Ai confini dell'anima. I greci e la follia 8860303133, 9788860303134

Nella Grecia delle origini la follia non fu solo malattia, ma mezzo per forzare i limiti dell'anima e dilatare la p

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Italian Pages 226 [223] Year 2009

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Ai confini dell'anima. I greci e la follia
 8860303133, 9788860303134

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Giulio Guidorizzi

Ai confini dell'anima I Greci e la follia

Rajfàello Cortina Editore

www.raffaellocortina.it

ISBN 978-88-6030-313-4 © 2010 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2010 Stampato da Press Grafica SRL, Gravellona Toce (VB) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 5 4 7 8 6 2017 2018 2019 2020 2021

INDICE

1. L'invenzione della follia

11 11 17 21 31 43 48

Sapienza non è essere saggi Il tribunale della ragione Non è una malattia sacra Dei ed eroi della follia Pazzi liberi nella città Cure tradizionali della pazzia

2. Due modelli di follia

63 63 76 82 85 94

Il funesto pungolo Un secondo modello di follia Folli per delega della comunità Il poeta che vola Entusiasti e profeti

3. Mente e disturbi mentali in Omero La sottile materia dell'anima L'organizzazione degli stati mentali Intelletto e diaframma Una forma di follia provvisoria: il ménos Lo smarrimento mentale: dte e la perdita dell'anima La mente allucinatoria La follia dei pretendenti

4. Strategie della trance Oltre le barriere Estasi e trance Gli iatromanti Nel nome di Dioniso Una teoria della trance: la follia dei gruppi marginali

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111 111 121 129 132 138 143 153 159 159 167 173 184 201

INDICE

Appendice I. La follia delle donne

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Appendice II. Il "vangelo" dionisiaco delle Baccanti

217

Indice analitico

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A Vincenzo Lorzga, poeta e medico dell'anima

1 L'INVENZIONE DELLA FOLLIA

1tcivta 8eLCX Kaì. 1tcivta àv8pcòmva Tutto è divino e tutto è umano. IPPOCRATE, Sulla malattia sacra, 18

SAPIENZA NON È ESSERE SAGGI

Per i Greci la follia non fu solo il baratro buio della ragione, ma anche l'incontro con sfere nascoste della mente e con una di­ mensione dalla quale un essere umano resta escluso finché la mente non lo abbandona; non fu intesa solo come un cedimen­ to della coscienza, ma anche come un mezzo per forzare i suoi limiti e dilatare la personalità. Perciò lo statuto della follia in Grecia oscilla tra due estremi: in parte corruzione dell'anima, in parte profonda esperienza dello spirito, poiché solo attraverso la follia si può giungere a esplorare l'estremo confine della na­ tura umana. Ma la follia non è solo un problema degli esseri umani. I rituali estatici di Dioniso pretendevano di offrire, at­ traverso la follia, una forma diversa e superiore di sapienza, con­ trapposta a quella ricercata dalla ragione. Euripide fa dire alle sue baccanti, che proclamano una salvezza fondata sullo smar­ rimento della coscienza, "beato chi confonde l'anima nel grup­ po, posseduto da Bacco [ ... ] sapienza non è essere saggi" . 1 1. Baccanti, 72-75 e 395.

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Dopo Nietzsche, molti sono stati sedotti dall'idea di vedere la presenza della follia dionisiaca profondamente ancorata nel cuore stesso della cultura greca. Questo Dioniso è il signore di una vita in fermento che si realizza nella pienezza di ogni sua forma, come le sue baccanti mutano e rinnovano ogni cosa con il loro passaggio; per usare le parole di Kerényi2 questa è "una follia connaturata al mondo stesso, non quell'alterazione pas­ seggera o permanente che può colpire un uomo come malattia, non un'affezione, dunque, né una degenerazione della vita, ma la compagna della sua perfetta salute". Dioniso è qualcosa di molto diverso da un dio della follia: 3 è il dio alla cui essenza appartiene il fatto stesso di essere folle, poiché egli la conobbe su se stesso e perciò il delirio non è lon­ tano ed estraneo alla sua natura. Dioniso non è Era che si com­ piace del suo potere gettando la follia su altri, distanziandola in questo modo dalla sua essenza; Dioniso al contrario la rende vi­ cina e presente. Ma Dioniso non risolve il problema: la follia è anche la buia notte che cala sulla rabbia di Aiace e i fantasmi in­ sanguinati che perseguitano le ossessioni di Oreste matricida. È anche la cupa rabbia omicida di Edipo contro suo padre e quella di Eracle contro i suoi figli. Il culto estatico di Dioniso fu un fenomeno ben preciso del­ la religione greca, e fu anche, nella letteratura, non solo la dan­ za felice delle baccanti ma anche lo scempio di una madre paz­ za che uccide suo figlio, persuasa di compiere un atto sacro. La storia della follia in Grecia, perciò, non va vista soltanto come quella di una malattia: se per filosofi e medici essa di­ venne quello che sarebbe rimasta in seguito, l'oscuro territorio di confine tra delirio e violenza, il suo significato nella civiltà greca è molto più complesso e ambiguo. I Greci attribuirono alla follia, o almeno ad alcune sue manifestazioni, la dignità di linguaggio, uno dei tanti attraverso cui si può esprimere l'esse­ re umano. La pazzia poteva certo essere collocata al di fuori della società degli uomini, ma non esclusivamente nel senso di 2. K. Kerényi, Dioniso, tr. it. Adelphi, Milano 1992, p. 135. 3. W. Otto, Dioniso, tr. it. il Melangolo, Genova 2006, pp. 143-144.

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una degradazione: poteva anche essere un ponte tra la mente umana e la lingua segreta degli dei. Il solco tra follia e salute mentale venne tracciato per la pri­ ma volta nella Grecia dell'epoca classica e da allora ha costi­ tuito la prospettiva dalla quale considerare le alterazioni della ragione. La cultura del V secolo a.C., il secolo illuminista di Pe­ ricle e di Socrate, separò una serie di esperienze di confine ( quali l'estasi, la possessione e altri stati subliminali) dalla sfe­ ra della conoscenza per relegarle nel limbo delle manifestazio­ ni irrazionali. Con questo atteggiamento mentale si affermò l'i­ dea che non può esistere conoscenza senza un rigoroso svilup­ po del pensiero, ma nella storia della cultura greca arcaica va­ rie forme di alterazione mentale vanno associate a quello che si suole chiamare pensiero mitico. Come avviene per altre cultu­ re tradizionali, anche a quella greca si possono quindi applica­ re le parole di Lévi-Strauss secondo il quale "in ogni prospet­ tiva non scientifica pensiero patologico e pensiero normale non si contrappongono ma si completano" .4 Nella società greca arcaica, del resto, i fenomeni di altera­ zione della mente occupano un posto nella dimensione del ri­ tuale e della religione, poiché attraverso di loro si rende perce­ pibile la presenza di misteriose e invisibili forze divine; questo tipo di follia operava anche all'interno di istituzioni sociali, in santuari specializzati come Delfi e altri luoghi dove si praticava la divinazione estatica, oltre che nei rituali di trance, di cui il culto di Dioniso rappresenta solo l'aspetto più impressionante. Se la dialettica razionale diventò il metodo di lavoro dei nuo­ vi saperi laici, in particolare filosofia e medicina, sino a quel fa­ tale momento il sapiente poteva muoversi anche oltre i confini della mente razionale. Per meglio dire, i modelli di razionalità erano diversamente orientati; l'operare del profeta non è pura disragione, ma adotta una razionalità divinatoria che, pur fun­ zionando con meccanismi diversi rispetto a quelli della logica formale, si esprime attraverso un sistema simbolico coerente e 4. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, tr. it. il Saggiatore, Milano 1966, p. 204.

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complesso.5 Se è follia, dunque, questo tipo di follia ha pure un metodo. Non è pura follia nemmeno il delirio di Pizie e Sibil­ le, e persino uno dei fondatori della razionalità occidentale, Platone, era disposto a riconoscerlo. I sapienti del tardo arcaismo praticavano forme non com­ pletamente razionali di pensiero, utilizzando procedimenti mentali simbolici e analogici,6 e tra le loro attività trovavano posto purificazioni, visioni, viaggi dell'anima, forme di medi­ tazione profonda. La sapienza greca (come è stato detto) ha origine oscure, dentro e fuori dalla ragione, poiché in questi sapienti la conoscenza passa attraverso la vita, e la vita contie­ ne in sé ragione e non ragione. ì Un elenco di "estatici" trasmesso da Clemente Alessandri­ no, nella tarda antichità, include oltre a personaggi dediti a estasi e trance divinatoria, anche gli insospettabili nomi di So­ crate (il quale dal canto suo praticava forme di meditazione profonda ed era attirato da rituali di trance, come quelli dei Coribanti), Pitagora, Empedocle, Epimenide di Creta, che fu un sapiente dai tratti molto particolari: visionario, estatico e purificatore, teologo e profeta (oltre che inventore del "para­ dosso del mentitore"). Di un altro sapiente del tardo arcaismo, Aristea di Proconneso, si diceva che fosse un phoib6leptos, un "posseduto da Apollo" e in fondo anche per Eraclito, all'inizio del V secolo a.C., la pazzia, o almeno alcune sue manifestazio­ ni, erano da collocare decisamente entro i confini della sa­ pienza, anche se di una sapienza sacra: "La Sibilla (si legge in un famoso frammento) 8 con bocca folle (mainoméno st6mati), senza sorriso, senza abbellimenti, senza profumi raggiunge con le sue parole uno spazio di mille anni grazie al dio". Il delirio di sacerdotesse che profetizzano in stato di trance 5. Su questo punto vedi].-P. Vernant, Divinazione e razionalità, tr. it. Ei­ naudi, Torino 1982. 6. I procedimenti sulle modalità della logica prearistotelica, fondati su procedimenti di analogia e polarità, sono stati analizzati da G.E.R. Lloyd, Polarity and Analogy, Cambridge University Press, Cambridge 1966. 7. Per queste considerazioni vedi G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1977, vol. I, pp. 15-31. 8. Eraclito, fr. 92 D.K.

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esprime una conoscenza estatica che si avvale di schemi di pen­ siero obliqui, quali l'enigma e la metafora. Lo stesso Platone, del resto, accettava come un dato di fatto l'idea tradizionale che gli stati allucinatori della mente sono un mezzo di contat­ to con le forze divine e occulte che formano una realtà più al­ ta di quella visibile: per usare le sue parole, solo quando la for­ za dell'intelligenza (phronéseos dynamin) è inceppata dal son­ no o dal delirio un uomo può pervenire a quella speciale e su­ periore forma di conoscenza che è la divinazione, "unico far­ maco contro la stoltezza umana", dato che "nessuno che sia padrone della propria mente raggiunge una divinazione ispi­ rata dal dio e veritiera";9 persino Aristotele, notoriamente scet­ tico verso ogni forma di divinazione, riconosceva come un da­ to di fatto empirico la capacità di preveggenza di "certe perso­ ne predisposte alla trance (ekstatikol)". 10 Anche l'ispirazione del poeta "posseduto dalle Muse" che improvvisa davanti al suo uditorio rientra (come vedremo me­ glio poi) tra le manifestazioni della mente visionaria; in questo caso la forza creativa si manifesta solo quando una misteriosa forza irrazionale (in genere definita enthousiasm6s) moltiplica le energie psichiche, come se all'io normale se ne sovrappo­ nesse un altro più potente e incontrollabile, tanto che (per usa­ re ancora le parole di Platone) "un poeta non è in grado di crea­ re prima di essere invasato e fuori di sé, e prima che la ragione si allontani da lui".11 La follia, inoltre, fu oggetto di una riflessione collettiva at­ traverso il teatro attico, dove in un numero notevole di trage­ die è il vero motore dell'azione e appare intimamente connes­ sa con l'esperienza del dolore umano. Anche nel mito tradi­ zionale, che appartiene alle più antiche radici sapienziali della civiltà greca, la presenza della pazzia è decisamente pervasiva, tanto che si potrebbe concordare con le parole di Slater, 12 se9. Platone, Timeo 71 e. 10. Aristotele, La divinazione dai sogni, 4 64 a. Per questo testo vedi Il sonno e i sogni, a cura di L. Repici, Marsilio, Venezia 2003. 11. Ione, 534 b. 12. P.E. Slater, "The Greek family in history and myth", in Arethusa,

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condo il quale nessuna mitologia fu così profondamente assil­ lata dalla follia quanto quella greca. Non è quindi esagerato dire che una certa organizzazione del pensiero che andò poi a confluire nel concetto di maniaco­ stituì una componente fondamentale della mentalità arcaica, tanto più che l'organizzazione logica, scientifica ed etica dell'e­ sperienza - la gloria della civiltà greca - nacque per confronto col mondo della preragione, con cui gli intellettuali greci si mi­ surarono sin dalle origini. Dalla follia alla ragione, dal mito al logos è una delle tradizionali chiavi di lettura della civiltà gre­ ca; si tratta certo di una semplificazione, poiché in realtà mito e logos sono intrecciati lungo il percorso di quella cultura, co­ me pure ragione e follia. Quest'ultima non cessò, malgrado tut­ to, almeno sino all'età classica, di animare la vita dello spirito con la sua forza, espressa attraverso le forme mitiche di pen­ siero, che hanno dato corpo al grande patrimonio di leggende con cui i Greci interpretavano la loro cultura. A partire dall'epoca in cui la categoria di "follia" fu esami­ nata per la prima volta come un fenomeno unitario, nell'Atene del v secolo a.C., i limiti tra follia e normalità psichica sono sta­ ti spostati avanti e indietro molte volte. Del resto, la grande maggioranza delle informazioni sulla follia in Grecia proviene da scrittori del V secolo o posteriori, il che non è un piccolo condizionamento: soprattutto perché, anche quando trasmet­ tono credenze arcaiche, queste sono filtrate alla luce di un am­ biente in cui il razionalismo dominante presso gli intellettuali aveva ormai assegnato alla pazzia il ruolo che avrebbe conser­ vato anche in seguito, ossia quello di una devianza dello spiri­ to, di una malattia della mente o dell'anima. Eppure, anche queste testimonianze così orientate offrono un quadro impressionante di come le alterazioni della perso­ nalità intervenissero a determinare una serie di comportamen­ ti collettivi, capaci di attraversare trasversalmente la società. 1974, p. 27; vedi pure]. Mattes, Der Wahnsinn im griechischen Mythos und in der Dichtung bis zum Drama des/un/ten Jahrhunderts, Winter, Heidelberg 1970, p. 8.

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La nozione stessa di follia presenta contorni frastagliati e mol­ teplici, tanto che c'è da disperare di riuscire a giungere a un'u­ nità. Per i Greci mania identificava il divino furore che sta alla base dell'ispirazione poetica e profetica, e nello stesso tempo il delirio di un ammalato descritto dai medici del Corpus Hippo­ craticum. Non è però solo una questione di terminologia; la fol­ lia per i Greci fu anche una serie di realtà diverse: malattia, espressione religiosa, istituzione culturale, in una società in cui i folli non erano reclusi e isolati dato che la comunità dei sani decise di coesistere con quella degli alienati. Una follia di questa natura è qualcosa di molto diverso da una patologia dello spirito. Studiare la follia nel mondo greco significa contemporaneamente studiare gli ambiti in cui si svi­ luppa l'attività del folle. Questi sono sorprendentemente va­ sti; a mano a mano che prevale una nozione scientifica della follia, il valore di questa parola tende a restringersi a determi­ nate categorie di persone; ma in origine, la follia è una dimen­ sione stessa dell'essere umano, perciò non può essere separata da lui e dalla società. In molti scrittori greci- da Sofocle a Platone stesso - conti­ nua a sopravvivere l'idea che la follia, o alcune sue manifesta­ zioni, costituiscono un'avventura della ragione umana, capace di animare la vita dello spirito con la sua ombra inquietante. Il folle può essere un malato, ma è anche un uomo in grado di for­ zare i limiti della coscienza e di gettare lo sguardo là dove gli al­ tri non vedono e conoscere nella sua mente abissi spaventosi o estasi visionarie. IL TRIBUNALE DELLA RAGIONE Come scrisse Eric Dodds, esisteva nell'Atene del V secolo a.C. un circolo di persone - tra cui il giovane Platone - che non solo si vantava di risolvere ogni problema davanti al tribunale della ragione, ma giudicava l'intera condotta umana dal punto di vista dell'egoismo razionale ed era convinto che la virtù con17

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sistesse in un sistema di vita razionale, e che la felicità consi­ stesse nel raggiungimento della virtù. 13 A partire dall'epoca dei sofisti, di Socrate e del suo discepolo Platone la cultura greca prese a scindere ragione e irrazionalità come le due componenti fondamentali dell'anima, che coesi­ stono inseparabili in essa "come in un oggetto sono insepara­ bili il concavo e il convesso" . 14 Coesistono, ma si pongono co­ me aspetti alternativi della personalità e dei processi psicolo­ gici: o si lascia emergere la parte incosciente dell'anima e allo­ ra si rischia il crollo della ragione e la follia del male, oppure la si educa e allora si conquista la sapienza; in questa prospettiva, la follia appare come il punto estremo di degradazione dell'e­ quilibrio spirituale, a cui si arriva quando gli istinti mossi dal­ la parte irrazionale dell'anima non vengono tenuti a freno dal­ la parte superiore e dominante, cui la prima è gerarchicamen­ te inferiore dato che, come dice Platone nel Timeo 15 "contiene in sé passioni gravi e terribili: il piacere, massima esca al male, poi i dolori che mettono in fuga i beni, poi l'arroganza e il ti­ more, consiglieri stolti, l'ira implacabile, le illusioni". La parte non razionale dell'uomo comincia a essere intesa come quella che rischia di portare un uomo lontano dalla pro­ pria umanità, e tale lontananza ha il suo punto finale nella fol­ lia, dove si oggettiva il cedimento di un essere umano alle for­ ze che ne costituiscono la parte oscura. La presenza sotterranea dell'irrazionale che minaccia e insidia lo spazio faticosamente dissodato dall'uomo intorno alla propria mente fu uno degli aspetti più profondi della cultura greca del V secolo a.C., forse quello in cui meglio gli scrittori coevi individuarono la tragedia e la grandezza della natura umana. Probabilmente non è esa­ gerato dire che la grande cultura dell'epoca classica, più che sull'orgoglio della ragione, si sia costituita sulla consapevolez13. E.R. Dodds, I Greci e l'i"azionale, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1959 (e successive ristampe), p. 245. 14. Aristotele, Etica eudemia, 1219 b. Entrambe le parti dell'anima par­ tecipano della ragione, ma in modo diverso, ed è quella pienamente razionale che ha il compito di comandare e dirigere l'altra. 15. Platone, Timeo 69 cd.

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za della fragilità della ragione, che può organizzare e control­ lare le forze oscure che l'assediano solo quando assume la co­ scienza della sua precarietà e insieme della sua unicità. Davan­ ti alla pazzia di Aiace, reso folle da un semplice soffio di Ate­ na, l'Odissea di Sofocle comprende le ragioni profonde della fragilità della persona umana; lo spettacolo di Aiace demente, il quale, dopo una notte passata a inseguire i suoi fantasmi, de­ lira nella sua tenda, grottesco e spaventoso nello stesso tempo, suggerisce all'eroe "dalla mente screziata" (poikilométis), che fa dell'intelligenza la sua forza, la consapevolezza non solo del­ la fragilità della ragione, ma insieme a essa di tutta la natura umana: "Nella sua sorte vedo anche la mia e vedo che noi tut­ ti che viviamo non siamo altro che fantasmi e ombre vane" . 16 In quella possente riflessione sui confini tra ragione e follia che sono le Baccanti di Euripide, questa dialettica emerge in tutta la sua insidiosa ambiguità. Quando il re Penteo, troppo angusto cultore dell'ordine e della normalità, viene condotto ad affacciarsi sul baratro della follia, ne resta inesorabilmente ri­ succhiato: "Mi pare di vedere due soli, due volte le sette porte di Tebe, e tu che mi conduci sembri un toro". "Ora sì vedi ciò che va visto", è il beffardo commento di Dioniso che gli ha tol­ to la ragione. Quello che Penteo non sa, ma il padrone della fol­ lia, Dioniso, conosce bene, è che la rabbia e l'odio del re verso ciò che le baccanti rappresentano, la sua sessuofobia, la sua gretta mediocrità, mascherano un aspetto profondo del suo Io, e che il suo odio per l'irrazionalità è segno della sua profonda scissione, poiché la follia che a un certo punto emerge in Pen­ teo e lo fa travestire da baccante lascia intravedere nella natu­ ra di questo rigido difensore della moralità gli stessi tratti che rimprovera alle baccanti e al loro dio. Come è stato giustamente scritto "il dio che lui combatte è in realtà la parte profonda di se stesso: la sua vanità, la sua arroganza, la sua presunzione, la sua insicurezza, la sua nascosta sensualità" . 17 16. Sofocle, Aiace, 123-126. Sulla follia di Aiace vedi tra l'altro le belle pa­ gine diJ. Starobinsky, Tre/urori, tr. it. Garzanti, Milano 197 8, pp. 11-57. 17. R. P. Winnington-Ingram, Euripides and Dionysos: An Interpretation o/ the Bacchae, Cambridge University Press, Cambridge 194 8, p. 5 4.

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Sophia e mania s'intrecciano tra loro sulla scena della trage­ dia attica come elementi profondi della mente umana, ma so­ no forze tra loro ribelli. Non ci si abbandona più tra le braccia della follia, persuasi che in lei vi sia qualcosa di sacro, anzi la si sfida, la si combatte: "Non contaminarmi con la tua follia" gri­ da il troppo aridamente razionalista Penteo a chi cerca di far­ gli accettare la dolce follia di Dioniso, questo dio che, con il suo sacro delirio, afferma di essere "dolce e terribile per gli uo­ mini" . 18 Dolce e terribile: colui che ricrea per le sue baccanti il beato mondo delle origini, dove zampillano fonti di latte e di miele e tacciono le pene, ma poi le trasforma in animali assas­ sini che fanno a hrani a mani nude gli esseri umani. Platone identificava la follia con le pulsioni irrazionali della mente, pronte a manifestarsi in ogni uomo. Follia e ragione so­ no nemiche, e la mente di un essere umano oscilla tra queste due dimensioni, sempre sull'orlo del precipizio ; per usare un'immagine platonica, è una "guerra civile" (stdsis) che si combatte tutta dentro l'uomo, e il pensare la malattia della mente in termini di conflitto psicologico cogliendo in essa la di­ namica più profonda della vita spirituale può essere conside­ rata (come è stato detto) "una delle cose di più sorprendente modernità nella filosofia platonica". 19 Considerando l'uomo misura di tutte le cose, e la ragione la misura dell 'uomo, i Greci sottrassero la follia agli dei e la resero umana. Infatti se il folle è un malato, come dicevano i medici, op­ pure un essere umano che ha abbandonato la strada della ragio­ ne, come affermavano i filosofi, allora esso è passibile di cure op­ pure di educazione; cessa di essere un mediatore tra piani di­ versi della realtà, per certi aspetti un individuo privilegiato in contatto con la sfera invisibile degli dei e dei demoni, e diventa un'inquietante presenza tra gli uomini, poiché il suo delirio, la paura che ispira con il suo sguardo e i suoi atti incontrollabili, la sua stessa paura irrazionale che lo spinge a fuggire senza meta verso un nulla a lui solo visibile (come tanti eroi tragici, da lo a 18. Euripide, Baccanti, 344 e 861 . 1 9 . E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, cit., p . 253.

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Oreste), mostrano a tutti che esiste qualcosa di profondo, den­ tro l'uomo, che può improvvisamente aprirsi e inghiottire ciò che ragione e civiltà hanno faticosamente costruito. In questo modo, si fa persino possibile l'utopia di un mon­ do che ha completamente sconfitto la follia, un mondo che non possiede folli ed è quindi perfettamente ordinato e razionale, un'utopia che forse era in qualche modo presente nelle radici stesse della cultura greca e che si manifesta tra l'altro nella gran­ de architettura della città ideale della Repubblica di Platone, dove persino i poeti ispirati non hanno diritto di cittadinanza. È su questa linea di pensiero che si arriva fino alla concezione di ragione tipica della cultura occidentale, e assumono un sen­ so anche le parole di Foucault, secondo il quale "potrà forse av­ venire un giorno che l'umanità si dimentichi della follia; e le sue tracce forse appariranno una semplice macchia nera im­ pressa sulla storia dell'uomo" .

NON È UNA MALATTIA SACRA Verso la fine del V secolo a.C., parallelamente allo sviluppo della grande cultura razionalistica, negli scritti medici comin­ ciano a comparire le prime analisi sulle malattie mentali. La follia così entra nella storia della medicina per la via principa­ le, grazie a uno degli scritti più importanti del Corpus Hippo­ craticum, il trattato Sulla malattia sacra.20 La malattia sacra nel­ la mentalità tradizionale era identificata con l'epilessia, e l' epi­ lessia rientrava nella più ampia categoria della possessione. Nella mentalità tradizionale, l'epilettico è tale perché posse­ duto da un dio, che poi lo abbandona al termine dell'attacco, e il suo corpo è perciò un corpo sacro e nello stesso tempo con­ taminato. Il trattato descrive con precisione clinica i sintomi di 20. Ippocrate, Sulla malattia sacra, edizione critica a cura di H. Grense­ mann, Berlin 1968; traduzioni italiane recenti: G. Lanata, Boringhieri, Tori­ no 1961; M. Vegetti, UTET, Torino 19762 ; Ippocrate, Testi di medicina greca, tr. it. A. Lami, introduzione di V. Di Benedetto, Rizzoli, Milano 1983, pp. 2 16-235; Sulla malattiasacra, ed. a cura di A. Roselli, Marsilio, Venezia 1999.

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ciò che si definisce "grand mal", ma non si ferma a ragionare solo sull'epilessia in quanto malattia. In realtà, il trattato esa­ mina nel loro complesso i fenomeni della mente e prende po­ sizione sul problema della follia e delle concezioni tradiziona­ li dei disordini mentali; perciò la discussione sull'epilessia of­ fre uno spaccato significativo del modo con cui i medici greci dell'epoca consideravano i disturbi della mente, facendone l'occasione anche di una battaglia culturale contro modi di pen­ sare tradizionali. 2 1 Se l'epilessia non è una forma di follia, nel senso moderno del termine, alcuni dei sintomi descritti dal me­ dico, come angosce notturne e desideri di fuga, sono attinenti anche ad altri disturbi psichici. Gli uomini devono sapere che da null'altro ci giungono piace­ ri, gioie, risa, ilarità che dallo stesso luogo donde ci provengo­ no dolori, afflizioni, tristezze e pianti [ . . . ] . È con quello che di­ veniamo pazzi (main6metha) e deliriamo, e ci si presentano pau­ re ed angosce alcune di notte, altre di giorno, e insonnie, e im­ prowisi desideri di fuga e preoccupazioni fuori luogo e inca­ pacità di intendere la realtà e perdita della memoria: proviamo tutto questo dal cervello, quando non è sano ma diventa più caldo o più freddo o più secco o più umido della sua natura. (Ippocrate, Sulla malattia sacra, 17) Sono parole importanti, a loro modo decisive; il libro Sulla malattia sacra offre la più ampia discussione che si trovi nel Corpus Hippocraticum sul funzionamento della mente e dei suoi disturbi, e questo all'interno di un appassionato discorso sul nesso tra medicina e religione, dove i disturbi del comporta­ mento erano un tradizionale terreno di contesa. La forza di questo trattato sta nell'ironia incalzante, persino trionfante, con cui il medico sfida l'ignoranza sfrontata dei guaritori e de­ gli esorcisti, e con l'entusiasmo con cui proclama la sua nuova teoria, che pone il cervello al centro della vita psicologica, co­ me unico organo del pensare. La follia rientra come le altre ma21. B. Simon, Mind and Madness in Greece, Cornell University Press, lthaca 1978, pp. 220-222.

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lattie nel sistema, tutto fisico, della teoria degli umori; flegma e bile sono gli umori che fanno ammalare il cervello: chi im­ pazzisce a causa del flegma rimane tranquillo e inebetito, chi impazzisce a causa della bile grida, si agita, si comporta in mo­ do inopportuno (Sulla malattia sacra, 18): melancholdo "sono in preda a un accesso di bile nera" significa "sono pazzo furioso" - la nozione di malinconia come successione di stati agitati e stati depressivi si sviluppa successivamente.22 La mentalità tradizionale includeva l'epilessia nella sfera del­ la possessione. L'origine di questa malattia veniva spiegata con un intervento demonico: un dio s'impadronisce del corpo di un essere umano, e lo fa cadere a terra, con la schiuma alla bocca e gli occhi stralunati, paurosamente, senza preavviso. In Gre­ cia, come nel Vicino Oriente, si pensava del resto che molte malattie avessero origine demonica. 23 Ma - dice il nostro autore - questa non è possessione e nep­ pure veramente pazzia; è soltanto una malattia del cervello, per cui si può dimostrare persino l'ereditarietà; è una malattia che si può curare e guarire, ma per farlo il primo passo è sottrarre i malati ai ciarlatani che pensano di curarla con purificazioni ed esorc1sm1: Questa malattia non è affatto più divina o più sacra delle altre malattie, ma ha la stessa natura da cui provengono anche le al­ tre. Però gli uomini hanno creduto che la sua natura e la sua causa fossero in qualche modo divine per ignoranza e per la sua natura straordinaria, dato che non somiglia per niente alle al­ tre malattie. (Ippocrate, Sulla malattia sacra, l )

Se questa è divina, ogni altra malattia è divina poiché la na­ tura ha in se stessa qualcosa di divino: pdnta théia kai pdnta anthr6pina "tutto è divino e tutto è umano". Se questa malat­ tia è divina, dovremo poi dire che sono divine anche le altre 22. A partire dal Problema trentesimo, attribuito ad Aristotele. 23. Un quadro dei sistemi di diagnosi e cura nella prospettiva della me­ dicina tradizionale è in G. Lanata, Medicina magica e religione popolare in Greciafino all'età di Ippocrate, Ateneo, Roma 1967, pp. 28-39.

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malattie mentali, in cui gli uomini escono di senno senza nes­ suna causa apparente e fanno molte cose strane. Alcuni grida­ no e gemono nel sonno, altri si sentono soffocare, altri balzano via dal letto nel cuor della notte, pazzi di terrore, e restano fuo­ ri casa sino a giorno fatto, e poi tornano a casa sani e in possesso della loro ragione, anche se stremati e deboli.24 Gli dei però lasciamoli stare, quando ci troviamo di fronte a questi malati; come dice un altro medico (l'autore del tratta­ to Sulla dieta) , "pregare gli dei è una cosa buona però pur chie­ dendo aiuto a loro conviene aiutarsi da sé". Per il nostro medico non esiste una malattia sacra, causata da un dio o un demone, non c'è un essere sacro, o un contamina­ to, davanti a noi, ma solo un pover'uomo che soffre e deve es­ sere curato con mezzi fisici, alla luce della scienza che il medi­ co possiede. E lasciamo stare anche i guaritori, che esercitano le loro pratiche con molte malattie, ma in particolare con i distur­ bi psichici perché questi, inspiegabili e inquietanti come sono, sembra affondino le radici nella sfera invisibile del sacro. I primi che hanno definito sacra questa malattia, secondo me, sono uomini come se ne vedono ancora oggi: maghi, purifica­ tori, ciarlatani, imbroglioni, gente che fa finta di essere pia e di saperla più lunga degli altri. Furono costoro, ammantandosi del divino, che lo usarono come pretesto per la loro incapacità di trovare rimedi, e per non essere smascherati come ignoran­ ti [ . . . ] e adottarono un sistema che garantiva la loro sicurezza, somministrando purificazioni, e incantesimi. (Ippocrate, Sulla malattia sacra, 2 )

L'autore del trattato Sulla malattia sacra assume una posi­ zione tutta laica e razionale davanti alla misteriosa natura del male; lo si può giudicare l'autore di una delle pagine più luci­ de scritte all'inizio della storia della scienza occidentale. Egli s'inserisce in una prospettiva in cui i disturbi del comporta­ mento sono ormai decisamente di pertinenza della medicina, e appartengono alla sfera dell'uomo, non a quella degli dei. 24. Ippocrate, La malattia sacra, 1 .

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All'incirca in questi decenni comincia a circolare una parola ignota o poco usata in precedenza, mania (manie, nel dialetto io­ nico dei medici ippocratici). Omero non la conosce, anche se talvolta usa il corrispondente verbo mainesthai in genere riferi­ to all'infuriare degli elementi o alla rabbia dei guerrieri. Mania designa le forme dell'alterazione mentale nel loro complesso in autori del V secolo a.C. e anche nel Corpus Hippocraticum com­ pare per designare all'incirca ciò che noi potremmo definire con "follia" . Nello stesso periodo gli scritti medici definiscono al­ cuni disturbi psichici, destinati a rimanere canonici: melancholia (il disturbo mentale attribuito alla bile nera), phrenitis (infiam­ mazione del diaframma, che produce follia) e altri. 25 Le ipotesi avanzate da questo medico sulla follia come ma­ lattia del cervello, quindi puramente organica, hanno una lar­ ga percentuale di arbitrarietà; tuttavia, l'importanza della sua posizione non sta nella sua teoria clinica quanto nella sua im­ postazione teorica. Collocando una malattia mentale nella sfe­ ra dell'umano, e in particolare della natura, egli trasforma i di­ sturbi attribuiti alla possessione demonica in una patologia del1' organismo e stabilisce il principio per cui le cause naturali producono effetti naturali: "Ciascuna malattia ha una causa naturale, e nulla avviene senza una causa naturale" . Più che un nuovo sistema di cura, il trattato Sulla malattia sa­ cra e le altre opere ippocratiche dello stesso periodo segnalano un mutamento nel paradigma, e i disturbi dei comportamenti - o presunti tali - sono un campo di battaglia prediletto per questo scontro. 26 Tra la fine del V e l'inizio del IV secolo a.C. la nozione e i sin­ tomi della mania cominciarono a essere esplorati dalla medici­ na greca in modo abbastanza approfondito, seppure non siste­ matico, dato che il quadro delle malattie mentali nella medici25. In generale, sulle malattie mentali nella medicina antica vedi J. Pi­ geaud, La maladie de l'ame: étude sur la rélation de l'ame et du corps dans la tradition medico-philosophique antique, Les Belles Lettres, Paris 1981; Lafol­ lia nell'antichità classica: la mania e i suoi rimedi, tr. it. Marsilio, Venezia 1995. 26. Su questo punto tendo a essere d'accordo con l'analisi di G.E.R. Lloyd, Magia, ragione, esperienza, tr. it. Boringhieri, Torino 1982 .

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na di questo periodo appare ancora fluido. L'autore del tratta­ to Sulla malattia sacra afferma che la pazzia è una malattia del cervello, e non di altri organi interni come alcuni suoi colleghi pensavano: il cuore, con le sue palpitazioni e la sua capacità di seguire il ritmo delle emozioni (come supponevano Diocle di Caristo e Prassagora di Cos, nel IV secolo a.C.),27 o anche l'ute­ ro (nel caso dei disturbi femminili). Un altro indiziato per i di­ sturbi mentali era il phrén, cioè il diaframma, sulla scorta di un modo di pensare tradizionale, espresso anche nei poemi omeri­ ci. In ogni caso, malattia della mente o di qualche organo inter­ no, essa ha origine da qualche parte dentro il corpo; è una ma­ lattia della physis, della natura, non espressione demonica. Alcuni aspetti della follia attirano con maggiore interesse l'attenzione dei medici, e in particolare quelli che sono com­ presi sotto la categoria designata dalla parola ph6bos " ango­ scia". La malattia mentale è vista secondo alcuni tratti tipici: la deformazione del viso e in particolare dello sguardo, che non vede oltre se stesso, ma è come se roteasse rovesciandosi verso il suo interno, verso i fantasmi che si agitano dentro la mente; la paura improvvisa e immotivata che assale chi è vittima di un accesso di follia; l'irrequietezza che fa fuggire i malati fuori dal­ le case, lontano dal consesso umano; le notti angosciose e pau­ rose, popolate da incubi. Lo sguardo stravolto e proiettato ver­ so l'interno, verso una realtà che non esiste se non per il pazzo, è il tratto che caratterizza la più completa descrizione lettera­ ria della follia, quella dell'Eracle di Euripide. Phobos, terrore, è il sintomo che si accompagna general­ mente alla follia. Quello che colpisce in speciale i medici del1'epoca ippocratica è appunto la fenomenologia della paura co27. Diocle spiegava la manie con il ribollire del sangue nel cuore, consi­ derato sede dell'intelligenza; la cura consisteva nel raffreddamento del cuo­ re e dell'organismo in generale con applicazioni fredde. La frenite era l'in­ fiammazione del diaframma, la melanconia un flusso di bile nera nelle re­ gioni del cuore, tale da offuscare il pensiero. Vedi Diocle, frr. 38, 40, 41, 42 e 59 W. Prassagora pensava che la pazzia fosse prodotta da un rigonfiamen­ to del cuore: fr. 62 S. Sulle origini del pensiero medico a proposito delle ma­ lattie mentali vedi V. Di Benedetto, Il medico e la malattia, Einaudi, Torino 1986, pp. 35-69; }. Pigeaud, La maladie de l'dme, cit.

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me manifestazione patologica; il ph6bos improvviso che assale alcune persone "sia di giorno sia di notte", come dice l'autore del trattato Sulla malattia sacra, quando descrive sostanzial­ mente quello che oggi si definirebbe un attacco di panico, ag­ giungendo poi che gli ammalati del "male sacro" preavvertono l'attacco della loro malattia e fuggono in luoghi isolati per ver­ gogna . 28 Pan, il dio pastorale dell'Arcadia, appare general­ mente evocato come causa di queste fobie improvvise, come di­ ce la nutrice nell'Ippolito di Euripide per spiegare l'alterazione mentale della sua padrona Fedra ( "Sei posseduta da Pan o da Ecate o dai venerabili Coribanti ?") ;29 per stornare l'assalto di Pan le donne usavano alzare grida ritmate facendo vibrare la lingua (ololulygmoi).3 0 In genere però il "panico" era identifi­ cato come fenomeno collettivo e applicato a situazioni milita­ ri. Le Baccanti descrivono fobie improvvise e collettive, attri­ buite all'intervento di un dio, non Pan tuttavia, ma in questo caso Dioniso, dio della follia e dio folle egli stesso: Quando un esercito è schierato, irnprowisamente una paura lo sconvolge ancor prima che si venga alle armi, e anche questa pazzia (mania) proviene da Dioniso. (Euripide, Baccanti, 302-305)

Non è un'idea nuova: gli dei o gli spiriti possono generare paura, togliere o aumentare il coraggio (come dicono anche gli eroi dell'Iliade). Un parallelo di questo tipo di credenze è quel­ lo che si legge nella Bibbia a proposito della battaglia in cui Israele sconfisse i Filistei e tolse loro l'Arca dell'Alleanza di cui si erano impadroniti: in quella circostanza, Iahvé "colpì col pa­ nico" i Filistei, ed essi si sbandarono. 3 1 Crisi di panico individuale sono ricordati con frequenza ne­ gli autori del Corpus Hippocraticum. Sono anche descritte cri28. La malattaia sacra, 15. I bambini corrono a rifugiarsi tra le braccia della madre poiché ancora non si rendono conto della natura della malattia che li assale. 29. Euripide, Ippolito, 141-143. 30. Euripide, Medea, 1171-1173. 31. !Samuele 7, 10.

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si di agorafobia, nosofobia e gefirofobia. Un certo Damocle si sentiva "sciogliere le membra" quando camminava sui bordi di un sentiero, non era in grado di superare un precipizio o un ponte per paura di cascare, al punto che quando doveva attra­ versare un fosso vi scendeva per risalire dall'altra parte (Epi­ demie, 7 , 87) . Un uomo di nome Nicanore sobbalzava e pro­ vava accessi di paura quando durante un banchetto sentiva il suono del flauto e riusciva a stento a trattenersi dallo scappa­ re; questo avveniva solo di notte, mentre di giorno il flauto non gli creava problemi (Epidemie, 5, 8 1 ) . Il flauto (per meglio di­ re il flauto doppio o aul6s) , peraltro, era tradizionalmente as­ sociato a incubi, eccitazione psicofisica; quando la follia per­ sonificata si presenta a Eracle afferma di "farlo danzare al flau­ to della follia" e questo strumento, per eccellenza, era quello che s'impiegava durante i rituali di trance. "Le melodie del flauto di Marsia da sole - scrive Platone - sono capaci di tra­ sportare le anime al delirio" . 3 2 I sintomi dei disturbi mentali osservati dai medici di que­ st'epoca si travasano sulla scena della tragedia. Nei tragici la fol­ lia è presentata in una serie di registri diversi: possessione divi­ na, trance estatica, punizione per una colpa o una contamina­ zione, ma anche malattia dell'anima, proprio come dicevano i medici. A volte, è spiegata come l'espressione della capricciosa volontà di un dio, che vuole distruggere un mortale: Afrodite rende folle d'amore Fedra nell'Ippolito, per punire il suo nemi­ co Ippolito che non le rende onore; Era fa impazzire Io, nel Pro­ meteo, per gelosia verso la fanciulla che ha osato condividere il talamo di Zeus, e la fa vagare per tutta la terra pungolata da un tafano (6istros) che rappresenta metaforicamente la irrequie­ tezza ossessiva di chi è colto da un attacco di pazzia e fugge sen­ za meta fuori dai luoghi abitati. Follia è anche identifica con dte " accecamento" che porta a ogni sorta di errori e di colpe, e dun­ que ha una parte fondamentale nell'elaborazione di quella che era la colpa tragica per eccellenza, hamartia !"'errore tragico" . 33 32. Simposio, 2 15 c. 33. S. Said, Lafaute tragique, Maspero, Paris 1978.

