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Italian Pages 61 [76] Year 2018
Gabriele Pulli
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA L IGUORI E DITORE
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BIBLIOTECA
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Inconscio e cultura 31
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Collana fondata da Aldo Carotenuto
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Gabriele Pulli
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Contraddizione e follia
Liguori Editore
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Questo libro è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università di Salerno
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INDICE
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1 Contraddizione visibile e invisibile 19 Inquietudine e domanda di senso 39 Senso e insensatezza 57 Bibliografia
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Un nuovo pericolo stava minacciando questo mondo: quello di un’invasione sorda che arrivava dall’interno e, per così dire, da una fessura segreta della terra; l’invasione dell’Insensato. Michel Foucault Al bisogno di essere incluso in un senso, si avvicenda nell’uomo quello di essere libero dal senso. Roberto Caracci
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CONTRADDIZIONE VISIBILE E INVISIBILE
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I 1. «Il meccanismo patologico è […] protezione contro un conflitto, […] difesa contro la contraddizione che il conflitto suscita»1. In questo passo del libro di Michel Foucault Malattia mentale e psicologia, il problema della patologia psichica si presenta come il problema della contraddizione. La patologia è una difesa dalla contraddizione suscitata da un conflitto, dalla coesistenza in uno stesso soggetto di due tendenze contrapposte. E consiste nel «compromesso tra [tali] […] tendenze contraddittorie»2, il quale è «un modo di dominare»3 il conflitto stesso. Foucault riprende da Anna Freud l’esempio di una bambina che ruba una barra di cioccolato in un modo tale da venire immediatamente scoperta. Egli osserva come la bambina soddisfi così, contemporaneamente, due opposte tendenze, «da una parte il desiderio di riconquistare l’affetto materno che le è negato, e il cui simbolo, come capita spesso, è […] l’oggetto alimentare; e dall’altra l’insieme delle reazioni di colpa che seguono lo sforzo aggressivo per captare l’affetto materno»4. Il comportamento patologico compone dunque in unità due tendenze opposte, facendo scomparire, appunto in tale unità, la loro contraddizione.
1 M. Foucault, Maladie mentale et psychologie, Presses Universitarie de France, Paris 1962 (versione modificata di Maladie mentale et personnalité, Presses Universitaire de France, Paris 1954), p. 47, tr. it. di F. Polidori, Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 45. 2 Ibidem. 3 Ibidem. 4 Ivi, pp. 46-7, tr. it. p. 44; cfr. A. Freud, The Psycho-Analytical Treatment of Children, Anna Freud 1945, tr. it. dello Studio editoriale Poligramma, Il trattamento psicoanalitico dei bambini, Bollati Boringhieri, Torino 1972.
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
2. «Ma – soggiunge Foucault – non ogni conflitto provoca una reazione morbosa, e la tensione che esso fa nascere non è necessariamente patologica; probabilmente è la trama stessa di ogni vita psicologica»5. Nessuna vita è al riparo dai conflitti. E dunque non tutti i conflitti danno luogo a una patologia. C’è dunque una reazione patologica e una reazione fisiologica ai conflitti. E la differenza sta nei rispettivi effetti: «il compromesso [nevrotico], lungi dall’essere una soluzione, è in ultima istanza un acuirsi del conflitto»6. La reazione patologica a un conflitto acuisce il conflitto, e la sua patologia sta appunto in questo: è tutta racchiusa in questo determinare l’aggravarsi del conflitto con l’atto stesso del cercare di eliminarlo. Poco oltre, Foucault osserva: «La contraddizione patologica non è il conflitto normale; quest’ultimo lacera la vita affettiva del soggetto dall’esterno; suscita in lui condotte opposte, le fa oscillare; provoca azioni, poi fa nascere rimorsi; può accentuare la contraddizione fino all’incoerenza. Ma la normale incoerenza è, a stretto rigore, differente dalla assurdità patologica. Quest’ultima è animata interiormente dalla contraddizione»7. Anche la reazione fisiologica a un conflitto può accentuare la contraddizione, «fino all’incoerenza», ma non nel tentativo di eliminarla. Per questo non è assurda, a differenza della reazione patologica, per questo è una «normale incoerenza» e non una «assurdità patologica». Il conflitto fisiologico è caratterizzato cioè da una contraddizione esterna, quello patologico da una contraddizione interna. Laddove la contraddizione esterna è il contrapposi di due istanze ciascuna delle quali non si coniuga in alcun modo con l’altra, ma si mantiene appunto all’esterno dell’altra. Sicché se la contraddizione può accentuarsi «fino all’incoerenza», ciò avviene in quanto accentuandosi si manifesta più chiaramente. La contraddizione interna è invece una contraddizione che si rende invisibile appunto con l’atto del divenire interna, una contraddizione che scompare non in quanto superata ma in quanto occultata, nascosta dietro una perfetta coerenza: «la coerenza del 5 6 7
M. Foucault, op. cit., p. 47, tr. it. p. 45. Ibidem. Ivi, p. 48, tr. it. ibidem.
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CONTRADDIZIONE VISIBILE E INVISIBILE
geloso nel convincere la moglie di essergli infedele è perfetta; così come è perfetta la coerenza dell’ossessivo nelle precauzioni che prende. Ma questa coerenza è assurda perché, sviluppandosi, acuisce la contraddizione che vorrebbe superare»8. L’assurdità sta appunto nell’acuire ciò a cui ci si vorrebbe sottrarre. E si deve pensare che la contraddizione si acuisca proprio a causa del suo occultamento, proprio perché, una volta occultata, essa può agire indisturbata e dunque, appunto, acuirsi. Se il comportamento patologico fa scomparire la contraddizione fra due tendenze opposte, la fa dunque scomparire non superandola ma solo occultandola. La differenza fra contraddizione esterna e contraddizione interna è dunque la differenza fra una contraddizione visibile e una contraddizione invisibile: fra una contraddizione che, in quanto esterna, è immediatamente visibile e una contraddizione che, ritirandosi dall’esterno all’interno, si rende invisibile. E le patologie si caratterizzano per il confluire di due intenzioni opposte in una stessa condotta. Per questo, in ragione di tale confluenza in un’unica condotta, in esse la contraddizione non appare più. La contraddizione interna è cioè una contraddizione fagocitata dal compromesso fra le due istanze opposte, compromesso che appare come una vera e propria fusione fra tali istanze. Laddove ciò che in tal modo si fonde non è il contenuto delle due istanze opposte ma la loro soddisfazione. È per questo che la contraddizione non viene eliminata ma solo occultata. Nel caso della bambina che ruba la barra di cioccolato, il desiderio di riconquistare l’affetto negato non fa alcun passo in direzione di un’eventuale conciliazione con le reazioni di colpa che seguono lo «sforzo aggressivo» connesso a tale riconquista. La bambina non fa niente per conciliare queste due tendenze. Le due tendenze trovano una condotta in grado di soddisfarle entrambe lasciando del tutto irrisolto il problema della loro conciliabilità. Anzi aggravandolo. E aggravandolo proprio in ragione della loro contemporanea soddisfazione. Ciò è ancor più evidente in un esempio che Foucault riprende questa volta da Sigmund Freud: «quando una paziente di Freud 8
Ibidem, tr. it. pp. 45-6.
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
elimina dalla stanza […] tutte le pendole e tutti gli orologi […] si difende dai suoi desideri sessuali e allo stesso tempo li soddisfa miticamente […]: mentre soddisfa i suoi desideri in maniera magica, accresce realmente i suoi sensi di colpa»9. La tendenza ad appagare i desideri sessuali e la tendenza a difendersi da essi coesistono l’una di fronte all’altra senza tuttavia influenzarsi reciprocamente. La condotta che appaga il desiderio sessuale attraverso un suo sostituto simbolico, per il fatto stesso di appagarlo, sia pure simbolicamente, accresce la tendenza opposta a difendersene, che si manifesta come senso di colpa. Foucault riassume la sua ricostruzione in una formula: «l’individuo normale fa l’esperienza della contraddizione, il malato fa un’esperienza contraddittoria […]. In altre parole: conflitto normale, ovvero ambiguità della situazione; conflitto patologico, ovvero ambivalenza dell’esperienza»10. Il malato non fa esperienza della contraddizione, fa un’esperienza in cui la contraddizione, in quanto occultata, non è esperita. Tuttavia tale esperienza è contraddittoria. Proprio perché ciò che scompare nella patologia non è la contraddizione ma solo la sua percezione.
9 Ibidem, tr. it. p. 46. Cfr. S. Freud (1915-17), Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, in Gesammelte Werke (GW), Imago, London, 1940-52, vol. XI, p. 271 e segg., tr. it. di M Tonin Dogana ed E. Sagittario, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere di Sigmund Freud (OSF), Bollati Boringhieri, Torino 1967-80, vol. VIII, p. 426 e segg. 10 M. Foucault, op. cit., p. 48, tr. it. p. 46.
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II 1. Tale presenza della contraddizione in assenza della sua percezione produce l’effetto dell’angoscia: «l’angoscia è la dimensione affettiva della contraddizione interna»11. La presenza nella vita psichica di una contraddizione non riconosciuta come tale si manifesta cioè nell’angoscia: l’angoscia è la «prova psicologica della contraddizione interiore»12. Ma se la fuga tramite occultamento dalla contraddizione produce angoscia, l’angoscia è a propria volta ciò da cui si è portati a fuggire più di qualsiasi altra cosa. Si determina così un’ulteriore fuga, la fuga – appunto – dall’angoscia: «Sotto la […] spinta latente [dell’angoscia] si sono costruiti i meccanismi di difesa, che ripetono lungo il corso di una vita i loro riti, le loro precauzioni, le loro rigide operazioni ogni qual volta l’angoscia minaccia di ricomparire»13. Ma, al pari di quanto accade alla fuga dalla contraddizione, anche l’atto del fuggire dall’angoscia produce l’effetto dell’acuirla: «La malattia procede […] secondo un circolo vizioso: il malato si protegge con gli attuali meccanismi di difesa da un passato la cui presenza segreta fa insorgere l’angoscia; ma d’altro canto, contro l’eventualità di una angoscia attuale, il soggetto si difende ricorrendo a protezioni da tempo instauratesi nel corso di situazioni analoghe»14, sicché «il malato vive la propria angoscia e i propri meccanismi di difesa all’interno di una circolarità che lo porta a difendersi dall’angoscia per mezzo di meccanismi che sono 11 12 13 14
Ibidem. Ivi, p. 49, tr. it. p. 47. Ibidem. Ivi, p. 50, tr. it. pp. 47-8.
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collegati a essa storicamente; per questo motivo la amplificano ulteriormente»15. 2. Anche l’angoscia è dunque soggetta a quel circolo vizioso che Foucault aveva segnalato a proposito della contraddizione. Se «la si ritrova sotto la trama tutti gli episodi patologici di un soggetto», tuttavia «tali episodi hanno potuto verificarsi […] perché l’angoscia vi era già presente»16. L’angoscia pre-esiste agli episodi patologici. Ed è essa stessa a determinarli, a distinguere il modo patologico di vivere una contraddizione da quello fisiologico: «Affinché una contraddizione sia vissuta nei termini ansiosi dell’ambivalenza, affinché in occasione di un conflitto un soggetto si blocchi all’interno della circolarità dei meccanismi patologici di difesa, è necessario che l’angoscia sia già presente e abbia trasformato l’ambiguità della situazione in ambivalenza di reazioni»17. È l’angoscia che trasforma la «ambiguità della situazione» in «ambivalenza di reazioni». È dunque l’angoscia a dare luogo a una condotta che non fa percepire la contraddizione soddisfacendo entrambe le tendenze contrapposte in gioco: a trasformare la contraddizione da esterna a interna. In principio c’è dunque l’angoscia, che «è come un a priori dell’esistenza»18: l’«elemento morboso ultimo, […] il cuore della malattia»19.
