Competitività urbana e policentrismo in Europa. Quale ruolo per le città metropolitane e le città medie 8815253270, 9788815253279

Le crescenti difficoltà dei distretti industriali e la sempre più urgente domanda di innovazione spingono ricercatori e

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Competitività urbana e policentrismo in Europa. Quale ruolo per le città metropolitane e le città medie
 8815253270, 9788815253279

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Competitività urbana e policentrismo in Europa Quale ruolo per le città metropolitane =

e le città medie

a cura di

Chiara Agnoletti Roberto Camagni Sabrina Iommi — Patrizia Lattarulo

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PERCORSI Economia

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I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

COMPETITIVITÀ URBANA E POLICENTRISMO IN EUROPA Quale ruolo per le città metropolitane e le città medie

A CURA DI CHIARA AGNOLETTI, ROBERTO CAMAGNI, SABRINA IOMMI E PATRIZIA LATTARULO

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività

della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN

978-88-15-25327-9

Copyright © 2014 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo — elettronico, meccanico, reprografico, digitale — se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Premessa, di Roberto Camagni e Patrizia Lattarulo i. Le città protagoniste dello sviluppo: solo le

grandissime? 2. Innovazione,

competitività e sostenibilità nelle città di secondo livello 3. La questione urbana in Italia: riforme istituzionali, efficienza amministrativa e competitività territoriale

Dinamiche strutturali delle città di primo e secondo rango in Europa: analoghe leggi, elevate specificità, di Roberto

Camagni,

Roberta Capello e Andrea Caragliu }. Introduzione 7A Determinanti dei sentieri di crescita urbana:

oltre le economie di agglomerazione . Il modello e la descrizione dei dati

. Un modello interpretativo delle dinamiche strutturali urbane: differenze tra città di primo e di secondo rango x Conclusioni

II

Related variety e sviluppo economico in un campione europeo di regioni urbane, di Frank Van Oort, Stefan de Geus e Teodora Dogaru i È Introduzione &: Le economie di agglomerazione fra specia-

lizzazione e diversificazione . Rinnovamento e ipotesi concettuali: related e unrelated variety, specializzazione e sviluppo orientato ai luoghi

68

4.I dati e le variabili utilizzati nell’analisi empirica 5. I risultati dei modelli 6. Conclusioni

Ta

84

III. Le gerarchie urbane tra città di secondo livello nei modelli agglomerativi regionali, di Chiara Agnoletti, Chiara Bocci, Sabrina Iommi, Patrizia Lattarulo e Donatella Marinari 1. Introduzione

2. Il rango urbano: le città e la presenza di funzioni rare

3. La competitività urbana come capacità di esportare funzioni rare 4. La sostenibilità dei modelli insediativi: l’intensità del consumo di suolo 5. Frammentazione e sostenibilità territoriali 6. Conclusioni

IV.

108

Una valutazione dei sistemi urbani policentrici in prospettiva nazionale, regionale e metropolitana, di Monica Brezzi e Paolo Veneri . Introduzione . Sviluppo policentrico e aree urbane funzionali . La scala metropolitana . Le reti di città: il policentrismo regionale . Sviluppo policentrico nazionale . Conclusioni SNAU1DAWUNI

Prestiti di scala, ombre delle agglomerazioni e attrattività culturali nell'Europa nord-occidentale, di Martijn ]. Burger, Evert ]. Meijers,

Marloes M. Hoogerbrugge e Jaume Masip Tresserra

161

1. 2. 3. 4.

161 167 176 184

Introduzione L'approccio di ricerca I risultati empirici Conclusioni

VI.

Lo sviluppo metropolitano policentrico: dagli assetti strutturali ai processi evolutivi, di Rudolf Giffinger e Johannes Suitner 1, Introduzione È. L'interpretazione dello sviluppo metropolitano policentrico da

4.

Le fasi dello sviluppo metropolitano policentrico: un confronto fra Bratislava e Vienna Una classificazione dello Smp

5. Conclusioni

VII. Performance economica e dimensione urbana: grande, piccola o media?, di Michael Parkinson, Richard Meegan e Jay Karecha

220

229

i. La recessione e il dibattito sulla dimensione

urbana di I temi di analisi riguardanti dimensioni, inve-

stimenti e performance economiche urbane: politiche neutrali o rivolte ai luoghi . Il sostegno all'economia delle città capitali e di secondo livello nelle fasi di crescita e di recessione in Europa

. Raccomandazioni politiche ai governi sulle città di secondo livello

VII La scala urbana e metropolitana come livello ottimale di governo del territorio ai fini di competitività e crescita, di Alessandro Petretto i. Introduzione È, Ciclo e crescita economica potenziale: il ruolo

della finanza degli enti locali CA Assetti istituzionali territoriali ed efficacia delle politiche strutturali 4. Gli strumenti dell'economia pubblica locale . La nuova political economy e l'efficacia delle politiche urbane . Conclusioni

#20

IX. Smart specialization: le sfide del nuovo ciclo di programmazione comunitaria, di Nicola Bellini

Ziya

1. Introduzione

274 273

2. Smart specialization: innovazione e città 3. La governance delle politiche e i processi partecipativi

X.

4. Conclusioni

274 201

Dal policentrismo alla centralità dispersa, di Giulio Giovannoni

ZIO

1. Introduzione

219

2. Policentrismo normativo e concettualizzazione dei sistemi insediativi in Toscana 3. Trasformazioni del territorio e cultura urbanistica

. Città e campagna nell’area fiorentina . I «paesaggi di mezzo» tra vecchi e nuovi paradigmi . Dal policentrismo alla centralità dispersa . Conclusioni Nea \VTS

280 283 284 288 291 294

PREMESSA

1. Le città protagoniste dello sviluppo: solo le grandissime? Questo volume, attraverso i diversi contributi che vi sono

raccolti, affronta un tema di analisi che recentemente ha trovato, soprattutto nel dibattito economico internazionale, una nuova centralità. La riscoperta della città, avvenuta nel passato decennio, si deve alla duplice evidenza che le aree urbane da un lato rappresentano le sedi principali della crescita economica odierna, dall’altro agiscono da propulsore di uno sviluppo regionale più ampio. Questa era anche l’intuizione della rew ecorrorzio geography, che formalizzava all’interno di modelli stilizzati la ben nota esistenza di economie di agglomerazione e la tendenza verso la concentrazione dello sviluppo nelle grandi aree metropolitane, e il cui merito principale è proprio quello di aver ricondotto il tema urbano all’interno della ricerca economica mainstream [Krugman 1991; Fujita, Krugman e Venables 1999]. Anche nel più generale dibattito internazionale sulla competitività territoriale appare evidente una chiara tendenza a connotare in senso gerarchico il paradigma dello sviluppo regionale, con le città luoghi-chiave dello sviluppo, mentre le regioni circostanti vedrebbero il loro ruolo progressivamente sfumare, fino a divenire mere spettatrici del nuovo protagonismo urbano, se non pure retrovie logistiche e residenziali. Rappresentativi di quest’approccio sono i lavori di Allen Scott [2001], Manuel Castells [2002], Saskia Sassen

[2004] o Edward Glaeser [2008].

La premessa è di Roberto Camagni e Patrizia Lattarulo.

Ma se da una parte è ben vero che alcune funzioni di massimo livello in un’economia mondiale sempre più integrata — finanza, alta direzionalità e spesso anche ricerca di punta e alta tecnologia — non possono che essere ospitate e sviluppate dalle grandi città globali e che questo porta alla strutturazione attorno a esse di grandi city-regions, appare quanto meno riduttivo pensare a questo come unico modello di sviluppo possibile e perseguibile attraverso politiche pubbliche, come proposto più recentemente dalla Banca mondiale [World Bank 2009]. Un mondo di sole grandissime città? Senza alcun limite alle loro dimensioni? Un modello valido in ogni tempo, in tutti i contesti territoriali e per tutte le attività economiche? Un modello basato su una pretesa teoria — della localizzazione, della crescita — che vede le

sole economie di agglomerazione come motori di sviluppo? Ad evidenza, la risposta è no: si parli di città, grandi certamente ma anche medio-grandi e medie, o anche di dimensioni ridotte ma inserite in contesti urbani a carattere metropolitano o in strutture urbane-regionali integrate a rete; città che certamente

raggiungano una massa

critica,

economico-demografica, sufficiente per le funzioni che svolgono o che pretendono di svolgere; città dotate di un capitale territoriale qualificato e diversificato. Su questi temi, di grande interesse teorico ed empirico ma anche di interesse per le

politiche pubbliche, si è riacceso recentemente un dibattito internazionale [Abdel-Rahman e Anas 2004; Dijkstra 2009; Henderson 2010; Nijkamp e Kourtit 2012; Dijkstra, Garcilazo e McCann 2013; Camagni, Capello e Caragliu 2014].

Il risultato di questo dibattito è la nascita di una nuova geografia delle opportunità di sviluppo. In linea con quest’atteggiamento culturale, le politiche progettate e attuate da un numero

crescente di regioni, europee e no, vanno

assumendo una serie di caratteri riassumibili nella crescente attenzione alle località urbane forti all’interno di regioni più vaste e nell’enfasi sull'economia della conoscenza — che mostra un chiaro orientamento per ambienti urbani — come

leva per la crescita e la competitività. Il livello di efficienza e di benessere raggiunto dalle aree urbane è, da un lato fattore di attrattività di capitale umano e fattore esso stesso 10

di competitività — nella letteratura anglosassone — dall’altro anche componente di equità territoriale — nell’interpretazione della letteratura europea. L'Unione europea ha aperto una larga finestra di interesse per le città almeno a partire dal Forum urbano di Vienna (ottobre 1998) con la presentazione del Quadro d’azione per uno sviluppo urbano sostenibile. In quell’importante anche se ancora politicamente cauto documento (Frazzework for Action... e non certo più direttamente «Action Plan»...) si indicavano chiaramente le ragioni per un interesse alla città e i principi sui quali eventuali azioni si dovevano basare, ripresi praticamente da tutti i documenti successivi, e si indicava la necessità di mettere esplicitamente a coerenza tutte le azioni dell’Unione che atterravano su contesti urbani. Successivamente veniva introdotto l’asse urbano all’interno dei fondi strutturali 2000-2006 per giungere all’attuale riserva del 5% per le città maggiori sulla base di programmi e progetti direttamente negoziati attraverso contratti di partenariato con

la Commissione. Ma forse il documento politico e culturale di maggiore importanza sul tema è la cosiddetta carta di Lipsia, adottata nel maggio del 2007 dal consiglio dei Ministri territoriali europei (con la vistosa assenza del ministro italiano),

che indica non solo nell’efficienza e nelle funzioni economiche ma anche nella qualità dell'ambiente urbano, nella «cultura del costruito» in senso sia architettonico che urbanistico (Baukultur), nell’omogenea dotazione di servizi nei centri e nelle periferie, nella forma urbana (compatta), nei rapporti di cooperazione fra città e infine nella «lotta alla speculazione edilizia» i grandi obiettivi di una politica integrata per le nostre città, simboli primari della specificità e dell'identità europea. Nonostante l’interesse molto forte che il tema ha incontrato a livello internazionale,

e nonostante l’azione culturale

dell’ Associazione italiana di scienze regionali, assai spesso rivolta al tema urbano!, nel nostro paese la politica territoriale ! Si ricordino i volumi della collezione «Scienze Regionali» dell’Aisre, dedicati alle città: Bianchi e Magnani [1985], Curti e Diappi [1990], Costa e Toniolo [1992], Lombardo e Preto [1993], Cappellin, Ferlaino e Rizzi [2012], nonché un manuale di economia urbana [Camagni 1992].

Il

ha sostanzialmente dimenticato quest’'importante attore della crescita e dello sviluppo. Solo in due casi e per pochissimo tempo l’Italia ha avuto un ministero o un dipartimento per gli Affari urbani, e ciò non è stato probabilmente ininfluente sul fatto che, negli anni più recenti, l'economia regionale ha faticato a individuare o recepire nuovi temi di riflessione e nuovi strumenti di analisi. Diversamente dalla positiva integrazione storica fra economia urbana e geografia e sociologia urbana, l’integrazione con altre discipline complementari e fondamentali, come l’urbanistica o la scienza delle finanze

per la parte della spesa pubblica e della tassazione, è stata difficoltosa e incompleta, andando così a pregiudicare in Italia il dispiegarsi di un vero e proprio dibattito sulle prospettive, in senso strategico, dei principali centri e aree

metropolitane del paese. L'attuale fase di sviluppo economico, caratterizzata dalle crescenti difficoltà dei tradizionali distretti industriali, da una crescente domanda di innovazione e dalle potenzialità aperte da una riforma, ancora da maturare, sulle città metro-

politane ha dunque spinto solo negli ultimi anni ricercatori e policymakers a interrogarsi sull’adeguatezza dell’attuale configurazione urbana e a chiedersi se, piuttosto, non siano necessarie importanti riforme, e, se sì, in quale direzione. Sul fronte politico, ci piace ricordare la realizzazione del Comitato interministeriale per le politiche urbane e del relativo dipartimento a opera del governo Monti all’inizio del 2013 — due istituti che dovrebbero essere più a fondo utilizzati dal governo attuale. Sul fronte delle analisi e della loro possibile applicazione alle politiche per le città, questo volume vuole costituire un costruttivo contributo. 2. Innovazione, competitività e sostenibilità nelle città di secondo livello

Il tema della dimensione ottima delle città ha riscosso un nuovo e crescente interesse dalla fine degli anni Novanta, ed è stato affrontato tanto dal punto di vista degli effetti di diverse configurazioni urbane sulla crescita, quanto dal 12

punto di vista delle implicazioni in termini di qualità urbana e di equilibrio territoriale [Capello 1998; Camagni e Capello 2000; Archibugi 2002; Camagni 2010; Camagni, Capello e Caragliu 2013]. — Applicata al contesto europeo, la ricerca attorno all’identiticazione della struttura urbana ottimale si allarga all’ambito delle città di secondo livello, non solo nello studio della contigurazione policentrica delle aree metropolitane [Cattan et al. 1999; Burger, Van Oort e Van der Knaap 2010], ma anche delle grandi regioni urbane caratterizzate da assenza di evidenti gerarchie. Strutture policentriche sono perseguite in termini di policy sia all’interno di grandi regioni urbane attraverso lo strumento, concettuale e operativo delle «reti di città» — i réseaux de villes della Délégation à l’aménagement du territoire et à l'action régionale (Datar) francese degli anni Novanta, gli Stadtenetze del Bundesinstitut fùr Bau-, Stadt- und Raumforschung (Bbrs), l’Istituto federale tedesco

per l’organizzazione del territorio — sia all’interno dell’intero sistema urbano europeo alle diverse scale territoriali come prerequisito per uno sviluppo sostenibile ed equilibrato. In termini puramente economici, le città medie possono raggiungere efficienza e competitività grazie a diversi fattori o processi: attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro con altre città all’interno di più ampie regioni («reti di complementarietà»); attraverso cooperazioni a rete con cit-

tà ugualmente specializzate («reti di sinergia», ad es. fra città turistiche o fra città direzionali o finanziarie) [Camagni 1993]; attraverso la vicinanza di città maggiori all’interno di vaste aree metropolitane o megalopoli, «prendendo loro a prestito» popolazione (il fenomeno della borrowed size, identificato da Alonso [1973] e successivamente elaborato da Meijers [2013] e da Burger e? a/. in questo volume) o funzioni di rango elevato (borrowed functions: Camagni, Capello e Caragliu [2014]). In termini di policy, un sistema policentrico a rete (il polycentrisme maillé di Louis Guigou [1993]) viene oggi esplicitamente preferito a un sistema urbano eccessivamente primaziale, almeno a partire dallo Schezza di sviluppo dello spazio europeo [Commissione europea 1998].

13

La necessità di crescente selettività nelle politiche e di massima efficacia sul piano della competitività territoriale, indotte dalla lunga e persistente crisi economica, ripropongono oggi con nuova urgenza il tema di politiche place-based [Barca 2009; Oecd 2011], basate cioè sulle specificità dei

luoghi, e in particolare politiche di specializzazione su vocazioni urbane locali (smart specialization) e di utilizzo di tecnologie avanzate per rispondere a nuove domande e nuovi bisogni (smzart cities). Questo tema è tanto più

importante nel momento cui i fondi europei diventano in molti paesi l’unica risorsa per gli investimenti pubblici e un importante sostegno all'innovazione del sistema economico. Quale strategia adottare nell’utilizzo delle risorse e quale strada seguire nell’incentivare la crescita del sistema sono, dunque, temi di discussione particolarmente importanti nel dibattito scientifico e politico e il giudizio sulla performance relativa di diverse componenti del sistema urbano diviene cruciale (per un’analisi a scala regionale si veda anche Irpet [2010a; 2010b]).

In questo volume sono stati raccolti i contributi più attuali del dibattito scientifico in corso in Europa, in larga parte frutto del lungo lavoro e dell’ampia raccolta informativa nata all’interno del progetto Espon. Questo costituisce la principale esperienza di analisi congiunta a scala europea, che ha visto il coinvolgimento di esperti del mondo acca-

demico e della ricerca provenienti dai diversi paesi. Molti contributi qui raccolti beneficiano di questo comune think tank e si integrano in modo complementare, fornendo una lettura molto articolata del ruolo delle città di secondo livello nella competitività territoriale. In particolare, dopo il primo lavoro rivolto a un’analisi strutturale dei costi e dei benefici legati a diverse dimensioni urbane (cap. I), i contributi successivi (capp. II-V) sono

mirati a sviluppare innovative

concettualizzazioni

della competitività urbana, a indagarne i fattori di crescita e ad analizzarne gli impatti di lungo periodo, anche in termini di capacità di fronteggiare la crisi. Seguono due lavori più specificatamente rivolti a suggerimenti di policy (capp. VI-VII), basati su una notevole quantità di evidenze

14

empiriche alla scala dei diversi paesi europei. Infine una parte del volume è dedicata alle specificità del nostro paese

(capp. VII-X). La pressione della crisi in Italia è a tutt'oggi

particolarmente pesante, e così la necessità di riforme, mentre le proposte e il dibattito appaiono spesso deboli. Da qui l’attenzione dedicata negli ultimi capitoli del volume alla situazione italiana, con specifici contributi sul tema delle ritorme istituzionali, delle politiche comunitarie di smart specialization e sulla pianificazione urbanistica. Questi costituiscono, dunque, tre approfondimenti su ciascuno dei principali ambiti delle politiche pubbliche di riassetto dei sistemi urbani nel nostro paese. Tutti i lavori, anche alla luce del contesto generale in cui si collocano, si focalizzano sul ruolo delle città di secondo livello nella crescita e competitività dei territori, come stra-

tegia di uscita dalla crisi. Ciascuno di essi offre, però, propri spunti di riflessione e approtondimento che, nel complesso, presentano una lettura molto articolata e coerente delle questioni aperte e delle politiche. Il primo capitolo (Camagni, Capello e Caragliu) apre il volume presentando un’analisi strutturale delle economie/ diseconomie di agglomerazione. Questo lavoro critica l'assunto di un’unica traiettoria di sviluppo, valida per tutte le città e soprattutto l’idea che solo la dimensione urbana conti nella performance delle città. Esso fornisce, per la prima volta, con un’analisi sulle città europee, solide evidenze di rendimenti prima crescenti e poi decrescenti per ciascuna classe dimensionale di città, ma indica anche, per ciascuna classe, la

possibilità di evitare la fase dei rendimenti decrescenti grazie a precise strategie di upgrading funzionale e di cooperazioneintegrazione con altre città. La capacità delle città di fare rete, di inserirsi nel sistema dei collegamenti internazionali e di attrarre o sviluppare nuove più elevate funzioni economiche costituisce la leva strategica per affrontare la possibile decrescita, ricollocandosi su nuovi sentieri di sviluppo. La portata innovativa di questa concettualizzazione è evidente, e le implicazioni politiche sollecitano una persistente attenzione alla scala locale e agli investimenti nelle città di primo come di secondo livello, con l’obiettivo di superare un comune 15

rischio di stasi e finanche di declino, dagli impatti negativi per tutto il territorio coinvolto. Il secondo capitolo (Van Oort, de Geus e Dogaru) si occupa della competitività urbana affrontando il dibattito tra specializzazione e varietà funzionale. In questo lavoro si presenta un'originale concettualizzazione basata sulla definizione di «varietà correlata» (related variety) e si dimostra che la varietà funzionale è un fattore di crescita tanto più efficace quanto più coinvolge ambiti affini tecnologicamente. Questo consente una più rapida trasmissione dell'innovazione e una sua più diffusa acquisizione. L'affermazione poggia sul confronto fra casi di specializzazione funzionale, che consente una maggiore innovazione di prodotto con effetti di breve sull'occupazione, e casi di varietà funzionale, che consente

una maggiore diversificazione e reattività di fronte alla crisi. Nel terzo capitolo Agnoletti, Bocci, Iommi, Lattarulo

e Marinari guardano alle relazioni tra città e all’effetto di sistema sulla crescita regionale. In particolare, le autrici si interrogano sulla sussistenza di gerarchie urbane tra le città di secondo livello e sulla presenza di funzioni urbane rare — tra specializzazione e varietà funzionale — come fattore di competitività territoriale. Anche in questo caso viene affrontano un tema nuovo nel dibattito vengono proposte nuove chiavi interpretative e aperti nuovi spazi per le politiche. Attraverso il confronto tra alcune regioni italiane policentriche viene riscontrata la maggiore competitività e capacità di esportazione da parte dei sistemi urbani caratterizzati da una struttura gerarchica più solida o da sistemi dove coesistono un centro urbano ricco di funzioni rare (metropolitane) e più centri ugualmente solidi seppure caratterizzati da maggiore specializzazione funzionale. Queste stesse realtà urbane e i loro sistemi territoriali presentano una migliore performance anche sul fronte della sostenibilità territoriale. I suggerimenti di policy riguardano, dunque, un consolidamento delle polarità centrali ricche di funzioni qualificate e il rafforzamento delle specializzazioni dei centri urbani minori appartenenti allo stesso sistema.

Il capitolo successivo (Brezzi e Veneri) approfondisce metodi e strumenti di analisi del policentrismo a diverse 16

scale territoriali: metropolitana, regionale e nazionale. Da questo lavoro emerge una solida evidenza dell’effetto sulla competitività di sistemi policentrici collocati in una rete di relazioni a scala nazionale e internazionale. Il contributo di Burger e altri guarda alle aree metropolitane e all'influenza dei nuclei centrali sulle reti di polarità collegate. Le città metropolitane, pur di diversa scala, spesso «coprono» con un’«ombra di agglomerazione» (agglomeration shadow) le realtà circostanti, impedendone il pieno sviluppo. In altri termini, le reti di città afferenti ad un’area metropolitana vengono coinvolte nel bacino di gravitazione della città centrale, subendone l’effetto centripeto sulle funzioni di maggior valore aggiunto; un effetto contrario a quello, citato, di borrowed size/functions, che pure si verifica quando la città centrale decentra all’esterno funzioni residenziali e produttive anche di rango elevato, ma che si manifesta più raramente. Questa valutazione poggia sull’analisi di una funzione urbana particolare: quella culturale, una funzione altamente simbolica per i suoi effetti sull’attrattività di capitale umano qualificato e particolar mente centralizzata. I due lavori che seguono (Giffinger e Suitner; Parkinson, Meegan e Karecha) pongono l’enfasi sulle politiche e sottolineano, anche attraverso

una rilevante mole di dati e

informazioni quantitative, la capacità di reazione alla crisi da parte delle città di secondo livello. Da qui la necessità di mirare le politiche anche su questa scala urbana. Come già considerato, la parte finale del volume è rivolta più specificatamente al contesto del nostro paese. La profondità della crisi in atto, da un lato, e l’urgenza delle riforme continuamente rinviate dall’altro, rendono utile e

necessario affrontare alcuni temi del dibattito nazionale. In particolare, negli ultimi tre capitoli vengono centrate le principali criticità della fase attuale: il processo di riforma degli assetti istituzionali verso modelli più adeguati all’attuale struttura urbana, che si scontra oggi con il tentativo di ri-accentramento di funzioni e responsabilità in mano al governo nazionale, sulla base di ipotesi di risparmi di spesa molto discutibili (Petretto); la governance più adatta ad 17

un efficace utilizzo dei fondi strutturali, necessariamente

vicina alla dimensione regionale e locale al fine di poter meglio interpretare la domanda territoriale e le sue priorità (Bellini); la ridefinizione concettuale degli spazi interni alla città metropolitana,

nella lettura urbanistica,

che meglio

interpreti la necessità di favorire e rafforzare le identità e le specificità delle aree esterne periurbane, al fine di un più efficace governo del territorio. 3. La questione urbana in Italia: riforme istituzionali, efficienza amministrativa e competitività territoriale

La riflessione sulle nostre città parte dalla considerazione, da più autori condivisa, che la politica economica e territoriale nel nostro paese abbia troppo a lungo trascurato la dimensione urbana [Calafati 2010]. Nello stesso tempo, e forse anche per questo motivo, l'espansione urbana e la crescita economica non sono state seguite nel tempo da un’idonea evoluzione istituzionale. Un fallimento che impedisce oggi di sfruttare appieno le interdipendenze e complementarietà effettivamente esistenti nei nostri sistemi urbani e metropolitani, e di perseguire, ai livelli di governance adeguati, il rilancio delle città e il loro posizionamento nelle reti internazionali dei sistemi urbani. Esiste oggi l'evidenza, e anche la coscienza, che nel nostro paese si sia sottoinvestito nelle città da almeno un ventennio, un sottoinvestimento accentuatosi con la crisi attuale e la crisi specifica della finanza locale. Fra il 2008 e il 2012 la spesa in conto capitale delle amministrazioni locali, da quelle regionali a quelle municipali, è diminuita del 23% mentre quella dei comuni da sola è diminuita del 35% [Cogno e Piazza 2013; Lattarulo, Bocci e Taddei 2013]. Le pressioni del mondo economico e del contesto internazionale spingono, oggi a valorizzare le potenzialità dei nostri territori, migliorandone la capacità competitiva. Questa raccolta di saggi si colloca, dunque, in un momento particolarmente opportuno, potendo fornire riferimenti scientifici

e metodologici al dibattito in avvio nel nostro paese. 18

L'urgenza delle riforme nasce, oggi, dalla necessità di superare il ritardo creatosi negli anni e di rafforzare la capacità competitiva dei nostri territori attraverso la valorizzazione della funzioni strategiche di valenza internazionale proprie alle aree centrali [Lattarulo 2012]. Su di queste grava il peso di assetti istituzionali non ottimali che rappresentano un’inefficienza per l’amministrazione e un costo per la collettività tanto nell’offerta dei servizi a individui, famiglie e imprese,

quanto nelle scelte di pianificazione territoriale [Iommi 2013; 2014]. Confini amministrativi

oggi superati segmentano

artificialmente spazi urbanisticamente continui, impedendone una pianificazione unitaria. Non mancano gli esempi, anche recenti, di scelte pianificatorie guidate da logiche di concorrenza fiscale, inefficienti e incoerenti rispetto a politiche di area vasta. Ne sono un esempio diffuso il sorgere di centri commerciali vicini tra loro e in prossimità dei confini comunali o la competizione fra comuni per attrarre attività

economiche e soprattutto commerciali, concedendo sconti, che divengono

cumulativi,

sugli oneri di urbanizzazione.

Insorge, conseguentemente, la difficoltà di operare scelte strategiche per lo sviluppo urbano soprattutto nelle poche aree di possibile espansione, dove invece spesso confluiscono gli interessi contrapposti di più amministrazioni [Agnoletti e Lattarulo 2014]. Per comprendere come sono cambiate le nostre città e come si sono ampliati gli spazi di vita quotidiana al di fuori dei confini comunali è possibile fare riferimento all’evoluzione demografica del trascorso decennio. Maggiori livelli di accessibilità, migliore dotazione infrastrutturale di collegamento, da un lato, e alti valori immobiliari nelle aree urbane

centrali dall’altro, hanno spinto parte della popolazione a spostarsi verso i comuni di cintura, in cerca di migliore qualità della vita e miglior rapporto qualità-prezzo delle abitazioni. I confini della città si sono, quindi, ampliati al di fuori dei perimetri storici, mentre sul capoluogo continua a gravare la domanda di servizi della popolazione residente e di quanti vivono la città quotidianamente. La nascita di nuove polarità commerciali e per il /oisir aumenta gli spostamenti su distanze sovracomunali anche per motivi legati al tempo 19

libero: acquisti, sport, fruizione culturale. In risposta alle nuove esigenze abitative, la crescita insediativa si sviluppa prevalentemente nelle aree periurbane, ancora libere e fuori dai confini della città consolidata [Iommi e Lattarulo 2011; Iommi, Lattarulo e Zetti 2011].

