevano perseguire sia nel presente che nella prospettiva del futuro. Dopo il comune, tragico destino della reciproca devastazione, nell’altrettanto comune dispersione ebraica nell’area mediterranea, l’identità di Israele, o meglio l’unità israelitico-giudaica, altro non era che una profonda aspirazione delle classi dirigenti a costituire un’etnia nazionale al pari delle altre etnie nazionali che coesistevano nell’area palestinese tra il v e il iv secolo. Il rientro dei deportati in Gerusalemme e la ricostruzione del secondo tempio, riaccese, a metà del quinto secolo, le speranze di una rinascenza. Le classi sacerdotali e aristocratiche si fecero promotrici, pur su versanti contrapposti, di progetti politici che miravano o alla formazione di una teocrazia sacerdotale o alla costituzione di una monarchia panisraelitica che facesse di Israele una potenza pari a quella dei grandi imperi coevi. Si trattò comunque di una aspirazione che non ebbe mai seguito, perché, come sappiamo, in età ellenistica si consumò la definitiva separazione, registrata anche nei vangeli, tra il giudaismo meridionale e il samaritanismo settentrionale. 12.6. La tardiva comparsa della Torah Premesso che la Torah è parte integrante della storia primaria, è evidente che la sua scoperta tardiva decide della seriorità di tutta la storia primaria. Su questo punto può illuminarci il 2Re, xxii, da cui si evince che prima di Giosia non si aveva notizia del Libro della Legge. Proviamo infatti a rico-
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struirne la vicenda della scoperta. Ci dice l’autore del 2Re che il sacerdote Hilqîyāhu informò lo scriba Safan di aver «trovato nel tempio di Yhwh il Libro della Legge (sêper hattōrāh)», ma non ci fa sapere se si trattava di un libro del tutto sconosciuto o di un libro che si riteneva perduto. Safan riferì al re della scoperta e gli consegnò «il libro» trovato; Giosia ne diede lettura davanti a tutto il popolo, non senza precisare che esso conteneva i termini dell’alleanza con Dio («fece leggere tutte le parole del Libro dell’alleanza (sêper habberît)». Il nuovo titolo (Libro dell’alleanza) potrebbe alludere ad una specifica sezione dell’Esodo, vale a dire ai capitoli xix-xxiv: un testo abbastanza striminzito, che poteva essere letto davanti al popolo, probabilmente lo stesso testo striminzito che l’autore immaginava avesse letto Mosè davanti al popolo. Se dobbiamo dar credito al testo citato, dobbiamo trarre le seguenti conseguenze: 1) se la Torah e l’alleanza con Dio erano sconosciute prima di Giosia, probabilmente erano sconosciute anche la figura di Mosè e la leggenda dell’uscita dall’Egitto; 2) se la citazione del 2Re si riferisce solo ai capitoli xix-xxiv dell’Esodo, quando è venuto alla luce il resto del Pentateuco? 3) se la teologia del patto è parte integrante della riforma religiosa giosiana, perché gli esegeti affermano che essa è una teologia del Nord? 4) tutti i libri storici, in cui si fa cenno al patto e alla legge, debbono considerarsi posteriori all’Esodo; 5) se la storiella della scoperta del libro della legge fu approntata dagli apparati amministrativo-sacerdotali di Giosia, evidentemente tutta la storia primaria (GR) non è anteriore a Giosia. Infine è lecito chiederci se quell’Esodo striminzito fu una reale scoperta della fine del settimo secolo o se fu proiettato nel settimo secolo dal più tardo compilatore del testo per accreditare la sua narrazione. La seconda ipotesi sembra più verosimile ed è tale anche se dovessimo supporre che l’autore del 2Re abbia tenuto presente non il libro dell’Esodo, ma quello del Deuteronomio. 12.7. La paternità, isrealitica o giudaita, della storia primaria Si impone un ulteriore interrogativo: la ricostruzione della storia primaria fu opera della classe dirigente del Nord o di quella del Sud? Di primo acchito si ha l’impressione che la fisionomia di Genesi-Re (GR) sia chiaramente di marca israelitica. Ce lo dice il fatto stesso che il termine ‘Israele’, inclusivo del nord e del sud, almeno fino a Samuele-Re (SR), ha una indi-
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scussa prevalenza nella narrazione. Ma se fino alla sua tragica devastazione il nord è ancora legato ai culti cananaici, come si spiega che in GR prevale la fede in Yhwh? E ancora: se supponiamo che la storia primaria sia dominata dall’ideologia meridionale, come possiamo spiegare il ruolo preponderante di Israele e quello marginale di Giuda in tutta la narrazione da Genesi a Giudici? La sola spiegazione possibile è che il tessuto connettivo della storia primaria è di matrice israelitica, ma l’anima o il cuore della stessa è di impronta yhawista e meridionale. Ma come può essere avvenuta la fusione tra due polarità che sembrano contrapposte? Wellhausen ha supposto che si sia prodotta la fusione di due distinti documenti: uno di origine settentrionale (E) e l’altro di origine meridionale (J); il loro redattore finale avrebbe provveduto ad intrecciarli in un unico progetto organico. Se così fosse, le due linee interpretative dovrebbero essere chiaramente coerenti e riconoscibili. Ma così non è, perché per la gran parte del tessuto narrativo non c’è un vero e proprio ordito elohistico; anzi ĕlōhîm è sempre impiegato come nome comune della divinità; per di più i culti cananaici sono oggetto di esplicite condanne, pur essendo in underground la matrice generativa dell’elohismo. Resta un’unica via d’uscita che consiste nel supporre che Israele e Giuda costituissero due etnie distinte, le quali, dopo la devastazione di Samaria, con l’arrivo dal Nord della intellighentsia israelitica, si siano fuse insieme ed abbiano prodotto un nuovo ethnos, fondato su una nuova humus culturale, in cui confluirono il potenziale politico-amministrativo del Nord e il retroterra religioso del sud. Questa ipotesi, secondo Lemche, sarebbe contraddetta dai dati archeologici secondo i quali non ci fu nessuna massiccia migrazione dal Nord al Sud. Ciò significa che l’incremento demografico di Gerusalemme e del regno di Giuda tra il vii e il vi secolo deve trovare una spiegazione alternativa. Ciò che però le evidenze archeologiche non possono escludere è che dal Nord ci sia stato lo spostamento di un gruppo sparuto di intellettuali che furono per lo più portatori, più che di fonti scritte, di mitologie e di tradizioni di origine settentrionale. In questa prospettiva è possibile pensare ad una confluenza di mitologie, settentrionali e meridionali, o se si preferisce, alla rilettura, in chiave yhawista, della mitologia più antica, sviluppatasi nella tradizione orale, popolare e folkloristica del Nord. In quest’ottica alle divinità israelitico-cananaiche si sovrappose la figura di Yhwh, con il corredo del monolatrismo e della logica della trasgressione/ punizione. Si trattò comunque di un processo lento come sempre accade nel
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passaggio da una religione ad un’altra. I culti cananei legati alle bamoth (le alture), alle stele e agli alberi sacri continuarono a sussistere o in ogni caso se ne conservò in qualche modo il ricordo. L’irrigidimento del culto yhawista si produsse in quella sorta di crogiolo che fu l’esilio; il popolo che ne uscì, ne uscì profondamente mutato; la deportazione comportò il sacrificio di due generazioni, quella che rientrò in Gerusalemme ruppe con tutte le forme degli antichi culti di origini cananaiche, riscrisse la storia e spiegò la disgrazia del presente come conseguente alle deviazioni dal culto yhawista, il quale per questa stessa ragione ne uscì con i tratti del rigorismo più intransigente. La prima formulazione del patto mosaico (Ex, xx, 22-26) fu chiaramente post-esilica e fu pensata in funzione delle istanze della popolazione deportata. Pur nei suoi rigidi limiti, il patto costituì un messaggio di speranza e di liberazione. Il recupero della fiducia di Yhwh era subordinato alle seguenti prescrizioni: a) divieto di rappresentare Yhwh come idolo di oro o di argento; b) invito ad edificare in onore di Yhwh un altare in terra o in pietra, purché non si trattasse di pietra intagliata e profanata dallo scalpello; c) invito ad offrire sacrifici al Dio; d) divieto imposto al sacerdote di salire all’altare per mezzo di gradini. Non è ancora prescritta la centralità del tempio, poiché il testo recita: «in qualunque luogo io vorrò rivelare il mio nome verrò a te e tu mi benedirai». È il principio della pluralità degli altari: Dio può manifestarsi in più luoghi secondo il suo stesso volere. Anzi gli altari sono in genere associati alle teofanie. Così accade con Abramo, con Isacco e con Giacobbe. Per la verità i templi citati nella Genesi e nell’Esodo sono santuari antichi generalmente dedicati ad Êl o a Baal o al dio Sole. Le narrazioni che li riguardano sono per lo più eziologiche ed hanno lo scopo di mettere sotto la protezione di Yhwh i più rinomati santuari cananaici, da Silo a Betel, a Rephidim, al Sinai, a Be’er-sheba, a Sichem, a Hebron, al Monte Moria, a Dan, a Bet-šemeš, ecc. Ma che la storia sia diversa ce lo dice il medesimo passo citato dell’Esodo. La possibilità di edificare altari (miqdāš) in terra o in pietra, senza gradini, ci fa capire che l’autore non si riferisce all’epoca del nomadismo nel deserto, ove non avrebbe avuto senso una stabile costruzione in pietra; per la loro stabilità quei templi presuppongono una popolazione stanziale.(27) Tutto questo ci riconduce ancora una volta al periodo persiano, presumibilmente intorno alla metà del quinto secolo, al rientro in Gerusalemme dei deportati con la conseguente necessità di ridare un assetto politico, culturale e religioso al risorgente Stato di Giuda. Ed è in questa (27) Gn, xii, 6-9; xiii, 4, 18; xxii, 9; xxvi, 23-25.
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fase storica che cade la ricostruzione del tempio. A differenza del primo tempio, la cui costruzione ci è minuziosamente descritta nel 1Re secondo il modello architettonico ugaritico, poco o nulla ci vien detto sulla riedificazione del secondo tempio nei due testi di Ezra e di Neemia. Uno degli elementi che depone a favore della seriorità dell’Esodo sta proprio nella sua versione della costruzione del tempio. Pur con la pretesa di riferirsi all’età mosaica, la sua narrazione in realtà risale al periodo persiano, per il semplice fatto che l’autore non ci fornisce una prefigurazione della costruzione del tempio, ma al contrario ne presuppone l’esistenza. Egli infatti riconduce allo stesso Yhwh l’ideazione del modello del santuario (tabnît hammiškān) da realizzare nella terra promessa. Yhwh lo avrebbe mostrato (mar’eh) al popolo attraverso il modello del tabernacolo (miškān) e degli arredi sacri (Ex, xxv, 9), cioè dell’arca (‘ărōon), della tenda del tabernacolo (le’ōel ‘al hammiškān), della tavola dei pani della presenza (šulhān lehen pānim), delle tavole della testimonianza (hā’êdut), del velo di separazione (pārōket), del recinto del tabernacolo (hăsar hammiškān). Tutte le loro misure appaiono tra loro incongruenti e poco idonee alla vita nomade nel deserto. Sicché si può dire che non il tabernacolo costituì «il modello del santuario», ma al contrario fu il secondo tempio il modello per l’ideazione del tabernacolo. Infatti il miškān, che è così centrale in Esodo e in Numeri, è appena menzionato in Levitico, non come prototipo del tempio, ma come stabile dimora della divinità.(28) Anche in Giosuè esso è il tempio stesso «che si trova nel paese che è di proprietà di Yhwh» (Js, xxii, 19, 29). Per il 2Sm, vii, 6 è la dimora mobile al riparo della quale Yhwh si spostava nel deserto; nel resto dei due Samuele, in Giudici e nei due Re il miškān scompare del tutto. 12.8. Le fazioni politico-religiose. Profetismo, sacerdozio e monarchia La figura del profeta, veggente e portavoce della divinità, certamente antichissima, era assai rilevante sotto il profilo politico, poiché era in grado di incidere sulla volontà e sulle decisioni delle classi dominanti. Profeti erano reputati Mosè, Giosuè, Samuele e in parte forse anche taluni giudici. Fin dall’antichità i profeti erano organizzati in corporazioni più o meno potenti, come del resto accadeva per i sacerdoti. Spesso le loro profezie erano espresse in versi ed erano opere di alto valore letterario, come è il caso dei (28) Lv, viii, 10; xv, 31; xvii, 4; xxvi, 11.
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grandi profeti come Isaia, Ezechiele, Geremia, Daniele. Di molti profeti ci è giunto solo il nome; di altri al contrario, pur non essendo mai menzionati nei libri storici, ci sono pervenuti testi più o meno affidabili. Va detto che molto spesso le loro figure erano fittizie e che le loro stesse presunte profezie erano costruite post eventum (vaticinia ex eventu). Nel quinto e nel quarto secolo ci fu una vera e propria fioritura di testi profetici (profeti maggiori e minori) e di testi storici (dalla Genesi ai Re) perché, con il ritorno in patria dei deportati e con la ricostruzione del tempio, si aprì la lotta per il potere; da un lato i profeti e l’aristocrazia erano favorevoli alla restaurazione della monarchia, dall’altra le diverse fazioni sacerdotali, spesso in conflitto l’una con l’altra, puntavano alla istituzione di una teocrazia. I progetti politici degli uni e degli altri si richiamavano ad un passato mitologico, concepito come giustificazione degli obiettivi da perseguire nel presente. In quest’ottica va pensata anche la riforma giosiana, fondatrice dello yhawismo, la quale, ancorché risalire agli ultimi scorci del settimo secolo, costituiva uno dei più solidi pilastri a sostegno delle rivendicazioni monarchiche nel corso del quinto secolo. Ne possiamo trovare una conferma nei testi profetici (che si vogliono datati all’viii secolo) di Osea, Amos e del proto-Isaia, che sarebbero stati attivi dal 740 al 700, sotto i regni di Ozia, Yotam, Achaz ed Ezechia.(29) Essi contengono generiche notizie sul Libro dell’Alleanza o della Legge. Osea fa esplicito riferimento alla tōrah («ti espellerà come mio sacerdote; hai dimenticato la tōrah del tuo Dio» =wattiškah tōrah ‘ĕlōhekā) e alla trasgressione dell’alleanza («essi hanno trasgredito l’alleanza» wehêmmāh […]’āberū berît).(30) Osea (viii, 1) scrive: «Ecco un’aquila sulla casa di Yhwh, essi hanno trasgredito la mia alleanza e si sono ribellati = pāšā’ū alla mia legge»). La sua condanna del culto efraimita è radicale: («Ephraim ha costruito altari per il peccato e sono diventati per lui motivo di peccato. Ho scritto per lui diecimila [numerosissime] leggi, ma gli sono rimaste estranee», Os, viii, 11-12). Dei libri della storia primaria Osea mostra di conoscere la Genesi (per la storia di Giacobbe), il libro di Numeri (per l’episodio di Baal-Peor) e i Giudici (per quello di Gabaa).(31) Ma il punto debole del suo testo è la profezia, che non può che essere ex eventu, secondo cui la devastazione subita da Israele colpirà anche Giuda («anche per te Gerusalemme ho preparato una mietitura»; «an(29) Cfr, Is, i, 1; Os, i, 1; Am, i, 1. (30) Os, iv, 6; vi, 7. (31) Jdc, xix // Os, ix, 9; Nm, xxv // Os, ix, 10; Gn, xxvii, 36 // Os, xii, 3-5.
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che Giuda ha costruito molte città fortificate. Ma io manderò il fuoco sulle sue città e distruggerò le sue fortificazioni», Os, vi, 11; viii, 14). Tale pseudo-profezia fa del suo libro un testo pseudepigrafo e dello stesso Osea un profeta ‘fittizio’, tanto più che della sua figura non v’è traccia nei libri storici che si riferiscono all’viii secolo. La sua vicenda personale, il suo sconfinato amore per la prostituta che lo tradisce, è una metafora del difficile rapporto tra Dio e il popolo. La sua concezione del Dio amore (Os, xiv, 5) è tardiva e presuppone il Deuteronomio. Non molto diverso è il quadro offerto da Amos, il quale prevede che, a fronte delle trasgressioni di Giuda, Yhwh manderà il fuoco sui palazzi di Gerusalemme (Am, ii, 4-5). Anche Amos è ignorato nei testi storici ed è un profeta letterariamente ‘costruito’, per spiegare la devastazione dei due regni come conseguenza, da un lato, di un progressiva degradazione del culto, trasformato dalla classe sacerdotale del Nord in mero formalismo, fondato sui sacrifici e sulle feste (Am, v, 21-25), e, dall’altro, di un divario sociale tra le classi agiate, eccessivamente arricchite, e le classi subalterne, eccessivamente impoverite. Più controverso è il cosiddetto Proto-Isaia che è in gran parte apocrifo o pseudepigrafo. Dei 39 capitoli che lo costituiscono solo parte dei primi undici sono in odore di autenticità. Sicuramente tardivi sono il vaticinio dell’Emmanuele e il connesso messianismo (capitoli vii-xi). La sezione ‘guai’, le invettive contro le nazioni, la grande e la piccola apocalisse recano i segni della manipolazione. Assente è nel linguaggio poetico-profetico la profezia del ritiro di Sennacherib da Gerusalemme (701), l’unica di cui avremmo notizia nei libri storici. Il redattore finale, resosi conto della enormità dell’assenza di tale profezia, ha pensato bene di aggiungerla al testo, ma non avendo né doti profetiche, né poetiche, si è limitato a riprodurre a mala pena il testo del 2Re (capitoli xviii-xx) nella forma di un racconto storico che stride con la venatura poetica del testo isaiano. Insomma per essere scritto a più mani e in più tempi il testo di Isaia non è storicamente attendibile. C’è tuttavia una certa assonanza nei tre citati profeti: tutti e tre sono fautori della monarchia e profondamente ostili al ceto sacerdotale. Nessuno dei tre parla esplicitamente del libro della legge o dell’alleanza; anzi i loro accenni alla ‘legge’ e all’‘alleanza’ risultano troppo generici. Non v’è dubbio che i concetti di ‘legge’ e di ‘patto’ sono anteriori alla riforma giosiana, ma certo non avevano ancora i puntuali contorni ideologici delineati dall’Esodo, né avevano alcun collegamento con Yhwh. Certamente le ‘leggi’ ovvero i codi-
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ci legislativi sono antichissimi e forse il ‘patto’, strettamente legato alle figure di Baal e di Êl, era una nozione pre-giosiana. La novità della riforma che si tentò di far risalire a Giosia sta nella scelta della figura di Yhwh e nella costruzione di una forma di enoteismo, fondato sulla Torah e sui dieci comandamenti, il cui nucleo prettamente religioso è nel monolatrismo: «Io sono Yhwh, Dio tuo, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non ti approprierai degli altri dèi che sono contro di me» (Ex, xx, 2-3). Sostanzialmente identica è la formulazione del Deuteronomio (v, 6-7). Nessuno dei due testi è su posizioni rigorosamente monoteistiche; ciò che si impone è un culto monolatrico e aniconico, perché Yhwh è un Dio geloso che non sopporta altre divinità accanto a sé. Ne consegue che siamo di fronte ad un’alternativa: o la riforma giosiana, con l’espediente del reperimento del Libro della legge, ha una sua consistenza storica e risale agli ultimi decenni del settimo secolo o è un falso storico databile alla metà del quinto secolo allorché con il rientro dei deportati si avvertì l’esigenza di una riorganizzazione dello Stato giudaico. Nella prima ipotesi non si capisce come i profeti dell’viii secolo abbiano potuto avere notizie della legge mosaica se il relativo libro fu scoperto in epoca giosiana. La seconda ipotesi presuppone che i libri dei tre profeti citati siano pseudepigrafi; essi probabilmente furono editi dopo la metà del quinto secolo proprio quando più intensamente fermentarono i progetti politici per la ricostruzione di Giuda. La seconda alternativa mi sembra più verosimile per almeno tre ragioni: a) perché i tre profeti fanno riferimento alla devastazione di Gerusalemme; b) perché il loro appello alla monarchia sembra cadere in assenza di un potere monarchico; c) perché l’attrito tra il partito dei sacerdoti e la congregazione dei profeti non poteva essere così forte e così acuto sotto un governo monarchico. Il sovrano, infatti, non l’avrebbe tollerato ed anzi lo avrebbe considerato pericoloso per l’integrità della religione e per l’armonia dello Stato. Vedremo nel prossimo capitolo, dedicato all’analisi dei testi profetici, che i profeti, tanto maggiori quanto minori, in quella che abbiamo definita lotta per il potere, si schierarono generalmente dalla parte della monarchia e furono fortemente critici nei confronti delle classi dirigenti e in particolare delle classi sacerdotali, additate come responsabili della caduta di Israele e di Giuda. Nello stesso arco storico, tra il quinto e il quarto secolo, le varie fazioni sacerdotali, spesso in conflitto l’una contro l’altra, si difesero strenuamente dalle accuse subite, si fecero sostenitrici di un potere teocratico e attaccaro-
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no la monarchia, ritenendola responsabile della decadenza del culto yhawista e conseguentemente della tragica devastazione di Israele e di Giuda. Abbiamo così due distinti generi letterari: da una parte quello dei testi profetici, ideologicamente più compatto, in cui ricorrono immagini, simboli, scelte lessicali e tematiche per lo più comuni; dall’altra i testi, molto più frastagliati sotto il profilo politico, i quali afferiscono alla cosiddetta storia primaria, prodotta in prevalenza dalle classi sacerdotali. Ciascuno dei testi storici va letto nella sua unità interna. Anche se spesso ci appaiono come giustapposizioni di blocchi narrativi di diversa provenienza, essi presentano comunque, nella versione a noi pervenuta e voluta dal redattore finale, una organicità interna. L’ipotesi documentale tende invece a frazionare il testo nelle quattro componenti J, E, D e P, perdendo di vista l’obiettivo politico intrinseco di cui ciascun testo è portatore. Di solito il teorico dell’ipotesi documentale ascrive alle cosiddette fonti P tutte le parti dedicate alle ritualità cultuali e alla legislazione (il cosiddetto intervento del nomista) come se esse sole fossero di matrice sacerdotale. La conseguenza è che i testi risultano smembrati in sezioni del tutto autonome, come se ci fosse una netta linea di demarcazione tra il contesto propriamente storico e quello prettamente liturgico-cultuale e legislativo, sebbene si riconosca il più delle volte che i testi storici non muovevano da interessi storiografici, ma teologici. In realtà non ci sono fonti P distinte da quelle storiche. Chi scrive la storia primaria trasmette anche in dettaglio i contenuti della legge e le ritualità cultuali, giustificandoli nel contesto di un preciso quadro storico, come espressioni non di un capriccio di parte, ma della volontà divina. Da questo punto di vista i contenuti legislativi, cultuali e religiosi sono parte integrante della narrazione storica. In altri termini è la classe sacerdotale che elabora in un contesto più o meno organico (salvo manipolazioni e interventi dovuti alle stratificazioni successive della narrazione) la storia primaria, in cui la vita religiosa è tirata nell’una o nell’altra direzione dall’una o dall’altra fazione sacerdotale. Ciò significa che i testi della storia primaria sono documenti sacerdotali; non a caso la loro curvatura religiosa è di fatto il nodo essenziale intorno a cui ruota una storia così fortemente teologizzata. Naturalmente la stessa classe sacerdotale ebbe un proprio processo evolutivo, che si intrecciò in forme diverse con la politica. Nella fase pre-monarchica ebbero un ruolo preminente i profeti, ma ben presto si delineò tra le loro corporazioni e quelle sacerdotali un conflitto che si prolungò anche in età posteriori. Nel periodo monarchico, pur continuando ad esercitare
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un potere non irrilevante, tanto i profeti quanto i sacerdoti furono ridotti al rango di ufficiali di Stato, sottoposti al volere del sovrano, che spesso celebrava in autonomia le funzioni religiose e talvolta interpellava gli uni e gli altri a suo piacimento e solo in casi di particolare emergenza. Durante l’esilio, venuto meno il potere politico, i sacerdoti esercitarono un’azione di supplenza, sia pure molto limitata a causa delle particolari circostanze. Il quadro mutò radicalmente con la riedificazione del tempio di Gerusalemme, quando i sacerdoti si fecero promotori del rientro dei deportati e, in assenza di ogni altro potere politico, acquisirono ruoli di primo piano. Ben presto si profilò nuovamente il conflitto con le aggregazioni dei profeti che tra il quinto e il quarto secolo produssero una fiorente letteratura profetica, spesso nella veste di fustigatori della morale. Ciò che è importante rilevare è che gli orientamenti ideologici delle fazioni sacerdotali erano profondamente differenziati, perché l’universo delle classi sacerdotali costituiva una vera e propria galassia che nel corso dei decenni si frantumò fino a raggiungere ben 24 classi sacerdotali difficilmente compatibili fra loro. Ciò spiega le divergenze più o meno profonde che riscontriamo nelle posizioni ideologiche dei diversi autori dei testi della storia primaria. La Genesi è verosimilmente un testo levita, il cui obiettivo principale era quello di ricostruire l’identità di Israele attraverso il mito dell’età patriarcale. L’Esodo, il Levitico e i Numeri sono fondamentalmente documenti aronniti, perché assegnano ai discendenti di Aronne le funzioni religiose di più alto profilo e riducono i leviti a mere funzioni assistenziali e di servizio. L’impianto dell’Esodo è netto e chiaro: la storia della rivelazione del Sinai è funzionale alla costituzione del sacerdozio eterno degli aronniti. I capitoli xxvi-xxx contengono nei dettagli l’investitura degli aronniti per volontà di Yhwh. Tali sono gli ordini che Yhwh impartisce a Mosè: «convoca Aronne […] e con lui i suoi figli […] affinché lo stesso Aronne compia in mio favore il suo servizio sacerdotale» (Ex, xxviii, 1); «Aronne e i suoi figli […] otterranno la carica sacerdotale in statuto perenne» (Ex, xxix, 9); «ungerai Aronne e i suoi figli e li consacrerai affinché prestino servizio sacerdotale in mio onore», Ex, xxx, 30). Si intuisce facilmente che il capitolo xxxii, che contiene l’episodio del vitello d’oro che getta un’ombra sulla discendenza di Aronne, è manifestamente un’interpolazione levita, poiché da una parte è anti-aronnita e dall’altra attribuisce ai leviti il merito di aver fatto strage di tremila israeliti che avevano partecipato al culto idolatrico: «tutti i leviti operarono secondo la parola di Mosè e il popolo perse in quel giorno circa tremila uo-
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mini. Di nuovo Mosè disse: ‘ricevete oggi l’investitura di Yawh in quanto ciascuno di voi si è scagliato contro suo figlio, contro suo fratello per ottenere su di voi la benedizione» (Ex, xxxii, 28-29). L’Esodo è il primo libro che fornisce in una sintesi estrema un codice legislativo (i dieci comandamenti) che presuppone una società dedita alle attività agro-pastorali che evidentemente non potevano risalire all’epoca mosaica, ma a quella dei villaggi della terza migrazione nell’area montuosa centro-settentrionale della Palestina. Il suo corredo legislativo (capitoli xxi-xxiii) è assai striminzito e riguarda il trattamento degli schiavi, gli omicidi, la legge del taglione, i furti di animali, le feste religiose, la tutela dei deboli. Di contro l’autore riserva moltissima attenzione alla costruzione del tempio (tabernacolo, arca, tenda, velo di separazione, altare degli olocausti = mizbêah, recinto del tabernacolo), ai paramenti sacerdotali (efod, pettorale, manto sacerdotale) e ai riti di purificazione e di consacrazione dei sacerdoti. Anche il Levitico pone in primo piano il sacerdozio aronnita. I leviti sono menzionati solo in ordine al riscatto della proprietà (capitolo xxv), mentre tutte le funzioni sacerdotali (dall’olocausto = ‘ōlāh all’oblazione = minhāh, dai sacrifici pacifici = šelāmîm a quelli espiatori = hattāt) sono in capo agli aronniti. In Numeri l’attenzione si sposta sui diritti e sui doveri dei sacerdoti nella triplice ripartizione in ghersoniti, keatiti e merariti, sulla base dei tre figli di Levi, Gherson, Keat e Merari. Di fatto però il servizio sacerdotale è affidato ad Aronne, di discendenza keatita, e ai suoi figli Eleazar e Itamar. Essi svolgono tutte le funzioni religiose e percepiscono le decime. Significativi sono in proposito i capitoli iii e iv, che contengono una minuziosa elencazione dei doveri dei ghersoniti e dei merariti che sono limitati al servizio di trasporto della tenda, e degli aronniti, cui è affidata la cura delle cose più sacre» (Nm, iv, 4). Naturalmente non tardò a scoppiare un aspro dissidio tra gli aronniti e i leviti. Ce ne dà conto lo stesso libro dei Numeri nel capitolo xvi, parlando della ribellione dei figli di Core, che pretendevano il sacerdozio, ma furono massacrati con il fuoco da Yhwh. Più problematico è il libro di Giosuè che potrebbe essere di matrice levita o aronnita, perché non è ben chiaro se riconosce un primato alla discendenza di Aronne. L’autore attribuisce ai leviti un ruolo decisivo nell’attraversamento del Giordano e nella conquista di Gerico, salvo che i sette sacerdoti che suonano le trombe non siano di stirpe aronnita. Ambigua è anche la spartizione delle città levitiche, perché i leviti e gli aronniti sembrano essere posti sullo stesso piano. Il libro dei Giudici sembra essere d’origine scribale e, soprattutto nelle due appendici, tra-
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disce una vocazione marcatamente filo-monarchica. Di contro i due Samuele e i due Re sono forse di ispirazione sadocita. 12.9. Analisi stilistica dei libri afferenti alla storia primaria L’analisi stilistica dei testi afferenti alla storia primaria conduce agli stessi risultati che emergono dalla loro analisi contenutistico-ideologica. Per un verso quei testi sembrano rientrare in un organico progetto e per un altro verso denotano discrepanze e divergenze che presuppongono una loro reciproca autonomia derivante da mani diverse, attive in tempi diversi. Tale fisionomia stilistica non sussiste solo tra i diversi scritti storici, ma sussiste altresì all’interno di ciascun testo. Sorge perciò il dubbio che la presunta unità progettuale, in cui, come si è detto,(32) credeva anche Spinoza, non sia stata effettivamente pensata in origine, a parte ante, ma sia stata costruita dopo, a parte post, in sede di redazione finale o di lettura ermeneutica dei testi. Di primo acchito potrebbe sembrare più verosimile la prima ipotesi, ma ci vuole poco per rendersi conto che la seconda si impone con forza, perché di fatto non sussiste nessun legame logico né alcun nesso di continuità storica tra i vari blocchi narrativi, come il mito della creazione e quello patriarcale, il romanzo di Giuseppe e la fuga dall’Egitto, la conquista militare del Canaan, mai avvenuta, e l’epopea dei giudici, la monarchia unita e la relativa scissione, ecc. Giungiamo così alla inevitabile conclusione che la storia primaria è il risultato di una giustapposizione di cicli narrativi di diversa provenienza, i quali sono stati di volta in volta accorpati insieme da una serie di autori anonimi, che, perseguendo obiettivi politici e ideologici non sempre coincidenti, hanno adattato per stratificazioni successive i testi non solo sotto il profilo contenutistico, ma anche sotto quello stilistico, veicolando stilemi e locuzioni da testi più antichi a quelli più recenti, e viceversa, tanto da dare l’epidermica impressione di una unità di ideazione. È in questo processo complesso che trovano spiegazione tanto le affinità stilistiche quanto le discrepanze. Spiegarle nell’ottica di una improbabile scuola deuteronomista o è un’ingenuità ermeneutica o è il tentativo di corroborare, a dispetto della magmaticità dei testi, una progettualità ed una unità inesistenti. In assenza di fonti d’archivio di prima mano, gli autori biblici sono spes(32) v. supra, pt. i, Intr.
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so costretti a muoversi nell’ottica delle eziologie. Infatti, le numerose duplicazioni e triplicazioni, così frequenti nei libri storici, fino alla duplicazione della stessa Torah (Deuteronomio), dipendono in generale dalla natura eziologica delle narrazioni. Le eziologie non sono mai univoche, ma sono quasi sempre multiple, soprattutto se riguardano eventi dipendenti dalla volontà umana, come l’uso della denominazione di un luogo (Corma, Betel, ecc.), di un costume (vari riti sacrificatori o purificatori), di una festa (contrastanti versioni delle più solenni celebrazioni religiose dell’anno), di presunti episodi pseudo-storici, come la conquista del Canaan, la dettatura dei comandamenti, il conflitto tra David e Saul, ecc. Per la loro contraddittoria compresenza nella memoria collettiva, sedimentatasi nella tradizione orale, indipendentemente dal fatto che siano di origine ebraica o che siano residui di forme di sincretismo religioso e di contaminazioni dettate dalla influenza di culti stranieri, esse sono la prova materiale della elaborazione, per stratificazioni sovrapposte, dei testi. Ulteriori tracce di tale processo sono ravvisabili nelle reciproche suggestioni e reminiscenze e nelle reciproche influenze concettuali e stilistiche che passano da un testo all’altro, anche da uno più recente ad uno più antico. La presunta unità progettuale viene a cadere nel momento in cui si osserva che taluni testi, come il libro di Numeri, il Deuteronomio e il Levitico, hanno un carattere superfetazionale o parentetico; se infatti un documento può essere aggiunto o tolto senza alcun danno per il contesto complessivo, non è evidentemente parte essenziale di un progetto organico. A ben vedere nessun testo rientra in un disegno unitario, studiato a priori. Noi troviamo nella storia primaria il filo conduttore – di chiara marca giudaita – che vi ha posto il redattore finale, il quale ha ricucito insieme i relativi undici libri (Genesi-Re) con innesti di locuzioni, sintagmi, costrutti, in parte dipendenti dall’usus scribendi della lingua ebraica, in parte ispirati dagli altri testi biblici. Nel processo di sovra-accumulazione dei testi è particolarmente significativa la sovrapposizione dei nomi divini, per cui si passa dai nomi di divinità settentrionali, come Êl e Baal o dai nomi comuni ĕlōhê ed ĕlōhîm, alla loro sostituzione con il nome proprio Yhwh. Questa operazione è evidente soprattutto nei primi due capitoli della Genesi, ma è ampiamente riconoscibile in tutta la storia primaria. L’accurato esame della frequenza di tali nomi divini ci dà la misura della profonda trasformazione delle tradizioni religiose giudaite. Per questo è utile soffermare l’attenzione sulle seguenti tabelle:
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321
Tabella 1. Nomi divini usati nei libri della storia primaria. Nome
Gn
Ex
Lv
Nm
Dt
Js
Gdc
Sm
Re
yhwh
164
398
286
376
532
217
172
456
506
ĕlōhîm
187
35
7
30
11
24
48
38
19
28
3
12
18
14
24
54
êl
9
3
10
10
5
1
4
šadday
6
1
2
elyōn
4
3
1
ĕlōhê
1
1
Tabella 2. Uso di ĕlōhê accorpato ai possessivi Nome
Gn
‘ĕlōhāy = mio Dio
1
‘ĕlōhêkā = tuo Dio
2
‘ĕlōhênū = nostro Dio ‘ĕlōhêkem= vostro Dio ‘ĕlōhêhem = loro Dio
Ex
Lv
Nm 1
11
4
7 1
7
26
5
3
5
Dt
Js
Jdc
Sm
Re
4
4
1
2
6
234
4
2
11
11
23
6
4
4
6
46
27
1
4
4
5
1
6
1
11
Possiamo condurre l’analisi stilistica lungo due filoni di ricerca: 1) ricostruire il concetto di divinità attraverso l’uso dei nomi divini; 2) individuare i tratti stilistici di ciascun testo nel rapporto di reciproca convergenza/divergenza. i) Il Dio di origine ugaritico-cananea Êl. La presenza di Êl nella Genesi testimonia la sopravvivenza dell’antica divinità cananea o ugaritica di origine settentrionale come si evince dal fatto che un gran numero di nomi ebraici reca il teoforico Êl, compreso lo stesso nome ‘Israele’. Residui di tale antico culto si riscontrano nelle locuzioni «Io sono il Dio di Betel» = ‘ānōkî hā’êl bêt’êl (Gn, xxxi, 13) e ancor più esplicitamente nel sintagma “El, Dio di Israele” = ‘êl ‘ĕlōhê yiśrā’êl (Gn, xxxiii, 20). Accanto al nome di Êl sopravvivono anche antichi attributi della divinità nei sintagmi êl-’elyōn ed êl-šadday. Ce ne resta un residuo nelle locuzioni “Dio è êl-’elyōn, possessore del cielo e della terra» = ‘êl-’elyōn qōnêh šāmayin wā’āres (Gn, xiv, 19, 22); «Yhwh, Dio del cielo e della terra» = yhwh ‘ĕlōhê haššamayim wêlōhê hā’āres; «Yhwh, Dio del cielo» (Gn, xxiv, 3, 7). In Numeri, nei testi poetici dei quattro ora-
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coli di Balaam, šadday ricorre due volte nell’espressione «visoni di šadday» = mahăzêh šadday.(33) Nel passaggio dall’egemonia culturale del nord a quella del sud il nome di Yhwh prevale e si sovrappone ad Êl, che scompare del tutto nel Levitico. Le antiche tradizioni politico-religiose del nord vengono rilette e reinterpretate alla luce dell’ideologia yhawista del sud. Gli stessi nomi comuni della divinità, ĕlōhîm ed ĕlōhê, nelle successive stratificazioni dei testi, vengono sopraffatte dal nome Yhwh. In Numeri questa sovrapposizione di Yhwh ad Êl è particolarmente evidente nella pericope «Come maledirò se Êl non maledice, come imprecherò se Yhwh non impreca?» = māh ‘eqqōb lō qabbōh ‘êl ‘ūmāh ‘ez’ōm lō zā’am yhwh? (Nm, xxiii, 8). Nello stesso testo Êl è usato 8 volte nel senso generico di Dio,(34) di fatto coincidente con Yhwh. Tale è il caso delle locuzioni: «Êl l’ha fatto uscire dall’Egitto» = ‘êl mōwsî’ām mimmisrāyim; «Êl, dio degli spiriti di tutti gli essere viventi» = ‘êl ‘ĕlōhê hārūhōt lekāl bāśār (Nm, xxiii, 22; xxiv, 8; xvi, 22). Analogamente in Giudici ‘Êl è presente solo nella pericope ix, 46: «il tempio di ‘Êl, Dio del patto» = bêt ‘êl berît. ii) I nomi comuni ĕlōhê ed ‘êlōhîm. Il nome ĕlōhê, scarsamente utilizzato in Genesi, Levitico, Numeri e Giosuè, subisce un’impennata nel Deuteronomio a causa del fatto che si accompagna quasi sistematicamente al nome Yhwh ed è accorpato ai possessivi tuo/nostro/vostro/ nelle forme: «Yhwh, Dio mio/tuo/nostro/vostro/loro» = yhwh ĕlōhāy / ‘ĕlōhêkā / ‘ĕlōhênū / ‘ĕlōhêkem / ĕlōhêhem (v. Tabella 2). In tutte queste formule v’è una martellante insistenza sulla reciproca appartenenza di Dio e popolo, secondo una suggestione veicolata dal Deuteronomio. Il sintagma «Dio degli ebrei» = ‘ĕlōhê hā ‘ibrîyîm,(35) per l’uso stesso di ‘ibrîyîm, è certamente più tardivo rispetto all’altro «Dio d’Israele» = ‘ĕlōhê yiśrā’êl, di matrice settentrionale. Naturalmente ‘êlōhîm non ha nulla a che fare con fonti di ispirazione elohistica, poiché è per lo più impiegato come nome generico della divinità.(36) In tale accezione ricorre nelle seguenti pericopi: Ex, i, 17, 20, 21 (le levatrici ebbero timore di ‘ĕlōhîm ed ‘ĕlōhîm le benedisse); Ex, ii, 23-25, (33) Nm, xxiv, 4, 16. Per le altre occorrenze di šadday v. Gn, xvii, 1; xxviii, 3; xxxv, 11; xliii, 14; xlviii, 3: xlix, 25; Ex., vi, 3. (34) Nm, xxiii, 19, 22, 23; xxiv, 4, 16, 23. (35) Ex, iii, 18; v, 3; vii, 16; ix, 1, 13; x, 3. (36) Cfr. Jdc, i, 7; iii, 20; iv, 23; vi, 20, 31, 36, 39, 40; vii, 14; viii, 3; ix, 7, 56, 57; xiii, 9, 22; xv, 19; xvi, 28; xvii, 5; xviii, 31; xx, 18; xxi, 2.
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ove ‘ĕlōhîm, riferito a Yhwh, recepisce l’invocazione degli ebrei durante la schiavitù egizia in ricordo delle promesse fatte ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe; Ex, iii, 1, 4, 6, 11-13, 14-15, ove ĕlōhîm compare nelle espressioni «il dio (ĕlōhîm) di tuo padre», «il dio (‘ĕlōhîm) di Abramo»; Ex, iv, 16, ove Yhwh suggerisce a Mosè, inceppato nella lingua, di farsi sostituire da Aronne: «Aronne sarà la tua bocca e tu sarai per lui il Dio (‘ĕlōhîm)». In Ex, viii, 19, sono i maghi del faraone che sospettano che i prodigi messi in opera da Mosè siano opera di un dio (‘ĕlōhîm). In Ex, xiii, 17-18, ‘ĕlōhîm è presente in sintagmi come il bastone del Dio = ūmattêh hā ‘ĕlōhîm (Ex, xvii, 9), «il monte di Dio» = har hā ‘ĕlōhîm (Ex, iii, 1; iv, 27; xviii, 5; xxiv, 13), gli «statuti di Dio» = huqqê hā ‘ĕlōhîm (Ex, xviii, 16), «il dito di Dio» = be’esba’ ‘ĕlōhîm (Ex, xxxi, 18; Dt, ix, 10); «opera di Dio» = ma’ăśêh ‘ĕlōhîm, «scrittura di Dio» miktab ‘ĕlōhîm (Ex, xxxii, 16) o in frasi come «per cercare Dio» = lidrōš ‘ĕlōhîm (Ex, xviii, 15), «non bestemmiare Dio» = ‘ĕlōhîm lō teqallêl (Ex, xxii, 28). Il sintagma «l’angelo di Dio» = mal’ak hā ‘ĕlōhîm (Ex, xiv, 19; Jdc, vi, 20; xiii, 6, 9) è sostituito in Numeri e in Giudici da «l’angelo di Yhwh» = mal’ak yhwh),(37) «lo spirito di Dio» = rūah ‘ĕlōhîm (Ex, xxxi, 3; xxxv, 31; Nm, xxiv, 2) o ‘êlōhîm rū’āh (Jdc, ix, 23) si converte più frequentemente in Giudici in «spirito di Yhwh» = rū’āh yhwh.(38) Infine êlōhîm è presente anche in espressioni del tipo «sarà un fanciullo consacrato a Dio fin dal grembo materno» = ‘êlōhîm yihyeh hanna’ar min habbāten (Jdc, xiii, 5, 7; xvi, 17); «assemblea del popolo di Dio» = biqhal ‘am hā’êlōhîm (Jdc, xx, 2). In Giosuè ‘êlōhîm compare in locuzioni come: «Yhwh è Dio su nel cielo e quaggiù sulla terra» = hū ‘êlōhîm baššāmayim mimma’al we’al hā’āres mittāhat; «Mosè, uomo di Dio» = mōšeh iš ‘êlōhîm; «Yhwh è Dio» = yhwh hā êlōhîm.(39) Frequentissima è in Numeri la voce êlōhîm nella sezione balaamica nelle seguenti espressioni: «il popolo mormorò contro Dio» = waydabbêr hā’ām bêlōhîm (Nm, xxi, 5); l’ira di Dio = ‘ap ‘êlōhîm (Nm, xxii, 22); «agli occhi di Dio» = be’ênê hā’êlōhîm (Nm, xxiii, 27); «Dio venne da Balaam e gli disse» = wayyābō’êlōhîm ‘el bil’ām wayyomêr (Nm, xxii, 9, 10, 12, 20); «Dio venne incontro a Balaam» = wayyqqār ‘êlōhîm ‘el bil’ām (Nm, xxiii, 4); «la parola che Dio mi avrà messo in bocca da dire» = had dābār ‘ăšer yāśîm ‘êlōhîm bepî ‘ōtōw ‘ădabbêr (Nm, xxii, 38). Ma nello stesso contesto non (37) Nm, xxii, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 32, 34, 35; v. anche Ex, xiv, 19; Jdc, v, 23; vi, 12, 20; xiii, 21. (38) Jdc, xi, 29; xiii, 25; xiv, 19; xv, 14. (39) Nell’ordine: Js, ii, 11; xiv, 6; xxii, 34.
324 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
mancano le seguenti sovrapposizioni yhawiste: «come parla Yhwh» = ‘ăšer yadabbêr yhwh (Nm, xxii, 8); «Yhwh ha rifiutato di lasciarmi venire con voi» = mê’ên yhwh lettitî lahălōk ‘immākem (Nm, xxii, 13); «le parole di Yhwh, mio Dio» = pî yhwh ‘êlōhāy; «Yhwh dirà a me» = yhwh dabbêr ‘immî (Nm, xxii, 18-19); «Yhwh aprì la bocca all’asina» = wayyiptah yhwh ‘et pî hā’ātōn (Nm, xxii, 28); «Yhwh aprì gli occhi di Balaam ed egli vide» = waygal yhwh ‘et ‘ênê bil’ām wayyar (Nm, xxii, 31); «forse Yhwh mi verrà incontro» = ‘ūlay yiqqārêh yhwh liqrātî (Nm, xxiii, 3); «e Yhwh mise la parola in bocca a Balaam e disse» = wayyāśem yhwh dābār bepî bil’ām wayyomêr (Nm, xxiii, 5); «se Yhwh non imprecherà» = lō zā’am yhwh (Nm, xxiii, 8); «ciò che Yhwh ha messo nella mia bocca non dovrò forse aver cura di proferirlo?» = hălō ‘et ‘ăšer yāśim yhwh bepî ‘ōtōw ‘ešmōr ledabber? (Nm, xxiii, 12). Infine ĕlōhîm ha significato plurale in 5 pericopi dell’Esodo, 23 del Deuteronomio, 5 di Giosuè, 8 di Giudici e una del 1Samuele.(40) Anche ‘ĕlōhê è impiegato con valore plurale in Giosuè.(41) iii) Il Dio dei patriarchi. Sotto il profilo teologico la prima configurazione di Yhwh è quella del dio poliade o familiare dei patriarchi, espresso con la formula «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Nella Genesi tale legame con l’età patriarcale è espresso con le denominazioni comuni della divinità (ĕlōhê, ‘êlōhîm), presentata come il Dio del clan di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: «Sarò Dio per te e per la tua discendenza dopo di te» = lihyōwt lekā lêlōhîm ūlezar’ăkā ‘ahărekā (Gn, xvii, 7); «Io sono il Dio di tuo padre Abramo = ‘ānōkî ‘ĕlōhê ‘abrāhām ābîkā (Gn, xxvi, 24); «il Dio di mio padre» (Gn, xxxi, 5); «il Dio di mio padre, il terrore di Isacco» = ĕlōhê ‘ābî ‘ĕlōhê ‘abrāhām ūpahad yishāq (Gn, xxxi, 42, 53); «il Dio di Abramo, il dio di Nacor, il Dio del loro padre = ĕlōhê ‘abrāham, wêlōhê nāhōr […] ĕlōhê ‘ăbîhem (Gn, xxxi, 53); «Dio di mio padre Abramo e Dio di mio padre Isacco» = ĕlōhê ‘ābî ‘abrāhām wêlōhê ‘ābî yishāq (Gn, xxxii, 9); «Dio di suo padre Isacco = ‘ĕlōhê ‘ābî yishāq (Gn, xlvi, 1); «il vostro Dio e il Dio di vostro padre» = ‘ĕlōhêkem wêlōhê ‘ābîkem (Gn, xliii, 23). La sovrapposizione di Yhwh al generico ĕlōhê è presente nelle circonlocuzioni: «Io sono Yhwh, il Dio di (40) Ex, xviii, 11; xx, 3; xxii, 20; xxiii, 13; xxxii, 1; Dt, iv, 28; v, 7; vi, 14; vii, 4; viii, 19; x, 17; xi, 16, 28; xii, 30; xiii, 3, 7, 13; xvii, 3; xviii, 20; xxviii, 14, 36, 64; xxix, 25 (2); xxx, 17; xxxi, 18, 20; xxxii, 17; Js, xxiii, 16; xxiv, 2, 14, 15, 16; Jdc, ii, 12, 17, 19; v, 8; ix, 9, 13; x, 13, 14; 1Sm, xxvi, 19. (41) Js, xxiv, 15, 20, 23.
I.12 Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco
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Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco» (Gn, xxviii, 13); «Yhwh, Dio del mio padrone Abramo» =yhwh ‘ĕlōhê ‘adōnî abrāhām (Gn, xxiv, 12, 27, 42, 48). Il concetto del dio patriarcale è altresì frequente nell’Esodo (10 occorrenze) e nel Deuteronomio (11 occorrenze), ma ha una flebile eco negli altri libri storici, ove ricorre appena 3 volte in Giosuè, una volta nel Levitico, 3 in Numeri, una sola nel 2Samuele, 3 nei due Re.(42) Anche il tema dell’alleanza sfuma per il Levitico in un lontano passato («Mi ricorderò dell’alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe» = wezākartî ‘et berîtî ya’ăqōb we’ap ‘et berîtî yishāq we’ap ‘et berîtî ‘abrāhām (Lv, xxvi, 42). La promessa fatta ai tre patriarchi è ricordata solo una volta in Numeri (xxxii, 11). Nel Levitico possono ritenersi reminiscenze deuteronomistiche le espressioni «Io sono Yhwh, vostro Dio» = ‘ănî yhwh ‘ĕlōhêkem,(43) «Io sono Yhwh, loro Dio» = ‘ănî yhwh ‘ĕlōhêhem (Lv, xxvi, 41), «Yhwh, il tuo Dio» = ‘ĕlōhêkā yhwh (Lv, xix, 31; xxv, 17, 36). Lo stesso accade in Numeri: «Io sono Yhwh, vostro Dio» = ‘ănî yhwh ‘ĕlōhêkem (Nm, x, 10; xv, 41).(44) Le formule deuteronomistiche: «Yhwh è il Dio dei tuoi/nostri/vostri/loro padri» = yhwh ‘ĕlōhê ‘ăbōtekā / ‘ăbōtênū / ‘ăbōtêkem / ‘ăbōtam)(45) assumono nel libro di Giosuè(46) la forma «Yhwh, Dio dei vostri padri = yhwh ‘ĕlōhê ‘ăbōtêkem (Js, xviii, 3). Queste forme sono invece rare nel 1Samuele, ove sono presenti i sintagmi «Yhwh, nostro Dio» = yhwh kĕlōhênū,(47) «Yhwh, vostro Dio» = yhwh ‘ĕlōhêkem,(48) «Yhwh, tuo Dio» = yhwh ‘ĕlōhêkā.(49) Di contro è frequente il (42) Cfr. Ex, ii, 24; iii, 6, 15, 16; iv, 5; vi, 3, 8; xix, 3; xxxii, 13; xxxiii, 1; Dt, i, 8; vi, 10; ix, 5, 27; xxix, 12; xxx, 20; xxxii, 9; xxxiii, 4, 10, 28; xxxiv, 4. Di contro sono più rari i riscontri in Js, xxiv, 2, 3; 4; Lv, xxvi, 42; Nm, xxiv, 17, 19; xxiii, 11; 2Sm, xxiii, 1; 1Re, xviii, 36; 2Re, xiii, 23; xvii, 34. (43) Lv, xi, 44; xviii, 2, 4, 30; xix, 2, 10, 25, 31, 34, 36; xx, 7, 24; xxiii, 22, 28, 43; xxiv, 22; xxv, 17, 38, 55; xxvi, 1, 13. (44) La stessa formula è presente in Ex, vi, 7; xvi, 12; Lv, xi, 44; xviii, 2, 4, 30; xix, 2, 3, 4, 10, 25, 31, 34, 36; xx, 7, 24; xxiii, 22, 43; xxv, 17, 38, 55; xxvi, 1, 13; Dt, xxix, 6; Jdc, vi, 10. (45) Dt, i, 11, 21; iv, 1; vi, 3; viii, 18; xii, 1; xxvi, 7; xxvii, 3; xxix, 24. (46) Le occorrenze di Yhwh ‘ĕlōhêkā sono quattro in Giosuè (Js, i, 9, 17; ix, 9, 24) contro le 233 del Deuteronomio; quelle di Yhwh ‘ĕlōhêkem sono 28 (Js, i, 11, 13, 15; ii, 11; iii, 3, 9; iv, 5, 23 (2), 24; viii, 7; x, 19; xxii, 3, 4, 5; xxiii, 3 (2), 5 (2), 8, 10, 11, 13 (2), 14, 15 (2), 16) contro le 46 del Deuteronomio; quelle di Yhwh ‘ĕlōhênū sono 6 (Js, xviii, 6; xxii, 19, 29; xxiv, 17, 18, 24) contro le 23 del Deuteronomio. (47) 1Sm, ii, 2; ‘ĕlōhênū: 1Sm,v, 7 (riferito a Dagon); vi, 8; vii, 8; 2Sm, x, 12; xxii, 32. (48) 1Sm, v, 5; x, 19; xii, 12, 14. (49) 1Sm, xii, 19; xiii, 13; xv, 15, 21, 30; xxv, 29; 2Sm, xiv, 11, 17; xviii, 28; xxiv, 3, 23.
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sintagma «Yhwh, Dio d’Israele» = yhwh ‘ĕlōhê yiśrā’êl, che è invece assente nel Deuteronomista e nel Levitico. iv) Il Dio della fuga dall’Egitto. Se il dio dei patriarchi ha le sue radici nella Genesi, il Dio che guida il popolo nella fuga dall’Egitto ha la sua origine nell’Esodo (xxix, 45): «Io sarò il loro Dio (wehāyîtî lāhem lêlōhîm) che li ha ricondotti dalla terra d’Egitto». La circonlocuzione della Genesi: «Io sono Yhwh che ti ha fatto uscire da Ur» = ‘ănî yhwh ‘ăšer hōwsêtîkā mê’ūr (Gn, xv, 7) diventa in Esodo «Io sono Yhwh, Dio tuo, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» = ‘ānōkî yhewh ‘ĕlōhekā ‘ăšer hōwsêtîkā mê’eres misrayim (Ex, xx, 2; xvi, 6; xxxii, 4, 8, 11). La stessa connotazione teologica compare una sola volta in Numeri (xv, 41: «Io sono Yhwh che vi ha fatto uscire dall’Egitto (= ‘ănî yhwh [‘ĕlōhêkem] hamma’ăleh [‘ăšer hōwsêtî] etkem mê’eres misrayim) per essere il vostro [loro] Dio» lihyōt lākem [lāhem] lêlōhîm). Essa è invece frequente nel Levitico (10 occorrenze) e nel Deuteronomio (10 occorrenze), ma diventa più rara in Giosuè, in Giudici, nei due Samuele e nei due Re.(50) Nel Levitico troviamo ‘lêlōhîm in cinque(51) dei nove casi in cui Yhwh afferma di aver condotto Israele fuori dall’Egitto: «Io sono Yhwh che vi ha fatto uscire dall’Egitto (‘ănî yhwh [‘ĕlōhêkem] hamma’ăleh [‘ăšer hōwsêtî] etkem mê’eres misrayim) per essere il vostro [loro] Dio» lihyōt lākem [lāhem] lêlōhîm.(52) Nel Deuteronomio la stessa formula compare in locuzioni standardizzate: «Yhwh ci ha fatto uscire dalla terra dell’Egitto» = yhwh ‘ōtānū hōwsî ‘ānū mê’eres misrāyim;(53) «Yhwh dà in eredità o in possesso la terra del Canaan».(54) Più ellittici sono i sintagmi utilizzati in Giosuè: «il paese dato in eredità ai padri» (Js, i, 6, 15, xxii, 15); «il buon paese che Dio vi ha dato» (Js, xxiii, 16); «il Dio che vi ha fatto uscire dall’Egitto» (Js, xxiv, 17); «il paese in cui scorrono il latte e il miele» (Js, v, 6). (50) Sintagma presente anche in Ex, xvi, 6, 32; xx, 2; xxix, 46; xxxii, 1, 4, 7, 8, 23; xxxiii, 1; Lv, xi, 45; xix, 34, 36; xxii, 33; xxiii, 43; xxv, 38, 42, 55; xxvi, 13, 45; Dt, i, 27; v, 6, 15; vi, 12; vii, 8, viii, 14; xiii, 5, 10; xvi, 3 (2); xx, 1; xxix, 25; Js, xxiv, 17; Jdc, ii, 12; xix, 30; 1Sm, x, 18; xii, 6; 1Re, vi, 1; viii, 9, 21; ix, 9; xii, 28; 2Re, xvii, 7, 36. (51) Per lêlōhîm: Lv, xi, 45; xxii, 33; xxv, 38; xxvi, 12, 45. (52) Lv., xi, 45; xix, 34; xxii, 33; xxiii, 43; xxv, 38, 42, 55; xxvi, 13, 45. (53) Dt, i, 27, 30; iv, 20, 37; v, 6, 15; vi, 12, 21; vii, 19; viii, 14; ix, 12, 26, 29; xiii, 6, 11; xvi, 1, 3; xx, 1; xxvi, 8. (54) Dt, i, 20, 25, 35, 39; ii, 29; iii, 20; iv, 5, 22, 26, 38; vi, 3; viii, 7; ix, 6; xi, 9, 17, 29, 31; xv, 7; xvi, 20; xvii, 14; xix, 1, 3, 8, 10, 14; xxi, 23; xxiv, 4; xxv, 15, 19; xxvi, 1, 9, 15; xxvii, 2, 3; 31; 20; xxviii, 8, 52, 63; xxx, 5, 16; xxxi, 7, 23; xxxii, 47, 50, 51.
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v) Dalla monolatria e dall’enoteismo al monoteismo. Una connotazione teologicamente e filosoficamente più matura si ha nel passaggio da una divinità di stampo poliade e/o familiare ad una verosimilmente enoteistica ma tendenzialmente monoteistica. Il sintagma «Io sono Yhwh» = ‘ănî yhwh, che non ha ancora la pregnanza filosofica del monoteismo ed è una semplice autopresentazione di Yhwh, ricorre 19 volte nel Levitico(55) e verosimilmente retroagisce per suggestione sulla rielaborazione di testi più antichi come Numeri (con 3 occorrenze, iii, 13, 41, 45) e l’Esodo (con 5 occorrenze).(56) Il Levitico esibisce una forma di yhawismo ormai maturo, fortemente controllato dalla classe sacerdotale più conservatrice. Il redattore finale pone l’accento non solo sulla santità di Yhwh («Io sono santo» = qādōwōš ‘ănî, Lv, xi, 44, 45; xix, 2; xx, 26), ma anche sul fatto che egli è fonte di santificazione: «Io sono Yhwh che vi santifica» ‘ănî yhwh meqaddiškem (Lv, xx, 8; xxii, 16); «i sacerdoti saranno santi per il loro Dio = qedōšîm yihyū lêlōhêhem (Lv, xxi, 6). Dalla santità alla perfezione/separazione il passo è breve: «Io sono Yhwh, vostro Dio, che vi ha separato dagli altri popoli» = ‘ănî yhwh ‘ĕlōhêkem ‘ăšer hibdaltî ‘etkem min hā’ammîm (Lv, xx, 24, 26). Il Canaan, con reminiscenza derivata dall’Esodo, è menzionato nel Levitico come «terra su cui scorre il latte e il miele» = ‘eres zābat hālāb ūdehāš (Lv, xx, 24; Ex, iii, 8, 17; xiii, 5; xxxiii, 3), ma non è accompagnato dall’elenco dei popoli che lo abitavano, come accade nei primi due libri del Pentateuco.(57) Ciò significa che anche laddove emergono reminiscenze, l’autore del Levitico mostra autonomia di stile. Gli elementi stilistici che lo caratterizzano evidenziano per un verso forme di reminiscenze o di imitazione o di ispirazione tratte dai due testi più antichi, e per un altro verso differenze di stile che possono spiegarsi solo ipotizzando l’intervento di una mano diversa. Gli stilemi che caratterizzano la peculiarità stilistica del Levitico sono: «stendere la mano» wesāmak yādōw,(58) «bruciare sull’altare» wehiqtîr […] ham(55) Lv, xviii, 6, 21; xix, 12, 14, 16, 18, 28, 32, 37; xxi, 12, 15; xxii, 2, 3, 9, 30, 31, 32, 33; xxvi, 2. (56) Ex, vi, 6, 8; vii, 17; x, 2; xii, 12. (57) Nell’Esodo in particolare, a differenza del Levitico, si accenna con molta frequenza e in forme diverse all’obiettivo di occupare il Canaan (v. Ex, iii, 8, 17; vi, 4; xii, 25; xiii, 5, 11, 17; xvi, 35; xxiii, 23, 31; xxxiii, 2; xxxiv, 11, 12, 15, 16). Ed è segno evidente che l’autore non ha in mente il semplice ricordo di un tempo antico, ma rivendica nel presente il diritto di rientrare nelle terre sottratte dagli assiri e dai babilionesi. (58) Lv, i, 4; iii, 8; iv, 15, 24, 29, 33; viii, 14. Ex, viii, 1; xiv, 26: neteh ‘et yadeka;
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mizbêhāh;(59) «dolce profumo per Yhwh» = rêah nîhōwah yhwh,(60) «le mie norme e i miei decreti» = mišpātay ta’ăśū we’et huqqōtay,(61) «dono di Yhwh» = ‘iššeh yhwh,(62) «cibo del tuo [loro, vostro] Dio» = lehem ‘ĕlōhêkā [hem, kem] (Lv, xxi, 6, 8, 17; xxii, 25), sabati di Yhwh = šabbāt [šabbetōt] yhwh (Lv, xxiii, 38; xxv, 2, 4), «precetti di Yhwh» = miswot yhwh (Lv, iv, 2, 22, 27; v, 17). Per la minuziosa puntualizzazione delle norme etico-giuridiche e ritualistiche il Levitico presuppone una riorganizzazione della classe sacerdotale ed è verosimilmente databile ai primi decenni del quarto secolo. Le formule teologicamente più pregnanti insistono sulla shekhinah, sulla presenza/coabitazione di Yhwh in mezzo al popolo d’Israele. Particolarmente significativa in Numeri è la locuzione: «Io, Yhwh dimoro in mezzo ai figli di Israele» = ‘ănî yhwh šōkên betōwk benê yiśrā’êl (Nm, xxxv, 34). La presenza di Dio è suggerita anche da stilemi come «davanti a Yhwh» = lipnê yhwh molto frequente,(63) «davanti al vostro Dio» = lipnê ĕlōhêkem (Nm, x, 10) o «davanti a Yhwh, vostro Dio» = lipnê yhwh ‘ĕlōhêkem (Nm, x, 9); «al cospetto di Dio» = mul hā ‘ĕlōhîm oppure lipnê hā ‘ĕlōhîm (Ex, xviii, 12, 19; xix, 3; xxix, 11, 42; xxx, 8). Più evidenti implicazioni teologiche veicolano i sintagmi preferiti dal Deuteronomista: «Io, Io sono lui» = ‘ănî ‘ănî hū (Dt, xxxii, 39); «Io vivo per sempre» = hay ‘ānōkî le ‘ōlām (Dt, xxxii, 40); «voce di Dio» = qōwl ‘êlōhîm; «voce del Dio vivo» = qōwl ‘êlōhîm hayyîm; «Dio è grande e temibile» = ‘êl gādōwl wenōwrā (Dt, vii, 21); «grande, forte e terribile» = hā’êl haggādōl hagibbōr wehannōwrā (Dt, x, 17); «Yhwh è un Dio misericordioso» = ‘êl rahūm yhwh (Dt, iv, 31); «Yhwh è lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; non ve n’è altri» (Dt, iv, 39); «Qual è il Dio in cielo e in terra (‘êl baššāmayim ūbā’āres) che eguagli le tue azioni e i tuoi portenti?» (Dt, iii, 24). Talune locuzioni del Deuteronomista sono nuove rispetto agli altri libri del Pentateuco; tali sono per esempio: «il luogo che Yhwh sceglierà per stabilirvi il suo nome» = bamviii, 2; xiv, 27: wayyet […] ‘et yadow. (59) Lv, i, 9, 13, 15, 17; ii, 2, 9, 16; iii, 5, 11; iv, 10, 26, 35; v, 12; vi, 5, 8, 15; vii, 5, 31; viii, 21, 28; ix, 10, 17, 20. (60) Lv, i, 9, 13, 17; ii, 2, 12; iii, 5, 16; iv, 31; vi, 15; viii, 21, 28; xvii, 6; xxiii, 18. (61) Lv, xviii, 4, 26; xix, 19; xx, 8, 22; xxv, 18; xxvi, 15. (62) Lv, ii, 16; iii, 9, 11, 14; vii, 5, 25, 35; x, 13; xxii, 27; xxiii, 8, 27, 36; xxiv, 7, 9. (63) Nm, iii, 4, 4; v, 18, 25, 30; vi, 20; vii, 3; xiv, 37; xv, 15, 28; xvi, 7, 16, 40; xx, 3; xxvii, 5; xxxii, 20, 21, 29, 32; Js., xxiv, 1. Se l’Esodo preferisce l’espressione “davanti a Dio” = lipnê ‘êlōhîm, il Levitico predilige lipnê yhwh.
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māqōwm ‘ăšer yibhar yhwh ‘ĕlōhêkā lāšūm šemōw;(64) «amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» = we’āhabtā / bekāl lebābekā ūbekāl napšeqā;(65) «così sradicherai il male di mezzo a te» = ūbi’artā hārā’ miqqirbekā;(66) «popolo consacrato a Yhwh» = ‘am qādōwōš ‘attāh yhwh.(67) Per completare la configurazione teologica di Yhwh bisogna aggiungere che egli è il Dio dello sterminio che per far conoscere la sua potenza stermina i popoli nemici di Israele fino ad annientarne il seme: «conoscerete che io sono Yhwh vostro Dio» = wîda’tem kî ‘ănî yhwh ‘ĕlōhêkem (Ex, xvi, 12); «l’Egitto saprà che io sono Yhwh» = weyādeū misrayim kî ‘ănî yhwh (Ex, vii, 5; xiv, 4). Inesorabile nella punizione («Io sono Yhwh, tuo Dio, Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» = ‘ānōkî yhwh ‘ĕlōhêkā ‘êl qannā pōqêd ‘ăwōn ‘ābōt ‘al bānîm ‘al šillêšim we’al ribbê’îm leśōne’āy, Ex, xx, 5; xxxiv, 7, 14), Yhwh è un dio combattivo, Dio degli eserciti, Dio irato. Il concetto di ‘gelosia’ ci disvela che l’orizzonte teologico del Pentateuco è enoteistico, più che monoteistico: «Chi è come te tra gli dèi, Yhwh?» = mi kāmōkāh bā’êlim, yhwh (Ex, xv, 11). Yhwh esercita la funzione più pregnante di pronunciare le parole, ovvero i comandamenti, i precetti di natura etica e giuridica destinati a regolare i rapporti sociali e religiosi delle comunità giudaiche. Passando da un testo all’altro, il corpus giuridico e le prescrizioni ritualistiche si estendono e si arricchiscono. La Genesi è il testo più antico, perché sotto tale profilo è il più povero. Vi troviamo uno scarno riferimento alla festività del sabato, vaghi accenni agli olocausti celebrati da Noè e da Abramo, una breve nota sul rito di purificazione di Betel ed un’altra altrettanto breve sulla sepoltura in stile egiziano di Giacobbe. Ancora non c’è la Torah per la quale bisognerà attendere, almeno dopo un cinquantennio, l’Esodo, in cui compaiono la prima versione politica della istituzione della pasqua, l’istituzione della festa del sabato, il primo codice etico-giuridico, le istruzioni per la celebrazione delle ritualità religiose, per l’edificazione del santuario e per la consacrazione dei sacerdoti. Dopo ulteriori aggiustamenti trasmessi in Numeri e nel Deuteronomio, l’intera materia ha la sua definitiva e più matura sistemazione nel Levitico. (64) Dt, xii, 18, 21, 26; xiv, 24, 25; xv, 20; xvi, 2, 6, 7, 11, 15, 16; xvii, 8, 10; xviii, 6; xxvi, 2; xxxi, 11. (65) Dt, iv, 29; vi, 5; x, 12; xi, 13: xxx, 2, 6, 10. (66) Dt, xvii, 7; xix, 20; xxi, 21; xxii, 21, 22, 24; xxiv, 7. (67) Dt, vii, 6; xiv, 2, 21; xxvi, 19; xxviii, 9.
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Per la notevole varietà di stile, per l’abbondanza delle reminiscenze, per la diversità degli obiettivi e dei contesti storici di ciascun autore i libri della storia primaria possono ritenersi autonomi ed indipendenti e non ascrivibili né ad un’unica mano, né ad un’unica scuola o ad un unico circolo di intellettuali animati da obiettivi culturali comuni. Ciò è quanto emerge da una più dettagliata analisi dei testi. a) La Genesi e l’Esodo. La Genesi è probabilmente il testo più manipolato e rimaneggiato. Compilato tra la fine del sesto e l’inizio del quinto secolo, ci ha trasmesso il mito patriarcale di origine settentrionale, forse risalente alla monarchia omride. Nella fase di giudaizzazione del mito (prima metà del quinto secolo) il testo fu verosimilmente integrato con altri due miti: quello della creazione, cui era collegata la teologia del patto e della terra promessa, funzionale all’istanza di legittimare il possesso della regione centro-settentrionale del Canaan, usurpata dagli assiri e dai babilonesi, e quello della discendenza di Giuda da Israele, secondo la versione del romanzo di Giuseppe. I nomi divini impiegati fanno pensare che la versione originaria della narrazione fosse centrata sulla figura di êl ed êlōhîm e forse marginalmente su quella di Yhwh della Samaria, espressione di una forma di yhawismo primordiale o ancora allo stato embrionale. L’Esodo invece appartiene ad una fase più matura dello yhawismo (metà del quinto secolo), gestito da una aristocrazia sacerdotale interessata ad instaurare un ordinamento teocratico. Se l’autore della Genesi ha l’obiettivo di dare al popolo una identità etnico-culturale, la classe sacerdotale che sta dietro l’Esodo ha l’obiettivo di ricostruire lo Stato e di ricondurre il popolo in Gerusalemme. Il mito della schiavitù egiziana e della liberazione dalla stessa non è che una prefigurazione della riconquista della libertà e del rientro nella mitica terra promessa. Il progetto dell’autore dell’Esodo è assai più ampio e più ambizioso di quello della Genesi, perché, oltre ad avanzare pretese territoriali, rivendica il diritto di ricostruire una monarchia giudaita, dotata di un’apposita legislazione e di uno specifico culto religioso. Egli include nel nuovo programma politico la Genesi come parte, ne amplifica il testo con l’aggiunta dei miti citati e la riscrive, sovrapponendo Yhwh ad êl e ad êlōhîm. In tale nuovo contesto si perde la contrapposizione tra nord e sud. Il popolo che esce dal crogiolo della schiavitù è profondamente mutato; le due identità politiche del passato sono ormai fuse: ‘el è ormai una divinità quasi del tutto scomparsa. Il ritorno a Gerusalemme verso la metà del quinto secolo
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segna il trionfo definitivo dello yhawismo. Giuda ha definitivamente assorbito al suo interno Israele. Si spiega perciò come nell’Esodo Israele non rappresenti più il popolo del nord, ma si riferisca a tutto il popolo, uscito unificato dal dolore e dall’umiliazione della condizione di cattività. Com’è facile intuire, l’Esodo presenta una tessitura piuttosto variegata. I primi 18 capitoli costituiscono una narrazione compatta, una sorta di storia romanzata della vita di Mosè, centrata sul mito dell’uscita dall’Egitto. Tale sezione costituisce forse il documento più antico del testo, per il fatto che l’istituzione delle feste religiose è ancora imprecisa e incompleta. L’autore è di matrice levitica, ma del ramo aronnita. Mosè appartiene alla tribù di Levi; i suoi genitori sono ignoti a Ex, ii, 1, ma noti a Ex, vi, 20. Stilisticamente l’autore è monotono, ama riepilogare ciò che ha già detto o ciò che è già accaduto; la sua scrittura è manifestamente diversa da quella della Genesi, sebbene nei due testi non manchino stilemi comuni, pur con frequenze significativamente diverse. Ne è un esempio la formula che costituisce l’incipit di diversi paragrafi: «E Dio disse» wayyōmer yhwh. Essa ricorre in Genesi solo nove volte e solo nei primi tre capitoli, mentre nell’Esodo ha una frequenza ipertrofica e conta ben 40 occorrenze.(68) Numeri modifica l’incipit dei paragrafi con le seguenti varianti: «come Yhwh aveva detto a Mosè» = ‘ăšer dibber yhwh [‘el mōšeh];(69) «Yhwh disse a Mosè» = wayyōmer yhwh ‘el mōšeh;(70) «Yhwh parlò a Mosè, dicendo» = waydabbêr yhwhw ‘el mōšeh […][lêmōr]).(71) Quest’ultima locuzione è assimilata dal Levitico: «Yhwh chiamò Mosè e gli disse» = waydabbêr yhwh ‘el mōšeh lêmōr(72) o «Dio parlò a Mosè e gli disse» = waydabbêr yhwh [‘ĕlōhîm] ‘el mōšeh lêmōr. Analoghe varianti subisce l’espressione «come Dio aveva comandato» (‘ăšer siwwāh yhwh) la quale ha 4 occorrenze in Genesi, 4 in Giosuè e ben 25 (68) Gn, i, 6, 9, 11, 14, 20, 24, 26; ii, 18; iii, 22. Per l’Esodo, ove la formula è «Yhwh disse a Mosè» = wayyomer yhwh el mošeh; v. Ex, vii, 1, 14, 19, 26; viii, 1, 12, 16; ix, 1, 13; x, 1, 12, 21; xi, 1; xii, 1, 43; xiii, 1; xiv, 1, 15; xvi, 1, 28; xvii, 14; xix, 9, 10, 20, 23; xx, 22; xxiv, 1; xxx, 11, 17, 22, 31; xxxi, 1, 12; xxxii, 7; xxxiii, 1, 11, 12, 17; xxxiv, 1, 27. (69) Nm, v, 4; xvi, 40; xxvii, 23. (70) Nm, iii, 40; vii, 11; xi, 16; xii, 4; xiv, 11; xv, 35; xvi, 10; xviii, 1, 20; xx, 12, 23; xxi, 8, 34; xxv, 4; xxvi, 1; xxvii, 12, 18; xxxi, 25. (71) Nm, i, 1; ii, 1; iii, 5, 11, 14, 44; iv, 1; v, 1, 5, 11; vi, 1, 22; vii, 4; viii, 1, 5; ix, 1, 9; x, 1; xiii, 1; xiv, 26; xv, 1, 17; xvi, 20, 23, 36, 44; xvii, 1; xviii, 8, 25; xix, 1; xx, 7; xxv, 10, 16; xxvi, 52; xxviii, 1; xxxi, 1; xxxiii, 50; xxxiv, 1, 16; xxxv, 1, 9. (72) Lv, i, 1; iv, 1; v, 14, 21; vi, 1, 19; vii, 22, 28; viii, 1; xii, 1; xiii, 1; xiv, 1, 33; xv, 1; xvi, 1; xvii, 1; xviii, 1; xix, 1; xx, 1; xxi, 16; xxii, 1, 17, 26; xxiii, 1, 9, 23, 26, 33; xxiv, 1, 13; xxv, 1; xxvii, 1.
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in Esodo.(73) Essa diventa in Numeri e nel Levitico «come aveva comandato Mosè» = ‘ăšer siwwāh yhwh [‘et mōšeh],(74) «come ordina il mio signore» = ‘ăšer ‘ădōnî messawweh (Nm, xxxii, 25) oppure si semplifica nella locuzione «i comandamenti di Yhwh» = ‘pî yhwh;(75) «comando di Yhwh»/«come Yhwh ha comandato» = ‘ăšer siwwāk / siwwekā / siwwanū yhwh(76) «parola di Yhwh» = dabar / debar [bidbar / dibre] yhwh;(77) «Dio comandò» = siwwāh)(78) o «voce di Yhwh» = beqōwl yhwh (Js, v, 6) Comune è anche l’indicazione del Canaan come terra abitata da «hittiti, perizziti, refaim, amorrei, cananei, gergesei, evei, gebusei». L’Esodo aggiunge l’appellativo «terra che produce latte e miele»(79) e ripete l’elenco delle medesime popolazioni pur con qualche lieve variazione.(80) È significativo che il tema della discendenza numerosa, che ossessionava l’autore della Genesi («la tua discendenza sarà come polvere della terra»; «come le stelle del cielo»; «assemblea di popoli»),(81) sia assai ridimensionato e compare solo una volta in Ex, xxxii, 13. Lo stile pesante e ripetitivo si ritrova nella narrazione delle dieci piaghe contro l’Egitto, le quali obbediscono ad un monotono schema che si riproduce secondo le seguenti articolazioni: 1) predizione della strage da parte di Yhwh, 2) misconoscimento della sua potenza da parte del faraone, 3) effetti disastrosi della piaga. I comandamenti si ripetono due volte e in modo confuso in Esodo (xx, 1-17; xxxiv, 10-28), ove si dice che costituiscono «le parole del patto, le die(73) Gn, vi, 22; vii, 5, 9, 16; Ex, vii, 6, 10, 21; xii, 50; xvi, 34; xix, 7; xxxv, 4, 29; xxxvi, 1, 5; xxxviii, 22; xxxix, 2, 7, 21, 26, 29, 32, 41; xl, 16, 19, 21, 23, 25, 29, 32; Js, iv, 10; xi, 20; xiv, 2, 5. (74) Nm, i, 19; iii, 42, 51; viii, 3, 22; xvii, 11; xx, 27; xxvi, 4; xxvii, 22; xxx, 1, 16; xxxi, 21, 31, 41; xxxvi, 10; Lv, vii, 36, 38; viii, 5, 9, 13, 17, 21, 34; ix, 6, 7, 10, 21; x, 1, 15; xvi, 34; xvii, 2. (75) Nm, iv, 41, 45, 49; ix, 23; x, 13. (76) 1Sm, xiii, 13, 14; xv, 24; 2Sm, v, 25; xxiv, 19. (77) 1Sm, iii, 1, 7, 21; viii, 10; xv, 1, 10, 13, 23, 26; 2Sm, xii, 9. (78) Ex, vi, 2, 10, 13, 29; xiii, 1; xiv, 1; xvi, 11; xx, 1; xxv, 1; xxx, 11, 17, 22; xxxi, 1; xxxii, 7; xxxiii, 1; xl, 1; per siwwāh cfr. vii, 6, 10, 20; xii, 28, 50; xvi, 16, 32, 34; xxxiv, 4; xxxv, 1, 4, 10, 29; xxxvi, 1, 5; xxxviii, 22; xxxix, 1, 5, 7, 21, 26, 29, 31, 32, 42, 43; xl, 16, 19, 21, 23, 25, 27, 29, 32. (79) Ex, iii, 8, 17; xiii, 5; xxxiii, 3; cfr. anche Lv, xx, 24; Nm, xiii, 27; xiv, 8; xvi, 13, 14; Dt, vi, 3; xi, 9; xxvi, 9, 15; xxvii, 3; xxxi, 20; Js, v, 6. (80) Gn, xv, 19-21; Ex, iii, 8, 17; xiii, 5; xxiii, 23; xxxiv, 11. (81) Gn, xxviii, 14; xv, 5; xxviii, 3.
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ci parole» = dibrê habberît ‘ăśeret haddebārîm di Yhwh. Ma in materia il testo è disordinato perché il contenuto legislativo è frammentato in diversi capitoli; lo stesso accade per le norme di diritto sociale, per quelle di etica sessuale e in materia di religione, per quelle tributarie,(82) per le prescrizioni sulla edificazione degli altari e degli arredi sacri, sulla selezione degli artisti,(83) sui paramenti sacerdotali, sulla consacrazione dei sacerdoti, sulle ritualità religiose, sui sacrifici, sulle festività religiose.(84) La minuziosa descrizione della costruzione del santuario e degli arredi e della realizzazione dei paramenti sacerdotali(85) è probabilmente funzionale alla edificazione del secondo tempio. I capitoli xix-xxiii e xxxii costituiscono forse un autonomo documento, riconducibile ad una fonte sacerdotale, rigida e intransigente, che aspira ad «un regno sacerdotale teocratico». Elaborato sulla scorta di testi più antichi, l’Esodo è il primo codice giuridico israelita, che prescrive i comandamenti (che ancora non sono dieci) e fornisce un più puntuale elenco delle feste religiose. Ad una diversa fonte sacerdotale sono invece riconducibili i capitoli xxv-xxxi e xxxiii-xl, per essere caratterizzati da due nuovi elementi: α) una nuova concezione, forse di matrice deuteronomistica, di Yhwh, qualificato come misericordioso e pietoso, benché soggetto all’ira e inflessibile nella punizione (Ex, xxxiv, 6-7); β) una più scrupolosa regolamentazione di tutta la vita religiosa, dalle feste ai paramenti, ai riti di vestizione dei sacerdoti e di esecuzione degli olocausti. b) Il Libro di Numeri. Fu verosimilmente accorpato intorno alla metà del quinto secolo alla Genesi e all’Esodo per costituire una sorta di trilogia o di triteuco che facesse pensare ad una comune matrice culturale, basata sul mito della originaria unità del popolo d’Israele e della sua articolazione nelle dodici tribù giacobite, che dovevano costituire l’ossatura fondamentale dell’organizzazione politica e religiosa dello Stato giudaita. Il testo è in parte narrativo o pseudo-storico, in parte legislativo. La cornice storica funge da supporto a quella normativa. Numerose sono le ripetizioni, tanto delle cose già dette in precedenza, quanto di quelle dette negli altri due libri della trilogia (es. Corma, Meriba). Il corpus legislativo, dettato probabilmente dagli
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(82) Ex, xxi, 1- xxii, 14; xxii, 20-26; xxiii, 1-13; xxii, 15- 19, 27-30; xxx, 11-16. (83) Ex, xx, 22-26; xxv, 10 - xxvii, 22; xxx, 17-38; xxxi, 1-17. (84) Ex, xxviii, 1-43; xxix, 1-9; xxiii, 14-19; xxv, 1-9; xxix, 10 - xxx, 10; xxxi, 12(85) Ex, xxxv, 1 - xxxviii, 31; xxxix, 1 - xl, 31.
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aronniti, presenta ancora incertezze di vario tipo. Il libro è comunque monocorde, stilisticamente diseguale. I capitoli i-viii, xv-xix, xxvi-xxxii, xxxiv-xxvi, per compatibilità di stile, potrebbero essere riconducibili ad uno stesso autore. Ad una diversa mano sono invece da ascrivere i capitoli ix-xiv, xx-xxi, xxxiii a causa di una maggiore agilità di scrittura. Infine deve ritenersi una posticcia interpolazione la storiella di Balaam (capitoli xxii-xxv) che, oltre a presentare una destrezza descrittiva con picchi di natura poetica, forse ispirati al folklore popolare, si caratterizza anche per una scelta lessicale più ampia e più libera. In ogni caso i nuclei principali del libro si distinguono non solo per l’insistenza sugli stessi contenuti e sugli stessi concetti, ma anche per ripetizioni fraseologiche e lessicali, com’è il caso della parossistica reiterazione delle stesse circonlocuzioni: – secondo le loro famiglie di origine paterna, contando uno a uno tutti i maschi da vent’anni in su abili alla guerra;(86) – secondo le loro famiglie di origine paterna registrando ogni maschio da un mese in su [da trent’anni in su fino ai cinquanta];(87) – secondo la casata paterna abili alla guerra.(88)
Lo stesso accade a proposito delle donazioni per la dedicazione del santuario (in cui si ripete sistematicamente che i valori in sicli d’argento sono «a misura del siclo del santuario» = bešeqel haqqōdeš)(89) o della disposizione delle tribù, ove la circonlocuzione reiterata è «secondo le loro schiere» = lesib’ōtām.(90) Tra gli stilemi propri di Numeri mi limito a segnalare i seguenti: «i capi delle migliaia e i capi delle centinaia» = śārê hā ‘ălāpîm weśārê hammê’ōt;(91) «olocausto perenne con la sua offerta e la sua libagione» = ‘ōlat hattāmîd [yê’āśeh] [weniskah] [weniskōw];(92) «Io, Yhwh, ho parlato» = ‘ănî yhwh dibbartî (Nm, xiv, 35); «ira di Dio» = ‘ap ‘êlōhîm (Nm, xxii, 22, che, in sintonia con il Deuteronomio, diventa più frequentemente “ira di Yhwh” = ‘ap Yhwh(93)); “il flagel(86) Nm, i, 18, 20, 22, 24, 26, 28, 30, 32, 34, 36, 38, 40, 42, 45. (87) Nm, iii, 15, 18, 19, 22, 30, 35, 39; iv, 29, 34, 38, 40, 42, 46; xvii, 21. (88) Nm, xxvi, 2, 12, 15, 19, 23, 26, 35, 38, 41, 42, 44, 48, 57. (89) Nm, vii, 13, 19, 25, 31, 37, 43, 49, 55, 61, 67, 73, 79, 85; xviii, 16. (90) Nm, ii, 3, 10, 16, 18, 24, 25, 32; x, 14, 18, 22, 25, 28; xxxiii, 1. (91) Nm, xxxi, 14, 48, 52, 54; Dt, i, 15. (92) Nm, xxviii, 10, 15, 23, 24, 31; xxix, 21, 22, 24, 25, 28, 31, 38. (93) Nm, xi, 10, 33; xii, 9; xxv, 3, 4; xxxii, 10, 13, 14; v. anche Dt, vi, 15; vii, 4; xi, 17; xxix, 20, 27; Js, vii, 1; xxiii, 16; Jdc, ii, 14, 20; iii, 8; x, 7; 2Sm, vi, 7; xxiv, 1; 2Re,
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lo di yhwh è cominciato” = haqqesep millipnê yhwh (Nm, xvi, 46); «popolo di Yhwh» = ‘et ‘am yhwh;(94) «parola/parole di Yhwh» = dabar / dibrê yhwh;(95) «assemblea di Yhwh» = qehal yhwh (Nm, xvi, 3; xx, 4); «mano di Yhwh» = hă yad yhwh (Nm, xi, 23); «fuoco di Yhwh» = ‘êš yhwh (Nm, xi, 1, 3; 1Re, xviii, 38). Altri stilemi sono comuni con l’Esodo («Yhwh è con noi»(96) = yhwh ‘ittānū; «terra di latte e di miele»(97) = [‘eres] zābat hālāb ūdebaš; «gloria di Yhwh»(98) = kebōdōw yhwh; «egli sarà santo per Yhwh»(99) = qādōš hū yhwh) o con il Levitico («profumo gradevole a Yhwh» = rêah nîhōah yhwh).(100) c) Giosuè-Deuteronomio. Non è verosimile che il libro di Giosuè e il Deuteronomio siano opera di uno stesso autore, nonostante condividano talune locuzioni. Non è infatti escluso che il redattore finale di Giosuè (testo più antico) abbia assunto a modello il Deuteronomio (testo più recente), non solo perché ad esso si richiama più volte, citandolo come Libro della legge (Js, i, 8; viii, 30, 31, 34; xxiii, 6; xxiv, 26), ma anche perché fa esplicitamente di Mosè la controfigura di Giosuè, secondo quanto si evince dalla locuzione «come sono stato con Mosè, così sarò con te» (Js, i, 5; iii, 7). Sono comunque nettamente differenziati i tratti stilistici dei due autori. Mancano in Giosuè i lunghi discorsi che caratterizzano il Deuteronomio e vi si riscontrano invece evasioni di tipo romanzesco, come la storiella della prostituta Raab (da cui discenderebbe Gesù). Il concetto dell’amore verso Yhwh è appena accennato in Giosuè (xxiii, 11; xxii, 5) ed è verosimilmente una implicita citazione del Deuteronomio. Di contro prevale l’idea di un Dio combattivo che esige lo sterminio (hêrem) dei popoli nemici di Israele. Per ben due volte ci vien detto che «Yhwh combatté per Israele» = yhwh nilhām leyiśrā’êl (Js, x, 14; xxiii, 3); per ogni città conquistata Yhwh condannò allo sterminio toxiii, 3; xxiv, 20. (94) Nm, xi, 29; xvi, 41; v. anche Jdc, v, 13; 1Sm, ii, 24; 2Sm, i, 12; vi, 21; 2Re, ix, 6. (95) Nm, xi, 24; xv, 31; anche Gn, xv, 1, 4; Ex, iv, 28; ix, 20, 21; xxiv, 3; Dt, v, 5; Js, iii, 9; 1Sm, viii, 10; xv, 1, 10, 13, 23, 26; 2Sm, vii, 4; 1Re, ii, 27; vi, 11; xii, 24; xiii, 20; xvi, 1, 7; xvii, 2, 8; xviii, 31; xix, 9; xxi, 17, 28; xxii, 5, 19; 2Re, iii, 12; vii, 1; ix, 36; xv, 12; xx, 16, 19. (96) Nm, xiv, 9; v. anche Jr, viii, 8. (97) Nm, xiii, 27; xiv, 8; xvi, 13, 14; Ex, iii, 8, 17; xiii, 5; xxxiii, 3; Lv, xx, 24; Dt, vi, 3; xi, 9; xxvi, 9, 15; xxvii, 3; xxxi, 20; Js, v, 6; Jr, xi, 5; xxxii, 22. (98) Nm, xiv, 10, 21; xvi, 42; anche Ex, xvi, 7, 10; xxiv, 16; xl, 34, 35; Lv, ix, 6. (99) Nm, vi, 8; anche Lv, xxi, 7, 8. (100) Nm, xv, 3, 7, 10, 13, 14, 24; xxviii, 2, 8, 13, 24; xxix, 2, 6, 8, 13, 36; anche Ex, xxix, 18; Lv, i, 9, 13, 17; ii, 2, 9; iii, 5; vi, 15, 21; xxiii, 13, 18.
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tale la popolazione, compreso il bestiame, con l’invito a non lasciare in vita alcun superstite.(101) A differenza del Deuteronomio per il quale la responsabilità è personale, per Giosuè è, invece, collettiva. Lo schema proposto è semplice e ripetitivo: alla caduta nel peccato di un singolo o di un clan segue una punizione inesorabile su tutto il popolo e a questa segue la santificazione. Le locuzioni, che ricorrono con frequenza nel libro di Giosuè e che sono assenti nel Deuteronomio, dimostrano che i due testi sono indipendenti l’uno dall’altro. Tali sono frasi come: «sii forte e coraggioso» = hăzaq we’ĕmās;(102) «Mosè servo di Yhwh» = mōšeh ‘ebed yhwh;(103) «Yhwh, Dio d’Israele» = yhwh ‘ĕlōhê yiśrā’êl.(104) Pur tenendo conto che ha un’estensione equivalente a circa il 64% del Deuteronomio, il libro di Giosuè presenta rispetto ad esso un numero minore di occorrenze di Yhwh, di ĕlōhe, di ‘êlōhîm e di ‘êl.(105) Êl è certamente una sopravvivenza di antichi culti pagani; è menzionato come «Dio vivente in mezzo a noi» = ‘êl hay beqirbekem (Js, iii, 10) o come «Dio geloso» = ‘êl qannōw (xxiv, 19). In Js, xxii, 22, è ricordato nella espressione emblematica e unica in tutto il testo biblico: “êl dio yhwh”= ‘êl ‘êlōhîm yhwh. Ne dobbamo dedurre che i testi della storia primaria sono stati soggetti a progressive rielaborazioni da parte di intellettuali di diversa provenienza in tempi e contesti storici diversi. Perciò non vanno pensati come prodotti finiti in cui si è cristallizzata una narrazione ricevuta dalla tradizione orale, ma come prodotti in progress, riadattati di volta in volta, per taluni nodi concettuali e per suggestioni stilistiche, alle istanze politiche delle classi sacerdotali dominanti. Nel corso di tali rimaneggiamenti è possibile che taluni testi particolarmente innovativi, come il Deuteronomio, abbiano retroagito su quelli più antichi. Questo processo di riscrittura può aver comportato di volta in volta il bisogno di rimodulare i blocchi narrativi, riorganizzare il quadro concettuale-ideologico, assimilare le nuove suggestioni stilistiche. Solo in quest’ottica è possibile rendere conto delle contraddizioni concettuali, della (101) Js, vi, 21; vii, 15; viii, 24-29; x, 20-21, 30, 32, 33, 35, 37, 39; xi, 8, 11, 12, 14, 20, 21. (102) Js, i, 6, 7, 9, 18; xxiii, 6. (103) Js, i, 13, 15; viii, 31, 33; xi, 12, 15; xii, 6 (2); xiii, 8; xiv, 7; xviii, 7; xxii, 2, 4, 5. (104) v. supra, par. 4.1, nota 9. (105) Sono 18 le occorrenze per ‘ĕlōhê: Js, vii, 13, 19, 20; viii, 30; ix, 18, 19; x, 40, 42; xiii, 14, 33; xiv, 14; xviii, 3; xxii, 24; xxiv, 2, 15, 20, 23; sono 11 per ‘êlōhîm: Js, ii, 11, 22 (2), 33; xxiii, 16; xxiv, 2, 14, 15, 16, 19, 26; nella forma ha’êlōhîm: Js, xix, 6; xxii, 34; xxiv, 1; sono 5 per ‘el: iii, 10; xxii, 22 (2); xxiv, 19.
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compresenza di duplicazioni delle eziologie e delle affinità e discrepanze stilistiche. L’analisi stilistico-concettuale dei testi induce a pensare che il Deuteronomista si sia ispirato alla Genesi, abbia avuto in mente una sorta di contro-Esodo ed abbia infine esercitato un’influenza sui libri di Giosuè, sui due Samuele e sui due Re, nella fase della loro rielaborazione, e sul Levitico, nella fase della compilazione. Il Deuteronomio è in ogni caso un testo di natura parentetica, poiché si inserisce nel Pentateuco come una sorta di corpo estraneo, non solo per la sua specificità stilistica, ma soprattutto per la sua fisionomia ideologica. Il suo autore sembra contrapporsi al progetto politico del redattore filo-aronnita della trilogia (Genesi, Esodo, Numeri), poiché riscrive il mito della storia mosaica nell’ottica della reazione della classe sacerdotale levita contro lo strapotere degli aronniti. Un tratto stilistico che contraddistingue il Deuteronomio è dato dai lunghissimi discorsi di Mosè. Quattro discorsi mosaici(106) occupano ben 30 dei 34 capitoli del libro. Le locuzioni che nell’Esodo sono per lo più rigide («come yhwh aveva comandato» = ‘ăšer siwwāh Yhwh)(107) presentano nel Deuteronomio variazioni come: siwwekā yhwh; ‘āšer ‘ānōkî mesawwekā ‘attāh; ‘ašer siwwanî yhwh.(108) Ulteriori reminiscenze dalla Genesi, dall’Esodo e da Numeri riguardano la discendenza di Giacobbe (numerosa «come le stelle del cielo» = kekōkbê haššāmayim lārōb, Dt, i, 10; x, 22), i «decreti e norme» = ‘el hahuqqîm we’el hammišpātîm o huqqîm ūmišpātîm (Dt, iv, 1, 8, 14), le «testimonianze, decreti e giudizi» = ha’edot wehahuqqîm wehammišpātîm,(109) oppure sintagmi come «gli occhi di yhwh» = ‘ênê yhwh; «la gloria di Yhwh» = kebōdōw yhwh; «la mano di Yhwh» = yad yhwh, «popolo dalla dura cervice» = ‘am qešêh ‘ōrep;(110) «voce di Yhwh» = beqōwl yhwh.(111) Dall’Esodo (xx, 5; xxxiv, 7) e da Numeri (xiv, 18) deriva il concetto della punizione delle colpe dei padri fino alla terza e alla quarta generazione (Dt, v, 9); dalla Genesi (xxxviii, 10: wayyêra’ be’ênê yhwh ‘ăšer ‘āśāh) e da Numeri (xxxii, 13: kāl haddōwr hā’ōśeh hāra’ be’ênê yhwh) è tratta la locuzione «ciò che è male agli occhi di Yhwh = la’ăśōwt hāra’ be’ênê yhwh,(112) alla quale il Deuterono(106) Dt, i, 6 - iv, 40; v, 1 - xxvi, 19; xxvii, 12 - xxviii, 68; xxix, 1 - xxx, 20. (107) Dt, i, 3; v, 33; vi, 1, 20; ix, 16; xxxiv, 9. (108) Dt, v, 12, 15; vi, 2; x, 5. (109) Dt, iv, 45; v, 31; vi, 1, 20; xi, 32; xii, 1; xxvi, 16; xxx, 16. (110) v. nell’ordine: Dt, xi, 12; vi, 15; vii, 4; ix, 19; xi, 17; xxix, 20; v, 24; ii, 15; ix, 6, 13. (111) Dt, xiii, 18; xxvi, 14; xxvii, 10; xxviii, 1, 2, 15, 45; xxx, 8, 10. (112) Dt, ix, 18; xvii, 2; xxxi, 29.
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mio aggiunge l’altra «ciò che è retto e buono agli occhi di Yhwh = hayyāšār wehattōwb be’ênê yhwh.(113) Il Deuteronomista esaspera il monolatrismo già implicito nei quattro libri precedenti e concepisce il rapporto tra Yhwh e il popolo nei termini di un reciproco esclusivismo, che ha tutte le caratteristiche dell’intolleranza: per Yhwh non c’è altro popolo che Israele e per Israele non c’è altro Dio che Yhwh. La reciproca appartenenza di Israele a Yhwh e di Yhwh ad Israele è sancita dall’Esodo (vi, 7), ove Yhwh, rivolto ai figli di Israele, afferma: «vi legherò a me come mio popolo e saprete finalmente che io sono Yhwh, il vostro Dio» = welāqahtî ‘etkem lî le’ām wehāyîtî lākem lêlōhîm wîda’tem kî ‘ănî yhwh ‘ĕlōhêkem. Nel Deuteronomio il monolatrismo sembra confinare con il monoteismo nelle espressioni: «Yhwh è Dio, non ce n’è altri oltre lui» = yhwh hū hā ‘êlōhîm ‘ên ‘ōwd milbaddōw; «Yhwh tuo Dio è Dio, Dio fedele» = yhwh ‘ĕlōhêkā hū hā’êlōhîm hā’êl hanne’êmān; «oltre a me non c’è alcun dio» = we’ên ‘êlōhîm ‘immādî ‘ănî.(114) Molto probabilmente il libro di Giosuè fu compilato nella prima metà del quinto secolo, quando le aspirazioni israelitiche alla ricomposizione della monarchia giudaita sembravano svanire nel nulla e il regno di Giuda appariva sempre più in balia dei poteri sproporzionati dei grandi imperi. Il progetto del redattore della trilogia (Genesi, Esodo, Numeri), fondato sostanzialmente sulla promessa divina di un regno giudaita nel cuore del Canaan, non sembrava aver prodotto i frutti sperati. Da ciò il nuovo programma politico, funzionale al rientro dei deportati, di rivendicazioni territoriali sulla base del mito della conquista armata degli altopiani centrali. Probabilmente l’autore di Giosuè dovette accorpare all’interno del proprio programma il libro dei Giudici, il libro della esaltazione di un’età eroica del tutto fantasiosa, al fine di dare una continuità al mito e di non lasciare scoperti i circa 480 anni che passavano dalla conquista militare del Canaan alla monarchia unitaria. Anche tale operazione fu il risultato della cucitura di diversi blocchi narrativi. d) Il libro dei Giudici. Che l’epopea dei Giudici sia storicamente inconsistente si evince dal fatto che i dati cronologici suggeriti dal testo sono contraddittori ed hanno spesso valore puramente simbolico. Simbolica è infatti la durata delle diverse giudicature (40 anni per Otniel, 40 per Deborah, 80 per Eud, 40 per Gedeone, 23 per Tola, 22 per Ya’ir, 6 per Iefte, 7 per Ibsan, (113) Dt, vi, 18; xii, 25, 28; xiii, 18; xxi, 9. (114) Dt, i, 17; iv, 33, 35; v, 26; vii, 9; ix, 10; xxxii, 39.
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10 per Elon, 8 per Ardon e 20 per Sansone). Se le sommiamo, abbiamo un totale di 296 anni, a cui bisognerebbe aggiungere solo l’ignota durata della giudicatura di Samgar. Alla loro somma vanno aggiunti gli anni di schiavitù, che sono pari a 8 sotto Cusan-Risataim, 20 sotto Iabin, 18 sotto Eglon moabita, 7 sotto i madianiti, 18 sotto i filistei e gli ammoniti, altri 40 sotto i filistei e 3 anni di potere di Abimelech per un totale di 114 anni ed un conteggio complessivo di 410 anni. Se partiamo dall’ipotesi tradizionale dell’esodo alto (intorno al 1550) e conteggiamo i 45 anni di attività di Giosuè (Js, xiv, 10), giungiamo ad una somma complessiva di 455 anni, a cui andrebbero sommati gli 80 anni di regno di Saul e di Davide per giungere ad un dato complessivo di 535 che in ogni caso non coincide con i 480 anni che secondo 1Rg, vi, 1, intercorrono dall’Esodo al quarto anno di Salomone e alla costruzione del tempio. Questo semplice risultato esclude che l’autore del Libro dei Re sia lo stesso del Libro dei Giudici. Tutta questa caterva di dati non si accorda né con l’ipotesi di un esodo alto (xvi-xv secolo), né con quella di un esodo basso (xiii secolo). Anzi quest’ultima ipotesi rende impossibile la compressione degli eventi dai 535 anni presunti ad appena 200/300 anni e complica e compromette irrimediabilmente l’interpretazione del libro dei Giudici, che di per sé richiede uno spazio storico di non meno di 410 anni. Ne consegue che entrambe le ipotesi dell’esodo, alto e basso, sono insostenibili. La prima non si accorda con i lavori per la costruzione di Pi-Atun e di Pi-Ramses, la seconda stride con le datazioni dei libri di Giosuè e dei Giudici. Come si esce da queste incongruenze? Si esce prendendo atto che tutta la storia primaria è un prodotto di fantasia con una forte assimilazione della mitologia popolare, di saghe e di racconti folkloristici in cui i pochi dati storici si mescolano alla costante rielaborazione popolare. Gli autori biblici che l’hanno messa per iscritto lo hanno fatto per almeno tre buoni motivi: primo, perché quelle narrazioni, per essere per lo più di origine folcloristica erano facilmente assimilabili da parte del popolo; secondo, perché esse potevano essere sfruttate politicamente sia nei confronti dei nemici esterni, con la rappresentazione di un Israele forte e temibile, sia nei confronti della stessa comunità ebraica, ormai divisa tra un fronte del nord ed uno meridionale; terzo, perché quella storia poteva essere utile a ristabilire gli equilibri interni tra le classi di potere; in particolare tra la classe sacerdotale, articolata in una frangia moderata ed una fortemente conservatrice, e la classe scribale più favorevole alla restaurazione o alla costruzione di una monarchia. La classe colta che puntava alla restau-
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razione della monarchia, scorgeva nella crisi religiosa del periodo post-esilico (dal sesto al quinto secolo) analogie con il periodo intercorso tra l’esodo e la monarchia unitaria. Il nucleo centrale del testo (iii, 7 - xvi) non contiene alcun accenno alle funzioni sacerdotali, né levitiche, né aronnite. Anzi l’autore non trascura di ricordare che la generazione successiva alla peregrinazione nel deserto «non conosceva Yhwh né le opere che egli aveva compiuto per Israele» (Jdc, ii, 10). Da ciò il bisogno di reinterpretare la storia d’Israele come costellata dagli interventi protettivi di Yhwh, nonostante le ripetute cadute del popolo nel peccato e nella trasgressione del patto con la divinità. L’autore parla del tempo passato, ma ha lo sguardo volto al presente. Le stesse giudicature, per la loro occasionalità e differenziazione, sembrano alimentare la frammentazione dello Stato. Il disordine sociale, politico e istituzionale del passato è lo stesso che egli vive nel presente; perciò ritiene che la via d’uscita dal caos sia contrassegnata da due fondamentali scelte politico-religiose: 1) ritornare ad un rigoroso rispetto dell’alleanza con Yhwh e ad una accentuazione del monolatrismo; 2) ripristinare la monarchia come potere capace di regolamentare la vita dello Stato, comprimendo le spinte centrifughe e individualistiche. Non a caso il redattore finale accorpa nel testo le due appendici, in cui in più occasioni si afferma: «In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno poteva fare quel che gli pareva». Le stesse appendici ci danno delle esemplificazioni di questa anarchia istituzionale e religiosa: «Ciascuno può fare quello che gli pare»; l’efraimita Mica può edificare per sé un tempio dedicato a Yhwh e farsene «un idolo e una statua di metallo fuso», può arredarlo di oggetti sacri e può persino nominare sacerdote uno dei suoi figli; i daniti possono impadronirsi dell’idolo e trasferirlo nel santuario di Silo, nominando come sacerdote Gionata, figlio di Gherson, cioè un levita non-aronnita. Il secondo esempio di anarchismo è dato dal delitto di Gabaa, consumato dai benianimiti, il quale scatenò una guerra fratricida con gli auspici di Fineas, figlio di Eleazar. Riassumendo possiamo dire che gli elementi di divergenza che chiaramente oppongono il Libro dei Giudici al Deuteronomio sono almeno due: 1) la totale sfiducia dell’autore dei Giudici nella classe sacerdotale, forse additata come responsabile del disordine istituzionale; 2) la sua evidente propensione per la monarchia come potere capace di arginare le tendenze autonomistiche. Quanto allo stile del Libro dei Giudici va detto innanzi tutto che esso è assai variegato nei quattro documenti che vi sono assemblati. Abbiamo det-
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to(115) che l’autore non è lo stesso del Libro dei Re per via delle contraddizioni relative alla cronologia, ma bisogna aggiungere che egli non è neppure lo stesso del Deuteronomio. Le ragioni di tale esclusione stanno tutte sul fronte della tipologia degli stilemi e della loro frequenza. Vi sono sì elementi di convergenza, ma essi dipendono almeno in parte dalla fede comune, in parte dallo spirito di imitazione o di ispirazione a testi che godevano di notevole reputazione. Frequente è l’uso di ‘êlōhîm(116) in particolare in espressioni del tipo «sarà un fanciullo consacrato a Dio fin dal grembo materno» = ‘êlōhîm yihyeh hanna’ar min habbāten (Jdc, xiii, 5, 7; xvi, 17), «angelo di Dio» = mal’ak ‘hā ‘êlōhîm (Jdc, vi, 20; xiii, 6, 9), «assemblea del popolo di Dio» = biqhal ‘am hā ‘êlōhîm (Jdc, xx, 2), ‘El è presente solo nella pericope ix, 46: «il tempio di El, Dio del patto» = bêt ‘êl berît. Ma ciò che è più significativo è che i sintagmi, che in Deuteronomio sono più frequenti, scarseggiano in Giudici. Per es. ‘ĕlōhêkā presenta solo due occorrenze (Jdc, vi, 26; xi, 24) e per di più una di esse si riferisce a Kemosh divinità dei moabiti; ‘ĕlōhêkem compare solo una volta (Jdc, vi, 10); ‘ĕlōhênū conta quattro occorrenze.(117) Di contro presentano una certa frequenza sintagmi che o sono assenti o scarseggiano nel Deuteronomio. Ne sono esempi il sintagma «yhwh Dio d’Israele» = yhwh ‘ĕlōhê yiśrā’êl e la locuzione «i figli d’Israele fecero ciò che è male agli occhi di Yhwh» = benê yiśrā’êl ‘et hāra’ be’ênê yhwh, che hanno entrambi in Giudici ben sette occorrenze(118) e scarseggiano nel Deuteronomio. Il tema della centralizzazione del tempio, che ossessionava l’autore del Deuteronomio, sembra ormai superato, poiché ci vien data notizia di non pochi altari, tutti siti nel settentrione, come quello di Gedeone ad Ofra, denominato «Dio è pace» = yhwh šālōwm (Jdc, vi, 24), e gli altri di Mispa (Jdc, xi, 11), di Silo (Jdc, xviii, 31) e di Betel (Jdc, xx, 18). Né mancano menzioni di templi pagani, come quelli di Dagon e di Baal. Una peculiarità che rivela una certa compattezza stilistica delle due appendici è la citata locuzione «in quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno poteva fare quello che gli pareva».(119) e) I libri di Samuele e dei Re. L’autore dei due Samuele sviluppa un pro(115) v. supra, par 12.9, let. d). (116) Cfr. Jdc, i, 7; iii, 20; iv, 23; vi, 20, 31, 36, 39, 40; vii, 14; viii, 3; ix, 7, 56, 57; xiii, 9, 22; xv, 19; xvi, 28; xvii, 5; xviii, 31; xx, 18; xxi, 2. (117) Jdc, x, 10; xi, 24; xvi, 23, 24. (118) Cfr. rispettivamente Jdc, iv, 6; v, 3, 5; vi, 8; xi, 21, 23; xxi, 3; Jdc, ii, 11; iii, 7, 12; iv, 1; vi, 1; x, 6; xiii, 1. (119) Jdc, xvii, 6; xix, 1; xxi, 25.
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getto di mitizzazione della monarchia unitaria. Come accade per tutti i testi della storia primaria, egli svolge un’azione propagandistica che persegue due obiettivi fondamentali: il primo è quello di proporre una monarchia unitaria come modello per la pacificazione delle due componenti, israelitica e giudaica, del regno ebraico; il secondo è quello di mettere sotto accusa la classe sacerdotale levitica per essere responsabile della crisi politico-amministrativa dello Stato. I due Samuele registrano di fatto il fallimento dei tentativi di coesione sociale, etnica, politica e religiosa delle due etnie originarie, l’una favorevole alla monarchia, l’altra contraria; l’una legata allo yhawismo, l’altra ai culti pagani di origine ugaritica e cananaica. L’autore ama cedere alle narrazioni fantasiose (si pensi all’episodio di Davide e Golia), ma in generale il suo racconto non è del tutto lineare, poiché egli mostra nel contempo simpatie e avversione verso l’istituto monarchico. Lo reputa un sopruso consumato ai danni della divinità, che è la sola cui spetta la titolarità del governo; delinea con tratti chiroscurali la personalità di Saul e di Davide e ne descrive in dettaglio gli intrighi personali e familiari. Non è ben chiaro quale sia il suo atteggiamento nei confronti della monarchia. I primi undici capitoli del 1Re, per stile e per continuità narrativa, sebbene interrotta dalle appendici del 2Samuele (capitoli xxi-xxiv), sembrano essere ascrivibili allo stesso autore, ma non si può escludere che nell’insieme si tratta di testi scritti a più mani o revisionati in più tempi. Rispetto alla vivacità narrativa dei due Samuele, lo stile dell’autore dei due Re, se si escludono i due cicli di Elia e di Eliseo, intrisi di una mentalità miracolistica foriera e ispiratrice di quella non meno esagerata e fantasiosa dei quattro vangeli canonici, è più secco, essenziale, quasi archivistico. Probabili reminiscenze del Deuteronomio e di Giosuè sono i seguenti sintagmi: «altri dèi» = ‘êlōhîm ‘ăhêrîm (1Sm, xxvi, 19); «con tutto il cuore» = bekāl lebabkem (1Sm, vii, 3; xii, 20, 24); «voce di Yhwh» = beqōwl yhwh (1Sm, xii, 15; xv, 19; xxviii, 18). La locuzione «uomo di Dio» = ‘iš ‘êlōhîm, derivata da Giudici e da Giosuè, ove l’uomo di Dio si identifica con Mosè, passa nei due Samuele e nei due Re.(120) La formula «fare ciò che è male agli occhi di Yhwh» = watta’aš hāra’ be’ênê yhwh ricorre una sola volta in 1 Samuele (xv, 19). Si ispirano al libro dei Giudici sintagmi come «consegnare/ (120) Jdc, xiii, 6, 8; Js, xiv, 6; 1Sm, ii, 27; ix, 6, 7, 8, 10; 1Re, xii, 22; xiii, 1, 4, 6 (2), 7, 8. 11, 12, 14 (2), 21, 26, 29, 31; xvii, 18, 24, xx, 28; 2Re, i, 9, 10, 11, 12, 13; iv, 7, 9, 16, 21, 22, 25 (2), 27 (2), 40, 42; v, 8, 15, 20; vii, 17, 19; viii, 2, 4, 8, 11; xiii, 19; xxiii, 16, 17.