15 16 17 18 19
Ibidem, tr. it. p. 48. Ivi, p. 51, tr. it. pp. 48-9. Ivi, p. 52, tr. it. p. 49. Ibidem; il corsivo è di Foucault. Ivi, p. 53, tr. it. p. 51.
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III 1. Se è l’angoscia l’«elemento morboso ultimo», «non basta più dire che la paura del bambino è la causa delle fobie dell’adolescente, ma bisogna ritrovare, al di sotto di quella paura originaria e di quei sintomi morbosi, lo stesso tratto di angoscia che li costituisce in unità significativa»20. Ora, un tale tratto di angoscia non può essere individuato procedendo analiticamente, ma può essere colto solo con un atto intuitivo. Foucault osserva infatti: «Qui la logica discorsiva non c’entra nulla, […] con l’intuizione […] si va più in fretta e più lontano»21. Questo riferimento all’intuizione comporta un cambiamento di approccio al fenomeno morboso, l’introduzione di un metodo diverso da quella ricostruzione della storia individuale operata dalla psicoanalisi, oltreché – ovviamente – diverso dal metodo naturalistico proprio della psichiatria organicistica: «l’analisi naturalistica considera il malato allontanandolo, alla stregua di un oggetto naturale; la riflessione storica lo mantiene in quella alterità che permette di spiegare, ma raramente di comprendere. L’intuizione, balzando all’interno della coscienza morbosa, cerca di vedere il mondo patologico con gli occhi del malato stesso»22. L’intuizione permette di vedere il mondo patologico con gli occhi stessi di chi lo vive, di comprenderlo dall’interno invece che spiegarlo dall’esterno. Ora, questo riferimento all’intuizione e alla comprensione è tipico del «metodo nel quale si è esercitata la psicologia
20 21 22
Ivi, p. 54, tr. it. p. 52. Ibidem. Ibidem.
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fenomenologica»23. Foucault prosegue dunque la sua indagine riferendosi non più alle teorie psicoanalitiche ma alla psicologia fenomenologica24. 2. La principale acquisizione che Foucault mutua da tale psicologia è l’idea della malattia come interruzione della trama di rapporti fra il soggetto e il mondo esterno, fra la psiche individuale e l’universo sociale e culturale: «Per la persona malata l’altro non è più il partner di un dialogo e uno che coopera a un compito; non le si presenta più sullo sfondo di implicazioni sociali, perde la sua realtà di socius e diventa, in questo universo spopolato, lo Straniero»25. E, poco oltre: «il patologico si manifesta nel corso dell’indagine, come carattere fondamentale di […] un mondo che, attraverso le sue forme immaginarie, addirittura oniriche, attraverso la sua opacità a tutte le prospettive dell’intersoggettività, si rivela essere in realtà un “mondo privato”»26. Rinchiudendosi in tale mondo privato, il soggetto non giunge tuttavia a sottrarsi all’azione del mondo esterno. Tale azione del mondo esterno acquisisce anzi maggior forza proprio in ragione del rinchiudersi della soggettività in se stessa: «questa esistenza patologica è contrassegnata al tempo stesso da una modalità di abbandono al mondo molto particolare: […] il soggetto aliena l’esistenza in un mondo nel quale la sua libertà va in frantumi; non potendo detenerne il senso, si abbandona agli eventi»27. Il rinchiudersi del soggetto in se stesso, nel proprio «mondo privato», corrisponde a una rinuncia ad affermare la propria libertà nel mondo esterno. La libertà della soggettività non è affermata nel mondo esterno ma contro il mondo esterno. Il soggetto cioè rinuncia a riconoscersi nel mondo o solo a cercare di farlo. Tale mondo è però più forte di lui, gli si impone comunque, ed 23
Ibidem. A questo proposito, cfr. anche M. Foucault, Introduction a L. Binswanger, Le rêve et l’existence (Traum und Existenz), Desclée de Brouwer, Paris 1954, pp. 9-128, tr. it. di L. Corradini e C. Giussani, Introduzione a Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993, pp. 11-85. 25 M. Foucault, Maladie mentale et psychologie cit., p. 64, tr. it. p. 61. 26 Ivi, p. 68, tr. it. pp. 64-5. 27 Ibidem, tr. it. p. 65. 24
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egli non può che subirlo: «Il processo patologico è, come dice Binswanger, una Verweltlichung. Questa unità contraddittoria di mondo privato e di abbandono all’inautenticità del mondo è il punto nodale della malattia»28. In tale concetto di unità contraddittoria torna l’idea di una contraddizione composta in unità senza essere superata ma solo occultata. E torna l’idea, a questa connessa, di un vissuto doloroso che si acuisce attraverso il tentativo di contrastarlo. Per proteggersi dal dolore determinato da un mondo esterno avvertito come ostile, la soggettività si rinchiude in se stessa; ma con ciò è ancora più esposta all’ostilità del mondo esterno, e al dolore che vi è connesso. Il punto nodale della malattia appare ora questa rinuncia della soggettività a riconoscersi nel mondo senza tuttavia potersi emancipare da esso, come la compresenza di chiusura in se stessi e abbandono a un mondo avvertito come totalmente estraneo: «per usare un altro vocabolario, la malattia è insieme un ritrarsi nella peggiore delle soggettività e una caduta nella peggiore delle oggettività»29. Foucault ritiene che questa acquisizione segni il limite della psicologia fenomenologica, il punto oltre il quale si può procedere solo spingendosi al di là di essa. Ritiene cioè che il fondamento della malattia si situi anche oltre ciò che può essere acquisito attraverso la psicologia fenomenologia e possa esser svelato solo da un’analisi di quel mondo esterno in cui il malato non si riconosce: «se la soggettività dell’insensato è, al tempo stesso, appello e abbandono al mondo, non è forse al mondo stesso che bisogna chiedere il segreto del suo enigmatico statuto?»30. 3. Il punto al di là della psicologia fenomenologica verso il quale è necessario spingersi è dunque l’analisi del mondo, socialmente inteso: «I rapporti sociali, determinati da una cultura nelle forme della concorrenza, dello sfruttamento, della rivalità dei gruppi o delle lotte di classe, offrono al singolo uomo una esperienza della condizione umana in quanto costantemente abitata dalla 28 29 30
Ivi, p. 69, tr. it. ibidem. Ibidem. Ibidem.
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contraddizione»31. Il «singolo uomo» fa un’esperienza «abitata dalla contraddizione» in quanto la contraddizione è innanzitutto nei rapporti sociali caratterizzati da concorrenza, sfruttamento, rivalità. È in ragione di tali rapporti che l’uomo entra in contraddizione con l’altro uomo. La contraddizione cioè è prima nella realtà, in una determinata realtà, e poi nel meccanismo morboso. A proposito della coincidenza di mondo privato e abbandono all’oggettività su cui si era soffermato in precedenza, Foucault soggiunge: «questa forma patologica è soltanto secondaria rispetto alla contraddizione reale che la suscita»32. E, poco oltre: «La coscienza patologica che si abbandona a un mondo delirante non è vincolata da una coercizione immaginaria; ma è per il fatto di subire la coercizione reale che essa sfugge in un mondo patologico»33. L’origine della contraddizione si situa nell’esperienza che l’uomo fa dell’altro uomo: «l’uomo fa un’esperienza contraddittoria dell’uomo»34. E se il malato è tale in quanto non fa «l’esperienza della contraddizione», come «l’individuo normale», ma fa «un’esperienza contraddittoria», tale esperienza contraddittoria che l’uomo fa dell’altro uomo appare come la prima origine, la prima condizione di possibilità, della malattia. Ma abbiamo visto come all’origine di tale esperienza contraddittoria ci sia, a propria volta, una preesistente angoscia. Se l’altro uomo è per l’uomo qualcosa di contrapposto, di conflittuale, si deve pensare che sia qui che si generi anche l’angoscia. E che sia l’angoscia di tale contrapposizione a far sì che il conflitto prenda la strada di un conflitto patologico e non quella di un conflitto normale. 4. Questa situazione socialmente determinata è anche storicamente determinata: «solo nella storia si può scoprire l’unico a priori concreto da cui la malattia mentale ricava […] le sue ne31 32 33 34
Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,
p. p. p. p.
98, tr. it. p. 94. 99, tr. it. p. 96. 100, tr. it. ibidem. 98, tr. it. p. 94.
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cessarie figure»35. L’origine storica di tale a priori concreto della malattia mentale viene identificato da Foucault nel «rapporto dell’uomo occidentale con se stesso che sussiste da due secoli»36. Da allora la follia «si iscrive […] nella dimensione dell’interiorità; in tal modo, per la prima volta nel mondo occidentale, la follia si ritroverà a godere di uno statuto, di una struttura e di un significato psicologici. Ma questa psicologizzazione non è altro che la conseguenza superficiale di una operazione più sorda, a livello più profondo – una operazione con la quale la follia si ritrova inserita nel sistema dei valori e delle repressioni morali. Viene circoscritta da un sistema punitivo in cui il folle, reso minorato, si trova a pieno diritto accomunato al bambino, e in cui la follia, resa colpevole, si ritrova originariamente unita al peccato»37. La follia diventa dunque un problema psicologico, e lo diventa in quanto l’uomo prende una distanza da essa, e cioè in quanto allontana da se stesso una propria dimensione38. Per questo Foucault parla di un rapporto dell’uomo con se stesso all’origine della malattia. L’uomo prende le distanze dalla dimensione della follia, che gli è propria, attribuendo a questa un valore negativo, il carattere della minorazione e della colpa. Egli decide cioè di non riconoscere come propria una parte di se stesso. Secondariamente, per poterlo fare, attribuisce a questa dimensione i caratteri negativi di qualcosa di minore e di colpevole. Infine, delega a una disciplina, appunto la psicologia, il compito di redimere tali caratteri: «l’uomo è diventato una “specie psicologizzabile” solo a partire dal momento in cui il suo rapporto con la follia ha reso possibile una psicologia, ossia da quando il suo rapporto con la follia si è definito secondo la dimensione esteriore dell’esclusione e del castigo e secondo la dimensione interiore dell’investimento morale e della colpa. Situando la follia in rapporto a questi due assi fondamentali, 35
Ivi, p. 101, tr. it. p. 97. Ivi, p. 103, tr. it. p. 100. 37 Ivi, pp. 86-7, tr. it. p. 84. 38 Cfr. anche M. Foucault «La recherche psychologique et la psychologie», in Des chercheurs français s’interrogent. Orientation et organisation du travail scientifique en France, Privat, Toulose 1957, pp. 173-201. 36
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l’uomo dell’inizio del XIX secolo rendeva possibile una presa sulla follia e, con ciò, una psicologia generale»39. Ma, proprio in ragione di questa sua genesi, la presa della psicologia sulla follia sarà solo fittizia: «mai la psicologia potrà dire la verità sulla follia, perché è la follia a detenere la verità della psicologia»40.
39
M. Foucault, Maladie mentale et psychologie cit., p. 88, tr. it. p. 85; il corsivo è di Foucault. 40 Ivi, p. 89, tr. it. p. 86.