Nelle dieci città che la nuova legge 56/2014 individua come metropolitane, l’ultimo censimento indica che fra il 2001 e il 2011 tutto lo sviluppo demografico è concentrato nelle corone (salvo che nel caso di Reggio Calabria), mentre in alcuni casi le città centrali subiscono forti perdite (Genova, Venezia, Napoli e in misura più limitata Milano). I posti di lavoro invece mostrano tendenze più variegate: a Milano e Genova crescono esclusivamente al centro; a Roma

crescono in modo più equilibrato fra centro e periferia; a Torino decrescono sia al centro che in periferia; in tutte le altre città decrescono al centro e aumentano nelle corone [Casueci e Leon 2014]; Emergono evidenti i limiti di un assetto di governance e istituzionale inefficiente e incapace di governare l'evoluzione

urbana e di elaborare le adeguate scelte economiche e di pianificazione. La proposta di riforma più urgente nel nostro paese,

rivolta a incidere sugli attuali assetti urbani, riguarda indubbiamente la costituzione delle città metropolitane, realizzata con la legge ora citata. Le nuove istituzioni dovrebbero operare per il rafforzamento dei territori consolidando nuove capacità competitive negli spazi internazionali. A questo scopo, si vuole rivolgere l’attenzione ad alcuni aspetti che emergono nell’attuale dibattito con maggiore insistenza. In primo luogo, i confini amministrativi dovrebbero essere commisurati ai nuovi spazi di vita urbani e proporre soluzioni innovative rispetto al passato. La scorciatoia di confermare assetti preesistenti, adottando un’unità territoriale già costituita, quella provinciale, rischia di adattarsi in modo imperfetto ai nuovi spazi di vita imponendo ambiti di

governo non ottimali. Il ricorso a delimitazioni storicamente superate — certamente più efficiente dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa — comporta la rinuncia ad un più diretto legame tra unità di governo e città reale,

20

rinunciando a ricomporre i nuovi confini dettati dall’evoluzione urbana. In secondo luogo, per governare processi complessi l’unità amministrativa e politica deve godere dell’autorevolezza derivante dalla rappresentatività politica e dall’attribuzione di funzioni proprie altamente strategiche, tali da poter agire sui fattori della competitività territoriale e dell'innovazione. Quale struttura e quali incentivi, dunque, dovrebbero essere adottati per il consolidamento di funzioni strategiche di tale portata e la risoluzione dei tradizionali conflitti dettati dalla frammentazione politica locale? L'intento molto ambizioso di creare uno «strumento di governo in grado di essere motore di sviluppo e di inserire le aree più produttive nella grande rete del mondo» guarda ad un modello istituzionale forte, un livello di governo cui delegare competenze comunali e regionali, dotato di funzioni di gestione, di programmazione e di pianificazione di area vasta, capace di interpretare i nuovi bisogni dell'economia e della società e di rilanciare nuove e ampie progettualità. Tra le funzioni fondamentali, quella di pianificazione territoriale e quella di sviluppo economico meritano particolare attenzione, in quando stanno alla base delle successive scelte infrastrutturali, di valorizzazione produttiva, di attrattività

degli investimenti internazionali. Ma esse sono tanto più rilevanti in quanto si collocano, già oggi, al centro dei cruciali processi di composizione di aspri conflitti incrociati, espressione di giochi di forza della politica.

Quanto all’autorevolezza che sembra indispensabile, un ente di secondo livello, quale quello prefigurato dalla legge, non sembra fornire le necessarie garanzie di indipendenza dagli interessi dei singoli comuni, e anzi porrebbe il sindaco metropolitano in conflitto di interessi col suo ruolo di sindaco

della città centrale. Anche in termini di rappresentatività politica, l’elezione diretta del sindaco della città metropolitana appare l’unico modello istituzionale efficace. Il percorso in questa direzione, pure previsto dalla legge, dovrebbe essere semplificato e definito temporalmente, rinunciando per tutte le città metropolitane alla condizione di spacchettamento del comune centrale (esclusa nel caso delle città maggiori), Zi

una condizione che residua da vecchie e controproducenti soluzioni giuridiche. Una funzione di pianificazione di area vasta relativamente e potenzialmente forte è prevista dalla legge, ma risulta indebolita dalla già rilevata debolezza istituzionale. Una funzione di vero governo dello sviluppo economico è anch'essa prevista ma, per effetto del visibile conflitto con

un diverso obiettivo della legge, quello della riduzione della spesa pubblica, non sono fornite le necessarie risorse, e le città metropolitane si trovano assegnato un unico strumento,

quello della pianificazione strategica, peraltro già disponibile in passato e non certo risolutivo. Infine, non si vedono neanche indicativamente citate attribuzioni di funzioni dal livello superiore, regionale, né dal livello inferiore, municipale, in

contraddizione con quanto è invece previsto nella nuova legislazione francese, del tutto coeva alla nostra.

In questo quadro, la fiscalità urbanistica troverebbe un adeguato ambito di applicazione al livello metropolitano, sia come strumento di finanziamento proprio di questo fondamentale livello di governo, sia anche come strumento

di governo del territorio. La fiscalità urbanistica — oneri di urbanizzazione 27 primzis — neanche negli anni della massima espansione edilizia ha trovato un’adeguata definizione nel nostro paese, con l’obiettivo primario di finanziare la città pubblica riportando alla collettività una parte dei plusvalori generati dall'azione amministrativa e dall’uso del patrimonio pubblico [Camagni 2012; Agnoletti 2013; Lattarulo 2013; Agnoletti e Ferretti 2014]. Infine, nella direzione di una decisione pubblica più trasparente e condivisa si pongono le necessarie procedure di partecipazione dei cittadini, già molto diffuse in altri paesi e utili al consolidamento di un nuovo civismo, sulle quali la legge non interviene. Nel momento in cui scriviamo questa nota (estate 2014)

un’importantissima finestra di potenzialità è consentita dalla legge: la definizione, lasciata aperta e singolarmente differenziata per ciascuna città, degli statuti metropolitani. Si tratta di un'opzione giuridicamente innovativa e operativamente cruciale, date le molte debolezze della legge generale, che 22

sceglie di delegare responsabilità e iniziativa ai territori. Sta alle singole città capoluogo e alle relative regioni utilizzare in modo adeguato questa possibilità, interpretando le specificità dei singoli territori ma soprattutto interpretandone le necessità e le priorità d’azione, e dimenticando per un momento i potenziali conflitti di interesse politico fra le due istituzioni. Sta alle singole città capoluogo e alle relative regioni accogliere le istanze delle forze produttive e sociali del territorio, determinate a sfruttare ogni fattore d’impresa e di sistema per uscire dalla crisi. Oppure rispondere di fronte a queste dell’ennesima occasione perduta di modernizzazione del sistema amministrativo e istituzionale del paese. La prospettiva di policy è chiara: se l’Italia vuol puntare, come accade in altri paesi, sulle città come motore della crescita è necessario e urgente intervenire sull’attuale frammentazione amministrativa in modo radicale. Ciò può essere raggiunto aggregando, riorganizzando e anche eliminando i comuni attuali in favore di nuove unità di governo la cui competenza territoriale sia corrispondente a quelle che, di fatto, sono oggi le «città reali». Soluzioni che privilegiano la cooperazione volontaristica e il puro coordinamento strategico

tra unità politico-amministrative che permangono distinte ma non sembrano all’altezza della sfida che l’attuale sistema del

governo locale si trova a fronteggiare, una sfida che riguarda non solo lo sviluppo economico ma contestualmente la qualità del territorio e il benessere collettivo. Riferimenti bibliografici Abdel-Rahman, H.M. e Anas, A. Theories of systems of cities, in Handbook of Regional and 2004 Urban Economics, a cura di J.V. Henderson, Amsterdam,

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CAPITOLO PRIMO

DINAMICHE STRUTTURALI DELLE CITTÀ DI PRIMO E SECONDO RANGO IN EUROPA: ANALOGHE LEGGI, ELEVATE SPECIFICITÀ 1.

Introduzione

Negli anni Settanta, l'economia urbana standard teorizzava che le economie di agglomerazione guidassero la nascita e il successo delle città nel lungo periodo, così come il loro

declino, quando i rendimenti crescenti si trasformano in diseconomie legate alla dimensione urbana. Quest’approccio, noto come la teoria della dimensione ottima della città,

interpretava le dinamiche urbane come una legge naturale universalmente valida, giustificando l’ipotesi, comunque astratta, dell’esistenza di una dimensione ottima della città.

Se infatti le città condividono la stessa funzione di produzione, deve esistere un'unica dimensione «ottima» della città,

raggiunta da tutte le città quando i benefici e costi marginali di localizzazione si uguagliano. Nel tempo, molte critiche sono state sollevate alla teoria della dimensione ottima della città, a partire dallo stesso autore che più ha contribuito alla popolarità del concetto di dimensione ottima, William Alonso [1971]. Queste critiche si

concentrano sull’osservazione che le città svolgono funzioni diverse, sono caratterizzate da diverse specializzazioni e di conseguenza operano con differenti funzioni di produzione [Henderson 1974; 1985; 1996]. Nelle parole di Richardson

[1972, 30; trad. degli autori]: «Ci possiamo aspettare che il numero di dimensioni efficienti della città vari, anche in modo sostanziale, a seconda delle funzioni e della struttura

Questo capitolo è di Roberto Camagni, Roberta Capello e Andrea Caragliu, Politecnico di Milano. Esso costituisce la versione italiana di un articolo che apparirà nella rivista «European Planning Studies», in corso di pubblicazione.

29

delle città analizzate». Nel mondo reale, non ci si potrebbe mai attendere che la dimensione ottima di tutte le imprese si raggiunga per lo stesso livello di output; pertanto, perché si dovrebbe ritenere che esista un’unica dimensione ottima per diverse città allo stesso livello di popolazione? In questa letteratura, quindi, si ipotizza che ciascuna città operi con proprie curve di costo e di beneficio, ottenendo così una specifica dimensione ottima per ogni città. In un precedente lavoro, gli stessi autori abbandonano da un lato l’idea che esista una sola dimensione ottima della città, dall’altro anche l’opposta visione che esistano infinite dimensioni urbane ottime, una per ciascuna città — una vi-

sione che annullerebbe ogni possibilità di comparabilità e di giudizio critico sulla dimensione e la dinamica urbane [Camagni, Capello e Caragliu 2013a]. In quel lavoro, si ipotizza che le città possano essere comparate, poiché condividono le funzioni di beneficio e di costo di localizzazione urbana,

essendo tuttavia caratterizzate da un’eterogeneità nella presenza dei singoli fattori di costo e beneficio; ciò permette pertanto analisi empiriche in cross-section. Ciascuna città mantiene le propria specificità e unicità; di conseguenza, le viene assegnata una propria dimensione «di equilibrio» determinata attraverso un modello econometrico ottenuto uguagliando i costi e i benefici marginali della dimensione urbana. Una simile filosofia viene applicata in questo lavoro, con l’obiettivo di dimostrare che se è vero che le economie di agglomerazione hanno un ruolo nello spiegare la performance delle città, esse non si manifestano univocamente lungo

l’intero spettro delle dimensioni urbane possibili e non si comportano nello stesso modo in classi dimensionali diverse quando si trasformano in diseconomie di scala. Il punto di partenza è riconoscere l’esistenza di classi di dimensioni differenti di città (piccola, media e grande) e l’idea che ognuna di queste classi comprende città di simile struttura. Nella realtà, infatti, le grandi città sono despecializzate in termini di settori di attività e ospitano anche funzioni e professioni di alto livello; le città di medie dimensioni sono in genere più specializzate e nei settori di specializzazione 30

presentano elevata performance; le piccole città, infine, ospitano principalmente kr0-hozw e attività di basso livello [Conti e Dematteis 1995].

In una visione semplificata, la presenza di economie di agglomerazione è data per scontata nelle piccole e nelle medie città, mentre solamente per le grandi città ci si pone il problema di un'inversione della curva dei rendimenti di scala urbani. Secondo una visione più articolata, la congettura teorica di questo capitolo è che lo sfruttamento delle economie di agglomerazione sia relativamente semplice all’interno di ciascuna delle tre-quattro classi dimensionali tradizionali, ma che d’altra parte specifiche diseconomie di agglomerazione possano presentarsi anche in città piccole e medie. Ciò tuttavia implica l’esistenza di alcuni fattori che limitano o facilitano l'ottenimento di economie di agglomerazione quando la dimensione della città si avvicina ad un punto critico o di instabilità. Pertanto, le città possono sperimentare una battuta d’arresto nel loro percorso di crescita e persino un calo, indipendentemente dalla loro classe dimensionale, in assenza di questi fattori condizionanti l'efficienza delle economie di agglomerazione. Questi fattori non hanno vera natura quantitativa, ma piuttosto qualitativa; un vero salto di qualità nella dotazione di tali fattori è dunque necessario per certi intervalli specifici, al fine di permettere che le economie di agglomerazione manifestino appieno i loro benefici effetti. La qualità delle attività e dei fattori di produzione ospitati, la densità di collegamenti esterni e delle reti di cooperazione, la qualità delle infrastrutture urbane — in termini di mobilità sia interna che esterna, come anche in termini di istruzione

superiore, nei servizi pubblici offerti — sono tutti fattori abilitanti che consentono un processo di «dinamica strutturale» (nel linguaggio dell’ecologia matematica e della teoria del caos) attraverso cui si manifesta un processo di innovazione

urbana in ciascuna categoria di città. L'obiettivo di quest’analisi non è tanto l’identificazione del comportamento di una singola città, quanto piuttosto il comportamento delle singole categorie di città, che condivi-

dano caratteristiche e dimensioni comuni. In questo senso, la spiegazione di una dinamica economica urbana positiva

31

non è meccanicamente legata all'esistenza di economie di agglomerazione; al contrario, questo lavoro mette in evidenza a quali condizioni le economie di agglomerazione si possono manifestare e possono essere sfruttate all’interno di ciascuna classe di dimensioni urbane. Questo lavoro ha importanti implicazioni teoriche, concettuali e normative. I concetti di economie di agglomerazione e diseconomie vengono applicati a tutta la gamma di classi

di città, essendo tuttavia legati alla presenza di condizioni specifiche di contesto che sono tipiche di ciascuna classe di dimensione urbana. In ogni classe dimensionale, leggi simili regolano i percorsi evolutivi delle città - rendimenti crescenti e decrescenti, necessità di innovare in determinate

fasi critiche — manifestandosi tuttavia a diverse dimensioni urbane. Le analisi empiriche supportano tali affermazioni. La spiegazione delle economie di agglomerazione non è legata solamente alla dimensione della città. Al contrario, vengono identificate specifiche caratteristiche urbane, come la presenza di funzioni di alto livello e di reti di cooperazione tra città, come i principali fattori che generano rendimenti crescenti. Inoltre, il ruolo di tali caratteristiche urbane nello

spiegare i rendimenti crescenti ricorda che le ragioni per l’esistenza di economie di agglomerazione si trova nelle caratteristiche territoriali di una città, piuttosto che nelle esternalità pecuniarie generate dall’interazione di mercato fra imprese che sfruttano individualmente economie di scala [Krugman

1991].

Il capitolo è strutturato come segue. Il paragrafo 2 presenta brevemente le recenti analisi empiriche che spiegano i processi di crescita urbana con l’esistenza di economie di agglomerazione, riassumendo gli strumenti concettuali esistenti che permettono di superare una visione tradizionale del ruolo delle economie di agglomerazione nella crescita urbana. Il paragrafo 3 presenta il ricco database usato per le nostre analisi empiriche, effettuate su un campione di 136 città europee di diverse dimensioni. Il paragrafo 4 discute invece la nostra analisi econometrica, mentre il paragrafo 5

presenta delle riflessioni conclusive. 32

2.

Determinanti dei sentieri di crescita urbana: oltre le eco-

nomie di agglomerazione

L'interesse per il ruolo delle città nello spiegare la performance economica nazionale non è affatto nuovo ed è sempre stato oggetto di studio importante per l'economia urbana e la geografia economica. Negli anni Novanta, grazie ad alcuni fondamentali contributi [ad es. Glaeser et al 1992], si è registrata una rinascita dell’interesse nel ruolo delle città nello spiegare la performance economica nazionale; tale rinascita è stata seguita da più recenti lavori, che si concentrano in particolare sulla realtà del Nord America [Sassen 2002; Rosenthal e Strange 2004; Glaeser 2008]. Questo rinnovato interesse per il ruolo delle città nello spiegare la performance economica nazionale è non solo dovuto ad una moda accademica [Henderson 2010], ma trova

evidenza empirica sui cambiamenti reali nel ruolo delle grandi città nel guidare le economie nazionali [Nijkamp e Kourtit 2011; 2012]. Per lungo tempo, negli ultimi vent’anni del secolo scorso, le grandi città europee (e non solo europee) hanno beneficiato di due principali fattori esogeni che favoriscono le loro prestazioni: la nascita e il consolidamento

del paradigma delle tecnologie della comunicazione (Ict), che sono state rapidamente utilizzate per rilanciare le attività urbane dopo il precedente periodo di deindustrializzazione, e il lancio del progetto di un mercato unico europeo da

parte del presidente Jacques Delors nel 1985, che ha determinato un enorme afflusso di investimenti diretti esteri nelle grandi città europee [Camagni 2001]. D'altra parte, la crisi economica degli ultimi anni ha colpito soprattutto le grandi città e le città capitali, luoghi naturali di attività economiche ad alto valore aggiunto e, soprattutto, di gran

parte delle attività finanziarie, lasciando alle città di secondo rango la palma di tipologia di area più resistente alla crisi economica all’interno delle economie avanzate. Le economie di agglomerazione sono state recentemente indicate come la causa principale per il successo delle città di secondo rango all’interno della performance economica nazionale [Dijkstra, Garcilazo e McCann 2013]. Questa 33

spiegazione non risulta convincente e rischia di risultare in un ragionamento circolare: un break strutturale — come il passaggio da economie a diseconomie di agglomerazione — vie-

ne usato per spiegare fenomeni congiunturali, senza un'in-

terpretazione del perché si debba svolgere proprio in un momento e in un luogo specifici. In effetti, sembra che due problemi siano mescolati, uno strutturale e uno relativo al ciclo economico. Il primo problema è legato all’esistenza di una spiegazione teorica del modo e delle condizioni necessari alle diverse classi dimensionali di città per sfruttare rendimenti crescenti di scala (il problema del corze); il secondo

problema riguarda invece la questione se le diverse classi di dimensione urbana siano più efficaci nei periodi di espansione o di crisi (il problema del guardo). La domanda sul corze è logicamente propedeutica e più interessante della domanda sul quando, come suggerito dal fatto stilizzato dell’esistenza di alcune grandi città ancora in grado di giocare un ruolo nelle loro economie nazionali e di alcune città di secondo rango ancora in ritardo di sviluppo. Ciò dimostra che, a parità di dimensioni urbane, le economie di agglomerazione sembrano giocare un ruolo positivo in alcuni casi e non in

altri [Camagni, Capello e Caragliu 2013b]. A nostro parere, alcune interpretazioni teoriche dei ren-

dimenti crescenti di scala urbana — che superano l’utilizzo di una singola funzione di produzione valida per l’intera gamma di dimensioni urbane e si basano sulla capacità di innovazione e di cambiamento strutturale delle città — sono già da tempo disponibili nella teoria economica urbana e meritano una dimostrazione empirica.

La prima spiegazione teorica della capacità di una città di superare le diseconomie di scala è rappresentata dal modello Supply-oriented urban dynamics (Soudy) [Camagni, Diappi e Leonardi 1986]. Il modello ipotizza che esista un intervallo «efficiente» di dimensioni della città per ogni rango gerarchico, associato a funzioni economiche specifiche per ciascun rango. In altre parole, per ogni funzione economica

caratterizzata da una specifica soglia di domanda e da una dimensione minima di produzione, esistono una dimensione minima e una massima oltre la quale le diseconomie urbane

34

di localizzazione superano i benefici produttivi tipici di tale funzione; successivamente la crescita è solo possibile innovando o attraendo nuove funzioni. Come evidenziato nella figura 1, sotto queste condizioni, per ciascuna funzione economica e ciascun rango urbano ad essa associato, è possibile definire una dimensione minima e massima in corrispondenza della quale una città opera in condizioni di etficienza (cioè con benefici netti positivi) (d;-d, per la funzione — e centro — di rango 1; d;-d, per la funzione — e il centro — di rango 2, ...). Più alti i profitti delle singole funzioni, che aumentano all’aumentare del rango, maggiore è l’intervallo di dimensione urbana efficiente associato a tale funzione. Al crescere di ciascun centro in direzione della dimensione massima compatibile con il suo rango («dinamica vincolata», legata al normale moltiplicatore urbano), si entra in un’area di instabilità (ad es., in d;-d, in fig. 1), dove la città diviene un luogo potenzialmente adatto per funzioni di ordine superiore,

differenti urbani ranghi per (Cw) localizzazione di medi costi e (By) localizzazione di medi Benefici Dimensione della città

Area di instabilità

Fic. 1. Dimensione efficiente delle città per differenti funzioni urbane. Fonte: Camagni, Diappi e Leonardi [1986].

39

grazie al raggiungimento di una soglia critica di domanda per tali funzioni. Questo salto su funzioni superiori non avviene

automaticamente": esso rappresenta invece una vera e propria innovazione urbana e viene rappresentato come un proces-

so stocastico all’interno del modello dinamico. Dunque, la possibilità di crescita nel lungo periodo di ogni città dipende dalla sua capacità di spostarsi su ranghi urbani più elevati, sviluppando o attraendo funzioni nuove e di ordine superiore («dinamica strutturale»). L’interesse di questo modello sta

nel fatto che esso supera alcuni dei limiti della teoria della dimensione ottima della città, suggerendo: — la necessità di sostituire la dimensione urbana ottimale con un intervallo di dimensioni efficienti, dove i benefici medi superano i costi medi di localizzazione;

— la necessità di concepire l’esistenza di questi diversi intervalli di dimensione urbana «efficiente» in base alle funzioni effettivamente svolte dalle città;

— la possibilità di separare i ranghi urbani dalla dimensione della città. A differenza di un approccio è la Christaller, due città della stessa dimensione (ad es., le dimensioni 4, in fig. 1) possono appartenere a due ranghi differenti (1 e 2 nell'esempio), a seconda della loro capacità di attrarre/ sviluppare funzioni superiori”; — un’interpretazione delle economie di agglomerazione di tipo dinamico, legata a processi innovativi e non al puro effetto dimensionale. Quest’approccio all'evoluzione urbana può essere facilmente applicato ad una gerarchia urbana semplificata, definita per ragionevoli classi di dimensione urbana (P, M, G), dimostrando così che un processo regolare di crescita, basato su effetti moltiplicativi e su economie di agglomerazione, può ' Come vorrebbero alcuni modelli di dinamica urbana [Allen e Sanglier 1979]; cfr. anche Capello e Camagni [2000] per una verifica empirica delle precondizioni per tali variazioni strutturali. ? Le due città saranno diverse, anche se, in termini dinamici quella appartenente al rango inferiore (R,) non crescerà ulteriormente, avendo raggiunto la dimensione massima del proprio intervallo, mentre quella che ha sviluppato funzioni superiori (legate al rango 2) crescerà, a causa della presenza di benefici urbani netti aggiuntivi ancora maggiori (profitti)

36

funzionare per ciascuna classe dimensionale all’interno del suo intervallo di dimensione specifica, ma che ogni ulteriore processo di espansione è soggetto ad un vincolo, una biforcazione nel percorso di sviluppo, un «salto» stocastico su nuove e più avanzate attività e funzioni (fig. 2). Tutto questo viene ottenuto senza tuttavia riuscire a spiegare l'ampiezza

dell'intervallo (per quale dimensione la città in ogni classe dimensionale raggiunge il suo punto di massimo), così come la velocità con cui si raggiunge la dimensione massima (la pendenza della curva logistica di benefici urbani netti). La seconda teoria utile per spiegare le determinanti delle economie di agglomerazione che vanno oltre la dimensione

localizzazione di Benefici urbani netti

Città piccole . Città medie ; |

localizzazione di netti Benefici marginali urbani Città piccole | Città medie

© i

Cinà grandi Î

| Città grandi

Dimensione della città/tempo

Dimensione della città

Fic. 2. Evoluzione delle città in una gerarchia urbana semplificata. Benefici netti urbani totali e marginali di localizzazione per classi dimensionali di città. Fonte: elaborazione degli autori.

be}

urbana è la teoria delle reti di città. Nato nel campo dell’economia

industriale

[Williamson

1985; Chesnais

1988], il

concetto di comportamento a rete — vale a dire una forma di cooperazione organizzativa, intermedia tra crescita interna o esterna dell’azienda, tra «fare» o «acquistare» — è stato trasferito nell'economia urbana e ha così fornito un quadro teorico utile per superare i limiti di potere esplicativo del modello tradizionale delle località centrali. Infatti, i sistemi

urbani reali nei paesi avanzati si sono allontanati dal modello astratto di Christaller di una gerarchia «annidata» (wested) di centri e mercati, mostrando [Camagni 1993}:

- i processi di specializzazione della città e la presenza di funzioni di ordine superiore in centri di ordine inferiore; - i legami orizzontali tra città di dimensioni simili, non previsti dal modello tradizionale: ad esempio, le reti finanziarie e direzionali tra le maggiori città mondiali o le città d’arte collegate attraverso itinerari turistici (le cosiddette «reti di sinergia») e i sistemi di città specializzate che utilizzano i vantaggi della divisione del lavoro, come il Randstad olandese o la rete di città di medie dimensioni nella regione Veneto («reti di complementarità») [Camagni e Capello 2004].

In questa nuova logica, altri elementi vengono alla ribalta al di là delle economie di scala urbane: le economie di integrazione verticale e orizzontale e le esternalità di rete, simili a quelle che emergono da «beni di club». Questi elementi determinano la possibilità per le città di raggiungere rendimenti crescenti ed economie di scala attraverso l'integrazione nelle reti — economiche, logistiche e organizzative — con altre città. Il modello delle reti di città permette alle singole aree urbane di migliorare le proprie funzioni economiche, senza necessariamente crescere di dimensione. Pertanto, le città di dimensioni intermedie sono sempre più viste come i luoghi che

potrebbero ospitare la crescita negli anni a venire: dimensioni limitate della città, infatti, facilitano l’equilibrio ambientale, l'efficienza del sistema di trasporto e consentono ai cittadini di mantenere un senso di identità, a condizione che una più elevata efficienza economica venga raggiunta mediante meccanismi di cooperazione esterna con altre città, localizzate sia nella stessa regione che in regioni lontane, ma ben collegate. 38

Alcuni recenti contributi [ad es. McCann e Acs 2011] hanno empiricamente dimostrato come la produttività urbana sia molto più strettamente legata alla connettività fra città — un concetto simile al concetto di reti di città — che alla dimensione della città, supportando in tal modo la tesi della città globale, ma anche la rilevanza delle città di medie dimensioni.

L'applicazione congiunta del modello Soudy e del paradigma delle reti di città ha implicazioni rilevanti per l’efficienza e la crescita urbane: le dimensioni e le economie di agglomerazione non sono le uniche determinanti della produttività dei fattori e della performance urbana. La presenza di funzioni di ordine superiore e l’integrazione all’interno delle reti di città sono anch'esse elementi estremamente importanti nella spiegazione del vantaggio competitivo delle città in quanto permettono aumenti di produttività anche in presenza di dimensioni urbane limitate. Ci aspettiamo che le funzioni ad alto valore aggiunto e le reti di città svolgano un ruolo di primo piano nell’interpretare l'emergere e lo sfruttamento delle economie di agglomerazione (o nell’evitare le diseconomie di agglomerazione) nelle città appartenenti a classi di diverse dimensioni. Inoltre, ci aspettiamo che le città migliori (di ogni dimensione!) risultino quelle in grado di sfruttare maggiormente i rendimenti crescenti rispetto alle altre città. Pertanto, le leggi di dinamica strutturale (cioè rendimenti crescenti o decrescenti e le loro determinanti) dovrebbero valere per tutte le città, ma con specificità per ciascuna categoria di città, avendo ciascuna classe dimensionale natura affatto diversa. Le domande di ricerca sono pertanto le seguenti: 1) una sola funzione valida per l’intero spettro delle dimensioni urbane non sembra interpretare correttamente l’esistenza di rendimenti crescenti e decrescenti nei benefici netti legati alla dimensione urbana; 2) unlivello asintotico di benefici netti urbani dovrebbe essere raggiunto all’interno di ciascuna classe dimensionale di città (in questo caso: città di primo e secondo ordine, o grandi e medie città), come nella figura 2, il che indicherebbe l’esistenza di una dimensione urbana di equilibrio in ogni classe dimensionale;

39

3) le città che presentano i migliori risultati in ciascuna classe sono probabilmente quelle in grado di rinviare e di superare l'emergere dei rendimenti decrescenti, indipendentemente dalla loro classe dimensionale, essendo pertanto in grado di sfruttare appieno i rendimenti crescenti di scala urbana; 4) la capacità di sfruttare irendimenti crescenti dovrebbe dipendere dallo sviluppo di funzioni a maggior valore aggiunto e delle reti di cooperazione esterna, sia per il secondo che per il primo rango urbano. In sintesi, leggi simili riguardanti l’esistenza di rendimenti crescenti/decrescenti caratterizzano città sia di grandi che di medie dimensioni, mentre la dimensione di ciascuna

città è vincolata da elementi strutturali e non da un’unica funzione di agglomerazione. In particolare, le dimensioni in corrispondenza delle quali le economie di agglomerazione si trasformano in diseconomie dovrebbe essere diversa per le diverse classi di città, così come l’intensità delle funzioni

e delle reti. 3.

Il modello e la descrizione dei dati

3.1. Il modello stimato

Le domande di ricerca sopra elencate vengono affrontate stimando una funzione urbana aggregata di produzione nella tradizionale forma neoclassica dei benefici medi di localizzazione (Bml). I Bml dipendono dalla dimensione della città, misurata attraverso il numero assoluto di abitanti, come suggerito nella letteratura tradizionale [Segal 1976; Marelli 1981; Sveikauskas, Gowdy e Funk 1988; Catin 1991; Rousseaux e Proud’'homme 1992; Rousseaux 1995]. Per distinguere fra rendimenti crescenti e decrescenti di scala, una forma quadratica viene imposta alla relazione fra Bml e popolazione. Inoltre, ci si aspetta che le reti e le funzioni economiche agiscano sui Bml quando si sia raggiunta una certa massa critica di popolazione; questo fatto viene catturato dal termine di interazione tra reti e funzioni, da un lato, e

popolazione, dall’altro.

