Cristianesimo
 9788842083627

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VIA

a e

Istianesimo

Economica

Giovanni Filoramo insegna Storia del cristianesimo presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino.

Viviamo, si dice da più parti,

in un mondo adulto, una società

post-cristiana che ha congedato Dio.

Eppure, ancora oggi, i cristiani

Per i nostri tipi è, tra l’altro, autore

sono più del trenta per cento

di Manuale di storia delle religioni

della popolazione mondiale e, (con M. Massenzio, M. Raveri all’inizio di un nuovo e P. Scarpi) e curatore dei FARÀ millennio, il cristianesimo DR seguenti volumi riproposti



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storia e ne ripercorre tutte

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le tappe, dalle origini a oggi.

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Questo volume copre

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individuali e collettive.

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tessuto delle coscienze

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capace di incidere sul

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in questa collana: Storia del Cristianesimo

(con D. Menozzi, L'antichità; Il Medioevo;

L’età moderna;

L'età contemporanea),

Ebraismo, Islam, Hinduismo e Buddhismo.

Saggi di: Cesare Alzati (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano);

Fulvio Ferrario (Facoltà Valdese di Teologia di Roma); Jacques Gadille

(Université Jean-Moulin-Lyon III); Giorgio Jossa (Università di Napoli

Federico II); Daniele Menozzi (Scuola Normale Superiore di Pisa); Grado G. Merlo (Università di Milano); Lorenzo Perrone

In copertina: Croce paleocristiana in bronzo, V secolo. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

I MIL 9 (UII

€ 14,00 (i.i.)

PROGETTO GRAFICO >) ORECCHIO ACERBO

(Università di Bologna); Salvatore

Pricoco (Università di Catania); Paolo Ricca (Facoltà Valdese di Teologia di Roma).

Economica Laterza 436

A cura di Giovanni Filoramo nella «Economica Laterza»:

Buddhismo Ebraismo Hindoismo Islam (con D. Menozzi)

Storia del cristianesimo 4 voll.

Di Giovanni Filoramo in altre nostre collane:

L'attesa della fine. Storia della gnosi «Biblioteca Universale Laterza» Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio «Quadrante Laterza» (con M. Massenzio, M. Raveri e P. Scarpi)

Manuale di storia delle religioni «Manuali Laterza» (con S. Roda)

Cristianesimo e società antica «Storia e Società»

Cesare Alzati Fulvio Ferrario Jacques Gadille Giorgio Jossa Daniele Menozzi Grado G. Merlo Lorenzo Perrone

Salvatore Pricoco

Paolo Ricca

Cristianesimo a cura di Giovanni Filoramo

zii Laterza

©

1995, 2000, Gius. Laterza & Figli

. © 2000, Gius. Laterza & Figli

per la Prefazione di Giovanni Filoramo Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2007

Edizioni precedenti: «Enciclopedie del Sapere» Prima edizione nel volume 2, Ebraismo e Cristianesimo,

della Storia delle religioni a cura di Giovanni Filoramo, 1995 «Biblioteca Universale Laterza» Prima edizione riveduta e aggiornara 2000

Proprietà letteraria riservata

Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2007

SEDIT - Bari (Italy)

per conto della Gius. Laterza & Figli Spa

ISBN 978-88-420-8362-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche

ad uso interno o didattico.

Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia

la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza.

Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera

ai danni della cultufa.

Prefazione

«Il cristianesimo sta per morire?». Con questo interrogativo radi-

cale uno storico francese, Jean Delumeau, intitolava alcuni anni

orsono un suo fortunato saggio, in cui cercava di mettere in luce

le cause di una crisi che pareva irreversibile. Da allora le constatazioni di questo decesso prematuro non sono certo venute meno,

anche se oggi la crisi — questa, sì, irreversibile - dell’idea di pro-

gresso e del collegato paradigma della secolarizzazione consiglia di evitare diagnosi premature. E vero, in effetti, che i processi di secolarizzazione e di scristianizzazione, che caratterizzano in par-

ticolare la storia europea degli ultimi due secoli, liberando le va-

rie sfere della vita pubblica e politica dalla tutela religiosa e relegando, di conseguenza, l’esperienza religiosa cristiana nella dimensione del privato, sembrerebbero aver portato a compimento l’eredità del progetto illuministico. Vivremmo, perciò, ormai in un mondo

«adulto», in una società post-cristiana, in una cultura

che ha congedato il Dio cristiano. Mentre seminari e chiese si spopolano, i vincoli etici tradizionali della fede cristiana si allentano

fino a scomparire sotto l’incalzare delle esigenze della «nuova»

morale (dalla parità sessuale alla scomparsa delle discriminazioni

nei confronti dell’omosessualità, dalla libertà di decidere da soli

della propria vita e morte alle nuove frontiere aperte dall’ingegneria genetica), che dissolvono antiche certezze, penetrando nel tessuto stesso delle Chiese (sacerdoti che uniscono in matrimonio

due donne, ordinazione di donne in certe chiese anglicane, inca-

pacità di rispondere alle sfide della bioetica). Ridotto a «religione

vu

Prefazione

dello scenario», incapace di controllare veramente, come per secoli aveva fatto, le coscienze individuali e la vita pubblica, quale

mai futuro attende il cristianesimo? Eppure, stando alle statistiche più recenti (Britannica Book of the Year 99), su un totale della popolazione mondiale di circa 6 miliardi, i cristiani delle varie chiese, con i loro circa duce miliar-

di di aderenti, rappresentano comunque il 32,8% di questa popolazione

(di contro, ad esempio, al 19,6% dei mussulmani, una

religione comunque in forte crescita). Certo, si può discutere sull'attendibilità di queste statistiche, che misurano in genere un'’affiliazione formale, dietro la quale si celano situazioni estremamente diversificate. Che cosa accomuna, ad esempio, dal punto di vista della pratica e delle credenze, i cristiani delle numerosissime e vitali chiese cristiane dell’Africa, dell'Asia, dell'Oceania

con quelli di un'Europa in cui la secolarizzazione ha mietuto i suoi maggiori successi o, ancora, con quelli del Nord America, un paese in cui la vitalità religiosa pare procedere con lo stesso impeto del successo economico o, infine, con quelli dell’Ameri-

ca Latina, caratterizzata da un'avanzata senza precedenti dei cristiani dalla «lingua di fuoco», e cioè i pentecostali? D'altro canto, la storia del cristianesimo è storia di una religione che, fin dai suoi primordi, a differenza di altre tradizioni

universali fondate, si presenta variamente articolata al proprio interno, unendo nella comune fede in Gesù il Cristo volti in realtà differenti di questo stesso Cristo, quali quelli offerti da Paolo o

dagli autori dei vangeli sinottici, da Giovanni o dall’autore del-

l’Apocalisse. Polimorfia dinamica che la missione ha poi provveduto ad arricchire grazie all’incontro con le culture più diverse, a cominciare da quella greco-romana per finire con le «incarnazioni» più recenti del messaggio cristiano prodotte dall’impressionante sviluppo delle missioni protestanti e cattoliche in età moderna e contemporanea. Ma le radici di questa polimorfia so-

no prima di tutto e soprattutto interne e stanno, appunto, nel modo diverso in cui, a partire dalle prime comunità cristiane, la comune fede nel Cristo risorto è stata letta e interpretata, pro-

vocando dissensi e lacerazioni di vario tipo destinati ad accompagnare nei secoli le vicende della storia cristiana. Polimorfia dinamica e vitale, ma anche lacerante e dramma-

tica, simboleggiata soprattutto dalla rottura dell'unità confessio-

nale provocata dalla Riforma protestante, ferita non più rimar-

ginata nel gran corpo dell'unità cristiana. Certo, da un punto di

Prefazione

TX

vista comparativo, anche altre religioni universali di salvezza, dall’ebraismo all’islam, dallo zoroastrismo al buddhismo, vuoi per

dinamiche interne vuoi come effetto del loro incontro con culture diverse, hanno conosciuto divisioni frutto di risposte non dissimili a problemi di fondo come il rapporto tra l’agire della grazia e il contributo che l’uomo può dare al processo salvifico o, per converso, la natura del male e del peccato e le modalità per liberarsene. In questa prospettiva, anche le tre principali confessioni cristiane (cattolico-romana, con poco più di un miliardo

di aderenti e cioè il 17,3% della popolazione globale; protestan-

te, con 316 milioni di fedeli corrispondenti al 5,3%; infine ortodossa, con 213 milioni di fedeli corrispodenti a una percentuale

del 3,6%) rappresentano, a ben vedere, tre tipi strutturalmente diversi di risposte al mistero della grazia divina e delle sue modalità di realizzazione attraverso l’azione salvifica del Cristo che

se, per un verso, di fatto anche sul piano organizzativo e sacra-

mentario si escludono, per un altro, idealmente si integrano e si

completano a vicenda.

D'altro canto, la sfera d’azione del cristianesimo è più vasta e più ampia di quel che le nude statistiche lasciano intravvedere. In primo luogo perché, accanto alle tre confessioni principali, occorre ricordare anche quell’anglicanesimo (63 milioni di aderenti, per una percentuale dell’1,1%) che con la sua storia peculiare, la sua ecclesiologia e la sua liturgia, si colloca a mezza via tra cattolicesimo e protestantesimo. Ma anche perché le statistiche rivelano l’esistenza di ben 373 milioni di «altri cristiani» che, per complessi motivi storici e culturali, pur appartenendo a vario titolo (come i vetero-cattolici, forme minoritarie e dissidenti

di protestantesimo, centinaia se non migliaia di «chiese» indige-

ne soprattutto in Africa), in virtù della loro comune fede nel Cri-

sto, alla grande famiglia del cristianesimo, tuttavia non rientrano nelle confessioni

maggiori.

Né andrebbe,

infine, trascurato

un ultimo aspetto, che nel volume non ha potuto trovare adeguata collocazione, e cioè la disseminazione di valori cristiani nella cultura dell’Occidente secolarizzato, una disseminazione som-

mersa che sfugge alle prese della statistica, ma che andrebbe esaminata a fondo, se sì vuole veramente avere un’idea storicamente

adeguata del posto che il cristianesimo ha avuto e continua ad avere nella cultura occidentale. Chi voglia avere un'idea di questa straordinaria ricchezza e diversità — e della serie impressionante di problemi che questa di-

x

Prefazione

versità ha comportato, comporta e, nonostante tutto, continuerà a comportare anche nel nuovo millennio — deve volgere la sua attenzione al movimento ecumenico, certo l’aspetto più rilevante nella storia più recente del protestantesimo, ma in genere, soprattutto in conseguenza della svolta ecumenica cattolica promossa dal Concilio Vaticano II, un evento-chiave per una più esatta interpretazione della storia del cristianesimo in età contemporanea

nel suo

complesso.

Ad

Harare,

nello

Zimbabwe,

esatta-

mente cinquant'anni dopo l'assemblea di fondazione di Amster-

dam del 1948, si è svolta nel dicembre del 1998 l’Ottava Assem-

blea del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Vi hanno partecipato delegati di 337 chiese-membro a pieno titolo (cioè con più di 25.000 aderenti): un segno di grande ricchezza, certo, ma anche di oggettiva debolezza. La storia del movimento ecumenico protestante è storia del crescere e moltiplicarsi di chiese che hanno inteso il processo ecumenico, in linea col principio di fondo del protestantesimo, come tentativo di pervenire ad una unione di

«fratellanze» che non pregiudicasse le rispettive identità delle

chiese a confronto, che, in altri termini, promuovesse

la «catto-

licità» della chiesa universale senza pregiudicare la «precarietà» costitutiva di una ecclesiologia di tipo protestante. Il prezzo da pagare per questa mediazione difficile è sotto gli occhi di tutti:

crescere della burocratizzazione del Consiglio Ecumenico delle

Chiese; scollamento tra la gestione dirigenziale e verticistica dei vari comitati e la concreta vita delle innumerevoli chiese locali; faticosi quanto precari compromessi tra le varie «anime» del Consiglio, a cominciare dal problema della rappresentanza della componente femminile per terminare con le sottili alchimie per mediare, nei vari organi rappresentativi, tra le componenti principali in esso presenti. Che dire poi, in prospettiva più generale, dei conflitti più recenti collegati, per un verso, al modo in cui il mondo dell'ortodossia, proiettato dalla rivoluzione dell’89 su di uno scenario nuovo e concorrenziale, ha reagito du-

ramente alla penetrazione cattolica e protestante, per un altro, alla politica delle indulgenze messa in moto dall’evento giubilare? Eppure, nonostante questi eventi recentissimi e la crisi strutturale sopra ricordata, il movimento

ecumenico,

come

testimo-

niano importanti avvenimenti quali la dichiarazione di Augusta dell'ottobre del 1999 sulla dottrina della giustificazione tra Chie-

sa cattolica e Alleanza luterana mondiale,

procede con decisio-

ne; né è difficile prevedere che esso, sullo sfondo dei più gene-

Prefazione

xI

rali processi di globalizzazione e integrazione mondiali, è destinato a rimanere una forza traente anche nel nuovo secolo.

A differenza del secolo che muore, il nuovo secolo si apre con

segnali favorevoli per le religioni in generale e per il cristianesimo in particolare. Quelli che, letti in una certa ottica, possono apparire e, di fatto, sono sintomi di debolezza, possono rivelarsi e, di fatto, si stanno rivelando segnali di una forza capace anco-

ra di incidere non solo nel tessuto vivo delle coscienze individuali, ma anche su di una sfera politica pericolosamente priva di ancoraggi. In un mondo che cambia in modo prodigioso e radicale, la capacità dimostrata dal cristianesimo, nel lungo periodo, di resistere a divisioni laceranti e conflittuali, senza perdere tuttavia la propria identità di fede nel Cristo e nel suo annuncio sal-

vifico, potrà infatti rivelarsi un fattore importante, forse decisivo, di tradizione dinamica con cui la società contemporanea, sem-

pre più pericolosamente priva di memoria storica e culturale, non potrà fare a meno di confrontarsi. Giovanni Filoramo

Cristianesimo

Dalle origini al concilio di Nicea di Giorgio Jossa

1. PREMESSA

Il cristianesimo è una religione «rivelata». Ha cominciato a vivere in un preciso momento storico. Nasce infatti, sul tronco del giudaismo, per opera di Gesù di Nazaret, nella Palestina ormai greco-romana, verso l’anno 30 della nostra era. Per quanto

gli

studiosi del Nuovo Testamento discutano se Gesù volesse veramente fondare una nuova religione e istituire per questo la chiesa, il cristianesimo è dunque una religione «fondata» e il suo fondatore è Gesù di Nazaret. Ma Gesù, come è noto, non ha scritto nulla. Sono stati dopo

la sua morte i discepoli che lo avevano seguito durante la sua vicenda terrena e ne avevano ascoltato la predicazione a raccoglierne l’insegnamento e a raccontarne la vita, ponendo le basi di quelli che sarebbero diventati i Vangeli canonici. Ed è stato un giudeo,

anzi un fariseo, che non

lo aveva conosciuto,

ma

è ri-

teologicamente

più

masto folgorato da una sua apparizione sulla via di Damasco, Paolo

di

Tarso,

a

esprimere

nella

maniera

profonda nelle sue lettere quello che era per lui il valore salvifico della morte e risurrezione di Gesù. Sono perciò i quattro vangeli e le lettere di Paolo, con i testi

che altri discepoli hanno scritto in questo primo periodo della storia del cristianesimo ad ammaestramento

dei fedeli, a costi-

tuire la base della religione cristiana e la prima fonte per la sua conoscenza. Ma insieme con questi testi, che già a partire dalla

fine del II secolo costituiranno il Nuovo Testamento, e cioè — in-

4

Cristianesimo

sieme con l’Antico Testamento — la norma, il «canone», della nuova religione, lo storico deve utilizzare ogni testimonianza, let-

teraria o archeologica, religiosa o profana, che possa gettar luce sulle origini del cristianesimo. Che naturalmente ha continuato a vivere e a svilupparsi anche dopo la scomparsa della generazione apostolica, per opera soprattutto di quegli scrittori ecclesiastici che si è soliti chiamare i Padri della chiesa. É perciò alla loro testimonianza e alla loro riflessione che bisogna evidentemente far ricorso particolare per conoscere gli sviluppi ulteriori della religione cristiana nei primi secoli della sua vita. La trattazione del cristianesimo antico giunge in questo capitolo fino all'impero di Costantino e al concilio di Nicea. É una periodizzazione in qualche modo obbligata. I primi tre secoli costituiscono infatti il periodo delle origini della religione cristiana e della formazione della chiesa cattolica, in un contesto storico (l'impero romano) sostanzialmente ostile. Con l’ascesa di

Costantino al trono imperiale questo contesto si modifica in maniera radicale. A partire dal 313, sia pure con qualche interruzione (Giuliano l’Apostata), l’impero romano non soltanto tollera ma favorisce la religione cristiana (che nel 380, con Teodosio I, diventerà addirittura la religione ufficiale dell'impero). E nel 325, proprio con l’aiuto determinante dell’imperatore, la chiesa può dare a Nicea, nel suo primo concilio ecumenico, cioè

universale, una soluzione almeno provvisoria a quello che da quasi tre secoli era il suo problema dottrinale più delicato: la divinità di Gesù e il suo rapporto col Padre. 2. LA PREDICAZIONE DI GESÙ

Gli studiosi hanno tentato molte volte di individuare un contesto storico preciso che fosse in grado di giustificare, o almeno di motivare, la comparsa di Gesù nel mondo giudaico'. Ma in realtà non si può dire che fosse un momento particolarmente drammatico della storia giudaica quello in cui Gesù di Nazaret si sentì chiamare dallo Spirito e cominciò a predicare in Galilea. Certo, alla morte di Erode il Grande

(4 a.C.) la Palestina era stata divisa e nel 6

d.C. la Giudea e la Samaria erano diventate provincia romana. E i ! Si pensi, per esempio, a ]. Wellhausen che, nel famoso capitolo sul Vange-

lo della sua /sraelitische und fiidische Geschichte, Berlin 1894 (18974), traccia un ab-

bozzo divenuto classico della figura di Gesù.

La Giudea sotto Ponzio Pilato Tetrarchia di Filippo Tetrarchia di Erode Antipa

Provincia romana di Siria Territori della poli

Ex territori

di Salome

Ascalona: territorio

a statuto speciale

nella provincia di Siria

La Palestina al tempo di Gesù.

6

Cristianesimo

due avvenimenti non avevano mancato di provocare rivolte san-

guinose, dalle quali era emerso un leader, Giuda di Gamala, detto

il Galileo. Ma Tacito afferma nelle Storie che sotto Tiberio in Palestina regnava la calma? e, nonostante i numerosi incidenti verificatisi durante la prefettura del governatore romano Ponzio Pilato (26-36), la sua valutazione si può considerare nel complesso fon-

data. Quando Gesù cominciò a predicare (probabilmente nel 2829), la rivolta di Giuda il Galileo era passata da più di venti anni e

la grande guerra dei Giudei contro i Romani (66-73) era ancora lontana. Certo, la tradizione è unanime

nel dire che Gesù com-

parve in Galilea non soltanto guarendo malati e scacciando de-

moni, come altri guaritori ed esorcisti del tempo, ma anche an-

nunciando che la venuta del regno di Dio era imminente (Me. 1,14-15; Mt. 4,17) e presentandosi egli stesso come il Messia di

Israele (Mc. 8,27-29; Mt. 16,13-16). E questo ai discepoli che lo se-

guivano poteva far sperare che fosse giunto finalmente il tempo in cui Dio avrebbe restituito la libertà a Israele e bisognava perciò prepararsi al grande avvenimento mettendosi al seguito del Figlio di David‘. Ma per tutta la vita di Gesù (in particolare fino alla decisione di andare a Gerusalemme) il problema di una sua eventuale dignità messianica è rimasto in secondo piano rispetto a quello della venuta del regno di Dio; e nelle beatitudini e nelle parabole, che costituiscono il nucleo più autentico e significativo della predicazione di Gesù, anche l'annuncio del regno di Dio aveva

un carattere e un’ampiezza ben diversi da quelli tradizionali: Gesù non invitava infatti a prendere le armi contro i Romani, come

Giuda il Galileo, né si limitava a promettere la liberazione di Israe-

le dal dominio straniero, ma affermava addirittura che tutti gli oppressi che riponevano la loro fiducia in Dio Padre avrebbero visto finalmente riconosciuto il loro diritto di fronte agli oppressori. Le «cose di Cesare», e quindi anche la libertà di Israele, passavano de? Storie V,9: «Sub Tiberio quies». ® Raccontati da Filone Alessandrino

(Legatio ad Caium,

299-305),

e da Fla-

vio Giuseppe (Guerra giudaica II,169-1 77; Antichità giudaiche XVIII,55-62; 85-89). 1È quanto

indicano

in Marco le acclamazioni

al momento

Gesù a Gerusalemme (11,10: «Benedetto il regno che viene David») e fa affermare Luca ai cosiddetti discepoli di Emmaus ravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele»); ed ne per la prima volta con rigore razionalistico H.S..Reimarus mento Von dem Zwecke fesu und seiner fiingern, pubblicato ora in rente in H.S. Reimarus, / frammenti dell'Anonimo di Wolfenbiittel

Lessing, Napoli 1977, pp. 349-534.

dell'ingresso di

del nostro padre (24,21: «Noi speè quanto sostennel famoso framitaliano da F. Papubblicati da G.E.

G. fossa

Dalle origini al concilio di Nicea

7

cisamente in secondo piano rispetto all'annuncio di questa «salvezza» portata da Dio. Poco prima di Gesù c'era stato un altro pro-

feta, Giovanni detto il Battista; ma la sua predicazione, pur riscuotendo un notevole successo, era stata diversa: aveva rinnovato

il vecchio appello dei profeti alla conversione in vista del giudizio, e lo aveva fatto nei modi e con gli accenti dei profeti di sventura. Gesù invece annunciava soprattutto la salvezza e per far questo si ricollegava in primo luogo al messaggio di consolazione recato da Isaia ai Giudei esiliati a Babilonia, assumendo atteggiamenti caratterizzati dalla gioia per l'avvenimento imminente. La predicazione di Gesù costituì dunque per coloro che lo seguirono anzitutto una grande speranza: la speranza che stesse finalmente per realizzarsi la promessa fatta da Dio al suo popolo che egli lo avrebbe liberato da ogni oppressione politica e ingiustizia sociale, ristabilendo più splendido e glorioso il vecchio regno davidico, ma ancor più la speranza che all’interno di quel popolo Dio si sarebbe preso cura, nella sua misericordia, dei ceti più oppressi e sfruttati, capovolgendo tutti i criteri di valore umano e dando proprio ad essi la consolazione e la salvezza. Essa non era però soltanto un urgente annuncio escatologico, ma conteneva allo stesso tempo un forte richiamo alla volontà di Dio; aveva perciò anche un profondo contenuto morale. A un popolo giudaico presso il quale andava sempre più imponendosi la spiritualità farisaica fondata sull’osservanza rigorosa, ma troppo spesso formale, della Legge mosaica, Gesù predicò una religio-

sità di abbandono fiducioso alla misericordia divina, improntata

a una grande libertà nei confronti della Legge, ma caratterizzata da un ancora più grande radicalismo morale. Egli non abrogava naturalmente la Legge mosaica, su cui poggiava l’intero edi-

ficio della nazione giudaica, ma, portandone le prescrizioni alle

estreme conseguenze e ponendola in rapporto con la venuta del regno di Dio, la trasformava interamente dandole una radicalità

inaudita. Giusto non era più chi, attraverso l'osservanza precisa

e scrupolosa della Legge, accumulava meriti e si garantiva ricompense, ma chi era pronto ad abbandonare anche i doveri più sacri per fare soltanto la volontà di Dio. Tutte le norme della Legge, come i vincoli familiari, religiosi e nazionali, si vedevano dra-

sticamente ridimensionati in regno di Dio. Con queste caratteristiche riva nella tradizione giudaica vamento che non poteva non

vista dell'unica cosa necessaria: il

la predicazione di Gesù già si insecome un potente fattore di rinnoapparire pericoloso alle autorità di

8

Cristianesimo

Israele. Queste non tardarono perciò a prendere posizione contro il profeta del regno. I Farisei in particolare, che soprattutto in Galilea avevano notevole ascendente sul popolo, ne contrastarono energicamente la predicazione. Ma speranza e rinnova-

mento non potevano nascere tra i Giudei del tempo senza che ci

si interrogasse sul ruolo che in questo processo il profeta era chiamato a svolgere e quindi sull'identità più profonda di Gesù. Era forse il Messia? Certamente Gesù non si è presentato esplicitamente come il Messia davidico atteso da secoli da Israele. Gli episodi evangelici che lo affermano (per esempio appunto l'ingresso in Gerusalemme)

sono il risultato di una rilettura della vita di

Gesù alla luce dell’Antico Testamento fatta dopo la risurrezione. Ma con la sua potente personalità, accompagnata da una ecce-

zionale attività miracolosa, non soltanto esercitò sui suoi conna-

zionali una impressione straordinaria, ma radunò intorno a sé un piccolo gruppo di discepoli, che lo seguiva nel suo ministero itinerante di esorcista e di taumaturgo, e invitò a un certo punto questi suoi seguaci a chiedersi chi realmente egli fosse e quale ruolo fosse destinato a svolgere nella venuta imminente del re-

gno di Dio (Me. 8,27-29). Verso la fine della sua vita, recandosi a

Gerusalemme per portare il suo messaggio nel centro stesso della nazione giudaica e mettendosi così in conflitto aperto con i capi del popolo (sommi sacerdoti e capi dei Farisei), cercò anzi di reparare i discepoli al suo imminente destino di morte (Me. 8,31; 9,31; 10,33). E in quella che doveva essere l’ultima cena con loro li invitò a non disperare, ma a cogliere il significato salvifi-

co di quel tragico avvenimento (Me. 14,22-25). Il fallimento del-

la sua missione terrena non avrebbe impedito l’avvento del regno di Dio ma avrebbe costituito l'adempimento misterioso della sua volontà salvifica. Quando perciò dopo la sua condanna, voluta principalmente dalle autorità religiose giudaiche (il supremo tribunale del Sinedrio), ma eseguita formalmente dall’autorità politica romana (il governatore Ponzio Pilato), i discepoli a lui più vicini (Pietro, i Dodici, Giacomo)

furono protagonisti di

esperienze religiose straordinarie (le apparizioni di Gesù), si con-

vinsero che Gesù era stato risuscitato da Dio, viveva ormai nella

gloria celeste e sarebbe presto ritornato sulla terra per la instaurazione definitiva del regno di Dio.

G. Jossa

Dalle origini al concilio di Nicea

9

3. LA PRIMA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO

1. La comunità primitiva di Gerusalemme Tenuti insieme da queste convinzioni, i discepoli che, dopo

un

periodo di iniziale spandamento provocato dalla morte di Gesù, costituirono la prima comunità di Gerusalemme erano ancora sostanzialmente un gruppo interno al giudaismo, che del giudaismo condivideva perciò le credenze e le tradizioni fondamentali. Non ha torto perciò l’evangelista Luca quando negli Al ti degli Apostoli ci presenta questi primi discepoli che osservano scrupolosamente la Legge mosaica e frequentano assiduamente

il tempio di Gerusalemme (At. 2,42-47). Accanto ai gruppi tradizionali del giudaismo del tempo di cui ci parla lo storico ebreo

Flavio Giuseppe

(Guerra giudaica II,11'7-119), e cioè Farisei, Sad-

ducei, Esseni (oggi identificati dalla maggior parte degli studio-

si con la comunità di Qumran)

e seguaci di Giuda il Galileo, ne

è sorto uno nuovo, guardato dai primi con sempre maggiore sospetto, che riconosce in Gesù di Nazaret il Signore e il Messia (At. 2,36 fa dire a Pietro che «Dio ha costituito Signore e Messia questo Gesù che voi avete crocifisso») e ne aspetta con trepidazione il ritorno imminente

(maranathà = «Signore nostro, vieni»,

prega nelle assemblee liturgiche questa comunità). E tuttavia la fede messianica dei primi discepoli aveva qualcosa di ben più caratteristico e radicale delle differenze che potevano esserci tra i vari gruppi giudaici in tema di osservanza della Legge, culto del tempio o libertà politica. Nel confessare Gesù di Nazaret Signore e Messia e nell’aspettarne il ritorno imminente come glorioso Figlio dell’uomo la comunità primitiva di Gerusalemme esprimeva infatti una fede e una speranza che mettevano radical mente in questione il giudaismo e non potevano perciò non entrare in conflitto con esso. La salvezza non consisteva più nell’osservanza scrupolosa della Legge di Mosè o nella realizzazione di un futuro messianico per Israele ma nell’adesione totale a Gesù morto e risorto che doveva ritornare nella gloria. E questo già significava un allontanamento profondo dalle tradizioni di Israele. Ma il fatto che questo annuncio si rivolgeva non ai Giudei soltanto ma a tutti gli uomini rendeva la rottura col mondo giudaico addirittura inevitabile. I discepoli di origine palestinese e di lingua aramaica potevano forse ritenere che la loro fede in Cristo non li obbligasse a lasciare le tradizioni di Israele e ad aprirsi al mondo dei pagani. Ben presto però, anzi quasi subito, en-

10

Cristianesimo

trarono a far parte della comunità di Gerusalemme Giudei provenienti dalla diaspora (i cosiddetti Ellenisti) e pagani simpatizzanti del giudaismo (i cosiddetti proseliti) che portarono nel gruppo una religiosità diversa, più libera nei confronti di quelle tradizioni e più aperta alla cultura ellenistica. E dalla iniziativa di questi nuovi discepoli, bersaglio, per la loro critica alla Legge mosaica e al tempio di Gerusalemme, della prima «persecuzione» da parte delle autorità giudaiche e costretti perciò a fuggire da Gerusalemme, scaturì già negli anni Trenta quell’evento decisivo della storia del primitivo cristianesimo che è la missione ai pagani e nacque nella. città di Antiochia la prima comunità composta da Giudei e da pagani che per distinguersi e contrapporsi ai loro compatrioti assunsero il nome di battaglia di cristiani’. Il

cristianesimo si staccava in questo modo dal giudaismo e comin-

ciava il suo cammino da Oriente verso Occidente, dal mondo giudaico all'impero romano. 2. Paolo

Poi nella comunità cristiana irruppe Paolo, e le tensioni che quell'evento già aveva determinato si acuirono. Paolo era infatti un giudeo, anzi un fariseo, molto orgoglioso della sua identità giudaica e tenacemente attaccato all’osservanza della Legge; ma era vissuto a Tarso in Asia Minore e aveva quindi una formazio-

ne ellenistica che lo rendeva più sensibile ai valori della cultura pagana; e inoltre, per qualche servizio reso a Roma dalla sua famiglia, era cittadino romano, il che lo predisponeva diversamente nei confronti del governo imperiale. Ma soprattutto Paolo non aveva conosciuto e seguito il Gesù terreno, che annunciava la venuta imminente del regno di Dio e forniva una nuova interpretazione della Legge di Mosè. Ma, nella famosa esperienza di Damasco, raccontata tre volte da Luca negli Attì degli Apostoli (9,1-20; 22,6-16; 26,12-18), su cui egli fonda il suo carattere

di apostolo, aveva conosciuto il Cristo e risuscitato che aveva liberato l’uomo to e della morte (quella schiavitù che la disubbidienza di Adamo e costituisce

celeste, il Gesù crocifisso dalla schiavitù del peccaè entrata nel mondo per propriamente pér Paolo

l’esistenza nella carne) e che rivendicava nei confronti dei suoi di-

scepoli il ruolo del salvatore e del signore (quel ruolo che, dirà

5 Atti 11,26. Io credo infatti che con chrematisai qui l'autore degli Atti non voglia dire che i discepoli «furono chiamati», ma che «si chiamarono» cristiani.

G. fossa

Dalle origini al concilio di Nicea

1l

Paolo, costituisce i credenti in «corpo di Cristo»). «Vi ho dunque

trasmesso, anzitutto, quello che ho ricevuto, che Cristo morì per

i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risu-

scitato il terzo giorno, secondo le Scritture, e che apparve a Cefa, e poi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, la maggior parte dei quali vive ancora, mentre alcuni sono morti... Infine apparve anche a me» (I Cor. 15,38). E non è infatti il «Gesù storico» che tutti i Giudei avevano conosciuto, ma questo Cristo morto e risorto, che aveva posto fine alla Legge e alla storia, che egli predicava a Giudei e pagani come unico mezzo di salvezza. «Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così», egli dice nella // lettera ai Corinzi (5,16) con un'affermazione che sarebbe

stata ripresa e piegata ai propri intenti dalla moderna dialettica. E la salvezza — 0, come

teologia

dice Paolo, la giustificazione

dell’uomo da parte di Dio — avviene soltanto mediante la fede in questo Cristo morto e risorto. «Tutti infatti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, giustificati gratuitamente... mediante la redenzione in Cristo Gesù»

(Rm. 3,23-24).

Questo aveva due conseguenze di grandissimo rilievo. Da un lato portava a compimento quel processo di interpretazione e di esaltazione della figura di Gesù che era già iniziato nella comunità primitiva di Gerusalemme e che costituisce propriamente la cristologia. L'annuncio di Gesù (una volta si diceva meno bene la religione di Gesù) diventava sempre più un annuncio su Gesù, consi-

derato Salvatore divino. Per Paolo Gesù è il Figlio di Dio che nella pienezza dei tempi si è fatto uomo nel seno della vergine Maria (Gal. 4,4); l'essere celeste che ha preso forma umana e si è fatto

obbediente fino alla morte, ricevendone per questo da Dio il nome che è sopra di ogni nome (fil 2,7). Dall’altro lato il valore salvifico della Legge, anzi il carattere meritorio stesso delle opere, e quindi il privilegio nazionale dei Giudei, venivano completamente annullati dal principio paolino della giustificazione di tutti gli uomini (Giudei e pagani) per mezzo della sola fede nel Cristo morto e risorto (mr. 3,29-30). Il cristianesimo si staccava dal giu-

daismo e sì affermava in maniera perentoria come religione non nazionale, ma universale. Gli elementi più legati alla tradizione giudaica reagirono perciò con forza a questa predicazione di Paolo, mettendone addirittura in discussione l’autenticità dell’apostolato e influenzando anche i capi della comunità di Gerusalemme. La Lettera ai Galati, scritta probabilmente da Paolo durante un

soggiorno a Efeso a metà degli anni Cinquanta, è la testimonian-

12

Cristianesimo

za più efficace della dura lotta sostenuta dall’apostolo dei gentili contro i gruppi estremi del giudeo-cristianesimo sul piano più

squisitamente teologico, mentre il cosiddetto concilio di Gerusa-

lemme (probabilmente nel 49) è la testimonianza di quella contro i gruppi più moderati, rappresentati da Pietro e da Giacomo, sul piano più squisitamente disciplinare. Qui infatti, almeno secondo la testimonianza di Luca negli Atti degli Apostoli (15,22-29), fu raggiunto un compromesso in base al quale i pagani che si con-

vertivano al cristianesimo, se erano liberi in linea di principio da-

gli obblighi derivanti dalla Legge mosaica, e quindi in particolare dalla circoncisione,

dovevano

tuttavia osservare

pratiche rituali di origine giudaica.

ancora

alcune

3. Le prime comunità cristiane Ma, a questo punto, la chiesa non era più un fenomeno esclusivamente orientale e giudaico; essa era ormai, come proprio Paolo non si era mai stancato di affermare nella sua predicazione, chiesa di Giudei e pagani e con le decisioni di quel concilio e la caduta di Gerusalemme nella guerra giudaica contro i Romani (nel 70) sarebbe diventata sempre più Ecclesia ex gentibus, di quelle genti che popolavano l’impero romano-llenistico. Seguendo le vie di comunicazione dell’epoca la predicazione di Paolo e degli altri missionari cristiani si era fermata infatti nei più grandi centri dell'impero. Ad Antiochia, Efeso, Corinto, e poi Roma, si erano costituite comunità cristiane formate non soltanto di Giudei ma anche di gentili. E si era cominciato a porre con nuova intensità il grande problema del mondo antico della convivenza tra i vari gruppi etnici di religione diversa. Proprio seguendo le vicende di Paolo (i cosiddetti viaggi missionari), gli Atti degli Apo stoli raccontano infatti numerosi episodi di conflitto tra Giudei,

pagani e cristiani nelle città dell'impero che già provocano l’intervento, per ora tuttavia assai mite, dell'autorità romana, preoc-

cupata di mantenere l’ordine e la pace nelle province imperiali. E nato insomma il problema decisivo del rapporto dei cristiani col mondo romano; un rapporto che è fatto fin dall’inizio di tensioni e difficoltà. Non possiamo aderire infatti senza riserve al quadro abbastanza irenico presentato dagli Atti degli Apostoli. Luca, che scrive probabilmente negli anni Ottanta e vive in una chiesa composta di Giudei e di gentili, e tra gli scrittori del Nuovo Testamento è forse il solo di formazione genuinamente greca

e ammiratore del governo romano, accentua senza dubbio la tol-

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14

Cristianesimo

leranza romana nei confronti dei cristiani. È vero infatti che le comunità di quelle grandi città tendono ormai a staccarsi dal giudaismo e a organizzarsi in maniera autonoma nell’ambito dell’or-

ganizzazione imperiale romana, cui anzi riconoscono, con Paolo, una legittimità che le deriva addirittura dalla volontà divina (Rm. 13,1: «Non c'è infatti autorità se non da Dio; ma quelle che ci sono, sono state ordinate da Dio»). Ma queste comunità cri-

stiane tendono a isolarsi rispetto al mondo romano, e proprio seguendo l'indicazione di Paolo

(fil. 3,20: «La nostra cittadinanza

è però nei cieli, da dove attendiamo anche, come salvatore, il Signore Gesù Cristo») non partecipano alla vita pubblica delle città in cui vivono. Ereditano così il sospetto e l’antipatia che i pagani già avevano verso le comunità giudaiche; e come queste erano accusate di «misantropia», cioè di concepire «adversus omnes

alios hostile odium»®, così esse sono accusate di nutrire addirit-

tura un «odium humani generis»”. Alla fine del I secolo le chiese cristiane hanno già in effetti una

loro precisa fisionomia. Le troviamo anzitutto nelle più grandi

città dell'impero. La diffusione del cristianesimo ha seguito, infatti, le grandi vie di comunicazione del mondo antico, che sono

ormai prevalentemente vie di comunicazione dell’impero roma-

no. Il cristianesimo è quindi, fin dall'inizio, e lo rimarrà per parecchio tempo, un fenomeno essenzialmente cittadino; e, a parte

frange persistenti di giudeo-cristianesimo nelle regioni orientali, tende a diventare un fenomeno imperiale. Questo non significa però che esso abbia già fatto sue la vita e le istituzioni della civiltà greco-romana. In ognuna di queste città la comunità cristiana vive in realtà una sua vita di corpo separato che le attira i sospetti e le diffidenze dei cittadini del luogo. I suoi membri si reclutano prima presso le comunità giudaiche, poi tra i pagani del posto, attraverso un proselitismo fatto principalmente, a quanto sembra, di rapporti personali e di testimonianza di vita. Questa vita cristiana è segnata da due fondamentali cerimonie di culto su cui è ancora Paolo che ha fornito la più profonda riflessione teologica: l’euca-

ristia, che è il ricordo attualizzante dell’ultima cena di Gesù con i

suoi discepoli, rito sacramentale di partecipazione alla vita divina

e di unione dei fedeli tra loro (/ Cor. 10,16-17: «Il calice della be-

nedizione che noi benediciamo non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è comunione con il corpo di © Tacito, Stonie V,5,1. ? Tacito, Annali XV,44,4.

G. fossa

Dalle origini al concilio di Nicea

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Cristo? Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dello stesso pane»), vissuto in un’atmosfera di esultanza escatologica per l'avvento imminente del regno di Dio (7 Cor. 11,26: «Ogni volta che mangiate questo pane e bevete il calice, annunziate la morte del Signore finché egli

venga»); e il battesimo, che è il rito della iniziazione cristiana alla vita nuova, l’atto di ingresso nella comunità dei salvati da Cristo,

somministrato per adesso soltanto agli adulti in seguito alla conversione (Rm. 6,3-4: «O ignorate forse che tutti quelli che fummo

battezzati per unirci a Cristo, fummo battezzati per unirci alla sua morte? Fummo dunque sepolti con lui per il battesimo per unirci

alia sua morte, in modo che, come Cristo è risorto dai morti per la

gloria del Padre, così anche noi abbiamo un comportamento di vita del tutto nuovo»). Nella celebrazione di questi riti come in genere nella organizzazione della vita cristiana - benché il ruolo centrale sia svolto sempre dal Cristo Salvatore e Signore e pietà e fede abbiano dunque non soltanto una forte impronta escatologica ma anche una precisa connotazione cristologica —, si disegna una prima semplice strutturazione della comunità. Ai profeti e ai predicatorì itineranti si aggiungono fin da principio «presbiteri» e «vescovi» sedentari. E gradatamente, ma non senza contrasti (ad An-

tiochia per esempio la Didachè e l’ Ascensione di Isaia sembrano testimoniare tensioni anche forti tra i persistenti gruppi profetici e questa più definita «gerarchia» ecclesiastica), il governo della comunità locale è assunto da un collegio di questi presbiteri, all’interno del quale, con sviluppi diversi da città a città, emerge la figura di un vescovo monarchico. Le lettere di Ignazio di Antiochia (110 ca.) mostrano infatti che in Siria e in Asia Minore già alla fi-

ne del] secolo esiste la figura di un vescovo che governa la chiesa,

mentre a Roma e in altre località dell'impero si mantiene più a lungo una forma di governo collegiale.

4. IL NUOVO TESTAMENTO

La regola per la fede e la vita di queste comunità è data da una serie di testi che sono venuti progressivamente formandosi o ad opera delle comunità stesse o per mano di singole potenti personalità, ma che le comunità comunque fanno propri riconoscendo in essi l’autenticità della predicazione apostolica relativa a Gesù di Nazaret e raccogliendoli perciò in collezioni fornite di particolare autorità: le lettere di Paolo anzitutto — che l’apostolo

16

Cristianesimo

dei gentili ha scritto (negli anni Cinquanta) nelle più diverse circostanze della sua vita, come istruzione e ammonimento

alle co-

munità da lui fondate o con cui vuole comunque essere in con-

tatto (di cui la critica ritiene sicuramente autentiche le lettere / ai Tessalonicesi, ai Filippesi, ai Galatì, Ie II ai Corinzi, ai Romani.e a

Filemone) —, testimonianza di un pensiero teologico potente e originale, dove appaiono le grandi affermazioni paoline che costituiranno la base per tutta una serie di discussioni teologiche dei secoli successivi, come la giustificazione per fede, il problema della Legge,

la risurrezione

dei

morti,

la chiesa

corpo

di Cristo

e

tempio dello Spirito; e poi, mediante un processo assai comples-

so di formazione

letteraria, che va dalla predicazione

orale dei

primi discepoli, attraverso la fissazione di alcuni nuclei tematici scritti, fino alla redazione di vere e proprie opere unitarie, i quat-

tro vangeli (nell’ordine: Marco, Matteo, Luca e Giovanni), che rac-

contano la vicenda di Gesù, interpretandola e attualizzandola alla luce della riflessione teologica e dei bisogni emergenti delle rispettive comunità. La natura e i rapporti tra questi vangeli sono, in effetti, molto complessi. I primi tre presentano somiglianze così grandi nel racconto da poter essere stampati su tre colonne parallele per abbracciarli con un solo sguardo (sinossi, donde l’appellativo di sinottici), ma rivelano pure significative differenze. Il fatto che Matteo e Luca nell’ordine della narrazione vadano d’accordo tra loro solo fin quando vanno d’accordo anche con Maro, e il fatto che

essi contengano quasi tutto il materiale di Marco in una forma letterariamente e teologicamente più elaborata, hanno fatto conclu-

dere che il vangelo più antico sia quello di Marco, il quale segnerebbe dunque la nascita del nuovo genere letterario e sarebbe stato tenuto presente da Matteo e Luca nella loro stesura. Ma Marco non è l’iniziatore della tradizione scritta. Prima di lui non soltanto sarebbero già esistite narrazioni di singoli episodi (alcune del-

le quali, come la storia della passione, certamente già scritte), ma

si sarebbe già provveduto a raggruppare tra loro per motivi soprattutto tematici le singole narrazioni (fericopî) in un primo tempo isolate. Sicché l'opera di Marco sarebbe consistita proprio nell’inserire tutto questo materiale nel nuovo genere letterario del vangelo. E poiché Matteo e Luca hanno in comune tutta un’al-

tra parte di materiale, costituita prevalentemente da parole di Ge-

sù, che non trova riscontro in Marco, si è supposta l’esistenza di una

seconda fonte, detta Q, la cui origine sarebbe anche più antica del Vangelo di Marco (ipotesi delle due fonti). Il quarto vangelo ha in-

G. Jossa

Dalle origini al concilio di Nicea

17

vece carattere profondamente diverso. Scritto alcuni decenni più tardi da un autore che è un grande teologo e mistico, in misura ancora maggiore degli altri tre esso non vuole narrare la storia di Gesù, ma esprimere la fede e l’interpretazione della sua persona e del suo insegnamento. È contiene perciò una riflessione teologica particolarmente profonda sulla figura divina di Cristo (8,58: «Prima che Abramo fosse, io sono») nel suo ruolo salvifico (14,6: «Io

sono la via e la verità e la vita») e nel suo rapporto col Padre (10,30: «Io e il Padre siamo una cosa sola»), di cui la famosa concezione

del Logos (1,1: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio»; 1,14: «e il Verbo si è fatto carne ed abitò ua

noi») è aspetto particolarmente significativo. Sono questi i testi principali. Ma ad essi si aggiungono poi via via altri scritti: gli Atti degli Apostoli, le lettere paoline di dubbia attribuzione o non autentiche (// ai Tessalonicesi, agli Efesini, ai Colossesi, Ie II a Timoteo, a Tito, agli Ebrei), le lettere «cattoliche» (Ye Il di Pietro, Giacomo, Giuda, I, Il e III di Giovanni) e l’Apocalisse di

Giovanni. Tutti questi scritti, attraverso un processo più lungo, an-

dranno a costituire, insieme con quelli precedentemente citati, la raccolta dei libri del Nuovo Testamento, cui, accanto e sopra a quelli dell'Antico Testamento, verrà riconosciuta la canonicità,

cioè il carattere normativo della fede delle comunità cristiane. 5. L'IMPATTO CON LA CULTURA PAGANA

1. I primi rapporti con l'impero romano Ancora relativamente poco numerose, di estrazione sociale pre-

valentemente modesta, queste comunità vivono comunque una vita morale molto semplice, anche se non priva, fin dall'inizio, di

tensioni dolorose; una vita caratterizzata certamente dalla preghiera comune e dalla solidarietà fraterna, ma che si svolge per il momento tutta ai margini della vita politica e sociale dei gruppi di-

rigenti dell'impero. Una delle novità più rilevanti apportate dalla

predicazione cristiana appare infatti fin dall’inizio la netta separazione tra religione e politica (che diverrà più tardi la separazione tra chiesa e stato). Il riconoscimento dell’origine divina dell’autorità operato in maniera particolarmente forte nel capitolo 13 della Lettera aî Romani non elimina l'affermazione della sostanziale estraneità dei cristiani alla comunità politica contenuta già nel

«Date a Cesare» di Gesù e ribadita dallo stesso Paolo in Fil. 3,20. E

18

Cristianesimo

questo alimenta, come ho detto, le diffidenze e provoca i primi scontri con l'autorità romana. Proprio a Roma, sede di una comunità cristiana più recente ma, per il legame particolare con gli apostoli Pietro e Paolo e per trovarsi nella capitale dell'impero, presto assurta a posizione di prestigio e autorità, prima da parte di Nerone e poi da parte di Domiziano i cristiani subiscono i primi provvedimenti repressivi. Né quelli dell'uno né quelli dell'altro possono essere definiti «persecuzioni» cristiane, segno di una consapevole politica imperiale ostile al cristianesimo. Quelli di Nerone infatti, raccontati da Tacito negli Annali (XV,44), sembrano do-

vuti esclusivamente alla necessità in cui si trovava l’imperatore di trovare un capro espiatorio sul quale addossare la responsabilità dell'incendio di Roma del 64 che l'opinione pubblica attribuiva allo stesso imperatore. Quelli di Domiziano, ricordati da Cassio Dione nella sua Storia di Roma (LXVII,14,1-2), rientrano invece in un

insieme di provvedimenti politici presi da Domiziano nell’ultima fase del suo impero per reprimere ogni forma di opposizione (senatoria, stoica, giudaica o cristiana) al suo governo tirannico. Essi

sono tuttavia il sintomo di un’animosità crescente nei confronti dei cristiani da parte di quella che potrebbe chiamarsi una opi‘nione pubblica pagana, nella quale hanno peso particolare le voci dei gruppi aristocratici. 2. La reazione pagana

Dagli inizi del II secolo sembra disegnarsi infatti una prima forma di reazione organica del mondo pagano nei confronti dei cristiani. Non sono più soltanto le accuse di un'opinione pubblica rozza e poco informata, e neppure i provvedimenti di sovrani particolarmente sospettosi e diffidenti, ma sono le voci degli uomini più rappresentativi dell’epoca a levarsi, sia pure in termini ancora superficiali, che rivelano pur sempre scarsa informazione, contro i cristiani. È il filosofo greco Epitteto, massimo esponente del pensiero stoico-cinico del tempo, a criticare quelli che egli chiamai «Galilei» per un atteggiamento di fronte alla morte che, benché ispirato apparentemente a libertà e coraggio, non appare in realtà né razionalmente fondato né moralmente convincente?. E sono soprattutto alcuni dei più insigni rappresentanti dell'aristocrazia romana, Plinio, Tacito e Svetonio, a sottolineare l’incompatibilità ! Diatribe IV,7,1-7.

G. Jossa

Dalle origini al concilio di Nicea

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della nuova religione con i princìpi più sacri della tradizione mana?. Una religione (anzi una superstitio, come dicono i tre tori, e anche il termine è indicativo) che, come quella giudaica, sprezza gli dèi nazionali, non partecipa alla vita pubblica ed è

roaudica-

ratterizzata da intolleranza e da fanatismo. E una religione che, a

differenza di quella giudaica, non può nemmeno vantare quel. l’antichità della propria tradizione che, secondo il pensiero del tempo, assicura comunque una rispettabilità. Questa reazione della cultura pagana nei confronti dei cristiani non provoca ancora una «persecuzione». Gli imperatori Traiano e Adriano non ritengono pericolosa la nuova religione. Moralmente inaccettabile, ma non politicamente pericolosa. E neppure pertanto da perseguire attraverso iniziative del potere politico o giudiziario. I due famosi rescritti che, in risposta a richieste di chiarimento sulla procedura da seguire nei processi contro i cristiani,

essi inviano a due funzionari imperiali di province dell’Asia Minore non manifestano perciò una particolare ostilità nei confronti del cristianesimo né tanto meno segnano l’inizio di una politica repressiva. Ispirati prevalentemente dalla preoccupazione di mantenere l’ostilità popolare verso la nuova religione nell’ambito della legalità e di fissare quindi regole giuridiche precise ai processi contro i cristiani, finiscono anzi col mettere al riparo questi ultimi dalle forme più gravi di arbitraria persecuzione. I cristiani, afferma infatti Traiano, non devono essere ricercati e, se denunciati,

devono essere condannati solo se la denuncia è firmata ed essi comunque non abiurano!°. In più, aggiunge Adriano, l’accusatore deve stare in giudizio di persona e se la sua accusa si rivela infondata, viene lui stesso condannato!!. E una situazione di pericolo, di precarietà, quella in cui vengono dunque a trovarsi i cristiani, non uno stato di persecuzione (fossa, 1991, pp. 119 sgg.). 3. L'apologetica Ma la presa di posizione nei confronti dei cristiani da parte della opinione pubblica (quella colta in particolare) li obbliga comunque a reagire. Pur restando ancora fondamentalmente estranei alla civiltà imperiale, essi sentono ormai la necessità di pre® Plinio, Lettere X,96; Tacito, Annali XV,44;

16,3.

1° Plinio, Lettere X,97.

!! Il testo è riportato da Eusebio,

Svetonio,

Vite dei Cesari. Nerone,

Storia Ecclesiastica IV,9,1-3.

20

Cristianesimo

sentare al pubblico pagano una esposizione sintetica delle proprie convinzioni e una motivata difesa dalle accuse più gravi. Na-

sce così quell'orientamento del cristianesimo del II secolo che si esprime nei testi della letteratura apologetica.

Questo orientamento ha un'importanza storica fondamenta-

le per lo sviluppo della chiesa antica. Finito il periodo della sistemazione della tradizione apostolica, che trova espressione nella letteratura

neotestamentaria,

la storia della chiesa

ha cono-

sciuto una fase di assestamento, che può quasi sembrare di stasi, e che produce soltanto una letteratura minore. È il periodo dei Padri

apostolici

(Didachè,

Clemente,

Ignazio,

Barnaba,

Policarpo),

della generazione cioè successiva a quella degli Apostoli, periodo dominato da preoccupazioni di carattere prevalentemente liturgico, morale

e disciplinare, che si manifestano in istruzioni,

lettere e omelie rivolte ai membri della comunità. Ora invece la situazione sì modifica. Per la prima volta infatti autori cristiani non si indirizzano più ai loro confratelli con lettere o omelie, ma si rivolgono a un pubblico pagano per confutarne le accuse ed esortarlo a convertirsi. Ne nasce quindi un confronto culturale che costringe i cristiani a misurarsi col pensiero ellenistico e a farne anche proprie alcune posizioni. Nei testi dell’apologetica non è la figura di Gesù a essere in primo piano; né è il problema della Scrittura a essere dibattuto. Sono invece l’idea di Dio e il problema morale che, già con la prima apologia a noi pervenuta, quella dell’ateniese Aristide (probabilmente dell’epoca di

Adriano), occupano il centro della discussione. E gli apologisti cercano di mostrare come in entrambi i casi il cristianesimo ab-

bia una chiara superiorità rispetto al paganesimo. L'idea di Dio che essi professano non conosce infatti nessuna di quelle assurdità e volgarità che si trovano nei miti della religione pagana. E la vita morale che essi conducono è completamente aliena da quelle dissolutezze che sono così diffuse nella società imperiale. Ma questo non implica più un rifiuto netto del pensiero pagano. Non soltanto infatti già Aristide per dimostrare l’esistenza di Dio fa sue alcune posizioni della filosofia ellenistica, e in particolare della cosmologia stoica!2. Ma dopo di lui l'apologista greco più significativo del II secolo, Giustino — che non per nulla è pervenuto al cristianesimo dopo un lungo travaglio intellettuale, da lui stesso raccontato nel Dialogo con Trifone - nelle due Apologie che di lui ci sono pervenute elabora una posizione filosofica che è

!2 Aristide, Apologia 1,1-2.

G. Jossa

Dalle origini al concilio di Nicea

21

già di grande apertura culturale e di sicura portata apologetica. Per lui il cristianesimo non è rifiuto, ma completamento, inveramento del pensiero pagano. Poiché il Logos divino era presente nel mondo fin dalla creazione e si è manifestato nella sto-

ria con i suoi semi di verità, prima del cristianesimo, come ci so-

no stati tra i Giudei patriarchi e profeti (quali Abramo e Mosè), così ci sono stati tra i pagani filosofi e legislatori (quali Socrate ed Eraclito) che hanno raggiunto parzialmente questa verità, «cristiani prima di Cristo». La venuta di Gesù sulla terra, che è l'incarnazione visibile del Logos, è quindi soltanto la tappa finale di una lunga storia dell'umanità, che solo adesso raggiunge la

pienezza della verità. E per essere cristiani non è necessario rinunciare agli aspetti più nobili del pensiero pagano!4. Naturalmente non tutti gli apologisti mostrano questa apertura nei confronti del paganesimo. Un discepolo dello stesso Giu-

suino, Taziano, che non a caso è di origine siriaca, in un suo Di-

scorso ai Greci arriva anzi a capovolgere completamente questa posizione accomunando tutte le più belle conquiste del pensiero pagano

(filosofia, poesia, arte, letteratura)

in un’unica,

totale,

condanna. Egli non riesce a vedere in esse se non contraddizioni e immoralità, determinate dall’ispirazione dei demoni. E rivendica quindi con orgoglio la superiorità dei «barbari» sui Grecil4. Ma ormai il cristianesimo non soltanto si confronta col paganesimo, e si dà quindi una veste culturale, ma questa veste culturale la assume dai suoi stessi avversari. Proprio Taziano, autore di una così drastica condanna della civiltà greco-romana, mostra in realtà una sensibilità religiosa e un gusto letterario che lo accomunano per molti aspetti ad altri scrittori pagani dell’epoca. E pochi anni più tardi un altro apologista, Melitone vescovo di Sardi, arriverà già a sostenere il vantaggio reciproco, anzi la comunanza di destino, che lega l’impero e il cristianesimo. Se prima eravamo barbari — afferma infatti Melitone — ora abbiamo accettato pienamente la civiltà imperiale e contribuiamo attiva-

mente ad essa con le nostre forze!5.

Ma l'apologetica è soltanto un orientamento del pensiero cristiano del II secolo. Il confronto col paganesimo, per quanto importante, non è il solo problema del cristianesimo di questo pe13 Giustino, / Apologia 44,9-10; 46,2-3; I Apologia 8,1-2; 10,1-3; 13,2-4.

14 Taziano, Discorso, 1,1; 2,1-3; 7,2-3; 14,1; 33,2-3.

11.

1 Il frammento di Melitone è riportato da Eusebio, Storia Ecclesiastica TV,26,7-

22

Cristianesimo

riodo. Altri ancora ve ne sono di altrettanta importanza: anzitutto la discussione col giudaismo e il confronto con Marcione. 6. IL RAPPORTO COL GIUDAISMO

Nato dal giudaismo ma entrato subito in polemica con esso, il

cristianesimo deve precisare la sua posizione nei confronti della religione giudaica e degli scritti che ne costituiscono la rivelazione. Era stato già il tema del concilio di Gerusalemme ed era stato già soprattutto il problema di Paolo. E Paolo aveva dato ad

esso una soluzione teologica di grande portata. La chiesa di Cri-

sto è l’erede del popolo di Dio, ma ne è anche la realizzazione,

e quindi la trasformazione, «spirituale». Essa è il novus, il verus Israel. La Legge mosaica ha perduto perciò il valore salvifico che le attribuiva la tradizione giudaica. La salvezza non viene dalle opere della Legge ma dalla fede nel Cristo morto e risorto (cfr. Gal. 2,16.21; Rm. 3,28). Ma in ampi settori della chiesa cristiana

l'autorità di Paolo continuava a essere contestata e la soluzione da lui sostenuta non aveva posto fine alle discussioni. In realtà per tutto il II secolo la storia della chiesa appare dominata dal problema del giudaismo e della Scrittura. Da un lato infatti tra i

cristiani di origine giudaica permane la tendenza a conservare le tradizioni e le istituzioni del popolo giudaico, in una interpreta-

zione che resta spesso ancorata alla lettera dell'Antico Testa-

mento. Si tratta di tutte quelle tendenze che si possono riassumere nella denominazione di giudeo-cristianesimo e che si manifestano in particolare nei cosiddetti apocrifi del Nuovo Testamento (molti dei quali sono oggi perduti). Dall'altro lato una tentazione si affaccia: rinunciare interamente al giudaismo e alla sua Scrittura. E in una certa misura l’idea di uno scritto antigiudaico che va sotto il nome di Lettera dî Barnaba. Ma è soprattutto la posizione di Marcione. Questi, o per un paolinismo esasperato o per concezioni di tipo gnostico, vede un contrasto insanabile tra la Legge di Mosè che esige la giustizia e il Vangelo

di Gesù che proclama la grazia, tra quella che era la Scrittura dei Giudei

(l’Antico Testamento)

e quella che dovrebbe essere la

Scrittura dei cristiani (il Nuovo Testamento), anzi tra il Dio stesso invocato dai Giudei, creatore e giusto, e il Dio proclamato da

Gesù Cristo, redentore e misericordioso. Da un lato perciò indi-

ca in un suo scritto perduto tutte le Antitesi che possono ravvisarsi tra Legge

(giudaica) e Vangelo

(cristiano), dall’altro pro-

G. fossa pone

Dalle origini al concilio di Nicea di accettare come

normativi

23 (canonici)

solo alcuni dei li-

bri apostolici (Paolo in primo luogo, e poi Luca, in quanto meno giudaico), respingendo invece quelli che appaiono ancora troppo legati al giudaismo. Ma la maggioranza dei cristiani non la pensa così. La predicazione e la vita stessa di Gesù sono troppo chiaramente radicate nella tradizione giudaica perché un cristiano (anche di origine pagana) possa tranquillamente rinunciare ad essa. E la figura di Gesù è stata interpretata e compresa in maniera così immediata e profonda dagli Apostoli alla luce delle profezie dell'Antico Testamento che queste ultime non possono essere accantonate. Per i cristiani Gesù è il Cristo, cioè il Messia che ha portato finalmente al suo compimento la storia di Israele e alla loro realizzazione le speranze giudaiche. Tutto l'Antico Testamento tende perciò alla sua manifestazione, anzi parla già velatamente di lui. Il problema

non è allora di abbandonare la tradizione giudaica e rinunciare alla Scrittura ma piuttosto di continuare il lavoro iniziato dagli Apo-

stoli, che consiste proprio nel «ricordare», e quindi riconsiderare

la vita di Gesù alla luce della Scrittura per «ricordare», e quindi reinterpretare la Scrittura alla luce della vita di Gesù. Anche stavolta è Giustino il testimone privilegiato di questo atteggiamento. In una discussione (vera o fittizia) con un interlocutore ebreo, che va sotto il nome di Dialogo con Trifone, egli ha offerto una valutazione del giudaismo e della sua Scrittura che resterà in qualche modo esemplare per gli autori successivi. Il Dio di Gesù Cristo e quindi dei cristiani non è altri che il Dio

creatore dell'Antico Testamento. La Scrittura giudaica è perciò

anch'essa parola di Dio. E anche la storia giudaica non è priva di valore. Ma questo valore è puramente provvisorio. Il contenuto essenziale dell'Antico Testamento sta infatti nell'aver preannunciato la venuta di Cristo. Gli eventi e le istituzioni del popolo giudaico sono soltanto il «tipo», l'abbozzo delle realtà future. Tutto

l'Antico Testamento è in realtà una grande profezia del Cristo. La Legge mosaica ha fatto perciò il suo tempo e non vincola più i cristiani. Circoncisione, sabato e pasqua giudaica sono soltanto

i simboli, resi necessari dalla immaturità del popolo giudaico, del battesimo, della domenica e della pasqua cristiana. «Come

dun-

que... tutte queste cose sono state prescritte a causa della durezza di cuore del vostro popolo, così era nella volontà del Padre che esse dovessero cessare con Cristo» (Dialogo 43,1). L'Antico

Testamento, quindi, è conservato nel cristianesimo, ma solo co-

me la sua necessaria preparazione.

24

Cristianesimo

7. NUOVE FORME DI SPIRITUALITÀ

1. La diffusione delle religioni orientali e lo gnosticismo Ma il Il secolo è un secolo di religiosità in continuo fermento, in costante ebollizione. Entrata definitivamente in crisi la religione pubblica cittadina, con la sua mescolanza inestricabile di elemen-

ti spirituali e di esigenze politiche, che ancora Augusto era riuscito a tenere insieme, sì diffondono ormai nell'impero romano-ellenistico le più diverse forme di spiritualità, tutte caratterizzate dal ruolo preminente che assume in esse il singolo individuo. Tra lo sbigottimento e la indignazione dei ceti aristocratici più conservatori (si pensi per esempio alle Satire di Giovenale) culti misterici e religioni orientali dilagano ormai (anche a Roma)

in una po-

polazione imperiale estremamente variegata che sempre meno si riconosce nelle cerimonie spettacolari del culto pubblico e sempre più cerca invece risposta ai suoi bisogni di salvezza individuale, morale personale e solidarietà fraterna. E il cristianesimo più di ogni altro culto o religione sembra rispondere a questi requisitu. Se un passo famoso delle Meditazioni (X1,3) di Marco Aurelio, di fronte alla testimonianza dei martiri cristiani, mostra ancora tut-

to il fastidio dell’intellettuale pagano per un comportamento morale ritenuto soltanto fanatico e teatrale e tutta la preoccupazione dell’imperatore romano per un atteggiamento politico conside-

rato ormai pericolosamente corrosivo, altre due testimonianze di

autori pagani rivelano infatti nella maniera più efficace questa forza di attrazione della nuova religione: quella del retore Luciano di Samosata e quella del medico Galeno di Pergamo. Pur diversissime tra loro nel tono e nella valutazione, esse colgono infatti alcuni elementi della nuova religione che spiegano nel modo migliore le ragioni del suo successo. Entrambi anzitutto sottolineano l’adesione «irrazionale» e incondizionata dei cristiani al proprio Salvatore, che è per essi naturalmente oggetto di dura critica e che risulta invece elemento di forza in un’epoca in cui la fede ha largamente soppiantato la ragione. Ma Galeno manifesta anche tutta lasua ammirazione per la morale dei cristiani, soprattutto in ma-

teria sessuale, una morale che gli appare assai più nobile di quella dei pagani, e tale da potersi addirittura paragonare a quella dei filosofi. E Luciano, sia pure per irriderla, non può fare a meno di testimoniarne la carità fraterna che crea vincoli fortissimi di solidarietà tra i membri della comunità (Carrara, 1984, pp. 101 sgg., 127 sgg.). Sono questi in effetti, per ammissione degli stessi cre-

G. Jossa

Dalle origini al concilio di Nicea

denti, gli aspetti e spingono alla dei martiri che, relio inferiore a

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del cristianesimo che più suscitano ammirazione conversione i pagani: la testimonianza intrepida per quanto considerata da Epitteto e Marco Auquella dei filosofi, agli occhi della gente comune

risulta invece più convincente; una morale eroica, che trasforma

e nobilita i costumi dei pagani, soprattutto per quanto riguarda l’attività sessuale, legata rigidamente al matrimonio e alla procreazione; e una carità singolare, che soprattutto agli stranieri offre nuove forme di appartenenza e solidarietà, sottraendoli alla loro situazione di isolamento. Ma anche nel cristianesimo, religione giovane che non ha ancora definito con precisione la sua dottrina e la sua organizzazione, si fanno strada le spiritualità più diverse, che sembrano

portare a conseguenze ancora più estreme le posizioni dei Giudei e di Marcione. È soprattutto il movimento gnostico a suscitare le preoccupazioni dei pensatori cristiani. Gli studiosi sono

ancora nettamente divisi nel giudizio da dare sulle origini, e sul-

la natura stessa, di questo movimento. Per alcuni (A. Harnack in primo luogo)

esso è un fenomeno

interno al cristianesimo, do-

vuto principalmente all’incontro della religione cristiana col pensiero greco, dunque sostanzialmente una eresia cristiana, frutto di una «ellenizzazione acuta» (rispetto a quella più mo-

derata dell’apologetica) del cristianesimo. Per altri (la scuola sto-

rico-religiosa di W. Bousset e R. Reitzenstein) esso è invece un fenomeno più vasto, da inquadrare nell’ambito più generale della storia delle religioni, e delle religioni orientali in particolare (iranica e forse giudaica), di cui lo gnosticismo cristiano sarebbe soltanto un aspetto. Ma quel che qui ci interessa è che vescovi e teologi cristiani del II secolo hanno visto nel movimento gnostico un pericolo mortale per il cristianesimo, e lo hanno perciò combattuto con particolare asprezza. Lo gnosticismo è una concezione dualistica del mondo diffusa soprattutto in Siria (Antiochia) ed Egitto (Alessandria) dalla metà

del II secolo secondo cui — per effetto di un dramma cosmico ori-

ginario che ha visto la degradazione, o la disintegrazione, della

realtà (del pièroma) celeste e lo scontro tra la potenza divina su-

prema e le potenze inferiori contrapposte — lo spirito, il prèéuma,

dell’uomo, che era originariamente parte del pleroma celeste, è

finito in balia del creatore del mondo materiale (il demiurgo) e giace ora in questo mondo materiale come prigioniero del corpo e dominato dalle potenze del male. Di origine celeste quale esso è, potrà tuttavia ottenere la salvezza mediante la conoscenza (la gno

26

Cristianesimo

siappunto) della propria natura divina, estranea a questo mondo materiale. Questa conoscenza non si raggiunge però razionalmente, ma viene rivelata agli uomini (anzi a quelli tra gli uomini che sono gli eletti, i pneumatici) da un redentore celeste proveniente dal pleroma divino che, in particolare tra i seguaci di Valentino, viene identificato non col Gesù visibile nato da Maria, ma

col Cristo invisibile proveniente dall'alto. Il che dà a tutti i gruppi gnostici un fortissimo carattere iniziatico e si esprime nella pro-

duzione di testi di natura esoterica. Preceduto nel I secolo e agli inizi del II da tutta una serie di autori c di scritti che, pur non potendo essere definiti gnostici, mostrano tuttavia il sempre più frequente orientarsi, sia del pensiero giudaico sia del pensiero pagano, verso concezioni dualistiche di tipo gnostico (Filone Alessandrino, Simon Mago, Odi di Salomone, scritti ermetici), lo gnostici-

smo ha dato luogo verso la metà del II secolo a veri e propri sistemi di pensiero, tra i quali i più significativi sono quello degli Ofiti, quello di Basilide e quello di Valentino. La nostra conoscenza di questi sistemi, affidata un tempo quasi esclusivamente alla replica polemica della letteratura eresiologica (Ireneo e Ippolito soprattutto), si è molto allargata con la scoperta nel 1945, vicino Nag Hammadi nell'Alto Egitto, di una intera biblioteca di testi gnostici in lingua copta, che tuttavia, per quanto importantissima, rappresentando prevalentemente sviluppi più tardi del pensiero gnostico (soprattutto valentiniano), non ha sostituito affatto la testi-

monianza patristica. 2.

Montanisti ed encratiti. Gli «Atti dei martiri» e la critica di Celso

Ma non è soltanto il movimento gnostico con le sue complicate speculazioni intellettuali ad affascinare le comunità cristiane. Ci sono anche orientamenti di natura profetica «entusiastica» e di carattere etico «radicale» che esercitano una influenza notevole. Verso il 170, nella zona centrale dell’Asia Minore (Lidia e Frigia), reagendo probabilmente a una politica imperiale di più dura repressione inaugurata dall'imperatore filosofo Marco Aurelio e a un atteggiamento che sembra troppo mondano e condiscendente dei più autorevoli vescovi cristiani, un gruppo di profeti e di profetesse guidato da un certo Montano fa rivivere infatti ancora una volta le speranze e la spiritualità dell’apocalittica giudaica. Richiamandosi soprattutto alla tradizione dell’apostolo Giovanni (l’attesa millenaristica dell’ Apocalisse e la promes-

G. fossa

Dalle origini al concilio di Nicea

27

sa del Paraclito del quarto vangelo) essi annunciano l'avvenuta discesa dello Spirito santo nella comunità dei suoi eletti e la venuta imminente della Gerusalemme celeste nella valle di Pepuza!©. E poco più tardi, in un clima di particolare eccitazione che

cerca (e trova) nelle Scritture

(Daniele soprattutto) la sua giusti-

ficazione, intere comunità dell’Asia e della Siria seguono i loro

vescovi nel deserto nell’attesa della fine del mondo!”. È una ripresa improvvisa di profetismo apocalittico in una chiesa che sembrava invece avere abbandonato per sempre queste forme di entusiasmo religioso. E che costringe anche i vescovi più legati alla tradizione giudaica e più sensibili alle istanze profetiche (Melitone di Sardi e Apollinare di Gerapoli, e più tardi Ippolito «di Roma») a prendere apertamente le distanze!*. Altrove, ad avere maggior seguito sono invece i cosiddetti encratiti: i sostenitori cioè di un ascetismo rigoroso in materia sessuale e alimentare, e dunque di una forma di rifiuto del mondo e della carne, che affonda le sue radici o nel dualismo escatolo-

gico della tradizione giudaica (soprattutto apocalittica) o in quello antropologico della filosofia greca (soprattutto platonica). La tradizione eresiologica (a partire da Ireneo di Lione) definisce quella encratita una eresia e ne indica il fondatore in quell’apologista Taziano che abbiamo visto polemizzare violentemente

contro tutta la civiltà ellenistico-romana; ma l’encratismo non è

una eresia; è piuttosto una tendenza, una spiritualità, che nel cristianesimo delle origini ha trovato sostenitori nei gruppi e negli ambienti più diversi (giudaizzanti ed ellenizzanti, ortodossi ed eretici, cristiani e gnostici). E più in generale non va dimenticato che c'è in quest'epoca tutta una spiritualità del martirio, che considera la testimonianza (martyrìa) fino alla morte come il vertice della esistenza cri-

stiana: una spiritualità che può portare i credenti fino all’autodenuncia al magistrato e che alimenta non soltanto i discepoli e seguaci di Montano, ma strati cristiani molto più ampi. Ne abbiamo una splendida testimonianza in quei testi ricchi di autentico pathos religioso e spesso anche di grande valore letterario che sono i cosiddetti Atti dei martiri, siano essi redatti sulla base

e col modello dei verbali dei processi contro i cristiani (Alti di Giustino, Atti di Carpo e Alti dei martiri scillitanî) o come resocon15 Eusebio, Storia Ecclesiastica V,16; Epifanio, fresie XLVIII,14,1; XLIX,1,2-3. 1? Gli episodi sono raccontati da Ippolito, Commento a Daniele TV,18-19. 18 Eusebio,

Storia Ecclesiastica TV,26-27.

28

Cristianesimo

to sul martirio fatto da una chiesa a un’altra chiesa (Martirio di

Policarpo e Atti dei martiri di Lione). È a questa chiesa in fermento, nella quale convivono le tendenze più diverse e alla quale sembra perciò si possa chiedere ancora di non

porsi decisamente

fuori dalla società imperiale,

che in un clima religioso e politico segnato da difficoltà crescenti

(calamità naturali come la peste, scontri sociali tra le classi, pres-

sione dei barbari ai confini) si rivolge il primo scritto interamente dedicato al problema cristiano di un intellettuale greco di formazione

platonica: la Vera dottrina di Celso. Uno scritto che,

per quanto pervenutoci in forma incompleta, è per noi preziosissimo perché raccoglie in maniera sintetica e penetrante tutte le critiche che il mondo romano muoveva da tempo ai cristiani.

Queste critiche sono anzitutto di ordine filosofico, o forse, meglio, culturale. Per Celso, intellettuale platonico abituato a con-

siderare il cosmo come un tutto ordinato del quale l’uomo è soltanto una piccola parte, è inconcepibile un Dio che si occupi tanto degli uomini, e di quegli uomini senza alcun valore che sono in particolare i cristiani. E inconcepibile che questo Dio, lasciando la sua quiete perfetta, abbia deciso un bel momento di

incarnarsi in un uomo, e in un uomo così privo di qualunque di-

gnità come il galileo Gesù. Raccogliendo tutte le dicerie che correvano sul suo conto, in ambienti sia giudaici che pagani, Celso presenta infatti Gesù come un povero giudeo ignorante, nato dall’unione

di un’adultera con un soldato, che ha raccolto in-

torno a sé solo un gruppo di pescatori e non ha potuto evitare una morte ignominiosa. Ma queste critiche fanno già intuire che la preoccupazione più grave di Celso nei confronti dei cristiani

è di carattere sociale e politico. Privi di cultura come sono, i cri-

stiani hanno in sostanza il torto di porsi fuori dall’intero sistema di credenze e di valori della società imperiale: un sistema che

questa ha ricevuto e conservato dall'antichità. Separatisti come i Giudei, essi sono infatti peggiori dei Giudei perché privi di qualunque tradizione, e quindi di ogni vera sapienza. Essi vivono

nell’impero come un corpo separato, astenendosi dal partecipare a quei momenti più significativi della vita pubblica che sono

le feste, le magistrature, l’esercito. Per colpa loro l’imperatore è dunque solo, e la barbarie rischia di travolgere la civiltà. Per questo Celso sembra concludere il suo scritto con un appello appe-

na velato ai crisuiani a non abbandonare il loro posto, ma a strin-

gersi attorno all'imperatore nella difesa della tradizione e dei costumi dei padri.

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Dalle origini al concilio di Nicea

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Ma per il momento lo scritto di Celso è rimasto senza risposta. La chiesa aveva problemi più grandi al suo interno per preoccuparsi di rispondere ai pagani. Ho già detto prima come il movimento montanista abbia costretto i vescovi dell'Asia a prendere posizione. É in questa occasione che si sono anzi riuniti per la prima volta veri e propri sinodi di chiese di città vicine'°. Ma an-

che al pericolo gnostico la chiesa ha subito reagito con grande

energia. E colui che ne ha offerto la confutazione più completa

e organica, contribuendo in tal modo in una maniera decisiva alla «cattolicizzazione» del cristianesimo, è stato tra il 180 e il 190

il vescovo di Lione Ireneo col suo Adversus haereses. 3. Ireneo di Lione

Ireneo riprende anzitutto la polemica di Giustino contro Marcione sul problema della unità di Dio e della continuità dei Testa-

menti. Non vi sono due dèi, demiurgo e redentore, dell'Antico e

del Nuovo Testamento. Ma un unico Dio regge e governa la storia umana conducendola dalla creazione all’incarnazione attraverso le varie tappe contenute nei due Testamenti. Non soltanto infatti persone ed eventi dell'Antico Testamento rinviano simbolica-

mente, figurativamente, a quelli del Nuovo, ma tutta la storia di

Israele, ivi compresala Legge mosaica, è stata una preparazione

all'avvento di Cristo. È falso dunque quanto affermanoi marcio

niti circa l'assoluta eterogeneità dei precetti dell’uno e dell'altro Testamento ed è falso che Cristo abbia abolito e distrutto la Legge. Al contrario i precetti fondamentali della Legge e del Vangelo sono identici: l'amore di Dio e l'amore del prossimo. E Cristo non ha quindi abolito la Legge, ma l’ha completata. La storia tuttavia non è finita. Polemizzando con taluni «pneumatici» che affermano che con la venuta di Cristo e il dono dello Spirito l’uomo ha già raggiunto la perfezione finale - che potrebbero essere forse montanisti, ma che Ireneo sembra ritenere vicini ai marcioniti —, il vescovo di Lione sottolinea la neces-

sità che il processo di crescita dell'uomo iniziatosi con la creazione di Adamo e compiutosi nell’incarnazione di Cristo prosegua finché l’uomo diventi interamente a immagine e somiglianza di Dio. Un’unica linea continua corre così dalla creazione originaria dell’uomo alla visione finale di Dio. 1° Eusebio, Storia Ecclesiastica V,16,10.

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Cristianesimo

Ma la polemica di Ireneo è rivolta principalmente contro i seguaci di Valentino. Contro questi ultimi egli ha ribadito anzitutto con grande vigore l'identità di Gesù col Cristo. Non ci sono un Ge-

sù visibile e un Cristo invisibile, ma la redenzione è opera del Verbo fatto carne, che è quello stesso Gesù Cristo che ha patito, è morto ed è risorto, Figlio di Dio divenuto figlio dell’uomo. Ma Ireneo

ha anche visto molto bene il nesso strettissimo che legava nel pensiero dei valentiniani la cristologia alla cosmologia e all’antropo-

logia, il rifiuto dell’identità di Gesù col Cristo alla condanna del

mondo e della carne. Per questo afferma con altrettanto vigore la bontà del mondo e la salvezza della carne. Il mondo è creato da Dio, non dal demiurgo; perciò, quando il Salvatore venne nel mondo,

«in sua venit, non in aliena»?°, E il regno di Cristo sulla

terra anticipa il regno di Dio nei cieli. E l'incarnazione del Verbo

ottiene la salvezza di tutto l’uomo, carne e sangue, non soltanto

dell’uomo spirituale. Perciò vanno condannati gli atteggiamenti di tutti quei cristiani (gli encratiti) che predicano un’astinenza assoluta dalle cose di questo mondo, negando le necessità del vivere civile e l’utilità dell'impero romano. La teologia di Ireneo costituisce già per questo il primo grande tentativo di sistemazione organica del pensiero cristiano, la prima apparizione di una vera e propria teologia «cattolica», preoccupata più dei semplici fedeli che non delle élites intellettuali e spirituali. Ma questo carattere appare ancora più evidente nella presa di posizione di Ireneo sul problema delle fonti e delle norme della dottrina cristiana. Contro la manipolazione marcionita della Scrittura e il carattere esoterico dello gnosticismo Ireneo ha riaffermato infatti due princìpi fondamentali per la lettura e l’interpretazione della Scrittura: il rispetto dei testi

nella loro unità materiale e l'esigenza di una lettura di carattere

ecclesiale. Antico e Nuovo Testamento, vangeli, Atti degli Apostoli, lettere paoline ed Apocalisse costituiscono un unico corpo di dottrine, un solo deposito di tradizioni. E devono essere quindi integralmente conservati. Un passo notevole è così compiuto verso quella definizione ecclesiastica di un canone del Nuovo Testamento che avrà un’altra espressione significativa di lì a poco in un testo della chiesa di Roma che per essere stato scoperto e pubblicato nel 1’740 da L.A. Muratori va sotto il nome di «cata-

logo muratoriano» e che contiene una lista di libri da considera-

re «canonici». Ma queste dottrine, queste tradizioni, sono con20 Ireneo,

Contro le eresie 111,11,2; V,2,1; V,18,2.

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servate e interpretate autenticamente per Ireneo non nelle innumerevoli sette della cosiddetta gnosi, ma nell’insegnamento unanime della chiesa di Cristo diffusa su tutta la terra. Sono in particolare i vescovi che custodiscono e garantiscono il deposito della dottrina, perché sono i vescovi che con la successione degli

Apostoli ne hanno ereditato il dono, il carisma, della verità. E tra

questi vescovi un posto speciale spetta al vescovo della chiesa di Roma,

di cui l’eminente

antichità

(la potentior principalitas), e

quindi la particolare autorità, risale agli apostoli Pietro e Paolo?".

L'organizzazione ecclesiastica, e più in particolare la gerarchia ecclesiastica, conosce in effetti in questo periodo uno sviluppo decisivo. In primo luogo in tutte le chiese cristiane si impone ormai definitivamente l’episcopato monarchico. Sono i vescovi i capi delle chiese, che ne garantiscono l’unità e l’ortodossia, perché sono i vescovi i successori legittimi degli Apostoli. E perché questa successione sia assolutamente incontestabile e pos-

sa essere efficacemente contrapposta alle pretese rivelazioni de-

gli gnostici, nelle chiese più importanti vengono redatte liste episcopali che servano a legare in una catena ininterrotta gli attua-

li capi delle chiese alla generazione apostolica. Uno scrittore ri-

cordato da Eusebio (Storia Ecclesiastica [V,22,3), il palestinese Ege-

sippo, è per noi il testimone più prezioso di queste successioni, che anche Ireneo comunque conosce e ricorda nell’ Adversus hae

reses. Inoltre l'autorità che, come abbiamo visto, Ireneo gli riconosce, il vescovo di Roma comincia ad esercitarla nei fatti. Pochi

anni dopo che Ireneo aveva scritto quel famoso suo passo, un conflitto divide infatti la chiesa di Roma dalle chiese dell'Asia. Si trattava di una questione liturgica, ma con evidenti implicazioni teologiche. I vescovi dell'Asia, seguendo la tradizione giudaica, celebravano la Pasqua il 14 del mese di nisan e commemoravano nella festa la morte di Gesù. La chiesa di Roma, recidendo inve-

ce ogni legame con la tradizione giudaica, festeggiava nella Pasqua la risurrezione di Gesù e ne spostava la celebrazione alla domenica successiva. Ora intorno al 190 il vescovo di Roma Vittore, ritenendo intollerabile questa divergenza, pretende che tutte

le chiese si adeguino alla prassi romana e allontana addirittura

dalla comunione le chiese dell’Asia, suscitando le proteste dello

stesso Ireneo??, 21 Ivi, 1I1,3,2. 22 Eusebio,

Storia Ecclesiastica TV,22,3.

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Cristianesimo 8. SVILUPPI LITURGICI E DOTTRINALI

1. Lo sviluppo del culto e la comparsa del monarchianismo Alla fine del II secolo esiste quindi ormai la chiesa cattolica: un grande organismo religioso universale fornito di una sua dottrina, di un suo culto, di una sua organizzazione. E la situazione po-

litica dell'impero consente alla chiesa di rafforzare ulteriormente questa dottrina, questo culto e questa organizzazione. Passata infatti la persecuzione di Marco Aurelio, già con Commodo

(180-192) e soprattutto poi con i Severi (193-235) la chie-

sa gode di un periodo di pace. È il carattere della nuova dinastia

a determinarlo. Di origine afro-siriaca, essa, in particolare dopo

la morte di Settimio Severo (211), non è più così legata alla tradizione romana come le dinastie precedenti. Soprattutto per l’influenza delle potentissime donne della corte, Giulia Domna e Giulia Mammea (un altro segno dei tempi), si apre invece al pensiero e ai costumi orientali. E questo non può non favorire il cristianesimo. Quella dei Severi è in effetti l’evà classica del sincre-

tismo religioso. Il cristianesimo non è più considerato come la

religione che, erede del giudaismo, non può che essere ostile al mondo romano. Come il giudaismo, appare invece assimilabile. Sincretismo religiosò significa infatti tentativo, a volte consapevole a volte inconsapevole, di assorbire anche il giudaismo e il cristianesimo nella religione romana. Solo per un breve periodo, sotto Settimio Severo, Giudei e cristiani appaiono ancora apertamente osteggiati, in quella che è forse la «persecuzione» del 202°3. Ma, passato anche questo periodo, essi godono invece della tolleranza della corte e, con Alessandro Severo, addirittura del

suo favore, se è vera la notizia della Historia Augusta che questo sovrano non soltanto non perseguitò i Giudei e i cristiani, ma addirittura venerava nel suo larario privato, accanto a Orfeo e Apol-

lo, Abramo e Cristo?4.

Dunque la chiesa gode di una lunga pace; e può dedicarsi al rafforzamento delle sue strutture culmuali e organizzative. È fra la fine del II secolo e gli inizi del III che avviene anzitutto l'istituzione del catecumenato, un periodo, per lo più di tre anni, di preparazione ufficiale al battesimo. La diffusione del cristianesimo, i conflitti con gli eretici e il ripetersi delle persecuzioni han2% Storia Augusta, Severo 17,1. 24 Ivi, Alessandro 29,2.

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Dalle origini al concilio di Nicea

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no reso infatti necessaria una verifica più rigorosa della conver-

sione, un esame più accurato della sussistenza delle condizioni

per quell’ingresso ufficiale nella comunità cristiana che avviene col battesimo. Vengono perciò stabiliti gli elementi essenziali di una istruzione elementare, vengono indicate le professioni incompatibili con la nuova fede e vengono richieste condizioni morali più esigenti ai candidati al battesimo. La liturgia battesimale e quella eucaristica conoscono inoltre significativi sviluppi. Mentre il battesimo viene meglio definito tanto nel rito quanto nel

significato, anche attraverso l’uso di passi veterotestamentari

(il

passaggio del Mar Rosso) interpretati teologicamente e un più

stretto collegamento con la liturgia pasquale nel cui ambito per lo più esso viene somministrato, l’eucaristia si sviluppa a comprendere nuovi riti e preghiere (la presentazione comunitaria delle offerte e la grande preghiera sacerdotale) che costituiscono già l'embrione della liturgia della messa interpretata ormai in maniera esplicita come atto sacrificale. Queste notizie ci vengono fornite prevalentemente dalla 7raditio apostolica attribuita a Ippolito e probabilmente scritta a Roma,

che è il primo di una serie di scritti di carattere liturgico che cercano appunto in questo periodo di fissare regole più uniformi nelle varie regioni al culto e alla disciplina ecclesiastica. Ma, confer-

mate come sono dalle testimonianze sia di Tertulliano per Cartagine sia di Origene per Alessandria, esse mostrano chiaramente il grado di sviluppo ormai raggiunto nelle principali sedi dalla istituzione ecclesiastica. Molti problemi tuttavia restano aperti, soprattutto di carattere dottrinale. Il primo e più importante riguarda la persona stessa di Gesù Cristo. Messia di Israele e Salvatore dell'umanità, figlio dell’uomo e Figlio di Dio, chi era pro-

priamente Gesù Cristo? E quale era il suo rapporto con l’unico

Dio? Sono i problemi cristologico e trinitario, che avrebbero im-

pegnato per secoli il pensiero cristiano, intrecciandosi spesso con questioni politiche e sociali, e facendo così della storia del dogma uno dei percorsi più accidentati della storia del cristianesimo. Una soluzione semplice e geniale era stata fornita dall’apologetica. Sviluppando l’intuizione del prologo del Vangelo di Gio vanni e servendosi allo stesso tempo della riflessione della filosofia stoica, cercando quindi di unificare la tradizione giudaica con quella ellenistica, Giustino, e ancor più Teofilo vescovo di

Antiochia, avevano identificato Gesù con il Logos. Cristo era dunque il Verbo, la parola di Dio, proferita prima, e in vista, della creazione. E a lui andavano attribuiti gli interventi divini nella

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Cristianesimo

storia di Israele, e della umanità intera. La nascita di Gesù da Ma-

ria era l’incarnazione di questo Logos, l’apparizione visibile della parola di Dio che, come abbiamo già visto, portava a compimento tutta la storia precedente della umanità. La trascendenza assoluta di Dio e la natura divina di Gesù apparivano in tal modo entrambe garantite. Ma l’affermazione della esistenza di un «secondo Dio», subordinato al primo e manifestatosi soltanto prima della

creazione, faceva nascere il problema della unità divina e del rap-

porto quindi del Figlio (e dello Spirito) col Padre. Preoccupati

di difendere allo stesso tempo la divinità di Gesù e l’unità di Dio,

e forse anche influenzati dalla tendenza generale del pensiero religioso e politico dell’epoca verso la «monarchia», alcuni teologi dell'Asia Minore, quel Noeto e quel Prassea che noi conosciamo esclusivamente dalla confutazione fattane più tardi da Ippo-

lito e Tertulliano, dettero vita alla fine del II secolo alla corrente monarchiana, che cercava di salvare l’unità di Dio riducendo il Figlio (e lo Spirito) a forme, o a modî di essere, della divinità

(modalismo). Una opposizione esplicita alla cristologia del Logos degli apologisti. Ma il monarchianismo era un orientamento di pensiero complesso, nel quale a motivazioni squisitamente teo-

logiche si univano preoccupazioni disciplinari e organizzative. Af-

fermando in maniera intransigente l’unità di Dio e la divinità di Gesù, Noeto e Prassea non soltanto respingevano la cristologia del Logos e sembravano

trascurare l’umanità di Gesù, ma rifiu-

tavano anche lo Spirito Santo e il dono della profezia. Per togliere agli avversari (gli apologisti e i montanisti) le loro armi più efficaci, contestavano quindi l'autorità apostolica di scritti ormai venerandi come il quarto vangelo e l’Apocalisse di Giovanni, dove il Verbo e lo Spirito erano chiaramente affermati. E finivano

così con l’esprimere una forma di cristianesimo che, mentre ri-

spondeva molto bene ai bisogni religiosi dei ceti sociali emergenti sempre in cerca di salvatori divini, attenuava anche vistosamente il contrasto ideologico con l’impero romano. Perciò il monarchianismo ebbe una diffusione particolare a Roma, una chiesa che non soltanto si avviava ormai ad assumere la leadership sulla intera cristianità ma cominciava anche a stringere rapporti più stretti con i gruppi dirigenti dell'impero. E perciò venne invece combattuto aspramente da due figure eminenti e appassio-

nate di teologi: Ippolito in Oriente e Tertulliano in Occidente.

G. fossa

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2. Ippolito e Tertulliano La figura di Ippolito è stata oggetto negli ultimi anni di numerosi studi e discussioni. L'analisi approfondita di un’opera a lui

attribuita, che va sotto il nome

di Refulatio omnium haeresium, o

anche Philosophumena, nella quale sono narrate le sue vicende ro-

mane, e in particolare il suo scontro violentissimo con il vescovo di Roma Callisto, ha messo infatti in evidenza la difficoltà di at-

tribuire a un unico scrittore quest'opera antieretica e lo scritto Contro Naeto. Mentre l’esame più accurato di una famosa statua di sapiente (risultata oggi la ricostruzione della statua originaria di un personaggio femminile), sulla cui base è inciso un catalogo di scritti solo in parte corrispondente ai titoli di opere di Ippolito elencati da Eusebio e da Girolamo, ha posto in maniera ancora più radicale il problema della identità personale e letteraria dello scrittore. Ma la soluzione tradizionale di queste difficoltà, che tende a spiegarle con l’evoluzione intellettuale di Ippolito e i diversi destinatari della sua polemica, sembra rendere

pienamente giustizia tanto ai dati documentari in nostro posses-

so quanto alla unità e complessità del personaggio. Ippolito è maturato quasi certamente in Asia Minore, nel clima di entusiasmo

apocalittico della fine del II secolo, segnato principalmente dalla presenza del movimento montanista e reso probabilmente ancora più acuto dalla persecuzione di Settimio Severo nel 202. Perciò agli inizi della sua attività letteraria i suoi interessi squisitamente esegetici si misurano soprattutto con i problemi della venuta della fine del mondo e del ruolo dell’impero romano e con quei testi dell'Antico e del Nuovo Testamento (Daniele e l'Apocalisse) che più alimentano l’odio contro i Romani e l’attesa della fine. E qui (nel De Antichristo e nel Commento a Daniele), pur prendendo le distanze dall’estremismo dei montanisti, Ippolito esprime ancora quella rigida contrapposizione dei cristiani all’impero, fondata su una impressionante consapevolezza della propria identità di fede, che era tipica in particolare dell’ Apocalisse. Ma la comparsa prima in Asia e poi a Roma dell'orientamento monarchiano lo ha spinto ad affrontare in maniera più profonda e originale il problema trinitario, sostenendo da un lato la concezione che — contro quella «monarchica» - si chiamerà «economica» della divinità (dove ha anche introdotto, a quanto sembra per la prima volta, il termine pròsopon a indicare le «persone» della Trinità)

e difendendo

dall’altro l’autenticità e l'autorità del

Vangelo ce dell’ Apocalisse di Giovanni che, come abbiamo già visto,

36

Cristianesimo

venivano messe in discussione dagli autori monarchiani. É, giunto a Roma agli inizi del III secolo, si è scontrato col vescovo Callisto sia per l’atteggiamento, ritenuto troppo incerto, da questi assunto nei confronti

dei monarchiani,

sia per l'orientamento,

considerato permissivo, che aveva il vescovo sul piano etico e disciplinare. Io non credo che il contrasto tra Ippolito e Callisto sia giunto a determinare un vero e proprio scisma nel quale Ippolito sia divenuto addirittura «vescovo» di Roma; ma esso resta significativo di una tensione sempre più frequente tra fede popolare e teologia dotta, o forse meglio tra vescovi e teologi, che ritroveremo infatti nelle vicende di Tertulliano e di Origene. La vicenda di Tertulliano, scrittore africano di Cartagine, ha

numerose affinità con quella di Ippolito. Anche lui, nei primi scritti, ha affrontato il problema dei rapporti tra i cristiani e pero; ed è perciò anzitutto l’appassionato apologista che ha so il cristianesimo dalle accuse dei pagani. Il suo famosissimo

suoi l’imdifeApo

logeticum (scritto probabilmente nel 197) costituisce con l’ Ottavio

di Minucio Felice l’inizio dell’apologetica latina, anzi, con ogni probabilità, l’inizio puro e semplice della letteratura cristiana in lingua latina. E già qui Tertulliano rivela tutta la sua potente originalità. Formatosi sul diritto romano e nella pratica forense, egli dà infatti all’apologetica un taglio non più filosofico, ma giuridico. Con un linguaggio appassionato e veemente che segnerà non soltanto il cristianesimo ma la stessa lingua latina, contesta ai Romani la loro ignoranza del movimento cristiano e mette in risalto la contraddittorietà formale e l’illegalità sostanziale della loro legislazione religiosa (del rescritto di Traiano a Plinio in particolare). E alla critica (che abbiamo visto sviluppata soprattutto da Celso) di essere contro i valori più sacri della tradizione romana ribatte facendo appello alla verità e alla moralità della religione cristiana (la veritasè al di sopra della consuetudo cui faceva appello nel suo libro Celso), che impediscono ai suoi seguaci di partecipare alla vita pubblica (per esempio agli spettacoli, ritenuti espressione tipica di idolatria). Ma la chiesa d'altra parte non è più così priva di radici come appariva a Celso; anch'essa ormai ha una sua tradizione: l'insegnamento trasmesso dagli Apostoli e conservato ininterrottamente sotto la guida dei vescovi nelle varie comunità. E questo serve a Tertulliano per respingere la pretesa degli eretici (degli gnostici in particolare, alla cui confutazione dedicherà in seguito numerosi libri, tra cui importante soprattutto un lunghissimo Contro Marcione) di sostituire le loro rivelazioni a quella della

chiesa e per invocare anzi contro quegli eretici in un altro suo scrit-

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Dalle origini al concilio di Nicea

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to famoso (il De praescriptione haereticorum) l’argomento giuridico

della prescrizione. Solo la chiesa cattolica, come aveva già detto Ireneo, possiede interamente la verità, perché solo nella chiesa

cattolica l'insegnamento apostolico è stato trasmesso fedelmente

fin dall’inizio sotto la guida della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia

questa chiesa cattolica, o meglio questa istituzione ecclesiastica, cominciava ad apparire a Tertulliano allo stesso tempo troppo povera sul piano intellettuale e troppo compromessa con lo spirito del mondo. Sul piano intellettuale Tertulliano è uno dei più strenui difensori della teologia del Logos e uno di coloro che più hanno contribuito alla evoluzione della teologia trinitaria, non disdegnando innovazioni audaci tanto sul piano linguistico quanto su quello concettuale. È lui infatti nel Contro Prassea che, difendendo contro i simplices e gli imprudentes la concezione «economica» della Trinità, ha insistito sulla pluralità delle persone divine, introdu-

cendo nella teologia quei termini di trinitas e di persona che tanta fortuna avrebbero avuto in seguito. Ma è soprattutto il problema morale a stare a cuore a Tertulliano. Non soltanto i teologi monarchiani, ma anche i vescovi romani, e più in genere i fedeli cristiani, gli apparivano troppo inclini a compromessi col mondo. Il

livello della vita morale era ormai ben diverso da quello dei tempi

apostolici. E il radicalismo etico di Tertulliano non poteva accettarlo. E per questo con ogni probabilità che nell'ultima parte del la sua vita egli aderisce al movimento montanista, del quale accoglie soprattutto il profondo rigore morale e fornisce quindi una interpretazione essenzialmente

etica, e si scaglia violentemente

contro la chiesa cattolica su tutta una serie di problemi morali: la liceità del servizio militare, la possibilità di fuggire nella persecuzione, la liceità delle seconde nozze, e così via??. Una interpretazione rigoristica del cristianesimo che, come subito vedremo par-

lando di Clemente e di Origene, agli inizi del III secolo pochi ormai erano ancora disposti a seguire. 3. I teologi alessandrini Ho accennato sopra a una «teologia dotta». E in effetti, pur con molti limiti, Ippolito e Tertulliano possono essere visti come coloro che hanno fatto il primo grande sforzo organico per dotare il pensiero cristiano di quegli strumenti linguistici e concet25 Negli scritti de corona, de fuga in persecutione, de exhortatione castitatis e de mo-

nogamia.

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Cristianesimo

tuali che già la precedente apologetica aveva cominciato a utilizzare e che erano indispensabili per poter competere con la cultura ellenistica e farsi dunque accettare dai ceti sociali più elevati. Ma lo sforzo più serio in questa direzione è stato quello della cosiddetta «scuola di Alessandria». In realtà non si tratta di una vera scuola ecclesiastica. Di quello che passa per il suo fondatore, Panteno,

non

sappiamo

assolutamente

nulla. E anche

l’ate-

niese Clemente non ha fondato ad Alessandria alcuna scuola pubblica. Solo Origene vi ha istituito un vero e proprio didaskaleion, cioè una scuola superiore distinta da quella per i catecumeni. Clemente e Origene rappresentano però il più serio ten-

tativo di aprire la tradizione cristiana a un reale dialogo con la

cultura ellenistica. Per Clemente parlano chiaro già i titoli e quello che appare come il progetto delle sue opere: un Protrettico, cioè una esortazione alla vita virtuosa nello stile della tradizione aristotelica; un Pedagogo, cioè un insegnamento elementare dei principi morali secondo

la filosofia; e degli Stromati (vappezze-

rie), cioè un insieme di riflessioni teologiche per il passaggio all'insegnamento superiore di quello che dovrebbe essere non il

semplice fedele, bensì lo «gnostico»

cristiano. Ma anche il con-

tenuto di queste opere rivela un così grande sforzo di conciliare pensiero cristiano e filosofia greca (stoica in particolare) attraverso l’uso sistematico della interpretazione allegorica della Scrit-

tura (ripresa da Filone Alessandrino) che si è potuto parlare per

Clemente di stoicismo cristiano e con qualche severità porsi addirittura il problema se si è con luì di fronte a una cristianizzazione dell’ellenismo o a una ellenizzazione del cristianesimo?*. Quella stessa ellenizzazione (e mondanizzazione) del cristianesimo che, certo in termini diversi, ma sempre per conquistare alla nuova fede i ceti sociali più elevati, si manifesta nel tentativo di Clemente di attenuare la radicalità della morale cristiana, in-

terpretando (nel Quis dives salvetur) la condanna evangelica della ricchezza in termini puramente spirituali. Ben altra tempra di pensatore è stato quello che è certamente il più grande teologo di questa età precostantiniana e uno dei più grandi teologi di tutti i tempi: Origene, il vero fondatore di questa scuola di Alessandria, cui dedicò gran parte delle sue energie intellettuali, entrando anche in conflitto col vescovo Dionigi

25 Sul problema si può vedere il capitolo dedicato a Clemente nel famoso li-

bro di M. Pohlenz, ‘ie Stoa, Gòttingen

290-308).

1948

[trad. it. La Staa, vol. II, 1967, pp.

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Dalle origini al concilio di Nicea

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e venendo costretto infine ad allontanarsi da Alessandria per recarsi a Cesarea in Palestina. Ma per lui bisogna liberarsi anzitutto dal cliché storiografico che ne fa un platonico, autore, nel De principiis, del primo trattato di filosofia cristiana. In realtà Origene è soprattutto un interprete della Bibbia formatosi e alimentatosi in maniera assolutamente prevalente sul testo sacro. É suo il primo tentativo di studio filologico della Scrittura: quella collazione di versioni ebraica e greche dell’Antico Testamento che va sotto il nome di Esay/e, il cui intento era di verificare la validità della traduzione greca dei Settanta che costituiva per i cristiani la versione ufficiale dell'Antico Testamento. Ma soprattutto Origene ha svolto un lavoro immane di predicatore e commentatore della Scrittura. Le sue Omeliee i suoi Commentari, purtroppo giuntici solo in piccola parte, rappresentano il primo grande tentativo di offrire una spiegazione organica della Bibbia sia al livello più elementare dei semplici fedeli sia a quello più elevato dei perfetti cristiani. In questa spiegazione Origene ha infatti sistemato i criteri interpretativi che gli scrittori prima di lui avevano applicato disorganicamente, stabilendo (nel IV libro del De principiis) un metodo che resterà classico per tutto il Medioevo: la distinzione nella Scrittura di due (0, articolando ulteriormente questi,

anche tre o quattro) significati diversi: letterale e spirituale (0 letterale, morale e spirituale, o letterale, cristologico, ecclesiologi-

co e morale). Con

un uso larghissimo del metodo allegorico, che

non evita naturalmente qualche eccesso che gli verrà infatti rimproverato aspramente in seguito dai suoi avversari — proprio a lui

che da giovane aveva deciso di evirarsi, interpretando alla lettera il comando evangelico —, ha liberato la Scrittura sia vetero- che

neotestamentaria dalle angustie del letteralismo (oggi diremmo fondamentalismo)

giudaico e marcionita, dando di essa una let-

tura eminentemente «spirituale» (si pensi per esempio al netto rifiuto del millenarismo, quei mille anni di regno di Cristo sulla

terra che i teologi dell’Asia Minore, Papia, Giustino, Ireneo, ave-

vano sempre difeso sulla base di una interpretazione letterale di

Apoc. 20,1-6). In tal modo

la Bibbia è diventata veramente, nelle

sue mani, il grande poema cristologico e morale che avrebbe alimentato la spiritualità cristiana dei secoli successivi. Questa natura essenzialmente mistica, che lo imparenta con l’autore del quarto vangelo e gli fa cercare nella Bibbia, al di là del tenore letterale, il significato profondo del testo, è la stessa

che ha spinto Origene a interpretare tutta la creazione in senso spirituale. E qui che il platonismo gli ha offerto indubbiamente

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Cristianesimo

gli strumenti più adatti per la sua interpretazione. Tutta la realtà materiale gli è apparsa come una immensa figura simbolica, che rinvia perennemente a una realtà superiore. Che in questo tentativo audace Origene sia caduto a volte in affermazioni che la teologia successiva avrebbe ritenuto inaccettabili (la preesistenza delle anime, per esempio, o l'apocatastasi universale, e quindi la

non eternità delle pene dell’inferno) è — tenuto conto del carat-

tere ancora embrionale della teologia del suo tempo —- semplicemente naturale. Resta il fatto che il pensiero di Origene rappresenta il tentativo più grandioso, prima di Agostino, di offrire una spiegazione organica tanto della Bibbia quanto della creazione. Ma il pensiero di Origene segna un notevole progresso anche per quanto riguarda la teologia trinitaria. Egli infatti non soltanto ha affermato con grande vigore la concezione «economica», e dunque la distinzione, delle tre persone divine, usando per esse non il termine fròsopon, bensì il termine Aypòstasis, che avrebbe avuto in Oriente la più grande fortuna, ma soprattutto ha svincolato decisamente la generazione del Verbo dal momento della creazione cui l'aveva legata la riflessione degli apologisti, mantenendone certo la subordinazione al Padre ma affermandone anche chiaramente l'eternità. Con la sua enorme cultura e la sua grande sensibilità Origene era anche lo scrittore più adatto a offrire una confutazione sistematica delle accuse che i pagani continuavano a muovere ai cristiani e che avevano trovato una prima esposizione compiuta nella

Vera dottrina di Celso. Sollecitato da un amico, egli scrisse

infatti nel 248 quel Contra Celsum che, oltre ad avere per noi l’inestimabile merito di averci conservato (probabilmente quasi per intero) l’opera di Celso contro i cristiani, è anche il primo grande tentativo di confutare una per una quelle accuse dei pagani,

offrendo allo stesso tempo una presentazione organica della fe-

de cristiana che non rinuncia in nulla alla «diversità» della nuova religione. 9. LE PERSECUZIONI DI DECIO E VALERIANO

L'adattamento progressivo dei cristiani al mondo, cui scrittori come Ireneo e Clemente cercavano di dare un fondamento teologico e che costituiva invece il cruccio di Ippolito, Tertulliano e Origene, non riusciva infatti ad attenuare le critiche dei pagani. Le preoccupazioni di questi ultimi nei loro confronti erano an-

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zi col tempo cresciute. Certo, a metà del III secolo il cristianesimo non appariva più come una superstitio externa e barbara, priva oltretutto di radici e di tradizione, come agli inizi del II secolo. Lo sforzo degli apologisti e degli Alessandrini l'aveva portato a un livello culturale degno di competere col pensiero ellenistico. E dall’epoca dei Severi, con la presa di distanza dei vescovi più eminenti rispetto agli eccessi dell’apocalittica e del montanismo, anche le spinte più eversive erano ormai ridotte ai margini della organizzazione ecclesiastica. E tuttavia c'erano almeno due aspetti del cristianesimo che continuavano a suscitare, e anzi facevano crescere, le diffidenze dei pagani nei suoi confronti. Da un lato, anche, e forse soprattutto, nella sua versione più colta

(quella di Ippolito, Tertulliano e Origene), il cristianesimo conservava una consapevolezza della propria diversità e un distacco quindi dalla vita cittadina che lo facevano apparire ancora come un corpo estraneo nella organizzazione dell'impero. Il tertium ge nus (come venivano definiti i cristiani rispetto ai Romani e ai Gre-

ci da un lato, ai barbari e ai Giudei dall’altro) aveva una sua for-

te coscienza di essere «popolo» e un suo sistema di vita e di credenze che ne facevano un’alternativa reale alla società greco-romana e gli davano quindi una innegabile valenza politica. Una valenza politica tanto più preoccupante in quanto i cristiani non erano invece propriamente un popolo, una nazione, con cui i rapporti potessero essere in qualche modo tenuti, e definiti, dal potere politico (come per esempio i Giudei), ma si diffondeva-

no tra tutte le naliones e in tutti gli strati sociali della popolazio-

ne imperiale. E come se non bastasse, questo popolo dei cristiani aveva ormai una sua ben definita, e potente, organizzazione. Il processo di cattolicizzazione, che abbiamo visto già ampia mente sviluppato in Ireneo di Lione, era infatti continuato. Esisteva ormai una istituzione ecclesiastica fornita di un dogma (le

confessioni di fede che nella lotta contro gli avversari interni ed

esterni si erano sempre più sviluppate), di un culto (i sacramenti, dove al battesimo e all’eucaristia si erano aggiunti la peniteriza, l'ordine sacro, e via via tutti gli altri) e di una gerarchia (un

clero articolato in vescovi, presbiteri e diaconi, che si contrapponeva ormai chiaramente ai laici). E questa istituzione ecclesiastica appariva ricca e potente. Da un lato infatti i lasciti dei fe-

deli (Tertulliano ricorda per esempio come Marcione abbia lasciato alla chiesa l'enorme somma di 200.000 sesterzi) e l’attività

«imprenditoriale» di alcuni suoi membri (Ippolito racconta quel-

la di «banchiere» svolta dal futuro vescovo di Roma Callisto) ave-

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Cristianesimo

vano fornito molte comunità di notevoli risorse economiche, sic-

ché la proprietà ecclesiastica cominciava a far gola alle dissestate casse imperiali. Dall'altro lato le chiese delle diverse città, una

volta unite soltanto dalla fede e dalla carità, apparivano ormai legate tra loro da forti vincoli organizzativi, sotto la guida crescente dei vescovi, e in particolare del vescovo di Roma. E così che, fallito il tentativo dei Severi di assorbire anche il

cristianesimo nel generale sincretismo dell’epoca, a metà del III

secolo scoppia un'altra volta, e assume anzi proporzioni e forme del tutto nuove, la persecuzione. E anche questa volta in nome della tradizione, in nome

cioè dei valori romani

più autentici,

che vengono attaccati i cristiani. Il famoso editto di Decio del 250 sì inserisce infatti in un tentativo generale di restaurazione reli-

giosa che la scoperta di una iscrizione con l’attribuzione a Decio

del titolo di restitutor sacrorum?? ha reso ancora più evidente. Esso stabilisce che tutti i cittadini romani debbano offrire un sacrificio agli dèi come segno manifesto di lealtà politica. Coloro che sacrificano ricevono un certificato, un libellus, che attesta la loro fedeltà alla religione imperiale, coloro che rifiutano sono

invece condannati. É la prima persecuzione generale (per editto) dei cristiani. Anche se il provvedimento imperiale non riguarda soltanto loro, ma

tutti i cittadini romani, è evidente in-

fatti che è proprio contro di loro che è diretta anzitutto l’iniziativa di Decio (Sordi, 1984, pp. 110 sgg.). Questa persecuzione ha effetti devastanti nella vita della chiesa. Essa mostra che avevano ragione Ippolito, Tertulliano e Origene a lamentare il decadimento morale dei cristiani. In tutte le re-

gioni sono infatti moltissimi i fedeli che o sacrificano senz'altro

agli dei o almeno si procurano l'attestato di aver sacrificato. E questo pone la chiesa di fronte a tutta una serie di problemi morali e disciplinari (la riammissione dei «caduti» nella comunità con una congrua penitenza, e in particolare il ruolo da assegnare in questa riammissione ai cosiddetti confessores, cioè a quelli che avevano resistito alle torture). La persecuzione però dura poco e, nonostante il gran numero dei casi di apostasia, non sortisce grande effetto. Le difficoltà organizzative e le preoccupazioni politiche impediscono infatti una esecuzione rigorosa del provvedimento di Decio. E la morte dell’imperatore sul campo di battaglia pone fine al-

la persecuzione. Ma pochi anni più tardi (nel 257 e nel 258), con

Valeriano, essa scoppia nuovamente, e con caratteri diversi. Og27 Cfr. «Année épigraphique» 1973, n. 235.

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getto della persecuzione, nata in un quadro di sconvolgimenti terribili per la vita dell’impero, sono infatti questa volta in primo luogo i membri della gerarchia ecclesiastica e sanzione principale è la confisca dei beni delle chiese. La lotta è rivolta dunque per la prima volta in maniera esplicita non contro i singoli fedeli ma contro l’ organizzazione ecclesiastica. È possibile che giochino in questa iniziativa di Valeriano anche motivi strettamente economici, in un impero finanziariamente esausto. Ma certo il tentativo è di togliere le basi alla istituzione ecclesiastica, per ridurne finalmente i membri alla ragione. Anche questa persecuzione, nella quale perde la vita tra gli altri il vescovo Cipriano, ha però breve durata. La morte di Vale-

riano nelle mani del nemico ne segna infatti la fine, sanzionata ufficialmente da un editto di Gallieno del 260 che autorizza le chiese cristiane a rientrare in possesso dei loro beni. Il cristianesimo godrà adesso di quarant'anni di pace, che gli consentiranno di affrontare tutti i principali problemi emersi nell’ultimo periodo, ce in modo particolare quelli scaturiti dalle recenti persecuzioni (Sordi, 1984, pp. 117 sgg.). 10. PROBLEMI DISCIPLINARI E TEOLOGICI

Il primo problema era sorto già con la persecuzione di Decio ed è quello costituito dalla posizione di coloro che erano caduti (i lapsi) durante la persecuzione. Era il loro peccato da considerarsi irremissibile 0, con un congruo periodo di penitenza, potevano essere riammessi nella comunità? E il potere di riammetterli spettava soltanto al vescovo o poteva essere esteso in qualche modo ai confessores? A Cartagine la questione mise contro il vescovo Cipriano, favorevole a riammettere i lapsi dopo una opportuna penitenza (come esporrà dopo la persecuzione nell’opera De lapsis), e il presbitero Novato, mentre a Roma al vescovo Cornelio si oppose il confessore Novaziano, che in un primo momento aveva appoggiato Cipriano, ma era poi rimasto deluso dal non aver ottenuto l’episcopato. Il conflitto teologico era dunque anche un contrasto tra vescovi e presbiteri, vescovi e confessori. Ma pochi anni più tardi un conflitto teologico divise gli stessi due vescovi di Cartagine e di Roma, su una questione di non poca rilevanza. Cipriano infatti sosteneva che i seguaci di Novato e Novaziano che erano stati da loro battezzati, se volevano essere riammessi nella comunità, dovevano essere sottoposti a un nuovo battesi-

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Cristianesimo

mo, perché il primo, somministrato da scismatici, non poteva ritenersi valido. Il successore di Cornelio, Stefano, riteneva invece

che fosse sufficiente una semplice penitenza. La questione mise ben presto in luce una divergenza altrettanto rilevante nel mo-

do stesso di intendere l’autorità nella chiesa. Cipriano infatti ave-

va una concezione della chiesa nella quale i vescovi delle singole comunità avessero piena autonomia, e questa concezione aveva difeso nel De catholicae ecclesiae unitate, mentre a Roma Cornelio prima e Stefano poi affermavano con sempre maggiore decisione il primato romano su tutte le chiese. Anche la dottrina trinitaria e l’esegesi della Scrittura continuarono a fare progressi o almeno ad arricchirsi di nuove posizioni. A Roma infatti quello stesso Novaziano che doveva polemizzare con Cornelio sul tema dei /apsi, mettendo la sua non comune preparazione teologica a servizio della tesi della inammissibilità della penitenza per gli apostati, scrisse un trattato De Trinitate in cui con maggior rigore di termini e di concetti portava avanti la riflessione di Tertulliano sulla distinzione di tre persone nella divinità. Mentre ad Antiochia le posizioni francamente adozioniste del vescovo Paolo di Samosata costrinsero addirittura le chiese di Siria a tenere dei sinodi per riaffermare la divinità del Figlio e la sua distinzione dal Padre, anche se proprio il termine homooùsios, che sarebbe stato canonizzato a Nicea, venne evitato, per il significato

ambiguo che attribuiva ad esso il vescovo.

E proprio ad Antiochia, che con Roma e Alessandria era uno

dei principali centri teologici dell’epoca, l’esegesi della Scrittura conobbe nuovi sviluppi, complementari anche se non antitetici a quelli alessandrini. Come quella di Alessandria, anche questa «scuola»

di Antiochia

ha

origini

oscure,

anche

se le testimo-

nianze patristiche sono concordi nell'attribuirne la fondazione al presbitero Luciano. Il metodo esegetico che vi si affermò, in polemica aperta con quello seguito da Origene e dai suoi seguaci ad Alessandria, consiste comunque in una più rigorosa fedeltà alla norma della Scrittura (che rende il ricorso alla filosofia del tut-

to eccezionale) e in una maggiore adesione alla lettera del testo (che rende l’uso della tipologia molto meno frequente). 11. GLI ULTIMI ATTACCHI ALLA RELIGIONE CRISTIANA

La chiesa dunque continuava a crescere e a svilupparsi. Ma gli attacchi alla nuova religione non erano finiti. Anzi proprio i duc

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più gravi, sul piano culturale e su quello politico, dovevano ancora aver luogo. Sul piano culturale una critica precisa e virulenta, che avrebbe lasciato un segno ancora più profondo di quella di Celso e sarebbe anzi rimasta insuperata fino all’epoca moderna, venne intorno al 270 dal filosofo neoplatonico e discepolo di Plotino Porfirio. Purtroppo dei suoi quindici libri Contro i cristiani, fatti distruggere già all’epoca di Costantino, possediamo soltanto frammenti, ricostruiti prevalentemente dalla confutazione che ne fece agli inizi del V secolo Macario di Magnesia. Essi sono comunque sufficienti a darci un’idea dell'ampiezza e della profondità della critica di Porfirio. Una critica che investe tutti gli aspetti principali della religione cristiana: l'assurdità filosofica della sua idea di Dio, la mancanza

di dignità della figura di Gesù, la ba-

nalità delle persone di Pietro e Paolo, il carattere ripugnante della eucaristia. Molte delle osservazioni di Porfirio erano state già

fatte da Celso, ma il filosofo neoplatonico riusciva a portarle an-

cora più in profondità. Una comunque, per quanto anch'essa già avanzata da Celso, doveva lasciare particolarmente il segno; ed è

quella relativa alle contraddizioni e più in genere alla inattendi-

bilità della Scrittura. Le critiche di Porfirio alle profezie dell’Antico Testamento

(che, nel caso del libro di Daniele, non aveva dif-

ficoltà per esempio a dimostrare come fossero profezie ex eventu) o ai racconti evangelici della vita di Gesù (di cui mostrava come, non provenendo da testimoni oculari, fossero spesso del tut-

to inattendibili) crearono infatti grosse difficoltà ai cristiani, che da Metodio di Olimpo a Eusebio di Cesarea ad Apollinare di Laodicea non mancarono questa volta di respingerle in tutti i modi, tra l’altro riprendendo dalla tradizione greca e sviluppando in maniera nuova un genere letterario apposito: le Quaestiones ei responsiones sull'Antico e il Nuovo Testamento. Sul piano politico ci fu invece la persecuzione di Diocleziano, quella che resterà anche in seguito come la «grande persecuzione». Il fondatore della tetrarchia, nel suo sforzo di restaurare le ba-

si tradizionali dell'impero romano, non poteva non scontrarsi ancora una volta con la religione cristiana. E trovò nel suo Cesare Galerio l’ispiratore fanatico che lo convinse ad abbandonare la linea di sostanziale moderazione che aveva caratterizzato i primi anni del suo governo. Diocleziano riprese in effetti il programma di Decio e Valeriano, ma in maniera assai più capillare e con molta maggiore determinazione. Dopo aver proceduto ad epurare l’esercito

dai soldati cristiani, con quattro editti successivi, tra il 303 e il 304,

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Cristianesimo

prima infatti ordinò la distruzione delle chiese cristiane e la consegna dei libri sacri, poi si accanì in particolare contro la gerarchia ecclesiastica, pretendendo che sacrificasse agli dei, e infine richiese un sacrificio generale a tutti i cristiani. La persecuzione ebbe svolgimento diverso nelle regioni orientali e in quelle occidentali, molto più grave nelle prime che non nelle seconde. E i suoi effetti furono altrettanto devastanti di quella di Decio. Ma ancora una volta il potere politico dovette rendersi conto che era ormai impossibile estirpare la religione cristiana e anche soltanto ridurla alla ragione. Nel 311, anticipando le decisioni che saranno assunte da Licinio e Costantino in quello che si è convenuto di chiamare l’editto di Milano, l’im-

peratore Galerio decretò la fine della persecuzione, riconoscendo ai cristiani libertà di culto e di riunione (Sordi, 1984, pp. 131

sgg.). La vittoria del cristianesimo era ormai compiuta e diventava anzi subito oggetto della esaltazione cristiana. Già pochi anni dopo

la fine della repressione

(318 ca.) l’africano Lattanzio

pubblicava infatti il famoso De mortibus persecutorum, quel violentissimo pamphlet che avrebbe portato alle estreme conseguenze l’identificazione degli imperatori persecutori con i malvagi sostenuta per la prima volta dal vescovo Melitone, mentre più o meno negli stessi anni Eusebio di Cesarea provvedeva a completare l’ancor più nota Historia Ecclesiastica, che avrebbe dato vita a un nuovo, importantissimo genere letterario: la storia della chiesa intesa come storia della salvezza. 12. COSTANTINO

E IL CONCILIO DI NICEA

Poi sul trono imperiale salì Costantino e questa vittoria divenne definitiva. E impossibile in questa sede riprendere tutta l'enorme discussione storiografica sulla figura di Costantino: la sincerità e i motivi di quella «conversione» che è raccontata appunto da Lattanzio ed Eusebio, il carattere più o meno rivoluzionario di quel-

la «svolta» che gli storici hanno considerato giustamente epocale. Qui basti ricordare soltanto due elementi, di particolare rilevanza storica. Anzitutto, qualunque sia stata la sua parte nel proclamare insieme con Licinio la fine della persecuzione, e qualunque sia il significato più preciso da attribuire al cosiddetto editto di Milano, è con Costantino che comincia non già la semplice tolleranza, ma il favore nei confronti del cristianesimo. Sia pure con alcuni tentennamenti, dovuti anche alla necessità di non alienarsi del tutto

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il mondo pagano, già nel periodo della lotta contro Licinio, dal

313 al 324, Costantino ha intrapreso infatti una politica che mira-

va a favorire la religione cristiana sia con iniziative e interventi di-

retti in suo favore sia mediante l’ispirazione cristiana di molta nuova legislazione. E questa politica ha ulteriormente accentuato dopo la vittoria definitiva su Licinio. Egli infatti edificò nuove chiese, fece donazioni in loro favore, esentò i chierici dai munera pubhlici, istituì un foro ecclesiastico con effetti giuridici, adottò sim-

boli religiosi bene accetti alla religione cristiana, riconobbe alle

chiese il diritto di ricevere per testamento, introdusse il riposo fe-

stivo della domenica, vietò del tutto l’aruspicina privata. In secondo luogo è con Costantino che si realizza quel rapporto nuovo tra stato e chiesa, che riceverà naturalmente molti sviluppi ulteriori in seguito e sarà sancito in particolare da Teodosio I nell'editto di Tessalonica del 380, nel quale al favore aperto dell'impero nei confronti del cristianesimo (motivato principalmente dalla convin-

zione che il cristianesimo sia un potente fattore di ordine) corri-

sponde la sua pretesa di intervenire anche in materia religiosa ogni qual volta ciò appaia suggerito dal pubblico interesse: la cosiddetta «età costantiniana», che trova forse la sua migliore espressione in quella particolare prerogativa che Costantino si arroga di essere il «vescovo di quelli di fuori», o «per gli affari esterni» (l’ep?-

skopos ton ektòs), cioè una sorta di supremo tutore degli interessi

materiali e spirituali dei sudditi in tutte le questioni che non rientrino nella stretta competenza della gerarchia ecclesiastica. Un esempio evidente di questo nuovo rapporto è offerto già dalla cosiddetta questione donatista. A Cartagine, dopo la persecuzione di Diocleziano, era scoppiato uno dei soliti contrasti tra confessori più o meno rigoristi e clero più o meno lassista. Al nuovo vescovo Ceciliano, accusato di essere stato consacrato da

un «traditore», cioè da un vescovo che aveva consegnato i libri

sacri ai funzionari statali, era stato contrapposto dai vescovi della Numidia,

unitisi agli avversari di Ceciliano, un altro vescovo,

Maiorino, determinando un vero e proprio scisma. E la questione si era ulteriormente complicata perché ai problemi teologici e disciplinari (la posizione ecclesiastica dei traditores, ma anche la validità del battesimo somministrato dagli apostati) si erano aggiunte questioni sociali e politiche. Donato in particolare, che doveva diventare il vero capo del partito rigorista, raccolse molti consensi tra l'elemento rurale indigeno della popolazione, fortemente ostile a quello «borghese» romano. Fu a questo punto che gli stessi donatisti chiesero all'imperatore di intervenire per

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Cristianesimo

ristabilire la pace con la sua autorità. E Costantino intervenne,

preoccupato delle conseguenze politiche che il contrasto poteva avere. E prima affidò la questione all’autorità del vescovo di Roma Milziade, poi la rimise a un concilio da lui stesso convocato

ad Arles (nel 314); e infine decise di risolverla egli stesso con la forza, senza peraltro riuscirvi.

Ma un altro esempio di questo nuovo rapporto è offerto dal famoso concilio di Nicea, tenutosi nel 325. Questo concilio fu convocato principalmente per risolvere il grave problema dottrinale costituito dalla concezione che in materia trinitaria era venuto sostenendo il prete alessandrino Ario. Questi infatti, radicalizzando la posizione subordinazionista che era stata dell’apologetica, e in parte anche di Origene, affermava che, essendo Dio necessariamente ingenerato, perché immutabile, il Figlio non può essere Dio, e non può non ritenersi creato. E faceva appello per questo all’Antico Testamento (in modo particolare al passo di Prov. 8,22,

dove la Sapienza afferma: «Il Signore mi ha creato all’inizio del suo operare»). Ampiamente diviso al suo interno (dove vari vescovi appoggiavano Ario), e non in grado comunque di esprimere una riflessione teologica più matura, il concilio rispose affermando in-

vece la «consustanzialità» del Figlio col Padre

(homooùsios, della

stessa sostanza del Padre). Una formula ancora insufficiente, perché si preoccupava di ribadire soltanto la divinità del Figlio, e non anche la distinzione delle persone, e che solo con i Padri cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa) sarebbe stata completata e precisata; ma che comunque rappresentò la base per tutte le riflessioni teologiche successive sul tema della Trinità. Ma il concilio di Nicea è molto importante nella storia del cristianesimo anche per altre due ragioni. Anzitutto perché fu il primo concilio ecumenico (cioè universale) nella storia della chiesa, l'introduzione dunque di quella forma di governo ecclesiale fondata sulla collegialità episcopale che resterà prevalente fino all’epoca moderna e contemporanea, accanto a quella fondata sul primato papale e in costante dialettica con essa. E poi perché, convocato e aperto dallo stesso Costantino, la cui presenza continuò a farsi sentire per tutti i lavori del concilio, e conclusosi con una soluzione della controversia ariana che lasciava aperti moltissimi problemi, esso segnò l’inizio di una serie di conflitti nei

quali l’aspetto religioso sarebbe divenuto materia e strumento di

lotte politiche, abbandonando il principio della separazione di religione e politica, chiesa e stato, che pure era stato tra gli effetti più importanti della rivoluzione cristiana.

G. fossa

Dalle origini al concilio di Nicea

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Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno di Salvatore Pricoco

I. IA CHIESA IMPERIALE: DA NICEA A CALCEDONIA

1. Il volto nuovo del cristianesimo I 125 anni che intercorrono tra il concilio di Nicea (325) e quello di Calcedonia (451) costituirono per la chiesa cristiana un periodo di radicale, assoluta novità, destinato a segnarne la storia

durevolmente e, per molti aspetti, ancora fino ai nostri giorni. Vi si definì, infatti, un nuovo rapporto della chiesa con lo stato; si accelerò ed estese il processo di diffusione del cristianesimo, anche fuori dei confini dell'impero romano;

si crearono strutture

ed elaborarono ordinamenti che avrebbero retto per secoli la vi-

ta delle chiese e permeato di sé la società; si arricchì e precisò il

pensiero cristiano attraverso le vicende tormentose e anche drammatiche delle controversie dottrinali e di una lunga stagione di concili; ebbe il suo periodo d’oro, per l'apporto di un numero straordinario di intellettuali geniali, da Eusebio di Cesarea

ad Agostino di Ippona, la cultura cristiana. Tutta la società passò per una radicale ristrutturazione poiché si modificò la base stessa del vivere sociale: venne ripensato il rapporto tra l’uomo e la divinità, tra il terreno e l'aldilà, tra l'osservanza religiosa e il servizio prestato allo stato. L'antico rapporto andò progressivamente rovesciandosi e il regno di Dio reclamò in modo sempre più perentorio il suo primato. La persecuzione di Diocleziano non solo aveva causato vittiie, spoliazioni ed eccidi, ma aveva anche

lasciato tensioni nel

popolo cristiano, aveva rinfocolato o generato divisioni e con-

56

Cristianesimo

trasti. Come era avvenuto dopo la persecuzione di Decio e Valeriano, il problema dei lapsi, cioè dei molti che abiurando apertamente o con vari stratagemmi sì erano sottratti ai magistrati persecutori, contrapponeva gli intransigenti a coloro che intendevano seguire la via dell’indulgenza; i donatisti in Africa e i meleziani (dal vescovo di Licopoli, Melezio) in Egitto spingevano l'opposizione sino a proporsi come delle vere e proprie chiese separate; posizioni di rifiuto e di critica apparivano contraddistinguere quei gruppi di cristiani che avevano scelto di abbandonare il secolo e vivere in solitudine: i monaci, che si avviavano

a occupare un posto di crescente, formidabile importanza nella società dei secoli futuri. Sia il donatismo che la disputa trinitaria,

sorta nella chiesa alessandrina ancora divisa dai contrasti dei meleziani, avrebbero acquistato rapidamente le proporzioni e i lineamenti di mobilitazioni di massa, pericolose per la pace dell’Impero e l'unità della chiesa. Perciò si verificò, collegato ad essi, anche un altro evento memorabile e gravido di conseguenze secolari, cioè l'intervento del potere imperiale nelle vicende, anche dottrinali, della chiesa.

Nato a Cartagine, all'indomani della persecuzione, come gruppo di opposizione ai vescovi colpevoli di tradilio, cioè di avere consegnato i libri sacri all'autorità secolare, il donatismo (da Do-

nato, vescovo di Cartagine, che ne divenne il rappresentante di

maggior rango), si diffuse rapidamente in Africa, specialmente nella Numidia e nella Mauretania, presentandosi sempre più decisamente come una chiesa scismatica, la «vera chiesa, la chiesa

dei puri, dei martiri, dei santi»! I seguaci sfidarono lo stato e la

gerarchia cattolica apertamente, non si sottrassero alla repressione ed esaltarono il martirio, talvolta lo cercarono con fanatismo. Furono gli stessi donatisti a sottoporre la vertenza all’arbitrato dell’imperatore, chiedendo di accedere ai benefici che Co-

stantino aveva accordato alla chiesa cattolica. Condannati da un sinodo romano, convocato da papa Milziade nell’ottobre del 313,

e da un secondo concilio, riunito ad Arles da Costantino nell’ago-

sto del 314, i donatisti resistettero alla repressione ordinata dall’imperatore e alle misure da lui decise non senza esitazioni e pentimenti. Queste furono abrogate alcuni anni dopo, nel 321, e la situazione di tolleranza ufficiale permase a lungo. La perse! Documenti e vicende del donatismo sono ricostruibili grazie agli scrittori cattolici, specialmente Agostino e Ottato di Milevi, e puntualmente analizzati da P. Monceaux, 1912-1922.

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

57

cuzione riprese nel 347 per volontà di Costante, che chiuse le chiese donatiste, proibì il culto ed esiliò il clero. Lo scisma sembrò composto e le due chiese, la donatista e la cattolica, furono

formalmente riunite. Di fatto la resistenza degli scismatici non

cessò. Da allora, anzi, venne accentuando i caratteri di rivolta sociale e antiromana che era andata assumendo negli ultimi anni,

sino a configurarsi (secondo taluni studiosi) come un vero e proprio «movimento nazionale». Spesso, anzi, essa diede luogo a episodi di violenza contro i ricchi e il clero alleandosi ai «circumcellioni», i più poveri e diseredati della popolazione berbera, fanatici sbandati o addirittura dediti al brigantaggio. Il movimento donatista ebbe fine solo con l'occupazione vandala dell’Africa (nel 429), ora tollerato dall’autorità imperiale, ora avversato

con nuove disposizioni repressive, specialmente quando esso fiancheggiò rivolte antiromane, come quella di Fermo, nel 372, o di Gildone, sconfitto dalle truppe romane e messo a morte nel

398. Ripetuti e tenaci tentativi di avviare un colloquio tra le due

chiese furono compiuti da Agostino, dopo l’elezione a vescovo di Ippona nel 395. Dei numerosi sinodi riuniti per iniziativa sua e del suo grande amico Aurelio, vescovo di Cartagine, i donatisti

parteciparono solo alla grande conferenza di Cartagine del 411. Per la prima volta essi si misurarono in un confronto diretto con i cattolici, ma dalla conferenza, dominata dalla personalità prestigiosa di Agostino, uscirono chiaramente battuti anche sul piano delle dottrine. Messi ancora una volta fuori legge nel gennaio dell’anno successivo da un rescritto dell’imperatore Onorio, che

riconfermava l’antica condanna e ripristinava le precedenti mi-

sure, gli ultimi gruppi donatisti sopravvissero sino all'arrivo dei

Vandali.

Più ancora del donatismo, circoscritto sostanzialmente all’A-

frica e più legato a questioni morali e disciplinari che alimentato da una reale problematica teologica, il grande problema del IV secolo fu la controversia ariana, che coinvolse tutto il mondo roma-

no, fu questione di profonda sostanza speculativa, con una lontana matrice origeniana ed evidenti ambizioni intellettualistiche in molti dei suoi attori, ma appassionò ugualmente gli strati popolari, generò la prima grande frattura tra le chiese di Oriente e quelle di Occidente, si svolse con un intreccio di fatti politici e religio si che promossero l’intervento sempre più pressante del potere

politico e le conseguenti forme di assoggettamento della chiesa.

La controversia ebbe inizio in Egitto, ad Alessandria, in una data non precisabile, ma molto probabilmente non lontana dal

58

Cristianesimo

320. Un prete libico, di età avanzata e di grande influenza nella

chiesa alessandrina, Ario, muovendo dalle dottrine cristologiche

dei subordinazionisti, prese a elaborare nuove tesi sul rapporto tra il Padre e il Figlio, finendo col negare a Cristo divinità autentica e piena e riducendolo, quale figlio di Dio, a livello di creatura. Fondamento di quelle tesi era la fede nell’unicità e tra-

scendenza di Dio.e, dunque,

l'assoluta convinzione che Dio, es-

sere unico e indivisibile, principio ingenerato (aghènnetos arché) di tutta la realtà, non può condividere con altri la propria essenza (ousîa). Il Figlio non può perciò essere della stessa sostanza del Padre, parte consustanziale (mèros omootùsion) di Lui, ma può essere solo una sua creatura (ktìsma o pòiema), generata dal nulla. Una creatura superiore e anteriore a ogni altra, creata fuori del tempo, di assoluta perfezione, divina, ma che ha avuto un principio, è finita e distinta dal Padre e non comunica col Padre, Dio

infinito e ineffabile. Allargando il discorso al tema trinitario, Ario affermava di credere nella santa Trinità, ma ne concepiva le tre persone (‘rèis hypostàseis) distinte tra di loro e di natura diversa?. Invitato inutilmente dal suo vescovo, Alessandro, a ritrattare,

Ario venne condannato

e scomunicato assieme ai seguaci più

convinti da un concilio di 100 vescovi egiziani e libici, e fu: co-

stretto a lasciare la città. Rifugiatosi prima a Cesarea, poi a Nicomedia,

trovò consensi crescenti e sostenitori autorevoli,

tra i

quali lo stesso Eusebio, il grande storico; compose la sua opera di maggiore impegno, Théàleia (cioè «Banchetto»), uno scritto di carattere popolare, misto di prosa e versi, e si adoperò sempre più attivamente per la diffusione delle sue dottrine. La controversia si allargò. In breve vi furono coinvolte quasi tutte le chiese di Oriente. A questo punto, premuto da preoccupazioni politiche non disgiunte da convinzioni religiose, intervenne Costan-

tino, rimasto imperatore unico dopo avere sconfitto il collega e cognato Licinio. In una lettera riportata dagli antichi storici* l'imperatore rimprovera con indignazione i due contendenti, ? Le fonti sulla controversia ariana sono assai scarse per il periodo prece-

dente Nicea, scarse da Nicea al 340, più ricche per il periodo successivo. Fonti

principali sulle vicende della crisi e sul pensiero di Ario sono la Vîta Constantini di Eusebio, il Panarion di Epitanio, gli autori di storia ecclesiastica continuatori

di Euscbio, cioè Rufino, Socrate, Sozomeno e Teodoreto, i frammenti dell’ariano Filostorgio, gli scritti di Atanasio

(specialmente la Apologia contra Arianos).

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S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

59

Ario e il vescovo Alessandro, e li invita a ritrovare la concordia e ricomporre l’unità della chiesa. Qualche tempo dopo, poiché il contrasto non si spegneva, ma, al contrario, la situazione si face-

va sempre più complessa, convocò un sinodo a Nicea, nella Bitinia*, per discutere la divampante controversia e regolare le altre questioni ecclesiastiche, invitando a parteciparvi tutti i vescovi della cristianità e fornendo loro l'alto privilegio dell’evectio, cioè l’uso delle carrozze delle poste imperiali. Il primo concilio ecumenico nella storia della chiesa si svolse tra il maggio e il luglio del 325. Vi presero parte circa 300 vescovi, venuti in maggioranza dalle chiese d’Asia e d’Egitto; pochi furono i vescovi dell'Occidente latino, capeggiati dall’autorevole Ossio di Cordova, consulente religioso dell’imperatore; papa Silvestro si limitò a inviare due chierici romani con poteri plenipotenziari; i seguaci di Ario vi costituirono una minoranza intimidita. C'era anche un giovane diacono della chiesa di Alessandria, Atanasio, venuto a coadiuvare

il suo vescovo e presto distintosi

tra le grandi personalità del concilio. Di questo, Costantino assunse la presidenza e aprì i lavori con un discorso in latino. Il suo comportamento — oggetto di infinite discussioni tra gli storici — obbediva a uno scopo politico, quello di realizzare una base di accordo

la più ampia

possibile, in modo

da por fine alla

contesa e ristabilire la pace religiosa; perciò egli accolse, non sappiamo quanto profondamente consapevole dei suoi contenuti

teologici, il principio di una professione di fede che obbligasse

tutti i cristiani. Questa venne adottata dal concilio il 19 giugno e — modificata in taluni punti dal concilio di Costantinopoli del 381 —- divenne il fondamento dogmatico dell’ortodossia cristiana, il Credo recitato dai cattolici da ormai sedici secoli?. Non subito,

tuttavia. Per lungo tempo il Niceno non fu considerato, come appare oggi a chi si volga a guardare i secoli della storia cristiana, il cardine di un’epocale svolta politico-ecclesiastica, e soltanto i concili successivi, di Costantinopoli, di Efeso e di Calcedonia, ne

confermarono l’autorità e ne indicarono il ruolo fondante. La confessione nicena provvedeva in primo luogo a definire il Verbo, Gesù Cristo, figlio di Dio e Dio come

il Padre, da Lui

generato ma non fatto, consustanziale con Lui (homooùsios to pa4 Gli studi più recenti tendono a escludere che il concilio di Nicea sia stato

preceduto,

come

sostennero

E. Schwartz

e altri, da un

concilio

tiochia nel 324-325, sotto la presidenza di Ossio di Cordova. 3 Edizione critica in G.L. Dossetti, 1967.

tenuto ad An-

60

Cristianesimo

trì), e nominava - fuggevolmente — lo Spirito Santo; in secondo luogo rifiutava le dottrine di Ario, anatemizzate esplicitamente come le teorie che ritengono il Figlio di sostanza diversa, creato e mutevole, e dicono di Lui «c'era un tempo nel quale Egli non era». La condanna di Ario fu riconfermata, e furono scomunicati

i vescovi che non accettarono il credo niceno; da parte sua l’im-

peratore esiliò Ario e gli ariani intransigenti. L'incendio sembrava domato. Sembrava,

ma non era. In effetti, né la formula della consu-

stanzialità era stata concepita e redatta con la flessibilità necessaria per lasciare spazi di conciliazione con le opposte dottrine, né le divisioni e i contrasti tra le chiese e i loro capi erano stati realmente appianati e conclusi. I teologi orientali avvertivano nel termine ousîa (al pari che nel corrispettivo latino substantia) echi di concezioni materialistiche e residui stoici; ariani autorevoli come Eusebio di Nicomedia avevano accettato’ ufficialmente le decisioni conciliari, ma ben presto presero a manifestare dissensi; lo stesso Costantino venne avvicinandosi progressivamente alle idee ariane e sconfessando i difensori della confessione nicena, che egli lasciò deporre uno dopo l’altro (tra gli altri, nel 330 Eu-

stazio di Antiochia, nel 335 Marcello di Ancira e Atanasio, divenuto vescovo di Alessandria nel 328), mentre gli ariani e lo stes-

so Ario venivano richiamati dall'esilio e riabilitati. Dopo la morte di Costantino, la situazione si complicò e ag-

gravò. I rapporti difficili e talvolta apertamente ostili dei tre gio-

vani successori — Costantino Il, per pochi anni, sino al 340, Costante, che sarà ucciso nel 350, e Costanzo - si riflettono anche

nelle divisioni religiose. L'Occidente, con l'Egitto, resta pressoché compattamente niceno sotto Costante, fautore della confes-

sione nicena; l’Oriente, sotto Costanzo, filoariano, rifiuta la for-

mula dell’homooùsios, ma si divide, sempre più problematico e lacerato dal pullulare delle sette. In opposizione alla definizione di Nicea si propongono formule diverse, moderatamente ariane alcune, radicalmente altre; si susseguono con frequenza, in Oriente come in Occidente, sinodi grandi e piccoli, in Egitto, a Roma, ad Antiochia, a Milano, a Sirmio. Una proposta concilia-

tiva, che sembrò restringere le distanze e suscitare consensi cre-

scenti, definì il Figlio di sostanza simile (homoioùsios) al Padre: da

qui il partito degli «omeisti», capeggiato da Acacio, il successore di Eusebio sul seggio di Cesarea. Essa trovò l'appoggio dell’imperatore Costanzo, che ne impose la solenne proclamazione al

concilio di Costantinopoli del 360. Ma la crisi continuò ancora,

$. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

61

dopo la morte di Costanzo, nel 361, sotto Giuliano, Valentiniano

e Valente. I suoi intricati sviluppi possono forse essere rappresentati dall’agitata carriera di Atanasio, cinque volte esiliato e cinque volte restituito al seggio episcopale, da Costantino a Valente. Le chiese occidentali si scontrarono più volte, prima sotto Costanzo, poi sotto Valente, con la politica filoariana degli impera-

tori e videro i loro vescovi o piegati dalla volontà imperiale o esiliati: emerse allora l'opposizione di Ilario di Poitiers, Lucifero di

Cagliari, Dionigi di Milano, del papa Liberio e, da ultimo, del

grande Ambrogio di Milano. Il faticoso approdo a una formula ortodossa e la conclusione della crisi arrivarono sotto Teodosio, fautore convinto del Niceno.

Già con un editto promulgato a Tessalonica nel 380, poi con il se-

condo concilio ecumenico convocato a Costantinopoli, nel 38],

l'imperatore impose a tutti, riformulato con qualche correzione,

il credo niceno, nei confronti del quale erano andate scemando le

diffidenze, soprattutto ad opera dei grandi cappadoci, Basilio di

Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Anche per loro merito la ricerca teologica antiariana degli ultimi venti anni aveva raggiunto soluzioni più equilibrate estendendo il «consustanziale» a tutta la Trinità e definendo uguali nella divinità tutte e tre le persone, compreso lo Spirito Santo. La formula che si impose, e che restò nei secoli a sintetizzare le peripezie dogmatiche del grande scontro del IV secolo, definiva la Trinità come una ousìa e tre ipostasi, in latino una substantia, tres personae.

Erano così risolti l’accanito dibattito dottrinale e le drammatiche vicende religiose e politiche che ne erano seguite. Dopo Ni-

cea, anche se sacche ariane restavano in regioni come l’Illirico e

anche se l’arianesimo sarebbe stato per qualche secolo ancora la confessione delle popolazioni germaniche passate al cristianesimo, il tema principale della speculazione cristiana non fu più quello trinitario. Si imposero altre questioni e divamparono altre controversie. Scontri violenti tra le chiese, duri interventi del potere

politico, anatemi e proscrizioni furono provocati dalle questioni cristologiche. Esse avevano avuto grande posto sin dalle origini

nella riflessione cristiana, e ovviamente da sempre si erano intrec-

ciate con la problematica relativa all'unità di Dio e alla Trinità. Nel

V secolo i mille rivoli dottrinali e polemici si incanalarono in una grande controversia sul rapporto in Cristo delle due nature, la di-

vina e l’umana. Da un lato si temeva che la tesi delle due nature separasse in Cristo il divino dall’umano, portasse a una vera e propria dualità e compromettesse l’azione del Salvatore, il quale, se

62

Cristianesimo

fosse pienamente un uomo nel quale abita la divinità, non potrebbe redimerci dai peccati e rivivificarci. Dall'altro canto l’attribuzione a Cristo di una sola natura, la divina, e la riduzione della sua umanità ad apparenza o forma, senza natura o anima umana,

suonava come negazione della fede nel Dio che si è fatto uomo. Il contrasto diede luogo, ancora una volta, a tesi opposte e radicali, ma anche a numerose elaborazioni mediatrici, che cercavano di

sfumare la posizione monofisita (da mîa physis, «una sola natura» in Cristo) con varie formule, e vide schierati soprattutto teologi orientali (Apollinare di Laodicea, Teodoro di Mopsuestia, Nesto-

rio, Eutiche, Cirillo di Alessandria e molti altri). Per comporre il

contrasto l’imperatore Teodosio II indisse, senza successo, il concilio di Efeso nel 431, nel quale si scontrarono le due cristologie di Nestorio e Cirillo. Il suo successore, Marciano (450-457), convocò nel 451, anche su richiesta del papa Leone I, un nuovo concilio a

Calcedonia, sul Bosforo. Fu il quarto concilio ecumenico, presieduto dall’imperatore e dalla moglie e frequentato dal più alto nu-

mero di vescovi, circa 600, tutti orientali tranne tre legati del papa

e due vescovi africani. Il documento dogmatico del concilio riconfermò

solennemente

il simbolo

niceno-costantinopolitano,

condannò come eretiche le proposizioni monofisite e, muovendo dalla lettera dottrinale inviata da papa Leone, fissò un simbolo che

proclamava in Cristo «l’unione di due nature in un’unica persona

e in un'unica ipostasi»®. Condannato e sconfitto dall’intervento imperiale, il monofisismo non ebbe fine con Calcedonia, ma continuò ancora a lungo,

con nuove formule e nuove denominazioni, e in Oriente diede

luogo a numerose chiese scismatiche. Nell'Occidente, invece, la

controversia che mobilitò i pensatori cristiani fu quella sul libero arbitrio e la grazia e sulle questioni di antropologia e soteriologia che le si legavano. Ne furono protagonisti da una parte Pelagio, un monaco di origine britannica che sul finire del IV secolo si stabilì a Roma e vi acquistò grande ascendente per il suo rigore ascetico e l’opera sapiente di direttore spirituale, dall'altra Agostino, il grande vescovo di Ippona. Il pelagianesimo invitava l’uomo a impegnarsi nella ricerca continua della perfezione, nella lotta inces-

sante contro il peccato, credendo nella libertà che il Creatore gli

ha concesso e fidando ottimisticamente nella propria capacità di conseguire gli ideali morali del Vangelo e di raggiungere uno sta€ Le fonti sono raccolte nell'opera monumentale liorum Oecumenicorum, voll. I-II, Berlin 1922-1938.

di E. Schwartz, Acta Conci-

$. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

63

to di impeccantia. L’esaltazione del «perfezionismo» e la rivalutazione della responsabilità dell’uomo e del libero arbitrio si scontravano con i temi del peccato originale — che si negava fosse stato

trasmesso da Adamo a tutti i suoi discendenti —, dell'elezione e della predestinazione, della grazia soprannaturale, e sembravano ri-

chiamare pericolosamente le dottrine pagane e stoiche della morale naturale. Contro di esse insorse Agostino, che alla polemica contro Pelagio dedicò i suoi ultimi decenni di vita e alcuni dei suoi scritti maggiori. Profondamente convinto della indegnità dell’uomo in seguito al peccato originale e della sua incapacità di operare il bene e salvarsi senza l’aiuto divino, Agostino concesse all’uomo come unica libertà quella di sottomettersi a Dio, irrigidì il con-

cetto della grazia, dalla quale unicamente deriva la salvezza, e della predestinazione e sostenne che gli uomini sono destinati a per-

dersi, massa damnationis, e solo pochi eletti si salveranno, prede-

stinati secondo l’imperscrutabile giudizio divino. Questa concezione profondamente pessimistica incontrò non poche opposizioni, specialmente negli ambienti monastici (per esempio in Pro-

venza), e suscitò vere e proprie correnti di antiagostinismo; tutta-

via, il pelagianesimo fu ripetutamente condannato dai papi e dai concili, anche se poi venne riemergendo nei secoli parallelamente all’oltranzismo paolino o agostiniano. 2. La nuova società cristiana

Nato in una provincia orientale e predicato inizialmente da missionari di lingua greca, il cristianesimo si era diffuso maggiormente nella parte orientale dell'Impero, meno in quella occi-

dentale e latina. Studi recenti tendono a rivalutare l’entità della

presenza cristiana nella società romana ben prima di Costantino, nella seconda metà del III secolo, già a partire dall’impero di Gal-

lieno (253-268). A quell’epoca villaggi della Palestina e della Fri-

gia erano interamente cristiani e in molte città orientali i cristiani costituivano o la maggioranza o una parte rilevante della popolazione; particolarmente in Africa le strutture e le capacità organizzative della chiesa appaiono irrobustite dopo le persecuzioni di Decio e Valeriano. Tuttavia, continua ad apparire indubbio che dopo la pace religiosa sancita dall’editto di Galerio (311) e dalla circolare di Licinio (313) la diffusione e il progresso della nuova religione fecero grandi passi in avanti. Le valutazioni numeriche azzardate in proposito da taluni studiosi sono meramente ipotetiche, ma di un’avanzata rapida e costante danno te-

64

Cristianesimo

stimonianza certa gli atti dei concili, che recano alla fine i nomi dei vescovi partecipanti e l'indicazione delle loro sedi e consentono così di misurare il rapido svilupparsi della rete episcopale,

il moltiplicarsi degli edifici di culto, la cui dislocazione accom-

pagna gli itinerari dell’evangelizzazione, le iscrizioni che com-

memorano consacrazioni di edifici, cerimonie, donazioni, l’infit-

tirsi di leggi relative ai cristiani e al loro culto, le fonti letterarie. All'indomani della persecuzione dioclezianea la regione oc-

cidentale più fittamente cristianizzata era l'Africa settentrionale,

dalla Byzacena alla Mauretania Caesariensis (all'incirca la Tunisia e l’Algeria settentrionale di oggi). In Europa il cristianesimo si era più diffusamente impiantato nella Gallia mediterranea e lungo il Rodano, nel sud della penisola iberica, in Italia; ora avanza dalle regioni costiere verso l’interno e verso il Nord.

In Oriente,

compreso l’Egitto, che con la zona alessandrina fu tra i primi paesi ad aprirsi alla predicazione cristiana, la rete delle comunità cristiane si fa più fitta e varca anche i confini della romanità, giungendo in Armenia, nella Persia, nelle regioni arabe del Mar Rosso, in Etiopia. Tuttavia non si trattò di una diffusione dappertutto omoge-

nea e compatta, di una sorta di colata lavica che si stendesse a coprire tutto l'Impero e poi ne debordasse verso le regioni limitrofe, ma piuttosto di un reticolo a maglie ora fittissime ora larghe, o di un intreccio di rivoli, che avanzassero

ramificandosi,

con ampiezza e velocità differenti. Il cristianesimo restò a lungo

una religione prevalentemente urbana, mentre penetrò assai più

lentamente nelle campagne, sia per l’innato conservatorismo delle aree rurali e periferiche, sia perché la chiesa, avendo ricalca-

to l'organizzazione statale romana e mantenuto nei suoi quadri una struttura urbana, rimase per molto tempo, specialmente

nell’Occidente, sostanzialmente impreparata a un'azione mas-

siccia di proselitismo rurale. Grosse enclaves pagane si configura-

rono in zone anche di antica conversione; inoltre, anche dove si

impose la nuova religione, spesso sopravvissero accanto a essa i riti apotropaici e le credenze magiche proprie dei contadini: una

cultura folklorica e ancestrale, con la quale i nuovi contenuti cri-

stiani spesso convissero senza fondersi ben oltre il IV secolo.

In Italia comunità cristiane sono documentabili, oltre che a

Roma, nelle città centro-meridionali e padane, sino a Milano a Occidente e ad Aquileia a Oriente, e nella Sicilia orientale. Al

concilio romano presieduto da Milziade nell’ottobre del 313 pre-

sero parte una quindicina di vescovi, ma nel corso del secolo, an-

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

65

che se non disponiamo di elenchi episcopali completi e sicuri, la maggior parte delle diocesi italiane sembra essersi già formata. Vescovati importanti e assai attivi nell’organizzazione della chiesa sono

sorti nell'Italia settentrionale,

a Verona,

Bologna,

Bre-

scia, nel Veneto (a Concordia, Altino, Feltre, Treviso), nell'Istria (a Trieste, Parenzo, Pola). A Roma, ancora alle soglie del pontificato di Damaso (366-384), il cristianesimo non sembra condìzionare la vita cittadina; Ammiano Marcellino non ne fa alcuna

menzione nel quadro che egli disegna dei costumi romani negli anni del cesarato di Gallo e l’Expositio totius mundi (un’anonima

operetta geografica datata al 359) rappresenta Roma come una città pagana, dove si onorano fervidamente Giove, il Sole e la Madre degli dèi”. Rilutta l'aristocrazia senatoria, che si sente depositaria e guardiana degli antichi culti e fa della loro conservazione una battaglia insieme politica e religiosa. Il senato era ancora in maggioranza pagano nel 384, quando ebbe inizio la que-

stione dell’ara della Vittoria. Rimossa dalla Curia romana nel 357

per volontà dell’imperatore Costanzo e restituita poco dopo, sotto Giuliano, alla sua sede, l’ara della dea venne definitivamente

asportata nel 382 per decisione di Graziano. Ma la misura imperiale suscitò le resistenze della classe senatoria e diede luogo a una controversia, della quale ci resta larga testimonianza nelle orazioni di Simmaco e di Ambrogio e nel Contra Symmachum di Prudenzio. Il periodo decisivo della conversione dell’aristocrazia italica furono gli anni dopo la battaglia del Frigido, tra il 394 e il sacco di Roma nel 410. Nel 401 Girolamo rappresentava il paganesimo a Roma ormai allo stremo: il Campidoglio deserto, i templi coperti di fuliggine e di ragnatele; l’anno dopo Prudenzio descriveva i senatori desiderosi di vestire la toga candida della pietà cristiana dopo avere deposto le vesti pontificali*; alla fine del 408 «nessuno —- ammette lo storico pagano Zosimo - ebbe il coraggio di partecipare alle cerimonie tradizionali» allorché il prefetto di Roma progettò una processione al Campidoglio per impetrare dagli antichi dèi che venisse stornata dalla città la minaccia incombente

di Alarico (Zosimo, V,41,1-3).

Nel periodo del quale ci stiamo occupando la diffusione del

cristianesimo e il suo definitivo radicarsi in molte regioni del mondo mediterraneo sono tra le cause della trasformazione profonda e irreversibile del mondo ? Ammiano

antico. Naturalmente,

Marcellino, XIV,6; Expositio totius mundi 55 (SCh

poco

124, p. 194).

* Girolamo, Epistula CVII,1; Prudenzio, Contra Symmachum 1,544 sg.

66

Cristianesimo

appariscente e lenta è l’opera della nuova religione sulle strutture sociali di base: la famiglia, il villaggio, la città, le istituzioni civili, l’organizzazione del tempo e il calendario. Anche su di es-

se, tuttavia, il cristianesimo prese a esercitare la propria influenza in maniera inarrestabile, modificando lungo i secoli i costumi, lo stile della vita sociale, le mentalità. Più evidente e pronta

si avverte quell'opera nelle forme del culto, nei riti, nella pratica montante del pellegrinaggio, nella edilizia chiesastica, nella presenza crescente di chierici e monaci, nell’organizzazione delle attività caritative: insomma,

nel complesso di aspetti e istituti

che si avviano a caratterizzare sempre più marcatamente la «società cristiana» e che, dentro di essa, vengono organizzati e gestiti dalla «società ecclesiastica». La maggiore festività cristiana era stata a lungo la Pasqua, che aveva anche costituito, e continuò a costituire sino a Leone Magno, oggetto di controversie assai accese tra le chiese, talvolta si-

no al rischio dello scisma, circa la data, gli elementi del ciclo li-

turgico, l’interpretazione teologica. Solo intorno alla metà del IV secolo alla Pasqua si aggiunse il Natale, fissato al 25 dicembre in concorrenza con la festa pagana e mitraica del Sol /nvictus. Attorno alle due feste principali si disposero le altre feste e si strutturò il calendario liturgico, che cominciò poi a riversarsi, mentre scomparivano le feste pagane, nel calendario civile. Sotto Teo-

dosio la domenica cristiana, alla quale aveva accordato il primo riconoscimento Costantino, venne proclamata solennemente giorno festivo, dedicato al Signore e precluso, pena l'accusa di

sacrilegio, ad ogni attività”. Minori furono le modificazioni della

liturgia sacramentale, che si sviluppa entro le forme già consolidate della tradizione, specialmente per quel che riguarda il battesimo e la penitenza, mentre il sacrificio eucaristico evolve ora più decisamente nel rito della Messa. Celebrata al mattino, una sola volta, dapprima la domenica, nelle grandi feste e negli anniversari del vescovo e dei martiri, col tempo la Messa diventò quotidiana e diventò obbligo nel giorno domenicale. Ma la forma di devozione più spettacolare di ogni altra e più largamente coinvolgente le masse popolari fu il culto dei martiri. Testimoniata nella prassi cristiana fin dal Il secolo, la venerazione dei martiri acquistò diffusione e importanza crescenti dopo Costantino, dapprima in Oriente, poi a Roma e nell’Occidente, dove un’evoluzione decisiva si ebbe negli ultimi decenni ° Codice Teodosiano I1,8,1 (a. 321); [1,8,18 (a. 386) e 20 (a. 392).

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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del IV secolo, allorché i vescovi e il clero si affiancarono alle iniziative private dei singoli fedeli e intervennero sistematicamente a organizzare la liturgia e a controllare la devozione popolare. Centro del culto dei martiri furono le loro sepolture, vere o presunte. Su di esse vennero eretti monumenti di tipo diverso, dalla semplice stele commemorativa al santuario sontuoso. A questi

sepolcri i fedeli accorrevano in massa, si prostravano dinanzi al-

le sacre spoglie, rivolgevano preghiere, intonavano canti e inni. Dal martire i fedeli non attendevano unicamente grazie spirituali, ma anche favori terreni e interventi taumaturgici: egli era l'intercessore presso Dio sia delle une che degli altri, nonché

il

patrono della comunità. Questo duplice attributo, di intercessori e patroni, e un culto anche in questo caso rapidamente crescente vennero attribuiti

anche ai santi, cioè ai cristiani che avevano condotto una vita di

cccezionale pietà e compiuto atti straordinari, equiparabili ai meriti dei martiri, quantunque non avessero conseguito il martirio. Tali furono ritenuti i confessores, cioè coloro che all'epoca delle persecuzioni avevano patito carcere e torture, ma non erano giunti all'estremo sacrificio; poi i grandi vescovi, come Atanasio

e Ambrogio, e, sempre più spesso, i monaci, che proclamavano la loro

vita di ascesi

eguagliabile

al martirio,

un

martirio

in-

cruento, martyrium sine cruore, AI culto dei martiri e dei santi si legò anche quello delle reliquie. Le spoglie degli antichi martiri erano state oggetto di cura gelosa sin dall’inizio, da quando i cristiani chiedevano al magistrato persecutore la restituzione del cadavere del martire e ne custodivano i resti come tesori «più preziosi dell’oro e delle perle»!°. Col tempo questa forma di venerazione diventò preminente su ogni altra fino a trasformarsi in una pratica fanatica e deteriore e, spesso, in un vero e proprio commercio. Un editto di Teodosio del

386, che sanciva la inamovibilità dei corpi dei martiri e il divieto di

farne commercio

(Cod. Teod. IX,17,7), rimase inefficace.

Altra grande forma di devozione fu il pellegrinaggio. Esso si avvia a diventare uno degli aspetti più costanti e caratteristici della società cristiana a parure da Costantino, allorché la inventio crucis (il ritrovamento della Croce si volle opera della madre di Costantino, Elena, durante un viaggio in Terrasanta nel 326) e l'edificazione delle grandi basiliche diedero inizio alla cristianizzazione edilizia di Gerusalemme e al processo di materializza10 Martyrium Polycarpi 18 (ed. Funk, p. 302).

68

Cristianesimo

zione delle reliquie relative alla vita di Gesù. I luoghi dove era vissuto Gesù, i luoghi del racconto biblico, più tardi gli eremi e i cenobi della Palestina, dell'Egitto, della Siria diventarono meta

di folle devote; sempre più spesso i pellegrini accorsero alle tombe di martiri e santi, impetrando favori e miracoli. Come Geru-

salemme, anche Roma diventa nel IV secolo una città santa: urbs

sacra perché vi hanno trovato il martirio un numero di cristiani

quale nessun’altra città dell’Impero può vantare, ma soprattutto

perché è la città degli Apostoli, teatro del loro martirio e custode delle loro spoglie, sede del successore di Pietro, come va proclamando la dottrina del primato pontificio sostenuta sempre più decisamente da Damaso in poi. Col passare del tempo saranno poche le comunità alle quali lo zelo di un vescovo o di un abate non riuscirà ad assicurare le reliquie di un santo e la sua miracolosa protezione. Il pellegrinaggio acquista anche dimensioni locali; taluni centri si impongono su altri, vantano martiri e santi (anche angeli) più miracolosi, attirano flussi pellegrini più con-

tinui. In particolare nell’Occidente, via via che diventano più dif-

ficili le comunicazioni con l'Oriente, si va disegnando quella geografia del pellegrinaggio che durerà immutata fino a quando le Crociate ridaranno vita al viaggio in terra Santa e il papato teocratico imporrà il pellegrinaggio a Roma, ad limina. Muta anche,

in questo periodo,

l'edilizia cristiana. Dalla do-

mus ecclesiae, un locale — non di rado un'abitazione privata — adattato alle funzioni cultuali, si passa all'edificio specificamente de-

stinato al culto e che si schematizza in una grande aula triparti-

ta e conclusa da un'abside. Sono numerose le ipotesi sull’origine della basilica cristiana e studiosi recenti non escludono l’esi-

stenza di un impianto basilicale cristiano di tipo canonico anche

in età precostantiniana, ma non c’è dubbio che caratteri vistosamente comuni si vadano imponendo con la politica di edilizia

chiesastica avviata da Costantino e che di un tipo di chiesa uni-

ficato si possa pace religiosa nel territorio grandi come

cominciare a parlare alla metà del secolo. Dopo la chiese modeste o sontuose cominciano a sorgere dell'Impero, in Oriente come in Occidente, nelle nelle piccole città. Designate dapprima dal nome

del fondatore, più tardi, parallelamente allo sviluppo del culto dei santi, le nuove chiese vennero poste sotto il patrocinio di un

santo (o di un angelo, della Madonna, di Cristo, della Trinità). Dopo la loro avocazione al fisco, nel 392 (Cod. Teod. XVI,10,4 e

12), talvolta vennero riconvertiti all'uso cristiano i vecchi templi pagani, quando non furono distrutti dalle plebi cristiane o da

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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monaci fanatici (come accadde a edifici gloriosi quali il tempio di Zeus ad Apamea o il Serapeo di Alessandria). Nel corso del IV secolo la gran parte dei capoluoghi diventano, nelle varie regioni dell'Impero, sedi vescovili. Con il vescovo vi si stabilisce un clero sempre più numeroso e attivo, che forma uno staff amministrativo di crescenti incombenze e al quale anche lo stato va riconoscendo immunità e privilegi. Il prete cristiano diventa un cittadino importante e con un’immagine pub-

blica sempre più netta via via che aumentano le occasioni nelle

quali egli è attore: i riti, i pellegrinaggi, le traslazioni delle reliquie, le feste, le attività caritative e assistenziali promosse dalla chiesa. AI sommo della gerarchia ecclesiastica stanno i vescovi, che teoricamente hanno tutti pari dignità. Tra di essi, tuttavia, si approfondiscono differenze di rango e di reali poteri; nelle varie regioni una sede finisce per imporsi sulle altre e il suo vescovo, metropolita, si appropria un primato giurisdizionale sugli altri. Spesso il vescovo è preposto all’amministrazione di un patrimonio ingente. Le chiese cittadine, che a partire dal III secolo si erano attribuite il diritto di acquistare beni immobili, ora accre-

scono i loro patrimoni grazie alle oblazioni e ai lasciti. Una legge del 434 attribuisce automaticamente alla chiesa il patrimonio dei chierici che muoiano intestati (Cod. Teod. V,3,1). Il clero che

gravita attorno al vescovo sì forma in un la della pratica quotidiana, ma più tardi zioni specifiche vengono dedicati al suo canonica la distinzione di due categorie,

primo tempo alla scuocure particolari e istituaddestramento. Diventa un ordo superior del qua-

le fanno parte i presbiteri e i diaconi, consacrati esclusivamente

dal vescovo, e un ordo inferior, al quale appartengono suddiaconi, accoliti, esorcisti, ostiarii, lettori: figure che non

ricevono

dap-

pertutto uguale considerazione né hanno sempre mansioni ben definite. Oltre che ai compiti pastorali e liturgici, i chierici vengono chiamati anche alle altre funzioni della macchina ecclesiastica: ad amministrare le finanze vescovili e delle varie chiese urbane, a dirigere le istituzioni assistenziali (orfanotrofi, ospedali,

ospizi di vario genere), a sovrintendere agli archivi e ai registri, a svolgere compiti di notai e di defensores. A loro, specie a quelli dell’ordine superiore, si chiedono requisiti sempre meglio precisati. Diversi canoni conciliari e disposizioni pontificie vietano l'ordinazione di persone troppo giovani (25-30 anni per il prete,

50 per il vescovo), raccomandano il celibato, escludono chi abbia contratto seconde nozze o viva con concubine, esortano al

decoro dell'aspetto esteriore.

70

Cristianesimo

Accanto al clero, un’altra grande forma di aggregazione religiosa si radica lungo il IV secolo nella società cristiana, il monachesimo. I primi episodi appaiono in Egitto alla fine del III secolo, allorché la anachoòresis, cioè la fuga dalla città nel deserto, l'espediente al quale ricorrevano criminali o asociali che avessero buone ragioni per fuggire dalla società, si colora di motivazioni spirituali e diventa una scelta di vita, ricerca della solitudine per affrontare la lotta col demonio, per perfezionarsi attraverso un'esistenza di dure rinunzie, per ritrovare gli ideali evangelici compromessi dalle concessioni della chiesa al secolo. Dopo i primi, malnoti inizi, il movimento cresce con enorme rapidità e si struttura in due tipi principali: l’eremitismo e il cenobi-

tismo. Il primo è praticato da coloro che decidono di vivere in

solitudine, appartandosi in luoghi lontani e deserti, rifuggendo da ogni contatto umano, cercando dimore occasionali e nutrendosi miseramente. Il loro rappresentante più noto è sant'Antonio, detto l’Eremita o il Grande,

le cui vicende furono

narrate

da Atanasio in una cattivante biografia, che diventò un best-seller

per molti secoli, anche nell’Occidente, dove circolò tradotta due volte in latino. Il cenobitismo (da koinòs bîos, «vita comune») eb-

be origine dall’iniziativa di Pacomio, che intorno al 320 diede vita a Tabennisi sul Nilo, nell’alto Egitto, a una grande comunità alloggiata in uno stabilimento di più case e circondato da un muro, governata da una «regola» che organizzava il lavoro, le preghiere, i pasti, le altre emergenze quotidiane. Nacquero anche forme

diverse di insediamento

monastico,

come

la «laura», co-

stituita da un gruppo di anacoreti, che vivevano senza regola e senza obbligo di stabilità in celle isolate, attratti dal carisma di un santo monaco,

o come il monastero basiliano, più piccolo e

raccolto rispetto al grande assembramento pacomiano, fondato sull’esercizio della mutua assistenza e carità tra i fratelli e meno isolato rispetto alla società circostante. Il monachesimo trovò grande espansione in Oriente, nella Siria e nella Palestina, oltre che in varie regioni dell'Egitto, poi anche altrove. In Occidente le prime notizie furono portate forse da Atanasio, durante il suo esilio italiano del 340; in seguito ne

furono banditori i pellegrini che, giungendo in Terrasanta, avevano modo di incontrare «gli uomini del deserto». Negli anni del suo soggiorno romano, tra il 381 e il 384, se ne fece zelatore en-

tusiasta san Girolamo. Le esigue testimonianze che ce ne resta-

no attestano insediamenti monastici nella Gallia, sia occidentale, con il celebre Martino di Tours, fondatore di due monasteri do-

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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po il 360, sia centro-meridionale, con i cenobi di Lérins, di Marsiglia, del Giura, in Spagna, in Italia, in Africa, nelle isolette tirreniche. Si trattò di iniziative anacoretiche, più raramente ceno-

bitiche, mai di grandi comunità di tipo pacomiano. Nel V secolo presero a circolare le regole orientali, tradotte in latino: quella basiliana da Rufino nel 397, quella pacomiana

da Girolamo

nel 404; videro la luce anche alcune regole originali, la Regula Augustini (due brevi testi redatti tra il 395 e il 397) e le Regulae Patrum, cinque testi, forse provenienti dal cenobio

di Lérins, il

più antico dei quali è stato composto nei primi anni del secolo. 3. Stato e chiesa

Il paganesimo non si dissolse d’imperio e solo in virtù delle nuo-

ve leggi dello stato; esso si estinse più lentamente di quanto si è

spesso ritenuto, accompagnandosi

alla trasformazione della so-

cietà antica, con ritmi e modalità diversi tra un'epoca e un’altra,

tra una regione e un'altra, tra città e campagna. Indubbiamente fu subito determinante nella propagazione cristiana la nuova politica imperiale. Dalle disposizioni del 311-313, che li riammise-

ro nella comunità nazionale, li riconobbero liberi di esercitare il

proprio culto e restituirono loro i beni confiscati, al codice ordinato da Teodosio II (408-450), i cristiani trovarono posto progressivamente più ampio nella legislazione dello stato e quanto più la chiesa crebbe e diventò potente, tanto più essa rivendicò il diritto di stabilire norme morali e giuridiche per i rapporti sociali, di riempire di contenuti cristiani le leggi dello stato. Ma è questione sempre aperta tra gli storici del diritto tardo-antico stabilire se la chiesa già in questo periodo, prima di Giustiniano e deì secoli medievali, abbia cristianizzato lo stato e

il diritto, o se,

al contrario, sia stato il cristianesimo ad essere stabilizzato e giuridicizzato. Certamente le comunità cristiane chiesero e otten-

nero riconoscimenti, sovvenzioni, strumenti per rafforzarsi e imporsi nella società, ma è eccessivo dire, come pure è stato detto,

che il diritto antico si sia rinnovato solo nella misura in cui venne cristianizzandosi. Lo storico Eusebio e gli scrittori cristiani che ne proseguirono l’opera salutarono nella «pace costantiniana» l'avvento di un nuovo, irrevocabile corso storico, intrapreso e attuato da Co-

stantino, il basiléus terreno che ha operato per volontà e imita-

zione di Dio, mégas basilèus. Dal pietismo tedesco a una folta schie-

ra di storici moderni, invece, sono state opposte alla «teologia

72

Cristianesimo

politica» di Eusebio e all'immagine del pius Costantinus costruita

dagli antichi scrittori cristiani la tesi del christianismus politicus del

nuovo imperatore e l’interpretazione delle sue misure religiose come atti di governo ispirati unicamente dal calcolo e dall’interesse. Oggi si tende a conciliare queste due opposte figurazioni, da un canto demitizzando l’immagine eroizzata del «primo imperatore cristiano», volto, in ogni suo gesto, a promuovere e organizzare il trionfo della nuova religione, dall’altro canto riconoscendo che nel suo ambizioso piano di conquista del potere Costantino non si servì del fatto religioso come di uno strumento meramente politico, ma ebbe anche motivazioni religiose autentiche e durature, nutrite dall'educazione familiare e dalla tradizione di tolleranza del padre, Costanzo Cloro. Perciò si preferisce parlare non più di «conversione» (in seguito alla visione miracolosa precedente la battaglia di Ponte Milvio), ma di «evoluzione religiosa» e si attribuisce particolare rilievo al passaggio —

adombrato nell’indicazione data dal panegirico recitato in ono-

re di Costantino a Treviri nel 310 — dall’ideologia tetrarchica e dal culto ad essa connesso di Giove ed Ercole al culto monoteistico di Apollo-Sole!'. Quali che siano state, nel profondo della coscienza, le scaturi-

gini della sua politica religiosa, l'interesse di Costantino per i problemi cristiani emerge fin dalle prime iniziative di governo. Abbiamo già visto quanto prontamente egli intervenisse prima nella questione donatista, poi in quella ariana. La sua legislazione religiosa - dal pacchetto di leggi emanate tra il 319 e il 321 e vietanti

severamente l’aruspicina!? al famoso rescritto di Spello (Hispellum), che concedeva ai cittadini umbri di quella città di erigere un

tempio in onore della famiglia imperiale purché non vi si cele-

brassero sacrifici pagani

(CIL XI,5265), e, soprattutto, alle leggi

successive alla conquista dell'Oriente e alla fondazione di Costan-

tinopoli (330) — ha offerto materia di analisi sottili e controverse agli storici, ma non c'è dubbio che essa abbia fatto ai cristiani so-

stanziose concessioni giuridiche ed economiche. Talune leggi su

questioni sociali e morali non si qualificano espressamente come misure filocristiane (per esempio, la messa al bando della crocifissione, il divieto di marchiare gli schiavi sul viso, la proclamazione della festività domenicale, ecc.), ma certamente tengono con-

to dei nuovi costumi cristiani; altre, come quelle riguardanti la giu!! Panegynci Latini VII, 21 (ed. Galletier, II, p. 72). 2? Codice Teodosiano

IX,16,1; [X,16,2; XVI,10,1.

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

73

risdizione episcopale, il diritto di asilo concesso alle chiese cristiane, l'esercizio della giustizia penale, cominciano a riservare ai cri-

stiani uno spazio privilegiato nella società imperiale. Notevole, e precursore di successive politiche statali o pontifi-

cie, fu l'impulso dato dall'imperatore alla costruzione delle chie-

se cristiane, che egli inserì nella edilizia pubblica e che, per le sue inclinazioni imperiali al fasto e alla grandiosità e in ossequio alle tradizioni della grande edilizia statale, volle spesso sontuose e mo-

numentali. Alla sua iniziativa risalgono numerosi edifici a Roma, in Palestina, ad Antiochia, a Costantinopoli, a Treviri. A Roma gli

si devono sia grandi edifici, come S. Salvatore, oggi S. Giovanni in Laterano, e la primitiva chiesa di S. Pietro, sia edifici minori, come la serie di basiliche cosiddette circiformi, di carattere cimiteriale;

a Gerusalemme, sul Golgota, nel 325-326 fece erigere, entro un unico recinto, il Santo Sepolcro, il Calvario e una basilica; a Betlem

innalzò un importante santuario, la chiesa della Natività; probabilmente negli ultimi anni del suo regno ebbero inizio i lavori della grande basilica di Santa Sofia a Costantinopoli. Tuttavia, la politica di appoggio ai cristiani non sì tradusse in persecuzione antipagana né Costantino sì indusse mai a rifiutare la collaborazione dei pagani e la loro presenza a corte e nelle cariche più alte. Egli fu aperto, come abbiamo già rilevato, al paganesimo monoteizzante della religione solare, proprio delle

classi colte e ricche del suo tempo e depositario di un grande pa-

trimonio spirituale e culturale. Un’ideologia nella quale sì intrecciavano rituali pagani e nuove idee cristiane sembra avere accompagnato l’imperatore nel nuovo soggiorno a Costantinopo-

li. Ricorda il sofista Eunapio!* che il filosofo neoplatonico Sopa-

tro ebbe un prestigio enorme a corte e un ruolo preminente nel-

le cerimonie riguardanti la nuova capitale; ancora un testo del

VII secolo racconta che il «piissimo» Costantino volle che fosse

costruita una grande statua dorata della Tyche e che ad essa, por-

tata in processione nelle celebrazioni del genetliaco della città, rendesse onore inchinandosi lo stesso imperatore!4. Grande onore è tributato nel Discorso all'assemblea dei santi (se, come sempre più spesso si inclina a credere, questo scritto singolare è opera dell’imperatore o da lui ispirato) a Virgilio e alla Sibilla, i particolari profeti che anche scrittori cristiani come Lattanzio non esitavano ad accettare come testimoni del vero Dio. È, verosimil15 Vitae sophistarum 462 (ed. Giangrande, p. 18). 14 Chron. Pasch. ad a. 330 (ed. Bonn, p. 529 = MGH, IX,1, p. 234).

74

mente, politani pagano, lo delle

Cristianesimo

anche nell'architettura chiesastica degli anni costantinol’imperatore volle intrecciare antico e nuovo, cristiano e imponendo un modello sostanzialmente obsoleto, quelgrandi basiliche profane erette a Roma dai suoi prede-

cessori, come la Giulia o l’Ulpia.

I successori di Costantino ne continuarono l’opera di riconoscimento e potenziamento della nuova realtà cristiana. Ai primi privilegi concessi dalla legislazione costantiniana seguirono crescenti restrizioni imposte al paganesimo. Alla vecchia religione furono via via sottratte le basi del culto, sopprimendo le sovvenzioni dello stato, limitando o eliminando le immunità del clero,

infine imponendo la chiusura dei templi e la proibizione delle cerimonie. Né solo contro i pagani si susseguirono le leggi, ma anche

contro i Giudei e, soprattutto, contro gli eretici, nei cui

confronti lo stato prese sempre più risolutamente posizione: la

sezione de haereticis del XVI libro è, con i suoi 66 editti, la più nu-

merosa tra quelle dedicate dal Codice Teodosiano alle questioni

religiose. Pagani, eretici e apostati vennero considerati absque îure Romano e privati dei diritti civili; i Giudei furono

ritenuti se-

guaci di una dannosa superstitio alla quale si riconosceva il diritto all’esistenza, ma si rifiutava spazio e possibilità di incremento. Una breve parentesi si ebbe con Giuliano (361-363), bollato d’infamia come Apostata dalla tradizione cristiana. Educato nella religione cristiana, ma conquistato dal mondo spirituale dei Greci, dalla cultura neoplatonica, dai culti solari e dalle dottrine

teurgiche, Giuliano si dichiarò manifestamente pagano dopo essere stato proclamato Augusto dall’esercito e tentò senza successo di scristianizzare le masse e restaurare, pur con innovazioni (per esempio, gerarchizzando i sacerdoti e organizzando strut-

ture caritative e assistenziali sull'esempio della chiesa cristiana),

il paganesimo. Le misure giulianee non si configurarono come atti di vera e propria persecuzione; egli volle piuttosto ritornare a un regime di piena libertà religiosa, decise di restituire ai pa-

gani i beni confiscati, li preferì nelle magistrature e a corte, ri-

propose nel labaro e nelle monete antichi simboli, incoraggiò i sacrifici, le cerimonie misteriche, gli oracoli. Alla sua morte, già

negli otto mesi del regno di Gioviano (363-364), la chiesa venne restituita alle condizioni di prima.

Gli imperatori successivi, Valentiniano I (364-375) in Occidente e Valente (364-378) in Oriente, svolsero una politica di sostan-

ziale neutralità tra le religioni dell’Impero, mantenendo ai cristiani i privilegi ottenuti in precedenza, ma provvedendo che fos-

$. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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se assicurata a tutti, come recita un editto di Valentiniano, la libertà di culto, colendi libera facultas*®. Furono Graziano (375-383), figlio e successore (assieme al fratello Valentiniano II) di Valentiniano I, e Teodosio (379-395), elevato alla porpora imperiale do-

po la rotta di Adrianopoli, a riprendere la politica di opposizione al paganesimo, annunziata anche formalmente quando essi rinunziarono al titolo e all’ufficio di pontifex maximus (Zosimo, [V,36,5). Graziano sospese i contributi dello stato ai culti pagani, confiscò le entrate dei sacerdoti e delle vestali, avocò le proprietà terriere dei templi, rimosse dal Senato l'altare della Vittoria. Risoluzioni ancora più importanti assunse Teodosio. Animato da profonde convinzioni religiose, egli intervenne programmaticamente nelle questioni della chiesa, accrescendone i privilegi ma anche imponendo la sua autorità e perciò suscitandone la gratitudine, ma a volte anche la reazione. In più di un’occasione venne a contrasto con il vescovo di Milano, Ambrogio, la personalità più prestigiosa della chiesa occidentale. È soprattutto per il suo periodo che vale quella definizione di «chiesa imperiale» con la quale gli storici hanno indicato il rapporto tra autorità statale e chie-

sa durante l’Impero. Il 27 febbraio 380 Teodosio promulgò un

editto con il quale impegnava «tutti i popoli» alla professione di fede nicena e condannava «i folli e insensati che accettavano l’infamia dell’eresia» ariana (Cod. Teod. XVI,1,2); l'anno successivo

convocò il grande concilio costantinopolitano, che perfezionava la formula nicena e uniformava ancora più strettamente l’orga-

nizzazione ecclesiastica all'ordinamento statale, stabilendo che al

vertice della gerarchia ecclesiastica fosse il vescovo di Roma, successore di Pietro, poi quello di Costantinopoli, la nuova capitale dell'Impero, e quindi i vescovi che avevano sede nel capoluogo di una diocesi imperiale. Nel contempo Teodosio completava la legislazione antipagana ed eliminava gli ultimi appannaggi dei sacerdoti pagani, proibiva non solo le pratiche sacrificali, ma anche le visite ai templi e l'adorazione delle statue, assimilava l'aruspicina all’alto tradimento e la puniva con la pena capitale.