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mettere in mano» = hătittenêm beyad yiśrā’êl [‘ănî nōtên ‘et […] beyādekā] [beyādî];(121) «consacrato di Yhwh» = mešîah yhwh oppure bimšîah yhwh;(122) «angelo di Dio» = mal’ak ‘êlōhîm / hā’’êlōhîm (1Sm, xxix, 9; 2Sm, xiv, 17, 20). Rinvia alla teologia di Giosuè il Dio che esige lo sterminio totale dei nemici. Da Numeri dipende la locuzione «mano di Yhwh» = yad yhwh.(123) Di contro sono propri dei due Samuele le locuzioni: «Yhwh, Dio degli eserciti» = Yhwh sebā’ōwt;(124) «per la vita di Yhwh» oppure «come è vivo Yhwh» = hay yhwh;(125) «stendere la mano» = lišlōah [‘ešlah / šālah / miššelōah] yādî [yādōw] (1Sm, xxiv, 6, 10; xxvi, 9, 11); «un popolo numeroso come la sabbia che è sulla spiaggia del mare» = we’ām kahōwl ‘ăšer ‘al śepat hayyām (1Sm, xiii, 5). È assai verosimile che i due libri di Samuele risalgano al quinto secolo. Dei due libri dei Re sono probabilmente da considerare originari i capitoli xii-xvi, xx-xxii del primo libro e i capitoli i, iii, viii, 16 – xxv del secondo, che forse in origine costituivano un unico testo. Con essi usciamo ormai dal mito ed entriamo nel vivo della storia giudaica. Ciò però non va inteso nel senso che la loro narrazione sia storicamente fedele; non mancano le forzature, che scopriamo nel confronto con le fonti extrabibliche forniteci dai popoli coevi. Ma è indubbio che i due Re ci introducono in un contesto storicamente controllabile. Dal punto di vista stilistico essi presentano stilemi e locuzioni che si ripetono fino alla nausea soprattutto nelle pericopi dedicate alla successione dei sovrani di Israele e di Giuda. Si tratta di formulari che hanno tutta la pretesa di derivare da fonti archivistiche inesistenti o perdute. Che l’autore o gli autori non abbiano alle spalle fonti archivistiche, lo si deduce dal fatto che imitano la cronologia sincrona dei regni, assiro e babilonese, e registrano le successioni dei sovrani di Giuda nella loro correlazione con i sovrani di Israele e viceversa, dando luogo a sfasature che compromettono la loro collocazione storica. D’altro canto non è pensabile che gli atti d’archivio contenessero, anziché i dati storici essenziali, delle semplici valutazioni etiche sull’operato di ciascun sovrano. Le formule di rito sono le seguenti: «Il resto delle azioni di X […] è scrit(121) 1Sm, xiv, 37; xxiii, 4; xxiv, 11, 18; xxvi, 23; xxviii, 19 (2); xxx, 15. (122) 1Sm, xvi, 6; xxiv, 6, 10; xxvi, 9, 11, 16, 23; 2Sm, i, 14, 16; xix, 21. (123) Nm, xi, 23; Dt, ii, 15; 1Sm, v, 6, 9; vii, 13; xii, 15; 2Sm, xxiv, 14. (124) 1Sm, i, 3, 11; iv, 4; xv, 2; xvii, 45; 2Sm, v, 10; vi, 2, 18; vii, 8, 26, 27. (125) 1Sm, xiv, 39, 45; xix, 6; xxv, 26; xxvi, 10, 16; 2Sm, iv, 9; xii, 5; xiv, 11; xv, 21; xxiii, 47: anche hay ‘êlōhîm: ii, 27.
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to nel Libro delle Cronache di Giuda [o di Israele]». Il periodo in cui regnò X fu di anni y. Egli giacque con i suoi padri e al suo posto regnò suo figlio Z». Le formule del sincronismo sono: «Nell’anno t di Y, X divenne re di Israele [o di Giuda]; regnò s anni in Samaria [o in Gerusalemme]. Sua madre era Z» oppure «X aveva y anni quando divenne re e regnò y1 anni in Israele [Giuda] […]. Il nome di sua madre era Z […]». Il giudizio sull’operato dei re o è positivo («fece ciò che è giusto/retto/buono agli occhi di Yhwh»)(126) o è negativo («fece il male agli occhi di Yhwh»).(127) Se è negativo, ed è tale per tutti i sovrani del Nord, l’autore ripete pedissequamente che il re «proseguì nei peccati di Geroboamo, figlio di Nebat, che aveva fatto peccare Israele, e non se ne allontanò»; se il giudizio è positivo, ed è tale per alcuni sovrani del Sud, si puntualizza che «però non furono rimosse le alture e sulle alture il popolo continuava a offrire sacrifici e a bruciare incenso». Buona parte degli studiosi ritiene che l’insieme dei quattro libri SR (Samuele-Re) siano da ricondurre al Deuteronomista o comunque ad una presunta scuola deuteronomista. Si afferma altresì che l’ipotesi sarebbe confermata dalla condivisione: 1) di taluni tratti stilistici, in particolare il frequente uso dei possessivi associati a Yhwh, e 2) dello schema teologico (peccato, punizione, pentimento, salvezza) del Deuteronomio. In realtà tale ipotesi non regge né sotto il profilo teologico, né sotto quello stilistico. Infatti lo schema teologico di SR è assai più riduttivo ed è centrato, come nei precedenti libri storici, sulla inevitabilità della punizione divina di fronte alla caduta nel peccato. Più rilevanti sono le obiezioni che vengono dal versante stilistico per le seguenti ragioni: 1) Stilemi che sono centrali nella teologia del Deuteronomista non sono più tali in SR. Per esempio, la locuzione «con tutto il/tuo/vostro cuore e con tutta la tua/vostra anima» = bekāl lebābām / lêb / lebābekā [kem] ūbekāl / napšām / nepeš / napšekā[kem] ha 8 occorrenze in Deuteronomio, 2 in 1Re e 2 in 2Re(128) op(126) 1Re, xi, 38; xiv, 8; xv, 3, 5, 11, 34; xvi, 2; xviii, 3; xxii, 2, 43; 2Re, xii, 2; xiv, 3; xv, 3, 34; xvi, 3; xviii, 3; xx, 3; xxii, 2. La formula è presente in Lv, x, 19; Dt, vi, 18; xii, 25, 28; xiii, 18; xxi, 9. (127) 1Re, xi, 6; xiv, 22; xv, 26, 34; xvi, 19, 25, 30; xxi, 20, 25; xxii, 53; 2Re, iii, 2; viii, 18, 27; xiii, 2, 11; xiv, 24; xv, 9, 18, 24, 28; xvii, 2, 17; xxi, 2, 6, 15, 16, 20; xxiii, 32, 37; xxiv, 9, 19. La formula è presente in Gn, xxxviii, 7; Nm, xxxii, 13; Dt, iv, 25; ix, 18; xvii, 2; xxxi, 29; Jdc, ii, 11; iii, 7, 12, 12; iv, 1; vi, 1; x, 6; xiii, 1; 1Sm, xv, 19; 2Sm, xi, 27. (128) Dt, iv, 29; vi, 5; x, 12; xi, 13; xiii, 3; xxviii, 16; xxx, 6, 10; Js, xxii, 5; 1Re, ii, 4; viii, 48; 2Re, xxiii, 3, 25.
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pure è stroncata in SR nella forma «con tutto il tuo/vostro cuore» = bekāl lebabeka[kem].(129) Analogamente la locuzione «Sii forte e coraggioso» = hăzaq we’ĕmās (Dt, xxxi, 7, 23; Js, i, 6; 7, 9, 18; 2Sm, x, 12) è mutilata nella forma «Sii forte» = wehāzaqtā (1Re, ii, 2). 2) La connotazione di Yhwh come il Dio che ha fatto uscire il popolo dall’Egitto, che ha ben 13 occorrenze in Esodo, 9 in Levitico, 5 in Numeri, ricorre 11 volte in Deuteronomio, ma perde consistenza e compare solo una volta in Giosuè, 2 in Giudici, 2 in 1Samuele, 5 in 1Re e 2 in 2Re.(130) Analogamente la connotazione di «Dio dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe», che ha 12 occorrenze in Esodo, una in Levitico e 8 in Numeri, ricorre ben 11 volte in Deuteronomio, 5 in Giosuè, una in 1Samuele, una in 2Samuele, 4 in 1Re e nessuna nel secondo.(131) Altri sintagmi, che sono frequenti nel Deuteronomio, si riferiscono alla custodia degli statuti, dei comandi, del diritto e della testimonianza di Yhwh e ricorrono in 1 e 2Re, ma sono del tutto assenti nei due Samuele.(132) Lo stesso accade per sintagmi come «parola/comando di Yhwh» = pî yhwh o kidbar yhwh o debar yhwh o debar ‘êlōhîm.(133) Il sintagma «dura cervice» qešêh ‘ōrep, derivato da Esodo (‘am qešêh ‘ōrep ‘attāh, xxxiii, 3, 5)(134) è presente in (129) 1Sm, vii, 3; xii, 20, 24; 1Re, xiv, 8; 2Re, x, 31. (130) Ex, xvi, 1, 6, 32; xix, 1; xx, 2; xxix, 46; xxxii, 1, 4, 7, 8, 11, 23; xxxiii, 1; Lv, xi, 45; xix, 36; xxii, 33; xxiii, 43; xxv, 38, 42, 55; xxvi, 13, 45; Nm, i, 1; ix, 1; xv, 41; xxvi, 4; xxxiii, 1, 38; Dt, i, 27; v, 6; vi, 12; viii, 14; xi, 10; xiii, 5, 10; xvi, 3, 3; xx, 1; xxix, 25; Js, xxiv, 17; Jdc, ii, 12; xix, 30; 1Sm, x, 18, xii, 6; 1Re, vi, 1; viii, 9, 16, 21; xii, 28; 2Re, xvii, 7, 36. (131) Ex, i, 1, 5; ii, 24; iii, 6, 15, 16; iv, 5; vi, 3, 8; xix, 3; xxxii, 13; xxxiii, 1; Lv,xxvi, 42; Nm, xxiii, 7, 10, 21, 23; xxiv, 5, 17, 19; xxxii, 11; Dt, i, 8; vi, 10; ix, 5, 27; xxix, 13; xxx, 20; xxxii, 9; xxxiii, 4, 10, 28; xxxiv, 4; Js, iv, 4; xxiv, 2, 3, 4, 32; 1Sm, xii, 8; 2Sm, xxiii, 1; 1Re, xvii, 31, 36; xiii, 23; xvii, 34. (132) Dt, iv, 40; vii, 9; viii, 2, 11; xiii, 4, 18; xxvi, 18; xxvii, 10; xxviii, 1, 15, 45; xxx, 8, 10, 16; 1Re, ii, 3; vi, 12; viii, 58, 61; ix, 4, 6; xi, 34, 38, 38; xiii, 9, 17; 2Re, xviii, 6: xxiiii, 3. (133) Per pî yhwh, cfr. Ex, xvii, 1; Lv, xxiv, 12; Nm, iii, 16; 39, 51; iv, 37; 41; 45; 49; ix, 18, 18; 20, 20, 23, 23, 23, x, 13; xiii, 3; xiv; 41; xxii, 18; xxiv, 13; xxxiii, 2, 38; xxxvi, 5; Dt; i, 26, 43; ix, 23; xxxiv, 55; Js, ix, 14; xv, 13; xvii, 4; xix, 50; xxi, 3; xxii, 9; 1Sm, xii, 14; xv, 24; 1Re, xiii, 21, 26; xvi, 34; xvii, 8; xvii 24; xix, 9; xxii, 5, 16; 2Re, i, 17; iii, 12; iv, 44; vii, 1; ix, 36; x, 17; xv, 12; xvii, 13, 16, 19, 34; xxiii, 16; xxiv, 3; per kidbar yhwh, cfr. Js, viii, 8, 27; 1Re, xii, 24; xiii, 26; xiv, 18; xv, 29; xvi, 12, 34; xviii, 5, 15, 16; xxii, 38; 2Re, iv, 44; vii, 16; ix, 26; x, 17; xiv, 25; xxiii, 16; xxiv, 2; per debar yhwh, cfr. Gn, xv, 1, 4; Ex, ix, 20, 21; Nm, xv, 31; Dt, v, 5; 1Sm, iii, 7; x, 15; xv, 10, 13, 23, 26; 2Sm, vii, 4; xii, 9; 1Re, ii, 27; vi, 11; xii, 24; xiii, 20; xvi, 1, 7; xvii, 2, 8; xviii, 31; xix, 9; xxi, 17, 28; xxii, 5, 19; 2Re, iii, 12; vii, 1; ix, 36; xv, 12; xx, 16; 19; per debar ‘êlōhîm, cfr. Jdc, iii, 20; 1Sm, ix, 27; 1Re, xii, 22. (134) Ex, xxxii, 9; xxxiii, 3, 5; xxxiv, 9.
346 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Deuteronomio (ix, 6, 13) ma subisce una variazione stilistico-lessicale (wayyaqšū ‘et ‘ārepām) in 2Re.(135) 3) Il Deuteronomio lascia indeterminato «il luogo che Yhwh sceglierà per il suo nome».(136) In SR(137) invece esso si identifica senza alcuna incertezza con «Gerusalemme, la città che mi sono scelto per il mio nome» =yerūšālim hā’îr ‘ăšer bāhartî lî lāśūm šemî šām. 4) Non poche locuzioni sono frequenti in SR e sono del tutto assenti nel Deuteronomio. Tali sono le locuzioni: «Yhwh, Dio d’Israele» =yhwh ‘ĕlōhê yiśrā’êl, derivata dall’Esodo e presente in Numeri, Giudici, 1Samuele, 1Re e 2Re; «Dio degli eserciti» = yhwh sebā’ōwt occorrente in SR;(138) «dèi delle montagne» = ‘ĕlōhê hārîm (1Re, xx, 23); «Dio delle montagne e non delle valli» = ‘ĕlōhê hārîm welō ‘ĕlōhê ‘ămāqîm (1Re, xx, 28); «che Dio mi faccia questo e peggio» = kōh ya’ăśeh ‘êlōhîm lekā wekōh yōwsîp;(139) «dare/consegnare nella tua mano»;(140) «come è vivo Yhwh» oppure «viva Yhwh» = hay yhwh;(141) «numerosi come la sabbia del mare» = ‘ăšer ‘al śepat hayyām lārōb (1Sm, xiii, 5; 1Re,iv, 20). Talvolta, entro gli stessi testi, Yhwh ed êlōhîm sono interfungibili, come nei sintagmi: «angelo di Yhwh» = mal’ak yhwh(142) e «angelo di Dio» = mal’ak ‘êlōhîm;(143) «casa di Dio» = bêt ‘êlōhîm(144) e «casa di Yhwh» = bêt yhwh;(145) «spirito di Yhwh» = rū’ah (135) Dt, ix, 6, 13; 2Re, xvii, 14. (136) Dt, xii, 5, 11, 14, 18, 21, 26; xiv, 23, 24, 25; xv, 20; xvi, 2, 6, 7, 11, 15, 16; xvii, 8, 10, 15; xviii, 6; xxxiii, 16; xxvi, 2; xxxi, 11; è particolare Js, ix, 27. (137) 1Re, xi, 32, 36; xiv, 21; 2Re, xxi, 7. (138) 1Sm, i, 3, 11; iv, 4; xv, 2; xvii, 45; 2Sm, v, 10; vi, 2, 18; vii, 8, 26, 27; 1Re, xviii, 15; xix, 10, 14; 2Re, iii, 14, xix, 31. (139) 1Sm, iii, 17; xiv, 44; xx, 13; 2Sm, iii, 35; xix, 13; 1Re, ii, 23; xx, 10; 2Re, vi, 31. (140) 1Re, xx, 13; xxii, 15; Nm, xxi, 34; Dt, ii, 24, 30; iii, 2; Js, vi, 2; viii, 1, 18; x, 8; Jdc, xx, 28. (141) Jdc, viii, 19; 1Sm, xiv, 45; xix, 6; xx, 3, 21; xxv, 26, 34; xxvi, 10, 16; xxviii, 10; xxix, 6; 2Sm, ii, 27; iv, 9; xii, 5; xiv, 11; xv, 21; xxii, 47; 1Re, i, 29; ii, 24; xvii, 2, 12; xviii, 10, 15; xxii, 14; 2Re, ii, 2, 4, 6; iv, 30, v, 16, 20. (142) Gn, 7, 9, 10, 11; 2Re, i, 15; xix, 35; xxi, 11, 15; iii, 2; xiv, 19; Nm, xxii, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 31, 32, 34, 35; Jdc, ii, 1, 4; v, 23; vi, 11, 12, 21, 22 (2); xiii, 3, 13, 15, 16 (2), 17, 18, 20, 21 (2); 1Re, xix, 7; 2Re, i, 15; xix, 35. (143) Gn, xxi, 17; xxxi, 11; Jdc, vi, 20; xiii, 6, 9; 2Sm, xiv, 20. (144) Gn, xxviii, 17, 22; Jdc, xvii, 5 (con significato plurale); xviii, 31. (145) 1Sm, i, 24; iii, 15; 1Re, iii, 1; vi, 37; vii, 12, 40, 45, 48, 51(2); viii, 10, 11, 63; ix, 1, 10, 15; x, 5; xiv, 26, 28; xv, 15, 18; 2Re, xi, 3, 4, 7, 13, 15, 18; xii, 4, 9, 11(2), 12, 13, 14, 16, 18; xv, 35; xvi, 8, 14, 18; xix, 1, 14; xx, 5, 8; xxi, 5; xxii, 3, 4, 5, 9; xxiii, 2, 12, 24; xxiv, 13; xxv, 9, 13.
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yhwh(146) o «spirito di Dio» = rū’ah ‘êlōhîm;(147) «arca di Dio» = ‘ărōn ‘êlōhîm o «arca di Yhwh» = ‘ărōn yhwh.(148)
Di grande rilievo sono le citazioni di Sadoc in SR,(149) assenti negli altri testi pentateucali. I sadociti esercitarono un ruolo politico di alto rango e gestirono il sommo sacerdozio dall’epoca di Davide ai Maccabei (167 a C.). Frank More Cross ha ipotizzato che Sadoc fosse un sacerdote gebuseo.(150) Secondo Ezra (vii, 2), invece, egli rappresenterebbe la dodicesima generazione sacerdotale a partire da Aronne [Sadoc, Achitub, Amaria, Azaria, Meraiot, Zerachia, Uzzi, Bukki, Abisua, Fineas, Eleazar, Aronne].(151) Ma il numero 12, che è notoriamente un numero simbolico, esclude la storicità della notizia. Di certo v’è che i due Samuele e i due Re sono il prodotto letterario di sacerdoti sadociti di stirpe aronnita, i quali, pur essendo di fatto anch’essi di origine levitica, perché tali erano Mosè ed Aronne, soppiantarono la vecchia classe sacerdotale dei leviti ed esercitarono la carica del sommo sacerdozio nel periodo del secondo tempio. Naturalmente essi crearono il mito di Sadoc, riconducendolo all’età davidica, al fine di legittimare le loro funzioni sacerdotali. La ricostruzione di questo passaggio è chiaramente delineato nel 1Samuele (ii, 35-36) sotto forma di profezia, pronunciata da Yhwh dopo la condanna del levita Eli e dei suoi figli Cofni e Pineas: «Poi susciterò per me un sacerdote fedele che si comporti secondo il mio cuore e secondo il mio spirito. Gli edificherò una casa stabile e agirà in presenza del mio mes(146) Jdc, iii, 10; vi, 34; xi, 29; xiii, 25; xiv, 6, 19; xv, 14. Per «spirito di Yhwh», cfr. 1Sm, x, 6; xvi, 13, 14; xviii, 10; xix, 9; 2Sm, xxiii, 2; 1Re, xviii, 12; xxii, 24; 2Re, ii, 16. (147) Gn, i, 2; xli, 38; Ex, xxxi, 3, xxxv, 31; Nm, xxiv, 2. Per «spirito di Dio», cfr. 1Sm, x, 10; xi, 6; xvi, 15, 16, 23; xviii, 10; xix, 20, 23. (148) Per «arca di Dio», cfr 1Sm, iii, 3; iv, 4, 12, 13, 19, 19, 21, 22; v, 1, 2, 7, 8, 8, 10, 10, 10, 11; vi, 3; 2Sm, vi, 2, 3, 4, 6, 7 (2), 12 (2); vii, 2; xv, 24, 25, 29. Per «arca di Yhwh», cfr. 1Sm, iv, 3, 6; vi, 1, 8, 11; vii, 1, 1; 2Sm, vi, 9, 10, 11, 13, 15, 16, 17. (149) 1Sm, ii, 35, 36; 2Sm, viii, 17; xv, 24, 26, 25, 27, 29, 35, 36; xvii, 15, 16; xviii, 19, 22, 27; xix, 11; xx, 25; 1Re, i, 8, 26, 32, 34, 38, 39, 44, 45; ii, 35; iv, 2; 2Re, xv, 33; cfr. anche 1Chr, ix, 11; xii, 29; xv, 11; xvi, 39; xviii, 16; xxiv, 3, 6, 31; xxvii, 17; xxix, 22; 2Chr, xxvii, 1; xxxi, 10; Ezr, vii, 2, 14; xl, 46; xliii, 19; xliv, 15; xlviii, 11. (150) F. M. Cross, Canaanite Myth and Hebrew Epic: Essays in the History of the Religion of Israel, Cambridge, Harvard University Press, 1997, p. 209; cfr. anche H. H. Rowley, Zadoc and Nehushtan, «Journal of Biblical Literature», lviii, 1939, pp. 461-472. (151) Il Cronista (1Chr, v, 29-34) omette nella discendenza di Aronne il nome di Azaria, figlio di Meraiot. Secondo Ezra, vii, 2, se ne ricorda a distanza di qualche versetto, ma lo dice figlio di Giovanni, sommo sacerdote al tempo di Salomone, e padre di Amaria.
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sia per sempre». È evidente che il testo si riferisce alla nuova dinastia dei sadociti. Ma mentre il 1Samuele rinvia ad un futuro indeterminato che sembra essere posteriore a Samuele e quindi a Davide, il 2Samuele dà la profezia per realizzata con la figura leggendaria di Sadoc, collocata in età davidica.(152) Il duplice sommo sacerdozio Sadoc-Ebiatar (Sadoc-Abimelech per 1Chr, xviii, 16), al momento del trasferimento dell’arca nel tempio di Gerusalemme, confermato dalla prosecuzione della carica con i rispettivi figli Achimaaz-Gionata, fa forse pensare ad un momentaneo equilibrio di poteri tra leviti e sadociti. Diversa è la versione del 1Re (i, 8), per il quale, in occasione della successione a Davide, Ebiatar si schierò per Adonia e Sadoc per Salomone; sicché la vittoria del partito salomonico segnò anche il tramonto definitivo della corrente levitica. Infatti fu Sadoc, coadiuvato dal profeta Natan, a incoronare Salomone (1Re, i, 32-45) e a soppiantare Ebiatar.(153) L’autore del primo libro dei Re ama ripetere gli eventi narrati, dapprima nella forma della previsione o preannuncio, poi nella forma della realizzazione. Per esempio: dapprima Davide chiede di chiamare il sacerdote Sadoc, il profeta Natan e Benaià, figlio di Yoiadà, e ad essi impartisce l’ordine: Prendete con voi i servitori del vostro signore: fate montare mio figlio Salomone sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon; là il sacerdote Sadoc e il profeta Natan lo ungano come re sopra Israele; suonate il corno e dite: ‘Viva il re Salomone’ (1Re, i, 33).
poi l’azione si ripete pressoché negli stessi termini in fase di realizzazione: Scesero il sacerdote Sadoc, il profeta Natan, Benaià, figlio di Yoiadà […] fecero salire Salomone sulla mula del re Davide e lo condussero a Ghicon. Il sacerdote Sadoc prese il corno dell’olio della tenda e unse Salomone, suonarono il corno e tutto il popolo disse: ‘Viva il re Salomone’ (1Re, i, 38-39).
Con la morte di Salomone il progetto della monarchia unitaria volse al fallimento. La frattura tra le due etnie fu inevitabile e definitiva: «Israele rimase ribelle contro la casa di Giuda fino ad oggi» (1Re, xii, 19). Sono singolari i due nomi yiśrā’êl con teoforico ‘êl e yehuda ( )יהדהcon il teoforico Yhwh. È significativo che yiśrā’êl ()ישראל, cioè Giacobbe, sia il padre di Giuda, come (152) 2Sm, viii, 17; xv, 24-36; xx, 25. (153) 1Re, ii, 35; 1Chr, xxiii, 32; xxix, 22.
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se si sottintendesse che il popolo di Giuda era una filiazione del popolo di Israele. Il mito di Israele che genera Giuda presuppone il crollo di Samaria. Dopo la distruzione di Samaria (721) tutti gli israeliti che si sottrassero all’eccidio perpetrato dagli assiri ripopolarono il regno di Giuda e ne determinarono la trasformazione da minuscolo e insignificante regno in uno stato territoriale di una certa rilevanza; ma non riuscirono a conquistarlo sotto il profilo culturale e religioso; anzi accadde l’opposto, fu la religione giudaita (yhawismo) che prevalse su quella israelita (culto di El o di Baal). Il capitolo 1Re, viii, 14-61, non è dello stesso autore per le seguenti ragioni: 1) è di un più alto livello letterario; 2) presenta una maggiore profondità di pensiero dal punto di vista teologico; 3) il suo impianto teologico risente dell’influenza ellenistica; 4) esibisce una forma di universalismo che non era mai affiorata nei precedenti testi biblici; 5) imita il Deuteronomista o è frutto della sua stessa mano. Queste sono le conclusioni che possiamo trarre in ordine alla composizione e alla datazione dei testi afferenti alla storia primaria. Sono tutti scritti anonimi, apografi e pseudepigrafi. Le tradizionali attribuzioni a personalità come Mosè, Giosuè e così via sono tutte false e prive di consistenza. Tutto l’AT è fondamentalmente un testo giudaita in quanto riflette gli interessi, l’impostazione teologica, l’intuizione mitica della storia secondo l’ottica del regno di Giuda e del culto yhawista. Non solo gli autori responsabili di ciascuna stratificazione, ma anche il redattore finale dei testi furono sicuramente di matrice giudaita e di fede yhawista e portarono a compimento il loro progetto di inglobare nel tessuto narrativo taluni documenti che erano di origine settentrionale. I loro obiettivi, di natura propagandistici, non erano convergenti, ma si coagularono in qualche modo nel tessuto narrativo della storia primaria. Il primo progetto, rappresentato dalla trilogia (Genesi-Esodo-Numeri), fu pensato in funzione della costruzione di una identità nazionale. Il secondo progetto (Giosuè-Giudici) fu finalizzato alla mitizzazione della conquista militare del Canaan e, pertanto, alla rivendicazione dei territori sottratti alla Giudea e a Samaria da parte dei grandi imperi. Il terzo progetto (1/2Samuele e 1Re, i-xi) fondò il mito della monarchia unitaria. Infine con i due libri dei Re il quarto progetto aprì uno squarcio sul percorso storico delle fragili realtà statuali di Israele e di Giuda. Ciascuna delle fasi progettuali presuppose, come lasciano intuire le discrepanze stilistico-lessicali, una pluralità di interventi.
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12.10. Il mito della fonte D e della storia deuteronomista Ho deliberatamente lasciato da parte il Deuteronomio perché esso svolge un ruolo determinante sia nella ipotesi documentale sia in quella di una scuola, e quindi di una storia, deuteronomista. Il testo è probabilmente ascrivibile alla classe dei leviti non-aronniti. Per l’ipotesi documentale il Deuteronomio è una delle quattro fonti che si intrecciano nella narrazione del Pentateuco. Ma a tal proposito vanno ripetute le stesse argomentazioni che si sono usate a proposito delle presunte fonti P. Non c’è nei libri storici una componente D (deuteronomista) che si aggiunge alle altre tre fonti J, E e P. Questo modo di concepire la composizione dei testi conduce ad una loro assurda frammentazione. In realtà ciascun testo storico ha una propria identità e una propria unità. Le contraddizioni interne e le affinità e divergenze stilistico-lessicali dipendono dal fatto che sono testi pluristratificati. Nella lotta per il potere le fazioni sacerdotali si sono combattute attraverso una campagna propagandistica nel corso della quale ciascuna di esse tirava la storia primaria al proprio mulino. Le fazioni più potenti erano quelle degli aronniti e dei sadociti, fortemente contestate dai leviti non aronniti, che fecero del Deuteronomio la loro bandiera. Ciò che è rilevante è che via via che si costruisce, dalla Genesi all’Esodo, ai Numeri fino ai due Re, la storia primaria diventa un patrimonio comune. Non a caso abbiamo diverse suggestioni linguistico-lessicali ma anche concettuali che passano da un testo all’altro. Una certa compattezza, come abbiamo rilevato negli appositi capitoli, è riscontrabile tra i documenti aronniti (Esodo, Numeri, Levitico), così come accade anche per i documenti sadociti (i due Samuele e i due Re). Il vero elemento di rottura è rappresentato dal Deuteronomio che entrò nella scena politica nella seconda metà del quinto secolo; dopo la supremazia degli aronniti e dei sadociti, esso contribuì a decretarne la decadenza e si saldò con la fazione degli ezriani, fautori di una severa riforma etico-religiosa. Furono gli ezriani che diedero la veste definitiva al Pentateuco e alla storia primaria. Essi ne ristrutturarono i testi o introducendovi blocchi narrativi ispirati al Deuteronomio o allestendo la loro ultima stratificazione d’impronta deuteronomista. Solo in una siffatta ipotesi possiamo spiegarci sia le convergenze che le divergenze lessicali e concettuali che caratterizzano i testi della storia primaria. Ciò significa che non ci fu nessuna storia deuteronomista, ma solo una rielaborazione deuteronomista, più o meno accentuata e con aggiunte e manipolazioni ad hoc, dei
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libri storici. Quanto più prossima all’età ellenistica fu la composizione del Deuteronomio, più profonda fu la sua incidenza sul rinnovamento del culto yhawista (con una più coerente concezione del monoteismo). Per converso, quanto più attrasse le simpatie degli ezriani, tanto più subì i pesanti rifacimenti e aggiustamenti che ne determinarono il ripiegamento su posizioni filo-monarchiche e di accentuato rigorismo etico. Tutto ciò fa sì che la linea ideologica del Deuteronomio non sia né chiara, né coerente ed organica. I temi in esso sviluppati sono i seguenti: α) l’unicità di Dio e il tendenziale monoteismo; β) il rapporto di reciproca proprietà o elezione tra Yhwh e il popolo, sulla base di un patto; γ) il rapporto di reciproca fedeltà al patto con la condanna di ogni forma di idolatrismo e di iconismo; δ) il rapporto di reciproco amore tra Yhwh e Israele; ε) il passaggio dalla circoncisione fisica alla circoncisione del cuore; ζ) l’identificazione di Yhwh come il Dio che ha portato Israele fuori dall’Egitto e gli ha assegnato il Canaan come terra da conquistare secondo la prassi dell’hêrem; η) l’unicità del tempio da edificare nel luogo scelto da Yhwh. In merito al primo punto nel Deuteronomio ci sono tracce di monoteismo, ma anche di enoteismo. Le pericopi iv, 35, 39, sono chiaramente di matrice monoteistica. Esse recitano: «Yhwh è Dio: non ve n’è altri oltre lui» = yhwh hū hā’ĕlōhîm ‘ên ōwd;(154) «Non c’ alcun Dio oltre me» = we’ên ‘ĕlōhîm ‘immādî ‘ănî); Dt, xxxii, 40: «Io vivo per sempre» = hay ‘ānōkî le’ōlām diventa «Com’è vero che Yhwh vive» oppure «viva Yhwh» o «per la vita di Yhwh» in Giosuè, Giudici, nei due Samuele e nei due Re.(155) La pericope vi, 4: «Yhwh è uno»= yhwh ‘ehād, non è interpretabile univocamente; può significare più l’unicità di Yhwh che l’unicità di Dio. Altri passi però militano chiaramente in direzione dell’enoteismo. Tale è il caso dello stesso primo comandamento, ove il concetto di Dio geloso presuppone l’esistenza di altri dèi (Dt, v, 15). A titolo d’esempio cito i seguenti passi: «Qual è il dio del cielo e della terra che eguagli le tue opere e la tua potenza?» (Dt, iii, 24) (presuppone l’esistenza di altri dèi del cielo e della terra); «Yhwh, tuo Dio, è un fuoco che divora, un Dio geloso». In quanto Dio di Israele o di Gerusalemme, Yhwh è un Dio nazionale o poliade, poiché ammette altre divini(154) Cfr. anche Dt, xxxii, 39. (155) Cfr. Js, iii, 10; Jdc,viii, 19; 1Sm, xiv, 39, 45; xix, 6; xx, 3; xxv, 26; xxvi, 10, 16; xxviii, 10; xxix, 6; 2Sm, ii, 27; iv, 9; xii, 5; xiv, 11; xv, 21; xxii, 47; 1Re, i, 29; ii, 24; xvii, 1; xviii, 10; xxii, 14; 2Re, ii, 2, 4; ii, 6; iii, 14; iv, 30; v, 16, 20.
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tà nazionali e poliadi proprie degli altri popoli.(156) Il rapporto di reciproca appartenenza tra Dio e il popolo è segnalato infinite volte con il martellante uso del possessivo (tuo/nostro/vostro) che accompagna il nome di Yhwh. È pur vero che gli «altri dèi» sono falsi o sono non-divinità («Hanno provocato la mia gelosia per mezzo di ciò che non è Dio», Dt, xxxii, 21), ma sono comunque idoli nazionali, come lo è lo stesso Yhwh. Yhwh è un Dio antropomorfizzato, perché antropico è il modello a cui si ispira. Il Dio della storia primaria è concepito a somiglianza del principe terreno; ne è anzi l’ipostatizzazione. La formula «Dio degli dèi e signore dei signori» = ‘ĕlōhe hā’ĕlōhîm, wa’ădōnê ha’ădōnîm (Dt, x, 17) ricorda il titolo assiro-babilonese, medo e persiano di «re dei re». La terra e il popolo sono proprietà di Dio come lo sono del signore terreno; Yhwh giudica, legifera, condanna, assolve, è fedele ai patti, è in prima fila nella battaglia; come un principe medio-orientale esige lo sterminio dei suoi nemici, fa vivere e fa morire; nessuno può scampare alla sua mano. I punti β), γ) e ζ) non costituiscono una novità, perché sono presenti anche in Esodo e in Numeri. Sono invece di grande interesse i punti δ) e ε) sul tema dell’amore tra Dio e popolo e sulla circoncisione del cuore che sostituisce quella fisica. L’amore è fortemente intrecciato con il timore o con il terrore. Yhwh è un terrore per i nemici d’Israele, ma lo è anche per Israele, quando tradisce le clausole del patto. Anzi il terrore è il segno della sua potenza; non c’è Dio vicino-orientale che non sia temibile e terrorizzante. I suoi prodigi, le sue opere, le sue distruzioni sono gli strumenti attraverso cui si fa conoscere come divinità. Yhwh apre le acque del Mar Rosso per far passare Israele, ma consegna allo sterminio i suoi nemici; Sicon e Og sono falcidiati, eliminati dalla faccia della terra. È così che Dio si mostra con la sua potenza e con la sua grandezza, come un sovrano assiro o babilonese, un grande conquistatore che lascia dietro di sé morte e disperazione. Attraverso la sua legislazione si mostra come sapienza e come intelligenza del popolo d’Israele, proprio come accade per i popoli orientali. La sapienza e l’intelligenza di Dio sono la sapienza e l’intelligenza del popolo (Dt, iv, 5-8). L’amore di Dio è tutto sul versante dell’amore: Dio ama (‘āhab) Israele. Di contro l’amore di Israele verso Dio ha un condizionamento nel timore/terrore: Israele ama («Tu amerai yhwh, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta la tua ani(156) Cfr. Dt, xii, 29-31; xiii, 3, 7, 14; xvii, 3; xviii, 20; xxviii, 36, 64; xxix, 17, 25; xxxi, 18.
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ma» = we’āhabtā ‘êt yhwh ‘ĕlōhekā bekāl lebābekā ūbekāl napšekā)(157) e teme Dio (yhwh ĕlōhekā tîrā),(158) perché «Dio è grande e temibile» = ‘êl gādōwl wenōwrā; «grande, forte e terribile» = hā’êl haggādōl hagibbōr wehannōwrā (Dt, vii, 21; x, 17). Queste problematiche nuove, aggiunte alla rivendicazione della responsabilità personale in opposizione a quella collettiva e al tema del ritorno dei deportati nella propria terra (Dt, xxiv, 16; v, 9; xxx, 3-4), dimostrano che il Deuteronomio non è stato compilato in epoca né monarchica, né premonarchica, ma è stato elaborato dopo la ricostruzione del tempio, allorché le classi sacerdotali tentarono di mettere su uno Stato teocratico o al limite una monarchia subordinata al potere sacerdotale. Il punto η) ci dice che l’autore contesta il primato di Gerusalemme, facendo intendere che il secondo tempio non rappresenta «il luogo scelto da Yhwh per il suo nome e per la sua casa» = bammāqōwm ‘ăšer yibhar yhwh ‘ĕlōhêkā lāšūm šemōw.(159) Il suo è un tempo di grande confusione istituzionale («non farete come facciamo qui oggi; ciascuno come pare giusto ai suoi occhi» = ‘iš kāl hayyāšār be’ênāw).(160) La celebrazione liturgica a Sichem, la dislocazione delle maledizioni e delle benedizioni tra Ebal e Garizim (Dt, capitolo xxvii), il distacco con cui si parla del regno di Giuda nella benedizione mosaica (Dt, xxxiii, 7) sono tutti elementi che fanno del Deuteronomio un documento settentrionale. Tuttavia la sua stessa presenza nel Pentateuco dimostra che esso fu piegato alle istanze del popolo giudaita, come si evince dal fatto che il 2Re (capitoli xxii-xxiii) lo cita come Libro della Legge, scoperto al tempo di Giosia.(161) 12.11. Scuola deuteronomista: un’ipotesi vacillante L’idea di una storia deuteronomista cade nel momento in cui ci rendiamo conto che le divergenze, talvolta anche assai significative, tra i testi storici non presuppongono un medesimo quadro ideologico. A titolo di esempio (157) Dt, iv, 29; vi, 5; x, 12; xi, 13; xxvi, 16; xxx, 2, 6, 10. (158) Dt, vi, 5, 13; cfr. anche iv, 10; v, 29; vi, 24; x, 12, 20; xiii, 5; xiv, 23; xvii, 19; xxxi, 13. (159) Dt, xii, 18, 21, 26; xiv, 24, 25; xv, 20; xvi, 2, 6, 7, 11, 15, 16; xvii, 8, 10; xviii, 6; xxvi, 2; xxxi, 11; Cfr. 1Re, ix, 3; xi, 36; xiv, 21. (160) Dt, xii, 8. (161) W. M. L. De Wette, A Critical and Historical Introduction to the Canonical Scriptures of the Old Testament, Boston, Little and Brown, 1850, pp. 131-144.
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rileviamo che il libro di Giosuè, pur accogliendo il principio della centralità del tempio (Js, ix, 27; xxii, 10-34), sembra schierarsi per la legittimità della sussistenza di templi alternativi a quello di Gerusalemme (Js, viii, 30-35). Per di più l’autore resta fedele alla tradizionale prassi della circoncisione fisica (Js, v, 1-9) e, con l’episodio di Acan (capitolo vii), sembra richiamarsi al principio della responsabilità collettiva. Il Libro dei Giudici non ha simpatie per le classi sacerdotali, siano esse levitiche o aronnite. Non ne fa infatti il minimo cenno. Ci descrive tuttavia il disordine istituzionale che caratterizzò il periodo tra l’esodo e la monarchia unitaria, ma forse lo fa con l’intento di stabilire un’analogia con la confusione istituzionale e con la crisi politico-sociale del periodo post-esilico della diaspora, allorché, non essendoci un potere sovrano, ognuno poteva fare quel che gli pareva (Jdc, xvii, 6; xviii, 1; xix, 1; xxi, 25). La decadenza del culto yhawista era giunta a tal punto che un’intera generazione di israeliti non aveva più conoscenza né di Yhwh né delle sue opere (Jdc, ii, 10). Pertanto l’unica via d’uscita era – a suo avviso – il ritorno alla monarchia e alla più scrupolosa osservanza della legge. Si potrebbe considerare il voto di sterminio e lo schema ciclico trasgressione/punizione/misericordia/perdono come il filo conduttore che attraversa tutta la storia israelitica, ma né l’uno né l’altro ha una connotazione prettamente deuteronomista, in primo luogo perché ne troviamo traccia già in Numeri a proposito della vittoria su Sicon e Og che non lasciò in vita nessun superstite, e in secondo luogo perché lo sterminio era una prassi largamente diffusa tra le società vicino-orientali e presso gli egizi, come si evince dalla stele di Merenptah. Il voto di sterminio, che è in appendice al codice legislativo del Levitico, è menzionato ben cinque volte nel Deuteronomio, ma il libro che lo teorizza come prassi consolidata è quello di Giosuè che vi allude ben quattordici volte.(162) I due Samuele e i due Re non sono perfettamente allineati con l’ideologia del Deuteronomista soprattutto su temi come la responsabilità personale, il fondamentale orientamento giudaita vs quello settentrionale-israelita, lo slittamento della centralità del potere da Israele a Giuda, le oscillazioni tra il monolatrismo intransigente e l’enoteismo ingenuo, la sopravvivenza di miti e di culti di origine pre-yhawista (come il culto delle alture, delle pietre, il dio della pioggia: «Yhwh manderà […] tuoni e pioggia», 1Sm, xii, 17). È (162) Cfr. Lv, xxvii, 28, 29; Nm, xxi, 2, 3; Dt, ii, 34; iii, 6; vii, 2; xiii, 15; xx, 17; Js, ii, 19; vi, 18, 21; viii, 26; x, 1, 28, 35, 37, 39, 40; xi, 11, 12, 20, 21; Jdc, i, 17; xxi, 11; 1Sm, xv, 3, 8, 9, 18, 20; 1Re, ix, 21; 2Re, xix, 11.
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utile soffermarci sul tema della teologia del Dio combattivo e sterminatore. Ve ne sono tracce nel Deuteronomio, ma non così esplicite come nei due Samuele. La suggestione viene dall’Esodo (xxi, 14), ove si fa cenno al libro delle guerre di Yhwh: sêper milhămōwt yhwh. Anche il 1Samuele parla di «guerre di Yhwh» milhămōwt yhwh (1Sm, xviii, 17; xxv, 28), ma il sintagma più importante è «Yhwh degli eserciti», yhwh sebā’ōwt o «Dio degli eserciti» ĕlōhê sebā’ōwt, che, oltre ad essere presente nei due Samuele e nei due Re, è particolarmente frequente nei salmi, nel Proto-Isaia e in parte anche nel Deutero-Isaia, in Geremia e nei profeti minori, ovvero in testi che sono databili tra il quinto e il terzo secolo.(163) Si può certamente supporre che la storia primaria abbia avuto alle spalle un complesso di leggende e di miti trasmessi per tradizione orale, ma nulla che autorizzi a pensare che siano state utilizzate fonti scritte, né di tipo letterario, né di tipo archivistico. I libri di Samuele e dei Re ci hanno abituati a pensare all’esistenza di fonti d’archivio come il Libro delle guerre di Yhwh, il Libro degli Affari di Salomone, gli Atti o le Cronache dei re di Israele e di Giuda,(164) ma in nessun caso siamo di fronte ad atti formali o amministrativi. Per le seguenti ragioni: 1) perché in quei libri ci sono troppe incongruenze e contraddizioni perché si possa pensare ad una trasmissione di matrice archivistica; 2) perché è difficile pensare che i due regni del Sud e del Nord dispo(163) La formula «Dio degli eserciti», arbitrariamente resa nelle lingue moderne con «il Signore del mondo» ricorre in 1Sm, i, 3, 11; iv, 4; xv, 2; xvii, 45; 2Sm, v, 10; vi, 2, 18; vii, 8, 26, 27; 1Re, xviii, 15; xix, 10, 14; 2Re, iii, 14; Salmi xxiv, 10; xlvi, 7, 11; xlviii, 8; lix, 5; lxix, 6; lxxx, 4, 7, 14, 19; lxxxiv, 1; 3, 8, 12; lxxxix, 8; Is, i, 9, 24; ii, 12; iii, 1, 15; v, 7, 9, 16, 24; vi, 3, 5; viii, 13, 18; ix, 7, 13, 19; x, 16, 23, 24, 26, 33; xiii, 4, 13; xiv, 22, 23, 24, 27; xvii, 3; xviii, 7 (2); xix, 4, 12, 16, 17, 18, 20, 25; xxi, 10; xxii, 5, 12, 14, 15, 25; xxiii, 9; xxiv, 23; xxv; 6; xxviii, 5; 22, 29; xxix, 6; xxxi, 4, 5; xxxvii, 16, 32; xxxix, 5; xliv, 6; xlv, 13; xlvii, 4; xlviii, 2; li, 15; liv, 5; Jr, ii, 19; v, 14; vi, 6, 9; vii, 3, 21; viii, 3; ix, 7, 15, 17; x, 16; xi, 17, 20, 22; xv, 16; xvi, 9; xix, 3, 11, 15; xx, 12; xxiii, 15, 16, 36; xxv, 8, 27, 28, 29, 32; xxvi, 18; xxvii, 4, 18, 19, 21; xxviii, 2, 14; xxix, 4, 8, 17, 21, 25; xxx, 8; xxxi, 23, 35; xxxii, 14, 15, 18; xxxiii, 1, 12; xxxv, 13, 17, 18, 19; xxxviii, 17; xxxix, 16; xlii, 5, 18; xliii, 10; xliv, 2, 7, 11, 25; xlvi, 10 (2), 18, 25; xlviii, 1, 15; xlix, 5, 7, 26, 35; l, 18, 25, 31, 33, 34; li, 5, 14, 19, 33, 57, 58; Os., xii, 5; Am, iv, 13; v, 14, 15, 16, 27; vi, 8. Lo stesso sintagma presenta una occorrenza in Michea, 2 in Nahum, una in Habacuc, 2 in Sofonia, 14 in Aggeo, 52 in Zaccaria e 24 in Malachia. (164) J. A. Dearman - M. P. Graham, The Land that I will Show You, Essays on the History and Archaeology of the Ancient Near East in Honor of J. Maxwell Miller, Sheffield, Academic Press, 2001, citati da E. A. Knauf, Solomon at Megiddo?, ivi, pp. 119-134, osservano che le evidenze testuali su Solomone ci inducono a ritenere che non ci fossero annali. La prova è che nessun passo di 1Re può essere interpretato come excerpt dagli annali.
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nessero di una organizzazione amministrativa in grado di gestire un archivio di Stato, dal momento che non disponevano, almeno fino al vii secolo, neppure dell’uso di una scrittura; 3) perché la cronologia sincronica tra due regni non era originaria né d’Israele né di Giuda, ma era pomposamente immaginata a somiglianza di quella dei due imperi, assiro e babilonese, che per primi l’avevano adottata; 4) perché, anche ammesso che Israele e Giuda disponessero di archivi, la devastazione dei due Stati da parte degli assiri e dei babilonesi portò certamente alla distruzione di tutto l’eventuale patrimonio archivistico; 5) perché della capacità di inventare fonti archivistiche ad hoc ci dà prova il Cronista. L’unico nucleo pre-esilico che sembra avere radici in un’antica tradizione è forse il ciclo dell’età patriarcale (Gn, capitoli xii-xxxvi). Prodotto nell’area settentrionale, esso ebbe il precipuo scopo di dare al regno del Nord una specifica identità in una cornice pseudo-storica. È verosimile che il mito sia nato al tempo degli omridi, ma ebbe una circolazione sostanzialmente orale fino a che, dopo la devastazione di Samaria, non incontrò il favore del regno di Giuda che lo fece proprio e lo reinterpretò nel tentativo di darsi una propria identità. Gli interventi della mano yhawista, infatti, sono chiaramente riconoscibili nella trasformazione di Êl ed ĕlōhîm in nomi generici della divinità e nella sovrapposizione ad essi del nome proprio di Yhwh. Successivamente, dopo la fase esilica, furono aggiunti al testo della Genesi i primi undici capitoli contenenti il ciclo della creazione, tratto per lo più dalla letteratura neo-babilonese. Infine nel quinto secolo il libro si arricchì, inglobando il ciclo di Giuseppe con gli spunti filo-giudaiti. La Genesi è già di per sé la testimonianza di una profonda fusione delle due etnie, israelitica e giudaita, ovvero della nascita di un nuovo gruppo etnico che riconosce in gran parte la propria storia nei miti del Nord e la propria fede religiosa nel culto di Yhwh. Si trattò di una fusione mai del tutto realizzata; perché i vecchi rancori tra i due regni continuarono a serpeggiare nel profondo. Intorno alla fine del quinto secolo fece la sua comparsa il Levitico, contenente un vero e proprio programma di rivitalizzazione del culto nei suoi aspetti liturgici e celebrativi. Numeri e Giosuè, in concomitanza del rientro dei deportati nella Giudea, costituirono invece una sorta di manifesto di rivendicazione dei territori perduti. In altri termini tra il 450 e il 350 gli aronniti e i sadociti approntarono i più significativi testi della storia primaria; i primi diedero alla luce l’Esodo, i Numeri e il Levitico; i secondi i due Samuele e i due Re. Gran parte dei profeti e l’autore del libro dei Giudici si schieraro-
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no per la rinascita della monarchia. Allo scontro ideologico non si sottrasse la corporazione dei leviti non-aronniti che tentò di ridare voce alla componente israelita ormai sopraffatta da quella meridionale, con l’emblematico testo del Deuteronomio (fine quinto secolo), ovvero con la pretesa di una riscrittura, sia pure parziale della storia primaria. Le datazioni qui suggerite sono puramente indicative, anche perché, come si è detto, i testi citati sono compositi e multistratificati. Ciò significa che la loro elaborazione fu in divenire per oltre un secolo nel corso del quale essi furono riadattati da questa o da quell’altra fazione politico-sacerdotale alle istanze del presente. In taluni casi la manipolazione è evidente, perché ci troviamo di fronte a veri e propri blocchi narrativi che si rivelano come corpi estranei alla tessitura originaria. In altri casi le contraddizioni interne, le sfumature concettuali e persino lessicali ci inducono a pensare ad una loro elaborazione per stratificazioni successive. In tutti i casi, tuttavia, si intuisce che c’è la mano di un redattore finale, che ha tentato di dare a ciascun testo una unità, se non progettuale, retrospettiva. Non sappiamo, né siamo in grado di dire, se si trattò di un unico redattore per tutti i testi veterotestamentari o almeno per quelli storici. Si è a lungo ritenuto che egli fosse da identificare con Ezra-Neemia, un sadocita esponente della corporazione scribale, che operò a metà del quinto secolo, ma poiché siamo di fronte a testi di epoca più bassa, è forse più opportuno pensare ad uno sconosciuto ezriano, più tardo di almeno un secolo, il quale, legato alle antiche tradizioni, avvertì la progressiva decadenza del culto yhawista in età alessandrina e si fece promotore di una riforma austera e rigorosa sotto il profilo etico-religioso. Da Ezra agli ezriani la riforma si caratterizzò per l’idea ossessiva del peccato e della violazione del sacro. Il nucleo fondamentale della loro teologia era fondato sull’accentuato dualismo di puro e impuro, di sacro e profano, proprio come è delineato nei testi del Levitico e di Ezechiele, che recita: «Insegneranno al mio popolo [la differenza] tra il sacro e il profano e gli faranno distinguere il puro e l’impuro (we’et ‘ammî yōwrū bên qōdeš lehōl ūbên tāmê letāhōwr yōwdi’um = ואת עמי יורו בין קדש לחל ובין טמא לטהור יודעם.(165) L’impuro è nella natura terrena; l’altro polo del sacro è nella sua natura celeste. Alla sacralità della vita, che è nella competenza e nella prerogativa di Dio, signore dell’albero della vita, corrispondono nella natura il sangue e la sessualità, che sono in qualche modo un depotenziamento del sacro; il contatto con l’impuro è un depotenziamento della natura umana. La sfera dell’im(165) Ez, xliv, 23, cfr. anche Lv, x, 10.
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puro si estende anche a tutto ciò che si lega alla sessualità e al sangue e perciò comprende il mestruo, il parto, la morte e una schiera infinita di animali. Chiunque sconfinava nella sfera del sacro era destinato alla morte.(166) Nella società ezriana lo stesso rapporto tra l’ebreo e il pagano è posto nei termini della contrapposizione tra la purezza ebraica e l’impurità pagana. Se l’autore di Ezechiele apre al mondo dei gentili ed ammette nella comunità giudaica i pagani integrati,(167) Ezra, al contrario, si pone nell’ottica più rigorista ed impone agli ebrei che si erano uniti in matrimonio con donne straniere di ripudiare non solo le mogli, ma anche i figli. Alla sacralità e alla impurità sono ascrivibili la fortezza e la debolezza dell’uomo. I sacrifici si spiegano pertanto come distruzione dell’impuro e, in quanto tali, come approssimazione alla sacertà del divino. Essendo Yhwh Dio della vita, la sessualità e il sangue, che sono connessi alla vita, rientrano nelle prerogative della divinità e cadono entro i confini della sacertà. La loro violazione è peccato agli occhi di Dio ed è punibile con la morte. Una società poco avvezza alla riflessione filosofica, fortemente influenzata dal misticismo religioso, con tratti di ascetismo che qua e là riaffiorano nella teologia della separazione, che avrà il suo momento culminante nella ideologia essenica, nella certezza della propria superiorità derivante dalla tutela divina e dal possesso della verità, si chiude in una sorta di splendido isolamento. L’isolamento di Israele è pensato a specchio dell’unicità di Dio (un solo Israele ed un solo Dio); accompagnato dall’autotutela della razza attraverso il divieto dei matrimoni misti, esso diventa un tratto distintivo dell’etnia. Il mito di un remoto passato extra-cananaico, quello della terra promessa sono tutti elementi che sono funzionali all’autoisolamento di Israele e alla costruzione di una cultura identitaria. I temi che catturano la coscienza sono quelli del male e della giustizia, soprattutto in connessione con le sventure collettive e personali derivanti dalla traumatica esperienza della diaspora e dell’esilio. Una parte della produzione dei Neviim e dei Ketuvim è frutto di questo clima gravoso, che sembra accreditare per certi versi l’antica convinzione che il male e la colpa sono fondamentalmente un fatto collettivo e non personale. È in quest’ottica che si giustifica la punizione divina che colpisce nei figli la responsabilità dei padri. Geremia è per una rigenerazione radicale. Se la radice del male è nella natura umana, non è possibile la prospettiva della salvezza che viene da Dio. E tuttavia Dio è nello stesso tempo l’onnipotente che non può (166) Cfr. Jdc, xiii, 22; 1Sm, vi; 2Sm, vi; Is, vi, 5. (167) Ez, xliv, 9; xlvii, 21-23.
I.12 Il crollo dell’ipotesi documentale: epoca della composizione e della redazione del Pentateuco
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lasciare che il male abbia il sopravvento. L’umanità attuale è destinata alla definitiva rovina. Se la rigenerazione deve venire da Dio deve essere la rigenerazione di una nuova umanità che metta fine all’ordine esistente: Aspetterete la luce, ed egli l’avrà cangiata in ombra di morte […] mirate voi che venite dal settentrione, dov’è il gregge che vi è stato affidato? [….] Che dirai quando Dio ti visiterà? […] Non ti prenderanno forse dei dolori come quelli di una partoriente? […] Se è possibile che l’Etiope muti la sua pelle […] potrete far del bene voi avvezzi al male? (Jr, xiii, 15-27).
Abbiamo segnalato la presenza in taluni libri veterotestamentari di problematiche e concezioni di origine settentrionale. Ma non ci si può spingere molto oltre su questa strada, perché ad un’attenta analisi non può sfuggire che tutto il Tanakh ( )תנךè un prodotto del giudaismo. Tali sono tutti i libri del Pentateuco o Tōrāh ( )תורהe dei ketuvim ()כתובים. E tali sono anche i Neviim ()נביאים. Tutta la mitologia del Nord è letta ed interpretata alla luce della fede religiosa del sud. Di tale fede sono portatori i profeti, indipendentemente dal fatto che siano personaggi storici o fittizi. Geremia e Baruc, nella finzione pseudepigrafa, sono attivi nel sud. Osea, profeta del Nord, spera nella salvezza del Sud; Amos, profeta del Nord, condanna Israele, per aver tradito il patto, preannuncia la distruzione di Samaria («Ecco gli occhi del Signore Yhwh sono sul regno peccatore, che io cancellerò dalla faccia della terra; tuttavia non eliminerò totalmente la casa di Giacobbe», Am, ix, 8) e spera che la salvezza venga dalla ricostruzione del regno di Davide («in qual giorno rimetterò in piedi la capanna di Davide, che era caduta, riparerò le sue brecce, e ricostruirò i suoi ruderi: la farò tornare come era nel passato», Am, ix, 11). Nessun testo è accolto nel Tanakh se non è compatibile con lo yhawismo giudaita. Tutto induce a pensare che le stratificazioni subite dai testi storici furono almeno tre: quella originaria, probabilmente d’ispirazione settentrionale; quella di sovrapposizione yhawista e infine quella definitiva redazionale di matrice ezriana. Non è improbabile che la seconda si sia ulteriormente articolata in altre stratificazioni frutto di diverse fazioni sacerdotali o di fazioni aristocratico-scribali filo-monarchiche. Va da sé che questo processo riguardò anche la composizione del Deuteronomio. Solo se pensiamo ad una elaborazione a più mani e condotta da diverse angolature di pensiero è possibile spiegare le divergenze e le affinità stilistico-lessicali e ideologico-con-
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cettuali che si sono evidenziate. Troppe e troppo numerose sono le ambiguità dei testi storici, troppi i contrasti tra le posizioni dei loro autori in merito ai rapporti tra Giuda e Israele per poter parlare di un disegno lineare e coerente della storia ebraica. Quei testi e quelle narrazioni non sembrano essere il prodotto di una scuola, tanto meno di una scuola deuteronomista. L’idea che essi perseguono un progetto unitario è più una nostra sovrapposizione interpretativa, un presupposto dell’ermeneuta, che un obiettivo perseguito dagli autori. Anzi nel complesso si ha l’impressione di trovarci di fronte ad un racconto di racconti, ad una compilazione per blocchi narrativi che nella complessa opera di scrittura e di riscrittura si amalgamano in un tessuto narratologico unitario. In un certo senso sono scritti collettivi, se non nel senso di essere la produzione corale di un popolo, almeno nel senso di essere l’espressione più profonda dell’anima di una collettività che in essi riconosce sé stessa. Possiamo immaginare la loro elaborazione come quella di un ferro incandescente che subisce varie trasformazioni e metamorfosi prima di assume la sua forma definitiva. Ciascun testo, storico o profetico che sia, è un intreccio di miti e di tradizioni popolari. La Genesi è un assemblaggio di leggende (creazione, ciclo patriarcale, romanzo di Giuseppe); l’Esodo contiene il mito di una liberazione dalla oppressione egiziana, quello della rivelazione della Torah e del patto con la divinità; il libro dei Numeri contiene una frastornante pletora di censimenti di una popolazione cresciuta come le stelle del cielo e il mito di una quarantennale peregrinazione nel deserto la quale non ha lasciato tracce archeologiche. Il Levitico è un testo eccentrico rispetto alla narrazione storica del Pentateuco ed è esclusivamente dedicato alla normazione della vita sacerdotale e religiosa. Il Deuteronomio è una riscrittura della Legge secondo un’ottica prevalentemente settentrionale. Giosuè narra l’ipertrofica epopea di una conquista militare del Canaan che non c’è mai stata. Il libro dei Giudici riempie un vuoto di oltre quattrocento anni tra la conquista e la monarchia, riscrive a suo modo episodi di eroismo negli scontri militari con i popoli autoctoni e chiude con due appendici interpolate di chiara manca monarchica. I due Samuele e parte del 1Re costruiscono la storia di una inesistente monarchia unitaria, arricchita dai due cicli profetici di Elia e di Eliseo. Infine la seconda parte del 1Re e il 2Re tracciano, pur con qualche forzatura, la storia dei due regni di Israele e di Giuda. L’impressione complessiva è che abbiamo a che fare con blocchi narrativi giustapposti l’uno all’altro. La loro presunta unità progettuale deriva dal fatto che essi vengono rivisitati e rielaborati in stratificazioni successive, che
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attenuano e riducono progressivamente la frammentarietà del tessuto narrativo. Qualche breve dettaglio ci aiuta a comprendere i termini della questione. Da Noè al ciclo patriarcale c’è un salto narrativo che è mascherato con il ricorso alle genealogie. Dal ciclo patriarcale alla fuga dall’Egitto c’è un ulteriore salto narrativo che è occultato con il ricorso al romanzo di Giuseppe, nonostante l’esiguità della discendenza giacobita non sia in grado di spiegare le iperboliche cifre dei censimenti dei Numeri. Il pellegrinaggio nel deserto è giustificato sulla base della punizione di un’intera generazione: proprio quella che era stata protagonista del patto con Yhwh. La conquista del Canaan non è che la realizzazione delle promesse divine secondo la preventiva ripartizione mosaica del territorio. Da Giosuè ai Giudici c’è un vero e proprio iato incolmabile. Il passaggio dai Giudici ai due Samuele è invece mediato dalle due appendici di ispirazione monarchica sul santuario di Dan e sul delitto di Gabaa. Nulla fa pensare ad una storia unitaria e nulla fa pensare ad una scuola deuteronomista, salvo le scarne affinità linguistiche o le sparute manipolazioni di derivazione deuteronomista, le quali, a dispetto delle più consistenti divergenze concettuali, sono sovraccaricate di eccessivo peso.
capitolo xiii
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: I NEVIÏM
13.1. Introduzione La parola neviim in ebraico significa profeta; nevuah è la profezia in senso generico. Va però precisato che la profezia non è la mera predizione di eventi futuri e che il profeta non è una figura occasionale, ma è un necessario intermediario tra Dio e il popolo; un interprete della parola divina (Ex, vii, 1). Poiché Dio è invisibile e inaccessibile al popolo e poiché ne è il capo e l’autentico sovrano, il profeta è colui che parla al popolo in nome di Dio. A lui si rivolge la comunità ogni volta che sente il bisogno di conoscere la volontà del Signore o di conoscere le ragioni delle sue decisioni. Ciò non significa che la consultazione del profeta sia occasionale; al contrario il profeta è la guida del popolo, la sua nascita è suscitata da Dio, egli ha un ruolo che è in certo qual modo superiore al potere sovrano, perché guida il popolo nella qualità di depositario della volontà divina. Alcuni passi del Pentateuco fanno pensare che il profeta fosse una figura istituzionale, appartenente probabilmente alla classe sacerdotale. Furono profeti Mosè, Giosuè, i Giudici, Samuele, Isaia, Elia ed Eliseo. Eccetto Isaia, nessuno di loro ha lasciato nulla di scritto. Nella fase della monarchia la figura del profeta è in larga parte occultata ed emarginalizzata per ovvie ragioni. La sua presenza risultava piuttosto ingombrante e limitativa del potere del sovrano. Essa ritorna in auge tra il v-iv secolo, allorché la classe sacerdotale è impegnata a ricostruire il proprio potere teocratico; ma non si tratta del ritorno di una generazione di profeti, bensì 363
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di profeti fittizi, a cui assegnare, attraverso scritti pseudoepigrafi, la funzione di promuovere e consolidare le riforme religiose della classe sacerdotale. Non a caso nei testi protocanonici non troviamo alcun cenno a personalità come Geremia, Ezechiele e quasi tutti gli altri profeti registrati nei Neviim. Sono tutte personalità fittizie che però nella narrazione pseudoepigrafa possono svolgere un ruolo essenziale per essere gli interpreti della rivelazione divina, che generalmente è data da parole (parabole o enigmi)(1) e/o da visioni simboliche e misteriose,(2) quasi sempre oscure, ricevute nello stato di veglia o in stato onirico (Ex, xxxiii, 11). Proprio per tale oscurità le rivelazioni necessitano di uno svelamento ermeneutico.(3) Sul rapporto tra Dio e il profeta non mancano contraddizioni e talvolta persino aspetti comici. C’è per esempio contraddizione tra Deuteronomio ed Esodo,(4) ove si dice che Mosè conobbe Dio faccia a faccia e il capitolo xxxiii dell’Esodo, per il quale nessun uomo può vedere Dio e restare in vita.(5) E c’è comicità nelle profezie di Balaam in Nm, xxii-xxiv, ove Yhwh parla a Balaam per bocca dell’asina.(6) In generale in tutti i libri dei profeti prevale un linguaggio simbolico e allusivo, spesso oscuro, in qualche caso persino grottesco. Le figure dei profeti sono solitamente prive di connotazioni biografiche, sebbene le coordinate storico-cronologiche della loro attività profetica siano fornite – nella finzione pseudoepigrafa – quasi sempre con minuziosa puntualità. Gli studiosi hanno la tendenza a ritenere tali testi compositi, frutto di interventi di più mani e prodotti di stratificazioni teologico-culturali di epoche successive.(7) Ciò in realtà dipende dal fatto che si tende ad ammettere che i testi profetici siano originariamente scritti autentici dell’viii-vii, manipolati in età suc(1) Nm, xi, 17; 1Re, xxii, 5, 19. (2) Is, vi, 1; 1Chr, xxi, 12; Ez, i, 4; Dn, vii, 9. (3) La scuola olandese fa derivare nabi dal verbo nabà, corrispondente al lat. effervescere; il che farebbe assimilare il profeta ebraico all’indovino cananeo, come scrive G. Hölscher, Die Profeten, Unterschung zur Religionsgeschichte Israels, Leipzig, Hinrichs, 1914, pp. 125126. Anche secondo G. Ricciotti, Storia d’Israele, vol. i, Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, p. 267, nell’AT il termine qosem indica l’augure che si appella all’arte della divinazione, alla magia, al sortilegio e all’incantesimo, praticati dai cananei. In Geremia (xxvii, 9; xxix, 8) l’attività del nabi e quella del qosem sembrano essere interfungibili. (4) Dt, xxxiv, 10; Ex,xxxiii, 11; xxxiv, 29-35. (5) Ex, xxxiii, 21-23: «Tu non potrai vedere la mia presenza, infatti nessun uomo può vedermi e restare in vita […] tu potrai vedere solo la mia assenza». (6) Per altre menzioni di Balaam, cfr., Dt, xxiii, 5-6; Js, xxiv, 9-10. (7) Cfr. in proposito N. P. Lemche, The Israelites in History and Tradition, cit., pp. 133 sqq.
I.13 Le radici vetero-testamentarie: i Neviïm
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cessiva. La realtà è che, all’opposto, essi sono testi di epoca posteriore a quella dei profeti cui sono attribuiti. E, sebbene spesso non manchino tracce di manipolazioni successive, sono per lo più testi concepiti con un ben preciso ed organico disegno politico-teologico. Assai significativi sono i nuclei culturali intorno ai quali verte la loro attenzione. In linea di massima possiamo dire che essi attestano un’evoluzione significativa delle tematiche tradizionali della teoria della retribuzione, del patto e dell’alleanza, della pratica della circoncisione, del formalismo e del ritualismo delle offerte e degli olocausti; a ciò si aggiungono tematiche che rivelano un’attenzione per le problematiche sociali della povertà e dell’ingiustizia. In generale c’è nei testi profetici un ripensamento del ruolo della divinità, il cui concetto oscilla tra quello del creatore provvidente e misericordioso e quello di giudice dei singoli come delle nazioni. La riflessione sul problema del male si fa più attenta e sempre meno si pone l’accento sul ruolo del Dio temibile e vendicatore. Yhwh è per lo più un Dio che ha una funzione apotropaica e rassicurante per essere concepito come un Dio che è dentro la storia e ne tira le fila; sicché il corso degli eventi non è cieco e non è mai disastroso o distruttivo dell’identità israelitica. Anche quando sembra entrare in crisi, il rapporto privilegiato Yhwh-Israele è interpretato come una fase di passaggio e giustificato con la teoria della retribuzione: la punizione di Dio non è la rottura dell’alleanza da parte di Yhwh, ma è l’inevitabile conseguenza della distribuzione della maledizione e della benedizione rispettivamente al malvagio o peccatore e al buono o giusto. In altri termini l’infedeltà di Dio è sempre e comunque l’inevitabile conseguenza dell’infedeltà di Israele; per converso il ritorno di Israele all’osservanza della legge è garanzia della grazia divina; la teoria dell’elezione resta un caposaldo, ma mostra nel contempo cedimenti verso concezioni più aperte alle nazioni straniere. La revisione del concetto di monarchia davidica proietta sempre più la figura di Davide verso il messianismo nazionalistico. 13.2. Isaia Secondo la tradizione Isaia ( ישעיהוysha’ihàu = Yhwh salva, è salvezza) avrebbe profetato negli ultimi due decenni dell’viii secolo e sarebbe vissuto dal tempo di Ozia a quello di Ezechia (Is, i, 1). Il 2Re ci fa sapere che Ezechia gli mandò Eliakim, sovrintendente di palazzo, e Sebna, sacerdote, chiedendogli di rivolgere a Yhwh una preghiera in favore del ‘resto’ del
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popolo. Isaia gli rispose di non temere gli insulti di Sennacherib, re d’Assiria, espressi per bocca di Rabsach (= gran coppiere), e gli predisse che l’assiro sarebbe tornato in patria, ove avrebbe avuto una brutta notizia e sarebbe morto. Giunto in patria, Sennacherib apprese che Tiraka (ma Taharqa, faraone della xxv dinastia di origine etiopica) aveva mosso guerra e minacciava Ezechia. Isaia predisse ad Ezechia che Sennacherib sarebbe tornato per la via dalla quale era venuto. La stessa notte l’angelo del Signore fece strage di 185.000 assiri (seondo Erodoto l’esercito fu decimato dalla peste; di fatto però non cessò la condizione di vassallaggio di Giuda) e Sennacherib se ne tornò a Ninive, ove i figli, Adram-melech e Sarazer, lo uccisero di spada (in realtà Sennacherib nominò suo successore Asarhaddon). Una ingenuità del redattore del testo gli fa dire che Isaia avrebbe dato ai suoi due figli un nome legato alle sue profezie: il primogenito si sarebbe chiamato Seariasub = il resto si salverà (vii, 3); il secondogenito mahèr-salal-cash-baz (=a pronto saccheggio rapido bottino). Chi era in realtà Isaia? Paradossalmente di lui sappiamo ben poco. Le menzioni che riscontriamo nell’AT sono poche e generiche. Egli è ricordato due volte in 2Re, xix, 2-7 e xx, 14-19; tre volte in 2Cronache, xxvi, 22 (secondo cui Isaia sarebbe stato autore di cronache del regno di Ozia); xxxii, 20, 32 (secondo cui Isaia avrebbe scritto gli atti di Ezechia); e due volte in Siracide, xlviii, 20, 22. Se non fosse stato per il testo a noi noto, sarebbe rimasto un oscuro profeta. Il Libro di Isaia ha una struttura complessa e presenta disomogeneità interne di stile e di contenuto che non possono essere riconducibili ad un unico autore. Gli storici confessionali hanno tentato di salvare il carattere profetico dello scritto ritenendo che esso sia opera di due o tre profeti distinti rispettivamente definiti Proto-, Deutero- e Trito-Isaia. La realtà è che le disomogeneità dipendono non tanto dalla mancanza di un progetto unitario, quanto dai numerosi ed evidenti segni di continue manomissioni prodottesi ad opera di più mani nell’arco di tempo che va dal v al iv secolo. Gli anonimi autori che si incaricarono della composizione scelsero Isaia perché era una figura di prestigio, collocata nel 2Re nel periodo tra Ozia ed Ezechia, prima delle invasioni assire su Samaria e di Sennacherib su Giuda (ma in 2Re si parla dell’attività profetica di Isaia solo sotto Ezechia). Le profezie contenute nel testo si estendono, com’è noto, per un arco di tempo di circa trecento anni, dall’ottavo secolo alla fine del quinto. Poiché esse non possono essere ascritte ad un solo profeta, è evidente che bisogna postulare l’esistenza di almeno tre distinti redattori del testo. Ciò che invece è inaccet-
I.13 Le radici vetero-testamentarie: i Neviïm
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tabile è la distanza temporale cui vengono assegnati i tre autori. In generale si fa risalire il Proto-Isaia (capitoli i-xxxix) all’ottavo secolo e lo si considera portatore di un messaggio di severa condanna; egli avrebbe predetto la catastrofe samaritana e il pesante assedio di Gerusalemme da parte di Sennacherib. Nell’ottica del profeta gli assiri e i babilonesi sarebbero stati strumenti della punizione divina dei peccati commessi da Israele. Al popolo oppresso dagli invasori Isaia avrebbe predicato che la salvezza di Gerusalemme sarebbe venuta solo dalla fede in Yhwh e sarebbe stata riservata solo a pochi, ovvero solo ad «un resto» sopravvissuto alla devastazione. Questa soluzione, tutto sommato positiva, se fa riferimento al rientro dei deportati, non è evidentemente anteriore al quinto secolo e tale è di conseguenza la datazione del Proto-Isaia. Il Deutero-Isaia (capitoli xl-lv) non soltanto avrebbe profetizzato il rientro dei superstiti sotto Ciro II, ma avrebbe altresì previsto la ricostruzione di Gerusalemme; egli sarebbe stato l’autore del Libro della consolazione d’Israele ed avrebbe messo a punto una più coerente concezione del monoteismo. È perciò verosimile che la sua collocazione storica sia di qualche decennio posteriore al Proto-Isaia. Il Trito-Isaia (capitoli lvi-lxvi), del quarto secolo, discepolo del Deutero-Isaia, sarebbe stato il continuatore del messaggio consolatorio, al quale avrebbe dato un taglio più universalistico; egli avrebbe concepito la salvezza di Israele come premessa per la salvezza di tutte le genti. C’è da chiedersi: questi schemi funzionano? Quasi per nulla. Prendiamo per esempio il Proto-Isaia: 1) contiene accenni al rientro dei superstiti in Gerusalemme e alla devastazione dei devastatori (intendi la conquista babilonese dell’Assiria e la conquista persiana di Babilonia, capitoli xiii-xiv, xx-xxi); quindi dovrebbe essere coevo del Deutero-Isaia; 2) contiene, sia pure parzialmente, messaggi consolatori (capitolo xi, xxi, xxvi, xxx, xxxiv) analoghi a quelli del Deutero-Isaia. L’esegesi confessionale se la cava dicendo che tali passi «appartengono già virtualmente alla seconda parte del libro», cioè al Deutero-Isaia. Ma ciò significa usare un criterio elastico, dopo che si è frantumato il testo in tre parti rigidamente distinte. È la metodologia di chi vuol far dire ai testi ciò che si vuole. In realtà gli schemi rigidi e precostituiti reggono poco. Infatti anche il secondo e il terzo Isaia non sono del tutto indipendenti tra loro e non lo sono neppure rispetto al primo. Il messaggio consolatorio non è un’aggiunta di un nuovo profeta, ma è imposto dal tema trattato che è quello del rientro degli esuli. Il monoteismo, reiteratamente esibito da Deutero-Isaia è in realtà incrinato dal fatto che il messaggio consolatorio è limitato al solo Israele; nei confronti degli assiri e dei
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babilonesi Yhwh continua a manifestare il suo volto di giudice e di vendicatore. Anche l’universalismo della terza parte non è del tutto indipendente dalla seconda, ove, com’è evidente, risulta già anticipato nel quadro di un originario progetto organico. Forse è più ragionevole sciogliere diversamente il nodo delle disomogeneità del testo isaiano. Non ci sono due o tre Isaia; non ci sono cioè due o tre profeti di epoca diversa per il semplice fatto che, al di là delle interpolazioni e manomissioni, si scorge il filo conduttore del progetto originario che vuole spiegare la devastazione dei due regni ebraici come punizione divina passata attraverso gli assiri e i babilonesi, strumenti della collera divina; ma l’economia divina non si esaurisce nella collera, altrimenti si spezzerebbe il legame di reciproca proprietà tra Dio e Israele. Alla collera seguono la misericordia e la consolazione; Yhwh riaccende la speranza del ritorno in patria e della salvezza del ‘resto’ d’Israele, la cui esperienza drammatica ma insieme esaltante diventa modello di salvezza universale. Il ‘resto’ è il santo di Israele, l’Israele purificato dal male che non solo non può restare oggetto di condanna, ma deve anche ergersi a modello di salvezza universale. Ma è poi davvero un universalismo in senso pieno? No! Non lo è: 1) perché inficiato dal principio della superiorità ebraica e 2) perché la salvezza delle genti è condizionata dalla accettazione della fede nel Dio d’Israele. Il testo redazionale, così come è a noi pervenuto, rivela non poche smagliature: diversi oracoli o profezie risultano oscure, sovraccariche di simbolismi, suscettibili di interpretazioni diverse e disparate. Spesso non si riesce ad individuarne i referenti storici; il più delle volte si tratta di elaborazioni ‘pseudo-profetiche’ di eventi della storia israelitico-giudaica. In qualche caso l’anonimo interpolatore introduce nel testo, per ragioni che ci sfuggono, interi passi tolti al Libro dei Re (i capitoli xxxvii-xxix riproducono pressoché alla lettera i capitoli xix-xxi del 2Re). Le differenze stilistiche tra le tre parti sono in realtà accentuate dal fatto che nel tessuto narrativo sono confluite manomissioni di chiara marca ideologica. In particolare si può dire che sull’originario progetto profetico si è innestata una più tardiva fonte che potremmo definire messianico-apocalittica che ha rimanipolato il testo originale fino a renderlo sì riconoscibile, ma non più ricostruibile. Nel corso del tempo il testo si è ipertrofizzato a tal punto da includere profezie fino al quarto secolo e concezioni filosofico-teologiche in parte contrastanti. I capitoli xiii-xxiii e xxviii-xxxiii riguarderebbero gli oracoli più antichi, divisi in due gruppi, il primo intorno alle genti straniere e il secondo intorno a
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Giuda e a Gerusalemme. I capitoli xxiv-xxvii e xxxiv-xxxv riguardano le cosiddette apocalissi isaiane; i capitoli xl-lv toccano le visioni relative all’esilio, alla cattività babilonese e alla successiva liberazione ad opera di Ciro II di Persia. I capitoli lvi-lxvi risentono del clima ellenistico e descrivono l’utopia della salvezza universale, estesa anche alle genti. Il linguaggio, di straordinaria finezza poetica, è ciò che dà una sostanziale unità al testo pur con le diverse sfaccettature stilistiche che lo caratterizzano. Nelle battute iniziali l’autore non si pone nei panni di Isaia, ma in quelli di chi ne ripropone la parola («visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e su Gerusalemme»; «la parola che vide Isaia, figlio di Amoz, riguardo a Giuda e a Gerusalemme»; «minaccia che incombe su Babilonia, che ebbe in visione Isaia, figlio di Amoz» (Is, i, 1: ii, 1: xiii, 1). Questa alterità rispetto al profeta resta sottintesa in tutto il testo, che nella mente del redattore finale contiene ipsissima verba del profeta in riferimento alla sue profezie e alle sue visioni. Essendo Isaia profeta del sud, l’ambito delle sue visioni riguarda Giuda e Gerusalemme. Il libro si apre con un’amara constatazione: il popolo eletto non comprende il messaggio di Yhwh, ha abbandonato il suo Dio e disprezzato il Santo d’Israele. Si salva solo un ‘resto’ (concetto già presente in 2Re): «rimane soltanto la figlia di Sion, come una capanna in una vigna». Yhwh non ama il formalismo degli olocausti e delle offerte («Sono sazio di olocausti d’arieti, del grasso di vitelli; sangue di tori, di agnelli, di capri non lo gradisco», Is, i, 11); si pone perciò l’istanza della purificazione di Gerusalemme («come ha potuto diventare una prostituta la città fedele?») che ha ceduto all’idolatria («Vi vergognerete delle querce [allusione a culti cananei] […] nel lontano avvenire il monte della casa di Dio [Gerusalemme] sarà stabilito […] e vi affluiranno tutte le genti […] perché da Sion uscirà la rivelazione […] Yhwh giudicherà fra le genti», Is, i, 29 - ii, 5). L’universalismo è già preannunciato in queste prime battute. Per essersi allontanata dalla fede, Gerusalemme sarà soggetta alla distruzione: I capi hanno depredato la vigna dei poveri; le figlie di Sion non avranno uomini per sottrarsi al disonore della vedovanza; si salverà solo il ‘resto’ d’Israele: chi sarà rimasto in Sion, sarà chiamato santo. Dalla casa d’Israele, vigna del Signore, si attendeva l’equità e ne è venuta l’iniquità.
Queste le ragioni per cui si scatena l’ira del Signore (prefigurata nella sezione ‘guai’, divisa tra v, 8-24 e x, 1-4, con l’elenco di coloro che patiranno a
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causa della collera divina). Pochi e spesso vaghi e non sempre lineari sono i riferimenti storici. Incertezze sussistono sulla cronologia: Isaia avrebbe predetto la distruzione di Samaria sessantacinque anni prima, cioè nel 786, ma non è verosimile. L’equivoco nasce dal fatto che l’autore di Isaia attinge alle informazioni cronologiche, non sempre coerenti, suggerite dal 2Re, xvi-xvii, ove però non c’è alcuna traccia della profezia isaiana. Uno dei moduli narrativi del testo è il cosiddetto libretto di Emmanuele, come solitamente sono menzionati dall’esegesi confessionale i capitoli vii-ix. La nascita di Ezechia segna in realtà la nascita del messianismo, non del messianismo cristiano, che non ha nulla a che fare con il testo isaiano, ma del messianismo giudaico, dell’attesa di un re nazionale di discendenza davidica che restituisca il prestigio e la regalità al popolo giudaico. Il testo recita: «Ecco la giovane (la Septuaginta traduce ‘la vergine’, dando luogo ad una infinita mistificazione del passo isaiano) concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele ‘Dio è con noi’» (hā ‘almāh hārāh weyōledet bên weqārāt šemōw ‘immānū ‘êl )העלמה הרה וילדת בן וקראת שמו עמנו אל.(8) Infinite sono le suggestioni che il testo isaiano ha esercitato sul cristianesimo, sicché possiamo dire che se da una parte esso non ha nulla a che fare con il messianismo cristiano, dall’altra dobbiamo riconoscere che senza Isaia non ci sarebbe stato il cristianesimo. L’ira di Dio colpirà Israele e Giuda e si servirà dell’Assiria come strumento, come rasoio per depilare i deportati, o come fiume che inonderà la Giudea. Yhwh «sarà un santuario, una pietra d’intoppo, un sasso d’inciampo per le due case d’Israele» (Is, viii, 14). Ma la profezia della nascita di Ezechia, figlio di Achaz, è quanto meno paradossale. Ezechia ci viene presentato come il Messia che costituisce una sorta di baluardo contro la devastazione di Giuda: Un bimbo ci è dato, un figlio ci è donato, sulle cui spalle è il principato e a cui è dato il nome di consigliere meraviglioso, Dio onnipotente, padre eterno, principe di pace. Grande è il principato e la pace senza fine sul trono di Davide e sul suo regno che stabilirà e confermerà nell’equità e nella giustizia da ora e per sempre, Is, ix, 5-6.
In realtà la cronologia è piuttosto confusa. Sappiamo da fonti assire che il regno d’Israele fu conquistato nel 721 da Sargon II. Il 2Re fornisce, invece, (8) Is, vii, 14.
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due contrastanti versioni della datazione della presa di Samaria, attribuita a Salmanassar, anziché a Sargon II. Per la prima (2Re, xvii, 6) Samaria fu devastata nel nono anno di Osea (732-723); per la seconda (2Re, xviii, 9-11) essa cadde nell’anno quarto di Ezechia, «cioè nell’anno settimo di Osea […] re d’Israele […]. Al termine di tre anni […] Samaria fu presa nell’anno sesto di Ezechia, cioè l’anno nono di Osea». È difficile far quadrare tali dati. In primo luogo perché la datazione del regno di Osea è anteriore al 721; di conseguenza l’assedio di Samaria non poté concludersi sotto il suo regno. Più problematica la datazione del regno di Ezechia. Albright e Thiele(9) ne fissano le date estreme tra il 716-715 e il 687; Galil le fissa tra il 726 e il 697.(10) In entrambi i casi la profezia della nascita dell’Emmanuele perde senso, perché proprio durante il regno di Ezechia si ebbero le prime avvisaglie dell’imminente disastroso assedio di Gerusalemme. Probabilmente lo Ps.-Isaia elegge Ezechia a principe-messia nazionale forse per accendere nei deportati la speranza del ritorno («In quei giorni […] un resto tornerà al Dio potente» (il che significa che il testo è postesilico); risorgerà la dinastia davidica: «uscirà un ramo dal tronco di Iesse, un germoglio fiorirà dalle sue radici» (Is, xi, 1). Il nuovo regno messianico è descritto in termini di pacificazione cosmica e universale: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme […]. Non si farà del male né si compirà danno in tutto il mio monte sacro» (Is, xi, 6-9). Nel capitolo xii la visione si chiude con il raduno degli esuli e il canto dei redenti. I capitoli xiii-xxiii contengono una serie di oracoli relativi alle genti straniere: la prima visione riguarda Babilonia e la devastazione che ne fa El-Šadday: «I loro bambini saranno sfracellati sotto i loro occhi, le case depredate, le donne violentate […] Babilonia […] sarà come Sodoma e Gomorra […] non sarà mai più abitata né popolata per tutte le generazioni» (Is, xiii, 16-20). La sua fine è imminente (probabile allusione alla conquista persiana): «il suo tempo sta per venire e i suoi giorni non saranno protratti» (Is, xiii, 22). Con la fine di Babilonia gli ex-deportati rientreranno nel loro (9) W. F. Albright, New Light from Egypt on the Chronology and History of Israel and Judah, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», cxxx, 1954, pp. 4-11; E. R. Thiele,The Misterious Numbers of the Hebrew Kings: a Reconstruction of the Chronology of the Kingdoms of Israel and Judah, cit.; Id., A Chronology of Hebrew Kings, Grand Rapids, Zondervan, 1977. (10) G. Galil, The Chronology of the Kings of Israel and Judah, Leiden, Brill, 1996.
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paese. Israele sottometterà come schiavi i suoi dominatori. Così recita l’oracolo di Yhwh: «Io estirperò da Babilonia nome e resto, prole e posterità» (Is, xiv, 22). Analogo l’oracolo contro gli assiri: «Spezzerò Assur nella mia terra, lo calpesterò sulle mie montagne» (Is, xiv, 25). Seguono l’oracolo contro la Filistea (che l’autore pretende di far risalire al 716, anno della morte di Achaz), il lamento di Moab (i moabiti avevano il culto del vitello d’oro a Betel e a Dan), l’oracolo contro Damasco, un nuovo oracolo contro l’Assiria, quello contro l’Etiopia (ma in realtà contro la xxv dinastia egizia di origini etiopiche) e contro l’Egitto. Il capitolo xxi ritorna sulla caduta di Babilonia; seguono gli oracoli contro l’Arabia, la Fenicia, Tiro e Sidone (ma non si capisce a quali circostanze storiche alluda). I capitoli xxiv-xxvii costituiscono la sezione soprannominata ‘grande apocalisse’, in cui viene pronunciato un giudizio escatologico che riguarda il mondo intero, senza precisi riferimenti storici: «In quel giorno – recita il testo – Yhwh chiederà conto […] ai re della terra; allora Yhwh, Signore degli eserciti, farà per tutti i popoli, su questo monte (Sion) un banchetto di carni grasse […] spoglierà la morte per sempre» (Is, xxv, 6); alla Gerusalemme, «città del nulla», ridotta in macerie, sarà contrapposta la Gerusalemme, «città forte»; perciò «confidate in Yhwh […] rupe eterna». Coloro che ci hanno dominato: sono morti: non rivivono; sono ombre: non risorgono; […] abbiamo partorito, abbiamo sentito le doglie, ma è come avere partorito vento: non abbiamo portato salvezza alla terra, non sono nati abitanti del mondo. Eppure rivivranno i tuoi morti, risorgeranno i miei cadaveri (Is, xxvi, 14-18).
Nei capitoli xxviii-xxxiii sono contenuti oracoli sulle popolazioni israelitiche, contro Samaria (probabile preannuncio dell’assedio assiro del 721) e contro i falsi profeti. Contro «il flagello dirompente» Yhwh ha posto «una pietra» (che non va interpretata come Messia, ma come santuario); per tutto il resto della terra ha deciso la distruzione. La semina differenziata delle diverse sementi (Is, xxviii, 23-29) è simbolo della saggezza divina. Se Dio combatte contro Gerusalemme è segno che non l’abbandona nelle mani dei suoi nemici, perché alla fine la salverà. È sì vero che Yhwh si è servito della potenza siriana come strumento per punire il suo popolo, ma lo strumento, una volta utilizzato, sarà distrutto e la potenza assira andrà in rovina (allusione al dominio babilonese). Allo «spirito di torpore» si sostituirà «lo spirito
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dall’alto». Ci sarà un regno futuro in cui «i re e i principi governeranno con rettitudine» (generico); «finché non sarà versato su di noi lo spirito dall’alto, allora il deserto diventerà un frutteto […], l’equità avrà dimora nel deserto […]; frutto della giustizia sarà la pace». Nei capitoli xxxiv-xxxv trova spazio la piccola apocalisse; nella forma di un giudizio universale viene preannunciata una devastazione generale o addirittura cosmica; viene profetizzato lo sterminio di Edom, colpevole di aver tratto profitto durante la deportazione dei giudei; ma nel contempo si apre la strada per il ritorno degli esuli. Nei capitoli xxxvi-xxxix, con nuovi riferimenti storici, Isaia predice che gli assiri si ritireranno dall’assedio di Gerusalemme durante il regno di Ezechia (in realtà, come si è detto, il testo riproduce più o meno fedelmente il racconto di 2Re, xix-xx). I capitoli xl-lv, che si vogliono attribuire al secondo Isaia sono invece funzionali all’obiettivo dell’autore, che è quello di prospettare, dopo la devastazione, la via della salvezza. Il dolore e la sofferenza del popolo oppresso, schiavizzato e deportato, è compensato «al doppio dalla consolazione» e dalla benedizione di Dio. La consolazione è doppia (Is, xl, 2), perché, da un lato, è connessa al fatto che il Signore Yhwh è come un pastore che pascola il suo gregge e, dall’altro, è connessa all’annientamento di tutte le genti: «Le genti non contano nulla: sono come una goccia d’acqua caduta nel secchio; valgono quanto un granello nella bilancia». Tutto ciò che accade rientra nel disegno e nell’economia di Dio, nel ‘piano di salvezza’ di Yhwh. L’unicità di Dio comporta come conseguenza che a Yhwh vadano ascritti sia il bene sia il male. Egli è infatti causa delle tenebre e della luce, della pace e della guerra, del bene e del male. I suoi pensieri sono infiniti, profondi e imperscrutabili; le sue vie sono insondabili da parte dell’uomo. Ma Yhwh non è un Deus absconditus; anche quando si sottrae alla vista, egli è presenza, ha la sua dimora, la shekhinah in mezzo al popolo, parla, si fa sentire per mezzo dei suoi profeti; è nella stesso tempo il Dio che punisce e che condanna e il Dio che esalta e che consola, che mantiene fede alle promesse e ai patti. Non c’è in Isaia una teologia della condanna distinta da una teologia della consolazione; separare le due cose rischia di compromettere la comprensione generale del testo. Una sola è la sorgente del premio e del castigo. Ciò che è indubbio è che l’autore che si cela dietro le vesti di Isaia è uno spirito dotato di profonda religiosità che, sul finire del v secolo e agli albori del iv, si interroga sulla religione dei propri padri e sul ruolo che è possibile ricono-
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scere a Yhwh nella storia del proprio popolo. È uno spirito aperto, probabilmente già entrato a contatto con la cultura ellenistica, forse attraversato da una profonda crisi interiore per essere dimidiato tra la fede tradizionale e le istanze culturali e filosofiche di matrice ellenistica che lo inducono a ripensarla. La sua convinzione più radicata è che il Dio, creatore del cielo e della terra, è altresì l’artefice primo e autentico della storia: è questo il principio da cui egli parte per capire il passato del proprio popolo e le prospettive aperte dalle promesse di Yhwh. Ma è paradossale che egli continui a concepire Yhwh come Dio nazionale, pur nella consapevolezza che tale concezione gli stia stretta. Fin dal primo capitolo questo dramma è avvertito: se da un canto il popolo esiliato teme di essere stato dimenticato da Dio e paventa che Yhwh nasconda la sua faccia (sono temi comuni a Giobbe e ai Salmi), dall’altro è Dio che si lamenta di non essere riconosciuto e di non essere compreso dal proprio popolo: «persino un bue conosce il suo proprietario e un asino conosce la greppia del padrone» (Is, i, 3). A che servono allora i formalismi, gli olocausti e le offerte, le festività e il soave profumo dell’incenso, se si continua ad essere macchiati dal peccato. Ma Yhwh è moralmente vincolato verso il ‘resto’ di Israele, perché «rimane soltanto la figlia di Sion, come una capanna in una vigna». Di primo acchito l’autore pensa che solo Gerusalemme si salva, ma poi la sua ottica si sposta dalla dimensione del piccolo a quella del grande; dalla minuscola capanna alla collettività israelitica come vigna del Signore, fino al più vasto mondo delle genti. Allora il bene e il male cominciano ad essere meglio retribuiti; Israele è caduto nel peccato, ma un ‘resto’ si è conservato santo; le genti straniere sono idolatre, ma possono essere conquistate al patto yhawista attraverso la rivelazione che ripartirà da Gerusalemme. Lo Ps.-Isaia comincia così ad aver chiaro il progetto divino: le potenze, assira e babilonese, sono state strumento di Dio; Yhwh se ne è servito per punire e devastare Israele; ma nel suo progetto c’è anche la punizione e la devastazione degli oppressori e dei deportatori. Il progetto divino non può fermarsi allo stadio elementare di retribuzione della pena e del dolore; se c’è la condanna del male, deve esserci anche la consolazione del bene; se c’è un castigo, deve esserci anche un premio. Se l’autore non fosse stato influenzato dalla cultura ellenistica, la sua visione religiosa si sarebbe chiusa nell’ambito dell’ortodossia tradizionale. Ma su di lui premono le istanze dell’universalismo. Yhwh non può essere più soltanto il Dio nazionale, ma è il creatore del cielo e della terra; tutto quan-
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to si muove nell’aria o striscia sulla terra o si agita nella profondità delle acque gli appartiene. Non è solo Gerusalemme la sua casa, non è solo la discendenza di Giacobbe la sua proprietà, ma lo sono la terra intera e tutte le genti che la abitano. Ma come tenere unite queste due dimensioni che sembrano escludersi, la piccola e la grande, Gerusalemme e l’universo, Israele e le genti? È qui la genialità dell’ignoto autore: se il male e il peccato sono stati estirpati da Giuda e se le nazioni prepotenti sono state devastate a loro volta, potrà finalmente nascere un regno universale in cui la rivelazione e la santità di Sion diventano patrimonio di tutte le genti. È un capovolgimento radicale della religiosità ebraica: il patto non è più un vincolo privilegiato tra Yhwh e il popolo eletto, ma è aperto alla sottoscrizione di tutti i popoli che accolgono la parola di Sion. È questo il filo conduttore che ha portato al messianismo. Ben inteso non è ancora il messianismo cristiano; anzi la lettura cristiana del testo è ben lontana dai propositi dell’ignoto autore. Nella sua mente l’idea messianica è forse vista come possibile esito dell’impero alessandrino. E forse in tale progetto possono assumere una diversa valutazione anche gli spunti di tipo apocalittico che peraltro non sono limitati solo alla grande e alla piccola apocalisse. Ed è assai facile arguire quali siano le ragioni della sua scelta di Ezechia come figlio della provvidenza. Alla autorità profetica di Isaia si poteva attribuire la rivelazione di un progetto di così ampio respiro, capace di inquadrare non solo il passato, ma anche il futuro (dimensione messianica) della storia del popolo ebraico e della sua apertura alle genti. La rivelazione che parte da Sion è la sua rivelazione o, se si preferisce, la rivelazione o la parola di Yhwh, consegnata attraverso il suo scritto. Anzi, a ben riflettere, la grande apocalisse non è che una variante del concetto di rivelazione appena accennato: non si tratta di una prospettiva confusa e confinata in un futuro fumoso: è invece per l’autore il presente, perché il Signore farà per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di carni grasse. La vecchia generazione degli empi e dei malvagi non ha futuro; per essa non c’è resurrezione: sono morti, non rivivono; sono ombre, non risorgono. Israele è cresciuto come nazione, ha allargato i propri confini, è come una donna incinta, pronta a partorire. In ciò è forse il senso più profondo della revisione intellettuale e culturale di questo grande spirito religioso: è la nuova resurrezione, il ritorno di Israele alla vita, un Israele che fa nascere gli abitanti del mondo. Se la grande apocalisse parla ad Israele, la piccola parla alle genti; se nella prima la devastazione della città del nulla è la condicio sine qua non della na-
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scita della città forte, nella seconda il giudizio universale di Yhwh sulle genti è la condizione per leggere nel libro del Signore: «Cercate nel libro di Yhwh e leggete […] perché la bocca di Yhwh lo ha ordinato». Gli esuli e le genti sono associati nel ritorno a Yhwh dal deserto, dalla diaspora, dalla perdizione di chi non ha ancora ascoltato la parola di Yhwh. È così tracciata una strada, la via santa, che conduce a Sion; dalla vendetta di Yhwh nascono la sua ricompensa e la sua salvezza: «Egli stesso viene a salvarvi. I giorni della consolazione si dischiudono e sono gravidi di una pacificazione generale: i ciechi vedranno, i sordi udiranno, gli zoppi salteranno, l’acqua sgorgherà dal deserto, nell’oasi l’erba crescerà come canna; su quella strada cammineranno i redenti e i riscattati». In quest’ottica trovano la loro precisa collocazione i quattro canti del servo di Yhwh. Secondo la tradizione ebraica il servo è lo stesso Isaia, per quella cristiana è il messia. Ma né l’una né l’altra si accordano in pieno con il testo, ove il servo è chiaramente e inequivocabilmente il ‘resto’ di Israele, cui è demandato il compito di portare alle genti la luce della rivelazione, la salvezza e la giustizia divine. Il servo è colui che porta la luce agli abitanti delle tenebre (Is, xlii, 1-9). E la luce è Yhwh, redentore e salvatore di Israele: «Io sono il primo e l’ultimo, fuori di me non esiste un dio» (Is, xliii, 1-3; xliv, 6). C’è un tentativo di coerentizzare il monoteismo: «Ora gli altri dèi non sono dèi degli altri popoli, semplicemente non sono». Nel secondo Canto del servo del signore, il servo è la nuova Gerusalemme, la rivelazione di Sion, luce delle genti, perché la salvezza raggiunge le estremità della terra (Is, xlix, 1-6). Tale è anche il servo del terzo canto che ascolta Yhwh come un discepolo, porge il dorso ai flagellatori e le guance a chi gli strappa la barba; il ‘resto’, nella simbologia isaiana, attende che gli si renda giustizia. Anche nel quarto canto, che è sicuramente uno dei vertici della poesia isaiana, il servo è il resto di Israele, dialetticamente contrapposto come ‘lui’ al ‘noi’ di Israele e verosimilmente anche delle genti: Davanti a lui i re si chiuderanno la bocca perché vedranno ciò che mai è stato narrato loro e intenderanno ciò che mai hanno ascoltato […]; è cresciuto come un ramoscello dinanzi a lui come radice che spunta in terra arida […] disprezzato, ignorato dagli uomini, uomo dei dolori, esperto di malattia, come uno che nasconde il suo volto da noi […] eppure erano nostre le malattie che lui portava; erano nostri i dolori di cui si era caricato. Noi lo consideravamo un castigato, uno colpito da Dio, un umiliato; invece lui era
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trafitto dalle nostre colpe, schiacciato dalle nostre iniquità […] come agnello condotto al macello o come pecora muta, davanti ai tosatori non apriva bocca. Dopo essere stato arrestato e giudicato fu condotto via: chi si dà pena per la sua sorte? Sì, fu reciso dalla terra dei viventi: per colpa del suo popolo fu percosso a morte. Gli fu assegnato un sepolcro insieme agli empi […]. Ma Yhwh ha voluto prostrarlo col dolore, perché se avrà dato la sua vita in espiazione, vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni e si compirà per mano sua la volontà di Yhwh. Sì, avendo sofferto di persona, vedrà una luce, il giusto si sazierà della sua conoscenza. Il mio servo giustificherà molti, lui si caricherà delle loro iniquità. Perciò gli darò la sua parte fra i molti, con i grandi spartirà il bottino […] lui portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori (Is, lii, 15 - liii, 12).
Il servo, cioè Israele, è il capro espiatorio che si fa carico di tutti i mali e di tutti i peccati per il risanamento dell’umanità. 13.3. Il profeta Geremia Il Libro di Geremia ( ירמיהוYermiyah) è databile probabilmente al v-iv secolo. La formula introduttiva è pressoché stereotipata ed è conforme a quella del testo isaiano, salvo i riferimenti cronologici. Geremia è presentato come attivo nella Giudea in un arco di tempo che va dal tredicesimo anno di Giosia, cioè dal 627, all’undicesimo anno di Sedecia (Jr, 1, 1-3), cioè al 586 e a Godolia (585), secondo le indicazioni desunte dal 2Re, xxiv-xxv. Si tratta in realtà di due testi distinti cuciti insieme dal redattore finale. Nel primo, contenente i capitoli i-xxiv, 10, fatta eccezione per la pericope i, 1-3, prevale la narrazione soggettiva con l’uso della prima persona; nel secondo, capitoli xxiv-11 - lii, 34, prevale la narrazione oggettiva con l’uso della terza persona. Gli autori sono verosimilmente due: il secondo è un buon imitatore del primo tanto nello stile quanto nella terminologia, ma non ne ha il pathos patriottico e religioso; non ne ha il respiro nazionale e universalistico ed è ripiegato e appiattito sulla vicenda biografica e sulle traversie e persecuzioni subite dal profeta a causa del suo preannuncio dell’imminente devastazione del regno giudaico. Non mi pare che la distanza temporale tra i due autori sia considerevole; entrambi scrivono tra la fine del quinto secolo e il quarto e sono di poco posteriori all’autore
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di Isaia. Anzi con lo Ps.-Isaia condividono l’orditura del messaggio e persino la terminologia, le immagini e i simboli più efficaci. Come profeta Geremia non sembra essere noto ai testi precedenti. Non è presente nei Libri dei Re; di contro è menzionato in testi posteriori come il 2Cronache, il 1Ezra, il Siracide e Daniele,(11) che di fatto lo citano. Probabilmente nella seconda parte si sono insinuate interpolazioni successive quali potrebbero essere i capitoli xxxvii-xli e lii che presentano un taglio più prettamente storico e manifeste discrepanze stilistiche rispetto al resto. Secondo la breve e approssimativa ricostruzione biografica dell’anonimo autore, Geremia apparterrebbe ai sacerdoti di Anatot, città sita nel territorio beniaminita e già ricordata in Giosuè, in 2Samuele e in 1Re.(12) Sappiamo che di Anatot era il sacerdote Abiezer o Abiatar; nulla tuttavia autorizza a ritenere che si possa parlare di una classe sacerdotale di Anatot come sembra fare il redattore delle profezie geremiane. Il Libro è per lo più prolisso, ridondante ed estenuante per la ripetizione delle stesse tematiche. Il linguaggio è ricco di immagini, simboli, metafore e giochi di parole (es. šaqed = mandorlo/šoqed = veglio; massa = oracolo/massa = peso, cfr. Jr, i, 11-12; xxiii, 33) e in più punti rivela una venatura poetica di alto livello. Geremia si proclama «profeta delle nazioni» e la sua linea ideologico-politica è in larga parte analoga a quella isaiana. Profeta del sud, egli predice la devastazione tanto del regno di Israele, quanto di quello di Giuda: Dal settentrione [allusione agli assiri e ai babilonesi] eromperà la sciagura sopra tutti gli abitanti della regione […]. Li chiamerò in giudizio per tutte le malvagità che hanno compiuto […] per aver bruciato incenso a divinità straniere (Jr, i, 14-16).
Giuda e Israele hanno abbandonato la loro fede tradizionale; i loro profeti «hanno profetizzato nel nome di Baal e si sono resi discepoli di idoli inutili». Perciò Yhwh ha pronunciato il suo verdetto di condanna: «Eccomi emetto contro di te un giudizio sulla tua falsa innocenza» (Jr, ii, 35). Siamo nella logica della teoria della retribuzione. Gerusalemme va punita perché è come una moglie ripudiata, come una prostituta; è stata refrattaria ad accettare la via della correzione, non ha saputo trarre insegnamenti dalla devastazione della sua sorella del Nord, non ha capito che avrebbe subito un’analoga sor(11) 2Chr, xxxv, 25; xxxvi, 12, 21-22; Ezr, i, 1; Sr, xlix, 7; Dn, ix, 2. (12) Js, xxi, 18; 2Sm, xxiii, 27; 1Re, ii, 26.
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te. Perciò su Giuda si abbatterà la collera tremenda e senza scampo di Yhwh, che colpisce indiscriminatamente la collettività senza avere riguardo al merito o al demerito. Il peccato è l’idolatria. Giuda si è contaminato, ha ignorato la voce di Yhwh (cioè la parola del profeta). L’autore ritorna più volte sul tema della devastazione per darne un’immagine viva e incisiva: Ecco, faccio venire su di voi un popolo lontano, o israeliti, un popolo longevo, di antica data, un popolo di cui non comprendi la lingua e non sai cosa dice (v, 15); Per tutti coloro che di questa generazione malvagia sopravvivranno in ogni luogo in cui li avrò dispersi, sarà meglio morire che vivere (viii, 3); Darò le loro donne agli stranieri […] poiché tutti, dal più grande al più piccolo non sono che truffatori; dal profeta al sacerdote, tutti agiscono con doppiezza! (viii, 10); Farò di Gerusalemme un mucchio di pietre, una tana di sciacalli e renderò desolate e senza abitanti le città di Giuda (ix, 19); Saranno rase al suolo le tue città, dispersi i loro abitanti (iv, 7).
La devastazione è vissuta come una realtà presente: Gerusalemme è attanagliata dalla «morsa del dolore», perché i suoi dèi sono tanti quante sono le sue città e gli altari edificati all’abominio sono numerosi «quante sono le vie di Gerusalemme». Il profeta è oppresso dal dolore ed ha il cuore angosciato perché sente il grido d’aiuto della figlia del suo popolo proveniente da una terra straniera («Sono addolorato per la rovina della figlia del mio popolo, sono sconvolto, afferrato dal terrore»). Il dolore dell’autore non è quello di chi si sente in pena o sente di essere punito, ma è un dolore che nasce dalla condivisione delle sofferenze del popolo; è il dolore in sé, l’essenza stessa del dolore, che nasce da una condizione di isolamento in mezzo alla collettività; quello di chi sente di essere una sorta di capro espiatorio che porta su di sé il fardello di tutte le colpe commesse dal popolo contro Yhwh: «Ero come un agnello mansueto portato al macello, ma non sapevo che tramavano contro di me progetti di morte». È soprattutto il dolore di chi non riesce a spiegarsi la giustizia divina che lascia vivere in pace gli empi e struggersi dal tormento il giusto che vive nella sofferenza. Alla profezia della sciagura tiene seguito quella della restaurazione, del ritorno nella patria dopo la deportazione. Per quanto Yhwh possa essere il Dio della devastazione, non viene meno il principio dell’elezione; egli ha sempre
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nel suo cuore le sorti del suo popolo («anche allora non vi distruggerò completamente», Jr, v, 18). Proprio dalla estrema rovina dei due regni nasce il mito della monarchia unitaria. Non risorgerà solo Giuda, ma anche Israele. Entrambi saranno richiamati dalle regioni straniere nella propria terra (evidente allusione al rientro per effetto della conquista di Ciro nel 538; se ne deduce che il testo non può essere anteriore a tale data): Vi prenderò uno per città e due per tribù per condurvi in Sion […]. In quei giorni sarete numerosi e fecondi […] Gerusalemme sarà chiamata ‘trono di Yhwh’ […] la casa di Giuda camminerà con la casa di Israele e insieme verranno dalle regioni settentrionali per stabilirsi nella terra da me lasciata in eredità ai vostri padri (iii, 14-18).
È Yhwh che tira le fila della storia. Come per Isaia anche per Geremia gli invasori e i deportatori sono lo strumento di cui Dio si è servito per punire un popolo ostinato e perseverante sulla via dell’idolatria e del peccato. L’antica alleanza non ha tenuto, perché i sacerdoti hanno tradotto in prescrizioni i sacrifici e gli scribi hanno alterato l’autentico significato della legge (Jr, viii, 8). Non basta sacrificare con incenso portato da Saba; Yhwh non gradisce olocausti e sacrifici. Non è neppure sufficiente garanzia la sacralità del tempio; occorre che sia corretto il rapporto tra uomo e uomo, che non si opprimano lo straniero, l’orfano e la vedova: Mentre vi dichiarate salvi al cospetto del mio tempio, rubate, uccidete, commettete adulterio, spergiurate, offrite incenso a Baal. Perciò il tempio di Gerusalemme sarà abbandonato da Yhwh come è avvenuto per quello di Silo.
