Che cos'è una contraddizione 8843075160, 9788843075164

"Non è possibile che la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia": così Aristotele formula il

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Che cos'è una contraddizione
 8843075160, 9788843075164

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l'edizione, marzo 20lS © copyright 20lS by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel marzo 20lS da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 17idella legge 22 aprile 1 941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele Il, 229 00186 Roma tel 06 4281 84 17 fax 06 427479 31 Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore

Francesco Berta Lorenzo Bottai

Che cos' è una contraddizione

Caro cci editore

@

Bussole

Indice

Introduzione

7

1.

Principio di non-contraddizione

1.1.

Uno strano cliente

1.2.

Una definizione

1.3.

Principio sintattico, logico, ontologico e psicologico

9

9 IO

1+ Le sfide al Principio

2.

Sulla detonazione

2.1.

Ex contradictione quodlibet

so SO

2.2. "Cambio di logica, cambio di argomento" 2.3.

Classical recapture

,6

60

2.4. Paraconsistenza e dialeteismo

3.

Approcci non aggiuntivi

62

6S

3.1.

La logica discussiva

3.2.

La logica dell' inconsistenza di Rescher e Brandom

3.3.

Problemi degli approcci non aggiuntivi

65

Sistemi positive-plus

77

4.2. La negazione dacostiana e i suoi problemi

s.

75

77

4.1. Logiche dell' inconsistenza formale 4.3. Logiche adattive

70

73

3+ La strategia a frammentazione di David Lewis

4.

13

17

81

84

La logica del paradosso

86

5.1.

Introduzione alla logica del paradosso

5.2

Vero, falso, vero e falso

86

87

s

5·3·

LPQe i multi-criterial terms

5+ La

93

classical recapture in Priest

94

6.

La logica della rilevanza

6.1.

Introduzione

98

6.2. Implicazione rilevante 6.3.

Semantiche rilevanti

6+ Ultralogica

98

99 100

104

6.5.

Problemi rilevanti

7.

Problemi delle logiche paraconsistenti

7·1.

Ipercontraddizioni

10S

109

7.2. Il problema dell'esclusione

Bibliografia

6

I 2I

114

109

Introduzione

Cosa accade quando il Principio di non-contraddizione, formulato da Aristotele e considerato per più di duemila anni la legge logica più autorevole nella storia del pensiero occidentale, viene messo in discussione ? La risposta viene dalle famiglie delle logiche della con­ traddizione, o logiche paraconsistenti, che nascono appunto per trattare proficuamente una contraddizione nel proprio bagaglio concettuale. Questo libro dunque si propone come un' introduzione accessibile a tale tema. In primo luogo saranno introdotti i termini della discussione che delimitano lo scenario in cui si svolge la disputa: che cos'è una con­ traddizione, come si presenta, e le varie formulazioni che ne seguo­ no del principio che le vieta, il Principio di non-contraddizione. In questo modo emergeranno le motivazioni all 'origine delle logiche paraconsistenti, ossia i paradossi, tanto nella versione semantica con le varianti del paradosso del mentitore, quanto nella teoria degli in­ siemi con l 'enunciazione del paradosso di Russell. Vedremo come un paradosso conduca a una contraddizione e come le soluzioni finora proposte non riescano a superare lo scoglio delle contraddizioni. Da qui la proposta di mettere in discussione il Principio aristotelico e introdurre delle logiche tolleranti verso le contraddizioni. Così, prima di passare in rassegna i principali sistemi di logiche para­ consistenti, analizzeremo nel secondo capitolo i requisiti metodolo­ gici che devono essere soddisfatti affinché una logica possa ammette­ re contraddizioni, così da avere un criterio per valutare i sistemi che verranno presentati. Successivamente, dal terzo capitolo entreremo nel dettaglio delle fa­ miglie di logiche paraconsistenti, cominciando con alcuni approcci detti non aggiuntivi, tali in quanto rifiutano la regola dell ' aggiunzio­ ne. Tra questi si annoverano la logica discussiva, cronologicamente il primo abbozzo di logica tollerante verso le contraddizioni, svilup­ pata dal logico polacco Stanislaw]askowski, poi la logica dell' incon­ sistenza di Nicholas Rescher e Robert Brandom, e infine la logica a 7

frammentazione introdotta da David Lewis. In questo capitolo af­ fronteremo anche i punti deboli degli approcci non aggiuntivi. Proseguendo, nel quarto capitolo prenderemo in esame i cosiddet­ ti sistemi positive-plus, caratterizzati da un particolare trattamento della negazione. Tra questi ci soffermeremo sulla logica dell ' inconsi­ stenza formale con la sua gerarchia, sviluppata dalla scuola brasiliana sotto la guida di Newton da Costa. Un altro sistema positive-plus che vedremo è la logica adattiva, introdotta dai lavori di Diderik Batens e dei suoi collaboratori a Ghent. Il quinto capitolo sarà dedicato alla logica del paradosso di Graham Priest e tratterà anche di alcune idee filosofiche dell'autore. Il nome di Priest compare sovente nell' intero volume, poiché è colui che in ambito analitico ha scritto i lavori di più ampio respiro filosofico sul tema della contraddizione. L'ultimo gruppo di logiche paraconsi­ stenti troverà spazio nel sesto capitolo, dedicato ai sistemi della logica della rilevanza e alla vasta discussione in corso sulla loro semantica. Il testo si concluderà poi con un capitolo che affronta specificata­ mente i problemi logici e filosofici che attanagliano le logiche para­ consistenti. In dettaglio, ci soffermeremo prima su alcune particolari contraddizioni, le cosiddette ipercontraddizioni, il cui trattamento sembra costituire un problema anche per le semantiche paraconsi­ stenti, poi esamineremo le difficoltà espressive a carico della paracon­ sistenza, ossia quelle connesse alla necessità di fornire una nozione accettabile di esclusione. Un'ultima avvertenza per i lettori. Il libro che state sfogliando è prin­ cipalmente un libro di logica, tuttavia la sua comprensione non ri­ chiede una particolare conoscenza pregressa della disciplina. È vero che, seppur in modo parsimonioso, abbiamo fatto ricorso al simbo­ lismo logico che la materia mette a disposizione, ciò nondimeno il suo uso è sempre accompagnato da una spiegazione che dovrebbe rendere chiaro il significato delle formule impiegate. Dopotutto, tali formule sono funzionali alla comprensione del tema trattato. Per questo ci auguriamo che la loro comparsa qua e là nel testo non incu­ ta timore, ma che anzi la loro spiegazione le renda accessibili anche al lettore meno avvezzo al formalismo della logica. Ad ogni modo, buona lettura.

8

I.

Principio di non-contraddizione

1.1. Uno strano cliente

Proviamo a immaginare, per amor di discussione, che ai giorni no­ stri Aristotele si trovi a lavorare in una caffetteria per arrotondare l 'assegno di ricerca che ogni mese gli passa l'università. Mentre è in servizio al bancone, entra nel locale un insolito avventore: Eraclito. Quest 'ultimo ordina un caffè e Aristotele, con fare cortese, gli do ­ manda: « Come vuole il caffè, normale o macchiato ? » . La risposta che ottiene lo lascia alquanto interdetto, poiché Eraclito, altrettanto cortesemente, dice : « Lo vorrei macchiato e non lo vorrei macchia­ to » . Com 'è possibile ? C 'è qualcosa di bizzarro nella richiesta di Era­ clito. Assumendo che essere macchiato è una proprietà che nel caffè viene esemplificata con l'aggiunta di latte - e viceversa, non essere macchiato senza aggiunta di latte - il cliente di Aristotele desidera qualcosa che possegga contemporaneamente due proprietà mutual­ mente escludentisi. Di rimando, una possibile risposta abbozzata a Eraclito potrebbe suonare così : « Spiacente, ma un caffè macchiato e non macchiato è qualcosa di contraddittorio e la sua richiesta vìola il principio di non contraddizione » . La questione non riguarda ovviamente i gusti d i Eraclito, ma qualco ­ sa di più fondamentale, che va a toccare in primis le sfere dell 'essere e della logica. Infatti, se ragioniamo in modo corretto, dovremmo evitare di cadere in contraddizione. Cioè dovremmo rispettare quella legge chiamata appunto Principio di non-contraddizione (PNC). Tornando alla realtà, questo sembrerebbe un fatto basilare e non è un caso che il vero Aristotele definisca il PNC come ilprincipio piu saldo di tutti. Tale qualifica - che incontriamo nel libro r della Metafisica - sta a esprimere che il P CN è stato considerato la legge più certa e incontro­ vertibile del pensiero e dell 'essere, e quindi posto come fondamento supremo della conoscenza e della scienza. li filosofo greco è stato il pri9

mo a fornirne una sistematizzazione in diverse parti dei suoi scritti e ha inquadrato la questione spaziando su diversi aspetti come lo status logico, ontologico e psicologico. Infatti il corpus aristotelico sul PNC è la pietra angolare con cui si è confrontato chiunque abbia trattato tale argomento. Tuttavia, prima di entrare nel dettaglio dell' analisi, è op­ portuno definire i termini in discussione : sapere cos'è il PNC presuppo­ ne prima di tutto che siamo informati su cosa sia una contraddizione. 1. 2 . Una definizione

Fornire una nozione di contraddizione può apparire problematico, se non altro alla luce della quantità di definizioni disponibili sul mer­ cato. Una contraddizione si dice in molti modi e, non a caso, in uno studio del 2.0 0 4 Patrick Grim ne ha raccolti in letteratura circa 240 diversi. Senza abusare del simbolismo logico che la materia mette a disposizione, possiamo inquadrare l 'oggetto della discussione in quattro ambiti che differiscono tra loro su come catturare il riferi­ mento a una contraddizione. L' idea sottostante comune a questi ambiti è che una contraddizione si dà quando si prende in blocco un enunciato e la sua controparte negativa. La seguente tassonomia potrebbe risultare un po' pedante e noiosa, ma è il caso di prestarle attenzione perché ci tornerà urile in tutto il resto del libro. lo Il primo gruppo è quellosintattico che riAette sull'aspetto formale delle contrad­ dizioni: quale configurazione logica è richiesta affinché queste si diano. Tale confi­ gurazione è data dalla congiunzione di due enunciati, uno la negazione dell'altro. Dunque, la contraddizione in senso sintattico è definita dalla seguente formula:

dove a rappresenta qualunque enunciato dichiarativo, è il simbolo della negazio­ ne, mentre 1\ è quello della congiunzione logica. Orbene, semplificando possiamo stabilire per esempio che a sta per "la candela sta bruciando"; CI allora può essere letta come "La candela sta bruciando e la candela non sta bruciando". Tale formu­ lazione sintattica è detta collettiva e si contrappone a una lettura distributiva della contraddizione: ....,

IO

Quest'ultima si differenzia da CI, come si può facilmente notare, per il fatto che è presa non come una congiunzione, ma come una coppia di enunciati, di cui uno nega l'altro. Per inciso diciamo subito che questa distinzione sarà rilevante quando ci occuperemo di certe teorie, dette non aggiuntive, che alterano il trattamento stan­ dard della congiunzione. Ad ogni modo, la dicoromia collettiva/distributiva è tra­ sversale alle diverse versioni della nozione di contraddizione considerate di seguito. 2.. Un altro modo per catturare la definizione di contraddizione è dato mediante l'impiego di nozioni prettamente semantiche, ovvero verità e falsità. Pertanto pos­ siamo etichettare quesro gruppo di contraddizioni come logico-semantiche. L'idea di base è configurare la contraddizione in termini di proposizioni con valori di ve­ rità opposti. Infatti è abbastanza intuitivo pensare che, mettendo insieme qualcosa che è vero ed è falso, si dia luogo a una contraddizione. Adoperiamo dunque Ve F per i predicati di verità e falsità applicati a nomi di enunciati e stabiliamo che, in generale, ra l è il nome di a. Avremo allora una prima formulazione semantica:

che è costituita dalla congiunzione di un enunciato vero e falso. In logica è invalsa la consuetudine di caratterizzare la falsità come verità della negazione, si accetta cioè che un enunciato falso è equivalente alla negazione dell'enunciato vero, come segue: (Negl)

F(ral) B V(r,al),

dove B rappresenta il simbolo del bi condizionale; nel nostro caso ci interessa sapere che può esprimere un rapporto di equivalenza tra quanto sta a destra della freccia e quello che sta a sinistra. In questo modo possiamo definire la contraddizione come la congiunzione di due enunciati veri, uno la negazione dell'altro. Ovvero :

la cui lettura suona come "L'enunciato a e la sua negazione sono entrambi veri". Mentre c 'è abbastanza accordo tra i logici nell'accettare l'equivalenza appena pro­ posta, è più controversa quella tra falsità (o verità della negazione) e non verità. In altre parole è più problematico dire che "La negazione dell'enunciato a è vera se e solo se a non è vero� che in simboli appare come:

Pertanto, se accettiamo l 'equivalenza appena proposta, siamo in grado di fornire l'ultima definizione semantica della contraddizione: (C2.c)

V(ral)I\,V(ral), II

sostenendo cioè l a congiunzione d i u n enunciato che è vero e non-vero. Quest'ulti­ ma, in virtù di Neg2, è equiparabile alle contraddizioni C2a-C2b. 3. Abbiamo poi formulazioni propriamente metajìsiche in cui si adoperano no­ zioni tipiche dell'ontologia, come quelle di oggetto, individuo, proprietà, situazio ­ ne, stato di cose ecc. I n questo caso, u n a contraddizione metafisica può essere intesa in termini di proprietà goduta da un individuo oppure di uno stato di cose che sussi­ ste in un oggetto. Procediamo prendendo brevemente in considerazione una logica del secondo ordine, ovvero un linguaggio che adopera variabili predicative -lettere latine maiuscole corsive come P, 2 - e quantificatori - esistenziali nella forma :3 e universali nella formaVPer inciso premettiamo che la forma grafica di questi ultimi non ci dovrebbe spaventare. In questo testo, come già intravisto, compariranno qua e là lettere o simboli inusuali; essi non sono mostri grafici pronti a incutere timore anzi, la loro forza risiede nell'esprimere un messaggio ordinario in forma semplifica­ ta. È bene dunque provare a familiarizzare con essi nei limiti del possibile. Chiusa la parentesi, vediamo all'opera un linguaggio predicativo come segue: -

...