Nel settembre del 394 Teodosio sconfisse al Frigido l’usurpa-

tore Eugenio, campione dell’aristocrazia italica paganeggiante. La battaglia sembrò ai contemporanei (è l’interpretazione della Storia ecclesiastica di Rufino) lo scontro finale tra paganesimo e

cristianesimo e la vittoria di Teodosio fu salutata come un gran-

de evento voluto dalla Provvidenza. Ma al di là dell’immagine con 15 Codice Teodosiano

[X,16,9

(a. 371).

76

Cristianesimo

la quale l’imperatore entrò definitivamente nella memoria storica, di sovrano cristianissimo chiamato a concludere l'economia

provvidenziale della salvezza, Teodosio ha realmente arrecato un contributo conclusivo alla cristianizzazione dell'Impero. Lo stato è diventato cristiano e le masse che restano in esso ancora non evangelizzate non vi hanno più cittadinanza legale; l’unità è stata instaurata in seno alla chiesa; la dissidenza e l'eresia sono un

delitto politico; i vescovi sono stati inseriti nella giurisdizione sta-

tale; il clero è esentato dai munera e dalle imposte; l’attività sociale e caritativa è sovvenzionata. La chiesa cristiana e lo stato romano dominano il mondo affiancati, in un’opera che aspira all'eter-

nità. I due figli di Teodosio, Arcadio (395-408) e Onorio (395423), e gli imperatori successivi non fecero che riprendere la le-

gislazione precedente. Il Codice Teodosiano — una compilazione che accoglieva leggi dal 312 in poi — documenta significativamente l'evoluzione dei rapporti tra stato e chiesa da Costantino a Teo-

dosio II. Promulgato nel 438 sia in Occidente che in Oriente, es-

so costituisce l’ultimo tentativo imperiale (prima di Giustiniano) di tenere unite sul piano del diritto le due parti dell’Impero. Intanto, nel corso di questa lunga vicenda ultrasecolare, dall’azione rivoluzionaria di Costantino alla progressiva divaricazione delle due chiese, l’occidentale e l’orientale, il vescovo di Roma era andato rivendicando, e in parte acquistando, un ruolo

egemone nel mondo cristiano. A partire dall’inizio del III secolo cominciò a essere elaborata la dottrina della cathedra Petri, cioè

della successione e dell'autorità dell’episcopato, concepito come un tutt'uno affidato da Cristo a san Pietro e ai suoi successori romani. Nei due secoli successivi essa si andò trasformando in una

precisa teoria del primato di Roma su tutte le chiese, dando luo-

go sia alla concreta rivendicazione della superiore autorità del papa e del suo diritto di intervento nei confronti degli altri ve-

scovi, sia a una «teologia del primato» che rimase a fondamento

del potere spirituale e temporale della chiesa di Roma nei secoli medievali. Dal regno di Costantino a quello di Costanzo i ve-

scovi di Roma,

da Silvestro (311-314)

a Liberio

(352-366), furo-

no coinvolti prima nella delicata fase del riconoscimento ufficiale della chiesa da parte dello stato, poi nelle vicende difficili e spesso drammatiche della crisi ariana. L'autorità papale acquistò

forza con il pontificato di Giulio I (337-352), ma il suo successore, Liberio, esiliato da Costanzo e poi sceso a compromesso con

l’imperatore, rientrava a Roma con poco prestigio e in mezzo alle discordie. Fu il suo successore, Damaso,

a risollevare le sorti

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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della cattedra romana. Egli arrivava al soglio pontificio dopo uno

scontro sanguinoso con il rivale Ursino; le testimonianze dei con-

temporanei gli sono generalmente ostili; lo descrivono aduso al

lusso e al fasto, sottolineano con malizia la sua familiarità con le

matrone romane, prodighe nei suoi confronti di oblazioni come di confidenze!©. Ma senza dubbio egli seppe governare con ener-

gia e con talento, ristabilì l’unità dell’episcopato occidentale, la-

cerata nei decenni precedenti dalla controversia ariana, si garantì l'appoggio del potere imperiale. Avviò una politica edilizia che

sarebbe stata attivamente seguita dai suoi successori, Siricio, In-

nocenzo, più tardi Sisto, e che avrebbe dato a Roma i caratteri di una città anche architettonicamente cristiana; riattò le catacombe ed eresse numerose cappelle presso le tombe dei martiri, specialmente nelle zone più frequentate dai pellegrini, tra l’Appia e l'Ardeatina, corredandole di epigrafi metriche che il calligrafo principe della sua età, Furio Dionisio Filocalo, incise in lapidi marmoree (che ci sono state restituite in buon numero dagli scavi archeologici e offrono testimonianze importanti sulla chiesa romana dei martiri).

Dopo Damaso, alcuni papi regnarono con scarsa autorità o

per poco tempo, come Siricio (384-399), Anastasio (399-402), Zosimo (417-418), Bonifacio I (418-422); altri seppero rafforzare il

potere di Pietro e accrescerne il prestigio, come Innocenzo I (402-417), Celestino I (422-432) e Sisto III (432-440). Di straordinaria importanza fu il pontificato di Leone (440-461), al quale i posteri diedero il titolo di Magno. Capace di inflessibile ri-

gore nei princìpi come di duttile disponibilità nella prassi, Leone operò molto sia nel campo dell'azione politica che in quello

della dottrina. Ne sono documento diretto i suoi stessi scritti, 97

sermoni e 173 lettere. I primi, pronunziati quasi tutti nelle ricorrenze festive e dedicati alla Pasqua, alla quaresima, al Natale,

all'Epifania, alla Pentecoste, attestano la scienza esegetica e le riforme liturgiche del papa; le seconde, inviate per lo più a vescovi, accompagnano l’incessante attività diplomatica e pastorale di Leone e documentano la rete dei suoi rapporti costanti con le chiese sia occidentali che orientali.

Dalle lettere e da alcune omelie (i Sermoni II-V, pronunziati

negli anniversari dell’intronizzazione) emerge una compiuta dottrina sul primato romano, sostenuta da una dotta base biblica.

15 Cfr. Ammiano Marcellino, XXVII,3,14; Collectio Avellana 1,2 (CSEL 35, p. 1);1,9 (p. 4).

78

Cristianesimo

Leone riaffermava l'uguaglianza di tutti i vescovi, uguali per l’unzione dello Spirito che li ha fatti vescovi e per la grazia di Cristo che li assiste nel loro ministero, ma ribadiva che al vescovo di Roma

compete

una speciale cura, sollecitudo et auctoritas, verso tutta

la chiesa e che perciò, per questa sua missione e più alta potestà, egli è «primo»

fra tutti i vescovi, in tutta la chiesa,

omnium epi-

scoporum primus, totius Ecclesiae princeps. Alla luce di questa dottrina, Leone cercò di imporre a tutte le chiese, dell'Oriente non meno che dell'Occidente, la giurisdizione del seggio romano e la sua autorità in materia di fede, non esitò a sostenere scontri anche violenti con altri vescovi, trattò da pari a pari, senza timo-

ri né condiscendenze, con gli imperatori delle due parti dell'Impero, patteggiò con i sovrani barbari. Nel 452 fermò la marcia verso Roma di Attila, re degli Unni, andandogli incontro assistito — così vuole la tradizione, accolta in un famoso affresco di Raf-

faello in Vaticano — dall’apparizione degli apostoli Pietro e Paolo armati di spade;

nel 455 non

riuscì a evitare che il vandalo

Genserico saccheggiasse Roma per 14 giorni, ma ottenne che la città non venisse bruciata e i cittadini massacrati. Nell’Occidente lottò con fortuna contro il pelagianesimo, il manicheismo, il priscillianismo spagnolo e piegò l’opposizione di Ilario, vescovo di Arles, che cercava di organizzare un patriarcato gallico indipendente; in Oriente la sua autorità patì sconfitte e anche umi-

liazioni (come al concilio di Efeso del 449, dove vennero respinte

le sue tesi su Eutiche e il monofisismo). Due anni dopo al concilio di Calcedonia furono accolte le sue tesi cristologiche e fu riconfermato il primato romano, anche se, di fatto, nel famoso canone 28 furono attribuiti al vescovo di Costantinopoli gli stessi titoli e diritti del vescovo di Roma. II. DA CALCEDONIA A GREGORIO

MAGNO

4. L'Occidente L'accettazione

del

Tomus

Leonis a Calcedonia,

nell'ottobre

del

451, poteva essere insieme il segno del rinato prestigio della cattedra romana in Oriente e l’inizio di una ritrovata solidarietà tra le due chiese. Leone invece sembrò subito disinteressarsi delle conseguenze del concilio nella cristianità orientale e allentare anche i rapporti, prima molto stretti, con la chiesa di Alessandria. Dal canto suo il patriarca di Costantinopoli, al quale il delibera-

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Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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to conciliare aveva attribuito dignità pari a quella del vescovo di Roma, praticò una politica ecclesiastica di assoluta indipendenza e spesso di opposizione rispetto a Roma. Le due chiese marciarono per vie diverse e la loro tendenza a divergere e svilup parsi separatamente non ebbe più ritorno. Secondo la convinzione tradizionale la separazione tra i due centri religiosi accompagnava quella sempre più netta tra le due parti dell’Impero, definitivamente avviate alla fine del V secolo a destini ineguali, ma la storiografia più recente è venuta restringendo il fossato dell’alterità tra Est e Ovest e segnalando,

per contro,

una

persistente comunanza di culture ancora lungo il VI secolo e fin oltre la conquista araba. Realmente diversi i popoli dell'Impero, anche quando questo non fu più uno, furono rispetto alle società che li fiancheggiavano a nord e a sud, mentre resistette l’unità

orizzontale del Mediterraneo, la «koinè mediterranea», come è stato detto (Brown, 1976). Tuttavia, nel campo religioso la frat-

tura fra le due chiese alla metà del V secolo è veramente profonda e anche nella coscienza dei contemporanei Calcedonia appare esserne lo spartiacque definitivo. Alla metà del V secolo la chiesa occidentale si trovò di fronte ai due avvenimenti drammaticamente più importanti nella storia dell'Occidente: la fine del potere imperiale romano e le migrazioni germaniche entro i territori dell’Impero. Il governo imperiale, sempre meno operante e decentrato con lo spostamento della corte a Ravenna, conosce la sua ultima crisi dopo la fine di Ezio e di Valentiniano III (425-455), il primo assassinato dall’im-

peratore, il secondo da una congiura militare. Gli imperatori che si succedettero rapidamente nei vent'anni seguenti, da Petronio Massimo a Romolo Augustolo, furono come delle meteore. deposizione dell'ultimo di essi, il quattordicenne Romolo,

La ad

opera di Odoacre nel 476, segnò la fine anche formale dell’istituzione imperiale. Si è spesso discusso se i contemporanei siano stati consapevoli della irrevocabilità del mutamento istituzionale; assai per tempo essi avvertirono con angoscia la minaccia incombente dei barbari. Di fronte ad essi anche i cristiani, cittadini ormai pienamente integrati nell'Impero, assumono un atteggiamento di rifiuto culturale e di intolleranza etnica; anche per loro non si dà altro

paradigma di civiltà che quello romano e i barbari sono eversori di ogni forma di vita civile. E dal «patriottismo cristiano» del

IV e V secolo che è stato creato, assai più che dai sudditi dell’impero romano classico, il mito di Roma. Perciò il vescovo di Mi-

80

Cristianesimo

lano, Ambrogio, può vedere nella battaglia di Adrianopoli (378), terminata con la disfatta dell'esercito imperiale e la morte

dell’imperatore Valente, il segno della vicina fine del mondo ed

esortare i cristiani alla guerra contro i barbari, e Girolamo può chiedersi angosciato, dopo il sacco di Roma del 410, chi mai può salvarsi se Roma perisce?” Hl barbaro, che l'iconografia romana aveva idealizzato rappresentandolo sulla colonna traiana e su quella di Marco Aurelio come sconfitto ma possente, per il poeta Prudenzio non va ammesso neanche nel consorzio umano e dista dal mondo romano quanto il bruto che non ha parola da chi sa parlare!8; Sidonio Apollinare, aristocratico gallo-romano

di grande casata e vescovo di Clermont-Ferrand dopo il 470, abor-

re gli occupanti burgundi, fetidi di aglio, cipolla e burro ranci-

do, e proclama che due categorie di uomini non possono trova-

re accoglienza nella civitas Romana, che è la patria delle leggi,

delle lettere e della libertà: i barbari e gli schiavi'?.

Dalla fine del 406 un’ondata tremenda di barbari — Alamanni,

Alani, Vandali e Burgundi prima, poi ancora altre popolazioni - si riversa sull’Impero e lungo il V secolo dà luogo ai regni detti romano-germanici. Nella Spagna le due costruzioni principali sono

degli Svevi e dei Vandali, nella Gallia dei Burgundi e dei Goti; la

Sicilia, la Sardegna e l'Africa sono sotto la dominazione dei Vandali. In Italia un generale sciro, Odoacre, dall’agosto del 476, deposto l’imperatore fantoccio, Romolo Augustolo, governa come «re dei barbari», rex gentium, e come patricius dell’imperatore d'Oriente, Zenone. Nel 488 muove verso l’Italia l’ostrogoto Teo-

derico, il quale, vinto e ucciso Odoacre (nel marzo 492), fonda in

Italia un nuovo stato. Contro i suoi successori muoverà l’imperatore di Bisanzio, Giustiniano, che con una guerra lunga e rovinosa (533-555), riconquisterà l’Italia all'Impero. Ma solo per pochi

anni. Nel 568 un popolo di barbari nomadi, i Longobardi, dà ini-

zio alla conquista di buona parte della penisola, mentre il dominio

bizantino

resta

nelle

isole e nella

Liguria,

in una

striscia

dell’Italia adriatica, nel Lazio e nella punta estrema della Calabria. Le conseguenze della conquista germanica non furono ovunque le stesse. La grande migrazione di popoli determinò trasformazioni sociali e politiche irreversibili, all'opera di conquista si ac17 Ambrogio, De officiis ministrorum 1,29,139; 35,175-177; Girolamo, Epistula CXXIII,16. 18 Prudenzio,

Contra Symmachum 11,816 sgg.

1% Sidonio, Carmina XII,5 sgg.; Epistulae 1,6,2.

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Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

81

compagnarono rovine e devastazioni, fenomeni di spopolamento

e di deurbanizzazione, di pauperizzazione dei ceti più deboli, di

emarginazione e spoliazione delle antiche classi dominanti, ma certamente in maniera e in misura diverse da regione a regione. Anche la diversa confessione religiosa degli occupanti contribuì ad alimentare gli scontri con i Romani. Complessivamente le chiese del IV secolo, le cattoliche non meno

che le ariane, non

avevano fatto molti sforzi per fare proseliti tra i popoli germanici e creare comunità cristiane oltre frontiera. Ma alcuni fra questi popoli erano venuti da tempo in contatto con il cristianesimo, o perché si erano stanziati come federati entro i confini dell’Impero o perché dei gruppi avevano prestato servizio nell'esercito romano o ne erano stati fatti prigionieri o per altri tipi di relazioni e di scambi, in qualche caso anche per l’apostolato di missionari cristiani. Alcune popolazioni erano rimaste pagane, come gli Svevi e i Franchi; altre si erano cristianizzate, come i Go-

ti evangelizzati da Wulfila (che tradusse in lingua gotica la Bibbia e che era nipote di cappadoci cristiani, probabilmente rapiti da una scorreria e deportati nello stato gotico ai tempi di Gallieno), ma, per avere soggiornato nella parte orientale dell’Impero in età di dominante arianesimo, erano diventate ariane. An-

che sul piano religioso il rapporto fra i Romani e i conquistatori fu diverso nelle varie parti. I Vandali, ariani, in Africa spiegarono a lungo una dura politica anticattolica, confiscando beni e

chiese dei cattolici, costringendo all’esilio vescovi e prelati; in Ita-

lia invece Odoacre e più ancora Teoderico (scomparso nel 526), come

cercarono la collaborazione con l’elemento romano,

così

tennero una condotta rispettosa delle differenze religiose e comprensiva delle esigenze della chiesa. La fede dominante nella penisola restò quella cattolica e soltanto con l’arrivo dei Longobardi si determinò una situazione di ostilità con la confessione ariana degli invasori. A suscitare contrasti, più che l'arianesimo dei Longobardi, fu il loro residuo paganesimo germanico, legato a feroci riti guerrieri. Resta che tra le vittime più colpite dal-

la furia longobarda, specialmente durante i dieci anni dell’anar-

chia (574-584), fu la chiesa cattolica: molu

molte chiese e monasteri Montecassino)

preti furono

uccisi,

(compresa l’abbazia benedettina di

furono distrutti?°,

Complessivamente il cristianesimo ebbe fasi di regresso, e in alcuni casi venne cancellato per secoli, nelle regioni dove si era 2° Paolo Diacono,

Historia Langobardorum 11,32.

82

Cristianesimo

impiantato più tardi e più superficialmente e in talune regioni

di confine, come nel Norico e nella Pannonia o nell’Inghilterra, resistette invece, adattandosi alle mutate situazioni, nelle zone di

più antica cristianizzazione. Col tempo, le popolazioni germaniche, sia quelle già cristiane ma ariane, sia quelle ancora pagane, più rapidamente

alcune,

nel corso

di secoli altre, finirono col

convertirsi al cristianesimo romano. La più celebre di queste conversioni è quella dei Franchi e del loro re, Clodoveo, presentato da Gregorio di Tours come un novello Costantino, poiché, avendo fatto voto di battezzarsi durante un accanito e incerto scontro con gli Alamanni, nel 496 o 497, ottenne dalla protezione divina (e con l’appoggio politico dei vescovi cattolici) di estendere il suo regno e liberare la Gallia dagli ariani, sino alla decisiva

vittoria di Vouillé sui Visigoti, nel 507. Alcuni anni più tardi fu-

rono i Burgundi a passare al cattolicesimo, nel 511; verso il 560 gli Svevi, una ventina di anni dopo i Visigoti. Tra i Longobardi, ariani, la conversione fu avviata da Gregorio Magno e conclusa alla metà del VII secolo; lungo questo secolo andò convertendosi l'Inghilterra, occupata dagli Angli e dai Sassoni. Le conversioni dei re e dei loro popoli non comportavano, com'è ovvio, una reale e repentina cristianizzazione, ma, assieme all’opera dei missionari, dei monaci, del progressivo estendersi delle parrocchie e alla lenta penetrazione dei riti e delle credenze, avviavano un

grandioso e plurisecolare processo di acculturazione. Poiché l’interazione è ineliminabile in ogni processo acculturativo, se da un canto i conquistatori germanici si accostarono alla religione di Roma e ne furono conquistati e trasformati, dall’altro canto il loro ingresso in essa non fu privo di effetti e non poté mancare di arrecare anch'esso propri elementi culturali e religiosi. Ci sembra

eccessivo parlare, come

si è fatto, di

«barbarizzazione» del cristianesimo, anche perché è difficile di-

stinguere, entro l’indubbio processo di deculturazione per il qua-

le passa in questo periodo la chiesa cristiana, gli effetti dell’impatto con le culture germaniche e quelli dovuti all'avanzata del cristianesimo nelle campagne. In molte regioni si verificò un reale divario tra un clero urbano, educato alla paîdeia greco-romana, e un laicato a dominanza

rurale, culturalmente più conser-

Vativo e perciò più tenacemente mentalità.

Credenze

ancestrali,

legato a vecchi usi e antiche

superstizioni,

riti e culti

paga-

neggianti convissero con i contenuti cristiani, senza che questi riuscissero a obliterare quelli, anzi venendone influenzati ed essi stessi modificati:

il ruralizzarsi di taluni istituti ecclesiastici,

lo

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Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

sviluppo esagerato

83

del culto delle reliquie, il gusto crescente

dell’irrazionale e del miracoloso, il rafforzamento di tabù sessuali

e alimentari sono gli elementi che agli storici sono apparsi rifluire dal mondo contadino e dal folklore germanico nella cultura cristiana della tarda antichità e del primo Medioevo. Non pochi storici ritengono di poter parlare di una religione della classe ecclesiastica, più colta e di più alta estrazione sociale, e di una religione dei ceti popolari e contadini. Neppure le nuove forme di proselitismo restavano prive di conseguenze sui costu-

mi e sui livelli dottrinali e morali della società cristiana, poiché sostituivano una decisione di massa, imposta dall’alto, alle antiche modalità della conversione, cioè alle motivazioni interiori e assolutamente individuali, all’ingresso nella società cristiana do-

po un'attenta preparazione catechetica e una lunga frequentazione della comunità cristiana. Il carattere minimalistico di molte delle misure con le quali i Concili regolano la pietà dei fedeli conferma quanto si fosse abbassato il livello generale della vita religiosa. Ma non furono solo le trasformazioni religiose e culturali a segnare la storia della chiesa occidentale nel nostro periodo. È in questa età che si definiscono anche le linee istituzionali e politiche che contrassegneranno la sua storia nei secoli successivi,

le basi di quello che siamo soliti chiamare il potere temporale della chiesa. Nella situazione di crisi e di insicurezza determinata dalle invasioni germaniche e nel vuoto di potere lasciato dalla rottura dell'unità politica e amministrativa dell’Impero le istituzioni

e le gerarchie

ecclesiastiche,

infatti, andarono

conqui-

stando spazi sempre più consistenti e assumendo ruoli di importanza crescente nel proliferare delle autonomie locali prodotto dalla disgregazione degli apparati statali. In soccorso agli strati umili della popolazione la chiesa intervenne con le sue istituzioni caritative e anche con una sorta di patronato mediatore nei rapporti con i conquistatori; alle classi alte, che non trovavano più garantiti dai meccanismi politici e amministrativi dell'Impero l’accesso alle pubbliche magistrature e le sistemazioni convenienti al loro status, offerse nuovi strumenti di riqualificazione sociale. Nelle regioni dove le restanti testimonianze hanno consentito serie ricerche prosopografiche (soprattutto nella Gallia, meno riccamente in Italia e, in età più tarda, nella Germania renana), appare con evidenza che i vescovi e gli abati dei maggiori monasteri provengono dai ceti elevati. I membri delle grandi famiglie riemergono nel ruolo di leader locali, alla guida delle

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Cristianesimo

loro città e delle loro province, e a garantire, tutto sommato, la continuità con il passato, mobilitati talvolta dal potere germanico, ancora più spesso nelle file della chiesa. Già all'indomani degli insediamenti germanici vediamo che i vescovi esercitano spesso una funzione di supplenza nel trattare con i conquistatori o anche nell’organizzare la resistenza contro di loro. Quando il re visigoto Eurico, dopo il 471, attacca l’Ar-

vernia, è il vescovo di Clermont-Ferrand,

Sidonio Apollinare,

a

preparare l’opposizione contro l’occupante ariano e a predisporre le difese della metropoli arverniate. Egli viene relegato in esilio

allorché

la città,

qualche

anno

dopo,

cade

nelle

(morto

nel 397)

mani

dell’invasore, al quale proprio altri vescovi — Epifanio di Pavia e quattro presuli gallici — hanno dato via libera barattando l'Arvernia in cambio della restituzione di Arles e Marsiglia. In quegli stessi anni anche Fausto di Riez viene esiliato dal re visigoto, certamente per ragioni di dissidenza politica. Ritroviamo ancora Epifanio di Pavia influente interlocutore alla corte di Teoderico, allorché egli, assieme al metropolita di Milano, Lorenzo, saprà contrattare le misure punitive del re ostrogoto contro i fautori del vinto Odoacre. Ruolo di importanza primaria nella vita cittadina hanno nel regno franco i vescovi che Gregorio di Tours o Venanzio Fortunato descrivono sempre vittoriosi negli scontri con i magistrati merovingi. Una sorta di ricambio circolare sembra verificarsi ad opera dei cenobi più importanti, i quali offrono prima rifugio agli aristocratici in fuga dal saeculum e poi li restituiscono alle responsabilità e alla vita attiva, poiché in gran numero le diocesi vicine reclamano alla loro guida monaci di provata santità. Già nel monastero

fondato

da Martino

di Tours

a Mar-

moutier affluirono — come attesta il biografo del Santo — «molti

nobili e di loro molti furono poi vescovi»?!. Da Lérins, l’isolotto antistante la costa provenzale tra Cannes e Antibes, dove dai pri-

mi anni del V secolo prosperò un asceterio a forte concentrazione aristocratica, nei cinquant'anni

dalla fondazione

almeno

una diecina di monaci furono chiamati al soglio vescovile delle più importanti diocesi galliche. E giova ricordare che il fenomeno dovette apparire così significativo intorno al 430 da indurre papa Celestino a intervenire con una lettera ufficiale, nella quale ammoniva che i monaci restassero nella loro solitudine e le ca-

riche ecclesiastiche fossero riservate al clero diocesano 2! Sulpicio Severo,

Vita Martini 10,8-9.

(Epist.

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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4,8). Se la figura dell’abate legato all’aristocrazia feudale e alla

vorte, detentore di un formidabile potere economico e politico,

«ppartiene ai secoli successivi, già in questa fase iniziale del monachesimo occidentale osserviamo con frequenza come i mem-

bri delle grandi famiglie, divenuti da monaci vescovi, rientrasse-

ro di fatto nella vita pubblica, chiamati a presiedere alla vita religiosa della diocesi, a partecipare

alle assise della chiesa, a cu-

stodirne la dottrina, ma anche a governare realmente la città, ad

amministrare patrimoni di crescente entità, ad esercitare, insomma, un potere che, nell’assenza o nella latitanza di altre isti-

tuzioni, diventava sempre maggiore. Un processo di questo genere appare essersi effettuato più de-

cisamente in alcune regioni, per esempio nell’Italia teodericiana e, in modo

più duraturo, nella Gallia, dove la classe dirigente si

riebbe più rapidamente dai danni e dalla emarginazione momentanea seguita alla conquista barbarica e si compattò con la natio germanica e con la chiesa nell'esercizio del potere. Quella

classe,

invece,

uscì

stremata

dalla

guerra

gotico-bizantina,

dai

massacri longobardi, dal regresso demico e dall’impoverimento

generale che seguirono all'una e agli altri. Nell’Italia del VI secolo il monachesimo fu meno legato ai ceti gentilizi, più radicato nelle campagne, più prolifico di santi umili e marginali (ben lontani dal modello merovingio della santità episcopale), più rappresentativo, insomma, di una religione meno urbana, contadina e popolare. Questo, per lo meno, sembra essere il quadro religioso e monastico che risulta dai Dialoghi di Gregorio Magno,

fonte preziosa quanto discussa per la religiosità del VI secolo. Re-

sta indubbio, comunque, che, se una mappa degli insediamenti monastici nell’Occidente di questa epoca non è stata disegnata né è disegnabile con completezza e la storia del monachesimo tardoantico appare troppo spesso spoglia di nomi e di fatti, è tut-

tavia questa l’età più creativa del monachesimo europeo prima

di Francesco e di Domenico. Il maggior rigoglio monastico si era

avuto, nella prima metà del V secolo, nella Provenza, donde pro-

vengono quasi sicuramente le prime regole latine, quelle cosiddette «dei Santi Padri». Nel VI secolo non si spegne la grande tradizione di Lérins e di Marsiglia. Tra il 512 e il 542 un grande

vescovo, Cesario di Arles, che aveva avuto esperienze di vita asce-

tica nel cenobio lerinese, compose due regole, una per monache e una per monaci, dalle quali derivarono in gran parte le successive regole franco-iberiche. Ma in questo periodo è l’Italia a dare vita alle iniziative più originali e importanti. Nei primi de-

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Cristianesimo

cenni del secolo viene redatta in una regione culturalmente e giuridicamente vicina alla chiesa romana la bizzarra e insieme grandiosa «Regola del Maestro»; almeno un trentennio più tardi, probabilmente poco dopo la metà del secolo, Benedetto — misterioso e troppo mitizzato personaggio che gli studi recenti hanno definitivamente assicurato alla storia — scrive per i monaci di Montecassino la sua immortale Regola; in questi stessi anni a Squillace, in Calabria, Cassiodoro, un patrizio romano che ha col

laborato a lungo con la monarchia gota, fonda un monastero, il

Vivarium, che non avrà lunga vita, ma per i cui monaci egli scriverà più tardi quelle /nstitutiones litterarum divinarum et saecularium che alimenteranno a lungo la cultura medievale e costituiranno il testo di più diffusa presenza nelle scuole monastiche. Un centro importante di cultura e di spiritualità è il Lucullano, il mo-

nastero fondato da Eugippio vicino Napoli all’inizio del secolo. Eugippio vi redige una regula mixta (fatta di testi di Agostino, di Basilio, del Maestro, ecc.), vi introduce il culto di Severino, il san-

to del Norico del quale egli scrive la Vita, vi compone una silloge di scritti agostiniani che ebbe certamente un ruolo determinante nella circolazione del pensiero di Agostino in questo periodo, vi intreccia rapporti con i teologi del tempo, con l’africano Fulgenzio, esule dall’Africa vandala e relegato in un monastero della Sardegna, con il biografo di Fulgenzio, Ferrando, con

l’aristocratica Proba, forse la figlia di Quinto Aurelio Simmaco e

perciò imparentata con Cassiodoro e Boezio.

E, dunque, alla vivacità culturale dei centri monastici più at-

tivi, come i cenobi di Eugippio e di Fulgenzio in Italia e quelli legati a Lérins e Marsiglia in Gallia, che si allaccia il dibattito religioso e teologico di questa età. Nella quale, peraltro, difficilmente si troveranno voci di originale speculazione teologica. Non lo furono i maggiori letterati del tempo, Ennodio, Aratore, Dionigi il Piccolo, lo stesso Cassiodoro; un’alta, nobile rimedita-

zione di filosofia e scienza greca fu il De consolatione philosophiae di Boezio. Le controversie di più solido carattere dottrinale furono quelle provenienti dall'Oriente, prima fra tutte la polemica dei 7re Capitoli, suscitata da Giustiniano e continuata per tutto il VII secolo. I concili che si tennero nell’Occidente mossero tutti da questioni morali e disciplinari; più volte essi si occuparono dei contrasti tra i monasteri, che reclamavano autonomia,

e la gerarchia ecclesiastica, che riluttò sempre a rinunciare al controllo episcopale sugli abati. In definitiva i temi che continuarono ad attrarre maggiormente gli occidentali furono quelli

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Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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«pelagiani» del libero arbitrio, della grazia, del predestinazionismo, affrontati con passione negli ambienti monastici, specialmente gallici. Alla fine del secolo se ne preoccupò papa Gelasio; negli anni successivi ne scrisse Fulgenzio di Ruspe. Nel 529 il secondo

concilio di Orange, voluto e diretto da Cesario di Arles,

condannò come infette di pelagianesimo le dottrine dei provenzali e specificamente di Fausto di Riez. Neanche la cattedra di Pietro fu solita fornire contributi di alto livello al contenzioso dottrinale. Dopo Leone I e prima del grande Gregorio non ci furono intellettuali di altissimo rango sul soglio pontificio. Il vescovo di Roma è incontestabilmente in tutto l'Occidente l'autorità massima sia in fatto di dottrina che in materia disciplinare. Già con Leone, romanus è diventato per antonomasia il seguace della confessione cattolica, cioè il cristiano

che segue la formula di fede del vescovo di Roma e perciò si distingue dal barbaro ariano non meno che dagli orientali o da

ogni altro seguace di chiese, dottrine, liturgie difformi da quelle romane. Ma l’affievolirsi prima, la fine poi del controllo politico dell’imperatore dà all’istituto pontificio un potere ben mag-

giore sul territorio e nella società non meno che un fondamen-

to nuovo della sua autorità. Di fronte al frazionarsi dell’antico Impero la chiesa resta nell’Occidente il principio di unità. In una lettera all'imperatore di Oriente Anastasio, Gelasio I (492-498)

formula la teoria che avrebbe nutrito per secoli i rapporti tra lo

stato e la chiesa, secondo la quale il mondo è retto da due pote-

ri, entrambi eminenti, la auctoritas dei pontefici e la potestas dei re. Il suo successore, Simmaco (498-514), dovrà a Teoderico la

soluzione dello scisma che gli contrapponeva l’antipapa Lorenzo, e i papi degli anni di Giustiniano saranno costretti a piegarsi all'imperatore bizantino in questioni di teologia e subiranno violenze e sopraffazioni, ma anche in questo periodo nel quale la conquista bizantina ha rimesso sotto controllo il territorio romano il papa vi appare detentore di poteri quasi sovrani. Sovrano temporale il pontefice romano si avviò a diventare a pieno titolo con l'invasione longobarda, quando gli invasori accerchiarono per due secoli il ducato romano e questo restò bizantino solo di nome. Crebbe rapidamente la ricchezza patrimoniale della chiesa, sia quella sottoposta al controllo di Roma,

sia quella gestita dai vari vescovati, e specialmente intorno alle chiese metropolitane si creò una fitta rete di interessi economici. Ricchissima diventò la chiesa ravennate dopo avere incorporato i beni delle chiese ariane protette da Teoderico, al punto da

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Cristianesimo

allestire una flotta commerciale propria per gestire i traffici tra gli innumerevoli possedimenti dall’Istria alla Sicilia. A Roma, dopo la rottura longobarda, il patrimonio episcopale — patrimonium sancti Petri, secondo una nozione corrente già alla fine del secolo — costituisce una somma ingente di latifondi, dalla Gallia meridionale alla Sicilia all'Africa, e la sua gestione economica mo-

bilita in apposite carriere, come era avvenuto per i latifondi imperiali, un esercito di conductores, di funzionari, di scribi. Su que-

sto supporto economico e amministrativo poggia il fondamento del potere temporale dei papi, di quello che sarà nei secoli futuri lo stato della chiesa. Grande e geniale artefice ne fu, sullo scorcio del secolo, Gregorio I (590-604). Asceso al soglio pontificio dopo essere stato prefetto di Roma nel 573 e poi nunzio pontificio a Bisanzio, nei quattordici anni del suo pontificato Gregorio svolse una vasta, efficacissima opera di riorganizzazione della chiesa, di consolidamento

ministrativo; guadagnò

economico,

di riassetto am-

prestigio politico alla cattedra romana,

riuscendo a stabilire accorte relazioni con i Visigoti, con i Fran-

chi, con Bisanzio, con gli stessi Longobardi; promosse un’intensa attività missionaria, specialmente nel mondo anglosassone, giudicata dagli storici la decisiva ripresa del processo di evange-

lizzazione dell'Europa, dopo una stasi quasi bisecolare. Inter-

venne con equilibrio, spesso con sapiente gradualismo, sugli innumerevoli problemi che i mutamenti politici e sociali del tempo (specialmente in seguito alla «rottura» longobarda) propo-

nevano o riproponevano in modo nuovo, dalla convivenza con

gli Ebrei alle sopravvivenze pagane nelle campagne, dal culto delle immagini a quello delle reliquie, dal reclutamento del clero al

suo basso livello morale,

dalle molte questioni

relative alla vita

monastica alla riconversione cristiana dei santuari pagani: attività instancabile e sapiente che il massiccio epistolario del papa testimonia e descrive con preziosa puntualità. Né fu minore il contributo di Gregorio alla cultura cristiana ed ecclesiastica. I suoi scritti — la Regola pastorale, le Omelie su Ezechiele e le altre sui Van-

geli, i Moralia în Iob, i Dialoghi - se da un canto mostrano quan-

to profondamente il sapere si sia clericalizzato e la stessa dottri-

na cristiana si sia cristallizzata e, per certi aspetti,

impoverita,

dall'altro offrono in molte questioni come un riepilogo e una summa che nei secoli successivi costituiranno la base dell’insegnamento cristiano.

S. Pricoco

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno

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5. L'Oriente

Fino alla fine dell’Impero bizantino e alla caduta di Costantinopoli nel 1453, gli orientali continuarono a considerarsi

«Roma-

ni». L'imperatore di Bisanzio si ritiene erede e successore del-

l'impero dei Cesari, e come tale egli, custode dell'idea romana di universalità, rivendicherà sempre il proprio diritto a tutti i territori dell’antico Impero di Roma. Idealmente immutato nei suoi confini, questo è adesso rinnovato dalla nuova religione. Impero romano e cristiano, dunque. Il paganesimo resta appannaggio di alcune élites sociali, ma complessivamente anche le classi

alte si cristianizzano rapidamente, certo assai più di quanto av-

venga nell’'Occidente. E esemplare il caso di Basilio e Gregorio,

divenuti poi vescovi rispettivamente di Cesarea e di Nissa, i quali alla metà del IV secolo furono avviati dalla loro ricca famiglia cappadoce, senza remore di classe e senza pregiudizi economici, alla carriera ecclesiastica. Nelle città il cristianesimo era largamente diffuso, fino a costituire maggioranza, già prima della pace religiosa. Costantinopoli, voluta cristiana dal suo fondatore,

nel corso del V secolo si impone come il centro della cristianità orientale; la chiesa e la corte imperiale procedono unite, per esempio nelle cerimonie pubbliche e nelle festività, per mostrarne il volto cristiano. Dotata dagli imperatori precedenti di una ricca biblioteca e di altre strutture, sotto Teodosio II la capitale

è diventata il centro più attivo di cultura cristiana. Ma anche nei villaggi e nelle campagne il processo di cristianizzazione è vigoroso. Ne costituisce documento principale la copiosa letteratura ascetica e agiografica, entro la quale scritti come la Storia Lausiaca di Palladio, la Storia dei monaci di Teodoreto, i brevi episodi degli Apoftegmi dei Padri, le numerose Vite di eremiti e di santi aba-

ti offrono, pur nella debordante massa di elementi romanzeschi, miracolosi, edificanti, l’immagine di una società di contadini cri-

stiani, di monaci sempre più numerosi, di villaggi nei quali l’«uomo di Dio» ha una presenza immancabile. Ciò non toglie che anche il paganesimo sia sopravvissuto a lungo o mantenendo lineamenti tradizionali in taluni ambienti o mescolandosi, specialmente nel mondo rurale e nelle classi urbane più incolte, alle credenze e ai riti cristiani. In molte delle sue numerose omelie Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli nel 397 e morto in esilio nel 407, aveva espresso la sua

preoccupazione per il persistere di usanze pagane; ai tempi di Zenone (474-491) il neoplatonico Pamprepio pensa di scatena-

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Cristianesimo

re nel mondo anatolico un'impossibile restaurazione pagana e il medico pagano Asclepiodoto di Alessandria fa con successo propaganda rivoluzionaria nella città di Afrodisia in Caria. Ancora

intorno al 542 Giovanni di Efeso, il massimo storico di lingua si-

riaca, riceve da Giustiniano l'incarico di convertire i pagani del-

la diocesi asianica e in pochi anni riesce a battezzare più di 70.000

abitanti della Lidia e della Caria (Stein, 1958, II, pp. 371 sg.). Misure di coercizione antipagana furono adottate dai vari imperatori né mancarono episodi di scontri violenti e di vero e proprio terrorismo religioso. Sono rimaste famose, negli anni di Teodosio II, le spedizioni organizzate contro i gruppi pagani e i lo-

ro templi da Shenute, abate del Monastero Bianco nella Tebaide, sulla riva sinistra del Nilo, e capo venerato di fanatiche folle

monastiche governate con una disciplina di tipo militare. Ma più di ogni altro sovrano fu Giustiniano (527-565) a muovere contro

le residue popolazioni pagane, associando in una sistematica e dura opera di persecuzione pagani, eretici ed Ebrei. Sin dal primo anno del suo governo egli andò emanando una serie di leggi con le quali privava i non cristiani delle immunità e dei diritti civili, confiscava loro i beni e li condannava

all’esilio, infine

(con una legge del 529) comminava la pena di morte a quanti

continuassero a praticare riti pagani. Alle leggi si rono processi, condanne, esecuzioni. Il paganesimo era rimasto legato al fascino della zione culturale ellenica e aveva resistito soprattutto tellettuali. Anche nel V e VI secolo l’organizzazione

accompagna-

grande tradinei circoli inscolastica re-

sta quella di sempre, non solo nelle strutture, ma anche nei libri di base, che continuano ad essere i medesimi autori commentati

nei secoli passati, da Omero a Esiodo ed Erodoto, da Platone ad

Aristotele e Isocrate; nelle scuole filosofiche e nelle università fino

a Giustiniano mantengono l’insegnamento e trovano prestigio i pensatori e i retori legati alla tradizione pagana. Ma è anche vero che già nel IV secolo scrittori cristiani di grande autorità, come Gregorio Nazianzeno e Basilio (autore di un Discorso ai giovani nel quale esorta i destinatari a trarre dalla sapienza profana, alla maniera delle api, ciò che possa essere conforme all’ideale cristiano e ascetico), avevano cercato di stimolare a una valutazione più positiva dell'educazione tradizionale indicando elementi di convergenza sul piano pedagogico tra le Sacre Scritture e gli autori pagani, che sono come le «provviste» o il «viatico» (ephiòdia) anche per il cammino del giovane cristiano. Certamente né in quelle generazioni di intellettuali né dopo troviamo casi come quelli di Gi-

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rolamo e di Agostino, che avvertirono come un dramma angoscioso il conflitto tra le esigenze della fede cristiana e il fascino della cultura tradizionale. Custode della continuità pagana e roccaforte del platonismo militante fu Atene, dove l’insegnamento filosofico raggiunse grande prestigio specialmente sotto la guida

dei neoplatonici Proclo (410-485), filosofo, matematico e astronomo, scrittore prolifico e autore di poderosi commentari a Platone e Plotino, e Damascio, che diresse la scuola fino alla chiusura, ordinata da Giustiniano nel 529. Per contro, a Costantinopoli affluiscono, sin dai tempi di Costanzo II, maestri sia pagani che cristiani, e a Gaza fiorisce una scuola cristiana di retorica, con maestri prestigiosi come Enea, Procopio, Chorikios.

Nella società bizantina dei secoli V e VI sempre più pienamente i due epicentri del potere sono la monarchia imperiale e la chiesa. Le altre strutture politiche ereditate da Roma - il senato, il popolo organizzato in demi, l’esercito stesso e le sue forme di rappresentanza — perdono progressivamente ogni capacità di reale incidenza e limitano sempre meno l’autorità dell’imperatore. La chiesa, invece, quanto più lo stato e la società si fan-

no cristiani, tanto più acquista potenza. E non solo perché tra le due grandi istituzioni c'è spesso la convergenza degli interessi, ma anche perché il rapporto che si instaura con l’imperatore è di strettissimo legame, quasi di identificazione. Secondo una concezione che proviene dagli antichi imperi orientali e che ha tro-

vato accoglienza nelle monarchie ellenistiche, il sovrano è

l'elet-

to di Dio, la sua immagine e la sua autorità sono un riflesso dell'immagine e della potenza di Dio, da Dio egli deriva il suo potere, che è perciò assoluto, e per il suo rapporto diretto con Dio deve essere fatto oggetto di un vero e proprio culto religioso. Un cerimoniale solenne, la cui pompa fastosa e complicata va crescendo nei secoli e si va indirizzando verso forme sempre più decisamente orientali, traduce nella prassi della corte, delle udienze e delle apparizioni in pubblico la sacralità del sovrano. Queste ultime sono rare, perché anche l’invisibilità è fonte di potere, e quando l’imperatore si concede agli occhi delle folle, le sue apparizioni vengono preparate come epifanie divine. Alla sacralità dell’autorità imperiale collaborano gli alti gradi della chiesa, riconoscendola e rendendole omaggio in ogni occasione pubblica. È l’iimpero teocratico, nel quale stato e chiesa operano in uno stretto intreccio di competenze e di interessi, ma anche di

simboli e di idealità, lo stato qualificando giuridicamente le isti-

tuzioni ecclesiastiche, sovvenzionandole e proteggendole, la chie-

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Cristianesimo

sa coinvolgendo lo stato e i suoi vertici nella sfera del sacro. Nel 457 il patriarca di Costantinopoli incorona Leone I, inaugurando un cerimoniale politico-religioso che diventerà norma nei secoli successivi, in Oriente come in Occidente.

Questo rapporto di vera e propria simbiosi non impediva, tut-

tavia, che tra i due poteri nascessero contrasti e scontri. In linea generale si può dire che da Costantino a Giustiniano (527-565) la chiesa orientale, se da un canto ha goduto dei più ampi riconoscimenti e del sostegno continuo dell’imperatore, dall'altro canto si è trovata in uno stato di reale sottomissione nei suoi confronti. Lo scontro politico e ideologico tra sacerdotium e imperium, che contrassegna tante vicende del Medioevo occidentale, non resterà ignoto a Bisanzio nei secoli successivi, ma nel primo impero bizantino il sovrano conserva un'autorità quasi assoluta sulla chiesa. I contrasti non si radicalizzano nella formulazione della grande questione di principio, se il sovrano abbia titolo per decidere in fatto di dottrina; spesso si tratta di dissensi limitati a emergenze particolari e generati dallo scontro tra i funzionari imperiali e le gerarchie delle chiese locali. I contrasti più gravi furono quelli innescati dalle controversie cristologiche, specialmente quando taluni imperatori sembrarono propendere per soluzioni di tipo monofisita. Nello scontro dei poteri, e nelle controversie religiose che gli

si annodavano, parte rilevante e talvolta decisiva ebbero i monaci, la cui importanza in questi secoli tocca il suo apice. Sul monachesimo continuiamo a essere informati con una ricchezza non riscontrabile nella documentazione relativa a nessun altro aspetto della società bizantina. Crescono la ricchezza di molti monasteri e l'autorità dei loro abati, trovano presso il popolo un prestigio eccezionale alcune figure di monaci, talvolta celebrati per la stranezza dei costumi e delle perfomances ascetiche messe in atto (per esempio, il «santo folle» e lo «stilita», che viveva appollaiato su un'alta colonna), ma sempre più spesso integrati nella società sia civile che ecclesiastica. Nel V secolo i monaci della diocesi che vivevano fuori della città furono sottoposti al controllo di un «ve-

scovo di villaggio» (chorepìscopos) o direttamente all’autorità dell'esarca; nel secolo seguente

Giustiniano

limitò fortemente

sia

l'indipendenza personale del monaco che quella dei cenobi, stabilendo che i postulanti fossero ammessi definitivamente nel monastero dopo un periodo di prova di tre anni, che rispettassero l’obbligo della stabilità e che solo eccezionalmente fosse loro accordato il permesso di mutare residenza, che non avessero più cel-

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le separate ma dormissero in un dormitorio comune, che non sì potesse dar vita a un monastero senza il consenso del vescovo e che a questi spettasse la nomina dell’abate. Questo non significa che i monaci furono tutti e sempre assoggettati alla chiesa e al potere politico. I monasteri più popolosi e di maggior peso economico non di rado costituirono dei veri e propri potentati e specialmente nei periodi di maggiori difficoltà per il potere centrale riuscirono a mantenere la loro indipendenza. Questo accadrà soprattutto dopo Giustiniano e nei secoli successivi. La vicenda più importante nella storia del cristianesimo in Oriente durante il V e il VI secolo fu la lunga e accanita controversia cristologica. La dottrina proclamata al concilio di Calcedonia non era stata realmente accettata da tutte le chiese. Alcune di quelle che pur appartenevano all’ortodossia ufficiale riluttavano di fronte a talune implicazioni della tesi delle due nature in Cristo, altre restavano legate alla dottrina monofisita in senso stretto, cioè dell'unica natura del Salvatore. Il contrasto si aprì all’indo-

mani del Concilio e si trattò di un contenzioso di lunga durata e di

triplice carattere, non solo religioso ma anche politico e financo etnico, perché il dissenso teologico si intrecciò con le aspirazioni separatiste di alcune regioni e la formazione di chiese nazionali.

Si ebbero sommosse popolari ed episodi di violenza, come ad Ales-

sandria, dove nella primavera del 457 si verificarono gravi moti insurrezionali culminati con l’uccisione del patriarca ortodosso, Proterio. A Gerusalemme i monaci scacciarono il vescovo Giove-

nalio, e solo l'intervento massiccio dell’esercito imperiale riuscì a ristabilire la pace. In alcuni casi il contenzioso non fu mai chiuso e si tramutò in una frattura definitiva. Nel tentativo di salvaguardare l’unità religiosa e sperando di trattenere o richiamare le chiese in rivolta, alcuni imperatori si piegarono a compromessi e concessioni alle varie parti sino ad apparire indulgenti verso le tesì non calcedoniane e addirittura collusi con i monofisiti. Nel 482

Zenone (474-491) promulgò l’Henòtikon, «Editto di unione», le cui formule, che si rifacevano a Nicea e Costantinopoli e trascura-

vano Calcedonia, finirono con lo scontentare molti e suscitare più reazioni ostili che concordia. L'Editto fu rifiutato anche da Roma € per trentaquattro anni si determinò tra le due chiese un vero e proprio scisma (484-519), che si prolungò anche per tutto il regno di Anastasio I (491-518), convinto monofisita. Ritornarono a posi-

zioni calcedoniane prima Giustino I (518-527), poi il nipote e successore Giustiniano (527-565), con una serie di editti che ne im-

ponevano con durezza l'accettazione.

‘(b961 PI0OJxO ‘2420/17 UDUOY 421077 24], ‘S9UO[ ‘N'H'W EP QUOIZEIOGUII) 0UDIULISRIL) 07105 DRJSVI59I9%I IUOTZIZAUDÎUI

S. Pricoco

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L'atteggiamento di Giustiniano non fu sempre lineare nei molti anni del suo regno. Alle profonde convinzioni religiose dell’imperatore e ai suoi interessi teologici non superficiali si opposero le

spinte di situazioni confuse e difficili, che resero inattuabile il di-

segno politico di riportare l’unità religiosa nell'Impero, l’affermarsi di nuove o riemergenti dissidenze, i disegni alternativi dell’imperatrice Teodora, orientata verso le dottrine monofisite.

In talune occasioni egli fece dei passi in direzione degli opposito-

ri, per esempio quando, nel 534, si indusse ad accogliere una for-

mula teopaschita (che attribuiva al Verbo incarnato, in quanto

Dio, la sofferenza e la morte) e a condannare ufficialmente colo-

ro che la avversavano?? per poi ritornare alle forme più brutali di repressione poliziesca. Nel 543-544 si lasciò coinvolgere dal vesco-

vo di Cesarea, Teodoro Aschida, in una nuova, drammatica vicen-

da. Convinto che una tale misura avrebbe indotto alla pacificazione i monofisiti, promulgò un editto di condanna, anche retro-

spettiva, contro antichi e nuovi esponenti delle tesi antiochene,

Teodoro di Mopsuestia (morto nel 428), Teodoreto di Ciro e Ibas di Edessa. Poiché i testi attribuiti a questi autori erano stati montati in tre scritti, la dottrina che essi esponevano e l’editto imperiale che li condannava furono chiamati dei «Tre Capitoli». L’editto è perduto, ma ne conosciamo gli effetti lunghi e dolorosi. Suscitò riluttanza e divisioni tra i patriarchi orientali; il papa Vigilio fu sequestrato per sette anni a Costantinopoli, dal 547 al 554, fino a quando si decise ad approvarlo. Alla morte di Giustiniano il problema monofisita restava insoluto. Né conseguirono risultati i suoi immediati successori: Giustino II (565-578), che ripropose inutilmente, rivisto e rinnovato, l’Henòtikon di Zenone; Tiberio II (578-582); il tollerante Maurizio (582-602). Allo scadere del VI secolo la situazione è questa:

un gruppo di chiese ha rotto l’unità cristiana in Oriente, rifiutando la cristologia calcedoniana e sottraendosi all’autorità del patriarca bizantino; dalla chiesa costantinopolitana e imperiale si sono staccate due chiese di grande antichità e prestigio, quella egiziana e quella siriaca. In Egitto gli scontri tra i seguaci e gli oppositori dell’ortodossia calcedoniana avevano avuto fasi alterne e confuse, ma quando Giustiniano mise in atto la sua dura politica di persecuzione, si formò sempre più saldamente una chiesa copta del tutto staccata da Bisanzio. Per il suo influsso, dovuto anche alla contiguità geografica, la chiesa di Etiopia ne seguì 22 Codice di Giustiniano I,1,6 e 7.

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le scelte. Anche in Siria la situazione era precipitata e la frattura con Bisanzio si era avviata ad essere definitiva in seguito all’azio-

ne repressiva di Giustino e di Giustiniano. Alla posizione della Siria sì accostarono chiese fuori dell’Impero, come la Persia e l'Armenia. Queste chiese monofisite sono state denominate le «chiese di Oriente» e accomunate in un secolare giudizio negativo e in un persistente disinteresse storiografico, quasi sì trattas-

se di un ramo secco della tradizione cristiana. Oggi si preferisce chiamarle

«chiese non calcedoniane», si scopre la creatività del-

le loro culture e l'alto livello di antiche letterature come quella siriaca, si riconosce la grande vitalità di questi gruppi cristiani, che nel VII secolo caddero sotto la dominazione musulmana ma non ne furono cancellati e seppero anzi diffondere il cristianesimo in ampie regioni, fino alla Cina. Quel che appare certo è che le controversie del V e VI secolo e le scissioni che se ne originarono crearono un assetto in tre blocchi — il blocco romano-

occidentale, quello ortodosso, proprio del mondo greco-lavo, quello delle chiese di Oriente — nel quale il mondo cristiano si raccolse per secoli. I aggiunta di un quarto blocco, quello protestante, avrebbe poi ulteriormente frazionato la cristianità. BIBLIOGRAFIA

Abbreviazioni CIL

Corpus Inscriptionum Latinarum.

Funk

Patres Apostolici, Tubingae.

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Il cristianesimo medievale in Occidente di Grado Giovanni Merlo

1. INTRODUZIONE

Nel lungo periodo che va dal VII-VIII secolo alla Riforma protestante si definisce un cristianesimo peculiarmente occidentale non

solo nella distinzione

dal cristianesimo

bizantino,

ma

per

evoluzione e mutamenti interni. Non si pensi però che siffatto cristianesimo non abbia coscienza di rappresentare la cattolicità,

ovvero l'universalità della fede in Gesù Cristo. Anzi, i lenti pro-

cessi che conducono alla strutturazione del cristianesimo occidentale nella particolare forma del cattolicesimo romano,

sono

ripieni di ideologia universalistica, sia pur nell'accezione specifica di ideologia religiosa. Questo è il risultato storico di più alto significato e di più lunga durata (oltre che di perdurante realtà). Insomma, la cattolicità romana diventa tale — cattolicità romana in quanto «chiesa» convergente e culminante nel papato romano, che via via assume i connotati di monarchia pontificia — in quell’età che può essere detta contestualmente Medioevo occidentale. L'ideologia tende a coincidere con un’ecclesiologia attraverso uno sforzo intellettuale e organizzativo di straordinario rilievo. Così a partire dalla seconda metà dell’XI secolo la robusta tradizione del primato occidentale del vescovo di Roma si trasforma in superiorità dottrinale e giuridica su tutta la «cristianità», ossia sulle aree di cristianizzazione più o meno recente coincidenti con l'ambito geografico che ancor oggi siamo usi definire come Europa occidentale. Con ciò non si intende certo dire che l'Europa, in quanto area che oggi si vorrebbe unificata po-

106

Cristianesimo

liticamente, sia un prodotto ecclesiastico; questo sarebbe, tra l’al-

tro, contraddittorio rispetto alla stessa volontà universalistica della chiesa cattolico-romana. Tuttavia, uno degli elementi comuni che collegano paesi tra loro anche molto lontani è certamente il cristianesimo, ovvero il cattolicesimo romano.

La comunanza si presenta soprattutto a livello istituzionale e

culturale. La chiesa occidentale, in primo luogo, produce strut-

ture territoriali ed ecclesiastiche del tutto simili: regioni metro-

politane o arcidiocesi, diocesi, pievi o parrocchie.

Il cristianesi-

mo si definisce secondo suddivisioni spaziali, alle quali corrispondono specifiche competenze sacramentali e disciplinari. Elementi di complicazione non mancano per la consistente presenza di monasteri e canoniche

se variamente dentale

regolari «esenti», oltre che di chie-

collegate a poteri autonomi.

è eminentemente

una

chiesa

Ma la chiesa occi-

«sacerdotale»,

ossia epi-

scopale in quanto i vescovi sono considerati in possesso della pienezza del sacerdozio. Orbene, su tale fondamento si inseriscono

i processi di esaltazione del papato romano, identificato come vertice di un ordinamento ecclesiologico ed ecclesiastico: al vescovo di Roma sarà riconosciuto un diritto universale di intervento, una «pienezza di poteri» che non sarà limitata al corpo ecclesiastico, ma si estenderà, in modo giudicato legittimo, a ogni e qualsiasi aspetto della convivenza umana. La monarchia pontificia si farà ierocrazia, inducendo fenomeni di aspra concorren-

za da parte dei detentori del potere pubblico, concorrenza conflittuale che, in particolare, logorerà papato e impero nel corso

di una lotta secolare. Monarchia pontificia significa ancora co-

struzione di organismi centrali, curiali, e di una burocrazia in grado di intervenire con efficacia in ogni parte della cristianità, e,

nel contempo, sviluppo di un pensiero giuridico e di un'attività normativa — il diritto canonico — capaci di dare fondamento legale al potere pontificio e di far funzionare in modo ordinato le istituzioni di chiesa. In secondo luogo, nei secoli qui considerati avviene una larga omogeneizzazione, se non proprio unificazione, di riti e liturgie. È il primo piano dell'unità culturale, che si realizza in ambito sia elitario sia «popolare». Non si sottolineeranno mai troppo i fenomeni di circolazione «orizzontale» della cultura scritta e degli «intellettuali», fenomeni che pervengono al loro culmine con la fondazione di istituzioni originali quali le Università. C'è pure un'intensa circolarità «verticale» della cultura secondo una duplice direzione, dall’alto verso il basso e viceversa. Le ela-

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

107

borazioni religiose delle élites chiericali attraverso la predicazio-

ne, la cura d’anime, la ritualità, l'iconografia, l'architettura, si tra-

smettono e pervengono a ogni livello sociale: per contro, il pa-

trimonio delle tradizioni folkloriche, quando non sia affatto re-

spinto e annichilito, perviene al pensiero «colto», che lo meta-

bolizza e lo riutilizza a proprio arricchimento, assai spesso riproponendolo in forme cristianizzate. Se queste sono alcune linee lungo le quali si formano taluni dei caratteri principali del cristianesimo occidentale — per cui è tal-

volta difficilissimo, se non impossibile, distinguere la storia del cristianesimo dalla storia politica, sociale, economica, culturale —,

non si deve dimenticare quanto ricche si facciano le sperimentazioni religiose a partire dall'XI secolo proprio in corrispondenza con i processi di centralizzazione e di burocratizzazione del corpo ecclesiastico: sperimentazioni religiose che talvolta non giungono nemmeno a consolidarsi e assai spesso si pongono in singolare contrasto con la volontà di inquadramento delle gerarchie ecclesiastiche. Ne deriva una dialettica molto vivace che non sempre trova una sintesi, ovvero un riconoscimento

istituzionale e, dun-

que, un incorporamento nell’organismo ecclesiastico. La storia del cristianesimo medievale in Occidente è anche storia di occa-

sioni mancate, di repressioni violente, di chiusure ottuse, di conflitti di classe, di esclusioni drammatiche.

Di quanto sinora rapidamente illustrato si cercherà di dar conto in questo tentativo di sintesi: nella piena consapevolezza che di tutto non sarà possibile parlare, che non si potranno sciogliere tutti gli intrecci tra cristianesimo e società, che non si potranno seguire tutti gli sviluppi istituzionali, dottrinali, liturgici. Si cercherà invece di descrivere quei fenomeni che risultano di maggior rilievo oggettivamente e soggettivamente, ossia in considerazione degli effetti storici da essi provocati e in dipendenza dalle prospettive interpretative e valutative alle quali una qualsivoglia ricostruzione storica non può sottrarsi. 2. ORIENTAMENTI OCCIDENTALI DEL CRISTIANESIMO E FONDAZIONE DELL'EUROPA CATTOLICO-ROMANA

L’occidentalizzazione del cristianesimo è il risultato di un processo plurisecolare difficilmente riassumibile e presentabile in

modo rapido. Pertanto, limitiamoci alla constatazione che gli sto-

rici, grosso modo,

concordano

nel rilevare che l’Europa occi-

108

Cristianesimo

dentale comincia a diventare tale con l'età carolingia, ossia al vol-

gere dall’VIII al TX secolo, quando la potenza franca si incontra con il papato: incontro anticipato dalla lunga gestazione della fusione latino-germanica iniziata al tempo dei re merovingi per accelerarsi sotto i primi Pipinidi. Insomma, vere cesure e autentici punti di partenza sono assai difficili da stabilire, perché i termini si spostano facilmente in relazione ai parametri e alle prospettive dei singoli storici. Oggi, abbandonate le ambizioni di pervenire a sistemi interpretativi dalla cogente esclusività, si è più cauti e attenti a proporre visioni univoche, rigide c onnicomprensive, quando non onnivore, considerate indebite «riduzioni a uno» di fenomeni storici invero assai complessi e aperti. Sono tramontati così la «santa romana repubblica», come il «Medioe-

vo cristiano», per limitarci alle interpretazioni più famose e vul-

gate della storiografia italiana. Si è più attenti persino a cogliere un Medioevo definibile come tale non in base a criteri astrattamente cronologici o meccanicamente unificati: un Medioevo che non sia sèguito e premessa di periodi assai più gloriosi di quanto esso non possa essere, un Medioevo che non sia un'età di transizione tra epoche inevitabilmente più importanti del Medioevo stesso — l’Antichità e l’Età Moderna -, ma che trovi la sua ragion d’essere in se stesso;

un Medioevo che, però, è inevitabilmente occidentale, proprio in base ai caratteri generali e peculiari che quel determinato periodo ebbe nell'Europa occidentale e soltanto nell’Europa occidentale. Ciò non implica che, nel contempo, si debba avere una

cristianità peculiarmente occidentale coincidente tout court col Medioevo, cioè che si debba avere un «Medioevo cristiano», un Medioevo che per essere tale debba essere cristiano. Semmai è il contrario: è il Medioevo occidentale che ha un cristianesimo medievale occidentale, il quale si mantiene in continuo rapporto dialettico con l’evoluzione complessiva e particolare della e delle società: un cristianesimo,

dunque,

come

uno

degli elementi

costitutivi di un periodo storico coinvolgente un’area geografica

certo diversificata, ma non tanto da non avere destini incrociati,

caratteri comuni e organiche relazioni.

Quand'è allora che il cristianesimo si fa medievale e occidentale? E che cosa significa che il cristianesimo si connoti come medievale e occidentale? Sono domande di vastissima portata, per rispondere alle quali occorrerebbe una trattazione assai più lunga e specifica di quanto sia possibile e lecito nel presen-

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

109

te contributo. In questa sede limitiamoci a suggerire che il cristianesimo si fa medievale e occidentale quando si realizza l’in-

contro e la fusione delle tradizioni germaniche con quelle latine

attraverso la mediazione della cultura greco-romana e degli uomini di chiesa, con ciò allentando e quasi abbandonando i legami con il mondo bizantino, ovvero non avendo più necessità di riferimenti, per dir così, strutturali con il cristianesimo orientale. È indubbio che queste condizioni si creino con la convergenza tra regno dei Franchi e papato, pienamente realizzatasi nell'VIII IX secolo. I percorsi per giungere a tale risultato non furono obbligati, anzi, nella loro complessità e polidirezionalità, prendono strade che si possono definire casuali, di una casualità che soltanto nei suoi esiti si fa cogente. Le premesse, muovendo dagli esiti, sono facilmente individuabili. Il pensiero corre inevitabilmente alla conversione di Clodoveo sul finire del V secolo e al significato «provvidenziale» ad essa subito attribuito dall’episcopato galloromano, alle missioni

dei monaci irlandesi al volgere dal VI al VII secolo e, dunque, al-

la cristianizzazione delle popolazioni germaniche ancora politei-

ste, alla strutturazione

ecclesiastica

del

mondo

germanico

se-

condo i modelli episcopali mediterranei, alle missioni anglosassoni della prima metà dell'VIII secolo, al grandioso fenomeno di acculturazione cristiana di aristocrazie e popolazioni, alle modificazioni dello stile di vita episcopale nella simbiosi dell’alto clero con le aristocrazie militari, alle occasioni colte — in modo più o meno consapevole rispetto alla loro portata «futura» - dai Pipinidi-Carolingi per collegarsi col papato romano in modo diretto e privilegiato trasformando la loro prevalenza «franca» in una dominazione di vastissime ambizioni politiche e culturali. Tra tutti questi tratti e fenomeni un punto di partenza pur occorre scegliere. Muoviamo allora dal momento in cui tra VII e VIII secolo una nuova generazione di missionari, di provenienza anglosassone, si portò nel cuore del continente europeo. Qui quei missionari, cresciuti nella rigida disciplina ascetica e morale del monachesimo insulare, si trovarono di fronte a un episcopato dal costume violento e dai comportamenti certamente estranei a un rigoroso e composto stile di vita proprio della tradizione vescovile romano-ellenistica: la stessa organizzazione ecclesiastica da tempo non ruotava più intorno ai metropoliti, né contemplava periodiche riunioni sinodali, importanti occasioni per interventi disciplinari e normativi. Di tutto ciò e di altro ancora è testimonianza esplicita e preziosa la lettera che il monaco Bonifa-

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Cristianesimo

cio inviò a papa Zaccaria — ultimo di una lunga serie di papi di origine greca —, immediatamente dopo l’elezione di questi, agli inizi degli anni Quaranta dell’VIII secolo. Bonifacio non era il nome originario di questo monaco anglosassone: egli, nobile del Wessex, si chiamava Wynfrith. Dopo essersi recato a Roma, assunse il nome di Bonifacio e fu creato da papa Gregorio Il vescovo missionario. Dopo aver operato per decenni — sempre a nome del papato romano - tra le popolazioni di recente assoggettate dai Franchi, morì martire tra ì Frisoni nel 7754.

Orbene, dalla ricordata lettera a papa Zaccaria — secondo i cui suggerimenti Bonifacio intende agire — si ricavano preziosissime indicazioni sia sulla situazione della chiesa franca, sia sulle prospettive di intervento che Bonifacio intendeva attuare in stretto collegamento, per un verso, col papato e, per altro verso, con i Pipinidi. Innanzitutto egli provvede a organizzare territorial mente le aree a oriente del Reno secondo distretti diocesani, ele-

vando a

città/sedi episcopali diversi luoghi fortificati. In secon-

do luogo, vuole soddisfare alla richiesta di Carlomanno, primogenito di Carlo Martello, di indire un sinodo per la riforma di

episcopato e clero franco, per porre rimedio a una situazione ecclesiastica assai insoddisfacente: come abbiamo già ricordato, da

parecchi decenni i prelati non si riunivano più, né le sedi episcopali si raccordavano con le sedi metropolitiche; il clero viveva «tra fornicazioni e turpitudini»; i vescovi non trovavano contraddittorio, rispetto al loro alto ministerio, darsi all’ubriachezza, alla caccia, alla guerra, combattendo personalmente e ver-

sando «il sangue dei pagani e dei cristiani». Insomma, la lettera testimonia la convergenza del movimento riformatore di ispirazione monastica e papale con il vertice del regno franco, che a metà dell’VIII secolo doveva passare definitivamente e istituzionalmente sotto i Pipinidi-Carolingi. Nel 751 Pipino il Breve, proclamato re, ricevette l'unzione dai vescovi e, probabilmente, dallo stesso Bonifacio: unzione rinnovata tre an-

nîì dopo da papa Stefano II in persona, recatosi in Francia per sollecitare l'aiuto contro i Longobardi. In tali fatti vi sono le pre-

messe per le successive unzione e incoronazione, famosissime, di

Carlo Magno nell'800 da parte di Leone III Era così sanzionata una convergenza politica e culturale, che aveva comportato, tra l’altro, la definitiva sconfitta dei Longobardi nel 774 e il non me-

no definitivo distacco dalla corte imperiale di Costantinopoli. L'ideologia imperiale cristiana si rivolgeva a destinatari peculiarmente occidentali, come occidentali si facevano sempre più la

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Il cristianesimo medievale in Occidente

1ll

prassi e le teorie ecclesiastiche ed ecclesiologiche. Ideali cristiani e motivi politici si intrecciano in modo indissolubile nella fondazione dell’Europa cattolico-romana: e siffatto intreccio si prolungherà per secoli. Tuttavia questa considerazione non deve impedirci di cogliere e di ritagliare la specificità delle vicende ecclesiastiche e religiose. Ritornando alla lettera di Bonifacio a papa Zaccaria, non possiamo fare a meno di sottolineare come gli intendimenti riformatori del monaco anglosassone siano condivisi da Carlomanno,

il quale percepisce l’importanza fondamentale della restaurazione dell’ordinamento ecclesiastico nei processi di costruzione della propria dominazione politica. In coerenza, e per converso, i Pipinidi-Carolingi offrono la loro forza coercitiva a supporto efficace dell’azione di riforma disciplinare dell’episcopato e del clero, e di riordinamento territoriale, secondo modelli vescovili,

dell’organizzazione ecclesiastica. Il supporto si dirige nondimeno verso la conversione delle popolazioni germaniche politeiste o non ancora pienamente cristianizzate. Si pensi, per esempio, alle ripetute e assai cruente campagne di Carlo Magno contro i Sassoni: la conversione di queste ostinate genti fu ottenuta attraverso stragi inesorabili, seguite o accompagnate dall’emanazione di norme altrettanto inesorabili. La fondazione dell’Europa cattolico-romana avveniva dunque nella sovrapposizione di desiderio

di martirio,

di intolleranza

sanguinosa

e di violenza

conquistatrice. Ma su questi aspetti torneremo più avanti. Soffermiamoci ora su alcuni elementi del cristianesimo di età pipinide-carolingia. Se rivolgiamo nuovamente l’attenzione alle informazioni fornite dalla lettera di Bonifacio, l’episcopato franco risulta certo lontano dal composto e ordinato modello vescovile grecoromano: risulta, però, al tempo stesso un episcopato che sembrerebbe non trascurare la celebrazione dei riti, né tralasciare i compiti di intermediazione sacrale e, persino, di predicazione — supponiamo elementare — del Vangelo. E proprio a tale proposito che il monaco-missionario manifesta il suo sdegno: il clero che celebra i riti, che esercita le funzioni sacrali e che legge i testi sa-

cri, si macchia di comportamenti indegni per chi sia diacono,

presbitero o, addirittura, vescovo. Anzi, la gravità della situazio-

ne consiste nel contrasto tra la «santità» delle funzioni sacerdotali e la «peccaminosità» disordinata del costume degli uomini di chiesa. L'appello di Bonifacio al papa è di fornirgli indicazioni per interventi riformatori che siano coerenti con i «canoni ec-

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Cristianesimo

clesiastici»: nella prospettiva di imporre un sacerdozio sacralmente ispirato ai valori ascetici e virginali, nettamente distaccato dalla «carnalità» del mondo e dei rapporti interpersonali. D’altro canto, in linea con un'ispirazione veterotestamentaria e con

la suggestione dei Libri penitenziali introdotti sul continente dai

monaci insulari, siffatti ideali saranno estesi anche ai comportamenti dei laici: per esempio, con l’imporre ai coniugi l’astensione dai rapporti sessuali in taluni periodi dell’anno, con l’attribuire alla puerpera una condizione d’impurità. Sono fatti, indicazioni e orientamenti che, com’è facile com-

prendere, avranno lunghissima durata nel cristianesimo del Medioevo occidentale. Non diversamente di lunga durata sono le decisioni circa l'uniformazione delle credenze teologiche e delle pratiche cultuali, oltre che alcuni provvedimenti presi in età pipinide-carolingia. A metà dell’VIII secolo si stabiliscono l’obbligo della festività religiosa domenicale e dell’astensione dal lavoro nella stessa giornata. Pochi anni dopo Pipino rende obbligatorio il pagamento della decima. Insomma, tra VIII e IX secolo la restaurazione della disciplina sacerdotale e dell'ordinamento ecclesiastico comporta processi di uniformazione dei comportamenti religiosi e la tendenziale differenziazione della vita dei chierici da quella dei laici. Il latino è assunto come lingua ufficiale della liturgia e della cultura. In chiesa i fedeli sono collocati in posizione nettamente separata dal celebrante e dal clero salmodiante: la liturgia accentua il suo carattere di celebrazione dal forte carattere simbolico, alla quale i fedeli assisto-

no «passivamente», del tutto dipendendo dal celebrante che unico conosce e capisce senso letterale e significato profondo delle

parole e dei gesti. Per altro verso, si presta maggiore attenzione

alla dimensione storica dell'esperienza del Cristo e del suo sa-

crificio sulla croce. Nel contempo cresce il culto degli arcangeli,

dei santi e delle reliquie, oltre che quello dei morti. Si producono, dunque, consistenti fenomeni di integrazione fra tradizioni folkloriche di antica origine, spontaneamente trasmesse di generazione in generazione, e proposte cristiane intellettualmente costruite e mediate, nel più ampio intento di sacralizzare la realtà: partendo da quella di più alto livello istituzionale per arrivare sino a quella quotidiana. Occorre forse insistere sull'orientamento sacralizzante perché lungo di esso si svilupperanno le opposte tendenze intrinseche al «regno» e al «sacerdozio»: con il primo che sempre rivendica il proprio carattere sacrale — in qualche modo pensato e utilizzato come

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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principio di legittimazione — e che, dunque, semprerivendica il proprio peculiare compito di protezione dell’ordinamento ecclesia-

stico (e di intervento in esso: eleggendo o nominando vescovi, vi-

gilando sui comportamenti di monaci e chierici) variamente antagonistico nei confronti delle gerarchie di chiesa; c il secondo che tende a esprimersi in forme ierocratiche — la responsabilità si trasforma facilmente in superiorità del consacrante sul consacrato — variamente sostitutive delle prerogative delle gerarchie politi-

che civili. Con Carlo il Calvo, nei decenni centrali del IX secolo,

l'innalzamento sacrale della monarchia raggiunse vette impensate, quasi che il monarca, in quanto unto e incoronato, in quanto

tale per una sorta di elezione divina, debba essere oggetto di venerazione, distanziandosi dal resto dell'umanità sino a giungere a Dio. Non è un caso che Carlo il Calvo si ispiri a modelli imperiali orientali, allontanandosi - dice polemicamente un cronista — dai costumi dei re franchi (ma in conformità con un nuovo interesse

culturale per la grecità nel secondo periodo dell'età carolingia). La sacralità del potere era stata trasmessa ai Pipinidi-Carolingi dalla cultura ecclesiastica e si alimentava attraverso i vescovi. Non c'è chi non veda in questo un elemento di ambiguità, poiché il re/imperatore, nel momento in cui pretendeva di «sollevarsi» anche rispetto all’episcopato, doveva fare i conti con quello stesso episcopato (e ancor più col papato romano) che lo stesso potere regio aveva contribuito, per necessità pratiche e per impostazioni ideologiche, a irrobustire in senso politico. A questo punto è importante non perdere di vista il senso delle distinzioni che, nonostante tutto, si mantenne in età carolingia e post-carolingia: innanzitutto, si arrivò a una distinzione netta dei

compiti che spettavano ai chierici in quanto tali — il culto e la preghiera —, da quelli che essi esercitavano in quanto titolari di chiese dotate di ricchezze patrimoniali e di poteri sugli uomini. In se-

condo luogo, le funzioni specificamente religiose non venivano

confuse con i compiti che i Carolingi affidarono ai vescovi o presso la stessa corte regia o in qualità di missi dominici e «vigilanti» dell’operato degli ufficiali pubblici: compiti che non vanno intesi come espressione di un inserimento istituzionale dei prelati nell'ordinamento pubblico. Ovviamente ciò non significa che non vi siano state commistioni e interferenze tra i due ordinamenti.

D'altro canto, in età carolingia l’episcopato non solo si trova

coinvolto ai più alti livelli del governo, ma sviluppa contrasti e conflitti peculiarmente ecclesiastici soprattutto in relazione ai rapporti con i metropoliti, o arcivescovi: ne consegue il ricorso

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Cristianesimo

al papato romano da parte di vescovi e, soprattutto, ne deriva

l'elaborazione in ambienti episcopali franchi, verso la metà del

IX secolo, di una collezione di canoni nota come Decretali pseudoisidoriane. Tale compilazione, per lo più costituita da falsifica-

zioni o da testi corrotti e attribuita a un Isidoro Mercatore, ave-

va l’obiettivo di rafforzare «giuridicamente» il potere ecclesiastico dei vescovi nei confronti dei metropoliti — rafforzando il nesso vescovi/papa romano -—, e l'autonomia del clero dalla giurisdizione secolare. 3. UNA CHIESA IN MANO AI LAICI?

Tra la dissoluzione dell’impero carolingio e la riforma ecclesiastica dell’XI secolo l'Europa occidentale conosce i ben noti processi di frammentazione del potere e del particolarismo signorile, i quali hanno notevolissima incidenza sull’organizzazione ecclesiastica e sulla vita religiosa. Per contro, proprio siffatti fenomeni inducono, nel tempo, reazioni di segno opposto nei centri ecclesiastici e monastici di maggiore consapevolezza culturale e nei centri di potere nei quali pur sopravvivevano concezioni «unitarie» dell'ordinamento pubblico. La molteplicità di direzioni e la particolarità delle situazioni locali non consentono di fornire un quadro sintetico

coerente.

Il discorso si fa necessariamente

spezzettato,

anche se un filo conduttore «esterno» può essere dato da un’opinione storiografica (che è anche un giudizio storico) assai diffusa, che è riassumibile nella formula «la chiesa in mano ai laici» — lasciando da parte il fatto che gli storici dissentano intorno al momento in cui questo «dominio laicale» sarebbe avvenuto (dall’età pipinide-carolingia? dai regni post-carolingi?), mentre concorda-

no sul momento finale collocato grosso modo a metà dell'XI se-

colo. Vediamo allora di procedere attraverso piani tematici e problematici che si presentano lungo tale filo conduttore. A limitare una visione che si incentri in modo esclusivo sul controllo delle chiese da parte delle aristocrazie militari, non sarà superfluo da subito ricordare la crescita dell’importanza politica dell’episcopato nei regni post-carolingi che si esprime tanto nelle campagne quanto nei centri urbani, dove si strutturano politicamente in regimi vescovili. Ciò non discende in prevalenza da una particolare «laicizzazione» dei vescovi a seguito di una «crisi» religiosa derivata da trascuratezza dei compiti pastorali e dall’assunzione di modi di vita propri di un’aristocrazia a voca-

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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zione militare (fenomeni che pur esistettero, ma in dimensioni e di gravità non diverse da altre epoche). Esistono ragioni strutturali che discendono dagli sviluppi del rapporto regno/episcopato quale si era profilato in età carolingia e dagli sconvolgimenti a cui fu sottoposto l’Occidente europeo in età post-carolingia. Esistono altresì ragioni che discendono dalla potenza degli episcopati in grado di esercitare poteri signorili sulle popolazioni distribuite nei loro grandi patrimoni fondiari e di alimentare una propria clientela militare, rurale e urbana, oppure di assumere, sia per naturale affermazione sia per delega regia, il governo e

la rappresentanza politica delle cittadinanze.

Allora attorno al controllo degli episcopati, in quanto centri

stabili di forza istituzionalizzata e di rielaborazione culturale, ruotavano interessi generali e locali: l'interesse dei re che nei vescovi,

quando erano da loro direttamente scelti o la cui elezione essi avevano orientato o condizionato, individuavano supporti consistenti per il regno; gli interessi dell’aristocrazia militare maggiore talvolta orientata alla creazione di «dinastie episcopali» o, più spesso, semplicemente ambiziosa di pervenire a una carica che avrebbe consentito di potenziare le relazioni politiche e sociali della stirpe; e gli interessi di nuovi ceti che nel servizio ai vescovi trovavano possibilità di ascesa sociale. Benché siffatti modelli di comportamento siano di valore generale, occorre non dimenticare che non vi è alcuna rigidità, né meccanicità nel giuoco politico di età post-carolingia: né, d'altronde, quell'età sembra conoscere l’esigenza di una distinzione di ambiti, civili e re-

ligiosi — cosa che invece avverrà in pieno XI secolo. A una situazione del genere non fu estraneo lo stesso papato. Sul finire del IX secolo i papi si trovarono coinvolti in un ambiente nel quale la più sfrenata violenza si coniugava con una persistente tradizione intellettuale e nel quale, venuta meno la protezione degli ultimi carolingi, la vicenda pontificia era lasciata alla libera concorrenza e conflittualità delle forze locali. Fu questo il periodo in cui emerse la figura del vestiarius pontificio Teofilatto, la cui famiglia, soprattutto col nipote Alberico, princeps el omnium Romanorum senator, riuscì per un sessantennio a esercitare il potere temporale in Roma e assai spesso a condizionare, se non a decidere, le elezioni dei pontefici. Un papato dunque «nelle mani dei laici»? Anche a questa domanda è opportu-

no rispondere in modo non rigido o improprio, trovandosi allo-

ra i pontefici all’interno di un giuoco spregiudicato e violento, di cui essi stessi erano parte integrante. Si pensi che nell’età com-

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Cristianesimo

presa tra gli ultimi carolingi e l’imperatore Ottone I, cioè da Giovanni VIII a Giovanni XII, vi furono ben venticinque pontefici e un antipapa, molti dei quali morti in circostanze drammatiche. Limitiamoci a qualche esempio clamoroso.

Nell'882 contro Giovanni VIII fu organizzata una congiura,

nella quale erano coinvolti persino alcuni suoi parenti: il papa venne avvelenato e finito a colpi di martello. Nell’897 Stefano VI fu detronizzato da un'insurrezione: spogliato, imprigionato e infine strangolato! Era lo stesso papa che l’anno precedente aveva indetto e presieduto una sinodo romana contro il defunto papa

Formoso: il cui cadavere venne riesumato, collocato su una cat-

tedra, nonché difeso da un diacono costretto a rispondere a nome del pontefice morto. Si trattò di un processo vero e proprio con ricorso minuzioso alla tradizione canonistica, anche quella dimenticata da molti, con analisi puntuale delle azioni compiu-

te da Formoso: il quale, infine, venne condannato; i suoi atti fu-

rono dichiarati invalidi (con le conseguenze gravissime che è age-

vole immaginare,

soprattutto in merito

alle ordinazioni);

il ca-

davere, spogliato delle insegne e degli abiti, fu gettato nel Tevere. D'altronde,

spregiudicatezza, sfrenatezza e violenza di com-

portamenti e costumi si prolungano sino a metà del X secolo, quando sale al soglio papale Ottaviano, figlio non ancora ventenne di Alberico, col nome

di Giovanni XII.

Eppure in siffatto contesto «l’amministrazione pontificia andava avanti secondo l’abitudine e per l’abitudine, come le macchine ben montate». Le parole di Louis Duchesne

(1898, ed. it.,

p- 143) servano a rammentare che nella chiesa di Roma perdura-

vano gli schemi intellettuali e formali di una rigorosa e austera tradizione culturale e cristiana: schemi operanti persino durante il macabro rito processuale contro Formoso e sotto un papa dissoluto e crudele quale Giovanni XII. Si capisce allora come non ci si debba stupire che, in una carta di quest'ultimo «in favore di Subiaco», egli ordini «ai monaci di cantare ogni giorno, per la salvezza della sua anima, cento Kyrie eleisone altrettanti Christe eleison» (ibid.). Si tratta di contraddizioni di assoluta evidenza, eppure attestanti la possibilità di evoluzioni e cambiamenti straordinari, quando di quella tradizione sappiano impadronirsi forze orientate a riordinare in profondità le istituzioni ecclesiastiche. Il fenomeno che meglio suggerisce l’idea di un potere dei laici sulla chiesa riguarda le ecclesiae propriae (in italiano variamente dette «chiese private», «chiese signorili», «chiese patrimoniali»). Che cosa sono? Certamente non sono una novità di età post-carolingia,

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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poiché già si trovano anteriormente nel mondo germanico, bizantino e slavo. La novità sta nella loro straordinaria diffusione nell’Occidente europeo tra IX e XI secolo. Si trattava di edifici sacri costruiti su terra allodiale di una famiglia signorile, la quale provvedeva pure a dotare di beni il nuovo ente. Tali edifici erano considerati così luoghi di culto specialmente destinati ai fondatori e ai loro eredi, come elementi costitutivi del patrimonio fami-

liare dei potenti: i quali sceglievano il chierico officiante assai spesso dalla propria familia servile (all’ordinario diocesano spettava comunque la consacrazione sacerdotale, e nell'occasione il servo

veniva liberato) ed esercitavano il controllo economico della chiesa in riferimento non solo alla dotazione fondiaria, bensì anche al-

le oblazioni ed eventualmente alle decime, qualora la chiesa riu-

scisse a sostituirsi, in parte o in tutto, nel servizio liturgico e sacra-

mentale alla pieve (o alla parrocchia). Insomma, la presenza delle chiese private — che il signore cerca di potenziare anche in merito all’esercizio della cura d’anime — tende a rompere l’unità della distrettuazione diocesana minore e a dare un nuovo volto (più «privatistico» e meno «pubblicistico») ai caratteri dell'ordinamento ecclesiastico; ma ciò non ha conse-

guenze unicamente negative, dissolutrici, poiché spesso propone un inquadramento dei fedeli di maggior congruità rispetto alla distribuzione dei nuclei di popolazione e, dunque, favorisce la capillarità della distribuzione delle chiese sul territorio. Siffatta capillarità è favorita inoltre da altri tipi di £igenkirche rappresentati da monasteri e canoniche regolari anch'essi definibili «di famiglia». In tali casi comunità di asceti o di chierici viventi in comune, con la preghiera e i riti religiosi, erano destinate a celebrare e a rappresentare sacralmente la potenza dei fondatori e dei loro discendenti, i quali, oltre che beneficiare dei servizi religiosi di gruppi di monaci e canonici, utilizzavano le proprie fondazioni monastiche e canonicali come centri di potenziamento territoriale. Non si pensi che siffatte finalità impedissero la dilatazione religiosa di enti monastici e canonicali «privati», che talora riuscirono a con-

seguire notevole celebrità come santuari.

Chiese, canoniche e monasteri «privati» implicavano una dipendenza istituzionale da una famiglia fondatrice, variamente

espressa nella prassi e nei progetti degli stessi fondatori e protettori e variamente attuabile in rapporto alle fortune delle singole stirpi: tali stirpi non sempre riuscivano a conservare se stes-

se e a mantenere

volta si potevano

l’unità «di fatto» della proprietà;

trovare

di fronte

inoltre, tal-

a volontà autonomistiche

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Cristianesimo

dell’ente «di famiglia». Insomma, in quanto gli enti religiosi «privati» erano parte integrante della composita potenza signorile, non potevano sottrarsi alla rete di interessi e alla dinamica delle relazioni in cui essa era inserita e in cui essa giocava i propri destini. Chiese, canoniche e monasteri «privati», via via fondati e protetti da signori di ogni strato sociale impegnati in una concorrenza

imitativa,

e le connesse

vicende

lasciano

intravedere

uno dei motivi per i quali certa storiografia abbia dato enfasi all’intromissione (per lo più giudicata impropria) dei laici nell’ordinamento ecclesiastico. Si consideri, però, che edifici ed enti «privati», nel contempo, e in concorrenza con l’aristocrazia militare, erano fondati da vescovati e abbazie: insomma anche vescovati e abbazie avevano le loro ecclesiae propriae che venivano intese, non diversamente che nel caso dell’aristocrazia militare, come

luoghi di culto ed ele-

mento di potenza signorile. Allora il problema si sposta e non con-

cerne prevaricazioni e intrusioni laicali, che indubbiamente vi fu-

rono € furono esercitate in modo anche molto violento. Esso riguarda piuttosto la struttura della società (a prevalente carattere rurale) e del potere di età post-carolingia — società e potere considerati nelle loro basi economiche di natura eminentemente fon-

diaria e rurale —, e l'incidenza di quella struttura su caratteri e fun-

zionamenti delle istituzioni di chiesa. Con espressione forzatamente estrema si potrebbe addirittura affermare che, se tuttoè patrimonio, ovvero se tutto subisce un processo di patrimonializzazione, tutto può divenire oggetto di transazione patrimoniale: le chiese, o quote di esse, e i relativi «benefici» possono essere ceduti o acquisiti non diversamente da qualsiasi altro bene patrimoniale. Ecco qui uno degli elementi genetici del «disordine» nella vita religiosa e nella fisionomia delle istituzioni ecclesiastiche: disordine che susciterà la reazione creatrice dell’XI secolo finalizza-

ta alla restaurazione degli ordinamenti di chiesa secondo modelli

«pubblicistici» e gerarchizzati, oltre che a definire e ad esaltare il corpo di chierici e monaci in un ordo nettamente distinto sul piano ideale e canonistico dall’«ordine dei laici». In realtà sin dal X secolo operano tensioni riformatrici all’interno delle élites religiose in vario raccordo e col sostegno dei «laici». Pensiamo alla fondazione del monastero di Cluny, nel Maconnese, avvenuta nei primissimi anni del secolo per la convergente iniziativa del duca Guglielmo I di Aquitania e dell'abate Bernone. Il nuovo ente abbaziale si ispirava alla riforma monastica promossa agli inizi del IX secolo da Benedetto di Aniane in

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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accordo con l'imperatore Ludovico il Pio: riforma che aveva accentuato, nel solco della tradizione benedettina,

le dimensioni

liturgiche della vita comunitaria. A Cluny si accentuano ulteriormente i momenti della preghiera, del canto corale, delle processioni, oltre alla promozione

della cultura biblica; si alimenta

un gusto particolare per il decoro architettonico, liturgico, or-

namentale; si persegue la realizzazione di uno stato di comunione universale dei cristiani, vivi e morti, dei «santi», che così ce-

lebra «su questa terra» l'armonia e lo splendore divini. Al tempo

stesso,

grazie

alle ricche

donazioni

fondiarie

e alla saggezza

amministrativa dei suoi abati, Cluny costruisce una rilevante potenza signorile, speculare al suo essere modello di rigore ascetico e di vita di preghiera: costruisce pure una congregazione monastica di tipo nuovo, presto diffusa in Gallia e in Italia, alla quale afferiscono abbazie minori e priorati sottoposti al dominio o alla vigilanza dell'abate cluniacense. L'aristocratica costruzione religiosa di Cluny offre all’aristocrazia ecclesiastica e militare una strada di santificazione disciplinata, per dir così, su valori «monastici»: esemplare al riguardo è la Vita del conte Geraldo di Aurillac scritta dall'abate Oddone, in cui si esalta la santità di un laico, santità però del tutto plasmata sul modello monastico, ovvero monastico-signorile, co-

niugando l’equità del potente con le virtù del monaco. Nel contesto generale di istituzioni religiose e civili dall’incerto e con-

vulso funzionamento,

e in riferimento ad aristocrazie dai costu-

mi violenti, l'abbazia borgognona dimostrava la possibilità di funzionamenti e di comportamenti diversi, equilibrati e ordinati. Ne

ebbe consapevolezza, nella lacerata realtà romana, Alberico, l’erede di Teofilatto che dominava in Roma, il quale chiamò nel-

la città papale Oddone - secondo abate di Cluny — affinché provvedesse a «riformare» la disciplina negli enti monastici di quella città e dei dintorni. Era una decisione che anticipava la richiesta rivolta, sul finire del X secolo, a Qdilone - quarto abate di Cluny

— da Ugo abate di Farfa, monastero imperiale in Sabina. E da no-

tare come Ugo agisse in sènso riformatore, col supporto del prestigioso cluniacense, all’interno di un ente da tempo sconvolto dai contrasti tra i monaci, dalle dilapidazioni patrimoniali, dalla dissolutezza dei suoi membri,

essendosi pentito del modo

simo-

niaco attraverso cui egli era assurto alla carica abbaziale. Nel mondo monastico (e non solo in esso) agivano, dunque, forze costruttrici e disciplinatrici, e luoghi di trasmissione e di ripensamento del patrimonio intellettuale. Gli abati di Cluny si se-

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Cristianesimo

gnalano per la loro cultura letteraria. Ugo di Farfa propone una significativa narrazione della crisi del suo monastero e dei propri tentativi di riforma, considerati in rapporto con le vicende più ampie in cui l’una e gli altri si collocavano. A Gandersheim, in Sassonia, la canonichessa

Rosvita scrive per le sue consorelle alcuni

drammi agiografici ad imitazione e in sostituzione delle comme.die di Terenzio. Nelle scuole cattedrali — destinate a grande fama quelle di Reims e di Chartres -, spesso più spregiudicate delle scuole monastiche, continua l’interesse per gli scrittori dell’antichità e il gusto della discussione razionale e filosofica, con apertu-

ra ad ambiti di indagine quali la medicina, la matematica, l’astro-

nomia. Si profila insomma una pluralità di orientamenti religiosi e culturali che avrebbero portato al volgere dal X all’XI secolo ai dibattiti eucaristici — con la condanna delle posizioni di Berengario di Tours ostili al realismo eucaristico — e alle cosiddette «eresie del mille», che avrebbero portato alla complessità intellettuale di un Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), e avrebbero ridato vigore all’eremitismo con un Romualdo di Ravenna. 4. LA RIFORMA DELL’XI SECOLO: VERSO LA MONARCHIA PONTIFICIA

È stata soprattutto la storiografia italiana — grazie a Raffaello Morghen e agli studiosi che ne hanno sviluppato e approfondito le intuizioni — a cogliere e sottolineare l’importanza delle trasformazioni avvenute nel corpo della cristianità a partire dalla fine

del X e dagli inizi dell'XI secolo: un periodo opportunamente

definito di riforma ecclesiastica, riforma non limitabile soltanto

al pur centrale e determinante pontificato di Gregorio VII (10731085). Si può dire che, da un lato, i fermenti innovatori operanti

nei secoli anteriori producano finalmente i loro effetti costrutti-

vi, e che, d’altro lato, si determinino congiunture favorevoli al potenziamento della sede romana, vista e utilizzata dai «rifor-

matori» quale punto di riferimento eminente nel quale convogliare le energie e le forze più determinate al cambiamento. Quale cambiamento? Sarebbe meglio parlare di cambiamenti, con-

testuali a una generale crescita dell'Occidente nei più diversi

campi della vita umana. Non c’è però alcunché di meccanico, di

«predeterminato», di scontato negli sviluppi ecclesiastici e reli-

giosi che alla fine si affermeranno. Il procedere è convulso, assai

spesso casuale, imprevedibile. Certo, esistono uomini consape-

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volmente attivi, che operano in vista di obiettivi «pensati», ovvero progressivamente «pensati» e «ripensati», ma non necessariamente destinati a quegli esiti che poi ebbero. Pensiamo alle esperienze eremitiche di Romualdo di Ravenna al volgere dal X all'XI secolo, e al loro prolungarsi in situazioni, istituzioni e personaggi non secondari della «riforma». L’eremitismo, assunto attraverso le suggestioni letterarie della tradizione delle Vite dei Padri, è vissuto come forma valida di per

sé, riproducente l’autentico monachesimo delle origini, e come

scelta religiosa eroica destinata ad anime «forti»: in opposizione a una quotidianità monastica in generale giudicata priva di slancio, opaca e lontana dagli alti ideali del messaggio cristiano. L'attrazione dell’anacoretismo agisce su piccoli gruppi di individui provenienti dall’aristocrazia di varie aree europee: per esempio, accanto a Romualdo, di cospicua e potente famiglia ravennate, troviamo Pietro Orseolo — già doge di Venezia — e Giovanni Gradenigo, nonché Bruno di Querfurt, cappellano di Ottone II con cui era imparentato. Il messaggio cristiano è riproposto in tutta la sua dura intransigenza e in tutte le sue urgenti esigenze: è un messaggio cristiano per anime «privilegiate», tra loro unite da intensi legami fatti di idealità e sentire comuni. La stessa asprezza dei luoghi in cui si svolgono quelle impegnative esperienze ere-

mitiche — zone paludose e silvane —, assume valore simbolico ri-

spetto all’estremizzazione religiosa ricercata e perseguita. Orbene,

dall’esperienza

eremitica

romualdina

derivano

co-

munità e individui variamente impegnati nella riforma istituzio-

nale dell'XI secolo. Pensiamo all’eremo di Camaldoli, sorto tra

le montagne appenniniche dell’Aretino nel terzo decennio del secolo, qualche anno prima della morte di Romualdo, o al leggermente più tardo monastero di Vallombrosa, nella diocesi di

Fiesole, di cui avremo occasione di riparlare presto. Pensiamo alla straordinaria figura di Pier Damiani, anch'egli originario di

Ravenna, anch'egli fondatore di eremi sull'Appennino, partico-

larmente legato all’eremo di Santa Croce di Fonte Avellana, nel-

la diocesi di Gubbio. Egli unì una rigida intransigenza sul piano

religioso a una ricca cultura retorica: entrambe furono impiegate per un possente richiamo all’assolutezza del messaggio evangelico. Dall’eremo individui e comunità espressero una straordinaria volontà di intervento nella realtà tanto ecclesiastica quanto sociale e politica, per correggerne le distorsioni religiose e morali: volontà che essi derivavano, in modo quasi paradossale, dal

proprio rifiuto del «secolo». Non si dimentichi che si trattava dì

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Cristianesimo

un rifiuto aristocratico del mondo: l’eremo non sopportava mediocrità, ma richiedeva estremo rigore tanto verso se stessi quanto verso gli altri, e ancor più verso coloro che avevano responsabilità religiose o civili. L'isolamento moltiplicava, in persone di temperamento vigoroso e intransigente, il senso di responsabilità di fronte a tutto ciò che veniva interpretato come tradimento dell’Evangelo. Pier Damiani fu creato cardinale vescovo di Ostia durante il breve papato di Stefano IX (1057-1058), e in questa carica dimo-

strò di essere, oltre che un notevole scrittore, un diplomatico in-

telligente. Dalla radicale asprezza dell’eremitismo all’oculata attività di orientamento dell'organismo ecclesiastico c’è senza dubbio un salto - ben percepito da Pier Damiani —, ma in questo perso-

naggio si ha anche e soprattutto una delle espressioni più elevate

delle potenzialità presenti nelle esperienze religiose delle élites di chiesa: esperienze che trovano la loro sintesi fattiva nello sponta-

neo convergere verso il complesso e complessivo progetto di af-

fermazione della libertas ecclesiae. Insomma, l’«obiettivo» — perse-

guito con varia consapevolezza e coerenza — era di «liberare» l’or-

ganismo ecclesiastico da tutto ciò che appariva come interferenza rispetto all’autonomo funzionamento e agli interessi peculiari degli enti di chiesa. Così, al passaggio dal X all'XI secolo, mentre permangono processi di dispersione e di frammentazione dell’organismo ecclesiastico, si rinviene insieme un numero sempre maggiore di vescovi impegnati a potenziare e riorganizzare le loro diocesi: essi cercavano di sottoporre il clero e i laici a una disciplina per quanto possibile formalizzata in senso canonistico; si opponevano alla simonia; riproponevano il loro controllo su comunità

monastiche e canonicali; difendevano il patrimonio «santo» — a

protezione del quale spesso costruivano castelli -; provvedevano alla ridistribuzione di beni e redditi. Insomma, un numero sempre maggiore di ordinari diocesani propone pensieri e azioni rivolti alla «restaurazione» dell’ordinamento ecclesiastico e della loro stessa dignità e funzione episcopale. Non si pensi però che i processi di affermazione della libertas ecclesiae avvengano nell’assoluta contrapposizione con i laici. Pro-

prio nell’XI secolo assistiamo a forme di mobilitazione dei laici

a supporto del «partito» riformatore. La manifestazione più clamorosa si ebbe con la Pataria milanese. Appena passata la metà

deli’XI secolo, a seguito della predicazione anticoncubinaria e

antisimoniaca del diacono Arialdo, in Milano scoppiò una rivolta contro il clero maggiore e lo stesso arcivescovo. Il movimento

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durò per parecchio tempo, variamente sostenuto dai «riformatori» romani, e si estese ad altre città dell'Italia settentrionale fino a raggiungere Firenze, dove furono i monaci vallombrosani a ribellarsi contro il vescovo locale. È interessante notare che, dietro richiesta dei Patarini, i Vallombrosani inviano a Milano sa-

cerdoti di provata ortodossia e di «santa» vita. Insomma, si realizza un’imprevedibile apertura dei «riformatori» verso il mondo dei laici, i quali, a loro volta, si congiungono con la più rigorosa tradizione del monachesimo di ispirazione eremitica. Non si dimentichi che la virulenza della protesta e dei comportamenti fece sì che avvenisse un progressivo scivolamento, se non rovesciamento, semantico del termine patarino. Nel secolo XII esso di-

venne sinonimo di disobbediente ai mandata ecclesiae, di eretico:

ad attestare come l’assestamento della riforma comporti l’abbandono di ogni radicalismo religioso. In generale, nell'Occidente europeo, il supporto dei laici alla «riforma» avviene in forme meno clamorose: assai spesso sono i signori grandi e piccoli che ricorrono ai «riformatori» 0 ne favoriscono l’azione per la riforma di collegi canonicali e comunità monastiche. Dal canto suo, l’intervento dell’impero soprattutto ai tempi di Enrico III — il capostipite della dinastia imperiale di Franconia — favorì, in modo

giudicato provvidenziale, l'affermazione

dei «riformatori» nella sede pontificia: i quali, morto l’imperato-

re nel 1056 e ancora minorenne il suo successore Enrico IV, riu-

scirono a eleggere prima Stefano IX e poi Niccolò II. Benché il periodo del loro pontificato sia assai breve (complessivamente poco più di quattro anni, dal 1057 al 1061) e contrastato, esso costituì

una svolta di non piccolo rilievo: quasi a rappresentare un'’iniziale possibilità di funzionamento autonomo della cerchia dei prelati che attorniavano il pontefice. Innanzitutto, ci si oppose al tentativo dell’aristocrazia romana di riproporre il proprio controllo sulla sede papale imponendo l’elezione del cardinale vescovo di

Velletri, Benedetto X: il partito «riformatore», attraverso i cardi-

nali episcopi, elesse invece il vescovo di Firenze che assunse il no-

me di Niccolò II. Per ottenere tale risultato si fece ricorso anche al sostegno armato di cavalieri normanni sotto la direzione, anche militare, di Ildebrando, cardinale suddiacono di origine probabilmente toscana, la cui influenza negli ambienti papali, dai tempi di Leone IX, continuava a crescere.

L’aver riferito alcuni particolari della difficile elezione di Niccolò II valga a mettere in rilievo le vicende per niente lineari in

mezzo alle quali si realizza la trasformazione della potenza pon-

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Cristianesimo

tificia nell'XI secolo, e, anche, il peso delle contingenze nel de-

terminare provvedimenti rivelatisi poi decisivi. Uno di questi è la

decisione presa in una sinodo romana del 1059 sotto il pontifi-

cato di Niccolò II: i contrasti sorti nell’anno precedente avevano reso urgente la necessità di stabilire regole per le successive elezioni pontificie. In quella sede si decise che la scelta del papa spettasse ai cardinali vescovi, in conformità a quanto era accaduto per il papa in carica, riservando una funzione complementare agli altri cardinali e al clero e popolo romano. Si ponevano così le basi per possibili importanti sviluppi: la sottrazione dell’elezione papale a decisioni «non ecclesiastiche» e la creazione di un corpo ecclesiastico elitario da affiancare al papa nei compiti sempre più ampi che esso stava assumendo. Invero, i cardinali, ovvero i componenti del clero maggiore della regione metropolitana di Roma, suddivisi nei tre ordini — vescovi, presbiteri, diaconi —, si costituirono in un unico collegio, destinato ad assumere

grande rilievo e potere nel secondo e tardo Medioevo. Per altro

verso, la costituzione di quel collegio e la determinazione di nor-

me per l’elezione papale non impedirono che i conflitti intemi ed esterni all'organismo di chiesa continuassero e si rinnovassero ripetutamente e violentemente. Continuarono infatti nello

stesso XI secolo, già alla morte di Niccolò II, quando nell’otto-

bre 1061 i «riformatori» elessero il vescovo di Lucca col nome di

Alessandro II, mentre gli «imperiali» — la corte tedesca, l’aristo-

crazia romana e l’episcopato lombardo — elessero il vescovo di Parma col nome di Onorio II. Insomma, intorno alla scelta del papa si stava giocando una partita decisiva: una partita che coinvolgeva con sempre maggiore evidenza i rapporti tra «regno» e «sacerdozio» nel sistema della cristianità occidentale. L'esplosione del conflitto avvenne

con l'elezione di Ildebrando, che assunse il nome di Gregorio

VII, nel 1073. I dodici anni del suo pontificato furono intensissimi, connotati dal noto scontro con Enrico IV, oltre che dall’opposizione dell'arcivescovo di Ravenna, Guilberto, a sua volta elet-

to antipapa col nome di Clemente III nel 1080. Lo stesso Gre-

gorio morì esule a Salerno, in terra normanna, nel 1085: abbandonato da un certo numero di cardinali, la situazione di Roma

non era per lui affatto sicura. Lo scontro fu durissimo sia sul piano politico e militare, sia a livello ecclesiologico e ideologico. Nello scontro, però, furono piuttosto gli uomini della chiesa romana ad acquisire progressiva coscienza della propria identità e ad elaborare princìpi e prassi «rivoluzionari» rispetto alla tradi-

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zione ecclesiologica e «politica», mentre da parte imperiale si continuò lungo la linea carolingia e ottoniana che vedeva nell’impero il «protettore» delle strutture ecclesiastiche, anche se non mancarono importanti spunti teorici a supporto di una rinnovata autonomia, anche intellettuale, del potere regio.

Pressoché tutti i manuali di storia medievale, quando devono illustrare le concezioni gregoriane, si rifanno alle ventisette proposizioni che nel registro delle lettere di quel papa sono riportate sotto il titolo di Dictatus papae. In effetti esse sintetizzano in modo chiarissimo la vastità e la profondità delle prerogative e delle competenze riservate alla chiesa romana, e ovviamente al suo vescovo: una chiesa romana alla quale era attribuita la superiorità dottrinale e giuridica su tutta la cristianità, andando con-

tro ai tradizionali diritti e poteri non solo del «regno», ma anche dei metropoliti e dei vescovi. Si apriva una vastissima capacità di intervento della chiesa romana

così nel corpo ecclesiastico, co-

me nella società. Il processo che era nato per difendere la libertas ecclesiae da ogni intervento che apparisse intromissione nella vita degli enti di chiesa, finì per trasformarsi nell’avvio di un processo di fagocitazione della società nella chiesa, ovvero di sacra-

lizzazione della realtà. Finì pure per sollecitare la necessità di una

ricostruzione razionale delle istituzioni ecclesiastiche, struttura-

te in modo gerarchico e culminanti nel papato romano. La teoria si accordava con una prassi di governo rivolta a imporre gli orientamenti riformatori e, soprattutto, ad ampliare e proteggere l'autonomia dell'organismo ecclesiastico. In particolare, con audace coerenza, Gregorio VII difese il funzionamento dell’episcopato dagli interventi dell’imperatore, a partire dall’investitura regia. Doveva passare ancora un ventennio circa perché

si addivenisse a una soluzione. La soluzione fu trovata nel 1122,

attraverso il famoso concordato di Worms, tra i rappresentanti di Callisto II e l’imperatore Enrico V. Esso, per il regno teutonico, riconosceva una presenza non secondaria del re o dei suoi rap-

presentanti nelle elezioni vescovili, pur garantendo che le procedure avvenissero nel rispetto dei canoni, e ribadiva i legami temporali degli eletti nei confronti del re. Nei «regni» di Borgo-

gna e d’Italia, facendo prevalere la consacrazione religiosa rispetto alla concessione delle «regalie», i vescovi si trovarono invece maggiormente collegati col papato, che, non prevedendo il concordato la mediazione regia con l’ausilio del metropolita e dei suoi suffraganei, ebbe la strada aperta a intervenire nei casi, non rari, di elezioni contrastate.

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Cristianesimo

Una osservazione finale si impone: il coordinamento papale

dell’ordinamento ecclesiastico e secolare non si sarebbe potuto

realizzare senza il sostegno della costruzione di una scienza canonistica e di una efficiente organizzazione centralizzata. Abbiamo già accennato al fatto che l'insieme dei cardinali tendesse a costituirsi in un unico corpo: il processo si può dire compiuto agli inizi del XII secolo, quando si può legittimamente parlare di collegio cardinalizio, benché al suo interno permanessero miì-

nacciose tensioni e divisioni. I cardinali agivano in qualità di con-

siglieri permanenti e agenti del papa: compivano missioni dipiomatiche di particolare importanza e solennità in veste di legati. Riuniti in concistoro, sotto la presidenza del papa, collaboravano all’attività giurisdizionale riguardante le diverse questioni sottoposte alla chiesa romana. Il moltiplicarsi dei campi di intervento del papato sollecitò la nascita di nuove istituzioni centrali, tanto che la corte del papa si sviluppò in senso burocratico con organismi amministrativi differenziati (la «camera», una moderna «cancelleria», la «cappella», e così via). Andò progressivamente delineandosi persino la possibilità di percorrere all'interno della «curia romana» carriere professionali: al culmine del lo-

ro cursus curiale cappellani pontifici, suddiaconi della chiesa romana, chierici di cancelleria furono nominati cardinali e certu-

ni eletti papi (come nel caso, già sul finire del XII secolo, di Clemente III e di Celestino III).

Il secondo elemento che sorregge l'affermazione della supe-

riorità giuridica del papato su tutta la cristianità, risiede nel diritto canonico. La cultura ecclesiastica, nel suo impegno di rico-

struzione razionale delle istituzioni, poteva contare sulla produ-

zione giuridica derivante da un millennio di attività normativa, oltre che di riflessione scritturale ed esegetica. Il groviglio delle «auctoritates» necessitava di un riordino concettualmente efficace in vista della regolazione dei rapporti tra le chiese, del disciplinamento del costume e della vita sociale, della determinazio-

ne za: Ne più

delle modalità di attuazione del generale desiderio di salvezin armonia con gli orientamenti monarchici della cattolicità. derivò un'attività sempre più intensa e raffinata, che ha la sua alta e compiuta espressione nel cosiddetto Decreto di Grazia-

no, elaborato verso il 1140

(se non prima). Mediante

il ricorso

alla ratio - metodo di discussione critica e di soluzione razionale

dei problemi — egli realizzò il più celebre dei compendi sistema-

tici e ragionati di canoni: fondamento del corpo del diritto canonico successivamente completato nel XIII secolo e agli inizi

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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del Trecento da compilazioni ordinate ed emanate da Gregorio

IX, Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXII. Si ebbe così un

corpo di leggi ecclesiastiche che, avviato dalla iniziativa individuale di uno studioso, divenne espressione organica della viven-

te volontà di un «sovrano» operante in piena consapevolezza e

secondo ragione: un corpus giuridico tutto fondato e legittimato sul volontarismo legiferante del papa.

5. L'ESPANSIONE DELLA CATTOLICITÀ ROMANA: MITO DEL PELLEGRINAGGIO, DESIDERIO DI MARTIRIO, VIOLENZA CONQUISTATRICE

Già sappiamo come la fondazione della cristianità occidentale, in età carolingia, sia avvenuta tra slanci eroici e uso cruento della violenza. Si tratta di due aspetti di un’unica

realtà, contrad-

dittori quanto si voglia, ma coesistenti e operanti in dimensioni assai ampie e di lungo periodo. Se l’esercizio della violenza in nome

del Cristo è pratica altomedievale,

se non anteriore,

nel

corso dell’XI secolo esso si indirizza a favore dell’istituzione che del messaggio cristiano vuole essere l'autentica ed esclusiva detentrice, la chiesa romana, ovvero il papato. Ciò avviene in concomitanza con la lotta per la «riforma» e con l’incipiente espansione della cattolicità oltre i limiti dell'Europa carolingia. 1 patarini milanesi, nel loro impegno armato contro il clero concubinario e simoniaco, poco dopo la metà dell'XI secolo, combat-

tono sotto la protezione del vexillum Petri concesso loro dal papato: ciò avviene all’interno di una più generale consapevolezza

dei «riformatori», riguardante la necessità di intessere robusti le-

gami politici e militari capaci di portare a realizzazione la «riforma» stessa. D'altro canto, nella convulsa società di quel secolo non pochi vescovi, agendo in supplenza di un potere pubblico incapace di garantire l'ordine e la pace della convivenza collettiva, ricorrono spesso alla proclamazione delle «paci di Dio», periodi più o meno lunghi durante i quali i pauperes, cioè coloro che

non

erano

in grado

di difendersi

militarmente,

godevano

della speciale protezione «divina». L'obiettivo, più in generale, era di creare le condizioni per la protezione degli «inermi» —

compresi chierici ed enti di chiesa — dalle violenze dell’aristocrazia militare: insomma, di garantire l’ordine pubblico, là dove

esso era violato o minacciato per l'assenza di quei poteri che istituzionalmente avrebbero dovuto garantirlo.

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Cristianesimo

Non è un caso che la cosiddetta «prima» crociata sia bandita, nel 1095, da Urbano II a Clermont-Ferrand in un concilio di «pace» e «riforma». L'idea non era nuova: nuova fu la decisione di giungere all’effettiva mobilitazione della cristianità occidentale

per un’impresa che appariva straordinaria. La missione militare doveva provvedere alla liberazione del Santo Sepolcro dal domi-

nio islamico. Tutti sanno che si trattò di una missione militare e, a un tempo, religiosa: il combattente era assimilato al pauper Christi, cioè a colui che si faceva povero per il Cristo ed «esule e pellegrino» in nome della fede cristiana, e così si garantiva la speciale protezione del papato, oltre che farsi dei meriti in vista della salvezza eterna. Il «viaggio a Gerusalemme» — iter Hierosolimilanum —, prima di tutto, è pellegrinaggio penitenziale, strumento di redenzione, occasione di martirio. Non a caso Clermont‘Ferrand costituiva una delle tappe di partenza del «cammino» per Santiago di Compostela, il famosissimo santuario posto

nell’estremità nord-occidentale della penisola iberica nel quale erano conservate le spoglie dell'apostolo Giacomo.

Il pellegri-

naggio si fa, dunque, mito, ossia idea forte e grandiosa per la cristianità occidentale, contenente in sé secoli di slanci generosi e

avventurosi per la difesa e la diffusione del messaggio cristiano. Santiago di Compostela si trovava in quella regione iberica, parte della quale doveva ancora essere liberata dai consistenti resti della dominazione musulmana attraverso quel movimento che va sotto il nome di «Reconquista». Scarsa durata ed efficacia ebbe, sotto Alfonso VI di Castiglia e di LeGn, il tentativo di far coesistere due Spagne, una cristiana e l’altra islamica, benché sotto

la sovranità di un re cattolico. La «Reconquista», prima di tutto,

fu un movimento armato di durata plurisecolare: la guerra fu la condizione di esistenza nelle aree di penetrazione cristiana, dal-

la Spagna cantabrica e pirenaica verso sud attraverso la zona me-

diana della penisola iberica (asse leonese-castigliano) e in direzione delle coste mediterranee

(asse catalano-aragonese).

Inve-

ro, la penisola iberica costituì nell’XI secolo un’area di sperimentazione delle possibilità e delle modalità di espansione della cattolicità, un’area in cui poterono

combattere

i cavalieri di

Francia e in cui poterono dare il loro cospicuo supporto economico e religioso taluni enti di chiesa, quali Cluny. L'avventura ultramarina della prima crociata non si realizzò in modo improvvisato né senza il supporto dei necessari miti e ideologie. Da secoli gruppi di pellegrini o individui solitari si erano spinti nelle terre da cui era scaturito il cristianesimo. Questa volta,

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però, il viaggio coinvolgeva tutta la cristianità occidentale, liberando energie e sollecitando sogni: soprattutto spingendo a integrare sempre più, sul piano così pratico come teorico, l'impegno armato all’interno delle forme di testimonianza cristiana. In Terrasanta prese corpo l’ibrida figura del monaco-cavaliere inserito nell’organizzazione degli ordini religioso-militari (del Tempio, dell'Ospedale, del Santo Sepolcro). Lo stimolo proveniva dalla ne-

cessità di provvedere alla cura degli infermi, alla protezione dei pellegrini e alla difesa dei luoghi santi; ma non ci si limitò a pren-

dere atto di una necessità. Fu Bernardo di Clairvaux, nel trattatello De laude novae militiae dei primi decenni del XII secolo, a teo-

rizzare la legittimità cristiana della metamorfosi dell’uomo della pace e della solitudine in uomo della guerra e dell’azione mondana e militare: la «milizia» del monaco, in origine esclusivamente spirituale, si estendeva e si trasformava nella «nuova milizia» di

chi, in povertà e castità, combatteva «professionalmente» la guerra santa, di chi diveniva «crociato» a vita, di chi, essendo costretto a uccidere un «infedele», non avrebbe commesso un «omicidio»,

bensì un «malicidio». Che non si trattasse di una soluzione temporanea dovuta alla pressione delle contingenze è provato dal fatto che i monaci-cavalieri ebbero notevolissima diffusione dovunque ci fosse da combattere contro i «nemici del Cristo»: così nella pe-

nisola iberica, come nelle zone orientali in cui si stava attuando l’e-

spansione tedesca. E, quest'ultimo, un capitolo non meno importante e signifi-

cativo della dilatazione della cristianità occidentale, anch'esso at-

tuatosi assai spesso in forma di lenta e sanguinosa quella contro conda crociata in Terrasanta — a lo: dalle terre al di là dell’Elba e territori danubiani sud-orientali

Polonia. Il mondo germanico

crociata — particolarmente vioi Vendi, contemporanea alla separtire dagli inizi del XII secodella Saale sino all’Estonia, dai e alpini sino alla Boemia e alla

nella sua guerra contro le popola-

zioni slave si richiama esplicitamente all’azione dei «Galli» in Terrasanta. L’appello si articola secondo schemi oramai consolidati: missione religiosa, vantaggiose prospettive economiche, tradizioni politico-militari si integrano perfettamente. Assai innovativa, come forma di potere cristiano, fu la dominazione realizzata,

sul finire del XIII secolo, dall’ordine dei Cavalieri Teutonici sul-

le popolazioni dei territori sud-orientali del Baltico. Essa portò alla trasformazione socio-economica di quelle regioni — ampi territori furono dissodati e ridotti a coltura, numerosissimi villaggi

e un centinaio di «città» furono fondati, le tribù nomadi indige-

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Cristianesimo

ne furono trasformate in popolazioni stabili — e a una struttura politico-isutuzionale peculiare. L'ordine teutonico era efficacemente gerarchizzato e omogeneo: i monaci-cavalieri, per lo più provenienti dall’aristocrazia tedesca, ne erano la casta dirigente, superiore ai membri sacerdoti e ai «monaci sergenti» (talora reclutati anche solo temporaneamente). Il «gran maestro» risiedeva a Marienburg, in Prussia,

e di qui provvedeva al governo delle strutture centrali e periferiche dell'ordine e alla coordinazione politica dei domini baltici. La regione prussiana fu articolata in distretti politico-amministrativi affidati a «commendatori» e a «balivi», oppure a loro procuratori, comunque monaci-cavalieri. Non diversamente appartenevano alla casta dei monaci-cavalieri i principali funzionari dell’efficiente burocrazia, ramificata a ogni livello della società. Uguale efficienza fu espressa in campo agrario, commerciale, imprenditoriale e finanziario. Sugli enti ecclesiastici (vescovati, capitoli cattedrali e, sin anche,

parrocchie)

l’ordine esercitò una

pesante tutela, nel contempo impedendo o limitando la presenza o l'insediamento di altre comunità monastiche e conventuali. Ben diverso fu l’esito delle conquiste crociate in Oriente: un esito che non realizzò la sperata occidentalizzazione di quelle ter-

re e, persino, di quanto rimaneva dell’impero bizantino. Come si

sa, le vicende ebbero un andamento alterno; ma la presenza latina non riuscì ad affermarsi, anche quando, agli inizi del XIII se-

colo, i crociati conquistarono Costantinopoli. Per molteplici ragioni l'Occidente cristiano non fu in grado di consolidare e di ren-

dere stabile il proprio dominio nelle terre orientali che, alla fin fine, si mostrarono «lontane» ed estranee alla civiltà latina e alla re-

ligione cattolico-romana. La crociata conservò soprattutto i suoi

caratteri di ideologia o, se vogliamo, di elemento strutturale della

cattolicità romana, in quanto essa rappresentava uno strumento di lotta nei confronti dei nemici della chiesa romana. Fu così che In-

nocenzo III decise di proclamare, nel 1208, la crociata contro i «buoni cristiani» dualisti del Mezzogiorno di Francia, i cosiddetti

Albigesi. Fu così che nel Due-Trecento i papi minacciarono o lanciarono crociate non solo contro gli «infedeli», ma anche contro

coloro che, avversari politici della sede pontificia, venivano equiparati agli eretici. Nelle crociate interne alla cattolicità occidentale sarà sempre più difficile distinguere l'elemento religioso e l’ele-

mento politico, come accadrà ancora nel XV secolo nella lotta

contro gli hussiti e i taboriti di Boemia. Non più desiderio di mar-

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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tirio, né mito del pellegrinaggio: soltanto violenza restauratrice di un orizzonte d’obbedienza/ortodossia violato.

Un originale e isolato tentativo di espansione della cattolicità

romana, al di là degli schemi propri della crociata, fu cercato,

più a livello simbolico e progettuale che in termini di effettiva

realizzabilità, da frate Francesco d’Assisi, quando, sul finire del secondo decennio del Duecento, si recò totalmente inerme a

predicare l’Evangelo ai musulmani. Fu un tentativo generoso che realmente riprendeva le idee forti del desiderio di martirio e del pellegrinaggio penitenziale. Un’ispirazione analoga sembra non assente nelle idealità missionarie del vescovo Diego d'Osma e del suo canonico Domenico di Caleruega: idealità che non ebbero modo di concretarsi. Diverse ancora saranno le prospettive dei

frati Minori e dei frati Predicatori che, dopo il concilio di Lione del 1245, si avviarono a conoscere, per volontà papale, la «nuo-

va» realtà dei Mongoli e degli immensi spazi dell’Asia centrale e

orientale. Quegli avventurosi frati agirono con coraggio pari al-

la loro curiosità: in essi opera una componente conoscitiva davvero innovativa. D'altro canto, nella seconda metà del Duecento, ai vertici della cristianità occidentale si giunge a immaginare o, piuttosto, a sognare «planetari» progetti di alleanza tra cristiani e Mongoli al fine di accerchiare e, finalmente, annientare la po-

tenza musulmana. Il mito della crociata appariva sempre più tale. 6. TRIONFO E

CRISI DI MONASTERI E CANONICHE REGOLARI

Nei secoli XI e XJI il monachesimo, sia nelle interpretazioni più equilibrate della tradizione benedettina sia nelle modalità più estreme

dell’eremitismo,

si impone

come

manifestazione

emi-

nente di perfezione cristiana, assumendo un ruolo trainante nella vita religiosa, anche per quella dei chierici in cura d’anime: tanto che, da parte dei «riformatori», il modello sacerdotale si vuole ispirato ai valori del monachesimo (vita comune, povertà indivi-

duale, castità, ascetismo). L'espansione monastica sì atta attraverso numerosissime fondazioni e attraverso la formazione e il potenziamento di congregazioni monastiche di diversa fisionomia rispetto a Cluny. In breve tempo i monasteri si pongono, grazie alla loro santa esemplarità, quali referenti privilegiati della religiosità delle popolazioni, in generale, e della religiosità delle aristocrazie maggiori e minori, in particolare: la frammentazione dell’ordinamento pubblico e il moltiplicarsi dei centri di potere signorili fa-

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Cristianesimo

voriscono la nascita di abbazie ed eremi. Abbazie ed eremi, forniti di cospicue basi fondiarie per mezzo di ricche donazioni, assu-

mono assai spesso anch'essi un volto signorile oppure acquisiscono notevoli capacità economiche. In modo parallelo i collegi canonicali seguono vicende non dissimili. Lontanamente ispirati all’antica regola di sant'Agostino e alla carta di Aquisgrana

dell’816, le canoniche regolari, nel corso dell’XI e XII secolo, si

danno norme volte ad accentuare le dimensioni apostoliche, pau-

peristiche ed ascetiche delle loro comunità. In tale articolatissimo movimento

monastico

e canonicale è

perciò opportuno cercare di ritagliare alcune coordinate spaziotemporali. Agli inizi dell'XI secolo abbiamo, da un lato, l’in-

fluenza dell’eremitismo romualdino e camaldolese, in particolare, sul monachesimo vallombrosano e, d’altro lato, la diffusione

della disciplina cluniacense attraverso Cluny stessa, oppure attraverso l'opera itinerante di alcuni monaci quali Guglielmo di

Volpiano, oppure attraverso il coordinamento di abbazie presti-

giose quali Hirsau. Nell'ultimo quarto dell’XI secolo si affacciano non poche novità, soprattutto in Francia, in Borgogna e in

Italia. L'idea-guida appare ancora una volta l'ideale dell’eremo,

il mito dei «padri del deserto», anche se, per lo più, l’esito è in un eremitismo vissuto in forme cenobitiche: il monachesimo «riformato» vive tra eremo e cenobio. Brunone di Colonia, già scolarca di Reims e avviato a una brillante carriera ecclesiastica,

negli anni Ottanta dell'XI secolo abbandona il «secolo» e, nella solitaria valle della Chartreuse, nei pressi di Grenoble, ripropone la strada dell’anacoretismo più rigoroso ed elitario: un anacoretismo fatto per anime grandi, tra loro legate da intensa amicizia e fraternità spirituale, che intendono sperimentare la più elevata ascesi e così pervenire alla perfezione più raffinata. Ne derivano i certosini, i quali cercano e mantengono l'equilibrio tra eremo € cenobio con l’isolamento del singolo monaco e con momenti di vita comune tra i «solitari». Per altro verso, esperienze di eremiti e predicatori itineranti, alla ricerca della perfezione cristiana in forme duramente penitenziali, possono avere sbocchi istituzionali in fondazioni monastiche e canonicali. Nei primissimi anni del XII secolo Roberto d'Arbrissel, dopo un’intensa attività di predicazione itinerante, si

ferma a Fontevraud, nella Francia occidentale, dando vita a una

comunità monastica mista che passerà sotto la direzione di una badessa, alla quale si sottoporranno pure numerosi priorati dipendenti. Più o meno nello stesso tempo Stefano di Muret promuove

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

133

la fondazione del monastero di Grandmont, nel Limosino, da cui

deriverà una congregazione con netta prevalenza dei conversi sui monaci. Si badi: un Roberto d’Arbrissel e uno Stefano di Muret non devono essere confusi con un Brunone di Colonia. L’elitarismo di quest'ultimo è assente nella personalità dei due predicatori itineranti. Se per Brunone l’eremo giunge dopo un'esistenza assai impegnata nel movimento di riforma ecclesiastica ed è una vera e propria «fuga'dal mondo», per Roberto e per Stefano c'è un’assai diversa sensibilità verso la condizione umana di poveri, donne, marginali, malati, lebbrosi, e verso la povertà cristiana in-

tesa come modo di vivere concretamente l’Evangelo.

Essi, piuttosto, sono prossimi a figure quali Guglielmo di Vercelli e Giovanni di Matera, entrambi operanti nel Mezzogiorno

d’Italia nei primi decenni del XII secolo. ll primo è un penitente itinerante che sul Monte Vergiliano, in diocesi di Avellino, conduce vita anacoretica, presto raggiunto da sacerdoti, monaci, «fratres laici» e, probabilmente, donne. La libertà della sperimentazione iniziale — anch’essa attuata in forme oscillanti tra eremo e cenobio —, per metamorfosi interne e per intervento delle gerarchie di chiesa sarà presto ricondotta nel solco della tradizione benedettina: e Montevergine sarà a capo di una congregazione monastica. Giovanni di Matera, eremita e predicatore itinerante, verso il 1129-1130 si stabilisce a Pulsano, in una zona paesaggisticamente splendida nei pressi di Monte Sant'Angelo sul Gargano: intorno a lui si crea una comunità eremitica e la sede pulsanese sarà centro di una congregazione con dipendenze

sin nella Toscana e nella pianura padana.

Dall’eremo al cenobio, dal cenobio alla congregazione: tale evoluzione è attestata in numerosi casi per molte parti dell’Europa occidentale, anche se talora la catena può essere data dal

passaggio dall'eremo alla canonica regolare e da quest’ultima alla congregazione. Ciò è quanto avviene con Norberto di Xanten o di Magdeburgo, da cui originano la fondazione di Premontré, nella Francia settentrionale, e l'importante congregazione canonicale dei premonstratensi. Ciò è quanto avviene in riferimento a numerose altre meno note congregazioni canonicali; ma furono i premonstratensi a raggiungere una diffusione impressionante, superata soltanto da quella dei Cisterciensi. É tempo di fermarsi su questi ultimi per l’importanza da essi assunta nella cristianità occidentale del XII secolo. Gli inizi di Cîteaux, nella foresta di Digione, si riallacciano alla figura di Roberto di Mole-

sme, che vive nella sua esperienza personale l’alterna attrattiva

134

Cristianesimo

di eremo e cenobio. A Ciîteaux gli inizi furono stentati, dato an-

che il carattere assai aspro della vita della primitiva comunità di monaci,

i quali vivevano,

in uno

spazio

«desertico», un duro e

povero anacoretismo, dimorando in alloggiamenti provvisori € mantenendosi col lavoro delle proprie mani. Nel secondo decennio del XII secolo si legano a Cîteaux — l'ab-

bazia «madre» — quattro nuove fondazioni: le abbazie «figlie» di

La Ferté, Pontigny, Morimond e Clairvaux. Stefano Harding, «terzo» abate di Cîteaux, nel 1119 elabora una prima «charta carita-

tis» rivolta a disegnare l'iniziale connotazione del monachesimo cisterciense e a definire i rapporti tra i vari monasteri. All’elaborazione di siffatto originario documento non è forse estranea la conoscenza (e l’imitazione) delle consuetudini delle congregazioni

camaldolese e vallombrosana. L'organizzazione cisterciense si modella in forma di costellazione, prevedendo — contestualmente all'indipendenza di ogni singola abbazia — il capitolo generale, la «parità» tra i monasteri (anche se le cosiddette abbazie-figlie avevano il compito di visitare le fondazioni da esse derivate), l’appartenenza dei monaci all’«ordine» di Cîteaux in quanto membri di un’abbazia cisterciense, l'emanazione di statuti di validità generale, l'assunzione dell’abito chiaro contro il color nero della tradi-

zione benedettina e cluniacense. Il distanziamento da Cluny è netto non solo in riferimento all’abito: di Cluny si criticano e negano

la potenza signorile, la ricchezza patrimoniale, l'esuberanza litur-

gica, lo splendore architettonico, l'eleganza degli arredi e dei paramenti. I primi monaci di Citeaux intendono seguire la regola benedettina nei suoi caratteri originari e seguirla nel mondo più estremo possibile (arctius et perfectius).

Lo slancio che essi ne sanno trarre risulta davvero ecceziona-

le: in una trentina d'anni, dal 1119 al 1153, si passa da una doz-

zina a parecchie centinaia di monasteri, distribuiti dalla Sicilia all'’Irlanda e alla Scandinavia, dall’Andalusia alle terre baltiche. Giustamente gli storici si sono chiesti donde provenga tale capacità espansiva. La risposta, ovviamente, è molto complessa e andrebbe articolata per aree e per tempi. Tuttavia è indubbio che inizialmente il rigore pauperistico ed «eremitico», con la rinuncia alla fisionomia signorile assunta da Cluny e da altre congregazioni

monastiche

e canonicali,

abbia offerto la possibilità di

stanziamento in zone disagiate, e che il volto «santo» delle prime comunità abbia favorito l’offerta di terre, la cui coltivazione

i Cisterciensi

si assumevano

direttamente,

presto

affidandola

all'oculata e redditizia gestione dei conversi. Le loro abbazie, poi,

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

135

si inseriscono nelle realtà ecclesiastiche locali, non ricercando l'esenzione e dipendendo

dagli ordinari diocesani. Certo, con-

tribuiscono pure la volontà di affermazione da loro espressa e la capacità dei Cisterciensi di collegarsi con le famiglie, grandi e piccole, dell’aristocrazia. Tutto ciò avrà una fase esplosiva con Bernardo, dal momento

in cuì l’abate di Clairvaux, in occasione dello scisma papale del 1130, decide di entrare in prima persona nell’agone ecclesiastico e politico. In questa sede è impossibile fornire un profilo, per quanto schematico, di tale eminente figura che sovrasta il panorama della cristianità occidentale sino alla metà del XII secolo: figura che unisce in sé l’uomo d’azione e l’uomo di pensiero, il grande scrittore e il «politico» attivissimo, il mistico e l’intransigente persecutore di ogni «devianza». Ne forniremo soltanto alcuni aspetti frammentari, capaci tuttavia di farne intravedere la rilevanza. Il Clarevallense, in quanto leader, dà mostra della propria personalità fin dalla giovinezza, raccogliendo altri individui intorno

a sé per la realizzazione di un grande ideale cristiano: il monachesimo nella particolare interpretazione cisterciense, ovvero clarevallense.

Sono

Cîteaux e Clairvaux il centro, il modello,

il

luogo eccellente, il vestibolo del paradiso. Eppure, il monachesimo, che è fuga dal mondo, va alla conquista del mondo: per ricordare agli uomini la precarietà dei fallaci beni del «secolo», in

contrasto con la stabilità, la certezza dei beni che il Cristo promette a chi decide di seguirlo. Bernardo è forza trainante del moto di conquista, con il suo vigore, con la sua intransigenza: con

la sua nostalgia, anche, per l’abbandonata e agognata amica quies di Chiaravalle. E con una consapevolezza di fondo: soltanto la chiesa una, santa, cattolica e apostolica, con vertice nel papa, è l’unico potere in grado di salvare il mondo. Tutto ciò che è ritenuto una minaccia a siffatta idealità unitaria e autoritaria viene combattuto con ogni energia, in modo duro: soprattutto e ancor

di più quando la minaccia provenga dall'interno della chiesa e dei suoi uomini. Quando il vertice ecclesiastico si rivela incapace o inadeguato rispetto al proprio supremo compito, ecco che Bernardo interviene in una sorta di direzione «supplettiva» della cristianità. Lo testimoniano le numerosissime lettere a papi, imperatori,

re, principi,

magni

homines, vescovi,

abati. Lo

testi-

moniano gli interventi presso le autorità comunali, la predicazione della crociata, le lotte grandi e piccole, le controversie mag-

giori e minori.

136

Cristianesimo

Bernardo sembra coltivare il sogno di trasformare il mondo

in un chiostro: e, in effetti, i Cisterciensi si dedicarono

intensa-

mente ad attività non propriamente monastiche. Invero, tali attività furono in gran parte affidate all’intraprendenza e alle capacità operative dei conversi. Queste figure di «quasi-monaci» non sono esclusive del monachesimo cisterciense. Si tratta di in-

dividui di difficile definizione

giuridica, i quali dovrebbero

oc-

cuparsi di quegli affari non pertinenti ai monaci in quanto essi dovevano dedicarsi alla preghiera, alla liturgia e allo studio. I conversi fanno dedizione di sé nelle mani dell’abate e si impegnano a vivere, nell’ambito della comunità monastica, in povertà, obbedienza e castità. Tra i Cisterciensi, a loro viene affidato il com-

pito di gestire le proprietà fondiarie, di curare l’allevamento del

bestiame, di seguire le attività manifatturiere, commerciali e, per-

sino, creditizie. Si è già detto che i Cisterciensi — in contrasto con i modi signorili di sfruttamento delle terre seguiti da Cluny e da altri monasteri benedettini — scelgono la gestione diretta dei propri beni fondiari: ne consegue la formazione di aziende agrarie compatte e coerenti, le cosiddette grange, dall'elevata redditività.

I monaci «bianchi» ingigantiscono, razionalizzano strutture agra-

rie e sistemi di produzione: diventano una potenza di questo

mondo, suscitando reazioni critiche assai pungenti, quali quelle dell’aristocratico Walter Map, il quale, sul finire del XII secolo,

scrive tra l’altro: I Cisterciensi

[...] nutrono

diverse migliaia di maiali, vendendone

poi la pancetta, forse non tutta; le teste, le zampe, i piedi non li danno,

né li vendono, né li gettano; dove vadano a finire, lo sa Dio. Similmente rimane tra Dio e loro che cosa facciano delle galline, di cui abbon-

dano assai. Hanno rinunciato ai beni delle chiese e a ogni sorta di ingiuste acquisizioni, vivendo come l’apostolo, col lavoro delle proprie

mani, bandendo ogni cupidigia; ma per un certo tempo. Non so che

cosa si siano proposti quand’erano in boccio; ma qualunque cosa abbiano promesso, è venuto fuori un tale frutto che abbiamo paura degli alberi che possono spuntare.

Lasciata la potenza signorile e muovendo dal rigore pauperistico dell’eremo, i Cisterciensi conseguono una inarrivabile potenza economica. Con sarcasmo Walter Map ne mette in rilievo le straordinarie metamorfosi, aprendo uno spiraglio per vedere, più in generale, come il punto più alto del monachesimo «riformato» — di cui i Cisterciensi rappresentano l’esempio più clamoroso

— e, specularmente,

degli enti canonicali

coincida con

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

137

l’inizio della loro irreversibile crisi sul piano della storia religio-

sa. Questo è un capitolo che gli storici non hanno ancora illustrato con sufficiente attenzione. Per altro verso, è una vicenda non scontata, se pensiamo che ancora nell’ultimo quarto del XII

secolo il monachesimo cisterciense attira una personalità quale Gioacchino da Fiore, il quale vi aderisce ritenendo che essere monaco,

cioè

uomo

«spirituale»

per

eccellenza,

costituisca

la

condizione più adeguata e conforme all’incipiente età dello Spi-

rito. Verso la fine degli anni Ottanta egli si ritira nella Sila cosentina,

conducendo

vita solitaria e contemplativa

in un

/ugu-

rium, a cui si collegano vicini enti eremitici. Vengono così posti i fondamenti per un ordine monastico, riconosciuto dal papato

e definito «florense» dal monastero di San Giovanni in Fiore, sor-

to sul luogo del primitivo tugurium, con figliazioni nel Mezzo-

giorno e nel Centro d’Italia, la cui diffusione sarà bloccata dalla

concorrenza delle nuove esperienze «mendicanti». Sembrerebbe che il monachesimo, per perpetuare la propria

vitalità religiosa, abbia necessità di «teoria», di nuova riflessione

che ne metta in discussione l’assestamento istituzionale e assestamento che aveva comportato rigidità di schemi di terna e di relazioni esterne. Non si pensi però che siffatta gnifichi crollo di enti e strutture: essa significa, piuttosto,

sociale: vita incrisi siincapa-

cità di liberarsi dalle proprie sclerosi e di adeguarsi agli sviluppi

più avanzati della società. Al volgere dal XII al XIII secolo appare definitivamente superato il tentativo di monasticizzare la società: si stavano affacciando individui e gruppi i quali avevano intuito che il rapporto chiostro-mondo andava rovesciato. Non era più il mondo che doveva diventare un chiostro, bensì il mondo che co-

stituiva il chiostro: ossia la testimonianza cristiana e la missione

evangelizzatrice dovevano realizzarsi aprendosi al mondo, risco-

prendo una precarietà che il possesso di una potenza signorile o

economica più non consentiva. La stessa sfida di coloro che dalle gerarchie saranno frettolosamente definiti eretici richiedeva rinnovate modalità di apostolato. Non è un caso, forse, che i prestigiosi abati che Innocenzo Ill inizialmente chiamò alla lotta contro i «buoni cristiani» dualisti del Mezzogiorno di Francia, agli inizi del XIII secolo, fallissero nel compito loro assegnato. Né è un caso, forse, che negli stessi anni nel cuore della pianura padana gli

unici a opporsi agli eretici fossero gli Umiliati: i membri, cioè, di

una nuova formazione monastica nata dalla strutturazione di gruppi eterogenei e dinamici, disposti a vivere le idee forti della «povertà evangelica» e della «forma della chiesa primitiva» in mo-

138

Cristianesimo

do spregiudicato e nella concreta dinamica della vita quotidiana. Neppure gli Umiliati, però, costituiscono il definitivo superamento del monachesimo «riformato», poiché presto disciplinati negli schemi della tradizione monastica. Altri saranno i protagonisti della nuova stagione di un nuovo monachesimo. 7. TRAMONTO DEL RADICALISMO PATARINICO, FASCINO DEL PAUPERISMO EVANGELICO, REPRESSIONE ANTIERETICALE

Il grande movimento di riforma ecclesiastica dell'XI secolo, men-

tre sul piano istituzionale aveva avviato processi di chiarificazione, di formalizzazione e di distinzione, sul piano religioso e mo-

rale non era stato altrettanto efficace. Le questioni sollevate dai patarini e da chi pretendeva coerenza tra formulazioni teoriche

e azioni pratiche, rimanevano aperte. Ai vertici delle stesse ge-

rarchie il problema della povertà evangelica era percepito come contraddittorio rispetto alla potenza istituzionale della chiesa. Una decisione di grande peso in merito è presa durante il con-

cilio Lateranense del 1116, quando si ribadisce che la chiesa, ol-

tre che l’ovvio carisma soteriologico, possiede — secondo una linea che partiva sin dal «tempo dei martiri» e dalla «chiesa pri-

mitiva» — un’ineliminabile funzione temporale al servizio dei pro-

pri «figli». La potenza del «sacerdozio» era segno nel mondo della potenza di Dio: essa era irrinunciabile. Proprio contro siffatti orientamenti sembra rivolgersi la testi-

monianza di alcuni «eretici» della prima metà del secolo XII qua-

li Pietro di Bruis e il monaco Enrico. I due, nonostante qualche collegamento tra loro paia esistere, sono diversi: il primo — morto sul rogo forse nei primi anni Trenta del secolo — sembra agire in modo

convulso, ispirato a un radicalismo estremo e icono-

clasta e implicitamente negatore della funzione sacramentale degli organismi ecclesiastici e dei chierici. Più meditati e consape-

voli gli intendimenti del secondo, il monaco Enrico, ritenuto re-

sponsabile nel 1116 di un episodio «patarinico» nella città di Le Mans: predicatore evangelico in molti luoghi della cristianità,

egli sembra fondare la sua testimonianza su di un evangelismo im-

plicante l’affermazione della superiore autorità di Dio rispetto a

ogni altra obbedienza terrena — con riferimento ad Atti 5,29 —, il

dovere della missione apostolica e dell’amore per il prossimo: un

evangelismo che sembra pure implicare la rinuncia, da parte degli uomini di chiesa, di ogni potere terreno.

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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Di poco posteriore alle vicende di Pietro di Bruis e del monaco

Enrico è l'avventura umana, religiosa e intellettuale di Arnaldo da Brescia. Da Brescia, da cui è cacciato a seguito di una rivolta dei cittadini contro il vescovo, si trasferisce in Francia, dove frequen-

ta Abelardo e dove insegna «divine lettere» a un gruppo di studenti poveri. Nel 1145 compie un pellegrinaggio penitenziale a Roma per rispettare la decisione conciliatrice di Eugenio II. Qui la sua predicazione inizialmente si incontra con le tensioni antipapali e anticuriali del neonato comune romano. In un secondo

tempo il suo radicalismo evangelico, che possiamo ancora definire di tipo patarinico, risulta porsi in contrasto con gli interessi dei

nuovi gruppi dirigenti della città. Arnaldo entra in un gioco complesso, eppure senza alternativa, a cui partecipano papa e imperatore, oltre che le forze locali. I suoi giorni finiscono sul rogo nel 1155, vittima di quel gioco le cui cogenti regole e i cui esiti erano, per dir così, predeterminati dalle ragioni del «sistema»: un sistema che non era in grado di recepire proposte radicalmente sov-

vertitrici della collocazione del potere sacerdotale al suo interno,

a meno appunto di accettare la propria sovversione. Arnaldo da Brescia è da considerare, sotto diversi punti di vista, personaggio unico: nella scelta di farsi discepolo di un gran-

de teologo e di essere anch’egli maestro di teologia - benché rimangano oscuri portare al centro co, nel collegare a forze politiche

i caratteri della sua piattaforma teologica —, nel della cristianità romana il suo ideale evangeliconsapevolmente la realizzabilità di tale ideale e sociali, nel suscitare le reazioni dei vertici del-

la cristianità e il giudizio delle migliori intelligenze e delle più sensibili coscienze del suo tempo. In campo ereticale con Arnal-

do, a mio parere, finisce il radicalismo di tipo patarinico, portato alle sue estreme conseguenze in un contesto non più ricettivo: non ci saranno in seguito individui con analoghi legami, per

quanto conflittuali, con l’aristocrazia ecclesiastica ed intellettuale, individui che incontrino le stesse opportunità e mostrino le

stesse capacità di procurare una base politica alla propria volontà di riforma religiosa ed ecclesiastica. Dopo Arnaldo vien meno la tensione riformatrice in riferimento alle istituzioni. Non ci sarà più un’ostinata e dura aggressività verso i vertici della chiesa. Ci sarà parallelismo di vicende, Oppure ci sarà un’aspettativa piena di speranze. Il parallelismo concerne la vicenda dei «buoni cristiani» dualisti, coloro che dal-

la cultura

polemistica

dei

chierici verranno

definiti Catari.

L'aspettativa speranzosa riguarda invece i gruppi di «poveri del

140

Cristianesimo

Cristo» che scoprono il dovere dell'annuncio della Parola e dcl-

la vita pauperistico-evangelica, oppure che intravedono il disve-

larsi di una nuova età, dell’età dello Spirito. La comparsa di un cristianesimo di impianto dualista in Occidente non è ancora stata spiegata a pieno dagli storici (come, d’altronde, non se la spiegarono gli uomini di quel tempo): alcuni pensano ad apporti e influssi orientali conseguenti alle accresciute relazioni prodotte dalla prima e seconda crociata; altri stimano sufficienti le tradizioni esplicitamente o sotterraneamente dualiste della cultura cristiana occidentale. Rimane la constatazione che un «dualismo» consapevole di una propria origi-

nale connotazione emerge nell’Occidente europeo poco prima

della metà del XII secolo. È un dualismo cristiano dai forti accenti pauperistici ed evangelici. Non insisteremo qui sugli aspetti teologici e dottrinali; insisteremo invece sul fatto che le prime manifestazioni in cui compaiono i «buoni cristiani» dualisti sono individuabili là dove si esprime un legame più o meno mitico,

più o meno reale, con una «storia» che non è quella delia chiesa romana, e ha invece un suo percorso indipendente

che ri-

manda alle «origini» del cristianesimo. Così gli eretici di Colonia, denunciati dal premonstratense Evervino di Steinfeld in una

lettera a Bernardo di Chiaravalle degli anni 1143-1144, si collegavano con i «tempi dei martiri» attraverso il perdurare, in «Gre-

cia» e in altre terre non precisate, di un’autentica tradizione apo-

stolica ecclesiasticamente strutturata.

Verso gli anni Sessanta-Settanta del XII secolo sembra che i

dispersi e molteplici gruppi «dualisti» evolvano in formazioni religiose più identificabili e definite sul piano dottrinale e organizzativo attraverso forse l’influenza di predicatori orientali che importano in Occidente riti e miti dualistici di orientamento sia radicale, sia moderato. Ne deriva soprattutto la costituzione delle chiese dei «buoni cristiani» del Settentrione e del Mezzogiorno di Francia e dell’Italia centro-settentrionale. È una storia che la documentazione non aiuta affatto a chiarire nei suoi caratteri e nei suoi tempi. L'impressione è che sia la storia di una presenza montante grazie anche alle condizioni politiche e sociali di alcune aree a più alto sviluppo economico e guidate da ceti dirigenti orientati a sottrarsi al potere degli uomini di chiesa: i paesi occitanici del Midi francese e la pianura padana. Éretici dualisti e gruppi pauperistico-evangelici crescono non tanto per protezioni strumentali da parte dei detentori del potere politico o

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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di membri di famiglie eminenti (protezioni, d’altro canto, assai raramente documentate), quanto per gli spazi di libertà d'azione che il quadro politico-sociale apriva. E la situazione del Mezzogiorno francese che sin dal terzo concilio Lateranense del 1179 preoccupa il papato e i padri riuniti a Roma: la giudicano pericolosamente attraversata da sconvolgenti turbamenti politico-militari e da gravissime deviazioni religiose, gli uni e le altre unificati nella stessa condanna — ossia unificati dal

vincolo dell’anatema che colpisce sia gli eretici, sia i routiers—, e ta-

li da richiedere la mobilitazione di «tutti i fedeli» sollecitati a impugnare le armi per la difesa del popolo cristiano, dietro la concessione delle ricompense spirituali e delle protezioni giuridiche

riservate ai «crociati». Nella pianura padana, invece, i vertici ec-

clesiastici non prevedono un analogo, immediato impegno militante. Si intravede qui una prospettiva di lungo periodo, secondo la quale il dissenso religioso tende a essere interpretato in chiave di violazione dell'ordinamento

(civile e, a un tempo, religioso 0,

per meglio dire, ecclesiastico): cosa che sarà definitivamente sanzionata sul piano ideologico e giuridico con la decretale Vergentis in senium emanata da Innocenzo III nel 1199. Certo è che, quando in Italia si risolvette il conflitto con Fede-

rico I, papa Lucio HI non esitò a emanare da Verona, nel 1184, la

decretale Ad abolendam con la quale venivano scomunicati «Catari

e Patarini e coloro che, mentendo, falsamente si chiamano Umiliati e Poveri di Lione, Passagini, Giosefini, Arnaldisti». Non solo:

l’atto pontificio estendeva la scomunica, prima ancora che a quanti diffondevano dottrine sui sacramenti difformi dall’insegna-

mento della chiesa romana, a tutti coloro che, senza autorizzazione della sede apostolica o del vescovo locale, avessero osato dedi-

carsi, «pubblicamente o privatamente», alla predicazione, e ciò, si badi, indipendentemente dal contenuto della predicazione stessa. Era una forzatura disciplinare che oggi può suscitare stupore, ma che non era contraddittoria con le decisioni prese pochi anni prima in occasione del terzo concilio Lateranense. In quella circostanza Alessandro III aveva respinto le richieste provenienti dagli

iniziali seguaci di Valdesio di Lione e dai primi Umiliati di Lom-

bardia: richieste concernenti appunto la possibilità di predicare da parte di individui che avevano compiuto precise scelte di tipo pauperistico-evangelico e avevano assunto uno stato di vita reli-

gioso. La tradizione sacerdotale, le concezioni canonistiche e, forse non ultimo, un elitarismo di classe avevano impedito che l’an-

142

Cristianesimo

nuncio della Parola potesse essere affidato a «non-chierici» — di normasi dice «laici», ma tale termine oggi sembra ingenerare non poche confusioni —, provenienti, per quanto se ne sa, in prevalenza dai nuovi ceti emergenti cittadini, con i quali le élites chiericali non avevano ancora realizzato i canali di raccordo. Valdesio, o Valdo,

era un

«cittadino»

di Lione

che, verso la

metà degli anni Settanta del XJI secolo, non solo si converte alla povertà evangelica, ma dalla condizione di «povero del Cristo» trae le ragioni che legittimano la sua attività di predicatore dell’Evangelo. Egli è presto seguito da altri laici e chierici che si

fanno

rando

a loro volta predicatori.

d’Osca, formulerà

missione

apostolica

Un

suo seguace,

il chierico Du-

una suggestiva interpretazione

di Valdesio,

vedendo

della

in lui «illetterato»

il

nuovo apostolo scelto dal Cristo stesso, in analogia all’originaria chiamata di «pescatori senza lettere», per rinnovare l'annuncio evangelico di fronte all’afasia di prelati «malvagi», carichi di peccati, e incapaci di opporsi agli «errori» degli eretici «dualisti». Insomma, il valdismo si muove da una piattaforma perfettamente ortodossa che non trova la comprensione degli uomini di chiesa, incapaci di accettare che i seguaci di Valdesio — i «Poveri di

Lione» — possano assumersi un compito pastorale senza possedere inizialmente la necessaria cultura teologica e, poi (quando

tra loro entrano chierici), senza subordinarsi disciplinarmente alle gerarchie ecclesiastiche. E ciò condurrà parti del movimento valdese a radicalizzare le proprie posizioni e a staccarsi sempre più dai vertici chiericali: il pensiero corre, a quest’ultimo proposito, ai Poveri lombardi staccatisi nel 1205 dai Poveri di Lione.

La vicenda degli Umiliati presenta talune analogie con quanto illustrato a proposito dei Poveri di Lione soprattutto in rela-

zione ai rapporti con le gerarchie ecclesiastiche. Anch'essi, pur

essendosi recati a Roma durante il terzo concilio Lateranense ed essendosi rivolti a papa Alessandro III, non ottengono l’autorizzazione a predicare. Anch’essi, nonostante tale rifiuto, sembrano

continuare nella missione della Parola, con tutta probabilità per

opporsi alla predicazione dei «buoni cristiani» dualisti della pia-

nura padana. Gli Umiliati nascono nel cuore di quest'area — a Milano,

Como,

Lodi e in zone limitrofe — dall’iniziativa non di

un singolo «convertito» alla vita apostolica, bensì di molteplici gruppi dalle forme di vita non unitarie, condotte nei dintorni delle città e nelle campagne e, in taluni casi, implicanti attività lavorative e manifatturiere: alcuni seguendo una «regola», altri riunendosi in comunità miste, altri ancora rimanendo nelle loro

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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case e riunendosi periodicamente per pregare e ascoltare la Parola di Dio. A differenza dei Poverì di Lione, i membri più au-

torevoli del variegato mondo degli Umiliati, sul finire del XII se-

colo, si attivano per ottenere il riconoscimento del papato: rico-

noscimento che arriverà a partire dal 1201 per la lungimirante risposta di Innocenzo III e dei suoi più fidati collaboratori. Col papato innocenziano si assiste a una svolta determinante nel rapporto tra vertici ecclesiastici e gruppi religiosi, i quali sono posti davanti a un ineludibile dilemma: o ricomporre la frattura con la chiesa romana assumendo un volto istituzionale accettabile e accettato dalla chiesa di Roma, con gli inevitabili mu-

tamenti e le connesse limitazioni dei propri caratteri originari, oppure collocarsi definitivamente nell'area dell’eterodossia e, dunque, essere perseguiti violentemente come eretici. Siffatto dilemma si porrà in modo drammatico ai Poveri di Lione dopo la morte di Valdesio e nell’approssimarsi della crociata contro gli Albigesi — con questo termine si intendono i «buoni cristiani» dualisti, i Catari del Mezzogiorno di Francia —, bandita da Innocenzo III nel 1208: proprio nello stesso anno in cui Durando d’Osca e i suoi compagni progettano l’ambizioso disegno di avviare la riconciliazione del movimento valdese con la chiesa romana, ottenendo, come primo passo, il riconoscimento papale e

la strutturazione nell’ordine religioso dei Poveri cattolici. L'ambizioso progetto sembra avere un qualche successo con la creazione, nel 1210, di un altro ordine religioso, i Poveri riconciliati, costituito da Bernardo Primo e soci; ma esso non avrà succes-

sivi sviluppi. Mentre gli Umiliati, salvo forse qualche frangia, entrano nella comunione

romana,

molti dei Poveri di Lione,

le orme di un Durando

d’Osca e di un Bernardo

dei

Poveri lombardi e di altri gruppi minori di valdesi non seguono

Primo, e dan-

no vita, nella clandestinità, a gruppi di «poveri del Cristo» dispersi in tutta Europa e dotati di una straordinaria capacità di sopravvivenza di fronte alla repressione del potere ecclesiastico am-

biguamente sostenuto dal potere civile.

La strategia antiereticale del papato innocenziano è chiara, contemplando l’assimilazione di chi voleva farsi assimilare e la repressione cruenta di quanti, invece, restavano fedeli alla loro posizione antiromana. La violenza si scatenò dapprima nel Mezzogiorno francese, dove per un ventennio, dal 1209 al 1229, i cro-

ciati, in gran parte provenienti dal Nord della Francia, provvidero alla sconfitta militare non tanto degli eretici, quanto delle

popolazioni occitaniche, e all’iniziale controllo politico di quei

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Cristianesimo

territori. Nel contempo, gli uomini di chiesa si prepararono a un'autentica ricattolicizzazione di quelle stesse popolazioni e al controllo ecclesiastico di quei territori. I successori di Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX, portarono a termine le iniziati-

ve del loro illustre predecessore e svilupparono, nel contempo, diverse linee di intervento nell'Italia centro-settentrionale e nelle altre aree di presenza eterodossa. Dalle necessità della restaurazione cattolica nel Midi francese e di un più attivo intervento antiereticale altrove nascono le figure dei delegati pontifici specificamente destinati alla repressione degli eretici: i cosiddetti inquisitori. Siamo agli inizi degli anni Trenta del XIII secolo: queste nuove figure avranno un destino assai duraturo. Non si pensi però che la vittoria della chiesa romana sugli ere-

tici del pieno Medioevo sia dovuta soltanto al ricorso agli stru-

menti della coercizione violenta. Come già si è visto a proposito delle vicende degli Umiliati e del movimento valdese, la strategia ecclesiastica ricorre a strumenti molteplici. Gli irrigidimenti

repressivi si giustificano là dove non si individuino altre strade di

conciliazione e quando la presenza ereticale sia giudicata e presentata come una pericolosa violazione delle norme che devono

regolare la convivenza tra gli individui: quella convivenza che, co-

me abbiamo visto, non può vedere disgiunte le dimensioni civili da quelle religiose. Pertanto, la repressione degli eretici porta con sé una pastorale destinata a conformare i comportamenti dei

fedeli a modelli tutti costruiti sul riconoscimento formale e giu-

ridico dell’identità tra fede nel Cristo e fede nella chiesa cattolico-romana, oltre che sull'esclusivismo soteriologico del sacerdozio, modelli dai quali discende — e per i quali si pretende — il rispetto di taluni obblighi sacramentali e liturgici (la comunione e la confessione annuale, per esempio) agevolmente soggetti al

controllo da parte dei sacerdoti in cura d’anime.

8. AL DI LÀ DEI MODELLI MONASTICI E CANONICALI: GLI ORDINI RELIGIOSI «MENDICANTI»

Col papato di Innocenzo III la dialettica tra lo spontaneo organizzarsi dei movimenti religiosi e l'impegno romano di protezione e disciplinamento si risolve in innovative sintesi. Non solo parti del movimento valdese sono trasformate in ordini religiosi - i Poveri cattolici e i Poveri riconciliati — e gli Umiliati escono dalla fase di sperimentazione multiforme: soprattutto esperienze

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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diversificate di natura ospedaliera, canonicale e fraternale riescono a essere riconosciute dalla sede apostolica, di alcune delle quali i vertici ecclesiastici sapranno cogliere la novità e l'utilità per la chiesa gerarchica. Il riferimento è prima di tutto, e ovviamente, a quegli ordini religiosi che tradizionalmente si fanno risalire a frate Francesco d’Assisi e al canonico Domenico di Caleruega, anche se il loro imporsi non avverrà in modo incontrastato e senza il sacrificio di altre, più o meno recenti, formazioni evangelico-pauperistiche. Le vicende di frate Francesco e di frate Domenico, per lo più, sono messe in relazione e inserite, dalla storiografia confessionale, in un disegno topicamente provvidenziale, secondo un’interpretazione risalente già al XIII secolo e formalizzata nella bolla di canonizzazione di san Domenico, la Fons sapientiae del luglio 1234, emanata da Gregorio IX. Se in verità esiste una coin-

cidenza cronologica tra le due vicende, origini e caratteri si pongono in ambienti e si riferiscono a ispirazioni assai differenti. Francesco

d'Assisi è un laico che, superata la giovinezza,

si

converte alla vita religiosa attraverso un'esperienza di tipo peni-

tenziale, che lo conduce, tra l’altro, a vivere tra i lebbrosi e a «far

loro misericordia» — così si esprime lo stesso frate Francesco nel

suo noto Testamento del 1226, riandando agli inizi della sua scel-

ta di penitenza —, e dopo che intorno a lui si sono raccolti alcu-

ni «fratres», scopre il modello del «vivere secondo la forma del

santo Vangelo». Un proposito di vita, verso il 1210 confermato da Innocenzo III, che implicava la separazione dal «mondo» senza uscire dalla società, la condivisione delle condizioni di esistenza degli «ultimi», la pratica del lavoro manuale, la rinuncia

a qualsiasi potere sugli altri, la sequela di un Gesù povero, umile

e rifiutato, il rovesciamento dei valori del secolo. Tutto ciò in un

ambiente — città, borghi e villaggi dell'Umbria - che conosceva aspri conflitti politici e sociali, ma non particolarmente turbato

da presenze ereticali e sufficientemente vicino a Roma, e che, al

tempo stesso, conteneva in sé una tradizione monastica ed eremitico-penitenziale mai venuta meno. Se questi dati non spiegano sicuramente

il fenomeno

frate Francesco, aiutano tuttavia a

comprendere come esistessero condizioni non negative per l’avvio e l’irrobustimento dell’esperienza dei primi «uomini di penitenza della città di Assisi».

Domenico di Caleruega è un chierico, canonico del capitolo

cattedrale di Osma in Castiglia, il quale, al seguito del suo vescovo

Diego, cerca una via di perfezione cristiana inizialmente, pare,

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Cristianesimo

ispirata all’antica tradizione della ricerca del martirio tra le popolazioni politeiste. L'originario intendimento subisce una modificazione nel contatto con la situazione religiosa del Mezzogiorno di Francia, ossia con la presenza dei «buoni cristiani» dualisti e con l’imminente attuazione della crociata contro di essi. A quanto lasciano intendere le fonti, prima che Domenico e i suoi primi seguaci compiano una scelta rigorosamente pauperistica e si dedichino esplicitamente alla predicazione, dovevano passare la prima ondata di violenza antiereticale e il quarto concilio Lateranense del 1215 con la sua decisione circa l'istituzione in ogni diocesi di un gruppo di specialisti nella «santa predicazione» da affiancare ai vescovi pure con compiti di «cura d’anime». L'iniziale esperienza di frate Domenico subisce allora una metamorfosi grazie anche al determinante appoggio di Onorio III, appena salito al soglio pontificio. Forse già nel 1216, da Tolosa i compagni del Castigliano si trasferiscono a Parigi e a Bologna, riuscendo a converti-

re alla neonata religio prestigiosi maestri e studenti delle due Uni-

versità. Non a caso, nei primi anni Venti del Duecento, l'illustre

prelato transalpino, Giacomo di Vitry, potrà informare intorno a

una «nuova religione e predicazione di canonici bolognesi», con

ciò indicando un nuovo ordine religioso di canonici regolari — si-

curamente identificabile con l’ordine dei Predicatori —, insediato a Bologna, dai peculiari connotati universitari, che egli non esita

a definire «congregazione di scolari del Cristo». Senza tema di forzare uno schema interpretativo, sì può affermare che frate Francesco, mentre accoglie talune ispirazioni della tradizione monastica (ed eremitica) più rigorosa ed evangelica, rappresenti il superamento di quella stessa tradizione: poiché, in ultima analisi, il «vecchio»

monachesimo

voleva far di-

ventare il mondo un chiostro, mentre per frate Francesco e i suoi primi «fratres» il chiostro era costituito dal mondo (secondo la famosa definizione contenuta in un testo non meno

noto, il Sa-

crum commercium). La conformazione assunta dal gruppo dei se-

guaci di frate Domenico, invece, si connette con la tradizione ca-

nonicale regolare nelle sue componenti evangeliche e pastorali: è chiericale sin dalle origini. L'affermazione delle due formazioni religiose — l'ordine dei

frati Minori e l’ordine dei frati Predicatori - implica, dunque, la

crisi del monachesimo di linea benedettina e della tradizione canonicale variamente .ispirata alla cosiddetta Regola agostiniana. Implica anche un cambiamento radicale delle fonti di sostentamento e, dunque, dei rapporti con gli ambienti e gli interlocu-

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Il cristianesimo medievale în Occidente

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tori sociali. Gli enti «mendicanti» non si sostengono più su proprietà fondiarie e sui proventi di diritti signorili. Essi vivono di «offerte» in denaro: essi quindi necessitano di un'economia monetaria e di una società nella quale il denaro, in quanto espressione di relazioni economiche, sia disponibile e circolante, oltre

che produrre crisi di coscienza. Il «nuovo» monachesimo rivolge la sua scelta alla città: quelle realtà e società cittadine che la cultura chiericale aveva faticato a inquadrare in schemi concettuali e pastorali, con le note difficoltà di raccordo tra gerarchie di chiesa e ceti dirigenti urbani già nell'XI secolo e soprattutto nel secolo successivo sino agli inizi del Duecento. E il papato romano a orientare e a piegare alle sue esigenze i due nuovi ordini dei Minori e dei Predicatori, avviando processi di omologazione

(e di concorrenza)

tra loro. Essi si strutturano

in modo centralizzato, sono guidati da un ministro o maestro ge-

nerale, e — quando le dimensioni assunte non consentono più di

radunare tutti i frati come nei primi tempi — riuniscono periodicamente i rappresentanti di tutti i conventi in capitoli generali e provinciali; ma, soprattutto, i «fratres» sono incardinati in un

ordine, superando le ambiguità insite nelle sperimentazioni organizzative delle congregazioni monastiche e canonicali, anche le più avanzate nei tentativi di centralizzazione. Così pure il papato potrà rapportarsi a organismi religiosi non troppo condizionati

dalle

realtà locali e a frati assai mobili

e liberi, pronti

a

essere utilizzati proficuamente a servizio della chiesa universale. La spinta all'omologazione tra Minori e Predicatori non ne annulla ovviamente le peculiarità, anche se tra i francescani essa non viene accettata in modo piano e indolore. Soprattutto per l’ordine dei frati Minori le metamorfosi furono davvero notevoli e provocarono vaste lacerazioni e conflitti durissimi, se non del tutto assenti, per lo meno assai più tenui e irrilevanti tra i frati Predicatori. I «figli» di frate Francesco, san-

tificato da Gregorio IX nel 1228 a soli due anni dalla morte, dovranno fare i conti con «l'eredità difficile» lasciata loro dall’Assisiate: i termini del contrasto riguardavano principalmente la povertà e l'impegno pastorale, contrasto che ingigantiva in relazione con le dimensioni e con la diffusione assunte dall’insieme dei frati e in relazione con l’origine sociale e la formazione culturale degli individui che si disputavano la guida dell'Ordine. Il contrasto, poi, trovava ulteriore alimento nel problema del signifi-

cato provvidenziale, o, se vogliamo, della collocazione nella «sto-

ria della salvezza» dei nuovi frati, «poveri del Cristo» per eccel-

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Cristianesimo

lenza. L’avvenimento «san Francesco» poneva questioni grandissime proprio nella volontà di perpetuarne i caratteri peculiari, dunque nella difficoltà di individuarli e tradurli in formule concettuali e giuridiche di valore universale e costrittivo. Si contrappongono due orientamenti: uno rappresentato dai «frati della comunità», l’altro dagli zelatori della Regola. Sì badi, non è una contrapposizione nata soltanto dopo la morte di frate Francesco, avvenuta nell’ottobre 1226. Sono orientamenti già presenti nell’Ordine, essendo l’Assisiate in vita, A tale proposito la ricerca storica non è giunta a conclusioni definitive: anzi, da qualche anno si manifesta uno specifico interesse per il «minoritismo» padano non più individuato soltanto come il prodotto «deviante» del pensiero e dell’opera di frate Antonio di Padova, bensì come espressione di un francescanesimo non direttamente collegato (e collegabile) con.frate Francesco. Tale è, per esempio, il francescanesimo dei frati Minori che sono coinvolti, non diversamente da alcuni frati Predicatori, nel grande moto dell’Alleluia, che investe l’Italia centrale e settentrionale nel 1233, nel-

la parte di rigorosi moralizzatori e attivi pacificatori della vita pubblica e privata e con lo scopo ultimo di riportare le cittadinanze (ovvero i ceti dirigenti cittadini) e i grandi poteri operanti in quelle aree in un orizzonte di ortodossia sia giuridica sia etica, cioè in un orizzonte di riconoscimento formale del diritto della chiesa romana a rappresentare l’unica, legittima e verace interprete della fede in Gesù Cristo e del messaggio cristiano. I frati Minori si intellettualizzano, si chiericalizzano e si im-

pegnano nella cura d’anime. La povertà, vissuta da frate Francesco e dai suoi primi «fratres» in modo.rigoroso e, al tempo stesso, aperto alle sollecitazioni delle concrete situazioni in cui essa doveva essere vissuta, diviene oggetto di riflessione intellettuale

e canonistica: la povertà si fa «pensata», e pensata in stretta relazione al suo contrario, la ricchezza, nell’ambito di una specu-

lazione che investe così l’ecclesiologia, come la sociologia e l’etica economica, ovvero l'economia politica. Il complesso di informazioni finora fornite consentono di comprendere facilmente quale fortissima concorrenza gli ordini dei Minori e dei Predicatori esercitassero nei confronti dei ruoli e delle funzioni tradizionalmente svolte dal clero secolare così in ambito diocesano, come ai suoi massimi livelli. Ne è dimostrazione la grande que relle che oppone duramente all’Università di Parigi i maestri «secolari»

e i maestri

«mendicanti»,

grosso

modo

a partire

dalla

metà del XIII secolo. Un contrasto che impegna molti tra i più

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

grandi intelletti del tempo

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(Bonaventura da Bagnoregio, Tom-

maso di York, Tommaso d'Aquino, Guglielmo di Sant’Amore, Ge-

rardo d'Abbeville) e che fa correre non pochi rischi ai Mendicanti, la cui stessa esistenza è messa in discussione. I rischi saranno superati col secondo concilio di Lione del 1274, quando sarà riconosciuta la «evidente utilità» che deriva alla chiesa universale dagli ordini dei Predicatori e dei Minori. Si tratta per questi di un enorme successo, che porta con sé il sacrificio di altri ordini religiosi — che la storiografia per lungo tempo ha considerato, non sempre a ragione, minori —, alcuni dei quali avevano raggiunto dimensioni assai rilevanti. Pensiamo anche solo ai Frati della Penitenza di Gesù Cristo, ovvero Saccati, con conventi in ogni parte d’Europa. Pensiamo ai Carmelitani e agli Eremiti di sant'Agostino — questi ultimi costituiti in ordine religioso «mendicante» per volontà dello stesso papa Alessandro

IV e del cardinale Riccardo Annibaldi nel 1256 -, per i quali in verità i padri conciliari a Lione si riservano di prendere succes-

sivi provvedimenti. Il provvedimento del 1274 (Religionum diversitatem nimiam), che prendeva ispirazione da un'analoga decisio-

ne del quarto concilio Lateranense di sessant'anni prima (Ne ni-

mia religionum diversitas), intendeva metter ordine nel convulso proliferare di «nuove religioni» in tutta la cristianità romana: un proliferare che discendeva dallo spontaneo organizzarsi di individui, uomini e donne, alla ricerca di una vita religiosa più autentica, ispirata ai persistenti grandi miti della povertà evangelica e della chiesa apostolica, e che era assai difficile da discipli-

nare a livello generale e locale. I frati Minori, benché lacerati al

loro interno, e i frati Predicatori riuscirono a prevalere e videro

riconosciuta la loro alta funzione ecclesiologica, portando a termine il loro definitivo inserimento nei più alti livelli della chiesa cattolico-romana: il primo francescano a essere eletto papa sarà nel 1288 frate Girolamo d’Ascoli

(Niccolò IV), a soli quat-

tordici anni dall’assemblea conciliare di Lione e a meno di ottant’anni dal viaggio di frate Francesco e compagni per inconurare Innocenzo III. La piena integrazione ecclesiastica portava a compimento la scelta di impegno pastorale per il quale i Mendicanti avevano optato, più o meno in coerenza con i loro originari intendimenti. La partecipazione alla cura d'anime significa specializzazione soprat tutto nella predicazione e nella confessione, alla quale si connette una particolare attenzione per il momento finale dell’esistenza degli uomini. In tali ambiti i frati cominciano a elaborare specifi-

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Cristianesimo

ci strumenti per perfezionare e uniformare la «parola» da rivolgere ai fedeli in periodi e occasioni di alta intensità cristiana ed emotiva quali le settimane di Quaresima, o l'ascolto sacramentale

delle confessioni, o, ancora, il raccogliere l’estremo pentimento e

le ultime volontà di chi sentiva prossima la morte. Tutto ciò si incontra con l'ambizione dei frati di raggiungere i vertici della società per orientare, religiosamente ed eticamente, i comportamenti delle classi egemoni

e, dunque, di tutta la società. Siffatta

ambizione assume persino motivazioni teologico-ideologiche, ove si pensi che, poco dopo la metà del Duecento, un importante testo francescano afferma che, «avendo Dio in questo secolo privilegiato i ricchi e potenti rispetto ai poveri», i frati «onorando» i primì sono pienamente rispettosi del disegno divino. Ciò spinge a modificazioni non piccole nell’ubicazione degli insediamenti che dalle periferie tendono a trasportarsi in zone più centrali di città e grossi borghi, e nella struttura degli edifici conventuali che prevedono chiese assai grandi e, talvolta, la con-

tiguità con ampi spazi dove accogliere e raccogliere i numerosi fedeli: chiese che presto diventano il luogo di sepoltura per i membri di prestigiose stirpi, cittadine e non. Il privilegiamento dei «ricchi e potenti» di questo mondo non significa che i Mendicanti non si occupino dei ceti medi e delle classi subalterne. La loro presenza sembra continuare a mantenere una dimensione che attraversa verticalmente tutti gli strati sociali, benché i valori religiosi pensati e trasmessi paiano riferirsi soprattutto al-

le componenti più attive nella società, più attive dal punto di vi-

sta sia politico, sia economico, con processi di adeguamento culturale ai caratteri predominanti delle diverse società (processi di adeguamento e, dunque, di distinzione sui quali le ricerche non

sempre sono sufficienti).

Non è difficile pensare come l’intimo inserimento nella società e l’attivo coinvolgimento pastorale dei Mendicanti comportino conflitti con il clero e le istituzioni tradizionalmente e specificamente destinati alla cura d'anime: contrasti ripetuti e persino violenti, poiché il dinamismo dei frati, i legami sociali che riescono a realizzare, il prestigio che essi acquisiscono, rompendo i quadri ecclesiastici «di base» che si vorrebbero precisi e stabili, non solo creano conflitti di competenze, ma sottraggono risorse alle chiese parrocchiali e agli enti religiosi di più antica origine. E ancora, gli ordini mendicanti si pongono spesso come punto di riferimento privilegiato e istituzionale per i laici, che si organizzano o sono organizzati in confraternite dalle varie fina-

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Il cristianesimo medievale în Occidente

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lità, anch'esse però in concorrenza con le tradizionali contraternite facenti capo a una parrocchia. Insomma, gli ordini religiosi mendicanti costituiscono una delle più rilevanti novità del XIII secolo. Novità su molti piani: dal loro distanziarsi da economie e società agrarie e signorili, alla loro volontà di dedicarsi all’attività intellettuale con il connesso impegno di trasformare la riflessione teorica in argomento di predicazione e di azione pastorale;

dalle forme organizzative assunte, alla capacità di condizionare i detentori -del potere, senza esercitare direttamente e istituzio-

nalmente il potere stesso, e di disciplinare il laicato. Non si trascuri, infine, l’utilizzazione, da parte del papato, dei frati dome-

nicani e francescani come delegati alla repressione antiereticale. 9. CONFORMISMO

RELIGIOSO, INTERIORIZZAZIONE SPIRITUALE E SOGNI ESCATOLOGICI

Il vertice della cattolicità romana, col papato di Innocenzo III al passaggio dal XII al XIII secolo, creò le condizioni per la definitiva sconfitta di chiese, gruppi e movimenti ereticali: mediante una strategia articolata che Onorio III e Gregorio IX svilupparono e portarono a compimento nei suoi intendimenti disciplinatori in senso sia promozionale sia repressivo. Certo, esistono altre componenti che contribuiscono a quella sconfitta, non ultimi i mutamenti politici e sociali in corso nelle aree di maggior sviluppo dell’Europa occidentale. I detentori del potere — qualsiasi fosse il loro rapporto «politico» con la sede apostolica e le gerarchie ecclesiastiche - sembrano del tutto disinteressati alle idee e posizioni «eterodosse» (se non per reprimerle): piuttosto, sembrano assai interessati al controllo delle istituzioni ecclesiastiche e all’ordinato svolgimento della vita religiosa, quando possibile piegate, le une e l’altra, a esigenze di rafforzamento strutturale e sacrale della loro posizione di potere. Insomma, la cristianità occidentale (ecclesiastica e civile) appare orientata al conformismo religioso. Sul piano strettamente ecclesiastico ne erano state indicate alcune linee di realizzazione sin dal quarto concilio Lateranense del 1215. In quell’occasione, per esempio, si era stabilito di collegare più strettamente i fedeli al titolare della circoscrizione ecclesiastica «di base» nella quale essi si trovavano a vivere, imponendo l’obbligo della comunione annuale (e quindi anche della confessione), in occasione della Pasqua, presso il «sacerdos proprius», ossia il prete titolare della chiesa con la cura d'anime

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Cristianesimo

di un territorio definito. La novità era relativa, in quanto da molti secoli si voleva

che

il nesso

fedele/territorio

fosse

il fonda-

mento dell'esercizio della cura d'anime e che i fedeli seguissero

le regole dettate dalle gerarchie di chiesa. Agli inizi del XIII secolo si giunge a una stretta, si insiste giuridicamente su quel nesso, sollecitando

processi di conformazione

del comportamento

religioso alle norme canoniche. Le gerarchie di chiesa non spingono tanto verso un'adesione convinta e intima all'orizzonte dell’ortodossia cattolico-romana, quanto piuttosto impongono obblighi religiosi il cui rispetto sia controllabile dal clero parrocchiale e dall’apparato ecclesiastico. Il non rispetto o la violazione di quegli obblighi diventano indizio di «diversità», devianza: una devianza che è facilmente interpretata come eresia. Lo schema era troppo elementare perché potesse realizzarsi a pieno. Esso non teneva conto della scarsa dinamicità dell'organizzazione parrocchiale, né delle notevolissime interferenze nella cura d’anime generate dalla complessità dell'ordinamento ecclesiastico stesso e dall’opera pastorale dei nuovi ordini mendicanti, portati a fornire, attraverso la predicazione e l'esercizio del-

la confessione, un supplemento di assistenza «spirituale», il quale costituiva un’oggettiva complicazione nelle strutture di chiesa de-

stinate a inquadrare i fedeli. Dal canto loro, i frati degli ordini

mendicanti ricercano linguaggi, forme comunicative, immagini che, non trascurando il peso delle articolazioni e delle peculiarità sociali, facciano da collante ideologico-religioso tra ceti, gruppi, individui: con una capacità di presa non conseguibile dal clero curato, al quale, tuttavia, veniva richiesto soprattutto, se non esclusi-

vamente, di svolgere con regolarità le proprie funzioni liturgiche e sacramentali. In più, gli ordini mendicanti perseguono l’obiettivo di raccogliere i laici in confraternite o di sottoporre al proprio controllo gli spontanei raggruppamenti fraternali. Tali associazioni laicali, maschili e femminili, di antichissima

origine, conoscono un notevolissimo sviluppo negli ultimi tre secoli del Medioevo. Anche a questo proposito non si pensi a realtà complessivamente disciplinate e coerentemente organizzate secondo schemi di validità generale. Una corrente di larga prevalenza è costituita dai «penitenti»: una corrente composita, dalle mille direzioni e dai mille volti. Alcuni penitenti confluiscono nei cosiddetti «terzi ordini» collegati alle «famiglie» mendicanti; altri conservano una propria fisionomia, ma nella dipendenza dal controllo episcopale; altri ancora si specializzano in senso assistenziale. Sul finire del Duecento sia il papato, sia gli ordini men-

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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dicanti, sia gli episcopati tentano di uniformare le religiosae per-

sonae a modelli istituzionali riconosciuti. Non credo di proporre

una generalizzazione indebita nel vedere in ciò una delle premesse al determinarsi di una divaricazione via via più netta tra il piano dell'esperienza del divino e il piano dell’organizzazione istituzionale della salvezza delle anime. Mentre gli spazi per spontanee aggregazioni religiose si chiudono drasticamente, sembra che si apra una stagione contrassegnata da sogni di palingenesi «spirituale» e dall’interiorizzazione del «desiderio di Dio». Non sorprenda che tale duplice direzione origini assai spesso dal mondo «mendicante» (o dai suoi margini), il quale esprimeva una

travagliata e altissima coscienza di rappresentare é/ segno del ra-

pido approssimarsi della «pienezza dei tempi». Tra Due e Trecento, mentre il mito della ecclesiae primitivae forma pare perdere di fascino e di operatività, l’evangelismo pauperistico subisce un'evoluzione in senso spirituale ed escatologi-

co. L'attesa di un’età nuova si traduce assai spesso in un’aperta

critica alla chiesa storica identificata con la Ecclesia carnalis nettamente diversa e contrapposta alla Ecclesia spiritualis che molti volevano e attendevano. A siffatte attese non sono estranee posizioni religiose che, per lo più genericamente, rinviavano a Gioac-

chino da Fiore, ovvero, per meglio dire, a un cospicuo numero di opere ed operette, non raramente

apocrife, di lata ispirazio-

ne gioachimitica. Quelle posizioni circolavano in ambienti di vario livello culturale e potevano convergere in grandi disegni di

«teologia della storia», oppure in improvvise manifestazioni collettive di «attesa della fine», oppure in episodi «eroici» di estre-

mismo escatologico. Così tra i frati degli ordini mendicanti potevano nascere interpretazioni assai ardite sul ruolo «finale» del proprio avvento nella storia. Così potevano accendersi inopinatamente (o spegnersi con rapidità) processioni e moti di flagel-

lanti, di annunciatori e testimoni, più o meno fanatici, degli ul-

timi tempi. Così il semplice evangelismo di un Gherardo Segarelli poteva complicarsi attraverso la personalità di un fra Dolci-

no da Novara e, nei primissimi anni del Trecento, divenire l’an-

nuncio dell’instaurarsi del «quarto stato» della storia della salvezza, lo status sanctorum in cui lo Spirito Santo stava per calare nuovamente sugli autentici seguaci del Cristo, sui viri spirituales, e aprire un'epoca che sarebbe durata sino alla fine dei secoli. Invero, tensioni e attese escatologiche erano destinate a raf-

forzarsi nel Tre e Quattrocento in rapporto sia al trasferimento del papato in Avignone, sia alle divisioni che lacerarono il verti-

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Cristianesimo

ce ecclesiastico al passaggio dal XIV al XV secolo. Tensioni e attese, però, non sempre significarono critica e opposizione alla chiesa gerarchica, o agli assetti socio-politici. Esse entrarono anche nei processi di riaffermazione della stessa chiesa cattolico-romana o nell'elaborazione del mito di certi regni e dominazioni. Talvolta il pensiero escatologico si fa «sogno»: a metà del Trecento, Cola di Rienzo, nel contatto con gli austeri eremiti della Maiella e con le idee sulla «età nuova» diffuse nelle corti di Praga e di Avignone, finisce per credersi un inviato da Dio e un pro-

feta. Profeti, visionari, vaticinatori,

sognatori

proliferano

nella

cattolicità occidentale: ad annunciare imminenti sciagure e a proporre visioni di tristezza e désolazione, a inviare infuocati messaggi di rinnovamento «globale». Il tutto però è, per lo più, contenuto all’interno di una piena compatibilità col sistema ecclesiastico e civile, e potrà essere agevolmente ripreso in chiave di restaurazione innovatrice dagli intolleranti predicatori della prima metà del Quattrocento: il loro escatologismo si trasforma

in un rigido e durissimo richiamo a riportare e rispettare l’ordi-

ne, religioso e civile, nel presente. Quei predicatori, di solito, sono protagonisti del movimento che coinvolge gli ordini mendicanti e che va sotto il nome di Osservanza. Attraverso il riferimento mitico all’ispirazione originaria dei rispettivi ordini si esprimeva un vigoroso impegno di «rinnovamento» delle istitu-

zioni e della vita religiosa, morale e sociale che, in realtà, signi-

ficava restaurazione e ben si incontrava con gli obiettivi di disci-

plinamento delle popolazioni in un’orizzonte di cristallizzazione complessiva della società a cui miravano pure i detentori, maggiori e minori, del potere. Abbiamo così un’ulteriore spinta verso il conformismo: per sfuggirne rimaneva la dimensione verticale del rapporto col divino ricercata personalmente o all’interno di piccoli gruppi di anime «elette»; per sfuggirne poteva anche rimanere il sogno dell’imminenza degli ultimi tempi. In verità, interiorizzazione spirituale ed escatologismo già si erano espressi tra i cosiddetti amalriciani, un piccolo gruppo di chierici colti, ex allievi del magister parigino Amalrico di Bène, processati a Parigi nel 1210: essi fondavano le loro posizioni religiose su una concezione trinitaria della storia della salvezza e annunciavano l’inaugurarsi della «terza età», l'età dello Spirito. Gli storici, in generale, ritengono che con gli amalriciani inizi una corrente religiosa definita del «Libero Spirito»: una corrente religiosa di genesi assai complessa, che rinvia alla tradizione contemplativa del monachesimo

cisterciense, alle esperienze di

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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«beghine» e «begardi», al rigorismo francescano, al misticismo

domenicano. Un testo si segnala nell’ambito del «Libero Spiri-

to». Si tratta di un’opera di Margherita Porete, una beghina di

origine aristocratica e di buona cultura dedicatasi alla vita itine-

rante e mendicante nella Francia settentrionale verso il 1270 e mandata al rogo in Parigi nel 1310, esattamente cent'anni dopo la condanna degli amalriciani: l’opera è nota sotto il titolo di Le mirouer des simples ames anienties el qui seulement demourent en vou-

loîr et desir d'amour. L'argomento centrale riguarda la liberazione

dell’anima, che si ottiene passando per sette gradi di ascesi, al termine dei quali si raggiunge la perfezione assoluta, la reintegrazione nell’essere-Dio, la realizzazione dello stato «serafico». É una proposta per anime d'eccezione, per pochi subtiles spiritu che si distinguono dalla massa dei fedeli «grossi». Non sarà superfluo qui richiamare l’importanza delle donne nei mutamenti della religiosità e della spiritualità tra i secoli XIII e XIV. Le donne «sante», contribuendo ai processi di interiorizzazione e spiritualizzazione, non solo spingono le gerarchie ecclesiastiche a interventi repressivi, bensì pure favoriscono la ricomposizione

di situazioni

di tensione,

instabilità,

marginalità

(almeno quando gli uomini di chiesa riescono a impadronirsi

della santità femminile). Attraverso di esse si riesce a coniugare la proposizione di una mistica fondata sull’umanità dolorosa del Cristo povero e crocifisso con la difesa dell’ordinamento ecclesiastico. Mentre il papato irrigidisce la propria intolleranza ver-

so qualsiasi disobbedienza e combatte in modo cruento eretici,

«ghibellini», ebrei, infedeli e devianti d'ogni genere, la «crocia-

ta»,

nell’esperienza

delle

dell’anima: Gerusalemme

sante,

si interiorizza,

si fa viaggio

è un «luogo» che si può trovare in sé;

il Cristo è nell’eucaristia — e in alcuni straordinari miracoli eu-

caristici —, nella festa del Corpus Domini, nella devozione del Sa-

cro Cuore e delle Cinque Piaghe.