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Tuttavia, nella tragedia i sintomi della follia sono quelli del malato. Il pazzo è irrequieto, perseguitato da un'ansia che lo spinge a vagare senza meta; si sveglia di notte e fugge da casa, è assediato da incubi e allucinazioni, non può soffermarsi in al­ cun luogo, evita le relazioni col mondo, evitato a sua volta da tutti, per la paura che lo attanaglia e per il religioso timore che gli altri provano verso una persona che porta con sé la pazzia, e più ancora l'idea che a essa si accompagna, la contaminazio­ ne. Quest'atteggiamento è identificato appunto dall'immagi­ ne dell' 6istros, il pungolo che fa imbizzarrire gli animali. La grande scena di follia del Prometeo di Eschilo presenta la deli­ rante Io che vaga nelle solitudini del Caucaso, senza meta, tra­ fitta da un tafano che la obbliga a fuggire senza requie. I terrori della follia, nel mito tragico, prendono normal­ mente l'aspetto di demoni persecutori. Le Erinni che com­ paiono a Oreste lo rendono folle e fanno sì che la loro vittima corra via di casa (come gli alienati di cui parlano i medici) va­ gando senza meta, ma per quanto Oreste corra, i neri demoni della punizione - reificazione dei suoi fantasmi interiori - lo inseguiranno passo per passo, simili a cagne che fiutano l'orma della preda. La scena finale delle Coefore evoca l'intervento di forze demoniche esterne alla mente per descrivere i sintomi di questo attacco di panico, che coglie improwisamente il matri­ cida, con la stessa precisione clinica con cui i medici raffigura­ no le angosce dei loro malati: allucinazioni, ansie, irrequietez­ za, desiderio di fuga. Oreste - Eccole là: sembrano Gorgoni, con vesti nere, i capel­ li sono un intreccio di serpenti, non posso restare ! Coro - Ma quali immagini ti turbano, tu che tra tutti gli uomini sei il più caro a tuo padre? Coraggio, non temere, tu hai vinto! Oreste - No, queste che mi tormentano non sono fantasmi, le vedo chiaramente: sono le cagne furenti di mia madre. Coro - Hai ancora le mani coperte di sangue, ecco perché la tua mente (phrénes) è turbata. Oreste - Apollo signore eccone altre, è una folla! Dagli occhi gocciolano stille di sangue. Coro - C'è un solo modo di purificazione (katharm6s): vai al tempio di Apollo, lui ti libererà dal tormento.

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Oreste - Voi non le vedete, io sì: mi inseguono, devo fuggire (esce correndo). (Eschilo, Coefore, 1048- 1062)

In Eschilo Oreste è inseguito dai demoni che lo assediano con i loro volti orribili e le teste ornate di serpenti, a lui solo vi­ sibili. Questo motivo mitico era antico: ricorre per la prima volta nel lirico Stesicoro dove compare anche Apollo, il quale dona al perseguitato un arco con cui difendersi dai mostri. 34 La stessa situazione, nel razionalista Euripide, sarà invece de­ scritta in termini tutti psicologici: qui, Oreste è vittima delle sue Erinni personali, che popolano gli incubi di un malato in preda alle sue turbe. Nell'Oreste di Euripide il delirio del ma­ tricida è decisamente una malattia: giace su un letto, consu­ mato dal suo male, non si lava, non mangia, sta con il capo av­ volto nelle coperte, piange, a volte balza in piedi e si agita; il sangue di sua madre lo sconvolge con la follia del rimorso. I sin­ tomi di Oreste corrispondono ormai al quadro clinico che i medici offrono su casi di delirio, panico e follia. 35 Eschilo mostra il procedimento di una cura rituale, affidata alla purificazione a opera di Apollo in Delfi (il cui santuario del resto era specializzato in purificazioni da omicidi) e più an­ cora, alla fine del grande affresco dell'Orestea, in un grande ri­ to di reintegrazione del folle contaminato davanti al tribunale dell'Areopago. È un rituale laico e cittadino, non una forma magica di purificazione, a rendere nuovamente accessibile a Oreste il possesso della sua ragione; il dibattito tutto giuridico e razionale attraverso il quale Apollo e le Erinni, gli angoscio­ si incubi della sua colpa da un lato e il guaritore dall'altro, di­ scutono le ragioni del comportamento di Oreste è un'autenti­ ca forma di terapia della parola, in cui vengono portate alla lu­ ce le ragioni della colpa, delle angosce e della follia dell'accu34. Stesicoro, fr. 40 Page. In Eschilo è Apollo che usa il suo arco per cac­ ciare le Erinni dal tempio (Eumenidi, 179-197). Forse il mito di Oreste in lotta con serpenti (le Erinni?) era raffigurato sulle metope arcaiche dell'He­ raion del Sele (U. Zanotti-Bianco, Heraion alla foce del Sele, Istituto Poli­ grafico dello Stato, Roma 1954, voi. II, pp. 289-300 ). 35. Euripide, Oreste, 34-45.

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sato. Oreste ritorna in sé dopo essere stato assolto davanti al tri­ bunale della giustizia della polis: le Erinni possono sì "legare" un uomo alle sue angosce e alle sue colpe sino a fargli perdere la ragione, ma sarà poi infine sempre la ragione e la legge a re­ cuperarlo dall'abisso in cui è precipitato. DEI ED EROI DELLA FOLLIA

L'autore del trattato Sulla malattia sacra offre un catalogo di divinità capaci di scatenare la follia impadronendosi del corpo dei malati: le malattie mentali, per la cultura tradizionale, rien­ travano nell'ambito della possessione, la cui causa è attribuita all'intervento di forze soprannaturali, divine o demoniche. Co­ me scriveva un erudito antico "vengono detti posseduti (éntheoi) tutti coloro a cui viene tolto l'intelletto a causa di una visione e che cadono sotto il potere di un dio che invia loro questa visio­ ne e fa fare loro ciò che vuole" .36 È appW1to contro questa arcaica nozione di possessione che la medicina ippocratica polemizza: Uomini che non sanno come campare inventano e architetta­ no storie di ogni tipo su questa malattia, attribuendo a un dio ogni sua manifestazione, e continuano a ripetere mille volte le stesse cose. Se il malato imita una capra e digrigna i denti e ha le convulsioni dalla parte destra del corpo dicono che la re­ sponsabile è la Madre degli Dei. Se emette grida più acute e so­ nore, lo paragonano a un cavallo e dicono che la causa è Po­ seidone. Se lascia sfuggire degli escrementi (come talvolta ac­ cade sotto l'attacco della malattia) dicono che è Enodia, e se gli escrementi sono frequenti e sottili allora è Apollo Nomio. Se emette bava dalla bocca e scalcia, la causa va attribuita ad Ares, e se di notte ha incubi, attacchi di panico e delira e balza giù dal letto pieno di terrore e fugge all'aperto, dicono che sono le ag­ gressioni di Ecate e assalti degli eroi. (Ippocrate, Sulla malattia sacra, 4)

Questo catalogo delle divinità di possessione si può inte­ grare con un altro, che compare nell'Ippolito di Euripide, quan36. Scolio a Euripide, Ippolito, 141.

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do Fedra entra sulla scena sconvolta per l'amore colpevole ver­ so il figliastro che ancora non osa rivelare. Fedra arriva sopra una barella, vaneggiando; è in preda ad allucinazioni, fantasti­ ca di stare in luoghi selvaggi, di cacciare cervi sulle montagne, di riposare accanto a sorgenti boschive - i luoghi in cui vor­ rebbe vivere accanto al suo amato Ippolito, l'algido cacciatore, che pur nel delirio la donna evita di nominare. Il Coro, ignaro del suo conflitto interiore, interpreta i suoi deliri come frutto della possessione: Figlia mia, sei tu posseduta da un dio (éntheos), forse da Pan o da Ecate o ti agiti per i venerabili Coribanti o per la madre montana degli Dei? O forse ti consumi per qualche colpa ver­ so Dictinna, la dea cacciatrice, perché non le hai offerto un sa­ crificio? (Euripide, Ippolito, 1 4 1 - 147)

Di alcune di queste divinità scatenatrici di follia parleremo più avanti (Ares, i Coribanti); noteremo, intanto, che tra di esse non ricorre il dio che è ritenuto in generale il vero patrono della follia, Dioniso, e se ne può comprendere la ragione: la follia dio­ nisiaca è di natura rituale e si svolge in forme collettive e ricono­ scibili, non comporta quindi un accesso individuale di delirio. Il terrore di chi ha solitarie allucinazioni nella notte e corre nel buio per sfuggire ai suoi incubi non ha nulla di dionisiaco. ll corpo di un posseduto, secondo questo modello tradizio­ nale di pensiero, diviene in qualche modo un corpo speciale, dilatato oltre la sfera del visibile; non c'è più la mente, sover­ chiata da una forza possente che la cancella, ma in quel corpo si agita pure l'energia demonica di una forza invisibile. Un pos­ seduto è un contaminato, ma un contaminato sacro: fa paura, soffre, talvolta può essere redento e santificato, però manifesta con evidenza la presenza del divino. È un essere dghios, uno che contiene un dgos, la doppia forza nello stesso tempo posi­ tiva e malefica che santifica e annienta. 37 Tra le divinità scatenatrici di follia vi sono anche quelle ti37. Sulla nozione di dgos e sulla duplice valenza del concetto che questa

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piche figure della religione greca che sono gli "eroi", esseri eta­ ni che esercitano, a diretto contato con gli uomini, i loro pote­ ri di punire e di proteggere. Non soltanto le malattie mentali, ma anche le malattie fisiche potevano essere attribuite all'in­ tervento maligno e ostile di divinità o demoni adirati. Come diceva in termini mitici Esiodo, gli dei hanno tolto la voce alle malattie, di modo che esse piombano sugli uomini in silenzio e li aggrediscono di sorpresa. 38 Gli eroi hanno uno speciale rap­ porto con la sfera delle malattie, e sono contemporaneamente i patroni delle guarigioni miracolose. Asclepio, che prima di essere un dio era stato un eroe, è il grande guaritore di ogni ti­ po di mali, ma anche altri eroi sono collegati alla iatromantica, e ricevono i loro clienti nei santuari di guarigione (in cui, as­ sieme alle altre malattie, si cura anche la pazzia).39 Tra le cause di pazzia vi era l'incontro notturno con un eroe, come Oreste, che si credeva comparisse ai viandanti per assal­ tarli.40 La funzione degli eroi in quanto dispensatori di salute e malattia appare da un frammento di Aristofane: State attenti, uomini, e venerate gli eroi: noi siamo i dispensa­ tori dei beni e dei mali, sorvegliamo gli ingiusti, i ladri e i fur­ fanti e a loro mandiamo malattie: mal di milza, tosse, idropisia, raffreddore, scabbia, podagra, pazzia, malattie della pelle, bub­ boni, gelo, febbre. (Aristofane, Eroi, fr. 322 Kassel-Austin) parola esprime, cioè di sacro/contaminato, in entr ambi i casi qualcosa da cui stare lontani, vedi .J.-P. Vernant, "Il puro e l'impuro", tr. it. in Mito e società nell'antica Grecia, Einaudi, Torino 1981, pp. 115-134. 38. Esiodo, Opere e giorni, 102- 103. 39. L'eroe Macaone (uno dei medici della guerra di Troia) aveva il suo san­ tuario a Gerenia, in Laconia (Pausania, 3, 26, 9); l'eroe Polemocrate, figlio di Macaone, a Ena (Pausania, 4, 30, 3); Gorgaso e Nicomaco (altri figli di Ma­ caone) a Pharai in Messenia (Pausania, 2, 11, 5 ). Ad Atene si venerava un Eroe Medico (héros iatr6s; Demostene, La falsa ambasceria, 249). Anche eroi­ ne: una Hemithea ( "Semidea") operava guarigioni mediante incubazione nel Chersoneso ed era specializzata in cure femminile; dal suo culto erano esclu­ si chi aveva bevuto vino e chi aveva toccato, o peggio ancora mangiato, car­ ne di maiale (Diodoro Siculo, 5, 63). 40. Aristofane, Uccelli, 1490 - 1492. Lo scolio relativo spiega che "gli eroi possono rendere folli".

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Gli eroi sono legati alla dimensione della follia, non solo in quanto operatori di follia ma anche perché molti di loro furo­ no folli; anche nell'antichità del resto era data quasi per scon­ tata la tendenza dell'eroe all'alterazione mentale proprio per la sua natura eccezionale e la tendenza alla hybris.4' Alcmeone e Oreste impazzirono dopo avere ucciso la ma­ dre, Eracle divenne folle e massacrò i suoi stessi figli, e così pu­ re varie figure eroiche minori. In genere, i miti sulla follia rituale o iniziatica seguono uno schema ricorrente: contaminazione follia - fuga dall'umanità - purificazione - reintegrazione. La vicenda di Oreste è esemplare: uccise la madre, si contaminò le mani col suo sangue, divenne pazzo inseguito dalle Erinni, fuggì lontano dalla sua città, fu purificato da Apollo, ritrovò la salute mentale (in Eschilo, la purificazione avviene sul doppio livello, rituale a Delfi e cittadino a Atene). Lo stesso si può di­ re per l'eroe Alcmeone, che impazzì dopo avere ucciso la ma­ dre Erifile, la quale con i suoi raggiri aveva causato la morte di suo marito Anfiarao. Anfiarao, prima di partire per la fatale spedizione in cui avrebbe trovato la morte, raccomandò al fi­ glio Alcmeone di punire la madre fedifraga, e così egli fece. Perciò andò vagando folle per il mondo sinché l'oracolo di Del­ fi gli suggerì la cura rituale della sua follia. Tucidide, uno degli autori più antichi che parla di questa storia, racconta il mito in una forma sostanzialmente confermata da altre fonti: 42 La maggior parte delle isole Echiniadi sta di fronte a Eniade, presso la foce dell'Acheloo, tanto che il fiume, che è grande, la­ scia continuamente depositi alluvionali e ormai alcune delle isole sono diventate terraferma [ . . . ] si dice che Apollo abbia vaticinato ad Alcmeone figlio di Anfiarao di colonizzare que­ sta terra, quando costui vagava folle dopo l'assassinio della ma­ dre. Apollo gli spiegò che non sarebbe stato liberato dai suoi 4 1. Cicerone, Tusculane, 3, 11. 4 2. Asclepiade di Tragilo, FrGrHist 1 2 F 29; Pausania 8, 24, 8. Il mito di Alcmeone e di sua madre Erifile era stato raccontato in due poemi arcaici, gli Epigoni di Antimaco di Teo (PEG, pp. 29-32) e l'Alcmeonide (PEG, pp. 32-36). Euripide scrisse due tragedie sull'argomento, Alcmeone in Pro/i e Alcmeone a Corinto.

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terrori prima di scoprire e abitare quella parte di terra che, quando aveva ucciso la madre, non era stata ancora toccata dal sole, e neppure fosse stata terra, perché per un contaminato come lui ogni altra terra era interdetta. Così egli, a quanto di­ cono, nell'incertezza, finì per pensare a questi depositi allu­ vionali dell'Acheloo e gli parve che fossero sufficienti per vi­ vere lì, dopo che, uccisa la madre, era andato vagando per mol­ to tempo. (Tucidide, 2, 102, 3-5)

Alcmeone e Oreste compiono un omicidio necessario, impo­ sto dalle leggi non scritte della vendetta tribale; tuttavia l'ango­ scia e il conflitto per il matricidio sono tali da sconvolgerli, o - per usare il modello culturale arcaico - per scatenare i neri demoni punitori che vengono da sottoterra, e il cui compito è gettare fol­ lia e terrori sui contaminati. Punitrici per eccellenza dei delitti di sangue sono le Erinni; esse però non sono divinità di possessio­ ne, poiché non penetrano nel corpo del folle, ma lo inseguono senza tregua e per renderlo folle usano incantesimi e fatture, co­ me quelle descritte nell'hymnos désmios delle Eumenidi: Sopra la mia vittima ecco getto questo canto: follia, delirio che devasta la ragione, questo è l'inno incantatore di anime delle Erinni, che si canta senza lira e dissecca di paura i mortali. Que­ sto è il retaggio che la Moira inflessibile ha filato per me: fare da scorta agli uomini che un vano furore ha gettato sulla stra­ da della morte, finché scenda sottoterra, ma anche dopo mor­ to non ne sarà liberato. (Eschilo, Eumenidi, 328-339)

La follia delle Erinni non è possessione: è una cattiva com­ pagna di strada. Le Erinni sono sepolte nel profondo: sotto la terra, si diceva; nella parte più buia della mente, potremmo di­ re noi. Sono forze addormentate ma pronte a risvegliarsi, come Eschilo le descrive all'inizio delle Eumenidi; sono gli elementi automatici e autoscatenanti della colpa e della paura. La follia è attribuita sovente alla dimenticanza di qualche atto rituale (come appunto ipotizza il Coro dell'Ippolito par­ lando dell'ira della dea Dictinna) o alla violazione di un clivie-

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to connesso a un luogo sacro. 43 Nell'Edipo a Colono i pii abi­ tanti di quella terra scacciano il contaminato Edipo dal bo­ schetto sacro delle Eumenidi, un luogo inviolabile dal quale emanano forze misteriose e pericolose, tanto che essi passano da quelle parti "senza parlare, svuotando la mente", nel timo­ re che il mdna del bosco sacro si attivi e colpisca i passanti con pericolosi influssi. 44 Un altro tipico modello di follia eroica è quello della viola­ zione del tabù relativo a oggetti sacri, e in particolare idoli di cul­ to (per il pericoloso potere che emana dall'oggetto sacro) . Gli eroi Astrabakos e Alopekos impazzirono dopo avere visto l'im­ magine cultuale di Artemide Orthia. L'eroe Euripilo, che aveva preso parte alla guerra di Troia, ebbe peripezie più complicate; quando fu diviso il bottino della città gli toccò un'arca che conteneva un idolo di Dioniso fabbricato da Efesto. Euripilo non seppe trattenersi dall'aprire l'arca, vide la sacra immagine del dio e impazzì. Vagò folle per il mondo e seguendo le indicazio­ ni dell'oracolo di Delfi arrivò sulle coste dell'Acaia dove impedì un sacrificio umano, rinsavì e fu fatto re di quella regione.45 Il Coribante Scamandro impazzì davanti all'apparizione di Rea e si gettò nel fiume della Troade che da lui prende nome.46 Lo stesso racconto, che parla di una crisi di follia per avere violato il tabù su oggetti sacri, si narrava a proposito delle figlie del re Cecrope che disobbedirono all'ordine di Atena, la quale aveva loro consegnato un'arca dove era custodito il neonato Erittonio, nato dalla terra. Ma le ragazze aprirono la cesta per curiosità e per questo, rese folli da Atena, si precipitarono dall' Acropoli.47 4 3. Nell'Edipo a Colono il Coro, formato da pii e tradizionalisti vecchi ateniesi, teme che l'ingresso nel boschetto sacro delle Eumenidi scateni l'ira di queste terribili dee; quando poi viene a sapere che a violare il tabù del luo­ go è stato un contaminato parricida, sbotta in espressioni di rabbia e spa­ vento: Sofocle, Edipo a Colono, 125 - 133. 44. Sofocle, Edipo a Colono, 138-15 3 (e le mie osservazioni in merito in Sofocle, Edipo a Colono, a cura di G. Avezzù, G. Guidorizzi, G. Cerri, Lo­ renzo Valla-Mondadori, Milano 2008, pp. 226- 231). 45. Pausania, 7, 19, 6- 8. 4 6. Pseudo Plutarco, Suifiumi, 13, 1. 4 7. Apollodoro, 3, 14 , 6.

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In generale, la follia appare come punizione, anche se nella fase più arcaica del mito essa è legata alla contaminazione piut­ tosto che alla colpa morale. È con il mondo della tragedia che questa follia, per così dire a due dimensioni, si arricchisce di una terza, la profondità della mente, e in tal modo la follia si personalizza, divenendo un dramma individuale in una storia individuale: ma i tragici appaiono interessati alle manifestazio­ ni psicologiche dell'alterazione, come dramma e tragedia del1'essere umano, piuttosto che al loro retroterra teologico. L'idea che la follia sia dovuta a una causa rituale è sostenu­ ta da un poderoso complesso di miti in cui il folle viene reso ta­ le da un intervento punitivo degli dei; non si tratta in questo ca­ so di divinità di possessione, collegate a una sfera ctonia o sel­ vaggia (Pan, i Coribanti, Ecate e simili), ma delle luminose di­ vinità dell'Olimpo, scatenatrici anch'esse di pazzia . Era rese folle Eracle per odio o per puro capriccio. In genere si raccontava che Eracle aveva ucciso i suoi figli in un attacco di follia all'inizio della sua carriera eroica, ma Euripide trasfe­ risce questo delitto alla fine della sua vita. È caratteristico del­ la visione euripidea il fatto che la grande scena di pazzia, nar­ rata da un messaggero, sia giocata sul duplice registro della tra­ dizione mitica e dell'analisi psicologica, in cui il delirio del paz­ zo viene descritto in ogni dettaglio nei suoi sintomi: occhi stra­ lunati, voce spezzata, violenza omicida, allucinazioni. A scatenare la follia Euripide pone un operatore demoni­ co, Lyssa o Follia: lyssa, la "rabbia dei lupi", la parola che in Omero designava il furore guerriero. Questo demone, figlia di Urano e della Notte primordiale, viene dal mondo della tene­ bra, che rappresenta icasticamente la caduta della mente nel buio della follia. La follia è lo spegnersi improvviso della co­ scienza, la perdita della capacità di vedere il mondo, l'isola­ mento nel delirio allucinatorio che appartiene solo a chi ne è vittima: Eracle immagina di partire per uccidere i figli del suo nemico Euristeo, immagina di condurre un cocchio, lottare, conquistare città; i suoi occhi però roteano nel vuoto, come quelli di una Gorgone, e tutto si svolge sul filo di un parossi­ stico delirio di violenza: 37

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Messaggero - Attorno all'altare era stato portato il sacro cane­ stro e noi intonavamo un canto di preghiera quando il figlio di Alcmena, mentre immergeva un tizzone nell'acqua lustrale, si fermò, gli cadde la voce. Rimase a lungo in silenzio, e i figli vol­ sero lo sguardo verso di lui, ma Eracle non era più lo stesso di prima: fuori di sé, roteava gli occhi iniettati di sangue e la ba­ va gli colava sulla nobile barba. E parlò, in mezzo a scoppi de­ liranti di risa: "Padre, ma perché dovrei compiere questo sa­ crificio espiatorio prima di avere ucciso Euristeo? Sarebbe una fatica doppia, mentre in un solo colpo posso mettere le cose a posto. Porterò qui la testa mozza di Euristeo e poi purificherò le mie mani anche degli uccisi di ora. Versate via l'acqua lu­ strale, gettate il canestro. Datemi l'arco e un'arma in mano. Vo­ glio andare a Micene, bisogna che porti con me spranghe e le­ ve per smantellare con ferri ricurvi le mura che i Ciclopi innal­ zarono con squadre e livelle" . Voleva dirigersi là e pur non avendo un carro gli pareva di averlo: fece come se montasse su un cocchio e faceva i gesti di chi regge le redini e sferza i cavalli. Intorno noi servi eravamo divisi tra riso e terrore e così sus­ surravano l'uno all'altro, guardando di sottecchi: "Il padrone sta scherzando con noi oppure è impazzito?". Lui galoppava su e giù per la casa e giunto nel mezzo della sala dichiarò che era arrivato alla città di Niso, Megara; entrò in una stanza più in­ terna, si sdraiò per terra e si preparò un finto pasto. Dopo po­ chi istanti disse che ormai si trovava nelle valli boscose dell'I­ stmo; si tolse il mantello e una volta nudo simulò alcune prese di lotta - ma davanti a lui non c'era nessuno - e poi intonò il canto per la vittoria agonale, gridando che tutti dovevano udir­ lo. Cominciò a gridare con voce profonda minacce contro Eu­ risteo: a suo dire, era arrivato a Micene. Suo padre gli sfiorò la mano possente e gli disse: "Figlio, che ti succede? Come mai sei così alterato? Forse ti fa delirare il sangue versato dei morti che hai appena ucciso?" . Egli credette che a parlare fosse il padre di Euristeo, che pieno di terrore veniva a supplicarlo e a toc­ cargli la mano; lo spinse via, afferrò la faretra e le frecce e si pre­ parò a uccidere i suoi figli, credendo che fossero di Euristeo. E quelli, folli di terrore, correvano di qua e di là, uno si aggrap­ pava alla veste della povera madre, l'altro si nascose dietro una colonna, l'altro si rifugiò sopra l'altare, come un uccellino. La madre gridò: "Tu che sei padre, che fai? Vuoi uccidere i tuoi fi­ gli?". E gridavano anche Anfitrione e lo stuolo dei servi. Ma lui fece il giro intorno alla colonna con passo terribile, gli si parò davanti e lo colpì nel fegato: e il ragazzo rotolò a terra supino,

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morendo, il suo sangue schizzò sul marmo della colonna. Era­ cle diede un urlo di gioia e trionfo: "Ecco uno dei cuccioli (pic­ coli) di Euristeo che muore e così mi ripaga l'odio di suo pa­ dre ! " . Subito dopo punta l'arco contro il secondo, che si era rimpiattato sotto lo zoccolo dell'altare, nel tentativo di na­ scondersi; si getta ai suoi piedi, gli tocca col gesto del supplice le ginocchia e la barba, dicendo: "Caro papà, non uccidermi, sono tuo figlio, tuo figlio, non stai ammazzando quello di Eu­ risteo! ". Ma lui strabuzzava lo sguardo come una Gorgone, e poiché il bambino era troppo vicino per potere essere colpito con l'arco, come fa il fabbro col maglio gli calò sulla testa bion­ da la clava e gli spezzò le ossa del cranio. Così, dopo avere uc­ ciso il secondo, si avventa sulla terza vittima per immolarla, ma l'infelice madre lo afferra, lo porta con sé nella stanza più in­ terna e sbarra la porta. Eracle, come se fosse davanti alle mu­ ra ciclopiche, scalza i battenti, li svelle, sfonda la porta e con un'unica freccia trapassa il figlio e la madre. Allora si slancia sul vecchio, deciso ad ucciderlo, ma d'im­ provviso apparve l'ombra di Atena - così ci sembrava - che agitando l'asta, e squassando il cimiero dell'elmo, gettò un ma­ cigno contro il petto di Eracle. Così trattenne la sua follia e lo precipitò nel sonno: piomba a terra, battendo la schiena con­ tro una colonna, che si era spezzata alla base quando era crol­ lata una parte del tetto. Noi interrompemmo la nostra fuga e insieme al vecchio gli legammo strette le braccia dietro la co­ lonna, perché, passato il sonno, non continuasse a dar corso al­ le sue azioni. Così lo sventurato dorme un sonno non certo beato, lui che ha ucciso i figli e la moglie, e io non so se tra gli uomini ne esiste uno più infelice di lui. (Euripide, Eracle /urente, 922-1015) Era rese folle anche Dioniso e lo fece errare per il mondo, sinché giunse in Frigia dove la Grande Madre Rea lo purificò, e gli donò gli strumenti rituali del suo culto, quelli con cui il dio porta al delirio le sue seguaci.48 La follia di Dioniso fu dunque una follia iniziatica: da essa il dio riemerse nel pieno possesso dei suoi nuovi poteri. Questo modello è presente in Omero, a proposito di Ino per cui la follia assume la forma sacra della soglia di passaggio: 48. Apollodoro, 3 , 5 , I ; Euripide, Baccanti, 278-279.

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il passaggio dalla ragione alla follia è contemporaneamente una sacralizzazione, poiché uscendo dalla condizione umana ed evadendo dai confini della mente Ino penetra nella sfera del divino. Ino, che era stata una donna mortale, compare a Odis­ seo in forma divina col nome di Leucotea "la Dea Bianca", e gli dona un velo magico che gli salverà la vita tra le onde infuria­ te. Il mito di Ino presenta una serie di varianti ma in ognuna di esse il tema della follia come punizione divina, a opera di Era, si mescola a quello della sacralizzazione. Nella versione di un tardo mitografo, la storia viene riassunta così: Zeus s'innamorò di Semele e si unì a lei di nascosto a Era, ma Era la trasse in inganno: Zeus aveva promesso di esaudire tut­ to ciò che la sua amante avesse chiesto, ed Era la persuase a domandare al dio di comparirle nella stessa forma con cui si era unito a Era. Zeus non poté rifiutare e arrivò nella stanza di Se­ mele sul suo carro, tra tuoni e fulmini e scagliò la folgore. Se­ mele morì di terrore, ma Zeus sottrasse alle fiamme il figlio di sei mesi che la donna portava in grembo e lo cucì nella sua co­ scia [ . . . ] a tempo debito Zeus tolse le cuciture e fece nascere Dioniso che affidò a Ermes il quale lo portò da lno e da Ata­ mante ordinando loro di allevarlo come se fosse una bambina. Ma Era sdegnata li colpì con la follia: Atamante scambiò il fi­ glio maggiore Learco per un cerbiatto, lo inseguì e lo uccise. lno gettò l'altro figlio Melicerte in un calderone d'acqua bol­ lente poi lo tirò fuori e col suo cadavere in braccio si gettò in mare. Lei divenne Leucotea e suo figlio Palemone: sono i no­ mi che danno loro i naviganti. (Apollodoro, Biblioteca, 3 , 4, 3 )

Il delirio di Ino h a un valore culturale, che va molto oltre quello di un caso clinico o di una peripezia romanzesca: è il momento centrale del rito di passaggio che trasforma una don­ na mortale in una dea. Tuffandosi nella follia, Ino si tuffa in un vuoto vertiginoso (rappresentato metaforicamente dalla sua precipitazione in mare) e ne riemerge rinnovata, come dea del­ le profondità. È in questa forma appunto che appare a Odisseo, naufrago e disperato tra le onde del mare arrabbiate, esce im­ provvisamente dalla spuma di un'onda e poi si rituffa in mare, come una folaga, svanendo alla vista. Apparizione divina o al40

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lucinazione di un uomo stremato? In Omero, le due cose si so­ vrappongono: ogni allucinazione è un incontro col dio, ogni apparizione divina avviene in uno stato marginale ed estremo, nel colmo dell'ira di chi sta per trucidare un nemico, nel furo­ re della battaglia, nel segreto di una notte, nella solitudine del mare o dei campi; sempre però (come dice l'Iliade) "è facile ri­ conoscere un dio, quando lo incontri" .49 Punizione e insieme grazia divina, questa è la follia sacra. Il caso della mitica Ino trova una corrispondenza nella vicenda del pugile Cleomede di Astipalea, che si svolse attorno al 490 a.C. di cui Pausania trasmette il ricordo: Cleomede di Astipalea uccise Icco di Epidauro durante l'in­ contro di pugilato; fu squalificato dai giudici perché aveva por­ tato un colpo proibito e venne privato della vittoria. Così, im­ pazzito per il dolore, tornato ad Astipalea, entrò in una scuola dove stavano circa sessanta bambini e abbatté la colonna che sosteneva il tetto. Il tetto schiacciò i bambini e lui, inseguito dai cittadini, si rifugiò nel tempio di Atena, entrò in un sarcofago che si trovava nel santuario e chiuse il coperchio. I cittadini tentarono invano di rimuoverlo; alla fine, dopo averlo forzato con delle leve, non trovarono lì Cleomede né vivo né morto. Così inviarono a Delfi incaricati per chiedere che mai ne fosse stato di Cleomede. A loro la Pizia rispose così: "Cleomede di Astipalea è l'ultimo degli eroi, onoratelo con sacrifici perché non è più un mortale" . Da allora gli abitanti di Astipalea gli tributano sacrifici eroici. (Pausania, 6, 9, 6)

Esisteva una seconda forma di punizione realizzata attraver­ so la follia, vale a dire quella prodotta in seguito a una colpa e posta sotto il patrocinio di demoni punitori. Anche in questo ca­ so il materiale a disposizione è in massima parte mitico, ma non per questo va confinato nel territorio della leggenda, poiché un mito trasmette un sistema di credenze condiviso ed esprime mo­ delli culturali che trovano il loro riflesso nella società. Il complesso dei miti di follia è anch'esso poderoso - il caso 49. Iliade, 13, 72.

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di Penteo nelle Baccanti è solo uno dei molti . Il primo esempio è in Omero: il re trace Licurgo osò aggredire Dioniso e le sue se­ guaci, ed essi corsero a rifugiarsi nel mare gettando via i para­ menti dei loro riti . Il trionfo di Licurgo fu però breve: egli fu pu­ nito con un accesso di pazzia furiosa in cui si raccontava avesse ucciso i propri figli, oppure avesse fatto violenza alla propria madre oppure che si fosse tagliato un piede da solo, dopo aver­ lo scambiato per un tralcio di vite, oppure anche che per la sua follia fosse stato divorato dalle belve feroci sul monte Pangeo.50 Quello che toccò a Licurgo nel mito, toccò al re spartano Cleomene nella realtà, secondo il racconto di Erodoto. Cleo­ mene era una personalità inquieta e ribelle; si diceva che aves­ se corrotto la Pizia e avesse compiuto altri sacrilegi, tra cui far frustare un sacerdote di Era. Infine fu preso da una forma di paranoia distruttiva, al punto che si suicidò tagliandosi a pez­ zi con le sue stesse mani. Questa follia venne interpretata come un castigo divino; molto tempo dopo, Plutarco lo additava co­ me esempio di punizione divina. Tuttavia esisteva u�'altra spie­ gazione, più razionalista, secondo la quale la follia di Cleome­ ne era dovuta a eccessive libagioni con vino non allungato: 5 1 Una volta tornato in patria lo colse la malattia della follia, lui che anche prima era alquanto squilibrato: ogni volta che in­ contrava uno spartano lo colpiva sul viso con lo scettro. Dato che compiva queste azioni e appariva fuori di senno, i parenti lo legarono a un tronco. E mentre era legato, poiché vide che accanto a lui era rimasto un solo custode, gli chiese una spada. L'uomo dapprima non voleva dargliela, ma Cleomene lo mi­ nacciò descrivendogli quello che gli avrebbe fatto una volta li­ bero; alla fine, atterrito dalle minacce, il custode (che era un Ilota) gli consegnò la spada. Allora Cleomene, afferrato il ferro, cominciò a fare strazio di se stesso a partire dagli stinchi, poi passò alle cosce, all'anca, ai fianchi, sinché giunse al ventre e ta­ gliuzzandolo tutto a strisce morì in questo modo, secondo la maggior parte dei Greci perché aveva corrotto la Pizia affinché 50. Iliade, 6, 130-140; Igino, Miti, 132; Apollodoro, 3, 5, l; Servio, Commento all'Eneide di Virgilio, 3, 14. 51. Egli aveva imparato questo uso dagli Sciti: Erodoto, 6, 84.

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dicesse quello che voleva lui a proposito di Demarato, secon­ do gli Ateniesi invece perché aveva messo a sacco il santuario delle Due Dee a Eleusi, secondo gli Argivi perché aveva fatto uscire dal tempio di Era gli uomini di Argo che erano scampa­ ti alla battaglia e poi li aveva fatti trucidare e senza alcun ri­ spetto per il santuario lo aveva fatto incendiare. (Erodoto, 6, 75)

Insomma, nel mito per la pazzia c'è sempre una causa invi­ sibile ma certa. Dietro alla rabbia autodistruttiva di un uomo che fa a pezzi se stesso, proprio per la natura abnorme ed esem­ plare di questo orrore, non ci può essere altro che una causa di­ vina. La causa della punizione di Cleomene è la stessa dell'em­ pio re Licurgo: una contaminazione e un'offesa al sacro. La pu­ nizione è pure simile: mutilazione e smembramento di un cor­ po che è diventato maledetto (tocca lo stesso destino anche a Penteo nelle Baccanti: fatto a pezzi). In fondo, questi meccani­ smi hanno qualcosa di rassicurante: la malattia mentale, infat­ ti, cessa di essere incomprensibile quando cessa di essere un evento casuale. PAZZI LIBERI NELLA CITTÀ

La vita organizzata della polis non può lasciare libero spazio all'inquieto disordine della follia. Quando nelle Baccanti di Eu­ ripide il re torna a Tebe e vede che le donne della città sono fug­ gite sui monti in preda alla follia rituale di Dioniso, ciò che lo turba è appunto il disordine che ora regna in città, dove i letti degli uomini sono vuoti, e i telai a cui le donne lavoravano so­ no fermi. Tutto è bloccato, tutto è rovesciato: compito suo è ri­ pristinare un equilibrio alterato dal delirio. L'atteggiamento di Penteo può essere esemplare. Poiché la città greca è una cor­ porazione di uguali, il folle e la città non possono stare che in contrapposizione, dal momento che egli proclama invece, con i suoi atti e le sue parole, la propria diversità. L'esclusione della pazzia dalla sfera pubblica si sviluppò tut­ tavia solo in parte nelle istituzioni della vita politica. I folli, qua43

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lunque fosse il tipo del loro disturbo, non erano sottoposti a una politica di restrizione: la Grecia non conobbe la stagione di quella che Foucault chiama la "grande reclusione" della paz­ zia dopo il Rinascimento. Certo - come awiene nel caso di Cleomene - a un pazzo fu­ rioso e violento vengono imposte restrizioni; tuttavia, si tratta di una forma personale di custodia, nell'ambito della famiglia e da parte di servitori o uomini di casa. Ciò che toccò nella realtà al furibondo Cleomene toccò nella letteratura (ma in modo infini­ tamente più mite) al giudice monomaniacale delle Vespe di Ari­ stofane. Costui diventa folle, si potrebbe dire, per eccesso d'in­ tegrazione: tale è la pressione esercitata sulla sua mente dai mo­ delli della giustizia "democratica" dei tribunali popolari che egli finisce per identificarsi con la sua istituzione, entra in un corto circuito mentale che filtra ogni suo rapporto col mondo attra­ verso la sua presunta missione giudiziaria. Non dorme, ha com­ portamenti eccentrici, perde il contatto con ogni ajtra occupa­ zione. Perciò il figlio lo tiene recluso in casa, sotto la sorveglian­ za dei servi. A differenze di Cleomene, il giudice non si tagliuz­ zerà vivo: guarirà in seguito a un finto processo allestito lì per lì, fatto apposta per mettere in scena il teatro della sua follia. 52 Al folle nella polis vengono solo interdetti alcuni comporta­ menti pericolosi come portare armi, gli vengono posti limiti in alcuni settori della vita civile, ma per il resto è un individuo ab­ bastanza libero. La legislazione attica sulla follia non è molto nota, il che però basta a dimostrare che non esisteva un sistema repressivo or­ ganizzato; la limitazione più grave era di tipo civile e compor­ tava la nullità del testamento, come risulta da una legge citata in un oratore: essa consente a un cittadino libero di disporre della sua eredità a suo talento, a meno che non sia impedito da vecchiaia, o malattia, o follia, o circuito da una donna, o co­ stretto da legami o da altra coercizione. 53 La follia dunque è 52. Aristofane, Vespe, 892-998. 53. lperide, Contro Atenogene, 8. Questa legge è ricordata anche da De­ mostene, 46, 14.

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solo una delle cause che impediscono di testare, poiché pre­ suppone l'incapacità d'intendere e volere liberamente. Il caso più noto di testamento impugnato per incapacità di in­ tendere e volere è quello (semileggendario) che riguarda il poe­ ta Sofocle, il quale, ormai quasi novantenne, fu portato in giu­ dizio da suo figlio Iofonte che voleva farlo interdire per demen­ za senile. L'episodio è citato per la prima volta da un autore di epoca posteriore ed è entrato a far parte di una topica sulla "buona vecchiaia". Sofocle si sarebbe difeso semplicemente leg­ gendo i versi di un coro del suo ultimo dramma, l'Edipo a Colo­ no, e sarebbe stato assolto. Alcune fonti gli fanno dire "se sono Sofocle, non sono pazzo e se sono pazzo non sono Sofocle". L'unica istituzione che prelude al manicomio è soltanto teo­ rica, e si fonda su un'idea astratta di controllo del pensiero che compare - e non è uno dei suoi momenti migliori - nel pensiero del tardo Platone, il Platone disilluso che abbandonò il progetto della città dell'utopia per rifugiarsi nel severo rigore delle norme. Un pazzo, dice Platone nelle Leggi, va isolato per proteg­ gere la città dal suo contagio: gli sarà interdetto di aggirarsi li­ beramente per le vie e dovrà anzi essere custodito dentro ca­ sa dai parenti. 54 Platone si spinge più in là: è l'unico a ideare una struttura pubblica a cui affidare la custodia degli alienati. Questa intuizione dell'istituto manicomiale è peraltro qualco­ sa che si avvicina più a un manicomio criminale che a una cli­ nica psichiatrica. Platone immagina un'istituzione nella quale devono essere rinchiusi e sottoposti a un trattamento di rie­ ducazione tutti coloro che si ostinano a rifiutare la religione proposta dallo stato e persistono nella loro professione di atei­ smo. La temperanza (sophrosyne) è nel linguaggio platonico l'opposto di follia; l'istituzione di una "casa di temperanza" (sophronistérion) implica dunque l'idea che chi vi è rinchiuso sia, in qualche modo, un folle, divenuto tale per debolezza di carattere e per ignoranza: 54. Platone, Leggi, 934 c-d; "Nessuno che sia pazzo e furioso è caro agli dei" (Platone, Repubblica, 382 e).

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Il giudice rinchiuderà nel sophronistérion coloro che sono di­ ventati atei per stoltezza, non per malvagità di sentimenti e di co­ stumi, e ve li terrà secondo la legge per non meno di cinque an­ ni. Durante questo periodo nessun altro dei cittadini potrà fre­ quentarli, ad eccezione dei magistrati che fanno parte del consi­ glio notturno che s'incontreranno con loro per educarli e salva­ re le loro anime. Quando sarà passato per loro il periodo d'in­ carcerazione, se qualcuno di loro sembrerà rinsavito vada ad abi­ tare con gli altri saggi, ma se verrà giudicato in modo contrario e sarà trovato ancora colpevole, allora sia condannato a morte. (Platone, Leggi, 909 a)

Il sophronistérion platonico anticipa un'idea che ricompare sinistramente lungo la storia della psichiatria moderna: la fol­ lia s'identifica con la mancanza d'integrazione con il sistema dominante, perché solo un pazzo può rifiutarsi di riconoscere che il sistema di valori e le leggi della società sono incontesta­ bili, giuste, equilibrate; le migliori nel miglior mondo possibi­ le.55 Il soph�onistérion platonico si configura pertapto come il primo caso (solo teorico) di intervento sulla follia da parte di un potere costituito, e quindi di gestione ideologica della follia. Nell'Atene democratica i pazzi non potevano disporre dei propri beni né fare testamento, non potevano portare armi ed erano esentati dal servizio militare (con tutte le limitazioni po­ litiche e giuridiche che questa esclusione comportava). 5 6 So­ stanzialmente, però Atene continuò a convivere con la follia e a gestirne le forme all'interno dello spazio sociale. Vi è un episodio significativo, a questo proposito. Plutarco narra che gli Ateniesi, logorati dalla lunga guerra contro Me55 . Secondo alcune correnti di antipsichiatria moderna, questa sarebbe la funzione principale della psichiatria, per arrivare sino alla teorizzazione (del tutto ideologica) che la malattia mentale non esiste. Esemplari le parole di uno dei maitre à penser di questo indirizzo: "La psichiatria istituzionale è progettata, per così dire, per proteggere e valorizzare il gruppo (la famiglia, lo stato) mediante la persecuzione e la degradazione dell'individuo (come folle o malato}" (T.S. Szasz, J manipolatori delta pazzia, tr. it. Feltrinelli, Mi­ lano 1972, p. 53). 56. L'astrologo Metone si finse pazzo e bruciò la propria casa per evitare di partecipare alla spedizione contro Siracusa del 415 a.C. (Plutarco, Vita di Alàbiade, 17; Vita di Nicia, 13).