Yhwh non ha comandato di fare sacrifici e olocausti, ma di camminare sulla retta via. («Quando trassi fuori dalla terra d’Egitto i vostri padri, non diedi loro indicazioni né precetti circa l’olocausto e il sacrificio»). Occorre rifondare il rapporto tra Dio e il popolo; non servono più gli olocausti, non servono gli atti penitenziali che non partono dal cuore; non ci si salva con la circoncisione fisica se il cuore resta incirconciso: «Fatevi circoncidere per Yhwh e tagliatevi il prepuzio dal cuore» (Jr, iv, 4); bisogna che il cuore sia «lavato», purificato dall’iniquità. Il peccato di Giuda ha turbato il rapporto armonico con Yhwh (Jr, v, 25). Non ha più valore la vecchia alleanza; essa è caduta con l’abominio di Gerusalemme. Non salva un patto fondato sul
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puro formalismo; la giustizia non può consistere nel mero rispetto di precetti e di norme, ma deve essere scritta nel cuore. Occorre una nuova alleanza: «Ecco giorni verranno in cui stipulerò con Giuda e con Israele un nuovo patto […]. Questo sarà il patto che stipulerò. […] metterò nel loro intimo la mia legge e la scriverò sul loro cuore. Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Jr, xxx, 31-33). L’autore si spinge fino a mettere in crisi la dottrina della circoncisione e distingue tra circoncisione fisica e circoncisione del cuore (Jr, ix, 24-25). I termini di confronto sono Israele e le genti straniere. Non è la circoncisione che salva; non salvano le divinità straniere che sono realtà morte «come uno spaventapasseri in un campo di cocomeri» (Jr, x, 5). Yhwh è il «Dio vero, il Dio vivente, il re per sempre». La teoria della retribuzione deve coniugarsi con la giustizia. Pur chiedendo lo sterminio degli empi («Portali via come gregge destinato al macello, conservali per il giorno della strage» (Jr, xii, 3), il profeta si apre ad un timido universalismo, comunque mediato dalla religione giudaica; Yhwh non assegna ai popoli devastatori un destino di devastazione; egli userà nei loro confronti la misericordia e, se si sottometteranno alla legge, «dimoreranno in mezzo al mio popolo». Nei confronti di Giuda Yhwh sarà inflessibile, non ci sarà spazio per intercessioni: «chi è destinato alla morte, alla morte; chi è destinato alla spada, alla spada; chi è destinato alla fame, alla fame; chi alla deportazione, alla deportazione». Quattro saranno i castighi: la spada, i cani, gli uccelli e le fiere. Le genti straniere si giustificheranno per non avere conosciuto Yhwh e diranno: «I nostri padri non hanno ereditato altro che menzogne, inutile vanità», ma non potrà fare altrettanto Giuda. Yhwh conosce i peccati di Giuda, «esamina il cuore e scruta le viscere per dare all’uomo secondo i suoi meriti, secondo il frutto delle sue opere» (Jr, xvii, 10). Non c’è scampo per «l’uomo che confida nell’uomo e, allontanando da Dio il proprio cuore, pensa che il potere stia nella creatura»; solo per «l’uomo che confida in Yhwh, Dio sarà salvezza» (Jr, xvii, 5-7). Come il vasaio può decidere di distruggere il vaso venuto male, così Dio può fare con gli israeliti nei riguardi delle nazioni e dei regni; può «svellere, frantumare e annientare», ma può anche decidere di «costruire e piantare» (Jr, xviii, 7-9). L’invettiva di Geremia non risparmia la classe dirigente, i pastori del popolo, i profeti e soprattutto i falsi profeti; essi hanno disperso e maltrattato il gregge di Yhwh; dovranno perciò rendere conto del loro operato. Yhwh radunerà da tutti i territori il suo gregge disperso, lo ricondurrà ai suoi pascoli, farà
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sì che cresca e si moltiplichi; ricostruirà il regno di Davide: «Ecco verrà un tempo […] farò spuntare da Davide un germoglio giusto, che governerà da re e da sapiente: eserciterà la giustizia e il diritto sulla terra» (Jr, xviii, 7-9). Il messianismo isaiano prende ulteriore forma e si collega all’idea della nascita di un virgulto di Davide e della rinascita della monarchia giudaica. Con il capitolo xxv si apre la seconda parte del libro; vi abbondano i riferimenti storici, rapportati ad una visione profetica che sarebbe databile al quarto anno di Yoyaqim (604), corrispondente al primo anno di Nabucodonosor II (604-562), a ventitré anni di distanza dal tredicesimo anno di Giosia (640-36 = 604). Il contenuto della visione riguarda lo sterminio di Giuda da parte di Nabucodonosor e la profezia che l’esilio giudaico durerà settant’anni, passati i quali, anche Babilonia sarà punita per le sue colpe e sarà a sua volta ridotta in schiavitù da molte nazioni (intendi: dalla Persia) e da grandi re (Ciro il grande). Il dato cronologico relativo all’esilio non è congruente con la tradizione per la quale esso si sarebbe concluso nel 539-538 e sarebbe durato quarantasette anni (585-538 = 47). Se si suppone che la durata fu di settant’anni, l’esilio dovrebbe essere terminato nel 515. Per ovviare a questa incongruenza l’esegetica confessionale ritiene che il testo debba essere interpretato nel senso che i settanta anni andrebbero computati a partire dalla data della visione, cioè dal 604, sicché l’esilio scadrebbe nel 534, più prossimo alla datazione tradizionale. Ma questa interpretazione è del tutto fantasiosa, perché il testo dice chiaramente che Giuda avrebbe patito la schiavitù «per settanta anni». Un’ulteriore incongruenza sta nel fatto che l’autore della seconda parte profetizza la devastazione dei devastatori ad opera di Ciro e della Persia, mentre l’autore della prima parte l’aveva esclusa. Negli ultimi capitoli si parla dell’ordine che Geremia avrebbe ricevuto da Yhwh di mettere per iscritto le parole da lui pronunciate: Geremia invoca l’aiuto di Baruc che procede alla trascrizione sotto dettatura. Baruc legge nel tempio il contenuto del rotolo, ma l’anno successivo Yoyaqim lo fa bruciare, costringendo Baruc a scriverlo per la seconda volta. Sedecia fa arrestare il profeta che aveva messo in crisi le credenze tradizionali e lo fa gettare in una cisterna di fango da cui viene tirato su da Ebed-Melech, l’etiope (personaggio altrimenti sconosciuto). Ma rimane nello stato di prigioniero e viene liberato da Nabucodonosor. Il capitolo xxxix sull’assedio di Gerusalemme trae spunto da 2Re (xxv, 8-21), ma i personaggi citati (Nergal-Sarezer, Samgar-Nebo, Sarsechim, Rab-Mag) non hanno traccia né nei Libri dei Re né in quelli delle Cronache.
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13.4. Il profeta Ezechiele Il Libro di Ezechiele ( יחזקאלYechezqel) suggerisce nel prologo una datazione relativa alla prima visione profetica: essa dovrebbe risalire ad un imprecisato anno trenta che nei versetti successivi viene a corrispondere al quinto anno (593) di Yoyaqin. Ezechiele, figlio di Buzi, non altrimenti noto da altri libri del Tanakh (è citato solo dal Siracide, xlix, 8), avrebbe avuto una misteriosa visione, che è premessa di una missione affidatagli da Yhwh: quella di annunciare ad un popolo dalla dura cervice che Yhwh lo ha costituito come sentinella per la casa d’Israele. Il suo incarico consiste nel dare l’allarme ad Israele senza avere la responsabilità delle scelte del popolo. In un linguaggio simbolico, in cui sono ampiamente utilizzati la terminologia e i simbolismi di Geremia (Samaria e Gerusalemme due sorelle, la pentola sul fuoco, circoncisione del cuore, il germoglio di Davide, il pastore e il gregge, la vite infruttuosa, la spada, la fame e la peste), viene preannunciata la distruzione di Gerusalemme a causa del fatto che il popolo non ha rispettato la Legge. La condanna divina è totale: «I padri mangeranno i figli e i figli mangeranno i loro padri […] un terzo morirà per la peste […] un terzo cadrà di spada, e un terzo sarà disperso» in tutte le regioni (Ez, v, 10-12). Yhwh non avrà pietà, il tempo della sua ira è vicino. L’ossessiva insistenza sul tema dell’idolatria, la contaminazione del tempio con «raffigurazioni di ogni specie di rettili e di animali, le donne che piangevano Tammuz, la statua della gelosia» sono tutte cose che ci fanno toccare con mano quanto fossero radicati nei due regni del sud e del nord i culti di origine cananea all’epoca dell’assedio babilonese. La devastazione di Gerusalemme è letta come devastazione ad opera dello stesso Yhwh, il quale manda un uomo vestito di lino per segnare un tau sulla fronte di coloro che si affliggono per tutte le abominazioni commesse; poi invierà altri cinque uomini a sterminare «vecchi, ragazzi e ragazze, fanciulli e donne non contrassegnati con il tau (l’episodio sembra essere una variante della strage dei primogeniti egiziani al tempo di Mosè). Yhwh stesso abbandona il tempio, condanna i capi della città perché hanno lasciato che Gerusalemme diventasse una pentola e i suoi abitanti carne cucinata. Ma anche per l’autore di Ezechiele Yhwh non abbandonerà il suo popolo; lo radunerà dai paesi in cui è disperso e gli restituirà la sua terra: «Vi accetterò come aroma che placa […] tramite voi manifesterò la mia santità al cospetto delle nazioni» (Ez, xx, 41; xxviii, 25). Il rientro sarà un rinnovamento; saranno
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aboliti i culti idolatrici per rifondare l’alleanza su una legge iscritta nei cuori e non sulla pietra: «Quando rientreranno, i giudei rimuoveranno tutti i loro idoli e Yhwh darà loro «un solo cuore», infonderà «nel loro intimo […] uno spirito nuovo», eliminerà «dalla loro carne il cuore di pietra» e darà loro «un cuore di carne, affinché osservino la Legge: ‘essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio’» (Ez, xi, 17-20). Sopravvivrà solo un resto, solo «un piccolo numero» non soccomberà «alla spada, alla fame e alla peste» (Ez, xii, 15-16). Gerusalemme sarà una vite infruttuosa, una sposa infedele di origine bastarda («Così dice il Signore a Gerusalemme: tu sei cananea d’origine e di nascita, tuo padre era amorreo e tua madre hittita», Ez, xvi, 2), una prostituta, che si offrì agli dèi stranieri («Prendesti i tuoi figli e le tue figlie che mi avevi generato e li offristi loro in pasto, e come se non bastassero le tue nefandezze sgozzasti i miei figli e li offristi a loro facendoli passare per il fuoco» (espressione che si riferisce all’uso di sacrifici umani). Il capitolo xviii è il più originale perché in esso compare per la prima volta nel mondo giudaico il principio della responsabilità personale. L’autore parte da un proverbio popolare «I padri mangiano uva acerba, ma si guastano forse i denti dei figli?». Non si dovrà parlare più di colpa collettiva, di punizione che colpisce fino alla terza e quarta generazione. La responsabilità è personale. Le colpe dei padri non ricadono sui figli e quelle dei figli non ricadono sui padri. Ciascuno sarà giudicato secondo la propria condotta. Chiunque si converte e da malvagio diventa giusto non merita la morte; di contro la merita il giusto che commette un crimine e diventa malvagio. Nella sequela degli oracoli (capitoli xxv-xxxii) c’è qualche incongruenza di carattere storico. La più grave riguarda Tiro, che sarebbe stata assediata e distrutta da Nabucodonosor nell’undicesimo anno (riferito a che cosa?). Se si riferisce al regno di Yoyaqin, l’undicesimo anno coincide con il 587. Sappiamo che il sovrano babilonese l’assediò per tredici anni, dal 585 al 572. Tiro però non fu distrutta ad opera di Nabucodonosor, ma di Alessandro nel 322. Ne consegue che il Libro di Ezechiele non può ritenersi anteriore alla conquista macedone. Anche la devastazione dell’Egitto da parte del sovrano babilonese è notoriamente un falso storico. Nel capitolo xxxiv Ezechiele inveisce contro la classe dirigente, soprattutto sacerdotale, contro i pastori che pascolano se stessi, invece di pascolare le pecore. Il buon pastore è Yhwh, che trae in salvo le sue pecore e che va in cerca anche di quella perduta. Il capitolo è ricco di suggestioni simboliche. È il punto più alto della riflessione teologico-politica dell’autore. V’è una nuova allusione al rampollo di Davi-
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de: «Susciterò per loro [intendi i giudei e gli israeliti] un pastore unico […] il mio servo Davide sarà principe in mezzo a loro». Sarà rinnovata l’alleanza: Stipulerò con loro un’alleanza di pace: eliminerò dal paese le bestie nocive.(13) Santificherò il mio grande nome tra le nazioni […] e le nazioni sapranno che io sono Yhwh. Vi radunerò dalle nazioni, […] vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati […] vi darò un cuore nuovo. Toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Infonderò in voi il mio spirito […] e osserverete le mie leggi (Ez, xxxvi, 22-27).
Ritorna l’ideale della monarchia unica: Saranno uno solo in mano a me […]. Farò di loro un’unica nazione nel paese […] per tutti loro ci sarà un solo re, non saranno più due nazioni e non si divideranno più in due regni […] il mio servo Davide sarà loro re e tutti loro avranno un unico pastore (Ez, xxxvii, 19,-24).
Il testo si chiude con la minuziosa descrizione della ricostruzione del tempio e con una revisione del servizio sacerdotale che è poi speculare a quello che era lo stato della classe sacerdotale nel tempo in cui l’autore scrive. Il servizio levitico aveva subito col tempo una sorta di demansionamento e le funzioni sacerdotali erano state limitate alla casta dei sadociti. A questi è riservata l’educazione del popolo sui temi del sacro e del profano, del puro e dell’impuro; essi fungeranno altresì da giudici e pronunceranno sentenze in base alla legge; non avranno eredità e vivranno dei tributi e delle primizie offerte dal popolo. Tutto fa pensare che il Libro di Ezechiele non possa essere anteriore al iv secolo. 13.5. I profeti del Nord: Osea e Amos Osea ( הושעHoshea = Dio salva), figlio di Beeri (= il mio bene), profeta del nord, avrebbe esercitato la sua funzione durante i regni da Ozia (781-740) ad Ezechia (716-687) nel sud e di Geroboamo II (783-743) nel nord (Os, i, 1). Ma c’è una sfasatura tra la durata dei citati regni meridionali che si estende per oltre 80 anni e quella del regno settentrionale che durò solo (13) Ez, xxxiv, 23-25; cfr. anche xxxvii, 14.
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quarantuno anni dal 783 al 743. Egli avrebbe profetizzato la distruzione di Samaria, ma, come sappiamo, i dati cronologici, forniti dal 2Re, sono piuttosto confusi. È tuttavia strano che il profeta, che avrebbe preannunciato la devastazione di Samaria, abbia avuto lo stesso nome del re Osea, figlio di Ela, che per il 2Re subì da parte degli assiri lo sterminio e la deportazione della popolazione samaritana (2Re, xvii, 1-6; xviii, 1, 9-12). Lo stupore vien meno se si pensa che il profeta Osea non è veramente un personaggio storico, ma fittizio; è creatura di un anonimo autore che scrive tra il v e il iv secolo. Questa ipotesi, che può apparire ardita, emerge chiaramente da una serie di considerazioni. A parte le citate incongruenze cronologiche, che tra l’altro vanno ben oltre il testo di Osea, sono estremamente significative le denominazioni dei personaggi della narrazione. Accade spesso che gli scrittori ebraici inventino dei nomi che sono funzionali al racconto. Ciò vale solo in parte per il nome ‘Osea’ che significa «Dio salva»; vale particolarmente per i nomi dei suoi due figli, Iezreel (= Do semina), lo’ rahama (= non amata), la figlia secondogenita, e lo’ ammi (= non mio popolo) il figlio terzogenito. La stessa biografia di Osea è fittizia; Osea è portatore di un messaggio di salvezza; la moglie, la prostituta Gomer, figlia di Diblaim, è figura simbolica della prostituzione di Israele, cioè del suo cedimento al culto degli dèi stranieri (concetto che ricorre frequentemente nei testi profetici). Ma anche per Osea non è spenta la speranza della salvezza. Yhwh assicurerà agli israeliti una discendenza numerosa (essi «saranno numerosi come la sabbia del mare che non si può né misurare né contare […] non si sentirà dire: voi non siete il mio popolo» (Os, ii, 1). Yhwh perdonerà la sposa infedele; dalle sue labbra saranno rimossi i nomi degli idoli. Le oscillazioni dell’amore tra Osea e la moglie sono le stesse che hanno contrassegnato il rapporto tra Dio e Israele. Quali sono per Osea le colpe di Israele? La prima è l’ignoranza dei sacerdoti, i quali hanno lasciato il popolo senza la conoscenza di Yhwh, hanno dimenticato la legge ed hanno scelto l’idolatria. La seconda è la prostituzione del popolo agli dèi stranieri. Ne consegue che Yhwh ha pronunciato il suo verdetto contro i sacerdoti e contro il popolo: Giuda ed Efraim (nome spesso attribuito al regno del nord) si scontreranno in una guerra fratricida. Si tratta ovviamente della guerra siro-efraimita (736-732), che in realtà non fu un conflitto tra i due regni ebraici, ma tra gli assiri e la Siria, stato vassallo degli assiri, che tentò di riguadagnare la propria indipendenza. I due regni del sud e del nord, entrambi vassalli dell’Assiria, si schierarono rispettivamente con Tiglat-Pileser III e con la Siria. Il conflitto durò fino a che fu
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espugnata Damasco. I regni ebraici ne uscirono con le ossa rotte. La loro distruzione fu, secondo Osea, un segno della punizione divina della loro trasgressione dell’alleanza. Il messaggio di Osea è chiaramente volto a colpire la vecchia casta sacerdotale e i prìncipi della vecchia monarchia, legata – secondo il profeta o meglio secondo la nuova dirigenza sacerdotale che egli rappresenta – ad un formalismo ipocrita. È il solito tema che ritroviamo anche in Isaia, in Geremia e in Ezechiele. È l’idea del rinnovamento del patto, che non si fonda più sulla mera osservanza dei riti; sicché Yhwh dice: «Desidero lealtà, non sacrifici; la conoscenza del Signore, piuttosto che olocausti» (Os, vi, 6). Ma la classe dirigente è, secondo il profeta, corrotta; anziché contrastare l’idolatria del popolo, si divide al suo interno; gli uni tendono insidie agli altri. Invece di implorare l’aiuto divino, si affidano alle alleanze con le potenze straniere («Efraim si mescola tra i popoli. Efraim focaccia non rivoltata. Gli stranieri divorano le tue risorse» (Os, vii, 8-9). Israele è tra i popoli come un vaso senza valore»; il culto è degenerato: gli israeliti mangiano le carni delle vittime degli olocausti; hanno dimenticato il Signore, «hanno seminato vento e raccoglieranno tempesta» (Os, viii, 7). I profeti delirano, sono diventati folli, si oppongono nel tempio al loro Dio; hanno sostituito al potere regale di Yhwh quello di una monarchia terrena, retta da un potere umano; hanno sacrificato al vitello d’oro nel tempio di Betel, che, anziché chiamarsi Betel (=casa di Dio), dovrebbe chiamarsi Bet-Aven (= casa dell’empietà); per avere la salvezza hanno fatto affidamento sulle armi, ma da esse saranno trafitti. Tuttavia l’amore di Yhwh verso il suo popolo è inestinguibile come quello di Osea per la moglie-prostituta: Yhwh avrà misericordia del suo popolo, perché la sua misericordia è più grande dell’infedeltà di Israele :«Io sono un Dio, non un uomo, il santo in mezzo a te, e non un nemico che devasta» (Os, xi, 9). L’amore di Dio per Israele «sarà come rugiada, fiorirà come un giglio e affonderà le sue radici come un pioppo; metterà germogli; la sua magnificenza sarà come l’ulivo, il suo aroma come quello del Libano» (Os, xiv, 6-7). L’attività profetica di Osea è dall’autore collocata nell’viii secolo, ma di fatto il testo è composto dopo la conquista di Ciro (538). Se le critiche alla vecchia classe sacerdotale presuppongono la progressiva affermazione dei sadociti, la datazione del libro potrebbe cadere approssimativamente intorno al v-iv secolo. Anche Amos ( עמוסAmos = Yhwh porta, nel senso che porta il peso del suo popolo), profeta del nord, non è ricordato nei libri più antichi; ne troviamo una striminzita citazione nel libro di Tobia (Tb, ii, 6). Egli è ritenuto il pri-
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mo profeta scrittore. La sua attività profetica risalirebbe al 760. Pur dichiarandosi allevatore di pecore di Tekoa, città del regno di Giuda, a sud di Betlemme, la sua attività si svolge nel Nord, al tempo di Ozia (767-739), re di Giuda, e di Geroboamo II (783-743), re d’Israele, due anni prima del terremoto (760 ?). Le sue profezie riguardano la devastazione di Damasco (732), l’incendio dei palazzi di Ben-Adad (la stessa profezia è in Geremia, xlix, 27), la distruzione di Biqat-Aven, Bet-Eden (località non identificate), l’esilio di Aram a Kir = città (la stessa notizia è presente in 2Re, xvi, 9), la deportazione dei filistei di Gaza (ma la distruzione di Gaza fu opera dei Romani nel 96),(14) di Ašdod (Ašdod fu distrutta dagli assiri nel 711 e subì una nuova distruzione in età maccabaica),(15) di Ashkelon (conquistata dall’Assiria nel 733 e nel 701 e da Babilonia nel 598) di ‘Eqron (non si ha notizia di una sua distruzione). Contro i Fenici profetizza la distruzione di Tiro, che fu occupata nel 664 da Assurbanipal, assediata per 13 anni (585-572) da Nabucodonosor e distrutta da Alessandro nel 332. Per questa sfasatura cronologica Amos sembra dipendere da Isaia (xxiii, 1), il quale indica come nemici i kittim (= nemici, identificati forse prima con i greci e poi con i romani; cfr. i documenti di Qumran), da Geremia (xlvii, 4; iv, 19) e da Ezechiele (xxvi, 1-28), per il quale la distruzione fu decisa da Nabucodonosor, (ma questi non distrusse la città). Contro Edom profetizza l’incendio di Teman (od. Kuntilled Ajrud, della cui distruzione, più volte ricordata nell’AT,(16) non sappiamo nulla). Contro gli ammoniti profetizza l’incendio di Rabbà.(17) Contro Moab profetizza la distruzione di Keriot (città non identificata, cfr. Jr, xlviii, 24, 4); contro Giuda predice la distruzione di Gerusalemme (585). Il tratto più originale dell’autore di Amos sta nell’accento posto sui temi sociali. In particolare è di grande interesse l’invettiva contro la classe facoltosa e lo sfruttamento di chi soffre la miseria: Guai a coloro che mutano il diritto in assenzio e calpestano la giustizia […] voi vi comportate da esosi nei confronti del povero, dal quale prendete un tributo sul grano; per questo anche se avete costruito case di pietra squadrate, non le abiterete; anche se avete piantato splendide vigne, non ne berrete il vino […] voi opprimete il giusto, […] e in tribunale respingete il misero (Am, v, 7-13). (14) Cfr. 1Mc, xi, 61-62; Sf, ii, 4; Zc, ix, 5. (15) Cfr. 1Mc, iv, 15; v, 68; ix, 15; x, 77-84; xi, 4; xiv, 34; xvi, 10. (16) Jr, xlix, 7, 20; Ez, xxv, 13; Abd, 9. (17) Cfr. Jr, xlix, 2-3; Ez, xxi, 25; xxv, 1-6.
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V’è la stessa condanna degli altri profeti nei confronti del formalismo rituale: Non sopporto e rifiuto le vostre offerte; non mi piacciono le vostre assemblee solenni; anche se mi offrite olocausti, non gradisco le vostre oblazioni […] il suono delle vostre arpe non voglio sentirlo; piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un fiume perenne (Am, v, 21-24).
Aspra la condanna contro Israele: una condanna che non sarà revocata per almeno tre delitti di carattere etico e religioso: gli israeliti hanno «venduto il giusto per denaro e il misero per un paio di sandali […] padre e figlio frequentano la stessa donna […] nel tempio del loro Dio bevono il vino che hanno espropriato»; hanno fatto bere vino ai nazirei e hanno «intimato ai profeti di non pronunciare oracoli» (Am, ii, 6-8, 12). C’è forse in queste parole il segno di una conflittualità tra la classe sacerdotale e i circoli o congregazioni di profeti. Gli ultimi capitoli vertono sul ciclo di visioni del profeta: l’invasione delle locuste (prima visione), il fuoco distruttore (seconda visione), il filo a piombo, che significa la fine del perdono e la condanna della stirpe di Geroboamo II (terza visione), il canestro di frutta d’estate (qavis), come preannuncio della fine (qes) (quarta visione), la distruzione di Betel (quinta visione). Infine Yhwh esprime la sua sentenza definitiva: «Cancellerò dalla faccia della terra Israele, ma non eliminerò totalmente la casa di Giacobbe»; la scuoterà come si scuote un setaccio, ma alla fine prevarrà il messianismo: il messia rimetterà «in piedi la capanna di Davide», ricostruirà i suoi ruderi, la farà «tornare come era nel passato» (Am, ix, 8-11; passaggio che tradisce la notevole distanza di Amos dal tempo della monarchia davidica). A dispetto della pretesa antichità dell’attività profetica di Amos, taluni riferimenti storici e i toni apocalittici e messianici inducono a collocare il testo tra il iv e il iii secolo. 13.6. I profeti minori: Gioele, Abdia, Giona Anche di Gioele ( יואלYoel = Yhwh è Dio), figlio di Petuel, profeta del sud, non si trova traccia negli altri libri dell’AT. Il testo si apre con una metafora: l’invasione delle cavallette è l’invasione di un popolo straniero; il vino, simbolo di gioia, è finito; sono scomparse le offerte e le libagioni dal tempio di Yhwh e i sacerdoti sono invitati ad indossare la veste penitenziale. Le
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tematiche, la terminologia e i simbolismi sono gli stessi degli altri libri profetici. Il giorno della punizione divina, «giorno di tenebre e di oscurità», si avvicina (Yl, i, 15; ii, 1-2); un popolo nemico pone sotto assedio Gerusalemme. Fa da contrappeso la teofania di Yhwh: «davanti a lui trema la terra e i cieli si svuotano, il sole e la luna si oscurano, le stelle perdono lo splendore». Il popolo è esortato a ritornare al culto di Yhwh, che è «misericordioso e clemente, longanime e ricco di benevolenza e si commuove dinanzi alla sventura» (Yl, ii, 13). Il capitolo iii segna una svolta; si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un autore diverso da quello che ha scritto i primi due capitoli. La prospettiva diventa apocalittica ed escatologica: il giorno del Signore si rivela essere il giorno del giudizio universale; solo coloro che invocheranno il nome di Yhwh saranno salvati, perché sul monte di Sion, vi sarà un ‘resto’ (Yl, iii, 3). I popoli saranno convocati nella valle di Giosafat e Yhwh pronuncerà il suo verdetto contro i fenici e i filistei; contro di loro Giuda dovrà dichiarare la «guerra santa» (Yl, iv, 9). Se il capitolo iii sembrava aprire uno spiraglio di carattere universalistico («riverserò il mio spirito su tutti gli esseri umani»), di fatto il testo si chiude con una prospettiva nazionalistica, perché si rivolge solo a Giuda e a Gerusalemme che «sarà abitata per sempre […] di generazione in generazione» e sarà vendicata da Yhwh, che «abiterà in Sion» (Yl, iv, 20-21). Sebbene l’autore eviti di indicare le coordinate cronologiche dell’attività profetica di Gioele, gli accenni al sinedrio, al giudizio universale e alle problematiche apocalittico-escatologiche fanno pensare che la compilazione del libro sia databile tra il iii e il ii secolo. Anche il profeta Abdia ( עובדיהObadyah), servo di Yhwh, non ha citazioni nell’AT. Il testo non ci fornisce le coordinate cronologiche della sua attività profetica, rivolta esclusivamente contro Edom (ebr. admoni), un regno di origini semitiche che si estendeva tra la Giudea e l’Egitto. Dopo l’invasione assira della Giudea, gli edomiti godettero una pace durata quattrocento anni (586-186), allorché furono sottomessi dai nabatei. Nell’AT Edom, identificato con Esaù, fratello-nemico di Giacobbe, è costantemente additato come un nemico storico degli israeliti.(18) Il primo capitolo esprime una netta condanna degli edomiti i quali gioirono per la devastazione di Geru(18) Cfr. in proposito Nm, xx, 14-23; xxiv, 18; Dt, ii, 4-29; 1Sm, xiv, 47; 2Sm, viii, 13-14; 1Re, xi, 14-17; 2Re, viii, 20-22; xiv, 7-10; 1Chr, viii, 11-13; 2Chr, xxi, 8-10; xxv, 5-14; xix, 20. Analoghe profezie contro Edom si leggono in Is, xi, 14; xxxiv, 5-17; Jr, ix, 25-26; xxv, 21; xlix, 7-22; Ez, xxv, 12-14; xxxvi, 5; Dn, xi, 41; Yl, iv, 19; Am, i, 11-12.
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salemme da parte dei babilonesi. Non manca il tono apocalittico della visione: il giorno del Signore è vicino e incombe su tutte le nazioni. Edom sarà abbattuta da parte dei nabatei; sarà compensata secondo le sue opere, mentre Gerusalemme avrà un resto e il monte Sion sarà santo. L’allusione alla invasione nabatea fa sì che la datazione del testo non può ritenersi anteriore al iii-ii secolo a.C. Nonostante il successo avuto presso i cristiani, per i quali i tre giorni in cui Giona restò inghiottito da un pesce divennero figurazione simbolica dei tre giorni tra la morte e la resurrezione di Cristo, il Libro di Giona è di fatto un racconto fantasioso e del tutto privo di interesse. 13.7. I profeti minori: Michea, Nahum, Habacuc Michea ( מיכהMikhah = chi è Yhwh?), il moresita, profeta del sud, citato da Geremia (xxvi, 18), avrebbe profetizzato nell’viii secolo dal tempo di Yotam (740-732) a quello di Ezechia (716-686). Avrebbe predetto la distruzione di Samaria e la successiva rovina di Gerusalemme. Ha in comune con Amos gli stessi temi sociali: la condanna di chi trama inganni, ruba i campi, si impossessa delle case, maltratta l’uomo e la sua eredità. Michea si scaglia contro i falsi profeti e contro i governanti che snaturano la giustizia: le élites del potere non si prendono cura del diritto, odiano il bene e amano il male. I falsi profeti profetizzano per mettere qualcosa sotto i denti; i sacerdoti insegnano dietro compenso. Con l’utilizzo di una terminologia e di una simbologia consuete, l’autore si attende una rinascita nazionale: «raccoglierò il resto di Israele, li metterò insieme come gregge nel recinto, come mandria che muggisce al pascolo […] il loro re avanzerà per primo e Yhwh sarà alla loro testa» (Mi, ii, 12-13). In una visione apocalittica della fine dei giorni, Sion assume un ruolo pacificatore tra le nazioni: Avverrà nei giorni finali: il monte del tempio di Yhwh sarà saldo […] confluiranno verso di esso le nazioni […] Da Sion uscirà la legge [una nuova legge in contrasto con quella sinaitica?], la parola del Signore da Gerusalemme; giudicherà tra molti popoli, sentenzierà tra molte nazioni anche lontane, spezzeranno le spade e ne faranno aratri […] ciascuno riposerà sotto la sua vite e sotto il suo fico […] Tutte le nazioni camminino ciascuna nel nome del proprio dio, noi camminiamo nel nome di Yhwh (Mi, iv, 1-5).
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C’è forse uno spirito di tolleranza religiosa mai prima affiorato nel mondo ebraico. I deportati ritorneranno a Gerusalemme e in Giuda sarà restaurata la dinastia davidica. Israele starà fra molte nazioni «come un leone tra animali da selva». Vengono contestate antiche concezioni, non ci saranno più sacrifici di primogeniti: «Sacrificherò il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Ti è stato detto, o uomo, qual è il bene e cosa Yhwh si attende da te: compiere la giustizia e la benevolenza, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi, vi, 7-8). Il presente è, agli occhi del profeta, un tempo di decadenza morale: «l’uomo leale è sparito dalla terra; e tra gli uomini non se ne trova uno onesto»; gli uomini si aggrediscono l’un l’altro; «i giudici si lasciano corrompere […]; il figlio disprezza il padre». Michea si attende da Yhwh la salvezza. Il suo testo è forse databile al iv-iii secolo. Nahum ( נחוםNahùm = Yhwh ha consolidato), nativo di Elcos (città non identificata), è probabilmente profeta del nord, citato solo da Tobia (xiv, 4). Il Dio di Nahum è il Dio vendicatore, pieno di collera: stermina i suoi nemici, ma è nello stesso tempo un rifugio per i giorni dell’angoscia. L’autore profetizza con grande compiacimento la distruzione di Ninive (612), in cui vede la giusta vendetta, più che la punizione divina. Il testo potrebbe essere stato composto intorno al v secolo da uno spirito tradizionalista e nazionalista, animato da un violenta aspirazione alla vendetta. Habacuc ( חבקוקHabaqquq) non ha altre citazioni nell’AT, ma è ampiamente presente nella letteratura apocrifa. Non abbiamo di lui sufficienti dati biografici e possibili indicazioni cronologiche. Con il suo testo in ogni caso entra in crisi la teologia tradizionale: non è possibile che Yhwh, il Dio saggio e giusto, non risponda alle invocazioni dell’uomo giusto e non abbia un gesto di sdegno nei confronti della violenza che si consuma sotto i suoi occhi («Fino a quando, Yhwh, invocherò aiuto e non mi ascolti? Innalzo a te il mio grido ‘violenza!’ e tu non mi salvi? Perché mi fai vedere il male e mi metti davanti la sventura?», Hab, i, 1-3). Yhwh risponde di aver mandato un popolo sterminatore che farà strage dei peccatori. Ma com’è possibile che un dio santo e immortale sopporti il male e la sventura? Perché tace di fronte alla slealtà e lascia che il giusto sia divorato dall’empio? Seconda risposta di Yhwh: il giusto starà saldo e vivrà per la fede. Il profeta esplode in una nuova serie di invettive contro l’usura, l’avidità, la sopraffazione, la perversione, l’idolatria e ancora una volta si rivolge in termini critici a Yhwh: «Nella collera ricordati della misericordia». Dio entra nel mondo come un guerriero; «Tu percorri la terra e calpesti le nazioni. Sei uscito per salvare il tuo popolo,
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per salvare il tuo Unto, hai sfondato il tetto dell’empio […] con le tue frecce hai trafitto il condottiero». Habacuc attende «il giorno dell’angoscia che incombe sul popolo che ci ha assaliti: il fico non metterà germogli», la vite non produrrà vino e l’olivo non darà olio, i recinti saranno privi del gregge e la stalla priva di bestiame. Ma Habacuc esulterà e loderà il Dio della sua salvezza, perché prima o poi l’empio pagherà per le sue azioni. Anche il libro di Habacuc sembra essere opera di un nazionalista dell’età ellenistica, perché la sua è in fondo una teologia della crisi. 13.8. I profeti minori: Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia Il Libro di Sofonia ( צפניהTsefanyàh = Dio ha nascosto), profeta del sud, si snoda sugli stessi temi di altri testi profetici coevi. Anche Sofonia, figlio di Cusi (Cush= Etiopia), non è citato nel resto dell’AT. La sua attività profetica si collocherebbe al tempo di Giosia (640-609). Egli profetizza contro Gerusalemme, contro i filistei, contro i moabiti, contro gli ammoniti, contro gli etiopi e contro gli Assiri. Il suo tono è a tratti apocalittico («È vicino il gran giorno del signore […] giorno d’ira […] giorno di angustia e di afflizione; giorno di desolazione e di annientamento; giorno di tenebra e di oscurità»). Sofonia scrive avendo sotto gli occhi altri testi profetici, da cui trae suggestioni varie: si scaglia contro la classe dirigente (che certo non poteva essere quella del tempo di Giosia da lui apprezzato) e sentenzia contro Gerusalemme: In quel tempo scruterò Gerusalemme con lanterne e punirò gli uomini che, appesantiti dal vino, dicono tra sé: ‘Yhwh non opera né il bene né il male!’. Ebbene i loro averi saranno saccheggiati e le loro case demolite. Infatti hanno costruito case, ma non vi abiteranno; hanno piantato vigne, ma non ne berranno il vino (Sf, i, 12-13).
Yhwh ha preparato un banchetto sacro in cui castigherà i prìncipi e i figli dei re e coloro che vestono secondo la moda straniera (in età ellenistica). Tutta l’umanità sarà confusa per aver peccato contro Yhwh: il peccato di Israele si dilata fino a comprendere tutta l’umanità. Anche in Sofonia affiora un timido universalismo (saranno rese pure le labbra di tutti i popoli così che tutti possano invocare Yhwh). Il testo, che si chiude con il ritorno dalla
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diaspora, per il suo stesso contenuto non può essere anteriore al iv-iii secolo. Aggeo ( חגיHaggài = mia festa) e Zaccaria sono citati dal 1Ezra (v, 1; vi, 14). La visione di Aggeo è fatta risalire al secondo anno (520) di Dario (521486), quando Zorobabele riportò indietro gli utensili del tempio.(19) Il testo ha un solo nucleo centrale, la ricostruzione del tempio sotto la guida di Zorobabele (= ‘straniero in Babilonia’ oppure ‘dispersione e confusione’), figlio di Sealtiel, e di Giosuè, figlio di Iozedak, sommo sacerdote. A Gerusalemme si concentreranno tutte le ricchezze del mondo. Il secondo tempio sarà più splendido del primo, perché in esso sarà stabilita la pace. Il popolo non dovrà più essere contaminato, altrimenti contaminerà il tempio. La conclusione è messianica: sarà ribaltata la forza delle nazioni e saranno sconvolti i regni; Zorobabele, in quanto discendente di Davide (ma sulla sua appartenenza alla stirpe davidica ci sono dubbi), sarà «il sigillo» del nuovo regno. L’opuscoletto potrebbe essere datato al iv secolo. Il Libro di Zaccaria ( זכריהZekaryàh = Dio si è ricordato), citato da Ezra e da Neemia,(20) colloca, come quello di Aggeo, l’attività del profeta, figlio di Barachia, nel secondo anno del regno di Dario I (520). Il testo presenta una doppia introduzione (i, 1 e i, 7). Nella prima il tema è quello del ritorno (ritorno a Gerusalemme e ritorno a Dio); nella seconda si espongono le visioni profetiche. Nella prima visione l’angelo preannuncia il ritorno dopo settant’anni (si noti la dipendenza da Geremia) a Gerusalemme e la riedificazione del tempio. La seconda visione ripropone il tema delle quattro corna (quattro potenze: Assiria, Babilonia, Egitto, Macedonia) che hanno disperso Israele. Per la terza visione Gerusalemme non avrà più mura fortificate, ma spazi aperti; il signore colpirà Babilonia e in Sion trionferà la gioia. Non manca un timido accenno all’universalismo: in quel giorno nazioni numerose si uniranno a Yhwh, diventando un unico popolo. Yhwh dimorerà in mezzo al popolo di Giuda e si impadronirà di una porzione della terra santa. Nella quarta visione Giosuè, il sommo sacerdote, è posto sotto accusa da Satana: alla classe sacerdotale è addebitato il peccato di aver traviato il popolo, ma Giosuè, purificato da Yhwh, potrà amministrare il tempio, se osserverà i precetti del Signore. Yhwh farà venire il suo servo o germoglio (intendi Zorobabele più che un futuro messia). La quinta visione punta sul simbolismo del candelabro a sette bracci (simbolo del tempio) tra due ulivi (simboli (19) Per questo episodio, cfr. Ezr, i, 8-11; ii, 2; iii, 1-3, 8; iv, 2-3; v, 2,14-16; Neh, vii, 7; xii, 1-47; Sr, xlix, 11; Zc, iv, 6-10. (20) Ezr, v, 1; vi, 14; Neh, xii, 16.
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delle due colonne del tempio, ovvero del potere politico e di quello religioso). Nella sesta visione il simbolo è il rotolo volante contro i ladri e gli spergiuri; nella settima visione è allontanata da Gerusalemme l’efa dell’empietà. Con l’ottava visione i quattro cavalli sono simboli dei quattro venti: il vento del Nord (Babilonia) placa l’ira di Yhwh; evidentemente anche gli altri venti rappresentano potenze straniere. Viene riproposto il tema del germoglio (Zorobabele) che riedificherà il tempio; accanto a lui starà il sacerdote e tra i due poteri regnerà la pace. Nel capitolo vii si pone il problema del digiuno del quinto mese: ci si chiede se deve essere continuato anche dopo la restaurazione del tempio. La risposta di Yhwh è che il digiuno è solo una pratica esteriore; ciò che conta è il rispetto della giustizia e del diritto: agire con benevolenza significa non opprimere la vedova e l’orfano, né lo straniero e il povero. Nel capitolo viii il ritorno di Yhwh a Sion si configura come un idillio di pace. Vi sarà un seme di pace; la vite darà i suoi frutti. Se un tempo Giuda è stato una maledizione tra i popoli, ora sarà una benedizione. Si stabiliscono nuove norme etiche improntate alla lealtà reciproca e nuove norme religiose centrate sul digiuno. I capitoli ix-xiv per ragioni stilistiche sono attribuiti dagli esegeti ad un secondo Zaccaria, ma in sostanza l’autore ripete i temi del primo (oracoli contro le nazioni, distruzione di Damasco, di Tiro, di Sidone, di Ashkelon, di ‘Eqron, di Gaza, di Ašdod). Il suo messianismo consiste nel ritorno del re a Gerusalemme, in una prospettiva di pace universale: Giuda parlerà di pace alle nazioni e il suo regno si estenderà da mare a mare, dal fiume fino all’estremo limite della terra. Forse questo messia non è più Zorobabele, perché la visione si è dilatata (sebbene Giuda resti un arco teso contro i nemici, in particolare contro i greci). Nel capitolo xi si accenna ad un falso pastore che forse si identifica con la dinastia dei selgiucidi. Il capitolo xii ha di nuovo tonalità apocalittiche: «In quel giorno […] la dinastia davidica sarà come una divinità, come l’angelo di Yhwh. In quel giorno annienterò tutte le genti che vengono contro Gerusalemme»; sarà lavata l’impurità della casa di Davide; saranno sterminati tutti gli idoli stranieri. Ci sarà una guerra finale: Yhwh radunerà tutti i popoli della terra per combattere contro Gerusalemme, la città sarà occupata, le case saccheggiate, le donne violate. Ma uscirà Yhwh a combattere contro quei popoli; sarà un giorno unico, senza alba né tramonto e Yhwh regnerà su tutta la terra; i sopravvissuti di tutte le nazioni nemiche si recheranno in pellegrinaggio annuale al tempio di Sion. Le nazioni che non lo faranno saranno colpite dal castigo divino. Sia o no opera di due autori
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diversi, il Libro di Zaccaria non può datarsi se non agli ultimi decenni del iv secolo o ai primi del iii secolo. Le visioni dei primi otto capitoli sono sempliciotte, prive della suggestione delle altre visioni profetiche; esse appaiono per lo più cervellotiche e costruite a tavolino o a mente fredda; vi si alternano toni messianici, apocalittici, universalistici e nazionalistici in una concezione quasi delirante della fede tradizionale. Il libro di Malachia ( מלאכיMalaki = il mio messaggero), il cui nome non rientra nella tradizione ebraica e non è citato in altri testi veterotestamentari, non presenta alcuna originalità. I temi trattati sono gli stessi degli altri profeti: c’è la solita invettiva contro Edom, che, una volta devastato, sarà riedificato (eventi che si riferiscono al ii secolo); c’è l’invettiva contro i sacerdoti accusati di avere disprezzato e contaminato lo yhawismo, perché si sono allontananti dal retto sentiero ed hanno fatto inciampare gli altri con il loro falso insegnamento. Due sono i mali sociali che minacciano la purezza e la santità del popolo ebraico: i matrimoni misti e l’infedeltà coniugale. All’analisi del presente e del passato fa da contraltare la prospettiva apocalittica ed escatologica («Arriva il Signore degli eserciti: chi potrà resistere nel giorno del suo arrivo? […] Egli purificherà i figli di Levi come si fa con l’oro e con l’argento; allora essi saranno in grado di offrire a Yhwh un sacrificio di giustizia», Ml, iii, 1-3). Non ci sarà scampo per chi non cammina sulla retta via («Arriva il giorno del Signore, ardente come una fornace e non scamperà né radice né germoglio», Ml, iii, 19). Ma prima che ciò accada Yhwh manderà il profeta Elia (che non va identificato con Giovanni il Battista), che eserciterà un’azione educatrice, condurrà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, in modo che la venuta del Signore non si traduca in un nuovo sterminio: «Perché io non distrugga e non stermini la terra alla mia venuta» (Ml, iii, 24). Per il suo accento apocalittico si può ritenere che il Libro di Malachia sia databile intorno al ii-i secolo.
capitolo xiv
LE RADICI VETERO-TESTAMENTARIE: I KETUVIM
14.1. I Salmi ebr. תהיליםtehillîm = lodi I Salmi sono opera di squisita finezza letteraria, ma diciamo subito che non ce ne occupiamo né sotto il profilo letterario, né per la loro utilizzazione liturgica. Ci interessa invece sapere se da essi è possibile evincere un determinato substrato storico e se possono suggerirci informazioni circa la teologia ebraica ed eventualmente sugli sviluppi della religiosità giudaica. Purtroppo va detto che la loro affidabilità sotto il profilo che cerchiamo di ricostruire è spesso dubbia, poiché, com’è noto, ci sono pervenuti attraverso varie manipolazioni e rimaneggiamenti che rendono complessi sia il loro profilo evolutivo sia la loro datazione. I salmi infatti abbondano di ripetizioni di metafore e di simbolismi vari per cui Dio è definito roccia, rifugio, riparo per l’oppresso, scudo, rupe, difesa, sostegno, liberatore, luce, salvezza, forza della vita, amore, verità. Yhwh è giusto, altissimo, buono, retto, fedele, misericordioso, compassionevole, giudice, arbitro, grande ( יהוה גדולyhwh gādōwl); è signore degli eserciti (צבאות יהוהyhwh sebā’wōt), Dio di Israele (‘ אלהי ישראלĕlōhê yiśrā’êl), Re (melek )מלך, giudica con giustizia, intimorisce, è temibile, è pastore, salvatore, redentore; fa prodigi, ravviva la vita, è associato ai cieli e al loro splendore, ha un trono celeste, benedice il giusto, stermina i malvagi, fa piovere su di essi brace, fuoco e zolfo; abita a Sion, sul monte del suo Santo. Il popolo è sua proprietà, la tenebra è il suo velo, la sua voce è «tizzoni e scintille di fuoco»; per la sua ira trema la terra. Egli annienta il nemico, distrugge le città, fa sì che gli empi e 397
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i malvagi volgano agli inferi e che gli idolatri sprofondino nella fossa. Yhwh ascolta; i suoi occhi e le sue pupille scrutano gli uomini, ma nelle suppliche è rimproverato di nascondere il volto, di abbandonare il suo popolo, di dimenticarsene. In linea di massima si può dire che l’epoca della loro composizione va dal v al iii secolo e che le manipolazioni e i rimaneggiamenti che li riguardano si riferiscono al medesimo arco storico. Al terzo secolo risale la loro redazione definitiva, divisa in cinque libri (ciascuno chiuso da una dossologia finale), verosimilmente a specchio del Pentateuco. Il loro ignoto redattore ha dato il tocco finale all’opera di manipolazione aggiungendo in testa a ciascun componimento, fatta eccezione per 34 salmi cosiddetti ‘orfani’, delle soprascritte di non facile decifrazione. In esse compaiono termini ebraici intraducibili, come miktan, maskil, lammenasseah, solitamente tradotto con «maestro del coro», ma reso nella Septuaginta con l’espressione ‘per la fine’.(1) Altre annotazioni sono di tipo liturgico o sono didascalie riguardanti l’occasione della composizione. Ben più rilevanti sono nelle soprascritte le presunte annotazioni sull’autore o sugli autori dei testi. Tradizionalmente si è creduto cha la paternità dei salmi fosse davidica, in parallelo all’attribuzione del Pentateuco a Mosè. Ma si tratta di tesi insostenibile per il fatto che in molte composizioni, anche tra quelle attribuite a Davide, vi sono riferimenti storici di epoca posteriore alla presunta monarchia davidica. La soluzione adottata dal Concilio Tridentino, secondo cui i tehillîm sono opera di ispirazione davidica e non di Davide è inaccettabile sul piano razionale e scientifico e può essere accolta solo da credenti. D’altro canto non è neppure chiaro se il redattore abbia voluto attribuire i testi a Davide: va, infatti, decifrato il senso della preposizione le- che accompagna il nome di Davide nelle soprascritte, poiché essa può essere intesa nel senso di «salmo dedicato a Davide» più che di salmo di paternità davidica. Gli altri salmisti menzionati nelle soprascritte sono: Asaf, i figli di Core, Salomone, Eman l’ezraita, Etan l’ezraita, Mosè e Idutun.(2) Molto probabilmente Eman ed Etan sono la stessa persona. Asaf, i figli di Core, Eman, Etan e Idutun erano leviti e forse i loro sal(1) Per la soprascritta miktan, cfr. Salmi xvi, lvi-lx; per lammenasseah v. Salmi iv-vi, viii-ix, xi-xiv, xviii-xxii, xxxi, xxxvi, xxxix-xlii, xliv, xlvi-xlvii, xlix, li-lxi, lxiv-lxx; per maskil v. Salmi xxxii, xlii, xlix-xlv, lii-lv, lxxiv, lxxviii, lxxxviii-lxxxix, cxlii. (2) Dodici salmi (l, lxxiii-lxxxiii) sono attibuiti ad Asaf, undici (xlii, xliv-xlix, lxxxiv-lxxxv, lxxxvii-lxxxviii) ai figli di Core, due (lxxii, cxxvii) a Salomone, uno (lxxxviii) ad Eman l’ezraita, uno (lxxxix) ad Etan l’ezraita, uno (xc) a Mosè e tre (xxxix, lxii, lxxvii) a Idutun.
I.14 Le radici vetero-testamentarie: i Ketuvim
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mi facevano parte di una raccolta di salmisti leviti. Tutto il salterio sembra essere un insieme di raccolte di varia tipologia. Non è ben chiaro se esse furono distribuite nei cinque libri secondo un definito progetto o a caso. Gli esegeti cristiani individuano una serie di tipologie di salmi e li distinguono in inni, suppliche, ringraziamenti, requisitorie, salmi messianici, sapienziali, storici, liturgici, salmi di salita a Sion e salmi del regno di Dio. Ma si tratta di schemi per lo più artificiosi, perché nella maggior parte dei casi le varie tipologie e le loro relative problematiche spesso si intrecciano anche all’interno di ciascun salmo. Taluni salmi o taluni frammenti di salmi sono più antichi ma difficilmente sono anteriori al v secolo. Forse per il loro stesso genere si possono considerare antichi gli inni, che sembrano ispirarsi alle letterature vicino orientali. Suggestioni di origini egiziane sono ormai riconosciute nei salmi xix (i cieli narrano la gloria di Dio) e civ che attingono all’inno al dio Aton di Amenofi IV).(3) Analogie con l’innologia egizia emergono anche nel salmo ciii: «Yhwh è il redentore della tua vita dalla tomba […]. Yhwh è misericordioso e compassionevole, lento all’ira e grande nell’amore […] egli conosce com’è il nostro istinto, ricorda che siamo polvere. L’uomo: i suoi giorni come l’erba! Egli spunta come il fiore dei campi […] ha il suo trono nei cieli, il suo regno è su tutto l’universo». Nell’inno xxix affiorano forse reminiscenze cananaiche o ugaritiche(4) nel verso 10: «Yhwh presiede la tempesta». Suggestioni accadiche,(5) derivate dal poema Ludlul bel nemeqi (voglio lodare il signore della sapienza), sono ravvisabili soprattutto nelle suppliche individuali. In ogni caso tali influenze non implicano un’eccessiva antichità dei salmi, poiché quelle suggestioni non risalgono ad un’età anteriore al quinto secolo.
(3) Cfr. S. Donadoni, La letteratura egizia, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 159-160; Idem, Testi religiosi egizi, Torino, Utet, 1977, p. 272. (4) Cfr. M. Baldacci, Il libro dei morti della antica Ugarit, Casale Monferrato, Piemme, 1990, p. 10. (5) Cfr. G. R. Castellino (a cura di), Testi sumerici e accadici, Torino, Utet, 1977, pp. 478-492.
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14.2. Le suppliche Le suppliche, siano esse collettive o individuali,(6) nascono dal dolore e dall’angoscia. La supplica del Salmo xxxv, assume i toni di un rimprovero nei confronti della divinità, perché l’autore si sente da essa abbandonato, allorché si confronta con le fortune degli empi: «Fino a quando starai a guardare Yhwh? […] Yhwh tu hai visto: non tacere, mio Signore, non startene lontano». Lo stesso tono è nel Salmo xiii: «Fino a quando Yhwh continuerai a dimenticarmi, fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nutrirò ansietà dentro di me, angoscia nel mio cuore tutto il giorno, fino a quando su di me prevarrà il mio nemico?». Non si tratta di un salmo antico, perché in esso è superata l’idea che la visione del divino comporta la morte. Il Salmo xxxi è una supplica che parte da una condizione di angoscia e di dolore: «Abbi pietà di me, o Yhwh, io sono nell’angoscia, il dolore mi consuma gli occhi, la gola e le viscere. La mia vita si estingue nell’afflizione, i miei anni nel patire». Il Salmo xxxvi è una denuncia della decadenza del sentimento religioso: «Non c’è il timore di dio davanti ai suoi occhi» e tuttavia «l’amore di Yhwh è più esteso del cielo, la sua fedeltà più avvolgente delle nubi». Altre volte il salmista soffre per il senso di abbandono. Tale è il caso del Salmo xxii: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? […] grido di giorno e non rispondi, di notte non c’è tregua per me […] Non starmi lontano, l’angoscia è vicina!». È una supplica individuale con tonalità messianiche solo in apparenza; in realtà è la sofferenza di un intero popolo che si scopre sopraffatto dal male e da nemici malvagi e che proietta in un remoto futuro la salvezza. Non a caso il testo è saccheggiato dagli evangelisti: «Mi circonda un branco di cani […] tra di loro si dividono le mie vesti, sulla mia tunica tirano a sorte; […] a Yhwh appartiene il regno, è lui il dominatore delle genti. Davanti a lui si prostreranno i potenti […]. Una discendenza servirà il Signore, si racconterà di lui alla discendenza futura»). Anche il Salmo xliv è una supplica utilizzata dai cristiani:
(6) Per le suppliche individuali, cfr. Salmi iii, v, vi, vii, xi, xiii, xvii, xxii, xxv, xxvi, xxviii, xxxi, xxxv, xxxvi, xxxviii, xxxix, xli, xlii, xliii, li, liv, lv, lvi, lvii, lix, lxi, lxiii, lxiv, lxix, lxx, lxxi, lxxxvi, lxxxviii, cii, cix, cxx, cxxx, cxl, cxli, cxlii, cxliii. Per le suppliche collettive, cfr. Salmi xii, xliv, lviii, lx, lxxiv, lxxvii, lxxix, lxxx, lxxxiii, lxxxv, xc, xciv, cviii, cxxiii, cxxix, cxxxvii.
I.14 Le radici vetero-testamentarie: i Ketuvim
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Non fu la loro [dei padri ] spada a conquistare la terra […] ma fosti tu […] con la luce del tuo volto perché li amavi […]; non è nelle armi che confido, la mia spada non può darmi la salvezza […] Ma adesso ci respingi e umili; tu diserti le nostre battaglie, ci fai fuggire davanti all’avversario, ci spogliano i nostri nemici. Ci consegni come agnelli al macello, ci disperdi in mezzo alle genti […] fai di noi la favola delle genti […] la vergogna copre il mio volto […] Tutto questo è piombato su di noi, ma noi non ti avevamo dimenticato, la tua alleanza non avevamo smentito […] Ma è per te che siamo uccisi ogni giorno, trattati come agnelli da macello. Svegliati Signore! Perché dormi? […] Siamo ridotti a mordere la polvere, il nostro ventre aderisce alla terra.
È questo uno dei componimenti poeticamente più riusciti. Ma forse è anch’esso il risultato di interventi successivi, come si evince dal fatto che il livello poetico dei primi nove versetti è inferiore agli ultimi 10-27. Il Salmo xlii è una supplica, piena di fiducia, che nasce dalla certezza della tutela divina: «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò a contemplare il volto di Dio? […] Perché sei triste, anima mia, perché sei turbata? Spera in Dio! Ancora lo celebrerò: il volto di Dio è salvezza!».(7) Nel Salmo lv dal timore del male e dal terrore degli empi sorge il desiderio di evasione: «Dentro di me si torce il mio cuore, terrori di morte mi assalgono, timore e tremore mi penetrano, lo sgomento mi invade. E dico: ‘Chi mi darà ali di colomba? Volerei a ripararmi, fuggirei lontano, lontano abiterei, nel deserto raggiungerei un riparo dal vento di tempesta». Le soprascritte dei Salmi liv, lvi («Quando i filistei lo tenevano prigioniero a Gat») e lvii (quando fuggì di fronte a Saul nella grotta) mirano a retrodatarli, ma essi non possono essere anteriori al periodo di Giosia, poiché citano il Libro della legge: «Tutto sta scritto nel tuo libro». Analoga finalità ha la soprascritta del Salmo lix («Quando Saul mandò a sorvegliare la sua casa per metterlo a morte», il quale è un’invocazione al dio degli eserciti con l’invito allo sterminio dei nemici: «Annientali con ira, annientali e non siano più; sapranno che Dio governa in Giacobbe fino ai confini del mondo». Il Salmo lxi, pur essendo una supplica dall’esilio, non è di per sé riconducibile al sesto secolo: «Con cuore abbattuto ti invoco da terre lontane […]; possa abitare nella tua tenda per sempre, rifugiarmi all’ombra delle tue ali» (comincia a proiettarsi nel futuro il messianismo: cfr. i versetti: «Aggiungi giorni ai giorni del Re, i suoi anni diventino eterni»). (7) Il versetto 6 riproduce il versetto 5 del Salmo xliii.
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All’esilio è altresì riconducibile il Salmo lxxxv: «Yhwh, tu ami la tua terra, fai tornare i deportati di Giacobbe […] ritira tutto il tuo furore, recedi dall’ardore della tua ira». Gli ultimi versi idealizzano il regno messianico: «si incontreranno amore e verità, si baceranno pace e giustizia, la verità germoglierà dalla terra, dal cielo si affaccerà la giustizia». Accenti universalistici sono riscontrabili nel Salmo lxvii, ove la salvezza divina è auspicata a «tutte le genti». Il Salmo lxviii apre all’idea escatologica della salvezza dalla morte: «padre degli orfani e difensore delle vedove, Dio abita la dimora del suo Santo […]. Dio è per noi il Dio salvatore, Yhwh è potente sulla morte». Il Salmo lxix è stato ampiamente sfruttato per costruire la successiva cristologia: «Salvami Dio, l’acqua mi arriva alla gola! Affondo in un abisso di fango […] il vortice mi inghiotte […] volgiti a me nella tua grande misericordia, non nascondere il tuo volto al tuo servo […] mi danno come cibo del fiele, nella mia sete mi fanno bere aceto». Ma è salda la fede nella rinascita di Gerusalemme: «Dio salverà Sion e ricostruirà le città della Giudea, ne farà una dimora, un possesso, un’eredità per la stirpe dei suoi servi, una dimora per gli amanti del suo nome». Nel Salmo lxxxvi prevale la concezione del dio misericordia e amore: «Ma tu Signore, Dio misericordioso e compassionevole (‘êl rahūm wehannūn), lento all’ira, grande nella misericordia e nella verità» (gli stessi versetti sono ripetuti nel Salmo ciii). Il Salmo xc, attribuito a Mosè, è dominato dal senso della fragilità del tempo, della vita e di tutto il creato: «Ai tuoi occhi mille anni come il giorno che è passato, come un’ora di veglia nella notte. Li fai svanire come un sogno al mattino, sono come l’erba che germoglia; al mattino germoglia e fiorisce, alla sera è falciata e avvizzisce». 14.3. I salmi sapienziali Risentono di una visione teologica più recente i salmi sapienziali(8)che pongono l’accento sulle due opposte vie, del bene e del male, del giusto e del malvagio: il successo degli empi è effimero: «non temere se l’uomo si arricchisce, se accresce il lusso della sua casa; quando muore non porta nulla con sé, il suo sfarzo non scende con lui (xlix); «presto [gli empi] appassiranno come l’erba, avvizziranno come il verde dei prati […]; i poveri erediteranno la terra e godranno di una pace sconfinata» (xxxvii). E tuttavia la felicità dei malvagi resta incomprensibile: «Fino alla morte non trovano intralci […] (8) v. Salmi i, xxxvii, xlix, lxxiii, xci, cxii, cxix, cxxvii-cxxviii, cxxxiii, cxxxix.
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non sono colpiti come gli altri mortali […] il loro occhio brilla di benessere, al loro cuore traboccano le voglie» (lxxiii). A fronte di questa ingiustizia il giusto trova rifugio in Dio: «Yhwh è il mio rifugio, mia forza, mio Dio, presso cui sono sicuro» (xci). In qualche salmo si avverte una certa sintonia con l’insegnamento del Deuteronomio soprattutto in tema di amore per la legge e per Yhwh («Ti cerco con tutto il mio cuore […] io sono uno straniero sulla terra […] ogni istante il mio essere si consuma per il desiderio dei tuoi giudizi»). Scritto in un’età di crisi («I miei occhi versano torrenti di lacrime perché non si osserva la tua legge») lo stesso salmo riduce la legge al formalismo dei precetti, più che ad una vera e propria interiorizzazione del divino» (cxix). Il Salmo cxxxix presenta tracce di una teologia più matura: c’è una discrasia tra Dio che conosce tutti i pensieri dell’uomo («Tu discerni da lontano i miei pensieri. Mi esamini quando cammino e quando riposo, ti sono note tutte le mie vie, le mie parole non ancora pronunciate. Mi precedi, mi segui, mi stringi e poni su di me la tua mano») e l’uomo per il quale i pensieri divini sono insondabili. Ma, per paradossale che possa sembrare, la poesia dell’ignoto salmista nasce dall’odio e di esso si alimenta: «Non devo forse odiare chi ti odia, detestare i tuoi avversari, Yhwh? Li odio con odio totale, li ritengo miei propri nemici» (cxxxix). Il tema sapienziale della vanità delle ricchezze è il cuore del Salmo xlix: «A Dio non si può pagare la redenzione [cioè non si può riscattare la libertà]; non c’è prezzo al riscatto di una vita sempre insufficiente per vivere in eterno». Il Salmo cxxxix, evidentemente influenzato dalla cultura ellenistica, evidenzia una maggiore maturità filosofica: «Dio è scrutatore dei nostri pensieri»: la shekhinah non è più la presenza divina nella dimora, ma è la presenza in tutte le cose: «Dove potrò sottrarmi al tuo spirito? Dove sfuggire alla tua presenza? […] Insondabili sono per me i tuoi pensieri, infinita la loro somma, o Dio! Se li conto, sono più della sabbia». 14.4. I salmi di ringraziamento Un’ulteriore sfumatura del sentimento religioso è il ringraziamento che affiora in una collana di salmi(9) ed è mirabilmente espresso nel Salmo xl: «[Yhwh ] mi ha fatto risalire dalla fossa di morte, dalla palude fangosa ha innalzato i miei piedi sulla rupe […]. Quante meraviglie ha fatto per noi, (9) Sono di ringraziamento i salmi ix, x, xxx, xxxii, xxxiv, xl, xcii, cxvi, cxxxviii.
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Yhwh, mio Dio […]. Per me sta scritto sul rotolo del libro di fare la tua volontà. Mio Dio, è questo ciò che desidero: la tua legge nelle mie viscere». Il Salmo xxx potrebbe essere definito salmo della resurrezione: «Dagli inferi hai fatto risalire la mia vita, mi hai fatto rivivere tra i discesi nella tomba». Nel Salmo xxxii prevale il tema della liberazione dall’angoscia di chi confessa le proprie colpe, i peccati e le ribellioni contro Yhwh. Il Salmo xcii scaturisce dal sentimento della distanza sconfinata tra Dio e l’uomo e dal senso della profondità del pensiero divino: «Come sono grandi le tue opere, Yhwh, quanto sono profondi i tuoi pensieri! L’uomo ottuso non può conoscerli, l’insensato non può penetrarli». 14.5. I salmi storici I cosiddetti salmi storici(10) non vanno scambiati per salmi antichi, magari risalenti allo stesso Davide; in essi c’è la memoria del passato secondo la logica della trasgressione-punizione, ma il tema più importante è la sostituzione di Giuda ad Israele: Si pensi in proposito al Salmo lxxiii: «[Yhwh] rigettò la tenda di Giuseppe, non scelse la tribù di Efraim, ma elesse la tribù di Giuda, la montagna di Sion, ch’egli ama, innalzò il suo Santo alto come il cielo, come la terra stabile per sempre. E scelse Davide suo servo […] per farne il pastore di Giacobbe, suo popolo, di Israele sua proprietà» (cfr. anche il Salmo cxiv). Il Salmo cvi, che ritorna sugli stessi temi storici e condanna severamente Israele, potrebbe definirsi un salmo della diaspora, poiché auspica il rientro in Gerusalemme: «Salvaci, Yhwh, nostro Dio, radunaci da tutte le genti». Dello stesso tono è il Salmo cvii (ringrazino Yhwh i riscattati, «radunati da tutte le terre dal nord e dal mare, dall’oriente e dall’occidente; alcuni vagavano nel deserto su strade perdute senza trovare città in cui abitare, affamati e morenti di sete la loro vita in essi languiva»). Gli ultimi salmi storici, forse sotto l’influsso dell’ellenismo, hanno un respiro filosofico più maturo e muovono i primi passi verso una spersonalizzazione di Dio: «Grande è il mio Signore […], la sua grandezza non si può misurare […], si racconta la tua potenza temibile; io proclamo la tua grandezza» (cxlv); «Yhwh rimane fedele per sempre; rende giustizia agli oppressi, dona il pane agli affamati, libera i prigionieri […], apre gli occhi ai ciechi» (cxlvi); «la sua sapienza non si può misurare» (cxlvii). (10) Sono storici i salmi lxxviii, cvi-cvii, cxiv, cxxxv-cxxxvii, cxlv-cl.
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14.6. I salmi di Sion I salmi di Sion, detti anche della salita a Sion, sviluppano il tema che diverrà assai caro al giudaismo medio e al nascente cristianesimo, della coabitazione con Dio. Il Salmo xlvi allude a Gerusalemme che è «dimora dell’altissimo»». Tutto passa e vacilla sotto i colpi del tempo: «le genti sono scosse e i regni vacillano, la sua voce risuona e la terra è sconvolta», ma «Yhwh, il Signore dell’universo è sempre con noi». È il tema della presenza divina (shekhinah )שכינה, che però è riferita all’altura di Sion. Lo stesso sentimento è espresso più intensamente nel Salmo xxvii: «Una sola cosa ho chiesto a Yhwh questa sola cerco: abitare nella casa di Yhwh tutti i giorni della mia vita, contemplare la bellezza di Yhwh, cercarne la presenza». Così è anche nel Salmo xlviii: Sion è «la montagna del suo Santo, l’altura stupenda […] il monte Sion è il polo della terra, la città del gran re». Il Salmo lxxvi sancisce ormai il primato della Giudea: da essa è partito il culto di Yhwh: «Dio si è fatto conoscere in Giudea, in Israele è grande il suo nome; è in Shalem la sua tenda e in Sion la sua dimora». Ma si tratta ancora una volta di un Dio guerriero e temibile, di fronte al quale «i più forti vengono meno, sono tramortiti e spogliati; i guerrieri si ritrovano inermi alla tua minaccia, Dio di Giacobbe, sono paralizzati carri e cavalli. Tu sei temibile! Chi resiste al tuo volto quando si scatena il tuo furore?». Ma per quello stesso Dio temibile il fedele è consumato dall’amore e dal desiderio di dimorare con Lui: «Quanto sono amabili le tue dimore. Yhwh, dio degli eserciti! L’anima mia si consuma e desidera essere con te» (lxxxiv). In Sion «tutti danzeranno cantando: ‘In te le nostre fonti!’» (lxxxvii); lì salgono le moltitudini del Signore» (cxxii); «il re della gloria» è «Yhwh potente nella lotta» (xxiv). «Amo la casa dove dimori – scrive l’autore del Salmo xxvi – il luogo dove abita la tua gloria». 14.7. I salmi messianici Un discorso a parte meritano i cosiddetti salmi messianici (ii, xviii, xxxxi, xlv, lxxii, lxxxix, ci, cx, cxxxii, cxliv).(11)La loro denominazione introduce in realtà simbolismi che sono estranei ai testi. Fuorviante è al(11) Sui Salmi messianici v. S. Mowinckel, Psalmenstudien, ii: Das Thronbesteigungsfest Jahwes und der Ursprung der Eschatologie, Kristiana, Dybwad, 1922.
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tresì la traduzione dell’ebraico melek con l’italiano ‘Re-Messia’, poiché rafforza la loro interpretazione cristianizzante. È sì vero che in ebraico il ‘re’ è anche un ‘unto’ ovvero un ‘messia’, ma il rafforzamento ‘Re Messia’ ha l’effetto di introdurre suggestioni cristiane. Per non perdere di vista la dimensione storica effettiva occorre chiarire chi è propriamente il re a cui essi fanno riferimento. In primo luogo va detto che Yhwh e il messia sono due identità distinte. Ciò si evince chiaramente dal Salmo ii: «i re della terra cospirano insieme contro Yhwh e contro il suo Messia (we’al mešîhōw) […]. Io stesso ho unto il mio Re su Sion, il monte del mio santo». Ed allude ad un regno universale in cui tutte le genti sono votate allo yhawismo: «‘Tu sei mio figlio (benî), io oggi ti ho generato, chiedi a me, ti darò in possesso le genti, in dominio le terre più lontane’. Siate saggi […] servite Yhwh con timore ed esultate in lui con tremore». Se dobbiamo stare alla lettera, questo salmo auspica il ritorno alla monarchia, non più a quella striminzita del piccolo regno di Giuda, ma ad un ipertrofico regno, non mistico, ma concreto e universale, che abbraccia tutte le genti a compenso di tutte le sofferenze e le angosce patite dal popolo. Il salmo messianico xviii, forse più antico, ma non certo davidico, ha presumibilmente come protagonista Davide. Più che un compenso, il regno universale è pensato come vendetta divina: «Dio mi vendica; sottomette i popoli al mio potere». Per ciò stesso Davide è invincibile e inarrestabile: Dio mi cinge di vigore […] con l’agilità dei cervi mi fa correre […] inseguo i miei nemici […], li colpisco, non potranno rialzarsi e cadono sotto i miei piedi […]; essi chiamano e non c’è un salvatore […], li disperdo come polvere al vento, li calpesto come fango delle strade […] mi poni a capo delle genti […] all’udirmi subito mi obbediscono; questi stranieri si sottomettono a me.
Il Salmo xlv è un canto d’amore per nozze regali con la promessa di una discendenza eterna. Il ventesimo auspica la protezione divina nel momento dell’angoscia (sārāh = soffocamento). Il ventunesimo è un canto di vittoria: «Yhwh ha esaudito il desiderio del suo [del Re] cuore»: Tu gli poni sul capo una corona di oro puro, la vita che ti ha chiesto tu gliel’hai data lunga di giorni, in eterno, senza fine […] la tua mano troverà i tuoi nemici […], li getterai in una fornace ardente […], li consumerai in
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un fuoco divorante farai sparire il loro frutto dalla terra, il loro seme di mezzo agli uomini.
Il regno universale sarà un regno dell’abbondanza: «abbonderà il grano sulla terra, ondeggerà sui dorsi delle colline». La vita del suo re «durerà come il sole, come la luna di età in età […] dominerà da un mare all’altro e dal fiume ai confini della terra […]; tutti i re si prostreranno a lui, lo serviranno tute le genti, Yhwh libererà il misero che grida, il povero che non trova aiuto». Il Salmo lxxxix, attribuito ad Etan l’ezraita, segna il passaggio dalla monarchia davidica alla monarchia yhawista («di Yhwh è il nostro scudo, il nostro Re, del Santo di Israele»). Yhwh farà di Davide il suo primogenito: «gli conserverò il mio amore in eterno, non verrà mai meno la mia alleanza con lui, stabilirò il suo seme per sempre, il suo trono durerà quanto il cielo». Ma il testo si chiude con una requisitoria: «Fino a quando ti nasconderai Yhwh? Arderà per sempre come fuoco la tua ira? Ricorda quanto è breve la mia vita, quanto fragile hai creato ogni uomo». Ho tuttavia l’impressione che tra i due temi ci sia uno stacco troppo netto. Con il Salmo cx, ampiamente utilizzato dai cristiani, si chiarisce che il Re è un sacerdote melchizedekiano: «Siedi alla mia destra [si riferisce a Davide] finché non metterò i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi […]. Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchizedek». Il cxxxii è il salmo della promessa: «Yhwh ha giurato a Davide […]:’io metterò sul tuo trono un uomo frutto delle tue viscere […] Yhwh ha eletto Sion, l’ha voluta come sua dimora: ‘ecco il mio riposo per sempre […] vestirò di salvezza i suoi sacerdoti […]. Lì susciterò una forza a Davide, preparerò una lampada al mio Messia». La prospettiva muta radicalmente con i cosiddetti salmi del regno di Dio (xciii, xcvi-xcix), anch’essi molto utilizzati in ambito cristiano. Se nei salmi messianici si parla di un re terreno, in questa ultima raccolta il regno è divino, molto vicino al regno dei cieli, atteso dagli evangelisti: «Yhwh è Re! È vestito di bellezza, il Signore è avvolto di forza» (xciii). «Grande Dio è Yhwh, Re grande su tutti gli dèi: nella sua mano gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti, suo è il mare […]. Noi siamo il popolo del suo pascolo, le pecore guidate dalla sua mano» (xcv). «Yhwh è grande e degno di lode, temibile più di tutti gli dèi; sono un nulla gli dèi delle genti» (xcvi). Il suo è il regno della salvezza e della giustizia, esteso anche alle genti. Anche nella teologia più antica la salvezza è la giustizia; ma paradossalmente la giustizia prescindeva dalla responsabilità individuale, perché era punizione collettiva della
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caduta collettiva nel peccato; una generazione pagava per le deviazioni delle generazioni precedenti. Nei salmi del regno di Dio la giustizia è proiettata nel futuro; da ciò la loro sostanza profetica e la proiezione del futuro alla fine dei tempi e al giudizio universale, che porterà allo sterminio del male e alla salvezza del bene. Poiché secondo la teologia meridionale tale operazione di sterminio e di salvezza non può essere una operazione umana, la soluzione del problema del bene e del male è affidata nelle mani di Yhwh. È Yhwh che ha fatto conoscere la sua salvezza ed ha rivelato alle genti la sua giustizia. Dio è giudice (tonalità apocalittica): «Egli giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con la sua rettitudine» (xcviii). 14.8. Gli altri Ketuvim: Rut e le Lamentazioni Il Libro di Rut (ebr. )רותè un vero e proprio modello della tipologia narratologica degli ebrei. Esso non è un romanzo, né una storia. Non è un romanzo che si presenta di per sé come mera invenzione letteraria; non è una storia che narra vicende realmente accadute, ma è la costruzione di un mito che è sì una invenzione letteraria, ma ha la pretesa di essere narrazione storica. Tali del resto sono il cosiddetto ‘romanzo di Giuseppe’, i cicli appena abbozzati dei patriarchi, la vicenda di Mosè, la presunta conquista del Canaan da parte di Giosuè, ecc. Ciascuna narrazione è come un gran mito che funge da grande cornice al cui interno si intrecciano mitologie più specifiche e di più corto respiro, costruite sul tipo delle eziologie o di saghe popolari, frammenti di poesia o di poemi popolari o ricorrenze religiose.(12) Che non si tratti di personaggi storici è dimostrato dal fatto che i loro nomi, come accade assai di frequente nella letteratura ebraica, sono indicativi del ruolo o della funzione che essi rivestono nel racconto. Al tempo in cui governavano i giudici si abbatté su Israele una carestia, della quale peraltro non v’è traccia nel Libro dei Giudici. Ma va notato che il tema della carestia, associato a quello della sterilità e del rischio della mancanza della discendenza, è uno dei temi ampiamente utilizzati nella letteratura biblica. Ci viene presentata nella campagna di Moab una famiglia originaria di Efrata presso Betlemme (Bet-Lehem= casa del pane): il marito si chiama Elimelech (= Dio è il mio re), la moglie Noemi (= mia dolcezza), poi (12) Assai utile è in proposito il saggio di H. Gunkel, The Legends of Genesis, cit., pp. 88-122.
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denominata Mara (= amarezza), i due figli Maclon (= infermità) e Chilion (= fallimento), che sposano rispettivamente due moabite di nome Orpa (= colei che ritorna indietro) e Rut (= amica). Morto il marito e i due figli, Noemi decide di ritornare a Betlemme e invita le due nuore a rientrare nella loro casa paterna. Il lettore non ha difficoltà a intuire che Orpa (colei che torna indietro) ritorna da suo padre e Rut (l’amica, cioè colei che resta fedele) rimane con Noemi, dichiarando: «Il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio». Giunta a Betlemme, Noemi cambia nome e assume quello di Mara, perché «el-šadday mi ha molto amareggiata». A Betlemme Booz (= il perspicace), un congiunto di Elimelech, può esercitare il diritto di riscatto, ma deve prima neutralizzare un rivale che vanta più diritto per via di un più stretto legame di parentela. Perciò Booz lo invita ad acquistare davanti a testimoni la proprietà di Elimelech, con il riscatto di Rut. L’uomo si rifiuta di farlo e gli consegna – secondo il costume allora in atto (Rt, iv, 7: «Una volta c’era in Israele questa usanza») – il sandalo per convalidare l’atto di acquisto di Booz. Questi perciò sposa Rut e si assicura la discendenza davidica. Nasce infatti Obed (= colui che serve), il quale fu padre di Iesse, che generò Davide. Sicché si ricostruisce la genealogia di David a partire da Perez: Chezron, Ram, Amminadab, Nascon, Salmon, Booz, Obed, Iesse, Davide. Ciò che sorprende è che nel romanzo di Rut David non è di pura discendenza ebraica, perché sua nonna era moabita. Probabilmente l’obiettivo dell’autore è quello di aprire all’universalismo, facendo di Davide un rampollo di una dinastia giudea, ma anche di una famiglia straniera e pagana. Se a ciò si aggiunge l’estensiva interpretazione del levirato, si deve pensare che la compilazione del romanzo sia assai lontana dai presunti tempi storici delle giudicature e risalga verosimilmente al iv-iii secolo. 14.9. Gli altri Ketuvim: il Qohelet Qohelet ( )קהלתin ebraico significa ‘uomo dell’assemblea’ e tale è il significato del greco Ecclesiaste, che è il titolo adottato dalla Septuaginta. Si tratta di un testo pseudepigrafo che l’autore tenta di far passare come se fosse stato scritto da Salomone, come si evince dall’incipit: «parole dell’ecclesiaste, figlio di David, re in Gerusalemme». Si potrebbe definire il libro della vanitas vanitatum = havel havalîm, attraversato da un cupo pessimismo in cui tutto pare avere la consistenza del soffio, del vento e della vanità. Non
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mancano tratti di apparente epicureismo, di scetticismo e di apparente ateismo, che sono manifestamente segni che l’autore, di origine ebraica, ha attinto dal mondo ellenico i principi della filosofia greca e se ne è servito per segnalare la fragilità dell’universo culturale del giudaismo tradizionale. In tutto il libro non è mai menzionato Yhwh; Dio è indicato con il nome comune ‘ĕlōhîm. Ne consegue che il testo difficilmente potrebbe essere inquadrato nell’ambito dello yhawismo. In ogni caso il suo autore introduce nel pensiero ebraico il tarlo del dubbio e della inconsistenza della vita umana e del mondo che ci circonda. Il Qohelet è lo specchio di quella profonda crisi culturale e religiosa che ben presto condurrà alle soglie del cristianesimo. Negare lo scetticismo nel Qohelet è come negare l’evidenza. La sua composizione risale probabilmente al iii-ii a.C., ma non è escluso che si possa ipotizzare anche una datazione di poco più bassa. «Tutto è soffio» «assoluto soffio» è il tema ricorrente, dichiarato fin dalle prime battute del testo. Tutto è vanificato: a che vale la vita, il lavoro, la fatica sotto il sole? Tutto sembra essere travolto da una sorta di predeterminismo che priva di senso l’umano agire. Tutto si ripete di generazione in generazione; nulla è mai nuovo sotto il sole; gli astri si muovono secondo traiettorie e tempi predefiniti. E così accade per il vento, la pioggia, i fiumi. Il futuro non è che la ripetizione del passato; «Tutto ciò che accadrà è già accaduto. A che giova cercare la sapienza, se «tutto è un soffio e un inseguire il vento».(13) Il tema della sapienza e della conoscenza, così centrale nella tradizione, è vanificato. La sapienza vale quanto la stupidità; l’una passa come l’altra; al saggio e allo stolto tocca un’unica sorte; per di più accumulare conoscenza è come accumulare dolore. Anche ciò che può apparire uno spunto epicureo è svuotato di senso; «anche il piacere è un soffio» (Qt, ii, 1). E la ricchezza? Non è anch’essa una vanità? (Qt, ii, 4-11; vi, 1-2). Il dubbio è che la vita stessa sia un male. L’unico bene è il godimento della vita: «non c’è di meglio per l’uomo se non mangiare e bere e godersi il frutto delle fatiche».(14) Ma anche questo non è in potere dell’uomo, se è vero che dipende da Dio. Tutta la nostra esistenza è fragile; le nostre azioni cadono in tempi stabiliti: «Per ogni cosa c’è la sua ora […] un tempo per generare, un tempo per morire; un tempo per piantare, un tempo per sradicare il piantato; un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace». Dio ci ha dato «il desiderio di comprendere il mistero del tempo», ma (13) Qt, i, 15; viii, 16-17; ix, 13-16. (14) Qt, ii, 1, 24; iii, 12-13, 22; v, 17-19; viii, 15; xi, 7-9.
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gli uomini non «riescono a capire da cima a fondo l’opera che Dio ha compiuto» (Qt, iii, 11). Perciò non c’è altro bene se non godersi la vita. Dio mette alla prova gli uomini «per far vedere loro che essi di per sé non sono che bestie». La sorte degli uomini e delle bestie è la stessa: gli uni e le altre sono soggetti alla morte; «uguale è per tutti il soffio vitale», perché «dalla polvere tutto è venuto ed alla polvere tutto ritorna». Poiché l’ingiustizia, i soprusi dei potenti, il pianto degli oppressi sono sotto gli occhi di tutti, «ho proclamato più felici i morti […] che i vivi […]. Ma più felice degli uni e degli altri è chi non è ancora nato»; «meglio essere un aborto! Un aborto viene nel nulla, se ne va nelle tenebre, le tenebre ricoprono il suo nome». L’esistenza umana è assurda, «passa via come l’ombra» (cfr. Enoc o parabole, Qt, iv, 2-3, 12). Più che misteriosa, la creazione divina è contraddittoria: «Chi può raddrizzare ciò che Dio ha fatto storto?» (Qt, vii, 13). Ed è contraddittoria anche sotto il profilo etico: perché «non c’è una pronta condanna delle azioni malvagie […]. Il peccatore commette il male cento volte e vive a lungo […]; vi sono giusti a cui tocca la sorte dei malvagi e malvagi a cui tocca la sorte dei giusti» (Qt, viii, 11-14). L’uomo è colto di sorpresa: «Il momento peggiore piomba su di lui all’improvviso» (Qt, ix, 12). «Chi è il saggio? Chi conosce il senso delle cose?» (Qt, viii, 1). Inconoscibile è l’opera del Signore; «Come non sai per quale via il soffio vitale entra […] così tu non sai qual è l’opera di Dio che fa tutto» (Qt, xi, 5). Puoi godere dei beni terreni, ma devi sapere che «su tutto questo Dio ti porterà in giudizio» (Qt, xi, 9). Tuttavia il Qohelet, nonostante il suo disarmante scetticismo, anzi proprio in forza della vanificazione di tutto ciò che è terreno e mortale, nel momento stesso in cui demolisce l’orizzonte effimero della vita umana, mantiene intatta la trascendenza del divino. E ciò si evince in particolare dalla preghiera che è in iv, 17 - v, 6: «Bada ai tuoi passi, quando entri nella casa di Dio; avvicinati per obbedire più che per offrire sacrifici […]; non essere precipitoso con la tua bocca». Dio è trascendenza e al suo cospetto persino i riti sacrificali della tradizione sembrano sacrileghi. Forse questa rivoluzione rispetto al ritualismo tradizionale ci aiuta a capire che la compilazione del Qohelet cadde nel momento in cui cominciò ad entrare in crisi il sacerdozio tradizionale in epoca asmonaica e maccabaica. Il libro comunque esercitò un indiscutibile fascino intellettuale sugli autori degli apocrifi intertestamentari.
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14.10. Il libro di Ester Il libro di Ester ( )אסתרci è pervenuto in una versione ebraica più breve e in due versioni greche più lunghe (maggiorate di 110 versetti). Si tratta di un romanzo eziologico, privo di consistenza storica, teso a spiegare le origini della festa dei purim ( = פוריםsorti) celebrata il 14 e il 15 del mese di adar (dodicesimo mese). È difficile individuarne l’ambientazione storica per le numerose imprecisioni dell’autore e per l’inaffidabilità della documentazione citata. Il testo ebraico fa riferimento ad Assuero (ebr. ‘ăḥašwêrwōš) non facilmente identificabile né con Serse I (pers. Khshayarsha 486-465) né con Artaserse I (465-425) (pers. Artakhshatra), ma comunque a un periodo posteriore al 465, sebbene Mardocheo sia presentato come un esule in Babilonia (587-538). In ogni caso non è possibile accordare la cronologia della versione ebraica con quella della versione greca, neppure se ipotizziamo un riferimento ad Artaserse IV (359-336). Infatti, le aggiunte greche potrebbero risalire al ii secolo, come si evince da x, 31, che recita: «Nell’anno quarto del regno di Tolomeo [Tolomeo VIII] e Cleopatra [Cleopatra II], Dositeo, che affermava di essere sacerdote levita, e Tolomeo, figlio suo, portarono in Egitto la lettera precedentemente scritta sui purim, tradotta da Lisimaco, figlio di Tolomeo, uno degli abitanti di Gerusalemme». Dositeo ricoprì la carica di sacerdote nel 223-222 a.C. sotto Tolomeo III Evergete e sotto Tolomeo IV Filopatore. Poiché Tolomeo III sposò sua sorella Arsinoe non è evidentemente identificabile con il faraone citato nel testo, il quale era marito di Cleopatra. Si dovrebbe pertanto ipotizzare che il faraone menzionato sia Tolomeo IV Filopatore (222-204), ma, com’è noto, anch’egli sposò la sorella Arsinoe III. La data (221) dell’assassinio di Lisimaco, figlio di Tolomeo II Filadelfo, potrebbe assumere il valore di un terminus post quem. Ma la cosa si complica per la citazione di Cleopatra che potrebbe identificarsi con Cleopatra II Filometore Soteira, moglie di Tolomeo V Epifane Eucaristo (210-180), la quale regnò dal 193 al 176 e fu co-reggente insieme al figlio Tolomeo VI Filometore (186-154). Come è facile intuire siamo di fronte ad una serie di dati cronologici contraddittori e tra loro inconciliabili, i quali nel complesso attestano che la versione greca non può essere anteriore alla prima metà del ii secolo. Ma al di là di ogni contraddizione, qualsiasi tentativo di dare alla narrazione un inquadramento storico è votato al fallimento, perché i personaggi
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del romanzo, Mardocheo ed Ester, sono fittizi e forse i loro nomi non sono altro che varianti delle divinità Ishtar e Marduk. La vicenda si svolge a Susa in Persia, ove Ester sarebbe diventata regina, moglie di Serse o di Artaserse, in sostituzione di Vasti, la regina che si rifiutò di prendere parte al banchetto organizzato dal re. Le sorti rovesciate (purim), come quelle di Ester e di Vasti, costituiscono il tema centrale del romanzo. Lo stesso accade ad Aman, detto ora agaghita ora macedone, e a Mardocheo. Il primo, funzionario reale di alto rango, briga contro il secondo e contro la comunità giudaica e, con il preciso intento di sterminarla, invia una lettera-editto a tutte le 127 province persiane dall’India all’Egitto. Naturalmente la lettera è un manifesto falso storico. Anche in questo caso le sorti si capovolgono: Aman cade in disgrazia e finisce impiccato sullo stesso palo che egli aveva preparato per l’esecuzione di Mardocheo, il quale, da perseguitato, conquista il favore e la simpatia del sovrano. Rovesciate sono anche le sorti del popolo giudaico che, anziché essere destinato allo sterminio, ottiene, con un’ulteriore lettera-editto, ovviamente falsa, del Re Serse o Artaserse il riconoscimento di popolo retto. Così il dolore del popolo ebraico si tramuta in gioia, in celebrazioni di banchetti e danze, che caratterizzano appunto la festa dei purim. Anzi da popolo votato allo sterminio si tramuta in popolo sterminatore. A Susa i nemici dei giudei sterminati sarebbero stati cinquecento; ma in tutte le province dell’impero il numero delle vittime sarebbe salito a 75.000. Com’è già accaduto nel Qohelet, Ester non menziona mai non solo Yhwh, ma neppure Dio. La cosa lasciò interdetti i traduttori della Septuaginta, i quali pensarono bene di correre ai ripari e di aggiungere una manciata di versetti in cui le fila delle vicende umane tornano ad essere dirette dalla divinità. 14.11. Il profeta Daniele Il Libro di Daniele ( דניאלDaniyel) ci è pervenuto in tre lingue: ebraico, aramaico e nel greco della Septuaginta. Le pericopi iii, 23-90 (salmo penitenziale) e xiii, 1-xiv, 42 (appendice relativa alla figura di Susanna e all’idolo di Bel), ci sono pervenute nella versione greca di Teodozione. La sezione ii, 4-vii 28 (sogno di Nabucodonosor) è in lingua aramaica; le sezz. iii, 26-45 (preghiera di Azaria), iii, 42-90 (salmo sapienziale), e le appendici xiii, 1-xiv, 42, sono presenti anche in versione siriaca nella Peshitta. La prima parte (capitoli i-vi) del libro, che fa riferimento al contesto sto-
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rico di Nabucodonosor II (605-562) e al terzo anno (606) di Yoyaqim, non ha in realtà alcuna consistenza storica; anzi presenta tutti i tratti tipici del romanzo con personaggi fittizi. Essa costituisce la cornice generale in cui si inseriscono le visioni mistiche di Daniele. Per molti aspetti, in particolare per l’interpretazione dei sogni, l’autore sembra ispirarsi al romanzo di Giuseppe. Il racconto è fondamentalmente disorganico; si narra di un tal Asfenaz, funzionario regio, che reca con sé in Babilonia quattro giudei, Daniele, Anania, Misaele e Azaria, rispettivamente soprannominati, Belteshazzar, Sadrach, Mesach e Abdenego. Daniele interpreta i sogni secondo uno schema precostituito che si ripete un paio di volte: 1) il sovrano narra il suo sogno; 2) gli indovini, gli astrologi e i saggi babilonesi falliscono nel tentativo di interpretarlo; 3) la giusta interpretazione è suggerita da Daniele. Il senso, neppure tanto recondito, è quello di anteporre la sensibilità giudaica sulla cultura pagana («Dio concesse a questi quattro giovani il dono della conoscenza e intelligenza in ogni questione riguardante le lettere e la sapienza», Dn, i, 17). Il primo sogno di Nabucodonosor ha per oggetto una statua composta di quattro differenti materiali (oro, argento, bronzo e ferro). Daniele spiega che le quattro materie simboleggiano i quattro regni, babilonese, medo, persiano e macedone, che si succederanno in ordine cronologico. Il secondo sogno ha per oggetto un albero straordinariamente grande ed un santo vigilante che discende dal cielo e lo abbatte. Daniele spiega che l’albero è lo stesso sovrano «divenuto grande e potente»; il santo celeste significa che, trascorsi i tempi stabiliti, sarà eseguita sul re la sentenza dell’Altissimo, il quale lo espellerà dalla comunità degli uomini, perché il potere e l’autorità appartengono al cielo (concetto paolino). A seguito degli attacchi antigiudaici dei caldei, che mettono in cattiva luce Daniele, Nabucodonosor lo condanna ad essere bruciato con i suoi tre amici giudei nella fornace di fuoco vivo (Dn, iii, 15-23). Ma il profeta è salvato dall’intervento provvidenziale di Dio (Dn, iii, 46-50) poiché, secondo uno schema che avrà in seguito grande fortuna nelle storie dei martiri, il fuoco non ha su di lui alcun effetto. Con il capitolo v si ha una brusca frattura: dal regno di Nabucodonosor si passa al regno di Belshazzar (547-540), che secondo l’autore è figlio di Nabucodonosor, ma di fatto è storicamente il primogenito di Nabonedo (556-539). Secondo il racconto di Daniele, Belshazzar in un banchetto regale profanò il vasellame sacro che il presunto padre aveva sottratto al tempio di Gerusalemme; all’improvviso gli apparve
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una mano che scrisse sulla parete tre parole misteriose: menê, teqêl e parsîn. L’unico in grado di interpretarle si rivelò Daniele, il quale spiegò che menê significa ‘contare, misurare’ (dall’ebr. mnh), teqêl significa ‘pesare’ (dall’ebr. tql) e parsîn significa ‘dividere’ (da psr). Sicché il messaggio divino era il seguente: «Dio ha misurato il tuo regno e vi ha posto un termine […]; sei stato pesato sulla bilancia e sei stato trovato carente […], il tuo regno è diviso e consegnato in parte ai medi e in parte ai persiani» (Dn, v, 24-28). Improvvisamente muta di nuovo lo scenario storico: dai sovrani neo-babilonesi passiamo a Dario il Medo, sovrano inesistente, che avrebbe ricevuto il regno di Babilonia, dopo la morte di Belshazzar e prima di Ciro II, all’età di 62 anni (Dn, vi, 1, 29). Com’era accaduto nel 1Ezra, l’autore di Daniele crede che Dario I abbia regnato prima di Ciro II. In ogni caso si ripete la storiella delle persecuzioni contro Daniele che, per volere di Dario e su suggerimento dei satrapi, viene gettato nella fossa dei leoni; ma l’intervento salvifico di Dio lo salva ancora una volta dalla morte: Dio infatti chiude la bocca dei leoni. I capitoli vii-xii segnano un’ulteriore brusca sterzata del testo e ci riportano indietro al presunto regno di Belshazzar (Dn, vii, 1), allorché nel primo anno del suo regno, hanno inizio le visioni teriomorfe e premonitrici di Daniele, che sfuggono alla sua capacità interpretativa. Passiamo così dal Daniele ermeneuta dei sogni al profeta apocalittico, le cui mistiche visioni sono interpretate dall’arcangelo Gabriele. La prima è la visione delle quattro bestie (il leone con le ali di aquila, l’orso, la pantera e la bestia informe, munita di dieci corna, tra le quali spuntava un piccolo corno). La scenografia si arricchisce di simboli più rassicuranti, come l’Antico dei giorni e il figlio dell’uomo. L’angelo decripta il messaggio profetico: le quattro bestie simboleggiano «i quattro regni che sorgeranno sulla terra, ma i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo manterranno per l’eternità e di eternità in eternità» (Dn, vii, 17-18). La quarta bestia rappresenta il regno macedone, che «divorerà tutta la terra, la stritolerà e la schiaccerà». I dieci corni significano che dal regno macedone sorgeranno dieci re. Il piccolo corno è Antioco IV Epifane (175-164), il quale «insulterà l’Altissimo e penserà di eliminare i suoi santi», ma la sovranità gli sarà sottratta e sarà restituita «al popolo dei santi dell’Altissimo». La seconda visione di Daniele, avuta nel terzo anno di Belshazzar, riguarda la lotta tra un montone e un capro. Il capro spezza le due corna del montone: il corno più grande si divide in quattro corna; da uno di essi esce un piccolo corno. La spiegazione fornita dall’angelo Gabriele è la seguente: il montone rap-
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presenta l’impero persiano, il caprone quello di Alessandro, che si dividerà in quattro diadochi, da uno dei quali uscirà il regno di Antioco IV Epifane. Con il capitolo ix siamo ricondotti al primo anno Dario II (423-404), figlio di Artaserse I e non di Serse, come vuole l’autore di Daniele: il profeta riceve dall’arcangelo Gabriele la giustificazione in merito alle settanta settimane o settant’anni di cattività profetizzati da Geremia (Dn, ix, 1). Dio – dice l’angelo rivelatore – ha colpito Giuda per il suo peccato: la giustizia è dalla parte di Dio; da quella del popolo c’è solo «la vergogna sul volto». Dio ha concesso al popolo e alla città santa settanta settimane per estirpare l’empietà, sigillare il peccato ed espiare la colpa, per introdurre una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il santo dei santi: ‘sappi e comprendi: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino all’unzione di un principe, sette settimane, e nel corso di settantadue settimane saranno di nuovo edificati piazza e fossato e ciò in un tempo di afflizione. Dopo settantadue settimane un unto sarà eliminato senza sua colpa. Devasterà il popolo di un principe che deve venire; ma in una inondazione si compirà la sua sorte e, fino al termine, guerra e desolazioni stabilite. Stipulerà una solida alleanza con molti in una settimana, e in una mezza settimana imporrà la cessazione del sacrificio e dell’offerta. E sull’ala del tempio l’abominio della desolazione fino a che la fine decretata si riversi sul devastatore’ (Dn, ix, 24-27).
Si tratta, com’è evidente, di un vaticinium ex eventu, dai toni fortemente apocalittici, ma chiaramente riferito alle imposizioni rituali pagane di Antioco IV, che profanerà il tempo e lo dedicherà non all’Altissimo o all’Antico dei giorni, ma all’abominio della desolazione, ovvero a Zeus Olimpio. Con il capitolo x siamo ricondotti al terzo anno di Ciro (cioè il 556) per venire a conoscenza di una nuova visione: compare «un uomo vestito di lino con i fianchi cinti di oro di Ufaz». Si tratta dell’angelo Michele inviato a lui per predirgli ciò che accadrà al suo popolo alla fine dei giorni ovvero «ciò che è scritto nel libro della verità» (Dn, x, 21). Non sembra tuttavia che sia congrua la cucitura tra il capitolo x e l’xi, perché si ritorna alla cornice pseudo-storica di Dario il Medo. Tutto fa pensare ad una ulteriore cucitura forzata. Ma qui forse è più probabile l’identificazione di Dario il Medo con Dario III Codomano (380-330), l’ultimo dei sovrani achemenidi, travolti dalla vittoriose campagne di Alessandro Magno. In ogni caso nel capitolo xi Da-
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niele predice ex post il processo storico che va dall’impero persiano a quello macedone, al suo declino e alla nascita dei regni ellenistici, alle lotte tra Tolomeo e Seleuco, alla successione di Antioco IV Epifane (176-164), l’«essere abbietto», responsabile dell’«abominio della desolazione» (il che significa che la datazione del testo è posteriore al 164). La divina vendetta si consumerà per mano dell’angelo Michele: In quel tempo sorgerà Michele, il grande principe vigilante sui figli del tuo popolo, e sarà tempo di angoscia come non era mai accaduto dal sorgere delle nazioni fino ad allora. In quel tempo il tuo popolo sarà salvato, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di coloro che dormono nella polvere della terra si desteranno, alcuni per la vita eterna, altri per l’eterno vituperio (Dn, xii, 1-2).
La salvezza di Israele è relegata alla fine dei tempi: «Il popolo d’Israele sarà salvato; i morti risorgeranno e i sapienti risplenderanno come luce nel firmamento» (Dn, xii, 3). I capitoli xiii-xiv sono manifestamente un’Appendice aggiunta da mano diversa da quella dell’autore. In essa, con tono più dimesso e in un tessuto letterario più fragile, Daniele è ricordato in riferimento alle vicende di Susanna, dell’inganno di Bel e della demolizione della statua del drago, che, a loro volta, sembrano essere brani autonomi affastellati nell’Appendice. Il libro è chiaramente pseudoepigrafo. L’ignoto autore si richiama a Daniele come personaggio mitico di cui si rinvengono radici nell’antica leggenda di Dan’el nella letteratura ugaritica. Ezechiele, dopo averlo affiancato a Noè e a Giobbe, ne fa menzione in riferimento alla sua straordinaria capacità interpretativa, quale si evince dai prime sei capitoli del nostro testo: «Ecco tu sei più saggio di Daniele, nessun enigma ti resiste» (Ez, xiv, 14, 20; xxviii, 3). È assai verosimile che l’anonimo autore abbia raccolto materiali precedenti prodotti in almeno un cinquantennio dopo la morte di Antioco IV e forse in parte anche più antichi e li abbia ricuciti insieme in una intelaiatura storica di fantasia senza riuscire a mascherare la natura della sua operazione, che, per le ragioni dette, va cronologicamente collocata tra la fine del ii e gli inizi del i secolo. Non credo che si possa parlare, come fanno gli interpreti confessionali, di profezia riferibile al messia o al regno di Dio. Il profetismo apocalittico, il proto-gnosticismo della conoscenza e dell’intelligenza (Dn, i, 17), l’aspirazione alla rivelazione e allo svelamento dei misteri, il
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predeterminismo divino, la stessa terminologia della fornace, del fuoco, della fossa dei leoni, il senso dell’angoscia, della desolazione, le persecuzioni a danno del giusto, della santità e della giustizia e infine l’angelologia, soprattutto nella seconda parte, comprendente i capitoli vii-xii, sono tutte tematiche molto affini a quelle degli esseni, che non a caso hanno incluso il Libro di Daniele nella loro vastissima biblioteca qumranica. 14.12. Ezra/Neemia e la fondazione del giudaismo I testi che possiamo considerare fondativi del giudaismo antico (iii secolo) sono il 1Ezra ( עזראEzra), Neemia ( נחמיהNehemiyah), in passato conosciuto anche come 2Ezra, e le due Cronache, cui si può aggiungere l’apocrifo 3Ezra. Non sembra che i primi tre scritti possano essere attribuiti ad uno stesso autore, come pure si è sostenuto, né sembra che lo si debba identificare con Ezra, se è vero che questi visse tra il v e il iv secolo. Si può tutt’al più ipotizzare che il redattore finale del 1Ezra abbia provveduto ad aggiungere in coda alla 2Cronaca il falso editto di Ciro. Le Cronache d’altro canto sono solo una sintesi con qualche variante, per altro discordante o meglio dissonante, dei due Samuele e dei due Re. Il loro autore non sembra conoscere della storia ebraica neppure uno iota in più rispetto ai testi storici citati. Il 1Ezra preferisce la narrazione oggettiva in terza persona; Neemia sceglie per lo più la narrazione soggettiva in prima persona, interrotta a tratti da quella in terza persona. I due libri in passato costituivano un corpo unico, in cui il secondo era in continuità con il primo. Oggi gli studiosi sono concordi nel distinguerli come testi autonomi. Il contesto storico narrato del 1Ezra è più antico e si riferisce alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme; Neemia invece ci dà notizie sulla ricostruzione delle mura e delle porte della città santa. Quel che è certo è che entrambi i testi sono stati scritti intorno al iii secolo nel medesimo ambiente culturale (afferente alla classe sacerdotale più intransigente e tradizionalista) e riflettono la medesima fase evolutiva del pensiero teologico ebraico (l’antico giudaismo). Il contesto storico del narrante è, in entrambi i libri, quello della crisi culturale prodotta dalle dominazioni straniere, assiro-babilonese, persiana e macedone, i cui culti esogeni contaminarono la fede tradizionale e misero in crisi l’identità nazionale e religiosa. La reazione a tale processo di contaminazione portò, sotto la spinta
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di teologi di matrice ezriana, alla radicalizzazione del culto yhawistico spesso espletato in rituali di carattere formale, legalistico e precettistico. Prima della cattività babilonese, lo yhawismo era per lo più fondato su una pura mitologia e su narrazioni di carattere popolare; esso si trasformò in vero e proprio culto religioso ed acquisì una precisa sostanza teologica solo a contatto con la più evoluta esperienza religiosa babilonese. Alla sua successiva maturazione provvidero tra il v e il iv secolo gli scritti profetici, soprattutto i testi di Geremia, Ezechiele, Isaia e Zaccaria. La riforma ezriana, o di matrice ezriana, determinò la nascita del giudaismo antico (iii secolo) il quale si sviluppò in seguito in medio giudaismo (ii-i secolo) per sfociare infine in giudaismo rabbinico (i-iii secolo d. C). Gli elementi che caratterizzarono la fisionomia del giudaismo antico si possono così sintetizzare: 1) radicalizzazione del culto di Yhwh, come Dio nazionale, i cui antropomorfismi si attenuano a vantaggio della trascendenza del divino e del suo carattere provvidenzialistico. Dio è il Santo d’Israele; la santità e la purezza si trasmettono al popolo attraverso il patto (berît); la teologia del patto soppianta quella della promessa, che era prevalsa nel periodo esilico e immediatamente post-esilico; 2) elezione d’Israele, il popolo scelto da Dio per la sua santità; 3) il culto della Legge, la quale consiste nella rivelazione sinaitica ovvero nella rivelazione di Dio come parola (mêmrā = parola; nel Targum il termine è usato per indicare Dio); 4) l’ossessione del peccato e dell’espiazione; 5) la prevalenza della misericordia divina sulla giustizia divina; 6) l’isolamento di Giuda dagli altri popoli al fine di assicurare la purezza della razza e insieme della religione. L’idea dell’isolamento nasce dalla convinzione che i matrimoni misti e la familiarità con le altre nazioni siano la causa della contaminazione non solo del popolo, ma anche del culto yhawista, con la conseguenza di provocare l’ira e la punizione divine. L’influenza degli autori di Ezra e di Neemia sullo yhawismo dell’età ellenistica fu decisiva. La loro identità ci sfugge, perché i loro scritti sono certamente pseudoepigrafi, nonostante Neemia si dichiari esplicitamente fin dalla prima pericope autore del libro («Parole di Neemia, figlio di Akalià»).(15) L’impianto generale dei due scritti è comunque letterario e segue il classico schema, già presente nel romanzo di Giuseppe, dell’ebreo che, capitato in terra straniera, fa fortuna ed assurge ai più alti livelli delle cariche amministrative. Tali sono Ezra e Neemia che giungono ai vertici del po(15) Neh, i, 1.
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tere nell’impero persiano e possono programmare una ricostruzione dello stato giudaico. Forse in quella occasione nacque una corporazione di scribi ezriani i quali si fecero fautori di un giudaismo rigoroso, fondato sulla più scrupolosa osservanza di uno yhawismo intransigente ed esclusivo. Il rigorismo della riforma proposta era tale da costringerli ad un’opera di revisione e risistemazione di tutto l’AT; tutti i testi furono passati al setaccio e subirono un processo di yhawizzazione che li trasformò in un corpus, il più compatto possibile, giudaizzante; gli scritti più antichi subirono gli ultimi rimaneggiamenti ed assunsero la forma della redazione definitiva. Così rinnovato, lo yhawismo costituì lo strumento per affermare un’identità nazionale. Il che significa che fu esplorata da cima a fondo tutta la storia primaria per ricostruirla, nel quadro di una studiata finzione, come storia giustificatrice dell’identità nazionale. Prima del quinto secolo il culto di Yhwh, nonostante i tentativi riformistici compiuti dalla classe sacerdotale, non era mai realmente attecchito presso il popolo. Sappiamo che il regno del nord, come si evince dai Libri dei Re, coltivò pressoché costantemente i culti del baalismo. Quando cedono il passo alla verità storica, i testi più antichi non cessano di segnalare le continue deviazioni verso i culti cananei, che certamente avevano più presa sul popolo. L’esperienza delle invasioni assire e babilonesi ebbe effetti contrastanti: da un lato fu devastante sotto il profilo culturale, perché fece vacillare il mito di Yhwh, dio potente e protettore del popolo eletto; dall’altro, a contatto con i miti e la teologia assiro-babilonese, offrì alla classe sacerdotale giudaita gli strumenti intellettuali per elaborare una teologia più raffinata. Il ruolo del 1Ezra e di Neemia su tale processo storico fu essenziale. Va però detto che tanto l’uno quanto l’altro testo presentano una disarmante disorganicità ed una disinvoltura nella tessitura della cronologia tali da vanificarne il ruolo di testimonianza storica. A dispetto del sovrabbondante sfoggio di documentazione archivistica presunta, la loro attendibilità è pressoché nulla, poiché sembrano iscriversi al filone della letteratura prevalentemente romanzesca il cui tema ricorrente, nel corpus dell’AT, è quello della disgrazia e della riabilitazione di un ministro di alto rango (Ezra, Neemia, Mosè, Giuseppe, Daniele, v. la Storia di Achicar). Neppure uno dei tanti documenti archivistici citati mostra i segni dell’affidabilità. Il 1Ezra si apre con il falso decreto del primo anno (559) di Ciro II il Grande, riprodotto, in una versione più striminzita, nel 2Cronache. La storiella del recupero degli arredi sacri e del tesoro del tempio e della direzione dei lavori per la sua rico-
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struzione è ripetuta in riferimento ad attori diversi. Secondo il 1Ezra gli arredi sacri furono recuperati per mano di Mitridate, tesoriere di Ciro, e consegnati a Sesbassar, qualificato «principe di Giuda», al quale viene attribuita la fondazione del tempio (Ezr, i, 8, 11; v, 14, 16). Ma per lo stesso 1Ezra Zorobabele, figlio di Sealtiel, figlio di Ieconia (597), nominato da Ciro governatore della provincia d’Oltrefiume, guidò il rientro di un gruppo di israeliti in Gerusalemme(16) e diresse i lavori per la ricostruzione del tempio.(17) Si potrebbe supporre, come fanno gli esegeti confessionali, che i due personaggi (Sesbassar e Zorobabele) si identifichino, se si ipotizza che Sesbassar sia il nome aramaico di Zorobabele e sia figlio di Sealtiel. Purtroppo però il 1Ezra non si concilia con il 1Cronache, ove Zorobabele è detto figlio di Pedaià e non di Sealtiel, suo nonno (1Chr, iii, 17-19). Qualsiasi tentativo di sanare la contraddizione tra i due testi, come quello di sostenere che Sealtiel abbia adottato suo nipote Zorobabele, è fantasioso e privo di consistenza. Anche perché il 1Ezra presenta ulteriori incongruenze e false documentazioni. Falso è l’editto di Ciro,(18) in cui l’imperatore persiano scrive come se fosse un credente Yhawista; false sono le genealogie dei rimpatriati (capitoli ii, viii), rabberciate per far credere che ancora a distanza di più di un secolo si fossero conservate tracce della loro lontana origine; probabilmente falso è anche l’elenco di coloro cha avevano sposato donne straniere (capitolo x); falsa la denuncia del governatore Recum e del segretario Simsai; falsa la risposta in aramaico di Artaserse I (465-425); falso il rapporto di Tattenai, governatore d’Oltrefiume, inviato a Dario II (423-404); falso il memoriale ritrovato in Ecbatana; falsa la presunta ordinanza di Dario II, inviata a Tattenai; falso il minaccioso documento («A chi non osserverà la legge del tuo Dio e la legge del re sia fatta prontamente giustizia o con la morte o con il confino o con la confisca dei beni o con il carcere») di Artaserse II (404-396), consegnato ad Ezra.(19) L’unica verità storica che emerge dal testo è la riorganizzazione della classe sacerdotale che si articolò in due caste: i sacerdoti, addetti alle funzioni liturgiche, e i leviti, addetti a funzioni di servizio. Confusa e ingarbugliata è anche la cronologia dei sovrani persiani, così da rendere difficile la collocazione storica degli eventi narrati. Per i primi quattro capitoli la ricostruzione (16) Ezr, ii, 2; Neh, vii, 7; xii, 1, 47. (17) Ezr, iii, 2, 8; v, 2; Hag, i, 1, 12, 14; ii, 2, 21, 23. (18) Per una difesa della storicità dell’editto, v. R. de Vaux, The Bible and the Ancient Near East, Garden City, Doubleday, 1971, pp. 63-96. (19) Ezr, iv, 8-16, 17-22; v, 7-17; vi, 1-5, 6-12; vii, 11.