40

Il modello base stimato è il seguente: Brl = cost + B.Pop + B.Pop® + B,Pop x

x Funzioni + B,Pop x Reti + &

[1]

dove i B/ rappresentano i benefici medi di localizzazione

e Pop rappresenta la popolazione. In questo lavoro è stato utilizzato un indicatore specifico di Bml netti, ovvero la rendita urbana, misurata attraverso i

prezzi delle abitazioni per metro quadro. Già utilizzato con lo stesso scopo in altri studi [Camagni e Pompili 1991; Capello 2002], quest’indicatore si basa su una fondamentale ipotesi: che le differenze fra i prezzi delle abitazioni nelle medie e nelle grandi città misurino la rispettiva attrattività relativa (e quindi i Bml), in quanto risultato di una valutazione da parte del mercato del «valore» di questi luoghi. Per lo stesso motivo, la dinamica dei prezzi delle abitazioni urbane cattura le variazioni dell’attrattività di ciascuna localizzazione e,

quindi, la dinamica urbana dei vantaggi netti). Il modello base viene stimato per tutto il campione di città, diviso in due categorie omogenee — città di primo e di secondo rango — trattate come archetipi di diverse categorie urbane; le regolarità-uniformità dipendono dalle dimensioni fisiche, come normalmente viene concettualizzato

nella letteratura di geografia economica. rango sono definite come le aree urbane Luz nel gergo Eurostat) caratterizzate da di abitanti. Le città di secondo rango sono

Le città di primo funzionali (Fua, o più di 1,5 milioni invece identificate

3} In termini dinamici, il ragionamento richiede un’altra ipotesi importante. Dal momento che l’analisi è sviluppata in termini relativi e non assoluti, tra città diverse o tra aree centrali e periferiche, si assume che per ogni dimensione relativa (città grandi e medie, centro e periferia), la curva di offerta di abitazioni abbia la stessa pendenza. Se questo non fosse vero, uno spostamento verso l’alto della curva di domanda, determinato da un maggiore apprezzamento dei vantaggi localizzativi, darebbe luogo ad un diverso aumento dei prezzi. Quest’ipotesi non limita eccessivamente il confronto tra grandi e piccole città, ma potrebbe generare una pesante distorsione nel confronto tra centro e periferia, a causa del diverso potenziale di espansione dell’offerta residenziale nelle due aree.

41

nelle Luz con un numero

di abitanti nell’intervallo da 1,5

milioni a 300.000 abitanti. Si sono effettuate stime sulla forma delle economie di agglomerazione sia sull'intero campione di città grandi e medie sia anche separatamente per le due classi di città, per verificare le ipotesi di ricerca illustrate. All’interno di ogni gruppo, le città che hanno avuto una performance migliore rispetto alla media nazionale in termini di crescita del prodotto iinterno lordo (Pil) sono state identificate e raggruppate in una du7277y, che assume valore 1 per le città che crescono sopra la media nazionale e 0 altrimenti. Per analizzare le specificità delle città, il modello di base è stato stimato nuovamente introducendo i termini di interazione tra le variabili indipendenti e le du7277y, come segue: Brnl = cost + B,Pop + B.Pop® + B,Pop x Funzioni + + p,Pop x Reti + B.Pop x D; + BPop? x D, + B-Pop x x Funzioni x D, + BsPop x Reti x D, + BD; + €

[2]

Brl = cost + B,Pop + B.Pop® + B,Pop x Funzioni + + p,Pop x Reti + p;Pop x D, + B.Pop? x D, + B.Pop x x Funzioni x D, + BsPop x Reti x D, + BD, + £ [3]

Le equazioni [2] e [3] contengono i termini di interazione con D, e D,, che rappresentano le città relativamente più performanti rispetto alla media nazionale, rispettivamente per città di primo e secondo rango (cfr. anche par. 4). Prima di entrare in dettaglio nella procedura di stima, viene qui presentato il database su cui viene stimato il modello ((par. 3.2) e vengono introdotte alcune analisi descrittive della performance urbana (par. 4), al fine di spiegare la scelta del periodo e l’identificazione delle variabili du77777y per le città con miglior performance. 3.2. Il database

AI fine di verificare empiricamente le domande di ricerca presentate nel paragrafo 2, abbiamo costruito un nuovo dataset che sfrutta i dati per le aree metropolitane di recente resi 42

disponibili da Eurostat. La tabella 1 riassume le principali fonti dei dati raccolti per le analisi qui effettuate. L'istituto statistico europeo prevede infatti una definizione dettagliata delle aree statistiche metropolitane in Europa. In particolare, i dati sulle regioni metropolitane si basano su un aggregato di regioni amministrative Nuts3 con almeno 250.000 abitanti, a loro volta basate su aree urbane di grandi dimensioni (Luz). L'obiettivo di tale classificazione statistica è di «correggere le distorsioni create da attività di pendolarismo [mediante] l’inclusione della mobilità pendolare intorno a una città» [Dijkstra 2009; trad. degli autori].

Tag. 1. I/ database

Dati

Indicatore

Pil

Pil in euro 2005 a prezzi

Fonte dei dati Anni di origine di disponibilità Eurostat

1995-2009

Eurostat

1995-2009

—Eurostat/

2004, 2011

costanti

Popolazione

Popolazione media annua dell’area metropolitana Rendita Prezzi di un appartamento fondiaria urbana di media qualità in centro città

Urban Audit* 3

Funzioni urbane

Quota di professionisti di

Labour Force

di alto livello»

alto livello sul totale della popolazione Numero di copartecipazioni a progetti Programma quadro (Pq) 5 e 6

Survey

Reti di città

Cordis

1995-2007“

1998-2002 (Pq5) 2002-2006 (Pq6)

Note: *I dati sui prezzi delle abitazioni sono stati integrati dagli autori mediante fonti nazionali. "Le funzioni di alto livello vengono definite come la categoria 1 Isco 88, che comprende «legislatori, funzionari di alto livello e manager». I dati micro sono stati aggregate a livello Nuts2 e il valore della regione Nuts2 è stato assegnato all’area metropolitana. Un elenco completo delle professioni Isco è disponibile alla url http://laborsta.ilo.org/applv8/data/ isco8$8e.html. “Sono state calcolate le medie per gli anni 1998-2002 e 2002-2006). Fonte: elaborazione degli autori.

Per queste regioni, abbiamo raccolto i dati sul Pil a prezzi correnti e la popolazione per gli anni 1995-2009. Per quanto 43

è

riguarda la popolazione, poiché i primi anni (1995-2000) non sono disponibili nel dataset Eurostat per le aree metropolitane, la popolazione nelle regioni Nuts3 che formano le aree metropolitane corrispondenti è stata aggregata secondo la classificazione ufficiale di Eurostat. Infine, i dati sul Pil sono

stati deflazionati con il deflatore Eurostat per ciascun paese incluso nell’analisi, al fine di ottenere valori di Pil a prezzi costanti 2005 (al netto delle variazioni dei prezzi all’interno di un paese, che allo stato attuale non possono venire completamente eliminate). I dati sul Pil e sulla popolazione sono stati usati per identificare le città che sono cresciute sopra o sotto la media del paese cui appartengono.

In un secondo momento, sono stati raccolti i dati necessari per stimare i modelli presentati nelle equazioni [2] e [3]. Come spiegato nel paragrafo 3.1, la rendita fondiaria

urbana rappresenta la nostra misura dei benefici medi di localizzazione urbana. La rendita fondiaria è qui misurata con il prezzo al metro quadro di un appartamento di media qualità situato nel centro di ogni città del campione. I dati, raccolti per gli anni 2004 e 2011, sono stati deflazionati con lo stesso deflatore (specifico per ciascun paese) utilizzato per correggere le distorsioni dei prezzi del Pil, al fine di utilizzare prezzi costanti con anno base 20035. Infine, per misurare le funzioni urbane è stata utilizzata la quota di professionisti di alto livello sul totale della popolazione, a partire dalla base dati micro del sondaggio Eurostat sulla forza lavoro, aggregate a livello Nuts2 (cfr. tab. 1 per maggiori dettagli). Per misurare le reti di città, si è deciso di seguire l'approccio utilizzato in Camagni, Capello e Caragliu [2013a]: le reti urbane sono dunque misurate con il numero di progetti di Programma quadro (Pq) 5 e 6, cui le istituzioni di ciascuna città analizzata hanno partecipato*. ' «I programmi quadro (Pq) rappresentano i principali strumenti di

pianificazione e le più importanti fonti di finanziamento per le politiche di R&S nella Ue; la loro missione è quella di rispondere alle sfide del processo di integrazione, indagando gli aspetti socio-economici, tecnologici, industriali e culturali della Ue» [Basile, Capello e Caragliu 2012, 710; trad. degli autori].

44

Essi rappresentano un buon indicatore della capacità di una città di impegnarsi in reti a lunga distanza volte a favorire la cooperazione scientifica e rappresentano una misura globale

della qualità e dello spessore delle reti urbane esterne. Il database è stato raccolto per due periodi di tempo, che permettono stime in panel; le variabili indipendenti sono ritardate nel tempo rispetto alla variabile dipendente al fine di ridurre problemi di endogeneità. La scelta dei due periodi è legata all’analisi dei dati del Pil per le Luz del campione nel periodo 1995-2009 e l’individuazione di due periodi (20012004 e 2008-2009), in cui il Pil delle città di secondo rango è cresciuto in media più di quello delle città di primo rango. 4.

Un modello interpretativo delle dinamiche strutturali urbane: differenze tra città di primo e di secondo rango

4.1. Le città con migliore dinamica economica: quale ruolo per i rendimenti crescenti?

La tabella 2 mostra i risultati delle stime per il modello base [eq. 1] e per le equazioni [2] e [3]. Le prime due colonne mostrano che una stima basata sul campione completo delle città (comprese le città sia di rango 1 che di rango 2) è in contrasto con le aspettative teoriche basate sulla letteratura classica riguardo l’esistenza di un massimo per la curva dei benefici medi di localizzazione

[Alonso 1971] e, semmai,

in linea con le teorie di Krugman [1991] che ipotizza solo rendimenti

crescenti. Questo risultato rafforza l’utilità di

analizzare più a fondo questo fenomeno, separando le città di rango 1 da quelle di rango 2, che evidentemente presentano caratteristiche diverse. I risultati nelle colonne 3-8 sono ottenuti separando il campione di città di rango 1 da quello di rango 2 e applicando stime a effetti random, in quanto le stime Ols non forniscono risultati significativi, mentre le stime con effetti fissi vanno

a nostro

avviso concettualmente

rifiutate in

questo tipo di esercizio. Infatti, non si comprende perché dovrebbero esistere caratteristiche per le singole città nello 45

OBULI (7 X

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195

CAPITOLO SESTO

LO SVILUPPO METROPOLITANO POLICENTRICO: DAGLI ASSETTI STRUTTURALI AI PROCESSI EVOLUTIVI 1.

Introduzione Nell'ultimo quarto di secolo, numerose trasformazioni

hanno investito le città europee. In primo luogo, l’internazionalizzazione del commercio e il conseguente drastico rinnovamento dell'economia hanno modificato radicalmente il funzionamento e l’organizzazione del sistema economico nelle agglomerazioni urbane di tutta Europa. L'intensità dei nuovi modelli migratori, la mobilità di capitali, beni e persone, l’incessante innovazione tecnologica costituiscono insieme una condizione cruciale indispensabile allo sviluppo: la globalizzazione [Dicken 1998; Held et 4/. 1999]. In secon-

do luogo, la permeabilità dei confini seguita al processo di integrazione europea tuttora in corso sta generando nuovi

modelli socio-demografici ed economici di sviluppo urbano e regionale [Kratke e Borst 2007; European Commission 2010a]. In terzo luogo, le ricorrenti crisi economiche hanno portato le città e le regioni europee a doversi confrontare con effetti politici destabilizzanti e con la rottura dei sistemi di governance multilivello e di pianificazione strategica prima in uso [Herrschel 2009; Camagni e Capello 2012].

Inoltre, le agglomerazioni urbane europee sono entrate sempre più in concorrenza tra loro per assicurarsi le funzioni «metropolitane» che costituiscono la condizione essenziale dello sviluppo urbano-regionale [Kunzmann 1996; Friedmann 2002]. Con l’integrazione sovranazionale delle politiche

Questo capitolo è di Rudolf Giffinger e Johannes Suitner, Centre ofRegional Science, Department of Spatial Planning, Vienna University of Technology. Esso costituisce la versione italiana di un articolo che apparirà nella rivista «European Planning Studies», in corso di pubblicazione.

b97

economiche, che ormai prescindono dalle distanze fisicogeografiche e dalle gerarchie urbane dei singoli paesi, si è creata una forte competizione per il riposizionamento in un sistema urbano europeo non più stabile come un tempo. Le città europee devono perciò impegnarsi attivamente per

capitalizzare il proprio potenziale e rendere fruibili quei vantaggi locali che possono costituire un fattore di attrazione di risorse umane e di investimenti di capitale nell’area [Camagni 2009]. Le città d’Europa, a seconda del loro grado di competitività, si apprestano quindi a diventare metropoli, con spinte che oltrepassano i meri confini amministrativi e che richiedono l’elaborazione di nuove modalità di governance metropolitana multilivello [Healey 1997; Parkinson 1997; Salet, Thornley e Kreukels 2003]. In questo contesto,

il

tema del policentrismo viene spesso evocato come elemento a sostegno di uno sviluppo metropolitano integrato [Espon 2005]. Le città-regione europee vengono quindi analizzate sia su scala micro, per quanto concerne il grado di integrazione dello sviluppo interno, sia su scala macro, per quanto riguarda il livello di radicamento nelle reti transnazionali e mondiali [1b/demz]. Si tratta di valutazioni che, tuttavia, spesso si soffermano ad analizzare solo le caratteristiche strutturali utili a descrivere il grado di policentrismo e di metropolizzazione, sulla cui base fornire indicazioni politico-programmatorie. I concetti di metropolizzazione e di policentrismo vengono ancora discussi come variabili analitiche indipendenti o, invece, come visioni normative dello sviluppo urbano europeo. Inoltre, il mondo accademico, che da tempo osserva

la metropolizzazione come processo evolutivo per capire come si trasformi e con quali modalità le funzioni economiche globali si concentrino in determinati luoghi [Sassen 2001; Hall e Pain 2006; Castells 2010], non presta uguale attenzione ai processi politici di pianificazione strategica e alla governance dello sviluppo metropolitano. In questo capitolo viene perciò evidenziata la dimensione evolutiva, prospettiva che si ritiene necessaria all’analisi dello sviluppo metropolitano policentrico (d’ora in avanti, Smp) per meglio comprendere sia i legami fra caratteristiche 198

metropolitane e policentriche delle città-regione, sia le relazioni di dipendenza temporale tra i diversi piani su cui il policentrismo si concretizza. Le città-regione europee fanno fronte ai cambiamenti che le investono secondo varie modalità [Marcuse e Van Kempen 2000; Kritke e Borst 2007], che implicano conseguenze diverse sul ritmo di sviluppo metropolitano. È perciò auspicabile una più alta convergenza tra gli approcci empirici attenti alle specificità dei luoghi (place-based) e le analisi delle specifiche traiettorie di sviluppo locale, dei processi di governance e delle valutazioni dello Smp da parte degli attori coinvolti. Per chiarire quest'ultima affermazione, serve in primo luogo ottrire una descrizione teorica dello Smp, basata sulle più recenti definizioni di metropolizzazione e policentrismo, e sulle presunte interrelazioni fra i due fenomeni; in seguito, viene mostrata la possibilità di introdurre la dimensione dei processi evolutivi nella valutazione degli assetti strutturali delle regioni metropolitane. Dal punto di vista empirico, partiremo da Bratislava e Vienna, due città-regione che hanno di recente lanciato un'iniziativa di governance metropolitana comune, per tentare di capire, mediante un’analisi basata su alcuni indicatori, se esse si trovano o meno in fasi diverse

del processo di metropolizzazione. Tale approccio viene poi affiancato dall'esame delle valutazioni offerte dagli attori coinvolti!, che ci permette di porre in rilievo l’importanza delle specificità locali riguardanti attitudini, riflessioni e percezioni sullo Smp al fine di proporre serie indicazioni di pianificazione per le aree metropolitane. In secondo luogo, scopo di questo lavoro è verificare a livello europeo la correttezza dell’ipotesi secondo la quale lo Smp attraversa diverse fasi. A tal fine, viene condotta una cluster analysis che applica gli indicatori già proposti ad un campione di 50 città-regione europee. In definitiva, vogliamo qui mostrare che le regioni urbane possono essere classificate sulla base

di alcune caratteristiche del processo di metropolizzazione

! Le valutazioni dello Smp nelle città di Bratislava e Vienna sono state raccolte in alcuni workshop condotti con la partecipazione degli attori locali, nell’ambito nel progetto Espon Polyce [Espon 2012].

199

e che i gruppi risultanti denotano diverse fasi di Smp; ne consegue che le politiche territoriali europee andranno incoraggiate a riconoscere più apertamente le specificità locali

e a intensificare la ricerca empirica su base locale.

2. L'interpretazione dello sviluppo metropolitano policentrico

2.1. Il concetto di metropolizzazione Il processo di metropolizzazione, le sue forze trainanti e il suo impatto sullo sviluppo urbano sono stati oggetto di un intenso dibattito sul piano scientifico e della programmazione a partire dagli anni Ottanta. Per far fronte alla crescente globalizzazione delle attività economiche, ai progressi delle Ict e alla trasformazione dei modi di produzione, distribuzione e consumo, il processo di metropolizzazione è presto divenuto un tema di discussione dominante in vari settori degli studi urbani [Friedmann 1986; Thornley 2000; Sassen 2001]. Inol-

tre, la mutevolezza dei contesti geopolitici delle città europee è un fattore che acuisce l’importanza di tale dibattito ai fini del loro stesso sviluppo. La caduta della cortina di ferro e il processo di integrazione europea hanno comportato nuove opportunità e prospettive per moltissime città, facendo vacillare le gerarchie urbane e le posizioni date per acquisite. Le recenti evoluzioni a livello di concorrenza di mercato e di opportunità di cooperazione hanno subito attratto nuove attività, mettendo nel contempo a dura prova la governance urbano-regionale [Giffinger 2005; Hamilton, Dimitrovska e Pichler-Milanovic 2005; Hall e Pain 2006]. Nel frattempo, come osserva acutamente Castells [2010], il dibattito accademico ha introdotto una distinzione fra due principali approcci ai processi di metropolizzazione. Da un parte, si sottolinea il primato dell'economia della conoscenza globale come forza trainante per la crescita delle città metropolitane, ma limitatamente a pochi nodi importanti sulla carta del mondo [Hall e Pain 2006]. La centralità dei nuclei urbani esisterebbe dunque ancora, ma sostenuta dalle funzioni suppletive svolte nei centri minori di nuova 200

specializzazione della regione; di conseguenza, l'emergere di nuovi centri minori subentra al fenomeno dello spraw/ urbano. D'altra parte, Castells sostiene che «l'elemento cruciale della società organizzata in rete è la possibilità di collegare locale e globale» [2010, 2740]. I luoghi sono cioè collegati fra loro in virtù del contributo offerto alla qualità della rete, che a sua volta dipende in larga parte dalle reti locali. Il processo di metropolizzazione è allora guidato dall’interazione fra i rapporti globali e i rapporti locali, interazione che incide sullo sviluppo spaziale e socio-demografico della città-regione. Entrambi i tipi di rete richiedono notevoli livelli qualitativi delle Ict e delle infrastrutture dei trasporti per favorire sia l'accessibilità internazionale sia l'interazione locale face-to-face.

Dal punto di vista delle specificità locali, le reti globali e il processo di integrazione europea sono considerati fattori critici nel creare un clima di competizione fra città, per cui il sistema urbano europeo è sottoposto a una duplice metamorfosi. La prima è dovuta al fatto che non tutte le città sono in grado di rispondere alle attuali necessità di sviluppo. Il rinnovamento dell'economia, le nuove funzioni economiche, il potenziamento delle attività a elevato contenuto di conoscenza, l'immigrazione e il crollo delle industrie ad alta intensità di lavoro hanno un impatto determinante sullo sviluppo socio-spaziale di una regione metropolitana: ne deriva che, in termini economici e sociali, vi saranno fra

le città e i quartieri vincenti e sconfitti [Fainstein, Gordon e Harloe 1992; Sassen 2001; Kratke e Borst 2007]. La seconda

metamorfosi riguarda il fatto che le città già affermate devono affrontare una difficile prova, scontrandosi con l’accresciuta concorrenza per accaparrarsi le funzioni economiche, culturali e politiche prima loro attribuite e ora riassegnate, su scala mondiale, a un esiguo numero di poli [Sassen 2001; Kratke 2003; Hall e Pain 2006; Castells 2010]. Il motore principale del processo di metropolizzazione sta quindi nell’attribuzione di funzioni altamente complesse e specializzate; per ottenerle, le città non dovranno più risultare attraenti come nodo urbano, ma come parte di una più ampia regione, che consenta di allocarle nelle aree che offrono più alti vantaggi

comparati e, quindi, la possibilità di favorire l'interazione fra 201

attori delle reti globali e peli In base a questi argomenti, è possibile definire le caratteristiche essenziali del processo di metropolizzazione, che sono: - allocazione delle funzioni economiche (nuove e specializzate) e della popolazione come fattore di crescita e conquista di spazi della regione metropolitana [Friedmann 1986; 2002; Geyer 2002; Hall e Pain 2006];

- esercizio di funzioni di comando e controllo su reti globali di flussi materiali e immateriali ad altissimo grado di connettività fra nodi urbani [Keeling 1995]; — innovazione tecnologica e rinnovamento

economico

mirato ad attività con elevato contenuto di conoscenza in settori-specializzati dell'industria e dei servizi [Kratke e Borst 2007; Castells 2010];

— processi di segregazione o frammentazione socio-spaziale derivanti dall’accresciuta polarizzazione sociale e dalla sostituzione delle vecchie funzioni urbane con funzioni economiche di pregio [Marcuse e Van Kempen 2000; Sassen 2001].

Un aspetto particolare che emerge dal concetto di metropolizzazione è la disgregazione spaziale delle funzioni specializzate, la quale è reputata importante per la crescita e, parallelamente, per il conseguimento della competitività e della coesione. Il concetto di policentrismo viene quindi richiamato spesso come fattore fondamentale per lo sviluppo metropolitano. Numerosi studi evidenziano l’aumentato decentramento delle funzioni metropolitane, che vengono oggi assolte da centri urbani minori [Kratke 1995; Kunzmann 1996; Friedmann 2002; Espon 2005; 2006; 2012]; tuttavia,

poiché questi ultimi sono il risultato dell’interazione fra reti globali e reti locali, lo sviluppo metropolitano va interpretato come la convergenza spaziale fra dimensioni urbane appartenenti a reti globali multilivello. In quest'ottica, lo sviluppo policentrico rappresenta un piano particolare del contesto spaziale in cui si attua la crescita urbana, il quale

va sostituendo il modello urbano-regionale dello sprawl con quello del policentrismo morfologico e funzionale. Una più precisa definizione del concetto e l’importanza che esso riveste nei processi di metropolizzazione vengono discusse nel prossimo paragrafo. 202

2.2. Il concetto di policentrismo La formazione delle regioni metropolitane non può essere spiegata da un punto di vista analitico, né affrontata da un punto di vista strategico senza tener conto delle specifiche

configurazioni spaziali e funzionali che esse assumono. «A partire dagli anni Ottanta», affermano Roca Cladera, Duarte e Moix, «lo sviluppo urbano ha prodotto nelle aree metropolitane delle trasformazioni strutturali sostanziali, non più spiegabili alla luce dei modelli tradizionali» [2009, 2842]. Gli autori proseguono la riflessione portando l’attenzione proprio sull'assetto policentrico delle aree metropolitane, in cui il contributo di nuovi centri minori è sempre più determinante, in termini sia di performance economica sia di stabilità del sistema urbano [Riguelle, Thomas e Verhetsel 2007; Roca Cladera, Duarte e Moix 2009; Camagni, Capello

e Caragliu 2013]. Nella sua formulazione più semplice, si indica con il termine policentrismo una situazione in cui l'assetto e lo sviluppo di un’area metropolitana non sono determinati da un solo polo, ma da una pluralità di nodi [Roca Cladera,

Duarte e Moix 2009; Espon 2012]. Oggi, il policentrismo viene esaminato da angolature diverse e considerato ora come un concetto analitico in grado di determinare il livello di integrazione multiscalare delle regioni urbane metropo-

litane [Espon 2012; Kramar e Kadi 2014], ora come un fine prescrittivo volto a mitigare le problematiche insite nel processo di metropolizzazione [Councils of Ministers 2011]. Il rapporto finale di Espon 1.1.3 mette in luce tale dualità: «Il concetto di policentrismo può essere inteso sia come processo evolutivo sia come fine prescrittivo da raggiunge-

re, il cui scopo dichiarato è ridurre le disparità regionali e accrescere la competitività e l’integrazione» [Espon 2006,

12]. Si è aperto tuttavia — nonostante la lunga premessa di discussioni teoriche e applicazioni pratiche — un dibattito critico sui possibili impatti negativi del policentrismo in termini di crescita urbana, competitività territoriale e sviluppo spaziale equilibrato [Vandermotten et 4/ 2008; Herrschel 2009: Maier 2009]. A parte queste perplessità, le strategie 203

territoriali mettono in risalto come la realizzazione di assetti di questo tipo possa potenziare la competitività e smorzare gli effetti collaterali dello sviluppo metropolitano, accentuando anzi la coesione delle aree interessate. «Gli amministratori tendono oggi a ritenere che il modello policentrico non sia un semplice caso isolato, proprio perché può ridurre gli squilibri fra le città dominanti e “il resto”» [Herrschel 2009, 243]. Il policentrismo è diventato un fine prescrittivo sempre più diffuso nelle strategie di sviluppo urbano ed europeo, proprio in quanto elemento utilizzabile nelle proiezioni di crescita territoriale [European Commission 2010b; Council of Ministers 2011; Espon 2012].

Il concetto racchiude tuttavia diverse sfaccettature, che risultano utili a valutare il livello di integrazione delle agglomerazioni urbane. Per descrivere la conformazione policentrica di un territorio vengono osservate di norma diverse scale: micro, meso e macro.

Su scala micro, il po-

licentrismo indica il livello di integrazione interna di una regione metropolitana, cioè di una città e dei suoi dintorni. Su scala meso, esso definisce le reti urbane nazionali più

dense, nonché quelle situazioni più sporadiche di forte relazione transfrontaliera

fra territori contigui

(ad es., le

cosiddette aree di integrazione policentrica, Polycentric integration areas — Pia); un caso spesso citato per il buon

grado di integrazione è quello della rete urbana nazionale della Slovenia [Espon 2012]. Infine, su scala macro, il policentrismo descrive l’inserimento delle regioni metropolitane in più ampie reti urbane a livello transnazionale o mondiale; un esempio riportato di frequente è quello del cosiddetto «Pentagono»? [Espon 2005; 2006]. Una distinzione ugualmente importante riguarda invece la qualità del policentrismo. Lo Smp è già stato oggetto di numerose descrizioni, che si sono avvalse di formulazioni 2 Il Pentagono,

formato

da Londra,

Amburgo,

Monaco,

Milano e

Parigi, città in cui risiede circa un terzo della popolazione dell’Unione europea, rappresenta il cuore politico-economico dell'Europa, in cui si posizionano i poli di sviluppo e gli snodi infrastrutturali che dovrebbero assicurare un maggior equilibrio al continente [N.4.C].

204

teoriche molto distanti le une dalle altre, dipendenti dall’ambito di analisi e dai dati disponibili, che spesso derivano da una scelta mirata alla verifica empirica di determinati assetti policentrici. In questo capitolo non intendiamo proporre una rassegna esaustiva della letteratura teorica sul policentrismo, su cui peraltro la ricerca scientifica attuale si è già impegnata approtfonditamente [Vandermotten e? a/ 2008; Kramar e Kadi 2014]. Piuttosto, avanzeremo una distinzione fra tre tipologie fondamentali di policentrismo, traducendone i diversi approcci in detinizioni operative, utili in questa sede, ma anche ai fini di una riflessione empirica sul tema?: - Policentrismo morfologico: delineazione di gerarchie urbane basate sulle dimensioni; rappresentazione strutturale, a prescindere dalle relazioni internodali; definizione di cittàregione in base alle specificità locali e loro distribuzione rango-dimensione sul territorio metropolitano; — Policentrismo funzionale: realizzazione di reti infrastrut-

turali, flussi e interazioni fra nodi urbani come indicatori delle relazioni inter-urbane; infrastrutture tecniche, distanza,

pendolarismo giornaliero, attività di creazione di reti economiche, scientifiche e socio-culturali come altri indicatori; — Policentrismo strategico: individuazione dei rapporti

politico-istituzionali in base ai processi della politica e ai documenti strategici sullo sviluppo; visione cognitiva dello Smp da parte dei principali attori coinvolti nei processi strategici di sviluppo urbano; cooperazione inter-urbana, creazione di reti strategiche fra comuni, accordi di pianificazione.

Descrivere su scala micro l’assetto policentrico di una città metropolitana ben integrata a livello regionale sembra abbastanza semplice in prospettiva morfologica e funzionale, ma diventa più problematico in un'ottica strategica o politica, poiché gli attori coinvolti sembrano avere percezioni piuttosto diverse riguardo a ciò che una regione metropolitana dovrebbe contenere dal punto di vista spaziale, funzionale, economico e politico. Oltretutto, già da tempo è emerso un } La distinzione qui operata si basa sulle seguenti fonti: Espon [2005;

2006; 2012]; Geppert [2009]; Maier [2009]; Kramar e Kadi [2014].