Non potendo diffonderci in un'analisi articolata, limitiamoci

anche solo alla figura di Margherita di Cortona. Nell’abbandonarsi al Dio fattosi uomo Margherita, dopo aver ricevuto il dono delle cinque piaghe, trova la strada di una missione interiore, nella quale attraverso la preghiera sono compresi, tutti insieme, la liberazione della Terrasanta, il desiderio di pace universale, il pentimento dei peccatori, la conversione di eretici e infedeli. Ella nutre persino dulcedo et fervor verso Tartari, Saraceni e gli altri infedeli: sentimenti che invece vengono meno quando si trova a pregare per gli Ebrei (la possibile apertura di una nuova stagio-

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Cristianesimo

ne di antisemitismo sembra qui trovare un implicito e inquietante disvelamento). In Margherita— figlia di contadini, sedotta, vedova, penitente, reclusa — il suo agiografo vede ancora la nuova Maddalena: un alto modello di redenzione con protagonista una donna che è dolcemente chiamata dal Crocifisso filia Jerusalem, una donna che nello spazio angusto della reclusione vive la dilatazione della sequela Christi sino all'esperienza mistica della crocifissione («debebat ad crucem die illa mentaliter crucifigi»). Si noti che la crocifissione avviene «mentaliter». Tale quali-

ficazione esprime assai bene i caratteri e gli orientamenti di una nuova spiritualità e della connessa religiosità: l'indirizzo interiorizzante viene scandito dall’insistente richiamo alla preghiera

mentale, al colloquio solitario con Dio, all’identificazione con i

dolori «mentali» del Cristo. La sequela Christi può avvenire così

nell’isolamento di una cella, come nel recinto domestico. Siamo alla vigilia di forme di devozione «moderna», il cui carattere è nettamente elitario, ma che, per converso, concorre

all'elaborazione di modelli di validità generale. Rivolgiamo l'attenzione, per esempio, al biirgerliches Tugendsystem, il sistema di valorì borghesi, basato sulle virtù di «masserizia» e «carità». Per le

donne si costruisce una religiosità ispirata a un equilibrio composto e meditato in funzione di un’oculata gestione del patrimonio dell'anima e del corpo, una sorta di quieta religione del focolare. La religiosità continua a essere interiorizzata, ma con

la mediazione dei padri spirituali e col sussidio di una precetti-

stica minuta, quale si poteva apprendere dall’ascolto assiduo del-

la predicazione, dalla lettura di operette morali e di volgarizzamenti e dalla corrispondenza devota. Si apre così la grande stagione della letteratura religiosa in volgare, che mette in moto un altrettanto grande fenomeno di circolazione culturale: una circolazione della nuova cultura in volgare. Mediante una complessa azione pastorale, mentre si riuscì a reimpadronirsi del consenso religioso dei fedeli, nel contempo si pose freno all’impre-

vedibilità e agli eccessi della mistica e delle attese chiliastiche. 10. INQUADRAMENTO ECCLESIASTICO NEL BASSO MEDIOEVO: TRA CENTRO E PERIFERLA

La vicenda delle istituzioni ecclesiastiche del basso Medioevo di so-

lito viene letta nel segno della «crisi»: una crisi che coinvolgereb-

be così i vertici, come le strutture di base della chiesa. Siffatta vi-

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale in Occidente

sione ha subìto di recente alcuni cambiamenti

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di prospettiva.

Esemplifichiamo. Una ponderosa e pionieristica indagine compiuta sulla diocesi di Ginevra fra Tre e Quattrocento ha documentato come, nonostante scismi e crisi conciliari, e nonostante

le ripetute assenze dei vescovi titolari (assenze tanto «deprecate» da essere valutate, in generale, come una delle principali cause della presunta crisi dei governi diocesani e della vita religiosa tar-

domedievali),

non si individuino particolari segni di stanchezza

nel governo diocesano, e, anzi, come nel contempo si attui un più

ordinato

ed efficiente esercizio dell’amministrazione

vescovile,

che riguarda pure il controllo e il coordinamento del numeroso clero in cura d'anime. Insomma sembra intravedersi un andamento a forbice: da una parte c’è la crisi ai più alti livelli di chiesa, da un’altra si potenziano gli organismi diocesani. Certo, sarebbe forzato trarre dai risultati della ricerca su una diocesi conclusioni generalizzanti. Tuttavia i segni di una lettura diversa da quella tradizionale sembrano emergere in modo consistente. Altre ancora sono le suggestioni interpretative, qualora si rivolga lo sguardo all’indietro. Se il funzionamento delle diocesi nel Tre-Quattrocento appare sufficientemente ordinato e rispondente alle richieste dei fedeli, abbiamo davanti due possibili interpretazioni: o formuliamo l’ipotesi che nella crisi tardomedievale nasca e operi la coscienza della necessità di porre freno agli effetti destrutturanti provocati dalla frammentazione del vertice incrementando le capacità di guida e direzione alla periferia (ipotesi che francamente non trova molti elementi a sostegno),

oppure dobbiamo pensare che negli ultimi decenni del Duecento e nel corso di larga parte del Trecento le istituzioni diocesane e parrocchiali siano spinte a seguire percorsi di consolidamento

connessi con altri fattori, e cioè fattori di stabilità e di

autonomia capaci di sopportare e di superare i presumibili turbamenti derivanti, per esempio, dalla pluralità di papi e dalle divisioni nella cattolicità. Lungo quest’ultima direzione ci muoveremo nelle pagine che seguiranno. Nonsi pensi però di poter trovare qui un quadro compiuto: soprattutto perché lo stato delle conoscenze risulta assai ineguale tra realtà e realtà, diocesi e diocesi, per non dire tra parrocchia e par-

rocchia. Il lettore si dovrà perciò accontentare di un'esposizione

necessariamente «per frammenti», anche in considerazione del fatto che le particolarità nazionali e regionali sembrano farsi via via più consistenti nel corso del Trecento e che la caratterizzazione più netta sembra avere la «chiesa» di Francia il cui corpo era

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Cristianesimo

stato innervato dall'inserimento della sede pontificia. Non si dimentichi, inoltre, che la chiesa costituiva allora un organismo enorme, ramificato, assai complesso, in cui convergevano gli inte-

ressi più svariati e che era attraversato da interessi non meno ete-

rogenei e multiformi, gli uni e gli altri derivati e derivanti dall’im-

mane sforzo di «cristianizzare» la società avviato nei secoli precedenti e ancora in pieno svolgimento. Ciò comportava una direzione biunivoca, dalla chiesa alla società e dalla società alla chiesa,

e reciproche strumentalizzazioni tra potere civile e potere ecclesiastico: anche se l’apparato di chiesa appariva il più minacciato,

nella sua volontà di dominio universale (oramai irrealizzabile) e

nella sua autonomia, da poteri che, oltre a rivendicare una propria sacralità, con sempre maggiore insistenza pretendevano di eserci-

tare una legittima funzione di tutela sulle istituzioni ecclesiastiche

esistenti nei territori di loro pertinenza o no estendere il proprio dominio.

in quelli su cui ambiva-

Né, d'altro canto, le strumentalizzazioni

delle istituzioni ec-

clesiastiche da parte di poteri maggiori e minori sembravano

frapporre ostacoli a un regolare funzionamento delle stesse isti-

tuzioni in quanto esse scaturivano pure dalle esigenze di quei poteri che erano impegnati a conservarsi, o a irrobustirsi, oppure ad ampliare le proprie dimensioni (e, per esempio, il controllo dei benefici ecclesiastici era indubbiamente un mezzo per realizzare quelle finalità). Semmai, ciò comportava un più deciso definirsi dell’alto clero per aree nazionali o regionali, aprendo la strada al costituirsi del «corpo»

chiericale come

ceto, giuridica-

mente definito, di un regno o di una dominazione minore: per risolvere così anche il problema non piccolo della conservazione della

«autonomia»,

ovvero

di certa autonomia,

dell’ordina-

mento ecclesiastico rispetto all'ordinamento civile. Le difficoltà maggiori nasceranno ad altri livelli, quando cioè sì dovrà rag-

giungere un nuovo equilibrio tra l’universalismo cattolico e la

monarchia papale, da un lato, e le chiese «nazionali», dall’altro. Tuttavia, tali difficoltà non paiono estendersi all'ordinamento diocesano e parrocchiale, cioè ripercuotersi nell'esercizio della cura d’anime. La potenza episcopale è uno dei tratti connotanti la storia del Medioevo europeo. Nonostante i processi di erosione a cui era stata sottoposta durante il secondo Medioevo, essa non viene meno nel tardo Medioevo, mantenendo una sua consistenza diversifica-

ta a seconda dell'importanza storica (ed economica) delle singole sedi e della loro collocazione nella geografia cristiana e nel pa-

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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norama socio-politico di regni, principati, dominazioni signorili e «repubblicane». Da secoli forze concorrenti si disputavano il controllo degli episcopati all’interno di una vivacissima e contrastata

dialettica che vedeva coinvolti papi, cardinali, re, signori, governi cittadini, clero cattedrale, ordini monastici e religiosi, famiglie

dell'aristocrazia delle armi e del denaro, popolazioni urbane. Da secoli la titolarità episcopale era segno di prestigio e di potere, anche propriamente politico. Qui non ci occuperemo in specifico di siffatte dimensioni che daremo per scontate. Nostro intento è parlare di vescovi come «pastori d’anime» e di diocesi come organismi di chiesa a cui spettava di seguire, promuovere, controllare e «santificare» la vita religiosa dei fedeli — insomma, di inquadrarei cristiani verso la salvezza eterna -, con la piena coscienza di dover in tal modo «tagliare» una realtà, ovvero di dover scegliere un angolo prospettico necessariamente parziale, in riferimento a uomini e strutture il cui primo-ultimo fine consisteva (al di là dei concretissimi coinvolgimenti e compromessi terreni e della umanissima volontà di dominio) nella mediazione sacrale che coincideva

col monopolio esclusivo e intollerante del sacro nelle peculiari forme da esso assunte attraverso il messaggio cristiano, a sua volta filtrato dalla secolare tradizione cattolica. Si ricordi, da ultimo,

che la potenza episcopale aveva raggiunto la sua indiscussa sintesi e il suo unitario (e unico) punto di rappresentatività nella monarchia papale. Un primo ambito di esercizio dell’assolutismo pontificio concerne la creazione di nuove diocesi e province ecclesiastiche. Sul piano del diritto e della prassi assai nota è l'iniziativa di Giovanni XXII: una sua decretale, la Salvator noster del 25 luglio 1317, è accolta significativamente nelle Extravagantes communes, ossia nell’ultima parte del Corpus iuris canonici. Essa era stata emanata per dar vita al territorio dell’arcidiocesi di Tolosa, ricavato dalla re-

gione metropolitana di Narbona. Nella decretale Salvator noster le ragioni del provvedimento papale sono fatte risalire alle necessità pastorali imposte da un «gregge» divenuto troppo ampio per un unico pastore e all’opportunità di una più equa distribuzione dei redditi di cui l’episcopato tolosano abbondava e di cui non sempre sì faceva retto uso (da quel momento in poi queste ragioni divennero norma quando si richiedeva al pontefice la revisione dell’ordinamento territoriale di una regione ecclesiastica). Questa decisione di Giovanni XXII in materia circoscrizionale non rimase isolata, anzi il papa moltiplicò i suoi interventi quasi esclusivamente in riferimento alla Francia, trasformando,

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Cristianesimo

tra l’altro, molte prestigiose abbazie in centri episcopali. Nella rimanente Europa cattolica, meno direttamente legata agli orizzonti politico-ecclesiastici del papato avignonese, i maggiori qua-

dri della geografia delle chiese non subiscono modificazioni di rilievo. Occorre però non dimenticare la costituzione nel 1344 della provincia ecclesiastica di Praga, da cui era fatta dipendere

la diocesi di Leitomischl. Tale costituzione si connetteva, in tut-

ta evidenza e al di là di motivi contingenti, con la crescente im-

portanza del regno di Boemia e col definirsi di una sua più pre-

cisa identità politica e culturale.

È noto corne gli assetti territoriali di chiesa, salvo straordinari e

violenti rivolgimenti, siano assai conservativi. Non stupisce, pertanto, che i provvedimenti di Giovanni XXII rivolti a modificare

drasticamente larghi tratti della geografia ecclesiastica francese siano diventati, in ragione della loro eccezionalità, famosi.

Essi

ben documentano dell'esercizio della plenitudo potestatis da parte

di un pontefice assai cosciente delle prerogative del ruolo ricoperto e delle prospettive operative lungo cui dirigere la propria azione. D'altro canto, egli non si distaccava dalle linee di compor-

tamento antiche e consolidate dei suoi predecessori, tese ad acui-

re le capacità di direzione e di controllo papale su tutta la chiesa. Siffatta capacità si manifesta in maniera evidente quando i pontefici sviluppano l’azione rivolta a impadronirsi della nomina di ve-

scovi e prelati, via via corrodendo, a partire dal tardo secolo XI, le

competenze dei metropoliti prima, e dei capitoli cattedrali poi. Tra il 1278 e il 1365 si compiono gli atti decisivi che dovevano portare con Urbano V alla definitiva sanzione del diritto del papa a designare in tutta la cattolicità patriarchi, arcivescovi, vescovi, aba-

ti e badesse: insomma, prima della fine del periodo avignonese, la cosiddetta riserva pontificia si era generalizzata.

Si determinano così, in un arco di tempo relativamente breve, mutazioni non trascurabili non solo nelle modalità del re-

clutamento, ma anche nella provenienza sociale dei candidati e nei rapporti tra vescovo e diocesi. In età avignonese cresce il numero di coloro a cui viene assegnato un seggio episcopale in riconoscimento dei servizi prestati presso la curia papale e/o presso le corti regie e principesche, oppure a causa dei legami di parentela coi pontefici stessi: il nepotismo papale e curiale non è davvero una novità, ma estende le sue dimensioni nella quiete

della città provenzale, prolungandosi nel ritorno a Roma. Si trat-

ta in generale di individui, dotati di buona formazione giuridica (in diritto romano o in diritto canonico, oppure in entrambi) e,

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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in misura minore, di cultura teologica. Si tratta in generale di individui che hanno familiarità con i modi e le tecniche di governo degli uomini e di amministrazione delle cose: pronti dunque a portare con sé l’esperienza anteriormente accumulata quando assumono il nuovo prestigioso incarico ecclesiatico. Si noti: la cultura di governo dei prelati favorisce processi di burocratizzazione nell’ordinamento diocesano (esiste persino la tendenza a fare dei parroci dei «buoni funzionari» della ritualità sacrale). Il formarsi di iniziali sistemi burocratici al centro della diocesi fornisce, per dir così, gli anticorpi ai possibili effetti negativi (che pur ci furono) derivanti dalle caratteristiche del «nuovo» episcopato trecentesco: accentuazione della mobilità episcopale in dipendenza dalle carriere personali che tengono i prelati per un periodo più corto nella stessa sede, «estraneità» dell’ordinario al corpo chiericale e alle realtà locali, frequenza di impegni dei presuli lontano dalla loro diocesi. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è pensabile, comunque, che le curie diocesane abbia-

no raggiunto un'efficienza istituzionale tale da funzionare di per

sé, quasi che la presenza, o l’assenza, del titolare del maggiore uf-

ficio ecclesiastico sia affatto indifferente. Né in generale sappiamo come i vescovi abbiano organizzato il loro tempo in rapporto con i loro molteplici e diversificati impegni. Sappiamo invece che si organizzano meglio, e con personale tendenzialmente stabile, il tribunale e la cancelleria vescovili. Dall’ultimo quarto del XIH secolo compare qua e là la figura del vicario generale con poteri «in spiritualibus et in temporalibus», al quale non è però consentito di compiere alienazioni patrimoniali e di apportare modifiche di sorta all’ordinamento diocesano: l’incarico non ha limiti di durata, potendo però essere revocato per decisione del titolare. Un nuovo tipo di collaboratore vescovile si individua nell'officiale, il quale non ha un beneficio a vita e una propria giurisdizione ordinaria, come l’arcidiacono, bensì un officium revocabile e una giurisdizione delegata per incarico dell'ordinario diocesano. Le competenze dell’officiale possono perciò, a seconda delle necessità, essere circoscritte, anche se tendono a farsi stabili (0fficiales foranei,

commissari, ecc.). Figure particolari sono infine i vescovi în partibus infidelium, vale a dire individui di solito appartenenti a ordini religiosi che risultavano insigniti del «possesso» di una qualche sede episcopale «virtuale» (diocesi di nome, non di fatto, ubicate in terre riconquistate da infedeli e da pagani): «vescovi senza sede» dunque - talvolta abusivi — che si prestavano a fare da ausiliari a qualche collega della cattolicità romana.

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Cristianesimo

Insomma, a partire dalla fine del Duecento e dagli inizi del Trecento, paiono in atto processi in grado di dare un'efficienza amministrativa agli organismi diocesani maggiore che in passato, mentre, dietro le pressioni fiscali e l'esempio finanziario del-

la curia avignonese, si fa più ordinato e regolare il sistema delle

riscossioni. Ciò va forse di pari passo con una migliorata capacità di controllo del clero secolare? Non mancano segnali in tal senso. E documentata, per esempio, una certa frequenza (più intensa rispetto ai secoli precedenti, anche se mai di periodicità annuale come avrebbe voluto la legislazione canonica) delle riunioni sinodali e delle visite pastorali. Nelle prime tradizionalmente

si pronunciavano

arbitrati e sentenze,

si stabilivano atti

amministrativi e inchieste: soprattutto il clero diocesano, che per lo più viveva disperso, veniva tutto insieme a contatto col proprio vescovo e da lui riceveva gli orientamenti pastorali, sacramentali, cultuali, morali e giuridici, di solito codificati in una raccolta

statutaria. Questi ultimi aspetti sembrano diventare preminenti,

poiché, a seguito della formazione del funzionariato vescovile, le

sinodi diocesane vedono diminuire i loro compiti giudiziari e am-

ministrativi, mentre tali sinodi diventano occasioni nelle quali il

vescovo fa conoscere la sua volontà normativa.

Durante le visite pastorali il vescovo, o un suo delegato, si re-

cava di persona nelle varie zone della circoscrizione diocesana per indagare sulla situazione e sui comportamenti del clero, sulle condizioni patrimoniali delle parrocchie e sullo stato edilizio

degli edifici ecclesiastici e dei cimiteri, sulla vita religiosa dei fe-

deli (anche se quest’ultima dimensione non presenta più un interesse paragonabile a quello del passato, quando i visitatori. sì occupavano direttamente della disciplina dei laici). In coerenza con la cultura dei prelati e in armonia con i processi di burocratizzazione, i visitatori svolgono ora le loro inchieste sulla base di appositi questionari (che andrebbero sempre messi in correlazione con i contenuti degli statuti sinodali più vicini), i quali lasciano trasparire un'intenzionalità di tipo giuridico-formale e, quindi, una volontà di razionalizzazione uniformatrice. Da quanto sinora detto a proposito di diocesi e vescovi, si potrebbe ricavare un'impressione eccessivamente positiva, di una situazione cioè in cui tutto funziona e tutto trova armonicamente un suo preciso innesto. In verità, durante gli ultimi secoli del Medioevo, nella vita diocesana non tutto funzionava, né ogni co-

sa si incastrava con l’altra: anche solo sullo specifico piano delle istituzioni ecclesiastiche moltissimi contrasti perduravano — tra

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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vescovi e vescovi, tra vescovi e capitoli cattedrali, tra vescovi e mo-

nasteri, tra capitoli cattedrali e parrocchie, tra conventi e parroc-

chie, tra pievi e parrocchie, tra parrocchie e parrocchie, ecc. —, e

altri numerosissimi nascevano per questioni beneficiali (accrescendo enormemente l’attività giudiziaria dei vari organismi di curia, a cui si ricorreva con grande frequenza). Pur ben sapendo che ogni vescovo è diverso dall’altro e che ogni diocesi ha una sua storia peculiare, quelli che abbiamo cercato di seguire sono alcuni tra gli andamenti di fondo che presentano aperture sul futuro: quegli andamenti

cioè che, assieme ad altri, aiutano a ca-

pire come la cattolicità romana, sul piano diocesano, abbia superato senza particolari contraccolpi destrutturanti la «crisi» vissuta, ai suoi massimi livelli, al passaggio dal XIV al XV secolo. Si sono volutamente tralasciati gli elementi di rigidità, di inerzia e di resistenza; né abbiamo potuto inoltrarci (e disperderci) nella

vastissima e non sintetizzabile casistica di una realtà che restava turbolenta, scossa da continui conflitti, da intensa concorrenzia-

lità, ma che tuttavia incideva solo alla superficie di un ordina-

mento ecclesiastico «periferico» che nella lenta evoluzione istituzionale e nelle connessioni organiche con la società e la vita quotidiana delle popolazioni fondava la propria capacità di per-

durare stabile e forte.

11. MONARCHIA PONTIFICIA, PLURALITÀ DI PAPI, CHIESE NAZIONALI

La grande, duratura novità del cristianesimo medievale in Occi-

dente è la costruzione della cattolicità secondo un modello verticistico facente capo al vescovo di Roma, il papa. Di diritto e di fatto la chiesa viene a coincidere con la chiesa di Roma, il papato. Siffatta strutturazione viene legittimamente definita quale monarchia pontificia: nella figura e nella persona del papa, a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, progressivamente si con-

centra il potere eminente su ogni fedele e su qualsiasi istituzione ecclesiastica e religiosa. Il papa perviene a conseguire una «pienezza di potestà» — teorizzata dai canonisti di curia come diritto universale di intervento riservato alla chiesa di Roma - che si estende globalmente e individualmente su tutta la cristianità. Questo fenomeno, sul piano giuridico-istituzionale, avviene indipendentemente dal particolare possesso di una più o meno vasta dominazione politico-territoriale: il papa risulta monarca, anche nell'ipotesi che non sia titolare dello «stato della chiesa» o

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Cristianesimo

di qualsivoglia dominio temporale. Ciò non toglie che, storicamente, i papi cerchino di consolidare il loro potere su taluni territori, ubicati in prevalenza nell’Italia centrale, e, ad altro livello,

sviluppino tendenze e posizioni ierocratiche, contestualmente alla volontà di sacralizzazione della realtà. Monarchia pontificia, ierocrazia, «signoria sullo stato della chiesa» sono tre dimensioni

che nel basso Medioevo si intrecciano profondamente: cionono-

stante, occorre tener fermo che si tratta di tre dimensioni aven-

ti una propria identità teorica e pratica, oltre che andamenti non sempre coincidenti. La monarchia pontificia origina dalla volontà di difendere l'autonomia del fondamento e dei funzionamenti delle istituzioni ecclesiastiche e religiose rispetto agli interventi ad esse ritenuti estranei. La monarchia pontificia, come già abbiamo visto,

si regge su un centro — la curia romana — dotato di una «burocrazia», i cui uffici e il cui personale via via si allargano e si specializzano, e sul diritto canonico: curia e diritto sono gli strumenti teorici e pratici attraverso i quali esercitare le prerogative papali di direzione e di giurisdizione. Dal XII secolo la macchina curiale conobbe continui perfezionamenti in relazione al mol-

tiplicarsi dei campi d’azione del papato e alle richieste di inter-

vento rivolte alla sede pontificia: nel trecentesco periodo avignonese si portò a compiutezza la strutturazione burocratica della curia romana. La produzione della cancelleria si fece immensa. Le finanze furono riordinate in funzione di necessità economiche sempre crescenti: di esse si occupava la «Camera». Il concistoro, ossia la riunione del papa con i cardinali, mantenne la competenza sulle «cause maggiori» e sulle controversie concernenti le elezioni vescovili. Sorsero altri organismi per occuparsi di quanto riguardava mancanze disciplinari e censure, irregolarità e impedimenti matrimoniali, penitenze e privilegi, voti religiosi, giustizia civile e penale nelle cause spettanti alla sede apostolica, oltre che varie questioni

procedurali e formali: la Peni-

tenzieria, la Audientia causarum (ovvero Audientia sacri palaciî), la Audientia litterarum contradictarum. La plenitudo potestatis del papa, già attraverso alcune posizioni che erano presenti nel pensiero e nelle formulazioni di età gregoriana, tende a trasformare la supremazia dottrinale e giuridica in una sorta di supremazia politica del papato sulla cristianità. Il sacerdotium si poneva così in concorrenza imitativa col regnum: i teorici della supremazia pontificia giunsero ad affermare che il papa era il «vero imperatore». Tali posizioni ebbero interpreta-

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Il cristianesimo medievale in Occidente

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zioni e applicazioni dipendenti dal grado di conflittualità via via realizzatosi tra regno e sacerdozio. Le fasi del contrasto tra il papato e gli imperatori svevi furono di diversa intensità: con Federico I, per lunghi decenni nel corso del XII secolo, esso si manifestò non senza reciproche cautele, mentre con Federico II papi quali Gregorio IX e Innocenzo IV non esitarono ad applicare integralmente la ierocrazia di origine gregoriana. Non dimentichiamo che Innocenzo IV, durante il primo concilio di Lione del 1245, proclamò la sentenza di deposizione di Federico II, riservando a sé e al collegio cardinalizio la soluzione della questione del regno di Sicilia, mentre i grandi elettori tedeschi avrebbero dovuto provvedere alla scelta di un altro imperatore. Il papato, nella lotta per la propria indipendenza «politica» in Italia, era stato sorretto da elaborazioni teoriche che ne avevano inasprito l’intolleranza verso qualsiasi disobbedienza. Ma, proprio quando si pervenne a sostenere che il papa era fonte legittimante di ogni dominazione, giurisdizione e legislazione, quelle stesse concezioni ierocratiche dovevano scontrarsi, al passaggio dal XIII al XIV secolo, con forze e realtà che ad esse si ribellavano con grande energia: il mondo francese, prima, e, subito dopo, il mondo germanico e ghibellino. E fuor di dubbio che il ricorso alle intransigenti teorie ierocratiche si connetteva con la consapevolezza romana di dover difendere, oltre che l'autonomia istituzionale del corpo ecclesiastico,

l'indipendenza politica del papato: indipendenza che era stata collegata, fin dall’alto Medioevo, con il controllo dei rapporti di forza nella penisola italiana. Dagli inizi del XIII secolo, col pontificato di Innocenzo III, si persegue l’obiettivo di creare o di consolidare il dominio papale sulle regioni che grosso modo vanno dalle coste del Lazio, passano per l'Appennino umbro-marchigiano e giungono alla riviera adriatica e alla pianura emiliano-romagnola. Anche in età avignonese proseguono le iniziative politicomilitari per raccordare al papato le varie città e i molti nuclei di potere operanti in quella vasta area, alla quale si intendeva dare un assetto politicamente unitario. Invero, si trattava pur sempre di raccordi assai labili, spesso affatto formali, che, per lo più, servivano a legittimare e proteggere particolarismi cittadini e signorili. Passata la metà del Trecento, Egidio di Albornoz, energico cardi-

nale condottiero, attua un'importante svolta: in veste di legato papale intraprende un’ampia azione territoriale, costruendo fortez-

ze, imponendo funzionari pontifici, collegando al papato comu-

nità cittadine e signori locali. Il cardinale, soprattutto nel 1357,

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Cristianesimo

emana un corpo di leggi - dal suo nome dette «costituzioni egidiane» — che determinerà le linee istituzionali lungo le quali si sarebbe rafforzato l'organismo statale facente capo alla chiesa di Roma, mantenutosi poi sino all’età napoleonica. Negli ultimi due secoli del Medioevo il papato romano, falliti i disegni universalistici e ierocratici, stava diventando una - sia pur potentissima — tra le molte potenze dell'Occidente europeo. D'altronde, lo stesso trasferimento della sede pontificia nella quiete della città provenzale di Avignone, agli inizi del XIV secolo, nasceva, oltre che dalle difficoltà che continuamente si proponeva-

no per permanere nella sede storica di Roma, dalla consapevole

scelta di arrivare a una direzione complessiva dell'Europa di segno guelfo e di conduzione «a due», il papato stesso e la casa di Fran-

cia. Siffatta scelta si rivelò illusoria; ma ebbe l’effetto di porre le

premesse per cambiamenti radicali nella composizione della curia «romana» e per un notevole irrobustimento della chiesa francese, nel cui tessuto il papato allora si era inserito. Siffatte rapide osservazioni già lasciano capire come il tradizionale schema sto-

riografico della «cattività babilonese» vada radicalmente rivisto.

Certo la dipendenza dei papi dal regno di Francia in riferimento a qualche pontefice può pur essere affermata; ma, in generale, i

pontefici e i loro più stretti collaboratori non rinunciano affatto

alla libertas ecclesiae, ovvero proseguono consapevolmente ad operare come monarchi della cattolicità romana benché all’interno di quel complessivo disegno politico di cui si è detto. Il papato avignonese vive nel mito dell’«imminente» ritorno a Roma. Dovettero però passare più di settant'anni perché con Gregorio XI la penisola italiana vedesse il rientro del papa. In Italia si riproposero subito le difficoltà di esistenza della curia. Nel 1378 i cardinali sono chiamati all'elezione di un nuovo pontefice, ma le divisioni nel collegio cardinalizio portano a una doppia elezione: nell'aprile Urbano VI, nel settembre Clemente VII. Si apre allora una crisi gravissima: Clemente VII si riporta ad Avignone,

mentre

Urbano

VI sta in Roma.

Eccezionale

non

fu la

compresenza di due pontefici. Eccezionale fu la durata e la va-

stità della crisi. L'Europa occidentale risulta spezzata nelle due

obbedienze, che riescono pure a darsi continuità: morto Urbano VI, i cardinali «romani» eleggono nel 1389 Bonifacio IX, nel 1404 Innocenzo VII e nel 1406 Gregorio XII; scomparso nel 1394 Clemente VII, i cardinali «avignonesi» scelgono con rapidità il cardinale spagnolo Pedro de Luna che prende il nome di Benedetto XIII. Nonostante si sperimentassero vari mezzi diplomati-

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Il cristianesimo medievale in Occidente

ci e militari

per

mettere

fine

alla frattura,

167 dovettero

passare

trent'anni prima di giungere a un reale tentativo di soluzione. Il tentativo è di natura conciliare: nel 1409 a Pisa si riunisce un’assemblea voluta da cardinali, prelati e principi dei due schieramenti. In quell'occasione fu eletto Alessandro V (Pietro Filargio, arcivescovo di Milano), il quale divenne un terzo papa, visto che, nonostante le decisioni conciliari, né Gregorio XII né Benedetto XIII rinunciarono alla tiara. Nonostante il fallimento pisano, la via conciliare continuò a sembrare la più idonea per rimediare alle fratture. Spettò alle ripetute sessioni del concilio dì Costanza, faticosamente convoca-

to nel 1413 dal nuovo papa «pisano» Giovanni XXIII e protrattosi sino alla fine del 1417, di trovare la soluzione, quando — dopo la deposizione di Giovanni XXIII e di Benedetto XIII e la rinuncia di Gregorio XII — la maggioranza si concentrò sul cardinale Ottone Colonna, divenuto papa col nome di Martino V. Il conciliarismo, nonostante si collegasse con concezioni ecclesiologiche talora persino eversive, si rivelò soprattutto un’occasione

per ripensar® la tradizione cattolica con finalità di riforma ge-

nerale: ripensarla per rinnovarla, non per sovvertirla, anche se

tra il 1439 e il 1449 si ebbero nuovi sussulti con papa Eugenio IV e l’antipapa Felice V (Amedeo VII duca di Savoia). Alla fine rimase salda l’idea, la figura del pontefice come monarca della cattolicità sulla base, certo, di convinzioni e teorie ecclesiologiche,

ma non di meno sul fondamento della complessa rete di interessi al centro della quale il papato romano si poneva. L'universalismo cattolico — benché la cristianità occidentale avesse cono-

sciuto la ripetuta compresenza di più pontefici con le rispettive

aree di obbedienza e benché il mito papale avesse subìto qualche ridimensionamento — non riuscì a rinunciare al suo tradizionale punto di riferimento eminente e unitario. Ciò risulta, per certi versi, sorprendente se pensiamo che, nel

contempo, nella cattolicità occidentale stava accentuandosi la fisionomia di alcune chiese nazionali: d'altronde, a Basilea le rappresentanze sono divise per «nazioni» (francesi, inglesi, tedeschi,

italiani, spagnoli), segno dell’incipiente consolidamento delle chiese nazionali, protette dai principi e inserite nell’organizzazione dei regni e delle dominazioni. I percorsi per giungere a tali risultati sono assai complessi, né se ne può dare ragione qui in poche parole. Pensiamo, per esempio, alla situazione boema, quando, a seguito dell’irrobustirsi del potere regio nella seconda metà del XIV secolo e dell’emergere di una più precisa iden-

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Cristianesimo

tità culturale — grazie anche alla fondazione dell’Università di Praga —, le idee del teologo Giovanni Hus liberarono tendenze antitedesche e nazionalistiche. Il concilio di Basilea condannò il maestro praghese al rogo nel 1415: scoppiò la rivolta nelle terre boeme e quel «regno» espresse la propria autonomia religiosa ed ecclesiastica attraverso affermazioni religiose di non poco rilievo. Esse sono mediate e sintetizzate nei cosiddetti «quattro articoli» di Praga: libertà totale alla Parola predicata ovunque in quanto Evangelo del Cristo; denuncia ed eliminazione dei peccati pubblici contro la legge divina a partire dai detentori del potere; comunione eucaristica sotto le due specie (utraquismo); espropriazione dei beni ecclesiastici e abolizione del potere secolare del clero. La situazione religiosa boema si complicò quando le idee

hussite furono estremizzate dai taboriti, i quali, credendo nell’imminente ritorno del Cristo, diedero vita a un movimento chilia-

stico impegnato sul piano sociale, politico e militare. Contro l’«eretica» Boemia furono mosse crociate e il movimento taborita fu travolto; ma i «quattro articoli», sia pur in forma attenuata, rimasero a identificare la chiesa nazionale boema. * L’hussitismo era nato come critica agli sviluppi giuridico-politici della chiesa di Roma, ispirandosi alla riflessione teologica ed ecclesiologica di John Wyclif, maestro di Oxford, nei decenni centrali del Trecento, di grande prestigio presso le scuole e la corte d'Inghilterra. Le sue posizioni sono riassunte in un testo di «trentatré tesi» tutte ruotanti intorno al tema della povertà del Cristo. Orbene, egli critica la ierocrazia papale e rivaluta l’intervento del potere laico nelle cose di chiesa per la difesa e l’osservanza della legge evangelica rispetto agli abusi dei chierici. Insomma, la critica alla «carnalità» della chiesa gerarchica sembrava avere esiti nella rivalutazione del «regno» in quanto protettore del retto funzionamento della vita ecclesiastica e religiosa. Non si tratta di novità assolute, non solo perché si riferivano

a tradizioni altomedievali, ma anche perché posizioni analoghe erano state sostenute da un Federico II o dai teologi e maestri rifugiatisi, nei primi decenni del Trecento, presso la corte di Ludovico il Bavaro. Tutto ciò, se rappresenta certo un consistente

tentativo di superare la teocrazia papale (e l’ecclesiologia che la

sosteneva) — peraltro già in crisi col tramonto della grandiosa utopia universalistica della societas christiana —, non significa tuttavia

una critica alla strutturazione monarchica della cattolicità romana. Ne risulta, invece, una forte spinta alla riformulazione dei rapporti tra il vertice papale e i poteri nazionali o regionali.

G.G. Merlo

Il cristianesimo medievale în Occidente

169

Che i poteri nazionali o regionali fossero impegnati ad ampliare le proprie capacità di intervento e controllo su uomini e istituzioni di chiesa a fini di consolidamento e stabilizzazione del proprio dominio,

è attestato ovunque

nell’Occidente europeo;

ma

consideriamo un solo esempio che riguarda la Francia, già sapendo che il mondo germanico si era staccato da Roma a seguito della secolare e logorante lotta tra impero e papato. Nel 1437 Carlo VII convoca autonomamente il clero francese: le deliberazioni prese in quest'occasione saranno emanate l’anno successivo attraverso la cosiddetta «Prammatica sanzione» di Bourges e rese valide per tutto il regno. Ispirandosi a certe proposizioni di Basilea che sembravano affermare la superiorità del concilio ecumenico sul papa, ogni intervento pontificio nell’assegnazione dei benefici fu condannato, mentre venne riaffermata l’autonomia dei ca-

pitoli cattedrali nelle elezioni vescovili. Tali proposizioni di non poco peso furono imposte dal re, che rivendicava il suo diritto di protezione della chiesa «gallicana» e delle sue «libertà», come dottrina ufficiale del corpo ecclesiastico di Francia.

Questi dati e queste indicazioni illustrano a sufficienza quanto

il panorama dell'Occidente cristiano, verso la metà del Quattro-

cento, si sia modificato rispetto ai secoli precedenti. L'Europa degli stati e delle nazioni nasceva anche dall'esaurimento dell’universalismo pontificio e imperiale, e pur lasciava alla chiesa romana la sua struttura monarchica, ma vedendo in essa uno dei poteri tra altri poteri, non i/ potere che molti pontefici avevano preteso di possedere e di esercitare: uno dei poteri che aveva nella curia romana il suo centro superbo, impegnato a mantenere i raccordi con le formazioni politiche nazionali e regionali, a costruire la propria dominazione territoriale in Italia, a comporre le dilaganti ambizioni dei chierici di ogni livello con quelle delle classi egemoni, a limitare e coordinare l’esuberante attivismo degli ordini religiosi, a conservare il patrimonio rituale, teologico e canonistico di fronte a un mondo in mutamento, un mondo che stava dan-

do vita ad assetti e ordinamenti più forti e stabili.

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Le chiese orientali di Lorenzo Perrone

I. PANORAMICA GENERAL E E ASPETTI DI COMPARAZIONE

1. Un ramo distinto della tradizione cristiana: problemi di definizione Varie sono le designazioni adoperate per indicare il complesso di chiese situato storicamente ai margini orientali dell’ortodossia di

matrice bizantina, ma tutte in qualche modo insoddisfacenti ai fini di circoscrivere adeguatamente questo ramo distinto della tradizione cristiana. Si parla così di chiese «non-ortodosse»,

«non-

calcedonesi» o «pre-calcedonesi» (distinguendole ulteriormente

in «monofisite» e «nestoriane»), o ancora di chiese «vetero-orien-

tali» oppure di chiese «nazionali orientali». Il limite prevalente in questi tentativi di definizione è che essi tendono ad offrire una caratterizzazione in negativo, spesso col concorso di condizionamenti teologici e confessionali che oggi non risultano più accettabili. Ciò vale anzitutto per la qualifica di «chiese non-ortodosse», formulata per esclusione rispetto all’ortodossia bizantino-slava, che riflette un giudizio basato sulle rotture confessionali del V secolo, ma non tiene conto della rivendicazione di «ortodossia» fat-

ta propria anche da queste chiese, impegnate tutte ad affermare la loro continuità con la fede apostolica, com'è espresso del resto dalle rispettive, autodesignazioni odierne. Il termine «non-calcedonesi» si avvicina maggiormente al dato storico originario, rappresentato dal fatto che queste chiese hanno in comune il rifiuto del dogma delle «due nature di Cristo in una persona», promulgato nel concilio di Calcedonia (451). Tuttavia, anche tale conno-

174

Cristianesimo

tazione appare insufficiente, non solo perché ricopre indifferentemente due tradizioni — la «monofisita» e la «nestoriana» — che partono da risposte diverse al problema dottrinale affrontato a Calcedonia, ma anche perché rischia di rinchiudere la dinamica

più complessa dell’evoluzione storica di queste chiese entro l’orizzonte fissato dai conflitti cristologici del V-VI secolo. Ora, non mancano nel corso dei secoli fenomeni significativi d’interferenza culturale tra le chiese non-calcedonesi e le chiese calcedonesi — come avviene, ad esempio, tra l’armena e la georgiana o più in generale tra la chiesa bizantina e le chiese orientali —, che portano a

ridimensionare almeno in parte il peso delle differenze dottrina-

li. Inoltre, l’attuale dialogo ecumenico fra le diverse confessioni cristiane sottolinea la convergenza di fatto nelle convinzioni di fede tra aderenti al dogma di Calcedonia e non-calcedonesi e per questa ragione spinge ad abbandonare l’uso tradizionale delle espressioni «monofisita» e «nestoriano», entrambe di derivazione polemica. In realtà, queste denominazioni, se depurate della loro matrice controversistica, conservano tuttora validità in sede stori-

ca, per indicare le due principali direzioni in cui si biforca questa famiglia di chiese, e come tali saranno utilizzate anche in questo

contributo. Una nozione generale più neutra come quella di «chiese orientali» appare comunque preferibile, sebbene risulti a prima

vista ancora

vaga,

poiché

rinvia unicamente

al contesto

storico-

geografico dell'Oriente nella sua articolazione più ampia —- come conviene alla parabola storica di queste chiese —, per distinzione dall’Occidente latino e dalla cristianità bizantino-slava. La categoria geografica può essere precisata ulteriormente mediante l’espressione «chiese nazionali orientali», che ha anch'essa il vantaggio di superare l'ottica storico-confessionale introducendo un elemento interno di specificazione in questa famiglia di chiese. D'altra parte, neppure questa qualifica soddisfa interamente: non solo il termine «nazionale» non è da assumere nella sua valenza moderna,

come

indicatore di una precisa identificazione

etnica, linguistica e culturale, o almeno questi aspetti si manifestano per singole chiese con durata e intensità diversa. Inoltre,

non è neppure generalizzabile, dal momento che la chiesa siriaca, l'interprete forse più attivo ed importante nell’insieme di questa tradizione, specialmente col suo ramo orientale della chiesa

nestoriana, travalica ampiamente la dimensione nazionale, men-

tre l’identificazione fra chiesa e popolo appare caratteristica — sia pure in misura diversa — di Armeni, Georgiani, Copti ed Etiopi.

L. Perrone

Le chiese orientali

175

Nondimeno nei paesi soggetti a dominazione islamica le comunità cristiane minoritarie sono equiparate di fatto a «nazioni» — come dichiara il corrispondente termine turco millet («nazione»,

«popolo») per l'epoca ottomana —, ancorché ciò non comporti necessariamente una diversità etnica o linguistica. L'area geografica occupata da queste chiese è in origine quella del Vicino e Medio Oriente, ma con la tendenza a superarne i confini sia verso nord-est che verso sud, nel continente asiatico come in quello africano. Dai territori mediterranei della Siria, che vedono la presenza del cristianesimo fin dai suoi primordi,

il moto missionario si espande ben presto in direzione del Caucaso, dove si formano successivamente

due cristianità nazionali

ricche di tradizione in Armenia e Georgia. Esso penetra già in vecchia data nelle regioni mesopotamiche che fanno parte del dominio persiano, e la vocazione espansionistica propria del grande rivale dell’impero romano sembra aver stimolato la chiesa nestoriana a sviluppare una straordinaria attività di evangeliz-

zazione in tutta la sua area e al di là di essa, fino ad insediarsi ben presto in varie località dell'Asia Centrale, fra il Turkestan e

la Mongolia, e a giungere ancor più lontano dalla zona di partenza, in Cina e nell’India meridionale,

seguendo

di norma

le

rotte commerciali. L'opera di cristianizzazione da parte dei nestoriani e di altre chiese orientali investe inoltre la penisola arabica prima del grande moto islamico, con diverse presenze di

maggiore o minor durata, le più consistenti delle quali si situano nell'odierno Yemen. La penetrazione del cristianesimo orientale verso sud comporta l'acquisizione ad esso non solo dell’Egitto, in cui la chiesa copta si pone come la vera erede della primi-

tiva chiesa alessandrina, ma anche dei territori della Nubia lungo il corso superiore del Nilo, in cui una significativa comunità cristiana si attesta fino al tardo Medioevo. Ancor più a meridio-

ne, sull'altopiano etiopico, s’insedia per tempo una chiesa, l’abissina, che intreccia strettamente le sue vicende con quelle della nazione fino ai nostri giorni.

Se consideriamo l’entità così cospicua dello spazio disegnato da queste coordinate geografiche, è facile cogliere subito l'importanza storica dell’Oriente cristiano. Esso ci aiuta a bilanciare la visione troppo unilaterale e diffusa dello sviluppo storico del cristianesimo, imperniata dapprima sul mondo mediterraneo greco-romano

e poi sull’Occidente

medievale

e moderno,

con

privilegio di Roma quale centro propulsore dell’espansione missionaria, e tutt'al più con l'assunzione accessoria in questo qua-

176

Cristianesimo

dro della cristianità bizantina. Il pregiudizio eurocentrico della storiografia tradizionale è stato in parte rafforzato da una valutazione negativa circa le caratteristiche religiose dell'Oriente cristiano. Basandosi soprattutto sulle testimonianze contemporanee della situazione di chiese soggette ormai da tempo a processi di decadenza,

lo si è visto essenzialmente

come

una

sopravvivenza

superstiziosa, quasi una specie di «religione dell’amuleto», e pertanto come una forma di religione inferiore al monoteismo puro dell’islam, destinata in quanto tale a soccombere ad esso. Un simile giudizio non solo non dà ragione della notevole capacità di tenuta delle chiese orientali, in presenza di un avversario agguerrito e pericoloso come l’islam, e della presa — sia pure largamente effimera — esercitata da esse in ambiti di civiltà così diversi come quello turco-mongolo, cinese o indiano, nei quali si mettono in atto tentativi di «inculturazione» del cristianesimo destinati ad anticipare quelli moderni. Oltre a ciò, esso viene contraddetto oggi da un riconoscimento, forse eccessivamente partecipe ma non privo di elementi di verità, che sottolinea come proprio il cristianesimo orientale abbia preservato - nell’organizzazione ecclesiastica, nel culto, nelle forme di spiritualità — ele-

menti genuini della chiesa primitiva. Prescindendo da queste valutazioni globali, facilmente soggette a condizionamenti ideologici sia in negativo che in positivo, le chiese orientali offrono numerosi motivi d’interesse stori-

co, a cominciare dall'esame delle situazioni ambientali in cui si

sono trovate a vivere. Ancor prima dell'avvento dell’islam, la chiesa persiana opera entro un regime politico che si presenta diverso dall'alternativa più comune al cristianesimo di area mediterranea o europea, oscillante fra uno stato intollerante e persecutore ed uno che abbraccia e sostiene la fede cristiana. Essa agisce cioè come minoranza religiosa riconosciuta, soggetta a certi limiti nella sua libertà di azione e priva di un esplicito sostegno statale, ma non per questo impedita di esplicare i propri dinamismi religiosi. Con l'affermarsi della dominazione islamica a partire dal VII secolo la maggior parte di queste chiese si colloca al di fuori di un regime di «cristianità», quale è quello introdotto dalla svolta costantiniana per l'impero romano e per i vari stati che nascono in seguito dal suo disfacimento, ma che ri-

troviamo in termini analoghi anche per alcune delle stesse chie-

se orientali, in primo luogo per l’Etiopia, per la Nubia €, con incidenza più ridotta a causa delle loro vicissitudini politiche, anche per l'Armenia e la Georgia. L'assenza di una promozione del

L. Perrone

Le chiese orientali

177

cristianesimo da parte dello stato lascia indubbiamente le singole chiese più indifese ed esposte agli arbitrî del potere politico, rende meno estensivi gli effetti della cristianizzazione, ma nello stesso tempo libera energie diverse, come mostra l'impulso missionario della chiesa nestoriana o il ruolo peculiare esercitato dal laicato al fianco della gerarchia ecclesiastica nel condurre gli affari delle proprie comunità. Nel contempo, però, l'attribuzione ai capi religiosi anche delle responsabilità civili nei confronti degli aderenti alla loro confessione esalta il loro ruolo di «etnarchi» con un accumulo di poteri sconosciuto alla chiesa medievale d'Occidente e alla stessa chiesa bizantina prima della con-

quista di Costantinopoli da parte dei Turchi. Se la formula adot-

tata originariamente sotto i Sassanidi trapassa senza modifiche sostanziali nel periodo della dominazione arabo-islamica fino al regime ottomano, un altro fattore ambientale di lunga durata, strettamente correlato al primo, è il confronto con l’islam a cui queste chiese furono sottoposte fin dai suoi inizi. Senza ridurlo al solo esito di natura polemico-apologetica o a quello più mortificante per i cristiani del fenomeno delle apostasie, si può notare come la convivenza prolungata abbia dato luogo anche a significativi processi d’interazione religiosa e culturale che contrastano col quadro predominante dell’alternativa conflittuale fra le

due tradizioni religiose. Non solo gli autori cristiani di Siria, Per-

sia ed Egitto trasmettono ai musulmani il patrimonio filosofico e scientifico del mondo antico grazie alle loro traduzioni in arabo, ma con gli stessi scritti a difesa del cristianesimo stimolano positivamente lo sviluppo della teologia musulmana. Non sorprende così che in epoca moderna esponenti delle chiese orientali siano stati tra i fautori più convinti della rinascita araba. 2.

Fenomeni di frammentazione ecclesiale ed elementi a carattere

unificante

La famiglia delle chiese orientali, così distinta dalle tradizioni dell’ortodossia bizantina e del cattolicesimo latino, manifesta un

volto composito a causa dei diversi fattori che hanno inciso su di essa, determinando al suo interno fenomeni di frammentazione

ecclesiale. Il primato fra di essi, non solo in senso genetico, spetta naturalmente alle ragioni dottrinali cui si è accennato precedentemente. Le controversie cristologiche in seno alla chiesa imperiale, a partire dal V secolo, vedono la contrapposizione sempre più acuta fino a diventare inconciliabile fra due distinti in-

178

Cristianesimo

dirizzi teologici, legati rispettivamente ai grandi centri intellettuali di Alessandria e di Antiochia. La linea alessandrina, imper-

sonificata dal vescovo Cirillo, si afferma nel concilio di Efeso (431) contro Nestorio di Costantinopoli, esponente della tradizione antiochena, in nome di una formulazione cristologica che sottolinea con forza l’unità del Verbo incarnato. Il contrappeso alle enunciazioni più spinte di questa dottrina — che prediligono l’espressione «una natura» del Logos fatto carne (mia physis, da cui «monofisiti») — è offerto un ventennio più tardi dal concilio di Calcedonia,

che si sforza di soddisfare le ragioni della cristo-

logia antiochena, costantemente preoccupata di salvaguardare la persistenza e la distinzione della natura umana insieme alla di-

vina nel Dio fatto uomo. Il risultato sinodale, frutto di un fatico-

so compromesso fra le tradizioni antiochena, alessandrina e

lati-

na, incontra però una resistenza accanita presso le chiese della

Siria e dell’Egitto, che, nonostante la repressione imperiale, porta già nella prima metà del VI secolo alla costituzione di chiese separate «monofisite». Né esso riesce ad accontentare i fautori dell'indirizzo antiocheno più convinto che si richiameranno al la persona di Nestorio e degli altri maestri di questa tradizione per fondare a loro volta una distinta comunità ecclesiale, quella

della chiesa «nestoriana». Le lacerazioni confessionali, oltre a dar vita ad entità distinte dalla chiesa imperiale bizantina, compor-

tano inevitabilmente divaricazioni anche su altri piani della vita interna, a cominciare dai modi dell’organizzazione ecclesiastica e della relativa elaborazione canonica.

Accanto alle cause dottrinali, la frammentazione ecclesiale di

cui l'Oriente cristiano è testimone dipende anche da motivi storico-politici. Primo fra tutti è da vedersi, a questo riguardo, l’an-

tagonismo imperialistico fra Roma e la Persia, che costituisce il fattore decisivo per il formarsi della chiesa siriaca orientale come entità autonoma già dalla prima metà del V secolo. Solo nel 484 la connotazione confessionale in senso nestoriano si aggiungerà a sancire definitivamente la via separata di questa chiesa, con l'intento peraltro di ribadire, anche tramite la diversa pro-

fessione di fede, il pieno lealismo dei sudditi cristiani. Né si può negare che ragioni d’ordine analogo siano intervenute durante il VI secolo per la scelta di segno opposto compiuta dalla chiesa

armena, la quale, facendo professione di monofisismo, intende

così segnalare anche la sua indipendenza dalla tutela politico-religiosa di Bisanzio, schierata a difesa del dogma

di Calcedonia,

nonché dalla chiesa nestoriana di Persia. Questa stessa afferma-

L. Perrone zione

Le chiese orientali

di autonomia,

per reazione

179 al centralismo

bizantino

e in

forza di pressioni etnico-culturali sempre più impellenti, sta probabilmente alla base anche dei fenomeni di resistenza e separazione dalla chiesa imperiale calcedonese che caratterizzano ad ampio raggioi territori cristiani dell’Egitto e della Siria, sebbene convenga parlare qui con prudenza di precise tendenze «nazionalistiche». L'elemento confessionale sembra piuttosto concorrere solo successivamente alla definizione di un'identità nazionale, allorché la rottura religiosa è accompagnata anche dalla separazione politica dall'impero bizantino, come avviene nel VII secolo con la conquista araba. Nell'immagine finale assunta da queste chiese intervengono allora come fattori di portata più estesa e duratura, e quindi da considerarsi anch’essi come un terzo ordine di ragioni alla base della frammentazione ecclesiale, le diversità di natura etnica, linguistica e culturale che danno vita a comunità religiose dal profilo distinto. Non mancano però i motivi che giustificano una visione unitaria di queste chiese orientali, tanto da poter affermare che esse appartengono ad una medesima famiglia dalle caratteristiche proprie. In primo luogo si dovrà tenere conto del rapporto fra ellenismo e cristianesimo, al quale neppure questo secondo ramo del mondo cristiano d’Oriente, per quanto staccato dall’ortodossia bizantina, riesce a sottrarsi. La cristianizzazione dei ter-

ritori d'origine ha avuto infatti tra le sue premesse fondamenta-

li l’ellenizzazione dell’area mediterranea e orientale, avviata dal-

l’opera di Alessandro Magno e dei suoi successori, e con essa la creazione di un’atmosfera universalistica che trascendeva gli orizzonti più ristretti delle città e dei singoli popoli, e perfino dello stesso impero romano. Non è un caso che la prima lingua della missione sia stata il greco. Pur con tutte le loro peculiarità na-

zionali, le basi culturali greche, frutto della penetrazione cristia-

na nella civiltà ellenistica, sono quindi un dato comune alle varie chiese, dall’Armenia all’Etiopia, dall'Egitto alla stessa Persia sassanide. La consistente eredità patristica ricevuta dalla chiesa greca dei primi secoli, che tuttora contraddistingue le chiese orientali, spinge a considerare le diversità fra esse e la chiesa bi-

zantina meno rilevanti di quelle che intercorrono fra questa e la

chiesa d'Occidente. Del resto, l'egemonia culturale greca non si è limitata al momento formativo, ma si è fatta sentire pure in seguito a vari livelli, determinando in talune situazioni — come nell’Armenia

del VI-VII secolo, più sensibile alla vicinanza cul-

turale di Bisanzio — una nuova ondata di ellenizzazione anche

180

Cristianesimo

posteriormente alla nascita di una cultura nazionale. Gli effetti di queste dinamiche, sottolineati dalla circolazione dei classici cristiani greci nelle diverse lingue di quest'area (che genera in

ampia misura, a seconda delle zone, letterature di traduzione),

possono essere accertati anche sotto altri profili. Di particolare interesse è una verifica in campo artistico, data l’applicazione prevalentemente religiosa che lo contraddistingue fino alle so-

glie dell’età moderna. Qui il predominio dell’arte cristiana di Bi-

sanzio sembra essersi esercitato a vastissimo raggio, entro le diverse cristianità di Egitto, Siria, Armenia, Georgia e Nubia. Così, anche sotto il dominio islamico la miniatura copta, siriaca o ar-

mena offre indizi importanti sulla continuità delle relazioni artistiche col mondo bizantino. Sarebbe comunque errato pensare all’ellenizzazione unicamente nei termini di un'egemonia-culturale tale da soffocare l’autonoma creatività delle singole chiese, ricondotte ad un modello uniforme. La diffusione del cristianesimo di matrice greca non solo convive con realtà locali, sia linguistiche che culturali, di natura diversa, ma anziché bloccare la loro espressione tende

- almeno nella dialettica più comune che si dispiega per tempo entro queste chiese — a promuoverne, direttamente o indirettamente, le manifestazioni. Lo si vede bene, ad esempio, nel caso

dell’Egitto, dov'è fuori luogo una netta distinzione e contrapposizione fra gli strati ellenizzati e la popolazione autoctona, poiché conviene semmai parlare di una compresenza e compenetrazione di orizzonti culturali diversi fin dall'epoca del vescovo alessandrino Atanasio (m. 373) e del monaco copto Antonio (m. 356). Altrettanto può dirsi per il cristianesimo siriaco che ha il suo centro in Edessa, dove ellenismo e semitismo s'intrecciano

negli stessi iniziatori di una letteratura regionale. Di conseguenza, l'elemento originariamente unificante dell’ellenismo diventa anche stimolo per la crescita separata di entità ecclesiali dotate ciascuna di una fisionomia specifica. Anche questo processo, che

porta alla formazione di diverse culture cristiane su base nazio-

nale o etnica, offre materia per una valutazione d’insieme, seb-

bene gli esiti distinti diano di per sé un’indicazione diversa e legittimino perciò — come vedremo più avanti — una loro analisi a parte. In realtà, proprio la dinamica storica di questo fenomeno

ci mette davanti ancora una volta a sviluppi comuni, suscettibili di essere accostati fra loro e convergenti verso l’individuazione

di un complesso unitario. La distinzione dall’ellenismo cristiano,

che si manifesta in primo luogo attraverso la fioritura delle di-

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Le chiese orientali

181

verse lingue e letterature di queste chiese, significa storicamente — pur con le debite differenziazioni accennate prima — la via per l'emancipazione dei singoli popoli. Essi trovano qui il loro ancoraggio religioso e culturale, dando spazio ad una propria tradizione che rielabora indipendentemente quanto ha ricevuto dal mondo greco. È sintomatica, a questo riguardo, la situazione della chiesa armena, che nel V secolo si dota di un proprio alfabeto anche per affermare così la sua autonomia ad un tempo poli tica, culturale e religiosa. Ma pure l’Egitto copto, che a lungo andare assimila la componente

ellenistica, è la riprova di come

il

superamento dell’ellenismo comporti la sua assunzione all’interno di un nuovo sfondo culturale. Queste ripercussioni creative trovano riscontri importanti nell’arte religiosa, a cominciare da quella copta, che mostra come già nell’alveo bizantino operassero fermenti diversi, non riconducibili ad esso, spesso in dia-

lettica feconda. Basti ricordare, in proposito, le premesse all’arte delle icone — ai nostri occhi così tipicamente bizantina — rintracciabili nell’arte copta. Ma se guardiamo più a sud, alle espressioni artistiche della Nubia cristiana, venute alla luce di recente,

agli influssi bizantini o di altre parti dell'Oriente cristiano si sovrappone un inconfondibile stile originale. Le manifestazioni in campo artistico illustrano bene con le loro mescolanze ed intrecci reciproci un fenomeno ulteriore che concorre anch'esso nel delineare l'ambito complessivo di queste chiese, accanto alla dialettica fra universalismo e particolarismo. Esso è rappresentato dalle dinamiche interne di compenetrazione culturale che si stabiliscono fra le diverse regioni dell’Orien-

te cristiano e che hanno come risultato una circolarità delle tra-

dizioni liturgiche, teologiche

e spirituali, largamente

condivise

dalle singole chiese. Tale interazione è riconducibile, in parte, alle modalità originarie della cristianizzazione con il ruolo attivo svolto da alcune chiese nei confronti di altre che si configurano così quali chiese sorelle. È il caso della chiesa siriaca rispetto all’armena ma anche rispetto all’etiopica, o quello della chiesa egiziana riguardo ancora a quest'ultima o alla chiesa di Nubia. Ma una situazione analoga può verificarsi anche in epoche successive alla fase evangelizzatrice, come si riscontra dalle presenze armene nell’Etiopia del basso Medioevo e della prima età moderna. Gli effetti di questi scambi si avvertono distintamente in un settore come quello dei riti, che appare così rilevante per fissare gli

elementi di un'identità ecclesiale a carattere autonomo. Si pensi

qui alla diffusione dell'antica innografia siriaca, strettamente le-

182

Cristianesimo

gata al momento liturgico, che diventa patrimonio comune delle chiese orientali. Ma l’influenza delle tradizioni liturgiche della Siria non si restringe a questo aspetto, poiché investe più am-

piamente chiese vicine come l’armena o la persiana e si manife-

sta in diversi periodi sulla stessa chiesa copta, ancora fino al XIIXIII secolo, pur appartenendo essa ad una famiglia liturgica, l'alessandrina, diversa storicamente da quella antiochena. In ambito canonistico i prestiti reciproci fra le singole chiese si susseguono fino all’epoca mongolica (secoli XIII-XIV), sottolineando nuovamente al loro interno la ricezione predominante della tradizione siriaco-occidentale. A facilitare questi processi interverrà dal IX-X secolo l’arabo, che subentra al greco come nuova «lingua franca» dell’area medio-orientale anche per le comunità cristiane. Queste danno vita ad una letteratura araba cristiana che si affianca alle letterature nazionali e, specialmente grazie al contributo della chiesa copta, estende la propria influenza dalla sfera originaria con significative ricadute nelle stesse letterature nazionali, come ad esempio l’etiopica. Se si esamina, poi, l’insieme delle tradizioni spirituali, iniziando da quelle agiografiche, si noterà come anche qui si riproduca il medesimo fenomeno. Leggende agiografiche dell'Armenia diventano patrimonio della chiesa etiopica e, viceversa, il calendario armeno include san-

ti che provengono dai sinassari siriaci o bizantini. L'esempio armeno poi rimanda ad un altro elemento comune in questo contesto interattivo, poiché la chiesa d’Armenia sulla scia dei suoi

sforzi d’autonomia, pur avendo subito l’influsso delle tradizioni

liturgiche della Cappadocia e della Siria, decise di abbracciare la

liturgia di Gerusalemme, ponendola così alla base della propria

vocazione

nazionale. Il rilievo universale della Città Santa, «ma-

dre delle chiese» — in cui convivono nella loro massima concentrazione le diverse denominazioni cristiane con le rispettive gerarchie —, già notevole in epoca bizantina, nonostante il privilegio accordato alla chiesa imperiale, si intensifica nei secoli della dominazione islamica come momento d’incontro e di reciproca conoscenza, spesso anzi come l’unica occasione di contatto con la cristianità esterna, come constatiamo per la chiesa etiopica. Il suo isolamento geografico e politico a seguito dell'espansione islamica è spezzato infatti grazie alla presenza di una comunità monastica a Gerusalemme, che partecipa degli intrecci culturali attivati in essa quale centro comune dell'Oriente cristiano. Infine, viste in prospettiva diacronica, le chiese orientali sono

tenute insieme dal legame unitario di una storia che si presenta

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Le chiese orientali

183

anch'essa comune nelle sue scansioni cronologiche decisive, negli eventi e nei protagonisti principali, benché questi ultimi risultino essere soprattutto esterni. Se si escludono gli sviluppi particolari, dovuti all’incidenza di fattori più strettamente locali, la

periodizzazione storica può dunque disporsi nelle seguenti fasi a

carattere generale, di cui indichiamo sommariamente i tratti essenziali. l 1) L'epoca formativa, che a seconda dei casi può risalire fino ai primissimi secoli e coincidere con gli stessi inizi del cristianesimo (come in Siria ed Egitto), giunge a compimento nella fase travagliata successiva alle dispute cristologiche del V-VI secolo e ai conflitti per l'egemonia politica fra Persiani e Bizantini. 2) L'epoca della dominazione arabo-islamica (secoli VII-XI), che

pone fine nel VII secolo al controllo bizantino sui territori medio-orientali, introduce per la maggior parte delle chiese un regime di minorità sul piano civile. Nella società islamica, i cristiani — pur essendo autorizzati, come s'è visto, ad amministrare gli affari interni delle proprie comunità — sono ridotti in pratica a cittadini di seconda categoria. Viene loro impedito di fare opera di proselitismo, di assumere incarichi pubblici e di prestare servizio militare; sono costretti a pagare tasse aggiuntive e ad indossare un abito distinto. Naturalmente il peso e l’applicazione di queste misure restrittive varia a seconda delle zone e dei tempi, con la tendenza ad una maggiore elasticità, ma anche a più seri arbitrî ed imprevisti in periodi di crisi politica come sono quelli della decadenza del califfato abbaside sul finire di quest'epoca. Non bisogna però credere che l'avvento del dominio arabo-islamico segni l’inizio fatale del decadimento per le chiese orientali. Contro questo pregiudizio diffuso si deve ricordare che il loro apogeo arriva piuttosto con l’epoca medievale, com'è esemplificato al meglio dalla rinascita della chiesa siriaca nei secoli XII-XIII. Né il fenomeno pure crescente e vittorioso dell’islamizzazione riesce per lungo tempo a ridurre in misura significativa la consistenza di massa delle chiese. 3) L'epoca delle crociate e della dominazione mongola (secoli XII-

XIV) è una fase cruciale di transizione che da un lato riporta que-

ste chiese ad un contatto più diretto col resto della cristianità, fa-

cendo emergere il protagonismo della chiesa latina, apre almeno inizialmente —- in special modo per le l'area siriaco-mesopotamica — a possibilità insperate pero dell’egemonia cristiana nei confronti dell’islam. ranze, più che dall’opera delle forze crociate (con le

e dall'altro chiese deldi un ricuQueste spequali a trat-

184

Cristianesimo

ti si acuisce la percezione delle diversità confessionali a causa della politica di latinizzazione portata avanti da esse), vengono ali-

mentate soprattutto dalle simpatie dei Mongoli verso il cristia-

nesimo, dopo che si era fatta sentire presso di essi l’opera evangelizzatrice dei nestoriani. Tuttavia, la loro scelta a favore dell’islam fa sfumare ben presto le nuove possibilità e determina contraccolpi negativi per l’esistenza delle chiese orientali. Unico risultato duraturo dell’intervento latino è l'adesione alla chiesa romana

(1182)

dei Maroniti del Libano, un ramo del cristiane-

simo siriaco rimasto fedele all'orientamento calcedonese. 4) L'epoca della decadenza, che sì avvia a partire dal XV secolo con la persecuzione di Tamerlano (1336-1405), giunge fino alle soglie dell’età moderna, allorché in queste comunità spesso ridotte ad una faticosa sopravvivenza si manifestano segnali di un

risveglio religioso e culturale. Se l'insediamento degli Ottomani

a Costantinopoli

(1453)

fa sentire nuovamente

la vicinanza del

patriarcato ecumenico, le iniziative maggiori di contatto con le chiese orientali sono lanciate dalla sede romana, che si sforza di

sviluppare una politica d'unione coinvolgendo anch'esse nel dialogo già annodato con l'ortodossia bizantina. Le chiese orientali si associano così — con Armeni, Copti, Siri ed Etiopi — alle trattative d’unione collegate col concilio di Ferrara-Firenze (14371439), ma l’effetto del moto unionistico si rivela di breve durata. A più stabili risultati doveva portare, in seguito, l’azione intrapresa da Roma, anche perché manifesta col tempo maggiore duttilità nei confronti dei riti e delle tradizioni orientali. In tal modo si formano chiese separate di obbedienza cattolica (le cosiddette «chiese uniati»), ma che conservano in misura più o meno cospicua il patrimonio delle rispettive tradizioni e, grazie all’appoggio esterno, possono rinsaldare le proprie forze e rilanciare la vita delle comunità. L'alternativa fra arroccamento e unione con Roma — a scapito della presenza protestante che si fa sentire sull’onda della fase colonialistica a partire dal primo Ottocento — domina

la scena moderna

fino all'avvento, in campo

confessionale, dell’ecumenismo e, in campo politico, della rinascita nazionale araba dopo il crollo ottomano nella prima guerra mondiale. Anche questa griglia cronologica essenziale lascia intravedere con chiarezza la complessità degli sfondi storiografici a cui introduce lo studio delle chiese orientali. Un esame comparato pur assai sommario e rapido, come quello che si è tentato in questa parte introduttiva, non può ignorare che molti problemi riman-

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Le chiese orientali

185

gono aperti, non solo spesso per la mancanza di fonti, ma anche

perché più in generale lo studio complessivo dell'Oriente cri-

stiano richiede di dominare una scacchiera linguistica e cultura-

le assai variegata. La maggior parte degli aspetti che si sono sfiorati in precedenza attendono pertanto messe a punto più ade-

guate, tali da illuminare possibilmente le molte zone d’ombra che ancora sussistono. Più fortunata è forse, nell’insieme, la situazione delle singole chiese orientali — che sono state oggetto

da tempo di ricerche approfondite -, ma anche qui molto so-

vente non si riesce ad andare al di là dei lineamenti generali, ine-

vitabilmente vaghi e approssimativi. Le pagine che seguono, ben-

ché si sforzino di offrire un profilo succinto per le singole comunità ecclesiali, non possono non risentire anch'esse di questo

stato di cose. Esse si propongono semplicemente di integrare l’inquadramento introduttivo con i dati storici più facilmente rica-

vabili dal profilo peculiare delle singole chiese. Come tali, essi consigliano più opportunamente una trattazione distinta. Il. LE CRISTIANITÀ

NAZIONALI

3. Cristianesimo siriaco

Una rassegna delle singole chiese orientali non può non partire

dal cristianesimo siriaco, data l’importanza storica che questo ri-

veste nel loro panorama complessivo. Accanto alle componenti

greca e latina, esso elabora un terzo elemento fondamentale del-

le origini cristiane, la sua versione semitica, che si ricollega di-

rettamente alle tradizioni della chiesa primitiva, poiché accoglie e sviluppa il patrimonio giudeo-cristiano. Questa specificità non

deve però trarre in inganno: l’area siriaca, diversamente dalle altre regioni dell'Oriente cristiano — in special modo, se la si paragona ad un’altra chiesa orientale di grande dinamismo e prestigio come l’egiziana + non risulta affatto omogenea sul piano geografico, etnico e culturale. La frontiera dei due imperi, romano e persiano, che separa quest'area ad est, in direzione della regione mesopotamica, è in realtà un confine più aperto e mobile di quanto non sembri, e trasmette in un senso e nell'altro

idee ed esperienze religiose. Ad Occidente, poi, l'apertura verso

l'esterno è stata garantita dal massiccio impatto dell’ellenizzazione su un centro come Antiochia, ma anche in essa (e tanto più nel suo retroterra rurale) si fa sentire l’azione dell'elemento

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Cristianesimo

semitico, di matrice aramaica o giudaica. La minore compattezza del cristianesimo siriaco determina fin dalle sue origini la presenza di filoni diversi, con forti tratti radicali, e insieme provoca

l’assenza di una chiesa «nazionale» vera e propria, non solo per i nestoriani della chiesa siriaca orientale, ma anche per i mono-

fisiti (o «giacobiti») di quella siriaca occidentale. Tuttavia, l’unità di fondo fra le due comunità, a scapito delle distinzioni confessionali, è assicurata dalla loro fase formativa, in cui partecipano dell’azione missionaria e culturale sviluppata, insieme ad Antiochia, dal centro più apertamente semitico di Edessa. È qui, nella zona tra l'Eufrate e il Tigri, che nasce e prospera una letteratura autoctona in lingua siriaca, destinata a diventare la lingua liturgica di queste chiese e il loro principale veicolo di espressione letteraria fino al tardo Medioevo. 3.1. La chiesa siriaca occidentale. La lotta contro la decisione dogmatica di Calcedonia, e contro i ripetuti tentativi degli imperato-

ri bizantini — primo fra tutti Giustiniano (527-565) — per salva-

guardarne l’autorità, è all'origine della chiesa siriaca occidentale

o «giacobita», così chiamata dall’opera essenziale svolta per la sua nascita alla metà del VI secolo da Giacomo

Baradeo

(Burd‘ànà,

490 ca.-578). Le basi per questo sviluppo autonomo erano state poste fra il V e il VI secolo dall’iniziativa politica e teologica di alcuni grandi esponenti monofisiti — tra cui primeggia il patriarca di Antiochia Severo (512-518) -, i quali riuscirono ad infliggere un colpo mortale alla tradizione teologica «diofisita», tipica della scuola antiochena dopo l’apogeo raggiunto agli inizi del V secolo con maestri come Teodoro di Mopsuestia (m. 428). L’en-

tità separata si avvia però nel 542-543, per reazione alle misure vessatorie verso i dissenzienti che assumono forme di vera persecuzione, mediante la costituzione di una gerarchia indipendente da quella imposta dall'autorità imperiale, e perciò denominata spregiativamente «melkita» (dal termine semitico per l’imperatore bizantino). L'ambito territoriale della chiesa giacobita è quello del patriarcato antiocheno che tradizionalmente comprendeva il territorio situato, da ovest ad est, fra il Mediterraneo e la Mesopotamia, e da nord a sud, fra l'Armenia e la Pa-

lestina, regioni queste ultime sulle quali ha esercitato in vari periodi il proprio influsso. Tuttavia, dopo la riunificazione politica di quest'area sotto il dominio arabo, si accentua la tendenza a spostare il baricentro della propria giurisdizione dalla Siria occidentale, privata ormai del suo punto focale di Antiochia a

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Le chiese orientali

187

vantaggio di Aleppo, verso la parte orientale e la Mesopotamia del nord. I centri più significativi sono Edessa (= Urfa) e Amida (=

Diyarbakir),

nell'odierna

Turchia

sud-orientale,

e Mossul,

nell’Iraq settentrionale. In queste regioni, accanto ai giacobiti convivono comunque nel corso dei secoli sia gli ortodossi melkiti, concentrati specialmente nella fascia urbana più ellenizzata a ridosso del Mediterraneo ma presenti in forma di diaspora an-

che altrove, sia i nestoriani, solidamente

insediati nell’area me-

sopotamica. L'immagine composita e la propensione individualistica che contraddistinguono il cristianesimo siriaco si manifestano anche

all’interno della chiesa giacobita, portando spesso a lotte intesti-

ne del fronte monofisita nella sua fase di assestamento (secoli VIVII) — allorché continuano a dominare i contrasti dottrinali su-

scitati dalle dispute cristologiche -, ma anche a conflitti discipli-

nari nei periodi posteriori, fino ad intensificarsi pericolosamente all’epoca della decadenza. In queste ed altre situazioni di difficoltà — come al momento della travolgente quanto effimera conquista persiana nei primi decenni del VII secolo o in occa-

sione di persecuzioni da parte islamica -— il baluardo più sicuro

per la sopravvivenza della chiesa giacobita è offerto dal monachesimo, radicato in questo territorio fin dalle prime manifestazioni di un ascetismo cristiano. Sebbene spesso incline a forme estreme, come

mostra il caratteristico fenomeno

degli stiliti, es-

so assume il ruolo di agente decisivo per la cristianizzazione del-

le masse e, dopo l’esplodere delle controversie dottrinali, di ri-

serva di forze per il partito monofisita sul piano sia politico sia teologico e spirituale. Insieme al monastero di Mar Mattai pres-

so Mossul, la «santa montagna» dei giacobiti è stata storicamen-

te, fino ai nostri giorni, Tùr ‘Abdîn («la montagna dei servi» di Dio) nella zona montuosa della Turchia sud-orientale. Dopo l’occupazione araba della Siria (635) e della Persia (640644), la condizione della chiesa giacobita risente delle oscillazio-

ni a cui i cristiani si trovano ormai esposti nel nuovo regime islamico. Essa deve fare i conti anzitutto con la pressione fiscale adottata nei confronti dei sudditi di fede cristiana, che viene raddop-

piata col passaggio dalla dinastia omeiade a quella abbaside (750 ca.) e non risparmia alla lunga neppure quelle tribù arabe che, come i Ghassanidi agli inizi del VI secolo, avevano adottato il credo monofisita. L'ultima di esse è costretta a convertirsi sul finire del

secolo VIII. Soprattutto con l’aumento della tassa che consentiva

al singolo di professare la propria religione cominciano ad avver-

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Cristianesimo

tirsi pesanti conseguenze nella vita della comunità: una prima ondata di apostasie e nel IX secolo anche un movimento migratorio

verso l'isola di Cipro. Tuttavia, in mancanza di fonti storiche per i primi secoli della dominazione islamica, è impossibile farsi un quadro preciso circa lo stato della disciplina ecclesiastica. L'aggravio economico che comporta l'assunzione di mansioni gerar-

chiche, particolarmente rilevante nel caso delle cariche maggiori, in primo luogo del patriarcato (tutte debbono procurarsi il rico-

noscimento pubblico dalle autorità islamiche mediante versamento di denaro), comporterà tensioni fra episcopato e monachesimo per il controllo delle proprietà monastiche, il diffondersi della simonia e la preferenza accordata a persone benestanti nella scelta dei candidati agli uffici ecclesiastici, come avviene specialmente nel XIII secolo. Peraltro, il ruolo dei governanti islamici non è puramente negativo, poiché essi esercitano talora una funzione di arbitri, in presenza di conflitti interni alla comunità

giacobita o tra le varie denominazioni crisuane. La prima occasio-

ne per un tale intervento è fornita dallo scisma prodottosi nella comunità giacobita in merito alla validità di una formula eucaristica (808), a cui è posto fine grazie all'iniziativa delle autorità musulmane (825-826). In seguito, partiti ecclesiali in conflitto potranno

appellarsi anch'essi all’istanza arbitrale islamica. Quanto alle relazioni dei giacobiti con le altre chiese orientali, dopo che essi riuscirono a stabilirsi nella Mesopotamia settentrionale ridimensionando la precedente presenza maggioritaria della chiesa persiana, si attenua via via la competizione confessionale con i nestoriani, coi quali anzi si stabilisce un modus vi vendi improntato a un certo irenismo. Con Copti e Armeni si in-

trattengono rapporti di comunione, poiché queste chiese ap-

partengono anch'esse alla famiglia monofisita, quantunque non manchino occasioni di conflitto che sfociano in temporanee rotture, come fra VI e VII secolo con i Copti, e successivamente con

gli Armeni. Il dissidio con questi ultimi — che favoreggiano una corrente monofisita, il «giulianismo», così detto da Giuliano di Alicarnasso, aspramente osteggiato dal patriarca Severo - si ap-

piana nel 726. D'altra parte, i patriarchi giacobiti hanno modo

di esercitare il loro influsso sulla chiesa sorella copta, come farà ancora nel XII secolo Michele il Siro nell'intento di ripristinarvi la pratica della confessione. Verso i Latini, poi, nell’epoca delle

crociate, i giacobiti svilupparono generalmente buone relazioni,

pur essendo nuovamente obbligati ad acquisire un diploma dalle autorità per l’esercizio delle cariche ecclesiastiche.

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Le chiese orientali

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Se il nuovo contesto dell’arabizzazione implica abbastanza presto l'assunzione dell’arabo come lingua d'uso, e in seguito anche come mezzo letterario (una letteratura a carattere dogmatico e

polemico si sviluppa trai giacobiti a partire dal IX secolo), sulle so-

glie det secondo millennio si assiste a una rinascita della letteratu-

ra siriaca, che torna a risultati paragonabili ai vertici teologici, poe-

tici e spirituali dei secoli IV-VII, e che riflette la rinascita della chie-

sa siriaca nel suo complesso. Questa tendenza s’intensifica fra XI

e XIII secolo e vede protagonisti due personalità di grande rilievo e prestigio, sia in campo politico che nell’attività letteraria, come il patriarca Michele (m. 1199) e Gregorio Barebreo (bar ‘Ebràyà, 1226-1286), metropolita di Mesopotamia, capace di articolare una

teologia della chiesa giacobita anche in risposta alle sollecitazioni

dell'islam. L'organizzazione ecclesiastica è al suo apogeo: il patriarca esercita la sua giurisdizione su circa 20 metropoliti con un

centinaio di vescovi in Siria, Asia Minore e Cipro, mentre il metropolita di Mesopotamia ha autorità su altri 18 vescovi. Questa fioritura coincide

con

l’epoca della dominazione

mongolica,

ma

l'adesione dei Mongoli all’islam (1295) segna l’inizio di una dram-

matica decadenza che sconvolge questa chiesa a partire dalle per-

secuzioni di Tamerlano nel XIV secolo. Si riproduce così in forma più grave la situazione di crisi ch'ebbe a verificarsi con la svolta degli Abbasidi. Sulla chiesa giacobita però non infieriscono solo i ne-

mici esterni ma anche i conflitti intestini, determinando una rovinosa situazione scismatica dal 1292 al 1495 e aggravando malanni di vecchia data come la pratica della simonia. La scomparsa di una

produzione letteraria impedisce di ricostruire le tappe della decadenza. Nel XVII secolo la struttura ecclesiastica appare fortemente ridimensionata (al patriarca obbediscono adesso solo 5 metro-

politi e una ventina di vescovi) e la base sociale ridotta a poche centinaia di migliaia di aderenti, perlopiù di bassa estrazione sociale.

Sottoposta alle sollecitazioni della politica unionista di Roma -— che

contribuirà ad una nuova emorragia di fedeli con la creazione di

un patriarcato siro-cattolico di Antiochia (1781) —, la chiesa gia-

cobita registra tuttavia un successo con l’adesione ad essa dei cristiani indiani di S. Tommaso, delusi a loro volta dell’unione con

Roma (1665). Persecuzioni e ondate di emigrazione hanno ulteriormente ridotto la presenza della chiesa giacobita sul suo territorio di origine, ma essa continua a restare significativa nell’India

del sud, con la chiesa autocefala del Malabar, e alimenta una dia-

spora europea ed americana non priva di vivacità.

190

Cristianesimo

3.2. La chiesa siriaca orientale.

Nota più comunemente col nome

di «nestoriana» (e anche come «caldea» o «assira»), la chiesa di Persia si riannoda, per le sue origini e la sua impronta culturale, al cristianesimo siriaco sia di Antiochia sia di Edessa. Infatti, se

da quest’ultima trae la propria lingua e letteratura, dalla prima riprende le tradizioni teologiche fondatrici, indicando nel dottore antiocheno Teodoro di Mopsuestia il suo «Padre» più auto-

revole. Questi legami coll’esterno sono anche un indizio del fatto che il cristianesimo della Mesopotamia è, almeno agli inizi, un

fenomeno d'importazione, in rapporto con la diaspora straniera, in particolare giudaica, presente nel regno sassanide. Al primo impiantarsi della nuova fede nelle comunità di ebrei — secondo

la prassi abituale anche

in ambiente

ellenistico, ma che

qui dà luogo al peculiare intreccio giudeo-cristiano —, si affianca nel III secolo una comunità reclutata fra i sudditi cristiani delle regioni confinanti dell'impero romano, vittime delle deportazioni dei Persiani nel corso di guerre o incursioni sul territorio siriaco. Interi gruppi, con in testa i loro capi religiosi, s'insedia-

no così nelle località assegnate loro dai governanti sassanidi, ri-

producendo la mescolanza fra ellenismo e semitismo che era propria della loro terra di origine e che nella prima metà del IV secolo trova un interprete di valore nel «saggio persiano» Afraate, testimone di un confronto puntuale e pacato con gli Ebrei. Non è possibile ricostruire le tappe della cristianizzazione, ma la vitalità di questa chiesa affiora già agli inizi del IV secolo e in seguito si rafforza sempre più, nonostante le molte difficoltà cui va incontro dopo la svolta costantiniana in occidente. L’adesione dello stato romano al cristianesimo attira, infatti, sui cristiani

di Persia il sospetto di connivenza col nemico e alimenta ulte-

riormente

l’ostilità dello zoroastrismo,

religione

ufficiale dello

stato. Le azioni repressive si manifestano specialmente in coincidenza con iniziative belliche, ma le condizioni della chiesa restano precarie fino al V secolo, obbligando i cristiani a protrarre la prassi primitiva delle comunità domestiche a causa dei pericoli per l’esercizio pubblico del culto. Nondimeno, nel sinodo di Seleucia

(410), che recepisce i decreti del concilio di Nicea

(325), l’organizzazione ecclesiastica comprende già 6 sedi metropolitane con più di 30 diocesi. Alla vigilia della conquista araba le sedi metropolitane saranno una decina con 96 diocesi. Il notevole consolidamento della chiesa persiana fu reso possibile da una politica di maggior tolleranza dei governanti sassanidi ed anche dal fatto che essa proclamò ben presto la sua autonomia

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Le chiese orientali

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dalla cristianità occidentale. Questa scelta, anticipata sul piano organizzativo nel sinodo di Markabta del 424 — che dichiara l’indipendenza dal patriarcato antiocheno e fa del vescovo della capitale, Seleucia-Ctesifonte, il katholikòs (= «patriarca») della chie-

sa persiana —, fu completata anche su quello dottrinale grazie al

sinodo di Beth Lapath (484), allorché essa aderì ufficialmente al-

la cristologia nestoriana. Questo esito, sebbene influenzato anche da esigenze politiche, risultava conforme all'orientamento

teologico predominante, che si era andato formando alla scuola di Edessa, luogo tradizionale di un insegnamento fedele all’in-

dirizzo antiocheno. Allorché la «scuola dei Persiani» venne chiu-

sa per ordine delle autorità bizantine (489), essa fu ricostituita a Nisibi in territorio persiano, restando fino al IX secolo l’istitu-

zione a carattere «universitario» più rappresentativa della chiesa nestoriana, nota ed apprezzata anche a Costantinopoli e a Roma. Ben compaginata al suo interno da un'intensa vita sinodale e dotata di un discreto seguito nella popolazione mesopotamica specie del Nord, a maggioranza cristiana, la chiesa di Persia, ancor prima dell’invasione araba che portò alla distruzione dell’impero sassanide (633), ebbe modo di sviluppare l’attività missio-

naria in diverse direzioni: a nord-est, verso l’Asia centrale e l’Estremo Oriente; a sud-est, verso il Golfo Persico e l’India meridionale; a sud-ovest, nella penisola arabica. I due fattori della deportazione, ad opera dei Sassanidi, e del commercio non ba-

stano da soli a spiegare l’entità di quella che rimane l’impresa evangelizzatrice più significativa delle chiese orientali ed una fra

le più notevoli nell’intera storia del cristianesimo, senza che vi si

aggiunga l’iniziativa diretta intrapresa dalla chiesa coll’ausilio perlopiù di monaci. Purtroppo, alla vastità dell'impegno e delle traiettorie geografiche non corrisponde il numero delle fonti che ci sono pervenute, talora assai esigue per interi periodi e per singoli settori della missione nestoriana. Senza dubbio non bisogna sopravvalutare le sue conseguenze presso l’insieme dei popoli a cui essa si rivolse, poiché in qualche caso dovettero essere di natura quasi simbolica o comunque abbastanza limitata. Tuttavia, a prescindere dal fatto che in altri casi raggiunse probabilmente risultati di rilievo anche in termini numerici, ciò che colpisce è il complesso degli sforzi intrapresi su un’area vastissima, per di più lungo un arco di tempo che dal V arriva fino al XIII secolo, accompagnando cioè tutta la fase espansiva della chiesa di Persia. La partecipazione dell’episcopato ai sinodi nestoriani lascia intravedere la penetrazione della chiesa fino ai margini setten-

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Cristianesimo

trionali e meridionali dell’impero sassanide già dagli inizi del V secolo. Se la missione in Arabia, coronata da successo soprattutto nello Yemen, pone significative premesse per il formarsi

dell’islam in rapporto al cristianesimo, di particolare rilievo sia religioso che culturale è l'espansione nestoriana nella zona cen-

troasiatica. Dall’importante centro ecclesiastico di Merv, nel Turkmenistan, il cristianesimo si diffuse durante i secoli seguenti in Afghanistan, Uzbekistan, Siberia meridionale, fino ad arrivare in Tibet, Cina, Mongolia e Manciuria. Senza ridursi a reli-

gione di stranieri ed immigrati, la fede nestoriana penetrò, sia pure con diversa fortuna, nelle popolazioni autoctone, ottenendo i maggiori successi presso le tribù turco-tatare. Queste, fra l’altro, alimenteranno nel XIII-XIV secolo le simpatie cristiane del-

la corte mongola di Pechino, come ci attestano anche i ricordi di Marco Polo, Le dimensioni geografiche dell’azione evangelizzatrice sono rivelate dalla pluralità di lingue e letterature impie-

gate accanto al siriaco nel corso della missione. Benché la chiesa persiana, a differenza delle altre chiese orîentali e della stessa chiesa bizantina, si allinei alla prassi della chiesa latina mantenendo il siriaco come lingua liturgica — anche per garantire un legame di cantinuità tra comunità così lontane e diverse etnica-

mente e culturalmente —, essa vi affianca l’utilizzo delle lingue locali sia nella celebrazione del culto sia nell’opera pastorale. Na-

scono così diverse letterature asiatiche cristiane in forma più o

meno sviluppata: accanto ai rudimenti in tibetano, incontriamo

testimonianze consistenti di letterature nelle lingue sogdiana, turca e cinese. Esse comprendono traduzioni di testi biblici e li-

turgici insieme a letteratura «popolare» — come scritti apocrifi, atti dei martiri, detti monastici — ma, nel grado più evoluto, anche opere dedicate al confronto interreligioso, com'era il caso

della perduta letteratura cinese.

L'estensione missionaria della chiesa persiana la condusse a misurarsi con le diverse tradizioni religiose con le quali essa venne in contatto e che, soprattutto nel caso dell’istam e del buddhismo, rappresentarono per leì pericolosi concorrenti. Nell’Asia centrale il confronto s’ impose specialmente con lo sciamanesimo, che costituiva la forma religiosa ancestrale delle popolazioni tur-

co-tatare. L’evangelizzazione fu facilitata qui dall’apertura e tolleranza religiosa dello sciamanesimo, ma portò ad una sua simbiosi

col cristianesimo caratterizzata da fenomeni sincretistici: anche i cristiani mostrano di condividere le credenze locali negli spiriti e

nei demoni, né rifuggono occasionalmente dal ricorso agli scia-

L. Perrone

Le chiese orientali

193

mani. L'intreccio sincretistico sembra col tempo aver condizionato negativamente la continuità dell'iniziativa missionaria nestoriana, che si arenò definitivamente dopo che î disordini seguiti alle invasioni mongoliche del Medio Oriente

(secoli XIH-XV)

in-

terruppero i rapporti fra queste comunità e la loro chîesa madre. L'impegno per tradurre il cristianesimo secondo le categorie di pensiero e l’esperienza religiosa locali pare comunque aver contraddistinto anche la missione nestoriana in Cina, almeno a giu-

dicare dalla celebre stele di Si-ngan-fu, che ne riassume la storia

dal 635 al 781, sforzandosi di presentare i contenuti essenziali della fede cristiana con immagini ed espressioni tratte dal buddhismo

e dal taoismo. Secondo questa iscrizione, dopo soli tre anni dall’ar-

rivo dei missionari nestoriani l’imperatore Tai-Tsong concesse ai cristiani la facoltà di diffondere liberamente la loro religione, un

diritto rimasto in vigore fino alla promulgazione di un decreto contro le religioni straniere alla metà del IX secolo. L'attività missionaria poté riprendere soltanto nel XIII secolo, grazie al favore

degli imperatori mongoli, e portò significativamente all’elezione di un katholikòs turco-mongolo nella persona di Yahballahà III

(1281-1317), ma l’avvento della dinastia Ming (1368) compromise nuovamente la presenza della chiesa nestoriana in Cina. Quan-

to poi all’altro scenario asiatico delle sue iniziative missionarie, es-

sa percorse anche le rotte commerciali delle vie marittime all’In-

dia e alla Cina, formando già in epoca antica una comunità cri-

stiana sulle coste indiane del Malabar e di Coromandel, che si ri-

chiamava all’apostolo Tommaso come suo evangelizzatore e che era stata oggetto delle attenzioni bizantine nel IV secolo. L'imperatore Costanzo vi avrebbe inviato nel 354 un missionario di origine indiana, Teofilo, sul cui profilo storico peraltro è difficile farsi un’idea precisa. Nel corso del Medioevo le comunità cristiane sparse nel subcontinente asiatico dovettero dissolversi a poco a poco, concentrandosi nel Malabar. Come si è visto, il dinamismo missionario della chiesa di Persia non fu compromesso dall’avvento della dominazione araboislamica sul suo territorio d'origine. L’opera evangelizzatrice svolta in Arabia aveva creato presupposti favorevoli nei suoi confronti, come

la presenza di tribù aderenti al credo nestoriano.

Inoltre, la diversità confessionale con le altre denominazioni cri stiane tornò a vantaggio dei nestoriani, che per le loro idee cristalogiche furono riconosciuti come più vicini alle posizioni mu-

sulmane e acquisirono un primato rispetto agli altri cristiani. Ciò non impedì naturalmente che anche i fedeli della chiesa persia-

194

Cristianesimo

na fossero trattati secondo lo statuto particolare previsto dal di-

ritto islamico per gli aderenti alle «religioni del Libro». Il peso

sociale ed il prestigio intellettuale della chiesa nestoriana erano

comunque notevoli nei primi secoli della dominazione islamica, specialmente con lo spostamento del suo centro a Baghdad, co-

ine mostrano katholikòs, e toposti nel X turale, grazie mantenuta a

da un lato l’intervento dei califfi nell’elezione del dall'altro il fatto che giacobiti e melkiti fossero sotsecolo all'autorità di quest’ultimo. La leadership culanche alla continuità delle istituzioni formative, è lungo dagli esponenti nestoriani, impegnati in una

preziosa opera di trasmissione al mondo arabo dell'eredità filosofica e scientifica dell'antichità classica. All'interno della chiesa,

la vita religiosa è promossa da personalità significative come il patriarca Timoteo

I (780-823), artefice principale della raccolta

degli ordinamenti canonici. Mentre continua a prosperare un monachesimo

a vocazione

anacoretica e itinerante, fattore non

secondario dell'impresa missionaria, il culto e la disciplina ecclesiastica si distinguono per alcune peculiarità, fra le quali la più contrastante col resto delle chiese orientali è l'assenza di immagini, forse

riconducibile

alle persecuzioni

anticristiane

del do-

minio mongolo. Se nel momento del massimo splendore l’organizzazione ecclesiastica comprende 27 sedi metropolitane per circa 230 vescovi, con la svolta filo-islamica del dominio mongolo inizia la decadenza, accompagnata dalle persecuzioni di Turchi, Curdì e Persiani. L’ereditarietà dell’incarico di katholikòs (da zio a nipote), a partire dal 1450, non farà che aggravarla, portando

a scismi interni tuttora non sanati. I pochi resti di quella che fu la grande chiesa nestoriana si distribuiscono oggi fra Iran, Iraq, Siria e India e nell'emigrazione. Tentativi di unione da parte ro-

mana, dopo essere falliti nel XV-XVI secolo, sfociarono nel 1830 nella creazione di un patriarcato cattolico («caldeo»). Anche i

«cristiani di S. Tommaso», sopravvissuti con maggior seguito in tre rami diversi — di cui l’uno in comunione con la chiesa giacobita dal XVII secolo —, sono entrati nell’orbita del cattolicesimo.

4. Le cristianità del Caucaso: Armenia e Georgia

Nel panorama variegato delle chiese orientali le cristianità del Caucaso occupano una posizione ben definita di vere e proprie

«chiese nazionali», dovuta già alle stesse caratteristiche geografiche ed etniche della regione, che fa da ponte tra l’area del Mediterraneo orientale e il continente eurasiatico. La lotta dei gran-

L. Perrone

Le chiese orientali

195

di imperi per il controllo di questo territorio di confine coinvolse fin da principio le sorti delle chiese, frutto di una cristianiz-

zazione assai antica, e le spinse ad adoperarsi per la sopravvivenza

dei loro popoli, soggetti per la maggior parte della storia alla dominazione straniera. Nonostante l'impatto spesso devastante di Romano-bizantini,

Persiani, Arabi,

Mongoli

e Turchi,

il cristia-

nesimo poté affermarsi come patrimonio religioso e culturale dei popoli di Armenia e Georgia, elemento portante della loro identità nazionale fino ai nostri giorni. Invece non riuscì a mantenersi nella terza regione di quest'area, l’Albania (Azerbaigian orienta-

le), anch’essa convertita anticamente al cristianesimo e dotata di una chiesa autonoma, ma che nel corso del Medioevo fu som-

mersa dall'islam. Nel VII secolo le chiese di Armenia e di Georgia si separano sul piano confessionale, in seguito alla scelta calcedonese della cristianità georgiana, ma ciò non impedisce a quest'ultima di continuare a richiamarsi a tradizioni liturgiche, agiografiche e artistiche comuni con quella armena, le quali peraltro

hanno spesso come punto di riferimento la chiesa di Gerusalemme, a riprova dell’interesse per rapporti intraecclesiali che

trascendono la realtà locale. Così, queste due chiese nazionali so-

no fra le più attive nel contesto dell'Oriente cristiano, con una cospicua diaspora insediata nei suoi centri ecclesiastici e monastici più importanti. 4.1. La chiesa di Armenia.

L'Armenia è stata il primo regno ad ab-

bracciare ufficialmente il cristianesimo con il re Tiridate HI (in-

torno al 301), grazie all’efficace lavoro missionario di Gregorio l’Illuminatore. Questi si appoggiava sulla sede metropolitana di Cesarea di Cappadocia, che rivendicherà la propria giurisdizione fino agli inizi del V secolo, allorché la chiesa armena si rende in-

dipendente sotto la guida di un primate, poi designato anch'egli col titolo di «katholikòs». La rapida fioritura dell’organizzazione

ecclesiastica fa pensare che, in realtà, il cristianesimo dovesse es-

sere penetrato in Armenia già nel corso dei secoli precedenti. Tradizioni posteriori asseriscono anche per questa chiesa un'origine apostolica, attribuendone l’evangelizzazione agli apostoli Bartolomeo e Taddeo. Più sicura in prospettiva storica è l’azione svolta da missionari di provenienza siriaca, che introducono l’altra grande corrente di influssi esterni accanto alla matrice greco-bizanti-

na. Dopo l’invenzione dell'alfabeto armeno da parte del monaco

Mesrop nei primi anni del V secolo, la traduzione della Bibbia dai testi greci e siriaci riflette le due principali forze formatrici del cri-

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Cristianesimo

stianesimo armeno delle origini. Esso le assimila in maniera crea-

tiva, come farà più tardi per altri impulsi in campo liturgico o artistico, dando luogo ad una sintesi fra componenti spesso etero-

genee, ma amalgamate fra loro nel quadro di un’individualità ben connotata. A questo riguardo, la continuità con le tradizioni precristiane è un altro degli aspetti che concorrono a fare della chiesa armena una «chiesa di popolo», in anticipo sul resto delle cristianità orientali. L'elemento popolare è stato mantenuto nel tempo anche grazie alla partecipazione del laicato all’elezione del clero e alla guida delle comunità. Quanto al monachesimo, la com-

ponente colta che lo contraddistingue fin dall’impresa di Mesrop

ha contribuito a sviluppare la figura di «monaci-dottori» (varda pet), promotori dell’istruzione e della cultura religiosa nonché la

fonte principale di reclutamento per l’episcopato.

Dotandosi di una propria lingua e letteratura, la chiesa armena poneva le premesse per un suo cammino distinto. Esso si esprime in risposta a sollecitazioni contrastanti che tra V e VI se-

colo le impongono di schierarsi in un senso o nell’altro, a seconda dell’orbita bizantina o persiana entro cui l'Armenia di volta in volta è costretta a muoversi. Sfuggendo alla cristologia ne-

storiana della chiesa di Persia, sostenuta per ragioni politiche dall’impero sassanide, ma sottraendosi anche ai tentativi di an-

nessione politico-religiosa di Bisanzio, quando questa torna a

promuovere il dogma di Calcedonia, la chiesa armena si risolverà

durante il VI secolo per la fede monofisita. Non si trattava comunque né di una scelta unicamente politica (nella prima metà del V secolo non erano mancate riserve verso la cristologia an-

tiochena di Teodoro di Mopsuestia), né di un’opposizione di principio al concilio del 451, che inizialmente era stato ignorato

dagli Armeni a causa dell'isolamento indotto dal dominio sassanide. Così, nel primo concilio di Dvin

(506) il rifiuto di Calce-

donia si espresse in maniera indiretta, ma anche nel secondo (555) la preoccupazione principale sembra essersi rivolta al pericolo nestoriano, mentre ci è nota la resistenza di un partito filocalcedonese, quantunque minoritario. D'altra parte, la versione del monofisismo abbracciata dalla chiesa armena si presenta con i tratti del giulianismo, la corrente teologica più radicale av-

versata da Severo di Antiochia. Ciò procurerà alcune difficoltà con copti e giacobiti, risolte solo nel secolo VIII. Da quel mo-

mento gli armeni potranno svolgere un ruolo importante presso le chiese sorelle, com'è testimoniato dai loro rapporti con gli etiopi in età medievale e moderna.

L. Perrone

Le chiese orientali

197

I ripetuti tentativi d’unione con l'ortodossia bizantina fino alla conquista araba (secoli VII-VIII) mostrano il perdurare del pro-

blema dottrinale, ma nessuno di essi incontrò successi duraturi co-

me presso la chiesa georgiana separatasi nel 609. Essi si riproporranno nel periodo delle crociate, che vede i Latini affiancarsi in tali sforzi agli ortodossi. Nel frattempo, la perdita dell’entità statale, ricuperata per breve periodo dalla dinastia bagratide (IX-X secolo), e l'avanzata dei Turchi selgiuchidi verso occidente (XI secolo)

avevano spinto a spostare il baricentro politico ed ecclesiastico in direzione del Mediterraneo, nella zona della Cilicia, dove si costi-

tuisce la Piccola Armenia (1080). Questa dislocazione fa sì che gli Armeni collaborino attivamente con le forze crociate, intrecciando con esse alleanze politiche e dinastiche, e si mostrino disponi-

bili ad un rapporto amichevole con Roma. Ufficialmente in comunione con la chiesa cattolica fino al 13/75, anche se con riserve

e resistenze di ecclesiastici e popolo, nel concilio di Firenze la chie-

sa armena sottoscrive anch’essa una bolla d’unione (1439) che si

rivelerà non meno effimera delle altre. La fine dello stato di Cili-

cia (1375) induce a riportare la residenza del katholikòs a Edschmiazin, nel suo luogo storico d’origine (1441), e avvia la chiesa ar-

mena ad un'ulteriore lotta per la propria sopravvivenza religiosa e culturale sotto la rinnovata dominazione straniera. Questo impegno in patria è sostenuto però anche all’estero, nei luoghi in cui una diaspora armena ha modo d’insediarsi: da Gerusalemme, abi-

tata già in epoca bizantina da Armeni (che insieme a Greci e Lati-

ni custodiscono i Luoghi Santi), a Costantinopoli — dove nel 1461

Maometto II eresse un patriarcato armeno conferendogli la giuri-

sdizione sui monofisiti dell’impero ottomano —, e a Venezia, sede dal primo Settecento della comunità mechitarista cattolica, dedi-

ta alla rinascita religiosa e culturale della nazione armena. Nuove prospettive si aprono per la chiesa nel secolo scorso in seguito all'unione alla Russia (1828). La riacquistata tolleranza religiosa all’interno e i risvegli d'indipendenza tra fine Ottocento e primo Novecento subiscono i contraccolpi negativi del nazionalismo turco, che portano a feroci massacri degli Armeni (1915-1916) e alla

loro scomparsa pressoché totale nell’Anatolia orientale. 4.2.

La

chiesa georgiana.

Unica

fra le cristianità

nazionali

d'Oriente ad aver abbracciato la fede di Calcedonia e ad essersi

così ricongiunta con l’ortodossia bizantina, la chiesa di Georgia

ha tuttavia condiviso largamente con l’armena la propria fase for-

mativa e gran parte delle stesse vicissitudini politiche che hanno

198

Cristianesimo

sconvolto il Caucaso nel corso della storia. Anch’essa perciò presenta un'immagine della penetrazione del cristianesimo analoga a quella dell'Armenia. L’evangelizzazione risale ai primi decenni del IV secolo ed è ricondotta alla conversione del re Mirian ad opera della prigioniera di guerra Nino (330 ca.). Alla metà del IV secolo anche la Georgia diventa ufficialmente uno stato cristiano e subisce l’influsso della vicina Armenia, recependo at-

traverso essa anche l’irradiazione della chiesa siriaca sia occi-

dentale che orientale. Quest'ultima si fa sentire specialmente sulla parte orientale del paese, l’Iberia, sottoposta al dominio per-

siano, mentre la parte occidentale sul Mar Nero, la Colchide

o

Lazica, resta tradizionalmente permeata dall'influenza greco-bizantina. Il legame con la chiesa di Persia sembra essersi sviluppato dai primi decenni del V secolo nei termini di una dipendenza forse anche giurisdizionale, fino a che la chiesa georgiana per iniziativa del re Vachtang

I si dota di un katholikòs

(502),

che è debitore per la sua consacrazione al patriarca di Antiochia. La filiazione antiochena,

destinata a durare fino al secolo VIII,

comportava in origine l’adesione alle dottrine monofisite, sancite dalla partecipazione dei vescovi georgiani al concilio armeno di Dvin (506). Tuttavia, una parte notevole dell’episcopato si dissociò da tale decisione, confermando la fisionomia composita di questa fase formativa e la situazione ancora poco omogenea dell'organizzazione ecclesiastica. Un secolo più tardi, le pressioni di parte bizantina condurranno la chiesa georgiana ad accettare il dogma

di Calcedonia

(609), ma tale orientamento fu fa-

vorito dall’azione intrapresa nel frattempo da monaci siriaci antimonofisiti per lo sviluppo di un monachesimo ortodosso. La vocazione internazionale del monachesimo georgiano si era manifestata fin dal V secolo con figure importanti come Pietro l'Iberico

(m. 491),

monaco

a Gerusalemme

e protagonista

della prima resistenza monofisita in Palestina e in Egitto. Ai monasteri dei Luoghi Santi si aggiungeranno successivamente le presenze georgiane in Siria, sul Sinai {VII secolo), a Costantinopoli, nell’Anatolia e in Bulgaria, ma specialmente sul Monte

Athos (980 ca.). Questa diffusione delle comunità d’origine geor-

giana è incoraggiata dall’accento posto sul motivo ascetico dello «spaesamento» monastico, ma essa assicura la salvaguardia della tradizione religiosa nazionale insieme al suo arricchimento, tramite gli apporti esterni. Riunificata politicamente fra XI e XIII

secolo, la Georgia cristiana conosce una fioritura letteraria ed ar-

tistica, che l’apre ancora di più ad accogliere l’influsso bizanti-

L. Perrone

Le chiese orientali

199

no. Tuttavia, l’arrivo dei Mongoli provoca la frammentazione del regno e forza la chiesa a ritirarsi nei suoi confini storici, benché

la diaspora continui a sopravvivere fino in epoca moderna, specialmente a Gerusalemme. Si rinnova allora la separazione fra la parte orientale e la parte occidentale, che dà luogo alla creazione di gerarchie separate. L’isolamento è rotto dalla presenza di missionari latini: vari ordini religiosi operano dal XIII al XIX secolo, dal 1329 al 1505 con l’assistenza di un vescovo cattolico a Tbilisi. La fusione con la Russia agli inizi del secolo scorso è un nuovo colpo inferto alle tradizioni della chiesa di Georgia: un esarca di nomina del Santo Sinodo sostituisce il katholikòs, mentre s’introduce il russo come lingua liturgica al posto del georgiano. Questo verrà ripristinato solo dopo il 1917 insieme alla restaurazione dell'ufficio di katholikòs. 5. Cristianesimo africano: le chiese di Egitto, Nubia ed Etiopia L'ampia fascia orientale del continente africano compresa fra il Mediterraneo e il Corno d'Africa ha ospitato storicamente tre diverse cristianità — le chiese di Egitto, Nubia ed Etiopia —, in rapporto fra loro non solo sul piano geografico, ma anche per i legami che le uniscono con il centro cristiano di Alessandria. Il riferimento a questa chiesa-madre assume particolare importanza per la chiesa abissina, tanto da poterla considerare come una sua filiazione, ma esso è in primo piano anche per la chiesa intermedia di Nubia, le cui tracce si perdono dal XV secolo, allorché

è sommersa dall’islam. L'appartenenza ad una comune famiglia di derivazione alessandrina non implica però uniformità, ad ulteriore conferma della situazione generale dell'Oriente cristiano con i suoi numerosi particolarismi. Così la scelta dottrinale del-

la chiesa nubica, divisa agli inizi fra anticalcedonesi, al nord e al

sud del paese, e calcedonesi nel suo regno centrale, si conforma interamente all'indirizzo monofisita della chiesa egiziana solo agli inizi del secolo VIII. Diversamente dall'Egitto copto sottoposto al controllo islamico, la Nubia cristiana vive fino al suo dissolvimento in un regime di cristianità, che vede il re assumere precise responsabilità ecclesiali, come avviene anche nella vicina Etiopia, dove peraltro l’identificazione fra cristianesimo e nazio-

ne è cementata da una lunga lotta per la sopravvivenza contro gli assalti dell’islam. Il retroterra cristiano comune si complica perciò con l’apparire di fattori e fenomeni distinti, dovuti alle peculiari situazioni storiche e culturali delle tre chiese: se in Nubia

200

Cristianesimo

l'influsso ellenistico-bizantino si avverte ancora a lungo dopo la sottomissione dell’Egitto al dominio arabo, in Etiopia notiamo il perdurare di un fondo giudaico, nel culto e nei comportamenti

rituali, probabilmente mutuato dalle condizioni religiose che

hanno contraddistinto la prima cristianizzazione.

5.1. La chiesa copta. La connotazione in senso nazionale («copto» è il termine arabo per «egiziano») emerge sullo sfondo dell’ellenizzazione, che ha il suo fulcro in Alessandria, a seguito del-

le lotte condotte fra V e VII secolo contro il concilio di Calce-

donia e le iniziative degli imperatori bizantini in suo sostegno.

L'elemento «nazionalistico» soggiacente a talì conflitti finirà così per saldarsi con l’identità ecclesiale, predisponendo la cristianità d’Egitto al rapporto e al confronto con i nuovi padroni arabi. Nondimeno, il percorso che conduce la chiesa egiziana ad affermare la propria individualità è più complesso, e non può essere ridotto alle sole controversie cristologiche come sua fase formativa. Una ricostruzione adeguata dovrebbe tener conto del pe riodo primitivo, quando la componente ellenistica risulta ancora sovrapposta e mescolata a quella autoctona, che in un secondo tempo prenderà il sopravvento affermandosi con la propria lingua e letteratura. Purtroppo gli inizi del cristianesimo egiziano sono avvolti nell’oscurità: se si escludono le indicazioni sulla presenza dì forme eterodosse come la gnosi, o l'ipotesi di una matrice giudeocristiana suffragata dal ricco lascito di una letteratura apocrifa in copto, la chiesa alessandrina emerge alla luce della storia solo verso la fine del Il secolo grazie alla personalità

vigorosa del sua vescovo Demetrio

(189-232 ca). Questi le im-

prime quelle caratteristiche dì compattezza strutturale, che sono peraltro favorite dalle particolari condizioni di un’area geograficamente ed etnicamente omogenea come l'Egitto. Se non si tien conto del ruolo assolutamente centrale che i patriarchi di Alessandria, spesso visti polemicamente come i novelli «faraoni», svol gono fin dalle origini per l’organizzazione e il controllo della chiesa ‘egiziana, diviene impossibile spiegare i suoi sviluppi posteriori. È questo uno dei motivi principali per cui dopo îl 451 la cristianità d' Egitto si schiera pressoché unanime in difesa della memoria dei suoi vescovi che, come Cirillo Alessandrino

(m.

444), sì erano fatti portavoce del credo monofisita. A rinsaldarne l’unità interna contribuisce anche la fioritura del movimento monastico dalla seconda metà del III secolo. La sua integrazione nella compagine ecclesiale, facilitata dalla fortuna della forma ce-

L. Perrone

Le chiese orientali

201

nobitica introdotta da Pacomio (292 ca.-347), è opera di Atanasio di Alessandria. Egli coglie tempestivamente l’importanza del nuovo fenomeno e se ne fa scudo contro la politica filoariana della corte, porgendo in tal modo un classico modello di resistenza ai suoi successori monofisiti e alle masse monastiche loro alleate. Nel V secolo il legame fra gerarchia e religiosi è assicurato specialmente dall’archimandrita Scenute

({m. 466), al quale

sì deve l’impulso decisivo per lo sviluppo del copto come lingua letteraria. Se la base sociale del monachesimo è essenzialmente copta, il volto ellenistico della chiesa egiziana si dispiega sullo scenario della chiesa d'Oriente attraverso l’azione della sede alessandrina. Da Atanasio a Cirillo, essa interviene attivamente in difesa dell’«ortodossia» e si sforza di affermare il proprio primato

dottrinale e politico rispetto al patriarcato di Costantinopoli, riuscendo però sconfitta nel concilio di Calcedonia. La separazione dalla chiesa imperiale dopo il 451 segue di namiche analoghe a quelle della Sina monofisita: la costituzione

di una gerarchia autonoma, alternativa al clero melkita, ha luo-

go solo alla metà del VI secolo, dopo che i tentativi di conciliazione erano falliti e il potere bizantino si era dato a perseguitare l'apposizione anticalcedonese. Tuttavia, da questo punto di vi-

sta la situazione dell’Egitto risulta più fortunata, poiché per gran parte del VI secolo viene risparmiato dalla repressione più dura

e offre rifugio alle farze monofisite, che trovano qui il loro ca-

posaldo politico e teologico. La presenza dei profughi dà occasione dopo il 518 al nascere di un dibattito dottrinale interno, del quale si rendono protagonisti Severo di Antiochia e Giulia-

no di Alicarnasso. Questa disputa segna l’inizio di una frammentazione del fronte teologico monofisita in varie correnti rivali, anche se alla lunga l’indirizzo severiano risulterà vincente. Il superamento dei dissidi dottrinali, che come sempre coinvolgono il monachesimo producendo in essa lacerazioni e contrasti, è merito dell’azione incisiva del patriarca Damiano, di origine siriaca (578-607). Alla vigilia dell’ìnvasione araba la chiesa copta si è ormai consolidata sul piano organizzativo e culturale, tanto da poter promuovere con successo la missione nel regno settentrionale di Nubia e resistere ai pesanti contraccolpi dovuti

al ripristino dell’autorità bizantina dopo l’interludio dell’occu-

pazione persiana (616-628). D'altra parte, i progressi del copto non debbono far dimenticare l’onda lunga dell’ellenizzazione, che continua a far sentire i suoi effetti sia nel culto sia nella formazione intellettuale: non solo Puso del greco nella liturgia so-

202

Cristianesimo

pravvive ancora a lungo, ma anche la successiva produzione teologica in arabo continuerà a rifarsi ai modelli greci. Con la conquista araba dell’Egitto (642) la chiesa copta, guidata dal patriarca Beniamino I (626-665), che rappresenta adesso anche la nazione egiziana agli occhi dei nuovi dominatori, riacquista la sua tranquillità e gode di ampia libertà, pur entro i limiti fissati dal diritto islamico. Queste restrizioni, che riguardavano le manifestazioni pubbliche della fede o l’accesso a incarichi statali e a determinate professioni, furono ribadite in varie occasioni, ma

senza trovare un'applicazione coerente se non per periodi limitati, almeno fino alla dominazione mamelucca (1250-1517), quando la chiesa copta inizia la sua parabola discendente. Tuttavia, il sistema d’'imposizione fiscale, presto esteso alle chiese e ai monasteri, diede luogo a varie sollevazioni (secoli VIII-IX), mescolate

peraltro anche a ragioni di conflittualità interna al dominio arabo. In queste vicende risulta preziosa la protezione del regno cristiano di Nubia, che interviene a tutela dei correligionari egiziani.

Il periodo più felice sembra essere stato quello della dominazione

dei Fatimidi (969-1171), come mostra il notevole sviluppo intel. lettuale raggiunto in quell'epoca. Col tempo il copto si riduce ad essere solo lingua ecclesiastica, non senza aver prima prodotto una significativa letteratura specie in campo monastico e agiografico, ma dal X secolo la chiesa utilizza generalmente l’arabo. Nasce così la più importante delle letterature arabe cristiane, ricca fra X e XIV secolo di autori e testi importanti in campo teologico, biblico, canonistico e storico. La reazione islamica alle crociate preannuncia le difficoltà che s’intensificheranno grandemente per i Copti durante l’epoca mamelucca. E in questo periodo che si sviluppa maggiormente il cambio di religione, rimasto fino ad allora piuttosto contenuto, mentre viene meno il sostegno dei regni cristiani di Nubia, anch'essi in difficoltà e passati gradualmente all’islam (secoli XIV-XV).

La decadenza della chiesa copta continuerà durante il perio-

do ottomano

(1517-1798), ma senza che venga compromessa del

tutto la sua tenuta religiosa e sociale. Questo aspetto è posto in

luce anche dal fatto che i tentativi d’unione lanciati da Roma, a

partire dal decreto del 1442, non ottengono risultati apprezzabili. Benché tali sforzi portino sul finire dell'Ottocento alla creazione di un patriarcato copto cattolico, esso ha riscosso un seguito assai esiguo, mentre la stragrande maggioranza dei fedeli è rimasta attaccata alla propria tradizione religiosa. D'altra parte, la chiesa copta conosce un risveglio culturale e religioso dal-

L. Perrone

Le chiese orientali

203

la metà del secolo scorso, grazie all’opera riformatrice del patriarca

Cirillo

IV

(1854-1861),

che

ha

puntato

su un

rilancio

dell’istruzione. L'ingresso nell’età moderna è favorito anche dal-

l'iniziativa del laicato più colto, associato tradizionalmente alla

conduzione ecclesiastica nel regime del millet. Nel corso di questo secolo la rinascita nazionale dell'Egitto ha visto anche la partecipazione dei copti al movimento indipendentista. La ritrovata libertà d'azione non comporta peraltro un’equiparazione totale dei cristiani ai cittadini musulmani, anche per il manifestarsi di tendenze contrarie a tale evoluzione presso gli ambienti islamici fondamentalisti. Nondimeno, la vitalità di cui gode attualmente la chiesa copta è testimoniata dal consistente numero di aderenti, che costituiscono una frazione significativa seppur minoritaria della popolazione egiziana, nonché dalla ripresa del movimento monastico, conformemente alle sue tradizioni più antiche. La peculiarità di questo patrimonio tradizionale è indicata dalla continuità del calendario copto con l’antico calendario egiziano. Insieme alla devozione mariana, accompagnata da fenomeni di apparizione che toccano in parte anche la popolazione musulmana, vanno ricordati il culto degli angeli e degli esseri apocalittici nonché la prassi dei frequenti digiuni. Questa risente probabil-

mente dell'interazione con le consuetudini islamiche, come è av-

venuto anche per la circoncisione maschile e femminile praticata generalmente fino agli inizi del secolo.

5.2. La chiesa etiopica. La chiesa etiopica è stata la sola ad aver vissuto fino ai nostri giorni dentro la cornice di uno stato cristiano anche per effetto della particolare posizione geografica, più periferica delle altre regioni dell'Oriente cristiano che gravitano verso l’area mediterranea 0 mesopotamica occupata dall'islam. Tuttavia, non sempre essa si è trovata in condizioni d’iso-

lamento, com'è avvenuto del resto anche per il paese, che specialmente nell'antichità ha avuto un importante ruolo internazionale. In antico l’Etiopia non è rimasta immune dagli influssi dell’ellenizzazione, favoriti dai contatti commerciali fra il Medi-

terraneo, l'Arabia e l'India che si svolgevano attraverso il Mar Rosso. Questa via di traffico è all'origine della prima evangeliz-

zazione nel IV secolo, allorché l'impero di Axum vive una fase di

grande espansione che lo porta a sconfiggere il regno di Meroe allargandosi a nord verso la Nubia e ad occupare l’altra riva del Mar Rosso nell’odierno Yemen. Gli inizi del cristianesimo sono

ricondotti, da un lato, alle notizie sull’arrivo di due cristiani di

204

Cristianesimo

Tiro, Frumenzio e Edesio, e sulla loro propaganda missionaria presso la corte etiopica intorno al 330; dall’altro lato, essi sono

documentati dalle iscrizioni contemporanee del re ‘Ezànà, il qua-

le abbandona il paganesimo di origine sudarabica e si converte alla nuova fede. Forse non è da escludere che l'adesione al cristianesimo da parte delle classi dirigenti sia stata preparata dalla diffusione del monoteismo giudaico nell’Arabia meridionale, dove riscuote un certo seguito soprattutto fra IV e VI secolo. Nel territorio etiopico, l’eredità di questa presenza primitiva è stata rappresentata non solo dalla comunità dei Falascià — che si richiama alla fede mosaica, sia pure forse come espressione di un giudaismo riscoperto —, ma più in generale dai numerosi tratti giudaizzanti del cristianesimo etiopico, fra cui figurano la celebrazione del sabato accanto alla domenica, le norme di purità e la pratica della circoncisione. L'origine storica di tali consuetudini è controversa: per alcuni l'apporto delle tradizioni giudai-

che sarebbe stato mediato da altre cristianità orientali, in particolare dalla chiesa copta, la cui influenza sulla formazione

del

cristianesimo etiopico appare determinante. L'iniziativa di Alessandria si manifesta fin da principio con la consacrazione di Frumenzio

come

vescovo dell'Etiopia ad opera di Atanasio, ma la

sua tutela gerarchica permarrà fino al 1951 con la nomina ad

abuna (capo della chiesa abissina) di un ecclesiastico copto. A questa dipendenza dall'Egitto nonché all’azione di monaci siriaci tra V e VI secolo — che attuano la seconda fase dell’evangeliz-

zazione estendendo la presa del cristianesimo sul popolo — si de-

ve probabilmente la scelta monofisita della chiesa etiopica. Se è

difficile farsi un'idea precisa circa il grado di conoscenza delle

problematiche dottrinali, questo periodo iniziale registra già lo

sviluppo di una letteratura nella lingua nazionale ge‘, che accanto alla traduzione dei testi biblici comprende uno fra i più vasti complessi di scritti apocrifi, ricevuti per il tramite della chiesa egiziana. L'avanzata dell’islam determina la decadenza del regno di Aksum come potenza commerciale e introduce un periodo oscuro

nella storia dell’Etiopia, durante il quale la chiesa parrebbe esser stata privata dei suoi contatti con le altre cristianità orientali. In realtà, questo isolamento dovette essere minore di quanto

si pensa, se al suo riemergere dal silenzio nel XII secolo la chie-

sa abissina ci appare non solo impegnata nella penetrazione missionaria verso sud, ma anche sensibile ai richiami esterni del mondo cristiano d'Oriente. Ne è un sintomo eloquente l'impre-

L. Perrone

Le chiese orientali

205

sa architettonica di Lalibelà, centro politico e religioso della dinastia Zàgué (secoli XII-XIII), che con le sue chiese costruite nel-

la roccia si presenta idealmente come una sorta di Gerusalemme etiopica. Il legame con la Città Santa, grazie ai pellegrinaggi e alla comunità monastica ivi stabilita fin dall’alto Medioevo, ha con-

sentito tradizionalmente i rapporti con il resto dell'Oriente cristiano, e in seguito anche con l'Occidente, divenendo il tramite per la circolazione di scritti e di idee. Tuttavia, il riferimento idea-

le alla Terra Santa è destinato ad accrescersi con l'avvio della dinastia salomonide (dal 1270), la quale fonda i propri titoli di legittimità sulla pretesa discendenza dalla regina di Saba e da Salomone, proponendo così il regno cristiano di Etiopia come il

vero erede dell’antico Israele. Su questa base ideologica, elabo-

rata nella sua forma definitiva agli inizi del XIV secolo, si rinsalda l’unità politico-religiosa fra chiesa e stato in un regime dal profilo nettamente «cesaropapistico», mentre si fissano ulteriormente alcuni degli elementi giudaizzanti più tipici, come la con-

servazione dell’«arca dell'alleanza»

(tabot) ad Aksum e delle sue

copie in ogni chiesa. Rafforzato dalla concezione sacrale, lo stato etiopico, almeno fino agli inizi del XVI secolo, riesce a difendere con successo la propria esistenza dalle minacce degli stati islamici confinanti. La responsabilità ecclesiale di cui anche i sovrani si sentono investiti fa sì che essi intervengano attivamente nel regolare la vita interna della chiesa, promuovendo fra l’altro

lo sviluppo del monachesimo. Questa azione suscita però le resistenze di gruppi monastici favorevoli ad una maggiore indipendenza dal potere politico e insieme dal controllo ecclesiastico. Esponenti di tali tendenze sono, fra gli altri, i discepoli di Ewostàtéwos

(1273-1352),

che

intrecciano

la loro opposizione

all’intesa fra re e metropolita con la rivendicazione della pari di-

gnità per la celebrazione del sabato rispetto alla domenica. Il superamento dello scisma prodottosi a causa di questa controversia fu possibile grazie agli sforzi del negus Zar'a Yà'‘qob (1434 1468), che contrastò efficacemente anche gli indirizzi ereticali

degli stefaniti (avversari del culto della croce e della Vergine) e dei micaeliti (negatori della conoscibilità di Dio), e incrementò

anche con propri scritti l'ulteriore sviluppo di una letteratura

teologica e spirituale. Nel XVI secolo la sopravvivenza dello stato cristiano di Etiopia è messa a dura prova da un’invasione islamica, tanto da spingere il re Claudio a chiedere l’aiuto di papa Paolo III (1541). S'inaugura così il periodo dell'influenza politica e culturale

206

Cristianesimo

dell’Europa che investe anche la chiesa etiopica, già partecipe delle fuggevoli conseguenze del moto d’unione suscitato dal con-

cilio fiorentino

(1442).

Pochi

anni

dopo

la spedizione

porto-

ghese che sconfigge i musulmani (1542) sopraggiunge la missione dei gesuiti, impegnata dall'inizio con qualche successo nella conversione dei Falascià, ma soprattutto interessata ad acquisire il sovrano e la chiesa etiopici alla comunione con Roma. L'obiettivo sembra raggiunto durante il regno dell'imperatore Susenyos (1607-1632), che proclama ufficialmente l'unione e abiura la fede monofisita

(1607-1613), ma l’insistenza dei gesui-

ti nel criticare le usanze della chiesa etiopica fino a voler sopprimere la celebrazione del sabato suscita una reazione di rigetto. Susenyos è costretto ad abdicare e i missionari vengono espulsi dal paese, ma gli effetti del loro passaggio si ripercuotono nelle dispute cristologiche innescate dal confronto dottrinale coi rappresentanti della sede romana. Queste controversie s’intersecano con la precaria situazione dell'impero, dominato sempre più dalle tendenze centrifughe. Esse vengono superate solo alla metà dell'Ottocento, sotto Teodoro

II (1855-1868), ancora una

volta nel segno della visione sacrale dell’imperatore. In forza di essa si riprende la lotta per l'unificazione religiosa di uno stato da sempre multietnico, accompagnando l’attività missionaria con la lotta armata contro le popolazioni di religione islamica o pagana. Durante l'occupazione fascista dell'Etiopia (1936-1941) si tentò d’imporre una gerarchia favorevole al dominio straniero, tagliando i legami storici con la chiesa copta mediante la nomina di un ecclesiastico indigeno come abuna. Per la verità, anche nel corso del XIX secolo si era cercato di svincolare la chiesa etiopica dalla dipendenza verso gli Egiziani e di ricevere il metro-

polita dagli Armeni, ma l’autocefalia sopraggiungerà solo dopo

la conclusione della guerra con l’Italia. Nel 1951 viene eletto un etiope come metropolita, che è poi elevato nel 1959 al rango di

patriarca, con l'accordo delle autorità copte. La soppressione del-

la monarchia, in seguito alla rivoluzione del 1974, ha costretto la

chiesa etiopica a ripensare la sua presenza nella storia millenaria del paese, riscoprendo anche attraverso momenti di persecuzione le ragioni di un servizio spirituale e sociale, ritornato peraltro di attualità dopo l’effimera parentesi rivoluzionaria.

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La Riforma protestante (1517-1580) di Paolo Ricca

1. LA RIFORMA IN EUROPA: CONSIDERAZIONI GENERALI E TRATTI SALIENTI

Che cos'è stato, propriamente, l'evento storico, religioso e culturale generalmente conosciuto come «riforma protestante»? Questa domanda se la sono posta già i protagonisti stessi della Riforma, sia quelli che l'hanno voluta, attuata e difesa, sia quelli che l’hanno subîta, criticata e avversata. Da allora, è una domanda ricorrente, cui si sono date e si continuano a dare rispo-

ste diverse e spesso divergenti. Come ogni grande fenomeno storico, la Riforma resta un problema storiografico aperto, per non dire insoluto. Le fonti, nella stragrande maggioranza, sono da molto tempo edite e quindi accessibili, e il numero sterminato di ricerche e di studi di ogni tipo e orientamento compiuti in questo ambito hanno chiarito molti aspetti del problema e hanno enormemente arricchito le nostre conoscenze delle circostanze in cui i fatti si sono svolti, delle cause che li hanno determinati o favoriti, dei processi cui hanno dato luogo e dei personaggi che li hanno vissuti. Ciò nondimeno non vi sono risposte univoche alle domande di maggior peso relative alla Riforma: quella sulla sua stessa natura, quella sul suo rapporto con il protestantesimo storico, quella sull’interrelazione tra riforma protestante,

riforma

cattolica

e controriforma,

e quella,

infine,

al-

quanto complessa sui rapporti tra riforma protestante e mondo moderno. Il fatto è che ogni generazione legge il suo passato con

occhi diversi, scorgendovi, di volta in volta, «cose vecchie e cose

216

Cristianesimo

nuove», come fa lo scriba bene ammaestrato di cui parla Gesù nell’evangelo

(Mt. 13,52).

Ci si può chiedere se il termine «riforma», ormai collaudato da

un uso plurisecolare, colga con sufficiente approssimazione la ve-

ra natura del rivolgimento ecclesiale e culturale avvenuto in seno alla cristianità europea occidentale nella prima metà del Cinquecento. Lutero voleva «riformare» la chiesa? Non certo nel senso

che la volesse cambiare; egli anzi diffidava dei cambiamenti este-

riori, cui sovente non corrisponde alcun reale mutamento dei

cuori; voleva una «riforma», ma temeva le riforme apparenti. Per

lui «riformare» significava «ri-sostanziare» la chiesa con la parola

di Dio. Con la sua iniziativa, Lutero intendeva restituire alla fede

della chiesa tardomedievale e alla vita della societas christiana del suo tempo una sostanza evangelica divenuta sempre più evanescente e inconsistente. In che modo? Attraverso un’opera capillare e sistematica di alfabetizzazione cristiana di base, centrata sulla

Bibbia e sui dati originari e fondamentali della religione cristiana. Nessuna intenzione scismatica, dunque, questo va da sé (Lutero

abbandonò la tonaca di monaco agostiniano nel 1525 quando, a

sorpresa, si sposò), nessun progetto di «nuova chiesa» o di «chiesa alternativa» (tutti i Riformatori hanno sempre respinto un’ipotesi del genere, che per loro suonava quasi blasfema), ma anche nessun piano organico di riforma, nessun programma articolato

di «chiesa diversa». Non si trattava, all'origine, di cambiare la chie-

sa, ma di evangelizzarla, cioè di rianimare la sua fede e di migliorare la qualità della sua vita ricollegando entrambe alla loro sorgente viva e perenne: Cristo stesso, la sua parola, lo Spirito, il messaggio biblico nel suo insieme. La Riforma è stata un imponente

revival di cristianesimo biblico, un vasto e profondo processo di ri-

sostanziazione biblica della fede e della vita della cristianità occidentale del Cinquecento. Benché l’idea e l’esperienza della riforma siano una costante

della storia bimillenaria del cristianesimo, che in un certo senso

è vissuto e continua a vivere in uno stato di continua riforma (proprio da questo dipende molta della sua sorprendente vitalità), la Riforma protestante costituisce un fenomeno unico nel corso della storia cristiana fino a oggi: nulla di analogo è accaduto nei secoli precedenti né in quelli successivi. Non stupisce quindi che, spaventate dall’inedito, le massime autorità ecclesiastiche del tempo (papa e vescovi, con qualche rara eccezione tra questi ultimi) abbiano quasi subito anatemizzato la Riforma (gennaio 1521), e che poco dopo la massima autorità politica del tem-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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po, l’imperatore Carlo V (1519-1555), abbia bandito Lutero da tutti i territori dell'impero (aprile 1521). Ma né la scomunica né la messa al bando potettero fermare un messaggio che si stava diffondendo a macchia d’olio e aveva suscitato interesse e adesioni in tutti i paesi d'Europa centrale e occidentale, mobilitando la coscienza di molti in vista di una rinascita

cristiana che i vertici della chiesa del tempo sembravano più temere che desiderare. Solo più tardi (troppo tardi per scongiurare la spaccatura dell’Occidente cristiano) la chiesa cattolica avvierà,

con il concilio di Trento (1545-1563), il suo progetto di riforma interna — una riforma compatibile con l’assetto gerarchico della chiesa assunto attraverso i secoli e con le tradizioni del cattolicesimo tardomedievale sul piano teologico, disciplinare e devoziona-

le -, attuandola poi con grande energia, rigore e coerenza.

La riforma protestante, giudicata incompatibile con il cattolicesimo così come si era venuto configurando specialmente dopo l’anno Mille, e per questa ragione scomunicata, non si dette per

vinta, non rinunciò a essere quel che fin dall’inizio intendeva es-

sere, e cioè chiesa interpellata, giudicata, vagliata, rinnovata e ri-

plasmata dalla parola di Dio quale risuona nella Sacra Scrittura. Ne è scaturita una comunità cristiana in larga misura inedita, dal «cuore antico» perché profondamente radicata nel messaggio biblico originario (per la prima volta dopo i tempi apostolici, ad esempio, compare sul palcoscenico europeo una chiesa senza ve-

scovi e senza papa), ma allo stesso tempo

originale e inventiva:

una nuova articolazione del cristianesimo, un nuovo modo di essere chiesa, una nuova espressione collettiva della fede cristiana.

Non solo riforma del vecchio ma anche elaborazione del nuovo: il protestantesimo è qualcosa di più e di diverso che puro e semplice cattolicesimo riformato. Sul vecchio tronco del cristianesi-

mo storico è spuntato un nuovo virgulto. Nata dall’esigenza di «miglioramento» o «emendamento»

tero nel 1520)

(è il termine usato da Lu-

della condizione cristiana del tempo, la Riforma

è diventata matrice e culla di un nuovo tipo di cristianesimo. Se la natura della Riforma può essere descritta,

în nuce, nei

termini ora suggeriti, è opportuno, per arricchire il quadro forzatamente sommario qui fornito e per meglio circoscrivere la fisionomia del fenomeno

trattato, indicare almeno a grandi linee

i principali tratti salienti che lo hanno caratterizzato. Sono tre. 1) Il primo è il suo carattere internazionale. Lutero era tede-

sco, la Riforma è stata europea. Calvino era francese e Zwingli svizzero. Culturalmente, Lutero era un erasmiano, e aveva anche

218

Cristianesimo

letto, annotandole

con cura e ricevendone

non

pochi stimoli, al-

cune delle opere di Giovanni Pico della Mirandola (m. 1494), subendo così, come altri in Europa, l'influsso dell’Accademia pla-

tonica fiorentina. La Riforma non fu un fenomeno nazionale ma continentale. Si è alla fine affermata prevalentemente nell’Eu-

ropa del Nord, ma è stata presente fin dall'inizio, cioè dagli an-

ni Venti del secolo XVI, in tutti i paesi dell'Europa centrale e occidentale. E anche se il ruolo di Lutero è stato, ovviamente, de-

terminante per tutta la Riforma, quest’ultima non può essere fatta risalire esclusivamente a lui. La Riforma nasce con Lutero ma

non da Lutero soltanto. Nella sola Europa continentale (la rifor-

ma inglese esige un discorso a parte) vi furono quattro epicentri della riforma protestante che operarono autonomamente ciascuno rispetto agli altri come centri di elaborazione teologica e di iniziativa riformatrice. (a) II primo è Wittenberg, dove operò Lutero (1483-1546) con un gruppo di amici, buoni teologi e valenti collaboratori, tra i quali spicca Filippo Melantone (1497-1560) che nel 1521, con i Loci communes, offrì la prima presentazione organica del pensiero della Riforma sui principali temi della fede cristiana. È all'università di Wittenberg che fin dal 1512 Lutero tenne per circa trent'anni corsi di esegesi biblica che, insieme a un’intensissima attività di predicazione, costituirono l’asse portante della sua azione di teologo e riformatore. È a Wittenberg che ha visto la luce il corpus letterario di Lutero, prodigioso per qualità e quantità. Nel solo anno 1520 escono oltre 15 suoi scritti, di cui quattro in particolare costituiscono, insieme, il manifesto teolo-

gico ed ecclesiale della Riforma: // papato di Roma, l'appello Alla

nobiltà cristiana della nazione tedesca, il Preludio sulla cattività babilo-

nese della chiesa, e La libertà del cristiano. Wittenberg è stata ed è rimasta fino alla morte di Lutero il centro di irradiazione del suo pensiero e di propulsione della riforma che porta il suo nome. (5) Il secondo epicentro della riforma protestante fu Zurigo,

dove operò Ulrico Zwingli (1484-1531), anch'egli circondato e coadiuvato da un gruppo di amici come Leo Jud e Osvaldo Miconio. Già nel 1523 appare il suo principale scritto riformatore, la Spiegazione e motivazione delle Tesi. Si tratta delle 67 tesi scritte da Zwingli in vista di una disputa pubblica che avrebbe dovuto

svolgersi davanti al Consiglio della città ma fu disertata dalla parte cattolica, per cui il Consiglio dichiarò vincente la causa della

Riforma e cominciò a riformare in senso evangelico la vita ecclesiastica di Zurigo. Questo processo giunse a compimento nel

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

219

1525 con l’abolizione della messa e l'introduzione del culto evangelico. In quello stesso anno Zwingli pubblicò la sua opera più nota, il Commentarius de vera ac falsa religione, e tre anni dopo, nel

1528, svolse un ruolo di primo piano nel passaggio di Berna al-

la Riforma, in seguito a una disputa pubblica. Dopo la sua morte drammatica in un campo di battaglia, la chiesa di Zurigo e la sua riforma furono affidate a Enrico Bullinger (m. 1575), che non

solo consolidò l’opera di Zwingli, ma

accrebbe

il ruolo di

Zurigo divenendo uno dei padri del cristianesimo riformato. (c) Il terzo epicentro della riforma protestante fu Strasburgo, con Martin Bucero (1491-1551) che, tra i riformatori maggiori, fu colui che più di ogni altro si adoperò per mantenere o ristabilire l'unità del protestantesimo, peraltro senza grande succes-

so. Dialogò anche, entro certi limiti, con gli anabattisti e, finché fu possibile, con Roma. Soprattutto, egli si sforzò di indicare in che modo - cioè attraverso quali ordinamenti, disposizioni e misure concrete (anche di carattere strutturale) — la riforma pre-

dicata potesse diventare riforma praticata. Di questo tratta l’ultima sua grande opera, il De regno Christi, finita di comporre nel 1550 e dedicata al re inglese Edoardo VI: Bucero presenta un programma dettagliato di riforme ecclesiastiche, sociali ed economiche per trasformare in senso evangelico sia la chiesa sia la società inglese del tempo. In questo scritto Bucero condensa la sua esperienza quasi trentennale di riformatore a Strasburgo. Qui la Riforma era stata preparata, come un po’ dappertutto, da un’ampia diffusione degli scritti di Lutero fin dal 1519 e dalla predicazione evangelica di Matteo Zell. Ma Bucero, che pure ave-

va ascoltato Lutero ricevendone impulsi decisivi (aveva tra l’altro

assistito alla Disputa di Heidelberg del 1518), si rese presto autonomo dal suo maestro e riuscì a conferire alla riforma di Strasburgo una fisionomia propria, inconfondibile, diversa sia da quella di Lutero sia da quella di Zwingli e Calvino. Questa originalità purtroppo si perse del tutto dopo che Bucero, nel 1549, dovette abbandonare Strasburgo per ordine del magistrato e recarsi in esilio in Inghilterra, dove morì due anni più tardi. Strasburgo cessò allora di essere quello che era stata per oltre 25 anni: il laboratorio teologico ed ecclesiale di un tipo particolare di riforma — «buceriana» dovremmo dire - della chiesa e della società. Insieme a Bucero animarono il «laboratorio» di Strasburgo Wolfgang Capitone (1478-1541) con il quale, tra l’altro, Bucero compilò la Confessio Tetrapolitana presentata alla Dieta di Augusta del 1530, e Gaspare Hedione

(1494-1552) che fu, tra i rifor-

220

Cristianesimo

matorì, uno dei primi a manifestare spiccati interessi per la storia della chiesa. (d) Il quarto epicentro della riforma protestante fu Ginevra.

Non lo fu dall’inizio, anzi l'introduzione della fede evangelica in

questa città (e in generale nella Svizzera romanda) fu lenta e ardua, anche se Berna, che coltivava verso quei territori interessi politici oltre che religiosi, cercò di favorirne l'adesione alla Rifor-

ma. L'adesione di Ginevra avvenne soltanto nel 1535 e fu consolidata l’anno successivo con l’abolizione della messa. La prepararono e propiziarono tre uomini: il francese Guglielmo Farel

(1489-1565) dal carattere focoso (per le sue intemperanze fu espulso da diverse città, persino dalla tollerante Basilea), al qua-

le si deve quella che è stata chiamata «la prima dogmatica della

Riforma in lingua francese» (Le Sommaire et breve déclaration), scrit-

ta già nel 1524 e pubblicata nel 1525; lo svizzero Pietro Viret (1511-1571)

che in diverse circostanze lavorò a fianco di Farel,

fu uno dei protagonisti della Disputa di Losanna (1536) e poi riformatore di questa città; il francese Antonio Froment (15081581) che nel 1532 svolse in Ginevra un’opera semiclandestina ma molto efficace di istruzione biblica popolare, che pose le basi spirituali per l'adesione della città alla Riforma. Fu però solo con Giovanni

Calvino

(1509-1564)

che Ginevra divenne il prin-

cipale centro di formazione e propagazione del cristianesimo riformato, oltre che il luogo di rifugio per innumerevoli esuli della fede evangelica perseguitati nei paesi d’origine. Nell'agosto del 1536 Farel riuscì a bloccare Calvino di passaggio a Ginevra inducendolo, mediante un «terribile scongiuro», come dirà poi

lo stesso Calvino, a fermarsi in città e impiantarvi la Riforma, già

decisa ma non ancora attuata. Anche questa impresa si rivelò quanto mai improba: Calvino stesso (con Farel) fu esiliato nel 1538 e trascorse tre anni a Strasburgo, come pastore degli esuli evangelici di lingua francese ma anche alla scuola di Bucero, che

ebbe un grande peso nella sua formazione come riformatore e teologo della chiesa. Richiamato a Ginevra nel 1541, vi operò fino alla morte facendo di questa città non solo il simbolo stesso della riforma protestante intesa come rinnovamento della società non meno che della chiesa, ma anche una sorta di capitale spirituale del protestantesimo europeo. In che modo? Anzitutto at-

traverso l'influenza esercitata dall'Istituzione della religione cristia-

na apparsa in diverse edizioni, latine e francesi, dal 1536 al 1561: è la più completa presentazione organica del pensiero della Riforma, una summa insuperata della teologia protestante del

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

221

XVI secolo; in secondo luogo attraverso le Ordonnances ecclésiastiques del 1541, vero manuale per riformare la chiesa e, con essa, la città; infine attraverso l’ Académie creata nel 1559, che divenne

ben presto la principale fucina in Europa non solo di pastori riformati ma anche di credenti consapevoli e ben temprati per la testimonianza evangelica nella chiesa e nella società. Fu soprattutto grazie all'Accademia e al fittissimo epistolario di Calvino che Ginevra divenne sempre più, dopo la scomparsa di Zwin-

gli, Lutero e Bucero, il principale punto di riferimento di gran

parte dell'Europa protestante. I quattro epicentri maggiori della riforma protestante, ora som-

mariamente descritti, illustrano bene il suo carattere internazio-

nale e continentale. Essa nacque si può dire contemporaneamente in diversi paesi d'Europa e in diversi contesti politici e sociali. 2) Il secondo tratto saliente della riforma protestante è il suo

carattere multiforme. Come il cristianesimo apostolico fu, insieme,

uno e molteplice, tanto che la diversità, lungi dal comprometterne l’unità, ne fu elemento

costitutivo e qualificante,

in ma-

niera analoga la riforma protestante fu fin dall'inizio una e mol. teplice al tempo stesso. Malgrado tutto (cioè malgrado le notevoli differenze e divergenze manifestatesi al suo interno e le forti tensioni giunte anche, in momenti cruciali come il Colloquio

di Marburgo del 1529, fino alla rottura) può essere affermata una sua unità di fondo.

mune

Essa è riconducibile, in sostanza, a una co-

esperienza di fede: quella del peccatore giustificato per

grazia immeritata, immotivata e incondizionata, mediante la so-

la fede, a sua volta restituita alla sua fisionomia biblica tipica di

ascolto della parola di Dio, così come

risuona nella Sacra Scrit-

tura, specchio delle promesse di Dio adempiute nella persona e nell’opera di Gesù Cristo. La Riforma, per quanto multiforme,

ha dato vita a un tipo di cristianesimo sostanzialmente unitario, che può essere caratterizzato così: primato della Scrittura, riconosciuta come norma superiore della fede e della vita cristiana;

centralità della grazia, intesa soprattutto come parola di perdono gratuito e vissuta come appello alla libertà responsabile e al rinnovamento individuale e sociale; una forma non gerarchica di chiesa organizzata secondo un modello fraterno e non paterno; un'etica individuale e sociale i cui capisaldi sono il primato della coscienza personale interpellata e orientata dalla parola di Dio nella comunione della chiesa, la distinzione degli ambiti rispettivi di chiesa e stato senza prevaricazioni né strumentalizzazioni reciproche (difesa quindi della laicità della politica, della scien-

222

Cristianesimo

za e della cultura - idea, questa, maturata

nel protestantesimo

dopo il XVI secolo), la valorizzazione della legge, divina e uma-

na, per dare forma e direzione alla vita vocazionalmente intesa,

e allo stesso tempo lo sforzo necessario per creare «nuovi decaloghi», come già Lutero li chiamava. Ma se si può e si deve riconoscere una larga e consistente piattaforma unitaria comune a tutta la Riforma, è altrettanto impor-

tante ricordare e illustrare, almeno per sommi capi, la sua congenita pluriformità, dottrinale e istituzionale, che tra l’altro ha

avuto nelle diverse società in cui s'è affermata importanti riflessi di carattere sociale e politico. Un fatto emblematico la docu-

menta bene: alla Dieta di Augusta, convocata nel 1530 da Carlo V nella speranza (rivelatasi poi illusoria) di scongiurare la divi-

sione religiosa dell’impero, tanto più di fronte all’incombente pericolo turco, i protestanti non si presentarono uniti e non accettarono di sottoscrivere un’unica confessione di fede che contenesse soltanto ciò che essi potevano in coscienza dire insieme, omettendo o sottacendo i punti di divergenza. Al contrario presentarono tre confessioni di fede: una dei seguaci di Lutero, scrit-

ta da Melantone e divenuta assai presto uno dei principali do-

cumenti

— quasi il manifesto

— della fede della Riforma,

e co-

munque della fede luterana: la Confessio Augustana, una di Bucero e dei suoi amici, che rifletteva la posizione teologica di Strasburgo e di altre tre città della Germania meridionale: la già menzionata Confessio Tetrapolitana, una personale, infine, di Zwingli, la Fidei ratio ad Carolum imperatorem, specchio fedele del pensiero del riformatore di Zurigo, esposto con rigore e vigore (e qualche punta di aggressività: ferociter scripta, dirà Melantone parlando di quest'opera) all’indirizzo certo dell’imperatore e dei teologi pontifici ma anche degli esponenti della riforma luterana e buceriana: in questo scritto, che è un po’ il suo canto del cigno, Zwingli difende energicamente la propria originale lettura del

cristianesimo

senza smussare

gli angoli, senza nulla concedere

agli avversari, sottolineandone anzi la diversità rispetto, in particolare, alle posizioni luterane e rivendicandone con forza il carattere biblico e cristiano. Da un punto di vista strategico, la scelta di presentarsi ad Augusta non solo diversi ma divisi, davanti ai massimi rappresentanti dei poteri costituiti (e quindi — si direbbe — davanti all’opinione pubblica del tempo), fu senza dubbio perdente. Ma ad Augusta come altrove, appunto, i riformatori non ubbidirono a un calcolo ma a una vocazione: preferirono manifestare pubblica-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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mente e lealmente le loro diversità, che su certi punti erano in conflitto tra loro e diventavano vere e proprie divergenze, piuttosto che ostentare un'unità più apparente che reale, più formale

che sostanziale, conseguita per ragioni di politica ecclesiastica più che per un consenso di fede effettivamente raggiunto.

Le diversità, malgrado una solida base unitaria comune, era-

no profonde. Otto mesi prima della Dieta di Augusta, si era consumata a Marburgo la rottura tra Lutero e Zwingli sulla questione eucaristica e su molte altre questioni. A Marburgo si aprì una ferita nel corpo del protestantesimo, che rimase aperta per circa quattro secoli e mezzo e fu rimarginata soltanto nel 1973 con la Concordia di Leuenberg, mediante la quale venne istituita la piena comunione ecclesiale tra il protestantesimo zwingliano e quello luterano. La durata stessa della divisione rivela che non fu epidermica né fu dovuta ad un capriccio. La pluriformità della Riforma non dipende solo dalla reale diversità di situazioni politicosociali e di contesti culturali in cui essa s'è affermata, né dipen-

de principalmente dalle profonde diversità di carattere, indole, formazione e retroterra culturale dei vari riformatori. Per quanto rilevante sia stato il peso di questi fattori, la ragione ultima della pluriformità della Riforma sta in approcci e letture diverse del fatto cristiano. Né c'è da stupirsene. La pluralità è normale, anzi costitutiva del cristianesimo stesso. Nel Nuovo Testamento, ad

esempio, non c’è un solo vangelo, ce ne sono quattro, e i quattro evangelisti (per non parlare di Paolo apostolo e di altri autori neotestamentari) tracciano consapevolmente e volutamente profili diversi (su alcuni punti assai diversi) dell'unico Gesù di Nazaret, collegandoli di volta in volta a significati e messaggi diversi, senza peraltro compromettere l’unità e la coerenza del quadro d’insieme. Analogamente,

nel XVI secolo, all’interno dello

stesso orizzonte di fede protestante, si sono manifestate su molte questioni posizioni differenziate e su alcune questioni posizioni contrastanti,

senza

peraltro

mettere

in discussione

certe

scelte di fondo comuni. Non è qui necessario esemplificare: basti ricordare, per tutti, il contrasto tra Lutero e Zwingli sulla interpretazione della Cena del Signore (comunemente detta eucaristia), che, malgrado gli sforzi unitari intrapresi da Bucero prima e da Calvino poi, non fu possibile comporre. Ma su molte altre questioni il messaggio complessivo della Riforma è stato articolato e variegato, che si trattasse di

questioni strettamente teologiche (come il rapporto tra l’azione dello Spirito e il ruolo della Parola), o ecclesiologiche (ad esem-

224

Cristianesimo

pio il numero e le funzioni dei ministeri nella chiesa), o etico-politiche (ad esempio il rapporto tra chiesa e stato), o etico-sociali (ad esempio il rapporto tra giustizia divina e giustizia umana). Su tutte queste questioni, e su altre ancora, la Riforma ha parlato a più voci, non all’unisono, dando vita a una sorta di magistero corale articolato e ricco di tensioni, unitario nel fondo ma diversifi-

cato negli accenti e nelle sottolineature; a questa diversità nell’unità nessuno ha voluto rinunciare, neppure quando rinunciarvi sarebbe stato politicamente vantaggioso. La Riforma è nata plurale e come tale s’è affermata e diffusa in Europa. Essa ha preferito pagare il prezzo (invero assai elevato) necessario a salvaguardare la sua pluriformità originaria e congenita piuttosto che sacrificarla per ragioni di opportunità più che di fede. 3) Il terzo tratto saliente della riforma protestante può essere

definito politico nel senso etimologico del termine. E «politico»

un evento che riguarda e coinvolge l’intera polis, la città in tutti gli aspetti della sua vita, non solo quello religioso. Benché religiosa nella sua ispirazione, indole e motivazione, la Riforma ha

esercitato sulla società un’influenza non inferiore — in qualche caso persino superiore — a quella esercitata dalla chiesa. La Riforma ha cambiato il modo di intendere e vivere il rapporto tra uo-

mo e Dio e, di conseguenza, anche il modo di intendere il rapporto tra uomo e mondo, tra fede e storia. Dando vita a un nuo-

vo tipo di cristianesimo, la Riforma ha anche creato un nuovo tipo di cristiano e quindi un nuovo modo di agire, come cristiani, nella chiesa e nella società. Certi tratti e connotati tipici del mondo moderno occidentale non possono essere spiegati né capiti senza risalire alla Riforma. Anche se i rapporti tra Riforma e modernità sono notoriamente assai complessi, resta il fatto incontrovertibile che la prima è, direttamente o indirettamente, una delle matrici della seconda. La stessa secolarizzazione, che è uno dei fenomeni caratteristici della moderna società occidentale,

non può essere spiegata senza ricollegarla al processo di declericalizzazione del cristianesimo voluto e attuato dalla Riforma. Sarebbe certo errato addebitare sommariamente la secolarizza-

zione dell’Europa moderna alla Riforma, ma è vero che que-

st'ultima ha affrancato l’autorità politica dalla tutela dell’istituzione ecclesiastica. Declericalizzare non equivale a secolarizzare. La laicità promossa e prodotta dalla Riforma è attraversata dalla fede, non dal suo rifiuto o abbandono. Ma là dove il nesso tra laicità e fede viene smarrito,

larga misura accaduto.

la laicità si secolarizza, come

è in

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

225

È comunque un fatto che là dove si è affermata, la Riforma ha

riplasmato la società non meno che la chiesa. Non a torto il più grande storico del protestantesimo nel nostro secolo, il francese Emile G. Léonard, ha presentato Calvino come «fondatore di una civiltà» e «creatore di un tipo di uomo». Certo, per impostare correttamente il discorso dell'influenza della Riforma sulla cultura europea successiva è necessario operare alcune distinzioni: anzitutto occorre distinguere tra riforma luterana e riforma zwinglia-

na-calviniana (detta anche «riformata», dato che così si chiamano,

di solito, le chiese che l’hanno adottata); in secondo luogo occorre distinguere tra riforma «magisteriale»

(com’è stata chiamata,

perché attuata in accordo e con il concorso dell’autorità politica costituita, allora abitualmente designata col termine «magistrato») e riforma «radicale»

(quella, cioè, anabattista e spiritualista,

avversa ad ogni forma di cristianità «stabilita» e in particolare al corpus christianum, tipico prodotto politico-sociale del cristianesimo costantiniano); infine occorre distinguere tra la Riforma classica del Cinquecento nelle sue varie espressioni e quella fiorita specialmente nella prima metà del Seicento e costituita da quei movimenti che Emst Troeltsch ha chiamato «i figliastri della Riforma» e che sono il battismo, il quaccherismo, il congregazionalismo, il puritanesimo e, in generale, il cosiddetto protestantesimo

settario. E nel suo alveo che sono apparsi e si sono via via forgiati alcuni dei valori tipici dell'Europa moderna, come l’idea della. se-

parazione della chiesa dallo stato; il principio della tolleranza (che

aveva già avuto in precedenza alcuni testimoni solitari, non di rado martiri) e del pluralismo religioso; la libertà di culto e di pensiero; l’inviolabilità della coscienza e il diritto al dissenso; il principio dell’adesione volontaria a un determinato credo, e non

dell’appartenenza ereditaria, e in generale i diritti fondamentali della persona umana, che saranno poi proclamati e universalizzati dai rivoluzionari del 1'789. Le tre distinzioni ora menzionate lasciano intuire la singolare complessità del rapporto tra Riforma, protestantesimo storico e mondo moderno; non inficiano però, anzi avvalorano, la tesi di una profonda valenza «politica» della Riforma, nel senso det-

to all'inizio. Fra i tanti esempi che si potrebbero addurre, ne daremo uno soltanto. La moderna

«civiltà del lavoro», che occupa

un posto così centrale nella nostra storia individuale e collettiva

(anche la Costituzione della Repubblica Italiana si dichiara, nel suo articolo primo, «fondata sul lavoro») ha notoriamente nel-

l'«etica protestante» una delle sue matrici fondamentali. «Fu il

226

Cristianesimo

protestantesimo ad operare nel concetto di lavoro quella profonda rivoluzione spirituale in forza della quale esso è giunto a essere il concetto base e chiave della visione moderna del mondo

e della vita» (Tilgher, 1929, p. 45). La Riforma, in effetti, ha collegato la coscienza vocazionale cristiana non più alla vita monastica ma alla vita laica, «profana», «secolare», in tutti i suoi aspet-

ti, a cominciare, ovviamente, dal lavoro. Il lavoro è stato così ri-

vestito di dignità vocazionale, diventando il luogo privilegiato del culto a Dio e del servizio al prossimo. Non più il convento ma il campo, l'officina, la bottega sono il tempio del cristiano, lo spaio in cui vivere la vocazione, il luogo in cui celebrare il culto. La

vocazione si manifesta nella professione, la professione si innesta nella vocazione. La vocazione si laicizza senza secolarizzarsi, la professione si santifica senza clericalizzarsi. Il ciabattino che ripara la scarpa, la madre di famiglia che accudisce ai figli, il contadino che zappa il suo campo compiono atti di culto non inferiori per qualità religiosa e dignità umana a quello compiuto dal sacerdote che consacra l’ostia o del predicatore che spiega la Scrittura.

«Sulla dura fronte del lavoro Lutero depone

una co-

rona. Esso esce dalle sue mani circonfuso di dignità religiosa. La porta che darà sulla modernità è ormai definitivamente aperta» (Tilgher, 1929, p. 48).

Ma l’etica protestante che più direttamente ha contribuito alla genesi e allo sviluppo della moderna «civiltà del lavoro» non è tanto quella della Riforma del Cinquecento quanto quella del puritanesimo del Seicento: l’ascesi intramondana protestante vi assume

alcuni connotati nuovi, nei quali si riflettono anche va-

lori tipici della civiltà borghese in ascesa. Nasce così, ad esempio, una particolare «arte di sfruttare il tempo» secondo la quale «perde il tempo chi guadagna un soldo, mentre potrebbe guadagnare una sterlina», ma lo perde anche «chi antepone il corpo all'anima, l’uomo a Dio, le cose non importanti a quelle necessarie, doveri privati a doveri pubblici, azioni non edificanti a quelle edificanti...»

(Baxter in Bonanate,

1975, p. 258). Tempo

non

perso è quello investito nella preghiera e nel lavoro, per la gloria di Dio e il servizio del prossimo. Il lavoro poi, compiuto con

zelo

e coscienza

perché

vissuto

come

vocazione,

produce

ric-

chezza. Ma il puritano è parco, frugale: produce molto e consuma poco. La ricchezza lo gratifica più moralmente che material-

mente: segno della benedizione e del favore di Dio, è vista dal

puritano come una sorta di conferma o suggello della certezza della sua elezione. A maggior ragione egli è indotto ad ammini-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

227

strarla più come bene sociale che come possesso privato. Nel puritano si fondono convinzione religiosa ed ethos sociale borghe-

se, alimentandosi e legittimandosi a vicenda. Il calvinismo nella sua versione puritana ha svolto per la borghesia del Sei e Settecento una funzione analoga a quella svolta dal socialismo per il proletariato dell'Ottocento: nei due casi una classe emergente si è sentita chiamata e mobilitata a diventare egemone per superare il modello di società esistente e prefigurare uno nuovo.

La Riforma è un fenomeno talmente variegato che alcuni sto-

rici si chiedono se non sia preferibile adottare il plurale «riforme» anziché il tradizionale «riforma» al singolare. Le due op-

zioni sono entrambe plausibili. Si può legittimamente mantenere il singolare per porre in risalto l’unità dell’ispirazione e della «decisione»

(K. Barth)

che hanno

dato vita e anima alla Rifor-

ma. Ma è anche legittimo optare per il plurale, sottolineando co-

sì l'originalità di ciascuna delle sue diverse espressioni. Quelle

maggiori sono quattro: la luterana, la riformata (zwingliana-cal-

viniana), l’anabattista, c l'anglicana, la quale ultima, benché

sui

generis e non riconducibile unicamente a una radice «protestante», deve essere collocata nell’orizzonte del vasto rinnovamento

della cristianità europea messo in moto dall'iniziativa di Lutero. 2. LUTERO E IL LUTERANESIMO

Il cavaliere Ulrich von Hutten

(1488-1523), simpatizzante di Lu-

tero senza mai diventare luterano, è un esponente di quella «nobiltà cristiana di nazione tedesca» alla quale il Riformatore rivolse

nel 1520 il suo celebre Appello. Nel poema Gli ultimi giorni di Hut-

ten, lo scrittore svizzero Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898) mette in bocca al nobile cavaliere un «canto su Lutero» in cui si

legge:

Quanto più ardua è la liberazione di un uomo

tanto più fortemente commuove la nostra umanità.

lo stesso che per tempo balzai fuori dalla cella

fremo pensando quanto a lungo Lutero vi ha lottato dentro.

Nel suo petto portava nascosta la battaglia che ora riempie metà della terra.

228

Cristianesimo

Intrepido ha dissolto l'incantesimo del convento:

l’azione più grande la fa solo chi non può agire altrimenti. Egli avverte l'enorme frattura dei tempi e si aggrappa saldamente alla sua Bibbia. Nella sua anima combattono

futuro e passato,

coppia di lottatori ansimanti, duramente awiluppati. Il suo spirito è campo di battaglia per due epoche:

non mi fa meraviglia che egli veda demonil

É questa sicuramente una delle descrizioni meglio riuscite del-

la persona e dell’opera di Lutero. Due i tratti fondamentali: un uomo aggrappato alla Bibbia sulla soglia tra due epoche, e un lottatore, dentro il convento e fuori, il cui spirito è stato davvero

un campo di battaglia. Ma la prima e più dura lotta Lutero ha

dovuto condurla con se stesso, per superare la visione religiosa che l’aveva spinto a farsi monaco e che ruotava intorno a un’idea di salvezza inestricabilmente intrecciata al merito umano. Questo superamento maturò lentamente, attraverso uno studio prolungato ed impegnato del messaggio biblico. 1. Lutero e la Bibbia: l'Evangelo Lutero è stato per tutta la vita un esegeta della Sacra Scrittura e

un predicatore.

La Riforma è nata dalla Bibbia, che Lutero in-

vestigava a partire da una duplice esigenza: come ottenere il favore di Dio e come giungere alla certezza della salvezza. La ri-

sposta giunse quando a Lutero si dischiuse, al termine di una lunga e travagliata ricerca, il significato evangelico dell'espressione «giustizia di Dio». «Cominciai a comprendere - scrive Lutero nel 1545, un anno prima di morire, rievocando gli anni cruciali che precedettero la svolta riformatrice — che la giustizia di Dio [...]

è quella passiva, per cui Dio ci giustifica attraverso la fede»; e aggiunge: «Allora mi sentii addirittura rinato e mi parve di essere entrato in paradiso attraverso porte spalancate. In quel momento stesso l’intera Scrittura mi apparve sotto un’altra luce» (WA 54, p. 186, rr. 5-10). La nascita della Riforma coincide con la scoperta, o riscoperta, di questa verità evangelica elementare: la giu-

stizia di Dio non è quella che giudica il peccatore ma quella che lo giustifica. Questa fu la luce che attraversò la coscienza inquieta

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

229

di Lutero e della sua generazione, dandole pace profonda e certezza incrollabile in Dio. La giustificazione del peccatore per gra-

zia immotivata, immeritata e incondizionata, ricevuta per fede, è secondo Lutero l’Evangelo /out court, la quintessenza del mes-

saggio cristiano. È stato il motore e al tempo stesso il contenuto della riforma luterana. Lutero vi è giunto dopo anni di studio intenso e ininterrotto della Bibbia, documentato da quattro grandi commenti: ai Salmi (1513-1515), alla lettera ai Romani (1515 1516), alla lettera ai Galati (1516-1517) e alla lettera agli Ebrei

(1517-1518). È da questa «immersione completa» nel testo della

Scrittura, proseguita, si può dire, fino alla fine della sua vita, che Lutero ha tratto la sostanza biblica del suo pensiero. 2. Lutero e la teologia scolastica: la croce

Negli stessi anni in cui Lutero si immergeva nello studio della Scrittura dopo aver imparato il greco e l'ebraico per poterla leggere nelle lingue originali, si colloca il suo primo, grande conflitto teologico, quello che lo oppose alla teologia scolastica: primo in ordine cronologico, questo conflitto è forse il primo anche per importanza perché è da esso che emersero le strutture portanti della teologia di Lutero. Certo, la critica della teologia scolastica era

iniziata ben prima di Lutero, già al suo stesso interno con Duns Scoto

(1264-1308)

critico di Tommaso

d’Aquino

(1225-1274)

e,

subito dopo, con Guglielmo di Occam (1300-1349). Ma Lutero la radicalizzò a partire dalla «teologia della croce». È comunque indubbio che Lutero non può essere spiegato né capito senza il ricco retroterra teologico e culturale tardomedievale, nel quale si tro-

vano quelli che a buon diritto sono stati chiamati «i maestri della Riforma» (H. Oberman), con cui Lutero entrò in dialogo critico.

Tra questi va annoverato anche il misticismo tedesco, dal quale peraltro Lutero, pur subendone l'influenza, si distanziò.

I testi principali della polemica antiscolastica di Lutero sono la Disputa contro la teologia scolastica (settembre 151'7), le celebri 95 Te si sul valore delle indulgenze (ottobre 1517) e soprattutto le 40 tesi, 12 filosofiche e 28 teologiche, della Disputa di Heidelberg (aprile 1518). In questi testi, tutti destinati al dibattito teologico, si trova-

no già in nucele affermazioni caratteristiche del messaggio luterano: il rifiuto della filosofia (non solo di quella aristotelica) come

premessa necessaria della teologia; la croce posta al centro del di-

scorso cristiano, non solo come fondamento della salvezza ma an-

230

Cristianesimo

che come principio della conoscenza di Dio, che comincia da una specie di Venerdì Santo della ragione umana; Dio infatti si rivela in occulto

(è nascosto,

absconditus), non

lo si incontra nell’evi-

denza (ad esempio nelle opere della creazione o nelle vite virtuo-

se dei santi), ma là dove sembra non esserci (sub contrario); la vo-

lontà umana è libera solo rispetto alle cose umane, non a quelle divine; la salvezza coglie l’uomo sempre impreparato, è tutta e solo opera e dono di Dio, grazia allo stato puro, miracolo di amore

e di fede. Nel commento alla tesi 28 di Heidelberg ricorre la celebre proposizione che esprime in felice sintesi tutta la teologia di

Lutero: «I peccatori sono belli perché sono amati [da Dio, s'intende]; non sono amati perché sono belli».

3. Lutero e il papa: la chiesa Una veemente polemica antipapale e il rifiuto categorico del papato caratterizzano vistosamente il discorso di Lutero dal 1520

(Sul papato romano) fino alla fine: l’ultimo suo scritto di un certo

rilievo, nel 1545, è ancora una violenta requisitoria Contro il papato romano. Già i Valdesi, a partire dal XIII secolo, avevano sostenu-

to che il papa non è successore di Pietro ma di Costantino e nello stesso periodo, in alcuni esponenti degli ambienti dei Fraticelli

(francescani radicali), nel corso di una polemica rovente sulla po-

vertà evangelica, era persino maturata l’idea che il papa fosse l’Anticristo. Anche gli Hussiti nel XV secolo avevano criticato il papato soprattutto (ma non esclusivamente) sul piano morale. La critica di Lutero è più radicale perché teologica: il papato viene rifiutato non per qualche suo indegno rappresentante, ma per la

sua stessa natura di istituzione tirannica che si arroga poteri esorbitanti usurpati in parte a Cristo e in parte alla comunità cristiana.

La chiesa, dice Lutero lapidariamente nel 4° degli Articoli di Smal-

calda del 1537, «deve restare ed esistere senza papa». Qualche studioso ha giudicato patologico, morboso, l’accanimento critico di Lutero contro il papato. In realtà, l’avversione di Lutero concerne, più che il papato, il tipo di chiesa che esso incarna: una chiesa gerarchica, autoritaria e patriarcale ma anche (e più ancora) dell’evidenza, del potere ministeriale, dell’og-

gettivazione del divino. La vera chiesa, secondo Lutero, è nascosta, come Dio stesso; non va confusa con la comunità visibile e, meno ancora, con l’istituzione ecclesiastica. E la libera «assem-

blea dei cuori» convocata e suscitata dall’Evangelo che è «l'uni-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

231

co, il più sicuro e il più riconoscibile contrassegno della chiesa,

più del pane e del battesimo, perché solo grazie all’Evangelo es-

sa viene concepita, prende forma, cresce, viene data alla luce, è nutrita, allevata, vestita, diviene bella, forte, protetta e difesa, in

una parola tutta quanta la vita e la sostanza della chiesa stanno nella parola di Dio...»

(WA 7, 721, rr. 9-13). Fino alla fine Lute-

ro rimarrà fedele a questa visione della chiesa come figlia e discepola della Parola (creatura verbi). Nello scritto del 1539 Sui concili e le chiese indicherà sette segni distintivi della vera chiesa ma quello decisivo resta l’Evangelo. Con la Riforma ricompare dunque in Occidente una chiesa senza papa e senza vescovi. Le grandi novità sono due: la prima è che la chiesa viene ripensata e ridisegnata a partire dalla comunità locale, e non più a partire dal ministero, cioè dall’episcopato: emblematico al riguardo è lo scritto del 1523 Secondo la Scrittura un'assemblea 0 comunità ha il diritto e il potere di giudicare ogni dottrina e di chiamare, insediare e destituire i Dottori. La seconda novità è il sacerdozio universale dei credenti e la conseguente declericalizzazione del cristianesimo. 4. Lutero e Carlostadio: lo Spirito Quella con Carlostadio è la prima controversia interna al campo

stesso della Riforma. Andrea Bodenstein detto Carlostadio (1480

ca.-1541), coetaneo di Lutero e suo collaboratore a Wittenberg, alla fine del 1521 e nei primi mesi del 1522 attuò alcune delle riforme prefigurate dallo stesso Lutero (custodito alla Wartburg, per sottrarlo ai pericoli conseguenti al bando pronunciato con-

tro di lui dalla Dieta di Worms): celebrò la messa in tedesco (anziché in latino) senza indossare abiti sacerdotali, distribuì a tutti il pane e il vino della Cena, ordinò la rimozione delle statue dalle chiese e attuò, con il consiglio cittadino, importanti riforme

sociali. A Melantone e ad altri tutto ciò parve troppo radicale. Lutero, informato, tornò a Wittenberg e pronunciò otto sermoni nel marzo del 1522 sconfessando l'operato di Carlostadio. La

ragione del conflitto fu, oltre che strategica, anche teologica. Lu-

tero ebbe l'impressione che Carlostadio forzasse il corso degli

eventi, imponesse delle novità per le quali il popolo non era stato adeguatamente preparato e facesse della Riforma una legge anziché un annuncio di libertà. Secondo Carlostadio però la legge non contraddice l’Evangelo, semplicemente gli dà forma e

232

Cristianesimo

concretezza. Qui probabilmente c'è la radice del contrasto. Forse a torto Lutero assimilò Carlostadio agli Schwérmer, «entusiasti» o «fanatici» che rivendicavano il possesso dello Spirito indipendentemente

dalla «parola esterna», cioè dalla Sacra Scrittura. A

Carlostadio e agli Schwdrmerè diretto lo scritto del 1525 Contro i

profeti celesti, a proposito delle immagini e del sacramento (della Cena), in cui Lutero depreca la distruzione delle immagini e difende la

«presenza reale» di Cristo nella Cena. Combatte cioè ogni forma

di legalismo e di spiritualismo. Solo dove regna l’Evangelo c’è libertà, solo dove risuona la Parola, soffia lo Spirito.

5. Lutero e Miintzer: la politica «Con la guerra dei contadini, sciagura massima della storia tedesca, furono strappati alla Riforma, per quanto concerne l'aspetto sociale, i denti per mordere»

(B. Brecht, 1971, p. 354). Il tragico

epilogo della rivolta, avvenuto a Frankenhausen il 15 maggio 1525 con il massacro di oltre 5000 contadini (ma in tutta la Germania

le vittime furono quasi 100.000) e la cattura di Muntzer subito processato, torturato e giustiziato, non può essere considerato, come pensava Lutero, «un giudizio di Dio su Thomas Mùntzer». Lutero

per primo non uscì indenne da questo dramma che, oltre ad alienargli molte simpatie, rivelò il limite della sua teologia politica. Il limite, in sostanza, è questo: Lutero non riuscì a istituire un rap-

porto positivo tra riforma religiosa e riforma sociale, tra libertà cri-

stiana e libertà civili. Eppure non c’è dubbio che le speranze di

emancipazione dei contadini avevano ricevuto impulsi decisivi dal

«manifesto» sulla Libertà del cristiano scritto da Lutero nel 1520. I

contadini stavano trascrivendo la ritrovata libertà cristiana in termini politici e sociali. Così, ad esempio, il 3° dei Dodici articoli dei

contadini di Svevia dichiara: «Sarà soppressa la schiavitù, perché Cristo col suo prezioso sangue ci ha redenti tutti senza distinzione». Ma è proprio la continuità tra libertà cristiana e libertà civili

in nome dell’Evangelo che Lutero ha contestato ai contadini. Egli

riconosce la legittimità delle loro rivendicazioni, nega però loro il diritto di avanzarle in nome di Cristo, facendone una questione di diritto divino. Il cristiano non rivendica e non insorge. Davanti al tiranno (e Lutero è il primo a riconoscere che i principi lo sono, e in generale della peggior specie), resiste non con la spada ma con la preghiera, invocando da Dio, che abbatte i tiranni e innalza gli umili, la «rivoluzione dall’alto» (H. Oberman).

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

233

In questo quadro entra in scena Thomas Muùntzer (1489 ca.-

1525). Anch’egli predica la rivoluzione dall'alto ma, a differenza di Lutero, la trasferisce in basso affidandone l’attuazione ai

contadini. Mùntzer è un apocalittico: il giudizio di Dio incombe

e i contadini lo eseguono. Dio stabilisce il suo governo direttamente, abrogando quello iniquo e abusivo dei principi. L’esercito messianico dei contadini è la spada di Dio. Non importa se è disorganizzato, impreparato e male armato: Dio è con i contadini e vincerà per loro. Il salmo 149 è una perfetta illustrazione della visione di Mùntzer e del ruolo che egli attribuì ai contadini come esecutori del giudizio finale di Dio. Lo scontro tra Lutero e Mùntzer fu durissimo. I documenti

relativi sono, da parte di Lutero, lo scritto fondamentale Sulla au-

torità secolare del 1523 (in cui elabora la dottrina dei «due regni» o meglio dei «due governi»), l’Esortazione alla pace tra contadini e principi del 1525 e, poco dopo, in presenza della rivolta in atto, il duro libretto Contro le bande ladre ed assassine dei contadini;

da parte di Muntzer il Manifesto di Praga (1521), la Predica ai prin-

cipi (1524), Della fede apparente (1524), l’Esplicita messa a nudo (1524), la Confutazione ben fondata (1524), e infine il Proclama ai

cittadini dî Allstedt (1525) pochi giorni prima della tragedia.