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IV 1. Qual è dunque tale verità della psicologia detenuta dalla follia? O – più semplicemente e radicalmente – qual è la verità detenuta dalla follia? Per rispondere a queste domande, è necessario innanzitutto non identificare la follia con la malattia mentale, la quale non è semplicemente la follia ma soltanto una follia alienata: «Il termine “malattia mentale” non indica altro che la follia alienata, alienata in quella psicologia che la follia stessa ha reso possibile»41. Si tratta dunque di disalienare la follia, di ricondurla a se stessa: «Se si spingesse sino alle proprie radici, la psicologia della follia […] riporterebbe alla luce il rapporto essenziale, non psicologico perché irriducibile alla morale, tra la ragione e la sragione»42. Ricondotta a se stessa, la follia appare semplicemente come l’altro dalla ragione, come la sragione. Il punto diventa allora la capacità della ragione di rapportarsi a ciò che è altro da sé, appunto «il rapporto essenziale tra la ragione e la sragione». Ora, soggiunge Foucault, ciò ha un precedente storico nel Rinascimento: «Non c’è dubbio che il XVI secolo ha valorizzato positivamente e riconosciuto ciò che il secolo XVII avrebbe disconosciuto, svalutato e ridotto al silenzio»43. Ma in cosa consiste tale valorizzazione positiva? Non si tratta del «gioco scettico di una ragione che riconosce i propri limiti ma […] di una ragione che gioca la sua partita con l’Insensato»44. Il «rapporto essenziale fra la ragione e la sragione» è dunque la partita della ragione con l’Insensato. 41 42 43 44
Ivi, p. 90, tr. it. p. 87; il corsivo è di Foucault.. Ivi, p. 89, tr. it. p. 86. Ivi, p. 92, tr. it. p. 89. Ibidem.
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
Poco prima, Foucault aveva osservato: «dopo la grande ossessione della morte, la paura delle Apocalissi e le minacce del mondo ultraterreno, [il Rinascimento] ha avvertito che un nuovo pericolo stava minacciando questo mondo: il pericolo di un’invasione sorda, che arrivava dall’interno e, per così dire, da una fessura segreta della terra: l’invasione dell’Insensato»45. La paura dell’Insensato subentra all’ossessione della morte. Ma in che rapporto sta tale paura con tale ossessione? Se è l’angoscia all’origine della contraddizione patologica in che rapporto sta tale angoscia con l’angoscia della morte? E se sono i rapporti sociali basati su sfruttamento e rivalità all’origine dell’angoscia e dunque all’origine della contraddizione, che rapporto c’è fra l’angoscia determinata da questi e l’angoscia della morte? 2. I riferimenti a tale subentrare del «pericolo dell’Insensato» all’«ossessione della morte» sono molto esigui in questo libro di Foucault. Questo nevralgico passaggio è sviluppato invece nella Storia della follia nell’età classica. Vediamo dunque in che modo la trasformazione dell’ossessione della morte viene presentata in quest’opera: «Fino alla seconda metà del XV secolo, o ancora un po’ più oltre, il tema della morte regna da solo. La fine dell’uomo, la fine dei tempi prendono l’aspetto delle pesti e delle guerre»46. Ma poi «negli ultimi anni del secolo, questa grande inquietudine gira su stessa; la derisione della follia prende il posto della morte e della sua serietà»47. Alla fine del Quattrocento, la grande inquietudine dinanzi alla morte «gira su se stessa» e si trasforma nella derisione propria della follia. La follia è dunque un girare su se stessa dell’inquietudine dinanzi alla morte. E girando su se stessa tale inquietudine dà luogo al deridere la morte: a quel deridere la morte che è la follia. 45
Ivi, p. 91, tr. it. p. 88. M. Foucault, Histoire de la folie à l’age classique, Gallimard, Paris 1972 (I edizione, Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, Plon, Paris 1961), p. 31, tr. it. di F. Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2011, p. 75. Sul rapporto fra Malattia mentale e psicologia e Storia della follia nell’età classica, cfr. F. Gros, Foucault et la folie, Presses Universitarie de France, Paris 1997 e P. Macherey, «Aux sources de l’Histoire de la folie: une reflection et ses limites», in Critique, 1986, 471/2, pp. 753-74. 47 M. Foucault, Histoire de la folie à l’age classique cit., p. 31, tr. it. p. 75. 46
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CONTRADDIZIONE VISIBILE E INVISIBILE
In cosa consista precisamente tale derisione della morte propria della follia, Foucault lo dice poco oltre: «Il terrore di fronte a questo limite assoluto della morte si interiorizza in una continua ironia; lo si disarma in anticipo […]. L’annientamento della morte non è più niente perché era già tutto […]. La follia è l’anticipo (la déja-la) della morte. Ma è anche la sua presenza sconfitta, schivata in questi indizi di ogni giorno, che, annunziando che essa regna già, indicano che la sua preda sarà un bel magro bottino»48. La follia non è una malattia, e solo la follia alienata lo è, in quanto è invece una determinata sensibilità, un determinato modo di affrontare il problema della morte. Se la morte annienta la vita è comprensibile che si instauri una tendenza a tenere lontano il terrore di fronte alla possibilità di questo annientamento. Ma secondo Foucault ciò non avviene immediatamente ma attraverso un passaggio intermedio, e poi attraverso l’occultamento di tale passaggio. Tale passaggio intermedio è la follia. La follia cioè è la determinazione della vita a non lasciarsi annientare dalla morte, e a farlo in un proprio, peculiare modo: annientandosi da sé per non dare alla morte la soddisfazione di annientarla, annientandosi dal proprio interno per impedire di farlo a qualcosa di esterno a sé. La vita risulta così non più delimitata esternamente, ma percorsa internamente dal nulla: «È sempre in causa il nulla dell’esistenza, ma questo nulla non è più considerato come termine esterno e finale, al tempo stesso come una minaccia e una conclusione; è sentito dall’interno, come la forma continua e costante dell’esistenza»49. Ma cos’è questo divenire il nulla una forma continua e costante dell’esistenza? Evidentemente non è l’annullamento dell’esistenza stessa, che può subentrare soltanto alla sua fine, che può
48
Ibidem, tr. it. p. 76. Ibidem. Ne Le parole e le cose, Foucault ritorna sul rapporto fra la follia e la morte, intendendolo in termini più diretti: «quando la Morte domina ogni funzione psicologica incombendo al di sopra di questa come la sua forma unica e devastatrice – allora riconosciamo la follia nella sua forma presente» (Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, p. 387, tr. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1978, p. 401). Qui la morte non sta in un rapporto indiretto con la follia, come ciò che determina la follia come difesa da essa, ma in un rapporto diretto, come ciò che determina direttamente la follia. Per le differenze fra i concetti di follia presenti nell’opera di Foucault, cfr. F. Gros, op. cit. 49
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
essere appunto soltanto il suo «termine esterno e finale». L’esistenza viene annichilita continuando a esserci. La vita continua a sussistere, dunque non è ridotta materialmente a nulla, ma è come se fosse nulla. Ma di cosa precisamente la vita viene in tal modo deprivata? La follia è «l’invasione dell’Insensato», tramite essa la vita viene dunque deprivata del suo senso: «quello che troviamo nel riso del folle è che egli ride in anticipo del riso della morte; e l’insensato, presagendo il macabro, l’ha disarmato»50. La follia è dunque anticipo della morte in quanto insensatezza. Il trasferirsi del nulla dall’esterno all’interno dell’esistenza è un deprivare l’esistenza del suo senso. L’esistenza è ridotta a nulla in quanto è deprivata del suo senso. Ciò di essa che è ridotto a nulla è il suo senso51.
50
M. Foucault, Histoire de la folie à l’age classique cit., p. 31, tr. it. p. 76. Cfr. anche M. Foucault, «La folie, l’absence d’oeuvre», in Situation de la psychiatrie, mai 1964, pp. 11-21, tr. it. di C. Milanese, La follia, l’opera assente, in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 101-110, G. Deleuze, Foucault, Éditions de Minuit, Paris 1966, tr. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, E. de Conciliis (a cura di) Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno, Mimesis, Milano 2007, M. P. Fimiani, Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, Ombre corte, Verona 2007, M. Galzigna, Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2013, S. Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005, A. Putino, Fattore godimento. L’infame e l’anormale secondo Michel Foucault, in R. Conforti (a cura di), La psicoanalisi tra scienze umane e neuroscienze, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 589-99. 51
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INQUIETUDINE E DOMANDA DI SENSO
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I 1. Se la follia, dunque la dimensione dell’insensato, è il rovescio dell’inquietudine dinanzi alla morte e nel contempo l’anticipo della morte, vuol dire che viene prima l’inquietudine dinanzi alla morte e poi, come difesa da essa, l’insensatezza, e dunque l’inquietudine dinanzi all’insensatezza. Nella prospettiva di Foucault, cioè, l’insensatezza non è qualcosa di primario ma qualcosa di secondario: qualcosa di derivato appunto dall’inquietudine dinanzi alla morte. Il libro dello studioso italiano Roberto Caracci Le maschere del senso ruota invece tutto intorno all’affermazione del carattere primario della ricerca del senso e dunque dell’inquietudine dinanzi alla sua mancanza: «La domanda di senso […] viene prima di tutto, anche della cultura»1, egli afferma. Ogni esistenza umana è cioè alla ricerca di un senso. E di un senso ultimo, globale, capace «di abbracciare […] l’esistenza in toto, di guardare non dove questa o quella cosa sta andando, ma dove sta andando il tutto»2. E inoltre di un senso assolutamente individuale, proprio di ciascuna esistenza e solo di questa: «il fiume di un’esistenza […] resta sostanzialmente unico nel suo alveo principale, ha una sorgente e una foce. E soprattutto ha un mare, che lo attende, e attende solo lui»3. Ogni esistenza mira cioè ad affermare un proprio, specifico senso, il «senso di ente diverso da ogni altro ente»4. 1 R. Caracci, Le maschere del senso, Moretti&Vitali, Bergamo 2015, p. 73. «Non riusciremmo a vivere se non dessimo un senso a tutto ciò che ci circonda» (M. Corsale, Perdersi o ritrovarsi? Navigare (serenamente) nella nostra angoscia quotidiana, Oèdipus edizioni, Salerno/Milano 2017, p. 206). 2 R. Caracci, op. cit., p. 156; i corsivi sono di Caracci. 3 Ivi, p. 157; il corsivo è di Caracci. 4 Ivi, p. 191; il corsivo è di Caracci.
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
Al tempo stesso, ciascuna esistenza tende a porsi di volta in volta degli obiettivi più limitati, e a progettarne il raggiungimento: Caracci li definisce sensi parziali. E mostra come questi non colmino il vuoto dell’assenza del senso ultimo e globale, ma solo lo occultino: «Finché dura il tempo del progetto, io sono assicurato – per così dire – contro l’esposizione al senso ultimo, al senso globale, attraverso quella che si potrebbe definire vagamente come una secolarizzazione del senso, una sua parcellizzazione, un calare l’angoscia del senso indeterminato nell’alveo protettivo di un senso determinato»5. E tuttavia ciascuna esistenza mira anche a non rinchiudersi in nessun senso parziale e determinato. Perché qualsiasi senso parziale è una risposta deludente alla domanda di senso: una risposta relativa a una domanda assoluta, che rinchiude qualcosa di grande in qualcosa di piccolo, comprimendolo e opprimendolo. Ma – ancor di più – ciascuna esistenza tende a sfuggire anche al senso ultimo, che pure tanto radicalmente cerca: «Al bisogno di essere incluso in un senso, si avvicenda […] nell’uomo quello di essere libero-dal-senso-specifico, dal senso parziale […], ma anche in qualche modo dal senso globale»6. Se c’è dunque un domanda di senso, che «viene prima di tutto» e, dato appunto il suo carattere originario e ineludibile, una corrispettiva angoscia dinanzi al vuoto di senso, c’è anche una domanda di libertà dal senso, una domanda di insensatezza. E una corrispettiva angoscia dinanzi al senso. Caracci si chiede dunque: «Come si conciliano […] l’immersione nella corrente del senso e il desiderio di starne fuori, sugli argini?»7. E risponde: «Non si conciliano»8. Sicché «la scelta fra abbandono-al-senso e libertà-dal-senso è drammatica. È il teatro drammatico dell’io che, vuole e non vuole – istante dopo istante – la stessa cosa»9. E, poco oltre: «Se non è possibile optare per nessuno dei due corni del dilemma, è vero però che l’uomo ha
5 6 7 8 9
Ivi, p. 123; i corsivi sono di Caracci. Ivi, p. 118; i corsivi sono di Caracci. Ivi, p. 120. Ibidem; il corsivo è di Caracci. Ibidem.