205

contrasto fra obiettivi basati su diverse definizioni di città

metropolitana, che è vista, da una parte, su scala micro, come

agglomerazione funzionalmente integrata (orientamento al

welfare e all’inclusione sociale) e, dall’altra, su scala macro,

come città competitiva (orientamento alla concorrenza) [Espon 2006; Herrschel 2009]. Poiché tanto l’assetto morfologico quanto i collegamenti funzionali possono essere presupposti determinanti per un progetto di policentrismo strategico, è necessario che tali elementi vengano colti, in prima battuta, proprio dagli attori rilevanti. Perciò, le analisi dei recenti processi di Smp dovrebbero cercare di mettere a confronto dato empirico e strategia per vedere se — ed eventualmente come — le autorità responsabili percepiscano correttamente le condizioni attuali di sviluppo e le valutino attentamente alla luce dei diversi ritmi e fasi di Smp. Da qui, si comprende l’importanza di adottare un'ottica evolutiva per definire il concetto di Smp, interpretando i diversi piani del policentrismo come fattori interrelati temporalmente e logicamente dipendenti l'uno dall’altro. 2.3. L'adozione di un'ottica evolutiva nell'analisi dello svi-

luppo metropolitano policentrico Nella maggior parte dei dibattiti scientifici, i concetti sopra esposti —metropolizzazione e policentrismo — sono considerati fattori che influiscono sullo sviluppo urbano in modo interdipendente [Kratke 1995; Roca Cladera, Duarte e Moix 2009; Castells 2010]. La ricerca recente ha dimostrato

invece come nei dibattiti di programmazione e nella pratica dello sviluppo urbano essi vengano spesso trattati come temi a se stanti. Si tratta di approcci che tendono a valutare lo Smp in prospettiva solo strutturale, senza esaminarne a fondo le radici, che affondano nel contesto delle singole cittàregione e delle diverse fasi di metropolizzazione in cui esse si trovano [Espon 2012]. Tutto questo, nonostante sia noto

che lo sviluppo urbano, e quindi quello metropolitano, sono fenomeni path-dependent [Moulaert e Jessop 2013], i cui esiti sono sempre di natura contestuale. Le premesse geopolitiche

206

ed economiche che hanno segnato nell'ultimo secolo le cittàregione europee sono state di varia natura e hanno seguito

sentieri di sviluppo difformi, contraddistinti da specifiche esperienze e modalità di risposta [Kratke 2007]. Inoltre, le relazioni di dipendenza temporale e logica fra i diversi piani dello sviluppo policentrico non vengono analizzate, nonostante la loro importanza come elementi conoscitivi sia fondamentale per l’implementazione delle strategie di sviluppo territoriale. È perciò nostra opinione che vadano oggi potenziati gli approcci allo Smp che ne mettono in luce i processi evolutivi e rendono esplicite tali relazioni di dipendenza reciproca. Per provare quest’ultima affermazione, una prima verifica è otferta dalla possibilità di ipotizzare — come già sostenuto da diversi studiosi [Kunzmann 1996; Leroy 2000] — che esista un’interrelazione fra processo di metropolizzazione e sviluppo policentrico su scala sia macro che micro. Quantomeno a livello micro, infatti, lo sviluppo di una grande città metropolitana è un fenomeno condizionato per sua natura dalla presenza di una regione policentrica, e ciò per vari motivi — per esempio,

l'attrazione esercitata da un’area metropolitana che si estende oltre il nucleo cittadino, o il potenziale di crescita di un’area decentrata ben organizzata. La presenza di stabili assetti policentrici in una regione metropolitana costituisce un fattore che influisce positivamente sulla sua crescita [Camagni, Capello e Caragliu 2013]. Ne deriva la necessità di costruire strategie policentriche comuni, che tendano a valorizzare le risorse più

importanti di un’area e a regolare la concorrenza fra le città e i comuni che la compongono [Giffinger e Hamedinger 2009]. Anche ad un livello macro si possono rilevare simili relazioni: la metropolizzazione richiede una forma di macropolicentrismo, nella misura in cui una grande città specializzata

dà luogo a legami funzionali con altre città e regioni. Inoltre, lo sviluppo macro-policentrico è favorito dall’inserimento in reti mondiali di flussi materiali e immateriali o dall'esercizio di funzioni di comando e controllo [Keeling 1995]. Una seconda verifica proviene dall’esigenza di considerare le relazioni di dipendenza fra le diverse caratteristiche qualitative del policentrismo. Fra queste, il policentrismo morfologico sembra in grado di rivelare quali siano i 207

presupposti strutturali necessari a stabilire legami funzionali e su cui far gravitare le future politiche di coesione territoriale; il policentrismo funzionale offre invece un valido quadro di orientamento per l’analisi coeva delle regioni metropolitane, siano esse più o meno strutturate, ed è in grado di riconoscere l'eventuale necessità di reindirizzamento delle strategie operative di sviluppo territoriale [Geppert 2009]. Va tuttavia considerato anche il fatto che i diversi assetti morfologici del policentrismo sono il risultato concreto di legami funzionali rafforzatisi nel tempo, i quali spesso scaturiscono a loro volta da passate iniziative di strategia policentrica tese a regolarli o favorirli [1biderz]. Un altro elemento di cui tener conto riguardo allo Smp è dunque la sua stratificazione cronologica; in altre parole, il policentrismo non si risolve semplicemente in termini di sviluppo spaziale, ma possiede una dimensione evolutiva che va considerata dal punto di vista delle politiche. Per sostenere uno sviluppo territorialmente coeso, serve dunque integrare policentrismo analitico e strategico, fissando gli indirizzi sulla base di una larga intesa fra gli attori coinvolti, in modo da comprendervi sia la loro percezione degli assetti policentrici esistenti e di quelli futuri, sia i dati empirici riscontrati analiticamente, per armonizzare le diverse sfaccettature del fenomeno (fig. 1). Nondimeno,

occorre

ricordare che questa dimensione

evolutiva ha valore solo ove si ammetta che i processi di metropolizzazione dipendono dal contesto e differiscono nelle varie città-regione europee. Soltanto se possiamo dimostrare le diverse velocità dello Smp e le diverse fasi di metropolizzazione in cui si trovano le città-regione, avrà un

senso per la governance dello sviluppo territoriale mettere in luce le dipendenze temporali esistenti fra tale processo e i vari piani di stratificazione del policentrismo. Diversamente, tanto varrebbe indirizzarsi verso politiche di programmazione indifferenziate, che cioè trascurino tanto i segnali concreti

di specificità locale quanto le relazioni di patb-dependency. Pertanto, il nostro primo passo è quello di analizzare le due città di Bratislava e Vienna come caso spesso citato di governance metropolitana cooperativa, per verificare l’ipotesi 208

== Strategico

Morfologico

Funzionale

Veepealisto 16% Fic. 1. Relazioni di dipendenza fra processi nei diversi piani del policentrismo. Fonte: elaborazione degli autori.

dell’esistenza di diverse fasi di metropolizzazione. Inoltre, mettiamo a contronto l'evidenza territoriale e la valutazione strategica relative al nostro esempio per dimostrare l’importanza di un’analisi empirica dei diversi piani del policentrismo: quello strategico-politico a fronte di quello funzionale e morfologico. Il secondo passo è quello di assurgere a livello europeo la nostra ipotesi per vedere se — osservando i processi di metro-

polizzazione nella loro frammentazione possibile far emergere delle tipologie che aiutino a capire meglio il processo di formulare politiche europee mirate

e patb-dependency — è di città metropolitana di Smp e permettano alle diverse realtà.

3. Le fasi dello sviluppo metropolitano policentrico: un confronto fra Bratislava e Vienna

Alla luce delle questioni affrontate sopra, sembra ovvio concludere che lo sviluppo metropolitano va interpretato come fenomeno intrinsecamente legato all'inserimento delle 209

città metropolitane in ampie reti funzionali globali, vale a dire allo sviluppo macro-policentrico. La metropolizzazione e le condizioni necessarie a instaurare e mantenere i legami con gli altri nodi urbani costituiscono fattori di stimolo reciproco. Le funzioni di pregio, le sedi centrali di multinazionali e i congressi, oppure la creazione di attività a elevato contenuto di conoscenza richiedono, per funzionare correttamente,

condizioni ottimali di accessibilità. Questo

rapporto è stato già ampiamente discusso [Sassen 2001; Hall e Pain 2006: Castells 2010], mentre va sottolineato con la

stessa enfasi che anche lo sviluppo metropolitano richiede una solida base di micro-policentrismo urbano-regionale: è proprio a questo livello che la crescita urbana e i processi di cambiamento richiedono assetti policentrici poiché, come sostengono Camagni, Capello e Caragliu [2013], lo sviluppo

micro-policentrico aiuta ad abbattere i costi di urbanizzazione delle metropoli in crescita. Possiamo perciò sostenere che i processi di sviluppo metropolitano e policentrico sono fenomeni interrelati, la cui forma dipende dai sentieri di sviluppo intrapresi in una determinata città-regione. Risulta perciò utile soffermarsi sulle caratteristiche morfologiche e funzionali e sul piano strategico dello Smp in un gruppo selezionato di città metropolitane europee. Bratislava e Vienna vengono analizzate, ad un primo stadio, come caso di governance metropolitana cooperativa fra due nodi del sistema urbano centroeuropeo.

Già a prima vista è chiaro che i presupposti di Smp nelle due città sono differenti — a causa non solo delle dimensioni,

ma anche della storia politico-economica delle due capitali centroeuropee [Giffinger e Hamedinger 2009]. Di conseguenza, viene condotta un’analisi empirica delle due città-regione in cui i vari indicatori vengono raggruppati in componenti,

da considerarsi

quali caratteristiche

dello Smp. La prima, che è la componente basilare, è la crescita metropolitana, la quale riflette le dimensioni dell’agglomerazione, il suo grado attuale di sviluppo urbano e la sua attrattività sul piano competitivo. La seconda è data dalla definizione delle funzioni di pregio e implica il riconoscimento dell'importanza delle funzioni di comando 210

e controllo e del grado di accessibilità internazionale. La terza componente si rileva dal grado di rinnovamento economico, come desunto dagli indicatori relativi al mercato del lavoro, che denotano il passaggio verso l'economia della conoscenza. La quarta componente riguarda l’integrazione città-regione, includendovi l’assetto micro-policentrico della regione metropolitana, che ne rispecchia le disparità strutturali e funzionali a livello urbano-regionale. Infine, la quinta componente è l'integrazione transnazionale, che definisce il livello di radicamento macro-policentrico di un territorio metropolitano in più ampi reti funzionali. Ciascuna delle cinque componenti viene descritta da un gruppo di indicatori, riportati in tabella 1. La base empirica della nostra analisi deriva dalla classificazione delle città-regione operata nel progetto Espon 1.1.1 [Espon 2005]. Partendo da 1.595 aree urbane funzionali (Functional urban area — Fua) con più di 20.000 abitanti sono state selezionate per il nostro campione 50 aree me-

tropolitane, rappresentative del Smp medio in Europa!. I dati relativi alle città-regione possono essere confrontati con la media campionaria, permettendo così di classificarne la performance. Allo stesso tempo, l’analisi degli indicatori viene messa a confronto con la valutazione qualitativa dello Smp da parte degli attori locali di Bratislava e Vienna per chiarire in che grado le loro percezioni riflettano determinati presupposti dello Smp e introdurre così la dimensione 4 Sono state prima selezionate da Urban Audit 76 mega-regioni europee, sia fra le città core (Cc) sia fra le grandi aree urbane (Larger urban zone — Luz), o approssimazioni di esse a livello di regione Nuts, come da definizione operata nel progetto Espon Foci [Espon 2009]. Dopo aver eliminato le mega-regioni di dimensioni eccessive e le agglomerazioni non contemplate in Foci, il campione è risultato composto da 69 mega-regioni.

Le definizioni e il database relativo al periodo 1999-2008 di Urban Audit considera la Luz come migliore proxy delle regioni metropolitane. Per gli altri casi, i dati sono stati tratti da Eurostat e altri progetti di ricerca europei, e considerati approssimazioni delle metropoli in base ai dati regionali Nuts. Sono stati ricavati 160 indicatori che hanno comportato un'ulteriore riduzione del campione, il quale è risultato infine composto da 50 mega-regioni, che sono quelle che risultano sufficientemente descritte da un totale di 123 indicatori.

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strategica del policentrismo, che — come osservato sopra — ha un valore cruciale per spiegare il processo evolutivo di sviluppo metropolitano, che è oggi ancora sottovalutato dagli studi regionali e di programmazione in ambito europeo. I dati utilizzati in questa prima analisi sono stati tratti dai risultati di una ricerca di Polyce, un progetto europeo condotto nel periodo 2010-2012 nell’ambito del programma Espon 2006-2013 [Espon 2012], il quale ha esaminato i processi di sviluppo metropolitano e policentrico, utilizzando indicatori territoriali di livello europeo, in cinque capitali: Bratislava, Budapest, Lubiana, Praga e Vienna. Come parte integrante del progetto, sono stati organizzati workshop di approfondimento in ognuna delle cinque capitali, cui hanno partecipato 20-30 attori della rispettiva regione metropolitana. Sono state così realizzate, nell'ambito di Polyce, delle Agende di sviluppo metropolitano, intese come strategie di sviluppo emerse a partire da opinioni, idee e visioni sulle alternative future delle cinque regioni centroeuropee da parte degli attori locali; il loro coinvolgimento nell’elaborazione delle agende, basato sulle rispettive competenze, è consistito nella messa in comune

delle percezioni riguardo ai recenti processi di Smp e nella valutazione dei sentieri di sviluppo intrapresi dalle rispettive regioni metropolitane. Il gruppo di ricerca ha poi raccolto i giudizi qualitativi emersi dal dibattito strategico utilizzando una modalità bottorz-up e li ha raggruppati tematicamente, realizzando così un’Agenda di sviluppo metropolitano per ciascuna città-regione. Il confronto fra la valutazione qualitativa e le componenti di aggregazione degli indicatori sopra illustrate rivela quali sono i campi di intervento per i quali gli attori strategici delle città metropolitane — siano esse più o meno ben strutturate — ritengono sia necessaria una linea di azione, quali sono tenuti invece in minor considerazione e, infine, in che misura le loro interpretazioni si accordino con l'evidenza empirica sopra presentata.

La figura 2 presenta i nostri risultati. Per confrontare i

dati, abbiamo normalizzato i dati relativi all'evidenza terri-

toriale, cioè le componenti dello Smp, e al dibattito strategico, cioè le valutazioni qualitative dello stesso. Per quanto riguarda l'evidenza territoriale, una deviazione positiva di 213

a) Bratislava Alto

di Necessità strategico intervento Basso

Crescita metropolitana

Funzioni dipregio

Economia della Integrazione Integrazione conoscenza città-regione transnazionale

Funzioni di pregio

Economia della Integrazione conoscenza città-regione

b) Vienna

Alto

di strategico intervento Necessità Basso

Crescita metropolitana

m Evidenza territoriale

Integrazione transnazionale

a Dibattito strategico

Fic. 2. Evidenza territoriale e valutazione strategica: confronto fra lo Smp di a) Bratislava e b) Vienna. Fonte: elaborazione degli autori.

214

una delle componenti dello Smp dalla media europea viene interpretata come scarso bisogno di intervento strategico, mentre una deviazione negativa indica la situazione opposta.

Per quanto riguarda invece i risultati dei dibattiti strategici

fra attori, i richiami ad attività legate ad una caratteristica di metropolizzazione e/o di policentrismo sono stati raggruppati in categorie omogenee. Indichiamo con «basso» un numero scarso e con «alto» un numero elevato di richiami a determinate attività, i quali implicano la consapevolezza della necessità di intervenire strategicamente per sostenere il sentiero di Smp della metropoli di appartenenza. Questa classificazione ci permette di operare una semplice comparazione fra evidenza territoriale (l’analisi descrittiva degli indicatori rispetto alla media europea) e il dibattito strategico (la valutazione qualitativa delle attività richiamate nelle Agende di sviluppo delle regioni metropolitane centroeuropee). Appare chiaro che, nell’analisi dello Smp basata sugli indicatori, le due città-regione esaminate differiscono decisamente: mentre Vienna risulta largamente superiore alla media nella maggioranza delle componenti descritte, Bratislava riporta un ventaglio di risultati diversi per le cinque categorie. In particolare, per quanto riguarda la prima città, i risultati sembrano rimandare al suo ruolo nel più ampio sistema urbano in cui è evidentemente ben radicata: il dibattito strategico si concentra infatti sul rafforzamento dei processi di integrazione città-regione piuttosto che sull’ulteriore metropolizzazione. Gli attori sembrano ben interpretare le condizioni di sviluppo della regione metropolitana di Vienna, anche se pongono un’enfasi eccessiva sulla disponibilità delle funzioni di comando e controllo e sul bisogno di ottenere una più alta coesione fra dimensione urbana e regionale. Bratislava presenta invece un quadro più frammentato quanto al grado di convergenza fra evidenza empirica e strategie. In particolare, rispetto alle

attività di promozione dello sviluppo metropolitano, gli attori dimostrano un interesse decisamente minore di quanto sarebbe auspicabile guardando all’analisi degli indicatori. Nonostante anche qui evidenza empirica e strategia tendano a convergere, sarebbe auspicabile, per tutti e cinque i campi, una maggior attenzione rivolta al consolidamento della crescita, 215

alle funzioni di pregio e all’integrazione nel contesto globale. D'altra parte, riguardo all’integrazione città-regione, gli attori sembrano già consapevoli dell'esigenza di porre in atto maggiori sforzi in vista di uno sviluppo micro-policentrico. In linea di massima, si riconosce l’esigenza di tenere il passo con l'Europa, ma le attività proposte non coprono l’intero ventaglio di interventi necessari.

Una prima analisi delle due regioni metropolitane ha perciò messo in luce due aspetti: primo, che le due aree metropolitane presentano condizioni strutturali di Smp notevolmente diverse, suggerendo la necessità di analizzare empiricamente le specificità locali e porle alla base delle politiche territoriali; secondo, che sebbene le condizioni di

sviluppo siano senz'altro di tipo strutturale, le percezioni degli attori nel dibattito strategico sullo Smp hanno parimenti influenza sul processo di metropolizzazione, il quale va dunque ricompreso alla luce delle analisi dello Smp quale processo evolutivo fortemente dipendente dal piano politico-programmatorio del policentrismo. 4.

Una classificazione dello Smp

La metropolizzazione viene considerata come un processo globale che influisce sullo sviluppo urbano sotto diversi profili; di conseguenza, è ipotizzabile un insieme di indicatori applicabile a qualsiasi campione di città e utile a descrivere empiricamente il fenomeno. Per quanto detto sopra, le componenti ottenute restituiscono, in termini sia teorici sia

intuitivi — in a base a quanto emerso dall’analisi di Bratislava e Vienna — un'immagine multidimensionale dell’attuale condizione metropolitana di ogni città. Allo stesso tempo, certi presupposti contestuali, quali il permanere di strutture edilizie urbane o le limitate capacità di governare le tendenze di sviluppo urbano, non hanno lo stesso impatto sullo Smp né per le singole città né per la generalità di esse [cfr. par. 2.3; Friedrichs 1985; Hamilton, Dimitrovska e Pichler-Milanovic

2005]. Se ne desume che il processo di Smp viene percepito diversamente nelle varie città, che sono il risultato di contesti 216

socio-politici e sentieri di sviluppo loro propri. Possiamo allora classificare le aree metropolitane europee sulla base delle componenti sopra definite, dove le caratteristiche comparabili vengono considerate il risultato path-dependent delle recenti tendenze di metropolizzazione. L'analisi empirica di Bratislava e Vienna risulta così avvalorata dall'ipotesi che lo Smp sia un processo pazh-dependent a livello europeo. Secondo la definizione sopra riportata, la classificazione empirica delle aree metropolitane si baserà su indicatori non correlati che descrivono il processo di metropolizzazione delle regioni urbane europee, e che sono gli stessi indicatori costituenti le componenti sopra definite (cfr. par. 3). Una volta standardizzate le cinque componenti che descrivono lo Smp, è stato applicato il metodo di Ward, procedura di classificazione gerarchica che ha permesso di identificare dei gruppi omogenei di aree metropolitane. L’analisi è stata ripetuta per individuare cluster con risultati omogenei: ne sono emersi cinque statisticamente significa-

tivi, che riportano differenze di rilievo rispetto alle cinque componenti dello Smp. Solo due componenti (integrazione città-regione e integrazione transnazionale) hanno un grado di omogeneità interna insufficiente rispetto alla distribuzione totale dei valori. La tabella 2 presenta i risultati della cluster analysis e gli scostamenti delle cinque tipologie rispetto alla media europea. Cluster 1: Aree metropolitane affermate e con risultati di macropolicentrismo elevati Le città-regione di questo gruppo hanno un ritmo di crescita moderato e si trovano in ritardo rispetto all'economia della conoscenza, il cui valore medio è il più basso dei cinque cluster. Esse riportano invece un valore superiore alla media nelle funzioni di pregio, che ne denotano l’importanza come centri politici, culturali ed economici a livello globale. Si osserva poi una relativa diminuzione dell’integrazione cittàregione — sintomo di un micro-policentrismo arretrato — e, parallelamente, un’ottima integrazione a livello mondiale. In questo gruppo troviamo le seguenti città: Vienna, Praga, Barcellona, Milano, Roma, La Valletta e Manchester. 217

Tar. 2. Cluster delle aree metropolitane per componenti degli indicatori di Smp (Z-value)

Funzioni Crescita metropolitana di pregio

Cluster

1

2

3

Media N. Var. Media N. Var. Media

È -

5

Var. Media N. Var. Media

N. Var.

-0,19 7 0,21 -0,60 11 0,49 0,10

5) 0,58 0,24 ib 0,19 2,16

0,36 v, 0,65 -0,80 ili 0,10 1,36

9 0,89 0,25 17 0,40 -0,28

Economia della conoscenza -0,58 7 0,31 -0,27 ibi 1,16 1,26

9 0,42 0,20 Ub7/ 0,73 -0,15

Integrazione Integrazione città-regione transnazionale -0,16 I; 0,40 1,28 11 0,35 0,01

1,20 7 0,40 -0,62 11 0,32 0,87

9 0,21 0,81 ly 0,35 0,11

5) 0,27 0,78 dg 0,15 0,64

6

6

6

6

6

0,36

0,92

0,48

1,28

1,01

Nota: la descrizione è basata su Z-value definiti come varianza fra i valori dei singoli gruppi e il valore totale. Poiché tutti gli indicatori presentano valori standardizzati, la valenza informativa di un indicatore è data dalla sua varianza intergruppo: quanto più basso è il valore della varianza di gruppo rispetto alla varianza totale pari a 1,00, tanto più il valore medio di un indicatore sarà indice di omogeneità del gruppo di aree metropolitane di un determinato cluster/tipo.

Cluster 2: Aree metropolitane a policentrismo arretrato Queste città-regione presentano i valori più bassi per

la crescita metropolitana e le funzioni di pregio, ma anche l'economia della conoscenza ha qui un valore leggermente inferiore rispetto alla media europea: in sostanza, il processo di metropolizzazione appare inadeguato. Inoltre, il gruppo è caratterizzato da una scarsa integrazione città-regione, cioè presenta assetti monocentrici, e da una modestissima

integrazione transnazionale, che ne rivela la debolezza nei presupposti di sviluppo macro-policentrico. In questo gruppo troviamo le seguenti città: Budapest, Bratislava, Lubiana, Sofia, Tallinn, Vilnius, Riga, Varsavia,

Porto, Lisbona e Bucarest.

218

Cluster 3: Aree metropolitane rinnovate ad avanzato micro- e macro-policentrismo Questo gruppo si caratterizza per una crescita metropolita-

na moderata e le migliori prestazioni in termini di funzioni di pregio ed economia della conoscenza, che evidenziano il buon stato di avanzamento dello Smp. Parallelamente, si ha un’integrazione città-regione equilibrata, indice di uno sviluppo micropolicentrico adeguato, e un'ottima integrazione transnazionale, che ne favorisce uno sviluppo macro-economico policentrico. In questo gruppo troviamo le seguenti città: Bruxelles, Monaco, Berlino, Francoforte, Copenhagen, Helsinki, Amsterdam, Stoccolma e Glasgow. Cluster 4: Aree metropolitane parzialmente rinnovate a micro-

e macro-policentrismo meno avanzato La metropolizzazione ha agito su queste città con minor

intensità. La crescita metropolitana, le funzioni di pregio e l'economia della conoscenza riportano tutte risultati piut-

tosto modesti e comunque al di sotto della media europea. Parimenti, l'integrazione città-regione e quella transnazionale presentano forti deviazioni rispetto alla media europea, evidenziando lo squilibrio dello sviluppo micro-policentrico e le condizioni inadeguate di quello macro-policentrico. In questo gruppo troviamo le seguenti città: Anversa, Stoccarda, Brema, Amburgo, Disseldorf, Colonia, Lille, Bordeaux, Lione, Torino, Bologna, Lussemburgo, Rotterdam, Lodz, Cracovia, Gdansk e Malmò.

Cluster 5: Aree metropolitane ben integrate e in espansione, a policentrismo disomogeneo Le città-regione di questo gruppo si trovano in una spinta

fase di crescita, ma presentano un andamento modesto in termini di funzioni di pregio ed economia della conoscenza. La metropolizzazione è qui sostenuta da un’adeguata integrazione città-regione in termini di sviluppo micro-policentrico e da un’integrazione transnazionale al di sopra della media, indice della presenza di caratteristiche macro-policentriche ben sviluppate. In questo gruppo troviamo le seguenti città: Madrid, Valencia, Siviglia, Tolosa, Atene e Dublino.

219

Riassumendo, l’analisi statistica mostra che il processo di metropolizzazione — insieme alle caratteristiche policentriche — permette di individuare città-regione consimili entro cinque gruppi o tipi omogenei di aree metropolitane. Tale classificazione evidenzia come le recenti tendenze globalizzatrici e il rinnovamento dell'economia abbiano un impatto diverso sullo Smp a seconda delle specifiche condizioni locali. Ma quel che è più importante, la relazione sopra ipotizzata di dipendenza reciproca fra determinati aspetti dello sviluppo metropolitano e di quello policentrico esiste, ed è anzi rintracciabile in un insieme di caratteristiche, che vanno a costituire

un cluster particolare. Tuttavia, l’interrelazione fra i processi di sviluppo ha un funzionamento differente a seconda delle caratteristiche specifiche, il che dà luogo a diverse tipologie di area metropolitana. In altri termini, non è possibile riscontrare una tendenza generale o un’interrelazione significativa per tutte le tipologie: quest’aspetto potrebbe influire notevolmente sugli orientamenti di politica urbana, che dovrebbero prenderne atto. 5.

Conclusioni

In questo capitolo è stata proposta una riflessione sui

multiformi aspetti dello sviluppo policentrico e sulla sua importanza per le aree metropolitane europee, utilizzando due diversi approcci empirici per metterne in luce i presupposti essenziali. Innanzitutto, sono stati descritti i concetti di metropolizzazione e policentrismo, che costituiscono il fondamento teorico della ricerca. Riguardo al primo concetto, ne è stata sottolineata la multidimensionalità come anche il fatto che la sua valutazione non può prescindere dalle specificità dei processi di sviluppo policentrico. Riguardo al secondo concetto, se ne sono rimarcate tre caratteristiche concettuali: la morfologia, quale rilevatore degli assetti territoriali; i legami funzionali, sotto il cui ombrello vanno riportati tutti i tipi di flussi e di relazioni transfrontaliere; gli interessi strategici,

che costituiscono la dimensione politica dello Smp. Partendo da queste considerazioni teoriche e dalla con-

seguente rappresentazione dei due concetti, sono stati presen220

tati due approcci empirici atti a individuare i diversi ritmi e fasi di Smp, nonché le diverse tipologie di metropoli europea. Si è fatto ricorso sia ad una metodologia mista sia ad un approccio statistico per mostrare la possibile interrelazione fra sviluppo metropolitano e policentrico, nonché la loro

ensione strategica. In una prima fase, si è concentrata l’attenzione sulle condizioni di sviluppo policentrico di Vienna e Bratislava,

facendo ricorso ad una metodologia mista che permettesse di confrontare l’analisi descrittiva dei dati e l'approccio percettivo-valutativo; ciò ha permesso di rivelare non solo che le due città-regione si trovano in fasi diverse del processo di metropolizzazione, ma anche che le condizioni locali suscettibili di implementare lo Smp futuro vengono percepite in modo differenziato dagli attori locali. Ovviamente, gli attori strategici di città-regione già affermate sono consapevoli dell'importanza rivestita dalle forme di micro-policentrismo ai fini dello Smp, ma per quanto riguarda i rapporti fra città e regione si rilevano percezioni

differenziate nei singoli contesti. In linea generale, le aree metropolitane meno affermate sono maggiormente focalizzate sul comportamento competitivo, che mette in primo piano le città core, mentre le macro-regioni già affermate, essendosi spinte già oltre nel processo di metropolizzazione, pongono maggior enfasi sul radicamento e l'integrazione della regione metropolitana in un più ampio sistema urbano.