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del tempio sembra cadere durante il regno di Ciro, ma nel capitolo iv, 6-7, le difficoltà che impediscono il prosieguo dei lavori si riferiscono ai regni di Serse e di Artaserse, in un arco temporale che va dal 486 al 425. La sospensione dei lavori fu decisa da Dario II, 423-404, (iv, 24), ma la costruzione del tempio ebbe termine il 3 del mese di adar dell’anno sesto del suo regno (417). Secondo Edelman il secondo tempio sarebbe stato ricostruito nel 515. Tuttavia il sesto capitolo di Ezra va interpretato in riferimento a Dario II e perciò la ricostruzione va datata tra il 423 e il 405. Un ulteriore rientro di giudei a Gerusalemme sotto la guida di Ezra, figlio di Seraia (Ezr, vii, 1-10) si sarebbe verificato nell’anno settimo di Artaserse. A quale Artaserse si riferisce? Dopo Dario II regnarono Artaserse II (404-396) e Artaserse III (396-359), sicché il settimo anno potrebbe essere tanto il 397 quanto il 389. La prima sezione del Libro si chiude con la celebrazione della pasqua e degli azzimi da parte dei rimpatriati. Nella seconda sezione viene introdotto lo scriba sacerdote Ezra di stirpe aronnita, con le seguenti parole: «Dopo questi eventi, durante il regno di Artaserse, Ezra, figlio di Seraia, […] partì da Babilonia» con l’incarico di fare indagini in Giuda e a Gerusalemme secondo la legge di Dio e di portare con sé l’oro devoluto a Yhwh. Artaserse vieta di imporre tributi e diritti di pedaggio ai sacerdoti e ai leviti ed attribuisce ad Ezra l’onere di nominare magistrati per l’amministrazione della giustizia; infine minaccia di morte, confino, confisca dei beni o carcere coloro che non osservano il decreto. Si tratta, com’è evidente, di un documento assurdo: Artaserse, infatti, avrebbe dovuto avere la stessa fede dei giudei per redigere un documento in qualche modo lesivo della sua sovranità; è più ragionevole pensare che esso sia nato in seno alla classe sacerdotale che aveva in Ezra lo strumento per affermare i propri interessi di potere. L’elenco dei rimpatriati con Ezra, come del resto quello dei rimpatriati con Zorobabele, aveva l’obiettivo di garantire che in Gerusalemme si ricostituisse una razza giudaica pura e santa. Si trattò in realtà, come sappiamo, di un mito ezriano; di fatto tanto Israele quanto Giuda erano di origini cananaiche e vissero sempre in una inevitabile mescolanza con le popolazioni locali. Lo stesso Ezra sembra presupporre tale realtà quando afferma che la purezza della razza ebraica è più un obiettivo futuro che una realtà del passato: «dai tempi dei nostri padri fino ad oggi siamo sempre vissuti nella colpa; a causa delle nostre colpe i nostri re e i nostri sacerdoti sono stati consegnati ai sovrani stranieri […]; ora Dio […] ci concede la grazia di liberare ‘un resto’ di noi e di darci una fissa dimora in suo luogo santo». La condizione es-
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senziale è quindi il divieto dei matrimoni misti e l’estremo isolamento del popolo giudaico. La proposta di Ezra piace a Secania, il quale va oltre e dice: «Stabiliamo un patto con il nostro Dio ed espelliamo tutte le donne straniere e tutti i figli nati da esse». Segue una solenne convocazione in cui tutti i rimpatriati sono invitati a ripudiare le loro mogli straniere entro tre giorni. Chi non si fosse presentato sarebbe stato espropriato. L’ordine di Ezra e dei sacerdoti era tassativo: «Separatevi dalle popolazioni locali e separatevi dalle donne straniere». Il libro si chiude con l’elenco di coloro che avevano mogli e figli allogeni. Altrettanto romanzesca è la cornice del libro di Neemia che persegue sostanzialmente le stesse finalità di quelle del 1Ezra e presenta la stessa confusione cronologica. Le difficoltà interpretative sorgono fin dall’esordio, ove Neemia, venuto a conoscenza del pessimo stato in cui versano le fortificazioni di Gerusalemme, ottenuto da Artaserse l’incarico di governatore della Giudea per un arco di tempo che va dal ventesimo al trentaduesimo anno del suo regno, decide di recarvisi con un gruppo di rimpatriati per provvedere alla ricostruzione delle mura. Sorge inevitabile l’interrogativo: di quale Artaserse stiamo parlando? Gli esegeti confessionali, forse per non compromettere la paternità del testo, vogliono che si tratti di Artaserse I. Ma questa ipotesi è contraddetta dal fatto che Neemia è in linea di continuità con 1Ezra. Se la narrazione di quest’ultimo giunge fino ad Artaserse II, è evidente che Neemia si riferisce ad Artaserse III (396-359) e che gli anni del suo governatorato giudaico coincidono con l’arco temporale dal 376 al 364. In caso contrario, se cioè si riferisce ad Artaserse I (565-525) e agli anni 545-533, il libro di Neemia dovrebbe essere del tutto autonomo dal 1Ezra. In realtà tutto il racconto è poco credibile e sembra scritto, pur con qualche variante, a ricalco del 1Ezra. È, infatti, assai poco credibile non solo che Artaserse si scegliesse un coppiere di origine straniera, e potenzialmente ostile ai persiani, ma anche che se ne privasse per una dozzina d’anni per affidargli l’incarico di fortificare una città pericolosa come Gerusalemme. Insomma i racconti di Ezra e di Neemia sembrano per certi versi sovrapporsi. Anche Neemia presuppone una falsa documentazione archivistica, come la lettera di Artaserse ai governatori d’Oltrefiume e quella ad Asaf, guardia forestale del re, incaricato di mettere a disposizione il legname per la costruzione delle mura. Come nello schema narrativo del 1Ezra, ai lavori di ricostruzione delle mura(20) si oppongono le popolazioni locali che non erano di origine giudai(20) Sulla ricostruzione delle mura, cfr. I. Finkelstein, Jerusalem in the Persian (and
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ca. Le loro istanze furono rappresentate da Sanballat il coronita, di origine moabita, da Tobia l’ammonita, da Ghesem l’arabo e dagli asdoditi. Yhwh fece fallire il loro piano, poiché l’opera giunse a buon fine nel giro di 52 giorni. Anche Neemia, come Ezra, fornisce l’elenco di tutti coloro che avevano preso parte alla ricostruzione. L’eccessivo costo dei lavori pesò sulle spalle del popolo che si lamentò con lui, inducendolo a condannare l’usura. La città – ci dice l’autore – era «spaziosa e grande ma poco abitata», sicché Neemia poté riorganizzare i rimpatriati sotto la guida di Zorobabele. Non dovette essere un’impresa semplice, perché lo spostamento di nuclei familiari dalla campagna alla città non fu spontaneo, tanto che Neemia dovette procedere per sorteggio. Questi dettagli ci fanno intuire alcune verità nascoste dai testi: 1) che la ripopolazione di Gerusalemme sotto la guida di Ezra non dovrebbe aver avuto un grande successo; 2) che il culto yhawista stentava ancora ad attecchire, se è vero che la città santa non rappresentava un polo d’attrazione; 3) che il tanto celebrato ed esaltato rientro dei deportati, il quale è al centro di una vasta letteratura biblica, fu in realtà ben poca cosa. I registri genealogici dei rimpatriati forse mirano a nascondere tale amara realtà. Non a caso l’elenco dei rimpatriati, trasmesso da Neemia, non è che una copia di quello fornito da Ezra, sebbene i due elenchi presentino non poche varianti, sia in ordine ai nomi dei clan rimpatriati, sia in ordine alle cifre complessive. Tuttavia, paradossalmente, la popolazione è in entrambi i casi pari a 42.360 persone, 7.337 schiavi (Ezr, ii, 1-70; Neh, vii, 6-72). Le recenti indagini di Finkelstein hanno dimostrato che le liste dei deportati contenute in Ezra e Neemia non possono essere datate nel periodo persiano, ma sono state compilate in età ellenistico-asmonea.(21) Dal capitolo viii in poi il racconto prosegue in terza persona, ma il protagonista non è più Neemia, ma Ezra il quale istituisce il culto yhawista, legge dal primo mattino fino a mezzogiorno il libro della legge davanti al popolo riunito in piazza. La lettura procede secondo il modello interpretativo del pesher: ad ogni brano seguiva la relativa spiegazione. Dopo la lettura viene celebrata la festa delle capanne, per rammentare la vita nomade condotta nel deserto. Il popolo costruisce delle capanne con ramoscelli d’olivo; alla Early Hellenistic) Period and the Wall of Nehemiah, «Journal for the Study of the Old Testament», xxxii, 2008, pp. 501-520; Id., Persian Period Jerusalem and Jehud: A Rejoinder, «Journal of Hebrew Scriptures», 2012. (21) I. Finkelstein, Archaeology and the List of Returnees in the Boorks of Ezra and Nehemiah, «Palestine Exploration Quarterly», cxl, 2008, pp. 1-10.
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celebrazione segue la cerimonia dell’espiazione, del digiuno e della confessione dei peccati; quindi si dà di nuovo lettura del libro della legge e si richiama alla mente la storia d’Israele, come quella di un popolo che è sempre stato punito per le sue colpe ed è stato giustamente deportato per mano di popoli stranieri. Da qui la decisione di sottoscrivere una nuova alleanza con Dio: ci si impegna ad osservare la legge data per mezzo di Mosè e si vietano severamente i matrimoni misti; ciascuno si impegna a versare annualmente un terzo di siclo per il servizio sacerdotale della casa di Dio e di offrire ogni anno le primizie e i primogeniti dei figli e del bestiame. Riuniti in Gerusalemme, tutti i capifamiglia del popolo procedono al sorteggio di una persona su dieci obbligata a risiedere nella città con lo scopo di favorirne la ripopolazione. Ma l’afflusso demografico nella città santa dovrebbe essere stato piuttosto modesto, se il testo parla di una cifra di poco inferiore ai 3.000 rimpatriati. A partire da xii, 31, Neemia parla di nuovo in prima persona. Procede ad una nuova lettura del libro di Mosè e alla separazione dei giudei da tutte le popolazioni straniere. Viene sedata una protesta di leviti, vengono rimproverati i nobili israeliti che non rispettavano il sabato, viene riconfermato il divieto dei matrimoni misti. Dal capitolo xiii alla fine riprende la narrazione in prima persona con un accenno alla perdita della lingua ebraica: «La metà di loro parlava la lingua di Ašdod e non erano in grado di comprendere la lingua di Giuda; altri ancora conoscevano la lingua di questo o quest’altro popolo» (Neh, xiii, 24). Il 3Ezra, apocrifo pervenutoci in lingua greca e databile forse al i secolo a.C., non è che un rifacimento del 1Ezra. Ciò che sorprende è che l’autore comincia la sua ricostruzione storica partendo dai capitoli xxxv-xxxvi del 2Cronache, riprodotti pressoché letteralmente e dopo aver ricopiato per intero, sia pure con un diverso ordine, il 1Ezra, termina con il capitolo vii di Neemia. Sono singolari l’incipit, che si apre con un καί ἤγαγεν, e il colophon, che chiude con un periodo mutilo: καί ἐπισυήχθησαν. L’unica spiegazione possibile per queste anomalie è che in origine l’apocrifo non esordisse con il capitolo xxxv del 2Cronache, perché forse conteneva tutto il testo delle due Cronache e forse anche tutto il testo di Neemia. Infatti la chiusura mutila («e si riunirono») sembra corrispondere all’inizio del capitolo ix di Neemia. Pertanto la struttura generale del 3Ezra in relazione a 2Cronache e a Neemia può essere così sintetizzata: 3Ezra, i // 2Chr,xxxv-xxxvi; 3Ezra, ii, 1-11 (editto di Ciro) // 1Ezra, i, 1-6;
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3Ezra, ii, 12-26 (doc. di Artserse) // 1Ezra, iv, 7-24; 3Ezra, iii-iv, 46 (racconto dei tre paggi); 3Ezra, iv, 47 - v, 3 // sintesi di 1Ezra, vi; 3Ezra, v, 4-45 // 1Ezra, ii; 3Ezra, v, 46-62 // 1Ezra, iii; 3Ezra, v, 63-71 // 1Ezra, iv, 1-5; 3Ezra, vi, 1-21 // 1Ezra, v; 3Ezra, vi, 22 – vii, 15 // 1Ezra, vi; 3Ezra, viii // 1Ezra, vii, 1 – x, 5; 3Ezra, ix, 1-35 // 1Ezra, x, 6-44; 3Ezra, ix, 37-55 // Nh, vii, 72 – viii, 13. A partire dall’editto di Ciro, che riproduce non la lettura del 2Cronache, ma quella del 1Ezra, il capitolo iii, 1-46, contiene il racconto dei tre paggi, invitati dal re Dario II a cimentarsi su una parola che indicasse qual è la cosa più forte che ci sia. Le proposte dei tre paggi sono: il vino, le donne, la verità. Le argomentazioni del terzo paggio, che si identifica con Zorobabele convincono Dario II ad assegnargli come premio il rientro in Giudea. Di particolare interesse è la definizione di Yhwh come «Dio della verità», che è un concetto assente nella tradizionale teologia ebraica e che rivela l’influsso della filosofia ellenica sul pensiero ebraico. Gli elenchi dei rimpatriati e dei sacerdoti che avevano sposato donne allogene presentano nella versione greca non poche distorsioni dei nomi ebraici e della quantità degli esuli che rientrarono in Gerusalemme. Riguardo al diverso ordine seguito da 3Ezra rispetto al 1Ezra si è pensato che l’autore abbia voluto rettificare la cronologia del secondo.(22) In realtà essa è nel 3Ezra ancor più incongruente che nel primo. Infatti dopo avere stabilito che l’editto di Ciro cadde nel primo anno del suo regno (559), l’autore fa riferimento ai regni di Artaserse I (465-425) e di Dario II (423-404). Egli sembra credere che dalla morte di Ciro (529) al regno di Dario (523) fossero trascorsi appena due anni (3Ezr, v, 71). Ad aggravare la situazione aggiunge nei capitoli iii-iv, a proposito della storiella dei Tre Paggi, che il terzo paggio si identificava con Zorobabele, facendo così coincidere l’epoca di Zorobabele con quella di Dario II. Ne consegue che la conclusione dei lavori di ricostruzione del tempio sarebbe caduta il 23 del mese di adar del (22) Cfr. P. Sacchi, Introduzione al terzo libro di Ezra, in Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, Utet, 2006, vol. i, p. 112.
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sesto anno di Dario II (cioè nel 417); la partenza di Ezra per Gerusalemme con un nuovo gruppo di esuli sarebbe caduta nell’anno settimo del regno di Artaserse II, vale a dire nel 397. Il testo dice che Ezra «ebbe tale saggezza da non trascurare nulla delle prescrizioni della Legge del Signore e dei suoi comandamenti e da insegnare a tutto Israele tutte le sue decisioni e tutti i suoi giudizi» (3Ezr, vii, 7). La riforma consisteva nella più rigida applicazione della teologia del patto. Anche in questo caso Ezra porta con sé una lettera di Artaserse, ovviamente non autentica, per giustificare il suo potere politico-religioso, come espressione della volontà dell’imperatore. Gli sarebbe stata conferita la nomina di grammateus, ossia di scriba che in ebraico suonava: Commissario della legge del Dio del cielo. Segue l’elenco delle famiglie israelitiche rientrate con lui in Gerusalemme. Quanto ai sacerdoti e ai leviti, paradossalmente Ezra afferma di non aver trovato nessuno che appartenesse alle famiglie dei sadociti e dei leviti; ciò naturalmente gli consente di circondarsi di sacerdoti fedelissimi da lui nominati (Eleazar, Iduelo, Maasma, Elnata, Semaia, Ioribo, Nathan, Ennatan, Zaccaria e Mesolamo). Ezra pretende di aver ricevuto il controllo giudiziario su tutta le Siria e la Fenicia e su tutti coloro che conoscevano la legge di Dio con il permesso di comminare sentenze capitali (probabilmente la crocifissione). Egli avvia la sua riforma di purificazione del regno e della capitale, invitando tutti gli ebrei ad allontanarsi dalle genti straniere per la loro impurità e di ripudiare le mogli allogene e i figli avuti dalle stesse, in quanto impuri.(23) Il provvedimento era non solo teso alla conservazione della purezza della razza ebraica, ma anche ad evitare l’ira divina causata dalla contaminazione con l’impuro. A tutti gli ebrei rientrati furono concessi tre giorni di tempo per regolarizzare la loro posizione, pena la confisca dei beni. Il testo si chiude con l’elenco di coloro che avevano mogli e figli allogeni.
(23) 3Ezr, viii, 65-91.
capitolo xv
I LIBRI DEL CANONE CATTOLICO
15.1. Il libro di Giuditta Il libro di Giuditta (Ιουδίθ non incluso nel Tanakh), scritto in greco verosimilmente intorno al ii-i secolo a.C. non è che un romanzo del tutto privo di credibilità per via delle numerose incongruenze storiche (si confondono gli Assiri con i Babilonesi; Nabucodonosor sarebbe stato re assiro con capitale Ninive; fu invece re di Babilonia (605-562), quando Ninive venne distrutta nel 612. Oloferne non è personaggio storico; lo stesso vale per Ozia, Mica, Cabri, Melchiel, Gotoniel, Carmi, per il sommo sacerdote Ioakim, e per Arpacsad, presunto sovrano medo, il cui nome è probabilmente tratto dalla Genesi o dalla 1Cronache;(1) come del resto accade per altri nomi di personaggi, come Lud, Arioch ecc. Imprecise sono anche le indicazioni geografiche (sono molte le località citate non identificate, come Fud, Betulia, Bectilet, Abrona, Dotain, Ammon, Egrebel, Mochmur, Chus, Bebi, Cobi, Cola). Il nome Giuditta significa «la giudea», ma l’autore ne fa una rappresentazione dell’intero popolo di Israele. Il racconto non solo è inverosimile per la fragilità della sua tessitura letteraria, ma è anche ripugnante sotto il profilo etico-religioso, perché esalta l’inganno e l’astuzia e persino l’assassinio intenzionale nel momento di maggiore debolezza della vittima. Qualunque motivazione teologica è inadeguata a giustificarlo e a purificarlo. Il libro di Giuditta non ha nulla a che fare con l’essenismo. Infatti non se ne sono travati frammenti nei manoscritti del Qumran. La sapienza di (1) Gn, x, 22, 24; xi, 10-13; 1Chr, i, 17-18, 24.
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Giuditta ha un nome un po’ più volgare e si chiama ‘astuzia’ di bassa lega. Non è degno di essere annoverato tra i libri sapienziali. 15.2. I due Maccabei I due Libri dei Maccabei Μακκαβαίων (in ebr. makabim = מקביםmartelli), non inclusi nel Tanakh, ci sono pervenuti in greco e narrano la rivolta maccabaica all’interno dell’impero seleucida di Mesopotamia, Siria, Persia e Asia Minore. Le vicende storiche si riferiscono ai regni di Seleuco IV Filopatore (187-176), Antioco IV Epifane (176-164), Antioco V Eupatore (164-162), Demetrio I Sotere (162-150), Alessandro I Bala Epifane (150145), Demetrio II Nicanore e i pontificati di Onia III (185-175), di suo figlio Giasone (175-172), ultimo sadocita, di Menelao (172-162) e di Alcimo (162-159). Dopo che il sommo sacerdozio rimase vacante dal 159 al 153 si costituì la dinastia degli Asmonei con Gionata Maccabeo (153143), Simone Maccabeo (142-134) e Giovanni I Ircano (134-104). Il testo non fa che magnificare le eroiche gesta dei Maccabei a partire da Mattatia che, uccidendo a Modin un funzionario regio e un ebreo che si apprestava a sacrificare secondo il rito pagano, diede il via alla rivolta, nell’intento di contrastare il processo di ellenizzazione, avviatosi con la conquista macedone di Alessandro Magno. La narrazione prosegue con le ribellioni dei figli di Mattatia, di Giuda (166-160) con le battaglie di Bet-Oron, di Emmaus, Bet-Zur, Bet-Zaccaria, Cafarsalama e Mesalot; di Gionata (160142) con gli scontri del Giordano e di Giaffa e di Bet-Basi; e di Simone (142-134) con la presa di Gezer e la conquista dell’Acra. Naturalmente le alterne vicende della rivolta si ripercossero sulle alterne profanazioni e successive restaurazioni del culto giudaico in Gerusalemme. Probabilmente la portata dell’insurrezione maccabaica è esagerata nella versione fornitaci dai due libri a noi pervenuti. La politica di ellenizzazione forzata voluta da Antioco IV fu devastante; essa fu interpretata dagli ebrei fondamentalisti come un grave pericolo per la sopravvivenza del culto yhawista. Mattatia decise di combattere anche il giorno di sabato e di non voler morire come i fratelli nei nascondigli. Il secondo libro si apre con la lettera scritta nel 124 dai Giudei d’Egitto ai fratelli della Giudea per riprendere la celebrazione della festa delle capanne. Per l’occasione si richiamò alla memoria la leggenda secondo cui Neemia era riuscito a recuperare dopo la cattività
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babilonese il fuoco purificatore del tempo, sicché non solo poté ripristinare l’antica festa delle capanne, ma recuperò anche i libri dell’Antico Testamento, i libri dei profeti e i Salmi di Davide (2Mc, i, 18 - ii, 14). Vi si narra anche del grave scandalo del mercimonio del sommo sacerdozio di cui si resero responsabili Giasone e Menelao (2Mc, iv, 7-20; 23-29). Quest’ultimo riuscì ad avere ragione del suo concorrente con l’esborso di una somma superiore di trecento talenti. Episodi di eroismo sono invece quelli di Eleazar che preferì morire anziché mangiare carne suina (2Mc, vi, 18-31), quello di Razis che si gettò sulla spada, pur di non cadere in mano nemica (2Mc, xiv, 37-46), e infine il martirio di una madre e di sette figli, costretti a mangiare carne suina (2Mc, vii, 1-42). I due testi furono scritti in greco presumibilmente nell’arco del primo secolo d.C. In essi la cronologia è indicata nello stile macedone a partire dal 312 a.C. Tuttavia a differenza del 1Maccabei che indica i mesi in ebraico, il 2Maccabei indica in ebraico il mese casleu, in cui cade la festa delle capanne, in lingua macedone i mesi dioscuro e xantico e in lingua siriaca il mese di adar.(2) Il che fa pensare che l’autore del primo libro sia un giudeo probabilmente alessandrino; quello del secondo è verosimilmente un ebreo siriano. Certamente si tratta di due autori diversi. Nel primo si respira l’aria del Qumran. Ma è singolare che nei rotoli essenici non ci sia traccia di nessuno dei libri della epopea maccabaica; se ne può forse arguire che, dopo una prima fase di collaborazione, soprattutto asidea, tra i due gruppi si acuì sempre più il dissenso, sicché i qumraniani evitarono di assimilare i loro testi. D’altro canto gli esseni sembrano avversi ai re-sacerdoti della dinastia maccabaica, ovvero a Gionata, Simone e Giovanni Ircano I. Se si tiene conto del fatto che le narrazioni maccabaiche comprendono gli anni tra il 170 e il 134, si spiega come in essi non si trovi traccia del maestro di giustizia che probabilmente cominciò la sua attività letteraria intorno al 145 e finì vittima intorno al 110. L’impatto del giudaismo con la cultura greca fu violento: Antioco IV profanò Gerusalemme con la costruzione di una palestra secondo le usanze greche, proibì la pratica della circoncisione e del riposo del sabato, poi depredò il tempio di tutti gli arredi sacri: «Grande fu la sofferenza di Israele […] tutta la casa di Giacobbe si rivestì di vergogna» (1Mc, i, 14-22). Il santuario di Gerusalemme «divenne desolato come un deserto, le sue feste si trasformarono (2) 2Mc, i, 9, 18; x, 5; xi, 21, 33, 38; xv, 36.
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in lutto» (1Mc, i, 14-22). L’imposizione dei culti pagani costrinse gli ebrei a rifugiarsi nel deserto («molti allora che cercavano la giustizia e il diritto discesero nel deserto», 1Mc, ii, 29). L’episodio più grave si consumò il 25 di casleu del 167: in quel giorno Antioco IV «eresse un abominio di desolazione sull’altare degli olocausti […]; i libri della legge furono trovati stracciati e bruciati nel fuoco» (1Mc, i, 54). L’abominio della desolazione consisteva nel fatto che il tempio di Gerusalemme fu dedicato a Giove Olimpio (1Mc, vi, 2). Giuda celebrò la festa delle capanne, ripristinò gli olocausti secondo il dettato della legge nello stesso giorno del 25 casleu dell’anno 164. Siamo nello stesso periodo in cui nel deserto si rifugiarono gli esseni. Ed è interessante che il 1Maccabei accenni agli asidei («Allora si unì a loro un gruppo di asidei, uomini molto forti in Israele, tutti votati alla legge», 1Mc, ii, 42) che si unirono ai rivoltosi per contrastare l’imposizione dei culti ellenistici. Ma gli asidei si distaccarono ben presto dalla guerra guerreggiata, perseguita da Giuda e, confidando in Alcimo, un sommo sacerdote sadocita della dinastia di Aronne, fecero tentativi di pacificazione (1Mc, vii, 13-14). È da notare che l’esercito di Giuda era organizzato secondo il modello previsto nel testo qumranico della Regola della guerra, a gruppi di mille, cento, cinquanta e dieci uomini (1Mc, iii, 55), cui peraltro fa riferimento anche la Regola della Comunità. In 1Mc, i, 1; viii, 5, i kittim sono i Macedoni, ovvero i siriani in quanto eredi di un regno macedone o più genericamente i greci; ma, dopo la conquista di Pompeo nel 63, i Kittim si identificano con i Romani che l’autore mostra di stimare per la loro forza militare. Il calendario dei due libri dei Maccabei è un calendario lunisolare; l’anno è diviso in 364 (numero preferito perché multiplo di 7, cioè dei giorni della settimana), in 4 stagioni di tre mesi l’una e di 91 giorni (30 giorni il primo e il secondo mese e 31 il terzo) e in 52 settimane. Tale era anche il calendario degli esseni, mentre quello tradizionale era lunare. Entrambi i libri trattano autonomamente il medesimo periodo storico, che risulta più esteso nel primo (175-135), più contenuto nel secondo libro (176-160). L’autore del 2Maccabei si presenta come l’epitomatore di un’opera in cinque tomi di Giasone di Cirene (2Mc, ii, 19-31), ma nessuno dei due libri va assunto come testo storicamente attendibile, per essere entrambi mossi da intenti teologico-religiosi, che non solo li inducono ad alterare la verità storica, ma anche ad esagerare la portata delle sconfitte impresse al nemico. Un esempio di falsificazione della realtà storica è la morte di Antioco IV, il quale non morì a seguito di una caduta dal carro in corsa, né per una crisi depressiva o di angoscia (2Mc, ix, 7 sqq; 1Mc, 8-16),
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ma si spense a Tebe di Persia nel 163 affetto dalla tubercolosi. Si vuole che la lettera ai giudei sia stata sottoscritta nel 164 dai consoli Quinto Memmio e Tito Manlio (2Mc, xi, 34-38), ma i consoli del 164 sono Marco Pompeo Macrino e Publio Iuvenzio Celso. 15.3. Tobia Il libro di Tobia (non incluso nel Tanakh ebraico) non è che un romanzo scritto in greco (nel Qumran ne sono stati trovati frammenti in aramaico e in ebraico) forse nel ii secolo a.C., nell’area dei regni ellenistici (probabilmente in ambiente alessandrino), poiché l’autore cita il dodicesimo mese non con il nome di adar, ma con il nome macedone di diastro e accenna alla dracma come moneta di scambio (Tb, ii, 12; v, 15). Sebbene il racconto sia inquadrato nell’Assiria dell’viii secolo, non si tratta affatto di un romanzo storico per via dei grossolani anacronismi e delle imprecisioni in esso contenuti. La narrazione passa dall’uso della terza persona alla prima per poi ritornare nuovamente alla terza persona.(3) È escluso che Tobi, il padre, o Tobia, il figlio, possano considerarsi autori del testo, poiché la narrazione comprende anche la loro morte. La realtà è che l’uno e l’altro sono personaggi fittizi, come fittizia è la presunta cornice storica. Tobia è un personaggio tipo, rappresentativo del popolo disperso, violentemente separato dalla città santa e profondamente mortificato per la distruzione del tempio. Egli si sente parte di un popolo che vive tra gli altri popoli di formazione ellenica e teme la perdita della propria identità nazionale e quella del tradizionale culto yhawista. Da ciò deriva la forte insistenza sul divieto dei matrimoni misti, che troviamo anche nei libri di Ezra e di Neemia. Tobi ammonisce il figlio ad osservare rigorosamente la legge e gli ordina di preservarsi: «da ogni relazione sessuale illecita» e di «sposare una donna della sua stirpe e non una straniera, che non sia della tribù di suo padre, perché noi siamo figli di profeti. Ricordati che […] i nostri antenati sposarono donne della loro parentela» (Tb, iv, 12). Tobia – secondo l’autore, il quale interpreta a suo modo il dettato della legge mosaica – ha un diritto su Sara poiché suo padre Raguele ha l’obbligo di dare la figlia in moglie al parente più stretto. (3) Tb, i, 1-2; i, 3 - iii, 15; iii, 16 - xiv, 15.
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Accanto a questo obiettivo politico e nazionalistico di preservazione della cultura ebraica dalla contaminazione straniera, il romanzo persegue anche l’obiettivo di assicurare il popolo sofferente circa l’onnipresente previdenza divina, interpretata però secondo il tradizionale schema della legge della retribuzione, come legge di inflessibile giustizia, per la quale il giusto è immancabilmente premiato e il malvagio inevitabilmente punito. La guarigione di Tobi dalla cecità e la fuga del demone Asmoneo dal talamo coniugale di Sara, pur potendo essere ricondotte alla provvidenza divina, per via dell’assistenza dell’angelo Raffaele, tradiscono forse residui di una mentalità improntata al magismo per gli effetti miracolosi attribuiti alle sostanze ricavate dal fegato e dal cuore di un pesce non identificato. Il tema dominante della funzione salvifica dell’elemosina è in contrasto con la ricchezza accumulata con disonestà. Più volte l’autore ribadisce che l’elemosina ai fratelli deportati e ai bisognosi è gradita a Dio misericordioso e provvidente al pari di un sacrificio; essa «libera dalla morte e preserva dall’entrare nelle tenebre. Infatti, l’elemosina, per chiunque la compie, è un sacrificio gradito all’Altissimo».(4)Il nucleo più significativo del testo è nel salmo di ringraziamento in cui l’autore confida nell’intervento provvidenziale di Dio, la cui «misericordia fa scendere fin nelle profondità degli inferi e fa risalire dalla grande distruzione». Perciò egli si attende il riscatto di Israele e la restaurazione del tempio: «Proclamate le sue lodi, israeliti, davanti alle genti, perché egli vi ha dispersi in mezzo a loro e là vi ha dimostrato la sua grandezza […]. Vi castigherà per le vostre iniquità, ma poi avrà misericordia di tutti voi e vi ricondurrà da tutte le genti in mezzo alle quali siete stati dispersi» (Tb, xiii, 2, 4). Alla pseudo-profezia della distruzione di Gerusalemme («Maledetti coloro che ti insulteranno, maledetti saranno coloro che ti distruggeranno e abbatteranno le tue mura e quanti distruggeranno le tue torri e incendieranno le tue case») fa seguito la certezza della riedificazione («Gerusalemme sarà ricostruita come sua [di Dio] residenza per sempre», Tb, xiii, 13, 16). Nei versetti xiii, 17-18, il tono si fa mistico. Il libro circolò tra gli esseni i quali lo interpretarono come testo sapienziale, benché di sapienziale avesse ben poco; molto più probabilmente furono attratti dal tono profetico del salmo di ringraziamento.
(4) Tb, iv, 10-11. Sulla frequenza del tema dell’elemosina, cfr. i, 1, 16; iv, 7-11, 16; xi, 8-9; xiv, 9-10.
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15.4. Il Siracide Il Siracide è l’unico testo non pseudoepigrafo dell’AT, poiché ne conosciamo con certezza l’autore, che è Gesù, figlio di Eleazar, figlio di Sirah. È anch’esso, a suo modo, un libro sapienziale come si evince dal titolo ebraico Sapienza di Gesù, figlio di Eleazar, figlio di Sirah (hokhmat yeû’a ben ‛el’azar ben sîrâh). Scritto nel primo quarto del ii secolo, probabilmente in Egitto, forse ad Alessandria, il testo ci è pervenuto nella versione greca del nipote di ben Sirah, verso la fine del secondo secolo; ma di esso esistono una versione siriaca (la cosiddetta Pešitta) e una versione latina. Del testo ebraico sono stati rinvenuti 5 frammenti nella ghenizah del Cairo ed altri modesti frammenti nelle Grotte 2 e 11 del Qumran. L’opera si divide in sette trattati sulla sapienza ed un ottavo trattato dedicato agli eroi della storia ebraica. L’autore si pone nell’ottica di magnificare la cultura ebraica in conflitto con quella ellenistica; ciò spiega l’interesse che egli esercitò sui qumraniani; ma scrive in modo pesantemente prolisso, con un insopportabile ridondanza di ripetizioni e con una frammentazione del discorso etico che spesso scade in vuota precettistica. Nei punti più salienti il Siracide sembra trovarsi a mezza strada tra ebraismo (con tendenziali propensioni per la filosofia sadducea) e cristianesimo. Il primo trattato contiene il nodo centrale dello scritto. La sapienza (hokhmâ) è ipostatizzata ed eternizzata in Dio («Tutta la sapienza sta presso il Signore e con lui rimane per sempre»; ricorda l’incipit del vangelo giovanneo); essa è perciò «la prima creatura», «la parola di Dio», generata da Dio («Il Signore stesso ha creato la sapienza […] l’ha misurata, l’ha riversata in tutte le sue opere […] e l’ha elargita a quanti lo amano»).(5) Se divina è l’origine della sapienza, il compito del popolo di Israele, primogenito di Yhwh, si pone in termini di venerazione («Principio della sapienza è venerare il Signore», il quale la elargisce agli uomini del popolo eletto «fin dal seno materno», Sr, xvii, 18; xxxvi, 17; i, 14). Ma in che cosa consiste la sapienza per il Siracide? Consiste nell’approfondimento della legge e nella conoscenza della storia ebraica attraverso la quale si evince l’opera divina di edificazione e di punizione del popolo ebraico secondo l’ottica della retribuzione. Si tratta della conoscenza della Legge e del patto di alleanza in cui Dio rivelò i suoi segreti» («completa sapienza è la pratica della Legge», «conoscenza del bene», Sr, xvii, 11-12; xix, 20, 23). (5) Sr, i, 1-10. Sulla ipostatizzazione della sapienza, v. anche Sr, xxiv, 1-22.
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Sapienza è l’indagine sulla Legge: «Chi odia la Legge non giunge a sapienza, sbattuto come una nave nella tempesta»; «meditare la legge», significa «indagare la sapienza degli antichi», «occuparsi delle profezie», «penetrare le parabole intricate», «indagare il senso recondito dei proverbi» e «occuparsi degli enigmi delle parabole» (Sr, xxxiii, 2; xxxix, 1-3). Dio è «la spada vendicatrice per sterminare gli empi» (Sr, xxxix, 30). Ricorrono nel testo tutti i temi che dominano la riflessione ebraica nel periodo intertestamentario, con una terminologia che era molto cara agli esseni («l’oro si prova con il fuoco», sicché «gli uomini sono graditi a Dio nel crogiolo del dolore», Sr, ii, 5). Il Dio del Siracide non è più il Dio inflessibile e vendicativo della tradizione, ma «è misericordioso e compassionevole, perdona i peccati e salva nel momento della tribolazione» (Sr, ii, 11). Poiché l’uomo è naturalmente malvagio, la misericordia divina è necessaria per sottrarlo al peccato: «Per questo il Signore è paziente con gli uomini e riversa su di loro la sua misericordia. Vede e conosce la loro inclinazione malvagia; perciò è colmo di perdono» (Sr, xviii, 11-12). Anche qui sfugge all’autore la complessa questione filosofico-teologica relativa alla misericordia di Dio (Sr, iii, 18-19). Nel capitolo xvi egli non riesce a conciliare la misericordia e la giustizia divine; la problematica filosofica gli sfugge; quando tra l’una e l’altra sorge un conflitto, la soluzione pende in direzione della giustizia: «Grande è la sua punizione quanto la sua misericordia, egli giudicherà ciascuno secondo le sue opere; non lascia scappare l’iniquo con la sua rapina, né trascura per sempre il desiderio del giusto […]; ciascuno riceverà secondo le sue opere» (Sr, xvi, 12-14). Non sembra esservi un accento messianico nella parousía finale, proposta per lo più come minaccia contro i peccatori («Guai a voi che avete perduto la perseveranza: che farete quando il Signore verrà a visitarvi?», Sr, ii, 14). C’è una costante ossessione per il peccato, che nella prospettiva del misoginismo del Siracide, ha la sua radice nella perversione e sessualità della donna, la quale, in quanto causa del peccato, è anche causa della morte: «Da una donna ebbe inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo» (Sr, xxv, 24). C’è il dualismo e il predeterminismo che tra gli esseni raggiunge punte più estreme: «Come l’argilla sta nelle mani del vasaio che la plasma secondo la sua volontà, così le persone stanno nelle mani del loro creatore, il quale attribuisce loro un destino secondo la sua decisione. Come il male si oppone al bene e la vita si oppone alla morte, così il giusto si oppone al peccatore e la luce si oppone alle tenebre» (Sr, xxxiii, 13-14). L’autore appartiene ad una classe agiata, non ha se non una marginale attenzione per i poveri, ai quali riserva
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una elemosina espiatrice («Come l’acqua spegne il fuoco ardente, così l’elemosina espia il peccato»), nel quadro di una piena giustificazione del godimento della ricchezza e dell’uso della sferza contro i servi.(6) C’è poi una valutazione utilitaristica dei sacrifici («Egli è un Dio che ripaga e ti ricambierà sette volte tanto») e un forte accento nazionalistico.(7) Il Dio del Siracide è un Dio del terrore («infondi il terrore su tutte le nazioni»), ma anche della misericordia: «mostra misericordia per il popolo chiamato con il tuo nome: Israele che hai nominato tuo primogenito» (Sr, xxxvi, 2, 17). Nella sapienza si riassume tutto il mûsar, il processo di istruzione-formazione. È Dio stesso che «istruisce i suoi figli» (Sr, iv, 11), li educa alla confessione delle loro colpe, li impegna fino alla morte nella lotta per la giustizia. La giustizia è la virtù che sta a monte di tutta l’assiologia ebraica. Nell’ottavo trattato la galleria degli eroi antichi si chiude con Simeone II, figlio di Onia II, che condusse diverse opere di riparazione e di fortificazione del tempio. Il Siracide ce lo descrive come se fosse stato spettatore delle sue celebrazioni in occasione di feste tradizionali. Tenuto conto che il pontificato di Simeone cadde negli anni 219-196 e che il Siracide non accenna alla controversa nomina di Giasone (175), si può ragionevolmente supporre che la composizione del testo vada posta tra il 196 e il 175, tanto più che il nipote di ben Sirah ci fa sapere di aver scoperto il manoscritto ebraico in Egitto ove si recò nell’anno 131, ovvero nel trentottesimo anno del regno di Tolomeo VIII Evergete, re di Alessandria dal 169. Vi sono tracce più o meno consistenti di sadduceismo. L’impressione è che tanto ben Sirah, quanto il nipote Simeone, nutrissero simpatie per il movimento asideo o proto-essenico. Lo stesso ben Sirah si presenta come un ebreo fedele (hasîd, ha la stessa radice dell’ebraico hasidim = puri, pii). Come nel protoessenismo, non v’è nel Siracide la prospettiva della vita futura; il suo sguardo è tutto concentrato sull’orizzonte terreno; tutto si conclude sulla terra, senza alcuna prospettiva di resurrezione (il lutto deve essere di breve durata, poi il pensiero non deve ritornare al defunto: «non ricordarlo perché non v’è più speranza per lui», Sr, xxxviii, 21). La morte non è che l’inevitabile conclusione della vita («Quanto viene dal nulla ritorna al nulla, così l’empio: dal vuoto al vuoto» (Sr, xli, 10). Più esplicitamente: «un figlio di Adamo non è immortale», «Quanto viene dalla terra ritorna alla terra e quanto viene dall’alto ritorna in alto» (Sr, xvii, 30; xl, 11). Sono concetti (6) Sr, iii, 30; xiii-xiv; xxxiii, 25-33. (7) Sr, xxxv, 13; cfr. Sr, xxxvi, 1-22.
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comuni all’essenismo: non v’è via di scampo per chi scende nello Sheol. Forse un intervento correttivo del nipote Simeone pone in contraddizione con il resto del libro il tempo dell’immortalità, come compenso del perseguimento della sapienza: «La conoscenza dei comandamenti del Signore è un’istruzione di vita: chi fa quanto a lui è gradito raccoglierà i frutti dell’albero dell’immortalità» (Sr, xix, 19). Forse però si tratta di una immortalità nel ricordo delle generazioni future, come fa pensare l’ottavo trattato celebrativo degli eroi nazionali. Il terreno di coltura della musar ebraica resta in ogni caso il tradizionale misticismo e il simbolismo, pur nell’apertura verso l’allegorismo di matrice essenica, ma non regge il confronto con la ben più complessa paideia greca, improntata sulla fiducia nelle capacità umane, sull’autonomia e la libertà etica del soggetto e sulla visione razionale del mondo. Le influenze dell’ellenismo sulla cultura ebraica nel testo del Siracide appaiono ancora flebili. 15.5. La Sapienza di Salomone Il libro della Sapienza (Σοφία Σαλωμῶνος) è, come al solito un testo pseudoepigrafo, perché l’autore si pone nei panni dell’antico e mitico re Salomone, celebre per la sua altrettanto mitica saggezza. Generalmente si ritiene che esso sia l’ultimo libro dell’A.T., scritto verosimilmente in Egitto, forse in Alessandria, nella prima metà del i secolo d.C. Oltre che per la sua saggezza, Salomone è scelto anche per la sua regalità, in quanto l’autore della Sapienza intende rivolgersi ai potenti reggitori della terra e vuole farlo con il prestigio dell’antico sovrano di Israele. Molti sono i temi che accomunano il libro all’ideologia degli esseni e nello stesso tempo preannunciano il cristianesimo. Dominanti sono in particolare i temi del dualismo tra bene e male e del predestinazionismo della creazione divina, ma a tratti quest’ultimo sembra vacillare di fronte all’idea di un’etica come conquista libera, per cui ci si guadagna «la corona [si pensi alla corona dei martiri] per aver vinto nella lotta di combattimenti incontaminati» (Sp, iv, 2). Predeterminismo e libertà convivono l’uno accanto all’altro come se fossero tra loro compatibili: da un lato l’immortalità discende dalla virtù, anzi ne è la memoria presso Dio e presso gli uomini, dall’altro discende dalla grazia e dalla misericordia divina che proteggono il giusto. Il dualismo della Sapienza è radicale: ci sono due vie contrapposte, quella della luce e quella
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delle tenere, del bene e del male, dell’empio e del giusto, della vita e della morte, del dio e del diavolo. C’è un conflitto etico profondo tra le giustificazioni e i ragionamenti dell’empio e quelli dell’uomo di fede. L’empio punta sul piacere e sul godimento, perché «la vita è breve e segnata dal dolore […] il destino dell’uomo è mortale […]; nessuno può liberarsi dal regno dei morti […] dopo questa vita saremo come se non fossimo mai stati […]. Il pensiero è una scintilla […] quando si sarà spenta, il corpo diventerà cenere, il nostro spirito se ne andrà come aria che si disperde. Il nostro nome sarà cancellato nel corso del tempo […]. Il tempo della nostra vita è il transito di un’ombra», perciò non ci resta che goderci «le fortune presenti», spassarcela, inebriarci e non lasciarci sfuggire il fiore della primavera» (Sp, ii, 1-7). Ma il giusto non si lascia trarre in inganno da argomentazioni devianti; gli empi – egli dice – «non conoscono i misteri di Dio e neppure sperano di ricevere il premio per una vita santa, poiché non credono alla ricompensa delle anime pure. Dio infatti ha creato l’uomo per l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine e somiglianza della propria identità. Per l’invidia del diavolo, però, la morte è entrata nel mondo, e ne fanno esperienza coloro che stanno dalla sua parte» (Sp, ii, 21-24). Sono davvero paradossali l’escatologia e la teologia della Sapienza. Probabilmente l’autore pensa al dualismo dei due destini del giusto, che è degno di ricevere il premio dell’immortalità, e dell’empio, che riceverà il castigo della morte eterna. In altri termini l’immortalità e la morte sono rispettivamente un premio e un castigo, non il naturale percorso della vita umana o il suo naturale sbocco. Se le creature sono immagini della divinità, non possono non essere incorruttibili, come la natura divina. Dio crea per la vita e per la permanenza in eterno nella vita (l’immortalità). La morte è il frutto dell’invidia del diavolo e coloro che ne fanno esperienza sono solo gli empi che stanno dalla sua parte. Anche l’autore della Sapienza si lascia sfuggire la pregnanza filosofica delle tematiche da lui affrontate; la sua ottica è il misticismo, non il razionalismo greco. Ma è importante che nelle sue pagine si affacci, pur nei limiti del contesto dell’ebraismo, il mito greco della immortalità come speranza di salvezza, poiché questo è il primo passo verso il cristianesimo. Ciò che è interessante è che il libro della Sapienza ci lascia forse intravvedere una nuova tappa nel processo evolutivo dall’essenismo al cristianesimo, è cioè quella in cui nelle comunità della diaspora essenica si fa strada l’idea della immortalità e della connessa resurrezione. Come sappiamo nei testi essenici del Qumran queste tematiche non appaiono chiaramente sviluppa-
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te. Eppure Giuseppe, profondo conoscitore ed estimatore dell’essenismo,(8) per averne subito il fascino negli anni della sua formazione (v. il Bios), ci dice che le credenze nell’immortalità e nella resurrezione erano nel patrimonio intellettuale degli esseni. Nella Sapienza riecheggiano i simbolismi dei qumranici: La speranza dei giusti è gravida d’immortalità […] poiché Dio […] li ha saggiati come oro nel crogiolo […]; nel tempo stabilito per il loro giudizio […] passeranno come scintille tra la pula […]; coloro che hanno perseverato nell’amore dimoreranno presso di lui [Dio], poiché grazia e misericordia sono per i suoi eletti (Sp, iii, 1-9).
Qui sembra scomparire la visione nazionalistica di Israele oppure sembra rimanere nell’ombra; forse si comincia a respirare – sotto l’influenza del mondo ellenistico – un’aria di universalismo, sconosciuto al mondo ebraico. Anzi si direbbe che l’autore della Sapienza non sembra contrapporsi in termini di conflitto di civiltà alla cultura ellenica e forse per certi tratti ne accetta la superiorità intellettuale. Nel capitolo v abbiamo un passaggio decisivo in quello che possiamo chiamare la «lamentela dell’empio»; è un ripensamento sulla derisione del giusto nel momento del giudizio: «Il giusto si leverà […] di fronte a coloro che hanno disprezzato le sue sofferenze […]. Vedendolo resteranno sconvolti da grande terrore e si stupiranno per questa salvezza inaspettata» e tra sé stessi diranno «Questi è colui che un tempo avevamo deriso facendone oggetto di scherno, noi stolti! Abbiamo stimato la sua vita una follia e la sua morte una vergogna» (Sp, v, 1-4). È ovvio che qui «il giusto» non è riferito ad un personaggio storico o ad un singolo individuo, ma alla generalità dei giusti. Resta però l’uso del singolare «il giusto», che è oggetto di derisione e di morte ignominiosa ed è in quanto tale un appellativo del Messia. Nei rotoli del Mar Morto, come sappiamo, ricorre spesso il ricordo della derisione e forse anche della morte violenta del ma(8) Giuseppe ha molta simpatia per gli esseni. v., infatti, come descrive il loro sacrificio nel corso della Guerra Giudaica (ii, 119-161): «Il loro spirito fu assoggettato ad ogni genere di prova durante la guerra contro i Romani, in cui, stirati e contorti, bruciati e fratturati e passati attraverso tutti gli strumenti di tortura perché bestemmiassero il legislatore o mangiassero qualche cibo vietato, non si piegarono a nessuna delle due cose, senza nemmeno una parola meno che ostile verso i carnefici e senza versare una lacrima. Ma, sorridendo tra i dolori e prendendosi gioco di quelli che li sottoponevano ai supplizi, esalavano serenamente l’anima, certi di tornare a riceverla».
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estro di giustizia, ma nella Sapienza la vicenda storica del maestro di giustizia sembra ormai lontana, perché evidentemente il testo non si riferisce a lui. Tuttavia, se l’autore scrive nello stesso arco di tempo della passione del Cristo, perché si lascia sfuggire l’occasione di menzionarlo proprio come esemplificazione della sua argomentazione? O ne era ignaro o non c’era stato alcun Cristo storico o più verosimilmente non era ancora nato il vero e proprio mito del Cristo in senso cristiano. Oppure l’autore scrive semplicemente sulla scorta o sotto la suggestione dei salmi messianici o ha sotto mano il testo del lib. ii della Repubblica di Platone. Infine i capitoli dal vii al xix sono una idealizzazione della figura di Salomone; non presentano elementi di novità e ritornano sull’onnipresente invettiva contro l’idolatria. 15.6. Baruc Il Libro di Baruc (non incluso nel Tanakh) sembra essere una tardiva raccolta di almeno quattro documenti che tra loro non mostrano legami di parentela o di dipendenza. Secondo il prologo il libro sarebbe stato scritto nel 581, ovvero cinque anni dopo la conquista babilonese di Gerusalemme. Il quadro storico richiamato alla mente è però impreciso ed errato: Belshazzar (-539) non fu figlio né diretto successore di Nabucodonosor (604-562) (lo stesso errore è presente in Daniele, v, 7; viii, 1). Anche la storia dei vasi asportati dal tempio è in Daniele. Baruc è citato solo da Geremia,(9) nella qualità di suo segretario. La seconda parte contiene una preghiera penitenziale, in cui si riconosce la giustezza della punizione di Giuda e di Gerusalemme per i peccati commessi dal popolo di «dura cervice» e si accenna alla tragedia sfociata in atti di cannibalismo («si è giunti al punto di mangiare le carni dei propri figli e figlie», Br, ii, 3, 30). Il profeta invoca Yhwh affinché ritiri la sua ira e, in risposta, da lui riceve la promessa del ritorno nella terra assegnata ai padri. La terza parte sembra iscriversi nella letteratura sapienziale, particolarmente cara ai qumraniani. La quarta parte è un oracolo di restaurazione: Yhwh libererà Israele dall’oppressione; da lui verrà la salvezza. La quinta parte è data da una lettera attribuita a Geremia, in cui l’autore riprende con argomentazioni di scarsa originalità il tema della condanna dell’idolatria. Il testo è evidentemente pseudoepigrafo; ci è pervenuto in greco e sembra essere opera di un tradizionalista (9) Jr, xxxii, 12-16; xxxvi 4-32; xliii, 1-7; xlv, 1-5.
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del ii-i secolo a.C., che rivendica contro la sapienza dei greci, fondata sulle potenzialità dell’ingegno umano, la superiorità della sapienza ebraica che ha le sue radici nella divinità creatrice dell’universo.
parte ii Il periodo intertestamentario
Il quadro storico Lo scenario storico in cui maturò l’incontro-scontro tra giudaismo ed ellenismo abbraccia ben quattro secoli e mezzo e va dalla formazione dell’Impero macedone alla seconda rivolta giudaica, sedata nel 135 d.C. Con l’Impero di Alessandro e con la conseguente ellenizzazione di tutta l’area mediterranea, con la diffusione della koinē diálektos e con la nascita dei regni ellenistici, fu inevitabile l’incontro tra la cultura ebraica e l’ellenismo. Fu uno scontro tra civiltà diverse, se non addirittura opposte, che segnò una crisi profonda nella storia ebraica. Già nel corso del quinto secolo si avvertiva una lenta decadenza dei principi fondamentali del giudaismo: i riti del tempio e i sacrifici avevano in parte perso la loro funzione liturgica, via via che la religione aveva assunto una dimensione individuale e personale. Sempre più si affermava la tendenza a sostituire agli antichi sacrifici e agli olocausti la conoscenza e lo studio e l’importanza delle opere buone, che ovviamente avevano una curvatura personale. D’altro canto non mancò di svilupparsi soprattutto attraverso gli insegnamenti sinagogali e scolastici una profonda riflessione sulle pratiche caratterizzanti del giudaismo (la circoncisione, l’avversione per l’idolatria, l’osservanza del sabato e numerose altre prescrizioni legalistiche) che sfocerà, tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, nelle grandi raccolte della Mishnah ( )משנהe del Talmud ()תלמוך, accanto ai Targumim ()תרגמיםe ai Midrashim ()מדרשם Furono soprattutto i sovrani Seleucidi, di origini greco-macedoni, il cui dominio si estese su tutta l’Asia Minore, sulla Siria, sulla Mesopotamia e sulla Persia, che favorirono, anche in forme violente, il processo di ellenizzazione degli ebrei. Il contatto con la cultura greca indusse ad una più profonda riflessione critica sui temi dell’ortodossia, sul concetto del Dio personale, sulla natura dell’anima e sulla immortalità e la resurrezione, sulla vita oltremondana e sui destini individuali, sul problema del male e della condotta etica e sul senso del giudizio universale. Tale processo subì una più forte accelerazione allorché Antioco III il Grande (222-187), con una serie di fortunate battaglie, sottrasse, nel 198 a.C., la Palestina al dominio dei Tolomei 445
446 II. Il quadro storico
d’Egitto e la consegnò al suo successore Seleuco IV (187-175). Le sue mire espansionistiche verso la Grecia ebbero invece esito negativo nella battaglia di Magnesia (190 a. C) contro le legioni romane, comandate da Lucio Cornelio Scipione. La guerra siriano-romana aveva devastato le casse dello Stato, ma Seleuco IV volle proseguire la politica espansionistica del suo predecessore, finché non fu assassinato da Eliodoro. Gli succedette Antioco IV Epifane (175-164 a.C.), appoggiato dal partito filo-seleucidico dei Tobiadi, sotto la cui pressione, e spinto dal bisogno di rimpinguare le finanze dello Stato, incaricò il generale Eliodoro di saccheggiare il tempio di Gerusalemme. Ma l’impresa fallì; i Tobiadi furono cacciati da Gerusalemme mentre Antioco deponeva il sommo sacerdote Onia III (174 a.C.), schierato dalla parte del partito filo-egiziano. Ne seguì una politica di forzata ellenizzazione del regno e di violenta persecuzione religiosa; fu costruito un ginnasio in cui gli ebrei praticavano nudi i giochi ginnici secondo l’uso greco, 1Mc, i, 14-15). Onia III fu sostituito dal fratello Giosia (ellenizzato in Giasone); di fronte alle contestazioni degli Ebrei più tradizionalisti, Antioco, dietro cospicuo compenso in danaro, lo sostituì nel 172 con Menahem (ellenizzato in Menelao). Questi non esitò a depredare il tesoro del tempio(«portò via l’altare d’oro, il candelabro della luce con tutti i suoi arredi», 1Mc, i, 21) e a far assassinare Onia III. Ma l’atto più grave di Antioco IV fu la proscrizione della religione ebraica; riconvertì il tempio samaritano sul monte Garizim, dedicandolo a Zeus Xenio, ed intitolò il tempio di Gerusalemme a Zeus Olimpio; quindi proibì con minaccia della pena capitale l’osservanza di tutte le prescrizioni della Legge (riposo sabbatico, circoncisione, feste religiose, ecc.); obbligò il popolo all’esercizio dei culti pagani e ordinò la distruzione di tutti i rotoli della Legge. Come ci informa il 1Maccabei (i, 54-56), chi veniva trovato in possesso della Torah veniva condannato a morte. Non è difficile comprendere quanto ciò mortificasse il popolo ebraico e come per esso avesse inizio uno dei momenti più tormentati della sua storia, dopo l’esilio babilonese. La reazione ebraica alle misure imposte dal sovrano fu variegata. Una sparuta minoranza le accettò supinamente e rinnegò le antiche tradizioni, ma la grande maggioranza si oppose nelle forme più disparate; taluni gruppi si ritirarono nel deserto, altri ricorsero alla reazione armata e violenta. I primi erano gli hasidim ( חסידיםin greco asidáioi ‘Ασιδαῖοι) o asidei (i puri) che si rifugiarono nella segretezza e preferirono affrontare la morte più che rinnegare l’antica fede. Un migliaio di essi morirono in un giorno di sabato con i loro fi-
II. Il quadro storico
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gli e con le loro mogli (1Mc, ii, 38). Nello stesso torno di tempo ripararono nel deserto gli esseni che forse ne costituivano una derivazione. La fazione armata fu quella dei Maccabei, molto vicina agli zeloti. Fece scoppiare la rivolta Mattatia, che si rifiutò di sacrificare secondo il rito pagano, uccise l’ufficiale del re che voleva imporglielo e trovò riparo sulle montagne insieme ai figli Giuda, Simone, Giovanni, Eleazar e Gionata. Alla fazione dei Maccabei si associarono gli hasidim e seminarono il terrore tra gli ebrei ellenizzati: «Andarono in giro a demolire gli altari [pagani] e a circoncidere con la forza i bambini che si trovavano in Israele» (1Mc, i, 45-46). Nel 165 a.C., dopo una schiacciante vittoria nella piana di Emmaus contro l’esercito siriano comandato da Lisia e da Antioco, Giuda si impadronì di Gerusalemme e ripristinò gli antichi culti. Quindi proseguì la sua instancabile lotta contro gli Idumei, gli Ammoniti e i Gentili stanziati nella Galilea. A Bozra, ad Alim, a Karnain e a Galaad fece strage di gentili. Il conflitto perdurò sotto Antioco V Eupatore (164-162) con le battaglie di Acra e di Bet-Zacaria. Alla morte di Menelao (162 a.C.), il nuovo imperatore Demetrio I Sotere (162-150) nominò sommo sacerdote Eliakim (ellenizzato in Alcimo), il quale, sentendosi forte per la morte di Giuda Maccabeo (161 a.C.) consumò un ulteriore affronto alla fede tradizionale e fece demolire il muro che nel cortile del tempio separava gli ebrei dai gentili. La lotta armata proseguì con i figli di Mattatia. Dapprima Gionata riconquistò la carica di sommo sacerdote (152 a.C.) ma a distanza di qualche anno (143 a.C.) fu sopraffatto da Trifone e finì i suoi giorni prigioniero in Tolemaide. La rivolta continuò con il fratello Simone, con cui ebbe inizio la dinastia degli Asmonei (14037 a.C.); egli rientrò in possesso di Gerusalemme (143), assunse il titolo di sommo sacerdote e stipulò un’alleanza con Antioco VII Evergete. Ben presto però l’accordo si ruppe e nel 135 fu ucciso insieme a due dei suoi figli. Si salvò il terzo dei suoi figli, Giovanni Ircano I, che mantenne la carica di re e di sommo sacerdote dal 135 al 104 a.C. Giovanni Ircano, assai bellicoso per carattere, fu molto ambizioso e nutrì a lungo il proposito di ricostruire l’antico regno di Davide; condusse una politica spietata contro i Samaritani, distruggendone il tempio, impose con la forza il culto giudaico agli Idumei e rase al suolo la città di Samaria. Gli succedette il figlio Aristobulo (104-103) che fu spietato con i suoi stessi parenti: imprigionò la madre e i suoi fratelli. Alla sua morte il potere passò nella mani della moglie Salome Alessandra (76-67 a.C.), la quale sposò il cognato più anziano Alessandro Ianneo (10376 a.C.). Questi attuò una politica di spietata persecuzione nei confronti dei
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farisei, tanto da indurre Demetrio III Eucherio (95 a.C.) ad intervenire e a sconfiggerlo nell’88 a.C. Ma alla partenza di Demetrio III Alessandro riprese le redini del regno e proseguì con più violenza la repressione antifarisaica. Alla sua morte governò la moglie (76-67 a.C.) che conferì il sommo sacerdozio al figlio Ircano II. Alla morte di Salome il regno passò nelle mani del figlio Aristobulo II che ben presto entrò in conflitto con il fratello Ircano II, ragion per cui entrambi fecero appello ai Romani. Intervennero Gabinio e Pompeo, il quale, dopo un assedio di tre mesi, entrò nel tempio, riportò a più modeste proporzioni il regno ebraico e lo lasciò nelle mani di Ircano II con il titolo di etnarca (63-40 a.C.). Nel 37 con Antigono XIII Asiatico si chiuse la dinastia asmonea e il regno passò nelle mani di Erode Ascalonita il Grande che governò, sotto protettorato romano, dal 37 al 4 a.C. e provvide a restaurare e ad ampliare il Secondo Tempio gerosolimitano. Alla sua morte il regno fu diviso tra i suoi tre figli: Erode Archelao (4 a.C. - 6 d.C.), al quale furono assegnate la Giudea, la Samaria e l’Idumea; Erode Antipa che ricevette la Galilea e la Perea; Erode Filippo che ereditò la Gaulanitide, la Traconitide, l’Auranitide e l’Iturea. Nel 6 d.C., a causa delle continue proteste popolari, Augusto sollevò dall’incarico Archelao, lo confinò a Vienne ed annesse il suo territorio alla provincia romana di Siria, retta dal prefetto Coponio (6-9 d.C.). Erode Antipa governò dal 4 a.C. al 39 d.C.; gli successe Erode Agrippa I (39-44), alla cui morte l’imperatore Claudio, data la giovanissima età del successore Agrippa II, preferì lasciare il governo della Giudea nelle mani di un Procurator. Alla morte di Erode Filippo (34 d.C.) anche i suoi territori andarono ad espandere la provincia siriana. Nel 66 d.C. riprese vigore la rivolta antiromana sotto la guida di Eleazar, il quale impose la sospensione dei sacrifici in favore di Nerone. Dapprima la fortuna assecondò gli insorti che si impadronirono della fortezza di Masada e della fortezza di Antonio, facendo strage di Romani e mettendo in pericolo la XII legione di Gaio Cestio Floro. Successivamente si scontrarono Eleazar ben Simone e Menahem, figlio di Giuda il Galileo, con il quale erano schierati gli zeloti; lo scontro continuò con Giovanni di Ghiscala e Simone Bar Ghiora, ma alla fine nel 70 ebbero ragione i Romani con le forze congiunte di Tito e di Vespasiano, che conquistarono Gerusalemme e rasero al suolo il tempio. Le ultime resistenze della fortezza di Masada furono domate nel 73. Dopo un lungo assedio e dopo la costruzione di un enorme terrapieno, quando Lucio Flavio Silva era ormai prossimo ad entrare nella fortezza, il capo degli zeloti, Eleazar ben Ya’ir, invitò gli ultimi
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resistenti al suicidio collettivo. La rivolta riprese a distanza di un cinquantennio, tra il 115 e il 117, sotto l’impero di Traiano. Partita dalla Cirenaica essa si estese all’Egitto e alla Mesopotamia, si sviluppò in stretta connessione con la guerra partica e fu domata da Lusio Quieto. La terza e più violenta rivolta scoppiò tra il 132 e il 135 sotto Adriano, il quale aveva proibito la circoncisione e aveva fatto costruire sulle rovine dell’antico tempio un santuario dedicato a Giove Capitolino. Promossa da Simone Bar Kockba, la rivolta fu repressa nel sangue nel 135 d. C e agli Ebrei non rimase che la dura via della diaspora. In tale scenario storico si modificò profondamente il volto del giudaismo. Da un lato crebbero le defezioni dalla tradizionale fede ebraica, dall’altro la cultura ellenica, per la sua stessa rilevanza filosofica, non mancò di provocare un ripensamento profondo e significativo sull’antico profetismo, sui temi etici e teologici, sullo stesso concetto di Dio e sulle problematiche soteriologiche ed escatologiche. I libri accolti nel canone della bibbia ebraica assunsero la loro forma definitiva intorno al iii secolo;(1) tra il ii e il i secolo, frutto di tale ripensamento fu tutta la produzione letteraria che va sotto il nome di «apocrifi dell’Antico Testamento» e quella che ci è stata restituita con la scoperta dei famosi rotoli del Qumran in gran parte riconducibili all’essenismo.
(1) Il primo codice della Bibbia è del quarto secolo d.C. ed è scritto in greco. I codici dell bibbia ebraica sono medievali. Mentre il canone della Bibbia giudaica sembra risalire al i secolo d.C., quello cristiano non è stato fissato se non tardivamente. Lo si evince dalla comparazione dei tre codici, sinaitico, vaticano e alessandrino, i quali includono libri apocrifi o deuterocanonici assenti nel canone giudaico. Il canone della chiesa ortodossa etiopica include gli apocrifi dei Giubilei e di Enoc. In ciascun corpus canonico l’ordine dei libri cambia e i testi presentano molte varianti. Il canone giudaico è diviso in TNK (Torah, Neviim e Ketuvim). I Libri dei Re sono inseriti nella sezione dei profeti (neviim); quelli delle Cronache tra i Ketuvim. La Septuaginta ordina i libri per generi. Le versioni testuali sono diverse. Anche nei manoscritti del Mar Morto troviamo versioni diverse. Il testo giudaico (masoretico) è stato standardizzato dopo duemila anni sulla base della vulgata e delle moderne traduzioni ebraiche e cristiane. Il testo biblico cristiano originale e i testi usati dai giudei nel mondo antico (i quali non leggevano l’ebraico) sono basati su testi ebraici diversi dal masoretico. Il testo samaritano, che è in ebraico, non coincide con quello masoretico. Le differenze maggiori sono in materia di cronologia.
capitolo i
LA COMUNITÀ DEGLI ESSENI NEL QUMRAN
1.1. L’influsso dei culti misterici Uno dei tratti più specifici dei culti misterici è senza dubbio l’esoterismo che è strettamente legato al concetto stesso di mistero.(1) Dal greco μύω (myō) ‘non aprire la bocca’ o ‘tenere chiusa la bocca’, mystērion (μυστήριον) significa ‘conservare il segreto’; μύησις (myēsis) è l’ iniziazione; μύστης (mystēs) è l’iniziato. Sul modello delle antiche sette pitagoriche per i trasgressori del segreto sono previste specifiche penalizzazioni. Per ciò stesso l’accesso alle sette misteriche è ammesso solo dopo un processo di iniziazione che generalmente consiste in un rito di purificazione (attraverso sacrifici, abluzioni o banchetti sacri, forme di espiazione e/o di autopunizione), officiato in gran segreto o nel corso della notte o comunque in aree extraurbane. L’iniziazione è sentita dall’affiliato come una sorta di esperienza mistica, ineffabile (árrēta ἄρρητα) che lo avvicina alla divinità fin quasi ad identificarlo con essa. Gli iniziati si sentono ‘perfetti’ (teletái τελεταί), purificati dal male e dalle azioni ingiuste, giunti al compimento (télos τέλος) della loro vita o del loro percorso interiore. Ispirato ai cicli vitali della natura ma anche ai ritmi determinati dei corpi astrali, il soteriologismo dei culti misterici interpreta l’alternanza delle stagioni come morte e rinascita della (1) Sulle origini del cristianesimo dalle sette misteriche, cfr. K. Humphreys, Jesus never Existed: An Introduction to ultimate Heresy, Charleston, Nine-Banded Boods, 2014; T. Freke, P. Gandy, The Jesus Misteries. Was the ‘original Jesus’ a Pagan God?, London, Thorsons, 1999.
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natura, che si traduce nella morte e resurrezione del dio oppure come alternanza di luce e di tenebre a garanzia della continuità dell’esistenza. La salvezza, per lo più individuale, ma entro certi limiti anche collettiva, è assicurata all’affiliato attraverso un processo di progressiva identificazione con dio. La resurrezione del dio è promessa della resurrezione dei giusti; compiendo il percorso di purificazione, il μύστης diventa egli stesso θεός (theós = dio) e il suo destino escatologico consiste nella sopravvivenza della sua anima nel regno celeste dell’aldilà. Dai cicli stagionali della natura e dalla periodicità dei corsi astrali dipende il dualismo di luce e tenebre, cielo e terra, bene e male che, sotto l’influsso del platonismo, si traduce in un dualismo più prettamente filosofico tra spirito e materia, incorruttibile e corruttibile, infinito e finito e simili. Quasi tutte le sette misteriche praticano forme di cenobitismo, di vita in comune e ritualità celebrate in comune, il battesimo, la preghiera, i pasti, i riti purificatori e propiziatori. Il senso di appartenenza ad una comunità riduce le ansie e le inquietudini della vita solitaria, che è una conseguenza di quella fuga dalla convivenza civile e dalla vita cittadina strettamente connessa al fenomeno di riflusso (láthe biōsas λάθε βιώσας = vivi nascostamente) proprio dell’età alessandrina. Esoterismo, iniziazione-purificazione, identificazione con il dio, ideale di perfezione, soteriologismo ed escatologismo, cenobitismo e dualismo di luce e tenebre, pauperismo e predeterminismo definiscono nel loro insieme la ‘forma’ più astratta e più generica delle religioni misteriche, di origine ellenica, i cui contenuti, pur variando più o meno sensibilmente da un culto all’altro, dai misteri eleusini a quelli dionisiaci, ai riti di Attis e di Cibele, e alle varie forme dell’orfismo e del pitagorismo, presentano fisionomie che, per effetto del sincretismo religioso proprio dell’età ellenistica, finiscono con l’assomigliarsi. Esempi di assimilazione sono i processi di ellenizzazione del culto egiziano di Iside, Osiride e Horus, del culto di Serapide e del mitraismo. Il culto di Iside (eg. Aset), la dea madre, raffigurata con il figlio Horus in braccio, ebbe una straordinaria espansione nel mondo greco-romano per via della sua comparazione con le mitiche figure di Demetra, di Afrodite o di Artemide e con i loro rispettivi culti. Sorto in epoca tolemaica il culto di Serapide, raffigurato come Zeus barbuto con folta capigliatura, conobbe una esplosiva espansione fino al secondo-terzo secolo dell’era cristiana. Più rilevante per influenza e diffusione è il culto mitraico, la cui derivazione iranico-zoroastriana, teorizzata da Cumont,(2) è oggi ormai sop(2) F. V. M. Cumont, Les Mystères de Mythra, Bruxells, Lamertin, 1900, pp. 1 sqq.
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piantata. Esso si diffuse nell’area medio-orientale tra il ii e il i secolo a.C. e nell’impero romano tra il i e il iv secolo dopo Cristo. Recenti ricerche hanno dimostrato che il mitraismo è strettamente legato alla scoperta nel 128 a.C. da parte di Ipparco di Nicea del noto fenomeno della precessione degli equinozi, spiegato non come effetto dell’oscillazione dell’asse terrestre, ma come conseguenza del moto dell’equatore celeste, il quale, nei punti di intersezione con il cerchio zodiacale, determinerebbe gli equinozi primaverile e autunnale. In questo quadro teorico la tauroctonia rappresenterebbe la fine dell’età del Toro e l’inizio dell’età dell’Ariete (circa 2.000 a.C.). Si tratta, com’è facile intuire, di una sorta di religione astrale, che concepisce il viaggio dell’anima dopo la morte come una ascesa attraverso le sfere dei sette pianeti verso il regno celeste dell’aldilà. Ulansey, che è il fautore di tale nuova interpretazione del mitraismo, ne colloca l’origine in Cilicia, in particolare presso Tarso, la patria di Paolo.(3) I relativi luoghi di culto erano i mitrei, piuttosto angusti, ricavati da caverne o costruiti a forma di caverne, in cui si consumavano i pasti comuni che erano denominati agápē (ἀγάπη). Se ne sono trovati numerosi esemplari in Inghilterra, nell’impero romano, in particolare ad Ostia, e nell’area nord-occidentale della Palestina. Nel mitraismo era presente una sorta di culto del dio sole e della luna e i simboli più frequentemente utilizzati erano il fuoco e l’acqua. Si ritiene che il nome Mitra avesse il significato di ‘alleanza’ e forse da ciò deriva l’idea di una nuova alleanza con il dio (diathēkē διαθήκη). La nascita di Mitra, spesso assimilato al dio del sole e più tardi al culto del Sol invictus, è fissata, come la nascita di Cristo, in prossimità del solstizio d’inverno, il 25 dicembre. Infine, dal mitreo di Felicissimo ad Ostia apprendiamo che i gradi di iniziazione erano sette in corrispondenza dei sette giorni della settimana, delle sette porte, dei sette metalli e dei sette pianeti allora conosciuti (il che forse fa pensare ad affinità con l’Apocalisse di Giovanni). Nel grado più alto l’affiliato assumeva il titolo di patēr ed era theós in quanto assimilato al dio. Nate in larga parte in Grecia le religioni misteriche sono essenzialmente un prodotto di quella cultura ellenica sviluppatesi nella fase di sgretolamento delle antiche tradizioni pagane, in cui al di là del politeismo sempre più in crisi, si sviluppano forme diverse di monoteismo. Nel corso del primo secolo d.C. i culti misterici si intrecciano sempre più l’uno con l’altro e ne restano contaminati tanto nella forma quanto nei contenuti. I contatti (3) D. Ulansey, The origins of the mithraic mysteries, Oxford, University Press, 1989, pp. 67 sqq.
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del mondo ebraico con il mondo ellenico e con la variegata compagine dei culti misterici ebbero luogo assai per tempo, fin dalla formazione dei regni greco-macedoni, susseguitisi alla conquista di Alessandro Magno. La reazione giudaica, com’era facile attendersi da parte di una società con forti spinte nazionalistiche, fu quella di un immediato e rigoroso rigetto. Ciò però non impedì che nella contiguità delle relazioni culturali, nel confronto-scontro tra due civiltà e due antiche tradizioni culturali, delle quali ciascuna rivendicava la propria superiorità rispetto all’altra, non si verificasse una naturale osmosi di suggestioni e di idee. Soprattutto il platonismo esercitava il suo indiscutibile fascino con la sua idealizzazione del mondo dello spirito, con il suo dualismo di mondo celeste e mondo terreno e con la teorizzazione dell’anima e del suo destino oltremondano, spesso confinante con le religioni misteriche. A questa che può reputarsi una forma di compenetrazione pacifica va aggiunto che non mancò di avere le sue ripercussioni l’ellenizzazione forzata che si consumò durante il regno dei Seleucidi, con Antioco IV Epifane con Demetrio I e con Antioco VII. Ma i tre secoli che vanno dal 176 a C (avvento al trono di Antioco IV) al 135 d.C. (distruzione di Gerusalemme e definitiva sconfitta di Bar Kokhba) furono decisivi; che lo si voglia ammettere o meno, furono gli anni in cui più profondo fu il processo di contaminazione della cultura ellenistica e di quella ebraica. Né è un caso che proprio a quegli anni risalgono i più importanti documenti di Qumran; ed è proprio in quel crogiolo di incontri di idee e di civiltà che nascono le comunità esseniche, terapeutiche, enochiche, cristiane e gnostiche. In quel crogiolo avviene la fusione a caldo degli orientamenti settario-religiosi del primo secolo; una fusione in cui le tracce della più pura tradizione giudaica assumono le impronte inconfondibili della cultura ellenica. Naturalmente non mancarono i gruppi ostinatamente conservatori, come i Farisei e i Sadducei, più o meno fanaticamente ancorati alla tradizione, ma l’essenismo, l’enochismo e il cristianesimo non sono comprensibili se non come tappe di unico processo evolutivo, come prodotti in un crogiolo in cui metalli diversi si fondono in leghe prima sconosciute. In questo percorso ebbero un ruolo primario gli ebrei della diaspora, che più facilmente furono sollecitati dagli stimoli culturali di popoli stranieri.
II.1 La comunità degli esseni nel Qumran
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1.2. Gli esseni e i terapeuti nelle interpretazioni di Filone e di Giuseppe Flavio Generalmente si ritiene che gli esseni e i farisei siano nati da una frattura interna al movimento degli asidei, i quali, come si è detto, si organizzarono nel ii secolo a.C. in reazione alla forzata ellenizzazione voluta da Antioco IV, durante i pontificati di Giasone e Menelao, e da Demetrio I, sotto il pontificato di Alcimo. Si tratta tuttavia di un movimento di cui non abbiamo sufficienti notizie per convalidare una qualsiasi ipotesi sulle sue origini. D’altro canto anche gli esseni sorgono autonomamente verso la metà del secondo secolo attorno alla figura del maestro di giustizia in reazione alla forsennata politica dei Seleucidi. Perciò l’ipotesi più verosimile è che tra il ii e il i secolo a.C. molti asidei siano confluiti, per affinità elettive, nella setta degli esseni, provocando così progressivamente la lenta estinzione del proprio movimento; forse conservarono una certa autonomia almeno fino al tempo di Giovanni Battista e non è escluso che una loro frangia minoritaria abbia dato vita al fariseismo, più incline alla rigorosa osservanza della Legge. Le più antiche informazioni sugli esseni ci sono fornite da Filone di Alessandria, Giuseppe Flavio, Plinio e, più tardi, dallo Ps.-Ippolito e da Solino.(4) Sui Terapeuti ci ha ragguagliati Filone nel De vita contemplativa. È noto che le affinità di quest’ultima setta con le primitive comunità cristiane indussero Eusebio nell’errore di confonderli con i primi cristiani e di credere che le opere, oggetto delle loro meditazioni, fossero, oltre alle sacre scritture, i vangeli.(5) Entrambe le sette nascono, sia pure a distanza di tempo, sulla base dell’ideale ripristino della purezza dei principi fondamentali della tradizione ebraica. Lo stesso nome ἐσσαῖοι o ἐσσηνοὶ, cioè santi, che è parola di origine non greca, fa riferimento all’idea, tipicamente ebraica, della purificazione e della santità, su cui fu imperniata tutta la loro vita in comune; già in questo fondamentale pilastro del loro modello di vita si avverte un distacco dal giudaismo puro, poiché essi intendono la santità non come pratica dei sacrifici, ma come santificazione dei loro pensieri. Non diversamente i terapeuti si (4) Filone di Alessandria, Quod omnis probus sit liber, 75-91; id., Apologia degli Ebrei, 1-18, in Eusebio, Praeparatio evangelica, viii, vi-xii, 379-384; Giuseppe Flavio, BJ, ii, 119-161; Antiquitates, xviii, 18-22; Plinio il Vecchio, Historia naturalis, v, 5, 73; Ps.-Ippolito, Elenchos, ix, 18, 3 - 19, 28, 2; Solino, Rerum mirab., xxxv, 10-11. (5) Cfr. Eusebio, HE, ii, 17.
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fregiano di tale nome perché si propongono di curare le anime e di liberarle dai mali causati dalla malvagità. Filone ci ha parlato degli esseni nel Quod omnis probus liber e nella perduta Apologia pro Judaeis, della quale fortunatamente nella Praeparatio evangelica Eusebio(6) ha salvato l’ampia citazione sugli esseni. Filone ci fa sapere che ai suoi tempi (presumibilmente intorno al 40-45 d.C.) gli esseni contavano circa 4.000 adepti, i quali vivevano nella Siria e nella Palestina (Quod, 75) o, più specificatamente, nella Giudea (Apologia, 1). Da Plinio sappiamo che nel 77, anno di pubblicazione della Historia Naturalis, gli esseni vivevano nelle regioni desertiche prossime al Qumran e alla fortezza di Masada. In ogni caso le due versioni filoniane sono in parte coincidenti e in parte discrepanti. Sono sostanzialmente concordi nel farci sapere che gli esseni: 1) erano animati dallo zelo per la virtù e dall’amore fraterno (Quod, 75, 83, 84; Apologia, 2); 2) erano organizzati in comunità costituite solo da vecchi non più soggetti alle passioni e perciò liberi dal peccato (Quod, 87; Apologia, 3); 3) non ammettevano schiavi e proprietà private e, a vantaggio di tutti, mettevano in comune ogni loro bene (Quod, 76, 77, 84, 85; Apologia, 4); 4) erano organizzati in confraternite, condividevano i frutti del loro lavoro e facevano uso di pasti comuni (Quod, 85, 86; Apologia, 5); 5) ognuno si dedicava al proprio compito lavorativo dal levare del sole fino al tramonto (Apologia, 6); 6) praticavano mestieri come l’agricoltura e l’artigianato (Quod, 76), alle quali l’Apologia (8-9) aggiunge la pastorizia;(7) 7) ciascuno deponeva il proprio salario nel fondo comune o lo consegnava al sovrintendente (Quod, 86; Apologia 10); 8) aborrivano il lusso ed avevano in comune la mensa e il vestiario (mantelli per l’inverno e tuniche per l’estate) (Quod, 86; Apologia, 5, 12); 9) curavano gli ammalati a spese della comunità (Quod, 87; Apologia, 13); 10) i vecchi erano curati dai più giovani come se fossero curati da figli (Quod, 87; Apologia, 13); 11) non praticavano il matrimonio ed erano dediti ad una perfetta continenza (Apologia 14); 12) in taluni casi perseguivano forme di misoginia (Apologia, 14-17). (6) Eusebio, Praeparatio evangelica, l. viii, capitolo ix, in PG. xxi, coll. 641-644. (7) Giuseppe Flavio, Ant., xviii, 19, afferma che gli esseni si dedicavano solo all’agricoltura.
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Le discrepanze sono le seguenti: a) da un lato Filone ci dice che gli esseni abitavano in villaggi e fuggivano dalle città per non essere contaminati dalle empietà commesse dai loro abitanti (Quod, 76), dall’altro afferma che abitavano non solo in piccoli villaggi, ma anche in diverse città della Giudea (Apologia, 1). In effetti essi non dovevano vivere in totale isolamento, se è vero che godevano di una certa notorietà e di un certo prestigio, come sembra emergere dalle citazioni che Giuseppe fa di taluni loro profeti di qualche rinomanza, come Giuda, Manaem, Simone e Giovanni (BJ, i, 78-80; Ant., xv, 371-379; Ant., xvii, 344-348; BJ, ii, 113; ii, 567; iii, 11); b) nell’Apologia (1), a differenza del Quod, si fa esplicito riferimento ad un legislatore (nomothétēs νομοθέτης) degli esseni, verosimilmente il loro Maestro.
Il Quod omnis probus arricchisce di ulteriori dettagli la nostra conoscenza dell’universo essenico e ci fa sapere che essi: i) non fabbricavano armi, né macchine belliche (Quod, 78); ii) non si dedicavano al commercio o alla navigazione (Quod, 78); iii) condannavano i padroni come ingiusti, se violavano l’uguaglianza, ed empi, se respingevano la legge della natura, la quale genera ed educa tutti allo stesso modo, come una madre, in uno spirito di fratellanza e di repulsione per ogni forma di invidia e di odio (Quod, 79); iv) in filosofia lasciavano la logica, non necessaria alla morale, a coloro che seducevano con le parole, e la fisica ai ciarlatani, in quanto supera la comprensione umana, salvo che non tratti della creazione del mondo (Quod, 80); v) si esercitavano solo nella morale secondo le leggi dei padri, le quali non possono essere concepite dall’animo umano se non attraverso l’ispirazione divina (Quod, 80). Insegnavano queste leggi in ogni tempo, ma in particolare nel settimo giorno, che stimavano sacro e in cui si astenevano da ogni lavoro per riunirsi in templi sacri che chiamavano sinagoghe; in esse accedevano secondo l’ordine di età; i più giovani sedevano davanti ai più anziani e si predisponevano all’ascolto (Quod, 81); vi) uno di loro (verosimilmente il paqid פקד, il capo dell’assemblea) leggeva un libro (dell’Antico Testamento) ed un altro più esperto (forse il doresh ha-torah) lo commentava e ne spiegava i passi più oscuri (Quod, 82); vii) insegnavano la santità, la giustizia, la cura delle virtù domestiche e di quelle pubbliche, la scienza del vero bene e del vero male o di ciò che è indifferente; di ciò che si deve perseguire e di ciò che si deve evitare. Tutte cose che esa-
458 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini minavano con una triplice regola: l’amore di Dio, della virtù e degli uomini (Quod, 83; Ant., 20); viii) il loro amore verso Dio era dimostrato in molti modi: con la castità che durava per tutta la vita, con l’astensione da giuramenti e dalla menzogna e con l’attribuzione a Dio del bene e non del male (Quod, 84); ix) dimostravano il loro amore per la virtù con il disprezzo della ricchezza, della gloria e dei piaceri, con la continenza, la frugalità, la semplicità, la modestia, la costanza e il rispetto della legge (Quod, 84); x) dimostravano il loro amore per gli uomini con la benevolenza e con l’uguaglianza (Quod, 84); nei loro sodalizi erano accolti anche i forestieri che condividevano le loro credenze (Quod, 85).
Le affinità tra gli esseni e i terapeuti sono notevoli, ma Filone li distingue sotto il profilo del loro orientamento. Lo si evince dal fatto che nell’esordio del De vita contemplativa, a differenza del precedente saggio (intendi il Quod omnis probus) afferma di aver trattato dei primi (esseni), dediti alla vita attiva, e di proporsi di parlare dei secondi (terapeuti), dediti alla vita contemplativa. Il nome ‘terapeuti’ deriva dal greco therapéuein (θεραπεύειν) che significa ‘guarire’. Essi infatti si piccavano di praticare una sorta di medicina superiore a quella popolare, poiché si ritenevano capaci di guarire non i corpi, ma le anime travagliate da mali come il piacere, la cupidigia, l’ingiustizia, l’avarizia ed altre simili passioni. Pur presentando caratteri non dissimili, le due sette si differenziavano non solo per orientamento filosofico, ma anche per distribuzione geografica. Mentre gli esseni erano dislocati nell’area siriano-palestinese, i terapeuti erano invece sparsi in tutta la Grecia e in particolare nei diversi nomi di Alessandria, ove la loro colonia più importante era situata sulla collinetta di Nitria presso il lago di Mareotide. Sulla scorta di Filone i tratti caratteristici della setta dei terapeuti si possono così riassumere: α) veneravano un essere sovrano, superiore alla bontà, la cui unità, «più eccellente di tutte le unità», è il principio di tutte le cose; β) aspiravano ad una vita immortale e felice e donavano tutti i loro beni ai figli o ai genitori o agli amici, per dedicarsi alla vita contemplativa, convinti che le ricchezze materiali accecano l’anima e quelle spirituali la illuminano, che i beni materiali producono guerre ed ingiustizie e quelli spirituali producono giustizia e uguaglianza generale;
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γ) si separavano dai fratelli, dai figli, dai genitori e dalle mogli, nonché dai luoghi della loro nascita per liberarsi più agevolmente delle antiche abitudini; evitavano le città in quanto non idonee alla vita contemplativa e preferivano vivere fuori dalle loro mura, in giardini e luoghi solitari; δ) le loro case erano semplici, costruite per ripararsi dal caldo e dal freddo ed erano né troppo vicine alle città, in modo da evitare il loro frastuono, né troppo lontane, in modo da essere facilmente accessibili in caso di attacco da parte di ladri; ε) nelle loro case si trovava una stanza sacra, detta semnéion o monastērion (σεμνεῖον o μοναστήριον diviso in due parti, una per gli uomini e un’altra per le donne), ove si riunivano per espletare le funzioni religiose e gli esercizi di una vita mistica; in esse non portavano mai né pane, né vino, né alcunché di necessario per la vita, ma solo la Legge, i profeti e gli Inni che servivano al nutrimento dell’anima; ζ) la loro mente era sempre occupata da Dio e anche nel sonno non era presa se non dal pensiero delle cose divine; η) pregavano due volte al giorno: il mattino prima dell’alba e la sera dopo il tramonto. Tutto il tempo compreso tra il mattino e la sera lo dedicavano agli esercizi spirituali e alla lettura delle sacre scritture, interpretate in chiave allegorica dai loro maestri; θ) vivevano nei loro monasteri per sei giorni; il settimo giorno si riunivano e sedevano secondo l’ordine di età; tenevano le mani nascoste sotto i loro abiti e in profondo silenzio ascoltavano il discorso del più anziano o del più sapiente, approvando ciò che egli diceva con il solo movimento degli occhi e della testa; nel semnéion gli uomini e le donne erano separate da un muro, alto tre o quattro cubiti, in modo da impedirne la vista reciproca, ma da lasciare nel contempo aperta la parte superiore per permettere all’intera comunità di seguire il discorso; ι) la temperanza era a fondamento della loro etica; κ) non osavano consumare i pasti prima del tramonto, poiché ritenevano che solo la saggezza e lo studio fossero degni della luce del giorno; perciò dedicavano la notte alla soddisfazione dei bisogni corporei; taluni restavano digiuni per tre giorni, altri digiunavano fino a sei giorni; mangiavano solo pane con un po’ di sale o con l’aggiunta di un po’ d’issopo; bevevano acqua; mangiavano solo per sedare la fame e bevevano solo per sedare la sete; λ) vestivano in modo semplice per ripararsi dal caldo e dal freddo; d’inverno usavano un mantello e d’estate una tunica;
460 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini μ) i ministri dei terapeuti erano chiamati ephemereutái (ἐφημερευταὶ) da ἐφημερεύω = essere di guardia o di servizio durante il giorno. I presbiteri o anziani erano invece coloro che fin da giovane età si erano dedicati alla meditazione; non erano cioè anziani per età, ma per approfondimento della dottrina; ν) si riunivano per sette settimane e celebravano la loro grande festa il cinquantesimo giorno (pentecoste), poiché attribuivano ai numeri sette e cinquanta valori simbolici: il sette era concepito come un numero casto e sempre vergine; il cinquanta rappresentava la virtù del triangolo rettangolo,(8) considerato il principio della generazione di tutte le cose. Durante le assemblee vestivano di bianco. Prima del pasto, ad un segnale dell’ephemereutes, stando in piedi e levando gli occhi e le mani al cielo, pregavano Dio. Dopo la preghiera i presbiteri si sedevano a tavola secondo un determinato ordine (verosimilmente un ordine gerarchico per anzianità); alla festa partecipavano anche le donne, anziane e vergini, le quali per amore della saggezza disprezzavano i piaceri del corpo, poiché non volevano avere figli mortali, ma figli eterni. Durante il convito gli uomini sedevano a destra e le donne a sinistra; non si facevano servire da schiavi, perché ritenevano la schiavitù contraria alla natura, la quale ci ha creati tutti liberi. Il servizio era affidato ai giovani più virtuosi che non recavano nel vestiario alcun segno di schiavitù; nei giorni di festa non usavano il vino, reputato un veleno pernicioso per la ragione; ξ) durante il convito regnava l’assoluto silenzio; nessuno osava parlare a bassa voce né respirare più forte del solito; qualcuno proponeva una questione relativa alle sacre scritture, sciogliendo il dubbio posto da qualcun altro; tutti ascoltavano con attenzione e, se comprendevano ciò che veniva detto, lo attestavano con il movimento della testa e con l’occhiolino. La spiegazione della sacra scrittura era allegorica, poiché consideravano il libro della Legge una sorta di animale, il cui corpo è rappresentato dalla lettera e dai precetti e l’anima dal senso invisibile nascosto dalla lettera; credevano che attraverso la lettera l’anima razionale scorgesse, come attraverso uno specchio, la meravigliosa bellezza dei misteri racchiusi nelle parole. Terminato il suo discorso, il presidente dell’assemblea (verosimilmente il paqid) intonava il primo inno di lode a Dio, a cui seguivano i cori degli altri astanti. Dopo gli inni, i giovani servivano il pane e il sale mischiato con issopo, mentre sulla tavola santa, posta nel vestibolo del tempio, c’era solo pane azzimo e sale puro. Dopo la cena si formavano nella sala due cori, uno delle donne e l’altro degli uomini e per tutta la notte cantavano in lode di Dio inni di di(8) Il numero 50 dipende dalla prima coppia di quadrati che dà come somma un quadrato (32 + 42 = 52). La somma dei tre quadrati è pari a 50 (9 + 16 + 25 = 50).
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versa lunghezza; i due cori si separavano e poi si univano ad imitazione della separazione e riunificazione delle acque del Mar Rosso al passaggio degli israeliti. Infine al mattino volgevano lo sguardo verso Oriente, assistevano al levarsi del sole e, con le mani alzate verso il cielo, domandavano al dio una giornata felice. Poi ciascuno rientrava nel proprio semnéion per dedicarsi alla meditazione.
Com’è evidente, la narrazione filoniana sui terapeuti è assai più ricca di dettagli rispetto a quella sugli esseni. Le affinità con il cristianesimo primitivo sono manifeste, ma si riferiscono prevalentemente alla forma dell’organizzazione settaria; di contro le discordanze sono tali da indurre ad escludere ogni tentativo di identificazione dei terapeuti con i cristiani. Fortunatamente la nostra conoscenza degli esseni è arricchita dalla testimonianza di Giuseppe Flavio che ne parla diffusamente nel Bellum Judaicum, scritto tra il 75 e il 79 d. C, e più succintamente nelle Antiquitates del 93-94 d.C. Rispetto alla narrazione di Filone ci sono punti di convergenza, ma anche punti di discrepanza. Entrambi concordano sulla santità degli esseni, sulla loro fratellanza (BJ, 119; Quod, 75; Apologia, 2), sull’esoterismo e sulla relativa punizione dei trasgressori (Apologia), sulla loro continenza e sul dominio sulle passioni, sulla rinuncia ai piaceri materiali (BJ, 120; Apologia, 3), sul disprezzo delle ricchezze (BJ, 122; Quod, 76-77, Quod, 84), sulla loro vita cenobitica e sul comunismo dei beni (BJ, 122; Ant., xviii, 20; Quod, 84, 85, 86; Apologia, 4-5, 11-12), sul rifiuto di ogni pratica di commercio e di vendita (BJ, 127; Quod, 78), sulla accoglienza verso i forestieri che condividevano le loro stesse idee (BJ, 124 e 132; Quod, 85), sull’astensione dai giuramenti (BJ, 135; Quod, 84), sulla condanna della schiavitù (Ant., xviii, 21; Quod, 79; Apologia, 4), sulla pratica della giustizia (BJ, 139; Ant., xviii, 20; Quod, 83), sulla povertà e semplicità del vestiario (BJ, 126; Quod, 77, 86; Apologia, 12), sul carattere elettivo delle cariche amministrative (BJ, 123; Apologia, 10; Ant., 22), sulle loro tendenze misoginistiche (BJ, 121; Apologia, 17-18). Vi sono tuttavia le seguenti discordanze: 1°) sul matrimonio: secondo Filone gli esseni non praticavano il matrimonio (Apologia, 14), per Giuseppe invece lo disdegnavano ma non lo abolirono (BJ, 121). Per la verità Giuseppe distingue due tipologie di comunità esseniche: l’una che disdegnava il matrimonio e l’altra che lo considerava essenziale per la propagazione della specie (BJ, 160); in quest’ultimo caso l’accettazione del matrimonio comportava anche una attenuazione della misoginia (BJ, 160);
462 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini 2°) sulla presenza dei figli e dei giovani nelle confraternite esseniche: secondo Filone le comunità erano costituite solo da vecchi (Apologia, 3), per Giuseppe Flavio (BJ, 120-121) esse adottavano figli altrui; 3°) sul rapporto con la città: per BJ, 124, gli esseni abitavano in varie città. Su questo punto Filone oscilla, come si è detto, tra il Quod, 76 e l’Apologia; Altri importanti dettagli sulla vita degli esseni ci sono fatti conoscere dal Bellum Judaicum, dal quale sappiamo che essi: i’) ritenevano impuro l’olio e respingevano ogni forma di unzione (BJ, 123); il che significa che il loro legislatore non era venerato come un christos; ii’) quando viaggiavano non portavano con sé nulla, ma erano armati per il timore dei briganti (BJ, 125); iii’) erano tenuti all’obbedienza verso il sovrintendente e alla sottomissione all’autorità; la loro autonomia era limitata solo all’assistenza e alla compassione (BJ, 134, 140); iv’) si prendevano cura degli scritti degli antichi (intendi dell’Antico Testamento, BJ, 136); v’) praticavano diversi riti di iniziazione. Nel primo anno di osservanza della norma l’iniziato riceveva una cintura e una veste bianca; nei due anni successivi, dedicati all’approfondimento della norma, si purificava con il rito del battesimo dell’acqua (BJ, 137-138). Prima di essere ammesso nella comunità egli doveva giurare di essere pio verso Dio e di osservare la giustizia verso gli uomini (ovvero di aiutare i giusti e di odiare gli ingiusti), di essere fedele verso l’autorità (poiché questa dipende dal volere di Dio), di amare la verità, di respingere le menzogne e i menzogneri e di non rivelare ad estranei i segreti della setta, compreso il segreto sui libri della setta e sui nomi degli angeli (BJ, 137-142); vi’) punivano i trasgressori del segreto con l’espulsione dalla setta (una sorta di scomunica) che li riduceva alla fame e infine alla morte (BJ, 143), salvo ad essere riammessi per un sentimento di compassione; vii’)affidavano le questioni giudiziarie ad un consesso di almeno cento persone (BJ, 145); viii’) veneravano il nome del legislatore e non lo rivelavano all’esterno della setta; coloro che lo bestemmiavano erano puniti con la morte (BJ, 145); ix’) in un consesso di dieci persone nessuno parlava se non col consenso degli altri nove (BJ, 146); x’) rispettavano il riposo sabbatico (BJ, 147); xi’) erano articolati in quattro gradi a seconda del tempo trascorso sotto la discipli-
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na; i più anziani si purificavano e si lavavano se erano toccati da quelli di grado inferiore (BJ, 150); xii’) erano convinti che i corpi sono corruttibili e che le anime, essendo immortali ed eterne, si trovano nei corpi come imprigionate in un carcere (teoria platonica del sōma-sēma σῶμα-σῆμα) (BJ, 154; Ant., 18); xiii’) sostenevano che dopo la morte le anime buone ascendono al mondo celeste e quelle malvagie vengono rinchiuse in una caverna ove patiscono ogni sorta di supplizi (BJ, 155-156); xiv’) molti di loro si professavano profeti (BJ, ii, 159) e le loro profezie, aggiunge Giuseppe, fallivano raramente; nelle Antiquitates (xiii, 311-313) e nel Bellum Judaicum (i, 78-80) egli cita come esempi di profeti un certo Giuda «di stirpe esseno, del quale si sapeva che non aveva mai pronunciato una profezia falsa», un certo Manaem, che avrebbe predetto ad Erode 20 o 30 anni di regno (Ant., xv, 371-379), ed un certo Simone che avrebbe interpretato un sogno di Archelao (Ant., xvii, 344-348; BJ, ii, 113).
Secondo Giuseppe il sovrintendente (equivalente al mebaqqer o epíscopos) era chiamato ἐπιμελητής (epimelētēs), il legislatore era chiamato νομοθέτης (nomothétēs), il sacerdote ἱερεύς (ieréus) e gli anziani erano detti πρεσβυτέροι (presbytéroi). Nel contesto del suo excursus sugli esseni sono assenti dal lessico flaviano termini come ‘maestro’ e ‘salvatore’. Nella Historia Naturalis (v, 15, 73) Plinio sembra essere incuriosito soprattutto dalla continua rigenerazione delle comunità esseniche le quali, pur in assenza delle donne e conseguentemente dei processi di procreazione, non si estinguevano perché attiravano una gran folla di nuovi adepti; sicché – egli dice – vi è un popolo che nel corso dei secoli si rigenera ed è eterno, sebbene in esso non nasca mai nessuno.(9) Tra l’altro nel medesimo passo Plinio sembra collocare gli esseni in una regione desertica prossima al Qumran. Le testimonianze più tardive non aggiungono nulla di nuovo. Solino riproduce quasi alla lettera il passo di Plinio e lo Ps.-Ippolito ricalca da vicino l’excursus sugli esseni del Bellum Judaicum di Giuseppe. Le novità introdotte dall’Elenchos sono solo due: la prima riguarda l’amore verso il nemico; Ippolito infatti scrive che tra i giuramenti cui è sottoposto l’affiliato, a proposito del giusto comportamento verso gli uomini, c’è quello «di non recare danno ad (9) La notizia è ripresa da Solino, Collectan. rerum mirabilium, xxxv, 10-11; cfr. A. Adam, Antike Berichte über die Essener, Berlin, De Gruyter, 1961.
