Che cos'è la disintermediazione 8843086375, 9788843086375

Le nuove tecnologie consentono oggi di accedere a un gran numero di beni e servizi con semplicità e immediatezza, genera

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Italian Pages 142 [145] Year 2017

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Che cos'è la disintermediazione
 8843086375, 9788843086375

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Bussole · 540 Scienze della comunicazione

edizione, marzo 2017 © copyright 2017 by Carocci editore S.p.A., Roma I

a

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel marzo 2017 da Digitai Team, Fano (PU) ISBN

978-88 -430-8637-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 229 00186 Roma tel 06 42 81 84 17

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Paola Stringa

Che cos'è la disintermediazione

Carocci editore @ Bussole

Indice Introduzione I.

9

Disintermediazione e nuova sfera pubblica

1.1. Italiani sempre più smart e più digita!

15

15

1.2. Comunità, territori e "innovatori diffusi"

24

1.3. Lo spazio dei corpi intermedi nella democrazia digitale 1.4. Il lobbismo e i nuovi portatori d'interesse legittimi 1.5. Neopopulismo virtuale e sentimento anticasta

2.

26

29

33

La comunicazione della fiducia e quella della manipolazione 41

2.1. Il ruolo dei mass media nel mondo interconnesso 2.2. I corpi intermedi naturali e la fiducia

41

45

2.3. I soggetti dell'economia civile e i modelli di Big Society

49

2.4. La Chiesa alla ricerca di un nuovo dialogo con i fedeli

52

2.5. I partiti leggeri che perdono iscritti ed erogano servizi

54

2.6. Le fondazioni: think tank o estensioni dell'io?

3.

57

I poteri forti e la comunicazione debole

3.1. Il riposizionamento delle associazioni di categoria 3.2. Il sindacato tra crisi e voglia di selfie

65

61 61

3.3. L'Associazione nazionale magistrati sedotta da Twitter

72

3.4. Il mondo cooperativo alle prese con la sharing economy

74

3.5. I corpi intermedi e la legislazione europea

77

4. Individualismo, nuove fratture sociali e ricette di civismo 81 4.1. Senso civico, partecipazione e neorappresentanza 4.2. Neofratture: i linguaggi delle élite e degli esclusi

81 84

4.3. La difesa del bene comune tra senso civico e fai da te 4.4. Dall'art. 24 alla Carta della Partecipazione

93

4.5. Partecipazione 2.0: cittadinanza attiva e buone app

5.