Nelle aree metropolitane europee sembra comunque ben presente la consapevolezza dell'importanza che rivestono gli assetti policentrici in termini di metropolizzazione, visto che i due terzi delle misure proposte hanno il chiaro scopo di rafforzarli. Sarebbe quindi utile condurre una ricerca più completa sulle 50 aree metropolitane europee per chiarire le eventuali interrelazioni fra evidenza empirica su base locale e percezioni degli attori coinvolti, anche considerando che l’importanza della dimensione strategica nei processi di Smp viene qui messa in luce comparando due soli casi. In una seconda fase, si è verificato se fosse possibile individuare specifiche tipologie di area metropolitana in un campione di 50 agglomerazioni urbane europee, con un 221

approccio esplorativo basato su argomentazioni teoriche e mirato a puntualizzare la necessità di considerare le peculiarità locali delle diverse metropoli da parte delle politiche di sviluppo urbano europee. L'analisi statistica ha individuato cinque tipologie di agglomerazione metropolitana: 1) aree metropolitane affermate e con risultati di macro-policentrismo elevati; 2) aree metropolitane a policentrismo arretrato; 3) aree metropolitane rinnovate ad avanzato micro- e macropolicentrismo; 4) aree metropolitane parzialmente rinnovate a micro- e macro-policentrismo meno avanzato; 5) aree

metropolitane ben integrate e in espansione, a policentrismo disomogeneo. Tali tipologie sono state identificate sulla base di caratteristiche specifiche di Smp a livello sia micro sia macro. L'analisi empirica ha quindi verificato la presenza effettiva di un’interrelazione fra determinate metropoli e i rispettivi assetti policentrici, ma ha anche constatato come la notevole eterogeneità delle aree metropolitane europee non permetta di formulare valutazioni generali. I risultati ottenuti mostrano che le regioni urbane sono sottoposte all'impatto del processo di metropolizzazione secondo modalità specifiche, che possono tuttavia essere raggruppate in base ad alcune caratteristiche omogenee. A fronte di ciò, le politiche territoriali europee dovrebbero riconoscere in modo più esplicito le specificità locali e promuovere le analisi incentrate su di esse. La ricerca futura sullo Smp dovrebbe insomma assumere una dimensione evolutiva, in grado di riconoscere tanto le dipendenze di ordine temporale nei diversi aspetti dello sviluppo territoriale, quanto le specifiche traiettorie di sviluppo locale delle città-regione europee. Sotto questo profilo, è auspi-

cabile che l’analisi dei processi di sviluppo metropolitano nelle agglomerazioni urbane europee riesca ad armonizzare gli approcci fondati sull’evidenza empirica (evidence-based) con gli approcci di analisi urbana attenti alle specificità dei luoghi (place-based) delle regioni metropolitane. Come la nostra analisi ha mostrato, le proposte avanzate dagli attori rilevanti riguardo alle strategie auspicabili in termini di Smp non sempre corrispondono alle carenze o alle risorse delle rispettive città. Questa divergenza fra condizioni percepite SRP:

e reali risulta più forte nei contesti in cui i processi di metropolizzazione sono meno avanzati. Perciò, una politica urbana europea che si voglia dir tale dovrebbe dare priorità alle ricerche e alle strategie attente alle specificità dei luoghi e, in base a queste, proporre risposte locali basate su uno sforzo cooperativo di pianificazione: solo così potrà vincere le sfide che si frappongono al consolidamento dello sviluppo metropolitano e degli assetti micro-policentrici. Riferimenti bibliografici Camagni, R. 2009 Territorial capital and regional development, in Handbook of Regional Growth and Development Theories, a cura di R. Capello e P. Nijkamp, Northampton, Edward Elgar, pp. 118-132.

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221

Pai * oa

CAPITOLO SETTIMO

PERFORMANCE ECONOMICA E DIMENSIONE URBANA: GRANDE, PICCOLA O MEDIA?

1.

La recessione e il dibattito sulla dimensione urbana

Questo volume è dedicato all’analisi delle performance e del contributo all'economia nazionale delle città europee, valutandole in base alle loro diverse dimensioni. Si tratta di temi già trattati sul fronte della ricerca, ma che nell’attuale situazione di recessione assumono un valore più pregnante sul fronte politico. Si acuisce infatti il dibattito sulle strategie di competitività nazionale e sul sostegno all'economia interna da parte delle città capitali e di secondo livello rivolto a verificare se l'andamento economico nazionale tragga maggiori vantaggi dalla concentrazione degli investimenti nelle capitali o piuttosto dalla loro distribuzione su un più vasto gruppo di città. Ci si domanda insomma se la dimensione sia importante — e in che misura — per la performance economica urbana e nazionale. La domanda cruciale può essere posta in questi termini: «Perché i politici dovrebbero investire fuori dai confini delle capitali in un periodo di austerità?». Di recente, la ricerca accademica si è di fatto

dedicata alle città più grandi a livello mondiale 2001; 2012; Brenner e Kiel 2006], ma la nuova

[Sassen

situazione

economica imporrà ai politici una maggior attenzione al contributo reale e potenziale delle città poste su gradini

più bassi della gerarchia urbana — le città di secondo livello. La recessione mondiale e la crisi dell’eurozona hanno avuto un enorme impatto sull'economia europea e comportano

Questo capitolo è di Michael Parkinson, Richard Meegan e Jay Karecha, European Institute for Urban Affairs, Liverpool John Moores University. Esso costituisce la versione italiana di un articolo che apparirà nella rivista «European Planning Studies», in corso di pubblicazione.

P25:)

serie minacce per il futuro; è perciò probabile che questo dibattito acquisisca ancor più rilievo nel prossimo decennio, visto che la crisi corrente rischia di minare le conquiste concrete conseguite da molte città europee. Nel decennio scorso, alcune città europee sono cresciute economicamen-

te, dando impulso alla competitività del loro paese, ma si è trattato perlopiù di esiti favoriti da economie nazionali ad alto rendimento e da elevati investimenti di risorse pubbliche, condizioni queste non più presenti nel decennio successivo. Molti problemi di natura economica e sociale insiti nel fenomeno urbano — che erano stati mascherati dalla fase di crescita economica — si sono aggravati con la crisi; il rischio è che le difficoltà economiche e fiscali, insieme alla competizione

per le scarse risorse disponibili nei settori pubblici e privati, vadano a ridurre la crescita delle città e ad ampliare invece il divario economico-sociale interno e quello con la capitale. Gli investimenti operati durante gli anni della crescita sono stati paganti per l'economia di molte città di secondo livello, e di conseguenza per quella nazionale; sarebbe perciò opportuno far sì che essi non vengano sprecati a causa della recessione. La questione riguarda essenzialmente sia gli investimenti e i risultati economici sia gli equilibri territoriali. Questo capitolo analizza alcune questioni di politica e di ricerca sollevate da questo dibattito, basandosi su un grosso studio da noi condotto recentemente sulle città europee nell'era dell’austerità. 2.

I temi di analisi riguardanti dimensioni, investimenti e per-

formance economiche urbane: politiche neutrali o rivolte ai luoghi 2.1. Le contrapposte teorie

L'importanza delle economie di agglomerazione e di urbanizzazione e delle esternalità per lo sviluppo economico urbano e regionale è una recente riscoperta, contesa da diverse impostazioni teoriche: #7 priv2is, la teoria neoclassica della crescita endogena, la geografia economica e le teorie 230

istituzionaliste ed evolutive. La geografia economica e la cosiddetta «nuova geografia economica» appuntano l’attenzione, quali pilastri per lo sviluppo delle aree urbane, sulle economie esterne e sui rendimenti crescenti di scala che si ottengono con la specializzazione e la concentrazione delle industrie regionali, nonché sulle economie di urbanizzazione derivanti dalle agglomerazioni di imprese facenti capo a settori industriali diversi [Krugman 1990; 1991; 1993; Fujita, Krugman e Venables 1999; Duranton e Puga 2004; Kitson,

Martin e Tyler 2004; World Bank 2009]: Le economie di agglomerazione vengono richiamate anche dalle teorie macro della transizione economica, che collegano il potenziale di crescita locale e regionale al passaggio da un’era basata sulla produzione di massa all’attuale era di «specializzazione flessibile» [Piore e Sabel 1984; Scott 1988; Storper e Scott

1989]. Le teorie istituzionaliste ed evolutive dello sviluppo economico regionale si indirizzano invece all’analisi degli assetti istituzionali e dei fattori più «soft», quali l’attivazione di reti o il capitale sociale e fiduciario, che insieme generano quelle esternalità in grado di stimolare la progressiva affermazione e la seguente crescita delle economie locali e regionali [Grabher 1993; Amin e Thrift 1995; Maskell 2002].

2.2. I contrapposti paradigmi politici

Le differenze teoriche sopra esposte si traducono poi in raccomandazioni politiche di natura diversa. Gli economisti liberisti neoclassici sottolineano l’importanza delle economie di agglomerazione come difesa dall’espansione senza limiti delle capitali, che avviene come riflesso della domanda e delle forze del mercato. Le capitali traggono notevoli vantaggi dal fenomeno agglomerativo, in quanto: sono il centro del potere politico, amministrativo ed economico nazionale; hanno i

settori privati più forti; risultano meglio inserite nelle reti globali; ospitano gli uffici centrali delle grandi compagnie; sono dotate di servizi al produttore più avanzati; accolgono i principali istituti finanziari, agevolando l’accesso al capitale

di rischio; sono sede di istituzioni in ambito universitario e di 231

ricerca; si trovano al centro del sistema di trasporti nazionale e delle reti Ict; infine, attraggono investimenti pubblici e privati di «prestigio» in quanto «rappresentano» la nazione.

Henderson [2010], per esempio, ritiene che le capitali siano oggetto di un trattamento preferenziale da parte dei governi nazionali perché gli amministratori pubblici preferiscono allocare lì le risorse piuttosto che individuare opportunità altrove. Analogamente, è stato rilevato che la strategia più

sicura per gli investitori del settore privato è puntare sulle capitali come ubicazione più favorevole ed evitare di farsi carico del rischio insito nella scelta di localizzazioni più lontane e magari economicamente marginali.

Inoltre, la posizione neoclassica promuove un approccio allo sviluppo economico neutrale rispetto ai luoghi (place-neutral) che, come ben illustrato dalla Banca mondiale [World Bank 2009], propende per politiche centrate più sulle popolazioni che sui luoghi; poiché i ritmi di crescita e sviluppo sono fatalmente discordanti, si tratta quindi di evitare, perché controproducente, di spostare gli equilibri di mercato. La politica di sviluppo urbano e regionale dovrebbe intervenire con un'ottica space-blind nella fornitura dei servizi pubblici fondamentali, quali istruzione e servizi sociali, e

dei principali investimenti infrastrutturali, facendo un uso molto limitato di interventi territorialmente mirati [Hildreth e Bailey 2013]. L'approccio neutrale rispetto ai luoghi viene criticato dalla geografia istituzionalista ed evolutiva, che pone in rilievo i costi e le esternalità negative legati al fenomeno agglomerativo. Le agglomerazioni generano sì vantaggi economici, ma

non in modo illimitato. Nel caso delle città capitali, esiste una soglia raggiunta la quale emergono diseconomie, che le rendono meno competitive a causa delle esternalità negative prodotte da una crescita sregolata e dalla diminuzione dei rendimenti marginali. L’Ocse ha assunto un ruolo importante in questo dibattito, con una serie di studi che valutano il contributo delle diverse regioni alla competitività del paese; alcuni suoi lavori più recenti hanno evidenziato il ruolo delle regioni di media dimensione, mostrando come la crescita non provenga soltanto da un esiguo numero di regioni 232

dominanti, poste ai vertici, ma anche dalla sommatoria del

contributo di molte altre regioni, collocate su gradini via via più bassi della lunga scala gerarchica regionale. In termini politici, è opinione dell’Ocse che il contributo economico proveniente dalle regioni medie venga in genere sottostimato e che i governi dovrebbero invece potenziarlo proprio per ottimizzare la competitività nazionale [Oecd 2006; 2012a; 2012b; Garcilazo, Martins e Tompson 2010].

In questa prospettiva, le politiche urbane e regionali dovrebbero mostrare maggior sensibilità ai contesti e alle specificità locali, con un atteggiamento rivolto ai luoghi e non neutrale rispetto ad essi [Barca 2009; Barca e McCann 2010; McCann e Ortega-Argilés 2011; McCann e RodriguezPose 2011; Barca, McCann e Rodrîguez-Pose 2012]. Servono

politiche bottom-up, che sollecitino le forze locali in grado di far leva su innovazione e sviluppo e che siano conciliabili con le politiche fop-down, in una prospettiva meso ai temi dello sviluppo urbano e regionale [Crescenzi e RodrîguezPose 2011]. Il rilievo delle politiche rivolte ai luoghi trova una giustificazione anche nella crescente richiesta di decentramento del potere nazionale [Ascani, Crescenzi e Iammarino 2012]: è questo il punto di vista sostenuto anche

nel presente studio. 3. I/ sostegno all'economia delle città capitali e di secondo livello nelle fasi di crescita e di recessione in Europa

Questo capitolo attinge ad un recente studio di Espon, condotto su 31 città capitali e 124 città di secondo livello in Europa [Parkinson ef a/. 2012; Parkinson e Meegan 2013]. Esistono numerose classificazioni delle città, nessuna delle

quali esente da difetti. Nel nostro caso, adottiamo il concetto di città di secondo livello, ovvero realtà urbane diverse dalla

capitale il cui sviluppo economico-sociale incide notevolmente sulla performance economica del paese. Tale denominazione non implica che queste città siano centri meno importanti della capitale, non si riferisce a città di seconda

classe né denota la «seconda» città di un paese, visto che 233

di queste ve ne è una sola. Le città di secondo livello non sono nemmeno

simili fra loro, ma molto diverse: possono

essere una grande capitale regionale, la seconda città del paese — come Barcellona, Monaco o Lione — o anche una piccola città. Pur essendo diverse sotto molti aspetti, esse sono accomunate dal ruolo che ricoprono nell'economia nazionale. Le città di secondo livello che rientrano nella ricerca Espon comprendono quasi l'80% dell’intera popolazione urbana europea e il loro contributo all'economia nazionale si pone a metà strada fra quello principale delle capitali e quello più limitato della nutrita schiera di piccoli centri: esse costituiscono insomma i sistemi urbani medi.

Anche se la distinzione fra città capitale e città di secondo livello è di tipo amministrativo più che funzionale, un motivo per cui la si utilizza è che la questione politica posta al centro del nostro lavoro è valutare quanto i governi nazionali pongano attenzione e destinino risorse alle capitali piuttosto che alle altre città del sistema urbano — come di fatto ritiene per esempio Henderson [2010] — e quali ne siano le implicazioni per l'economia del paese. Anche la Commissione europea reputa che tali questioni vadano affrontate e ha perciò voluto commissionare la ricerca nella

consapevolezza che molti stati membri, specialmente dell’est europeo, hanno privilegiato l'erogazione dei fondi europei alla capitale, ritenendolo un modo per ottenere maggiori profitti a livello nazionale: è questo appunto l’assunto che intendiamo verificare. Anche se la distinzione operata è in certa misura di tipo amministrativo, poiché nella stragrande maggioranza dei paesi la capitale è la città più importante dal punto di vista sia economico che demografico, andiamo di fatto a esaminare i rapporti esistenti fra le città economi-

camente dominanti e i sistemi urbani dei paesi europei. Il concetto di città di secondo livello è peraltro già stato utilizzato, per esempio da Markusen e collaboratori [Markusen, Yong-Sook e Di Giovanna 1999], i quali tuttavia si riferivano principalmente a città non europee, di recente sviluppo e spesso di dimensione inferiore a quella delle nostre. In tal senso, questo lavoro offre ulteriori indicazioni e nuove elaborazioni del concetto. 234

3.1. Decentramento e diffusione

Vediamo dunque quali siano le principali raccomandazioni da proporre. I dati a nostra disposizione mostrano che decentrare le funzioni, i poteri e le risorse, diffondere gli investimenti e stimolare più alti rendimenti in una serie di città anziché concentrarsi sulla capitale possa comportare vantaggi per tutto il paese. In termini politici, alcuni paesi concentrano l’interesse e le risorse sulla capitale, a discapito delle città di secondo livello, ma ve ne sono anche molti altri che hanno iniziato a sviluppare politiche specificamente mirate ad esse. In un senso più ampio, possiamo dire che in alcuni paesi gli orientamenti politici nazionali che indirettamente influiscono sulla competitività urbana — l’innovazione, la diversità, le competenze, la connettività, la qualità dei luoghi e la costruzione di una governance strategica — hanno mirato al sostegno delle città di secondo livello. È anzi interessante notare che nei paesi che hanno un minor grado di accentramento politico e di concentrazione economica e dove le città detengono maggiori poteri, risorse e funzioni, queste ultime hanno ottenuto performance migliori e contribuito maggiormente all'economia nazionale. In altre parole, il livello di decentramento amministrativo sembra avere un'influenza: per esempio, fra il 2000 e il 2007, negli stati federali, tutte le città di secondo livello di Germania e Austria e metà di quelle del Belgio hanno superato la rispettiva capitale; negli stati regionali, tutte le città di secondo livello spagnole e un terzo di quelle italiane sono cresciute più rapidamente della capitale; lo stesso è avvenuto per tutte le città di secondo livello dei paesi nordici. Negli stati unitari centralizzati, tutte le città di secondo livello di Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lituania e Bulgaria

e tutte salvo una della Repubblica Ceca hanno presentato un tasso di crescita più basso di quello della rispettiva capitale; solo in Romania, Lettonia e Croazia alcune città di secondo

livello si sono comportate meglio della capitale. Nello studio che presentiamo, si afferma che convogliare la maggior parte degli investimenti verso le capitali e solo una quota minima verso le città di secondo livello potrebbe 235

portare nel lungo periodo ad una situazione di insostenibilità e di scarsi rendimenti; vi sono numerose prove a supporto

della tesi che decentralizzare funzioni, poteri e risorse, quindi estendere gli investimenti e favorire le prestazioni di un’insieme più ampio di città invece che limitarsi alle capitali, possa comportare benefici per l’intero paese. Per quanto in molti paesi le capitali concorrano ad una percentuale molto consistente del Pil nazionale, l’apporto all'economia delle

città di secondo livello è comunque apprezzabile e in molti casi, se considerato cumulativamente, superiore. Pertanto,

anche se queste città, prese singolarmente, mostrano ritardi

rispetto alle capitali, il loro contributo all'economia nazionale resta rilevante. La tesi sostenuta e i dati offerti non implicano che tutte le città di secondo livello di ogni paese abbiano avuto una buona performance durante la fase di crescita o in quella di recessione, e nemmeno che la loro sia stata migliore di quella della città capitale. Piuttosto, si sostiene che diverse città in un congruo numero di paesi hanno raggiunto livelli economici tali da contrastare l'ipotesi che per raggiungere il successo un paese debba investire prioritariamente nella capitale. Lo studio condotto offre in tal senso numerose prove incontestabili,

dedotte

da dati quantitativi,

analisi

politiche e studi di caso che puntano nella stessa direzione. In questo capitolo, presenteremo soltanto una minima parte

dell’evidenza prodotta, che nel suo complesso attesta la necessità per gli amministratori di prendere in più seria considerazione questi temi e valutare attentamente l’impatto delle proprie decisioni sulle città di secondo livello. 3.2. La dimostrazione tedesca

Il caso della Germania offre un'importante lezione sul ruolo economico delle città di secondo livello. La Germania è certo unica nel suo genere: è un sistema federale che ha cambiato capitale, un paese che è stato diviso e poi riunito; le sue città di secondo livello sono normalmente capitali di stato dotate di ampi poteri e risorse; vi opera un particolare 236

sistema di banche regionali e di importanti imprese di media dimensione. Nessun paese europeo potrebbe riprodurre le caratteristiche strutturali del sistema tedesco, ma i principi cardine del caso tedesco sono invece esportabili. La sua esperienza dimostra in particolare come il decentramento di poteri e risorse e la diffusione territoriale degli investimenti possano portare l'economia nazionale verso più alti traguardi. L’attività economica — pubblica e privata — ha una distribuzione più uniforme su un insieme di città, che vanno a costituire un potente motore economico. Fra il 2000 e il 2007, la popolazione di sei città di secondo livello è aumentata con un

ritmo più rapido rispetto a quella di Berlino; 14 di esse hanno riportato tassi di produttività superiori alla capitale. A livello

europeo, nello stesso periodo, in entrambe le classifiche delle prime dieci città di secondo livello per crescita del Pil e per innovatività figurano cinque città tedesche.

3.3. L’egemonia delle capitali e il sostegno alla competitività delle città di secondo livello Il panorama generale del sistema urbano europeo vede dunque — con la notevole eccezione della Germania — il predominio delle capitali dal punto di vista sia demografico che occupazionale e produttivo. Vi è quindi un ampio divario fra le città capitali e quelle di secondo livello, divario che in tutti i paesi ex socialisti dell’est europeo tende a crescere. Nel 2007, il Pil totale della capitale risultava superiore a quello della seconda città del paese in tutte le nazioni europee, salvo Germania e Italia (fig. 1) ed era più del doppio in 19 paesi e fino a otto volte più alto in quattro di essi — Gran Bretagna, Francia, Ungheria e Lettonia. Eppure, i risultati della nostra indagine mostrano che, nel periodo 2000-2007,

tutte le città di secondo livello offrono un contributo talvolta considerevole alla crescita economica europea, anche se esso, a seconda delle zone del continente, è in vario grado

oscurato da quello delle capitali. Insomma, l'estensione del divario fra città capitali e secondarie è variabile e, in alcuni casi, in fase di riduzione.

237

200]

b) Differenza = 50-80%

a) Differenza < 0

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150

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|

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d) Differenza = 10-25%

100 80 60 40 20

Bulgaria

Francia

Gran Bretagna

Ungheria

Fic. 1. Pil urbano al 2007, confronto tra città capitale e principali città di secondo

livello per paese: a) Differenza < 0; b) Differenza = 50-80%; c) Differenza = 25-50%; d) Differenza = 10-25%. Nota: città capitale = 100; il Pil è misurato in standard di potere d’acquisto. Altri paesi non compresi nel grafico sono, rispettivamente per: b) Paesi Bassi e Svezia; c) Lituania, Slovacchia, Slovenia, Danimarca, Portogallo, Estonia e

Belgio; d) Croazia, Finlandia, Romania, Grecia e Lettonia. Fonte: Parkinson et al. [2012]

238

Nonostante strutturalmente le capitali abbiano la supre-

mazia economica del paese, vi sono stati importanti cambia-

menti in seguito ai quali molte città di secondo livello hanno migliorato la propria posizione negli anni della crescita, fra 2000 e 2007 (fig. 2). In 16 dei 26 paesi, una o più città di secondo livello hanno registrato una crescita annuale del Pil più alta delle rispettive capitali; in Austria e in Germania, tutte le città secondarie hanno riportato risultati migliori rispetto alle città capitali. Da notare che le capitali e le città di secondo livello dei paesi dell’est europeo hanno riportato tassi di crescita fra i più alti e proprio in concomitanza con

il processo di integrazione economica europea. 3.4. Disparità regionali nella crescita delle città di secondo livello durante il boom economico

Anche se molte città di secondo livello si sono affermate durante gli anni della crescita, beneficiando dell’appoggio e degli investimenti del governo nazionale, si osservano tuttavia notevoli disparità regionali. Le prospere città-regione dell'Europa settentrionale, centrale e occidentale si distin-

guono nettamente da quelle centro-orientali, orientali e sudorientali, meno fiorenti. Da una parte, si hanno i gruppi del Nord, Centro e Ovest che, presi assieme, ospitano più dei quattro quinti delle città-regione trainanti e, all’opposto, le 27 città-regione comprese negli stati precedentemente uniti nel regime socialista - Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia — in cui compaiono solo tre cittàregione principali e tre intermedie, mentre la maggioranza presenta ritardi nello sviluppo (fig. 3). Durante il periodo in esame vi sono stati degli avvicendamenti: le città-regione meno sviluppate delle zone europee orientali, sud-orientali e, in minor misura, centro-orientali hanno sperimentato in

quei nove anni un'esplosione della crescita. Infatti, quelle economicamente in transizione verso il capitalismo e il mercato europeo hanno raggiunto tassi di crescita medi sei o sette volte superiori a quelli delle affermate regioni occidentali e settentrionali. 259

a) Dilts

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3) Palaia 4

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b) Differenza > 1,0-1,5

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Fi. 2. Variazione percentuale media annua del Pil pro capite 2000-2007, confronto fra tasso di crescita nella città capitale e nelle principali città di secondo livello per paese: a) Differenza > 1,5; b) Differenza > 1,0-1,5; c) Differenza < 0. Nota: altri paesi non compresi nel grafico sono, rispettivamente per: b) Romania, Danimarca, Finlandia, Belgio, Croazia, Paesi Bassi, Lettonia e Svezia; $ c) Estonia, Slovenia, Lituania, Slovacchia, Grecia e Portogallo. Fonte: Eurostat.

240

MI Città-regione capitale

@ Città-regione di secondo livello

Fic. 3. Le 31 città-regione capitale e le 124 città-regione di secondo livello in Europa. Nota: livello regionale Nuts 0 e Nuts 3.

Fonte: European Institute for Urban Affairs, Ocse e Dg Regio.

241

è

3.5. La crisi minaccia le conquiste delle città di secondo livello L'impatto della recessione è stato pesante per molte città, in particolare per quelle che maggiormente avevano prosperato nel decennio della crescita (fig. 4): più del 75% di esse ha avuto un calo del Pil nel periodo 2007-2009. Durante la crisi, le capitali hanno retto molto meglio delle città di secondo livello. Gli esiti migliori si sono avuti in Europa orientale, dove si trovano le 19 località — di cui 12 polacche — che hanno registrato una più rapida crescita. I paesi baltici sono stati particolarmente colpiti, ma anche tutti i principali paesi dell'Europa occidentale: in Germania solo Berlino ha avuto una fase di crescita, mentre nelle altre città il Pil è calato;

lo stesso è avvenuto nelle 14 città principali della Gran Bretagna, nelle 12 dell’Italia e in otto sulle nove città più importanti della Spagna. 4. Raccomandazioni politiche ai governi sulle città di secondo livello 4.1. Il decentramento di poteri e risorse per bilanciare la devoluzione di funzioni

I livelli di centralizzazione hanno dunque importanza, ma la devoluzione di funzioni a favore delle città può funzionare solo se accompagnata da un parallelo decentramento di poteri e risorse; le città infatti funzionano meglio nei paesi con bassi livelli di centralizzazione e di concentrazione economica e quando siano dotate di maggiori poteri,

risorse e funzioni. - Molti politici e analisti ritengono che, dato l’impatto positivo del decentramento di poteri, funzioni e risorse verso le città di secondo livello, le politiche nazionali dovrebbero incoraggiare tale dinamica. Molte città hanno tratto benefici da una politica mirata alla creazione di luoghi dell'economia, mettendone in luce il buon potenziale di diffusione nelle future politiche nazionali ed europee. 242

Cl Città capitale

]) Da 0,1 a 6,0

B Da -5,0a-11,1

O Città di secondo livello

BM D20,0a-4,9

È) Dati non disponibili

Fic. 4. Recessione nelle città-regione europee: variazione percentuale reale del Pil pro capite, 2007-2009. Nota: livello regionale Nuts 3. La variazione percentuale media nei paesi Eu27 per il periodo in esame è pari a -2,0; i dati si riferiscono al Pil in euro

e sono stati deflazionati per mostrare la variazione reale. Fonte: Eurostat e European Institute for Urban Affairs.

243

4.2. I limiti delle capitali

Abbiamo qui individuato una serie di problemi derivanti dall’egemonia delle capitali. Una delle principali questioni è quella dei costi e delle esternalità negative legati al fenomeno agglomerativo. Una seconda questione riguarda il potenziale di ogni area urbana, che le politiche nazionali dovrebbero incoraggiare invece di limitarsi ai centri già affermati. Le agglomerazioni producono certo dei vantaggi economici: come la ricerca dell’Ocse ha mostrato, in alcuni paesi l’area metropolitana più grande produce da un terzo alla metà del Pil nazionale. Tuttavia, non si tratta di vantaggi illimitati: esiste una soglia oltre la quale nelle città emergono diseconomie che le rendono meno competitive e che sono provocate dalle esternalità negative di una crescita urbana sregolata e dai rendimenti marginali decrescenti. Oltre quella soglia, i problemi legati a congestione, scarsità di suolo e spraz/, marginalizzazione del capitale umano e deterioramento delle infrastrutture portano al declino dell’area: investitori

e imprenditori iniziano ad allontanarsene e a trasferire la propria attività altrove. Dati questi rischi, impegnarsi verso le città di secondo livello potrebbe essere una strategia di crescita economica e di miglioramento dell'efficienza, capace di ridurre le diseconomie di scala.

4.3. L'influenza delle capitali e il rischio di surclassamento degli altri luoghi

Le città capitali e la loro competitività sul mercato globale hanno un'importanza cruciale nelle economie nazionali, ma la loro posizione dominante sul resto del sistema urbano rischia di mettere in pericolo l’equilibrio territoriale e strutturale

dell'economia. Vi sono casi in cui le città di secondo livello traggono vantaggio dalla politica nazionale, ma si tratta spesso di benefici indiretti, sottintesi. La maggior parte degli stati non ha una politica indirizzata a queste città, i cui interessi collettivi vengono perciò negletti. Le alternative politiche non sono tra il sostegno delle aree in via di sviluppo e la

244

rigenerazione delle aree in declino: si tratta piuttosto di scegliere dove la gallina depositerà le sue uova d’oro, se in pochi o in molti panieri. La raccomandazione che emerge da questo studio è che i governi nazionali che circoscrivono l’attenzione e le risorse alla città capitale rischiano di assecondare lo sviluppo squilibrato di intere regioni e città, perdendo così l'occasione di entrare a far parte della nuova economia globalizzata. Anche se meno adatte a coprire un ruolo sulla scena globale, le città di secondo livello possono stimolare il dinamismo di regioni altre da quella capitale e sostenere così la crescita complessiva del paese. Vi sono casi in cui il passo sarà più lungo della gamba, ma sicuramente queste città permettono di diversificare il territorio, favorendone al tempo stesso la coesione. Esse infatti accolgono servizi di alto livello che, rispetto a quelli nella capitale, hanno maggior facilità di accesso da parte delle imprese; possono godere di molti vantaggi agglomerativi tipici delle capitali se dotate delle infrastrutture e dei servizi, delle capacità e dei poteri necessari. In breve, possono risollevare l'economia della regione di appartenenza, ridurre le disparità interregionali e promuovere la coesione sociale. 4.4. Un gioco con soli vincitori e nessun perdente

La raccomandazione è a questo punto chiara: agli stati servono forti città capitali per posizionarsi sullo scacchiere internazionale e risultare competitivi nel mercato globale, ma anche influenti città di secondo livello. In futuro, en-

trambe le tipologie urbane andranno sostenute: non si tratta di un rapporto a somma zero, ma di vantaggio reciproco.