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INQUIETUDINE E DOMANDA DI SENSO
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bisogno di entrambi e che di entrambi, quando vive sbilanciato da una parte, soffre la nostalgia»10. 2. Il carattere primario della ricerca di senso implica anche la sua irriducibilità. La domanda di senso è primaria non solo perché «viene prima di tutto», ma anche perché è diversa da qualsiasi altra domanda, non riconducibile a nessuna di queste. La ricerca del senso, cioè, è diversa da qualsiasi altra ricerca, compresa la ricerca della felicità, della gioia e persino della beatitudine. Si può essere felici, gioiosi e persino beati e al tempo stesso lasciare irrisolta la domanda di senso11. Perché questa domanda non ha a che vedere con la soddisfazione, bensì con la verità. E «la verità può interessare più della felicità e del bene, come nell’ultimo Leopardi»12. 3. Ora, dall’affermazione del carattere primario e irriducibile della domanda di senso deriva un rapporto fra inquietudine dinanzi alla morte e insensatezza diverso da quello che emerge dai testi di Foucault. Se la ricerca del senso è qualcosa di primario, anche l’inquietudine dinanzi all’insensatezza sarà qualcosa di primario e non – come in Foucault – una trasformazione di qualcos’altro, e cioè dell’inquietudine dinanzi alla morte. In un nevralgico passaggio, Caracci osserva come «uno dei cardini che stanno dietro l’oblio del senso ultimo»13 sia racchiuso nell’espressione: «in primis sopravvivere, solo dopo vivere»14, sicché «la cosa più importante, la sola cosa importante, è che la vita continui, che la vita sopravviva»15. Ma se «uno dei cardini» dell’«oblio del senso ultimo» è l’idea che «la sola cosa importante» sia che la vita continui, vuol dire che l’inquietudine dinanzi alla morte non è la causa dell’insensatezza ma il suo effetto: l’effetto dell’«oblio del senso ultimo». Siamo dinanzi dunque a un rovesciamento della prospettiva di Foucault. Lì l’insensatezza è un modo
10 11 12 13 14 15
Ivi, p. 121; il corsivo è di Caracci. Cfr. ivi, pp. 233-5. Ivi, p. 173; i corsivi sono di Caracci. Ivi, p. 125. Ibidem; i corsivi sono di Caracci. Ibidem; il corsivo è di Caracci.
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per occultare l’inquietudine dinanzi alla morte, e dunque deriva da tale inquietudine, qui l’angoscia dinanzi alla morte deriva dal vuoto di senso. Lì è l’angoscia dinanzi alla morte a essere primaria, e l’angoscia dinanzi all’insensatezza secondaria; qui è l’angoscia dinanzi al vuoto di senso a essere primaria e l’angoscia dinanzi alla morte secondaria.
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II 1. Nella definizione di Foucault della follia come anticipo della morte in quanto insensatezza, il senso è implicitamente inteso come senso di marcia, come direzione16. Ed è appunto per questo che l’idea della morte può togliere senso alla vita. L’idea della morte può togliere senso alla vita in quanto la vita va nella direzione della morte, in quanto il senso della vita, inteso come direzione in avanti, pone la morte al proprio orizzonte. La vita cioè può non avere senso a causa dell’idea della morte, perché quando ha senso, il suo senso, la direzione che ha, va verso la morte. Ed è anche per questo che, oltre all’angoscia dinanzi al vuoto di senso, esiste anche – come afferma Caracci – l’angoscia dinanzi al senso. E tuttavia se il senso della vita ha la morte al proprio orizzonte, esso può essere per lo stesso motivo ciò che cela tale orizzonte. Se proiettandosi nella sua direzione in avanti la vita incontra in ultima istanza la morte, infatti, essa non la incontra immediatamente. Ciò che incontra immediatamente è ciò che di volta in volta individua come qualcosa da realizzare, gli obiettivi che di volta in volta si pone, quelli che Caracci definisce «sensi parziali». Se nel futuro della vita c’è la fine della vita, tuttavia fra la vita e la sua fine futura si interpone ciò che di volta in volta essa mira a realizzare. In tal modo il senso della vita diventa raggiungere ciò che di volta in volta la vita si propone di raggiungere. Una volta raggiuntolo, però, se non subentra immediatamente qualcos’altro da raggiungere, compare all’orizzonte quella fine della vita che si vuole occultare. 2. Cosa fare allora? Come rapportarsi sia al vuoto di senso, sia al senso stesso senza essere sopraffatti dall’angoscia? 16
Anche Caracci osserva: «Il senso è la direzione verso qualcosa» (ivi, p. 18).
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
Caracci mostra come tutte le strade mascherino il vuoto di senso invece che colmarlo. Sicché il modo autentico di affrontare il problema del senso appare il lasciarlo irrisolto. Il lasciarlo irrisolto continuando tuttavia a porselo: «La domanda di senso deve rimanere aperta»17. La vita è ricerca di un senso che non trova mai e che in fondo non vuole trovare, sia perché trovandolo s’imbatterebbe nell’angoscia dinanzi al senso, sia perché trovandolo non potrebbe più cercarlo. Ma ciò non è semplicemente, meramente vano. Tutt’altro. Se la vita può non avere senso, proprio in quanto la domanda di senso «deve rimanere aperta», tuttavia ha senso porsi questa domanda: «Il senso della mia ricerca di senso sta nella stessa ricerca del senso»18. Se la domanda di senso è la domanda primaria essa corrisponde a quanto di più profondo c’è in ciascuno. Gli uomini allora possono comunicare profondamente fra loro raccontandosi la loro incompiuta ricerca di senso. Ed è in questo raccontare, in questa dimensione narrativa, la via che Caracci giunge a indicare nella conclusione del libro. Non una risposta alla domanda di senso, che deve appunto «rimanere aperta», ma un modo di porsi tale domanda non sterile e annichilente ma fecondo e vitale: «Cercare il senso di una vita e lasciare tracce di questa ricerca, tenace e disperata: questa è forse la missione narrativa della nostra esistenza»19. E, poco prima: «Nulla cambia del senso ultimo, e della sua interrogazione, se simulo la temporalità del senso in forma narrativa: la mia vita resta la stessa, con il suo mistero e le sue assenze di risposta. Ma intanto io provo narrativamente a simularne il senso, ossia a interiorizzare la ricerca del senso (e del tempo che si perde, che io perdo e che mi perde), facendo della stessa ricerca un senso del senso, a misura d’uomo ovviamente, ma anche a misura di quell’eccedenza di divino che c’è nell’uomo»20. In tal modo si può non essere sopraffatti dall’angoscia: «Il racconto è un antidoto all’angoscia del senso»21. 17 Ivi, p. 144. Su questi temi, cfr. in particolare G. Cantillo, Natura umana e senso della vita, Luciano, Napoli 2005. 18 R. Caracci, op. cit., p. 251; il corsivo è di Caracci. 19 Ivi, pp. 264-5; il corsivo è di Caracci. Cfr. J. Hillman, Healing fiction, Hill, New York 1983, tr. it. di M. Ventura e P. Donfrancesco, Le storie che curano, Raffaello Cortina, Milano 1984. 20 R. Caracci, op. cit., p. 257; i corsivi sono di Caracci. 21 Ivi, p. 260.
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III 1. Ma in virtù di cosa, di quale sua caratteristica, la «missione narrativa della nostra esistenza» può essere l’«antidoto all’angoscia del senso»? L’atto del raccontare è pervaso di nostalgia. Lo psicologo italiano Aldo Carotenuto è giunto ad affermare: «Io penso che la nostalgia e il vissuto dell’assenza coincidano con il significato della nostra vita»22. Si potrebbe pensare che ciò che Carotenuto intende per «significato» della vita non coincida con il “senso” della vita, così come lo abbiamo incontrato sin qui. Ma se ciò che caratterizza l’espressione “senso della vita” è l’intendere il senso come direzione, anche la nostalgia ha una direzione. Essa però appare orientata verso il passato, mentre il senso e la direzione della vita sembrano implicare necessariamente il futuro: qualcosa di non ancora realizzato da realizzare, qualcosa di non ancora vissuto da vivere. Come può la nostalgia, di per sé orientata verso il passato, coincidere con il senso – con il significato inteso come senso – della vita? 2. Abbiamo visto come l’idea della morte possa togliere senso alla vita in quanto la vita, proiettandosi verso il futuro, pone la morte al proprio orizzonte. Ora, se s’inverte la direzione, se ci si proietta nel passato invece che nel futuro, come sembra avvenire nella nostalgia, all’orizzonte non compare la morte ma la nascita. E, ancora oltre la nascita, di nuovo il nulla. Ma non il nulla che viene dopo la fine della vita: quello che viene prima del suo inizio. Si tratta di un nulla, se così si può dire, completamente diverso, di un nulla che ha un’opposta valenza. Una cosa è il nulla 22
A. Carotenuto, Eros e Pathos, Bompiani, Milano 1987, p. 41.
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che viene dopo la vita, un’altra – tutt’altra – cosa è il nulla che precede la vita. Nel primo caso dove c’è la vita ci sarà il nulla, nel secondo caso dove c’è il nulla ci sarà la vita. Nel primo caso, si tratta del nulla che annichilisce la vita, nel secondo caso del nulla che prelude alla vita, stagliandosi sul cui orizzonte la vita acquisisce tutta la sua pienezza, tutta la sua luminosa intensità.
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IV 1. Quando, nel celebre scritto Al di là del principio di piacere, Freud ipotizza l’esistenza di una pulsione di morte, definisce tale pulsione come una tendenza a ritornare allo stato inanimato precedente la vita: «In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. […] La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato»23. La pulsione di morte mira a ritornare allo stato precedente la vita, non a raggiungere lo stato successivo alla vita. Mira dunque al nulla che precede la vita, che l’annuncia, che è gravido di essa. Una pulsione di morte così intesa ha poco a che vedere con la morte e molto a che vedere con la vita: dice poco della morte e molto della vita24. Peraltro Freud giunge a ipotizzare l’esistenza di tale pulsione in quanto riconosce nelle pulsioni in quanto tali una tendenza a ripristinare uno stato precedente: «Una pulsione sarebbe […] una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente (eines früheren Zustandes)»25. È appunto perché tutte le pulsioni tendono a ripristinare uno stato precedente che la «prima pulsione» può essere la pulsione di morte, quella che tende a ripristinare lo stato precedente la vita stessa.
23 S. Freud (1920), Jenseits des Lustprinzips, GW, vol. XIII, p. 40, tr. it. di A. M. Marietti e R. Colorni, Al di là del principio di piacere, OSF, vol. IX, p. 224. 24 Sarebbe sbagliato pensare che questa sia l’unica valenza della pulsione di morte, ma è altrettanto sbagliato non coglierla affatto. «Vivere è forse / quel cercare il nulla che ci precede» (R. Mele, Un grano di morfina per Freud, Manni, San Cesario di Lecce 2015, p. 34). 25 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips cit., p. 38, tr. it. p. 222; il corsivo è di Freud.