(C3)

:3x:3P(P(x) J\ -,P(x)),

la cui lettura intuitiva - che ricorda la richiesta eraclitea del caffè macchiato - è qualcosa come: "qualche oggetto x ha e non ha una qualche proprietà P". Infatti la variabile predicativa P indica appunto una proprietà - dunque P(x) è un oggetto che possiede tale proprietà - laddove il quantificatore esistenziale :3 stabilisce che esiste l'oggetto x. A prima vista, può sembrare insensato discutere di oggetti contrad­ dittori per natura, o di situazioni o stati di cose contraddittori: contraddittorietà e in contraddittorietà sono proprietà di enunciati. Un inventario ontologico del mon­ do, con i suoi abitanti non linguistici e non mentali, sembrerebbe non contemplare il tipo di cosa che può essere contraddittoria o in contraddittoria. Tuttavia, in un sen­ so derivato, possiamo affermare che sostenere -come fa ad esempio Priest (1987) che il (un pezzo del) mondo è incontraddittorio equivale a dire che ogni enuncia­ to vero puramente descrittivo (di qualche pezzo) del mondo è incontraddittorio. Sicché nella letteratura si parla del tutto correttamente di oggetti, stati di cose e anche di interi mondi contraddittori, nonché della realta della contraddizione, o di contraddi zioni reali. 4. Un ultimo gruppo di contraddizioni può essere etichettato come psicologico­ pragmatico in quanto riunisce formulazioni che attingono a nozioni pragmatiche come accettazione e rifiuto, e a concetti tipici dei contesti epistemico-psicologici, come qu ello di credenza. In generale, intendiamo per accettazione un atteggiamen­ to mentale che un soggetto x può avere nei confronti di un enunciato a o, per es­ sere più rigorosi, del senso di, o del pensiero espresso da un enunciato. Questa può essere intesa come equivalente allo stato mentale di credenza o persuasione: un sog­ getto x accetta un enunciato a se e solo se egli crede, o è persuaso. che a. La con­ troparte negativa di tali stati mentali è. all'opposto, il rifiuto o il rigetto. Asserzione

12

e diniego sono invece gli atti linguistici che esprimono, rispettivamente, accetta­ zione e rifiuto. Questi termini forniscono il corredo pragmatico per inquadrare le contraddizioni. Pertanto, una loro formulazione in senso psicologico-pragmatico suonerebbe come la congiunzione dell'accettazione di un enunciato e della sua ne­ gazione. A questo punto possiamo adottare una notazione dovuta a Graham Priest e Richard Roudey (1989). Indichiamo due operatori epistemici : il primo, t-x che rappresenta qualcosa come: "L'individuo - o l'agente razionale - x accetta-crede (che) ... "; il secondo, -ix che sta per: "L'individuo - o l'agente razionale - x rifiuta (che) ...". Avremo allora:

la cui lettura intuitiva è dunque: "L'individuo x accetta, o crede (che) a, e accetta, o crede (che) non-a". Tuttavia, se riteniamo valida l'equivalenza fregeana tra rifiuto e accettazione della negazione - per cui sosteniamo che "L'agente razionale x ri­ fiuta a" è equivalente a "L'agente x accetta non-a" - la contraddizione può essere espressa come l'accettazione e il rifiuto dello stesso enunciato. Che è proprio quello rappresentato da

1.3. Principio sintattico, logico, ontologico e psicologico

Abbiamo appena visto in che senso una contraddizione si dice in molti modi e li abbiamo raccolti in quattro gruppi. Parimenti, se l'es­ senza del P N C sta nel proibire la contraddizione, allora vi saranno anche diverse forme di proibizione. L'idea sottostante è quella di esprimere tale divieto in termini di negazione della contraddizione. È intuitivo dunque pensare che, così come abbiamo elencato quattro gruppi di contraddizioni, allo stesso modo possiamo avere quattro distinte formulazioni del P N C . In questo paragrafo le passeremo in rassegna e chiuderemo con alcune osservazioni su di esse. I. Una prima versione è appunto quella sintattica. Come appena detto, si tratta di negare il tipo di contraddizione data. Pertanto, riprendendo la definizione CI e ag­ giungendoci la negazione, siamo in grado di fornire la versione sintattica del PNC:

( PNCI )

.. (a

A

.. a )

13

cioè non può essere che si dia nello stesso istante Il e la sua negazione. Per esempio "non si dà il caso che allo stesso tempo la candela stia bruciando e non stia bruciando". 2.. Procedendo oltre abbiamo formulazioni logico-semantiche espresse in termini di verità e falsità. In questo caso, dobbiamo proibire - negandole - che si diano contraddizioni del cipo di C2.a-C2.c. Sicché avremo:

(PNC2.a)

-,

( V( r Ill) 1\ F(rIl l)),

la cui lettura intuitiva suona come: "Lo stesso enunciato Il non può essere sia vero che falso; inoltre

"Un enunciato e la sua negazione non possono essere entrambi veri"; e per finire:

(PNC2.C)

-,(V(r Il l) 1\ -,V(r Il l)),

"Lo stesso enunciato Il non può essere e non essere vero". A mo' di esempio è oppor­ tuno ricordare quanto detto da Aristotele: «Che, dunque, la nozione più salda di tut­ te sia questa: che le affermazioni contraddittorie non possono essere vere insieme» (Met. IOIIbI3-14). Per capire cosa intenda il filosofo greco, occorre tener presente che si adoperano le nozioni di verità e falsità anche per caratterizzare la relazione di con­ traddittorietà fra enunciati. Si dice infatti, seguendo uno schema codificato nel famo­ so "quadrato di opposizione" (o quadrato aristotelico) della logica tradizionale, che due enunciati Il e 13 sono contrari se e solo se non possono mai essere veri insieme (os­ sia, se la loro congiunzione è una falsità logica); che Il e 13 sono subcontrari se e solo se non possono mai essere falsi insieme (ossia, se la loro disgiunzione è una verità logica); infine, che sono contraddittori se e solo se sono insieme contrari e subcontrari. Perciò, secondo ili' autore, il rapporto di contraddittorietà sussiste fra un enunciato e la sua negazione. Pertanto, dire che affermazioni contraddittorie non possono essere vere insieme è come dire che non possono valere sia un enunciato che la sua negazione, come in PNc2.b. È soprattutto a partire dal lavoro del logico polacco Jan Lukasiewicz (2.003) che questo genere di formulazione è stato qualificato come logico «perché ri­ guarda la veridicità dei giudizi e cioè dei fatti logici» (ivi, p. 2.0) . 3. Passiamo ora in rassegna la versione ontologica del Principio ovvero quella che proibisce C3, vieta cioè che esista un oggetto che allo stesso tempo possiede e non possiede la medesima proprietà. A tal proposito richiamiamo ancora una logica del secondo ordine e introduciamo il quantificacore universale 'rI che sta "per ogni .. ."; in altre parole, tale quantificatore, come sottolinea il suo attributo, opera su tutte le istanze dell'oggetto che viene quantificato. Per cui abbiamo

(PNq)

14

'rIx'rlP-.(P(x) 1\ -.P(x)),

che dice letteralmente "Per ogni oggetto x e per ogni proprietà p, non si dà il caso che il tal oggetto abbia e non abbia la tal proprietà". Questa può ricordare la risposta del barista al cliente Eraclito: " È impossibile servire allo stesso tempo un caffè mac­ chiato e non macchiato". Ad ogni modo, possiamo trovare alcuni esempi di PNC3 nella Metafisica del vero Aristotele: «È impossibile essere e non essere ad un tem­ po» (Mel. 996b30 ) . Questa è probabilmente la versione più sintetica di PNq e, in generale, del Principio trattato in questa sede. E ancora: «È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si posso­ no aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica»> (Mel. IOosbI 9-n). Per quanto concerne le "determinazione da aggiungere" per "evitare difficoltà di indo­ le dialettica", evidenziamo per inciso quanto Aristotele scrive nel De interpretatione: «un giudizio si contrappone a un altro» , nel senso che lo contraddice davvero, soltanto «se afferma o nega una medesima determinazione rispetto ad un medesimo oggetto, prescindendo dall'omonimia» (De int. 17a34-36). Questo per dire, esemplificando, che "Juliette Binoche è una stella e non è una stella" è una contraddizione apparente in quanto e una stella nel senso che è una grande attrice, e non e una stella nel senso di un corpo celeste. Tale contraddizione apparente, dovuta all'ambiguità di una parola che può riferirsi a diversi significati, viene risolta "prescindendo dall'omonimia" appunto, mediante la tecnica bimillenaria dellaparametrizzazione o distinzione dei rispetti. Inoltre vale la pena notare come gli antichisti si dividano fra chi sostiene che la pri­ ma formulazione ontologica del Principio sia dovuta al poema parmenideo (fr. 6: «È necessario dire e pensare che l'essere sia; infatti l'essere è/il nu lla non h» , e chi rileva come in Parmenide non vi sia ancora una chiara distinzione fra logica, onto­ logia e psicologia. Ad ogni modo è stato Lukasiewicz a etichettare «ontologico il principio appena descritto, poiché riguarda tutti gli enti» (2003, p. 20) . 4. Infine abbiamo le varianti psicologico-pragmatiche del PNC. Ancora una volta si tratta di proibire una contraddizione - in questo caso C4a e C4b - negando che questa si dia. Pertanto una prima definizione

stabilisce che è impossibile accettare - o credere - un enunciato e la sua negazione. Mentre la seconda:

bandisce nettamente l'atteggiamento, forse ancor più schizofrenico, di chi accetta e rifiuta il medesimo enunciato. Nelle parole di Aristotele leggiamo che «è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe fatto Eraclito» (Met. IOOSb23-2S). Nella letteratura è possibile incontrare chi dubita che sia opportuno

15

chiamare "Principio di non-contraddizione" anche questo tipo di formulazioni. Tuttavia. proprio Lukasiewicz parlava a proposiro di "principio psicologico". Di­ fatti : «Due convinzioni. a cui corrispondono giudizi contraddittori. non possono sussistere nello stesso tempo nella stessa mente. Questo principio riguarda fenome­ ni psichici. perciò è un principio psicologico» (2003. p. 21)

Per concludere, facciamo il punto su quanto appena detto. Il testo aristotelico dove è maggiormente trattato il Principio è il quarto li­ bro dellaMetafisica. Non è un caso che è qui che Aristotele argomenta il problema dell' incontrovertibilità del PNC e non nell' Organon, ossia negli scritti di logica, dove pure se ne ritrovano formulazioni. Infatti il filosofo greco afferma che la discussione degli "assiomi" (e l'assioma per eccellenza è appunto PNC ) spetta soltanto alla filosofia prima, alla metafisica, poiché « essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà peculiari di qualche genere particolare di essere » ; perciò «competerà a colui che studia l 'essere in quanto essere anche lo studio di questi assiomi » (Met. IOOsa2.2.-2.9). Ad ogni modo, seguendo Lukasiewicz (2.0 0 3, p. 2.4), sembra che Ari­ stotele considerasse equivalente il rapporto tra il PNC ontologico e la sua controparte logico-semantica. Questa equivalenza tra ciò che è ente, proprietà o stato di cose (ontologia) - e la verità di un predicato che verte su ciò che è quell'ente, proprietà o stato di cose (semantica) , è sicuramente lecita grazie alla nota convenzione introdotta da Alfred Tarski (19 7 3)' Senza addentrarci in discussioni sulla teoria semantica della verità, possiamo affermare che la Convenzione Vo T-schema sta­ bilisce una corrispondenza biunivoca tra la verità di enunciato a e lo stato di cose rappresentato da a. In simboli scriviamo : (T)

V(lal)�a.

cioè quello che sta a sinistra della freccia - la verità di a - è equivalente a ciò che sta a destra - l'enunciato a. In parole povere, riprendendo un famoso esempio tarskiano, diciamo : l 'enunciato "la neve è biancà' è vero se e solo se la neve è bianca. A posteriori, possiamo convincerci che Aristotele avrebbe sottoscritto T leggendo il passo 18a39-b2. nel De interpretatione: «In realtà, se è vero dire che un oggetto è bianco, op­ pure che non è bianco, esso sarà necessariamente bianco, oppure non 16

sarà bianco, e d'altra parte, se un oggetto è bianco, oppure non è bian­ co, era veto affermare oppure negare la cosa » . Rimane da osservare che anche la formulazione sintattica del Principio può essere equiparabile tanto a quella logico-semantica quanto a quel­ la ontologica. Difatti, in virtù della convenzione V, da PNc2b, ossia -, ( V( [" a l) /\ V( [" -,a l)) è in qualche modo derivabile lo schema sintat­ tico del PNC, ossia: -, ( a /\ -,a) . Oltre tutto, aggiungendo il quanti fica­ tore universale a PNC1, riscrivendolo dunque in una logica predicativa, troviamo un'analogia tra quest 'ultimo e la formulazione ontologica del Principio del tipo: '\fx'\fP-,(P(x) /\ -,P(x) ) . Vedremo nel prosieguo della trattazione come l a variante psicologi­ co-pragmatica di PNC si leghi con le altre versioni viste finora.

1. 4 . Le sfide al Principio 1 .4.1. Che c'è di male nelle contraddizioni? Nel 1998 la rivista "Journal of Philosophy" pubblica un articolo di Graham Priest dal titolo provocatorio What Is so Bad about Contradictions? L'autore spiega sin dalle prime battute come andrebbe intesa questa domanda ( ivi, p. 410):

Cosa c'è di sbagliato nel credere in alcune contraddizioni? Sottolineo la parola "al­ cune"; la questione "Cosa c'è di sbagliato nel credere in tutte le contraddizioni?" è abbastanza differente e, sono sicuro, ha una risposta altrettanto differente. Sarebbe irrazionale credere che io sia un uovo fritto. [ ... ] A fortiori è irrazionale credere che io sia e non sia un uovo fritto.

Accenniamo subito alla sottolineatura evidenziata da Priest. La credenza che tutte le contraddizioni sono vere è detta trivialism, nel senso di banale; così viene definita la posizione di chi accetta che Priest sia un uovo fritto e non sia un uovo fritto, così come chi ritiene che nel 2013 Roma è la capitale d' Italia e non è la capitale d' Italia. Il trivialismo si contrappone al dialeteismo, che è la posi­ zione di chi, come Priest, sottoscrive la verità di alcune contraddi­ zioni. Per cui, mentre egli non accetta che tutte le contraddizioni siano vere, contempla la possibilità che solo alcune lo siano. Nelle 17

prossime pagine del libro ci addentreremo meglio alla scoperta del dialeteismo e della logica paraconsistente, che è la cornice operativa che consente al dialeteista di trattare informazioni contraddittorie ma non banali. Per il momento ci interessa evidenziare la questione posta da Priest - che c 'è di male nell 'accettare una contraddizione­ in quanto è connessa, in primis, con le considerazioni legate alle formulazioni psicologico-pragmatiche del PNC; e poiché inoltre se consideriamo lecito accettare alcune contraddizioni, stiamo gettan­ do il guanto di sfida al Principio. Come è facile immaginare, esistono due potenziali fazioni fra chi lan­ cerebbe e chi raccoglierebbe il guanto della sfida. Prima di analizzare la posizione di Aristotele in merito richiamiamo, per un istante, una delle formulazioni del principio psicologico di non contraddizione :

secondo cui è impossibile che allo stesso tempo un agente razionale x creda e non creda l 'enunciato u. Leggiamo ora cosa sostiene a ptopO­ sito il Nostro (Met. I OOSb2.3-32.) : [PNC4a:] È impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe fatto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se [Pr:] non è possibile che i contrari sus­ sistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a questa premessa le preci­ sazioni solite), e se [P2:] un'opinione che è in contraddizione con un'altra è il con­ trario di questa, è evidente che [PNc4a :] è impossibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una stessa cosa esista, e anche, che non esista: infat­ ti, chi si ingannasse su questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie.