Il contrasto tra Lutero e Mùntzer fu profondo, insanabile. Alla radice c’è sicuramente una diversa percezione del tempo e della storia: Lutero aspetta l'ultimo giorno, Muntzer lo vive. Lutero resta in questo mondo

e, in esso, afferma il ruolo necessario e,

tutto sommato, benefico dello stato e la funzione insostituibile della politica. Muntzer invece brucia le tappe e varca la soglia del nuovo mondo, vaticinato nello Spirito, nel quale regna Dio solo e il popolo sarà finalmente libero. 6. Lutero ed Erasmo: la libertà

Dopo secoli in cui la chiesa aveva insistito più sulla virtù dell’ubbidienza

che

sulla vocazione

alla libertà,

Lutero

compose

nel

1520 un vero e proprio inno alla libertà cristiana, che oltre a essere ben presto riconosciuto come la Magna Charta del messag-

gio della Riforma, resta fino ad oggi una delle meditazioni più

profonde e suggestive su questo tema. Ma cinque anni dopo, quasi come contrappunto, Lutero scrisse // servo arbitrio (1525). Era la sua risposta al Libero arbitrio di Erasmo, uscito 15 mesi prima. Erasmo (1466-1536) scrisse quest'opera non per iniziativa pro-

234

Cristianesimo

pria, ma per compiacere a papi e sovrani che a più riprese e con insistenza avevano chiesto a lui — principe degli umanisti cristiani e massimo esponente della cultura europea dell'epoca — di prendere pubblicamente le distanze da Lutero e dalla Riforma, dissociandosi dalle sue posizioni e dal suo destino. Si esigeva da Erasmo una dichiarazione di lealtà nei confronti della chiesa di Roma e una presa di posizione inequivocabilmente critica nei confronti di Lutero, tanto più che in passato Erasmo aveva con-

tribuito non poco, sia pure indirettamente, all'iniziativa di Lutero e all'opera della Riforma, specialmente pubblicando l’edizione critica del testo greco del Nuovo Testamento e in generale promuovendo gli studi biblici e patristici, ma anche svolgendo una critica severa della decadenza

tuale della chiesa del suo tempo.

morale, spirituale e intellet-

Erasmo dunque, benché controvoglia, attacca Lutero, concentrando intelligentemente la sua critica sul punto nevralgico del messaggio riformatore: la dottrina della grazia. Erasmo definisce il cristianesimo una philosophia Christi nettamente caratterizzata in senso etico. Tanto più diventa essenziale sostenere — com’egli fa in linea con il tradizionale semipelagianesimo cattolico - che la volontà umana

è libera, altrimenti l’uomo non sa-

rebbe moralmente responsabile. Egli può scegliere tra il bene e

il male e così, sia pure su iniziale sollecitazione della grazia, con-

tribuire realmente alla propria salvezza. Lutero replica con veemenza sostenendo esattamente il contrario. Il libero arbitrio esiste solo in inferioribus, nelle questioni terrene, ma non nei confronti di Dio e della salvezza. Tra Cristo e Barabba l’uomo sceglie Barabba. Per scegliere Cristo dev'essere scelto da Cristo. «Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi»,

dice Gesù (Giov. 15,16). La grazia non è solo qualcosa, una spin-

ta iniziale, o anche molto, è tutto. E il libero arbitrio è «un nulla», dice Lutero, nel senso che l’uomo non è libero di dire «sì» a Dio, è libero quando dice «sì» a Dio. La libertà viene con la fede, non prima, e la fede nasce alla croce, non altrove. Lì l’uomo

s'accorge che la salvezza non è da costruire ma da ricevere; è dono, non conquista. Riforma

e umanesimo

cristiano,

alleati

per

un

decennio,

prendono vie diverse, ma non si perderanno mai di vista. E il ra-

zionalismo

etico di Erasmo,

avversato da Lutero,

troverà

anche in campo protestante già nel XVI secolo, e oltre.

adepti

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

235

7. Lutero e Zwingli: la separazione Lo scontro tra Lutero e Zwingli sulla dottrina eucaristica (ma anche su altre questioni) rassomiglia per certi versi a quello tra Lutero ed Erasmo: di quest’ultimo, del resto, Zwingli era discepolo e ammiratore, e tale rimase anche dopo aver superato il suo erasmianesimo.

Come

la disputa sulla libertà (o asservimento)

del-

la volontà umana fu condotta in larga misura dalle due parti su

una serie di testi biblici, caratterizzandosi quindi anche come di-

sputa esegetica, così la controversia tra Lutero e Zwingli sull’interpretazione della Cena è stata una vivacissima e puntigliosa diatriba esegetica protrattasi per anni. C'è però una differenza importante: mentre Erasmo, pur riconoscendo tura, le affiancava quella della chiesa ed era a subordinare la prima alla seconda, Zwingli tero, l'autorità superiore della Scrittura, era,

l’autorità della Scritpronto, se richiesto, affermava, come Lucome e con Lutero,

un convinto fautore del sola Scriptura. Ma appunto: nello scontro

tra Lutero e Zwingli la Riforma, nata all'insegna dell’autorità del-

la Bibbia come

regola suprema di fede e di vita, fa l’amara sco-

perta che la Bibbia può anche dividere. Uniti dal sola Scriptura, Lutero e Zwingli sono divisi nell’interpretazione della Scrittura. La Bibbia unisce, la Bibbia divide. L'amarezza maggiore in que-

sta vicenda non fu il dissenso nell’interpretazione della Cena, fu

il divorzio sulla Bibbia. Accadeva per la prima volta in modo così palese, da parte dei due massimi esponenti della Riforma. In seguito sarebbe accaduto molte altre volte. Nel merito la divergenza tra Lutero e Zwingli riguardava il modo d'intendere la presenza di Cristo (il suo «corpo»). Zwingli intendeva l'est della frase «Questo è il mio corpo» nel senso di significat, mentre Lutero si atteneva al senso letterale ed affermava la presenza simultanea del pane e del corpo di Cristo. Non c’è trasformazione (Lutero rifiuta, come tutti gli altri Riformatori, la

dottrina della transustanziazione), c'è compresenza del pane e del corpo. Come?

nea solo Dio Dio

Dio lo sa, e questo basta. Così Lutero sottoli-

la realtà della presenza divina (l’incarnazione è un fatto, non un significato!) e l'efficacia incomparabile della parola di che dà quello che dice. Zwingli invece insiste sul fatto che è Spirito e che nessuna «materia» lo può veicolare, lo può

solo richiamare, evocare, esserne simbolo. Corpo

è il pane ma la comunità che lo riceve.

di Cristo non

Oggi queste diverse sottolineature sarebbero considerate per-

fettamente compatibili con un discorso eucaristico unitario e, al

236

Cristianesimo

tempo

stesso, differenziato. A Marburgo

invece, nel Colloquio del

1529, Lutero, Zwingli e i loro amici non trovarono un accordo completo e non celebrarono insieme la Cena. Il protestantesimo registrava la sua prima divisione interna. Sulla questione eucaristica Lutero e Zwingli hanno scritto moltissimo. Lutero continuò a polemizzare contro Zwingli e «gli svizzeri» anche dopo la morte di Zwingli, fino al 1544. L’opera principale di Lutero sull'argomento è Sulla Cena di Cristo. Confessione del 1528. L'opera principale di Zwingli è Amica exegesis

stampato nel 1527. 8. Le altre tappe

Le controversie evocate nelle pagine precedenti sono quelle che più hanno segnato l’esistenza teologica di Lutero forgiandone la

personalità, ma non sono le uniche. C'è stata la controversia con

gli anabattisti (ritorneremo più avanti sul loro progetto di riforma della chiesa) a proposito del battesimo: Lutero difende a spada

tratta il battesimo dei bambini, nettamente rifiutato dagli anabat-

tisti. C'è la controversia con gli «epicurei» — così Lutero chiama gli umanisti atei che cominciano ad affacciarsi sull’orizzonte della cultura europea e

di cui Lutero dice che, dopo essersi liberati dal-

le leggi del papa, «vogliono anche essere liberi dalla legge di Dio»

(Barth, 1971, p. 45, nota). C'è la disputa con gli «antinomisti», che

dichiaravano decaduta tutta la legge dell'Antico Testamento, compresi i Dieci Comandamenti, di cui Lutero, scrivendo contro di loro nel 1539, ribadisce invece il valore permanente. C'è la diatriba sui Turchi, giunti nel 1529 sotto le mura di Vienna, i quali, benché

sconfitti l'anno dopo, minacciavano ancora di sommergere l'Europa cristiana: Lutero li vede come segno del giudizio di Dio su una cristianità infedele e impenitente. Cè infine la disputa con gli

Ebrei, sfociata in una dura polemica antiebraica (Sugli Ebrei e le lo-

ro menzogne, del 1542): qui Lutero non è affatto Riformatore, si ri-

vela più che altrove figlio del suo tempo, erede acritico di una cultura cristiana medievale fortemente antisemita; e anche se è vero

che la sua polemica antiebraica è di tipo teologico e non razziale (in questo senso non ha nulla a che vedere con l'antisemitismo nazista), è anche vero che i nazisti sfruttarono gli scritti di Lutero sugli Ebrei per la loro propaganda antisemita. Mala vita di Lutero, di cui conviene dare almeno un breve scor-

cio tanto essa è intrecciata a quella della Riforma, presenta altri

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

237

momenti salienti meritevoli di essere ricordati. Ecco i maggiori. Dopo la Disputa di Heidelberg (aprile 1518), l'inutile incontro

con il card. Caetano ad Augusta (ottobre 1518) e la Disputa di Lip-

sia (1519), è ormai chiaro che Lutero antepone l’autorità della Sacra Scrittura a quella del magistero papale: tra la parola della Bibbia e quella della chiesa, Lutero si attida alla prima, senza timori e

senza rimpianti. La rottura è inevitabile. Nel 1520 Lutero compo-

ne gli scritti che daranno alla Riforma sia una base teologica molto solida sia un'udienza vastissima, di dimensioni europee, tanto

nei ceti popolari quanto in quelli intellettuali: l'Appello alla nobiltà cristiana affinché intraprenda lei quell’«emendamento della cristianità» che papi e vescovi irresponsabilmente rifiutano di avviare; la Cattività babilonese della chiesa con cui Lutero apre, per così dire, la prigione nella quale la fede cristiana è rinchiusa (la prigione è l’intero apparato sacramentale romano); la Libertà del cnistia-

no, vero gioiello della letteratura cristiana di ogni tempo, in cui Lutero svolge le due note tesi: un cristiano è per la fede un libero si-

gnore sopra ogni cosa, e non è sottoposto ad alcuno; un cristiano è per amore un servo volenteroso in ogni cosa, ed è sottoposto ad ognuno. Nel 1521, a gennaio, Lutero è scomunicato e nel maggio

dello stesso anno, alla Dieta di Worms, è bandito dall’impero. Gra-

zie alla protezione dei principi favorevoli alla Riforma può continuare la sua attività all'università di Wittenberg. Nel 1525 sposa Caterina von Bora, più per coerenza con le sue posizioni sul matrimonio e per dare il buon esempio (ai monaci) che per passione. Fu però marito e padre affettuoso. Nel 1527 inizia l’opera di ricostruzione della chiesa nei territori che avevano aderito alla Riforma e comincia a prendere forma quella che si chiama oggi «chiesa evangelica» o, più in generale, protestantesimo. S'è trattato in sostanza di un’opera vasta e capillare di alfabetizzazione bi-

blica e di formazione cristiana di base a livello popolare, a comin-

ciare dalla famiglia. A tal fine Lutero compose nel 1529 l’Enchiri-

dion (comunemente chiamato Piccolo Catechismo) e il Catechismo tedesco (noto come Grande Catechismo) . Nel 1534 esce l'edizione com-

pleta della Bibbia nella versione di Lutero in tedesco: un’opera di primaria importanza sul piano linguistico, ma anche «una colonna portante della chiesa luterana in Germania» (M. Brecht, 1987, p.104). Nel 1536 Lutero e Bucero firmarono la Concordia di Wittenberg, in cui si accordavano sull’interpretazione della Cena. Gli ultimi anni di Lutero furono amareggiati da delusioni e inquietudini. Morì il 18 febbraio 1546. Una delle sue ultime parole scritte fu: «Siamo mendicanti, questo è vero».

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Cristianesimo

9. Nascita e primi sviluppi della «chiesa evangelica» La

cristianità

Worms,

«evangelica»

nasce

nel

decennio

1520-1530.

A

davanti all'imperatore e alla Dieta, Lutero aveva rifiuta-

to di ritrattare con una presa di posizione memorabile («La mia coscienza è prigioniera della parola di Dio. Non posso e non voglio ritrattare nulla, perché è pericoloso e ingiusto agire contro la propria coscienza»). Coloro che in Germania avevano accolto con favore il suo messaggio e condividevano la sua iniziativa (monaci dei più svariati ordini, ma anche molti «semplici laici»; principi, ma anche vescovi; borghesi, ma anche intellettuali; e molte

città libere) dovettero scegliere: o con Lutero, scomunicato e bandito, verso un futuro ignoto, o con il papa e l’imperatore per lo statu quo. Una pura e semplice soluzione di forza ottenuta mediante misure repressive del movimento luterano si rivelò impraticabile. Una serie di fattori (tra cui la debolezza del potere

imperiale centrale fino al 1525 per la guerra tra Carlo V e Francesco I) contribuirono a creare una situazione aperta nella quale, pur tra resistenze locali a volte anche violente, la predicazio-

ne evangelica e, con essa, la causa della Riforma, fecero progressi

notevoli. Le Diete imperiali di Norimberga

(1522 e 1524)

tem-

poreggiarono, invocando la convocazione di un concilio gene-

rale, che il papa invece temeva e rinviava sine die. Intanto, dopo la rivolta dei cavalieri, cioè della nobiltà tedesca minore, capeg-

giata da Francesco von Sickingen e finita miseramente 1523)

e la rivolta dei contadini

(1525)

(1522-

di cui già s'è detto, ap-

parve chiaro che la Riforma non era né un progetto di riscossa politica né un programma di rivoluzione sociale: la sua natura era intimamente religiosa. Fatalmente cominciarono a delinearsi due fronti confessionali (due«partiti» religiosi, come per un tempo si chiamarono). Gli stati cattolici dell'impero a Ratisbona nel 1524 si costituirono in una Lega per arginare la Riforma. I territori evangelici ne crearono una parallela a Torgau due anni più tardi. L'imperatore avversò sempre il protestantesimo, anche quando per calcolo politico non lo manifestò apertamente o cercò l'appoggio (anche finanziario) dei principi protestanti. Sta di fatto che fin dalla Dieta di Spira del 1526 i principi si accordarono sul principio cujus regio ejus religio secondo cui in un determinato territorio i sudditi devono seguire la religione o confessione del principe. Nacque così all'interno dell'impero una prima forma legalmente riconosciuta di pluralismo religioso intracristiano. Ogni prin-

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La Riforma protestante (1517-1580)

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cipe rivendicò per sé il diritto di riformare (o no) la chiesa nel suo territorio (jus reformandi religionem). La Dieta di Spira del 1529 però rimise in questione proprio queste acquisizioni, negando ai principi protestanti il diritto di riforma, cioè in concreto il diritto di introdurre nei loro territori innovazioni religiose di qualsiasi genere e la facoltà di vietare la celebrazione della messa cattolica. Contro la negazione di questi diritti i principi protestanti redassero un documento comune che inizia con la parola protestamur, da cui deriva il termine «protestanti». Protestari però non significa «protestare» ma «attestare», «dichiarare solennemente». I principi protestanti dichiarano solennemente di considerare inviolabili i diritti della coscienza e quelli della parola di Dio, di cui essi intendono garantire la libera predicazio-

ne. Inviolabilità della coscienza e libertà della predicazione evan-

gelica: ecco i due punti-chiave del protestantesimo nascente.

L'unità religiosa dell'impero era messa seriamente in pericolo. Ma la Dieta di Augusta (1530), convocata per scongiurare la

divisione, non riuscì nel suo intento, non solo perché i protestanti stessi presentarono ben tre diverse confessioni di fede, ma

soprattutto perché né l’imperatore né i teologi papali erano disposti a fare alcuna concessione. Gli evangelici chiedevano che venisse riconosciuta la legittimità cristiana delle riforme attuate

nei loro territori e affermato il loro diritto a mantenerle nel qua-

dro dell’unità dell'impero. Era in pratica la richiesta di un impero cristiano confessionalmente differenziato e quindi religiosamente pluralista. La richiesta venne respinta e la Confessione Augustana, redatta da Mclantone come piattaforma per l’auspicato riconoscimento del protestantesimo accanto al cattolicesimo nell’unico impero, fu respinta e divenne, a sorpresa in un certo senso, il testo confessionale fondamentale della cristianità luterana. Nel decennio successivo, diversi dialoghi teologici interconfessionali, sollecitati dall'imperatore, ebbero luogo - importanti quelli di Ratisbona del 1541 — ma senza esito: le posizioni dottrinali

erano

difficilmente

armonizzabili,

ma

soprattutto

fronti ecclesiali si erano ormai irrigiditi, optando per una linea di intransigenza. Il protestantesimo nascente non ebbe però vita facile. Si consolidò sul piano dottrinale (Articoli di Smalcalda, 1537), pur essendo agitato al suo interno da alcune dispute teologiche (sulla

libertà umana, sulle buone opere, sulla giustificazione per fede). Ma si indebolì notevolmente sul piano politico (sconfitta della

i

Lega di Smalcalda, protestante, nel 1547). Carlo V cercò allora

240

Cristianesimo

di liquidare la Riforma con l'/nterim di Augusta (1548), senza riu-

scirvi. Lo sostituì nello stesso anno con l’In/erim di Lipsia, redat-

to da Melantone, ma il protestantesimo più consapevole lo respinse giudicandolo troppo arrendevole nei confronti di Roma (e lo era). Carlo V si rese conto che il protestantesimo non po-

teva più essere cancellato né ricondotto all’obbedienza romana. Il concilio generale, tanto atteso e finalmente convocato nel dicembre del 1545 a Trento da papa Paolo III dopo molte tergi-

versazioni e ripetuti rinvii, giungeva troppo tardi: i protestanti

non vi presero parte. L'Occidente cristiano era ormai diviso in

due confessioni. La pace di Augusta (1555) ne prese atto. Pur escludendo dal trattato zwingliani, calvinisti, anabattisti e altre co-

munità dissidenti, la Dieta imperiale con decisione unanime (ma avversata dal papa) consacrò il principio di un legittimo pluralismo confessionale all'interno della cristianità europea. Nasceva così l'Europa religiosa moderna. 3. ZWINGLI E I RIFORMATI. CALVINO

L'«altra Riforma» accanto a quella luterana e ad essa contempo-

ranea, è quella che Lutero chiamava abitualmente «svizzera». È in Svizzera infatti che essa si è manifestata, modellata ed affermata, diventando però ben presto anch'essa un fenomeno di pro-

porzioni europee: la si ritrova in Scozia e in Ungheria, nei Paesi Bassi e — come diaspora — in Italia. Il suo primo epicentro fu Zurigo, con Zwingli, da dove si irradiò in altre regioni della Svizzera tedesca: a Basilea, con Giovanni Ecolampadio

e, dopo di lui,

Osvaldo Miconio che redasse la prima confessione di fede svizzera, la Confessio Helvetica Prior (1536); a Berna, con Bertoldo Hal-

ler coadiuvato, in un momento cruciale, da Wolfango Capitone

(riformatore di Strasburgo insieme a Bucero ed Hedione), che compose il testo-base degli Atti del Sinodo di Berna (1532), im-

portante documento della fede e della vita della nascente comunità riformata; a Sciaffusa, con Sebastiano Hofmeister (il qua-

le però in seguito dovette fuggire per la reazione cattolica); a San

Gallo, con Gioacchino Vadiano.

Anche

nella Svizzera francese la Riforma si diffuse rapida-

mente, favorita dall’appoggio di Berna che esercitava su quei ter-

ritori una sorta di protettorato politico. Due riformatori svolsero

un ruolo determinante: Farel e Viret. Guglielmo Farel (14891565), francese,

temperamento

focoso, predicatore

indomito e

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

instancabile evangelizzatore, percorse in lungo e in largo la zera francese impiantandovi, dove fu possibile, la Riforma, egli, tra l’altro, introdusse a Ginevra e Neuchàtel; fu lui a vincere Calvino a fermarsi a Ginevra, dov'era di passaggio, e

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Svizche cona de-

dicarsi interamente all'opera della Riforma; e fu lui a convincere i Valdesi ad aderire alla Riforma (Sinodo di Chanforan, 1532).

Pur essendo uomo d’azione più che di pensiero, pubblicò già nel 1525 il primo compendio delle dottrine riformate in lingua fran-

cese, intitolato Sommaîre et brève déclaration. Pietro Viret (15111571), svizzero, collaboratore di Farel, fu soprattutto il riforma-

tore del cantone di Vaud, dopo la vittoriosa Disputa di Losanna (1536), imposta da Berna con «l’abituale cesaro-papismo municipale» (E.G. Léonard). Dopo il 1559 operò nel sud della Francia, contribuendo a diffondervi il pensiero di Calvino. Il secondo epicentro della Riforma svizzera fu, appunto, la Ginevra di Giovanni Calvino, che grazie a lui divenne, dopo la mor-

te di Lutero e la conseguente eclisse di Wittenberg, la città-simbolo di tutta la Riforma. Calvino è un riformatore della seconda generazione. Se l'opera di Lutero era stata di ridare sostanza evangelica, biblica, alla vita e alla fede della chiesa, quella di Cal-

vino è stata di dare forma, figura e struttura a una chiesa ri-so-

stanziata dalla parola di Dio. Si può dire che Lutero ha ri-sostanziato la chiesa e Calvino l’ha ri-formata. In quest'opera Calvino non è stato discepolo di Zwingli (di cui anzi aveva un’opinione piuttosto critica), lo è stato invece di Bucero. Ma è un fatto che

il tipo di cristianesimo «riformato» al quale Calvino ha dato vita, impronta e carattere, ha avuto in Zwingli il suo padre fondatore. 1. Zurigo Che cosa distingue la riforma di Zwingli da quella di Lutero? Vi

sono differenze notevoli di temperamento, di esperienze, di formazione culturale, di contesti storici immediati e di quadro po-

litico-sociale. Zwingli è un«confederato», cioè esponente di una

cultura politica democratica e repubblicana, assai lontana dal modello di società feudale e patriarcale in cui Lutero visse ed operò. Zwingli è figlio di una di quelle repubbliche montanare

costituitesi in federazione fin dal 1291, sostanzialmente autono-

me dal potere imperiale, allenate da tempo all'autodeterminazione, gelose custodi delle proprie libertà (sovente minacciate), consapevoli delle proprie prerogative e responsabilità, anche in

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Cristianesimo

campo religioso. A partire dal XIV secolo infatti i consigli municipali di villaggi e città svolgevano nei confronti della comunità cristiana una funzione quasi episcopale di cura e vigilanza, talvolta persino di governo, nei casi non infrequenti di latitanza di coloro che ufficialmente ricoprivano la carica di vescovi. Questo

spiega il ruolo determinante avuto dalle autorità civili nella introduzione

(o nel rifiuto)

della Riforma

nei vari cantoni

della

confederazione elvetica. Oltre che confederato, Zwingli è un umanista («sedotto» da

Erasmo,

diceva Lutero), affascinato tanto dall’antichità classica

quanto dalla philosophia Christi con il suo assioma fondamentale:

Cristo è ciò che ha insegnato, la sua vita è la sua dottrina, la sua

«filosofia» è la sua vita. Erasmo aiutò Zwingli a liberarsi dalla teologia scolastica ritrovando Agostino e, soprattutto, a scoprire e gustare il testo originale del Nuovo Testamento, ad amarlo in sé e per sé, indipendentemente dalle spiegazioni dei Padri. Per qualche anno (fino al 1520 circa) Zwingli fu fautore convinto del riformismo erasmiano. Poi ne vide i limiti e superò Erasmo, sen-

za però mai rinnegarlo. Sul piano del metodo rimase un umanista fino alla fine. «Fu il riformatore in abito da umanista come Lutero lo fu in abito da monaco»

(Locher, 1969, p. 268, nota).

Anche la «scoperta dell’Evangelo» e la conseguente «svolta riformatrice» di Zwingli sono diverse da quelle di Lutero. Entrambi le ricavano da una meditazione prolungata della Scrittura e, in particolare, del messaggio dell'apostolo Paolo. Ma men-

tre l'esperienza di Lutero ruota intorno all’asse peccato e perdono (gratuito e incondizionato), perdizione e salvezza (per gra-

zia mediante la fede), condanna e liberazione (dalla cattiva coscienza e dalla nevrosi della salvezza), è meno facile individuare

con precisione e circoscrivere con chiarezza la natura (e quindi anche il momento) della «svolta riformatrice» di Zwingli. Non si

sa, ad esempio, quanto abbia pesato, nel suo itinerario persona-

lc, l'esperienza traumatica della liberazione dalla morte per peste, cui andò molto vicino nel 1519. Sicuramente però il suo rapporto con Dio fu meno tumultuoso di quello di Lutero: Zwingli non conosce il Deus absconditus, per lui Dio è luce, pura trasparenza, Spirito. Probabilmente non ci fu in Zwingli un punto di rottura, un passaggio brusco da una visione all'altra, s'è trattato di un lento processo più che di una illuminazione repentina. La «scoperta dell’Evangelo» fu pacata e progressiva, ma ugualmente radicale e profonda. Si può pensare che lo Zwingli riformista erasmiano abbia ceduto il posto allo Zwingli riformatore prote-

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La Riforma protestante (1517-1580)

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stante man mano che cresceva nella sua consapevolezza di teologo l’autorità della parola della Scrittura, che si impone non solo per riformare la vita dei cristiani ma anche per rifondare la fe-

de della chiesa, il suo culto, la sua pietà, la sua stessa forma este-

riore, secondo la «regola di Cristo». Non solo, ma l’esperienza

della parola biblica che diventa l’unica parola che conta perché è l’unica che salva, è accompagnata e suffragata da quella non meno decisiva dell’azione interiore dello Spirito che, nell'animo di ciascuno, dà vita alla lettera la quale, a sua volta, dà voce allo

Spirito. Zwingli ha molto riflettuto sulla parola di Gesù riferita dal quarto Evangelo: «E scritto nei profeti: Saranno tutti ammaestrati da Dio»

(Giov. 6,45; cfr. /Is. 54,13), facendone

quasi il

compendio del suo programma teologico. Queste ultime considerazioni, che entrano già nel merito di un aspetto del pensiero di Zwingli (la dottrina dello Spirito), consentono di farsi un’idea dell’originalità e diversità del riformatore di Zurigo. Eccone alcune illustrazioni. 1) In una delle sue ultime opere, La provvidenza di Dio del

1530, Zwingli scrive fra l’altro:

Nulla vieta che Dio si scelga anche tra i pagani persone che lo ono-

rano, lo tengono ben presente in vita e dopo la morte vengono uniti a lui. Difatti la sua elezione è libera. Se potessi scegliere, sceglierei piuttosto la sorte di un Socrate o di un Seneca, che riconobbero un’unica

Divinità e si sforzarono di piacergli in purezza di cuore, anziché sce gliere la sorte del papa romano, che ha proposto se stesso come Dio tà dove esisteva una domanda

e attesa di Dio.

[...] Quelli — è vero —- non

hanno conosciuto la religione legata alla Parola e ai sacramenti; ciò nondimeno, se si guarda alla sostanza delle cose, erano più pii e più santi di tutti i domenicastri (sic/) e francescani (Werke, ed. 1841, IV, p. 123).

gli chi ma po de

Il testo si commenta da sé, la sua novità è trasparente. Zwinsmentisce l’assioma cattolico vecchio di secoli e ripetuto a occhiusi: extra ecclesiam nulla salus. Qui, certo, parla l’umanista, anche il teologo della libertà di Dio, la cui azione a tutto camtravalica i confini della chiesa, che tradizionalmente pretendi mediarlo e rappresentarlo.

2) Più che Lutero e più che ogni altro riformatore del XVI secolo, Zwingli ha permeato tutto il suo discorso teologico di Spirito Santo, facendone il principio costitutivo che tutto pervade e

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Cristianesimo

attraversa. È questa probabilmente la ragione della sua diversità. Se Lutero

riferisce l'est della realtà di Dio al pane

eucaristico,

Zwingli lo riferisce unicamente allo Spirito. Se per Lutero e Calvino la Parola è lo strumento mediante il quale lo Spirito viene dispensato ai fedeli (è tenuto, potremmo dire, al guinzaglio dalla Parola), per Zwingli lo Spirito è donato direttamente, senza la mediazione della Parola. E lo Spirito che suscita la fede, la Parola non la crea, la nutre soltanto e, soprattutto, le dà le parole per dire se stessa, le fornisce il linguaggio per esprimersi. Differenze profonde, come si vede: non stupisce che Zwingli e Lutero non si siano accordati.

sulla Cena.

Il dissenso, a ben guardare, non verteva solo

3) Zwingli è stato il più politico fra i Riformatori. Non perché sia stato per un tempo cappellano delle milizie svizzere, e soldato egli stesso, e sia morto sul campo di battaglia. Neppure per-

ché abbia poi combattuto (in nome, certo, del pacifismo erasmiano ma più ancora di una nuova coscienza nazionale) il fenomeno dell’arruolamento mercenario degli Svizzeri, allora dilagante (Zurigo fu il primo cantone ad abolirlo, nel 1522). E nep-

pure perché egli stesso, in alcune circostanze, prese delle iniziative politiche non sempre coronate da successo, come quella che

gli costò la vita. Non per queste (o altre) ragioni Zwingli è stato

il più politico fra i Riformatori, ma perché per lui la politica è parte integrante del discorso di fede e della missione stessa del crisuanesimo. Lo attestano scritti come Giustizia divina e giustizia umana

(1523)

e Chi provoca la rivolta (1524), come

pure le due

Esortazioni ai Confederati (1522 e 1524), il Piano per una campagna

militare (1524) e altri ancora. Ed ecco la novità della visione po-

litica di Zwingli: mentre per Lutero il regno di Cristo è solo in-

teriore, per Zwingli è anche esterno. Lutero dice: la politica è il

regno della legge, non dell'Evangelo. Zwingli osserva: anche la legge è l'Evangelo perché salva la vita umana dall’autodistruzione. Come

il predicatore,

così anche

il magistrato,

cioè l’uomo

politico, è «luogotenente di Dio» per fare la sua volontà che è, insieme, legge ed Evangelo. Il discorso politico di Zwingli sfocia in una visione teocratica? Tutta la Riforma fu teocratica. Ma non

fu ierocratica. La sua è una teocrazia attraverso la Parola, e non attraverso l'istituzione ecclesiastica e i suoi rappresentanti.

Malgrado la sua morte prematura, Zwingli riuscì, in un decennio circa, a dare alla sua riforma una fisionomia precisa, ben distinta da quella luterana e decisamente opposta a quella ana-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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battista. Con Zwingli, in sostanza, la riforma della chiesa diventa

riforma della città. Il suo criterio informatore e principio normativo è la Sacra Scrittura (fondamentale, al riguardo, la predica Sulla chiarezza e certezza della parola di Dio, del 1522): tutto ciò che non è conforme alla Sacra Scrittura va eliminato. Lo studio comunitario della Bibbia è considerato l’anima del corpo ecclesiale e sociale: perciò ogni giorno feriale (tranne quello di mer-

cato) ha luogo, a partire dal 1525, la Prophezey, cioè la lettura (nel-

le lingue originali!) di un testo biblico, che poi viene tradotto in volgare, spiegato, commentato e riferito alla vita di ogni giorno. Questa «profezia», originale creazione della riforma zurighese, ha sostituito la celebrazione della messa quotidiana e ha pro-

dotto, tra l’altro, la prima versione completa della Bibbia in lin-

gua tedesca, la «Bibbia di Zurigo», opera di Zwingli e dei suoi collaboratori, pubblicata nel 1530. Dalla centralità della parola biblica consegue che la predicazione è il compito essenziale della chiesa: Zwingli le dedica due scritti importanti (I! pastore del 1524 e Il ministero della predicazione del 1525). Il culto riformato ruota intorno all'annuncio evangelico, accompagnato dal canto (senza musica, allora) e dalla preghiera. Esso continua nella vita quotidiana, vero luogo della glorificazione di Dio. La Cena viene celebrata quattro volte all’anno. Piatti e calici sono di legno: «affinché non ritorni lo sfarzo», spiega Zwingli. 2. Giovanni

Calvino

Il nome di Giovanni Calvino (/ehan Cauvin, 1509-1564) è indissolubilmente legato a quello di Ginevra, la città che nel 1536 Farel gli impose, in qualche modo, come seconda patria e che finì per adottarlo come padre più che come figlio. Francese di Noyon (Piccardia, nel Nord della Francia), fece studi umanistici e pub-

blicò a soli 23 anni un commentario al De clementia di Seneca. Nello stesso anno

conseguì

la licenza in diritto, mentre

non si

laureò mai — singolare paradosso — in teologia. Non sì sa come e quando aderì alla Riforma. Si può supporre che vi contribuirono durante gli studi ad Orléans il cugino Luigi Olivier, detto Pietro Roberto

Olivetano

(1509 ca.-1536), già di idee riformate, e

poco dopo a Bourges il giurista luterano Melchiorre Wolmar, nella cui casa Calvino può aver trovato e letto scritti di Lutero. Comunque, nel 1534 Calvino è già un riformato convinto, non più

solo un simpatizzante, perché in quell’anno rinuncia ai benefici

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Cristianesimo

ecclesiastici procuratigli dal padre, rompendo così col sistema ro-

mano. Nella prefazione al suo Commento ai Salmi del 1557, Calvi-

no parla — circa venticinque anni dopo l’accaduto — di una «conversione improvvisa» (subita conversio) con la quale «Dio domò e rese docile il mio cuore». E aggiunge: Avendo dunque cominciato a gustare e conoscere la vera pietà, mi infiammai subito di un così grande desiderio di progredire che, per quanto non abbandonassi del tutto gli altri studi, pure ad essi mi dedicai più fiaccamente. E quale non fu la mia meraviglia quando, prima che pas sasse un anno, tutti coloro che desideravano la pura dottrina venivano da

me per imparare, benché io stesso fossi poco più che un principiante

(Commentaires de Jehan Calvin sur le Livre des Pseaumes, I, Paris 1859, p. vii).

Come principiante era già un maestro. Domato da Dio prima che soggiogato da Farel a Ginevra e, poco più tardi, in maniera

analoga da Bucero a Strasburgo, Calvino divenne riformatore suo malgrado, contro la sua indole e il suo desiderio. Considerò il suo

ufficio «un dovere» religioso, da vivere «con riverenza e coscienza», come una vocazione. E anche se non si sa con esattezza in che

cosa sia consistita la sua «improvvisa conversione», è indubbio che ha segnato la sua vita per sempre, cambiandone il corso. E anche

certo che Calvino si senti chiamato, dopo la conversione, a met-

tersi al servizio della Riforma. Ma è probabile che avrebbe preferito assecondarla fiancheggiandola con i suoi scritti piuttosto che

scendere egli stesso nella mischia fino a diventarne, accanto a Lu-

tero, dopo la scomparsa di Zwingli, l'attore principale. Dopo la sua adesione alla Riforma, le grandi tappe della storia di Calvino sono queste. A Basilea nel marzo del 1536 esce la prima edizione in latino della /stituzione della religione cristiana, agile manuale (sei capitoli soltanto) e sostanzioso compendio della fede evangelica. Spiegando - secondo il più classico dei modelli catechistici — i Dieci Comandamenti,

il Credo, il Padre Nostro, il

Battesimo, la Cena, la libertà, la vita cristiana e il rapporto tra chiesa e stato, Calvino fornisce con esemplare chiarezza un quadro organico della visione riformata del cristianesimo. Il succes so fu immediato. Ma non meno importante del testo è la lettera dedicatoria che lo precede: Calvino si appella a Francesco I in difesa degli evangelici che egli perseguita in Francia, iniquamente (mentre blandisce i principi protestanti tedeschi in funzione della sua politica anti-imperiale). Questa lettera rivela il risvolto militante della pubblicazione dell’ /stifuzione.

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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Subito dopo, nella primavera del 1536, Calvino si reca a Fer-

rara, alla corte di Renata di Francia che professava apertamente

la fede evangelica; ma insieme ad altri Francesi esuli per motivi

di fede dovette abbandonare la città prima del tempo, per le mi-

nacce dell’Inquisizione e le pressioni dell’imperatore, a ciò sollecitato dal pontefice romano. Nell'agosto del 1536 comincia l'avventura ginevrina, che du-

rerà tutto il resto della sua vita, con la sola parentesi dell'esilio a

Strasburgo (1538-1541) dovuto a un conflitto con il Consiglio cittadino su una questione di disciplina ecclesiastica: la Cena dev’essere distribuita a tutti, come sosteneva il Consiglio, o la chiesa ha il diritto di escluderne le persone indegne, come sostenevano Calvino e Farel (che, messi in minoranza, dovettero abbandona-

re la città)? Il soggiorno a Strasburgo, dove Calvino curò la comunità di profughi dalla Francia, fu per lui molto proficuo non solo perché vi sposò Idelette de Bure, ex anabattista, vedova con due figli, ma anche perché e Capitone, Calvino imparò dinamento, sulla disciplina, nisteri. Per molti aspetti, la

in quella città, alla scuola di Bucero molto sulla chiesa visibile, sul suo orsull’articolazione e funzione dei miriforma della chiesa di Ginevra, in-

vino innova

Il tradizionale, antichissimo,

trapresa a partire dal 1541, non sarà altro che l’attuazione di quanto Calvino aveva visto e imparato a Strasburgo. Quali sono gli aspetti salienti della riforma calviniana? Il primo, anche per importanza, è il nuovo ordinamento introdotto con le Ordonnances ecclésiastiques del 1541. Rispetto al passato Calradicalmente.

ordina-

mento épiscopale viene abbandonato e sostituito con una struttura ministeriale collegiale formata da «pastori», col compito di predicare e amministrare i sacramenti; «dottori», col compito di insegnare nelle scuole e, più tardi, di formare i pastori; «anziani», col compito di vigilare sulla vita della comunità ed esercitarvi

la disciplina; «diaconi» con due diversi compiti: amministrativi per gli uni, di cura dei poveri e bisognosi per gli altri. Le Ordon-

nances danno un nuovo volto alla chiesa, la ri-formano anche vi-

sibilmente. Nasce un nuovo modello di comunità cristiana, che ben presto sarà adottato, con poche varianti, da tutte le chiese riformate d’Europa. Un secondo aspetto saliente della riforma ginevrina è il rigore di vita morale imposto alla città, che in genere lo subì malvolentieri. Il criterio ispiratore era che l’Evangelo ritrovato non riforma soltanto la dottrina e la fede ma anche la vita. Ma su questo terreno si creò a Ginevra un vero c proprio partito d'opposizione, quel-

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Cristianesimo

lo dei cosiddetti «libertini», che dette molto filo da torcere a Cal-

vino, si può dire sino alla fine. Ed è proprio contro questo partito che riteneva di incarnare il vero spirito libertario della città (gli adepti si chiamavano «patrioti»), che Calvino condusse una strenua battaglia per garantire ai pastori, e quindi alla predicazione e alla chiesa in genere, la piena autonomia spirituale dal potere civile. È un fatto che tra la libertà dei «libertini» (questo termine va inteso in senso culturale più e prima che morale) e la libertà evangelica di Calvino il conflitto era insanabile. In terzo luogo la riforma ginevrina si distinse, grazie al magi-

stero di Calvino, per alcuni interventi decisivi a difesa della fede evangelica e del suo progetto di rinnovamento

cristiano (me-

morabile, al riguardo, la Lettera al cardinale Sadoleto del 1539, ma

anche la tempestiva risposta di Calvino all’In/erim di Augusta con il trattato sul Vero modo di riformare la chiesa del 1549). Ginevra si distinse però anche per una serie di iniziative al servizio dell’unità interna del protestantesimo, non solo tra riformati (come attesta ad esempio il Consensus Tigurinus del 1549 tra la chiesa di Ginevra e quella di Zurigo sulla dottrina eucaristica, preceduto e preparato dal Piccolo trattato sulla S. Cena del 1541), ma anche con luterani e anglicani. Dietro gli sforzi (in larga misura vani) di Calvino per creare già nel XVI secolo un’ecumene evangelica europea non è difficile riconoscere l'influenza di Bucero, il più ecumenico di tutti i riformatori. Una delle realizzazioni principali della riforma ginevrina fu la creazione dell’Accademia nel 1559. Il progetto prevedeva tre facoltà: Teologia, Giurisprudenza e Medicina. Si iniziò con la Teologia. Le altre due facoltà furono istituite poco dopo la morte di Calvino. L'Accademia, frutto della Riforma, ne divenne strumento insostituibile per la formazione dei quadri del protestantesimo riformato europeo. Il primo rettore fu Teodoro di Beza (1519-1605), studioso di levatura europea, collaboratore e poi successore di Calvino alla guida della chiesa di Ginevra. All’Accademia ebbe un incarico di insegnamento anche Calvino: vi proseguì l’opera di commento ai vari libri della Bibbia con la quale,

nel 1536, aveva iniziato il suo servizio a Ginevra e che aveva ininterrottamente continuato attraverso gli anni, come attestano i

suoi numerosi e voluminosi Commentari biblici. Altro aspetto caratteristico della riforma ginevrina è una serie

di processi, soprattutto a carattere dottrinale. Uno fu intentato a

Sebastiano Castellione, personaggio di notevole statura morale e intellettuale, che sosteneva nei confronti

della Bibbia posizioni

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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di tipo liberale (si direbbe oggi), che Calvino considerava pregiudizievoli per l'integrità spirituale della comunità cristiana. Castellione dovette lasciare Ginevra. La dovette lasciare anche Girolamo Bolsec, uomo peraltro di dubbia qualità morale, che attaccò frontalmente la dottrina calviniana della predestinazione. Nel 1545, in occasione di una peste che infierì sulla città, si ebbero

anche a Ginevra (come, in circostanze analoghe, negli altri paesi europei) processi contro diverse «streghe», di cui molte furono condannate a morte. In questo ambito, la Ginevra di Calvino

non si distinse per alcuna riforma (non si può considerare tale la raccomandazione di Calvino — che non si sa se fu seguita — di evitare di infliggere supplizi particolari a quanti subivano la pena capitale). Il processo più celebre, quello che fino a oggi offusca il no-

me e la memoria di Calvino, è quello contro Michele Serveto (1511-1553), spagnolo, intellettuale di rango, medico, giurista, fi-

losofo, matematico e teologo, già arrestato e condannato dall’Inquisizione non solo per le sue idee eterodosse sulla Trinità, ma anche per una serie di posizioni dottrinali divergenti da quelle comunemente considerate cristiane. Giunto a Ginevra per moti-

vi non

ancora

chiariti, vi fu arrestato,

processato,

riconosciuto

eretico recidivo e impenitente, e secondo la legge del tempo in vigore anche a Ginevra — condannato a morte. Il rogo arse il 27 ottobre 1553. Tre secoli e mezzo più tardi, il 27 ottobre 1903,

i «figli di Calvino», cioè la città e la chiesa di Ginevra, hanno eret-

to sul luogo dell'esecuzione un monumento espiatorio con il quale, in nome della «libertà di coscienza secondo i veri princìpi della Riforma e dell’Evangelo», viene condannato

«l'errore»

di Calvino «che fu l’errore del suo secolo». Non di tutto il secolo però: già Sebastiano Castellione, dopo il rogo di Serveto, nella primavera del 1554, pubblicò a Basilea, con uno pseudonimo, un trattato Sugli eretici, se siano da perseguire penalmente e come ci si debba comportare con essi, secondo il parere, l'opinione e le dichiarazioni di molti autori antichi e moderni... Si tratta di un'originale raccolta di citazioni di Padri della chiesa, ma anche di Lutero, Érasmo, Brenz, Hedione, Bucero, Agricola, Sebastiano Franck, Cal-

vino stesso e altri ancora — tutti contrari alla condanna a morte degli eretici. C'era dunque già nel XVI secolo, ma anche prima, chi sapeva e diceva che il rogo dell’eretico è inammissibile in un quadro cristiano. Non c’è dubbio che il rogo di Serveto (come

quello delle «streghe») rivela una contraddizione irrisolta all'interno della riforma ginevrina.

250

Cristianesimo

Concludendo, due sembrano essere i frutti maggiori, e migliori, dell'opera di Calvino. Il primo è senza dubbio la sua /stituzione della religione cristiana, che dallo smilzo volumetto del 1536 è via via venuta crescendo con gli anni e l’azione riformatrice del suo autore, fino a diventare, con l’ultima edizione del 1559 in la-

tino (1561 in francese), la principale esposizione sistematica della fede riformata. Il secondo frutto è il nuovo modello di chiesa che Calvino ha progettato, edificato e animato vocazionalmente,

nel quadro di una cristianità che nel XVI secolo ha risposto in modo differenziato all’appello e all'esigenza di riforma. Dresser l'Eglise resta probabilmente la formula che meglio sintetizza l’intero programma riformatore di Calvino. Questo programma però non ha avuto Ginevra soltanto come epicentro, ma s'è irradiato per tutta l'Europa. Calvino è stato il più europeo di tutti i riformatori, il suo raggio d’azione (come

attesta il suo vasto epistolario) si estende, si può dire, a tutti i pae-

si europei. Egli è stato il pastore della vasta e perseguitata diaspora riformata europea, e ha fatto di Ginevra (come Bullinger di Zurigo) una città-rifugio per gli esuli evangelici di tutta Europa. È anche per questo che Ginevra è diventata una seconda patria non solo per Calvino e tanti perseguitati per la loro fede, ma anche, idealmente, per tutti i riformati d'Europa.

4. GLI ANABATTISTI

Come molti altri nomi con cui si individuano tradizionalmente movimenti e personaggi della storia cristiana, così anche il termine «anabattista» è stato forgiato dagli avversari e descrive non già la natura del fenomeno ma l’accusa che l’establishment cristiano del tempo, cattolico o protestante che fosse, gli rivolgeva. L'accusa era di ripetere il battesimo, ribattezzando da adulti coloro che erano già stati battezzati da bambini. Così facendo gli anabattisti implicitamente negavano che il battesimo ricevuto da bambini potesse essere considerato un battesimo. «Anabattista» vuol dire letteralmente «ri-battezzatore». Ma coloro che i Riformatori ed altri insieme a loro chiamano con sarcasmo «anabattisti», non si considerano affatto tali, respingono questo appellativo come una calunnia e si chiamano tra loro semplicemente «fratelli», come i primi cristiani. L’anabattismo è una forma di cristianesimo biblico radicale e popolare, sorto in seno alla riforma zurighese intorno al 1522, en-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

251

trato presto in conflitto con Zwingli e le autorità cittadine su alcune questioni-chiave come la legittimità cristiana del pedobattismo, della partecipazione dei credenti alla politica rivestendo cariche

pubbliche e del sistema delle decime, giudicato dagli anabattisti

incompatibile con l’Evangelo. È proprio sulla questione delle decime che l'ala rurale dell’anabattismo nascente ruppe con Zwingli e l'establishment politico-ecclesiastico zurighese. Nei primi gruppi anabattisti soffiava anche un forte vento anticlericale: i pastori erano invisi perché costituivano il maggiore puntello istituzionale della «chiesa di stato» rifiutata dagli anabattisti. A Zurigo il movimento fu condannato come eretico a partire dal marzo 1526, con le consuete, sinistre conseguenze di carcerazione, messa al bando,

confisca dei beni, liquidazione fisica delle persone. Malgrado le persecuzioni subìte (la sua repressione violenta accomunò indistintamente protestanti e cattolici), l'anabattismo

si diffuse un po’ dappertutto, specialmente nell'Europa centrale. Alcuni nomi meritano di essere ricordati. In Svizzera, patria

del movimento, il primo nome è quello di Corrado Grebel (1498 ca.-1526), colto esponente del patriziato zurighese, già seguace di Zwingli: fu forse lui il primo ad amministrare il battesimo per immersione a un adulto già battezzato, secondo la chiesa ufficiale

(la quale quindi considerava sacrilega l’iniziativa di Grebel); più volte diffidato e imprigionato, morì di peste non ancora trentenne. Con lui è da ricordare Giorgio Cajakob detto Blaurock (1498 ca.-1529), soprannominato dagli amici «secondo Paolo» per il suo zelo missionario; a Zurigo non venne giustiziato perché di origini grigionesi, fu però frustato a sangue e cacciato dalla città: morì poi sul rogo nel 1529, in Tirolo. Un terzo nome è quello di Felix Manz (1500 ca.-1527), anch’egli amico e seguace di Zwingli, poi suo avversario sulla questione del battesimo e

dell’atteggiamento cristiano nei confronti del potere civile; il 5 gennaio 1527 fu annegato nel fiume Limmat, che nasce dal lago e lambisce la vecchia Zurigo. Altro anabattista della prima ora è Guglielmo Rbubli (Reublin: 1484 ca.-dopo il 1559), originario della Germania meridionale, comparve a Zurigo nel 1522: sembra essere stato il primo a predicare apertamente contro il battesimo dei bambini; partecipò con Grebel e Manz a un infruttuoso dibattito con Zwingli e Bullinger alla presenza del Consiglio cittadino sulle questioni controverse. Dopo il 1530, per ragioni non chiarite, abbandonerà l’anabattismo.

Molti anabattisti provengono dalla Germania meridionale. Fra gli altri, Michele Sattler (1490 ca.-1527): cacciato da Zurigo,

252

Cristianesimo

si recò a Strasburgo, dove stabilì rapporti amichevoli con Bucero e Capitone, non sufficienti però a evitargli l’espulsione che segui di lì a poco; legò il suo nome alla redazione degli importanti Articoli di Schleitheim, località vicino a Sciaffusa dove nel 1527

l’anabattismo tenne un'assemblea rappresentativa, adottandoli. Sattler perì sul rogo poco dopo, dando una grande testimonianza di fede e di amore per i suoi stessi aguzzini.

In Tirolo, dopo la morte di Blaurock, la guida del movimento fu assunta da Giacomo Hutter (Hueter: ?-1536), che a motivo della persecuzione cercò rifugio in Moravia, dove fondò delle fra-

ternità agricole nismo cristiano, munità cristiana Atti degli apostoli

organizzate secondo princìpi e regole di comunella linea dell’esperienza fatta dalla prima coa Gerusalemme come la descrive il libro degli (2,4445) (ne esistono ancor oggi di fiorenti in

America del Nord). Incautamente rientrato in Tirolo, Hutter vi

fu arrestato, processato e martirizzato sul rogo nel 1536. In Germania meridionale, Austria e Moravia operò con suc-

cesso Giovanni

Hut

(1490

ca.-1527),

originario della Turingia.

Dopo aver partecipato alla guerra dei contadini e averne visto gli orrori, si convertì al pacifismo cristiano e svolse intensa attività missionaria. Il 20 agosto 1527 partecipò ad Augusta, con altri 60 e più capi anabattisti, al «Sinodo dei martiri», così chiamato per-

ché gran parte di coloro che vi presero parte subì il martirio nel giro di pochi mesi. Hut fu messo in carcere ad Augusta, dove trovò la morte, forse soccombendo alla tortura.

Un'altra personalità anabattista di spicco è Pilgram Marpeck

(o Marbeck:

1495 ca.-1556); tirolese, ingegnere minerario, scris-

se € viaggiò molto, dando vita a un tipo particolare di anabattismo, distinto sia da quello di tipo biblicista (costituitosi intorno

al principio scritturale), sia da quello di tipo spiritualista (con al centro la pratica dell'amore). Elaborò — sicuramente fu uno dei primi a farlo — una vera e propria dottrina della chiesa libera (dallo stato), senza però cedere a suggestioni settarie. Marpeck è uno dei pochissimi leader anabattisti che sia morto di morte naturale. Un altro nome importante è quello di Balthasar Hubmeier (1485-1528), tedesco, già prete cattolico, avvicinatosi poi a Lutero

e infine agli anabattisti di Zurigo, dai quali ricevette il battesimo per immersione. Fu lui, specialmente negli anni cruciali del confronto teologico con Zwingli, il più autorevole portavoce della critica anabattista del pedobattisno. Dopo alterne vicende (compresa una ritrattazione) ritrovò il coraggio delle sue convinzioni, che suggellò col martirio salendo sul rogo a Vienna nel 1528.

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

253

Nella Germania del Nord, nella regione baltica, in quella scandinava e nei Paesi Bassi l’anabattismo fu introdotto da Melchiorre Hofmann (1500 ca.-1543), singolare figura di predicatore laico evangelico in cui forti contenuti messianico-apocalittici (il giudizio di Dio sui malvagi)

si intrecciano con una scelta di

pacifismo radicale. Arrestato nel 1533 a Strasburgo condo

lui, si doveva

manifestare

la nuova

(dove, se-

Gerusalemme),

tra-

scorse in carcere il resto della vita. Le sue idee però — soprattutto quella di una imminente manifestazione della nuova Gerusalemme - ebbero un seguito nella tragica vicenda di Mùnster, in cui Giovanni Matthys, che era stato da lui convertito e battezzato, svolse un ruolo importante e fatale. A Munster, allora capita-

le della Westfalia, la Riforma era stata introdotta nella sua forma

luterana; poi uno dei suoi esponenti, Bernardo Rothmann, si era

avvicinato a posizioni zwingliane prima e anabattiste poi, ricevendo egli stesso il battesimo nel gennaio del 1534. La comunità anabattista crebbe rapidamente e finì per assumere il governo della città. Nel febbraio del 1534 Mùnster divenne l’unica città anabattista d'Europa, l’unica città-rifugio per gli anabattisti ovunque perseguitati. A costoro parve davvero che fosse apparsa in terra la nuova Gerusalemme! A migliaia affluirono verso Minster. Ma la guida della città (assediata fin dalla primavera del 1534) fu assunta dal Matthys prima e poi da Giovanni da Leida che, autoproclamatosi

«re di Sion», volle realizzare il regno di

Dio imponendo la comunanza dei beni e la poligamia. L'esalta-

zione religiosa produsse anche forme degeneri di dispotismo e

fanatismo. La città assediata e ridotta alla fame resistette circa un anno. Cadde nel giugno del 1535, e fu un’ecatombe. Per l’anabattismo, un colpo mortale. Ne risollevò le sorti, almeno parzialmente,

l’olandese

Menno

Simons (1496-1561), già prete cattolico, avvicinatosi alle posizioni anabattiste fin dal 1531. Benché profondamente scosso dalla tragedia di Munster, lasciò nel 1536 la chiesa cattolica, ricevette (pro-

babilmente allora) il battesimo per immersione e iniziò, tra continue minacce,

una vita randagia e a rischio. Ciò nondimeno

as-

sunse, ed esercitò in maniera forzatamente itinerante, la guida del movimento anabattista, che oltre a essere prostrato dall’esperienza di Minster, continuava a essere agitato, soprattutto nei Paesi Bassi, dallo «spirito di Munster», e anche da altrì spiriti che avrebbero potuto dirottarlo verso posizioni lontane dallo stesso cristianesimo. Ancorando saldamente il suo pensiero alla Bibbia e cen-

trandolo su Cristo, Menno restituì al movimento la consapevolez-

254

Cristianesimo

za dei suoi principi originari, specialmente con l’opera // fonda mento della dottrina cristiana, apparsa nel 1539-1540. Il biblicismo

mennonita si oppone al millenarismo mùnsterita, rispetto al quale afferma la nonviolenza e

il pacifismo, ma si distanzia anche dal

quietismo luterano, rispetto al quale insiste su una vita cristiana qualificata dall’osservanza rigorosa dell’evangelico «Sermone sul monte» e da una disciplina comunitaria severa. La comunità cristiana si costituisce per libera decisione delle persone, attestata dal battesimo dei credenti. La chiesa di stato viene rifiutata in tutte le sue varianti, e a nessuna autorità, civile o ecclesiastica, viene rico-

nosciuto potere alcuno Ma che cos'è stato, della genesi storica ha ma zwingliana, ma nel

sulla coscienza dei singoli. in sostanza, l’anabattismo, che sul piano preso vita e slancio nel solco della riforquale né Zwingli né alcun altro riforma-

tore s'è in alcun modo riconosciuto, tutti anzi lo hanno avversa-

to con la stessa determinazione con cui hanno contestato la chiesa di Roma? L’anabattismo è stato chiamato anche «ala sinistra della Riforma» oppure «Riforma radicale» per distinguerla nettamente dalla «Riforma magisteriale», quella luterana e zwingliana appunto, attuata con il concorso determinante del «ma-

gistrato», cioè dell'autorità civile. Al di là del problema della fi-

liazione, Riforma e anabattismo appaiono come due risposte pa-

rallele e concomitanti, ma tra loro alquanto diverse, alla crisi del-

la cristianità medievale. Queste due risposte nascono entrambe

da una fede che, nei due casi, si rifà alla Sacra Scrittura come fonte, norma e autorità ultima. Il riferimento fondamentale della fede è lo stesso, ma i due discorsi risultano, su alcuni punti

qualificanti, diversi e persino opposti. Qualè il punto nevralgico del contrasto? È la posizione antitetica assunta nei confronti del corpus christianum, cioè della simbiosi (pur tra molti conflitti e nel permanere dei diversi soggetti e delle loro rispettive funzioni) tra corpo sociale e corpo ecclesiastico. Gli anabattisti rifiutano il corpus christianum e la chie-

sa che in esso si è «stabilita» e integrata. I Riformatori, invece, lo

accettano, riconoscendovi una disposizione divina cui sarebbe ir-

responsabile rinunciare. Il battesimo dei bambini viene ripudia-

to dagli anabattisti certo in base a tutta una serie di argomenti biblici, ma la vera ragione del rifiuto risiede nel fatto che il pedobattismo era, per eccellenza, il sacramento del corpus christianum. Battezzando i bambini si battezzava anche, per così dire, il corpus

christianum,

legittimando

così la chiesa

«costantiniana».

L'anabattismo dunque sorge come comunità contessante nel qua-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

255

dro di un cristianesimo di massa. Esso predica l’ Absonderung, la «separazione»:

dal

mondo,

certo,

ma

anche

dalla chiesa

«co-

stantiniana», protetta dalla spada del potere politico. L’anabattista non crede che il potere politico possa essere cristiano; anche

se istituito da Dio, esso è «fuori della perfezione di Cristo»; il cri-

stiano perciò ubbidisce, sì al magistrato, ma non accetta di diventarlo, né di ricoprire alcuna carica pubblica. Questo rifiuto parve ai Riformatori un vero e proprio sabotaggio.

L'’anabattismo, in sostanza, fu una forma di cristianesimo biblico e biblicista, una prima manifestazione, potremmo dire, di

chiesa post-costantiniana. Il seme dell’anabattismo, disperso nel XVI secolo ma non andato perduto, ha portato molto frutto nei secoli successivi. 5. ALTRI DISSIDENTI

Accanto e intorno all’anabattismo, già di per sé alquanto variegato, è fiorito un vasto mondo religioso e spirituale, che in passato è stato sovente confuso con l’anabattismo stesso, e che invece è sorto per lo più indipendentemente da esso e non può essere con esso assimilato. Solo in qualche caso si deve riconoscere un’ascendenza o un’appartenenza anabattista. Tra i suoi protagonisti va ricordato prima di tutto David Joris

(1501 ca.-1556). Egli fu per un certo tempo il principale erede

dello «spirito di Munster», non nel senso del ricorso alla violen-

za (ch'egli rifiutava) per accelerare la venuta del regno di Dio, ma nel senso della legittimità, anzi della necessità cristiana di un’attesa messianica suscitata dalla coscienza della fine immi-

nente. In Joris si fondono esperienze estatiche (una, fondamen-

tale per lui, durò una settimana, nel dicembre del 1536), visioni

apocalittiche e la certezza di essere chiamato da Dio a radunare la comunità degli eletti negli ultimi giorni. Menno Simons lo giudicò negativamente, rifiutando ogni rapporto con lui. Uno dei suoi scritti più letti fu // libro dei miracoli, che ebbe più edizioni e subì vari rimaneggiamenti. Il pensiero di Joris subi profonde modifiche dopo le dure persecuzioni subìte nel 1538 e 1539 dai suoi seguaci. Anche sua madre fu giustiziata. Joris allora, nascosto sotto altro nome,

si trasferì a Basilea, da dove continuò clandesti-

namente a seguire la sua vasta comunità internazionale. Formalmente aderì alla chiesa riformata, rinunciando a sostenere il bat-

256

Cristianesimo

tesimo dei credenti adulti. Soprattutto spiritualizzò tutte le sue dottrine, che acquistarono interessanti venature gioachimite. Un altro protagonista degno di menzione è Sebastiano Franck (1500 ca.-1542). Prete cattolico fino al 1524, pastore evangelico dal 1525, dopo quattro anni si dimise dal ministero per ragioni ignote. Si stabilì a Strasburgo, dove pubblicò nel 1531 la sua Chronica, libro del tempo, Bibbia storica. Cacciato dalla città per lo scandalo suscitato dal suo scritto e per esplicita richiesta di Erasmo, soggiornò a Ulm e infine a Basilea dove morì. Un altro suo scritto importante è Paradoxa (1534). Franck è anzitutto importante come storico: la sua Chronica si legge ancora oggi con profitto: è uno dei primissimi esempi di storiografia protestante. La sua visione della storia è marcatamente negativa. Sul piano teologico, Franck non concepisce l’esistenza di Dio indipendentemente da quella dell’uomo, e viceversa. L'uomo incontra e conosce Dio non fuori ma dentro di sé. L'intera rivelazione è interiorizzata. Gesù è più figura e simbolo che autore di redenzione.

Lo Spirito trascende la lettera, anche quella biblica. Le chiese storiche, con i loro dogmi, culti e sacramenti, sono un ostacolo

più che un aiuto alla salvezza e conoscenza di Dio. La religione

dev'essere deconfessionalizzata e deistituzionalizzata. Franck, co-

me altri outsiders dell’epoca, fu uno dei primi apostoli della tolleranza, in un tempo in cui essa non era considerata una virtù.

Importante

anche

la figura di Giovanni

Denck

(1500

ca.

1527). Nato in Baviera, aderì intorno al 1525 alla Riforma radi-

cale. Le sue dottrine eterodosse lo costrinsero a un’esistenza ran-

dagia e fuggiasca, cui pose fine la morte per peste avvenuta a Ba-

silea, pochi mesi dopo aver partecipato al «Sinodo dei martiri», ad Augusta. Denck supera il biblicismo anabattista mettendo in luce le numerose contraddizioni presenti nel testo biblico e in-

sistendo sullo Spirito come vera autorità per il credente. Egli supera anche una visione settaria della salvezza insistendo sull’amore di Dio che, incondizionato com'è, apre le porte a un poten-

ziale universalismo della salvezza. Dio è presente in ogni uomo

attraverso la la esteriore. interiore, la non va vista

sua Parola, parola interiore più importante di quelProprio perché è un atto di ubbidienza alla parola cooperazione umana alla volontà divina di salvezza con sospetto ma con favore.

Va infine ricordato Gaspare von Schwenkfeld (1489-1561). Di

nobile famiglia della Slesia, fu dapprima discepolo di Lutero, poi se ne allontanò per divergenze da lui sulla dottrina di Cristo, della Cena e della chiesa. Per le sue posizioni eterodosse (che lo stes-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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so Lutero criticò aspramente) fu condannato da un consesso di teologi luterani già nel 1540, e fu costretto a nascondersi, fuggendo da un posto all’altro come un malfattore. La sua è una visione spiritualista e individualista del cristianesimo. Le chiese storiche quella romana, quella luterana, quella anabattista — sono dei partiti religiosi, delle sette. La vera chiesa è la diaspora dei rigenerati,

sparsi in ogni confessione. Il battesimo è simbolo della rinascita spirituale, la Cena è segno del cibo spirituale che è la carne trasfigurata di Cristo. Anche Schwenkfeld fu un convinto fautore del pensiero della tolleranza, che propugnò - lui vittima dell'intolleranza — con particolare ardore, insieme alla libertà di coscienza. L'antitrinitarismo, fenomeno caratteristico e vistoso della re-

ligiosità cristiana eterodossa del Cinquecento, appare un po’ dappertutto in Europa, anche se in qualche paese, come la Spagna e l’Italia, acquista rilievo maggiore essendovi professato da per-

sonalità di primo piano che, per questa loro convinzione, dovet-

tero immancabilmente prendere la via dell'esilio. Due sono le radici del fenomeno. La prima è il biblicismo anabattista: sì sa che né il termine «trinità» né le categorie principali

utilizzate per formulare la dottrina trinitaria, come quelle di «so-

stanza» e «persone», compaiono nella Bibbia; è dunque comprensibile che un approccio letteralista al testo sacro induca a

pensare che la dottrina della Trinità non sia biblica, quindi nep-

pure cristiana, quindi occorra abbandonarla e combatterla. La seconda radice (in primo piano negli antitrinitari spagnoli e italiani) è una forma di liberalismo teologico ante lîtteram, impregnato di spirito umanistico pronto ad applicare ai dogmi della chiesa antica la critica di una razionalità emancipata e sovrana,

in nome e in vista di un cristianesimo liberato dalle astruserie filosofico-teologiche impostegli dalla tradizione e restituito alla sua semplicità originaria. Una riprova del nesso esistente tra anabattismo e antitrinitarismo risiede nel fatto che al Sinodo anabattista di Venezia del 1550 parteciparono anche diversi antitrinitari. Gli esponenti maggiori dell’antitrinitarismo sono lo spagnolo

Michele Serveto, che lo professò (peraltro in una versione mo-

derata) e propagò in molti paesi d'Europa e, in ultimo, col martirio subìto a Ginevra, come s'è detto. E invece molto dubbio che si possa ravvisare una forma larvata di antitrinitarismo — come qualcuno ha creduto di poter fare — nella produzione letteraria di Juan de Valdés. Tra gli italiani, molti nomi devono essere fatti: tra gli altri quelli di Matteo Gribaldi, Gian Paolo Alciati, Gior-

gio Biandrata (o Blandrata), Valentino Gentili e persino quello

258

Cristianesimo

di Bernardino Ochino, che nell’ultima fase della sua vita fu accusato, probabilmente non a torto, di simpatie antitrinitarie mal dissimulate nei suoi Trenta Dialoghi. Ma i nomi maggiori sono quelli dei due Sozzini, entrambi senesi: lo zio Lelio (1525-1562)

e soprattutto il nipote Fausto (1539-1604).

La Polonia, insieme alla Transilvania, fu la terra in cui gli antitrinitari, cacciati da tutta Europa, trovarono non solo un rifu-

gio ma anche una patria in cui vivere e organizzarsi, malgrado un decreto di espulsione del 1564 e fino a quando, nel XVII secolo, la Controriforma non li distrusse. Le varie correnti antitrinitarie confluite in Polonia sì accordarono, dando vita all’unita-

rianesimo — una forma di cristianesimo «liberale» con una forte componente razionale e prevalenti interessi etici. Gesù non è Dio ma,

per i doni unici ricevuti, è divino, e come

tale può

essere

adorato, sia pure non nello stesso senso in cui lo è il Padre suo. Gesù non salva l'uomo con la sua morte (ogni idea di espiazio-

ne è abbandonata),

ma lo aiuta a salvarsi con la sua predicazio-

ne e il suo esempio. Fausto Sozzini svolse un ruolo di primo piano nell'organizzare la cosiddetta ecclesia minor unitariana, precisarne la fisionomia spirituale, dotarla di strumenti per coltivare e nutrire la sua fede. Essa trovò la sua espressione compiuta nel Catechismo di Rakov del 1605. Fausto Sozzini è giustamente ricordato anche per il suo pacifismo radicale (di ascendenza anabattista e ispirato dal «Sermone sul monte») e per la decisa opzione per la tolleranza e la libertà di coscienza vissute come parti integranti della fede cristiana. S'è già parlato del misticismo sociale di tipo comunista praticato nella comunità anabattista fondata da Giacomo Hutter. Vale la pena aggiungere una parola su Pietro Walpot (o Walbot: 1521-1578)

che della comunità hutterita in Moravia fu l’«anzia-

no» dal 1565 al 1578 e al quale si deve probabilmente la reda-

zione del Grande Libro degli Articoli (1577), che riprende, illustra

ed elabora i Cinque Articoli con cui nel 1545-1547 venne formu-

lato il programma hutterita. Particolarmente interessante è l’articolo 3° nel quale si stabilisce un nesso assai stretto tra la Gelas-

senheit, cioè l'abbandono mistico in Dio, e la collettivizzazione della terra, dei mezzi di produzione (agricola) e dei frutti del la-

voro, praticando la comunanza dei beni come forma di vita propria della comunità di Gesù che nulla ebbe per sé. La rinuncia alla proprietà privata e la condivisione dei beni e della vita («comunismo dell’amore») sono l’espressione più alta del misticismo cristiano, cioè dell'abbandono in Dio e dell’amore fraterno.

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

Valentino Weigel

(1533-1588),

259

pastore luterano in Sassonia,

pur continuando fino alla fine della sua vita a esercitare fedelmente il ministero pastorale, avvertì la crisi di fede nascosta dietro le grandi dispute in seno all’ortodossia luterana. Ritenendo che fosse dovuta al fatto che dietro le controversie condotte con tanto accanimento non vi fosse in realtà alcuna esperienza personale, cercò di porvi rimedio reintroducendo nel discorso di fede la dimensione dell’esperienza attraverso la mistica. La verità religiosa è viva solo nella fede, la fede è viva solo nell’esperienza, l’esperienza è viva solo nella mistica.

Weigel si rifà alla tradizione della mistica tedesca tardomedievale e di Taulero in particolare, insistendo sul ruolo fondamentale del «Cristo in noi» e sull’idea che la vera conoscenza non va da fuori verso dentro ma da dentro verso fuori. C'è un «libro interiore» scritto da Dio in ogni uomo,

che si affianca al

«libro della natura» e al «libro della Scrittura». Ai tre libri corrispondono tre occhi per leggerli: quello del corpo per leggere la natura, quello della mente per leggere la Scrittura e quello dello Spirito per leggere il libro interiore, cioè Dio in noi. È l’interiorità il crocevia di tutte le conoscenze e, in primo luogo, della conoscenza di Dio. Weigel, i cui scritti furono tutti pubblicati dopo la morte, esercitò una grande influenza su Giacomo Bohme, Goffredo Arnold, Giovanni Arndt e Goffredo Guglielmo Leibniz. Paracelso

(1493-1541)

è il nome

che secondo alcuni Teofra-

sto Bombasto von Hohenheim si attribuì per affermare che la sua

arte medica superava quella del celebre Aulo Cornelio Celso, che nel I secolo d.C. scrisse un trattato enciclopedico di medicina in

otto libri («para-Celso» = «sopra» o «oltre Celso»). Secondo altri

invece Paracelso non è altro che la forma latinizzata del suo nome Hohenheim (= «dimora elevata»). L'enigma del nome riflette quello del personaggio, difficilmente catalogabile. Medico e alchimista, cultore della scienza e amante della magia, studioso della natura e dell’uomo, teologo e filosofo, Paracelso incarna be-

ne il trapasso dal Medioevo all’evo moderno. Porta nel suo animo i segni di entrambi. E con l'immaginazione - fondamentale per lui — li trascende. Paracelso occupa un posto di rilievo nella storia della medicina e della farmacologia, ma anche in quella dell’antropologia filosofica e della teologia. Ha scritto moltissimo e la sua eredità, spe-

cialmente quella teologica, non è ancora stata tutta esplorata. Spirito più intuitivo che speculativo, non ha prodotto un sistema di

260

Cristianesimo

pensiero coerente. L’universo è comunque per lui un tutto armo-

nico a struttura trinitaria: trinitario è il mondo (fisico, astrale, divino), l’uomo (corpo, anima, spirito), trinitaria è la materia (zolfo,

mercurio, sale). Nulla esiste senza un corpo, materiale o spirituale che sia. Nell’eucaristia, il corpo spirituale di Cristo trasfigura il

nostro corpo materiale. E dall’idea biblica del «corpo di Cristo»

Paracelso ricava motivi di severa critica sociale in cui rivivono le esperienze fatte partecipando alla guerra dei contadini. Ufficialmente Paracelso è rimasto dentro la chiesa cattolica, spiritualmente si è collocato fuori da tutte le chiese, insofferen-

te com'era verso qualunque verità fattasi istituzione. Appartiene

anch'egli a quella variegata ecclesia dissidentium, che vagava stra-

niera e pellegrina in un'Europa che non aveva posto per lei.

La divisione della cristianità dopo la Riforma.

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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6. LA RIFORMA IN INGHILTERRA

Quantunque sua maestà il re giustamente e legalmente sia e debba essere il capo supremo della chiesa d'Inghilterra, e come tale egli venga riconosciuto dal clero di questo regno nelle proprie assemblee, tuttavia per convalidare e confermare ciò, per accrescere la religione cristiana

all’interno di questo regno d'Inghilterra, per reprimere ed estirpare tutti gli errori, le eresie ed altre scelleratezze ed abusi in esso finora com-

messi, è stabilito per autorità del presente Parlamento che il nostro su-

premo Signore e re, i suoi eredi e successori, i re di questo regno, vengano ritenuti, accettati e reputati il solo capo supremo sulla terra della chiesa d'Inghilterra, chiamata Anglicana Ecclesia. Così inizia l’«Atto di supremazia»

è al tempo clude una braccio di sosi con la potere di

del 3 novembre

1534, che

stesso l’atto di nascita della chiesa anglicana. Esso convicenda unica nel suo genere sulla scena europea: un ferro tra il re inglese e il pontefice romano, concludichiarazione di indipendenza della chiesa inglese dal giurisdizione di Roma. Tutto si svolse nell’arco di tre

anni, nel corso dei quali Enrico VIII

(1491-1547),

re dal 1509,

riuscì a ottenere o dal parlamento o dalle assemblee del clero una serie di «atti» grazie ai quali gli veniva riconosciuto il potere di giurisdizione sulla chiesa del suo paese, nella linea classica

del cesaropapismo cristiano. Così, nel 1531, ottenne di essere ri-

conosciuto come «protettore speciale, unico e supremo Signore e persino, per quanto la legge di Cristo lo consente, Capo supremo», s'intende in terra. La formula «per quanto la legge di Cristo lo consente» apriva la porta a ogni genere di limitazione del potere del sovrano come «capo supremo». Ma nei fatti la formula rimase inoperante, tanto che venne omessa nell’«Atto di supremazia» del 1534. Nel 1532 Enrico VIII fece un altro passo avanti nella direzione da lui auspicata (sottrarre il governo della chiesa inglese al papa e alla curia romana): un «Atto di sottomissione» stabiliva che qualunque pronunciamento del clero inglese avrebbe avuto forza di

legge solo dopo essere stato approvato da una commissione nominata dalla Corona. Sempre nel 1532 un altro Atto, detto «di limitazione», impedì il trasferimento a Roma delle annate (tasse annuali dovute alla curia romana), subito reclamate dalla Coro-

na. Segue un «Atto di proibizione», che nega al papa il diritto di giudicare su questioni relative al clero inglese, e ai nuovi arcivescovi inglesi il diritto di ricevere e trasmettere al clero le bolle papali. Ancora: nel 1534 le assemblee del clero di Canterbury e

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Cristianesimo

York dichiarano che «il pontefice romano secondo la Sacra Scrittura non ha ricevuto da Dio più che un altro vescovo straniero il potere di giurisdizione sulla chiesa d’Inghilterra». Tutto ciò non

è però ancora una riforma, è semplicemente

l'indipendenza dalla giurisdizione romana. Enrico VIII non cri-

tica la dottrina cattolica, al contrario se ne fa paladino; vuole re-

stare in comunione con Roma, senza però esserne governato. Nella fase iniziale della vicenda non sono in gioco riforme, ma il potere di governo sulla chiesa. L'occasione per rivendicarlo da parte di Enrico VIII fu, come si sa, il suo desiderio (rimasto inappagato) di veder annullate da Roma le sue prime nozze (con Ca-

terina d'Aragona, zia di Carlo V, che non gli aveva dato un erede maschio), per poter sposare Anna Bolena e farla regina (cosa che avvenne nel 1533). L'occasione fu dunque personale e dinastica, e in un senso più ampio politica. La ragione, invece, fu più profonda e vi concorsero motivi religiosi, culturali, sociali ed economici. Un aspetto, in qualche modo sorprendente, non va sottovalutato: dietro l'iniziativa di Enrico VIII c'è Erasmo. Quella inglese è stata chiamata, per la sua iniziale ispirazione, una «riforma erasmiana» (E.G. Léonard). Lo fu, all’inizio, nei modi e nei contenuti. Nessun aspetto della rifor-

ma luterana o zwingliana fu autorizzato, neppure il matrimonio dei preti o la comunione sotto le due specie. L'unica misura attuata fu la soppressione

dei

circa duemila

conventi

inglesi,

per

poterne incamerare i beni a beneficio della Corona. La larga maggioranza del popolo e del clero accettò la dichiarazione d’in-

dipendenza da Roma, ma vi furono anche episodi di resistenza

sia tra il popolo sia tra i responsabili. Nel 1535 il vescovo Fisher e l’ex cancelliere Tommaso

Moro

(l’autore dell’ Utopia)

furono

decapitati, per aver rifiutato di riconoscere la supremazia del re

sulla chiesa inglese, disconoscendo quella del papa.

Decisivo per gli sviluppi della riforma inglese fu, già durante

il regno di Enrico VII e più ancora dopo, l’azione di Thomas Cranmer (1489-1556), che il re volle arcivescovo di Canterbury

nel 1533. Era l'esponente di spicco di un cospicuo gruppo di professori ed ecclesiastici che fin dagli anni Venti avevano letto e apprezzato Lutero: i cosiddetti «luterani inglesi». La locanda a Cambridge in cui erano soliti radunarsi venne soprannominata Little Germany. A loro non bastava il progetto riformatore di Erasmo e degli umanisti inglesi: rinnovamento della cultura teolo-

gica e dei costumi, eliminazione degli abusi e degli scandali, senza però

toccare la dottrina c la struttura della chiesa. Semmai,

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La Riforma protestante (1517-1580)

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Cranmer e i suoi amici ripensavano a Wycliff (1330 ca.-1384), al-

la sua polemica con Roma sull’autorità della Scrittura e soprattutto alla sua decisione di metterla in mano ai laici e di farla conoscere mediante una missione popolare itinerante fatta da ecclesiastici privi di licenza episcopale (i cosiddetti «poveri predicatori», poi soprannominati per scherno «lollardi», cioè «brontoloni») e, in generale, al suo f/aydoyer per la «vera chiesa». Sarà anzi proprio un'iniziativa di tipo wycliffita, se così si può dire, che orienterà in senso protestante il cammino,

incerto e contraddit-

torio, della riforma inglese: nel 1538, tra le «ingiunzioni regali» firmate da Enrico VIII (che sicuramente non immaginava tutte le conseguenze del suo atto), v'era quella che imponeva che in ogni parrocchia vi fosse una Bibbia in lingua inglese, perché fosse letta e spiegata al popolo. Di Bibbie in inglese ne erano già state pubblicate diverse (fondamentale quella tradotta da W. Tyndale): esse confluirono nella Great Bible che, grazie all’ingiunzione regale, fu largamente diffusa nella chiesa. Intanto, nel 1536, una delegazione inglese s'era incontrata in Germania con autorevoli esponenti luterani: nacquero gli Articoli di Wittenberg (in parte redatti da Melantone), che esercitarono un certo influsso sui Dieci Articoli (1536), il primo documen-

to dottrinale della chiesa anglicana. Si tratta di un documento a

metà strada tra la tradizione cattolica (di cui si conservano diversi contenuti e molte forme) e il cristianesimo della Riforma,

di cui si accoglie il principio-base della giustificazione per sola grazia mediante la fede. Nel 1537 seguì un secondo documento

dottrinale, il cosiddetto Bishop Book, anch'esso a metà strada tra

cattolicesimo e Riforma, cui però Enrico VIII non concesse il placet regale. Tanto meno lo concesse ai Tredici Articoli del 1538, ab-

bastanza luteraneggianti, che poi si ritrovano nei 42 Articoli scritti da Cranmer nel 1553 al tempo di Edoardo VI, che a loro vol-

ta serviranno come base dei 39 Articoli della chiesa anglicana (1563-

1571), scritti da Matteo Parker, arcivescovo di Canterbury sotto

Elisabetta I, approvati dal parlamento nel 1571 e da allora il più importante documento dottrinale dell’anglicanesimo fino ai nostrì giorni. Negli ultimi anni della sua vita Enrico VIII tentò a più riprese di ristabilire l’ortodossia cattolica: con i Sei Articoli del 1539 e una revisione del Bishop" Book del 1543. Accadde invece che sotto il regno di Edoardo VI (1547-1553) la riforma inglese subì un forte influsso protestante, sia per la presenza in Inghilterra di molti teologi protestanti profughi dal continente (come Bucero

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Cristianesimo

o Pier Martire Vermigli) sia per il notevole contributo dato da

Calvino. La fede, la pietà e la spiritualità anglicana trovarono la

loro che può scita

più autentica espressione nel Book of Common Prayer del 1549, subì alcune revisioni fino all'edizione definitiva del 1662. Si dire che l’apparizione del Prayer Book è la vera data di nadella chiesa anglicana. Il tentativo della regina Maria Tudor

detta la cattolica (1553-58) e del cardinale Pole di ricattolicizza-

re l’Inghilterra falli. Con Elisabetta I (1558-1603) l’anglicanesimo venne saldamente stabilito come chiesa nazionale (lo è ancora oggi). La regina, meno protestante di Edoardo VI ma non per questo filocattolica, cercò una via media tra cattolicesimo e puritanesimo,

cioé il protestantesimo calvinista che auspicava anche per l'Inghilterra una riforma radicale di tipo ginevrino. Elisabetta ristabilì la supremazia regia sulla chiesa, avendo però l’accortezza di sostituire l’espressione «capo supremo» riferita al re con quella di «supremo governatore»: il capo della chiesa è Cristo, il re ne è solo il governatore. La struttura ministeriale anglicana fu ristabilita, esigendo però che i vescovi ricevessero un’ordinazione che

li inserisse nella successione apostolica. Il Prayer Book venne sottoposto a revisione e reintrodotto come testo liturgico base dell’anglicanesimo sia per il culto pubblico sia per l'esercizio della pietà personale. Con l’approvazione dei 39 Articoli da parte del parlamento (1571), con un profilo dottrinale e spirituale ormai ben definito, l’anglicanesimo fu established, cioè «stabilito per leg-

ge» (statale), oltre che per fede. Del tutto inefficace e velleitaria risultò, nei fatti, la bolla Regnans in excelsis (1570) con cui Pio V

condannò eretica.

Elisabetta a essere bandita e detronizzata in quanto

In realtà, la chiesa anglicana, che a prima vista sembrava na-

ta per il capriccio di un despota, si era rivelata frutto di una scel-

ta di fede. Da allora l’anglicanesimo è una forma originale di cri-

stianesimo, come senza paralleli è la storia che gli ha dato origi-

ne. Spirito cattolico e princìpi protestanti vi convivono senza

scontrarsi e annullarsi, anzi stimolandosi a vicenda creativamente, in virtù di quella comprehensiveness (= «inclusività») che dell’an-

glicanesimo è fin dall'inizio il tratto distintivo. Non stupisce che

esso abbia dato contributi decisivi tanto all’opera missionaria quanto al movimento ecumenico.

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La Riforma protestante (1517-1580)

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7.LA RIFORMA NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI. SUOI SVILUPPI FINO AL 1580

Le sorti della Riforma sono state molto diverse nei diversi paesi

europei (Vinay, 1982?, pp. 317 sgg.). In alcuni (come la Germania,

i Paesi Bassi, la Svizzera) la Riforma si è affermata in varie regioni (peraltro in modi e per vie diversissime), creando all’interno del paese una situazione di pluralismo confessionale, nuova per l’Europa occidentale. In altri paesi (come la Scozia e i paesi scandinavi) la Riforma è stata adottata dall’autorità civile centrale, per cui il protestantesimo è diventato religione di stato — luterana in Scandinavia, riformata in Scozia. In altri paesi ancora (come la Francia,

l'Ungheria, la Boemia e la stessa Polonia) la Riforma ha conquistato posizioni ragguardevoli, senza però riuscire a diventare ege-

mone, per cui ha potuto essere drasticamente ridimensionata dal-

la Controriforma. In altri paesi infine (come l’Italia e la Spagna) la Riforma è nata, ha conosciuto un certo sviluppo sia pure in for-

ma di diaspora, ma è stata poi cancellata senza che ne restasse traccia durante la Controriforma. Com'è nata la Riforma nei vari paesi europei? In estrema concisione si può dire quanto segue.

In Francia è nata in maniera autonoma, con l’evangelismo bi-

blico del movimento di Meaux raccolto intorno a Lefèvre d’Etaples (1455 ca.-1536), protetto fino al 1525 dal vescovo di Meaux.A

partire dagli anni Venti il movimento riceve l'impulso vigoroso de-

gli scritti di Lutero (uno dei suoi traduttori, Louis de Berquin, sa-

lirà sul rogo nel 1529). Con la Lettera al re Francesco, di cui s’è detto, Calvino si fece apologeta dei «luterani» di Francia, diventan-

done, a partire dagli anni Quaranta, la guida spirituale. Egli diede

alle chiese il coraggio di uscire dalla clandestinità e insegnò loro a «fare corpo» dandosi una struttura permanente di collegamento e governo comune (il sinodo), essenziale tra l’altro per non disperdersi in tempo di persecuzione. Il primo sinodo francese del 1559 elaborò, su testi forniti da Calvino, una Disciplina ecclesiastica

e una Confessione di fede, poi chiamata Gallicana. Nei Paesi Bassi l'avvento della Riforma fu preparato dalla devotio moderna e dall’umanesimo cristiano, che trovarono in Wes

sel Gansfort (1419-1489) un esponente di primo piano. Le idee

luterane attecchirono immediatamente. Già nel 1523 due agostiniani furono arsi vivi perché «luterani»: sono i primi martiri della Riforma in quella regione. Ma i Paesi Bassi sono anche la patria di Menno Simons e l’anabattismo vi fiorì, malgrado le per-

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Cristianesimo

secuzioni, prima e dopo l'adesione di Menno. Un primo ponte, almeno ideale, tra la riforma svizzera e i Paesi Bassi fu creato quando, nel 1522-1523, Giovanni Rode, fratello della vita comu-

ne, visitò i Riformatori e fece loro conoscere l’opera di Cornelio Hoen sulla Cena, in cui l’est è interpretato come significat. Non gradita da Lutero, l’opera piacque invece assai a Zwingli, che la fece pubblicare a Zurigo. La storia della Riforma nei Paesi Bassi è alquanto intricata e particolarmente insanguinata sia per i rapporti sovente conflittuali tra i diversi movimenti religiosi (luteranesimo, anabattismo,

calvinismo, cattolicesimo), sia per la durissima repressione imposta fin dagli anni Venti da Carlo V (i Paesi Bassi, dominio asburgi-

co dal 1477, erano stati come tali ereditati da Carlo V) e poi, a par-

tire dal 1555, da suo figlio Filippo Il di Spagna con un rigore ancora maggiore. Su questo sfondo si comprende anche il peso, in tutta la vicenda, della componente politica che si esprimerà, in reazione agli eccessi repressivi del sanguinario duca di Alba, reggente di Filippo II, in una sorta di guerra di liberazione dal dominio spagnolo; capeggiata da Guglielmo d’Orange, principe protestante (luterano) e, in un primo tempo, dai cattolici conte di Egmont, governatore delle Fiandre, e conte Hoorn, ammiraglio, che

però nel 1568 furono anch'essi giustiziati dal duca d'Alba. La guerra, dopo alterne vicende, si concluse mestamente con la separa-

zione del paese in due: un Nord protestante, libero dalla Spagna

(Unione di Utrecht del 1579, nella quale si confederarono sette province) e un Sud cattolico, fedele a Filippo II, costituito da 10 province (l'odierno Belgio). Sul piano delle chiese, fin dagli anni Quaranta v'era stata una

forte immissione di idee riformate provenienti da Zurigo (Bul-

linger) e Ginevra (Calvino). Guy de Brès (1522 ca.-1567), chiamato «il riformatore dei Paesi Bassi», aveva conosciuto personal-

mente i riformatori svizzeri e introdusse nei Paesi Bassi il modello

ginevrino, così come Giovanni Laski (1499-1560), di famiglia no-

bile polacca, riformò la chiesa della Frisia orientale secondo il modello zurighese. La guerra non impedì alle chiese di consolidarsi, persino di crescere e di organizzarsi. Il sinodo di Anversa (1566) e poi quello generale di Emden (1571) adottarono la con-

fessione di fede scritta da Guy de Brès nel

Confessio Belgica.

1561, chiamandola

Nella Germania protestante, terra d'elezione del luteranesimo,

sì costituirono, e oggi ancora operano, forti minoranze calviniste. La convivenza non fu un idillio, anche perché la divisione

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

sull’interpretazione della Cena, avvenuta a Marburgo,

267 sfociò in

una scomunica reciproca. Non solo, ma il calvinismo suscitò polemiche anche all’interno del campo luterano: i «filippisti» infatti (vicini alle posizioni di Filippo Melantone, donde il nome) furono sospettati dai loro avversari «gnesioluterani» (che si consideravano gli interpreti genuini di Lutero) di essere dei criptocalvinisti. Dal calvinismo tedesco è nato il Catechismo di Heidelberg (1563), composto da due giovani teologi neppure trentenni, Ursinus e Oleviano, vero gioiello della letteratura religiosa del Cin-

quecento, forse la più limpida esposizione della fede riformata.

Anche in Polonia e Lituania (all’epoca erano unite) la Riforma

si diffuse anzitutto nella sua forma luterana, anche per la vicinan-

za della Prussia orientale, luterana dal 1525 per decisione del du-

ca Alberto di Hohenzollern. In Polonia la Riforma trovò un terreno favorevole soprattutto nella nobiltà, sia per le sue tendenze autonomistiche nei confronti di Roma sia per la sua apertura culturale. Fu soprattutto con il re Sigismondo II Augusto (1548-1572) che il protestantesimo penetrò largamente nel paese, fino a conquistare la maggioranza nella Dieta. Tra le personalità di rilievo della riforma polacca vanno ricordati Giovanni Seklucian (15001570), traduttore della Bibbia, autore di inni religiosi, catechismi e di una confessione di fede, e Giovanni Laski, già menzionato, che dopo aver lavorato nelle chiese di molti paesi europei, tornò

in patria, favorì l’adesione al calvinismo di diversi nobili (alcuni già luterani) e cercò di porre le basi per l’unità del protestantesimo polacco (Consenso di Sandomir, del 1570). Sigismondo, lettore entusiasta dell’ Istituzione di Calvino, fece della Polonia la terra più

tollerante d'Europa, tanto che vi si stipulò nel 1573 una pax dissidentium sottoscritta da cattolici, umanisti, luterani, calvinisti, hus-

siti e antitrinitari. Era il riconoscimento della libertà di coscienza e del diritto al dissenso religioso, in un quadro di neutralità del potere politico. Questa pace fu soppressa dalla Controriforma. Sotto Sigismondo III (1584-1632) il protestantesimo riformato polacco fu quasi del tutto annientato. In Boemia agli albori della Riforma c'erano tre raggruppamenti religiosi: gli utraquisti (i più numerosi), l’Unitas fratrum

guidata da Luca da Praga, e i cattolici romani. Il luteranesimo si

diffuse soprattutto tra gli utraquisti. In seguito prese il sopravvento il calvinismo. I rapporti tra l'Unità dei fratelli e la Riforma furono nel complesso buoni: vi fu dialogo, scambio, solidarietà, ma non assimilazione. Nel 1575, anche per fronteggiare meglio la Controriforma, luterani e calvinisti presentarono alla Dieta

268

Cristianesimo

una confessione di fede comune, più tardi chiamata (come due altre precedenti, ma diverse)

Confessio Bohemica.

Come in altri paesi dell'Europa orientale, anche in Ungheria e Transilvania la Riforma si diffuse nella sua forma luterana anzitutto fra i nobili e nelle popolazioni di ascendenza tedesca. Fu favorita anche da una situazione politica travagliata: una lunga lotta di successione al trono privò il paese di un forte potere centrale in grado di reprimere il movimento che, anzi, fece grandi progressi. Un ulteriore fattore di instabilità era costituito dalla potenza turca che premeva ai confini, penetrò a più riprese nel paese con razzie e scorribande, e nel 1541 occupò Buda, insediandovisi per oltre un secolo. Personalità di spicco della riforma ungherese fu Mattia Birò (1500 ca.-1545), detto anche Dévay, dal suo (ipotetico) luogo di nascita in Transilvania, e soprannominato «il Lutero ungherese». Può darsi, peraltro, che dopo un soggiorno a Basilea ospite di Ecolampadio si sia avvicinato alla concezione calvinista della Cena. Ma non è sicuro. Sicuro invece

è il fatto che il protestantesimo ungherese da luterano è diven-

tato calvinista. Le ragioni possono essere un certo antigermanesimo mai sopito nei magiari, ma anche e soprattutto il carattere del calvinismo, dotato di maggior profilo e di maggiore carica antagonista nei confronti del cattolicesimo romano. Il Nuovo Testamento

fu tradotto in magiaro

da Giovanni

Sylvester, mentre

Peter Melius fece della città di Debrecen «la Ginevra ungherese» o anche «la Mecca calvinista». Nel 1557 il Sinodo di Czenger

adottò una confessione di fede di stampo calvinista, chiamata poi

Confessio Hungarica (o anche «czengerina»). La Transilvania invece è rimasta luterana. Il suo riformatore

fu Giovanni Honter (1498-1549); umanista dai molti interessi e talenti, creò e diresse la prima tipografia in Transilvania, si oc-

cupò di scuola e di manuali scolastici, ma soprattutto attuò la

riforma della chiesa secondo il modello luterano che, in seguito,

difese energicamente. Anche in Austria ci fu una notevole penetrazione delle idee della Riforma. Già nel 1521 fu stampato a Vienna uno scritto riformatore

di Vadiano,

e nel

1522

Paul Speratus

(1484-1551)

predicò nel duomo di Vienna contro i voti monastici e lodò lo stato matrimoniale. Per questo venne scomunicato. Nel 1524 ci fu il primo martire evangelico: Gaspare Tauber. Ma il suo marti-

rio contribuì a diffondere ulteriormente la fede luterana soprat-

tutto tra quella nobiltà alla quale egli aveva fatto appello nel suo scritto del 1520. Nell’Austria interna va ricordata la testimonian-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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za di Christoph Jòrgers e il martirio di Leonhard Kaser nel 1527. In Stiria e Carinzia le dottrine della Riforma si diffusero rapidamente in tutti gli strati della popolazione. Klagenfurt divenne

una città evangelica e a Villach la chiesa di S. Giacomo, affidata

dal Consiglio cittadino a un predicatore evangelico, divenne la più importante chiesa evangelica dell’intero paese. In Tirolo eb-

bero larga diffusione soprattutto le dottrine anabattiste. La Con-

fessione di Augusta del 1530 fu adottata dal protestantesimo austriaco, che continuò a prosperare malgrado gli editti in senso

contrario del re Ferdinando d’Austria, fratello di Carlo V (il pri-

mo è del 1527). Tanto che nel 1578, quando inizia l’opera della Controriforma, la maggioranza della popolazione dell’Austria

centrale e orientale è protestante. In Slovenia e Croazia la Riforma s’è impiantata soprattutto grazie all’opera letteraria ed editoriale di Primo Trubar (1508-1586),

già prete cattolico, poi predicatore evangelico, prima di orientamento riformato

(aveva letto Bullinger), poi luterano

(dopo un

soggiorno a Norimberga). Egli occupa un posto unico nella storia della lingua e letteratura slovena, Non a torto è chiamato «il

padre della letteratura e della cultura slovena». È lui infatti che ha creato lo sloveno come

lingua letteraria componendo

nel

1550 un Alfabeto, insieme a un Catechismo. Scrisse molte altre opere (tra cui un ordinamento ecclesiastico, testi di pietà, una traduzione del Nuovo Testamento) e tradusse in sloveno e croato i testi fondamentali della riforma luterana (tra cui il Piccolo Cate

chismo di Lutero e la Confessione di Augusta), e persino Il Beneficio di Cristo di Benedetto da Mantova. Ma Trubar non fu solo. Un folto gruppo di pastori luterani della prima ora operarono nello stesso senso, per cui alla fine del Cinquecento esisteva già una piccola biblioteca di scritti in lingua slovena. In Danimarca, il cui regno comprendeva anche la Norvegia e l’Islanda (la Svezia invece si era resa indipendente nel 1521), la Riforma si diffuse senza grandi ostacoli, in quanto la Corona lasciò libertà di predicazione. Questa scelta, voluta dal re Federico I (1523-1533), fu ratificata dalla Dieta di Odense

(1527), che de-

cretò pure che i vescovi non sarebbero più stati ordinati dal papa ma dall’arcivescovo danese: era la rottura con Roma. Con Cristiano Ill (1533-1559) il luteranesimo divenne religione di stato: la Bibbia fu tradotta in danese, i monasteri vennero secolarizza-

ti, si introdusse la lingua del popolo nel culto, si creò un nuovo ordinamento ecclesiastico. Nell’opera di riforma della chiesa in

Danimarca un ruolo decisivo fu svolto da Giovanni Tausen (1494-

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Cristianesimo

1561), autore tra l’altro di una confessione di fede in 43 articoli

(detta Hafnica o Hafniensis), poi abbandonata a favore dell’Au-

gustana.

In Svezia e Finlandia l'avvento della Riforma fu propiziato soprattutto dal re Gustavo Vasa (1523-1560) che era stato condotto alla fede evangelica dai due fratelli Petersen

(o Petri), Olaf e

Lars, già discepoli di Lutero a Wittenberg. L'adozione della Riforma fu preparata dalla traduzione del Nuovo Testamento in svedese (1526), dalla pubblicazione di un catechismo e di un inna-

rio e da un'intensa attività di predicazione. Ciò nondimeno vi furono resistenze nel popolo, mentre l’aristocrazia e la borghesia erano favorevoli. La svolta decisiva si ebbe alla Dieta di Vasteras del 1527, che con le sue delibere pose le premesse per il definitivo distacco da Roma, avvenuto nel 1531, avendo però cura, co-

me gli anglicani, di salvaguardare la successione apostolica nelle nomine episcopali. In Finlandia la Riforma fu opera soprattutto di Michele Agricola (1500 ca.-1557), che, con le sue numerose

opere

(in parti-

colare un libro di preghiere del 1544 e la traduzione del Nuovo

Testamento del 1548), divenne il fondatore della lingua lettera-

ria finnica. La Riforma in Scozia ebbe anch’essa un avvio luterano a par-

tire dal 1525, immediatamente represso. Il primo martire, Patrick

Hamilton, salî sul rogo nel 1528. La repressione durò un ven-

tennio, senza riuscire a sradicare il movimento.

Nel 1557 la no-

biltà terriera e la borghesia cittadina, che erano state fin dall’inizio le forze sociali più favorevoli alla Riforma, strinsero un patto

(covenant) per far prevalere la Riforma. A questo fine richiama-

rono in patria John Knox (1514 ca.-1572), che rientrò nel 1559 dopo 12 anni di esilio. Discepolo di Calvino, Knox organizzò la chiesa riformata di Scozia secondo il modello ginevrino (peraltro modificato in alcuni punti). I documenti fondamentali della riforma scozzese, e al tempo stesso gli strumenti per attuarla, risalgono direttamente o indirettamente a lui. Essi sono: la Confessio Scotica, approvata poi dal parlamento, il Book of Discipline con cui la chiesa ricevette un ordinamento presbiteriano, e il B00k of Common Order, cioè la liturgia per il culto pubblico. Tutti questi documenti furono approvati dal Sinodo nazionale (General Assembly) del 1560. Nel 1566 la chiesa riformata prese il posto della chiesa romana

nella società scozzese, diventando

titolare dei

sostanziosi benefici ecclesiastici. La battaglia invece per mantenere l’ordinamento presbiteriano contro la tendenza a sostituir-

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

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lo con quello episcopale (di tipo anglicano) durò ancora più di un secolo: alla fine prevalse il modello presbiteriano. La storia della Riforma in Spagna nel XVI secolo coincide con la storia della sua distruzione: il protestantesimo nascente (in particolare due fiorenti comunità a Valladolid e Siviglia) fu completamente annientato dall’Inquisizione entro il 1560. I pochi superstiti fuggirono all’estero. Non sempre però scamparono: l’evangelico Jaime Enzinas morì sul rogo a Roma nel 1546. La dissidenza religiosa nell'Italia del Cinquecento è estremamente variegata ed è vano cercarle un minimo denominatore comune

che non sia quello, del tutto esterno, costituito dalla re-

pressione che tutte le dissidenze subirono. Nessuna sopravvisse in Italia, a parte nell’estrema periferia nord-ovest del paese, l’irriducibile comunità valdese, minuscola repubblica calvinista raccolta nel ridotto delle Alpi Cozie. Quattro almeno sono i gruppi religiosi che, nell’Italia del Cinquecento, dissentono in vario mo-

do e a vario titolo, finché fu loro concesso di farlo. Il primo è costituito dal cosiddetto «evangelismo cattolico», o «cattolicesimo evangelico», in parte di estrazione e formazione umanista, in par-

te con ascendenze più direttamente religiose e bibliche, di matrice agostiniana e, in qualche caso, savonaroliana. Vi si coltiva una religiosità personale molto viva, con venature mistiche, forte concentrazione su Cristo (sulla Scrittura), relativizzazione degli

aspetti dottrinali, istituzionali e sacramentali del cristianesimo. Il più importante centro-dell’«evangelismo cattolico» fu il cenacolo creato a Napoli dallo spagnolo Juan de Valdés (1509-

1541), nel quale si formarono molti di coloro che poi divenne-

ro protestanti. Le sue opere maggiori furono pubblicate postume. Tra le altre l’A/fabeto Cristiano e le Cento e dieci divine conside razioni. Altro centro importante si ebbe a Viterbo. Il secondo gruppo è la diaspora protestante, luterana o riformata — un numero rilevante di persone, singole o riunite in comunità (anche numerose, come a Lucca), appartenenti a tutti gli strati della popolazione, che accolsero la fede della Riforma e ne resero testimonianza

(non pochi invece la mimetizzarono, costi-

tuendo il folto gruppo dei «nicodemiti», censurato da Calvino). Il documento letterario più importante della riforma italiana è il Trattato utilissimo del Beneficio di Gesù Cristo (1543), di Benedetto

da Mantova. Alcuni nomi di riformati italiani: Pietro Martire Vermigli, Bernardino Ochino, Pier Paolo Vergerio, Agostino Mai-

nardi, Pietro Carnesecchi, Francesco Negri, Aonio Paleario, Gi-

rolamo Zanchi.

2972

Cristianesimo

Il terzo gruppo di dissidenti è costituito dagli antitrinitari, di cui già s’è fatto cenno. E sicuramente riduttivo parlarne nei termini negativi di «antitrinitari». L'antitrinitarismo non è così centrale, in fondo è un semplice corollario di una posizione religiosa

con Cristo al suo centro. Il cosiddetto antitrinitarismo è una torma di cristianesimo che, pur rifiutando i suoi due dogmi-centrali (Trinità e divinità di Cristo), è pur sempre incentrata su Gesù, uo-

mo soltanto, ma, appunto, veramente uomo, per nulla ridotto a un'idea o a un puro paradigma morale. I nomi più importanti di questo gruppo, esuli quasi tutti in Polonia, sono già stati indicati. Il quarto e ultimo gruppo è quello degli anabattisti, folto soprattutto nel Veneto come s'è detto, con grosse comunità a Venezia, Padova e Vicenza. Facevano adepti in tutte le classi sociali, ma soprattutto fra artigiani, salariati e piccola borghesia. Oltre che per l’intreccio (non infrequente) con l’antitrinitarismo, l’anabattismo veneto si caratterizza per la sua forte venatura sociale motivata col discorso del Cristo povero. Di queste quattro espressioni della dissidenza cristiana nell'Italia del Cinquecento non restò, dopo pochi decenni, traccia alcu-

na nel nostro paese tranne che nei verbali dell’Inquisizione. I dis-

sidenti sopravvissuti costituirono quella ecclesia peregrinorum (V. Vinay) cacciata dalla patria e disseminata in diversi paesi europei. Un discorso a parte va fatto per i Valdesi. Questa dissidenza evangelica e pauperistica medievale, già sparsa per l’Europa ma nel primo Cinquecento concentrata nelle Valli Valdesi del Piemonte

riforma Calvino fusione valdesi monte

e nel Delfinato, aderì nel 1532, come

già s'è detto, alla

svizzera e nell'arco di un ventennio venne ridisegnata da come chiesa riformata. I Valdesi contribuirono alla difdella Riforma in Piemonte. Mentre nel 1561 le comunità della Calabria e della Puglia vennero annientate, in Pienello stesso anno il Trattato di Cavour riconosceva ai Val-

desi il diritto di esistere, come riformati, in un angolo dello sta-

to sabaudo. Era un’assoluta primizia curopea, appena sei anni

dopo che la pace di Augusta (1555) aveva solennemente consacrato il principio del cuius regio eius religio. 8. CONCLUSIONE

Volgendo uno sguardo d’insieme alla storia sommariamente descritta nelle pagine precedenti, se ne possono cogliere, al di là

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

273

delle singole vicende, alcune linee di fondo e tratti comuni o ri-

correnti. Anzitutto, non

c'è praticamente

paese d'Europa

in cui la

Riforma sia rimasta senza eco, a conferma del suo carattere trans-

nazionale ed europeo. Molti paesi hanno avuto il loro «Lutero».

In secondo luogo, quasi dappertutto gli scritti e le idee di Lutero sono stati direttamente o indirettamente i detonatori del processo riformatore, ma in diversi paesi al luteranesimo della

prima ora s’è sovrapposto il protestantesimo riformato alla Bullinger (Zurigo) o alla Calvino (Ginevra). Bullinger ha «europeiz-

zato» Zwingli. In terzo luogo, i dialoghi teologici tra cattolici e protestanti non sono mancati (la stessa Dieta di Augusta era stata convocata, già nel 1530, come occasione di dialogo), ma non hanno potuto sanare una divisione che affondava le radici nel profondo della vita di fede. Infine, nel quadro del corpus christianum al cui interno la Rifor-

ma è avvenuta, il fattore politico non poteva non svolgere un ruolo primario non già nella genesi del fenomeno ma nella sua storia. La Riforma fu un fatto essenzialmente religioso, ma nell’Europa del XVI secolo religione e politica sono inestricabilmente intrecciate. In questo contesto si comprende meglio la novità al-

lora giudicata eversiva della proposta anabattista.

Il quadro così delineato non subirà sostanziali modifiche nei

25 anni successivi alla pace di Augusta, movimentati e turbolen-

ti come pochi altri, specialmente in alcune regioni d'Europa. La

pace stessa fu più dichiarata che praticata: i conflitti continuarono, anzi s’inasprirono. Il fenomeno saliente di questo i successivi non lo furono meno) lo della confessionalizzazione del fenomeno inedito per l’Europa

periodo agitato e violento può essere descritto come cristianesimo occidentale cristiana che fino a quel

(ma quel— un mo-

mento aveva conosciuto fratture solo con l’Ortodossia (quella, in

particolare, sanzionata nel 1054, preceduta da altre minori nei

primi secoli della storia cristiana). Ora è il corpus christianum dell'Europa occidentale che si fraziona. La ragione è semplice: la Riforma protestante era stata ricusata da Roma come eretica,

ma accettata come cristiana da vaste aree dell'Europa occidentale. La conseguenza ineluttabile fu la scomposizione della società cristiana occidentale in quattro raggruppamenti confessionali: cattolico-romano, luterano, calvinista e anglicano. La pace di Augusta riguardava soltanto i primi due: l’anglicanesimo su-

274

Cristianesimo

biva proprio in quegli anni la repressione scatenata da Maria la

cattolica, mentre il calvinismo, che era in ascesa e stava conqui-

stando molte posizioni in Europa e persino in Germania, era temuto dai luterani non meno che dai cattolici. Due sono gli aspetti principali del processo di confessionalizzazione: un’opera di assestamento dottrinale anzitutto, accompagnato e seguito da una forte volontà antagonista, per cui l’Europa entra in una fase di rivalità spirituali ed ecclesiali incrociate e sovente confusamente intrecciate a una fitta trama di vicende dinastiche e interessi politici. Anzitutto c’è la fase di assestamento dottrinale, mediante

la

quale le confessioni elaborano il loro corpus teologico, precisano il loro profilo spirituale e mettono a punto la loro identità ecclesiale. Questo avviene in due modi: anzitutto mettendo fine alle controversie (ma purtroppo anche alle discussioni) interne; in secondo luogo sottolineando l’originalità e diversità delle pro-

prie posizioni, distinguendole quelle altrui. questa doppia in particolare I luterani

criticamente e opponendole

a

Gli strumenti tipici e allo stesso tempo i frutti di operazione sono alcuni documenti confessionali, confessioni di fede e catechismi. non avevano ovviamente bisogno di catechismi

(c'erano i due di Lutero), né di una confessione di fede (c’era l'Augustana). Ma, travagliati com'erano da forti contrasti dottri-

nali interni sù varie questioni, avevano bisogno— e-tanto — di un’interpretazione autorevole e, diciamo pure, normativa dell’ Augustana. Vi riuscirono con la Formula di concordia (1577), che restituì

ai luterani unità spirituale e compattezza ecclesiale. L'una e l’altra

furono ulteriormente consolidate tre anni più tardi con la pub-

blicazione del Libro di concordia (il titolo è eloquente): è la raccolta di tutti i testi confessionali del luteranesimo, che così celebrava

solennemente il cinquantesimo anniversario della confessione di Augusta. Anche il concilio di Trento

(1545-1563)

rientra perfettamen-

te nel processo di confessionalizzazione del cristianesimo occidentale. Convocato troppo tardi e troppo poco rappresentativo

dell’episcopato cattolico stesso, diede alla Riforma una risposta

indiretta ma esplicita che, per quanto accurata e rigorosa, sembra scaturire più da un monologo che da un dialogo. E le decine di anathema sit che scandiscono

i suoi canoni sono, sì, indi-

rizzati alle posizioni protestanti, ma anche alle tendenze riformiste presenti nella minoranza conciliare (o addirittura assenti).

A Trento il cattolicesimo moderno s'è dato un chiaro profilo dot-

P. Ricca La Riforma protestante (1517-1580)

275

trinale e si è confessionalizzato. Lo documentano la Professio fidei tridentina (1564) e il Catechismo Romano

(1566).

Infine, per quanto concerne i riformati, essi trovarono i loro documenti confessionali unitari nella Confessio Helvetica Posterior (1566) redatta da Bullinger, nel Catechismo di Heidelberg (1563),

già menzionato.

Il clima tra le confessioni fu aspramente polemico. Le poche

voci ireniche rimasero inascoltate. Ogni confessione si conside-

rava la vera e compiuta espressione del cristianesimo e giudicava eretiche le altre. Non essendoci l’idea di una possibile complementarietà delle confessioni, non c’era posto per una coesistenza pacifica, a meno che non fosse l’autorità civile a imporla. Regnavano l’assolutismo e l’intolleranza. Vi furono anche momenti di inaudita violenza (come il massacro di Vassy nel 1562 e quello della notte di S. Bartolomeo nel 1572, in Francia). Malgrado i Trattati (Poissy, 1560, Cavour già citato e altri) la pace era lontana e i rapporti di forza in equilibrio instabile. Le confessioni si erano costituite e, munite

di una forte coscienza di sé, si

fronteggiavano. I giochi non erano tatti, anzi, in un senso, la partita era appena iniziata. La mappa religiosa dell'Europa moderna doveva ancora subire diverse modifiche. BIBLIOGRAFIA

Opere dei Riformatori Riportiamo qui di seguito una selezione di titoli disponibili in lingua italiana, rimandando, per le edizioni originali, alle varie edizioni generali delle opere, e cioè: Per

Lutero:

D.

Martin

Luthers

Werke.

Kritische

Gesamtausgabe,

Weimar

1883-1983 (60 voll. di Scritti, 12 di Bibbia Tedesca, 18 di Epistolario, 6

dei Discorsi a tavola, più alcuni volumi di Indici).

Per Calvino: /oannis Calvini opera quae supersunt omnia, 59 voll., Braunschweig 1863-1900 (= Corpus Reformatorum, voll. 29-87). Per Zwingli: Huldreich Zwinglis Werke. Erste volistindige Ausgabe, a cura di M. Schuler e J. Schulthess,.8 voll., Zurich 1828-1842. Una più recente

edizione critica, alla quale di solito si fa oggi riferimento ma che nori

è ancora ultimata, è quella del Corpus Reformatorum (voll. 88-101), intitolata Huldreich Zwinglis simtliche Werke, a cura di E. Egli, G. Finsler

e aluri, Berlin 1905, poi Zùrich (finora sono usciti 14 volumi).

Bucero, M., 1546: La Riforma a Strasburgo. Le carenze e i difetti delle chiese: come porvi rimedio, a cura di E. Genre, Torino 1992.

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Cristianesimo

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1537: Il Catechismo di Ginevra (1537), a cura di V. Vinay, Torino

1983.

Idem, 1539: £'Epistola a Sadoleto (1539), in Aggiornamento o riforma della Chiesa? Lettere tra un cardinale e un Riformatore del ‘500, a cura di G.

Tourn, Torino 1976.

Idem,

1541: {{ «Piccolo tratiato sulla S. Cena», a cura di G. Tourn, Torino

1987. Confessioni di fede delle chiese cristiane, a cura di R. Fabbri, Bologna 1996. Lutero, M., 1978°: Scritti politici, a cura di G. Panzieri Saija, Torino [/l papato romano (1520); Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca (1520); La libertà del cristiano (1520); L'autorità secolare (1523); Esortazione al-

la pace (1525); Patto tra l’onorevole Lega Sveva e i due gruppi di contadi-

ni del Bodensee e dell’Aligiiu (1525);

Contro le empie e scellerate bande dei

contadini (1525); Replica riguardo al libretto contro gli empi e scellerati con-

tadini (1525); Una terribile storia e un giudizio di Dio sopra Thomas Miintzer (1525); Una lettera sul duro libretto contro i contadini (1525); Se an-

che le genti di guerra possano giungere alla beatitudine (1526)]. Idem,

19782: Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, Torino

[/ sette salmi peni-

tenziali (1517); Le Tesi sulle indulgenze (1517); La disputa di Heidelberg

(1518); 7 «Padre Nostro» spiegato nella lingua volgare ai semplici laici (1519); Sermone sul santo e venerabile sacramento del Battesimo (1519); Ser-

mone sul venerabile sacramento del santo vero corpo di Cristo. E sulle confraternite (1519); Le buone opere (1520); Il Magnificat tradotto în tedesco e com-

mentato (1520); Prefazione all’Epistola ai Romani (1522); Prediche sui Van-

geli (1519,

1522, 1538); Secondo la Scrittura un'assemblea 0 comunità cri-

stiana ha il dinitio e la facoltà di giudicare ogni dottrina e di chiamare, inse diare e destituire i Dottori (1523); Messa in volgare e ordine del culto (1526);

«Enchiridion». Il Piccolo Catechismo per pastori e predicatori poco istruiti

(1529); Lettera sull'arte del tradurre e sulla intercessione dei santi (1530)].

Idem, 1969: Discorsi a tavola, a cura di L. Perini, Torino. Idem, 1982: Canti spirituali, a cura di B. Scharf, Brescia. Idem,

1983:

Lieder e prose, a cura di E. Bonfatti,

Milano

[Canti

(1524-

1543) (vengono tradotti 36 canti o inni); Un sermone sulla preparazio ne alla morte (1519); Otto sermoni del Dottor Martin Lutero da lui predicati a Wittenberg alla Quaresima (1522); Una predica sul dovere di tenere

i bambini a scuola (1530); Una lettera del Dottor Martin Lutero sull’arte del tradurre e l'intercessione dei santi (1530); Prefazione all’Antico Testamento (1545); Prefazione al Nuovo Testamento (1545); Prefazione alla Let-

tera di S. Paolo ai Romani (1522); Alcune favole di Esopo (1530)].

Idem, 1984: Dalla Parola la vita. Scritti spirituali, a cura diJ. Hanselmann e P. Helbich, Roma.

Idem, 1984: Prediche sulla Chiesa e lo Spirito Santo, a cura di G. Gandolfo, Torino.

P. Ricca

La Riforma protestante (1517-1580)

277

Idem,

1987: Prefazioni alla Bibbia, a cura di M. Vannini, Brescia.

Idem,

1987:

Scritti pastorali minori, a cura di S. Cavallotto, Napoli

{Ser-

mone sulla preparazione alla morte (1519); Consolazione per una persona

în gravi tentazioni (1521); IZ libretto sul Battesimo tradotto in tedesco, nuovamente messo a punto (1526); Sulla Cena di Cristo (terza parte): Confes-

sione degli articoli della fede contro i nemici dell'Evangelo e ogni sorta di eresia (1528); Libretto sulla celebrazione delle nozze, per pastori poco istruiti (1529); Prefazioni al Catechismo tedesco (Il grande Catechismo) (1529 e

1530); Un breve modo per confessarsi al prete, per persone semplici (1529); Un'altra formula di confessione (1529); Come si deve insegnare alle perso ne semplici la confessione (1531); Un modo semplice di pregare per un buon amico (1535); Breve nota a conforto dei cristiani perché nella preghiera non

si lascino fuorviare (1540?)]. Idem, 1987: Opere scelte. Collana diretta da P. Ricca, Torino.

[Sono usci-

ti finora 8 volumi: Il Piccolo Catechismo. Il Grande Catechismo (1529), a cura di F. Ferrario; Come si devono istituire î ministri della chiesa (1523), a cura di S. Nitti; L’Anticristo. Replica ad Ambrogio Catarino (1521), a cura di L. Ronchi De Michelis; Scuola e cultura. Compiti delle autorità,

doveri dei genitori (due scritti intitolati Ai borgomastri e ai consiglieri di

tutte le città tedesche perché istituiscano e mantengano scuole cristiane, 1524;

Una predica sul dovere di tenere i figli a scuola, 1530) a cura di M.C. Laurenzi; Gli Articoli di Smalcalda. I fondamenti della fede (1537-38), a cura di P. Ricca; /l servo arbitrio (1525), a cura di F. De Michelis Pintacuda; Messa, sacrificio e sacerdozio (tre scritti inutolati Un sermone sul

Nuovo Testamento, cioè sulla Santa Messa, 1520; Giudizio di Martin Lutero sulla necessità di abolire la messa privata, 1521; La messa privata e la

consacrazione dei preti, 1533), a cura di S. Nitti; Contro i profeti celesti

(1525), a cura di A. Gallas. È in corso di stampa lo scritto Sui concili e le chiese (1539), a cura di G. Ferrari]. Idem, 1997: Preghiere, a cura di S. Cavallotto, Casale Monferrato [Sermone sulla preghiera e sulla processione nella settimana della croce (1519); Spie gazione del Padre Nostro in tedesco per laici illetterati (1519); A un buon

amico su un modo semplice di pregare (1535); Il Padre Nostro. Prefazione e preparazione a rivolgere a Dio le sette richieste (1519); Preghiere varie (15171546); Breve spiegazione del santo Padre Nostro (1519)].

Idem, 1999: Sermoni, Milano. Idem, 1515-1516: La lettera ai Romani (1515-1516), a cura di F. Buzzi, Ci-

nisello Balsamo 1991.

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Idem, 1519: Il Padre Nostro spiegato ai semplici laici, a cura di V. Vinay, Torino 19833. Idem,

1520: La libertà del cristiano, a cura di G. Miegge, Torino

1983*.

278

Cristianesimo

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Idem, 1520: La libertà del cristiano, con il testo della Lettera aperta a Leone X, a cura di J. Landkammer, Torino 1994.

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Il cattolicesimo

dal concilio di Trento al Vaticano II di Daniele Menozzi

PREMESSA

È evidente che lo spazio qui disponibile per la ricostruzione del-

la storia del cattolicesimo moderno e contemporaneo non consente una trattazione sistematica ed esauriente di una vicenda che lo sviluppo della ricerca tende continuamente ad arricchire di conoscenze sempre più articolate e profonde, mostrando l'estrema complessità del suo svolgimento. Le pagine che seguono sono perciò il frutto non di un tentativo di inseguire una vana pretesa di completezza, ma di alcune scelte, che è opportuno segnalare preliminarmente. Sul piano tematico si è deciso di pri-

vilegiare, accanto alle fondamentali indicazioni sui mutamenti intervenuti nella vita interna dell’istituzione ecclesiastica, l’otti-

ca del rapporto tra chiesa e società: non solo per preferenze e competenze personali, ma anche nell’intento di garantire la massima storicizzazione possibile di una materia in cui hanno ancora largo spazio l’apologetica e la polemica; e, all'interno di questa prospettiva generale, ci si è poi soffermati su quei momenti o

quegli aspetti che manifestano il ruolo della chiesa nello svolgimento storico complessivo. Oltre alla necessaria insistenza sul pa-

pato, per l'incidenza che nel periodo qui esaminato ha nella definizione degli indirizzi generali della chiesa, a livello geografico sì è da un lato posta attenzione sull’ambito italiano e dall'altro lato si sono di volta in volta sottolineate le chiese, i gruppi, gli ambienti, che, in qualunque area operassero, sembravano assumere significativa importanza in ordine al momento considera-

282

Cristianesimo

to. In conformità agli scopi dell’opera si è infine preferito, senza rinunciare del tutto alla discussione, garantire soprattutto una corretta informazione; e, in luogo di rapsodiche note, è parso più utile fornire il riferimento alle fonti principali sul corso dell’esposizione e un’essenziale bibliografia finale. 1. DAI MOVIMENTI DI RIFORMA ECCLESIALE AL CONCILIO DI TRENTO

1. Le varie declinazioni di un'aspirazione alla riforma «in capite et in membris» L'esigenza di una riforma morale e istituzionale sia nel vertice romano che nelle articolazioni locali della chiesa aveva trovato varia

espressione nell’età del conciliarismo; ma, una volta risolta la crisi del grande scisma d’Occidente, le tendenze al rinnovamento

erano rimaste circoscritte ad ambienti ristretti e talora operanti in maniera sotterranea, comunque osteggiati da un papato che, avendo il decreto Haec sancta (1415) del concilio di Costanza stret-

tamente connesso riforma della chiesa e proclamazione della superiorità del concilio sul pontefice, non poteva che guardare con preoccupazione al riaffiorare di tali istanze. In questo contesto il persistere di orientamenti riformistici aveva spesso trovato espressione nella predicazione di carattere profetico, apocalittico e millenaristico di itineranti romiti, che, soprattutto dopo lo sfortuna-

to esito del tentativo savonaroliano (1498), invitavano alla penitenza per sfuggire ai terribili castighi con cui Dio avrebbe provve-

duto ad avviare l’improcrastinabile rinnovamento collettivo; o ali-

mentavano l’attesa di un «papa angelico», in cui si riponeva la speranza di una complessiva restaurazione della vita religiosa e sociale. Tuttavia all’inizio del Cinquecento si manifestano in diversi settori del mondo cattolico fermenti di trasformazione ecclesiale che assumono una diversa configurazione, anche se non si pongono

sul piano di un intervento complessivo sull’istituzione ecclesiasti-

ca e sui suoi modi di presenza nella società. Alcuni di essi nascono prima del 1517, allorché Lutero con l’affissione delle sue tesi pone il problema non più solo sul piano morale e disciplinare, ma

anche su quello teologico e dottrinale; altri si sviluppano paralle-

lamente allo svolgersi della Riforma protestante, che ben presto si articola in correnti

radicalmente

differenziate

tra loro, intrec-

ciandosi e talora-confondendosi con elementi proposti dai rifor-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

283

matori d’Oltralpe; altri ancora si coniugano con quella volontà di riconquista, anche coercitiva ed armata, del protestantesimo e di

repressione violenta dell’eterodossia, che viene usualmente definita Controriforma. Come ha mostrato la ricerca, intensa e vivace, sull’argomento, sì tratta di una vicenda particolarmente complessa, fatta di tormentati itinerari individuali, di gruppi compositi dagli incerti collegamenti sociali e geografici, di evoluzioni ed esiti diversificati ed anche contraddittori: è perciò difficile ricorrere a sintetiche e generali categorie interpretative — come Riforma cattolica - che hanno avuto e continuano ancora ad avere largo corso e rigida applicazione nel dibattito storiografico. Risulta invece ancora assai utile far riferimento alla periodizzazione proposta da

uno

dei

massimi

storici

(1992), che individua alcune specificatamente italiano, ma le valore indicativo. Conviene poi illustrarle in maniera più

del

periodo,

Delio

Cantimori

fasi fondamentali nell’ambito più che possono avere un più generaora ricordarle sinteticamente, per diffusa. In un primo periodo il mo-

vimento di riforma, che, in una situazione complessiva di gran-

de incertezza e fluidità dottrinale, presenta aspetti talora comuni con temi luterani, giunge fino agli inizi degli anni Quaranta. A queste date la morte o la fuga di alcuni protagonisti, l’apertura del Tridentino e la costituzione del Sant'Uffizio segnano un irrigidimento, con l'emergere nella chiesa di personaggi e correnti che puntano al recupero organizzativo e alla repressione delle istanze di riforma attraverso una solidale e compatta azione del potere politico e dell’autorità ecclesiastica: ai loro occhi essa è resa necessaria dall’inevitabile riflettersi del mutamento religioso sul generale assetto sociale con il conseguente pericolo di rovesciamento di tutti i poteri stabiliti. In questo secondo periodo, che si svolge fino all’inizio degli anni Sessanta, è comunque

ancora attiva — spesso in una personale ed intima adesione ad alcuni dei princìpi fondamentali della Riforma protestante e talora occupando posizioni di rilievo nella gerarchia — una generazione di riformatori: nonostante fughe, esili, manifestazioni di nicodemismo, essa si propone di giungere ad un compromesso coi protestanti attraverso un moderato rinnovamento ecclesiale. Nel terzo momento la chiusura del concilio tridentino, con l’assunzione da parte del papato dell’applicazione dei suoi decreti in un'ottica di forte accentramento romano, e il saldarsi di un sostanziale (anche se non esente nei suoi termini concreti da scar-

ti e oscillazioni) accordo tra la Santa Sede e le potenze cattoli-

284

Cristianesimo

che nell'opera di restaurazione determinano la sconfitta delle

tendenze ireniche e conciliatrici, la fine del movimento di rifor-

ma e il trionfo della prospettiva più strettamente controriformistica. Il massacro dei Valdesi insediati tra Calabria e Puglia

(1561), in cui collaborarono fianco a fianco il viceré di Napoli e

l'Inquisizione, è in qualche modo emblematico dell’aprirsi di

questa nuova stagione, che poi vedrà, oltre ad ulteriori stragi, ad

esempio la notte di S. Bartolomeo a Parigi (1572), a livello indi-

viduale l’invio al supplizio come eretici convinti di alcuni protagonisti del tentativo di rinnovamento. Nella prima delle fasi cui si è ora accennato le istanze novatrici sì presentano con un programma che, pur vario ed articolato, ha come elemento fondamentale l’esigenza di mutare atteggiamenti e comportamenti individuali. Questa linea è ben visibile presso i laici che promuovono la formazione di associazioni, di cui è tipico esempio la Compagnia del divino amore, nata a Genova sullo scorcio del XV secolo, ad opera di E. Vernazza e poi irradiatasi in numerose città italiane, particolarmente, anche

se non solo, del Settentrione. La riforma personale che gli aderenti ad essa si propongono trova la sua attuazione in un duplice comportamento: da un lato il perfezionamento spirituale da attuarsi attraverso un approccio diretto e frequente alla Scrittura, l'assiduità alla messa e ai sacramenti, la preghiera; dall’altro lato la cura, spesso compiuta in segreto, di quei bisognosi per i quali la società contemporanea non apprestava strumenti di soccorso, in particolare di quanti venivano di solito rifuggiti perché considerati ripugnanti (appestati e malati di sifilide). Ma il mutamento dello stile di vita del singolo credente viene in alcuni ambienti inserito in una prospettiva più ampia. La riforma individuale appare qui la necessaria premessa di una lenta e graduale estensione di un rinnovamento culturale che investirà tutta la chiesa, fino al suo vertice, il papato. Tuttavia tale trasformazione viene affidata all’operare della Provvidenza, perché il problema cruciale di questi ambienti resta pur sempre quello di garantirsi la salvezza personale. Emblematico della temperie spirituale di questo periodo è il fatto che nel 1511 un nobile veneziano, G. Contarini, avesse avuto quella stessa esperienza di drammatica ricerca interiore della giustificazione e di una sua successiva individuazione nella fede che poi determinerà tutto l’orientamento di Lutero (7urmerlebnis). Comunque a questa più larga linea di rinriovamento si richiama quella corrente del primo Cinquecento, che si è soliti definire col nome di evangelismo, ma che è im-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

285

possibile inquadrare in schemi rigidi, per la frequente molteplicità e intercambiabilità delle posizioni dei suoi esponenti. Ad essa appartengono gruppi di umanisti cristiani (ben rappresentati da Erasmo da Rotterdam), che si propongono di superare l’arido formalismo teologico della scolastica attraverso il ritorno ad una lettura della Scrittura e dei Padri filologicamente corretta,

in modo da purificarla dalle successive superfetazioni. Nel suo alveo operano anche circoli di spirituali — gli alumbrados spagnoli, raccolti attorno ai francescaniJ. de Olmillos e F. de Ocana; e quanti fanno riferimento in Italia a J. de Valdés e al cappuccino B. Ochino, in seguito passato al protestantesimo — o gruppi influenzati dagli autori (con ogni probabilità B. Fontanini e M.A. Flaminio)

di un libretto dallo straordinario successo editoriale,

Il Beneficio di Cristo: al di là della variamente declinata ricerca

dell'esperienza mistica, vi è in essi l'assunzione della prospettiva secondo cui la salvezza eterna dipende dai meriti acquisiti dal sacrificio di Cristo più che da quelli conseguibili con opere umane, senza però che questo implichi adesione alla complessiva visione di Lutero o Calvino né alla loro «ribellione». E alla medesima corrente dell’evangelismo si possono infine ricondurre ambienti — come quelli radunati a Meaux attorno a Lefèvre d’Etaples o a Parigi attorno a Margherita di Navarra, ma diffusi in tutta Europa - che si propongono una imitazione di Cristo attraverso il recupero di una religione spirituale ed intima; un culto purificato dalle devozionalità esteriori; comportamenti semplici e fraterni; il ripudio di quelle utilizzazioni a scopi personali del sacro che appariva ai loro occhi blasfema superstizione — un ritorno, insomma, a quell’atteggiamento che con felice e sintetica definizione Erasmo aveva chiamato philosophia Christi. Le istanze di rinnovamento non rimangono comunque confinate sul piano della trasformazione personale e culturale, ma investono anche le istituzioni ecclesiastiche. Tra il 1512 e il 1517 si teneva

a Roma

il concilio

Lateranense

V, voluto

da

Giulio

per contrastare il tentativo del re di Francia, Luigi XII, vocare a Pisa un’assise ecumenica nell’intento di mettere ficoltà politica il papa, che aveva unito i principi italiani il sovrano. Ottenuto questo obiettivo immediato, e morto

II

di conin difcontro il pon-

tefice, cui succedeva Leone X (1513-1521), l’assemblea affronta-

va anche alcune delle questioni che travagliavano la chiesa contemporanea. Al suo interno circolarono allora diversi progetti di riforma, tra cui il più famoso è il Libellus ad Leonem X di due no-

bili veneziani, V. Giustiniani e T. Quirini, che erano entrati in età

286

Cristianesimo

matura nell’austero ordine eremitico dei camaldolesi. Pur in un quadro complessivo che si richiamava, secondo moduli medievali, al potere teocratico del papa, essi, denunciando l’ignoranza, la mondanizzazione,

la corruzione e la superstizione diffuse

nel clero e nel popolo, prevedevano per tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica — a cominciare dalla testa, il papa - l’assun-

zione delle precise funzioni pastorali e di governo che a ciascuno di essi competevano. La regolare convocazione del concilio ecumenico ogni cinque anni e più frequentemente dei concili provinciali e dei sinodi diocesani doveva costituire l’occasione per la promozione delle iniziative di rinnovamento e la verifica dei risultati ottenuti. Senza recepire questo organico programma, l'assemblea varò tuttavia alcuni, pur modesti, decreti di riforma sulla curia romana, disciplinandone la fiscalità; sui cardinali, esortandoli ad uno stile di vita sobrio; sui vescovi, limitando il cu-

mulo dei benefici; sul clero secolare, vincolandolo ad una pre-

dicazione basata sulla Scrittura; sui religiosi, sottomettendoli al

controllo dell’ordinario diocesano nell’attività pastorale. Ma, affidando al pontefice il compito di pubblicare le sue deliberazioni sotto forma di bolle papali, il concilio rinunciava di fatto ad intervenire nell’attuazione della riforma, che Leone X - pago dei decreti del Lateranense relativi alla condanna del conciliarismo e alla riattualizzazione della bolla Unam sanctam (1302)

con cui

Bonifacio VIII aveva fissato le pretese teocratiche del papato — avrebbe del tutto disatteso. Occorre subito aggiungere che nel Libellus era previsto anche il ricorso alla violenza — la guerra ai Turchi, l'espulsione degli Ebrei che rifiutavano di convertirsi, la lotta armata contro gli eretici che resistevano con le armi alla predicazione — e che nelle deliberazioni conciliari non si era manifestata solo l’esigenza del rinnovamento religioso, ma anche la necessità di pur circoscritti interventi repressivi: i decreti sulla predicazione (diretti in particolare contro quanti denunciavano gli abusi del clero) e sulla stampa dei libri, che richiedevano un maggiore controllo ecclesiastico in tale ambito, si muovevano in questa direzione. Ma se questi provvedimenti del concilio diventano ben presto un pun-

to di riferimento per quanti cominciano ad auspicare uno scon-

tro con le istanze rinnovatrici, vi sono anche personaggi ed ambienti che vengono invece influenzati dalle sue misure di rifor-

ma, sicché cercano di tradumne lo spirito nelle specifiche istitu-

zioni in cui operano. Del resto esponenti dell’evangelismo erano presenti all’interno delle strutture ecclesiastiche e ritenevano

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

287

di giocare la propria salvezza personale proprio nella restaurazione disciplinare delle medesime.

Così, a livello diocesano,

al-

cuni ordinari s'impegnano nella via di un mutamento dei mo-

delli di vita episcopale allora imperanti: G. Briconnet, vescovo di Lodève e Meaux, dal 1517 comincia a porre al centro della propria attenzione l’attività pastorale, visitando regolarmente la diocesi, tenendo il sinodo e fissando un programma per la regolare

predicazione ai fedeli; M. Giberti, ordinario di Verona dal 1524, sempre nell'ottica di vincolare il suo ufficio alla cura animarum,

rinuncia ai benefici, s’insedia nella diocesi dopo il sacco di Roma, la visita accuratamente,

promuove

l’istruzione cristiana del

clero e del popolo e, scorgendo che il rinnovamento religioso e morale trova ostacoli nel disagio materiale dei fedeli, cerca di individuare, in accordo con l’autorità civile, i modi di una modifi-

cazione delle condizioni di povertà. E anche nell’ambito degli ordini religiosi si colgono tentativi di rinnovamento: oltre alle nuove congregazioni di chierici regolari (sacerdoti che, pur vivendo in comune secondo una regola, non seguono l’esperienza monastica, ma si dedicano attivamente alla cura d’anime), come i Teatini (1524) e i Barnabiti (1533), va segnalata la nascita

dei Cappuccini (le prime costituzioni sono del 1529, vengono poi fissate nel 1536). Sotto la spinta di un francescano osservante — Matteo da Bascio, che tuttavia finirà la sua vita come solitario predicatore errante, probabilmente

per la convinzione

dell’impos-

sibilità delle istituzioni a recepire pienamente le sue aspirazioni di riforma —- essi si propongono di ritornare alla pratica integrale della regola dell’Assisiate e recuperano quella tradizione spirituale interna all’ordine in cui è ben visibile l’istanza di purificazione della chiesa: il richiamo alla volontaria povertà personale e comunitaria si coniuga tanto con una capillare predicazione popolare del Vangelo, quanto con un forte slancio caritativo, che garantiranno al nuovo ordine un largo consenso popolare. Ma di fronte all’approfondirsi dei problemi — in particolare alla diffusione che sembrava inarrestabile del protestantesimo — si delinea attorno agli anni Quaranta quella modificazione, che caratterizza appunto una seconda fase nella vicenda delle tendenze innovatrici. Da un lato si fa più netta, anche in personaggi che al movimento di riforma avevano appartenuto, l'esigenza che la necessaria restaurazione della disciplina ecclesiastica e il rinnovamento religioso siano subordinati ad una totale sconfitta delle

tesi dottrinalmente

eterodosse:

per ottenerla,

occorre

la

mobilitazione della strumentazione coercitiva e repressiva che

288

Cristianesimo

l’autorità civile deve a questo scopo mettere a disposizione della

chiesa. Tipica espressione di questa linea è il teatino G. Carafa,

che, diventato poi papa col nome di Paolo IV (1555-1559), inaugurerà una stagione di intollerante caccia agli eretici e a quanti

erano solo sospettati di essere tali; di inflessibile persecuzione

verso i marranos (Ebrei forzosamente convertiti che nella vita privata rimanevano fedeli al giudaismo) riparati nello stato pontificio; di dura repressione antiebraica

(bolla Cum

nimis absurdum,

1555) che si manifesta anche attraverso l'erezione del ghetto a Roma e Venezia. Dall'altro lato i riformatori — in genere persone di alta cultura, appartenenti ai gruppi dominanti nella chiesa e nella società, ma che mantengono anche relazioni e rapporti con un tessuto socialmente assai più ampio e diversificato — si muovono in un'ottica che, pur senza mettere in questione la tesi generale del reformare homines per sacra et non sacra per homines, in modo da mantenersi all’interno dell’istituzione, cerca di evitare lo scontro frontale e la rigida negazione dei temi della rivolta luterana, per poter così continuare il tentativo di inserirne positivamente nella vita cristiana gli elementi giudicati conformi alla verità evangelica. Agli intransigenti interessa ormai una netta definizione dottrinale alla luce della quale vagliare tutte le espressioni della fede, anche, anzi soprattutto, quelle più priva-

te ed intime, per verificarne puntigliosamente la conformità

all’ortodossia dimento verso dono in gioco Ai rinnovatori

ed estirpare con ogni mezzo anche il minimo cequanto ritengono intollerabile eresia, perché vel'assetto fondamentale della chiesa e della società. preme invece sottolineare la loro pubblica ed este

riore manifestazione di comunione con la Santa Sede e la loro piena subordinazione al papato, nella speranza di poter recupe-

rare la rottura protestante in una chiesa romana,

che l’accetta-

zione interiore della parola evangelica da parte dei suoi membri dovrebbe via via trasformare anche nella struttura complessiva. In questo nuovo contesto il problema della riforma, da istanza di gruppi che operano per il rinnovamento personale o di specifiche istituzioni, con l’obiettivo di poter poi conseguire l’egemonia culturale nella chiesa, diventa oggetto di una lotta politica per il controllo del governo ecclesiastico tra diverse e contrapposte componenti interne della gerarchia. Già indicativo di un diverso atteggiarsi degli ambienti riformatori è il Consilium de emendanda ecclesia (1537), redatto su richiesta di Paolo III (1534-

1549) — che desiderava un programma di rinnovamento da sottoporre al futuro concilio — da una commissione cardinalizia, in

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

289

cui operano alcuni dei più prestigiosi ecclesiastici innovatori, come G. Contarini, J. Sadoleto, R. Pole, G. Cortese. Al di là della superficialità dell'analisi dei mali esistenti nella chiesa — spesso ridotti alle debolezze morali del clero — e della scarsa incisività delle misure prospettate (che trovano nell’arbitrio papale il loro criterio di fondo), esso chiede infatti l'abolizione della lettura dei Colloqui di Erasmo nelle scuole cristiane: viene così censurato

proprio il principale artefice di quell’orientamento intellettuale cui si richiamava in vario modo tutto il movimento di riforma. E del nuovo porsi delle questioni è significativo esempio lo scon-

tro che si accende nel conclave del 1549, alla morte di Paolo III, attorno alla successione: il fallimento, pur con minimo scarto, del

Pole è riconducibile al fatto che genti colpisce la sua candidatura todossia. Del resto l'Inquisizione nel 1542 ritorneremo — comincia

il gruppo dei cardinali intransiavanzando riserve sulla sua orromana - sulla cui istituzione ben presto a raccogliere sul Po-

le, sul Morone e su altri prelati rinnovatori, materiali per avviare

contro di essi un processo d'eresia: in questo contesto i loro margini di manovra nel complesso gioco della politica ecclesiastica giungono inevitabilmente a ridursi per poi scomparire. Alla soglia degli anni Sessanta, il movimento di riforma inizia così il terzo periodo della sua vicenda: alcuni ambienti (rappresentati ad esempio da Giorgio Siculo) manifestano un rifiuto delle divisioni teologiche e dei conflitti ecclesiastici, in un acceso spiritualismo e misticismo, che sembra far riferimento ad una dottrina segreta

e superiore del ritorno sità; ma era la definitiva

rivelata dallo Spirito a pochi eletti. Si trattava certo a ben tradizionali forme di espressione delia religioanche il segno di un ripiegamento che annunciava sconfitta nella battaglia per il controllo della istitu-

zione ecclesiastica, la definizione dei suoi fondamenti dottrinali

e l'individuazione di una diversa sua presenza nella società. 2. Le deliberazioni tridentine Quando,

nel 1520, Lutero vide le sue tesi condannate da Roma,

si appellò, contro il giudizio del pontefice, al concilio. Questa istanza, sostenuta dall'imperatore Carlo V, incontrò dapprima la resistenza del papato, che era contrario a rimettere in discussio-

ne decisioni già prese e timoroso, oltre che di un risveglio del conciliarismo,

di incisive iniziative di riforma.

Dal canto loro i

protestanti chiedevano un’assemblea che fosse veramente universale, comprendente cioè, oltre agli ecclesiastici, anche i laici;

290

Cristianesimo

libera da ogni condizionamento papale, ad esempio attraverso lo scioglimento del giuramento di fedeltà dei vescovi al pontefice; «cristiana», vale a dire sottoposta al giudizio ultimo della Scrittura; e da celebrarsi in terra tedesca, per evitare influenze politiche del papa. In seguito al fallimento dei colloqui di paciticazione tenuti tra teologi dei due campi a partire dal 1538 (Lipsia, Worms, Ratisbona) e al contemporaneo rafforzamento delle posizioni politico-militari di Carlo V, che imponeva allo sconfitto re

di Francia l’assenso al concilio (pace di Crépy, 1544), Paolo II

decideva infine di convocarlo a Trento, città italiana, ma sotto-

posta all’impero. Qui l’assise (a parte un effimero trasferimento a Bologna - voluto dal pontefice per sottrarlo all’influsso di Carlo V, ma osteggiato dall’imperatore - che comunque non portò a risultati concreti) operò in tre distinti periodi: dal 1545 al 1547 con una presenza, su circa 700 membri dell’episcopato, di una

cinquantina di padri; dal 1551 al 1552, sotto Giulio III, con l’arrivo, per volontà imperiale, dei vescovi tedeschi e di alcuni dele-

gati protestanti, che peraltro non incisero sui lavori, attestandosi sulla richiesta di sottrarre l’assemblea al controllo papale e di

un riesame delle decisioni già prese; dal 1562 al 1563, sotto Pio

IV, con la partecipazione dell’episcopato francese. Complessivamente presero parte all’assemblea, senza però essere mai presenti contemporaneamente, circa 300 padri, la maggioranza dei quali era costituita dal gruppo italiano. Esso era peraltro diviso tra i clienti del papa

(che fece talora valere, per condizioname

le posizioni, il sussidio economico che Roma versava per sostentamento fuori sede) e sudditi del re di Spagna, in allineati con il poco numeroso episcopato iberico, fedele peratore. L'assemblea era presieduta dai legati pontifici,

il loro genere all’imche ta-

lora mediarono tra le diverse posizioni, ma soprattutto si fecero, con successo, tramite delle istanze romane, dirette in particola-

re ad evitare un ridimensionamento del potere pontificio e una radicale riforma della curia. Ai lavori partecipavano anche teologi, portati come esperti dai prelati o inviati dal papa, che ela-

boravano gli schemi, poi discussi in commissione dai padri e votati nelle sedute in aula, chiamate sessioni.

Un ruolo fondamentale fu anche svolto dagli ambasciatori dei principi cattolici: intervennero ripetutamente per indirizzare le deliberazioni secondo l’interesse dei loro sovrani, che rappresentarono così l'elemento laico indirettamente ma attivamente

presente al Tridentino. L'andamento del concilio fu condiziona-

to dalle vicende esterne — l’interminabile guerra tra l'imperato-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano ll

291

re da un lato, il re di Francia e i principi protestanti dall’altro, è tra le cause della sua lunga e frazionata durata —, ma anche

crisi interne. La ma: i sostenitori la riforma della condanna degli messo: sì decise

da

prima di queste ultime riguardava il programdelle tesi imperiali volevano che si iniziasse con chiesa; quelli degli orientamenti papali con la errori protestanti. Fu sciolta con un comprodi portare contemporaneamente avanti tanto il

rinnovamento ecclesiale che le decisioni dottrinali, anche se i la-

vori in concreto si orientarono rapidamente verso la netta affermazione del dogma cattolico in contrapposizione alle idee protestanti, mostrando così il prevalere di fatto della prospettiva romana. E si trovarono soluzioni compromissorie anche su altre dibattute questioni: ad esempio sul problema se la residenza dei vescovi fosse di diritto ecclesiastico (e perciò soggetta alle dispense papali), oppure di diritto divino (il che esaltava il ruolo episcopale nella chiesa), si decise di rinunciare ad una definizione dottrinale, per insistere sulle garanzie giuridiche dell’obbligo della residenza, il cui controllo veniva comunque affidato alla curia. Alla fine l’insieme delle deliberazioni adottate in tut-

te le sessioni venne riletto e approvato in blocco: in tal modo

l’opera del concilio formò un tutto indivisibile, che solo per co-

modità espositiva si può distinguere in dottrinale e disciplinare. Sul primo piano, anziché fornire un’organica esposizione del cattolicesimo, il concilio si limitò a rispondere alle tesi protestanti, stabilendo in forma positiva la dottrina cattolica e facendola poi seguire da un secco anatema delle proposizioni che la negano. Alla concezione della sola Scriptura il Tridentino contrappose l’affermazione che il contenuto della fede si trova, oltre che nel testo biblico, anche nelle «tradizioni apostoliche» che hanno avuto origine dall’insegnamento di Cristo, scartando co-

munque

una formulazione ampia, che inglobava tutte le tradi-

zioni ecclesiastiche, ed evitando di indicare due canali indipen-

denti nella trasmissione della rivelazione. Al contempo,

aver fissato i libri canonici della Bibbia, comprendendovi

dopo

anche

quelli che i protestanti respingevano, il concilio dichiarava autentica la versione latina detta Vulgata, proclamandola sufficiente per assumere decisioni in materia dogmatica: non prendeva però posizione, anche a causa dei dispareri che si erano manifestati sull’argomento, sulle sue traduzioni in lingua volgare. Sul tema della giustificazione per fede — dopo un intenso dibattito

che aveva visto l’espressione di posizioni favorevoli alla negazio-

ne di meriti acquisibili attraverso le opere — si giunse ad una for-

292 mula,

Cristianesimo che,

pur

subordinando

il conseguimento

della salvezza

all'intervento di un gratuito dono divino, sosteneva anche la ne-

cessità di una forma di cooperazione dell’uomo, mantenendo co-

sì il libero arbitrio. Infine al rigetto protestante dei sacramenti,

ad eccezione del battesimo e dell’eucaristia, il Tridentino rispo-

se ribadendo l’efficacia ex opere operato (cioè non in virtù della fede di chi li compie nelle promesse contenute nella parola di Dio) di sette sacramenti. In contrapposizione al luterano sacerdozio universale dei credenti, si insisteva sul sacramento dell’ordine, che, in una visione fortemente gerarchica del governo della chie-

sa, veniva presentato come la via d’accesso ad uno specifico ministero, dotato di particolari poteri in ordine alla vita spirituale.

Il sacerdote era ad esempio necessario per impartire il sacra-

mento della penitenza ai peccatori che avessero perduto la grazia: l'assemblea insisteva sul carattere auricolare della confessio-

ne, sul significato giudiziale dell’assoluzione sacerdotale e sul va-

lore delle «opere di soddisfazione» del penitente. Si fissavano

inoltre le condizioni per la validità del matrimonio — in cui il sacramento era costituito dal mutuo consenso degli sposi —, anche nell’intento di por fine alla piaga dei matrimoni clandestini. Per quanto riguarda poi l’eucaristia, in polemica con la concezione

calvinista che ne faceva semplice memoria dell’ultima cena, la si

presentava come sacramento che comportava la transustanziazione del pane e del vino: il pane e il vino restavano presenti

sull’altare solo come mere apparenze, in quanto trasformati real-

mente nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Per l’estrema unzione e la cresima si sottolineava poi il loro carattere di ve-

ro e proprio sacramento (segno esterno ed al contempo causa

della grazia divina), anziché di mera cerimonia rituale. Alla lot-

ta dottrinale contro il protestantesimo vanno infine ricondotti i decreti sulla messa — presentata come una riattualizzazione del

sacrificio di Cristo, con effetti propiziatori per i vivi e per i mor-

ti —; sul Purgatorio, indicato come un luogo di purificazione del-

le anime

in attesa di accedere

alla felicità ultraterrena,

la per-

manenza nel quale può venire abbreviata tramite i suffragi dei vivi, in particolare appunto le messe; sulla venerazione delle reliquie e delle immagini, che, ribadendo il potere intercessorio della preghiera ai santi e stigmatizzando l’iconoclastia, ne disciplinava l’utilizzazione in modo da evitare superstizioni e garantire su di esse il controllo episcopale. Sul piano disciplinare il concilio, orientato a fare della salus

animarum il punto focale dell’attività ecclesiastica, decretava in

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

293

primo luogo un rafforzamento del potere dei vescovi nei con-

fronti del clero e dei laici della diocesi. Ne diventavano strumenti

fondamentali la visita pastorale e il sinodo diocesano. La prima — da compiersi almeno ogni due anni — veniva dichiarata atto esclusivamente episcopale, esautorando così quelle giurisdizioni ecclesiastiche

(arcidiaconi e metropoliti),

che in passato se ne

erano impadronite per il controllo della tassa ad essa connessa; e sopprimendo i privilegi laicali che ne impedivano o ostacola-

vano l'effettuazione. Il sinodo diocesano, da tenersi annualmen-

te, era presentato come assemblea esclusivamente clericale nella quale l’ordinario era l’unico legislatore. L'autorità dei vescovi era rafforzata anche nei confronti degli ordini religiosi e monastici, attraverso la soppressione di larga parte delle esenzioni giurisdizionali di cui avevano in precedenza goduto. Al contempo ai vescovi s'imponevano doveri: oltre alla residenza, al divieto di cumulare benefici e al mantenimento di uno stile di vita sobrio e frugale, essi avrebbero dovuto predicare in prima persona la parola di Dio (lo si definiva opus praecipuum del loro ministero) ed assicurare che fosse regolarmente predicata nella diocesi; verificare le qualità dei chierici da ordinare al sacerdozio, in modo che vi accedessero solo persone «provate e capaci», senza mai ricevere il minimo

dono, anche non richiesto, per il conferimen-

to del sacramento; partecipare ogni tre anni al concilio dei vescovi della provincia ecclesiastica. Per quanto riguarda il clero si stabiliva che il sacerdote secolare — di cui si fissava la separatezza dal mondo come condizione normale di vita (persino nel vestire, attraverso

l’obbligo di indossare

la talare)

— venisse

ade-

guatamente formato fin dalla giovane età sul piano spirituale e culturale in un apposito istituto, il seminario, che avrebbe dovuto essere eretto in ogni diocesi, ospitando gratuitamente i fan-

ciulli poveri e, dietro pagamento di una retta, quelli ricchi. Per

far fronte al problema dei «chierici vaganti», si decretava che nes-

sun candidato, per quanto idonco, potesse essere ammesso all’or-

dine se non desse prova di possedere un beneficio ecclesiastico in grado di mantenerlo. In relazione agli ordini religiosi e monastici, oltre all'osservanza della regola, si stabilivano cautele circa l'età e le condizioni della professione religiosa (in modo da evitare che costrizioni familiari o economiche ne fossero all’origine), anche se poi, trascorsi cinque anni, non era più possibile svestire l'abito denunciando vocazioni forzate. Si rafforzava inoltre la loro gerarchia interna, accrescendo il potere di generali e badesse, e si sottoponevano le case dei religiosi a periodiche vi-

294

Cristianesimo

site di un delegato dell’ordine e i monasteri femminili a regolari visite episcopali; mentre in quelli di clausura rigide norme erano poste per la sua salvaguardia. 2. L'APPLICAZIONE ROMANA DEL TRIDENTINO

1. La ristrutturazione del governo centrale della chiesa Nell'ultimo giorno di riunione il concilio di Trento aveva chiesto,

con l'eccezione di un solo padre, che il papa confermasse tutto il lavoro dell’assemblea. Nel giugno 1564 Pio IV (1560-1565), nonostante l'opposizione di alcuni settori conservatori della curia, pubblicava una bolla, in cui, definendo se stesso come «vescovo della chiesa universale», confermava solennemente l’insieme de-

gli atti del concilio e al contempo ordinava di applicarne i decreti in tutto il mondo cattolico, riservando alla Santa Sede il giudizio finale sulla loro interpretazione e sulle relative controversie. In tal modo le deliberazioni tridentine venivano ipostatizzate a canone universalmente valido, da estendersi omogeneamente

su tutta la

cattolicità sotto il controllo della curia pontificia. Inoltre il papato, nel dar seguito in senso positivo all'appello del concilio di realizzare provvedimenti di riforma per la cui attuazione l'assemblea non aveva avuto tempo e strumenti tecnici, si muoveva in un’ottica romanocentrica. Così Pio IV ottemperava alla richiesta dell’assise di redigere una professione di fede per gli ecclesiastici in cura d’anime, pubblicando un testo (1564) che non prevedeva solo l'adesione al dettato tridentino, ma anche una professione di obbedienza al papa. In rapida successione uscivano poi a Roma un catechismo diretto ai parroci per l’istruzione dei fedeli (1566), il breviario (1568), il messale (1570), detti appunto «romani», che,

pur non assumendo un ruolo assolutamente normativo — soprattutto sul piano liturgico permanevano infatti radicate differenziazioni —, venivano comunque proposti alla chiesa universale come un modo esemplare di recepire le indicazioni tridentine. Infine nel 1593 una commissione pontificia, dopo un travagliato lavoro, sul quale umanisti e filologi avevano avanzato varie perplessità, pubblicava la versione ufficiale della Vul/gata. Gli orientamenti romani venivano resi esecutivi non solo attraverso l’invio nelle chiese locali di visitatori apostolici incaricati di verificare l’applicazione della nuova legislazione, ma anche per mezzo di una profonda ristrutturazione del governo centra-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

295

le della chiesa. Essa troverà il suo punto culminante nella rifor-

ma di Sisto V (bolla /mmensa aeterni del 1588) cui si deve una si-

stemazione della curia destinata a durare, sia pure con qualche

aggiustamento, per secoli (una prima ridistribuzione di funzioni

verrà attuata da Pio X nel 1908 ed un mutamento più incisivo da Paolo VI nel 1967 con l’internazionalizzazione del suo personale). Il collegio cardinalizio perdeva allora il tradizionale ruolo decisionale — i concistori vennero utilizzati dal papa solo per rendere pubblici annunci solenni — che fu invece affidato a congregazioni, cioè commissioni presiedute da un cardinale di curia e formate

da esperti funzionari

ecclesiastici, in genere

di forma-

zione culturale romana: sei di esse si occupavano del dominio

temporale della Santa Sede e nove delle questioni spirituali. In

ordine all’attuazione del Tridentino acquistò importanza fondamentale la Congregazione del concilio, creata già nel 1564 per curare l’esatta interpretazione della normativa conciliare, che nella riorganizzazione di Sisto V otteneva un allargamento delle sue competenze. Due suoi compiti possono esemplificare il processo di centralizzazione in questo ambito. In primo luogo, svuotando la ripetuta indicazione dell’assemblea di affidare ai concili provinciali la traduzione pratica delle sue decisioni in armonia con le concrete situazioni locali, la Congregazione impose che non si potessero pubblicare le loro deliberazioni se non dopo che essa aveva compiuto un controllo di merito e di forma: in tal modo i vescovi, che spesso si vedevano respingere i decreti preparati, preferirono rivolgersi direttamente a Roma, accettando un ruolo di subordinazione gerarchica, piuttosto che puntare su un’autonoma, ma faticosa e aleatoria, attività collegiale. In secondo luogo la Congregazione assunse il compito di verificare le relationes ad limina, testi che con periodicità regolare tutti gli ordinari dovevano portare alla Santa Sede, per riferire dettagliatamente — e ben presto in base ad un analitico questionario — sulle condizioni della vita religiosa e morale della loro diocesi, visitando al contempo le reliquie dei santi Pietro e Paolo e rendendo personalmente omaggio al papa in segno di obbedienza e sottomissione. Per quanto la visita venisse normalmente compiuta, su dispensa pontificia, tramite delegato, la Congregazione inflessibilmente richiese (anche se alcune chiese, come quella gallicana, a lungo si sottrassero a tale obbligo) la redazione e l’invio delle relazioni, formulando rilievi e richiami sull'attività epi-

scopale, la quale assumeva così un carattere di funzionariato più che di autonoma responsabilità.

296

Cristianesimo

Questo processo di verticalizzazione decisionale non investiva solo il controllo dell’applicazione del concilio, ma tutti gli aspetti della vita della chiesa post-tridentina. Ad esempio la verifica della prassi liturgica e i processi per la canonizzazione dei santi trovano nella Congregazione dei riti l’ultima istanza definitoria; la Congregazione dei vescovi si occupò dell’erezione delle nuove diocesi e della nomina degli ordinari diocesani, mentre quel la della residenza

vagliava le loro richieste di assenza;

la Con-

gregazione dei regolari affrontò tutte le questioni relative allo stato-religioso nel mondo; la Congregazione per la conversione degli infedeli — diventata nel 1622 Congregazione di Propaganda fide - svolse il compito di dirigere e controllare l'opera di espansione missionaria nei paesi extraeuropei e di riconquista cattolica dei paesi protestanti; ecc. A livello politico generale emerge invece il ruolo della Segreteria di stato — a lungo affidata al cardinal nipote — che si avvale della fitta rete di nunzi apostolici, accreditati presso le varie corti con funzioni di rappresentanza diplomatica del papa, non solo per assicurare la presenza della San-

ta Sede nel concerto della politica internazionale e stimolare alla concordia i principi cattolici, eventualmente indirizzandoli al-

la-crociata contro i Turchi o i protestanti; ma anche per svolge re un ruolo di supervisione pontificia sugli affari delle chiese nazionali. Ma fra questi diversi organismi alcuni giungono ad incidere più profondamente nell'assetto della chiesa e della società, tanto da assurgere a simbolo stesso dell'età controriformistica. Sul piano dottrinale si verifica fin dal 1542 la sostituzione dell’Inquisizione medievale — che, inizialmente sotto il controllo episcopale, era poi passata nelle mani degli ordini domenicano e francescano, pur continuando ad operare con una certa autonomia territoriale — col Sant'Uffizio, una Congregazione unica e

permanente, che possiede una giurisdizione sull’intero mondo per nominare e destituire gli inquisitori, intervenire dovunque giudicasse la fede in pericolo, acquisire tutti i processi che ritenesse opportuno. Ad essa poi si aggiunge nel 1564 la Congregazione dell’Indice, incaricata di fissare l'elenco dei libri proibiti

negli stati cattolici: oltre ad impedire la libera circolazione e discussione delle idee, essa, senza appoggio nel dispositivo conciliare, limiterà attraverso rigide procedure l’accesso dei fedeli al-

la lettura della Bibbia in volgare.

L'affermazione dell’autorità romana non fu affidata solo a questa profonda riorganizzazione del governo centrale della chiesa, che assumeva e per certi aspetti anticipava i caratteri del-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

297

le monarchie assolute. Proprio con Sisto V (1585-1590), il papato, a testimonianza del successo nel respingere l’assalto prote-

stante, cercò di assicurare la sua influenza sull’intero mondo cat-

tolico anche trasformando l'aspetto esteriore di Roma: l’urbani-

stica e l’arte vengono utilizzate per suscitare nei visitatori non solo devozione verso quelle immagini religiose — che il Tridentino aveva ribadito, pur condannando gli abusi, degne di venerazione in contrapposizione all’iconoclasmo calvinista —, ma soprattutto un senso di rispetto e di sottomissione verso la «città sacra» e il suo sovrano temporale e spirituale. Al contempo i papi si sforzarono anche di rianimare la vita culturale e spirituale dell’Urbe. Così la città, che a Lutero era apparsa corrotta e paganeggiante e che nel 1527 aveva subìto l’irridente saccheggio dei Lanzichenecchi, ridiventava il centro del mondo cattolico, il cui cre-

scente prestigio implicava un riconoscimento dell’autorità del pontefice, come mostra, ad esempio, il grande successo della ripresa dei pellegrinaggi alle sue «sette chiese» e di quelli effettuati per la frequente proclamazione di «anni santi». Ma l’accentramento romano nell’applicazione del concilio trova anche altre ragioni. Mentre gli ambasciatori di alcuni stati — quelli italiani, Polonia, Portogallo, i cantoni svizzeri — già a Trento avevano dichiarato di accettare la ricezione dei decreti conciliari nei loro paesi, nell'impero, in Spagna, in Francia e nei Paesi Bassi si manifestarono riserve ed esitazioni, sia in relazione

ai problemi

del mantenimento della pace

religiosa coi prote-

stanti che vi risiedevano, sia per la difesa di privilegi locali, sia

per la tutela delle prerogative giurisdizionali delle monarchie cattoliche. Talora dietro queste resistenze si celavano anche le opposizioni di vescovi, capitoli ed ecclesiastici ancora legati alle concezioni e agli stili di vita pre-tridentini. Era così facile rivendicare la concentrazione a Roma di poteri come la strada obbligata per dare pratica realizzazione alle decisioni conciliari. Non sempre l’iniziativa romana ebbe successo — in Francia, ad esempio, i decreti conciliari non vennero mai promulgati come leggi dello stato —; e la pubblicazione dell’Istoria del concilio

tridentino (1619) ad opera del servita veneziano P. Sarpi (in cui si

sosteneva che l'assemblea era stata artatamente manipolata dal papato per accrescere la propria autorità non solo a danno dell’episcopato, ma anche dei sovrani) ebbe l’effetto di rendere

più avvertiti alcuni governi nella difesa dei loro diritti giurisdi-

zionali. Tuttavia queste difficoltà non scossero le solidarietà col potere politico che Roma era riuscita a costruire. La scelta dei

298

vescovi — frequentemente

Cristianesimo

effettuata dalla competente Congre-

gazione su una lista di candidati presentati dal potere politico — favoriva l'accordo di fondo, nonostante tensioni e frizioni, tra Ro-

ma e le autorità civili nella quotidiana direzione della vita collettiva. Inoltre la generale convinzione che l’unità religiosa costituiva la premessa indispensabile dell’unità politica, determinava nei paesi di Controriforma la proclamazione del cattolicesimo come religione di stato. La curia papale operò attivamente perché ne discendesse la piena armonizzazione delle leggi civili con quelle canoniche, in modo che lo stato agisse come braccio secolare per l'imposizione delle direttive della chiesa nelle questioni spirituali, come in quelle «miste». Nonostante su queste ultime sì accendessero ripetuti conflitti, la chiesa, anche grazie ad

una gerarchia episcopale inevitabilmente assai ligia ai due poteri cui, come si è visto, doveva la nomina, conseguì un sostanzia-

le successo nell’impegnare i governi ad imporre coercitivamente i comportamenti religiosi e morali da essa giudicati corretti. Anche per questa via la chiesa e la società dell’età controriformistica assunsero un volto nettamente romano e papale: il conformismo ideologico ed etico dei paesi cattolici trova nella generalizzata obbedienza a Roma, garantita dalle pubbliche autorità, una delle sue ragioni fondanti. Per quanto la ricezione dell’interpretazione romana del Tridentino si realizzasse in tempi diversi a seconda delle varie arce geo-politiche, essa giunse comunque a stabilirsi in tutto il mondo cattolico. Si realizzava così un modello tendenzialmente uniforme di chiesa e del suo rapporto con la società, che è uno degli esiti più caratteristici della Controriforma. Nonostante la successiva crisi di cui parleremo e pur con tutte le articolazioni e le dif-

ferenziazioni indotte nella chiesa dall’esigenza di rapportarsi a nuove vicende storiche, i presupposti fondamentali che avevano

presieduto all’instaurazione di questo assetto si sarebbero man-

tenuti per secoli, definendo un modo di presenza del cattolicesimo nel mondo moderno e contemporaneo che ha resistito, pur con notevoli adattamenti, fino alla svolta introdotta dal concilio

Vaticano II (1962-1965).

2. Ruolo dell’episcopato e dei nuovi ordini religiosi Nell'opera di applicazione dei decreti tridentini s'impegnarono immediatamente dopo la conclusione del concilio alcuni ordina-

ri diocesani - ad esempio C. Borromeo a Milano (1560-1584), G.

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

299

Paleotti a Bologna (1566-1591), B. de Martyribus a Braga (15591590) -, il cui dinamico attivismo non fu per la verità esente dalla rivendicazione di qualche spazio di autonomia rispetto al centralismo romano. Tuttavia la loro iniziativa non costituì, per i limiti entro cui rimase e per l’inevitabile ricorso al sostegno curiale nella lotta alle resistenze incontrate a livello locale, una reale alter-

nativa sul piano del generale governo della chiesa. Anzi Roma seppe abilmente approfittare della loro attività, depurando la memoria di questi vescovi dagli aspetti che risultavano meno consoni alla sua linea: è ad esempio significativo che la canonizzazione del Borromeo,

avvenuta assai presto, nel

1610,

facesse riferimento

all'esercizio eroico delle sue virtù private, anziché a quelle dispiegate nel suo governo episcopale. In tal modo l’immagine di que-

sti prelati, che nella comune coscienza cattolica assurse rapida-

mente a modello ideale dell’ordinario post-tridentino, cui ogni «buon vescovo» era tenuto a conformarsi, venne a perdere ogni ri-

ferimento alla loro responsabile autonomia, per comprendere invece come suo elemento costitutivo una supina fedeltà a Roma. Del resto l'ampia osmosi tra ceti aristocratici ed episcopato favorì l’accesso al vertice delle diocesi di personaggi che, assai attenti a curare gli interessi della famiglia di provenienza, erano ben lieti di esercitare il loro ministero pastorale secondo quelle direttive cu-

riali che ne facevano in primo luogo ligi funzionari.

Così l’opera dell’episcopato post-tridentino si caratterizzò in linea generale — e non senza accentuazioni diverse a seconda del-

le persone e delle aree — per la traduzione a livello locale dell’ottica romana.

Gli ordinari si preoccuparono

tuttavia dell’affer-

mazione dell'autorità episcopale sulla diocesi sia in direzione dei poteri ecclesiastici che in passato l'avevano indebolita (metro-

politi, capitoli, arcidiaconi, ordini religiosi esenti, ecc.), sia in di-

rezione delle autorità e delle comunità civili. In questo secondo

ambito non si puntò solo al conseguimento del diritto di nomi-

na alle funzioni ecclesiastiche (costante, anche se destinata ad un

ampio successo solo nei secoli successivi, è la tendenza a concentrare nelle mani dell’ordinario la provvista dei benefici a scapito dei preesistenti giuspatronati) e al totale controllo sui beni della chiesa e sugli enti di istruzione, beneficenza

e assistenza;

ma anche alla gestione dei poteri giurisdizionali (ad esempio in materia matrimoniale o sui reati civili e penali del clero) che lo

stato poteva rivendicare ai suoi organi. Gli strumenti attivati per

questo rafforzamento del potere episcopale furono diversi. In primo luogo il vescovo si dotò di un’articolata curia — caratteriz-

300

Cristianesimo

zata dal moltiplicarsi e dallo specializzarsi degli uffici che già in precedenza ne assecondavano il ministero — che sottopose ad una regolamentazione giuridico-burocratica l'intera vita diocesana. Le circoscrizioni territoriali che componevano la diocesi (parrocchie, a loro volta raggruppate in vicariati foranei) vennero spesso ristrutturate, in modo da consentire un capillare controllo del

vescovo sul clero — anche attraverso periodiche riunioni per la soluzione dei «casi morali» — e di questo sulle popolazioni. Inol-

tre la visita pastorale — che secondo l'esempio borromaico, conse-

gnato negli Acta ecclesiae mediolanensis, assunse nel suo svolgimento una ben definita e coerente configurazione, diffusa poi da

un’ampia trattatistica, tra cui grande successo editoriale ebbe il

Trattato della visita pastorale di G. Crispino (1695) — diventò il principale mezzo con cui il vescovo verificava direttamente le concrete condizioni non solo della vita religiosa o morale, ma anche sociale nelle parrocchie. Infatti sulla base di un minuzioso questionario si provvedeva sia ad accertare la correttezza dei comportamenti di clero e fedeli, la proprietà degli edifici sacri e la funzionalità delle istituzioni ecclesiastiche, sia ad indagare su quelle categorie (artisti, medici, librai, tipografi, ecc.) che potevano influire sulla collettività, intervenendo poi con puntuali decreti a disciplinare tutti quegli aspetti che si volevano correggere. Anche gli statuti dei sinodi diocesani — che in effetti ripresero a tenersi dopo il Tridentino, ma il cui svolgimento trovò nel Pontificale romanum (1595) di Clemente VIII una rigida normativa cerimoniale, che di fatto scontava il consenso dell'assemblea a pre-

determinate decisioni episcopali — si conformarono in genere ad un metodico schema compatto (la dottrina della fede; le persone, sia laici che ecclesiastici; i sacramenti;

i luoghi sacri; i beni

ecclesiastici). In tal modo il vescovo si dotava degli strumenti legislativi per un completo governo di clero e popolo. Infine gli ordinari si preoccuparono, oltre che di una regolare celebrazione delle ordinazioni dei preti, dell'erezione nella loro diocesi dei seminari, in cui sotto la loro diretta e continua ispezione, non si

doveva formare solo un clero culturalmente preparato, ma anche

inculcare ad esso, nella continua separatezza dal mondo, il ruolo

sacrale del futuro servitore di Dio, che, in quanto tale, si poneva al di fuori e al di sopra della storia degli uomini. Non a caso da questa istituzione —- che comunque troverà compiuta realizzazione solo attraverso un processo secolare che giunge fino agli inizi del Novecento — uscirà un modello di parroco che, contormandosi all’ottica tridentina, certamente privilegerà rispetto alle me-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

301

re funzioni d’intercessione, la cura pastorale, ma riterrà anche,

sia pure con diverse accentuazioni nel tempo e nello spazio, che ad essa era strettamente connesso l'esercizio del ruolo di «vescovo e re» sulla popolazione a lui affidata. Tuttavia, in seguito alla lentissima introduzione dei seminari, i più attivi agenti dell’opera di trasformazione della chiesa e della

società in senso controriformistico furono, almeno fino alla metà

del Seicento, i membri di nuovi ordini religiosi. Qui la già ricordata tendenza a costituire congregazioni di chierici regolari si coniugava con una totale adesione ai criteri di selezione, formazio-

ne, apostolato derivanti dall’interpretazione romana del Tridenti-

no. Con una indubbia manifestazione di vitalità religiosa scaturi-

rono, in piena adesione a quest'ottica, numerose nuove istituzioni, che rapidamente si diffusero in tutto il mondo: i gesuiti (1540), gli oratoriani (1565), i camilliani (1584), i fatebenefratelli (1586), i caracciolini (1588), gli scolopi (1597), ecc. Essi, mantenendo

aree privilegiate di attività secondo le particolari costituzioni, si dedicarono con assiduo zelo all’impegno assistenziale e alla predi-

cazione, all’evangelizzazione missionaria, nel vecchio come nel nuovo mondo, e all’istruzione, in una tenace volontà di radicare

nelle popolazioni le norme etiche e dottrinali stabilite dalla chiesa di Roma e di rimodellare la società alla luce di questi valori. Tra questi ordini assume un particolare rilievo la Compagnia di Gesù, il cui fondatore Ignazio di Loyola (1491-1556) volle si caratterizzasse per uno speciale voto di obbedienza al papato. Le prime costituzioni prevedono che la duplice finalità dell’istituto

— la santificazione dei membri e quella dei fedeli, messe sullo stesso piano — venga raggiunta attraverso una grande varietà e duttilità di impieghi, cui corrisponde la soppressione di quelle forme di vita religiosa (penitenze fisse, recita dell'ufficio corale, uno

speciale abito distintivo) che potevano ostacolare un'attività da svolgersi dovunque lo richiedesse il bisogno della chiesa e del papa. A tale scioltezza di comportamenti fa da contrappeso una forte gerarchizzazione interna, che si richiama alle strutture militari: il generale è eletto a vita; i superiori sono da lui nominati; la congregazione generale, cioè l'organo legislativo, viene convocata, dal papa o dal generale, solo per deliberare su questioni straordinarie; ecc. Ma ciò che più caratterizza l'ordine è la lun-

ga e accurata formazione, che mediamente consente la professione dei voti solenni solo dopo 17 anni di noviziato e il conseguimento dei diplomi universitari. In tal modo i gesuiti selezionarono al loro interno un ceto di professori che nei loro presti-

302

Cristianesimo

giosi collegi, diffusi in tutta Europa,

formarono

con una stessa

struttura organizzativa e gli stessi metodi d'insegnamento buona parte delle classi dirigenti, di cui poi spesso membri della Compagnia diventavano direttori spirituali o confessori. L'ordine costituì così uno dei cardini fondamentali dell’elaborazione e della diffusione della cultura controversistica ed apologetica — esemplarmente espressa a livello teologico nelle Disputationes (15861593)

di R. Bellarmino —

che, tipica della Controriforma,

ha a

lungo caratterizzato gli orientamenti del mondo cattolico. Il significativo ruolo culturale della Compagnia si può del resto cogliere anche nel fatto che proprio a Bellarmino si deve quella teoria della potestas indirecta della chiesa nelle questioni temporali, che fino all’età contemporanea ha guidato l’atteggiamento della chiesa nelle questioni politiche: essa, pur soppiantando le ormai inaccettabili tesi teocratiche di origine medievale, finiva per assicurare ugualmente al papato il ruolo di giudice ultimo e fondamentale nella vita civile e politica del consorzio sociale. Anche la vita religiosa femminile partecipò al generale riassetto della chiesa e della società che fece seguito al Tridentino. Da un lato si registra infatti l'imposizione a tutti gli istituti femminili per volontà di Pio V (bolla Circa pastoralis, 1566) di una ri-

gida regolamentazione

che prevede la professione dei voti so-

lenni e la clausura. Ma dall’altro lato nascono associazioni che, spinte dal desiderio di una vita attiva da condurre nel mondo, si

limitano alla professione dei voti privati, per poter svolgere più

liberamente un’opera educativa o assistenziale. E il caso delle Or-

soline, nate nel 1535 per iniziativa di A. Merici (1474-1540), che

volle raggruppare donne che, continuando a vivere nelle loro famiglie, senza vita comune ed abito speciale, si dedicavano all'istruzione delle ragazze. Nonostante travagliate vicende che

ben presto riportarono in rami della famiglia la clausura, resta-

va comunque l'impegno della congregazione nel trascurato campo dell’educazione femminile.

Ed è anche il caso, solo per cita-

re un altro esempio, delle Figlie della carità, nate nel 1633 per

impulso di san Vincenzo de’ Paoli e Luisa de Marillac, che, pro-

nunciando solo voti annuali, si dedicarono al servizio dei poveri, degli ammalati,

dei bambini

abbandonati. Tuttavia negli isti-

tuti educativi o assistenziali retti da queste congregazioni l’attività di promozione umana e sociale verso gruppi emarginati o subalterni era connessa alla volontà di radicare in loro le concezioni etiche e dottrinali dell’età controriformistica. E ad esempio significativo che nell'assistenza ai poveri il soccorso venisse pre-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

303

stato solo a condizione di una pur esteriore manifestazione di

adesione ad esse da parte del bisognoso. 3. Santità e pietà barocca

Uno dei più rilevanti aspetti dell’età della Controriforma è costituito dalla ridefinizione dei modelli di santità in relazione alle tendenze di fondo operanti nella chiesa ed al rapporto che essa intende stabilire con la società. Sul piano istituzionale, oltre al

già ricordato affidamento della competenza in materia ad un’a posita Congregazione romana, si assiste con Urbano VIII alla pre-

cisazione dei presupposti che permettono l’avvio del processo di

canonizzazione (costituzione Coelestis Hierusalem, 1634). Essi consistono nella purezza della dottrina, da verificarsi negli scritti del

canonizzando, che devono essere esenti da qualsiasi errore pubblicamente non ritrattato; nell’esistenza di una legittima — cioè generale e spontanea — fama di santità, che ha origine in una vita integra, illustrata da virtù eroiche e dal compimento

di mira-

coli; nell’assenza di un culto indebito prima della proclamazione romana, considerato ostacolo insormontabile al procedere della causa. Nella formalizzazione di queste condizioni si può in primo luogo notare il consolidamento di un’evoluzione già pre-

sente negli ultimi secoli dell’età medievale: il santo più che un

taumaturgo è un personaggio che si caratterizza per la pratica

delle virtù; i miracoli sono una prova della sua santità, non la ra-

gione del culto che gli si attribuisce. Tra le virtù è ora ben sottolineata la totale adesione all’ortodossia dottrinale, che in con-

creto si traduce in una visione della fede come piena subordi-

nazione alle direttive papali: non entra in tale ottica la questione di un’adesione ad essa come libero consenso, frutto di un'au-

tonoma ricerca personale. Ma ciò che in particolare qualifica il raggiungimento della santità è l’esercizio in grado eroico di tali virtù: in quest'epoca è appunto l’eroismo il parametro di misura definitivo per la canonizzazione del santo (va ricordato che questa impone alla comunità ‘cattolica non di venerarlo, ma di

crederlo indefettibilmente assunto al regno dei cieli e quindi esempio paradigmatico da imitare). L'ideale eroico della santità non deriva solo dagli schemi imposti dall’istituzione ecclesiastica nella conduzione dei processi di canonizzazione; ma costituisce anche la scelta, intima e consapevole, verificabile nei suoi scritti, del futuro santo, che, come

rivela la letteratura a lui relativa, ha poi il consenso e l’ammira-

304

Cristianesimo

zione del contesto sociale in cui si muove. In tal modo i complessi documentari relativi alla santità consentono di cogliere alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata definita la «mentalità barocca» e le forme della presenza della chiesa nella vita collettiva. Da essi emerge in primo luogo il disprezzo del mondo, considerato come dominio di Satana, dal quale, per raggiungere la salvezza, il santo vuole allontanarsi radicalmente, non solo rifuggendo ad ogni pur innocente forma di piacere mondano, ma sottraendosi ad ogni collegamento con Ja terra, persi-

no ai legami familiari. In questo contesto si spiega l’atteggiamento negativo verso il corpo, che viene considerato come luogo di possibile tentazione e quindi oggetto di particolari mortificazioni e discipline: in alcuni santi esse raggiungono persino la ricerca appassionata di forme dolorose di penitenza; ma in altri esse si limitano ad un annullamento di sé nella totale dedizione all'assistenza caritatevole verso le forme abbiette e ripugnanti di

povertà. Ed è, più in generale, da una negazione iniziale dell’io

— nella convinzione della nullità della creatura di fronte al tutto rappresentato da Dio - che comincia il cammino

mistico, pieno

di incognite e di tormenti, che porta alcuni santi (Teresa d’Avi-

la, Giovanni della Croce, ecc.) a quell’impresa grandiosa, superiore alle forze ordinarie dell’uomo, che è il contatto diretto con

il mondo sovrannaturale: un contatto che non produce solo vi-

sioni, illuminazioni, estasi, ma

giunge

anche

in alcuni casì alla

gioia ineffabile della piena unione spirituale dell'anima con Dio. Ma l'ideale eroico della santità non comporta solo l'abbandono del mondo; esso implica anche il trionfo della chiesa: la grande espansione missionaria dell’epoca trova ragione anche nella disponibilità, anzi talora nell’ansia, dei santi di patire ogni supplizio, fino a un atroce martirio, pur di poter raccogliere sotto la guida di Roma l’intera umanità. Ed è ancora in vista del trionfo del cattolicesimo, attraverso il ritorno di quanti si sono da esso

divisi o ne sono lontani, che essi interpretano la loro adesione alla chiesa come una milizia, che richiede supina obbedienza, di-

sciplina, prontezza al combattimento, spirito di sacrificio. Alla ricerca personale della santità e di esperienze mistiche da parte delle élites cattoliche corrisponde, sul piano pubblico, la loro lotta per la cristianizzazione di ceti popolari, in cui esse spes

so colgono la persistenza di una religiosità intrisa di paganesimo, riti magici,

superstizioni.