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gara per il possesso dell'isola di Salamina, promulgarono una legge che stabiliva la morte per chiunque proponesse in as­ semblea la ripresa della guerra. Per aggirare il decreto Solone si finse pazzo: Finse di avere perduto la ragione e fece diffondere da casa sua la notizia che era impazzito, ma in segreto si mise a comporre un'elegia. Quando l'ebbe imparata a memoria in modo da po­ terla recitare tutta intera, uscì di casa improvvisamente e andò nella piazza del mercato con un berretto di lana in testa. Salì sulla pietra da cui parla l'araldo e si mise a declamare l'elegia che incomincia così: Io vengo da voi come araldo da Salamina isola amabile, e al posto di un bando porto un canto ornato di parole. Il titolo di questo poemetto, di circa cento versi molto grazio­ si, è Salamina. Appena Solone ebbe finito di declamare, i suoi amici cominciarono a lodarlo, e primo tra tutti Pisistrato esor­ tava i cittadini a dare ascolto all'oratore. Così la legge fu abro­ gata e la guerra riprese sotto il comando di Solone. (Plutarco, Vita di Solone, 8) Qualunque sia la base di consistenza storica di questa vi­ cenda,57 è significativo il valore culturale attribuito alla follia che questo racconto delinea: per gli Ateniesi era accettabile l'i­ dea che un poeta improwisasse posseduto dalle Muse, ed era altrettanto accettato che un folle potesse essere animato da uno spirito profetico; cosicché il finto folle Solone poté presentar­ si al pubblico ed esibirsi come se la sua elegia fosse in realtà improwisata sotto la spinta del furore poetico. Attorno alla 57. La storia è raccontata anche da altri autori antichi: Cicerone, I doveri, 1, 108; Polieno, 1, 20; Diogene Laerzio, 1, 46; Giustino, 2, 7. La tradizione è antica: la conosceva anche Demostene ( 19, 225). Su questo episodio vedi R. Flacelière, "Le bonnet de Solon", in Révue des études anciennes, 1947, pp. 235-247; M. Manfredini, L. Piccirilli (a cura di), Plutarco. La vita diSolone, Lo­ renzo Valla-Mondadori, Milano 1977, pp. 130-132; D. Lanza, Lo stolto, Ei­ naudi, Torino 1997, pp. 4 1-49. Anche Bruto si finse sciocco per sviare i so­ spetti di Tarquinio (Livio, 1, 56, 7 ) : vedi M. Bettini, "Bruto lo sciocco" , in Il protagonismo nella storiografia classica, DARFICLET Genova 1987, pp. 7 1- 120.

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metà del VI secolo a.C. quindi un pazzo poteva aggirarsi libe­ ramente per le vie, segnalato soltanto da una caratteristica del suo abbigliamento (un berretto)58 ed era protetto dalle leggi che gli assicuravano l'impunità come a un soggetto non capa­ ce di intendere e volere, ma nello stesso tempo poteva essere considerato un individuo in qualche modo speciale e degno di un qualche rispetto. Un sapiente può diventare folle, da folle può comportarsi da sapiente, e una volta esaurita questa vera o fittizia pazzia può essere chiamato a scrivere le leggi della sua città. Un uomo ac­ corto può anche essere capace di simulare la follia; la storia di Solone riproduce quella di un grande finto folle del mito, Odis­ sea: egli finse di essere pazzo per evitare di essere arruolato per la guerra di Troia. Si mise ad arare un campo dopo avere ag­ giogato un cavallo e un asino, e spargeva sale sui solchi; ma Pa­ lamede lo smascherò fingendo di uccidere suo figlio Telema­ co.59 Un sapiente della storia e il più intelligente tra gli eroi: en­ trambi capaci di mettere in scena la follia. CURE TRADIZIONALI DELLA PAZZIA Ciarlatani, imbroglioni, purificatori. Così li chiamavano i medici e le persone colte. Eppure questi individui poco racco­ mandabili a cui ci si rivolgeva per esorcizzare la pazzia erano padroni di un complesso di cure antiche e saperi tradizionali, forse a modo loro non privi di una certa efficacia - e c'è da cre­ dere che le cure psichiatriche prodigate dai primi medici, a ba­ se di diete, emetici e altro per riequilibrare i quattro umori nel­ l'organismo non fossero in sé molto più decisive. Una descri­ zione di questo modello di cura tradizionale viene dallo stesso autore del trattato Sulla malattia sacra: 58. La fWlzione di questo berretto non è ben chiara; si tratta verosimil­ mente di un segno di riconoscimento a cui erano tenuti i malati cronici (non solo i folli), secondo quanto pare di capire da Platone, Repubblica, 406 d. 59. La storia era raccontata nei Canti czpri di Stasino di Cipro (VII secolo a.C. ); vedi PEG, p. 40; inoltre, Apollodoro, Epitome, 3, 7 ; Filostrato, Eroico, 33, 4. Sofocle aveva scritto un Odissea /olle.

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Essi consigliano di astenersi dai bagni e da molti cibi non adat­ ti ai malati: dalla triglia, dal melanuro, dal muggine e dall'an­ guilla; fra le carni, quelle della capra, del cervo, del maiale e del cane (che disturbano maggiormente l'intestino) [ . . . ] ordinano poi di non indossare un abito nero, che è simbolo di morte, di non sdraiarsi su una pelle di capra e di non indossarla, di non tenere un piede sopra l'altro o una mano sull'altra. (Ippocrate, Sulla malattia sacra, 2)

Sono prescrizioni in parte di igiene alimentare, in parte ma­ giche (come quella di evitare ogni contatto con la morte e di non "legare" il corpo incrociando mani e piedi). Ma il com­ plesso di cure tradizionali della pazzia comportava altri rime­ di, di natura simbolico-psicologica. L'autore del trattato La ma­ lattia delle vergini conferma che casi di follia collettiva o di ac­ cessi di isteria erano curati da esorcisti i quali praticavano sa­ crifici per placare Artemide: dea, questa, tipicamente dedita alle cure della vita femminile in quanto protettrice dei parti e patrona di rituali iniziatici femminili. In generale, le cure tradizionali per la follia si possono in­ cludere in tre categorie fondamentali: una cura esorcistica, una musicale, una iniziatica. La cura esorcistica si fonda su un principio religioso e ri­ tuale molto semplice: essendo un folle un posseduto, si rende necessario un intervento purificatorio che liberi il malato da questa contaminazione. Un esorcista è, in Grecia, per eccellenza un kathartés, un pu­ rificatore, la cui opera viene applicata non solo a casi di posses­ sione, ma in genere a qualunque operazione che richieda una "ripulitura" rituale, dopo gli infiniti eventi che possono verifi­ carsi a danno di una persona e di una comunità. Si purifica una città in occasione di una pestilenza o di una carestia, ma anche in molti altri casi in cui si sospetta un miasma, o contaminazio­ ne: questi possono essere anche straordinariamente numerosi (come quelli che si evincono dalla lex sacra di Cirene). La follia, che rende evidente la presenza di una forza miste­ riosa nel corpo di un ammalato, è terreno privilegiato per que­ ste operazioni praticate da un "uomo di dio" che è padrone di 49

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saperi segreti e sa leggere nel gran libro dell'invisibile; il lavo­ ro del purificatore è cacciare (questo piuttosto nella tradizione giudaico-cristiana), oppure placare (in Grecia), l'entità che si è insediata nel corpo del malato. Figure di guaritori e purificatori della follia sono comuni nel mondo ebraico, dove esorcisti e guaritori si mettono all'o­ pera per "cacciare" gli spiriti e i demoni dal corpo degli osses­ si. Una testimonianza - abbastanza tarda - di questo tipo di pratiche è citata nell'Amante della menzogna (o Philopseudes) di Luciano (II secolo d.C.) : il personaggio in questione è un "si­ riano", ma le pratiche da lui poste in essere sono tradizionali, e non è escluso che i purificatori greci usassero forme simili di esorcismo, anche se l'idea del "cacciare i demoni" sembra es­ sere sostanzialmente di collocazione ebraico-palestinese: Tutti conoscono il siro di Palestina, un vero esperto in queste cose; lui riceve tutti quelli che cadono a terra secondo le fasi della luna, e strabuzzano gli occhi e si riempiono di bava la bocca: li rialza e li rimanda a casa sani di mente liberandoli dal­ le loro sofferenze in cambio di un grande compenso. Quando essi giacciono al suolo si china su di loro e chiede ai demoni quando sono penetrati in quel corpo. Il malato tace, ma il de­ mone risponde in lingua greca o barbara e dice come e dove è entrato in quell'uomo. Egli lo obbliga con formule, se non si la­ scia convincere, e con minacce allontana il demone. Una volta io ne vidi uscire uno, nero e simile a uno sbuffo di fumo. (Luciano, Amante della menzogna, 16)

La somiglianza di questa descrizione con le pratiche di cac­ ciata dei demoni narrate nei Vangeli è impressionante, e anche i commentatori antichi di Luciano pensavano che egli volesse parodiare le guarigioni del Cristo il quale appare nei Vangeli an­ che come esorcista e guaritore di follia 60 come nel caso dell'in­ demoniato di Gerasa: Giusero nel paese dei Geraseni che sta di fronte alla Galilea do­ ve, appena arrivò, gli si fece incontro un uomo da gran tempo 60. Altri casi di cacciata di demoni: Matteo 4, 24; Luca 4, 33; vedi anche, su questo episodio, R. Girard, Il capro espiatorio, tr. it. Adelphi, Milano 1987, pp. 257-284.

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posseduto dal demonio. Appena vide Gesù, gettò un gran gri­ do e prostratoglisi davanti disse a voce alta: "Che c'è in comu­ ne tra me e te, Gesù, figlio di Dio Altissimo? Non tormentar­ mi, ti prego" . Ma Gesù ordinò allo spirito immondo di uscire da quell'uomo, che da tempo era invasato, e per quanto fosse incatenato e custodito in ceppi rompeva tutto ed era sospinto dal demonio nel deserto. Poi Gesù lo interrogò: "Che nome hai". E quello rispose "Legione" perché molti erano i demoni nel corpo di quell'ossesso, e poiché essi lo pregavano di non co­ mandare loro di andare nell'abisso, ma di permettere loro, da­ to che lì presso c'era un gran branco di porci che pascolavano sul monte, di entrare nei porci. Egli annuì. I demoni allora usci­ ti dall'uomo entrarono nei porci e la mandria corse a gettarsi a precipizio nel lago e annegò. (Luca 8, 26-3 3 )

La cacciata del demonio dal corpo di un posseduto awiene in diverse fasi: evocazione, richiesta del nome, espulsione at­ traverso formule ed esorcismi. L'ossesso agitato parla con la voce del demonio che è dentro di lui (come capita ad altri os­ sessi, quali i cosiddetti ventriloqui). Ma probabilmente il tipo di violenta cacciata del demone non era praticata dagli esorci­ sti greci, quanto meno in età classica, poiché tra il demonismo greco e quello ebraico esiste una differenza sostanziale: il de­ mone nella prospettiva dualistica dell'Ebraismo è una forza ostile e nemica, un rappresentante del Male disperso sulla ter­ ra dal Signore delle Tenebre, in quella greca l'entità di posses­ sione è divina, eroica o demonica, comunque appartiene alla sfera del sacro, non del male. Perciò uno va espulso, l'altro va ammansito. Sembra in effetti che in Grecia si praticassero for­ me meno "nere" di purificazione. In comune, c'è una specie di "diagnosi" del demone che ha preso possesso del malato, co­ me osserva appunto l'autore del trattato Sulla malattia sacra. Le purificazioni in Grecia erano un'operazione generica, impiegata per "guarire" le più varie afflizioni, dall'impotenza, ali'epilessia, nonché per eliminare l'angoscia che afferrava chi avesse compiuto azioni gravissime e si fosse reso responsabile di quella sorta di colpa sacra che viene identificata con il con­ cetto di miasma o contaminazione. Le purificazioni servivano

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a eliminare una macchia, o, come dice Platone,61 per dividere: "Conservare il bene ed espellere il male" . In tal modo viene ri­ pristinato un ordine alterato, con un'operazione che è nello stesso tempo rituale, magica e psicologica. Talvolta le purificazioni avvenivano con il viso rivolto a est;62 si usava in genere acqua lustrale e i convenuti si disponevano in cerchio, da cui il verbo perikathdiro "purifico attorno", che corrisponde al latino circum/erre. Sono testimoniate varie for­ me di purificazione (compresa quella forma speciale che è la cacciata del capro espiatorio o pharmak6s); non è però impor­ tante tanto enumerare le forme attraverso cui si compiva il ri­ tuale purificatorio (queste appartengono al bagaglio tradizio­ nale della magia omeopatica, e consistono in operazioni tutto sommato banali, dal punto di vista rituale, come abluzioni, for­ mule catartiche, purificazioni con fuoco e simili), quanto os­ servare che l'effetto di questi atti, così semplici, fosse di re­ staurare uno stato di normalità rituale, turbato da qualche in­ tervento perturbante. Un modello è rappresentato dalla scena dell'Edipo a Colono in cui l'impuro Edipo viene mondato dalle sue contaminazio­ ni nel boschetto sacro delle Eumenidi - divinità, tra l'altro, es­ se stesse procuratrici di delirio e follia come castigo di atti em­ pi. In questo caso, che costituisce la più estesa documentazio­ ne letteraria di un rito catartico, la purificazione è eseguita con strumenti molto semplici: viso rivolto a oriente, acqua, offerte, preghiere, il divieto di voltarsi alla fine del rito.M Niente di par­ ticolarmente noir. La purificazione occupava un posto importante in quello che potremmo definire il sistema psicoterapico collettivo dei Greci: essa infatti consentiva a un individuo di rimuovere la causa del61. Sofista, 226 d. 62. Scolio a Sofocle, Edipo a Colono, 477. Sui procedimenti purificatori in generale, vedi R. Parker, Miasma, Oxford University Press, Oxford 1983, pp. 2 24-234. 63. Edipo a Colono, 465-493 (e vedi il commento di G. Guidorizzi in Sofo­ cle, Edipo a Colono, a cura di G. Avezzù, G. Guidorizzi, G. Cerri, Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 2008, pp. 266-268). Un'altra descrizione di ritua­ le purificatorio è quella di Eschilo, Coefore, 106-123.

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la sua nevrosi o quantomeno di attenuarla eliminando l'ango­ scia e il senso di colpa derivanti dall'avere commesso un'infra­ zione alle regole imposte dalla società, e trovando in alcuni casi un riflesso del proprio male in una comunità di iniziati, owero - si potrebbe anche dire - di malati reintegrati nel proprio io. Se non altro a livello mitico, questo sistema funzionava, e poiché il mito greco si giustifica in parte come riflesso e mo­ dello di pratiche sociali, dobbiamo ritenere che esso rispec­ chiasse forme di comportamento operanti nella società. Un purificatore mitico di follia fu l'indovino Melampo, "l'uo­ mo dai piedi neri", connesso con il mito peloponnesiaco delle Pretidi.64 Raccontava questa leggenda che le tre figlie del re Pre­ to di Argo erano state fatte impazzire da Era per avere offeso la sua statua di culto: le ragazze si erano rese colpevoli di un tipi­ co achréios l6gos ("discorso insensato"), con cui sovente i miti spiegano il castigo divino su mortali arroganti e insensati, come Niobe. Le ragazze, entrando nel tempio di Era a Argo, dissero scherzando che il venerabile simulacro ligneo (x6anon) della dea era misero e povero in confronto al fasto della reggia pa­ terna. Perciò la dea le punì. Secondo la versione del poeta liri­ co Bacchilide, le Pretidi vagavano sui monti fuori di senno, poi­ ché "Era le aveva terrorizzate (eph6besen) cacciandole fuori dal­ la reggia, aggiogate al delirante, possente pungolo della follia". Le ragazze rimasero folli per tredici mesi, girovagando tra monti e foreste senza che si riuscisse a farle rinsavire; infine Pre­ to si rivolse a Melampo, famoso medicine man noto per i suoi poteri taumaturgici, che in cambio di una parte del regno si of­ frì di guarirle. La cura fu di tipo rituale: si raccontava che Me­ lampo avesse radunato i giovani più gagliardi della regione e do­ po avere organizzato una danza estatica con grida e ululati inse­ guì le fanciulle insieme a loro; una delle ragazze, Ifinoe, morì ma le altre due ritrovarono la ragione dopo un rito purificatorio.65 Questo mito di follia presenta alcuni elementi tipici, ricor64. Per il mito delle Pretidi, vedi Bacchilide, X, 40- 1 12; Erodoto, IX, 34; Strabone, VIII, 3, 19; Diodoro Siculo, IV, 68; Pausania, II, 7, 8; II, 18, 4; V, 5 , 1 0 ; Ovidio, Metamorfosi, XV, 325 sgg. 65. Apollodoro, 2, 2, 2 . Secondo la versione di Bacchilide, che omette la

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renti nella letteratura e nelle leggende, che rispondono a un modello tradizionale di pazzia e di cura: i disturbi mentali so­ no prodotti da una rottura di un tabù e la follia è una forma di punizione determinata dalla divinità offesa. Essa si manifesta con sintomi tipici delle malattie mentali, che formano il terre­ no di confine tra esperienza clinica e credenze religiose: terro­ re improvviso (ph6bos), irrequietezza, impossibilità di risiede­ re in una comunità, fuga in luoghi appartati dove le ragazze correvano sfrenatamente (come facevano le baccanti sui mon­ ti quando erano preda di una crisi di trance estatica). La cura si fonda sul principio fondamentale di trasferire i disturbi men­ tali nella sfera del sacro ; come si dice a proposito dei riti esor­ cistici in Brasile, si tratta di "battezzare gli spiriti": in questo modo la malattia si carica di valori religiosi e diventa il tramite di un'esperienza soprannaturale; così, si passa dalla dimensio­ ne della patologia a quella del rituale, e si muta perciò il valo­ re culturale della malattia mentale. Non è più una vergogna che i malati e i loro famigliari devono nascondere; al contrario, i sintomi vengono esaltati, resi pubblici, ritualizzati. Gli esempi in campo etnologico sono molti, a cominciare da quello ormai divenuto classico del tarantismo, che è stato studiato da un famoso libro di De Martino. 66 Certo, nel caso dei tarantolati la possessione divina è stata rimossa dall'orizzonte culturale e sostituito dall'intervento di un animale ostile, il ra­ gno (il cui morso del resto è di modestissima tossicità), al qua­ le si attribuisce il ruolo di scatenatore dell'ossessione: tuttavia l'apparato simbolico della follia e il tipo di terapeutica musicale restano tanto simili da far pensare a una diretta derivazione dalle antiche forme di terapeutica coreica. Questi procedimenti eliminano la causa rituale della follia mediante un sistema di purificazioni e organizzando un culto estatico che, mediante una sorta di cura omeopatica, reintegra il folle in una confraternita rituale e di conseguenza ritualizza i disturbi, rendendoli sacri. storia dell'intervento di Melampo, le ragazze furono guarite semplicemente dopo che il padre aveva supplicato la dea di perdonarle. 66. E. De Martino, La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano 1961 (ri­ stampa 2009).

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La sacralizzazione della follia sembra essere, in definitiva, un utile sistema di cura e di reintegrazione (più o meno prov­ visoria) del pazzo nel corpo sociale: in questo senso, l'atteggia­ mento beffardamente laico dell'autore del trattato Sulla ma­ lattia sacra forse sottovaluta l'efficacia di questo sistema tradi­ zionale di cura. In alcuni casi, la cura della follia avveniva pres­ so santuari del culto ufficiale. A uno di questi, il santuario di Asclepio in Egina, viene condotto il giudice impazzito di cui parla Aristofane nelle Vespe; egli insieme ad altri malati "va a dormire nel tempio" nella speranza che il dio lo liberi dalla sua ossessione, ma la cura non funziona perché l'alienato la matti­ na dopo fugge dal tempio e si presenta puntuale davanti ai can­ celli del tribunale per riprendere puntigliosamente contatto con la sua ossessione. Il dio, del resto, non si specializza: nei santuari di Asclepio accorrono per cercare una miracolosa gua­ rigione malati di ogni tipo, non soltanto posseduti o alienati. 67 Tuttavia, la differenza tra i vari rituali non comporta una fondamentale differenza del significato e delle operazioni psi­ cologiche annesse; questa primitiva forma di psicoterapia ri­ sponde ad alcuni meccanismi fondamentali. Il rituale di guari­ gione attraverso la cura iniziatica contemplava alcune fasi: una sacralizzazione della malattia, la sua ritualizzazione, e una par­ te mimico-teatrale in cui il malato era invitato in qualche mo­ do a mimare la propria malattia o a imitare il comportamento di altri membri del gruppo, in genere con l'accompagnamento di un apparato musicale di tipo estatico. Questa cura contempla la rappresentazione simbolica delle tensioni che coinvolgono il gruppo (per esempio la rappresen­ tazione del conflitto tra lo spirito del padre e quello della madre; oppure avviene che i membri della famiglia confessino le loro colpe verso il malato): anche la guarigione di Oreste nelle Eu­ menidi di Eschilo avviene in un pubblico dibattito in cui il fol­ le reso tale dal rimorso per il matricidio si confronta con le ra­ gioni della sua follia, raffigurate dalle Erinni che lo stanno per67 . La documentazione sulle cure e le guarigioni nei templi di Asclepio sono raccolte in E.J. Edelstein, L. Edelstein, Asclepius, Johns Hopkins Uni­ versity Press, Baltimore-London 1998 ( 1• ed. 1945).

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seguitando. Certamente, Eschilo descrive un processo, non un rituale: ma sulla scena tragica, per lo stesso carattere simbolico di questo mitico processo, esso diviene una sorta di rituale col­ lettivo, in cui il malato è posto davanti ai fantasmi della sua ma­ lattia, affiancato e protetto dal suo dio protettore, Apollo. In generale gli antichi sembrano avere puntato su quella che potremmo definire la "cura teatrale" della follia: questa non è solo costituita dall'assistere a spettacoli teatrali (cosa che pure in diversi medici antichi è consigliata come rimedio contro la follia) ma anche e soprattutto dalla teatralizzazione del con­ flitto interiore del malato. In un certo senso il modello di cura comicamente posto sul­ la scena da Aristofane nelle Vespe riproduce un'intuizione del­ l'antica terapeutica tradizionale. La scena centrale di questa commedia raffigura in un burlesco psicodramma la monoma­ nia del protagonista. Si tratta di un pezzo di teatro nel teatro: viene simulato un processo domestico a carico di un cane che alla fine risulta assolto, producendo nel giudice uno choc tale da guarirlo, almeno in apparenza. Una forma diffusa di cura dei disturbi della personalità era affidata alla musicoterapia che affonda le sue radici nell'idea del potere magico della musica. Orfeo, si sa, ammansisce le bel­ ve con la sua cetra e domina gli elementi, riuscendo persino a placare le inespiabili divinità sotterranee. Ma Orfeo è la ver­ sione greca di un archetipo magico-rituale diffuso. Ovunque guaritori, esorcisti e sciamani scacciano i demoni dal corpo del malato con cantilene o ritmi musicali; esistono particolari dan­ ze curative (medicine dances) durante le quali il guaritore esor­ cizza gli spiriti che hanno assalito il malato e li allontana. Anche nella Grecia arcaica i guaritori ricorrevano a incante­ simi musicali per scacciare i demoni della malattia: un esempio è quello di Autolico, il nonno di Odissee, e dei suoi figli che pos­ sedevano un potere medico grazie alla loro conoscenza di epoddi "incantesimi" con cui arrestano il sangue della ferita del giova­ ne Odissee ferito da un cinghiale.68 Ma in Grecia questo antico 68. Odissea, 19, 457-458.

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sostrato d'idee fu successivamente elaborato da filosofi e teorici musicali, mentre l'antica cura esorcistica-musicale continuava a essere praticata da confraternite di guaritori come i Coribanti. I Pitagorici praticavano forme di "purificazione" dell'ani­ ma con canti, musiche, danze, recitazioni poetiche, in sostan­ za con una terapeutica volta a prevenire l'eccitazione della mente; a quanto pare, anch'essi praticavano epoddi, vale a dire forme di incantesimo musicale contro le malattie fisiche e psi­ cologiche. 69 Si raccontava che una volta Pitagora avesse placa­ to l'accesso furioso di un giovane ubriaco, esaltato per le trop­ pe libagioni e per le melodie eccitanti del flauto, che stava per appiccare fuoco alla casa di un rivale in amore; Pitagora ordinò che il suono del flauto cessasse e in tal modo fece rinsavire il giovane. La terapeutica musicale ha esempi anche al di fuori del mondo greco: la pazzia violenta di Saul era placata dall'arpa di Davide, che ogni mattina suonava per lui; allora "Saul era sol­ levato e si sentiva meglio, e lo spirito cattivo (suscitato da Iahvé contro di lui) si ritirava". 70 La cura rituale era usata per guarire affezioni dell'anima, come afferma un molto discusso passo platonico: 7 1 Ma di grandissime malattie e sofferenze che a causa dell'ira di­ vina si manifestarono in alcune stirpi, la follia, insorgendo pro­ fetica in chi doveva, trovò guarigione, ricorrendo a preghiere e riti sacri. Perciò, dopo avere scoperto forme di purificazione rituale adatte, rese immune da sé per il presente e per il futuro chi ne era affetto, dato che aveva inventato la cura per chi fol­ leggiava nel modo giusto ed era posseduto dal dio. (Platone, Fedro, 244 de) 69. Giamblico, Vita di Pitagora, 1 12-113. 70. ! Samuele 16, 14-23. 7 1 . Per le discussioni su questo passo vedi I.M. Linforth, "Telestic Madness in Plato, Phaedrus 244 de", in University o/Calz/ornia Publications in Classica! Philology, 13, 5, Berkeley-Los Angeles 1946, pp. 163- 172 (in particolare, p. 165), la cui interpretazione è prevalentemente accettata; H. Jeanmaire, Dioni­ so, tr. it. Einaudi, Torino 1972, pp. 130-136; G. Devereux, "La crise initiatique di chaman chez Platon (Phédre 244 de)", in Psychiatrie/rançaise, 6, 1983, pp. 33-35; G. Rouget, Musica e trance, tr. it. Einaudi, Torino 1986, pp. 262-274; G. Reale (a cura di), Platone, Fedro, Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1998, pp. 205-206; R. Velardi (a cura di), Platone, Fedro, BUR, Milano 2006, pp. 179-181.

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Secondo Platone la follia guarisce la follia attraverso una cu­ ra omeopatica: da un lato sta una follia cattiva, ereditaria, cau­ sata da colpe che si trascinano da una generazione all'altra in­ quinando le anime; dall'altro lato sta una follia "giusta" pro­ dotta da rituali e inquadrata in ciò che Platone nel passo im­ mediatamente precedente del Fedro (e di cui parleremo più ampiamente dopo) chiama "follia iniziatica" che si esprime in forme rituali: è questo secondo tipo di follia che, ritualizzando i disturbi psicologici cronici, organizza forme di cura coreiche e musicali fondate sulla trance e capaci di cambiare volto ai di­ sturbi psicologici e renderli accettabili, una volta inquadrati in un modello rituale. Platone insomma afferma (e anche questa è una posizione molto moderna) che la follia può essere guari­ ta attraverso pratiche che la stessa follia ha insegnato, ossia che l'esorcista è lui stesso un posseduto, e che tali pratiche consi­ stono nel regolarizzare e incanalare l'accesso di follia facendo­ lo diventare "telestico" , vale a dire rituale. 72 Una delle corporazioni specializzate nella cura musicale e ri­ tuale della pazzia, nell'Atene del tardo V secolo a.C., era quella dei Coribanti (ed è probabilmente a loro che Platone pensa nel passo del Fedro sopra citato). Il nome di Coribanti era applica­ to in origine a demoni connessi con il culto della dea madre fri­ gio-cretese, che ai Greci era nota come Rea oppure Cibele. In Atene i Coribanti non erano figure mitologiche ma una confraternita di danzatori che praticavano rituali iniziatici con­ nessi con i disturbi mentali. I Coribanti compaiono quasi im­ provvisamente nel costume ateniese del V secolo, dove occupa­ no un ruolo riconosciuto nella gestione della follia e degli stati pa­ ranormali. La parola "fare il Coribante" (korybantidn) nei testi letterari di quest'epoca è sinonimo di "comportarsi da esaltato", "delirare" . 73 I sintomi di questa (presunta) "malattia dei Cori72. H. Jeanmaire, Dioniso, cit., p. 136. 73. Sui Coribanti in generale, vedi I.M. Linforth, "The corybantic rites in Plato", in University o/ California Publications in Classica! Philology, 13, 5 , Berkeley-Los Angeles 1946, pp. 121-162; E.R. Dodds, I Greci e l'i"azionale, cit.; G. Rouget, Musica e trance, cit., pp. 107-113 e 273-291; R. Pretini, "Il co­ ribantisrno nelle testimonianze degli autori antichi: una proposta di lettura", in Studi e materiali di storia delle religioni, 65, 1999, pp. 283-308.

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banti" erano: crisi di pianto, palpitazioni cardiache, perdita del­ la coscienza, iperestesia psicomotoria, catalessi. I Coribanti si di­ rebbero vittime di un delirio coreico, fatto di ipereccitabilità mo­ toria e perdita della coscienza; essi entravano in uno stato di ca­ talessi attraverso l'uso ossessivo dei loro ritmi estatici (come sem­ bra indicare tra l'altro una testimonianza di Plinio74 secondo il quale "i Coribanti dormono a occhi spalancati"). I Coribanti erano considerati essi stessi folli e il "coribanti­ smo" una vera e propria malattia mentale; tuttavia, o forse ap­ punto per questo, a loro si ricorreva per curare stati di aliena­ zione mentale: essi sono folli, guaritori di follia e nello stesso tempo autori di rituali estatici, fondati su un particolare tipo di musica e di danza. Secondo la vecchia tesi di Rohde i Coribanti erano portatori di una speciale affezione, diffusa epidemicamente nella Gre­ cia arcaica, paragonabile alle ondate di follia coreica diffuse in vari momenti della storia europea, come quella dei "danzato­ ri di San Giovanni" di cui parla la Cronaca di Liegi; alcune te­ stimonianze antiche parlano effettivamente di casi di mania coreiforme. 75 I Coribanti erano vittime di allucinazioni visive e auditive - per cui credevano di sentire il suono dei flauti - e provava­ no l'irrefrenabile desiderio di danzare. 76 Si tratterebbe dun­ que di una forma di psicosi etnica in cui il disturbo mentale viene costruito su modelli culturali ai quali il soggetto tende a conformarsi. Si è posseduti dai Coribanti, e ci si comporta da Coribante, aderendo ai loro specifici riti così come, per esem­ pio, in Giappone si credeva che le donne kitsunetsuki fossero possedute dalle volpi magiche, cosicché anch'esse tendevano ad assumere forme di alienazione trasmesse per via culturale e codificate. 74. Plinio, Storia naturale, 11, 147. 75. Plutarco, La virtù delle donne, 249 b; Polieno, 8, 23; Luciano, Come si deve scrivere la storia, 1, parla di un'epidemia di febbre al termine della qua­ le tutti i cittadini furono presi da un delirio coreico-musicale che terminò so­ lo con i freddi dell'inverno. 76. Platone, Simposio, 215 e; Ione, 553 e.

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Tuttavia, l'ipotesi di Rohde, così come è stata formulata, pre­ senta diversi problemi. In primo luogo, non risulta che il deli­ rio coreico fosse esplicitamente collegato all'invasamento pro­ dotto dai Coribanti. Poi, il rituale coribantico sembra rivolto al­ la cura di singoli individui, e anch'essi non specificamente vit­ tima di delirio coreico: per esempio, il giudice di cui si parla nelle Vespe di Aristofane viene curato attraverso l'iniziazione coribantica, pur non presentando i sintomi tipici dei Coriban­ ti. Inoltre, pare che ai riti coribantici in Atene partecipassero anche persone sane di mente, come il Clinia dell' Eutidemo, di cui parla Platone. Quella dei Coribanti era considerata, co­ munque, in qualche modo, una malattia: Platone parla di "don­ ne che curano il male dei Coribanti" , identificandolo con una forma di ossessione musicale: Le donne che curano ritualmente (telousai) il male dei Cori­ banti. Quando infatti le madri vogliono far dormire i loro bam­ bini inquieti, non li tengono fermi, ma al contrario li muovono cullandoli continuamente tra le braccia e non stanno in silen­ zio ma cantano qualche canzoncina ammaliandoli come si fa col flauto. Allo stesso modo si ricorre a una simile forma di scuotimento per curare coloro che sono fuori di sé per il furo­ re bacchico, ricorrendo a danze e canti. (Platone, Leggi, 790 de) I Coribanti avevano dunque un ruolo sia nello scatenamen­ to che nella cura di stati paranormali: è un caso in cui malattia e cura finiscono per coincidere e questa apparente contraddi­ zione - poiché dal punto di vista medico malattia e cura sono categorie opposte - si spiega all'interno di una prospettiva ri­ tuale, in cui operano altre forme di coerenze. La si potrebbe de­ finire una cura omeopatica della follia: nel momento in cui ci si ammala di " coribantismo", si guarisce da esso; entrare nella follia significa guarire dalla follia, poiché se ne è fatta cono­ scenza e poiché un movimento più forte serve a placare e an­ nullare un movimento più debole. L'attività estatica dei Coribanti è testimoniata in altri luoghi oltre che in Atene; secondo Arriano:

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I Frigi sono gli uomini più antichi e folleggiano in onore di Rea e vengono posseduti dai Coribanti, vale a dire coribantizzano essendo posseduti da un demone (daimoni6ntes) quando l'e­ nergia divina li invade volteggiano, gridano, danzano profetiz­ zando il futuro, trascinati dalla divinità e folli. (Arriano, Storia della Bitinia, fr. 9 Roos) La cura dei Coribanti rientra in quelle forme di follia che Pla­ tone chiamava "iniziatica" . La guarigione aweniva attraverso un rituale iniziatico, chiamato thronism6s ("intronizzazione") di cui parla Platone, presupponendo di dire cose ben note ai suoi lettori; il neofita era posto al centro di un cerchio di danzatori estatici e diveniva, con questo, membro della folleggiante confraternita: (Essi) fanno la stessa cosa che avviene nei rituali dei Coriban­ ti, quando eseguono l'intronizzazione danzando attorno a co­ lui che stanno per iniziare; anche là c'è una danza e uno scher­ zo (paidùi), come sai se davvero sei stato iniziato anche tu. (Platone, Eutz/rone, 277 de) I riti coribantici configurano dunque un tipo di musicote­ rapia, con l'impiego degli strumenti estatici che ci sono del re­ sto familiari attraverso i rituali dionisiaci, e più in generale le danze di possessione; nel caso dei Coribanti, non accompa­ gnata da canto, come awiene in altri casi analoghi di posses­ siorie puramente strumentale (come il barong di Bali). Secondo Dodds, la cura dei Coribanti prevedeva un sacrifi­ cio fatto al dio da parte dell'ammalato, una diagnosi musicale, una danza orgiastica volta a curare l'ossesso. 77 Non saprei ben dire che cosa si possa intendere con "diagnosi musicale" : a quanto pare, essi operavano una forma di catarsi mediante una danza orgiastica e contagiosa, accompagnata da strumenti ti­ picamente estatici come flauti e tamburelli in melodia frigia. Era certamente un tipo di musica specifica e facilmente rico­ noscibile, comunque da inserire tra gli schemi musicali carat­ teristici delle danze di possessione. Come dice Platone, 77. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, cit., p. 1 10.

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quelli che sono agitati da furore coribantico (korybanti6ntes) sono sensibili soltanto al canto del dio da cui sono posseduti, e per quel canto sanno adoperare molti schemi di danza e di pa­ role, mentre degli altri non si danno cura. (Platone, Ione, 536 b)

Bisogna notare anche che la cura dei Coribanti tendeva a istituire una dipendenza psicologica tra malato e guaritore. Era in sostanza una cura iniziatica: si entrava a fare parte stabil­ mente della corporazione coribantica, come in genere un pos­ seduto istituisce legami stabili con la divinità che lo possiede e con la corporazione che ne pratica il culto (è il caso, tra l'altro dei rituali dionisiaci). La presenza dei Coribanti in Atene si spiega con una con­ temporanea assenza, vale a dire quella di un culto dionisiaco estatico regolarmente organizzato . Dioniso a Atene è ormai una divinità politica in senso pieno; le funzioni catartiche che la trance coreica, associata al culto dionisiaco, esercita in altri luoghi della Grecia sono almeno in parte sostituite dagli esoti­ ci riti dei Coribanti. Va detto però che i due rituali non sono so­ vrapponibili: quello dei Coribanti sembra, a quanto pare, un ri­ tuale individuale e maschile, ben diverso da quello collettivo, e prevalentemente femminile, che veniva praticato durante i rituali dionisiaci. In sostanza, la cura-malattia dei Coribanti rientra in un mo­ dello terapeutico musicale che trova una serie di conferme a li­ vello etnografico; il processo terapeutico potrebbe essere sinte­ tizzato così: le persone psicologicamente disturbate, che soffro­ no di crisi di possessione, vengono curate praticando una forma di trance rituale scatenata dalla musica di certi strumenti, e attra­ verso una forma di danza con figurazioni molto mosse. Questo movimento reintegra il malato nel moto generale del cosmo (co­ me diceva Platone), e con opportuni sacrifici ne procura la gua­ rigione. 78 Più o meno temporanea: gli dei tolgono e gli dei danno. 78. Su questo punto vedi G. Rouget, Musica e trance, cit., p. 380 (nel li­ bro, ulteriori testimonianze etnomusicali sui rapporti tra coribanti e altre danze di possessione).

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,1ruxfiç 1teipma i.wv oùK èiv él;eùpow 1téicmv É1tt1topeu6µevoç ò66v Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell'anima non li troverai. ERACLITO, fr. 45

D.K.

IL FUNESTO PUNGOLO "Ogni uomo - scriveva Platone 1 - combatte una guerra con­ tro se stesso." Il luogo di questo conflitto, nel quale una parte di noi si scopre nemica dell'altra, è uno spazio interiore chia­ mato psiche (psycheì, che si potrebbe tradurre con "anima" ma che include anche il concetto di "mente". Lì in modo silenzio­ so e invisibile maturano i germi di ciò che lo stesso Platone de­ finisce "il funesto pungolo che cresce negli uomini per ine­ spiabili colpe antiche e si agita dentro di lui" .2 Il frutto avvele­ nato del dissidio interiore che accompagna, o minaccia, l'esi­ stenza umana è un impasto di alienazione, crudeltà e stoltezza che gli scrittori greci dell'età classica identificano generalmen­ te con la parola mania, e che noi, con una certa approssima­ zione - poiché le categorie psicologiche dei moderni non sono le stesse degli antichi - potremmo tradurre con "follia": la fol1. Leggi, 626 d. 2. Leggi, 854 b.

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lia è la malattia dell'anima per eccellenza, come il corpo a sua volta è vittima di altre malattie che gli sono proprie. Sul concetto di psiche, e sulle alterazioni dell'anima, Platone meditò lungo tutta la vita. Nei dialoghi giovanili, come Apologia e Pedone, il suo interesse è rivolto principalmente al nesso tra io mentale e io visibile, vale a dire tra anima e corpo; successiva­ mente, egli andò sviluppando un'indagine sempre più ampia sul­ la struttura e sul funzionamento dell'anima e sulle sue attività. A opere della maturità e della vecchiaia (come Repubblica e Fedro) risale la chiara formulazione dell'idea che la psiche sia in realtà il prodotto di tre diverse funzioni, o parti, che vengono definite loghistik6n (razionale), thymoeidés (impulsiva) ed epithymetik6n (concupiscibile). Tre sono le parti dell'anima, ma non tutte ugua­ li tra loro: quella con cui proviamo impulsi e desideri, ossia quel­ la più soggetta al rischio della follia, è "la parte maggiore che sta in ciascuno" ed è sempre suscettibile di espandersi ancora di più, sotto la spinta di stimoli e desideri legati alla corporeità. 3 Composita è la struttura dell'anima e composita è anche la sua attività, che abbraccia tanto i pensieri coscienti quanto le pulsioni irrazionali. La psiche contiene tutto ciò che va a for­ mare la personalità di un individuo; è scontato, date le pre­ messe complessive della sua filosofia, che Platone collocasse le funzioni superiori nel loghistik6n, il vero auriga dell'anima. La parte più bassa e oscura è quella che contiene gli impulsi più elementari, il desiderio sessuale e la violenza, mentre la parte volitiva può cooperare con l'una o con l'altra. Per Platone dunque la psiche è l'entità che si stacca dal cor­ po nel momento della morte e vive una sua autonoma esisten­ za nell'oltremondo, purificandosi prima di rientrare in un altro corpo, in un perenne ciclo di rinascite (quanto meno, secondo il grande mito escatologico che chiude la Repubblica); nell'es­ sere vivente essa è il principio che regola l'attività razionale, etica e affettiva di un individuo. L'anima (come si dice nel Fe3. Repubblica, 442 a; vedi anche S. Gastaldi, " L'infelicità dell'ingiusto: il caso del tiranno", in M. Vegetti (a cura di), Platone, Repubblica, Bibliopolis, Napoli 2005, voi. VI, pp. 5 1 3-5 18.