In questo passo abbiamo evidenziato la definizione aristotelica di PNC4a, laddove con PI e P2. abbiamo enfatizzato le due premesse argomentative a supporto della sua tesi. Ora, PI non è altro che un modo di formulare, in termini di contrari, il PNC ontologico. In altre parole, anziché esemplificare PNC3 secondo una stessa proprietà che appartiene e non appartiene a uno stesso oggetto, egli ritiene che, date due proprietà contrarie mutualmente escludentisi, queste non possano appartenere allo stesso soggetto. •

Ecco invece un passo in cui Aristotele ricava la formulazione con i contrari P I da una versione di PNc2b, ossia da una versione logico­ semantica (Met. I O I I bI 6-21 ) : Poiché [PNC2.b:] è impossibile che i contraddittori, riferiti a una medesima cosa, siano veri insieme, è evidente che [PI :] neppure i contrari possono sussistere insieme nel medesimo oggecco. Infatti, uno dei due contrari oltre che contrario è anche pri­ vazione. Ora, la privazione è negazione di un determinato genere di proprietà della sostanza. Se, dunque, è impossibile, ad un tempo, affermare e negare con verità, è impossibile, anche, che i contrari sussistano insieme.

L'argomentazione aristotelica che corrobora PI si basa sul fatto che due contrari sono due proprietà incompatibili massimamente oppo­ ste all'interno di un genere comune (ad esempio bianco e nero sono i massimamente opposti entro il genere colore). Uno dei due contra­ ri è inteso come privazione dell'altro; significa che un oggetto che possegga una delle due proprietà incompatibili necessariamente non possiede l'altra, appunto in quanto ne è privo. Perciò, se un ogget­ to fosse bianco e nero, ossia se gli inerissero i contrari, poiché essere nero è essere privati del bianco, cioè non essere bianco, quell'oggetto sarebbe e non sarebbe bianco: il che violerebbe per l'appunto il PNC ontologico. A questo punto dobbiamo notare come Aristotele argomenti in fa­ vore di PNC 4 a in base a premesse di natura metafisica. Difatti, in P2 egli tratta "opinioni" o credenze alla stregua di proprietà o stati della mente; per cui due opinioni che vertono su due enunciati contrad­ dittori equivalgono metafisicamente a due proprietà o due stati della mente tra loro contrari e incompatibili. Sarebbe come affermare che, dato che I-xa e I-x-,a esprimono proprietà contrarie o incompatibili ( della mente ) del soggetto x, allora avremmo una situazione in cui a un'unica cosa ( l ' individuo credente x) inerirebbero due proprietà incompatibili: il che è proibito dallo stesso PNC ontologico. Dunque, ciò che Aristotele cerca di dimostrare è che l' impossibilità di credere in una contraddizione, sulla base di un argomento che ha lo stesso PNC come premessa PI. Ipse dixit! Ciononostante si potrebbe obiettare che non sia valido 19

uno slittamento dal piano psicologico delle credenze a uno logico e metafisica sulla natura di queste credenze, cioè criticare la validità di P2.. Ma l ' impresa appare ardua senza entrare nel merito di que­ stioni di psicologia o filosofia della mente, che esulano dallo scopo di questo volume. Pur tuttavia, vale la pena soffermarsi brevemen­ te su diverse posizioni, a favore e contro la tesi aristotelica. Per cui, a supporto di Aristotele, possiamo citare uno dei motti humeani : "Tutto ciò che è pensabile è possibile"; esso sottintende che l' impos­ sibile non solo non possa essere creduto, ma neppure pensato. Que­ sto motto viene poi ripreso dal positivismo logico e dai membri del Circolo di Vienna. Ad esempio Moritz Schlick ( 1 9 69) sostiene che, mentre « ciò che è impossibile solo praticamente rimane tuttavia con­ cepibile», invece « ciò che è logicamente impossibile, essendo con­ traddittorio, non può neppure esser pensato » (ivi, p. 2.7 3). O ancora l'analisi di Wittgenstein (1998) sui contesti di credenza nel Tractatus logico-philosophicus. Qui il filosofo austriaco scrive che « è impossibi­ le giudicare un nonsenso » (5.5 4 2.2.). Infatti «L' immagine contiene la possibilità della situazione che essa rappresenta » ( 2..2.0 3). Il pensiero, in quanto immagine logica, « contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile » (3.02.) - che è la versione tractariana del motto di Hume - e « Noi non possiamo pensare nulla d' illogico, poiché altrimenti dovremmo pensare illogi­ camente » (3.03). Di converso, possiamo trovare nelle parole di Hegel - probabilmente il più noto sfidante del Principio dopo Eraclito - una critica all' im­ possibilità di pensare e credere nelle contraddizioni. Infatti nel 1 8 3 1 egli s i lamenta nella Scienza della logica di come « uno dei pregiudizi fondamentali » della logica astratta fosse che « la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l ' identità » , perché «il contraddittorio [ ... ] non si può rappresentare né pensare » (Hegel, 1994, pp. 4 90-1). Un altro esempio può essere trovato in tempi più recenti. Difatti nel 2.001 il filosofo americano Roy Sorensen ha addirittura proposto, in Vttgueness and Contradic­ tion, un "argomento trascendentale" a favore della possibilità di cre­ dere nell ' impossibile. Infatti la versione informale dell'argomento suona come (Sorensen, 2.001, pp. 1 2.4-5) : 2.0

io sostengo che è possibile [ .. . ] credere l'impossibile, ad esempio, che c'è un massi­ mo numero primo. L'impossibilista risponde che mi sbaglio. Mossa falsa! Cercando di correggermi, l' impossibilista concede che io creda in una proposizione falsa. La proposizione in questione (ossia, che si può credere nell ' impossibile), se falsa, è ne­ cessariamente falsa. Perciò, l'impossibilista concederebbe che un' impossibilità può essere creduta. [ . . .. ] La credenza in "certe impossibilità sono credibili" garantisce la propria stessa verità.

Ad ogni modo, prima di concludere il discorso, è opportuno sotto­ lineare alcune considerazioni. Abbiamo dato uno sguardo fugace ad alcune posizioni a supporto, o contrarie, alla tesi che non possiamo credere nelle contraddizioni. Tuttavia, dopo varie parole spese ad argomentare la posizione di Aristotele, sarebbe corretto ascoltare un'altra versione, quella di Graham Priest, che in questa sede dimo­ stra di essere il principale rivale del PNC. Sarebbe corretto, se non altro per onorare il "prestito" ricevuto che dà il titolo a questo para­ grafo. Infatti nel suo articolo discusso in apertura, Priest confuta un gruppo di cinque obiezioni che vengono sollevate nei confronti dei sostenitori del dialeteismo. Tra queste obiezioni ne troviamo una che potrebbe aggiungere qualcosa di interessante a quanto detto finora. È l 'obiezione numero 3, che dichiara: ��Le contraddizioni non pos­ sono essere credute in modo razionale » ( Priest, 1998, p. 419). Ai fini del nostro discorso, non è necessario entrare tra le pieghe della con­ futazione priestiana. È sufficiente mostrarne l' impalcatura argomen­ tativa. Dunque il punto fondamentale che Priest dimostra è che non sempre razionalità e coerenza procedono di pari passo e pertanto si può essere razionali nel credere che alcune contraddizioni siano vere. Egli ritiene infatti che si può peccare di irrazionalità pur mantenen­ do una coerenza nel proprio discorso, ovvero senza produrre enun­ ciati contraddittori. D'altro canto è possibile preservare un barlume di razionalità nel momento in cui si accetta che alcuni enunciati nella forma CI-C4 siano veri. Proseguendo vedremo nel dettaglio quali sono i casi in cui è possibile imbattersi in una contraddizione che può essere considerata vera. A nostro avviso, la forza argomentativa di Priest sta nel mostrare che la contraddittorietà è un prezzo che talvolta possiamo pagare in cam­ bio di mantenere una teoria razionale. Infatti: ��La verità è, per sua 2-1

natura, l 'obiettivo dei processi cognitivi, come la credenza » ( ivi, p. 42.1 ) . Ergo, se una contraddizione può essere vera, o se possono sussistere oggetti o stati di cose contraddittori, allora non soltanto dovrebbe essere possibile crederci, ma in certi casi dovrebbe anche essere richiesto che sia così. 1 .4 . 2 . Paradossi logici Come abbiamo visto, nella storia della filosofia incontriamo pensatori che in qualche modo hanno osato opporsi al PNC. Tuttavia le sfide più cogenti a questo nel pensiero contemporaneo arrivano dai paradossi logici. In questa sede inten­ diamo che il termine "paradosso" sia :

(a) un argomento che, muovendo da premesse intuitivamente vere, e atuaverso deduzioni intuitivamente accettabili, si conclude in un enunciaco assurdo ° pa!ese­ mence concrointuitivo, so!itamence espresso nella forma di CI; (b) l'enunciato stesso, assurdo o palesemente controintuitivo, a conclusione dell'ar­ gomentazione.

Richiamiamo in proposito la definizione fornita da Sainsbury (1995, p. II): « Un paradosso [è] una conclusione apparentemente inaccetta­ bile derivata mediante un ragionamento apparentemente accettabile da premesse apparentemente accettabili » . In particolare, gli enun­ ciati a cui presteremo attenzione non sono semplicemente implausi­ bili, o contrari al senso comune, ma sono quelli che costituiscono, in un modo o nell 'altro, violazioni del PNC in una delle formulazioni classificate in precedenza. In un senso stretto cosÌ inteso, "parados­ so" può essere sinonimo di antinomia. Infatti non tutti i paradossi in senso lato sono propriamente antinomie, poiché non costituiscono violazioni di PNC. Per esempio, una testimonianza in quest'ultima direzione viene dalla logica classica con i paradossi dell ' implicazione materiale e stretta. Al momento non ci interessa entrare nel dettaglio di questi, in quan­ to più avanti troveranno ampio spazio nella trattazione. Pur tuttavia è sufficiente anticipare che questo tipo di paradossi sono teoremi del­ la logica classica, bivalente e modale, che non lanciano alcun guanto di sfida al PNC; ma sono tali in quanto una loro interpretazione in2.2.

tuitiva genera una conclusione controintuitiva. Sull ' altro versante, le antinomie a cui siamo interessati sono inquadrabili in due tipi: para­ dossi semantici e paradossi insiemistici. I primi trattano tipicamente con nozioni come quelle di verità, denotazione, definibilità ecc., lad­ dove i secondi con nozioni come quella di appartenenza, cardinalità e via dicendo. Ad ogni modo, una distinzione netta tra paradossi se­ mantici e insiemistici - anticipata dal matematico italiano Giuseppe Peano e ripresa da Frank Ramsey - è piuttosto un luogo comune del­ la letteratura contemporanea. Difatti il matematico e filosofo inglese formula questa dicotomia nel suo libro del 19 3 1 - tradotto in italiano con il titolo Ifondamenti della matematica e altri scritti di logica - in riferimento ai paradossi logici esaminati da Russell e Whitehead nei PrinciPia mathematica (19 10-13). Ramsey sostiene che un parados­ so semantico dà luogo a contraddizioni che « non sono puramente logiche e non possono venir enunciate in soli termini logici; poiché tutte contengono qualche riferimento al pensiero, al linguaggio o al simbolismo, che non sono termini formali ma empirici » ( Ramsey, 19 64, pp. 3 6-7 ); mentre un paradosso insiemistico « consiste di contraddizioni che, se non si prendessero provvedimenti contro di esse, si presenterebbero negli stessi sistemi logici o matematici. Esse riguardano solo termini logici o matematici come classe e numero, e mostrano che ci deve essere qualcosa di sbagliato nella nostra logica e matematica » (ibid. ). I n ogni caso, l ' idea che i paradossi semantici contengano necessaria­ mente "riferimenti empirici" è qualcosa su cui oggi nessuno concor­ derebbe più. A partire da Gèidel e passando per Tarski, sono state sviluppate procedure formali che rendono la distinzione, così come introdotta da Ramsey, ormai obsoleta. Ciononostante, tenendo per buona la dicotomia almeno a livello concettuale, più avanti vedremo nel dettaglio due casi classici di antinomie : la prima è il "paradosso del mentitore" ed è configurabile come semantica anche se ha una storia bimillenaria e, naturalmente, le sue prime formulazioni risal­ gono ad un'epoca ignara della futura semantica formale. Il secondo caso di antinomia che tratteremo è un classico della teoria insiemi­ stica e, dopo la sua formulazione a inizi del secolo scorso, è noto in letteratura con il nome del suo scopritore: Bertrand Russell. 23

Prima di addentrarci nello strano reame dei paradossi logici, e delle strategie proposte dai logici, dai matematici e dai filosofi per venirne a capo, chiediamoci : cosa vuoI dire esattamente "risolvere" un para­ dosso ? Se il vento logico dei paradossi spinge l ' imbarcazione filo­ sofica nel mare delle contraddizioni, quale manovra è richiesta per uscirne, o quanto meno per navigarvi in modo indenne ? Il comun denominatore di queste strategie risolutive si è rivolto sovente a una soluzione che preservasse il PNC . La storia della filosofia occidentale, come intravisto, è stata quasi sempre sensibile alla regola stabilita da Aristotele, ossia che è impossibile la coesistenza di un enunciato af­ fermativo e della controparte negativa. Motivo per cui l 'occorrenza di una contraddizione - di uno scenario paradossale - all ' interno di una teoria o di un' argomentazione ha spesso creato un certo imba­ razzo. Se lo scenario in questione è un argomento del tipo (a) come abbiamo caratterizzato a inizio paragrafo - da premesse intuitiva­ mente vere e attraverso deduzioni intuitivamente accettabili, arri­ viamo a un enunciato paradossale - allora possiamo indicare alcune mosse per uscire dall ' impasse. Queste possono essere tre condizioni attestate in letteratura che una teoria dovrebbe rispettare al fine di proporre una strategia risolutiva. Seguendo Haack (1978, pp. 138-9 ) , brevemente diciamo che l a suddetta teoria dovrebbe: (I) indicare qual è precisamente la premessa falsa, o l'inferenza scorretta, del ragio­ namento (definita dalla Haack come "soluzioneformale"); (II ) spiegare indipendentemente perché la premessa è falsa o l ' inferenza è scorretta ("soluzione fi losofica"); indipendentemente nel senso che non si dovrebbe scegliere una premessa o una regola d' inferenza a caso e rigettar/a. Tale scelta dovrebbe essere motivata e non ad hoc; (III ) inoltre, secondo Priest (1979), la teoria potrebbe spiegare perché la premessa o regola imputata (e amputata) ci è apparsa del tutto plausibile.