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E quando, nell’Interpretazione dei sogni, Freud descrive cosa sia il desiderio, definisce anch’esso come proteso a rispristinare uno stato precedente, come volto a ripetere un’originaria esperienza di soddisfacimento, a «ricostruire la situazione del primo soddisfacimento (der ersten Befriedigung)»26. Anche il desiderio dunque è volto all’indietro: mira a rivivere qualcosa di passato, qualcosa di già vissuto. Al pari della nostalgia. 2. Ma il passato quando è stato vissuto era qualcosa di nuovo. E si deve pensare che questo elemento di novità sia parte integrante, costitutiva ed essenziale, di ciò a cui mirano il desiderio e la nostalgia. Se questi mirano a rivivere qualcosa di passato, proprio per poterlo rivivere – per poterlo rivivere compiutamente, integralmente – devono mirare anche a quell’elemento di novità che in quel passato si racchiude27. Dunque a quel qualcosa di non ancora realizzato da realizzare, di non ancora vissuto da vivere che il senso della vita implica. Ma, racchiudendosi nel passato, tale elemento di novità non viene più a trovarsi nella direzione – nel senso – che va verso la morte ma nella direzione che va verso la nascita. E dunque non nella direzione del nulla che viene dopo la vita ma in quella del nulla che prelude alla vita. E tuttavia al tempo stesso – e proprio per questo, proprio perché ha al proprio orizzonte il nulla che annuncia la vita – esso resta un protendersi verso il futuro. Siamo allora dinanzi a un senso della vita che compare tuttavia in un orizzonte che non è la fine della vita ma il suo inizio
26
S. Freud (1899), Die Traumdeutung, GW, voll. III, p. 571, tr. it. di E. Fachinelli e H. Trettl, L’interpretazione dei sogni, OSF, vol. III, p. 516. 27 «La ripetizione domanda del nuovo», ha affermato Jacques Lacan (Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973, p. 54, tr. it. di G. Contri, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1979, p. 62), e Gilles Deleuze: «Ripetere è comportarsi, ma in rapporto a qualche cosa di unico o di singolare, che non ha simile o equivalente. E forse codesta ripetizione come condotta esterna riecheggia per proprio conto una vibrazione più segreta, una ripetizione interiore e più profonda nel singolare che la anima. La festa non ha altro paradosso apparente: ripetere un “irricominciabile”. Non aggiungere una seconda e una terza volta alla prima, ma portare la prima volta all’ennesima potenza» (Différence et répétition, Presses Universitarie de France, Paris 1968, pp. 7-8, tr. it.. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997, pp. 7-8).
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INQUIETUDINE E DOMANDA DI SENSO
e, ancor prima, ciò che l’annuncia. E soltanto in questo modo, soltanto comparendo all’interno di questo orizzonte, il protendersi verso il futuro può avere tutta l’intensità, tutta la freschezza del nuovo. Altrimenti su di esso graverebbe l’ombra annichilente della morte. E il nuovo non sarebbe il nuovo che entusiasma ma il nuovo che spaventa, il nuovo di cui non si ha l’esperienza della sua desiderabilità, dell’emozione del suo sopraggiungere, ma qualcosa di estraneo e indifferente: dell’indifferenza che angoscia28. Ora, se l’idea della morte può togliere senso alla vita in quanto compare all’orizzonte di quel senso, di quella direzione della vita verso il futuro, questa spinta verso il futuro che si incontra nella direzione del passato, direzione che dunque ha al proprio orizzonte non la fine della vita ma il suo inizio e il nulla che l’annuncia, definisce un senso della vita che non può essere vanificato dall’idea della morte. Se la nostalgia cioè racchiude lo slancio verso il futuro si può dire non solo che racchiuda compiutamente il senso della vita ma anche, soprattutto, che racchiuda un senso della vita che non può essere vanificato dall’idea della morte.
28 In quanto equivalenza di tutte le possibilità. Cfr. S. Kierkegaard, Begrebet Angest, Reitzel, Copenaghen 1844, tr. it. di C. Fabro, Il concetto dell’angoscia, SE, Milano 2007. Come si può facilmente osservare, si profila in tal modo una prospettiva inversa a quella heideggeriana per la quale l’esistenza autentica è definita dall’essere per la morte e dall’angoscia (M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, UTET, Torino 1969).
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V 1. Ciò non significa che in tal modo l’esistenza della morte venga ignorata o rimossa: se nella nostalgia il protendersi verso il futuro appare nell’orizzonte della nascita e non della morte, è anche vero che tale protendersi verso il futuro racchiuso nella nostalgia, in quanto mira comunque al futuro, finisce anch’esso con l’avere al proprio orizzonte la morte. Ciò significa però che all’idea della morte non viene più conferito il potere di vanificare il senso della vita. Ora, un’idea della morte che non vanifichi il senso della vita può presentarsi in due modi, in due diverse vesti. La prima è quella per la quale la morte non viene intesa come annullamento. Gran parte delle religioni si basa appunto sulla fede che la morte non sia annullamento. Il filosofo italiano Emanuele Severino ha mostrato come sia piuttosto la ragione a implicare ciò, perché per la ragione il nulla non è, e se il nulla non è nessuna cosa, dunque neanche la vita, può finire nel nulla29. E in ogni caso, anche se ciò non fosse vero, sarebbe vero per la sfera più profonda della psiche: «Il nostro inconscio […] non crede alla propria morte»30, afferma Freud. Severino si è poi spinto sino a pensare che «l’essenza della cultura occidentale, affermando la nullità dell’uomo e delle cose, è la responsabile di ogni “malattia” della mente, ossia di ogni angoscia che l’uomo prova per la propria nullità e che costituisce il nucleo di ogni patologia psichica»31. 29 Cfr. per esempio E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995 (I edizione 1982), o anche E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011. 30 S. Freud (1915), Zeitgemässes über Krieg und Tod, GW, vol. X, p. 350, tr. it. di C. Musatti, Considerazione attuali sulla guerra e la morte, OSF, vol. VIII, p. 144. 31 E. Severino, La legna e la cenere, Milano, Rizzoli 2000, p. 67. Del resto anche Remo Bodei, pur muovendo da tutt’altra prospettiva, a proposito del caso clinico di
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INQUIETUDINE E DOMANDA DI SENSO
2. Il secondo modo in cui l’idea della morte può presentarsi senza tuttavia vanificare il senso della vita è esemplificato nel modo più semplice dallo stesso Freud quando, nel breve scritto Caducità, osserva come la caducità renda le cose più preziose: «Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. […] Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida»32. Freud contrappone quest’osservazione all’atteggiamento di un «poeta già famoso nonostante la sua giovane età»33, del quale non fa il nome34, e al quale tutto ciò che «avrebbe altrimenti amato e ammirato […] sembrava svilito dalla caducità cui era destinato»35. Come si vede, compare qui l’alternativa fra il gravare o meno sulle cose dell’ombra annichilente dell’idea della loro fine. Freud non contrappone al giovane poeta l’idea che le cose non siano destinate a finire ma l’idea che possano essere amate e ammirate nonostante ciò. Nelle parole usate da Freud, cioè, l’esistenza della morte non viene ignorata o rimossa: soltanto non le viene conferito – appunto – il potere di vanificare il senso della vita. 3. Ora, che l’ombra annichilente della fine gravi o meno sulle cose dipende dal modo in cui si concepisce il senso della vita: se lo si concepisce come qualcosa che può o non può essere vanificato dall’idea della morte. Se lo si concepisce nel primo modo, ogni cosa perde di senso e valore, se lo concepisce nel secondo modo, ogni cosa acquisisce senso e valore. Ma, come abbiamo visto, ciò dipende a propria volta dall’orizzonte nel quale il protendersi verso il futuro appare, se quello Ellen West, studiato da Ludwig Binswanger, Remo Bodei ha osservato: «Se affrontassimo nella sua radicalità l’interrogativo di Ellen West – “Perché aneliamo, perché viviamo, soltanto per marcire, dimenticati dopo breve tempo, nella fredda terra?” –, anche la nostra risposta prevalente sarebbe probabilmente la disperazione» (R. Bodei, Le logiche del delirio, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 86; cfr. L. Binswanger, «Der Fall Ellen West» in Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie, n. 55, 1945, pp. 16-40, tr. it. di C. Mainoldi, Il caso Ellen West e altri saggi, SE, Milano 2008). 32 S. Freud (1915), Vergänglichkeit, GW, vol. X, p. 359, tr. it. di S. Daniele, Caducità, OSF, vol. VIII, p. 174. 33 Ivi, p. 358, tr. it. p. 173. 34 Secondo la suggestiva tesi di Franco Rella si tratta di Rainer Maria Rilke (F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 1981, cap. II). 35 S. Freud, Vergänglichkeit cit., p. 358, tr. it. p. 173.
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
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della morte o quello della nascita, se quello del nulla che mette fine alla vita o quello del nulla che l’annuncia. Ciò vuol dire che è questo secondo orizzonte ciò che permette alla caducità di rendere le cose più preziose. Se le cose compaiono nell’orizzonte del nulla annichilente non resta che dare ragione al “giovane poeta”.
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VI 1. Questi due modi di presentarsi dell’idea della morte senza tuttavia vanificare il senso della vita non sono fra loro alternativi ma si danno insieme, contemporaneamente. Se la caducità, infatti, rende le cose più preziose, ciò avviene in quanto essa condensa in un tempo limitato ciò che altrimenti si estenderebbe in un tempo illimitato36. Il fascino della caducità di cui parla Freud cioè non deve essere inteso come qualcosa che esclude l’eternità, ma come qualcosa che dà luogo per contrasto all’idea dell’eternità, per poi far confluire, contraendola, l’eternità in sé. Resta dunque l’eternità ciò grazie a cui la caducità acquisisce senso e valore. Così come è la caducità che dà senso e valore all’eternità, la quale altrimenti, qualora non fosse il riscatto dalla caducità, risulterebbe indifferente, se non persino – a propria volta – angosciosa. 2. Come abbiamo visto, per Caracci il senso della vita sta nel ricercare il senso, al punto che è necessario non trovarlo per poter continuare a cercarlo. Ma se ricercare il senso ha un senso, si deve pensare che una vita spesa alla ricerca del senso deve non trovarlo per mantenersi appunto alla sua ricerca? O si può pensare anche che proprio in tal modo, proprio non trovandolo – «facendo della stessa ricerca un senso del senso» – finisca con il trovarlo? Il confine fra le due possibilità è sottile37. E mi sembra che l’opera di Caracci si trovi sospesa su questo confine: il confine che divide e unisce queste due possibilità. E dunque che la si 36 Il fascino della caducità deriva cioè da uno spostarsi dell’eternità dalla dimensione quantitativa a quella qualitativa, da una contrazione dell’eternità che la porta a riversarsi tutta in qualcosa di temporale. 37 E sarebbe sbagliato non coglierlo.
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possa intendere in entrambi i modi. E persino in entrambi i modi contemporaneamente. Mi sembra cioè che se la narrazione è narrazione del ricercare il senso e non del trovarlo, essa sia contemporaneamente un trovare il senso nell’atto del narrarne la ricerca. Il senso cioè appare racchiuso nell’atto stesso del non trovarlo, qualora quest’atto diventi racconto: «L’uomo che racconta è un uomo fabbricatore di senso»38, osserva Caracci. E soggiunge: «è come se Calderón de la Barca, stanco della vita, prendesse sul serio il suo stesso sogno, solo perché è bello»39. 3. Ora, mi sembra che lo slancio verso il futuro racchiuso nella nostalgia possa rendere conto anche di questo. Se tale slancio corrisponde a un senso della vita che non può essere vanificato dall’idea della morte perché non ha tale idea nella propria direzione, sempre a proposito del narrare, Caracci osserva: «Si tratta […] di un divagamento del senso, come sanno tutti i narratori, un andare per la tangente, un deviare e passeggiare altrove, un abbandonare la retta via»40. Tale «retta via» sembra corrispondere a quella che incontra la morte sulla propria direzione. Sicché, risulta significativo che anche nel libro di Caracci, a un certo punto, faccia la sua comparsa la via inversa: «Mentre […] il tempo incalza ora dopo ora, sembra che non ci resti che voltarci ogni tanto, lungo il nostro cammino di nomadi, di transfughi, di pellegrini, e guardare la mappa delle nostre orme, il labirinto da contemplare e da raccontare, per capirci qualcosa forse, e se non dove stiamo andando, dove siamo almeno finora andati»41. Il «divagamento del senso», l’abbandonare la «retta via», il contemplare non dove stiamo andando, dunque dove andremo a finire, ma «dove siamo finora andati», dunque da dove proveniamo, sono tutti elementi coerenti con un senso della vita che non ha la morte al proprio orizzonte, e che dunque non può essere vanificato dalla sua idea.