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dro) è immortale, vive e agisce secondo un proprio impulso, non è mossa da altri, ma muove se stessa ed è quindi comple­ tamente autonoma. 4 Quest'anima animante è minacciata da forze che germogliano dal suo stesso interno, in primo luogo i desideri e le pulsioni che traggono origine dalla sua parte irra­ zionale: questi possono radicarsi dentro di lei sino a trascinar­ la verso la mania, che, nella prospettiva di Platone, appare co­ me una nozione patologica ed etica nello stesso tempo. Folle è colui che non conosce il bene per ignoranza (se lo conoscesse, lo compirebbe, dato che il bene si identifica con la conoscen­ za) oppure colui che in seguito a qualche malattia o a una cat­ tiva scelta di vita, lasciando libero corso alla sua sfrenatezza, conduce la sua psyché verso il delirio della follia e del delitto. Platone aveva una nozione dinamica della psiche, perciò egli riteneva che la malattia dell'anima non si manifestasse in un momento preciso e non fosse limitata all'esperienza individua­ le, ma avesse radici lontane e crescesse lentamente, sino a di­ ventare inarrestabile. L'anima si modifica e si plasma in ogni momento, e i suoi movimenti dipendono, istante per istante, dagli equilibri e dagli squilibri delle sue parti, causati dagli sti­ moli a cui viene sottoposta. Questi penetrano nella psyché e vi conducono conflitti, emozioni, sensazioni, come il cavallo di Troia portava guerrieri dentro la città assediata. Si direbbe inoltre che, secondo Platone, ogni uomo non na­ sca con se stesso, ma porti dentro di sé una storia di colpe e di mali che vengono al mondo insieme a lui, radicati nella sua na­ tura e nella sua famiglia, e che sono il prodotto di una lunga ca­ tena di eventi. Quando parlava di "antiche colpe" 5 che operano sciagura­ tamente sulle anime, Platone si riferiva ai racconti tradizionali della sua gente, che la tragedia attica aveva contribuito a rendere esemplari, aggiungendo alla narrazione del mito la profondità delle passioni che solo questa nuovissima invenzione della ci4. Fedro, 245 c. 5. Come nel Fedro (244 d - 245 a) dove parla di "inespiabili colpe antiche" sulle quali si può intervenire solo attraverso un rituale terapeutico.

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viltà, il teatro, era in grado di descrivere in tutta la loro ampiez­ za: la lacerazione interiore, il dubbio straziante, l'estremo della rabbia e dell'odio, l'improvviso emergere di impulsi distruttivi e autodistruttivi, in una parola tutto ciò che di più insondabile e oscuro si agita nell'anima di un essere umano sono temi cen­ trali del linguaggio tragico. Nella tragedia greca l'eroe si am­ mala di follia per cause che si radicano nella storia famigliare ben prima di lui. La follia di Oreste matricida perseguitato dal­ le Erinni del rimorso dipende dalla catena di assassini e di cru­ deltà del padre e del nonno, le cui mani erano lorde del sangue di fanciulli innocenti, e dall'inesorabile legge della vendetta a cui non può sottrarsi; quella di Edipo è già compresa nella fosca e furibonda natura di suo padre Laio, come voleva Eschilo:6 Laio, dominato dalla sua dissennatezza, generò la sua stessa morte: Edipo parricida, che seminò il puro solco della madre da cui era nato, e vi piantò una radice insanguinata. La follia (paranoia) unì i due sposi la cui mente era stata travolta. (Eschilo, Sette contro Tebe, 750-757) Quando Eteocle, l'ultimo germoglio di questa "radice in­ sanguinata", malgrado gli ammonimenti del Coro che cerca di ricondurlo alla ragione, si avvia a uccidere il fratello e a mori­ re per mano sua, esce di scena come un ossesso incapace di pa­ droneggiare la sua mente: L'odiosa, la nera maledizione del padre mi si avvicina con oc­ chi senza lacrime e mi dice: è meglio che tu muoia subito, non dopo. Ribolliscono ancora le imprecazioni di Edipo, ed erano vere le visioni che mi comparivano in sogno e parlavano di un'eredità da dividere! (Eschilo, Sette contro Tebe, 709-7 1 1 ) Nella mente di Eteocle (secondo il quadro che n e fa Eschi­ lo) si spalanca un abisso di angoscia e disperazione, che cresce 6. Su Edipo come erede psicologico di Laio, prodotto dal suo odio e di­ venuto in questo simile al padre, vedi G. Guidorizzi, in M. Bettini, G. Gui­ dorizzi, Il mito di Edipo, Einaudi, Torino 2004, pp. 4 1-55.

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a poco a poco sino all'esplosione di odio finale e alla devastan­ te e folle scelta di autodistruzione. Durante mesi e anni si sono andate accumulando nella mente di Eteocle allucinazioni, vo­ ci interiori, incubi attraverso cui le maledizioni del padre han­ no tormentato le notti del figlio, incapace di liberare la mente dai fantasmi provocati dall'odio paterno anche se sino a quel momento non ha commesso ancora alcun delitto. Il senso di colpa, alimentato da una figura paterna distruttiva che conse­ gna i suoi figli alla morte e all'annientamento ( "Dividerete la mia eredità con la spada - sono le sue ultime parole al figlio, nell'Edipo a Colono di Sofocle - e della terra che sperate di ri­ cevere da me vi toccherà solo quel tanto che basterà alla vostra sepoltura" ) 7 opera sulla mente di Eteocle in modo implacabi­ le. La maledizione del padre trasforma il buon cittadino e il re dedito al bene del suo popolo ( come Eteocle era stato sino a quel momento nei Sette contro Tebe), in un mostro assetato del sangue di suo fratello il quale riproduce in questa sua follia la stessa follia che aveva animato i suoi avi, quando avevano ge­ nerato un seme destinato alla sciagura. Sembra un'idea arcaica, dipendente dai vecchi principi del­ la contaminazione e della colpa collettiva, invece potrebbe es­ sere accettabile anche per la psicologia moderna: il senso è che ognuno è il prodotto della sua storia famigliare, ognuno porta con sé la follia dei padri, ma molti scelgono di rimanere pri­ gionieri di questa follia. Come Platone scriverà più tardi nel Timeo (86 b), la follia si manifesta in varie forme, ma non tutte immediatamente evi­ denti: "Si deve ammettere che la vera malattia dell'anima è la stoltezza (dnoia), e che esistono due forme di stoltezza: la paz­ zia (mania) e l'ignoranza (amathia)" . Rifiutare l'evidenza del di­ vino è una forma di follia, saccheggiare un tempio è pura follia, scatenare i propri istinti più vili è follia, vivere in modo incon­ sapevole e stolto, persino cedere alla violenza e all'ambizione del tiranno, sono forme terribili di follia. Che differenza c'è, in 7. Sono le maledizioni che Edipo scaglia contro i suoi figli nell'Edipo a Co­ lono ( 1383- 1396).

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fondo, tra un folle inconsapevole di sé e un essere umano che consapevolmente evita di percorrere la strada verso la verità e la giustizia per rimanere prigioniero dei suoi errori e delle sue il­ lusioni? Pazzia e ignoranza (vale a dire non conoscenza di sé e non volontà di acquistarla) hanno la stessa radice, e non vi è dubbio che una sia la diretta prosecuzione dell'altra: Platone sembra pensare che il processo che porta un essere umano a di­ ventare pazzo o stolto sia, in fondo, lo stesso. Come il suo mae­ stro Socrate, egli riteneva che sia l'ignoranza di quello che è buono e giusto a condurre un'anima verso il baratro. 8 Platone sembra talvolta spiegare l'insorgere improwiso e in apparenza inspiegabile di comportamenti aberranti con una sorta di eredità biologica insita nella stirpe: l'inesplicabile na ­ tura del male, la strana devianza per cui da genitori onesti na­ scono figli criminali, è la stessa della pazzia. I pensieri nemici sorgono improwisi e spingono alla violenza e all'ingiustizia: la­ sciarli emergere significa votarsi a un male che presto o tardi si rivelerà e le cui conseguenze non finiranno neppure con la fi­ ne della vita, ma proseguiranno anche dopo. Come scriveva anche Sofocle, "il male sembra un bene, a un uomo la cui men te è accecata da un dio". 9 Secondo questa prospettiva, i limiti tra follia e salute men­ tale sono sottili, a volte quasi indiscernibili: si potrebbe dire che la follia è lo stato potenziale nel quale rischia di precipita­ re ogni uomo che non riesce a tenere a freno le forze distrutti­ ve che si agitano dentro di lui. 10 8. Il nesso tra male come ignoranza del bene e follia come forma di igno­ ranza sembra fosse un tema espressamente socratico: vedi Senofonte, Me­ morabili, 1, 2, 50 e 3, 9, 6: "Diceva che la pazzia (mania) è il contrario della sapienza (sophia). Ma non considerava follia l'ignoranza, però l'ignorare se stessi e congetturare ciò che non si sa e credere di sapere quello sì pensava che fosse prossimo alla follia". 9. Sofocle, Antigone, 622-624. 10. La definizione della "malattia dell'anima" applicata alla follia ricorre ripetutamente in Platone, per esempio in Sofista 227 e - 228 e, dove la malattia dell'anima si verifica in seguito a una qualche forma di corruzione (diaphthord); il testo è controverso su quest'ultimo concetto: vedi la discus­ sione in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, Rizzoli, Milano 2007, pp. 257 -259; vedi anche Timeo, 69 d, 86 cd; Leggi, 934 de.

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Se infatti la pazzia è una malattia evidente dei folli, è vero an­ che che non esiste uomo in cui non si manifestino, poco o tan­ to, i sintomi della follia, e la prova sta nell'esperienza comune. Basta allentare il controllo su se stessi e uscire dai recinti che la coscienza ha innalzato attorno alla mente razionale per con­ sentire a un uomo di elaborare il suo sistema di valori perché emergano da profondità oscure i sintomi della malattia dell'a­ nima. Essi si manifestano nei sogni, durante i quali la parte ir­ razionale e pertanto - secondo la prospettiva platonica - ten­ denzialmente malata dell'anima dà voce alle proprie pulsioni. Non capita a chiunque di sognare cose che nella veglia solo un pazzo o un criminale potrebbero fare? Non c'è limite a ciò che può avvenire nell'esperienza onirica di qualsiasi uomo, an­ che il più equilibrato e onesto, cosicché il sogno appare come lo specchio in cui si riflette sulla vita cosciente la naturale pro­ pensione dell'anima irrazionale verso la pazzia. I sogni rivela­ no una strana eguaglianza tra gli uomini, e nello stesso tempo un'allarmante contiguità tra follia e sapienza, poiché dal pun­ to di vista degli istinti il saggio non è migliore dello scellerato. Quest'idea si affaccia all'inizio del IX libro della Repubblica, quando Platone si accinge a descrivere la genesi di quello che per lui è il prototipo del folle e dello stolto, vale a dire il tiran­ no, il quale comincia la sua strada proprio nel momento in cui lascia libero corso agli impulsi dell'anima irrazionale, proprio come avviene a chi durante la notte allenta il controllo della coscienza sulla parte irrazionale della propria anima: 1 1 Quando l'anima razionale, che esercita sull'altra una dolce au­ torità, dorme, mentre quella animalesca e primitiva sazia di ci­ bo e di vino si agita [ . . . ] in un simile stato, come libera e svin­ colata da ogni controllo razionale, ardisce tutto. Non esita in­ fatti a unirsi alla madre (così almeno immagina in sogno) o a qualsiasi uomo, dio oppure animale; a macchiarsi di ogni ge1 1. Per le pulsioni dell'anima concupiscibile sulla psiche, e in particola­ re sui sogni, vedi M. Solinas, "Desideri: fenomenologia degenerativa e stra­ tegie di controllo", in M. Vegetti (a cura di), Platone, Repubblica, cit., voi. IV, pp. 4 71-498; T.M. Robinson, Plato's Psychology, University of Toronto Press, Toronto 19952 •

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nere di delitto, a non astenersi da nessun tipo di cibo. Insom­ ma, non c'è forma di delirio (anoias) o di indecenza che le man­ chi [ . . . ] in ciascuno è presente un tipo di desiderio terribile, selvaggio, sfrenato, che si ritrova anche in quelle poche perso­ ne che sembrano veramente equilibrate, ed è proprio questo che i sogni mettono in evidenza. (Platone, Repubblica, 571 cd)

Il sogno è come una breccia che si apre su una dimensione oscura di violenza e immoralità, e manifesta con evidenza il fat­ to che il germe del male è radicato dentro, proprio al centro dell'uomo. 12 Per quanto faccia paura ammetterlo, è difficile non vedere che il delirio che si manifesta nei folli è una parte dell'uomo, dal momento che non esiste droga o delirio che pos­ sano creare dal nulla qualcosa che non è già presente da qual­ che parte nella natura umana. Il sogno soddisfa desideri così in­ confessabili che la coscienza ne ha orrore e non può tollerarli; così, essi finiscono in ciò che Freud chiamerebbe il rimosso e riappaiono in forma di immagini perturbanti, che si materia­ lizzano nei sogni approfittando della passività dell'Io addor­ mentato. Il pardnomon, la spinta selvaggia (e narcisistica) a sca­ valcare le regole per soddisfare la zona irrazionale e libidica della propria natura trascina l'anima là dove è molto pericolo­ so che vada. Un uomo qualunque lo fa nel sogno, un tiranno tenta di trasformare in realtà i suoi deliri di appagamento. Que­ sta è la via maestra per cui l' epithymetik6n accompagna l'ani­ ma verso la follia. Se il sonno rivela la follia che sta in ognuno, Platone ne ri­ cava che occorre estendere l'educazione anche alla parte inco1 2. Su questa nozione del sogno vedi E. Vegleris, "Platone e il sogno del­ la notte", in G. Guidorizzi (a cura di), Il sogno in Grecia, Laterza, Roma-Ba­ ri 1 988, pp. 103 - 1 20; W.Jeager, Paideia. La formazione dell'uomo greco, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 196T , voi. Il, pp. 559-561, il quale si spinge a dire che queste notazioni sulla vita inconscia notturna fanno di Platone il vero "padre della psicoanalisi". I rapporti tra questo passo platonico e la teoria freudiana del represso sono del resto generalmente riconosciuti: vedi C.H. Kahn, "Plato's theory of desyre", in Review o/Metaphysics, 4 1, 1987, pp. 77103 ; M. Solinas, "Desideri: fenomenologia degenerativa e strategie di con­ trollo" , cit., pp. 47 8-495.

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sciente dell'anima e non abbandonarla alla sua naturale pro­ pensione per il delirio; perciò bisogna controllare i propri so­ gni con una pratica mentale che porti al sonno un'anima già ammansita e domata dalla ragione, attraverso una specie di igie­ ne del sogno: Quando un uomo equilibrato e sano va a dormire dopo aver destato la sua parte razionale, e averla nutrita di parole e pen­ sieri elevati, raggiungendo la pace interiore, e non tiene a di­ giuno o nutre troppo la parte concupiscibile, perché dorma e non turbi con le sue gioie o tristezze la parte migliore, ma la la­ scia sola con se stessa a ricercare, e nello stesso modo acquieta la sua parte impulsiva e non va a dormire con l'anima eccitata perché si è adirato contro qualcuno, ma si mette a riposare do­ po avere placato quelle due parti e stimolata la terza in cui ha sede la ragione, allora in questo stato tocca in sommo grado la verità, e non gli appaiono quei sogni immorali. (Platone, Repubblica, 57 1 e - 572 a)

Una volta addormentate le due parti inferiori dell'anima, quelle che stanno ai confini con la violenza e la follia, la parte ra­ zionale rimane desta e vigile sino all'istante in cui sprofonderà nel sonno: così la sua calma influenza continuerà a operare an­ che dopo, placando le zone inquiete dell'anima durante il pe­ riodo in cui la coscienza si annulla. La pedagogia del sogno, de­ stinata ad ammansire gli impulsi dell'inconscio, era una pratica non ignota in Grecia: per esempio, anche i pitagorici esercita­ vano una specie di esame di coscienza, riepilogando gli eventi giornalieri, prima di avviarsi al colloquio con i loro sogni. n Il discorso sul sogno del IX libro della Repubblica è il punto di partenza di un ragionamento tipicamente platonico: vale a dire, tutto il male nasce quando tra le parti di cui è formata l'a­ nima tace quella razionale, cioè quella propriamente e com­ piutamente umana, e trionfano invece le altre due, quella emo­ tiva e quella concupiscibile. L'auriga si fa prendere la mano dai suoi cavalli e così avviene che l'anima sia la sede di una lotta senza quartiere in cui la ragione può perdere. 13. Giamblico, Vita di Pitagora, 35, 256. 71

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Il concetto di stdsis, il conflitto che si agita e divide le varie parti di cui è composta un'anima, è uno dei temi centrali, e for­ se anche quello più affascinante, della psicologia platonica: " Se diciamo che il conflitto (stdsis) è la malattia e la malvagità del1'anima, diciamo bene", argomenta lo Straniero nel Soji"sta. 14 Il conflitto tra impulsi incoscienti e volontà cosciente che com­ battono nell'anima è esemplificato suggestivamente attraverso l'aneddoto di Leonzio: Ho sentito tempo fa una storia e ci credo. Leonzio figlio di Agleone stava salendo in città dal Pireo ed era arrivato sotto il muro settentrionale; qui vide dei cadaveri gettati in quel luogo dal boia, ed era preso dall'impulso di guardare, ma nello stes­ so tempo provava orrore e distoglieva lo sguardo. Per un cer­ to tempo fu combattuto e si coprì il volto, ma alla fine, vinto dal desiderio, spalancò gli occhi e corse verso i corpi gridando: "Ecco, sciagurati, saziatevi di questo bello spettacolo ! " . (Platone, Repubblica, 439 e)

Questa storia - conclude Platone - indica che l'emozione lotta con le passioni, e che spesso la ragione di un uomo è vit­ tima di questo conflitto. È, in fondo, la stessa condizione con cui Euripide spiegava il conflitto di Medea sul punto di com­ piere il folle gesto di massacrare i figli: "lo so che cosa è giusto, ma il mio istinto (thym6s) è più forte della mia volontà". Si potrebbe dire che la storia di Leonzio esemplifica quello che la psicoanalisi definirebbe il conflitto tra il Super-io e l'Es, tra l'impulso inconscio e la tensione delle regole morali so­ vraimposte, o di convenienza, che cercano di limitarlo. Il vero tiranno dell'anima è l'impulso che porta a soddisfare desideri che ne solleticano le tendenze peggiori e più crudeli; gli occhi sono trascinati a vedere ciò che la parte più nobile dell'Io tro­ va ripugnante. Per questo, nella letteratura amorosa, lo sguar­ do è il primo veicolo del desiderio: "occhi, traditori dell'anima" (scrive un poeta di epoca più tarda). 1 5 14. Sofista, 228 b; su questo concetto vedi inoltre Euti/rone, 7 b - 8 a; Re­ pubblica, 470 b. 15. Meleagro, Antologia Palatina, 12, 92.

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"C'è da credere - scriveva Eric Dodds - che se Platone fos­ se vissuto sino ai nostri tempi egli si sarebbe vivamente inte­ ressato alla nuova psicologia dell'inconscio mentre si sarebbe sentito estraneo alla tendenza a ridurre la ragione umana a stru­ mento di realizzazione degli impulsi incoscienti. " 16 In effetti, Platone si spinse sino alle soglie del baratro che al­ berga nella psiche, e descrisse anche in termini precisi alcune funzioni dell'inconscio (che in parte si può far coincidere con epithymetik6n) ma dopo avervi gettato lo sguardo se ne ritras­ se per dedicarsi alla costruzione di un uomo interamente ra­ zionale e capace di reprimere e padroneggiare i suoi impulsi. Ma un folle, con la sua irrazionalità, era per Platone anche ben più che un malato: era una minaccia per la città e per le re­ gole della convivenza politica che in essa hanno preso forma. La teoria politica di Platone (formulata in modo sistematico nella Repubblica) stabilisce un parallelismo stretto tra la struttura del1' anima e quella della società. Giustizia e ingiustizia nello stato sono scritte in caratteri più grandi che nell'anima dell'uomo, ma rimangono le stesse: 1 7 "Cinque sono le forme di governo, e cinque quelle dell'anima" . 18 All'ultima e peggiore di queste for­ me di governo, che è la tirannide, corrisponde la peggiore for­ ma di degradazione dell'anima, quella che produce l'uomo ti­ rannico il quale, prima ancora che un criminale, va visto come un pazzo e un dissennato: è un individuo "a cui fa scorta la fol­ lia (doryphoréitai hyp6 manias) " , 19 e non può essere altro che un alienato e un infelice, dal momento che "un uomo diventa ve­ ramente tiranno quando per sua natura o in seguito alle sue abi­ tudini o a causa di entrambe le cose diventa soggetto al vino, al1' amore o alla follia" .2° Come accade ai pazzi, infatti, anche il ti­ ranno non è padrone di se stesso e della sua anima: 16. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1959, p. 264. 17. Repubblica, 368 de. 18. Repubblica, 445 d; le cinque forme sono: monarchia, timocrazia, oli­ garchia, democrazia e tirannide. 19. Repubblica, 573 a. 20. Repubblica, 5 73 c.

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Il vero tiranno è davvero uno schiavo che tocca i peggiori li­ velli di servilismo e di schiavitù, un adulatore delle persone più scellerate, e non soddisfa nemmeno un poco i suoi desi­ deri, ma appare privo di moltissime cose e povero agli occhi di chi sa contemplare la sua anima, e per di più è pieno di pau­ ra e di ogni sorta di palpitazioni e di sofferenze; è invidioso, in­ fido, ingiusto, senza amici, empio, dà ricetto a ogni vizio e il ri­ sultato è che tocca l'estrema infelicità e rende uguale a sé an­ che chi gli sta accanto. (Platone, Repubblica, 579 de)

Un tiranno, del resto, oltre che il peggiore dei pazzi è il peg­ giore degli infelici. Nella sua anima le componenti più degne e nobili sono soggiogate da quelle più malvage e folli, che eser­ citano sulle altre lo stesso potere che un padrone ha sugli schia­ vi.21 Queste idee erano generalmente condivise da chi era cre­ sciuto nell'Atene democratica del V secolo e facevano parte del DNA del libero cittadino. Accanto a motivazioni politiche, già prima di Platone ne venivano addotte altre di tipo psicologico. Le prime considerazioni sulla psicopatologia del tiranno si pos­ sono trovare in un passo di Erodoto: Anche il migliore degli uomini abbandonerebbe i suoi abitua­ li pensieri, poiché certo in lui nascerebbe la tracotanza (hybris) a causa dei beni che gli toccano, mentre l'invidia è connatura­ ta all'uomo. Chi possiede queste due cose, possiede ogni for­ ma di malvagità: compie molte azioni delittuose sazio di vio­ lenza o d'invidia. Un tiranno dovrebbe essere libero da invidia, dato che ha tutti i beni, ma egli si comporta in maniera oppo­ sta con i suoi cittadini: ha invidia dei migliori che sopravvivo­ no, sta bene con i peggiori ed è ottimo ad accogliere calunnie [ . . . ] i mali peggiori sto per dirveli: sconvolge le leggi, fa vio­ lenza alle donne, uccide senza processi. (Erodoto, 3 , 80)

Hybris, phth6nos, due concetti chiave dell'etica tardo arcai­ ca: due elementi che accecano con la rabbia, l'ira e l'odio. Ero­ doto tendeva a considerare il tiranno nel contesto della città, 2 1 . Repubblica, 577 d.

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Platone trasferisce nell'anima la radice dell'uomo tirannico. Il carattere anomico, esaltato e folle del tiranno, come categoria culturale, del resto, è un modello che gli Ateniesi vedevano continuamente replicato sulla scena del loro teatro.22 Perso­ naggi come Creante nell'Antigone, Penteo nelle Baccanti, il sor­ dido Lico nell'Eracle e molti altri mostrano che nella morale comune degli ateniesi la psicologia del tiranno è un impasto di arroganza, cecità e follia. Il tiranno è irascibile, minaccioso: "Nulla è più miserevole di un tiranno" (commentava Euripide nelle perdute Peliadi).23 Tiranni, pazzi, innamorati, ubriachi: queste categorie hanno in comune l'impossibilità di uscire da un delirio solipsistico, di rapportarsi in modo equilibrato alla realtà. Ognuno è preda della propria ossessione: il vino, l'eros, il potere. Questo tra­ sforma un buon cittadino, un uomo equilibrato, in un essere dominato dalle sue brame, ed è allora che gli s'insinua nell'a­ nima quel modo di pensare tirannico (tyrannik6n phr6nema) che fa di lui un alienato schiavo delle sue ossessioni. Eliminare il male dalla città equivale quindi a mettere al ban­ do la follia, e in particolare quella speciale forma di follia che dà la stoltezza, che s'insinua a poco a poco nell'anima dei cittadi­ ni: in generale, quando parla di pazzia, Platone è più interessa­ to al folle nella società piuttosto che al folle come singolo indi­ viduo malato. Nella pazzia egli tende a non scorgere la crudele sofferenza di un uomo solo e disperato, ma piuttosto il rischio che questi rappresenta per gli individui sani e onesti, per i s6ph­ rones. Perciò, dalla città ideale teorizzata nella Repubblica e nel­ le Leggi sono esclusi come germi di sfaldamento della vita civi­ le non soltanto i folli dichiaratamente tali, non soltanto i crimi­ nali incalliti, ma anche tutti coloro nei quali la propensione per l'irrazionale stimola aspetti "inferiori" dell'anima, compreso il poeta che segue le sue fantasticherie e trascina con sé le anime degli ascoltatori, con i suoi miti immorali, spingendoli verso ma22. Vedi D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi, Tor ino 1977 (in particolare, pp. 33-94). 23. Peliadi, fr. 605 Kannicht.

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nifestazioni di emozionalità che sembrano deliri di esaltati. Per­ sino Omero, con la sua grandezza e le emozioni che la sua poe­ sia suscita, dovrà rimanere escluso dalla città perfetta. UN SECONDO MODELLO DI FOLLIA La posizione di Platone nei riguardi della pazzia, però, è ben lontana dall'essere univoca; un lettore della Repubblica po ­ trebbe rimanere sorpreso dalla comparsa, in un passo del Fe­ dro, di una discussione su quello che potremmo definire un "secondo modello" di follia, alternativo a quello proposto da medicina e filosofia contemporanee, e anche lontano dalla pre­ sa di distanza che Platone generalmente manifesta sull'irrazio­ nale. Questa seconda follia non è l'opaco cedimento dell'anima ai suoi lati peggiori, e neppure il sanguinario delirio di un ti­ ranno. Questa follia ha qualcosa di gioioso ed esaltante, come un'illuminazione dello spirito. Follia, certo, è una condizione di irrazionalità, ma non sem­ pre l'irrazionalità è una patologia. E se invece la follia fosse un dono, uno dei rari e ambigui doni che gli dei ogni tanto of­ frono agli uomini ? Come la prima donna, Pandora, fu un kal6n kak6n "un bel male", così la mania offre all'umanità i suoi "doni" attraverso la sofferenza e il delirio, ma pur sempre con larghezza; aprendo questo vaso, non escono le sciagure di Pandora, ma benefici che rendono migliore e più ricca la vita dell'umanità. Per quanto possa sembrare in contrasto con la sua rigorosa pedagogia dell'anima, Platone accetta nel Fedro l'idea che esi­ stono forme di mania che si affacciano su altri versanti dell'e­ sperienza e aprono all'uomo prospettive da cui una mente sem­ pre padrona di sé resta esclusa. Queste forme di follia non so­ no il prodotto di una degradazione dell'anima prigioniera del­ la sua stoltezza, ma al contrario un surplus di conoscenza e di energia psichica, capace di dischiudere straordinari orizzonti nella vita spirituale. È un pensiero che accompagna - e forse anche tormenta -

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Platone a partire dalle opere giovanili (come lo Ione) e continua a serpeggiare sino a quelle tarde. La nozione di questa follia "buona" è affermata in un sorprendente e famoso passo del Fedro; in realtà- apprendiamo dalle parole di Socrate che si ri­ volge al suo interlocutore Fedro - la follia non è una sola, poi­ ché ne esistono due, di natura completamente diversa:24 Due sono gli aspetti della follia, il primo prodotto da malattie umane, l'altro che deriva da un divino straniamento (théias exallaghés) rispetto ai comportamenti abituali [ . . . ] i più gran­ di beni provengono agli uomini dalla follia, quella però che viene concessa loro come dono divino (théia d6sei) [ . . . ] gli an­ tichi affermano che la follia è tanto superiore alla sapienza in quanto la prima proviene dalla divinità, la seconda dagli uo­ mini [ . . . ] e quattro sono le parti della divina follia: la mantica deriva dall'ispirazione di Apollo, la telestica da Dioniso, la fol­ lia poetica dalle Muse, la follia d'amore (che abbiamo detto es­ sere la migliore) da Afrodite e da Eros. (Platone, Fedro, 265 ac)

Solo una persona che scavalca la propria ragione può esse­ re un profeta, o raggiungere quello stato di grazia che si chia­ ma ispirazione poetica, o ancora intuire aspetti dell'esperienza divina facendola risuonare dentro di sé. È un'idea su cui Pla­ tone ritorna anche nel tardo Timeo: C'è una prova inconfutabile del fatto che il dio donò la capa­ cità profetica all'irrazionalità umana, ed è che nessuno nel pie­ no possesso della sua ragione può assurgere a un tipo di pro­ fezia ispirata e divina. Essa si realizza quando la forza della ra­ gione è incatenata dal sonno o da una malattia o da una divina possessione. (Platone, Timeo, 7 1 e)

La palinodia del Fedro risponde brillantemente al parados­ so che apre il dialogo: ossia, che è meglio concedere i propri fa­ vori a chi non è innamorato piuttosto che a chi ama, perché, es24. Su tutta la questione restano ancora fondamentali le parole di E.R. Dodds, I Greci e l'i"azionale, cit., pp. 75-117.

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sendo l'amore una forma di follia, l'innamorato trasmette la sua follia, mentre chi non lo è trasmette la sua assennatezza. Ma, obietta appunto Socrate, questo varrebbe se la follia fosse sem­ pre e comunque un male; invece vi sono casi in cui essa si trova a essere uno dei beni maggiori che possa toccare ai mortali. Di qui parte il famoso "elogio della follia" che riecheggia un siste­ ma di idee radicate nella cultura tradizionale e che in definitiva è il pivot su cui si innesta la parte centrale del dialogo.25 Infatti, se l'anima è nostra, non è però completamente nostra, perché talvolta ce ne viene tolto, provvisoriamente, il possesso. Questo avviene sotto l'impulso di possenti forze irraziona­ li; Platone chiama in causa gli dei, invocando (qui sì ambigua­ mente) la tradizionale idea della possessione; gli dei - diceva Omero - possono "far deviare il senno", e Platone si riaggan­ cia a questa credenza per sviluppare l'idea, del tutto platonica, della natura divina di certe forme di espressione psicologica. Non tutti gli dei però: anche se Platone dà forma sistematica al­ l'idea tradizionale che la presenza del divino si manifesta at­ traverso una perturbazione della mente, quelli del Fedro non sono i demoni torbidi che la religione popolare indicava come causa di possessione, e che l'autore del trattato Sulla malattia sacra elenca con la sua sprezzante ironia. Ennodia, Ecate, Dic­ tinna, gli eroi, Poseidone non offrono doni, solo follia. Ad ac­ cendere le anime con la loro buona follia sono altre divinità, po­ tremmo dire ben più belle: le Muse, Afrodite, Apollo - non il brutale Apollo Nomios dei pastori, che porta accessi di follia, ma l' Apollo profetico di Delfi - e naturalmente Dioniso, con la sua chiassosa follia coreica e musicale. La "divina follia" del Fedro ha un metodo, e si esprime attraverso manifestazioni im­ ponenti e collettive. Attorno a questa follia si costruiscono tem­ pli e teatri, e si celebrano riti e feste, non esorcismi. 25. Non credo che la sistemazione dei quattro tipi di "divina follia" sia un'autonoma elaborazione platonica, come pensano alcuni (recentemente anche R. Velardi, Enthousiasm6s, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1989, p. 84); del resto, lo stesso Platone attribuisce queste idee non a se stesso (ossia a So­ crate che le espone nel dialogo), ma a un antico, il poeta Stesicoro di !mera, che quindi rappresenterebbe bene una forma di pensiero tradizionale. Na-

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In fondo è come dire che l'estetica, la religione, i poteri in­ tuitivi dell'anima e l'amore sfuggono a ogni controllo raziona­ le e vanno trasferiti su un'altra sfera, e che dopo avere gettato questo ponte al di là della mente razionale l'umanità può spin­ gere lo sguardo in un segreto "oltre" e di lì trarne forme mera­ vigliose di esperienza. Contrapponendo "antichi" e "moderni", una follia "divi­ na" e positiva a una follia "umana", patologica perché prodot­ ta da disfunzioni dell'organismo ( "malattie", nosémata) Plato­ ne, inoltre, imposta il discorso su una prospettiva socio-antro­ pologica e non psicologica ed etica, come accade in genere quando prende in esame le alterazioni mentali. La follia che Socrate nel Fedro definisce "divina" è descritta infatti come uno straniamento rispetto a comportamenti "codificati" (n6mima), cioè sottoposti o valutati da una consuetudine (n6mos), i quali dunque hanno il loro posto nella società e non nella pa­ tologia individuale. Il passo del Fedro è la spia di un atteggiamento che classifi­ ca la follia sulla base di categorie culturali e sociali, non di di­ sfunzioni patologiche.26 Platone riconosce - come riconosce­ vano i suoi contemporanei - che alcuni ambiti della società so­ no governati dall'alterazione dei comportamenti e da un certo grado di destrutturazione mentale. La follia che Platone chia­ ma "divina" è caratteristica del comportamento di gruppi spe­ ciali: è di chi sa vedere cose che la maggioranza degli uomini non vedono (profeti e veggenti); i poeti e gli artisti immagina­ no ciò che gli altri non riescono a immaginare; una terza forma di follia è l'esperienza allucinatoria di chi varca la soglia della turalmente, bisogna sempre fare i conti con la sfuggente, inarrivabile ironia platonica e con la sua capacità di dialettizzare argomentazioni e immagini. 26. La distinzione tra queste due forme di follia, una prodotta da dispo­ sizioni dell'organismo, l'altra divina e ispirata, a quanto pare era affermata da Empedocle (fr. 98 D.K.). Una traccia di questo dibattito si trova anche nel­ l'Apologia di Palamede di Gorgia (86 B l la 25 D.K.) laddove vengono con­ trapposte sapienza (sophia) e follia (mania) e si dice che quest'ultima rende "vergognosa" l'esistenza; questa parola è ripresa da Platone nel passo del Fe­ dro sopra citato in cui si dice che per "i moderni" (evidentemente, Gorgia e i suoi seguaci) la follia è una vergogna (6neidos).

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ragione per sprofondare in rituali di trance, e cerca il contatto col dio non attraverso l'ordinato svolgersi dei riti, ipercodificati in parole e atti che non si possono cambiare mai lungo il tem­ po, ma "abbandona l'anima" alla festa comune. La quarta fol­ lia (quella che naturalmente nel sistema di Platone occupa un posto infinitamente maggiore) è di chi si apre alle emozioni, e si lascia condurre alla sapienza d'amore, che è la sapienza mag­ giore, attraverso la sua follia. Tutto questo porta assai lontani da una concezione patolo­ gica di follia. La follia divina di cui parla Platone è un'istitu­ zione della società, e una società che ammette questa funzione della pazzia trova il modo di convivere con essa, non di reclu­ derla o isolarla: in definitiva questo tipo di alienazione menta­ le non è un problema interiore dell'individuo, ma anche e in primo luogo, tra il folle e le forme della vita sociale. È anche un impiego economico della follia, dato che essa risulta funziona­ le alla gestione di alcune forme culturali: la memoria storica di una società orale attraverso la figura del poeta ispirato; la divi­ nazione di profeti e veggenti, chiamati a purificare e ad am­ monire; la trance estatica dei seguaci di Dioniso e di altri culti. Chi è "posseduto" da un dio sperimenta forme di esperien­ za paranormali, dato che chi si trova in questo stato non è un povero alienato ma un éntheos, un uomo in cui "abita un dio". Un folle "privato" è un malato per un afflusso di bile nera o di sangue oppure un contaminato perseguitato dal corruccio degli dei; un folle "divino" è un iniziato al quale son.o dischiu­ se le vie di un'esperienza straordinaria. Non c'è dubbio che le parole di Platone non debbano essere prese come un parados­ so o una semplice metafora, se non altro perché esse fanno al­ lusione a fenomeni perfettamente documentati nella società greca contemporanea. Idee simili, pochi decenni prima rispetto al Fedro, si leggo­ no nelle Baccanti di Euripide. Qui, all'inizio del dramma - pri­ ma che la follia divina di Dioniso e quella miserevolmente umana del suo nemico Penteo si siano dispiegate in tutta la lo­ ro grandiosa e tragica evidenza - l'indovino Tiresia pronuncia davanti allo scettico re un elogio della pazzia che vuole giusti-

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ficare l'esplosione di delirio collettivo generata nelle donne della città da Dioniso, e che Penteo vorrebbe reprimere per tu­ telare la morale cittadina: Questo dio è un profeta, perché l'invasamento bacchico e la follia contengono una gran forza divinatoria: quando il dio ir­ rompe possente nel corpo di un uomo fa in modo che chi de­ lira predica il futuro. E possiede anche una parte dei poteri di Ares: quando un esercito in armi è già schierato, un panico im­ provviso lo sconvolge prima di venire alle lance, e anche que­ sta pazzia proviene da Dioniso. E lo potrai vedere mentre per­ corre a gran balzi anche le montagne di Delfi, tra il brillare del­ le torce, sulla duplice vetta, agitando e scuotendo il tirso bac­ chico, grande per tutta la Grecia. (Euripide, Baccanti, 298-309)

Il vecchio profeta - esperto di esperienze divinatorie e for­ se anche (lascia intendere Euripide) di imbrogli e manipola­ zioni - predica al suo scettico interlocutore tre generi di follia "divina" : una follia profetica, una guerresca, una iniziatica, tut­ te e tre attribuite (con una certa forzatura) a Dioniso. Le so­ miglianze tra i passi di Euripide e di Platone sono indiscutibi­ li, se non altro perché muovono entrambi nella medesima di­ rezione e oppongono una forma di follia patologica a una for­ ma di alterazione psichica che appare come la radice di una se­ rie di comportamenti collettivi ed è perciò considerata positi­ va e anzi " divina" . Forse sia Euripide sia Platone s i ricollegavano a u n dibatti­ to presente in ambienti intellettuali nell'Atene del V secolo, presso i quali il dibattito sulla follia e gli stati alterati della men­ te aveva assunto un'importanza particolare. Il fatto che questa formulazione compaia in contesti "sofistici" (da un lato il di­ scorso di quel perfetto sofista che è Tiresia nelle Baccanti, dal­ l'altro un dialogo in cui è notevole la presenza di tematiche e stilemi sofistici come il Fedro) potrebbe suggerire l'esistenza di una discussione su questo tema in ambito sofistico, discus­ sione della quale restano peraltro tracce, per esempio, in Gor­ gia il quale sosteneva che la "follia " prowisoria di chi smarri81

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sce il controllo della mente per identificarsi con le vicende dei personaggi sulla scena tragica è una forma di follia buona, da­ to che in quei casi chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare e solo in queste condizioni sa penetrare dav­ vero nel nucleo del messaggio tragico (fr. 23 D .K.) . Il proble­ ma della follia profetica era stato trattato pochi decenni prima anche da Democrito, nel perduto trattato Sulla follia e lo stes­ so Democrito si era inoltre occupato di forme di alienazione mentale che Platone cataloga come "divine" (quali il furore poetico e la divinazione). In ogni caso, pur all'interno della cultura razionalista che ormai si era imposta nell'Atene del tardo V secolo a.C., la so­ pravvivenza di una corrente di idee che considerava la follia secondo un'ottica arcaica restava vitale. Secondo questa pro­ spettiva il folle continua a essere una figura sacra : nella de­ vianza dei suoi comportamenti si percepisce una presenza mi­ steriosa ; egli è un intermediario tra la sfera dell'azione, affida­ ta a persone cosiddette sane, e quella dello spirito, affidata a in­ dividui caratterizzati da un certo grado di destrutturazione mentale, che tuttavia per loro diventa uno strumento profes­ sionale. Evidentemente, tra un folle "privato" e uno specialista del delirio c'è una fondamentale differenza: il primo è un sog­ getto passivo, il secondo un individuo che ha imparato la tec­ nica del delirio ed è in grado di uscire e rientrare in modo re­ lativamente volontario da uno stato mentale di alienazione: per usare la terminologia dei Greci, si potrebbe definire il primo un atélestos, un profano, il secondo un iniziato. Questo tipo di fol­ le occupa una posizione intermedia: non è uomo meno qual­ cosa (la ragione) ma un uomo più qualcosa (un dio o un de­ mone, o la loro energia che gli viene trasmessa). FOLLI PER DELEGA DELLA COMUNITÀ La concezione platonica della "divina follia" corrisponde a quella che è l'antropologia del folle in una cultura tradiziona­ le; piuttosto che un'aberrazione della mente, questo modello di 82

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follia viene percepita come una dimensione profonda dell'esi­ stenza e un incremento di energie psichiche. La trattazione pla­ tonica della divina follia trova paralleli in altre culture tradi­ zionali; in esse si osserva la presenza di un certo numero di in­ dividui che possono essere definiti folli "per delega della co­ munità" : 27 sono le persone il cui ruolo e stima sociale dipen­ dono appunto da un certo grado di alterazione del comporta­ mento. Si tratta di un tipo di follia specializzata, che rende chi ne è vittima un individuo guardato con una certa forma di ri­ spetto. Naturalmente, non ogni forma di alterazione è social­ mente rispettabile: lo sono soltanto quelle che rispondono a un bisogno condiviso dalla società di utilizzare gli spazi liminali della mente per far funzionare un complesso di istituzioni, idee o forme sociali che un gruppo umano ritiene utili e importan­ ti per il proprio funzionamento o per la conservazione della propria identità culturale. Questo tipo di follia rientra entro ambiti che non sono quel­ li della medicina ippocratica e tanto meno della cultura mo­ derna: il discrimine proposto per identificare questo tipo di alienazione mentale non è infatti tra "sano" e "malato". Geor­ ges Devereux28 ha osservato giustamente che la coppia con­ cettuale in cui si realizza la percezione di follia nella psichiatria moderna è quella formata dalle idee di "normale" (la persona mentalmente sana) e "anormale" (il malato di mente) mentre queste categorie non sono applicabili a una società tradiziona­ le nella quale le malattie mentali possiedono un significato più sociologico che psicologico. In questi casi la coppia concet­ tuale è piuttosto quella tra "privato" e "collettivo" : la follia­ malattia è il prodotto di un disturbo individuale che isola una persona dal corpo degli individui partecipi della comune ra27. Ovvero, vittime di ciò che si definisce "disturbo etnico" e che viene ristrutturato su base culturale: in questi casi, il comportamento dell'individuo anormale si conforma a ciò che la società si aspetta da quel determinato tipo di alienazione; queste persone quindi adottano un "modo giusto di essere pazzi". Per questo, vedi G. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, tr. it. Armando, Roma 1978, pp. 45-61; R. Bastide, Sogno, trance e follia, tr. it. Ja­ ca Book, Milano 1974, pp. 277-291. 28. G. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, cit., p. 4 2.