Tuttavia le soluzioni standard dei paradossi spesso non arrivano nemmeno al punto (II). Quand'anche ci arrivassero, dovrebbero fare i conti con un'altra problematica: i casi-limite della ragione. In qualche modo ne aveva già discusso Kant quando tratta di antinomie nella Critica della ragion pura e Graham Priest ne riprende il filo nel testo del 1 9 9 5 Beyond the Limits ofThought. Qui il filosofo del diale24

teismo congettura che le particolari proprietà o i particolari enunciati all 'origine dei paradossi costituiscano o descrivano alcuni casi-limite di ciò che può essere concepito, astratto, espresso, o dell ' iterazione di certe operazioni ricorsive del pensiero. Ergo (Priest, I99 5, pp. 3-4) i limiti di questo tipo forniscono vincoli oltre i quali certi processi concettuali (de­ scrivere, conoscere, iterare, eccetera) non possono andare ; [ . ] La contraddizione, in ciascun caso, è semplicemente dovuta al fatto che i processi concettuali in que­ stione oltrepassano effettivamente questi vincoli. Perciò, i limiti del pensiero sono vincoli che non possono essere oltrepassati, ma che tuttavia lo sono. In ciascun caso, vi è una totalità (di tutte le cose esprimibili, descrivibile, eccetera) e un'operazione appropriata la quale genera un oggetto che è sia all'interno che all'esterno della to­ talità. Chiamerò queste situazioni, rispettivamente chiusura e trascendenza. In ge­ nerale, gli argomenti sia per la chiusura che per la trascendenza usano una qualche forma di auroreferenzialità. .

.

A nostro avviso, questo passo evidenzia alcuni concetti basilari per la soluzione - o quantomeno la comprensione - delle antinomie. Que­ sti concetti, in qualche modo interdipendenti, sono : •

la totalità (di quello che la ragione può pensare ed esprimere); l'operazione che genera l'oggetto, interno (chiuso) ed esterno (trascendente) alla totalità; • l'autoreferenzialità degli argomenti per la chiusura e per la trascendenza. •

Vedremo, dunque, quali sono alcune delle mosse adottate nel pano­ rama contemporaneo. Queste seguono, in qualche modo, la strategia limitativa dettata da Kant: rilevato l' insorgere della contraddizione, si erge una barriera di fronte alla nostra capacità di approcciare simi­ li totalità, o casi-limite, mediante opportune manovre più o meno formali. I casi al limite del pensiero sono considerati assurdi. Il ri­ fiuto dell 'assurdo come criterio minimale della razionalità rimane il Leitmotiv della strategia contemporanea standard. Inoltre, non man­ cheremo di notare come, in queste teorie che cercano di superare le antinomie salvando il PNC, le stesse nozioni introdotte per risolvere i paradossi sono adoperabili per formularne di nuovi. Anticipiamo che questi possono essere affrontati solo rifiutando che tali nozioni siano esprimibili all' interno della teoria stessa, o rifiu-

tando che siano addirittura sensate. Sicché, o la siffatta teoria si trova sottoposta a una devastante contraddizione "di ritorno", oppure non riesce nell'obiettivo che si era posta (per esempio : fornire una teoria del significato per il linguaggio naturale; in realtà emerge una teoria che tratta solo linguaggi artificiali). In questo paragrafo analizzere­ mo i paradossi semantici. Questi possono sorgere da diverse nozioni semantiche, come quelle di denotazione, definibilità, eccetera. Tut­ tavia ci soffermeremo solo su quelli che adoperano le nozioni di veri­ tà e falsità, e che sono radunati sotto l 'etichetta del mentitore. Questi sono infatti i più discussi in letteratura, quelli per i quali è stato pro­ posto il maggior numero di soluzioni. Sono anche i più classici, es­ sendo sul mercato da duemila anni. Diciamo, per inciso, che quando parliamo di valori di verità nella logica classica, è accettato il princi­ pio secondo cui ogni enunciato o è vero o è falso. Questo è chiamato PrinciPio di bivalenza (PB) e limita appunto i due valori di verità che la logica classica assegna a ogni enunciato. Si può dunque mentire senza dire bugie ? A prima vista siamo imme­ diatamente portati a rispondere di no. Se la qualifica dell 'essere men­ zognero è quella di pronunciare, almeno in un'occasione, qualcosa che è falso, è naturale pensare che chi sta mentendo stia dicendo ipso focto una bugia. Ma siamo poi cosÌ sicuri che colui che mente, quando parla di sé stesso, stia ancora dicendo il falso ? Come vedremo, l' auto­ riferimento - il parlare di sé è una caratteristica pressoché comune a tutti i paradossi. Non è solo una questione di punti di vista - e di riferimento - ma anche di valori di verità degli enunciati, e della rela­ zione tra il contenuto di questi enunciati e il mondo fattuale. Una volta arrivati alla fine del paragrafo, non acquisiremo sicura­ mente la competenza di mentire senza dire bugie: non potremo di certo giustificarci con un professore per non aver studiato una parte dell'esame e non saremo in grado di tener nascosta una scappatella al nostro partner, grazie al paradosso del mentitore. Tuttavia, potremo cominciare ad apprezzare il valore di un' antinomia, ossia uno sce­ nario paradossale che, seppur scontrandosi con il P N C , può risultare verosimile. 1.4+

Mentire senza dire bugie

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26

Mentitori Una delle versioni più antiche di paradosso semantico compare addirittura nella Lettera a Tito di san Paolo. Qui Paolo se la prende con un "profeta cretese", poi identificato con il filosofo Epi­ menide, il quale avrebbe un giorno detto : ( I ) Turri i cretesi mentono sempre.

In realtà, ( r ) non è un paradosso nel senso stretto del termine, poiché non è un enunciato che, sulla base delle nostre intuizioni ordinarie, violerebbe il PNC. Più semplicemente è un enunciato che non può essere vero sulla base delle nostre intuizioni ordinarie. Se infatti fosse vero che tutti i cretesi mentono sempre (ossia: che tutti gli enuncia­ ti pronunciati da un qualsiasi cretese sono falsi) , allora ( r ) , essendo pronunciato dal cretese Epimenide, dovrebbe essere falso, contro 1 ' i­ potesi iniziale che fosse vero. Tuttavia, ( r ) può benissimo essere falso senza contraddizione, nel caso - piuttosto probabile - che qualche cretese abbia talvolta detto qualcosa di vero. Ancora agli albori della filosofia occidentale troviamo un vero e pro­ prio paradosso del mentitore, attribuito anch' esso a un filosofo gre­ co : Eubulide. Consideriamo infatti quanto segue : (2) Questo enunciato è falso ;

ovvero ( 2.) ci dice qualcosa di sé, precisamente che è falso. È un enun­ ciato autoreferenziale, ma in modo assoluto e differente rispetto a ( r ) , poiché quest'ultimo deve essere pronunciato da un cretese per potersi riferire a sé stesso. Proviamo dunque a seguire le due possibili strade argomentative del mentitore : supponiamo che sia vero : allora, per ciò che dice di sé, è falso. Viceversa supponiamo invece che sia falso : ma questo è proprio ciò che dice, dunque è vero. Se accettiamo il Principio di bivalenza, entrambi i percorsi conducono a una contraddizione con l'assunzio­ ne di partenza, per cui arriveremmo a concludere che l'enunciato de­ scritto in (2.) è vero se e solo se è falso, e viceversa. Questa conclusione - ( 2. ) è vero e falso - si scontra con la formulazione logico-semantica del Principio, precisamente PNC2.a.

Come abbiamo notato in precedenza, una qualche forma di enuncia­ to autoreferenziale è in gioco in tutti i paradossi, al punto che 1 'auto ­ riferimento è stato ritenuto spesso il responsabile diretto dell' insor­ gere delle antinomie. In ogni caso, molti enunciati siffatti sono del tutto innocui, ossia possiamo stabilirne il valore di verità in modo certo e non problematico. Come è il caso dei seguenti: (3) Questo è un enunciato grammaticalmente ben formato ; ( 4) ( 4) è un enunciato contenuto nel libro Che cos 'e una contraddizione; ( S) (5) è un enunciato stampato con inchiostro giallo.

Possiamo riconoscere senza troppi indugi che (3) e ( 4) sono veri, al contrario di (5) che è falso. Inoltre possiamo notare che il riferimento al medesimo enunciato può essere espresso richiamando, a mo ' di soggetto, il numero ordinale dello stesso enunciato, come nel caso di ( 4) e ( 5 ) . Questi e altri espedienti possono essere usati per esprimere l 'autoreferenzialità di un enunciato. Per esempio, quelle che seguono sono varianti del mentito re (2) : ( 2.a) ( 2.a) è un enunciato falso ; (2.b) i o sono u n enunciato falso; (2C) l'enunciato che stai leggendo è falso.

Oltretutto, è possibile che non sia l'autoreferenzialità diretta a pro ­ durre i l paradosso, m a u n cortocircuito referenziale d i più enunciati. Ad esempio: (2.d) (2.e) bero; (2.e) (2.d) è falso.

Pertanto, se quel che dice ( 2d) è vero, allora ( 2e) è vero. Ma ( 2e) dice che ( 2d) è falso, dunque ( 2d) è vero e falso. Se invece quel che dice (2d) è falso, allora ( 2e) non è vero, bensì falso. Ma ( 2e) dice che (2d) è falso, dunque (2d) è daccapo vero e falso. Lo stesso tipo di ragiona­ mento vale per (2e): se quel che dice (2e) è vero, allora ( 2d) è falso. Ma (2d) dice che (2e) è vero, quindi ... ecc. Orbene, (2) e le sue varianti passate in rassegna sopra possono essere de-

finite versioni "standard" del paradosso del mentitore. Accanto a que­ ste possiamo affiancare alcune formulazioni, dette "mentitori rafforza­ ti" o anche "menti tori della vendetta" (revenge liars), come i seguenti: (6) (6) non è vero; (7) (7) è falso e né vero né falso.

Le ragioni di questa differenziazione - standard e rafforzato - diven­ teranno chiare più avanti nel testo. Al momento però possiamo già intravedere una peculiarità, per esempio, in (6). Questo enunciato, infatti, in base a un ragionamento analogo a quello condotto per il mentitore standard, risulta essere vero e non vero. Detto altrimenti, ( 6 ) dà luogo direttamente a una contraddizione di tipo C2, contro PNC2C, anche rifiutando il principio Neg2 che equipara falsità e non­ verità - e quindi equipara le contraddizioni "interne" del tipo di C2a e C2b alle contraddizioni "esterne" come C2C. Un ultimo sguardo a vari enunciati del mentitore è rivolto al para­ dosso di Curry: (8) Se (8) è vero, allora p ,

dove la lettera greca J3 rappresenta un enunciato qualunque. Il para­ dosso di Curry si ripresenterà in altre parti di questo testo, ma vedia­ mo brevemente perché merita la nostra attenzione. Esso può essere letto intuitivamente come : "Dalla mia verità segue qualsiasi cosa". È interessante notare come ( 8 ) non faccia uso né della nozione di falsità - come il mentito re standard ( 2) -, né di quella di negazione - come è il caso del mentitore rafforzato (6). Pertanto, queste peculiarità mo­ strano, secondo alcuni, come nessuna di queste due nozioni abbia un ruolo essenziale nella costituzione dei paradossi se mantici. Inoltre, osserveremo più avanti come il suo trattamento esiga accorgimenti particolari anche da parte di chi ammette contraddizioni vere. Tentativi risolutivi Nella folta e bimillenaria "selva del mentitore" numerosi sono stati - e sono tuttora - i pensatori che vi si sono ad­ dentrati. Altrettanto numerosi sono stati i loro tentativi di oltrepas­ sarla senza troppe ferite. I pericoli maggiori sono arrivati dalla flora 29

autoreferenziale, piante con ramificazioni fuorvianti che rimandano all' interno della selva; e dalla fauna vendicativa, ossia animali che simulano la propria morte quando vengono sfidati, ma ritornano più forti pronti alla vendetta. Per ragioni di spazio, sia della selva che del libro, prenderemo in considerazione solo alcuni avventurieri che hanno provato a uscire indenni dalla foresta. Fuor di metafora, proviamo a sintetizzare un paio di posizioni - Tarski e Kripke - che sono emerse nel dibattito sul mentito re nel secolo scorso. Successiva­ mente faremo alcune osservazioni circa l 'essenza del mentitore, nella sua variante standard e in quella "vendicativa'. Alfred Tarski ascrive la presenza dei paradossi in un linguaggio a certe caratteristiche logico-semantiche, chiamate "condizioni di chiusura semantica: Un linguaggio semanticamente chiuso è, intuitivamente, un linguaggio capace di parlare della propria semantica, cioè dei si­ gnificati delle espressioni del linguaggio stesso. Possiamo definire le condizioni di chiusura come segue : lo

vi è nel linguaggio un nome per ogni espressione del linguaggio stesso; è possibile definire all'interno del linguaggio la nozione di verità per il linguag­ gio stesso ; 3. tutti gli enunciati del linguaggio sono o veri o falsi . 2.

Spieghiamo brevemente come in italiano queste tre condizioni siano soddisfatte. La n. I è fuori questione, poiché l ' italiano scritto dispo­ ne - grazie all 'espediente grafico delle virgolette - di un nome per ogni sua espressione. Ad esempio, "Etna" ha quattro lettere, per de­ notare l 'espressione stessa; diversamente daL 'Etna sta eruttando, per denotare il vulcano. Per quanto riguarda la n. 2., questa è soddisfatta in italiano se possiamo fornire una definizione materialmente ade­ guata delle verità. Come ? Con la Convenzione V, per esempio, che abbiamo intravisto in precedenza: per ogni enunciato del linguaggio considerato dallo stato di cose rappresentato dall 'enunciato stabilia­ mo la verità di questo. In italiano, dunque, se l ' Etna sta eruttando allora l 'enunciato "l' Etna sta eruttando" è vero. La condizione n. 3 è, in altre parole, il Principio di bivalenza: possiamo assegnare a ogni enunciato solo due valori di verità mutualmente escludentisi. 30