La chiesa

post-tridentina non

man-

cherà, in qualche caso, di integrare sincretisticamente alcuni ele-

menti della tradizionale cultura folklorica nell’universo simboli-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano Il

co del cattolicesimo

305

(i riti della notte di S. Giovanni, ad esem-

pio); e in altri casi condurrà verso suoi aspetti una violenta repressione inquisitoriale (caccia a streghe e stregoni tra gli anni Sessanta del Cinquecento e gli anni Trenta del Seicento), che riprende temi e prassi che, come ha mostrato H.R. Trevor-Roper (1984), si erano consolidati tra la fine del secolo XV e l’inizio del

successivo. Più complesso — ma sempre riconducibile alla logica

di garantirsi il monopolio del sacro — l'atteggiamento verso la diffusa credenza nella presenza di spiriti maligni: da un lato, ricompresa nell’ottica della demonologia cristiana, essa viene confermata, anche nella prospettiva di quella «pastorale della paura» su cui ha richiamato l’attenzioneJ. Delumeau

(1978); dall’al-

tro lato - come nei casi di possessioni diaboliche sottoposte ad esorcismi — viene ricondotta in un quadro interpretativo tendente a mostrare la suprema potestà della chiesa. Comunque la linea di fondo della cristianizzazione è data dal-

la diffusione presso le popolazioni di una pietà che trovi un suo

punto di riferimento nell'esercizio di alcune fondamentali pratiche religiose. Il fedele dovrà assistere alla messa domenicale e alla predica che il sacerdote vi tiene; ricevere i sacramenti (quelli connessi ai riti di passaggio — battesimo, cresima, matrimonio, estrema unzione — vengono controllati attraverso registri depositati nell’archivio parrocchiale, mentre per mezzo di specifici biglietti si sottopone a verifica la partecipazione alla confessione e comunione pasquali); frequentare l’insegnamento religioso — che ora si dota di specifici manuali, i catechismi —, per organizzare il quale viene spesso eretta un'apposita confraternita, quella della Dottrina cristiana. L'espletamento di queste pratiche avviene normalmente nella chiesa parrocchiale; ma la pietà dell’età barocca si caratterizza per ulteriori devozioni che trovano la loro sede specifica in chiese, oratori, cappelle private, per lo più gestite da ordini religiosi e confraternite. In effetti rispetto agli atti di culto compiuti comunitariamente dalla collettività parrocchiale si nota in quest'epoca una netta preferenza per il particolarismo devozionale. Sono appunto le confraternite laicali — che mal sopportano la subordinazione al vescovo decisa dal Tridentino — a costituire uno dei tramiti fondamentali di questo orientamento, che Roma,

anziché combattere, preferisce dirigere verso forme ritenute accettabili, erigendo le confraternite romane in arciconfraternite ed invitando quelle diocesane ad associarvisi, per godere delle

larghe indulgenze ad esse concesse. Il fenomeno non è

tanto evi-

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Cristianesimo

dente nelle campagne dove hanno in genere sede nella chiesa parrocchiale le due confraternite che maggiormente organizzano la vita religiosa dei fedeli: quella del Santissimo Sacramento — che sviluppa in polemica antiprotestante le molteplici forme del culto eucaristico e talora, aggregando i notabili maschi, svolge la funzione di gestire i beni ecclesiastici; e quella del Rosario, che, nata nel tardo Medioevo su impulso dell’ordine domenicano, ora largamente raccoglie ed incanala in binari controriformistici la pietà mariana femminile. È invece nei centri urbani che sì sviluppa una vera e propria miriade di queste associazioni, in cui la comune presenza di scopi mutualistici — che si volgono per lo più a garantire l’assistenza religiosa ai moribondi, la decorosa sepoltura ed il suffragio per i defunti, ma talora anche ad organizzare previdenza ed assistenza per i membri bisognosi — si coniuga con una straordinaria varietà di referenti devozionali, che vanno dalle più diverse declinazioni del culto mariano, alla reinterpretazione del ruolo protettivo di numerosi santi (emerge ad esempio san Giuseppe come patrono degli artigiani), a nuove forme di mediazione religiosa (ad esempio nelle intitolazioni all’Angelo Custode, che la chiesa post-tridentina pone come guardiano, intercessore e ausilio di ogni fedele). Questa molteplicità riflette non solo la polemica antiprotestante e la volontà di rendere visibile la vittoria della chiesa cattolica, ma soprattut-

to la frammentazione del corpo sociale, i cui vari segmenti trovano nella specifica devozione confraternale una forma di pubblica identità, da spendersi nelle autorappresentazioni della società come nella competizione politica cittadina. Ne consegue comunque la predilezione per il peculiare luogo di culto della

confraternita: il suo sfarzoso addobbo esteriore, manifestando ad

un tempo l’importanza sociale e la religiosità del gruppo, diven-

terà l’oggetto precipuo della pietà dell'associato. Del resto a que-

sto stesso indebolimento della parrocchia portano anche le congregazioni mariane che, distinte dalle confraternite per i più allentati legami associativi, vengono erette dovunque i gesuiti abbiano un loro insediamento, nell'intento di costruire un’«Europa dei devoti» — come ha sottolineato I.. Chatellier (1987) — che

si caratterizza per lo svolgimento delle pratiche religiose (comunione e confessione frequenti, esercizi spirituali, novene) in specifiche cappelle. A tali istituzioni poi non si deve solo la fissazione dei privati comportamenti quotidiani del credente (preghiera del mattino, rendimento di grazie ai pasti, orazione e esame di coscienza la sera); ma anche la promozione di spettacolari ma-

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano Il

307

nifestazioni cultuali collettive cui è affidato il compito, più che di sviluppare la religiosità interiore del fedele, di mostrare pubblicamente il trionfo del cattolicesimo romano sui suoi nemici: ripresa dei pellegrinaggi, in particolare ai santuari mariani - dopo la battaglia di Lepanto (1571) e la difesa di Vienna dai Turchi (1683) la Madonna appare sempre più come la protettrice della costituita società cristiana dai pericoli che la circondano -; organizzazione di processioni con stendardi, canti e recita ad alta voce di orazioni; formalizzazione di nuove cerimonie come la Via crucis, le Quarant'ore, ecc.

Al particolarismo devozionale dell'età barocca si associa una pietà eminentemente visiva: privato dell’accesso alla Scrittura, il cattolico svolge spesso la sua pratica religiosa davanti alle immagini, cui la propaganda anti-iconoclasta ricomincia ad attribuire poteri miracolosi. Urbano VIII (bolle Sanctissimus del 1625, e Coelestis del 1634) ne regolamenta l’utilizzazione, ribadendo il controllo

della gerarchia sul loro contenuto dottrinale e morale e indicandone lo scopo nella dilatazione della venerazione verso i soggetti rappresentati, indipendentemente dalla loro verità storica o naturale. Si favorisce in tal modo il superamento del ricorso all’immagine a scopo didattico o anche solo propagandistico, per sollecitare il fedele alla percezione, secondo antichi schemi neoplato-

nici, del divino presente nella raffigurazione, in modo da facilita-

re il suo accesso ad uno stato visionario. Tale forma di pietà conduce inevitabilmente all’affannosa ricerca della visione sovrannaturale, come conferma della speciale predilezione di Dio per l’anima devota. In questo contesto di private e singolari rivelazioni scaturiscono poi una serie di nuove devozioni che vanno ad arricchire il già affollato universo della religiosità barocca: ad esempio quella verso il Bambin Gesù; ma soprattutto quella al Sacro Cuore (frutto delle rivelazioni a Maria Margherita Alacoque nel monastero della Visitazione di Paray-le-Monial tra il 1673 e il 1689), destinata, come vedremo, ad uno straordinario successo.

3. LA CRISI DELLA CONTRORIFORMA

1. Giansenismo, gallicanesimo, quietismo; critica storica

L'assetto ecclesiale e sociale che l'applicazione romana del Tridentino andava delineando non sempre comportò il rinnovamento disciplinare auspicato dal concilio. Il recupero di funzio-

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Cristianesimo

nalità amministrativa dell’apparato ecclesiastico; l'effettivo ristabilirsi dell’autorità della chiesa ai vari livelli della società — da

quella del vertice romano sull'insieme dei paesi cattolici fino al potere del parroco sulla popolazione a lui affidata —; e l’indub-

bio successo sul piano della diffusione di un’ideologia trionfali-

stica e di una nuova mentalità devozionale non potevano nascondere la permanenza di alcuni problemi: il clero secolare non sempre attendeva alla cura d’anime ad esso richiesta; l’ipertrofica crescita di quello regolare ostacolava il suo totale impegno nella pastorale così come frenava lo sviluppo della vita civile; la moltiplicazione dei benefici ecclesiastici e la conseguente corsa delle famiglie ad assicurarne la gestione a propri membri, per ragioni economiche e di prestigio, impediva un’accurata selezione del personale e dilatava la manomorta; la vita religiosa femminile subiva i pesanti condizionamenti delle esigenze sociali e fami-

liari; ecc. Tra la seconda metà del Seicento e l'inizio del Sette-

cento si manifestò nel papato un’almeno parziale consapevolez-

za di questa situazione; ma

il tentativo di alcuni pontefici — in

particolare di Innocenzo XI (1676-1689), ma anche di Innocenzo XII (1691-1700), cui si deve comunque l'abolizione ufficiale del nepotismo, e di Benedetto XIII (1724-1730), che col sinodo romano del 1725 cercò di stimolare la ripresa dell’ormai spenta attività sinodale — di ovviare a quei mali per mezzo di una piena riattualizzazione della normativa tridentina sulla cura animarum si scontrò con una serie di interessi ormai consolidati che impe-

dirono un sostanziale mutamento della vita ecclesiale. In questo

contesto maturò una prima crisi della Controriforma. Essa risultava peraltro evidente anche dall’opposizione che gruppi e correnti cattoliche stavano conducendo contro orientamenti — teologici, ecclesiologici, devozionali, culturali, politici, ecc. — che la curia romana aveva cercato di imporre uniformemente in tutto il mondo cattolico. Senza riuscire a modificare le tendenze dominanti (anche per le condanne che sovente subirono), questi movimenti manifestano tuttavia la persistenza di un'articolazione di posizioni interne al cattolicesimo dell'età moderna e mostrano l'impossibilità dell’aggregazione di un generale e convinto consenso attorno all’insieme della concezione romana della Controriforma. In questa sede non si può dar esau-

riente conto di tutti i fenomeni che sono indicativi di questa cri-

si; né andare oltre un semplice cenno a suoi aspetti pure assai rilevanti, come il porsi della questione dell’autonomia delle scien-

ze naturali dalla fede, emersa dalla condanna del credente G. Ga-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

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lilei (1633); o come la lunga lotta attorno ai riti cinesi e malabarici (1645-1774), in cui si percepisce lo sforzo di uscire dall’ottica romana nella cristianizzazione di culture diverse da quella europea. Ci limiteremo perciò a segnalare alcuni tra i dati più significativi del momento storico. A livello dottrinale il problema più acuto è posto dallo sviluppo del giansenismo — una corrente originata dall'opera del teologo lovaniense C. Giansenio, poi ripresa da un altro profes sore a Lovanio, M. Baio, nel volume Augustinus (1640) — che ri-

propone, alla luce dell’insegnamento del vescovo d'Ippona, che già aveva influenzato Lutero, il tema della grazia in ordine alla salvezza. Al cattolicesimo contemporaneo che, al di là delle formulazioni dogmatiche tridentine, sembrava nella concreta prassi religiosa far principalmente, e talora esclusivamente, affidamento sulle opere per il conseguimento della vita ultraterrena, i due teologi ricordavano la convinzione presente nella chiesa primitiva: in assenza della grazia efficace, non sempre concessa da Dio, gli uomini, dopo la corruzione della natura intervenuta col peccato originale, erano necessariamente condotti a peccare. La ripresa di questa dottrina in ambito francese — principalmente ad opera del teologo A. Arnauld (1612-1694), del filosofo B. Pascal

(1623-1662)

e delle monache

riunite a Port-Royal - si tra-

duceva nella richiesta di una profonda revisione di concezioni e comportamenti allora prevalenti nella chiesa, che investiva in primo luogo l’ambito morale. In aspra polemica con le posizioni

largamente diffuse dalla Compagnia di Gesù — che aveva co-

munque al suo interno posizioni assai articolate — il movimento giunge così alla ripulsa del probabilismo (secondo cui l’azione morale è retta quando può fondarsi su una solida probabilità, anche se la ragione che la vieterebbe è più probabile) e del lassismo (che consente l'azione morale anche in caso di una tenuissima probabilità di rettitudine), nonché al rifiuto di concedere

l'assoluzione ai penitenti che non mostrino concreto ravvedimento, alla fissazione di rigide condizioni per l’accesso all’eucaristia, alla condanna dell’attrizione (cioè del pentimento per il peccato commesso più per timore della pena che per un pieno atto di carità), ecc. Una prima censura di cinque proposizioni prese dall’ Augustinus ad opera di Innocenzo X (1653) sollevava la questione

delia loro presenza effettiva nel testo; allora Ales-

sandro VII imponeva la formale sottoscrizione di un formulario

che portava sul piano dogmatico una questione di fatto, stabi-

lendo che quelle frasi erano realmente presenti nell'opera di

310

Cristianesimo

Giansenio nel senso giudicato eretico (1656). Tra compromessi sul «silenzio ossequioso» da tenere in tale spinosa e incerta materia, interventi repressivi del potere politico — evacuazione forzata di Port-Royal nel 1709 e sua successiva distruzione — e l’emigrazione di alcuni irriducibili, si era giunti in Francia ad una situazione di relativa tranquillità, quando con la bolla Unigenitus (1713) Clemente XI individuava tesi eretiche in ordine alla pre-

destinazione e alla riforma della chiesa nelle Réflexions morales del

giansenista P. Quesnel. A quanti la rifiutarono il papa comminava la scomunica. Nel 1730 il documento pontificio veniva regi-

strato in Francia come legge dello stato; e, in conseguenza di es-

sa, si sviluppa la battaglia dei «biglietti di confessione», determinata dal rifiuto di concedere i sacramenti a quei fedeli moribondi, che non presentassero un'attestazione del confessore abituale circa la loro accettazione della Unigenitus. La resistenza dei giansenisti si espresse allora in forme variegate: dall’adesione di alcuni al millenarismo convulsionario — i miracoli sulla tomba di un giansenista sepolto a Saint-Médard vennero interpretati come segni dell’approssimarsi di quel generale rinnovamento ecclesiale che precedeva un'imminente fine dei tempi -; all'appello di altri al futuro concilio contro le decisioni pontificie (di qui la denominazione di «appellanti»), all'elaborazione di altri ancora

- in particolare dei membri dei Parlamenti — di una filosofia po-

litica regalistica che sottolineava il «servizio pubblico» svolto dalla chiesa nazionale e quindi la sua subordinazione allo stato. Sotto questi ultimi profili il giansenismo - che aveva intanto trovato espressione anche in una chiesa separata, quella di Utrecht (scisma del 1723) e possedeva un suo organo di stampa, diffuso in tutta Europa, le «Nouvelles ecclésiastiques» — giungeva così a

saldarsi con il gallicanesimo, nonostante le ben diverse vicende

precedenti (lo stato aveva infatti sostenuto i gallicani e a lungo

combattuto i giansenisti). Pur continuando a mantenere atteggiamenti diversificati su diversi punti, le due correnti finivano inoltre per convergere in una comune opposizione all’ecclesiologia romanocentrica, che in quello stesso torno di tempo il gallicanesimo stava mettendo in questione. Per la verità il gallicanesimo affondava le sue radici nell’età medievale ed aveva trovato una formalizzazione nella Prammati ca sanzione (1438) con cui il re Carlo VII, riprendendo le delibe-

razioni dell’assemblea del clero francese tenuta a Bourges, dava vigore di legge alle tesi conciliariste espresse a Costanza e Basilea e limitava la giurisdizione della curia romana sulla vita tempo-

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano I

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rale della chiesa gallicana, sostituendo ad essa quella del sovrano. Nonostante la sua abrogazione in seguito al concordato tra Leone X e Francesco I (1516), tale legge aveva continuato a godere di ampio prestigio tra i teologi francesi, pur assai divisi sul-

la sua interpretazione, a seconda che se ne accentuasse la sua ri-

levanza in ambito ecclesiale o in quello politico. Poi, nel quadro del conflitto tra Luigi XIV e Innocenzo XI per il diritto di regalia (amministrazione delle rendite delle diocesi vacanti), un’as-

semblea del clero gallicano, svoltasi a Parigi nel 1682, approvava la Declaratio cleri gallicani. Ne era in larga parte estensore una delle più autorevoli personalità teologiche dell’epoca, il vescovo di Meaux, ].B. Bossuet (1627-1704), che sintetizzava in quattro articoli le tesi ivi esposte: l'indipendenza del re di Francia dal papa nelle questioni temporali; la superiorità del concilio sul papa

secondo le deliberazioni assunte a Costanza; l’inviolabilità delle

antiche consuetudini liturgiche e disciplinari della chiesa gallicana; l’irreformabilità del giudizio del papa in materia dottrinale a condizione del consensus ecclesiae. Pur senza giungere ad una condanna formale —- solo in seguito la bolla Auctorem fidei (1794)

colpirà alcuni aspetti del gallicanesimo —, Alessandro VIII (1689-

1691) proclamava in punto di morte la nullità degli atti dell'assemblea parigina. Intanto sul piano dottrinale si sviluppava, in polemica con le sue deliberazioni, la corrente teologica dell’ultramontanesimo, caratterizzata dalla rivendicazione della totale

dipendenza della chiesa dalle direttive romane. Tuttavia Luigi XIV rendeva obbligatorio l’insegnamento della dottrina gallicana nelle facoltà di teologia e nei seminari. In tal modo la questione del potere monarchico del papa sulla chiesa universale — e del ruolo che l’episcopato, riunito o meno in concilio, aveva nel suo governo — entrava nel contenzioso tra la Francia e la Santa Sede, legandosi più che ad un approfondimento della riflessione ecclesiologica al cangiante equilibrio dei loro rapporti di potere. Proprio il ricorso al giudizio di Roma, in conformità alle suc profonde convinzioni ultramontane, del vescovo di Cambrai, F. Fénelon (1651-1715), aveva intanto posto definitivamente termine (breve Cum alias di Innocenzo XII, 1699) al tentativo di ela-

borare una forma di vita spirituale e devozionale differenziata rispetto ai modelli prevalenti nell’età della Controriforma. In vari ambienti si era infatti manifestata nel corso del Seicento l’esigenza di sviluppare un'«orazione degli affetti e della quiete», che, nella ricerca di un mistico abbandono in Dio, che escludeva qualsiasi volontà o desiderio, giungeva a svilire e talora re-

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Cristianesimo

spingere l’imperante devozionalismo negli atti di culto. Si tratta di una linea spirituale che era stata presente nella chiesa, con una precisa continuità di testi — lo Specchio delle anime semplici di M. Porete - dai fautori trecenteschi del «libero spirito» a correnti

cinquecentesche

(2/umbrados, G. Siculo, ecc.), per poi prosegui-

re in forme sotterranee. Ora essa variamente riemergeva in gruppi italiani, come i «pelagini» della Valcamonica, orientati a ve-

dere nell’orazione mentale una via di salvezza che non richiede

le preghiere esteriori, in particolare quelle vocali; in circoli dipendenti dalla direzione spirituale di M. de Molinos, che nella Guida spirituale (1675) mostrava di preferire la contemplazione alla meditazione discorsiva derivante dagli esercizi spirituali di tipo gesuitico e alle pratiche di pietà davanti alle immagini; in ambienti francesi influenzati dalla giovane vedova J.M. Guyon, legata appunto al Fénelon, che scorgeva nell’abbandono totale in Dio la garanzia del raggiungimento della salvezza. Di fronte a questi fermenti Roma elaborava un astratto schema di «quieti-

smo», sotto la cui denominazione

venivano accomunate

e con-

dannate realtà diverse. Comunque .l’orazione di quiete era considerata dottrinalmente eretica, perché per i suoi fautori il conseguimento dello stato di abbandono esimerebbe dalla ricerca di ulteriori

meriti

per la vita eterna e moralmente

pericolosa,

in

quanto per chi ha raggiunto l’amore puro ogni azione diventerebbe lecita. Certo la tendenza alla individuazione di nuove vie spirituali e devozionali permaneva in forme private e sotterranee: sarebbe nuovamente riemersa nel cattolicesimo — ad esempio, assai più tardi, nell’ambito del modernismo —; ma intanto il contenimento delle esteriori pratiche di pietà veniva, almeno sul pia-

no pubblico e generale, sbarrato.

Infine a livello culturale un segno della crisi della Controriforma si può rinvenire nell’emergere della critica storica. La ri-

sposta alla storiografia protestante — che si era espressa nelle Cen-

turie di Magdeburgo — era stata data dagli «Annales ecclesiasti-

ci» (1588-1607)

dell’oratoriano C. Baronio, che, pur utilizzando

e facendo così circolare una notevole quantità di documenti inediti — tratti dal suo lavoro nei depositi archivistici e bibliotecari di Roma —, si muoveva in un'ottica fortemente apologetica, volendo mostrare la continuità fin dalle origini cristiane delle posizioni assunte da Roma con il concilio di Trento ed in particolare della monarchia papale sulla chiesa. Ad una logica apologetica rispondeva anche l'iniziativa di un piccolo gruppo di gesuiti dei Paesi Bassi raccolti attorno a J. Bolland (1596-1665), che

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

313

avevano iniziato ad Anversa nel 1643 la pubblicazione degli «Acta sanctorum» con lo scopo di fornire una risposta alle tesi protestanti sui falsi contenuti nell’agiografia. Tuttavia l’opera sì caratterizzò, soprattutto ad opera di un collaboratore dell’iniziati-

va, D. Papebroch (1628-1714), oltre che per l'applicazione di un

rigoroso criterio filologico nella pubblicazione dei testi, per l’elaborazione della fondamentale regola del metodo critico: ogni asserzione deve essere suffragata da documenti verificati come autentici e veridici. In tal modo tutta una serie di tradizioni agiografiche venivano messe in questione, perché giudicate storicamente false, sollevando reazioni che trovarono dapprima ascolto nell’Inquisizione spagnola (1695), che vietava la lettura e la vendita dell’opera, e poi in quella romana, sia pure relativamente ad una parte di un solo tomo (1’700). La vigorosa reazione di Papebroch e dei suoi collaboratori — imperniata sulla tesi che il chiarimento della verità storica non poteva essere in contraddizione con la verità cristiana e che, per edificare i fedeli ed alimentarne la pietà, non si doveva rinunciare all’esatta ricostru-

zione delle vicende ecclesiastiche — ottenne nel 1715 la revoca del decreto spagnolo, mentre quello romano venne ritirato solo da Leone XIII (1878-1903). Sia pure con difficoltà e opposizioni, all’interno del mondo cattolico fu così mantenuta una possibilità di lavoro critico, che troverà la sua più alta espressione

nell’opera dei Maurini del convento di Saint-Germain-des Prés —

tra cuiJ. Mabillon (1632-1707), al quale si deve una prima sistematica enunciazione delle regole del lavoro storico-erudito e filologico — per l'edizione dei testi patristici; e da una corrente di

storiografia ecclesiastica che va da Cl. Fleury (1640-1723) a L.A.

Muratori (1672-1751). Minor successo ebbe invece il tentativo di

applicare il metodo critico al campo dell'esegesi biblica. Nella

sua Storia critica del Vecchio Testamento

(1678)

l’oratoriano R. Si-

mon aveva mostrato che la redazione originaria non poteva es-

sere stata integralmente fatta in lingua ebraica; che diversi libri — come il Pentateuco, i Proverbi, i Salmi — erano frutto di più autori; che la traduzione della Vulgate, dichiarata autentica dal con-

cilio di Trento, non era esente da errori; che una letterale ispirazione divina del testo era impensabile; ecc. Venivano così messi in questione alcuni dei presupposti della cultura cattolica, sicché, giudicata eversiva, l’opera fu ritirata dal commercio

e l’au-

tore costretto ad uscire dall’ordine e continuare clandestinamente i suoi studi. L'esegesi critica diventava allora appannaggio del mondo protestante, rivelando la fragilità di una delle basi cul-

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Cristianesimo

turali dell’assetto controriformistico: la questione dell’applicazione dei metodi critici alla Bibbia avrebbe puntualmente accompagnato le successive crisi della chiesa romana. Ma forse l’elemento più indicativo di una crisi complessiva della Controriforma sta nel fatto che l'ordine religioso che meglio aveva rappresentato l'adeguamento della chiesa alle nuove esigenze dell'inizio dell’età moderna — la Compagnia di Gesù si bloccava, di fronte al mutare delle generali condizioni sociali

tra Seicento e Settecento, nel ribadimento di quelle concezioni che nella precedente situazione storica avevano garantito il suo successo. Il coraggioso tentativo di alcuni suoi membri di modificare l'impostazione generale dell'ordine — ad esempio sostenendo l'esigenza di una inculturazione del Vangelo nelle civiltà extraeuropee e il superamento della tesi della potestas indirecta del papato — veniva di fatto sconfitto: ad un mondo che si avviava alla ricerca di strade diverse i gesuiti continuarono così ad offrire

il primato della cultura classica, la cristallizzazione della ratio studiorum in un modulo fisso, l’istanza di una dilatazione dei pote-

ri sociali della chiesa, la riproposizione delle collaudate pratiche devozionali e spirituali, ecc. Nell'epoca che stava per aprirsi essi perciò diventarono, come vedremo, le prime vittime di questo mancato rinnovamento. 2. Alla ricerca di una «religione illuminata»

La tradizionale storiografia cattolica ha presentato il secolo dei «lumi» come un periodo di complessiva decadenza della chiesa: legata, spesso inconsapevolmente, agli schemi concettuali della Controriforma — secondo cui il terreno ideale di fioritura ed espansione della fede si aveva nel quadro di un’organizzazione della collettività in cui il potere politico potesse utilizzare la forza coercitiva della legge civile per obbligare i cittadini ai comportamenti definiti dall’autorità ecclesiastica — essa non poteva che guardare con atteggiamento negativo ad un’epoca che ve-

deva consistenti settori della società, ed in particolare le sue élites intellettuali, allontanarsi dal cristianesimo, rivendicando l’in-

dipendenza delle scelte etiche e culturali da ogni forma di imposizione. Come infatti sottolineava E. Kant, nel suo Was ist Aufklirung? (1’784), l’illuminismo consisteva nel «far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro». Non si tratta ovviamente di rovesciare con una semplicistica operazione ideologica il giudizio di quella tradizione storiografica, presentando co-

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano Il

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me positivo ciò che prima era visto in modo negativo; ma piuttosto di capire le dinamiche reali della chiesa in un contesto che vedeva accentuarsi la crisi degli equilibri controriformistici anche all’interno del mondo cattolico. Ne erano, ad esempio, sintomi evidenti lo sviluppo di un pensiero filosofico e matematicoscientifico che rendeva obsoleti e ormai improponibili alla stessa coscienza cattolica le tradizionali spiegazioni circa l'origine e lo sviluppo della natura e dell’uomo; così come l’esplicita volontà dei governi assoluti, che pure si dichiaravano ufficialmente cattolici, di assumere l'effettiva direzione degli spazi e dei poteri sociali in precedenza detenuti, attraverso una fitta rete di immunità personali, reali e locali, dagli ecclesiastici, in armonia con le teorie giurisdizionalistiche che proclamavano il diritto dello stato a controllare la vita esteriore della chiesa. Certo nel mondo cattolico rimase ancora assai forte la tendenza a presentare nel ritorno e nel rafforzamento degli assetti usciti dalla Controriforma l’unico sbocco possibile alle nuove tendenze emergenti dalla società contemporanea. Tuttavia si delinea nell’Europa settecentesca una corrente, che è ormai diventato consueto definire di Aufk/îrung cattolica, volta alla ricerca di forme di incontro e conciliazione con le prospettive indicate dai «lumi». Il ricorso al termine tedesco si giustifica col fatto che proprio in Germania tale corrente trovò più ampio sviluppo, determinando un notevole rinnovamento nell'ambito del-

la teologia e delle scienze ecclesiastiche in generale; ed anche perché sostantivi come «illuminismo» o «lumières» hanno acquisito nell'uso comune una connotazione di carattere anticlericale, sicché apparirebbe impropria una loro connessione all’aggettivo cattolico. Si tratta comunque di un movimento minoritario. Pur trovando consenso presso alcuni vescovi — in particolare dell’area germanofona — che vollero ispirare il loro governo diocesano ai suoi orientamenti, attuando riforme, anche incisive, nel

costume ecclesiastico e nella prassi religiosa (così, ad esempio, Giuseppe di Hessen-Darmstadt ad Augusta; buona parte dei presuli che nel Settecento governarono i principati ecclesiastici di Colonia, Magonza e Treviri; J. Colloredo a Salisburgo), l'Aufklàrung cattolica rimase però complessivamente circoscritta, senza giungere a coinvolgere il grosso della compagine ecclesiale. Del resto il movimento appare assai articolato. Non solo infatti non

si presenta sincronicamente nelle varie zone europee (ad esempio nella chiesa inglese, dove pure fu assai vivace, si manifestò

soltanto sullo scorcio del secolo, esaurendosi poi nei primi de-

316

Cristianesimo

cenni dell’Ottocento, quando contemporaneamente alla scomparsa dei personaggi che ne erano stati protagonisti — ]. Lingard, J. Berington, ecc. —, Roma affidò la responsabilità di quella comunità a ecclesiastici dalle granitiche convinzioni ultramontane). Ebbe anche a livello diacronico fasi di sviluppo assai diverse. Indubbiamente un suo costante punto di riferimento è costituito dall'opera che fin poco oltre la metà del Settecento seppe svolgere l’abate L.A. Muratori: da Modena, dove occupava la funzione di bibliotecario del duca d’Este, attraverso una larghissima

rete di corrispondenti, in cui figuravano figure della «repubblica letteraria» del proponendo un rinnovamento religioso do un'assoluta fedeltà all'insegnamento

tutte le più significative continente, egli andava e civile, che, mantenenevangelico, si apriva al-

le esigenze del mondo contemporaneo. Tuttavia, nel decorso del tempo e sotto la spinta delle condizioni specifiche dei vari paesi, le proposte muratoriane si approfondirono e radicalizzarono in direzioni assai differenziate,

mostrando

il volto sfaccettato e

complesso di questa corrente. Per comodità espositiva è comunque possibile indicare alcuni elementi comuni che, più o meno accentuati a seconda dei tempi e dei luoghi, costituiscono i suoi tratti fondamentali.

Un

primo aspetto è individuabile nella volontà di purificare la pietà e il culto da quelle caratteristiche — superfetazioni superstiziose, sovrabbondanza di pratiche esteriori, infinita moltiplicazione di riferimenti devozionali ai santi e a Maria - che si erano manifestati nel corso dell'età barocca. Si trattava di introdurre una «regolata devozione de’ cristiani» — come suonava appunto il titolo

di un fortunatissimo opuscolo muratoriano apparso nel 1747 — che, ritrovando la centralità dell’eucaristia, facesse perno su un

essenziale ed intimo cristocentrismo. Particolarmente sottolineata, in questo contesto, è l’esigenza di una riforma delia liturgia,

dal momento che il ricorso ad una lingua ai più incomprensibi-

le, come il latino, e il meccanico ritualismo delle cerimonie diffondevano attorno all'azione liturgica un alone di mistero, che

inevitabilmente portava le popolazioni più sprovvedute sul piano culturale a cogliervii segni della pratica magica. Ne derivava la richiesta di una serie di interventi — in parte accettati dai vescovi riformatori— volti a rendere «intellegibile» il significato dei riti innazitutto attraverso l'ampio uso delle lingue volgari nelle cerimonie religiose. Ed ancora più pregnante in questa direzione appariva la spinta a superare gli ostacoli posti dalla chiesa posttridentina alla diretta fruizione della Bibbia, facendo in modo

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano Il

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che la diffusione di sue traduzioni volgari consentisse ai fedeli di

porla al centro della loro vita di pietà e sostituendo alla ricerca

del contatto diretto col divino tramite le immagini visive il ratio nabile obsequium dell’analisi della pagina scritta. Un secondo aspetto rinvenibile nel movimento di Aufklarung cattolicaè la tendenza a ripensare l’ ecclesiologia verticistica dell'epoca controriformistica. Si nota qui il tentativo di valorizzare l’attività sinodale come luogo proprio dell'assunzione delle decisioni nella vita della chiesa. Tale indirizzo investe in primo luogo il livello diocesano, dove più immediatamente percepibile è

la spinta delle correnti teologiche volte ad esaltare il ruolo dei parroci (parrochismo, richerismo). Diversi autori — soprattutto in Francia, come i giuristi N. Petitpied (1665-1747) e G.N. Maul.

trot (1714-1803) —- sostengono la necessità, per ritornare alla pra-

tica della chiesa primitiva, giudicata un modello di perfezione,

di attribuire ai sinodi diocesani il governo della chiesa locale, fa-

cendo assumere ai parroci il ruolo di co-legislatori assieme al vescovo. Ed è interessante notare che qualche singola voce, come

l’oratoriano V. De La Borde (1680-1748), comincia a porre il problema, senza comunque che se ne traggano precise conseguenze sul piano istituzionale, della partecipazione dei laici a tali assemblee. Ma l'orientamento a rafforzare la sinodalità si coglie an-

che sul piano delle province ecclesiastiche, dove certamente il ri-

chiamo all'esempio della chiesa primitiva aveva una ben più cor-

posa rispondenza alla verità storica: si chiede in questi casi una

regolare convocazione dei concili provinciali, riaffidando ai vescovi del territorio l’insieme di poteri normativi assunti dalla curia romana. E la richiesta di sinodalità raggiunge anche il vertice pontificio. In alcuni esponenti— come il domenicano E.D. Cri-

stianopulo (1728-1788) — della stessa teologia romana si manife-

sta la convinzione che nella comunione del collegio dei vescovi col papa sta il supremo potere di governo sulla chiesa universale; ma si delineano anche orientamenti più radicali. La tenden-

za promossa dal vescovo ausiliare di Treviri, J.N. Hontheim (17011790)

— che, in riferimento allo pseudonimo

da lui usato,

Fe-

bronio, prenderà il nome di febronianesimo — propone ai vescovi del mondo cattolico di procedere alla convocazione di concili nazionali, in cui, indipendentemente da Roma, si prendano quelle misure di riforma che appaiono necessarie anche in vista di una riunificazione di tutti i cristiani, per la quale la centralizzazione di poteri monarchici nel papa costituisce appunto uno dei principali ostacoli. Un congresso di alcuni arcivescovi dell’area ger-

318

Cristianesimo

manofona formalizzerà poi sul piano canonistico — puntualizza-

zione di Ems

(1786), subito condannata da Pio VI — la riduzione

dei diritti e dei poteri della curia che l’assunzione di quest’ottica comportava. Altri indirizzi, cui appartiene anche il teologo italiano P. Tamburini

(Vera idea della Santa Sede, 1784), manifestano

invece la preferenza per un modello di chiesa come comunione di chiese locali, cui la primazia papale garantisce in via meramente amministrativa il servizio dell’unità. Inoltre il movimento di Aufklarung cattolica produce significative istanze di mutamento sul piano del rapporto tra la chiesa

e i membri più disagiati della società. Alle giustificazioni eccle-

siastiche della «grande reclusione» dei poveri avvenuta nell’età barocca (di cui si fece interprete il gesuita A. Guevarre, 16461’724) si sostituisce l’affermazione che compito della chiesa non è quelio di concorrere all’imprigionamento dei miseri negli ospizi, per inculcare loro il rispetto dell'ortodossia post-tridentina e della dominante ideologia politica, ma di favorire una loro acquisizione di conoscenze culturali e tecniche, al fine di inserirli

nelle varie attività produttive della società. In questo quadro la tesì già accennata dal Muratori nel 7raltato della carità cristiana (1723), secondo cui l’aiuto ai bisognosi dovrebbe far aggio, nel-

le preoccupazioni del fedele, sui doni fatti alle chiese per rendere sfarzoso il culto o aiutare le anime del Purgatorio, si svolge

nel corso del secolo in una più radicale richiesta. Come sostiene l’abate F. Longano (1729-1796), occorre utilizzare a favore dei

poveri i beni posseduti dalia chiesa, non solo nei casi di estrema

indigenza, quando ad esempio le calamità naturali rendono impossibile una diversa forma di sopravvivenza, ma piuttosto per dotarli immediatamente di quei mezzi di produzione che consentano loro di acquisire tramite il lavoro una piena autonomia economica nell’esistenza quotidiana. Infine a livello politico i fautori dell’Aufk/îrung cattolica cominciano a dissociare la chiesa dagli stretti vincoli che aveva assunto con l’assolutismo, accettando la tesi dell’origine contrattualistica del potere. Indubbiamente l’affermazione che l’autorità politica non è di immediata istituzione divina, ma presuppone un preliminare accordo fra gli uomini circa le sue forme

di esercizio, non implica in questi ambienti l'adesione a conce-

zioni secolarizzatrici dello stato: il quadro concettuale all’interno del quale essi si muovono resta pur sempre quello di una società complessivamente

cristiana. Ma alcuni autori, come

l’eru-

dito romagnolo G.C. Amaduzzi (1740-1792), prospettano la pos-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

319

sibilità di un'alleanza tra un cattolicesimo, che ritorna alla purezza della lezione evangelica, e un moto dei «lumi», che mode-

ra le sue posizioni più estreme, al fine di promuovere in comune una trasformazione del consorzio sociale diretta ad assicurare a tutti gli uomini il godimento dei diritti civili, le libertà politiche garantite dal patto sociale e la tolleranza religiosa. Qui non si tratta più, come era ancora nel trattato muratoriano Della pub blica felicità

(1749),

di sottolineare

che

il cattolicesimo,

retta-

mente inteso, porta l’illuminato sovrano assoluto a migliorare le condizioni temporali delle popolazioni urbane e rurali, anche attraverso politiche economiche di moderato liberalismo; ma si individua nell'insegnamento evangelico la radice dei diritti che appartengono agli uomini in ogni forma di vita associata. Particolare rilevanza assume in questo contesto il richiamo alla tolleranza religiosa. Quando nel 1781 l’imperatore Giuseppe II aveva concesso con la Patente di tolleranza il diritto agli acattolici di praticare in privato il loro culto, si era aperto nel mondo cattolico un vasto dibattito circa l'opportunità della rinuncia agli strumenti coercitivi per la persuasione dei dissidenti. Esponenti dell’Aufklàrung cattolica, fra cui alcuni vescovi, avevano aderito al provvedimento; e qualcuno, come l’ordinario di Lubiana, K. Herberstein, avanzava la tesi che anche il riconoscimento della

libertà religiosa non contrastava con l'adesione al Vangelo. Si nota qui la sintonia del movimento con una delle più qualificanti rivendicazioni dell'illuminismo contemporaneo e una significativa via d'incontro tra chiesa e modernità politica, che solo a fatica la chiesa adotterà, assai più tardi, col concilio Vaticano IL.

3. Il riformismo ecclesiastico dei sovrani assoluti Di fronte alla settecentesca ed incertezze. goli pontefici:

ricerca di nuovi equilibri emergente dalla società il vertice romano manifesta dapprima oscillazioni Ne troviamo traccia negli indirizzi assunti da sinbasti pensare a Benedetto XIV (1740-1758), che,

pur legato alla cultura muratoriana e agli ambienti rinnovatori,

anzi capace di tradurne gli orientamenti in alcuni atti di governo (dalla riduzione delle feste di precetto alla definizione delle garanzie giuridiche per gli imputati nei processi inquisitoriali; dalla politica concordataria, larga di concessioni alle esigenze degli stati, all'aperto sostegno verso una cultura cattolica basata sui presupposti bollandistico-maurini), non mancherà di emanare anche misure repressive, in primo luogo la condanna dell’Esprit

320

des lois di Montesquieu

Cristianesimo

(1751), che tendono a

scavare un fossato

tra la chiesa e le nuove forze della società. Ma incertezze ed oscillazioni si notano soprattutto nell’alternarsi degli orientamenti presenti nei suoi successori. Se Clemente XIII (1758-1769)

con-

danna duramente tutto il moto dei «lumi» — visto nel suo insieme, senza articolare le sue profonde differenze interne - come un prodotto di mera corruzione etica ed invoca perciò l'allean-

za del trono e dell’altare per respingere questa radicale sovversione nella chiesa e nel vivere civile, il successore Clemente XIV

(1769-1774) assume una ben diversa posizione. Non si limita infatti alla soppressione della Compagnia di Gesù (1’773), peraltro

su forte pressione delle corti borboniche; alla concessione di al-

cune più larghe garanzie nell’ambito dei diritti civili per gli Ebrei

presenti nello stato pontificio; ad atti altamente simbolici, come

la rinuncia all'annuale promulgazione della bolla /n Coena Domini, un documento variamente redatto dal 1511 che enunciava

le rivendicazioni teocratiche del papato. Egli prospetta anche un programma di pontificato che, senza precludere alla chiesa il ricorso agli strumenti repressivi dello stato, insiste però soprattutto sull’esigenza che essa ritrovi il consenso del mondo contemporaneo non tanto facendo sfoggio di sfarzo e potere, ma piegandosi caritatevolmente sui bisogni dell’uomo, secondo il modello offerto dal suo fondatore,

Gesù.

Non

a caso le correnti

dell’ Aufklirung cattolica — talora anche forzando il significato di sue prese di posizione — vedranno in tali interventi l'acquisizio-

ne del papato alle loro tesi. Con l’accesso al soglio pontificio di Pio VI (1775-1799) si ma-

nifesta tuttavia un orientamento di chiusura verso derma, che da questo momento resterà per lungo tipica del vertice romano. Il nuovo papa, oltre a sposizioni del predecessore sugli Ebrei, emanando

la società motempo la linea revocare le diun nuovo du-

rissimo statuto, presenta l’illuminismo come frutto di un portato diabolico, diretto a diffondere l’ateismo e, tramite esso, scuo-

tere ogni fondamento della vita collettiva. In una situazione descritta in termini quasi apocalittici, forte è l’invito del papa alla gerarchia a prepararsi ad uno scontro frontale, a serrare le fila,

a rafforzare tutte le sue dimensioni istituzionali. Vi è in Pio VI la convinzione che alla fine il potere politico assoluto, per garan-

tirsi la sopravvivenza, si schiererà a fianco della chiesa nella lotta contro le tendenze che mirano a mettere in discussione l’esi-

stente assetto della società. Alla base di questa concezione — co-

me mostrano numerose iniziative pubblicistiche di carattere pro-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

321

pagandistico, di cui è esempio significativo il Giornale ecclesiastico

di Roma - sta la persuasione dell’indispensabile ruolo sociale e

politico della religione. Poiché solo la chiesa — facendo dell’obbedienza uno specifico valore religioso, da cui dipende la salvezza ultraterrena del credente — può garantire il rispetto delle autorità costituite da parte dei sudditi, spetta ai governi appoggiarla concretamente, traducendo in precise norme legislative le sue direttive in materia di convivenza civile, in modo che venga-

no mantenuti l'ordine pubblico e la pace sociale. E poiché la

chiesa trova nell’adesione alle disposizioni del papato il suo elemento fondante, è in ultima analisi compito di uno stato, realmente preoccupato della sua conservazione, farsi interprete ministeriale delle decisioni romane. Questa linea di irrigidimento e chiusura — che aveva poi trovato largo consenso tra le popolazioni soprattutto rurali attraverso l'azione di nuovi ordini, come i redentoristi di Alfonso de’ Liguori

(1732)

e i passionisti di san Paolo della Croce

alacremente dediti in questo tiche congregazioni religiose, cenzo de' Paoli (1632), alle rafforzando all’interno della

(1737),

periodo, peraltro assieme a più anad esempio i lazzaristi di san Vinmissioni popolari — si era andata chiesa in seguito alla politica di

riforme ecclesiastiche intrapresa nella seconda metà del Sette-

cento, in particolare dopo la carestia che aveva colpito diversi paesi all’inizio degli anni Sessanta, dai sovrani assoluti. Ne era stato un primo segnale la politica di espulsione dei gesuiti. Par-

tita dal Portogallo — dove il pretesto era stato fornito da un at-

tentato al re in cui si volle vedere implicata la Compagnia, ma in realtà ben più spiegabile per i timori suscitati dalla sua potenza, anche economica — essa raggiunse la Francia e poi le varie corti borboniche di Spagna, Napoli e Parma, rendendo alla fine inevitabile il già ricordato provvedimento di Clemente XIV. La ridistribuzione delle proprietà dell’ordine e la soppressione dei collegi gesuitici, che seguì alle misure di espulsione, indusse a porre in termini più generali il problema del peso esercitato dal la-

tifondo ecclesiastico nell’ostacolare lo sviluppo dell’agricoltura e

dei ritardi nella generalizzazione dell'istruzione di base a causa del mancato controllo pubblico sull'educazione. Cominciava così ad emergere l'esigenza di ridisegnare l’assetto complessivo dell'organizzazione ecclesiastica, ed in particolare di quella regolare, di cui una sempre più vasta pubblicistica sottolineava gli aspetti parassitari. In alcuni paesi, come la Francia, gli interventi riformatori rimasero limitati agli ordini religiosi. Qui infatti la

322

Cristianesimo

Commissione dei regolari (1766-1784) condusse una lunga battaglia contro le congregazioni puramente contemplative, giungendo alla soppressione di monasteri, abbazie e conventi con la vendita dei loro beni per utile pubblico. In altri paesi invece il riformismo ecclesiastico assunse un più vasto respiro. Se nelle corti borboniche questi interventi si caratterizzarono per la rivendicazione giurisdizionalistica delle prerogative dello stato sulle istituzioni e le persone ecclesiastiche, mantenendosi

sul piano giuridico, senza entrare nell’ambito più propriamente

religioso, nei territori retti dagli Asburgo si affermò invece una volontà di trasformazione interna della chiesa. Qui il pur presente indirizzo giurisdizionalistico si saldava con la convinzione — ben evidenziata in una celebre lettera di risposta dell’impera-

tore Giuseppe II (1780-1790) al papa, che si era lamentato delle

sue misure riformatrici (1’783) — che il sovrano cattolico aveva an-

che un preciso ruolo ecclesiale e, davanti all’incapacità romana di assumere quelle iniziative riformatrici che la situazione rendeva necessarie, era suo specifico compito adottare gli opportuni provvedimenti. In questo quadro complessivo sì può tuttavia notare una certa differenziazione tra la linea giuseppinista e quel la emergente dagli orientamenti di Pietro Leopoldo in Toscana (1765-1790), la cui esperienza verrà seguita con grande interesse dal mondo cattolico europeo come esito esemplare delle istanze riformatrici. Riprendendo ed allargando gli indirizzi già delineati dalla madre, Maria Teresa, Giuseppe II non si limita alla soppressione di conventi e monasteri nell'intento di rendere «utili» nella cura d’anime e nell’insegnamento i membri degli ordini religiosi maschili e femminili; alla ridisegnazione più razionale delle circoscrizioni parrocchiali; alla sostituzione delle varie confraternite

esistenti in ogni parrocchia con una sola Compagnia della carità

dedita al soccorso ai miseri; alla regolamentazione di processioni, pellegrinaggi, culto alle reliquie e ai santi in modo da evitare cadute nella superstizione. La sua prospettiva mira da un lato a rendere il clero funzionale alle esigenze dello stato: la creazione di seminari generali, in luogo di quelli vescovili, con un programma formativo che insiste più sulla preparazione pratico-pastorale e scientifica che su quella teologica, è diretta a costruire un modello di «buon parroco» che serva sul piano religioso come su quello civile, culturale e persino economico alle necessità dei fedeli affidati alle sue cure. Dall'altro lato l’imperatore tende ad una prima secolarizzazione dello stato: ne è testimonianza

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

323

la già ricordata Patente di tolleranza, ma soprattutto la legislazione matrimoniale, che, distinguendo tra sacramento e contratto, consente in alcuni casì la possibilità del divorzio. Nono-

stante la contraddizione insita in queste misure, vi si coglie il pre-

valere complessivo di un'ottica statalista in cui il disegno di re-

stituire alla chiesa un volto più coerente alla verità cristiana si sposa e si subordina all’intento di fare di essa una ben regolata

ed efficiente branca dell’amministrazione pubblica. Più aperta è invece l'istanza di riformismo ecclesiale nell'azione di Pietro Leopoldo. Il suo complessivo progetto emerge nei Cinquantasette punti ecclesiastici, elaborati tra il 1784 e

il 1786, in cui l’ispirazione fe-

broniana si salda con il richiamo alle tesi muratoriane e alla cultura agostiniana di stampo giansenista. Ampio è poi il sostegno

dato dal sovrano al vescovo di Pistoia e Prato, Scipione de’ Ric-

ci. Questi nel celebre sinodo del 1’786 — visto come l’inizio di un movimento sinodale che doveva coinvolgere, in una prospettiva

pluralistica, ben diversa dal centralismo giuseppinista, tutte le diocesi del granducato nell’attuazione di una ecclesiologia episcopalista-parrochista — procede a riorganizzare la vita religiosa e istituzionale della chiesa locale, abolendo il particolarismo del

culto post-tridentino, rappresentato da confraternite e ordini religiosi, in nome dell’affermazione della centralità della comunità

parrocchiale; e sopprimendo o modificando le espressioni tipi-

che della devozione barocca (culto al Sacro Cuore, Via crucis, prevalenza della pietà visiva su quella scritturistica, ecc.). Ma i con-

trasti tra gli ambienti più impegnati sul piano religioso e i consiglieri politici del principe, come la decisa opposizione romana,

determineranno il naufragio delle speranze di rinnovamento.

Del resto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni vanta l'impegno riformatore dei sovrani illuminati veniva scamente interrotto. Da un lato il manifestarsi di resistenze polari — che assumevano il carattere di vere e proprie rivolte

Nobrupocon-

tro il mutamento-delle tradizionali forme di pietà —; dall’altro lato l’inizio della rivoluzione in Francia, che metteva in discussio-

ne la forma assolutistica del potere, inducevano lo stesso Leopoldo, succeduto al fratello Giuseppe nella conduzione dell’impero (1790), a più caute posizioni e a modificare la precedente legislazione ecclesiastica. Ben presto lo sviluppo delle vicende francesi avrebbe portato a più radicali espressioni le istanze di riformismo ecclesiale, ma anche ridato vita a quel mutuo sostegno del trono e dell’altare nella conservazione dei rispettivi poteri sociali fin dall’inizio predicato da Pio VI.

324

Cristianesimo 4. L'ETÀ RIVOLUZIONARIA

1. Dalla «democrazia cristiana» alla scristianizzazione

Le attese di trasformazione della chiesa e delle sue forme di pre-

senza nella società che avevano variamente correnti, pur minoritari,

del mondo

percorso gruppi €

cattolico settecentesco

eb-

bero modo di esprimersi — ma anche di trovare un momento di cruciale verifica — nel corso della Rivoluzione francese. Lungi dal proporsi obiettivi anticristiani o anticlericali — e in piena armonia con quanto emerso dalla larga consultazione manifestatasi nei Cahiers des doléances (1’789) — l'Assemblea costituente adottò

alcune riforme ecclesiastiche col concorso di quei settori dei rappresentanti del basso clero, che avevano attivamente contribuito

al successo della rottura della legalità d’antico regime operata dal

Terzo Stato attraverso la sua autoproclamazione a supremo organo legislativo del paese. I primi provvedimenti non intendono tanto contrapporsi alla chiesa, bensì promuovere una razionalizzazione di quegli intrecci tra istituzione ecclesiastica e vita civile,

che nell’antico regime avevano comportato disfunzioni o che apparivano ormai obsoleti alla nuova coscienza indotta dalla cultura illuministica, senza peraltro rinunciare alla conservazione di alcuni tradizionali legami e nessi tra chiesa e società. Si va così da misure di laicizzazione dello stato — proclamazione della libertà religiosa col limite del rispetto dell'ordine pubblico, rico noscimento dei diritt politici e civili ad Ebrei e protestanti, abrogazione del valore legale dei voti religiosi —; ad interventi sui de-

cadenti ordini religiosi mediante il divieto di nuove professioni,

in vista di un riordino generale della materia; ad una riorganizzazione della vita economica del clero attraverso la soppressione

delle decime ecclesiastiche e l'incameramento dei beni della

chiesa con la clausola che il sostentamento degli ecclesiastici e le spese per il culto sarebbero state a carico della nazione. È a questa stessa logica di razionalizzazione che risponde, in larga misura, il più importante intervento di riforma: la costituzione civile del clero (17790). Essa prevedeva da un lato l'adeguamento delle circoscrizioni diocesane a quelle amministrative dei neo-istituiti dipartimenti (con la conseguente riduzione del numero di vescovi) e la ristrutturazione degli ambiti parrocchiali sulla base della distribuzione demografica della popolazione; dall'altro

l'elezione popolare degli ecclesiastici in cura d'anime — vescovi

e parroci, liberi peraltro di scegliersi un predeterminato nume-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

325

ro di collaboratori — fissando la remunerazione che lo stato avrebbe ad essi corrisposto in proporzione al numero di abitanti cui prestavano il servizio pastorale.

Tuttavia, sotto l'impulso del gruppo gallicano-giansenista, presente nell'Assemblea e caratterizzato dal desiderio di ripristina-

re gli usi della chiesa primitiva, questa normativa toccava anche un delicato elemento della struttura ecclesiastica: il vescovo eletto e consacrato avrebbe ricevuto l'istituzione canonica da un metropolita francese, anziché dal papa, al quale non si riconosceva altra autorità che quella di esigere una lettera in cui il nuovo ordinario manifestava la sua comunione di fede con il capo visibile della chiesa. Un ampio settore del clero francese — calcolabile attorno alla metà degli ecclesiastici — ritenne inaccettabile questo ridimensionamento dell’autorità pontificia senza il consenso romano.

Dal canto suo l’Assemblea, spaventata da notizie circa

l'esplosione nelle province di disordini sociali capeggiati da sacerdoti, chiese a tutto il clero in cura d’anime un giuramento di fedeltà all’insieme del lavoro di riordino costituzionale compiuto sino a quel momento

(1791). In tal modo

riforma politica e

rinnovamento ecclesiale si saldavano strettamente. A rendere inestricabile tale nesso interveniva lo stesso Pio VI. Col breve Quod aliquantum (1791) non si limitava a condannare la costituzione civile del clero, ma dichiarava anche che i valori di libertà, uguaglianza, sovranità popolare, cui si era ispirata tutta l’attività legislativa dell'Assemblea costituente, erano contrari al dettato biblico e insensati sul piano naturale. Si delineava così un netto contrasto tra la moderna organizzazione dello stato — e le ideologie che ad essa presiedevano — e la chiesa; contrasto che avrebbe a lungo condizionato i modi dell’azione politica dei cattolici nel mondo contemporaneo. E in questo contesto che un gruppo di ecclesiastici, che accettano il giuramento di fedeltà alla nuova costituzione (e saranno ‘perciò chiamati assermentés, «costituzionali», in contrapposizione agli insermentés, «refrattari», fedeli invece alle direttive romane), assume una posizione che uno di loro, A.A. Lamou-

rette, definirà, ricorrendo probabilmente per la prima volta a questo termine, «democrazia cristiana»: un'espressione destinata ad un duraturo, anche se ambiguo,

successo nella successiva

vicenda del cattolicesimo. Sul piano politico essa implicava l’adesione a quei princìpi di libertà, uguaglianza e fratellanza che era-

no stati posti alla base dello stato rivoluzionario ed ai quali essi

attribuivano una radice cristiana, che solo una lunga tradizione

326

Cristianesimo

di osmosi col potere assoluto e i ceti aristocratici impediva al papato e a buona parte della gerarchia di riconoscere ed apertamente proclamare. Ma l'orientamento democratico-cristiano ave-

va, in quel contesto storico, anche una valenza ecclesiale, che si

sostanziava in un recupero della sinodalità come ordinario strumento di governo della chiesa a tutti i suoi livelli, da quello locale a quello nazionale fino a quello universale. L'impianto su tutto il territorio francese di una chiesa costituzionale — senza che venissero peraltro ostacolati gli atti di culto dei refrattari, nonostante la fuga all’estero di gran parte dei vescovi d’antico regime, cui subentravano ordinari scelti secondo i dettami della nuova normativa ecclesiastica — mostrava il concreto successo di questa prospettiva. Non mancarono certo difficoltà, contraddizioni e scontri — talora anche violenti — tra cattolici delle due chiese nella formazione

del corpo dei pastori costituzionali; ma la nuova

configurazione dell’istituzione ecclesiastica riusciva a prender vita e mantenere una certa funzionalità. L’aprirsi della guerra con le potenze europee, sostenute dal papato, induceva tuttavia i gruppi dirigenti la Rivoluzione a vedere i refrattari come nemici interni, che agivano in combutta o quanto meno con le stesse finalità delle coalizzate monarchie assolute. Già durante l'Assemblea legislativa si giungeva così, sia all'adozione di provvedimenti repressivi nei loro confronti — deportazione e massacri del settembre '92 — sia ad un'ulteriore laicizzazione del paese mediante il passaggio alle municipalità dello stato civile fino ad allora gestito dalle parrocchie. Con la Convenzione, l'abolizione della monarchia e l’esecuzione di Luigi XVI (1793) si delinea dapprima una violenta contrapposizione coi cattolici fedeli a Roma,

che ormai associano alla loro fede il

lealismo borbonico: la rivolta pressa dai repubblicani, ne è la il colpo di stato montagnardo cristiani», per lo più legati alla rivoluzionario,

ma

determina

in Vandea, sanguinosamente reconseguenza più drammatica. Poi non solo allontana i «democratici Gironda, dal sostegno al governo anche

misure

di separazione

tra

stato e chiesa — in particolare in materia matrimoniale con l’introduzione del divorzio — che incontrano l’opposizione del clero costituzionale. E in questo quadro che, partita da alcune province, si sviluppa un'ondata di scristianizzazione: la fedeltà alla repubblica è ormai vista come incompatibile con l'appartenenza alla chiesa, sia costituzionale che refrattaria.



L’adozione ufficiale del calendario repubblicano - che vole-

va allontanare dalla scansione del tempo ogni reminiscenza cri-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

327

stiana — sì coniugò con diversi provvedimenti, variamente adottati nelle realtà locali investite dal processo scristianizzatore, che

comunque non raggiunse l’intero territorio nazionale. Si trattava di misure ora coercitive, come l'obbligo per i preti di abdicare o di sposarsi, la chiusura delle chiese e la loro utilizzazione per scopi civili; ora derisorie, ad esempio l'effettuazione di cerimonie in cui si mettevano in ridicolo le funzioni cattoliche; ora sostitutive di un nuovo culto a quello cristiano: da quello della dea Ragione ai santi martiri della Rivoluzione fino al cuore di Marat. Il movimento venne bloccato da Robespierre non solo per la sua opposizione politica a chi l'aveva promosso, ma anche per la sua convinzione che lo stato rivoluzionario aveva bisogno di un fondamento religioso — da lui individuato nel culto dell’Essere supremo - che esprimesse i valori essenziali in cui tutti i cittadini potevano riconoscere le ragioni ultime della convivenza civile (1794). La caduta di Robespierre non risolse comunque l’ambiguità di fondo rinvenibile in una ripulsa della società cristiana che però non sapeva rinunciare alla ricerca di una base religiosa per la vita collettiva; anzi essa percorse tutto il successivo periodo termidoriano. Da un lato si tendeva infatti a portare a termine il processo di secolarizzazione dello stato, che proclamava

come suo unico compito quello di garantire la libertà di religio-

ne, astenendosi da ogni altro intervento in materia confessionale; dall’altro lato questo orientamento veniva però contraddetto dal sostegno governativo a religioni civili — il culto decadario, la teofilantropia -, che erano chiamate a garantire un’espressione della vita religiosa in grado di tradurre consenso politico al nuovo potere. Ai cattolici veniva comunque richiesto un giuramento — la cui formulazione variò a seconda dei momenti e dei governi — di subordinazione al potere rivoluzionario, che suscitò infinite discussioni in ordine alla sua liceità. In questo difficile passaggio solo pochi esponenti della chiesa costituzionale — come H.B. Grégoire (1750-1831), vescovo di Blois e convinto repubblicano - cercarono la via di una composizione tra cattolicesimo e valori rivoluzionari, richiamandosi alla tesi che la piena libertà

religiosa e la netta separazione tra chiesa e stato rappresentava-

no non solo conquiste irrinunciabili della modernità politica, ma anche valori di una coscienza cristiana che sapeva rettamente intendere la lezione evangelica. A lui si deve anche il tentativo, passata la bufera della scristianizzazione, di riorganizzare la chiesa costituzionale su posizioni politiche di fedeltà alla repubblica e con un orientamento ecclesiologico favorevole alla riforma in

328

Cristianesimo

senso sinodale; ma questa strada verrà ben presto sbarrata da Na-

poleone, che impedirà lo svolgimento dei lavori del concilio nazionale dei costituzionali.

2. Il fallimento della normalizzazione napoleonica Mentre l’espansione rivoluzionaria in Europa determinava anche in altri paesi l'emergere di una contraddizione, pur declinata in posizioni assai articolate, fra quei cattolici che ritenevano compatibile appartenenza ecclesiale e accettazione dei valori democratici e quanti invece la giudicavano insostenibile — e le convinzioni di questi ultimi vennero poi rafforzate in seguito alla soppressione dello stato pontificio e all’imprigionamento di Pio VI (1798) -, l’instabilità politica del periodo termidoriano aveva portato alla costituzione di un governo autoritario guidato da Napoleone. Costui, convinto della necessità di riportare la pace religiosa, anche al fine di utilizzare le capillari strutture territoriali della chiesa per convogliare consenso popolare al suo governo — che ovviamente non trovava legittimazione da una esplicita volontà nazionale — incontrava un valido interlocutore nel nuovo pontefice, Pio VII

(1800-1823). Questi, da vescovo di Imola, aveva mostrato, al momento dell'invasione francese in Italia (1796), una certa disponibilità agli orientamenti cristiano-democratici, a condizione che si

mantenesse il ruolo centrale del cattolicesimo come collante della socialità. Nasceva così il concordato tra la chiesa e la Francia (1801), che doveva poi, con varianti derivate dalle situazioni loca-

li, servire da modello anche per altri paesi sottoposti all’egemonia napoleonica, in particolare per l’Italia. La normalizzazione dei rapporti con un potere che, per quanto autoritario, aveva pur sempre un'origine rivoluzionaria e sulla base di alcuni valori rivoluzionari procedeva alla riorganizzazione della società civile (si pensi al Codice civile napoleonico che manteneva il matrimonio

civile e il divorzio; alla riorganizzazione dell'educazione che affidava allo stato tutta l’istruzione superiore; alla ristrutturazione dell’assistenza, che lasciava alla gerarchia un ruolo sussidiario), si basava sulla concessione alla chiesa di una serie di privilegi: la re-

staurazione di un culto pubblico, ufficialmente appoggiato dallo

stato; la liquidazione di ogni sostegno governativo agli ecclesiastici costituzionali, i quali o rientravano nei quadri del clero concor-

datario o erano costretti, come il Grégoire, ad abbandonare il ministero; una generosa distribuzione di dotazioni economiche agli enti religiosi, anche se rimaneva inalterata la nuova proprietà dei

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

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beni ecclesiastici in precedenza alienati; il ritorno al papato dell’istituzione canonica dei vescovi. D'altro canto però il Bonaparte otteneva non solo il diritto di nomina dei vescovi, ma anche

che, prima di assumere le loro funzioni, essi (come peraltro i par-

roci, che ora sarebbero stati scelti dagli ordinari diocesani) pro-

nunciassero un giuramento di fedeltà al governo. Vi si giungeva a prevedere un loro attivo impegno nel mantenimento dell’esistente ordinamento politico attraverso la solenne promessa a trasmettere alla polizia le informazioni in loro possesso circa tentativi di turbare l’ordine pubblico. In un primo momento il prezzo pagato da Roma per questo vantaggioso accordo apparve abbastanza modesto: un ridotto nu-

cleo di vescovi d’antico regime, rimasti legati al lealismo borbonico, rifiutò il concordato, animando una confessione scismatica

di scarse dimensioni numeriche (la cosiddetta «piccola chiesa»,

1804). Ben presto tuttavia Napoleone, attraverso l’attiva collabo-

razione di un apposito ministero, quello del culto, cui aveva preposto il capace J.E.M. Portalis, precisò la sua politica ecclesiastica. Non si trattava tanto di ottenere dal papa una legittimazione religiosa del suo potere personale attraverso la consacrazione ad

imperatore, cosa che venne facilmente concessa; ma di dar vita

a un'applicazione

delle norme

concordatarie

che

restringeva

l'autonomia della chiesa e garantiva un controllo dello stato sul-

le sue attività. In questa linea si muovono gli «Articoli organici del clero» che, accanto alla ripresa di aspetti della tradizione gallicana, soprattutto evidenti nel definire i criteri dell’insegnamento teologico nei seminari, manifestano tendenze di carattere fortemente giurisdizionalistico nell’organizzazione della vita ecclesiastica. E l'orientamento statalista si presenta ancor più chiaramente nello sforzo di modificare la stessa pratica religiosa allo scopo di una rigida funzionalizzazione della chiesa imperiale all'esigenza del mantenimento del potere napoleonico. Oltre a un nuovo catechismo, in cui tra i doveri religiosi si indica la fedeltà al sovrano, il regolare pagamento delle tasse, la prestazione del servizio militare, si registra la modificazione del breviario e delle preghiere liturgiche con introduzione di passaggi a favore dell’imperatore; la creazione della festa di san Napoleone, un santo ignoto al martirologio; l'imposizione ai vescovi di interventi a sostegno della politica governativa e a celebrazione delle vittorie militari nelle loro lettere pastorali. D'altra parte il governo non mancava di riorganizzare anche le altre confessioni religiose esistenti sul territorio imperiale — protestanti, ortodossi, Ebrei —,

330

Cristianesimo

garantendo ad esse vantaggi che, se potevano essere coerenti con

uno stato laico, deciso a porre sullo stesso piano tutti i culti, mal

si conciliavano con la conclamata volontà del Bonaparte di costruire una chiesa neocostantiniana,

che traesse elementi diret-

tivi dall’«Unto del Signore» e ne proclamasse la funzione prov-

videnziale in ordine al ripristino ufficiale e all'espansione del cattolicesimo nel mondo. Il conflitto col papato, esploso sul piano politico per il rifiuto di Pio VII di partecipare al blocco continentale contro l’Inghilterra, portava ad una nuova soppressione dello stato pontificio e all’esilio del pontefice prima a Savona (1809) e poi a Fontainebleau (1812). La risposta del papa, che già aveva denunciato la violazione del concordato compiuta con gli articoli organici, non si limitava alla scomunica di mandanti ed esecutori della sua estromissione dal potere temporale, che già delegittimava l’imperatore, ma colpiva un nucleo centrale della sua politica: il rifiuto pontificio di concedere l’istituzione canonica ai vescovi nominati dal governo determinava infatti una serie di difficoltà nell’espletamento del regolare servizio religioso in numerose diocesi. Cadeva così quell’ordinata ripresa dell’amministrazione religiosa su cui Napoleone aveva puntato per la costruzione del consenso al suo potere. In questa situazione il Bonaparte giocava l’estrema carta di riunire a Parigi un concilio della chiesa imperiale (1811), che

sul piano immediato doveva sottrarre al papato l'istituzione canonica dei vescovi, riattivando l'orientamento gallicano ad affidarla ai capitoli diocesani; ma su quello generale implicava un sostanziale asservimento dell’istituzione ecclesiastica all’autorità imperiale in un nuovo cesaropapismo: il trasferimento degli archivi vaticani a Parigi era emblematico del tentativo di fare della capitale francese il centro di un'Europa subordinata a Napoleone sul pia-

no politico come su quello religioso. La resistenza di Pio VII e del-

la maggioranza dei vescovi, nonostante la firma papale di un accordo preliminare per un nuovo concordato, che peraltro venne ben presto ritrattato, si coniugò con le sconfitte militari dell'imperatore, determinando la fine dei progetti cesaropapistici; ed anche la scomparsa di quella chiesa imperiale, che, prima dell’acuirsi del conflitto con Roma, non si era certo sottratta alla glorificazione dell’uomo inviato dalla Provvidenza a restituire rilevanza politica e civile ad una religione che la Rivoluzione aveva vanamente cercato di separare dallo stato. Nel maggio 1814 il papa rientrava a Roma come capo della chiesa universale e sovrano del ricostituito stato pontificio. Era il

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

331

simbolo di un generale ritorno all’assetto di antico regime. L'episodio rivoluzionario sembrava così chiudersi non solo con la

sconfitta della normalizzazione napoleonica, ma anche con il fal-

limento delle prospettive di fondo che l’avevano inizialmente, e pur variamente, percorso: l’istanza verso una riforma ecclesiale,

l'acquisizione della chiesa al sostegno della democrazia, l’affermazione della laicità dello stato. Ma alcuni risultati dei concordati napoleonici non sarebbero caduti. In particolare il radicale disboscamento di ordini religiosi, confraternite e congregazioni laicali che ne era derivato diede un colpo mortale al particolarismo devozionale dell’antico regime: all’inizio dell'Ottocento la parrocchia emergeva ormai come il luogo centrale della vita e

dell'esperienza religiosa dei fedeli. Del resto le forze sociali che

la Rivoluzione aveva messo in moto non si erano certo rassegnate ad una totale scomparsa dei suoi ideali. 5. TRA SECOLARIZZAZIONE E RITORNO ALLA «SOCIETAS CHRISTIANA»

1. Nostalgici dell’«ancien régime», intransigenti e cattolici liberali

In realtà l’età della Restaurazione che si apriva dopo il congresso di Vienna

(1814-15)

vedeva il mondo

cattolico articolarsi in

una pluralità di orientamenti differenziati. Non si può certo sottovalutare la diversità delle prospettive che animarono

correnti; ma occorre

queste

subito precisare che esse rimanevano

nel

complesso all’interno di un'ottica che vedeva comunque nella ricostruzione di una società cristiana l’obiettivo da perseguire in contrapposizione alle tendenze alla laicizzazione dello stato e alla secolarizzazione della vita sociale, &merse nel periodo rivoluzionario e ormai sostenute da corposi settori della cultura e della politica contemporanea. Certamente diversi erano i modelli di rapporto tra chiesa e società cui questi gruppi si ispiravano e ben distinti gli strumenti giuridici che volevano applicare nello stato — si pensi solo al contrastante atteggiamento circa il diritto alla libertà religiosa e la separazione tra chiesa e stato —; ma comune era la convinzione che non potesse darsi autentica socialità e vera civiltà senza un fondamento

cristiano, di cui la chiesa costi-

tuiva l’ultima e indispensabile garante. Un primo orientamento, che trovava ampio consenso in settori della gerarchia, vedeva nel ripristino dell’alleanza fra il tro-

332

Cristianesimo

no e l’altare - che costituiva una delle linee di fondo perseguite

dal tenace tessitore della Restaurazione, il cancelliere austriaco

K.W.L. Metternich —- la via per cancellare tutte le novità portate dall’epoca rivoluzionaria. Si trattava di ritornare alla società ufficialmente cristiana dell’antico regime e quindi di restituire alla chiesa quei privilegi politici e giuridici che si ritenevano necessari ad un positivo esito della sua azione pastorale. Tuttavia i governi restaurati, pur sensibili al consenso che potevano ottenere grazie all'appoggio ecclesiastico e quindi larghi di concessioni al clero, non mancarono, nel timore di lasciare eccessivo spazio ad

istanze curialiste, di controbilanciare questo indirizzo con la ripresa di aspetti della politica giurisdizionalistica. E nella sottoscrizione di quei concordati — da quello con il Regno delle due Sicilie (1818) a quello con l’impero austriaco (1855) - che attri-

buivano alla chiesa i vantaggi tipici del periodo prerivoluzionario, ottennero, come contropartita politica, lo stesso giuramento di fedeltà al governo di vescovi e parroci che aveva caratterizzato il concordato napoleonico. In questa delicata situazione la posizione della Santa Sede — in particolare nel periodo in cui fu gui-

data dal Segretario di stato cardinal É. Consalvi (1814-23), prima

che il suo allontanamento significasse il prevalere in curia di più rigide posizioni — si mostrò assai realistica. E vero che, all’inter-

no, lo stato pontificio intendeva dare l'esempio di un deciso ri-

torno al passato: l'adeguamento della legislazione civile a quella canonica, la clericalizzazione dell’amministrazione (pesante fu il controllo sulle università), il ristabilimento del ghetto e delle di-

scriminazioni verso gli Ebrei ne erano i sintomi più vistosi. Tuttavia, nella politica estera, il Consalvi perseguì l’obiettivo di ottenere l’appoggio delle autorità politiche nell’imporre come coercitive norme civili le regole del diritto canonico in quei settori giudicati fondamentali — il disciplinamento del matrimonio, dell’istruzione e dell'assistenza —, senza irrigidirsi nella rivendi-

cazione della fitta rete di immunità ecclesiastiche dell’antico regime. Se il compiuto ritorno al passato prerivoluzionario realizzato nel territorio pontificio veniva propagandisticamente presentato come modello da imitare, nei concreti rapporti con gli stati la diplomazia vaticana, pur cercando di avvicinarsi a quell’ideale, giudicava sufficiente il recupero di una solidarietà di fon-

do col potere civile negli ambiti ritenuti decisivi. Ma, accanto a questa prospettiva, si delineava nel mondo cattolico una tendenza assai più radicale, che si richiamava agli interventi degli esponenti della cultura cattolica controrivoluzio-

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

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naria come J.M. de Maistre (1753-1821), L.J.M. de Bonald (17541840),J. von Gòrres (1776-1848),J. Donoso Cortés (1803-1853).

Per costoro, e per quanti ne diffondevano gli orientamenti a livello popolare, come la ricostituita Compagnia di Gesù (1814) o

il nuovo ordine dei preti del Preziosissimo sangue di G. Del Bu-

falo (1815), la Rivoluzione francese non aveva rappresentato un fatto episodico. Essa costituiva invece l'esito di un processo spesso letto, in termini fantasiosi, come una diabolica congiura,

in cui erano in vario modo implicati protestanti, Ebrei, massoni — che aveva attraversato tutta l’età moderna. Essi ritenevano che

dal Rinascimento

e dalla Riforma

protestante fosse scaturita

quell'affermazione dell'autonomia dell’uomo dalla chiesa, che, per diretta filiazione, aveva portato alla filosofia illuministica, in-

terpretata come eversione dell’interpretazione della natura e della storia fornita dal cattolicesimo. Da questa era poi nata la Rivoluzione, in cui scorgevano il supremo tentativo di scardinare il potere cristiano sul consorzio civile e attentare così all’ordine sociale, di cui solo l'autorità ecclesiastica poteva costituire il solido fondamento. A loro avviso non si trattava perciò di recuperare

gli assetti d'antico regime, già inquinati dalla parabola discen-

dente della modernità, ma di cancellare l’intero evo moderno,

ritornando a quella subordinazione dello stato e della società al papa, che aveva caratterizzato il periodo medievale. Nel Medioevo — mitizzato, per la mancanza di ogni sforzo di seria ricostruzione storica sulle sue reali caratteristiche — vedevano infatti

il punto più alto dello sviluppo storico della civiltà umana. 1 rap-

presentanti di questa concezione — che aveva articolazioni interne, ma che possiamo sinteticamente definire intransigente — auspicavano perciò l’instaurazione di una vera e propria teocrazia papale nei modi in cui si era espressa con Gregorio VII o Bonifacio VIII. Essa costituiva a loro avviso l’unico rimedio possibile e adeguato a quella rivoluzione che, pur momentaneamente

sconfitta, continuava a corrodere — come «un verme roditore» se-

condo l’espressione introdotta decenni più tardi dall’intransigente ]J.J. Gaume (1802-1879) - la società contemporanea sotto

le forme delle ultime filiazioni dello spirito malvagio della mo-

dermità: il liberalismo, che a sua volta portava all'ultimo, ec più grave, degli errori: il socialismo. Non mancava nella visione di questa corrente una nota apocalittica. Nella storia presente era in atto uno scontro decisivo tra il bene e il male, la città di Dio e la città delle tenebre, che si sarebbe risolto o col trionfo dell’au-

torità ecclesiastica o con la barbarie della rivoluzione.

334

Cristianesimo

Una terza corrente, quella cattolico-liberale, trova la sua espressione nel giornale francese «L’Avenir» (1830) di H.F.R. La-

mennais (1782-1854) — che in precedenza era stato fautore delle

tesi intransigenti - Ch. Montalembert (1810-1870) e H.D. Lacordaire (1802-1861). Sostenuti anche dalla locale gerarchia, espo-

nenti di questo orientamento partecipano con successo alla rivoluzione che nel 1830 dà vita ad una monarchia liberale e costituzionale in Belgio: la liberté comme en la Belgique diventerà in ef-

fetti la divisa dei prestigiosi intellettuali — in Italia, tra gli altri, A.

Manzoni (1785-1873), V. Gioberti (1801-1852), A. Rosmini (17971855) — che si richiamano, violentemente osteggiati dall’intransigentismo, a queste posizioni. Secondo questo orientamento la chiesa non doveva contrapporsi al contemporaneo movimento storico che portava i popoli alla costruzione di stati nazionali ad ordinamento liberal-costituzionale: non solo perché i valori di fondo cui essi si ispiravano potevano, una volta epurati ed elevati alla luce della lezione evangelica, essere perfettamente compatibili con la professione di fede cristiana; ma anche perché,

condannando le novità politiche e sociali in una cieca difesa del passato, la gerarchia rischiava di perdere il contatto con gli uomini del presente, che avrebbero comunque, anche senza e con-

tro di essa, provveduto a darsi un’organizzazione civile imperniata sul riconoscimento dei diritti umani come una conseguen-

za, inalicnabile ed imprescrittibile, della loro convivenza sociale.

Alla rivendicazione di una distinzione tra chiesa e stato — peraltro non separatista, in quanto a loro avviso l'autorità politica do-

veva non solo garantire la libertà religiosa, ma anche proteggere e favorire tutte le sue espressioni nella vita civile — gli esponenti di questa corrente associavano spesso un’istanza di riforma ecclesiale, che giungeva talora a toccare strutture profonde dell’istituzione ecclesiastica (fine di ogni forma di temporalismo, formazione

e vita comune

del clero, nomina

popolare dei vescovi,

controllo dell’insieme dei fedeli sulla gestione dei beni ecclesia-

stici). L'intervento di Gregorio XVI (1831-1846) — encicliche Mirari vos (1832), nella cui emanazione il Metternich esercitò una forte influenza, e Singulari vos (1834) - non si limitava a cen-

surare la manifestazione di esigenze di rinnovamento religioso; ma condannava anche le posizioni politico-sociali de «L'Avenir». L'atteggiamento passatista del papa lo portava ad una sostanzia-

le incomprensione della concezione cattolico-liberale, secondo

la quale la difesa dei diritti civili e politici dei popoli costituiva lo strumento necessario per una riconquista cristiana della società,

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

335

sicché il pontefice, ponendosi a capo del movimento liberal-democratico, destinato ad un inevitabile successo storico, avrebbe

alla fine goduto di un potere supremo, almeno di tipo morale, sul mondo contemporaneo che vanamente si cercava di ottenere o con l’impossibile ritorno all’antico regime o coi sogni di restaurazione teocratica. L'accordo con le potenze, anche acattoliche,

che garantivano l’ordine nell’Europa della Restaurazione spingerà Gregorio XVI ad un atteggiamento negativo verso i tentati vi di popolazioni cattoliche — come in Polonia ed in Irlanda - di raggiungere l’indipendenza nazionale alienandosi così simpatie e consensi fra gli stessi fedeli. 2. Il concilio Vaticano I

La prospettiva intransigente che, sia pure in un quadro complessivo ancora dominato dalla nostalgia dell’antico regime, aveva già fatto qualche comparsa nel magistero di Gregorio XVI, venne pienamente adottata da Pio IX (1846-1878). Alcune aperture all’inizio del suo pontificato — peraltro indebitamente estese oltre il loro reale significato dai liberali — vennero ritenute responsabili di quei rivolgimenti che avevano portato alle rivoluzioni liberali, nazionali e sociali che percorsero tutta l'Europa nel '48, alla repubblica romana e all’esilio del papa (1849). Al contempo generava nella gerarchia un riflesso di chiusura il fatto che in quel generale sommovimento della società europea lo spettro del comunismo si fosse presentato come un concreto movimento politico che poteva portare ad un radicale mutamento degli assetti sociali. La promulgazione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria (1854) e poi la pubblicazione del Si/labo (1864) — un secco elenco di proposizioni che venivano condan-

nate — già s’inserivano nella logica di una radicale contrapposi-

zione della chiesa alle tendenze presenti nella società moderna in nome della riaffermazione dei princìpi della tradizionale società cristiana. Ma, in vista di una più solenne e decisiva proclamazione di questi orientamenti, il papa indiceva un concilio ecumenico, al quale non vennero invitate le autorità civili: un fatto nuovo, rispetto alla tradizione conciliare, dettato dalle posizioni

anticlericali di molti governi del tempo. Il tipo di concilio che in curia si aveva in mente era ben mostrato sia dalla formazione delle commissioni preparatorie, che erano composte in larghissima misura da consultori che già abitavano a Roma; sia dalla pubbli-

cazione del regolamento — imposto dal papa, anziché elaborato,

336

Cristianesimo

sl.

come a Trento, dall’assemblea — che mirava ad ottenere una ra-

pida approvazione degli schemi già predisposti, limitando l’ini-

ziativa e la libertà dei membri del consesso. Tuttavia nel corso dei lavori il regolamento venne poi in parte mutato, salvaguardando una maggiore libertà di discussione, ma introducendo anche il criterio della maggioranza semplice dei voti come quorum per l'approvazione di un documento, che ribadiva una concezione dirigistica dei lavori conciliari. Apertosi a Roma nel 1869 — alla presenza di circa 700 padri, in larga misura di provenienza europea e fra questi con una netta maggioranza di italiani - lo svolgimento del Vaticano I fu fortemente condizionato da due fattori: da un lato le vicende internazionali — la guerra franco-prussiana e l'occupazione di Roma da parte del governo italiano -—, che portarono ad una fine anticipata dell’assise con l’appro-

vazione di solo due documenti; dall’altro lato la divisione interna

tra una maggioranza decisa a giungere alla proclamazione dell’infallibilità del papa e una minoranza «anti-infallibilista», che non ottenne di essere rappresentata nelle commissioni incaricate di rielaborare gli schemi preparatori sulla base delle discussioni in

aula, e che, prima della votazione finale del testo sull’infallibilità,

abbandonò Roma, per poi aderire, talora anche sotto la spinta di cogenti pressioni curiali, al nuovo dogma. Tuttavia un gruppo di teologi e sacerdoti, che, secondo

le argomentazioni

diffuse du-

rante il concilio dal prestigioso studioso tedesco I. von Dollinger (1799-1890),

ritenevano la nuova definizione conciliare in con-

trasto con la lezione evangelica e la tradizione cattolica, diede vita

ad uno scisma, che portò alla formazione della chiesa dei «Vecchi

cattolici», numericamente circoscritta, ma ancora oggi viva in pacsi del centro-Europa. La prima costituzione approvata, Dei Filius, condannando diversi errori contemporanei

— razionalismo, panteismo, ateismo,

tradizionalismo, fideismo —, si proponeva di mostrare che non vi era opposizione tra fede e ragione nel riconoscere i presupposti della fede cattolica; ma al contempo recepiva le tesi intransigenti circa l’origine di tutti gli errori moderni dalla Riforma protestante. Indicava infatti nell’affermazione del libero esame del testo biblico quell’incrinatura del principio di autorità, che, passato dal campo religioso a quello politico e sociale, era alla base di ogni sconvolgimento della società contemporanea, sicché so-

lo il ritorno del consorzio civile al cattolicesimo appariva come

adeguato rimedio ai disordini sociali. L'altra costituzione, Pastor

aeternus, frutto di un intenso dibattito in aula, riconosce la infal-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

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libilità pontificia, quando il papa, parlando solennemente ex cathedra, con la consapevolezza soggettiva di mettere in atto la sua autorità, interviene su una questione che riguarda la fede o i costumi. Colpendo definitivamente il gallicanesimo, il testo sostiene anche che tali pronunciamenti sono irreformabili per virtù propria e non per il consenso della chiesa e che il pontefice gode di un primato monarchico su tutta la chiesa, sicché contro le sue decisioni giurisdizionali non è ammesso appello, nemmeno ad un concilio ecumenico. Per quanto la curia sì affrettasse ad informare i governi che la proclamazione dell’infallibilità non aveva implicazioni temporali e non costituiva quindi una solenne affermazione della teocrazia papale, era ormai consolidata tradizione cattolica far rientrare le questioni politiche all’interno di quella sfera. morale cui si riferiva il nuovo dogma. Del resto le correnti intransigenti non mancheranno di vedere pienamente riconosciuto nella Pastor aeternus quel diritto d'intervento del pontefice nel regolare i princìpi costitutivi dell'ordinamento sociale, su cui faceva perno il loro richiamo alla restaurazione del-

la medievale societas christiana. 3. Chiesa e questione sociale

L’istanza di ricostruire una società cristiana, in cui la gerarchia

mantenga un ruolo direttivo, risulta particolarmente evidente nel

modo in cui la chiesa affronta la questione sociale, che l’impetuoso sviluppo economico della seconda metà dell’Ottocento — col

passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale — rende assai acuta nell’intera Europa continentale come nell'America settentrionale. Ai responsabili ecclesiastici appare abbastanza chiaro che si ripercuotono gravemente sui comportamenti morali e religiosi i fenomeni di scomposizione e ristrutturazione del corpo sociale con l'emergere di una contrapposizione di classi, di generalizzazione di nuove forme di pauperismo — che si manifesta

nelle disumane condizioni del lavoro di fabbrica — e di sradica-

mento delle popolazioni attraverso l’inurbamento di massa e l'emigrazione. Ma per lungo tempo i rimedi a questi mali vengono semplicemente individuati, in polemica con le contrapposte soluzioni che offrono la filantropia liberale e l'abolizione socialista della proprietà privata, nel recupero di un personale fervore religioso che riattivi le tradizionali forme della carità cristiana — elemosina individuale e istituti di beneficenza retti dal clero - nel quadro di una società in cui ciascuno dovrebbe accettare il posto

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Cristianesimo

dove, per imperscrutabile, ma comunque venerabile, disegno del-

la Provvidenza, si è venuto a trovare (enciclica Nostris et nobiscum di Pio IX, 1849). Tuttavia, nel corso della seconda parte del secolo, la

crescente preoccupazione che le masse lavoratrici, attratte dalla propaganda socialista, abbandonino ogni forma di adesione al cristianesimo, fa emergere nel mondo cattolico indicazioni più complesse ed articolate. In primo luogo si sviluppa una corrente tradizionalista che, addebitando l’aggravamento delle condizioni economiche degli operai alla soppressione delle corporazioni di arti e mestieri operata dalla Rivoluzione francese e mantenuta dai successivi regimi liberali, propone come soluzione alla questione sociale la ricostituzione di questi organismi medievali, in cui datori di lavoro e lavoratori, ispirati da un comune sentire religioso e guidati all’amore reciproco dal ruolo direttivo che vi esercitano gli ecclesiastici, dovrebbero trovare la via di composizione dei loro contrastanti interessi. E questa la linea che trova ad esempio spa-

zio nella «Civiltà cattolica»,

organo

quindicinale

della Compa-

gnia di Gesù in Italia. Poco importa che all’interno di questo gruppo si manifesti poì la contrapposizione tra chi —- come, in area germanofona, K. Vogelsang (1818-1890) e, in area francofona, il conte R.C.H. La Tour du Pin (1834-1924) — pensa alla

ricostituzione di questi enti per imposizione dello stato cristiano nel quadro di un complessivo regime sociale di carattere corporativo; e chi invece — ad esempio l'economista belga Ch. Perin (1815-1904) e gli esponenti dell'Opera dei congressi (1874), l’or-

ganizzazione dei cattolici italiani sorta a difesa degli interessi della chiesa dopo la fine del potere temporale — li auspica frutto di

un libero e spontaneo movimento associativo. Resta il fatto che questi ambienti traducono la generale nostalgia cattolica per una mitizzata societas christiana dell'età di mezzo in una proposta di restaurazione di istituzioni medievali che vengono presentate come unica soluzione corretta al contemporaneo problema ope-

raio sia sul piano sociale che su quello religioso. Ma, accanto a

questa corrente, si delinea, soprattutto ad opera del vescovo di Magonza, W.E. von Ketteler (1811-1877), un orientamento più duttile. Pur partendo dall’accettazione della corporazione, egli ritiene che la si dcbba adattare alle esigenze delle moderne forme produttive, giungendo così lentamente a svuotarne il contenuto: nella sua prospettiva la corporazione diventa un vero e proprio sindacato di categoria che, operando sulla base del modello offerto dalle

trade unions inglesi e ricorrendo

perciò, se ne-

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Il cattolicesimo dal concilio di ‘Trento al Vaticano II

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cessario, allo sciopero, possa resistere alla mercificazione del la-

voro compiuta dal sistema capitalistico e tutelare adeguatamente gli interessi degli operai. Tuttavia anche nella visione del Ketteler solo se sorrette da uno spirito cristiano — di cui saranno in ultima analisi garanti gli ecclesiastici - queste associazioni di categoria potranno muoversi secondo giustizia e risolvere correttamente la questione sociale. Infine personaggi isolati, che esemplificativamente possiamo individuare nel sacerdote francese A. Chevrier (1826-1879) — il fondatore nella malfamata periferia lionese dell’istituto educativo del Prado e, per alcuni, l’anticipatore della futura esperienza dei preti operai - si muovono in una diversa ottica. Per Chevrier il problema operaio interessa la chiesa in quanto l’industrialismo è la causa di una generalizzata scristianizzazione: ad essa gli ecclesiastici non potranno dare adeguata risposta fino a quando si presenteranno come annunciatori del Vangelo che vivono in una condizione materiale privilegiata rispetto a coloro cui si rivolgono. Non dunque la costruzione di opere sociali cattoliche, ma una profonda condivisione della situazione economica dei proletari — attraverso l’accetta-

zione della loro stessa povertà e del lavoro subordinato come forma di sostentamento — potrà consentire al clero di rendere credibile il messaggio evangelico e portare alla ricostituzione di una società veramente cristiana. Le differenziazioni interne al mondo cattolico in ordine alla questione sociale e le spinte provenienti da diversi settori perché il papato prenda ufficialmente posizione sull'argomento — pena larghe perdite di consenso popolare — inducono Leone XIII (1878-1903) ad intervenire. Con l’enciclica Rerum novarum (1891),

frutto di un complesso processo redazionale, il pontefice indica i caposaldi di quella che diventerà la dottrina sociale della chiesa, presentando, in contrapposizione alla soluzione liberale e a quella socialista, la «terza via» cattolica in ordine ai problemi del contemporaneo mondo industriale. Contro i socialisti il Pecci rivendica l’intangibilità della proprietà privata, alla cui ripartizione distorta può porre rimedio solo la carità cristiana e non coercitive norme

giuridiche di ridistribuzione; contro i liberali, rin-

chiusi nella difesa dell’assoluta libertà del mercato del lavoro, egli invoca un intervento dello stato tanto nella promulgazione di una legislazione sociale a tutela dei gruppi più deboli (donne, bambini, vecchi, invalidi) quanto nella fissazione di un minimo salario individuale, che consenta al lavoratore — purché «sobrio

e ben costumato» — di sopravvivere. Sollecita poi i cattolici a im-

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Cristianesimo

pegnarsi nella costituzione di associazioni di carattere contessionale — che con un intervento personale sulla penultima stesura del testo, egli prevede sia sotto la forma di corporazioni (le sole ad essere considerate nelle precedenti redazioni), sia di veri e

propri sindacati di categoria —: ad esse, senza ricorrere all'arma

dello sciopero, giudicata sovvertitrice del buon ordine sociale, spetterebbe il compito di garantire la difesa degli interessi ope-

rai. Ma, al di là delle specifiche indicazioni tecniche, il testo riaf-

fermava che solo la chiesa — unica depositaria della capacità di interpretare le norme di un diritto naturale ritenuto universalmente valido per tutti gli uomini ed in ogni circostanza — poteva fornire adeguate soluzioni ai problemi sociali contemporanei, sicché solo nel ritorno degli uomini alla subordinazione alla gerarchia si sarebbe ricostituita una società cristiana in cui la convivenza civile poteva rifiorire in quelle forme ordinate e paci-

fiche, che il consorzio umano aveva felicemente sperimentato quando, come nel Medioevo, aveva riconosciuto nel papato la

guida della civiltà.

All'indomani dell’enciclica pontificia il mondo cattolico, pur condividendone gli orientamenti di fondo, si divise nell’attuarne

gli indirizzi applicativi. Da un lato i gruppi tradizionalisti vi vedevano legittimate le corporazioni: continuarono perciò a favorire lo sviluppo di un cattolicesimo sociale imperniato su un associazionismo interclassista promosso dallo stesso padronato in vista soprattutto della tutela morale e religiosa dei lavoratori. Dall’altro lato le correnti innovative cominciarono ad attivare sindacati, in cui gli operai si assumevano in prima persona il compito della loro emancipazione economica. Il problema si complicò perché questi ambienti, anche per ottenere dallo stato quella legislazione sociale che Leone XIII aveva raccomandato, ritennero di dover scendere sul piano politico: nascevano così nei vari paesi europei movimenti che si autodefinirono «democrazia cristiana», in quanto volevano allargare le basi dello stato liberale attraverso la costruzione di un sistema fondato sul suffragio universale e la rappresentanza parlamentare di tipo proporzionale, cui i cattolici dovevano concorrere con un proprio partito di massa. Pur individuando nel Vangelo la radice delle loro rivendicazioni, questi gruppi cominciavano peraltro a porre il problema di una almeno relativa autonomia d'azione rispetto alle indicazioni della gerarchia. Un primo monito di Leone XIII (enciclica Graves de communi, 1901) rivolto ai democratici cristiani italiani, perché limitassero

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Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

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il loro impegno ad una «benefica azione cristiana a favore del popolo» sottomessa alla guida dei vescovi, lasciava spazio in altri paesi, soprattutto in Germania ed in Francia, allo sviluppo di mo-

vimenti sindacali e politici che, nello sforzo di penetrare

tra le

masse in concorrenza con la propaganda socialista, assunsero un carattere interconfessionale, raccogliendo cattolici e protestanti. Contro questi indirizzi interveniva Pio X (1903-1914): con una lettera agli arcivescovi e vescovi di Francia (1910) condannava il gruppo francese del «Sillon» di M. Sangnier, che aveva rivendicato la propria autonomia dalla chiesa sul piano delle scelte tem-

porali, in quanto intendeva realizzare, assieme a tutti gli uomi-

ni che condividessero questo obiettivo, una piena democrazia politica e sociale nel paese. Poi con l’enciclica Singulari quidam (1912), pur lasciando in casi eccezionali aperta la via ad un’unità d’azione tra sindacati cristiani in Germania, imponeva la rigida confessionalità e la subordinazione al clero dell’associazionismo professionale cattolico. Tuttavia il concreto operare dei sindacati cattolici nella tutela economica dei lavoratori non solo li portava inevitabilmente a forme di unità organizzativa con tutti i cristiani impegnati nella stessa direzione, ma nella Francia del primo dopoguerra li spingeva addirittura ad agire talora all’unisono con quelli socialisti. Nel 1929, respingendo il ricorso di un sindacato padronale, la Santa Sede prendeva atto di questa realtà: pur richiedendo agli operai cattolici la formazione di proprie associazioni confessionali, direttamente dipendenti dalla gerarchia, in cui mantenere e sviluppare la propria peculiare identità, legittimava tuttavia la loro partecipazione a più ampi cartelli sindacali, in cui operavano anche organizzazioni professionali

neutre e socialiste, nei casi in cui lo richiedesse il perseguimen-

to della giustizia sociale. Che non si trattasse comunque di un riconoscimento del sin-

dacalismo aconfessionale né, tantomeno, dell’autonomia dell’o-

perare del laicato cattolico nella società lo mostra assai bene l’enciclica Quadragesimo anno (1931) di Pio XI (1922-1939). Qui, pur modificando le soluzioni tecniche prospettate da Leone XIII — ad esempio si indicava nella legislazione dello stato lo strumento con cui garantire la funzione sociale della proprietà privata e si allargava al sostentamento della famiglia il salario che la giustizia esigeva sì corrispondesse al lavoratore — non si cambiava però l’impianto di fondo: solo alla chiesa, ed in particolare al papato, spet-

tava definire le condizioni di una retta organizzazione degli aspet-

ti economici e materiali della vita collettiva. Sul piano poi dell’as-

342

Cristianesimo

sociazionismo operaio veniva indubbiamente legittimata la sua

forma sindacale; ma al contempo non si mancava di mostrare ap-

prezzamento per la strutturazione corporativa del mondo del la-

voro realizzata dallo stato fascista italiano. In realtà, agli occhi del

pontefice, entrambe le vie risultavano positivamente percorribili nella misura in cui accettavano di subordinarsi ai princìpi cristiani ed in ultima analisi alle direttive della gerarchia. Insomma la

progressiva elaborazione della dottrina sociale della chiesa s’im-

pernia comunque sulla convinzione che solo la ricostruzione di una società cristiana potrà dare autentica soluzione ai problemi della collettività. A questa rivendicazione di un potere ecclesiastico sul consorzio civile essa rimarrà legata nei suoi ulteriori svilup-

pi fino al concilio Vaticano II.

4. La politicizzazione della devozione Lo sforzo della chiesa di contrastare il complessivo processo di secolarizzazione delle società occidentali attraverso il richiamo alla ricostruzione di un potere cristiano — che, invocato dalla corrente intransigente, verrà specificato, sia pure con qualche con-

cessione agli ordinamenti liberali, nelle sue concrete forme statali nelle encicliche di Leone XIII Diuturnum (1881) e /mmortale

Dei (1885) — investe anche gli aspetti della devozione. Si tratta di

un terreno ancora male esplorato dalla storiografia; ma alcuni esempi mostrano chiaramente l’ampia penetrazione di questa prospettiva nella pietà concretamente vissuta dai cattolici come nella liturgia ufficiale. Non si tratta infatti solo dell’emergere, soprattutto dopo le proclamazioni dogmatiche del Vaticano I e la perdita del potere temporale, di una devozione al papa — in qualche caso sconfinante in una vera e propria papolatria, talora mediata dalla raccolta di fondi, l’Obolo di S. Pietro, per sovvenire

ai bisogni materiali determinati dalla fine dello stato della chiesa — in cui celebrazioni pubbliche e preghiere personali si caratterizzano per l’affermazione della suprema potestà, ecclesiale in primo luogo, ma anche politica e sociale, che spetta, per diritto divino, al «vicario di Dio in terra». Né si tratta solo dello sviluppo, a partire dagli anni Ottanta, di congressi eucaristici locali, na-

zionali

ed

internazionali,

che

si propongono

di diffondere,

at-

traverso imponenti manifestazioni di massa, la convinzione che

soltanto nel riconoscimento dell’assoluta sovranità, anche temporale, di Cristo, vivente nell’eucaristia grazie alla mediazione ec-

clesiastica, il mondo

potrà ritrovare pace e benessere. Vi è so-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

343

prattutto la precisa risignificazione politica attribuita a forme di culto e manifestazioni liturgiche. E il caso della devozione al Sacro Cuore, che, già simbolo del-

l'opposizione al rinnovamento della pietà auspicato dall’ Aufkl4rung cattolica settecentesca, si carica di un più generale significato nel momento in cui viene inalberato come stendardo della rivolta vandeana contro la Rivoluzione e della resistenza tirolese alle armate napoleoniche. Ma questa generica valenza antirivoluzionaria che il tema mantiene nell’età della Restaurazione — alimentata anche dalla tradizione circa la volontà dell’imprigionato Luigi XVI di dedicare, in caso di liberazione, il paese al Sacro Cuo-

re — si precisa ulteriormente nella seconda metà dell'Ottocento. La pubblicazione integrale delle lettere di M.M. Alacoque, dopo la sua beatificazione (1864), diffonde la notizia che la veggente aveva comunicato al re Luigi XIV una rivelazione, che gli assicurava il trionfo su tutti i suoi nemici qualora avesse eretto nel suo palazzo una cappella in cui compiere il suo omaggio personale — che equivaleva in un regime assolutistico a quello dell’intero stato — al Sacro Cuore e avesse inserito nei suoi stendardi l'emblema del Sacro Cuore. Senza alcuna verifica critica sul testo e senza porsi il problema dell'effettiva conoscenza di quel messaggio da parte del re, la cultura intransigente diffonde allora uno schema di pensiero destinato a grande successo: non solo la Rivoluzione francese costituisce la punizione inviata da Dio ai Borboni per non aver ascoltato la richiesta divina trasmessa dalla beata; ma la Provvidenza lascerà che il flagello della rivoluzione, ancora ben operante nel mondo contemporaneo, continui a corroderlo, spingendolo verso il disastro sociale, fino a che un grande atto di pubblica

consacrazione e riparazione al Sacro Cuore non avrà riportato alla costruzione di uno stato ufficialmente cristiano. La Comune di Parigi e l’unica, anche

se momentanea,

vittoria riportata nella

guerra franco-prussiana da truppe francesi che recavano sul tricolore il Sacro Cuore vengono interpretate come una lampante conferma, voluta dalla Provvidenza, di questo schema. Nasce allora il progetto di dedicare al Sacro Cuore una grande basilica nazionale — che sarà poi eretta a Montmartre, il centro popolare della Co-

mune — in riparazione dell’offesa compiuta dallo stato francese

con l'abbandono dei princîpi cristiani. Soprattutto però il terna si generalizza, superando i confini di un solo paese ed investendo

l’intero mondo cattolico. Ne è tramite l’internazionale rete devozionale dell’Apostolato della preghiera, creata dalla Compagnia di Gesù francese e su-

344

Cristianesimo

bito appoggiata dal papato. Questa associazione, avvalendosi del periodico «Le messager du Coeur de Jésus» (1861-1963), tradotto in numerosissime lingue, diffonde in tutta la chiesa una pietà incentrata sulla richiesta non solo di una personale santificazione, ma anche dell’instaurazione del «regno sociale del Sacro Cuore» in ogni singola nazione come risposta al processo di secolarizzazione della società contemporanea. Ben presto il modello concreto cui rifarsi sarà offerto dalla repubblica dell’Ecuador: ufficialmente consacrata al Sacro Cuore (1873) per volontà

del

presidente

G.

Garcia

Moreno

(1821-1875)

- significativo

esponente dell’intransigentismo cattolico, che, assassinato dagli anticlericali, diventerà nella cultura intransigente l'esemplare modello dell’uomo politico cattolico — essa appare il perfetto paradigma di stato, in quanto garantisce alla chiesa ogni privilegio nell’espletamento dell’attività pastorale e consente solo ai cattolici il godimento dei diritti politici e della pienezza di quelli civili. Il movimento devozionale al Sacro Cuore, incoraggiato sullo scorcio del secolo da Leone XIII — enciclica Annum

sancium

(1899) - proprio come via per affrettare il ripristino di governi cristiani, trova all’inizio del Novecento ulteriore sviluppo grazie all’iniziativa del cileno padre Mateo Crawley-Boevey (1875-1960). Questi, col sostegno di Pio X (1903-1914) e della sua congregazione religiosa — quella dei Sacri Cuori di Gesù e Maria — lancia in tutto il mondo cattolico l’intronizzazione del Sacro Cuore nel

le famiglie (1908). La cerimonia vuole realizzare quel riconosci-

mento della sovranità di Cristo sulla cellula costitutiva della società che, allargandosi a tutte le famiglie, dovrebbe portare alla totale ricristianizzazione del consorzio umano: praticata con fervore, oltre che a livello popolare, da una serie di famiglie regnanti, essa si estenderà poi dalla dimensione domestica a quella civile — con il coinvolgimento di governi locali, istituzioni, associazioni, enti, ecc. —, evidenziando in maniera esemplare l’in-

treccio tra pietà religiosa e volontà di subordinare alla chiesa tutta la vita sociale. Nel corso della prima guerra mondiale la devozione al Sacro Cuore manifesta ulteriormente i suoi aspetti politici: ambienti cattolici di diversi paesi (in Italia sarà attivissimo il padre A. Gemelli e il gruppo dirigente dell’Università cattolica di Milano, che risentono dell’influenza di padre Mateo)

non

la proporranno solo come pratica consolatoria nel generale di-

sastro bellico, ma indicheranno nel pubblico riconoscimento di

una formale consacrazione nazionale al Sacro Cuore — e perciò nell’accettazione del ruolo direttivo della chiesa sul paese — l’in-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

345

dispensabile premessa della vittoria. La contraddizione insita nel

fatto che la pratica era richiesta per nazioni schierate su opposti

fronti induce Roma ad orientare diversamente la devozione, sen-

za per questo sminuirne il significato politico. A più riprese Benedetto XV (1914-1922) presenta il pubblico riconoscimento di un generale regno sociale del Sacro Cuore, cioè di una subordinazione di tutti gli stati alle indicazioni del papato, solo detentore delle regole dell'equità tra contrastanti interessi, come l’unica garanzia di una pace giusta e duratura. Col pontificato di Pio XI (1922-1939) il processo di politicizzazione della devozione — probabilmente anche come risposta a quella sacralizzazione della politica che emerge in questo torno di tempo in movimenti che si presentano come «religioni politiche della modernità» o elevano contenuti delle loro ideologie (ad esempio la nazione) ad oggetto di fede — si accentua attraverso l'iscrizione in una formale dimensione liturgica della regalità sociale di Cristo. Il tema del regno di Cristo era stato spesso connesso fin dalle sue origini antiche e medievali ad istanze ierocratiche; ma il preciso significato politico di questa ripresa emerge dal fatto che esso viene ora costantemente accompagnato dall’ aggettivo «sociale». Con l’enciclica Quas primas (1925) il papa istituisce per la terza domenica di ottobre la solenne festa di Cristo Re della società. L'intervento del magistero rappresenta una formale approvazione alle richieste avanzate insistentemente da un movimento

delineatosi negli ultimi decenni dell'Ottocento negli ambienti intransigenti francesi (ad opera di seguaci di tale ideologia elaborata in precedenza dal cardinal L.ED.E. Pie e dal gesuita H. Ramière, che si riunirono nella «Société du règne social de JésusChrist»), italiani («Società dei fasti eucaristici» del gesuita G. San-

na Solaro) e spagnoli («Academia y corte de Cristo», fondata dal canonico ]. Gras y Granollers). In contrapposizione a correnti moderate — per le quali la regalità di Cristo si manifestava attraverso la sua rinuncia ad ogni potere mondano nella scelta della povertà, nell’abiezione della croce e nel servizio ai bisognosi — questi ambienti ritenevano che il riconoscimento dell’autorità sovrana di

Cristo sul potere temporale (con l’inevitabile corollario della sua

trasmissione al pontefice) costituisse il più efficace antidoto alle tendenze contemporanee verso la laicizzazione dello stato. La proclamazione della festa liturgica, oltre a mostrare che queste posizioni godevano dell'appoggio del magistero pontificio, determinava l’inserimento nella più alta espressione della preghiera e per-

ciò, secondo la tesi della lex orandi lex credendi, nella stessa regola

346

Cristianesimo

della fede, di una rivendicazione di potere teocratico. Questa prospettiva rimarrà nella liturgia delle comunità cattoliche fino a quando il Novus ordo missae post-conciliare (1969), pur mantenen-

do la festa, cercherà di procedere ad una spiritualizzazione dei te-

sti ad essa relativi. Ma intanto generazioni di fedeli — in particolare quelli impegnati nell’Azione cattolica, che, ristrutturata in Italia (1922) da Pio XI e presentata come modello per gli analoghi movimenti di altri paesi, verrà ben presto orientata ad inquadrare la propria attività nella costruzione del regno sociale di Cristo —

avevano intrecciato la loro fede ad un’ideologia di conquista politica e sociale.

6. NELLA CRISI DEL MONDO

CONTEMPORANEO

1. Il modernismo

Nel corso del XIX secolo si era andata affermando all’interno della chiesa la cultura intransigente, che s’imperniava su di un rifiu-

to complessivo della modernità, anche se si mostrava poi disponi-

bile ad accettarne certi strumenti per utilizzarli nella costruzione

di una società cristiana dai tratti medievaleggianti. Nel secolo successivo questa linea doveva confrontarsi con una serie di sfide emergenti da un processo storico che il cattolicesimo, pur ampiamente presente, e spesso con rilevanti poteri sociali, nelle strutture edistituzioni del mondo contemporaneo, non riusciva ad orientare secondo gli schemi elaborati dall'intransigentismo. Un primo problema - che la storiografia definisce come crisi modernista — scaturiva dall'interno stesso del mondo

cattolico,

dove soprattutto nei seminari e tra il clero crescevano i dubbi e gli interrogativi sulla reale efficacia di un'azione pastorale e sociale condotta secondo l'ottica intransigente. A cavallo tra i due secoli si era infatti variamente presentata nel mondo cattolico l'istanza di mettere complessivamente la chiesa al passo coi tempi moderni, salvaguardandone

l'essenziale patrimonio di fede, ma

rendendola al contempo capace di trasmetterlo agli uomini in maniera adeguata al loro linguaggio e ai loro bisogni (Reformkatholizismus nei paesi germanofoni e americanismo in quelli anglofoni). Detonatore dell’acuirsi della crisi fu lo sviluppo dei moderni metodi per l’indagine critica nell’ambito delle scienze umane e la loro applicazione al campo degli studi religiosi, dove Leone XIII aveva imposto l'adozione del neotomismo in teo-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

347

logia e filosofia (enciclica Aeterni patris, 1879) e una prospettiva, nonostante qualche apertura, sostanzialmente apologetica sia

nella storia della chiesa (lettera Saepenumero, 1883), sia nell’esegesi biblica (enciclica Providentissimus Deus, 1893). Le scienze ec-

clesiastiche vennero investite da una forte esigenza di rinnovamento che metteva in discussione le convinzioni tradizionali, nel tentativo di allineare le conoscenze in ambito cattolico ai risultati cui erano pervenuti gli studiosi protestanti o laici. Pur ricordando che i percorsi individuali non furono rettilinei — anzi risultano difficilmente sondabili dall'indagine storiografica, dal momento che spesso riguardano l'intimo atto di fede della singola persona —; e che per un movimento assai fluido e articolato le generalizzazioni sono molto approssimative, si può schematicamente dire che i sostenitori del rinnovamento si volsero a tre grandi tematiche. In primo luogo l’applicazione del metodo storico-critico nell’interpretazione dei testi biblici e la rivendicazione dell’autonomia degli studi storico-religiosi dalle direttive del magistero — A. Loisy (1857-1940) in Francia; E. Buonaiuti

(1881-

1946), S. Minocchi (1869-1943), P.G. Genocchi (1860-1926) in Italia. Inoltre il superamento della scolastica tomista in nome di

una filosofia dell’immanenza,

che sottolineava la storicità delle

formule dogmatiche e si opponeva all’imperante medievalismo culturale - M. Blondel

(1861-1949), P.L. Laberthonnière

(1860-

1932), E. Le Roy (1870-1954) in area francofona; G. Tyrrel (18611909) in ambito anglofono. Infine l'individuazione delle linee politico-sociali per un rinnovamento in senso democratico-cristiano della presenza cattolica nella vita collettiva, sganciandola dal controllo della gerarchia — R. Murri

(1870-1944)

con la sua

rivista «Cultura sociale»; M. Sangnier (1873-1950) e il gruppo del periodico «Le Sillon» (1894-1910). Nonostante i tentativi del barone Fr. von Hugel (1852-1925) di mettere dall’Inghilterra in rapporto tra loro i vari esponenti del movimento, questo mantenne un carattere assai frastagliato: se da tutti condivisa era l’ansia di cambiamento, ben diversi ne erano i presupposti e gli esiti, che andavano da un mero aggiornamento dell’apologetica cattolica ad un più o meno accentuato relativismo religioso. Tuttavia, di fronte all'emergere di queste istanze, scattò a Roma un mero riflesso di difesa. Con l’enciclica Pascendi (1907) Pio X presentava il modernismo, «sintesi di tutte le eresie», come una

corrente unitaria e compatta: sotto il pretesto di rinnovare la chiesa, adeguandola alla cultura contemporanea, i suoi esponenti sì proponevano invece, in linea con le loro convinzioni

348

Cristianesimo

profonde, l’agnosticismo e l’immanentismo, di distruggere il carattere sovrannaturale della fede e del dogma nei varì ambiti (filosofico, teologico, storico-religioso, apologetico) in cui operavano. L'effetto dell’enciclica fu in primo luogo quello di caratterizzare i modernisti con una precisa connotazione teologica, che era spesso in contrasto con la loro stessa autoconsapevolezza e con le ragioni che essi davano del loro operare: si videro perciò costretti, talora con drammatiche crisi di coscienza, o ad ac-

cettarla, per rimanere fedeli alla chiesa o a respingerla, separandosi dalla comunione cattolica. Inoltre l’intervento pontificio favoriva lo sviluppo di un antimodernismo, che rispondeva a que gli stessi problemi cui i «modermnisti» avevano cercato di dare soluzione, irrigidendo però lo schema intransigente. Secondo questa linea — che viene definita integrista, dal momento che i suoi sostenitori si autodefinirono «cattolici integrali» — il mondo contemporaneo mostra con i fenomeni di scristianizzazione, secola-

rizzazione e laicismo di essere totalmente in preda al demonio, sicché, anziché cercare un’apertura verso di esso, occorre approfondire la separatezza della chiesa dalla storia, dal momento

che, fuori di essa, non vi può essere vera civiltà, autentica cultu-

ra, valori morali ed anche semplice onestà umana. Perciò non solo la chiesa deve essere autosufficiente — in particolare rafforzando la sua gerarchizzazione interna e l’autorità del clero sul laicato —; ma il tentativo di settori cattolici di adeguarla ai tempi moderni rivela semplicemente il loro tradimento, la loro acqui-

sizione, più o meno consapevole, alla congiura volta a privarla del suo potere sul mondo. Si determinavano in tal modo all’interno del mondo cattolico due poli rigidamente contrapposti — quello modernista e quello antimodernista —, tra i quali oscillava un gruppo di personaggi, talora anche appartenenti alla gerarchia, incerti ed esitanti,

che comunque rifiutavano una rigida cristallizzazione delle loro

posizioni in un senso o nell’altro. Ma proprio contro costoro Pio X svolgeva una serie di richiami, incentrati sulla condanna del «modernismo

pratico»,

termine

col quale

definiva coloro che,

pur formalmente aderendo agli indirizzi del pontefice, tendevano a circoscriverne la portata, ritenendo che la sua autorità non

dovesse estendersi al di là dell'ambito puramente religioso. Del resto il papa accompagnava i richiami con misure disciplinari dirette a colpire non solo i modernisti, più o meno dichiarati, ma anche quanti potevano essere sospettati di simpatie per il modernismo: imposizione di un giuramento antimodernistico a di-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

349

verse categorie di persone, in particolare i professori nelle istituzioni educative della chiesa; rigido controllo sulle letture dei

seminaristi; visite apostoliche in varie diocesi per verificare l’ade-

sione alle direttive curiali da parte di vescovi, sacerdoti, laici; ecc.

E in questo clima che, con l’incoraggiamento del Segretario di stato, cardinal R. Merry del Val, e di altri importanti personaggi della curia, come il cardinal G. De Lai, e con il consenso, almeno

di massima, di Pio X, si sviluppava l’integrismo antimodernista.

Infatti mons. U. Benigni (1862-1934), sottosegretario alla Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari — già animatore di un giornale, la «Corrispondenza romana»,

volto a coor-

dinare in diversi periodici cattolici campagne di stampa contro i

modernisti o chi si presumeva tale — fondava il «Sodalitium pianum»

(1909). Si trattava di una società segreta internazionale che

si dedicava ad una sistematica opera di spionaggio e delazione verso quanti — persino vescovi e riviste di gesuiti — erano ritenuti aderire al modernismo, in quanto misconoscevano nelle que-

stioni miste o relative ad aspetti della vita sociale, politica, lette-

raria, ecc. la suprema autorità del pontefice. Per gli aderenti a questa rete informativa discutere o interpretare il magistero papale, qualunque fosse il suo oggetto formale, costituiva una prova della partecipazione a quel movimento modernista che, ai loro occhi, rappresentava l’ingresso nella chiesa, per distruggerla dall’interno, della cospirazione diabolica cui riducevano tutta la

modernità. Nel 1911 Benigni, nominato protonotario apostolico, lasciava la Segreteria di stato e agli inizi del 1913 il suo giornale cessava le pubblicazioni; ma la sua attività continuò: incontrò vere difficoltà solo col successivo pontefice. In seguito alla denuncia presentata a Benedetto XV da settori della gerarchia francese contro gli occulti centri di potere che ne indebolivano l’azione, il nuovo papa pose termine agli eccessi dell’anonima opera

di delazione in materie su cui il magistero non si era ancora pronunciato (enciclica Ad beatissimi, 1914) ed il «Sodalitium» venne

sciolto nel 1921. Ma, al di là della continuazione in varie forme, sia pure in una posizione defilata, dell’attività di mons. Benigni fino alla sua morte, la crisi modernista lasciava aperto all’interno della chiesa il problema della liceità, mai formalmente

sconfes-

sata, delle tesi integriste, che in effetti, in ambienti cattolici più o meno vasti, sarebbero periodicamente riemerse (ad esempio nel secondo dopoguerra con il movimento di «Cité catholique»). Del resto tale questione si inseriva all’interno di un più generale nodo che restava irrisolto, quello dell’atteggiamento del cattoli-

350

Cristianesimo

cesimo verso la modernità tanto sul piano dell’accettazione dei suoi metodi di conoscenza scientifica quanto su quello del riconoscimento delle sue forme di organizzazione sociale e politica. 2. L'accordo coi fascismi

Dopo la prima guerra mondiale, come reazione alle minacce di estensione della rivoluzione bolscevica dalla Russia al mondo e come risposta alle insoddisfazioni generate dal suo esito in vinti e vincitori, si svilupparono in Europa movimenti nazionalistici, che assunsero in alcuni paesi il carattere, pur variamente declinato, del totalitarismo fascista. La cultura intransigente aveva ac-

centuato alcuni elementi sa con essì: la negazione umano, ad ogni forma di religiosa che si realizzava

che favorirono un incontro della chiedi ogni valore, anche semplicemente diversità rispetto a quell’unità politiconelle società cristiane ideologicamente

compatte; il richiamo ad un ordinamento sociale di tipo autori-

tario e gerarchico che cancellasse i diritti politici e civili scaturiti dalla Rivoluzione francese; il privilegio per una organizzazio-

ne interclassista e corporativa del mondo

del lavoro; il sospetto

di un complotto ebraico dietro all'emergere dello stato laico, liberale o socialista, con la conseguente richiesta di una legislazione antisemita. Sarebbe ovviamente assurdo affermare una piena coincidenza tra la mentalità diffusa dall’intransigentismo fra i cattolici e le diverse estrinsecazioni della cultura nazionalisticofascista: lo dimostrano non solo le frequenti frizioni e polemiche della chiesa con gli stati fascisti, ma anche le condanne dottrinali di elementi portanti della loro ideologia — esaltazione della raz-

za o della nazione, divinizzazione del capo dello stato, rifiuto di

un diritto naturale universale, e così via. Resta tuttavia un dato

indiscutibile: la chiesa non si limitò a raggiungere accordì concordatari con i regimi che si richiamavano al fascismo nella prospettiva di utilizzarli come una tappa sulla via di realizzare quel-

lo stato e quella società integralmente cristiani che costituivano

il suo specifico obiettivo; ma manifestò un effettivo consenso ver-

so principi e aspetti dei fascismi che appartenevano al suo stesso bagaglio ideologico. Ad esempio, la condanna dell’antisemitismo di tipo razziale non impedì l’aperto favore della gerarchia verso misure di discriminazione civile a danno degli Ebrei, come emerge chiaramente nel caso del regime di Vichy instaurato in Francia durante la seconda guerra mondiale dal maresciallo H.Ph. Pé-

tain (1856-1951). Né la condanna dell’«esagerato nazionalismo»,

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

351

presente nei documenti pontifici dell’epoca, ostacolò l'apprezzamento verso chi — illuminante è ancora l'esempio di Vichy inquadrava una esasperata ideologia nazionalistica in una complessiva ottica cristiana. È vero che in questo periodo non mancarono prese di distanza: è il caso della condanna

(1926) dell’«Action francaise» — pe-

raltro ritirata nel 1939 - del nazionalista monarchico Ch. Maurras

(1868-1952),

che, pur

personalmente

agnostico,

aveva

rac-

colto nel suo movimento un consistente numero di cattolici francesi. Tuttavia l’intervento pontificio più che mettere in questio-

ne i principi ideologico-politici del gruppo, si limitava a rivendi-

care l'esigenza della totale subordinazione alla chiesa dell’attività politica dei fedeli, sottolineando la necessità di un loro impegno unitario nell'azione cattolica direttamente controllata dalla gerarchia. Ed è anche vero che all’interno della chiesa si muovevano gruppi non consonanti all'accordo coi fascismi: ad esempio ampi settori del cattolicesimo anglofono non erano disposti a rinunciare ai valori liberal-democratici su cui si basava la vita cosutuzionale dei loro paesi; e, a partire dagli anni Trenta, sì sviluppò una corrente culturale — che trovò espressione nella filosofia politica diJ. Maritain (1882-1973) - che presentava nell’abbandono del sogno della restaurazione teocratica e nell’accettazione della democrazia la sola via adeguata ai tempi moderni per la realizzazione di un’autentica società cristiana. Si trattava tuttavia di resistenze, talora mal tollerate - l'opera di Maritain, che

il Sant'Uffizio, nonostante l’avvio di un processo, non giunse a

condannare, subì comunque ostracismi editoriali e violenti attacchi su organi ufficiosi —, che non incisero sull’orientamento

di fondo dei vertici istituzionali della chiesa.

L'accordo col fascismo italiano, che agli esordi non celava cer-

to una dimensione anticlericale ed anticristiana, passò in primo luogo attraverso la sconfessione del Partito popolare di don L.

Sturzo

(1871-1959), che si muoveva sul terreno democratico.

Il

suo carattere «aconfessionale» era apertamente osteggiato da consistenti settori del mondo cattolico e dalla stessa «Civiltà cattolica»; ma Roma non rinunciò a questo strumento di presenza politica, fino a che le ampie concessioni di B. Mussolini, appena giunto al governo, in materia di legislazione ecclesiastica e la sua proclamazione del cattolicesimo come componente fondamentale della grandezza della nazione italiana e della sua missione universale,

indussero

la Santa Sede

a ritenere

quel partito

un

ostacolo allo sviluppo dei rapporti con un governo totalitario. Del

352

Cristianesimo

resto l’atteggiamento romano verso le violenze squadriste, che si

limitava a condannare solo quelle che toccavano le organizza-

zioni cattoliche, lasciava intendere l'esistenza di.uno spazio reale per un negoziato diretto tra chiesa e regime fascista. Si giun-

se così ai Patti Lateranensi del 1929, che sancirono l’accordo tra

i due poteri. Essi si componevano di un trattato che poneva termine alla Questione Romana attraverso il riconoscimento dell’indipendenza della Città del Vaticano e presentava il cattolicesimo come religione dello stato italiano; di una convenzione finanzia-

ria, che risarciva il papato con una forte somma peri danni cau-

sati con la presa di Roma

nel 1870; di un concordato che, resti-

matrimoniale,

giurisdizionale

tuendo, come disse la propaganda cattolica, «Dio all’Italia e l’Italia a Dio», assicurava alla chiesa una serie di privilegi sul piano educativo,

ed economico.

Nono-

stante l'emergere di successive tensioni — in particolare sull’autonomia dell’Azione cattolica, che un compromesso confinò poi all'attività puramente religiosa (1931); e sulle leggi razziali (19381939), ma

solo per il fatto che esse, vietando il matrimonio

di

Ebrei con italiani di «razza ariana», costituivano un vulnus al concordato —, la chiesa non mancò di sostenere, talora con entusia-

smo, iniziative del regime: dalla battaglia del grano all’intervento nella guerra civile spagnola; dalla guerra di Etiopia, vista co-

me occasione per una espansione della civiltà cattolica e roma-

na, alla stessa partecipazione al secondo conflitto mondiale, che settori del clero presentarono, ai suoi inizi, come una crociata

per l'affermazione di un nuovo ordine mondiale, in cui si sarebbe finalmente assicurata la regalità sociale di Cristo. È ancora una sostanziale omogeneità di generali concezioni ideologico-politiche che spiega l'appoggio della chiesa a F. Franco (1892-1975) e ai generali spagnoli insorti nel 1936 contro la repubblica.

Indubbiamente

il violento anticlericalismo,

che, e-

sploso agli inizi della guerra civile, sfociò in sanguinose persecuzioni religiose, determinò nella gerarchia locale e a Roma un atteggiamento sfavorevole al governo repubblicano, la cui legislazione separatista già aveva ingenerato diffidenze e resistenze (anche per il ricordo della dura repressione anticattolica poco prima attuata dalla laicista repubblica messicana). Ma l’orientamento ecclesiastico non mutò anche quando, alla metà del 1937, la sconfitta degli anarchici pose fine alla persecuzione e le legittime autorità repubblicane si sforzarono di giungere alla pacificazione religiosa, mentre nella vita politica si mostravano chiaramente operanti partiti cattolici antifascisti, che nella regione

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

353

basca raggiungevano addirittura la maggioranza. Per quanto vi potessero essere dubbi sull’intima adesione al cattolicesimo dei capi militari in rivolta, larghi settori della gerarchia, col sostegno di Roma, videro nei generali insorti i paladini di una santa crociata che doveva sconfiggere i portatori di quella modernità politica e sociale, costituita dalla democrazia, dietro cui scorgevano

solo un’operazione diabolica. Del resto Franco si dichiarò cattolico e come tale venne presentato dalla gerarchia. Egli trovava

comunque utile appoggiarsi sulla chiesa, facendo propria la pro-

spettiva degli integristi volta alla ricostruzione della tradizionale Spagna cattolica, in cui l’unità religiosa era il fondamento e la ragione dell’unità politica. La vittoria militare di questa prospettiva ebbe un concreto esito giuridico-politico nel concordato del 1953. Esso sanciva ufficialmente il ruolo del regime franchista come campione della civiltà spagnola e cattolica, assegnando al contempo al potere civile una funzione ministeriale nei confronti dell’istituzione

ecclesiastica.

Il cardinal A. Ottaviani,

una delle

più autorevoli voci della curia romana per la sua direzione del Sant'Uffizio, lo avrebbe presentato come modello ideale del rapporto pattizio tra chiesa e stato. Per quanto in maniera più tortuosa e complessa, un accordo

si coglie anche con aspetti del nazismo tedesco. Alla base del

concordato col Terzo Reich del 1933, che conteneva concessioni mai fatte da nessun governo tedesco alla chiesa, stava non solo il calcolo politico che la difesa delle sole istituzioni cattoliche, così ottenuta, valesse il prezzo della collaborazione con un regi-

me, di cui certo non si approvava il sostanziale neopaganesimo e il fanatismo razziale; ma anche l'apprezzamento per l'impegno

anticomunista del nuovo potere, che aveva il merito di salvare la

civiltà dalla barbarie liberale o marxista e la simpatia per un go-

verno autoritario e nazionalista che restituiva alla patria tedesca,

terra pur sempre cristiana, un suo ruolo primario nel consesso internazionale. Indubbiamente Pio XI si allontanò progressivamente da questa linea: gli interventi del papa passano da denunce settoriali sulla violazione del concordato a danno delle sole posizioni cattoliche, all’enciclica Mit brennender Sorge (1937) — che, pur avendo cura di evitare ogni concreto riferimento stori-

co e politico al regime, costituisce una ferma condanna del pan-

teismo; della divinizzazione della razza, dello stato o della nazione; della negazione del diritto e della morale universale —, fino

a più espliciti richiami, che accennano al carattere radicalmente anticristiano del nazismo. Tuttavia questa evoluzione - ben ma-

354

Cristianesimo

nifestata dal progetto di redigere un'’enciclica sull’unità del genere umano e di condanna del razzismo e dell’antisemitismo —

viene interrotta dalla morte del pontefice. Il successore, Pio XII (1939-1958), anche di fronte alle atrocità delle truppe naziste nei

territori occupati durante la seconda guerra mondiale e alle notizie circa il genocidio in atto degli Ebrei, scelse la via della pru-

dente e segreta trattativa diplomatica, del «silenzio» pubblico, degli interventi puramente umanitari, giustificando tutto ciò con

l’esigenza di evitare mali maggiori ai cattolici e alle vittime. Al ri-

paro della convinzione intransigente — secondo cui solo ciò che era cattolico meritava di essere salvato, perché si identificava in ultima analisi con la civiltà — il pontefice, preoccupato soprattutto

della minaccia comunista, evitava di indicare le precise respon-

sabilità nelle tragedie in atto.

3. Civiltà cristiana e civiltà occidentale

Il criterio generale che, nel corso della guerra, aveva ispirato l’atteggiamento di Pio XII consisteva nel presentarla come l’inevi-

tabile portato di una storia umana che, rifiutando la guida della

chiesa e il supremo giudizio arbitrale del papa tra gli stati, precipitava nell’abisso di un immane disastro. Al contempo il papa alimentava l’attesa che un’autentica ricostruzione della società dovesse passare attraverso il riconoscimento del ruolo direttivo

della gerarchia su di essa. Queste valutazioni, man mano che l’esi-

to del conflitto si volgeva verso una scontata vittoria degli allea-

ti, si precisavano nella legittimazione della democrazia e nella

proclamazione dei diritti umani come fondamento del futuro or-

dine internazionale, anche se solo nella misura in cui essi si fos-

sero iscritti nel quadro complessivo di una restaurazione della civiltà cristiana (radiomessaggi Per la civiltà cristiana e Il problema della democrazia, 1944). Era evidente che in tal modo il pontefice operava una pur condizionata scelta di campo a favore delle potenze occidentali, nonostante i contrasti diplomatici con esse cir-

ca la resa incondizionata della Germania e la partecipazione della Santa Sede alla sistemazione post-bellica. L'opzione filo-occidentale sarebbe diventata ancora più netta, quando, concluso il conflitto, si apriva l’età della guerra fred-

da, con la divisione del mondo tra blocco comunista — in cui, al di là del dettato costituzionale dei vari paesi, formalmente ri-

spettoso della libertà religiosa, si esercitava una reale oppressione verso le chiese cristiane — e blocco occidentale egemonizzato

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

dagli Stati Uniti, il cui cattolicesimo

za un la la

numerica elemento negazione scomunica

mostrava una crescente

355 for-

ed economica. Chiesa ed Occidente trovarono così comune nella decisa lotta contro il comunismo: con dei sacramenti per quanti ad esso collaboravano e per quanti ne professavano la dottrina, decretate

dal Sant'Uffizio nel 1949, essa venne portata ad un livello prati-

co mai prima raggiunto nel mondo cattolico. Su questo collante ideologico maturarono poi scelte pratiche — interventi papali a giustificazione del Patto Atlantico (1949), a sostegno del riarmo tedesco (1952), a stigmatizzazione dell’atteggiamento dell’Onu

sulla rivolta ungherese (1956) — che sembravano schierare la chiesa a fianco dei più accesi sostenitori dell'Occidente. Tuttavia, pur in un accordo di fondo, motivato dall’istanza anticomunista,

Pio XII mantenne, sul piano dei princìpi, una distinzione tra quella ideologia della civiltà occidentale, che si andava ormai

identificando con il modello di vita americano ed i suoi valori, e

la prospettiva di una civiltà cristiana. In effetti il papa denunciava con forza non solo la crescente

secolarizzazione dell’Occidente — che, secondo ia tradizionale lo-

gica intransigente, giudicava equivalere alla scristianizzazione, senza distinguerne aspetti e contenuti effettivi -, ma soprattutto la visione economicista e meccanicistica del progresso sociale che vedeva prevalere nel cosiddetto «mondo libero». A rimedio di questa situazione egli insisteva in primo luogo sul fatto che, sen-

za la mediazione dei valori spirituali nella vita civile, che solo la

chiesa era capace di attuare, non si sarebbe vinta la lotta contro il comunismo né si sarebbe ottenuto un reale progresso sociale. In quest'ottica s'impegnò in un’intensa promozione religiosa che

trovava il suo fulcro nell’incentivazione di quella pietà mariana,

che già nel corso dell’Ottocento aveva visto una straordinaria crescita (anche alimentata da visioni e apparizioni private). La proclamazione del dogma dell'Assunzione

(1950), l'introduzione di

una specifica festa liturgica della regalità di Maria (1954), la richiesta di consacrazioni individuali familiari e nazionali al suo Sacro Cuore

(1958), l'istituzione di periodici congressi mariani a

tutti i livelli della vita ecclesiale e numerosi altri atti che si muovono nella stessa direzione trovano nelle parole del papa e nella fiorente pubblicistica intransigente sull'argomento una precisa spiegazione: solo nel pieno riconoscimento delle virtù mediatrici di Maria, madre e regina delia chiesa, il fedele accumula le energie spirituali necessarie per porsi come docile strumento nelle mani del magistero e attuare secondo i suoi insegnamenti l’or-

356

Cristianesimo

dine voluto da Dio nel mondo. Lo sviluppo della pietà mariana — che troverà in Italia una clamorosa manifestazione nelle «Madonne pellegrine» in occasione delle prime prove elettorali della nuova repubblica democratica — appariva così come il necessario tramite devozionale a quell’affermazione della regalità sociale di Cristo sul mondo che la Provvidenza non aveva ancora permesso di realizzare, ma che avrebbe finalmente portato alla sconfitta del comunismo e alla correzione degli errori dell’Occidente col riconoscimento dell’autorità ecclesiastica sulla società. Ma, oltre che sul piano strettamente religioso, Pio XII si sforzò di operare direttamente su quello politico e sociale. Frequenti sono infattii suoi richiami al fatto che l'Occidente, nella sua corsa allo sviluppo della produzione e della tecnologia, trascura la realizzazione della giustizia, lasciando ampie sacche di povertà, emarginazione, miseria materiale. In risposta a questa situazione egli da un lato delineò con una serie di specifici e minuti interventi magisteriali, che spaziavano su tutti gli aspetti della vita sociale — da quelli familiari a quelli professionali, da quelli econo-

mici a quelli politici — le concrete caratteristiche che avrebbe do-

vuto assumere la «città cattolica» in ogni sua articolazione. E dall'altro s’impegnò a mobilitare sul piano organizzativo i cattolici, perché, partecipando alla vita pubblica, assumessero una funzione direttiva capace di assicurare un'impronta cristiana alla ricostruzione della società. E in questa direzione si spinse talora piuttosto lontano, giungendo, come nel caso italiano, ad im-

pegnare direttamente vescovi e clero nelle campagne elettorali, affinché chiedessero il voto per il partito cristiano, i cui esponenti venivano presentati come gli unici a possedere — per il solo fatto di essere cattolici e garantiti in quanto tali dalla gerarchia — le qualità morali necessarie ad un buon governo. Ma proprio sul piano politico-sociale si manifestavano clamorosamente i limiti

della prospettiva che il pontefice andava presentando.

Non si trattava solo del fatto che, come intuirono ben presto

alcuni cattolici particolarmente attenti — G. Dossetti (1913-1996) o P. Mazzolari (1890-1959) in Italia; E. Mounier (1905-1950) o M.D. Chenu

(1895-1990)

in Francia —, i partiti cristiani, sostenu-

ti dalla gerarchia, si integravano pienamente nel sistema di potere neocapitalistico, rendendo proprio ai poveri impossibile percepire sul piano pratico quella distinzione tra civiltà cristiana e civiltà occidentale che in linea di principio la chiesa voleva invece ribadire e finendo così per spingerli verso il comunismo come unica via di riscatto sociale. Era la chiesa stessa che, posta di

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

357

fronte a scelte decisive, si schierava per l'Occidente capitalistico. Emblematico fu il caso dei preti operai francesi. Nati sull'onda dell’amara costatazione che la Francia era ormai diventata un paese di missione per la diffusa scristianizzazione delle masse lavoratrici, essi si proponevano di svolgere uno specifico apostolato nei loro confronti, assumendo la condizione di operai e pratican-

done la vita. Nel corso di quest'esperienza essi maturarono ben presto la convinzione che la loro missione non raggiungeva alcun risultato, in quanto richiedeva la preliminare conversione a quella civiltà capitalistico-borghese con cui il cristianesimo era di fatto identificato. A loro avviso occorreva quindi l’incamazione della verità evangelica in una nuova forma di comunità umana: di qui la scelta di iscriversi al sindacato marxista, di partecipare agli scioperi operai, di mettere in questione la struttura parrocchiale come ambito adeguato di espressione della vita religiosa. Solo nel 1959 Roma porrà definitivamente fine all'esperimento;

ma già nel 1953-1954, in contrasto con settori dell’episcopato francese, esso di fatto veniva bloccato.

Quel

che si vietava non

era solo un attivo impegno sindacale dei sacerdoti in organizzazioni marxiste, l’attenuazione del loro ruolo sacrale che implicava il sostentamento attraverso il lavoro manuale, l’eliminazio-

ne della parrocchia come centro della pastorale; ma piuttosto che il messaggio evangelico potesse essere comunicato in una condizione di totale condivisione delle condizioni dei lavoratori proletarizzati. Diversi sono comunque gli episodi d’intervento della gerarchia contro i tentativi di desolidarizzare la chiesa dal sistema politico-economico egemone nell’Occidente. Ad esempio in Italia l'emarginazione di don L. Milani (1923-1967) per il suo sforzo di elaborare una pastorale per l’autopromozione dei poveri costituisce, per la risonanza anche internazionale della vicenda, uno degli esempi più significativi di questo indirizzo. Del resto il pontificato di Pio XII — caratterizzato dall’affermarsi di un’ecclesiologia di carattere societario e giuridico (en-

ciclica Mystici corporis, 1943) — faceva ricorso allo strumento della condanna canonica anche su altri piani. Basterà qui ricordare

l'emanazione dell’enciclica Humani generis (1950), cui facevano

seguito una serie di nominative sanzioni disciplinari a professori e studiosi: essa, accettando sostanzialmente le tesi degli ambienti integristi sulla rinascita di un neomodernismo nell’ambi-

to delle scienze ecclesiastiche, colpiva gli orientamenti della co-

siddetta nouvelle théologie, che si proponeva di rinnovare la teolo-

gia in base al pieno recupero della tradizione biblica e patristica

358

Cristianesimo

e aprire gli studi religiosi ai metodi della critica contemporanea. In tal modo veniva drasticamente riproposto in termini negativi il rapporto della chiesa con la modernità scientifica. 7.LA SVOLTA CONCILIARE

1. Programma giovanneo e decisioni dell'assemblea L'ascesa al pontificato di A. Roncalli, patriarca di Venezia, che as-

sumeva il nome di Giovanni XXIII (1958-1963), determinava una

svolta negli orientamenti che il vertice romano aveva proposto nell’età contemporanea. La sua azione non si indirizzava infatti solo a rimettere in moto un apparato ecclesiastico, ed in particolare curiale, che negli anni finali del papato pacelliano si era bloccato; ma si caratterizzava per aspetti più generali. Il nuovo pontefice non metteva certo in questione temi saldamente radi-

cati nell'ambiente romano: la questione dei preti operai giunge-

va a definitiva conclusione con una condanna del Sant'Uffizio

(1959); l’enciclica Veterum sapientia (1962) ribadiva l’uso del lati-

no come esclusiva lingua in grado di mantenere la purezza della fede e promuovere in qualsiasi popolo la cultura cristiana; in diversi documenti si sosteneva l’indispensabilità del cristianesimo al retto ordinamento della società (in particolare nell'enciclica Mater et magistra, 1961). Ma, al di là della questione, che la ricerca non ha ancora sufficientemente chiarito, dei condizionamenti

esercitati dalla curia sul papa nell'adozione di questi provvedimenti, egli manifestava ben presto uno stile di governo del tutto inconsueto ai predecessori. Alcuni suoi interventi rivelavano infatti sia una netta volontà di presa di distanza dalle competizioni politiche e dal privilegio riservato dalla chiesa alla cultura oc-

cidentale, in nome della universalità del messaggio cristiano; sia un abbandono della tradizionale rivendicazione di vantaggi o di

poteri ecclesiastici, in nome di un’accentuazione del ruolo di ser-

vizio e misericordia che il successore di Pietro è chiamato a svolgere verso tutti gli uomini. Soprattutto alcuni semplici gesti — ad esempio la visita al carcere romano di Regina Coeli o la benedizione agli Ebrei che uscivano dalla sinagoga di Roma (1962) ben traducevano un'istanza di superamento di secolari comportamenti del magistero. Poi, sul finire del pontificato, anche un intervento sul piano dottrinale manifestava una chiara volontà

innovatrice: l’enciclica Pacem in terris (1963) dichiarava ormai im-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

359

proponibile nell’età degli armamenti atomici quella teologia della guerra giusta che aveva per secoli ostacolato un fattivo impegno della chiesa nella costruzione della pace; ed invitava tutti gli uomini di buona volontà ad impegnarsi per la sua realizzazione. AI di sotto di questo appello stava la distinzione tra ideologie erronee e i concreti movimenti storici che ad esse si ispiravano: la condanna delle prime non impediva la possibilità per i secondi di partecipare, assieme ai credenti, all'impegno per il raggiungimento del supremo bene della pace. Ma l'iniziativa più significativa — per la quale papa Giovanni dichiarava di aver ricevuto una specifica illuminazione spirituale e il cui annuncio (1959) lasciava stupefatta e silenziosa la maggioranza dei cardinali (primo segno della «solitudine istituzionale» in cui egli, come si disse, dovrà operare) — era la convocazione di un concilio ecumenico, già ventilata da Pio XI e Pio XII,

poi però abbandonata per le contrastanti reazioni della gerarchia e per il timore vaticano di non riuscire a controllare l'assemblea.

Nell’allocuzione Gaudet mater ecclesia (1962), con cui apriva il Va-

ticano Il e che oggi sappiamo da lui personalmente redatta, non si delineava uno specifico ordine del giorno per i lavori dell’assise, ma accanto al ribadimento di concezioni

usuali — come

la

ripresa di temi tipici della dottrina sociale cattolica — delineava alcuni orientamenti generali che avrebbero potuto portare ad «una nuova pentecoste» nella chiesa. In particolare il papa sottolineava l'esigenza di superare quella nostalgia passatista, che faceva vedere nei tempi moderni ai «profeti di sventura» solo mali ed errori, senza cogliervi le potenzialità per una crescita della coscienza cristiana; invitava a formulare un aggiornamento dottrinale che, pur non intaccando il deposito della fede, lo espo-

nesse, secondo una preoccupazione eminentemente pastorale,

in formule adeguate alle esigenze dell’uomo contemporaneo; sollecitava ad aver presente che alle difficoltà dell'umanità la chiesa poteva rispondere non tanto con condanne, ma offrendo

«la medicina della misericordia» e un messaggio di salvezza eter-

na tanto più credibile quanto più espresso in una situazione di povertà materiale; chiedeva infine un intenso sforzo ecumenico per riottenere, dopo secoli di lacerazioni, l’unità di tutti cristiani. Questo programma di rinnovamento — generico, ma potenzialmente incisivo — non trovava immediato riscontro nell’assemblea, cui parteciparono nelle quattro sessioni svoltesi dal 1962 al 1965 un numero di padri conciliari oscillante — su 2778 convocati — tra 2100 e 2300, dei quali solo il 33% proveniva

360

Cristianesimo

dall'Europa, ponendo così fine a quell’egemonia europea (anzi spesso italiana) che aveva caratterizzato le assisi ecumeniche dell’età medievale e moderna. Tuttavia si delineò fin dalle sue prime battute una maggioranza decisa ad evitare che la preparazione dei lavori del concilio, sostanzialmente

compiuta

dalla

curia in un’ottica romanocentrica e conservatrice — nonostante l'attivazione papale di istituzioni, come il Segretariato per l’unità dei cristiani

(1960),

avesse permesso

la manifestazione

di voci

aperte alla riforma —, ne predeterminasse l’esito finale. Non solo infatti un'iniziativa dell’episcopato franco-tedesco ottenne che le commissioni conciliari, cui era affidato il compito cruciale di tradurre il dibattito che si svolgeva nell’aula in documenti, ve-

nissero elette sulla base di liste predisposte dalle conferenze epi-

scopali, in modo che recepissero adeguatamente gli indirizzi dell’assemblea; ma anche gli schemi elaborati nella fase preparatoria, ad eccezione di quello sulla liturgia, vennero abbandonati in quanto ritenuti del tutto inadeguati. Lo scontro si manifestò a proposito del documento sulla rivelazione: il consenso maggioritario si espresse per il rigetto del testo, senza però raggiungere il quorum necessario. A questo punto però un intervento del papa, rispettando la volontà dell’assemblea, determinò il rifacimento dello schema. Tra Giovanni XXIII e la maggioranza riformatrice del concilio — che si avvaleva della consulenza di prestigiosi teologi, spesso esponenti di quella nouvelle théologie condannata da Pio XII — si delineava così una significativa sintonia, anche se essa non implicava una piena coincidenza di punti di vista. Del resto nei lavori del concilio il papa aveva operato come garante della libertà dell’assemblea più che come ispiratore delle sue decisioni. Un mutamento intervenne, dopo la sua morte, con l’ascesa al pontificato dell’arcivescovo di Milano, G.B. Montini, uno dei leader della maggioranza, che assumeva il nome

di Paolo VI (1963-1978).

Il nuovo

pontefice s’impegnò a portare a termine il Vaticano Il, mettendo ben presto a tacere le notizie fatte ad arte circolare di una sua interruzione; ma soprattutto operando, con una modifica del regolamento e con interventi personali, per superare le manovre ostruzionistiche della minoranza conservatrice. D'altra parte, personalmente convinto della primazia del ruolo papale rispetto alle decisioni dell'assemblea e fortemente preoccupato di ottenere sui documenti un consenso pressoché unanime, non mancò di condizionare l'andamento dei lavori. Avocò così a sé alcune importanti decisioni — ad esempio la riforma della curia, la questione del

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

celibato ecclesiastico, la regolazione

361

delle nascite, che costitui-

rono oggetto di suoi specifici interventi dopo la fine del Vatica-

no II —; intervenne su schemi, recependo sollecitazioni della mi-

noranza (clamorosa fu in questo senso la Nota explicativa praevia, premessa al documento sulla chiesa, in cui si forniva una interpretazione riduttiva delle tesi espresse nel testo sulla collegialità episcopale come forma di governo della chiesa universale); prese l’iniziativa di provvedimenti — la proclamazione di Maria come madre della chiesa - al di fuori della logica conciliare. Intanto la dinamica assembleare si era fatta assai complessa e non solo perché osservatori delle confessioni cristiane e uditori laici erano stati invitati a Roma e venivano consultati sulla reda-

zione di documenti che li riguardavano. Infatti all'interno della

maggioranza emergevano posizioni differenziate - ad esempio il cardinal G. Lercaro (1891-1976), assieme a settori dell’episcopato larino-americano, chiedeva che nei documenti

si esprimesse un

franco radicalismo evangelico in ordine a temi come l’impegno per la pace, la scelta di una «chiesa dei poveri», l'abbandono di una cultura legata all'eredità aristotelico-tomista. Ed anche nella minoranza, accanto a posizioni semplicemente conservatrici, si manifestavano gli orientamenti di padri conciliari legati, come mons. M. Lefebvre (1905-1991), all’integrismo antimodernista.

Dall’esterno dell’assise operavano poi diversi gruppi di pressione desiderosi di orientare i lavori secondo obiettivi più o meno generali. Tutto questo aveva spesso determinato che su questioni fortemente dibattute si giungesse a soluzioni di compromesso. I documenti alla fine approvati rivelano comunque un complessivo disegno che, nonostante oscillazioni ed ambiguità testuali, perseguiva in maniera sostanzialmente coerente una linea volta al superamento di alcuni rilevanti aspetti dell’età controriformistica. Così la costituzione sulla rivelazione Dei Verbum restituiva alla chiesa cattolica la nozione della centralità della Scrittura in ogni

aspetto della vita ecclesiale e, affermando che la Parola di Dio si è comunicata nella storia e solo nella storia può essere compresa,

sanciva la fine di ogni sua interpretazione atemporale e restituiva legittimità ai metodi critici nell'esegesi scientifica. La costituzione sulla liturgia Sacrosancium concilium riconosceva poi il valore comunitario dell’azione liturgica, ponendo così come elemento ad essa imprescindibile la partecipazione collettiva dei fedeli, garantita dall’uso delle lingue volgari. Inoltre la costituzione sulla chiesa Lumen genlium, definendola come popolo di Dio in cammino

verso il Regno, intendeva porre fine al giuridicismo, al trionfali-

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Cristianesimo

smo e al clericalismo ecclesiologico che avevano fatto seguito al Tridentino; e al contempo,

sia pure con i limiti dovuti all’inter-

vento papale cui si è fatto cenno, integrava la monarchia papale con la collegialità episcopale come ordinaria forma di governo della compagine ecclesiale. Infine la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium el spes iniziava il disimpegno della chiesa dalle compromissioni col potere e dall’ottica ierocratica, affidando alla coscienza dei cattolici le scelte in

materia politica; e riconoscendo una pur relativa autonomia dell’operare dell’uomo nell’ambito delle attività secolari — in particolare quelle scientifiche — che potevano così svolgersi secondo le regole loro proprie, anziché secondo i dettami ecclesiastici. Oltre alle quattro principali costituzioni il Vaticano II promulgava numerosi altri documenti, tra i quali quattro meritano di essere in particolare ricordati per cogliere significativi aspetti della svolta conciliare. Il decreto Unitatis redintegratio, anziché enfatizzare le diversità della chiesa cattolica rispetto alle chiese e confessioni cristiane che le vicende storiche avevano separato da Roma,

valorizzava il loro patrimonio teologico e spirituale: riconoscendo che in alcune di esse «sussiste» la vera chiesa di Cristo, compiva un passo importante verso la riunificazione dei cristiani. La dichiara-

zione Nostra aetate, che stabiliva l’infondatezza dell’accusa di dei-

cidio tradizionalmente rivolta al popolo ebraico, avviava quella presa di coscienza — presente nell'assemblea conciliare negli interventi di alcuni padri piuttosto che nel testo finale — che portava a scorgere nell’antisemitismo cattolico una fondamentale premessa alle tragiche persecuzioni cui gli Ebrei erano stati sottoposti. Il decreto Dignitatis humanae infine capovolgeva la secolare op-

posizione della chiesa alla libertà religiosa, affermando che l’uo-

mo, pur dovendo perseguire il raggiungimento della verità, non poteva essere astretto nella sua ricerca da imposizioni giuridiche determinate dallo stato. Infine il decreto Ad gentes, riconoscendo che l'incarnazione del cristianesimo nella cultura occidentale costituiva un aspetto relativo e contingente della sua storia, afferma-

va che la chiesa intende entrare in comunione con le culture espresse dai popoli di ogni regione e di ogni epoca. 2. Le diverse anime del post-concilio

Gli anni che ci separano dalla solenne chiusura del Vaticano II — sui quali è ovviamente difficile fornire un’adeguata sintesi interpretativa — possono essere letti come il travagliato tentativo di ade-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

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guare la chiesa cattolica alle indicazioni conciliari. In realtà sarebbe forse più corretto parlare di chiese cattoliche, dal momento che la valorizzazione, scaturita dallo stesso Vaticano II, delle

conferenze episcopali — provinciali, nazionali e continentali — ha comportato, a differenza di quanto accaduto nell’età della Controriforma, un'applicazione dei deliberati conciliari non più omo-

geneamente uniforme secondo i dettami romani, bensì differenziata in relazione ai bisogni e alle condizioni delle varie situazioni geo-storiche in cui vivono le comunità ecclesiali. Evidenti sono stati gli sforzi vaticani di mantenere un controllo generale sulla rice-

zione del concilio dalla formulazione

(1968) di un «Credo» con

cui il papa intendeva confermare sulla base delle tradizionali espressioni del magistero la fede di tutti i cattolici, al tentativo, fallito, di introdurre una Lex ecclesiae fundamentalis (1972); dalle no-

mine episcopali al di fuori di ogni consultazione delle chiese locali, all’imposizione di tenere a Roma riunioni di episcopati nazionali e sinodi continentali; dal ribadimento dei tradizionali stru-

menti di controllo curiale sulla vita ecclesiale (ad esempio attra-

verso i nunzi e le visite e relationes ad limina), alla riassunzione

dell'attività di supremo tribunale dottrinale da parte del Sant'Uf-

fizio,

pur

ristrutturato

e ridefinito,

con

la riforma

della curia

troduzione di un «Nuovo codice di diritto canonico»

(1983), alla

(1967), come Congregazione per la dottrina della fede; dall’in-

promulgazione

di un

catechismo

universale

(1992).

Ma,

nono-

stante ciò, le «giovani» chiese dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia hanno in realtà mostrato un certo dinamismo creativo,

manifestatosi in modo particolare nelle riunioni della conferenza

episcopale latino-americana a Medellîn (1968) e Puebla (1979). Tuttavia, al di là delle articolazioni, che pure esistono e sono sigmificative, si possono cogliere, in maniera schematica ed ancora

approssimativa, alcune linee generali. In primo luogo si è manifestato un rigetto delle deliberazioni conciliari, che, sia pure in forme

molto diverse, ha accomu-

nato tanto esponenti della minoranza conservatrice, quanto ambienti «progressisti» insoddisfatti delle reticenze ed ambiguità dei documenti del Vaticano II nel prospettare la riforma della chiesa. I primi, ora insistendo sulla natura pastorale - e quindi non dottrinalmente

vincolante — del concilio, ora facendo leva

sui passi che proprio i padri conservatori erano riusciti ad inserire nei documenti, hanno promosso una accettazione meramente formale delle sue decisioni, che ne svuotava il significato

rinnovatore. Da questa ala si è venuto poi staccando nel corso

364

Cristianesimo

degli anni Settanta il gruppo integrista, capeggiato da mons. Le-

febvre, che, formulando la tesi del Vaticano II come «complot-

to» organizzato dai nemici della chiesa in combutta con la corrente «progressista» della gerarchia, è giunto a cogliere in alcuni suoi testi una radicale deviazione dalla tradizione cattolica. Nonostante gli sforzi romani di recupero di questi settori, essi hanno dato vita negli anni Ottanta ad uno scisma, che è all'origine della piccola — ma attiva e ben dotata di mezzi economici — chiesa tradizionalista ormai diffusa in tutto il mondo. Le correnti più radicalmente innovatrici, spesso influenzate dall’ideologia marxista, hanno invece visto nelle riforme promosse dal concilio il ten-

tativo di integrare strettamente la chiesa nel sistema di valori della democrazia capitalistica; oppure vi hanno colto lo sforzo di promuovere il potere del collegio episcopale a scapito di un’autentica uguaglianza evangelica tra i credenti. Hanno perciò ritenuto inutile attardarsi nella sua applicazione, dedicandosi alcu-

ni alla lotta politica in vista di quella liberazione globale dell’uo-

mo, specialmente dalle povertà economiche e materiali, cui la Scrittura chiamerebbe ogni cristiano; preferendo altri l'impegno ecclesiale per la costruzione dell’unica vera collegialità, quella fra tutti i credenti. Comunque questa corrente, che si è soliti definire del «dissenso cattolico», peraltro assai variegata al suo interno, è stata messa ai margini della chiesa e sovente colpita da sanzioni ecclesiastiche. Da] canto suo Paolo VI, dopo aver guidato una cauta sperimentazione riformistica — in particolare nel settore liturgico, oggetto delle più violente polemiche di conservatori (Novus ordo missae, 1969) —, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Set-

tanta ha indicato come via del vero aggiornamento ecclesiale, che si doveva praticare, in antitesi agli «opposti estremismi» di tradizionalisti e progressisti, quel rinnovamento interiore e spirituale che escludeva ogni trasformazione strutturale della chiesa. Più aperto invece il suo intervento nel campo politico-sociale con il tentativo di ridurre la portata universale della dottrina sociale a favore di un multiforme impegno dei cristiani nella promozione dell’uomo,

in collaborazione

con

tutti gli uomini

di buona vo-

lontà, in relazione alle condizioni specifiche di ogni chiesa (Popu-

lorum progressio, 1967; Octogesima adveniens, 1971). L'avvento di Gio-

vanni Paolo II (1978), proveniente dal cattolicesimo polacco, più segnato dal polemico scontro col comunismo che da un sereno confronto col mondo moderno, ha comportato un ripiegamento, sottolineato dalla volontà di interpretare i documenti conciliari al-

D. Menozzi

Il cattolicesimo dal concilio di Trento al Vaticano II

365

la luce di una nozione di tradizione caratterizzata dal riemergere di istanze controriformistiche e dall’esigenza di manifestare la rilevanza sociale e pubblica della fede attraverso il riconoscimento dell'autorità della chiesa sul piano temporale: esigenza, questa, che il crollo del regime sovietico (1989) ha reso ancora più forte

come elemento di differenziazione della chiesa dall’apparentemente trionfante ideologia liberal-capitalista. Queste prospettive sono poi sostenute da movimenti e istituti secolari a forte compaginazione carismatica, di matrice spesso spontanea e di raggio d'azione internazionale, la cui ecclesialità è stata canonicamente riconosciuta dal vertice romano, ma che hanno incontrato difficoltà nelle chiese locali (ad esempio l'Opus Dei e Comunione e Liberazione). E comunque su questi movimenti e istituti che, nella crisi dell'Azione cattolica e dei tradizionali ordini religiosi che ha fatto seguito alla svolta conciliare, il papato si è largamente appoggiato per la diffusione dei propri orientamenti.

Tuttavia non è mancato alla base del mondo cattolico, pur con

una varietà di accenti e non senza oscillazioni, a seconda delle diverse realtà locali, lo sforzo di attuare nella vita personale come in quella comunitaria una realizzazione delle direttive conciliari che,

cercando di fare del processo redazionale dei testi il fondamentale criterio ermeneutico della loro interpretazione, ne traducesse lo spirito di fondo. É in questa esperienza di chiese locali, comunità di base, associazioni laicali, gruppi di volontariato che alcuni autori hanno potuto scorgere l’inizio di un collasso di quell’uniforme e centralistico cattolicesimo romano la cui strutturazione si radicava nell’età della Controriforma e l’inizio di un cattolicesimo articolato in chiese sorelle che individuano nel vescovo

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Il protestantesimo

dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri di Fulvio Ferrario

1. IL PROTESTANTESIMO ALLA FINE DEI. XVI SECOLO

Lo scorcio finale del Cinquecento è caratterizzato, in Germania,

da affannosi tentativi di comporre le dispute dottrinali che minano l’unità del luteranesimo. Tra le più impegnative, ricordiamo quella che oppone la tendenza gnestoluterana (dal greco gnesios, genuino, autentico: che intende rifarsi, dunque, a un’inter-

pretazione rigida dell'eredità di Lutero), avente l’università di Jena, e quella filippista, più incline toni umanistici presenti nella teologia di Filippo particolare per quanto riguarda la rilevanza delle

come centro a valorizzare i Melantone, in opere in ordi-

ne alla salvezza; il filippismo si irradia soprattutto dall’università

di Wittenberg. In seguito a vicende piuttosto travagliate, il can-

celliere di quest’ultima università, Jakob Andreae, conduce una serie di colloqui dottrinali che sfociano nella Solida declaratio, che

si prefigge di salvaguardare le caratteristiche di fondo dell’interpretazione luterana della fede evangelica, senza respingere globalmente, a proposito dei grandi temi controversi (peccato originale, libero e servo arbitrio, giustificazione, rapporto fede-opere e legge-evangelo, Cena del Signore, dottrina della persona di Gesù Cristo), lo sforzo di Melantone. La Solida declaratio costitui-

sce la parte principale della Formula di Concordia, testo che intende superare la disputa. Nel 1580, cinquantesimo anniversario della Confessione di Augusta, la Formula, insieme ad altri testi (cre-

do apostolico, niceno e atanasiano, Confessione di Augusta, Apologia della medesima e trattato De potestate et primatu papae di Me-

378

Cristianesimo

lantone; Articoli di Smalcalda, Piccolo e Grande Catechismo di Lutero) riconosciuti come «simbolici», cioè normativi sotto il profilo

dottrinale, dalia maggior parte delle chiese luterane tedesche e

scandinave, entra a far parte del Libro di Concordia, grande pun-

to di riferimento dottrinale del luteranesimo successivo. Se, da un lato, il Libro di Concordia svolge l'importante funzione di limitare le dispute tra luterani, dall'altro sancisce l'impossibilità di ricomporre la frattura tra luteranesimo e calvinismo: quest’ulti-

mo, oltre che in Svizzera, si è diffuso anche in alcuni territori tedeschi: Palatinato, Brema, principati di Assia-Kassel, Anhalt, Lippe e, dal 1613, Brandeburgo, che nel 1618 si annette la Prussia.

In questa fase, l'identità spirituale della Germania luterana è ormai consolidata. La ripresa in grande stile dell’istruzione ca-

techistica, promossa da Lutero, ha condotto a un significativo incremento delle conoscenze bibliche di base, nonché a una dif-

fusa prassi di preghiera familiare. Il culto domenicale mantiene

la sua centralità, così come la Santa Cena. Intorno al 1600, la festività del Natale assume una nuova rilevanza, tuttavia l’enfasi

maggiore è posta sulle celebrazioni del tempo della Passione, in particolare sul Venerdì santo (si ha qui, sul piano della pietà, un riflesso della teologia della croce di Lutero).

Il culto del Venerdì santo vede una predicazione più breve del

solito, e molto spazio è concesso alla lettura e al canto dei racconti evangelici della Passione. Da questa liturgia si svilupperà il

genere musicale delle Passioni, portato al massimo livello da J.S. Bach. Una vita di fede particolarmente impegnata resta tuttavia propria solo di una parte della popolazione; le testimonianze dell'epoca lasciano chiaramente trasparire il permanere di una

massa religiosamente conformista, la cui formazione si limita alle nozioni fondamentali ricevute nel catechismo; la lunghezza, a volte intollerabile (anche tre ore), della predicazione, non ne fa-

vorisce l'ascolto consapevole da parte di tutti. Insomma,

nella

Germania del 1580, il grande progetto di Lutero, consistente non tanto nella riforma della dottrina e della struttura della chiesa,

ma nel rilancio di una fede consapevole a livello di massa, si può considerare significativamente avviato, ma in larga misura ancora da compiere.

La Svizzera riformata, all'indomani della morte di Calvino, non costituisce una realtà uniforme; tuttavia esistono le premesse di un sostanziale accordo tra le diverse chiese cittadine, attor-

no all'asse Zurigo-Ginevra. In questo ambito è decisiva l’opera di Heinrich Bullinger (1504-1575), successore di Zwingli alla testa

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

379

della chiesa zurighese, il quale, dopo aver convinto Calvino a sottoscrivere il Consensus Tigurinus (1549) sulla Cena del Signore, prosegue in una paziente attività di mediazione, teologica e diplomatica, tesa ad evitare che l’insistenza unilaterale su alcuni

aspetti dogmatici (ad esempio la predestinazione da parte dei ginevrini), o su interessi politici locali, determini

una polverizza-

zione che, alla lunga, renderebbe impossibile ai riformati preservare la loro identità, sotto la pressione di Roma da una parte e del luteranesimo dall’altra. Questo sforzo viene coronato dall’adesione di tutte le chiese svizzere (tranne Basilea, che man-

tiene come testo simbolico la propria confessione di fede del 1534) alla Seconda Confessione Elvetica (la prima è, appunto,

quella di Basilea), ultimata da Bullinger nel 1561. Si tratta di un testo di impronta zwingliana, in cui, dunque, i tratti specifici del-

la teologia calvinista non sono in primo piano; il fatto, però, che anche le chiese di ispirazione ginevrina lo sottoscrivano ne fa il testo comune della fede riformata, punto di partenza per la riflessione ulteriore. L'attività di Bullinger, nei quarantaquattro an-

ni trascorsi a Zurigo

(dal 1531

alla morte)

non si limita all’am-

bito svizzero: il suo vastissimo epistolario, tuttora in corso di pub-

blicazione, documenta contatti capillari in tutta Europa, e la sto-

ria del contributo ideale bullingeriano alla formazione del mondo protestante del Seicento, e in particolare del puritanesimo, è ancora da scrivere. A Ginevra, il successore di Calvino, Teodoro di Beza

(1519-1605),

si dedica alla sistematizzazione

dell’opera

del maestro. Mentre Calvino era essenzialmente un esegeta della Bibbia, Beza si dedica a gettare le basi sistematiche della futura ortodossia riformata. Come il grande predecessore, anch'egli si scontra abbastanza spesso con il Consiglio della città, nel laborioso tentativo di individuare i confini delle competenze del-

l'autorità civile e della chiesa. Nel panorama delle città riforma-

te, un posto particolare spetta a Basilea, in quel tempo rifugio di vari spiriti liberi, che difficilmente avrebbero trovato accoglienza altrove. Sebastiano Castellione, paladino della tolleranza religiosa e fiero avversario di Calvino, vi muore nel 1563, dopo aver

insegnato per undici anni all’università; anche Celio Secondo

Curione, piemontese, già amico di P.M. Vermigli, diviene pro-

fessore, e successivamente decano della facoltà delle Arti libera-

li, nella città che ospitò Erasmo. In questi anni, l’università di Basilea torna ad essere una delle più prestigiose d'Europa, e accoglie centinaia di studenti stranieri. Nel cantone dei Grigioni regna un clima teologicamente tollerante: anche qui, diversi esuli

380

Cristianesimo

italiani sono attivi come pastori. Nelle vallate retiche si insedia-

no altresì gruppi anabattisti, che vi introducono i dialetti ro-

manci, che sono all’origine dell’attuale quarta lingua della Confederazione Elvetica. Nei Paesi Bassi, dopo un violento tentativo di Filippo II di estirpare militarmente il protestantesimo, i successi di Guglielmo d'Orange nella fase iniziale della cosiddetta «guerra degli Ottant'anni» favoriscono l’instaurazione di un regime di coesistenza tra cattolicesimo e fede evangelica, sancito nel 1577 e confermato da Guglielmo l’anno successivo. Fa eccezione la provincia di Gand, dove si svolge il tentativo di costituire una repubblica riformata, con gravi complicazioni politiche, che finiscono per impedire la costituzione di uno stato religiosamente pluralista. In Francia, già nel 1559 Enrico II decide di liquidare con la

forza

il nascente

protestantesimo

(che,

secondo

alcune

stime,

contava a quel tempo quattrocentomila aderenti), ma le circostanze politiche conducono a differire il progetto; una vera e propria coesistenza religiosa, tuttavia, non si realizzerà mai; dopo tre guerre di religione, il trattato di Saint Germain

(1570)

assicura

ai protestanti quattro luoghi di rifugio fortificati (La Rochelle,

Montauban, Cognac, La Charité), come garanzia della libertà di culto. Si crea così, tuttavia, una sorta di stato nello stato, situa-

zione che non poteva non generare ulteriori tensioni. Anche per consolidare la pace religiosa, viene deciso il matrimonio tra Margherita di Valois, figlia di Caterina de’ Medici (allora reggente per l’altro figlio, Carlo IX), ed Enrico di Borbone. Il matrimonio si celebra il 18 agosto 1572, e l’aristocrazia protestante è invitata. Serpeggia, tuttavia, un clima di tensione. Pochi giorni dopo, l'ammiraglio Coligny, leader ugonotto, viene gravemente ferito in un attentato. I protestanti minacciano di passare alla controffensiva

e Caterina

decide

di

intervenire

preventivamente,

surappando l'assenso di Carlo IX al progetto di massacrare l'’élite protestante in quel momento a Parigi, nonché, più in generale, il maggior numero possibile di ugonotti. Il massacro si com-

pie nel corso della notte di S. Bartolomeo

(23-24 agosto

1572).

Difficile stimare il numero delle vittime: decine e decine di migliaia, comunque. Per espressa volontà del re, vengono risparmiati Enrico di Navarra, il principe di Condé e Montmorency. Il papa Gregorio XIII si reca nella chiesa romana di S. Luigi dei Francesi, a ringraziare Iddio per il formidabile passo avanti ver-

so la distruzione dell’eresia. Enrico di Navarra, «convertitosi» al

cattolicesimo nella tragica nottata, torna al calvinismo e incontra

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

381

l'opposizione della Lega Santa, fondata dai Guisa, con l’assenso

della Spagna e del papa. Nonostante l’aiuto delle potenze protestanti, Enrico non riesce ad avere militarmente la meglio sui

suoi avversari, che lo ostacolano sulla via della successione al trono di Francia. Nel 1593, tra lo sconcerto del protestantesimo eu-

ropeo, abiura la fede evangelica («Parigi val bene una messa»). Cinque anni dopo

(13 aprile 1598), concede

ai suoi ex correli-

gionari l’editto di Nantes, che sancisce la libertà di coscienza per gli ugonotti, e la legittimità del culto evangelico dovunque fosse esistito nel 1597

(con alcune eccezioni, tra cui, ovviamente,

Pa-

rigi). Diverse concessioni ai cattolici tentano, contestualmente, di ammorbidire lo scandalo del pontefice, Clemente VII. Sopravvissuto a diciotto attentati, Enrico IV viene assassinato nel 1610. Pur tra molte contraddizioni, la Francia dell’editto di Nan-

tes presenta un significativo germe di pluralismo religioso, che avrebbe potuto svilupparsi in modo significativo se, nel seguito degli eventi, l'intolleranza non avesse vinto ancora una volta.

In Inghilterra, Elisabetta Tudor, subentrata a Maria la San-

guinaria, rimette in vigore l’«Atto di supremazia» di Enrico VIII, sostituendo però il titolo di «capo supremo della chiesa d’Inghilterra» con quello, meno problematico per i cattolici, di «governatore supremo». Di fatto, ella delega a esponenti della chiesa le funzioni propriamente pastorali. Al nuovo orientamento deve corrispondere una nuova dirigenza ecclesiastica: nel 1559 il professore di Cambridge Matthew Parker viene consacrato arcivescovo di Canterbury. Nel 1571 vengono pubblicati i Trentanove articoli, che rappresenteranno

la piattaforma dottrinale dell’an-

glicanesimo, e che sono di impostazione riformata. La chiesa d'Inghilterra unisce dunque una teologia tendenzialmente protestante a un impianto istituzionale e liturgico più vicino alla tra-

dizione romana. Già nel periodo elisabettiano, questa identità

composita favorisce il costituirsi di tendenze organizzate che ne esprimono i diversi orientamenti: la High Church vede il prevalere di elementi cattolicheggianti: più tardi, essa convivrà con la Low Church, di tendenza riformata, e con la Broad Church, di impronta umanistica. Anche sotto Elisabetta, comunque, i dissi-

denti religiosi vengono duramente perseguitati: molti protestanti di matrice riformata sono costretti a cercare rifugio in Olanda. In Italia, il. brulichìo di movimenti di ispirazione protestante che aveva caratterizzato il paese nella prima metà del Cinquecento era stato progressivamente represso dalla Controriforma. La maggior parte dei sopravvissuti è riuscita a riparare all’estero,

382

Cristianesimo

alcuni hanno abiurato. L’Inquisizione romana potrebbe affermare di avere detinitivamente estirpato la «peste luterana», se

non sopravvivessero due enclaves protestanti: nelle valli del Pine-

rolese abitate dai valdesi, e in Valtellina. Le complicazioni poli-

tiche derivanti dallo scontro tra Francia e Spagna, e la solidarietà di Ginevra con i riformati piemontesi, avevano fino ad allora reso impossibile una «soluzione finale» del problema valdese: il progetto, tuttavia, non viene accantonato, rimanendo all'ordine

del giorno per tutto il Seicento. In Valtellina erano transitati, nel

corso del XVI secolo, i più bei nomi dell’evangelismo italiano, da Agostino Mainardi a Bernardino Ochino, a Celio Secondo Cu-

rione, Pier Martire Vermigli, Pier Paolo Vergerio, Francesco Stan-

caro,

Francesco

Negri,

Camillo

Renato,

Girolamo

Zanchi,

Sci-

pione Lentolo. A Sondrio, Teglio, Tirano, oltre che nella Val Poschiavo,

nascono

comunità

vivaci, che spesso si sforzano

di in-

staurare una convivenza pacifica con la maggioranza cattolica della valle. Il tentativo non riesce; per un tempo è inquisitore a Morbegno l’alessandrino Michele Ghislieri, il quale, diventato papa col nome di Pio V, nel 1568 ispira il rapimento del pastore Francesco

Cellario, che rientrava da un sinodo a Coira, e lo fa

giustiziare a Roma l’anno successivo, suscitando la reazione in-

dignata dei Grigioni. Questo è il quadro alla vigilia del secolo XVII, che doveva vedere lo sterminio definitivo del protestantesimo in Valtellina. 2. II QUADRO POLITICO-RELIGIOSO DEI. SEICENTO: LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

Il XVII secolo si apre nel segno di complessi sommovimenti politico-religiosi,

il cui

denominatore

comune

può

essere

indivi

duato nel tentativo della Spagna e dell'impero di sottrarre al protestantesimo lo spazio che si era guadagnato. In questa fase, la Francia di Enrico IV, che pure ricordiamo

convertito al cattoli-

cesimo per motivi politici, svolge un ruolo oggettivamente non avverso ai protestanti, soprattutto a causa del suo conflitto con la Spagna. Il monarca dell’editto di Nantes appoggia, nei Paesi Bassi, la lotta di Maurizio di Nassau contro le truppe spagnole, non-

ché la costituzione dell’Unione evangelica, una coalizione pro-

testante in funzione antiasburgica. Nel 1610, però, mentre si prepara a muovere guerra alla Spagna, cade vittima, come si è ricordato, dell’ennesimo attentato.

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

383

Nel 1612 il nuovo imperatore Mattia pone fine alla politica imperiale di relativa tolleranza religiosa. Nel 1617 nomina re di Boemia — regione in cui permane una forte tradizione hussita — il fratello Ferdinando

(che diverrà imperatore nel 1619), il quale sca-

tena immediatamente una persecuzione antiprotestante. La Boemia dell'inizio del Seicento conta consistenti comunità evangeli-

che, ed evangelici sono numerosi esponenti dell’aristocrazia. L'at-

teggiamento di Ferdinando provoca reazioni violente: nel maggio 1618 due delegati imperiali vengono gettati dalla finestra e uccisi a Praga, e la popolazione protestante organizza la resistenza. I cechi nominano re Federico V, elettore del Palatinato, il quale gode dell’appoggio delle Province unite, dell’Unione evangelica e del principe calvinista di Transilvania, Gabriel Bethlen. In generale, tuttavia, le potenze protestanti si mostrano fredde nei confronti della causa ceca: Giacomo I d’Inghilterra, suocero di Federico, si guarda bene dal sostenerla, e la Sassonia luterana si schiera con-

tro il riformato Bethlen. In queste condizioni, non può stupire che nella battaglia della Montagna Bianca, nelle immediate vicinanze di Praga, la vittoria arrida alle truppe di Ferdinando (8 novembre 1620). Termina così la fase detta «boemo-palatina» della guerra dei Trent'anni. La repressione che segue alla vittoria cattolica è massiccia: i capi dell’insurrezione vengono condannati a morte, i pastori riformati esiliati, i diritti civili della popolazione evangelica fortemente limitati. I pastori luterani, che in un primo tempo avevano ricevuto un trattamento di favore in omaggio al ruolo svolto dall’elettore di Sassonia, vengono, in seguito, espulsi a loro vol ta. La nobiltà evangelicaè posta di fronte alla scelta tra abiura ed espatrio; più in generale, sono decine di migliaia i i cechi che si rifugiano all’estero. Tra quanti devono fuggire vi è il teologo e pedagogo Amos Komenski, o Comenio

(1592-1670), pastore della

chiesa riformata, legata alla tradizione hussita, dell'Unità dei Fratelli Boemi, costretto a vagare in Polonia, Ungheria, Inghilterra,

Svezia e Olanda. Il protestantesimo resiste nella Transilvania e nel le vicine province magiare, che diventano dunque il suo avamposto orientale. Per fornire il proprio appoggio alle forze imperiali, le truppe spagnole dovevano penetrare nell'Europa centrale attraverso la

Valtellina, allora appartenente al cantone elvetico dei Grigioni e,

come abbiamo visto, sede di importanti comunità evangeliche. Il tentativo di liquidarle è coronato da successo nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1620, quando un colpo di mano di gruppi di cattolici di Tirano coglie di sorpresa la popolazione protestante. Vengo-

384

Cristianesimo

no anzitutto uccisi i pastori, ma alla fine i morti sono centinaia (le stime oscillano tra 300 e 600), compresi donne e bambini. A Te-

glio viene presa d’assalto la chiesa evangelica, e si contano 72 vit-

time: è il «sacro macello» della Valtellina, accolto con viva soddisfazione dall’arcivescovo di Milano (la cui diocesi si estendeva fino a Sondrio), Carlo Borromeo. Nei giorni successivi la mattanza

non si interrompe, e vengono eliminate intere famiglie dell’intellettualità evangelica di Sondrio. Con ciò, l’esperienza del prote-

stantesimo valtellinese, breve ma carica di frutti significativi a mo-

tivo dell’elevato livello intellettuale e di fede di molti tra i suoi protagonisti, viene cancellata. In seguito a un’ulteriore guerra, che vede la Spagna opposta alla Francia, a Venezia e al ducato di Savoia,

la Valtellina diventa un protettorato spagnolo (1626).

Nel frattempo, la guerra dei Trent'anni riprende con l’inter-

vento di Cristiano IV di Danimarca, il quale si scontra, uscendo-

ne battuto, con le armate della Lega cattolica e con quelle im-

periali, comandate dall’ex evangelico Wallenstein, tristemente fa-

mose per i loro saccheggi. L'imperatore pensa di poter sfruttare il successo in questa «fase danese» della guerra rendendo eredi tario il trono ed allargando l’influenza asburgica nei territori tedeschi. Ferdinando, inoltre, emana un editto che impone la re-

stituzione alla chiesa romana dei beni sequestrati dopo il 1552. Il progetto dinastico, gnanti. A intervenire Svezia Gustavo Adolfo se» della guerra): si

tuttavia, non contro Lega (si inaugura tratta di un

può non preoccupare i recattolica e impero è il re di così, nel 1630, la «fase svedeevangelico convinto, fautore

dell’unità d’azione tra le diverse componenti del protestantesimo e che, insieme con il suo consigliere Oxenstierna, considera

la propria attività politica come servizio alla causa della fede. Si ritrova in lui una profonda coscienza della «cattolicità» della Riforma, cioè della consapevolezza che la fede protestante non è altra rispetto a quella apostolica, da sempre e dappertutto confessata dalla chiesa cristiana. L'esercito di Gustavo Adolfo, appoggiato dai principati protestanti della Sassonia e del Brande-

burgo, coglie una brillante serie di successi, compreso quello di Lutzen, presso Lipsia (1632), dove però il monarca resta ucciso.

Al successivo intervento diretto della Spagna segue la sconfitta degli Svedesi a Nordlingen, che conduce alla pace di Praga (1635): l’imperatore ottiene la sottomissione dei principi prote-

stanti tedeschi, ma revoca l’editto di restituzione e pone dei li-

miti alla propria politica antiprotestante. La figura di Gustavo Adolfo rimane leggendaria nella storia delle chiese evangeliche:

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

385

a lui verrà intitolata un’organizzazione fondata nel XIX secolo in Germania per sostenere le chiese evangeliche nel mondo: il Gu-

stav Adolf Werk esiste tuttora, e si dedica a programmi d’aiuto al-

le chiese evangeliche di minoranza. La politica di Richelieu aveva appoggiato l’iniziativa del re di Svezia; nel 1635, egli entra in guerra contro la Spagna, e con tale «fase francese» la guerra dei Trent'anni raggiunge il culmine, sia quanto a espansione geografica che quanto a violenza. Oc-

corre ribadire che, nel caso francese, l’intervento ha un puro si-

gnificato antiasburgico ed è privo di qualsiasi motivazione di carattere religioso. In seguito ai successi francesi, il nuovo imperatore, Ferdinando III, salito al trono nel 1637 e alleato degli Spagnoli, accetta di iniziare le trattative di pace. La pace di Westfalia (1648) impegna Francia (la quale, grazie alla sua politica anlicattolica e antiimperiale, cioè, di fatto, filoevangelica, riporta un considerevole successo politico), impero, principati tedeschi e Svezia, mentre la Spagna riconosce solo l'indipendenza delle Province unite, senza sottoscrivere le altre clausole. Dal punto di

vista religioso, le decisioni della pace di Augusta escono riconfermate ed estese ai territori riformati dell’impero (in prece-

denza valevano solo per quelli luterani); viene abolito, tra le pro-

teste papali, il principio del cuius regio eius religio, cioè viene ri-

conosciuta ai sudditi, almeno formalmente,

sare una sura tale sieme, la generale

la libertà di profes-

fede diversa da quella del rispettivo monarca: in che midiritto venga poi applicato, è questione diversa. Nell’inpace di Westfalia consente un consolidamento politico dell'Europa protestante, se non altro nel senso che la

diminuita forza dell’impero rende irrealistico pensare che esso,

con l’aiuto della Spagna, possa estirpare militarmente la fede evangelica: ormai, la coesistenza di stati cattolici e protestanti in Europa è irreversibile.

Il fatto è, tuttavia, che la guerra dei Trent'anni lascia dietro di

sé un'Europa prostrata: le armate mercenarie, con i loro saccheggi, hanno seminato devastazioni ed epidemie (la popolazio-

ne tedesca conta da 5 a 8 milioni di morti, su un totale di 16 milioni d’abitanti) e le risorse necessarie al finanziamento del con-

flitto sono state estorte alle popolazioni mediante un carico fiscale insopportabile. Non è un caso che il conflitto sia assurto a simbolo delle tragiche conseguenze dell’intolleranza religiosa e

del suo sfruttamento a fini politici.