38 39 40 41
R. Caracci, op. cit., p. 257. Ivi, p. 258. Ivi, 257; i corsivi sono di Caracci. Ivi, p. 264; il corsivo è di Caracci.
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INQUIETUDINE E DOMANDA DI SENSO
4. In ogni caso, mi sembra che concepire il senso della vita come non vanificabile dall’idea della morte sia comunque necessario per affermare la tesi di fondo di Caracci, quella del carattere primario e irriducibile della ricerca del senso. Se la ricerca del senso è primaria, l’angoscia del vuoto di senso non può essere una conseguenza dell’angoscia della morte. E se la ricerca di senso è irriducibile a qualsiasi altra ricerca, dev’essere irriducibile anche alla ricerca di un riparo dalla morte. Ho già osservato come in tal modo si configuri una prospettiva inversa a quella che ispira i passi di Foucault sulla follia come insensatezza in quanto anticipo della morte: come lì l’inquietudine dinanzi alla morte sia primaria e l’inquietudine dinanzi all’insensatezza secondaria, e qui l’angoscia dinanzi al vuoto di senso primaria e l’angoscia dinanzi alla morte secondaria. Ora, tale prospettiva inversa non vanifica, ma anzi permette di enfatizzare, la valorizzazione della follia cui Foucault mira. Se infatti l’angoscia dell’assenza di senso è più originaria dell’angoscia di morte, l’insensatezza, la sragione, la follia risultano a propria volta come qualcosa di originario, dunque di ancor più significativo di quanto risulti dal testo stesso di Foucault42. E appare ancor più imprescindibile e irrinunciabile – appunto perché chiama in causa qualcosa di originario, una radice irriducibile a qualsiasi altra cosa – quel «rapporto essenziale fra la ragione e la sragione» che Foucault auspica: quella «promessa che, forse un giorno, l’uomo potrà ritrovarsi […] pronto per il grande scontro tragico con la follia»43. 5. Se la follia è la dimensione dell’insensatezza, il «rapporto essenziale» fra la ragione e la follia è anche un rapporto essenziale fra il senso e il vuoto di senso. Un rapporto dunque in cui la dimensione del senso può mettere in discussione se stessa, e giungere a riformularsi. Così come l’insensatezza può giungere a riformularsi attraverso il rapporto con la dimensione del senso. E mi sembra che tali rispettive riformulazioni possano corrispondere a quanto abbiamo acquisito sin qui: dalla tensione fra 42 Se l’angoscia del vuoto di senso è più originaria dell’angoscia di morte, l’insensatezza risulterà come una dimensione originaria e non derivata da un’altra, appunto dall’angoscia di morte, di cui costituirebbe il girare su stessa. 43 M. Foucault, Maladie mentale et psychologie cit., p. 89, tr. it. p. 86.
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senso e vuoto di senso rilevata da Caracci, alla narratività come sua espressione più feconda e vitale, alla nostalgia che racchiude nel passato il protendersi verso il nuovo, divenendo depositaria di un senso della vita sgravato dall’angoscia della morte. Potrebbe essere questo un modo di affrontare il problema del senso e dell’inquietudine dinanzi alla morte basato sul «rapporto essenziale» con la follia, capace di fare proprio – almeno in parte – il contenuto di verità che in questa si racchiude.
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SENSO E INSENSATEZZA
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I 1. Il problema della patologia a cui è esposta la vita psichica è apparso, sin dall’inizio, come il problema della contraddizione. La patologia è apparsa come una difesa dalla contraddizione che acuisce la contraddizione. Laddove ciò stesso, l’acuire una contraddizione nel tentativo di evitarla, è a sua volta una contraddizione, anzi la contraddizione più stridente. E se la follia è insensatezza, essa corrisponde alla contraddizione. Ciò che è insensato, infatti, è tale perché è contraddittorio. E se il senso è anche direzione, l’insensatezza corrisponde anche all’assenza di direzione. Il procedere in una direzione richiede infatti il dirigere i propri passi in quella direzione, e non uno in avanti e uno indietro: richiede un atteggiamento coerente invece che contraddittorio. Come ho poi osservato, l’idea della morte può togliere senso alla vita finché il senso della vita viene inteso in un modo che pone la morte al proprio orizzonte. Ma è la morte stessa, se intesa come annullamento, a essere contraddittoria. Per poter pensare che qualcosa possa annullarsi è necessario pensare che il nulla in cui andrebbe ad annullarsi sia. E pensare che il nulla sia, che il nulla esista, è contraddittorio. Il nulla non è, perché se fosse, se fosse qualcosa invece che nulla, ciò sarebbe contraddittorio. Ciò significa che la morte può vanificare il senso della vita non solo in quanto il senso della vita la pone al proprio orizzonte, ma anche in quanto racchiude il non senso dentro di sé. Si deve tenere presente inoltre che Foucault individua nell’angoscia «il cuore della malattia», l’«elemento morboso ultimo», ciò che fa sì che la contraddizione da esterna diventi interna, da visibile invisibile e, in tal modo occultata, si acuisca. E si deve tenere presente infine come egli, risalendo lungo il percorso dell’angoscia
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e della patologia, individui l’origine di entrambe nell’«esperienza contraddittoria» che l’uomo fa dell’altro uomo nella società basata su competizione e sfruttamento. Come si vede, il tema della contraddizione avvolge da tutti i lati i temi della follia, della malattia mentale, del senso, dell’insensatezza e del loro «rapporto essenziale»: quel rapporto che Foucault auspica come confronto fra ragione e sragione, e che Caracci affida alla narratività. 2. Foucault osserva come, dopo l’apertura del Rinascimento, la follia sia stata oggetto di un occultamento: «nel XVI secolo non si è trattato di una distruzione radicale, ma soltanto di un occultamento»1. Occultata ma non distrutta, la follia ha continuato, appunto nascostamente, a sussistere: «una sorda coscienza tragica non ha cessato di vegliare»2. E dunque ha potuto, talvolta, riaffiorare alla superficie: «È lei [la follia] che le ultime parole di Nietzsche, le ultime visioni di Van Gogh, hanno ridestato. È lei che indubbiamente Freud ha cominciato a presentire all’estremità del suo cammino: sono le sue grandi lacerazioni che egli ha voluto simbolizzare con la lotta mitologica della libido e dell’istinto di morte»3. Come abbiamo visto, in Al di là del principio di piacere, Freud ipotizza l’esistenza di una pulsione di morte, e dunque interpreta la vita psichica come un conflitto fra tale pulsione e le pulsioni di vita. E Foucault interpreta a sua volta questa concezione freudiana come una simbolizzazione delle «grandi lacerazioni» della follia. Se la vita psichica è dilaniata fra una tendenza alla vita e una tendenza alla morte, la «coscienza tragica» della follia riecheggia, appunto, nella teorizzazione di questo conflitto. Questo nesso che Foucault stabilisce con l’opera freudiana può essere esteso dalla teoria della pulsione di morte al fenomeno a partire dal quale Freud è giunto a formularla: il fenomeno della 1
M. Foucault, Histoire de la folie à l’age classique cit., p. 47, tr. it. p. 93. Ibidem. 3 Ibidem. Cfr. anche J. Derrida, Être juste avec Freud. L’histoire de la folie à l’âge de la psychanalyse, in Aa. Vv., Penser la folie. Essais sur Michel Foucault, Galilée, Paris 1992, pp. 141-95, tr. it. di G. Scibilia, Essere giusti con Freud. La storia della follia nell’età della psicoanalisi, Raffaello Cortina, Milano 1994. 2
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SENSO E INSENSATEZZA
coazione a ripetere. Freud, cioè, ipotizza l’esistenza di una pulsione di morte nel tentativo di spiegare una «singolare»4 tendenza alla ripetizione delle esperienze dolorose, tendenza che si impone con la forza di una coazione, appunto la coazione a ripetere. Che si tenda a ripetere un’esperienza piacevole è ben comprensibile, ma che si tenda a ripetere un’esperienza dolorosa, e che si sia persino costretti a farlo da una forza oscura, non lo è affatto: «Ci si stupisce davvero troppo poco di ciò»5, osserva Freud. Prima di giungere a ipotizzare l’esistenza della pulsione di morte, Freud fornisce una spiegazione più immediata di questo fenomeno della coazione a ripetere, a partire dall’osservazione del più diffuso gioco infantile, quello di gettare via gli oggetti che capitano fra le mani. Questi oggetti, osserva Freud, sono utilizzati dai bambini come simboli della madre, sicché l’atto del gettarli via riproduce il vissuto doloroso dell’allontanarsi della madre. In tal modo, egli soggiunge, il bambino trasforma il suo vissuto doloroso da passivo in attivo: non è la madre che si allontana è egli stesso a mandarla via. Il bambino, in sostanza, mira a depurare il vissuto doloroso dell’allontanarsi della madre dall’aggravante dell’essere vissuto passivamente. Ed è questo il senso generale, anche per l’adulto, della coazione a ripetere. Ma in tal modo il soggetto finisce con l’aggravare il dolore che vorrebbe ridurre, poiché, appunto attraverso la ripetizione, si determina un evento doloroso che altrimenti non si sarebbe determinato. Si produce dolore nel tentativo di ridurlo. Siamo cioè dinanzi a quella stessa difesa da un dolore che acuisce il dolore nella quale Foucault identifica l’«assurdità patologica». E se per Foucault ciò è apparso proprio della patologia psichica, cioè della follia alienata e non della follia tout court, tuttavia anche la follia come egli la definisce – come l’anticipare la morte svuotando di senso la vita – appare come una difesa dall’angoscia della morte che amplifica tale angoscia. Se la morte toglie senso alla vita, anticipare la morte svuotando di senso la vita finisce con l’acuire il problema che mira a risolvere. Il difen4 5
S. Freud, Jenseits des Lustprinzips cit., p. 18, tr. it. p. 206. Ivi, p. 10, tr. it. p. 199.
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dersi dal dolore che acuisce il dolore accomuna cioè sia la follia alienata nella malattia mentale sia la follia tout court. 3. Ma l’opera freudiana contiene anche alcuni importanti riferimenti al nevralgico tema della contraddizione. C’è dunque un terzo elemento – oltre alla pulsione di morte e alla coazione a ripetere – a cui può e dev’essere esteso quel nesso con l’opera freudiana che Foucault stabilisce: appunto il tema della contraddizione. Per l’inconscio «non vale il principio di contraddizione»6, afferma Freud nel 1932. Precedentemente, nel 1915, egli aveva affermato che nel sistema inconscio è assente la contraddizione7. Egli non ha distinto in alcun modo le due cose, sicché l’assenza inconscia di contraddizione è stata generalmente intesa come assenza del principio di non contraddizione. Ma il fatto che in un sistema sia assente la contraddizione non significa che in esso non viga il principio di non contraddizione. E può anche significare il contrario. La contraddizione, infatti, può essere assente in un determinato ambito non solo in quanto manchi il principio in grado di rilevarla ma anche, semplicemente, perché non c’è. E può darsi che non ci sia perché il principio che le si oppone – cioè appunto il principio di non contraddizione – vige in un modo così pervasivo da impedirne il determinarsi. Sicché l’assenza inconscia di non contraddizione non corrisponderebbe all’assenza del principio di non contraddizione, inteso come principio che rileva la contraddizione, ma a una sua più pervasiva presenza, inteso come principio che previene il formarsi della contraddizione. Ciò che risulta contradditorio nel contesto del pensiero cosciente, cioè, non lo è nel contesto del sistema inconscio non in quanto in tale sistema la contraddizione non sia rilevata ma in 6 S. Freud (1932) Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, GW, vol. XV, p. 80, tr. it. di M. Tonin Dogana ed E. Sagittario, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), OSF, vol. XI p. 185. 7 «Assenza di reciproca contraddizione (Widerspruchslosigkeit), processo primario (mobilità degli investimenti), atemporalità e sostituzione della realtà esterna con la realtà psichica sono i caratteri che possiamo aspettare di riscontrare nei processi appartenenti al sistema Inc [inconscio]» (S. Freud [1915], Das Unbewusste GW, vol. X, p. 286, tr. it. L’inconscio, OSF, vol. VIII, p. 71; i corsivi sono di Freud).