Detto questo, torniamo alla posizione tarskiana. Il logico polacco crede che per uscire dalla selva del mentitore deve neutralizzare la condizione n. 2. In altre parole, Tarski ritiene che la nozione di verità per un linguaggio non deve essere definibile entro quel linguaggio stesso : « Non è affatto necessario che la lingua di cui parliamo coin­ cida con la lingua in cui parliamo » ( Tarski, 1 9 7 3 , p. 4 26). Dunque, ptocediamo informalmente e vediamo la strategia tarskiana. Imma­ giniamo il linguaggio come un albero con varie ramificazioni: dal più piccolo ramoscello al fusto principale dell 'albero, ognuno rap­ presenta un ordine gerarchico del linguaggio. Pertanto, abbiamo il primo ramo, inteso come quello più superficiale, che per comodità chiamiamo Linguaggio I, abbreviato L,. Seguendo il suo percorso, L, si incontra con un secondo ramo di ordine superiore, più grosso e robusto, che chiamiamo L" E cosÌ per le varie ramificazioni superiori e più profonde L I L 4 ecc., fino al fusto. Secondo questa connessio­ ' ne, diciamo che L, è il linguaggio oggetto, laddove L, rappresenta il suo metalinguaggio ; parimenti, se L, è il linguaggio oggetto, LI è il metalinguaggio di L" E cosÌ a salire secondo gli ordini gerarchici del linguaggio. L' idea tarskiana di base è che il predicato di verità - l 'essere vero - non possa essere univoco per la totalità dell'albero­ linguaggio. Ogni linguaggio oggetto può avere il proprio predicato di verità, ma il funzionamento di quest 'ultimo è stabilito da regole sintattiche formulate nel rispettivo metalinguaggio. Pertanto, se cer­ chiamo una definizione di verità in L, dobbiamo volgere lo sguardo a L" in cui possiamo parlare dei concetti semantici che riguardano L,. Parimenti, per stabilire la verità di qualcosa espresso in L" dobbiamo cercare nel suo metalinguaggio LI' Vediamo, dunque, come la gerarchia tarskiana si comporterebbe nella selva del mentitore. Avevamo l 'enunciato paradossale (2), che dice di sé di essere falso, per poi sembrare essere falso se vero ed es­ sere vero se falso. Secondo Tarski, invece, l'enunciato del mentito re, cosÌ com'è, non è sintatticamente ben formato. Ma andrebbe imple­ mentato nella gerarchia linguaggio oggetto/metalinguaggio, come segue: "questo enunciato è falso" è vero - nel metalinguaggio - se e solo se questo enunciato è falso - nel linguaggio oggetto. Altrimenti : "questo enunciato è falso" è falso - nel metalinguaggio - se e solo se 31

questo enunciato è vero - nel linguaggio oggetto. In altre parole, la gerarchia di Tarski distingue il predicato di verità rispetto al linguag­ gio oggetto e al metalinguaggio. Con questa mossa il logico polac­ co ci ricorda la strategia della parametrizzazione - o distinzione dei rispetti - per l'appunto. È utile anticipare che troveremo gerarchie e distinzione dei rispetti anche in alcuni tentativi di soluzione dei paradossi insiemistici. Nel frattempo chiediamoci: può una conce­ zione come quella tarskiana fornirci una buona rappresentazione del funzionamento del nostro linguaggio ordinario ? Naturalmente no. Una differenza decisiva fra una gerarchia cosiffat­ ta di linguaggi e l ' italiano è che non sembra esserci alcun metalin­ guaggio per la lingua italiana - il che diventa ovvio, se accettiamo l ' idea che il linguaggio ordinario sia, per così dire, "trascendentale": tutto ciò che è esprimibile linguisticamente è esprimibile nel nostro linguaggio naturale. È lo stesso Tarski a lamentare una certa insod­ disfazione per una rigida e formale gerarchia che, da un lato, evita lo scenario paradossale del mentitore, ma dall'altro si allontana dal linguaggio ordinario. « Ci si potrebbe domandare, tuttavia, se il lin­ guaggio della vita di tutti i giorni, dopo esser stato così "razionaliz­ zato", conserverebbe ancora la sua naturalezza, e se non assumerebbe piuttosto le caratteristiche dei linguaggi formalizzati » ( Tarski, 1 9 5 6, p. 267). Si capisce il motivo della riluttanza di Tarski. Ed è in questo filone che si inserisce Saul Kripke, con la sua critica al logico polacco e la sua proposta per attraversare la selva del mentitore (Kripke, 197 5, p. 59). Innanzitutto, osserviamo come nella gerarchia tarskiana il livello, o l 'ordine, di un'attribuzione di predicati di verità - o falsità - in ita­ liano dipenda da imprevedibili fattori contingenti, ampiamente con­ testuali ed empirici. Ciò renderebbe estremamente difficile pensare che si possa, in linea di principio, rendere esplicito l 'ordine al quale si riferisce l'attribuzione del predicato "è vero". Pertanto si corre il rischio che la gerarchia si perda nelle ramificazioni metalinguistiche in cui verifica la verità di quanto espresso in un altro livello. Ad esem­ pio, l 'ordine di: (9) Tutto quello che il papa ha detto nell'Angelus di ieri è vero,

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dipende da che cosa ha detto il papa ieri, e particolarmente dal fatto che ieri il papa si sia pronunciato sulla verità di qualche altro enuncia­ to. Allora bisogna andare a controllare cosa dicono questi enunciati, e se fra le altre cose il papa ha detto, ad esempio : "Fratelli, sappia­ te che tutto quello che Dan Brown ha scritto ne Il codice da Vinci è falso ! ", occorre andare a controllare uno per uno tutti gli enunciati contenuti nel romanzo e così via. Un altro aspetto controverso della gerarchia, evidenziato da Kripke (ivi, pp. S9-6o), è un ulteriore smarrimento nella verifica dei predica­ ti di verità, allorché i riferimenti di questi si intrecciano nelle ramifi­ cazioni metalinguistiche di enunciati interconnessi. Poniamo il caso che Francesco affermi: ( lO) Tutco quello che dice Lorenzo è vero.

Allora la verità di quanto affermato da Francesco deve essere veri­ ficata in un livello gerarchico superiore a quello che dice Lorenzo. Inoltre, se tra le cose pronunciate da Lorenzo troviamo : ( I l ) Tutto quello che dice Francesco è vero,

la verità di quanto affermato da Lorenzo si troverebbe nel metalin­ guaggio di quello che dice Francesco, ossia in un livello superiore. Pertanto, sulla scia del ragionamento kripkiano, è chiaro che quanto detto sia da Francesco sia da Lorenzo dovrebbe essere ciascuno "me­ talinguaggio" dell ' altro, rendendo impossibile stabilire un ordine tra ciascuna gerarchia. Sicché abbiamo ! ' impressione, come molti altri autori contemporanei, che la regimentazione - l'adozione di severe restrizioni sintattiche - del linguaggio ordinario imposta dalla gerar­ chia a più livelli consenta a Tarski di uscire dalla selva del mentitore, ma a costo di avere, una volta fuori, un linguaggio meno abile nel parlare quotidiano. Veniamo finalmente alla posizione di Kripke e all' itinerario che il filosofo americano intraprende nelI'attraversare la selva del men­ titore. Il percorso kripkiano, anziché scontrarsi con la clausola n. 2per la chiusura semantica, volge all'attacco della n. 3, il Principio di

bivalenza. Ricordiamo, infatti, che in un linguaggio semanticamen­ te chiuso, questa clausola definiva che ogni enunciato fosse o vero o falso. In altre parole, l'approccio kripkiano ammette che esistano dei gaps nei valori di verità, ossia che ci siano enunciati né veri né falsi; tra questi include l'enunciato del mentitore. Non ci addentriamo ora in speculazioni sulla semantica non biva­ lente, ma accenniamo un paio di osservazioni funzionali alla com­ prensione di Kripke e, in generale, dei gappers. A livello intuitivo, la sua idea è che, dal fatto che abbiamo un enunciato pur sempre "paradossale" - se fosse vero sarebbe falso e viceversa - non segue la contraddizione di tipo Cla, per cui esso è vero e falso. Possiamo evitare la contraddizione rifiutando che verità e falsità siano le due uniche alternative percorribili, e concludere che il mentito re non è né l'una né l'altra cosa. L'approccio non bivalente può diventare lecito modificando la clausola per negazione classica. Come abbia­ mo visto quando abbiamo introdotto Negl, la negazione standard è conforme a questa condizione; ossia, dato qualunque enunciato a, la verità della negazione di a equivale alla non-verità di a. Pertanto, la semantica non bivalente, rigettando questa equivalenza, rifiuta che la non-verità di a implichi la sua falsità. In questo modo, i predica­ ti di verità sono resi parzialmente indipendenti e, quindi, si apre la possibilità che a non sia vero, ma neppure falso. Sicché, rigettando la clausola Negl, adottano la cosiddetta negazione di scelta, che espri­ miamo informalmente come segue: la negazione di a è vera se e solo se a è falsa, e viceversa. Torniamo all ' itinerario kripkiano per uscire dalla selva. Kripke abbozza una teoria della verità basata sulla nozione di fondatezza (groundedness) di un enunciato. Vediamo informalmente come: prendiamo un enunciato E, il quale dice che (alcuni de)gli enunciati di un certo insieme A hanno una proprietà semantica, ad esempio sono veri. Il valore di verità di E può essere stabilito solo se sono de­ terminati i valori degli enunciati in A. Poniamo ora che uno di essi, E l ' dica che (alcuni de)gli enunciati di un certo altro insieme B hanno quella proprietà semantica. Allora il valore di verità di E l ' a sua volta, può essere stabilito solo se sono determinati i valori degli enunciati in B ; poniamo quindi che un enunciato in B, E2, e così via. Se la •••

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catena termina, prima o poi, in enunciati che non parlano di proprie­ tà semantiche, allora f: èfondato, cioè abbiamo un buon motivo per assegnargli un valore di verità anziché un altro. Altrimenti f: è infon­ dato, ungrounded: "non tocca terra': ma rimane a svolazzare nell 'aria rarefatta degli enunciati che parlano della semantica di (altri) enun­ ciati. Ciò succede in particolare per il mentito re (2). "Questo enun­ ciato è falso" non atterra: non c 'è alcun fatto "non semantico" da cui far dipendere la valutazione di (2) come vero o come falso. Pertanto, l ' idea sottostante alla nozione di groundedness è che la verità di un enunciato per essere fondata si deve basare su qualcosa che sta fuori dell'enunciato stesso. Concludiamo dunque con alcune annotazioni. In base a questa ca­ ratterizzazione intuitiva, la proprietà di essere ungrounded non è ri­ gidamente determinata da condizioni sin tattiche o semantiche, ma « normalmente dipende dai fatti empirici » (Kripke, 1975, p. 57)' Inoltre, non coincide con quella di essere autoreferenziale. Pertanto un enunciato può essere fondato e autoreferenziale. In aggiunta, gli enunciati infondati non coincidono nemmeno con quelli paradossa­ li. Il famoso caso kripkiano è : ( !2.) Questo enunciato è vero.

Quest 'ultimo è un parente stretto del mentitore standard-autorefe­ renziale e si attribuisce la proprietà semantica per eccellenza. Tutta­ via, (12) non è un'antinomia - se è vero è vero, se è falso è falso - ma è infondato dal momento che non abbiamo alcuna ragione per sceglie­ re l'una o l'altra opzione. Pertanto possiamo dirci soddisfatti della proposta kripkiana ? Uno sguardo più attento ci farebbe rispondere di no. Infatti sembra emergere il carattere ad hoc nel trattamento del mentitore. Per l'appunto, riprendiamolo per un momento : (2.) Questo enunciato è falso.

Nonostante le affinità, (2) e ( 1 2) sono infondati in modo alquanto differente. Priest fa notare ( 1 9 8 7, pp. 17-8) che nel caso di (12), le nostre intuizioni non appaiono sufficienti a determinare il valore di 35

verità. Questa è la ragione per farne un candidato intuitivo nel ruolo di gap semantico : il suo valore di verità è sottodeterminato, dunque ( 12. ) può suonare né veto né falso. Ma quelle stesse intuizioni, nel caso di ( 2 ) , appaiono piit che sufficienti, nel senso che danno luogo a un glut - surplus - di valori di verità: ( 2 ) è intuitivamente sovrade­ terminato, vero e falso. Sembra invece che l'unica motivazione per non considerarlo come tale, e iscriverlo fra i gaps, sia precisamente quella di salvaguardare il PNC . Ma questa è una soluzione ad hoc e, in questo senso, la teoria non arriva a soddisfare il punto (I I ) delle " buone" soluzioni ai paradossi, elencato alla fine del paragrafo pre­ cedente. Come ha detto Kirkham (1992, p. 291 ) : « La soluzione di Kripke non è né più né meno ad hoc di quell[a] di Tarski [ . . . ] . Egli non ha ragioni indipendenti, oltre a quella di risolvere il paradosso, per porre le restrizioni che pone su ciò che può e non può avere un valore di verità » . L'essenza del mentitore Quando abbiamo introdotto l'analogia della selva del mentitore, abbiamo fatto riferimento a figure metafo­ riche come la flora autoreferenziale e la fauna vendicativa. Quest 'ul­ tima stava a indicare il mentitore rafforzato, o mentitore della ven­ detta. Ne abbiamo già accennato e, qui di seguito, ne riprendiamo il filo argomentativo per mostrare come chi abbia affrontato questi paradossi semantici debba poi scontrarsi con una sorta di "boome­ rang vendicativo" del mentitore. In altri termini, la teoria gerarchica di Tarski e la strategia non bivalente di Kripke, una volta neutralizza­ to il pericolo antinomico del mentitore standard, devono poi, ciascu­ no, fare i conti con un nuovo enunciato paradossale : è il mentitore rafforzato che ritorna e colpisce la teoria in un punto assai strategico, ossia nel suo cuore argomentativo. Il nucleo dell 'argomentazione tarskiana è l ' ordine della gerarchia, mentre quello della teoria kripkiana risiede nell 'approccio non biva­ lente dei gaps. Ma procediamo con ordine, per l'appunto. Come ab­ biamo visto, la strategia di Tarski sembra efficace poiché stabilisce una gerarchia di linguaggi - linguaggio oggetto e metalinguaggio - dove i predicati di verità del linguaggio oggetto L, vengono discussi nel suo metalinguaggio L,. A sua volta, il linguaggio oggetto L, ha, come re-

ferente per i predicati di verità, il suo metalinguaggio Ll' e cosÌ a salire. Ciascun livello della gerarchia è definito mediante l 'ordine gerarchico, per cui 1 è l 'ordine di L I ' 2 rappresenta quello di L" e cosÌ per ogni ordi­ ne dei linguaggi della gerarchia. Tale sequenza, per essere esprimibile, esige che la teoria gerarchica possa quantificare sensatamente su ordi­ ni diversi. In altri termini, ogni ordine della gerarchia ha un proprio predicato di verità, ossia l'essere vero o l'essere falso è relativo a uno specifico livello; la teoria deve essere in grado di muoversi lungo la ge­ rarchia, e lungo i diversi predicati di verità relativi di ogni ordine. Per­ tanto, come ha formalmente dimostrato Priest (1987, pp. 25-6), nella situazione in cui si presenti un enunciato della forma: (13) (13) è falso al proprio ordine,

ne segue una contraddizione di tipo C2a, dove ( 1 3 ) risulta essere vero se falso e viceversa. La conclusione dell' argomentazione di Priest fa leva appunto sulla nozione di ordine e mostra che mediante questa è possibile generare una nuova versione del paradosso, il quale ritor­ na più forte, come un boomerang. Per questa ragione, un enunciato come ( 1 3 ) è stato definito mentitore rafforzato o della vendetta. Vediamo allora come se la cava Kripke e, in senso lato, ogni approccio non bivalente. Come abbiamo detto, l'abbozzo di una teoria della verità di Kripke, basato sulla nozione di fondatezza, fa appello alla cornice teoretica dei gaps, ossia quello spazio semantico vuoto dove gli enunciati non sono né veri né falsi. Il filosofo statunitense fa rien­ trare tra questi l'enunciato del mentitore standard e abbiamo notato come, in modo alquanto forzato - cioè ad hoc -, riesca nell' impresa. Tuttavia, già Kripke si mostra consapevole della minaccia provenien­ te dai revenge liars. Richiamiamone un paio già incontrati: (6) (6) non è vero, (7) (7) è falso o né vero né falso.

Dunque, dove ha origine tale minaccia ? Come può un sostenitore dei gaps esprimere l' idea di un vuoto semantico all' interno del lin­ guaggio del quale sta fornendo la propria teoria? Sembra proprio 37

che non possa. Osserviamo allora come prende forma la vendetta. Anzitutto, se un enunciato a non è vero e non è falso, afortiori, non è vero ; sicché, se non è vero il contenuto di a, allora "a non è vero" deve essere vero. Sembra dunque fuori discussione che il gapper ac­ cetti questo principio: (14) Se a non è vero, allora "a non è vero" è vero.