Un tema politico fondamentale è come aiutare le città di secondo livello ad assorbire parte del potenziale di crescita della capitale, allorché questa raggiunge i limiti della sua capacità di adattamento e i costi iniziano a superare i benefici. Il governo dovrebbe adoperarsi per farle emergere dalla recessione odierna mettendo a disposizione un maggior numero di aree a «pronto investimento», che servirebbero poi a potenziare l'economia nazionale. 245

4.5. La presunta autoregolazione del mercato

La nostra tesi è che le città di secondo livello possano meglio sostenere l'economia nazionale se vengono assegnati loro più aiuti e investimenti. Alcuni analisti ritengono invece superfluo un intervento governativo mirato a frenare gli squilibri regionali e urbani, nell'opinione che il mercato sia in grado di autoregolarsi e dirigere maggiori investimenti sulle città di secondo livello quando ne diventa ovvia la convenienza, dati i costi e il prezzo da pagare per la crescita della capitale. Tuttavia, la nostra indagine, ponendosi in linea con gran parte delle analisi economiche regionali, non abbraccia questo punto di vista: la logica del sovrainvestimento nelle capitali e del sottoinvestimento nelle città di secondo livello, diffusa in così tanti paesi, richiede — come il caso tedesco dimostra — un intervento pubblico e una buona governance. 4.6. Per una buona governance: condivisione di funzioni e chiarezza dei ruoli

Il problema essenziale della governance è che essa non riguarda soltanto la divisione dei poteri e delle risorse, ma anche il grado di condivisione delle funzioni e la trasparenza (o l’opacità) dei ruoli. Per esempio, le politiche urbane delle città tedesche tendono all'integrazione verticale, vuoi perché le funzioni chiave sono esercitate in comune, vuoi perché il governo federale finanzia gli esperimenti di partnership urbana e regionale, o ancora perché le città sono oggetto di

negoziazioni fra i vari livelli di governo — federale, statale e urbano. La capacità finanziaria delle città, cioè la possibilità che hanno di fare assegnamento su aiuti e trasferimenti da parte del governo centrale e sulle norme di perequazione finanziaria, o invece di basarsi sui propri introiti, è un altro elemento che ha ricadute sugli effetti dalla politica nazionale. Vi sono casi in l’accentramento del potere è acuito dalla mancanza di un governo regionale forte, democraticamente eletto, e da una governance metropolitana frammentata. In casi opposti, le città di stati decentrati si trovano praticamente 246

nella stessa situazione di quelle degli stati unitari centralizzati perché al decentramento delle funzioni non è accompagnato quello delle risorse finanziarie.

4.7. Per una buona governance: discrezionalità, condivisione di valori, flessibilità e fiducia a livello locale Le politiche nazionali hanno maggior successo se i diversi livelli di governo hanno una visione comune sui possibili effetti dei vari interventi mirati alle città e sulle leve da azionare per ottimizzare la performance. Le politiche nazionali sono più efficaci se vi è uno spazio di manovra per adattarle ai contesti locali, stante l’esistenza a livello urbano di una governance multilivello e di capacità e autonomia sul piano tanto del capitale umano quanto del gettito fiscale. Inoltre, un'importanza particolare assumono la coerenza, la trasparenza e la credibilità della politica nazionale, questo perché lo sviluppo economico urbano è un’impresa di lungo periodo. Infine, i sistemi politici più solidi sono quelli che vengono sorretti da un insieme di principi e valori condivisi, fra i quali possiamo annoverare i seguenti: centrare l’attenzione sulle esigenze aziendali e sui bisogni della comunità; capire le sfide future che riguardano la città e agire di conseguenza; conciliare le prospettive strategica e locale; mettere a frutto fiducia, reciprocità e mutuo rispetto. 4.8. Per una più ampia governance economico-territoriale

Sono pochi i paesi o le città che hanno accolto l’importante sfida di sviluppare una governance dell'economia territoriale su vasta scala, in modo che tutti gli attori e le istituzioni di un’area funzionale siano in grado di sfruttare al meglio le proprie risorse e realizzare strategie economi. che integrate e centrate su un forte approccio locale. Sono troppe le città che, nell'economia globale del XXI secolo, ancora tentano di svilupparsi facendo riferimento a confini locali stabiliti nel XIX secolo e a forme di governo risalenti

247

al XX secolo. Per affermarsi, le città-regione devono essere

governate su un più alto livello, funzionale all'economia,

mentre oggi molto spesso vi sono troppi livelli, a volte minimi e non adatti allo scopo che si prefiggono. I governi regionali, nazionali ed europeo dovrebbero pertanto incentivare e promuovere forme di collaborazione su base volontaria, ma anche rafforzare il livello amministrativo della città-regione. 4.9. Le strategie territoriali di investimento: aumento della trasparenza e focalizzazione sulle città di secondo livello Le politiche urbane dei paesi europei non sono fra loro equilibrate né stabili. Vi è stata certamente un'evoluzione

nell’orientamento delle politiche concrete e una maggior enfasi sulla necessità di spingere la competitività urbana, ma i fondi nazionali e regionali assegnati a tal fine vengono poi intaccati dai principali programmi di spesa. Gli effetti della programmazione ma:nstream, così come i flussi finanziari diretti a promuovere le città di secondo livello vengono presi in considerazioni solo da pochi stati poiché nella maggior parte dei casi i governi sono ordinati su base funzionale, non territoriale. Pochi sono anche gli stati ad aver introdotto delle politiche consapevolmente dirette a far progredire le città di secondo livello. I governi dovrebbero essere più trasparenti nei criteri di assegnazione territoriale degli investimenti e nelle conseguenze che ne derivano per

le diverse città-regione; monitorare e rendere pubblici gli impatti territoriali dei propri piani di spesa, in particolare garantendo che sia i programmi yazrstream sia i programmi

di sviluppo urbano includano le città di secondo livello e non solo le capitali. Le politiche nazionali per l'innovazione, la ricerca e lo sviluppo, l'istruzione e la formazione, i trasporti, la connettività e gli investimenti infrastrutturali — solo per fare qualche esempio — hanno un forte impatto sulla performance di ogni città capitale e di secondo livello. È perciò fondamentale che tali politiche vengano usate strategicamente per evitare sia l'eccessiva concentrazione delle già scarse risorse sulla capitale — con suo conseguente «surriscaldamento» = sia 248

la limitazione di quelle destinate alle altre città: si tratta di principi che, in un periodo di austerità, acquisiscono un ancor più significativo rilievo.

4.10. Iempistica degli investimenti governativi nelle città di secondo livello Il numero di importanti città di secondo livello che un paese sarà in grado di tollerare dipende dalle sue dimensioni e dal suo livello di sviluppo economico. Nei paesi più piccoli, per esempio, vi saranno meno presupposti per la presenza di un

gran numero di città complementari rispetto alla capitale. Nei paesi in via di sviluppo dell’est europeo, la città capitale rappresenta ancor oggi il motore principale dell'economia nazionale. In entrambi i casi, le capitali rimangono l’obiettivo primario degli investimenti in quanto più probabilmente detengono quelle capacità e quella massa critica necessarie al successo. Tuttavia, tutti i paesi dovrebbero mettere in campo strategie di sviluppo per le città di secondo livello, che vadano a estendere loro i vantaggi economici e a farle diventare il motore economico della più ampia area in cui si trovano; i governi dovrebbero perciò promuoverne l’affermazione in misura adeguata al livello demografico e al modello di sviluppo e di crescita economici. Emerge quindi una chiara indicazione politica per tutti i livelli di governo: la presenza di forti città capitali è fondamentale per il posizionamento e la competitività sulla scena globale degli stati nazione, ma anche le città di secondo livello hanno una loro particolare rilevanza. In futuro, servirà sostenere entrambi i tipi di città mettendo in gioco un rapporto vantaggioso per tutte le parti, non un

rapporto a somma zero. A livello politico, nel momento stesso in cui la capacità di adattamento alla crescita da parte delle capitali sta raggiungendo i suoi limiti e i costi superano i benefici, è fondamentale favorire l’assorbimento parziale di quella crescita da parte delle città di secondo livello. A tutti i gradi di governo, esse andrebbero aiutate a emergere dalla recessione odierna mettendo a frutto aree a «pronto 249

investimento» e massimizzando così la futura performance economica del paese. Ogni paese, regione e città-regione avrà una situazione particolare e risposte politiche specifiche, ma esistono dei chiari principi generali da seguire per i futuri investimenti territoriali. In particolare, i governi dovrebbero investire di più nelle città di secondo livello quando: a) il divario con le capitali è ampio e crescente; b) l'infrastruttura imprenditoriale della città di secondo livello è debole a causa dei mancati investimenti statali; c) vi sono prove evidenti di esternalità negative prodotte dalla crescita della capitale. 4.11. Raccomandazioni politiche per l'Europa Infine, un ultima raccomandazione riguarda la Commissione europea: poiché le città-regione hanno un’importanza fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi strategici fissati da Eu2020

[European Commission 2010], essa do-

vrebbe tenere in più seria considerazione le città-regione e i loro amministratori. In anni recenti, le politiche urbane della Commissione sono state caratterizzate da discontinuità e il tema all’ordine del giorno, cioè la creazione dei luoghi del-

l'economia, ha assunto significati via via diversi; nel complesso, questi temi rimangono disattesi dall’agenda della Commissione e meriterebbero invece di esservi presenti a pieno titolo. La Commissione dovrebbe insomma esercitare il suo ruolo di guida, fare chiarezza su questi aspetti e fornire le risorse necessarie, potenziando le azioni mirate ad assicurare che il potenziale economico delle città di secondo livello venga chiaramente riconosciuto a livello strategico. Andrebbero messi in evidenza gli impatti territoriali di tutte le sue politiche, non solo del Dg Regio, integrando meglio le varie politiche settoriali. Comunque, il punto centrale è far sì che i principali fondi europei, e non soltanto le risorse loro assegnate, siano diretti alle città di secondo livello in modo più congruente rispetto a quanto accade oggi. In un periodo di austerità, è fondamentale

che la Commissione

riconosca e

promuova l’importanza di queste città: in primo luogo, non limitandosi ad una politica che si concentri unicamente su 250

alcune aree più disagiate, ma guardando con un'ottica più ampia alla creazione di luoghi dell'economia; in secondo luo-

go, non circoscrivendo la sua azione ad un numero limitato di luoghi già affermati, ma effettuando quegli investimenti a lungo termine che soli possono promuovere la prosperità economica di lungo periodo di un maggior numero di luoghi e di paesi, e quindi dell'Europa nel suo complesso.

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CAPITOLO OTTAVO

LA SCALA URBANA E METROPOLITANA COME LIVELLO OTTIMALE DI GOVERNO DEL TERRITORIO AI FINI DI COMPETITIVITÀ E CRESCITA 1.

Introduzione

La legge delega 42/2009 sull'attuazione del federalismo fiscale delineava per l’Italia un processo di decentramento della finanza pubblica per attribuire agli enti decentrati un ruolo più attivo nel perseguire gli obiettivi di efficienza ed equità delle politiche pubbliche. Dopo un primo incerto e contraddittorio processo attuativo, con i decreti legislativi, si è manifestata nei vari provvedimenti a carattere emergenziale del governo Monti, prima, e del governo Letta, poi, una decisa

inversione di tendenza. Si sta, cioè, registrando un convulso processo di «ricentralizzazione» della finanza pubblica, come risposta alle difficoltà della finanza pubblica italiana. La tesi sostenuta in questa nota è che la ricentralizzazione, nel mentre non è detto sia in grado di contribuire al risanamento delle finanza pubblica, con il contenimento del debito delle amministrazioni pubbliche', ha la conseguenza di frenare le prospettive di crescita dell'economia italiana. Ad una governance a livello centrale che non ha favorito, negli ultimi quindici anni, le necessarie riforme strutturali, sfruttando le fasi favorevoli dell'economia nazionale e del

Questo capitolo è di Alessandro Petretto, Università degli studi di Firenze. Una versione del contributo è apparsa con il titolo Finanza pubblica territoriale, economia locale e crescita, nel volume Crescita, investimenti e territorio, a cura di R. Cappellin et al., Website «Scienze regionali» (www.rivistasr.it), eBook 2014.1, pp. 207-214.

! La tesi implicita secondo cui un’amministrazione centralizzata è in grado di meglio controllare i conti pubblici non è teoricamente né empiricamente dimostrata, cfr. i saggi in Rodden, Eskeland e Litvak [2001] e

lo motivazioni teoriche addotte da Besley [2007].

299

contesto internazionale, andrebbe ad aggiungersi l’annullamento delle prospettive di intervento a livello locale?. Queste dovrebbero invece essere sostenute attraverso lo spostamento di risorse da settori centrali manifestamente inefficienti e frenanti e attraverso l’organizzazione di una struttura istituzionale degli enti decentrati più coerente con gli obiettivi di crescita economica’. La riforma degli assetti istituzionali è la strategia di rafforzamento degli enti sul territorio che risulta migliorare la competitività delle amministrazioni locali e delle aree urbane del paese. La nota ha il seguente svolgimento. Nel prossimo paragrafo verrà tratteggiato il contesto economico in cui dovrebbe operare una finanza pubblica territoriale, volta al sostegno della crescita dell'economia, attraverso interventi di politica microeconomica, stante la sostanziale indisponibilità di quelle macroeconomiche. Nel paragrafo successivo esamineremo le condizioni per delineare una struttura dell’amministrazione pubblica decentrata, capace di assumere una configurazione industriale (numero, dimensioni e funzioni degli enti stessi) efficiente. Nel quarto paragrafo verranno esaminati gli strumenti finanziari, dal lato della spesa e dell’entrata degli enti locali e delle realtà urbane, alcuni innovativi, altri da potenziare,

per favorire l’efficienza dell'economia locale e la competitività di città di primo e di secondo livello sul loro territorio. Nel quinto paragrafo considereremo i risvolti di political economy che spiegano l’efficacia relativa delle politiche locali e urbane per favorire la crescita economica, attraverso una maggiore

efficienza istituzionale*. Il sesto paragrafo conclude.

° Il primo governo Prodi, che consentì, nel 1998, l'ingresso dell’Italia nella terza fase dell'unione monetaria europea, è da molti politologi considerato come l’ultimo governo orientato a modificare gli elementi di debolezza strutturale della nostra economia. ? Per una recente analisi quantitativa degli effetti sulla crescita del Pil pro capite di interventi volti al miglioramento della qualità delle istituzioni di un paese, cfr. Afonso e Jalles [2013]. * Il legame tra sviluppo economico, istituzioni politiche e istituzioni economiche è frutto dell'ormai monumentale lavoro di Daron Acemoglu [per ultimo cfr. Acemoglu 2013].

256

2. Ciclo e crescita economica potenziale: il ruolo della finanza degli enti locali L'economia italiana si trova in una fase delicata e nello stesso tempo cruciale della sua evoluzione. È il paese europeo che più stenta a cogliere gli elementi, per quanto deboli della ripresa mondiale. In sostanza, attraversa una complicata combinazione tra ciclo e crescita potenziale che condizionerà

le possibilità di sviluppo della società, nel breve come nel lungo periodo. L'Italia arriva alla soglie della crisi del 2008 dopo più di un decennio di crescita strutturale, al netto dal ciclo, molto

al disotto della media europea. Le cause sono note: dinamica lenta, quasi stagnazione, della produttività del lavoro e della produttività totale dei fattori, debole tasso di crescita del progresso tecnico e dell’innovazione, specializzazione produttiva e dimensioni di impresa non adeguate, scarsa concorrenza, pubblica amministrazione inefficiente e onerosa per il mondo delle imprese. Sono tutte cause strutturali che avrebbero necessitato di utilizzare le fasi del ciclo economico degli anni Duemila, tutto sommato favorevoli per domanda estera e interna, per apportare importanti riforme. Cosa che non è colpevolmente avvenuta. Le due fasi dell’attuale crisi 2008-2010 (originata dall’instabilità della finanza privata) e 2011-2012 (originata dalla pressione dei debiti sovrani sulla finanza pubblica dei paesi europei) si sono, dunque, inserite in un trend già debole, con le conseguenze tipiche di riduzione dei consumi, investimenti e crescita della disoccupazione. La crisi da insufficienza della domanda aggregata sta lentamente esaurendosi, per effetto della crescita dell’export trainato da paesi fuori crisi (o addirittura mai entrati nella seconda fase) e degli stimoli provenienti dalla politica monetaria e fiscale espansiva, se pur ancora modesta, dell'Europa. Il quesito fondamentale è dunque il seguente: è in grado la struttura dell'economia italiana di cogliere questi stimoli, ha la sufficiente flessibilità dal lato dell’offerta per porsi come interlocutore valido di questi impulsi di domanda aggregata accresciuta, così da cogliere le deboli opportunità 234

che le vengono offerte? In caso contrario, l’attuale fase moderatamente ascendente del ciclo verrà rallentata e l’onda appiattita nella fase espansiva, per assestare infine il trend su un tasso di crescita ancora inferiore a quello su cui stanno assestandosi gli altri paesi europei, alcuni dei quali hanno avuto impatti ancora più duri della crisi. Per questo motivo, alle politiche di tipo congiunturale, anticicliche dal lato della domanda, è necessario accompagnare anche politiche strutturali, dal lato dell’offerta, che operino sulla moder-

nizzazione dell’apparato industriale e del terziario. La tesi della sostituibilità tra le politiche anticicliche e le politiche strutturali, dovuta al trade-off tra obiettivi di breve e lungo periodo, ha lasciato spazio, in alcune recenti interpretazioni a livello degli organi centrali europei, sostenute da rigorose analisi empiriche, alla tesi della comzplemzentarità [Buti e Padoan 2012; Buti 2014].

In definitiva, è possibile considerare che gli ultimi quindici anni hanno sostanzialmente mostrato un governo centrale incapace di effettuare riforme economiche e politiche strutturali in grado di affiancare le necessarie manovre di contenimento del deficit e del debito pubblico, che sarebbero state utili anche per limitarne gli effetti pro-ciclici. L’eventualità che invece proprio l’amministrazione locale, e tanto più le amministrazioni dei nostri centri urbani, possano svolgere questo ruolo è legata allo sviluppo del decentramento e quindi all’inversione del processo di ricentralizzazione. Il rilancio di questo ruolo è comunque condizionato da tre elementi strettamente funzionali: — l’esistenza di assetti istituzionali coerenti con la nozione di configurazione industriale efficiente applicata agli enti locali e alle aree urbane; — l’esistenza di adeguati strumenti di politica fiscale locale; — l’esistenza di meccanismi di selezione politica volti a innalzare la capacità decisionale degli enti pubblici. Tratteremo sinteticamente, in successione questi tre aspetti nei prossimi paragrafi.

258

3. Assetti istituzionali territoriali ed efficacia delle politiche strutturali

3.1. Gli enti pubblici di una regione visti come unità locali di un'industria La struttura degli enti pubblici inseriti nel territorio regionale’, in Italia non è più coerente con le caratteristiche del sistema economico, nonché con l'evoluzione dei meccanismi decisionali e amministrativi resi possibili dall’avvento dell'informatica e della digitalizzazione amministrativa e di tutte le possibilità garantite dalla rete. Il tema di una riorganizzazione e razionalizzazione istituzionale, che rientra tipicamente nella sfera del diritto amministrativo e costituzionale, assume rilievo anche sotto il profilo dell’analisi economica, più in particolare seguendo i canoni dell’ecoromia della localizzazione [Fujita, Krugman e Venables 1999; Baldwin e? a/. 2003] e del cosiddetto federalismo funzionale

[Wellish 2000]. Secondo la prima, la formazione di agglomerati urbani segue gli incentivi legati alla diffusione territoriale dei processi produttivi, alla disponibilità delle risorse naturali, alla mobilità del fattore lavoro, alla logistica degli impianti e quindi ai costi di trasporto e di accesso ai mercati. E assodato come l’economia delle città costituisca il volano della crescita economica dei paesi industrializzati e quindi diventi cruciale «creare» città funzionali al tessuto economico del territorio. E queste lo sono tanto più sono entità connesse dal punto di vista della struttura economica e sociale che racchiudono [Duranton e Puga 2000; 2004].

Il federalismo funzionale invece analizza l’organizzazione di giurisdizioni a carattere funzionale per l'offerta di diverse tipologie di beni pubblici locali e lo svolgimento di attività

© È opportuno ricordare che, ai sensi del Titolo V, la regione ha poteri legislativi in materia di organizzazione istituzionale e di sistema fiscale regionale e degli enti del suo territorio. Quindi il concetto di territorio regionale acquisisce una rilevanza specifica.

259

complesse. La classificazione cruciale al riguardo è quella che distingue gli organismi in: — enti che /egiferano e programmano attività economiche (in linea di massima nel nostro ordinamento la regione); — enti specializzati, non elettivi (tipo Autorità di ambito e Asl), volti alla programmazione e gestione di servizi con fruizione di area vasta (ad es., trasporti, smaltimento rifiuti,

sanità), con organi di nomina regionale, in accordo con i comuni interessati;

- enti, piccoli o grandi, a seconda delle varie forme dell’associazionismo e dell’aggregazione istituzionale, che forniscono e producono direttamente o indirettamente servizi pubblici sia a domanda individuale che indivisibili (enti generalisti e multifunzionali come i comuni). La configurazione industriale deve avvenire tenendo conto, in primo luogo, delle econorzie di scala e di dimen-

stone, cioè cercando la struttura organizzativa ottimale della produzione, fornitura e fruizione di servizi pubblici, e, in

secondo luogo, delle econorzie di scopo e complementarità nella produzione e nei costi. In particolare, i vari livelli di governo non devono duplicare funzioni e strutture se non nei casi in cui la produzione congiunta tra più livelli è conveniente per la complementarità funzionale. Quando c'è sostituibilità dei processi produttivi un solo livello deve svolgere la corrispondente attività. In terzo luogo, rilevanti sono anche le ecomorzie di specializzazione e di rete: i servizi di ampia dimensione territoriale dell'utenza a carattere più o meno industriale, o sono affidati a gestori (aziende) regolati o sono prodotti da enti specifici sovracomunali. È evidente come in questo contesto riformatore lo snodo principale è costituito dal comune, a seconda che assuma la veste di città metropolitana o quale unità produttiva elementare dell'industria dei servizi pubblici locali. In ogni caso, questo dovrebbe caratterizzarsi, nella logica economi-

co-industriale, come un'impresa di dimensioni adeguate a

sfruttare le economia di scala, di rete e di differenziazione produttiva [Fusaro, Petretto e Iommi 2013; Iommi 2013].

260

3.2. Aree urbane e città metropolitane

Quando assume la forma di Città metropolitana (Cm) dovrebbe configurarsi come un ente locale monocentrico, composto da un insieme di comuni di dimensioni rilevanti (almeno 20.000 ab.), per sfruttare le relazioni funzionali (spostamenti casa-lavoro, attività economiche comuni, integrazione

degli scambi, ecc.) tra una città-centro e comuni della cerchia,

per fornire un complesso articolato di servizi indivisibili e di servizi alla persona, sfruttando, sotto il profilo organizzativo, economie di scala e di complementarità dei costi. In quest'ottica, una Cm non coinciderebbe con un’attuale provincia, e meno che mai può essere costituita aggregando due o più attuali province, tra loro non interconnesse da reti congruenti. Il tessuto economico interno all’area dovrebbe essere omogeneo, così da esprimere una domanda politica compatta. Dovrebbe essere individuato un territorio dagli scambi intensi. All’interno dell’area dovrebbe operare un unico polo economico attrattore in cui la manifattura dovrebbe principalmente alimentarsi di fattori produttivi utili a ridurre i costi di transazione e di trasporto. Il nuovo comune, come semplice unità elementare, produce direttamente, o esternalizza, la produzione di servizi

di grande rilievo per il benessere dei cittadini i cui processi produttivi debbono essere razionalizzati e minimizzati i relativi costi, dato l’output. Impiega lavoro e capitale; attraverso gli investimenti, con gli interventi di manutenzione straordinaria

delle città, accumula capitale sociale che innalza la produttività e la competitività del territorio. Il nuovo comune, al suo interno, dovrebbe snellire l’organizzazione della macchina amministrativa ed esternalizzare parte dell’organizzazione dei servizi finali agendo sull’attivazione del sistema produttivo locale. Infine, secondo il principio della responsabilità fiscale, dovrebbe contare su risorse proprie, delle quali rispondere ai propri cittadini. Finanziarsi, dunque, in autonomia crescente,

con imposte autonome, tasse e contributi propri e sempre meno con compartecipazioni a tributi erariali e trasferimenti regionale e statali.

261

Nel prossimo paragrafo delineeremo con maggior dettaglio gli elementi fondamentali di questa necessaria evoluzione. 4. Gli strumenti dell'economia pubblica locale 4.1. La spesa pubblica per la città e il territorio Per valutare l’effetto della spesa pubblica locale sulle prospettive e condizioni di crescita economica del territorio di

riferimento è utile spiegare di cosa si tratta, con un minimo di dettaglio.

La spesa pubblica finale e primaria (cioè al netto di rimborso prestiti e di interessi passivi) di un ente come un comune di medie dimensioni si distribuisce, in condizioni normali, in spesa corrente (mediamente il 65-70% della spesa complessiva) e spesa per investimenti (35-30%). La spesa cor-

rente è, in parte, rivolta a servizi back-office, per la gestione della macchina comunale, e, in parte, a servizi front-office

rivolti direttamente a soddisfare bisogni dei cittadini e le necessità operative (input pubblici) delle imprese locali. L'organizzazione dell’attività e quindi della spesa è suddivisa in direzioni che svolgono il ruolo e le funzioni di divisioni o reparti in un'impresa industriale multi-prodotto. La successiva tabella 1 ne fornisce un esempio. Le risorse umane, cioè la gestione del personale, che corrisponde a circa il 30% della spesa corrente, si distribuisce in tutte le direzioni, per cui ciascuna di queste (centro di costo) ha imputata una quota di spesa per il personale. Anche la spesa per investimenti è suddivisibile per Direzioni che realizzano opere pubbliche, ma che sono già destinatarie di spesa corrente, per le funzioni gestionali. (tab. 2). E evidente come la spesa front-office (compresa quella rivolta a attività esternalizzate) e la spesa per investimenti sono le più indicate a fornire un contributo diretto a favore dell’attività economica (in particolare le imprese fornitrici) del territorio. Quindi una percentuale quasi dell'’80% della spesa di un comune di medie dimensioni è, possiamo dire, local growthoriented, ovvero il comune è l’ente pubblico sulla frontiera 262

dell’attività economico-sociale per la crescita del territorio settore o ente della pubblica anche decentrata, con questa

e svolge un ruolo insostituibile in cui opera. Non esiste altro amministrazione centrale, ma caratteristica.

TAB. 1. Composizione della spesa corrente: direzioni e uffici Servizi di back-office (circa il 20%)

Servizi di front-office (circa 80%)

Ufficio del sindaco

Sistemi informativi (organizzazione delle

Mobilità e viabilità (personale alle attività di gestione dei lavori pubblici) Servizi demografici (anagrafe e certificati di stato civile) Istruzione (personale comunale nelle scuole, gestione mense) Servizi sociali (sussidi di assistenza e

attività centralizzate e trasparenza)

gestione strutture assistenziali, casa)

Risorse finanziarie (gestione delle entrate

fiscali, Ragioneria, gestione mutui, rap-

Cultura (trasferimenti a associazione e gestione musei comunali e monumenti)

porti con le società partecipate) Patrimonio (gestione degli immobili

Sviluppo economaico eattività produttive

Consiglio comunale (indennità dei consiglieri, attività delle commissioni consiliari) Segretario e direttore generale

comunali, valorizzazione e cessione)

(gestione mercati, rapporti con le asso-

ciazioni di categoria, regolazione delle attività commerciali e rilascio licenze) Polizia municipale (sicurezza e traffico) Ambiente e verde comunale (gestione di parchi e giardini) Urbanistica (uffici preposti a regolamenti, piani e concessioni)

Servizi tecnici (personale alle attività tecniche e utenze)

Tags. 2. Composizione della spesa per investimenti: direzioni e uffici Mobilità e viabilità Ambiente e verde

Servizi tecnici Istruzione altierri ca di Aiino

Lavori pubblici, opere viarie (tranvie e interventi sulla pianta cittadina) Interventi in parchi e giardini Interventi in manutenzione straordinaria di strade e piazze Opere di costruzione di nuove scuole e rifacimento di scuole esistenti

o sari

o siii il

asi

263

4.2. Le specificità della dala urbana e locale

Un’imposta locale funzionale alla crescita dovrebbe limitare le distorsioni, normalmente insite nel fenomeno del

prelievo legato all’attività economica. Un’«ottima imposta locale», in primo luogo, dovrebbe contenere i fenomeni di concorrenza fiscale, orizzontale (la cosiddetta race to the bottom, cioè le riduzioni di tassazione, rispetto a enti limitrofi, per attirare attività economica) e ver-

ticale (tra stato ed enti locali per accaparrarsi basi imponibili comuni). Dovrebbe poi contenere fenomeni di esportazione fiscale, con la quale si scarica su agenti economici «di passaggio», non beneficiari dei servizi pubblici locali il peso della tassazione locale. Non dovrebbe perciò gravare sui consumi e sui redditi di impresa, entrambi caratterizzati da elevata mobilità e dovrebbe avere una base imponibile distribuita uniformemente. In definitiva, il patrimonio immobiliare costituisce una base imponibile ideale a scala urbana e metropolitana. Infatti, il reddito pro capite (reddito da lavoro e profitti) è più sperequato del consumo pro capite, mentre il valore pro capite delle proprietà immobiliari è abbastanza uniforme sul territorio. Infine, e soprattutto, dovrebbe basarsi sul criterio della bereficio o controprestazione. Questo principio collega il tributo ai vantaggi direttamente attribuiti agli individui dalla spesa pubblica che finanzia servizi pubblici è quindi in grado di realizzare le condizioni di efficienza nell'allocazione delle risorse (la tradizionale uguaglianza tra beneficio e costo marginale a livello individuale). Rientrano in queste categoria di tributi commutativi, cioè le forme di tassazione selettiva (prezzi personalizzati non-lineari), come le tasse dei servizi a domanda individua-

le, le tariffe e le rette, i contributi di soggiorno e gli oneri di urbanizzazione. Analogamente operano la tassazione dei beni di consumo complementari alle fonti inquinanti come le tariffe dei parcheggi, i pedaggi di ingresso nei centri urbani, la tariffazione del servizio di igiene ambientale. Infine,

uno strumento di tassazione commutativa molto usata nei paesi dell'Europa settentrionale è l'imposizione di scopo per finanziare investimenti pubblici [Grazzini e Petretto 2012]. 264

5. La nuova political economy e l'efficacia delle politiche urbane La possibilità di effettuare efficaci politiche pubbliche locali è condizionata dall’esistenza di contesti e assetti politici che siano in grado di innalzare l’efficienza dell'attività pubblica. Due condizioni paiono essere a tal fine indispensabili: l’esistenza di un'effettiva competizione politica ex ante seguita da condizioni di stabilità ex post*. La moderna teoria dell'economia pubblica si sta in effetti orientando ad analizzare le tematiche dell’efficienza di una struttura federale secondo l’approccio proprio della cosiddetta seconda generazione di studi sul federalismo fiscale [Oates

2005]. Concentrandosi più su «what car be done than on what sbou/d be done» [Weingast 2009], rimuove, fra l’altro,

l'assunzione della teoria normativa tradizionale (prizza generazione [Oates 1972]) di governi (politici) benevolenti e utilizza estesamente la nozione di accountability, Secondo questo principio di responsabilizzazione, un governo è accountable se gli elettori sono in grado di discernere se questo agisce nel loro interesse e sanzionarlo adeguatamente se non opera in tal senso [Hindriks e Myles 2013]. Quanto maggiore è l’effetto di accountability di un processo di federalismo fiscale, tanto maggiore è l’effetto di incremento dell’efficienza. La teoria della political economy, applicata ai temi del federalismo, ha coniato il termine di fiscal interest model

per indicare l’analisi dei canali attraverso i quali i sistemi fiscali trasmettono agli amministratori pubblici incentivi all’efficienza [Weingast 2009]. Gli studi teorici ed empirici associano principalmente quest’effetto all’esistenza di: — una struttura fiscale che colleghi, a livello locale, le responsabilità di tassazione e spesa [Winer, Kenny e Hettich 2010];

6 Vale la pena precisare come in Italia, visti imeccanismi di selezione politica a livello centrale di tipo monopolistico, l’amministrazione centrale (potere legislativo e governativo) sia invece caratterizzata da scarsissima competizione per accedere alle posizioni decisionali e da forte instabilità politica a posteriori, date le strategie di potere dei partiti in assenza di riscontro delle constituencies locali.