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alcuno e di non odiare una persona che gli abbia fatto torto, neppure un nemico, ma di pregare per loro e di combattere con i giusti». Questo passo però è sicuramente frutto di un fraintendimento o di una voluta distorsione della realtà da parte dello Ps.-Ippolito; il suo testo, infatti, presenta una perfetta corrispondenza con il Bellum Judaicum (BJ, 139) e ne riproduce lo stesso ordine narrativo. Giuseppe, però, scrive che l’affiliato deve «osservare la giustizia verso gli uomini, non recare danno ad alcuno […] odiare sempre gli ingiusti e aiutare i giusti». Se ne deve dedurre che l’Elenchos altera il testo flaviano per attribuire arbitrariamente agli esseni un’impronta cristiana. La seconda novità sta nell’accenno agli zeloti o sicari che minacciavano di morte gli incirconcisi. Il passo corrisponde grosso modo ai paragrafi 151-153 del Bellum Judaicum, in cui Giuseppe esalta il disprezzo del pericolo da parte degli esseni e la loro eroica resistenza alle torture imposte dai Romani. Lo Ps.-Ippolito invece interpreta il testo flaviano nel senso che gli artefici della lotta contro i Romani furono gli zeloti, intesi come una sorta di sottogruppo della setta essenica. Non sfugge ovviamente allo storico che tanto Filone quanto Giuseppe sono ebrei ellenizzati e che la loro interpretazione delle dottrine esseniche è fortemente influenzata dal loro retroterra culturale. Oltre a porre l’accento sulla lettura allegorica dei testi biblici (Quod, 82), Filone sembra inquadrare la filosofia degli esseni nel quadro più ampio delle filosofie ellenistiche, le quali riducono progressivamente la rilevanza della logica e della fisica a tutto vantaggio dell’etica (Quod, 80). Ciò non toglie però che, pur con qualche concessione allo stoicismo dell’adiáforos (ἀδιάϕορος = indifferente) (Quod, 83), come ciò che è estraneo al bene e al male (τὰ μεταξὺ ἀρετῆς καὶ κακίας), Filone attribuisca alla loro etica un carattere squisitamente ebraico per essere imperniata sui temi della santità, della santificazione dei pensieri (Quod, 75, 84) e del culto della virtù (Quod, 84; Apologia 2). Anche Giuseppe cede la mano al platonismo quando parla dell’immortalità dell’anima e del suo destino ultraterreno, fino a rispolverare i temi del sōma-sēma, dell’isola dei beati e dell’Ade (BJ, 154-156; Ant., 18). Egli finisce con l’attribuire agli esseni la concezione platonica dell’immortalità dell’anima nella sua natura di elemento incorruttibile, spirituale ed eterno, mentre lo Ps.-Ippolito, nella sua operazione di ricalco del testo flaviano, preferisce una versione più aderente alla tradizione ebraica, quale è quella della resurrezione dell’anima insieme al corpo (Élenchos). Quest’ultima interpretazione è forse più conforme alla realtà storica per il semplice fatto che la dimensione spirituale in senso proprio sembra essere estranea all’antico ebraismo; per esso lo spirito è ( רוחru’ah
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che letteralmente significa ‘vento’, ‘soffio’, ‘spirito’), è la forza fisica che agita il mare (Gn, i, 2; Ex, xiv, 21) e gli alberi (Is, vii, 2), ma è anche la potenza di Dio, che ha comunque una manifestazione fisica nella pioggia o nella tempesta (Ez, xiii, 13). Se questa è espressione del furore divino (probabilmente in questo vi sono residui dei culti cananei di Baal), la ru’ah è anche il respiro come principio vitale dell’uomo (Is, xlii, 5), il quale torna al Dio che l’ha dato (Ex, xii, 7). In questo senso la ru’ah è il nèfesh ( נפשl’anima), cfr. Jb, xii, 10. Insomma il concetto di ru’ah è costantemente accompagnato da una connotazione in qualche modo materiale; anche quando è potenza di Dio, si manifesta materialmente. Anche il greco ha una concezione materialistica dell’anima, ma essa va sempre più perdendosi a seguito della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele. L’anima, lo spirito si contrappongono per il Platone del Fedro, del Fedone e della Repubblica alla materialità del corpo. E questo processo di smaterializzazione prosegue con le filosofie post-aristoteliche, forse sotto l’influsso dei culti misterici. In ogni caso il filo-ellenismo di Filone e di Giuseppe ha un limite quando si tratta di difendere il prestigio della tradizione ebraica. Entrambi si pongono nell’ottica di contestare la superiorità della sapienza greca per affermare quella della sapienza ebraica (BJ, 158), considerata, soprattutto in materia di religione, di etica e di concezione del divino, come la fonte ispiratrice della stessa cultura ellenica. Per Filone il modello di vita degli esseni è esemplare e degno di lode, perché non consiste nelle «finezze dell’eloquenza greca», ma propone «l’esercizio delle azioni encomiabili con cui raggiungere la libertà» (Quod, 88). Analogamente per Giuseppe la pratica essenica della giustizia e della virtù «non è mai esistita presso alcun greco o barbaro, neppure per breve tempo, mentre presso di loro si trova dai tempi più remoti senza interruzione» (Ant., 20). Ma, pur con queste limitazioni di carattere ideologico, le informazioni che i due storici ci hanno trasmesso intorno agli esseni sono preziosissime e si sono rivelate assai utili per la identificazione del gruppo dei qumraniani. 1.3. Rapporti tra le sette esseniche e il cristianesimo Quali sono i rapporti tra gli esseni, i terapeuti e i qumraniani? E quali i loro rapporti con il cristianesimo delle origini? Diciamo innanzi tutto che la loro organizzazione settaria si colloca per un verso nella linea della tra-
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dizione ebraica, per il fatto che non mancano esempi analoghi nella storia ebraica, ma per un altro verso risente dell’influenza greca, soprattutto perché presenta tutti i caratteri generali della forma delle sette misteriche. Sicché possiamo dire che da un lato esse sono ebraiche per lo più nei loro contenuti dottrinali e da un altro lato sono ellenistiche nella loro forma di sette o religioni misteriche. Si potrebbe dire che gli esseni e i terapeutici costituiscono due gruppi ben distinti per essere dislocati in aree geografiche diverse. Ma non è un’osservazione fruttuosa, perché in un mondo, come quello mediterraneo, in cui gli incroci interculturali erano assai frequenti, le distanze geografiche non sono sufficienti a stabilire steccati tra una setta e l’altra. In realtà la diversità più profonda tra gli esseni e i terapeuti è quella attestata da Filone: gli uni erano dediti alla vita attiva e gli altri alla vita contemplativa. I loro modelli di vita erano sostanzialmente differenti. Il confronto tra i due gruppi sarebbe stato più agevole se riguardo agli esseni Filone non si fosse tenuto nel vago sia a proposito dei pasti in comune sia a proposito della istruzione sui testi sacri, impartita il settimo giorno. Egli si limita a farci sapere che si riunivano in luoghi sacri che chiamavano sinagoghe, che vi prendevano posto secondo l’ordine di età (ovvero secondo un ordine gerarchico probabilmente per anzianità di appartenenza alla setta), che uno di loro (forse il maskil o il paqid?) leggeva imprecisati ‘libri’ (si trattava dei libri della sacra scrittura o anche di libri scritti dal Maestro di giustizia?). Alla lettura seguivano il commento, nella tipologia del pesher ( =פשרinterpretazione), e la spiegazione dei passi più oscuri (Quod, 81-82). Quanto ai pasti in comune, Filone ci dice che erano consumati quotidianamente, ma tace sulla loro ritualità (Quod, 86; Apologia 5, 11-12). Qualche spiraglio in più ci vien dato in merito alla loro vita attiva: sappiamo che praticavano la divisione del lavoro («ognuno svolge una specifica attività») e che si dedicavano ai propri compiti lavorativi «dal sorgere del sole […] al tramonto» (Apologia, 6). Infine sappiamo che all’amministrazione dei beni comuni e al funzionamento delle attività lavorative era preposto un sovrintendente eletto (Apologia 10; BJ, 123, 129, 134). In linea di massima questi pochi dati sono confermati da Giuseppe, con qualche ulteriore significativa puntualizzazione: al mattino gli esseni recitavano prima del sorgere del sole certe preghiere «quasi a supplicarlo di spuntare» (BJ, 128); il che fa pensare ad una sorta di culto solare o astrale, da cui forse dipendeva il loro fatalismo (Ant., xiii, 172). Quanto all’uso dei pasti in comune Giuseppe aggiunge che il refettorio era
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concepito come una sorta di recinto sacro; nessuno vi entrava se prima non si era purificato; tutti osservavano rigorosamente la regola del silenzio. Prima e dopo il pasto il sacerdote recitava apposite preghiere. Dopo il pasto le vesti indossate venivano deposte e si tornava al lavoro. Con il medesimo scenario si svolgeva la cena (BJ, 130-131). Qualche informazione in più ci viene data sui libri oggetto di studio: si trattava dei «libri degli antichi», cioè dell’Antico Testamento (BJ, 136), ma Giuseppe accenna anche alla scrupolosa custodia «dei libri della setta» (BJ, 142). Infine il testo flaviano ci dà conto dei riti di purificazione (il battesimo, BJ, 138) e di iniziazione (un anno di noviziato, due anni di prova, seguiti da particolari giuramenti, BJ, 137-138), della interna articolazione della setta in quattro gradi (BJ, 150), nonché dell’amministrazione della giustizia (BJ, 145) e della segretezza del nome del Maestro-legislatore (BJ, 145). Le discordanze tra Filone e Giuseppe possono avere una spiegazione o di tipo cronologico o di tipo conoscitivo. Essi, infatti, scrivono a distanza di tempo. Filone scrive all’incirca intorno al 40, Giuseppe nel 74-75 e successivamente nel 94-95. Non si può escludere che nell’arco di quasi 35 o 55 anni la setta abbia subito una sua interna evoluzione. Mi sembra più verosimile la seconda ipotesi. Infatti, la versione filoniana fa pensare ad una conoscenza della setta, come dire, dall’esterno e sulla base di informazioni di seconda mano; al contrario è certo che Giuseppe ne ebbe una conoscenza diretta, per essere stato, come egli ci fa sapere, all’interno di essa. Nel Bíos, 10-12, infatti, afferma che all’età di 16 anni (e quindi intorno al 53 d.C.) volle «fare esperienza delle tendenze dottrinali» delle tre sette, farisaica, sadducea ed essenica «per poter scegliere la migliore». Da questo punto di vista la sua narrazione è più affidabile di quella di Filone, sebbene si riferisca ad una più matura fase evolutiva della ideologia essenica. Può forse sembrare strano che a distanza di circa un sessantennio, tanto Filone quanto Giuseppe ritengano che il numero degli aderenti non superasse le 4.000 unità (Quod, 75; Ant., 20). Ma forse si deve ritenere che la sostanziale stabilità del numero fosse anche dovuta alle gravi perdite subite in occasione della tragica e sanguinosa guerra giudaica dal 66 al 73. Dai dati archeologici si evince altresì che i qumraniani non superassero i trecento o quattrocento adepti. Si deve perciò pensare che i settari di Kirbet Qumran costituissero una minoranza in seno alla comunità essenica e non è improbabile che avessero una propria fisionomia dottrinale in qualche modo distinta dal resto degli esseni, sparsi in tutta l’area orientale. Ma è anche lecito supporre che tale diversificazione non intaccas-
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se il nucleo centrale delle loro dottrine, pena la perdita dell’identità essenica. A dispetto dunque di talune estrinseche somiglianze, gli esseni e i terapeuti non possono essere identificati se non arbitrariamente. A prescindere dalle loro rispettive inclinazioni per la vita attiva e per quella contemplativa, in cui si impegnavano toto corde dall’alba al tramonto, i pasti comuni degli esseni erano il pranzo e la cena, preceduti e seguiti da preghiere propiziatorie; quelli dei terapeuti erano consumati solo dopo il tramonto del sole. Il Dio dei terapeuti non era che il Dio-Uno, forse di matrice platonico-pitagorica, con il quale si apre una pregevole tradizione che avrà grande fortuna nella filosofia egizio-alessandrina. Di contro il Dio degli esseni nei due reports pervenutici resta tutto sommato indefinito, salvo ad identificarlo con il sole, il cui culto non doveva essere estraneo neppure ai terapeuti, che al mattino pregavano con le mani alzate verso Oriente. Rispetto agli esseni, i terapeuti praticavano una più netta separazione dalle famiglie e dai luoghi di nascita; la loro fuga dalle città doveva essere più drastica e forse avevano uno spirito più marcatamente ascetico. Vivevano nel loro semnéion per sei giorni e solo nel settimo giorno si riunivano insieme, non per consumare il pasto comune, ma per chiosare e spiegare i testi sacri o quelli del loro maestro. Il vero pasto comune era invece consumato nel giorno della loro festa più importante, cioè nel giorno della pentecoste, e consisteva nel mangiare pane con un po’ di sale e di issopo e nel bere acqua. Men che mai è possibile identificare gli esseni o i terapeuti con i cristiani. Il cristianesimo non ha eliminato né la proprietà privata, se non in frange eccentriche, tra l’altro espulse per eresia (gli ebioniti), né la schiavitù, come prova la Lettera a Filemone. L’ascetismo cristiano non conduce alla separazione dal mondo se non nelle forme più tardive (iii-iv secolo) dell’anacoretismo antoniniano o del monachesimo pacomiano; la fuga nel deserto e nella solitudine non rappresentava un ideale di vita. Le prime comunità cristiane si riunivano probabilmente attorno a taluni nuclei familiari e praticavano un pasto comune che non ha nulla a che vedere con quello degli esseni o dei terapeuti, che aveva la valenza di una ricorrente celebrazione del nuovo patto con Dio. Tutti gli altri elementi che sorprendono per la loro affinità, come la presenza di un legislatore, di sovrintendenti, di presbiteri, di sacerdoti, la frugalità del cibo e del vestiario, l’esoterismo e il parlare per parabole, la lettura allegorica o tipologica dell’AT, la separazione dalla famiglia d’origine e dall’ambiente nativo, la regola del silenzio, l’obbedienza ai superiori, il battesimo e i riti di iniziazione, la credenza nell’immortalità dell’a-
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nima, le incertezze relative al matrimonio, le preghiere del mattino e della sera o quelle ante pastum e post pastum e la gerarchizzazione interna sono tutti residui di organizzazioni settarie più antiche non escluse quelle di matrice misterica; sono moduli che passano da una setta all’altra in un universo mediterraneo ed ellenistico in cui i temi della fratellanza, della solidarietà, della salvezza individuale sono diventati gli unici in grado di dar senso alla vita di comunità sopraffatte e distrutte dalle guerre, dai soprusi del potere e dalle iniquità sociali. Siamo troppo abituati ad immaginare il mondo ebraico come cristallizzato e incrostato e quasi immobilizzato in forme di pensiero statiche. Ciò vale ancor più per il cristianesimo e in generale per tutte le forme di religione, che, per essere fondate direttamente dalla divinità, presumono di avere fin dall’origine una configurazione dottrinale e ideologica ben definita. Ne consegue che i cultori di parte respingono apriori l’idea che esse siano il risultato di una evoluzione storica e perciò tendono a sottolineare le differenze più che le affinità tra un movimento religioso ed un altro. Ma non ci si rende conto che nella storia non c’è spazio per forme statiche e mummificate, perché la storia è movimento e divenire e in essa tutto si trasforma da […] verso a […] Le differenze appaiono macroscopiche quando guardiamo ai prodotti finiti, ma se li consideriamo nel loro sviluppo prendono corpo e significato le affinità. L’ebraismo non è mai stato così sclerotizzato se non nella sclerotica interpretazione dei testi. Se si esaminano i testi qumraniani, gli apocrifi intertestamentari e la letteratura tardo-testamentaria ci si accorge che l’universo ebraico tra il secondo secolo prima di Cristo e il secondo secolo dopo Cristo è in un fermento assai più forte di quanto facciano pensare le tre o quattro formule dottrinali, le αἱρέσεις, di cui parlano Filone e Giuseppe. Tra esse non ci sono muri o steccati separatori, perché sono come corpi vivi che si evolvono e producano all’improvviso nuove forme viventi. Solo in questo processo evolutivo si spiegano le permanenze e le sopravvivenze di credenze, ritualità, icone e simbolismi che da una setta si trasmettono all’altra. Ed è così che prende corpo il cristianesimo, in cui quelle sopravvivenze in parte si attenuano, in parte si contaminano, in parte perdono la loro pregnanza originale. Si pensi per esempio all’esoterismo cristiano che non è più il divieto di diffondere fuori della setta il segreto, ma si è attenuato nel frequente invito del Cristo di non dire niente a nessuno in merito alle sue guarigioni miracolose o si è mascherato nel chiaroscuro delle parabole che velano e disvelano nello stesso tempo, ma la cui comprensione più adeguata è
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riservata ai discepoli. Si pensi alla lettura allegorica dell’AT che nel cristianesimo non è più l’allegorismo che investe l’impianto complessivo dell’AT, ma si riduce alla lettura tipologica per la costruzione della figura del Cristo. Ed ancora: la fuga dalle città e la ricerca dei luoghi solitari diventa occasionale; il pauperismo cristiano non è più materiale, ma è spirituale, persegue l’ideale della semplicità d’animo (estote simplices, Mt, x, 16) e benedice i poveri di spirito (οἱ πτωχοὶ τῶ πνεύματι), a cui sono aperte le porte dei cieli (Mt, v, 3). Alcune sopravvivenze perdono il loro significato originale. Tale è il caso del digiuno che per i terapeuti aveva la funzione di sacrificare i bisogni del corpo per dedicare lo spirito alla meditazione; nei Vangeli questo nesso si perde. Lo stesso si dica del divieto di giurare: nelle comunità cristiane i giuramenti non hanno più alcun rapporto con l’affiliazione; per gli esseni invece avevano lo scopo di assicurare la fedeltà degli iniziati. Persino nella più antica iconografia cristiana vi sono sopravvivenze dei culti misterici; nelle catacombe nel ii e del iii secolo, infatti, il Cristo è rappresentato dapprima come un giovane apollineo imberbe o come Orfeo; poi sotto la suggestione del culto di Serapide, è rappresentato come Zeus barbuto; analogamente la madonna è raffigurata con il bambino in braccio a somiglianza delle statue egiziane di Iside. Ma insistere sulla continuità di un processo non significa negare l’originalità delle forme emergenti e più recenti. I due nodi che costituiscono nello stesso tempo la novità e la tipicità del cristianesimo sono dati dalla profonda trasformazione di due concetti essenziali, come quello di Dio e del messia. L’antico Yhwh da divinità nazionale, vendicatrice dei nemici di Israele e punitrice del male e dell’ingiustizia secondo la rigida applicazione del principio di retribuzione, si trasforma in divinità di respiro universale; la sua distanza dall’uomo si accorcia, poiché diventa garante della salvezza dei giusti e della condanna dei malvagi. Il Dio-Uno degli esseni e dei terapeuti è ancor più prossimo alla vita dell’uomo; venerato al mattino con il sorgere del sole, è il Dio responsabile della ciclicità dei moti celesti che assicurano all’umanità la speranza della continuità dell’esistenza; il Dio cristiano, che sacrifica il figlio per la salvezza dell’umanità, non è più l’antico Yhwh. Lo stesso si dica del concetto di messia che non è più il sovrano nazionale (il Re-Unto, ebr. melek ha mashiah), l’erede di David, liberatore e restauratore della monarchia, ma è in realtà il messia-sacerdote (cohen ha mashah o anche il sacerdote unto). Nella tradizione giudaica i messia attesi erano due: l’uno era il Messia di Israele, il messia nazionale, il virgulto di David, l’altro era il Messia di Aronne, il messia-sacerdote. I due messia tendono ad unificarsi o co-
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munque tendono ad assumere in uno la duplice funzione di messia nazionale e di sacerdote. Tra l’ebraismo e il cristianesimo si inserisce l’universalismo greco, con il concetto che il destino individuale è anche il destino comune a tutti gli uomini. L’idea cristiana della fratellanza ha radici ellenistiche ed è ampiamente diffusa nei culti misterici; essa non va confusa con il concetto ebraico di amore, perché non è l’amore verso il Dio del popolo degli eletti, né è l’amore verso il prossimo, inteso in senso nazionalistico di amore verso i propri connazionali con l’esplicita implicazione dell’odio verso i nemici, ma è l’amore universale nello spirito della fratellanza universale che comprende tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro nazionalità, dal sesso, dalla loro diversità fisica o etnica e dalle loro condizioni sociali. Perciò, a differenza dell’ebreo che, anche quando li reputa valori eterni, proietta nella stessa dimensione terrena i temi della salvezza, della giustizia e della felicità, il cristiano ellenizzato li proietta in un mondo ultraterreno, fidando nella immortalità dell’anima. Allo stesso modo la fine dei giorni per l’ebreo consiste nel riscatto del popolo ebraico dalla schiavitù babilonese e nel ritorno nella terra di Israele, nella restaurazione del regno di David, nel predominio di Israele su tutti i popoli della terra; in altri termini la giustizia dell’era messianica non è trascendente, ma è di questo mondo e tale è pure il mito della resurrezione inteso come ritorno nella terra d’origine, ovvero nel giardino dell’Eden. Ciò significa che il messia ebraico è un essere umano e non un ente divino come quello cristiano. Gli esseni, che reputavano l’olio una sozzura, compiono un ulteriore passo avanti, perché non identificano più il messia con l’unto, il christós o māšāh ()משיח. Naturalmente il termine christós continua ad essere utilizzato, ma è solo una sopravvivenza di antiche credenze, perde il suo significato originario, si confonde con la figura del legislatore o del maestro di giustizia, assume gradatamente il ruolo del sacerdote, riveste la funzione di profeta di verità, ma soprattutto acquista – ed è qui la novità più profonda – il carisma di salvatore (gr. sōtēr). Il primo passaggio dal messia nazionale ai messia-sacerdoti (χριστῶν ἱερέων) è attestato dal 2Maccabei (2Mc, i, 10); il passaggio successivo al messia profeta-sacerdote e salvatore, in quanto figlio e sapienza di Dio, apre le porte alle comunità cristiane. Il definitivo approdo al cristianesimo si verifica allorché le prime comunità escludono la segretezza del nome del messia. Si tratta anche qui di un processo lento: in un primo momento il messia-sacerdote era concepito come salvatore, redentore, soccorso divino e il suo nome, essendo coperto dal segreto, era di fatto
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ignorato da tutti. Sicché indicarlo come Σωτήρ (salvatore) significava indicarlo nella sua funzione di salvezza. Quando viene identificato con l’ebraico Yehōwōšua’, il greco Σωτήρ non esprime più solo la funzione di redentore, ma si trasforma nel nome del legislatore-messia ed assume la forma greca ‘Iēsous’. Questo processo spiega perché il Cristo ha un nome che corrisponde perfettamente alla funzione che gli affiliati alle prime comunità cristiane gli attribuiscono. 1.4. I qumraniani Chi sono i qumraniani? Se sono gli esseni, in che cosa questa ipotesi si accorda con le versioni fornite da Filone e da Giuseppe? La risposta a questi interrogativi non può venire che da un’attenta esplorazione dei cosiddetti manoscritti del Mar Morto, che, com’è noto, ci hanno restituito quasi per intero la loro biblioteca. In essi sono presenti i testi dell’AT, fatta eccezione per il Libro di Ester, una selezionata scelta di apocrifi dell’Antico Testamento e la più significativa produzione letteraria propria di una setta, oggi quasi universalmente identificata con quella essenica. È noto che Khirbet Qumran ci ha restituito in 11 grotte ben 792 manoscritti più o meno frammentari. Essi sono debitamente numerati per ciascuna grotta e sono citati con l’indicazione del numero della grotta, seguito o da una sigla relativa al contenuto o dal numero che individua ciascun manoscritto di ogni singola grotta, seguito – a sua volta – dal numero romano che si riferisce alla colonna e dal numero arabo del relativo rigo. Es. 1QS, v, 16 si riferisce ad un manoscritto reperito nella prima grotta, intitolato «Regola della comunità» (S iniziale dell’ebr. Serek = Regola), colonna quinta, rigo 16. Si è detto che i manoscritti costituiscono un’unica biblioteca, ma forse è un’affermazione affrettata, perché essi sono distribuiti nelle grotte spesso in modo casuale e forse sono anche stati oggetto di violazioni già in epoca antica. La prima grotta (1Q) contiene 72 manoscritti; la seconda (2Q) ne contiene 33; la terza (3Q) 15; la quarta (4Q), la più prolifica, 575; la quinta (5Q) 17; la sesta (6Q) 21; la settima (7Q) 18; l’ottava (8Q) 8; la nona (9Q) 1; la decima (10Q) 1; e l’undicesima (11Q) 31. La gran parte dei testi sono scritti in paleo-ebraico, pochi sono scritti in aramaico o in greco. Numerosi sono i manoscritti di testi veterotestamentari; vi sono frammenti di tutti gli scritti dell’AT, fatta eccezione del Libro di Ester. È superfluo sottoline-
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are che già questi primi dati rivestono una straordinaria importanza perché ci restituiscono un testo più antico di tutta la letteratura veterotestamentaria e ce ne consentono un più accurato studio. Tuttavia ciò che più interessa la nostra ricerca è il reperimento di numerosi apocrifi e di libri che i qumraniani consideravano sacri. Tra gli apocrifi troviamo il Libro dei Giubilei (1Q17, 1Q18, 2Q19, 2Q20, 11Q12), il Libro di Enoc (1Q23, 1Q24, 2Q26, 6Q8) e la Sapienza (1Q26); tra i testi di produzione qumraniana troviamo alcuni importanti pesher, come quelli a Michea (1Q14), ad Habacuc (1QpHab) e ai Salmi (1Q16). Tra gli scritti settari abbiamo la Regola della Comunità (1Q28, 1QS, 4Q255-264, 5Q11, 11Q29), la Regola dell’Assemblea (1Q28), la Regola delle Benedizioni (1Q28), il Rotolo della Guerra (1Q33, 1QM, 4Q491-497), gli Inni (1QH, 1Q35-40, 11Q15-16), il Rotolo di rame (3Q15), il Documento di Damasco (4Q265-273, 5Q12, 6Q15), le Regole di Purificazione (4Q274-283), la Regola della Guerra (4Q285) e il Rotolo del Tempio (11Q18-19). Il materiale usato è per lo più il cuoio per i manoscritti ebraici ed aramaici e il papiro per i pochi frammenti in greco, su cui si è sbizzarrita la fantasia degli studiosi credenti nel tentativo di trovare in essi tracce di scritti neotestamentari (v. in particolare taluni frammenti delle grotte 4 e 7). Per la datazione si sono usati il metodo paleografico e l’esame al radiocarbonio. L’uno e l’altro però presentano margini di incertezza. Il merito di aver condotto una classificazione paleografica di ciascun rotolo spetta a Birnbaum e a Cross.(10) Ma il limite di tale metodologia, che è di per sé soggetta ad incertezza, deriva dal fatto che non disponiamo di altri testi coevi o datati in scrittura paleoebraica e non abbiamo di conseguenza termini di confronto che ci consentano una rigorosa datazione scientifica. Il rischio è che le regole paleografiche siano costruite surrettiziamente su una presupposta datazione del materiale qumranico con la conseguenza che gli esiti dell’esame non fanno che confermare la medesima datazione, assunta in partenza. Per un altro verso l’esame al radiocarbonio, sicuramente più affidabile, è tanto più rigoroso quanto minore è il range della datazione, poiché è evidente che un range troppo lar(10) S. A. Birnbaum, The Qumran (Dead See) Scrolls and Paleography, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», Suppl. n. xiii-xiv, 1952; Id., The Hebrew Script: Part one: The Text, Leiden, Brill, 1971; part Two; The Plates, London, Palaeographia, 19541957; F. M. Cross, A New Qumran Biblical Fragment Related to the Original Hebrew Underlying the Septuagint, «Bulletin of the American Schools of Oriental Research», cxxxii, 1953, pp. 15-26; Id., The Development of the Jewish Scripts, in G. E. Wright, The Bible and the Ancient Near East; Essays in Honor of William Foxwell Albright, Garden City, Doubleday, 1961.
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go (es. ± 100 anni o addirittura ± 200 anni) non è granché utile al fine di stabilire con la dovuta puntualità l’età del manoscritto esaminato. Non è qui il caso di passare in rassegna tutta la ponderosa letteratura critica sui testi qumraniani; tuttavia ne possiamo sintetizzare le risultanze più rilevanti per ciò che possono essere utili a stabilire l’identità dei qumraniani. Il domenicano De Vaux(11) li identifica con gli esseni, i quali avrebbero nascosto i rotoli nelle grotte per salvarli dalla distruzione per mano di nemici ed avrebbero abitato le colline del Qumran fino al terzo anno (68 d.C.) della prima rivolta giudaica. Dopo tale data – a suo avviso – Khirbet Qumran sarebbe stato abbandonato, sicché tutta la produzione qumraniana si estenderebbe dal ii secolo a.C. fino al 68 d.C. La tesi di De Vaux è contraddetta dalla citata versione di Plinio il quale visitò la Palestina intorno al 75 e trovò che l’area del Qumran era ancora abitata dagli esseni. Differenti opinioni sono state proposte da E. Sukenik(12) per il quale le grotte furono usate come genizah ovvero come depositi di manoscritti sacri, e da Norman Golb, seguito da M. Klinghardt,(13) per il quale l’intera area di Khirbet Qumran fu utilizzata come fortezza erodiano-asmonea. Molto clamore ha suscitato l’ipotesi di Eisenman,(14) il quale, se da un lato contesta giustamente la tesi di De Vaux dell’abbandono delle grotte dopo il 68, erroneamente identifica la comunità qumranica con una presunta comunità giudeo-cristiana capeggiata da Giacomo il Giusto, fratello di Gesù.(15) Ben Zion Wacholder suppone che le radici ideologiche dei quamraniani siano di carattere anti-sadocita, (11) R. De Vaux, L’Archeologie et les Manucrits de la Mer Morte, Oxford, University Press, 1961. (12) E. L. Sukenik, Megillot genuzot mittok genizah Qedumah še-Nimse ‘ah be-Midbar Yehudah: Seqirah Rišonah, Jerusalem, Bialik Foundation, 1948. (13) N. Golb, Who Wrote the Dead See Scrolls? The Search for the Secret of Qumran, New York, Scribner, 1995, cfr. capitolo i; M. Klinghardt, Essen, gemeinsames, in Frank Crüsemann, Sozialgeschichtliches Wörterbuch zu Bibel, Gütersloh, Gütersloher Verlag, 2009, pp. 116-123. (14) R. H. Eisenman, James, the Just in the Habakkuk Pesher, Leiden, Brill, 1986, pp. 75-86. (15) Su Giacomo, fratello del Signore, vedi R. Eisenman, Giacomo il fratello di Gesù. Dai rotoli di Qumran le rivoluzionarie scoperte sulla chiesa delle origini e il Gesù storico, Casale Monferrato, Piemme, 2007, passim. L’autore esagera il ruolo e l’importanza di Giacomo, fratello del Signore, che ha tutto sommato una posizione defilata nei testi evangelici e nel resto della letterarua cristiana. Le stesse posizioni sono ribadite in R. Eisenman, Codice Gesù I manoscritti segreti di Qumran smascherano le manipolazioni e le falsificazioni dei Vangeli, Casale Monferrato, Piemme, 2008, passim.
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proprie di comunità giudaiche pre-maccabaiche, che si rifiutavano di riconoscere la legittimità del secondo Tempio.(16) Per Shemaryahu Talmon i qumraniani non erano una comunità essenica, ma una comunità che nel iii-ii secolo a.C. rappresentava la cristallizzazione di un movimento socio-religioso, ispirato all’apocalittica del primo giudaismo post-esilico.(17) Lawrence H. Schiffman è invece del parere che il rotolo del tempio (11QT) e la lettura halakika (4QMMT) costituiscano la prova che la comunità qumranica aveva le sue origini nella tradizione halakika dei sadducei e nel sacerdozio sadduceo dei sadociti.(18) Di contro Jacob L. Teicher è convinto delle radici cristiane, e più precisamente ebionite, della setta qumranica.(19) Una suggestiva ipotesi, più recente, è stata formulata da Gabriele Boccaccini(20) il quale pensa ad una sette essenica che al suo interno subì uno scisma da cui trasse origine una setta giudaico-enochica. Egli fa risalire il giudaismo enochico al sesto secolo come reazione ed opposizione al giudaismo sadocita predominante nel Tempio di Gerusalemme. La comunità qumranica si sarebbe separata dal giudaismo enochico dopo la rivolta maccabaica ed avrebbe dato vita nelle grotte del Qumran alla nuova letteratura di matrice enochica. L’ipotesi di Boccaccini è condivisa da Paolo Sacchi e da Florentino Garcia Martinez,(21) il fondatore della cosiddetta «ipotesi di Groningen». Secondo tale ipotesi la comunità enochica del Qumran sarebbe nata da una scissione interna al movimento essenico, attestata dal pesher di Habacuc, ove il Maestro (16) B. Z. Wacholder, The Down of Qumran: the Sectarian Torah and the Teacher of Righteousness, Cincinnati, Hebrew Union College Press, 1983, p. 226. (17) S. Talmon, The Community of Renewed Covenant; between Judaism and Christianity, in E. C. Ulrich - J. C. Vanderkam (eds.), The Community of Renewed Covenant: the Notre Dame Symposium on the Dead See Scrolls, Notre Dame, University Press, 1994, pp. 3-24. (18) L. H. Schiffman, Reclaiming the Dead See Scrolls: the History of Judaism, the Background of Christianity, the Lost Library of Qumran, Philadelphia and Jerusalem, Jewish Publication Society, 1994, pp. 88-89. (19) J. L. Teicher, The Dead See Scrolls: Documents of the Jewish Christian Sect of Ebionits, «Journal of Jewish Study», ii, 1951, pp. 67-99. (20) G. Boccaccini, Beyond the Essene Hypothesis, the Parting of the Ways between Qumran and Enochic Judaism, W. B. Eerdmans, Grand Rapids, Michigan-Cambridge, U.K., 1998, pp. 11 sqq. (tr. it. Oltre l’ipotesi essenica, lo scisma tra Qumran e il giudaismo enochico, Brescia, Morcelliana, 2003). (21) F. G. Martinez, Qumran Origins and Early History: A Groningen Hypothesis, «Folia Orientalia», xxv, 1988, pp. 113-136; A. S. van der Woude, A «Groningen» Hypothesis of Qumran Origins an Early History, «Revue de Qumran», xiv, 1988, pp. 521-541.
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di Giustizia (mōreh ha-sedeq), fondatore della setta enochica, sarebbe entrato in conflitto con l’«uomo della menzogna», identificato con il capo della setta essenica, e con il «sacerdote empio» che avrebbe perseguitato i qumraniani. Il punto debole della tesi di Groningen sta nel fatto che lo scisma si sarebbe consumato negli ultimi due secoli prima di Cristo, mentre il quadro storico cui fa riferimento l’azione dei kittim secondo il pesher di Habacuc sembra essere quello dell’occupazione romana del primo secolo d.C. Il merito di queste ipotesi più recenti sta nell’avere profondamente modificato il quadro storico delle teologie del cosiddetto ‘giudaismo medio’ che va dal ii a.C. al ii d.C. Secondo Boccaccini la definizione di medio giudaismo è puramente cronologica, poiché indica il periodo intermedio tra il giudaismo antico post-esilico del vi-iii a.C., e l’affermazione tra il i e il ii secolo d.C. delle due teologie del cristianesimo da una parte e del giudaismo rabbinico dall’altra. Tanto il rabbinismo quanto il cristianesimo ci hanno trasmesso un’immagine distorta di quel vasto crogiolo di idee di cui si nutrì il medio giudaismo, poiché concordarono nel rappresentarci il giudaismo non nel suo articolato divenire storico, ma come un sistema teologico incrostato e cristallizzato, come una unità compatta priva di un’autentica storicità; entrambi infatti ce ne diedero una visione idealizzata, presentandolo come un prodotto finito di origine divina, già bell’e confezionato, del quale si ritenevano a torto o a ragione legittimi eredi. Quel giudaismo, che già in epoca post-esilica era stato idealizzato come teologia di origine sovrumana e che per le migliaia di trasgressioni e deviazioni del popolo ebraico non si era mai tradotto in fede condivisa e praticata, finisce, nella visione confessionalizzata delle due teologie, col sovrapporsi a tutto il medio giudaismo, col marginalizzare ogni forma di religiosità che se ne discostasse come irrilevante ed ogni produzione letteraria divergente come eretica. «Giudei e cristiani – scrive Boccaccini – pur partendo da presupposti diversi e mirando a fini diversi – hanno ‘tacitamente convenuto per secoli nell’idea del ‘giudaismo’ come di un sistema nella sostanza sempre uguale a se stesso, immutato e forse persino immutabile, sicché dai tempi di Mosè sarebbe esistito un solo ‘giudaismo’, quello poi codificato dai Rabbi». In prosecuzione del farisaismo, il rabbinismo elaborò uno schema teorico che potesse giustificare la propria perdurante fedeltà ad una tradizione antica; il cristianesimo di contro puntò sulla propria presunta originalità teologica. Ben presto alla mummificazione del giudaismo fece da contraltare la mummificazione delle rispettive teologie, cristiana e rabbinica, sebbene fos-
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sero l’una profondamente avversa all’altra. Ciascuna delle due forme religiose provvide alla formazione dei propri corpora ovvero alla raccolta e selezione di testi ritenuti canonici, come il Tanakh o Antico Testamento, i quali, a parte qualche lieve differenza, sono per entrambe le confessioni sostanzialmente coincidenti; il corpus normativo fu rappresentato per i cristiani dal Nuovo Testamento e per gli ebrei dalla Mishnah e dal Talmud. Nel contempo entrambi respingono come eretici e apocrifi o irrilevanti per la propria fede i cosiddetti libri apocrifi che proliferarono in abbondanza nella fase del medio giudaismo. Tutto ciò contribuì a non interpretare la storia nel suo reale processo evolutivo, ma a leggerla come una serie di tappe determinate dal diretto intervento divino. Ancora oggi l’ipotesi di un processo storico che spieghi le origini del cristianesimo o dello stesso giudaismo è considerata dai rispettivi credenti un tentativo sacrilego. In realtà il giudaismo è sempre stato in perenne fermentazione; ciò è particolarmente vero nell’epoca tra le due ere, in cui si moltiplicarono i movimenti medio-giudaici, caratterizzati da diverse sfumature dottrinali e concettuali, da tradizioni di pensiero diverse per le aree geografiche interessate dal fenomeno della diaspora, spesso in conflitto teologico e in concorrenza tra loro. Il cristianesimo e il rabbinismo furono – come scrive Boccaccini – come due fratelli gemelli (aggiungerei eterozigoti) nati dallo stesso grembo e si affermarono come «i due giudaismi vincenti dell’epoca moderna». Ma se diamo uno sguardo alle loro spalle, la ricchissima letteratura apocrifa venuta di recente alla luce ci fa scoprire un mondo in fortissimo fermento culturale che sta alle origini dell’una e dell’altra confessione. Le tre o quattro αἱρέσεις, di cui ci parlano le fonti storiografiche da Filone a Giuseppe e a Plinio, ci danno un panorama assai parziale di quel vasto crogiolo di idee e di fermenti religiosi che fu il medio giudaismo. Solo a partire dal secondo secolo dopo Cristo con la tragica conclusione delle due rivolte giudaiche e con la più corposa diaspora ebraica si consolidarono in una forma cristallizzata le due opposte ideologie cristiana e rabbinica, la prima in territorio non giudaico o, se si preferisce, nel mondo greco-romano, e la seconda in area palestinese, come erede della tradizione fariseo-giudaica. Nato da una costola del giudaismo, il cristianesimo assunse la sua autentica fisionomia solo all’interno della cultura ellenistica. Se per un verso è innegabile la sua matrice giudaica (soprattutto per l’idea di un Cristo mediatore divino e per il carattere parzialmente giudaico del suo insegnamento o per essere, in particolare con Paolo, un messaggio rivolto a comunità giudeo-ellenizzate), per un altro verso – scrive Boccaccini, in polemica con
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Flusser – «il cristianesimo cessò di essere un giudaismo […] quando i cristiani abbandonarono la pratica della legge e divennero un movimento a maggioranza gentile».(22) 1.5. Il problema della datazione della letteratura qumranica I rotoli del Mar Morto sono stati elaborati tra il secondo secolo a.C. e il primo d.C., in un arco di circa tre secoli ed è ragionevole supporre che gli scritti a noi pervenuti rappresentino tappe di un processo evolutivo. Le discrepanze che sussistono tra un documento e l’altro possono essere spiegate o all’interno del processo evolutivo della setta oppure a seguito di una scissione collaterale di gruppi della stessa, costituitisi a causa del dissenso su tematiche specifiche. Secondo la cronologia seguita da Moraldi, al primo periodo (168-134 a.C.) appartengono la Regola della Comunità (siglata 1QS) e gli Inni (sigla 1QH, cioè prima grotta del Qumran; H sta per Hôdajôt corrispondente all’ebr. antico Hôdôt = inni di ringraziamento, poiché in essi ricorre l’espressione ôdekāh = ti ringrazio). Al secondo periodo (134-31 a.C.) appartiene il Documento di Damasco (siglato CD = Cairo Document);(23) al terzo periodo (31-4 a.C.) risalgono il Commento a Isaia (4Q161-165) e il Commento al Salmo xxxvii (4Q171); del quarto periodo (4 a.C. - 68 d.C.) sono il Rotolo di Rame (3Q15), la Regola della guerra (1QM, cioè prima grotta; M sta per milhāmāh = guerra) e il Commento ad Habacuc (1QpAb). Va detto che gli autori cattolici hanno la tendenza ad ipotizzare una datazione piuttosto alta della letteratura qumranica nell’intento di evitare che le comunità cristiane siano interpretate come una filiazione dell’essenismo. Ma i dati archeologici e la datazione al radiocarbo(22) G. Boccaccini, Il medio giudaismo: per una storia del pensiero giudaico tra il terzo seolo a.e.v. e il secondo secolo e.v, Genova, Marietti, 1993, p. 3; v. anche G. Boccaccini - P. Stefani, Dallo stesso grembo. Le origini del cristianesimo e del giudaismo rabbinico, Bologna, Dehoniane, 2017, pp. 71-81; D. Flusser, Judaism and the Origins of Christianity, Jerusalem, Magnes, Press, 1988, pp. xviii e xx; A. F. Segal, Paul the Convert: The Apostolate and Apostasy of Saul the Pharisee, New Haven, Yale University Press, 1990, p. xiii; S. J. D.Cohen, From the Maccabees to the Mishnah, Philadelphia, Westminster Press, 1987, p. 168. (23) Il Documento di Damasco fu scoperto da Salomon Schechter nella ghenîzah (= ripostiglio) della sinagoga del Cairo. Esso fu ben presto messo in relazione alla produzione letteraria degli esseni e l’intuizione trovò conferma nella scoperta di ben cinque frammenti del documento nella sesta grotta (6Q15. 1-5) e di uno nella quinta (5Q12).
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nio C14 sembrano militare in una diversa direzione. In primo luogo non v’è dubbio che il sito di Khirbet Qumran sia stato abitato da un gruppo di asceti, probabilmente una confraternita, che praticava l’uso di pasti comuni, come si evince dal ritrovamento di una sala adibita a refettorio, con un servizio da tavola composto di 210 piatti, 38 zuppiere, 708 ciotole. Un’altra sala, per la presenza di quattro calamai, doveva essere adibita a scriptorium. Infine sono stati trovati tre siti cimiteriali, dotati rispettivamente di 12, 30 e 1.100 tombe. A poco più di un paio di chilometri da Khirbet Qumran gli scavi di ‘Ain Feshkha ci hanno restituito quella che, per essere predisposta per lavori agricoli e per l’allevamento di bestiame, potrebbe definirsi la fattoria di Khirbet Qumran. I dati più utili per la datazione degli insediamenti ci sono forniti dalle monete reperite. Relativamente al periodo 1b (134-31 a. C), così designato da Padre De Vaux, sono state trovate 8 monete di bronzo, 12 d’argento dei Seleucidi e 162 monete giudaiche del periodo di Alessandro Ianneo (103-76 a. C). Del secondo periodo De Vaux, che va dal terremoto del 31 a.C. alla fase dei procuratori romani (dal 6 d.C.) fino alla distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), sono state trovate una decina di monete del periodo di Erode il Grande (37-4 a.C.), una decina del regno di Archelao (4 a.C.-6 d.C.), numerose monete dei procuratori romani sotto Augusto (dal 6 al 14 d.C.), 50 monete dei procuratori sotto Tiberio (14-37), 86 monete del Regno di Agrippa I (41-44 d.C.) e 40 monete dei procuratori sotto Nerone (54-68). Infine del periodo III De Vaux (68-135), che si conclude con la seconda rivolta di Bar Kochba (132-135), sono state trovate monete di conio ebraico e romano e punte di frecce romane.(24) Nell’area di Murabba’ât e di nahal Hever sono stati rinvenuti documenti datati tra il 111 e il 133 d.C. Da questi dati si evince che gli insediamenti più consistenti risalgono al 134-131 a.C. Il terremoto del 31 a.C. determinò l’abbandono delle grotte fino a quasi tutto il regno di Erode il Grande. Dal 6 fino al 68-74 d.C. le grotte si ripopolarono; quindi subirono un calo della popolazione tra il 74 e il 110 circa per ripopolarsi più intensamente tra il 110 e il 135 fino alla conclusione della rivolta di Bar Kochba. Le evidenze archeologiche sembrano confermare le notizie che sugli esseni ci sono state trasmesse da Filone e da Giuseppe Flavio. Una ulteriore conferma ci è data dagli scritti qumraniani e dalla loro datazio(24) Sulle evidenze archeologiche, cfr. M. Baigent - R. Leigh, Il mistero del Mar Morto, Milano, Fabbri, 2005; S. Hodge, I manoscritti del Mar Morto, Roma, Newton & Compton, 2002.
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ne con il metodo del radiocarbonio C14 o con il metodo dell’esame paleografico. Sintetizziamo alcuni significativi dati ottenuti da tali analisi. Del Documento di Damasco sono stati esaminati i frammenti 1Q266 e 4Q267; ne è emerso che il primo presenta un’età radioattiva di 1954±38 anni ed è databile al 40±38 d.C. (pari al 2-78 d.C.) o al 100-50 a.C. secondo l’esame paleografico; il secondo invece presenta un’età radioattiva di 2094±29 a.C. ed è databile al 100±29 a.C. (pari al 129±71 a.C.) o al 50-1 a.C. secondo l’esame paleografico. L’ipotesi più probabile è che il Documento di Damasco risalga intorno alla metà del primo secolo avanti Cristo. Della Regola della Comunità sono stati sottoposti ad esame al radiocarbonio i frammenti 1QS, 4Q258 (fram. A), 4Q258 (fram. B) con rispettive datazioni al 47a.C.±68 (115 a.C.-21 d.C.), al 171±24 d.C. (147-195 d.C.), e al 30±45 d.C. (15 a.C.-75 d.C.). Secondo l’esame paleografico il primo dei tre frammenti è databile al 100-75 a.C., e gli ultimi due al 100 a.C. L’ipotesi più probabile è che la Regola della Comunità risalga all’ultimo scorcio del primo secolo avanti Cristo. I frammenti 4Q258 dimostrano che è stata ricopiata più volte nel corso del primo secolo dopo Cristo, come d’altronde si evince anche dal fatto che sono ben 14 i frammenti che vi si riferiscono. Il Commento ad Habacuc e il Commento ai Salmi risulterebbero datati rispettivamente al 60 a. C ± 22 e al 50 d.C. ±23 (radiocarbonio).(25) 1.6. L’organizzazione della comunità essena: la Regola della Comunità La Regola della Comunità (1QS) è un testo compilatorio, redatto da un ignoto autore, che ha ricucito insieme frammenti di diversa provenienza. Non è improbabile che almeno alcune delle sue parti risalgano al Maestro di Giustizia, ma il testo a noi pervenuto sembra essere stato scritto intorno alla metà del primo secolo a.C. In ogni caso è scritto in terza persona, tranne una larga parte dell’Inno finale che è scritto in prima persona. I qumraniani non si danno una denominazione, non usano mai quella di esseni, ma si ritengono perfetti e la loro autodefinizione di «uomini di santità»(26) è compatibile con quella di ‘esseni’ che, come sappiamo, significa ‘santi’. (25) A. J. T. Jull - D. J. Donhaue - M. Broshi - E. Tov, Radiocarbon Dating of Scroll and Linen Fragments from the Judean Desert, «Radiocarbon», v. xxxvii, n. 1, 1995, pp. 11-19. (26) 1QS, iii, 3; v, 13, 18; viii, 17, 20; ix, 7.
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La qualificazione di santità è estesa al consiglio della comunità o Consiglio di Dio o «pianta di eternità», alla «casa della verità» o «casa santa di Israele e convegno del santo dei santi per Aronne»; ‘santo’ è anche lo spirito della comunità o «spirito di santità» e «spirito di verità» e ‘santa’ è l’assemblea.(27) Poiché circoncidono il prepuzio dell’istinto (jeșer),(28) i qumraniani si ritengono testimoni di verità per il giudizio ed eletti del beneplacito per espiare la terra e per dare agli empi la loro retribuzione. La comunità di Qumran è «pianta di eternità», «muro provato», «pietra d’angolo inestimabile»; «le sue fondamenta non vacilleranno», perché essa è, come in Paolo, il tempio spirituale o «abitazione del santo dei santi» (1QS, viii, 5); gli adepti vivono nella separatezza(29) e nel deserto per preparare la via a Yhwh e ritengono la purificazione spirituale gradita a Dio più «della carne degli olocausti e del grasso dei sacrifici» (1QS, viii, 13-14; ix, 4). Si tratta di una comunità chiusa in un rigoroso tradizionalismo, spinto fino al fanatismo. Lo spirito di santità è concepito come ritorno al più puro rigorismo della legge mosaica, intesa come rivelazione di Dio, ininterrottamente continuata e trasmessa attraverso i profeti. Infatti, l’ideale di separatezza o la fuga nelle aree desertiche nasce proprio dal bisogno di «costituire una comunità nello studio della legge» (1QS, v, 1-2, 10-11), governata da sacerdoti sadociti. Sadocitismo e legalismo mosaico sono i due poli che i qumraniani oppongono al sacerdozio asmoneo. L’impianto dottrinale della comunità si caratterizza per tre elementi fondamentali: un dualismo esasperato, forse di origini parzialmente iraniche, un altrettanto esasperato determinismo (probabilmente derivato da culti astrali, ma anche dalla concezione rigorosa di un Dio onnipotente e immutabile), ed una ossessiva idea del male e del peccato, che è la più autentica eredità giudaica. La comunità di Qumran costituiva una habûrāh, una confraternita, ma aveva tutti i caratteri di una setta misterica, almeno nella sua struttura e nella sua gestione amministrativa. A dispetto della pretesa originalità ebraica della loro setta, gli esseni rivelavano influenze di chiara marca iranico-persiana nel loro rigido dualismo di tipo zoroastriano, che portò ad una più estrema radicalizzazio(27) 1QS, ii, 25; iii, 6; viii, 5; v, 6; viii, 5; ix, 6; iii, 6; iv, 21; ix, 3; v, 20. (28) 1QS, v, 5. (29) Secondo il CD la comunità essena si è separata dalla casa di Giuda (CD, iv, 11); la nuova «casa sicura in Israele» è costituita dai sacerdoti, che «sono i convertiti di Israele usciti dal paese di Giuda», dai leviti, che «sono coloro che si uniscono ad essi», e dai figli di Sadoc, che «sono gli eletti di Israele» (CD, iv, 2-3).
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ne il dualismo già insito nella tradizionale cultura ebraica. Da ciò la netta opposizione di luce e tenebre, dello spirito di verità e dello spirito di ingiustizia, degli «uomini di santità» e di verità (ebr. ‘emet) che adempiono agli statuti divini e degli «uomini della fossa» (shaḥat), dei pii, santi e perfetti e degli iniqui, ingiusti e malvagi, dei figli della luce e dei figli delle tenebre (che diventa in Giovanni il dualismo tra i figli di Dio e i figli del diavolo, Gv, iii, 10), del principe delle luci e dell’angelo delle tenebre. Due sono anche le vie che conducono alla salvezza o alla perdizione, perché Dio ama lo spirito della luce e odia quello delle tenebre. Allo stesso modo il qumraniano deve nutrire l’amore per i propri confratelli e «l’odio eterno per gli uomini della fossa, nello spirito del segreto» (1QS, ii, 18-21; ix, 21-22). Ed è un dualismo che si ripercuote sul concetto stesso di Dio come era stato trasmesso dalla tradizione veterotestamentaria. Il Dio della Genesi è il dio creatore del mondo e dell’umanità. Ha un respiro universale che però è originario del mondo mesopotamico. Ma nella tradizione ebraica si trasforma in una divinità poliade, nazionale, che nella terra di Canaan subisce influenze da parte del culto di Baal. Spesso nel Tanàkh si fa cenno alle continue deviazioni e ai traviamenti e ai tradimenti del popolo di Israele, che inclina verso culti pagani. Il dio dell’AT è un dio vendicativo che agisce sulla base del principio della retribuzione, una sorta di applicazione divina della legge del taglione: Dio premia e castiga a seconda della condotta di Israele. Non è un vero e proprio dio dell’amore e della misericordia, parla per bocca dei profeti, sferza con la lingua dei profeti il popolo dalla dura cervice; è il dio degli eserciti, un dio guerriero, come guerriero è il popolo che lo adora. Il Dio cristiano è innanzitutto il Dio dell’amore (ove il genitivo ‘dell’amore’ è insieme soggettivo e oggettivo, nel senso che Dio è oggetto dell’amore degli uomini ed è nello stesso tempo il soggetto che li ama). Il cristiano sdoppia Dio e la sua Sapienza, Dio e la sua parola in una forma di diteismo; successivamente si aggiunge in una forma di triteismo lo spirito santo, come potenza divina. Nella teologia cristiana coesistono il dio creatore, come ente eterno e supremo, immutabile, imperscrutabile, infinito, e il dio dei culti misterici, il dio della salvezza, il dio che muore e risuscita e dà ai fedeli la speranza della salvezza. Il Dio degli esseni è nel contempo il Dio della vendetta e il Dio della salvezza o «Dio della giustizia» (1QS, i, 11; v, 12; i, 19, 21); ma l’accento è posto più sulla vendetta e sulla giustizia che sulla salvezza o, se si vuole, nella teologia qumraniana emerge più il carattere di un Dio inesorabile, dal volere imperscrutabile e irremovibile, che quello di un Dio misericordioso e
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buono. E comunque il destino dell’uomo è nelle mani di Dio; l’uomo non può far nulla per salvarsi: Quanto a me […] il mio giudizio è presso Dio e nella sua mano è la perfezione della mia via […]; con i suoi benefici cancella i miei peccati, perché dalla fonte della sua conoscenza scaturì la sua luce, sicché il mio occhio contemplò le sue meraviglie e la luce del mio cuore, il mistero del futuro e l’essere eterno. […]. Io appartengo all’umanità empia, all’assemblea della carne del male! Le mie colpe, i miei peccati e le mie trasgressioni, nonché la perversione del mio cuore, appartengono all’assemblea impura di coloro che camminano nella tenebra […]. Se io vacillo, la misericordia di Dio è la mia salvezza per sempre e, se inciampo, per colpa della carne, il mio giudizio è nella giustizia di Dio (1QS, xi, 2-12).
Due sono gli imperi che reggono le sorti umane: quello di Beliar, in cui si producono tutte le trasgressioni e i peccati, e quello del Dio di Israele che ristabilisce l’ordine secondo la legge della retribuzione (1QS, iii, 15; viii, 7). Due sono di conseguenza i comportamenti etici da tenere: seguire la via del bene e compiere tutte le opere della verità di Dio o deviare dai comandamenti divini, trasgredire e cadere nel peccato. Due sono anche i sentimenti fondamentali che l’esseno deve nutrire: l’amore per i propri fratelli, «secondo il posto che ciascuno ha nel consiglio di Dio», e per il prossimo (inteso nel senso ristretto dei propri connazionali) e l’odio per i figli delle tenebre e di Beliar, «secondo la colpevolezza che ciascuno ha di fronte alla vendetta di Dio» (1QS, i, 10-11). L’amore umano è speculare all’amore divino, perché Dio ama tutti i figli della luce ed ha in odio i figli delle tenebre. Significativa è, per la sua prossimità al mondo cristiano, l’espressione «Dio ama l’uomo da tutta l’eternità dell’eternità», ove l’eternità dell’eternità richiama alla mente il sintagma evangelico «per tutti i secoli dei secoli» (1QS, iv, 1). Il qumraniano vive nell’ossessione del male e del peccato, perché ritiene che il male sia radicato nella natura umana. Benché sia un presupposto essenziale della salvezza, l’osservanza della Legge non è più sufficiente. Per essere stato determinato da Dio stesso, il male radicale può essere sconfitto solo per volontà divina e solo attraverso la stipulazione di un patto di grazia che costituisce la comunità di «volenterosi nell’adempimento degli statuti divini» (1QS, i, 7). L’applicazione della Legge deve essere rigida: neppure una sola delle parole di Dio può essere trasgredita (1QS, i, 13, 16). La
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purificazione dell’anima e la remissione del peccato hanno come condizione lo spirito di rettitudine e di umiltà (1QS, iii, 8). La storia dell’umanità non è che la storia della contrapposizione dell’angelo della tenebra e dell’angelo della verità. E poiché Dio sapientissimo ha stabilito fin dall’eternità tutto il piano in cui sono iscritte le azioni umane, la salvezza non può venire che da Dio stesso. Dio ha concesso un tempo determinato all’esistenza dell’ingiustizia ed ha stabilito un tempo per il giudizio (1QS, iv, 18-20). Nel cuore dell’uomo si contendono gli spiriti di verità e di ingiustizia […]; in proporzione all’eredità di verità e di giustizia che ha avuto, l’uomo odia l’ingiustizia; e in proporzione della parte di ingiustizia avuta in sorte, agisce iniquamente ed ha in abominio la verità. Poiché in egual misura Dio li ha posti fino al tempo assegnato e alla nuova generazione (1QS, iv, 23-25).
Per tutta la vita l’esseno è ossessionato da forme di determinismo; stabiliti sono i tempi della rivelazione, dell’empietà e dell’espiazione, dell’«accecamento di Israele» (1QS, i, 9; v. CD, xvi, 2), della retribuzione, della visita di Dio, della definitiva sconfitta dell’angelo della tenebra, dell’esistenza dell’ingiustizia e del giudizio divino, che è «il giorno della vendetta»; stabiliti sono anche i tempi e le attività dello spirito di verità e dello spirito di ingiustizia.(30) L’Inno che chiude la Regola della Comunità suggerisce chiaramente che si tratta di un determinismo di origine astrale con l’alternanza della luce e delle tenebre, del giorno e della notte, delle stagioni «per la mietitura nell’estate», «per la semina nell’epoca dell’erba verde», secondo il ritmo ciclico dei luminari celesti (1QS, x, 1-10). Complessa è l’organizzazione della setta: il consiglio di Dio (ebr. ‘esah ‘êl) sembra identificarsi con il Consiglio dell’assemblea o Consiglio della Comunità: ciascun adepto mette a disposizione della comunità il suo sapere, il suo lavoro e i suoi beni.(31) Frequente è nel testo l’uso del termine ‘molti’ (ebr. (30) 1QS, iii, 15, 8; iv, 26; iii, 23; iv, 18, 20; ix, 23; iv, 23-26. (31) 1QS, i, 8, 12; iii, 2. A proposito dell’episodio di Anania e Saffira (Atti, v, 4) non sembra che le primitive comunità cristiane praticassero l’obbligo della comunione dei beni, la quale doveva evidentemente essere facoltativa, poiché Pietro rimprovera ad Anania non di aver trattenuto una parte del ricavato della vendita di un podere, ma di aver mentito davanti a Dio sull’entità della somma. Infatti gli dice: «non sarebbe rimasto a te se non lo avessi venduto? E una volta veduto, non era in tuo possesso la somma ricavata? (οὐχὶ μένον σοὶ ἔμενεν καὶ πραθὲν ἐν τῇ σῇ ἐξουσί ᾳὑπῆρχεν;).
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rabbîm)(32) per indicare il Consiglio della comunità con esclusione dei novizi e dei postulanti. I ‘molti’ consumano i pasti in comune e vegliano «in comune per un terzo di ogni notte dell’anno a leggere il libro» [il Pentateuco] e a declamare gli inni di benedizione (1QS, vi, 7). Essi siedono in rigoroso ordine gerarchico, «ognuno secondo il proprio grado», prima i sacerdoti, poi gli anziani e infine il popolo (1QS, vi, 8-9). Ciascuno prende la parola secondo lo stesso ordine e secondo il proprio turno e nessuno parla se non con il gradimento dei molti (1QS, vi, 10-11). L’assemblea dei molti è organizzata in tre classi: i sacerdoti, gli anziani e il popolo (1QS, vi, 8-9). Queste tre classi non vanno confuse con le tre classi (sacerdoti, leviti e popolo) in cui è articolata la comunità. Le prime riguardano l’articolazione interna dell’assemblea dei molti, le seconde invece si riferiscono al rito di rinnovamento del patto, in cui i leviti svolgono una funzione di primo piano. Il Documento di Damasco, che annovera quattro classi (sacerdoti, leviti, popolo e proseliti)(33) è forse di epoca posteriore e riflette una fase più tarda dell’evoluzione della setta. L’assemblea ha due figure di rilievo: l’ispettore dei molti (il mebaqqer) e colui che presiede (il paqîd).(34) La comunità è organizzata in gruppi di dieci, cinquanta, cento, mille.(35) La cellula più piccola è data da dieci uomini: ovunque si trovino dieci uomini non mancherà fra essi un sacerdote, istruito nel libro della meditazione,(36) né mancherà un uomo che scruti la legge (verosimilmente il dôresh ha tôrāh),(37) considerato anche il bastone (ebr. mehôqeq), della comunità). All’interno la setta è gerarchizzata; gli inferiori sono tenuti all’obbedienza verso i superiori (1QS, v, 23-24; vi, 2). È rigorosamente vietato il contatto con l’esterno; nessuno può entrare in contatto con gli uomini impuri, né può consumare con loro i pasti (1QS, v, 14-17). In un accampamento (maḥaneh) la presenza del mebaqqer, che è l’antecedente storico dell’epíscopos cristiano, è necessaria per le funzioni amministrative e spirituali, poiché esercita un controllo sulla condotta degli aderenti al patto. Al vertice di tutti gli accampamenti vi è l’ispettore generale (ha-mebaqqer ‘asher le-kol ha-maḥanôt). Secondo il CD egli si comporta (32) 1QS, vi, 1. (33) CD, xiv, 3-6. (34) 1QS, vi, 12, 14. (35) v. CD, xiii, 1-2. (36) 1QS, vi, 3-4. Il Libro della meditazione (sefer hgw) è citato in CD, x, 6, 1QSa, i, 7; ma la sua identificazione con gli Inni o con la Regola della comunità è oggetto di controversia tra gli esegeti. (37) 1QS, vi, 6.
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come un padre verso i figli e come un pastore che guida il suo gregge (CD, xiii, 9); il mebaqqer ha il compito di esaminare le azioni, l’intelligenza, la forza, il coraggio e i beni degli adepti e di assegnare a ciascuno il posto che gli compete in seno all’assemblea. Porre l’accento sulle differenze tra il mebaqqer e l’epíscopos cristiano è un puro esercizio mentale. Le affinità sono forti e lampanti: entrambi hanno una funzione amministrativa e pastorale; il fatto che il vescovo cristiano abbia un carattere sacerdotale può dipendere dalla successiva evoluzione della sua figura. Con le sezioni viii-x della Regola della Comunità ci troviamo forse di fronte ad un ulteriore stadio evolutivo dell’essenismo; si delinea infatti il progetto di una comunità di perfetti; non più solo santi, ma santi nella perfezione; una sorta di comunità pilota che nel deserto, nella assoluta separatezza dagli uomini impuri, deve preparare la via al Signore. Il Consiglio della comunità sarà diretto da quindici figure di alto valore simbolico e di elevato profilo etico: dodici laici in rappresentanza delle dodici tribù di Israele e tre sacerdoti perfetti (non tre leviti, ma tre sadociti, discendenti di Aronne), incaricati di vigilare sulla giustizia, sull’amore reciproco, sulla tenuta della fede, in modo da costituire una comunità con una forte impronta spirituale come «pianta di eternità», «casa santa per Israele», «convegno del santo dei santi per Aronne» e con il compito di giudicare gli empi secondo la loro retribuzione; essa durerà fino alla «venuta del profeta» e dei due «messia di Aronne e di Israele» e sarà «muro provato» e «pietra d’angolo», «abitazione del santo dei santi», gradita a Dio per lo spirito di santità più che per gli olocausti.(38) La sezione ix, 12-26, contiene gli statuti per il maskîl, il quale non deve avere nessun contatto con gli uomini impuri, deve preparare la via verso il deserto, nutrire odio eterno verso gli uomini della fossa e preparare il giorno della vendetta. Per gli iniziati è previsto un rito di passaggio: essi «passano nel patto dinanzi a Dio», vengono mondati per l’espiazione e purificati con acque lustrali, mentre i sacerdoti «narrano la giustizia di Dio» e i leviti «le iniquità dei figli di Israele»; dopo che gli iniziati hanno confessato i propri peccati, i sacerdoti benedicono «gli uomini della sorte di Dio» e i leviti maledicono quelli della sorte di Beliar.(39) Infine i sacerdoti ed i leviti insieme maledicono colui che passa «con gli idoli nel cuore» e pone nel patto «l’inciampo della sua iniquità». Il patto è rinnovato ogni anno secondo un (38) 1QS, ix, 11; viii, 7, 8; ix, 6, 4. (39) 1QS, i, 16; iii, 4; i, 21, 23; ii, 2-5.
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preciso ordine: passano nel patto prima i sacerdoti, poi i leviti, infine il popolo; a ciascuno è assegnato il suo posto nella casa della comunità: «nessuno scende al di sotto del proprio posto», né «s’innalza al di sopra della sua sorte» (1QS, ii, 19-23). Non ricorre mai nella Regola l’espressione «nuovo patto», ma essa è presente nel pesher ad Habacuc e nel Documento di Damasco. V’è però l’idea di un patto di grazia (berît hesed), patto eterno, con cui gli adepti si obbligano ad adempiere spontaneamente agli statuti divini,(40) si pongono nella ‘sequela’ di Dio e si attendono la salvezza dalla fedeltà al patto o, se si vuole, dalla fedeltà nella fede in Dio. Il patto è l’elemento di unificazione della comunità, la quale, proprio in forza di esso, condivide la vita in comune e i pasti in comune. Benché non si qualifichi come nuovo, il patto di grazia sostituisce l’antico patto mosaico e, nella ritualità del pasto in comune, lo richiama alla mente: il sacerdote stende per primo la sua mano per il pane e il vino dolce (ebr. tirosh),(41) spezza il pane allo stesso modo in cui nell’olocausto è squarciata la carne della vittima sacrificale. Il rito si ripete quotidianamente ed assume maggiore solennità nella festa del rinnovamento annuale del patto (1QS, i, 21 - ii, 12) probabilmente nel giorno della pentecoste (come si evince dal Documento di Damasco). Il rito di iniziazione è un rito di purificazione: il postulante non è ammesso nella comunità se non dopo essere stato esaminato «sul suo spirito e sulle sue azioni per la durata di un intero anno» (1QS, vi, 17-23). Al termine dell’anno sarà nuovamente esaminato dai sacerdoti e dai ‘molti’ e, se il giudizio sarà favorevole, potrà consegnare i suoi beni nelle mani dell’ispettore che li congelerà per la durata di un ulteriore anno, al termine del quale sarà nuovamente valutato per essere ammesso definitivamente alla comunità. Il saggio (maskil )משכילha il compito di istruire «tutti i figli della luce sulla storia di tutti i figli degli uomini». Forse la digressione, che va da iii, 15 a iv, 26, non è che una esemplificazione della storia umana, la quale è iscritta in un piano divino, «senza alcun mutamento»; in essa sono determinati i tempi per le loro azioni e sono predisposti i due spiriti della verità e dell’ingiustizia; perciò è la storia della lotta tra il bene e il male, dell’angelo delle tenebre che fa ‘incespicare’ i figli della luce e dell’angelo della verità che insieme al Dio di Israele li soccorre (1QS, iii, 24-25). «Lo spirito della verità illumina il cuore dell’uomo»; è spirito della conoscenza, piano d’azione divina, abbondanza della sua grazia, grande misericordia verso tutti i figli del(40) 1QS, i, 7; iv, 23; v, 6; i, 7. (41) 1QS, vi, 5.
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la verità che detestano gli idoli impuri e «nascondono fedelmente i misteri della conoscenza» (1QS, iv, 6). I termini ‘intelligenza’ (ebr. da’at), ‘saggezza’ (1QS, iv, 3), ‘conoscenza’, non vanno intesi in senso gnostico, né vanno confusi con forme di gnosticismo, poiché in realtà riguardano la conoscenza dell’Altissimo (1QS, iv, 22), dei misteri divini e del piano divino, rivelato attraverso la legge mosaica, e della predisposizione verso lo spirito della verità. Nel tema della conoscenza si è voluto scorgere da parte di taluni esegeti una sorta di gnosticismo pre-gnostico. Non c’è nessun legame di parentela con la gnosi del secondo secolo d.C., ma c’è solo una più forte accentuazione sul tema della conoscenza e della sapienza che era già presente nell’ebraismo veterotestamentario ed ha, se mai, maggiori affinità con testi tardotestamentari come la Sapienza, il Siracide e Daniele, che probabilmente passano attraverso gli esseni nel canone cristiano. La salvezza non sembra avere un carattere escatologico, perché manca la dimensione oltremondana: «La visita di tutti coloro che camminano in lui [in Dio] – scrive l’autore della Regola – consiste nella salute, nell’abbondanza di pace per lunghi anni, posterità feconda insieme a tutte le benedizioni perpetue, gioia eterna nella vita continua» (1QS, iv, 6-7). Qui ancora non v’è l’idea greco-platonica dell’immortalità dell’anima, né v’è l’idea di un suo destino escatologico. Analogamente la visita dei figli della fossa non comporta un passaggio nell’aldilà, ma consiste nell’abbondanza dei flagelli, nella distruzione eterna, nella collera del Dio della vendetta, nel terrore perpetuo, nell’ignominia, nella «confusione sterminatrice nel fuoco di regioni tenebrose», nel «pianto triste» e «nell’acerbo malanno fino al loro sterminio senza che tra di essi vi sia alcun resto né scampo» (1QS, iv, 12-14, 18-19; v, 13). Nella Regola non è mai nominato il maestro di giustizia, non è mai usato il tetragramma, né sono mai citati gli esseni o i cristiani o le altre sette ebraiche. Scarse sono le citazioni bibliche e quando sono presenti sono interpretate in chiave allegorica (1QS, v, 15, 17). Non v’è dubbio che la comunità essenica non va confusa con il cristianesimo, ma non si può negare che essa si colloca lungo la linea evolutiva che conduce al cristianesimo, in cui evidentemente residuano alcuni tratti dell’essenismo, pur inquadrandosi in una nuova cornice dottrinale, che comprende l’esoterismo (nascondere i misteri, lo spirito del segreto, 1QS, ix, 22; x, 24-2), il dualismo, in parte il predeterminismo, il rinnovamento del patto e l’attesa escatologica che si salda con il platonismo greco. Si conserva la doppia veste del Dio della vendetta e della misericordia; cade il segreto sul nome del legislatore divino.
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C’è ancora un cammino da percorrere verso il cristianesimo, ma già il linguaggio e la terminologia, che sono il veicolo delle idee, anche quando sono d’ispirazione veterotestamentaria preannunciano simboli e immagini che ritroviamo nei vangeli. Tali sono i seguenti sintagmi: «pietra d’angolo», «figli dell’uomo, figli della luce, figli delle tenebre» (la 1Giovanni, iii, 10, distingue tra “figli di Dio» e «figli del diavolo»), ‘incespicare’, ‘inciampare’, ‘molti’ (espressione comune ai vangeli),(42) «né resto né scampo», «le due vie», «giudizio di Dio», «regno del cielo», «nuova creazione», «preparare nel deserto la via al Signore»,(43) «il messia di Aronne e di Israele», «il virgulto (ebr. semah) di Davide», «angustia e desolazione», «la verità di Dio è la roccia dei miei passi», ‘denaro-mammona’ (ebr. mamon),(44) i dodici apostoli, l’ispettore, gli anziani, il popolo, «i tempi stabiliti», «la visita di Dio», «il patto e il rinnovamento del patto», «il rito di purificazione» (il battesimo), «la comunità tempio e santo dei santi» (1QS, viii, 8), «l’eternità dell’eternità». 1.7. La Regola dell’Assemblea e la Raccolta delle Benedizioni Completano il quadro di regolamentazione strutturale della setta la Regola dell’Assemblea (‛edah) e la Raccolta delle Benedizioni le quali ci sono pervenute in prosecuzione nello stesso rotolo contenente la Regola della Comunità e sono perciò indicate rispettivamente con le sigle 1QSa e 1QSb. È importante rilevare che la Regola dell’Assemblea non regolamenta l’ordinaria assemblea o riunione, il più delle volte periodica, dei membri della comunità essenica, ma è in qualche modo la regolamentazione dell’Assemblea di Israele (cioè di tutto il popolo ebraico, cfr. 1QSa, i, 1, 23-25) che si terrà, sotto la guida dei sacerdoti sadociti, alla fine dei giorni. È pertanto uno scritto prettamente escatologico, poiché segna il passaggio dal tempo presente all’inizio di una nuova era. Ma è anche un testo militare che ha l’intento di preparare una guerra santa che sta a mezza strada tra una guerra ideale del bene contro il male e contro i figli dell’iniquità ed una guerra di sapore nazionalistico per la distruzione di tutte le nazioni (1QSa, i, 1, 2325, 21). Non a caso il testo si presenta come la Regola per tutte le milizie dell’assemblea di tutti gli israeliti («coloro che sono nati in Israele» 1QSa, (42) v. Mt, xxvi, 28; Mc, xiv, 24; Rm, v, 15-19. (43) 1QS, viii, 7; xi, 12; iv, 25; viii, 13-14. (44) 1QS, ix, 11; x, 15; ix, 5, v. Mt, vi, 24; Lc, xvi, 9, 11, 13.
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i, 1; 23-25, 21, 6). Nella sez. da i, 6 a ii, 3, è dettagliatamente descritta la formazione etico-dottrinale e militare dell’israelita, l’irreggimentazione delle famiglie, dei notabili, la composizione delle truppe sotto il comando dei capi-tribù, dei capi delle migliaia, delle centurie, delle cinquantine e delle decurie, con rigorosa esclusione – secondo la prescrizione levitica (Lv, xxi, 17-21) – di zoppi, ciechi, sordi o tarati di vario genere (1QSa, ii, 3-8), la cui presenza in assemblea è incompatibile con quella degli angeli santi (secondo il Deuteronomio, xxiii, 15, con la presenza di Dio). L’assemblea finale avrà luogo quando «Dio avrà fatto nascere», in mezzo ai santi della comunità, il messia di Aronne; davanti a lui entrerà il sacerdote-capo di tutta l’assemblea di Israele, seguiranno i sacerdoti figli di Aronne; infine entrerà il messia di Israele, davanti al quale siederanno le tribù di Israele. Tutta la congregazione (ebr. qahal) si riunirà nella mensa comune per consumare il pane e il vino dolce (il mosto); prima stenderà le mani per benedirlo il messia di Aronne, poi il messia di Israele. Il testo è troppo conciso per consentirci di trarre conclusioni sicure in merito al messianismo. L’espressione «quando Dio avrà fatto nascere il messia» non è sufficientemente chiara, poiché è possibile intendere la nascita del messia tanto come una generazione divina quanto come la generazione di un uomo-messia secondo il piano provvidenziale di Dio. Ciò che è indubbio è che il testo prevede un duplice messianismo, quello sacro-sacerdotale nel messia di Aronne e quello secolare nel messia nazionale. Nel Documento di Damasco questa duplicità scompare; i due messia sono fusi in uno solo, denominato il «messia di Aronne e di Israele», che viene così a rivestire tanto la funzione sacerdotale quanto quella politico-nazionale.(45) Evidentemente dalla Regola della Comunità e dalla Regola dell’Assemblea al Documento di Damasco la comunità essena ha rielaborato il concetto di Messia preparando la strada al cristianesimo. Quando il messia si configurerà non più con un ruolo politico, ma solo nella veste sacerdotale e con una funzione prettamente etico-pedagogica, da una costola dell’essenismo si genereranno le prime comunità cristiane. Nella stessa direzione spinge il processo di identificazione del profeta ovvero del maestro di giustizia e del messia. Nelle tre Regole 1QS non è ancora menzionato il maestro di giustizia, nel Documento di Damasco ha invece un ruolo centrale, poiché è profeta e messia nello stesso tempo; è il servo sofferente, la guida spirituale che conduce la comunità sulla via del cuore di Dio, ma è anche colui di cui si atten(45) CD, xii, 23 - xiii, 1; xiv, 19; xix, 10-11; xx, 1.
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de l’avvento alla fine dei giorni (CD, i, 11; vi, 11). Questa identificazione del profeta con il messia sacerdotale è ancora vaga nel Documento di Damasco che recita testualmente: coloro che sono entrati nel patto «presteranno orecchio alla voce del maestro di giustizia […]; essi vedranno la sua salvezza, poiché si sono rifugiati nel suo nome» (CD, xx-28-34). La stessa identificazione diventa sempre più chiara nei commenti biblici e negli Inni. Nel Commento al Salmo xxxvii il maestro di giustizia è senza alcun dubbio una figura sacerdotale «che Dio scelse per stare al suo cospetto, giacché lo irrobustì affinché gli edificasse un’assemblea» (4Q171, iii, 15-16). Per il Commento ad Habacuc egli è «il sacerdote nel cuore del quale Dio ha posto intelligenza per interpretare tutte le parole dei suoi servi, i profeti, per mezzo dei quali Dio ha annunziato tutte le cose che accadranno al suo popolo e alla sua terra» (1QpAb, ii, 8-10). Negli Inni egli è «la torre solida», la ‘roccia’, l’’edificio’, il fondamento della comunità, colui che «controlla le pietre scelte della costruzione» (1QH, vi, 26; vii, 8-9), ma è anche il messia che nel giudizio universale sarà lo strumento di Dio per distinguere «tra il giusto e l’empio» (1QH, vii, 12). Sono evidentemente testi che sembrano condividere la stessa fase di maturazione dell’ideologia essena e preludono agli sviluppi delle prime comunità cristiane. Speciale rilevanza ha la mensa comune che, se non è ancora la cena eucaristica, non è in ogni caso un pasto ordinario ed ha comunque una sua valenza simbolica in riferimento alla fine dei giorni. Essa anticipa certamente la cena cristiana, almeno nel senso che entrambe hanno un carattere sacro e per la loro valenza escatologica si collegano al tema della salvezza. Il che fa pensare alla commemorazione di un pasto comune in anticipazione del pasto della fine dei giorni. Almeno due sono i punti in cui il documento diverge dalla Regola della Comunità: 1) la fede nell’avvento di due messia; 2) il carattere, anche solo moderatamente bellico, della guerra santa che lo rende assai prossimo alla Regola della Guerra (1QM) e lo pone in parziale conflitto con 1QS. Se ne deve dedurre o che le due comunità cui fanno riferimento 1QS e 1QSa sono distinte, l’una essena e l’altra più sintonizzata con lo zelotismo, oppure che i due documenti rappresentano due diverse fasi del processo evolutivo di una stessa comunità, quella essena. Ma in quest’ultimo caso bisogna supporre che con l’approssimarsi della prima rivolta giudaica gli esseni si siano radicalizzati su posizioni filo-zelotiche; ciò che spiegherebbe le affinità notevoli tra 1QS e 1QM. La Raccolta delle Benedizioni (1QSb) contiene le benedizioni destinate al
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saggio (al maskil) il quale se ne serve per benedire i membri dell’assemblea, «fermamente uniti nel sacro patto con Dio», il messia sacerdote di Aronne, i sacerdoti sadociti e il principe dell’assemblea, ovvero il messia di Israele, in occasione della festa della Pentecoste, in cui gli eletti celebrano il patto e rafforzano la loro fede nell’alleanza divina. Il testo è frammentario; tutte le benedizioni iniziano con Adonai. Ai fedeli si garantisce che presso Dio si trova una sorgente che non fa mancare l’acqua agli assetati (1QSb, i, 6). Al sommo sacerdote si assicura il favore e la protezione dello spirito santo; ai sadociti, che sono stati «eletti da Dio per rafforzare il suo patto in eterno», si promette l’eternità del sacerdozio, per essere «angeli della presenza nella dimora santa» e «ministri del palazzo reale», ovvero del «regno dei cieli».(46) Al principe dell’assemblea, ovvero al messia nazionale di Israele, si promette il rinnovo del patto; egli sarà «un leone» (1QSb, v, 20-29) e si costituirà come «torre fortificata, innalzata sopra un bastione», per uccidere gli empi e calpestare «i popoli come fango delle strade». La Raccolta pone un problema: chi è il saggio che benedice? È semplicemente il maskil o è il maestro di giustizia? Carmignac(47) propende per la seconda ipotesi, poiché a lui attribuisce il testo, unitamente alla Regola della Comunità, alla Regola dell’Assemblea e agli Inni. Conseguentemente fa risalire tali scritti ad un periodo compreso tra il 110 e il 100 a.C. Tuttavia, per ragioni paleografiche è difficile collocare tutti e cinque i documenti in un così ristretto arco di tempo e non è escluso che la loro composizione sia databile tra il primo secolo a.C. e il primo d.C. Probabilmente è più ragionevole pensare che il saggio benedicente sia il maskil, ma resta comunque oscura la paternità dei testi citati, soprattutto se si sospetta che forse non tutti sono riconducibili ad una unica organizzazione settaria. 1.8. La Regola della Guerra La Regola della Guerra (1QM, ove M sta per l’ebr. milhamah = guerra), che rappresenta la fase più avanzata in cui il movimento essenico sembra confluire nelle frange più estremiste degli zeloti, risale quasi certamente (46) 1QSb, ii, 24; iii, 23, 26; iv, 25. (47) J. Carmignac, Le docteur de Justice et Jésus-Christ, Paris, Ed. de l’Ornte, 1957; Id., Quelques détails de lecture dans la «Règle de la congregation», le «Recueil des benedictions» et les «Dires de Moyse», «Revue de Qumran», xiii, 1963, pp. 84-100.
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alla prima metà del primo secolo d.C. ed è forse anteriore al 70. È indubbiamente un documento importante per ricostruire le strategie militari del mondo ebraico e individuarne o meno la dipendenza dalle tecniche militari romane. È difficile dire se nelle intenzioni dell’autore doveva trattarsi di una vera e propria guerra guerreggiata o di un conflitto spirituale e religioso tra i figli della luce e i figli delle tenebre, spesso indicati come kittîm (= nemici), identificabili forse con i Romani. Molto probabilmente egli aveva in mente entrambe le cose. L’accenno ai Kittîm di Assur e ai Kittîm di Egitto non deve trarre in inganno; essi sono i nemici storici degli israeliti; nei documenti esseni sono citati per indicare i nemici più recenti. Dal giudaismo post-esilico gli esseni traggono l’idea di un’antica ed eterna lotta di Israele contro Beliar, che si ripete nel corso del tempo e nella memoria collettiva congiunge il tempo antico al tempo presente. D’altra parte si intuisce chiaramente che l’autore non si riferisce ad alcuno scontro storico, ma più semplicemente al conflitto finale, ancora nell’ottica apocalittica della fine dei tempi, in cui cadrà il radicale sterminio dei figli delle tenebre (1QM, i, 10). I figli della luce, che coincidono con il resto di Israele, cioè con i figli delle tribù residue di Levi, di Giuda e di Beniamino, abbatteranno l’esercito di Beliar e ne spezzeranno e distruggeranno il potere (1QM, i, 5). In una sorta di fanatismo visionario, che ha le sue radici nel misticismo e nell’ascetismo esasperati di una componente della setta essenica, l’autore attribuisce a Dio stesso («tua è la guerra», 1QM, xi, 4) la determinazione del giorno della «grande strage»: «questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo, per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage l’assemblea degli dèi e l’assembramento degli uomini, i figli della luce e il partito delle tenebre: combatteranno insieme dando prova di potenza divina tra lo strepito di una grande moltitudine e la terûâh (ovvero il suono della tromba) degli dèi (‘êlōhîm con riferimento all’angelologia qumraniana) e degli uomini nel giorno della calamità» (1QM, i, 10-12). Ed è il giorno dell’angustia (cioè dello stato di servitù), come «tra tutte le angustie non ce ne fu mai una simile»; in esso cade la redenzione eterna o la liberazione del popolo eletto; è il giorno in cui Dio, dopo 40 anni di guerra e dopo alterne vicende (1QM, i, 14-15), consegnerà nella mano dei poveri i nemici di tutti i paesi. Tutta la guerra escatologica riveste un simbolismo escatologico: i 40 anni sono una reminiscenza dei 40 anni di peregrinazione nel deserto, quaranta giorni di pioggia nel diluvio, quaranta giorni di cam-
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mino nel deserto da parte di Elia, quaranta giorni di digiuno del Cristo. In realtà gli anni di combattimento vero e proprio sono 29, poiché dai quaranta anni vanno detratti i sei anni di preparazione della guerra e i cinque anni di remissioni. Dopo lo sterminio si ristabilirà il culto del tempio e riprenderà il servizio liturgico con l’uso dei sacrifici cruenti. Sotto la guida del sommo sacerdote (ebr. ha-cohen ha-rosh, letteralmente = sacerdote capo, che però è certamente identificabile con il sommo sacerdote, ebr. ha-kohen ha-gadol), il servizio sarà gestito dalle tre classi dei sadociti, dei leviti e del popolo con una turnazione di 52 capifamiglia (ebr. ‘abot ha-’edah), pari alle 52 settimane dell’anno, di 26 capigruppo (pari alle 26 settimane di due semestri), e di 12 leviti (pari ai dodici mesi dell’anno). Il documento prosegue con un estenuante regolamentazione dell’uso delle trombe e di quello delle insegne, della disposizione dei reparti di combattimento, dell’organizzazione della cavalleria, dell’esclusione dalla battaglia di tarati di vario genere e di uomini impuri sessualmente (1QM, vii, 4-7), in quanto incompatibili con la presenza degli angeli santi. Nel capitolo x la setta sembra definirsi «popolo dei santi del patto, di istruiti negli statuti, dotati di conoscenza e di intelligenza […], spettatori degli angeli santi, aperti d’orecchio e uditori delle cose profonde» (1QM, x, 10-11). L’angelologia essena, che è appena abbozzata negli altri testi qumranici, appare molto più sviluppata nella Regola della Guerra ed è strettamente associata al suo taglio messianico. Particolarmente interessante è il seguente passo: «da tempo hai designato un principe di splendore quale nostro soccorso» (1QM, xiii, 10), perché sottende il tema della redenzione e del soccorso divino che redime e salva dal peccato. Da ciò il tono dell’imprecazione: «umilia l’iniquo e non ci sia più né un resto né uno scampo»; «il fuoco della tua ira bruci fino allo sheôl» (1QM, xiv, 16). Dio è ancora il Dio della vendetta che schiaccerà con la sua spada l’esercito di Beliar (1QM, xv, 3). Come si intuisce facilmente ogni testo qumranico presenta sfumature dottrinali che lo differenziano dagli altri testi. Al sostanziale pacifismo della Regola della Comunità si oppone il bellicismo, non si sa fino a che punto simbolico, della Regola della Guerra; all’apparente opposizione al tempio di Gerusalemme e ai riti dell’olocausto (1QS) si oppone 1QM che invece li ripristina sia pure in una prospettiva escatologica. In un testo l’angelologia è appena accennata o del tutto assente, nell’altro ha una più forte accentuazione. Ora si parla di un unico messia con la duplice funzione davidico-nazionalistica e sadocita-sacerdotale, ora i due messia sono nettamente distinti. E
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tuttavia, al di là di queste incongruenze più o meno forti, la cornice della setta resiste nel suo forte legame con la tradizione giudaica, nella sua struttura organizzativa, nella pratica della vita comune e dei pasti comuni, nell’uso di un calendario lunisolare, nella forte opposizione al sacerdozio asmoneo e nella rievocazione di quello sadocita, nel radicalismo dualistico di luce e di tenebre, nel rigido gerarchismo e nel ruolo della conoscenza e dell’intelligenza, accompagnato all’esame dello spirito dell’adepto. Si ha a tratti l’impressione che l’essenismo sia come un camaleonte che cangia colore e si camuffa nell’ambiente in cui si trova a vivere. Tutto ciò ci induce a pensare che siamo di fronte o ad un unico movimento settario che nell’arco di due o tre secoli ha subito mutamenti più o meno consistenti o che le grotte furono abitate da più gruppi medio-giudaici che tra loro presentavano affinità di derivazione essenica o asidea, ma anche divergenze maturate da scismi più o meno traumatici. Certo se pensiamo ad un’unica setta dobbiamo porci la domanda: fino a che punto erano tollerabili le divaricazioni dottrinali al suo interno? Ma su questo punto torneremo a breve.(48) 1.9. Gli Inni e i commenti biblici Di particolare rilevanza è il testo degli Inni (1QH, ove H sta per hodajot = inni), la cui paternità è stata oggetto di numerose discussioni. Si tratta di inni di ringraziamento, scritti in prima persona, in funzione liturgica, e sistematicamente introdotti dalla formula «ti ringrazio Adonai». In generale gli studiosi di matrice cristiana tendono a sottovalutare il loro legame con il maestro di giustizia e tendono ad interpretare il soggetto ‘io’ non come un soggetto individuale ma come un soggetto collettivo, identificabile con la stessa comunità qumraniana. Ma anche se si tiene conto di questo tratto caratteristico del mondo ebraico per il quale l’individuo si assimila alla collettività, non si può prescindere dal fatto che il soggetto individuale degli Inni è comunque il maestro di giustizia; è lui che si identifica con l’intera comunità ebraica o essenica. Egli legge la propria storia personale in sintonia con la storia di Israele; le sue sofferenze personali sono le sofferenze del suo popolo; le alterne vicende di perdizione e di salvezza, di allontanamento dal patto e di ritorno ad esso, l’irrisione e la vergogna subita, la desolazione, l’angoscia, le persecuzioni sono le stesse che si ripetono nella (48) Cfr. infra, pt. II, par. 2.1.
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storia personale e in quella collettiva.(49) Anche in Cristo c’è questa identificazione del soggetto individuale con la collettività. La differenza sta nel fatto che nel maestro di giustizia la collettività è quella ristretta di un piccolo gruppo settario isolato nel deserto, in Cristo la collettività è quella universale dell’umanità intera. Gli esegeti credenti insistono sulle differenze per salvaguardare l’originalità del cristianesimo, ma nel contempo sottovalutano le affinità. Considerate nella loro fisionomia definita, non v’è dubbio che le differenze sono rilevanti: il maestro di giustizia non è ancora il messia. Ma presi nel loro processo evolutivo l’uno prepara l’altro. Il maestro di giustizia o chiunque sia il soggetto degli Inni è un servo sofferente, virgulto davidico, promessa di salvezza, profeta mediatore. Si può forse dubitare che l’intera produzione poetica degli Inni sia riconducibile ad un’unica persona e si può supporre che qualche inno sia attribuibile ad una o a più personalità posteriori al maestro di giustizia, ma non si può forzare troppo la mano in questa direzione, perché nel complesso quei componimenti appaiono molto compatti tanto sul piano stilistico quanto su quello contenutistico. Sicché, per quanto ci si sforzi a congetturare in direzione opposta, la soluzione più semplice e più ragionevole è che il loro autore sia lo stesso maestro di giustizia. Il Dio degli Inni è caratterizzato dalla collera, dalla vendetta,(50) dalla potenza, dalla sapienza, dalla verità («Tu sei un Dio di verità», 1QH, xv, 25), dall’eternità e dall’onniveggenza (quest’ultimo carattere non è sempre presente nei testi veterotestamentari), ma anche dalla misericordia e dall’amore. Negli Inni si parla di «moltitudine delle tue misericordie»; di «abbondanza delle tue misericordie», e, poco più oltre, di «Dio delle misericordie e della grazia».(51) Questa espressione è ignota all’AT, ma richiama alla mente il «padre delle misericordie» (ὁ πατὴρ τῶν οἰκτιρμῶν) di Paolo (2Cor, i, 3). La salvezza e la giustificazione dell’uomo sono nelle mani della misericordia divina: «È solo per opera della tua bontà che l’uomo è giustificato, nell’abbondanza delle tue misericordie lo salverai, lo glorificherai nel tuo splendore e lo farai dominare sull’abbondanza dei piaceri con pace eterna e giorni lunghi» (1QH, xiii, 16-18). Dio crea l’universo e determina secondo tempi stabiliti tutte le cose, comprese le opere dell’uomo; plasma, secondo un piano prov(49) Cfr. in proposito 1QH, v, 9. (50) Dio è «la spada esecutrice della vendetta del patto» (CD, i, 17); «Egli si vendica dei suoi avversari e serba rancore per i suoi nemici» (CD, ix, 5; v. anche Nah, i, 2). (51) 1QH, vii, 30; xv, 16; ix, 8, 29; x, 14, xviii, 14, 25.
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videnziale, ogni anima e ogni spirito; governa gli astri, crea gli spiriti potenti che si identificano con gli «angeli della sua santità» (1QH, i, 11) e regola i venti tempestosi; nulla accade senza il suo volere. Come il Cristo, l’autore degli Inni non è profeta in patria. Infatti, scrive: Tutti i miei vicini e parenti furono allontanati da me, mi ritennero uno strumento inetto. Essi, interpreti di inganno e veggenti di menzogna, hanno escogitato contro di me progetti di Beliar […] hanno trattenuto dagli assetati la bevanda della conoscenza, alla loro sete fecero bere aceto […] si smarriscono con l’ostinazione del loro cuore, ti ricercano negli idoli e ciò che li fa incespicare, la loro iniquità l’hanno posta davanti al loro volto; vengono a ricercarti, seguendo le parole di profeti ingannatori» (1QH, iv, 9-11, 15-16).
Sono versi che rievocano le immagini della crocifissione e i falsi profeti dei Vangeli.(52) L’uomo è totalmente nelle mani di Dio, poiché è una creatura fragile, fatto di argilla, impastata con acqua, privo di intelligenza e di conoscenza, se non è soccorso da Dio: Io non sono che una creatura d’argilla (jēser ha-ḥēmār) e un essere impastato con acqua (mighal ha-maîm)»; «sono una creatura di polvere (jēser he’āfār 1QH, i, 21; xviii, 31); Io sono […] un insieme di ignominia e una fonte di impurità, una fornace di iniquità e un edificio di peccato, uno spirito di errore e perverso […]. Tu sei il Dio delle conoscenze, a te appartengono tutte le opere di giustizia e il segreto della verità.(53)
La conoscenza umana ha la sua origine nella conoscenza o intelligenza divina: (52) Il termine ‘incespicare’ ricorre anche in H, ix, 21. Per i falsi profeti, definiti anche «veggenti di menzogne», cfr. H, iv, 10, 16, 20; xiv, 14. (53) 1QH, i, 21-26. «Creatura d’argilla», «impastato con l’acqua» sono espressioni frequenti negli Inni (cfr. iii, 23-24; iv, 29; ix, 16; x, 3; xi, 3; xii, 32; xiii, 15; xviii, 12, 26); spesso l’uomo è assimilato alla polvere, in espressioni come «edificio di polvere», «ammasso di polvere»; cfr. iii, 21; xv, 21; xviii, 11, 12, 25, 26. Per l’espressione «segreto della verità», cfr. anche v, 27; xi, 4, 9, 12, 16.
498 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini È dalla tua intelligenza che io conosco queste cose (1QH, i, 21). Io che sono saggio, ti conosco, mio Dio […] in virtù del tuo spirito santo hai aperto in me la conoscenza del mistero della tua sapienza, la sorgente della tua potenza e la fonte delle tue benevolenze le hai rivelate secondo l’abbondante benevolenza e lo zelo distruttore farai cessare […] i tempi stabiliti per la desolazione (1QH, xii, 11-17).
Il predeterminismo del piano provvidenziale divino non è solo correlato al determinismo dei cicli astrali e ai loro tempi stabiliti,(54) ma si estende ad ogni aspetto della vita umana e persino all’uso del linguaggio: «Tu hai creato sulla lingua uno spirito, conosci le sue parole e hai stabilito il frutto delle sue labbra prima che vengano all’esistenza. Tu hai disposto le parole su di un righino e l’emissione dello spirito delle labbra su di una misura» (1QH, i, 2829). Ne consegue una visione rigorosamente predestinazionistica. Come da Dio vengono l’intelligenza e la conoscenza, da Dio viene anche la conoscenza del divino: ciascuno conosce Dio in rapporto alla propria intelligenza; è Dio stesso che irrobustisce «lo spirito dell’uomo di fronte ai flagelli» (1QH, i, 31-32). La perdizione e la salvezza sono già disegnate nel progetto creativo, perché nella natura umana è insita la peccaminosità: la creatura d’argilla «è nell’iniquità già dal suo seno materno» (1QH, iv, 29-30). Il che presuppone una doppia predestinazione. L’uomo non è padrone di se stesso e del proprio destino; il destino del giusto o del malvagio dipende dalla elezione divina («Tu solo hai creato il giusto e dal seno lo hai consolidato per il tempo stabilito dal tuo beneplacito […] Tu hai creato gli empi per il tempo stabilito per la tua ira e dal seno li hai messi da parte per il giorno del massacro», 1QH, xv, 14-15, 17). La cartina di tornasole che discrimina l’uno dall’altro è rappresentata dallo stesso maestro di giustizia, che è lo strumento ancipite della elezione divina e del duplice giudizio verso i giusti e gli iniqui. Nel secondo inno, che è tra i più pregnanti dal punto di vista religioso, l’identità del salmista con il maestro di giustizia è manifesta; egli è da un lato colui che smaschera il peccato e dall’altro colui che cura la salvezza dei giusti («Sono diventato una trappola per tutti i trasgressori, ma anche una medicina per tutti coloro che si convertono dall’iniquità», 1QH, ii, 8-9). Questo doppio effetto non può attribuirsi ad un semplice salmista, ma solo ad una figura di rilievo che esercita una funzione salvifica. Non a caso Luca attribuisce al (54) Cfr. in particolare, 1QH, xii, 4-11.
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messia la medesima funzione quando scrive che Cristo è motivo «di caduta e di riscatto» (εἰς πτῶσιν καὶ ἀνάστασιν πολλῶν, Lc, ii, 34); di caduta, sottinteso per i peccatori, e di riscatto per la risurrezione dei giusti. Una probabile allusione alla immortalità dell’anima è presente nel terzo inno, ove l’autore scrive: “Hai posto la mia anima (nèfesh) nello scrigno della vita (serôr ha-ḥaîjim)». Qua e là gli Inni accennano all’immortalità e alla resurrezione. I passi più significativi in proposito sono i seguenti: Hai liberato la mia anima dalla fossa (shahat) e dallo Sheol dell’Abaddon, mi hai tratto su a un’altezza eterna […]. So che c’è una speranza per colui che hai plasmato con la polvere per il convegno eterno. Hai purificato uno spirito perverso da un delitto grande affinché se ne stesse in servizio al suo posto con l’esercito dei santi ed entrasse in comunione con l’assemblea dei figli del cielo (1QH,iii, 19-22). Allora la parola di Dio affretterà il tempo determinato per il giudizio e tutti i suoi figli di verità sorgeranno per sterminare l’empietà e tutti i figli della colpevolezza più non saranno (1QH, vi, 29-30). Hai purificato l’uomo della trasgressione affinché si santifichi per te […] sia unito con i figli della tua verità e abbia la stessa sorte dei tuoi santi, elevando dalla polvere il verme dei mortali per il segreto della tua verità e dallo spirito perverso per la tua conoscenza, affinché se ne stia al posto davanti a te con l’esercito perpetuo e con gli spiriti della conoscenza (1QH, xi, 10-13). Coloro che sono secondo la tua anima staranno ritti al tuo cospetto per sempre (1QH, iv, 21).
Per quanto i testi citati siano troppo vaghi, anche a causa del loro carattere simbolico e fortemente mistico-apocalittico, e sebbene non sia esplicita una vera e propria dottrina dell’immortalità, dell’aldilà e della resurrezione, non v’è dubbio che si tratta di testi che innovano le tradizionali dottrine ebraiche e che abbozzano, sotto l’influenza dell’ellenismo, una vaga prospettiva che va certamente oltre la mera vita terrena che per gli ebrei era invece centrale. Non mancano tuttavia passi che non fanno pensare ad alcuna prospettiva oltremondana. Tale è per esempio l’inno 23: Sono stato tratto dalla polvere, con argilla sono stato plasmato per essere una fonte d’impurità e di ignominiosa nudità, un ammasso di polvere, una cosa impastata con l’acqua e dimora di tenebre. V’è un ritorno alla polvere
500 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini per la creatura d’argilla nel periodo determinato della morte, l’essere fatto di polvere ritornerà là donde fu tratto (1QH, xii, 24-27).
Qui non sembra esserci l’idea della immortalità. E lo stesso accade quando l’autore accenna alla fine dei tempi: i giusti saranno compensati nello splendore della loro gloria e con la promessa, particolarmente cara alle comunità enochiche, di «una nuova creazione» (1QH, xiii, 12); agli iniqui è riservata la totale distruzione; anzi la distruzione riguarderà «tutti i popoli della terra» e si accompagnerà allo «sterminio, nel giudizio», di «tutti coloro che trasgrediscono la tua parola»,(55) i quali, con un’espressione che ricorre anche in Matteo, «digrigneranno i denti».(56) Il tono è comunque apocalittico e catastrofico: Dio tuonerà con il fremito della sua forza […], l’esercito dei cieli farà risuonare la tua voce, vacilleranno e tremeranno le fondamenta eterne, la guerra dei forti del cielo flagellerà il mondo e non cesserà fino a quando la distruzione non avrà piena realizzazione, e non vi sarà più nulla di simile (1QH, iii, 34-36).
Manca tuttavia la prospettiva del dopo giudizio universale. Nell’Inno 21, meditando sulla naturale inclinazione umana al peccato, il maestro di giustizia si dichiara unigenito forse in un’accezione del tutto particolare: «Tormento e dolore – egli scrive – sull’arpa della lamentazione come per ogni lutto per un unigenito, e lamentazione amara fino allo sterminio dell’iniquità» (1QH, xi, 22). Qui probabilmente l’idea dell’unigenitura è strettamente connessa alla meditazione sulla universalità e generalità del male; egli si scopre unigenito in quanto è il solo a cui Dio ha svelato «il segreto della verità» o a cui «fu aperta una sorgente per un lutto pieno di amarezze»; è il solo a cui Dio ha rivelato (1QH, v, 12) la sua salvezza: «Non ci sarà più alcun male, né alcun colpo che mi renda malato: allora canterò sull’arpa le salvezze». In questo senso il concetto di unigenito ha implicazioni messianiche e passa nella più forte accezione dell’unigenito figlio di Dio nel cristianesimo. L’inno secondo è ancor più sorprendente quando l’autore allude a se stesso e al proprio ruolo di mediazione. Da un lato riconosce a se stesso una (55) 1QH, iv, 26-27; v. anche iii, 36; vi, 12. (56) 1QH, i, 39; ii, 11; v. Mt, xxv, 30.
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funzione salvifica di mediazione tra il divino e i giusti («Mi hai posto come un vessillo per gli eletti della giustizia, come un interprete nella conoscenza dei misteri meravigliosi per mettere alla prova coloro che cercano la verità», 1QH, ii, 13), dall’altro si dichiara un servo sofferente: Mi hai posto come un oggetto di vergogna e di irrisione per i traditori, segreto di verità e di intelligenza per quanti camminano sulla via giusta; fui fatto segno alle offese degli empi, oggetto di diffamazione sulle bocche dei violenti […]; io sono diventato oggetto di derisione per i trasgressori, contro di me si agita l’assembramento degli empi, muggiscono come i flutti dei mari, quando le loro onde sono agitate […]; tutti gli uomini della menzogna si scagliavano contro di me come il fragore di una grande moltitudine di acque (1QH,ii, 9-16).(57)
Il maestro di giustizia è un ‘inviato’, o quanto meno è ‘chiamato’; è uno ‘scelto’ da Dio, se non proprio nella veste messianica, di certo in quella del profeta, in cui si manifesta la potenza divina: Tu sei il mio Dio dal giorno della mia nascita e tu giudicherai la mia causa.(58) Poiché tu Dio sei il mio rifugio e la mia fortezza, la rocca della mia forza e la mia cittadella […]. Perché da mio padre tu mi hai conosciuto, dal seno di mia madre mi hai chiamato, dal ventre di mia madre hai provveduto a me (1QH, ix, 28-30).
Egli è nel contempo il profeta che è ‘parola’ di Dio («Hai operato queste cose e le hai poste sulla bocca del tuo servo»; «Io, tuo servo, so che per opera del tuo spirito, che tu mi hai dato, le parole della tua bocca sono verità»;(59) «Una fonte tu hai aperto nella bocca del tuo servo, e sulla sua lingua hai scolpito su misura i tuoi statuti»), e servo di Dio, purificato dal suo «spirito di santità» («Hai infuso il tuo spirito santo sul tuo servo e hai purificato (57) «Oggetto di irrisione e di vergogna» è un’espressione che ricorre in altri inni; cfr. ii, 33-34, ove il maestro si dichiara salvato da Dio («Tu, mio Dio, hai soccorso l’anima dell’umile e del bisognoso dalla mano di colui che è più forte di lui, hai liberato l’anima mia dalla mano dei potenti»), iv, 22-23. (58) 1QH, iv, 4, 8, 23, 28; v, 15; x, 23. (59) 1QH, xi, 331QH, xiii, 18.
502 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini
da ogni iniquità il suo cuore»).(60) Egli è nel contempo tutore e garante del ‘patto’ («Tutti coloro che si orientano verso di me si riuniscono insieme nel tuo patto» (1QH, iv, 24). Dio gli ha rivelato la sua salvezza: Mi hai rivelato la tua salvezza. Poiché nell’angoscia dell’anima mia non mi hai abbandonato, nelle amarezze dell’anima mia hai udito il mio grido d’aiuto e nel mio gemito hai prestato attenzione al grido della mia miseria. Hai liberato l’anima del povero dal serraglio dei leoni […], l’hai fatto entrare (sott. il povero) nel crogiolo per purificarlo come l’oro sotto l’azione del fuoco (1QH,v, 12-13, 16).(61)
Per quanto riguarda il patto, a dispetto delle numerose citazioni, gli Inni non sembrano darci informazioni puntuali né sulla sua natura, né sulla ritualità del suo rinnovamento. In nessun caso il patto è detto ‘nuovo’, ma certo il fatto che esso fosse il cemento che consolidava la collettività essena fa pensare che non si trattasse dell’antico patto mosaico, ma di un patto voluto e promosso da Dio in funzione della salvezza dei giusti. Non a caso l’espressione «entrare nel patto» significa entrare a far parte della comunità. In un sol caso il maestro di giustizia allude al patto come «mio patto» e ciò lascia intendere che la salvezza, che pure è voluta da Dio, passa attraverso la sua persona e attraverso la fede nella sua missione salvifica. Questa accentuazione messianica è forse sottintesa non solo nella espressione «mangiare il mio pane», riferita a quanti entrano nella sua comunità,(62) ma anche nella funzione che egli si attribuisce quale messaggero della buona novella (euangélion εὐαγγέλιον): «Una fonte tu hai aperto nella bocca del tuo servo […] la tua fonte di verità […] affinché sia in conformità della verità, messaggero […] della tua bontà, annunziando la buona novella ai poveri secondo l’abbondanza delle tue misericordie» (1QH, xviii, 10-14). Il tema della sofferenza e della passione del maestro di giustizia è fondamentale negli Inni e ricorre in passi assai pregnanti, richiamando alla mente del lettore la passione del Cristo: (60) 1QH, xviii, 10;xvi, 12;xvii, 26. Per altre citazioni del «servo di Dio», cfr. v, 6, 15, 29; vii, 16; ix, 11; x, 22, 29; xi, 30, 33; xiii, 18; xiv, 8, 25; xvi, 10, 12, 18; xvii, 11, 21, 23, 25, 26). Per altre citazioni dello spirito santo, cfr vii, 6-7; ix, 32; xvii, 26. (61) Analogo concetto è in CD, xx, 3. (62) 1QH, v, 24. Per altre citazioni del patto, cfr. ii, 22, 28; iv, 5, 19, 34, 35, 39; v, 24; vii, 20; x, 30; xiv, 13; xv, 15, 18; xvi, 7; xviii, 24.
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Guerrieri si sono accampati contro di me e mi circondarono con tutte le loro armi da guerra; scagliarono frecce senza rimedio […], mi tesero una rete […]; il mio piede è rimasto fermo sul retto sentiero» (1QH, ii, 25-29). Io fui preso da tremore e da paura, erano spezzate tutte le mie ossa, il mio cuore si scioglieva come cera davanti al fuoco, le mie ginocchia camminavano come acque che scorrono su di un pendio, poiché mi ero ricordato delle mie colpe ed insieme dell’infedeltà dei miei padri […]. A causa della mia trasgressione sono stato abbandonato lungi dal tuo patto […] Ma quando mi ricordai […] dell’abbondanza delle tue misericordie, riacquistai vigore e mi alzai, il mio spirito divenne forte nel suo posto davanti alla afflizione (1QH, iv, 33-36). Mi hanno colpito in strettoie ove non v’era alcun rifugio, e allorché mi inseguivano non c’era alcun luogo di riposo (1QH, v, 30).
La sofferenza è il crogiolo in cui si è plasmata la sua anima: Tu avevi abbandonato l’anima del tuo servo in mezzo a leoni destinati ai figli della colpevolezza, a leoni che spezzano le ossa dei potenti e bevono il sangue dei forti; mi avevi posto in un esilio con molti pescatori che stendono la rete sulla superficie delle acque […] e nel mio cuore hai fortificato il segreto della verità, e di qui venne il patto per coloro che lo ricercano (1QH, v, 6-9). Mi hanno avvolto le onde della morte, sul giaciglio del mio letto, lo Sheol faceva risuonare una lamentazione, la mia anima una voce di pianto […]. Io andavo dalla rovina alla desolazione, dal dolore alla ferita, dalle angosce alle calamità, ma la mia anima meditava sulle tue meraviglie (1QH, ix, 4-7).
Gli Inni insistono sul dolore del maestro di giustizia: un dolore incurabile, una piaga maligna nelle viscere del tuo servo, fino a farne vacillare lo spirito […] mi hanno colpito in strettoie ove non v’era alcun rifugio […] mi avvinsero indignazioni e angosce come le doglie di una partoriente […]. La luce del mio volto si è oscurata da una densa oscurità e il mio splendore si trasformò in caligine […], il mio pane si è mutato in conflitto e la mia bevanda in risse […], fui legato con corde che non si possono spezzare e con catene che non si possono infrangere (1QH, v, 29-38). Il mio cuore è prostrato e geme dentro di me come quello di coloro che discendono nello sheol e con i morti è alla deriva il mio spirito, perché la mia
504 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini vita si avvicinò alla fossa, venne meno l’anima mia, giorno e notte senza riposo (1QH,viii, 28-30).
Naturalmente la sofferenza è connessa alla caduta nel peccato, non solo il peccato personale del maestro di giustizia, ma anche le deviazioni di Israele; ma in essa è anche il presupposto della salvezza: «Tu Dio sei il mio rifugio, e la mia fortezza, la rocca della mia forza e la mia cittadella […], hai provveduto a me […] fin dalla mia giovinezza mi hai illuminato con la sapienza del tuo giudizio» (1QH, ix, 28-31). Qualche perplessità può sorgere sulla identità della partoriente, poiché nel contesto dello stesso Inno, il terzo, si ha l’impressione che debba identificarsi ora con l’intero popolo di Israele (si tenga presente che ‘Israele è nella lingua ebraica femminile) o con la comunità essena, ora con la madre del messia, «il mirabile consigliere con la sua potenza» su cui si precipitano tutti i flutti dei figli della luce, ora con la genitrice del male, colei che «è incinta di una vipera», la quale è preda di «tutti i flutti della fossa» (1QH, iii, 7-8, 9, 12). Dunque il maestro di giustizia non è solo l’interprete della storia del suo popolo o solo il profeta della fine dei tempi, ma è il profeta sofferente che si carica del fardello di tutte le colpevolezze del passato e soffre tutte le sofferenze del suo popolo («Mi ero ricordato delle mie colpe ed insieme dell’infedeltà dei miei padri»); si scopre «in esilio tra un popolo straniero, perché popolo di peccatori, ma è anche «in esilio con molti pescatori» (1QH, iv, 34; v, 5, 8). Egli è a mezza strada tra il profeta antico e il messia; non è più il profeta tradizionale, ma non è ancora il messia. Per quanto si dichiari purificato dallo spirito santo, protetto dalla potenza divina che in lui si manifesta, non è il messia per il semplice fatto che non si dichiara, come il Cristo, «figlio di Dio». Ciò non toglie che negli Inni le suggestioni pre-evangeliche siano moltissime, non solo a livello terminologico e simbolico, ma anche sotto il profilo dei contenuti. Certamente si possono spiegare tali affinità rilevando che spesso esse hanno le loro radici nella letteratura veterotestamentaria e in particolare nei testi isaiani; ma riconoscere ciò significa pensare ad una nuova lettura dei testi antichi, ricca di suggestioni e di simbolismi, spesso in chiave allegorica, del tutto analoga a quella che si riscontra nei Vangeli. Così è per i concetti di virgulto (nēșer)(63) davidico, di agnello, di roccia, di pietra d’angolo e di pietre scelte per la costruzione: (63) Sul virgulto e la pianta o piantagione, cfr. vii, 19; viii, 6, 8. Il virgulto è un concetto messianico (virgulto davidico, piantagione di Dio, in Is, xi, 1; lx, 21; per la piantagione divina, cfr. anche Mt, xv, 13; cfr. anche «virgulto di santità» (viii, 10).
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Farai sorgere un boccio, come un fiore che fiorirà per sempre per sviluppare il virgulto per il fogliame della piantagione eterna […]; io ero come un marinaio su di una nave nella furia del mare, i cui marosi e tutti i flutti scrosciavano contro di me […], l’abisso risuonava alla mia angoscia e mi appressai alle porte della morte […] sei tu che porrai il fondamento sulla roccia(64) […] per controllare le pietre scelte di una costruzione solida […]; allora la spada di Dio affretterà il tempo determinato per il giudizio e tutti i suoi figli di verità sorgeranno per sterminare l’empietà e tutti i figli della colpevolezza più non saranno (1QH, vi, 15-30),
con la certezza che dei figli della verità non ci sarà «né resto né scampo» (1QH, vi, 32). Una più forte suggestione pre-giovannea sta nel fatto che il maestro di giustizia si paragona ad un agnello: «Io tacqui come un agnello» (1QH, vii, 1). Si dirà correttamente che nell’inno l’espressione non ha alcun riferimento al tema della redenzione. Ed ha certamente ragione Moraldi nel sottolineare che le sofferenze del salmista non hanno «il valore redentivo in favore dei persecutori, la cui unica sorte era la distruzione, non la salvezza»,(65) ma non ci si può celare che da un lato anche negli Inni è prevista la santificazione e quindi la redenzione dell’uomo della trasgressione («Hai purificato l’uomo della trasgressione affinché si santifichi per te da ogni abominevole impurità e […] sia unito con i figli della verità», 1QH, xi, 11) e dall’altro un’eco lontana dello stermino e della distruzione degli iniqui si conserva, pur superata, nei testi evangelici. Il ruolo di mediazione del maestro di giustizia nel giudizio universale («Nel giudizio condannerai tutti i miei aggressori, distinguendo per mezzo mio, tra il giusto e l’empio», 1QH, vii, 12) non compare in altri testi qumranici, ma certamente gli conferisce una funzione più prossima al messia. Egli è il padre e il pedagogo della comunità di Qumran, ma non va confuso con il semplice padre spirituale, perché è nello stesso tempo padre e madre da cui si è generata la comunità; è colui che è stato soccorso da Dio e a sua volta soccorre i suoi confratelli: Tu mi hai posto come un padre per i figli della benevolenza, come un pedagogo per gli uomini del presagio. Hanno aperto la bocca come un lattante verso le mammelle della madre, e come un bambino sul seno di coloro che (64) Sulla roccia, cfr. anche iv, 3; vi, 26; vii, 8; xi, 15. Sulla roccia o sulla torre solida, v. vii, 8. (65) L. Moraldi (a c. di), I Manoscritti del Qumran, Torino, Utet, 1971, p. 400, in nota.
506 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini lo nutrono […]; hai soccorso l’anima mia e hai elevato il mio corno in alto: risplenderò in una luce settupla nella luce che tu hai stabilito per la tua gloria (1QH,vii, 20-24).
Il passo sembra essere un’interpretazione di Isaia, ma, poiché si svincola dal confronto astronomico tra la luminosità del sole e della luna, sembra anticipare in qualche modo la trasfigurazione del Cristo (Is, xxx, 26; Mc, ix, 2-8). Non conosciamo i termini della morte del maestro di giustizia, ma è certo che, se si è trattato di una morte violenta, le affinità con il Cristo diventano più pregnanti. I versetti «fino alla canizie tu mi sosterrai, perché mio padre non mi conobbe e mia madre mi abbandonò a te, giacché tu sei padre per tutti i figli della verità» (1QH, ix, 34-35), fanno forse supporre che egli non ebbe una morte prematura. In ogni caso i continui riferimenti alla sofferenza anticipano in qualche modo la passione del Cristo. Cristo soffre perché assume su di sé il dolore di tutta la peccaminosità della natura umana per salvarla dalla perdizione eterna; il maestro di Giustizia assume su di sé la peccaminosità di Israele e giustifica il giudizio che lo condanna: «Voglio dichiarare ingiusti i miei giudici, ma riconoscere la giustizia del tuo giudizio» (1QH, ix, 9). Altri simboli messianici che alludono al maestro di giustizia sono: «sorgente dei ruscelli», «fonte delle acque», «sorgente di vita» (1QH, viii, 4, 12). «Hai posto nella bocca una pioggia autunnale per tutti gli assetati, fonte di acqua viva» (1QH, viii, 16). Anche Gesù si paragona all’acqua viva (Gv, iv, 10; vii, 37-38). Per l’autore degli Inni la fruttificazione e l’inaridimento della piantagione (1QH, viii, 20-25) (intendi la comunità essenica) è nelle mani del maestro di giustizia: la piantagione fruttifera crescerà […] eterna […]. Per mano mia hai aperto la loro sorgente con i corsi d’acqua […] e la piantagione dei loro alberi […] non si secchi mai […]. Ma se ritraggo la mia mano diventerà come un cespuglio nella steppa […] e tutti gli alberi dell’argine saranno cambiati in alberi dai frutti selvatici.
Ed è come una sorta di parabola che ricorda quella evangelica del fico secco. Un altro tema che accosta l’essenismo al cristianesimo è quello della persecuzione sebbene sia per lo più riferito ai figli dell’iniquità che sono destinati ad essere esposti ai leoni. In realtà in tutti i testi intertestamentari, dai ma-
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noscritti del Qumran a quelli evangelici, la passione e la persecuzione sono topoi letterari. Nel noto passo del secondo libro della Repubblica Platone(66) aveva alle spalle il ricordo della tragica fine del maestro; nella successiva produzione salmistica, soprattutto quella del Trito-Isaia, si sviluppa in forma iperbolica il mito della passione del messia e di tutti i giusti che se ne fanno imitatori. Si direbbe anzi che diventa impensabile la figura di un messia senza l’abituale corredo della passione e quella dei martiri senza l’abituale corredo delle persecuzioni. Per un verso si può dire che la passione del profeta è la passione del popolo di Israele, per l’altro si può dire che la passione e la sofferenza del popolo non può non esprimersi se non nella passione e nella sofferenza del messia. 1.10. Il rotolo dei Salmi e il Commento ad Habacuc Gli esseni conservano il mito davidico come dimostrano le frequenti citazioni dell’antico sovrano e la presenza di specifici testi a lui dedicati nel rotolo dei salmi (11QPsa, xxvii e xxviii). Il Salmo xxviii assume un particolare rilievo perché sembra attestare suggestioni provenienti dall’orfismo, che, come hanno dimostrato taluni studiosi,(67) esercitò un notevole fascino sugli ebrei e sui primi cristiani. La figura di Orfeo, soprattutto nelle vesti del buon pastore, è facilmente assimilata a quella di David. Il passo del Salmo xxviii è il seguente: Ero il più piccolo dei miei fratelli e il più giovane dei figli di mio padre, egli mi stabilì pastore del suo gregge e capo dei suoi capretti. Le mie mani fecero uno zufolo e le mie dita una chitarra, e resi gloria a Yhwh. Nel mio animo pensai: le montagne non gli rendono testimonianza e le colline non lo proclamano! Gli alberi trasportarono in alto le mie parole e il gregge le mie opere (11QPsa, xxviii, 1-4).
(66) Platone, Rep., ii, 361e-362a. (67) H. Leclerq, Orphée, in F. Cabrol, Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie, Paris, Letouzey, 1935, t. xii, pp. 2735-2755; M.-J. Lagrange, Les mystères. L’orphisme, Paris, Lecoffre, 1937; E. R. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period, New York, Pantheon Books, 1853-1964; J.-P. Audet, La Didaché: instructions des apôtres, Paris, Gabalda, 1958, pp. 417-428.