Ora consideriamo il mentito re rafforzato ( 6 ) e ragioniamo per casi. ( 6 ) è vero o falso, o né vero né falso. Se è vero, allora per ciò che dice non è vero. Se non è vero, ossia è o falso o né vero né falso, allora è vero, visto che dice proprio di non essere vero. In ciascun caso, abbia­ mo una contraddizione. A questo punto, si può obiettare che l' infe­ renza dalla non verità e non falsità di ( 6 ) alla sua verità è illegittima. Sennonché il gapper, impegnato in (14), è altrettanto impegnato in una sua istanza, cioè : (15) Se (6) non è vero, allora ( 6) non è vero" è vero. "

Quindi, poiché " ( 6) non è vero" è proprio ( 6 ) , se (6) non è vero, allo­ ra (6) e vero. Lo stesso genere di cosa accade con (7 ) Igappers allora possono aggirare la difficoltà escludendo che la nozio­ ne di enunciato né vero né falso, o di gap, sia esprimibile nel linguag­ gio nel quale stanno fornendo la propria teoria. Quindi, il linguaggio per cui la soluzione dei paradossi viene proposta non è il linguaggio in cui la teoria è formulata; e, ammette Kripke ( 1 9 7 5, p. 8 1 ) , « non possiamo evitare il bisogno di un metalinguaggio » . A questo punto, alla luce anche delle argomentazioni di Priest ( 1 9 8 7, pp. 2.9-31 ) , possiamo tracciare alcune conclusioni. Innanzitutto, sem­ bra fuori discussione che l 'unica via per salvare la coerenza della te­ oria, tanto quella tarskiana quanto quella kripkiana, sia negare che i concetti teoretici fondamentali - l'ordine per Tarski e il gap per Kripke - siano esprimibili nel linguaggio per il quale la soluzione vie­ ne fornita. Tutto ciò però equivale ad ammettere che quel linguaggio non è l ' italiano ordinario, o qualunque linguaggio naturale, in cui invece tali nozioni sono perfettamente esprimibili. Secondo Priest, .

ciò suggerisce che il problema dei paradossi semantici non solo non sia stato finora risolto, ma non sia neppure risolvibile in linea di prin­ cipio da qualsiasi approccio che voglia salvare il PNC. A detta di Priest, i mentitori rafforzati mostrano che vi è un'unica struttura essenziale del paradosso semantico, al di sotto delle sue va­ rie formulazioni. La totalità degli enunciati è divisa in due sottoin­ siemi: l ' insieme degli enunciati veri e il suo complemento standard - chiamiamolo il Resto. L'essenza del mentitore è una costruzione autoreferenziale che forza un enunciato, il quale si trova nell' insie­ me degli enunciati veri, a essere anche nel Resto, e viceversa. Il men­ titore standard, "Questo enunciato è falso", non è altro che un caso particolare di questa costruzione : e produce una contraddizione nel caso in cui il Resto coincida con l ' insieme degli enunciati fal­ si. Questa è appunto la situazione bivalente, in cui vero e falso sono esaustivi. Possiamo credere di aver risolto il problema ammettendo enunciati "né veri né falsi", e quindi rifiutando che l ' insieme degli enunciati falsi esaurisca tutto il Resto. Ma i menti tori rafforzati, come (6) e ( 7 ) , ci mostrano che è sempre possibile adoperare le no­ zioni che dovevano risolvere il paradosso per ridescrivere il Resto. Dunque, in un quadro in cui gli enunciati sono suddivisi in veri, falsi e né veri né falsi, "Questo enunciato è falso o né vero né fal­ so" abbraccia con la propria disgiunzione esattamente la totalità del Resto, ossia il complemento dell' insieme degli enunciati veri, di cui quelli falsi costituiscono solo una parte propria. Aumentare i valori di verità non serve a nulla: se c 'è una quarta cosa che un enuncia­ to può essere, oltre a vero, falso e né vero né falso, possiamo sempre avere un altro mentitore rafforzato : (1 6 ) (16 ) è falso o né vero né falso o la quarta cosa

e cosÌ via. Perciò, conclude Priest, « i paradossi estesi in realtà non sono nuovi paradossi, ma semplicemente manifestazioni di uno stes­ so e unico problema, adattabile a diversi contesti » (ibid. ). Come si è detto, ciò costringe ad ammettere che la teoria è formulata in un linguaggio diverso da quello per il quale la teoria è stata edificata. Si ricade cosÌ nella distinzione fra linguaggio oggetto e metalinguaggio, 39

la cui inadeguatezza è già stata sottolineata trattando l'approccio ge­ rarchico. Come Kripke ha affermato in conclusione di Outline ofa Theory of Truth, « il fantasma della gerarchia di Tarski è ancora con noi » ( 1 9 7 5 , p. 80). I filosofi analitici del linguaggio si sono concentrati soprattutto sui paradossi semantici. Come sap­ piamo, anche i paradossi insiemistici hanno lanciato il guanto di sfida al PNC e, in questo senso, non sono certo meno interessanti, soprattutto sotto una lente ontologica. Le nozioni insiemistiche a cui fanno riferimento queste formulazioni antinomiche sono tipica­ mente quelle di classe, elemento, appartenenza. Ma prima di fornire qualche pillola di teoria degli insiemi, chiediamoci: cosa ha di para­ dossale il barbiere di Russell ? Presumibilmente nulla, se ci riferiamo a quello frequentato dal filosofo inglese. Non è cosÌ invece per il bar­ biere protagonista dell 'aneddoto attraverso cui Russell esemplifica l'antinomia che porta il suo nome. Leggiamo una delle tante versioni, quella riportata da Sainsbury ( 1 9 9 5 , pp. 1-2. ) : « In un remoto villaggio della Sicilia, raggiunto in vetta da una ripida strada di montagna, il barbiere rade tutti e solo quegli abitanti che non radono se stessi. Chi rade il barbiere ? » . La domanda è tutt 'altro che innocua. Difatti, se egli si facesse la barba da sé non potrebbe, dal momento che il barbiere rade solo coloro che non radono sé stessi. Se invece fosse qualcun altro a farlo ? Nemmeno, in quanto il barbiere rade tutti quelli non si radono da soli. Allora comincia a prendere forma lo scenario paradossale e controintuiti­ vo del barbiere di Russell. Se lo incontrassimo nel presunto villaggio remoto della Sicilia, egli sarebbe senza dubbio una contraddizione. Come accennato poc ' anzi, Russell adotta questo divertente aned­ doto per illustrare il paradosso, che egli scopre nel 1 9 01, mentre sta­ va lavorando, di concerto con Alfred Whitehead, al monumentale volume Principia Mathematica. Nell 'elaborazione del testo scopre qualcosa di imbarazzante: una contraddizione sorge all ' interno del­ la teoria degli insiemi, nella versione nota ai tempi e formulata da George Cantor e Gottlob Frege. Tale contraddizione non è, natural­ mente, la figura di colui che rade tutti e solo quelli che non radono 1 .4.4.

I l paradosso di Russell

sé stessi. Tuttavia c 'è un'analogia e per comprenderla introduciamo qualche pillola - innocua - di insiemistica. Quella che si chiama di solito teoria ingenua degli insiemi (nai've set theory), come presentata ad esempio nella formalizzazione di Frege, si basa su due principi che catturano la nostra concezione intuitiva di insieme. Il primo è quello di estensionalita, che dà le condizioni sufficienti per l ' identità fra insiemi:

informalmente : "Se y e z hanno esattamente gli stessi elementi, sono lo stesso insieme". Un insieme, dunque, è interamente determinato dai suoi elementi. Questo " E " è il simbolo di appartenenza - nell 'e­ sempio - di un elemento (x) all ' insieme (y o z ) . Quel che più ci in­ teressa è il Principio di comprensione, che possiamo formulare cosÌ: (pc )

.3y' v" , ( r p 1 » ),

ossia: a -s 13 è vera in un mondo w, se e solo se in tutti i mondi Wl accessibili da w in cui è vera Cl, è vera 13. Una simile clausola però non può funzionare per un' implicazione rilevante : rende Cl � (13 � �) una verità logica, mentre questa è una fallacia della rilevanza, non rispettando vS P. Dunque, in generale una semantica a mondi (im) possibili per logiche rilevanti non può funzionare con una relazione binaria di accessibilità fra mondi (anche se è possibile reintrodurvi una relazione binaria limitata, come vedremo fra poco) . Invece, si può introdurre la seguente clausola, che adopera la relazione ternaria del modello Roudey-Meyer:

Questa può essere letta come: Cl � 13 è vera in un mondo w , se e solo se per ogni mondo Wl e Wl accessibile da W vale che se Cl è vera in Wl' allora 13 è vera in Wl' Questa clausola non convalida Cl � (J3 �(. Mediante la relazione ternaria si possono edificare strutture che fanno da modello per le diverse logiche della rilevanza, in modo analogo a quanto accade nel­ la normale logica modale : a partire dal sistema di base B, otteniamo modelli per sistemi più forti come R e E aggiungendo condizioni formali su R. Prima di discutere la plausibilità di tutto ciò, passiamo alla semantica della negazione, che adopera l 'operazione di involuzione o sdoppiamento identificata tramite * . Questa è nota in letteratura come Routley 's star, ossia la stella di Roudey. E qui tocchiamo davvero il punto decisivo per il problema che ci sta a cuore, ossia il problema della violazione del PNC che, co­ me sappiamo, è connesso alla semantica della negazione più che a quella di ogni altro connettivo. Dato un mondo w, lo sdoppiamento consente la posizione di un mondo w *. Ora, la clausola per la ne­ gazione (talvolta Roudey e Meyer la chiamano provocatoriamente "negaziome") è : 6.3+ La stella di Routley

(5-,)

v,; (i -,a l) � Non V;,. ( i a l),

ossia -,a è vera in w se e solo se a non è vera in w' . In questo senso, si tratta di un connettivo "intensionale": per valutare un enunciato negato in w occorre andare a vedere come stanno le cose in w'. Anzitutto, questa costruzione rende disponibile un chiaro controe­ sempio a E C Q: basta considerare il caso in cui a è vera in w, � non è vera in w e a non è vera in w ' : allora, a e -,a sono entrambe vere in w mentre � non lo è - e l 'esplosione è disinnescata. Si noti che lo è sen­ za ammettere (a differenza di quanto avveniva in LP e nella semantica quadrivalente di Belnap e Dunn) un glut nei valori di verità, ossia enunciati insieme veri e falsi: la semantica in questione è intensiona­ le, ma bivalente. Inoltre con un po' di condizioni aggiuntive possia­ mo validare i vari teoremi delle logiche della rilevanza, e soprattutto far sÌ che la negazione rilevante, o "negaziome", abbia certe proprietà inferenziali intuitive : proprietà tali da farla considerare una vera ne­ gazione, e non un trucco come quella dacostiana. Pertanto, avendo praticamente tutte le proprietà inferenziali della negazione standard, tranne ovviamente quella di essere esplosiva, la "negaziome" sembra che soddisfi pienamente la Condizione di danno minimo.

6.4. Ultralogica

Secondo Roudey e Meyer una logica paraconsistente per cui valga la loro semantica include propriamente in sé la logica classica come suo caso particolare. Ciò non è inteso nel senso formale tradizio­ nale (secondo cui un sistema ne estende un altro, se include tutti i teoremi di questo e dimostra qualcosa in più), bensÌ in un senso analogo a quello in cui, ad esempio, si dice che la fisica relativistica include la fisica newtoniana come sua approssimazione, valida per velocità molto piccole rispetto a quella della luce. Sennonché qui non si tratta di velocità, ma di contraddizione : una logica basata sul­ la semantica a mondi impossibili - sostengono Roudey e Meyer può trattare il caso in cui vi sono "contraddizioni reali", ossia in cui « a ogni tempo dato può sussistere una contraddizione » (Roudey, Meyer 1 9 7 9, p. 326). Dunque si estende oltre la logica classica per­ ché, tenendo conto di un'eventuale contraddittorietà (parziale) del 104

mondo, tratta delle realtà contraddittorie di cui questa non può dar conto. Ciò che la semantica ordinaria fa è semplicemente assumere che, per ogni w, w = w * , ossia che tutti i mondi siano consistenti e completi. La richiesta che un mondo sia inevitabilmente associato a un insieme consistente massimale di enunciati è fatta passare dalla logica stan­ dard nella semantica della negazione, richiedendo questa, per l'ap­ punto, che esattamente uno fra ex e ,ex sia vero in un mondo w. L'a­ dozione di questo Principio di negazione classico, affermano Routley e Meyer, è incorporata nel P N C , com'è formulato ad esempio nel De interpretatione aristotelico. La "negaziome" si comporta esattamente come la negazione classica nei mondi consistenti. Il suo comporta­ mento cambia una volta che abbiamo ampliato il modo standard (e restrittivo) di intendere la nozione di situazione, o di mondo. Per queste ragioni, Routley ( 1 979) ha presentato la sua logica rilevan­ te come un"'ultralogica" perfettamente in grado di effettuare la clas­ sical recapture. Infatti, sostiene che « una logica universale, nel senso inteso, è applicabile in ogni situazione, realizzata o meno, possibile o meno. Perciò una logica universale è come una chiave universale. Che apre, se bene usata, tutte le serrature. Fornisce un canone per ragionare in ogni situazione, incluse quelle illogiche, inconsistenti e paradossali » ( ivi, p. 893). In particolare, una logica dialettica-para­ consistente, assumendo la "contraddittorietà semplice" (ossia parzia­ le, non assoluta) del mondo, sarebbe più razionale della posizione classica se si dovesse verificare che la questione dell ' incontradditto­ rietà del mondo non può essere definitivamente decisa. Ebbene l' in­ contraddittorietà dell ' intero è, secondo Routley e Meyer ( 1 979, p. 3 46), proprio un problema, e un problema indecidibile.