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zionalità, ossia (sempre per usare le parole di Platone) dai com­ portamenti n6mima "codificati", mentre la follia divina è quel­ la i cui effetti si riflettono sul corpo sociale e determinano com­ portamenti collettivi, e perciò stesso leciti e stimabili (danze estatiche, profezie ispirate e altro) . Per usare il linguaggio dell' etnopsichiatria, si potrebbe dire che la seconda è un tipo di psicosi etnica, vale a dire cultural­ mente codificata e riconosciuta come forma "rispettabile" di pazzia, mentre la follia patologica è una forma di psicosi idio­ sincratica che viene intesa come disturbo da trattare per rein­ tegrare l'alienato nelle regole della società, o quanto meno im­ pedirgli di sowertirle. Sono appunto queste persone, questi "pazzi per delega pub­ blica", a conferi re all'alienazione mentale la forma socialmen­ te accettata che fa di un certo tipo di follia un'istituzione della società. Essi sono, si direbbe, pazzi in modo rispettabile, ma non solo: anche pazzi a cui viene delegata la gestione di uno specifico settore della vita pubblica. Naturalmente, in questo modo ci si pone al di fuori di un'ottica di controllo e di razio­ nalizzazione dei comportamenti. Un pazzo, economicamente, è da segnare nel registro delle perdite, è un individuo social­ mente inutile. Ma per questo tipo di alienati il discorso cambia completamente. Solo i folli sono capaci di comunicare con gli spiriti, di par­ lare un linguaggio segreto e di tradurre l'invisibile e il sogget­ tivo in forme pubblicamente condivise. Non si può dire che questo tipo di alterazione dell'Io sia una specie di cantina buia che viene aperta di tanto in tanto per farle prendere un po' d' a­ ria. L'aspetto antropologicamente rilevante di queste forme di alterazione dei comportamenti è che esse appaiono sistemati­ camente operanti, in precisi ambiti e in determinate circostan­ ze, assumendo un valore istituzionale. La mentalità tradizionale, delle cui idee Platone si fa porta­ voce in questo passo del Fedro, vedeva in tali manifestazioni l'intervento improwiso di una forza divina che prendendo pos­ sesso della mente di un uomo lo rende capace di manifestazio­ ni straordinarie: chi è "posseduto" da un dio sperimenta due 84

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forme di esperienza paranormale e chi si trova in questo stato è un éntheos, un uomo "in cui abita un dio"; Cicerone parlava di un "dio chiuso dentro un corpo umano" . 29 Per Platone, éntheos è la Sibilla in preda alla trance profetica (Fedro, 244 b), il poeta ispirato dalle Muse (Ione, 534 b), l'amante che sta vivendo il suo delirio amoroso (Simposio, 179 a). IL POETA CHE VOLA Nel discutere le forme della "divina follia", Platone cita in primo luogo due categorie: il poeta ispirato e il profeta posse­ duto dal dio. Entrambe queste categorie rappresentano nella società greca un fenomeno di lunga durata, tale da scavalcare gli eventi della storia politica per costituire una condizione per­ manente nella società dall'epoca arcaica sino ai primi secoli della nostra era. Cominciamo dalla figura del poeta. "Noi profani - scrisse Sigmund Freud10 - ci siamo sempre chiesti con meraviglia, co­ me il cardinale che lo domandò all'Ariosto, in quale modo quello strano essere che è il poeta trovi la sua materia. Che co­ sa lo mette in grado di rapirci con lui in tal modo e di destare in noi emozioni di cui forse non ci credevamo neppure capa­ ci? " A questa domanda i Greci avrebbero risposto: la causa di ciò sta nel fatto che il poeta è posseduto dalle Muse, e quando si trova immerso nel processo creativo la sua personalità si an­ nulla poiché dentro di lui si muove una forza più grande e po­ tente, la voce delle Muse che gli dettano le parole e il canto, del­ le quali il poeta non è che un semplice intermediario. Questa perlomeno era l'idea di poesia corrente nella più an­ tica fase della civiltà greca: sono le Muse che trovano la mate­ ria e le parole e le trasmettono al cantore, facendo sì che egli "ri­ cordi" il canto già esistente nella memoria delle Muse. Il poe29. "Deus inclusus corpore humano" , Cicerone, Sulla divinazione, I, 67. 30. S. Freud, Il poeta e la fantasia, tr. it. in Saggi sull'arte, la letteratura, il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969, p. 47.

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ta, in sostanza, per certi aspetti deve essere un folle: ed è dav­ vero tale in quanto nel momento dell'impulso creativo entra in una particolare fase di razionalità, diversa da quella che nor­ malmente opera nell'uomo. In questa forma di alienazione si trovano le radici di ogni processo creativo, owero (per usare le parole di Platone) "non è possibile che crei poesia chi non è posseduto da un dio (éntheos) e fuori di senno (ékphron) ";3 1 per usare invece la metafora brillante del comico Cratino "nes­ sun bevitore di acqua scrisse mai niente di bello". Questo surplus di capacità visionarie è attribuito a un in­ tervento esterno che amplifica le energie psichiche del poeta. La testimonianza più significativa su questo sistema d'idee, col­ legato alle modalità di una poesia orale fondata sull'improwi­ sazione, si trova nello Ione platonico dove i personaggi del dia­ logo (Socrate e il rapsodo Ione) analizzano insieme le caratte­ ristiche della poesia e del poetare, la cui origine viene senz'al­ tro collocata nella sfera della mania: solo quando un poeta è fuori di sé (è la tesi di fondo di questo dialogo) si verifica quel miracolo che è l'ispirazione poetica. Perciò (sebbene alcuni storici della filosofia restino legati all'idea tradizionale che lo Io­ ne sia poco più che un divertissement giovanile di Platone) que­ sto dialogo ha trovato l'interesse che merita tra gli studiosi del­ le forme di comunicazione orale della letteratura greca arcaica. L'analisi condotta da Socrate nello Ione identifica i momenti chiave della composizione e dell'esecuzione: il poeta viene pa­ ragonato a un posseduto (katech6menos); quando è ispirato, egli non ha consapevolezza di sé ma si sente agito da un'entità supe­ riore che gli trasmette una meravigliosa energia; prova emozio­ ni così forti che sembra trasfigurato e perde la nozione del tem­ po e dello spazio; s'identifica completamente con la materia che tratta al punto da manifestare un atteggiamento quasi visionario: Socrate - Quando tu reciti bene e porti al culmine dello sba­ lordimento il pubblico, per esempio quando racconti di Odis­ sea che balza sulla soglia rivelandosi ai pretendenti e getta da­ vanti ai suoi piedi le frecce; oppure di Achille che assalta Etto3 1 . Ione, 534 b.

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re; oppure una delle pietose vicende di Andromaca, di Ecuba o di Priamo, allora sei padrone della tua mente oppure esci da te stesso e la tua anima si sente assorbita dalla vicenda, posse­ duta (enthousidzousa) dalle vicende che narri e credi di essere a Itaca o a Troia od ovunque ti porti la poesia? Ione - Come mi hai chiaramente dimostrato la cosa, Socrate! Te lo dico in verità: quando recito qualcosa di pietoso mi si riempiono gli occhi di lacrime; quando recito cose terribili o tremende mi si rizzano i capelli sul capo e il cuore mi palpita. (Platone, Ione, 535 be) La raffigurazione del rapsodo è quella di una persona alie­ nata da se stessa, sia pure in modo speciale, e Platone per iden­ tificarne lo stato ricorre al concetto di mania. E al vocabolario tipico della possessione. Un cantore nel momento della recita­ zione o un poeta nel momento dell'ideazione (le due figure so­ no trattate parallelamente nel dialogo, che quanto alle modalità della possessione poetica identifica chi recita e chi compone) sono paragonati a veri e propri folli: alle Baccanti quando sono preda di allucinazioni o ai Coribanti che danzano in stato di trance; i poeti compongono non per arte ma perché posseduti da un dio e in stato di trance (éntheoi kdi katech6menoi). Non si tratta di una semplice metafora; simili stati di altera­ zione della personalità sono stati osservati anche presso poeti estemporanei di epoca moderna nel momento della perfor­ mance davanti a un pubblico e fanno parte in sostanza della fi­ siologia dell'ispirazione orale, nell'ambito di una poesia d'im­ provvisazione. Lo sforzo dell'ideazione, la necessità di trovare dentro se stesso le energie creative per inventare davanti a un pubblico, sull'istante, producono effetti che portano a una vio­ lenta alterazione psicofisica. Platone descrive appunto questo particolare stato psicolo­ gico che si produce nella mente del pubblico ricorrendo alla fa­ mosa immagine del magnete: come una calamita attira a sé anelli di ferro e li carica di una forza capace di attirare altri anel­ li, cosicché si forma una lunga catena di anelli attaccati tra lo­ ro da una forza invisibile, così la Musa infonde la sua forza al poeta, e questi a chi recita e costui a sua volta al pubblico: la 87

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Musa prende possesso dei poeti e attraverso questi posseduti crea una lunga catena di gente folle (enthousiaz6nton): Questo non awiene per arte (téchne) [ . . . ] ma c'è una forza di­ vina che ti scuote come accade per la pietra che Euripide chia­ ma "magnete" e in generale viene detta "pietra di Eracle". Que­ sta pietra non solo attira anelli di ferro, ma conferisce agli anel­ li la forza di fare la stessa cosa della pietra, cioè di attirare altri anelli, tanto che a volte si crea una lunga catena di pezzi di fer­ ro attaccati tra loro, e la loro forza dipende dalla prima pietra. Così anche la Musa rende posseduti dal dio, e attraverso costo­ ro si crea una catena di altri posseduti. Tutti i bravi poeti meli­ ci, e anche quelli lirici, recitano le loro belle opere non per ar­ te, ma come quelli che sono posseduti dai Coribanti danzano non padroni della loro mente, allo stesso modo anche i poeti melici non compongono i loro bei canti quando sono in senno, ma una volta entrati nel ritmo e nell'armonia baccheggiano, e sono posseduti, come le baccanti che attingono dai fiumi mie­ le e latte quando sono possedute ma quando sono in senno no. (Platone, Ione, 533 c - 534 a)

È significativo che nell'analizzare il fenomeno dell'ispira­ zione poetica Platone usi un vocabolario tratto dal linguaggio della trance rituale: il poeta è un éntheos o un katech6menos, un "posseduto da un dio" ; uno che si trova in stato di "entusia­ smo", un essere paragonabile a un Coribante o a un baccante invasato. Un altro tratto specifico di questo procedimento di perdita della mente razionale è lo sdoppiamento psicologico per cui il rapsodo da un lato è completamente assorbito dalla sua materia al punto da essere dimentico di se stesso, mentre dall'altro una parte di lui continua a rimanere vigile, in uno sta­ to che potremmo definire subliminale, e osserva il pubblico per verificare l'impatto della sua recitazione sull'uditorio: Io vedo [dice il rapsodo Ione] dall'alto del palcoscenico il pub­ blico che piange e guarda terribilmente e palpita all'unisono con gli eventi narrati: e bisogna che io faccia ben attenzione a loro! Infatti se li mando a casa in lacrime riderò io riscuoten­ do il premio, se partono sghignazzando piangerò poi io per averci rimesso il danaro. (Platone, Ione, 535 e)

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L'esecuzione del poeta è paragonabile a uno psicodramma i cui effetti si ripercuotono profondamente sopra la mente de­ gli spettatori che restano percossi dagli effetti mitopoietici del­ la parola; la loro immaginazione s'infiamma al punto che essi smarriscono la nozione della propria individualità psicologica, giungendo in sostanza anch'essi a "perdere l'anima" insieme al poeta che recita in uno stato di folle esaltazione: ed è appunto la nozione di "follia" e di "possessione" che gli antichi critici letterari adoperavano quando si ponevano ad analizzare gli ef­ fetti della parola sopra un pubblico di ascoltatori, concentran­ do perciò la loro attenzione su una dimensione psicologica pri­ ma ancora che estetica. Va ricordato che anche per Aristotele il fine ultimo della tra­ gedia - altra forma di spettacolo che presuppone una stretta contiguità tra pubblico e parola poetica - era la "catarsi" dalla paura e dalla pietà che afferravano il pubblico davanti allo spet­ tacolo tragico, uno spettacolo che imponeva un atteggiamento quasi rituale di totale trasporto mosso dalle vicende poste sulla scena. Chi non riesce a entrare nel meccanismo dell'inganno e dell'alienazione innescato dal teatro non può comprenderne la più profonda natura, come scriveva Gorgia (fr. 23 D.K.) per il quale la tragedia è "un inganno in cui chi inganna (= l'attore) è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato (= lo spettato­ re) è più sapiente di chi non si lascia ingannare". 32 La superiorità del poeta ispirato su quello che non riesce a svincolarsi dai ceppi della personalità, e pertanto è frigido e di­ staccato, non è un'idea isolata in Platone; lo stesso concetto ri­ torna in modo quasi analogo nel Fedro, laddove si dice che "chi giunge alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse cre­ dendo che la sola tecnica possa renderlo poeta, resterà un poe­ ta incompiuto e la poesia di chi è savio sarà offuscata dai poe­ ti in delirio (mainoménon)". Questa forma di alienazione era identificata con il concetto 32. Giusto e ingiusto implicano in questo caso la nozione dello scambio emozionale reciproco tra poeta e spettatore, poiché quest'ultimo deve porsi emozionalmente sul piano dell'esecutore: vedi B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 19952 , pp. 75-76.

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di "entusiasmo"; la stessa parola, oltre che alla poesia, era ado­ perata per descrivere fenomeni in apparenza molto diversi tra loro come il delirio profetico e le esperienze di trance nel cor­ so di raduni religiosi: poesia, divinazione ed esperienza misti­ ca erano dunque sentite, nella prospettiva della Grecia arcaica, come collegate alla stessa radice psicologica e tutte apparte­ nenti a una dimensione "altra" dell'esistenza, una dimensione che rientrava appieno nel dominio della follia, al punto che si parlava ugualmente di mania poetica, profetica o dionisiaca. I poeti stessi, del resto, erano ben lontani dal negare questa loro speciale forma di follia, che anzi rivendicavano come par­ te essenziale della loro arte. Nella cultura greca arcaica (come in generale in ogni cultura orale) il poeta infatti amministra un sapere particolare: in sostanza quello di penetrare in una sfera esclusiva, preclusa agli altri, attingendo da forze misteriose e in­ visibili (gli dei o le Muse) conoscenze, ricordi e forme espres­ sive. Al pari del profeta o del seguace di un culto estatico, il poeta si pone come mediatore tra gli dei e gli uomini, al punto che quando crea avverte fisicamente la presenza di una forza misteriosa e divina dentro di lui. Gli dei da cui un poeta sente di essere posseduto sono le Muse; secondo la testimonianza del più antico poeta greco di cui possiamo definire l'identità, Esiodo, furono le Muse a "in­ segnargli il bel canto", e gli diedero il dono dell'ispirazione quando egli ancora fanciullo pascolava le pecore sul monte Eli­ cona. Le Muse gli apparvero in una sorta di visione allucinato­ ria e da quel momento Esiodo seppe di essere un poeta; anche Empedocle poeta-filosofo (e purificatore) parla in tono eleva­ to del dono dell'ispirazione poetica e della profezia che lo ac­ cende e lo rende "non più uomo ma demone immortale". 33 A quanto sembra, anche Empedocle pensava che l'entusia­ smo poetico che si agitava in lui fosse una manifestazione del daimon, la scintilla divina che si trova dentro di noi. Egli dunque sembra distaccarsi dall'idea tradizionale del poeta posseduto da una forza proveniente dall'esterno o per meglio dire conferisce 33. Esiodo, Teogonia, 27-32; Empedocle fr. B 3, 1 D.K.

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dignità filosofica a un'idea tradizionale, collocando la forza di­ vina che genera la follia poetica dentro all'uomo, come parte di una più vasta materia divina della quale è costituita l'anima. L'esperienza del poeta è di natura tanto estetica quanto ma­ gico-religiosa: non a caso un poeta nella Grecia arcaica defini­ va se stesso un "sapiente" (soph6s) appunto per la sua capacità di governare una seconda vista che si esprime nei momenti del­ l'entusiasmo poetico e respinge altezzosamente l'idea che la poesia sia solo tecnica. La teoria platonica dell'entusiasmo poetico fu forse in­ fluenzata da Democrito, il primo filosofo che abbia preso in esame la dottrina dell'entusiasmo e abbia cercato di offrirne una spiegazione scientifica;34 Democrito però concentra l'inte­ resse sulla genesi del processo creativo, mentre Platone si oc­ cupa piuttosto dell'interrelazione tra il poeta e l'uditorio. Il pri­ mo lavorava sul processo ideativo e il secondo su quello co­ municativo, che costituì uno dei poli essenziali della sua ricer­ ca. Secondo Democrito, l'anima umana è costituita da atomi di fuoco che per loro natura sono sottili, sferici e mobili; essi in parte si disperdono nell'aria e penetrano in altri corpi attra­ verso i pori. Il genio poetico e la capacità profetica derivereb­ bero dal carattere straordinario di alcune nature, che per il lo­ ro temperamento costituito da atomi più caldi e secchi del nor­ male sarebbero particolarmente adatte a entrare in contatto con le forze divine e a mediarne agli uomini gli efflussi: ecco perché secondo Democrito i "sapienti" (soph6i) , tra cui vi so­ no poeti e indovini, possiedono un sesto senso (fr. 154 D.K.) ed ecco la ragione per la quale alcuni uomini hanno la possibilità di influire psicologicamente sopra gli altri: " Quello che un poe­ ta scrive in preda all'entusiasmo e a un sacro soffio è bello dav­ vero" (Democrito, fr. 18 D.K.); "Omero grazie alla natura en­ tusiasta (physeos entheazouses) che ebbe in sorte costruì un mondo di poemi variegati" (fr. 2 1 D.K.) . 3 4 . Per i rapporti della teoria platonica dell'entusiasmo con Democrito, vedi le osservazioni di R. Velardi, Enthousiasmòs, cit., p. 105; in generale, sulle teorie platoniche della comunicazione, vedi G. Cerri, La poetica di Pla­ tone. Una teoria della comunicazione, Argo, Lecce 2008.

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Con la stessa teoria Democrito spiegava anche i sogni, la comparsa di allucinazioni, la capacità divinatoria dell'anima e persino il malocchio e la iettatura. È possibile (ma manca do­ cumentazione in merito) che Democrito giustificasse nello stes­ so modo anche gli effetti allucinatori che il poeta esercitava sul suo pubblico, come il prodotto di atomi che uscendo dalla per­ sona del poeta raggiungevano gli spettatori e li influenzavano. Nella Grecia arcaica, questi poeti o cantori "folli" custodi­ scono un valore fondamentale per la soprawivenza stessa del­ la società: conservano la memoria del gruppo affidata a un pa­ trimonio di miti, racconti, tradizioni sapienziali e forme espres­ sive che costituiscono l'autentica storia della comunità e che in assenza della scrittura vengono trasmesse esclusivamente at­ traverso la parola poetica. Alla follia - quella poetica - viene affidata sostanzialmente la memoria, prima che la scrittura vinca la sua battaglia con la parola; essa si realizza nella capacità di conservare, attraverso la recitazione dei miti poetici, l'identità culturale della società. Il nesso tra follia poetica, che conserva il passato, e follia pro­ fetica, proiettata sul futuro, è lucidamente intesa da Plutarco: Guardate il potere dell'anima che sta sul versante opposto del­ la divinazione: la memoria. Che opera incredibile compie, nel salvare e custodire le cose passate, che non esistono più, per­ ché di quello che è stato niente più rimane né sopravvive. Ogni cosa nasce e nello stesso tempo si perde: le azioni, le parole, i sentimenti. Tutto il tempo travolge, come un fiume vorticoso. Ma l' anima, non si sa come, riesce a fermare le cose che non esi­ stono più, e le riveste di vita, rendendole visibili [ . . .] le anime hanno dentro di sé, innato, il furore profetico, e anche se que­ sto potere rimane nascosto e inattivo, a volte esse fioriscono e si accendono nei sogni e alcune in punto di morte: forse perché allora il corpo si purifica o acquista una disposizione partico­ lare alla profezia [ . . .] la facoltà profetica è come una tavolet­ ta: senza scrittura, senza significati, senza una qualsiasi forma di determinazione, ma capace di immaginazioni e presenti­ menti. Così s'impadronisce del futuro senza che ci sia bisogno di razionalità, soprattutto quando, distaccandosi dal presente, entra in stato di estasi. Allora accade, attraverso un particola-

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re adattamento del corpo a questa trasformazione, ciò che noi definiamo "entusiasmo". (Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 432 ad)

Quando si parla di follia poetica bisogna però specificarne la forma; un poeta di questa natura non è folle perché dice cose de­ liranti: al contrario, egli afferma esplicitamente di essere porta­ tore di verità, come sostiene Esiodo all'inizio della Teogonia do­ ve fa dire alle Muse che esse "conoscono molte bugie simili al­ la verità ma sanno quando vogliono dire il vero"; Empedocle nel proemio del suo poema Sulla natura (Periphyseos) prega gli dei di "stornare la pazzia (manien) dalla propria lingua". Non è folle neppure dal punto di vista tecnico-espressivo, dal momento che possiede una tecnica con un bagaglio rigo­ roso di formule, schemi espressivi e ritmici. È folle per quanto attiene al momento dell'ideazione e dell'esecuzione, ossia (per usare le parole di Platone) "quando entra nel ritmo e nell'ar­ monia", vale a dire quando un profondo impulso psicologico innescato dall'esecuzione stessa e dalla necessità di trasmette­ re il suo messaggio a un uditorio lo fa "vibrare all'unisono" (co­ me dice un antico critico, l'Anonimo del Sublime) con la ma­ teria del suo canto: solo quando egli entra in questo stato di profondo turbamento psicosomatico e di alterazione della per­ sonalità è in grado di trasmettere al suo uditorio il proprio ma­ teriale poetico. L'Anonimo del Sublime adotta sostanzialmen­ te lo stesso sistema euristico di Platone: anche per lui, il poeta è un ispirato che perde il controllo della mente, e l'emozione estetica dell'ascoltatore è un'esperienza di perdita della co­ scienza e di profonda empatia psicologica con il poeta: anche lui parla di "estasi" ed "entusiasmo" . 35 Questo tipo di comunicazione, fondata sull'ascolto nel qua­ dro di una performance orale e in un contesto di civiltà in cui la comunicazione nei suoi vari aspetti aweniva attraverso la paro35. Su questo aspetto vedi G. Guidorizzi, " 'Longino' e l'uditorio: aspet­ ti di un'estetica della ricezione orale", in R. Pretagostini (a cura di), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all'età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, GEI, Roma 1993, voi. III, pp. 1067-1076 .

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la e non la scrittura, è stata paragonata a una specie di seduta sciamanica in cui l'anima del poeta "vola" insieme alla sua ma­ teria, come vola quella dello sciamano alla ricerca di un contat­ to con gli spiriti. 36 Un ulteriore parallelo è costituito dal fatto che sia l'esecuzione di un rapsodo sia una seduta sciamanica danno luogo a uno spettacolo nel quale pubblico e protagonista, all'u­ nisono, subiscono una sorta di "crisi della presenza": l'uditorio è trascinato dalla parola del cantore in uno stato di alienazione, una particolare condizione psicologica i cui tratti più caratteri­ stici sono il cedimento della dimensione logico-razionale della mente, uno stato di provvisoria alienazione mentale in cui il pubblico s'identifica totalmente col processo creativo dell'arti­ sta, una profonda commozione fatta di sbigottimento (ékplexis) accompagnato da sensazioni di piacere e di entusiasmo che sog­ giogano e trascinano la mente di chi ascolta . Folle il poeta , dunque, e contemporaneamente folle anche il suo pubblico. Gli antichi già assai prima di Aristotele non misero in dubbio che il principale effetto di un artista della pa­ rola fosse la "psicagogia", ossia la capacità di trascinare le ani­ me degli ascoltatori come in una sorta di rituale estatico. ENTUSIASTI E PROFETI

" Nessuno che sia savio può possedere una capacità profeti­ ca ispirata e veritiera - scrive Platone 37 - [ . • • ] bisogna che pri­ ma muti se stesso con una certa forma di entusiasmo." La follia (per usare le parole di Euripide) "ha in sé qualco­ sa di profetico" poiché l'incontro con la parola segreta degli dei richiede una particolare disposizione dello spirito, a cui i Greci attribuivano senz'altro la definizione di mania. La per36. M. Massenzio, «n poeta che vola: conoscenza estatica, comunicazio­ ne orale e linguaggio dei sentimenti nello Ione di Platone", in B. Gentili, G. Paioni (a cura di), Oralità: cultura, letteratura, discorso. Atti del convegno in­ ternazionale di Urbino (2 1-25 luglio 1980), Edizioni dell'Ateneo, Roma 1985, pp. 161- 1 74. 37. Timeo, 71 c.

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cezione della contiguità tra alienazione della mente e capacità profetiche è presente del resto anche nella lingua: mantiké ("ar­ te profetica") e maniké ( "pazzia") sono due parole etimologi­ camente apparentate, come sapevano anche gli antichi.3 8 Spesso le alterazioni della personalità in una cultura tradi­ zionale si collocano in una sfera religiosa: dissociazione menta­ le, catalessi, allucinazioni vengono considerati non il prodotto di una patologia mentale ma l'espressione di una misteriosa energia divina che usa un uomo per manifestarsi. Come scrive Walter Burkert,39 le esperienze sconvolgenti di una coscienza alterata, in un certo senso dilatata, sembrano essere ovunque uno dei supporti essenziali della religione, poiché il delirio di un mistico o la trance di uno sciamano o l'estasi ispirata di una pro­ fetessa rendono immediatamente e concretamente percettibile sotto gli occhi di tutti la vicinanza del soprannaturale. In Grecia pochi contestavano l'esistenza di fenomeni di pre­ veggenza che traevano alimento dalla capacità visionaria della mente;40 Pindaro, in un famoso frammento che abbiamo già ri­ cordato, parlava del potere profetico dell'anima quando è la­ sciata libera con se stessa. La divinazione ispirata, vale a dire fondata sui responsi pro­ nunciati da un veggente in stato di alienazione o di "entusia­ smo", è documentata in Grecia da una serie impressionante di fenomeni, che testimoniano la diffusione capillare e ubiquita­ ria di questa forma di " divina follia" . Il luogo più insigne per importanza storica e per autorità fu l'oracolo panellenico di Apollo Delfico, nel quale la consultazione era affidata ai re38. Così infatti intendeva Platone (Fedro, 244 be). 39. W. Burkert, Storia delle religioni. I Greci, tr. it. Jaca Book, Milano 1983, p. 162. 40. Naturalmente, in sede filosofica le posizioni scettiche sulla bontà del­ la divinazione non mancano, da Aristotele agli epicurei; di questo dibattito si fa interprete tra l'altro il trattato di Cicerone Sulla divinazione (per cui re­ sta ancora fondamentale il sistematico commento di A.S. Pease, M. Tuili Ci­ ceronis De Divinatione, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1963), che da buone fonti greche espone in termini ordinatamente didasca­ lici una sintesi della discussione. Ma la negazione della divinazione prende piede soprattutto in certi ambienti illuminati, e a partire dalla fine dell'età classica. Non è questa la sede per discuterne.

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sponsi di una profetessa in delirio, la Pizia, che "posseduta da Apollo" prestava la sua bocca ai responsi che erano attribuiti alla divinità stessa. L'oracolo di Delfi aveva ereditato antichis­ sime forme di divinazione collegate con divinità ctonie; nella primitiva fase del santuario la forza profetante era una divinità femminile preellenica, identificata con la Terra (o Gea). Forse in origine i responsi venivano resi in seguito all'inter­ pretazione di sogni incubatori (come sembra indicare un rife­ rimento contenuto in un passo di Euripide),4 1 ma da quando Delfi divenne sede del culto di Apollo le predizioni furono af­ fidate alla viva voce della sacerdotessa che nel mo�ento del re­ sponso diveniva l'alter ego del dio. Nel penetrale del tempio la Pizia entrava in contatto con Apollo, seduta su uno sgabello a forma di tripode (un racconto locale diceva che dentro erano custodite le ossa del serpente Pitone, ucciso da Apollo nella notte dei tempi) e masticando o maneggiando foglie di alloro, l'albero sacro del dio.42 È probabile che la mantica ispirata a Delfi sia comunque più antica di Apollo e sia stata ereditata dai suoi sacerdoti, co­ sa che del resto pare confermata dal fatto che a rendere le pro­ fezie era una sacerdotessa che parlava ispirata dal dio e che in origine poteva essere la personificazione dell'antica divinità profetante, la Terra. Nessuno nel mondo antico dubitò che la Pizia fosse fuori di sé nel momento in cui rendeva i responsi. Sulle cause di questo fenomeno paranormale si davano diverse interpretazioni, ol­ tre a quella religiosa che la attribuiva all'intervento di Apollo il quale prendeva possesso della sua sacerdotessa o le ispirava un soffio divino che ne faceva la sua intermediaria con gli uomini. Alcuni affermavano che la trance profetica della Pizia derivas­ se da una capacità naturale dell'anima, liberata dalla ragione;4 3 una spiegazione di natura razionalistica (diffusa nei primi secoli dell'impero, ma certamente risalente a epoca precedente) at41. Euripide, Ifigenia !aurica, 1234-1282. 42. Igino, Miti, 140. 43. Aristotele, fr. 10 Rose; Cicerone, Sulla divinazione, I, 18, 64, 7, 1 3 .

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tribuiva l'estasi della Pizia ai vapori sotterranei che scaturiva­ no da un crepaccio posto proprio sotto il sacro penetrale del tempio;44 Plutarco, che cercava di conciliare il naturale con il soprannaturale, pensava che si trattasse di una commistione di elementi: le esalazioni della terra devono essere in armonia con il temperamento profetico e predisposto all'estasi della sacer­ dotessa, la quale era scelta tra le ragazze del luogo, senza nes­ suna particolare predisposizione. 45 Il caso di Delfi non era però l'unico; si può dire che la divi­ nazione estatica fosse diffusa correntemente: si praticava una divinazione per così dire spicciola, a livello di villaggio, a opera di uomini o donne considerati veggenti: i primi erano chiamati proverbialmente Bacidi, le seconde Sibille. Altre categorie di questi profeti erano gli sternomanti, mentre a livello più eleva­ to l'estasi profetica era appannaggio di personalità di sapienti come Epimenide o Aristea dei quali parleremo in seguito. Un tipo di profeta estatico era considerato Bakis (vale a dire "il parlante"), che è il nome di vari personaggi semileggendari; con Bacidi (Bdkides) si designavano nel V secolo a.C. profeti va­ gabondi e dai tratti vagamente ciarlataneschi, dai quali Aristo­ fane trasse spunto per foggiare i grotteschi personaggi "spac­ ciaoracoli" che compaiono in alcune commedie (come Pace e Uccelli). Sibille e Bacidi indicavano quindi -almeno a partire da una certa epoca - non singoli personaggi, ma categorie di pro­ feti invasati, come tra l'altro assicura uno scritto aristotelico che parla di "sibille, bacidi e tutti i posseduti da un dio (éntheoi) che sono colpiti da malattie folli ed entusiastiche".46 Raccolte di oracoli di Bakis circolavano in Atene e il fatto 44. Secondo Strabone (9, 3, 5) sotto il tempio si apriva una grotta da cui usciva un "soffio capace di generare entusiasmo", da cui la Pizia divinava, ma i suoi responsi erano poi tradotti dai sacerdoti; vedi anche Cicerone, Sulla di­ vinazione, I, 39; Plinio, Storia naturale, 2, 208. 45. Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 435 d. 46. Problemi, 954 a. È discutibile se l'autore aristotelico volesse intende­ re Bacidi e Sibille come categorie specifiche o piuttosto "gente come Bakis e la Sibilla", o anche, viceversa, Bakis sia una retroformazione mitica, l'eroe eponimo della categoria. In ogni caso, il nome è usato per designare veggen­ ti per antonomasia. Vedi anche Erodoto, 8, 20, 77, 96; 9, 43.

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che Aristofane ne facesse la parodia dimostra la loro diffusione tra gli strati popolari. I Bacidi erano talvolta identificati con i nymph6leptoi, i "posseduti dalle ninfe", pure loro ritenuti pro­ feti e interpreti vagabondi di portenti grazie alla loro follia esta­ tica: si diceva del resto che il mitico Bakis, il prototipo di que­ sta categoria di veggenti, fosse figlio di una ninfa o avesse rice­ vuto dalle ninfe il dono della profezia; lo si definiva appunto "posseduto dalle ninfe" o "folle per opera delle ninfe".47 Le ninfe sono anch'esse generatrici di follia. A differenza però delle forme violente di trance coreica q.ella pazzia agitata degli ossessi, i posseduti dalle ninfe erano folli innocui: come diceva Aristotele (Etica Eudemia, 12 14 a), essi formano una ca­ tegoria di entusiasti felici. La follia con loro apre un abbraccio quasi materno: non sono percorsi dai torbidi e violenti atti dio­ nisiaci, non scalciano come le vittime della malattia sacra, non entrano in un doloroso stato di alienazione da cui escono col­ mi di vergogna e paura, come altri pazzi.48 La follia delle ninfe può essere semmai paragonata allo stato di immemore felicità che prende i compagni di Odisseo dopo che hanno gustato il fiore del loto: sono lì, felici, senza memoria, senza desideri, lon­ tani dal turbamento e dall'ansia che tormenta giorno dopo gior­ no il loro comandante, che si strugge dal desiderio e dalla no­ stalgia della patria. Le ninfe prendono possesso di uomini da loro prescelti, che incontrano al di fuori degli spazi abitati; lì, la presenza delle nin­ fe può diventare minacciosa, e il loro abbraccio può rapire per sempre un uomo dalla vita. Così avvenne a Ila che fu risucchia­ to nella sorgente da una ninfa che si era invaghita di lui, e allo stesso modo i ninfolepti vengono scelti dalle gentili figure invi­ sibili che rendono tutta divina la natura con la loro pervasiva presenza. Così accade a chi è prescelto: in fondo anche Odisseo fu rapito dalla ninfa Calipso, ai confini della terra, su un'isola al di fuori del tempo, e come accade ai rapiti dalle ninfe sparì agli 47. Pausania, 1 0, 12, 11; 4, 27, 4. 48. Sulla natura della follia dei ninfolepti vedi R. Calasso, La follia che viene dalle ninfe, Adelphi, Milano 2005, pp. 11- 4 4.

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occhi del mondo. Ma qualche parte di lui rimase viva, sottraen­ dosi all'oblio; perciò poté ritornare. Chi è rapito dalle ninfe in­ vece scompare alla vita oppure alla ragione, è come se dialo­ gasse con un oltremondo di cui solo lui è in grado di compren­ dere la voce; scompare, ma diventa un essere sacro, come quel1'Astacida di cui parla Callimaco:49 "Astacida di Creta, capraio, fu rapito dalle ninfe sui monti e ora è il sacro Astacida". L'ingresso nella pazzia delle ninfe è descritto dal tardo commentatore Festa: È una tradizione popolare che chiunque specchiandosi in una fonte veda l'immagine di una ninfa sia preso da una follia sen­ za fine; i Greci li chiamano ninfolepti ("presi dalle ninfe") men­ tre i latini "linfatici" . (Pesto, s.v. Ninfe)

Alcune personalità storiche di ninfolepti ci sono sufficiente­ mente note: a Atene si era stabilito un certo Archedemo di Te­ ra, un pacifico alienato che nel V secolo a.C. aveva costruito una grotta in onore delle ninfe, a cui rendeva un culto; un altro era Melesagora di Eleusi, che rendeva oracoli a Atene "posseduto dalle ninfe" (ék nymph6n kdtochos). 5° Figli di ninfe, vale a dire posseduti da loro, erano del resto vari profeti mitici: Mopso, Ti­ resia, Idmone e altri. Anche Bakis ricevette dalle ninfe il dono della profezia veritiera. 5 1 Plutarco racconta che sulle vette del Citerone, in Beozia, si trovava la caverna sacra delle Ninfe Sfra­ gitidi, dalla parte dove il sole tramonta, e che un tempo vi ave­ va sede un oracolo e molti degli abitanti dei dintorni erano pos­ seduti da spirito profetico: li chiamavano ninfolepti.52 Come aveva già visto a suo tempo Rohde,53 Bacidi e Sibille 4 9. Antologia Palatina, 7, 518. 50. Massimo di Tiro, 38, 3. 51. Aristofane, Pace, 1071. Secondo lo scolio a questo passo esistettero tre Bacidi storici: uno di Eleone in Beozia, l'altro di Atene, un terzo di Arcadia che guarì le donne spartane da un attacco collettivo di follia, dopo che Apol­ lo l'aveva indicato come purificatore. 52. Plutarco, Vita di Aristide, 11. 53. E. Rohde, Psiche, tr. it. Laterza, Bari 1970, pp. 401-402.

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(in epoca classica) in genere non avevano rapporti col culto uf­ ficiale, né erano legati a nessun tempio particolare, ma erano generalmente profeti errabondi.54 In generale le testimonianze antiche parlano di Sibille mitiche, vissute all'inizio dei tempi; di alcune si mostravano le tombe, come quella nel tempio di Apol­ lo Sminteo in Troade o di Apollo a Cuma.55 In alcuni luoghi una Sibilla operava invece all'interno di un'istituzione templare, come a Delfi dove una Sibilla rendeva solitaria le sue profezie dalla "roccia della Sibilla" , diversa­ mente dalla Pizia che nello stesso luogo profetizzava all'inter­ no di un complesso apparato oracolare. La più antica testimo­ nianza su una Sibilla risale a epoca molto arcaica, l'vm secolo a.C., nel poema epico di Eumelo di Corinto; la storia di questa figura si sviluppa poi in forme diverse lungo i secoli, da Roma al Medioevo. 56 Tutti costoro rivelavano il futuro in stato di estasi, possedu­ ti dal loro dio: e probabilmente proprio a queste persone allu­ de Aristotele quando analizza il problema della divinazione e si domanda come mai il dono della profezia tocchi non a uo­ mini sapienti ma "ai primi venuti". Era però soprattutto pres­ so i grandi santuari di consultazione oracolare che la mantica ispirata trovava credito ed era utilizzata per profezie d'interes­ se collettivo (fondazioni di colonie, purificazioni in occasione di pestilenze o altre forme di contaminazione, persino strategie militari come accadde nel corso delle guerre contro i Persiani). La mantica ispirata era posta in primo luogo sotto il patro­ cinio di Apollo, ma anche di altre divinità. La trance estatica era praticata dalle sacerdotesse di Zeus a Dodona in Epiro; a Amficlea in Focide esisteva un santuario di Dioniso il cui accesso era vietato ai profani, dove un sacerdote rendeva oracoli attra54. Sulle Sibille, vedi H.W. Parke, Sibyls and Sibyllines Prophecy in Clas­ sica/ Antiquity, Routledge, London-New York 1988; I. Chirassi Colombo, T. Seppilli (a cura di), Sibille e linguaggi oracolari. Atti del Convegno Macerata­ Norcia 1994, Pisa-Roma 1998. 55. Pausania, 12, 4-5; 10, 12, 8. 56. Eumelo, Korinthiakd, fr. 8 Bernabé. Sullo sviluppo della Sibilla in am­ bito cristiano, vedi A. Momigliano, "Dalla Sibilla pagana alla Sibilla cristia­ na", in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, 17 , 1987, pp. 4 16-428.

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verso i sogni e vaticinava "posseduto dal dio" .57 Altri oracoli di Dioniso si trovavano in Tracia, ed erano anch'essi organizzati intorno all'estasi di uomini e donne predisposti alla trance pro­ fetica: 58 a quanto pare anche la moglie del gladiatore Spartaco che era di origine tracia era una profetessa "posseduta dai ri­ tuali bacchici";59 a Delfi del resto Apollo e Dioniso si divide­ vano l'anno occupando il santuario sei mesi ciascuno. Il profetismo estatico era certamente praticato nei templi di Apollo a Clara, in Asia Minore, e presso il grande tempio di Apollo Didimeo a Mileto. Clara era dopo Delfi il secondo ora­ colo in ordine di reputazione tra i Greci; qui il profeta era un uomo e proveniva da determinate famiglie che avevano una predisposizione ereditaria all'estasi divinatoria. Quando il sa­ cerdote awertiva che stava per giungere l'accesso oracolare si ritirava in una grotta, rimaneva senza cibo e acqua per un gior­ no e una notte e prima della consultazione beveva da una fon­ te sacra le cui acque (secondo gli scrittori di tendenza raziona­ listica) avevano poteri allucinatori; poi quando iniziava a sen­ tirsi posseduto dal dio (arch6menos enthousidn) rispondeva al­ le consultazioni. Nell'altro prestigioso santuario oracolare di Apollo Didi­ meo presso Mileto (che era di origine preellenica e conobbe il suo apice in epoca arcaica prima di essere saccheggiato dai Per­ siani di Dario) a rendere gli oracoli era una donna che "si riem­ piva di una luce divina " e "accoglieva il dio dentro di sé";60 le profetesse cadevano in trance e rendevano responsi dopo ave­ re bevuto acqua consacrata o (come alcuni dicevano) in segui­ to alle esalazioni che uscivano dalla fonte sacra, una spiegazio57. Pausania, 10, 33, 1. 58. Per l'oracolo dionisiaco in Tracia, vedi Erodoto, 7, 111, che parla di una profetessa mentre Euripide, Reso, 972, tramanda la leggenda per cui Re­ so stesso era stato trasformato in divinità ctonia che rendeva oracoli sul Pan­ geo. Tito Livio ( 39 , 8) afferma che i seguaci di Dioniso, nel famoso a//aire dei misteri bacchici repressi dal senato romano, "posseduti da Bacco vaticinano". 59. Plutarco, Vita di Crasso, 8. 60. Giamblico, Sui misteri, 3, 11 , che costituisce la più dettagliata testimo­ nianza della procedura oracolare della profetessa di Apollo presso questo san­ tuario; vedi inoltre Luciano, Due volte accusato, l ; Origene, Contro Celso, 1, 70.