386

Cristianesimo 3. L'EPOCA DELLE «ORTODOSSIE»

Come abbiamo visto, il XVI secolo si chiude con l'adozione del Libro di Concordiacome raccolta ufficiale dei testi simbolici delle chie-

se luterane, mentre la Seconda confessione elvetica viene fatta propria

da un numero amplissimo di chiese di matrice zwingliana e calvinista. La Riforma aveva sempre sentito il bisogno di condensare in confessioni di fede la propria comprensione dell’Evangelo in un tempo e in un luogo determinati: il valore di questi testi consiste nella loro capacità di riassumere incisivamente l’essenziale del messaggio biblico e di rinviare ad esso. Si tratta di formule «aper-

te», cioè strutturalmente suscettibili di integrazione (e, se del caso, di correzione), sulla base della Scrittura, ed aventi dunque

un'autorità relativa e derivata. Nel corso della seconda metà del Cinquecento, tuttavia, si assiste al cristallizzarsi dei fronti polemi-

ci, sia nei riguardi della chiesa romana, col venir meno delle spe-

ranze di comporre la rottura, sia tra luterani e riformati: in particolare, l'espansione riformata in Germania (abbastanza impetuo-

sa, nonostante il cuius regio eius religio della pace di Augusta desse definire l'appartenenza religiosa delle popolazioni in un rigido criterio geopolitico, e non prendesse neppure in derazione l’esistenza dei riformati) induce a precisare sul

intenbase a consipiano

dottrinale i confini confessionali; dal punto di vista sociologico, i

gruppi religiosi luterano e calvinista sono abbastanza simili, e ciò

contribuisce a fare della dottrina il piano su cui, prevalentemen-

te, si definisce l'identità. Questo fattore, unito alla necessità di por-

re un limite alle dispute teologiche interne alle singole famiglie di chiese, favorisce il modificarsi del modo

di intendere le confes-

sioni di fede, che vengono ora vissute dalle rispettive comunità come l’interpretazione definitiva del dato rivelato. Certo, anche i Riformatori sono perfettamente consapevoli del fatto che non c'è fede cristiana senza dottrina, e condividono l'assioma agostiniano secondo il quale udì male creditur, male vivitur, essi, e Lutero in mo-

do particolare, tengono tuttavia a sottolineare il primato della predicazione viva, orale, che non si lascia cristallizzare in un sistema

dottrinale. Alla fine del secolo, gli accenti sono posti in modo diverso: ci si trova in presenza di una consolidata tradizione dottrinale confessionale, che svolge la funzione di griglia interpretativa

nell’approccio al testo biblico. A questo dato corrisponde una modifica delle caratteristiche della riflessione teologica. Nel periodo della Riforma, la teologia è essenzialmente esegesi biblica; come

predicatori e come docenti universitari, i Riformatori dedicano le

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

387

loro migliori energie allo studio sistematico dell'Antico e del Nuo-

vo Testamento, situandosi, da questo punto di vista, in continuità

con una consolidata tradizione patristica; di conseguenza, quanto oggi chiamiamo «commentario», cioè l’analisi critica dei libri biblici, costituisce il genere letterario più praticato. Naturalmente,

l’esegesi del XVI secolo è teologicamente assai impegnata e affronta costantemente, oltre a questioni filologiche e testuali, anche temi dottrinali, ma lo fa in una prospettiva prevalentemente pastorale: si tratta di mettere in grado la comunità di vivere consapevolmente la propria fede, e non di costruire un «sistema». Oltre ai commentari, si pubblicano i Loci (Loci communes di Melanto-

ne; Commentarius de vera et falsa religione di Zwingli; secondo alcuni interpreti, la stessa /nstitutio di Calvino appartiene a questa cate-

goria). Nella fase iniziale, tuttavia, nemmeno

essi costituiscono

delle «dogmatiche», ma sono raccolte «ragionate» di passi biblici relativi ai vari temi-chiave

della fede cristiana, debitamente

di-

scussi: strumenti di lavoro per la predicazione e la catechesi, non sintesi speculative. Quando però le confessioni di fede delle due grandi famiglie di chiese evangeliche assumono il valore «definitivo» di cui s'è detto, il compito principale della teologia diventa la loro illustrazione e difesa contro le obiezioni degli avversari. Le questioni dogmatiche, e in particolare quelle oggetto di controversia, assumono una nuova importanza; ogni dettaglio dev’esse-

re definito, e la coerenza interna della dottrina viene posta in ri-

salto mediante un massiccio ricorso alla ragione umana, segnata-

mente nella utilizzazione che ne fa la filosofia aristotelica, il che in-

troduce nella riflessione teologica una marcata connotazione spe-

culativa: nascono le ortodossie luterana e riformata, fenomeno che, in ambito protestante, corrisponde alla «scolastica barocca»

del cattolicesimo romano. Sociologicamente, il processo è favorito dalla fondazione di un elevato numero di facoltà teologiche, con un corpo docente che elabora, in notevole quantità, gli strumenti per la formazione e l’attività del corpo pastorale in servizio

nelle chiese evangeliche ormai stabilite; lo studio della teologia e

il ministero pastorale rappresentano una via abbastanza sicura di promozione sociale, benché le condizioni materiali di vita dei mi-

nistri di culto non siano sempre e dappertutto si riformati, i figli dei pastori trarranno spesso di l'opportunità di dedicarsi con profitto ad riali o libere professioni altamente redditizie;

invidiabili; nei paedall'accesso agli stuattività imprenditola Germania lutera-

na, invece, è socialmente più statica; qui si formano vere e proprie

dinastie di pastori e di professori di teologia, in cui le idee si tra-

388

Cristianesimo

smettono anche attraverso i legami familiari: la famiglia Carpzov, ad esempio, il cui capostipite è Benedikt I (1565-1624), produce per almeno quattro generazioni dottori in teologia (alternandoli a quelli in legge); i Calov costituiscono, da soli, una vera e propria scuola teologica. Il «principio scritturale», cioè la decisione teologica di fondo di riconoscere la sola Scriptura come norma in materia dottrinale costituisce, da Lutero in poi, un tratto decisivo della fede evangelica. Contro gli «entusiasti» e gli spiritualisti di varia matrice, la Riforma afferma che solo la Bibbia testimonia la parola di Dio così come essa si è rivelata in Gesù Cristo. D'altra parte, Cristo e la

Bibbia non possono essere meccanicamente identificati; i Riformatori quindi possono affermare senza riserve, in piena continuità con tutta la tradizione cristiana, l’ispirazione divina delle Scritture, sostenendo però contemporaneamente che la Bibbia diventa parola vivente di Dio solo mediante l’azione dello Spirito

Santo

e rifiutando,

quindi,

una

divinizzazione

della

Scrittura;

l’ispirazione, dunque, non toglie al testo sacro la sua natura di do-

cumento umano, e non imprigiona Dio nella lettera biblica. Questa impostazione permette di unire al rispetto nei confronti del testo un'audace libertà critica: Lutero, notoriamente, non esita a differenziare, all’interno del canone, tra testi che annunciano Cristo

in modo diretto e decisivo ed altri di importanza nettamente minore. L’Ortodossia, tanto luterana che riformata, sopprime que-

sta dialettica mediante la dottrina dell’«ispirazione verbale»: la Bibbia è stata dettata ai suoi autori direttamente dallo Spirito Santo; non solo i contenuti, ma la stessa formulazione va considerata

di origine divina; anche i giudizi, le opinioni e le convinzioni che sembrano dipendere dal sapere e dal senso comune del tempo in cuì i libri sono stati scritti, sono stati in verità inseriti nei testi non in base alle cognizioni umane dei loro autori, ma in forza dell'intervento divino; gli autori sacri non avrebbero avuto la libertà, né

la possibilità, di modificare nemmeno una sillaba rispetto a quanto lo Spirito ha dettato loro; quando Dio pone in bocca al profeta

la sua parola, essa è in tutto e per tutto divina, c in essa non rima-

ne nulla di umano, sostiene Abraham Calov, tranne l’organo della bocca; diversi autori, come i riformati Polanus e Voetius e il lu-

terano Quenstedt, sostengono addirittura l’ispirazione divina della vocalizzazione del testo ebraico dell'Antico Testamento!: se es! L'alfabeto ebraico consiste unicamente di consonanti; per evitare ambiguità, tuttavia, eruditi ebrei detti «masoreti» aggiungono un sistema di punti dia-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

389

sa, infatti, dipendesse semplicemente dall’autorità dei masoreti, Ja fede si edificherebbe sul fondamento di questi ultimi, e non dei

profeti; questa dottrina si ritrova nella Formula di consenso elvetica

del 1675. Tutto ciò esclude evidentemente in partenza ogni ap-

proccio storico al testo: ésso, propriamente parlando, è fuori dalla storia degli uomini e delle donne, in nessun modo condiziona-

to dal tempo. E evidente la preoccupazione di fondo di tutte queste speculazioni: sostenere un’assoluta infallibilità del testo biblico come garanzia e prova del suo essere parola di Dio. In questa concezione,

dunque,

il verbo divino è direttamente

accessibile,

esattamente come qualunque altra parola e la Bibbia nel suo insieme è un sistema di asserzioni e verità che si pone, dal punto di vista formale, sullo stesso piano di una visione scientifico-filosofica del mondo. Nella concezione della Riforma del Cinquecento,

la Scrittura brilla della luce ricevuta da Dio, nella forza dello Spi-

rito Santo e in quanto testimonia Gesù Cristo; secondo l'Ortodos-

sia, essa brilla invece di luce propria, essendo lo Spirito Santo, per

così dire, «oggettivato» nel testo. Con ciò si intende evitare il rischio di un approccio selettivo, soggettivo e quindi, in ultima ana-

lisi, arbitrario al testo biblico; l'esito concreto è però il rischio di fare della Scrittura un «papa di carta», che, con la sua infallibilità,

rende immediatamente disponibile la verità di Dio, sottraendo la rivelazione alla dimensione del miracolo, cioè dell’azione libera e gratuita di Dio. Si tratta, come si vede, di uno spostamento di ac-

centi di non poco conto, le cui conseguenze circa il modo di intendere la fede investono, evidentemente, non solo l’accademia,

ma anche la vita delle comunità. In forme diverse, e spesso ben più rozze di quelle delle ortodossie del Seicento, la dottrina dell’ispirazione verbale continua fino ad oggi a serpeggiare in alcuni settori del mondo evangelico e non solo evangelico. Se il tema dell’autorità della Scrittura vede un’ampia convergenza tra le due ortodossie confessionali protestanti, ciascuna di csse si sviluppa autonomamente e, anzi, in esplicita contrapposizione all’altra; l’idea di essere in presenza di due modi diversi di intendere e vivere l’unica fede evangelica è assolutamente estranea all'orizzonte spirituale di quest'epoca; in questo spirito di aperto scontro, i sistemi dei teologi ortodossi si organizzano intorno a dottrine caratteristiche, che diventano la bandiera della critici, indicanti le vocali e gli accenti (questi ultimi sostituiscono anche l'interpunzione):

l'operazione si svolge tra il V e il X secolo. Il sistema vocalico, dun-

que, non appartiene in alcun modo al testo «originale» della Bibbia ebraica.

390

Cristianesimo

rispettiva confessione. Per i luterani si tratta della dottrina dell’ubiquità della natura umana di Cristo, e in particolare del suo corpo; per i riformati, della predestinazione. La disputa sull’ubiquità affonda le sue radici nello scontro tra Lutero e Zwingli sulla presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel sacramento della Cena del Signore. A Lutero, che sostiene che nelle specie del pane e del vino, con esse e în esse il vero corpo e il vero sangue di Cristo sono realmente presenti, e dunque Cristo stesso è presente anche secondo la sua natura umana, Zwingli ribatte che, dopo l’Ascensione, il corpo di Cristo

siede alla destra di Dio; egli è dunque spiritualmente, ma non corporalmente presente nel pane e nel vino. Sviluppando le implicazioni sistematiche del problema, l’ortodossia luterana? riprende l'affermazione del riformatore di Wittenberg, secondo il quale la destra di Dio non è un luogo particolare, ma include ogni luogo, c non ne esclude alcuno; già con l'incarnazione, del resto, la

natura umana di Cristo è assunta nella persona («ipostasi») divina del Verbo, partecipando della sua infinitezza, e dunque anche della sua onnipresenza. Biblicamente, questa dottrina viene

fondata su passi come Mt. 18,20 («dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»), Mt. 28,20 («Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente»), Col

1,18 («egli [Cristo] è il capo del corpo, cioè della chiesa»). Secondo i

riformati, la visione dell’incarnazione che è alla ba-

se di questa dottrina rischia tuttavia di annullare l’umanità di Cristo nella sua divinità, dimenticando il carattere creaturale della prima e riproducendo dunque la struttura dell’eresia monofisita, che appunto afferma l’esistenza in Cristo della sola natura divina, o addirittura quella docetista, secondo la quale l'umanità di Gesù va considerata apparente. In questa prospettiva, è essenziale affermare la distinzione tra le diverse modalità in cui Cristo è presente prima e dopo l’Ascensione; dicendo che, secondo la natura umana, Cristo siede ora alla destra di Dio, la Scrittura, secon-

do la parte riformata, non intende dire che essa è in un luogo che si identifica con tutti i luoghi, ma che è in un luogo che è al di sopra di ogni altro. Dietro le sottigliezze, si celano accentuazioni diverse circa il modo di intendere la presenza di Dio nella storia, da un lato, e la sua inaccessibile maestà celeste, dall'altro. ? Gi rifacciamo, in particolare, a Johann

Gerhard

(1582-1637), dal 1616 pro-

fessore a Jena, i cui Loci theologici, pubblicati in nove volumi a partire dal 1610, costituiscono l'opera fondamentale dell'ortodossia luterana.

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo aî giorni nostri

391

La caratteristica peculiare dell’epoca consiste nella drammaticità

con cui il dissenso è avvertito, che conduce facilmente a consi-

derare eretica la posizione altrui. Occorre sottolineare che le speculazioni dell'ortodossia luterana, apparentemente così astratte, hanno, per questa generazione, un profondo significato spirituale: il pastore, teologo e autore di inni Philipp Nicolai (1557-1608), ad esempio, estende la dottrina dell’ubiquità all'insieme della vita di fede, identificando in essa il fondamento della lieta fiducia nella stabile e solidale presenza del Signore nella vita e nelle prove del credente. Questo genere di riflessioni avvicina, per paradossale che ciò possa apparire, il mondo dell'ortodossia a quello della mistica: è nota la viva

simpatia di Johann Gerhard per un personaggio dogmaticamente più che problematico come Jakob Bòhme. Come le massicce affermazioni relative all’ispirazione verbale intendono comunque esprimere la ferrea volontà di fedeltà al dettato biblico, così l’affermazione rigida dell'’onnipresenza della natura umana di Cristo riflette una robusta pietà cristocentrica, che è parte integrante del cuore della spiritualità protestante. In generale, l’immagine di una «morta» ortodossia, in cui aridi castelli dogmatici sostituiscono la fede viva, è uno stereotipo che non corrisponde alla realtà. Un uomo come Abraham Calov, instancabile polemista, non cessa di sostenere il primato dell’esegesi biblica e la ne-

cessità, per il teologo, di un'approfondita conoscenza dell’ebraico e del greco, assai più che della filosofia; in una lettera a Spener, la cui opera certo esprime un atteggiamento spirituale diverso da quello di Calov, quest’ultimo scrive: «I vostri pia desideria sono anche i miei». Johannes Andreas Quenstedt (1617-1688),

nipote di Johann Gerhard e genero di Calov, scrive un'Ethica pastorum in cui dimostra una fine sensibilità spirituale. E in questo clima che vive e lavora il grande Keplero (1571-1630), che prima di diventare uno dei più grandi astronomi della storia studia teologia a Tubinga, e per tutta la vita mantiene un'altissima concezione vocazionale del proprio lavoro di scienziato, che concepisce come un cantico alla gloria del Creatore; pur sentendosi profondamente legato alla Confessione di Augusta, Keplero evita di rinchiudere la propria fede nelle strettoie di un confessionalismo ottuso e in questo senso afferma di non sentirsi «luterano, né calvinista, né gesuita». Anche gli inni di Paul Gerhardt (1606-

1676), che ancora oggi nutrono la fede delle comunità evange-

liche, nascono in quest'ambiente. La sua vita è particolarmente sofferta: già negli anni degli studi teologici, la sua intensa pietà

392

Cristianesimo

ne fa un isolato, in un ambiente studentesco goliardico e dissipatore; solo dopo anni di attesa ottiene un incarico pastorale, du-

rante il quale perde quattro dei cinque figli; in seguito gli muo-

re anche la moglie e nel 1669, quando diventa arcidiacono a Lubben, è ormai un uomo solo. Un’intensa vita di preghiera, tutta-

via, unita alla passione per la pura dottrina, è all’origine della serenità profonda che. pervade la sua produzione innologica, un vero e proprio commento artistico ai temi centrali della pietà luterana: la fiducia incondizionata in Cristo salvatore, la gioia del

peccatore perdonato, la gratitudine del cristiano.

Anche Johann Arndt (1555-1621) e Johann Valentin Andreae (1586-1654, nipote del Jakob Andreae della Formula di Concordia)

intendono muoversi nell’ambito di un corretto luteranesimo, ma il centro dei loro interessi è nel rinnovamento della vita interiore del singolo e della comunità, cercando di valorizzare il contributo della mistica. Nella sua opera /l vero cristianesimo, Arndt sì rifà alla lezione di Meister Eckhart, Taulero e Tommaso da Kem-

pis, conferendo rilevanza particolare all'idea dell’imitazione di

Cristo; non stupisce che diversi tra gli ortodossi più rigidi lo accusino di «sinergismo» (cioè di lasciare troppo spazio al ruolo dell’essere umano per quanto riguarda la salvezza) e di entusiasmo spiritualista; la sua opera, tuttavia, verrà debitamente valo-

rizzata da Spener. Anche Andreae, fautore di un cristianesimo

pratico, a tratti insofferente nei confronti delle sottigliezze della teologia di scuola, è considerato da Spener un proprio precur-

sore; in un'epoca assai incline non solo al misticismo, ma anche all’esoterismo e alle società segrete, Andreae è autore di alcune

opere allegoriche, a cui si riallaccerà il movimento detto dei «Ro-

sacroce», e che saranno fonte d’ispirazione per la letteratura similare del secolo successivo. Decisamente più spericolato dal punto di vista dogmatico è il pensiero di Jakob Bohme (1575-1624), un autodidatta che si guadagna il pane facendo il calzolaio, appassionato studioso della Scrittura, ma anche di Paracelso, autore di un complicato sistema mistico-teosofico che non poteva certo lasciar tranquilli i rappresentanti della chiesa luterana. Con

tutto ciò, Bohme

non ri-

pudia la fede nella quale è stato battezzato, e viene sepolto come cristiano evangelico nella sua città, Gòrlitz, in Slesia; gli abitanti, tuttavia, strappano la croce dalla sua tomba, manifestando,

con questa reazione intollerante, l'inquietudine suscitata dal

pensiero del singolare personaggio. La sua eredità spirituale percorre un po' tutto l'arco del pensiero tedesco, e Hegel lo consi-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

393

dera uno dei massimi filosofi dell’umanità, sullo stesso piano di Platone e Aristotele. In un tempo di esasperato confessionalismo, la figura di Georg Calixt (1586-1656) colpisce per il suo originale temperamento irenico. Pur muovendosi all’interno di un impianto teologico ortodosso, egli sottolinea l'urgenza di uscire da polemiche pericolose per la credibilità della chiesa, mediante un riconoscimento ecumenico del nucleo centrale della fede cristiana, da lui individuato

nel patrimonio dogmatico dei primi cinque secoli (consensus quinquesaecularis). Accusato di sincretismo e criptocattolicesimo, Calixt non riesce a imporre il suo punto di vista, che comunque costituisce un apporto importante di cui, quasi cinque secoli dopo, il movimento ecumenico ritiene di dovere tener conto. In ambito riformato, la dottrina della predestinazione assume,

già con Teodoro di Beza, una centralità che non aveva nella teologia di Calvino. Elaborando il proprio pensiero in modo rigorosamente deduttivo, Beza sostiene che Cristo è morto solo per

gli eletti: gli altri, i reietti, sono esclusi fin dall’eterno decreto di Dio dall’opera di salvezza. Diversi studi recenti evidenziano che questa dottrina della doppia predestinazione assoluta (secondo

la quale Dio, dall’eternità, predestina alcuni alla fede e alla salvezza, ed altri all’incredulità e alla dannazione) e dell’«espiazio-

ne limitata» (agli eletti, appunto) è largamente debitrice all’in-

flusso degli italiani Girolamo Zanchi (1516-1590) e Pier Martire Vermigli (1499-1562). Contro l'impostazione data da Beza alla questione si batte Jakob Arminius (1560-1609), professore a Leida, il quale, con i suoi seguaci (poi detti «rimostranti», dalla Remonstrantia, documento

indirizzato da alcuni di essi, nel

1610,

agli stati d'Olanda), sostiene che Cristo è morto per tutti, e quindi la decisione di salvezza di Dio ha portata universale, benché sia efficace solo per coloro che credono: lo sforzo arminiano consiste nel porre al centro la fedeltà di Dio al suo patto, superando un'interpretazione in chiave prevalentemente individualista della predestinazione. Il partito intransigente trova il suo cam-

pione in Franz Gomarus (1565-1641) e attacca gli arminiani su tutto il fronte, accusandoli di favorire l’indifferentismo religioso.

In realtà, le posizioni di Arminio e dei suoi seguaci sono lonta-

ne da un razionalismo teologico indifferenziato; esse incontrano, tuttavia, il favore della borghesia mercantile, che è interessata a

superare quello che ritiene un rigido confessionalismo, in direzione di un atteggiamento più tollerante, di impronta umanisti-

ca, che non impedisca le relazioni commerciali con paesi di fe-

394

Cristianesimo

de diversa. A questi circoli appartiene Jan Oldenbarneveldt, collaboratore di Guglielmo d'Orange, fautore della «tregua dei dodici anni» con gli Spagnoli, e in ciò avversario di Maurizio di Nassau; tra gli intellettuali di ispirazione arminiana, un posto di ri-

lievo spetta al teologo e giurista Ugo Grozio (1583-1645), fauto-

re del primato del governo civile sulla chiesa e precursore, tra l’altro, della critica biblica. Il partito gomarista, per contro, è socialmente radicato nelle masse popolari che, insieme ai rifugiati dall’estero, appoggiano la causa antispagnola di Maurizio di Nassau e guardano con sospetto alla disinvoltura politica dei mercanti: naturalmente, questa dimensione politico-sociale contribuisce significativamente ad elevare la temperatura dello scontro ed è anche grazie all'appoggio della casa d'Orange che i gomaristi ottengono la convocazione di un sinodo, a Dordrecht (1618-

1619), in cui delegazioni provenienti da gran parte delle chiese riformate europee sono chiamate a deliberare sulla predestina-

zione; Ginevra è rappresentata da Giovanni Diodati (1576-1649),

appartenente a una colonia di origine italiana, che aveva lasciato la natîa Lucca per poter vivere, nella città di Calvino, la fede evangelica; la fama di Diodati è legata in particolare a una traduzione in italiano della Bibbia, di importanza decisiva per la storia del protestantesimo nel nostro paese. L'orientamento dei delegati è tale da non lasciare dubbi sull’esito della discussione, che

infatti si risolve in una dura condanna delle tesi rimostranti dopo che, all’inizio del 1619, i delegati arminiani erano stati esclu-

sì dal dibattito. Le tesi fondamentali approvate dal sinodo affermano:

la totale corruzione

della natura umana;

il carattere in-

condizionato dell'elezione dei singoli; la redenzione limitata agli eletti; la natura irresistibile della grazia; la perseveranza degli eletti fino alla fine. La dottrina dei canoni di Dordrecht suscita l’orrore dei luterani: Philipp Nicolai non esita a sostenere che il Dio della predestinazione calvinista possiede tratti demoniaci. Benché diversi delegati non olandesi protestino di voler giudicare idee e non persone, la repressione antiarminiana è piuttosto dura: duecento pastori sono allontanati dal ministero, e ottanta devono andare in esilio; tre giorni dopo la conclusione del sinodo, Oldenbarnevelt viene giustiziato all’Aia: al trionfo gomarista in teologia corrisponde, sul piano politico, la totale vit-

toria del partito orangista.

Non si può dire, tuttavia, che la disputa sulla predestinazione si chiuda nel 1619. Certo, l’ortodossia riformata ne fa il proprio

baluardo, ma i problemi posti dagli arminiani non cessano, in un

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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modo o nell’altro, di ripresentarsi. Nel 1634 il francese Moîse Amyraut (1596-1664), professore a Saumur, pubblica un’opera in cui tenta di conciliare il particolarismo di Dordrecht con l’universalismo arminiano; la discussione che ne segue è provvisoriamente chiusa con la Formula di consenso elvetica (1675), larga-

mente ispirata dal ginevrino (come Diodati di origine lucchese)

Francesco Turrettini (1623-1687), che rappresenta il punto d'arrivo della scolastica riformata. Una voce originale nell'epoca dell’ortodossia riformata è quella di Johannes Koch (latinizzato

in Cocceius, 1603-1669), che elabora una teologia fortemente bi-

blica, centrata sulla nozione di patto, centrale tanto in Zwingli

che in Calvino, e nel Seicento messa un po’ in ombra dall’insistenza sulla predestinazione. Il puritanesimo troverà in questa teologia «federale» (da foedus, patto) un’importante fonte d’ispirazione. Con la fine del XVII secolo, l’orizzonte spirituale cambia, e l’incipiente razionalismo riformula le antiche questioni della fede in termini del tutto nuovi. 4. L'’EPOPEA PURITANA

Come abbiamo visto, la minoranza di ispirazione calvinista (i puritani) costituisce, già nell’Inghilterra elisabettiana, una componente di rilievo del panorama religioso. Mentre la chiesa d’Inghilterra appoggia la tendenza all’assolutismo della casa regnante, i puritani si caratterizzano come sostenitori dei diritti del parlamento e della libertà religiosa. Il regno di Giacomo I (16031625) vede un inasprirsi delle tensioni; in un primo tempo, la sua politica moderata nei confronti della chiesa romana accende le speranze di quest’ultima: si pensa, addirittura, a una possibile conversione del re. Quando queste aspettative si rivelano erronee, il partito papista ordisce un complotto contro la Corona, che viene tempestivamente scoperto e represso («congiura delle polveri», così chiamata perché doveva sfociare in un attentato di-

namitardo, 1605). Anche la parte puritana è insoddisfatta dell’o-

perato di Giacomo; questi, che regna anche sulla Scozia, tenta di

estendere a quella chiesa il sistema episcopale e, nel 1618, promulga il cosiddetto Book of Sports, autorizzazione a praticare, di domenica,

alcune attività ludiche, in cui i rigorosi riformati ve-

dono l'abbandono della rigida pratica del riposo festivo. Carlo I,

che nel 1625 eredita il trono, persegue una politica assolutista che rafforza l’opposizione puritana; suo consigliere in materia re-

396

Cristianesimo

ligiosa è William Laud, dal 1633 arcivescovo di Canterbury, fon-

datore della High Church, la tendenza più liturgica e sacramentale dell’anglicanesimo, sensibile all’attrazione del cattolicesimo

romano. I puritani sospettano che l’opera di Laud conduca a una ricattolicizzazione del paese; contro questo tentativo, e contro l’assolutismo

del monarca;

iniziano

in Scozia

i sommovimenti

che porteranno alla Rivoluzione inglese. Il casus belli è costituito dalla ribellione al tentativo di assimilare la chiesa presbiteriana

(cioè riformata) a quella anglicana. Carlo non riesce ad ottenere l'appoggio del parlamento nella repressione della rivolta scoz-

zese; lo scioglie, ne convoca un altro, che rimarrà in carica fino al 1653, senza però riuscire a debellare la vivace opposizione della parte riformata; Laud e un altro consigliere del re, il principe

Strafford, vengono anzi accusati dal parlamento di alto tradi-

mento: Strafford viene giustiziato nel 1641 e Laud quattro anni dopo. Un ulteriore colpo al binomio corte-chiesa anglicana è co-

stituito dalla decisione, che Carlo deve subire, di escludere i ve-

scovi della chiesa d'Inghilterra dalla Camera Alta. Nell'agosto del 1642 si scatena la rivolta contro la monarchia: il parlamento cessa di riconoscerla, e si dedica a riformare la chiesa anglicana secondo il modello presbiteriano scozzese, nominando allo scopo il sinodo

di Westminster

(1643-1647), che

elabora

l'omonima

confessione, rigorosamente calvinista. É in questa fase che viene alla ribalta l’ala radicale del movimento puritano, quella dei congregazionalisti o indipendenti: costoro temono che il sinodo di Westminster sostituisca alla chiesa anglicana una nuova chiesa di stato, questa volta presbiteriana. Essi sottolineano invece l’indi-

pendenza della comunità locale (congregation)>, costituita da credenti consapevoli, e priva di legami istituzionali con lo stato; alcuni

chiedono

l'abolizione

del

battesimo

dei

fanciulli,

inten-

dendo, con ciò, rompere definitivamente con il modello della chiesa di popolo. Gli indipendenti si comprendono come discepoli creativi della Riforma che, a loro avviso, deve essere «permanente», e non cristallizzarsi nei modelli ecclesiali emersi nel

XVI secolo. In breve, questi calvinisti radicali assumono la guida

della lotta contro la monarchia e, a partire dal 1642, le sorti del* Qui è la differenza decisiva tra presbiteriani e indipendenti o congregazionalisti: entrambe le correnti sono di ispirazione riformata (calvinista), ma i

presbiteriani sono governati da una gerarchia di assemblee (da quella della singola comunità sino a quella della chiesa nazionale), mentre il sistema congregazionalista conosce solo comunità locali autonome e indipendenti.

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

397

la rivoluzione inglese si legano al nome di uno di loro, Oliver Cromwell (1559-1658). Proveniente dalla piccola nobiltà, influenzato sin dagli anni della formazione dalla spiritualità puritana, e personalmente impegnato come calvinista militante dal 1628, Cromwell concepisce la lotta contro la monarchia come un dovere religioso. Costituisce dapprima un reparto di cavalleria, poi il celebre esercito puritano (New Model Army), formato da credenti convinti, radicati in una pratica di lettura biblica, preghiera e ascolto della predicazione; Cromwell vuole che i suoi uomini siano ben pagati e godano di ampia libertà di discussione, ma esige una ferrea disciplina; il 14 giugno 1645, a Naseby, le truppe puritane sconfiggono Carlo I e lo catturano. La gestione della vittoria non è semplice. Nell'ambito dell’esercito, si manifesta la tendenza radicale dei Levellers, guidati da John Lilburne (1614 ca.-1657), che propugnano la sovranità popolare, il suffragio universale e la libertà religiosa, nonché un’interpretazione rigorosa del sacerdozio universale dei credenti: i pastori devono essere revocabili, ogni membro della comunità deve poter prendere la parola nel corso del culto; ancora più a sinistra dei Levellers si col-

locano i Diggers (zappatori), il cui esponente più significativo, Gerrard Winstanley, ritiene che il peccato originale sia consistito nel dichiarare la terra, che Dio aveva voluto fosse proprietà col lettiva, proprietà privata. Cromwell non è disposto a incamminarsi su questa strada. Quando il re cerca di sfruttare a proprio vantaggio le tensioni nel fronte avversario, reagisce facendolo condannare

a morte. Si tratta, nella storia europea, della prima

esecuzione di un monarca ad opera di una rivoluzione: la coscienza dei puritani di essere investiti di una vocazione divina costituisce un fattore determinante di questa svolta epocale. L'Inghilterra diviene un

Commonwealth,

una repubblica, cioè, in cui

l’ideale religioso avrebbe dovuto costituire uno dei criteri di go-

verno. Cromwell, pur rifiutando la corona, dirige il paese in modo sostanzialmente monarchico, respingendo risolutamente le istanze democratiche radicali, ma garantendo la libertà religio-

sa. Come Lord Protettore, si impegna in una politica estera attenta alla difesa delle minoranze protestanti perseguitate: nel 1655 chiama il mondo protestante alla solidarietà con i Valdesi, perseguitati dai Savoia, argomento su cui interviene anche John Milton (1608-1674), il grande poeta puritano, autore del Paradi-

so perduto. È indubbio, comunque, che l’assestamento borghese e moderatamente conservatore del protettorato cromwelliano delude profondamente le istanze di molti che avevano lottato

398

Cristianesimo

con lui. L’aspirazione alla giustizia e all’uguaglianza già su questa terra, proprie di Levellers e Diggers, vengono represse sul piano politico, e si sviluppano in direzione spiritualistica. Già dal

1649 un calzolaio, George Fox (1624-1691), aveva iniziato un’attività di predicatore itinerante, ispirato da un'illuminazione interiore; in breve, nonostante una dura persecuzione, guadagna

numerosi discepoli, tra cui Lilburne e Winstanley, dando luogo al movimento

dei Quakers (in italiano «quaccheri»), che signifi-

ca «tremolanti»: l'epiteto, coniato dagli avversari, si riferisce secondo alcuni al tremito che prendeva i discepoli di Fox nel corso dell’estasi profetica; secondo altri, echeggia l’invito rivolto da uno di loro al giudice che intendeva condannarlo, a tremare di

fronte alla parola di Dio: i quaccheri danno del tu a tutti, non si tolgono il cappello davanti a nessuno (in segno di riconoscimento della sovranità di Dio solo), rifiutano il giuramento, praticano la parità dei diritti tra i sessi, ripropongono con forza il tema della non violenza e del pacifismo. Esempio di una spiritualità evangelica originale e vissuta con grande coerenza, il movimento scriverà pagine importanti nella storia della giovane America. Lo stesso deve dirsi dei battisti, gruppo

religioso in cui si

debba

convertiti;

fondono il congregazionalismo e la convinzione che il battesimo essere

amministrato

solo

ai credenti

alcune

chiese battiste sostengono una teologia di ispirazione arminiana (battisti «generali», dalla loro posizione in materia di predestinazione), mentre altri (detti «particolari») si ispirano a un rigido calvinismo, nel senso di Dordrecht. Battista è John Bunyan (1628-1688), celebre soprattutto per il romanzo allegorico 7 Viaggio del pellegrino, efficace espressione letteraria dello spirito puritano, diffuso in decine di migliaia di copie ancora vivente l’autore; sotto la restaurazione degli Stuart, insieme a più di ottomi-

la «dissidenti», Bunyan paga con prolungati periodi di carcerazione la perseveranza nella propria fede. Morto Cromwell, gli subentra il figlio Richard, ma nel giro di dieci anni gli Stuart tornano al trono, in quella che si svilupperà come monarchia costituzionale, in cui la chiesa anglicana riprende il proprio ruolo dominante. «La storia della chiesa di Gesù Cristo in America trova la sua specificità nei confronti della storia di tutte le altre chiese sulla terra in questo, che l'America è stata, fin dall’inizio, il luogo di rifugio dei cristiani perseguitati del continente europeo». Questa constatazione di Dietrich Bonhoeffer dev'essere tenuta presente come chiave interpretativa, nel momento in cui ci appre-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

399

stiamo a seguire le vicende del cristianesimo protestante nel Nuo-

vo Mondo.

All’inizio del XVII secolo, numerosi puritani inglesi

erano sfuggiti alla persecuzione di Giacomo I emigrando in Olanda. Nel 1620, un gruppo di costoro, i celebri «padri pellegrini», guidati dal pastore John Robinson insieme ad altri che desiderano rifarsi una vita, si imbarcano sul Mayflower, un veliero che

li conduce nell'attuale Massachusetts; prima di sbarcare, il nucleo puritano suggella un patto solenne (Mayflower pact) con Dio e tra i suoi membri, in cui si impegna a costruire una società di tipo democratico e solidale. Dei 115 sbarcati, 80 muoiono in meno di un anno (gli altri 35 celebrano la loro sopravvivenza con una festa che è all’origine del Thanksgiving day, il giorno del ringraziamento),

ma in breve ne arrivano altri e nel 1630 nasce il

Commonwealth del Massachusetts, con capitale Boston: ufficialmente, una colonia inglese, di fatto una realtà politica, sociale e culturale di matrice religiosa, provvista di larga autonomia. La Nuova Inghilterra nasce puritana e congregazionalista: il diritto di voto è riservato a quanti consapevolmente riconoscono il «patto», cioè ai credenti convertiti; gli altri, più che esclusi, vanno

considerati «non ancora inclusi»: né nascita né censo si oppongono alla loro entrata nella comunità dei santi, che però non può nemmeno essere ottenuta con la forza, ma solo mediante la pre-

dicazione. Accanto alle chiese, secondo una consolidata tradizione protestante, nascono le scuole, molte delle quali, come

quella sorta intorno alla biblioteca lasciata da un pastore di no-

me Harvard, destinate a un grande futuro. In seguito a dissensi con altri puritani, il pastore Roger Williams (1603-1643) fonda nel 1636 la colonia di Providence, nell’attuale Rhode Island, do-

ve viene garantita la piena libertà religiosa non solo alle varie denominazioni cristiane (Williams stesso fonda la prima comunità battista americana), ma anche agli Ebrei e agli Indiani. Lo stesso spirito di tolleranza pervade il cosiddetto «santo esperimento» di William Penn (1644-1718). Questo figlio di un noto ammiraglio inglese, dopo essersi convertito al quaccherismo ed essere stato incarcerato, si vede affidare dal re Carlo II, che aveva

un debito di riconoscenza con l’ammiraglio, il territorio della Syl-

vania, nel Nuovo Mondo; qui Penn fonda una repubblica di ispirazione quacchera (la Pennsylvania, appunto, 1682), che ha come capitale la «città dell'amore fraterno», Filadelfia. La particolare capacità di plasmare la storia dimostrata dal puritanesimo costituisce, almeno a partire dal celeberrimo saggio di Weber su L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, un tema as-

400

Cristianesimo

sai frequentato dagli studiosi. Weber individua con lucidità il ruolo svolto dalla fede nell’elezione nello sviluppo dell’«ascesi intramondana», cioè di quel particolare stile di vita e di impegno nella storia che caratterizza il calvinismo, e in modo speciale quello del Seicento. Il rapporto tra uomo e Dio è sottratto a mediazioni umane;

nel congregazionalismo,

addirittura, il peso della

chiesa come struttura tende a scomparire e i segni dell’elezione vengono cercati nella vita etica del singolo e della comunità di credenti impegnati. Naturalmente, questi uomini e queste donne sanno bene che «gli eletti sono tali senza che sia presente in loro alcuna causa determinante etficace»

(R. Baxter, in Bonana-

te, p. 45), che cioè l'elezione è gratuita e precede radicalmente l’etica: essi guardano tuttavia alla sobrietà e disciplina della propria vita, all’organizzazione del tempo, alla qualità dell'impegno professionale come a frutti dell’elezione, di cui la collettività intera è chiamata a godere. In questa prospettiva, il comandamento

cristiano dell’amore, che nella tradizione medievale viene letto come invito alle «opere di carità», considerate meritorie, riceve

un’interpretazione che potremmo definire politica: non si tratta di procacciarsi meriti individuali mediante l’elemosina, ma di creare

istituzioni che

possano

razionalizzare

l’assistenza, finan-

ziandole con il frutto del proprio lavoro. Naturalmente, neanche

nei Commonwealths puritani del Nuovo Mondo mancano le contraddizioni, la più clamorosa delle quali è il massiccio impiego della manodopera schiavistica nelle piantagioni, pur combattuto già dal XVII secolo, non solo da singoli, ma da interi movimenti. La secolarizzazione del puritanesimo, che sì può osservare già nel Settecento, non distruggerà l’ascesi intramondana: semplicemente, la scioglierà dal suo orizzonte teologico (che, però, portava con sé anche una forte tensione democratica e di giustizia),

facendone un aspetto tra altri dell’autocoscienza del capitalismo. 5. IL, PROTESTANTESIMO

IN FRANCIA E IN ITALIA

La vita dello «stato nello stato» ugonotto nei decenni successivi all'editto di Nantes è quella di una consistente minoranza, organizzata in senso presbiteriano-sinodale (anche se non mancano spinte di tipo congregazionalista), con un corpo pastorale formato in accademie teologiche, che dedica le proprie migliori energie alla predicazione dal pulpito (le visite ai fedeli sono generalmente svolte dagli «anziani», membri della comunità appo-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

sitamente scelti), sobria, generalmente

401

aliena dalle ricercatezze

proprie della retorica barocca ma, secondo diverse testimonianze, non sempre in grado di «edificare» realmente le comunità. Le conoscenze bibliche dei protestanti («e anche delle loro mogli», come riconosce, non senza stupore, un ecclesiastico cattolico), tuttavia, sono tutt'altro che deplorevoli. Si registra un lamento abbastanza diffuso nei confronti di ministri inclini a concepire il proprio ruolo come semplice professione; la formazione universitaria, evidentemente, non può sostituirsi a un’auten-

tica vocazione e non è dunque un caso se, nel corso del Seicento, quasi un terzo dei ministri abiura la propria fede. Resta comunque il fatto che, in seguito alla revoca dell’editto di Nantes (1685), la grande maggioranza dei pastori preferisce l’esilio e la condivisione del destino, a volte tragico, del proprio gregge, piuttosto che aderire alla religione del Re Sole. Il mondo ugonotto è largamente costituito da borghesi professionalmente qualificati e spesso relativamente benestanti, e produce numerosi intellettuali di grande spicco: menzioniamo Philippe Duplessis Mornay (1549-1625), uomo di stato e collaboratore di Enrico IV, autore di una Rivendicazione contro i tiranni, in cui si teorizza il di-

ritto di resistenza contro il governo iniquo; lo storico e letterato Teodoro Agrippa d’Aubigné (1552-1660), costretto a rifugiarsi a Ginevra dalle misure antiprotestanti di Luigi XIII; il celebre predicatore Charles Dralincourt (1595-1669), le cui opere costituiscono grandi successi editoriali presso i protestanti europei; già abbiamo parlato di Moise Amyraut; un altro teologo, Pierre Jurieu (1637-1713), si rende famoso per le sue polemiche con il celebre predicatore cattolico Bossuet, con il giansenista Arnauld e con il pensatore di origine ugonotta Pierre Bayle. Alcuni esponenti ugonotti ottengono cariche di prestigio, come quel Barthelemy Herwarth (1606-1676) che nel 1657 viene nominato da Maz-

zarino controllore generale delle finanze, carica dalla quale non manca di appoggiare i propri correligionari; in questa fase, quello economico-finanziario diviene un ambito privilegiato dell’attività degli ugonotti. La monarchia, comunque, non poteva considerare definitivo questo regime di coesistenza, sia pure asimmetrica, tra le due confessioni. Luigi XIV adotta una serie di misure atte a favorire la «conversione» dei protestanti: si va dall’istituzione di una cassa che elargisce ricompense in denaro a quanti passano

al cattolicesimo,

fino alla violenza fisica nelle cosid-

dette dragonnades, campagne terroristiche condotte dai dragoni

reali; non mancano successi, ma la monarchia, non potendo tol-

402

Cristianesimo

lerare sudditi che negano alla Corona una devozione di tipo religioso, sì ritiene costretta a ricorrere a mezzi più drastici, che

culminano, nel 1686, con la revoca dell’editto di Nantes, cioè con

la soppressione del diritto di esistenza degli evangelici nel regno di Francia. Gli ugonotti devono scegliere tra l’abiura, la cattura da parte degli armati del re, con conseguente esecuzione, incarcerazione o schiavitù sulle galere, e il tentativo di fuga. Sono centinaia di migliaia ad abbandonare i propri beni trasferendosi all'estero, con una marcia avventurosa, non sempre coronata da

successo. Quanti giungono alla meta contribuiscono vigorosamente alla vita economica e culturale dei luoghi d’asilo: oltre al caso di Ginevra, occorre menzionare

il Brandeburgo

e Berlino,

la cui ascesa a città di importanza europea è strettamente legata all'apporto degli esuli, nonché l'Assia, il Palatinato, il Wùrtten-

berg, l'Olanda, l'Inghilterra, la Danimarca; si forma persino una

comunità francese a Mosca, mentre la Svezia luterana nega ai pochi riformati francesi che vi si stabiliscono la libertà di culto. Le abiure,

evidentemente,

ci sono,

ma

nell’insieme

la resistenza

ugonotta alla repressione del Re Sole è epica; la spiritualità rifor-

mata, ora necessariamente clandestina, si esplica nell’ambito della famiglia, che diventa anche sede dei culti. Documento artisti-

co di questa battaglia di fede è la raccolta di salmi musicati in vi-

sta del canto, molti ad opera di Claude Goudimel, a suo tempo

vittima della strage di S. Bartolomeo. Alcuni irriducibili si ritrovano nelle Cevenne, in quella che viene definita la chiesa del «Deserto»: assemblee di culto all'aperto, manifestazioni di tipo estatico, mantengono

viva la volontà di non uniformarsi, nono-

stante gli arresti, le uccisioni e le incarcerazioni. Questa resistenza assumerà poi carattere armato nella «guerra dei Camisardi», in cui i predicatori sono anche condottieri.

La repressione antiprotestante del Re Sole si inserisce in un progetto politico che ha di mira l'egemonia della Francia sull’Europa: non stupisce, dunque, che le altre potenze si sforzino di isolare Luigi XIV, costituendo contro di lui la Lega di Augusta. La causa protestante è politicamente ben rappresentata da Gu-

glielmo III d'Orange, il quale riesce a cacciare Giacomo Il dal trono d'Inghilterra, sventando il suo tentativo di ricattolicizzare il paese (1688). Nello stesso anno, la Francia entra in guerra con-

tro la Lega di Augusta, nel frattempo allargatasi. Sullo sfondo dei grandi scontri politico-religiosi in Europa, si

svolge in Italia la lotta per la sopravvivenza dell'unica componente

protestante

sopravvissuta alla repressione

della Contro-

F Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

403

riforma, quella valdese. Per tutto il secolo XVII, la piccola comu-

nità è impegnata a resistere al tentativo di soffocamento compiu-

to dai Savoia, con metodi che vanno, come in Francia contro gli

ugonotti, dalle pesanti vessazioni al genocidio. Intorno alla settimana santa del 1655 Carlo Emanuele II di Savoia scatena una violentissima campagna militare («Pasque piemontesi») con l’intento di risolvere definitivamente la questione. Le atrocità compiute dai suoi soldati fanno il giro d’Europa, suscitando indignazione (non generale: il papa Alessandro VII si congratula) e Milton

celebra le vittime in un famoso sonetto. Il completamento dello sterminio è impedito dalla reazione diplomatica delle potenze protestanti; in quei mesi e nella fase immediatamente successiva si assiste a importanti episodi di resistenza valdese, guidati da personaggi come Jean Léger (1615-1670), che ha un ruolo decisivo nel rendere noti questi fatti in Europa, e Giosuè Janavel (16171690), singolare figura di guerrigliero calvinista. Dopo un periodo di relativa tranquillità, la revoca dell’editto di Nantes, pron-

tamente fatta propria dai Savoia, scatena di nuovo la guerra con-

tro i valdesi, che cessa solo quando il duca e il maresciallo francese Catinat si convincono di avere definitivamente, come essi dicono, «nettato» le Valli. Un manipolo di irriducibili conquista,

mediante la guerriglia, il diritto per i prigionieri di espatriare a Ginevra. Tre anni più tardi, un gruppo di esuli, guidato da Enrico Arnaud

(1643-1721),

partendo

da Ginevra,

riesce nell’im-

presa, presto entrata nella leggenda, di aprirsi con le armi la strada fino alle Valli («Glorioso Rimpatrio»), dove riprendono le operazioni belliche; messi alle strette da forze preponderanti, i valdesi riescono comunque a resistere fino al giugno 1690, quando Vittorio Amedeo II rompe l’alleanza con il Re Sole e sì unisce alla Lega di Augusta. Nei decenni che seguono, la chiesa riformata piemontese, senza perdere i contatti con l'Europa evangelica, vive accuratamente isolata dal resto del ducato sabaudo, in quello che è stato chiamato «ghetto alpino», da cui uscirà, con

le Patenti di libertà concesse da Carlo Alberto, nel 1848. 6. IL PIETISMO

La manualistica tende ancora oggi a considerare l’opera di Philipp Jakob Spener (1635-1705) come una «reazione all’ortodossia». In realtà, la sua preoccupazione di colmare il fossato che andava formandosi tra la teologia scientifica e la vita di fede delle

404

Cristianesimo

comunità e dei pastori è condivisa da molti degli autori ortodossi ai quali egli orienta la propria formazione. Dopo gli studi, conclusi con il dottorato in teologia, Spener si dedica al ministero

pastorale a Francoforte, impegnandosi a fondo nel rinnovamento della spiritualità comunitaria, opera che egli concepisce come un completamento della Riforma luterana: nella predicazione e nella cura pastorale, l'accento viene posto sulla «nuova nascita» che deve caratterizzare l’esistenza credente. Nel tentativo di stimolare una ripresa di coscienza da parte della chiesa di massa, egli crea, nell'ambito della comunità, dei gruppi ristretti di edificazione, detti collegia pietatis, che crescono rapidamente. Si tratta della ripresa di un’intuizione di Bucero (Spener aveva studiato a Strasburgo), il cui successo non evita critiche assai aspre, do-

vute al sospetto di settarismo. Nel 1675, Spener ripubblica le Postille di Arndt, premettendovi una lunga prefazione, i Pia desideria, in cui egli espone il suo programma di rinnovamento della vita cristiana. Partendo da una limpida ortodossia luterana, Spe-

ner propone sei «desideri» per il rilancio di un’autentica spiritualità cristiana: diffusione e studio della Bibbia nelle comunità;

rilancio del sacerdozio universale mediante la mobilitazione del laicato; accentuazione dell’impegno nella pratica delle virtù cri-

suiane; contenimento della polemica nelle discussioni in materia di fede; seria formazione spirituale, e non solo dottrinale, degli studenti in teologia; rinnovamento della predicazione a partire dalla tematica dell’uomo nuovo, rigenerato nella fede. Nel 1686,

Spener assume l’incarico di predicatore alla corte di Sassonia, a Dresda; né il prestigio personale, né il successo dei collegia pietatis impediscono

le critiche, anche

assai acrimoniose,

dei settori

più chiusi del luteranesimo tedesco, nelle quali si distingue il teologo di Lipsia Johann Benedikt Carpzov. In seguito all'opposizione incontrata in Sassonia, Spener si trasferisce a Berlino come pastore; nel Brandeburgo, con l’appoggio di Federico I, or-

ganizza la facoltà teologica di Halle, che diviene in breve uno dei

principali centri di irradiazione del pietismo. La sintesi di solidità teologica, sensibilità spirituale e senso pastorale che caratterizza la figura e l’opera di Spener lo rende uno dei più signifi cativi interpreti dell’eredità di fede della Riforma. Il grande artefice dello sviluppo del movimento pietista come

fenomeno

di massa è tuttavia August Hermann

Francke

(1663-

1727). Dotto professore di ebraico a Lipsia, in seguito a un’esperienza di «nuova nascita» si dedica alla causa speneriana. Co-

stretto dagli oppositori a trasferirsi a Halle, influenza profonda-

F Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

405

mente la formazione degli studenti in teologia della locale facoltà, sia mediante il suo magistero di esegeta, sia, soprattutto, mediante la pubblicazione di numerose opere di edificazione. La sua predicazione, assai brillante, incontra notevole successo. A partire dal 1695, si dedica alla fondazione di scuole: dapprima per ragazzi poveri, poi per figli della borghesia e infine per rampolli della nobiltà. L'attività pedagogica di Francke costituisce un potente fattore di diffusione del pietismo; alcune istituzioni da

lui fondate sono ancora oggi attive. Quando, nel 1705, Federico

IV di Danimarca lancia l’evangelizzazione protestante nelle Indie, sceglie i missionari tra gli allievi di Francke a Halle. Con la morte di Francke, il pietismo di Halle tende a ristagnare e il centro propulsivo del movimento si trasfertisce nel Wurttenberg. Qui va ricordata l’opera di Johann Albrecht Bengel (1687-1751), a cui si devono contributi fondamentali nell’ambito della critica testuale e dell’esegesi del Nuovo Testamento: la profonda fede di Bengel gli permette di applicare audacemente il metodo critico allo studio della Scrittura, nella certezza che ciò non può comprometterne in alcun modo l’autorità. Il clima spirituale del pietismo costituisce lo sfondo della grande stagione musicale che ha il suo vertice in Johann Sebastian Bach (1685-1750), la cui fede, come sottolineava Albert Schweit-

zer, è parte integrante della vocazione artistica; anche il Messia di Georg Friedrich Handel

(1685-1759, di Hallc) può e deve esse-

re letto in questa prospettiva.

La tendenza al separatismo, che molti avevano rimproverato, a torto, a Spener e a Francke, si rintraccia effettivamente in co-

munità di orientamento pietista in cui alla passione biblica si unisce un’attenzione assai marcata alle manifestazioni estatiche: è in

questi ambienti che matura l’opera di Gottfried Arnold (1666-

1714), celebre per una Storia imparziale delle chiese e degli eretici, in

cui si sforza di ritrovare in questi ultimi le testimonianze della ge-

nuina pietà cristiana, che egli considera assai spesso assente nelle chiese ufficiali. Una rilettura originale delle grandi istanze pietiste è proposta nel XVIII secolo da Nikolaus Ludwig von Zinzendorf (1700-

1760). Gli studi secondari in una scuola di Franke a Halle lo se-

gnano profondamente, anche se egli sottolinea la continuità della sua maturazione, che dunque non conosce la rottura dell’esperienza della «nuova nascita», cosa che lo rende sospetto ai pietisti

più rigidi. Dopo un breve periodo di attività al servizio dell’eletto-

re di Sassonia, si dedica alia rivitalizzazione in senso pietista del-

406

Cristianesimo

la comunità luterana sita nei suoi possedimenti di Berhelsdorf.

In seguito, nelle sue terre si stanziano esuli moravi di tradizione

hussita, che fondano il villaggio di Hermhut. Zinzendorf assume funzioni di guida di questo singolare esperimento, ottenendo che gli esuli, pur conservando la loro specificità, siano accolti nella chiesa luterana. Herrnhut viene strutturata come una grande

comunità, in cui i beni sono largamente condivisi, le famiglie vi-

vono del proprio lavoro e la collettività provvede agli anziani e agli indigenti. La spiritualità che costituisce il centro di questa vita comunitaria è, al di là della matrice luterana di fondo, assai originale: la centralità di Cristo è ulteriormente accentuata e la meditazione si fissa soprattutto sulla morte redentrice e sulle sofferenze di Gesù; la Cena del Signore, a cui si accompagna la lavanda dei piedi, occupa un posto importante, e le nozze e la vita matrimoniale tendono a essere concepite in modo quasi sacramentale. La comunità di Hermhut si impegna anche nell’attività missionaria, dapprima nelle Indie occidentali e in Groenlandia, poi anche altrove (alla morte di Zinzendorf, si contano 226 mis-

sionari in 24 paesi). Zinzendorf e la sua comunità sono sospetta-

ti di separatismo, accusa che il fondatore cerca di controbattere nei fatti, entrando nel corpo pastorale luterano; ciò non impedisce che, nel 1736 e poi, definitivamente, nel 1738, egli sia espul-

so dalla Sassonia. Tutt'altro che scoraggiato, si dedica a viaggi missionari,

dalla Russia all'America settentrionale.

Nel

1747 rie-

sce a rientrare in Sassonia, convincendo la sua comunità, che nel frattempo aveva conosciuto tentazioni autonomistiche, a rientrare nell’ambito della chiesa luterana. Quando muore, sereno

nonostante le molte difficoltà, nel 1760, l’esperienza rappresenta un'isola singolare nel clima spirituale smo. La sua influenza, tuttavia, è immensa: a parte mi legati, in un modo o nell’altro, alla comunità

di Herrnhut dell’illuminii grandi no(da Wesley a

Goethe, a Schleiermacher), intere generazioni sono formate, in

genere senza saperlo, nel segno dell’accesa pietà cristocentrica di Zinzendorf. La comunità dei Fratelli Moravi pubblica tuttora un libro di meditazione, consistente in versetti biblici proposti alla lettura e alla preghiera quotidiane, tradotto in tutto il mondo (dal 1995 anche in Italia) e diffuso in milioni di copie.

L'esperienza pietista costituisce una chiave di lettura assai importante per interpretare le vicende del cristianesimo protestan-

te dei secoli successivi; attraverso i vari movimenti detti «di risveglio», di cui si dirà, l'ideale di una fede fortemente vissuta sia a livello individuale che comunitario ha continuato e continua,

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

407

a varie riprese, a stimolare le chiese di massa, benché queste ul-

time, non raramente, reagiscano in modo sospettoso. In particolare, la crisi del modello di cristianità, cioè della tendenziale coincidenza

tra chiesa e società civile, che nel Settecento inizia

a manifestarsi in modo alquanto appariscente, contribuisce ad accentuare l’esigenza di comunità formate da credenti consape-

voli, coscienti del fatto che, propriamente, la chiesa sarà sempre

una minoranza nel proprio ambiente, e animati da una robusta passione missionaria. 7.IL METODISMO

L'Inghilterra dei primi decenni del Settecento è alla vigilia di grandi terremoti: dal punto di vista economico si prepara la ri-

voluzione

industriale, che cambierà

radicalmente

il volto della

società: la popolazione aumenta e si inurba, il pauperismo cresce, l’analfabetismo delle masse permane pressoché generale. Sul piano culturale, si cominciano ad avvertire i primi segni della ventata illuminista. La situazione della chiesa anglicana dell’epoca viene spesso descritta in termini piuttosto caricaturali: clero mondanizzato e notevolmente immorale, aridità spirituale, pratica religiosa abitudinaria. In realtà, fenomeni del genere si riscontrano in ogni

chiesa di massa, ed è ingiusto attribuirli in misura particolare al-

l’anglicanesimo del primo Settecento. Al suo interno non mancano uomini e gruppi di profonda pietà, nonché di vasta cultura e sensibilità pastorale. Sono proprio questi circoli a dar vita alle «società religiose», con l'obiettivo di insegnare a leggere e a scrivere e di diffondere stampa di edificazione tra la popolazione più povera: l’iniziativa si sviluppa, con notevole successo, indipendentemente dall’istituzione ecclesiastica, ma numerosi sono i mi-

nistri di culto coinvolti come animatori. È in questo ambiente che nascono John (1703-1791) e Charles (1’707-1788) Wesley; il padre, Samuel, è un alto esponente della chiesa d'Inghilterra, nonché un animatore delle «società religiose». I fratelli Wesley studiano

a Oxford,

ricevendo

un’ottima

formazione

teologica;

Charles fonda un circolo di riflessione e di preghiera, più tardi soprannominato

Holy Club («santo»

club), del quale entrano

a

far parte anche il fratello maggiore e George Whitefield (1714 1770), che pure avrà un ruolo di rilievo negli sviluppi del movi-

mento metodista: come si vede, i tentativi di rilanciare, tanto nel-

408

Cristtanesimo

la società quanto nelle accademie teologiche, l'impegno militante di gruppi di credenti si muovono anche qui lungo direttrici

che ricordano da vicino lo spirito e i modelli del pietismo. Il termine

«metodismo»

risale a questi inizi, ed aveva originariamen-

te una valenza canzonatoria, prendendo di mira lo stile di vita rigorosamente disciplinato dei membri del club; il movimento vero e proprio, tuttavia, inizierà solo più tardi. I fratelli Wesley, diventati nel frattempo ministri della chiesa d'Inghilterra, lasciano Oxford (dove dal 1726 John lavorava come docente aggregato) e si recano nel Nuovo Mondo, in Georgia, alle dipendenze di una

società missionaria. Già durante il viaggio hanno modo di incontrare un gruppo di Fratelli Moravi e di essere edificati dalla tranquilla fermezza della loro fede, anche in frangenti di grave difficoltà, come le tempeste oceaniche. Giunti in America, i Wesley continuano a frequentare i discepoli di Zinzendorf e a subirne l'influenza; la loro missione tra i Pellerossa, invece, non

incon-

tra il successo sperato, il che precipita John in una profonda crisi. Nel 1738 i due fratelli sono di nuovo in Inghilterra, dove entrano in contatto con Peter Boehler, che guidava la comunità londinese dei Moravi: costui introduce i due ecclesiastici anglicani

a una rinnovata lettura di Lutero, che li colpisce profondamen-

te, conducendoli a un’esperienza di «nuova nascita» di carattere pietista: Charles testimonia di essersi convertito meditando sul commento di Lutero alla lettera ai Galati, mentre John scrive di. aver sentito il suo cuore «stranamente riscaldato» alle 20,45 del

24 maggio 1738, mentre, assieme a un gruppo di Fratelli Moravi, leggeva la prefazione, sempre di Lutero, all’epistola ai Romani. Nell’estate di quell’anno, John Wesley si reca nel continente per visitare diverse comunità dei Moravi: a Marienburg, vicino a Francoforte,

incontra

Zinzendorf;

naturalmente,

va

anche

a

Herrnhut. Dopo il rientro di John nell’isola, i fratelli Wesley si dedicano a una vasta opera di predicazione, nell’ambito delle comunità anglicane, sottolineando la centralità del perdono dei peccati in base alla fede soltanto (secondo l'insegnamento di Lutero) e l’urgenza della vita nuova, orientata al comandamento

dell'amore. In questo periodo cominciano a manifestarsi le pri-

me serie difficoltà, da parte delle autorità ecclesiastiche e di molti colleghi, che precludono il pulpito ai due fratelli, accusandoli di essere esagitati che propalano dottrine inedite. Nel frattempo Whitefield, dopo brillanti esordi come predicatore nei dintorni

di Bristol e dopo un’esperienza come missionario in America, si

unisce

alla causa dei Wesley:

assieme

ad altri vecchi membri

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

dell’Holy Club e a pochi

altri «convertiti», i tre danno

409

inizio al

movimento metodista propriamente detto, che ha i suoi centri di propulsione a Londra e a Bristol. In seguito alla decisione della chiesa ufficiale di non concedere a questi zelanti evangelizzatori l’accesso ai pulpiti delle parrocchie, viene deciso senz'altro

di affiancare all'attività dei gruppi di preghiera e di edificazione la predicazione all'aperto: comincia Whitefield, annunciando

l’Evangelo a una folla di minatori; John Wesley lo segue poco dopo, e il successo è enorme. I due sono evangelizzatori infaticabi-

li: si calcola che il primo abbia tenuto circa 40.000 prediche, il

secondo 18.000. Siamo nel 1739. La predicazione di Whitefield, dei due Wesley e dei primi collaboratori si mostra in grado di rag-

giungere le classi più umili, in generale piuttosto emarginate all’interno

dell’istituzione

ecclesiastica.

Coloro

che,

in seguito

all'annuncio evangelico, fanno l’esperienza della «conversione»

vengono riuniti in «società», le quali, a loro volta, si suddividono

in gruppi più piccoli che si ritrovano a pregare e a studiare la Scrittura; vengono

aperte le prime

un'importante attività di porta con sé l’esigenza di araldi della parola biblica; co, che cioè non proviene

sale di culto e inizia anche

alfabetizzazione. La rapida espansione avere all’opera un maggior numero di nasce così la figura del predicatore laidalle file dei ministri anglicani, né pos-

siede necessariamente una preparazione di tipo accademico: in

forza di un'esperienza di conversione e dello studio delle Scritture condotto nei gruppi metodisti, tuttavia, egli è in grado di affiancare il pastore nell'opera di evangelizzazione; spesso questi

personaggi si dedicano a tempo pieno alla predicazione, in un

ministero itinerante, abbandonando il loro lavoro secolare; altri, invece, lo mantengono, esercitando un servizio locale, a tempo

parziale. La predicazione affidata ai laici, sia pure sotto la supervisione di un ministro, costituisce un’importante espressione del sacerdozio universale dei credenti, favorendo la crescita autonoma dei gruppi e la responsabilità diretta dei membri nella loro conduzione. Più tardi, John Wesley prenderà coraggiosamente atto del fatto che anche alcune donne annunciano la parola di Dio nel culto: in un primo tempo si limita a non opporsi, in seguito riconosce apertamente la cosa e, nel 1’786, una ragazza ventitreenne viene ufficialmente autorizzata a predicare. La struttura del movimento è dunque piuttosto articolata: il pastore coordina i predicatori laici e quelli locali, guidando insieme a loro la rete dei gruppi di una determinata zona, detta «circuito»; quest'ultimo prende il posto della parrocchia tradizionale come u-

410

Cristianesimo

nità ecclesiale di base. Occorre però sottolineare che il vivace movimento non intende in alcun modo porsi come alternativa alla chiesa d’Inghilterra: si ha cura, ad esempio, di fare in modo che

gli orari delle attività non coincidano con quelli della chiesa ufficiale. L'opposizione, tuttavia, si sviluppa di pari passo al successo della predicazione metodista. Oltre all'establishment anglicano, sono la nobiltà e le classi superiori a temere che il messaggio evangelico, raggiungendo il sottoproletariato, diventi un

fattore di instabilità e di sovversione; in effetti, più tardi, le 7ra-

de Unions si svilupperanno in base a modelli organizzativi larga-

mente

ispirati al metodismo;

è un fatto, inoltre, che l’alfabetiz-

zazione e la lotta all’alcolismo, che accompagnano la predicazione propriamente detta, contribuiscono a creare le condizioni ‘per una presa di coscienza del problema sociale da parte di masse popolari sfruttate in modo selvaggio. La lotta a Wesley e ai suoi non si sviluppa sul terreno delle idee: piuttosto, si assoldano vere e proprie squadre di picchiatori, per intimidire e anche uccidere. Il primo episodio drammatico avviene nel 1743 nello Staffordshire, dove numerosi metodisti vengono ammazzati a bastonate, le donne violentate, le case incendiate. Il fatto non rima-

ne isolato: diversi predicatori perdono la vita, Wesley stesso, nel 1’742, mentre predica nei pressi di Bristol, si vede aizzare contro un toro infuriato, e si salva a malapena; tre anni dopo, in Corno-

vaglia, rischia ancora la vita ad opera di teppisti; molti imprenditori minacciano di licenziare gli operai che non si uniscono alle azioni squadristiche, nonché quanti offrono ospitalità a membri delia nuova corrente religiosa. L'espansione metodista, comunque, non si arresta; numerosi sono gli aderenti di estrazione borghese; attraverso Selina Hastings, contessa di Huntingdon,

nobildonna di sentimenti calvinisti assai vicina a Whitefield, diversi membri dell’aristocrazia sono guadagnati alla causa. Si registrano anche difficoltà interne, in particolare un dissenso teologico tra Wesley e Whitefield sul tema della predestinazione: mentre Wesley è di formazione e orientamento arminiani, Whitefield propende per un calvinismo rigido; ne consegue una scissione, con la grande maggioranza del movimento che resta dalla parte di Wesley. E interessante notare, tuttavia, che i rapporti personali tra i due uomini restano improntati a reciproca stima. Nel

1787, le società metodiste

(che contano,

in Gran

Breta-

gma, circa 50.000 membri) sono registrate come gruppi religiosi «dissidenti»

(rispetto alla chiesa di stato)

e nel 1795 si compie

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

411

praticamente la separazione dalla chiesa d'Inghilterra. Solo nel 1836 i metodisti iniziano a consacrare autonomamente i loro pa-

stori, mediante

l'imposizione delle mani. Intorno al 1760 inizia

la missione in America, dove quella metodista è tuttora una delle più numerose tra le denominazioni protestanti. L'esperimento, che affonda le sue origini nell’Holy Club di Oxford, rappresenta il primo organico tentativo condotto nell’ambito delle chiese cristiane di rapportarsi alla questione sociale, cogliendo tempestivamente un problema che altri continueranno a ignorare sino alla fine dell'Ottocento. Attraverso l’opera, spesso avventurosa, di questi uomini e di queste donne, la solida spiritualità di ispirazione luterana e pietista fondata sulla giustificazione per grazia mediante la fede e sulla centralità della vita muova raggiunge anche ambienti che, per diversi motivi, non erano stati coinvolti dal puritanesimo, dando luogo a una famiglia di chiese (dal ceppo originario ne nascono infatti diverse) il cui contributo all’ecumene cristiana sarà sempre assai incisivo. 8. RAZIONALISMO E ILLUMINISMO

La filosofia del Seicento pone con forza il problema del fondamento razionale della fede religiosa; naturalmente, si tratta di un

tema classico del pensiero occidentale, e precursori del raziona-

lismo possono essere rintracciati all’epoca della Scolastica, o an-

che prima; dopo Cartesio e Spinoza, tuttavia, la questione della conciliabilità tra ragione e rivelazione si presenta con una radicalità nuova. Mentre puritanesimo, pietismo e metodismo testimoniano la capacità della tradizione evangelica di produrre storia, la legittimità intellettuale stessa di quella tradizione è fatta

oggetto di discussione. Già Pierre Bayle (1647-1706), francese,

ma che aveva trovato rifugio nella tollerante Olanda, sottopone

la dottrina tradizionale a una corrosiva critica di impronta razionalistica; la fede, a suo parere, non è essenziale alla fondazione della morale, che anche gli atei sono in grado di riconosce-

re; il Dizionario storico e critico (1695-1697), che presenta una panoramica articolata delle sue idee, sarà uno dei testi che più ispireranno gli illuministi del Settecento. Le coordinate decisive di

quell’orientamento che sarà poi detto «deismo» si possono rintracciare,

già in forma

assai organica,

nel pensiero

di Edward

Herbert, barone di Cherbury (1581-1648), il quale, mentre l’In-

ghilterra oscilla tra l'egemonia anglicana e gli impulsi rivoluzio-

412

Cristianesimo

nari dei puritani, sostiene una religione naturale centrata su cinque affermazioni fondamentali: esiste un Dio; egli deve essere oggetto di culto; il vero culto consiste essenzialmente in una vita virtuosa e in un atteggiamento pio; l’essere umano ha il dovere di pentirsi delle sue colpe e di detestarle; nell’aldila, ci saranno

un premio o una punizione da parte di Dio. Dal punto di vista storico, il pensiero di Herbert non ha una particolare influenza, ma gli autori successivi, in forma diversa, riflettono intorno alle

stesse tematiche. L'unico Dio viene postulato in quanto necessità di ragione, indispensabile per spiegare l’universo e le sue leggi; dal punto di vista pratico, il cuore della religione è l’etica, in cui,

in definitiva, si risolve il culto; le diverse religioni e, all’interno del cristianesimo, le varie confessioni sono, nel migliore dei casi, espressioni storiche contingenti di questa religione razionale;

dato però che il dogmatismo ecclesiastico, con le sue complicate dottrine da un lato e l’apparato repressivo dall'altro, ha causato confusione, divisioni e intolleranza, la critica razionale alla

religione positiva o rivelata viene percepita come un fattore di progresso, di liberazione umanistica dalle pastoie dell’oscuranti-

smo:

in questa linea, ad esempio,

si muove

la riflessione

«reli-

giosa» del pensatore-simbolo dell’illuminismo, Francois Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire (1694-1778).

Una variante originale in questo panorama è costituita dal pensiero del ginevrino Jean Jacques Rousseau (1712-1778): anch'egli

rifiuta la tradizione cristiana per accogliere solo i pilastri della re-

ligione naturale: esistenza di Dio, libertà dell’essere umano e immortalità dell'anima. In lui, tuttavia, tutto ciò non è afferrato semplicemente dalla ragione, ma dal sentimento, cioè dalla con-

sapevolezza profonda del cuore, qualora quest'ultimo non sia

corrotto: com'è noto, Rousseau ritiene che l’umanità vera e feli-

ce fosse quella che viveva in uno «stato di natura» che sarebbe stato compromesso dall’organizzazione sociale. Un atteggiamento intellettuale razionalistico e un'adesione di

fondo alla rivelazione cristiana si incontrano in John Locke (16321704), il quale interviene nel dibattito sulla religione naturale con

uno scritto (La ragionevolezza del cristianesimo, com'è esposta nelle Scritture, 1695) che intende ritrovare il nucleo autentico del cristianesimo al di là della parzialità delle confessioni. A suo parere, il cen-

tro della fede cristiana surrezione di Gesù; ciò ti degli apostoli, mentre rebbero già lo sviluppo

va individuato nella messianicità e nella risarebbe attestato negli evangeli e negli Atle epistole neotestamentarie testimoniedi sovrastrutture dogmatiche ulteriori. Per

F. Ferraro

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

413

sostenere la sua tesi, dunque, Locke sottopone il testo biblico a un'indagine di carattere storico-critico: tale genere di approccio al testo sacro costituisce un elemento importante della cultura di questi decenni;

nello stesso senso, e ancor più radicalmente,

si

muovono, sempre in Inghilterra, personaggi come John Toland

(1670-1722) e Matthew Tindal (1656-1733). E un aspetto su cui do-

vremo ritornare. L'importanza di Locke nella storia del cristiane-

simo è legata anche alla sua Lettera sulla tolleranza (1689), che ri-

sente dell’influenza dei gruppi battisti inglesi: con argomenti in buona parte teologici, essa sostiene che lo stato non deve ingerir-

si nelle questioni religiose, dato che la salvezza dell'anima umana

non lo riguarda; la chiesa, a sua volta, deve guardarsi dal coartare

la coscienza individuale; dalla tolleranza sono esclusi i cattolici, in

quanto obbediscono al papa, cioè al sovrano di un altro stato, e gli atei, perché mancherebbero delle basi morali che rendono possibile la convivenza civile. La prima eccezione lockiana è caratteri-

stica del buon suddito di Sua Maestà britannica; la seconda è in-

dicativa dell’atteggiamento non solo dei cristiani, ma anche di

molti deisti, nei confronti dell’illuminismo radicalmente materia-

lista, che si sviluppa in particolare in Francia (gli enciclopedisti,

Lamettrie, d’Holbach, Helvétius).

In Germania,

la figura più caratteristica della fase iniziale

dell’illuminismo è costituita da Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-

1716), autentico genio universale, la cui opera spazia dalla poli-

tica alla storiografia, dalla matematica alla filosofia, senza esclu-

dere la teologia. Tipico della sua impostazione teoretica è il tentativo di relativizzare, nella 7eodicea, il problema del male, la cui

apparente incomprensibilità deriverebbe dal carattere parziale della percezione del mondo da parte delle creature umane; ciò che viene percepito come male sarebbe in realtà l’esito dei necessari rapporti e condizionamenti tra gli esseri limitati che costituiscono la creazione; se fosse possibile abbracciare col pensiero la totalità di questi rapporti, il mondo effettivamente creato da Dio

apparirebbe,

secondo

Leibniz,

come

il migliore

tra

quelli possibili. L’ottimismo illuministico guida l'insieme della riflessione leibniziana sulla fede cristiana: ragione e rivelazione sono fondamentalmente conciliabili e, in questa prospettiva, il cristianesimo si presenta come religione eminentemente razionale,

in cui il paradosso della Croce non può costituire il centro del messaggio: Gesù è visto, essenzialmente, come il grande maestro,

che predica una concezione di Dio concettualmente mente elevata.

e moral-

414

Cristianesimo

La teologia accademica reagisce in un primo tempo al nuovo

clima spirituale cercando, da un lato, di mantenere

la struttura

tradizionale della dogmatica e il suo radicamento nella pietà, dall’altro di enfatizzarne l’ utilità pratica, e in particolare morale. Indicativa, in questo senso, la figura di Franz Buddeus (1660-

1727): mentre un teologo come David Hollaz, che vive quasi negli stessi anni (1648-1713), ma è ancora inserito nel clima spiri-

tuale dell’ortodossia, conclude la trattazione di ogni locus teologico con una preghiera, Buddeus termina con una sottolineatura della rilevanza esistenziale del dato dottrinale. Conformemente alla tradizione, egli nega che la conoscenza naturale di Dio possa salvare, ma riserva alla ragione il compito di distinguere tra vera e falsa rivelazione: ragione e rivelazione vengono giustapposte, ma implicitamente si considera la prima metro dell’altra. Con ciò, senza che Buddeus e gli altri teologi di que-

sto tempo ne siano consapevoli, lo slittamento teologico decisivo, non solo rispetto alla Riforma, ma anche alla fase ortodossa,

è per

Johann

lo meno Lorenz

annunciato.

von

Mosheim

Nella

stessa direzione

(1693-1755),

celebre

si muove

soprattutto

per la sua opera storica, in cui considera la chiesa come una «so-

cietà», governata dalla Provvidenza divina, e precisamente

non

in modo paradossale e comprensibile solo a partire dall’annun-

cio biblico, ma perfettamente intelligibile allo storico; scopo del-

la storia ecclesiastica è rendere «più saggi e più pii». Nella Dottrina morale della Sacra Scrittura, Mosheim nega che la ragione pos-

sa autonomamente

conoscere

la morale: essa deve, tuttavia, in-

terpretare la Scrittura e applicare ai casi particolari le «leggi ge-

nerali», volute da Dio, dell'agire morale.

Tornando in ambito filosofico, gli stimoli leibniziani vengono ripresi in una forma piuttosto irrigidita da Christian Wolff (16791754), che sviluppa un sistema in cui Dio, il mondo e i

loro rap-

porti sono interpretati in senso rigidamente deterministico: l’in-

tenzione fondamentale anche di Wolff è di interpretare la realtà, ivi compresa la religione, alla luce della ragione, lasciando al teo-

logo in senso stretto l’indagine dei «misteri» più elevati della fede,

come la Trinità, la cristologia, ecc.: anche qui, però, la ragione non

è contraddetta, ma semplicemente superata. Come in tutti gli illuministi cristiani, anche in lui è chiaramente individuabile un proposito apologetico; il suo razionalismo, tuttavia, gli vale la teroce opposizione dei circoli pietistici di Halle (nella cui università Wolff insegna a partire dal 1704), che vedono in lui un emulo di Spinoza; nel 1723, gli avversari convincono Federico Guglielmo I

F. Ferrano

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

415

a intimare al filosofo di lasciare la Prussia entro 48 ore, sotto pena

di impiccagione; dopo aver trovato rifugio a Marburgo, Wolff torna a Halle nel 1740, sotto Federico II. Lo scontro tra pietismo e

il-

luminismo costituisce una costante del XVIII secolo in Germania.

Secondo la classica interpretazione di Karl Barth, si tratta di un

conflitto inautentico, in quanto entrambi gli orientamenti vivono della medesima struttura di pensiero, che pone al centro l'uomo religioso e il suo sforzo di accostarsi a Dio, relativizzando alquanto il carattere «esterno» della rivelazione in Cristo testimoniata dalla Bibbia e operando una riduzione «antropocentrica» del messaggio; solo, il pietismo sviluppa un umanesimo dell’interiorità, valorizzando anche la mistica, mentre l’illuminismo batte la pista di un umanesimo razionalistico. Tale pista giunge ai suoi prevedibili esiti, a partire all’incirca dalla metà del XVIII secolo, con la cosiddetta «neologia», orientamento teologico che intende superare il precario equilibrio tra ragione e rivelazione elaborato dai vari Buddeus e Mosheim, an-

dando anche oltre Wolff, e rileggendo in modo conseguente l’intero messaggio cristiano all’interno di categorie razionalistiche. Una prima proposta radicale in questa direzione viene da Johann

Salomo

Semler

(1721-1791),

che dal 1752 insegna

nell’ex roc-

caforte pietista di Halle. Egli sottopone a critica la dottrina dell’ispirazione della Scrittura e mostra come il canone biblico sia l’esito di un lungo e tormentato processo storico ed esiga dunque una valutazione differenziata. Di origine propriamente divina sarebbe solo quanto promuove la crescita morale dell’individuo e della società, mentre il resto andrebbe inteso come adat-

tamento dell’eterna verità morale alle circostanze storiche e cul-

turali; analogamente,

i dogmi sarebbero la trascrizione dell’«es-

senza» morale del cristianesimo in una diversa epoca storica; questo approccio storicistico permette a Semler di relativizzare le forme concretamente assunte dalla fede cristiana nelle diverse fasi del suo sviluppo, senza rifiutarle in modo puro e semplice. Egli distingue inoltre tra religione «privata» e «pubblica»: nel primo ambito, dev'essere riconosciuta all’individuo illuminato (ma non alla massa) la piena libertà, mentre la religione pubblica, espressione del sentimento collettivo, non è intaccata da quanto muta nella sfera delle opinioni private, e dipende dallo stato. Questa

singolare concezione se, da un lato, riduce considerevolmente la

portata pubblica e sociologica della corrosiva critica semleriana,

dall’altro mostra efficacemente il livello di secolarizzazione della sua visione del fatto cristiano.

416

Cristianesimo

Ancora più radicale la posizione di Hermann Samuel Reimarus (1694-1768). Se, nelle pubblicazioni e nelle prese di posizio-

ne pubbliche, egli si astiene accuratamente dal sostenere tesi par-

ticolarmente esplosive, muovendosi nella linea di Wolff, în realtà è un deista insofferente nei confronti di ogni fede religiosa po-

sitiva, e in segreto sviluppa un'ipotesi sulla genesi del cristianesimo che costituirà il maggiore scandalo culturale del secolo. Secondo Reimarus, Gesù fu un messia politico, ucciso per tale motivo dai Romani; i suoi discepoli, che lo avevano seguito nella speranza di sedere accanto a lui, una volta instaurato il regno, fece-

ro sparire il cadavere, e diedero origine alla leggenda della risurrezione, facendo poi del maestro l’annunciatore di un mes sianismo apolitico, e dunque «inventando» la religione cristiana,

allo scopo di non tornare a lavorare in Galilea, godendo invece dei vantaggi

(quali, non è chiarissimo, a dire il vero) offerti dal-

la predicazione di un mitico regno dei cieli. Nelle intenzioni di

Reimarus, queste tesi (raccolte in un’opera manoscritta intitola-

ta Apologia o difesa per î ragionevoli adoratori di Dio) dovevano circolare solo in una cerchia ristretta, ma alcune parti dello scritto sono pubblicate da Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) tra il

1774 e il 1778 con il titolo Frammenti di un Anonimo; questi fram-

menti di Wolfenbùttel (dal luogo nella cui biblioteca Lessing af-

ferma di averli ritrovati) accendono una disputa furibonda, in cui

anche neologi comc Semler intervengono contro l'Anonimo. Nelle intenzioni del loro editore, i frammenti dovevano favorire l’interpretazione del cristianesimo come religione morale, separando radicalmente la fede da ogni pretesa fondazione storica (e

dunque, rendendola anche inattaccabile dalla critica storica): ve-

rità universali, come quelle religiose, non possono, per Lessing, venir dedotte da fatti storici contingenti: egli depreca che né i fautori né gli avversari delle tesi di Reimarus colgano questo pun-

to centrale. Lessing riconosce al cristianesimo positivo una vali-

dità relativa,

che

deve

attestarsi sul piano

della prassi morale;

nell’apologo, letterariamente felicissimo, Nathan il saggio, egli non esclude che il cristianesimo possa, alla fine, rivelarsi come la

vera religione, ma nel frattempo esso costituisce, come

l’ebrai-

smo e l’islam, una possibilità storica che, come tale, non può rivendicare alcuna assolutezza. Con

Immanuel

Kant

(1724-1804), proveniente

da una fami-

glia pietista, il deismo raggiunge l’apice della sua maturità filo-

sofica; superata la fase «precritica», in cui si muove nell’orizzon-

te wolffiano, Kant sviluppa, nella Critica della ragion pura, una teo-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

417

ria della conoscenza che non lascia spazio alla metafisica come forma del sapere teoretico: Dio, l'immortalità dell’anima e la libertà umana sono invece postulati della ragione «pratica», cioè

morale, condizioni e garanzie della possibilità e della sensatezza dell’agire etico. In La religione nei limiti della semplice ragione il filosofo di K6nigsberg trae le conseguenze di questa impostazione: la religione si configura come riconoscimento, da parte dell’essere umano,

dei propri doveri come

comandamenti

divi-

ni, e coincide dunque con l'acquisizione, da parte del pensiero,

della retta idea di Dio. La storia individuale e collettiva consiste nel conflitto tra un principio del male ed uno del bene, laddove quest’ultimo coincide con l'ideale dell'umanità gradita a Dio, che il cristianesimo esprime con l’immagine del Figlio di Dio; il regno di Dio in terra è la definitiva vittoria del principio del bene; le chiese cristiane esprimono elementi decisivi di questa religione razionale, inserendoli però in un quadro dottrinale che il sapere illuminato non può in alcun modo accettare; il cristianesimo positivo, dunque, va superato in una fede intellettuale, la cui dimensione visibile è l’agire morale. A differenza di molti suoi contemporanei, Kant rifiuta ogni sorta di compromesso con la prassi ecclesiastica corrente e non si reca in chiesa nemmeno per le cerimonie accademiche. Se il trionfo del razionalismo costituisce, nella storia spirituale del Settecento, l'aspetto che più ha colpito la sensibilità tanto dei contemporanei che dei posteri, non si deve dimenticare che

la serrata polemica illuminista convive con il fiorire, in numero-

si ambienti europei, di movimenti di tipo spiritualistico, mistico,

teosofico: troviamo così la complicata metafisica panteista di

Emanuel Swedenborg (1653-1735), lo sfociare del pietismo di Friedrich Christoph Oetinger (1702-1782) nella speculazione teosofica, il fiorire del movimento dei Rosacroce e delle logge massoniche: la complessa liturgia di queste ultime costituisce, non raramente, un’apprezzata alternativa al culto della chiesa; e se Kant si scaglia contro Swedenborg ritenendolo un fanatico, sono in molti a non scorgere alcuna contraddizione tra misticismo € razionalismo, credenze apocalittiche e progresso scientifico. Accade così, ad esempio, che il pastore e teologo pietista Ph.H. Hahn si dedichi alla costruzione di un planetario astronomico che gli procura vasta notorietà (viene visitato anche dall'imperatore Giuseppe II): egli non dimentica, tuttavia, di inserire un meccanismo bloccante per il 1836, anno in cui Bengel colloca il ritorno di Cristo e l’inizio del Millennio.

418

Cristianesimo

Non è facile tracciare un quadro organico degli effetti di questi diversi impulsi sulla vita delle comunità. Gli epigoni dell’or-

todossia da un lato, e i pietisti dall’altro, difendono le ragioni della tradizione di fronte al furore della critica dei Lumi (benché a

volte, come s°è detto, ne condividano inconsapevolmente il presupposto antropocentrico), incontrando un certo successo nelle campagne e nelle regioni in cui l'identità confessionale trova un maggior radicamento sociale. É comunque inevitabile che le generazioni di pastori formate alla scuola dei teologi wolffiani, e a maggior ragione dei neologi, cerchino, nel loro ministero, di porre l’accento su quell’«utilità» e «ragionevolezza» del cristianesimo predicate con tanta passione dai loro maestri. Gli esiti sono, a volte, singolari: in un sermone su Mt. 21,1 sgg. (l’entrata di

Gesù a Gerusalemme), prendendo spunto dal versetto 8b, che menziona i rami stesi come tappeto davanti a Gesù che giunge

cavalcando l’asino, un pastore ritiene di dover parlare dei furti

di legna; un altro «concretizza» il messaggio pasquale illustrando alcune «Regole ragionevoli per i cristiani, circa il modo di seppellire i loro cadaveri», alla luce del motto: «Non seppellite troppo presto il cadavere, potrebbe essere ancora vivo!», L'illuminismo teologico conosce anche un intenso impegno in vista del rinnovamento della liturgia: la tendenza dominante è di organizzare il culto intorno alla predicazione,

accentuando

l’aspetto di-

dascalico dell'insieme; in tal modo, la chiesa intende partecipa-

re allo sforzo comune di educazione della società. Non può sor-

prendere, date queste premesse, che i sacramenti siano oggetto di un certo imbarazzo, che però viene anch'esso superato in chiave etica. Una formula liturgica per la Cena del Signore recita: «Gustate questo pane! Lo spirito di devozione risieda in voi con la sua piena benedizione. Gustate un po’ di vino! La forza della virtù non risiede in questo vino, risiede in voi, nella divina dot-

trina e in Dio». In tal modo, dunque, le chiese evangeliche si sforzano di restare al passo coi tempi: non sarebbe giusto banalizzare la portata di questo tentativo, che in fondo intende comunque annunciare il significato di Gesù di Nazaret e del suo messaggio a una generazione che cerca nuovi paradigmi per comprendere la realtà, ivi compresa quella spirituale. Se, tuttavia, si finisce per affermare che la missione della chiesa consiste essenzialmente nell’educazione di cittadini moralmente

responsabili,

è inevitabile che prima o poi il bravo borghese illuminato si chie-

da perché tale compito debba essere assolto dai pastori e non, ad esempio, dai maestri di scuola. Di fronte a tale quesito, il pro-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

419

testantesimo del secolo XVIII non riesce a mascherare il proprio imbarazzo. Mentre filosofi e teologi discutono i rapporti tra ragione e ri-

velazione, e le chiese cercano faticosamente

di inserire la loro

predicazione nel nuovo clima culturale, si scatena in Francia la tempesta rivoluzionaria. I protestanti condividono le speranze della maggioranza della popolazione e si aspettano dal nuovo

corso libertà religiosa e pienezza dei diritti civili. Il 25 marzo 1790

il pastore di Nîmes, Rabaut-Saint-Etienne, che aveva predicato nella chiesa del «Deserto», viene eletto presidente dell’Assem-

blea nazionale, nelle città sorgono nuovi templi, la borghesia colta protestante ritiene giunta l'ora di assumere responsabilità nuove nella direzione del paese; la Convenzione vede un buon numero di evangelici tra i propri membri, la maggioranza dei quali vota per la condanna a morte di Luigi XVI. Quando, però, la rivoluzione dà corso al progetto di scristianizzazione del paese, i protestanti ne subiscono le conseguenze quanto i cattolici; non mancano ca come

comunità che, in seguito all'abolizione della domeni-

giorno

festivo,

accettano

la sospensione

del culto,

e si

registrano casi di abiura e di adozione del culto della dea Ra-

gione. Il Terrore colpisce duramente sia il corpo pastorale che il

laicato e il protestantesimo francese, ancora una volta, viene salvato dalla spiritualità familiare, dai culti domestici, dalla consue-

tudine personale con la Bibbia. Dopo la bufera, gli Articoli organici dell'8 aprile 1802 riconoscono le chiese evangeliche riformata e luterana, che diventano una componente, per quanto

sempre minoritaria, della società francese.

9.I MOVIMENTI

Con

«risveglio»

DI «RISVEGLIO»

(inglese: revival; francese: reveil; tedesco: Erweck-

ung) la storiografia del protestantesimo intende normalmente indicare un movimento di ripresa di consapevolezza ed entusiasmo nei confronti della fede, e di rinnovamento

della vita, da parte

di ampi settori della popolazione, generalmente in seguito a una predicazione intensiva da parte di pastori o laici che ritengono giunto il momento di chiamare le chiese a un «salto di qualità». A volte, la categoria di «risveglio» viene riservata ai movimenti

dell’Ottocento: noi la estendiamo a tutte le manifestazioni che,

a partire dal XVIII secolo, dapprima in America e poi in Euro-

420

Cristianesimo

pa, puntano a un deciso rinnovamento della pietà protestante a livello di massa. Le colonie inglesi nel Nuovo Mondo sono caratterizzate, nel

Settecento, dalla coesistenza, favorita dalla politica di tolleranza della Corona, di diverse denominazioni protestanti, con forte pre-

valenza puritana, e questo non solo tra gli immigrati dall'Inghil-

terra, ma anche tra i membri degli altri gruppi nazionali. La rigi-

dezza dottrinale e le contrapposizioni confessionali lasciano parzialmente, ma progressivamente, il posto a un clima di relativa tolleranza, largamente

dovuta all'origine, che abbiamo

ricordato,

della stessa nazione nordamericana nell’emigrazione di vittime della persecuzione religiosa. Il giungere anche oltre oceano del vento razionalistico favorisce il sorgere di interpretazioni della fede evangelica che si allontanano sensibilmente dalla tradizione calvinista: particolarmente significativi, in questo senso, universalismo e unitarismo. Il primo propugna un cristianesimo che prescinda da un credo rigidamente dogmatizzato e che ponga l’accento sulle capacità umane di miglioramento morale, predicando, tra l’altro, l'universalità della salvezza; il secondo, già manifestatosi in Gran Bretagna, si riallaccia alle concezioni antitrinitarie del Cinquecento europeo, rifiutando, oltre al dogma trinitario, anche l’idea della divinità di Cristo; nei XVIII secolo, l’unitarismo rima-

ne un orientamento interno alle comunità congregazionaliste e solo nell'Ottocento si organizzerà in modo autonomo. E in questo quadro che si sviluppa, dapprima nelle chiese riformate di origine olandese e in quelle presbiteriane e congregazionaliste di origine inglese, il primo grande movimento di risveglio, detto appunto Great Awakening, un tentativo di reagire all’ appiattimento razionalista della dottrina e al raffreddamento della pietà mediante la ripresa di temi caratteristici della tradizione pietista. I predicatori dell’Awakening sottolineano in particolare la condizione irrimediabilmente perduta dell’essere umano peccatore e il fatto che Cristo soltanto, personalmente accolto nella fede, può recare la salvezza. La dottrina risvegliata non innova rispetto alla tradizione; al centro, tuttavia, si pongono la conversione personale e il rinnovamento della vita. I personaggio di maggior spicco è

senz'altro Jonathan Edwards (1703-1758), congregazionalista, notevole figura anche di intellettuale, che nella sua comunità predi-

ca una fede di matrice calvinista spiritualmente assai mente rigorosa, che non lascia insensibili gli uditori. indulge ai toni esagitati caratteristici di altri araldi che a volte provocano reazioni emotive esasperate,

viva e moralEdwards non del risveglio, pianti, sveni-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

421

menti; la sua solida formazione gli consente un’eloquenza posata e concreta, che però lascia trasparire una profonda convinzione personale; nel 1750 deve lasciare la sua comunità di Northampton, a causa di conflitti a proposito della disciplina ecclesiastica, e si reca a svolgere attività missionaria tra i Pellerossa. In quegli anni è attivo in America anche George Whitefield, il compagno di Wesley: in effetti, lo spirito dell’ Awakening presenta numerose analogie con il movimento metodista. La rivoluzione americana vede la maggior parte delle denominazioni schierarsi per l’indipendenza: fanno eccezione gli anglicani, mentre i metodisti risentono della posizione di Wesley, fedele alla causa della Corona britannica. Dopo la conquista dell’indipendenza, il paese subisce una secolarizzazione abbastanza marcata, che coinvolge sia l’est sia la «frontiera», che i co-

loni spostano rapidamente verso ovest e sud-ovest. Il secondo

Great Awakening, che inizia intorno al 1'790, intende rispondere a

questa nuova fase critica. I caratteri salienti sono gli stessi già osservati cinquant'anni prima; cresce però la percentuale di predicatori non in possesso di una regolare formazione teologica, che agiscono sulla base della sola Bibbia e del proprio convincimento personale; si diffonde la prassi dei camp meetings, grandi assemblee

all’aperto,

con

vivaci predicazioni,

preghiere,

canti,

appelli alla conversione. Sono numerosi i missionari che seguono i coloni nella loro marcia verso il West, mentre non manca un impegno spesso notevole contro lo schiavismo (Harriet Beecher Stowe, autrice de La capanna dello zio Tom, è figlia di un teologo risvegliato, Lyman Beecher). Quest'ultimo aspetto non costituisce, nel panorama religioso dell’epoca, un’ovvietà: in un primo tempo, la schiavitù era stata legittimata ideologicamente sulla base del paganesimo dei neri; in seguito, i proprietari acconsentono a che i missionari battezzino gli schiavi, a patto che si chiarisca bene che ciò non comporta alcuna modifica della loro condizione sociale, e le chiese accettano

senza particolari scrupoli. I neri siedono in banchi a loro riserva-

ti, separati dai bianchi, e si accostano per ultimi ‘alla Cena del Si-

gnore; naturalmente, sono esclusi dalla possibilità di accedere a

ministeri particolari. Come reazione, essi fondano comunità di colore (la prima chiesa nera metodista nasce a Filadelfia nel 1787);

nell'epoca dei movimenti di risveglio, i neri partecipano massicciamente ai camp meetings e aderiscono prevalentemente alle chie-

se metodiste e battiste. I loro spirituals devono essere annoverati,

insieme al corale luterano e ai salmi ugonotti, tra i maggiori con-

422

Cristianesimo

tributi del mondo protestante al patrimonio musicale dell’umanità. Il predicatore nero è un punto di riferimento importante per i suoi compagni di schiavitù il che, non raramente, lo espone in modo particolare alla repressione dei proprietari; spesso, consapevole dei rapporti di forza, deve frenare le spinte alla rivolta, ma

non mancano casì in cui si trasforma in agitatore rivoluzionario.

La guerra di secessione (1861-1865) modifica la situazione in mi-

sura assai minore di quella attesa dai neri e dagli abrogazionisti bianchi; il diritto di voto formalmente riconosciuto è in pratica di difficile esercizio e la segregazione condiziona pesantemente la società americana. I neri che nell’Ottocento raggiungono il Nord riescono spesso a salire lentamente i gradini della scala sociale, col-

locandosi nei ranghi della classe media e adottando lo stile di vita dei bianchi; nel secolo successivo, l’urbanizzazione di massa con-

durrà al costituirsi, nelle metropoli, dei grandi ghetti, con la conseguente esplosione di una questione sociale nera di vaste proporzioni: il ruolo sociale delle comunità evangeliche, in particolare battiste, metodiste e pentecostali, è in questo quadro assai im-

portante. Quando, negli anni '50 del XX secolo, il movimento ne-

ro per i diritti civili giungerà a maturità, avrà come leader un pa-

store battista, Martin Luther King (1929-1968): il suo celebre «so-

gno» di un'America non più lacerata dalla segregazione razziale

non verrà meno con l’assassinio di Memphis, ma ancora ai nostri

giorni, in particolare dopo la rivolta del ghetto di Los Angeles nel 1992 e i problemi che essa ha perentoriamente segnalato, costituisce un compito aperto. Nell’orbita risvegliata si può collocare anche un importante movimento che sboccia nel nostro secolo, il pentecostalismo: si tratta di una forma di vita cristiana che sottolinea in modo particolare l'esperienza personale e comunitaria dello Spirito Santo

e dei suoi doni, tra cui la «glossolalia», cioè una sorta di estasi in

cui le persone coinvolte si esprimono in forma incomprensibile,

ma ritenuta di ispirazione divina (cfr. / Cor. 14). Una predicazio-

ne centrata sul battesimo dello Spirito Santo e sulle sue conseguenze si diffonde a partire dal 1901 a Topeka, Kansas, dove Charles F. Parham conduce un istituto di cultura biblica; dal Kan-

sas, il movimento giunge a Los Angeles attraverso il predicatore di colore William J. Seymour, suscitando una vasta eco. L’espansione è in seguito molto rapida: i pentecostali mostrano una gran-

de capacità di porre la Bibbia in mano alla gente, soprattutto ai

ceti più popolari, proponendo un messaggio estremamente semplice, che fa leva sull'entusiasmo e, appunto, sulla ricchezza dei

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Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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carismi affidati a ciascuno in ordine all'edificazione della comu-

nità. Nel 1914 vengono fondate le «Assemblee di Dio», la mag-

giore tra le denominazioni pentecostali. L'esplosione del fenomeno a livello mondiale si verifica dopo il 1945: in America Latina, Asia, Africa, la missione pentecostale raccoglie un notevole successo di massa. Una larga parte del pentecostalismo prende le distanze rispetto al movimento ecumenico, ma negli ultimi anni non mancano aperture significative; il cristianesimo evangelico del XXI secolo avrà senza dubbio nelle chiese pentecostali una delle componenti più importanti. Occorre inoltre rilevare che tratti caratteristici del pentecostalismo, in particolare l’esperienza intensa dello Spirito, trovano espressione nei movimenti «carismatici», presenti un po’ in tutte le chiese evangeliche, oltre che nella stessa chiesa romana. Tra Settecento e Ottocento, la spiritualità del risveglio investe anche l'Europa; in Gran Bretagna, oltre al movimento metodista, è particolarmente importante la corrente detta «evangelical» della chiesa d’Inghilterra, che intende procedere a un rinnova-

mento dell’anglicanesimo volto a sottolineare la pietà personale e la dimensione etica, nel quadro dell’esperienza di conversione.

Anche in questa fase, l’anglicanesimo si conferma un ambito in cui convivono, non senza tensioni, ma in complesso in modo fecondo, anime diverse. Ormai, chiese di tipo anglicano, unite a

quella d’Inghilterra nella Comunione anglicana (termine usato a partire dal 1885), si trovano in diverse parti del mondo, come

conseguenza della missione o, semplicemente, dell’espansione

coloniale britannica. Nel 1888 vengono formalizzati quattro princìpi dottrinali («quadrilatero di Lambeth») che costituiscono la comune base dogmatica delle diverse anime dell’anglicanesimo: primato della Scrittura come documento della rivelazione; credo niceno-costantinopolitano come espressione adeguata della fede, e credo apostolico come formula battesimale;

battesimo e Cena del Signore come sacramenti voluti da Gesù

stesso; episcopato storico (che, cioè, rivendica, non solo teologi-

camente, ma appunto anche storicamente, il suo radicamento nel ministero apostolico del Nuovo Testamento) come elemento costitutivo della ministerialità della chiesa. Nell’anglicanesimo

continuano dunque a convivere, in forme diverse, l’anima catto-

lica e quella della Riforma: anche per questo, esso ha rivestito e riveste un ruolo importante nel movimento ecumenico: lo stesso quadrilatero di Lambeth si propone anche oggi come base possibile di dialogo; la questione dell’episcopato storico, tuttavia,

424

Cristianesimo

continua a dividere gli anglicani da parecchie chiese della Riforma, mentre la consacrazione di donne al ministero sacerdotale (1994) da parte della chiesa d'Inghilterra (altre chiese della Co-

munione anglicana la praticano già da tempo) ha suscitato reazioni vivaci da parte vaticana.

Sono i circoli risvegliati inglesi a dar vita, nel 1804, alla British

and Foreign Bible Society e, nel 1812, alla Church Missionary Society. diffusione della Scrittura ed evangelizzazione sono considerati compiti assolutamente prioritari e che meritano l'unione di forze provenienti da denominazioni diverse. Nell'ambito del risveglio britannico si costituiscono anche, per secessione, nuovi mo-

vimenti. Edward Irving (1782-1834)

si afferma come la persona-

lità più significativa della chiesa Cattolica Apostolica, un movi-

mento orientato all’imminenza del ritorno di Cristo, retto da do-

dici «apostoli» degli ultimi giorni i quali, assieme ai dodici del

Nuovo Testamento, avrebbero dovuto sedere, secondo la dottri-

na di questa chiesa, sui ventiquattro troni di cui parla l’Apocalis-

se (cap. 4). Il ritorno alla semplicità dell’epoca apostolica, con un

culto concentrato

sull’essenziale

(Bibbia e Cena

del Signore),

privo di orpelli liturgici e in cui tutti i credenti (maschi, in base a I Cor. 14,34) possano prendere la parola, è l'ideale perseguito dal movimento dei Fratelli, spesso detti «di Plymouth»

dell'importanza

di quella comunità;

un notevole

a motivo

impulso

al

gruppo viene dalle idee e dall'impegno di John Nelson Darby (1800-1882), già ministro anglicano, infaticabile predicatore e missionario. Egli elabora la dottrina della «caduta della chiesa», secondo la quale, dopo gli apostoli, non esiste più una chiesa di Cristo; la Scrittura e lo Spirito chiamano alla conversione singoli credenti, che si ritrovano per il culto, ma non si concepiscono

come la chiesa universale. Questa ed altre tesi, spesso fondate su un'interpretazione rigidamente letteralista della Scrittura, nonché l'atteggiamento assai aggressivo e polemico di Darby, favoriscono una rottura tra i «darbisti», o «fratelli esclusivi», che formano conventicole assolutamente isolate rispetto alle altre denominazioni evangeliche, e i «fratelli aperti», meno ripiegati su se stessi: questi ultimi si impegnano in una vasta azione missio-

naria e filantropica. Menzioniamo, infine, l’opera di William Booth (1829-1912), pastore metodista, in difficoltà di fronte al

progressivo imborghesimento della propria chiesa. A partire dal 1865, Booth inizia un'opera di evangelizzazione nei quartieri poveri di Londra, affiancandole l’impegno di solidarietà nei confronti dei bisognosi; da questa esperienza nasce l’Esercito della

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Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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Salvezza, movimento che, come dice il nome, si organizza in ba-

se a modelli militari, e acquista in breve un raggio d’azione internazionale. Teologia e liturgia sono ridotte ai minimi termini

e tutte le forze vengono mobilitate in vista della predicazione missionaria e dell'impegno nei confronti degli emarginati: in entrambi i settori, le donne svolgono un ruolo di rilievo; in un'epo-

ca in cui la responsabilità della collettività nei confronti degli ultimi è lungi dall’essere un dato acquisito, l’opera dell'Esercito della Salvezza esprime in modo eminente la sensibilità sociale dell’evangelismo risvegliato. Particolarmente vivaci sono le vicende del risveglio in Svizzera, soprattutto a Ginevra. Nel corso del Settecento, il razionali-

smo illuminista sostituisce l’ortodossia riformata sia nell’Accademia teologica sia nella Compagnia dei Pastori: si afferma una fede di impronta antitrinitaria, più interessata alla speculazione filosofica che alla Scrittura, che ritiene di accreditarsi ostentando

da un lato interesse e disponibilità nei confronti del pensiero

scientifico, dall’altro fastidio verso la tradizione ecclesiale. Alcu-

ni studenti dell’Accademia, insoddisfatti di questa situazione e guidati da Ami Bost (1790-1874), fondano una Società degli Amici, con lo scopo di rilanciare, mediante il ritorno al rapporto personale con il Cristo biblico e un rigoroso impegno morale, una pietà meno esangue di quella proposta dall’establishment dei pastori. Il gruppo si costituisce in comunità nel 1813, per impulso di una nobildonna, Juliane de Wietinghoff, baronessa von Krùdener, suscitando, ovviamente, la forte opposizione della Com-

pagnia dei Pastori. Tre anni dopo arriva a Ginevra Robert Hal dane (1764-1842), già protagonista del risveglio in Scozia, che avrà un'influenza decisiva sul gruppo di Bost e, in generale, sul risveglio

ginevrino;

tra i suoi

discepoli

troviamo

César

Malan

(1787-1864), discendente da una famiglia d'origine valdese, già di tendenze illuministiche, in seguito apostolo di una spiritualità risvegliata che si innesta su un impianto teologico rigorosamente calvinista. Se Haldane si mostra generalmente moderato e prudente, Bost, Malan e numerosi membri dei gruppi sorti intorno a loro non si peritano di predicare in modo violentemente aggressivo nei confronti della chiesa «ufficiale», nella quale, peraltro, molti di loro esercitano il ministero pastorale; la società ginevrina non si riconosce nel loro radicalismo, né nelle loro polemiche, e tende ad isolarli. Nel 1817, la Compagnia dei Pastori adotta un regolamento teso a impedire le polemiche, che ha come effetto di limitare gli slanci dei risvegliati, nonché di indurre

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Cristianesimo

Haldane a

trasferirsi in Francia, a Montauban, dove insegna teo-

logia. Il movimento, comunque, non si spegne: nel 1817 la Società degli Amici si trasforma in vera e propria chiesa indipendente, divenendo un centro propulsivo del risveglio e continuando una polemica serrata nei confronti della chiesa riformata cantonale e dell'opinione pubblica cittadina. Malan, staccatosi dalla Società degli Amici, da lui ritenuta troppo polemica, dichiara di voler evitare ogni separatismo, ma nel 1818 fonda una Chapelle de Témoignage presso la quale, di fatto, si riunisce una chiesa autonoma;

nel

1830 Francois Samuel

Louis Gaussen

(1790-1863)

riunisce intorno a sé un terzo gruppo (la Società evangelica), animato dal proposito di evitare secessioni e di rinnovare dall’interno la chiesa ginevrina; Gaussen e i suoi fondano una scuola teologica contrapposta all’Accademia, appoggiata finanziariamente anche dall’estero, ma non riconosciuta come facoltà uni-

versitaria; tra i docenti, oltre allo stesso Gaussen e a Bost, Henri Merle D’Aubigné (1794-1872), autore di una famosa storia della

Riforma. A partire dagli anni Quaranta, anche a causa dei rivolgimenti politici nella città, la situazione ecclesiastica si stabilizza:

i vari gruppi dissidenti tendono a ritrovarsi in una chiesa libera, diversa da quella nazionale, ma che coesiste con essa in modo abbastanza pacifico. Dall’ambiente

ginevrino esce anche

Felix Neff (1797-1829):

dopo aver lavorato nella propria città e nei cantoni di Vaud e Neuchatel, viene inviato a Grenoble e poi a Mens, nel Delfinato,

dove rivela notevoli qualità di pastore tra i contadini e i montanari, ma suscita anche forti opposizioni per il rigore delle sue po-

sizioni etiche; passato nel Queyras, si dedica, oltre che alla pre-

dicazione, alla promozione umana di quelle popolazioni, profondendo in quest'opera un impegno enorme; la tubercolosi lo

stronca a soli 32 anni. Neff, come vedremo,

influenza in modo

significativo il risveglio nelle Valli valdesi del Piemonte. Nel vicino cantone di Vaud l’esponente più significativo del

risveglio è Alexandre Vinet (1797-1847), spirito alieno da estre-

mismi, incline a non disprezzare il contributo della ragione alla vita dello spirito, poco sensibile alla dottrina calvinista dell’elezione, alla quale preferisce un'impostazione che sottolinei la responsabilità e le potenzialità della volontà umana. In Germani, il risveglio si riallaccia agli sviluppi del pietismo del Seicento e del Settecento, sottolineando l'esigenza di stimo-

lare la vita spirituale delle chiese evangeliche territoriali, senza rompere con esse e reagendo con energia ai tentativi razionali-

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Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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sti di stemperare il messaggio cristiano in un monoteismo etico filosofeggiante. Caratteristica espressione del risveglio tedesco è il movimento della Missione interna, che cerca di saldare la predicazione dell’evangelo alle masse povere fortemente esposte al rischio della scristianizzazione, ad un’intensa azione sociale. Tra

i teologi, spicca la figura di August Tholuck (1799-1887), dal 1826 professore a Halle, la cui influenza sulle giovani generazio-

ni di pastori si esercita non solo mediante l’opera scientifica, ma

anche attraverso intensi rapporti personali e pastorali con gli studenti; egli sottolinea che il rapporto personale con Cristo, che costituisce il centro dell'esperienza di fede, è certo un dono di Dio, ma è anche legato alla fedeltà con cui il credente si pone in ascolto della voce divina che parla al suo cuore. Una figura interessantissima del movimento risvegliato tedesco è quella di Johann Christoph Blumhardt (1805-1880), che dopo un'intensa attività come predicatore risvegliato nel Wùrttenberg fonda, nella cittadina di Bad Boll, un sanatorio: nella sua visione di fede,

viene recuperata la convinzione della chiesa primitiva secondo la quale la potenza di Dio si manifesta anche mediante l’azione carismatica, che opera guarigioni. Blumhardt non è un fanatico, ma semplicemente un uomo convinto dell'efficacia della sua preghiera e dell’imminenza del ritorno glorioso di Cristo; la sua lieta e profonda spiritualità e la sua fama di guaritore esercitano un'influenza notevolissima; la sua opera viene continuata dal figlio Christoph (1842-1919). Il risveglio incarna, in forme a volte discutibili da un punto di

vista rigorosamente orientato al messaggio della Riforma del Cinquecento, alcune costanti del modo di essere delle chiese protestanti: insistenza sulla conversione e sull'esperienza di fede personale,

centralità della lettura diretta della Bibbia e della pre-

ghiera, passione per la libertà della comunità locale, unita a una certa insofferenza nei confronti dell'eccessiva invadenza della chiesa-istituzione, attenzione all'impegno di solidarietà sociale. Per tale motivo esso, come il pietismo, sopravvive alla sua epoca e può essere considerato, oltre e più che una fase, una dimen-

sione della fede e della vita delle chiese evangeliche, i cui effetti sono chiaramente constatabili, su scala mondiale, ancora oggi: nessuna corrente teologica e spirituale successiva ha potuto soppiantare l'impronta che la pietà risvegliata ha impresso al protestantesimo di tutto il mondo:

attraverso l’opera missionaria, essa

ha determinato in modo decisivo anche la nascita e lo sviluppo delle giovani chiese del Terzo mondo.

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Cristianesimo

10. L'ETÀ DEL ROMANTICISMO E DELI.'IDEALISMO

Nella prima metà del XIX secolo, l’anima risvegliata e quella romantica

si intrecciano,

senza coincidere.

Entrambe

intendono

rappresentare le ragioni dell’interiorità di fronte al razionalismo, ed entrambe rivendicano una costitutiva eccedenza della coscienza religiosa rispetto a quella morale. Mentre però i movimenti di risveglio intendono rilanciare la fede vissuta, accompagnandola a una sostanziale restaurazione dell'ortodossia dottrinale e ponendosi in un atteggiamento generalmente critico nei

confronti della cultura dell'ambiente circostante, il romanticismo tenta, una volta ancora nella storia del cristianesimo, la grande operazione di conciliare fede e cultura, Dio e uomo, culto e

sentimento (dimensione che ora prende il posto della pura ragione). Il genio religioso romantico è ben espresso in questi versi di Johann Gottfried Herder (1744-1803): «Senti te stesso e senti-

rai Dio / in te. In te Dio si sente / come non lo sentono il sole e gli animali, / come egli porta a compimento sé, in sé». Dio nell'uomo e l’uomo in Dio, dunque, nel programma di questo insegnante, predicatore e sovrintendente ecclesiastico della Prussia orientale, per il quale Cristo non è l’annunciatore della perfetta morale, ma il mediatore di forze divine che prendono pos-

sesso dell’essere umano, inserendolo nella vita stessa di Dio. I li-

bri sacri delle religioni sono per Herder testimonianze dell’esperienza di Dio da parte dell'umanità: per quanto riguarda, in par-

ticolare, la Bibbia, essa va letta con semplicità, come racconto di

fatti realmente accaduti, di cui però lo «spirito della poesia ebraica» (titolo di una delle principali opere herderiane, del 1782) dischiude la profondità di significato. Nelle /dee per una filosofia della storia dell'umanità (opera pubblicata a partire dal 1784), Her-

der cerca di evidenziare il ruolo delle idee nel susseguirsi delle civiltà, nelle cui manifestazioni spirituali egli ritiene di poter cogliere i segni del governo di Dio. Lo spirito romantico raggiunge il vertice teologico in Friedrich Schleiermacher (1’768-1834): figlio di un cappellano militare, formatosi in ambiente pietista (è allievo di una scuola dei

Fratelli di Herrnhut), approfondisce le idee esegetiche di Semler, nonché il pensiero teologico di Kant. Divenuto cappellano nell’ospedale berlinese della Charité, prende contatto con gli ambienti culturali romantici, stringendo amicizia, in particolare, con Friedrich Schlegel. Tra le opere di questa fase giovanile, sono particolarmente importanti i Discorsi sulla religione, alle persone

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Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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colte tra î detrattori di essa (1799), un’apologia indirizzata proprio agli amici romantici più o meno dichiaratamente panteisti, in cui

la fede cristiana, interpretata in una chiave profondamente influenzata dal pietismo moravo, viene presentata come l’anima se-

greta della cultura universale, la «religione delle religioni» in cui l'unità del singolo con il Tutto giunge a coscienza. Con Schleiermacher, la proposta pietista, riletta in profondità, esce dalla prospettiva individualistica, per diventare chiave di lettura dell'orizzonte culturale del tempo; per quanto Goethe trovasse i Discorsi ancora «troppo cristiani», la posizione di Schleiermacher viene generalmente tacciata di condividere ampiamente il pantesimo che intende confutare e di cui adotta il linguaggio: egli, tuttavia, respinge queste accuse e, anche in seguito, sottolinea la continuità tra il proprio pensiero giovanile e quello degli anni successivi. Nel 1802 diviene predicatore di corte a Stolpe, in Pomerania, e due anni più tardi professore a Halle; nel 1810, in seguito alla soppressione di quell’università da parte delle autorità francesi, passa a Berlino, dove rimane fino alla morte, accompagnando le lezioni con un'intensa attività di carattere pastorale. A partire dal periodo di Stolpe, i toni spinoziani che gli avevano procurato tante critiche si attenuano progressivamente,

mentre

rimane costante l'ispirazione apologetica di fondo; il suo pensiero raggiunge la picna maturità a partire dalla Breve presentazione dello studio della teologia, che riprende il primo corso tenuto a Berlino, in cui la scienza teologica viene presentata come autocoscienza critica della chiesa, sfociante nella teologia pratica, cioè nell'arte di esercitare il ministero e il governo ecclesiastici. Nel 1821 esce la prima edizione di La fede cristiana secondo i princì-

pi della chiesa evangelica: la struttura è quella di una dogmatica tradizionale, ma il punto di partenza risiede nelle «emozioni dell'animo cristianamente religioso», che ha in comune con ogni forma di esperienza religiosa quello che, nella seconda edizione, sarà chiamato «assoluto sentimento di dipendenza» del singolo da Dio; rispetto a questo denominatore

comune, le varie forme

storiche della religione si caratterizzano da un lato come stadi di un processo evolutivo, dall'altro come diverse tipologie di rapporto con la trascendenza. Il cristianesimo rappresenta il vertice della religiosità; la centralità di Cristo viene fortemente sottoli-

neata, ma presentata in chiave moderna: la specificità di Gesù risiede nella forza e nella costanza della sua esperienza di Dio, e

la redenzione consiste nel coinvolgimento dei credenti in tale esperienza. Anche quest'opera suscita accese reazioni, soprattut-

430

Cristianesimo

to da parte di quanti temono che la fede sia ridotta ad epifenomeno spirituale dell’esperienza umana; negli anni successivi, e poi nell'introduzione alla seconda edizione, del 1830, Schleier-

macher difende la propria ortodossia, pur ribadendo la necessità

di percorrere con audacia e radicalità la strada della riconcilia-

zione tra fede e scienza, dopo la frattura illuministica. La genuina intenzione «missionaria» di Schleiermacher è confermata dalla sua attività pastorale: egli non intende risolvere la fede nel pensiero, ma semplicemente tradurre il linguaggio biblico nelle categorie del suo tempo, nel tentativo di renderlo accessibile; sot-

to tale profilo, questo «padre della chiesa del XIX secolo» (K Barth) può essere considerato esemplare del metodo, delle promesse e dei rischi di ogni forma di teologia coerentemente apologetica, nel quadro della cultura moderna. Il problema che Sch-

leiermacher

affronta

a livello teorico

ha, naturalmente,

la sua

perfetta corrispondenza sul piano dell’esistenza quotidiana della chiesa: come dev'essere immaginata l’esistenza di una chiesa cristiana di massa dopo l’illuminismo? È il quesito che a tutt'oggi affatica buona parte del cristianesimo occidentale. La continuità di Schleiermacher con la grande tradizione cristiana si comprende meglio se si paragona il suo pensiero con quello di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), dapprima docente a Jena e dal 1818 professore a Berlino. Dopo aver compiuto i primi tentativi filosofico-teologici nel clima intellettuale del romanticismo tedesco, Hegel elabora, a partire dalla Fe

nomenologia dello spirito (1807), un maestoso tentativo di inter-

pretazione filosofica della realtà. Le categorie della dottrina cristiana vengono costantemente riprese, ma risolte nel pensiero filosofico di cui, in ultima analisi, costituiscono un’espressione immaginifica, che dev'essere superata nel concetto. Hegel rifiuta, di Schleiermacher,

il sentimento

di assoluta dipendenza,

e ciò

per diversi motivi: intanto, un «sentimento» può esprimere solo un livello di consapevolezza inadeguato rispetto al sapere; in secondo luogo, la sua caratteristica soggettività va risolta nell’oggettività del pensiero; infine, il rapporto dell’uomo con l’assolu-

to non si articola nella dipendenza, ma nel suo contrario, la libertà che, nell’accezione hegeliana, consiste nel riconoscimento della necessità, mediante il sapere. Benché, da parte di molti (in

particolare della cosiddetta «destra hegeliana», alla quale appartengono diversi teologi), il pensiero del grande filosofo venga salutato come il massimo tentativo di esprimere la verità cristiana a livello conoscitivo, e benché la teologia dell'Ottocento e del

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Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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Novecento mantenga aperto un intenso dialogo con Hegel, è innegabile che la sintesi di quest'ultimo esclude per principio una dimensione costitutiva dell’idea biblica di rivelazione, cioè la contingenza; quanto le categorie bibliche intendono esprimere appartiene per Hegel all'ambito della necessità ontologica, e in ciò risiede la sua verità; la libertà di Dio e la sua alterità rispetto al pensiero umano non possono trovar posto nel sistema; il carattere paradossale della croce di Cristo costituisce uno «scandalo» solo finché non è ricompreso come momento dialettico nel divenire dell’Assoluto; la coincidenza tra il contenuto

della

fede e quello della filosofia si risolve nel trionfo di quest’ultima

in quanto solo in essa la verità è pienamente e criticamente consapevole di se stessa. A] di là delle intenzioni soggettive del filosofo, non può stupire, date queste premesse, che i più radicali tra quanti si richiamano a lui (la «sinistra hegeliana») procedano abbastanza speditamente a liquidare il linguaggio cristiano in cui il pensiero del maestro ancora sì esprime, considerandolo una metafora non solo superflua, ma anche fuorviante.

Tra i teologi fortemente influenzati dal pensiero di Hegel ne ricordiamo due che hanno lasciato un'impronta significativa nella storia della critica biblica. Ferdinand

Christian

Baur

(1792-

1860), fondatore della «Scuola di Tubinga», può essere conside-

rato l'iniziatore della ricerca moderna

sulla storia della chiesa

primitiva, che egli affronta prescindendo programmaticamente da ogni presupposto dogmatico: il quadro che ne risulta eviden-

zia lo scontro, nel cristianesimo delle origini, tra tendenze contrastanti, documentate negli scritti raccolti nel canone neotestamentario; nell’interpretazione dei risultati della ricerca storicofilologica, Baur adotta lo schema dialettico hegeliano (tesi-antitesi-sintesi), per cui, ad esempio, il cristianesimo dell’età suba-

postolica è interpretato come sintesi tra la posizione di Pietro (tesi) e quella di Paolo (antitesi). Tale griglia interpretativa aiuta indubbiamente lo storico a presentare un quadro di ampio respiro e di grande fascino; in generale, tuttavia, essa costituisce una

precomprensione piuttosto rigida, che rischia di condizionare eccessivamente la ricerca, comprimendone gli esiti in una visione altamente speculativa. Le suggestive teorie di Baur, in ogni caso, mostrano la loro fecondità soprattutto suscitando ulteriori ri-

cerche, aprendo dibattiti, simolando critiche e precisazioni. Il si-

gnificato della sua opera può essere apprezzato appieno solo tenendo presente la portata culturale e spirituale della critica sto-

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Cristianesimo

rica radicale applicata al testo biblico: certo, l’illuminismo aveva posto le premesse decisive, ma è Baur a formulare il problema storico-teologico delle origini cristiane in termini moderni, e con tale problema, certo più volte riformulato, la teologia (non più solo quella evangelica) è alle prese ancora David Friedrich Strauss (1808-1874) è discepolo di Baur, con

cui condivide l’inclinazione alla concettualità filosofica hegelia-

na, ma non la sagacia nell’interpretazione delle fonti. L’opera a

cui deve la sua fama, oltre all’interdizione perpetua dall’insegnamento universitario, è la Vita di Gesù, del 1835, in cui le nar-

razioni evangeliche vengono considerate espressioni mitologiche della fede della comunità primitiva: in realtà, Gesù sarebbe stato un membro del gruppo di Giovanni Battista, convinto di essere il Messia di Israele e intenzionato a instaurare un nuovo ordine politico in forza dell'intervento di Dio: la morte in croce se-

gna il fallimento di tale progetto. Alla demolizione dell’attendi-

bilità storica dei vangeli avrebbe dovuto seguire una reinterpretazione in positivo del cristianesimo, secondo la quale Dio non si incarna nel singolo individuo Gesù di Nazaret, ma nell’umanità come tale. La Vita di Gesù suscita, naturalmente, polemiche violentissime, ma ha una notevole influenza negli ambienti non ecclesiastici; benché

piuttosto debole dal punto di vista critico,

l’opera ripropone in modo perentorio la questione storica della

vita di Gesù di Nazaret e del suo rapporto con la fede della chiesa, tema che, in varie riprese, sarà al centro della ricerca esegetica, sia del XIX che del XX secolo.

Non ascrivibile a una scuola o a una corrente è la figura del danese Soren Aaby Kierkegaard (1813-1855): ne parliamo in questo paragrafo, in quanto il suo pensiero esprime il rifiuto radicale della sintesi hegeliana. Figlio di un pastore, Kierkegaard inrerrompe gli studi teologici e rinuncia al ministero ecclesiastico,

iniziando una battaglia solitaria nei confronti dell’imborghesimento della chiesa luterana di Danimarca, che egli vede plasticamente rappresentato nel vescovo Mynster: un uomo pio e un

serio funzionario, di cui Kierkegaard, dal punto di vista perso-

nale, ha stima, che però considera la fede il coronamento del mondo, della società e delia cultura. Mynster e la sua chiesa uf-

ficiale non hanno fatto l’esperienza dell'incontro drammatico con la verità, che chiama alla sofferenza nel discepolato, ed è in

nome di tale verità che Kierkegaard eleva la sua protesta; la rot-

tura del fidanzamento del pensatore con Regina Olsen indica la

consapevolezza di una vocazione particolare, di carattere profe-

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Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

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tico, che il giovane «aspirante cristiano», come ama definirsi, abbraccia nella consapevolezza di andare incontro all’isolamento,

personale e intellettuale. Sul piano della riflessione, egli si con-

trappone a Hegel rivendicando le ragioni del paradosso della rivelazione (e dunque della contingenza) nei confronti della necessità logica e ontologica: è significativo che l’opera in cui più direttamente discute con il vate dell’idealismo s’intitoli Briciole di filosofia: nella frammentarietà delle briciole, non nella massiccia organicità del sistema, è dato di porsi, in modo riflesso, sulle trac-

ce della rivelazione di Dio. La polemica di Kierkegaard, contro la chiesa imborghesita da un lato e contro l’assorbimento del paradosso evangelico nel sistema filosofico dall'altro, può essere assunta come segnale di un problema caratteristico del protestantesimo moderno. Il tentativo delle grandi chiese territoriali, sia riformate che luterane, dalla Scandinavia alla Svizzera, consiste in fondo nel predicare l’Evan-

gelo al proprio popolo insediando il cristianesimo nel cuore della

società, facendo della chiesa una componente, possibilmente ege-

mone dal punto di vista ideologico, di quest’ultima; una teologia in grado di integrare, spesso con grande audacia, gli stimoli della cultura secolare, compresi quelli potenzialmente o effettivamente critici nei propri confronti, fornisce il necessario supporto teorico a questo progetto, il cui ampio respiro non può in alcun mo-

do essere sottovalutato. Kierkegaard, tuttavia, denuncia il rischio che, in tal modo, la prassi e la teoria della chiesa di Gesù Cristo si

facciano a tal punto risucchiare, rispettivamente dalla società e dalla «sapienza di questo mondo»

(/ Cor. 1,20), da smarrire la loro

identità: intransigente coerenza personale e sagacia di pensiero concorrono a rendere la sua battaglia paradigmatica per il crisuanesimo successivo, come testimoniano le riprese del suo pensiero,

che si susseguono con una certa regolarità.

11. L’OTTOCENTO IN ITALIA

La piccola enclave protestante delle valli del Pinerolese, soprav-

vissuta alla Controriforma e poi alla repressione del Re Sole, viene accuratamente

isolata, nel corso del XVIII secolo, dal resto

del Piemonte e quindi dell’Italia, ma non è affatto isolata dall’Eu-

ropa; i figli dei gruppi dirigenti studiano nelle università dei pae-

si protestanti, riportandone in patria gli echi dei grandi dibattiti culturali; si costituisce, nelle Valli valdesi, una nuova borghesia

434

Cristianesimo

di cultura illuministica; educati nell'Accademia ginevrina dominata dal razionalismo, i pastori predicano una religione fondata

sulla morale, sul buon senso e sull'efficienza. Che, tuttavia, que-

sto drappello protestante sappia mantenersi in sintonia con il nuovo

clima europeo,

lo si vede

nel 1798, quando

Carlo Ema-

nuele IV di Savoia abdica al trono sotto la pressione degli eserciti della Francia rivoluzionaria: il moderatore della Tavola valdese (cioè il presidente della direzione ecclesiastica), Pietro Geymet, entra nel nuovo governo provvisorio di Torino; un anno do-

po ne assume

la presidenza e, di fronte alle truppe russo-au-

striache, lo fa fuggire in Francia. Quando,

nel 1800, Napoleone

giunge nuovamente in Italia, applica ai Valdesi gli Articoli organici in vigore per i protestanti francesi: i pastori prestano giuramento di fedeltà all'imperatore e la chiesa gode di un periodo di relativa tranquillità. Nel resto d’Italia, il protestantesimo si af-

faccia attraverso le ambasciate delle potenze europee, intorno al-

le quali si formano le prime comunità evangeliche. Si diffonde nel paese una cultura di matrice europea, ma fortemente radicata nell’ambiente nazionale: tra il 1807 e il 1818 Sismondo de Sismondi pubblica la sua Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo, in cui il cattolicesimo romano egemone nella cultura italiana è duramente criticato, dal punto di vista di un protestantesimo aperto alle nuove istanze liberali; Alessandro Manzoni (che sposa una protestante passata a un cattolicesimo fortemente venato di giansenismo, Enrichetta Blondel) risponde con le Osservazioni sulla morale cattolica, ma l’opera di Sismondi esercita una larga

influenza tra gli spiriti progressisti italiani; a Firenze, J.P. Vies-

seux, sabaudo di nascita, ma fiorentino d'adozione, fonda la ri-

vista «Antologia», che avrà un ruolo di grande importanza nella cultura del Risorgimento. Appunto l’interpretazione del grande moto risorgimentale costituisce un nodo cruciale all’interno dell’evangelismo italiano. Secondo alcuni, esso dev'essere un processo democratico

e

non scevro da coloriture giacobine, dagli esiti repubblicani; in questo quadro, la Roma papale incarna una realtà politica e religiosa da superare: la causa dell'unità nazionale e quella dell’evangelismo si fondono. I fautori di questa tesi sono spesso ex cattolici

convertiti,

che

si mntrovano

nelle

chiese

«libere»,

in cui

l'ispirazione biblica si esprime in forma autonoma rispetto alla grande tradizione teologica radicata nella Riforma. Tra costoro, ricordiamo

Bonaventura

Mazzarella

(1812-1882),

nato

a Galli-

poli, nel Salento, magistrato nel regno borbonico, esule dal 1848

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

435

per motivi politici; nel 1849 partecipa all’avventura della Repubblica romana, quindi si trasferisce a Torino, dove diviene evangelico; dopo un’esperienza nella chiesa valdese, passa alle chie-

se libere; dopo l’unità d’Italia, diventa deputato dell’estrema Si-

nistra. Altro personaggio di spicco è Alessandro Gavazzi (1809-

1889), già frate barnabita, che rompe con Roma per motivi anzitutto politici, predicatore infuocato, cappellano delle truppe garibaldine, più tardi anch’egli esponente della Sinistra. L'altra grande interpretazione protestante del Risorgimento vi vede un'estensione all'Italia della civiltà liberal-conservatrice: in questa prospettiva, il processo ruota intorno al Piemonte e alla monarchia

sabauda,

e i toni rivoluzionari

sono visti con

so-

spetto. La chiesa valdese si schiera in questo senso. Nel 1848, Carlo Alberto concede ai Valdesi e agli Ebrei le Patenti di libertà,

cioè la pienezza dei diritti civili; con l'avanzare del processo unitario, sorgono nuove chiese valdesi al di fuori dalle Valli (l’inaugurazione del grande tempio di Torino è del 1853); nel 1860 si

decide di spostare da Torre Pellice a Firenze la sede della Facoltà teologica che prepara i pastori e della casa editrice Claudiana: si tratta di una scelta di portata storica, in quanto sigilla la volontà dei Valdesi di essere una chiesa italiana e non semplicemente etnico-regionale; in continuità con questa scelta, nel 1921 la Facoltà si stabilirà a Roma, dove avranno sede anche gli uffici del-

la direzione ecclesiastica. Viene fondato un Comitato di evangelizzazione, che sì occupa di coordinare l'espansione missionaria nella penisola, e un’intensa attività sociale, soprattutto nel campo dell’istruzione, si affianca alla predicazione.

Già dai primi decenni dell'Ottocento, il razionalismo illuminista è stato soppiantato dall’onda del risveglio, che giunge alle Valli attraverso l'opera di Felix Neff e si afferma con l’aiuto di un singolare personaggio, Charles Beckwith (1789-1863), anglo-canadese, anglicano di tendenza «evangelical», già ufficiale di Wellington, reduce da Waterloo, dove aveva perso una gamba. Costui si innamora del mondo valdese e dedica la seconda parte della sua vita a organizzare e sostenere la rinascita religiosa e culturale delle Valli, fondando, tra l’altro, decine di scuole di quartiere (dette appunto «scuolette Beckwith») che svolgono un’importante opera di alfabetizzazione capillare. Beckwith sogna anche di conferire alla chiesa valdese un'impronta di tipo anglicano, con un ministero episcopale dotato di autorità morale e una ricca liturgia, ma il progetto non riesce a causa dell’attaccamento dei Valdesi al classico modello ecclesiastico riformato, presbi-

436

Cristianesimo

teriano-sinodale, e alla loro spartana liturgia calvinista. Nel decennio tra la prima e la seconda guerra d’indipendenza, il Piemonte di Cavour (il quale vanta conoscenze e parentele protestanti, che gli ispirano il principio «libera chiesa in libero stato», di matrice risvegliata) è effettivamente il laboratorio della nuova Italia, terra di rifugio di molti patrioti, diversi dei quali adottano la fede evangelica. Anche in seguito, lo sforzo valdese per inserirsi nella mentalità e nella cultura italiane incontra un limitato ma reale successo: è vero che il valdismo non conoscerà mai un’esplosione nel numero delle adesioni, ma la sua solidità teologica e organizzativa gli permette di accreditarsi come rappresentante autorevole del mondo protestante internazionale in suolo italico, nonché di modellare in senso riformato episodi di protesta religiosa che si verificano qua e là e che, non raramente,

danno luogo a nuove comunità. A partire, poi, dal 1858, l’estre-

ma povertà delle valli alpine abitate dai valdesi spinge molti di loro ad emigrare, pastori al seguito, nelle pianure uruguaiane e

argentine dell’area del Rio de la Plata, dove fondano una trenti-

na di «colonie», che mantengono un forte senso dell’identità religiosa ed etnica; il ramo rioplatense della chiesa valdese esiste tuttora, in un profondo legame con quello italiano. Oltre alle chiese libere radicaleggianti e alla chiesa valdese calvinista e cavouriana, il panorama dell’evangelismo italiano conosce una terza grande corrente, che rifiuta di prendere partito per-una delle due possibilità racchiuse nel Risorgimento, considerando quest’ultimo semplicemente come un’occasione per annunciare l’Evangelo nella terra del papa, in attesa dell’avvento del Regno. Iniziatore di questa linea è il conte Piero Guicciardini (1808-1886), che si converte scoprendo la Bibbia, e vie-

ne incarcerato e mandato in esilio a motivo della sua attività missionaria: in Inghilterra incontra il movimento dei Fratelli di Plymouth, da cui resta affascinato; le Assemblee dei Fratelli, che ani-

ma al suo rientro in Italia, si collocano sulla stessa lunghezza d’onda spirituale del movimento inglese. Attivissimo accanto a Guicciardini è Teodorico Pietrocola Rossetti (1825-1883), in gioventù frequentatore dei circoli liberali di Napoli (è amico di Silvio Spaventa), coinvolto nei moti del 1848 in quella città, e poi ancora in prima fila nello schieramento democratico, finché, nel

1851, deve fuggire a Londra. Qui incontra Guicciardini e i Fratelli di Plymouth; abbandona a questo punto l’impegno politico, dedicandosi all’evangelizzazione, anche attraverso la creazione di scuole per il popolo. Le Assembee dei Fratelli, dopo un breve

F. Ferrario

Il protestaniesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

437

tratto di strada percorso insieme alle chiese libere, porteranno autonomamente a maturazione la loro identità. Queste tre anime dell’evangelismo italiano (quella anticlericale e garibaldina dei liberi, quella riformata e liberale dei Valdesi e quella apolitica ed escatologica dei Fratelli) non riusciranno a sviluppare un linguaggio e una sensibilità comuni, il che costituisce un oggettivo elemento di debolezza. A queste tendenze si aggiungono, a partire all’incirca dal 1860, le missioni

metodista e battista, ciascuna nei due rami inglese e americano,

che si radicano soprattutto negli strati popolari. Agli inizi del No-

vecento,

approda

diffondendosi

anche

soprattutto

in

Italia

nel Sud

il movimento

agricolo:

dopo

pentecostale,

la seconda

guerra mondiale esso conosce uno sviluppo impetuoso, diventando, dal punto di vista numerico, la principale denominazione evangelica ivaliana. Il processo di ricompattamento di questo variegato universo evangelico è parziale e assai lungo: nel 1905, le chiese libere con-

fluiscono

nella

chiesa

metodista,

che

intratterrà,

in generale,

nel

1979, con la piena inte-

buoni rapporti di collaborazione con la chiesa valdese, fino ad iniziare un processo

che culmina,

grazione. Anche le chiese battiste mantengono con valdesi e metodisti uno stretto dialogo, giungendo al riconoscimento reciproco, che sigilla un’azione unitaria da tempo in atto nel paese, nel 1990. Le Assemblee dei Fratelli e le chiese pentecostali non partecipano al riavvicinamento promosso dalle tre chiese evangeliche che, direttamente o meno, si richiamano alla Riforma del

Cinquecento (e vengono perciò dette «storiche»), rimproverando loro: in teologia, il sostanziale accoglimento degli esiti e delle conseguenze della critica biblica; in campo etico, un'eccessiva

politicizzazione e, in generale, un atteggiamento ritenuto inaccettabilmente aperto nei confronti della società e della cultura; in ambito ecumenico, una posizione troppo irenica di fronte alla chiesa di Roma. La speranza che anima il protestantesimo della penisola è naturalmente quella di dare all’Italia, sia pure con oltre tre secoli di ritardo, la sua Riforma, di cui il Risorgimento pare manifestare non solo la possibilità, ma la necessità. Le ten-

sioni tra il governo liberale e il papato, la presa di Porta Pia e il clima politico-culturale di quegli anni sembrano costituire un terreno favorevole a una svolta senza precedenti nella storia religiosa italiana, che però non si verifica: certo, le comunità evan-

geliche, alla fine dell'Ottocento e all’inizio del secolo successivo, sì moltiplicano e si irrobustiscono, non solo nelle grandi città,

438

Cristianesimo

ma anche in diverse regioni agricole, dal Piemonte alla Sicilia,

senza però

riuscire ad intaccare

la profonda

matrice

cattolica,

per quanto sempre più secolarizzata, del tessuto connettivo della

società italiana; al fatto non è estranea la forte reazione antipro-

testante in particolare del clero, che non rifugge, all’occasione, dall'impiego di mezzi violenti, generalmente tollerati, quando non appoggiati, dallo stato, per ragioni di opportunità politica. 12. PROTESTANTESIMO, QUESTIONE SOCIALE, MOVIMENTO OPERAIO

La Riforma del XVI secolo si è impegnata nella riorganizzazione della società con energia non inferiore a quella profusa nell’ambito propriamente ecclesiastico: abrogazione della mendicità, organizzazione pubblica dell’assistenza, poderoso impulso all'alfabetizzazione costituiscono obiettivi perseguiti fin dall'inizio con grande impegno. Questa lezione è stata ben assimilata dal protestantesimo successivo, all’interno del quale, come s'è visto, nu-

merosi movimenti hanno concentrato i loro sforzi e modellato la loro identità proprio intorno a questi temi: si assiste, tuttavia, a un significativo slittamento di accenti, in quanto l’impegno delle chiese si indirizza più alla creazione di proprie istituzioni assistenziali ed educative che a incoraggiare gli stati «cristiani» a farsi direttamente carico di tale ambito. Si può dire, insomma, che

la sensibilità assistenziale (nel senso più alto del termine, peraltro) prevale, eccezioni a parte, su quella sociale, laddove i Riformatori avevano saputo unire i due aspetti in modo assai originale. I problemi posti dalla rivoluzione industriale giunta a maturità evidenziano spietatamente i limiti dell'approccio ecclesiastico alla questione sociale. Aprire mense per i poveri rimane un servizio importante, che però non può impedire l'aumento esponenziale del pauperismo; offrire gratuitamente il sapone, come usano fare i drappelli dell'Esercito della Salvezza negli slums londinesi, limita in qualche

modo

il diffondersi di malattie, ma

è

chiaro che la questione delle condizioni di vita del proletariato

industriale, e in modo specialissimo di quello femminile e minorile, chiede di essere affrontata in chiave ben più globale, pre-

cisamente in chiave politica. Mentre le chiese, in generale, non riescono a darsi strumenti per rispondere a questa esigenza, il proletariato si organizza nel movimento socialista, la cui base filosofica, unitamente a considerazioni di ordine politico sulla so-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

439

lidarietà ecclesiastica con i ceti dominanti, gli conferisce una marcata impronta anticristiana. Al processo di scristianizzazione delle masse, sociologicamente collegato ai fenomeni di industrializzazione e urbanizzazione della società, si aggiunge una reciproca avversione tra chiesa e socialismo, gravida di rilevanti conseguenze per entrambe le parti. Non mancano personaggi in grado di cogliere l'urgenza di un dialogo con il socialismo, o almeno con i socialisti; come esempio della dinamica ricorrente in

diversi paesi, menzioniamo la vicenda tedesca. Tra coloro che,

nel quadro della Missione interna, si adoperano alla creazione di istituzioni di solidarietà, Johann Hinrich Wichern (1801-1881) si

distingue per la sua sensibilità alle istanze del movimento operaio e per la lucida consapevolezza del ritardo teorico e pratico in cui si trovano le chiese su questo punto; per contro, nel 1878 viene fondato un Partito cristiano-sociale dei lavoratori, che avrebbe dovuto essere la risposta protestante alla socialdemocrazia, proponendo uno stile politico paternalista, tendente da un lato a difendere gli interessi dello stato e dell’imprenditoria nei confronti dell’attacco «sovversivo», dall'altro a coniugare il contenimento dell’emergenza sociale con la riconduzione delle masse nella sfera d’influenza della chiesa. Quando, nell’ambito del partito e del Congresso evangelico-sociale (che, a partire dal 1890, rappresenta, nell’ambito culturale, le istanze del cristiane-

simo sociale), si affacciano tendenze più radicali, e lo stesso Kai-

ser si esprime criticamente nei loro confronti, viene fondato il Partito cristiano sociale

(la dicitura «dei lavoratori», significati-

vamente, scompare), di tendenza marcatamente conservatrice. Tutto ciò non riduce affatto l’attività diaconale della chiesa: la Missione interna, anzi, raggiunge il vertice del suo splendore a partire dal 1881, mediante l'opera del pastore Friedrich von Bodelschwingh (1831-1910), noto soprattutto per la fondazione del grande

insediamento

diaconale di Bethel, vicino a Bielefeld, al

quale si aggiunge, nel 1905, un’accademia teologica ecclesiastica, che intende contrapporsi alle facoltà teologiche universitarie in cui, a parere di Bodelschwingh, regna un’atmosfera eccessivamente secolarizzata. Il più robusto tentativo teorico di colmare il fossato tra chiesa evangelica e movimento dei lavoratori è costituito dal «socialismo religioso» svizzero, i cui esponenti più noti sono Hermann

Kutter (1863-1931) e Leonhard Ragaz (1868-1945), entrambi in-

fiuenzati da Blumhardit padre e figlio e dal movimento di Bad Boll. Il punto di vista di Kutter, pastore a Zurigo, è ben espresso

440

Cristianesimo

dal titolo di un suo libro del 1903, Sie miffen («Essi devono»): «essi» sono i socialisti, chiamati da Dio, ne siano o meno consape-

voli, a svolgere il compito che i cristiani non hanno saputo o voluto fare proprio: mediante questi atei agisce il Dio vivente, che

le chiese avrebbero dovuto incontrare nella loro Bibbia, e che invece hanno addomesticato, facendone il sigillo religioso della so-

cietà borghese. Se Kutter si pone sul piano dell’interpretazione

profetica dei «segni dei tempi», Ragaz è il sistematico, nonché il promotore delle iniziative concrete, del socialismo religioso; pro-

fessore di teologia a Zurigo, lascia la cattedra nel 1921 per fondare una comunità fraterna di servizio sociale. Egli mette in rilievo il carattere colpevolmente quietista del cristianesimo tradizionale, mentre le istanze di trasformazione sociale si esprimono

prevalentemente nei gruppi marginali e più o meno ereticali; in questi ambiti, l'attesa impaziente del Regno di Dio costituisce un potente impulso di rinnovamento, del quale anche il socialismo è esempio: il compito delle chiese non consiste nell’elaborare

una dottrina sociale (magari in chiave più o meno scopertamente antisocialista)

partendo

dalla

loro

tradizione,

ma

nel

lasciarsi

mettere radicalmente in discussione da movimenti il cui potenziale critico conferisce loro un'oggettiva valenza religiosa. Gli stessi problemi si pongono oltre Oceano, e anche qui la visione del Regno di Dio offre una prospettiva teologica che permette il superamento degli aspetti più individualistici della pietà risvegliata, nonché una predicazione in grado di pronunciare una parola critica rispetto al grande riassetto capitalistico della società: a farsi alfiere di questa problematica è il movimento dell'evangelo sociale (Social Gospel), che ha nel teologo di origine tedesca Walter Rauschenbusch (1861-1918) il suo maggiore teorico. Caratteristica la sua comprensione dell’escatologia, in cui il momento evolutivo, che egli crede di rinvenire nelle parabole di Gesù, prevale decisamente su quello apocalituco, permettendogli di interpretare religiosamente le teorie evoluzionistiche. Molti, in particolare in Europa, hanno criticato l’ingenuità dell’ottimismo teo-

logico e antropologico che caratterizza il movimento dell’evangelo sociale: resta il fatto che esso ha colto con precisione alcuni nodi importanti che caratterizzeranno il dibattito teologico del XX secolo, da quello della politicità dell’Evangelo a quello del rapporto della teologia con la cultura e con la scienza; se il pensiero

dei socialisti religiosi e quello di Rauschenbusch fossero più conosciuti, si resterebbe colpiti dal ricorrere di molte loro tematiche e ipotesi di soluzione nella pubblicistica teologica recente, in par-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

441

ticolare in quella ecumenica: è infatti con la recezione da parte del

Consiglio Ecumenico delle chiese della riflessione dei teologi del

Terzo mondo che il problema sociale, inquadrato ora su scala planetaria, come conflitto Nord-Sud, si impone come dimensione de-

cisiva dell'impegno delle chiese cristiane.

13. LA TEOLOGIA TEDESCA DELL'ETÀ GUGLIELMINA Il grande dibattito tra fede e cultura, che costituisce, dall'illumi-

nismo in poi, il tema centrale della teologia protestante, vive in Germania, a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, un’epo-

ca particolarmente vivace, favorita dallo splendore delle grandi università, ambiente ideale per un lavoro scientifico di ampio re-

spiro. In filosofia si assiste a un ritorno a Kant, il cui impianto

teorico ha il vantaggio di tutelare l'autonomia delle scienze empiriche, garantendo nello stesso tempo la legittimità di principio

del discorso teologico; non solo le scienze della natura, ma an-

che quelle dello spirito si sviluppano energicamente: il costituir-

si di una solida tradizione storiografica (Ranke!) e filologica avrà riflessi significativi sulla teologia.

Proprio in ambito storico esordisce Albrecht Ritschl (18221889), in origine legato allo schema idealistico di Baur, da cui però si allontana, adottando una metodologia più libera da presupposti filosofici. Dal 1848 insegna, come libero docente a Bonn, storia dei dogmi, per passare poi alla dogmatica nel 1852. La sua opera sistematica più importante, La dottrina cristiana della giustificazione e della riconciliazione, appare nel 1870, un anno fondamentale per la storia tedesca: e Ritschl sa essere veramente il teologo di una cultura del rigore morale e dell'impegno professionale, aperta al progresso tecnologico, conservatrice ma non ottusamente reazionaria in politica, fortemente radicata nella tradizione luterana; e naturalmente è a Lutero che Ritschl deve l’enfasi sulla giustificazione, mentre da Kant deriva l’attenzione per

l’etica. L'incontro con Cristo si verifica mediante l’appropriazio-

ne, da parte del credente, della sua opera di salvezza, ed è in re-

lazione a quest'ultima che vanno comprese le grandi affermazioni dogmatiche

della tradizione cristiana: Ritschl si oppone,

dunque, a una concezione speculativa della verità di fede, e sottolinea che l’Evangelo, annunciando la signoria di Dio sul mon-

do, fonda un atteggiamento fiducioso anche di fronte agli aspetti irrazionali del corso naturale e di quello storico; qui si radica

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Cristianesimo

l’impegno morale del credente, teso a realizzare la propria vo-

cazione nell’ambito professionale e familiare, verso il Regno di Dio, inteso a sua volta come comunità di spiriti liberi. Si tratta,

dunque, di un tentativo molto serio di annunciare l’evangelo cristiano, nella comprensione della Riforma del Cinquecento, all’uomo tedesco del proprio tempo. Sarà abbastanza facile, soprattutto dopo il crollo di quell’universo ideale e politico con la prima guerra mondiale, indicare in Ritschl l’ideologo religioso di un sistema; in realtà, la sua riflessione permette al discorso cri-

suano di mantenere un ruolo non subalterno (benché non pro-

priamente critico) nel dibattito tra diverse visioni della realtà; il fatto, poi, che numerosi autori, di tendenze anche diverse, sì richiamino a Ritschl, è indice non secondario della fecondità del-

la sua personalità e della sua opera. Di una generazione più giovane di Ritschl è Emnst Troeltsch (1865-1923), teologo, filosofo, storico e sociologo; il suo approc-

cio al fatto cristiano sì colloca nella linea che va da Lessing fino

a Hegel, privilegiando la dimensione storico-evolutiva; egli evidenzia che, in questa prospettiva, diventa impossibile parlare di

un’assolutezza del cristianesimo (vedere, cioè, in quest’ultimo la

manifestazione storica perennemente normativa della verità di Dio), poiché ciò che è storico è relativo per definizione, e propone un’indagine comparata del cristianesimo e delle altre religioni, al fine di mostrare che il primo possiede, per noi, il più alto grado di validità (L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, 1902). Con ciò, Troeltsch si pone come il pensatore sistematico della scuola storico-religiosa, che si propone appunto un approccio comparativo alla storia del mondo ebraico e del cristianesimo delle origini: le dimensioni fondamentali della fede di Israele e del credo cristiano, dalla creazione al significato della persona di Gesù, all’attesa della fine del mondo, ricevono nuo-

va luce dall'esame dei testi religiosi e dei reperti archeologici

dell'ambiente giudaico, medio-orientale ed ellenistico: tra i molti nomi importanti, menzioniamo quelli di Hermann Gunkel (1862-1932) e Wilhelm Bousset (1865-1920), specialisti rispetti-

vamente di Antico e Nuovo Testamento; tra i fattori che concor-

rono alla divulgazione dei metodi e dei principali esiti della scuola, c'è la pubblicazione della prima edizione del grande lessico Die Religion in Geschichte und Gegenwart, suumento di lavoro fondamentale per generazioni di studiosi, ma anche di pastori. L’en-

tusiasmo per il metodo comparativo conduce fatalmente ad esa-

gerare il significato di parallelismi e analogie, sicché la specifi-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

443

cità dei motivi conduttori della fede ebraico-cristiana non viene sempre valorizzata in modo adeguato; nell’ambito dell'indagine storico-critica sui testi biblici, comunque, l’acquisizione della dimensione storico-religiosa comparativa costituisce un punto di non ritorno, e la messe di dati resa disponibile da questi studio-

si rende le loro opere ancora oggi imprescindibili. Quest'ultima osservazione vale in modo eminente per gli studi storici del più noto tra gli esponenti della cosiddetta «teologia liberale», Adolf Harnack (1851-1930), professore a Giessen, Mar-

burgo e infine a Berlino, nonché grande manager della politica culturale imperiale (tra l’altro, è direttore generale della Biblioteca di stato e presidente della Società Kaiser Wilhelm per la ricerca scientifica; nel 1914 ottiene il titolo nobiliare, acquistando

il diritto a chiamarsi von Harnack). Non c’è praticamente ambito della storiografia sul cristianesimo antico al quale Harnack non rechi contributi di rilievo. Il suo Manuale di storia dei dogmi,

l’opera su Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, la Storia della letteratura cristiana antica fino ad Eusebio, costitui-

scono forse le sintesi più note, dietro alle quali c'è una mole immensa di pubblicazioni, sia erudite che divulgative, che fanno di questo autore uno dei massimi storici del cristianesimo di tutti i tempi; di grande rilievo anche sistematico il libro su Marcione. L'evangelo del Dio straniero, in cui si schiera a favore della proposta marcionita di espungere l’Antico Testamento dal canone biblico. Le ricerche storiche harnackiane presentano lo sviluppo del credo cristiano come progressiva ellenizzazione del messaggio di Gesù: la chiesa trasforma la predicazione di quest'ultimo, centrata sulla paternità di Dio e sul valore infinito dell’anima umana, in un complicato sistema metafisico. Il messaggio autentico di Gesù, ritenuto originale rispetto al giudaismo contemporaneo e al mondo ellenistico, è ricostruito da Harmack sulla base dei Vangeli di Marco, Matteo e Luca, di cui viene difesa l’at-

tendibilità storica. Queste tesi vengono divulgate in un ciclo di lezioni, che Harnack tiene all’università di Berlino, rivolgendosi a uditori di tutte le facoltà. Il corso viene pubblicato poco dopo e il libro, L'essenza del cristianesimo, avrà, vivente l’autore,

quat-

tordici edizioni in tedesco, per un totale di 71.000 copie, e sarà tradotto in quattordici lingue; l’intenzione è di tracciare il pro-

filo del credo

dell’uomo

moderno,

la nuova

sintesi di fede

e

scienza critica. Intorno alle tesi di Harnack si apre un dibattito che va ben oltre i confini della Germania e del cristianesimo protestante: la risposta del cattolico francese A. Loisy all’Essenza del

444

Cristianesimo

cristianesimo, dal titolo L'evangelo e la chiesa, costituisce un docu-

mento di rilievo del «modernismo» nella chiesa romana.

Nel 1914 Harnack, insieme a vari altri esponenti della teologia liberale, firma il manifesto con cui molti intellettuali tedeschi fan-

no proprie le ragioni belliciste della Germania imperiale; il giovane pastore svizzero Karl Barth (1884-1968), già allievo di Harnack

e collaboratore della «Christliche Welt», l'organo della scuola li-

berale, scorge in questo gesto il segno della bancarotta non solo politica, ma anche culturale e spirituale, della grande teologia te-

desca di fine Ottocento: l’erudizione storica, la finezza dogmatica

e la passione etica da essa profuse non hanno impedito che le chie-

se cristiane si limitassero, alla fine dei conti, a sanzionare spiri-

tualmente l’ideologia dello stato e delle sue classi dominanti e, an-

zi, hanno contribuito a questo esito in misura rilevante; a partire

da questa valutazione, Barth guiderà la prima rivoluzione teologica del XX

secolo, centrata sul rifiuto radicale della sintesi Dio-

mondo, teologia-antropologia, fede-cultura, chiesa-società, che trova nell’Essenza del cristianesimo la sua più limpida formulazione. Tuttavia l’idea forza del liberalismo, che cioè il messaggio e la tradizione che traggono origine dalla Bibbia siano in sostanza una riserva inesauribile (perché di origine trascendente) di energie eti-

che, che possono e devono essere mobilitate per il miglioramento della società umana, si è dimostrata vitalissima, e continua a costituire una delle grandi ipotesi di lettura del cristianesimo. La figura di Albert Schweitzer (1875-1965) ne costituisce, per molti aspet-

ti, l'incarnazione. Alsaziano, figlio di un pastore, eccellente interprete di Bach, Schweitzer studia teologia, ottiene la libera docenza e contribuisce al dibattito esegetico con opere assai importanti, la più nota delle quali è la Storia della ricerca sulla vita di Gesù (1905), in cui si mostra che le fonti non permettono di ricostruire una biografia dell'uomo di Nazaret; di lui sappiamo, comunque, che an-

nunciava l'avvento imminente del Regno di Dio, fatto che non si è verificato; il grido sulla croce riferito da Mc. 15,34 segna il crollo della sua speranza; il suo messaggio, dunque, sfocia nel fallimento e appartiene a un passato che non ritorna; ciò che ne resta è un forte appello alla solidarietà umana. L’opera esegetica di

Schweitzer è un frutto maturo della teologia liberale, ma ne è anche una sorta di autoliquidazione; il tentativo di individuare nel

messaggio di Gesù un nucleo imperituro da riproporre oggi (l’'essenza, appunto, del cristianesimo), si mostra impraticabile e l’eti-

ca può al massimo richiamarsi a Gesù, ma non fondarsi sulla sua

figura. Che cosa, tuttavia, significhi per lui tale richiamo all’ere-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

445

dità del profeta galileo sconfitto, Schweitzer lo mostra interrom-

pendo la sua attività di teologo e, dopo essersi laureato in medicina, fondando un lebbrosario nel cuore dell’Africa, a Lambaréné,

in cui lavora fino alla morte, ottenendo tra l’altro il premio Nobel

per la pace. Il cristianesimo protestante del Novecento, pur rifiutando, non solo per motivi dogmatici, ma anche esegetici, gli esiti

della riflessione teologica di Schweitzer, riconosce in lui un testi-

mone eccezionale della radicalità dell’impegno etico che la predicazione di Gesù è in grado di suscitare. 14. BIBBIA E STORIA NEL PROTESTANTESIMO

DEL NOVECENTO

Si è detto dell’effetto traumatico che la solidarietà di molti bei nomi della teologia tedesca con l’espansionismo del Kaiser determina su Karl Barth: in quel periodo pastore in un villaggio di minatori nel cantone svizzero dell’Argovia, fortemente

influen-

zato dal socialismo religioso dei suoi compatrioti Kutter e Ragaz, Barth matura la convinzione che l’incapacità, clamorosamente

evidenziata dalle chiese, di parlare profeticamente quando è ne-

cessario, si radica in un lungo processo, le ciri origini possono essere situate nell’illuminismo, processo nel corso del quale il protestantesimo ha di fatto rinunciato a uno dei propri cardini, cioè al primato della Scrittura, adottando una concezione della fede in cui Dio e la trascendenza sono, di fatto, il compimento dei va-

lori etici e culturali del tempo (e delle classi borghesi). L’esegesi critica ha in qualche modo contribuito a questo risultato, collocando la Scrittura in un remoto passato, dal quale il suo messag-

gio può giungere a noi solo dopo essere stato sottoposto al vaglio della precomprensione moderna, che decide che cosa, nel testo, ha valore permanente,

e che cosa no. Il pastore svizzero av-

verte le conseguenze di tale situazione nel quotidiano esercizio del proprio ministero: la teologia accademica gli fornisce materiale per conferenze, ma non per annunciare la parola di Dio. Barth ritiene necessario ricominciare daccapo, e daccapo significa appunto dalla Scrittura: si dedica così alla compilazione di un commentario all’epistola di Paolo ai Romani

(1919) che, sen-

za voler negare le acquisizioni dell’esegesi critica, intende situare la discussione su di un altro piano, cioè ascoltare la parola apostolica per ciò che intende essere, messaggio di Dio alla comunità di fede. Insoddisfatto del proprio lavoro, a suo parere ancora condizionato dal retaggio del passato, Barth riscrive completa-

446

mente

Cristianesimo

il libro (1922). L'assioma secondo cui «Dio è Dio e l’uo-

mo è l’uomo», e dunque l’affermazione dell’«infinita differenza qualitativa» tra cielo e terra, costituiscono l'orizzonte dell’interpretazione barthiana di Paolo; la «religione», vista come tentativo umano di stabilire un rapporto con Dio, viene sottoposta a critica serrata: l’atteggiamento proposto dalla Bibbia, la fede, è descritto come accoglienza, certo attiva, della decisione di Dio, che in piena libertà e in modo assolutamente indeducibile interviene nella storia di Israele e in Gesù Cristo, in modo decisivo per l'umanità di tutti i tempi. Tale teologia viene definita «dialettica», perché si rifiuta di incapsulare Dio in categorie concettuali

statiche, ma parla di lui affermando e negando al tempo stesso,

riallacciandosi con ciò, peraltro, a una veneranda tradizione teo-

logica. Nel commentario rivivono certo elementi kierkegaardiani, ma l'aspetto fuori dal tempo, realmente rivoluzionario, è un approccio fresco e immediato (che non significa semplice) al testo, che

ricorda abbastanza da vicino quello dei Riformatori, e

viene poi chiamato «teologico», per distinguerlo da quello pu-

ramente storico, Il dibattito è vivacissimo, Harnack stesso inter-

viene contro quelli che egli ritiene «dispregiatori della teologia

scientifica», ma le idee di Barth, accanto al quale è, fin dall’inizio, il collega e amico Eduard Thurneysen, fanno breccia in un

gruppo di giovani raccolto intorno alla rivista «Zwischen den Zei-

ten» («tra i tempi») e vengono considerate, anche al di fuori del-

la cerchia dei sostenitori,

un impulso

importante

al rinnova-

mento del dibattito. Barth viene chiamato ad insegnare teologia

a Gottinga. Inizia un'attività accademica che durerà, praticamente, fino alla morte del teologo, dapprima in Germania (da Gottinga, si trasferirà a Munster, e poi a Bonn) e in seguito, dopo il rifiuto di prestare giuramento a Hitler e la conseguente espulsione, nella natia Basilea. Le tesi fondamentali dell’£pistola ai Romani vengono ora sviluppate in chiave sistematica: Barth è il teologo del Dio «totalmente Altro», assolutamente irriducibile agli orizzonti umani. Quando la chiesa tedesca è tentata di riconoscere nell’ascesa di Hitler e nella rinascita della potenza germanica un messaggio di Dio stesso all'umanità, Barth è il principale ispiratore della Dichiarazione teologica di Barmen (1934), una delle espressioni più alte della fede evangelica del Novecento, in cui Gesù Cristo è proclamato «l’unica parola di Dio, a cui dob-

biamo obbedire, in vita e in morte», contro ogni forma di neo-

paganesimo. Una volta cacciato dalla Germania, Barth si dedica,

anima e corpo, allo sviluppo del grande progetto concepito al-

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

447

cuni anni prima: una grande «dogmatica» (che, ancora una volta, riprende daccapo dopo aver pubblicato il primo volume), di cui usciranno tredici considerevoli tomi, ma che rimarrà incom-

piuta. In essa, il Dio totalmente Altro lascia progressivamente spazio al Dio che in Gesù Cristo rivela la sua umanità; volume dopo volume, concentrato sulla Bibbia, ma attentissimo alla storia,

Barth propone alla chiesa del Novecento, e soprattutto ai predicatori, ai quali l’opera è in particolare indirizzata, un’interpretazione

della fede

cristiana che

costituisce,

senza

alcun

dubbio,

uno dei più grandi monumenti del pensiero dogmatico cristiano di ogni tempo. Nel frattempo, l'Europa corre una seconda volta verso la catastrofe: anche in questo caso, la Germania porta la responsabi-

lità decisiva, e anche in questo caso le chiese tedesche, nel loro insieme, non riescono ad assumere una posizione critica; inoltre,

nei campi di sterminio è iniziato il sistematico tentativo di liquidazione dell'ebraismo europeo: il fatto, se non le sue proporzioni apocalittiche, è noto, ma le voci di protesta sono piuttosto isolate. La chiesa confessante, nata dalla dichiarazione di Barmen,

è

divisa tra l’ala radicale, che ritiene ormai impossibile conciliare l'opposizione al paganesimo ideologico del regime con un pieno consenso alla sua politica, e un’ala legata a un luteranesimo

ultraconservatore, ‘per il quale la lealtà nei confronti dello stato tedesco appartiene comunque al patrimonio della fede. Con l’approssimarsi della guerra, si forma però un’opposizione, che ha la sua spina dorsale in alcuni circoli militari, convinti ormai dell’assurdità del progetto hitleriano, e che sì propone l’eliminazione fisica di Hitler. Di questo complotto fa parte il pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer (1906-1945): studioso affermato nonostante la giovane età, e certamente promesso a una brillante carriera accademica, dirigente ecumenico a livello internazionale, si impegna fin dall'inizio nell’ala radicale della chiesa confessante, di cui dirige un seminario clandestino per la formazione dei pastori, a Finkenwalde, in Pomerania; le sue opere sottoli-

neano sempre più le tematiche del discepolato (Sequela, 1937), della comunità come ambito concreto in cui la fede nasce e matura

(La vita comune,

1939); molto importanti

gli articoli, le le-

zioni pubblicate postume, le circolari agli ex allievi di Finkenwalde, scritti mediante i quali Bonhoeffer esercita un vero e proprio magistero spirituale, prima ancora che teologico, certo tutt'altro che incontrastato. Mentre già la guerra divampa, egli lavora al progetto di un’etica teologica; contemporaneamente collabora

448

Cristianesimo

col servizio segreto militare diretto dall'ammiraglio Canaris, che

è anche la centrale del complotto contro il Fùhrer; viene arresta-

to nel 1943 con l'accusa di alto tradimento, che poi però cade;

rimane comunque in carcere, indagato per una serie di episodi che, più tardi, si riveleranno legati alla cospirazione. L'arresto lo costringe a lasciare incompiuta la sua Etica, che verrà pubblicata

postuma; dal carcere escono le lettere indirizzate ai familiari, al-

la fidanzata e all'amico Eberhard Bethge, anch'egli pastore della chiesa confessante. La fama mondiale di Dietrich Bonhoeffer è legata soprattutto a queste missive a Bethge, pubblicate poi sot-

to il titolo Resistenza e resa: da un lato, esse costituiscono una testimonianza di fede e di vita di assoluto rilievo, che le rendono un

classico della spiritualità cristiana; dall’altro, contengono l’embrione di un pensiero teologico teso a leggere la fede cristiana in chiave «non religiosa», riprendendo, ma sviluppando in chiave autonoma, l’importante tematica barthiana dell'opposizione fede-religione. Le speranze di Bonhoeffer di riuscire a ingannare la Gestapo circa la sua partecipazione alla congiura naufragano insieme all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944: il giorno dopo, il prigioniero allega ad una lettera a Bethge la meditazione, redatta in forma poetica, Stazioni sulla via della libertà, documento

insigne di una fede ferma e anche lieta, nella lucida consapevo-

lezza della situazione; non senza difficoltà, ma inesorabilmente,

la polizia segreta riesce a ricostruire i contorni del complotto e ad arrestare gran parte del gruppo di Canaris; Bonhoeffer viene impiccato il 9 aprile 1945 a Flossenbùrg, insieme a un gruppo di

oppositori, tra cui lo stesso ammiraglio; negli stessi giorni i nazi-

sti uccidono anche il fratello Klaus e i cognati Hans von Dohnany e Rudiger Schleicher. La chiesa confessante teneva elenchi di prigionieri per cui intercedere in preghiera; Bonhoeffer non figurava in tali liste, in quanto detenuto per motivi politici e non per la sua attività ecclesiastica. La vita e la morte di questo ed altri testimoni ripropongono appunto il problema, a volte deliberatamente rimosso, relativo a questa distinzione e alle ragioni e ai limiti della sua legittimità, problema con cui il cristianesimo del Novecento non ha ancora cessato di confrontarsi. Sia Barth che Bonhoeffer, in termini diversi, avvertono la cen-

tralità del problema del metodo dell’interpretazione dei testi biblici: come può il messaggio biblico essere significativo per l'umanità secolarizzata, che vive millenni dopo la nascita dei testi? Secondo Barth, la distanza cronologica e la differenza nella visione del mondo non hanno importanza sostanziale: gli esseri umani

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

449

di oggi si trovano, esattamente come quelli di ieri, davanti a Dio, come peccatori a cui è annunciato il perdono, e ciò soltanto è decisivo. Bonhoeffer ritiene invece necessario sviluppare un’interpretazione «mondana» della Scrittura, in cui Dio non sia pensato come il «tappabuchi» che subentra dove l’umano trova il proprio limite, ma come l’autentica trascendenza, data di volta in volta nel prossimo e, in generale, nel compito

concreto che

attende chi vive seguendo Gesù. Il tema dell’ermeneutica viene ampiamente sviluppato anche da Rudolf Bultmann (1884-1976), esegeta di Marburgo, inizialmente assai legato al gruppo dei teo-

logi «dialettici», che propone di «demitizzare» il Nuovo Testa-

mento: poiché, cioè, esso presuppone una concezione del mondo che non è più la nostra, e che dal punto di vista storico-religioso va considerata mitica (nel senso che, cioè, parla del mondo trascendente come si farebbe dell’al di qua, in termini descrittivi e oggettivanti), l'annuncio all'uomo moderno richiede non l’eliminazione pura e semplice del mito, ma la sua traduzione in termini non mitologici. A tal fine, Bultmann propone di interpretare il Nuovo Testamento in chiave esistenziale l’annuncio di Gesù, così com’è testimoniato dalla Scrittura, dischiu-

de la possibilità di un’esistenza «autentica» (la terminologia è mutuata dalla filosofia del primo Heidegger, collega di Bultmann a Marburgo), cioè fondata sulla decisione per ciò che non è em-

piricamente disponibile (la promessa di Dio). La «verità» del messaggio biblico è dunque nella sua potenzialità esistenziale; dal punto di vista storico, l’esegeta Bultmann è molto scettico, e ritiene che dell’uomo Gesù la scienza critica possa sapere ben poco; il solo fatto, tuttavia, che egli sia esistito, e che dunque

la

predicazione si riferisca a una persona storica singola, è sufficiente a distinguere l’Evangelo dal mito.

Il pensiero di Bultmann suscita polemiche vivacissime, per il

suo radicalismo critico e per il rischio, che porta con sé, di vin-

colare la predicazione a una particolare filosofia: soprattutto questa seconda ragione conduce ad esempio Barth a una condanna senza appello. In effetti, molti aspetti di fondo del programma bultmanniano, nonché parecchie tesi esegetiche (quelle riguar-

danti il Gesù storico, ad esempio) non hanno resistito alla criti-

ca degli stessi discepoli del teologo marburghese: la pista di ricerca da lui proposta, tuttavia, ha impegnato a fondo la teologia,

non solo evangelica, del Novecento e complessivamente non è errato dire che l’ecumene cristiana ha recepito Bultmann, criticamente, ma largamente.

450

Cristianesimo

Paul Tillich

(1886-1965), filosofo e teologo tedesco, trasferi-

tosi negli Stati Uniti nel 1933, dedica i suoi sforzi a elaborare una sintesi tra religione e cultura all’altezza delle sfide intellettuali del XX secolo: in particolare nella sua Yèologia sistematica, egli presenta l'orizzonte della fede come risposta a quella grande domanda esistenziale che è l’umano stesso. La capacità di interloquire in modo interessante con i diversi ambiti della cultura costituisce un elemento significativo del fascino di Tillich; paragonato agli altri grandi autori della prima metà del Novecento, egli si distingue per il tratto marcatamente filosofico della sua riflessione, che non poteva mancare di suscitare lo scetticismo di Barth. In una fase come l’attuale, tuttavia, in cui la teologia cer-

ca categorie che la aiutino a costruire un dialogo non solo con

l’uomo secolarizzato, ma anche con le grandi religioni, che pure sì presentano come risposte alla domanda implicita nell’esse-

re umano, la riflessione tillichiana sembra conoscere una secon-

da giovinezza.

15. IN LUOGO

DI UNA CONGLUSIONE

Queste pagine si fermano alla prima metà del Novecento, semplicemente perché l’epoca successiva appartiene più alla cronaca che alla storia; la vicenda del protestantesimo non si presta a sintesi conclusive: è infatti plurale per natura, e questa pluralità ha spesso mostrato i suoi rischi di disgregazione, oltre alle potenzialità arricchenti; il XX secolo, tuttavia, vede prevalere, in

modo significativo, queste su quelli, a causa dello sviluppo del movimento ecumenico. La storia di questa avventura spirituale non rientra negli obiettivi di queste pagine: è tuttavia importante segnalare che esso si sviluppa, in un primo tempo, nell’ambito delle chiese della Riforma e dell’anglicanesimo, riunificando due dimensioni della loro fede che più volte hanno camminato separatamente: la passione intransigente per la verità evangelica e quella per l'universalità della chiesa. Il protestantesimo della fine del secondo millennio non si «risolve» nel movimento ecumenico, ma nemmeno è pensabile prescindendone: l'identità protestante vede radicalizzata, nel confronto ormai serratissimo con Roma, con le chiese orientali, con Israele e, ora, anche con

le grandi religioni, la propria natura strutturalmente dialogica.

F. Ferrario

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri

451

BIBLIOGRAFIA

Le indicazioni bibliografiche sono ordinate in corrispondenza ai paragrafi del testo, e sono distinte in 4) fonti; 6) studi. La massa delle pub-

blicazioni ci impone di limitarci alle opere accessibili in lingua italiana.

Nel caso di filosofi particolarmente noti menzioniamo solo alcune ope-

re strettamente attinenti al nostro tema, rinviando, per il resto, a una

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Peri paragrafi 13 (La teologia tedesca dell'età guglielmina) e 14 (Bibbia e storia nel protestantesimo del Novecenio) non è possibile riportare qui il lungo elenco di testi teologici degli ultimi due secoli recentemente tradotti, e meno ancora quello delle opere critiche. Rimandiamo pertanto agli ampi ragguagli bibliografici delle seguenti opere: Berkhof, H., 1992: 200 anni di teologia e filosofia. Da Kani a Rahna, trad. it., Torino.

Gibellini, R., 1992: La teologia del XX secolo, Brescia.

La chiesa ortodossa di Cesare Alzati

1. ALLE ORIGINI DELL'IDENTITÀ ECCLESIALE ORTODOSSA

Lo svilupparsi tra II e III secolo di una sempre più organica e sistematica riflessione sui contenuti dell’annuncio religioso cristiano, dando vita a una molteplicità di «scuole»

dottrinali, ca-

ratterizzate da un proprio lessico teologico e da specifici orientamenti, ebbe conseguenze decisive per la successiva vicenda ecclesiale. In effetti, con l'ascesa all’episcopato di personaggi, che di tali scuole erano espressione e che ne perpetuavano nel magistero la specificità, non di rado le diverse chiese furono condotte all’impossibilità di riconoscere nelle differenti proposizioni dottrinali,

formulate

all’interno

della

comunione

una complementare presentazione del comune

fede» veicolato dalla «tradizione degli apostoli».

cristiana,

«deposito della

In questo fenomeno — e perciò anzitutto a livello di pensiero

e di dottrina - si collocano le radici della distinzione tra Orien-

te e Occidente in ambito ecclesiale, sebbene tale distinzione ab-

bia successivamente trovato sanzione anche in divergenti vicende d'ordine istituzionale. Per quest’ultimo aspetto un contributo fondamentale è ve-

nuto dal contesto imperiale romano, in cui la chiesa fin dall’ini-

zio si è sviluppata, al cui interno dopo un alternarsi di tolleranza e di persecuzioni venne infine accolta, e nelle cui strutture sarebbe poi vissuta per secoli in Oriente, avendo in Costantinopoli, Nuova Roma sul Bosforo, il proprio centro. Già nella prima età cristiana Filone alessandrino ben attesta

come i valori ideali e istituzionali connessi all’autorità imperiale,

458

Cristianesimo

nella lettura fattane dal pensiero tardo-ellenistico, fossero condivisi anche dalla diaspora ebraica (cfr. Vita Moysis 1, 148 sgg.; De specialibus legibus TV, 164, 184-188; Legatio ad Caium 50, 76, 119).

Per l'ambito più propriamente ecclesiale, se nella seconda parte

del II secolo l’asiano Ireneo, in merito ai Romani,

scriveva che

«grazie a loro il mondo è nella pace e noi possiamo viaggiare senza alcun timore, per terre e per mare, dove vogliamo» (Contra le eresie IV, 30, 3), sul finire di quello stesso secolo Tertulliano nel

suo Apologetico giungeva ad affermare: «Cesare è più nostro che vostro poiché egli è stato costituito dal nostro Dio... Noi invochiamo per la salvezza degli imperatori il Dio eterno, il Dio vero, il Dio vivo...; a loro una lunga vita, un potere sicuro, una casa tranquilla, forti eserciti, un senato fedele, un popolo onesto, un mon-

do in pace» (XXX sgg.). In questa stessa linea, verso la metà del IIl secolo, Origene, replicando a Celso e riproponendo la comune concezione dell’unico imperatore quale supremo moderatore dell’ecumene e garante della giustizia, avrebbe postulato, come sbocco inevitabile della potenza diffusiva della parola di Dio, l’affermarsi della fede dentro e fuori l'impero e l'apparire

di un dasilèus posto sul trono, non da Zeus, ma da colui che stabilisce i re (Dan. 2,21): un imperatore cui anche i barbari, dive-

nuti cristiani, si sarebbero sottomessi, in quanto condotti dalla fede a venerare la giustizia e a rispettare il sistema di leggi che

ne era espressione (Contro Celso IT, 30; VIII, 68-70, 72). Di fatto, come già agli inizi della comunità cristiana Paolo or-

goglioso di definirsi civis Romanus (At. 16, 37; 22, 25 sgg.) si era appellato a Cesare per averne retto giudizio (At. 25, 10-12), nel 272 ad Antiochia i vescovi che deposero il presule locale Paolo

di Samosata, ma non riuscirono ad allontanarlo dalla chiesa, fe-

cero anch'essi ricorso all'imperatore, allora Aureliano, il quale autorevolmente definì la contesa assumendo come criterio di legittimità la comunione con il vescovo di Roma e i vescovi d’Italia (Eusebio, St. Eccl. VII, 30, 19).

Già dai primi secoli, pertanto, i cristiani si consideravano pienamente partecipi della realtà istituzionale dell'impero, indipendentemente dal carattere pagano di quest’ultimo, e, nonostante

le riserve di ambienti montanisti, non di rado vi assunsero precise ed anche elevate responsabilità in sede militare e civile. In questo senso la recezione del cristianesimo concordata da Costantino e Licinio a Milano nel 313, evento decisivo per i successivi destini del mondo mediterraneo e per la civiltà che da esso si è sviluppata, non sembra potersi definire una «svolta» per la chiesa.

C. Alzati

La chiesa ortodossa

459

È pur tuttavia evidente come i rapporti di quest’ultima con l'autorità imperiale e la res publica abbiano subìto in seguito a quell’atto una riformulazione sul piano giuridico4stituzionale, sicché, se nel 386 Ambrogio poteva affermare in merito all’imperatore che questi era «nella chiesa» (&pistula LXXV [XXI]), a sua volta la chiesa poté essere concepita dal coevo Ottato di Milevi come realtà inserita nell'ordinamento della res publica, «id est in imperio Romano»

(Adv. Parmenianum II, 3); da allora, in ogni

caso, l’episcopato assunse precise responsabilità anche nella vita pubblica attraverso l'istituto dell’audientia episcopi, mentre incombenza primaria per l'imperatore divenne la prònoia, ossia la cura nei confronti della chiesa. In rapporto a quest’ultimo aspetto, se il termine epîskopos ton ektòs con cui Costantino sembra aver definito la propria collocazione rispetto alla realtà ecclesiale (Eusebio, Vita di Costantino IV, 24) resta estremamente oscuro nel suo preciso significato, inequivocabile è la funzione di centro focale della vita istituzionale ecclesiastica ch’egli consapevolmente ed esplicitamente assunse, e che i suoi successori avrebbero continuato a esercitare, seppure in forme più o meno accentuate secondo i tempi e le circostanze. Non a caso nei riti d’incoronazione imperiale, dalla fine del secolo V, sarebbe stato inserito anche il giuramento di fedeltà ai canoni ecclesiastici. Ratificata a livello canonico (sì pensi per l'Oriente ai canoni 11 e 12 del concilio Antiocheno attribuibile al 327 e, per l’Occidente, ai canoni 9b e 10a [red. gr.: 9a e 9b] con cui il concilio Serdi-

cense del 343 venne anch’esso regolamentando il ricorso all’imperatore), tale pronoia fu alla base anche della specialissima posi-

zione assunta nella comunione delle chiese dal vescovo della resi-

denza imperiale, primo interlocutore ecclesiastico dell’augusto. Questo fenomeno si manifestò in Oriente (soprattutto con la stabilizzazione della residenza imperiale a Costantinopoli dopo l’av-

vento di Teodosio nel 379) non meno che in Occidente (come il

già citato canone 9b/9a di Serdica attesta e il concreto caso della Milano santambrosiana dimostra) , ma fu aspetto che in area orientale venne ad assumere eccezionale rilievo in forza della secolare continuità garantita a esso dalla persistenza dell'impero. Se il quadro istituzionale qui delineato trae chiaramente origine dal momento

costantiniano, le affermazioni in merito alla fi-

gura imperiale presenti in ambito cristiano in anni ben anteriori a quelli di Costantino (come più sopra s’è ricordato) e un episodio quale il giudizio di Aureliano ad Antiochia mostrano con evi-

460

Cristianesimo

denza come la situazione istituzionale della chiesa in rapporto agli imperatori cristiani non sia configurabile nei termini di un indebito condizionamento delle forme del vivere ecclesiale ad opera di un potere esterno, ma si presenti piuttosto come l’organico sviluppo di precedenti atteggiamenti, che nella congiuntura costantiniana poterono giungere a compiuta maturazione. Trattati quali, in età giustinianea, i Capita monitoria di Agapito (testo ampiamente ripreso nella Moscovia tra Quattro e Cinquecento da Iosif di Volokolamsk) o il Dialogo sulla scienza politica ben mostrano come la dimensione religiosa fosse sentita costitutiva della dignità imperiale, per la quale in effetti la fondazione in sede teologica non risultava essere meno rilevante della definizione in termini giuridico-istituzionali. Non a caso totalmente impregnato di riferimenti teologico-religiosi appare il cerimoniale inerente la persona del basilèus (considerato come l’immagine terrena del Pantokràlor, da questi posto a reggere quale kosmokràtor l’intera ecumene), e a tale apparato cerimoniale proprio un imperatore, Costantino VII Porfirogenito, nel secolo X volle dedicare una silloge documentaria rimasta giustamente famosa. Quando dunque alla fine del Trecento, scrivendo al moscovi-

ta Vasilij} I che dichiarava d'essere nella chiesa ma di non rico-

noscere l'imperatore, il patriarca di Costantinopoli Antonio ven-

ne affermando che «non è possibile per i cristiani avere la chiesa e non avere l’imperatore, giacché tra l’impero e la chiesa sussiste un’intima unione e comunione, e non è possibile che si di-

vidano tra loro» (Miklosich-Muller, 1862 II, n° 447), egli non pie-

gava la religione a strumento di un progetto politico secolare (l'impero, tra l’altro, era ormai ridotto sul piano effettuale a ben

poca cosa), ma veniva riaffermando con profonda coerenza interiore i principi dottrinali da cui era stata animata un'’esperien-

za ecclesiale che per secoli aveva costituito modello paradigmatico per l'intera ecumene cristiana.

2.1 DIBATTITI DOGMATICI, TRA ISTITUZIONE E DOTTRINA: L'ICONOCLASMO

Se in Oriente le dispute sulle enunciazioni di Ario e l’ homooùsios niceno si risolsero nella scia del concilio Costantinopolitano del

381, il dibattito sul mistero del Logos Dio incarnato (più esatta-

mente: sulle modalità secondo cui divinità e umanità coesistono in lui) aprirono nel corpo ecclesiale lacerazioni di fatto non più ri-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

461

composte. Non a caso l’impero dei Romani, divenuto cristiano e perpetuatosi a Costantinopoli, riuscì a ritrovare unità dottrinale al suo interno soltanto in seguito all'’amputazione, ad opera degli Arabi, di quei territori (Siria, Palestina, Egitto) nei quali più

profondamente s’era radicata la tradizione teologica d'orienta-

mento monofisita discesa da Cirillo Alessandrino

(«una sola è la

natura [physis] quella del Logos Dio incarnata»). Nel concilio Costantinopolitano del 680/681 l’impero e la sua chiesa, rifiutando la dottrina monotelita («una sola è la volontà [thèlema] del Signore nostro Gesù Cristo vero Dio»), avrebbero riaffermato quale pro-

prio paradigma dottrinale l’enunciato calcedonese del 451 sulle

due nature (divina e umana), nella rilettura fattane da Giustiniano e ratificata a Costantinopoli dal concilio del 553 («Uno della

santa Trinità... il Logos Dio si è unito alla carne secondo l'ipostasi, e per questo una sola è la sua ipostasi ed una la persona»). Quanti anche nei territori ormai acquisit alla «Casa dell'Islam» si attennero a tale norma di fede vennero senz'altro definiti con termine semitico melkiti, ossia «imperiali», e le loro chiese, pur sotto-

messe al dominio musulmano e sempre più profondamente inserite nella realtà culturale araba, avrebbero continuato a parteci-

pare a pieno titolo alla vita dottrinale sia della Reichskirche, sia

dell’Occidente latino, con cui s'erano conservate in comunione.