6 .S . Problemi rilevanti

In questo paragrafo conclusivo vediamo quali sono le maggiori criti­ che mosse alI'approccio rilevantista. Queste arrivano principalmente da autori comeJohan van Benthem (1979) e Brian]. Copeland (1979). Innanzitutto, i problemi più rilevanti per la rilevanza si situano al li10S

vello dell ' interpretazione intuitiva della semantica. Per comprendere questo punto, accenniamo a una distinzione nota in letteratura tra semanticapura e applicata. In generale, con semantica pura s' intende la costruzione di un apparato formale tramite l' introduzione di un modello o struttura e di ciò che la compone. Nel caso della semanti­ ca di Routley e Meyer, per esempio, abbiamo una struttura a mondi impossibili che contiene cose come l' insieme K dei mondi o la re­ lazione R di accessibilità. Invece, con semantica applicata s' intende l ' interpretazione intuitiva del formalismo all' interno di un modello, in modo da spiegare come funzionano e cosa significano le espres­ sioni utilizzate da una semantica pura. Orbene, molti autori hanno sostenuto che, in base a questa distinzione, le semantiche rilevanti rimangono semantiche pure e non applicate, in quanto non dicono nulla circa l ' interpretazione intuitiva delle strutture adoperate. Inol­ tre, nel caso della teoria di Routley e Meyer, il suo aspetto allettante è dovuto al fatto che sembra uno sviluppo della semantica a mondi possibili di Kripke, e ciò probabilmente le ha consentito di giovarsi della rispettabilità di quest 'ultima. Ma la relazione R a tre posti del modello non somiglia affatto alla relazione di accessibilità fra mondi codificata da Kripke, proprio per la ragione che questa (almeno, per la maggior parte dei logici) ha un senso intuitivo indipendente rispetto agli assiomi delle varie logiche modali, mentre quella no. La stessa mancanza di caratterizzazione indipendente sembra affliggere anche l 'operazione monadica di sdoppiamento " che concerne la "negazio­ me". Di conseguenza, non è per nulla chiaro quale sia il significato "inteso" assegnato ai simboli logici da questo genere di struttura. In realtà, Routley e Meyer hanno tentato di fornire una spiegazione di • in termini di asserzione, distinguendo fra asserzioneforte e debole di un enunciato. L'asserzione debole di a sarebbe l 'omissione dell ' as­ serzione della sua negazione, e ciò che è debolmente asserito in w' è precisamente ciò che è (fortemente) asserito in w. E anche in questo senso la "negaziome" ricomprenderebbe in sé la negazione classica: « in circostanze normali, quando noi affermiamo esattamente ciò che non neghiamo, [w] e [w*] coincidono, e in questo caso il trat­ tamento della negazione si riduce a quello usuale » (Routley, Meyer, 1973, p. 2.02. ) .

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Copeland e altri hanno trovato la distinzione semplicemente incom­ prensibile. Anzitutto, la tesi in base a cui una logica dialettica-rile­ vante estende la logica classica perché contempla sia il caso classico (ossia w = w ' ) per il quale la "negaziome" si comporta esattamente come la negazione standard, sia il caso di situazioni inconsistenti, sembra gratuita. Per comprendere il significato assegnato da una struttura semantica a un connettivo dovremmo guardare al suo com­ portamento in tutti i mondi del modello, non solamente in un loro sottoinsieme. Ma, soprattutto, il problema a questo punto è che a sua volta la nozione di asserzione o affermazione debole sembra essere stata introdotta ad hoc, e non si capisce che connessione possa avere con la nostra normale idea di asserzione. Inoltre, in mancanza di ul­ teriori spiegazioni sulla natura di w ' , l'operazione di involuzione o sdoppiamento ha dunque l'apparenza di un trucco formale. Oggi la situazione per la logica della rilevanza è un po' cambiata ri­ spetto agli anni in cui scrivevano van Benthem e Copeland, nel senso che sono state fornite interpretazioni intuitive piuttosto convincenti delle strutture a mondi impossibili. Orbene, di che genere di inter­ pretazione si tratta ? Potremmo dire che tali strutture hanno effetti­ vamente un' interpretazione plausibile, ma solo in quanto sono viste come strutture di teorie, stati cognitivi, data base, sistemi di credenze e cosÌ via. Di conseguenza, l'ammissione che in questi mondi si re­ alizzino violazioni del P N C in senso ontologico sarebbe una fallacia verbalista : la fallacia che consiste nell 'attribuire al mondo le carat­ teristiche (specificamente, l ' inconsistenza) delle nostre rappresenta­ zioni del mondo. Questo a meno di assumere una prospettiva idea­ listica in cui il nostro mondo coincide con le nostre teorie o i nostri schemi concettuali. In tale direzione possiamo leggere la semantica dell' American Pian : la struttura quadrivalente sviluppata da Belnap e Dunn è intesa dagli au­ tori come avente una lettura strettamente epistemica. A detta di Dunn ( 19 8 6 ) quello che la semantica quadrivalente cerca di rappresentare è il fatto che « si possono avere assunzioni, informazioni, credenze, eccetera, inconsistenti e/o incomplete » , e « tutto questo discorso su qualcosa che è sia vero che falso o nessuno dei due dev 'essere inteso epistemologicamente e non ontologicamente » (ivi, p. 1 9 3)' 107

In contrasto con l ' interpretazione epistemica di Belnap e Dunn si muove, invece, la difesa dell' Australian Plan condotta da Meyer e Martin (1986). Essi insistono sul carattere "antico" della violazione del P N C ammessa nella prospettiva a mondi impossibili. Ma, nello stesso tempo, descrivono una situazione in cui il PNC viene violato come una in cui « una teoria data può insieme asserire e negare A » , e in questo caso « la cosa ovvia da dire è solo che la teoria è confusa su A» ( ivi, p. 3 1 1 ) . Consistenza e completezza sono un ideale regolativo, ossia ciò a cui tendono da ultimo, nel lungo periodo, le nostre teorie. A questo punto, l 'obiezione è inevitabile: i rilevantisti « scambiano i mondi w per le corrispondenti teorie sul Lungo Periodo» , e «A è vero in w significa che A appartiene a[lla teoria] T; A è falso in w significa che A non appartiene a T» ; al contrario, « non sono le nostre Teorie Favorite, ma è il Mondo, a conferire Verità e Falsità agli enunciati » ( ivi, p. 324). Ora, la risposta di Meyer e Martin consiste proprio nell' abbracciare una prospettiva idealistica, dove « Il Mondo a cui una certa Logica è correlata tende a somigliare molto alla Logica che vi è correlata » , e i nostri mondi, o modelli, « sono solo copie immaginarie delle nostre teorie preferite » (ivi, pp. 3 24-6). Pertanto, un idealista può trovare questa posizione rispettabilissima. Il problema è che quasi tutti i dialeteisti si professano realisti e, pro­ prio per questo, sono suscettibili di incappare nell 'accusa di fallacia verbalista. E, in un certo senso, la stessa distinzione fra paraconsi­ stenza debole e forte, universalmente accettata nella comunità dei paraconsistentisti, forse è realmente fondata solo sulla base di un ap­ proccio realistico. Si potrebbe infatti congetturare che solo così c 'è una vera differenza fra chi propugna una logica che non trivializzi a partire da contraddizioni nelle nostre teorie, e chi, come i dialeteisti, sostiene la realtà della contraddizione nel mondo.

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7. Problemi delle logiche paraconsistenti

A questo punto della narrazione sulle contraddizioni e sulle logiche paraconsistenti arriviamo al capitolo conclusivo, che tratta alcuni dei problemi con cui si scontra chi tollera le contraddizioni.

7.1. Ipercontraddizioni

Alla fine del primo capitolo abbiamo ipotizzato che qualsiasi solu­ zione consistente del paradosso del mentito re vada incontro al suo mentito re rafforzato. Se rinunciamo alla bivalenza, abbiamo cose come " Questo enunciato è falso o né vero né falso" ; se suggeria­ mo una gerarchia di metalinguaggi, abbiamo "Questo enunciato è falso al proprio ordine" ; vecchi paradossi sono resi trattabili solo per essere sostituiti da nuovi. Allora, suggerisce il dialeteista, me­ glio accettare queste contraddizioni e modificare la nostra logica affinché non sia resa triviale. Tuttavia, nella letteratura più recente serpeggia 1 ' idea che anche la paraconsistenza forte possa avere un suo revenge Liar: che cioè sia possibile costruire, adoperando certe nozioni tipiche del dialeteismo, un mentitore rafforzato intratta­ bile anche per chi accetta le contraddizioni - ad esempio, perché è tale da produrre l'equazione 1 = o nei valori di verità ammessi - con il risultato di trivializzare il sistema, rendendo tutti gli enun­ ciati egualmente sia veri che falsi. Un tale paradosso sarebbe una

ipercontraddizione. Curiosamente, il primo a parlare di ipercontraddizioni è stato pro­ prio Graham Priest, in un saggio del 1 984 intitolato proprio Hyper­ contradictions. Cominciamo questa storia con l ' innocuo insieme dei valori di verità classici, che scriviamo come segue : V, = { I, O } .

Tecnicamente, la semantica di LP si ottiene facendo l ' insieme poten­ za dei valori classici, e togliendo l ' insieme vuoto (niente gaps). Dun­ que l' insieme dei valori di verità per LP è : v,

=

P(VJ - 0

=

{ { I } , { o } . { I, o } } .

Sappiamo che la lettura intuitiva dei valori è: (solo) vero, (solo) falso, vero e falso (o paradossale) ; e, si badi, l' idea iniziale è che questi valo­ ri siano esaustivi ed esclusivi: un enunciato dovrebbe avere uno e uno solo dei tre. I valori designati sono { I } e { I, O } , e i connettivi sono interpretati come operazioni sull' insieme V,. Orbene, Priest si è chiesto se non fosse possibile, una volta posto V, ossia i tre valori iniziali della semantica di LP, considerare enunciati che prendono valori impossibili come sia vero che falso ( { I, o } ) e solo vero ( { I } ) , e la risposta è stata affermativa. Inoltre, potremmo iterare l 'operazione di passaggio all' insieme potenza, che ci ha porta­ to dai valori standard a quelli di L P, così da avere: v,

=

P ( V,) - 0.

Una volta che siamo in corsa, naturalmente, possiamo produrre un' intera gerarchia, caratterizzata per ricorsione : Vo = { l, O } V,,+, = P(Vn) - 0.

Quali saranno i valori designati ? In conformità allo spirito di LP, do­ vrebbero essere quelli in cui figura qualche vero, ossia in cui c 'è un I a qualche livello di profondità negli insiemi di valori. E naturalmente, anche i valori designati saranno infiniti. Ma Priest non è stato troppo disturbato dalla situazione, anzi ha ritenuto semplicemente di poter accettare l ' intera struttura semantica. Una volta ammesso il primo passaggio da Vo a V" e quindi una volta ammessi enunciati paradossali, veri e falsi, solo la relazione di conse­ guenza logica muta (come si ricorderà, la conseguenza in LP non è classica, mentre tutte le tautologie classiche sono tautologie di LP ) . Ma gli ulteriori gradi della gerarchia non cambiano neanche la rela-

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zione di conseguenza logica definita per LP usando V I . Così, Priest ha dichiarato che « le ipercontraddizioni non fanno differenza » ( 1 9 8 4 , p. 2 4 1 ) . Si capisce la motivazione filosofica sottostante : una volta am­ messe contraddizioni (di tipo C2, ossia enunciati veri e falsi), enun­ ciati che prendono un numero indefinito di valori reciprocamente esclusivi hanno tutta l'aria di essere solo contraddizioni in più da issare a bordo del vascello dialeteista. E così, negli scritti successivi Priest è ritornato ai tre valori di LP. 7.1 . 1 . Il supermentitore Tuttavia, Anthony Everett (1993) e Ti­ mothy Smiley ( 1 993) hanno mostrato, in modo indipendente, che le cose non sono così semplici. Come sappiamo, il tipico mentitore rafforzato dice:

Sulla base della concezione priestiana, la funzione semantica di va­ lutazione v assegna a ( I ) valore { I, o } , ossia ( I ) è vero e falso, e tutto funziona. Consideriamo però il seguente mentitore rafforzato : (2.) (2.) è solo falso.

Ciò che (2) fa è attribuire a sé stesso precisamente il valore di ve­ rità non designat of> } , ossia la semplice falsità. Formalmente, (2) è un enunciato À tale che nella notazione semantica adottata da Priest può essere scritto come segue : (PFJ

j, + H(i.)

=

{o}.

Questo dà esiti disastrosi, se l a semantica di LP è costruita con l afun­ zione di valutazione v. Partiamo con VI ' ossia con i tre valori originari di LP, e supponiamo che À sia o solo vero, o vero ejàlso: v(À) = { I } , oppure v(À) = { I, o } . In ambo i casi, per come è intesa la funzione di valutazione, abbiamo :

III

che può essere letta come " À è vero". A questo punto consideriamo il T-schema nella notazione di Priest, ossia: (T)

( ) B a.

I E v a

Allora possiamo applicare il modus ponens a (3) e all' istanza del T­ schema per À, e avremo À; ossia, per PFi.'

Presi insieme, (3) e (4) ci dicono che I E { o } , e dunque I = o e { x } = { o } . Supponiamo allora che À prenda l 'ultimo valore a disposizione : À è solofalso, ossia vale (4). Da P F i. e ( 4 ) deriviamo ancora À. D a À e dal(1' istanza per À del) T-schema, per modus ponens, segue daccapo (3). Anche in questo caso abbiamo (3) e (4) insieme, da cui I E { o } , e dunque I = o e { I } = { o } . In tutti i casi salta ogni differenza fra verità e falsità ! L'argomento per il supermentitore adopera solo nozioni insiemisti­ che di base, modus ponens, sostitutività di equivalenti, e il T-schema. Il problema sta nella funzione di valutazione v, ossia nella modalità con cui viene valutato il valore di verità di un enunciato. Pertanto questo ha condotto Priest, e altri autori che hanno adope­ rato L P, a sostituire la funzione semantica con una relazione di valu­ tazione, mostrando che le cose vanno meglio nel momento in cui si esprime le condizioni di verità (in un' interpretazione) in termini relazionali. Tuttavia, anche se questo aggirasse il problema posto da Smiley ed Everett, non è affatto sicuro che risolva tutti i problemi. Ad esempio, Joachim Bromand ( 2 0 0 2. ) ha sviluppato una ipercon­ traddizione che colpirebbe anche una semantica relazionale per LP, impedendole daccapo di distinguere le nozioni di solo vero e solo falso. L' ipercontraddizione di Bromand è giocata sulla matematica e sull' insiemistica sotto stanti alla semantica relazionale. Si comincia adoperando il Principio di comprensione : in una prospettiva pa­ raconsistente questo non ha restrizioni, dunque consente per ogni enunciato di astrarre l ' insieme dei suoi valori di verità, ossia l ' in­ sieme dei valori con cui è nella relazione R. Si introduce allora un I I 2.

supermentitore che si attribuisce, come insieme dei propri valori, il singoletto { o } . È quindi daccapo un mentito re del tipo di (2), ossia un enunciato che dice di essere solo folso, ma riprodotto nel nuovo quadro relazionale. Un ragionamento per casi porta di nuovo a con­ cludere I = o. La possibilità di produrre simili supermentitori, con le connesse ipercontraddizioni, nel complesso fa dubitare della soluzione dia­ leteista dei paradossi semantici. Il suo pregio non doveva essere il raggiungimento dell 'universalità semantica, ossia la capacità di non bandire alcuna espressione significante dal linguaggio per cui si dà la semantica ? Ad ogni modo, il dibattito sul trattamento delle ipercontraddizioni è vivo e in rapida evoluzione. Per esempio, Greg Littmann e Keith Sim­ mons (200 4 ) hanno proposto ancora altri mentitori della vendetta a carico del dialeteismo. In particolare, hanno insistito sul fatto che, anche se adotta la propria aritmetica paraconsistente, il dialeteista ha comunque una certa idea della reciproca esclusione fra valori di verità. Detto altrimenti, poiché il dialeteista non è un trivialista, egli accetta una nozione di folso che esclude il vero, e considera enunciati, come per esempio " I + I = 3", ai quali attribuisce il valore folso che esclude il vero. Chiamiamo allora v il valore che il dialeteista stesso ascrive a questi enunciati, e possiamo costruire un "mentitore introspettivo": ( 5 ) ( 5 ) è v.