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ne che ogni tanto veniva data anche per l'estasi della Pizia a Delfi. 61 Forse (ma non è certo) anche nel santuario di Apollo a Delo si verificavano fenomeni di trance, anche se non oracola­ re: l'Inno ad Apollo descrive le ragazze di Delo "che sanno par­ lare tutte le lingue degli uomini" (una possibile allusione a fe­ nomeni di glossolalia, caratteristici della trance). 62 Tuttavia, mentre la mantica apollinea assumeva un caratte­ re ufficiale e politico ed era ordinatamente strutturata all'in­ terno di istituzioni templari, quella di Dioniso aveva per lo più un carattere estemporaneo e popolare e si svolgeva collettiva­ mente nel corso di rituali orgiastici durante i quali uno o più dei convenuti cadevano in trance e le loro manifestazioni in questo stato erano considerate profetiche poiché emanavano dal dio stesso che aveva preso possesso del corpo dei suoi fedeli. A quanto pare, nella Grecia arcaica la trance spontanea era un fenomeno abbastanza frequente; a parte i casi di visioni alluci­ natorie prodotte da eroi o demoni (di cui abbiamo parlato), im­ provvisi accessi di possessione erano osservati in soggetti appa­ rentemente sani e preferibilmente in speciali categorie di perso­ ne, come le donne e le giovinette. Una categoria di veggenti spontanei di cui possiamo sapere qualcosa è quella dei perso­ naggi chiamati "ventriloqui" (engastrfmythoi) oppure "sterno­ manti". Il tratto più notevole della loro personalità era l'altera­ zione della voce; gli sternomanti emettevano una seconda voce, alterata, che dialogava con loro e veniva considerata quella di un demone. L'alterazione della voce è un sintomo osservato nei ca­ si di possessione: un ossesso ha dentro di sé la voce del demone che lo possiede e parla in modo pauroso, come Aiace folle che pronuncia parole che un dio gli ha insegnato, o Agave che grida e rotea gli occhi quando uccide il proprio figlio con le sue mani. 63 61. Sull'oracolo di Apollo Didimeo vedi }. Fontenrose, Didyma. Apollo's Oracle, Cult and Companions, University of California Press, Berkeley-Los An­ geles 1988, il quale è scettico sulla natura estatica dell'attività della profetessa (ma le fonti antiche dicono il contrario). Come accadeva a Delfi, anche in que­ sto caso a fare da intermediari con i consultanti erano i sacerdoti di Apollo. 62. Inno ad Apollo, 162- 164. 63. Sofocle, Aiace, 24 3-244; Euripide, Baccanti, 1131-1133.

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Alcune di loro erano donne del popolo, come risulta da Ip­ pocrate, il quale descrive la loro voce come rantolante e simile a quella di chi emerge dall'acqua. Tali persone cadevano in trance, emettevano suoni e parole inarticolate che erano attri­ buiti al dio che aveva preso possesso del loro corpo; al risveglio questi profeti erano del tutto immemori di quanto accaduto. Il più famoso di questi personaggi nell'Atene del V secolo a.C. era un certo Euricle il quale era ritenuto preveggente "gra­ zie a un demone che abitava dentro di lui" ; egli aveva una se­ conda voce che parlava e dialogava in contrasto con quella del­ la sua personalità cosciente ed era considerato un profeta;64 da lui i suoi colleghi erano chiamati Euricli. Il ventriloquismo antico però non è da confondere con quel­ lo che noi intendiamo: non si tratta di una volontaria capacità di articolare le parole con organi diversi dalla faringe, ma di un fenomeno estatico che Dodds, sempre attento ai rapporti con la metapsichica, ha paragonato a quello di un medium che ca­ de in catalessi. Tuttavia nel caso di Euricle la presenza di una seconda voce in contrasto con la prima, che si manifestava im­ provvisamente, più che a un caso di trance medianica fa pen­ sare a una manifestazione di "io diviso": è noto del resto che tal­ volta gli schizofrenici o le personalità schizoidi possiedono due diverse voci, ognuna delle quali viene attribuita da loro stessi a una parte diversa della propria persona. La doppia voce inte­ riore di questi personaggi richiama in modo sorprendente­ mente vicino la tipica descrizione omerica del conflitto inte­ riore: in Omero il conflitto interiore (come vedremo) è spesso descritto nella forma di una scissione della personalità e di un dialogo tra due "parti" diverse della persona che parlano tra lo­ ro. Due voci diverse che interagiscono nella stessa persona so­ no tipiche delle sindromi schizofreniche. La profezia era il prodotto di un'alterazione o persino uno sdoppiamento della personalità che i Greci definivano "pos64. Aristofane, Vespe, 1019 e scolio; Platone, Sofista, 252 e scolio; Esi­ chio, s.v. engastrimythos; Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 4 14 e, secondo il quale le persone chiamate un tempo Euricli erano alla sua epoca denomi­ nati Pitoni.

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sessione" (katoche') o in termini ancora più specifici "estasi" (ék­ stdsis) oppure "entusiasmo" (enthousiasm6s): ma questa forma di alienazione transitoria (dato che dopo il culmine della tran­ ce il sacerdote o la sacerdotessa ritornavano nel pieno possesso della loro ragione) non era un incerto vagare nel dominio delle allucinazioni; era anzi considerato un vero e proprio viaggio del1' anima alla ricerca delle più profonde radici della sapienza. L'estasi divinatoria greca sembra caricarsi di valori cultura­ li specifici: essa è il segno di una violenza che l'uomo compie sulla realtà, cosicché spesso l'indovino è nello stesso tempo un privilegiato e un reietto, e porta su di sé un marchio della sua natura abnorme. Tiresia, il profeta per eccellenza, fu accecato dagli dei perché aveva visto Atena nuda in una sorgente oppu­ re (secondo un'altra versione del mito) perché aveva offeso Era con una sua incauta affermazione; Cassandra fu resa folle e veg­ gente da Apollo. Il cieco è però veggente, perché sa attivare forme diverse di coscienza, che gli consentono d'intuire o ve­ dere segni segreti che sfuggono alla vista consapevole degli al­ tri: "Tu hai gli occhi (dice Tiresia a Edipo) 65 ma non sai vedere a che punto di sciagura sei arrivato". Dal punto di vista psicologico il delirio è del resto un po­ tente strumento di difesa della mente: come una barriera, gli impedisce al profeta di essere in sé nel momento in cui viene a contatto con forze possenti e conoscenze terribili; la cono­ scenza del mistero lo squassa, ma la follia lo difende. Ciò che generalmente si osserva nei profeti greci è lo sdoppiamento della coscienza: il veggente "posseduto da un dio" esprime una forma speciale di coscienza quando profetizza, ma non è vera­ mente padrone di ciò che immagina, sente o dice. Il segno di questo passaggio tra due sfere diverse di coscienza è la perdita della memoria; come osservava Platone "coloro che sono pos­ seduti da un dio dicono molte cose vere, ma non sanno nulla di quello che dicono" . 66 Per definizione, un profeta non sa quel­ lo che dice, e non è padrone (come del resto anche il poeta) 65. Edipo re, 413. 66. Menane, 99 c.

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del sapere che esce dalla sua bocca; sarà la pazzia a rendere esplicita la conoscenza trasmessa dagli dei. Quest'idea si man­ tiene nel corso dei secoli, quando viene esaminato il problema della possessione. Filone Giudeo affermava: Quando un profeta è ispirato perde la coscienza, il pensiero scompare e abbandona la rocca dell'anima, ma lo spirito divi­ no vi è entrato e vi ha preso dimora. Allora esso fa risuonare tutti gli organi, cosicché l'uomo esprime chiaramente ciò che lo spirito gli dice di dire. (Filone, Le leggi speciali, 4, 343)

Il punto essenziale è che il profeta non è stabilmente e per­ manentemente folle; lo diviene nel momento in cui attua il pas­ saggio dalla mente cosciente alla mente allucinatoria, riatti­ vando la capacità di ascoltare le voci che provengono da qual­ che angolo segreto della sua coscienza. La follia del profeta del resto è tutt'altro che l'estasi felice di altri posseduti: al contrario, è spesso descritta come un'e­ sperienza terribile. La Pizia è descritta mentre si contorce e quasi lotta contro la forza del dio che la possiede. È una crisi dolorosa, sconvolgente: Apollo è un duro compagno, troppo possente per un debole corpo mortale. Plutarco trasmette una storia inquietante a proposito di una Pizia di poco preceden­ te la sua epoca: Vi ricordate quanto è capitato alla Pizia morta recentemente? Dall'estero erano arrivati alcuni delegati per consultare l'ora­ colo; sembra che la vittima da immolare sia rimasta immobile alle prime aspersioni, e solo dopo molto tempo, poiché i sa­ cerdoti per evitare il disdoro continuavano a bagnarla con ac­ qua, tutta inzuppata e quasi affogata finì per cedere. E che co­ sa awenne alla Pizia? Discese nel penetrale profetico riluttan­ te e quasi contro voglia e sin dalle prime risposte fu chiaro, dal tono rauco della voce, che non si era ripresa ma era posseduta da un'ispirazione muta e cattiva, come una nave sballottata dal mare. Alla fine, completamente sconvolta, si lanciò verso la porta con un urlo terribile e spaventoso, e cadde a terra. Allo­ ra i consultanti fuggirono. E con loro anche il profeta Nican­ dro e gli altri sacerdoti. Dopo un po' tornarono e la trovarono

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ancora esanime a terra, e la sollevarono mentre era ancora pri­ va di conoscenza, ma dopo pochi giorni morì. (Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 438 ab) Questa scena terribile e sconvolgente mostra un profeta che lotta contro il suo dio, scosso dalla violenza allucinatoria del­ la profezia. Anche l'estasi di Cassandra descritta nell'Agamennone ri­ sponde allo stesso modello di dolorosa crisi mentale. Il testo de­ linea nitidamente i due momenti: l'uscita dalla coscienza e la profezia visionaria, pronunciata quando Cassandra è in un al­ trove mentale, mentre una forza profetica la scuote facendole vedere cose terribili - il sangue degli assassini passati e quello che sta per essere versato. È molto probabile che nel disegna­ re la figura di Cassandra posseduta da Apollo, Eschilo abbia preso come modello un tipo di profetessa estatica apollinea, la Pizia o la Sibilla. 67 Eschilo caratterizza Cassandra non come medium inconsa­ pevole, ma come veggente. 68 La caratteristica della divinazione di Cassandra è costituita dalla presenza delle due fasi, quella percettiva, corrisponden­ te al momento della trasmissione della conoscenza profetica dal dio, in cui Cassandra, in uno stato di estasi, è investita im­ provvisamente e dolorosamente dalle visioni che trasmette sen­ za mediazione razionale, e una seconda fase, comunicativa, quando la profetessa cerca di organizzare la conoscenza rice­ vuta dal dio e di trasmetterla agli ascoltatori in forme intelligi­ bili e chiare. Lo stesso avveniva nel tempio delfico, sebbene i due momenti fossero affidati a figure diverse: la Pizia riceveva le visioni, il prophétes le traduceva ai consultanti con termini comprensibili (sebbene, sempre necessariamente ambigui, co67. Vedi S. Mazzoldi, Cassandra, la vergine e l'indovina. Identità di un per­ sonaggio da Omero ali'Ellenismo, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2001 (in particolare pp. 98-105, con ulteriore bibliografia). 68. All'idea della possessione si accosta solamente ai versi 1266 e seguenti, quando la profetessa improvvisamente vede come gesto di Apollo il proprio gesto di strapparsi di dosso i paramenti sacerdotali e gettarli a terra (v. 12 69: "Apollo stesso mi spoglia della veste mantica").

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me vuole la legge dell'oracolo che comunica nascondendo). La profezia estatica richiede dunque un duplice livello comunica­ tivo: il linguaggio divino prima, quello umano poi. L'estasi pro­ fetica comporta l'annullamento dell'ordine temporale, poiché il processo psicologico della visione arresta anche lo scorrere del tempo. L'abolizione della distanza temporale è indicata dal­ l'uso del presente anche per riferire eventi del passato o del fu­ turo, quasi che il tempo si arresti, nel momento della visione, in un tempo senza tempo. Nel caso dell'Agamennone, avviene una perfetta sovrapposizione dell"'ora" di Cassandra, dell'"al­ lora" del pasto di Tieste e del "poi" dell'omicidio che Cliten­ nestra attuerà. Successivamente, Cassandra, utilizzando un linguaggio di­ mostrativo, cerca di stabilire un contatto con il suo interlocu­ tore, riorganizzando le sue visioni. Il suo rapporto con Apollo la rapisce in una sfera piena di contraddizioni e di nessi non lo­ gici. Le visioni di "stragi di consanguinei", di "gole scannate" di "casa macello di uomini" sembrano emergere da un conti­ nuum visionario di cui la stessa profetessa non è padrona. Esperienze di questa natura sono confermate dal profetismo ebraico. Quando la voce dell'Altissimo si manifesta - e può ta­ cere per molto tempo tra una manifestazione e l'altra - il pro­ feta ne è sconvolto sin dalle radici. Di questa natura erano ap­ punto le esperienze psicologiche del profeta Geremia, come egli stesso racconta: "A causa delle tue parole io tremo in tutte le mie membra e divento come un ubriaco preso dal vino" . La parola di Dio "è simile al fuoco o a un martello che polverizza una pie­ tra"; anche lui, come la Pizia, conosce l'angoscia del silenzio o di una voce che turbina dentro di lui senza manifestarsi: tra un accesso visionario e l'altro la parola di Dio si fa rara, gli infligge lunghi giorni di attesa prima di manifestarsi nuovamente. 69 Ge­ remia lotta con Dio, lo sfida, lo interroga sul senso della sua vo­ cazione: è un dialogo con una voce nascosta che fa parte della sua identità, da cui non potrà mai liberarsi. 70 69. Geremia 23, 9; 23, 29; 42 , 7 . 70. Geremia 1 1 , 18-23 ; 1 2 , 1 -6; 17, 14- 18.

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In passato la tendenza predominante tra gli studiosi era di rendere eccentrico il fenomeno della mantica estatica, che era considerata frutto di influssi orientaleggianti o prodotta da un incontro con elementi pregreci, in ogni caso incongruente con il cosiddetto spirito greco; in effetti, però, le nostre fonti ci im­ pediscono di dubitare che la mantica apollinea si fondasse sul­ lo sfruttamento di fenomeni di trance, che come abbiamo visto nella Grecia antica era sentita senz'altro come connaturata al fenomeno della divinazione in se stesso. Già la più antica testimonianza relativa a un Apollo profeti­ co ci porta a contatto con forme di divinazione ottenuta attra­ verso le allucinazioni di un visionario: nell'Odissea il veggente Teoclimeno, che discende da una famiglia di profeti apollinei, "vede" la morte dei pretendenti nel corso di una allucinazione terrificante in cui gli compaiono schizzi di sangue sulle pareti e ombre di morti nel palazzo.7 1 Il caso di Teoclimeno è inte­ ressante perché suggerisce che già in epoca arcaica un profeta poteva operare al di fuori da qualsiasi contesto sacrale e che la visione può assumere un carattere spontaneo, e non è indotta da alcuna pratica preparatoria. Altrettanto interessante è l'i­ dea che questo profeta discendesse dal famoso profeta Anfia­ rao e prima ancora dal profeta e purificatore Melampo (lo stes­ so che aveva liberato le Pretidi dalla follia); il padre di Teocli­ meno era un altro profeta, fatto tale da Apollo, e viveva in una città chiamata lperesia dove campava del suo mestiere, dando responsi. Quanto a Teoclimeno, egli si trova a Itaca in esilio dopo avere compiuto un delitto nella nativa Argo; egli è dun­ que un visionario che discende da una stirpe di profeti e visio­ nari, come se la capacità di "vedere" cose occulte si trasmet­ tesse geneticamente. È questo l'unico caso di divinazione esta­ tica dei poemi omerici, e naturalmente si può invocare qui un certo grado di elaborazione poetica; tuttavia la sua storia con­ ferma in qualche modo quanto sappiamo dell'esistenza di per­ sonaggi naturalmente predisposti alla dissociazione della per­ sonalità applicata alla sfera della mantica. 71. Odissea, 20, 35 1 -357.

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I fenomeni estatici della Pizia di Delfi, erano così famosi da avere generato, oltre che un imponente flusso di fedeli , anche un'imponente quantità di testimonianze ; il funzionamento dell'oracolo delfico è in effetti il meglio conosciuto tra tutti quelli antichi. 72 La Pizia profetava seguendo un rituale che ripercorre forme abituali e tradizionali: nulla negli schemi di consultazione ora­ colare a Delfi fa pensare all'uso di pratiche artificiali di trance. La consultazione era preceduta da un'abluzione alla fonte sa­ cra, poi la sacerdotessa si sedeva sul tripode posto al centro del santuario e cadeva in estasi pronunciando oracoli in forma ar­ ticolata o parole sconnesse e intervallate da balbettamenti e rantoli che venivano poi interpretate dal "profeta", vale a dire il sacerdote di Apollo che presiedeva il rituale oracolare.73 È abbastanza misteriosa la causa che portava la Pizia delfi­ ca a uno stato di follia oracolare, ma è molto probabile che la trance avvenisse spontaneamente, per autosuggestione; Dodds, fervido cultore della metapsichica, la paragonò allo stato psi­ cologico dei medium moderni. La Pizia del resto non era scel­ ta tra i soggetti psichicamente disturbati ma (quanto meno, al­ l'epoca di Plutarco) tra donne assolutamente normali, persino 72. La bibliografia è massiccia; in generale, tra l'altro, vedi M. Delcourt, L'oracle de Delphes, Payot, Paris 1981 ( 1955); H.W. Parke, Greek Oracle, Hutchinson, London 1967; G. Roux, Delphes, son oracle et ses dieux, Les Belles Lettres, Paris 1976; }. Fontenrose, The Delphic Oracle, University of California Press, Berkeley-Los Angelcs-London 1978; S. Georgoudi, "Les porte-parole des dieux: réflections sur le persone! des oracles grecs", in I. Chirassi Colombo, T. Seppilli (a cura di), Sibille e linguaggi oracolari, cit., pp. 315-367; sulla teoria della Pizia-medium vedi E.R. Dodds, I Greci e l'irrazio­ nale, cit., pp. 93-100. 73. Alcuni hanno negato che la profetessa cadesse in trance ( P. Amandry, La mantique apollinienne à Delphes, Boccard, Paris 1950, pp. 41-56; J. Fon­ tenrose, The Delphic Oracle, cit., pp. 204- 224), ma le testimonianze antiche parlano massicciamente di una Pizia estatica: vedi (tra l'altro) Euripide, Io­ ne, 91-93 (le grida della profetessa nel tempio); Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 433 c (possessione e follia del primo profeta delfico) e 438 b (crisi di trance della Pizia). Cassandra è descritta dai tragici (Eschilo nell'Agamen­ none e Euripide nelle Troiane) come un'invasata, a imitazione della Pizia e Platone (che era certo bene informato) parla di possessione a proposito di Pi­ zie e Sibille (Fedro, 244 b).

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banali: quella che profetava alla sua epoca era una donna sem­ plice, e di costumi onesti (la purezza sessuale della sacerdotes­ sa di Apollo era rigidamente sorvegliata) . 74 Apollo non vuole spose aristocratiche, vuole la purezza della vita. I responsi che ci sono pervenuti in gran numero hanno ge­ neralmente forma metrica - e la cosa, dopo quanto abbiamo detto sulla capacità poetante di un'anima in trance non stupi­ sce più di tanto, anche se è probabile che le visioni della Pizia fossero poi tradotte da profeti con piena coscienza, e del resto esse potevano essere rese anche in prosa. Il linguaggio disarti­ colato della Pizia è caratteristico di chi vive esperienze di deli­ rio estatico: si può anche invocare il parallelo del "dono delle lingue " di cui furono forniti gli Apostoli quando raggiungeva­ no uno stato di estasi visionaria, attribuita all'intervento di un Santo Spirito sopra di loro, come si diceva accadesse alla Pizia, scendeva terribile e possente la voce del Logos.

74. Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 438 c.

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µaia $tÀ.TJ, µapyTJV CIB 0EOÌ. 0foav o'{ 'tE 6uvav'tat éipova 1to1ijcrm Kaì. é1tipova µa;\.'Éé>V'ta Cara nutrice, ti hanno resa pazza gli dei, che possono togliere il senno a chi molto ne aveva. OMERO, Odissea, 23, 1 1 - 12

LA SOTTILE MATERIA DELL'ANIMA Io non riesco a convincere Critone qui presente (dice So­ crate nel Fedone, poco prima di bere la cicuta) che il Socrate che tra poco vedrete immobile non è quello vero, ma un altro: qui ci sarà un corpo senza vita, mentre il vero Socrate è quello la cui anima sta per abbandonare il corpo per inoltrarsi lungo le segrete vie dell'Aldilà. 1 Per Socrate, Platone e altri autori dell'epoca classica il cen­ tro della vita umana era l'anima o psyché. Fu però solo con la cultura di quest'epoca che la "psiche" divenne il nucleo della vita spirituale dell'uomo, e soltanto dell'uomo tra tutti gli esseri viventi: in sostanza, il suo tesoro segreto, il piccolo universo autonomo entro il quale si compie la vera vita di un individuo e si sviluppa il suo quotidiano dramma di esistere; un universo insidiato da forze e pulsioni che provengono dal suo stesso in­ terno, un universo, infine, capace di confrontarsi con il mondo 1. Platone, Fedone, 115 cd.

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esterno elaborando le proprie autonome rappresentazioni, e che dopo la morte sopravvive mentre il corpo si corrompe, co­ sicché la psiche e non altro finisce per identificarsi con l'au­ tentico "io" di un individuo. Questa nozione di anima si sviluppò progressivamente a partire dall'epoca arcaica e cominciò a divenire abbastanza co­ mune attorno alla metà del V secolo a.C., ma solo in ambienti intellettuali, mentre alla maggioranza delle persone l'idea do­ veva apparire ancora oscura e bizzarra.2 Gli autori arcaici non impiegavano ancora la parola psyché per designare la sede delle emozioni e della vita interiore. Saffo descrivendo il proprio delirio amoroso parla di "thym6s folle" e per raffigurare il tumulto delle passioni che si agitano dentro di lei dice che "amore ha squassato la mia phrén come una tem­ pesta di vento che scende dalle montagne"; Archiloco si rivol­ ge al proprio thym6s per consolarlo, esortarlo a controllare le emozioni e a "riconoscere il ritmo che ci governa". Più tardi però, all'inizio del V secolo a.C., Anacreonte potrà già rivol­ gersi ali'amato dicendogli "tu reggi le briglie della mia psyché". 3 Per pensatori come Eraclito e Democrito, nella prima parte del V secolo a.C. l'anima (psycheì appare già come la sede della vi­ ta intellettuale.4 Non si tratta però di sostituire una parola all'altra: il thym6s o la phrén di cui parlano i poeti arcaici non s'identifica affatto 2. Come dice E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, tr. it. La­ terza, Roma- Bari 1973, pp. 16 1- 163, il quale rileva che psyché col valore so­ cratico di "anima" r ientrava nel repertorio di astrusi termini filosofici di cui Aristofane si serviva per divertire la massa del pubblico ateniese: vedi Nuvo­ le, 94, 319, 415, 714, 19 (e la nota in proposito in Aristofane, Nuvole, ed. e commento di G. Guidorizzi, Mondadori, Milano 1996, pp. 198- 199). Per una rassegna complessiva sulla terminologia relativa all'anima nel V secolo a.C., vedi E. Claus, Toward the Soul, Yale University Press, New Haven-Lon­ don 1981. 3. Saffo, frr. 1, 47 Voigt; Ar chiloco, fr. 128 West; Anacreonte, fr. 15 Gentili. 4. In Democrito la psyché è sede dell'intelligenza e di altre funzioni su­ periori della vita affettiva, come gioia, dolore, sapienza ecc. (frr. B 5, 1; B 31; B 72; B 191; B 264; B 290 D.K.); Eraclito ne parla come sede dell'intelligen­ za, che sarebbe più vivida in un'anima secca (fr. B 118 D.K.); egli arriva an­ che a par lare di un'anima "barbara" (fr. B 107 D.K.).

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con ciò che per gli scrittori dell'epoca classica diventerà la psy­ ché. Gli storici della cultura hanno chiarito con sufficiente cer­ tezza che il concetto di psiche-anima si sviluppò progressiva­ mente durante l'epoca arcaica, come risultato di un'evoluzio­ ne a cui contribuirono sia correnti religiose quali l'orfismo e il pitagorismo, che predicavano la metempsicosi e proclamavano il dualismo tra corpo e anima, sia saperi laici (in particolare fi­ losofia e medicina). 5 Risale a queste correnti di pensiero, tra l'altro, l'idea che il sonno sia il momento in cui l'anima si libera dal corpo per get­ tare lo sguardo sul futuro grazie ai suoi autonomi poteri, nel so­ gno o durante stati di sospensione della coscienza, quando il corpo giace immobile. Il fondamento teorico dell'estasi, nella prospettiva del misticismo greco, era appunto questo: poiché, per usare la formula pitagorica, il corpo (soma) è la tomba (sé­ ma) dell'anima, solo quando questo è neutralizzato la psiche può operare liberamente e "amministrare la propria casa" , co­ me dice (alla fine del V secolo a.C.) il medico che scrisse il trat­ tato Sulla dieta; in questi momenti, il corpo addormentato non prova sensazioni ma l'anima (psy­ ché) desta conosce tutto, vede ciò che va visto, ode ciò che va udito, cammina, tocca, prova ira, prova dolore, racchiusa in un piccolo spazio: tutte le funzioni del corpo e dell'anima, tut­ te queste l'anima compie durante il sonno.

(Sulla dieta, 4, 86)

Lo spazio dell'anima non è il corpo: questo è (come appun­ to dice il nostro medico) troppo piccolo per lei. Un'anima è come incarcerata lì dentro; perciò la sua vera natura può ma­ nifestarsi solo quando riesce a dilatarsi al di fuori delle membra che la stringono come una prigione. L'idea che l'anima possie­ da un naturale potere estatico e lo realizzi durante il sonno, quando il corpo è come annullato, è espressa da vari autori di 5. Il primo e ancora oggi nel suo complesso fondamentale studio, anche per la quantità delle fonti r accolte, è quello di E. Rohde, Psiche, tr. it. Later­ za, Roma-Bari 1970.

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epoca classica6 e tra l'altro in un famoso frammento di Pinda­ ro, dove la divinazione onirocritica trova la sua giustificazione appunto sulla base di questa teoria: Il corpo di tutti cede alla morte possente ma rimane viva ancora una forma di vita, la sola che venga dagli dei; questa dorme quando le membra si muovono ma a chi dorme in molti sogni rivela il termine dei beni e dei mali che verranno. (Pindaro, fr. 1 3 1 b Maehler)

L'uso della parola psyché e la stessa nozione di anima nelle più antiche testimonianze della cultura greca, i poemi di Ome­ ro, sono però molto lontani da questo valore. La psiche omeri­ ca non indica l'anima nel senso platonico del termine, e tanto meno ha relazione con fenomeni mentali: è il soffio vitale che abbandona un uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte. "La sua vita (psyche1 lo abbandonò piangendo, lascian­ do la giovinezza e il vigore", è la formula tipica con cui Omero accompagna i suoi eroi nell'estremo tuffo verso l'ignoto. Nei nobili versi dell'epica omerica la psyché designa l'ener­ gia che anima un uomo e che si rende percepibile solo quando le manifestazioni della vita cessano o vengono sospese: l'unica sua funzione sembra essere quella di abbandonare un uomo quando questi esala l'ultimo respiro, mentre nulla si dice del modo con cui essa operi nel vivente. La psyché è un'entità ma­ teriale, un alito di vapore che si disperde nell'aria oppure un fiotto di sangue che sgorga da una ferita. Questa anima-vita esce come una farfalla (anch'essa in greco chiamata psycheJ dal­ la bocca o dalla piaga, comunque da un'apertura di quel cor­ po che sino a quel momento l'aveva trattenuta dentro di sé co­ me un involucro, e si trasferisce in un luogo lontano e inacces­ sibile, la Terra dei Morti. Frasi come "la psyché fuggì di colpo per la ferita aperta, la te6. Per esempio Senofonte, Ciropedia, 8, 7, 12: "È nel sonno che l'anima mostra meglio la sua natura e gode di una certa capacità di predire le cose future, perché sembra che durante il sonno essa possa fruire della massima libertà".

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nebra coprì i suoi occhi" (Iliade, 14, 5 18), "la psyché volò via dalle membra e andò nell'Ade" (Iliade, 12, 3 62) o " [l'ira di Achille] fece diventare preda di Ade molte gagliarde psychdi di eroi" (Iliade, l , 3) illustrano bene il valore di quest'idea nella poesia omerica. Tutto il gran lottare, amare, soffrire che ac­ compagna la luminosa vita degli eroi istante dopo istante si ri­ solve in questo: un soffio che svapora dell'aria, poiché la vita, e la psyché che s'identifica con lei, sono fatte di materia, ma di una materia lieve che si consuma e si annulla, come un filo di fumo che si disperde nel vento. Socrate poteva credere che la sua psyché gli sarebbe so­ pravvissuta, e in qualche modo anche Omero lo crede, però le forme di questa sopravvivenza sono enormemente diverse. La psiche omerica porta con sé il ricordo e il rimpianto della vita, ma vive di un'esistenza larvale, come un'ombra senza forze, senza nervi, senza passioni, senza neppure la possibilità di par­ lare, se non viene rianimata dai sacrifici;7 per riattivare parzial­ mente la sua forza bisogna nutrirla col sangue di una vittima, come fa Odissea quando scende a visitare le ombre dell'Ade. L'esempio più significativo di quali siano le funzioni della psy­ ché dopo la morte è il famoso sogno di Achille nell'Iliade: Lo prese il sonno, sciogliendogli le pene dell'animo, si river­ sò soave sopra di lui [ . . . ] ed ecco venne a lui l'anima (psyché) dell'infelice Patroclo, che gli somigliava in tutto, in grandez­ za, bellezza, occhi belli e voce, e sul corpo indossava identiche vesti. Si fermò accanto al suo capo e gli parlò: "Tu dormi, Achille, e ti sei scordato di me: mi amavi da vivo, ma mi tra­ scuri ora che sono morto. Seppelliscimi, fa che io entri nelle case dell'Ade, da lì mi tengono lontani le anime (psychdi), fan­ tasmi (éidola) dei morti, e non consentono che mi unisca loro oltre il fiume, ma devo vagare così, davanti alla dimora di Ade dalle ampie porte. Ora dammi la mano, non tornerò più dal­ !' Ade dopo che sarò stato cremato". E rispondendo gli disse Achille dai piedi veloci: "Perché, cara 7. Come le ombre che Odissee incontra nella terra dei morti, che posso­ no comunicare con lui solo dopo avere bevuto un sorso del sangue delle vit­ time sgozzate: Odissea, 1 1 , 23-50.

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testa, sei venuto sino qui e mi comandi queste cose? Certo, farò tutto quanto, compirò ciò che comandi, ma vienimi più vicino, che per W1 attimo ci abbracciamo e possiamo godere del pian­ to amaro l'uno con l'altro". Con queste parole tese le braccia, ma non lo raggiunse: l'om­ bra (psycheì come fumo sotto la terra fuggì stridendo. Stupito Achille balzò in piedi, batté insieme le mani e disse una mesta parola: "Ah, esiste allora anche nelle case dell'Ade una vita (psycheì e un'ombra (éidolon) ma dentro non c'è più la mente (phrénes) ! " . (Omero, Iliade, 23 , 62- 104) La psyché che appare in sogno a Achille è un'entità di natu­ ra intermedia, un fenomeno bifronte nello stesso tempo reale e immaginario: non è un'immagine elaborata dalla mente di chi dorme, dato che appare per sua iniziativa e dopo avere parlato fugge via stridendo per tornare là da dove era partita; non è nemmeno un'entità dotata di natura completamente autonoma poiché ha comunque bisogno di uno spazio subliminale in cui manifestarsi (il sogno) e si attiva solo nei momenti che si po­ trebbero definire marginali dell'esperienza psicologica, quando le attività percettive della veglia sono allentate. In questo senso, l'apparizione della psyché di Patroclo appartiene allo screziato mondo visionario che costella le percezioni mentali dell'uomo omerico e corrisponde in modo antitetico - poiché proviene dal fondo del mondo infero e non dall'alto, dalla luminosa sfera de­ gli dei - alle visioni e apparizioni che diventano percettibili agli eroi omerici sia nei sogni sia nell'esperienza cosciente. Atena compare in sogno a Nausicaa in un modo simile: si materializ­ za "come un soffio di vento" sopra la sua testa, assumendo le sembianze di un'amica della ragazza, le parla, poi svanisce e tor­ na nel luogo da dove si era mossa, l'Olimpo: Disse così la dea Atena dagli occhi azzurri, e tornò sull'Olim­ po dove dicono vi sia la sede salda degli dei: mai è percossa dai venti, mai vi cade la pioggia o scende la neve, ma sempre si stende su lei il cielo luminoso, senza una nube, uno splendore luminoso si diffonde nell'aria. Lì vivono lieti gli dei, giorno do­ po giorno. (Omero, Odissea, 6, 4 1 -46) 1 16

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Questa specie di anima, o meglio anima-fantasma, possiede caratteristiche proprie: come dice Achille, la psyché di Patroclo ha un'esistenza, ma non più le phrénes che danno a un uomo la capacità di dirigere le sue azioni. L'anima-fantasma è un doppio del corpo, che lo riproduce nella forma ma non nell'essenza, come un'immagine allo spec­ chio. È definita éidolon, una "sembianza": con questa parola la lingua greca raggruppava una serie di fenomeni dell'immagi­ nario che, sebbene a noi sembrino disomogenei tra loro, erano percepiti in modo analogo; oltre all'immagine che visita i dor­ mienti in forma di sogno, appartengono alla categoria dell' éi­ dolon l'ombra che si aggira nelle dimore sotterranee di Ade, la statua (koloss6s) che veniva posta nelle tombe per sostituire la vita del defunto, quella speciale forma di raddoppiamento del­ la persona che è l'immagine riflessa, il fantasma che vaga in prossimità delle tombe perseguitando i viventi con la sua pre­ senza e persino le statue e le immagini che rappresentano una persona ancora viva. 8 Pur confinato nell'Ade, questo "doppio" può operare anco­ ra sulla terra. L'éidolon del re Pausania messo a morte dagli Spartani nel tempio di Atena Chalchoikos vagava nelle vici­ nanze del santuario terrorizzando chiunque si accostasse; per al­ lontanare lo spettro furono fatti chiamare incantatori dall'Italia (o dalla Tessaglia) che "scacciarono l'éidolon dal tempio". 9 Tal­ volta il potere di generare angosce e follia era attribuito a statue o immagini, che conservano la magica energia della divinità rap­ presentata: si diceva che le statue dei demoni Damia e Auxesia avessero prodotto una forma di delirio omicida tra le persone che ne avevano preso possesso. Gli Etoli che avevano saccheg­ giato Pellene e messo le mani sulla statua di Artemide furono re8. Su questa nozione, specifica dell'organizzazione mentale dei Greci, ve­ di, da una prospettiva di psicologia storica, J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, tr. it. Einaudi, Torino 197 8, pp. 343- 360. Sulla psicologia del­ l'immagine riflessa vedi inoltre G. Guidorizzi, "Lo specchio e la mente. Un sistema d'intersezioni", in M. Bettini (a cura di), La maschera, il doppio, il ri­ tratto, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 31-46. 9. Plutarco, I ritardi della punizione divina, 560 ef; scolio a Euripide, A/­ cesti, 1128.

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si folli dalla dea. 10 L' éidolon-anima si aggira in una zona inter­ media, in una specie di crepuscolo della mente; è una sembian­ za che si rende visibile e subito scompare, come la nebbia che emerge e poi si ritira nelle acque di un lago. Per usare le parole di Jean-Pierre Vernant, in Grecia "la categoria di doppio pre­ suppone un'organizzazione mentale differente dalla nostra. Un doppio è tutt'altra cosa che un'immagine. Esso non è un ogget­ to naturale ma neanche un'immagine mentale [. .. ] il doppio è una realtà esterna al soggetto ma che nella sua apparenza stes­ sa si oppone, per il suo carattere insolito, allo scenario consue­ to della vita" . 1 1 Non solo differisce l'organizzazione mentale di fenomeni ma anche, si potrebbe aggiungere, la loro percezione, la loro funzione culturale e (cosa non meno importante) il mo­ do con il quale erano descritti e codificati. Tra la concezione socratica, che pone nella psiche la vera identità di una persona, e quella omerica che ne fa una sbiadi­ ta copia dell'essere vivente, esiste qualche continuità, senza la quale naturalmente non sarebbe stata possibile nemmeno I'e­ voluzione semantica (in particolare il fatto che la psyché so­ pravvive al corpo), ma anche un'incommensurabile distanza. Socrate può dire che dopo la morte la sua psyché visiterà i luo­ ghi beati dell'oltretomba, e che in fondo il destino di un'anima morta è migliore di quella di una vivente "perché molti pochi giorni nella nostra vita noi li abbiamo vissuti meglio di quanto potrebbe essere un unico sonno senza fine" . 1 2 In Omero, le anime morte dell'Ade hanno una forma di esistenza, ma di una vita minore e marginale, come spenta. Se quindi l'uso platonico di questa parola ci è perfettamen­ te comprensibile, l'uso che ne fa Omero risulta estraneo e lon­ tano, e poche volte come in questo caso l'evoluzione semanti­ ca di una parola è la spia di un problema che lentamente si compone nella cultura. La lingua omerica non possiede un termine che indichi una 10. Erodoto, 5, 82; Plutarco, Vz"ta di Arato, 32. 11. J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, cit., p. 348. 12. Platone, Apologia di Socrate, 40 e.

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sede unitaria dalla quale scaturiscono le manifestazioni dello spirito 13 e questo porta con sé una specifica nozione dei feno­ meni mentali e delle alterazioni del comportamento che van­ no valutati con parametri storici e antropologici interni alla cultura greca arcaica. La follia, nella cultura omerica, è quin­ di ben lontana dal poter essere considerata una malattia del­ l'anima dal momento che manca persino il concetto di anima come fenomeno unitario. 14 Essa è, per così dire, una follia pri­ va di anima: non un cancro che corrode a poco a poco la strut­ tura psicologica di un individuo e neppure una disfunzione della mente né tanto meno del cervello. Non è percepita co­ me una malattia cronica o uno stato definitivo in cui precipi­ ta la mente, ma come un fenomeno momentaneo, uno dei tan­ ti che muovono e animano l'esistenza di chi vive e agisce. Ogni improvviso mutamento di energia psichica è percepito come una sorta di "follia" provvisoria, cosicché si potrebbe arriva­ re a dire che la follia in Omero fa parte della normale perce­ zione dell'esistenza. La raffigurazione dei fenomeni mentali in Omero assume una caratteristica patina di concretezza e di immediatezza; un uomo non è "intelligente" o "stolto" in astratto, ma "ha molti pensieri" o "conosce molte astuzie" perché "ha visto più cose" e ne ha fatto esperienza, o al contrario è un uomo a cui "gli dei hanno tolto il senno", ma che potrà recuperarlo quando gli dei vorranno. Questo modo di pensare non si limita ai fenomeni della mente, ma si applica in generale a tutta la sfera delle emo­ zioni e persino a quella dell'azione. In sostanza, il pensiero astratto, nei versi omerici, è sostituito da un altro modello di vi­ ta psicologica, in parte come conseguenza dello stile formula­ re e concreto che conferisce all'epica la sua inimitabile forza espressiva e anche (se si può dire così) primitiva; in parte in di­ pendenza da un modello caratteristico della mentalità greca ar13. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1959, p. 26. 14. B. Simon, Mind and Madness in Ancient Greece, Cornell University Press, lthaca-London 1978, in particolare p. 66; vedi inoltre R Padel, Whom Gods Destroy, Princeton University Press, Princeton 1995, pp. 34-44.

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caica, per la quale i concetti morali o psicologici tendono ad as­ sumere il doppio carattere di astrazione e di personificazione. Omero potrà dire che Colpa (Ate) si aggira sopra le teste de­ gli uomini; Esiodo potrà parlare di Giustizia (Dike), Vergogna (Aidos), Contesa (Eris) e Punizione (Nemesi) come di entità in­ visibili e astratte, ma pur sempre reali, che siedono accanto al trono di Zeus o abbandonano la terra contaminata dall'ingiusti­ zia umana per rifugiarsi sulle vette dell'Olimpo. In termini reto­ rici si potrebbe parlare di allegoria o personificazione, ma simi­ li nozioni puramente stilistiche non renderebbero l'esatta ragio­ ne del modo arcaico di concepire i fenomeni psicologici e i va­ lori etici. Queste figure personificate non sono meri concetti, ma forze che hanno una loro oggettiva realtà, anche se di natura di­ versa dalla realtà oggettiva di cui si può fare comune esperienza attraverso i sensi. Ciò che nel greco successivo diviene un con cetto, nella mentalità arcaica ha un risvolto anche concreto: ogni concetto astratto ha un suo "doppio" di natura demonica che opera per conto suo sulla scena della vita, e non dentro la men­ te, ma indipendentemente, come una figura a tre dimensioni. Il risultato è un meccanismo di grande suggestione psicologica: si proietta all'esterno ciò che sta dentro, si trasferiscono su entità demoniche o divine fenomeni psicologici o idee morali. In questa descrizione dei fenomeni mentali, anche i conflit­ ti e i disturbi psicologici, il disagio emotivo o altre forme di al­ terazione dei comportamenti sono concepiti e descritti in mo­ do radicalmente diverso rispetto a quelli che, in seguito, por­ teranno medici e filosofi a sostenere che esiste una malattia chiamata follia o mania, e che questa consiste in un'alterazio­ ne dell'anima oppure del cervello. Certamente, di un uomo si fa esperienza mentre agisce o si manifesta attraverso la parola; altrettanto certamente l'agire vi­ sibile è motivato da impulsi invisibili che vengono dall'interno di un uomo e restano nella loro essenza misteriosi, non con­ trollabili e inspiegabili. Ma è tipico della psicologia omerica il tentativo di vedere simultaneamente l'operare degli organi in­ terni che pensano e sentono e l'azione visibile degli uomini, che da quelli è determinata. 120

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In questo "dentro" maturano emozioni e pensieri che spin­ gono un essere umano ad agire in modo più o meno istintivo, e di cui si può fare esperienza soltanto attraverso un "fuori". La concezione della follia come patologia dello spirito poté svi­ lupparsi solo quando si affermò l'idea che le funzioni superio­ ri della mente sono il prodotto dell'attività di un principio uni­ tario posto all'interno dell'uomo ; solo allora l'operare della mente fu visto nella sua globalità. L'ORGANIZZAZIONE DEGLI STATI MENTALI

Gli studi, ormai consolidati, 15 su quella che si definisce in ge­ nere "psicologia omerica" hanno dimostrato che l'epos arcai­ co descrive un'organizzazione dei fenomeni psicologici che ri­ sponde a modelli e leggi sue proprie. I punti fondamentali, in sostanza, sono tre: 1. Ciò che in epoca successiva viene inteso come fenomeno unitario, cioè l'Io psicologico di un individuo che pensa e pro­ va emozioni autonome, in Omero tende a essere presentato co­ me la somma di impulsi differenti. L'Io omerico è formato da una serie di "organi parziali" del sentire e del pensare, la cui re­ ciproca interazione costituisce la vita psichica di una persona: 16 c'è una forza che suscita le emozioni e spinge ad agire - in ge­ nere chiamata thym6s ma talvolta identificata con un organo concreto, come il cuore (kér, kardia), mentre il cervello poco ha a che fare con la nascita e la gestione degli stati emotivi -, un'al­ tra che fa sorgere le rappresentazioni mentali in modo chiaro 15. I testi classici di riferimento per questo dibattito (a parte altri contri­ buti circostanziati) sono soprattutto: H. Fraenkel, Early Greek Poetry and Philosophy, tr. ingl. Blackwell, Oxford 1975, pp. 75-84; E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, cit., pp. 161-170; B. Snell, "L'uomo nella concezione di Ome­ ro", in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. Einaudi, Tori­ no 1963, pp. 19- 47 ; R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo, tr. it. Adelphi, Milano 1998, pp. 13-122. Inoltre, B. Simon, Mind and Madness in Ancient Greece, cit., pp. 53-88; R. Padel, In and Out o/ the Mind, Princeton University Press, Princeton 1992. 16. B. Snell, "L'uomo nella concezione di Omero", cit., pp. 37 sgg.