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quanto in esso la contraddizione non c’è. Due o più elementi che nel pensiero cosciente risultano contraddittori, nel sistema inconscio non risultano tali perché non sono tali. E dunque nel sistema inconscio trovano il modo di coesistere senza contraddirsi che nel pensiero cosciente non trovano. 4. Ora, lo psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco – la cui opera costituisce uno degli sviluppi più significativi della letteratura psicoanalitica successiva a Freud –, benché identifichi anch’egli assenza di contraddizione e assenza del principio di non contraddizione8, si è imbattuto in qualcosa del genere. Al punto da riconoscervi qualcosa di molto importante: l’origine delle patologie psichiche più gravi. Un «individuo – egli osserva a titolo di esempio – può […] sentire che ha una vulva e una vagina e un pene […]. Ciò succede normalmente (normally) nell’inconscio profondo e, per mia esperienza clinica, direi che se […] è sentito troppo vicino alla coscienza è estremamente disturbante: sembra scuotere le fondamenta del nostro essere normale e rende l’individuo ansioso al massimo»9. Poco oltre, egli soggiunge: «a parte l’ansia di cui abbiamo parlato, si può verificare “un’esplosione della coscienza” per cui contenuti contraddittori entrano contemporaneamente in essa»10. E infine: «Quando si verifica ciò al di là di una certa misura si arriva alla psicosi: è la psicosi»11. Come si vede, abbiamo qui la coesistenza di due contenuti che nell’inconscio profondo avviene «normalmente» e che invece diventa «estremamente disturbante», fino a determinare «un’esplosione della coscienza», man mano che si avvicina alla coscienza stessa. È dunque questa vicinanza alla coscienza ciò che costituisce problema, fino a «scuotere le fondamenta del nostro essere», non la coesistenza dei due contenuti in se stessa, dato che nell’inconscio più profondo questa si verifica «normalmente», senza arrecare alcun disturbo. 8 I. Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets, Duckworth, London 1975, p. 46, tr. it. di P. Bria, L’inconscio come insiemi infiniti, Einaudi, Torino 1981, p. 53. 9 Ivi, p. 112, tr. it. p. 126; il corsivo è di Matte Blanco. 10 Ivi, p. 113, tr. it. p. 127. 11 Ibidem.
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Dobbiamo ritenere allora che ciò avvenga in virtù dell’assenza inconscia di contraddizione: che nell’inconscio i due contenuti in questione coesistano «normalmente» in quanto coesistano senza contraddirsi, e che la contraddizione si determini in ragione dell’avvicinamento alla coscienza. Sembra cioè che qualcosa che nel sistema inconscio non è contraddittorio divenga contraddittorio nel contesto del pensiero cosciente. E non si può ritenere che ciò avvenga in virtù dell’assenza del principio di non contraddizione, inteso come principio che rileva la contraddizione. Se la contraddizione è dannosa infatti lo è sia qualora venga rilevata sia, e ancor di più, qualora non venga rilevata e lasciata agire indisturbata. Una contraddizione che agisse indisturbata in assenza di un principio in grado di rilevarla e sanzionarla disturberebbe la vita psichica, e in gran misura. Ed è appunto questo il fenomeno così ben individuato da Foucault in Malattia mentale e psicologia: la malattia come un occultare la contraddizione senza eliminarla, permettendo a questa di agire indisturbata e di acuirsi. Se invece, come nel caso dell’esempio che fa Matte Blanco, gli elementi opposti, l’avere una vagina e l’avere un pene, risultano conciliati fra loro, vuol dire che il principio di non contraddizione è riuscito a operare preventivamente, impedendo di mettere ciascun elemento appunto in contraddizione con l’altro, impedendo cioè il formarsi stesso della contraddizione12. 5. Come ciò sia possibile lo si può comprendere alla luce di un concetto elaborato proprio da Matte Blanco. Secondo Matte Blanco, infatti, nell’inconscio più profondo vige l’identità fra la parte il tutto, sicché una parte è trattata come identica all’insieme a cui appartiene, e conseguentemente come identica a tutti gli altri elementi di quell’insieme. Sia il pene, sia la vagina, sono organi 12 Ciò mi sembra confermato dalla soluzione terapeutica che Matte Blanco individua, e che definisce dispiegamento. A proposito del caso clinico a cui si riferisce nei passi riportati e di un caso analogo, egli osserva: «In entrambi i casi vediamo affetti contraddittori» (I. Matte Blanco, op. cit., p. 429, tr. it. p. 476). E soggiunge: «I due casi descritti suggeriscono decisamente che un’importante funzione dell’Io è quella di dispiegare la molteplicità in modo che non appaia nessuna contraddizione» (ibidem, tr. it. pp. 476-7). Il dispiegamento dunque è un tentativo di risolvere la contraddizione. È terapeutico in quanto risolve la contraddizione.
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SENSO E INSENSATEZZA
genitali, dunque partecipano dell’insieme degli organi genitali, sicché in virtù dell’identità fra la parte e il tutto, risultano uguali fra loro. Dunque non si contrappongono perché sono addirittura la stessa cosa. In sostanza, nell’inconscio più profondo la contraddizione è assente perché è assente la sua condizione di possibilità, che è la distinzione fra le cose. Soltanto se una cosa è diversa da un’altra può essere incompatibile con quest’altra. Soltanto se il pene è diverso dalla vagina, l’avere un pene può essere incompatibile con l’avere una vagina. Matte Blanco infatti definisce l’inconscio più profondo una «totalità omogenea e indivisibile»13. Cioè nello stesso modo in cui Parmenide definisce l’essere: «tutto insieme nella sua compiutezza, uno continuo […], non divisibile perché tutto eguale»14.
13 I. Matte Blanco, op. cit., p. 349, tr. it. p. 385; il corsivo è di Matte Blanco. Anche se alcuni anni dopo soggiunge: «Ulteriori riflessioni mi hanno portato ad abbandonare la parola “omogeneo” e adesso tendo a parlare solo di totalità indivisibile» (I. Matte Blanco, Thinking, Feeling, and Being Routledge, London-New York 1988, tr. it. di P. Bria, Pensare, sentire, essere, Einaudi, Torino 1995, p. 75, tr. it. p. 107). Per la comprensione dell’importanza di questo passo cfr. il mio Simbolo e assenza, Moretti&Vitali, Bergamo 2015. 14 Parmenide, Frammenti, tr. it. cit., pp. 233-4. Matte Blanco, infatti, non manca di riconoscere il suo debito a Parmenide (I. Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets cit., p. XXV, tr. it. p. CXIV).
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II 1. Se l’assenza inconscia di contraddizione non dev’essere intesa come assenza del principio di non contraddizione, anche per questa ragione essa non può essere intesa come un occultamento della contraddizione. Per poter essere occultata, infatti, la contraddizione deve essere dapprima individuata. E lo strumento con cui viene riconosciuta una contraddizione è il principio di non contraddizione. Ma, come abbiamo visto, l’occultamento della contraddizione avviene con un passaggio intermedio che è la fusione di due tendenze opposte. È la fusione di due tendenze opposte in una condotta in grado di soddisfarle entrambe, lasciando irrisolto il problema della loro conciliabilità – come nel caso della bambina che ruba una barra di cioccolato in una maniera tale da venire scoperta –, ciò che mette fuori gioco il principio di non contraddizione ma non la contraddizione stessa. Sicché, in definitiva, la psiche finisce con il trovarsi dinanzi a una contraddizione senza lo strumento per riconoscerla. E risulta proprio questa, alla luce della ricostruzione di Foucault, la specificità del meccanismo morboso. Ma questa iniziale utilizzazione e questo successivo abbandono del principio di non contraddizione non corrispondono all’assenza inconscia di contraddizione, per la quale, appunto, la contraddizione è assente, dunque non c’è affatto. Dobbiamo distinguere allora due livelli dell’inconscio, uno più originario e profondo, nel quale appunto la contraddizione non c’è, e uno che invece presuppone la contraddizione ed è al servizio del suo occultamento, che cioè rimuove la contraddizione dalla coscienza, nascondendola dentro di sé. E cioè: un livello in cui la contraddizione è assente perché il principio che le si oppone ne impedisce la costituzione, e un livello in cui la contraddizione
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SENSO E INSENSATEZZA
è presente ma è assente il principio in grado di rilevarla. Oppure anche: un livello in cui la contraddizione non appare perché è assente e un livello in cui la contraddizione non appare perché è solo occultata, occultata e tuttavia presente. Assenza di contraddizione e assenza del principio di non contraddizione, cioè, lungi dall’essere due diversi modi di denominare una stessa caratteristica dell’inconscio15, corrispondono a due diversi livelli di profondità dell’inconscio. Si deve pensare quindi che ci sia un inconscio più profondo in cui la contraddizione non c’è e un inconscio meno profondo, più prossimo alla coscienza, in cui la contraddizione è presente ma occultata: un inconscio senza contraddizione e un inconscio in cui la contraddizione è occultata, dunque un inconscio che svolge appunto la funzione di occultare la contraddizione. Ma alla radice dell’occultamento della contraddizione, come osserva Foucault, c’è l’angoscia. È l’angoscia a trasformare la contraddizione esterna, visibile, in contraddizione interna, invisibile e dunque a trasformare – proprio grazie al rendersi invisibile, all’occultarsi della contraddizione – il conflitto normale nel conflitto patologico, nel conflitto che acuisce la contraddizione attraverso il mirare a evitarla, e acuisce il dolore attraverso il mirare a evitarlo. 2. Ciò avviene presumibilmente perché il dolore e l’angoscia sono fra loro alternativi, perché l’angoscia esclude il dolore e il dolore, per parte sua, è una difesa dall’angoscia. L’angoscia, ci insegna Kierkegaard, è il sentimento del possibile, lo stato d’animo che si determina dinanzi all’equivalenza di tutte le possibilità. Ma se tutto si equivale, tutto è sostituibile, e niente, il venir meno di nessuna cosa, può provocare dolore. L’angoscia dunque esclude il dolore. Che il dolore, per parte sua, sia una difesa dall’angoscia lo si comprende se si considera che se pensassimo che le cose che ci stanno a cuore finiscono nel nulla non dovremmo soffrire per il loro destino, se soffriamo per loro vuol dire che pensiamo che continuino a esistere, che continuino a esistere in un “luogo” in cui si soffre, in un “luogo” in cui si ha nostalgia del mondo. Il 15
Come si è generalmente ritenuto finora.