265

— yardstick competition, secondo cui gli elettori sono in grado di comparare le performance dei propri politici (incumbents) con gli altri in municipalità prossime e così ridurre l’asimmetria informativa e rendere compiutamente operativa l’accountability [Besley 2007). Il primo punto richiede, come sottolineato nel paragrafo precedente, un'effettiva autonomia tributaria e quindi una relativa rilevanza di tributi propri, dotati di un ampio margine di manovrabilità, rispetto ai trasferimenti e alle compartecipazioni. Con i primi, infatti, gli amministratori si confrontano con i cittadini per misurare direttamente il costo dei fondi pubblici con il beneficio degli stessi. Con i secondi si generano invece effetti di corzzzon pool, secondo cui le risorse acquisite o risparmiate tenendo comportamenti

virtuosi sono appropriate parzialmente da altri e ciò disincentiva gli amministratori locali.

Quanto alla concorrenza di confronto (yardstick competition), in effetti, i politici locali desiderano essere rieletti, per cui, se la competizione elettorale è forte (e in tal senso è rilevante la formula elettorale), il risultato è incerto e può di-

pendere dalla valutazione degli elettori delle performance dei governi locali. Tale valutazione è però soggetta ad asimmetria informativa dato che gli elettori non dispongono di tutti i dati e gli elementi necessari. Se gli elettori possono guardarsi intorno, e misurare per comparazione le performance dei propri politici, il problema dell’asimmetria informativa può essere contenuto. D'altro canto, i politici, consapevoli di ciò, competono tra loro per accrescere relativamente le proprie performance, per esempio riducendo i comportamenti collusivi e la corruzione. Infine, la competizione tra differenti governi decentralizzati finisce per esercitare un’azione di disciplina che rompe il potere monopolistico di un governo centrale unitario ed erode le conseguenti rendite. Effettivamente la legge delega sul federalismo fiscale insisteva sui principi di responsabilizzazione finanziaria e accountability dal momento che, all’art. 2 lett. p), richiamava espressamente il principio della «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza 266

tra responsabilità finanziaria e amministrativa». Così come una specifica attenzione all’accountability proveniva dal principio di «territorialità dei tributi regionali e locali». Per di più, alcuni strumenti, relativamente nuovi, che la norma introduceva, come la tassazione di scopo e la fiscalità di sviluppo, potevano, se realizzati, favorire questa logica. Tuttavia, quest'arricchimento di strumentazione fiscale è stato abbandonato e, d’altra parte, il frequente atteggiamento rinunciatario dei politici locali ha prodotto una sostanziale elusione di queste procedure. In passato, i pochi strumenti messi a disposizione dal legislatore, come le imposte di scopo, sono stati sistematicamente rifiutati dagli amministratori italiani. Tale atteggiamento è stato anche favorito dalla pericolosa pratica del governo centrale di soccorrere gli amministratori, politicamente affini ma inefficienti, con coperture ex post dei loro deficit di bilancio (per ultimo, il recentissimo e contestato decreto «Salva Roma»). Ciò ha indotto i cittadini a favorire con il voto questi amministratori, invece di sanzionarli, riconoscendo loro una fruttuosa capacità di persuasione del governo centrale, sviluppando una prassi radicalmente contraria al principio dell’accountability! 6.

Conclusioni

In questa nota abbiamo sostenuto la tesi secondo cui per favorire politiche pubbliche in grado di incidere sul funzionamento del nostro sistema economico occorrerebbe uno spostamento di risorse da settori centrali manifestamente inefficienti e frenanti in direzione di una governance locale e urbana. Questo processo di riallocazione dovrebbe, allo stesso tempo essere accompagnato dall’organizzazione di una struttura istituzionale degli enti decentrati più coerente con gli obiettivi di crescita economica. Questa riflessione, generalmente considerata eterodossa e

contrastante con l’andamento degli interventi governativi più recenti, deriva dall’analisi del contesto economico in cui do-

vrebbero operare interventi di politica microeconomica rivolti al sostegno della crescita dell'economia, stante la sostanziale 267

indisponibilità di quelle macroeconomiche. Gli ultimi quindici anni, hanno infatti mostrato un governo centrale sostanzialmente incapace di effettuare riforme economiche e politiche strutturali (come la politica industriale) in grado di affiancare le necessarie manovre di contenimento del deficit e del debito pubblico, anche allo scopo di limitarne gli effetti pro-ciclici. AI riguardo, abbiamo argomentato che esiste la possibilità che invece l’amministrazione locale, in particolare quella comunale, urbano e metropolitano, possa svolgere questo ruolo, attraverso lo sviluppo del decentramento e quindi l’interruzione del processo di ricentralizzazione a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Il rilancio di questo ruolo in capo alle aree urbane e alle nuove aree metropolitane è comunque condizionato dall'esistenza di assetti istituzionali coerenti con la nozione di configurazione industriale efficiente applicata agli enti (con il superamento della vecchia ripartizione regione, province e comuni, per quanto

ancora adottata, anzi potenziata con la parità gerarchica, dal nuovo Titolo V), richiede strumenti di efficaci interventi di

politica fiscale locale potenzialmente adeguati (un’ampia batteria di tributi locali, tra i quali l'imposta sul patrimonio immobiliare e l'imposizione di scopo) e infine l’esistenza di meccanismi di selezione politica volti a innalzare l’efficienza decisionale (legge elettorale ed effettiva accountability dei politici). Riferimenti bibliografici Acemoglu, D. 2013 Political economy: Lectures notes, www.economics/mit/edu/ files/8753. Afonso, A. e Jalles, J.T. 2013 Economic performance, government size and institutional

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270

CAPITOLO NONO

SMART SPECIALIZATION: LE SFIDE DEL NUOVO CICLO DI PROGRAMMAZIONE COMUNITARIA

1.

Introduzione

Il nuovo ciclo di programmazione comunitaria ha tra le sue principali caratteristiche quella di confermare la priorità degli obiettivi ambiziosi e irrealizzati della strategia di Lisbona. La trasformazione dell'Europa nella «più dinamica economia basata sulla conoscenza» è affidata però in modo sempre più deciso anche alle politiche regionali urbane, saldando in modo definitivo nelle strategie di sviluppo dell’Unione gli obiettivi di coesione e di competitività [Bellini e Landabaso 2007]. L'obiettivo dell'innovazione finisce così per caratterizzare una parte assai consistente delle risorse disponibili per le politiche regionali, secondo un nuovo criterio ispiratore delle strategie dell'innovazione, che è sintetizzato nel principio della smart specialization [Foray e Goenaga 2013]. Le strategie di specializzazione intelligente sono definite come delle «agende di trasformazione economica integrate e place-based», caratterizzate da cinque elementi fondamentali: — l'essere focalizzate su alcune priorità; — l’essere costruite a partire da punti di forza, vantaggi competitivi e potenziali propri delle aree di riferimento, con particolare attenzione ai caratteri urbani; — l’essere riferite ad un concetto ampio di innovazione,

che coinvolge il settore privato e che viene naturalmente catalizzato dai contesti urbani;

Questo capitolo è di Nicola Bellini, Istituto di management, Scuola superiore sant'Anna, Pisa. Una versione del contributo è apparsa con il titolo «Smart specialization»: le sfide del nuovo ciclo di programmazione comunitaria per il regionalismo italiano, rel volume La finanza territoriale. Rapporto 2013, a cura di Ires, Irpet et al, Milano, Franco Angeli, pp. 133-139.

271

- il favorire il coinvolgimento pieno degli stakeholder; - il loro essere evidence-based e il rendere centrali i sistemi di monitoraggio e di valutazione anche e soprattutto come strumento di apprendimento [Foray e? al. 2012]. Le caratteristiche appena delineate hanno un valore cosente nei confronti della programmazione regionale, poiché rappresentano una condizionalità ex arte della nuova politica di coesione, con particolare riferimento a due obiettivi del Fondo europeo di sviluppo regionale (il rafforzamento della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dell'innovazione e il miglioramento delle condizioni di accesso e della qualità di utilizzo delle Ict). Peraltro la Commissione ha messo in campo un complesso sistema di assistenza alle regioni per provare a fare un «salto di qualità» rispetto alle esperienze passate riguardanti l’innovazione. In particolare, la costituzione della «piattaforma di Siviglia», localizzata presso l’Institute for Prospective Technological Studies (Ipts), costituisce un'esperienza senza precedenti nel sostegno sistematico al polzcy learning dei governi regionali (il funzionamento della piattaforma è descritto sul sito http://s3platform.jrc.ec.europa.eu). Questo forte input della Commissione europea arriva tuttavia in Italia in una fase che è caratterizzata da un’altrettanto forte spinta alla ricostruzione di processi decisionali centralizzati in vari settori delle politiche pubbliche. Questa tendenza esprime sicuramente un sentimento diffuso di delusione rispetto alle performance dei governi regionali e al deficit di innovazione che — contrariamente alle aspettative — essi hanno espresso nel panorama politico-istituzionale italiano (ad es., in materia di programmazione), ma vi si rispecchia anche una visione che ha radici culturali profonde nella nostra storia e che è stata solo apparentemente e superficialmente scalfita dalla prospettiva federalista, introdotta in coincidenza con la crescita del peso politico della Lega Nord. Nell'ambito delle politiche industriali e dell'innovazione vi sono poi ulteriori difficoltà, che non riguardano solo il livello regionale e che derivano dalla situazione di perdurante crisi strutturale del nostro apparato produttivo. Si tratta di difficoltà tecniche, che riguardano la dubbia efficacia di singoli 212

strumenti, ma anche strategiche (ossia riguardanti la capacità dei governi di esprimere visioni e linee di condotta lungimiranti e sostenibili nel tempo) e, in senso più ampio, di legittimità politica. La capacità dei processi di policy making di definire priorità che non siano vincolate da interessi e visioni di breve periodo (quali sono o dovrebbero essere tipicamente le priorità espresse da una politica dell’innovazione) risulta intatti limitata dalle tensioni di una fase di transizione, in

cui le urgenze, come per esempio la tutela dell'occupazione, hanno il sopravvento nelle agende di policy.

2.

Smart specialization: innovazione e città

La combinazione di queste due tendenze (la crisi dell'ipotesi federalista e la crisi delle politiche dell'innovazione) ha portato a immaginare anche una revisione dei rapporti tra governo centrale, governi regionali e urbani proprio in materia di innovazione. Ciò è apparso evidente in particolare da azioni e dichiarazioni di esponenti del governo Monti, quando si è perfino prospettata l'esigenza di rivedere il Titolo V della Costituzione e la ripartizione attuale delle competenze tra livelli di governo. In realtà, le accuse di dispersione di risorse rivolte alle politiche regionali facevano «piazza pulita» di anni di learning e di elaborazioni, che, come dimostrato da una

lettura sistematica dei documenti di programmazione regionale [Bellini e Grillo 2012], erano stati tutt'altro che infruttuosi, sia

sul piano dei contenuti che del metodo, tanto più che la qualità dell’elaborazione in materia di ricerca e sviluppo e di innovazione non mostrava affatto una meccanica corrispondenza con i dati classici di misurazione dell'impegno finanziario. In altri termini, l’attenzione verso i temi dell’innovazione e la

qualità delle proposte di policy non sono state predeterminate dal livello di sviluppo, anche se poi ha pesato la distanza tra le enunciazioni e la capacità realizzativa. La strategia — dice la Commissione — deve identificare con chiarezza delle priorità di sviluppo. Da un lato, ciò dovrebbe realizzarsi con indicazioni non generiche, ma con definizioni puntuali e, per ciò stesso, più credibili. Dall'altro 273

lato, la Commissione insiste molto sul fatto che specificità delle indicazioni dovrebbe permettere le «strategie fotocopia» e quindi una penalizzante di soluzioni. Non vi è dubbio che il riferimento

proprio la di evitare uniformità al termine

specializzazione si presti a equivoci, specialmente se viene intesa — come avviene in molti casi, per evidente inerzia

semantica — come specializzazione industriale-settoriale. In realtà, la specializzazione smart è da considerarsi più un punto di partenza che un obiettivo da raggiungere. E insomma l’invito a specializzare le politiche e i loro obiettivi, più che a ottenere un maggior livello di specializzazione degli apparati produttivi o a consolidare quello attuale (scelta — si badi bene — del tutto legittima, anche se assai discutibile in una fase di transizione strutturale delle economie). Anzi il risultato di una politica ispirata alla srzart specialization potrebbe (e forse dovrebbe) essere quello di promuovere, attraverso la diversificazione fondata sugli asset e sui potenziali tecnologici, una riduzione della specializzazione e un aumento della varietà, seppure «correlata» [Asheim, Boschma e Cooke 2001], privilegiando, quindi, la dimensione territoriale e urbana, propria a questo ciclo di programmazione. Così pure si può ben immaginare politiche che si concentrino su problemi dei territori che siano particolarmente significativi, come quelli legati alla dispersione fisica degli insediamenti umani e produttivi, allo smaltimento dei rifiuti, alla rivitalizzazione

di produzioni tradizionali o mature, ecc. 3. La governance delle politiche e i processi partecipativi

L'esigenza di focalizzare l’intervento pubblico su un numero limitato di priorità era già presente ed esplicito in quasi tutte le regioni, ma spesso rimaneva un’intenzione e

l’auspicio di una scelta selettiva risultava nei fatti annacquato in liste di «priorità» assai inclusive. Quale probabilità esiste che i fragili governi regionali italiani riescano oggi a essere realmente selettivi, rinunciando al consenso degli interessi che ne risulterebbero esclusi? Il pessimismo a questo proposito è giustificato anche dall’apparente incapacità di sviluppare una 274

vera e propria visione strategica che sia ragionata e specificata

sulle caratteristiche «uniche» della regione, ossia un punto di sintesi politicamente significativo su «dove la regione vorrebbe essere in futuro, quali sono i principali obiettivi da raggiungere e perché essi sono importanti» [Foray ef a/ 2012, 22]. Un rinnovamento dei contenuti delle strategie su ricerca e innovazione comporta inoltre una verifica e un riaggiustamen-

to, quando non una radicale revisione della governance. Ciò riguarda in primo luogo le strutture dei governi regionali e locali e le reti di agenzie ed enti strumentali da essi dipendenti. Si assiste in Europa ad un ruolo sempre decisivo, anche se con modalità e soluzioni diverse dal passato, delle varie regional development agencies [Bellini, Danson e Halkier 2012]. In Italia invece la crisi della finanza pubblica e, più in generale, un atteggiamento preconcetto di sfiducia e ostilità rispetto al ruolo di enti e agenzie (viste come «carrozzoni» e luoghi di elargizione di prebende a esponenti politici) giustificano non solo un freno alla costituzione di nuovi soggetti, ma anzi una tendenza prevalente a ridimensionare l’esistente, con

riduzione delle risorse disponibili, dispersione del capitale umano e un’ostentata enfasi sui temi del controllo della gestione. Nella visione proposta dall'Unione europea, il tema della governance non si limita agli assetti organizzativi del policymaker, ma include le forme di coinvolgimento dei vari stakeholder pubblici e privati, sia nelle fasi di definizione della strategia e di risposta delle azioni sia in quelle di attuazione e realizzazione. L'obiettivo è quello di utilizzare il riferimento alla «quadrupla elica» [Foray et al. 2012, 37], guardando all’innovazione come ad un fenomeno in cui l'utilizzatore deve essere chiamato a compartecipare alla definizione di progetti, idee e politiche. A tal fine si sostiene che i processi di costruzione e attuazione delle strategie per la ricerca e l’innovazione debbano essere veri e propri processi imprenditoriali («an entrepreneurial process of discovery») più che di tradizionale policy making [ibidem]. Non può sfuggire l’esistenza di un’intrinseca contraddizione tra le caratteristiche tipiche di un processo di formazione

delle politiche e l’idea stessa di una «scoperta imprenditoriale»,

che presuppone un grado di creatività e una disposizione al Vi)

rischio inusuali nella programmazione pubblica. L'impegno diretto e le conoscenze delle imprese e degli altri stakeholder devono quindi assumere un peso determinante nell’individuazione delle priorità. In questa prospettiva le tradizionali

routine di concertazione, specie quelle governate in forme più

o meno neocorporative dalle rappresentanze di interessi — già in crisi per motivi endogeni — risultano insufficienti. L’inclusività deve giungere al punto di promuovere attivamente la partecipazione di quei gruppi sociali nel territorio che, pur costituendo fattori evidenti di dinamismo delle nostre società e delle nostre economie (si pensi alle donne, ai giovani o all'immigrazione qualificata), oggi sono esclusi dai processi di concertazione.

Il processo di definizione delle strategie assume in altri termini una complessità politica che non è di facile gestione in nessuna regione d'Europa, e che trova nella dimensione urbana la scala e le competenze più vicine al territorio. Nella proposta dell’Unione europea il coinvolgimento degli stakeholder interni, e quindi il sistema delle connessioni interne, è poi bilanciato da un’altrettanto rilevante connettività sull’esterno, che costituisce una caratterizzazione costante

e importante di diverse fasi del processo. In altri termini, il sistema dell'innovazione ne risulta aperto. La strategia stessa dev'essere outward looking, valorizzando i posizionamenti nelle catene globali del valore, le connessioni con fonti esterne di conoscenza e, sul piano delle politiche, le collaborazioni tra territori e aree urbane, fondate su analogie o complementarietà. La stessa specializzazione è srzarf anche in quanto definisce le proprie caratteristiche e le proprie potenzialità non in termini assoluti e autoreferenziali, ma in termini di posizionamenti relativi rispetto ad altre realtà d'Europa. Anche qui registriamo ritardi diffusi: per un deficit di strumentazioni conoscitive, ma

anche per una tendenza a elaborare strategie che subiscono le influenze esogene, più che interagirci, rimanendo legate a visioni sostanzialmente «chiuse» dei sistemi regionali dell’innovazione piuttosto che «aperte» nella rete delle relazioni tra città. La strategia proposta dev'essere — si dice inoltre — evidencebased. L'interpretazione di questo requisito è tutt'altro che ovvia, perché sfida i governi regionali a dotarsi di strumentazioni 276

analitiche che superino i limiti delle tradizionali analisi macroeconomiche e/o settoriali su scala regionale. In realtà, anche nel recente passato, si notava una qualità media delle elaborazioni strategiche piuttosto elevata, con basi analitiche solide, anche se con una prevalente propensione alla lettura macroeconomica e settoriale, in assenza invece di riflessioni più propriamente legate alle strategie delle imprese e dai posizionamenti sulle catene del valore [Bellini e Grillo 2012]. Emergono dunque esigenze nuove, come quella di una maggior capacità previsionale o quella di una lettura a maglie più fini, che renda conto dei posizionamenti strategici aziendali, oppure quella di identificare i patrimoni di conoscenza e le loro potenzialità di applicazione, oppure ancora di censire gli asset relazionali, specie quelli più rilevanti per contenuti e raggio d’azione. Queste sfide sono peraltro affrontabili non solo e non tanto nel chiuso delle stanze di ricercatori e programmatori, ma aprendo a sua volta la fase analitica e di sistematizzazione dei dati a meccanismi partecipativi che coinvolgano gli stakeholder. 4.

Conclusioni

Infine, la Commissione richiama l’attenzione sull’esigenza di un mix di politiche articolato ed equilibrato. Da questo punto di vista, le regioni italiane appaiono assestate su approcci molto tradizionali, fondati sulla triade «domanda-offerta-

trasferimento». In quest'ambito il punto di debolezza era ed è soprattutto segnato dalla politica della domanda, che risente di un profondo quanto comprensibile scetticismo sulla capacità di strutture economiche caratterizzate da piccole imprese di esprimere una domanda di innovazione e una capacità di partecipazione ai costi e ai rischi dell'innovazione adeguate agli standard di un paese avanzato. Non stupisce quindi che il cofinanziamento privato all'innovazione venga percepito come un elemento marginale rispetto all'impegno della politica, ampiamente rimpiazzato da politiche di innovazione legate al sistema urbano in cui trovano potenziamento.

In conclusione, nel nome della smart specialization si sta oggi svolgendo in Europa e anche in Italia un esercizio di 271

programmazione strategica per l'innovazione da cui dipende buona parte dell’esito e dell’impatto dei fondi strutturali europei per i prossimi sette anni. È tuttavia una sfida che sarebbe pericolosamente riduttivo riportare ad un'esigenza di aggiornamento del metodo e di innovazione delle techricalities, terreno esclusivo degli apparati invece che processo socialmente inclusivo ed eminentemente politico. Il rischio è che l’indebolito regionalismo italiano non abbia la capacità di vedere in quest’esercizio un'occasione per riformare le prassi di programmazione regionale in modo irreversibile e tale da restituire loro un profilo politico oggi apparentemente perduto. Anche da questo punto di vista, la scala urbana emerge come la più-appropriata ad accogliere le nuove sfide proposte dal prossimo ciclo di programmazione.

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278

Ufficio pubblica-

CAPITOLO DECIMO

DAL POLICENTRISMO ALLA CENTRALITÀ DISPERSA

1.

Introduzione

Applicata ai sistemi urbani e territoriali, la metafora del policentrismo ha una valenza interpretativa e al tempo stesso normativa: serve a descrivere la realtà insediativa alla quale si applica e a indirizzarne i processi di trasformazione. Con questa doppia valenza il policentrismo è molto presente nei documenti normativi di pianificazione territoriale in Toscana e ha forti implicazioni progettuali. Tuttavia nel campo della pianificazione territoriale la metafora policentrica tende a semplificare, forzare e ridurre una realtà necessariamente complessa ad un modello interpretativo semplice. Essa rimanda implicitamente ad una configurazione insediativa statica nella quale i diversi centri sono in equilibrio tra di loro e con i territori ad essi circostanti. I sistemi insediativi della Toscana preindustriale avevano in effetti una configurazione christalleriana di questo tipo. Tuttavia le trasformazioni che si sono verificate a partire dal dopoguerra nelle aree di maggiore sviluppo della regione rendono sostanzialmente superata la metafora policentrica, sul piano sia interpretativo che normativo. Occorre una nuova concettualizzazione dei sistemi

insediativi che risponda alla loro realtà fisica e che permetta di gestire le nuove problematiche ambientali e sociali. Il confronto tra strumenti di piano, con particolare attenzione alla Toscana (par. 2), analisi economica (par. 3) ed evoluzione territoriale (par. 4) consente di far emergere le incoerenze tra i diversi aspetti e la necessità di nuovi paradigmi interpretativi (parr. 5-7). Questo capitolo è di Giulio Giovannoni, Dipartimento di Architettura, Università degli studi di Firenze.

279

L'evoluzione concettuale e il confronto con le dinamiche territoriali consentono di introdurre e approfondire i nuovi spunti interpretativi che la letteratura internazionale ci offre per l’analisi dei contesti metropolitani. Da questi ci aspettiamo interessanti stimoli sul piano interpretativo e normativo. In questo capitolo vengono ripercorsi alcuni approcci

nei quali i modi consolidati di comprendere e interpretare questi sistemi insediativi sono in un certo senso invertiti e il

centro tematico è spostato dalla città al territorio dell’urbanizzazione dispersa. Infine sono esplorate alcune implicazioni progettuali che questo cambiamento di prospettiva comporta, ipotizzando una sostanziale coincidenza tra la pianificazione del territorio e la progettazione di sistemi di spazi pubblici concettualizzati come «centralità dispersa». 2.

Policentrismo normativo e concettualizzazione dei sistemi

insediativi in Toscana

Nei documenti normativi di pianificazione territoriale della Toscana il policentrismo si lega alla concettualizzazione della città e della campagna come due entità nettamente distinte e a politiche di tutela finalizzate a preservare e rafforzare questa distinzione. Il Piano territoriale di coordinamento della provincia di Firenze, il cui aggiornamento è entrato in vigore nel marzo

2013, assume tra i suoi obiettivi strategici la salvaguardia del carattere policentrico e reticolare degli insediamenti al fine di: 1) contrastare i fenomeni di dispersione urbana e le saldature tra i diversi insediamenti; 2) ottenere l’effettiva riduzione del consumo di suolo, con particolare attenzione rispetto alla rigenerazione dei contesti periferici e al ridisegno dei margini [Provincia di Firenze 2013b, 5].

i

Coerentemente,

la perimetrazione del territorio aperto è strettamente correlata alla definizione del margine urbano degli insediamenti ed è finalizzata: a impedire ulteriore consumo di suolo agricolo e a incentivare

280

la riqualificazione della frange di transizione città-campagna; a impedire la saldatura degli insediamenti e la conseguente saturazione dei varchi residui, da riservare prioritariamente ai corridoi di connessione alla rete ecologica provinciale; alla conservazione e alla valorizzazione del carattere policentrico e reticolare degli insediamenti; alla salvaguardia del territorio rurale, storicamente connotato da molteplici e complesse funzioni [{bider, 20].

Infine si precisa che il Pic ha proposto un policentrismo urbano e territoriale per valorizzare e sostenere le singole identità locali, partendo dalle loro peculiarità economiche, sociali e territoriali, e nel contempo per metterle in comunicazione e integrarle in un modello reticolare basato sulla complementarietà e sulla relativa specializzazione dei diversi sistemi [Provincia di Firenze 2013a, 11].

L'idea che la città e la campagna debbano essere due entità distinte emerge con chiarezza e si traduce in una disciplina orientata a «contrastare i fenomeni di dispersione urbana e le saldature tra i diversi insediamenti», a «ridisegnare i margini», a «valorizzare e sostenere le singole

identità locali». Non manca tuttavia un accenno alla complementarità tra i diversi insediamenti, da cui traspare anche la consapevolezza della loro inevitabile interdipendenza. Il punto è che tale interdipendenza si manifesta in modi d’uso del territorio che non si legano più come in passato a singoli insediamenti, ma abbracciano territori assai più ampi e contemplano un largo uso dei mezzi di trasporto anche (e soprattutto) privati. Il Piano d’indirizzo territoriale della Regione Toscana, il cui contenuto normativo è per ovvie ragioni più sfumato, propone una visione strategica basata su due componenti:

l'universo urbano della Toscana» e l’«universo rurale della Toscana». L'universo urbano della Toscana è fatto di quella densissima rete di città e centri abitati che, con diverso spessore, consistenza, grammatica costruttiva, sintassi e forma,

marcano e contraddistinguono lo spazio regionale fino a disegnare

281

un sistema organizzativo di natura policentrica di ineguagliabile valore storico, culturale ed economico

nel contesto non

solo

europeo. [Si tratta di] una rete di città che si diffonde nel territorio, con la densità delle relazioni e dei dinamismi che legano i suoi nodi urbani, ma non «pervade» il territorio né lo fagocita nell’indistinguibilità della conurbazione amorfa. [...] Ma è anche una rete di città che rispetta la pienezza della dimensione rurale del territorio regionale, non

solo come

limite e contrasto

alla

banale urbanizzazione della campagna, ma come fattore stesso della qualità toscana con cui si è città [1biderz, 40]. L'universo rurale della Toscana è

quella varietà di campagne, dalla storia economica e sociale diversa ma anch'esse accomunate — tra territori collinari e territori di pianura — da un denso grado di «elaborazione» umana sul piano tecnico e paesaggistico. Campagne variamente «costruite» O varia-

mente «rade» a seconda degli ambiti provinciali in cui ci muoviamo, ma strettamente connesse alle dinamiche dello sviluppo urbano. Tanto che possiamo considerarle, in gran parte del nostro territorio, una sorta di grande mondo «esterno» che avvolge e permea di sé la sfera interiore delle città, i loro tessuti urbani, gli stili di vita dei loro cittadini: per i quali, come raramente in Italia e in Europa si può osservare nella nostra epoca, «campagna» e «città» sono sempre e comunque [...] a vicendevole portata di mano (ibidem, 41].