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e lucido ed è grazie a essa che un individuo può coerentemen­ te progettare le sue azioni e che viene chiamata n6os - parola che avrà una sua storia nel linguaggio filosofico successivo, si­ no a diventare la "mente", ben distinta quindi da psyché che è invece più propriamente l'anima - oppure anche phrén, che indica molto concretamente il "diaframma". L'Io inoltre (o di conseguenza) non è presentato come un possesso stabile, ma come il risultato dell'operare di queste diverse funzioni che di volta in volta plasmano la personalità, determinando ciò che si potrebbe definire un "lo mobile". Phrén (o il plurale phrénes) occupa un posto notevole nell'operare dei fenomeni della men­ te, e anche in seguito questa parola continuerà a individuare operazioni mentali superiori: non solo emozioni, ma anche for­ me di elaborazione più astratta e generale. Il crollo delle phré­ nes (che potremo provvisoriamente tradurre con "mente") pro­ voca gravi disturbi nella sfera cognitiva e rende un uomo dph­ ron "stolto" (o "folle"), così come un uomo padrone di sé è un s6phron (un uomo "dalle phrénes sane"). 2. Ciò che in termini moderni (ma in definitiva già platonici) è la vita psicologica collocata all'interno dell'uomo, in Omero è presentato il più delle volte come il prodotto di impulsi esterni e assume quindi un carattere oggettivo. I conflitti interiori pren­ dono l'aspetto di un dialogo tra le parti dell'anima: le voci inte­ riori, le visioni, le allucinazioni visive o uditive e fenomeni simili che si presentano improvvisamente nell'interno della mente di una persona, vengono rese oggettive e reali e proiettate all' e­ sterno, divenendo una sorta di "voce" divina che parla e con la quale si può dialogare. Persino i sogni non sono descritti come fenomeni mentali, ma come un dialogo tra il soggetto dormiente e un'immagine che viene dall'esterno, parla con il dormiente disteso nel suo letto e poi si allontana per andare là da dove è ve­ nuta. 1 7 I sogni escono dalle porte d'avorio e di corno, e lì rien17. Sui sogni (e in particolare quelli omerici) vedi G. Guidorizzi (a cura di), Il sogno in Greàa, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. XIII-XX; uno studio com­ plessivo su questo tipo di descrizione onirica è J. Hundt, Der Traumglaube bei Homer, Greifswald 1935; inoltre E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, cit., pp. 119-143. Recentemente, F. Maiullari, " Il sogno, il trick, la terapia" , in Studi italiani di/ilologia classica, 99, 2006, pp. 59- 102.

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trano. In definitiva, tutto ciò che per noi si svolge "dentro" la mente (conflitti, impulsi, emozioni) è portato "fuori" di essa e diventa in qualche modo oggettivo e rappresentabile. 3. I disordini della mente, ma in generale gli impulsi e le idee improwise, sono attribuiti generalmente all'azione di operatori esterni, divini o demonici, che intervengono sul soggetto. Gli dei possono aumentare l'energia psicologica e fisica, donare forza, il­ luminare oppure offuscare la mente, toglierla, o più esattamen­ te, "farla deviare", allo stesso modo con cui, con un soffio o un lieve tocco della mano, possono deviare una freccia. Questo non significa che gli dei prendono possesso della mente di un uomo: anzi la categoria della possessione è generalmente ignorata da Omero (con alcune eccezioni, di cui diremo dopo) . Non esiste neppure una parola che indica unitariamente il corpo: s6ma "corpo" in Omero designa il corpo senza vita (quindi, il corpo senza psyche") e cioè il cadavere. Il corpo, co­ me la mente, di un uomo è concepito come un'entità dinami­ ca, che viene percepita nel suo manifestarsi gesto per gesto: per designarla si nominerà di volta in volta la testa, gli arti, e le se­ di in cui sembra che si concentri il movimento, gyia "braccia", méle "membra", gounata "ginocchia". 18 Nei poemi omerici non sembra esistere una chiara differen­ za tra gli organi del pensare e quelli della vita emotiva e affet­ tiva e neppure un'interrelazione reciproca tra ciò che noi defi­ niremmo la parte razionale e quella irrazionale. Non c'è (come avrebbe detto più tardi la tragedia) un istinto che segue i suoi impulsi e una mente che lotta per tenerlo a freno. L'io dell'eroe omerico è descritto in maniera poco precisa appunto perché ognuna delle "parti dell'anima" opera autonomamente ; se­ condo Hermann Frankel, è "un campo di forze aperto" 19 at­ traverso il quale i vari momenti della vita psicologica si succe­ dono l'uno dopo l'altro, all'incirca, si può dire, come le nuvo­ le attraversano una porzione di cielo. 18. B. Snell, "L'uomo nella concezione di Omero", cit., pp. 24-28. 19. H. Fraenkel, Early Greek Poetry and Philosophy, cit., pp. 79-80.

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Questa sorta di flusso di coscienza in cui emozioni e pensieri si succedono uno dopo l'altro, come per paratassi, questo mo­ do con cui gli eroi di Omero si rapportano al mondo, è forte­ mente carico di elementi emotivi. La prima parola dell'Iliade è ménis ("ira, furore") e questo segnale, che colloca l'emozione immediata alla radice dell'operare psichico, trova conferma nel giro di pochi versi: all'inizio del poema, come elementi fon­ danti dell'azione, s'inseguono l'ira di Agamennone verso il sa­ cerdote Crise, la paura di questi, l'ira divina di Apollo, quella tutta umana di Agamennone e Achille, in cui la rabbia "riem­ pie" le viscere, mentre il cuore "ondeggia" . Ch6los "sdegno" riempie spesso l'anima dei personaggi omerici, come un'ener­ gia che trabocca: "lo sdegno prese", "lo sdegno afferrò", "lo sdegno penetrò dentro" , anche "lo sdegno domò" qualcuno sono espressioni tipiche. Come una forza esterna che soprag­ giunge, ch6los e altre emozioni (dchos "dolore", ph6bos "pau­ ra") intervengono possenti a sconvolgere e squilibrare: "Una nera nube di strazio (dcheos) afferrò Achille" (Iliade , 18, 22). Raramente un eroe omerico, se non siede calmo e al suo posto in consiglio, dove è tenuto a dare pareri saggi e meditati fa­ cendo uso del suo n6os, si ferma a riflettere: in genere rispon­ de emotivamente, e immediatamente, agli stimoli esterni. In generale, la psicologia funziona sulla base dell'attività di alcuni organi che determinano emozioni e conflitti; in un certo senso si potrebbe dire che l'uomo omerico è in continua rela­ zione con il suo "dentro", con le sue "viscere" che si muovono, sobbalzano, sembrano dotate di una loro misteriosa vita che se­ gue le sue proprie leggi: cuore, fegato, diaframma, ciò che in gre­ co si chiama generalmente spldnchna. Lì, nel chiuso del corpo, maturano atti ed emozioni che diventano percepibili solo attra­ verso il loro manifestarsi concreto, nelle azioni e nelle parole.20 In linea molto generale si potrebbe dire che il thym6s è l' or­ gano attraverso il quale si percepiscono emozioni e passioni, co20. Sul "pensiero viscerale" (viscera/ thinking) in Omero vedi R. Padel, In and Out o/ the Mind, cit.; anche J. Barnouw, Odysseus, Hero o/ the Practical Intelligence. Deliberation and Signs in Homer's Odyssey, University Press of America, Lanham, MD, 2004, pp. 99-108. 124

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me quando Achille dice di amare la sua schiava Briseide "dal profondo del thym6s" ;2 1 ed è appunto seguendo quest'uso che Saffo e Archiloco fanno dipendere emozioni come l'amore o la sofferenza da moti del thym6s. Nello stesso tempo, il thym6s, che ha sede da qualche parte "dentro il petto" (eni stéthessi), è anche la forza che trascina un uomo a compiere atti secondo il proprio istinto immediato, scavalcando ciò che sarebbe sugge­ rito da una riflessione prudente e meditata. In altri casi il thym6s sembra essere un secondo io posto all'interno dell'individuo, al quale ci si rivolge nei momenti di dubbio attraverso un mono­ logo interiore, che traduce in termini dialogici ciò che noi espri­ meremmo in forma idiosincratica: anziché "parlò tra sé e sé" si dice di un eroe che "si rivolse al suo nobile thym6s" .22 Al contrario del demone di Socrate il quale funzionava co­ me una censura interiore per interdire un'azione, il thym6s omerico è una forza incontenibile che spinge ad agire istinti­ vamente: thym6s an6ghei ( "l'impulso comanda") è la formula con cui la poesia epica descrive un'improvvisa pulsione della volontà che viene immediatamente tradotta nei fatti.23 Il thym6s deve essere controllato per consentire a una persona una nor­ male vita di relazione: "Doma la tua irruenza e l'altero thym6s" dice Odisseo all'ombra di Aiace, nel tentativo di ammansirla. 24 Non è facile però domare il thym6s, proprio per la natura di questa energia istintiva: come scriveva Eraclito,25 "è difficile 21. Iliade, 9, 34 3. 22. Come nel caso di Odissea in Iliade, 1 1 , 403-44 1 . Per gli usi di thymòs in generale, vedi (oltre ai testi citati alla nota 15): S.M. Darcus, "How a per­ son relates to thym6s in Homer", in Indogermanische Forschungen, 85, 1 980, pp. 138-150; C.P. Caswell, A Study o/ thym6s in Early Greek Epic, E.J. Brill, Leiden-New York 1 990. Tuttavia il linguaggio poetico e formulare tipico del­ ]' epos omerico comporta una serie di slittamenti e di incroci semantici, per cui le funzioni di thym6s, n6os, phrénes e psyché talvolta s'incrociano; così, thym6s può significare semplicemente "vita" (assumendo quindi il valore di psycheì , come in Iliade, 12, 386: "Il th ym6s abbandonò le sue ossa (= morì)". 23. Per esempio Iliade, 4, 263 (ma è una formula ricorrente); il thym6s può anche imperiosamente "comandare" (keléuein): Iliade, 7, 68, e simili. 24. Odissea, 11, 562. 25. Eraclito, fr. B 85 D.K. Il passo segnala una fusione tra gli antichi ter­ mini della psicologia omerica (e della cultura tradizionale) e le nuove teorie

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combattere contro il thym6s: ciò che vuole infatti lo compera pagandolo con l'anima (psychés) " . La tristezza profonda e il tormento interiore sono anch'essi visti come alterazioni del thym6s: quando Bellerofonte, il prototipo del malinconico, si consuma nella sua tristezza vagando solo nella pianura Alea, si dice che sta "mangiando il suo thym6s, come Odissea sprofon­ dato dalla sua infinita nostalgia per la patria lontana, lo sta "spezzando" . 26 Uno thym6s docile, adattato alla volontà consapevole dell'Io cosciente, perderebbe la sua ragion d'essere; trasferendo il con­ cetto espresso da Odissea in termini familiari alla psicoanalisi, sarebbe come dire "doma il tuo Es". Forse è possibile, ma non sotto uno stimolo forte e immediato e nel mondo dell'agire che è quello dei guerrieri omerici : Odissea, piuttosto, l'eroe della saggia deliberazione, è colui che più di tutti ha imparato ad ammansire il suo istinto e a domarlo con le briglie della rifles­ sione: spesso lo si vede mentre cerca di domare il suo thym6s, in una situazione che richiede un atteggiamento cauto e astu­ to. Ma appunto per questo è una figura nuova.27 Ancora molto più tardi, nella tragedia attica, il thym6s vie­ ne invocato, ormai soprattutto in termini poetici, per descrivere la forza travolgente delle passioni che trasportano l'individuo verso comportamenti estremi, come quando Medea in procin­ to di uccidere i propri figli per vendicarsi del tradimento di Giasone dice: "So di accingermi a compiere opere malvage, ma il thym6s è più forte della mia volontà" .28 Nella lingua omerica, il maggiore indiziato come motore di conflitti psicologici e alterazioni della personalità è appunto il thym6s. I versi omerici danno l'impressione di un continuo scambio tra un individuo (o una parte di lui) e il proprio psicologiche in corso di incubazione in ambienti intellettuali; infatti lo thym6s in questo frammento appare evidentemente come una pulsione del­ l'anima o psyché. 26. Iliade, 6, 202; Odissea, 5, 157. 27. Sul modello d'intelligenza caratteristico di Odissea tra tutti gli eroi omerici vedi, recentemente, J. Barnouw, Odysseus, Hero o/ Practical Intelli­ gence. Deliberation and Signs in Homer's Odyssey, cit. 28. Euripide, Medea, 107 8-1079.

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thym6s. In alcuni casi esso è presentato come sede di un con­ flitto psicologico, dove due impulsi contrapposti si scontrano, come nell'episodio già ricordato di Leonzio e dei cadaveri. Co­ sì quando Odisseo è preso dall'ispirazione di uccidere il Ci­ clope, cedendo all'ira e all'ansia di farla finita con il mostro, viene raffrenato da un altro thym6s più cauto che lo induce a rimandare la vendetta a dopo, quando potrà essere più facile: Io nel mio thym6s magnanimo meditai di accostarmi a lui e sfo­ derata la spada aguzza lungo la coscia di colpirlo nel petto, ma un altro thym6s mi trattenne.29 (Omero, Odissea, 9, 299-302) I conflitti interiori in Omero sono spesso descritti in termi­ ni simili: quando Odisseo ancora travestito da mendicante dor­ me su un letto di fortuna nel vestibolo della sua reggia e vede le ancelle infedeli che si trasferiscono nel letto dei pretenden­ ti, in spregio all'onore della famiglia, la rabbia riarde e il suo thym6s si agita dentro il petto, incerto se uccidere subito le ri­ balde o aspettare ancora. In genere angoscia, stress, conflitti interiori vengono sviluppati all'interno dello thym6s che entra in crisi sotto l'impulso di forze contrapposte; è tipico che essi vengano risolti dall'esterno, con la comparsa di un dio che ac­ quieta il tumulto delle emozioni e indica la soluzione. Un caso interessante di dibattito interiore è l'episodio in cui Menelao viene prudentemente a patti con il proprio thym6s che lo spingerebbe ad affrontare in modo temerario un rischio mortale per difendere il corpo di Patroclo ucciso: Se ora abbandono le belle armi e il corpo di Patroclo che gia­ ce qui, caduto per vendicare il mio onore, temo che qualcuno dei Danai, vedendomi, si adiri con me; ma se, per vergogna, 29. Un caso affine è quello di Fenice, che viene maledetto dal padre per avergli sedotto la concubina e in preda alla collera è preso dall'impulso di am­ mazzarlo, ma il suo thym6r viene raffrenato dal timore di essere disprezzato dal popolo come parricida; tuttavia, il suo thym6r non riesce a sopportare di vivere ancora insieme al padre, ragione per cui si allontana da casa (Iliade, 9, 450-479).

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combatto da solo contro Ettore e i Teucri, temo che mi accer­ chino: io sono solo e loro molti, poiché Ettore scuotitore del­ l'elmo sta conducendo qui tutti i Troiani. Ma perché il mio thym6s mi dice questo? Quando un uomo vuole battersi con­ tro un nemico onorato dal dio, contro il volere divino, subito gli tocca una grande sciagura. No, nessuno dei Danai mi rim­ provererà, se mi vede cedere davanti a Ettore, poiché egli com­ batte spinto da un dio. (Omero, Iliade, 17, 9 1 - 10 1 ) Il meccanismo psicologico descritto è interessante e rivela­ tore: si tratta di una strategia volta a evitare lo stress e l'angoscia che sconvolgerebbero una persona consapevole di essersi espo­ sta al biasimo. Il conflitto che agita Menelao è un incrocio di impulsi contraddittori: il senso di colpa per la morte di un uo­ mo che è caduto per difendere il suo onore, la comprensione che è suo dovere d'onore difenderne il corpo, il timore di esse­ re "sottoposto a biasimo" da parte dei suoi compagni e il disa­ gio immaginando la vergogna che ne seguirà; dall'altra parte sta l'istinto di sopravvivenza che porterà infine Menelao a ritirarsi. Altri episodi ripetono questa strategia mentale, volta a risol­ vere conflitti tra impulsi contraddittori, e a salvare la faccia di una persona. Quando Agamennone dovrà fare pubblica am­ menda per il suo arrogante comportamento nella contesa con­ tro Achille, invocherà una sorta di "accecamento mentale" cau­ sato dagli dei; tutto questo rientra tra i meccanismi di quella che è stata definita " cultura di vergogna", in cui il giudizio col­ lettivo conta molto più dell'autonomia morale di un individuo. �0 Lo stesso meccanismo psicologico di difesa si ripete nell' e­ pisodio in cui Paride, sconfitto nella singolar tenzone con Me­ nelao, viene salvato dalla sua dea protettrice, Afrodite, che lo trasporta salvo e illeso nella reggia, ben al sicuro dentro le mu­ ra di Troia. Afrodite fa di più: compare alla bellissima Elena e la convince ad andare a visitare l'amante nel suo talamo. Qui as­ sistiamo a una vera e propria scena coniugale: Elena rimpro­ vera il convivente, lo umilia, gli getta sul viso il suo disprezzo e 30. È la famosa definizione di E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, cit., pp. 30-7 4.

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arriva sino a rimpiangere il primo marito, tanto coraggioso quanto Paride è vile e imbelle. Ma Paride ha già pronta la di­ fesa: " Oggi Menelao ha vinto, con l'aiuto di Atena, un'altra volta sarò io a vincere lui: anche noi abbiamo i nostri dei" . 3 1 Già, gli dei: soccorrono, penalizzano, riempiono di forza op­ pure la tolgono, volta per volta. Loro, non noi. Questo mecca­ nismo opera in generale dovunque occorre preservare l'equili­ brio mentale di una persona: in una società tribale e aristocra­ tica, il pubblico disonore è intollerabile e può condurre al sui­ cidio (come dimostra il caso di Aiace); così personaggi meno eroici (come appunto Paride e Menelao) riescono a salvaguar­ dare la propria integrità mentale e a non cadere nell'abisso del dolore e della follia, che in fondo riguardano anime grandi. Ovviamente, il thym6s è ben lontano dall'essere l'equiva­ lente di ciò che sarebbe diventato l'anima in senso platonico (e quindi in senso moderno) né si potrebbe dire che in Omero la follia è un disturbo dello thym6s nello stesso modo con cui Pla­ tone poteva affermare che essa è una malattia della psyché. INTELLETTO E DIAFRAMMA L'alterazione dei comportamenti sembra talvolta collegata a un altro degli organi parziali dell'anima, quello da cui nascono le rappresentazioni mentali che noi definiremmo consce e gra­ zie al quale un uomo è in grado di progettare le proprie azioni, un organo definito di volta in volta n6os oppure phrén. Sono questi gli organi il cui funzionamento è invocato in causa quan­ do un personaggio viene definito "incapace d'intendere"; in questi casi si dice che costui è " danneggiato nella mente" op­ pure che possiede " un pensiero oscillante" (phrénas ele e1 op­ pure che "non ha saldi la mente (phrénes) e il senno (noema)" , come se funzionassero a intermittenza. 3 2 L'alterazione della mente, o ciò che per noi sarebbe malattia mentale, è definita 31. Iliade, 3, 438-440. 32. Odissea, 2, 243; 18, 2 15. Talvolta si dice di una persona che manifesta comportamenti strani che "Zeus gli ha danneggiato il phrén" (bldpte phrénas).

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dunque in termini di sconnessione dei singoli pensieri che non riescono a organizzarsi in una trama fitta e ordinata; così si po­ trebbe dire che un uomo assennato è colui che "conosce - o possiede - fitti pensieri (pyknd) " , mentre un uomo demente è colui in cui il continuum mentale si rallenta e si destruttura. La cosa significativa però è che i disordini di questa secon­ da parte dell'anima non sono direttamente collegati alla pri­ ma; l'uomo omerico viene descritto come se fosse il detentore di un "io diviso" in cui ciascuna delle parti opera per conto proprio. Non vi è però nulla di patologico in tutto questo, quanto meno secondo l'organizzazione dei procedimenti men­ tali caratteristici di Omero; semplicemente (come abbiamo già detto) le coordinate dell'agire, del pensare e del sentire sono di­ sposte in modo assai lontano dal nostro. L'aggressività, l'amore, il desiderio di soddisfare i propri bi­ sogni alimentari, in sostanza la vita degli istinti appare espressa dalla psicologia omerica nei termini di una sufficiente linearità: il thym6s spinge a soddisfare il principio del piacere, il noos o il phrén operano per dirigerlo, ma solo limitatamente alle modalità della sua attuazione; non sono una censura della mente, o una sorta di Super-io, né inibiscono un comportamento in quanto ritenuto deplorevole, ma piuttosto suggeriscono la via per per­ seguire i propri scopi in maniera prudente e accorta. Questo mo­ do di procedere è abbastanza generalizzato nell'Iliade, mentre a quanto pare l'Odissea mostra una maggiore varietà di questo mo­ dello: del resto, Odissea il "molto accorto", l'uomo "dalla men­ te versatile" non è certo quello che si lascia trascinare dagli istin­ ti, ma sa governare il suo comportamento con saggia prudenza. Non sarei quindi certo che la maggiore complessità del model­ lo mentale nell'Odissea risponda effettivamente a un'evoluzione della percezione dei fenomeni psicologici o non sia dovuta piut­ tosto alla natura del suo protagonista. L'evoluzione dalla coscienza parziale, tipica dei poemi ome­ rici, alla coscienza in senso platonico fu un processo lento. In questo senso, una posizione importante è occupata da un altro degli organi parziali della mente in Omero, quello che è defi­ nito con la parola phrén (in genere usato al plurale, phrénes) che 130

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designa primariamente il diaframma, cioè la membrana che se­ para le viscere dalla zona dei polmoni: "La lancia lo colpì lad­ dove le phrénes racchiudono il morbido cuore" (Iliade, 16, 481) e quando la lancia viene estratta "le phrénes la seguirono fuo­ ri" (Iliade, 18, 504). Appunto per la vicinanza agli organi nobili delle viscere (cuore, fegato e polmoni) le phrénes sono identificate come se­ de di impulsi ed emozioni, ma talvolta anche come sede della coscienza stessa; come lo thym6s, anche le phréne s sono il luo­ go in cui si dibattono idee e si scatenano emozioni, come quan­ do si dice che "Odissea fu incerto nello thym6s e nelle phrénes" se uccidere subito i pretendenti oppure calmarsi e attendere l'occasione giusta.33 Il diaframma che vibra quando i polmoni si dilatano (come il cuore che pulsa più o meno rapidamente a seconda delle emozioni) si fa ben percepire, quando le emo­ zioni passano. Quest'idea resta anche in seguito, nel dibattito medico sulla sede della coscienza, come argomenta l'autore del trattato Sulla malattia sacra: Il diaframma ha un nome dovuto al caso e alla convenzione, non alla realtà né alla natura, e io non so quale potere possa avere di pensare e di ragionare, salvo nei casi in cui l'uomo pro­ va inaspettatamente una grande gioia o un dolore, e allora es­ so balza e salta perché è sottile e si estende nel corpo più di ogni altro organo [ . . . ] e dato che non avverte nulla prima de­ gli altri organi che si trovano nel corpo, è vano il suo nome e la causa per cui gli è stato dato [ . . . ] anche il cuore ha contrazio­ ni come il diaframma e anche di più: a lui si dirigono le vene da tutto il corpo [ . . . ] in modo che avverte ogni dolore o tensione che si produce nel corpo umano [ . . . ] però né il cuore né il dia­ framma hanno nulla a vedere con la capacità di pensare, ma la causa di tutti questi fenomeni è il cervello. (Ippocrate, Sulla malattia sacra, 20)

Le funzioni delle phrénes in Omero sono molto ampie. Quando Agamennone viene preso da un'improvviso e furi­ bondo attacco di ira, "le nere phrénes si riempirono di furore 33. Odissea, 20, 10.

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(ménos) " ;34 Atena "riempie di coraggio" le phrénes di Telema­ co, facendogli superare la timidezza;35 le phrénes sono anche se­ de di desideri, e in particolare il luogo dove opera il thym6s. 36 Le phrénes possono alterarsi, sotto l'impulso di stimoli esterni. E dalle loro alterazioni dipende un'istintiva vita emotiva: ci si fa coraggio, ci si avvia alla battaglia, ci si infuria. La percezio­ ne di queste alterazioni fa sì che una persona possa essere ékph­ ron "fuori di sé" : tuttavia, questo è uno stato provvisorio e non permanente, e in genere viene percepito come il risultato di un'intervento esterno. Penelope può rivolgersi alla nutrice Eu­ riclea dicendo: "Cara nutrice, gli dei ti hanno reso pazza (mar­ ghén), loro che sono capaci di togliere il senno (rendere ékph­ rona) a chi ne aveva molto" . 37 Phrén può essere la sede della coscienza e dell'intelligenza, purché anche queste nozioni siano prese in senso "omerico" e non in senso assoluto, e del resto, con lo sviluppo del linguag­ gio astratto, la lingua greca potrà parlare di s6phron "assenna­ to" e di sophrosyne come della qualità di chi è equilibrato nel­ la mente e nell'anima. UNA FORMA DI FOLLIA PROVVISORIA: IL MÉNOS È un'opinione abbastanza diffusa che Omero rimuova dal­ la sua visione del mondo eroico molti fenomeni primitivi e sel­ vaggi, che pure operavano nella società, e tra questi anche fe­ nomeni di alienazione mentale. Non c'è nessun caso concla­ mato di follia nei poemi omerici: forse l'unico accenno è quel­ lo a proposito di Bellerofonte che in vecchiaia si aggirava solo nella pianura Alea "consumando il suo animo". Egli, in segui­ to, diventerà per questo il prototipo del malinconico. 38 Questo, in parte, dipende dalla materia del canto di Iliade e 34. Iliade, 1, 103. 35. Odissea, 3, 76. 36. Iliade, 8, 202; 13, 487. 37. Odissea, 23, 11-16. 38. Iliade, 6, 200-203: Bellerofonte, protetto dagli dei, si rese colpevole di

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Odissea e dallo stato lacunoso della nostra conoscenza della poesia epica arcaica; la follia di Aiace era raccontata nella Pic­ cola Iliade39 e anche del folle matricida Alcmeone, appartenente al ciclo tebano (a cui era dedicato il poema Epigoni, attribuito al poeta Antimaco di Teo, del VII secolo a.C.) si raccontavano i deliri e le sofferenze. Nei poemi di Omero si cercherebbero inutilmente fenomeni che non potevano non essere presenti nella società (come la trance) : questi però erano certamente noti al pubblico di Omero, come nel caso in cui si racconta che il crudele re Licurgo mise in fuga le seguaci di Dioniso, di­ struggendo i loro paramenti sacri (che evidentemente si riferi­ scono a oggetti usati durante le danze estatiche, tipiche del cul­ to dionisiaco).� 0 In realtà, la follia in Omero prende altre vie, e non è separata dalla vita; si potrebbe dire che la follia si na­ sconde all'interno dei comportamenti abituali: "Omero igno­ rava la follia semplicemente perché era dovunque" .4 1 Tuttavia, l'aspetto più importante della questione è che dai pochi casi analizzabili la follia appare in forme particolari. In termini sintetici, si potrebbe dire che è un fenomeno provvi­ sorio e improvviso, determinato da un accrescimento di ener­ gie emotive, o dal loro improvviso depauperamento. Per spiegare il subitaneo accrescimento dell'energia vitale, Omero ricorre a un termine specializzato, chiamato ménos. Il ménos è una forma di energia, fisica e mentale, che si manife­ sta istantaneamente, e molto spesso viene attribuita a un dio che la "getta" dentro un uomo: con questo gli trasmette una parte della sua stessa forza divina e accresce coraggio e vigore. Atena interviene a soccorrere Diomede ferito e gli raddoppia hybris e finì la sua vita vagando solitario in una pianura; su Bellerofonte "me­ lancolico" (come Eracle) vedi Pseudo Aristotele, Problemi, 30, che è il pun­

to di partenza sul tema della melancolia (per il quale vedi il classico libro di RE. Kerbansky, E. Panofsky, F. Sax!, Saturno e la melancolia, tr. it. Einaudi, Torino 2002. 39. Attribuita a Lesche di Cnido, VII secolo a.C.; il riassunto di Proclo narra che "Aiace, reso folle per volere di Atena, fa strage delle mandrie de­ gli Achei e poi si suicida" (Poetae Epici Graeci, p. 74 Bernabé). 40. Iliade, 6, 132- 135. 4 1 . R. Calasso, Lafollia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2005, p. 27.

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il ménos, rendendolo invincibile; Apollo accoglie la preghiera del licio Glauco, ferito, e (come si conviene al dio della medi­ cina) gli arresta il sangue e gli "getta ménos nello thym6s". 42 Il ménos appartiene alla categoria dei fenomeni invisibili ma rea­ li: a volte è una corrente di energia che viene soffiata dentro, co­ me un alito di vento: Atena "soffia ménos" in Diomede (per­ sonaggio già di per sé predisposto alla rabbia aggressiva, tanto che si batte persino contro gli dei) e questi si mette a menare colpi all'impazzata (Iliade, 10, 482) ; "Soffia ménos" nel vec­ chio Laerte e questi trova la forza per scagliare la lancia ( Odis­ sea, 24, 520). Quando un uomo compie uno sforzo estremo inevitabilmente riempie di aria i polmoni: e quest'aria, questo respiro profondo in cui si percepisce tutto lo sforzo di un cor­ po diventa il soffio prodigioso del ménos che un dio amico do­ na al guerriero.43 È importante osservare (come fa giustamente Dodds) che ménos non è un organo della "mente parziale " (come n6os o thym6s) e neppure un possesso permanente della vita psicolo­ gica; esso si manifesta improvvisamente e come si è manifesta ­ to così svanisce da un momento all'altro. È un misterioso ac­ cesso di energia, tanto inspiegabile e improvviso che nella mag­ gior parte dei casi la sua origine viene collocata al di fuori del­ l'uomo e talvolta si manifesta con una sensazione fisica simile a una scossa elettrica o a una corrente di adrenalina, quando un eroe sente il ménos "frizzargli alla radice del naso " . La funzio­ ne fondamentale del ménos sembra essere quella di riempire le phrénes o il thym6s di qualcuno: "Achille non vuole spegnere il suo furore, ma ancora di più si riempie di ménos" (Iliade, 9, 679); "Le nere phrénes si riempirono di ménos, i suoi occhi sembravano fuoco fiammeggiante " (Iliade, l, 103 ). 44 In questi casi, il ménos viene descritto come una risposta istintiva a uno stress o a uno stimolo esterno. 42. Iliade, 5, 125- 128; 16, 529. 43 . R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo, cit., pp. 76-77. 44. Vedi anche R. Padel, In and Out o/the Mind, cit., pp. 25-26.

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Ira, rabbia, furore, coraggio, esaltazione dipendono da un improwiso accesso di ménos. Un uomo pieno di ménos non è propriamente padrone della sua mente, ma si comporta come se fosse in preda a un prowisorio accesso di furia, che sconfi­ na con la follia. Un accesso di ménos spiega anche un tipo di follia prowi­ soria, ossia il furore guerriero. La corrente di aggressività che fa di un uomo normale un forsennato fuori di sé, capace di far strage, era spiegato come una forma di possessione, e questa possessione veniva identificata con il dio furibondo per eccel­ lenza, Ares. I guerrieri sono therdpontes Areos "scudieri di Ares" e come lui appaiono posseduti da un'irrazionale e furi­ bonda energia che ottenebra la mente; quando un guerriero si getta in battaglia può accadere che Ares prenda possesso di lui, come accade a Ettore: "Entrò in lui Ares tremendo, guerriero, e dentro le membra si riempirono di forza e vigore" (Iliade, 17, 2 10-2 12). Come Dioniso è il dio folle, Ares è il dio main6menos "posseduto da furia guerriera", e in genere questa dio nell'I­ liade agisce come un invasato pronto a battersi d'istinto senza un razionale controllo dei comportamenti. Quando, per esem­ pio, apprende che suo figlio Ascàlafo è stato ucciso si precipi­ ta a vendicarlo, contro l'ordine di Zeus. Ordina ai suoi scudie­ ri Deimos e Phobos (Terrore e Paura, la personificazione dei sintomi della follia) di preparargli il carro; tocca a Atena, la sa­ piente, colei che sa controllare gli istinti e la ferocia, fermarlo e strappargli le armi dalle mani per evitare il peggio, e facen­ dolo lo apostrofa appunto come un vero e proprio folle: "Paz­ zo (mainoméne), dalla mente stravolta (phrénas elée) sei stra­ lunato (diéphtoras) ".45 Ares non combatte nel pieno possesso della sua mente, è un'immane e selvaggia energia distruttiva a cui ben si applica la nozione espressa dal verbo mdinesthai: "infuriare", come un'al­ luvione o una tempesta. Ares si compiace del sangue, grida co­ me diecimila uomini, e trasmette ai guerrieri in battaglia la sua follia distruttiva. La follia di Ares, peraltro, è una forma di pos45. Iliade, 15, 128.

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sessione che trova riscontri in altre società tradizionali; questo tipo di furore aggressivo rientra nella categoria dei disturbi et­ nici (che prendono cioè un aspetto codificato e hanno un nome specifico), ed è un'esaltazione dello spirito per cui chi si trova in questo stato "perde l'anima" , perché dentro il corpo avverte un'energia misteriosa che lo invade e lo spinge alla violenza. Il furore di Ettore e di altri guerrieri "posseduti da Ares" è paragonabile allo stato bersekr dei guerrieri nordici che si lan ciavano in battaglia fuori di sé, mordendo gli scudi, con la ba­ va alla bocca e lo sguardo spiritato. Chi diventava bersekr era guardato con rispettoso timore, e ci si attendeva da lui prodigi di valore in battaglia. Uno stato simile è il liget dei Longot, una popolazione di tagliatori di teste delle Filippine; liget equivale a " rabbia" e si genera (come il ménos omerico) dentro il cuore dei guerrieri per spingerli a compiere prodezze come se fosse­ ro fuori di sé. Della stessa natura era l'amok dei Malesi: la cri­ si di amok poteva afferrare improvvisamente un uomo che si lanciava correndo e gridando contro i nemici, e anche quando era colpito da una lancia continuava a correre, trapassato da parte a parte, per uccidere il suo avversario con il kris, tanto che i malesi impiegavano una lancia con due punte ad angolo acu­ to, come uno spiedo per cinghiali, in modo da impedire che il forsennato si avvicinasse. 46 Nell'Iliade vi è una descrizione esplicita di rabbia guerriera, ispirata da Ares a Ettore nel colmo della battaglia. È il mo­ mento in cui Zeus " riempie di ménos" i Troiani e li spinge al­ l'assalto. Non sono più esseri umani, combattono come ani­ mali feroci, e come un animale fuori di sé è descritto il loro co­ mandante, a cui appunto Zeus dona forza e furore: Era furioso (maineto) come Ares che scaglia la lancia o come un incendio funesto infuria (mdinetai) sui monti, tra le folte mac­ chie del bosco: aveva la bocca piena di schiuma, i due occhi mandavano lampi sotto le ciglia nere, attorno alle tempie l'el­ mo vibrava paurosamente, mentre lottava. (Omero, Iliade, 15, 606-610) 46. G. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, tr. it. Armando, Roma 1978, pp. 45-54.

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Guerrieri che combattono furibondi, come lupi; lyssa, il de­ mone della follia è appunto "la rabbia dei lupi", ed è lo stesso stato di frenesia guerriera che ogni tanto invade gli eroi: "una rabbia furiosa (lyssa) lo ha preso", "una rabbia possente (lyssa kratere") gli occupa il cuore" ,47 e come è normale questa parola diventa poi la personificazione della Follia, il demone Lyssa che compare nelle raffigurazioni vascolari come la scatenatrice del­ la follia, e che Euripide mette sulla scena nell'Eracle (è però, co­ sa strabiliante a dirsi, un demone pensoso, quasi pietoso verso la sua vittima, che cerca di stornare da lei la vendetta di Era). Nell'Eracle di Euripide l'eroe trionfante si trasforma improwi­ samente in un demone omicida a causa di un accesso di lyssa: Lyssa - Sono figlia di genitori illustri, discendo dal sangue di Notte ed Urano. Il regno di cui sono padrona non piace agli amici e io non mi rallegro quando devo visitare persone che amo. [ . . . ] Chiamo a testimone il Sole che agisco contro mia voglia. Ma se devo per forza obbedire a te (= Iride) e ad Era, e seguirvi di corsa come un cane segue un cacciatore, allora mi awio: e il mare furioso con le sue onde avide, il terremoto o il sibilo spaventoso del fulmine non saranno niente in confronto alla mia corsa attraverso il petto di Eracle. Squarcerò la casa e abbatterò il palazzo. Prima di tutto, farò in modo che uccida i figli, e mentre lo fa non s'accorgerà di uccidere i figli che ha ge­ nerato, prima che la mia follia l'abbandoni. Eccolo: già sta scrollando la testa sin dalla radice, e rotea tutto attorno gli oc­ chi da Gorgone, ansima, non è più in sé, mugghia come un to­ ro pronto alla carica, invocando le Chere del Tartaro. Presto lo farò danzare ancora di più, e suonerò il flauto del terrore. (Euripide, Eracle, 843-873)

11 meccanismo tradizionale del mito, e anche il gusto tutto suo per emozionanti colpi di scena, induce Euripide a pre­ sentare fisicamente un demone scatenatore di follia, Lyssa (o Follia), ma forse (Euripide lascia intendere) Eracle questa fol­ lia omicida l'aveva già dentro di sé, dopo tutto il sangue ver47. Iliade, 9, 239; 2 1, 542; vedi anche A. Mauri, "Funzione e lessico del­ la follia guerriera nei poemi omerici" , in Acme, 43, 1990, pp. 5 1-61.

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sato e le imprese straordinarie compiute in uno stato di esal­ tazione eroica. Il modello di guerriero furente e posseduto dalla follia di Ares, caratteristico dell'Iliade, sembra poi scomparire. Atena sostituisce Ares. La tattica della falange oplitica dei soldati-cit­ tadini, che si andò affermando in Grecia a partire dal VII seco­ lo a.C. non prevede uomini furibondi che combattono fuori dai ranghi. Gli opliti combattono insieme, schierati, come un solido muro di bronzo in cui non possono esserci brecce, non è un insieme di forsennati che si battono scompigliando le file. Gli opliti spartani si avviavano alla battaglia a passi lenti senza aprire brecce nello schieramento, al suono cadenzato dei flau­ ti, "guidati al pericolo dalla musica" , come dice Plutarco.48 LO SMARRIMENTO MENTALE: ATE E LA PERDITA DELL'ANIMA Ménos per certi aspetti appartiene alla sfera della fisiologia: in battaglia si può essere sovraeccitati. Nel sistema d'idee dei poemi omerici esiste però un secondo schema di deviazione patologica del comportamento che prende il nome di dte; so­ stanzialmente, dte e ménos formano una coppia opposta e com­ plementare che delimita due diverse percezioni dell' alterazio­ ne dei comportamenti. Nei tragici, dte significa spesso "rovina" o persino "colpa" , m a nei poemi omerici è solo uno smarrimento della coscienza; in sostanza "una forma temporanea di pazzia".49 Ate significa propriamente "accecamento" (dal verbo dao "acceco" ) ed è equiparabile a un momentaneo oscuramento mentale, una sor­ ta di perdita dell'anima, sotto l'impulso di stimoli esterni; se­ condo il consueto schema arcaico, dte è la condizione in cui si trova chi è vittima di questa situazione e contemporaneamente anche il demone che la incarna, e che si manifesta quando vie48. Plutarco, Vita di Licurgo, 22. 49. E.R. Dodds, I Greci e l'i"az.ionale, cit., p . 7.