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Si tratta di un salmo messianico, mosso dalla fede nel ritorno del regno di Davide: «Il Dio dell’universo […] ha mandato il profeta per ungermi […] e mi unse con l’olio santo, mi ha stabilito preposto sul suo popolo e capo tra i figli del suo patto» (11QPsa, xxviii, 6-10). I commenti biblici, diffusi presso gli esseni, seguono il metodo esegetico comunemente detto del pēsher. L’interpretazione è quasi sempre di carattere simbolico o allegorico, nel tentativo di cogliere lo spirito più profondo e nascosto nel brano preso in esame; l’interprete è convinto che la verità del futuro è velata nei testi degli antichi profeti. Dio stesso si serve dell’opera dei profeti per predire il futuro. Ma il futuro predetto dal profeta non è altro che il presente dell’interprete. Da ciò l’attenta esegesi essenica dei testi profetici, poiché sono testi in cui Dio ha parlato nel passato, ma in riferimento al tempo del presente. Con lo stesso procedimento metodologico gli autori dei vangeli costruiscono le linee essenziali della biografia del Cristo. Un esempio ci è dato anche dalla lettura essenica della profezia di Nahum, con la quale era riferita alla comunità del Qumran ciò che nell’antico profeta si riferiva a Ninive. Nello studio esegetico dei testi la rivelazione non è definita una volta per tutte, ma è una rivelazione progressiva. Gli esseni sono convinti di vivere nell’imminenza della fine dei tempi; ciò spiega il carattere escatologico e insieme apocalittico dei loro testi. E questa vocazione escatologica ed apocalittica è la stessa che è presente nel cristianesimo primitivo. L’intento è quello di rivelare attraverso il passo scelto i misteri e i segreti della sapienza divina. È lo stesso metodo che Filone attribuisce alla setta dei terapeuti nel De vita contemplativa. Di particolare importanza è il Commento al Salmo xxxvii (4Q171), in cui il maestro di giustizia si configura fin da subito come l’eletto cui è affidata l’assemblea dei qumraniani nell’imminenza della fine dei tempi, la quale cadrà sull’ultima generazione al termine dei quarant’anni (durata di una generazione). A quel punto avranno fine tutte «le abominazioni della carne» e «tutte le insidie di Beliar»; coloro che costituiscono l’assemblea dei poveri (‘ebjônim) e degli umili (‘anawîm), «tutti gli abitanti della terra godranno» (4Q171, i, 9-10). L’oggetto e i contorni di tale godimento, certamente di carattere spirituale, restano indefiniti. Si dice semplicemente che «i convertiti del deserto vivranno mille generazioni nella rettitudine e sarà loro tutta l’eredità di Adamo e della loro prosperità in perpetuo, in eterno» (4Q171, ii, 26 - iii, 1). Esplicita è la citazione del maestro di giustizia come «sacerdote che Dio scelse per stare al suo cospetto, giacché lo irrobustì affinché gli
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edificasse un’assemblea […] e al quale spianò la via verso la verità» (4Q171, i, 9-10). Ne deriva che il maestro di giustizia è un sacerdote eletto da Dio, fondatore della comunità del deserto e profeta della verità consegnatagli da Dio. Se il «giusto» si identifica con il maestro di giustizia, il commento ci dà ulteriori informazioni sulla sua vita e ci fa sapere che «il sacerdote empio che spia il giusto e cerca di ucciderlo, violando la giustizia e la legge, stese la mano verso di lui. Ma Dio non lascerà impunito il sangue da lui versato» (4Q171, iv, 8-10). Se ne deduce che il maestro di giustizia è stato tratto in giudizio ed è stato condannato a morte. Per la sua pregnanza religiosa il passo è fortemente contestato, ma al di là di ogni possibile ricostruzione ermeneutica, non si può nascondere che esso fa riferimento alla fine tragica del maestro di giustizia. Il Commento ad Isaia (4Q162) presenta Israele con la metafora o il simbolismo della vigna (che avrà tanta fortuna nei testi evangelici) e lascia indefinita «la visita» della fine dei giorni (4Q162, ii, 2). Ma nei testi qumranici è sempre scontato che «la visita» è «divina». In 4Q161, frammenti 8, 9, 10, il virgulto di cui si parla in Isaia è interpretato in riferimento al messia davidico, forse laico, ma si pensi che in altri testi era stato dato come sacerdote, il quale verrà alla fine dei giorni, condurrà una guerra di liberazione che è anche una guerra di predominio, poiché il rampollo di David dominerà e giudicherà tutti i popoli; è il folle sogno di Israele di ricostituire una monarchia universale che segnerà il proprio dominio su tutti popoli. Il passo più emblematico del Commento a Nahum (4Q169, i, 6-8) si riferisce «al lioncello furioso (probabilmente Alessandro Ianneo) (che esercita la) vendetta su coloro che inseguono leggerezze menzognere (intendi i farisei) verso colui che appende uomini vivi (intendi: che ha introdotto l’uso della crocifissione) […]. Il che prima non avveniva in Israele, giacché di colui che è appeso vivo nel legno (intendi il maestro di giustizia) proclama: ‘Eccomi a te! Oracolo di Yhwh degli eserciti’». L’identificazione del condannato alla crocifissione è pregiudizialmente respinta dal Moraldi(68) senza alcuna motivazione e giustificazione, qualificando, come pura e semplice congettura imbastita su ipotesi e fantasie, la proposta di Dupont-Sommer.(69) Il dualismo sacerdote empio e maestro di giustizia ricompare nel Commento ad Habacuc (1QpAb), nel quale è introdotto anche il concetto di nuovo patto (1QpAb, ii, 3). Vi si (68) L. Morandi, I Manoscritti di Qumran, cit., p. 548. (69) A. Dupont-Sommer, Le maître di justice fut-il mis à mort?, in «Vetus Testamentum», i, 1951, pp. 200-215.
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parla delle cose che accadranno all’ultima generazione e che saranno rivelate per bocca del sacerdote nel cuore del quale Dio ha posto l’intelligenza per interpretare tutte le parole dei suoi servi, i profeti, per mezzo dei quali ha annunziato tutte le cose che accadranno al suo popolo e sulla terra» (1QpAb, ii, 7-10). In questo testo l’identificazione dei Kittîm con i Romani appare più manifesta. «Dio non annienterà il suo popolo per mano delle nazioni, ma per mano del suo eletto farà giustizia di tutte le nazioni» (1QpAb, v, 3-4). La dimensione messianica è politica. Al maestro di giustizia «Dio ha fatto conoscere tutti i misteri delle parole dei suoi servi, i profeti» (1QpAb, vii, 3-4). La salvezza è sempre e comunque limitata al popolo ebraico ovvero «alla casa di Giuda» che «Dio libererà dalla casa del giudizio a motivo della loro afflizione e della loro fede nel maestro di giustizia» (1QpAb, viii, 1-3). Fermo restando l’orizzonte asfittico del nazionalismo, qui sono indicate due prerogative della salvezza nella afflizione e nel tormento per i propri peccati e nella fede verso il maestro, proprio come accade per i primi cristiani. Nel Commento ad Habacuc ritorna il tema della persecuzione del maestro di giustizia, pur nel contesto di un brano in parte lacunoso: «Il sacerdote che si è ribellato ha violato gli statuti di Dio ed ha perseguitato il maestro di giustizia. Essi si sono accaniti contro di lui per colpirlo con giudizi di empietà e orribili infermità; i malvagi operarono contro di lui, orrore e vendette contro il suo corpo di carne»;(70) «il vaticinatore di menzogna», che ha edificato «un’assemblea nell’inganno», ha condannato molti «al giudizio del fuoco per aver insultato e oltraggiato l’eletto di Dio»). Più avanti il dato diventa storicamente più accettabile: Il sacerdote empio ha perseguitato il maestro di giustizia, inghiottendolo nell’irritazione della sua collera; nella casa del suo esilio (intendi il deserto del Qumran) e al tempo della festa del riposo, nel giorno dell’espiazione, egli apparve loro per inghiottirli e per rovesciarli nel giorno del digiuno, nel sabato del loro riposo (1QpAb, xi, 4-8).
Il giorno dell’espiazione (Yom Kippur) cade il decimo giorno del mese di tishri (corrispondente a settembre/ottobre). «In Gerusalemme il sacerdote empio ha compiuto azioni abominevoli e ha contaminato il santuario di Dio» (1QpAb, xii, 7-8). Singolare documento è poi l’oroscopo ii del rampollo davidico (4Q186), identificato sempre negli altri testi con il maestro di giustizia. (70) 1QpAb, viii, 16 - ix, 2; ma v. anche ix, 9-12; e x, 9-13.
II.1 La comunità degli esseni nel Qumran
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1.11. Il Documento di Damasco Un testo che ci permette di gettare un’ulteriore luce sull’oscura figura del maestro di giustizia è certamente il noto Documento di Damasco, in parte venuto alla luce nel 1896 nella ghenizah della sinagoga di Ezra del Cairo e perciò siglato CD = Cairo Document. Si tratta di un testo composito, consistente di due manoscritti A e B, in cui sono fatti confluire almeno sette materiali di diversa natura: un’ampia introduzione di carattere storico (i, 1 - vi, 1), una digressione sulla comunità del nuovo patto (vi, 2 - viii, 21), una sezione giuridica (ix, 1 - x, 10), un excursus sulle norme di purificazione (x, 10 - xii, 18), una rielaborazione delle regole organizzative della comunità (xii, 19 - xiv, 17) e una regolamentazione del giuramento (xv, 1 - xvi, 19). Il testo si chiude con il manoscritto B (xix-xx) che riproduce parzialmente le colonne vii-viii del manoscritto A. Tale numerazione, introdotta da Shechter,(71) pur essendo ingiustificata per l’assenza delle colonne xvii-xviii, si è ormai imposta per essere accolta in tutte le edizioni del documento. Difficilmente i materiali citati sono riconducibili per ragioni stilistiche ad un unico autore. L’introduzione storica è scritta in prima persona ed ha un tono mistico-apocalittico; lo stile della sezione giuridica è piuttosto asciutto e arido e ridiventa vivo e appassionato nel manoscritto B. Non è improbabile che l’autore di alcune sezioni possa essere il maestro di giustizia; escludo che gli si possa attribuire la paternità di tutto il manoscritto, per il semplice fatto che nel testo si fa cenno alla sua morte. La sezione storica non va interpretata secondo i canoni della storiografia greca o romana, perché la storia per la cultura giudaica è solo in parte una registrazione di eventi o rammemorazione di fatti realmente accaduti, ma è soprattutto la lettura etico-teologica non tanto di un passato morto, quanto di un passato che si ripete, come si ripete sotto il profilo morale l’alterno avvicendarsi della caduta nel peccato e della sua redenzione o del suo riscatto, o, se si vuole, il ciclico alternarsi degli interventi punitivo-vendicativi o misericordioso-redentivi di Dio. Sicché gli eventi del passato si confondono con quelli presenti, perché ne sono in qualche modo la premonizione. La schia(71) S. Schechter, Documents of Jewish Sectaries, vol. i: Fragments of a Zadokite Work, Edited from Hebrew Manuscripts in the Cairo Genizah Collection Now in the Possession of the University Library, Cambridge, and Provided with an English Translation, Introduction and Notes, Cambridge, University Press, 1910.
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vitù babilonese non è un episodio storico chiuso e irripetibile, ma è la testimonianza di ciò che può causare l’ira divina ed è perciò stesso una minaccia per il presente o per il futuro. La profanazione e la distruzione del tempio non sono episodi circoscritti della sconfitta subita da parte degli Assiri, ma sono pericoli imminenti soprattutto se letti nell’ottica etica di condanna della condotta del sacerdote o dei sacerdoti empi. Più che di una storia, si tratta di un canovaccio già prefissato, di una sorta di schema interpretativo precostituito che si può applicare al presente e al passato. In ciò ha il suo fondamento la lettura allegorica o tipologica dei testi veterotestamentari. In essi ci sono già tutti i segnali per leggere il presente; perciò la sezione storica del Documento di Damasco è ricca di simboli, di rinvii biblici, di allegorismi, di un continuo scandaglio dei testi profetici, perché Dio svelò ai profeti «le cose nascoste» e perché il futuro da essi predetto è fatto coincidere con il presente dello storico. Ma proprio per questo sarebbe ingenuo prendere per oro colato qualsiasi dato suggerito anche quando sembra fornire indicazioni puntuali sotto il profilo cronologico. Tale è il caso della cronologia proposta nella prima sezione ove l’avvento del Maestro di giustizia è fatto rientrare nel piano provvidenziale di Dio. Il testo vuole che dalla distruzione del tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor (587 a.C.), allorché si scatenò la collera divina («il tempo della collera», cioè della schiavitù babilonese),(72) Dio preservò dalla devastazione «il resto di Israele» (riferito per lo più alle tribù di Levi, di Giuda e di Beniamino, le quali sopravvivono alle altre nove ormai scomparse) dopo 390 anni, cioè nel 197 a.C. (587-390 = 197). Dio visitò (le visite di Dio preludono al concetto cristiano di parousia) Israele e la sua terra e «fece germogliare la radice di una pianta». Per altri vent’anni gli ebrei «erano stati come ciechi e come coloro che cercano la strada a tastoni», allorché Dio «suscitò per loro un maestro di giustizia per guidarli sulla via del suo cuore e per far conoscere alle ultime generazioni ciò che ha fatto(73) (72) Per altri riferimenti al «tempo della collera» di Dio, cfr. CD, iii, 8; viii, 13; xx, 16. (73) Il verbo «ha fatto» è un perfetto profetico che dà il futuro come cosa compiuta, per il fatto che quel futuro è il presente dell’autore; esso è comunque riferito al tempo dell’«assemblea dei traditori». Se quest’ultimo tempo coincide con il sacerdozio asmoneo (140-37), la datazione del CD potrebbe abbassarsi fino al 37 a.C. L’espressione «costoro [verosimilmente gli asmonei] hanno deviato dalla via» (CD, i, 13) farebbe pensare ad un processo storico concluso, anche perché nel contesto si descrivono in dettaglio i tratti della loro deviazione («essi hanno inseguito cose ingannevoli e scelto illusioni, verniciato le brecce […], dichiarato giusto l’empio e dichiarato empio il giusto […], trasgredito il patto, attentato alla vita del giusto; e la loro anima detestò tutti coloro che cammina-
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all’ultima, all’assemblea dei traditori». Quindi il maestro di giustizia sarebbe nato nel 177 (197-20). Supponendo arbitrariamente che egli sia vissuto intorno ai 50 o 60 anni, la sua morte dovrebbe essere caduta verso il 117 all’epoca di Giovanni Ircano I (134-104 a.C.). Nel Capitolo xx si aggiunge che «dal giorno in cui fu tolto il maestro unico fino alla soppressione di tutti gli uomini di guerra, ritornati con l’uomo di menzogna, ci saranno quarant’anni» (CD, xx, 13-15). Il futuro ‘saranno’ fa pensare che il Documento sia stato compilato prima dell’arrivo di Pompeo a Gerusalemme (63 a.C.), ma «la soppressione di tutti gli uomini di guerra» induce a credere che esso sia posteriore all’occupazione di Pompeo. Tuttavia si tratta, come si diceva, di cifre simboliche. I 390 anni corrispondono agli anni della colpa della casa di Israele, di cui parla Ezechiele: «Io ti assegno gli anni della loro colpa in giorni; per trecentonovanta giorni porterai la colpa della casa di Israele […] un giorno per ogni anno» (Ez, iv, 5-6). I quarant’anni sono chiaramente simbolo della peregrinazione nel deserto e per questo ricorrono frequentemente nell’AT. Non abbiamo ulteriori elementi sulla vita del maestro o meglio abbiamo notizie molto vaghe e imprecise; possiamo forse parlare di una sua «passione» che richiama alla mente quella del Cristo. Certamente la redenzione e il riscatto di Israele sono affidati da Dio ad un unto dello spirito divino di santità, accompagnato dai «veggenti della verità». Il maldestro tentativo di taluni interpreti di pluralizzare il numero dei maestri di giustizia in modo da stabilire più manifeste divergenze con i testi evangelici, sono falsificanti e vani perché non si può disconoscere che, pur tra le divergenze, le tematiche del cristianesimo sono in qualche modo anticipate nella teologia essena. Non è chiaro se il maestro di giustizia si identifichi o si distingua dal «bastone» (mehôqeq), che è «l’interprete della legge» (dôresh ha-tôrah).(74) Soprattutto non è chiaro se il maestro di giustizia appartiene al passato o al futuro. Da una parte si parla di lui come personalità estinta, dall’altra se ne parla come colui che verrà alla fine dei giorni.(75)È possibile che in queste battute del DC siano preannunciate due parousie, quella di Dio e quella del maestro di giustizia? Nella gran parte dei testi qumranici la parousia è sempre riferita a Dio no nella perfezione», CD, i, 18-21). Il che induce ad ipotizzare una data posteriore al 37 a.C., tanto più che «la spada esecutrice della vendetta del patto» potrebbe avere come referente Pompeo. (74) CD, vi, 7. (75) CD, xxix, 35 -xx, 1; xx, 12; CD, vi, 10-11.
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e alla fine dei giorni (1QS, iv, 26); così è nello stesso Documento di Damasco: tutti coloro che non sono nel patto riceveranno «la retribuzione degli empi allorché Dio visiterà la terra» e il suo furore si spanderà sui principi di Giuda che non si sono allontanati dalla via dei traditori (CD, vii, 9; viii, 3). Il che conferma che gli esseni si costituirono in opposizione al tempio di Gerusalemme. Nel capitolo vii sembra che le visite divine siano due (CD, vii, 21). La prima di esse si riferisce al tempo in cui gli ebrei furono contrassegnati con un tau sulla fronte (CD, xix, 11). Molto probabilmente i passi citati vanno interpretati nel senso che alla fine dei tempi ci sarà l’avvento tanto di Dio quanto del messia. La stessa ambiguità si coglie nei testi evangelici. Anche il rapporto tra la comunità essenica e il maestro di giustizia è sfumato, poiché il testo a volte pone l’esistenza della comunità come anteriore a quella del maestro e a volte sembra far pensare che egli ne sia stato il fondatore. Per il capitolo iii l’istituzione della comunità è di origine divina («Dio cancellò la loro [dei trasgressori] iniquità […] ed edificò per essi una casa sicura in Israele, quale prima non era mai esistita fino al ora», CD, iii, 18-21, ove evidentemente l’autore del testo si pone a notevole distanza temporale dall’evento) e non è collegata alla figura del legislatore. Ma ne è configurata la composizione sacerdotale negli «antenati santi», ovvero nei sacerdoti aronniti, nei leviti e nei sadociti, «eletti di Israele» (CD, iv, 1-6). Essi hanno ripristinato i valori etici, perché hanno dichiarato empio l’empio e giusto il giusto, ed hanno aperto la strada a tutti coloro che sono entrati nel patto. La fondazione della comunità è spiegata nel Documento in questi termini: Dio si è ricordato del patto con gli antenati ed ha suscitato da Aronne uomini intelligenti e da Israele persone sagge: «fece udire loro la sua voce ed essi hanno scavato il pozzo […] Il pozzo è la legge e quelli che l’hanno scavato sono i convertiti d’Israele, coloro che sono usciti dalla terra di Giuda e si sono esiliati nella terra di Damasco» (CD, vi, 2-5). La gran parte degli studiosi identifica la «terra di Damasco» con la regione desertica del Qumran che a quell’epoca era sotto la dominazione dei Nabatei.(76) Ma c’è un simbolismo intriso di misticismo nel concetto di «terra di Damasco» e di «nuovo patto», preannunciato da Geremia («imprimerò la mia legge nelle loro viscere, la scriverò nei loro cuori, io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo»).(77) C’è anche ambiguità nello stesso concetto di ‘patto’ (berît), perché ha la duplice valenza di «patto» antico stipulato da Mosè sul Sinai e insieme di (76) I nabatei non sono anteriori all’viii secolo. (77) Jr, xxxi, 31-33; ma v. anche Ez, xi, 17-20 e xxxvi, 24-28.
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«nuovo patto», «nuova alleanza», che è la formula frequentata sia dal NT,(78) sia dai qumranici come prova il Commento ad Habacuc.(79) La celebrazione del rinnovamento del patto nel giorno della pentecoste, di cui alla Regola della comunità (1QS, i, 16 - iii, 12), non è ancora la nuova alleanza proclamata nel NT, ma è piuttosto il rinnovamento del patto mosaico. Anche nel Documento di Damasco il nuovo patto sembra essere il rinnovamento dei precetti mosaici, perché i nobili del popolo hanno «scavato il pozzo per mezzo dei precetti che ha prescritto il legislatore […] affinché camminino in essi per tutto il tempo dell’empietà fino all’avvento del maestro di giustizia alla fine dei giorni».(80) Il patto non è uno stravolgimento del giudaismo anche se è collegato al maestro di giustizia, che è lo strumento scelto da Dio «per la sua opera» (CD, vi, 8). Lo stesso accade nei Vangeli ove il nuovo patto non è uno sconvolgimento del vecchio, poiché Cristo dice: «non sono venuto a demolire la legge, ma a completarla». Il patto introduce una discriminante tra coloro che vi aderiscono e coloro che ne stanno fuori: i primi sono i puri o purificati, santi e perfetti, i secondi sono gli impuri, trasgressori e menzogneri, figli della fossa, facili prede delle tre reti di Beliar (cioè la lussuria, la ricchezza e la contaminazione del tempio, CD, iv, 17-18). Il discrimine è la fede nel patto, che evidentemente coincide con la fede nel maestro di giustizia come accade nei Vangeli a proposito della fede in Cristo. Il nuovo patto esseno comporta l’osservanza del digiuno; prevede che ognuno ami il proprio fratello come sé stesso, sostenga la mano del povero, si preservi dalla lussuria, non serbi rancore, si astenga da tutte le impurità e non contamini il proprio spirito santo o la propria santità (CD, vi, 19; vii, 1-4). Sono escluse dal patto le persone stupide, sciocche, folli, dementi, cieche e storpie, zoppe, sorde e i minorenni. La medesima esclusione è prevista nella Regola (CD, xv, 17; 1QS, ii, 5.). Paradossalmente anche l’opposizione di Cristo a tali prescrizioni è indicativa di una evoluzione dall’essenismo al cristianesimo (cfr. Lc, xiv, 21). Coloro che si sono allontanati dal patto non hanno più titolo ad essere registrati nel popolo esseno dal giorno della morte dell’‘unico’ maestro di giustizia fino all’avvento del messia di Aronne e di Israele.(81)
(78) v. Lc, xxii, 20; 1Cor, xi, 25; Ebr,viii, 8-12. (79) Commento ad Habacuc, 1QpAb, ii, 3-4. (80) CD, vi, 8-11. Per altre citazioni del patto, cfr. CD, i, 4; ii, 2; iii, 13; iv, 9; vi, 11; vii, 5; viii, 21; xiv, 2; xv, 1; xix, 13, 14, 17, 33; xx, 12, 29; cfr. anche 1QS, v, 9. (81) CD, xix, 33 - xx, 1;xx, 12.
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1.12. Conclusione Quali che siano le discrepanze che emergono tra i vari testi qumranici, non v’è dubbio che la loro sostanziale corrispondenza con le fonti storiche, come Filone, Giuseppe Flavio e Plinio, è difficilmente contestabile. I testi mettono a nudo un mondo giudaico in profondo fermento, disperatamente attaccato, nel drammatico confronto con il mondo ellenico, alla difesa ad oltranza della propria identità tradizionale. Nel contempo essi conservano tracce delle diverse posizioni e soluzioni, spesso in conflitto tra loro, di scismi e divisioni più o meno traumatiche all’interno del giudaismo, di tensioni più o meno accentuate nei confronti con gli altri gruppi giudaici. Le numerose discrepanze che abbiamo spesso segnalato sono rivelative di questa fortissima fermentazione all’interno del medio giudaismo e possono trovare spiegazione sia sotto il profilo spaziale di una differenziazione geografica sia sotto quello temporale di un processo evolutivo. Probabilmente le comunità ebraiche, che tra il primo secolo a.C. e il primo d.C. erano dislocate nell’arco orientale del Mediterraneo, dall’Egitto alla Palestina alla Siria e all’Anatolia, si opposero all’invadenza della cultura greco-romana, interpretarono secondo la propria peculiarità specifica i termini della questione. I terapeuti di Egitto ne sono un esempio. I qumraniani, che siano riconducibili ad un’unica setta o a più gruppi settari, ne sono un altro esempio. Non sappiamo quali furono le scelte dottrinali delle altre comunità di ebrei della diaspora sparsi nella Siria e nell’Anatolia. Di certo, laddove la presenza ebraica era tanto forte da potersi contrapporre al predominio greco-romano, il richiamo alle antiche tradizioni doveva essere irresistibile. In altri termini i manoscritti del Mar Morto, svelandoci la tormentata vita intellettuale degli ebrei di Palestina, ci discopre il più vasto orizzonte della crisi spirituale che nel medio giudaismo prepara la strada, su versanti opposti, al rabbinismo e al cristianesimo. Ed in effetti i rotoli del Mar Morto ci inducono a rappresentarci il mondo essenico non come un gruppo compatto e statico, ma come un movimento articolato, al cui interno sussistevano componenti diverse, con posizioni divergenti su singoli punti dottrinali e su aspetti organizzativi. Il gruppo qumranico perseguì con più rigore il principio della separatezza e forse anche del divieto del matrimonio, mentre le comunità allocate nelle città,(82) prevalentemente della Palestina e della Grecia, ma anche dell’Egitto, come è il caso dei te(82) Non a caso CD, xi, 19 disciplina «la regola di abitazione per le città di Israele».
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rapeuti, vivevano la separatezza in una forma più simbolica e mitigavano i divieti di contrarre il matrimonio e di mantenere la proprietà privata. Anche queste mitigazioni inducono a pensare ad un processo evolutivo che sfocia gradatamente nel cristianesimo. Più difficile è stabilire quale sia stato il rapporto tra l’essenismo e lo zelotismo. Ma non v’è dubbio che i testi del Qumran fanno pensare ad una contiguità tra i due movimenti. Forse la loro vicinanza fu più pronunciata nei momenti di particolare drammaticità nello scontro con i Romani, come sembra si debba dedurre dalla narrazione di Giuseppe Flavio. In ogni caso è difficile credere che un testo come la Regola della Guerra, così fortemente attento agli aspetti militari, possa essere interpretato esclusivamente nei termini spirituali di un conflitto tra il bene e il male. Si può invece supporre che, dopo la distruzione del tempio e per effetto della successiva diaspora, le comunità esseniche si siano disperse nella regione siriano-anatolica e, entrando in più diretto contatto con l’ellenismo, ne abbiano subito l’influenza. Il fascino dei culti misterici, eleusini, orfici, isiaci e mitraici devono aver influito non poco sul loro orizzonte culturale e dottrinale. Ed è verosimile che, per via di questi contatti, talune comunità esseniche, pur conservando la loro originaria struttura amministrativa e didattico-pedagogica, fondata sulla lettura dei libri sacri, abbiano maturato una più profonda riflessione su temi etici, teologici, escatologici e apocalittici, come la concezione dell’anima e dell’oltretomba, la resurrezione e l’immortalità, l’idea della salvezza legata al dio che muore e risuscita, una diversa concezione del maestro di giustizia e del messia, con un più forte accento sul suo carattere messianico e divino. Un processo, questo, che probabilmente era già stato avviato in talune frange dell’essenismo sotto l’influenza della letteratura enochica, che, come sappiamo, era ampiamente presente nell’area di Qumran. Ritornerò nel prossimo capitolo su questo punto fondamentale; per ora mi preme sottolineare che l’impatto con il mondo ellenico non poté non portare ad una revisione di concetti chiave come il ‘nuovo patto’, ‘messia’, ‘passione’, i quali quanto meno assunsero inevitabilmente un respiro universalistico. Per ragioni storiche questi nuovi fermenti culturali debbono ritenersi posteriori alla distruzione del tempio ed esterni alla Palestina e al deserto del Qumran. Ciò spiega come la loro progressiva differenziazione dall’essenismo originario sfugga persino ad un intellettuale come Giuseppe che pure ne aveva una conoscenza diretta e profonda. È significativo che nei rotoli del Mar Morto non troviamo tracce relative ai temi della resurrezio-
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ne e della immortalità dell’anima, che, com’è noto, egli attribuisce agli esseni. Evidentemente Giuseppe si riferisce a comunità esseniche che, al di fuori del Qumran, avevano già cominciato a maturare una loro nuova visione della salvezza. La prospettiva ellenistica dell’Oltremondo e dell’immortalità dell’anima trasforma radicalmente la concezione ebraica della salvezza. Lo spirito comunitario degli ebrei induce ad identificare l’individuo e la collettività, sicché la salvezza è per essi rigorosamente individuale e insieme collettiva; la responsabilità del singolo si intreccia con la responsabilità collettiva e così il principio della retribuzione colpisce la comunità nella sua totalità. Nella filosofia ellenistica, e così sarà anche per il cristianesimo, la responsabilità è individuale, le colpe ricadono sul singolo e la salvezza non ha nulla a che fare con le colpe dei padri. La salvezza è personale ed è strettamente connessa alla professione di fede. Analogo processo evolutivo subisce il concetto di nuovo patto che comporta un superamento dell’antica Legge con le sue rigide prescrizioni spesso puramente esteriori (la circoncisione, il riposo dello Shabbat o sabato, l’osservanza delle ricorrenze festive). In generale gli esegeti cristiani tendono a negare ogni rapporto tra essenismo qumranico e cristianesimo oppure tendono a mettere in risalto le differenze su singoli temi dottrinali o sulla stessa struttura organizzativa in presbiteri e sovrintendenti, ecc. Spesso si tratta di posizioni derivanti da un partito preso; ma più spesso sono motivate dal timore di intaccare o di compromettere l’originalità del cristianesimo, in quanto verità che trova il suo fondamento direttamente in Dio. Per lo storico tuttavia l’intromissione del divino nella storia non è accettabile, perché non è razionalmente giustificabile. A suo avviso nella storia tutto è un processo; ogni forma organizzativa o di pensiero ha un proprio percorso evolutivo per cui una forma si trasforma in un’altra. A differenza dell’esegeta cristiano che punta la sua attenzione sulle differenze, l’indagine scientifica tiene conto sì delle differenze, ma anche delle affinità. E quando le affinità si fanno più consistenti e le discrepanze possono trovare una plausibile spiegazione, la sua analisi non può essere che un’analisi storica. Dalla letteratura qumranica e dalle fonti storiografiche, che sono in sostanziale accordo, si evince che le comunità essene subirono un processo di evoluzione che portò alla nascita di quelle cristiane. Un’ultima considerazione va fatta prima di chiudere questo capitolo. Tutta la letteratura essenica che abbiamo esaminato è anonima, secondo un filone di scrittura che è tipicamente ebraico. Sotto tale profilo essa si differenzia profondamente dal mondo ellenico, ove i testi, che siano di poeti o di
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storici, sono sempre attribuiti a personalità ben definite. Nel mondo ebraico non ci sono componenti letterarie distinte e differenziate, ma tutto cade all’interno della teologia e del pensiero religioso, in cui la verità precostituita non è una verità storica, ma una verità di fede. In ciò la letteratura essenica riproduce uno stile che è in perfetta linea di continuità con l’AT. Anche la letteratura vetero-testamentaria è in gran parte anonima e pseudonima. Se dovessimo giudicarla secondo i canoni della filologia moderna, dovremmo dire che si tratta di falsi storici. E tali sono in fondo i testi che sono scritti sotto il falso nome di Mosè o di Isaia o di Geremia, di Ezra, Daniele e così via. Tali sono anche i testi anonimi che inducono lo storico moderno ad attribuzioni incerte e discutibili. In altri termini l’anonimia e la pseudonimia sono i due canali attraverso cui passa il falso storico. Con ciò non intendo negare l’importanza dei testi della letteratura giudaica, ma intendo solo rilevare che la loro storicità non è sul versante del loro contenuto, ma su quello del contesto storico entro il quale sono stati scritti. Lo stesso vale per la letteratura evangelica o più in generale cristiana, alla quale farò cenno nei prossimi capitoli. Anche questa letteratura è piena di falsi storici e di strategie levantine, di intestazioni anonime o pseudonime; il criterio a cui mi atterrò nel condurne l’esame è lo stesso che ho appena enunciato. La loro verità storica non è rinvenibile nei fatti narrati, la cui falsità è il più delle volte lampante, ma nel contesto in cui gli autori li hanno narrati.
capitolo ii
DAL GIUDAISMO AL CRISTIANESIMO: GLI APOCRIFI INTERTESTAMENTARI
2.1. La presenza della letteratura enochica nella biblioteca di Qumran Tra i testi di Kirbet Qumran troviamo numerosi apocrifi, in parte già noti agli studiosi tra il Sette e l’Ottocento. Accettati nel canone copto, si sono rivelati di grande importanza testi come il Libro dei Giubilei (1Q17, 1Q18, 2Q19, 2Q20, 11Q12), il Libro di Enoc (1Q23, 1Q24, 2Q26, 6Q8), la Sapienza (1Q26) e frammenti del Libro dei Giganti (2Q26; 6Q8, 1Q23– 24; 4Q203; 530–33). Ad essi vanno aggiunti altri importanti documenti, come i pesher a Michea (1Q14), ad Habacuc (1QpHab) e ai Salmi (1Q16), il Terzo e il Quarto Ezra, i Testamenti dei dodici patriarchi, i Frammenti aramaici di Enoc, l’Apocalisse siriaca di Baruc, i Salmi di Salomone e il Libro dei segreti di Enoc. Questa vasta letteratura, compilata tra il iv secolo a.C. e il primo d.C., è di rilevantissimo interesse per comprendere le origini del cristianesimo. In larga parte si tratta di una produzione che può essere attribuita a comunità enochiche che sorsero e si svilupparono per lo più in parallelo con quelle esseniche. Ma a differenza di queste ultime, che si radicarono per lo più nel territorio palestinese, sebbene si siano poi estese nel mondo mediterraneo attraverso il fenomeno della diaspora, quelle enochiche, per la loro forte presenza nell’area egiziana ed etiopica, sembrano avere subito un più forte influsso da parte della cultura ellenistica. Non sappiamo bene quali fossero i rapporti tra l’enochismo e l’essenismo. Probabilmente il primo si sviluppò con quasi un secolo di anticipo rispetto al 521
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secondo, ma l’uno e l’altro si differenziarono non poco sotto il profilo teologico. Entrambi avversi alla monarchia e al sacerdozio asmoneo, si divisero su tutte le altre tematiche che furono centrali nella riflessione teologica, propria degli ambienti che videro nascere il cristianesimo. Gli esseni, almeno gli specifici gruppi che si erano asserragliati nelle grotte del Qumran, avevano i loro pilastri nel sadocitismo, nel rispetto della tradizione mosaica; formati intorno alla figura di un legislatore, avevano probabilmente maturato una visione messianica; avevano una concezione pessimistica del male e del peccato per via delle loro forti e radicate convinzioni predeterministiche e predestinazionistiche, che li inducevano a credere che le radici del male fossero nell’uomo fin dal seno materno. Le sette enochiche erano invece antisadocite, molto poco osservanti della legge mosaica, anzi tendevano a riscrivere da un proprio punto di vista la storia del mondo e del Pentateuco e si convinsero gradatamente che ci fosse una legge superiore a quella di Mosè, iscritta, non sulle tavole del Sinai, ma sulle cosiddette ‘tavole celesti’, frequentemente citate nei loro scritti. Nello stesso tempo vagheggiavano una sorta di sacerdozio superiore, secondo l’ordine dell’eternità e non della storia, che aveva in Melchizedek il loro punto di riferimento. A differenza dei qumraniani ritenevano che il male avesse un’origine celeste o comunque sovrumana, quale era la cosiddetta caduta degli angeli Vigilanti. Di conseguenza pensavano che l’uomo fosse impotente a liberarsi dal peccato e che la salvezza dovesse venire da Dio. In realtà sul tema del male la divaricazione tra qumraniani ed enochici era ancor più radicale. Ciò dipendeva dalla loro diversa concezione della divinità. Per i primi l’onnipotenza e l’immutabilità erano attributi inderogabili e imprescindibili della divinità; ad essi potevano essere sacrificati non solo la misericordia divina, ma anche la libertà dell’uomo e degli angeli. Per i secondi invece erano attributi che si coniugavano con la bontà e con la misericordia divine e non compromettevano le libertà, umana ed angelica. Nonostante le nette contrapposizioni ideologiche, i testi enochici trovarono ospitalità nella biblioteca qumraniana. Come spiegare questa strana convergenza? C’è un altro aspetto della questione: l’unico testo enochico che non è presente in Qumran è il Libro delle Parabole (PR). Come spiegare questa apparente selezione all’interno della letteratura enochica? Proviamo a dare delle risposte. Si potrebbe supporre che, al di là delle differenti caratterizzazioni teologiche della divinità, quamraniani e enochici trovassero un terreno di condivisione nei temi dell’attesa e del giudizio finale. Paradossalmente, pur par-
II.2 Dal Giudaismo al cristianesimo: gli apocrifi intertestamentari
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tendo da opposti versanti, entrambi si attendono che la soluzione del male venga da Dio. Entrambi vivono, come del resto molti altri orientamenti interni al medio giudaismo, l’esperienza drammatica dell’attesa di un imminente intervento del divino nella storia umana; entrambi configurano tale intervento come drammatico e risolutivo, come definitiva condanna o distruzione del male. L’imminenza della fine dei tempi si associa da una parte alla distruzione e alla condanna del male e della vecchia creazione contaminata dal peccato, il quale riemerge sempre dopo ogni intervento punitivo di Dio (diluvio, fuoco di Sodoma e Gomorra) e, dall’altra alla instaurazione di una nuova creazione e dell’avvento di un mondo di giustizia, privo assolutamente del male e del peccato. Entro la cornice di tale concezione dalle evidenti sfumature apocalittiche si differenziano poi le posizioni intorno alla figura del messia e al suo ruolo messianico. Alla caduta del tradizionale messia a carattere nazionalistico si sostituisce nel corso del primo secolo dopo Cristo il mito del messia salvatore, di cui PR è una tappa di estrema importanza. Gli esegeti sono per lo più concordi nel ritenere che la sua redazione abbia preceduto gli scritti evangelici e su questa strada finiscono con il datarlo alla fine del i secolo a.C. È merito di Sjöberg(1) aver segnalato che l’unico dato storico cronologicamente sicuro, che può fungere da terminus a quo, si trova in lvi, 5-8, in cui l’anonimo compilatore fa riferimento all’invasione della Palestina da parte di Medi e di Persiani. Si tratta di una profezia post festum, ma Sjöberg ritiene che la relativa narrazione è drammatica tanto da far pensare ad un evento da poco trascorso. Pertanto ne trae la conseguenza che PR, reputato giudaico e non cristiano, non possa risalire oltre la fine del i secolo a.C. L’anteriorità di PR rispetto ai Vangeli pone però serie difficoltà alla teologia cristiano-cattolica, perché mette in crisi sul piano scientifico la tradizionale interpretazione cristiana secondo cui la figura teologica del «figlio dell’uomo», così come è delineata nei quattro Vangeli, dipenderebbe da Daniele (vii, 13-14). Discuterò più avanti(2) questa complessa problematica, qui mi preme sottolineare che l’assenza di PR dai manoscritti del Qumran è stata variamente spiegata. Taluni studiosi, come il Milik,(3) puntando sulla mancata citazione da parte dei primi padri della Chiesa, ne hanno abbas(1) E. Sjöberg, Der Menschensohn in dem äthiopischen Henochbuch, Lund, Gleerup, 1946. (2) v. infra, pt.II, par. 2.11. (3) J. T. Milik, The Book of Enoch. Aramaic Fragments of Qumrān Cave 4, Oxford, Clarendon, 1976, pp. 91-92.
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sato eccessivamente la datazione, facendola risalire al iii secolo d.C. Hindley(4), dal canto suo, tenta di individuare un diverso contesto storico a cui riferire l’invasione dei Medi e dei Parti e, sulla scorta di Giuseppe Flavio(5) ritiene di poterlo indicare, ma senza trovare forti consensi, nella guerra traianea contro i Parti del 117 d.C. Ma proprio nella versione fornita da Giuseppe Flavio c’è la chiave per sciogliere il nodo proposto da Hindley. Come giustamente rileva Sacchi, l’invasione traianea viene salutata secondo il racconto flaviano «con soddisfazione dagli ebrei, mentre in PR il fatto è narrato con orrore».(6) Ingiustificata è anche l’argomentazione del Milik che tiene in particolare conto l’assenza di citazioni patristiche. Anche a questo proposito Sacchi fa notare che del Pentateuco enochico i Padri citano «solo il Libro dei Vigilanti e le aggiunte finali, che […] ci sono giunte anche in greco»; per di più – egli osserva – è «difficile ammettere che un cristiano scrivesse in ebraico o in aramaico alla fine del iii secolo»,(7) tenuto conto che l’originale di PR era appunto scritto in tali lingue. Sacchi compie un ulteriore passo avanti e stabilisce giustamente che il terminus ad quem di PR, in assenza di ogni accenno alla distruzione di Gerusalemme, va collocato intorno al 70 d.C. Avremmo così individuato i due termini post quem ed ante quem della composizione di PR, ma, per non compromettere una possibile datazione più alta dei Vangeli, l’illustre esegeta fa slittare la compilazione di PR agli ultimi decenni del i secolo a.C. In effetti solo una datazione bassa può giustificare la sua assenza dalla biblioteca dei qumraniani. Se facciamo scivolare la datazione al 30 a.C. diventa davvero difficile comprendere perché esso non fu accolto dagli esseni. Qualsiasi motivazione di ordine teologico o ideologico sarebbe solo un inutile paravento per nascondere le motivazioni teologiche o ideologiche dello storico. La realtà è che noi abbiamo dei testi che hanno uno spartiacque nella distruzione del tempio; PR la precede, anche se di qualche anno, per non averne fatto menzione, i Vangeli sono posteriori perché ne parlano. Queste sono le linee maestre su cui procedere nella lettura degli apocrifi enochici ed esseni e degli scritti neotestamentari.
(4) J. C. Hindley, Towards a Date for the Similitudes of Enoch. An Historical Approach, «New Testament Studies», xiv, 1968, pp. 551-565. (5) Giuseppe Flavio, Ant., xiv, 359; BJ, i, 252. (6) P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo, cit., p. 193. (7) Ivi, pp. 194-195.
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2.2. Il Libro dei Giubilei (Mașḥafa Kufālē = Libro della divisione) Si tratta di un testo,(8) pervenutoci in lingua ge’ez (antico etiopico) e noto anche con i titoli, Piccola Genesi, Apocalisse di Mosè. Già noto nel iv secolo ad Epifanio, e successivamente a Sincello e a Cedreno,(9) la sua composizione potrebbe risalire alla fine del secondo secolo o più probabilmente al i secolo a.C., poiché sembra condividere lo stesso clima politico-religioso in cui fu scritto il Documento di Damasco. In quanto tale la sua compilazione dovrebbe essere posteriore al Libro dei Vigilanti, composto certamente almeno un secolo prima. Tuttavia per non compromettere l’unità redazionale del Pentateuco enochico, preferisco parlarne in anticipo. Difficile è stabilire a quale delle sette giudaiche appartenesse l’autore. Le ipotesi avanzate sono le più disparate. Dopo la scoperta dei rotoli del Mar Morto sembra prevalere la tesi, già sostenuta da Jellinek,(10) che si tratti di un esseno, poiché, come gli esseni, egli prende le distanze dalla dinastia asmonea e reputa contaminato il tempio di Gerusalemme. Ma la stessa considerazione potrebbe valere, se lo si attribuisse agli enochici. Che sia o meno opera di un esseno, il Libro dei Giubilei (LG) doveva in ogni caso essere caro alla setta del Qumran, che nella loro biblioteca ne conservavano almeno 6 copie (1Q17, 1Q18, 2Q19, 2Q20, 3Q5, 11Q12). Il Libro è in un certo senso una riscrittura della Genesi e dei primi capitoli dell’Esodo, ma ha nel complesso un tono apocalittico e parenetico e qual(8) Il testo etiopico dei Giubilei è stato pubblicato A. Dillmann, Mașḥafa Kufālē sive Liber Jubilaeorum qui idem a Graecis Hē leptē Genesis inscribitur versione Graeca deperdita nunc nonnisi in Geez lingua conservatus nuper ex Abyssinia in Europam allatus: Aethiopice ad duorum librorum manuscriptorum fidem, Kiliae, Maack, 1859, e da R. H. Charles, The ethiopic version of the Hebrew Book of Jubilees, Oxford, Clerendon Press, 1895, pp. 1-177. Il testo latino è stato pubblicato da A. M. Ceriani, Monumenta sacra et prophana, t. i, Milano, Bibliothecae Ambrosianae, 1861. La prima traduzione inglese è stata curata da R. H. Charles, The Book of Jubilees or the Little Genesis, London, Black, 1902, pp. 1-261. (9) Epifanio di Salamina, Panarion; 1, 5; 9, 3, 1; 64, 64, 1; 66, 78, 5; 79, 2, 4; G. Sincello, Chronographia, in Corpus scriptorum historiae byzantinae. Editio emendatior et copiosior consilio B. G. Niebuhrii instituta, Bonnae, impensis Ed. Weberi, mdcccxxix, pp. 42-47; G. Cedreno, Historiarum Compendium, 11, in Corpus scriptorum historiae byzantinae. Editio emendatior et copiosior consilio B. G. Niebuhrii instituta, Bonnae, impensis Ed. Weberi, mdcccxxix, t. i, pp. 20-21. (10) A. Jellinek, Das Buch der Jubiläen und das Noahbuch, Leipzig, In Commission von C. L. Fritzsche, 1855.
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che volta si presenta nella forma di un commento di tipo halakico (halakah הלכהin ebraico significa ‘via’), ovvero di un’interpretazione della legge intesa come una sorta di sistema di diritto civile e religioso. A partire dalla riflessione sullo sviluppo storico del popolo ebraico l’autore punta a stabilire (o conoscere) l’origine del male e per converso a stabilire che cosa si deve intendere per salvezza e quali sono le vie per giungere ad essa. Egli ha certamente sotto mano il Libro dei Vigilanti, per il quale il male si è originato dalla caduta degli angeli vigilanti (in ge’ez: teguhān) che peccarono con le donne e partorirono la generazione dei giganti, ma lo rielabora a suo modo forse perché si rifiuta di pensare che il male abbia avuto origine nella sfera celeste degli spiriti angelici. Perciò stabilisce che esso era già presente tra gli uomini prima ancora della caduta dei Vigilanti. Scrive infatti che con l’unione degli angeli e delle donne «crebbe la malvagità sulla terra e tutti gli esseri corruppero il loro modo di vivere» (LG, v, 2). Il male dunque non è originato dagli angeli, ma dalle donne e la sua radice non è nella sfera celeste, ma in quella umana ed è tale da comportare una sorta di corruzione cosmica. Gli angeli Vigilanti, infatti, dice il testo, scesero sulla terra per «insegnare ai figli dell’uomo a fare giustizia e rettitudine sulla terra» (LG, iv, 15). In questo il testo non era molto distante dall’ideologia qumranica. La salvezza però non è pensata in una prospettiva escatologica, ma è proiettata nella realtà presente per chi ha accolto la rivelazione di Enoc. Di conseguenza la sconfitta del male non è una prospettiva futura, non comporta l’attesa di un tempo finale o di un giudizio universale, ma è una vittoria iscritta nella atemporalità del disegno divino. Dio non ha solo creato i cieli e la terra, ma ha anche disegnato i tempi e la divisione dei tempi della storia.(11) Il Dio di Enoc non è più il Dio geloso e capriccioso della tradizione, ma è, forse sotto l’influsso della filosofia greca, onnipotente e immutabile; nulla è lasciato al caso, tutto è iscritto nelle tavole celesti, che sostituiscono quelle ricevute da Mosè sul Sinai o quanto meno sono rispetto ad esse sovraordinate. In questa concezione del divino hanno la loro radice il predeterminismo, il predestinazionismo e l’articolazione della storia in giubilei: «il Signore mostrò a Mosè le cose passate e future, le cose della suddivisione (11) È singolare che nella rilettura della Genesi, l’autore dei Giubilei, pur citando ÊlEliōn in xiii, 29, ometta il paragrafetto (Gn, xiv, 18-20), in cui si parla di Melchizedek, sacerdote di Êl-Eliōn (Dio eccelso, Dio Altissimo). Va detto che Êl-Eliōn è verosimilmente un’antica divinità gerosolimitana, di origine cananaica, successivamente identificata con Yhwh.
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del tempo, sia secondo la legge, sia a testimonianza (degli eventi)» (LG, i, 5). Il tempo della storia è definito in tappe di 7x7 = 49 anni, che sono appunto i giubilei. Da Adamo al tempo della fuga dall’Egitto sono passati 49 giubilei, un settennio e due anni, cioè (49x49) + 7 +2 = 2.410 anni e sono passati altri 40 anni di pellegrinaggio nel deserto prima che Mosè ricevesse sul Sinai le tavole della Torah. Sicché quest’ultimo evento viene ad essere datato al 2.410 + 40 = 2450 anni a creatione mundi (LG, l, 4.). Ma se la legge mosaica ha una consistenza storica, le norme che sono scritte nelle tavole celesti precedono e sono indipendenti dal tempo storico per essere in sé eterne in quanto espressione della volontà divina.(12) La divisione del tempo rientra nel piano provvidenziale predeterminato da Dio. Tutto è stato già scritto nelle tavole celesti; perciò nella rilettura degli eventi è possibile comprendere quali sono le cause del male. Dio, infatti, ordina a Mosè di scrivere il libro «affinché le generazioni vedano in qual modo io li ho abbandonati a causa del male che hanno fatto per indurre a peccare e a far abbandonare il patto […]; sapranno che io sono stato con loro» (LG, i, 5). Il libro costituisce una testimonianza della presenza di Dio nella storia e insieme una testimonianza del peccato di coloro che hanno trasgredito il patto e si sono volti agli dèi stranieri. Il concetto di testimonianza è pregnante. Nella loro «dura cervice», gli ebrei «si costruiranno alti luoghi, alberi sacri e statue ed adoreranno ognuno il proprio errore […] ed io per far testimonianza contro di loro, invierò testimoni (la testimonianza è martirio, perciò l’uso di samā’et) presso di loro ed essi non li ascolteranno, uccideranno il teste […], cominceranno a fare il male davanti ai miei occhi» (LG, i, 11-12). Da ciò la condanna alla cattività e alla diaspora («li espellerò dalla terra e li disperderò fra i popoli» (‘aḥzāb sono i gentili).(13) Alla trasgressione seguirà il riscatto. Il popolo di Israele ritornerà con purezza di cuore nella giustizia e gli sarà assegnato il «giardino della giustizia», ovvero la Palestina: «ed io costruirò il mio santuario in mezzo a loro e risiederò con loro e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (LG, i, 16-17). È la teologia della promessa che acquista un nuovo significato religioso; non è più la semplice promessa della terra del latte e del miele, ma è la promessa di una salvezza che appartiene a questo mondo e non ad un aldilà indefinito, perché è la promessa della coabitazione con Dio. E in forza di ciò il popolo avrà «un cuore puro, uno (12) Per le tavole del cielo, cfr. LG, iii, 31; iv, 5, 32; v, 13; vi, 17, 35; xvi, 2, 29; xxiii, 32; xxviii, 6; xxx, 9, 20; xlix, 8 . (13) LG, i, 13.
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spirito santo»; il cuore circonciso e il suo spirito sarà santo «fino all’eternità […]; io sarò per loro il Padre ed essi mi saranno figli. E tutti saranno chiamati figli del Dio vivente» (LG, i, 21-25). Il presupposto di questa narrazione è che la radice del male è nell’uomo stesso; è nella volontà umana di trasgredire la legge, ma è anche nell’azione tentatrice delle forze demoniache. Come il male anche la salvezza ha il suo orizzonte nella terra. Come poi si concili la libertà umana con il predeterminismo del piano provvidenziale di Dio è difficile dirlo. Ma forse non ha senso chiedersi come potesse giustificarsi filosoficamente una dottrina teologica che mentre addossa all’uomo, sia pure limitatamente al popolo ebraico, la responsabilità del male, nello stesso tempo inquadra la vita umana e le scelte umane nell’ambito di un progetto predefinito. Quale può essere il fondamento della libertà umana, se è l’angelus faciei, l’angelo che è alla presenza di Dio, che legge lo svolgersi degli eventi direttamente sulle tavole della divisione degli anni e dei giubilei? Affiora comunque nel Libro il mito di una nuova creazione, di una nuova generazione e forse a questo concetto si lega l’altro mito della stipulazione di un nuovo patto con Dio. Ma anche qui non c’è una dimensione universalistica, perché Dio, «il creatore di tutto […] non santificò tutti i popoli, ma solo il popolo di Israele» (LG, ii, 31). Tutt’al più sono universali il male e il peccato. Quando infatti riprende la narrazione del peccato di Eva, l’autore precisa che esso comportò una condanna generale che toccò tutti gli esseri viventi o meglio, «tutti gli esseri di carne», anche gli animali; tutti furono cacciati dal paradiso terrestre con l’obbligo per gli uomini di coprire le pudenda affinché «non si scoprissero come si scoprono i pagani» (LG, iii, 31). Il Signore, adirato, cancellò con il diluvio gli uomini dalla faccia della terra; salvò Noè e legò i Vigilanti e i Giganti «nelle profondità della terra fino al giorno del grande giudizio per la condanna eterna» (LG, v, 6-10). La loro condanna era scritta nelle tavole del cielo. Nel capitolo iv emerge la figura di Enoc, tratteggiata con dettagli da cui si evince che l’autore di LG ne conoscesse il Pentateuco. Di Enoc infatti si dice che fu «il primo tra gli uomini […] ad imparare la scrittura, la dottrina e la scienza e affinché gli uomini conoscessero i periodi degli anni […] [Enoc] scrisse nel libro i segni del cielo» (LG, iv, 17). Il libro cui l’autore allude è ovviamente il Libro dell’Astronomia, che costituisce la sez. lxxii-lxxxii del Libro di Enoc. L’implicita citazione è resa ancor più evidente dall’accenno alle visioni mistiche di Enoc che vide il passato e il futuro in visioni notturne, in sonno, e quel che accadrà
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all’umanità, alle sue generazioni, fino al giorno del giudizio. Tutto egli vide e conobbe, lo scrisse e lo pose a testimonianza sulla terra […], scrisse tutto e testimoniò contro i vigilanti che avevano peccato insieme con le figlie dell’uomo (LG, iv, 19-22).
Il misticismo impedisce all’autore di scorgere le contraddizioni interne al suo pensiero, per cui le condanne sono scritte nelle tavole del cielo e quindi sono predeterminate, ma nello stesso tempo sono proporzionate alle azioni dei singoli: «Egli giudicherà ognuno secondo le proprie azioni» (LG, v, 15). La misericordia è limitata a coloro che si «convertono da tutte le loro colpe» (LG, v, 17). Ma anche questa conversione, se è iscritta nelle tavole del cielo, non dipende né dalla responsabilità del singolo né da quella collettiva. La sez. vi, 23-38, è dedicata alla esposizione del calendario solare, che era condiviso dalle sette essene ed enochiche in contrapposizione al calendario lunisolare farisaico. L’opposizione al sacerdozio gerosolimitano comportò l’elaborazione di un nuovo calendario liturgico. Recita infatti il capitolo ii: «Dio diede il sole come grande astro sulla terra per indicare i giorni, le settimane, i mesi, le feste, gli anni, i sabati, i giubilei e tutti i periodi degli anni». La funzione del calendario non era solo quella di dividere l’anno, ma anche quella di rammemorare la storia del patto e di prescrivere l’osservanza delle relative feste. Le tavole del cielo sembrano essere nient’altro che il ritmo ferreo e predeterminato del tempo, scandito dai moti immutabili e rigidi degli astri, o meglio dal moto inderogabile e indefettibile del sole, da cui dipendono tutti gli altri moti astrali. Non credo che l’autore intenda le tavole del cielo come una sorta di legge che trascende la volontà del creatore. Dio è il creatore di tutte le cose e quindi anche degli astri, del sole e della luna, su cui si fondano i due calendari lunare e solare. Certo però si può affermare che quando i testi intertestamentari parlano di conoscenza si riferiscono anche alla conoscenza astronomica, come una conoscenza entro cui si annidano le vicende umane, con il loro intreccio di peccato e di remissione. L’autore di LG evita scrupolosamente l’uso dei nomi dei mesi di origine babilonese e preferisce indicarli con il loro numero d’ordine. L’anno si articola in 364 giorni, 52 settimane, quattro stagioni ciascuna della durata di 91 giorni (due mesi di 30 giorni e il terzo di 31). Essendo 364 e 91 multipli di sette, ogni anno ed ogni stagione aveva inizio nello stesso giorno settimanale. In questo modo nell’anno liturgico veniva fissata non solo la data di ciascuna festa religiosa, ma anche il giorno settimanale in cui essa cadeva, in sintonia
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con le indicazioni che potevano essere tratte dall’antico Pentateuco. Non a caso LG polemizza con il calendario lunisolare farisaico che chiudeva l’anno in 354 giorni, alterandone gravemente l’anno liturgico; ad essi è rivolta l’accusa di dimenticare e di non saper calcolare «l’inizio del mese, il sabato e la festa […]; dimenticheranno le feste del mio patto» (LG, vi, 34-45). Si spiega perciò la scrupolosità dell’autore dei Giubilei nel tentativo di dare una puntuale ricostruzione storica del patto nella convinzione di far coincidere la celebrazione liturgica del patto noachico e di quello mosaico che cadono entrambi nel terzo mese (siwan). Siwan è il mese dei patti (Shabuot )שבועות, ed è anche il mese in cui cade la festa delle settimane (Shebuot )שבועות. Il capitolo vi ci dà una presunta ricostruzione storica del patto noachico: «All’inizio del terzo mese [il 1° del mese di siwan] uscì [sott. Noè] dall’arca e costruì un altare su quel monte [Lubar, una delle cime del monte Ararat]» (vi, 1). Come più tardi farà Mosè sul Sinai, Noè effettuò un sacrificio (tamid) e con il sangue di un agnello implorò a Dio perdono per tutti i peccati della terra» (vi, 2); poi sacrificò sull’altare una vacca, un ariete, una pecora, caprette, sale, una tortora e un colombo; spruzzò sulle vittime sacrificali il vino e l’incenso e fece salire al Signore un profumo intenso. E il Signore odorò il bel profumo e strinse con Noè un patto: non vi sarebbe più stato sulla terra un diluvio; per tutto il tempo della terra non sarebbero cessati i semi e le messi, il freddo e il caldo, il giorno e la notte; gli uomini si sarebbero moltiplicati a condizione che non mangiassero più carne con la sua anima, cioè col sangue (LG, vii, 31-32).
Anche il rito sacrificale noachico, come quello mosaico (Ex., xxiv, 6-8), si concluse con il giuramento sul monte e con il versamento sul popolo del sangue della vittima sacrificale (LG, vi, 4-11). Il sangue versato sui due contraenti consacrò il patto per tutta l’eternità: «per questa legge non vi è termine finale; è per l’eternità» (LG, vi, 14). La commemorazione del patto cade ogni anno nella festa delle settimane, ovvero nel giorno della Pentecoste, secondo quanto è prescritto nelle tavole del cielo. Ma il tentativo di far coincidere la festività del patto noachico e di quello mosaico non sembra essere ben riuscito, non solo perché per l’autore di LG la vittima sacrificale è un agnello (evidentemente il tempo del cristianesimo era più vicino) e non i vitelli, come è nel rito mosaico, ma anche perché non coincidono le date: infatti il patto noachico cade nel primo giorno del mese
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di siwan, quello mosaico cade invece il 22 dello stesso mese (LG, i, 1-2). La questione si complica nel capitolo xiv, che ha come oggetto il patto abramitico. In realtà l’eterna lotta tra il bene e il male non ha mai fine, anche perché quando Dio soggiogò gli angeli vigilanti, Mastema, cioè il maligno, chiese ed ottenne che una parte degli spiriti maligni potessero tentare gli uomini. Ne consegue che ogni volta che il Signore tentò di espellere il male dalla terra, l’impurità dilagò nuovamente. Dopo il diluvio universale, Dio mandò la punizione che distrusse Sodoma e Gomorra. Da qui l’istanza di un nuovo patto con Abramo. A metà del mese di siwan (intendi il 15 di siwan), giorno della pentecoste, Abramo sacrifica pezzi di animali e uccelli, li squarta a metà, ne versa il sangue sull’altare e stipula con Dio il patto che assegna a lui e a tutta la sua discendenza la terra promessa; Nel quinto anno del quarto settennio […] a metà del terzo mese [15 di siwan] Abramo fece la festa della mietitura del grano […] il Signore gli parlò e gli disse: ‘Ecco il patto con te: io ti costituisco padre di molti popoli. Il tuo nome non sarà più Abram, ma Abraham (cioè padre di moltitudini) […]; ti farò grande assai, ti darò popoli e da te sortiranno re […]; voi vi circonciderete i vostri prepuzi e questo sarà il segno del patto eterno fra me e te e per le generazioni […] e l’anima di tutti i vostri maschi che non saranno stati circoncisi e di colui che non si sarà circoncisa la carne del prepuzio nell’ottavo giorno, sia strappata di mezzo ai suoi simili poiché avrà violato il mio patto’ (LG, xv, 14).
Qui la festa delle settimane è fatta cadere il 15 del mese di siwan. Ciò significa che nello stesso testo la celebrazione della festa delle settimane è fissata sempre di domenica ma in tre date distinte, il primo del mese di siwan secondo il patto noachico, il 15 secondo il patto abramitico e il 22 secondo il patto mosaico. È però da notare che, se la pasqua cade dal tramonto del 14 al tramonto del 15 di nisan, la festa delle settimane o pentecoste non può mai cadere né il primo, né il 15 né il 22 del mese di siwan. Infatti, 15 + 50 = 65 59 (30 giorni di nisan e 29 di lyar) = 6/7 del mese di siwan. La sez. xxiii, 11-25 è stata definita la Piccola Apocalisse, in cui la storia del male si intreccia con la durata della vita nell’alternanza di due fasi distinte: alla fase del progressivo accorciamento della vita fino all’età di un giubileo e mezzo a causa del male, segue la fase dell’osservanza della legge e quindi del progressivo allungamento della vita umana fino all’età di mille anni. Il male
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fisico ha la sua radice nel male morale, ovvero nella cattiveria e nella impurità della natura umana. Perciò insieme con la vita si accorcerà anche l’intelligenza a causa della vecchiaia: ci sarà «afflizione su afflizione, male su male, malattia su malattia» poiché La stirpe malvagia farà peccare la terra con la fornicazione impura, con le impurità e con l’abominio delle loro azioni; il patto sarà violato; si combatteranno gli uni contro gli altri, i giovani con i vecchi e i vecchi con i giovani, il povero col ricco, l’umile con il grande; insozzeranno il santo dei santi con la sozzura della corruzione della loro impurità.
Può darsi che l’autore riferisca tale sozzura all’assassinio di Onia III, ma non si può escludere che alluda a profanazioni del tempio in epoca successiva, tanto più che i Kittim, citati in LG, sono probabilmente i Romani (LG, xxiv, 29). L’accenno alla strage dei Sichemiti (LG, xxx, 1-6) offre l’occasione per condannare i matrimoni misti, cioè per stabilire che chiunque dà la propria figlia o la propria sorella ad un uomo di stirpe pagana deve essere condannato a morte e lapidato e la donna deve essere bruciata sul fuoco.(14) La stessa condanna tocca a colui che disonora Israele sacrificando a Molok una propria figlia (LG, xxx, 10) con evidente accenno ad un passato in cui si celebravano sacrifici umani. Per quanto possa sembrare paradossale l’immortalità è strettamente collegata alla condanna eterna dei peccatori. Così sembra si debba intendere LG, vii, 29, ove ai peccatori sono negate la sopravvivenza, la discendenza e la posterità «poiché andranno all’inferno e nel luogo della pena infernale, scenderanno nell’oscurità dell’abisso». In xxi, 22, più che di immortalità, si parla di discendenza e di posterità, poiché si dice: Dio «ti nasconderà il suo volto, ti metterà nella mano del tuo peccato, disperderà te dalla terra e la tua stirpe da sotto il cielo e il tuo nome e la tua stirpe sarà cancellata da tutta la terra». LG ammette un luogo di punizione eterna, ma sembra ignorare l’esistenza di un luogo di premiazione. Molto vago è infatti il destino ultimo dei giusti, ai quali Dio promette di dimorare con i figli di Israele: «Io discenderò e dimorerò con loro nei secoli dei secoli» (LG, i, 26). Più pregnante il tema della giustificazione che precede l’analogo concetto paolino. Dio perdona: (14) La condanna ad essere bruciata sul fuoco spetta alla moglie o alla figlia che commette fornicazione (Jub., xx, 4). Per il divieto di sposare donne allogene, cfr. Jub., xxx, 13.
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Per tutti i figli di Israele fu scritto e stabilito: se si rivolgono a Lui in santità, Egli condonerà tutte le loro colpe e rimetterà tutti i loro peccati […] si userà misericordia verso tutti quelli che, una volta all’anno, si convertiranno da tutte le loro colpe» (LG, v, 17-18).
È la dottrina della giustificazione, già presente nel Maestro di giustizia: l’uomo è nel peccato fin dall’utero materno e la giustificazione viene solo dalla fede negli insegnamenti del Maestro. 2.3. Il Pentateuco enochico: il Libro dei Vigilanti Pervenutoci in lingua ge’ez, è detto Pentateuco(15) perché si compone di cinque libri ad imitazione del Pentateuco mosaico o forse ad imitazione dei cinque libri dei Salmi. I libri che lo compongono sono: il Libro dei Vigilanti (capitoli vi-xxxvi), il Libro delle Parabole (capitoli xxxvii-lxxi), il Libro di Astronomia (capitoli lxxii-lxxxii), il Libro dei Sogni (capitoli lxxxiii-xc) e l’Epistola di Enoc capitoli xci-civ). Originariamente al posto di PR c’era il Libro dei Giganti, che è andato perduto. Nel contesto dell’opera Sacchi ha individuato alcuni capitoli (vi-xi, liv-lv, lx, lxv-lxix, cvi-cvii) che si possono ricondurre al perduto Libro di Noè. L’operazione dovrebbe essere avvenuta nel momento in cui il redattore del Pentateuco scriveva il prologo (capitoli i-v) e dava un assetto definitivo all’opera. È presumibile che ciò sia accaduto intorno alla metà del primo secolo o poco oltre. Se si esclude il Libro dei Vigilanti (LV), che è il più antico, e il PR, che è indubbiamente il più tardo, gli altri tre, forse originariamente autonomi, possono essere datati intorno al secondo secolo a.C. Il Pentateuco enochico è un’opera pseudepigrafa. Infatti l’autore pretende attribuirla addirittura al sesto patriarca discendente da Adamo, citato nell’AT solo in Genesi e nel Siracide (Gn, v, 21-23; Sr, xliv, 16). Dal racconto della Genesi, Enoc si direbbe una divinità solare. Figlio di Yared e padre (15) Il testo etiopico del Pentateuco enochico è stato pubblicato da A. Dillmann, Liber Henoch aethiopice, ad quinque codicum fidem editus cum variis lectionibus, Lipsiae, Vogel, 1851; R. H. H. Charles, The Ethiopic Version of the Book of Enoch, Oxford, Clarendon Press, 1906; il testo greco è stato pubblicato da C. Bonner, The Last Chapter of Enoch in Greek, London, Christophers, 1937. La prima traduzione inglese è di R. H. Charles, The Book od Enoch, Oxford, Clarendon Press, 1893, pp. 55-308.
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di Matusalemme, egli “camminò con Dio trecento anni dopo aver generato Matusalemme e generò figli e figlie […] morì dopo aver compiuto trecentosessantacinque anni [una sorta di anno solare degli anni solari]. Camminò con Dio e poi scomparve, perché Dio lo rapì». Dello stesso tono è il citato passo del Siracide. È probabilmente da questi pochi cenni veterotestamentari che deriva nella letteratura enochica una nuova concezione del sacro e dell’impuro. Come Enoc camminò con Dio, così i suoi seguaci si identificano con il patriarca nella loro aspirazione a camminare e a coabitare con la divinità. Per l’ebraismo classico la sfera del sacro (ebr. qodesh), come presenza del divino, uccide; così è nei Giudici per Sansone («moriremo di sicuro, perché abbiamo visto Dio», Jdc, xiii, 22), nel 1Samuele, ove settanta abitanti di Bet-šemeš muoiono per aver curiosato nell’arca (1Sm, vi, 19); lo stesso destino tocca ad Uzza per averla sorretta con la mano per evitare che i buoi la facessero cadere (2Samuele, vi, 6). La purificazione è per l’Esodo (xix, 14) la condizione per potersi accostare al sacro, ma nei testi enochici non si incontrano mai i termini del sacro e del puro, né gli opposti del profano e dell’impuro. Anche in questo l’enochismo prepara il cristianesimo. Particolarmente tormentata deve essere stata, a parere di Sacchi, la compilazione di LV, poiché lo studioso scorge al suo interno sezioni appartenenti ad epoche diverse e forse ad autori diversi. In particolare la sezione noachica (capitoli vi-xi) si distinguerebbe da quella che potremmo definire enochica (capitoli xii-xxxvi) che, secondo lo stesso studioso, è più antica. Egli inoltre individua nella stratificazione della sezione noachica due parti contenutisticamente incompatibili per il fatto che la prima (capitoli vi-viii) non conoscerebbe l’immortalità dell’anima, accolta invece dalla seconda (ixxi). L’ideologia del Pentateuco è già chiaramente definita nel prologo (capitoli i-v), databile al i secolo d.C., ove Enoc si propone come «uomo giusto» che funge da mediatore tra mondo celeste (Dio e angeli) e mondo umano e terreno: Questo è quel che gli Angeli mi hanno mostrato; io ascoltai tutto da essi e tutto conobbi, io che vedo non per questa generazione, ma per quella che verrà […] a proposito degli eletti parlai col Santo e Grande che uscirà dalla sua sede ed è dominatore del mondo (En, i, 2-3).
La mediazione di Enoc ha fin dal prologo un tono apocalittico, poiché, pur nella reminiscenza del diluvio noachico, è nella prospettiva della fine dei
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giorni in cui la visita di Dio sul Monte Sinai farà tremare gli angeli vigilanti e i peccatori «fino ai confini della terra»; si spaventeranno le alte montagne, si abbasseranno le colline e tutta la terra sarà sommersa»; «tutto quel che è in essa perirà e sarà giustizia su tutto e su tutti i giusti» (LV, i, 5-7). Non è solo la profezia della distruzione del genere umano, ma è la visione apocalittica che guarda alle generazioni future. Enoc non è il classico profeta; le sue visioni sono radicate nella conoscenza dell’ordine predeterminato e immutabile, deciso da Dio («Non si modifica ogni azione visibile del Signore», del «Dio vivente ed eterno», LV, ii, 2; v, 1; «Tutto vien fatto così come il Signore ha stabilito», LV, v, 2). Enoc profetizza perché si è elevato con la sua sapienza alla sapienza divina, ovvero alla conoscenza dell’ordine inderogabile di tutte le cose: ho investigato tutte le operazioni nel cielo […]. Ho esaminato ed osservato come appaiono tutti gli alberi […]; ho osservato il tempo della stagione asciutta […], ho esaminato come gli alberi si coprono del verde delle foglie e come fruttificano.
Alla dannazione dei peccatori si oppone la salvezza degli eletti, che sono i giusti. Ma la loro salvezza è tutta terrena, perché «essi erediteranno la terra […], completeranno il tempo della loro vita» (LV, v, 7-9). Se la mediazione di Enoc può far pensare ad un ruolo messianico, non è certo quello del messia regale e nazionale, ma è piuttosto quello di un messianismo più spirituale e, per questo, più prossimo a quello cristiano. Per LV il male nasce da un atto spontaneo degli angeli vigilanti che vengono presi dal desiderio di possedere le donne dei figli degli uomini; insegnano loro incantesimi, magie, astrologia, i segni degli astri e «il taglio di piante e di radici» e generano la stirpe dei giganti, alti tremila cubiti, i quali consumano il frutto del lavoro umano. Probabilmente l’autore ha presente la narrazione della Genesi e in un passo successivo lascia intendere che la conoscenza che Dio vuole celare agli uomini è quella del bene e del male, cioè della nudità e della sessualità. D’altra parte spesso nella letteratura ebraica i concetti di Dio, della sua scienza, della prescienza e dell’onnipotenza, non sono quasi mai definiti in termini filosoficamente rigorosi, sicché sono così privi di contorni teoretici netti da essere in grado di tollerare incongruenze e contraddizioni che sono inaccettabili per il nostro pensiero moderno o per il razionalismo greco.
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Quanto all’onnipotenza divina l’autore dei Vigilanti scrive: «Hai fatto tutto ed il potere di ogni cosa è con Te e tutto, innanzi a Te, è chiaro e manifesto, poiché vedi tutto e non vi è alcuna cosa che ti si possa nascondere» (LV, ix, 5). Ma è una onnipotenza in qualche modo impotente, poiché non riesce ad escludere e ad espungere il male dalla terra. Analoga osservazione va fatta sulla prescienza. Il testo recita: «Tu sai tutto, prima che sia. Tu conosci ciò e quel che loro accade» (LV, ix, 11). Ma allora perché Dio ha bisogno di essere sollecitato dagli angeli faciei per venire incontro al grido di dolore degli uomini? E perché non ha prevenuto nella sua onnipotenza e prescienza il maldestro atto peccaminoso dei vigilanti? Così è anche per la scienza divina: qual è il senso del segreto che non deve essere rivelato agli uomini? Perché è un segreto abominevole? E se è abominevole, come può coesistere nella sfera incontaminata del divino? E se quel segreto abominevole non è altro che la conoscenza del desiderio e della sessualità, come può essersi insinuato nelle nature angeliche che sono spirituali, pure e sante al cospetto di Dio? L’inghippo che l’autore del Pentateuco vuole evitare (ma la stessa osservazione vale per altri testi canonici o apocrifi) è di ricondurre il male direttamente a Dio, il quale, in quanto onnipotente, è responsabile di tutto il creato. La corruzione dell’umanità come conseguenza dell’insegnamento dei vigilanti non è che una vana scappatoia ed è per questo che essa è oggetto di incertezze da parte degli autori che la teorizzano: «Tutti i figli dell’uomo periranno a causa del segreto di tutto quel che gli angeli vigilanti hanno distrutto ed insegnato ai loro figli» (LV, x, 7). Ciò che infine è opportuno rilevare è che il testo enochico è assai meno rigoroso sul piano dottrinale rispetto a quelli quamraniani. Forse le oscillazioni dottrinali dipendono dalla pluralità degli autori, ma certo il redattore avrebbe dovuto eliminarle o almeno attenuarle. Probabilmente egli non ebbe il necessario vigore speculativo per far quadrare il tutto. Di certo v’è che quelle che appaiono contraddizioni insanabili per il nostro pensiero contemporaneo, più attento alle categorie logiche, non erano probabilmente tali per un ebreo del primo secolo che si muoveva e si nutriva di un particolare clima religioso. In ogni caso il libro prosegue con le visioni immaginifiche di Enoc, ricche di simbolismi e di accenti apocalittici. Enoc è un intermediario tra la sfera spirituale pura del mondo celeste e quella terrena degli uomini. Quella della mediazione o dell’intercessione o, se si vuole, del messianismo costituisce un ulteriore tentativo di occultare le intrinseche debolezze della teodicea ebraica. L’attenzione puntata sul mondo intermedio lascia sfumato il problema
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della responsabilità della sfera superiore del divino e di quella inferiore umana. Enoc parla con Dio e con gli angeli e ne prende gli ordini; medita sull’origine del male e si chiede com’è stato possibile che gli angeli abbiano lasciato «il cielo eccelso e santo in eterno», incorruttibile e puro, per contaminarsi con l’uomo. Com’è possibile che «esseri spirituali, santi e viventi la vita eterna […] si siano uniti con esseri mortali e distruttibili?» (LV, xv, 3-4). Tra gli uni e gli altri non c’è comunicazione: «gli spiriti celesti hanno nel cielo la loro sede; quelli terreni, nati sulla terra, l’hanno sulla terra» (LV, xv, 10). Il «segreto abominevole», appreso dai vigilanti in contrasto con la volontà di Dio, altro non è che la scienza del bene e del male; è la scoperta della nudità e quindi della impurità e della sessualità; esso è all’origine di ogni incremento della cattiveria sulla terra. Il male è tutt’uno con la sessualità. La sez. xvii-xxi contiene un’ulteriore visione misteriosa in cui Enoc, e solo lui tra gli uomini, visita «il luogo della fine del cielo e della terra», che «è la prigione delle stelle del cielo e dell’esercito celeste», in cui sono relegati gli spiriti dei vigilanti destinati ad offrire «sacrifici ai demoni come agli dèi» (LV, xviii, 14 - xix, 1). Il mediatore, agli occhi dell’autore del Pentateuco, perde sempre più i caratteri del messia regale e nazionale e si carica sempre più di un destino spirituale: «Ed io, Enoc, io solo ho visto la scena, i confini di tutto e non vi è, tra gli uomini, chi abbia visto come ho visto io» (LV, xix, 3); «E mi disse: ‘questo luogo è la prigione degli angeli e qui essi saranno tenuti in eterno’» (LV, xxi, 10). Nei capitoli xxii-xxxvi la visione enochica è relativa al luogo della condanna eterna degli uomini che hanno trasgredito gli ordini divini. Da questa sezione si evince che l’autore crede nell’immortalità dell’anima, la quale però riguarda solo la sua parte spirituale e non anche la sua natura corporea e materiale. Si spiega per ciò perché la dottrina immortalistica non si accompagna alla fede nella resurrezione. La resurrezione (concezione estranea all’AT e derivata dalla cultura iranica) infatti implica il ritorno in vita del corpo e il ricongiungimento dell’anima col corpo. Ma la sopravvivenza, per l’autore del Pentateuco, è soltanto spirituale non solo per la vita gloriosa dei giusti, ma anche per quella tenebrosa degli iniqui. Nel misterioso luogo visitato da Enoc gli spiriti dei morti sono separati: da una parte stanno le anime dei giusti, il cui riposo è presso «una sorgente d’acqua di luce»; dall’altra ci sono le anime dei peccatori che, non giudicate durante la loro vita, sono condannate in un luogo di grande tormento fino al giorno del giudizio. A differenza dei vigilanti le cui anime saranno annientate nel giorno del giudizio, le anime dei peccatori resteranno eternamente in un luogo di tenebre («La
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loro anima non sarà uccisa nel giorno del giudizio ed essi non risorgeranno da qui», LV, xxii, 13). Dio visiterà la terra nel giorno del giudizio e darà agli eletti e agli umili i frutti dell’albero della vita con la promessa che i giusti «vivranno molta vita sulla terra come vissero i tuoi padri e, al tempo loro, non li toccherà malanno, afflizione o flagello» (LV, xxv, 1-6). Il che ancora conferma che l’assiologia ebraica ha radici terrene: il bene è assai meno un valore spirituale che uno materiale e terreno. In questa analisi si innesta la speculazione sul «resto» e sul «germoglio». Il resto è ciò che rimane di Israele; è la sparuta minoranza che si è salvata nel rispetto dei comandamenti divini; è «l’albero che era stato tagliato» e che tuttavia continua a germogliare (LV, xxvi, 1). Il germoglio è naturalmente appellativo messianico; è il virgulto davidico da cui si attende la liberazione del popolo. 2.4. I Pentateuco enochico: dal Libro dell’Astronomia all’Epistola di Enoc Il Libro dell’astronomia (LA) è perfettamente in linea con il Libro dei Giubilei; vi ricorre la stessa fraseologia, oltre che la stessa dottrina astronomica e lo stesso ordinamento del calendario. I mesi sono indicati con il loro numero d’ordine e il corso degli astri è interpretato come essenziale per la divisione del tempo e per la determinazione dei tempi stabiliti. Vi regna la stesso rigoroso predeterminismo del Libro dei Giubilei. Nella logica del predeterminismo è inclusa la possibilità dell’accorciamento degli anni «nel tempo dei peccatori» (LA, lxxx, 2). Si tratta di un predeterminismo astronomico, poiché nelle «tavole del cielo» tutto è prestabilito dai moti celesti: Guarda lo scritto delle tavole del cielo e leggi quel che vi è scritto sopra e sappi ogni cosa. Ed io osservai tutte le tavole del cielo, lessi tutto quel che vi era scritto, conobbi ogni cosa, lessi il libro e tutto quel che vi era scritto; tutte le azioni degli uomini e tutti i figli della carne sulla terra per tutte le generazioni (En, lxxxi, 1-2).
Il libro si chiude con l’ascensione di Enoc («E nel secondo anno ti si toglierà di mezzo a loro») e con la trasmissione della sua sapienza a tutta la sua discendenza («Ho dato la sapienza a te [Matusalemme], ai tuoi figli ed alle generazioni in eterno nella loro mente» (LA, lxxxii, 1-2).
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Il Libro dei Sogni (LS), capitoli lxxxiii-xc, ci presenta due visioni enochiche: la prima si riferisce al diluvio noachico, la seconda non è che un sostanziale riepilogo dell’intera storia di Israele. Il testo, che ha tonalità mistico-apocalittiche, è ricco di simbolismi numerici e teriomorfi, in parte di facile decifrazione, in parte oscuri. Tuttavia il simbolismo numerico (vi ricorrono i numeri settanta, cinquantotto e ventitré) non è utilizzabile ai fini di eventuali datazioni del testo per il semplice fatto che l’autore non ha manifestamente interesse a ricostruire la cronologia degli avvenimenti. I simboli sono suggestioni che colpiscono l’immaginario collettivo e in LS sono usati esattamente a tale scopo. Settanta è il numero degli anni dell’esilio e delle settimane di Daniele (nella logica dei giubilei) che si configura come il periodo cosmico dell’abbandono di Israele da parte di Dio; settanta sono gli angeli del male, settanta i pastori-re (sovrani babilonesi e persiani) destinati ad estirpare la radice del male dal gregge di Israele. L’autore insiste sulla ricorrenza del male e sull’inevitabile disobbedienza umana e sembra alludere a quattro periodi storici, i cui primi due si riferiscono rispettivamente alla storia della creazione fino alla conclusione della cattività babilonese e a quella che va dal ritorno in patria alla ricostruzione del tempio. Più difficilmente determinabili nella loro identità storica sono il terzo e il quarto periodo. Se è certo il loro esordio nella dominazione greca, non è ben sicuro, per l’oscurità del testo, quale sia il loro punto d’approdo. Singolare è la narrazione della ricezione dell’ascesa mosaica sul Sinai, poiché manca qualsiasi riferimento alle tavole della legge e al patto mosaico, a cui l’autore sostituisce l’istituzione del tabernacolo: «Vidi […] fin quando quella pecora divenne un uomo e costruì la casa del Signore delle pecore [Israele] e mise tutte le pecore in quella casa» (LS, lxxxix, 36). L’oscurità del passo deriva dal fatto che non è ben chiaro se l’autore si riferisce al Tempio o a Gerusalemme. Infatti, quando l’espressione «casa del Signore» ritorna in lxxxix, 50, ha evidentemente come referente Gerusalemme. Più avanti “quella casa” allude alla ricostruzione del tempio, ma nel contempo si ribadisce, prendendo le distanze dal sacerdozio sadocita, che «a tutte le pecore gli occhi erano ciechi e non vedevano», nel senso che gli israeliti erano ancora contaminati dal peccato, sicché «i loro pastori (cioè i Maestri) le consegnavano ai pastori per la distruzione in gran numero ed essi le calpestavano con i loro piedi e le divoravano» (LS, lxxxix, 72-73, 74). L’interpretazione del testo è resa ancor più complicata dal fatto che i due ultimi periodi storici sono sintetizzati nel capitolo xc, ove tra i popoli che «presero a divorare quelle pecore» sono annovera-
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te le aquile (xc, 4, 11, 16) e «i popoli sconosciuti» con probabile allusione ai romani (identificazione questa più evidente nel testo amarico che in quello ge’ez). In ogni caso il nucleo centrale del pensiero dell’autore è, in sintonia con la posizione ideologica degli esseni, la contaminazione di Gerusalemme, accompagnata dall’idea della vittoria finale di Israele su tutti i popoli della terra («E vidi fin quando fu data alle pecore una grande spada e le pecore uscirono contro quegli animali selvaggi per ucciderli», LS, xc, 19). La visione si chiude con un’ulteriore profezia circa una nuova distruzione e ricostruzione della «vecchia casa»: E stetti ad osservare finché il fuoco attinse quella vecchia casa e fecero uscire tutte le colonne e tutte le travi e gli ornamenti di quella casa si avvilupparono con esso [fuoco] […]. E vidi il Signore delle pecore fin quando fece venire una nuova casa, più grande ed alta di quella precedente e la pose nel luogo della prima […] e tutte le sue colonne erano nuove […] e tutte le pecore stavano in mezzo ad essa (LS, xc, 28-29).
Non è esclusa una larvata allusione alla fine della dinastia asmonea con la quale si conclude la tradizionale trasmissione del potere sacerdotale, così come non si può escludere che ci sia qualche riferimento ad Onia III e a Giuda Maccabeo in xc, 8-9. Il testo comunque si chiude con una vaga aspirazione ad una sorta di armonia universale di tutti i popoli sotto la guida di Israele e all’avvento di un «bue bianco» [un messia] che purificherà l’intera umanità, poiché trasformerà tutte le pecore in «buoi bianchi». Tutto ciò rende estremamente difficile la datazione di LS, che potrebbe oscillare tra la metà del secondo a.C. e l’ultimo scorcio del primo secolo a.C. La narrazione è troppo sfumata per cavarne dati incontrovertibili. L’ultima sezione del Pentateuco enochico è l’Epistola di Enoc (EE), capitoli xci-cviii. Ancora una volta l’ispirazione del testo è data come divina ed ha accenti pregiovannei: Dio è il verbum, la «parola» (in ge’ez: qāl): «la parola mi chiama – scrive Enoc – e lo spirito è scorso su di me, affinché io vi mostri tutto quel che vi giungerà nell’eternità». Enoc è ancora una volta un messia mediatore con una forte coloritura spirituale e profetica (tavole del cielo).(16) Il nucleo centrale dell’Epistola abbraccia i capitoli xciv-cviii e ruota intorno alla responsabilità umana. Il male è intrinseco alla natura di ciascuno. Anzi c’è una sorta di doppio predestinazionismo. Non solo il male è insito nella (16) EE, xciii, 2; ciii, 2; cvi, 19.
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natura umana, ma anche il bene: agli eletti infatti «sono manifeste fin dalla nascita le vie della violenza e della morte ed essi se ne tengono lontani» (EE, xciv, 2). Tra i mali l’autore include la ricchezza e la vanitosa ricerca degli ornamenti che producono un irrimediabile allontanamento dall’Altissimo. E poiché la natura umana è immutabile, inesorabile è anche il giudizio finale. In apparenza la soluzione del male sembra essere un affare umano e non divino. Non è Dio l’autore del male, ma l’uomo: Vi ho giurato, o peccatori, che come un monte non divenne né diventerà servo, né una collina serva di una donna, così il peccato non fu mandato sulla terra, ma sono gli uomini che lo hanno creato da sé stessi e quelli che lo hanno fatto sono destinati alla grande maledizione. E alla donna non fu data sterilità ma, per le azioni delle sue mani, ella muore senza figli (EE, xcviii, 4-5). Tutte le vostre azioni malvagie sono manifeste nei cieli e non v’è per voi alcuna azione di violenza coperta o nascosta […]; i peccati […] nel cielo sono scritti ogni giorno innanzi all’Altissimo.
Ma la irresponsabilità divina è solo apparente, perché quella natura peccaminosa o benefica non è frutto di una scelta umana, ma di una volontà e di una scelta divina. E questo nodo essenziale non può essere mascherato nel dualismo di luce e tenebre, di figli della terra e giusti. Nel capitolo cii il problema del male sembra derivare da reminiscenze provenienti dai testi di Giobbe e del Siracide. Se la morte e la sofferenza colpiscono tanto i malvagi quanto i puri, che vantaggio c’è a condurre una vita da giusti? Se anche il giusto muore, in che cosa – dice il peccatore – egli è migliore di me? E che cosa guadagneranno nel futuro i giusti, se anch’essi, a causa della morte, non vedranno la luce? Se tutta la nostra avventura è nella vita terrena perché non godere il possesso dei beni terreni e materiali? La soluzione dell’autore è la promessa di una vita oltre la morte; egli pensa ad una immortalità che è insieme premio e castigo; è premio per i giusti che vivranno «davanti al volto del Grande per tutte le generazioni del mondo»; è punizione per i peccatori perché «la loro afflizione sarà grande nelle tenebre, nella rete e fiamma ardente «in una condanna che durerà per tutte le generazioni in eterno (EE, ciii, 4-8). I capitoli xvi-xviii contengono la cosiddetta Apocalisse noachica che non sembra brillare per originalità di impostazione. Anzi non si comprende per-
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ché l’autore abbia voluto inserirla nel contesto della propria opera. Si insiste sulla natura divina di Noè, nato «dagli angeli […] poiché la sua residenza è con gli angeli» e «la sua creazione non è come la creazione degli uomini» (EE, cvi, 6-7, 10). Si riconosce il fallimento dell’azione devastatrice del diluvio, la quale non ha sortito i risultati sperati, perché il peccato ha nuovamente contaminato l’umanità. Anzi al diluvio che ha prodotto la distruzione della generazione di Yared, ha fatto seguito «sulla terra una iniquità maggiore della precedente» (EE, cvi, 19). Ma il problema è che l’autore non riesce ad escogitare una soluzione accettabile e la sua escatologia appare indefinita e vaga, poiché si limita a prevedere una vita di splendore per i giusti e una vita nelle tenebre per i malvagi. Le affinità con il cristianesimo sono marcate non solo sotto il profilo letterario e fraseologico, ma anche sotto quello contenutistico. Balza subito agli occhi la vicinanza letteraria con l’Apocalisse di Giovanni e con la simbologia in esso presente. Di particolare rilevanza l’idea della seconda parousia del figlio dell’uomo, del terrore dei re della terra nel giorno del giudizio, degli angeli dei venti e degli angeli santi, del Signore degli spiriti che dimorerà su di loro, della caduta dell’astro dal cielo sulla terra, della seduzione degli abitanti della terra, della tortura con il fuoco, del Signore dei Signori, della restituzione dei morti da parte degli Inferi. Ma le analogie si estendono anche alle epistole paoline, agli Atti, al vangelo giovanneo e a quello di Matteo con l’idea della giustificazione nel nome dell’eletto, dello splendore di Dio che rifulge sul volto dei santi o del santo, dei dolori della rovina simili a quelli di una partoriente, della legge fatta per gli iniqui, dell’ascensione di Enoc o del messia, del messia come il Giusto e l’Eletto, dei figli della luce, del figlio eletto, della prossimità del giudizio, del Figlio dell’Uomo che è assiso sul trono della sua gloria, dell’eredità della vita eterna, del vantaggio di non essere mai nati. La mole delle consonanze letterali e dottrinali è impressionante tanto da indurre a pensare che il Pentateuco di Enoc possa essere stato rimaneggiato da mano cristiana; in realtà esso è stato uno dei testi fondamentali nella biblioteca dei primi autori cristiani, i quali su di esso hanno meditato e sviluppato la loro cristologia. Per rendersi conto di questa osmosi ideologico-dottrinale tra la letteratura enochica e quella cristiana è sufficiente dare uno sguardo al cospicuo elenco di prestiti o comunque di richiami e affinità, contratti dalla seconda e segnalati da Charles.(17) Tra il secondo e il terzo (17) R. H. Charles, The Book of Enoch, Translated from Prof. Dillmann’s Ethiopic Text, Oxford, Clarendon Press, 1893, pp. 41-53; Id., The Ethiopic Version, cit., pp. 180-
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secolo i padri che mostrano di avere dimestichezza con la letteratura enochica sono Atenagora, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Giustino, Taziano, Minucio Felice, Ireneo, ma anche l’autore dell’Epistoladi Barnaba e quello dell’Apocalisse di Pietro. Il Pentateuco raccoglie materiali diversi, posizionati su fronti ideologici non sempre allineati fra loro, come si evince in particolare per concezioni diametralmente opposte del male nel Libro dei Vigilanti e nel Libro dei Sogni. Il redattore del primo secolo d.C. non si perita di riorganizzarli in un quadro dottrinale coerente, ma si limita a giustapporre testi la cui datazione oscilla tra il secondo secolo a.C. e il primo d.C. 2.5. La letteratura della diaspora dopo la distruzione del tempio: il fermento precristiano Forse il titolo di questo paragrafo può sembrare incongruo o, a seconda del punto di vista, irriverente o antistorico. Ma in realtà la tesi che intendo dimostrare in questo libro è che le prime comunità cristiane sorsero dopo la distruzione del tempio nella fase più acuta o più disperata della diaspora. Gli anni che vanno dal 70 al 100 d.C. sono decisivi per la elaborazione del mito cristiano e la letteratura prodotta in tale arco di tempo ce ne dà testimonianza. I testi a cui mi riferisco sono in particolare il Libro delle Parabole, l’Apocalisse siriaca di Baruc, i Testamenti dei dodici patriarchi, i Salmi di Salomone, il 4Ezra oltre a testi minori e di più modeste dimensioni, tutti anteriori alla compilazione dei Vangeli e delle epistole paoline. Si tratta di testi provenienti da vari ambienti culturali e da diversi orientamenti ideologici, i quali si possono considerare l’espressione più emotivamente partecipata del “dolore» della distruzione del tempio. Essi ci rappresentano da un lato il clima psicologico e di spaesamento di un popolo costretto a lasciare la propria terra e dall’altro la sua tormentata riflessione su temi che, pur afferendo alla tradizione, sviluppano prospettive nuove. Vi prevalgono i temi della giustizia e del male, l’incomprensibilità e l’imperscrutabilità del volere divino, la speranza di una vita oltremondana, in cui si ristabiliscono le giuste ricompense per il bene e per il male, la sensazione di una imminente fine dei tempi, come se non fosse sopportabile la sopravvivenza alla perdita del centro di culto. Si legga in proposito questa accorata pagina del 4Ezra: 181; la medesima casistica è riprodotta da P. Sacchi, Apocrifi, cit., vol. i, pp. 425-429.
544 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Tu vedi come il nostro santuario sia stato reso deserto, il nostro altare demolito, il nostro tempio distrutto, il nostro salterio annientato, i nostri inni ridotti al silenzio, la nostra esultanza dissolta; la luce del nostro candelabro estinta, l’arca della nostra alleanza spogliata; le nostre cose sacre contaminate […] i nostri sacerdoti arsi, i nostri leviti andati via prigionieri; le nostre vergini svergognate, le nostre mogli violentate, i nostri giusti rapiti, i nostri piccoli consegnati, i nostri giovani resi schiavi (4Ezr, x, 21-22).
Si tenta di comprendere il presente alla luce del passato; ci si rivolge alla propria storia per scorgervi i segni dell’intervento di Dio; si leggono in quelle pagine le attese, le speranze, il dolore, i timori, la desolazione di comunità disperse nell’area orientale del Mediterraneo. Si spiega perciò il tono apocalittico che coincide con l’attesa di un imminente intervento divino, di un’imminente rivelazione, di un giudizio finale che finalmente punisca per l’eternità i peccatori e salvi definitivamente i giusti. Sono temi che si sviluppano per lo più lungo le direttrici già percorse dall’essenismo e dall’enochismo, ma che ora acquistano una pregnanza nuova e si concentrano in modo particolare sul messianismo. Nasce il mito del messia con poteri sovrumani, perché solo un messia, nato da Dio, dotato del potere giudicare e di cancellare i peccati, può invertire il corso della storia, demolire la vecchia creazione corruttibile e malvagia e sostituirla con la nuova incorruttibile e santa. 2.6. I Testamenti dei dodici patriarchi I Testamenti ci sono pervenuti in greco, in armeno e in paleoslavo(18) (qualche frammento ebraico è stato rinvenuto nelle grotte del Qumran) e rientrano in un genere letterario ampiamente diffuso nella cultura ebraica. I dodici patriarchi (Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zabulon, Dan, Neftali, Gad, Asher, Giuseppe, Beniamino), capostipiti delle dodici tribù di Israele-Giacobbe consegnano il loro testamento (διαθήκη) alla propria (18) Pubblicati da R. H. Charles, The Greek Version of the Testaments of the Twelve Patriarchs Edited from Nine Manuscripts Together with the Variants of the Armenian and Slavonic Version and some Hebrew Fragments, Oxford, Clarendon, 1908, testo greco, pp. 1-233; testo armeno pp. 235-256; testo slavo in tr. greca, pp. 257-294; M. De Jonge, Testamenta xii Patriarcharum, Edited According to Cambridge University Library M. S. Ff, i, 24, f. 203a-261b, with Brief Apparatus Criticus, Leiden, Brill, 1970.
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discendenza. Tali testamenti hanno una comune struttura letteraria che si articola in tre sezioni: 1) la biografia, più o meno estesa, del patriarca; 2) la sezione parenetica che ha lo scopo di esortare alla virtù e a fuggire il vizio, 3) la sezione apocalittica in cui si raccomanda la fedeltà alle due discendenze di Giuda (la stirpe regale)e di Levi (la stirpe sacerdotale), poiché da esse dipende la salvezza futura attraverso il messaggio messianico. Gli studiosi segnalano l’esistenza di una serie di passi, indicati con la sigla inglese SER dalle iniziali di ‘peccato’, ‘espiazione’ e ‘ritorno’, che ne costituiscono i temi prevalenti. La prossimità dei testi al cristianesimo primitivo è tale da indurre taluni esegeti, come Becker e De Jonge, a ritenerli di origine cristiana. Più prudentemente altri esegeti ne ammettono l’originaria matrice giudaica, ma ritengono che essi abbiano subito una sorta di revisione o di manipolazione da parte di una mano cristiana. Ma forse è più equilibrato pensare che nell’originario testo giudaico siano state introdotte interpolazioni cristiane, le quali sarebbero riconoscibili per la loro pregnanza teologica. Altre interpolazioni, che si distinguerebbero per essere più banali, potrebbero essere addebitate ad un autore giudaico. Di certo v’è che per la loro tessitura generale i Testamenti appaiono una schietta produzione del tardo giudaismo, le cui tematiche centrali, sembrano evolvere in direzione cristiana. Data tale loro caratteristica, ai Testamenti si possono attribuire due distinte datazioni, la prima riferita all’originario testo giudaico e la seconda alle eventuali interpolazioni cristiane. Nel primo caso gli studiosi cattolici tendono a darne una datazione piuttosto alta e attestata per lo più al ii secolo a.C. Ne sarebbe una conferma l’accenno alla profezia delle settanta settimane, che risale a Daniele (cfr, TLv, xvi, 1-2). Ma si tratta di un’ipotesi non del tutto condivisibile, perché le datazioni, fondate su meri spunti dottrinali, non sono sempre ineccepibili per il semplice fatto che è sempre possibile che un autore si richiami a dottrine più o meno tradizionali, più o meno vicine nel tempo. Più decisivo è il dato cronologico della conquista di Gerusalemme da parte di Pompeo, accennata in TGd, xxii, 2, e ancor più l’allusione alla deposizione di Ircano II (40 a. C) e alla fine del tradizionale sommo sacerdozio con il suo passaggio nelle mani degli Asmonei (TGd, xxi, 4) che ci dà come terminus post quem il 40 a.C. D’altro canto mi sembra eccessivamente bassa la datazione delle eventuali interpolazioni cristiane al ii secolo d.C. sulla base del presupposto che l’interpolatore mostra di conoscere gran parte della letteratura neotestamentaria. Scrive Sacchi:
546 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini Nessuno stupore che vi si trovino accenni alla distruzione di Gerusalemme. Più interessante osservare che i riferimenti non sono soltanto ad un vangelo, ma un po’ a tutto il Nuovo Testamento. Sembra pertanto necessario pensare che la mano cristiana fosse di uno che conosceva già tutto il Nuovo Testamento.(19)
Ma su questo punto occorre procedere con molta cautela, perché si rischia di tagliare il testo sulla base di idee preconcette, sulla base di ciò che noi stessi riteniamo essere proprio del giudaismo o proprio del cristianesimo. Ora è bene attenersi ad un criterio rigoroso: un’interpolazione è tale solo se ha tutta la fisionomia filologica dell’interpolazione. In altri termini un’interpolazione si riconosce dal fatto che la sua espulsione non intacca la coerenza del testo. Lo stesso Sacchi si mostra in proposito molto prudente.(20) È necessario inoltre che per essere espunta, l’interpolazione sia di chiara marca cristiana, tenendo però presente che non si può escludere ogni possibile evoluzione dello stesso giudaismo in un’ottica cristiana. Altrimenti ci precluderemmo la possibilità di cogliere nei testi un eventuale processo evolutivo. Alcuni esempi rendono più palpabile la questione. Nel Testamento di Simeone, vi, 5-7, Becker, De Jonge e Sacchi(21) rilevano che l’ultimo verso («Perché Dio, prendendo un corpo e mangiando con gli uomini, li ha salvati») è così lungo da rompere il ritmo dei versi precedenti. Il che è senza dubbio vero, ma la presunta irruzione cristiana va comunque contenuta nei limiti necessari. In fondo l’autore parla di una teofania divina che salverà la discendenza di Adamo; perciò Dio, «prendendo un corpo e mangiando con gli uomini, li ha salvati». Che cos’è cristiano in quest’ultimo verso? Il Dio che prende un corpo? Ma è un concetto implicito in quello di teofania, anche se non si può negare che esso ha una particolare pregnanza per il cristiano. Il «mangiare con gli uomini»? È l’idea enochica del Dio che coabita con gli uomini. L’aver dato la salvezza? Ma quanta letteratura medio-giudaica ruota su questo tema! Se qualcosa deve essere espunto a causa della lunghezza del verso, forse è solo l’affermazione del Dio che prende un corpo. In ogni caso la nostra decisione che si tratti di interpolazione cristiana dipende dal fatto che noi, (19) P. Sacchi, Introduzione a Testamenti, in Apocrifi, cit., p. 738. (20) Ivi, pp. 738-740. (21) J. Becker, Untersuchungen zur Entstehungsgeschichte der Testamenten der zwölf Patriarchen, Leiden, Brill, 1970; M. De Jonge, Testamenta xii patriarcharum, cit.; P. Sacchi, Introduzione a Testamenti, cit., pp. 730-735.
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con un taglio arbitrario, separiamo nel testo ciò che riteniamo giudaico da ciò che riteniamo cristiano. Un analogo esempio è nel Testamento di Simeone (TSm, vii, 2): «Il Signore, farà sorgere da Levi un sommo sacerdote e da Giuda un re, Dio e uomo. ‘Così’ [oppure ‘questi’ = οὖτος)] salverà tutti i popoli e il popolo di Israele». Nella versione slava troviamo «così», ma in tutti gli altri manoscritti è preferita la lectio οὖτος (questi). Gli studiosi accolgono la versione slava, pur minoritaria, perché intravvedono in οὖτος un intervento cristiano. Ma l’impronta cristiana non sta nel fatto che il messia salverà i popoli e Israele, perché questa concezione era già presente nel medio-tardo giudaismo. Ciò che si vuole introdotto da mano cristiana è quell’οὖτος come pronome riferito al messia, Dio e uomo. Ma non ci si rende conto che l’idea di un messia spiritualizzato, Dio e uomo nello stesso tempo, era già presente nel Pentateuco di Enoc, per cui nulla vieta che l’autore dei Testamenti ne abbia ulteriormente sviluppato i contorni teologici. Perciò, salvo i casi veramente eclatanti, l’atteggiamento più razionale impone di considerare i dodici Testamenti una testimonianza o, se si vuole, una tappa del processo evolutivo che dal giudaismo conduce al cristianesimo. I Testamenti patriarcali rappresentano infatti un’ulteriore testimonianza della riflessione ebraica sul problema del male, in cui forse si fa sentire l’eco o almeno la sintonia con le tematiche dell’essenismo. L’idea che il male non sia riconducibile ad una trasgressione dell’uomo, ma ad una trasgressione che lo trascende è il tratto dottrinale comune all’essenismo, al cristianesimo e ai dodici Testamenti. Accanto al tema del male gli altri temi predominanti vertono sull’amore e sul messianismo. Il messianismo dei Testamenti oscilla fra l’idea della fine imminente e quella della fine rinviata a tempi futuri; ed è la stessa tensione che riscontriamo nel cristianesimo. Il tema dell’amore oscilla anche qui tra i due poli estremi dell’amore per il prossimo, inteso come appartenenza al popolo d’Israele, e l’amore esteso in senso universalistico. Alquanto ingarbugliata mi sembra la dottrina dei setti spiriti dell’errore cui si contrappongono i sette spiriti dati al momento della creazione (TRb, ii, 1-9). I primi sono disposti da Beliar e producono il male, per essere «le radici delle opere della giovinezza»; i secondi sono assegnati all’uomo da Dio, affinché lo guidino in ogni sua opera. Ma è come riconfermare che il male è riconducibile a Dio, poiché il settimo degli spiriti da Lui assegnati è lo spirito del seme e del coito o del desiderio del piacere da cui «arrivano in folla i peccati». Il medesimo dualismo teso a spiegare l’esistenza del male si ritro-
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va in TGd, xx, 1-4: «due spiriti seguono l’uomo, quello della verità e quello dell’inganno. E di mezzo c’è quello dell’intelligenza dell’animo» che, per essere «capace di volgersi dove vuole», è libero. Ma si tratta di una libertà fittizia, poiché la verità e l’inganno stanno scritti nel petto dell’uomo e Dio conosce le sue azioni e «non c’è attimo nel quale le opere dell’uomo possano restare nascoste […] davanti al Signore». Si tratta di un dualismo di origini metafisiche, perché è costitutivo della natura delle cose ed è insito in esse: «Dio ha dato ai figli degli uomini due vie, due volontà, due azioni, due modi di comportarsi e due fini. Per questo tutte le cose sono due a due, l’una di fronte all’altra» (TAs, i, 3-4): «Ci sono due vie, quella del bene e quella del male. Su queste si fondano le due volontà che stanno nel nostro petto». In apparenza il Testamento di Asher, come quello di Giuda, sembra puntare sulla scelta libera del bene e del male da parte dell’uomo, ma in realtà l’inclinazione al bene e al male non può non essere voluta e decisa da Dio. Il predeterminismo resta in agguato: come il vasaio conosce la capacità del vaso e usa la creta che ci vuole, così il Signore cerca il corpo a somiglianza dello spirito e mette lo spirito a seconda del corpo. Non resta fuori un terzo di capello: tutta la creazione è stata fatta secondo peso, misura e regola. E come il vasaio conosce l’uso di ciascun oggetto […] così il Signore conosce il corpo, fino a che punto sia adatto al bene e dove vada nel male. Ché non c’è immagine o idea che il Signore non conosca, perché ha creato ogni uomo a sua immagine […]; come la sua anima, così la sua parola (TNf, ii, 2-6).
Tutta la creazione dipende da un ordine prestabilito, ma i vigilanti cambiarono l’ordine della loro natura e il Signore li maledisse al tempo del diluvio» (TNf, iii, 5). Ma come fu possibile tale cambiamento? L’autore non lo dice. L’altro tema centrale nei Testamenti è quello dell’amore, tanto l’amore verso Dio quanto l’amore verso il prossimo. Sono questi i due poli entro cui la tradizionale etica giudaica assume coloriture precristiane nella disposizione verso i poveri e i malati e nell’accento a volte universalistico. Si ama Dio in quanto verità («Amate la verità»), ma si ama anche il prossimo, sconfiggendo l’invidia: «Nutrite amore ciascuno per il proprio fratello» (TRb, iii, 8; vi. 9); «Amate ciascuno il proprio fratello in bontà di cuore, così lo spiri-
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to dell’invidia sarà lontano da voi»; «Amate il Signore e il prossimo, abbiate misericordia del povero e del malato» (TSm, iii, 7; TIs, v, 2:); «Col povero ho spartito il mio pane […] ho custodito la verità. Il Signore ho amato e ogni uomo col latte del mio cuore» (TIs, vii, 5-6). In TZb, v, 1, l’universalismo diventa radicale: «vi ordino di esercitare la misericordia verso il prossimo e la compassione verso tutti, non solo verso gli uomini, ma anche verso gli esseri senza ragione». Nel TDan, v, 2-3: «Parlate la verità ciascuno col suo prossimo […]. Amate il Signore in tutta la vostra vita». Ma forse è un comandamento che Dan limita al solo Israele, in quanto lo ritiene responsabile non solo dei peccati passati, ma anche di quelli futuri. Nei capitoli iv e v il Testamento di Gad tratta dell’odio, fomite di invidia e di menzogna, che può essere sconfitto solo dalla giustizia, dall’umiltà e dall’amore (TGd, v, 2-3). È di estremo interesse in Gad il tema del perdono che si estende anche verso i peccatori nella convinzione che la vendetta spetta a Dio: «Amatevi gli uni gli altri di cuore; e se uno pecca contro di te, parlagli in pace, senza nascondere inganno dentro di te; se poi si pente o confessa, perdonagli. Ma se nega, non bisticciare con lui». «Se poi è spudorato e insiste nel male, anche in questo caso perdonagli di cuore e lascia la vendetta a Dio» (TGd, vi, 7). L’esortazione alla bontà e all’amore si accompagna nel Testamento di Beniamino con la dottrina della mente pura: chi ha una mente pura nell’amore, non guarda donna per l’impudicizia, perché non ha macchia nel cuore, ché lo spirito di Dio si riposa in lui. Come il sole non si contamina, pur guardando lo sterco e il sudiciume, ma anzi li essicca entrambi e caccia il puzzo, allo stesso modo la mente pura, per quanto a contatto con le contaminazioni della terra, edifica senza restare contaminata (TBn, viii, 1-3).
Quella dei Testamenti è un’etica di esaltazione della semplicità o meglio è l’etica dei semplici. Il capitolo iv del Testamento di Issacar è un inno alla semplicità di spirito: il semplice non desidera l’oro, non froda il prossimo, non cede in alcun modo agli spiriti dell’inganno, né alla bellezza femminile, «tutto guarda con rettitudine di cuore». La rovina dei giovani è data dalla ignoranza della verità; perciò Ruben esorta i figli a comportarsi «in semplicità di cuore e nel timore del Signore» (TRb, iii, 8; iv, 1). La coscienza del peccato tormenta (TRb, iv, 3). Il peccato di impudicizia è la fossa dell’anima, in quanto ci separa da Dio e ci avvicina agli idoli. E ciò conduce Ruben a con-
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dannare la bellezza femminile: «le donne sono cattive», πονηραὶ perché attirano l’uomo «con l’inganno della bellezza», TRb, iv, 5; v, 1-2). L’altro tema centrale dei Testamenti è il messianismo. Il Testamento di Levi è in proposito estremamente significativo. L’idea di un messia è strettamente connessa all’idea del peccato. «Quando lo Spirito del Signore si posò su di lui [sull’uomo], egli vide che gli uomini avevano smarrito la loro via, che «il peccato e l’ingiustizia si era stabilita sopra la torre». Caduto in un sonno profondo, Levi è rapito nell’alto dei cieli e un angelo lo guida fino al terzo cielo, ove è vicino al Signore. Quindi come ministro di Dio, ne svela agli uomini i misteri e annunzia chi sarà il Messia inviato per riscattare Israele; per tramite suo e di Giuda Dio appare agli uomini e salva in sé stesso il genere umano (TLv, ii, 10-11). I versetti sono sospetti di manipolazione cristiana per via dell’universalismo della salvezza; ma bisogna tener presente che l’universalismo aveva già cominciato ad affiorare nella teologia tardo-giudaica. Il passo messianico più sospetto è in TLv, iv, 4, ove si accenna, in termini apocalittici e in una prospettiva futura, alla visita di Dio attraverso la misericordia di suo figlio (ἐν σπλάγχνοις υἰοῦ αὐτοῦ) e si aggiunge che i figli di Israele gli metteranno addosso le mani per impalarlo. È evidente che qui i problemi per la teologia cristiana sono due: l’accenno al messia come figlio di Dio, che si ritiene un concetto rientrante nell’originalità del messaggio cristiano e l’uso del termine ‘impalare’, che, com’è noto, equivale a ‘crocifiggere’. Non si capisce però perché l’ignoto cristiano non avrebbe fatto esplicito riferimento al Cristo, indicandolo con il nome Gesù. Si dirà che l’operazione più semplice era quella di inserire nel contesto la piccola parolina ‘figlio’ (gr. υἰοῦ), anziché manomettere più massicciamente il testo. Ma è argomento che non regge, perché sarebbe bastato introdurre il greco Ἰησοῦ per dare una più manifesta impronta cristiana al testo. In realtà si potrebbe dire che il cristianesimo nasce quando quel futuro viene convertito in passato. Quando cioè quella prospettiva messianica continua sì ad avere una funzione apocalittica, ma nella forma di una seconda parousia, dopo che è fallita la certezza della fine imminente dei tempi. In questa linea di svolgimento della teologia ebraica il messia non è più colui che deve venire, ma è colui che è già venuto e che nel contempo promette un suo ritorno alla fine dei tempi. I testi che stiamo analizzando ci lasciano intuire il travaglio intellettuale di una comunità (forse la comunità pilota) che matura nel suo seno questo travaglio spirituale e che, staccandosi dalle ideologie esseniche o comunque tardo-giudaiche, approda sempre più chiaramente alla prospettiva del cristianesimo. Il
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nuovo messianismo è spiritualizzato, perché perde sempre più il legame con le due figure di Levi e di Giuda per divenire diretta espressione di Dio. Il sacerdozio di Levi è provvisorio e dura finché Dio non viene ad abitare fra gli uomini («Levi, ti ho dato le benedizioni del sacerdozio, finché io non venga ad abitare in mezzo a Israele», TLv, v, 2). Nella visione di TLv,viii c’è ancora la centralità del sacerdozio levitico, ma, con la nascita di un nuovo re di Giuda, essa sarà superata dalla creazione di un nuovo sacerdozio secondo l’ordine dei gentili. Alla discendenza di Levi resta il privilegio di condividere «la tavola del Signore», che è forse la prefigurazione della consumazione del pasto in comunione con Dio alla fine dei tempi. Il ritualismo di lontana matrice giudaica volge verso la cena eucaristica; e se nel Testamento di Levi siamo ancora in un orizzonte simbolico, quella cena non tarderà ad essere sacramentalizzata nelle prime comunità cristiane. Più difficile da intendere è il senso di TLv, x, ove si accenna ad una trasgressione che i figli di Israele commetteranno alla fine dei tempi contro Cristo, salvatore del mondo, ingannando Israele e suscitando l’ira di Dio; essa sarà di gravità tale da provocare la distruzione del tempio: «Gerusalemme non potrà reggere di fronte alla vostra malvagità, ma il velo del tempio si scinderà per non coprire la vostra vergogna».(22) Si può supporre, come d’altronde è stato fatto, che l’inganno sia da intendere come insegnamento di una halakah falsa, ma se si espunge la pericope «contro Cristo Salvatore del mondo», non si capisce in che cosa consiste la falsità della interpretazione della Legge. Inoltre è ben strano che un cristiano rinvii alla fine dei tempi la trasgressione contro il Cristo, anziché dire esplicitamente che essa era già stata consumata nel passato. Forse è più opportuno ammettere che l’eventuale interpolazione ha contaminato il testo in modo tale da rendercene difficile la ricostruzione del senso originale. D’altro canto il tema della persecuzione del messia ritorna in un passo neutro e non sospettabile di manipolazioni cristiane in TLv, xvi, 3, ove è inserito in un contesto in cui si parla di disprezzo delle parole dei profeti, di persecuzione dei giusti e di odio verso i pii con probabile riferimento a persecuzioni antiesseniche o contro il loro Maestro di giustizia; perciò il testo dice: «Un uomo che rinnoverà la Legge con la potenza dell’Altissimo, lo considererete un ingannatore e alla fine vi muoverete ad ucciderlo»; ed è questo grave atto che è alla base della distruzione del tempio, che non può non essere che la seconda distruzione o, se allude alla prima, vi allude prefigurando la seconda. Infine l’inno messianico che chiude il (22) Cfr. anche TBn, ix, 4.