Se ora il dialeteista risponde che ( 5 ) è sia v che vero, non si capisce bene che cosa intenda, dal momento che v esclude la nozione di vero, come nel caso dell 'enunciato " I + 1 = 3 ". In altri termini, Litt­ mann e Simmons sostengono che « se il dialeteista ascrive verità a un enunciato che è v, allora sembra che non abbia capito cosa vuoI dire che un enunciato è v. Se si aggiunge 'vero' a 'v ', non si ha più 'v ' » (ivi, p. 3 24) . Inoltre, Littmann e Simmons sviluppano altri supermentitori, ado­ perando anche "valori grafici", ossia rappresentando graficamente l'annidamento di insiemi di valori di verità nei vari mentitori raffor­ zati. Ma a parte i dettagli, quel che è interessante nel loro approccio 113

è che incomincia a emergervi un problema generale a carico del dia­ leteismo - un problema a nostro avviso più fondamentale di quello delle ipercontraddizioni, che ne costituisce solo un caso particolare. Possiamo etichettarlo come il problema dell' esclusione. E lo vediamo nelle prossime pagine.

7. 2 . Il problema dell 'esclusione

Chi sostiene il dialeteismo come fa a rifiutare qualcosa ? Se una con­ traddizione può essere vera nel nostro discorso, dunque accettiamo talvolta qualcosa della forma di ( ex /\ ,ex ) , come facciamo a rifiutare ex, se non è sufficiente asserire , ex ? I l problema che stiamo affrontando emerge, tra i vari testi i n lette­ ratura, anche nella discussione che Priest fa in What Is so Bad about Contradictions?, articolo del 1 998 che abbiamo già incontrato. Tale problema viene trattato come uno dei gruppi di obiezioni rivolte ai sostenitori del dialeteismo. Questa critica, come si può già intuire, si basa su un aspetto pragmatico del linguaggio, in quanto fa riferi­ mento ad accettazione e rifiuto, asserzione e diniego. Questi concetti sono connessi tra loro e possiamo dire che asserzione e diniego sono due atti linguistici, come per esempio i comandi o le domande. L'as­ serzione è un atto linguistico, tale che uno asserisce ex con lo scopo di indurre l'ascoltatore a credere ex, o quantomeno, a far credere all 'a­ scoltatore che egli lo accetta e, dunque, crede ex. Il diniego è la con­ troparte negativa dell'asserzione ; è un atto linguistico che si compie affinché l'ascoltatore sia portato a rigettare il contenuto del diniego o, quantomeno, a fargli credere che lo si rifiuti e lo rigetti. L'efficacia di questa critica è sostenuta da due punti: il primo è che un enunciato, per essere significativo, deve escludere qualcosa. Se asse­ riamo "La mia Ferrari è rossa", con questo enunciato noi escludiamo la sua negazione "La mia Ferrari non è rossà', e dunque escludiamo qualunque colore che non sia il rosso. Se un dialeteista ammette una contraddizione e afferma ( ex /\ ,ex ) , cosa esclude la sua affermazione ? L'altro punto a sostegno della critica è un'equivalenza ptoposta da Gottlob Frege e comunemente accettata: esprimere il diniego di ex

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è equivalente ad asserire la sua negazione, ..., a. Pertanto, come fa un dialeteista a dichiarare un diniego di a, affermando ..., a, se costui am­ mette a /\ ..., a ? Per quanto concerne il primo punto, possiamo dire che una diale­ theia, sebbene non escluda la negazione in toto, in quanto i suoi co­ stituenti sono l'affermazione e la rispettiva negazione, può tuttavia escludere altre cose. La questione diventa problematica se facciamo slittare in modo illegittimo ciò che pensa il dialeteista, il quale sostie­ ne che alcune contraddizioni sono vere, ma non tutte. Tale sposta­ mento da alcune a tutte non è lecito. Pertanto se accettiamo alcune contraddizioni come vere, siamo ancora in grado di escludere qual­ cosa dal nostro discorso. Richiamiamo l 'esempio di Priest, ossia una persona - che indichiamo con x nel momento in cui esce da una stanza; mentre si trova sull'uscio, l 'enunciato "x si trova nella stan­ za", non esclude la sua negazione, in quanto in quel preciso istante valgono entrambe. Tuttavia tale dialetheia esclude altri enunciati su x, come "x si trova in macchina", "x è al centro commerciale" o "x passeggia SOtto i portici di Bologna". Vediamo il secondo punto dell'obiezione, secondo cui, per esprimere un diniego di a bisogna affermare ..., a; in questo modo, come può un dialeteista rifiutare qualcosa ? La questione è controversa, tanto che Priest non appoggia l' identità proposta da Frege. Infatti sostiene che « Asserire la negazione di qualcosa non equivale necessariamente a negarla. Quando, per esempio, asserisco la negazione dell 'enunciato del mentitore, non la sto negando. Dopotutto, io l'accetto, e intendo che anche voi facciate lo stesso » ( Priest, 19 8 9, p. 425). Difatti, se indichiamo con À l'enunciato del mentitore, e riconoscen­ do la verità di una dialetheia nella forma (À /\ ..., À ), non possiamo asserire semplicemente ..., À per rigettare À, poiché entrambi sono ri­ tenuti veri nel nostro discorso. In aggiunta alle osservazioni di Priest, possiamo dire che un dialetei­ sta può esprimere un diniego normalmente, in senso fregeano, asse­ rendo la negazione di ciò che rigetta. Tuttavia, in alcuni casi, quando si manifesta una dialetheia, è possibile che in quel caso non ci sia al­ cunché da rifiutare, o può essere espresso qualunque diniego che non riguardi la contraddizione ritenuta vera. Infatti, nella fattispecie del -

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mentitore, se accettiamo À /\ -, À, allora non c 'è alcunché da rigettare in relazione all 'enunciato del mentitore. Tuttavia il problema dell 'esclusione, e di una negazione adatta a interpretare tale ruolo, ha una rilevanza filosofica notevole, ed è di importanza fondamentale per il dialeteismo. È una questione che si lega nuovamente a quella posizione che ritiene tutto vero trivia­ lism e dunque finisce con l 'essere banale. Pertanto, il dialeteista si deve difendere da questa accusa, se non altro perché queste due sono posizioni differenti ed egli è lungi dall'essere trivialist. La rilevanza filosofica dell 'esclusione è manifesta e va oltre l'approc­ cio dialeteista; è connessa, a livello pragmatico, con l 'accettazione e il rifiuto, e con il fatto di operare una scelta: quando decidiamo qualcosa, in qualche modo escludiamo qualcos'altro e lo rigettiamo. Se, per esempio, siamo invitati a una festa per venerdì sera, ma quella stessa sera c 'è un concerto di cui abbiamo già acquistato il biglietto, si insinua il problema di operare una scelta tra due alternative incompa­ tibili. Infatti, se optiamo per andare al concerto, la nostra decisione si riflette sul fatto che non potremo andare anche alla festa, che equi­ vale a un rifiuto di andarci. Un altro esempio discusso da Priest, che mette in gioco due opzioni incompatibili, è quello della vincita, e del­ la perdita, a una partita di scacchi: se "x ha vinto la partita a scacchi", allora escludiamo che "x non ha vinto la partita a scacchi", dato che x non può fare entrambe le cose. Un altro caso ancora di alternative incompatibili è prendere l'autobus o non prenderlo : avremo dunque che "x ha preso l'autobus" esclude che "x non ha preso l'autobus"; è impossibile che il soggetto in questione compia entrambe le azioni. Gli esempi che abbiamo appena esposto trovano consenso anche in chi sottoscrive il dialeteismo. Costui dovrà essere in grado di espri­ mere un diniego e di far intendere che quando egli accetta che qual­ cosa abbia una proprietà, di conseguenza esclude che quel qualcosa abbia un'altra proprietà, in quanto mutualmente incompatibili. Per inciso, in questo momento parliamo di proprietà e di un soggetto che gode, o non gode, di tale proprietà. Tuttavia, potremmo esprimerci in termini di stati di cose che sussistono o non sussistono in un mondo, e non possono sussistere simultaneamente nello stesso mondo, proprio perché incompatibili. Ad ogni modo, il nostro discorso funziona in -

-

II6

tutti questi casi, stati di cose nel mondo, concetti istanziati o proprietà godute. Per semplicità ci esprimiamo in termini di proprietà. 7. 2 . 1 . La nozione di incompatibilità materiale A questo punto siamo arrivati al nocciolo del problema e possiamo abbozzare una soluzione in linea con la posizione dialeteista. Tale soluzione è pro­ posta da uno degli autori che qui scrive, ossia Berto. Dunque, ci occupiamo di un trattamento della negazione che con­ sente di esprimere l 'esclusione di due proprietà incompatibili, sen­ za per questo rinunciare a credere che esistono contraddizioni vere. Quella che viene avanzata è l 'offerta di uno strumento logico che permetta a un sottoscritto re del dialeteismo di continuare a credere che ci sono casi in cui una contraddizione è vera, e al contempo che gli consenta di esprimere l' incompatibilità tra due proprietà che si escludono. Inoltre, concluderemo suggerendo una formulazione del Principio di non-contraddizione, tale che anche un dialeteista alla stregua di Priest deve accettare. Vediamo in cosa consiste la proposta di Berto : l ' idea è di fornire una caratterizzazione di incompatibilita materiale, per cui una proprietà P1 è incompatibile con P1 se entrambe non possono essere godute nello stesso tempo dallo stesso soggetto. Per esempio, se affermiamo "La mia Ferrari è rossà', dato che il colore è una proprietà incompa­ tibile, per cui due colori diversi non possono essere uniformemente presenti in uno stesso oggetto, con la nostra affermazione escludiamo che la Ferrari in questione sia di un altro colore. Di conseguenza, se l 'esclusione funziona, avremo che la congiunzione di due enunciati, uno la negazione dell ' altro, come nel caso "La mia Ferrari è rossa" e "La mia Ferrari non è rossà', formerà una contraddizione, tale che anche un sostenitore del dialeteismo rifiuterà di credere che sia vera. Infatti, il punto in discussione è che, se possiamo credere che alcune contraddizioni sono vere, ma non tutte, dobbiamo poter esprimere questa differenza, per cui, se abbiamo una nozione di incompatibilità materiale possiamo trattare tale distinzione tra alcune contraddizio­ ni e tutte. Sappiamo, per l'appunto, che il dialeteista ritiene vera una contrad­ dizione come quella che emerge dal paradosso del mentitore : la ne-

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gazione dell 'enunciato del mentitore è ancora una contraddizione e, come abbiamo visto, si arriva alla conclusione che l'enunciato è falso se è veto, e viceversa. Dunque, se per risolvere l ' impasse ammettiamo che è veto (À /\ ..., À ), è necessario trovare un trattamento della nega­ zione, in quanto sottoscrittori del dialeteismo. Tale trattamento deve consentire di esprimere l 'esclusione, e dunque di riconoscere le altre contraddizioni che sono - sulla scia della logica classica - false. A questo punto incontriamo un nuovo simbolo, che introduciamo allo scopo di determinare l ' incompatibilità, il simbolo delfolsu m : ..l. Se scriviamo:

stiamo a indicare che P, e P, sono tra loto incompatibili e sono pro­ prietà che non possono essere godute nello stesso tempo dallo stesso soggetto. L' incompatibilità è simmetrica, pertanto vale che: ( 2 ) P, 1. P, B P, 1. P,.

Inoltre, per distinguere questo tipo di negazione, la denotiamo cosÌ: NON. Adesso possiamo fornire una sua definizione : (3) NON-P, (x) =df 3P'(P'(x) P, 1. P,)

In questo modo vogliamo indicare che, quando diciamo che x NON è P" affermiamo che esiste una ptoprietà P, goduta da x , tale che non è compatibile con P,. Riprendiamo l 'esempio precedente dell'automobile e indichiamo x per "La mia Ferrari", P, in luogo della proprietà "essere rosso" e P, per "non essere rosso"; in questo modo (3) afferma che la Ferrari possiede la proprietà di essere rossa e questa esclude che sia di un altro colore. CosÌ abbiamo quello che un dialeteista necessita per poter esprime­ re 1 ' incompatibilità materiale. Difatti, anche un filosofo come Priest deve essere in grado di poter escludere qualcosa dal suo discorso, per evitare di cadere in una posizione trivial, la quale concede che tutto sia compatibile e dunque non escluda nulla.

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La negazione così intesa ha alcune proprietà che la rendono interes­ sante. La prima è che non è definita usando il controverso concetto vero, del quale il dialeteista ha dubitato che sia esclusivo, o material­ mente incompatibile, rispetto al concetto falso. È definita usando il concetto stesso di esclusione, un concetto implicato, ad esempio, dalla nostra esperienza del mondo come agenti, che fronteggiano scelte fra compiere una certa azione o un' altra (qualcosa che riteniamo faccia­ no anche animali non dotati di linguaggi articolati) . E fronteggiare una scelta è percepire un' incompatibilità. Ma potrebbe essere impli­ cato anche dalla semplice e basilare capacità di riconoscere il confine (eventualmente sfumato e incerto) fra qualcosa e qualcos' altro, fra un oggetto e un altro. A questo possiamo aggiungere che tale negazione ha una forte mo­ tivazione pre-teoretica come strumento espressivo. Ciò di cui abbia­ mo bisogno come parlanti - anche, si è visto, come dialeteisti - per fornire informazioni determinate è precisamente uno strumento per esprimere l'esclusione. A questo proposito, possiamo citare un dia­ logo immaginario riportato da Huw Price (199 0), che rende piena­ mente l ' idea di come sarebbe una conversazione se non avessimo un mezzo per escludere (via negazione, rigetto, falsità o quel che si vuo­ le) la possibilità che Fred sia simultaneamente in cucina e in giardino ( ivi, p. 224) : lo: "Fred è in cucina". (Si avvia verso la cucina) Voi : ''Aspetta ! Fred è in giardino". lo: "Capisco. Però è in cucina, perciò andrò là". (Si avvia) Voi : "Manchi di comprensione. La cucina è libera-da-Fred". lo: "Sul serio ? Però c 'è Fred lì, e questo è l' imporcante". (Esce per la cucina).

Sicuramente, con un semplice : "Guarda, Fred NON è in cucina" (il che vuoI dire : Fred è da qualche altra parte, e il fatto che sia lì esclude che si trovi in cucina) , la vita sarebbe certamente più facile. A questo punto non resta che formulare una definizione del P N C , alla luce della proposta logica del NON appena vista. Tale definizione ri­ prende quella espressa da Aristotele nel quarto libro della Metafisica, e che abbiamo già incontrato all' inizio del testo ; in questo caso basta

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sostituire il non classico con quello escludente. Pertanto, "È impossi­ bile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e NON appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto". Questa versione del PNC può essere accettata anche da un sostenitore del dialeteismo, poiché gli consente di esprimere una forma di esclu­ sione, un' incompatibilità che riconosce in alcune contraddizioni, cioè quelle che non si comportano come una dialetheia.

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