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ne "gettato" da un dio nel corpo di un essere umano, e viene evocato per spiegare i casi in cui un personaggio compie azioni sconsiderate. Un uomo si trova improvvisamente avviluppato nella nebbia della coscienza, risucchiato nella sfera del buio e della tenebra -sfera tipica della follia.50 Allora compie delle atai che lo rovinano, oppure degli "atti ciechi" (atasthaliai): i pre­ tendenti compirono molte atasthaliai quando offendono l'ono­ re di Odissea e gli invadono la casa; il centauro Euritione fu vit­ tima di ate quando obnubilato dal troppo vino perse il control­ lo di sé e cercò di mettere le mani sulla sposa durante il ban­ chetto di nozze.5 1 Ate è un comportamento folle e scellerato na­ to da un improvviso iscurimento della coscienza, come dice Agamennone nella sua autodifesa per giustificare pubblica­ mente la propria avventatezza nell'avere offeso Achille: Non sono io il colpevole, ma Zeus, la Moira e l'Erinni che cam­ mina nella nebbia: loro in assemblea gettarono su me una cru­ dele dte, il giorno in cui tolsi ad Achille il suo dono. Ma che po­ tevo mai fare? Un dio compie tutto. Ate è la figlia maggiore di zeus, funesta, e fa sbagliare tutti. Ha i piedi molli, perciò non cammina sul suolo ma sopra le teste degli uomini e li danneg­ gia, e già prima di me ha incatenato degli altri. (Omero, Iliade, 19, 86-94)

Per spiegare le ragioni della presenza di questa condizione turbativa della personalità Omero ricorre a un meccanismo ca­ ratteristico del pensiero mitico, vale a dire il racconto eziologi­ co che narra l'istituzione di una nuova realtà nel tempo delle origini, come avviene nei miti di fondazione. Vi fu un momen­ to in cui ate comparve tra gli uomini, e da allora la realtà è sta­ ta modificata una volta per tutte. Da quel momento avviene che ogni uomo, e persino un gran dio come Zeus, possa essere sua 5 0. "Madness in black", annota giustamente R. Padel, Whom Gods De­ stroy, cit., p. 4 7, e inoltre pp. 4 8-54. 5 1. Odissea, 23, 67; 21, 295-304; dove si narra che il centauro "fu accecato dal vino" e si mise "a fare il pazzo" (main6menos) perché aveva "le phrénes colpite da dte" ; così finì che gli amici dello sposo si gettarono su di lui, lo tra­ scinarono fuori e gli tagliarono il naso e le orecchie.

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vittima se un dio lo vuole o se lei, questo demone maligno, de­ cide di visitare un mortale. Zeus infatti, sdegnato per essere sta­ to ingannato da lei, la scagliò giù dall'Olimpo e ora vaga tra gli uomini. Per questo (dice Agamennone) fui "accecato" e Zeus "mi ha rubato la mente" (exéleto phrénas). Ate può essere una punizione, ma anche no: può essere un male che si muove da so­ lo come le altre malattie, a cui (per usare lo schema mitico di Esiodo, Opere e giorni, 104) "gli dei hanno tolto la voce", di modo che esse vagano silenziose e micidiali tra gli esseri umani. Ate in Omero conserva il carattere oggettivo e amorale delle forme primitive di pensiero: com'è tipico di una mentalità tra­ dizionale, un concetto astratto e quasi filosofico viene espresso in termini mitici e concreti, assumendo la forma di un demone. Rispetto a ménos, dte si presenta come un'alterazione della mente di segno opposto: è un meccanismo autodistruttivo che opera inibendo la normale lucidità di giudizio e destrutturan­ do gli schemi di pensiero e i codici di comportamento che ren­ dono possibile una corretta vita di relazione. Chi è vittima di Ate (o dte) smarrisce la mente, e lo smarrimento mentale è una forma provvisoria di perdita della coscienza. Nella Grecia del tardo arcaismo il concetto di dte assunse un valore che con una certa approssimazione si potrebbe definire etico; in Eschilo dte è ora la causa di un delitto, ora il demone vendicatore del delitto stesso che perseguita il malfattore con il suo cupo delirio, simile a quello che trasforma Macbeth e sua moglie in due mostri assetati di sangue. Questa colpa conduce chi la compie a scontare un inevitabile castigo: infatti dte gene­ ra hybris, la dismisura, che porta un essere umano a non vede­ re quali errori sta compiendo e da ciò segue il dolore e la puni­ zione. 52 Tuttavia, sebbene dte divenga qualcosa di simile - e tut52. Già in Esiodo la tracotanza (hybris) rende ciechi (Opere e giorni, 134). Vedi I. Mattes, Der Wahnsinn im griechischen Mythos und in der Di­ chtung bis zum des V Jahrunderts, Winter, Heidelberg 1970 (specialmente le pp. 74-81 ) ; A. Moreau, Eschyle. La violence et le chaos, Les Belles Lettres, Paris 1985, pp. 153 - 158. In generale, vedi R.E. Doyle, Ate, its Use and Mea­ ning. A Study in the Greek Tradition /rom Homer to Euripides, Fordham University Press, New York 1984.

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tavia ancora di diverso - rispetto alla colpa, va detto che essa non ha ancora una precisa valenza morale. Non è una colpa, un errore compiuto con la volontà deliberata di compierlo: si trat­ ta piuttosto di un blocco del pensiero, qualcosa che potrebbe es­ sere paragonato a una momentanea incapacità di intendere. Mentre il ménos si manifesta in primo luogo come un feno­ meno fisico, vale a dire come una benefica forma di energia che scorre nelle vene, dte sembra essere un fatto esclusivamen­ te mentale; chi ne è vittima non manifesta in apparenza nessu­ na alterazione dei comportamenti, ma le sue azioni lo trascina­ no ad atti insensati e devianti. Il ménos è un surplus di energia, dte è la perdita di qualcosa; un uomo saggio ed equilibrato pos­ siede, per usare le stesse parole di Omero, pensieri " fitti e ben connessi"; ma quando sopraggiunge un'dte inviata da una di­ vinità maligna, questa salda connessione si sgretola, viene smantellata la "ben connessa" mente, i pensieri non sono più "fitti" e rivolti a verificare le varie alternative dell'agire: la vit­ tima di dte cade nella rete di pensieri negativi che lo conduce a una sorta di corto circuito mentale. Se quindi i poeti omerici avessero considerato dte in termi­ ni patologici e ne avessero descritto i sintomi con il penetran­ te spirito d'osservazione che fu proprio di Ippocrate e dei suoi colleghi, avrebbero probabilmente detto che le sue caratteri­ stiche sono essenzialmente due: la perdita della facoltà di va­ lutare le azioni in rapporto al mondo esterno e una monoma­ nia esasperata da fissazioni aggressive, volte alla soddisfazione dei propri impulsi egocentrati. Omero si esprimeva però in termini mitici; pertanto il con­ cetto di dte occupa in lui uno statuto intermedio e si espande in sfere che nella nostra prospettiva dovrebbero rimanere di­ vise; solo in parte si può dire che sia un'idea da collocare in una sfera psicologica: per alcuni aspetti è un concetto religio­ so, per altri etico. Ate compare come una forza ineluttabile inviata da poten­ ze superiori e tuttavia in qualche modo sentita come prodotta dall'uomo stesso, che acceca e inganna chi ne subisce l'influs­ so. Nella cultura greca successiva, dte è sovente intesa come 141

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una punizione per il misfatto che gli dei inviano per compen­ sare la contaminazione inespiabile prodotta da un delitto. Que­ sto è un concetto che implica uno sviluppo verso una sfera più decisamente morale; in Omero invece dte, com'è stato detto, è "una pazzia parziale e temporanea". 53 Accecamento e follia sono forme di devianza spesso appa­ rentate e sentite nella cultura greca come affini: anche Edipo si acceca in un accesso di follia; dte è talvolta paragonata a una re­ te che intrappola. 54 L'azione di dte muove verso alcune dire­ zioni: accecamento significa inibizione a vedere. Accecati nel­ la mente, i folli lo sono anche fisicamente: chi è pazzo vede co­ se che non esistono, oppure la sua vista è alterata. Atena ope­ ra deviando la mente di Aiace: gli getta davanti agli occhi im­ magini fallaci, storna la luce del suo sguardo, gli offusca le ci­ glia.55 Lo sguardo della follia è quello di chi non vede ciò che deve vedere, e ha davanti agli occhi un panorama altro, fatto dei suoi fantasmi interiori. Come spiegare culturalmente questo concetto? Secondo l'in­ terpretazione tradizionale di Dodds, invocare dte a giustifica­ zione di un comportamento insolito e strabiliante, che degrada un uomo saggio e maturo, è soprattutto un modo socialmente accettabile per consentire a un personaggio di "salvare la fac­ cia" ;56 del resto lo stesso meccanismo di difesa psicologica ope­ ra quando un eroe trema in battaglia e ai rimproveri dei com­ pagni risponde trasferendo la colpa agli dei: furono loro a to­ gliergli il coraggio e a loro spetterà di restituirglielo in futuro. Così l'accecamento mentale funziona anche come uno stru­ mento di autoassoluzione: riduce i sensi di colpa, e serve cioè a 53. E.R. Dodds, I Greci e l'irra1.ionale, cit., p. 7. 54. Eschilo, Persiani, 107; Prometeo, 1 071. La leggiadra Ate di Omero, con piedi morbidi e trecce lunghe, diventa in Eschilo una forma terroriz­ zante. In genere, sui vasi attici il demone della follia, Lyssa, è raffigurata con una testa di cane. 55.J. Starobinsky, Tre furori, tr. it. Garzanti, Milano 197 8, p. 31. 56. E.R. Dodds, I Greci e l'irra1.ionale, cit. ; diversa è l'interpretazione di Havelock, secondo il quale si tratta piuttosto di un concetto del linguaggio giuridico, o pregiuridico, tirato in causa quando occorre invocare una tem­ poranea incapacità d'intendere e volere.

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ridurre la vergogna proiettando un'azione al di fuori dell'indi­ viduo. È la vergogna (aid6s) a inibire comportamenti aggressi­ vi, in una società di tipo tradizionale dove tutto è sotto gli occhi di tutti e il valore di una persona dipende dalla pubblica fama e dall'onore sancito dalla "voce del popolo". Lo stesso meccani­ smo inibisce invece a Fenice un'azione orrenda come il parrici­ dio nei confronti di suo padre Amintore che lo ha maledetto: Così io meditai di ucciderlo col bronzo acuto, ma qualche im­ mortale placò la mia rabbia, ponendomi in cuore la voce del popolo e il grande biasimo degli uomini, perché tra gli Achei non fossi detto assassino del padre. (Omero, Iliade, 9, 458-461 )

Gli dei aprono gli occhi a Fenice e gli pongono nel thym6s la consapevolezza di un sistema pubblico di valori che egli, ac­ cecato dalla rabbia come Agamennone, si apprestava a violare; così Agamennone cade in preda di ate, Fenice no. In definiti­ va, ate si avvicina a una vera e propria patologia della mente. In certi termini, si potrebbe dire che questa situazione comporta una "perdita dell'anima" in chi ne è vittima, ossia una scissio­ ne tra la coscienza e le pulsioni istintive. È una forma nascosta di pazzia, o meglio una follia che viene ipercodificata, sino ad assumere l'aspetto di una categoria nello stesso tempo menta­ le, religiosa ed etica. LA MENTE ALLUCINATORIA

Nella sua sfida continua contro gli altri, la morte, il destino , le proprie ansie di gloria, la propria volontà di potere, un eroe di Omero è sottoposto a una serie di stress innescati da un pe­ sante controllo culturale; in ogni momento della sua vita una società occhiuta e censoria lo giudica e lo commisura. A que­ sta "cultura di vergogna" corrispondono una serie di nevrosi, che si possono definire veri e propri "stress etnici": essi nasco­ no da conflitti tra istinti psicologici individuali e pulsione a non

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violare norme di comportamento profondamente imposte dal1' esterno, e sottoposte a un controllo pubblico strettissimo, in un mondo in cui tutto avviene sotto gli occhi degli altri (/ace to /ace society) tanto da formare una gabbia entro cui si dibatto­ no le singole personalità. Una società tradizionale è conformista e impone ai suoi membri comportamenti rigidi, e un severo giudizio sociale: " Mio padre mi mandò a Troia e molto, molto mi comandava di essere sempre il primo e superare tutti gli altri, e a non disono­ rare la stirpe dei padri che erano i migliori a Efira e nella vasta Licia" 57 dice l'eroe Glauco sotto le mura di Troia. Non si può " disonorare" se stessi e la famiglia, non si può non "essere i pri­ mi" (aristéuein), non si può evitare questa poderosa censura pa­ terna che incombe e viene interiorizzata: al punto che, quando l'Aiace di Sofocle medita se vivere disonorato o suicidarsi recu­ perando l'onore, gli si presenta minacciosa l'immagine del pa­ dre che lo giudica: "Con che faccia mi presenterò a mio padre Telamone? E come sopporterà di vedermi ancora, se gli appa­ rirò davanti spogliato dei premi di valore che egli stesso otten­ ne, grande corona della sua gloria? No, non è tollerabile! " . 58 Questa presenza incombente dell'altro da sé - il padre o i compagni di battaglia o "la voce del popolo" - si scontra con alcuni impulsi elementari della psiche: l'istinto di sopravvi­ venza, quello di autoaffermazione, la paura, l'incertezza. Come convivere col fatto che un eroe non può arretrare in battaglia e non può permettersi di manifestare la propria paura? O con il fatto che in una società concorrenziale come questa l'indivi­ duo è sottoposto a una continua pressione emotiva a cui deve dare risposte immediate, per non vedere scalfita la propria sti­ ma sociale? Il meccanismo psicologico fondamentale è appunto il tra­ sferimento verso l'esterno e la trasformazione di impulsi idio­ sincratici in comportamenti oggettivi. Trasferire fuori, verso un operatore esterno (dio o demone) tutto ciò che non è ac57. Iliade, 6, 207-210. 58. Sofocle, Aiace, 462-465.

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cettabile significa attenuare i conflitti e i sensi di colpa (come abbiamo visto sopra nei casi di Menelao o Paride) e perciò ri­ pulire la mente da scorie e lacerazioni. Interviene a questo pun­ to un altro fattore, che potremmo definire "il buon uso della mente allucinatoria" : è questo ciò che consente a un eroe di prendere contatto con le forze della sua psiche proiettate all'e­ sterno di sé. Gli schemi fondamentali secondo i quali i poemi omerici descrivono i conflitti interiori, infatti, sono fondamentalmen­ te due: l'intervento di un dio che sopraggiunge a indirizzare i comportamenti e le emozioni di un personaggio e il dialogo tra l'eroe e una parte del suo "io diviso" (il thym6s o il cuore). Quando Odissea è sbattuto da una tempesta verso gli sco­ gli, nel momento dell'estremo pericolo e sottoposto a un for­ tissimo stress psicologico, di paura e impotenza, il suo dibatti­ to interiore è espresso nella forma di un colloquio col proprio thym6s. 59 Lo stesso tipo di dialogo interiore avviene quando Agenore dibatte tra sé la possibilità di affrontare Achille che avanza o fuggire e salvare la vita, e anche in quel caso dialoga con "il proprio altero thym6s" . Un caso anche più frequente è la comparsa di una divinità. Quando il conflitto è estremo e blocca l'azione, e i pensieri en­ trano in una specie di corto circuito, allora compare il dio. Il dio interviene prima che il conflitto interiore diventi intollerabile, e indirizza verso una soluzione istintiva, non ragionata. È appun­ to ciò che avviene all'inizio dell'Iliade quando il dilemma inte­ riore di Achille offeso da Agamennone e dilaniato da pulsioni differenti viene personificato dall'intervento della dea Atena: Al Pelide giunse un dolore, e il cuore suo dentro il petto villo­ so ondeggiò diviso in due parti, se dovesse snudare la spada acuta dalla coscia, farsi largo tra molti e trucidare l'Atride o deporre lo sdegno e dominare il proprio animo (thym6s). Mentre era incerto su questo nel cuore e nell'animo snudò dal 59. "Allora a Odissee si sciolsero le ginocchia e il cuore e angosciato parlò al proprio nobile animo (thym6s) " : Odùsea, 5, 407-4 08; vedi anche Iliade, 21, 552-57 0.

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fodero la spada, ma comparve Atena [ . . . ] gli stette accanto, prese per la bionda chioma il Pelide, solo a lui manifesta, degli altri nessuno la vide. Restò stupefatto Achille, si volse e subito riconobbe Pallade Atena, terribilmente le brillavano gli occhi. (Omero, Iliade, 1 , 1 88-200)

La comparsa di una divinità è descritta come qualcosa di si­ mile a un'intuizione improvvisa che si affaccia alla mente op­ pure all'intervento di una censura morale; in molti casi l'inter­ vento esterno non si limita a dare inizio a una serie di attività mentali, ma descrive nei suoi vari momenti il modo di funzio­ nare della mente del personaggio. Talvolta i due schemi sono combinati, come quando Odis­ seo, mentre rimugina la propria rabbia contro i pretendenti per le offese ricevute, vede le proprie ancelle avviarsi di nasco­ sto a convegni amorosi con i loro drudi (grave infrazione del ri­ gido codice dell'onore e dell'ospitalità caratteristico della so­ cietà eroica) e cerca di reprimere le proprie pulsioni aggressi­ ve, attraverso un complesso meccanismo in cui entrano il con­ flitto interiore, il dialogo tra due parti dell"'io diviso" tipica­ mente omerico e la proiezione esterna: Si agitava il suo animo (thym6s) dentro il petto e molto ondeg­ giava nella mente e nell'animo se dare a ciascuna la morte bal­ zando in piedi o consentire che per l'ultima volta s'unissero ai pretendenti orgogliosi. Come una cagna per difendere i teneri cuccioli non riconosce il padrone, abbaia ed è pronta a combattere così latrava den­ tro di lui sdegnato per azioni malvage. E percotendosi il petto rimproverava il suo cuore: "Sopporta, cuore (kradie): hai sop­ portato cose anche peggiori [ . . . ] così diceva reprimendo il suo cuore nel petto, e gli ubbidì il cuore, s'acquietò sopportando pazientemente, ma lui si girava da una parte e dall'altra. Come un uomo sopra un gran fuoco arde e rigira una salsiccia ripiena di grasso e di sangue da una parte e dall'altra e deside­ ra che presto sia cotta, così egli si girava da una parte e dall'al­ tra pensando come avrebbe assalito i pretendenti arroganti che erano molti, lui solo. E al suo fianco giunse Atena scesa dal cie­ lo somigliava nell'aspetto a una donna. Si fermò al suo fianco e gli rivolse parola. (Omero, Odissea, 20, 17-3 1)

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L'accesso d'ira furiosa lo spinge a una reazione immediata, ma l'eroe paziente e accorto si trattiene, e tuttavia l'ansia e la rabbia lo tormentano, sicché non riesce a prendere sonno; è a questo punto che, come a Achille, anche a lui compare una dea, la "sua " dea Atena che sempre lo soccorre. Il dialogo interiore tra gli eroi e le divinità nei poemi omeri­ ci è fitto, continuo ; ciascuno dialoga con il suo dio. In questo modo Omero dà forma poetica a un sistema di credenze che appartenevano al patrimonio culturale della civiltà greca ar­ caica e avevano un loro fondamento reale, e comunque descri­ ve in forma dialogica i passaggi psicologici che si agitano den­ tro la sua mente. All'inizio dell'Iliade Atena si mostra a Achille "a lui solo ma­ nifesta, degli altri nessuno poteva vederla", gli parla e l'eroe ha persino l'impressione di sentire la pressione della sua mano sui capelli. 60 Si potrebbe definire questo fenomeno un'allucina­ zione sensoriale; visioni di questo genere sono raccontate così frequentemente, e in termini così dettagliati e concreti, da far dubitare che si tratti semplicemente di una fantasia poetica, come avviene nell'epica di Virgilio o Apollonio Rodio, dove la comparsa di un dio risponde a regole narrative consolidate. La capacità dei personaggi omerici di "sentire" gli dei vicino a lo­ ro, quasi come una presenza fisica, è talmente diffusa da costi­ tuire, si direbbe, un'estensione della mente. Una poesia tradizionale, come quella dell'epica omerica, non può funzionare se non nella misura in cui le cose narrate fanno parte dell'esperienza comune del pubblico ; anche per questo si può supporre che fenomeni quali l'apparizione allu­ cinatoria di una figura divina, la voce interiore o lo sdoppia­ mento della persona, per cui un individuo dialoga con una par­ te di se stesso - un sintomo che noi riterremmo tipico di una personalità schizofrenica - fossero forme abbastanza correnti nella vita psicologica. Socrate dialogava col suo demone; e in un certo senso lo fanno anche gli eroi omerici, con la differenza che essi proiettano fuori di sé questo demone interiore e ne fanno un dio sceso a consigliare. 60. Iliade l, 198.

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La percezione della voce interiore, che un individuo imma­ gina di intendere, non era considerata il sintomo di un distur­ bo mentale, ma una forma possibile di comunicazione con il so­ prannaturale - o forse con la parte di sé proiettata in una di­ mensione soprannaturale. Una simile sensazione, quasi tattile, di comparsa allucinato­ ria era frequente nell'esperienza di chi consultava i santuari d'incubazione, dove Asclepio si mostrava ai fedeli in sogni co­ sì vividi da sembrare quasi allucinazioni. Una significativa te­ stimonianza di un'esperienza estatica è quella di Elio Aristide (II secolo d.C.) che visse per molti anni una serie di stati para­ normali prodotti in lui dalla maniacale tensione al rapporto mi­ stico con la sua divinità protettrice, Asclepio: Era come se sembrasse di toccarlo, quasi si aveva la sensazio­ ne che il dio fosse lì di persona. Si stava tra il sonno e la veglia, si voleva aprire gli occhi ma si temeva che il dio troppo presto si ritirasse. Si ascoltavano cose ora come in sogno, ora come in stato di veglia; i capelli si rizzavano sul capo, si piangeva con sensazioni gioia, il cuore si gonfiava ma non di vano orgoglio. Qual è l'uomo che potrebbe descrivere con parole questa espe­ rienza? Ma chiunque l'ha provata è partecipe dalla mia cogni­ zione e riconosce questo stato d'animo. (Elio Aristide, Discorsi sacri, 48, 32)

È interessante anche il fatto che le visioni di Aristide siano ambientate tra il sonno e la veglia, ossia nello spazio in cui le fonti antiche collocano per lo più le esperienze subliminali che sembrano appartenere a una terza dimensione della psiche. 61 Durante l'estasi, infatti (secondo un modo di pensare diffuso) , quando l'anima si sviluppa dai lacci del corpo che la imprigio­ na, crescono nell'uomo forze delle quali egli durante la vita quotidiana è completamente ignaro. In genere, in Omero, l'epifania divina assume il carattere di un'apparizione individuale, con tratti di estrema vicinanza: un 61. Per esempio Giamblico, Sui misteri degli Egizi, 3, 2 ; Massimo di Ti­ ro, 9, 7; molte visioni nei templi di Asclepio sembrano rispondere a questa tipologia.

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dio si manifesta proprio accanto al suo protetto, al punto che costui sente il sussurro della voce divina e ne coglie talvolta il lampo degli occhi. Spesso questi eventi si verificano in situazioni di marginalità fisica, nella solitudine del mare o della campagna, oppure nei momenti in cui un personaggio si trova in una condizione di particolare tensione emotiva. Achille, dopo il furibondo litigio con Agamennone, ancora sconvolto, va a sedersi sulla riva del mare bianco di spuma e con gli occhi rivolti alla distesa infini­ ta chiama la madre divina e lei gli compare accanto proprio lì e gli parla; Odissea naufrago vede comparirgli davanti tra le onde la dea Leucotea "simile a un gabbiano" ; in Pindaro, il giovane Pelope innamorato della bella Laodamia ma terroriz­ zato dalla paura di essere ucciso da suo padre invoca nella not­ te Poseidone, e il dio gli appare "vicino ai suoi piedi" ;62 Atena compare a Odissea in uno stato di dormiveglia. Quando Po­ seidone si materializza in forma umana e appare ai due Aiaci in mezzo alla battaglia, nel momento in cui l'esercito acheo sta per essere messo in rotta, i due sentono una nuova forza nelle loro vene e capiscono di essere stati visitati da un dio: è facile - si dicono - riconoscere un dio, quando lo incontri.63 Forse la scena tipica del dio che compare a un uomo dà for­ ma poetica a esperienze allucinatorie reali. Questo è suggerito anche da una quantità invero imponente di testimonianze che esorbitano dalla tradizione poetica e fanno pensare a una spe­ cifica forma di esperienza allucinatoria che sembra avere una consistenza specifica nella cultura greca. La comparsa di "immagini" (éidola, phdsmata) in varie cir­ costanze di vita quotidiane oppure le visioni autoprovocate nel corso di rituali nell'antichità non sembrano essere un'e­ sperienza limitata a speciali categorie di visionari, ma proba­ bilmente molto più diffusa e comune di quanto non si possa credere; in questo senso, la civiltà greca del periodo arcaico sembra presupporre una tendenza verso i fenomeni dell'im62. Iliade, 1, 345-361; Odissea, 5, 336-339; Pindaro, Olimpica l, 66-75. 63 . Iliade, 1 3 , 72.

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maginario assai più sviluppata di quanto non sia familiare ai tempi moderni. Tali stati allucinatori tendono ad assumere una forma cul­ turalmente riconosciuta, e sovente vengono attribuiti alla com­ parsa di un dio, un demone o un eroe. A parte gli esempi cita­ ti nella tradizione omerica, il caso più antico che documenti un fenomeno del genere nella biografia individuale si trova nella Teogonia di Esiodo, dove il poeta descrive il suo incontro con le Muse sulle balze del monte Elicona, quando era ancora un giovane pastorello: le dee gli appaiono nel silenzio inquietante della montagna, gli parlano e infine gli consegnano un bastone, segno concreto della sua nuova condizione di poeta. Come è stato detto da molti studiosi, questa situazione sarebbe proba­ bilmente limitativo ritenerla metaforica o allegorica, ma de­ scrive una reale esperienza allucinatoria64 vissuta in un am­ biente solitario e isolato. Quella di Esiodo è una visione iniziatica, grazie alla quale un individuo inaugura in sé nuovi poteri spirituali che prima era­ no in lui latenti, in questo caso l'ispirazione poetica;65 il fatto che essa sia ambientata in una fase giovanile della vita del poe­ ta, quando questi come pastorello portava le bestie al pascolo, ne sottolinea il carattere iniziatico. Non è infrequente che tali situazioni si verifichino nel corso di riti di passaggio, durante i quali !'iniziando ha il suo primo incontro con l'animale-totem o lo spirito guida. Queste forme di allucinazione appartengono al bagaglio di cose che un fanciullo apprende nel corso della sua formazione, in alcune culture tradizionali, specialmente nel corso di ceri­ monie iniziatiche o nel curriculum di uno sciamano durante il periodo di margine nel quale egli si isola alla ricerca del proprio spirito protettore. 66 Il caso di Esiodo rientra del resto in una ti64. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, cit., p. 148. 65. Allucinazioni che inaugurano poteri sciamanici; esperienze allucina­ torie vissute nei rituali eleusini o durante le consultazioni oracolari come quello di Trofonio a Lebadea, descritto da Pausania, di cui diremo nel pros­ simo capitolo. 66. Come le allucinazioni iniziatiche di cui parla nelle sue memorie det-

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pologia allucinatoria testimoniata anche in altri casi. Su Pin­ daro si trasmette una tradizione secondo la quale egli vide la Madre degli Dei in forma di statua e nei santuari d'incubazio­ ne si registrando innumerevoli comparse di Asclepio nel son­ no, o anche in uno stato allucinario che è definito "tra il sonno e la veglia", di cui parla abitualmente Elio Aristide. La spiegazione avanzata da Dodds pone questi fenomeni in relazione a fatti della metapsichica e a una pretesa predisposi­ zione della mente primitiva ad allucinazioni e immagini vivide. Tuttavia, si può forse andare oltre. In un libro che a suo tempo ha sollevato discussioni, Julian Jaynes, che fu psicologo dell'Università di Princeton, ha avan­ zato l'ipotesi che allucinazioni e fenomeni extrasensoriali che compaiono nelle letterature più antiche (sumera, egiziana e in modo più visibile nella poesia omerica) non sono idee poetiche, ma la descrizione di fenomeni reali: i poeti hanno descritto esperienze di cui essi e il loro pubblico erano consapevoli, espe­ rienze organizzare su basi culturali che consistono nel proiet­ tare su una figura divina fenomeni allucinatori della psiche. Questi avrebbero origine in un'area specifica del cervello e l'i­ potesi di Jaynes è che quest'area avesse un particolare svilup­ po nell'organizzazione della coscienza di società arcaiche, tra le quali anche la società guerriera dell'Iliade. Egli definisce que­ sto tipo di forma mentale "mente bicamerale" (bicameral mind) ;67 secondo il suo parere, l'autocoscienza dei personaggi dell'Iliade si costruisce quindi in modo fondamentalmente di­ verso dalla nostra. In questo, i dati che abbiamo trattato sopra sull'organizzazione degli stati mentali in Omero con il richia­ mo agli "organi parziali" della mente concordano con la teoria di Jaynes, secondo la quale l'uomo omerico non possiede una mente cosciente soggettiva: la volizione, i progetti e l'iniziativa sono organizzati in altre aree della coscienza trasferite però a una forza divina esterna. tate a un osservatore esterno uno sciamano sioux chiamato Alce Nero; vedi I.G. Neihardt, Alce Nero parla, tr. it. Adelphi, Milano 1968, pp. 179-190. 67. J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza, tr. it. Adelphi, Milano 1996.

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I fenomeni allucinatori sarebbero un'esperienza situata in una speciale zona del cervello che Jaynes identifica con l'area di Wernicke (situata nell'emisfero destro mentre l'area del lin­ guaggio o area di Braca è nel sinistro) ; lo studioso ipotizza che quest'area fosse, per ragioni culturali, molto più svilup­ pata in tempi passati, così da costituire una forma di linguag­ gio non verbale ma immaginifico che interagiva fortemente con la parte cosciente e volontaria della mente. La mente del­ l'uomo omerico appare come un impasto di consapevolezza, volontà immediata, istinto, immaginazione allucinatoria; egli vive e si orienta nel mondo non solo pensando in modo ri­ flessivo, ma anche seguendo voci interiori e impulsi auditivi che si formano all'interno della sua mente. Come il pubblico che ascolta i rapsodi è in grado di vedere immaginificamente le azioni di cui sente raccontare (siamo, non bisogna scordar­ lo, nell'ambito di una comunicazione costruita sulla perfor­ mance orale), così l'eroe "vede" e "sente" le sue emozioni e i suoi conflitti non in termini puramente psicologici, indistinti e astratti, ma sensoriali. Certo è che l'esperienza visionaria è sperimentata in modo più frequente di quanto si creda anche nel mondo moderno da persone normali: secondo una statistica elaborata verso la fine del XIX secolo, accade a circa l'otto per cento dei soggetti ma­ schili (il dodici nelle donne).68 La percezione delle "voci", a volte dialoganti e diverse nel­ lo stesso soggetto, a volte in conflitto tra loro (come accade agli eroi che fanno operare due diversi thym6i nel loro animo, in si­ tuaioni di estrema tensione) è un fenomeno che oggi viene fat­ to rientrare nella patologia, per esempio, di persone psicotiche e schizofreniche, oppure nell'esperienza parapsicologica di veggenti e sensitivi. C'è da chiedersi se ciò che è patologico o marginale nella nostra cultura fosse nella Grecia arcaica una forma più abituale di operazione mentale. 68. H. Sidgewick, "Report on the census of hallucinations", in Proceedings o/ the Society /or Psychical Research, 34, 1894, pp. 25-394; questo e altri dati sulle voci extrasensoriali in soggetti psicotici sono ricavati da}. J aynes, Il crol­ lo della mente bicamerale, cit., specialmente pp. 111-17 1.

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LA FOLLIA DEI PRETENDENTI

Un caso esplicito di cedimento della mente, forse il più evi­ dente nei poemi omerici, si trova nel xx canto dell'Odissea ed è un episodio per molti aspetti sorprendente e inatteso, uno dei più misteriosi di Omero. 69 L'episodio descrive una scena di delirio collettivo con la "perdita dell'anima" di chi ne è vittima: Ai pretendenti Pallade Atena ispirò un riso incontenibile, de­ viò loro la mente. Essi ridevano ormai con mascelle non loro, mangiavano carni insanguinate, i loro occhi erano pieni di la­ crime, l'animo pianto voleva. (Omero, Odissea, 20, 345-349)

Nei versi successivi, il veggente Teoclimeno, presente alla scena, trae lo spunto da quanto ha visto per una profezia sulla morte dei pretendenti, che effettivamente sarebbe avvenuta entro breve tempo: Ah, sciagurati, che malanno è questo che vi tocca? Sono av­ volte di tenebra le vostre teste, i volti e sotto le membra: fiam­ meggia un gemito di lutto, le guance sono rigate di lacrime, le mura e le travi grondano sangue, il portico è pieno di ombre, ne è pieno il cortile: si awiano all'Erebo, nella tenebra eterna, il sole è scomparso dal cielo, incombe una funesta caligine. (Omero, Odissea, 20, 3 5 1 -357)

La visione di Teoclimeno trova una singolare corrispon­ denza con quanto Plutarco racconta a proposito della profe­ tessa di Apollo Liceo in Argo: costei un giorno si precipitò per le strade gridando di vedere la città ricolma di morti e di san­ gue.70 Lo stesso schema visionario si riscontra pure nelle paro­ le della folle Cassandra nell'Agamennone di Eschilo, poco pri69. Su questo episodio vedi G. Guidorizzi, "The laughter of the suitors: A case of collective madness in the Odyssey" , in L. Edmunds, R.W. Wallace, Poet, Public and Performance in Ancient Greece, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1997, pp. 1-7 . 7 0. Plutarco, Vita di Pirro, 31; vedi anche E.R. Dodds, I Greci e l'irrazio-

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ma di essere uccisa: anch'ella vede, nel suo delirio allucinato­ rio, il sangue e le ombre dei figli di Tieste sedute silenziosa­ mente davanti alla reggia in attesa della vendetta: Vedete questi giovani seduti accanto al palazzo, pallidi come ombre di sogni? Come bambini uccisi dai loro parenti, hanno le mani piene di carni e di viscere - il loro corpo che fu divo­ rato dal padre! (Eschilo, Agamennone, 12 17 - 1220)

Queste situazioni appartengono alla medesima categoria psicologica di quella di Teoclimeno e si potrebbero considera­ re forme di allucinazioni indotte secondo schemi culturali, di­ pendenti dalla credenza che le ombre (o éidola) si aggirino si­ lenziose e invisibili e annuncino al veggente le sciagure che stanno per compiersi. Il veggente Teoclimeno, al pari della sa­ cerdotessa di Argo e della profetessa troiana, è posto improv­ visamente davanti a un crepaccio della realtà, attraverso il qua­ le filtrano figure provenienti dalla sfera della morte. I pretendenti, dopo queste parole, tornano in sé e riassu­ mono il loro atteggiamento violento e arrogante, immemori di quanto è appena accaduto; anzi, ora essi ridono "dolcemente" e uno di loro ritorce l'accusa di follia sul veggente Teoclimeno: "È folle l'ospite arrivato da poco ! " (aphrdinei xénos; Odissea, 20, 360). Teoclimeno in effetti è fuori di sé, ma per un motivo differente da quello che i pretendenti gli rinfacciano con scher­ no: è fuori di sè perché le sue capacità estatiche di profeta lo trasformano in un visionario ispirato. L'aspetto più strano di tutta la situazione è la descrizione della straniata esaltazione dei pretendenti e dei tratti patologi­ ci in cui si esprime la loro allucinata allegria. Essi sono visti in uno stato di dissociazione mentale, che si manifesta attraverso una serie di sintomi: repentino mutamennale, cit., pp. 87-88, il quale ritiene che siano visioni simboliche: si tratta in­ vece di allucinazioni che esprimono direttamente e concretamente, senza nessuna elaborazione simbolica, sia le fantasie del veggente sia la loro realiz­ zazione immediata.

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to del comportamento, attribuita all'intervento di una divinità che "fa deviare il senno" alle sue vittime. 7 1 Questo verbo (che non va considerato una semplice me­ tafora, ma il riflesso di un preciso schema di credenze) descri­ ve in termini di dislocazione spaziale lo smarrimento della co­ scienza nel quale i pretendenti sono precipitati in seguito al­ l'intervento di una divinità; corpo e mente (noema) appaiono scissi e quest'ultima "non si trova più lì". È appunto con la stes­ sa idea che anche in epoca successiva vengono descritti i casi di possessione divina, in cui le vittime sono "tagliate fuori dalla lo­ ro mente" (pardkopoi phren6n). 72 I pretendenti perdono il controllo del loro corpo e offrono uno spettacolo perturbante e patologico. Il loro volto si defor­ ma, le mascelle "non appartengono più a loro"; il loro riso è convulso, intrattenibile (dsbeston), gli occhi sono stravolti e pie­ ni di lacrime. Sono i sintomi di una crisi di possessione in cui la scissione tra sfera fisica e sfera psichica si può definire con l'i­ dea di "entusiasmo" e attribuire all'intervento di un demone o una divinità. Senofonte descrive in modo simile il volto di chi è vittima di una crisi di possessione: "Tutti coloro che sono pos­ seduti dagli dei offrono uno spettacolo impressionante: essi presentano lo sguardo mostruoso della Gorgone". 7 3 In sostanza, l'accesso di delirio che afferra i pretendenti pre­ senta tutte le caratteristiche di un caso di possessione colletti­ va: viene attribuito a un intervento demonico, si verifica im­ prowisamente, senza apparente ragione, e subito invade come un contagio i soggetti presenti; comporta una completa scis7 1. Il verbo impiegato (parapldzo) è usato per designare una deviazione concreta e materiale di un oggetto rispetto alla sua linea: per esempio, una freccia che devia dal bersaglio, una nave che si allontana dalla giusta sua rot­ ta; vedi anche Odissea, 9, 81; Iliade, 15, 464. L'impiego metaforico di questo verbo per descrivere fenomeni di turbamento psicologico è più diffuso in età successiva: vedi Pindaro, Olimpica, 7, 31 e Nicandro, Theriaka, 757. 7 2. Per esempio, Euripide, Baccanti, 33. 7 3. Senofonte, Simposio, 1, 10. Altre testimonianze descrivono in termi­ ni simili accessi di crisi convulsive nel corso dei riti di trance (per esempio, Euripide, Baccanti, 1122) oppure nei casi, più pacifici, in cui si descrive l'e­ saltazione di un poeta mentre viene "posseduto" (secondo la terminologia platonica) dalle Muse: vedi Platone, Ione, 535 b.

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sione della personalità con effetti psicosomatici convulsivi, e infine, quando l'individuo che ne è vittima riacquista la co­ scienza, non conserva memoria di quanto è accaduto e anche l'amnesia al termine della crisi appartiene alla sintomatologia universale della trance estatica.74 I pretendenti ridono e man­ giano "carni insanguinate" (cioè crude) come avviene nel caso dei riti dionisiaci. 75 Si tratta di una situazione estranea al mon­ do psicologico rappresentato nell'epica greca arcaica. Una condizione psichica simile a quella descritta nel passo omerico trova paralleli in zone dell'Asia, dalla Siberia alla Ma­ lesia ; è definita in vari modi dalle lingue locali e si presenta an­ ch'essa come un tipo di disturbo etnico: è chiamata dai Male­ si latah, dagli yacuti amurak, dai Tungusi olon. Si tratta di fe­ nomeni che entrano nella generica categoria dei fenomeni di "perdita dell'anima". Tale situazione consiste essenzialmente in un improvviso assalto psicomotorio che senza alcuna appa­ rente motivazione determina una scissione dei comportamen­ ti nell'individuo che ne è vittima, e si trasmette contagiosa­ mente ad altri, lasciando al suo concludersi l'individuo imme­ more di quanto sia accaduto. "Una persona latah, ove la sua at­ tenzione sia attratta dal movimento oscillatorio dei rami scos­ si dal vento imiterà passivamente tale movimento; due latah sorpresi da un rumore improvviso entrarono in uno stato di automatismo mimetico reciproco, nel quale per circa mezz'o­ ra l'uno continuò ad imitare i gesti dell'altro." 76 Il carattere più significativo di questa condizione psicologi­ ca è appunto l'accesso di ecocinesia e di ecolalia che afferra collettivamente coloro che "perdono l'anima". 77 7 4 . Per esempio, Euripide, Baccanti, 1259- 1327. 75. Forse il rapsodo che scrisse questi versi aveva appunto in mente uno schema culturale preciso: il sacrificio cruento di carne cruda, che veniva pra­ ticato in ambito dionisiaco. M.P. Nillsson, Geschichte der Griechischn Reli­ gion, Beck, Munich 1961, voi. I, pp. 156-57 2s.; G. Guidorizzi, "The laugh­ ter of the suitors: A case of collective madness in the Odyssey", cit. 7 6. E. De Martino, Il mondo magico, Einaudi, Torino 1 97J 2 , p. 91. 77. Un caso interessante di olonismo collettivo si svolse durante la para­ ta di un battaglione cosacco della Transbaicalia composto interamente da in­ digeni. Essi entrarono repentinamente nella condizione olon; invece di ese-

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Lo sprofondare collettivamente in uno stato di scissione psi­ cologica, con effetti psicosomatici più o meno violenti, e il rie­ mergerne in stato di amnesia, sono modelli comportamentali che appartengono alla struttura stessa degli stati di trance; or­ dinariamente ciò avviene nel corso di un rituale, ove gli stati di trance sono organizzati nel corso di un rito estatico. Possono tuttavia verificarsi spontaneamente, e in questi casi sono gene­ ralmente definiti "prepossessione" oppure "stati di possessio­ ne non ritualizzata". 78 I pretendenti, "separati dalle loro menti", vittime di un de­ lirio collettivo che ne stravolge i lineamenti, vivono quindi la stessa esperienza (dal punto di vista psicologico) di coloro che partecipano a un rituale estatico: perdono l'anima, per inter­ vento divino.

guire i comandi del colonnello, che era un russo, presero a ripeterli ecolali­ camente: "Naturalmente il colonnello andò in collera e coprì di ingiurie i suoi uomini, i quali, sempre nello stesso stato o/on ripetevano anche le in­ giurie". E. De Martino, cit., p. 92, che cita S.M. Shirokogoroff, The Psycho­ mental Complex o/the Tungus, Kegan Paul, London 1 935. Questi fenomeni sono compresi nella più vasta categoria definita "isteria artica", per cui vedi D.F. Aberle, "Arctic hysteria and latah in Mongolia", in Transactions o/ the New York Academy o/Sciences, II, 1952, pp. 291-2 97 . 7 8. Vedi G. Rouget, Musica e trance, tr. it. Einaudi, Torino 1 986, soprat­ tutto alle pp. 67-72 e 94-98.

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4 STRATEGIE DELLA TRANCE

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