Il monachesimo palestinese facente capo al patriarcato di Gerusalemme appare particolarmente attivo a questo riguardo. Il suo contributo, già rilevante durante le dispute in merito al dettato calcedonese

del 451 sulle due nature nel Cristo, risultò di

fatto decisivo nel corso della questione monotelita, quando si ebbe a Roma il pontificato del gerosolimitano Teodoro (642-649) e al suo fianco operò Massimo il Confessore, i cui interventi cul-

minarono nella redazione dei cosiddetti Atti del concilio Lateranense del 649. Denominati «imperiali» ed effettivamente viventi nella comunione della Reichskirche, i melkiti non furono comunque un’appendice dell’impero cristiano in terra araba. La crisi iconoclastica lo avrebbe mostrato con assoluta evidenza. Presentato dai suoi artefici come una purificazione da incro-

stazioni idolatriche e un ritorno alle origini, l’iconoclasmo fu in

realtà un'autentica «riforma», ossia un tentativo di riplasmare la chiesa e la sua concreta fisionomia storica in base a principi elaborati in dialettica tensione rispetto alla tradizione viva dell’esperienza ecclesiale. In effetti al rifiuto delle immagini si associaro-

no, soprattutto sotto Costantino V, l'opposizione alla venerazio-

462

Cristianesimo

ne per le reliquie dei santi, il rifiuto dell’invocazione alla Genitrice di Dio, il disprezzo per la vita monastica. La sensibilità dottrinale, che moveva i propugnatori dell’iconoclasmo, emerge chiaramente nell’iscrizione collocata sotto la Croce che prese il posto dell’icona di Cristo alla Chalkè (il portale bronzeo d'ingresso all’area palaziale costantinopolitana): «Il Signore non tollera che si dipinga un’immagine di Cristo, facendola con maieria terrena». Al di là, dunque, degli eventuali abusi cui il culto per le immagini aveva dato adito, ciò che l’icono-

clasmo contestava era la rappresentabilità stessa del divino e, più in generale, di qualsiasi realtà trascendente. Sotto quest’aspetto negli iconoclasti s'evidenziava una percezione del mistero teofanico del Logos incarnato tale da conferire alle loro affermazioni una marcata connotazione cristologica. Significativamente fu un monaco melkita di San Saba, Gio-

vanni Damasceno, a insistere fin dall’inizio su questa implicazione dottrinale presente nel rifiuto delle immagini, denunciando-

ne negli anni attorno al 730 l’incompatibilità con l’ortodossia cal-

cedoniana (edizione delle tre apologie iconodule Kotter, 1975). Del resto, anche Costantino V, nelle «Questioni» sottoposte al

concilio iconoclasta di Hiereia (pron. Hierìa) da lui convocato nel 754, avrebbe cercato di configurare l’icona in rapporto al mistero di Cristo quale realtà intrinsecamente «nestoriana», se intesa come raffigurazione della sola natura umana del Logos incarnato, e quale frutto di confusione «eutichiana» nel caso pretendesse di rappresentarne la natura divina. Il concilio di Hiereia, che raccolse 338 vescovi, ma nessun pa-

triarca o suo rappresentante (donde l’appellativo di sinodo «ace-

fala» coniato dagli avversari iconoduli), può considerarsi come il momento culminante della riforma iconoclasta; preannunciata

da dichiarazioni episcopali nelle regioni orientali dell'impero, essa fu concretamente avviata da Leone III nel 727 con l’abbattimento dell'icona di Cristo alla Chalkè e da questo stesso imperatore imposta con il successivo editto del 730. Quando l’ateniese Irene, reggente per il figlio Costantino VI, riuscì nel 787 a ripristinare il culto delle immagini

tramite il concilio Niceno

II,

quest'assemblea non soltanto precisò definitivamente la distinzione tra adorazione vera e propria (alethinè latréia), dovuta esclu-

sivamente alla natura divina, e venerazione (frosky nesis), rivolta

alle icone, ma recepì pure il magistero del Damasceno, collegando strettamente la venerazione delle immagini all'economia salvifica dell’Incarnazione.

C. Alzati

La chiesa ortodossa

463

Di fronte alle decisioni conciliari, assunte alla presenza dei legati del papa romano, grande fu pertanto la soddisfazione di quell’ambiente melkita che alla causa iconodula aveva contribuito in modo decisivo (attraverso i trattati del Damasceno, ma non solo: oltre alle sinodi successive al concilio di Hiereia, e a

scritti quali — di altro monaco Giovanni - il De sacris imaginibus

contra Costantinum Cabalinum, databile attorno al 764, e l'Adver-

sus iconoclastas del 770 circa, si pensi al trattato arabo sulle im-

magini di Teodoro di Harran). Com’è noto, un aspro dissenso nei confronti del concilio Niceno II fu allora espresso dalla chiesa franca, attraverso i Libri Carolini e la sinodo di Francoforte del 794; basta in ogni caso un sommario

confronto

tra le enuncia-

zioni formulate in tale ambito e le argomentazioni sviluppate nei testi iconoduli orientali per rendersi conto di quale divario sussistesse tra le rispettive strumentazioni concettuali e teologiche. La seconda fase iconoclasta, dall'815 all'843, avrebbe compor-

tato nuovi significativi sviluppi nell’apologetica iconodula. In ef-

fetti, se il patriarca costantinopolitano Niceforo rimarcò la distinzione ontologica sussistente tra archetipo e immagine (da Co-

stantino V vincolati a un rapporto di «consustanzialità») e segnalò l’ortodossia calcedoniana dell’icona in quanto rappresentazione di una carne non mutata nella sua essenza ma capace di un modo

d’essere divino (come manifestato nella Trasfigurazione), per parte sua Teodoro Studita, con diretto riferimento ai quesiti sollevati

a suo tempo ancora da Costantino V, puntualizzò come nell’im-

magine sacra non la natura trovasse rappresentazione, ma l’ipostasi, sicché pure sotto tale aspetto le icone dovessero considerarsi una diretta manifestazione del dogma di Calcedonia. Anche nel corso di questa nuova stagione iconoclasta la chiesa melkita risultò oltremodo lineare nei suoì orientamenti e rese una testimonianza esemplarmente risoluta nella stessa città imperiale. Il sinkello del patriarcato di Gerusalemme, Michele, recò infatti la voce della sua chiesa a Costantinopoli, unitamen-

te ai fratelli monaci Teodoro e Teofane, noti con la denominazione di «Grapti» per le scritte iconoclastiche con cui vennero marchiati sul capo ai tempi dell’imperatore Teofilo (829-842). Questo lungo e travagliato dibattito intorno alle immagini, protrattosi in Oriente

per più di un secolo, non

fu senza risulta-

ti. Ne scaturì infatti il definitivo superamento di abusi precedentemente conosciuti nel culto delle icone e la fissazione di precise normative per la codificazione del linguaggio iconografico. Ma, soprattutto, ne derivò l'elaborazione di una vera e propria

464

Cristianesimo

dottrina dell'immagine sacra. Il significato di quest'ultima ne uscì delineato ben oltre il puro fine catechetico e devozionale, mostrandosene l’intima connessione con la realtà teandrica del mistero cristiano, di cui proprio l’icona poté essere additata quale luminosa manifestazione. Il frutto di tutto ciò può essere colto immediatamente ancor oggi varcando la soglia delle cattedrali del Cremlino moscovita o entrando in una moderna chiesa affrescata nella Grecia contemporanea. 3. IL PATRIARCA FOZIO E L'AUTOCOSCIENZA ECCLESIALE DELL'ORTODOSSIA

Ancora all'ambiente melkita palestinese si lega l’avvio di un altro dibattito dottrinale; e fu dibattito di singolare importanza, in quanto fece emergere la profonda diversità di orientamento con-

servatasi nella riflessione triadologica tra l’ambito ecclesiale latino e quello greco, nonostante il riferimento alle medesime

mulazioni dogmatiche. La questione, già segnalata (MGH,

negli occidentali

for-

Libri Carolini

Leges, s. III, II, Suppl., pp. 110-113; cfr. MGH,

Ep., V, p.

7), esplose nell’808 a Gerusalemme quando il monaco sabaita

Giovanni denunciò la comunità monastica franca del Monte Oliveto poiché, nella proclamazione liturgica del Credo niceno-costantinopolitano, al testo enunciante la «processione» dello Spirito Santo «dal Padre» aggiunge l’inciso «e dal Figlio» (Filioque).

Il canto del Credo nella Messa era un uso da poco introdotto

nella comunità benedettina dell’Oliveto, i cui monaci lo avevano

ripreso per loro stessa dichiarazione dalla cappella palatina carolingia, dove probabilmente datava dal concilio di Aquisgrana del 798-800. Quanto all’interpolazione filioquista, generalizzatasi presso tutte le chiese dei territori sottoposti alla monarchia franca, essa risaliva in realtà all'ambito ispanico, dove era pro-

babilmente emersa nel quadro della polemica antipriscillianista, divenendo poi un caposaldo della locale teologia trinitaria di parte nicena contro l’«arianesimo» visigoto (si veda al riguardo la professione di fede cattolica emessa da re Reccaredo nella sinodo Toletana di unione del 589: Mansi, IX, c. 977).

L’inciso veniva in ogni caso ad alterare un testo di primaria

rilevanza per la tradizione dogmatica della chiesa; si trattava in

effetti del Simbolo di fede congiuntamente recepito da Oriente e

C. Alzati

La chiesa ortodossa

465

Occidente e che solenni concili avevano dichiarato immutabile, considerandolo il paradigma stesso dell’ortodossia. L'’illegittimità sotto questo aspetto dell’interpolazione filioquista appare nitidamente colta dal monaco gerosolimitano che la denunciò. Più difficile risulta valutare quale percezione egli abbia avuto della dottrina trinitaria soggiacente al filioque e quale sia stata la sua consapevolezza dell’estraneità di tale dottrina rispetto alla tradizione triadologica consolidatasi in Oriente attorno al magistero dei Padri cappadoci. Queste ultime implicazioni, com'è noto, sarebbero state acutamente evidenziate alcu-

ni decenni più tardi da Fozio nel contesto della globale rilettura

da lui condotta dell’esperienza ecclesiale latina. Suscitata da situazioni contingenti (l'intervento del papa di Roma Nicola I nella vita istituzionale della chiesa di Costantinopoli e la competizione tra le due sedi nell’evangelizzazione dei popoli insediatisi nell’Iilirico), l’enciclica foziana dell’867 sugli errori latini (Grumel, 1936 II, n° 481) avrebbe rappresentato per tutto l'Oriente la lucida e definitiva presa di coscienza della specifica identità ormai assunta dalla chiesa occidentale, di cui venne evi-

denziando la dialettica dissonanza rispetto all’ortodossia e all’ortoprassi greche. Le difformità nel digiuno quaresimale, sospeso in Oriente nel giorno di sabato (come del resto avveniva anche in Occidente a Milano), la confermazione episcopale con rinnovo della crismazione, secondo una prassi ignota ai Greci presso i quali non vi è intervento del vescovo dopo il battesimo ed esiste un'unica unzione crismale (come pure si praticava nella Milano altomedievale dove, tra l’altro, per diversi secoli si sarebbe conti-

nuato anche ad utilizzare nelle celebrazioni eucaristiche il pane fermentato insieme all’azimo), la continenza assoluta imposta dalla disciplina romana agli ecclesiastici, contrariamente a quanto previsto dalle disposizioni sullo stato coniugale del clero fissate dagli antichi concili orientali comunemente recepiti (coi quali ancora una volta la chiesa ambrosiana risulta aver concordato, almeno tra X e XI secolo) furono accuratamente evidenziati dal patriarca costantinopolitano insieme ad altre più minute discrepan-

ze, quali corollari del più rilevante errore di carattere dottrinale —

vera e propria eresia — rappresentato appunto dalla dottrina filioquista. A quest’ultima Fozio avrebbe dedicato un intero trattato, il Liber de Sancti Spiritus mystagogia, rimasto anch'esso punto di riferimento per la successiva tradizione teologica greca. In tale opera i filioquisti latini venivano definiti Ayiopàtoro: (filiopatristi), in quanto — come gli antichi sabelliani — negatori della distinzione

466

Cristianesimo

delle tre ipostasi divine e sostenitori della monade Figlio-Padre. Nella sua esasperazione polemica, l’assunto costituiva una consapevole presa d'atto della diversità d'orientamento e di strumenta-

zione concettuale che, fin dalle più antiche elaborazioni, aveva ca-

ratterizzato la riflessione trinitaria sviluppatasi nell’Occidente latino rispetto alla tradizione triadologica sorta in Oriente dal magistero di Origene e negli ultimi decenni del IV secolo sistematiz-

zata in senso niceno dalla riflessione dei Padri cappadoci (Basilio,

Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa). Già nei grandi dibattiti del IV secolo sul Credo niceno, mentre la dottrina origeniana delle tre ipostasi era apparsa agli Occidentali disciogliere l’unità divina in un inaccettabile triteismo, il principio dell’unicità di sostan-

za (espresso dalla formula nicena homooùsion/consubstantialem) era

stato inizialmente visto in gran parte dell'Oriente come la negazione della divina «economia» (il termine in Ippolito, Contro Noe-

to III, 4), ossia come il misconoscimento della reale sussistenza e

distinzione tra Dio e il suo Logos, che apparivano ricondotti, sul-

la scia del monarchianesimo di Sabellio, a un'unità indistinta Pa-

dre-Figlio. Se i Cappadoci, con la loro elaborazione concettuale, resero possibile integrare l’unità di essenza nella dottrina delle tre ipostasi, la triadologia che ne derivò, e che fu riproposta in Oriente come la forma paradigmatica dell'ortodossia, conservò nei con-

fronti degli Occidentali, pur nella condivisa formula nicena, un'ir-

riducibile specificità. Proprio il Filiogue, con la connessa elaborazione dottrinale in merito allo Spirito Santo, ne costituì il segno inequivocabile, acu-

tamente evidenziato dalla polemica foziana.

Di fronte all’aggiunta latina (ex Patre Filioque procedit: procede dal Padre e dal Figlio),il patriarca con forza volle riaffermare la monarchia del Padre

(ek monou tou Patròs. dal solo Padre), riba-

dendo in tal modo il principio del Padre quale unica fonte della divinità (pegè les theòtetos) in continuità con l’insegnamento di Origene; il che ovviamente non contraddiceva l’affermazione dell'intervento del Figlio in tale processo, come pure i Cappadoci avevano affermato (diìa tou Hyioù: per mezzo del Figlio). Un concreto ed eloquente riflesso di queste problematiche può essere colto nelle vicende della missione avviata dai fratelli greci Cirillo e Metodio tra gli Slavi. La condanna, emessa dal papa romano Stetano V nell’886 contro tale missione, ebbe in effetti nel

rifiuto della dottrina filioquista una tra le principali motivazioni (MGH, Ep., VII, pp. 353, 355-356). Merita segnalare, in rapporto a successivi sviluppi del dibattito, come la strenua opposizione di

C. Alzati

La chiesa ortodossa

467

Metodio e dei suoi discepoli al Filioque, professato dal clero franco, fosse associata in loro a un'aperta condivisione della dottrina

greca sulla «processione» dello Spirito Santo «ek tou Patròs dià tou Hyioù» (dal Padre per mezzo del Figlio) (Teofilatto di Ochrida, ta di Clemente VIII, 28, cfr. Tunickij, 1918, p. 96).

Vi-

Lo scontro dottrinale divampato sulla scia degli scritti foziani finì dunque per investire globalmente le relazioni tra Greci e Latini all'interno dell’ecumene cristiana, con conseguenze decisive per le successive vicende di quest’ultima. In particolare il rifiuto dell'esperienza missionaria cirillo-metodiana, messo in atto in tale contesto dall’Occidente latino, fece sì che il magistero legato a tale missione si potesse radicare esclusivamente nell’Oriente greco, generando nell’area balcanica, sotto l’egida del bulgaro Boris, la tradizione ecclesiastica bizantino-slava: per questo tramite, le genti slave sarebbero entrate a pieno titolo nel processo di formazione dell'Europa, con la loro specifica identità e offrendo il loro originale contributo. Quanto a Fozio, l'eccezionale apporto da lui venuto alla presa di coscienza dell’ortodossia greca sarebbe rimasto indelebilmente impresso nelle chiese portatrici di tale patrimonio di dottrina, di disciplina e di prassi istituzionale, segnandone fino ai nostri giorni le relazioni con le chiese d'Occidente. Se la prospettiva più o meno marcatamente antropocentrica soggiacente all’attuale riflessione teologica ha teso, nei recenti contatti «ecumenici» e specialmente da parte occidentale, ad attenuare l’importanza della differenza dottrinale espressa dal Filioque,

un'attenta considerazione storica della questione non può in realtà non riconoscere a questo elemento un valore altamente qualificante in rapporto al modo in cui in Oriente e in Occidente la riflessione cristiana si è accostata al mistero di Dio e ne ha formulato la propria comprensione. In questo senso la dissonanza evidenziata dal monaco melkita Giovanni agli inizi del IX secolo, e successi-

vamente analizzata nelle sue implicazioni teologiche dall’acuta

mente di Fozio, non cessa d’interpellare ancor oggi le chiese, sti-

molando una più adeguata ricerca dei fondamenti della loro unità. 4. LA FINE DELLA COMUNIONE CON L’OCCIDENTE LATINO

Se Fozio nel concilio inaugurato nel novembre 879 a Costantinopoli alla presenza dei legati romani poté ricomporre la frattura apertasi dopo la sua ascesa al soglio patriarcale tra le sedi

468

Cristianesimo

dell’Antica e della Nuova Roma, la consapevolezza critica ch'egli aveva suscitato in merito ai rapporti tra Greci e Latini non tardò a manifestare i suoi frutti. Fin dai tempi successivi al pontificato romano di Giovanni XVIII

(m.

1009), mentre sulla cattedra costantinopolitana sede-

va il patriarca Sergio (999-1019), il nome del papa di Roma venne cassato dai dittici della Grande chiesa e non se ne fece più

menzione nell’ambito delle celebrazioni liturgiche patriarcali.

La comunione tra le due sedi era dunque già interrotta quando scoppiò la crisi degli anni 1053-1054. Questo può spiegare perché a tale specifico episodio da parte costantinopolitana non sia stata riconosciuta alcuna particolare rilevanza, tanto che di esso non rimase eco nella pubblicistica greca coeva. La diatriba iniziò nella primavera del 1053, quando a Costantinopoli il patriarca Michele Cerulario, dopo aver ricevuto uno scritto dal melkita Ibn Botan, impose la chiusura delle chiese latine presenti in città a causa dei loro usi rituali. Ciò che in quell’occasione veniva in particolare censurato era l’uso dell’azimo nel sacrificio eucaristico. Avendo il patriarca dichiarato invalide le celebrazioni che non impiegassero pane fermentato (simbolo di vita), si giunse, tra violenze e fanatismi, a calpestare pubblicamente le ostie consacrate dai preti latini. Non essendosi ancora generalizzato, a quella data, tra le comunità occidentali il canto del Credo

durante la messa, il problema del Filiogue rimase allora marginale. Dopo tali eventi l'arcivescovo d’Ochrida Leone, già chartophy'lax di Santa Sofia, in accordo col Cerulario inviò un’ampia

lettera al vescovo Giovanni di Trani, denunciando gli «errori la-

tini» e ponendone l’abbandono come condizione per l’unità del-

la chiesa. Trasmesso al romano Leone IX, il documento suscitò la stesura di una puntigliosa e aggressiva risposta, cui mise mano

Umberto di Silvacandida; essa non fu peraltro diffusa, giacché ai

primi del 1054 missive dal tono pacato, di Costantino IX e di Michele, inviate direttamente al papa, imposero nuovi testi di risposta, che furono affidati a una legazione presieduta dallo stes-

so Umberto. Dopo la morte del papa, avvenuta il 19 aprile e risaputasi anche a Costantinopoli, il 24 giugno si svolse il contraddittorio tra il cardinale vescovo latino e il monaco studita Niceta Stethatos. Argomento primario furono ovviamente gli azimi, ma Umberto non si astenne dal contestare anche lo stato coniu-

gale del clero greco e la sua disciplina del digiuno.

In mezzo ad aspre tensioni, il 16 luglio, il cardinale deponeva sull'altare di Santa Sofia l’anatema contro Michele e, dopo due

C. Alzati

La chiesa ortodossa

469

giorni, lasciava la città. L'enormità delle affermazioni contenute nel testo di scomunica (tra cui l’assurda accusa ai Greci d'aver

espunto il Filioque dal testo originario del Simbolo di fede) e il rifiuto opposto da Umberto alla richiesta di presentarsi dinanzi alla sinodo residenziale spinsero quest’ultima a scomunicare i legati latini, mentre l’imperatore per parte sua fece bruciare pubblicamente l’anaterna lanciato dal cardinale. In ambito latino gli scritt di Umberto avrebbero garantito all’episodio una durevole attenzione (e una certa enfatizzazione) storiografica. In realtà — come già s’è osservato — la comunione s’era interrotta, tra le due cattedre, già precedentemente, mentre, tra Greci e Latini, si sarebbe conservata, seppure con difficoltà, in altre aree e presso altri patriarcati. E anche a Costanti-

nopoli, dalla cui cattedra Michele nel 1058 venne deposto, chiese e monasteri occidentali avrebbero continuato a sussistere. Entro i limiti ora indicati, l'episodio del 1054 non fu comunque irrilevante per la storia cristiana: i trattati di Niceta Stetha-

tos sugli azimi (cfr. Michel, 1935) e il Dialogus inter Romanum et Graecum di Umberto, unitamente ai testi da lui redatti per Leone IX (cfr. Will, 1861), vennero a corroborare e ad accrescere un

armamentario polemico, il cui inevitabile frutto fu.il consolidamento di identità ecclesiali che sempre più si concepirono come reciprocamente estranee. Se le scomuniche incrociate di Umberto e Michele nel 1054 costituirono la clamorosa manifestazione del distacco ormai determinatosi nella vita ecclesiale tra le sedi di Roma e di Costantinopoli, il fenomeno delle Crociate avrebbe suscitato, dopo pochi decenni,

tra Oriente

cristiano

e Cristianità latina un

con-

fronto che investì l’intero loro modo di essere società cristiana. Fin dall’arrivo degli armati latini sul Bosforo, alla fine del 1096, apparve evidente quanto l’«imperatore dei Romani», e soprattutto il significato istituzionale della sua figura perpetuatasi senza soluzione di continuità a Costantinopoli, fossero divenuti estranei al mondo latino. Alessio I Comneno ebbe riconosciuta la sua autorità da parte dei crociati non in forza del suo essere il kosmokràtor (ossia l’immagine

di Dio, a cui Dio stesso aveva affi-

dato il reggimento del mondo), ma soltanto in virtù del giuramento di fedeltà vassallatica che, non senza eccezioni e difficoltà,

egli riuscì ad imporre ai capi della spedizione. L'appello che Alessio aveva rivolto a Urbano Il era stato concepito come una richiesta di truppe e di aiuti perché l'impero po tesse liberare le terre occupate dai Turchi; la risposta che ne era

470

Cristianesimo

venuta era stata, non il sostegno alla lotta dell’imperatore cristiano contro l’Islam, ma una diretta iniziativa della Cristianità occi-

dentale per la conquista dei Luoghi Santi. E in una prospettiva siffatta non stupisce che agli occhi di molti artefici di tale spedizione, e in particolare dei Normanni italo-meridionali, i vincoli di sot-

tomissione richiesti dall'imperatore costantinopolitano risultassero ingombranti intoppi e la sua renitenza a una diretta partecipazione all’impresa assumesse i connotati del tradimento. Di fatto,

fin dai primi passi dell’avventura crociata iniziarono ad echeggiare voci invocanti quella cancellazione dell'impero costantinopolitano, poi perseguita e realizzata dalla spedizione del 1204. Va osservato come l’atteggiamento dei crociati nei confronti dell’impero della Nuova Roma trovasse un puntuale corrispettivo nelle loro iniziative in ambito ecclesiastico. L'espansione infatti delle conquiste delle armate occidentali comportò una parallela corrosione della chiesa greco-melkita: si fondarono nuove sedi episcopali latine, s’insediarono progressivamente vescovi latini nei vescovadi orientali divenuti vacanti, si nominarono ve-

scovi latini per antiche sedi orientali non più esistenti (da allora data la figura del vescovo titolare di sede in partibus infidelium), e infine esponenti del clero latino furono stabiliti sulle stesse cattedre patriarcali di Gerusalemme e di Antiochia. Non diverso fu, del resto, il comportamento

dei Normanni

nella loro conquista

dell’Italia «greca» e della Sicilia. Una parziale prefigurazione di quanto sarebbe accaduto nel 1204 a Costantinopoli poté vedersi a Cipro negli anni immediatamente precedenti. Nel 1182, dopo sommosse antioccidentali contro la reggenza di Maria, moglie latina di Manuele, Andronico I aveva acquisito il potere nella città imperiale. Un altro Comneno,

Isacco, era insorto e s'era proclamato

basilèus in Ci-

pro, instaurandovi la sua corte. Nel 1191 la flotta di Riccardo Cuor di Leone mise fine a questo impero larvale. L’isola fu subito affidata ai Templari, che già nel 1192 la cedettero all'ex re

di Gerusalemme, Guido di Lusignano. Per parte sua la sede apo-

stolica non avrebbe

tardato, tra il 1196 e il 1197, a istituire nel

nuovo acquisto crociato una compiuta gerarchia latina, presie-

duta da un arcivescovo residente a Nicosia; tale provvedimento,

pur scalzando l'episcopato greco dalle sue sedi, non ne comportò peraltro la totale cancellazione dall’isola, dove infatti poté perpetuarsi, seppure in condizioni non sempre agevoli. Non così avvenne a Costantinopoli nella primavera del 1204, quando i crociati latini, che già l’anno precedente avevano vio-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

471

lato la città per imporvi Isacco II e Alessio IV Angelo, ne presero nuovamente possesso, dopo aver pianificato la spartizione della Romània. La sede degli imperatori cristiani, la Nuova Roma di Costantino, fu abbandonata a un saccheggio di tre giorni; il popolo, che si prostrava a terra al passaggio dei vincitori, il clero,

che andò loro incontro con croci e icone, dovettero subire stragi

e violenze. I tesori della città furono depredati, quando non barbaramente

distrutti; nemmeno

la tomba di Giustiniano si salvò

dalla violazione; fu fatto scempio delle suppellettili sacre e i sacramenti furono profanati. Niceta Coniate non poté che esaltare la correttezza e la moderazione di Omar e dei musulmani che conquistarono Gerusalemme al confronto della furia apocalittica di questo esercito che portava la Croce di Cristo sulla spalla. Dopo la conquista, con l’elezione al trono di Baldovino di

Fiandra, i crociati diedero vita sul Bosforo a un impero latino. Quanto alle istituzioni ecclesiastiche, Venezia, sulle cui navi la

spedizione era stata compiuta, avendo riservato a sé in Costantinopoli la Santa Sofia (e ciò spiega perché buona parte delle suppellettili sacre della basilica imperiale si trovi ora nel tesoro della basilica dogale di San Marco), insediò immediatamente nella Grande chiesa un Capitolo latino, che a sua volta procedette all'elezione di Tomaso Morosini quale patriarca. Il doge Enrico Dandolo poteva a quel punto scrivere a Innocenzo III che la distruzione, allora ritenuta definitiva, dell’impero «greco» era stata attuata dai Veneziani ad honorem Dei ei sanciae Romanae ecclestae, et Christianitatis subventionem (PL, CCXV, cc. 511-512).

Successivamente, come già accaduto in area antiochena e gerosolimitana, una compiuta gerarchia latina si venne stabilendo nei diversi territori conquistati. Particolarmente rilevante (anche per la sua durata fino al 1669) fu il regime ecclesiastico instaurato dai Veneziani a Creta. Qui la fuga e la spoliazione del locale episcopato portò alla situazione di una gerarchia latina preposta a un clero di villaggio greco. Quale ragguardevole istituzione religiosa greca, garantita nei suoi possessi e nella sua au-

tonomia, rimase, comunque, a Candia il monastero di Santa Caterina, che, metòchion dell’illustre centro monastico del Sinai, di-

venne il vero punto di riferimento per i fedeli e i preti seguaci della tradizione dottrinale ed ecclesiastica orientale. Dovunque la conquista occidentale si venne estendendo in Oriente, le strutture episcopali greche furono dunque in vario modo sostituite dal sistema ecclesiastico latino: in Palestina e in Siria esse poterono venir ristabilite solo in seguito alla riconqui-

472

Cristianesimo

sta islamica, e nei territori propriamente greci dovettero atten-

dere per risorgere la restaurazione dell’autorità del basiltus ton

Rhomàion. E quindi facilmente comprensibile quale drammatico significato le Crociate abbiano assunto per melkiti e Greci, e quale definitivo trauma esse abbiano rappresentato per la comunione tra Oriente e Occidente. L'azione dei conquistatori e le ratifiche pontificie al loro operato offrirono in effetti la tangibile e definitiva dimostrazione di come chiesa latina e chiesa greca non fossero più espressioni diversificate di un unico pleroma eccle-

siale, ma costituissero ormai due chiese distinte, i cui ordina-

menti istituzionali e canonici venivano percepiti come sistemi tra loro incompatibili e alternativi. 5. IL MONACHESIMO ATHONITA E LA QUESTIONE ESICASTICA

Il monachesimo società cristiana costantiniana e, sempre più una

aveva segnato con la sua presenza la vita della fin dalla prima gestazione di quest’ultima in età dell'organismo sociale cristiano, era divenuto componente essenziale.

Peraltro, dopo il concilio Calcedonese del 451, i grandi cen-

tri egiziani, in cui tale forma di vita aveva conosciuto tra III e IV secolo espressioni rimaste paradigmatiche per la successiva tradizione ecclesiale, si trovarono a percorrere un proprio itinerario storico all’interno della chiesa copta. Sicché, in ambito gre-

co e melkita, altre aree e altri luoghi divennero punto di con-

vergenza per asceti e sedi di un autorevole magistero spirituale, dimostratosi di non poca rilevanza anche in rapporto alla trasmissione dell'ortodossia dogmatica: si pensi al Sinai e al suo monastero, ai cenobi e alle lavre palestinesi, anzitutto la lavra di San Saba; ma ancora si pensi ai monasteri urbani di Costantinopoli,

tanto vivacemente presenti nelle grandi dispute dottrinali, e a luoghi monastici come il monte Olimpo in Bitinia. Col secolo X un nuovo grande centro spirituale venne imponendosi all'attenzione delle chiese: la penisola athonita. Già da tempo essa era divenuta rifugio di asceti in cerca di solitudine, ma con la fondazione della Grande Lavra ad opera del santo monaco Atanasio nel 963 iniziò quell’organizzazione della vita religiosa che avrebbe fatto di questa estrema propaggine della Calcidica un luogo privilegiato dello spirito, la Santa Montagna (Hà-

gion Oros) cui l’intera comunione ortodossa avrebbe guardato attraverso i secoli con venerazione.

C. Abati

La chiesa ortodossa

La costruzione

473

del monastero

di Atanasio,

dedicato

all'An-

nuncio a Maria (e di Maria l’Athos sarebbe stato detto il giardino), ebbe il sostegno dell’imperatore Niceforo Foca, che intese tale fondazione quale dono votivo per l'avvenuta liberazione di Creta dalla signoria musulmana. La regola, redatta da Atanasio sull’esempio cenobitico studita, fu ratificata attorno al 972 da un chrysobollo imperiale, che le meritò la denominazione di 7ypikon di Giovanni Zimisce. In questo testo, dove per la prima volta appare il divieto per donne e fanciulli di accedere allo spazio monastico, venne rimessa all’autorità imperiale qualsiasi futura variazione disciplinare. E in effetti di Costantino IX Monomaco sarebbe stato il nuovo 7yfikon del 1046. Sotto l'impero latino la Santa Montagna, affidata al vescovo

di Sebaste (forse titolare della sede latina palestinese), dovette subirne le spoliazioni, tanto che Innocenzo III, al fine di tutela-

re i diversi monasteri, li pose nel 1213 sotto la protezione della

Sede Apostolica, confermando tutti i privilegi precedentemente

concessi dagli imperatori. Dopo un secolo, ripristinata ormai a Costantinopoli la basilzia ton Rhomàion, Andronico

II con un chrysobollo del 1312 decise

di sottoporre tutte le comunità athonite all’autorità del patriarca della città imperiale: è il regime canonico tuttora vigente. Preceduto da più antichi insediamenti, il cenobio di Atanasio fu subito seguito da una quantità di altre fondazioni. Lungo i secoli esse si sarebbero variamente sviluppate, con fasi alterne; in particolare durante Ja turcocrazia, anche per i gravami imposti dalla dominazione ottomana, si determinò un progressivo passaggio dalla disciplina cenobitica a quella idiorythmica, secondo la quale nei giorni feriali è previsto che ciascun monaco conduca vita appartata e autonoma, condividendo coi fratelli soltanto la residenza e la preghiera. Dal secolo scorso si è peraltro sviluppato un forte movimento di ritorno al cenobitismo, divenuto ora la forma di vita prevalente. Attualmente i grandi monasteri assommano a 20, con molteplici filiazioni: skite, monasteri dipendenti talvolta anche di notevoli dimensioni; kellîa, insediamenti monastici costituiti da piccole residenze comunitarie guidate da un padre spirituale; kalive, complessi di dimensioni minori; kathìsmata, residenze di sin-

goli monaci nei pressi dei monasteri; hisychastiria, o askitìria, veri € propri romitori. L'ordinato sviluppo anticamente garantito alle fondazioni aghioritiche dalla protezione imperiale e la fama da esse acquisita

474

Cristianesimo

determinarono un afflusso da ogni parte di quello che Dimitri Obolensky ha definito il «Commonwealth bizantino», ossia l’insieme di popoli e di regni che, inseriti nel sistema ecclesiastico di Costantinopoli, ne vennero a condividere anche la tradizione di

cultura e di civiltà. Tra i vari cenobi sorti ancora vivente Atanasio

si trova, databile attorno al 979, il monastero Iviron, ossia «dei Georgiani»; e «dei Russi» è detto il monastero di San Panteleimon,

fondato agli inizi dell'XI secolo, ma nel quale soltanto dal Cinquecento la presenza russa divenne qualificante (vanificandosi dopo la metà del XVIII secolo per riprendere infine nel 1840). Quanto al monastero di Koutloumousiou,

sicuramente esistente nel XII

secolo, esso dal XIV divenne oggetto privilegiato di elargizioni ad opera dei voivodi romeni e residenza di monaci provenienti dalle

loro terre. Un altro monastero, già attestato nel secolo XI, Chi-

landar, sarebbe stato rifondato dal principe Stefano Nemanja e dal figlio Rastko, monaci coi nomi di Simeone e Sava, e assegnato ai Serbi per sempre da un chrysobollo di Alessio III nel 1198. Analogamente dal XIII secolo appare abitato da monaci bulgari il monastero di Zographou, che la tradizione vuole fondato nel secolo

X da tre fratelli ochridensi. Ma all’Athos furono presenti anche

monaci occidentali, segnatamente di provenienza amalfitana, il cui insediamento (Morfonou) è attualmente segnalato soltanto da un possente torrione, ma la cui partecipazione alla vita della comunità aghioritica nell’XI e XII secolo è attestata da una serie di documenti, in cui i loro abati figurano tra i sottoscrittori a fianco degli altri egumeni athoniti (ulteriore conferma del limitato rilievo assunto, nella realtà ecclesiastica coeva, dallo scontro costantinopolitano tra Umberto e Michele Cerulario nel 1054). All’interno della comunione ortodossa, composta da una pluralità di chiese autocefale, il comune legame con la Santa Montagna ha reso quest'ultima luogo insostituibile d’incontro e di reciproco scambio spirituale. Anche in questo senso l’Athos ha svolto un servizio straordinariamente prezioso per la vita ecclesiale ortodossa, soprattutto nei lunghi secoli della turcocrazia (protrattasi fino alla prima Guerra Balcanica nel 1912, la dominazio-

ne islamica iniziò qui con la definitiva conquista ottomana di Tessalonica [29 marzo 1430], in seguito alla quale ai monasteri athoniti venne imposto l’atto di sottomissione al sultano Murad II, che peraltro concesse loro, dietro pagamento di un tributo annuo, la conferma di tutti i privilegi e le esenzioni). Fondamentale nella storia della Santa Montagna e decisivo per il successivo orientamento spirituale e dottrinale dell'Orien-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

475

te ortodosso si presenta il dibattito che, un secolo prima dell’avvento ottomano, in ambito greco pose il monachesimo athonita al centro dell’attenzione ecclesiale. La questione fu avviata da un dotto monaco italo-greco di Calabria, Bàrlaam, recatosi verso il 1328/29 a Costantinopoli, dove

divenne egumeno di San Salvatore. La sua vasta cultura lo condusse rapidamente all'insegnamento nell’università costantinopolitana. Egli aveva lasciato in Occidente una teologia del tomi-

smo orientata verso un fiducioso realismo intellettuale, frutto ai

suoi occhi di «un cattivo e orgoglioso demone». Bàrlaam era al contrario animato da un apofatismo molto spinto, seppure anch’esso marcatamente intellettualistico. Non stupisce pertanto che nella città imperiale egli abbia sostenuto un dibattito con i teologi domenicani ed abbia composto un’opera contro le dottrine latine. Su incarico di Andronico IH nel 1339 fu ad Avignone, dove

ebbe

discepolo

il Petrarca,

e dove

si recò

definitiva-

mente dopo la sinodo di Santa Sofia del 1341, venendovi nominato vescovo di Gerace (soltanto una missione papale presso Anna di Savoia, madre reggente di Giovanni V, lo avrebbe temporaneamente riportato nel 1346 a Costantinopoli). La sua opera contro i Latini aveva determinato nel 1335 il suo contatto epistolare con un altro dotto monaco di formazione athonita, Gregorio Palamàs, che contestava alcune enunciazioni

del calabrese. Il dibattito giunse ben presto a investire l’esperienza religiosa del monachesimo esicastico (orientato, cioè, alla ricerca dell'incontro con Dio attraverso la pace interiore: hesychìa), la cui tradizione era allora già ben radicata sulla Santa

Montagna. La contestazione mossa dagli opuscoli di Bàrlaam riguardava sia le affermazioni in merito alla facoltà concessa ai santi esicasti di contemplare

l’increata luce divina, sia il metodo

di medita-

zione da essi praticato e che aveva trovato una concreta espressione in trattatelli quali il Metodo della santa attenzione dello Pseudo-Simeone il Nuovo Teologo, o il non dissimile Sulla custodia del cuore di Niceforo

l’Esicasta

(monaco

athonita

d'origine

italica,

probabilmente italo-greco e nella seconda metà del secolo XIII avversario dell’unione coi Latini voluta da Michele VIII).

La confutazione di Bàrlaam, condotta da Gregorio Palamàs nelle sue Triadi per la difesa dei santi esicasti, offrì a quest’ultimo l'occasione per una riconsiderazione dottrinale dell’esperienza monastica, recuperandone le profonde radici patristiche e il ra-

dicamento ecclesiologico. In questo senso, Gregorio Palamòàs, al-

476

Cristianesimo

la vigilia della turcocrazia, approntò una sintesi che divenne per la vita ecclesiale in Oriente il supporto teologico a cui poté ricorrere in difficili secoli successivi. La questione toccata da Bàrlaam aveva in effetti radici molto lontane. Nella seconda metà del IV secolo un intellettuale cappadoce, Evagrio, ritiratosi a vita monastica nel deserto egiziano, aveva fortemente insistito nei suoi scritti sul tema della preghiera, intendendo quest’ultima (sulla scia di una visione antropologica tendenzialmente dicotomica) come attività tipica dell’intelletto, che

in essa «diviene immateriale e nudo di tutto»; l’esperienza religiosa in tale prospettiva veniva dunque configurandosi sostan-

zialmente nei termini di una liberazione dello spirito dalle co-

strizioni della materialità.

Dialetticamente rispetto alle enunciazioni di Evagrio, le Omelie dello Pseudo-Macario, sulla base di una profonda consapevolezza

della soteriologia cristiana, avevano chiaramente radicato l’esperienza della comunione con Dio nell’escatologia sacramentale e, secondo una visione antropologica organicamente unitaria, erano

venute additando nel «cuore» il centro dell’uomo, «dove si trova-

no tutti i pensieri dell'anima e dove essa si rivolge al bene», dove

pertanto anche la potenza dello Spirito viene manifestandosi (cfr., ad esempio, Hom. XV, 20: PG, XXXIV, c. 589).

Se queste erano le posizioni emerse nella riflessione spirituale antica, l'elaborazione più propriamente dottrinale era venuta sot-

tolineando - ad esempio in Gregorio di Nissa - come l’irriducibi-

le trascendenza divina rendesse inconoscibile all’uomo l’essenza di Dio, del quale alla creatura è dato percepire soltanto quelle «energie» increate, per il cui tramite Dio stesso si manifesta. In forza di tali «energie» l’Inattingibile, pur rivelandosi e comunican-

dosi alla creatura, rimane nella sua essenza inattingibile, mentre

l’uomo, pur restando Dio totalmente altro da lui e per lui essenzialmente inconoscibile, è reso veramente partecipe della comu-

nione divina e, come avrebbe affermato Massimo il Confessore, vi-

ve l’esperienza della théosis, ossia della deificazione.

Oltre a tali ripensamenti dell’esperienza religiosa, l’ambiente monastico elaborò anche specifiche forme di vita spirituale e di preghiera; un chiaro esempio in tal senso è costituito dalla preghiera monologica, di cui già Macario, maestro di Evagrio, aveva parlato. Su queste basi, variamente componendole, si sarebbe costruita la successiva tradizione monastica dell'Oriente greco, una

C. Alzati

La chiesa ortodossa

477

cui sistematizzazione troviamo già nella prima parte del VII secolo nell’egumeno sinaita Giovanni. A lui si deve quella Scala del Paradiso (che gli valse il nome di Climaco e che ebbe amplissima e secolare fortuna) nella quale l’esicasta è presentato come «colui che tende a circoscrivere in una dimora di came l’Incorporeo», colui che non usa preghiere prolisse, ma una sola parola, colui per il quale il ricordo di Gesù è una sola cosa con il suo re-

spiro (Gradini XXVII e XXVIII). Più tardi, Simeone il Nuovo Teologo

(917-1022), egumeno di

San Mamas a Costantinopoli, avrebbe riproposto con una nota personalissima la propria esperienza mistica, fiorita sul tronco di questa tradizione spirituale, mostrando la natura costitutivamente cristocentrica di tale esperienza e non tralasciando il suo radicamento sacramentale: la visione è la visione del Dio che si è fatto uomo per amore dell’uomo, e il fuoco della sua divinità risplende dal Corpo purissimo e divino, cui all'uomo è concesso d’accostarsi nei divini Misteri, dopo aver ottenuto la remissione

dei peccati. Questi insegnamenti rifluirono in colui che nel XIV secolo sarebbe divenuto in Bulgaria guida spirituale del monachesimo sla-

vo, Gregorio il Sinaita, nel quale il costante ricordo di Dio e la

preghiera monologica, legata all’invocazione continua del Signore Gesù, sono percepiti come via per attingere a quella «energia dello Spirito che nel battesimo abbiamo misticamente rice-

vuto»

(Rigorosa notizia sull’esichia, 3).

Pochi decenni prima di Gregorio, Niceforo l’Esicasta aveva composto la sua già menzionata raccolta di testi monastici volti a suscitare la custodia del cuore, per il cui raggiungimento egli offriva alcune indicazioni pratiche attinte alla viva tradizione ascetica athonita. Proprio in tali suggerimenti (ampiamente condivisi in ambito monastico e che lo stesso Gregorio Sinaita avrebbe riproposto) si ritrova, dell’atto intellettivo connesso all’esperienza spirituale, un'interpretazione fisiologica che poteva suscitare riserve e contestazioni. Si trattava peraltro d’indicazioni che agli occhi dello stesso Niceforo assumevano valore puramente strumentale nei confronti della globale esperienza religiosa dell’esicasta; ma va rilevato come esse s’inserissero in un contesto monastico che, nelle sue espressioni più rozze al riguardo, do-

vette dar luogo anche a forme assai poco controllate sul piano della dottrina e della prassi. A queste primariamente si rivolse la contestazione di Bàrlaam,

sviluppatasi negli ultimi anni della vita di Gregorio Sinaita, che

478

Cristianesimo

peraltro vi rimase estraneo. L'attenzione del colto monaco calabrese fu soprattutto attratta dalle implicazioni dottrinali dell’esicasmo,

di. cui, in nome

della trascendenza

divina, egli negò

in

particolare l'affermazione che nell'esperienza contemplativa fos-

se dato vedere ed essere partecipi dell’increata luce divina, quella stessa apparsa un tempo ai tre discepoli sul Tabor. Come già s’è detto, l’organica risposta a Bàrlaam sarebbe venuta da Gregorio Palamàs. L’apologia, da questi elaborata a difesa della tradizione esicastica e dell'Athos, non soltanto venne

recuperando e facendo propria la distinzione patristica tra essenza ed energie per affermare su tale base, nella totale trascendenza di Dio, la reale partecipazione del contemplativo alla luce taborica delle increate energie divine, ma venne altresì riconducendo questa stessa esperienza al dono di Cristo e alla sua comunicazione misterico-sacramentale nella chiesa. Per quest’ultimo aspetto la riflessione di Palamàs poté recuperare la dimensione mistagogica dell’antica tradizione patristica e rappresentò un potente contributo alla crescita della consapevolezza ecclesiale in merito ai santi Misteri e alla percezione di essi quali fonti prime della «deificazione». Lo dimostra Nicola Kabasilas che, oltre a redigere un ricco commento alla Divina Liturgia, delineò la realtà della

Vita in Cristo attraverso l’esposi-

zione dei tre Misteri da cùi essa è generata e alimentata: il battesimo, la cresima e l’eucaristia.

Ma Gregorio non trascurò d'affrontare nei suoi scritti anche le manifestazioni più problematiche dell’esicasmo, legate a particolari forme di concentrazione su base fisiologica e respiratoria; la legittimazione palamita di tali aspetti passò peraltro attraverso la loro reinterpretazione e integrazione nel quadro generale di un'esperienza interiore, essenzialmente configurata quale ricerca della vita in Cristo scaturita dai santi Misteri celebrati nella chiesa. Il dibattito di Palamàs con Barlàam e Gregorio Akindynos non rimase in ogni caso circoscritto ai soli ambienti monastici; esso

finì per intrecciarsi agli scontri politici in atto, soprattutto dopo la morte di Andronico II (1341), tra quanti guardavano con la tradizionale

diffidenza

all'Occidente

(trovando

in Giovanni VI

Gantacuzeno il proprio interprete) e i fautori di più stretti legami con la Cristianità latina (in questa linea, oltre ad Anna di Savoia reggente in nome di Giovanni V Paleologo, operavano il patriarca Giovanni Caleca e il megas dux Alessio Apocauco). Ne risultò un quadro estremamente complesso, in cui aspetti religio-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

479

si e strategie politiche s’intersecavano strettamente, e le cui accese contrapposizioni vennero ulteriormente esasperate dall’esplosione del movimento «zelota» che, schieratosi col Paleologo,

conquistò Tessalonica e vi impose fino al 1349 la propria rivoluzione sociale antiaristocratica.

All’interno di tale aggrovigliato contesto, subito dopo la dif-

fusione del Tomo aghioritico steso da Palamàs stesso e sottoscritto dagli egumeni athoniti, si era avuta nell'agosto 1341, ancora vi-

vente Andronico III, la sinodo di Santa Sofia con la formale con-

danna del monaco Bàrlaam. La morte di Andronico in quello stesso anno, oltre ad aprire la guerra civile, mutò l’orientamento dottrinale a Costantinopoli, dove il patriarca provvide a incarcerare il Palamàs nel 1343 e a scomunicarlo sinodalmente nell’anno successivo, dopo che fu diffusa una confutazione di lui ad opera dell’Akindynos. Un mutamento dei rapporti di forza fu determinato nel 1347 a Costantinopoli dalla convocazione di un nuovo concilio, filoesicasta, che procedette alla deposizione del

patriarca. Seguì immediatamente l’ingresso di Giovanni VI nella

capitale e, in quello stesso anno, l’elezione di Palamàs alla catte-

dra di Tessalonica, che poté peraltro occupare soltanto nel 1350 dopo la liberazione della città dal regime zelota. Successivamen-

te, nel 1351, si tenne il concilio alle Blacherne da cui uscì la so-

lenne e formale approvazione dell’esicasmo e la condanna di Niceforo Gregoràs e dell’Akìndynos. Palamàs si sarebbe spento nel 1357/58, e poco dopo ne venne compiuta la canonizzazione. Quanto all’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, nel 1354 egli

fu costretto ad abdicare e a prendere l'abito monastico; quale monaco Giuseppe sarebbe vissuto fino al 1383, scrivendo, oltre

alla ben nota cronaca, una serie di testi teologici in difesa della

tradizione esicastica. Queste complicate vicende, che accompagnarono la vita e l’opera di Gregorio Palamàs, appaiono in ogni caso del tutto marginali rispetto al significato e al valore permanente assunti dalla sua elaborazione dottrinale nel contesto della teologia greca. La successiva emarginazione dei «latinofroni», ossia i filo-occidentali, e la generalizzata opposizione ai contatti ecclesiastici con Roma e, ancor più, agli atti d’unione perseguiti prima e dopo la caduta di Costantinopoli, sebbene si radicassero in secolari polemiche e in precedenti traumatiche esperienze, non avrebbero potuto essere quali furono senza la consapevolezza in merito alla specifica identità ecclesiastica greca e senza la vitalità spirituale suscitata in Oriente dal magistero di Gregorio Palamàs e dal-

480

Cristianesimo

la eco che di esso si conservò attraverso i secoli. In tal modo le chiese di tradizione bizantina, che attorno al 1335 trovarono nel

Syntagma di Matteo Blàstaris il compendio canonico che ne avrebbe regolato la successiva vita istituzionale, in quello stesso volgere d’anni ricevettero dalla riflessione palamita la sintesi di dottrina e di spiritualità che per larga parte ne avrebbe orientato l'esperienza religiosa fino ai nostri giorni. 6. COSTANTINOPOLI TRA LATINISMO E TURCOCRAZIA

Sia prima che dopo

il ritorno, nel 1261, del basilus a Costanti-

nopoli e il connesso ristabilimento delle gerarchie civili ed ecclesiastiche greche, il problema del rapporto con la Cristianità occidentale aveva rappresentato per l’«impero dei Romani» una questione nodale. La delicata situazione degli imperatori, dapprima a Nicea, poi nella stessa città imperiale, stretti tra la pre-

senza

turca

in Anatolia,

gli insediamenti

latini nella Grecia

e

nell'Egeo, gli zarati bulgaro e serbo in Balcania, rendeva le relazioni col papato romano momento chiave nel complesso delle strategie diplomatiche volte ad ottenere in Occidente la solidarietà e gli aiuti necessari per fare fronte alle molteplici minacce. Il perseguimento di più stretti legami con la sede apostolica non era certamente facilitato dall’orientamento ecclesiologico che quest’ultima andava allora elaborando e che avrebbe dato vita al-

le più esasperate teorizzazioni della plenitudo potestatis. Con un sif-

fatto interlocutore qualsiasi accordo non avrebbe che una sottomissione alle sue rivendicazioni e un delle sue dottrine. Ciò spiega perché quanti tra guirono una fattiva convergenza con il papato si rati agli occhi dei loro contemporanei come veri nofroni», ormai assimilati al modo

potuto essere accoglimento i Greci persesiano configue propri «lati

di sentire latino.

Tali connotazioni assunse di fatto l’unione sancita nel 1274 da Michele VII Paleologo. L'anno precedente, cogliendo occasione dalla presenza sul soglio pontificio di un papa, Gregorio X (Tedaldo Visconti), particolarmente attento al mondo orientale, l’imperatore aveva convocato a Costantinopoli con intenti unionistici un concilio, che peraltro si dichiarò, a partire dal patriar-

ca, decisamente contrario a qualsiasi accordo con Roma e con i

Latini. Nonostante le contrarietà suscitate dalle sue prese di posizione a favore dell’unione, Michele s’accordò col legato papale e riusci ad ottenere nel febbraio 1274 l’assenso di una parte

C. Alzati

La chiesa ortodossa

481

dell’episcopato e del clero a una lettera in cui si dichiarava al papa l'accettazione della sua autorità. Con tale documento e con

la professione di fede sottoscritta da Michele, tre legati costanti-

nopolitani raggiunsero il 24 maggio Lione, dove il 7 di quello stesso mese il papa aveva inaugurato il concilio generale nel qua-

le, oltre agli aiuti per San Giovanni d’Acri, ultima ridotta cristiana in Oriente (poi travolta nel 1291), si sarebbe dovuta trattare

l’unione coi Greci ed avviare la riforma della chiesa. A nome dell’imperatore il logoteta Giorgio Akropolîtes emise la professione di fede a lui richiesta e nella messa papale con gli altri due legati recitò il Credo ripetendo per tre volte il Ziliogue. Nemmeno le dimissioni del patriarca Giuseppe e la sua sostituzione con Gio-

vanni Bèkkos

(autore del trattato «sull’infondatezza storica del-

lo scisma tra le chiese») valsero a far recepire l'unione in Oriente. Le pretese romane in ambito ecclesiologico e dottrinale erano state del resto particolarmente urtanti: la concezione del potere ecclesiastico, e quindi anche dell'autorità patriarcale, come

partecipazione al potere della chiesa romana, il giuramento d'obbedienza nei confronti del papa, la recezione della dottrina filioquista suonavano come rinnegamento della tradizione «greca» e come accettazione di quella che era definita l’«eresia latina». Col 1361 gli Ottomani s’insediavano in terra europea, iniziando la progressiva conquista della Balcania. Se nel 1389 a Kosovo Polje il principe Lazar e i suoi cavalieri si acquistarono una gloria simile a quella dei martiri, da allora le terre serbe, già sot-

toposte al vassallaggio nei confronti del sultano, s’avviarono a una soggezione che dal 1459 sarebbe divenuta completa; quanto allo zarato bulgaro, esso fin dal 1393 fu cancellato e i suoi territori trasformati in provincia turca. Per un secolo la vita di Costantinopoli si protrasse in una lunga, lenta agonia. In tale drammatico quadro la solidarietà dell'Occidente latino divenne nuovamente problema centrale per il mondo costantinopolitano. Giovanni V Paleologo, che già nel 1357 emise personale adesione alla fede e alla chiesa romana ricevendo l’eucaristia dalle mani del legato papale, nel 1369 recatosi col latinofono Demetrio Kydònes a Roma, pellegrino in cerca d’aiuto, rinnovò a Urbano V la sua fedeltà, ma non riuscì a ottenere al-

cun concreto soccorso. Una limitata spedizione crociata s'era compiuta nel 1366 sotto la guida del Conte Verde, Amedeo di Savoia: ne era scaturita la temporanea cacciata dei Turchi da Gallipoli e la liberazione dell’imperatore trattenuto dai Bulgari.

482

Cristianesimo

A tale spedizione aveva partecipato anche un legato pontificio; questi nel 1367 poté intessere, alla presenza della famiglia imperiale, un impegnato colloquio con rappresentanti della chiesa greca alla testa dei quali stava un prestigioso monaco d'orientamento palamita: l'ex imperatore Giovanni VI Cantacuzeno. In quella sede egli riuscì ad ottenere dal legato l’assenso al principio che all'unione si dovesse procedere attraverso la convocazione a Costantinopoli di un concilio ecumenico. Una siffatta proposta non suonava in realtà inaccettabile per l’ecclesiologia papale cristallizzatasi in età avignonese, di cui era eloquente espressione l’esasperato accentramento amministrativo e fiscale; nella prospettiva pontificia del tempo l’unica procedura per l'unione non poteva che essere la sottomissione alla chiesa romana e l’accettazione della sua fede, come era avvenuto con Mi-

chele VIII e come confermò nel 1369 il soggiorno romano di Giovanni V. La proposta di Giuseppe Cantacuzeno rimase dunque per allora senza seguito. Per riconoscere plausibilità all’idea che un concilio ecumenico fosse la sede naturale per la ricomposizione della frattura con l'Oriente sarebbe stato necessario per il papato romano passare attraverso il trauma dello Scisma d’Occidente, sperimentarne la soluzione tramite la via concili e vedere in tale contesto la stessa autorità pontificia ricevere legittimazione dalla volontà conciliare. In effetti, dopo che lo scisma occidentale fu risolto a Costanza con l’elezione nel 1417 di Martino V ad opera del concilio indetto nel 1413 dall'imperatore Sigismondo, il veneto Eugenio IV, immediato successore del papa conciliare, decise nel 1437 d’impegnarsi con la sua Curia e i rappresentanti dell’episcopato lati-

no a lui tedele (era in corso la ribellione basileiese) nella realizzazione di un grande concilio unionistico nel quale, presenti i

vertici istituzionali della chiesa greca, si sarebbero sinodalmente affrontate tutte le questioni aperte tra le due chiese. Il 9 aprile 1438 nel duomo di Ferrara si svolse la prima sessione comune: di fronte a papa, cardinali e vescovi latini stavano

i seggi dell’imperatore Giovanni VIII, del patriarca Giuseppe, dei rappresentanti dei patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, nonché dei metropoliti delle massime sedi del patriarcato costantinopolitano, tra i quali Marco Eugenico di Efeso e Bessarione di Nicea; ai lavori conciliari avrebbero partecipato anche Isidoro di Kiev e Damiano

di Moldavia.

Il carattere piena-

mente sinodale dell’assemblea si sarebbe manifestato anche nel corso dei lavori (trasferiti dal gennaio

1439 a Firenze dove, sot-

C. Atzati

La chiesa ortodossa

483

to l’egida di Cosimo de’ Medici, la città s'era impegnata al mantenimento dei circa 700 delegati orientali), e avrebbe trovato ra-

tifica nelle sottoscrizioni alla bolla d’unione Laetentur caeli, del 6

luglio 1439. Esse furono apposte in modo parallelo, dal papa e dai cardinali romani, e dall'imperatore e dagli ecclesiastici orientali (il patriarca Giuseppe era morto nel frattempo, trovando se-

poltura in Santa Maria Novella), sotto le rispettive redazioni, la-

tina e greca.

Nella stessa procedura conciliare, dunque, l’unità veniva ma-

nifestandosi non come riconduzione dell'Oriente al paradigma romano, ma come ricomposizione della frattura fra due chiese in base a un concorde riconoscimento della medesima fede. L’affermazione in merito al primato universale della sede apostolica e del papa veniva ribadita e accolta, ma risultava istituzionalmente e canonicamente definita con riferimento agli «atti e canoni dei concili antichi» (ciò evidentemente — ad orecchie greche —- salvaguardava le prerogative patriarcali e le forme di vita

ecclesiastica proprie dell'Oriente, semplicemente restaurando il

diritto d'appello alla cattedra romana non ignorato dall’antica ecumene cristiana). Quanto al Filioque, formula sulla quale principalmente si appuntavano le contestazioni di parte greca (cui diede voce in particolare il dissenziente Marco Eugenico), essa

fu, con

una

certa

disinvoltura,

assimilata

alla formula

dia

tou

Hyioù/ per Filium, comunemente professata dai Padri orientali. La

redazione latina del Credo non venne quindi imposta ai Greci, e

questi a loro volta la tollerarono presso i Latini. Analogamente

il termine «Purgatorio» (ulteriore elemento di contrasto intro-

dottosi tra le due parti in seguito alle speculazioni scolastiche sui Novissimi) non fu imposto ai Greci, che lo ignoravano, ma si con-

venne sull’idea di intercessione peri morti, pacificamente da tut-

ti condivisa. Quanto agli azimi, vennero dichiarati legittimi al pari del lievitato. Come si sa, all'unione greca seguirono in quel volgere d’anni le unioni con le altre chiese orientali (o con rappresentanti di esse). Nell’un caso e negli altri si trattò di atti solenni, molto impegnati sul piano dottrinale e disciplinare, ma che — eccezion fatta per i Maroniti — non ebbero futuro. A Costantinopoli, in particolare, l'unione esasperò i contrasti tra latinofroni e antiunionisti (coi quali si schierarono diversi firmatari fiorentini) e suscitò ten-

sioni e rotture con le chiese slave di Serbia e di Moscovia. In tale clima, e mentre sempre più stretta andava facendosi la morsa turca, il cardinale Isidoro, già metropolita di Kiev, recato-

484

Cristianesimo

si a Costantinopoli nell'autunno solennemente l’unione in Santa mente in rito latino: lo scandalo alto personaggio antiunionista,

1452, il 12 dicembre proclamò Sofia, celebrandovi pontificalper molti Greci fu enorme. Un il megas dux Luca Notaras, af-

fermò in quell'occasione essere preferibile vedere in città il tur-

bante turco piuttosto che la mitra latina (Ducas, Historia turco-by-

zantina, ed. V. Grecu, Bucarest 1958, p. 329.11). Non dovette attendere molto per assistere al compimento delle sue parole (parole infauste anzitutto per lui: perdettero la vita i suoi figli e lui stesso). Nei primi giorni di aprile del 1453, dopo vari preparati-

vi, il sultano ottomano Maometto II stabiliva l'assedio; il 29 mag-

gio l'assalto definitivo lo condusse nella basilica imperiale di Santa Sofia, dove egli proclamò il nome di Allah e indisse la preghiera pomeridiana. Con quell’atto iniziava anche per la Nuova Roma la turcocrazia.

L’ultimo imperatore, Costantino XI, era morto nello scontro fi-

nale. Attorno a lui insieme con i Greci avevano combattuto anche

contingenti latini, dando la propria vita per la città imperiale; ma,

nonostante ciò, Costantinopoli era caduta, e nel suo crollo travolse anche l’unione delle chiese che in essa era stata proclamata. 7. LA GRANDE CHIESA NELLA «CASA DELL'ISLAM»

Per il patriarcato costantinopolitano l'inserimento nella «Casa

dell’Islam» non significò comunque la perdita del rango gerar-

chico fino ad allora goduto. La decisione di Maometto II di conferire personalmente il pa-

storale e la croce al neo-eletto patriarca Ghennadio, il 6 gennaio

1454, manifestò in modo estremamente eloquente non soltanto la volontà del conquistatore di assicurare continuità alla vita di Costantinopoli e infondere fiducia nella comunità greca che vi sopravviveva, ma altresì la sua aspirazione ad assumere l’eredità istituzionale dei basilàis.

Di fatto l'espansione ottomana agli inizi del Cinquecento non

solo acquisì Damasco e Bagdad, le sedi storiche degli antichi califfi (il cui titolo sarebbe poi stato rivendicato dai sultani), ma riu-

scì dopo secoli a ridare ai territori affacciati sul Mediterraneo orientale quell'unità ch'essi avevano avuto in età romana. Per i patriarcati melkiti questo significò trovarsi nuovamente all’interno di un unico organismo politico insieme a quel patriarcato di Costantinopoli dal quale la conquista araba nel quarto decennio del VII secolo li aveva separati. L'unità politica delle terre orto-

C. Alzati

dosse

La chiesa ortodossa

del Mediterraneo

485

si ricomponeva,

sebbene

non

sotto la

doppia Croce imperiale ma sotto la Mezzaluna. Secondo la tradizione islamica, i Turchi organizzarono le popolazioni non musulmane loro sottoposte in gruppi su base religiosa, presieduti dai rispettivi capi spirituali. I singoli millet erano autonomi nella loro vita interna, regolati dalle proprie leggi e consuetudini, e chi vi presiedeva, oltre all’amministrazione della

rispettiva comunità, esercitava su di essa piena giurisdizione per le materie ecclesiastiche, per quelle attinenti alla sfera religiosa

(matrimonio, famiglia, successione, tutorato), e altresì per le cau-

se civili; le cause riguardanti anche musulmani passavano di competenza ai tribunali islamici, analogamente a quelle penali, ma non nel caso in cui vi fosse implicato un ecclesiastico. Quali vertici istituzionali delle rispettive chiese i patriarchi si trovarono così ad assumere anche le funzioni di etnarchi delle loro comunità. Pur con tutte le limitazioni imposte dalla legislazione islamica, le istituzioni ecclesiastiche costituirono dunque l’unico auto-

nomo spazio delle popolazioni cristiane, che pertanto vennero ancor più intimamente identificandosi con le proprie chiese. Queste ultime assunsero inoltre la funzione di custodi tenaci delle tradizioni culturali e linguistiche dei rispettivi popoli, quantunque tale compito potesse essere svolto con i ridotti strumenti che la situazione consentiva. Nel caso degli Ortodossi il millet raggiungeva dimensioni enormi, abbracciando tutti i fedeli sparsi dovunque nel dominio ottomano. Se l'unificazione delle coste orientali del Mediterraneo aveva creato le condizioni per un rinnovato attivismo dei mercanti greci, con benefici riflessi sulla vita delle comunità facenti

capo agli antichi patriarcati, e se i rapporti ecclesiastici tra questi ultimi erano rimasti quelli fissati dalla tradizione canonica, la funzione di capo del mille, propria del patriarca costantinopolitano, comportò per quest’ultimo una condizione di assoluta preminenza rispetto ai titolari delle altre sedi. Unico interlocutore

diretto della Porta, egli diveniva il tramite per qualsiasi questione ecclesiastica e nomina che li riguardasse e che dovesse avere

ratifica dall'autorità centrale ottomana. Sicché, nonostante il fat-

to che sul piano ecclesiastico restassero inalterate le prerogative degli altri seggi patriarcali (compreso quello serbo) e degli arci-

vescovadi autocefali di Cipro e di Ochrida, nonché del vescova-

do del Sinai, con la fine del XVI secolo insignito del titolo arci-

vescovile, in concreto la vita amministrativa li venne tutti decisa-

mente subordinando al seggio costantinopolitano.

486

Cristianesimo

La persona del patriarca di Costantinopoli godette inoltre dell’inviolabilità e usufruì di specifici privilegi e garanzie, tra cui quella di non poter essere giudicato e deposto se non con voto unanime della sinodo; nessun vescovo inoltre poteva essere arrestato senza il suo assenso. In tal modo,

benché

privato delle basiliche famose

(trasfor-

mate in moschee) e costretto a darsi una modesta residenza agli inizi del Seicento presso la chiesa di San Giorgio al Fanar, il patriarca di Costantinopoli assunse sotto il dominio ottomano una centralità istituzionale e una preminenza nella comunione ortodossa, quali forse mai aveva conosciuto. Durante l’impero dei basilèis la chiesa costantinopolitana, con la sua sinodo e

i suoi uffi-

ci, era stata definita, col titolo proprio della Santa Sofia, «la Grande chiesa». Dal VI secolo il suo patriarca portava la qualifica di «ecumenico» (che inizialmente non stava a designare l'estensione della sua autorità, ma l’universalità del riconoscimento di cui

godeva). Sotto la Mezzaluna questi termini assunsero una pregnanza nuova e un significato estremamente concreto.

Nella storia del mondo ortodosso balcanico (e non soltanto balcanico) inserito in tale quadro istituzionale, una nuova fase si

venne sviluppando a partire dalla seconda metà del Seicento. Essa si lega alla crescente importanza assunta nella vita ottomana dalle grandi famiglie greche della capitale gravitanti attorno al patriarcato, tra le quali sempre più marcatamente il potere tur-

co finì per reclutare funzionari qualificati, soprattutto nel setto-

re delle relazioni diplomatiche, dove erano necessari uomini ca-

paci, con esperienza internazionale e che avessero consuetudine con il mondo culturale europeo. Dal nome del quartiere in cui il patriarcato si trovava, è invalso l'uso di appellare

«fanarioti»

questi Greci preminenti. A loro la Porta segnatamente ricorse per il governo dei voivodati cristiani soggetti di Valacchia e Moldavia, ai cui vertici nella seconda parte del XVII secolo vediamo prevalentemente designati non più esponenti della locale aristocrazia, ma personaggi appar-

tenenti alle famiglie dei Ghica, dei Duca, dei Cantacuzeni, ecc. Si trattava, dunque, di elementi tratti da famiglie radicatesi nei voivodati ma d'ascendenza fanariota, quando non strettamente fanarioti, come Nicola Maurocordato iniziatore, nel secondo de-

cennio del Settecento, del nuovo regime di più stretta integrazione dei paesi a lui affidati nel sistema politico-economico ottomano. I legami di questi voivodi col mondo greco erano e sarebbero

C. Alzati

La chiesa ortodossa

487

rimasti, evidentemente, strettissimi, con significative ricadute, in

ambito locale, anche per gli aspetti ecclesiastici. Già precedentemente praticata, la sottomissione di fondazioni ecclesiastiche e monastiche locali a istituzioni ortodosse in terra ottomana, al fine di garantire a queste ultime un adeguato sostentamento, divenne col XVII secolo sempre più diffusa. Se questo determinò un flusso considerevole di beni oltre le frontiere dei voivodati, fu anche occasione per movimenti di persone, per contatti e scambi estremamente stimolanti. La progressiva introduzione del greco, almeno ai livelli più elevati della gerarchia ecclesiastica, quale lingua liturgica in luogo del tradizionale slavone, segna emblematicamente questo nuovo, più intenso legame allacciato dai voivodati romeni con l’Ortodossia mediterranea. Va osservato che un non diverso processo di affermazione dell'elemento greco e della sua tradizione culturale e linguistica si venne sviluppando anche nelle massime sedi episcopali di Bulgaria e di Serbia, a cominciare da Ochrida, dopo il ioro assorbi-

mento nell’ordinamento istituzionale del patriarcato costantinopolitano. Nel patriarcato di Gerusalemme, composto da fedeli prevalentemente siro-arabi, il fenomeno

della ellenizzazione si mani-

festò sin dalla fase immediatamente successiva alla conquista tur-

ca, consolidandosi col patriarca peloponnesiaco Germano (1543

1579) e trovando il più valido presidio nella Confraternita del Santo Sepolcro, cui furono assegnati rilevanti compiti amministrativi nell’ambito del patriarcato stesso e la custodia dei Luoghi Santi ortodossi. Siffatto inserimento dell’elemento greco in contesti segnati

da altra identità etnica e, nel caso slavo-balcanico, da distinta tra-

dizione istituzionale ecclesiastica è stato spesso censurato dalle scuole storiografiche d’orientamento nazionale. In realtà va detto che, in particolare nei voivodati romeni,

il movimento

fana-

riota permise anche una vivace circolazione di persone e di idee e lo svilupparsi di esperienze di straordinario significato religioso e culturale. La figura del metropolita Antim il Georgiano (Ivireanul)

in Valacchia, 0, in Moldavia, il movimento monastico di

Paisij} Veliétkovskij ne offrono chiara testimonianza. In tal modo attorno al Fanar, nel quadro imperiale ottomano, una nuova forma di Commonwealth bizantino si venne di fatto costituendo;

alla sua base

stava

tuttavia non

il comune

riferi-

mento a un'autorità imperiale universalmente riconosciuta anzitutto sul piano religioso, bensì la generale condizione di assog-

488

Cristianesimo

gettamento al potere islamico. Quando l’ora della liberazione dei popoli cristiani fosse giunta e il sistema ottomano fosse crollato, il Commonwealth fanariota non avrebbe potuto non cadere con esso. Così avvenne in effetti; e a quel punto anche per la comu-

nione delle chiese ortodosse sarebbe divenuto necessario trova-

re nuove forme di realizzazione nel quadro di equilibri ormai radicalmente mutati. 8. LA TESTIMONIANZA ORTODOSSA DI FRONTE A RIFORMA PROTESTANTE E CATTOLICESIMO POST-TRIDENTINO

La scissione apertasi nella Cristianità latina a causa della rivoluzione religiosa avviata da Lutero suscitò in ambito occidentale un rinnovato interesse per l'Oriente cristiano, nel quale gli schieramenti contrapposti sperarono e cercarono di trovare un apologetico consenso alle rispettive enunciazioni dogmatiche e disciplinari. Illudendosi, come già gli hussiti nel secolo precedente, che la condivisa avversione al papato romano potesse fondare una più ampia convergenza d’ordine dottrinale, lo stesso Melantone cercò un contatto col mondo ortodosso e per questo nel 1559 si rivolse, direttamente e vanamente,

alla Grande

chiesa e al patriarca

Ioasaph (per la sua lettera: E. Benz, Wittenberg und Byzanz, Marburg 1949, pp. 94 sgg.). Nel 1574, con la mediazione di Stephen Gerlach, cappellano dell’ambasciatore asburgico presso la Sublime Porta, prese avvio un’impegnata corrispondenza protrattasi per diversi anni tra alcuni

dottori

luterani

(Jacob

Andreae,

Martin

Crusius,

Lucius

Osiander) e il grande patriarca Geremia II Tranos. La terza e ultima lettera di questi è assai eloquente quanto agli esiti di tale dialogo a distanza: «Vi preghiamo di non importunarci più e di non scrivere più su questi temi... Voi giudicate le nostre argomentazioni senza valore, mentre sono parole sante e divine...

Andate

per la vostra strada! Non inviateci altre lettere in merito alla dottrina e, se desiderate scriverci, siano soltanto lettere amicali».

L'intera corrispondenza venne pubblicata nel 1584 a Wittenberg (Acta ei Scripta Theologorum Wirtembergensium el Patriarchae Costantinopolitani D. Hieremiae), dopo che nel 1582 il gesuita Stanislao Sokolowski aveva dato alle stampe con soddisfatto commento la prima lettera di Geremia. A questa missiva patriarcale avreb-

C. Alati

La chiesa ortodossa

489

bero fatto riferimento con reciproco compiacimento Gregorio XIII e lo stesso Geremia II nel loro scambio epistolare del 1583. Poco prima che prendesse avvio il confronto, così qualificante e significativo, tra i teologi luterani e la Grande chiesa della Nuova

Roma,

la Terza Roma

(Mosca)

aveva vissuto un analogo

dibattito e con esito non dissimile. Ne erano stati protagonisti Jan Rokyta, consenior dell' Unitas fratrum boema ormai radicatasi in Polonia, e lo stesso zar Ivan IV il Terribile (per l'esposizione scritta del Rokyta e la replica dello zar, pure essa data in forma di articolato trattatello: ed. AN. Popov, «Ctenija», II, 1878; trad. it. L. Ronchi de Michelis, Torino 1979).

Contrariamente dunque alle attese cullate in ambito luterano, quanto alle dottrine qualificanti della Riforma la fede dell’Oriente ortodosso non risultava meno lontana di quella cattolica. Un unico punto di convergenza tra ortodossi e protestanti poteva essere individuato nell’antipapismo (non a caso nel 1582 un

trattatello calvinista sul papa come Anticristo fu fatto tradurre da Ivan), ma anche

tale comune

rifiuto si inquadrava

in orizzonti

ecclesiologici molto diversi, sicché neppure su di esso diveniva possibile costruire un cammino comune. I contatti tra protestantesimo e Ortodossia non si limitarono in ogni caso a dispute accademiche. Nelle regioni europee centro-orientali dove

«Latini» e «Greci» si trovavano a convivere, il

passaggio dei primi alla Riforma venne a creare situazioni estremamente gravose per le comunità orientali. In Transilvania, se rapidamente si esaurì il tentativo avviato nel 1566 dal principe Giovanni Sigismondo Szapolyai di procedere alla riforma della locale Ortodossia romena attraverso la cacciata delle legittime gerarchie episcopali e monastiche e l’imposizione di un sovrintendente di fede riformata che — salvaguardando alcuni elementi della tradizione «greca» — dall’interno procedesse alla protestantizzazione della vita ecclesiale, ben maggiore continuità ebbe nel secolo XVII, fino all’acquisizione asburgica (1691), la soffocante pressione dei prìncipi calvinisti sul metropolita ortodosso e sulla sua azione di governo al fine di costringere il presule, subordinandolo al sovrintendente ungherese, ad adottare prassi e dottrine riformate. Quanto poi ai territori «ruteni» del gran ducato lituano, congiunto alla Corona polacca, vasta fu in essi la defezione dalla chie-

sa tradizionale determinatasi nella locale aristocrazia, che già aveva subìto un forte processo di latinizzazione e che fu raggiunta dalle correnti più radicali della Riforma.

490

Cristianesimo

Trovandosi schiacciati tra l’asservimento al potere islamico nei territori ottomani e il proselitismo protestante nelle regioni orientali della Cristianità, per alcuni presuli e intellettuali ortodossi divenne naturale guardare con particolare interesse alla chiesa romana, che dopo il concilio Tridentino stava conoscen-

do una stagione di rinnovata vitalità spirituale. Quasi abbagliati, nelle loro angustie, da tanto fervore e dalla solidità dottrinale e disciplinare di cui il mondo cattolico dava prova, questi figli e pastori della chiesa-orientale furono portati a rivolgersi a Roma come all’unica sicura roccaforte della propria fede cristiana minacciata, e videro in una rinnovata unione la condizione neces-

saria alla salvezza della propria chiesa. L'atteggiamento di questi moderni unionisti era dunque ben

diverso da quello dei Greci «latinofroni» d’età paleologa; non il

fascino della Cristianità occidentale e il desiderio d’integrarsi in essa li spingeva verso Roma, ma la volontà di salvaguardare ad ogni costo il patrimonio della propria chiesa orientale, cui non volevano rinunciare e che vedevano posto in pericolo. Esemplare a questo riguardo può considerarsi il documento d’unione stilato nel 1698 dalla sinodo della chiesa romena di Transilvania. In esso gli ecclesiastici ortodossi, esprimendo la loro adesione alla chiesa romana, dichiaravano: «Non si smuova noi e i nostri successori dalla consuetudine della nostra chiesa d’Oriente, ma noi si sia liberi d’ora in avanti, come s'è fatto fino ad ora, d’osservare secondo il vecchio calendario [non veniva

dunque meno la ricusazione della riforma introdotta da Gregorio XIII nel 1582]

tutte le cerimonie, le feste, i digiuni. E nessu-

no abbia potere d’allontanare sua santità l’onoratissimo nostro presule Atanasio dalla sua cattedra fino alla morte di sua santità. E quando dovesse sopraggiungergli la morte, spetti alla decisio-

ne della sinodo chi eleggere presule». A tali parole lo stesso metropolita aggiungeva, come pare di sua mano: «Ci uniamo con

tutta la nostra tradizione ecclesiale: riti, Liturgia, e digiuni devo-

no restare inalterati; se non resteranno inalterati neppure questi

sigilli abbiano valore per noi»

(Nilles, 1885, p. 204).

Se tale fu l’atteggiamento che segnò da parte orientale gli inizi delle unioni post-tridentine (in particolare dei Ruteni [poi Ukraini] di Polonia-Lituania nel 1595-1596 e dei Romeni di Tran-

silvania nel 1697-1701; ma nel secolo XVII si svilupparono anche le unioni tra i Ruteni di Subcarpazia e tra i melkiti d'area siro-libanese, con conseguente duplicazione per questi ultimi, nel 17724, del seggio patriarcale d’Antiochia), le successive evoluzio-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

491

ni assunsero spesso i caratteri di una progressiva latinizzazione, in alcuni casi particolarmente accentuata. Tale processo venne facilitato anche dalle prospettive ecclesiologiche secondo cui l’unione fu intesa e vissuta dal papato post-tridentino. In effetti, estendendo i criteri ispiratori della legislazione canonica elaborata nella seconda metà del Cinquecento in merito alle comunità italo-greche viventi sotto l’autorità dei

vescovi latini, divenne

naturale in ambito romano

concepire

le

singole chiese orientali unite come semplici «Riti» particolari all’interno dell’unica chiesa, avente la sede apostolica come suo centro e paradigma. Su tale base, nonostante i consueti appelli al concilio

Fiorentino,

le stesse procedure

d’unione

furono

ri-

guardate da Roma non come realizzazione dell’incontro tra due chiese precedentemente separate, ma quale «ridottione» dei Greci alla chiesa romana. Se a ciò si aggiunge la teorizzazione della praestantia ritus latini (chiaramente recepita da Benedetto XIV nella costituzione Etsi pastoralis del 1742 e definitivamente superata

solo

con

il concilio

Vaticano

Il), diverrà

facile com-

prendere perché la latinizzazione degli Uniti, nonostante singoli interventi pontifici in senso contrario, sia divenuto un fenomeno generalizzato e non arginabile. A questo vario proiettarsi dell'Occidente religioso, protestan-

te e cattolico, in area orientale, l’Ortodossia sentì l'esigenza di

dare un’organica e adeguata risposta. Non era stata sua consuetudine dopo l'età patristica elaborare sistematici compendi dottrinali. Non ne aveva sentita l'esigenza: Giovanni Damasceno nell'VIII secolo aveva composto quella Pegè gnòseos («Fonte della conoscenza»), che le generazioni seguenti considerarono esemplare summa dogmatica, cui non v'era più nulla d'aggiungere. Tanto più che anche sugli specifici problemi successivamente apertisi coi Latini si poteva disporre degli strumenti che Fozio aveva fornito e che erano stati poi ampiamente ripresi da un'abbondante libellistica. Questa situazione era rimasta valida fin quando l’esistenza del-

la basilèia ton Rhomdàion, idealmente considerata il vertice dell’ oi-

houméne, aveva garantito alla sua chiesa una posizione tale per cui questa, pur entrando in rapporto dialettico con le realtà esterne, non si era mai sentita nella necessità di rendere compiutamente ragione di sé ai suoi interlocutori. Il crollo nel 1453 a Costantinopoli, più che di una istituzione politica (già da tempo larvale), della

concezione

unitaria

e gerarchica

dell’oikoumène,

che

in

quella istituzione si esprimeva, spinse la coscienza ecclesiale gre-

492

Cristianesimo

ca a ricercare una sua nuova collocazione all’interno di un mondo ormai privo di centro e a stabilire nuove modalità di comunicazione con le diverse componenti di questo. Già Ghennadio Scholàrios si vide costretto a redigere una rapida sintesi della fede cristiana in rapporto all’islam per il conquistatore Maometto II. Più tardi Geremia II dovette stendere un testo analogo per rispondere alle sollecitazioni dottrinali venutegli, come più sopra ricordato, dai luterani tedeschi. Proprio il diretto confronto con il mondo protestante, carat

terizzato da un susseguirsi e contrapporsi di Confessiones, avrebbe determinato anche in ambito greco il ricorso nel XVII secolo a una tale forma di esposizione dogmatica, al fine di presentare e definire la propria identità religiosa. La confessio era stata elabo-

rata quale genere teologico in Occidente, come strumento di autodefinizione ad opera delle nuove comunità religiose desiderose d’ottenere riconoscimento istituzionale; in realtà si presenta-

va assai poco adatta a dare adeguatamente conto della specifica identità religiosa ortodossa, così intimamente legata alla diretta esperienza ecclesiale della fede. In ogni caso, già l’Encheiridion pubblicato nel 1618 in Inghilterra da Cristoforo Àngelos si moveva in questo senso. Poco dopo, sempre in terra inglese, Metrofane Kritòpoulos, prima della sua partenza nel 1623, in risposta a quesiti rivoltigli sulla chiesa greca da Thomas Goad, cappellano dell'arcivescovo, era venuto

redigendo un’ordinata esposizione dottrinale in 18 punti. Fu

quasi l’abbozzo della sua successiva e ben più famosa Confessione: Confessio catholicae et apostolicae in Oriente Ecclesiae. È non poco significativo il fatto che quest’ultima sia stata composta ancora una volta su sollecitazione di teologi d’ambito protestante,

gli amabili

dottori dell'Accademia

Giuliana

di Helm-

stadt, ai quali essa fu offerta nel maggio del 1625 dal Kritòpoulos al termine del suo soggiorno in quel centro luterano. Tale professione di fede, pur volendo esplicitamente mostrarsi irenica verso le posizioni dottrinali della Riforma (lo evidenzia la distinzione tra sacramenti per tutti necessari — battesimo, considerato separatamente dalla cresima, eucaristia, penitenza — e riti sacramentali destinati solo ad alcuni), restava comunque saldamente ancorata al patrimonio dogmatico ortodosso (processione dello Spirito Santo

dal solo Padre;

rifiuto della predestina-

zione; necessità delle buone opere; santità ed infallibilità della

chiesa; valore della tradizione; riaffermazione degli ordini ministeriali; uso del lievitato nella celebrazione eucaristica; vera tra-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

493

sformazione dei santi doni eucaristici, pienamente affermata seppure non ricondotta entro lo schema concettuale e terminologico della «transustanziazione»).

Quattro anni dopo, in ambito ortodosso, sarebbe apparsa una nuova Confessio. Anch'essa aveva come primo interlocutore il mondo protestante, ma a questo si rapportava in termini assai diversi rispetto allo scritto del Kritòpoulos. Nonostante il contesto orientale da cui usciva, questa nuova sintesi dogmatica poteva considerarsi il massimo esempio di penetrazione dei princìpi della Riforma in ambito teologico greco. Ne era autore lo stesso patriarca di Costantinopoli,

Cirillo Loùkaris: candiotto, formatosi

accademicamente a Padova (come buona parte degli intellettuali greci del tempo),

accostatosi alle dottrine

della Riforma

tra-

mite le attive legazioni costantinopolitane di Olanda e Inghilterra e i rispettivi cappellani. Questa Confessio fidei tu data alle stampe in traduzione francese e nell’originale latino a Sedan nel giugno 1629, apparve nello stesso anno a Londra in traduzione inglese, ed ebbe (di certo qualche tempo dopo il mese di settembre) una nuova edizione del testo latino a Ginevra. Nel 163] il patriarca ne preparò la versione greca, che apparve sempre a Ginevra con il testo latino e una significativa appendice (di tale edizione ampliata del 1633 una traduzione inglese fu pubblicata ad Aberdeen nel 1671). Sebbene il Loùkaris stesso si dichiarasse un «patriarca calvinista»

(il testo in Aymon,

1708, p. 101), sarebbe

erroneo

defi-

nirlo, come fa l'arcivescovo di Canterbury George Abbot, «un puro calvinista»

(Roe,

1740, p. 102; cfr. p. 36); il suo radicamento

nella vita ecclesiale ortodossa è evidente, e lo conferma la cano-

nizzazione dell’eremita Gerasimo Notaras nel 1622. Ciò, peraltro, non toglie che diverse e qualificanti affermazioni dottrinali,

confluite nella Confessio, risultino chiare assunzioni di temi e di princìpi calvinisti: le Scritture stanno sopra la chiesa; la chiesa non è infallibile in materia di fede; i salvati lo sono per predestinazione divina indipendentemente dalle loro opere; la giusti ficazione è per sola fede; soltanto due sono i sacramenti istituiti da Cristo; la presenza del Corpo di Cristo nell’eucaristia è spirituale e per fede, non per transustanziazione. Non meno mutuate dall'ambito protestante risultano alcune affermazioni inserite nell’Appendice: ciascun fedele deve accostarsi direttamente alle Scritture; il culto delle immagini è condannato dall’autorità delle Scritture, sicché le immagini possono soltanto essere dipinte ma non devono divenire oggetto di culto.

494

Cristianesimo

È comprensibile quale disagio possa aver suscitato un simile testo in molti ortodossi. In tempi successivi la coscienza ecclesia-

le più strettamente ortodossa, non volendo accettare l’idea di un

patriarca della Grande chiesa eretico, suppose una manipolazione del testo ad opera dei calvinisti o degli avversari cattolici del patriarca, in primo luogo - ovviamente - i gesuiti: il manoscritto autografo della redazione greca del 1633 fuga qualsiasi possibile dubbio. Quali fossero le opinioni del Loùkaris è del resto confermato con ogni evidenza dalle annotazioni marginali alla copia del Grande Catechismo del Bellarmino da lui posseduta.

Quanti s’opponevano alle dottrine del Loùkaris, col suppor-

to dell’ambasciatore imperiale e di quello francese, riuscirono a

più riprese a scalzare Cirillo dal seggio. Si distinse in questa tenace opposizione il metropolita di Berrhoea, Cirillo Kontarès. Questi nel 1636, mentre teneva per la seconda volta il trono patriarcale, ottenne contro il Loùkaris una condanna sinodale per

eresia. Ancor più deciso fu il suo intervento nel 1638, dopo l’ennesimo ritorno dell’antagonista: questi venne accusato presso le autorità turche di tradimento e cospirazione coi Cosacchi. Le conseguenze furono immediate e terribili. Loùkaris alla fine di giugno del 1638 venne deposto, imprigionato, strangolato e gettato in mare. Il suo cadavere, fortunosamente recuperato, trovò

sepoltura nell'isola di Chalki. Kontarès, avendo sottoscritto segretamente una professione di fede cattolica, sarebbe stato a sua

volta definitivamente deposto nel 1639, ma precedentemente, il 24 settembre 1638, era riuscito in un concilio a ottenere ciò per

cui implacabilmente s'era opposto al Loùkaris: una piena riaffermazione delle dottrine ortodosse contro le opinioni enunciate nella Confessio. La sentenza sinodale in effetti esplicitamente condannò il principio della predestinazione assoluta, riaffermò il libero arbitrio, ribadì l’intercessione dei santi, censurò

la ri-

duzione dei sacramenti a due soli, proclamò la piena trasformazione dei santi doni eucaristici per la benedizione del sacerdote e la discesa dello Spirito Santo, confermò il valore della preghiera per i detunti, ratificò la tradizionale venerazione delle icone. Con particolare disagio l’autorità patriarcale del Loùkaris era stata subìta nella metropoli ortodossa di Kiev che, rifondata nel 1620, nonostante tutti i problemi posti dal riconoscimento regio all'unione ecclesiastica del 1595-1596, sperimentava direttamente, all’interno del regno di Polonia, quale minaccia le dottrine riformate rappresentassero per il patrimonio ecclesiale ortodosso.

C. Alzati

La chiesa ortodossa

495

Il grande metropolita Pèétr (Petru), figlio del romeno voivoda di Valacchia e poi di Moldavia Simion Movilà, nella sua vasta opera di riordino e di consolidamento della sua chiesa, avvertì l’esigenza di rispondere alla Confessio di Loùkaris con un analogo testo dottrinalmente sicuro. Ne nacque qualche tempo prima del 1640 l’ Orthodoxa confessio fidei. Se Loùkaris aveva scritto la sua opera in latino, ritenendola anzitutto strumento di dialogo con i protestanti occidentali, Movilà

(Mogila)

ricorse anch'egli al latino,

ma perché questa era la sua lingua teologica e di cultura, data la

sua formazione intellettuale polacca. La coscienza dottrinale ortodossa poteva certamente ritrovarsi, e di fatto si ritrovò, in questo testo dottrinale kioviense; ma non senza un qualche disagio. In effetti la consuetudine del Movilà con le fonti occidentali e soprattutto con il loro metodo teologico scolastico, volto a definire ogni enunciato in termini chiari e precisi, poco si accordava con la consapevolezza, sempre viva in ambito ortodosso, della insopprimibile apofaticità dei misteri cristiani. L’orientamento intellettuale occidentalizzante avrebbe trovato conferma anche nella successiva stampa ad opera del Movila di un Catechismo, ripreso da quello di Pietro Canisio. La Confessio kioviense diede in ogni caso una voce sicura ed energica alla fede ortodossa, nonostante alcuni evidenti latinismi

quali il rifiuto della concezione sacramentale orientale legata all’epiclesi, il rifiuto delle affermazioni palamitiche in merito alle energie divine, la recezione della dottrina cattolica del Purgatorio. Anche l’uso del termine transubstantiatio, che in altri auto-

ri (si pensi a Gabriele ne sintetica della fede la Confessio veniva ad cidentalizzante. E significativo che

Severo) poteva suonare come esplicitaziotradizionale, nel contesto più generale delassumere un'intonazione decisamente oc-

dopo la recezione provvisoria del testo del

Movilià nel concilio di Kiev (da cui nel 1640 uscì l’ennesima condanna del Loùkaris; altre ne sarebbero seguite successivamente) l’autorevole concilio di Iasi, che sotto il voivoda moldavo Vasile

Lupu raccolse nel 1642 i rappresentanti di tutti i patriarcati, oltre a condannare a sua volta il Loùkaris, ratificò solennemente la Orthodoxa confessio fidei del Movilà ma nella versione greca approntata da Melezio Syrigos, il quale vi aveva smussato le asprezze latine e aveva ripristinato la tradizionale dottrina greca in merito sia al valore consacratorio dell’epiclesi nella celebrazione eucaristica, sia al destino delle anime dopo la morte

(con il rifiuto

pertanto del concetto latino di Purgatorio). Di fatto sarebbe sta-

496

Cristianesimo

ta quest'ultima la forma vulgata della Confessio del Movilà, diffusasi con grande fortuna in tutto il mondo ortodosso. Tra le attestazioni di venerazione verso questo testo merita di essere segnalata quella espressa dal patriarca di Gerusalemme Dositeo nella prefazione da lui dettata per la riedizione apparsa nel 1699 ad opera di Antim il Georgiano nel monastero valacco di Snagov. Il fatto è significativo, perché a quella data già era stata stampata, a cura dello stesso Dositeo, un’altra Confessione.

Nel 1672 infatti, l’allora trentunenne patriarca di Gerusalemme aveva chiesto al patriarca ecumenico Dionigi IV Muslim una silloge della fede ortodossa. Dionigi, unitamente ai predecessori

Partenio IV, Clemente e Metodio III, gli inviò un testo che la si-

nodo gerosolimitana ratificò. Quando nel 1680 Dositeo fondò a Iasi una tipografia grazie ai proventi che le molte proprietà in territorio moldavo garantivano al patriarcato, la silloge dottrinale di Dionigi IV fu una delle prime opere ad essere stampate, e da allora fu conosciuta come la Confessione di Dostieo. Quanto il patriarca gerosolimitano ebbe a scrivere in merito alla Confessio del Movilà, sia nel 1699, sia ancor prima, unitamente a Callinico di Costantinopoli, in un intervento sulla transustanziazione del 1691, mostra come egli non avvertisse opposizione tra il testo kioviense e quello da lui pubblicato; è tuttavia, indubbio che quest’ultimo, sia per la forma espositiva, sia per gli stessi enunciati, presenti caratteri assai più orientali. In esso lo Spirito Santo è dichiarato procedere dal solo Padre (Movilà aveva sentito l’esi-

genza di precisare: «in quanto il Padre è la fonte e il principio della divinità»); viene poi negata la dottrina del Purgatorio; inoltre, nel quadro del numero settenario dei sacramenti, si ribadisce

l’uso del lievitato nella celebrazione dell'eucaristia, in rapporto alla quale la recezione del termine metousìosis (transustanziazione)

si associa al principio del valore consacratorio dell’epiclesi; anco-

ra, si afferma la remissione dei peccati nell’unzione dei malati, e

ovviamente si riconosce l'intercessione dei santi e il culto delle immagini, mentre si proscrivono le dottrine protestanti della giustificazione per fede e della predestinazione.

Questa Confessione di Dositeo può considerarsi l'approdo defi-

nitivo dell’itinerario dottrinale vissuto nel Seicento dalla comunione ortodossa (non a caso alla fine del primo quarto del XVIII secolo proprio questo testo sarebbe stato inviato dal patriarca ecumenico ai Non-Jurors anglicani, che a Costantinopoli e a Pietroburgo s'erano rivolti nella speranza d’instaurare rapporti di comunione). Era un testo che giungeva al termine di dibattiti

C. Akati

La chiesa ortodossa

497

non poco sofferti e sostanzialmente determinati neli'Ortodossia dalla pressione dell'Occidente, protestante e cattolico. Ancora

una volta, dunque, il contatto con l’esperienza religiosa del cristianesimo latino s'era tradotto, per il patrimonio ecclesiale or-

todosso, in una minaccia per la propria integrità e in una fonte di gravi tensioni. Proprio Dositeo, introducendo l'edizione del

1699 della Confessio del Movila, aveva individuato i quattro mag-

giori pericoli incombenti sull’Ortodossia del suo tempo segnatamente nel luteranesimo, nel calvinismo, nel nuovo calendario e nei gesuiti. In questo senso la Confessione pubblicata dal patriarca di Gerusalemme,

e che da lui prende nome,

non può essere

considerata semplicemente la sintesi, più o meno felice, di una tradizione dottrinale; essa è stata anzitutto un'appassionata riaf-

fermazione, di fronte all'Occidente, dell'identità religiosa orien-

tale e ha ecclesiale impostisi testanti e

rappresentato la consapevole risposta della coscienza ortodossa ai nuovi orientamenti dogmatici e canonici, nella Cristianità latina sotto la spinta delle riforme prodel disciplinamento post-tridentino.

9. LA COMPLESSA IDENTITÀ DELL’ORTODOSSIA RUSSA

La chiesa metropolitica di Kiev, sviluppatasi dal battesimo della Rus' sul finire del penultimo decennio del X secolo, sebbene istituzionalmente inquadrata nel sistema ecclesiastico del patriarcato costantinopolitano, fu nondimeno una chiesa di tradizione bizantino-slava, erede pertanto essa pure del magistero svolto in Bulgaria dai discepoli di Cirillo e Metodio.

La frantumazione dell'organismo politico kioviense, l’espansione della Lituania e il suo legame con la monarchia polacca, l’affermarsi del principato moscovita fecero sì che in seguito all’unio-

ne fiorentina del 1439, mentre nelle terre occidentali della Rus' si

conservò un metropolita di Kiev, soggetto al gran duca lituano e dipendente dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, a Mosca venne costituendosi una locale metropolia autocefala, legittimata dall'autorità del gran principe e alla quale facevano capo i vescovi dei territori gravitanti a vario titolo nell'orbita moscovita. Tra la fine del XV

e gli inizi del XVI secolo, in un clima di

forte tensione escatologica e sulla spinta di speculazioni storicoteologiche relative all’apostasia di Costantinopoli nell’unione

fiorentina e alla conseguente caduta della città nelle mani dei «pagani», vi fu, tra i dotti di Moscovia, chi scorse nel dominio

498

Cristianesimo

del proprio gran principe l’ultima e definitiva manifestazione di quell’impero ortodosso, che, legato un tempo all’Antica e successivamente

alla Nuova Roma,

si era da esse allontanato dopo

la loro adesione all’eresia latina: «Tutti gli imperi cristiani sono giunti alla fine e si sono riuniti, secondo i libri profetici, in uno

solo: l'impero del nostro sovrano; e questo è impero poiché due Rome caddero, la terza — Mosca — sta, e ta non vi sarà» (così attorno al 1523 il monaco Filofe) lettera a Misjur' Munechin: ed. N.V. Sinicyna, in Pasuto,

1993, n° 24.112).

L'incoronazione

romano, una quarnella sua Catalano-

di Ivan IV quale zar

nel 1547 e l’istituzione del patriarcato moscovita nel 1589 avreb-

bero significato la consacrazione

istituzionale di tale ideologia,

anzitutto religiosa. E tuttavia va subito notato che, nonostante l’appello all’eredità romana, l'ordinamento istituzionale dell'impero differenziava non poco Mosca da Costantinopoli. Il dibattito sui possedimenti monastici, sviluppatosi negli anni tra Quattro e Cinque-

cento, e il trionfo in esso riportato contro i «non possidenti» di-

scepoli di Nil di Sora (eredi della tradizione esicastica athonita) dall’egumeno Iosif di Volokolamsk (sostenitore della piena le-

gittimità, ed anzi della necessità, del patrimonio ecclesiastico) as-

sicurò in Moscovia alle istituzioni ecclesiastiche una tale solidità, da determinare di fatto un regime sostanzialmente diarchico. Sotto il terribile dispotismo di Ivan IV il metropolita Filippo Kolyîov pagò con la vita la difesa di tale «sinfonia», nel cui ambito la superiore dignità del potere spirituale era comunemente affermata, trovando compiuta manifestazione nel secolo XVII con patriarchi quali i «gran sovrani» Filarete e Nikon. Emblematicamente il patriarcato di quest'ultimo, apogeo e inizio del rapido declino della diarchia moscovita, vide per volontà dello

stesso Nikon l’inserimento del Constitutum Constantini nella collezione canonica russa e fu concluso nel 1667 da una deposizione, cui il «concilio dei patriarchi» associò, ad opera dei presuli greci, l'affermazione della supremazia del potere imperiale su ogni autorità. Il definitivo superamento, di fatto e di diritto, della tradiziona-

le sinfonia moscovita sì lega comunque alla figura di Pietro I e alle sue riforme, volte a mutare radicalmente

(come nel 1713 sim-

bolicamente indicò il trasferimento della capitale da Mosca a San Pietroburgo) la vita istituzionale e le consuetudini sociali della

Russia. Nello stato d'orientamento assolutistico, che per volontà

di Pietro prese il posto dello Carstvo con i suoi tradizionali ordina-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

499

menti, non vi fu più spazio per un'autorità di carattere personale che in qualche modo si configurasse come il corrispettivo ecclesiastico della figura dello zar e del suo potere. Il patriarcato venne pertanto abolito e la chiesa russa fu riordinata nei suoi vertici istituzionali secondo uno schema ì cui criteri ispiratori furono l’utilità dello stato e l’ossequio alla volontà del principe. Tale riforma ebbe quale artefice un ecclesiastico ukraino, Feofan Prokopoviò, il quale, già monaco unita e allievo dei gesuiti, dopo aver abbandonato la chiesa cattolica era divenuto docente nell'Accademia teologica di Kiev, assumendovi un orientamento molto aperto agli influssi protestanti. Di fatto, nella elaborazione del nuovo ordina-

mento istituzionale della chiesa russa (della quale dal 1718 era di-

venuto vescovo), il Prokopoviè assunse come modello l’ Oberkonsi-

storium presente in ambito protestante. Traducendo in concrete realtà istituzionali le indicazioni del Regolamento ecclesiastico steso da questo ossequiente prelato, nel 1721 Pietro (che in quell’anno ricevette dal senato il titolo di «Grande»)

istituì, con decreto del 25 gennaio, il Collegio Eccle-

siastico come supremo organo di governo della chiesa. Nella seduta inaugurale, il 14 febbraio, lo zar stesso ne avrebbe mutato

la denominazione in «Santa Sinodo Governante»: mistificazione terminologica di una realtà nient’affatto conciliare, ma piuttosto burocratica. Si trattava in effetti di un collegio ristretto di ecclesiastici, reso competente in merito all'intera vita e disciplina della chiesa russa, con attribuzione anche di alcune facoltà prece-

dentemente

esercitate dai vescovi nelle rispettive diocesi. Pur

non essendo direttamente membro della Santa Sinodo, ne sorvegliava l’attività in nome dell’imperatore un funzionario laico,

l’Oberprokuror, definito ufficialmente «l’occhio vigile del sovrano», cui competeva la compilazione degli ordini del giorno delle sedute e la presentazione dei relativi deliberati allo zar per l’approvazione; aveva inoltre facoltà di suggerire al monarca anche i nomi dei possibili candidati al collegio sinodale. In siffatta anomala struttura istituzionale, imposta da Pietro alla gerarchia russa, questa sarebbe vissuta fino alla Rivoluzione del 19177. In effetti, soltanto con la fine degli zar anche il regime «sinodale», forma ecclesiastica dello zarismo, trovò la sua conclusione. Peraltro, quando il 21 novembre (4 dicembre) 1917

nella cattedrale moscovita della Dormizione si svolse l’insediamento di Tikon sul seggio del ricostituito patriarcato di Mosca,

non soltanto la Russia non aveva più zar, ma la Terza Roma si tro-

vava ormai nelle mani dei Soviet.

500

Cnistianesimo

A questo variegato itinerario istituzionale fece riscontro un’esperienza religiosa non meno complessa nei suoi aspetti di dottrina e di spiritualità. Gli ideali di Iosif di Volokolamsk, saldamente impostisi dopo l’ascesa del metropolita Daniil al seggio moscovita nel 1522, con la loro forte preoccupazione per il retto ordinamento della vita ecclesiastica e sociale furono alla base della legislazione canonica emessa nel 1551 dal concilio «dei Cento Capitoli» (Stoglav),

fondamentale nella vicenda successiva della chiesa russa, e presiedettero altresì alla redazione, sempre nell’età di Ivan IV, del

Domostroj di Sil'vestr, in cui vennero fissate per il pio ortodosso, e anzitutto per il boiaro, le norme di comportamento personale e di «governo della casa». I frutti concreti di tale disciplinamento d’ispirazione iosifita possono riconoscersi nelle forme cristiano-ortodosse del vivere sociale, conservatesi per molti aspetti fino alla forzata secolarizzazione marxista, e altresì in quello speciale zelo per il culto divino e per la sua celebrazione, spesso additato quale tratto tipico dell'esperienza religiosa russa. Del resto, lo stesso paesaggio urbano fu segnato profondamente dalle idealità iositite, e basterebbe pensare a Mosca prima del 1917 e alle sue circa 520 chiese. Proprio l’accentuato focalizzarsi dell'attenzione ecclesiale sul

culto, in una concreta assenza di istituzioni superiori di formazione teologica, avrebbe peraltro determinato una dogmatizzazione delle forme e dei testi liturgici che, di fronte alle correzioni

sul modello greco introdotte dal patriarca Nikon alla metà del Seicento, rese quasi inevitabile il consumarsi skol) dei Vecchio-credenti.

Le carenze quanto a da quest’ultima vicenda, re da quegli stessi anni e più marcato influsso in dell’antica Rus’ inglobati dopo

l’unione

con

dello scisma

(Ra-

riflessione teologica, evidenziate anche avrebbero trovato superamento a partinon senza tensioni, grazie a un sempre Moscovia dell'Ortodossia dei territori nella Rzecpospolita polacco-lituana. Qui,

la chiesa romana

del

1595-1596,

una com-

piuta gerarchia ortodossa era stata ricostituita dal patriarca di Gerusalemme Teofane nel 1620. Nel 1633 era asceso alla cattedra di Kiev Petru Movilà, che immediatamente s’era preoccupato di dar vita nella sede metropolitana a un'istituzione educativa di li-

vello superiore. Ne sarebbe sorto il Collegium Kjoviense, fortemente caratterizzato, per orientamento culturale e ratio studio

rum, in senso occidentale. La Orthodoxa confessio fidei del Movila, profondamente fedele alla tradizione dogmatica ortodossa ma

C. Akati

La chiesa ortodossa

501

strutturata secondo moduli di derivazione tomistica, può considerarsi l’espressione emblematica della scuola di Kiev e della sua fisionomia dottrinale. L'alta qualificazione intellettuale raggiunta da questa istituzione e il prestigio acquisito dall’insegnamento teologico che in essa si impartiva ai candidati al sacerdozio crearono in ogni caso le condizioni per un suo fattivo influsso anche in area moscovita. Con l’acquisizione dell’Ukraina orientale e dell’antica capitale della Rus’ da parte della Moscovia nella seconda metà del Seicento

(è del

1667

il trattato di Andrussow,

reso definitivo nel

1686), l'incidenza della cultura teologica kioviense divenne sempre più massiccia, non arginata neppure dall'episodio del concilio moscovita del 1690 contro Sil'vestr Medvedev e la sua dottrina eucaristica tipicamente tomista. Significativamente quando nel 1721 Pietro I diede vita alla «Santa Sinodo Governante», i primi componenti di tale nuovo vertice istituzionale della chiesa russa furono tutti ukraini. Del resto a quella data l'Accademia teologica istituita a Mosca era stata organizzata sull'esempio kioviense, caratterizzato dall’insegnamento in lingua latina e dal ricorso a testi di studio spesso occidentali, cattolici o protestanti secondo i casì e le situazioni. Fu il modello su cui sì sarebbe sviluppato l’insegnamento teologico in tutto l'impero. Apertosi con Feofan Prokopoviè e le sue riforme, il Settecento ecclesiastico russo si chiuse peraltro con Paisij Veliékovskij. Ukraino egli pure, nel 1739, diciassettenne, rifiutò di proseguire gli studi nella scuola latina di Kiev, trovandoli spiritualmente senza profitto, quando non dannosi, per l'assenza in essi di contatto

con gli insegnamenti «dei maestri teofori della chiesa», com'ebbe a esprimersi egli stesso nella sua Autobiografia (cfr. Tachiaos, 1986). Dopo una fondamentale esperienza spirituale in Valacchia (1743-1746) nelle comunità sottoposte alla guida di Basilio di Poiana Màrului, raggiunto l’Athos, dove si sarebbe trattenuto 17 anni, il giovane religioso si dedicò alla raccolta di testi patristici, soprattutto monastici, e alla loro traduzione, per offrirli come fonte d’ispirazione a quanti ricercavano Dio nell’ascesi. Per questa via Paisij venne recuperando la tradizione esicastica connessa in particolare alla pratica della «preghiera del cuore», integrandone organicamente il patrimonio spirituale anche all’interno dell’esperienza cenobitica, cui egli e la sua comunità si ispiravano. Ne venne un trasfigurante rinnovamento della vita mo-

nastica, che avrebbe trovato nel cenobio moldavo di Neamt, se-

502

Cristianesimo

de definitiva di Paisij, il suo centro d'irradiazione. Qui, sotto la

sua guida convennero

e convissero, raggiungendo

il migliaio,

monaci romeni e ukraini, russi e greci, bulgari e serbi, in una co-

munità straordinariamente armoniosa, animata da un potente e

accomunante slancio interiore. Dopo la morte del maestro, i di-

scepoli sarebbero in gran parte migrati, portandone l’insegnamento nei rispettivi paesi. In Russia, soprattutto, dove nel 1793 era apparso il fortunato primo volume della raccolta di testi monastici curata

da Paisij: il Dobrotoljube (Filocalia), l'eredità spiri-

tuale del grande starec diffusa dai suoi discepoli avrebbe profon-

damente inciso nella vita dei monasteri, trovando nella comunità

di Optina una fedele continuazione. Fu anche grazie al rinnovato contatto con i Padri e con l’esperienza

spirituale

athonita,

realizzatosi

per questo

tramite,

che

l’Ortodossia russa poté, dopo le vicende settecentesche, recupe-

rare la sua anima più autentica (non a caso Dostoevskij, nei Fra-

telli Karamazov, avrebbe affidato la specifica testimonianza religiosa del cristianesimo ortodosso al personaggio dello starec Zosima, ispirato alla figura storica di Amvrosij d’Optina). In qualche

modo

la «Santa Russia», le cui espressioni istitu-

zionali e sociali erano state sconvolte dalle riforme di Pietro I e dallo zarismo ecclesiastico d’ispirazione protestante e illuministica, tornò così a vivere quale realtà interiorizzata e patrimonio dello spirito. I Racconti di un pellegrino russo ne sono ulteriore testimonianza (cfr. Bibliografia). Il ritorno alle antiche fonti dell'esperienza religiosa ortodossa, sviluppatosi nei paesi romeni e slavi grazie all'opera di Paisij e dei suoi

discepoli,

ebbe

un

singolare

corrispettivo

in

area

greca

nell’analogo lavoro di ricerca e diffusione dei grandi testi della tradizione monastica compiuto da Macario di Corinto e da Nicode-

mo Aghiorita, e tradottosi nel 1782 nella stampa a Venezia della Fi-

localia dei Padri neptici (cfr. Bibliografia). Va peraltro segnalato che, se nella sua restante e vasta produzione spirituale Nicodemo (secondo moduli consolidati nell’esperienza dell’Ortodossia greca d’età ottomana) non dubitò di recuperare consapevolmente e mettere a frutto anche scritti religiosi latini, Paisi}, che dopo le traversie conosciute nell’Ukraina polacca s'era ripromesso di vivere esclusivamente

in paesi ortodossi

(Autobiografia, f. 6lv), sembra

aver avvertito in termini più acuti la dicotomia sussistente tra «occidentali» e «fede ortodossa» (cfr. ivi, f. 52).

Tale dialettica rispetto all'Occidente avrebbe più tardi assun-

to in ambito russo, nel quadro dei dibattiti tra occidentalisti e sla-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

503

vofili, una forte connotazione ecclesiologica: fu l'approdo cui condussero le fondamentali esperienze intellettuali e politiche che caratterizzarono i decenni a cavallo tra Sette e Ottocento. Al riguardo anzitutto vi fu tra l’élite ecclesiastica, nell’ultima parte del XVIII secolo, l’affermarsi di un’esigenza di più diretto contatto con le tonti bibliche e patristiche, analoga a quella così intensamente percepita da Paisij; i frutti di siffatto orientamento apparvero nel 1’798: nella ratio studiorum teologica, greco ed ebraico divennero allora discipline obbligatorie e fu altresì introdotto l'insegnamento di Storia Ecclesiastica. Una nuova sensibilità teologica e culturale si andava evidentemente sviluppando. Nel contesto di tale evoluzione intellettuale si venne inserendo nel 1812 l’esperienza dell’invasione napoleonica e della liberazione da essa, esperienza da cui il mondo

russo fu profonda-

mente segnato e per la cui rilettura decisivo risultò negli anni successivi il contributo del pensiero idealistico tedesco. Furono dati in tal modo tutti gli elementi, e il clima spirituale, perché potesse avviarsi un impegnato ripensamento dell’identità russa e del suo significato storico e religioso. Il dibattito, che di fatto si sviluppò, fu condotto essenzialmen-

te da laici ed ebbe come oggetto la Russia nella sua globalità, in-

vestendone le strutture istituzionali, la tradizione culturale, le forme sociali; ma, proprio per questa globalità, centrale al suo inter-

no risultò la questione religiosa. E se il riferimento

primario

all'Occidente venne assumendo in alcuni tardi epigoni di Pietro I, come nel Belinskij (1810-1848) e nello Herzen (1810-1870), con-

notazioni radicali e socialiste in un contesto di generale miscre-

denza, non mancò chi pur volto a Occidente fece del problema re-

ligioso il centro focale della propria riflessione: è il caso di Caadaev (1794-1856). Questi fin dalla sua Prima lettera filosofica a una signora, apparsa nel 1836 sul «Teleskop», pose nell’estraneità al centro unificante del papato e al principio universale del cattolicesimo la ragione profonda della marginalità che, ai suoi occhi, segnava la Russia rispetto all'Europa e alla sua vicenda di progresso. «Il cattolicesimo, quale unico e universale principio d’azione e di civiltà, è il frutto del Weltgeist che collabora con la libera volontà dell’uomo. Perciò, se la Russia intende immettersi nella storia, deve en-

trare nell’ambito d’azione del Weltgeist, costituito dall’Occidente cattolico»: questa la sua filosofia della storia e il suo conseguente progetto per la rinascita nazionale. Esattamente antitetica la lettura della realtà condotta dagli slavofili, per i quali l’Ortodossia e la sua chiesa, mossa dal soffio del-

504

Cristianesimo

lo Spirito, costituiscono il cuore della Russia, cui essa dovrà tor-

nare, se vorrà recuperare lo slancio vitale e la luce interiore necessarie alla creazione di una nuova cultura. Kireevskij (1806-

1856), che nel monastero di Optina cooperò alla traduzione del-

le opere patristiche, vedeva in tali «sorgenti incontaminate dell'antica fede ortodossa» lo strumento per spezzare «il giogo dei sistemi razionalistici» assunti dall’Occidente e per ritrovare la «totalità di verità e di vita» propria dell'esperienza religiosa dell'Ortodossia orientale. Quale potesse essere in pensatori di siffatto orientamento la valutazione della teologia accademica d'impostazione scolastica e di derivazione kioviense è facile immaginare, e lo avrebbe mo-

strato anche l’analisi che, in prospettiva hegeliana, Jurij Samarin (1819-1876) condusse in merito alle figure di Stephan Javorskij e Feofan Prokopoviò, dialettici ed emblematici interpreti di quel modo di fare teologia negli anni di Pietro I. Chi peraltro avrebbe formulato un metodo teologico autenticamente

alternativo allo scolasticismo accademico,

in tal modo

aprendo alla teologia russa (e non soltanto ad essa) la via di un

radicale rinnovamento, sarebbe stato un altro straordinario pensatore laico: Aleksej Stepanoviî Chomjakov (1804-1860).

La chiesa è al centro della sua esperienza religiosa e della sua

riflessione teologica: una chiesa anzitutto sperimentata nella fede come vivente organismo di grazia, animato dallo Spirito; una chiesa che è «santa unione d’amore e di preghiera» e nella quale l’uomo, liberamente sottopostosi a lei, ritrova se stesso nell'u-

nità spirituale con i fratelli e con il suo Salvatore; una chiesa che

è unità e totalità, ed ha come nota caratteristica la sobornost’, ossia l’unanimità universale dei credenti, che, oltre i limiti dello

spazio e del tempo, tutti ricompone in una comunione anteriore alle stesse distinzioni ministeriali. Questa prospettiva ecclesiologica, in cui risuonano temi cari anche ad Adam Mòhler (Die Einheit in der Kirche oder das Prinzip des Katholizismus, 1825), si ritrova in particolare nell'opera La Chiesa è una, apparsa postuma nel 1864. Analogamente postumo, del 1872, è il saggio su La chiesa latina e il protestantesimo dal pun-

to di vista della chiesa d’Oriente, in cui, di fronte all’«unità senza libertà» e alla «libertà senza unità», viene delineata la «libertà

nell'unità» propria dell’Ortodossia, intesa anzitutto come realtà di grazia e di santità. Nella stessa vicenda editoriale dei saggi di Chomjakov possiamo vedere adombrato il destino del suo messaggio teologico. Le

C. Akati

La chiesa ortodossa

505

molte riserve, ch’esso suscitò al suo primo manifestarsi, lasciaro-

no il posto nelle generazioni successive a un accoglimento sempre più convinto. In ogni caso l’ecclesiologia russa dopo di lui non poté più prescindere da quanto egli era venuto enunciando.

Nel successivo sviluppo del pensiero

teologico russo uno

straordinario rilievo deve altresì riconoscersi ai filosofi religiosi dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Tra costoro imponente si staglia la figura di Vladimir Sergee-

vié Solov'év (1853-1900), il cui itinerario intellettuale risulta tut-

tavia, rispetto a quello di altre parallele e successive personalità, assai meno innestato nel vivo flusso dell'esperienza ecclesiale.

L'antico pensiero religioso orientale, le speculazioni della gnosi e della cabala sono a lui presenti non meno della riflessione teosofica romantica, di Schopenhauer e dell’idealismo tedesco, e se

ne può cogliere l'eco nella sua sofiologia cristiana. Ciò non toglie che il tema della divisione delle chiese, nodale nel quadro

della sua riflessione, sia da lui affrontato con una consapevolezza storico-critica e una profondità teologica assolutamente singolari e profetiche. Così egli scrisse nell’articolo su // fondamento comune per la riunione delle chiese apparso nel 1883: «In realtà la chiesa orientale e quella occidentale non sono due corpi radicalmente separati, totalmente estranei a vicenda,

ma unicamente parti dell'unico vero corpo del Cristo che è la chiesa universale; soltanto grazie a questo fatto ciascuna di esse ha diritto di chiamarsi chiesa. La chiesa Universale Una esiste nei legami teandrici con i quali sia gli ortodossi orientali sia i cattolici occidentali sono uniti al Cristo. Ambedue le società ecclesiali sono unite col Cristo attraverso la successione apostolica, la vera fede e i sacramenti vivificanti: in questo, e solo in questo, le

due chiese non si escludono reciprocamente e appunto per questo la chiesa universale è una anche se si presenta in due. Non si tratta di creare una chiesa universale una, che essenzialmente esiste già, ma soltanto di conformare la sua immagine esteriore alla sua essenza» (trad. it. in Solov'ev, /l problema dell'ecumenismo, Milano 1973, p. 87).

Le sue affermazioni in ogni caso non potevano trovare facilmente recezione nelle realtà ecclesiali del tempo; se la teologia cattolica (per la quale nel 1879, con l’enciclica Aeterni Patris, Leone XIII aveva ribadito il valore del tomismo) restava sconcertata

di fronte a diverse enunciazioni connesse alla dottrina di Solov’év

sulla Sofia, in ambito ortodosso risultavano inaccettabili — e fu-

rono censurati — i suoi reiterati riconoscimenti del papato quale

506

Cristianesimo

istituzione costitutiva della chiesa universale. Sicché, nonostante il rilievo ecclesiale dei temi religiosi da lui affrontati, Solov'év rimase di fatto un isolato. Ben diversa integrazione nella concreta dinamica della vita ecclesiale presentano le vicende di altri pensatori religiosi, cui toccò in sorte di attraversare il dramma del ’17 e offrire poi un contributo decisivo perché il patrimonio dell’Ortodossia russa

non ne venisse travolto. Quattro di loro meritano in particolare d’essere in questa sede ricordati: Pétr Bernardoviù Struve (1870-

1944), Sergej Nikolaeviî Bulgakov (1871-1944), Nikolaj Aleksandrovié Berdjaev (1874-1948), Semén Ljudvigoviè Frank (18771950). Praticamente coetanei, indipendentemente l’uno dall’altro, essi vissero l'esperienza dell’adesione giovanile al marxismo

e il suo successivo abbandono per approdare, prima del 17, alla fede all'interno della chiesa ortodossa. Dopo la Rivoluzione e la guerra civile si sarebbero trovati insieme nella diaspora, testimoni singolarmente efficaci della tradizione dottrinale ed ecclesiastica dell'Oriente cristiano nel cuore stesso dell’Occidente. A loro e a tutta l’inielligencija religiosa in esilio la fondazione dell'Istituto Teologico di S. Sergio nel 1925 a Parigi offrì un centro catalizzatore dove il cammino intellettuale e spirituale avviarosi nella Russia prerivoluzionaria poté essere continuato, in fedeltà a una ricca e irripetibile esperienza, che in patria il nuovo regime andava disperdendo, e in uno stimolante confronto con

la modernità e con i travagli drammatici dell’uomo occidentale. Da questo punto di vista l’Istituto parigino di S. Sergio ha rappresentato una delle più significative istituzioni cristiane di questo

secolo.

Non

soltanto

esso,

durante

i lunghi

e soffocanti

anni

dell’ideocrazia sovietica, ha custodito eperpetuato il pensiero religioso russo, ma col prestigio dei suoi maestri ha contribuito in modo decisivo a diffondere nell’Occidente, cattolico e protestante, i valori della tradizione teologica e spirituale dell'Oriente ortodosso. Sotto questo aspetto, se il XX secolo ha potuto essere definito peril mondo cristiano il secolo dell’ecumenismo, il contributo che

all'incontro tra le chiese è stato offerto dall'attività teologica di S. Sergio risulta trai più ragguardevoli e incisivi. Dopo i maestri della prima generazione, figure quali Pavel Evdokimov e Vladimir Losski), o i successivi Ivan Mejendorf e Aleksandr Smeman (entrambi trasferitisi con la fine degli anni Cinquanta presso l’Istituto Teologico di S. Vladimiro a New York) hanno inciso profondamente nella teologia cattolica, e soprattutto nel cammino ch'essa ha sviluppato dopo il concilio Vaticano II.

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508

Cristianesimo

Ma anche in rapporto al mondo ortodosso la scuola di S. Ser-

gio ha svolto un ruolo di singolare rilievo, costituendo, con la sua

teologia, un potente stimolo al rinnovamento tematico e all'apertura verso la contemporaneità e le sue contraddizioni, come può cogliersi in autori quali Johannes Zizioulas o Christos Yannaras. E, del resto, con quanta fresca attualità il cristianesimo orien-

tale possa parlare alla realtà contemporanea è ben mostrato proprio all'interno dell’Istituto S. Sergio da Olivier Clément: un intellettuale che, sulle orme

dei grandi

maestri

russi e alla loro

scuola, ha concluso nell’Ortodossia il proprio itinerario di ricerca interiore e, partendo da tale esperienza spirituale, è venuto

sviluppando, sulla base del pensiero patristico, un intenso dialogo con l’uomo moderno e la sua ricerca del senso del proprio esistere nel cosmo e nella storia. 10. LA TESTIMONIANZA ORTODOSSA NELL'ETÀ DELLE IDEOLOGIE

La comunità multinazionale di Paisij Veliékovski] a Neamt era sicuramente il segno della straordinaria tensione spirituale che sostenne quell’esperienza monastica, ma può essere anche riguardata come un’ultima grande espressione dell’ecumenicità ortodossa vissuta all’interno del Commonwealth fanariota. Quasi paradossalmente i contatti con l'Occidente, che proprio l’elemento fanariota avrebbe contribuito a intensificare, sa-

rebbero divenuti ben presto canali di comunicazione per idee da cui l’immagine unitaria offerta dalla realtà ortodossa balcanica nel quadro dell’impero ottomano sarebbe uscita definitivamente infranta. Il secolo XVIII si chiuse con le armate francesi nelle isole dello Ionio

(1797)

e in Medio

Oriente

(1798-1801).

Le conseguenze

non si sarebbero fatte attendere; per l'impero ottomano si avviava

il processo che in un secolo circa lo avrebbe portato all’estinzione,

generando sulle sue ceneri una molteplicità di stati nazionali. Il Montenegro, che sotto l'autorità dei suoi metropoliti vive-

va in ampia autonomia fin dagli ultimi anni del XVII secolo, dal 1796 iniziò una condizione di pratica indipendenza, finché nel

1852 si trasformò in principato ereditario, per divenire infine regno nel 1910. Quanto alla Serbia propriamente detta, l’insurrezione prese avvio nel 1804 sotto la guida di Karadjordje Petrovié; dopo il ’17 Milo3 Obrenovit poteva essere dichiarato principe ereditario

C. Alzati

La chiesa ortodossa

509

dall'Assemblea Nazionale e come tale riconosciuto nel 1830 dalla Porta. Se il trattato di Parigi del 1856 garantì internazionalmente l’autonomia del paese, il Congresso di Berlino del 1878 ne sancì la piena sovranità, ratificata nel 1882 dalla proclamazione del regno. La vasta solidarietà internazionale suscitata dai moti indipendentistici greci ne assicurò il successo in tempi relativamente brevi. Scoppiata nel '21, l'insurrezione portò nel '22 alla proclamazione dell’indipendenza,

riconosciuta nel '29 dalla Porta al ter-

mine della guerra russo-ottomana. Nel 1832 il trattato di Londra faceva del paese un regno ereditario, sul cui trono fu posto dall'anno successivo Ottone I di Baviera. Dopo alcuni decenni rispetto alle lotte nazionali greca e serba, le insurrezioni bulgare del 1876 e la guerra russo-romena-ot-

tomana del 1877-1878 portavano nel 1878, nell’ambito del Con-

gresso di Berlino, alla proclamazione di un principato autonomo sotto sovranità ottomana nella parte settentrionale del territorio bulgaro; ne fu primo principe nel 1879 Alessandro Battenberg. Nel 1908 il successore, Ferdinando I Sassonia-Coburgo-Gotha avrebbe proclamato l’indipendenza e la creazione del regno. Quanto alla Romania, i due principati di Valacchia e Molda-

via, precedentemente soggetti alla Porta, nel trattato di Parigi del

1856 divennero internazionalmente garantiti e nel 1859 procedettero alla elezione di Alexandru Ioan Cuza quale unico principe. Nel 1862 il nuovo stato unitario, sul quale pur si conserva-

va la nominale

sovranità della Porta, assunse il nome

di Roma-

nia. La proclamazione dell’indipendenza nel 1877 sarebbe stata

internazionalmente riconosciuta nel 1878, sicché nel 1881 Carol

I poté assumere il titolo di re. Dopo la prima guerra mondiale,

con la fine del regno asburgico d'Ungheria, anche la Transilva-

nia sarebbe entrata a far parte della «Grande Romania», con Moldavia orientale e Bucovina. Si sono dovute ricordare queste vicende perché esse stanno alla base dei radicali mutamenti che la vita ecclesiastica ortodossa conobbe lungo il secolo XIX in Balcania, e di cui ancor oggi si vivono i riflessi. Quando nel 1821 giunsero a Costantinopoli le notizie dell’insurrezione nell’Ellade e delle uccisioni di Turchi che l’avevano accompagnata, il patriarca ecumenico Gregorio V fu fatto ucci-

dere sulla porta del Fanar, che da allora non sarebbe più stata

aperta; due metropoliti e dodici vescovi lo avrebbero seguito sul-

la forca, mentre circa 30.000 Greci vennero trucidati: fu la trau-

510

Cristianesimo

matica e sanguinosa fine dell’età fanariota. In modo definitivo venne così sancita l’estraneazione dell’elemento greco dai destini dell'impero, alla cui vita amministrativa aveva offerto nella fase precedente un contributo fondamentale, e si iniziava da parte dei popoli cristiani sottomessi la lunga lotta per il trionfo dell’idea nazionale. Quando questa si affermò anche a Costantinopoli il dramma avrebbe raggiunto il suo culmine, segnato dal genocidio di Armeni e Assiri. L’idea nazionale quale progetto politico era un tipico prodotto del tardo Illuminismo, e così, più o meno marcatamente, si con-

figurava presso le élite politiche; tuttavia l'aspetto di liberazione

dal dominio musulmano, ch’esso comportava, poteva assicurargli

presa immediata e ampia diffusione tra il popolo, che lo percepiva in un'accezione sostanzialmente religiosa. Ne risultò in ogni caso un connubio sfuggente e ambiguo, che progressivamente e profondamente mutò i termini della tradizionale identificazione tra etnie e chiese. L'esperienza medievale aveva portato alla fusione delle due entità fino a riplasmare in senso religioso ed ecclesiale l’etnia; ora, identificata l'etnia con lo stato nazionale, quest’ultimo, an-

ziché assumere i lineamenti ecclesiali e religiosi ch’erano stati

propri dell’etnia cristiana, imponeva che la chiesa facesse propri

i lineamenti dello stato, in quanto dichiarati lineamenti della nazione. L'unità di etnia e chiesa veniva dunque conservata, ma in una prospettiva capovolta, ossia di strumentalizzazione, più o meno consapevole, della seconda (la chiesa) rispetto ai progetti del-

la prima

(oramai stato nazionale).

Non a caso alla proclamazione delle autonomie e sovranità

nazionali s'accompagnò costantemente, ad opera dei nuovi go-

verni, la proclamazione delle autocefalie delle chiese presenti nei rispettivi territori, ossia la loro indipendenza istituzionale rispet-

to all’autorità del patriarcato ecumenico, percepito come realtà

straniera. Così nel 1830 venne proclamata l’autonomia ecclesiastica serba, nel 1833 l’autocefalia greca, nel 1864 quella romena. Il trono patriarcale cercò di resistere a tale processo, che peraltro l’acquisita piena sovranità dei nuovi stati rendeva inarrestabile. Sicché nel 1852 sarebbe stato rilasciato il tomo d’autocefalia ad Atene, nel 1878 a Belgrado (sede patriarcale dal 1920), nel 1885 a Bucarest (sede patriarcale dal 1925). Solo nel caso della Bulgaria, stante la permanente subordinazione del paese alla Porta, fu possibile a Costantinopoli affrontare il problema valutandolo in piena libertà. E se le deci-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

511

sioni sinodali elaborate tra il 1868 e il 1872 contro l’autocefalia bulgara, proclamata dal clero nel 1862 e accolta dalla Porta nel 1870, possono apparire una copertura a diretti interessi della gerarchia del Fanar, i principi che in tali decisioni furono enunciati

assumono un valore dottrinale non poco rilevante, esprimendo la condanna della coscienza ecclesiale ortodossa nei confronti dell’appartenenza nazionale eretta a criterio ecclesiologico. In tali circostanze lo scandalo tra il popolo ortodosso è al colmo: la nostra santa religione è disprezzata; l’unità della chiesa viene infranta... un

nuovo principio anticristiano, la serpe del phyletismo, insinuandosi in

mezzo a un popolo devoto, minaccia di versare il veleno della divisione e della discordia tra popoli che professano la stessa fede, popoli che colui nel quale è il principio e il compimento della nostra fede, Gesù Cristo, ha chiamato all’unità e, mediante la fede in lui e l’amore vicendevole, ha rac-

colto nell’una, santa, cattolica e apostolica chiesa. Ma dal momento che

quanti sono a capo del movimento bulgaro hanno assunto il principio del phyletismo come punto di partenza della loro rivolta e dell'apostasia dal-

la chiesa madre, e fin dall’inizio hanno fondato su di esso ogni loro as-

sunto, ed è mediante tale principio che hanno distolto e traviato gran par-

te del devoto popolo bulgaro e sono stati condotti a tanti delitti, per tutto questo prendiamo in esame la Santa Scrittura, la sacra Tradizione, la

storia e i canoni della chiesa e, dopo aver insieme con cura considerato ogni cosa, pronunciamoci nello Spirito Santo in merito a questo princi-

pio, se si tratti di principio ammissibile nella chiesa cristiana, come essi

pretendono, o se non sia al contrario inammissibile (Atti della sinodo costantinopolitana del settembre 1872: Mansi, XLV, c. 437).

Da segnalare la puntualizzazione, formulata in quel contesto, che «pure il governo [ottomano] non conosce fino ad ora né Greci, né Bulgari, né altri, ma ethnos orthòdoxon)» (c. 463).

una sola nazione ortodossa

(hen

Si noti che i poteri politici, che tanto imperiosamente vollero l'autocefalia delle proprie chiese e fattivamente si impegnarono a difenderla, furono spesso governi laicisti (come

era del resto

naturale stante il retroterra ideologico che li ispirava) e in tale linea svilupparono la loro politica interna. Può essere considerato emblematico a tale riguardo il fatto che l’ultimo contenzioso tra Costantinopoli e la chiesa bulgara, definitivamente risolto nel 1961, si sia aperto in seguito all'istituzione del patriarcato a Sofia ad opera del governo comunista. Considerazioni particolari meriterebbe il contributo cristiano, e segnatamente ortodosso, alla formazione del nazionalismo

arabo. Basterebbe ricordare la figura di George Antonios (1891-

512

Cristianesimo

1942) e il suo The Arab Awakening apparso nel 1938, o l’opera di Michel ‘Aflaq per la costituzione in Siria del partito Baath. In ef-

fetti, per le comunità cristiane del Vicino Oriente, l'appello alla

nazione araba, o alle singole identità nazionali arabe, non è solo ripresa di modelli ideologici europei, è anche progetto di laicizzazione delle società medio-orientali, così da trovare in esse pieno diritto di cittadinanza, superando le discriminazioni sociali e le limitazioni imposte dal diritto religioso musulmano. Anche in tale caso è comunque evidente come l'ideologia nazionale abbia rappresentato, per le società in cui è venuta inserendosi, un primo contributo alla loro secolarizzazione.

Peraltro, l'instaurazione di una società compiutamente secola-

rizzata si sarebbe avuta in modo traumatico all’interno di realtà ortodosse con l'avvento in Russia e nell'Europa orientale dell’ideocrazia comunista. Il regime totalitario che la caratterizzò, non soltanto le permise

un capillare controllo ideologico della vita sociale, ma

le

consentì anche una ferrea subordinazione delle strutture ecclesiastiche che, nel caso ortodosso, la condizione autocefalica ve-

niva a porre in sua totale balia.

Nona caso una delle prime iniziative dei governi comunisti do-

po il loro affermarsi in paesi di tradizione ecclesiastica orientale fu l’eliminazione (inevitabilmente violenta) delle locali chiese unite,

il cui riferimento a Roma avrebbe potuto creare problemi nell'opera di assoggettamento al potere statale. Riprendendo il copione seguito nei territori ukraini e bielorussi dall’assolutismo zarista ottocentesco, attraverso alcune assemblee di ecclesiastici prive di

qualsiasi rappresentatività per l'evidente costrizione, l'esiguità del

numero e l’assenza dei vescovi, si decretò l'aggregazione alla chie-

sa ortodossa delle chiese unite di Galizia (Ukraina) (1946), Transilvania (Romania) (1948) e Subcarpazia (Cecoslovacchia) (1950).

Questo controllo delle strutture istituzionali non significò però, né per gli ortodossi, né per le minoranze cattoliche, l'asservimento delle coscienze. I martiri che hanno costellato la sto-

ria delle chiese sotto i regimi comunisti ne sono la prova. Tra gli stessi presuli si ebbero straordinarie figure di confessori: la testimonianza di fedeltà alla propria chiesa offerta dal patriarca di Mosca

Tikon, dal luogotenente

patriarcale Pétr, che resse tem-

poraneamente la chiesa dopo di lui e da altri vescovi ortodossi

(senza pensare alla chiesa catacombale), avrebbero trovato cor-

rispettivo in ambito cattolico unita nelle vicende dell’arcivesco-

vo Josyf Slipyj e degli altri suoi confratelli.

C. Alkzati

La chiesa ortodossa

513

In ogni caso, pur tra pressioni e condizionamenti, il culto con-

tinuò ad essere fedelmente celebrato, i sacramenti ad essere di-

stribuiti e l'offerta di sé a Dio nei monasteri non venne meno. Senza tutto questo anche la rinascita spirituale a partire dagli an-

ni del disgelo, e il dinamico fenomeno dei seminari filosofico-re-

ligiosi

e dell’editoria

clandestina,

il samizdat

religioso,

non

sa-

rebbero stati possibili. E in effetti è stato proprio in questa realtà ecclesiale complessa e variegata che ha compiuto la sua formazione sacerdotale la luminosa figura dell’ultimo martire della chiesa moscovita,

il padre Alexandr Men’.

Egli è in fondo,

nel

1990, l'ultima vera parola dell’Ortodossia russa al termine della lunga cattività impostale dall’ideologia (cfr. Hamant, 1993). x

11. TRA PASSATO E FUTURO

L’accavallarsi delle situazioni e l’urgenza dei problemi contin-

genti, di cui la vita sociale e i rapporti internazionali sono intessuti, non permette di cogliere con lucidità tutto il significato epocale del nuovo ’89. L'attuale assenza in ambito cristiano di una seria riflessione teologica sulla storia rende difficile anche alle chiese prendere adeguata consapevolezza del momento che stanno vivendo. Una riflessione al riguardo parrebbe particolarmente importante

per l’Ortodossia, visto che i mutamenti

determi

natisi investono direttamente le modalità della sua presenza nella storia, e segnatamente in quella europea.

L'attenzione alla «lunga durata» risulta del resto imprescindibile anche in rapporto alla questione più generale della testi-

monianza ortodossa nell’attuale momento storico, questione che sta alla base del progetto di concilio panortodosso cui, sotto lo

stimolo dell’esperienza cattolica del Vaticano II, da anni ormai si

sta lavorando. I problemi in cui la comune vita ecclesiale ortodossa si im-

batte, e che da molte parti si auspicherebbe di veder organica-

mente affrontati, sono molteplici. Oltre a questioni d’ordine liturgico e disciplinare, vi sono infatti i nodi estremamente complessi della diaspora e del regime autocefalico. Il radicamento definitivo di comunità ortodosse, diverse per

provenienza, in terre caratterizzate da tradizione religiosa e cul-

turale latina, nonché la costituzione in queste ultime di comunità autoctone di fedeli ortodossi, non soltanto pone il problema del regime canonico per regolare una tale complessa e multiforme

514

Cristianesimo

realtà (che attualmente si presenta divisa in una pluralità di giuri-

sdizioni facenti capo alle chiese di lontana origine), ma rende ineludibile la questione della «forma culturale» dell'Ortodossia. L'Ortodossia è semplicemente forma di fede (per cui può sussistere all’interno di espressioni culturali e religiose diverse) o è forma anche di cultura (sicché le specifiche modalità culturali nelle quali si è storicamente espressa risultano imprescindibili)? Se la comunità «latina» che va sotto il nome di Eglise Catho-

lique-Orthodoxe de France è stata ora definitivamente rifiutata,

anche per una serie di questioni strettamente dottrinali e disciplinari, il problema da essa posto, a partire da Eugraf Kovalevski), non è senza fondamento e si collega strettamente al perdurare della divisione dottrinale che rende l’attuale chiesa latina,

diversamente da quanto avveniva in età patristica, estranea all’Ortodossia orientale. Quanto ai problemi connessi al regime autocefalico, essi appaiono d'ordine ecclesiologico non meno che canonico. In questi ultimi decenni in più occasioni la comunione orto-

dossa è stata turbata da tensioni, fino alla frattura, legate alle mo-

dalità canoniche di proclamazione e di riconoscimento dell’autocefalia (si pensi al caso americano, non meno che a quello macedone o a quello più recente ukraino). Una concorde e più rigorosa definizione delle procedure si presenta, dunque, opportuna. Ma forse ancor più urgente appare una riflessione teologica

sul significato ecclesiale dell’autocefalia, visto che tale istituto canonico, a partire — come s’è detto — dal secolo scorso, ha subìto

un marcato condizionamento, trasformandosi spesso nell’espressione ecclesiastica dell’ideologia nazionale. Nessuna chiesa ha probabilmente formulato riguardo a siffatte contaminazioni condanna più lucida di quelle emesse dal trono ecumenico in merito al phyletismo. Su questi temi affascinanti prospettive sembrano aperte pure dalla concezione eucaristica della comunione,

insita nella concreta esperienza storica dell’Ortodossia e che il magistero di Chomjakov ha richiamato con forza all'attenzione delle chiese. In questo ricco patrimonio di dottrina e di prassi vi sono dunque tutti gli elementi per una piena rinascita di quel profondo senso ecclesiale, che in secoli passati dalla greca Costantinopoli ha saputo far germinare le chiese slave e dar vita al-

la civiltà della Slavia ortodossa. Ma oltre a

ciò, il venir meno delle costrizioni, cui il regime to-

talitario ha sottoposto per decenni una parte rilevante della comunione ortodossa, ripropone a quest'ultima anche la piena ri-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

515

presa del suo storico slancio missionario. Nel 1899 la chiesa russa aveva provveduto alla traduzione della Bibbia in più di sessanta

lingue, mentre i suoi missionari annunciavano il Vangelo in tutta l'Asia russa e avevano fatto sorgere chiese locali in Alaska, in Cina, in Corea, in Giappone (la missione di Persia era in realtà

rivolta ai nestoriani, quale risposta alla loro richiesta di unione e di aiuto). Ora anche l’Africa, facente capo al patriarcato di Alessandria, possiede comunità ortodosse indigene, particolarmente

in Uganda dove nel 1932 si ebbe un consistente deflusso dalla chiesa anglicana.

D'altra parte i decenni di ateizzazione forzata nei paesi ex co-

munisti e la secolarizzazione avanzante impongono nell’oggi anche all’Ortodossia un problema di evangelizzazione interna. Su questo punto, dopo 1’89, è parsa svilupparsi una competizione missionaria con le altre confessioni (non soltanto gli attivissimi

gruppi protestanti, ma anche la chiesa cattolica latina), che ha

riproposto con forza il problema ecumenico. Il tema della collaborazione cristiana aveva in ambito ortodosso una sua tradizione. Dal 1910 rappresentanti ortodossi furono regolarmente presenti alle conferenze d’ispirazione ecumenica e con un’enciclica «alle chiese. di Cristo nel mondo» il patriarcato ecumenico nel 1920 s’inserì fattivamente nel movi-

mento per una ritrovata collaborazione cristiana. Alla fondazio-

ne del Consiglio Ecumenico delle chiese nel 1948 furono presenti Costantinopoli, Cipro e la Grecia. Ma successivamente, data una più precisa definizione delle condizioni d’adesione, anche gli altri patriarcati e arcivescovadi autocefali entrarono a far parte dell'organismo assumendovi un peso crescente. A questa collaborazione s’associavano contatti diretti con alcune chiese in particolare. Con la chiesa d’Inghilterra una serie di fattori avevano storicamente reso singolarmente agevoli le relazioni. Manifestazione emblematica di tale particolare legame deve considerarsi il Fellowship of St. Alban and St. Sergiusche tanto ha collaborato allo scambio spirituale tra i fedeli delle due chiese. In tale clima tra il 1922 e il 1939 il patriarcato ecumenico, e successivamente le chiese di Gerusa-

lemme, di Cipro, di Alessandria, di Romania e di Grecia giunsero ad una forma di riconoscimento kat’'oikonomian delle ordinazioni anglicane, equiparandole a quelle delle altre chiese non ortodosse ma d'ascendenza apostolica. Evidentemente le più recenti evoluzioni della comunione anglicana in merito alla dottrina e alla

516

Cristianesimo

prassi del ministero pongono ora la collaborazione tra ortodossi e anglicani in una nuova prospettiva. Con

la chiesa di Roma

la tradizionale difficoltà di relazioni,

evidenziatasi anche in occasione degli inviti unionistici di Pio IX e Leone XIII, conobbe un'autentica svolta con l’ascesa al trono

ecumenico del patriarca Atenagora. Quando a Roma apparve Giovanni XXIII furono date le condizioni per un radicale mutamento di rapporti. La cosa si evidenziò in occasione del concilio Vaticano II (cui presenziarono rappresentanti ortodossi e du-

rante il quale furono cassati i reciproci anatemi del 1054) e ven-

ne poi ratificata dall’incontro tra Atenagora e Paolo VI a Gerusalemme nel gennaio 1964, cui seguirono gli scambi delle visite

nelle rispettive sedi (1967). Il dialogo sempre più intenso tra la

chiesa cattolica e l’insieme delle chiese ortodosse ha portato in occasione della visita di Giovanni Paolo II al patriarca Dimitrios, nel novembre

1979, all'annuncio della costituzione di una Com-

missione mista cattolico-ortodossa per il dialogo teologico; essa è tuttora fattivamente operante. In questo promettente contesto gli avvenimenti successivi al crollo del comunismo hanno peraltro determinato nuove e difficili situazioni. i Nella ritrovata libertà il clero e i fedeli orientali uniti ricostituirono le loro chiese soppresse, hanno chiesto la restituzione degli edifici di culto consegnati dalle autorità statali, al momen-

to della soppressione, alla chiesa ortodossa.

Resistenze, tensioni, occupazioni hanno fatto gridare all’ag-

gressione cattolica nei confronti dell’Ortodossia. Si distinse par-

ticolarmente in questo l’esarca di Kiev Filarete, che spinse la si-

nodo patriarcale moscovita a chiedere la solidarietà delle chiese sorelle. Questa non mancò; tanto più che analoghi problemi si riproponevano anche in Romania e in Slovacchia. La questione

pertanto perdette il suo carattere locale circoscritto e venne ad

investire globalmente i rapporti tra ortodossi e cattolici. In tale quadro si è evidenziata ancora una volta in tutta la sua importanza la funzione di centro equilibratore propria del patriarcato ecumenico. Superando le difficoltà imposte dal regime nazionalista turco (solo recentemente si è potuto restaurare il Fanar e ancora chiusa resta l'Accademia teologica di Chalki), sua santità Bartolomeo I è riuscito a convocare nella sua sede dal 13 al 15 marzo 1992 una inedita assemblea dei patriarchi e dei primati delle chiese ortodosse, in cui, oltre a rinsaldare profondamente i

loro vincoli di comunione e la comune responsabilità nel presen-

C. Alzati

La chiesa ortodossa

te momento

517

storico, essi venivano confermando,

nonostante

le

difficoltà, la volontà di proseguire il dialogo con il mondo cattolico (il testo del messaggio finale in «SOP = Service Orthodoxe de

Presse», n° 167 [Avril 1992], pp. 23-27). Inoltre il patriarcato co-

stantinopolitano ha per parte sua avviato con la chiesa ukraina unita un diretto contatto sul piano teologico, che ha contribuito in modo decisivo a rasserenare gli animi e ad aiutare la comprensione delle rispettive posizioni ed esigenze

(«Logos», n° 34 [1993];

«SOP», n° 191 [Septembre-Octobre 1994], pp. 17-18). Si è trattato di un ennesimo contributo della sede ecumenica alla comunione delle chiese, nel quadro di una più generale azione per fare dell’Ortodossia una viva presenza spirituale, che accompagni e illumini il cammino degli uomini e dei popoli nel difficile contesto contemporaneo. Della fattiva assunzione di tale compito si è avuta un’inequivocabile manifestazione il 19 aprile 1994 nell’allocuzione rivolta da sua santità Bartolomeo I al Par-

lamento europeo su invito del presidente Egon Klepsch («SOP»,

n° 190 (]uillet-Aoùt 1994], pp. 25-29; cfr. n° 189 (Juin 1994], pp.

28-29). La compresenza in Europa delle tradizioni greca e latina, l'impegno del patriarcato ecumenico per la solidarietà tra le chiese cristiane, la tolleranza religiosa, l'integrazione nella vita europea dei paesi liberatisi dal giogo comunista, il dramma del-

la guerra e il giudizio della coscienza ecclesiale ortodossa di fron-

te alle atrocità perpetrate in Balcania, la necessità di recuperare il valore dell’uomo e il significato del cosmo sono emersi in quella sede quali temi nodali del messaggio del patriarca, mostrando all'Europa e ai suoi popoli in cerca di unità su quali itinerari l'Or-

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Le missioni cattoliche* di Jacques Gadille

1. PREMESSA

Il termine «missioni» qualifica l'espansione del cristianesimo al

di fuori dell'Europa solo a partire dall’inizio dell’età moderna: Ignazio di Loyola lo utilizza in riferimento all’azione dei suoi compagni, i gesuiti inviati presso i protestanti in Europa a difesa del papa e presso i «pagani» in terre remote!'. L’antichità cristiana impiega la parola missio in senso esclusivamente mistico, per descrivere le relazioni fra le tre persone della Trinità — il che, peraltro, è strettamente connesso con la diffusione del cristianesi-

mo. D'altronde, tale diffusione è una realtà che data dalle origini del cristianesimo

stesso,

e le sue radici vanno

ricercate

nel

compito affidato da Cristo ai suoi discepoli di portare la Buona

Novella della salvezza ai quattro angoli della terra: i discepoli che

lo attuano sioni «età Questa una linea

sono gli «apostoli», termine da cui derivano le espresapostolica» e «apostolato». breve premessa etimologica ci permette di tracciare di demarcazione tra le prime forme di espansione cri-

stiana, susseguitesi per quindici secoli, e le forme organizzate della missione dell'età moderna. Con il concilio Vaticano II si è aperta un’epoca nuova che, per molti versi, rappresenta un riavvicinamento all’età apostolica, e che si è arrivati a designare come «post-missionaria». * Traduzione di Luca Falaschi. 1 E il «voto de las misiones», o quarto voto dei gesuiti.

524

Cristianesimo

2. MISSIONI «ANTE LITTERAM»: LA PRIMA ESPANSIONE DEL CRISTIANESIMO NEL MONDO ANTICO, NELLA TARDA ANTICHITÀ E NEL MEDIOEVO

I capitoli 10 e 11 degli Atti degli Apostoli definiscono in maniera mirabile «la missione ci gentili» nell’incontro di Pietro con il centurione Cornelio a Cesarea: al primo degli apostoli viene chiesto di non considerare impuri alimenti o qualsiasi creatura di questa terra, anche se non appartengono al popolo ebraico; in seguito, il primo «concilio» di Gerusalemme, tenutosi nel 48 o nel

49, sancirà la vocazione dei cristiani a uscire dalla matrice giudaica. Seguiranno poi i viaggi di Paolo fino a Roma, l'ellenizzazione del cristianesimo negli ambienti in cui si leggeva la Bibbia dei Settanta

(tradotta nel III secolo a.C.) e la fulminea

«dilata-

zione» della nuova fede religiosa che appena un secolo dopo la morte di Cristo avrebbe impressionato i funzionari romani che presidiavano i confini dell'impero: un contagio religioso che investirà tutta l’area del Mediterraneo, dall'Egitto - dove l’apostolo Marco avrebbe fondato secondo la tradizione le comunità di Alessandria e di Cirene —, verso l’Africa settentrionale — che alla morte di sant'Agostino (430) conterà non meno di 700 vescovi —, mentre verso nord Potino e Ireneo, provenienti dall'Asia Minore, fon-

dano a Lione, nel II secolo, la prima chiesa dei Galli. Ma l’influenza cristiana si è esercitata assai più lontano. Gli apostoli Tommaso e Bartolomeo avrebbero fondato sulla costa occidentale dell'India una chiesa, che nel IV secolo fu incorporata nel patriarcato di Edessa, mentre le chiese di lingua copta o siriaca che si staccarono da Roma dopo il concilio di Calcedonia del 451 diedero prova di uno straordinario dinamismo apostolico: già nel IV secolo si forma in Armenia un regno cristiano; gruppi di cristiani copti avevano fondato nell'Alto Egitto le chiese di Etiopia e di Nubia;

i nestoriani, infine, muovendosi

lungo le vie di co-

municazione, evangelizzarono l’Iraq, la Persia, e penetrarono fin nel Nord

della Cina, dove la stele di Si Ngan

Fu

(781

d.C.)

ri-

mane a testimoniare la presenza dei loro monasteri. Questa progressione si è sviluppata a poco a poco, a partire dalle classi più umili della popolazione e grazie all’estrema mobilità di questi primi cristiani: la solidarietà, lo scambio di delegazioni tra una chiesa e l’altra erano intensi. Lo stesso esempio di povertà e di preghiera offerto da queste comunità aveva una

grande efficacia. Infine, i loro capi, i vescovi, si riunivano in concili regionali, e persino in assemblee «ecumeniche», che si ten-

J Gadille

Le missioni cattoliche

525

nero tutte in Oriente, ma riconoscevano il primato del vescovo di Roma, «che presiede alla carità di tutte le chiese»?. Con la conversione di Costantino e la cristianizzazione dell'impero si verifica però un mutamento importante nei metodi di propagazione del cristianesimo. Le chiese ereditano il prestigio politico della grande Roma imperiale, compresa la sua variante orientale a Bisanzio, e modellano il loro diritto, la loro liturgia, il loro patrimonio letterario su quello dell’istituzione romana.

E a questa romanizzazione,

a questa cristianizzazione li-

mitata alle città e che di rado arrivava a toccare i berberi delle

montagne,

che viene

attribuito quel tanto di resistenza che

la

brillante chiesa del Nordafrica riuscì ad opporre alle invasioni

vandale e soprattutto all’ondata islamica, che ne farà scompari-

re le ultime tracce soltanto nel XII secolo. Ma di fronte agli invasori germanici, in parte conquistati dal «cristianesimo ariano», la genialità di papi come Anastasio II o ì suoi successori del VII secolo è consistita nel «passare ai barbari»,

mettendo da parte qualsiasi nostalgia della grandezza romana per dare fiducia alle forze di rinnovamento di cui quei popoli erano portatori. I monaci sono stati, a fianco dei vescovi, i pionieri della

prima evangelizzazione dell'Europa nell’alto Medioevo, sulla scorta del modello eremitico di provenienza orientale e secondo le regole di san Benedetto in Italia o di san Colombano in Irlanda. Uno di loro divenne papa, Gregorio Magno (540 ca.-604), che trattò con i Longobardi e inviò il monaco Agostino oltre Manica, ad evangelizzare gli Angli: a lui aveva dato disposizione di cristianizzare i luoghi di culto delle antiche divinità pagane per condur-

re in tal modo quei popoli «passo dopo passo» a riconoscere il vero Dio e a venerare i santi fondatori delle loro chiese. Se da una

parte la rete dei piccoli monasteri favoriva la fondazione di parrocchie nelle campagne e la valorizzazione delle terre dal punto

di vista agricolo e minerario, dall'altra essi, col canto dell'ufficio

divino, il lavoro dei copisti e le scuole, svolgevano anche la funzione di trasmettere il bagaglio di conoscenze e di valori della cul-

tura antica. La chiesa imponeva il diritto romano ai Celti e ai Ger-

mani, popoli di diritto consuetudinario, ma allo stesso tempo svolgeva l’opera di evangelizzazione nelle lingue volgari. Nel X secolo i due fratelli Cirillo e Metodio, inviati dall'imperatore di Bisanzio

presso i Bulgari, crearono, per evangelizzare i popoli slavi, una lin? Lettera di sant'Ignazio d'Antiochia ai cristiani di Roma («Sources chré-

tiennes», n. 10).

526

Cristianesimo

gua, il paleoslavo, utilizzando un alfabeto che sarebbe divenuto il cirillico e il cui uso nella liturgia fu, dopo qualche esitazione, ri-

conosciuto dai papi. In seguito, in Polonia, in Russia, nei regni scandinavi, fino in Islanda, si svilupparono, con l'appoggio di sinodi locali, forme «nazionali» di cristianesimo.

Più che lo scisma con la chiesa di Bisanzio fu il costituirsi dei grandi imperi musulmani in tutto il Mediterraneo orientale e meridionale ad imporre l'alleanza dei pontefici della cristianità occidentale con i regni nati dall'impero di Carlo Magno: un’alleanza tormentata col Sacro Romano Impero. I papi riuscirono ad incanalare l’ardore bellicoso dei signori e dei cavalieri della società feudale arruolandoli per la riconquista dei Luoghi Santi, convincendoli che facendosi crociati avrebbero, in più, ottenuto

la salvezza. Il modello ideale delle crociate è sopravvissuto a lungo alle crociate stesse, interrottesi alla metà del XIII secolo. E un modello che qualifica come ostile «l’altro», colui che vive al di fuori della «cri-

stianità»: ciò spiega perché, due secoli dopo, i «Re Cattolici» Fer-

dinando e Isabella abbiano espulso, assieme ai musulmani, gli

Ebrei e i musulmani convertiti. In questo contesto, va sottolineato

come nel momento più duro della lotta e dell’intrecciarsi di politica e «missione» si sia sviluppato tra musulmani e cristiani un dialogo sul piano culturale, che ha visto come protagonisti un Federico IT, un san Luigi, e poi un san Francesco: i discepoli di quest'ultimo hanno da allora mantenuto una presenza continua in Marocco e in

altri luoghi a forte dominante musulmana, come a

Gerusalemme per la custodia dei Luoghi Santi. Infine, aggirando da nord le regioni islamizzate, altri religiosi inviati dal papa riuscirono a stabilire con l'impero mongolo rapporti ufficiali, pur se effimeri, che condussero

all’istituzione di

un’arcidiocesi a Khanbaliq (Pechino) nel 1307. Ma le distanze, la mancanza di organizzazione della missione, come pure l’ambiente ostico in cui ci si muoveva, fecero abortire il tentativo.

L'impero ottomano, conquistatore di Bisanzio nel 1453 e pre-

sente fin nei Balcani, avrebbe poi sbarrato la strada all’espansione cristiana alla fine del Medioevo. Paradossalmente, la vittoria

di Lepanto, ottenuta dalla flotta genovese sui Turchi nell’ottobre del 1571, avrebbe confermato questa situazione di blocco: per i due secoli successivi l’area musulmana avrebbe mantenuto come prerogativa l’inimicizia verso la Croce.

Infine, i popoli dell'Africa nera erano visti come discendenti

di un misterioso «Prete Gianni», e gli abitanti dell'Asia orienta-

J Gadille

Le missioni cattoliche

527

le, che praticavano alcuni culti apparentemente ereditati da un

cristianesimo deformato, sembravano avvertire il richiamo di un

ritorno a un cristianesimo originario.

3. LA SCOPERTA DEL NUOVO MONDO: LE MISSIONI «ORGANIZZATE» DAL XVI ALLA PRIMA META DEL XX SECOLO

1. Organizzazione della missione moderna L'esplorazione delle rotte atlantiche per le Indie provocò lo shock dell'incontro con un'umanità che senza possibilità di dubbio non era mai venuta in contatto con la Rivelazione. Nasce da

qui il nuovo

slancio missionario

dell’età moderna,

spesso pre-

sentato come una provvidenziale compensazione al distacco dal cattolicesimo di tutta una porzione dell’Europa, che aveva seguito le nuove chiese nate dalla Riforma. Dinanzi alla novità e all'immensità dei problemi sollevati da questa evangelizzazione, furono compiute alcune scelte fondamentali che presiedettero alla sua organizzazione e furono decisive per l'avvenire. Con la bolla Inter Coetera, del giugno 1493, Alessandro VI ripartiva il carico dei compiti di evangelizzazione tra le due corone di Spagna e di Portogallo, a ovest e a est di una linea immaginaria che attraversava l’Auantico, conferendo loro un diritto di «patronato»,

in particolare in materia di nomine episcopali e di amministra-

zione delle missioni. Di lì a poco, un diritto di patronato sulle missioni cristiane in Oriente fu riconosciuto alla Francia di Francesco I. Di fronte allo sfruttamento delle risorse umane ed eco-

nomiche delle terre conquistate, i papi ricordarono che quegli

Indiani erano uomini come noi, che dovevano essere esentati da ogni lavoro servile; i teologi domenicani di Salamanca, Las Casas e Vitoria, associarono il diritto alla colonizzazione a un dovere di promozione sociale e culturale delle popolazioni locali, mentre i monasteri degli ordini mendicanti situati sugli altipiani del Messico divennero centri di studio ove si apprendevano e si conservavano gli elementi della civiltà azteca, come testimonia l’importantissima opera del francescano Bernardîn de Sahagin.

La popolazione indiana fu da ultimo sistematicamente raggrup-

pata in comunità parrocchiali protette dalle influenze esterne, le «reducciones». In quest'opera si segnalarono soprattutto i gesui-

ti, che nei secoli successivi le estesero al Maranhào (nel Nord dell'Amazzonia) e presso i Guaranî del Parana. Così, sui tre pia-

528

Cristianesimo

ni politico, culturale ed ecclesiale, la missione si articolò secon-

do forme che, nella seconda metà del XVI secolo, risentirono gli

effetti della centralizzazione della monarchia castigliana. Quest’ultima confiscò l'autorità politica, Sahagun non poté pubblicare liberamente le sue ricerche, e le speranze nella possibilità di creare un clero locale che predicasse nelle lingue di origine — la Madonna di Guadalupe aveva parlato in nauhatl al contadino Diego —- andarono deluse.

Inoltre, dopo il Concilio di Trento i papi, da Pio V a Grego-

rio XV, si attrezzarono per riprendere il controllo di questa evangelizzazione, creando una commissione cardinalizia, poi eretta in

congregazione

(1622) e diretta fino al 1649 dal suo segretario,

Francesco Ingoli (nel 1641 vi fu incorporato anche il collegio ur-

bano detto «de Propaganda Fide»). Le grandi congregazioni o compagnie di ecclesiastici avrebbero ricevuto la «commissione»

di evangelizzare determinati territori, e insieme ai vescovi nomi-

nati da Madrid o da Lisbona vi sarebbero stati dei prefetti o dei

vicari apostolici dipendenti dalla nuova istituzione romana. 2. Tappe geografiche

Su queste basi iniziò un’espansione planetaria del cristianesimo che, sotto l'impulso dato dal papato, ha conosciuto un'accelerazione negli ultimi due secoli; alcuni papi - Gregorio XVI (1831-

1846) e Pio XI (1922-1939) — si sono guadagnati il titolo di «pa-

pi delle missioni». Le tappe di questa progressione possono dunque essere scandite cronologicamente. Si comincia con un'espansione in zone remote,

nelle

Indie

sia occidentali

sia orientali,

mentre

a sud

dell’Equatore nasce addirittura un effimero regno cristiano del Congo. Oltre Atlantico, a fronte delle chiese latino-americane che

si estendevano fino al Sud della California e alla Florida, si svi-

luppò nel Nord del continente l’epopea della marcia dei gesuiti verso i Grandi Laghi, che sarà ripresa a metà dell'Ottocento verso

ovest, fino alla cristianizzazione ad opera degli oblati, nel XX secolo, che hanno cristianizzato gli Eschimesi nel grande Nord ca-

nadese. Domenicani e domenicane spagnoli ad est del capo di Buona Speranza, sulla rotta tracciata dai Portoghesi, dal Mozambico a Goa, Malacca e Macao, fino alle Filippine; gesuiti in India e in Cina; la Società delle Missioni Estere di Parigi nel Siam e in Viet-

nam, fondavano comunità che sarebbero cresciute fino ai giorni nostri. Altrove, le nuove comunità cristiane assumevano forma sia

]. Gadille

Le missioni cattoliche

529

di «tribù» nel Québec o nelle Filippine, sia di «piantagioni» nelle

Antille, dove l'economia si fondava sullo schiavismo. Dopo l’eclisse della fine del Settecento, che coincise con la

soppressione dei gesuiti, l'espansione, sotto il pungolo delle missioni protestanti, riprese, nella scia delle grandi circumnavigazioni nel Pacifico; l’Oceania fu raggiunta prima dalle coste andine (Valparaiso) e poi da occidente, nel momento in cui l’«apertura» della Cina e del Giappone, ottenuta con la violenza, significava penetrazione non solo commerciale, ma anche missionaria dell’Occidente in quei grandi imperi. Infine, iniziava la penetrazione

all’interno di un altro conti-

nente, quello africano, prima a partire da Dar-es-Salaam e dai

grandi laghi dell’Africa orientale, poi — anche in questo caso — sulle tracce degli esploratori, lungo i grandi fiumi che sfociano nell’Atlantico: i missionari si muovevano in condizioni ambientali terribili>. Va detto che, a partire dal XVII secolo la Spagna e il Portogallo — paesi a popolazione troppo scarsa per sostenere da soli l'onere delle missioni fuori dell'Europa — erano stati affiancati da altre nazioni europee: i Francesi (soprattutto le religiose francesi) conservarono largamente il primato fino alla prima guerra mondiale;

poi vennero gli Italiani, i Tedeschi, gli Ir-

landesi, e infine, nel periodo tra le due guerre, gli Olandesi cattolici (Metzler, 1990, p. 135).

3. Persistenza delle condizioni politiche della missione

Le linee portanti poste a fondamento della missione all’inizio di

questo lungo periodo di tre secoli e mezzo

conobbero

muta-

menti limitati e assai lenti. Questa situazione di persistenza è ri-

scontrabile soprattutto per la prima di esse, la subordinazione, cioè, delle missioni cattoliche al potere politico. Il dualismo dei «patronati» e del regime della «commissione», che Propaganda Fide generalizzò a partire da Gregorio XVI, portò in India all’annoso conflitto dello «scisma di Goa»

(1834-1950), superato sol-

tanto con la firma del concordato con Salazar. Il patronato francese sulle missioni in Medio ed Estremo Oriente impediva alla Santa Sede di intrattenere rapporti diretti con le autorità locali. Il missionario francese, dotato di forte spirito patriottico, accettava senza riserve la protezione del suo governo, ma dopo la se8 La Società delle Missioni africane perdette tra il 1856 e il 1920 400 dei suoi

membri a causa

di epidemie

(Metzler,

1990, p. 135).

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J. Gadille

Le missioni cattoliche

531

parazione tra chiesa e stato i rapporti con l'amministrazione coloniale furono talvolta tesi, più spesso freddi. Il fatto è che il missionario si mostrava geloso della sua indipendenza nel suo compito educativo o pastorale, e fin dal XIX secolo rivendicava per i cristiani uno status personale, difendendoli contro i costumi discriminatori, quali le caste in India e soprattutto lo schiavismo,

contro il quale lottarono alcuni tra i fondatori di istituzioni missionarie: Libermann, secondo fondatore degli spiritani, con l’aiuto di madre Javouhey (Suore di san Giuseppe di Cluny), e, dinanzi all’aggravarsi della tratta trans-sahariana, il cardinale Lavigerie, nel 1888-1890. Per svincolare le missioni in Cina dalla situazione in cui i «trattati ineguali» le ponevano Benedetto XV e Pio XI iniziarono a «snazionalizzare» le missioni stesse, esigendo dagli istituti missionari che rifuggissero da tutto ciò che facesse apparire il cristianesimo come una religione dello straniero (Gadille, 1991, p. 249) e romanizzando i centri di propagazione della fede. Nonostante ciò, i movimenti

indipendentisti

delle

«giovani

nazioni»

colsero di sorpresa la chiesa, che troppo tardi vi si era preparata, e le critiche indiscriminate di compromissione

col coloniali

smo rimasero un ostacolo anche nella tappa successiva, quella della decolonizzazione

(Metzler, 1990, p. 110).

4. Incontro di culture

L’evoluzione si rivela un po’ più netta se sì considerano l’«azione»

e la «reazione»

in ambito

culturale.

In

effetti,

la norma

dell’apprendimento della lingua locale, della sua pratica nell’insegnamento scolastico, nella catechesi e nella predicazione fu sempre caldeggiata dai gruppi dirigenti degli istituti missionari; la famosa istruzione del 1659 di Propaganda Fide ai vicari apostolici del Tonchino rappresentò per i seminaristi delle Missioni Estere di Parigi un insegnamento costante: «Non introducete

presso di loro il nostro paese, ma la fede, quella fede che non re-

spinge e non offende né i riti né i costumi di popoli antichi, posto che non siano ripugnanti» (in Comby, 1992, p. 168). Roma tuttavia cedette alle critiche che i vecchi ordini facevano ai gesuiti, secondo le quali i discepoli di Matteo Ricci in Cina erano

troppo indulgenti nei confronti delle raffinatezze della civiltà di quel paese. La condanna dei riti cinesi e malabarici (bolla Ex quo singularis del 9 agosto 1’742) rappresentò un formidabile ostacolo all’evangelizzazione della Cina. L'autorizzazione a partecipare

532

Cristianesimo

ai culti degli antenati, considerati alla stregua di cerimonie civili, concessa ai cristiani dell'Estremo Oriente tra il maggio del 1935 e il dicembre 1939, arrivò, anche qui, troppo tardi. La Cina, dilaniata dalla guerra civile ed esterna, si apprestava a cadere sotto il dominio comunista... Il fatto è che gli Europei erano convinti della propria supe riorità, dell’unicità della civiltà di cui erano portatori, in una gerarchia delle culture che Linneo aveva stabilito nel XVIII secolo. In realtà, mentre è vero che numerosi missionari, da allora in poi

— dai gesuiti del XVIII secolo in Cina e in Canada ai missionari presenti in Madagascar o nell'Africa nera — avevano svolto un la-

voro da studiosi, documentando per iscritto lingue, costumi e sto-

ria dei popoli in mezzo ai quali passavano la loro vita, è vero anche che il riconoscimento della pluralità delle civiltà divenne un fatto pacifico negli ambienti cattolici solo dopo la prima guerra mondiale, non senza l’appuntarsi di un’ingente quantità di critiche contro coloro che in Francia, in Belgio o in Italia venivano definiti «indigenisti». 5. Evoluzione della teologia della missione: le scienze della missione

Fattore decisivo nell’evoluzione verificatasi fu senza dubbio una

riflessione teologica sul ruolo della chiesa nella storia della sal-

vezza, all’apogeo dell'era della missione. Nel momento in cui la centralizzazione in Propaganda Fide pareva un fatto compiuto, Pio XI, che accentrava in sé tutta l'autorità riconosciuta al papa all’interno della chiesa, edificò nelle terre di missione chiese rette da un episcopato ordinario e da un clero autoctono; agli altri

vescovi chiedeva la cooperazione nella costruzione della missione universale.

Infine, collegò strettamente

la costituzione delle

chiese locali al rispetto di ciascuna identità culturale, affidando .ai membri delle chiese il compito di cristianizzarne e convertirne i valori. In questo modo egli dava attuazione agli orienta-

menti contenuti nella lettera apostolica Maximum illud (30 no-

vembre 1919) del suo predecessore Benedetto XV e prescritti dal cardinale olandese Van Rossum, redentorista, che fu un grande

prefetto di Propaganda Fide. Pio XII avrebbe allargato ancora questa via, consacrando solennemente dodici vescovi espressi da 4 Enciclica Rerum Ecclesiae del 28 febbraio 1926.

J. Gadille

Le missioni cattoliche

533

tutte le nazioni poco dopo la redazione della sua enciclica inau-

gurale, Summus pontificatus, all’inizio della seconda guerra mon-

diale, e internazionalizzando il Sacro Collegio alla fine del conflitto. Nel 1957 avrebbe chiesto al clero secolare di tutte le diocesi di dare man forte alle chiese sprovviste di sacerdoti. Furono i preti «Fidei donum»,

che si diressero soprattutto verso l’Ame-

rica Latina e l'Africa. Sullo sfondo di queste decisioni, si era dato impulso a tutta una scienza della missione, nata all’inizio del secolo e dedicatasi a una valutazione critica dei risultati della propagazione della fede, con particolare riguardo all’Estremo Oriente. Nelle «Settimane missionarie» essa mise l'accento sull'importanza dei valori religiosi dei popoli cosiddetti «primitivi». Si pensi all’antropologia missionaria ben rappresentata dalla rivista viennese «Anthropos», diretta da missionari specialisti dello studio comparato delle religioni, come i padri W. Schmidt e Trilles. Iniziavano nel con-

tempo ad essere conosciuti i risultati delle ricerche del padre

Teilhard de Chardin in materia di paleontologia umana.

Parallelamente, si apriva il dibattito che, partendo dai temi del-

la tradizione, si svolgeva intorno alle idee difese anche a Roma sul

«problema della salvezza degli infedeli». Qual era la funzione del-

la chiesa — inquadrata in una determinata epoca e in una determinata confessione di fede — nella storia della redenzione divina

di tutta l'umanità? Doveva essere non solo centrale, ma ingloban-

te? Era lecito confondere la storia della salvezza con i suoi limiti visibili? Tutto un gruppo di teologi attese allora ad approfondire la nozione di universalismo cristiano. Fra loro, Henri de Lubac, che

nella sua opera Fondement théologique des missions, pubblicata nel 1946, ridefinì tale universalismo parlando del cristianesimo come

«divinamente unificato e umanamente differenziato, due caratte-

ristiche complementari e interconnesse come la natura e la grazia». Negli stessi anni, infine, si sviluppava il movimento ecumeni-

co, in stretta relazione con i problemi incontrati dall’evangelizzazione ad gentes. Per un noto missionologo come padre Paolo Manna, fondatore dell’Unione missionaria del clero, il ravvicinamen-

to tra le chiese era una condizione della credibilità stessa del messaggio trasmesso dai missionari. Non si sa quali furonoi collegamenti tra questa elaborazione teologica e le direttive impresse allora alla stratregia delle missioni cattoliche; ma tutti concordano nel riconoscere che essa preparò in linea diretta il Concilio Vaticano II, che segna una

svolta fondamentale nella storia delle missioni.

534

Cristianesimo 4. DOPO IL CONCILIO VATICANO II (1962-1965): DALLE MISSIONI DELLE CHIESE ALLA MISSIONE DELLA CHIESA

1. Nuove linee di tendenza

Padre Pierre Charles riteneva che la missione corrispondesse a una specializzazione dell’attività ecclesiale necessaria alla prima evangelizzazione dei popoli lontani, e che quest'attività fosse destinata a cessare nel momento in cui le missioni fossero state mature per lasciare il posto a chiese «impiantate», capaci di dedicarsi ad una pastorale classica”. Benché ormai siamo ben dentro un'epoca che si è potuta definire «post-missionaria», la missione è stata allo stesso tempo riaffermata con forza come «essenziale» alla chiesa di Cristo, e non solo come attività temporanea e specialistica. È chiaro allora che «la missione» va intesa nel senso che a poco a poco le hanno conferito l’itinerario teologico che abbiamo appena delineato e alcune significative esperienze spirituali, profetiche nel campo delle culture estranee al cristiane simo: quella di Charles de Foucauld

(1858-1916)

musulmano, e quella di Jules Monchanin

nel Nordafrica

(1898-1957), che si in-

cardinò in una diocesi nel Sud dell’India, in un territorio posto sotto l’autorità di un vescovo indiano, fondandovi un oratorio 0 «ashram», un monastero benedettino intitolato alla Trinità e im-

pegnato nel dialogo con l’induismo. Le modalità della missione si sono rinnovate con l’interruzione di ogni legame politico, o di qualsiasi altro legame che non fosse il dono gratuito e l'appoggio religioso e materiale da parte della comunità cristiana d’origine*. La massima assimilazione possibile dei valori culturali e dei modi di vita locali, lo spogliarsi di qualsiasi complesso di superiorità, hanno permesso di intraprendere un dialogo autentico tra i valori propri del messaggio cristiano e quelli delle culture locali; in fondo, non si tratta più di im-

piantare strutture ecclesiastiche — che ormai esistono già —, ma di

mettersi al loro servizio, lasciando al clero e ai cristiani del luogo il compito di «inculturare» il lievito cristiano, cioè di trasfonderlo

nella propria cultura. Il cristiano venuto da fuori testimonierà attraverso la sua presenza questa vocazione missionaria, per cui ogni 5 J. Pirotte, Pierre Charles à Louvain. Les formes d'une «action» missionnaire, in

AA.VV., 1992, pp. 67-86. 6 L'istruzione Relationes del 24 febbraio 1969 ha posto fine all'epoca della «commissione».

J. Gadille

Le missioni cattoliche

535

comunità cristiana è chiamata a comunicare il suo patrimonio re-

ligioso nello «stile» che è proprio della sua cultura, al fine di con-

tribuire a fornire una risposta originale alle sfide poste di volta in volta a tutti gli uomini. Questo scambio alla pari tra «chiese sorelle», che hanno

tutte contemporaneamente

qualcosa da dare e

qualcosa da ricevere, diviene una forma di vita organica, e lo stesso dialogo rappresenta un principio del funzionamento interno della chiesa”. Tali caratteristiche — si è osservato —, più che inno-

vazioni, rappresentano un ritorno alle forme d’espansione della chiesa dei primi secoli, estese su scala planetaria: un ritorno che

arriva al termine di una lunga «devianza», secondo l’espressione

recentemente impiegata da padre A.M. Henry (1980, col. 320), iniziata con l'epoca costantiniana. 2. La svolta del concilio

Le grandi costituzioni e dichiarazioni del concilio Vaticano II hanno tracciato proprio le linee che caratterizzano questa versione più piena e rinnovata della missione dei primi sccoli. L'azione missionaria della chiesa deriva direttamente dal modello trinitario: a imitazione di quella che il Padre affidò al Figlio, e sotto l’impulso dello Spirito Santo, la cui assistenza è stata promessa sino alla fine dei tempi. È l’oggetto di tutto il primo capitolo del decreto

Ad gentes sull’attività missionaria della chiesa, la cui elaborazione

era stata affidata al padre Congar. Il decreto era posto in stretta

correlazione con le due costituzioni sulla chiesa e sui suoi rappor-

ti col mondo attuale: una chiesa-sacramento e popolo di Dio, al

servizio di tutti gli uomini in cammino verso la salvezza. Due dichiarazioni votate poco prima della chiusura dell’Assemblea precisavano due delle basi e delle direzioni di questa

«missione»: la libertà religiosa, che si fonda sulla dignità dell’uo-

mo ed esclude ogni «proselitismo», e il dialogo, da intensificare non solo con le altre confessioni cristiane, ma anche con le altre

grandi tradizioni religiose del mondo, ad iniziare da quella ebraica. Parallelamente, papa Paolo VI, nel suo discorso di insediamento, del luglio 1963, e nella sua prima enciclica sulla chiesa,

aveva sottolineato questa funzione di dialogo, che si allargava a tutte le cerchie in cui lo Spirito operava all’interno di specifiche ? Rapporto di monsignor Sangu al sinodo del 1974, in Eglise des cinq continents, Paris 1975, pp. 48-61.

536

Cristianesimo

confessioni, e, ancora oltre, in ciascun uomo. Dal 1960 al 1965,

cinque nuovi dicasteri o segretariati si ripartirono la sfera d’azio-

ne dell'antica Propaganda Fide, divenuta Congregazione

per

l’evangelizzazione dei popoli. Essi dovevano definire le condizioni del dialogo, rispettivamente con gli altri cristiani, con le religioni non cristiane e con i «non credenti». Unendo l’esempio alla parola, il papa uscì per la prima volta dal Vaticano, «ad altum», per recarsi nei Luoghi Santi e incontrare le chiese orientali, per visitare poi l'India, in occasione del congresso cucaristi-

co di Bombay; e per andare, infine, alle Nazioni Unite a New York, dove si presentò «come esperto d’umanità» (ottobre 1965). 3. L'evoluzione degli ultimi trent'anni. L'impulso romano

Nel corso degli ultimi tre decenni, i grandi orientamenti conci-

liari sulla missione cattolica sono stati confermati ed arricchiti. Paolo VI fino al 1971

e, più sistematicamente, Giovanni Paolo II

hanno moltiplicato i viaggi, nei quali si sono presentati come «pellegrini» o «semplici missionari». Spesso questi viaggi hanno coinciso con conferenze episcopali regionali o continentali, e qui il papa ha ripreso direttamente la sua funzione di «colui che pre-

siede alla carità di tutte le chiese», così definita nei primi secoli: la federazione episcopale delle chiese d'Asia è nata in questo modo, in seguito alla visita effettuata a Manila da Paolo VI nel 1970.

Ma a partire dal viaggio del 1964 in India e nei paesi popolosi e poveri dove si gioca l’avvenire dell'umanità, il papato è intervenuto per la costruzione di un mondo economicamente e politicamente più giusto: la commissione «Iustitia et Pax» rappresen-

ta l’istituzionalizzazione delle grandi intuizioni consegnate dal

padre Lebret e da «Economie et humanisme» all’enciclica sullo

sviluppo dei popoli (Populorum Progressio) del 26 marzo 1967. Due

anni dopo la sua visita all’Unesco del 1980, Giovanni Paolo II istituîì il Consiglio pontificio per la cultura, che, a fianco della Pon-

tificia Accademia delle scienze fondata da Pio XI, rappresenta un

prolungamento dell’attività dei segretariati creati durante il Con-

cilio, con l’obiettivo di costruire un umanesimo cristiano che ten-

ga conto delle grandi correnti culturali del nostro tempo attraverso il confronto con le personalità che queste correnti rappre-

sentano.

I viaggi sono altresì l'occasione per mantenere, attraverso gli

incontri, il dialogo ecumenico col Consiglio Mondiale delle chie-

se di Ginevra, con le chiese orientali fino a quelle dell'India me-

J. Gadille

Le missioni caltoliche

537

ridionale, con gli anglicani e i luterani. Attraverso il dialogo interreligioso, il papa ha allargato in misura considerevole la stes-

sa prospettiva ecumenica: verso gli Ebrei, con la visita alla sinagoga di Roma nel 1986; verso i musulmani di Casablanca,

1985); verso il Dalai Lama

(discorso allo stadio

e, più in generale, le

grandi religioni dell'Estremo Oriente, in occasione del viaggio in Corea del 1984. Da ultimo, il recente viaggio nel Benin ha consentito l’incontro con rappresentanti delle religioni tradizionali. I due incontri di Assisi dell'ottobre 1986 e del gennaio 1993 sono stati le manifestazioni più spettacolari del senso missiona-

rio proprio del dialogo di cui si è parlato. Queste manifestazioni si fondano infatti sul riconoscimento reciproco della fecondità

di una preghiera umana, anche tra confessioni religiose distinte,

quando si unisce al servizio della pace tra gli uomini, per far prevalere soluzioni negoziate, e non militari, rispetto a quei conflitti interetnici che sono la piaga del mondo in cui viviamo. 4. La «diaspora» missionaria dei monaci Questa spettacolare avanzata del dialogo interreligioso dev’essere messa in rapporto con un altro fenomeno, assai meno noto: la «diaspora» dell’ordine monastico nelle giovani chiese e nelle

antiche terre di missione. Iniziata con le fondazioni monastiche

durante l'era coloniale, e in particolare dalle carmelitane, dopo

la proclamazione, fatta nel 1927 da Pio XI, di Teresa di Lisieux

patrona delle missioni, tale diaspora è diventata un fenomeno

generale a partire dall'autunno del 1959, e da quando queste

fondazioni sono state poste sotto il coordinamento di un segretariato comune di aiuto agli insediamenti monastici nel Terzo Mondo:

situato nei dintorni di Parigi, esso si è dotato nel 1977

di un altro organismo specializzato nel dialogo intermonastico?.