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testamento levitico esprime la speranza di una nuova Gerusalemme, in cui scomparirà il vecchio sacerdozio e ne sorgerà uno nuovo, «quando il Signore […] farà sulla terra un giudizio di verità» (TLv, xviii, 1-2). La prossimità del cristianesimo sta nel concetto di tale rinnovamento del sacerdozio, il cui tempio si identifica con la comunità stessa dei fedeli in modo tale che in essa tutti sono sacerdoti. Ed è forse il passo più autenticamente universalistico: nel cielo sorgerà il suo astro […] brillando della luce della conoscenza […]. Sarà celebrato su tutta la terra […]; la conoscenza del Signore si riverserà sopra la terra come acqua del mare […], i cieli si apriranno […], lo spirito di intelligenza e di santità riposerà su di lui […]; egli infatti darà la maestà del Signore ai suoi figli […]. Al tempo del suo sacerdozio, i popoli cresceranno nella conoscenza sulla terra […]. Sotto il suo sacerdozio scomparirà il peccato.
Anche nel Testamento di Gad, il messia è «una stella che sorgerà da Giacobbe» e «sarà sole di giustizia», immune da peccati, «verserà su di voi lo spirito di grazia» e voi «sarete nella verità». «Questo è il germoglio di Dio Altissimo […], la fonte per la vita di tutti […]; dalla vostra radice spunterà un pollone. Da essa fiorirà un bastone di giustizia per le genti, a giudicare e a salvare tutti coloro che invocano il Signore» (TGd, xxiv, 1- 6). Si tratta però anche qui di un universalismo apparente, perché comunque presuppone l’accettazione dei valori etici e religiosi ebraici. Vale ora la pena di ritornare sulla datazione dei Testamenti e chiederci se il testo è espressione di un giudaismo che ha ormai toni precristiani o se, al contrario, è stato oggetto di manipolazioni da parte di una mano cristiana. Se ci sono chiare allusioni alla distruzione del secondo tempio, è evidente che il terminus a quo non può essere anteriore al 70. Si potrebbe obiettare che, anche se così fosse, è sempre possibile ipotizzare che una mano cristiana abbia potuto alterare il testo. Ma viene da chiedersi: dal momento che qualcuno decide di intervenire sul testo, perché farlo in maniera così blanda o quanto meno ambigua? Perché non esplicitare in modo più diretto le dottrine cristiane? Perché parlare del messia in termini così vaghi e generici, come «un uomo», «un nuovo sacerdote», «figlio di Dio», «profeta unigenito» (TBn, ix, 2), alludere alla sua passione di servo sofferente, senza mai fare il nome di Gesù? Tanto più che il presunto manipolatore cristiano, per essere tale, era certamente posteriore al 70 e comunque doveva avere piena co-
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noscenza della vicenda storica del Cristo. Perché parlare del Cristo al futuro e non al passato, come evento storico ormai consumato? L’impressione è che la datazione dei Testamenti cada tra il 70 e il 100 d.C., cioè in un periodo in cui enochismo ed essenismo assumono sempre più una configurazione precristiana e in cui il mito del messia prende via via corpo nella figura del Gesù-salvatore-redentore. È lo stesso periodo in cui Giuseppe Flavio scrive le Antiquitates, senza mai fare il minimo cenno ai cristiani. È il periodo in cui probabilmente vedono la luce testi come il 4Ezra, l’Apocalisse siriaca di Baruc, i Salmi di Salomone, il Libro delle Parabole ed una letteratura precristiana che spinge i temi dell’essenismo e dell’enochismo verso il cristianesimo. Insomma è il periodo in cui il mito del messia redentore è in fermentazione, ma non si è ancora concretizzato nella figura di Gesù. Sicché la mano dell’interpolatore è una mano cristiana, ma solo nel senso che proviene da qualche comunità che, sotto l’influenza ellenistica, ha trasformato il concetto di «re unto» in «profeta redentore», ma non lo ha ancora identificato con Gesù. 2.7. I Salmi di Salomone I Salmi di Salomone (SS) ci sono pervenuti in versione greca e siriaca e sono databili – a parere di Holm-Nielsen(23) – al primo secolo d.C. La giustizia (ședeq), il giusto (șaddiq) o i giusti (șaddiqim), le azioni giuste (ședaqah), sono i temi centrali, e direi, quasi ossessivi, sviluppati nei Salmi. Il soggetto del primo salmo è Sion che parla agli Israeliti della persecuzione subita a causa dei loro peccati. Ma in Sion è raffigurato lo stesso Israele ed è lo stesso Israele che riflette sui propri peccati commessi «nel segreto» e confida nella giustizia divina: Dio «mi ascolterà perché sono piena di giustizia». Ma da dove viene la certezza di essere nella giustizia? Ne è forse un indizio la prosperità? «Ho pensato nel mio cuore che ero piena di giustizia perché prosperavo ed avevo molti figli» (SS, i, 3). E tuttavia la prosperità produce l’incremento della ricchezza e da questa deriva la superbia che è alla radice dei peccati e dell’illegalità («Le loro illegalità erano superiori a quelle dei gentili […] hanno profanato irrimediabilmente le cose sante del Signore», SS, i, 8). Nel secondo salmo l’autore prende le distanze da Gerusalemme, allude alla profanazione del tempio da parte di Pompeo («Salirono al mio altare (23) S. Holm-Nielsen, Die Psalmen Salomos, Gütersloh, Mohn, 1977.
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genti straniere e lo calpestarono orgogliosamente con i loro calzari», SS, ii, 2), ma è certo la giustizia divina che si è abbattuta sui peccatori: Dio con le sue «giuste sentenze» «li ha trattati secondo i loro peccati e li ha abbandonati nelle mani dei loro vincitori» (SS, ii, 7, 10). La giustizia divina ristabilisce l’ordine infranto dalle illegalità e dalle ingiustizie degli israeliti ed è perciò giustificata («Io ti giustifico o Dio in rettitudine di cuore», perché «Dio è un giudice giusto e non ha riguardi per alcuno»). L’invasione dei gentili non è che la giusta punizione divina e rientra in un piano provvidenziale (SS, ii, 15-19). La mano di Dio si è levata contro i re usurpatori, che si sono illusi di essere «Signori della terra e del mare»; «Dio distingue tra il giusto e il peccatore», perché «ripaga i peccatori per l’eternità secondo le loro colpe, ha pietà del giusto a causa del tormento del peccatore e ripaga il peccatore per ciò che ha fatto al giusto» (SS, ii, 34-35). Il terzo salmo esclude la volontaria caduta del giusto nel peccato: «Il giusto si ricorda sempre del Signore […] quando inciampa, giustifica il Signore […], guarda nella direzione da cui verrà la sua salvezza. La certezza dei giusti viene dal Signore, loro salvatore» (SS, iii, 3-6). Il che significa che l’ingiustizia commessa dal giusto è commessa per errore, a differenza del peccatore che, quando inciampa, «maledice la sua vita, il giorno della nascita e le doglie della madre». Ne consegue che per il salmista, che crede nell’immortalità dell’anima, le prospettive escatologiche degli uni e degli altri sono opposte: «la rovina del peccatore è per sempre» e «per l’eternità» e di contro «i giusti, che temono il Signore, si rialzeranno per la vita eterna» (SS, iii, 1112). Il quinto salmo è una vera e propria invettiva contro l’empio (βέβηλος) che siede nell’assemblea dei pii; «la sua lingua […] è menzognera; di notte e in segreto pecca come se non potesse essere visto», vive nell’ipocrisia, «parla ingannevolmente da uomo rispettoso della legge»; è insaziabile («di tutte le cose la sua anima, come lo Sheol, non è mai sazia» SS, iv, 4-13). Nel salmo ottavo, il salmista, che vive nella diaspora ed è ormai più distaccato dalla tradizione giudaica, sembra dare alla giustizia divina un respiro universale poiché la estende a tutti i popoli della terra; anzi le stesse sentenze divine che portano alla distruzione del tempio, rientrano in questo principio universale di giustizia: «Dio è stato riconosciuto giusto nelle sentenze emesse in mezzo ai popoli della terra; e i pii di Dio sono come agnelli innocenti in mezzo a loro. Merita la lode il Signore che giudica tutta la terra con la sua giustizia […]; tu sei il Dio della giustizia che giudica Israele castigandolo» (SS, viii, 23-26). Lo stesso universalismo è presente nel nono salmo («Tu sei il giudi-
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ce giusto di tutti i popoli della terra», SS, ix, 2), associato ad un messianismo legato all’idea del liberatore regale. Il tema della diaspora induce il salmista ad una riflessione sulla responsabilità collettiva. Se la diaspora è la punizione che colpisce Israele per le sue colpe, non ne patiscono le conseguenze solo i peccatori; i giusti e i pii subiscono una pena che è causata dalle illegalità commesse da altri. Ma le responsabilità sono individuali, perché «le opere di giustizia dei pii sono davanti a Dio» e nessuna azione può essere nascosta a Dio, nessuna ingiustizia può rimanere impunita (SS, ix, 3-4). L’autore non si pone il problema filosofico del conflitto tra misericordia e giustizia divina, ma apre in qualche modo la via al perdono, perché Dio purifica «l’anima che è nei peccati quando essa li confessa e li riconosce […]. E a chi perdonerai i peccati se non ai peccatori? (SS, ix, 6-7) Lo stesso tema ricorre nel decimo salmo, ove la giustizia divina («Giusto e santo è il nostro Signore nelle sue sentenze per sempre») non esclude la pietà e la misericordia divine («Dio avrà pietà dei miseri […] buono e misericordioso è il Signore», SS, x, 5-7). Per il Salmo xiii la rovina finale toccherà solo il peccatore pervicace, privo di pentimento, e salverà il giusto (SS, xiii, 6); anzi la punizione del giusto è fatta in segreto, «affinché il peccatore non gioisca del giusto, perché Dio ammonisce il giusto come un figlio prediletto e la sua correzione è come quella del primogenito» (SS, xiii, 8-9; xviii, 4). Il Salmo xiv pone l’accento sulla reciproca fedeltà del Signore ad Israele come corrispettivo della fedeltà di Israele al Signore. In ciò il salmista accenna ad un rinvio alla Legge e ai precetti (Dio è benevolo con «coloro che camminano nella giustizia dei suoi precetti, nella Legge che ci ha prescritto per la nostra vita» (SS, xiv, 2). Ai pii è promesso il paradiso («I pii del Signore vivranno in Lui per sempre: il paradiso del Signore, gli alberi della vita sono i suoi pii», SS, xiv, 3), ma con la limitazione, tipicamente giudaica e tradizionale, che «la parte e l’eredità di Dio è Israele» (SS, xiv, 5). Il Salmo xvii è quello più strettamente messianico. Dio è il re, il salvatore d’Israele per tutta l’eternità. Il regno d’Israele, essendo «il regno di Dio», «si estende per sempre sui gentili con il giudizio» (SS, xvii, 3). Il potere regale è riservato a David e alla sua discendenza. Ed è una presa di posizione contro gli Asmonei che si sono «impadroniti con violenza» del trono di David, «hanno fondato una monarchia» e il Signore ha fatto sorgere contro di loro uno straniero [intendi Pompeo]. La fedeltà di Dio al suo popolo è dimostrata dalle sentenze da lui pronunciate sulla terra. Gerusalemme fu contaminata dalla presenza degli stranieri e dalla celebrazione di culti pagani. Perciò
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Israele fu disperso [diaspora] e Gerusalemme diventò inospitale per gli stessi israeliti, sicché «coloro che amavano le assemblee dei pii» «fuggirono […] come passeri che volavano via dal loro nido. Vagavano in luoghi deserti per salvarsi dal male» (SS, xvii, 16-17). Le assemblee dei pii sono probabilmente le comunità degli esseni, da cui si staccarono verosimilmente nella diaspora le prime comunità cristiane. Ma il salmista intende ancora il messianismo in senso tradizionale; invoca un messia davidico: «Signore fa sorgere per loro il loro re, figlio di David […] che possa spezzare i governanti ingiusti e purificare Gerusalemme» (SS, xvii, 21-22). Dio «non permetterà che l’ingiustizia abiti ancora» tra gli israeliti; il loro re «sarà giusto ed ammaestrato da Dio e non ci sarà nei suoi giorni ingiustizia in mezzo a loro perché tutti saranno santi e il loro re sarà l’Unto del Signore»; «Dio lo ha reso forte con uno spirito santo e lo ha reso maestro con sapiente prudenza unita a forza e giustizia» (SS, xvii, 32-33, 37). Ma la sua venuta è rinviata ad un futuro indefinito: «beati coloro che vivranno in quei giorni così da vedere […] il bene di Israele che Dio preparerà» (SS, xvii, 44; xviii, 6-7). Accanto al messianismo, l’altro tema che sta nell’ossatura dei salmi è quello della povertà e dell’avversione contro la ricchezza e i potenti della terra. «Tu sei il rifugio del misero (πτωχός)» e «la speranza del misero» (SS, v, 2, 11). A tratti sembra che la tutela di Dio non sia più riservata al solo popolo d’Israele, ma abbia una dimensione più ampia; il conflitto non è più giudei/ gentili, ma miseri/potenti. Perciò la misericordia di Dio «si estende su tutta la terra», pur accanto alla centralità di Israele che costituisce «il regno di Dio» (βασιλεία τοῦ θεοῦ)(24) che richiama alla mente la cristologia di Matteo. Questo spunto ci consente forse di comprendere meglio l’ambiente d’origine dei Salmi di Salomone. Qual è l’ideologia del salmista? È difficile dare una risposta puntale a questa domanda se si pretende di inquadrare l’autore entro una delle sette storicamente note. Non si può dire che egli fosse un sadduceo, perché ammette l’immortalità dell’anima e forse anche la resurrezione e per di più sembra schierarsi sul versante degli umili e dei poveri a differenza dei sadducei che appartenevano ad una classe agiata come quella sacerdotale. Né sembra che si possa iscrivere alla corrente farisaica perché dà poco spazio alla legge e alla precettistica. È escluso che possa collocarsi nel movimento degli zeloti, perché non pone alcun particolare accento sulla guerra e sullo spirito di rivolta. Le affinità maggiori si possono riscontrare con gli esseni. Infatti accenna, anche se vagamente, a comunità che si sono (24) SS, v, 15, 18.
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rifugiate nel deserto; ma il suo messianismo, per essere prettamente di stampo nazionalistico, non sembra conciliabile con i due messia di Giuda e di Aronne o anche con l’unico Messia di Giuda e di Aronne, ovvero con l’unto che ha nel contempo una funzione regale ed una sacerdotale. Il messia degli esseni o il loro maestro di giustizia è assai più vicino al cristianesimo di quanto lo sia quello del salmista. D’altro canto nel salmista il tema della giustizia è il tema fondamentale fino ad apparire ossessivo e comunque più pregnante rispetto alla letteratura essenica. Tuttavia le nostre difficoltà nascono dal fatto che noi tendiamo a definire i contorni dottrinali delle sette ebraiche in termini eccessivamente rigorosi, sulla scorta, spesso, dei reports consegnatici da Filone, Giuseppe, Plinio ed altri. E così facendo li fossilizziamo in categorie standardizzate che, se possono esserci utili per orientarci nel marasma dell’orizzonte culturale intertestamentario, talvolta costituiscono un impedimento ad una comprensione più elastica dei processi evolutivi interni a ciascun gruppo settario. Così a me pare verosimile che il salmista appartenga ad una comunità originariamente essenica che nella diaspora ha maturato una propria visione del mondo, scostandosi, positivamente o negativamente, in una o in un’altra direzione, dalle problematiche dell’essenismo, ma più sostanzialmente sui conflitti sociali e politici tra povertà e miseria da una parte e ricchezza, potere e disordine etico dall’altra e sulla concezione di un messia dai caratteri umani più che sovrumani. Ciò forse induce a pensare che egli appartenesse a qualche comunità di ebioniti (ebr. ‘ebionim= אביוניםpoveri) giudaizzanti. Sfortunatamente conosciamo molto male i contorni dottrinali di tale setta e possiamo solo supporre che essi si trovassero nella condizione sociologica di emarginati e di vittime dei poteri arroganti del loro tempo. Assai verosimilmente essi si staccarono dall’essenismo, con cui sembrano condividere alcuni tratti dottrinali, e, rimanendo nel quadro del giudaismo medio, non tardarono ad entrare in rotta di collisione con il cristianesimo nascente. 2.8. L’Apocalisse siriaca di Baruc L’Apocalisse siriaca di Baruc (AB) ci è pervenuta anche in versione latina ed è del primo secolo d.C.,(25) posteriore alla caduta di Gerusalemme nel 70 (25) Pubblicata da A. M. Ceriani, Monumenta sacra et profana, cit., t. i-2, pp. 7398. Il frammento greco è pubblicato da B. P. Grenfell -A. S. Hunt, The Oxyrhynchus
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e anteriore al 135 d.C. Naturalmente si tratta di un’opera pseudepigrafa. Anche essa ruota attorno al tema della giustizia. L’opera si apre con la vivace e desolante narrazione della devastazione del tempio. È Dio che parla a Baruc e gli preannuncia la dispersione del popolo di Israele: «Ecco, io faccio venire il male [nel senso di punizione] su questa città […]; la toglierò dalla mia presenza per un certo tempo e disperderò questo popolo tra i popoli» (AB, i, 4). Baruc è preso da un profondo dolore: «per questo sono venuto al mondo, per vedere il male di mia madre? [intendi Sion-Gerusalemme]. E se il Signore devasta e disperde il suo popolo, chi ricorderà il nome di Israele? E a chi sarà data la spiegazione della legge? Dio ricorda a Baruc che il tempio distrutto è lo stesso che egli aveva progettato di costruire nell’Eden, lo stesso che mostrò a Mosè sul Sinai col modello della tenda mobile (la sukkot) che accompagnò il popolo nel deserto. Mentre è in preda al dolore, Baruc è come rapito in alcune visioni: la prima è data dall’incendio del tempio ad opera di quattro angeli; i profanatori del tempio entreranno fin nel sancta sanctorum, ma non si impadroniranno di Lui perché «se ne è andato colui che custodiva la casa» (AB, viii, 2). La desolazione di Sion ricorda l’abominio della desolazione di cui parla Daniele. «Beato chi non è nato – mormora Baruc – o chi è nato ed è morto! Guai a noi invece, noi, quanti siamo vivi, perché viviamo il dolore di Sion e quel che è accaduto in Gerusalemme!» (AB, ix, 6-7). Il dolore che dovrebbe essere condiviso dall’intero popolo e che è la conseguenza di peccati consumati da tutte le generazioni cade sulle spalle di una sola generazione. Se non c’è più la speranza nei frutti del proprio lavoro, l’agricoltore non semina più e non produce più vino, perché in Sion non si offriranno più le primizie. Persino il sole e la luna trattengono la luce dei loro raggi e le donne non generano. Baruc è chiamato ad essere testimone della giustizia divina che si è abbattuta su Sion. «Il giudizio dell’Altissimo» non fa discriminazioni «e per questo non ha risparmiato i suoi figli, ma li ha tormentati come suoi nemici», AB, xiii, 8-9). Ma una volta che ha conosciuto «il corso dei tempi» e «tutto ciò che accadrà dopo questo tempo, il profeta si chiede qual è il senso di tutta l’operazione: «Quale profitto c’è in questo? […] Cosa hanno guadagnato coloro Papyri, part. iii, fr. n. 404, London, Kegan Paul, 1903, pp. 3-7. La versione araba è edita da F. Leemhuis - A. F. J. Klijn - G. J. H. Van Gelder, The Arabic Text of the Apopcalypse of Baruch, Leiden, Brill, 1986, pp. 16-138; per le traduzioni, cfr. P. M. Bogaert, L’apocalypse syriaque de Baruch, Paris, Éditions du Cerf, 1969.
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che hanno avuto conoscenza davanti a te e non sono andati nella vanità» e non hanno chiesto ai morti di restituirgli la vita?» (AB, xiv, 3-5). E che dire dei giusti? Dio non ha avuto misericordia di Sion neppure per loro. Se è vero che molti sono stati peccatori, «si esigeva che si perdonasse Sion per le opere di coloro che avevano praticato il bene» (AB, xiv, 7). «Chi, mio Signore, comprenderà il tuo giudizio? Chi investigherà la profondità della tua via? Chi calcolerà la gravità del tuo sentiero? Chi potrà calcolare la tua incomprensibile intelligenza?» (AB, xiv, 8-9). Di fronte alla imperscrutabilità del giudizio divino c’è la vanitas dell’essere umano: «Noi siamo simili a un soffio» (AB, xiv, 10). I giusti sono sotto la tua protezione e perciò non hanno nulla da temere dalla morte, ma noi, che abbiamo il fardello dell’obbrobrio, attendiamo i mali che ci colpiranno alla fine dei tempi: «Noi non possiamo comprendere affatto alcunché come te, nostro plasmatore» (AB, xiv, 15). Che è quanto dire che la giustizia divina sfugge alla comprensione umana. Per questi tratti il profeta di Baruc ha affinità con il libro di Giobbe. Egli osa parlare a tu per tu con Dio e giunge quasi a rimproverarlo: «Avevi detto che avevi creato il mondo per l’uomo e non viceversa e invece ora ci accorgiamo che il mondo, che era stato fatto per noi, resta e noi invece […] andiamo» (AB, xiv, 16-19). Dio gli risponde prospettando una duplicazione del mondo: questo mondo costa ai giusti lavoro e fatica, quello futuro «sarà la corona in grande gloria» (AB, xv, 8). Ma di nuovo Baruc obietta: «Signore, mio Signore, gli anni di ora sono pochi e cattivi, chi potrà in questo breve tempo ereditare quel che non ha misura?» (AB, xvi, 1). All’ovvia risposta divina per cui per l’Altissimo non contano né i tempi lunghi né i pochi anni, Baruc replica: «Chi ha dato la luce ha preso dalla luce, ma pochi gli sono simili». Molti invece «hanno preso dalla tenebra di Adamo e non si sono deliziati della luce della lampada» (AB, xviii, 1-2). Dio risponde che fin dall’inizio, quando si stabilì il patto, Egli pose davanti ad Israele la vita e la morte. Perciò i giorni che verranno saranno affrettati, passeranno più velocemente di quelli presenti, in funzione della visita del Signore. Poiché la ricompensa delle azioni, cioè del premio per le azioni buone e del castigo per le cattive, non si consegue nella vita della terra, Baruc volge l’attenzione al tema dell’immortalità: la condotta umana è ininvestigabile, anche perché la natura dell’uomo non è fissa, ma è soggetta al mutamento («Ora non siamo come eravamo prima e poi non resteremo come siamo ora» (AB, xxi, 13-16). Che senso avrebbe la vita se si riducesse per intero alla vita terrena? «Se infatti vi fosse solo la vita di qui, nulla sarebbe più amaro di ciò».
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Perciò Baruc chiede al Signore quando scadrà il tempo dell’esistenza del corruttibile e del mortale? «Sgrida dunque l’angelo della morte […] sia sigillato lo Sheol così che da ora non prenda più i mortali e i depositi delle anime restituiscano quelle rinchiuse in loro» (AB, xxi, 23). Dio rimprovera Baruc, dicendogli che egli «si affretta verso qualcosa di cui non è a conoscenza»; gli ricorda tanto le generazioni passate quanto le future; tutto è stato predeterminato; quando fu decretata la morte per gli uomini, fu contata la moltitudine di coloro che sarebbero nati e, finché tale numero non si sarà esaurito, la creazione non vivrà: lo spirito divino crea la vita e lo Sheol per i morti. Baruc deve ancora sapere ciò che verrà dopo questi tempi, perciò Dio lo avverte: «La mia salvezza è prossima a venire, non è lontana come prima» (AB, xxiii, 5-7). Nella descrizione dei tempi della giustizia per i giusti e delle tribolazioni per gli empi, il racconto apocalittico di Baruc si riempie di simbolismi numerici, del resto caratteristici della tipologia letteraria, come si può riscontrare anche nell’Apocalisse di Giovanni. Con il capitolo xxxi Baruc torna al popolo, fa radunare gli anziani della valle del Cedron e riaccende in loro il ricordo dei «dolori di Gerusalemme». Accenna alla prima e alla seconda distruzione: «Quell’edificio non resterà, ma dopo un certo tempo sarà nuovamente sradicato e per un certo tempo resterà desolato» (AB, xxxii, 3). Il dolore è compensato dalla certezza che il «Potente rinnoverà la creazione». Poi, tornato al luogo santo, Baruc ha una nuova visione mistica, in cui scorge in una foresta di alberi la crescita di «una unica vite», sotto la quale «usciva una fonte» (AB, xxxvi, 3), le cui acque devastarono la foresta e abbatterono tutti i monti. È lo stesso Dio che spiega a Baruc il significato del suo sogno e gli rivela che verrà un tempo in cui si succederanno quattro regni che si distruggeranno l’uno dopo l’altro e quando si sarà avvicinato il tempo del compimento dell’ultimo regno, «allora sarà rivelato il principato del mio Unto, simile alla fonte e alla vite. E quando sarà stato rivelato, esso sradicherà la moltitudine della sua assemblea» (AB, xxxix, 6-7). Qui l’apocalittica si intreccia con il messianismo: faranno salire sul monte Sion l’ultimo condottiero il quale sarà giudicato dall’unto del Signore, che lo accuserà di empietà e sarà ucciso. «Il suo principato starà per sempre, fino a che non sarà compiuto il mondo della corruzione […]. Passa, infatti, tutto quanto è corruttibile e se ne va tutto quel che muore e sarà dimenticato tutto il tempo di ora e non vi sarà ricordo del tempo di ora […]. V’è infatti un tempo che non passa e v’è un momento che resterà per sempre e un mondo nuovo che non condurrà alla corruzione». Coloro che «erediteranno questo
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tempo», cioè il tempo promesso, sono «coloro che si sono acquistati depositi di sapienza» (AB, xliv, 11-14). Anche quando Baruc sarà rapito nei cieli, «non mancherà ad Israele il sapiente né mancherà il figlio della legge alla stirpe di Giacobbe. Solo voi preparate i vostri cuori ad ascoltare la legge, sottomettetevi a coloro che in timore sono sapienti ed intelligenti e preparate le vostre anime, affinché non vi allontaniate da loro» (AB, xlvi, 4-5). Il capitolo xlviii è un po’ la chiave di volta dell’opera; nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur), avviene la conversione di Baruc che accoglie la volontà di Dio: Non adirarti contro l’uomo, perché è nulla e non pensare alle nostre opere. Che siamo infatti? Ecco infatti per tuo dono veniamo al mondo e ce ne andiamo non di nostra volontà […]. Confidiamo in te perché, ecco, la tua legge è presso di noi e sappiamo che non cadremo finché manterremo le tue alleanze […]. Saremo sempre beati […] perché non ci siamo mescolati ai popoli. Noi tutti infatti siamo un unico popolo rinomato, perché abbiamo ricevuto l’unica legge (AB, xlviii, 14-15, 22-24).
La creazione nuova è anche il rinnovamento dei tempi; coloro che si sono contaminati saranno divorati dal fuoco: «Verrà infatti un giudice e non tarderà, perché ciascuno degli abitanti della terra sapeva, quando commetteva scelleratezze, e non conobbero la mia legge per il loro orgoglio» (AB, xviii, 3-40). Nel capitolo l è chiaramente ammessa la resurrezione: «la terra allora renderà i morti che ora riceve per custodirli, senza che alcunché sia mutato e, come li ho consegnati a lei, così anche li farà risorgere. Allora infatti si dovrà mostrare ai viventi che i morti sono vissuti e che coloro che erano andati sono venuti» (AB, l, 1-3). Anche i giusti saranno trasfigurati: «Vedranno quel mondo che ora non è loro visibile» e «saranno simili agli angeli e paragonabili alle stelle, si muteranno in qualsiasi somiglianza vorranno, di bellezza in decoro e di luce in splendore di gloria» (AB, li, 9-10). Il peccato di ogni singolo non ha più la sua matrice in quello di Adamo. «Non è il peccato di Adamo la causa, se non per sé solo. Noi tutti, ognuno di noi è divenuto Adamo a sé stesso» (AB, liv, 19). Ognuno è responsabile per sé; è escluso il peccato originale; la peccaminosità non è imputabile ad Adamo; si chiude il ciclo della responsabilità collettiva per cui i figli scontano le colpe dei padri; la responsabilità è individuale e personale; ciascuno risponde delle proprie azioni malvagie. Quando verrà il tempo del suo Unto, «egli
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chiamerà tutti i popoli e ne farà vivere alcuni e altri ne ucciderà» (AB, lxxii, 2). Vivranno i popoli che non avranno calpestato il seme di Giacobbe e saranno consegnati alla spada coloro che avranno dominato su di voi. Solo allora si allontanerà la malattia, cesseranno l’odio e l’invidia, si sopiranno le passioni che hanno riempito il mondo di mali e le donne non avranno più la sofferenza del parto. Sarà quello il tempo del compimento della corruzione e il principio di ciò che è incorruttibile (AB, lxxiii, 1-7; lxxiv, 2). 2.9. Il quarto Ezra Scritto probabilmente in ebraico o aramaico e in greco, il Quarto libro di Ezra (4Ezra),(26) ci è pervenuto nelle versioni latina, siriaca, araba, etiopica, armena e georgiana, tutte condotte a partire dal testo greco perduto. Gli studiosi sono concordi nel collocarlo alla fine del primo secolo d.C. È forse uno dei testi più significativi di tutta la letteratura apocrifa, la cui veicolazione è avvenuta principalmente in ambienti cristiani, come dimostrano le citazioni che di esso si rinvengono in Clemente Alessandrino, nelle Costituzioni apostoliche pseudo-clementine, in Tertulliano e in più tardi autori cristiani. Si conviene generalmente che i primi due e gli ultimi due capitoli siano da considerare manipolazioni di mano cristiana. L’opera si articola in sette visioni, il cui tema centrale è quello del male. Il soggetto delle visioni è Salathiel «chiamato anche Ezra» che, come si intuisce subito, non ha nulla a che fare con l’altro Ezra, presunto autore degli omonimi libri, di cui si è già parlato.(27) Nella prima visione il peccato è fatto risalire ad Adamo, che ricevette da Dio «un solo comandamento» e lo trasgredì e subito Dio istituì la morte contro di lui e contro la sua discendenza. Quando poi il Signore scosse la ter(26) Il testo latino è stato pubblicato da G. Volkmar, Handbuch der Einleitung in die Apokryphen, 2. Das vierte Buch Esra, Tübingen, Fues, 1863, pp. 3-213; per il testo etiopico v. A. Dillmann, Biblia Veteris Testamenti Aethopice, Berolini, Ascher, 1894, pp. 153193. A. Hilgenfeld, Messias Judaeorum, libris eorum Paulo ante et Paulo Post Cristum natum conscriptis illustratus, Lipsiae, Fues, 1869, ha pubblicato del 4Ezra il testo greco (pp. 36-113), il testo latino (pp. 114-211), la versione latina di Antonio Maria Ceriani del testo siriaco (pp. 212-261), la versione latina di F. Praetorius del testo etiopico (pp. 262322), la versione latina di Hermann Steiner del testo arabo (pp. 323-377) e la versione latina di Julius Heinrih Petermann del testo armeno (378-433). (27) Cfr. supra, 14.12.
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ra e la devastò con il diluvio, fece tremare gli abissi, scompigliò il mondo, ma non trasse via agli uomini «il cuore maligno» in modo che la sua legge «desse in loro dei frutti» (4Ezr, iii, 20). Sicché, quando per volere divino fu fondata la monarchia davidica, gli israeliti «peccarono […] come avevano fatto Adamo e tutta la sua posterità»; anch’essi «si erano rivestiti di cuore maligno» (4Ezr, iii, 26). A causa di tali colpe per volontà divina essi furono consegnati nelle mani dei nemici, i quali non erano migliori degli ebrei: «Ho visto come tu tolleri i peccatori e rispetti chi si comporta male, mentre hai distrutto il tuo popolo e risparmiato i tuoi nemici» (4Ezr, iii, 30). Ezra non riesce a darsi ragione della decisione divina, ma gli viene incontro l’angelo Uriel, il quale gli spiega che i decreti divini sono imperscrutabili per l’uomo. Come non si può calcolare il peso del fuoco o misurare un moggio di vento o far ritornare un giorno passato, così non si possono conoscere le vie dell’Altissimo, perché le due sfere del corruttibile e dell’incorruttibile sono incomunicabili. E chi è corruttibile non può «comprendere la via di chi non lo è» (4Ezr, iv, 10). Ma la spiegazione non convince Ezra, perché, egli dice, seguendo un ragionamento non dissimile da quello di Baruc, «sarebbe stato meglio che non fossimo mai stati qua, piuttosto che essere venuti e vivere in mezzo all’empietà, soffrire e non capirne la causa» (4Ezr, iv, 12). Uriel replica che «come la terra è stata data alla selva e il mare ai flutti, così anche coloro che abitano la terra possono capire solo le cose che accadano sulla terra e solo colui che abita nel cielo può capire le cose che accadono al di sopra delle loro teste» (4Ezr, iv, 21). Ma allora – controbatte Ezra – perché ci è stata data la facoltà del comprendere? Io non chiedevo di sondare «le vie alte, ma solo quelle che passano tra noi ogni giorno». Perché Israele è stato consegnato nelle mani dei nemici? «Da questo mondo passiamo come cavallette e la nostra vita è come fumo e non siamo degni di ottenere misericordia» (4Ezr, iv, 2324). Il disvelamento di questi misteri è rinviato alla fine dei tempi con l’avvertimento che «questa età sta trascorrendo via alla svelta»; questo tempo è incapace di portare a buon fine le promesse fatte ai giusti, perché «è un’età piena di tristezza e di malanni […] non è ancora venuto il tempo di mietere ciò che è stato seminato» (4Ezr, iv, 27-28). Fin da principio «nel cuore di Adamo venne seminato un grano di malo seme» e la sua eredità «ha generato frutti di empietà fino ad ora» (4Ezr, iv, 30). Ma tutto ciò non durerà in eterno e cesserà quando si completerà il numero delle anime dei giusti che sono racchiuse nei loro depositi. Ma allora perché il raccolto dei giusti è impedito? La risposta di Uriel è che tutto ha un tempo stabilito. Come una donna non
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può partorire se non al compimento della gravidanza, così gli inferi (per gli empi) e i depositi per le anime giuste sono come il grembo, soggetto ai dolori della partoriente e ai tempi stabiliti per il parto. Ma almeno – chiede Ezra – è possibile sapere se è maggiore il tempo del passato o quello che deve venire? Perché «Io so quel che è passato, ma quello che accadrà lo ignoro» (4Ezr, iv, 30). Uriel gli risponde che «come la pioggia è più grande delle gocce e il fuoco è più grande del fumo, così la quantità di quel che è passato è di gran lunga maggiore» (4Ezr, iv, 50). Alla fine dei tempi ci sarà una grande confusione e ci sarà la devastazione di tutto ciò che è corrotto e peccaminoso, «l’aere si muterà, regnerà colui [il Maligno] nel quale non sperano quelli che abitano la terra […]; la saggezza si nasconderà e l’intelligenza se ne resterà isolata nei suoi depositi […]; si moltiplicheranno ingiustizia e incontinenza» (4Ezr, v, 5-10). Con questa catastrofe finale si chiude la prima visione. La seconda visione riproduce le tematiche già espresse nella prima; presenta però una novità, o se si preferisce un chiarimento, riguardo alla fine dei tempi, la quale non si caratterizza più solo per la devastazione, ma anche per la salvezza. Accadrà cioè che il giusto sarà salvato e vedrà la mia salvezza e la fine del mio mondo […], il male verrà distrutto e la frode si estinguerà, mentre la fedeltà fiorirà, la corruzione sarà vinta, ed apparirà la verità, che era rimasta senza frutto per tanto tempo (4Ezr, vi, 25-28).
La terza visione è un riepilogo della creazione o, se si vuole, è una rilettura della Genesi. L’autore ritorna sul peccato di Adamo e sulla sua natura mortale, sul popolo primogenito, sulle trasgressioni della legge, sulle posizioni estreme di coloro che dichiarano l’inesistenza dell’Altissimo, sulle deviazioni dai patti, dai precetti e dalla legge e puntualizza: «Il vuoto è per chi è vuoto e il pieno per chi è pieno» (4Ezr, vii, 25). Rispetto alle prime due visioni la novità è qui data da un più congruente messianismo. Quando arriverà il tempo […] la città ora nascosta apparirà […] e tutti quelli che siano stati liberati dai mali […] vedranno i miei prodigi. Infatti si rivelerà il mio servo, il Messia, assieme a coloro che sono con lui, e farà gioire per quattrocento anni coloro che saranno rimasti. E dopo questi anni accadrà che muoia il mio servo il Messia e tutti coloro in cui è respiro d’uomo; il mondo tornerà al suo antico silenzio per sette giorni come all’inizio
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primordiale […]; dopo sette giorni accadrà che l’età non ancora sveglia si desterà e perirà quella corruttibile; la terra restituirà coloro che dormono in essa, la polvere coloro che vi abitano in silenzio, i depositi le anime che sono state loro affidate e si rivelerà l’Altissimo sul trono del giudizio; verrà la fine, passerà la misericordia, si allontanerà la compassione […], si ergerà la verità, prenderà vigore la fede, seguirà la ricompensa, verrà mostrata la retribuzione, si desteranno le azioni giuste e quelle ingiuste non dormiranno (4Ezr, vii, 26-35).
Non si può cogliere meglio che in questa pagina la crisi del giudaismo nell’età intertestamentaria, una crisi che diventa vieppiù acuta con l’approssimarsi della caduta di Gerusalemme e con la conseguente dispersione del popolo eletto. È un dolore che pervade la coscienza e l’anima degli spiriti più autenticamente religiosi, una sofferenza interiore che può essere frenata e rasserenata solo nella speranza o nella certezza di un intervento salvifico divino. Gli ebrei che nella diaspora entrano in più stretto contatto con il mondo ellenico si trovano davanti ad un mondo che è entrato in crisi di identità dopo la grande conquista macedone, che ha spazzato vie le póleis in cui il greco viveva in armonia con la collettività e si sentiva cittadino partecipe e responsabile della vita politica. Nell’Impero macedone egli è ridotto al rango di suddito, costretto a vivere separatamente e nascostamente (λάθε βιώσας). Il mondo ellenico cerca rifugio nei culti misterici, quello ebraico si interroga sulle proprie credenze e sulle proprie tradizioni e sperimenta molte vie per giustificare la salvezza. Baruc, Ezra, l’autore dei Salmi di Salomone, quello del Libro delle parabole, cercano ciascuno una propria via, un proprio percorso intellettuale; la maggior parte respinge di fatto il proprio tempo, lo percepisce come prossimo alla fine e questo spiega come in quasi tutti i testi dell’epoca c’è sempre una vena apocalittica. È lo stesso clima che sta dietro alle dottrine del maestro di giustizia e del mondo essenico. Si attende invano una rivelazione dall’alto; non pochi se ne fanno interpreti; molti si sentono investiti di una missione profetica. Ciascuno propone una soluzione diversa. Ma c’è differenza tra chi profetizza come singolo (Ezra, Baruc ecc., ) e chi profetizza in nome e per conto di una comunità. Costoro hanno la responsabilità di corrispondere alle attese e ai sentimenti della collettività. Nella terza visione di Ezra torna il tema del «cuore maligno»; si chiarisce la dottrina delle due età: quella degli uomini corruttibili e quella degli incorruttibili, cioè dei giusti «il cui volto dovrà rifulgere come il sole»; essi «do-
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vranno assomigliare alla luce delle stelle, d’ora in poi incorruttibili» (4Ezr, vii, 97). Per sette giorni le anime saranno lasciate in libertà, poi «verranno raccolte nei loro depositi» (4Ezr, vii, 101). Il giudizio è comunque «rigoroso» e recherà «il sigillo della verità»; in quel giorno nessuno pregherà per un altro, nessuno «passerà il suo fardello al suo compagno», perché la responsabilità è personale: «Tutti porteranno ciascuno la propria rettitudine o la propria iniquità» (4Ezr, vii, 105). Con il giorno del giudizio avrà fine questa era della mortalità conseguente al peccato di Adamo e avrà inizio l’era «immortale futura» (4Ezr, vii, 113). Ma se così stanno le cose, sarebbe stato meglio – osserva Ezra – che Adamo non fosse mai nato. A cosa ci giova la promessa di un’epoca immortale, se noi siamo eredi del peccato di Adamo. Il Signore gli risponde che proprio in questa lotta è «il senso della vita terrena». Chi è vinto soffrirà la devastazione e la sua perdita non produrrà tristezza; di contro «ci sarà gioia per la salvezza di chi è giusto». Ezra elenca gli attributi divini: l’Altissimo è misericordioso, benevolo, munifico, paziente, liberale, indulgente (4Ezr, vii, 131, 132-139). Ma gli viene risposto che «l’Altissimo ha fatto questa età per molti e quella futura per pochi»; infatti «molta è l’argilla con cui fare il vasellame, ma poca la polvere da cui viene l’oro; […] molti sono quelli che sono stati creati, ma pochi si salveranno», ov’è da notare l’affinità con Matteo (lo stesso concetto è in 4Ezra: «Ho detto prima, dico ora e dirò poi, che sono più numerosi quelli che periscono di coloro che si salvano, come un’onda è più di una goccia»; «Io vidi e perdonai proprio a stento, salvandomi da un grappolo un solo chicco, ed una sola pianta da una grande foresta»).(28) La preghiera di Ezra è un invito rivolto a Dio: «Non guardare ai peccati del tuo popolo, ma a coloro che ti hanno servito lealmente» (4Ezr, viii, 26). Se da una parte è vero che abbiamo peccato, dall’altra «proprio per noi che abbiamo peccato tu sei chiamato misericordioso» (4Ezr, viii, 31). Non c’è la consapevolezza di un conflitto filosofico tra giustizia e misericordia; anzi, poiché anche il giusto è un peccatore, c’è se mai la speranza che la misericordia divina non venga meno. In fondo cos’è l’uomo che tu debba adirarti con lui, e che cosa sono le cose corruttibili che abbia ad amareggiartene? In verità fra coloro che sono nati non c’è nessuno che non abbia fatto del male, né […] qualcuno che non abbia peccato […] proprio in questo, o Signore, si manifesterà la tua bontà (4Ezr, viii, 34-36). (28) 4Ezr, viii, 1-3; ix, 14-15, 21.v. Mt, xxii, 14.
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Ma la risposta divina punta ancora una vola alla predilezione del giusto. Dio esemplifica il suo pensiero con il concetto (socratico e pre-evangelico) della semina: Come il contadino semina in terra molte sementi, e pianta molte piante, ma non tutto ciò che è stato seminato si conserverà fino al tempo debito, né tutto ciò che è stato piantato metterà radice, così di coloro che sono stati seminati nel mondo non tutti si salveranno (4Ezr, viii, 41).
Pronta la replica di Ezra, il quale obietta che il seme del contadino marcisce se non riceve la pioggia, ma non così è per «l’uomo che è stato plasmato dalle tue mani ed è stato fatto somigliante alle tua immagine». Egli perciò invita la divinità ad usare la misericordia verso la sua eredità. Ma la metafora del seme, conclude Dio, vale per le generazioni presenti, non per le future; tutto è stato preordinato secondo sapienza; la radice del male è stata sigillata, la malattia è stata estinta, «la morte è stata nascosta, l’inferno è fuggito, la corruttibilità è dimenticata, sono passati i dolori e, alla fine, è stato mostrato il tesoro dell’immortalità» (4Ezr, viii, 52-54). La quarta visione non è che il sogno della ricostruzione di Gerusalemme, anzi forse quello della rinascita non più o non tanto di una Gerusalemme terrena ma di una Gerusalemme celeste, immune dalla profanazione e dalla distruzione. La quinta visione allude alla potenza romana (simboleggiata dall’aquila) dall’età di Augusto fino a Domiziano (dodici imperatori simboleggiati da dodici ali), responsabile della distruzione di Gerusalemme e si conclude con la profezia dell’avvento del messia davidico (in simboli un leone). La sesta visione si riferisce al messia, presentato come «qualcosa di simile ad un uomo che volava assieme alle nubi del cielo», il quale, dopo aver combattuto contro una moltitudine battagliera, scende dal monte per «chiamare a sé un’altra moltitudine pacifica». L’interpretazione della visione è la seguente: il messia «è colui che l’Altissimo riserva da tanto tempo, attraverso il quale Egli darà la libertà a ciò che ha creato, mentre sarà Lui stesso a dare di nuovo ordine a coloro che sono rimasti» (4Ezr, xiii, 26). Quando il servo di Dio si rivelerà, «accadrà che, quando tutti i popoli udranno la sua voce, ciascuno lascerà la propria terra […]; una moltitudine innumerevole […] si raccoglierà insieme, desiderando venire a combatterlo, ma lui si ergerà sulla vetta del monte Sinai»; «accadrà che quando Egli dovrà distruggere la moltitudine dei popoli che sono stati raccolti, proteggerà quello [in-
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tendi Israele] che sarà sopravvissuto» (4Ezr, xiii, 32-35, 49). Con la settima visione Ezra è incaricato da Dio di scrivere la storia e di fissare le istituzioni del suo popolo: «Scriverò tutto quello che è stato fatto nel mondo dall’inizio, le cose che erano scritte nella tua legge, in modo che gli uomini possano trovare il sentiero» (4Ezr, xiv, 22). E Dio si raccomanda: «Quando avrai finito, alcune cose le renderai pubbliche, altre le consegnerai in segreto ai sapienti» (4Ezr, xiv, 26). Sicché ad Ezra l’autore attribuisce la compilazione di tutto l’AT, in 94 libri, di cui 24 essoterici, corrispondenti al Tanakh, e 70 esoterici, concepiti come «sorgente dell’intelligenza, fonte della sapienza e fiume di conoscenza». 2.10. Il Libro segreto di Enoc Il Libro dei segreti di Enoc (Ens) ci è pervenuto in versione paleoslava forse come traduzione di un originale greco perduto.(29) Verosimilmente la versione slava in cirillico deve essere stata preceduta da una versione in glagolitico. Numerose ipotesi sono state avanzate sull’ambiente d’origine del testo. La gran parte degli studiosi lo reputa di matrice giudaica; ma forse questa generica indicazione va ulteriormente precisata, perché è possibile ipotizzare tanto un’origine essena quanto una enochica. Personalmente sono orientato per la seconda ipotesi, poiché mi pare che le coordinate culturali, il misticismo delle visioni, l’assenza di un concetto del sacro e i riferimenti a culti solari giustificano ampiamente una derivazione enochica; il che, credo, spiegherebbe certe apparenti stranezze del testo, in cui non compaiono le figure di Mosè e di Abramo e nella sezione melchizedekiana la tradizionale espressione «Dio di Abramo» è tradotta con «Dio di Enoc». La forte affinità con le tematiche del cristianesimo ha indotto alcuni studiosi cattolici, come Vaillant, Daniélou e Rubinstein a farne un prodotto cristiano e a darne una datazione eccessivamente bassa.(30) L’argomento principe in proposito è quello del rapporto con il vangelo di Matteo. An(29) Il testo paleoslavo è stato pubblicato da A. Vaillant, Le livre des sécrets d’Hénoch, Paris, Institut d’Études Slaves, 1952; la traduzione inglese di F. I. Andersen, Slavonic Apocalypse of Enoch, è edita da J. H. Charlesworth, The Old Testament Pseudepigrapha, vols 2, New York, Doubleday, 1983-1985, vol. i, pp. 99-213. (30) A. Rubinstein, Observations on the Slavonic Book of Enoch, «Journal of Jewish Studies», xiii, 1962, pp. 1-12.
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dersen ragiona nei seguenti termini: la presenza del NT in Ens è limitata al solo Vangelo di Matteo e quindi è frutto di un ambiente palestinese che conosceva solo quel vangelo. Rubinstein, a sua volta, scorge l’impronta cristiana nella appendice ove si narra di una nascita verginale di Melchizedek, il cui sacerdozio si attaglia perfettamente alla figura di Gesù. In generale possiamo dire che gli esegeti cristiani, quando si imbattono in testi che sembrano afferire ad una letteratura precristiana, nel timore che sia compromessa l’originalità del messaggio di Gesù o che possa essere ricondotto ad un processo storico, tendono ad ipotizzare che si tratta di testi più tardivi e per ciò stesso contaminati da mano cristiana. Pur riconoscendo che non è possibile escludere a priori eventuali manipolazioni, credo che esse debbano essere rigorosamente dimostrate. Nello specifico le argomentazioni addotte da Andersen e da Rubinstein non appaiono molto consistenti. Quella di Andersen, per esempio, cade facilmente, perché a differenza di Ens, che, per aver fatto allusione al tempio come monumento ancora presente, ha il suo terminus ante quem nel 70, i sinottici sono concordi nel fare riferimento alla sua distruzione ed hanno pertanto in essa il loro terminus a quo. D’altro canto la presunta presenza di Matteo è limitata al solo discorso delle benedizioni, ma nulla prova l’anteriorità del vangelo, anche perché, come sappiamo, il tema delle benedizioni è ampiamente diffuso nella letteratura qumranica ed enochica. Quanto all’argomentazione di Rubinstein non può essere confutata meglio di come ha fatto Sacchi: È abbastanza frequente – egli scrive – in questo tipo di letteratura imbattersi in modi di pensare simili a quelli cristiani, ma ciò non autorizza affatto a ipotizzare opere cristiane, bensì solo opere di un certo periodo e di un certo giudaismo. In effetti il cristianesimo ha dedotto la sua teologia da quella del giudaismo del suo tempo, ma l’ha applicata alla figura di Gesù. Non è il fatto che si parli del Figlio dell’Uomo che può far pensare a un influsso cristiano, ma il fatto che il Figlio dell’Uomo venga identificato con Gesù. Non è il fatto che si parli di Messia che può far pensare all’origine cristiana, ma che la messianicità sia attribuita a Gesù. Non è il fatto che qualcuno cercasse di fondare il proprio sacerdozio su Melchizedek che può far pensare all’origine cristiana, ma il fatto che questo Melchizedek sia in funzione di Gesù.(31) (31) P. Sacchi, Introduzione a Libro dei segreti di Enoc, in Apocrifi, cit., vol. ii, p. 497.
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Tipico dell’enochismo è l’impianto mistico del testo che si snoda nelle visioni cui Enoc assiste in cielo, ove è «spettatore della vita dell’alto e del sapientissimo, grande, immutabile e onnipotente regno di Dio». Quando è prossimo all’età di 365 anni (una sorta di anno degli anni, probabile residuo di un culto solare) ebbe una visione: gli apparvero due angeli, mandati dal Signore eterno, in compagnia dei quali egli sarebbe salito al cielo. Dopo aver raccomandato ai suoi figli di sacrificare al tempio del Signore, nel primo cielo contemplò i moti astrali e le acque di sopra, nel secondo cielo vide gli angeli, «apostati del Signore, i quali non ascoltavano la voce del Signore», ma si facevano «consigliare dalla loro volontà». Nel terzo cielo vide il paradiso, ove si trova l’albero della vita e «un olivo che fa colare continuamente olio» (Ens, viii, 3-5). Era un luogo «preparato in eredità eterna per i giusti che soffrono avversità nella loro vita, affliggono le loro anime […], danno pane agli affamati, coprono gli ignudi con una veste, rialzano il caduto, aiutano gli offesi» (Ens, ix, 1). Nella zona settentrionale del terzo cielo Enoc scopre un luogo di supplizio, di tenebre e di caligine dove sono tormentati gli angeli dannati; insieme ad essi sono condannati gli empi. Nel quarto cielo gli vengono mostrati tutti i movimenti e gli spostamenti e tutti i raggi della luce del sole e della luna; ne deriva un calendario solare, per il quale il sole è «l’orologio dell’anno» (Ens, xv, 3). Nel capitolo xvi, l’autore prende in considerazione il calendario lunare, ma sfortunatamente il testo risulta assai corrotto ed è difficile pronunciarsi sul suo effettivo contenuto. Nel quinto cielo conosce la milizia degli angeli egrigori che non sono altro che i vigilanti che si insozzarono con le donne degli uomini. Nel sesto cielo vede gli angeli brillanti e gloriosi, i quali regolano il buon ordine del mondo. Infine al settimo cielo gli viene mostrato da lontano il Signore seduto sul suo trono. Gabriele lo conduce «davanti al volto del Signore», ove viene spogliato delle «vesti terrene», unto «di olio benedetto» e rivestito «di vesti di gloria». A dispetto della classica concezione del sacro, accolta anche nell’enochismo più antico, Enoc può vedere Dio ed anzi è Dio stesso che gli svela i segreti della creazione. I capitoli xxiv-xxxiv contengono una complessa rielaborazione del mito della creazione. Il quadro filosofico è in parte influenzato dal pensiero ellenico. Dio ha creato ex nihilo: «Ho creato dal non essere all’essere, dall’invisibile al visibile». La creazione è un mistero che non è mai stato rivelato («Neppure ai miei angeli […] ho raccontato la loro composizione, né hanno conosciuto la mia creazione infinita»). Dio si appresta a svelarne il mistero ad Enoc.
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Ma il suo racconto fa pensare, più che ad una creazione vera e propria, ad un ordinamento sul modello greco del demiurgo. Infatti Dio dice: «Diedi ordine nelle profondità che una delle cose invisibili salisse visibile, uscì Adoil(32) che «aveva nel ventre il grande secolo»; «alla luce dissi: ‘tu sali più in alto e solidificati, sii il fondamento delle cose dell’alto» (Ens, xxv, 1, 4). Quindi dalle profondità fa uscire «Aruchaz, duro, pesante e molto nero», il quale è la tenebra destinata ad essere il fondamento delle cose dal basso. Infine Dio crea l’universo delle piante e degli animali e da ultimo crea l’uomo: «Quando ebbi finito tutto, comandai alla mia Sapienza di creare l’uomo» (Ens, xxx, 8). Ogni cosa Dio crea con la sua Sapienza; Egli solo è «eterno, non creato con le mani»; il suo pensiero «è immutabile», la sua parola «è atto»; i suoi occhi «contemplano tutto»; tiene in vita l’universo con il suo sguardo, perché se volge altrove il suo sguardo, «tutto si distrugge» (Ens, xxxiii, 4). Egli è il Dio degli eserciti che ha creato tutte le milizie; non c’è chi si opponga a Lui, perché tutti si sottomettono alla sua autocrazia e servono il suo unico potere. Dio incarica l’angelo Uriel di dettargli tutti i segreti della creazione e suggerisce ad Enoc di consegnare questa narrazione in libri, affinché sia conosciuta da tutte le generazioni. Secondo il mito il corpus degli scritti di Enoc comprenderebbe ben 360 libri (cifra che forse fa riferimento ad un calendario lunare). In ogni caso il profeta conosce la malvagità degli uomini, sa che rifiuteranno la sua autocrazia così che la terra sarà gravata da iniquità e ingiustizia e Dio si vedrà costretto a mandare nuovamente il diluvio. Dalla lettura dei libri di Enoc Dio si attende la fedeltà degli uomini. Enoc ha visto Dio faccia a faccia; i suoi occhi hanno guardato «gli occhi del Signore come raggi del sole che brilla, che atterriscono gli occhi dell’uomo» (Ens, xxxvi, 4). Enoc, che ha conosciuto «l’estensione del Signore incommensurabile e incomparabile», piange per la rovina degli empi e dice nel suo cuore: «Beato colui che non è nato o che, nato, non ha peccato davanti al volto del Signore, perché non venga in questo luogo, né porti il giogo di questo luogo» (Ens, xli, 2). Nell’Eden Enoc conosce la gioia e la letizia in cui vivono i giusti, che vestono gli ignudi, danno da mangiare agli affamati, si prendono cura degli orfani e delle vedove. Perciò dichiara: (32) Il nome ‘Adoil’ dovrebbe, secondo R. H. Charles, The Book of the Secrets of Enoch, translated from the slavonic by W(illiam) R(ichard)Morfil, Oxford, Clarendon, 1896, p. 32, derivare dall’ebr. yad ‘el che significa «mano di Dio».
572 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini beato chi semina i semi della giustizia, perché li mieterà al settuplo, e colui nel quale è la verità e dice la verità al prossimo; […] beato colui la cui misura è giusta e il peso giusto e le bilance giuste, perché nel giorno del grande giudizio ogni misura, ogni peso e ogni bilancia saranno esposti […] e ciascuno conoscerà la sua misura e secondo questa riceverà la mercede (Ens, xlii, 11; xliv, 5)
C’è forse qui il modello di cui si avvale Matteo per costruire le beatitudini del discorso della montagna. Infine la parenesi di Enoc è una preparazione al giudizio finale: Ogni colpo e ogni ferita e bruciatura e ogni cattiva parola se vi vengono addosso a causa del Signore, sopportateli, e, pur potendo darli in restituzione, non restituiteli al prossimo, perché è il Signore che restituisce ed egli vi sarà di vendicatore nel giorno del grande giudizio […] all’orfano e alla vedova tendete le vostre mani (Ens,l, 3-6).
Solo l’uomo sarà giudicato, non gli animali: «Non vi sarà giudizio per ogni anima vivente, ma solo per l’uomo. Per tutte le anime degli animali nel grande secolo c’è un solo posto e un solo recinto e un solo pascolo […]; chi pascola male l’anima degli animali commette iniquità verso la propria anima»; «Chi fa del male a un’anima umana fa male alla sua anima e non c’è per lui guarigione nei secoli» (Ens, lviii, 4-5; lx, 1-2). Non è escluso che in queste battute ci sia un’apertura di carattere universalistico. Ritornato sulla terra, Enoc si incontra con la propria comunità, «i suoi figli e gli anziani del popolo», riuniti ad Azuchan (Ens, lxiv, 2). Essi salutano in Enoc colui che il Signore «ha scelto […] come colui che toglie i nostri peccati» (Ens, lxiv, 5; cfr. Gv, i, 29). Si ripropone la dottrina dei due tempi, delle due creazioni, del corruttibile e dell’incorruttibile. Quando tutta la creazione […] andrà al grande giudizio […] allora i tempi periranno e non ci saranno più anni, né mesi, né giorni e le ore non saranno più contate, ma sorgerà un solo secolo. Tutti i giusti […] si uniranno al grande secolo e il secolo insieme si unirà ai giusti e saranno eterni (Ens, lxv, 6-8).
Mentre conversava con il suo popolo, Enoc è di nuovo rapito al cielo: «Il Signore mandò tenebre sulla terra e ci fu oscurità […]; gli angeli prese-
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ro Enoc e lo innalzarono nel cielo più alto […] e il popolo vide e comprese in che modo Enoc […] era stato preso» (Ens, lxvii, 1-3). E in Azuchan, nel luogo della sua ascensione, i figli di Enoc (comunità enochica) alzarono un tempio e sacrificarono. Ma la nuova comunità ha bisogno di un sacerdote per i riti sacrificali dopo che Enoc è scomparso. Il ruolo è affidato a Matusalemme, per poi passarlo a Nir, figlio di Lamec, e da Nir a suo figlio, Melchizedek. Allevato nel paradiso terrestre, Melchizedek è esentato dalla morte («Non perirà con quelli che devono perire»). Dio lo costituisce «sacerdote dei sacerdoti nei secoli», lo santifica («Io lo santificherò e lo trasformerò in un grande popolo»), lo designa «capo dei sacerdoti in un’altra stirpe» (nel senso che la sua discendenza sarà puramente spirituale) e «dalla sua stirpe sorgerà un popolo numeroso» ed egli «diventerà capo dei sacerdoti in un popolo di un regno che ti serve, o Signore» (Ens, lxxi, 29-37). 2.11. Il Libro delle parabole (PR) Il Libro delle parabole (PR), che costituisce la seconda sezione (capitoli xxxvii-lxxi) del Pentateuco di Enoc, ci è pervenuto il lingua ge’ez, scritto, come rileva Sacchi,(33) «nell’ambiente che vide sorgere il cristianesimo». La sua datazione, come si è detto, dovrebbe essere anteriore di pochi anni alla distruzione del tempio; ciò non toglie che esso si iscriva, per contenuto e per orientamento culturale-religioso, alla letteratura precristiana degli ultimi trent’anni di fine secolo. Il testo si articola in tre sezioni, dedicate ciascuna alle tre parabole centrate rispettivamente sul giudizio degli empi (capitoli xxxviii-xliv), sulla figura del salvatore (xlv-lvii) e sul giudizio dei giusti (capitoli lviii-lxxii). In realtà il messianismo è presente fin dal capitolo xxxviii, che si apre con la prospettiva dell’apparizione del Giusto (il messia) all’assemblea dei giusti per giudicare, scacciare dalla terra i peccatori, che hanno rinnegato Dio, il «Signore degli Spiriti». Si tratta di un messianismo di stampo nuovo, perché il Giusto non è più, come Enoc, un mediatore tra il divino e l’umano che rivela agli uomini la via della salvezza, ma è un essere che appartiene alla sfera spirituale ed ha nel contempo, proprio come il Cristo, una natura divina ed una umana, perché solo una figura siffatta può cancellare il male dal mondo e realizzare il disegno divino di salvezza. Perciò il Giusto del Libro delle pa(33) P. Sacchi, Introduzione a Libro di Enoc, in Apocrifi, cit., p. 435.
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rabole è Dio e uomo, «luce ai giusti e agli eletti che vivono sulla terra» (PR, xxxviii, 2) e, come giudice divino, assegnerà ai giusti la sede del cielo e la terra ai peccatori, che «meglio sarebbe se non fossero nati!». L’autore identifica i peccatori, e quindi il male e l’empietà, con i potenti o con «coloro che posseggono la terra», i quali nel giudizio universale non saranno più tali e «non potranno vedere la faccia degli angeli santi, perché la luce del Signore degli spiriti apparirà sulla faccia dei santi, dei giusti e degli eletti» (PR, xxxviii, 4). Come il peccato è caduto per la discesa degli angeli vigilanti, il riscatto è pensato in relazione alla discesa di angeli santi. Il soggetto delle visioni mistiche non è più Enoc, che è citato di sfuggita nel capitolo xxxix come colui che, presi «i libri dell’ira e dell’indignazione», rivela la drammatica sentenza del Signore degli spiriti: «Non vi sarà per essi [per i peccatori] misericordia». È lo stesso autore, che, rapito al cielo, vede la «sede dei giusti e i luoghi di riposo dei santi»; essi «pregavano, imploravano, intercedevano per i figli degli uomini e la santità defluiva come acqua innanzi a loro e la misericordia come rugiada sulla terra» (PR, xxxix, 5). I suoi occhi vedono gli «eletti di giustizia e di fede», nel senso cioè che gli eletti sono giustificati per la giustizia e per la fede (giustizia da parte di Dio; fede da parte dell’uomo, come accade anche nel cristianesimo). Il soggetto della visione dichiara la propria natura divina, in quanto afferma: «La mia anima è quella residenza, perché là era la mia parte fin da prima». Ed è la residenza del divino e dell’eternità: Dio «conosce, prima che il mondo sia creato, che cosa esso sia e che cosa sarà nei secoli»; la sua santità o la sua sacertà è concepita in termini emanazionistici, come un flusso che trabocca e «riempie la terra degli spiriti» (PR, xxxix, 11-12). L’autore è colto in una sorta di estasi, in cui il suo volto subisce una trasfigurazione: «Il mio volto si trasformò fino al momento in cui non potetti più vedere» (PR, xxxix, 14). Egli ascolta le voci di quattro spiriti: la prima (il misericordioso Michele) loda il Signore degli Spiriti; la seconda (Raffaele che presiede alle afflizioni) loda l’Eletto; la terza (Gabriele che presiede a tutte le forze) intercede nel nome del Signore; la quarta (Fanuele che presiede al pentimento ed è la speranza di quelli che ereditano la vita eterna) scaccia i satani (il senso è che Dio perdona chi si pente fino all’ultimo istante). Dopo di ciò vede «le cose nascoste del cielo, come è diviso il regno e come è soppesato sulle bilance l’operato degli uomini» (PR, xli, 1). Infine dà a sé stesso una spiegazione della esistenza dell’ingiustizia: la cattiva condotta, egli dice, è dovuta al fatto che gli uomini hanno respinto la sapienza o saggezza. Questa aveva la sua sede nei
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cieli, ma, non avendo trovato posto nei cieli, scese tra gli uomini, che la respinsero; ritornò nei cieli ove trovò posto tra gli angeli. Il vuoto lasciato sulla terra fece crescere l’ingiustizia. Ma si tratta di una spiegazione priva di rigore filosofico. L’autore non sa darsi ragione della discesa di un’entità divina, come la sapienza, dalla sua sede naturale ed imbastisce una arzigogolata ipotesi che la relega nell’area angelica, intermedia tra Dio e gli uomini. La prima parabola si chiude con questo significato: l’autore ha visitato il mondo celeste e Dio gli ha fatto conoscere nella loro sembianza i giusti che stanno sulla terra e conservano in eterno la fede nel Signore («Credono in eterno nel nome del Signore degli Spiriti»). Che è in fondo l’idea prepaolina della salvezza attraverso la fede; prepaolina, perché se fosse in perfetta sintonia con il paolinismo o se derivasse da esso, vi avremmo trovato anche il tema della carità eterna. La seconda parabola ha al suo centro la figura dell’Eletto. Nel giorno del giudizio, con chiara allusione al mito trito-isaiano della nuova creazione, l’autore fa dire a Dio, ‘Capo dei Giorni’: «porrò in mezzo a loro [a coloro che invocano il Signore] il mio Eletto e muterò il cielo», vi accoglierò «i miei eletti», perché «io i miei giusti li ho pascolati, nutriti in pace e messi al mio cospetto»; di contro «è vicina la condanna dei peccatori» che saranno tolti dalla faccia della terra (PR, xlv, 4-6). Il racconto prosegue con una visione: il Capo dei Giorni, «la cui testa era bianca come lana», si accompagnava ad uno, il Figlio dell’Uomo [il Messia], la cui faccia aveva «sembianza umana» ed era piena di grazia «come uno di fra gli angeli santi»; ov’è chiaramente ribadita la natura umana e insieme angelica del messia. Egli è «il Figlio dell’Uomo, per il quale fu fatta giustizia e col quale è stata fatta giustizia. Egli paleserà tutti i luoghi di deposito dei misteri»; a lui è assegnato il compito di togliere «i re e i potenti dalle loro sedi», perché hanno la loro «forza nelle loro ricchezze e la fede […] negli dèi […] fatti con le loro mani» (PR, xlvi, 3, 4-7). Qui le affinità con il cristianesimo sono davvero sorprendenti: il Messia del PR ha il potere di giudicare e di perdonare; ha, come quello cristiano, la funzione redentiva di indicare la via della salvezza per mezzo della fede. Un punto controverso è nel capitolo xlvii, perché gli esegeti cristiani, per scongiurare una possibile lettura messianica di PR, intendono il «sangue del giusto» in senso collettivo, ma nel testo il senso è manifestamente individuale e messianico, poiché si dice che nel giorno del giudizio, giunto «il calcolo della giustizia», è ascoltata «la preghiera dei giusti» e Dio chiede conto del sangue versato dal giusto (PR, xlvii, 4). «In quell’ora» [cioè alla fine dei tempi] fu dato il nome al
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Figlio dell’Uomo, «prima che fossero creati il sole e gli astri» (è la stessa posizione di Giovanni). In altri termini prima che fosse creato il firmamento Dio diede un nome al Figlio dell’Uomo. Quale nome non è detto (forse per il divieto di pronunciare un nome divino), ma la denominazione da parte di Dio, come ricorda il Qohelet (Qt, vi, 10), è strettamente legata alla natura e quindi alla funzione degli enti. E la funzione del Messia è quella di essere «il bastone dei santi e dei giusti affinché si appoggino ad esso e non cadano» e siano «luce dei popoli e speranza per coloro che soffrono» (PR, xlviii, 4). Non credo che ci siano in queste battute indizi di universalismo, ma certo siamo di fronte ad una prospettiva che parte dall’alto e interessa l’umanità intera; non c’è più la centralità di Israele; il messia, «scelto […] prima che fosse creato il mondo e per l’eternità», è ormai «la sapienza del Signore degli Spiriti», rivelata «ai santi e ai giusti» (PR, xlviii, 6, 7). La figura del messia non è più quella isaiana del re d’Israele, discendente dalla stirpe di Davide, ma è ormai una figura più spiritualizzata: «In lui alberga lo spirito di sapienza […]. Egli giudica le cose nascoste […], poiché Egli è l’Eletto al cospetto del Signore», «è potente in tutti i segreti di giustizia e l’iniquità passerà come ombra». In una cornice in cui la condanna degli empi e l’esaltazione e glorificazione dei giusti sembrano iscritte in una sorta di sotterraneo e sottinteso predeterminismo, c’è lo spazio, minimo, appena abbozzato, per il pentimento e per il perdono, che sembra restituire forse al Figlio dell’Uomo il ruolo redentivo di cancellazione del peccato: «Colui che non si pente innanzi a Lui è perduto […]; d’ora in poi, dato che non si sono pentiti, non li perdonerò» (PR, l, 4). Il giudizio non verterà solo sulle generazioni presenti, ma anche sulle passate, perché «la terra e l’inferno restituiranno quel che è stato […] e il regno dei morti restituirà quel che deve». «L’eletto in quei giorni siederà sul trono e tutti i segreti della saggezza usciranno dal pensiero della sua bocca»; tutti i regni terreni, simboleggiati dai monti di ferro, di rame, d’argento e di oro, davanti al messia, si scioglieranno «come cera al fuoco» (PR, li, 1-2, 3; lii, 6). Non credo che ciò implichi la rinascita di una monarchia davidica, perché probabilmente l’autore respinge tutti i regni terreni e concepisce il regno messianico come un regno spirituale e come la costruzione di una nuova «casa» (PR, liii, 6), ovvero il santuario, probabilmente la nuova Gerusalemme, il cui accesso non sarà più impedito ai giusti e all’Eletto. Le milizie di Azazel saranno gettate in «un profondo burrone», appositamente preparato per loro. E la punizione sarà un diluvio universale (PR, liv). Ma Dio è consapevole della inutilità del diluvio («Ho distrutto inutilmente tutti quelli che
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stanno sulla terra»); non serve una punizione che colpisca indiscriminatamente tutti; la responsabilità è personale, perciò Dio porrà, come «segno nei cieli e fra me e loro», «la fede in eterno» (PR, li, 1-2). È un pegno che i potenti (i peccatori) debbono pagare; si salveranno solo coloro che non sono personalmente responsabili di azioni cattive. La visione si chiude con l’accenno alle guerre che devasteranno i regni dei Medi e dei Parti, con una probabile allusione ai Romani («vidi un’altra schiera di carri […] e venivano, sul vento, da oriente ed occidente fino a mezzogiorno», PR, lvii, 1). Il testo della terza parabola è piuttosto ingarbugliato e sostanzialmente ripete gli stessi temi delle due precedenti. I potenti patiranno le afflizioni come di partoriente; si rattristeranno quando vedranno «questo figlio di donna assiso sul trono della sua gloria»; il messia è «colui che domina tutto quel che è segreto, poiché fin da prima il Figlio della madre dei viventi era stato nascosto e l’Altissimo lo aveva custodito al cospetto del suo esercito e lo aveva manifestato agli eletti» (PR, lxii, 4, 5, 7). Tutti i re «adoreranno e spereranno in questo Figlio della Madre dei viventi» (PR, lxii, 9). «In quel giorno i giusti e gli eletti si salveranno […]; e il Signore degli Spiriti dimorerà su di loro ed essi dimoreranno, mangeranno, dormiranno e risorgeranno nell’eternità con questo Figlio della Madre dei viventi» (PR, lvii, 14). Molti sono i passi oscuri di non facile decrittazione e per di più il testo è inframmezzato da una manciata di capitoli (lx, lxv-lxix), che, come ha rilevato Sacchi, costituiscono probabilmente frammenti di un perduto Libro di Noè. Qualche passo, come la divisione dell’assemblea degli angeli in gruppi di cento, cinquanta, dieci sembra richiamare alla mente passi di testi qumranici (PR, lxix, 3). La struttura della comunità terrena pretendeva forse di riprodurre quella del mondo angelico: «gli uomini non sono stati creati se non per essere come gli angeli, santi e giusti» (PR, lxix, 11); la morte non li avrebbe mai toccati, se non fosse stato per la loro caduta nel peccato. Peraltro la terza parabola sembra rompere l’unità del libro almeno per due ragioni: la prima riguarda il tema della confessione, la seconda quello della identificazione del Figlio dell’Uomo con Enoc. Nel primo caso la confessione dei peccati da parte dei peccatori (i potenti e quelli che possiedono la terra) sembra essere inefficace, perché gli stessi peccatori non nutrono speranze di salvezza: «Dio – essi dicono «non ci salverà e non troveremo quiete», perché inesorabile è «la legge e la condanna dei potenti, dei re […] e di coloro che posseggono la terra» (PR, lxiii, 8, 12). Nel secondo caso la difficoltà è data dal nome del Figlio dell’Uomo. Mentre nelle prime due parabole il nome ci è tenuto nascosto, nella terza parabola ve-
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niamo a sapere che ai giusti «è stato rivelato il nome di questo Figlio del figlio della Madre dei viventi e che si tratta di Enoc: «Tu [cioè Enoc] sei il Figlio dell’Uomo nato per la giustizia» (PR, lxxi, 14). Non è improbabile che i capitoli lxx-lxxi costituiscano una sorta di appendice al testo che, infatti, sembra chiudersi con il capitolo lxix, ove l’autore, parlando della parousia del Messia chiude la terza parabola: «Il Figlio dell’Uomo è apparso e si è assiso sul trono della sua gloria e tutto il male passerà dalla faccia della terra, se ne andrà e la parola di questo Figlio dell’Uomo resterà salda al cospetto del Signore degli Spiriti. Questa è la terza parabola del Signore» (PR, lxix, 29). Infine va detto che più che di parabole il libro parla di visioni; il termine ‘parabola’ è forse indicativo del fatto che si tratta di visioni simboliche, le quali vanno interpretate in senso allegorico. All’interno di questo allegorismo l’espressione più significativa e più vicina alla sensibilità cristiana, è indubbiamente quella di «figlio dell’uomo» (ebr. בן אדםben-adàm; aram. בר אנשbar ʿenàsh; gr. υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου). In realtà essa era ben nota all’AT, ove è frequentissima in Ezechiele, ma è presente anche nei Salmi e in Geremia,(34) quasi sempre nel significato più generale di ‘uomo’. Acquista un nuovo significato in Daniele (vii, 13-14) all’interno di una mistica visione in cui sulle nubi, giunto dall’Antico dei Giorni, compare «uno simile ad un Figlio dell’Uomo», che ha autorità, è servito da tutti i popoli, ha un potere eterno ed un regno che non passerà mai. Il passo di Daniele è per il cristianesimo di estrema importanza in quanto è alla base della profezia dell’ascesa al cielo di Cristo. Ma in esso il figlio dell’Uomo è solo un simbolo, non è veramente una persona esistente; è una della figure sovrumane che si incontrano nell’AT. Scrive, infatti, acutamente Sacchi: Da Elia. […] all’angelo Melchizedek […] al Figlio dell’Uomo che terrà addirittura il Giudizio finale, la linea ascensionale è chiara. Il Figlio dell’Uomo è certamente la figura sovrumana ultima nel tempo, ma non può essere portata oltre il i secolo d.C., perché in seguito essa sarà patrimonio solo di gnostici […]. Marco […] identifica Gesù con il Figlio dell’Uomo […]. Il racconto di Marco […] presuppone chiaramente che il Figlio dell’Uomo sia il Giudice che ha l’autorità di perdonare; questo è solo nel PL. Il PL è il passo intermedio fra Daniele e Marco.(35) (34) Sal, viii, 5; cxliv, 3; cxlvi, 3; Jr, xlix, 18, 33. (35) P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo, cit., pp. 198-199.
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Ma, pur essendo il concetto di Figlio dell’Uomo manifestamente vicino al cristianesimo, non è possibile pensare ad una interpolazione cristiana, né ad un testo di matrice cristiana, per il semplice fatto che il Figlio dell’Uomo è identificato nella terza parabola con Enoc e tale identificazione è chiaramente di matrice giudaica. Perciò correttamente Sacchi osserva: «Questa identificazione di Enoc col Figlio dell’Uomo […] esclude che si tratti di un testo di origine cristiana».(36) Tornerò su questa problematica nel prossimo capitolo dedicato alla prima letteratura cristiana. 2.12. Conclusione Dall’esame dei testi qumranici e degli apocrifi vetero-testamentari possiamo trarre le seguenti acquisizioni che ci permettono di gettare luce sulle origini del cristianesimo: Le affinità terminologiche, concettuali, ideologiche e mitologiche che emergono dalle letterature esseniche, enochiche e cristiane non possono non avere un peso sul piano ermeneutico; non si può cioè nascondere che c’è una chiara linea evolutiva che dall’essenismo e dall’enochismo conduce alle prime forme di cristianesimo. A cavallo dei due secoli, prima e dopo Cristo, il mondo ebraico è scosso da una crisi profondissima dei valori tradizionali; la sua autonomia politica è sempre più compromessa, fino ad essere travolta dalla forza espansionistica dell’impero romano che conduce dapprima alla demolizione del secondo tempio e poi alla devastazione della capitale della Giudea. In tale contesto storico si acuisce la riflessione sui problemi del male, della giustizia, della salvezza e della destinazione ultima dei giusti, dei malfattori e dei potenti reggitori dei regni terreni. Nella seconda metà del primo secolo dopo Cristo diventano centrali i temi dell’apocalittica: nel clima devastante tra le due rivolte giudaiche si avverte e insieme si auspica come imminente la fine dei tempi, che porterà con sé la fine di ogni ingiustizia e di ogni peccato, la glorificazione dei santi e giusti e la condanna dei malvagi e dei peccatori. In tale contesto il nodo centrale attorno a cui si sviluppa la riflessione religioso-teologica è quello del messianismo, strettamente collegato ai temi dell’apocalittica. Ma il tradizionale messianismo ebraico subisce una profonda metanoia; non consiste più nell’attesa di un messia nazionale, di un capo (36) P .Sacchi, Apocrifi, cit., p. 572.
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politico incaricato di ricostituire l’antica monarchia ipertrofizzata fino al dominio su tutti i popoli della terra, ma è l’attesa di un messia divino, profeta e sacerdote nello stesso tempo, Dio e uomo, giudice del bene e del male, dotato del potere di sciogliere e di legare. È un messia spiritualizzato che è insieme figlio dell’uomo e figlio di Dio. Per tutta la seconda metà del primo secolo tale messia è ancora una figura mistica, non è ancora incarnato in una personalità individuale. In parte è pensato come una sorta di maestro di giustizia, in parte come una personalità patriarcale come Enoc. Ma è ancora proiettato nel futuro; è di là da venire; è ancora una personalità sfumata, indefinita. Con ciò intendo dire che nasce prima il mito del messia cristiano e solo dopo esso si identifica con Gesù. E questa la ragione per cui il cristianesimo non emerge alla piena luce del sole per tutto il primo secolo; perché le prime comunità cristiane hanno trasformato e innovato il mito messianico, ma non lo hanno ancora calato nella realtà storica. È verosimile che ad Antiochia abbiano anche assunto la denominazione di sette cristiane nel senso che erano dedite al culto del nuovo messianismo. La più profonda trasformazione del mito messianico cade verso la fine del secolo, intorno al 100 e ai primi decenni immediatamente successivi, allorché si passa dal mito del messia atteso a quello del messia storico, che potrebbero coincidere con le due tradizioni messianiche individuate da Wrede.(37) È in questa fase che l’autore della Lettera agli Ebrei identifica il messia in Gesù, nella rilettura tipologica della figura veterotestamentaria di Giosuè, soccorso divino. L’operazione sarà condotta a termine nella produzione sinottica, in cui il messia è insieme uomo e Dio, Dio incarnato, che muore e risorge, che compare nella parousia del presente o passato, ma anche in quella futura della fine dei tempi. L’altro nodo essenziale che dà sostanza alla nuova teologia è la profonda trasformazione del concetto di Dio. Al messia spirituale fa da contraltare il concetto di un Dio che non è più il Dio veterotestamentario; non è più denominato Yhwh, non è il Dio vendicatore e sterminatore, non è neppure il Dio misericordioso che affiora qua e là nell’AT, ma è, sotto l’influenza della cultura ellenica, il Dio dell’amore, che, pur nella sua insondabile trascendenza, si accosta all’uomo, abita con l’uomo, scende nel mondo terre(37) W. Wrede, Das Messiasgeheimnis in den Evangelien. Zugleich ein Beitrag zum Verständnis des Marcusevangeliums, Göttingen, Vanderhoeck und Ruprecht, 1901, pp. 209-228 (transl. by J. C. G. Craig: The Messianic Secret, Cambridge, Clarke, 1971, pp. 211-243).
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no ed assume forma umana per riscattare l’umanità dal peccato. Tale mitologia si ripercuote sulla storia della creazione; alla vecchia creazione, narrata nella Genesi, si sostituisce la nuova creazione che porterà alla distruzione del mondo corruttibile e all’instaurazione di quello incorruttibile ed eterno. In questo mito c’è tutta l’avversione e il rifiuto per il presente e insieme l’ansia per una radicale renovatio dell’universo umano e addirittura anche di quello naturale. I fermenti culturali, cui abbiamo fatto cenno, hanno le loro radici nel tardo giudaismo e nella crisi alessandrinistica del pensiero greco. Erano entrambi due mondi che avevano visto crollare i valori della tradizione e che cercavano disperatamente una via di salvezza. Di fatto la simbiosi tra ellenismo e giudaismo nasce e si sviluppa non nella Palestina, ove il vincolo delle antiche credenze resta ancora vivo, ma nelle aree della diaspora, in cui il greco e il giudeo coabitano e si influenzano reciprocamente, modificando le proprie categorie mentali. Proprio per questo motivo gli autori della nuova letteratura cristiana sono greci o ebrei grecizzati, non più attratti da miti nazionalistici, ma ormai aperti al più puro universalismo.
capitolo iii
DAL GIUDAISMO AL CRISTIANESIMO: LA LETTERA AGLI EBREI, L’APOCALISSE DI GIOVANNI, LA SAPIENZA E GLI APOCRIFI PIÙ TARDI
3.1. La Lettera agli ebrei e l’Apocalisse di Giovanni sono opere giudaiche cristianizzate? Se proviamo a mettere insieme una serie di tasselli, partendo dal tardo profetismo alla letteratura qumranica e a quella apocrifa, troviamo per intero, sia pure in un processo evolutivo lento ma continuo, tutto il complesso intreccio dei temi dottrinali del cristianesimo primitivo; vi troviamo le acque profonde da cui attinsero i primi scrittori cristiani. E in quest’ottica scopriamo sì nel cristianesimo una sua propria originalità nella filigrana delle problematiche etiche, organizzative e teologiche, ma nello stesso tempo scopriamo che tale originalità è il risultato ultimo di un processo storico di separazione dalla matrice giudaica e di assunzione di una nuova fisionomia che corrisponde alle istanze di comunità più profondamente ellenizzate. Senza alcun riferimento all’ellenismo non è possibile comprendere le origini del cristianesimo. Esso è l’elemento separatore che distingue il giudaismo dal cristianesimo. Le prime comunità cristiane si costituirono presso gli ebrei ellenizzati della diaspora, ma ben presto il cristianesimo attecchì e si sviluppò quasi esclusivamente nel mondo pagano e non ebbe in Palestina se non una flebile presenza nelle comunità esseno-enochiche in via di estinzione. Presi per sé i singoli ingredienti sono già tutti presenti prima della nascita 583
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del cristianesimo: c’era il mito del messia profeta e sacerdote spirituale, c’era l’idea di una nuova alleanza, c’era un appropriato apparato terminologico, c’era il dualismo del bene e del male, della luce e delle tenebre, c’erano le nuove concezioni di matrice misterica del Dio dell’amore, la spiritualizzazione dell’olocausto, l’idea della passione del Cristo come strumento della salvezza, la nuova prospettiva dell’immortalità dell’anima e di un destino escatologico; c’era l’idea dello sterminio violento del male e del peccato, c’era il mito di una santificazione dell’umanità. Tutti questi rivoli sono come piccoli ruscelli che confluiscono nel mare magnum del cristianesimo primitivo, passando attraverso una profonda, ma tutto sommato, periferica trasformazione delle comunità esseniche in comunità enochiche che, nell’assorbimento della cultura ellenica, si approssimano sempre più nettamente alle soglie del cristianesimo. Solo nella linea evolutiva di questo intricato percorso storico si possono stabilire, di volta in volta, le affinità e le parentele, oltre che le divergenze e i distinguo, tra una comunità e l’altra, tra un programma ideologico e l’altro, tra un momento storico e l’altro. Coloro che pongono l’accento sulle differenze impediscono a sé stessi di cogliere le linee evolutive del processo, erigono steccati rigidi tra le diverse sette religiose, le concepiscono come mondi chiusi, come se fossero privi di un divenire storico e di reciproche suggestioni, senza rendersi conto che in tutto il percorso storico non c’è nulla di veramente e rigidamente definito e schematizzato, che persino nei testi cristiani, prima che fossero cristallizzati in una interpretazione dogmatica, si intravvedono temi e motivi che afferiscono da sponde diverse e da reminiscenze diverse, come sempre accade nella storia, quando una comunità nuova, traendo alimento da più versanti, ne conserva qua e là, più o meno visibili o invisibili, le tracce recondite. Questo processo storico è ricostruibile sia pure per sommi capi attraverso una serie di testi che, pensati in un ambiente culturale ebraico, sono stati assai per tempo cristianizzati in una fase redazionale. Essi sono quasi tutti databili dopo il 100 e fino al quarto decennio del secondo secolo. In questo arco di tempo sono collocabili la Lettera agli Ebrei (Ebr), l’Apocalisse di Giovanni (Ap), la Lettera di Barnaba (Bn) e forse anche la Didaché (Dd). Sono questi i testi in cui, a mio avviso, si può cogliere in un’attenta analisi il percorso storico che dall’enochismo, originato da una costola dell’essenismo, conduce al cristianesimo primitivo. A tali testi si può ritenere affine, pur nella singolarità delle sue posizioni teologiche, il Pastor di Erma (Er), la cui compilazio-
II.3 Dal giudaismo al cristianesimo…
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ne va però collocata nell’ultimo quarto del secondo secolo. Alla stessa epoca dovrebbe risalire la Lettera a Diogneto (Dg). Di contro la prima lettera di Clemente Romano ai Corinzi, per le sue istanze di carattere politico-ecclesiastico, è sicuramente più tardiva e la sua datazione può oscillare tra la fine del secondo secolo e il quarto. Tarde si debbono ritenere anche le epistole ignaziane, che, comparse insieme alla Lettera di Policarpo tra il 170 e il 180 d.C., come testi pseudepigrafi, furono oggetto nell’arco di un paio di secoli di manipolazioni successive tali da trasformarle in veri e propri falsi. Un buon gruppo dei testi citati ci è pervenuto attraverso il Codex Jerosolymitanus, firmato dallo scriba Leone, e datato 1056, scoperto da Philoteus Bryennios nel 1873 nella Biblioteca del Patriarcato di Gerusalemme in Costantinopoli. Esso comprende un elenco di testi biblici che vanno sotto il nome di Canone di Giovanni Crisostomo (ff. 1r-32r); in particolare vi sono contenute la Lettera di Barnaba (ff. 33r-51v), le due Clementine (ff. 51v-76r), la Didaché (ff. 76r-80r) e le epistole ignaziane (ff. 81r-120r). Di per sé il Codex costituisce una testimonianza del fatto che quei testi furono evidentemente accolti dalla chiesa ortodossa e da essa conservati. Occorre premettere che l’interpretazione dei testi menzionati, così come quella di tutti i testi canonici del NT è resa più complicata dal fatto che essi furono a più riprese manipolati, interpolati o revisionati, aggiustati, piegati ad istanze culturali diverse se non addirittura contrastanti, prima di giungere alla redazione definitiva che noi conosciamo. Per quanto sia difficile sceverare in essi ciò che è aggiunta posteriore da ciò che è residuo della scrittura originaria, le indagini filologiche moderne sono in grado di gettare non poca luce sulla loro tessitura. In qualche caso, come è accaduto per le lettere ignaziane, ci sono pervenute due distinte versioni del testo, rispettivamente denominate ‘versione lunga’ e ‘versione corta’. Van Manen, celebre esponente della scuola radicale olandese,(1) ha sospettato che anche le epistole paoline abbiano avuto versioni lunghe e corte ormai perdute, ma delle quali si conserva traccia nella trasmissione marcionita dell’apostolikon, secondo quanto ci narra Epifanio di Salamina. Tutto ciò complica notevolmente il problema della datazione dei testi. Innanzi tutto perché una lettura disinteressata e rigorosamente scientifica induce a ritenere che tutta la produzione letteraria del NT sia apografa e pseudepigrafa. Il che esclude ipso facto tutte le datazioni tradizionali che partivano dal presupposto dell’identificazione dell’auto(1) Sulla scuola radicale olandese cfr, H. Detering, The Dutch Radical Approach to the Pauline Epistles, «Journal of Higher Criticism», iii, 1996, pp. 163-193.
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re e dei limiti cronologici della sua esistenza (es. tutti i testi attribuiti a Paolo, Luca, Giovanni, Pietro, Giuda, Giacomo, ecc., spesso datati al primo secolo sulla base della loro presunta paternità). Se infatti si presume che un testo sia di Paolo o di Giacomo o di Giuda non si può non collocarne la datazione se non intorno alla metà del primo secolo. Se non ci trovassimo di fronte a testi pseudonimi, tale procedura sarebbe del tutto legittima. Purtroppo le cose non stanno in questi termini. Gran parte della letteratura cristiana dei primi due secoli o è anonima o pseudonima e ciò rende estremamente complesso individuarne sia la paternità sia la relativa collocazione cronologica. I primi scrittori cristiani continuarono a praticare un costume che era già ampiamente invalso presso gli ebrei. Gran parte dei testi dell’AT risultano anonimi e gran parte è circolata sotto falso nome, spesso a distanza di diversi decenni, se non di secoli, dagli eventi narrati. Tutt’altro il costume dei greci. Erodoto, Tucidide, Polibio, Plutarco si assumevano la responsabilità di quel che dicevano; se scrivevano il falso potevano essere facilmente smentiti. La storia ebraica è più l’espressione delle aspirazioni di un popolo che una oggettiva descrizione di avvenimenti. E quel che è peggio è che non ci sono responsabili delle falsità che furono messe in circolazione. La storia del cristianesimo presenta qualche problema in più. Intanto essa era sotto i riflettori del mondo ellenico, pronto a contestare tutto ciò che non trovava riscontro con la realtà. Inoltre gli scrittori cristiani, in buona o in cattiva fede, dovevano coprire un arco di tempo (gli anni 30/60 del primo secolo) da cui erano lontani più di mezzo secolo. Tutto il primo secolo è assolutamente privo di testimonianze sulle comunità cristiane delle origini. Se i vangeli canonici e le lettere paoline fossero comparsi intorno agli anni Cinquanta o Sessanta, come pretendono gli studiosi confessionali, avrebbero certamente conosciuto una straordinaria risonanza; ne avremmo trovato testimonianza tanto negli scrittori cristiani quanto in quelli pagani. Ci saremmo imbattuti in difese ad oltranza e in attacchi pregiudiziali dall’una e dall’altra parte, ma avremmo potuto ragionare sulle loro versioni e ricostruire i percorsi storici. Invece niente di tutto ciò. Il primo secolo è silente e muto, come se nulla fosse successo. Ma se il silenzio c’è stato – ed è innegabile – non possiamo non trarne la conclusione che, pur ammettendo l’esistenza di comunità protocristiane nel primo secolo, tutta la relativa letteratura non è anteriore al secondo secolo. Ciò vale anche per le epistole paoline che o furono scritte nello stesso arco di tempo in cui comparvero i vangeli o videro la luce negli anni immediatamente successivi. Ma di ciò parleremo a suo tempo. Ora volgiamo l’at-
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tenzione a quelli che potrebbero considerarsi i frutti della prima produzione letteraria cristiana. 3.2. La Lettera agli Ebrei: il primo documento cristiano? Sebbene ci sia pervenuta con tale titolo, del resto non originario, la Lettera agli Ebrei non ha né forma né stile epistolare, ma si presenta piuttosto nei capitoli i-xi come un trattato (in cui per la prima volta è definito il contorno dottrinale del Messia) e nei capitoli xii-xiii come un testo parenetico o di tono omiletico.(2) L’incipit non contiene alcun accenno ai destinatari che potrebbero anche non essere gli ebrei. L’epilogo finale (Ebr, xiii, 22-25) potrebbe essere un’aggiunta posteriore scritta con l’intento di dare al testo la forma epistolare indicandone i mittenti in coloro «che vi salutano dall’Italia», che è, come dire, da tutto l’universo mondo. La lettera pone comunque due problemi: chi ne è l’autore e quale è il suo ambiente d’origine? Circa la paternità, le ipotesi avanzate da Clemente Alessandrino, Tertulliano, Origene ed Eusebio sono prive di fondamento. Secondo Eusebio,(3) nelle Ipotiposi, a noi non pervenute, Clemente avrebbe attribuito la paternità della Lettera a Luca. Nella Omelia sulla lettera agli Ebrei(4) Origene fu incerto se attribuirla a Luca o a Clemente Romano. Tertulliano,(5) invece, avanzò l’ipotesi che ne fosse autore Barnaba. Lutero l’attribuì ad Apollo, il discepolo di Paolo; altri ritennero di poterne attribuire la paternità a Sila o Silvano. Guthrie(6) esclude tassativamente la paternità paolina. Infatti essa presenta profonde differenze di stile e di linguaggio rispetto al corpus delle lettere pao-
(2) A. Vanhoye, Hebrews, in The International Bible Commentary for the Twenty-first Century, ed. W. R. Farner et al., Collegeville, The Liturgical Press, 1998, p. 1767, individua nelle lettera cinque sezioni (i, 5 – ii, 18 // iii, 1 – v, 10 // v, 11 – x, 39 // xi, 1 – xii, 13 // xii, 14 – xiii, 18. (3) Eusebio, HE, vi, 13-14. (4) Citata da Eusebio, HE, vi, 25, 11-14. (5) Tertulliano, De pudicitia, xx. (6) D. Guthrie, New Testament Introduction, Leicester, Apollos, 1990. Analoga è la tesi di H. W. Attridge, The Epistle to the Hebrews: a Commentary on the Epistle to the Hebrews, Philadephia, Fortress, 1989, e di D. Wallace, Hebrews: Introduction, Argument and Outline, accessibile su sito internet.
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line(7). Eusebio(8) fece prevalere l’attribuzione a Paolo e postulò la presenza di affinità dottrinali e stilistiche con la prima clementina ai Corinzi. Trasmessa da uno dei più antichi papiri neotestamentari, il P46 (P. Chester Beatty ii della fine del secondo secolo o dei primi anni del terzo),(9) la Lettera è verosimilmente il primo documento neotestamentario in cui Cristo è citato con il nome di Gesù. Le citazioni di Gesù non sono molte; sono in tutto 14 e per giunta ben sei si trovano negli due capitoli conclusivi. Lo stesso si dica delle occorrenze della parola ‘cristo’: sono in tutto dodici e solo in tre casi (Ebr, x, 10; xiii, 8, 21) essa è associata al nome ‘Gesù’, come se insieme costituiscano un nome proprio. Poiché tale sintagma non può non essere tardivo o comunque non anteriore alla seconda metà del ii secolo, si può sospettare che i capitoli, decimo e tredicesimo, abbiano subito una manipolazione tardiva. Quanto all’ambiente culturale in cui il documento è maturato si può forse ipotizzare una comunità giudaica di ispirazione enochica, le cui matrici ideologiche sono state rivestite da una cornice protocristiana, che, reinterpretando la figura di Enoc, ne ha riversato la carica messianica sulla figura di Gesù. L’originario nucleo giudaico-enochico è facilmente individuabile nei capitoli i-xi; le manipolazioni cristiane, già manifeste in tale nucleo centrale appaiono più nettamente palpabili nei capitoli i-ii e xii-xiii. Il passaggio chiave effettuato dall’autore cristiano è nel primo versetto: v’è un profondo sconvolgimento nella comunicazione o rivelazione da Dio all’uomo; alla comunicazione mediata dai profeti si sostituisce quella attraverso il Figlio. Il Cristo non è più il mediatore che ha natura intermedia tra l’uomo e Dio, ma è il Figlio dell’Uomo che si identifica con il Figlio di Dio; egli è la parola (il verbum) che purifica l’uomo dal peccato e, proprio come Enoc, è rapito in cielo: è «tanto superiore agli angeli quanto più eccellente rispetto al loro è il nome [Cristo salvatore] che ha ereditato» (Ebr, i, 4). Le affinità con i testi di Enoc risultano anche dalla citazione implicita o esplicita dei salmi messianici (ii, viii, xxii, cii, civ, cx), dai quali deriva da un lato l’idea del Messia-Figlio di Dio, re e sacerdote, servo sofferente, e dall’altro la concezione degli angeli come intermediari inviati da Dio con (7) Cfr. in proposito R. M. Grant, A Historical Introduction to the New Testament, New York, Harper & Row, 1963, il quale difende l’autenticità delle epistole paoline sulla base dei loro elementi stilistici e linguistici. (8) Eusebio, HE, iii, 3, 5; (HE, iii, 38, 1-3) (9) Sul papiro P46, noto anche come Papiro Chester Beatty II, cfr. infra, pt. IV, par. 2.15; 3.1.
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funzioni di salvezza (Ebr, i, 5-14; ii, 5-8). La natura del Cristo, che è nel contempo uomo e Dio, è dedotta da un versetto del Salmo viii, che recita: «lo [il Messia] hai abbassato di poco rispetto agli angeli» (ἠλάττωσας αὐτὸν βραχύ τι παρ᾽ἀγγέλους). Cristo, creatura divina e sovrangelica, è sminuito, abbassato rispetto agli angeli, perché era necessario che per la salvezza degli uomini assumesse la natura umana e patisse la sofferenza e la morte degli uomini (Ebr, ii, 9). In altri termini la missione salvifica del Cristo va a buon fine solo per il tramite delle sofferenze umane, perché unica è l’origine sia di «colui che santifica» sia dei ‘santificati’. Poiché, scrive l’autore, «i figli hanno ricevuto in comune il sangue e la carne (κεκοινώνηκεν αἵματος καὶ σαρκός), anche lui [il Messia] condivise la stessa condizione per ridurre all’impotenza, per mezzo della morte (ἵνα διὰ τοῦ θανάτου), colui che deteneva il potere della morte, cioè il diavolo» (Ebr, ii, 14). La sofferenza, la crocifissione, la morte del Cristo non sono dunque fatti storici, ma sono istanze interne alla teologia cristologica. Il tema della sofferenza e della morte del messia, di derivazione isaiana ed essena, è ampiamente presente nella letteratura intertestamentaria ed è strettamente legato alla funzione salvifica del Messia. Cristo ha assunto la natura umana per potersi presentare come «un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede per i rapporti con Dio [il testo greco dice: πιστὸς ἀρχιερεὺς, Ebr, ii, 17] e per espiare i peccati del popolo»; egli è un soccorritore, salvatore, redentore divino, proprio perché è stato messo alla prova e può portare soccorso (il verbo greco βοηθῆσαι significa ‘soccorrere’, ‘andare in aiuto’; lo stesso significato ha il nome ebraico Yehōwōšua’) a coloro che sono messi alla prova. La Lettera agli Ebrei sembra avere un ruolo assai rilevante nella costruzione del mito cristologico, perché stigmatizza con una serie di argomentazioni i tratti essenziali del Messia, partendo dai salmi messianici e dalla loro lettura allegorica. Nella sua costruzione teologico-dottrinale l’autore non ha presente la letteratura evangelica. Lo si intuisce da come egli costruisce via via i tasselli che delineano i tratti essenziali del Cristo. È lui che per la prima volta lo designa come apostolo (nel senso di ‘inviato’) e sommo sacerdote (κατανοήσατε τὸν ἀπόστολον καὶ ἀρχιερέα, Ebr, iii, 1) e certamente non avrebbe usato il termine ‘apostolo’ se avesse avuto tra le mani i Vangeli. È lui che per la prima volta definisce i contorni della cristologia, indicando il Cristo come garante di un’alleanza più eccellente (κρείττονος διαθήκης γέγονεν ἔγγυος ἰησοῦς),(10) perfezionatore della fede (τὸν τῆς πίστεως ἀρχηγὸν (10) Ebr, vii, 22; cfr. anche xii, 24.
590 Dall’antico Israele al cristianesimo delle origini καὶ τελειωτὴν), santificatore attraverso il suo corpo (ἐν ᾧ θελήματι ἡγιασμένοι ἐσμὲν διὰ τῆς προσφορᾶς τοῦ σώματος ἰησοῦ χριστοῦ), come santificatore
era anche Enoc, scelto da Dio per togliere i peccati dal mondo, e infine come figlio di Dio (τὸν υἱὸν τοῦ θεοῦ), autore della salvezza (τὸν ἀρχηγὸν τῆς σωτηρίας) e gran pastore delle pecore nel sangue dell’eterna alleanza (τὸν ποιμένα τῶν προβάτων τὸν μέγαν ἐν αἵματι διαθήκης αἰωνίου).(11) Cristo è il nuovo profeta a pari dignità con Mosè, anzi è superiore allo stesso Mosè, perché è Figlio di Dio «e noi siamo la sua casa» [il suo altare] e «siamo diventati parte di Cristo» (Ebr, iii, 6, 14). Ed è nella unità della storia ebraica che vanno ricercate le ragioni del nuovo messianismo. Non a caso l’autore ci dà una lettura tipologica del Cristo e ne scorge la prefigurazione in Giosuè [Gesù] che fu il soccorso divino, inviato da Dio agli ebrei in occasione della conquista della terra promessa. Alla terra promessa l’autore della Lettera sostituisce «la promessa di entrare nel riposo» (ἐπαγγελίας εἰσελθεῖν εἰς τὴν κατάπαυσιν αὐτοῦ, Ebr, iv, 1). Ma la promessa non fu mantenuta, perché Mosè e Giosuè, per aver puntato sulla promessa «senza prestarvi fede» (μὴ συγκεκερασμένους τῇ πίστει τοῖς ἀκούσασιν, Ebr, iv, 2), non diedero agli israeliti quel ‘riposo’. Infatti, scrive l’autore, «se Giosuè li avesse introdotti in quel riposo, Dio non avrebbe parlato di un altro giorno» (Ebr, iv, 8). Che è quanto dire che la missione salvifica non è ancora giunta a compimento ed è questa la ragione per cui Dio manda sulla terra il Figlio. Perciò occorre che la parola di Dio sia «vivente, attiva e più affilata di qualsiasi spada a doppio taglio» (ζῶν γὰρ ὁ λόγος τοῦ θεοῦ καὶ ἐνεργὴς καὶ τομώτερος ὑπὲρ πᾶσαν μάχαιραν δίστομον, Ebr, iv, 17). Tutto ciò fa sorgere il sospetto che si tratti di un testo di matrice giudaica e di ispirazione enochica, rivisitato in chiave cristiana. Particolarmente significativa è in proposito la centralità del sacerdozio di Melchizedek. Questi è citato solo nella Lettera agli Ebrei e in nessun altro testo del NT. Le citazioni di Melchizedek nella lettera sono ben otto nei capitoli v, 6, 10; vi, 20; vii, 1, 10, 11, 15, 17, che ne costituiscono il nucleo centrale. L’idea del sommo sacerdozio secondo l’ordine di Melchizedek è chiaramente di derivazione enochica, poiché, come sappiamo, è un tema ampiamente sviluppato nel Libro dei segreti di Enoc. Melchizedek è infatti un pronipote di Enoc e il sacerdozio secondo l’ordine di Melchizedek era evidentemente praticato da comunità enochiche, entrate in crisi sia per la distruzione del tempio sia per la conclusione del sacerdozio tradizionale, levitico-aronnita. Questo elemento (11) Ebr, xii, 2; x, 10, 19; xiii, 12; iv, 14; ii, 10; xiii, 20.
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è decisivo per sostenere che la lettera è nata in ambiente enochico. Di contro il rivestimento cristiano è riconoscibile nella santificazione per mezzo del sangue del messia e nel suo legame con la nuova alleanza. Ciò che è evidente è che l’autore della Lettera non si riferisce al Cristo come ad una personalità storica, ma ne dà semplicemente una configurazione dottrinale per esigenze interne alla sua interpretazione dei testi sacri. Egli si fa interprete delle istanze delle prime comunità cristiane, la cui cristologia doveva essere ancora molto fumosa. Fino a tutto il primo secolo, esse designano il redentore come ‘Messia’ ‘Cristo’, non nel senso giudaico di «re nazionale», ma di «sacerdote apostolo, inviato da Dio». Anche la definizione di ‘cristiani’, assunta forse per la prima volta ad Antiochia, deriva direttamente dal mito cristologico. Ancora intorno al 112 d.C. dalla lettera di Plinio a Traiano apprendiamo alcuni dettagli sulle comunità cristiane primitive, ma non abbiamo alcuna notizia sul nome ‘Gesù’. È solo nella Lettera agli Ebrei, nella sua definitiva redazione dei primi anni del secondo secolo, che si salda il Cristo «autore della salvezza» con il nome Giosuè-Gesù, soccorso divino, «sommo sacerdote che ha attraversato i cieli», «provato sotto ogni aspetto similmente a noi», salvatore, redentore, che è esattamente il significato dell’ebraico Yehōwōšua’. Certo negli ambienti di stretta osservanza giudaica doveva apparire indigesta e sospetta la vicenda biografica del Cristo, figura sovrangelica e divina, il cui nome ‘Gesù’ era indicativo della funzione che lo stesso esercitava nella narrazione. I vangeli apocrifi della natività e dell’infanzia risolvono la questione affermando che il nome ‘Gesù’ fu imposto per volontà divina dall’angelo Gabriele al momento dell’annunciazione e sistematicamente ne spiegano il significato etimologico: «Gli imporrai il nome Gesù, perché salverà il suo popolo dai suoi peccati» (cfr. Natività di Maria o Protovangelo di Giacomo, xi, 3; xiv, 2; Vangelo dell’infanzia del Salvatore, Codice Arundel 404, 34; Vangelo dello Pseudo Matteo, xi, 1; Vangelo arabo sull’infanzia del Salvatore, i, 1. Il Vangelo sulla nascita di Maria è ancor più esplicito e dice: «Sarà chiamato Gesù e, secondo l’etimologia del nome, sarà il salvatore di tutte le genti», iii, 4; x, 2. Anche il Vangelo dell’infanzia del Salvatore, codice Hereford, scrive: «Sarà chiamato Gesù, il quale, conformemente al suo nome, sarà il salvatore di tutte le genti», 10a). Non si tratta di una nuova promessa, ma del rinnovo della promessa antica. Da qui il legame tra Giosuè e Gesù; non siamo di fronte ad una nuova ‘buona novella’ (euangélion), ma alla stessa delle origini. Gesù è il continuatore della funzione salvifica di Giosuè. Nessuno può attribuirsi la dignità di
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sommo sacerdote; anche Cristo fu costituito tale da Dio. Ma se non discende da Aronne e se non è di stirpe levitica, come può essere elevato ad una carica così importante come il sommo sacerdozio? La risposta dell’autore della Lettera è che il sacerdozio di Cristo è un sacerdozio eterno secondo l’ordine di Melchizedek (in ebr. מלכיצדקsignifica «re di giustizia»), sacerdote di ‘êl-’elyōn, che ricevette la decima da parte di Abramo. La correlazione Giosuè-Gesù è uno degli elementi che dimostrano chiaramente una inequivocabile dipendenza dell’autore di Barnaba dalla Lettera agli Ebrei; la differenza sta nel fatto che la seconda ha una profondità di pensiero e di analisi non molto dissimile dai testi enochici, la prima, come vedremo a breve, mostra i segni di un’analisi più raffazzonata. In ogni caso sono manifeste le influenze degli apocrifi di Enoc sulla Lettera agli Ebrei, che, come si è detto, assegna un ruolo mistico al sacerdozio melchizedekiano. Con un richiamo scritturistico al Salmo cx, 4, il testo di Ebr., vii, 12 e 22, recita: Cambiato il sacerdozio, avviene necessariamente un cambiamento di legge. Ora Gesù […] ha fatto parte di una tribù diversa, della quale nessun membro è stato addetto all’altare. È noto infatti che il nostro Signore è sorto da Giuda, da una tribù in relazione alla quale Mosè non ha dichiarato nulla riguardo ai sacerdoti.