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CONTRADDIZIONE E FOLLIA
nostro soffrire per loro è cioè un modo per tenerle in vita, dunque per risparmiarci l’angoscia del loro annullamento. Il dolore è come una barriera che si frappone fra la psiche e l’angoscia dell’annullamento, laddove l’angoscia non è un genere di dolore – un dolore intenso, profondo, spaesante – ma qualcosa di essenzialmente diverso dal dolore e, appunto, di alternativo a questo. Non è esatto allora affermare che il dolore si acuisce attraverso il tentativo di sfuggirgli. Il dolore si acuisce attraverso il tentativo di sfuggire all’angoscia. E si comprende anche meglio il perché di un tale fenomeno: il dolore si acuisce in misura di quanta della sua intensità si rende necessaria per allontanare l’angoscia.
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III 1. Abbiamo visto come Matte Blanco, definendo l’inconscio più profondo come una «totalità omogenea e indivisibile», lo definisca nello stesso modo in cui Parmenide definisce l’essere. Ma Parmenide ha concepito l’essere come omogeneo e indivisibile per non cadere in contraddizione: nella contraddizione di ammettere l’esistenza del nulla. Affinché l’essere sia articolato in parti diverse fra loro, infatti, è necessario ammettere l’esistenza di un’intercapedine di nulla fra una cosa e l’altra, che abbia la funzione appunto di distinguerle. Affinché la casa non sia l’albero che le è affianco, è necessario che ci “sia” “qualcosa” fra la casa e l‘albero che non sia né l’una, né l’altro. E non si può dire che sia l’aria. Perché, affinché la casa non sia l’aria, è necessario che ci sia qualcosa fra la casa e l’aria che non sia né la casa, né l’aria. L’intercapedine fra una cosa e l’altra insomma non può essere a propria volta una cosa ma deve essere nulla: quel nulla di cui Parmenide non ammette l’esistenza16. Si conferma qui come l’assenza inconscia di contraddizione vada ricondotta a un’azione preventiva del principio di non contraddizione. Ma si deve aggiungere che ciò avviene in quanto per rispettare appunto tale principio viene esclusa l’esistenza del nulla. E infatti, come abbiamo visto, Freud afferma che «il nostro inconscio […] non crede alla propria morte»17. Più in generale egli afferma che l’inconscio «non conosce alcunché di negativo (nichts Negatives)»18, dunque neanche il nulla che è la radice del 16 Sono temi complessi che ho trattato in maniera lievemente più approfondita nel mio L’inconscio e l’aporia del nulla, op. cit., e su cui tornerò nel mio prossimo Severino e Matte Blanco. 17 S. Freud, Zeitgemässes über Krieg und Tod cit., p. 350, tr. it. p. 144. 18 Ibidem.
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negativo19 E afferma infine che «l’inconscio è soprattutto fuori del tempo (zeitlos)»20, laddove è in quanto il nulla non esiste che niente trovare nel tempo, prima o poi, la sua fine, che niente può finire nel nulla. 2. Ma se non ammettendo l’esistenza del nulla non si ammette la differenza fra le cose, ne consegue che le cose, nella loro individualità, svaniscono. Se la vagina e il pene sono la stessa cosa svanisce l’individualità di entrambi: entrambi, intesi nella propria individualità divengono nulla. In tal modo, cioè, si finisce con l’affermare il nulla che si vuole negare. Scacciato dalla porta, il nulla rientra dalla finestra. Non solo, ma se Parmenide nega l’esistenza di una molteplicità di cose per negare l’esistenza del nulla, tuttavia soltanto affermando che nessuna cosa finisce nel nulla, dunque ammettendo preliminarmente la molteplicità, si può negare radicalmente l’esistenza del nulla21. Soltanto ammettendo l’impossibilità che ciascuna cosa, nella sua irripetibile individualità, finisca nel nulla si nega compiutamente l’esistenza del nulla. Perché se davvero il nulla non è, niente può finire in esso. E tuttavia per ammettere la molteplicità bisogna preliminarmente ammettere un’intercapedine di nulla fra le cose. E dunque anche in questo caso rientra dalla finestra il nulla scacciato dalla porta. Si deve concludere allora che bisogna ammettere l’esistenza del nulla per poterla negare?22 19 Ed è perché non conosce «alcunché di negativo», non conosce «neppure la morte, alla quale si può dare soltanto un contenuto negativo» (ibidem). 20 S. Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens, GW, vol. IV, p. 305n, tr. it. di F. C. Piazza, M. Ranchetti, E. Sagittario, Psicopatologia della vita quotidiana, OSF, vol. IV, p. 293n. 21 Il punto di riferimento cioè è anche qui – com’è ovvio – l’opera di Severino. Cfr. in particolare La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, (I ed. La Scuola, Brescia 1958), Essenza del nichilismo cit., Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013. 22 Posso sbagliarmi, ma mi sembra che non si tratti qui della circostanza che la negazione presuppone l’esistenza di ciò che è negato, che è ciò che, secondo Gennaro Sasso, costituisce l’aporia del nulla (cfr. G. Sasso, Essere e negazione, Morano, Napoli 1987, pp. 169- 227). E mi sembra anche che non si tratti dell’isolamento di un momento dell’autonegazione del nulla, isolamento al quale l’aporia del nulla è ricondotta da Severino (E. Severino, La struttura originaria cit., pp. 209-33). Fra
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3. Poiché ammettere l’esistenza del nulla è contraddittorio – anzi è la radice di tutte le contraddizioni – ciò equivale a chiedersi se per superare la contraddizione bisogna preliminarmente ammetterla. In altri termini, se sia negando l’esistenza del nulla attraverso il negare la molteplicità, sia negando l’esistenza del nulla ammettendo la molteplicità si finisce con il riammettere il nulla che si nega, si determina in entrambi i casi un’implicazione reciproca di esistenza e di inesistenza del nulla. E tale implicazione reciproca appare come un’ulteriore contraddizione. Ora, tale contraddizione non può risolversi in un modo analogo a quello in cui può essere risolta la contraddizione fra l’avere il pene e l’avere la vagina. L’esistenza del nulla, infatti, non può essere assimilata alla sua inesistenza in nome di una totalità che li comprenda entrambi, e che li assimili in virtù dell’identità fra la parte e il tutto. Tutto ciò che è, infatti, è essere. E la totalità di tutto ciò che è non include ma esclude il nulla. E dunque tantomeno si può pensare che il nulla e l’essere siano la stessa cosa, laddove è appunto tale identificazione ciò che è innanzitutto contraddittorio. 4. Ma allora la ragione, che non ammette la contraddizione, proprio per non ammettere la contraddizione, dunque per essere se stessa, deve implicare la sragione che la ammette?23 Può essere appunto questo il senso profondo dell’assenza inconscia di contraddizione. Tale assenza di contraddizione cioè non dev’essere intesa come una semplice assenza di elementi fra loro contraddittori ma come un risultare non contraddittori di elementi che altrimenti lo sarebbero, come un coesistere non contraddittoriamente di ciò che altrimenti sarebbe contraddittorio. È cosi, come abbiamo visto, per il pene e la vagina nel caso descritto da Matte Blanco. Ma può essere così anche e soprattutto per l’affermazione e la negazione dell’esistenza del nulla, un passaggio e l’altro, infatti, c’è in mezzo la nozione di molteplicità. Mi sembra al contrario che si tratti qui di una considerazione necessaria alla soluzione stessa di tale aporia, che cioè non infici la validità di tale soluzione ma che porti a una visione che la integra e la comprende in sé (cfr. il mio L’inconscio e l’aporia del nulla cit.). 23 E la sragione che pone il nulla dentro la vita per difendersi dal nulla che è fuori, al termine della vita prelude alla ragione che esclude il nulla?
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nel caso in cui l’affermazione dell’esistenza del nulla compaia all’interno del percorso che mira alla sua negazione. In questo caso le due espressioni “il nulla esiste” e il ”nulla non esiste” potrebbero coesistere armonicamente nell’inconscio. E potrebbero farlo, potrebbero coesistere armonicamente invece che contraddittoriamente, in ragione della comune propensione ad attenersi alla proposizione “il nulla non è”24. 5. Se si mettono le cose in questi termini, il «rapporto essenziale» fra ragione e sragione auspicato da Foucault appare ancor più evidentemente come la possibilità più profonda25. E come la profondità stessa della ragione. E altrettanto vale per la narratività indicata da Caracci, sospesa sul confine fra senso e vuoto di senso, in cui senso e insensatezza possono darsi solo ciascuno insieme all’altro. Al punto che proprio in ragione di questo loro darsi contestualmente il narrare la vita alla ricerca del suo senso può essere esso stesso il senso della vita. 6. Ma affinché ciò avvenga è necessario che l’esistenza del nulla non sia vissuta con angoscia. Dato che – come afferma Foucault – è l’angoscia «l’elemento morboso ultimo», quello che risolve la follia in follia alienata. Ma ciò può avvenire solo quando l’idea della morte è messa nella condizione di non poter togliere senso alla vita. E cioè quando all’orizzonte del senso della vita compare la nascita e non la morte, il nulla che annuncia la vita e non quello che le mette fine. E dunque in virtù dello slancio verso il nuovo racchiuso nella nostalgia. E se per Foucault l’angoscia scaturisce a propria volta dall’«esperienza contraddittoria» che l’uomo fa della sua condizione, nei rapporti basati su «concorrenza», «sfruttamento» e «rivalità», il risolversi della ricerca del senso nella narratività di cui parla Ca24 Ad attenersi a tale proposizione affermando o negando la molteplicità, cosa che in entrambi casi implica l’ammettere l’esistenza del nulla, e dunque in entrambi i casi fa rientrare dalla finestra il nulla scacciato dalla porta. 25 Del resto, come osserva Cesare Milanese: «Ciò che Foucault propone […] è l’elaborazione di una soggettività capace di autodeterminarsi potenziandosi» (C. Milanese, «Che cos’è l’autore» in L’immaginazione, n. 303, Manni, San Cesario di Lecce gennaio-febbraio 2018).
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racci costituisce un esempio di rapporti umani basati al contrario sulla comunicazione di ciò che di più profondo c’è in ciascuno, in cui ciascuno può restare in equilibrio sul filo che unisce e divide il senso e l’insensatezza grazie al rapporto con l’altro, trasformando ciò che altrimenti sarebbe puramente annichilente in qualcosa di puramente vitale.
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Inconscio e cultura
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ISSN 1972-1404
U
na cosa è il nulla che viene dopo la vita, un’altra, tutt’altra cosa il nulla che precede la vita. Il primo è un annichilimento, il secondo un preludio, sul cui sfondo la vita può ritrovare, intatta, la sua freschezza. Perché il passato quando è stato vissuto era qualcosa di nuovo, e la nostalgia mira innanzitutto a quest’elemento di novità racchiuso nel passato. È tracciato dunque dalla nostalgia l’orizzonte sul quale la vita a venire può stagliarsi in tutta la sua purezza: il segreto di un senso dell’esistenza che non può essere vanificato dall’idea della sua fine.
INCONSCIO E CULTURA 31
G
abriele Pulli insegna Psicologia filosofica e Psicologia dell’arte e della letteratura presso i corsi di laurea in Filosofia dell’Università di Salerno. Fra i suoi libri, ricordiamo Sul desiderio (Liguori 2003), La trasparenza di Elena (Clinamen 2007), Freud e Minkowski (Liguori 2008), Freud e Severino (Moretti&Vitali 2009, premio “De Risio” 2010), Sulla memoria (FrancoAngeli 2010), Sull’Edipo Re (Clinamen 2012), Il brivido dell’eterno. Su Pirandello e Freud (Clinamen 2016).
In copertina: Laura Bruno, Metamorfosi: bioetica, visioni modificate, 2014.
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