In Africa, ad esempio, le fondazioni benedettine e cistercensi si sono moltiplicate al ritmo di due all’anno negli ultimi trent’an-

ni; nel 1992 gli insediamenti nei paesi del Terzo Mondo erano

oltre 300°. Questi insediamenti spesso modesti, come gli ashram

cristiani che si sono diffusi numerosi in India, non possono non

ricordare la fitta rete di quei piccoli monasteri che hanno fatto £ Aide intermonastique

(AIM), a Vanves, vicino Parigi.

° Rapporto sul congresso degli abati, in «Bulletin de l'AIM», n. 53, 1992, pp.

27-28. Si raggiunge un totale di 307 fondazioni, in ragione di una media di sei per ognuno degli ultimi quattro anni.

538

Cristianesimo

la loro parte nell’evangelizzazione e nella valorizzazione delle campagne nell'alto Medioevo europeo. Sono luoghi di preghiera, di studio e di ritiro, frequentati dalle popolazioni delle zone circostanti; sono laboratori in cui si elabora una liturgia «incul-

turata», e inoltre centri di sperimentazione nel campo dell’agri-

coltura e a volte della medicina. Periodicamente hanno luogo

grandi conferenze intermonastiche, in cui il dialogo con i mo-

naci non cristiani è ben presto divenuto una pratica corrente, come a Bangkok nell’ottobre 1968, dove accidentalmente morì Thomas Merton, celebre benedettino di Berkeley; in queste sedi sono stati a volte affrontati su scala intercontinentale alcuni grandi problemi che si pongono alla coscienza religiosa contemporanea, come quelli della povertà o della teologia della liberazione. Questo monachesimo, persino questo eremitismo «missionario» in mezzo a popolazioni in maggioranza non cristiane, costi-

tuisce una delle migliori manifestazioni della testimonianza co-

munitaria del cristianesimo attraverso una presenza di preghiera, talvolta di insegnamento, ma che non contempla la predica. Preferisce «occultarsi» in profondità in quelle società, per lasciar parlare una carità vissuta ogni giorno, accanto ai problemi degli

uomini e delle donne. Qui si realizza uno dei tratti tipici di questa missione contemporanea, con la frantumazione dei grandi organismi di evangelizzazione — grandi parrocchie o stazioni mis-

sionarie, monasteri, università —, € il rafforzamanto degli organi-

smi collegiali all’interno delle chiese: comunità ecclesiali di ba-

se, centri di accoglienza (nel Terzo Mondo ve ne sono una ses-

santina), opere cattoliche di mutua assistenza come la Caritas internazionale, che agiscono in équipe magari a volte costituite da una singola persona.

5. Le teologie del Terzo Mondo Nei modi di trasmissione del messaggio cristiano, nella sua interpretazione e nella sua presentazione teologica, l’arricchimento è giunto dall’affermarsi di una teologia cattolica «non occi-

dentale», soprattutto in America Latina, in India, in Giappone e

in altri centri situati in Asia e in Africa. L’impulso era venuto da

Paolo VI, che nel 1969 a Kampala aveva esortato gli Africani a «divenire i missionari di se stessi» e a farsi promotori di una particolarità africana all’interno del cristianesimo universale. Cinque anni dopo, in occasione di uno di quei sinodi che si tengono periodicamente a Roma e che rappresentano come un pro-

J. Gadille

Le missioni cattoliche

539

lungamento del Concilio, dedicato nella fattispecie all’evangelizzazione, aveva fatto sensazione la presa di posizione dei vescovi africani e malgasci, che invocavano una teologia non «dell'adattamento», giudicata ormai «sorpassata», ma dell’ «incarnazione» nelle culture non occidentali. L’anno successivo, nell’esor-

tazione apostolica Evangelii nuntiandi, il papa definiva le condizioni di quest’assimilazione: l'incarnazione non poteva fare a meno della conversione dell’insieme della cultura. La comunica-

zione della Parola doveva lasciare tutto lo spazio necessario al dialogo da persona a persona, per prestarsi alla trasmissione di una testimonianza di fede vissuta. Qualche tempo dopo, nel 1976, nascevano un'associazione dei teologi del Terzo Mondo e un'associazione teologica indiana: loro scopo primario è la cooperazione per una teologia della liberazione attraverso la costruzione di una storia e di una riflessione teologica, così come di un’esegesi biblica, affrontate dal punto di vista dei poveri... Uno di questi teologi, Raimundo Panikkar, ha definito le condizioni di un dia-

logo da lui denominato «intrareligioso», con ciò intendendo l’accettazione da parte degli interlocutori del rischio di un cammino comune fondato su una reciproca condivisione dei valori dell’altro ai fini di una comune elevazione spirituale!0. 6. Due nuovi concetti: inculturazione e nuova evangelizzazione Sempre nel 1974, la conferenza dei vescovi asiatici aveva adottato un termine nuovo, messo in circolazione qualche tempo prima

dai gesuiti giapponesi, quello di «inculturazione». Ripreso da

Giovanni Paolo II all’inizio del suo pontificato, questo termine era destinato a conoscere una fortuna singolare, legata alla sua funzione di designare il fine di ogni opera di evangelizzazione: l’introduzione del lievito cristiano in un complesso culturale per

trasformarlo dall’interno ed esaltarne i valori senza lederne

l'identità. Un concetto sottile, che si prestava ad interpretazioni e applicazioni sul piano sia antropologico che teologico: esso, infatti, aveva il pregio di spronare le chiese locali a dar prova di creatività in ogni campo, a cominciare dalla stessa pastorale. Assai presto si concordò sul fatto che le «comunità di base», dove

le difficoltà quotidiane della vita erano poste a confronto con la 1° Panikkar,

1985. Sul pensiero di Paolo VI,J. Gadille, La pensée missiologique

de Paul VI, in Paul VI et la modernité dans l'Eglise, Colloque de l’Ecole frangaise de Rome, Rome 1984, pp. 787-805.

540

Cristianesimo

meditazione in comune sui testi biblici, fossero il «luogo» in cui

realizzare

questo

lavoro

di inculturazione,

specialmente

ambienti più sfortunati, come le favelas brasiliane. ceva l'esigenza di una partecipazione la più larga laici, che poteva arrivare fino all’organizzazione di nali in cui l'insieme dei problemi di un paese e le

negli

Ciò soddisfapossibile dei sinodi naziorelazioni in-

terconfessionali costituissero oggetto del più ampio dibattito!!.

Un altro concetto, proposto più di recente, nel 1986, dall’attuale pontefice in occasione di un incontro con gli studenti camerunensi, è quello di «nuova evangelizzazione»: fu inteso allora nel senso di «seconda evangelizzazione» dei valori, dei modi di vita di oggi, rispetto a una prima evangelizzazione compiuta dai missionari stranieri. Parlando della costruzione di un’Euro-

pa cristiana, Giovanni Paolo II e i vescovi di questo continente

hanno esteso il concetto anche ai paesi da cui i missionari erano partiti, conferendogli così una portata missionaria molto generale. Non solo chiese giovani e più antiche erano poste su uno stesso livello davanti a questo compito immenso, ma a loro volta i sacerdoti e i teologi delle chiese giovani erano invitati a dare alle altre un contributo di valori cristiani e umani di solidarietà e convivialità così vivi nelle loro culture, un contributo importan-

te per un'Europa che li aveva oscurati con un individualismo esasperato. Tra questi teologi, alcuni pensano che la nuova evangelizzazione in Europa sia una priorità: con il cristianesimo, gli Europei hanno trasmesso generi di vita, «modelli economici», ideo-

logie pressoché aliene da qualsiasi ispirazione cristiana, che hanno largamente contaminato le altre culture. Per loro è importante in primo luogo compiere questo sforzo di ri-evangelizzazione dei diversi campi della loro attività culturale e della loro condotta di vita. Queste ampie prospettive, ma anche lo spostamento del cen-

tro di gravità del cattolicesimo mondiale al di fuori dell'Europa,

verso i continenti americano — con particolare riguardo a quello sudamericano — e africano, determinano per semplici ragioni demografiche una vera e propria inversione delle direzioni geografiche ed ecclesiologiche che avevano orientato la missione nei secoli precedenti. Ecco perché, nella parte centrale dell’assai ampia enciclica dedicata recentemente alla missione, Redemptoris Vl È il caso della formazione nel 1979 di un consiglio ecumenico delle chiese in Madagascar e del notevole ruolo da esso svolto nella vita sociale e politica

(Madagascar et le christianisme, a cura di Bruno Hùbsch, Paris-Antananarivo 1993).

J. Gadille

Le missioni cattoliche

541

Missio, il papa ha scritto che ci troviamo soltanto all’alba di un'era missionaria molto più grande di quella appena trascorsa!?. 7. Una nuova distribuzione assegnata: missione ed ecumenismo Questa enciclica distingue i tre contesti contemporanei che richiedono un’opera di evangelizzazione: quello delle aree geografiche e soprattutto sociali, i cui confini si allargano sempre più, in cui Cristo costituisce oggetto di primo annuncio, un annuncio da considerarsi come previo e sempre prioritario; quello delle regioni in cui le strutture della chiesa sono forti e vive e rientrano nel discorso di una semplice pastorale (ma se sono comprese tra gli argomenti dell’enciclica è perché implicitamente questa pastorale non serve se non è essa stessa missionaria, se non tiene viva tra i

suoi membri «la fame e la sete» dell’estensione del regno di Dio, anziché ripiegarsi su se stessa); infine, il contesto dei paesi di antica tradizione cristiana, dove «in aree ancora più estese, in parti-

colare negli ambienti di cultura elevata, si tende a non riconoscersi più come

membri

della chiesa, conducendo

lontana da Cristo e dal suo Vangelo»!5.

un'esistenza

Le forme ad intrae ad extra della missione, quindi, divise in pas-

sato da una separazione troppo netta, sono qui riavvicinate per so-

stenersi e stimolarsi a vicenda. Ciò segna il riconoscimento della coesistenza e della validità permanente delle diverse forme in cui

essa si è manifestata, per divenire, secondo la felice espressione di mons. H. Teissier, «la missione dalle molteplici fedeltà».

Ma poiché una tale pluralità di forme rischiava di causare una sorta d’esplosione, è arrivato nel maggio 1991 un altro testo a riaffermare «l’unica missione della chiesa, vale a dire l'annuncio e il dialogo»: si tratta di un chiarimento importante e delicato di queste due forme «legate, ma non intercambiabili», tra le quali numerosi teologi avevano scorto forme successive e quasi in-

compatibili della missione. Preparato a partire dal 1986 dai due dicasteri per l’evangelizzazione dei popoli e per il dialogo inter-

religioso, il testo è firmato dai rispettivi responsabili, i cardinali Tomko e Arinze (uno dei 17 attuali cardinali africani). Vi si af-

ferma con chiarezza che le due forme devono essere coordinate, poiché «il vero dialogo interreligioso presuppone da parte del 12 Redemptoris Missio (7 dicembre 1990), nn. 38-40: «La missione ad gentes non

è che ai suoi inizi».

19 Ivi, n. 33.

542

Cristianesimo

cristiano il desiderio di far conoscere ed amare sempre meglio Gesù Cristo, e l'annuncio di Gesù Cristo va fatto nello spirito

evangelico del dialogo»!4.

Resta il fatto che questa specializzazione, questa diversità crescente delle forme della missione, e soprattutto quella sorta di rivoluzione copernicana prodotta dall'apertura della chiesa al

mondo pongono sul piano teologico problemi non da poco. Così, una speciale commissione internazionale sì sta dedicando alla elaborazione

di testi dottrinali sull’inculturazione, sull’unica

mediazione del Cristo, per combattere un relativismo che vedrebbe la possibilità della salvezza in ogni religione e ne desumerebbe l’inutilità di qualsiasi tipo di missione. Occorre tener ferma l’esigenza della missione senza cadere nel proselitismo, cioè rispettando «l’altare della coscienza», quella libertà sempre fragile e minacciata di proclamare e d’accogliere la Buona Novella. Si capisce come Giovanni Paolo II abbia potuto scrivere: «Le difficoltà sembrano insormontabili e potrebbero risultare scoraggianti, se si trattasse di un’opera puramente umana»!5, 5. CONCLUSIONE

Riflessioni dei teologi, viaggi del papa che si moltiplicano, dono di se stessi da parte di un’élite di religiose, di sacerdoti e di laici, cer-

to... Ma al livello del popolo cristiano, che cosa si ritrova di queste forme rinnovate di scambio tra le chiese, che restano al cuore

dell’attività missionaria? E vero che la fiamma non è del tutto spenta, in particolare presso le comunità parrocchiali italiane o i cat-

tolici tedeschi o polacchi. Ma sembra proprio che le vere risposte

a questa missione universale debbano ormai arrivare da quelle «terze chiese» tra le quali molte, in Africa ad esempio, celebrano

soltanto il primo secolo di accoglienza del cristianesimo: non sono forse i loro membri i veri «poveri di Dio», portatori già essi stessi di un nuovo dinamismo missionario? Vi è un campo in cui quest'avanzata è sensibile, quello dell’ecumenismo: mentre segna il passo nelle antiche comunità cristiane, fuori d’Europa i «Consigli cristiani» delle chiese fanno sentire sempre più la loro voce in nome di tutti i discepoli di Cristo sui grandi problemi del presente. 14 Dialogue et annonce, n. 77. 15 Redemptoris Missio, n. 35.

J. Gadille

Le missioni cattoliche

543

Poiché il cristianesimo di queste chiese è composto da un mosaico straordinario di molteplici tradizioni cristiane che esse han-

no ereditato quasi a loro insaputa, s'imporrà in misura sempre

maggiore un’armonizzazione all’interno di questa diversità. Il ravvicinamento tra le confessioni sarà il frutto delle esigenze della missione, come nel caso dell'Europa in un recente passato. Ma

questa volta il rapporto reciproco tra ecumenismo e missione si manifesterà nella vita delle comunità di queste chiese del Terzo Mondo che hanno in sé, per affrontare vittoriosamente la temibile sfida della miseria, la freschezza e il vigore della fede.

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Le missioni protestanti di Paolo Ricca

1. PREMESSA

Benché la Riforma possa essere considerata essa stessa una vasta

opera di missione interna nell'Europa poco e male cristianizza-

ta del Cinquecento, con un intenso programma di evangelizzazione popolare fatta spiegando la Bibbia e una catechesi di base attuata nella famiglia, pure non si può parlare di «missioni protestanti» nel XVI secolo. Non che l'idea di missione sia stata del

tutto assente. Lutero, ad esempio, ha coltivato per un certo tempo (abbandonandola poi) l’idea di una missione fra gli Ebrei, e il grande filologo svizzero Teodoro Bibliander (1504 ca.-1564),

successore di Zwingli come professore di Antico Testamento a Zurigo, autore di un'edizione critica del Corano con traduzione,

sosteneva la necessità di una missione tra i musulmani intesa non come crociata, ma ispirata dalla convinzione che lo Spirito di Dio agisce anche nelle religioni pagane (e non solo in singole personalità.come sosteneva Zwingli). L'esigenza e il dovere della missione anche da parte della chiesa furono esplicitamente affer-

mate da Martin Bucero, che così corresse (senza però contestarla) l’idea «costantiniana» allora dominante secondo cui la cri-

stianizzazione dei pagani era compito precipuo dei governanti

cristiani più che delle chiese. Calvino, dal canto suo, inviò nel

1557 un piccolo gruppo di riformati in Brasile, nel quadro di un

tentativo

(cattolico)

di

colonizzazione,

al

quale

l'ammiraglio

(protestante) de Coligny abbinava il progetto di creare oltremare un rifugio per gli ugonotti perseguitati. Calvino appoggiò l’ini-

546

Cristianesimo

ziativa. Vi fu anche un tentativo di convertire gli indiani Topinambou. Ma l’esperimento fallì. Nel XVI secolo l’unica iniziativa missionaria protestante di un certo peso fu quella intrapresa

dal re di Svezia Gustavo Vasa a partire dal 1559 per la conversio-

ne dei Lapponi ancora pagani, in modo da completare l’unità religiosa del suo regno. Ma fu un mezzo insuccesso. I Lapponi divennero luterani solo cinquant'anni dopo.

Era largamente diffusa nel XVI secolo, sostenuta anche da teo-

logi di primo piano come il riformato Teodoro di Beza (1519-

1605) o il luterano Giovanni Gerhard (1582-1637), l’opinione se-

condo cui il mandato missionario di Gesù agli apostoli («Andate e ammacstrate tutti i popoli...», Mt. 28,19) era già stato realizzato dagli apostoli stessi e non riguardava più la chiesa dei secoli successivi. Non

c’era, insomma,

un comandamento

missio-

nario ancora da eseguire. Contro questa idea lottò Adriano Saravia (1531-1613), olandese figlio di uno spagnolo, pastore riformato poi canonico anglicano: egli sosteneva l’attualità del mandato missionario che Cristo affidò, sì, agli apostoli, ma che questi trasmisero ai vescovi loro successori facendolo così giungere fino a noi. L'imperativo missionario non è tramontato con gli apostoli perché è attualizzato dai vescovi. In quel tempo in cui nel protestantesimo non c’era ancora missione

ma

solo progetti

di missione,

un

nome

(tra i tanti)

dev'essere menzionato: quello del barone luterano Giustiniano von Welz (1621 ca.-1668). Va ricordato per molti motivi: anzitutto perché fu un vero apostolo dell’idea missionaria, benché inascoltato, anzi aspramente criticato dall’establishmeni teologico-ec-

clesiastico luterano, poi perché nei suoi scritti (qua e là influenzati dal genio non conformista di un outsider come Paracelso) si trovano in anticipo intuizioni e posizioni che poi si affermeran-

no nel lavoro missionario; in terzo luogo perché suggellò col sacrificio della propria vita in Suriname (allora base commerciale olandese)

la sua vocazione missionaria; infine, e forse soprattut-

to, perché i suoi scritti impressionarono Philipp Jacob Spener, il

padre del pietismo, che darà alla missione protestante gli impulsi

decisivi. La morte di Welz sul campo acquista una valenza simbolica: si chiude con lui la fase pionieristica della missione evangelica, quella un po’ velleitaria delle iniziative personali, mosse da grandi visioni e seguite da scarsi risultati. Quanto s’è ora detto appartiene alla preistoria della missione protestante. La storia vera e propria inizia all'alba del Seicento, non però per iniziativa della chiesa ma della societas christiana, co-

P. Ricca

Le missioni protestanti

547

me corollario della sua espansione coloniale. Ciò non significa

che la missione debba semplicisticamente essere considerata co-

me il risvolto religioso del colonialismo europeo e più tardi americano. Ma è incontestabile che la prima forma organizzata di missione in ambito protestante è un aspetto (più o meno periferico) dell'attività di Compagnie commerciali (la prima fu inglese, la seconda olandese), create o patrocinate dai rispettivi go-

verni. Tenendo conto di questo fatto, la storia delle missioni pro-

testanti può essere suddivisa in quattro periodi, i cui confini peraltro non sono né possono essere rigidamente fissati. Nel primo, che grosso modo abbraccia il XVII secolo, la missione è svol-

ta dai cappellani delle Compagnie commerciali o da istanze analoghe, è quindi un’emanazione della «società cristiana», abbinata (anche se non necessariamente asservita) a interessi economici

e sostenuta dalla certezza del primato culturale dell'Europa e re-

ligioso del cristianesimo. Il secondo periodo, che sì estende per

tutto il XVIII secolo, è caratterizzato dalle prime iniziative missionarie autonome dalla struttura coloniale (anche se non sem-

pre dalla mentalità e filosofia coloniali, o almeno da certi suoi aspetti), promosse da gruppi sovente informali di credenti fortemente motivati e convinti che la missione sia il compito cristiano prioritario. Il terzo periodo, che comprende il XIX secolo e la prima metà del XX, è quello della nascita, dello sviluppo e della straordinaria attività di numerose «società missionarie»

che, operando sia nel quadro della presenza coloniale europea

sia al di fuori di essa, si sono sforzate di dissociare 1 destini della missione cristiana da quelli del colonialismo occidentale, non

sempre riuscendo a liberarsi del tutto dai lacti ideologici di quest'ultimo. Il quarto periodo, iniziato grosso modo alla metà del nostro secolo (ma le prime avvisaglie risalgono agli inizi del secolo), e tuttora in corso, è caratterizzato da un ripensamento ra-

dicale dell’idea stessa di missione, che corrisponde al mutamento profondo (in qualche caso al ribaltamento) avvenuto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale nei rapporti tra i popoli, tra le culture e, più ancora, tra le chiese dei paesi detti un

tempo «cristiani» e quelle dei paesi che un tempo si chiamavano «terre di missione». Nelle pagine che seguono vengono tracciate le linee essenziali di ciascun periodo.

548

Cristianesimo 2. «IL NOME

DI CRISTO E GLI INTERESSI DELLA COMPAGNIA»

Nel Seicento l'Olanda divenne, come si sa, la maggiore potenza

marittima del mondo

(seguîta dall’Inghilterra). Lasciò un po’

dappertutto i segni del suo dominio: sulle rive del fiume Hudson (dove sorse la Nuova Amsterdam che, solo più tardi, quando pas-

sò sotto la sovranità inglese, divenne Nuova York), in Brasile, in

Africa e in Asia, sostituendosi in molti luoghi alla potenza coloniale portoghese su vastissimi territori. Non a torto s’è parlato

dell’«era dell’olandese» (G. Spini). Non è dunque un caso che l'Olanda sia stata protagonista nell’avvio della missione prote-

stante, anzitutto con le due Compagnie delle Indie Orientali e Occidentali,

create all’inizio del secolo, e poco dopo

con la ri-

flessione critica di alcuni teologi olandesi che ben presto avver-

tirono la necessità di superare la concezione «costantiniana» della missione, sostenendo che essa è compito non tanto dei governi, sia pure «cristiani», ma della chiesa. Le Compagnie, come s'è detto, usufruivano di un servizio di

cappellanìa assicurato dal governo. Il cappellano svolgeva un

doppio servizio: era pastore fra i coloni e missionario fra gli indigeni. A più riprese però le Compagnie dimostrarono di non gradire l’attività missionaria dei cappellani: i rapporti con indigeni diventati cristiani non potevano essere gli stessi di prima, la conversione dava loro uno status che prima non avevano. Ma anche i cappellani si accorsero presto dell’oggettiva ambiguità di una missione esercitata nel quadro di un'impresa coloniale. Era come servire due padroni. Le istruzioni impartite al primo go-

vernatore delle Indie orientali parlano chiaro: egli dovrà con-

trollare i predicatori e gli insegnanti «affinché sia proclamato il nome di Cristo e siano favoriti gli interessi della Compagnia» (Roux,

1970, p. 249).

Questa ambiguità di fondo venne colta e segnalata già nella prima metà del Seicento da alcuni teologi olandesi, in particola-

re da Justus Heurnius (1587-1657) il quale, in una Admonitio del

1618 rivolta, oltre che al principe Maurizio d'Orange, «ai 17 Signori della Compagnia delle Indie Orientali», si dimostrava consapevole dell’esistenza di una contraddizione latente ma netta tra gli interessi della Compagnia, appunto, dedita ovviamente al profitto e disposta allo sfruttamento non solo delle risorse materiali, e il nome

di Cristo, cioè l'annuncio evangelico con la sua ca-

rica di salvezza e di emancipazione. Heurnius comunque continuava a ritenere la Compagnia idonea a fungere da vera e pro-

P. Ricca

Le missioni protestanti

549

pria agenzia missionaria, purché non considerasse questo un compito accessorio e non subordinasse gli «interessi» dell'Evangelo a quelli della Compagnia. Heurmnius stesso, del resto, fu cappellano e missionario in India con la Compagnia per ben 14 anni, prima di interrompere il rapporto per dissensi sopravvenuti. Si deve aggiungere che lo zelo missionario di Heurnius e altri, in quel periodo, era anche alimentato dalla volontà di contrastare e, ovunque

possibile, soppiantare l’azione missionaria cattolica,

con i gesuiti in testa, già molto fiorente a quell’epoca. Proprio per preparare persone idonee alla missione fu creato nel 1622 a Leida in collegamento con l’Università un Collegium Indicum, diretto con intelligenza e competenza da Antonio Walaus, e finanziato dalla Compagnia delle Indie. La quale però, dopo dodici anni, ritirò i finanziamenti. La fucina di missionari fu chiusa.

La chiesa protestò energicamente (e inutilmente), ma non fece l’unica cosa che avrebbe dovuto fare: assumersi direttamente la responsabilità della missione e quindi della preparazione dei missionari. Evidentemente non c'erano, per questo, le premesse necessarie: nelle chiese infatti la mentalità costantiniana applicata alle missioni era ancora troppo diffusa e radicata, ma soprattutto la loro vita spirituale era così intorpidita da rendere impensabile un’iniziativa del genere. Mancava in particolare, nelle chiese del tempo, quella che nel protestantesimo è stata la forza motrice della missione: un’esperienza personale della salvezza così profonda e coinvolgente da generare l'esigenza perentoria di comunicarla ad altri, a tutti. La missione tende a convertire perché nasce da una

conversione. Saranno il pietismo in terra tedesca, il puritanesimo prima e il metodismo poi in terra inglese e americana, a fornire al protestantesimo l’humus spirituale sul quale potrà nascere e prosperare la pianta della missione. 3. I CINQUE PRINCÌPI DELLA MISSIONE DI TRANQUEBAR

Tranquebar era una minuscola colonia danese nell'India sudorientale, che il re Federico IV (1699-1730), come ogni sovrano

europeo dell’epoca, desiderava cristianizzare. Anch’egli, eviden-

temente, si collocava all’interno di una visione

«costantiniana»

della missione, che il potere politico doveva promuovere. Ebbe. però la ventura, grazie alta mediazione di un predicatore di corte, di entrare in contatto con Augusto Ermanno Francke (1663 17727), il successore di Spener alla guida del pietismo, creatore di

550

Cristianesimo

numerose istituzioni scolastiche e sociali, ma soprattutto pastore e predicatore instancabile, capace di trasfondere nei suoi studenti

la passione per l’evangelizzazione. Furono due suoi studenti, uno poco più che ventenne (Bartolomeo Ziegenbalg, 1683-1719), l’altro non ancora trentenne (Enrico Plùtschau, 1677-1766), che nel

1706 sbarcarono a Tranquebar, iniziandovi un’opera missionaria in qualche modo esemplare per tutte quelle che seguiranno. I suoi princìpi fondamentali sono questi (Neill, 1964, p. 155): 1) Ogni cristiano dev'essere in grado di leggere personalmente la Bibbia; la missione deve perciò creare scuole per tutti. 2) La Bibbia dev’essere accessibile a tutti; va quindi tradotta nelle lingue indigene. 3) Una predicazione missionaria efficace presuppone una conoscenza approfondita del mondo religioso e culturale delle popo-

lazioni locali. 4) Il fine dell’azione’ missionaria è la conversione a

Cristo delle singole persone. 5) Quanto prima occorre creare una chiesa indigena, con ministri indigeni. Il valore e la portata di questi princìpi si impongono da sé, ma un breve commento può non essere superfluo. Fin dall'inizio è esistito, nell’ambito della missione protestante, un nesso costante e molto stretto tra evangelizzazione e alfabetizzazione (quest'ultima in funzione anzitutto dell’appropriazione personale del messaggio biblico). La necessità poi di tradurre la Bibbia nelle lingue indigene ha indotto i missionari non solo a studiarle ma anche a fissarle per iscritto (sovente per la prima volta, trattandosi di linguaggi esistenti per lo più solo in forma orale), e a dotarle di grammatiche e dizionari. Quanto all’esigenza di studiare a fondo la cultura e la mentalità delle popolazioni locali, sorprende di vederla enunciata già agli inizi del Settecento,

con così largo anticipo (non però rispetto ai gesuiti, che l’aveva-

no riconosciuta da tempo!), dato che è solo nel nostro secolo che

se ne è tenuto veramente conto nell’impostazione del lavoro missionario. Altrettanto anticipatore è il principio della creazione sollecita di chiese indigene con ministri indigeni, che verrà realmente attuato soltanto nel nostro secolo, anzi nella seconda metà

del nostro secolo: anche là infatti dove chiese indigene vennero create già nel corso del XVIII o XIX secolo, esse rimasero in una posizione di sostanziale dipendenza dalle società missionarie. Infine, il principio secondo cui il fine della missione è la conver-

sione personale non va letto in chiave individualistica, ma va vi-

sto come un’implicita presa di distanza critica dalle conversioni di massa: non basta battezzare per evangelizzare; non è il battesimo che rende cristiani ma la fede sostanziata di conoscenza. E

P. Ricca

Le missioni protestanti

551

la fede e la conoscenza sono anzitutto realtà personali. Alla base

di questo discorso c’è naturalmente

il pietismo, con la sua insi-

stenza sulla conversione personale e sulla santificazione. Il Settecento protestante è costellato di iniziative missionarie che in generale si sono mosse, deliberatamente o no, seguendo

almeno i primi quattro dei cinque princìpi menzionati sopra: fra gli Indiani d'America (dopo il pioniere John Eliot, 1604-1690) operò con successo David Brainerd (1718-1747), fra gli Eschimesi della Groenlandia Hans Hegede (1686-1758, coadiuvato da due

suoi figli); fra gli Africani della Costa d'Oro Th. Thompson, che vi operò dal 1751 al 1755; e molte altre ancora. Molto importante fu anche l’azione svolta da due «società» sorte in Inghilterra — non ancora società missionarie in senso proprio ma società con forti interessi missionari —: sono la Società per promuovere la conoscenza cristiana (1698) e la Società per diffondere l’Evangelo

all’estero (1701). Uno dei centri maggiori di azione missionaria protestante nel Settecento fu la Comunità (o Unità) dei Fratelli di Herrnhut: una

piccola chiesa evangelica libera sorta, in seno al protestantesimo luterano, dall’incontro di gruppi di credenti esuli dalla Moravia per ragioni di fede (donde il nome di «Fratelli Moravi» con cui sono generalmente identificati) con una delle espressioni più fervide del pietismo tedesco, quella del conte Nicola Luigi di Zinzendorf (1700-1760)

e di quanti si raccolsero intorno alla sua forte

personalità. Ne nacque una comunità particolare, ecumenica ante litteram, in cui si fondevano elementi di varie tradizioni prote-

stanti. Prese il suo nome (Hernhut= «guardia del Signore») dal borgo in cui per la prima volta si raccolse e subito si caratterizzò per il suo marcato interesse per le missioni. Tra le particolarità del programma missionario di Zinzendorf tre:sono da notare: l’esplicita «rinuncia alla propaganda», cioè il rifiuto di ogni aggressività come pure di ogni comportamento concorrenziale nei confronti di altri missionari; la priorità data ai ceti più bassi della popolazione (anziché puntare, come facevano altri missionari, sulla conver-

sione di persone abbienti e influenti) e la predilezione per i campi missionari più difficili da dissodare; una visione luterana del pagano come peccatore, non in quanto pagano ma in quanto uomo (quindi non di più, ma neppure di meno, di colui che gli reca l’an-

nuncio della salvezza in Cristo), e in antitesi al mito del «buon sel-

vaggio» assai popolare in quel tempo. Nel 17719 era stato pubblicato il romanzo Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1660-1731), che

ebbe uno straordinario successo: tradotto già l’anno dopo in fran-

552

Cristianesimo

cese, olandese e tedesco, contribuì molto a diffondere anche ne-

gli ambienti popolari (in quelli colti non ce n'era bisogno) l’idea

che gli indigeni erano migliori di coloro che li volevano evangelizzare e che da loro c'era soprattutto da imparare. Questo sollevava un grande punto interrogativo su tutta l’opera missionaria, sospettata di essere più nociva che utile alle popolazioni che intendeva salvare. Zinzendorf si oppose a questo modo ingenuo e, secondo lui, solo apparentemente illuminato di guardare ai pagani: come ogni altra creatura umana sono anch'essi peccatori, bisognosi dell’Evangelo non meno degli Europei. La missione è necessaria e urgente tra i pagani non meno che trai cristiani battezzati ma non convertiti. La Comunità dei Fratelli Moravi è stata nel Settecento la più intraprendente e risoluta agenzia missionaria del protestantesimo. In ambito inglese (e successivamente americano) il primo grande movimento missionario dei tempi moderni è stato il metodismo, il cui fondatore John Wesley (1703-1791) aveva subìto l'influenza dei Fratelli Moravi ed era stato egli stesso missionario (senza

successo)

tra gli Indiani

d'America.

Nel

metodismo,

la

missione non è un'attività, per così dire, supererogatoria, in qual-

che modo esterna alla vita ordinaria della chiesa, ma è questa vi-

ta stessa. Il metodismo è missione e col metodismo la chiesa diventa missione. Missione interna, anzitutto, rivolta per lo più alle masse scristianizzate e abbrutite dallo sfruttamento della prima rivoluzione industriale, ma anche alla cristianità imborghesi-

ta e demotivata che vivacchiava all'ombra della religione «stabilita». Il metodismo è stato, in Europa, il primo movimento che ha in qualche modo fronteggiato quella che oggi si chiama secolarizzazione o anche cristianesimo sociologico: si è cristiani non per una scelta di fede personale ma per l'appartenenza a un gruppo sociale. La missione metodista punta perciò al revival («rinascita») o all’awakening («risveglio»), predicando la conversione e la santificazione, esattamente come ai pagani. Sul piano dei contenuti non c’è sostanziale differenza tra la missione fra i «cri-

stiani non cristiani»

(K. Barth) d’Europa e

i pagani di altri con-

tinenti. Con il metodismo comincia a diventare chiaro che la missione cristiana è la stessa dappertutto, Europa compresa. Un secondo aspetto della missione metodista merita attenzione: con Thomas

Coke

(1747-1841),

amico,

collaboratore

e primo

bio-

grafo di John Wesley, la missione metodista non solo esce fuori dai confini europei ma approda alla terra proibita delle masse di schiavi neri in America. Coke sembra essersi reso conto che non

P. Ricca

Le missioni protestanti

553

si possono evangelizzare gli schiavi neri senza contemporaneamente agire sul fronte dei governi e delle chiese, sostenendo che non basta umanizzare la schiavitù, occorre abolirla.

Ma dopo il metodismo, si fa avanti il battismo. Verso la fine del

secolo vede la luce in Inghilterra un opuscolo destinato ad avere grande fortuna nel mondo anglosassone e a dare impulsi decisivi alla missione di lingua inglese nel mondo. Lo scritto, intitolato Un'indagine sull'obbligo dei cristiani di prendere a cuore la conversione dei

pagani (1792), era di William Carey (1’761-1834), battista, ciabatti-

no e insieme predicatore (dal 1785). La sua tesi era molto semplice: la missione è compito di tutti i cristiani e va svolta nel mondo

intero. Autodidatta, aveva letto, oltre ad autori mistici cristiani, an-

che resoconti di viaggi ed esplorazioni (ad esempio, quelli di Ja-

mes Cook, 1728-1779) e testi di geografia ed etnografia. Impres-

sionato dal racconto di un medico reduce da Calcutta, ma soprattutto mosso da un impulso interiore sempre più forte, tenne nel

1792, davanti a un gruppo di predicatori battisti riuniti per la pre-

ghiera, una predica, divenuta famosa, sul testo di /s. 54, 2-3, che

egli stesso riassunse così: «Aspèttati cose grandi da Dio — Intraprendi cose grandi per Dio». É quello che Carey fece. Fondata una Società missionaria battista quello stesso anno, egli partì per l’India l’anno successivo. Operò prima a Calcutta (tra molti ostacoli,

creati dalla Compagnia delle Indie e dalle autorità religiose anglicane), poi a Serampore, piccola colonia danese non lontana da

Calcutta; all’inizio da solo, poi coadiuvato da due amici: l’inse-

gnante Giosuè Marshman

Ward

(1764-1823).

Insieme

(1768-1837) e il tipografo Guglielmo costituirono il celebre

«Trio di Se-

rampore» che effettivamente fece «cose grandi» come voleva Carey. Le fecero soprattutto (anche se non solo) nel campo della traduzione della Bibbia. Nel 1832 erano ben 44 le lingue o i dialetti indiani in cui la Bibbia, in parte o integralmente, era stata tradot-

ta e stampata. Anche se in qualche caso si trattava di versioni approssimative, che avrebbero dovuto in seguito essere corrette anche a fondo e sostanzialmente migliorate, l'impresa di Carey e dei suoi amici resta prodigiosa e, in un certo senso, ineguagliata. Tanto più che, accanto al lavoro biblico (anzi per renderlo possibile),

Carey ha scritto e stampato diverse grammatiche e dizionari che si sono rivelati utilissimi per lo sviluppo letterario delle lingue indigene. Famosa, tra le altre, ia grammatica della lingua sanscrita in

mille pagine. Con Carey la storia delle missioni entra nel XIX secolo e si passa dal secondo al terzo periodo, quello delle società missionarie.

554

Cristianesimo 4. SOCIETÀ MISSIONARIE E «GIOVANI CHIESE»

Il XIX secolo è per eccellenza, in campo protestante, il secolo delle missioni, ma è anche, in generale, il secolo della massima

espansione coloniale europea. É anche il secolo in cui le diverse chiese protestanti americane cominciano un processo che le porterà a diventare protagoniste, insieme a quelle europee, nell’opera missionaria mondiale. Intorno al 1900 i missionari protestanti nel mondo erano circa 45.000, la maggior parte americani. La nascita delle prime società missionarie si può collocare (con qualche eccezione, perché alcune erano nate prima) nell'ultimo decennio del XVIII secolo e la loro diffusione proseguì, «a un ritmo impressionante» (E.G. Léonard) durante tutto il secolo successivo. Le numerosissime società missionarie protestanti possono essere raggruppate secondo tre diverse tipologie. Vi sono anzitutto le società sorte per iniziativa privata di un gruppo di persone (talvolta di una singola persona), per lo più legate a una chiesa particolare. Esse recano, ovviamente, l’impronta più o meno marcata del paese, della confessione e della cultura d'origine. Ecco le maggiori: la Società missionaria di Londra (1795), quella d'Olanda (1797), la Società missionaria della chiesa (17799) creata da laici anglicani, il Comitato americano dei sovrintendenti alle missioni estere (1810), la Società missionaria danese (1821), quella di Berlino (1824), quella di Losanna (1826), quella della Renania detta anche di Barmen (1826), quella svedese (1835), quella della Germania del Nord detta anche di Lipsia (1836), quella fondata da J.E. Gossner (1836), quella norvegese (1842), quella finlan-

dese (1858), quella tedesca per l’Asia orientale (1884), quella, pu-

re tedesca, per l’Oriente (1896), e la lista potrebbe continuare. Al-

cune importanti società si caratterizzarono fin dall'inizio e programmaticamente come interconfessionali e sovranazionali: così la Missione di Basilea (1815), quella già menzionata della Renania e la Società di Parigi (1824), nel cui quadro operarono anche i missionari valdesi italiani. Ciascuna di queste società (insieme a quelle che saranno tra poco menzionate) ha scritto una parte, più o meno rilevante, della storia delle missioni protestanti; alcune le hanno dato contributi determinanti. La Società missionaria di Londra, comunque, gode di una sorta di primato, non solo cronologico: basti pensare che alle sue dipendenze lavorarono uomini come J.Th. van den Kemp

(1747-1811), missionario in Sudafri-

ca fra gli Ottentotti, per i cui diritti lottò contro i coloni europei; Robert Morrison (1782-1834), primo missionario protestante in

P. Ricca

Le missioni protestanti

555

Cina; David Livingston (1813-1873), noto esploratore che per primo attraversò l’Africa da un oceano all’altro. Un secondo gruppo di società missionarie raccoglie quelle più nettamente caratterizzate in senso confessionale o denominazionale, anche se occasionalmente aperte a collaborazioni esterne. Ecco allora sorgere la Società missionaria metodista wesleyana (1813), quella battista americana (1814), metodista episcopale (1819), episcopale americana, cioè anglicana d'America (1820), presbiteriana americana (1837), luterana americana (1841), e co-

sì via. I campi di missione divennero fatalmente anche teatro di competizione confessionale e concorrenza denominazionale: l'una e l’altra non potevano non scandalizzare le popolazioni indigene, come infatti avvenne. Questo scandalo rimbalzò in Europa e le diverse chiese europee aprirono per la prima volta gli occhi sulle conseguenze nefaste delle loro divisioni. Da questa presa di coscienza venne l’impulso decisivo alla nascita del movimento ecumenico. Il terzo gruppo di società missionarie è costituito o da società con un campo d'azione specifico e circoscritto oppure da società che, senza essere missionarie

in senso stretto, sono state in un

modo o nell’altro strettamente collegate all’opera delle missioni, l’hanno fiancheggiata e talvolta ispirata. Tra le prime si possono

menzionare la Missione per la Cina interna, creata nel 1865 da

una prestigiosa figura di missionario, il metodista Hudson Taylor, oppure la Missione per l’Africa del Nord, creata sotto altro nome nel 1881 dall’inglese John Pearse. Ma l’elenco sarebbe molto lungo. Tra le seconde vanno ricordate la Società per gli opuscoli religiosi (17799) e soprattutto la Società Biblica britannica e forestiera (1804) e, su un altro versante, la Società per l’abolizione della tratta degli schiavi (1787), di cui fu co-fonda-

tore John Venn (1759-1813), pastore anglicano a Clapham, attorno al quale si raccolse un gruppo di laici credenti fortemente impegnati anche in campo politico e sociale (la cosiddetta «setta di Clapham»). Ne fece parte lo stesso deputato abolizionista William Wilberforce (1759-1833), uno dei maggiori riformatori

sociali dell’epoca, assai critico, da posizioni evangeliche radicali,

del cristianesimo del suo tempo, come appare dal titolo di questo suo scritto: Una visione pratica del sistema religioso dominante di cristiani osservanti nelle classi alta e media, messo a confronto con il ve-

ro cristianesimo (1797). La mobilitazione missionaria del XIX secolo va senz'altro ricondotta allo slancio evangelistico impresso al protestantesimo

556

Cristianesimo

dal pietismo e dal metodismo nel secolo precedente, ma si è alimentata anche dei numerosi «risvegli» avvenuti sia negli Stati Uniti (in particolare il «grande risveglio» del 1834-1844) sia in Europa, in tutti î paesi di tradizione protestante. In qualche ca-

so, soprattutto in America, la spiritualità del «risveglio» s'è arric-

chita di venature millenaristiche, che hanno conferito all’impegno missionario una motivazione supplementare e, con essa, una certa accelerazione: la missione urge perché il Signore non tornerà finché tutto il mondo non sarà evangelizzato, compresi, alla fine, gli Ebrei. La missione quindi brucia le tappe che portano alla fine. Sul piano dei rapporti istituzionali tra missioni e chiese indigene, si prepara, nel XIX secolo, il processo che poi maturerà e giungerà a compimento nel nostro secolo: quello della progressiva emancipazione delle «giovani chiese» dalla dipendenza e tutela dei missionari. Il tema era già stato affrontato nel secolo precedente e fin da allora si era parlato di una necessaria «eutanasia della missione» — formula «felice», secondo l'anglicano Henry Venn (1724-1797), per descrivere la «dolce morte» di una missione dovunque sia nata una chiesa indigena capace di assumersi tutte le responsabilità che competono a una chiesa. Questa linea, ripresa e ribadita dall'americano Rufus Anderson (17961880), indicava tre criteri essenziali dell’autonomia di una chie-

sa: l'autogoverno, l’autofinanziamento e l’autosviluppo. Sul piano infine politico e culturale, si pone ovviamente la questione del rapporto tra missione e colonialismo. La politica coloniale di potenze come Portogallo e Spagna alla fine del XV

e per tutto il XVI secolo dimostra che l’abbinamento tra missio-

ne e colonizzazione era considerato non solo assolutamente lecito ma un vero e proprio dovere cristiano: del sovrano che de-

ve cristianizzare gli indigeni, del missionario che deve collabora-

re affinché questo accada. La brutalità dei mezzi adoperati viene santificata dalla bontà del fine. La collusione e confusione tra missione e colonizzazione ha avuto un effetto doppiamente deleterio: ha snaturato la missione trasformandola sovente in colonialismo religioso, e ha legittimato il colonialismo come provvidenziale strumento di evangelizzazione. Come sono andate le cose in ambito protestante nel XIX secolo? Si ha l'impressione che i missionari si siano sforzati di svolgere il loro lavoro come se il colonialismo

non

ci fosse stato, cercando di ignorarlo e di pre-

scinderne. Non mancano però eccezioni: c’è chi ad esempio ritiene che «missione e politica coloniale vanno insieme» e si dice

P. Ricca

Le missioni protestanti

557

fiducioso che «da questo legame nascerà del bene per le nostre colonie» (Rosenkranz, 1977, p. 226). Inversamente, è anche accaduto che singoli missionari o intere società missionarie abbiano apertamente censurato questo o quel comportamento delle potenze coloniali e preso le parti delle popolazioni indigene. Così pure è vero che le missioni, con il loro eccezionale lavoro di

alfabetizzazione, scolarizzazione, promozione sanitaria, appropriazione linguistica e coscientizzazione culturale, hanno aiuta-

to i popoli colonizzati a scuotere le loro catene e a liberarsi del

giogo coloniale. Nell'insieme, le missioni hanno favorito e non

ostacolato o rallentato il processo di decolonizzazione. Ciò nondimeno resta vero che le missioni non hanno, in generale, contestato la legittimità del colonialismo nel corso del XIX secolo. Sembrano non essersi accorte che non era sufficiente dissociarsi dal colonialismo. Anche quando questo è accaduto e le missioni hanno rivendicato la loro autonomia dal colonialismo rifiutando di lasciarsene strumentalizzare, le missioni hanno operato, consapevolmente o no, in segreta continuità culturale e solidarietà ideologica con l'Europa coloniale, condividendo con es-

sa quella che un rappresentante del cosiddetto Terzo Mondo ha

chiamato «la superstizione della superiorità non solo del cristianesimo ma della civiltà europea»

cit. da Rosenkranz,

XIX secolo una fede.

(Kavalam Madhave Pannikar,

1977, p. 225). Questa superstizione

era nel

5. LA NUOVA MISSIONE

La storia delle missioni protestanti, come

del resto la storia del

protestantesimo tou/ court, ha attraversato una crisi profonda ma

salutare al tempo della prima guerra mondiale, sotto le cui mace-

rie sono rimaste sepolte per sempre alcune certezze — rivelatesi illusorie — che l’avevano accompagnata nel secolo precedente. Soprattutto due: quella del progresso inarrestabile di un'umanità ormai adulta che, padroneggiando sempre meglio gli strumenti scientifici, ha preso saldamente in mano il suo destino, e quella,

correlata a questa, del primato morale e civile dell'Europa. Il crollo di queste certezze non ha comportato una battuta d’arresto nello sviluppo delle missioni, che hanno continuato a fiorire per un altro trentennio, ma ha posto le premesse per un ripensamento a fondo dell’opera missionaria, che sarebbe poi giunto a maturazione nella seconda metà del nostro secolo.

558

Cristianesimo

Intanto, nella cristianità africana e asiatica si verificano due fenomeni di grande rilievo. Il primo, e fondamentale, è la cre-

scita non solo e non tanto numerica quanto spirituale e cultura-

le delle chiese nate dalla missione, che escono dalla fase dell’infanzia e dell'adolescenza e diventano «giovani chiese», con tutte le implicazioni del caso. Il secondo è costituito dai primi casì (che

si verificano soprattutto in Africa) di notevoli iniziative missionarie interamente condotte da indigeni, del tutto indipendenti

dalle missioni bianche. In Africa, ad esempio, c’è il «profeta» li-

beriano W.W. Harris che predica con successo in Costa d'Avorio tra il 1913 e il 1915 contro la superstizione e l’idolatria (muore nel 1919), suscitando sospetti nelle autorità coloniali che lo giudicano sovversivo. Più duratura fu in Congo l’opera del «profeta» Simon Kimbangu (1889-1950), anch'egli incarcerato sotto l'accusa di insubordinazione. Sarebbe prematuro parlare già qui di vere e proprie inculturazioni del cristianesimo, ma si tratta cer-

tamente di un cristianesimo autonomo rispetto a quello dei missionari bianchi, quindi finalmente privo del marchio coloniale: un cristianesimo di cui l'Africa comincia ad appropriarsi, rivivendolo e riproponendolo alla sua gente fuori dalle forme canonizzate dall’Occidente. A questi fenomeni e altri analoghi si può affiancare, in tutt'altro contesto e con caratteri completamente diversi, il ministero del sikh indiano Sundar Singh (n. 1888, misteriosamente scomparso in Tibet nel 1929), cristiano dal 1903 in seguito a una visione di Cristo, battezzato nel 1905,

mistico ed evangelista itinerante in India e altri paesi, vero apostolo indiano della fede cristiana, anche qui vissuta e proposta nelle forme tipiche di una spiritualità orientale. Il cristianesimo, insomma, comincia a non essere più soltanto occidentale. Un altro fatto che ha contribuito in maniera probabilmente decisiva ad aprire una nuova pagina nella storia delle missioni protestanti è stata la presa di coscienza, avvenuta all’inizio del se-

colo, del nesso indissolubile e vitale che intercorre tra missione

ed ecumenismo. Uomini di grandi visioni e straordinario talen-

to organizzativo come l’americano John Mott (1865-1955) e lo scozzese J.H. Oldham (1874-1969) intuirono già un secolo fa che

la missione non può non essere ecumenica e l’ecumenismo non può non essere missionario. Furono loro a preparare, per 4 anni, e a dirigere la memorabile prima conferenza missionaria mondiale delle missioni protestanti (preceduta da conferenze continentali in Asia, Europa e America; l’ultima a New York nel

1900). Tale conferenza fu ecumenica in senso intraprotestante.

P. Ricca

Le missioni protestanti

559

Si svolse a Edimburgo nel 1910, con ben 1200 delegati (delle società missionarie, non delle chiese), e con soli 17 rappresentan-

ti delle «giovani chiese». Questa sproporzione impressionante illustra bene i rapporti di forza allora esistenti nella gestione della grande impresa missionaria: le chiese indigene possono appena farsi sentire. L'autogoverno è lontanissimo. Ma la loro voce, a Edimburgo, lasciò il segno. Nacque nel 1921 (non prima, a motivo della guerra) il Consiglio Internazionale delle Missioni che, prima di confluire nel Consiglio Ecumenico delle chiese nel 1961, organizzò cinque importanti conferenze mondiali: Geru-

salemme nel 1928, Tambaran (India) nel 1938, Witby (Canada) nel 1947, Willigen (Germania) nel 1952, Achimota (Africa) nel 1957-1958. Seguirono, nel nuovo quadro istituzionale del Consiglio Ecumenico, le conferenze mondiali di Città del Messico nel 1963, Bangkok nel 1972-1973, Melbourne nel 1980, San Antonio

(Messico) nel 1989. Queste conferenze, globalmente considera-

te, sono state la fucina della riflessione critica della missione pro-

testante ed ecumenica su se stessa nell’arco di tutto il XX seco-

lo. Ci sono stati momenti di grande tensione, come quando, alla conferenza di Bangkok (1972-1973), venne fatta la proposta di

un Moratorium missionario, in base al quale le chiese occidentali erano invitate a sospendere per un certo periodo di anni l'invio di uomini e di danaro, per favorire nelle chiese indigene la ri-

cerca dei loro doni e della loro identità, in vista di futuri rapporti

realmente paritetici con le chiese europee ed americane. Comunque sia, è in questo ambito che, in parte utilizzando esperienze fatte sul campo e in parte anticipandole, è progressivamente

maturato il discorso della «nuova missione», che si collo-

ca al di là della vecchia distinzione tra «mondo cristiano» e «terre di missione» e si configura come missione globale di tutte le chiese, uguali per dignità e vocazione, in tutto il mondo, biso-

gnoso dappertutto della stessa verità che libera e riconcilia.

Ma la svolta decisiva nella storia delle missioni (non solo pro-

testanti) nel nostro secolo è senza dubbio dovuta al crollo degli im-

peri coloniali dopo la seconda guerra mondiale. La geografia politica del continente africano e anche di quello asiatico è profondamente mutata. Molti popoli hanno conquistato o ritrovato l’indipendenza politica (raramente, invece, quella economica). L'atteggiamento dei nuovi stati indipendenti nei confronti delle mis-

sioni non è stato, in generale, amichevole: evidentemente le han-

no ritenute complici del colonialismo. In molti paesi del mondo la missione cristiana oggi è più difficile che in passato.

560

Cristianesimo

In tutti i paesi retti da regimi comunisti, in Europa, Africa e

Asia (emblematica, al riguardo, la vicenda della missione cristiana in Cina), il cristianesimo, come le altre religioni, ha attraver-

sato una dura prova, essendo oggetto di ostracismo sociale e culturale, di ghettizzazione forzata nella sfera privata, di discriminazioni e angherie di varia natura. Il crollo di molti regimi comunisti ha rivelato una situazione di vuoto spirituale allarmante. D'altra parte l'Occidente, largamente scristianizzato, è considerato da tempo, a buon diritto, terra di missione: non più però soltanto per le chiese che vi operano ma anche, e in proporzioni secondo alcuni inquietanti e certamente mai viste in Europa,

per altre grandi religioni come il buddhismo e l’islam, oltre che

per altri culti minori per lo più di provenienza americana anche

se di remota

ascendenza

orientale. Insomma,

la missione, pro-

prio nel senso più elementare del termine, è più che mai d'attualità. E l'Occidente, che un tempo mandava missionari nel resto del mondo, ora comincia a riceverne: è un'esperienza nuova di reciprocità nell’opera missionaria, è un aspetto tipico della «nuova missione». I princìpi-base della «nuova missione» sono infatti questi: 1) la missione è compito precipuo della chiesa, di ogni chiesa e di tutta la chiesa; la chiesa è, per vocazione, «società missionaria». 2) Il campo di missione che si dischiude davanti a ogni chiesa è il mondo intero. Ciascuna chiesa può farvi fronte solo collegan-

dosi con altre, in uno scambio fraterno di uomini

e risorse. 3)

La missione è impresa ecumenica per eccellenza e nella missione l'ecumenismo si arricchisce di nuovi significati: è un ecumenismo di chiese e confessioni, certamente, ma anche di culture, razze e popoli. Ecumenismo vuol dire: reciprocità, condivisione e comunione dei diversi. Sul piano delle strutture, la «nuova missione» ha già dato vita a organismi integrati in cui collaborano su base paritetica (s’intende in proporzione alla forza di ciascuno) chiese di diversi continenti che insieme pianificano, organizzano e svolgono l’opera missionaria. Un certo primato in questo settore spetta alla Società Missionaria di Parigi che ha deciso di sciogliersi per creare già trent'anni fa, con 23 chiese europee e di altri continenti, la Co-

munità Evangelica di Azione Apostolica, all’opera con équipe missionarie integrate in diversi paesi del mondo (Europa compresa). Sul piano dei contenuti, infine, le novità rispetto al passato sono sostanzialmente due: la prima è l'opzione per il cosiddetto «Evangelo sociale», cioè un maggiore coinvolgimento politico

P. Ricca

Le missioni protestanti

561

dei missionari (senza ovviamente diminuire l'impegno assisten-

ziale, anzi incrementandolo, e nella piena consapevolezza dell’estrema difficoltà del compito, da attuare senza ideologizzare la

fede e senza sacralizzare la politica), per combattere fin dove possibile e con tutta la decisione necessaria le cause strutturali dell'ingiustizia: l’Evangelo infatti è annuncio di liberazione dell’anima e del corpo (le guarigioni operate da Gesù!), del corpo fisico e del corpo sociale. La seconda novità è un nuovo atteggiamento nei confronti di quello che un tempo si chiamava sommariamente paganesimo e che oggi si raccoglie sotto l’espres-

sione di «fedi viventi», cioè le altre religioni che non possono più

essere semplicemente liquidate come un misto di idolatria e superstizione ma al contrario rispettate e conosciute, in vista di un confronto e di un dialogo che costituisce ormai la nuova frontiera dell’ecumenismo. Le due «novità» ora descritte non sono condivise dai settori detti «fondamentalisti» del protestantesimo (soprattutto americano ma ben presente anche in Europa). La loro comprensione della missione è quella tradizionale degli ambienti «risvegliati», centrata sulla conversione personale. In polemica con le tesi sostenute dalla conferenza di Bangkok citata sopra, il protestantesimo fondamentalista ha organizzato una grande conferenza missionaria a Losanna nel 1974 e una seconda a Pattaya (Thailandia) nel 1980. Vi sono dunque nel variegato mondo evangelico

odierno due diverse comprensioni e impostazioni della missio-

ne, che, pur avendo punti importanti in comune, non hanno an-

cora trovato le vie di un accordo. Entrambe però con ogni probabilità sottoscriverebbero le parole con cui inizia il «Messaggio» della conferenza

1990, p. 20):

mondiale

di San

Antonio

del

1989

(Wilson,

Le due tendenze più significative di questa Conferenza sono state lo

spirito di universalità (cattolicità) dell'assemblea e la sua sollecitudine per la pienezza dell’Evangelo, mantenendo

— le necessità spirituali e materiali — — — = —

una tensione creativa tra

preghiera e azione evangelizzazione e responsabilità sociale dialogo e testimonianza potere e vulnerabilità dimensione locale e universale.

562

Cristianesimo BIBLIOGRAFIA

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Il movimento ecumenico di Paolo Ricca

1. INTRODUZIONE

Il movimento ecumenico è sicuramente uno dei tratti salienti e caratteristici della storia delle chiese cristiane del XX secolo. Otto Dibelius, personalità protestante di spicco della prima metà

del nostro secolo, scrisse nel 1927 un libro, diventato poi famoso, dal titolo // secolo della Chiesa. Ora che il secolo sta volgendo al termine si può dire, retrospettivamente, che esso è stato il se-

colo ecumenico della chiesa. Non è stato invece, neppure verso la fine, il secolo della chiesa ecumenica. Non che quest’ultima

sia un puro miraggio. Almeno per frammenti è già una realtà e molti sono oggi i cristiani di diverse confessioni che sentono di farne parte. Ma si tratta ancora di una chiesa latente, i cui tempi e modi di manifestazione non possono essere previsti. Le prospettive, in questo momento, non sono rosee. S'è persino parlato in tempi recenti di «autunno» e addirittura di «inverno» dell’ecumenismo. È un fatto che l’unità della chiesa non si intravvede ancora, malgrado gli immensi progressi compiuti a tutti i livelli e in tutte le direzioni. Rispetto all’inizio del secolo, le chiese sono oggi incomparabilmente più vicine le une alle altre. È cambiata la qualità del loro rapporto reciproco. Eppure il passo decisivo, quello che consenti-

rebbe di accedere dalia attuale comunione parziale alla piena

unità, non solo non è stato compiuto ma non sembra neppure imminente.

La situazione, per certi versi, è paradossale. Le chiese

non sono più semplicemente divise, ma non sono ancora real-

564

Cristianesimo

mente unite. Secondo alcuni, le divisioni sono fituzie perché non riguardano il centro della fede. Le chiese sarebbero unite nelle cose essenziali e divise su quelle secondarie. Dietro il persistere delle divisioni non ci sarebbero questioni di fede ma di potere. In realtà non è facile pronunciarsi. Unità e divisione sono regioni dello spirito, i cui confini sono diventati incerti. Non è più evidente dove passi davvero la linea di demarcazione. Si ha l'impressione di essere allo stesso tempo uniti e divisi, senza che l’esperienza (anche frammentaria) dell’unità, che pure viene fatta, possa cancellare la realtà della divisione, e senza che la situazione di divisione,

nella quale le chiese tuttora si trovano, possa impedire ai cristiani di sperimentare l’unità e persino di celebrarla. Proprio per questo è appropriato parlare del XX come del «secolo ecumenico della chiesa». Non nel senso che alla fine del secolo possiamo considerare raggiunta o alle porte l’unità cristiana, ma nel senso che nel corso del secolo l'esigenza ecumenica si è progressivamente imposta all’intera cristianità e viene oggi condivisa si può dire da tutti i cristiani come ineludibile impegno comune. E per quanto diverse possano essere e siano le

concezioni che le singole chiese hanno dell’unità, pure tutte (o quasi) si sentono oggi chiamate a cercarla e, fin dove possibile,

manifestarla. Non è ancora apparsa all'orizzonte la chiesa ecumenica, ma tutte le chiese sono diventate o stanno diventando ecumeniche. Non allo stesso modo, va da sé, perché diversi sono

i presupposti ecclesiologici di ciascuna; non con la stessa passione, perché diversa è la posizione che l’ecumenismo occupa nella scala delle priorità di ciascuna chiesa. Ma anche se vi possono essere qua e là ritardi, resistenze e controtendenze, si può dire

che

la speranza

ecumenica

occupa

ormai

un

posto

stabile

nell’orizzonte spirituale di tutte le chiese (o quasi), per cui tutte partecipano, sia pure in modi diversi, all'unico e comune movimento ecumenico. La storia del movimento ecumenico propriamente detto è ancora breve: poco meno di un secolo. La sua preistoria, invece, ‘è molto lunga (quanto quella della divisione) e sorprendentemente ricca!. Limitandoci al secondo millennio, si ricorderà che due concili, quello di Lione (1274) e quello di Ferrara-Firenze (1438-

! Per la storia e la preistoria del movimento ecumenico è fondamentale e insostituibile l’opera A History of the Ecumenical Movement, a cura di Rouse-Neill (fino al 1948) e proseguita da Fey (The Fcumenical Advance, fino al 1968), per la

quale si rimanda alla Bibliografia.

P. Ricca

Il movimento ecumenico

565

1439), cercarono invano di sanare la prima grande frattura corpo della chiesa cristiana, quella tra Oriente e Occidente, vuta meno all’infortunio politico-diplomatico del 1054 che, tardi, alla volontà di Innocenzo III di imporre, approfittando la creazione

— sulla

scia

della

quarta

crociata

(1202-1204)

nel dopiù del-

-

dell'effimero Impero Latino d’Oriente (1204-1261), la giurisdizione del vescovo di Roma anche sulle chiese d'Oriente. Ma alla ferita aperta (e fino a oggi non rimarginata) nella comunione tra la cristianità orientale e quella occidentale, si aggiunsero altre ferite, interne alla chiesa d'Occidente. Nell’'edificio apparentemente saldo e compatto dell’Occidente cristiano si manifestarono nel tardo Medioevo diverse crepe più o meno vi-

stose, sintomi di una crisi del modello di unità affermatosi nel

primo millennio. Le lacerazioni maggiori furono due: la prima

è costituita dalla fioritura delle cosiddette «eresie medievali» che,

per quanto represse senza pietà, incrinarono spiritualmente ed

anche istituzionalmente l’unità del corpus cristiano medievale; la

seconda è costituita dallo scisma interno al papato stesso («esilio» di Avignone,

1378-1415),

da un millennio circa perno isti-

tuzionale dell’unità cristiana in Occidente. Ma è soprattutto con la Riforma protestante e il suo rifiuto da parte di Roma che la cristianità occidentale si divide: nascono due Europe cristiane che non si riconoscono a vicenda. Con la divisione nasce però anche il desiderio e la speranza di superarla. L'idea ecumenica comincia a farsi strada, in rapporto sia alla grande frattura tra cattolicesimo e protestantesimo sia ai dissensì interni al protestantesimo stesso, tra luterani e riformati, an-

glicani e presbiteriani, gruppi vari di dissidenti all’interno del puritanesimo,

e così via. La via ecumenica

si rivelerà quanto

mai

stretta e accidentata, quasi impraticabile, e pochi sono coloro che la percorreranno, almeno per un tratto. Eppure non è mai stata — neppure nei tempi bui delle guerre di religione tra cristiani — una strada deserta. Per quanto per tre secoli e mezzo i fronti confessionali in Europa si siano irrigiditi e i rapporti tra le chiese siano stati quasi sempre dominati da uno spirito polemico, pure l'esigenza ecumenica non è rimasta mai senza testimoni e fautori. In molti l'hanno messa in luce e mantenuta viva: da Erasmo a Leibniz, da Bucero a Comenio, da Calvino a Grozio, da Cranmer a Zinzendorf, da Calixtus a Richard Baxter, e tanti altri an-

cora. Molti piani, progetti, programmi sono stati elaborati, alcune piste sono state esplorate. Non c'era ancora un movimento ecumenico nel senso odierno del termine, c’era però una co-

566

Cristianesimo

scienza ecumenica che, per quanto coltivata da pochi, non è mai venuta meno nella chiesa. Ma è solo nel secolo scorso, soprattutto nella seconda metà,

che cominciano a prendere corpo forme visibili e collettive di unità tra cristiani prima separati. Certo, il XIX secolo è stato anche e ancora un secolo di divisioni. In diverse chiese protestanti nazionali, il movimento del «risveglio» determinò la nascita di «chiese libere» (da rapporti con lo stato). Sorsero inoltre in Europa e in America nuove denominazioni protestanti: alcune di

stampo

fondamentalista con venature

millenariste come,

in In-

ghilterra, il darbismo, «una specie di giansenismo protestante» (E.G. Léonard). Sorse pure, sempre in Inghilterra, staccandosi dalla chiesa metodista, l'Esercito della salvezza — originale forma di «chiesa nella strada» per l’evangelizzazione del popolo dei bassifondi urbani e un apostolato coraggioso (e per tanto cristianesimo imborghesito del tempo, scandaloso), con forti contenuti sociali. Vi furono poi, intorno al 1830, nelle comunità raccoltesi

in Scozia e a Londra intorno a Edward Irving, le prime manife-

stazioni carismatiche tipiche (glossolalîa, guarigioni), che poi fioriranno all’inizio del nostro secolo con l’esplosione del fenomeno pentecostale. In campo cattolico, c’è stata l'irremovibile op-

posizione di Ignazio von Dollinger e altri al dogma dell’infallibilità pontificia (proclamato nel 1870), che portò alla creazione, nel 1872, della chiesa Vecchio-Cattolica. Come

si vede, nel XIX

secolo le divisioni abbondano. Tanto maggiore valore acquistano, su questo sfondo, i primi frutti concreti dello spirito ecumenico che proprio in questo secolo vengono alla luce e costituiscono le premesse e la promessa di quello che sarà il movimento ecumenico vero e proprio, che si è soliti far nascere, non solo per convenzione, nel 1910.

2. PREMESSE E PROMESSE

Se la nascita del movimento ecumenico come movimento organizzato si deve, per buone ragioni, collocare nel 1910, la sua gestazione è durata tutta la seconda metà del secolo scorso. Sono sostanzialmente due i fenomeni che hanno avuto diretta rilevanza nel processo che sfocerà nella nascita del movimento ecumenico. Il primo è la nascita di organismi o associazioni a carattere transconfessionale e transnazionale, suscitati e guidati da forti personalità di credenti

(non di rado laici), non

però istituiti

P. Ricca

Il movimento ecumenico

567

dalle chiese e quindi liberi dal loro controllo; questi organismi sono stati, con forte anticipo, palestre di ecumenismo vissuto quando le chiese erano ancora restie a praticarlo e persino ad autorizzarlo. Il secondo fenomeno è la creazione — questa volta per iniziativa delle chiese, o comunque con la loro diretta partecipazione — di alleanze o federazioni mondiali, grazie alle quali le chiese appartenenti alla stessa famiglia confessionale sparse per il mondo sono state messe in relazione permanente e comunicazione reciproca. Tra gli organismi interconfessionali e internazionali che hanno preparato l'avvento del movimento ecumenico, cinque in particolare meritano di essere ricordati.

Il primo è l'Alleanza Evangelica, creata a Londra nel 1846 da

un'assemblea di 900 cristiani membri di 52 diverse chiese prote-

stanti, provenienti da tutto il mondo. Benché, come il nome stesso rivela, l'orizzonte dell'Alleanza fosse circoscritto alle chiese

evangeliche, s'è trattato di una vera esperienza ecumenica. Malgrado i suoi limiti (era un'alleanza di individui, non di chiese),

l'Alleanza Evangelica, figlia del «risveglio», è stata una scuola di

dialogo, confronto e preghiera, sulla base di una chiara confessione di fede comune, proprio come accadrà (e ancora accade) nel Consiglio Ecumenico delle chiese. Quest'ultimo ha esteso al-

le chiese il genere di rapporti che l'Alleanza Evangelica aveva istituito tra i credenti.

Il secondo organismo da menzionare è l’Associazione Cristia-

na dei Giovani (YMCA, Young Men's Christian Association) e delle Giovani (YWCA), creato in Inghilterra rispettivamente nel 1844 e 1854, e che ebbe in entrambi i rami, maschilee femmi-

nile, straordinario sviluppo negli Stati Uniti e altrove. É nell’YMCA e nell'YWCA che molti pionieri del movimento ecumenico (a cominciare dallo stesso John Mott) si sono formati e preparati. Due sono le ragioni per cui YMCA e YWCA occupano un posto di tanto rilievo nella gestazione del movimento ecumenico: la prima è che al centro dei loro interessi non c'erano le chiese da unificare ma il mondo da evangelizzare (e questo, per quanto paradossale possa sembrare a prima vista, favorì e non frenò lo sviluppo

della coscienza

ecumenica);

la seconda

è che l’ac-

cento era messo non sulle particolarità confessionali o denominazionali ma sulla comune fede in Cristo. È rivelatrice, al riguardo, l’affermazione di George Williams, che mentre discute-

va nel suo negozio di tessuti con altri tre giovani del progetto di creare l'’YMCA, esclamò: «Qui siamo un episcopaliano (cioè un

568

Cristianesimo

anglicano americano), un metodista, un battista e un congrega-

zionalista — quattro credenti ma un’unica fede in Cristo. Avanti

insieme!» (Rouse-Neill, 1954, p. 327). E vale la pena ricordare la cosiddetta «Base di Parigi» dell’YMCA, adottata nel 1855, che in

parte anticipa già testualmente la futura «Base» del Consiglio ecumenico

del 1948: «L'YMCA cerca di unire quei giovani che,

considerando Gesù Cristo come loro Dio e Salvatore, secondo la Sacra Scrittura, desiderano essere suoi discepoli nella fede e nella vita, e unire i loro sforzi per estendere il suo Regno nel mondo» (Ibidem). Il terzo organismo rilevante per la genesi del movimento ecumenico è la Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani, creata

a Vadstena (Svezia) nel 1895 e ben presto diventata la principale

fucina di leader ecumenici per oltre mezzo secolo. Il contributo maggiore della Federazione all’idea ecumenica in gestazione è il seguente: l'impegno ecumenico non deve in alcun modo compromettere la lealtà di ciascuno verso la chiesa particolare di cui è membro. L’ecumenismo cioè non mortifica le singole appartenenze confessionali o denominazionali, al contrario le valorizza

offrendo loro un più ampio quadro in cui esprimersi e l’occasione di comunicare ad altri i propri doni. L'ecumenismo, insomma, non combatte le confessioni, ma solo la loro autosufficienza; non

vuole la loro fine, ma solo la fine del loro isolamento. Questa importante precisazione ebbe un effetto liberatorio. Grazie ad essa molte chiese, che prima esitavano, si decisero a entrare in quanto

tali nel movimento ecumenico, che quindi non fu più soltanto un'iniziativa di singole persone o di gruppi. Un quarto fenomeno contribuì non poco a preparare e forgiare una coscienza transconfessionale nelle diverse chiese: i vari gruppi e le associazioni di preghiera che già nel XVIII secolo, ma soprattutto nell'Ottocento, si costituirono sia all’interno di un certo numero di chiese sia trasversalmente tra credenti appartenenti a diverse chiese, creando una vasta comunità ecumenica di pre-

ghiera, per chiedere a Dio in maniera continuata e corale il rinnovamento delle chiese e, con esso, anche la loro unità. Infine, c’è da ricordare il ruolo decisivo svolto dalle società missionarie e, in generale, dall’interesse missionario presente, anzi prevalente, in organismi come l'Alleanza Evangelica, l'YMCA,

l'’YWCAe la Federazione studenti. Non è un caso che la nascita del movimento ecumenico sia avvenuta nel quadro della prima conferenza missionaria mondiale, ne sia anzi stato un frutto. La missione è stata non solo la culla ma la madre dell’ecumenismo.

P. Ricca

Il movimento ecumenico

569

Ma la nascita del movimento ecumenico organizzato non si

spiegherebbe se non fosse stata preceduta dalla creazione, nella seconda metà del secolo scorso, delle Alleanze o Federazioni con-

fessionali mondiali, che costituirono per molte chiese lo stru-

mento della loro iniziazione ecumenica, cioè in primo luogo la

scoperta e la conquista della l’appartenenza confessionale 7a autenticamente ecumenica è stata assicurata dalla grande li, culturali e umani

dimensione era la stessa in seno alle diversità di

universale. Anche se per tutte, un’esperienalleanze confessionali contesti politici, socia-

in cui vivevano le chiese di una stessa fami-

glia confessionale. Ed è nel quadro di queste alleanze e delle con-

ferenze internazionali da esse organizzate a intervalli regolari nei vari continenti, che il movimento ecumenico ha cominciato a prendere coscienza del peso dei cosiddetti fattori non teologici della divisione. Ecco in ordine cronologico i nomi e le date di fondazione dei

principali organismi confessionali: Alleanza delle chiese Riforma-

te e Presbiteriane (1875), Consiglio Mondiale Metodista (1881), Unione Vecchio-Cattolica di Utrecht (1889), Consiglio Congregazionalista Internazionale (1891), Alleanza Mondiale Battista (1905), Federazione Luterana Mondiale (1929). In realtà però il

primo sodalizio confessionale (se così lo si può chiamare, dato che gli anglicani non si presentano come una confessione ma come una comunione), è appunto quello anglicano, creato già nel 1867, nella forma di una conferenza periodica di tutti i vescovi

delle «province» ecclesiastiche nei vari paesi del mondo, che co-

stituiscono,

attraverso

le varie chiese anglicane

nazionali

o re-

gionali, l’unica Comunione anglicana. Queste «conferenze di Lambeth» (come vengono chiamate dal nome del palazzo residenziale dell’arcivescovo di Canterbury che le convoca) si riuni-

scono, di regola, con scadenza decennale. Già a partire dalla se-

conda (1878) si occuparono di questioni ecumeniche. La terza (1888) è di particolare importanza perché, riprendendo, con qualche modifica, un testo composto a Chicago fin dal 1870, varò il celebre «Quadrilatero di Lambeth»

che costituisce, oggi anco-

ra, la bussola dell’ecumenismo anglicano. In questo importante documento — il primo nel suo genere - si fissano i quattro principi necessari e sufficienti, secondo gli anglicani, per ricomporre l’unità cristiana. Essi sono: 1) Le Sacre Scritture dell'Antico e del Nuovo Testamento

in quan-

to contengono tutto ciò che è necessario alla salvezza, come regola e su-

570

Cristianesimo

prema norma di fede. 2) Il Credo Apostolico come simbolo battesima-

le e il Credo Niceno come espressione sufficiente della fede cristiana.

3) I due sacramenti istituiti da Cristo stesso — il battesimo e la Cena del

Signore... 4) L'episcopato storico, adattato localmente alle diverse ne-

cessità delle nazioni e dei popoli chiamati da Dio nell'unità della sua chiesa

(Rouse-Neill,

1954, p. 265).

Benché elaborato da una confessione o comunione partico-

lare, il Quadrilatero di Lambeth

no all’anglicanesimo di fine generico desiderio di unità, progettazione. Il movimento ti, lo era già nelle coscienze 3. DA EDIMBURGO

rivela che, quanto meno

in se-

Ottocento, non era solo presente un ma anche una sua visione e persino ecumenico, non ancora nato nei fatdi molti.

(1910) AD AMSTERDAM

(1948)

La storia del movimento ecumenico, così come appare oggi a uno sguardo retrospettivo di fine secolo, si suddivide agevolmente in due grandi parti: nella prima (dal 1910 al 1948) le due anime del movimento ecumenico, quella teologica (unità nella fede) e quella pratica (unità nell'azione), si sono manifestate, hanno preso corpo dando vita alle prime grandi assemblee ecumeniche mondiali, che hanno dato al movimento la sua fisiono-

mia propria (che nei tratti fondamentali tuttora conserva) e hanno posto le premesse per la creazione del Consiglio ecumenico delle chiese, che del movimento ecumenico è fino ad oggi la maggiore espressione istituzionale e il migliore strumento operativo. Nella seconda parte (dal 1948 a oggi), sono tre i fatti di maggior rilievo: la vasta e multiforme attività del Consiglio ecumenico, scandita dalle grandi assemblee mondiali (di solito ogni sette anni);

l’ingresso

mento ecumenico

della chiesa

cattolica romana

(ma non nel Consiglio ecumenico)

nel movi-

a partire

dal concilio Vaticano II (1962-1965); il peso crescente delle chie-

se dell’emisfero sud del mondo sia nella leadership sia nella problematica del movimento ecumenico (si potrebbe parlare di una sua consapevole «meridionalizzazione»). Perché l’inizio del movimento ecumenico viene fatto risalire alla conferenza missionaria di Edimburgo del 1910? Per molte ragioni, ovviamente, ma in particolare per due. La prima è che più chiaramente di ogni altro incontro precedente, la conferenza di Edimburgo, grazie al suo carattere mondiale, rivelò che

P. Ricca

Il movimento ecumenico

571

l’unità cristiana era un corollario indispensabile e indilazionabile della missione, per cui avvenne che diversi protagonisti della conferenza, attivi nella missione, divennero, con fervore appunto missionario, promotori del nascente movimento ecumenico:

per continuare

a essere missionari,

infatti, dovevano

cominciare

a essere ecumenici. Ormai, il compito missionario si sdoppiava, o meglio si arricchiva di una nuova articolazione, quella ecume-

nica. Convenuti da tutto il mondo nel segno della missione, i de-

legati ripartirono da Edimburgo nel segno dell’ecumenismo. Ma c'è un secondo motivo per cui Edimburgo è il luogo di nascita del movimento ecumenico organizzato: è la creazione, al termine della conferenza, di un comitato di continuazione proposto, non a caso, dalla Commissione per la cooperazione e la promozione dell’unità; la «promozione dell’unità» ha ricevuto a Edimburgo il suo primo supporto istituzionale da parte di una conferenza mondiale. Così l’ecumenismo ha cominciato ad acquistare una visibilità non solo episodica, e una qualche consistenza organizzativa, sia pure in forme ancora minime. Si trattava ora di costruire un movimento

che era ancora, in un certo sen-

so, alla ricerca di se stesso, tra l’esigenza di affrontare e cercare

di superare le questioni dottrinali controverse sulle quali le chie-

se si erano divise, e l'esigenza, altrettanto (se non più) sentita, di

rispondere insieme come cristiani ai grandi problemi politici, sociali e morali che travagliavano l'umanità e, con essa, le chiese (le guerre coloniali, la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa, la marea

montante

dei fascismi, per indicarne

solo alcuni).

Le due esigenze presero corpo in due movimenti ecumenici paralleli che soltanto nel 1948 confluirono nell’unico Consiglio ecumenico, con sede a Ginevra. I due movimenti sono quelli di «Vita e Azione» e di «Fede e Costituzione». Il movimento «Vita e Azione»

(chiamato anche «cristianesimo

pratico») fu creato nel 1920 su iniziativa e per ispirazione dell’arcivescovo luterano svedese

Nathan

Soderblom

(1866-1931)

nel

quadro della Alleanza mondiale per promuovere l’amicizia internazio nale mediante le Chiese (creata nel 1914 e vissuta fino al 1948). L'ob-

biettivo di Sòderblom era di convocare un’assemblea ecumenica mondiale che coinvolgesse le chiese in prima persona, attraverso delegazioni ufficiali. Questo accadde a Stoccolma nel 1925. Era la prima grande assemblea ecumenica mondiale dei tempi moderni, convocata

1600 anni dopo il concilio di Nicea, e chia-

mata non a torto «la Nicea dell’etica». L'esperienza, si legge nei

resoconti, fu straordinaria, l'impressione incancellabile. Vi furo-

572

Cristianesimo

no ovviamente grandi tensioni, perché in «Vita e Azione» si facevano sentire forti impulsi provenienti dall’«Evangelo sociale»

americano, dal cristianesimo sociale francese e dai socialisti reli-

giosi svizzeri e tedeschi. Ma la conferenza, con i suoi 661 delegati ufficiali delle chiese di 37 paesi diversi, fu un successo e resta una pietra miliare nella storia dell’ecumenismo. Una seconda assemblea mondiale di «Vita e Azione» ebbe luogo a Oxford nel 1937 e affrontò un tema cruciale in quegli anni: «Chiesa — Popolo - Stato»; essa invitò le chiese a non lasciarsì intimidire e tanto meno strumentalizzare da governi dittatoriali e ideologie totalitarie, mentre si moltiplicavano i segni premonitori del secondo conflitto mondiale. A Oxford il movimento «Vita e Azione» decise di unirsi a quello «Fede e Costituzione», dando vita insieme a un’unica struttura e a un unico qua-

dro istituzionale per entrambi: il Consiglio ecumenico delle chiese. Dopo la sua creazione nel 1948, il lavoro di «Vita e Azione» continuò in molti modi, in particolare, negli anni Cinquanta, con

la riflessione sulla «società responsabile», poi con la conferenza

mondiale su «Chiesa e Società» nel 1966, poi con il programma di lotta al razzismo iniziato nel 1969, e più recentemente con il

programma «Giustizia — Pace — Integrità del creato» avviato nel

1984. La «Nicea dell’etica» continua. Il movimento «Fede e Costituzione» deve la sua nascita all’iniziativa del vescovo della chiesa episcopale americana Charles Brent

(1862-1929)

che fin dal 1910, immediatamente

dopo

l'e-

sperienza fatta partecipando alla conferenza missionaria di Edimburgo, si rese conto che l'unità della chiesa non sarebbe mai stata possibile se non si fossero superate le profonde divergenze dottrinali esistenti tra le chiese. Egli fu l’animatore della commissione preparatoria che, sulla scia di una pre-conferenza avvenuta a Ginevra nel 1920, organizzò e convocò la grande assemblea

mondiale di Losanna del 1927, con 439 delegati ufficiali di 127 chiese diverse. Tutti i problemi spinosi di carattere dottrinale e strutturale vennero messi sul tappeto, malgrado le difficoltà e i dissensi profondi proprio sulla nozione di unità. La qualità del

dibattito fu particolarmente elevata. I nodi principali del con-

tenzioso interconfessionale vennero chiaramente individuati. Leggendo oggi, quasi settant'anni dopo, i testi di Losanna non si ha l'impressione che siano invecchiati. L'assemblea rivolse alle chiese un forte appello all’unità, nel quale si trovano affermazioni come queste: «Dio vuole l’unità della chiesa. La nostra presenza qui attesta la nostra determinazione di piegare la no-

P. Ricca

Il movimento ecumenico

573

stra volontà davanti alla sua». E ancora: «Abbiamo osato e Dio ha legittimato la nostra audacia. Non saremo mai più quelli che era-

vamo prima».

Infine, nell’attuazione dell’ideale ecumenico,

oc-

corre fare spazio, oltre che ai giovani, alle donne, perché il movimento ecumenico «non può restare governato esclusivamente da uomini»

(Foi et Constitution, 1928).

«Fede e Costituzione» tenne una seconda assemblea mondiale nel 1937 a Edimburgo e a partire dal 1948 è diventata la commissione teologica del Consiglio ecumenico. La sua riflessione s'è concentrata sull’unità della chiesa, sia in sé sia in rapporto all’unità dell'umanità. Grande eco nelle chiese hanno suscitato i tre «testi di convergenza» su battesimo, eucaristia e ministero messi a punto a Lima nel 1982. La visione della futura unità cristiana oggi più accreditata in seno a «Fede e Costituzione» (e quindi al Consiglio ecumenico) è quella di una «comunione conciliare» di chiese. Ma il dibattito continua. 4. L'ECUMENISMO DEI. CONSIGLIO ECUMENICO

Il Consiglio ecumenico delle chiese fu creato il giorno dopo l’inizio: della assemblea di Amsterdam (22 agosto-4 settembre 1948, con 351 delegati ufficiali di 147 chiese in 44 paesi), che così divenne la prima assemblea generale del Consiglio ecumenico stesso. Il significato della creazione di questa struttura nuova nella storia cristiana (l’artefice principale fu il pastore olandese W.A. Visser 't Hooft), è chiaramente espresso nel «messaggio» rivolto dall'assemblea alle chiese al termine dei lavori. Vi si dichiara tra l’altro: «Cristo ci ha fatti suoi, ed Egli non è diviso. Cercando Lui, ci troviamo l’un l’altro. Qui ad Amsterdam ci siamo riconsacrati a Lui e abbiamo fatto un patto gli uni con gli altri costituendo il Consiglio ecumenico delle chiese. Noi intendiamo stare insieme» (Visser ’t Hoofît, 1949, p. 9). Il Consiglio nasce dunque come patto tra chiese: non è una (nuova) chiesa, tanto meno una superchiesa; è un’associazione fraterna di chiese, che così manifestano ciò che, al di là di tutte le differenze, esse sanno di avere in

comune, cioè un Signore «che non è diviso». Il Consiglio non intende sostituirsi alle chiese né trascenderle, vuole piuttosto servirle aiutandole a ritrovare insieme l’unità perduta ma non distrutta e a realizzare in loro e tra loro la comunione piena e articolata, una e multiforme di tutti coloro che professano la stessa fede cristiana.

574

Cristianesimo

Questa fede è formulata nella «base» del Consiglio (adottata

nel 1961; la prima, più breve e senza il riferimento trinitario, era

del 1948)

nei termini seguenti:

«Il Consiglio ecumenico

delle

chiese è un’associazione fraterna (fellowship) di chiese che confes-

sano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture e perciò cercano di adempiere assieme alla loro comune vocazione alla gloria dell'unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo». Si tratta, come si vede, di una fede «secondo le Scritture», che ha

il suo centro in Gesù Cristo e nel Dio trinitario. Essa ha trovato nei decenni successivi felice espressione nei temi delle sette assemblee mondiali che finora hanno scandito la storia del Consiglio e dello stesso movimento ecumenico. La scelta dei temi fu, ogni volta, contestuale al momento storico in cui le assemblee si sono svolte. Così per la prima, quella di Amsterdam, convocata all’indomani di una guerra che aveva ridotto in macerie gran parte dell’Europa, diventata teatro di crimini inauditi come i campi di sterminio,

il tema prescelto fu: «Il disordine dell’uomo e il piano di Dio». Le cinque assemblee successive hanno tematizzato ciascuna un aspetto della figura o dell’opera di Cristo, presentato via via come «spe-

ranza del mondo» (Evanston, USA 1954), «luce del mondo» (Nuova Delhi 1961), «colui che fa ogni cosa nuova» (Uppsala 1968), «colui che libera e unisce» (Nairobi 1975), «vita del mondo» (Vancouver 1983). Il tema dell’ultima assemblea (Canberra 1991) è sta-

to invece per la prima volta un’invocazione allo Spirito Santo. A Canberra, le chiese e i consigli di chiese membri o associati al Consiglio erano 381, cioè gran parte della cristianità non cattolica romana. Fanno eccezione chiese e movimenti allergici a ogni forma di istituzione oppure fortemente caratterizzati in senso fondamentalista. I princîpi che regolano la vita delle chiese all’interno del Consiglio sono sostanzialmente due. Il primo è la pari dignità e l’uguale valore di tutte le chiese, grandi o piccole, ricche o po-

vere, vecchie o «giovani» che siano: il Consiglio è un patto fraterno tra uguali, al cui interno l'identità di ciascuna chiesa dev’essere non solo rispettata ma tutelata. Il secondo principio riguar-

da la qualità della comunione: è una comunione non gerarchi-

ca, sostanziata di consensi costruiti dal basso, attraverso il dialo-

go e la faticosa ricerca di linguaggi comuni con cui trasmettere messaggi condivisi. Se poi ci si chiede quali siano stati, dal 1948 a oggi, i contributi maggiori dat dal Consiglio al movimento ecumenico, se ne possono indicare, tra i tanti, almeno quattro.

P. Ricca

Il movimento ecumenico

575

Il primo è senz'altro costituito da un doppio rifiuto. Anzitutto il rifiuto di entrare negli anni Cinquanta nella logica della guerra fredda tra Est e Ovest e quindi di unirsi (malgrado non

poche e non lievi pressioni ricevute in tal senso) al coro anticomunista del «mondo

libero». Il rifiuto, in secondo luogo, a par-

tire dagli anni del disgelo e della distensione, di fiancheggiare l'Occidente (ad esempio con un prudente silenzio) nella sua corsa al dominio economico e ideologico sul Sud del mondo. Questo atteggiamento critico non è stato indolore, ma ha certamente contribuito non poco a liberare le chiese dell'Occidente dal «riflesso costantiniano» che sovente ancora le condiziona, e a dare voce e peso, nell’ecumene cristiana, alle chiese del Sud del

mondo. Proprio perché la più grave lacerazione dell’umanità og-

gi è quella tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud, tra primo e terzo mondo, proprio per questo qualsiasi progetto di unità cristiana non può non fare anzitutto i conti con questa realtà.

Il secondo contributo è costituito da due filoni di ricerca ben

distinti tra loro, ma suscitati da preoccupazioni analoghe: la prima più caratterizzata in senso etico, la seconda in senso teologico-culturale. Il primo filone, in evidenza negli ultimi venticinque anni, ruota intorno alla questione fede-scienza contemporanea. Il suo momento più alto l’ha raggiunto con la conferenza di Bo-

ston al Massachusetts Institute of Technology,

nel 1979, su «Fe-

de, Scienza e Futuro». Altri temi di importanza cruciale affrontati: l’uso pacifico dell’energia nucleare e le biotecnologie. Risposte etiche unitarie o quanto meno convergenti ai problemi del tutto nuovi posti oggi alla coscienza cristiana, presuppongo-

no un dialogo attento con le scienze anzitutto per capire bene,

e se possibile insierne, la natura dei problemi, e cercare, sempre

insieme, i modi migliori di affrontarli alla luce della fede cristiana. Il secondo filone, anch'esso recente (anche se il problema affrontato è antico), è quello delle nuove inculturazioni del cristianesimo in Africa e Asia. A Canberra,

per la prima volta, la teo-

loga coreana Chung Hyun Kyung ne ha dato un saggio, suscitando scandalo.

I rischi di sincretismo sono evidenti, ma la ne-

cessità di nuove inculturazioni della fede lo è altrettanto. Anche

e proprio nell’ambito del Consiglio, l’ecumenismo diventerà sempre meno un ecumenismo delle confessioni e sempre di più un ecumenismo delle culture.

Un terzo contributo del Consiglio al movimento ecumenico

riguarda, com'è logico, la questione specifica dell'unità cristiana, come intenderla e per quali vie raggiungerla. S'è già detto che il

576

Cristianesimo

modello più accreditato oggi è quello della «comunione conci-

liare». La descrizione più completa risale al Colloquio di Salamanca (1973) ed è stata ripresa dall'assemblea di Nairobi (1975)

in questi termini:

La Chiesa una dev'essere considerata come una comunità conciliare di Chiese locali, esse stesse autenticamente unite. In questa comunità

conciliare, ogni Chiesa locale possiede in comunione con le altre la pienezza della cattolicità e testimonia la stessa fede apostolica; riconosce

quindi che le altre Chiese fanno parte della stessa Chiesa di Cristo, e che sono guidate dallo stesso Spirito (Henriet, 1976, p. 168).

In tempi più recenti la nozione-chiave della riflessione ecumenica sull'unità è stata quella di koinonia (= comunione), ma la visione complessiva resta quella delineata sopra. In fondo il movimento ecumenico raggiungerà la méta che si è prefissa quasi un secolo fa quando riuscirà a convocare - se vi riuscirà — un concilio veramente ecumenico di chiese che si riconoscono a vicen-

da e si danno la mano di associazione. Ma questa mèta sembra

oggi ancora irraggiungibile. Perciò si parla, più realisticamente, di «processo conciliare», che è già stato avviato. Un quarto contributo del Consiglio al movimento ecumenico

è più silenzioso e meno vistoso degli altri ma sicuramente non

meno importante. È l’Inserchurch Aid (= aiuto tra le chiese): un'attività multiforme di aiuto, assistenza, cooperazione, solidarietà, praticata ininterrottamente fin dalla fondazione. Al di là del suo valore materiale e morale, essa qualifica la comunione che il Consiglio attua e promuove: una comunione che si invera nella condivisione. 5. L'ECUMENISMO CATTOLICO

Anche la storia dell'ecumenismo cattolico può essere agevol

mente suddivisa in due parti: una prima del concilio Vaticano II, l’altra dopo. Il Vaticano II ha segnato la svolta. Prima del concilio, l'atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti del mo-

vimento ecumenico (0 «pancristiano», come anche lo si chiamava allora) è stato di totale chiusura, a livello ufficiale. Diversi

cattolici, religiosi e laici, hanno reagito diversamente, ma il verdetto di Roma è stato, fino al pontefice Giovanni XXIII e al Vaticano II, ostile e denigratorio. Nell’enciclica Mortalium animos

P. Ricca

Il movimento ecumenico

577

del 1928, che fu la risposta di Roma alle assemblee mondiali di

Stoccolma e Losanna, il pontefice Pio XI non solo dichiarava «va-

ni» gli sforzi appena avviati per ristabilire l’unità cristiana, ma de-

nunciava come ingannevole e insidioso l’intero progetto ecumenico, in quanto muoveva dal presupposto che l’unità cristiana era andata perduta e occorreva ricercarla e ricostruirla, mentre in-

vece, secondo il papa, non era affatto andata perduta, era lì, «vi-

sibile a tutti», nella chiesa cattolica romana. Perciò la sola via all’unità era «il ritorno dei dissidenti all’unica vera chiesa» — quella di Roma — e coerentemente il papa vietava ai cattolici di intervenire «ai congressi degli acattolici»?. Parteciparvi, infatti, secondo Pio XI, era come ammettere che l’ unità cattolica non fosse identica con l’unità cristiana. Queste posizioni, ribadite da Pio XII nella Mystici Corporis del 1943, sono state sensibilmente modificate dal concilio Vaticano II, con il decreto Unitatis Redintegratio (1964). Certo, anche in questo

documento si dichiara che la chiesa cattolica «è in possesso di tutta la verità rivelata da Dio e di tutti i mezzi della grazia», e si affer-

ma di credere che l’unità della chiesa di Cristo «sussista, senza pos-

sibilità di essere perduta, nella chiesa cattolica» (n. 4). Ciò nondi-

meno, vengono affiancate a questi punti di vista tradizionali e ti-

pici della comprensione che la chiesa cattolica romana ha di se stessa, almeno quattro affermazioni del tutto nuove, che hanno radicalmente modificato il rapporto tra la chiesa cattolica e il movimento ecumenico: una vera e propria conversione ecumenica per la chiesa cattolica, anche se essa non ha comportato una modifica

sostanziale della sua comprensione dell’unità. Le quattro novità

sono le seguenti. La prima è che il movimento ecumenico, secon-

do il concilio, «è sorto per grazia dello Spirito Santo» (Proemio), è dunque un'iniziativa divina e non umana, e proprio per questo occorre parteciparvi. La seconda è che le chiese protestanti e or-

todosse, nelle quali si trovano «ricchezze di Cristo» e «opere virtuose» (n. 4), «non sono affatto prive di significato e di peso nel

mistero della salvezza», sono anzi utilizzate dallo Spirito come «mezzi di salvezza» (n. 3). Mai la chiesa cattolica aveva parlato co-

sì bene delle altre chiese, specialmente di quelle protestanti. La terza novità è l'esigenza di una «riforma continua» (n. 6) anche

della chiesa cattolica, la cui unità e cattolicità non hanno ancora

raggiunto la perfezione. La quarta novità è l'affermazione secondo cui «esiste un ordine o ‘gerarchia’ nelle verità della dottrina cat? Acta Apostolicae Sedis XX. (1928), p. 14.

578

Cristianesimo

tolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana» (n. 11). La Mortalium animos aveva respinto la distinzio-

ne, frequente negli ambienti ecumenici, tra punti fondamentali e non fondamentali della fede. Così la chiesa cattolica, dal concilio Vaticano Il in avanti, ha

partecipato al movimento ecumenico senza far parte del Consiglio ecumenico. È una situazione nuova, di cui non è dato prevedere gli esiti ultimi. Va da sé che le contraddizioni non mancano: una

classica (per così dire) è il papato, perno istituzionale e spirituale

dell’unità cattolica, e al tempo stesso ostacolo — forse il maggiore

— all'unità cristiana. Non si vede, al momento attuale, come sia pos-

sibile uscire da questa impasse. Il fatto importante è comunque questo: anche la chiesa cattolica, che in un primo tempo aveva reagito così negativamente all'idea ecumenica e al movimento che

la incarnava, ha ora accettato sia l'una che l’altro. Certo, ribaden-

do la sua centralità, rivendicando il suo primato e non nascondendo la sua volontà di egemonia. Non si sa quali frutti potranno nascere dall’incontro (ma anche dal possibile scontro)

tra l’ecu-

menismo del Consiglio ecumenico e l’ecumenismo cattolico. Ma nella decisione di Roma di entrare nel movimento ecumenico non si può non vedere una riprova della grande forza di mobilitazione di quest'ultimo. Oggi come agli inizi del secolo. 6. DOMANI

Agli inizi del secolo - lo si è visto — il movimento ecumenico nasceva affondando le sue radici nel movimento missionario: è questo secondo che ha generato il primo. Alla fine del secolo, il nesso tra ecumenismo e missione sembra essersi allentato, forse anche perché la nozione stessa di missione è, per così dire, esplo-

sa, frammentandosi in una molteplicità di significati che un tempo non aveva. É comunque probabile che la «stagnazione ecumenica»

(come viene chiamata) dei nostri anni sia dovuta in buo-

na parte proprio allo scollamento avvenuto tra ecumenismo e missione. Il programma che l’intrepido John Mott lanciò a Edimburgo nel 1910 «L’evangelizzazione del mondo in questa generazione» non sì può dire si sia realizzato, così come non si è realizzata la speranza (che allora animava i pionieri del movimento ecumenico) di una cristianità unita «in questa generazione» o

poco dopo. Non per questo il bilancio è negativo, al contrario. Ma la meta è meno accessibile di quanto allora si pensasse.

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580

Cristianesimo

Si può dire qualcosa — con tutte le cautele del caso — sull’im-

mediato futuro del movimento e, al suo interno, del Consiglio ecu-

menico? Il suo nuovo segretario generale, il tedesco Konrad Raiser, parla di «ecumenismo in transizione» (ma quando mai non lo è stato? L’ecumenismo è transizione!), così come altri parlano di «nuovi ecumenismi». Lo si può fare, ovviamente. Il dato certo, co-

munque, sono — singolare paradosso — le incognite che avvolgono l'immediato futuro del movimento. Sono le incognite che riguar-

dano, in primo luogo, il cristianesimo stesso. Le domande sul fu-

turo del cristianesimo si intrecciano e confondono con quelle sul futuro dell’ecumenismo. Si dice sovente: il futuro del cristianesimo non potrà non essere ecumenico, ed è vero. Ma quale futuro

avrà il crisuanesimo e quale cristianesimo avrà futuro?

Le incognite, si diceva, sono tante. Che cosa accadrà, ad esempio, sul piano religioso, nell’Occidente tradizionalmente cristia-

no? Come evolverà nei prossimi decenni il pluralismo religioso (e non più solo confessionale) che già ora lo caratterizza? (Negli Stati Uniti vi sono oggi 1500 templi e centri buddhisti, 1100 moschee musulmane, 400 templi induisti, e moltissimi altri culti diversi da

quello cristiano; per l'Europa si deve fare un discorso analogo, anche se le proporzioni del fenomeno sono al momento ancora inferiori.) Il «ritorno di Dio» (come è stato chiamato) a meno che non si riveli effimero e caduco perché incapace, tutto sommato, di attraversare se non apparentemente la dura scorza della mentalità e cultura secolare, sarà il «ritorno» di quale Dio? Non di quello cristiano, sembrerebbe. Il processo di erosione del cosiddetto «cristianesimo sociologico» proseguirà - come sembra — oppure cì sarà un nuovo greal Awakening come nel XVIII secolo, un «grande risveglio», portato forse in Europa da cristiani immigrati dall’Africa e dall'Asia? Il cristianesimo occidentale, malgrado la crisi che lo

attraversa, continuerà a essere egemone oppure il baricentro del

cristianesimo si sposterà progressivamente nel cosiddetto Terzo mondo, rispetto al quale l'Occidente cristiano risulterà periferico? E cosa accadrà, in Africa e in Asia, con le nuove inculturazioni

della fede cristiana? E dove porterà il dialogo con le religioni e fedi viventi non cristiane? E ancora, su un altro versante, dove ap-

proderà il grande movimento latino-americano delle comunità di

base? Il cristianesimo riuscirà a mutare il suo cuore borghese e a diventare, su scala mondiale, la religione dei poveri della terra, co-

me in un certo senso lo era all’inizio il movimento di Gesù? E se i cristiani si uniranno, in che rapporto starà la loro unità con quella dell’umanità? L'unità della chiesa scardinerà le divisigni che la-

P. Ricca

N movimento ecumenico

581

cerano e insanguinano l’umanità oppure finirà per mascherarle e così, segretamente, perpetuarle? Queste domande — e molte altre che occorrerebbe aggiungere — non sembrano a prima vista riguardare l'ecumenismo. In realtà il suo futuro ne dipende direttamente. Vi sono però molte altre incognite, di carattere meno generale e più interne alla problematica interconfessionale. Eccone alcune. Sarà l’etica la nuova frontiera dell’ecumenismo, il terreno cioè su cui i cristiani delle diverse chiese, incontrandosi e confrontandosi, daranno

vita a nuove comunioni e nuove divisioni, diverse da quelle tradizionali, per cui emergerà una nuova geografia dell'unità e della divisione? Crescerà — oppure no — la «chiesa trasversale», cioè la vasta comunità ecumenica sparsa come una grande diaspora in tutte le chiese e confessioni? Il papato cambierà abbastanza da non essere più «l'ostacolo più grave sul cammino dell’ecumenismo» (come ebbe a dire lo stesso Paolo VI nel 1967: Acta Aposto-

licae Sedis LIX, 1967, pp. 497 sg.), o invece Roma continuerà a

volersi imporre come centro visibile del cristianesimo mondiale e come sede della sua suprema leadership pastorale? E che cosa faranno le chiese degli innumerevoli dialoghi teologici bilatera-

li (e anche multilaterali) già conclusi, con risultati, di solito, in-

coraggianti, in quanto ne emerge un importante dato di fondo,

e cioè che molte questioni controverse che un tempo divideva-

no i cristiani e le chiese possono oggi essere intese e vissute come polarizzazioni legittime all’interno di una comune affermazione di fede, che senza appiattire e, soprattutto senza neutralizzare

le differenze,

riesce

a valorizzarle

all’interno

di un

di-

scorso unitario? Ma si riuscirà mai a costruire un’unità cristiana che in un modo o nell’altro non finisca per mortificare le differenze? Ma se questo dovesse essere il prezzo dell’unità, non è forse un prezzo troppo alto? Se è legittima la passione per l'unità, non lo è altrettanto quella per la differenza? Molti interrogativi, come si vede, molte incognite. È come se, dopo un secolo, il movimento ecumenico fosse di nuovo, o ancora, ai suoi inizi. Probabilmente lo è.

582

Cristianesimo BIBLIOGRAFIA

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Indici

Indice delle divinità,

personaggi mitologici ed eroi

Abramo, v. Indice dei nomi. Adamo, 10, 29, 63. Apollo, 32, 72.

Ercole, 72. Essere supremo, 327. Gesù, v. Indice dei nomi. Giove, 65, 72. Messia, 6, 8-9, 23, 33, 432. Mosè, v. Indice dei nomi. Orfeo, 32.

Provvidenza, 356, 414.

Satana, 304. Sibilla, 73.

Sol invictus, 66.

Spirito Santo, 4, 16, 27, 29, 34, 60-61, 78, 137, 140, 153-154, 216, 223, 232233, 235, 242-244, 256, 259, 289, 388-389, 422-424, 464, 466-467, 476477, 492, 494, 496, 504, 511, 535, 545, 574, 576-577.

Tyche, 73. Vitroria, 65, 75.

75, 284, 330, 338, 343,

Zeus, 69, 458.

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Abelardo, Pietro, 139.

Alessandro 1 di Battenberg, principe di Bulgaria, 509. Alessandro Magno, 179.

‘Aflaq, Michel, 512.

Alessio III Angelo, imperatore di Bisanzio, 474. Alessio IV Angelo, imperatore di Bi-

Agapito I, papa, 460.

Alessio I Comneno, imperatore di Bi-

Abbot, George, arcivescovo di Canterbury, 493.

Alessandro Severo, imperatore, 32.

Abramo, 17, 21, 32. Acacio di Cesarea, 60. Adriano, imperatore, 19-20. Afraate, il «saggio persiano», 190. Agostino, santo, 40, 55, 56n, 57, 62-63,

86, 91, 132, 149, 242,.271, 524-525.

Agostino di Canterbury, santo, 525. Agricola, Michele, 249, 270.

Akindynos,

Akìndynos.

Gregorio,

v.

Gregorio

Alacoque, Margherita Maria, v. Margherita Maria Alacoque. Alarico II, re dei Visigoti, 65.

Alberico di Roma, 115-116, 119. Alberto Federico di Hohenzollern, 267. Alciati, Gian Paolo, 257. Alessandro II, papa, 124. Alessandro III, papa, 141-142.

Alessandro IV, papa, 149. Alessandro V (Pietro Filargio), papa, 167. Alessandro VI, papa, 527.

Alessandro VII, papa, 309, 403. Alessandro VIII, papa, 311.

Alessandro, vescovo di Alessandria, 58-

59.

sanzio, 471. sanzio, 469.

Alexandru, loan Cuza, principe di Romania, 509.

Alfonso VI, re di Castiglia e di Leon,

128.

Amaduzzi, Giovanni Cristofano, 318.

Amalrico di Bène, 154. Ambrogio,

vescovo

di Milano,

61, 65, 67, 75,80 e n, 459.

santo,

Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde,

481. Amedeo VIII di Savoia, v. Felice V.

Ammiano Marcellino, 65 e n, 77n. Amvrosij d'Optina, 502. Amyraut, Moyse, 395, 401.

Anastasio I, imperatore d'Oriente, 87,

93. Anastasio I, papa, 77.

Anastasio II, papa, 525.

Anderson, Rufus, 556.

Andreae, Jakob, 377, 392, 488.

Andreae, Johann Valentin, 392.

588

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Andronico

I Comneno,

imperatore

d'Oriente, 470. Andronico II Paleologo, imperatore d'Oriente, 473.

Andronico III Paleologo, imperatore . d'Oriente, 475, 478479.

Angelos, Cristoforo, 492.

Anna Bolena, regina d'Inghilterra, 262. Anna di Savoia, imperatrice di Bisanzio, 475, 478. Annibaldi, Riccardo, cardinale, 149.

Antim il Georgiano

(Ivireanul), 487,

496. Antonio il Grande, abate, santo, 70, 180. Antonio da Padova, santo, 148.

Antonio, patriarca di Costantinopoli, 460 Antonios, George, 511. Apocauco, Alessio, 478. Apollinare di lerapoli, 27. Apollinare di Laodicea, 45, 62. Aratore, 86.

Arcadio, figlio di Teodosio imperato-

re, 76. Arialdo, diacono di Milano, 122.

Arinze, cardinale, 541.

Ario, 48, 58 e n, 59, 60, 460.

Aristide, Marciano, apologeta, 20 e n. Aristotele, 90, 393. Arminio (Arminius), Jakob, 398. Arnaldo da Brescia, 139. Arnaud, Enrico, 403.

Arnauld, Antoine, 309, 401. Arndt, Johann, 259, 392, 404.

Arnold, Goffredo, 259, 405.

Asclepiodoto, filosofo stoico, 90.

Atanasio, vescovo di Alessandria, 58n, 59-61, 67, 70, 180, 201, 204.

Atanasio l'Atonita, 472-474. Atanasio, metropolita di Transilvania, 490. Atenagora, patriarca di Costantinopoli, 516. Attila, re degli Unni, 78.

Aubigné, Henri Merle d’, 426.

Aubigné, Théodore-Agrippa d', 401. Augusto,

Gaio Giulio Cesare Ottavia-

no, imperatore, 24.

Aureliano, imperatore, 458-459.

Aurelio, vescovo di Cartagine, 57.

Bach, Johann Sebastian, 378, 405, 444. Baio, Michel, 309.

Baldovino di Fiandra, 471.

Barabba, 234.

Barebreo

(bar

‘Ebràyà),

Gregorio,

189. Bàrlaam il Calabrese, 475-479. Barnaba, padre apostolico, 20. Baronio, Cesare, 312.

Barth, Karl, 227, 236, 415, 430, 444-

450, 552. Bartolomeo, apostolo, 195, 524.

Bartolomeo, patriarca di Costantino-

poli, 516-517.

Basilide, gnostico, 26. Basilio di Cesarea, 48, 61, 86, 89-90,

466. Basilio di Poiana Màrului, 501. Battenberg, Alessandro, v. Alessandro Battenberg. Baur, Ferdinand Christian, 431-432, 44l.

Baxter, Richard, 565.

Bayle, Pierre, 401411. Beckwith, Charles, 435. Beecher, Lyman, 421. Beecher Stowe, Harriet, 421. Bèkkos, Giovanni, patriarca di Costantinopoli, 481.

Belinskij, Vissarion Grigoreviè, 503.

Bellarmino, Roberto, cardinale, 302,

494.

Benedetto, santo, 86, 525.

Benedetto X, papa, 123.

Benedetto XIII (Pedro de Luna), pa-

pa, 166-167, 308. Benedetto XIV, papa, 319, 491. Benedetto XV, papa, 345, 349, 531532. Benedetto da Mantova, 269, 271. Benedetto di Aniane, santo, 118. Bengel, Johann Albrecht, 405, 417. Beniamino I, patriarca copto, 202. Benigni, Umberto, 349.

Berdjaev, Nikolaj Aleksandroviè, 506.

Berengario di Tours, 120. Berington, Joseph, 316.

Bermardo di Chiaravalle (Clairvaux), santo, 129, 135-136, 140.

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e modemi Bernardo Primo, capo dei Poveri riconciliati, 143. Bernone, abate, 118. Bessarione, metropolita di Nicea, 482.

Bethge, Eberhard, 448.

Bethlen, Gabriel, 383. Beza, Teodoro di, 248, 379, 393, 546. Biandrata (Blandrata), Giorgio, 257. Bibliander, Teodoro, 545. Birò, Mattia (Dévay), 268. Blàstaris, Matteo, 480. Blaurock, v. Cajakob, Giorgio. Blondel, Enrichetta, 434.

Blondel, M., 347. Blumhardt, Johann Christoph, 427, 439. Bodelschwingh, Friedrich von, 439. Bodenstein, Andreas Rudolf (Carlostadio), 231-232. Boehler, Peter, 408.

Boezio, Anicio Manlio Torquato Seve-

rino, 86. Bòhme, Jakob, 259, 391-392. Bolena, v. Anna Bolena. Bolland, Jean, 312. Bolsec, Girolamo, 249. Bonald, Louis-Jacques-Maurice de, cardinale, 333. Bonaparte, Napoleone, imperatore, 328-330, 434. Bonaventura da Bagnoregio, santo, 149. Bonhoeffer, Dietrich, 398, 447-449. Bonhoeffer, Klaus, 448.

Bonifacio I, papa, 77.

Bonifacio VIII, papa, 127, 286, 333. Bonifacio IX, papa, 166.

Bonifacio, monaco, santo, 109-111. Booth, William, 424.

Bossuet, Jacques-Bénigne, 311, 401. Bousset, Wilhelm, 25, 442. Brainerd, David, 551.

Brent, Charles Henry, 572. Brenz, Johann, 249.

Bruno di Querfurt, 121.

Caadaev, Petr Jakovieviè, 503.

Caetano (Tommaso De Vio), cardinale, 237.

Cajakob, Giorgio (Blaurock), 251.

Caleca, Giovanni, patriarca di Costan-

tinopoli, 478.

Calixt, Georg, 39$, 565.

Callinico di Costantinopoli, 496. Callisto I, papa, 35-36, 41.

Callisto II, papa, 125.

Calov (famiglia), 388. Calov (Calovius), Abraham, 388, 391.

Calvino, Giovanni, 217, 219-221, 223, 225, 241, 244-250, 264-267, 270-273, 285, 378-379, 387, 393-395, 545, 565. Canaris, Hans, ammiraglio, 448. Canisio, Pietro, santo, 495. Cantimori, Delio, 283.

Capitone, Wolfgang, 219, 240, 247, 252.

Carafa, Giuseppe Maria, 288.

Carey, William, 553. Carlo LI il Calvo, imperatore, 113. Carlo V, imperatore, 217, 222, 238240, 262, 266, 269, 289-290.

Carlo I, re d'Inghilterra, 395-397. Carlo II, re d'Inghilterra, 399. Carlo

Alberto,

re di Sardegna,

403,

435. Carlo Emanuele II, duca di Savoia, 403. Carlo Emanuele IV di Savoia, re di Sardegna, 434.

Bost, Ami, 425-426.

Meaux, 287.

133. Bucero, Martin, 219-223, 237, 240-241, 246-249, 252, 263, 404, 545, 565. Buddeus, Franz, 414415. Bulgakov, Sergej Nikolaevié, 506. Bullinger, Enrico, 219, 250-251, 266, 269, 273, 275, 378-379. Bultmann, Rudolf, 449. Bunyan, John, 398. Buonaiuti, Ernesto, 347.

Carlo IX, re di Francia, 380.

Borromeo, Carlo, santo, 298-299, 384.

vescovo

Brunone, arcivescovo di Colonia, 132-

Carlo VII, re di Francia, 169, 310.

Boris, re di Bulgaria, 467.

Brès, Guy de, 266. Brigonnet, Guillaume,

589

di

Carlo Magno, 110-111, 526. Carlo Martello, 110.

..

Carlostadio, v. Bodenstein, Andrea.

Carnesecchi, Pietro, 271.

590

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Carol I, re di Romania, 509. Carpzov (famiglia), 388.

Clemente XIII, papa, 320.

Clemente XIV, papa, 320-321.

Carpzov, Benedikt I, 388.

Clemente, patriarca di Costantinopo-

Carpzov, Johann Benedikt, 404. Cartesio (René Descartes), 411.

Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio Se-

natore, 86. Castellione, Sebastiano, 248-249, 379.

Caterina d'Aragona, regina d'Inghilterra, 262. Caterina de’ Medici, regina di Francia,

380.

Caterina von Bora, moglie di Lutero,

237.

Catinat, maresciallo, 403. Cavour, Camillo Benso, conte di, 436.

Ceciliano, vescovo di Cartagine, 47. Celestino I, papa, 77, 84.

Celestino III, papa, 126.

li, 496. Clemente di Alessandria, 37, 38 e n, 40. Clodoveo, re dei Franchi, 82, 109. Cocceius (Johannes Koch), 395.

Coke, Thomas, 552. Cola di Rienzo, 154. Coligny, Gaspard II de, ammiraglio, 380, 545. Colloredo, Jeronimus, arcivescovo di Salisburgo, 315. Colombano, santo, 525. Colonna, Ottone, 167. Comenio (Komenski), Amos, 383, 565.

Commodo, Marco Aurelio, imperato-

Cellario, Francesco, 382.

Celso, filosofo platonico, 28-29, 36, 40,

45, 259, 458.

Cerulario, Michele, patriarca di Costantinopoli, 468-469, 474. Cesario, vescovo di Arles, 85, 87. Chardin, Pierre Teilhard de, 533. Charles, Pierre, 534.

Chatellier, L., 306. Chenu, Marie-Dominique, 356. Chevrier, Antoine, 339.

Chomjakov, Aleksej Stepanoviù, 504,

re, 32. Condé, Enrico I di Borbone, principe di, 380. Congar, Yves, 535. Consalvi, Ercole, 332.

Contarini, Gaspare, cardinale, 284, 289. Conte Verde, v. Amedeo di Savoia. Cook, James, 553. Cornelio, centurione romano, 524. Cormelio, papa, 4344.

514.

Cortese, Gregorio, cardinale, 289.

575.

Costante, imperatore, 57, 60. Costantino I il Grande, imperatore, 4,

Chorikios, retore, 91. Chung Hyun Kyung, teologa coreana, Cipriano, vescovo di Cartagine, santo,

4344. Cirillo IV, pauriarca copto, 203. Cirillo di Alessandria, 62, 178, 200201, 461.

Cirillo di Tessalonica,

apostolo

degli

Slavi, 466, 497, 525. Cirillo Loùkaris, v. Loùkaris, Cirillo.

Cosimo de’ Medici, 483.

45-48, 56, 58-61, 63, 66-68, 71-74, 76, 82, 92, 230, 458-459, 471, 525.

Costantino II, imperatore, 60.

Costantino V, imperatore d’Oriente, 461-463. Costantino VI, imperatore d’Oriente, 462.

Clément, Olivier, 508.

Costantino VII Porfirogenito, imperatore d'Oriente, 460.

Clemente III (Guilberto di Ravenna), antipapa, 124, 126.

Costantino XI Dragazes, imperatore

Clemente I, papa, 20.

Clemente V, papa, 127. Clemente VII, papa, 166, 381. Clemente VIII, papa, 300. Clemente XI, papa, 310.

Costantino IX Monomaco, imperatore d'Oriente, 468, 473.

d’Oriente, 484.

Costanzo,

193.

imperatore,

60-61,

Costanzo II, imperatore, 91.

65,

76,

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni Costanzo Cloro, padre di Costantino, 72. Cranmer, Thomas, 262-263, 565.

Crawley-Boevey, Mateo, 344.

Dionigi

IV

Muslim,

591 patriarca

stantinopoli, 496.

di Co-

Dohnany, Hans von, 448. Dolcino da Novara, fra, 153.

Crispino, Gilberto, 300.

Dollinger, Ignaz von, 336, 566.

Cristiano IV, re di Danimarca, 384. Cristianopulo, Ermanno Domenico,

Domiziano, Tito Flavio, imperatore,

Cristiano III, re di Danimarca, 269. 317.

Domenico di Caleruega (o di man), santo, 85, 131, 145-146.

Guz-

18,

Donato, vescovo di Cartagine, 47, 56.

Cristo, v. Gesù Cristo.

Crusius, Martin, 488.

Donoso Cortés, Juan, 333. Dositeo, patriarca di Gerusalemme, 496-497.

Curione, Celso Secondo, 379, 382.

Dossetti, Giuseppe, 59n, 356.

Damascio, 91.

Dralincourt, Charles, 401.

Cromwell, Oliver, 397-398. Cromwell, Richard, 398.

Dostoevskij, Fedor Michajloviù, 502.

Duca (famiglia), 486. Duchesne, Louis, 116. Duns Scoto, Giovanni, 229.

Damaso I, papa, 65, 68, 76-77.

Damiano, patriarca siriaco, 201.

Damiano di Moldavia, 482.

Dandolo, Enrico, ammiraglio e doge,

471.

Daniil, patriarca di Mosca, 500.

Darby, John Nelson, 424. Davide, 6 e n. De Berquin, Louis, 265. Decio,

63.

imperatore,

42-43,

45-46,

56,

De Lai, Gaetano, cardinale, 349.

Del Bufalo, Gaspare, santo, 333. De” Liguori, Alfonso Maria, santo, 321.

Delumeau, Jean, vi, 305. De Martyribus, B., 299. Demetrio, vescovo di Alessandria, santo, 200. Demetrio Kydònes, 481.

Denck, Giovanni, 256. Dibelius, Otto, 563.

Diego, contadino, 528. Diego, vescovo di Osma, 131, 145. Dimitrios, patriarca di Costantinopoli,

516. Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, im-

Dionigi, vescovo di Milano, 61. Dionigi di Alessandria, santo, 38. Dionigi il Piccolo, 86.

d’'Osca

(di

Huesca),

142-

Eckhart, detto Maestro (Meister) Eckhart, 392. Ecolampadio, Giovanni, 240, 268.

Defoe, Daniel, 551. De La Borde, V., oratoriano, 317.

peratore, 45, 47, 55, 64. Diodati, Giovanni, 394-395. Dione, Cassio, 18.

Durando 143.

Edesio di Tiro, 204. Edoardo VI, re d'Inghilterra, 219, 263-

264. Edwards, Jonathan, 420.

Egesippo, 31.

Egidio di Albornoz, 165.

Egmont, Lamoral, conte di, 266. . Elena, madre di Costantino, santa, 67.

Eliot, John, 551. Elisabetta I Tudor, regina d'Inghilterra, 263-264, 381. Enea, retore, 91.

Ennodio, Magno Felice, vescovo di Pavia, 86. Enrico II, re di Francia, 380.

Enrico IV di Navarra, re di Francia, 380-382, 401. Enrico III, re di Germania e imperatore, 123.

Enrico IV, re di Germania e imperatore, 123-124. Enrico V, re di Germania e imperatore, 125.

Enrico VIII, re d'Inghilterra, 261-263, 381. Enrico di Borbone, 380.

592

Inilice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Enrico, monaco, 138-139. Enzinas, Jaime, 271.

Fénelon,

Epifanio di Pavia, 84.

Epifanio di Salamina, santo, 27n, 58n.

Epitteto, 18, 25. Eraclito, 21. Erasmo da Rotterdam, 233-235, 242, 249, 256, 262, 285, 289, 279, 565. Erode il Grande, 4.

Erodoto, 90.

Esiodo, 90. Eugenio (Flavio Eugenio), re, 75.

imperato-

Eugenio III, papa, 139.

Eugenio IV, papa, 167, 482.

Eugippio, abate, 86.

Eunapio, 73.

di Cesarea,

29n, 31 e

19n,

21n,

n, 35, 45-46, 55, 58 e

71-72. Eusebio di Nicomedia, 60.

27n,

n, 60,

‘Ezànà, re di Aksum, 204. Ezio, generale romano, 79.

247.

Barbarossa,

Johann Nikoimperatore,

Federico II, imperatore, 165, 168, 526.

Federico 549.

IV, re di Danimarca,

405,

Federico V, elettore del Palatinato e re di Boemia, 283.

Federico Federico Federico Federico 414. Felice V

I, re di Svezia, 269. I, re di Prussia, 404. II, re di Prussia, 415. Guglielmo I, re di Prussia, (Amedeo

VIII, duca di Sa-

voia), antipapa, 167.

383-384.

Ferdinando III d'Asburgo, imperatore, 385. Ferdinando d’Austria, fratello di Car-

lo V, v. Ferdinando I d'Asburgo, im-

peratore. Ferdinando I Sassonia-CoburgoGotha, re di Bulgaria, 509. Fermo, 57. Ferrando, biografo di Fulgenzio, 86.

Filarete, patriarca di Mosca, 498.

Filippo II, re di Spagna, 266, 380. Filocalo, Furio Dionisio, 77. Filofej, monaco, 498.

Formoso, papa, 116.

Farel, Guglielmo, 220, 240-241, 245-

I

Ferdinando Il d'Asburgo, imperatore,

Fleury, Claude de, 313. Fontanini, B., 285.

Ewostàtèwos, Eugtario, 205.

141, 165.

gna, 526.

Ferdinando 1 d'Asburgo, imperatore, 269.

Filostorgio, 58n.

Evdokimov, Pavel, 506. Evervino di Steinfeld, 140.

laus. Federico

311-

Fisher, John, santo, 262. Flaminio, M.A., 285. Flavio, Giuseppe, 6n, 9.

Evagrio Pontico, 476.

Febronio, v. Hontheim,

Salignac,

Filone Alessandrino, 6n, 26, 38, 457.

Eustazio di Antiochia, 60. Eutiche, 62, 78.

Fausto di Ricz, 84, 87.

de

Filarete, esarca di Kiev, 516.

Eurico, re dei Visigoti, 84.

Eusebio

Francois

312. Ferdinando II d'Aragona, re di Spa-

Foucauld, Charles de, 534. Fox, George, 398.

Fozio,

patriarca

di

Costantinopoli,

465, 467, 491. Francesco d'Assisi, santo, 85, 131, 145149, 526. Francesco I di Valois, re di Francia, 238, 246, 265, 311, 527. Franck, Sebastiano, 249, 256. Francke, August Hermann, 404-405,

549. Franco, Francisco, 352-353.

Ftank, Semén Ljudvigoviè, 506. Froment, Antonio, 220.

Frumenzio di Tiro, 204. Fulgenzio di Ruspe, santo, 86-87.

Galeno, Claudio, 24

Galerio, Massimiano, imperatore, 4546, 63.

Galilei, Galileo, 308-309.

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni Gallieno, imperatore, 43, 63, 81.

Gallo, Gaio Vibio Treboniano, imperatore, 65.

Gansfort, Wessel, 265.

Garcia Moreno, Gabriel, 344.

Gaume, ]J.J., 333. Gaussen,

Francois-Samuel-Robert-

Louis, 426. Gavazzi, Alessandro, 485.

Gelasio I, papa, 87.

Gemelli, Agostino, 344.

Genocchi, P. Giovanni, 347.

Genserico, re dei Vandali, 78. Gentili, Valentino, 257.

Geraldo di Aurillac, santo, 119. Gerardo di Abbeville, 149. Gerasimo Notaras, v. Notaras, Gerasi-

mo. Gerberto di Aurillac, v. Silvestro II. Geremia II Tranos, patriarca di Costantinopoli, 488-489, 492.

Gerhard, Johann, 390n, 391, 546. Gerhardt, Paul, 391. Gerlach, Stephen, 488. Germano, patriarca peloponnesiaco, 487. Gesù Cristo, vmi-rx, x1, 3, 4 e n, 6 e n, 711, 14-17, 20-23, 26, 28-34, 45, 58-59, 61-62, 68, 76, 78, 93, 105, 112, 127129, 135, 142, 144-145, 148, 153, 155-156, 168, 173, 216, 221, 223, 230, 232, 234-235, 242-243, 2539, 255260, 264, 271-272, 285, 291-292, 320, 342, 344-346, 352, 356, 377, 388-393, 406, 412-413, 415-418, 420, 423-425, 427429, 432, 440-447, 449, 461-462, 477478, 493, 505,511, 523-524, 541542, 546, 548, 550-551, 558, 561, 567-568, 570, 573-574, 577, 580. Geymet, Pietro, 434. Ghennadio II Scholàrios, patriarca di

Costantinopoli, 484, 492.

Ghica (famiglia), 486. Ghislieri, Michele, v. Pio V. Giacomo, apostolo, 8, 12, 128.

593

Giberti, Gian Matteo, vescovo di Verona, 287.

Gildone, capo dei Mauri, 57. Gioacchino da Fiore, 137, 153. Gioberti, Vincenzo, 334.

Giorgio Akropolîtes, logoteta, 481. Giovanni, apostolo, vni, 17, 26, 34.

Giovanni VIII, papa, 116. Giovanni XII, papa, 116.

Giovanni XVIII, papa, 468.

Giovanni XXII, papa, 127, 159-160.

Giovanni XXIII, antipapa, 167.

Giovanni XXIII (Angelo Roncalli), papa, 358-360, 516, 576.

Giovanni VI Cantacuzeno, imperatore d'Oriente, poi monaco 478479, 482.

Giovanni

V

Paleologo,

Giuseppe,

imperatore

d'Oriente, 475, 478, 481-482.

Giovanni VIII Paleologo, imperatore d’Oriente, 482. Giovanni Battista, 7, 432.

Giovanni Bekkos, v. Bckkos, Giovanni. Giovanni Caleca, v. Caleca, Giovanni.

Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni

Climaco, santo, 477. Crisostomo, santo, 89. della Croce, santo, 304. Damasceno, santo, 462, 491. di Efeso, storico, 90. di Leida, 253. di Matera, 133.

Giovanni di Trani, 468.

Giovanni, monaco, 463-464, 467. Giovanni Paolo II, papa, 364, 516, 536, 539-540, 542. Giovenale, Decimo Giunio, 24.

Giovenalio, vescovo di Gerusalemme, 93.

Gioviano, Flavio Augusto, 74.

Girolamo, santo, 35, 65 e n, 70-71, 80

en. Girolamo d'’Ascoli, v. Niccolò IV.

Giuda di Gamala, il Galileo, 6, 9.

Giulia Domna, 32. Giulia Mammea, 32.

Giacomo I, re d'Inghilterra, 383, 395, 399. Giacomo II, re d'Inghilterra, 402.

Giuliano, imperatore, 4, 61, 65, 74.

Giacomo Baradeo (Burd‘anà), 186.

Giulio II, papa, 285.

Giuliano di Alicarnasso, 188, 201.

Giacomo di Vitry, 146.

Giulio I, papa, 76.

Giansenio, Cornelio, 309-310.

Giulio III, papa, 290.

594

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Giuseppe, patriarca di Costantinopoli,

481, 483. Giuseppe, santo, 306.

Giuseppe

II,

imperatore

d'Austria,

319, 322-323. Giuseppe di Hessen-Darmstadt, 315. Giuseppe Flavio, v. Flavio, Giuseppe. Giustiniani, Vincenzo, 285.

Giustiniano I, imperatore d’Oriente,

71, 76, 80, 86-87, 90-93, 95-96, 186, 461, 471.

Giustino I, imperatore d’Oriente, 93,

96. Giustino II, imperatore d'Oriente, 95.

Giustino, apologeta, 20, 21 e n, 23, 29,

33, 39.

Goad, Thomas, 492.

Goethe, Johann Wolfgang, 406, 429.

Gomarus, Franz, 393.

Gòrres, Johann Joseph von, 333. Gossner, Johannes Evangelista, 554.

Goudimel, Claude, 402. Gradenigo, Giovanni, 121.

Gras y Granollers, ]., canonico, 345. Graziano, imperatore, 65, 75, 126.

Grebel, Corrado, 251.

Grégoire, Baptiste-Henri, 327-328. Gregorio I Magno, 82, 85, 87-88, 525.

Gregorio II, papa, 110. Gregorio VII, papa, 120, 124-125, 333.

Gregorio IX, papa, 127, 144-145, 147,

151, 165.

Gregorio Gregorio Gregorio Gregorio Gregorio Gregorio Gregorio

X, papa, 480. XI, papa, 166. XII, papa, 166-167. XIII, papa, 380, 489-490. XV, papa, 528. XVI, papa, 334-335, 528-529. V, patriarca di Costantino-

poli, 509.

Gregorio Akìndynos, 478-479. Gregorio Barebreo,

v. Barebreo, Gre-

Guevarre, A., gesuita, 318. Guglielmo I di Aquitania, 118.

Guglielmo di Occam, 229. Guglielmo di Sant'Amore Amour), 149.

Guglielmo di Vercelli, santo, 133. Guglielmo di Volpiano, 132.

Guglielmo d'Orange, 266, 380, 394.

Guglielmo III d'Orange, 402.

Guicciardini, Piero, 436. Guido di Lusignano, 470. Guilberto di Ravenna, v. Clemente III. Gunkel, Hermann, 442. Gustavo Adolfo, re di Svezia, 384. Guyon, Jeanne-Marie, 312.

Hahn, Philipp Matthàus, pietista, 417. Haldane, Robert, 425-426.

Haller, Bertoldo, 240.

Hamilton, Patrick, 270. Handel, Georg Friedrich, 405.

Harding, Stefano, abate, 134. Harnack,

Adolph

von,

25,

Hastings, Selina, 410. ° Hedione, Gaspare, 219, 240, 249.

Hegede, Hans, 551.

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 392, 430431, 433, 442.

Heidegger, Martin, 449. Helvétius, Claude-Adrien, 413. Henry, A.M., gesuita, 535. Herberstein, K., vescovo di Lubiana,

319. Herbert, Edward, barone di Cherbury, 411412. Herder, Johann Gottfried, 428. Herwarth, Barthelemy, 401. Herzen, Aleksandr Ivanoviò,

Gregorio di Nazianzo, 48, 61, 90, 466. Gregorio di Tours, 82, 84.

Hofmann, Melchiorre, 253.

Gregorio di Nissa, 48, 61, 89, 466-476.

Gregorio il Sinaita, 477. Gregorio l’Illuminatore, 195. Gregorio Palamàs, 475, 478-479.

Gribaldi, Matteo, 257.

Grozio, Ugo, 394, 565.

443-444,

446. Harris, W.W., «profeta» liberiano, 558. Harvard, John, pastore puritano, 399.

Heurmius, Justus, 548-549. Hitler, Adolf, 446-448.

gorio.

(Saint

503.

Hoen, Cornelio, 266.

Hofmeister, Sebastiano, 240.

Holbach, Paul Heinrich Dietrich, ba-

rone di, 413. Hollaz, David, 414. Honter, Giovanni, 268.

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni Hontheim, Johann

Nikolaus

(Febro-

nio), 317. Hoorn, conte, ammiraglio, 266. Hubmeier, Balthasar, 252.

Hutten, Ulrich von, 227. Hutter (Hueter), Giacomo, 252, 258. Ibas di Edessa, 95.

Ibn Botlan, melkita, 468. Idelette de Bure, 247.

428,

Kàser, Leonhard, 269. Kemp,J.Th. van den, missionario, 554.

Keplero, Johannes, 391. Ketteler, Wilhelm Emmanuel

von,

Kierkegaard, Soren Aaby, 432-433.

Ignazio di Loyola, 301, 523. Ilario, vescovo di Arles, 78. Ilario, vescovo di Poitiers, 61. Ildebrando di Soana, v. Gregorio VII. Ingoli, Francesco, 528.

Innocenzo I, papa, 77. Innocenzo III, papa, 130, 137, 141, 165, 471,

416-417,

338-339,

Ignazio di Antiochia, 15, 525n.

151,

Jud, Leo, 218.

Kabasilas, Nicola, 478. Kant, Immanuel, 314, 441.

Hugel, Friedrich von, 347.

149,

Joris, David, 255. Jurieu, Pierre, 401.

Hus, Giovanni, 168. Hut, Giovanni, 252.

143-145, 565.

595

473,

Innocenzo IV, papa, 165. Innocenzo VII, papa, 166.

Innocenzo X, papa, 309. Innocenzo XI, papa, 308, 311.

Innocenzo XII, papa, 308, 311.

Joasaph, patriarca di Costantinopoli, 488. losif di Volokolamsk, egumeno, 460, 498, 500.

Ippolito di Roma, santo, 26, 27 e n, 33-

37, 40-42, 466.

Irene, imperatrice d'Oriente, 462. Ireneo di Lione, santo, 26-27, 29, 30 e

Kimbangu, Simon, «profeta» africano, 558. Kireevskij, Ivan Vasil'eviî, 504.

Klepsch, Egon, 517. Knox, John, 270.

Koch, Johannes, v. Cocceius. Kolydov, Filippo, 498.

Kontarès, Cirillo, 494.

Kovalevskij, Eugraf, 514.

Kritòpoulos, Metrofane, 492-493.

Kutter, Hermann, 439-440, 445.

Laberthonnière, Lucien, 347. Lacordaire, Henri-Dominique, 334.

Lamennais, Félicité Robert de, 334.

Lamettrie, Julien Offroy de, 413. Lamourette, Antoine Adrien, 325. Las Casas, fra Bartolomé de, 527. Laski, Giovanni, 266-267.

La Tour du Pin, René-Charles-Humbert, 338. Lattanzio, Firmiano, 46, 73.

Isabella la Cattolica, regina di Casti-

Laud, William, 396. Lavigerie, Charles-Martial-Allemand, cardinale, 531. Lazar, principe di Serbia, 481.

Isacco Comneno, 470.

Lefèvre

d’Etaples, Jacques

Leibniz, 565. Lentolo, Léonard, Leone I 87,92.

Gottfried Wilhelm, 259, 413,

n, 31, 37, 39-41, 458, 524.

Irving, Edward, 424, 566.

glia, 526. Isacco II Angelo, 471.

Isidoro di Kiev, 482-483. Isidoro Mercatore, 114.

Isocrate, 90. Ivan IV, dettoil Terribile, 489, 498, 500. Janavel, Giosuè, 403. Javorskij, Stephan, 504.

Javouhey, suora missionaria, 531.

Jorgers, Christoph, 269.

Lebret, missionario, 536. Lefebvre, Marcel, 361, 364.

(lacobus

Faber Stapulensis), 265, 285. Léger, Jean, 403.

Scipione, 382. Emile G., 225. Magno, papa, 62, 66, 77-78,

Leone III, papa, 110, 462.

596

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Leone IX, papa, 123, 468-469.

Leone X, papa, 285-286, 311.

Leone

XIII, papa,

346, 505, 516.

313, 339-342,

344,

Leone, arcivescovo di Ochrida, 468.

Leopoldo, imperatore, 322-323.

Lercaro, Giacomo, cardinale, 361.

Le Roy, Edouard, 347.

Lessing, Gotthold Ephraim, 416, 442. Liberio, papa, 61, 76. Libermann, F.M.P., fondatore degli

spiritani, 531.

Licinio, imperatore, 46-47, 58, 63, 458.

Lilburne, John, 397-398.

Lingard, John, 316. Linneo, Carlo, 532. Livingston, David, 555. Locke, John, 412-413.

Macario, eremita, 476. Macario di Corinto, 502. Macario di Magnesia, 45. Mainardi, Agostino, 271, 382. Maiorino, vescovo di Cartagine, 47.

Maistre, Joseph Marie, conte de, 333.

Malan, César, 425-426. Manna, Paolo, 533. Manuele I Comneno, imperatore d'Oriente, 470. Manz, Felix, 251. Manzoni, Alessandro, 334, 434. Maometto II, 197, 484, 492.

Map, Walter, 136. Marat, Jean-Paul, 327.

Marcello di Ancira, 60.

Loisy, Alfred, 347, 443.

Marciano, imperatore d'Oriente, 62. Marcione, 22, 25, 29, 41. Marco, evangelista, 443, 524.

Lorenzo, metropolita di Milano, 84. Losskij, Vladimir, 506.

Marco Eugenico di Efeso, 482-483. Marco Polo, 192. Margherita di Corwna, 155-156.

Longano, F., abate, 318. Lorenzo, antipapa, 87.

Marco Aurelio, 24-26, 32, 80.

Loùkaris, Cirillo, patriarca di Costantinopoli, 493-495. Lubac, Henri de, 533. Luca, evangelista, 92-10, 12, 23, 443.

Luca di Praga, 267. Luca Notaras, v. Notaras, Luca. Luciano di Samosata, 24, 44. Lucifero di Cagliari, 61.

Lucio III, papa, 141. Ludovico

IV

il Bavaro,

imperatore,

168. Ludovico il Pio, re dei Franchi e impe-

ratore, 119. Luigi [X, re di Francia, santo, 526. Luigi XII, re di Francia, 285. Luigi XIII, re di Francia, 401. Luigi XIV, «Re Sole», 311, 343, 401-

402. Luigi XVI, re di Francia, 326, 343, 419.

Lupu, Vasile, 495.

Lutero, Martino, 216-219, 221-223, 226-238, 240-246, 249, 252, 256-257, 262, 265-270, 273-274, 282, 284-285, 289, 297, 309, 377-378, 386, 388, 390, 408, 441, 488, 545.

Luther King, Martin, 422. Mabillon, Jean, 313.

Margherita di Navarra, 285. Margherita di Valois, 380.

Margherita Maria Alacoque, 307. Margherita Porete, v. Porete, Marghenua.

Maria, madre di Gesù, 11, 26, 34, 316, 335, 355, 361, 473. Maria, moglie di Manuele Comneno, 470. Maria Teresa, imperatrice d'Austria, 322. Maria Tudor, la Sanguinaria, 264, 274, 381. Marillac, Luise de, 302.

Maritain, Jacques, 351. Marpeck (Marbeck), Pilgram, 252. Marshman, Giosuè, 553.

Martino V, papa, 167, 482. Martino di Tours, 70, 84.

Massimo il Confessore, 461, 476. Matteo, evangelista, 443. Matteo da Bascio, 287. Matthys, Giovanni, 253.

Mattia d'Asburgo, imperatore, 383. Maultrot, G.N., 317.

Maurizio, conte di Nassau, 382, 394. Maurizio, imperatore d'Oriente, 95.

Maurocordato, Nicola, 486.

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

597

Maurras, Charles, 351. Mazzarella, Bonaventura, 434. Mazzarino, Giulio Raimondo, cardinale, 401. Mazzolari, Primo, 356.

Montmorancy, Henri, duca di, 380. Morghen, Raffaello, 120.

Mejendorf, Ivan, 506.

Morosini, Tommaso, 471. Morrison, Robert, 554.

Medvedev, Sil’vestr, 501.

Melantone, Filippo, 218, 222, 231, 239-240, 263, 267, 377, 387, 488. Melezio, vescovo di Antiochia, 56. Melitone di Sardi, 21 e n, 27, 46. Melius, Peter, 268. Men', Alexandr, 513. Merici, Angela, santa, 302. Merry del Val, Rafae!, 349. Merton, Thomas, 538.

Mesrop, santo, 195-196.

Metodio, apostolo degli Slavi, 466-467,

497,525.

Metodio III, patriarca di Costantinopoli, 496.

Metternich,

332, 334.

Klemens Wenzel

Moro, Tommaso, santo, 262.

Morone, Domenico Giovanni Girolamo, 289, Mosè, 9-10, 21-22.

Mosheim,

Johann

Lorenz

415. Mott, John, 558, 567, 578.

Menno, Simons, 253, 255, 265-266.

Metodio di Olimpo, santo, 45.

Mornay, Philippe Duplessis, 401.

Lothar,

von,

414

Mounier, Emmanuel, 356. Movilà, v. Mogilà Munechin, Misjur’, 498. Miuntzer, Thomas, 232-233. Murad II, sultano ottomano, 474. Muratori, Ludovico Antonio, 30, 313,

316, 318.

Murri, Romolo, 347. Mussolini, Benito, 351. Mynster, vescovo luterano marca, 432.

di

Dani-

Napoleone, Bonaparte, v. Bonaparte,

Meyer, Conrad, 227.

Michele VIII, 475, 480-482. Michele Cerulario, v. Cerulario, Michele.

Michele il Siro, 188-189.

Napoleone.

Neff, Felix, 426, 435.

Negri, Francesco, 271, 882. Nemanja, Rastko, 474.

Nemanja, Stefano, 474.

Michele Sinkello, santo, 463.

Nerone, imperatore, 18.

Miconio, Osvaldo, 218, 240. Milani, Lorenzo, 357.

Nestorio, 62, 178.

Milziade, papa, 48, 56, 64.

Niccolò II, papa, 123-124.

Minucio Felice, Marco, 36.

Niceforo, patriarca di Costantinopoli,

Niccolò (Nicola) I, papa, 465.

Milton, John, 397, 403.

Niccolò IV, papa, 149.

Minocchi, Salvatore, 347.

Mirian, re di Armenia, 198. Misjur'

sjur'.

Munechin,

v. Munechin,

Mi-

Mogilà (Movilà), Petru, metropolita di

Valacchia, 495-497, 500. Mogilà (Movilà), Simion, 495. Méhler, Adam, 504.

Montesquieu,

Charles-Louis

condat, barone di, 320.

Montini,

VI.

Giovanni

Battista,

Niceforo

473.

Foca,

generale

bizantino,

Niceforo Gregoràs, 479.

Niceta Coniate, 471.

Niceta Stethatos, 468-469.

Nicodemo Aghiorita, 502.

Molinos, Miguel de, 312.

Monchanin, Jules, 534. Montano, 26-27.

463. Niceforo l'Esicasta, 475, 477.

Nicolai, Philipp, 391, 394.

de

Se-

v. Paolo

Nikon, patriarca di Mosca, 498, 500.

Nil di Sora, 498. Nino, prigioniera di guerra di Mirian d’Armenia, Nueto, 34.

198.

598

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Norberto di Xanten o di Magdeburgo, 133. Notaras, Gerasimo, 493.

Notaras, Luca, 484. Novato, presbitero di Cartagine, 43. Novaziano, «confessore» di Roma, 43-

44.

Paolo Diacono, 81n.

Obrenovié, Milos, 508.

Ocana, F. de, 285.

Ochino,

Bernardino,

Paolo di Samosata, 44, 458.

258,

271,

382. Oddone di Cluny, santo, 119. Odilone, abate di Cluny, 119. Odoacre, 79-81, 84.

285,

Oetinger, Friedrich Christoph, 417.

Oldenbarneveldt, Jan van, 394. Oldham, J.H., 558. Oleviano, Gaspare, 267.

Olivier, Luigi (Pietro Roberto Olivetano), 245.

Olmillos,J. de, 285.

Olsen, Regina, 432. Omar, conquistatore di Gerusalemme

nel 637, 471. Omero, 90,

Onorio, Flavio, imperatore, 57, 76. Onorio Il, papa, 124.

Onorio III, papa, 144, 146, 151.

Orange, Maurizio di, 548. Origene, 33, 36-42, 44, 48, 458, 466. Osiander, Lucius, 488. Ossio, vescovo di Cordova, 59 e n. Ottato di Milevi, 56n, 459. Ottaviani, Alfredo, cardinale, 353.

Ottaviano, figlio di Alberico di Roma, v. Giovanni XII. Ottone I, imperatore, 116. Ottone I di Baviera, 509.

Ottone III, imperatore, 121. Pacomio, cenobita, 70, 201.

Paleario, Aonio, 271. Paleotti, Gabriele, 299. Palladio, discepolo di Evagrio Pontico, 89. Pamprepio, neoplatonico, 89. Panikkar, Raimundo, 539 e n.

Panteno, filosofo, 38.

18, 22-23, 31, 45, 78, 223, 242, 295, 431, 445-446, 458, 524. Paolo III, papa, 205, 240, 288-290. Paolo IV, papa, 288. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 295, 360, 364, 516, 535-536, 538, 539n, 581. Paolo della Croce, santo, 321.

Paolo, apostolo, vm, 3, 10-12, 14-15, 17-

Papebroch, Daniel, 313.

Papia di Ierapoli, 39. Paracelso

(Teofrasto

Bombasto

Hohenheim), 259-260, 392, 546.

von

Parente, Fausto, 6n.

Parham, Charles F., 422.

Parker, Matteo, 263, 381.

Partenio IV, patriarca di Costantinopoli, 496. Pascal, Blaise, 309. Pearse, John, 555. Pecci, Vincenzo Gioacchino, v. Leone XII. Pedro de Luna, v. Benedetto XIII. Pelagio, 62-63.

Penn, William, 399. Perin, Henri-Charles-Xavier, 338. Pétain, Henri-Philippe, 350. Petersen (Petri), Lars, 270.

Petersen (Petri), Olaf, 270.

Petitpied, N., giurista, 317. Pétr

(Petru),

metropolita

chia, v. Mogila, Petru. Pétr, metropolita russo, 512.

di Valac-

Petrarca, Francesco, 475. Petronio Massimo, 79.

Petrovié, Karadjorje, 508.

Pico della Mirandola, Giovanni, 218. Pie, Louis-Frangois-Désire-Edouard, cardinale, 345.

Pier Damiani, santo, 121-122.

Pietro, apostolo, 8-9, 12, 18, 31, 45, 68,

‘75-78, 87, 230, 295, 358, 431, 524. Pietro I il Grande, imperatore di Russia, 498-499, 501-504. Pietro di Bruis, 138-139.

Pietro Pietro Pietro na,

Filargio, v. Alessandro V. l'Iberico, 198. Leopoldo, granduca di Toscav. Leopoldo II, imperatore.

Pietro Orseolo, 121.

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni Pilato, Ponzio, 6, 8. Pio IV, papa, 290, 294. Pio V (Michele Ghislieri), papa, 264,

302, 382, 528. Pio VI, papa, 318, 320, 323, 325, 328. Pio VII, papa, 328, 330. Pio IX, papa, 335, 338, 516. Pio X, papa, 295, 341, 344, 347-349.

Pio XI, papa, 341, 345-346, 353, 359, 528, 531-532, 536-537, 577. Pio XII, papa, 354-357, 359-360, 532, 577.

Pipino il Breve, 110, 112. Platone, 90-91, 393.

599

Reitzenstein, Richard, 25. Renata di Francia, 247.

Renato, Camillo, 382. Riccardo I Cuor di Leone, re d’Inghilterra, 470.

Ricci, Matteo, 531.

Ricci, Scipione de’, vescovo di Pistoia e

di Prato, 323.

Richelieu, Armand-Jean du Plessis de,

385. Ritschl, Albrecht, 441-442. Roberto d'Arbrissel, 132-133.

Roberto di Molesme, santo, 133.

Robespierre, Maximilien-Frangois-Isidore de, 327.

.

Plinio il Giovane, 18, 19n, 36. Plotino, 45, 91. Plùtschau, Enrico, 550.

Robinson, John, 399.

Rode, Giovanni, 266. Rokyta, Jan, 489. Romolo Augustolo, 79-80.

Polanus, riformato, 388.

Pole, Reginald, cardinale, 289.

Policarpo di Smirne, santo, 20. Porete, Margherita, 155, 312.

Romualdo di Ravenna, santo, 120-121. Roncalli, Angelo, v. Giovanni XXIII. Rosmini, Antonio, 334. Rossetti, Teodorico Pietrocola, 436. Rossum, Wilhelm van, cardinale, 532.

Porfirio di Tiro, 45.

Portalis, Jean-Etienne-Marie, 329. Prassea, 34. «Prete Gianni», 526.

Rosvita, 120. Rothmann, Bernardo, 253.

Proba, aristocratica romana, 86.

Proclo di Costantinopoli, 91.

Roubli (Reublin), Guglielmo, 251.

Prokopoviè, Feofan, 499, 501, 504. Proterio, patriarca di Alessandria, 93. Prudenzio, Aurelio Clemente, 65 e n,

Sabellio, 466.

Procopio di Cesarca, 91.

80 e n.

Pseudo-Macario, 476. Pseudo-Simeone, il Nuovo

475.

Quenstedt, Johannes

391

Sadoleto, Jacopo, 289.

Sahagun, Bernardîn Ribeira de, 527Teologo,

Andreas,

388,

Quesnel, Pasquier, 310.

Quirini, T., nobile veneziano, 285.

Rabaut-Saint-Etienne baut), 419.

Rousseau, Jean-Jacques, 412. Rufino, 58n, 71, 75.

(Jean-Paul

Ra-

Ragaz, Leonhard, 439-440, 445.

Raiser, Konrad, 580. Ramière, Henri, 345. Ranke, Otto, 405, 441.

Rauschenbusch, Walter, 440.

Reccaredo, re dei Visigoti, 464.

Regina di Saba, 205. Reimarus, Hermann Samuel, 6n, 416.

528. Salazar, Antonio de Oliveira, 529. Salomone, 205. Samarin, Jurij, 504.

Sangnier, Marc, 341, 347. Sangu, monsignore, 535n.

Sanna Solaro, G., gesuita, 345. Saravia, Adriano, 546.

Sarpi, Paolo, 297.

Sattler, Michele, 251-252. Scenute

90, 201.

(Shenute),

monaco

Schlegel, Friedrich von, 428. Schleicher, Rudiger, 448. Schleiermacher, Friedrich

Ernst, 406, 428430. Schmidt, Wilhelm, 533. Schopenhauer, Arthur, 505.

copto,

Daniel

600

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Schwartz, Eduard, 59n, 62n. Schweitzer, Albert, 405, 444-445. Schwenkfeld, Gaspare von, 256-257.

Segarelli, Gherardo, 153. Seklucian, Giovanni, 267. Semler, Johann Salomo, 415-416, 428.

Seneca, Lucio Anneo, 243, 245. Sergio, patriarca di Costantinopoli, , 468 Serveto, Michele, 249, 257. Settimio Severo, 32, 35. Severino, santo, 86. Severo, Gabriele, 495.

Spener, Philipp Jakob, 391-392, 403405, 546, 549. Speratus, Paul, 268.

Spinoza, Baruk, 411, 414. Stancaro, Francesco, 382.

Stefano I, papa, 44.

Stefano II, papa, 110. Stefano V, papa, 466. Stefano VI, papa, 116.

Seymour, William J., 422.

Stefano IX, papa, 122-123. Stefano di Muret, santo, 132-133. Strafford, Thomas Wentworth, principe di, 396. Strauss, David Friedrich, 492. Struve, Petr Bernardoviè, 506.

Sickingen, Franz von, 238.

Sulpicio Severo, 84n.

Severo d'Antiochia, 186, 188, 196, 201. Shenute, v. Scenute.

Sturzo, Luigi, 351.

Sidonio Apollinare, santo, 80, 84.

Sigismondo, imperatore, 482. Sigismondo II Augusto, re di Polonia, 267. Sigismondo III, re di Polonia, 267. Sil'vestr, redattore di Momostroj, 500.

Simeone, il Nuovo Teologo, 477.

Jean-Charles-Léonard

Syrigos, Melezio, 495. Szapolyai, Giovanni Sigismondo, 489. Tacito,

19n.

Publio

Cornelio,

6,

14n,

18,

Tai-Tsong, imperatore di Cina, 193.

Tamerlano, 184-189.

Tauber, Gaspare, 268.

Singh, Sundar, 558. smonde de, 434.

Swedenborg, Emanuel, 417.

Taddeo, apostolo, 195.

Simmaco, papa, 87. Simmaco, retore, 65. Simmaco, Quinto Aurelio, 86. Simon Mago, 26. Simon, Richard, 313.

Sismondi,

pia, 206.

Svetonio, Gaio Tranquillo, 18, 19n. Sylvester, Giovanni, 268.

Silvestro, papa, 59, 76. Silvestro II (Gerberto di Aurillac), papa, 120.

Siricio, papa, 77.

Susenyos, Seltan Saga, negus di Etio-

Si-

Taulero, Giovanni, 259, 392. Tausen, Giovanni, 269. Taylor, Hudson, 555. Taziano, apologeta, 21 e n, 27. Teissier, H., missionologo, 541.

Slipyj, Josyf, cardinale, 512.

Teoderico, re degli Ostrogoti, 80-81, 84, 87. Teodora, imperatrice d'Oriente, 95.

Socrate, 21, 243.

Teodoro, papa, 461.

Sisto III, papa, 77.

Sisto V, papa, 295, 297.

Teodoreto di Ciro, 58, 89, 95.

Smeman, Aleksandr, 506.

Socrate, storico della Chiesa, 58n.

Soderblom, Lars (Nathan), 571.

Olaf

Jonathan

Sokolowski, Stanislao, 488. Solov’èv, Vladimir Sergeeviè, 505-506.

Sopatro di Apamea, 73. Sozomeno, 58n. Sozzini, Fausto, 258. Sozzini, Lelio, 258. Spaventa, Silvio, 436.

Teodoro II, negus di Etiopia, 206. Teodoro Aschida, patriarca di Cesarea, 95. Teodoro di Harran, 463.

Teodoro di Mopsuestia, 62, 95, 186, 190, 196. Teodoro Graptos, 463. Teodoro Studita, 463. Teodosio I il Grande, imperatore,

47, 61, 66-67, 75-76, 459.

4,

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni Teodosio II, imperatore d'Oriente, 62, 71, 76, 89-90. Teofane, patriarca di Gerusalemme, 500. Teofane Graptos, 463.

Vadiano, Gioacchino, 240, 268.

Valdes, Juan de, 257, 271, 285.

Valdesio (Valdo) di Lione, 141-143. Valente, imperatore, 61, 74, 80.

Valentiniano I, imperatore, 61, 74-75.

Teofilatto di Ochrida, 115, 119, 467.

Valentiniano II, imperatore, 75.

Teofilo, missionario, 193.

Valentino, gnostico, 26, 30.

Teresa d’Avila, santa, 304.

Vasa, Gustavo, 270, 546.

Teofilo, imperatore d'Oriente, 463.

601

Valentiniano III, imperatore, 79.

.

Teofilo di Antiochia, 83. Terenzio, Afro Publio, 120.

Valeriano, imperatore, 42-43, 45, 56, 63.

Teresa di Lisieux, santa, 537.

Vasilij I di Mosca, 460. Veliékovskij, Paisij, 487, 501, 508. Venanzio, Fortunato, 84.

Tertulliano, Quinto Settimio Florenzio, 33-34, 36-37, 40-42, 44, 458. Tholuck, August, 427. Thompson, Th., missionario, 551. Thurneysen, Eduard, 446.

Tiberio, Claudio Nerone, imperatore, 6.

Tiberio II, imperatore d'Oriente, 95.

Tikon, patriarca di Mosca, 499, 512. Tillich, Paul, 450. Timoteo I, patriarca, 194.

Venn, Henry, 556.

Venn, John, 555. Vergerio, Pier Paolo, 271, 382. Vermigli, Pier Martire, 264, 271, 379, 382, 393. Vernazza, E., 284. Viesseux, J.P., 434. Vigilio, papa, 95. Vincenzo de’ Paoli, 302, 321.

Vinet, Alexandre, 426.

Tindal, Matthew, 413. Tiridate III di Armenia, 195. Tomko, Jozef, cardinale, 54].

Viret, Pietro, 220, 240-241.

Virgilio, 73.

Tommaso, apostolo, 193, 524.

Tommaso d'Aquino, santo, 149, 229.

Tommaso da Kempis, 392. Tommaso di York, 149.

Toland, John, 413. Traiano, imperatore, 19, 36. Trevor-Roper, Hugh R., 305. Trilles, missionologo, 583.

Visser ’t Hooft, W.A., 573. Vitoria, 527. Vittore, papa, 31. Vittorio Amedeo II, 403.

Voetius (Gijshert Voet), 388.

Vogelsang, Karl von, 338.

Voltaire,

412.

Troeltsch, Ernst, 225, 442.

Francois-Marie-Arouet

Trubar, Primo, 269.

Walaus, Antonio, 549,

Tyndale, William, 263. Tyrrel, George, 347.

Walpot (Walbot), Pietro, 258.

Wallenstein, Albrecht von, 384.

Turrettini, Francesco, 395.

Ugo di Farfa, 119-120. Umberto di Silvacandida, 474. Urbano II, papa, 128, 469.

de,

Ward, Guglielmo, 553. Weber, Max, 399-400. 468-469,

Urbano V, papa, 160, 481. Urbano VI, papa, 166.

Urbano VIII, papa, 303, 307. Ursino, antipapa, 77. Ursinus, Zacharias, 267.

Vachtang I, re di Georgia, 198.

Weigel, Valentino, 259. Wellhausen, Julius, 4n.

Wellington, Arthur Wallesley, duca di,

435.

Welz, Giustiniano von, 546.

Wesley (famiglia), 407-409.

Wesley, Charles, 407-408.

Wesley, John, 406410, 421, 552.

Wesley, Samuel, 407... Whitefield, George, 407, 410, 421. Wichern, Johann Hinrich, 439.

602

Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

Wietinghoff, Juliane von Krùdener, 425.

de,

baronessa

Wilberforce, William, 555. Williams, George, 567. Williams, Roger, 399.

Winstanley, Gerrard, 397-398. Wolmar, Melchiorre, 245. Wolff, Christian, 414-416. Wulfila, 81.

Wyclif, John, 168, 263.

Wyntrith, Bonifacio, 110.

Yahballaha II, 193.

Yannaras, Christos, 508.

Yishaq Luria, v. Luria, Yishaq.

Zaccaria, papa, 110-111. Zanchi, Girolamo, 271, 382, 393. Zar’a Yà'gob, 205.

Zell, Matteo, 219. Zenone, imperatore, 80, 89, 93, 95.

Ziegenbalg, Bartolomeo, 550. Zimisce, Giovanni, 473.

Zinzendorf, Nikolaus Ludwig, conte di, 405-406, 408, 551-552, 565.

Zizioulas, Johannes, 508.

Zosimo, papa, 77.

Zosimo, storico, 65, 75. Zwingli, Ulrico, 217-219, 221-223, 225, 235-256, 240-246, 251-252, 254, 266, 273,378, 387, 390, 395, 545.

Indice dei testi e dei miti

Ad abolendam, 141. Ad beatissimi, 349. Ad gentes, 362, 535.

Atti di Giustino, 27.

Aeterni Patris, 347, 505. Alfabeto (Trubar), 269. Alfabeto Cristiano (Valdés), 271. Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca

Atto di supremazia, 261.

Admonitio (Heurnius), 548.

(Lutero), 218.

Amica exegesis (Zwingli), 236. Antico Testamento, 4, 8, 17, 22-23, 2930, 35, 39, 45, 48, 236, 387-388, 442443, 545, 569. Apocalisse di Giovanni, vm, 17, 26, 30, 34-35, 424. Apocrifi del Nuovo Testamento, 22.

Apologia (di Augusta), 377. Articoli di Schleitheim, 252. Articoli di Smalcalda, 230, 239, 378.

Articoli di Wittenberg, 263.

Articoli organici, 329, 418, 434.

Ascensione di Isaia, 15.

Assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni (L’) (Troeltsch), 442. Atti degli apostoli, 10 e n, 12, 17,30, 138, 252, 524. Atti dei martiri, 27. Atti dei martiri di Lione, 28. Atti dei martiri scillitani, 27. Atti del concilio Lateranense, 461. Atti del Sinodo di Berna, 240. Atti di Carpo, 27.

Atto di limitazione, 261. Atto di proibizione, 261. Atto di sottomissione, 261. Beneficio di Cristo (Benedetto da Mantova), 269, 271, 285. Bibbia, 39-40, 81, 195, 216, 228-229, 235, 237, 245, 248, 253, 257, 263, 267, 269, 291, 296, 314, 316, 379, 388, 389 e n, 394, 404, 415, 419, 421422, 424, 427-428, 436, 440, 444-447, 515, 524, 545, 550, 553. Bishop's Book, 263. Book of Common Order, 270.

Book of Common Prayer (Prayer Book), 264 Book of Discipline, 270. Book of Sports, 395.

Breve presentazione dello studio della teologia (Schleiermacher), 429.

Briciole di filosofia (Kierkegaard), 433. Cahiers des Catechismo Catechismo Catechismo Catechismo Catechismo

doléances (1789), 324. (P. Mogilà), 495. (Trubar), 269. di Heidelberg, 267, 275. di Rakov (F. Sozzini), 258. Romano, 275.

Catechismo tedesco (Lutero),

Catechismo.

v. Grande

604 Cento

Indice dei testi e dei miti e

dieci

divine

considerazioni

(Valdés), 271. Chi provoca la rivolta (Zwingli), 244.

Chronica,

libro del tempo,

(Franck), 256.

Bibbia storica

Dei Filius, 336. Dei Verbum, 361.

Della fede apparente (Muntzer), 233.

De potestate et primatu papae (Melantone), 377.

Cinquantasette punti ecclesiastici (P. Leo

De regno Christi (Bucero), 219.

Cinque articoli, 258.

Didachè, 15, 20. Dieci articoli, 263. Disciplina ecclesiastica, 265. Discorsi sulla religione, alle persone colle tra

poldo), 323.

Codice Teodosiano, 66n, 72n, 74, 75n, 76. Coelestis Hierusalem, 303, 307. Colossesi, Lettera ai, 17, 390. Commentarius de vera et falsa religione (Zwingli), 219, 387. Commento ai Salmi (Zwingli), 246. Concordia di Wittenberg, 237. Confessio Augustana, 222, 239, 269, 377,

391.

Confessio Belgica, 266. Confessio Confessio Oriente Confessio 495.

Bohemica, 268. catholicae et apostolicae în Ecclesiae (Kritòpoulos), 492. fidei (Cirillo Loùkaris), 493-

Confessio Helvetica Prior (Prima),

379.

240,

Confessio Helvetica Posterior (Seconda),

275, 379.

Confessio Hungarica, 268.

Confessio Scotica, 270. Confessio Tetrapolitana, 219, 222. Confessione di Dositeo, 496497. Confessione di fede (gallicana), 265. Confutazione ben fondata (Muntzer), 233.

Consensus Tigurinus, 248, 379. Constitutum Constantini, 498.

Contro le bande ladre ed assassine dei contadini (Lutero), 233.

Contro il papato romano (Lutero), 230.

Contro i profeti celesti, a proposito delle im-

magini e del sacramento (Lutero), 232. Ie ll Corinzi, Lettere ai, 11, 16.

Corpus iuris canonici, 159. Credo apostolico, 570.

Credo Niceno-Costantinopolitano, 466, 468, 481, 483, 570. Cum nimis absurdum, 288. Daniele, 27, 35, 45. Decreto di Graziano, 126.

i detrattori di essa (Schleiermacher),

428-429. Discorso all'assemblea dei santi, 73.

Disputa contro la teologia scolastica (Lu-

tero), 229. Disputa di Heidelberg (Lutero), 229. Diuturnum, 342. Dizionano storico e critico (Bayle), 131.

Dobrotoljubie, 502. 12 articoli, 232.

Dottrina morale della Sacra Scrittura (Mosheim), 414.

Ebrei, Lettera agli, 17, 229. Efesini, Lettera agli, 17.

Encheiridion (Angelos), 492. Enchiridion (Lutero), v. Piccolo Catechi-

smo.

Esortazione alla pace (Lutero), 233.

Esortazioni ai Confederati (Zwingli), 244. Esplicita messa a nudo (Mintzer), 233, Essenza del cristianesimo (L') (Harnack),

443444. Ethica pastorum (Quenstedt), 391.

Etica protestante e lo spirito del capitalismo

(L’) (Weber), 399. Evangelii nuntiandi, 539. Evangelo e la chiesa (L') (Loisy), 444.

Ex quo singularis, 531.

Fede cristiana secondo i principi della chiesa evangelica (La) (Schlciermacher),

464,

429

Fidei

ratio

ad

(Zwingli), 222.

Carolum

Filemone, Lettera a, 16.

imperatorem

Filippesi, Lettera ai, 16. Filocalia dei Padri neptici, 502.

605

Indice dei testi e dei miti Foi et constitution, 573. Formula di concordia, 274, 377, 392. Formula di consenso, 389, 395.

Frammenti di un Anonimo, 416.

Galati, Lattera ai, 11, 16, 229, 408. Gaudet mater ecclesia, 359.

Gaudium et spes, 362.

Giacomo, Lettera di, 1'7. I-II Giovanni, Lettere di, 17. Giuda, Lettera di, 17, Giustizia divina e giustizia umana (Zwingli), 244. Grande catechismo (Lutero), 237, 378, 494. Grande Libro degli Articoti (Walpot), 258. Graves de communi, 340.

Guida spirituale (De Molinos), 312. Haec sancta, 282.

Historia Augusta, 32.

Humani generis, 357.

Immensa aeterni, 295. Immoriale Dei, 342.

Indagine sull'obbligo dei cristiani di prendere a cuore la conversione dei pagani (Un’) (Carey), 553.

Inter coetera, 527.

Manuale di storia dei dogmi (Harnack),

443. Marcione.

L'evangelo del dio straniero

(Harnack),

Martirio di Policarpo, 28. Mater et magistra, 358. Maximum illud, 532.

i

Ministero della predicazione (N) (Zwingli), 245. Mirari vos, 334. Mii brennender Sorge, 353. Montalium animos, 576, 578. Mystici corporis, 357, 577. Nathan il saggio, 416.

Ne nimia religionum diversitas, 149. Nobis et nobiscum, 338. Nostra aetate, 362.

95 Tesi sul valore delle indulgenze (Lutero), 229, Novus ordo missae, 346, 364. Nuovo Testamento, 3, 12, 17, 22, 2930, 35, 45, 223, 234, 242, 268-270, 387, 405, 423-424, 442, 449, 569. Octogesima adveniens, 364.

Odi di Salomone, 26. Ordonnances ecclésiastiques 221, 247.

(Calvino),

Orthodoxa confessio fidei (P. Mogilà),

Interim di Augusta, 240, 248.

Interim di Lipsia, 240. Isaia, 7.

Istituzione della religione cristiana (Calvino), 220, 246, 267, 387.

495-497, 500. Osservazioni sulla morale cattolica (Manzoni), 434. Pacem in lers, 358.

Libellus ad Leonem X, 285-286.

Papato di Roma (Il) (Lutero), 218, 230. Paradoxa (Franck), 256. Pascendi, 347. Pastor aeternus, 336-337. Pastore (Il) (Zwingli), 245. Per la civiltà cristiana, 354.

Lumen gentiura, 361.

Piano per una campagna militare (Zwingli), 244. Piccolo catechismo (Lutero), 237, 269, 378. Piccolo trattato sulla S. Cena (Calvino), 248. I e Il Pietro, Lettere di, 17.

Manifesto di Praga (Mintzer), 233.

Postille (Arndi), 404.

Lettera al cardinale Sadoleto

248.

(Calvino),

Lettera al re (Calvino), 265.

Lettera di Barnaba, 22. Lettera sulla tolleranza (Locke), 413. Libero arbitrio (Erasmo), 233. Libertà del cristiano (La) (Lutero), 232, 237. Libri Carolini, 463464. Libro dei miracoli (Il) (Simons), 255. Libro di concordia, 274, 378. Loci communes (Melantone), 218, 287.

Pia desideria (Spener), 404.

Papulorum progressio, 364, 536.

606

Indice dei testi e dei miti

Predica ai principi (Miùntzer), 233. Preludio sulla cattività babilonese della Chiesa (Lutero), 218. Problema della democrazia (Il), 354. Proclama ai ciltadini di Allstedt (Muntzer), 233.

Professio fidei tridentina, 275. Proverbi, 48. Providentissimus Deus, 347. Provvidenza di Dio (La) (Zwingli), 243. «Quadrilatero di Lambeth», 569-570.

42 articoli, 263. Quas primas, 345.

ì

Quod aliquantum, 325.

Ragionevolezza esposta

del

cristianesimo

nelle Scritture

(La)

com'è

(Locke),

412. Redemptoris missio, 540, 541 e n, 542n. Regnans in excelsis, 264. Regolamento ecclesiastico, 499.

Regula Augustini, 71, 132, 146. Regulae Patrum, 71.

Relationes, 534n.

Religion

in

Geschichte

Spiegazione e motivazione delle tesi (7.win-

gli), 218. Stazioni sulla via della libertà (Bonhoeffer), 448.

Storia della letteratura cristiana antica fino ad Eusebio (Harnack), 443. Storia della ricerca sulla vita di Gesù (Schweitzer), 444. Storia del Vecchio Testamento (R. Simon), 313. Storia imparziale delle chiese e degli eretici (Arnold), 405. Sugli Ebrei e le loro menzogne (Lutero),

236. Sugli eretici (...) (Castiglione), 249. Sulla autorità secolare (Lutero), 233.

Sulla Cena di Cristo. Confessione (Lute-

ro), 236. Sulla chiarezza e certezza della parola di Dio (Zwingli), 245.

Summus pontificatus, 533. Teologia sistematica (Tillich), 450. le Il Tessalonicensi, Lettere ai, 16-17. Ie Il Timoteo, Lettere a, 17.

und

genwart (lessico), 442. Religionum diversitatem nimiam, 149. Remonstrantia, 393. Rerum ecclesiae, 532n. Rerum novarum, 339.

Ge-

Resistenza e resa (Bonhoeffer), 448. Romani, Lettera ai, 16-17, 229, 408, 445.

Tito, Lettera a, 17. Tomus Leonis, 78. Traditio apostolica, 33.

Tredici articoli (1538), 263.

Trenta dialoghi (Ochino), 258.

39 articoli della chiesa anglicana,

264, 381.

263-

Typikon di Giovanni Zimisce, 473. Ultimi giorni di Hutten (Gli) (Meyer),

Sacra Scrittura, v. Bibbia.

227.

Sacrosanctum concilium, 361.

Unitatis redintegratio, 362, 577.

Saepenumero, 347.

Vangelo di Giovanni, 16, 33, 35, 234, 243. Vangelo di Luca, 6n, 16, 443.

Sacrum commercium, 146. Salmi, 229.

Salvator noster, 159.

Sei articoli, 263. Servo arbitrio (II) (Lutero), 233. Sillabo (1864), 335.

Vangelo di Marco, Gn, 16, 443.

Vangelo di Matteo, 16, 443.

Vero cristianesimo (Il) (Armdt), 392.

Singulari quidam, 341.

Solida declaratio, 377. Sommaire et brève déclaration 220, 241.

Vero modo di riformare la chiesa (Calvi(Farel),

Specchio delle anime semplici (Le mirouer

des simples ames...) (M. Porete), 155,

312.

no), 248. Veterum sapientia, 358. Viaggio del pellegrino (IN) (Bunyan), 398. Vita comune (La) (Bonhoeffer), 447.

Vita di Gesù (Strauss), 432. Vulgata, 291, 294, 813.

Indice delle cartine

La Palestina al tempo di Gesù

5

Viaggi di san Paolo e presenza cristiana nei secoli I e II

13

Organizzazione ecclesiastica sotto Giustiniano

94

La divisione della cristianità dopo la Riforma

260

Le chiese ortodosse attuali

507

Le missioni cattoliche e protestanti fino all’inizio del XX secolo

530

La diffusione del cristianesimo oggi

579

Indice del volume

1. Premessa 2. La predicazione di Gesù 3. La prima diffusione del cristianesimo

09 00

Dalle origini al concilio di Nicea di Giorgio fossa

VI

da

di Giovanni Filoramo

0

Prefazione

1. La comunità primitiva di Gerusalemme, p. 9 - 2. Paolo, p. 10 3. Le prime comunità cristiane, p. 12

4. Il Nuovo Testamento

15

5. L'impatto con la cultura pagana

17

6. Il rapporto col giudaismo

22

7. Nuove forme di spiritualità

24

8. Sviluppi liturgici e dottrinali

32

9. Le persecuzioni di Decio e Valeriano

40

10. Problemi disciplinari e teologici

43

1. 1 primi rapporti con l'impero romano, p. 17 - 2. La reazione pagana, p. 18 - 3. L’apologetica, p. 19

1. La diffusione delle religioni orientali e lo gnosticismo, p. 24 2. Montanisti ed encratiti. Gli «Atti dei martiri» e la critica di Celso, p. 26 - 3. Ireneo di Lione, p. 29 1. Lo sviluppo del culto e la comparsa del monarchianismo, p.- 32 - 2. Ippolito e Tertulliano, p. 35 - 3. I teologi alessandrini, p. 37

610

Indice del volume

11. Gli ultimi attacchi alla religione cristiana

44

12. Costantino e

46

il concilio di Nicea

Bibliografia

49

Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno di Salvatore Pricoco

55

I. La chiesa imperiale: da Nicea a Calcedonia

55

1. Il volto nuovo del cristianesimo, p. 55 - 2. La nuova società cristiana, p. 63 - 3. Stato e chiesa, p. 71

II. Da Calcedonia a Gregorio Magno

78

4. L'Occidente, p. 78 - 5. L’Oriente, p. 89

Bibliografia Il cristianesimo

96 medievale

in

Occidente

di Grado

Gio-

vanni Merlo

105

1. Introduzione

105

2. Orientamenti occidentali del cristianesimo

e fondazione dell’Europa cattolico-romana

107

3. Una chiesa in mano ai laici?

114

4. La riforma dell'XI secolo: verso la monarchia pontificia

120

5. L'espansione della cattolicità romana: mito del pelle grinaggio, desiderio di martirio, violenza conquistatrice

127

6. Trionfo e crisi di monasteri e canoniche regolari

131

7. Tramonto del radicalismo patarinico, fascino del pauperismo evangelico, repressione antiereticale

138

8. AI di là dei modelli monastici e canonicali: gli ordini religiosi «mendicanti»

144

9. Conformismo religioso, interiorizzazione spirituale e sogni escatologici

151

10. Inquadramento ecclesiastico nel basso Medioevo: tra centro e periferia

156

11. Monarchia pontificia, pluralità di papi, chiese nazionali

163

Bibliografia

170

Indice del volume

611

Le chiese orientali di Lorenzo Perrone

173

I. Panoramica generale e aspetti di comparazione

1. Un ramo distinto della tradizione cristiana: problemi di defi-

173

nizione, p. 173 - 2. Fenomeni di frammentazione ecclesiale ed elementi a carattere unificante, p. 177

II. Le cristianità nazionali

3. Cristianesimo siriaco, p. 185 - 4. Le cristianità del Caucaso: Armenia e Georgia, p. 194 - 5. Cristianesimo africano: le chiese di Egitto, Nubia ed Etiopia, p. 199 Bibliografia

207

La Riforma protestante (1517-1580)

di Paolo Ricca

215

1. La Riforma in Europa: considerazioni generali e tratti

salienti

2. Lutero 1. Lutero scolastica: 4. Lutero

185

215

e il luteranesimo e la Bibbia: l’Evangelo, p. 228 - 2. Lutero e la teologia la croce, p. 229 - 3. Lutero e il papa: la chiesa, p. 230 e Carlostadio: lo Spirito, p. 231- 5. Lutero e Muntzer:

227

la politica, p. 232- 6. Lutero ed Erasmo: la libertà, p. 233- 7. Lu-

cero e Zwingli: la separazione, p. 235- 8. Le altre tappe, p. 236 9. Nascita e primi sviluppi della «chiesa evangelica», p. 558

3. Zwingli e i riformati. Calvino

240

4. Gli anabattisti

250

5. Altri dissidenti

255

6. La Riforma in Inghilterra

261

7. La Riforma negli altri paesi europei. Suoi sviluppi fino al 1580

265

8. Conclusione

272

1. Zurigo, p. 241 - 2. Giovanni Calvino, p. 245

Bibliografia Il cattolicesimo dal concilio di Daniele Menozzi

275 di Trento

al Vaticano

II

Premessa 1. Dai movimenti di riforma ecclesiale al concilio di Trento 1. Le varie declinazioni di un’aspirazione alla riforma «in capite et in membris», p. 282 - 2. Le deliberazioni tridentine, p. 289

281 281 282

612

Indice del volume

2. L'applicazione romana del Tridentino

294

3. La crisi della Controriforma

307

1. La ristrutturazione del governo centrale della chiesa, p. 294 2. Ruolo dell'episcopato e dei nuovi ordini religiosi, p. 298 3. Santità e pietà barocca, p. 303 1. Giansenismo, gallicanesimo, quietismo; critica storica, p. 307 -

2. Alla ricerca di una «religione illuminata», ‘p. 314- 3. mismo ecclesiastico dei sovrani assoluti, p. 319

I rifor-

4. L'età rivoluzionaria

324

5. Tra secolarizzazione e ritorno alla «societas christiana»

331

6. Nella crisi del mondo contemporaneo

346

1. Dalla «democrazia cristiana» alla scristianizzazione, p. 324 2. Il fallimento della normalizzazione napoleonica, p. 328 1. Nostalgici dell’«ancien régime», intransigenti e cattolici liberali, p. 331 - 2. Il concilio Vaticano I, p. 335 - 3. Chiesa e questione sociale, p. 337 - 4. La politicizzazione della devozione, p. 342 1. Il modernismo, p. 346 - 2. L'accordo coi fascismi, p. 350 - 3. Civiltà cristiana e civiltà occidentale, p. 354

7. La svolta conciliare

358

Bibliografia

366

1. Programma giovanneo e decisioni dell'assemblea, p. 358 - 2. Le diverse anime del post-concilio, p. 362

Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri di Fulvio Ferrario

377

1. Il protestantesimo alla fine del XVI secolo

377

2. Il quadro politico-religioso del Seicento: la guerra dei Trent'anni

382

3. L'epoca delle «ortodossie»

386

4. L'epopea puritana

395

5. Il protestantesimo in Francia e in Italia

400

6. Il pietismo

403

‘7. II metodismo

407

8. Razionalismo e illuminismo

411

9. I movimenti di «risveglio»

419

10. L'età del Romanticismo e dell'Idealismo

428

11. L'Ottocento

433

in Italia

Indice del volume 12. Protestantesimo, questione sociale, movimento

raio

613 ope-

438

13. La teologia tedesca dell'età guglielmina

441

14. Bibbia e storia nel protestantesimo del Novecento

445

15. In luogo di una conclusione

450

Bibliografia

La chiesa ortodossa di Cesare Alzati 1. Alle origini dell'identità ecclesiale ortodossa 2. I dibattiti dogmatici, tra istituzione e dottrina: l’icono-

451

457 457

clasmo

460

3. Il patriarca Fozio e l’autocoscienza ecclesiale dell’ortodossia

464

4. La fine della comunione con l'Occidente latino

467

5. Il monachesimo athonita e la questione esicastica

472

6. Costantinopoli tra latinismo e turcocrazia

480

7. La grande chiesa nella «Casa dell’Islam»

484

8. La testimonianza ortodossa di fronte a Riforma protestante e cattolicesimo post-tridentino

488

9. La complessa identità dell’ortodossia russa

497

10. La testimonianza ortodossa nell’età delle ideologie

508

11. Tra passato e futuro

513

Bibliografia

Le missioni cattoliche di Jacques Gadille 1. Premessa

517

523 523

2. Missioni «ante litteram»: la prima espansione del cri-

stianesimo nel mondo antico, nella tarda antichità e nel

Medioevo

3. La scoperta del nuovo mondo: le missioni «organizzate» dal XVI alla prima metà del XX secolo 1. Organizzazione della missione moderna, p. 527 - 2. Tappe geografiche, p. 528 - 3. Persistenza delle condizioni politiche della missione, p. 529 - 4. Incontro di culture, p. 531 - 5. Evoluzione della teologia della missione: le scienze della missione, p. 532

524 527

614

Indice del volume 4. Dopo

il concilio Vaticano II (1962-1965):

1. Nuove

linee di tendenza,

ni delle chiese alla missione della chiesa

dalle missio-

p- 535 - 3. L'evoluzione degli ultimi trent'anni. L'impulso no, p. 536 - La «diaspora» missionaria dei monaci, p. 537 teologie del Terzo Mondo, p. 538 - 6. Due nuovi concetti: turazione e nuova evangelizzazione, p. 539 - 7. Una nuova buzione assegnata: missione ed ecumenismo, p. 541

roma- 5. Le inculdistri-

542 543

5. Conclusione

Bibliografia

Le missioni protestanti di Paolo Ricca 1. Premessa 2. «Il nome di Cristo e gli interessi della Compagnia» 3. I cinque princìpi della missione di Tranquebar 4. Società missionarie e «giovani chiese» 5. La nuova missione Bibliografia Il movimento ecumenico di Paolo Ricca 1. Introduzione

2. Premesse e promesse 3. Da Edimburgo

534

p. 534 - 2. La svolta del concilio,

(1910) ad Amsterdam

(1948)

4. L’ecumenismo del Consiglio ecumenico 5. L'ecumenismo cattolico 6. Domani Bibliografia

545 545 548 549 554 557 562 563 563 566 570 573 576 578 582

Indice delle divinità, personaggi mitologici ed eroi

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Indice dei nomi di personaggi storici, autori antichi e moderni

587

Indice dei testi e dei miti Indice delle cartine

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