Ma chiediamoci: che bisogno c’era di tale nuovo sacerdozio se era ancora in vita quello sadocita o asmoneo? Tanto più che Gesù è sorto da Giuda, cioè da una tribù che non aveva avuto rappresentanti sacerdotali? Gli è che l’autore vuole superare il sacerdozio materiale, responsabile di gran parte delle sciagure di Israele. Egli vuole chiudere una fase storica e ne vuole aprire un’altra, fondata su un tempio spirituale e su un sacerdozio spirituale. Cristo riceve il sacerdozio melchizedekiano non in forza di un legame carnale e di parentela, ma «in virtù di una potenza di vita indistruttibile (κατὰ δύναμιν ζωῆς ἀκαταλύτου, Ebr, vii, 16)». Com’è noto, il mito del sommo sacerdozio melchizedekiano è già presente nella letteratura qumranica; ce ne danno la certezza i 13 frammenti della grotta 11 (11QMelch), per la verità molto corrotti e molto frammentari, in cui Melchizedek è già designato come Messia e giudice, messaggero di salvezza o «arbitro dei popoli» (11Q11) e quindi è già prefigurazione del Cristo. In quanto partecipe di un sacerdozio più alto ed eterno, Gesù è garante
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di un’alleanza superiore ed eterna, perché, a differenza degli altri sacerdoti che sono molti per via della loro successione, egli invece è titolare di un sacerdozio unico e perenne (εἰς τὸν αἰῶνα ἀπαράβατον); non ha bisogno di offrire continui sacrifici di capri e di vitelli, ma ottiene la salvezza offrendo in sacrificio sé stesso una volta per tutte. Egli è dunque mediatore di una seconda alleanza più duratura di quella antica: «se la prima fosse stata irreprensibile – scrive l’autore della Lettera – non se ne sarebbe cercata una seconda» (Ebr, viii, 7).Non sarà più un’alleanza scritta nel sangue, ma un patto scolpito nel cuore: «quando manderò il Messia […] imprimerò le mie leggi nella loro mente e le scriverò nel loro cuore. Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ebr, viii, 10). La vecchia alleanza è superata, è dichiarata «antiquata […] e ciò che è antiquato e vecchio è vicino a scomparire» (Ebr, viii, 13). Al culto antico, rimasto inefficace, e al vecchio tempio, fatto da mano umana, si sostituisce il nuovo tempio che non è di questo mondo, ma appartiene alla sfera dei cieli (Ebr, ix, 11). Cristo, «non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il suo proprio sangue, è entrato una volta per tutte nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna» (οὐδὲ δι᾽ αἵματος τράγων καὶ μόσχων διὰ δὲ τοῦ ἰδίου αἵματος, εἰσῆλθεν ἐφάπαξ εἰς τὰ ἅγια, αἰωνίαν λύτρωσιν εὑράμενος, Ebr, ix, 11-12). Egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, attraverso la sua morte, i chiamati (gli eletti) ricevono la promessa dell’eredità eterna (καὶ διὰ τοῦτο διαθήκης καινῆς μεσίτης ἐστίν, ὅπως θανάτου γενομένου εἰς ἀπολύτρωσιν τῶν ἐπὶ τῇ πρώτῃ διαθήκῃ παραβάσεων τὴν ἐπαγγελίαν λάβωσιν οἱ κεκλημένοι τῆς αἰωνίου κληρονομίας, Ebr, ix, 15). E poiché la nuova legge
sarà iscritta nei cuori, la salvezza viene da un moto dell’anima, ovvero dalla fede. Ne è un esempio Enoc che, «per la sua fede, fu tolto dal mondo senza che vedesse la morte e non fu più trovato, perché Dio lo aveva portato via» (Ebr, xi, 5-6). Solo un ente divino, sottratto alla morte come Enoc, può essere portatore di salvezza. Perciò il Cristo «non entrò in un santuario fatto da mano umana, che fosse solo immagine del vero, ma entrò nel cielo stesso (οὐ γὰρ εἰς χειροποίητα εἰσῆλθεν ἅγια χριστός, ἀντίτυπα τῶν ἀληθινῶν, ἀλλ᾽ εἰς αὐτὸν τὸν οὐρανόν, Ebr, ix, 24), per parlare davanti a Dio ed intercedere per noi». La doppia parousia del Cristo non è di facile interpretazione: l’autore osserva che come gli uomini muoiono una sola volta e dopo la morte vengono giudicati, così il Cristo «si è immolato una sola volta per togliere i peccati dei molti, e la seconda […] comparirà a quelli che l’aspettano in attesa
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di ricevere la salvezza» (Ebr, ix, 28). Entrambe le parousie si riferiscono alla fine dei tempi; ma anche la fine dei tempi sembra essere duplice. La prima è la fine dei tempi come evento presente, riferito all’ora (νυνὶ) nella prospettiva dell’abolizione del peccato (ἅπαξ ἐπὶ συντελείᾳ τῶν αἰώνων εἰς ἀθέτησιν τῆς ἁμαρτίας διὰ τῆς θυσίας αὐτοῦ πεφανέρωται, Ebr, ix, 26); la seconda è la fine dei tempi per il giudizio finale e in funzione della salvezza dei giusti (ἐκ δευτέρου χωρὶς ἁμαρτίας ὀφθήσεται τοῖς αὐτὸν ἀπεκδεχομένοις εἰς σωτηρίαν, Ebr, ix, 28). Il distacco dal legalismo giudaico è profondo e insanabile: il peccato non si sopprime con il sangue dei capri e dei tori, né con il rinnovo annuale dei sacrifici, i quali tutt’al più rinnovano ogni anno il ricordo dei peccati (ἀλλ᾽ἐν αὐταῖς ἀνάμνησις ἁμαρτιῶν κατ᾽ἐνιαυτόν, Ebr, x, 3). Il che significa che è soppressa l’antica alleanza: il sacrificio del sangue di Cristo sostituisce il sacrificio di origine mosaica; è questo il senso che per l’autore hanno i salmi messianici o i testi profetici.(12) La soppressione della prima alleanza apre la strada alla seconda in cui noi stessi siamo santificati attraverso il sangue di Cristo. La nuova legge non sarà più fondata sulla circoncisione materiale, ma su quella del cuore. Il Salmo xl e il versetto xxxi di Geremia sono le due chiavi di volta che spiegano il passaggio dall’enochismo al cristianesimo. Ed è il passaggio che compie con grande maestria dottrinale l’autore della Lettera. Dal tempio materiale egli passa ad una interiorizzazione del tempio, quale si riscontra in non pochi testi, canonici e non canonici, a cavallo tra il i e il ii secolo e presuppone la distruzione del tempio materiale. Ciò spiega come le comunità che si avviano verso il cristianesimo hanno ormai perso il legame con il messianismo nazionalistico; non sono più comunità del tempio che frequentano il tempio, né hanno più un legame con il sacerdozio tradizionale, quale che esso fosse, levitico e sadocita; il tempio è ormai la comunità stessa o meglio è il legame intimo e profondo della fede che la tiene unita nel processo di santificazione. E tale legame non può essere se non un nuovo concetto del Cristo. È questa nuova cristologia che tenta di elaborare l’autore della Lettera. Le comunità della diaspora, a partire da quelle enochiche a quelle protocristiane, sono ormai assemblee (chiese) domestiche, dapprima semplici riunioni in case private (seconda metà del primo secolo e prima metà del secondo), poi lentamente si trasformano in riunioni in cui si rimaterializza in qualche modo il rito intorno ad una sala della casa privata (seconda metà del secondo secolo), infine, ancora più tardi (iii secolo) nasce la «casa dell’as(12) Cfr. in particolare Salmo xl, 7-9; Jr, xxxi, 33-34.
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semblea», la domus ecclesiae (οἶκος ἐκκλησίας). La Lettera agli Ebrei si riferisce alle prime assemblee domestiche di fedeli in attesa della imminente parousia, come si evince dall’invito a non disertarle: «Non disertiamo le nostre riunioni» (μὴ ἐγκαταλείποντες τὴν ἐπισυναγωγὴν ἑαυτῶν, Ebr, x, 2). La fede nell’attesa messianica è anche una fede sofferente. L’essere seguace di Cristo significa soffrire con Cristo, perché il Cristo è il servo sofferente, esemplarmente tratteggiato da Isaia; aver fede significa imitarlo nel suo dolore. Fin dalle sue origini il cristianesimo si è costruito come vocazione alla sofferenza e come ricerca della sofferenza. Naturalmente non tutte le narrazioni di martìri vanno prese per buone, proprio perché assai spesso si tratta di narrazioni mitiche, ma non si può sottovalutare la profonda aspirazione al dolore come segno di cancellazione del peccato. Nella stessa Lettera agli Ebrei, e quindi fin dai primordi del cristianesimo, troviamo un forte accento sul tema della fede e della sofferenza. I capitoli xi-xii costituiscono un’apoteosi della fede, illustrata attraverso la storia ebraica; la fede dei Padri e dei profeti che conquistarono regni, praticarono la giustizia, ma subirono anche «derisioni e flagelli, catene e carcere. Furono lapidati, segati, bruciati […], denudati, oppressi, maltrattati […]; girovagarono per i deserti e per le montagne, per le grotte e per le cavità della terra» (Ebr, xi, 36-38). 3.3. L’Apocalisse di Giovanni (Ap) L’Apocalisse di Giovanni ha tutta l’apparenza di uno scritto giudaico manipolato da una mano cristiana. L’opera fu probabilmente redatta e revisionata qualche lustro dopo il 100. Giovanni dichiara di trovarsi a Patmos nel Dodecaneso (Ap, i, 9), ma è più probabile che l’ambiente che ha visto nascere il testo sia quello degli ebrei della diaspora dell’area siriano-anatolica. La tradizione vuole che l’autore si identifichi con l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, cui vengono attribuiti il quarto vangelo e tre lettere canoniche. Ma si tratta di una congettura inaccettabile, perché il figlio di Zebedeo, che era un pescatore, era verosimilmente un analfabeta, non in grado di scrivere un testo complesso come l’Apocalisse. Si presume, senza alcuna prova documentaria, che essa sia stata scritta ad Efeso, la città in cui si sarebbe rifugiato l’apostolo, verso la fine del primo secolo dopo le persecuzioni di Domiziano, a cui si farebbe allusione nel testo. Lo stesso Ireneo(13) (13) Ireneo, Adv. haer., v, 30, 5.
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avanza un’ipotesi di datazione che dipende dalla presunta identità dell’autore ed infatti scrive: «L’Apocalisse […] non è stata vista molto tempo fa, ma quasi al tempo della nostra generazione, alla fine del regno di Domiziano». Alan Culpepper e Oskar Culmann(14) hanno persino postulato l’esistenza di una scuola giovannea. In realtà tra i presunti scritti giovannei (le tre lettere, l’Apocalisse e il quarto vangelo) non ci sono né affinità stilistiche né prossimità di contenuto; il che autorizza a pensare che siamo di fronte al solito fenomeno della pseudepigrafia. Il prologo è il risultato di evidenti interpolazioni e si presenta dapprima come una ‘rivelazione’ (ἀποκάλυψις) e una ‘profezia’ (τοὺς λόγους τῆς προφητείας) del Cristo, per assumere a distanza di pochi righi la forma di una epistola inviata a sette comunità. Cristo è nello stesso tempo il rivelatore e il testimone delle cose che stanno per accadere; non è il figlio dell’uomo, ma è «uno simile al Figlio dell’Uomo» (ὅμοιον υἱὸν ἀνθρώπου, espressione che potrebbe far pensare al docetismo, Ap, i, 13), primogenito dei morti e principe dei re della terra (ὁ μάρτυς ὁ πιστός, ὁ πρωτότοκος τῶν νεκρῶν καὶ ὁ ἄρχων τῶν βασιλέων τῆς γῆς). Egli ci libera dai peccati, ci costituisce come regno di sacerdoti di Dio, giunge tra le nubi e, come Enoc, mette per iscritto le sue mistiche visioni. In questo senso il Cristo dell’Apocalisse, come giustamente rileva Zindler,(15) non è un uomo ma è già un Dio. Il giudaismo dell’autore si evince da più elementi: dall’abbondante apparato scritturistico veterotestamentario, dal ruolo centrale assegnato alla Torah in ordine alla stabilità dell’antica alleanza (Ap, x, 1-11), dal costante riferimento alle tribù di Israele, dal mito della Gerusalemme celeste («non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio»), la quale, per quanto sia intesa in senso spirituale, come nuova creazione scesa dal cielo e preparata, come sposa adorna, per l’Unto del signore (τὴν νύμφην τὴν γυναῖκα τοῦ ἀρνίου), coincide comunque con la rinascita della Gerusalemme terrena. Da questa idea apocalittica dipende il mito (14) R. A. Culpepper, The Johannine School. An Evaluation of the Johannine-School Hypothesis Based on an Investigation of the Nature of Ancient Schools, Missoula, Scholars Press, 1975; O. Culmann, Der johanneische Kreis: Sein Platz im Spätjudentum, in der Jüngerschaft Jesu und im Urchristentum. Zum Ursprung des Johannesevangeliums, Tübingen, Mohr Siebeck, 1976 (tr. it. Origine e ambiente dell’Evangelo secondo Giovanni, Genova, Marietti, 1982). (15) F. R. Zindler, Existió Jesus?, in F. R. Zindler - E. Doherty - S. Acharya, Existió Jesus de Nazareth? Ensayos en lo que se cuestiona la historicidad de Jesucristo, accessibile via internet, 2007, p. 8.
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dei dodici apostoli di Cristo, che, come sappiamo, sarà successivamente centrale nella letteratura evangelica. Va notato che il termine ‘apostoli’ non ha nell’Apocalisse il significato di «discepoli del Cristo», ma quello originario di «inviati da Dio» («santi, apostoli e profeti» (οἱ ἅγιοι καὶ οἱ ἀπόστολοι καὶ οἱ προφῆται) che possono essere falsi, dirsi apostoli (ἀποστόλους) e non esserlo (Ap, xviii, 20). In Giovanni (xxi, 14) il termine assume il significato di angeli protettori di Gerusalemme, la città dalle porte, custodite da «dodici angeli» (ἀγγέλους δώδεκα) […], le cui mura «poggiano su dodici fondamenta e recano su di esse i dodici nomi dei dodici apostoli dell’agnello» (δώδεκα ὀνόματα τῶν δώδεκα ἀποστόλων τοῦ ἀρνίου). Ulteriori elementi di giudaismo si nascondono nelle battaglie ideologiche dell’autore. Tale è per es. l’accusa contro coloro che sono «sinagoga di Satana» (συναγωγὴ τοῦ σατανᾶ), «si dicono giudei senza esserlo per davvero» (Ap, ii, 9); un’accusa che presuppone evidentemente la difesa dei veri giudei. Lo stesso vale per l’accusa contro i «sostenitori della dottrina di Balaam», colpevoli di far inciampare Israele, o per la condanna del nicolaismo,(16) che, a quanto pare, aveva i suoi centri in Pergamo e in Tiatira. L’olandese van Manen sospetta che l’attacco contro coloro che si dicono apostoli e non lo sono o si dicono ebrei senza esserlo sottende un implicito attacco contro Paolo. L’ipotesi è suggestiva, ma va tenuto presente che l’espressione usata può avere una duplice valenza e può forse sottintendere una difesa del paolinismo. Di certo l’autore usa la sferza contro le comunità giudaiche che hanno ceduto alle suggestioni del nicolaismo (miscuglio di gnosi e libertinismo). In ogni caso nessuna delle sette comunità menzionate vanta nel primo secolo solide radici cristiane, fatta eccezione, forse, per Efeso. Ciascuna comunità è invitata ad intraprendere una lotta intestina per estirpare il male che si presenta in forme diverse. Al vincitore della comunità di Efeso, che, traviata da falsi apostoli, ha abbandonato l’antico amore, pur tenendo in spregio il nicolaismo, promette «di mangiare dell’albero della vita»; a quello della comunità di Smirne, bacata dal tarlo del falso giudaismo, promette di non andare incontro alla seconda morte; al vincitore della comunità di Pergamo, in cui ha sede il trono di Satana e in cui sono diffuse le dottrine di Balaam e dei nicolaiti, promette di ricevere la manna nascosta; a quello della comunità di Tiatira, contaminata dalla prostituzione sacra professata da Iezabele, assegna autorità sopra le nazioni; al vincitore della comunità di Sardi che riposa sugli allori dei sette spiriti e delle sette stelle, assicura di giungere all’improvviso come un ladro (16) Ap, ii, 14; iii, 9; Ap, ii, 6, 15, 20-23.
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e di fargli indossare le vesti bianche; a quello della comunità di Filadelfia che ha conservato la fedeltà al nome di Dio, promette che diventerà una colonna del tempio, su cui sarà inciso il nome di Dio e della «nuova Gerusalemme» (καινὴ ἰερουσαλήμ); infine al vincitore della comunità di Laodicea, diventata prosperosa nella ricchezza, promette di sedere sul trono di Dio. La lotta tra il bene e il male, condotta dapprima all’interno delle comunità si estende e si dilata nei capitoli iv-xix fino a diventare un conflitto universale che coinvolge tutto il mondo nell’attesa della sconfitta di Babilonia [Roma] la grande, che sarà sottomessa dall’Agnello che nell’apocalittica enochica simbolizza il messia. I tempi dell’intervento divino sono accompagnati dal solito simbolismo numerico tipicamente ebraico; ne sono esempi i 144.000 salvati (cioè 12 x 1000 per ogni tribù), i 7 catini che ricordano i catini in cui il sommo sacerdote versava nel giorno dell’espiazione il sangue degli animali sacrificati (con evidente allusione ad un rito ebraico e non ad un rito cristiano), il numero 7 (le sette chiese, i cosiddetti settenari dei sigilli, delle trombe e dei catini), simbolo di perfezione e di completezza; l’opposto è il significato della sua metà, il 3,5, com’è il caso dei 42 mesi e dei 1.260 giorni (entrambi pari a tre anni e mezzo). Ma il giudaismo funge solo da sfondo dottrinale ormai assimilato in una prospettiva nuova. La parte introduttiva del testo, comprendente le pericopi i, 10-20, presenta notevoli affinità con l’apocalittica di Enoc con in più il gusto per uno spiccato misticismo dei numeri e per l’uso sovrabbondante della teriosimbologia (il leone, il vitello, il drago, la bestia del mare, l’agnello, che per la prima volta è, sotto la suggestione di Isaia, liii, 7, prefigurazione del Cristo). Tutto induce a pensare che il testo sia stato concepito in origine per corrispondere alle attese messianiche di comunità enochiche. D’altra parte, pur ammettendo reminiscenze tratte da profeti, come Daniele, Ezechiele ed altri, di ispirazione enochica sembrano le visioni o le parabole simboliche, la doppia creazione del corruttibile e dell’incorruttibile, l’invito a scrivere le cose che accadranno; concetti pregnanti come quello del «sangue del giusto», del Dio-uomo, del Figlio dell’Uomo, del rapimento o assunzione in cielo, del messia, «figlio della madre dei viventi», del «virgulto di Davide» (ἡ ῥίζα δαυίδ), della salvezza intesa come vivere alla presenza di Dio, del messia come «Lógos di Dio». A ciò si aggiunge la terminologia apocalittica che ha molti punti di contatto con la letteratura enochica (il trono dell’Altissimo, il trono del messia, le vesti bianche, i capelli bianchi come lana bianca, il simbolismo dei me-
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talli pregiati e del fuoco, l’ascolto delle voci angeliche o della voce divina, il concetto di ‘eletto della fede’, la condanna dei potenti e la devastazione dei regni, il nome del Figlio dell’Uomo che era segreto nella letteratura enochica e come tale doveva essere assente nell’Apocalisse, prima della contaminatio christiana, il messia scelto prima della creazione, l’angelologia e l’ascolto delle voci degli angeli o del divino, la Gerusalemme celeste e il santuario spirituale, lo sterminio del peccato e dei peccatori, il pascolare i giusti, i dolori della partoriente). Se consideriamo l’enochismo come una costola dell’essenismo e se i suoi seguaci continuarono a reputarsi «puri» e «santi», si capisce il loro disprezzo per il nicolaismo, soprattutto nella forma più abietta seguita dalla sacerdotessa Iezabele, che praticava la prostituzione sacra. Tuttavia nell’Apocalisse, proprio a causa del sovrabbondante simbolismo, non manca una certa oscurità. Difficile è stabilire chi sono i 24 anziani (= 12 + 12) che forse sono pensati a specchio dei 24 ordini sacerdotali (1Chr, xxiv, 1-19). Tentare di dare un significato puntuale a tali simbologie è un puro esercizio mentale; il significato più generale del testo è evidentemente rappresentato da due violenti combattimenti escatologici tra il bene e il male, intervallati da 1.000 anni di regno cristiano. Il male è rappresentato dalla prostituzione e dal lassismo, che hanno devastato le sette chiese dell’Asia Minore. L’emblema del male è Babilonia-Roma la prostituta, la grande prostituta (τῆς μεγάλης τῆς καθημένης), la madre delle prostitute (ἡ μήτηρ τῶν πορνῶν), la donna dalle sette teste (ὅπου ἡ γυνὴ κάθηται ἐπ᾽ αὐτῶν), cioè dai sette colli, governata da sette re, «donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù» (Ap, xvii, 9, 5-6). Il messaggio che l’autore vuole trasmettere non è relativo alla terrificante fine dei tempi, che anzi è rinviata di almeno 1.000 anni, ma è quello edificante e di speranza, strettamente legato alla certezza della vittoria finale del bene. I sette sigilli, che corrispondono alle violente devastazioni del male, si concludono con il trionfo del bene, con la promessa della salvezza e con l’intronizzazione dell’Agnello-Cristo. È lo stesso tema del conflitto tra la donna e il serpente (Ap, xii, 1-6). Alla prostituta seduta sui sette colli (Roma) fa da contraltare «la donna vestita di sole», travagliata dal parto, assediata dal drago, pronto a divorarne il figlio; ma ella fugge nel deserto e partorisce un figlio destinato a governare su tutte le nazioni. Gli esegeti cristiani non esitano ad interpretare il passo in riferimento alla madre del Cristo, ma molto verosimilmente nel testo originario, non ancora manipolato da mano cristiana, l’agnello non era Gesù, ma Enoc. Problematica è infine l’identificazione delle sette comunità di Efeso,
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Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. È probabile che una comunità cristiana sia stata presente ad Efeso fin dall’ultimo scorcio del primo secolo, ma non altrettanto si può dire di Smirne, la cui comunità risalirebbe al secondo secolo inoltrato. Non abbiamo notizia, se non dall’Apocalisse di Giovanni, di comunità cristiane a Pergamo, Tiatira, Sardi, e Filadelfia. Per quella di Laodicea le scarne informazioni, forniteci da Marcione, si riferiscono al secondo secolo. Come si spiega allora l’elenco di tali comunità, se esse sono difficilmente riconducibili al cristianesimo? Evidentemente l’unica spiegazione possibile è che l’autore dell’Apocalisse si rivolgeva non a comunità cristiane, ma a comunità enochiche o comunque influenzate dalla letteratura enochica, della quale riecheggiavano i temi principali delle visioni di Enoc, simile al figlio dell’uomo, vestito di bianco. In fondo il Cristo dell’Apocalisse è ritagliato sulla figura di Enoc, il quale, rapito al cielo dopo la morte, risorge come vivente nei secoli dei secoli ed ha «le chiavi della morte e del mondo dei morti». L’identificazione del Cristo con Gesù è posticcia, come si evince dai pochi casi in cui compare il nome di Gesù. Di sicuro sono di mano cristiana i versetti i, 1-9 e xxii, 8-21 e xiv, 12, ove è cristiana la formula «coloro che conservano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù» (οἱ τηροῦντες τὰς ἐντολὰς τοῦ θεοῦ καὶ τὴν πίστιν ἰησοῦ). Per quanto possa sembrare paradossale, la lettera si chiude con una maledizione non dissimile da quelle che chiudevano gli antichissimi codici giuridici, come quello di Hammurabi: «Se uno vi aggiunge qualcosa, Dio gli infliggerà i flagelli descritti in questo libro e, se uno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio toglierà la sua parte dall’albero della vita e dalla città santa descritti in questo libro» (Ap, xxii, 18-19). L’interpretazione complessiva dell’Apocalisse, a causa dell’abbondante simbolismo, ha rappresentato un vero e proprio dilemma per gli esegeti. Non v’è dubbio che essa appartiene a pieno titolo al filone della letteratura apocalittica, ma proprio per questo è il prodotto di quel visionarismo inaugurato dagli antichi profeti e coltivato dalle sette enochiche. È troppo pretendere che il testo abbia come fondamento storico i conflitti delle prime comunità cristiane contro il giudaismo o contro il paganesimo. La realtà è che esso è dominato dal tema della lotta tra il bene e il male (incarnata dalla potenza romana), che era uno degli assilli costanti della cultura e della mentalità giudaica. Più verosimilmente l’Apocalisse riflette la condizione emotiva e spirituale delle comunità ebraiche della diaspora che speravano e si attendevano un radicale capovolgimento dell’ordine del mondo. L’attesa fine del mondo non è
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altro che l’attesa della fine dei soprusi e delle ingiustizie di tutti i poteri politici, compreso quello romano. L’Apocalisse è opera di teologia, non di storia. 3.4. L’Epistola di Barnaba Ignorata da Ireneo e reputata da Origene(17) una lettera cattolica, l’Epistola di Barnaba è citata per la prima volta in Clemente Alessandrino.(18) Negli Stromata Barnaba è ricordato in qualità di ‘apostolo’ a conferma del fatto che, ancora in avanzato secondo secolo, il termine ‘apostolo’ circolava in un’accezione più libera e più ampia di quella ricorrente nei Vangeli. È appena il caso di ricordare che l’opera è senza meno pseudepigrafa; ignoriamo del tutto chi ne sia stato l’autore. Eusebio, accomodante come al solito, vuole che Barnaba sia identificabile con uno dei settanta,(19) cioè con uno dei profeti di Gerusalemme che, secondo gli Atti, furono presenti con Paolo ad Antiochia, ove nacque il nome dei cristiani.(20) Nello stesso tempo egli annovera la lettera, insieme con il Pastor di Erma, con gli Atti di Paolo, con l’Apocalisse di Pietro e con la Didaché, tra gli scritti non testamentari.(21) Girolamo nel De viris illustribus,(22) ripete, come di consueto, le notizie fornite da Eusebio. In realtà l’identificazione dell’autore con il discepolo/coadiutore di Paolo è quanto meno sospetta alla luce degli stessi Atti (xv, 37), i quali, quando menzionano Barnaba, non dicono nulla sulla sua presunta epistola. Generalmente si ritiene che la Lettera sia stata scritta in ambiente alessandrino. L’ipotesi, infatti, sarebbe confermata dai seguenti elementi: 1) le prime notizie che se ne hanno provengono da scrittori alessandrini come Clemente e Origene; 2) almeno fino al quarto secolo essa circolò solo tra gli Alessadrini; 3) l’uso dell’allegorismo, benché contestato da alcuni studiosi, ha le sue remote scaturigini nella tradizione filoniana. Bisogna dire peraltro che i recenti tentativi di ricondurla ad ambienti siriani o palestinesi(23) non sembrano aver convinto la gran parte degli studiosi. Pos(17) Origene, Contra Celsum, i, 63. (18) Stromata, ii, 6, 34; 7, 49; 15, 67; 18, 44; 20, 92-99; v, 8, 46-47; 10, 99. (19) Eusebio, HE, xii, 1. (20) Ivi, ii, 3, 3; ii, 8, 2; ii, 12, 2. (21) Ivi, iii, 25, 4. (22) Girolamo, De viris illustribus,vi. (23) P. Prigent, R. A. Kraft, Épître de Barnabé, Parigi, Ed. du Cerf, 1971, pp. 2024, K. Wengst, Tradition und Theologie des Barnabasbriefes, Berlin, De Gruyter, 1971, pp.
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siamo comunque dire che per la sua datazione abbiamo due sicuri punti di riferimento: a) il fatto che sia menzionata la distruzione del tempio (70 d.C.) e b) il fatto che la prima citazione della Lettera risalga agli Stromata di Clemente Alessandrino (190 d. C). Köster(24) ha rilevato che in essa è quasi del tutto assente la letteratura neotestamentaria; dal che ritiene di poter supportare l’ipotesi di una datazione eccessivamente alta. A prescindere dal fatto che anche altri testi, sicuramente tardivi, come il Pastor di Erma, non emergono per abbondanza di citazioni neotestamentarie, va detto che le suggestioni provenienti dalla letteratura evangelica e paolina potrebbero essere per lo più implicite. Il problema della datazione della Lettera dipende sostanzialmente dalla decisione che prendiamo in merito al suo rapporto con la letteratura neotestamentaria. La figura del Cristo è infatti ricostruita sulla base delle stesse fonti veterotestamentarie su cui fu fabbricata da Marco e da Matteo. Ne consegue che non siamo sicuri se attinge o meno dai vangeli. Un’esplicita citazione del vangelo (τὸ εὐαγγέλιον αὐτοῦ, Bn, v, 9) è troppo generica per avere un peso determinante; la presenza di concetti paolini, quali la circoncisione del cuore e l’identificazione dei cristiani come ‘tempio spirituale’ in sostituzione del distrutto tempio materiale («l’abitazione del nostro cuore è un tempio santo per il Signore» γὰρ ἅγιος, ἀδελφοί μου, τῷ κυρίῳ τὸ κατοικητήριον ἡμῶν τῆς καρδίας; «tempio spirituale» πνευματικὸς ναὸς, Bn, vi, 15; xvi, 10) potrebbe dipendere da reminiscenze derivanti dai testi profetici. Dubbia è anche la diretta dipendenza da Matteo, di cui sono citate le pericopi «Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti» (πολλοὶ γάρ εἰσιν κλητοὶ ὀλίγοι δὲ ἐκλεκτοί, Mt, xxii, 14; Bn, iv, 14); «non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt, ix, 13; Bn, v, 9). Nel contesto di quest’ultima, forse sotto l’influenza paolina e in netto contrasto con Matteo, Barnaba esprime una valutazione assai negativa sugli apostoli e dice che il Cristo li «scelse, per predicare il suo vangelo […] tra le persone più inique, consumate ad ogni genere di peccati». Quanto alla pericope sui chiamati e gli eletti, in assenza di altri dati sicuri, non possiamo stabilire quale sia il rapporto di priorità tra i due testi. Ulteriori citazioni da Matteo riguardano la morte del pastore, la conseguente dispersione del gregge e il «bere aceto e fiele» (Mt, xxvi, 31; xxvii, 34; Bn, vii, 3), sebbe114-118, e F. Scorza Barcellona, Epistola di Barnaba, Torino, SEI, 1975, pp. 62-65. (24) H. Köster, Synoptische Ueberlieferungen bei den apostolische Vätern, Berlin, Akademie-Verlag, 1957; cfr. H. Köster, Ancient Christian gospels: their History and Development, Philadelphia, Trinity Press, 1990.
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ne si possa sospettare una loro dipendenza rispettivamente da Ezechiele e dal Salmo lxix (Ez, xiii, 7; Sal, lxix, 22). In ogni caso se la lettera presuppone il vangelo matteano, la sua datazione non può essere anteriore al 130-140 d.C. Militerebbero a favore di una più tarda datazione l’uso di Cristo nella forma di un nome proprio (Ἰησοῦ Χριστοῦ) e l’allusione ad una chiesa consolidata (ove la lana in mezzo alle spine è intesa allegoricamente come «un’altra figura di Gesù in riferimento alla Chiesa» τύπος ἐστὶν τοῦ Ἰησοῦ τῇ ἐκκλησίᾳ θέμενος, Bn, ii, 6; vii, 11). Ma anche in proposito possiamo pensare a manipolazioni successive. Altri spunti utilizzati in funzione di una possibile datazione sono del tutto inaffidabili. Tale è il caso di iv, 4, in cui cade la citazione della profezia di Daniele sul «piccolo re che umilierà tre re in una volta». Sono state avanzate in proposito le più disparate ipotesi. Shukster e Richardson(25) hanno preteso di individuare in tale re l’imperatore Nerva, considerato come termine della dinastia flavia e conseguentemente hanno ipotizzato che la lettera possa risalire intorno al 98 d.C. Crossan(26) si muove sulla scia di Köster e tende a datarla al i secolo. Treat(27) invece propone come terminus ante quem il 135 sulla scorta del capitolo xvi, 1-6 («Ecco quelli che hanno distrutto questo tempio, essi stessi lo riedificheranno. E così sta accadendo. Infatti per essersi i giudei ribellati, il tempio fu demolito dai nemici. Ora, gli stessi servitori dei nemici lo dovranno riedificare […]. Avverrà che, compiuta la settimana, un tempio di Dio sarà edificato splendidamente nel nome del Signore»). In questo passo Treat scorge una chiara allusione alla costruzione del tempio dedicato a Giove capitolino da parte di Adriano. La replica degli studiosi credenti è che si tratta di conclusioni per lo più affrettate, perché tanto nel capitolo iv, quanto nel capitolo xvi l’autore di Barnaba si richiama alle profezie di Daniele, di Isaia e di Enoc.(28) È fin troppo noto che la profezia di Daniele riguarda la dinastia dei Seleucidi e che il «piccolo corno» è figura simbolica di Antioco IV Epifane (175-163 a.C.). Ma il contesto del capitolo xvi, 1-6, è quello del passaggio, denso di significato religioso, dal tempio materiale a quello spirituale; la casa di Dio – spiega l’autore (25) M. B. Shukster - P. Richardson, Temple and ‘Bet Ha-Midrash’ in the Epistle of Barnabas, in S. G. Wilson (ed.), Anti-Judaism in Early Christianity, Waterloo, Ontario, Wilfrid Laurier University Press, 1986, pp. 17-31. (26) J. D. Crossan, The Cross that Spoke: The Origins of the Passion Narrative, San Francisco, Harper and Row, 1988, pp. 121-122. (27) J. C. Treat, Epistle of Barnabas, in D. N. Freedman (ed.), The Anchor Bible Dictionary, cit., vol. i, pp. 613-614. (28) Dn, vii, 24; ix, 24-27; Is, xlix, 17; LS, lxxxix, 74.
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della lettera sulla scia del testo geremiano, come già era accaduto nella Lettera agli Ebrei – non può essere relegata in un edificio fisico, ma va ricondotta alla interiorità del cuore umano: essendo «diventati nuovi, di nuovo creati da principio […], Dio abita veramente in noi, nella dimora del nostro cuore» (λαβόντες τὴν ἄφεσιν τῶν ἁμαρτιῶν καὶ ἐλπίσαντες ἐπὶ τὸ ὄνομα ἐγενόμεθα
καινοί,´πάλιν ἐξ ἀρχῆς κτιζόμενοι· διὸ ἐν τῷ κατοικητηρίῳ ἡμῶν ἀληθῶς ὁ θεὸς κατοικεῖ ἐν ἡμῖν, Bn, xvi, 8). L’allusione alle antiche profezie non esclude che
Barnaba abbia lo sguardo rivolto al presente ed anzi lo interpreti come verificazione delle stesse. Più determinanti ai fini della datazione mi sembrano gli spunti di impronta gnostica o meglio di uno gnosticismo ancora allo stato embrionale e la forte influenza, esplicita ed implicita, della letteratura enochica. Se ne deve arguire che la compilazione dell’epistola barnabiana non può ritenersi anteriore né alla Lettera agli ebrei, a cui sembra ispirarsi nella sua analisi tipologica del Cristo, né al vangelo di Matteo. La lettera si articola in due parti: una parenetico-esortativa che va dal primo capitolo fino al v, 4, ed un’altra che ne costituisce il nodo dottrinale centrale e va da v, 5 al capitolo xvii. Chiudono lo scritto tre capitoli (xviii-xx), forse aggiuntivi, dedicati alle due vie della luce e delle tenebre, e una succinta conclusione di tipo sapienziale o comunque nuovamente parenetico-esortativa. Com’è facile intuire lo scritto si presenta piuttosto composito e non molto omogeneo. La prima parte ci interessa soprattutto per il forte tono del suo antigiudaismo, che ha fatto pensare che l’autore, e forse la stessa comunità di cui faceva parte, non fosse di origini giudaiche. La questione è in effetti complessa, ma forse non bisogna esagerare la portata di tale presunto antigiudaismo, se pensiamo che in fin dei conti nella Lettera predomina una forte componente di matrice giudaica, come si evince dall’imponente apparato scritturistico veterotestamentario. Il bagaglio culturale dell’autore ha tra i suoi punti saldi, oltre che gli scritti del Pentateuco, quelli profetici di autori come Isaia, i Salmi, Geremia, Daniele ed Ezechiele. Si potrebbe dire che si tratta dello stesso bagaglio culturale che attraversa tutta la letteratura apocrifa dell’enochismo. Non a caso, a parte due esplicite citazioni di Enoc (la prima già citata in relazione al Libro dei sogni e la seconda tratta forse dal Libro dell’astronomia (LA, lxxx, 2), a proposito dell’accorciamento del tempo per i peccatori in funzione della fine dei giorni, la presenza dell’enochismo è assai più estesa di quel che si crede e comunque sembra suggerire l’ipotesi che per l’autore esso fosse alle origini del cristianesimo. Da ultimo non mi sembra che siano da escludere tracce di uno gnosticismo embrionale, qua-
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le appare non solo nella intestazione della lettera («mi sono premurato di mandarvi una breve lettera perché voi, oltre alla fede, abbiate anche perfetta la conoscenza» ἐσπούδασα κατὰ μικρὸν ὑμῖν πέμπειν, ἵνα μετὰ τῆς πίστεως ὑμῶν τελείαν ἔχητε τὴν γνῶσιν), ma anche nel nucleo centrale della dottrina ove alla gnosi è ricondotta la stessa incarnazione (τί δὲ λέγει ἡ γνῶσις; μάθετε. ἐλπίσατε, φησίν, ἐπὶ τὸν ἐν σαρκὶ μέλλοντα φανεροῦσθαι ὑμῖν Ἰησοῦν, Bn, i, 5; vi, 9). La gnosi non è che la rivelazione dei segreti ovvero la conoscenza, attraverso i profeti, delle cose passate e presenti, le quali ci mettono in grado di gustare le primizie del futuro (Bn, i, 7). Il che suona come un invito ad una rilettura dei testi profetici al fine di interpretare per loro mezzo il flusso del tempo e delle cose, scoprire nella profezia il presente e ritrovarvi la prefigurazione in chiave allegorica del nuovo messianismo. Non a caso il concetto di ‘figura’, ‘prefigurazione’, corrispondente al greco τύπος, ha una frequente ricorrenza nel testo,(29) soprattutto nella forma: ὁ τύπος τοῦ Ἰησοῦ. Più che pensare ad un autore estraneo al giudaismo, io credo che si debba pensare ad un giudeo che ha ormai profondamente e da gran pezza allentato i legami con la tradizione tanto da aver perduto anche la padronanza della originaria madre lingua; e sembra che lo abbia fatto sull’onda di una comunità di matrice enochica, approdata al cristianesimo. Si direbbe anzi che l’autore conservi ancora uno strascico evidente con le sue origini esseniche, più lontane, ed enochiche, più vicine, fino a maturare, sotto la suggestione della Lettera agli Ebrei, con la quale presenta marcate affinità, sia pure in un accentuato dislivello culturale, un complesso dottrinale che, nella propria come in altre comunità analoghe del tempo, spingeva in direzione del cristianesimo. La lettera fa chiaramente riferimento a una o a più comunità cristiane contrapposte al giudaismo. In essa il ‘noi’ si riferisce ai cristiani e si oppone agli ‘ebrei’ e ai ‘giudei’, responsabili di errori e di travisamenti del messaggio divino (per es. in ordine al digiuno e ai sacrifici). La distruzione del tempio e la devastazione di Gerusalemme sono il segno che il giudaismo è morto. «I giudei – scrive Barnaba – sono stati abbandonati» (οὕτως ἐγκαταλελεῖφθαι αὐτούς, Bn, iv, 14). La fine del tempio segna la fine di un credo. Vedremo più avanti nella parte III quanto profondamente questa idea fermentò nelle prime comunità cristiane. Fa certamente pensare la strumentazione dottrinale e intellettuale con cui l’autore si approccia all’AT. Pur di portare a buon fine il proprio progetto culturale, egli non esita a stravolgere il testo antico. In ciò è facilitato o agevolato (29) Bn, vii, 3, 7, 10, 11; viii, 1; xii, 2, 6, 10; xiii, 5; xix, 7.
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o forse tradito dal suo forte impiego dell’allegoria di matrice filoniana, ormai ampiamente invalsa nei testi enochici, e dalla predominante lettura tipologica del testo biblico, centrata sulla più ampia esplorazione di tutte le possibili prefigurazioni del Cristo. Il visionismo enochico è in questo la chiave di volta che fa implodere i cardini dell’antica costruzione e li sostituisce con le nuove strutture portanti che daranno frutti più maturi nel cristianesimo. La lettura tipologica dell’AT, che per la prima volta è sperimentata nella Lettera agli Ebrei, diventa, in un testo, pur così fragile sotto il profilo dottrinale, qual è quello di Barnaba, una acquisizione sistematica e definitiva. Anche l’autore di Enoc aveva compiuto un percorso analogo, ma aveva lasciato sfumata l’individuazione del Figlio dell’Uomo in una personalità di matrice patriarcale. Barnaba invece trasferisce tutto il complesso apparato dottrinale enochico dalla figura patriarcale alla figura umano-divina del Cristo, che non è una figura reale, storica, ma si carica di tutta la straordinaria potenzialità profetica teorizzata dall’autore di Enoc. Non è più il tempo per l’estenuante ritualismo e per le ipocrisie del legalismo di facciata. Se deve intercorrere un nuovo patto tra Dio e l’uomo, deve essere qualcosa di profondamente rivoluzionario che superi il giudeocentrismo della tradizione. Non servono gli olocausti, i digiuni, i precetti, le circoncisioni nella carne, i riposi sabbatici; per la nuova legge – ed è questa un’idea che parte dal Deuteronomio per approdare al paolinismo – occorrono un servizio ed una fede che nascono nella interiorità del cuore di uomini puri e santi (ancora un residuo essenico). Barnaba ricostruisce le radici del cristianesimo e le individua nella passione del Cristo, nel simbolismo dell’acqua e della croce, nell’eredità del nuovo patto e nel concetto del tempio interiore. Nei capitoli v-x, che sono veramente centrali, egli si pone il compito di dimostrare la necessità della passione del Cristo. Perché è stato necessario incarnarsi e soffrire? Per tre ragioni di fondo: 1) perché occorreva rendere visibili all’uomo la sofferenza e la salvezza; 2) perché occorreva «portare al massimo la consumazione dei peccati di coloro che avevano perseguitato e ucciso i profeti» (οὐκοῦν ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ εἰς τοῦτο ἐν σαρκὶ ἦλθεν, ἵνα τὸ
τέλειον τῶν ἁμαρτιῶν ἀνακεφαλαιώσῃ τοῖς διώξασιν ἐν θανάτῳ τοὺς προφήτας αὐτοῦ, Bn, v, 11); 3) perché senza la salvezza e la resurrezione del Cristo non
ci sono la salvezza e la resurrezione degli uomini. Attraverso la sofferenza Cristo è diventato il simbolo della fede: «la pietra scartata dal costruttore che diventa testata d’angolo»; la dura roccia è la stessa fede che salva: «Chi crede in questa roccia, vivrà per sempre» (Is, xxviii, 16). In vi, 1 - vii, 11 abbondano citazioni (almeno otto) di anonimi autori non facilmente individuabili, for-
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se provenienti da apocrifi del Pentateuco o forse da una letteratura enochica a noi non pervenuta, tanto più che nel testo se ne riconoscono chiaramente i temi della doppia creazione (quella del mondo corruttibile e quella dell’incorruttibile) e del forte accento sulla conoscenza, sulla sapienza e sull’intelligenza. A questi si possono aggiungere i temi della «confessione nell’assemblea dei fratelli» e del recupero della ingenuità del bambino come strumento per accedere alla fede. Può apparire di primo acchito sconcertante il capitolo vii, in cui cade il maggior numero delle citazioni non individuabili, perché nel riferirsi al capro espiatorio (Lv, capitoli xvi e xxiii) e quindi al giorno dell’espiazione, l’autore non sembra cogliere tutti i minuziosi passaggi rituali descritti nel testo biblico, ma sembra procedere sulla base di presupposti simbolici. Lo stesso accade nel capitolo successivo in cui in relazione a Nm, xix, accenna alla vacca rossa e ai riti lustrali e di purificazione. Ma tanto nell’uno quanto nell’altro caso si deve solo evincere che nel mondo della diaspora andava sempre più scemando il legame ombelicale con la tradizione giudaica. Vorrei soffermarmi brevemente sulla ipertrofica tipicizzazione del Cristo. L’autore di Barnaba pretende di scoprire una prefigurazione del Cristo persino nel numero di uomini che Abramo armò per salvare la vita di suo fratello Lot (Gn, xiv, 14). Così infatti egli interpreta il testo nel greco della Septuaginta: Prima dice diciotto e poi, fatta una pausa, aggiunge trecento. Il numero diciotto si indica con ‘iota’ che vale dieci e con ‘eta’ che vale otto; ed eccoti il nome Ie(sous). E poiché la lettera tau raffigura la croce […], aggiunge trecento. Perciò, nelle prime due lettere ci indica Gesù e nella terza la croce» (Gn, ix, 7).
Ora questa ricostruzione, come opportunamente ha rilevato Ward (1797-1884), è semplicemente assurda,(30) perché la Genesi, come è fin troppo noto, fu scritta in ebraico e i valori numerici delle lettere greche non influirono minimamente sul numero degli armati di Abramo, in quanto in ebraico assumevano ovviamente altri valori alfanumerici. V’è un ultimo punto che occorre chiarire. Barnaba usa il nome ‘Gesù’ 17 volte e tre sole volte il termine ‘Cristo’.(31) Si direbbe che egli abbia attinto (30) Cfr, in proposito H. D. Ward, History of the Cross: the Pagan Origin and the Idolatrous Adoption and Worship, of Image, London, Nisbet, 1971, pp. 15-25. (31) Br., ii, 6; iv, 8; vi, 9; vii, 7, 10, 11; viii, 2, 5; ix, 7, 8 (2); xii, 5, 6, 7, 10; xiv, 5.
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il nome Gesù più che dalla letteratura evangelica o paolina dalla Lettera agli ebrei, perché ha con essa in comune l’interpretazione allegorica della figura di Giosuè/Gesù. Questa infatti è esattamente l’oggetto del capitolo xii, ove l’autore si propone di superare un ulteriore elemento di giudaismo, respingendo la radicata convinzione che il Figlio di Dio, ovvero il Messia, sia un diretto discendente di Davide secondo la carne. Ed arguisce che Gesù è figura di Giosuè (va tenuto presente che in tutta la versione della Septuaginta il nome Giosuè è costantemente reso con Gesù). Scrive dunque Barnaba: Che cosa dice ancora Mosè di Gesù, figlio di Nave, che era profeta, dopo avergli imposto il nome, alla presenza di tutto il popolo, affinché ascoltasse la rivelazione del Padre riguardo al Figlio suo Gesù? Disse Mosè intorno a Gesù, figlio di Nave, appena gli diede questo nome e lo mandò quale esploratore della regione: ‘Prendi un libro nelle tue mani, e scrivi ciò che il Signore dice, e cioè che il Figlio di Dio negli ultimi giorni taglierà dalle radici tutta la casa di Amalek’. Ecco, di nuovo Gesù, non Figlio dell’Uomo, ma Figlio di Dio, apparso in figura nella carne (ἴδε πάλιν Ἰησοῦς, οὐχὶ υἱὸς ἀνθρωπου, ἀλλὰ υἱὸς τοῦ θεοῦ, τύπῳ δὲ ἐν σαρκὶ φανερωθείς). Poiché avrebbero detto che Cristo è figlio di David, lo stesso David, temendo e prevedendo l’errore dei peccatori, profetizza: ‘Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi’. Ancora Isaia dice così: ‘Disse il Signore al Cristo, mio Signore, del quale io presi la destra: lo ascoltino le genti, ed io distruggerò il potere dei re’. Vedi come David lo chiama Signore e non lo chiama figlio (Bn, xii, 8-11).
Non sarà mai sufficiente riflettere su questo punto essenziale. Probabilmente esistevano comunità protocristiane, forse ancora di matrice essena o enochica, le quali continuavano a ignorare il nome del Cristo. È solo a partire dalla Lettera agli Ebrei che prende corpo la figura di Gesù. 3.5. La Didaché La Didaché è un testo redazionale che ricuce in una unità fittizia almeno tre parti originarie ed autonome che mal si conciliano tra di loro. Ne ignoriamo l’autore e l’ambiente geografico di provenienza. I suoi presunti rapporti con la fonte aramaica o ebraica Q di Matteo sono puramente fantaPer il termine Cristo, cfr. ii, 6; xii, 10, 11.
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siosi, come lo è anche la tesi secondo cui esso rappresenterebbe la regola della comunità di Matteo.(32) La prima parte ( capitoli i-vi) si direbbe di matrice giudaica, tradisce ascendenze esseniche nella giustapposizione della via della vita e della via della morte e presenta qualche affinità con il Talmud. La seconda parte ( capitoli vii-xi) rappresenta invece una manifesta interpolazione cristiana sulla catechesi del battesimo e dell’eucaristia; in tale sezione sono tra l’altro contenute le tre uniche occorrenze di ‘Gesù’.(33) Infine l’ultima parte ( capitoli xii-xvi) contiene un accenno alle funzioni organizzative e gestionali della comunità di riferimento. Lo scritto è fortemente influenzato dal giudaismo soprattutto nella prima parte e parzialmente nella terza. La prima parte ha un tono parenetico ed è ispirata, come già era accaduto nella Lettera di Barnaba, alle prescrizioni dei dieci comandamenti con una forte esortazione alla vita etica, come via della rettitudine e della vita contrapposta alla via della morte. I primi quattro capitoli sembrano richiamare alla mente il tono paterno che troviamo in Tb, iv, con l’aggiunta di qualche manipolazione cristiana. Questa è inconfondibile nelle pericopi i, 3-4, sull’amore verso i nemici; non mancano tuttavia qua e là influenze etiche tratte dal Siracide e da altri scritti veterotestamentari. Il carattere giudaico è insito nel programma di un’etica rigorista, precettistica, sessuofobica, ossessionata dall’idea dell’impuro, connessa al divieto di consumare le carni degli animali immolati agli idoli ( capitolo vi). Nel capitolo ii si registra forse la consonanza massima con il Talmud. Il tema delle due vie è, come sappiamo, condiviso da Barnaba, ma, almeno a giudicare dai titoli, i due testi sembrano muoversi in direzioni diverse. La fonte della Didaché è veterotestamentaria ed è suggerita da Geremia (xxi, 8): «Ecco io pongo davanti a voi la via della vita e la via della morte». Per Barnaba le vie sono quelle della luce e delle tenebre ove la terminologia e l’apparato angelologico sembrano essere più manifestamente ispirati al dualismo essenico.(34) Ma l’identità di prospettiva si ristabilisce nel momento in cui lo stes(32) Cfr. J. A. Draper, Torah and Troublesome Apostles in the Didache Community, «Novum Testamentum», xxxiii, 1991, pp. 347-372. (33) Dd, ix, 3, 4; x, 2. Nella Didaché è del tutto assente il lemma ‘Cristo’. (34) Sulle due vie, ma anche su altri temi, si sono supposte consonanze tra la Didaché e il Pastor di Erma, ma i passi invocati in proposito non mostrano segni di una dipendenza della prima dal secondo e in generale sono troppo generici (cfr. in proposito Didaché, xi, 7-12, e Pastor, Mand., xi, lxiii, 1-21, in materia de prophetis; Dd, v, 1 e Mand., viii, 5 in materia di peccati afferenti alla vita della morte; Dd, i, 5 e iv, 7 e Mand., ii, 4-5, in materia di elargizione). In ogni caso se un rapporto di priorità va posto, non v’è dubbio che
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so Barnaba interpreta come via della morte la via delle tenebre (Bn, xix, 2). D’altronde i contenuti dell’insegnamento etico di Barnaba (xix, 2-12) sono a tratti anche letteralmente coincidenti con quelli espressi nei capitoli (i-iv) della Didaché, che sono forse originari e antecedenti alle manomissioni cristiane (Dd, i, 3-4). Lo stesso discorso vale per la via della morte, ove Barnaba e la Didaché viaggiano all’unisono (Bn, xx, 1-2; Dd, vi, 1-3). Da tutto ciò si deve dedurre alternativamente o che: 1) una originaria fonte perduta, forse di matrice esseno-enochica, è stata manipolata in senso cristiano soprattutto nella Didaché ed ha conservato con maggiore fedeltà i suoi tratti più genuini nel testo barnabiano; o più semplicemente che 2) le manipolazioni della Didaché sono state operate direttamente sul testo di Barnaba. Per la verità la cristianizzazione della Didaché sembra essere cominciata fin dallo stesso titolo con cui ci è stata tramandata. Esso infatti suona nella forma attuale: «L’insegnamento del Signore attraverso i dodici apostoli ai Gentili» (Διδαχὴ κυρίου τῶν δώδεκα ἀποστόλων τοῖς ἔθνεσιν). Ma da un’antica traduzione latina del decimo secolo sappiamo che il titolo era probabilmente assai più sobrio e doveva corrispondere nel testo greco a «L’insegnamento degli apostoli» (Διδαχὴ τῶν ἀποστόλων). Da una fonte più antica, come Tirannio Rufino (345-411),(35) sembra che si debba dedurre che il suo titolo originale fosse Duae viae oppure Judicium Petri. È in ogni caso certo che al tempo di Rufino il testo non avesse ancora il titolo attuale, sicché si può arguire che il primo dei suoi due titoli sia stato da lui desunto dalla materia stessa dello scritto. Più difficile è capire perché egli abbia pensato anche al titolo Judicium Petri. Si può supporre che l’origine giudaica del testo lo abbia indotto ad attribuirlo alla corrente petrina nella logica della contrapposizione tra i primi due apostoli. Eusebio(36) cita il testo non come Didaché ma come didachai (ovvero «i cosiddetti insegnamenti degli apostoli» τω̑ν ἀποστόλων αἱ λεγόμεναι διδαχαί) ove è da notare che il riferimento agli apostoli non ha ancora di per sé valenza cristiana.(37) È solo l’aggiunta di «dodici» che dà un rivestimento cristiano al titolo; di contro è possibile che il testo più antico tra i due è la Didaché. (35) Rufino, Expositio symboli, 38: «In Novo vero Testamento libellus qui dicitur Pastoris sive Hermas, qui appellatur Duae viae vel Judicium Petri. Quae omnia legi quidem in ecclesiis voluerunt, non tamen proferri ad auctoritatem ex his fidei confirmandam». (36) Eusebio, HE, iii, 25. (37) Atanasio nel iv secolo assegna al libro il titolo Διδαχὴ καλουμένη τῶν ἀποστόλων, non molto dissimile da quello di Eusebio (cfr. Atanasio, Epistula paschalis, xxxix, PG. xxvi, col. 1438).
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nel testo precristiano il termine ‘apostoli’ valesse semplicemente come «inviati» e si riferisse ad apostoli itineranti o a personalità che si reputavano o si presentavano come ispirate o dotate di spirito profetico. Era in fondo quello degli inviati-profeti una sorta di mestiere per procacciarsi di che vivere; quando questa venalità diventava scoperta, si parlava naturalmente di «falsi profeti». Come abbiamo spesso segnalato l’accezione di «apostoli» era originariamente più ampia di quella che ha in genere nella letteratura evangelica, perché non è riferita esclusivamente ai «discepoli di Cristo». Si può addurre come esempio la lettera ai Romani (xvi, 7), ove Paolo, salutando Andronico e Giunia, dice che si sono «segnalati tra gli apostoli»; tale è anche l’accezione più libera con cui il termine compare nelle parti della Didaché compromesse dalla contaminatio christiana (a proposito del comportamento da tenere nei riguardi degli apostoli e dei profeti, Dd, i, 3-4, 6). Pur non essendo inserita nel canone, la Didaché riveste per la Chiesa un ruolo speciale, per essere il documento su cui nei secoli successivi, prima attraverso la Didascalia Apostolorum (iii secolo) e le Clementinae, poi attraverso le Costituzioni Apostoliche (iv-v secolo), si è cercato di consolidare, nell’unità del sacerdozio, una gerarchia episcopale che fosse funzionale alla forma monarchica assunta dalla Chiesa.(38) L’autore della Didachè si rivolge al destinatario con l’appellativo di ‘figlio’, nel senso generico di neofita cristiano che ha bisogno di essere catechizzato; possiamo tuttavia dire che i destinatari sono i cristiani, come si evince dall’uso frequente del plurale. Infatti l’obiettivo principale della seconda parte del testo è quello della catechizzazione: si prescrivono i precetti liturgici per la somministrazione del battesimo ( capitolo vii), per i digiuni, per la preghiera del padrenostro ( capitolo viii) e per la celebrazione dell’eucaristia ( capitolo ix). In quest’ultimo capitolo è menzionato il Cristo,(39) per mezzo (38) Su tutta questa materia rinvio in particolare a J. S. Drey, Neue Untersuchungen über die Constitutionen und Kanones der Apostel, ein historisch-kritischer Beitrag zur Literatur der Kirchegeschichte und des Kirchenrechts, Tübingen, Laupp, 1832; Ph. Schaff, The Teaching of the Twelve Apostles, New York, Funk and Wagnalls, 1890, pp. 134-135. Cfr. anche A. von Harnack, Lehre der zwölf Apostel, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, Leipzig, Hinrichs’sche Buchhandlung, 1884, H. ii, pp. 246-268; Id, Lightfoot on the Ignatian Epistles: Genuineness and Date of the Epistles, in «Expositor», 1886, pp. 9-22. Sulla Didascalia Apostolorum rinvio a V. Ranucci, Didascalia apostolorum: testo siriaco, traduzione italiana, sinossi e commento sulla formazione del testo. Tesi di dottorato, Università di Bologna. (39) Nella Didachè c’è una sola occorrenza di ‘Cristo’ nella forma di un nome pro-
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del quale è rivelata «la santa vite di David» (ὑπὲρ τῆς ἁγίας ἀμπέλου Δαυεὶδ), cioè «la vita e la conoscenza» (ὑπὲρ τῆς ζωῆς καὶ γνώσεως) con un accenno ad una unificazione di tipo vagamente universalistico della Chiesa («Si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra») e con l’uso della forma «Gesù Cristo» come nome proprio, difficilmente riconducibile al primo secolo. In particolare la pericope ix, 5 («Nessuno però mangi né beva della vostra eucaristia se non i battezzati nel nome del Signore, perché anche riguardo a ciò il Signore ha detto: ‘Non date ciò che è santo ai cani’») fa risalire ad un oscuro detto di Cristo, sicuramente manipolato da mano cristiana, la gestione ecclesiastico-sacerdotale dell’eucaristia. Sulla stessa linea è il capitolo x, che ha carattere escatologico con la prospettiva della rivelazione della fede, dell’immortalità e della conoscenza. Probabilmente originario è il versetto x, 6, ove la grazia discrimina i santi dai non santi e si accompagna alla invocazione del «Vieni, Signore» (aram. marān ‘athā = il Signore è venuto), da cui probabilmente deriva il congedo paolino della 1Corinzi (xvi, 22). I capitoli xi-xiii sembrano riprendere il discorso interrotto con il capitolo vii e mettono in guardia dai falsi profeti. L’avvertimento originario era probabilmente rivolto contro coloro che potevano distogliere dai valori etici delle due vie. Ma nella redazione definitiva dei capitoli si avverte la mano cristiana soprattutto in xi, 3-4 («Riguardo agli apostoli e ai profeti, comportatevi secondo il precetto del Vangelo») soprattutto per la ridondanza e pleonasticità con cui sono ribadite le prescrizioni. Più vicino al testo originale sembra essere il capitolo xiii, perché più conforme alla cultura ebraica («Prenderai perciò le primizie di tutti i prodotti del torchio e della messe, dei buoi e delle pecore e le darai ai profeti, perché essi sono i vostri Sommi Sacerdoti», Dd, xiii, 3). Nel capitolo xiv il tema dell’eucaristia torna forse in una versione originaria, perché presuppone la distruzione del tempio di Gerusalemme e la sostituzione dei sacrifici spirituali a quelli materiali. Anche in questo caso il passaggio è affidato ad uno sconosciuto detto del Signore: «In ogni luogo e in ogni tempo offritemi un sacrificio puro, perché un re grande sono io – dice il Signore – e mirabile è il mio nome fra le genti». Ov’è da notare che l’ignoto manipolatore si tradisce nel momento in cui accenna ad una fama consolidata del Cristo e quindi ad una altrettanto consolidata diffusione del cristianesimo. Infine nei capitoli xv e xvi l’attenzione è rivolta alla elezione degli episcopi e dei diaconi e alla preparazione, attraverprio (Gesù Cristo) in ix, 4. Poche sono anche le occorrenze di ‘Gesù’ che ammontano ad appena quattro: ix, 2, 3, 4; x, 2.
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so la fede e la frequenza delle assemblee, alla seconda parousia e alla fine dei tempi. Non mancano nella parte conclusiva i toni apocalittici che forse sono suggestioni del testo giovanneo. Non v’è dubbio che l’assenza di citazioni neotestamentarie incide sulla datazione della Didaché tra la fine del i secolo e i primi lustri del secondo. Ma è forse eccessivo pensare che essa non fosse in origine nient’altro che un manuale per la iniziazione di proseliti delle sinagoghe.(40) Ed è altresì poco credibile l’ipotesi di chi, come Jean Paul Audet,(41) ne dà una datazione troppo alta (50-70 d.C.), tanto più che essa è rimasta a lungo sepolta nell’oblio, essendo stata menzionata per la prima volta da Eusebio nel quarto secolo.(42) Se si libera il testo dalle contaminazioni cristiane, vien fuori uno scritto rivolto ad una comunità fortemente legata al dualismo esseno-enochico, la quale si organizza in una struttura presbiteriale per la preparazione alla fine dei tempi reputata imminente. Così come ci è pervenuta, la Didaché è invece un testo povero sotto il profilo dottrinale, volto non alla formazione, ma all’ammaestramento dei fedeli; fornisce precetti elementari sulle cose da fare, sul come farle e sulle cose da cui bisogna guardarsi. 3.6. La Lettera a Diogneto Ignoto è l’autore della Lettera a Diogneto, come ignoto è il destinatario e l’ambiente storico-geografico di provenienza. Dal prologo si evince che Diogneto deve essere probabilmente un neofita cristiano o un pagano interessato alla nuova fede, a cui vengono proposte ben otto domande (sul Dio oggetto della fede cristiana, sui culti con cui è venerato, sul distacco dei cristiani dal mondo, sul disprezzo della morte, sul loro atteggiamento nei confronti delle religioni pagana e giudaica, sull’amore e sulle ragioni per cui il cristianesimo è una religione nuova, apparsa di recente e non prima). Il mittente, autore della lettera, è un cristiano che si pone come guida spirituale. Molto probabilmente si tratta di una fictio letteraria e Diogne(40) S. Schechter - K. Kohler, voce Didaché, in «Jewish Encyclopaedia», reperibile su sito intenet. (41) J.-P. Audet, La Didaché, cit. (42) Le presunte citazioni implicite nel Pastor di Erma in Giustino, Taziano, Clemente Alessandrino, Origene sono tutte malcerte e non ci danno la garanzia che essi avessero una sicura conoscenza della Didaché. È probabile che a lungo il testo sia rimasto nell’oscurità per il fatto di essere reputato di matrice giudaica.
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to è solo un personaggio fittizio pensato come controfigura che permette all’autore di dimostrare la superiorità del cristianesimo sia rispetto al giudaismo sia rispetto all’ellenismo. Il testo ci è pervenuto in un unico manoscritto, scoperto nel 1436 e conservato presso la Biblioteca municipale di Strasburgo. Distrutto durante la guerra franco-prussiana (1870),(43) sarebbe irrimediabilmente andato perduto, se non se ne fossero conservate due recensioni alsaziane (le edizioni di Bernard Haus e di Henri Estienne). Non si può dire che esso abbia avuto una grande fortuna, perché non è menzionato né da Clemente Alessandrino e da Ireneo né da Origene e da Eusebio. Che l’autore possa essere stato il precettore di Marco Aurelio è congettura indimostrata di Lindner.(44) Né molto convincente appare l’ipotesi secondo cui la paternità possa essere attribuita a Giustino; le argomentazioni che la contraddicono sono dirimenti: a) diverso è lo stile dell’epistola da quello dell’apologista; b) soprattutto decisiva è la differenziazione delle loro argomentazioni contro il giudaismo; c) Giustino ha grande rispetto e venerazione per l’Antico Testamento; di contro l’autore dell’epistola accusa gli ebrei di praticare con i loro sacrifici materiali un culto idolatrico non dissimile da quello dei pagani (Dg, iii-iv). Del tutto inattendibile è poi l’ipotesi che retrodata la lettera all’epoca apostolica, anteriore addirittura alla distruzione del tempio (70 d.C.). Secondo Baratier(45) essa fu opera di Clemente; per André Galland (1709-1779) ne fu autore quell’Apollo citato nelle lettere paoline.(46) Galland, in particolare, si fonda sui seguenti argomenti: 1) nel capitolo xi l’autore si definisce discepolo degli apostoli; 2) nel capitolo iv condanna come pagani l’olocausto e i sacrifici rituali ebraici; il che – egli arguisce – presuppone l’esistenza del tempio. Alla prima delle due osservazioni si può replicare, osservando che il concetto di «discepolo degli apostoli» indica più che una prossimità temporale agli apostoli, un lungo processo di trasmissione della tradizione apostolica. (43) L’edizione critica è stata curata da W. B. Lindner, Epistola a Diogneto, in Bibliotheca patrum ecclesiasticorum selectissima ad optimarum editionum fide recudi curavit Guilelmus Bruno Lindner, Lipsiae, Dörffling et Franke, 1857. (44) Ivi, p. 3. (45) J.-Ph. Baratier, Disquisitio chronologica de successione antiquissima episcoporum romanoruminde a Petro usque ad Victorem, Ultrajecti, Apud Stephanum Neaulme, 1740, capitolo vi, par. 5, p. 77. (46) A. Galland, Bibliotheca Veterum Patrum Antiquorumque Scriptorum Ecclesiasticorum, Venetiis, Ex Typographia Johannis Baptistae Albritii Hieron(ymi) fil(ii), mdcclxv, t. i, Prolegomena, p. lxx.
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Ed in effetti il testo della lettera spiega che «divenire discepoli degli apostoli» (ἀποστόλων γενόμενος μαθητὴς) significa divenire «maestro delle genti» (διδάσκαλος ἐθνῶν) e trasmettere «le cose tramandate» (τὰ παραδοθέντα) da quelli che si sono fatti «discepoli della verità» (ἀληθείας μαθηταῖς). In altri termini ci vien detto a chiare lettere che il cristianesimo delle origini è cresciuto nella diaspora ed ha fatto proseliti nell’universo dei gentili. Il messaggio, annunciato dagli apostoli, fu creduto dai pagani (διὰ ἀποστόλων κηρυχθείς, ὑπὸ ἐθνῶν ἐπιστεύθη). L’autore non nomina mai né il Cristo, né Gesù, ma usa solo il termine λόγος, la parola di Dio, come ipostasi eterna, che apparve ‘nuovo’ (καινὸς) e insieme ‘antico’ (παλαιὸς). L’incarnazione è più un’apparizione; φαίνω (= apparire) è il verbo costantemente usato dall’autore, ma si tratta di apparizione che avviene «attraverso la fede (διὰ πίστεως), con la quale solo è concesso di vedere Dio» (ἧι μόνηι θεὸν ἰδεῖν συγκεχώρηται). Si potrebbe supporre un eventuale influsso giovanneo, ma è forse più ragionevole pensare ad una comunità di docetisti per i quali l’incarnazione era concepita come una manifestazione puramente trascendentale del divino. D’altro canto il riferimento alla chiesa e ai vangeli sembrano escludere una datazione del testo all’età apostolica. Quanto alla seconda osservazione di Galland va detto che allo studioso sfugge che la pratica dei sacrifici rituali non attesta di per sé l’esistenza del tempio di Gerusalemme; anche perché, com’è naturale, gli ebrei, non cessarono di praticare i loro culti né dopo il 70, né dopo il 135 d.C. Sulla stessa scia di Galland si pone Böhl,(47) per il quale la lettera sembra condividere la purezza della dottrina paolina. Ma un’osservazione siffatta può tutt’al più consentire l’individuazione di un terminus post quem, che, senza il corrispettivo ante quem, indica un’estensione indefinita. Oltre tutto credo che sia rischioso avventurarsi in disquisizioni sulla purezza della dottrina o sulle affinità con il paolinismo, perché non è da esse che si può derivare una datazione sicura della epistola. Tanto più che l’assonanza con Paolo si rivela, ad un’indagine critica, solo superficiale. Lo stesso sintagma «maestro delle genti» non va inteso in senso paolino, cioè con riferimento ad uno dei due orientamenti del cristianesimo primitivo, ma allude semplicemente al fatto che l’opera di proselitismo ebbe presa solo in ambiente pagano. Sulle allusioni alle persecuzioni anticristiane, contenute in vii, 7, punta Mohlerus(48) (47) G. Böhl, Opuscula Patrum Selecta, Berolini, Venditur ab E. Franclino, 1826, pp. 109-123. (48) J. A. Möhler, Ueber den Brief an Giognetos, in Gesammelte Schriften und Au-
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per dedurre che la lettera è posteriore all’epoca traianea; ma non si capisce perché, per la stessa ragione, non potrebbe essere posteriore all’epoca degli Antonini o di Valeriano o di Decio. Da che cosa si evince l’allusione all’una piuttosto che all’altra persecuzione, dal momento che esse possono riferirsi a tempi diversi e distanti tra loro anche più di un secolo. Più interessante è notare che l’affermazione che i cristiani «quanto più sono puniti, tanto più crescono» (Dg, vii, 8) ricorda da vicino una nota argomentazione dell’Apologeticus di Tertulliano e potrebbe dipenderne. Anche i seguenti versetti: Per mezzo suo [del lógos] la Chiesa si arricchisce e la grazia, diffondendosi nei fedeli, si moltiplica. Essa ispira saggezza, svela i misteri, preannuncia i tempi, si rallegra per i fedeli, si dona a quelli che la cercano, senza infrangere i giuramenti della fede né oltrepassare i limiti dei padri (Dg, xi, 4-5)
non sembrano riferirsi ai tempi apostolici, ma sembrano se mai alludere ad una certa distanza temporale da essi e ad una chiesa ormai matura. Si può aggiungere che tanto le radici marcatamente gnostiche («non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera» neque enim vita sine congnitione [gr. ἄνευ γνώσεως], neque cognitio sine vera vita est tuta et firma), quanto l’idea di una chiesa universale non appartengono al primo secolo. Ma v’è di più: nel capitolo ix si intuiscono tracce di una dottrina tardiva quale può essere quella dell’economia divina come piano provvidenziale per cui fin dal principio Dio preparava il tempo della giustizia.(49) Si tratta di una dottrina che è ancora assente in Ireneo ed è invece chiaramente sviluppata da Eusebio nel suo tentativo di dare una sistemazione unitaria e provvidenzialistica alla storia ecclesiastica. Seriori sono anche le tracce di tardoplatonismo presenti nel capitolo vi in tema di contrapposizione di anima e corpo, dell’anima principio egemone e del corpo-prigione (concezione platonica del sōma-sēma), per cui la chiesa (la comunità cristiana) abita il mondo come l’anima il corpo. Böhl e Semisch(50) ritengono spuri i capitoli xi-xii che chiudono l’epistofsätze, hrsg. von Johann Joseph Ignatius Döllinger, Regensburg, G. J. Manz, 1839, pp. 19-31; Id., Anonimi Viri Apostolici Epistola ad Diognetum Dissertatio prooemialis, in PG. ii, coll. 1159-1168. (49) Questo concetto è già precedentemente affermato nel capitolo viii: «Avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio» (concepit autem mente magnum aliquid et ineffabile quod cum solo filio communicavit). (50) G. Böhl, Opuscula Patrum Selecta, cit.; C. G. Semisch, Justin Martyr: his Life,
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la. I loro argomenti in proposito sono i seguenti: 1) il cap x sembra essere conclusivo; 2) il capitolo xi non ha un nesso interno che lo colleghi ai capitoli precedenti; 3) la salvezza affidata alla gnosi nel capitolo xii, contraddice il capitolo viii, che la fonda sulla fede; 4) nei due ultimi capitoli l’autore non si rivolge più ad un individuo (cioè a Diogneto), ma ricorre all’uso del plurale; 5) nel capitolo xi l’autore dice di scrivere per ordine divino, mentre nella prima parte afferma di scrivere in risposta alle questioni proposte da Diogneto. A queste osservazioni si può replicare come segue: 1) non c’è nessun sicuro elemento che induca a pensare che il capitolo x sia conclusivo; 2) è discutibile che il capitolo xi non sia intrinsecamente innervato nel testo; anzi il fatto che l’autore si presenti come discepolo degli apostoli rafforza gli insegnamenti che egli impartisce a Diogneto; 3) non si può parlare di un vero e proprio conflitto tra la gnosis del capitolo xii e la pistis del capitolo viii, perché se è vero che in quest’ultimo si afferma che Dio si è rivelato per mezzo della fede («Si è rivelato mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio», Dg, viii, 6), nel capitolo precedente si asserisce che Egli si è manifestato come verità («Ma quello che è veramente Signore e creatore di tutto e Dio invisibile, egli stesso fece scendere dal cielo, tra gli uomini, la verità, la parola santa e incomprensibile e l’ha riposta nei loro cuori», Dg, vii, 2); 4) quanto all’uso del plurale che fa pensare a più destinatari non è così decisivo come si vuole far credere, perché nel capitolo xi il plurale («Vi facciamo partecipi di tutto quanto» vobiscum communicamus) si associa all’uso del singolare («saprai ciò che il Verbo dice» quae verbum loquitur cognosces); va poi detto che nello stesso capitolo xi e nel capitolo xii predomina il singolare («La scienza sia il tuo cuore» (cor tuum tibi sit sapientia tua); «mieterai» (metes); 5) non c’è una vera e propria contraddizione tra il sentirsi investiti da un ordine divino e il rispondere al desiderio di sapere e di conoscenza dell’amico Diogneto. 3.7. Il Pastor di Erma Il Pastor di Erma è uno scritto singolare: ha tutto l’impianto ideologico del giudaismo. L’autore scrive in greco, ma nello stesso tempo sembra dichiararsi romano, poiché fa riferimento al Tevere («In flumine, qui appellatur Tiberis, lavantem vidissem»), alla via sacra (via campana) e all’agro cumano (ad civitatem Ostiorum). Non cita mai il nome di Gesù né mai usa il terWritings and Opinions, transl. by J. E. Ryland, Edinburgh, Clarck, 1843, pp. 193-207.
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mine Cristo; eppure il suo messaggio non manca di chiari spunti cristiani. Non sappiamo chi sia Erma, né se è realmente esistito. Il testo potrebbe infatti essere pseudepigrafo. L’autore probabilmente ha voluto che l’opera fosse attribuita ad un altro dei tanti personaggi citati da Paolo. Nell’Epistola ai Romani l’apostolo di Tarso nomina in chiusura, inviando loro un saluto, «Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma e i fratelli che sono con loro» (Rm, xvi, 14). Ed è evidente che nella seconda metà del ii secolo, nella convinzione che le lettere paoline fossero i documenti cristiani più antichi, si pescavano in esse i nomi (Erma, Clemente, Barnaba, Lino) a cui fare riferimento per retrodatare il più possibile taluni documenti cristiani. Ma il cristianesimo di Erma è paradossalmente privo della testimonianza evangelica che è del tutto ignorata. Lo scritto è parenetico-esortativo e il suo contenuto più che teologico è di carattere morale. L’opera è nota ad Ireneo e a Clemente Alessandrino.(51) Origene considera Erma un autore ispirato.(52) Il frammento muratoriano, che si vuole datato il 170 d.C., scrive: «Pastorem vero nuperrime temporibus nostris Hermas conscripsit, sedente cathedra urbis Romae ecclesiae Pio, fratre eius» («Erma ha scritto di recente ai nostri tempi il Pastore, sotto il pontificato della Chiesa Romana di Pio, suo fratello»). Sullo stesso fronte si accoda uno scritto pseudo-tertullianeo.(53) Altrettanto fa il Liber pontificalis. L’ipotesi tradizionale è stata contestata da Gratz(54) il quale ha osservato che se il Pastor fosse stato composto nella chiesa latina e se l’autore avesse avuto un legame di parentela con il vescovo Pio, l’opera invece di avere una più ampia diffusione in Oriente, sarebbe stata più nota in Occidente. Nel capitolo viii troviamo un passo di grande interesse: Dopo ebbi una visione in casa mia. Venne la vecchia e mi chiese se avessi dato il libro ai presbiteri. Dissi di non averlo dato. ‘Hai fatto bene, disse, ho da inserire delle parole. Quando avrò completato tutte le parole tu le farai conoscere a tutti gli eletti. Scriverai due libretti e ne manderai uno a Clemente e uno a Grapte. Clemente poi lo manderà ad altre città, come è stato (51) Ireneo, Adv. haer., iv, 20, 2; Clemente Alessandrino, Stromata, i, 85, 181; ii, 3, 43, 55, 57; iv, 74; vi, 46, 131. (52) Origene, Hom., 25, In Luc., xii, 58. (53) Ps.-Tertulliano, De viris illustribus, 10. (54) P. A. Gratz, Disquisitio in Pastorem Hermae, Bonnae, Typis Kupferbergianis, 1820, pp. 8-9.
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incaricato. Grapte esorterà le vedove e gli orfani. Tu lo leggerai a questa città con i presbiteri che sono preposti alle Chiese (Pst, viii, 4, 2-3).
Non sappiamo nulla di Grapte, ma è certo che l’accenno a Clemente Romano è per l’autore funzionale alla retrodatazione del testo. In tutta l’opera, soprattutto nelle parti, prima e terza, la chiesa da lui idealizzata sembra identificarsi con la stessa chiesa cattolica, voluta da Dio, nel suo piano provvidenziale, come chiesa eterna e famiglia che accoglie nella sua casa i suoi figli (visio i). La seconda visione estende la salvezza, in funzione del pentimento; a tutti coloro che fanno penitenza è concessa la remissione dei peccati. Per i giusti – scrive Erma – la penitenza ha un termine; per i gentili essa vale fino all’ultimo giorno. Ma tutta la salvezza è interna alla chiesa in una prospettiva non solo ecclesiocentrica, in cui la chiesa è creata prima di tutte le cose ed è nel contempo l’istituzione stessa per cui fu ordinato il mondo, ma è anche fagocitatrice di tutti i destini umani (Visio ii). La terza visione fa forse pensare che l’autore scrive sotto la suggestione dei testi enochici, perché ne riproduce in parte gli scenari e in parte la terminologia, ma manca della loro pregnanza teologica o ideologica. In ogni caso ci viene precisato che la chiesa è organizzata in un rigido ordine gerarchico, ove la visibilità è regolamentata sulla base delle sofferenze («flagelli, carceri, grandi tormenti, croci, belve a causa del nome»). La chiesa che cresce attraverso i santi e gli eletti, le cui pietre di costruzione sono gli apostoli, i vescovi, i maestri e i diaconi, fortemente gerarchizzata, è una torre che non è definitivamente costruita, perché è ancora in corso di costruzione: «Stolto non vedi che la torre è ancora in costruzione? Quando la torre sarà terminata, ci sarà la fine» (Visio iii, xvi, 9). Il che è quanto dire che, finché la torre non sarà terminata, «v’è ancora la speranza della salvezza, se chi possiede di più dà a chi più ha bisogno. Se vorrete fare del bene quando la torre sarà terminata non ci sarà più modo di farlo, perché il tempo sarà scaduto». Nella Similitudo ix, lxxxii si precisa ulteriormente: «Giammai può essere finita la torre, se non viene il suo padrone ed esamina la costruzione. Se si trovano pietre rovinate, egli le cambia. La torre si costruisce secondo la sua volontà»). La quarta è la visione dei fedeli e della chiesa insidiati dalla bestia che è «la grande tribolazione che sta per venire». In essa Erma utilizza una simbologia dei colori e dei metalli che ricorda da vicino quella della letteratura enochica o comunque apocalittica(Visio iv). Infine la quinta è la visione della chiesa affidata ad un pastore, pronto a dettare i precetti e le similitudi-
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ni che debbono essere osservati (Visio v). Seguono i dodici precetti (mandata), il più importante dei quali è il primo, che così recita: Prima di tutto credi che vi è un solo Dio, il quale ha creato tutte le cose e le ha ordinate dal non essere all’essere; le contiene tutte ed egli solo non è contenuto. Credi in lui e temilo, e, temendolo, sii continente.
È un concetto di Dio che sembra affiorare da radici filosofiche greche per via dell’allusione dell’ordine che porta le cose dal non essere all’essere, ma in realtà si tratta del Dio della tradizione ebraica, non il Dio-amore della fede cristiana, ma il Dio da temere (lo stesso concetto ritorna nel settimo precetto). Sugli altri precetti non vale la pena soffermarsi a lungo, poiché coincidono con le solite raccomandazioni di carattere etico. Si possono perciò riassumere in questi termini: (i) essere semplici e non prestare orecchio alle maldicenze; (ii) amare la verità; (iii) custodire la castità; (iv) armarsi di pazienza; (v) percorrere la via diritta del giusto e allontanarsi da quella storta del peccato; (vi) temere il Signore; (vii) astenersi dal male; (viii) allontanare le incertezze e i dubbi; (ix) non cedere alla tristezza; (x) guardarsi dai falsi profeti; (xi) respingere i cattivi desideri. Sono i precetti dell’etica cristiana, ma si avverte anche l’influenza dell’etica ebraica. Ai precetti seguono le dieci similitudini, che potremmo definire metafore o parabole. Di particolare rilevanza è la prima in cui si delinea la netta separazione tra la città terrena e quella celeste (tema già incontrato nella Lettera a Diogneto): Voi servi di Dio, sapete di abitare una terra straniera. La vostra città è molto lontana da questa. Se sapete la città che dovete abitare, perché mai qui vi procurate campi, apparati sontuosi, case e dimore inutili? Chi prepara queste cose per questa città non cerca di ritornare nella propria (Simil, i, 1-2).
È assai interessante notare che in questa terza parte ricorrono talune suggestioni che certamente derivano dai Vangeli, come la similitudine del campo, del padrone, dei servi, della vigna, la città di Dio, le parabole ecc. Esse però hanno nel testo uno specifico significato che non coincide appieno con quello veicolato dai Vangeli. Nella Similitudo ii l’olmo infruttuoso e la vite che frutta in abbondanza simboleggiano rispettivamente il povero e il ricco. Come l’olmo sostiene la vite e le permette di fruttificare, così il ricco «prov-
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vede al povero senza esitazione» (Simil, ii, li, 5). Nella Similitudo v il servo di Dio è colui che ha avuto in dono l’intelligenza per spiegare le parabole-similitudini («Chiunque sia servo di Dio ed abbia il Signore nel cuore, se chiede da lui intelligenza, la riceve e spiega ogni parabola, e le parole per similitudini diventano comprensibili, con l’aiuto del Signore», Simil, v, lvii, 3). Di contro non sembra molto puntuale il concetto della trinità, perché l’autore non ha l’idea di un figlio che ha la stessa natura divina del padre. Significativa è in proposito la Similitudo v, lviii, in cui si dà spiegazione delle parabole del campo, del padrone e del servo. Il campo è questo mondo, il padrone è Dio, il figlio è lo Spirito Santo. Il che farebbe pensare più ad un diteismo che ad un triteismo. Ma anche questa ipotesi non è del tutto congrua, perché in nessun luogo ci vien detto che il figlio-Spirito Santo ha natura divina. Si parla sì di potenza e di Signoria («Egli ha ricevuto ogni potere dal Padre»), ma mai di natura divina: Dio piantò la vigna, cioè creò il popolo e lo diede al figlio suo e il figlio stabilì gli angeli su di loro per custodire ognuno. Egli cancellò i loro peccati patendo assai e sostenendo molte fatiche. Nessuna vigna può essere vangata senza sudore e sofferenza. Egli, avendo purificato i peccati del popolo, insegnò le vie della vita, dando la legge ricevuta dal Padre. Osserva, dice, che egli è il Signore del popolo perché ha ricevuto ogni potere dal Padre. Ascolta perché il Signore prese come consigliere suo figlio e gli angeli santi per l’eredità da dare al servo. Dio fece abitare nella carne che volle lo Spirito Santo, che preesisteva e che fece ogni creatura. Questa carne, in cui prese dimora lo Spirito Santo, servì bene lo Spirito camminando nella santità e nella castità, e non lo contaminò in nulla. Scelse questa carne a partecipare dello Spirito Santo, perché essa si era comportata degnamente e castamente e aveva sofferto con lo Spirito collaborando in ogni cosa e conducendosi con fortezza. Piacque a Dio il comportamento di questa carne che, avendo lo Spirito Santo, non si macchiò sulla terra. Prese come consigliere il figlio e gli angeli gloriosi perché questa carne, avendo ubbidito allo Spirito con soddisfazione, ottenesse una tenda e non sembrasse aver perduta la ricompensa del suo servizio (lix, 2-7).
È evidente che qui si parla dello Spirito Santo che, incarnato nel figlio, lo conduce sulla retta via della castità e della santità. Ma il nodo teologico che l’autore non riesce a risolvere è che lo Spirito Santo non è che un’ipostasi pre-e-
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sistente; il figlio riceve dal Padre ogni potere proprio perché non ha natura divina. Forse Erma intende il figlio come un uomo, cui sono delegati poteri straordinari per il fatto che nella sua carne abita lo Spirito Santo. L’orizzonte culturale in cui il testo sembra muoversi è verosimilmente quello della gnosi. La settima Similitudo verte sulla necessità della sofferenza anche per chi cerca la salvezza attraverso il pentimento: «Ritieni che i peccati di quelli che si pentono siano subito rimessi? Assolutamente no. Bisogna invece che chi si pente tormenti la sua anima e si umili profondamente in ogni cosa e soffra molte e varie punizioni», (Simil, vii, lxvi, 4). Per l’ottava Similitudo la nuova legge parte dal presupposto che «il Figlio di Dio fu annunziato sino ai confini della terra. I popoli che sono sotto l’ombra sono quelli che hanno ascoltato la predicazione e hanno creduto in Lui» (Simil, viii, lxix, 2). La Nuova è la legge che salva; fino all’estremo si accompagna al pentimento: «Il Signore ha avuto pietà e mi ha mandato per dare a tutti la penitenza, sebbene alcuni non siano degni di essere salvati per le loro opere. Ma il Signore, poiché è magnanimo, vuole che sia viva la chiamata per mezzo di suo Figlio» (Simil, viii, lxxvii, 1). La nona Similitudo verte sulla simbologia della roccia, della porta e della torre. Il figlio di Dio è la roccia e la porta: la roccia è antica, la porta è nuova. La roccia è antica perché «Il figlio di Dio è stato generato prima di ogni creatura, per essere consigliere del Padre nella creazione». La porta è nuova perché «si manifestò negli ultimi giorni della fine. Per questo ci fu una porta nuova, perché quelli che devono salvarsi entrino nel regno di Dio attraverso di essa»; infatti «nel regno di Dio nessuno può entrare, se non mediante il nome del suo amato Figlio» (Simil, ix, lxxxix). Infine la torre è la stessa Chiesa che, per essere opera degli spiriti santi, «è divenuta una pietra sola con la roccia», ovvero con Cristo (xc, 5). Dalla visio ii, viii, si arguisce facilmente che la Chiesa universale, sognata da Erma, non è che la Chiesa di Roma, poiché la città di cui egli parla (in hac civitate; εἰς αὐτὴν τὴν πόλιν) è evidentemente Roma. Essa è pensata come una chiesa governata dai presbiteri (cum senioribus qui praesunt ecclesiae; τῶν πρεσβυτέρων τῶν προϊσταμένων τῆς ἐκκλησίας). I credenti del decimo monte sono i vescovi (episcopi, id est, praesides ecclesiarum; ἐπίσκοποι)(55) nel senso dei sovrintendenti che ospitano nelle loro case (le chiese) i servi di Dio (i fedeli); essi esercitano il loro ministero proteggendo i bisognosi e le vedove. Nella Visio iii, xiii i vescovi sono i maestri e i diaconi sono le pietre della costruzione della Chiesa. La simbologia della roccia è tratta dai Van(55) Simil, ix, civ.
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geli, ove essa rappresenta Pietro come fondatore della Chiesa ed erede del messaggio del figlio di Dio. In fondo non c’è da attendersi una grande originalità da questo testo che per un verso ripete con accentuato misticismo le tematiche evangeliche e per l’altro è suggestionato dall’allegorismo enochico. Il linguaggio è ricco di simboli, quasi esoterico e caratteristico delle religioni misteriche: i dodici precetti, le dodici donne, le dodici vergini, i dodici monti che rappresentano le dodici tribù che abitano il mondo intero. Come attraverso il sigillo del figlio di Dio ricevono «una sola mente e un solo animo», così la Chiesa di Dio sarà un sol corpo, una sola anima, una sola mente, una sola fede, una sola carità.(56) Il salice che resta integro è simbolo della legge di Dio data a tutto il mondo. Gli scenari, la terminologia, le suggestioni, veicolate dalle visioni profetico-apocalittiche, hanno del tessuto narrativo enochiano solo la veste esteriore, ma la corposa materia del testo non ha nulla della profonda intuizione dei testi enochici; in questi si respira il pathos delle comunità che ancora cercano e costruiscono il mito della salvezza; nel Pastor c’è l’uomo d’apparato che delinea il progetto di una Chiesa universale alla cui obbedienza vuole piegate tutte le altre chiese. Ed è forse con il Pastor che questo ideale prende corpo e si trasmette ad Ireneo.(57) 3.8. Clemente ai Corinzi Per il cospicuo apparato scritturistico, prevalentemente ispirato all’AT, si potrebbe sospettare che l’epistola di Clemente ai Corinzi(58) sia opera di un ebreo di fede giudaica e che sia stata rivisitata o rimaneggiata da un cristiano.(59) In realtà non è così; anzi l’autore è sicuramente un cristiano, forse (56) Simil, ix, lxxxvi, lxxix, xciv, xcv. (57) Ireneo, Adv. haer., iv, 20, 2. (58) Edizione critica di W. Jacobson (ed.), S. Clementis Romani, S. Ignatii et Polycarpi, Patrum Apostolicorum, quae supersunt. Editio quarta, Oxonii, Ex Typographeo Clarendoniano, 1763. Che Clemente sia di origine ebraica è giustamente rilevato da K. J. Hefele, Patrum apostolicorum opera, Tubingae, In bibliopolio Henrici Laupp, mdcccxlvii, p. xx, sulla base del fatto che egli si riconosce nella discendenza abramitica e giacobitica ( capitolo xxxi: «il padre nostro Abramo»; capitolo iv: «il nostro padre Giacobbe»); ma è congettura arbitraria se si pensa che le espressioni citate possono forse dipendere da una consolidata consuetudine con i testi veterotestamentari. (59) Infatti egli interpreta il «resto di Israele» come coincidente con la comunità cri-
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neppure di origine ebraica, se si tiene conto del fatto che le sue frequenti citazioni, per mancata dimestichezza con la lingua ebraica, sono tratte sistematicamente dalla Septuaginta. Non è mancato chi ha preteso di scorgere attraverso la lettera clementina la compresenza nel cristianesimo di fine primo secolo di due opposte matrici ideologiche, quella giudaizzante, erede della collegialità propria del sinedrio, di derivazione petrina, e quella tendenzialmente monarchica, di origine paolina.(60) Ne deriverebbe che la primitiva chiesa romana sarebbe stata bicefala, divisa tra l’orientamento giudaico di Pietro e quello ellenistico di Paolo. A prescindere dal fatto che l’ordinamento sinedriale aveva solo apparentemente la struttura di un collegio sacerdotale, perché di fatto era dominato dalla figura del sommo sacerdote con funzione pressoché monarchica, l’epistola clementina non ha il ben che minimo riferimento al conflitto tra petrismo e paolinismo. Nel capitolo v infatti ci dice che entrambi gli apostoli, definiti ‘colonne’ (στύλοι) della chiesa, furono vittime della gelosia (ζῆλος) e dell’invidia (φθόνος). È senz’altro vero che nel complesso il passo è di «difficile decifrazione», ma se c’è un’interpretazione che esso esclude è proprio quella secondo cui i due apostoli causarono la propria morte per reciproca gelosia e invidia. Se essi avessero provocato una ingiustificata frattura all’interno della Chiesa, l’autore di Clemente non li avrebbe definiti «buoni apostoli» (ἀγαθοὺς Ἀποστόλους). Pochissime sono invece le citazioni tratte dal NT. Ma anche su questo le perplessità sono considerevoli. Se prescindiamo dalle citazioni che hanno le loro vaghe radici nell’AT per le quali è difficile stabilire quale sia la loro reale provenienza, se dal Nuovo o dal Vecchio Testamento, altre citazioni, anche quando riguardano i lógia di Cristo,(61) non corrispondono ai testi evangestiana, allorché afferma «Il padre nostro […] fece di noi una porzione scelta per sé». (60) Cfr. M. Simonetti, L’età antica, accessibile in internet. (61) Tale è il caso di Luca, vi, 37-38: «καὶ μὴ κρίνετε, καὶ οὐ μὴ κριθῆτε· καὶ μὴ
καταδικάζετε, καὶ οὐ μὴ καταδικασθῆτε. ἀπολύετε, καὶ ἀπολυθήσεσθε· δίδοτε, καὶ δοθήσεται ὑμῖν· μέτρον καλὸν πεπιεσμένον σεσαλευμένον ὑπερ εκχυννόμενον δώσουσιν εἰς τὸν κόλπον ὑμῶν· ᾧ γὰρ μέτρῳ μετρεῖτε ἀν τι μετρηθήσεται ὑμῖν» (citato in Clemente, xiii, 2: «Ἐλεᾶτε, ἵνα ἐλεηθῆτε· ἀφίετε, ἵνα ἀφεθῇ ὑμῖν·ὡς ποιεῖτε, οὕ τωποιηθήσεται ὑμῖν· ὡς δίδοτε, οὕτως δοθήσεται ὑμῖν· ὡς κρίνετε, οὕτως κριθήσεσθε· ὡς χρηστεύεσθε, οὕτως χρηστευθήσεται ὑμῖν· ᾧ μέτρῳ μετρεῖτε, ἐν αὐτῷ μετρηθήσεται ὑμῖν»), e di Matteo, xviii, 6: «ὃς δ᾽ἂνσκαν δαλίσῃ ἕν ατῶν μικρῶν τούτων τῶν πιστευόν των εἰς ἐμέ, συμφέρ ειαὐτῶ ἵνα κρεμασθῇ μύλος ὀνικὸς περὶ τὸν τράχηλον αὐτοῦ καὶ καταποντισθῇ ἐν τῶ πελάγειτῆς θαλάσσης»; xxvi, 24: «καλὸν ἦν αὐτῶ εἰ οὐκ ἐγεννήθη ὁ ἄνθρωπος ἐκεῖνος» (citato in Clemente, xlvi, 8: «Οὐαὶ τῷ ἀνθρώπῳ ἐκείνῳ·καλὸν ἦν αὐτῷ, εἰ οὐκ ἐγεννήθη, ἢ ἕνατῶν ἐκλεκτῶν μου σκανδαλίσαι·κρεῖττον ἦν αὐτῷ περιτεθῆναι μύλον καὶ κατα ποντισθῆνα ιεἰς τὴν θάλασσαν, ἢ ἕνα τῶν ἐκλεκτῶν μου
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lici in nostro possesso. Non mancano però altre suggestioni verosimilmente riferibili al Nuovo Testamento, in particolare alla Lettera agli Ebrei.(62) In ogni caso la clementina non solo non è giudaizzante, ma è anche espressione di un potere ecclesiastico consolidato, il quale, nella finzione di una sedizione interna alla comunità di Corinto, si presenta nelle vesti di una autorità superiore. Essa non ha un mittente individuale. L’intestazione Κλήμεντος πρὸς Κορινθίους ἐπιστολὴ α’ («Epistola i di Clemente ai Corinzi») è notoriamente un’aggiunta posteriore, poiché il mittente è la chiesa peregrina a Roma che si rivolge, in uno spirito di superiorità dottrinale e forse anche politica, alla chiesa peregrina in Corinto. Più che la forma letteraria di una epistola, il testo ha quella di un’omelia, come sembrano dimostrare i suoi toni prevalentemente parenetici. Il pretesto per la scrittura è dato da imprecisate questioni e da una generica sedizione promossa da taluni «sconsiderati arroganti» (ὀλίγα πρόσωπα προπετῆ καὶ αὐθάδη). Solo molto avanti nella lettera veniamo a sapere che essi si erano resi responsabili di contestare l’autorità dei presbiteri. Quando la questione politica diventa chiara, ci vien detto che alcuni presbiteri avevano contestato l’autorità degli epíscopoi («Avete rimosso alcuni, benché abbiano tenuto un’ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e onorevolmente», 1Cr, xliv, 6). Ma tutta questa materia è probabilmente una pura finzione letteraria o un tópos che riscontriamo frequentemente nell’epistolografia indirizzata ai Corinzi, a partire da quella di Paolo. E lo si evince dal fatto che nulla di preciso ci vien detto sulla chiesa corinzia e che non ci vien suggerito neppure il nome di un vescovo. Anzi, proprio in tema di dissidio entro la chiesa corinzia c’è la più grave contraddizione interna della lettera, perché per un verso διαστρέψαι»). Per tutta questa materia preferisco rinviare alle acute osservazioni di N. Lardner, The Credibility of the Gospel History, London, Printed for Theodore Sanders, 1734, capitolo ii, pp. 65-105. (62) Sulla scorta di J. E. Grabe, Spicilegium SS. Patrum, Spicilegium SS. Patrum, ut et Haereticorum, seculi post Christum natum i, ii, et iii, t. i sive seculum i, Oxoniae, E Theatro Sheldoniano, mdccxiv, W. Jacobson, S. Clementis Romani, cit., individua le seguenti correlazioni tra la Lettera agli ebrei e la prima clementina: Ebr, i, 3-5, 7, 13 // Cl., xxxvi; Ebr, iii, 2, 5 // Cl., xliii; Ebr, iv, 14 // Cl., lviii; Ebr, vi, 13-15 // Cl., x, ix; Ebr, ix, 5, 20, 30-31 // Cl., xii, xvii; Ebr, i, 1-2, 17 // Cl., i. Ulteriori consonanze sono state segnalate tra Policarpo, Ad Philippenses, e Clemente (Policarpo, iv // Clemente, i; Policarpo, ix // Clemente, v; Policarpo, vii // Clemente, vii; Policarpo, ii // Clemente, ix, xiii; Policarpo, iv // Clemente, xxi).
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vengono esaltate la fedeltà e la rettitudine perseguite in passato dai Corinzi, i quali si sarebbero dimostrati «avversi ad ogni scisma e ad ogni sedizione» (Πᾶσα στάσις καὶ πᾶν σχίσμα βδελυκτὸν ἦν ὑμῖν, 1Cr, ii, 6), per l’altro viene ricordata la frattura in fazioni e partiti di Cefa e di Apollo, denunciata da Paolo. Ed è evidente che le due cose non possono stare insieme, quale che sia la datazione della clementina. Se infatti le due lettere risalgono all’epoca neroniana, concordano sì in merito ai conflitti interni ai Corinzi, ma è incongruo il riferimento alla saldezza e all’antichità della chiesa corinzia (τὴν βεβαιοτάτην καὶ ἀρχαίαν Κορινθίων ἐκκλησίαν, 1Cr, xlvii, 6), e al passato di pacifica convivenza; se invece la clementina è datata in età domizianea o più tardi nella seconda metà del secondo secolo, i trascorsi pacifici della comunità corinzia sono contraddetti dalla lettera paolina che, secondo la cronologia tradizionale, precederebbe la distruzione di Gerusalemme. La seriorità della clementina è attestata dal fatto che essa verte su un sacerdozio ormai maturo e consolidato tanto da costituire una delle cause principali dei dissidi interni alle comunità. Non a caso la conflittualità e la gelosia ruotano, secondo Clemente, intorno alla funzione sacerdotale. Questa fu istituita dai fedeli, ma Mosè, essendo ben consapevole che fosse fomite di contrasti, stabilì, con lo stratagemma delle verghe riposte nel tabernacolo della testimonianza, che la funzione sacerdotale fosse assegnata alla tribù di Aronne.(63) Nella prospettiva di includere Cristo nella trasmissione sacerdotale, egli fa risalire oltre Mosè,(64) e la fa derivare direttamente da Giacobbe, l’eredità di un sacerdozio che cronologicamente precede tanto il levitico quanto l’aronnita. Sullo stesso tema Clemente torna(65) per spiegare che «gli apostoli avevano appreso dal Cristo che sarebbero nate contese in ordine alla carica episcopale» (Καὶ οἱ ἀπόστολοι ἡμῶν ἔγνωσαν διὰ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ, ὅτι ἔρις ἔσται ἐπὶ τοῦ ὀνόματος τῆς ἐπισκοῆς). Perciò, istituendola, essi ne stabilirono i termini della successione in modo da addebitare a colpa grave la contestazione dei presbiteri. Ma più avanti(66) la musica sembra avere una diversa intonazione, poiché l’autore di Clemente sembra riferirsi ad una amministrazione collegiale, se allude ad una ribellione contro i presbiteri, o ad una amministrazione centralizzata, se si riferisce ad una rimozione di vescovi. Il testo comunque tradisce una qualche contrad(63) Clemente Romano, 1Cr., xliii. (64) Ivi, xxxii. (65) Ivi, xliv. (66) Ivi, xlvii, 1.
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dizione interna. La soluzione di Clemente è nella esortazione a sottomettersi all’autorità dei presbiteri(67) forse intesa come generica sottomissione alle autorità religiose. Se la sapienza del versetto lvii, 3, è lo stesso Cristo, quella di Clemente si profila come una svolta autoritaria della chiesa, che minaccia la rovina e lo sterminio, l’angoscia e l’oppressione per coloro che sono restii all’obbedienza e non vogliono saperne del timore del Signore: Poiché chiamai e non ascoltaste, prolungai i discorsi e non foste attenti, ma frustraste i miei consigli e disobbediste ai miei richiami. Anch’io riderò della vostra rovina, e mi rallegrerò se arriverà lo sterminio su di voi e se improvviso giungerà il tumulto e sovrasterà la catastrofe simile al turbine e quando avverranno l’angoscia e l’oppressione.(68)
Solo l’obbedienza alle autorità superiori ci mette al riparo dalle minacce della Sapienza.(69) In questo senso la clementina è più un testo impregnato di politica ecclesiastica che di dottrina e di teologia. Anzi, dal punto di vista teologico, essa non sembra scritta da un’aquila. Il peso della tradizione giudaica rende molto annacquata la figura del Cristo, che riveste per lo più un ruolo di mediatore o di strumento del Dio-Padre, creatore del cielo e della terra. Il Cristo è una sorta di Sommo Sacerdote («gran sacerdote e protettore delle nostre anime», διὰ τοῦ ἀρχιερέως καὶ προστάτου τῶν ψυχῶν ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ);(70) è lo strumento attraverso cui Dio ha voluto farci godere della sapienza o della scienza; è «lo splendore della maestà divina, di tanto superiore allo splendore degli angeli di quanto il nome che ricevette in eredità è più eccellente» (ὃς ὢν ἀπαύγασμα τῆς μεγαλωσύνης αὐτοῦ τοσούτῳ μείζων ἐστὶν ἀγγέλων, ὅσῳ διαφορώτερον ὄνομα κεκληρονόμηκεν).(71) La resurrezione di Cristo è una sorta di prefigurazione della futura resurrezione dei credenti; anzi è ancor più in generale lo specifico di una resurrezione universale che riporta alla luce il giorno, gli astri, i frutti nell’alterno avvicendarsi delle stagioni e persino il risorgere della mitica fenice che rinasce dalle proprie ceneri ogni cinquecento anni.(72) L’obiettivo che l’autore persegue con insistenza (67) Ivi, liv, 2 e lvii. (68) Ivi, lvii, 4. (69) Ivi, lviii, 1. (70) Ivi, lxi. (71) Ivi, xxxvi. (72) Ivi, xxiv-xxv.
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è quello di collegare strettamente la trasmissione apostolica e la continuità della predicazione da Cristo ai vescovi: Cristo fu mandato da Dio ad annunciare la nuova alleanza e a sua volta inviò gli apostoli a predicare il Vangelo; ma le predicazioni di questi ultimi non furono altro che le primizie della successiva predicazione dei vescovi e dei diaconi.(73) Essenziale è il rapporto tra Dio-Padre e Cristo-figlio, ma in esso Cristo non è figura storica, poiché è nella densità teologica della relazione; il figlio non è che il mezzo attraverso cui gli uomini sono condotti all’amore di Dio.(74) Non sappiamo chi sia realmente l’autore dell’epistola. La tradizione vuole che sia opera di Clemente romano, annoverato tra i primi pontefici nel Liber pontificalis (LP). Ma di lui sappiamo pochissimo e quel poco che sappiamo è assai sfumato ed incerto. La sua stessa collocazione nell’ordine di successione dei pontefici è oscura, perché le varie fonti lo pongono o come immediato successore di Pietro o come successore di Lino o come quarto pontefice. Fantasiosa e non documentata è anche l’ipotesi del suo martirio.(75) Un vero e proprio stuolo di eruditi si è pronunciato a favore del carattere spurio di tutta la produzione clementina.(76) Circa la datazione dell’Epistola i pareri sono molto discordi. Secondo (73) Ivi, xlii. (74) Ivi, xlix. (75) Si vedano in proposito le posizioni di J. Pearson, Opera posthuma, Londini, Typis. S. Roycroft, 1688, p. 20, e di H. Dodwell, Additiones e Dissertatio prima de successione primorum Romae episcopurum in genere, capitolo iv, par. iv. N. Lardner, The Credibility, cit., capitolo ii, p. 63, fa notare che le fonti più antiche come Ireneo, Tertulliano ed Eusebio non parlano del martirio di Clemente, ma non avrebbero omesso di parlarne se il martirio avesse avuto il crisma della storicità. (76) Cfr. H. Venema, Institutiones historiae ecclesiae Veteris et Novi Testamenti, tomus iii seu Novi Testamenti aut ecclesiae christianae primus, Jesu Christo, salvatore mundi, nato ad seculi tertii finem, Lugduni Batavorum, Apud Samuelem et Johannem Luchtmans, 1779, p. 252; J. E. Grabe, Spicilegium, cit., p. 265; J. K. Orelli, Selecta Patrum Ecclesiae capita ad ΕΙΣΗΓΗΤΙΚΗΝ pertinentia, Turici, Typis Orelii Fuesslini, 1820, i, 8; N. Lardner, The Credibility, cit., capitolo ii, pp. 49-105; G. Less, Über die Religion, ihre Geschichte, Wahl und Bestätigung, Göttingen, Vandenhoek, 1784, vol. i, p. 510; G. Stolle, Aufrichtige Nachricht von den Leben, Schrifften und Lehren der Kirchen- Väter, Jena, Verlegts die Meyerische Wittib, 1733, p. 18; K. A. Credner, Beiträge zur Einleitung in die biblische Schriften, Halle, Verlag der Buchhandlung des Waisenhaufes, 1832, t. i, p. 14; J. A. Moehler, La patrologie, ou histoire littéraire des trois premiers siècles de l’église chrétienne, Louvain, Chez Fonteyn, 1844, t. i, p. 75; A. Hilgenfeld, Die Apostolischen Väter, Halle, C. E. M., Pfeffer, 1853, pp. 52-110.
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Grabe,(77) essa sarebbe stata scritta subito dopo la persecuzione neroniana tra il 65 e il 68. Wendelen(78) la fa risalire alla persecuzione di Domiziano, intorno al 95. La stessa datazione è condivisa da Cotelier; Tillemont(79) la fa slittare al 97. Tutta la discussione ruota intorno al ruolo da dare alle pratiche sacrificali davanti al Tempio di Gerusalemme.(80) In primo luogo occorre stabilire se l’epistola si riferisce all’eucaristia cristiana o ai tradizionali sacrifici giudaici. Cotelier propende per la prima ipotesi e perciò sposta la datazione della lettera al 95 d.C. In realtà Grape ha ragione di ritenere che Clemente(81) menzioni indiscutibilmente le pratiche rituali ebraiche, ma trae da tale osservazione l’erronea conclusione che in tal caso la lettera dovrebbe essere stata scritta in epoca neroniana. Ciò che sfugge all’illustre erudito è che Clemente non parla dei sacrifici ebraici come attuali, ma come prescrizioni che fanno capo alla fonte sacerdotale del Pentateuco in ordine ai sacrifici perpetui o votivi, di espiazione o di riparazione con l’obbligo di praticarli non dappertutto, ma solo a Gerusalemme e solo davanti al tempio dell’altare. Lo stesso fa Giuseppe(82) che, pur scrivendo nel 95 d.C., allorché il tempio di Gerusalemme era già distrutto, ricorda le purificazioni e i sacrifici rituali come se fossero ancora in uso. Ne consegue che il passo in esame non implica affatto la sussistenza del tempio di Gerusalemme e non incide minimamente sulla datazione della lettera. D’altro canto non ha minore rilevanza la nota di Cotelier, il quale osserva che la reputazione della chiesa di Corinto come salda e antica presuppone una certa distanza temporale della compilazione del testo. Un ulteriore elemento che può illuminarci in merito alla datazione è dato dal costante uso del nome ‘Gesù Cristo’, come se lo scri(77) J. E. Grabe (1666-1711), Spicilegium, cit., p. 254. (78) G. Wendelin, S. Clementis epistolae duae ad Corinthios. Interpretibus Patricio Junio, Gottifredo Vendelino, et Joh. Bapt. Cotelerio. Recensuit et notarum spicilegium adiecit Paulus Colomesius […]. Accedit Thomae Brunonis dissertatio de Therapeutis Philonis. His subnexae sunt Epistolae aliquot singulares, Londini, Adamson, 1694. Il giudizio di Wendelin è riportato anche da J. B. Cotelier, SS. Patrum, qui temporibus apostolicis floruerunt, Barnabae, Clementis, Hermae, Ignatii, Polycarpi opera, vera et suppositicia, una cum Clementis, Ignatii, Polycarpi actis atque martyriis, Amstelaedami, Apud Wetstenios, 1724, vol. i, pp. 140-142. (79) J. B. Cotelier, SS. Patrum, cit., vol. i, pp. 143-144; S. Le Nain de Tillemont, Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique des six premiers siècles, Paris, Chez Charles Robustel, 1701, t. ii. p. 155. (80) Clemente Romano, 1Cr., xli. (81) Ibidem. (82) Giuseppe Flavio, Ant., iii, 224-243.
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vente avesse perduto l’originario significato di Cristo. Ed in effetti il nome ‘Gesù’ ricorre ben 29 volte, in 22 delle quali è associato costantemente a Cristo (Ἰησοῦς Χριστός).(83) Forse per giungere ad una più congrua datazione è opportuno prendere in considerazione gli autori che ne hanno dato testimonianza. Essa era nota ad Ireneo, a Clemente Alessandrino e ad Origene.(84) Sicché se ne deve dedurre, che, essendo pseudoepigrafa, non può risalire al primo secolo, ed essendo tenuta a modello da Policarpo, è presumibilmente collocabile tra il 170 e il 180 d.C., salvo che la versione a noi pervenuta non sia stata rimaneggiata successivamente.
(83) Le occorrenze delle forme (Ἰησοῦς Χριστός o Χριστός Ἰησοῦς) sono le seguenti: intestazione (2); xvi, 2, xx, 11; xxi, 6; xxiv, 1, xxxii, 4; xxxvi 1; xxxviii, 1; xlii, 1; xliv, 1; xlix, 6; l, 7; lviii, 2 (2); lix, 2, 3, 4; lxi, 3; lxiv, 1 (2); lxv, 2. Una sola volta troviamo l’espressione Ἰησοῦς ὁ Χριστὸς (xlii, 1). (84) Ireneo, Adv. haer., iii, 3, 3; Clemente Alessandrino, Stromata, i, 8; iv, 17; v, 12; vi, 8; Origene, Princ., ii, iii, 6; In Ezech., viii; In Johan., liv, 279.