Nel documento di piano si dà atto che questa è una semplificazione analitica e che vi sono parti essenziali del territorio toscano che «vanno annoverate nella loro peculiarità». Tuttavia è significativo che tra queste peculiarità siano elencate, ancorché a titolo esemplificativo, esclusivamente la costa tirrenica e la montagna, e non per esempio la campagna urbanizzata o gli insediamenti periurbani che contraddistinguono le periferie. Questo semplice quadro analitico-strategico orientato esclusivamente a città che «rispettano la pienezza della dimensione rurale del territorio regionale» può essere adatto a comprendere quella parte della Toscana che circa quarant'anni fa Becattini [1975, 169] indicava come la «campagna toscana [...] coinvolta dal processo di abbandono», contrapponendola alle aree investite dai processi di urbanizzazione del dopoguerra. Tuttavia esso non è adatto a comprendere e governare 282

il «panorama della “campagna urbanizzata”, con le sue maglie talora rade, talora fitte, disegnate da strade, case e fabbriche, con la sua commistione di urbano e di rurale» [{biderz, 181],

o le complesse realtà di gran parte delle periferie urbane, contraddistinte da analoga frammentazione e commistione di funzioni urbane e agricole. 3.

Trasformazioni del territorio e cultura urbanistica

Il disinteresse da parte della cultura urbanistica per i processi contemporanei di urbanizzazione non è un fenomeno nuovo. Per esempio in Italia le prime ricerche che hanno avuto per oggetto la dispersione insediativa non sono di stampo urbanistico, bensì di matrice economica e sociologica. Esse hanno indagato le dinamiche sociali che hanno portato alla formazione dei sistemi di piccola e media impresa in alcune regioni [Becattini 1975; Bagnasco 1977; 1988], ponendo in risalto il ruolo dei sistemi insediativi storici di tipo diffuso sui quali i successivi processi di sviluppo si sono innestati. Ciò ha permesso di inquadrare detto sviluppo in un lungo e ininterrotto percorso storico [De Rita 2000].

Gli urbanisti si sono interessati solo successivamente a questi fenomeni [AA.VV. 1990] e hanno considerato per lo più gli insediamenti dispersi come un problema da risolvere, anziché come una realtà da gestire e migliorare. Rispetto al fenomeno della dispersione insediativa vi è stato un atteggiamento di chiusura. Per esempio in Toscana le ricerche dell’Irpet [Becattini 1975] sulla «campagna urbanizzata» e sull’industrializzazione leggera furono accolte con grande scetticismo, per non dire con ostracismo, dagli studiosi sia in campo economico

che territoriale, come ricordava alcuni anni dopo Giacomo Becattini [1987, 14].

Tuttavia, nel campo degli studi sociali ed economici, si affermarono proprio in quegli anni interpretazioni alternative a quelle consentite dal paradigma fordista allora dominante. Interpretazioni che permisero di «vincere la resistenza dell'economista

(e del sociologo) standard,

[e di affermare]

283

è

l’idea di un'Italia “terza” diversa, per condizioni strutturali e storiche, dalla prima (il Triangolo) e dalla seconda (il SudIsole)» [bidem, 10]. E ciò, com'è noto, ha avuto ripercussioni

di tutto riguardo nel campo delle politiche per lo sviluppo. Invece, a quasi trent'anni di distanza dalle ricerche sopra citate, l’atteggiamento culturale nei confronti della dispersione insediativa non era affatto cambiato tra gli urbanisti, nonostante i progressi nella conoscenza del fenomeno: Che la netta dicotomia città/campagna fosse saltata, era chiaro da un bel po’ di anni; che il fenomeno dell’urbanizzazione della

campagna procedesse, era evidente; ma solo negli ultimi dieci anni, più o meno, si è messo mano a tentativi di valutazione e inter-

pretazione del appartenevano conoscevamo, trasformazione

fenomeno, ma, estremizzo, gli strumenti adoperati alla precedente realtà per cui la città era quella che o per meglio dire che si idealizzava, mentre ogni della campagna rappresentava un «attentato» alla

conservazione del paesaggio. La conseguenza di questa situazione

era un moltiplicarsi di «metafore» e di interpretazioni non «specifiche». La terminologia usata, infatti, è varia e numerosa: urba-

nizzazione della campagna, urbanizzazione diffusa, sprawl urbano, villettopoli, fino a [...] città diffusa, quest’ultima poi classificata come «negazione della città» [Indovina 2009, 113].

L'incapacità da parte degli urbanisti di andare al di là dei modi consolidati di concepire il rapporto tra città e campagna ha impedito di comprendere i problemi e al tempo stesso le potenzialità di quelle forme di urbanizzazione che da tali paradigmi si discostavano. Ciò ha impedito a sua volta che si sviluppasse fino a poco tempo fa una progettualità specifica per questi sistemi insediativi, finalizzata sia a mitigare certe problematiche ambientali e infrastrutturali comunque presenti, sia a cogliere le opportunità di creazione di spazi socialmente significativi che queste aree certamente possono offrire. 4. Città e campagna nell’area fiorentina È interessante confrontare gli approcci normativi dei piani territoriali sopradescritti con la forma dell’urbanizzazione 284

nell’area fiorentina', con particolare riferimento al rapporto

città-campagna. Negli ultimi centocinquant’anni la popolazione urbana dell’area fiorentina è triplicata, passando da 200.000 a circa 600.000 individui. La crescita è stata distribuita omogeneamente nella maggior parte del periodo, con tassi più alti nel dopoguerra e una temporanea inversione dopo il 1981. Nello stesso periodo la stessa area ha subito una massiccia urbanizzazione, trasformandosi da una struttura pressoché christalleriana di centri contenuti l’uno nell’altro, ad una

rete di insediamenti lineari continui che racchiudono al proprio interno ampi spazi aperti. Come in molte-altre città

del mondo l’aperta campagna è diventata una figura il cui «sfondo» è costituito dall’area urbanizzata. Osservando gli insediamenti nell’area metropolitana attorno a Firenze (fig. 1), si nota il loro sviluppo radiale, principalmente orientato verso ovest. Costretta a nord e nord-est dai dossi collinari preappenninici, e a sud-est dalle propaggini meridionali delle colline del Chianti, la trama dell’edificato

si svolge soprattutto lungo le principali direttrici storiche di collegamento verso ovest: la via Sestese, la via Pratese, la via

Pistoiese e la via Pisana.

Effettuando una rappresentazione gestaltica bianco su nero degli insediamenti e delle aree inedificate, si riconosce in modo abbastanza chiaro l’inversione della relazione pieni/vuoti che si verifica procedendo da est verso ovest: a est l'insediamento risalta come figura bianca su sfondo nero (costituito dalle aree collinari), mentre a ovest i vuoti

agricoli emergono come una figura nera su sfondo bianco (costituito questa volta dalle ampie fasce edificate) (fig. 1). Questa grande trasformazione è avvenuta soprattutto per saturazione dei vuoti a partire dalle principali direttici viarie. Essa si è basata cioè sul medesimo principio insediativo che ha guidato lo sviluppo della città a partire dalle sue origini. ! Quest'area è stata identificata come sistema economico locale e comprende i comuni di Firenze, Bagno a Ripoli, Calenzano, Campi Bisenzio, Fiesole, Lastra a Signa, Scandicci, Sesto Fiorentino e Signa [Irpet-Regione Toscana 2001].

285

Fic. 1. Rappresentazione figura-sfondo degli insediamenti (bianco) e delle aree edificate (nero) nell’area attorno a Firenze, verso nord-ovest.

Ciò che è cambiato rispetto al passato — e non è cosa di poco conto — è la dimensione della crescita, che si accompagna alle trasformazioni demografiche cui accennavamo e che tende ormai a saturare l’intero territorio di pianura. Questi grandi cambiamenti ci costringono a ripensare le

nozioni con cui siamo abituati a comprendere la città. Diversi ricercatori in tutto il mondo hanno studiato le nuove forme insediative, cercando di evidenziare le forze economiche e sociali che le hanno determinate. In tali sforzi analitici è stata creata una pletora di definizioni, variamente correlate alla morfologia degli insediamenti e alle dinamiche economiche?. Sebbene questo «gioco di nomi» possa apparire confondente, ormai è sufficientemente chiaro che le tradizionali distinzioni tra città e campagna, centro e periferia, naturale e artificiale, ? Un elenco completo sarebbe troppo lungo. Questi sono solo alcuni esempi: informational city [Castells 1989], edge city [Garreau 1991], global region [Sadler 1992], technopolis [Scott 1993], post-suburbia [Teaford 1997], reverse city [Viganò 2001], exopolis [Soja 1996], post-metropolis

[Soja 2000], edgeless city [Lang 2003], Zwischenstadt [Sieverts 2003], arcipelago metropolitano [Indovina 2009].

286

stanno diventando inutili se non addirittura ostruttive della nostra capacità di comprendere e di governare questa nuova e complessa realtà. Questo vale anche per la pianura fiorentina, che appare oggi come il paesaggio della frammentazione, con diversi assortimenti di sfasciacarrozze, carceri, ospedali, infrastrutture,

centri commerciali, parcheggi, multicinema, distributori di

benzina, capannoni, caserme, attrezzature sportive, frammenti

di città compatta, quartieri pianificati, insediamenti lineari storici; il tutto mescolato un po’ ovunque ad ampi spazi aperti usati per l'agricoltura o apparentemente inutilizzati. Questo paesaggio non è né urbano né rurale: non è il centro

storico della città compatta, dove si va a fare shopping e a intrattenersi in mezzo ai turisti, né è il paesaggio perfetto delle colline toscane, dove ci si va a riposare nei resort e nelle Spa. In questo territorio — caratterizzato da scarsi valori architettonici e dalla pressoché totale mancanza di unità della forma urbana — circa la metà dei fiorentini trascorre la propria esistenza. In tale ambiente di vita, lontano dalle orde di turisti che visitano il centro di Firenze, spazi apparentemente anonimi sono usati per la vita di tutti i giorni. Alcuni giovani ascoltano la musica di notte nel parcheggio di un centro commerciale. Un gruppetto beve una birra all'aperto di fronte al McDonald's, in una stazione di servizio. Altri si ritrovano al multicinema, guardano un film, e passano

un po’ di tempo nei pub sottostanti. I palati più esigenti si fermano al caffè di un’altra stazione di servizio, che è uno

dei migliori dell’area ed è aperto tutta la notte. Le madri si danno appuntamento all’outlet, lasciano i ragazzi con i mariti al parco giochi, per poi andare tutti insieme a mangiare la pizza al ristorante in una vecchia casa colonica lì vicino. Ogni giorno gli spazi ordinari della città frammentata della periferia sono usati dai propri abitanti in modi pressoché infiniti, soddisfacendo i loro bisogni sociali e materiali. Questi spazi meritano di essere osservati e studiati senza

pregiudizi, andando al di là dei vecchi paradigmi disciplinari e cogliendo le opportunità di miglioramento della qualità ambientale e urbana che la presenza di un ricco tessuto sociale certamente può offrire. 287

è

5. I «paesaggi di mezzo» tra vecchi e nuovi paradigmi Gran parte dei paesaggi urbanizzati contemporanei sono

dei «paesaggi di mezzo», a metà strada tra l’urbano e il rurale. Di fronte a questi fenomeni di frammentazione e di dispersione i professionisti e gli studiosi possono: a) accettare il nuovo e farci i conti; b) rifiutarlo e cercare di ricreare

paesaggi urbani tradizionali. Sebbene entrambi gli approcci siano legittimi, quelli tradizionalisti? possono applicarsi nella migliore delle ipotesi a frammenti di più ampi patchwork che restano in ogni caso complessi e caotici. Possono creare, per così dire, delle oasi di ordine neghentropico all’interno di interi caratterizzati da disordine entropico. Tra i professionisti che hanno reinventato la professione nel cercare di fare i conti con il nuovo, Koolhaas [1995] e Office for metropolitan architecture (Oma) non si sono dati pressoché alcun limite nell’esplorarne le implicazioni sulla progettazione urbana, e si trovano per così dire al limite di un più ampio spettro di atteggiamenti progettuali. Una generazione più giovane di architetti, da De Meulder a Viganò', fa i conti in modo ancor più diretto con la spraw/town [Ingersoll 2006] o la Zw:schenstadt [Sieverts 2003], spesso concependo nuove forme in cui urbano e rurale si contaminano vicendevolmente. Essi considerano la frammentazione come un’opportunità per accogliere la vita sociale e promuovere la sostenibilità. L'indeterminatezza della forma e degli usi produce appropriazioni spesso inattese da parte degli abitanti, che vale la pena di scoprire e di considerare anche in chiave progettuale. In queste situazioni di frammentazione, l’unica apparente rivendicazione legittima di unità della forma urbana viene dai tentativi di riconnettere i vuoti urbani in una rete di aree verdi, concepite come «interi» che possano supportare

? Per una rassegna dei principali approcci neo-tradizionalisti nel continente europeo e nella tradizione anglosassone, cfr. Ellin [1999]. ' Segal e Verbakel [2008] illustrano numerosi approcci progettuali relativi a insediamenti dispersi e frammentati.

288

diverse attività sociali e di tempo libero e migliorare le prestazioni ambientali. Anche in Italia, a partire dall'inizio degli anni Duemila hanno iniziato ad affermarsi, ancorché in misura minoritaria, nuovi modi di guardare alla dispersione insediativa. Paola Viganò [2001, 127-150] ripercorre «un filone e una tradizione di riflessione sulla città che la concettualizzano nei termini di inversione dei rapporti tra pieno e vuoto, nei termini cioè di reverse city». A questa tradizione di ricerca appartengono tra l’altro il disurbanismo sovietico degli anni Venti, la Broadacre city di Wright, i concetti di città-territorio di Wells e di cittàregione di Quaroni. Nel panorama consolidato della letteratura urbanistica italiana, ripercorrere questi modi alternativi di considerare il rapporto tra città e campagna, tra pieni e vuoti, ha un significato dirompente e apre ad una possibile revisione delle interpretazioni dei processi di urbanizzazione in Italia, nonché ad una considerazione progettuale del tutto nuova dei territori della dispersione. Nelle esplorazioni progettuali di Secchi e Viganò per la regione metropolitana di Venezia, ciò si traduce in un progetto di isotropia [che] è al tempo stesso il riconoscimento di una specificità territoriale, uno scenario da indagare nelle sue diverse conseguenze, e un’ipotesi progettuale che può essere concretamente concepita in termini di intervento sul sistema dell’acqua, sulla viabilità e il trasporto pubblico, la mobilità alternativa, forme diffuse di welfare, un’agricoltura innovativa e la produzione decentralizzata dell'energia [Viganò 2008, 371. Indovina [2009, 209-230], evidenziando i limiti delle ricerche sulla diffusione insediativa fino ad allora condotte, si

chiede: «C'è qualcosa di diverso e di nuovo oltre la diffusione? Come provare a realizzare obiettivi di migliore vivibilità nell'ambito delle tendenze in atto?». Per rispondere a queste domande propone di aggiornare la metafora della città diffusa, utilizzata per descrivere i fenomeni di dispersione urbana nel Veneto, con quella dell’arcipelago metropolitano. La nuova

metafora serve sia a prendere atto delle nuove tendenze in atto che a proporre un diverso atteggiamento progettuale.

289

Le nuove tendenze in atto consistono nella wetropolizzazione del territorio, cioè nella delocalizzazione in contesto

extraurbano di funzioni che fino a pochi anni prima continuavano a essere esclusivo appannaggio della città compatta tradizionale: servizi di «governo» (politico, amministrativo, economico, comunicazione, ecc.), poli di eccellenza (della ricerca, della formazione, della cultura, ecc.) e simili. Ciò

determina un’organizzazione del territorio che modifica il flussi di mobilità e arricchisce il territorio di sempre maggiori funzioni metropolitane: Emerge-una tendenza che è possibile definire come specializzazione territorialmente articolata: il territorio si organizza attraverso «micro» poli specializzati (per esempio per il commercio, per il tempo libero, per la sanità, per l'istruzione superiore, per il teatro, ecc.), la cui fruizione non è «locale» (della popolazione che vive nello spazio circostante

stretto), ma

territoriale, cioè

di «area vasta»; ciascuno dei «micro» poli serve la popolazione di tutto il territorio considerato [1bidem, 221].

Il diverso atteggiamento progettuale consiste nell’andare oltre il semplice rifiuto della città diffusa, riconoscerne gli aspetti positivi e cercare di contenerne i costi ambientali ed economici. Ciò si traduce in una rivalutazione della pianificazione di area vasta che diventa, in conseguenza delle trasformazioni sopra accennate, «la frontiera più avanzata di governo della città e del territorio». Constatando che la pianificazione territoriale non ha mai avuto per oggetto l’arcipelago metropolitano precedentemente descritto, Indovina ne ipotizza alcuni requisiti: Il suo contenuto non potrà non essere strategico per la costruzione di un contesto urbano allargato; deve aiutare a definire le polarità articolate dell’intero territorio; deve «contenere» tutte le politiche pubbliche (in termini di definizione e di attivazione) necessarie a realizzare gli obiettivi [1bidemz, 225].

Essa deve aspirare tra l’altro all’equità e alla densificazione, allo sviluppo locale e alla diffusione dell’innovazione, all’avanzamento culturale e al recupero del patrimonio, alla soluzione dei conflitti e all’infrastrutturazione.

290

Gli studi di Viganò e di Indovina prefigurano un mutamento di paradigma nei confronti della dispersione insedia-

tiva, in quanto superano e in un certo senso «ribaltano» i

modi consolidati con cui essa è stata compresa e interpretata. In essi il centro tematico è spostato dalla città al territorio dell’urbanizzazione dispersa. Nella metafora dello spazio isotropico la città compatta quasi non trova collocazione. Nella metafora dell’arcipelago metropolitano essa diventa scoglio, o al più isola, importante ma non più centrale. Nell’arcipelago metropolitano, così come nello spazio isotropico, viene meno la distinzione tra centro e periferia: tutto è centro, 0 ciò che è lo stesso tutto è periferia. Ritengo che siamo di fronte ad un mutamento di paradigma 77 fieri. Come in ogni rivoluzione scientifica [Kuhn 2009] esso ha i suoi strenui oppositori, tra cui certamente Gibelli e Salzano [2007], con la loro

critica perentoria e argomentata all’indifferenza manifestata da molta cultura urbanistica italiana recente nei confronti dei costi pubblici e collettivi associati alla dispersione insediativa, e la consapevolezza della necessità di una nuova stagione di riforme in materia di pianificazione urbanistica e territoriale.

Che tuttavia di mutamento di paradigma si tratti è a mio avviso del tutto chiaro, alla luce della totale inadeguatezza dei paradigmi tradizionali a spiegare le trasformazioni contemporanee e quindi a proporre metodi di gestione delle stesse che vadano al di là di un più o meno mascherato ritorno al passato. Non è qui la sede per dilungarsi su ciò, per cui mi limito a rinviare all’ottima critica di Sieverts [2003, 19-45] dei principali concetti tradizionalmente associati all’idea di città: urbanità, centralità, densità, commistione di usi, periferia. Invece, mi

interessa portare avanti il ragionamento sulle implicazioni progettuali che questo cambiamento di paradigma comporta. 6. Dal policentrismo alla centralità dispersa

L’analisi fin qui condotta fa emergere alcuni punti condivisi dai quali è possibile partire. Il primo è che occorre gestire 291

la nuova realtà ad una dimensione territoriale. Ciò emerge nelle proposte progettuali di Viganò, nell'analisi di Indovina, e anche nell’analisi di Sieverts, il quale propone «una nuova forma di pianificazione regionale» [biderz, 121-148]. Questo è un punto fondamentale che dovrebbe stare a cuore agli urbanisti: accettando il cambiamento e lavorando sul nuovo paradigma, la pianificazione, di fatto marginalizzata dagli eventi negli ultimi decenni, può tornare ad avere un ruolo centrale. Nel condividere la tesi della centralità della pianificazione territoriale intendo tuttavia puntualizzarne un aspetto a mio avviso fondamentale: alla luce dei cambiamenti in atto nella città contemporanea si può ipotizzare la sostanziale coincidenza tra la pianificazione territoriale e la progettazione di reti infrastrutturali ed ecologiche concepite come sistemi integrati di spazi pubblici. Proverò a illustrarne le due principali ragioni. La prima è che uno degli aspetti fondamentali della dispersione insediativa è l'abbondanza di spazi aperti. Pressoché ogni edificio è contiguo, o quantomeno vicino, ad un qualche appezzamento di terreno verde che può essere usato per l’agricoltura urbana, per i parchi, o semplicemente inutilizzato. Ciò permette di progettare gli spazi aperti come un sistema integrato di elementi interconnessi. Tale sistema può essere immaginato come una centralità dispersa, o se preferiamo come un centro isotropo, al quale sia possibile accedere indifferentemente da ogni parte del territorio. La seconda ragione è che nei processi di urbanizzazione contemporanea lo spazio pubblico ha perso una delle sue funzioni e caratteristiche più importanti: la funzione di connettere e il fatto di essere esso stesso infrastruttura. Essendo venuta meno questa condizione, gli spazi pubblici tradizionali si trovano oggi marginalizzati rispetto ai flussi di persone, mierci e informazioni.

Questa trasformazione

strutturale

non trova il giusto risalto negli studi urbani, soprattutto in relazione alle sue conseguenze sulla forma e sul funzionamento dei sistemi insediativi. Per comprenderne l'entità si può notare come in tutte le città storiche gli spazi pubblici del centro coincidessero in buona parte con i percorsi di collegamento urbano e territoriale. A titolo esemplificativo, 945).

la centralissima via dei Banchi di Siena, attorno alla quale si articolavano le principali piazze e luoghi pubblici, altro non era che il tratto urbano della via Cassia. Analogamente

a Firenze, come in tutte le altre città europee, i principali spazi pubblici erano fortemente integrati a quella parte della viabilità urbana che apparteneva al sistema più ampio dei collegamenti territoriali. La mobilità lenta e quella veloce coesistevano sulla stessa infrastruttura e gli spazi pubblici erano in buona parte i collettori dei principali flussi. Nel territorio contemporaneo tutto ciò non è più possi-

bile. Per ovvie ragioni, la mobilità lenta e la mobilità veloce utilizzano reti separate. Rispetto al passato il «centro» — inteso come infrastruttura su cui si concentra la vita sociale — è stato

«spacchettato» in almeno tre parti: le vie di comunicazione veloce, esclusivamente dedicate alla mobilità; le strade lente

carrabili, dove sono ancora possibili alcune funzioni centrali; la rete della mobilità alternativa, per lo più pedonale e ciclabile. Chiamerò per semplicità queste tre reti rispettivamente la «rete veloce», la «rete lenta» e la «rete alternativa». Al meta-centro costituito da queste reti, che è al tempo stesso isotropo, reticolare e multilivello, si legano una serie

di nodi funzionali che rappresentano per così dire il nuovo centro disperso della città contemporanea: spazi commerciali a ridosso della rete veloce, enclave pedonalizzate dei centri

storici, grandi contenitori per lo svago, centri direzionali, luoghi per il culto e l'educazione. Il progetto dello spazio pubblico della città/territorio contemporanei è il progetto congiunto di queste reti e di questi nodi. Nella città contemporanea alla separazione traffico/spazi centrali si aggiunge la ben nota separazione luoghi di residenza/ luoghi di consumo. Il processo investe ugualmente i vecchi centri storici, che diventano spesso delle enclave turistiche 0 dei centri commerciali all'aperto, e le nuove «cattedrali del

consumo»

[Ritzer 2005]. Mentre nei fine settimana questi

spazi hanno un'altissima intensità d’uso, in altri momenti della settimana possono essere appropriati dalla popolazione come

luoghi di svago e ricreazione. Per questa loro doppia valenza è importante che tali nuove centralità [Morandi 2006], ad oggi connesse quasi esclusivamente alla rete veloce, siano rese 293

permeabili anche alla rete lenta e alla rete alternativa. Tali complessi dovrebbero essere delle specie di Giano bifronte o di «edifici ambigui e compositi» [Rowe e Koetter 1981], in grado di interfacciare la dimensione territoriale a quella locale. Tuttavia gli spazi del consumo, siano essi i centri storici «trasformati» o i nuovi centri commerciali, possono sopperire solo in parte al bisogno di socialità. In assenza di una forma urbana compatta la vita sociale si trasferisce dalle strade e dalle piazze a luoghi che non sono specificamente pensati come spazi pubblici. Essa si manifesta dove i bisogni materiali e sociali di tutti i giorni trovano soddisfazione: di fronte alle scuole e negli spazi di gioco dei bambini, nelle parrocchie disperse di campagna, nelle stazioni di servizio, nei parcheggi, lungo le rive dei fiumi e in altri spazi aperti che sono usati per lo sport e per le attività ricreative. Situazioni di questo tipo offrono altrettante occasioni per la creazione di nuove centralità di livello locale, nelle quali sia ancora possibile una socialità disgiunta dal consumo. La rete delle chiese di campagna, un’infrastruttura storica isotropa che ricopre l’intero territorio italiano, continua a essere in più di un caso un centro simbolico e funzionale nelle situazioni di dispersione insediativa. Attorno ad esso si possono creare piccoli cluster di servizi quali scuole, parchi giochi, campi sportivi, spazi agricoli attrezzati.

In definitiva il progetto territoriale dovrebbe essere un progetto alle diverse scale della doppia rete — ecologica e infrastrutturale — e dei nodi di socialità ad essa legati. 7.

Conclusioni

In questo saggio si è ripercorso il significato del concetto di policentrismo in ambito economico e urbanistico, distinguendo per ciascuno di questi due ambiti la valenza normativa e quella interpretativa. Quindi si è descritto il policentrismo normativo in alcuni piani territoriali in Toscana, mostrando come esso si leghi alla concettualizzazione della città e della campagna come due entità distinte e si traduca in politiche di tutela finalizzate a preservare e rafforzare questa 294

separazione. Quest’orientamento normativo ci è parso inade-

guato a comprendere e governare realtà complesse come la «campagna urbanizzata» o le periferie delle principali città, caratterizzate da una notevole frammentazione e commistione di funzioni agricole e urbane. Esso è stato inquadrato nell’ambito di un più generale disinteresse da parte della cultura urbanistica per i processi contemporanei di urbanizzazione.

Tale disinteresse ha impedito, fino a poco tempo fa, che si sviluppasse una progettualità specifica per questo tipo di sistemi insediativi. Quindi si è confrontata la forma dell’ur-

banizzazione nell’area fiorentina, con particolare riferimento al rapporto città-campagna, con gli approcci normativi dei piani territoriali sopradescritti, dimostrando l'inadeguatezza di questi ultimi. Si è poi mostrato come all’estero, e più di recente anche in Italia, si stiano affermando nuovi approcci interpretativi per questi «paesaggi di mezzo» che si trovano in posizione intermedia tra l’urbano e il rurale. Questi approcci fanno pensare ad una svolta paradigmatica nella quale i modi consolidati di comprendere e interpretare questi sistemi insediativi sono in un certo senso invertiti e il centro tematico è spostato dalla città al territorio dell’urbanizzazione dispersa. Infine si sono esplorate alcune delle implicazioni progettuali che questo cambiamento di prospettiva comporta, ipotizzando una sostanziale coincidenza tra la pianificazione del territorio e la progettazione di sistemi di spazi pubblici concettualizzati come una «centralità dispersa» composta da una doppia rete — ecologica e infrastrutturale — e dai nodi di socialità ad essa legati.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2014 presso le Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

VU

L'attuale fase di sviluppo economico, caratterizzata dalle. crescenti difficoltà dei distretti industriali e dalla crescente domanda di innovazione, spinge ricercatori e politici a interrogarsi sull'adeguatezza delle configurazioni urbane, per valutare le ipotesi di riforma eventualmente necessarie. A partire dai primi anni Duemila, e soprattutto a seguito della crisi, il tema della dimensione più efficiente delle città ha riscosso un crescente interesse, per le potenzialità di queste di generare sviluppo e di migliorare la qualità urbana e l'equilibrio territoriale. Oggi, poi, la situazione economica, nazionale e internazionale, spinge a valorizzare le potenzialità dei nostri territori e a migliorarne la capacità competitiva anche attraverso riforme istituzionali come la costituzione delle città metropolitane, alimentando il dibattito in proposito. Questo volume intende fornire un contributo alla riflessione, attraverso i saggi di alcuni tra i maggiori esperti italiani ed europei su tematiche quali l'adeguata definizione e misurazione di rango urbano e delle economie di agglomerazione; i vantaggi netti di diverse configurazioni urbane; la resilienza nell'affrontare la crisi economica e garantire uno sviluppo territoriale equilibrato. CHIARA AGNOLETTI è ricercatrice presso l’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet). ROBERTO CAMAGNI è professore ordinario di Economia urbana al Politecnico di Milano.

SABRINA IOMMI è ricercatrice presso l'Istituto regionale per la programmazione economica delia Toscana (Irpet).

PATRIZIA LATTARULO è dirigente di ricerca dell'Istituto regionale pe la programmazione economica della Toscana (Irpet) e ne coordina l’are Economia pubblica e territorio.

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