I nuovi protagonisti dell'economia leggera e condivisa

99

103

5.1. Disintermediazione come sharing economy

103

5.2. Le app che riconfigurano i servizi e ilfoodtech 5.3. Fintech, banche e nuovi intermediari

90

106

109

5.4. Il crowdfundinge il digitai wealth management

112

5.5. La nuova grammatica urbana: dai coworking aifab lab

6. Stili internazionali, reintermediazione e neorappresentanza 119 6.1. I think tank a vocazione sovranazionale

n9

6.2. Dal MEDEF a NESTA: come comunicano gli altri

123

n5

6.3. Reti diffuse e cittadinanza attiva transnazionale 6.4. Il lessico del passato e quello del futuro

128

6.5. Strategie di reintermediazione e sillabari postcrisi

Bibliografia

13 s

126

130

Ringraziamenti Ringrazio Antonio Belloni, Marco Cacciotto, Maralin­ da Degiovanni, Andrea Di Camilla, Mattia Diletti, Mauro Fanfani, Paolo Galvani, Alessandro Gandolfo, Gabriele Guarisco, Vesna Lucca, Silvia Lu­ raghi, Aristide Malnati, Federico Moro, Sergio Nava, Alessandro Rosina, Vanni Rinaldi, Andrea Rapisardi, Antonio Lafìosca, Luisa Steiner Rollier, Eleonora Voltolina per avermi supportato nelle ricerche; tutti i protagoni­ sti della sharing economy e della digitai innovation che ho avuto occasione di intervistare per le testate del Gruppo24ore per cui collaboro e i colle­ ghi Maria Cristina Origlia, Giovanni Mediali e Luigi Dell'Olio, con cui mi sono confrontata tante volte su questi temi; i consiglieri regionali della Lombardia (x Legislatura, Commissione Affari istituzionali e Commissio­ ne Attività produttive) che mi hanno permesso di assistere alle audizioni e ai processi legislativi in corso sui temi della rappresentanza di interessi e dell'innovazione. Ma, soprattutto, i tanti rappresentanti dell'associazioni­ smo civico con cui ho avuto occasione di collaborare a diverse esperienze di cittadinanza attiva, che hanno reso più consapevole il mio sguardo sul valo­ re della partecipazione alla cura del bene comune. Grazie a Franco Spirito, Mauro Cagliati, Tina Lavarda, Riccardo Boschet, Madela Canepa, Andrea Amato, Fabiola Minoletti, Silvia Passerini, Pier Franco Lionetto, Stefano Piccardo e molti altri che contribuiscono, ogni giorno, con il loro impegno gratuito e il loro presidio costante, a rendere migliori le città in cui viviamo: questo libro lo dedico a loro. Nota metodologica Laddove non si riscontrano rimandi bibliografici, i te­ sti sono stati raccolti dall'autrice con lo strumento dell'intervista.

Introduzione

La disintermediazione è un processo o la somma di tanti processi che hanno investito la società globale con l'avvento di Internet e, successivamente, con lo sviluppo dei social media e delle piattafor­ me collaborative, generando una profonda mutazione dei rapporti, dei legami e delle regole che la normavano. Se l'utilizzo del termine "disintermediazione" viene fatto risalire al profetico libro di Paul Hawken The Next Economy (1983), il suo uso (o abuso) nei contesti più disparati ne rende, in parte, difficile la disambiguazione. Tutta­ via, in ogni contesto all'interno del quale si sia potuto osservare il fenomeno, dall'ambito bancario a quello dei trasporti, dal settore del turismo all'informazione, le dinamiche sono le stesse e hanno a che fare con la scomparsa degli intermediari che presidiavano, fino a un dato momento, quelle filiere (dell'economia, della politi­ ca, della cultura). Le nuove tecnologie consentono oggi agli utenti di accedere autonomamente a un gran numero di beni, attività e servizi che, nelle tradizionali società di massa, richiedevano la pre­ senza di figure di mediazione preposte. La scomparsa dei mediatori comporta, in genere, come prima ricaduta, a beneficio degli utenti, l'abbattimento dei costi normalmente applicati da ciascun distri­ butore sul valore del bene a ogni passaggio di canale. Per usare la definizione di Antonio Belloni, consulente aziendale ed esperto delle tematiche legate ai processi di disintermediazione: «La disin­ termediazione funziona dove toglie un ostacolo. Produce dei danni quando invece elimina dei passaggi che generano valore». Ma non si tratta soltanto di innovazione di processi e digitai disruption. Con la disintermediazione si assiste non solo alla distruzione di vecchi modelli di business e di consumo, ma a una vera e propria rottu­ ra dei paradigmi che sottostavano all'organizzazione di ognuno di quei processi di produzione, distribuzione e consumo. Addirittura di trasmissione del sapere e di costruzione (o distruzione) dell'opi9

nione pubblica, secondo Riccardo Grazio (2013) e Christian Rocca (2016). Tutto questo porta dunque con sé ben altre implicazioni, che vanno al di là del presidio del singolo canale del quale ciascun mediatore era guardiano e della convenienza dell'utente che ogni giorno conta i suoi vantaggi. Azzerando i passaggi e avvicinando produttore e utente, fornitore e fruitore, eletto ed elettore, edito­ re e lettore, la disintermediazione favorisce la perdita di centralità, all'interno del sistema, di quasi tutti i corpi intermedi della filiera che avevano da sempre fatto da filtro, svuotandoli, di fatto, di senso e di ruolo. « Sulla necessità di intermediari si sono costruiti ruo­ li, carriere, montagne di denaro» ricorda Silvio Siliprandi (2016), vicepresidente di GfK: «Le implicazioni sono di enorme portata, come la caduta di muri e barriere o la fine di rendite di posizione e del principio di autorità». Il processo investe ogni giorno una nuo­ va nicchia o un nuovo mercato; ottimizza meccanismi non ancora del tutto rodati e travolge comparti commerciali e stili di vita radi­ cati, tanto che l'argomento è continuamente oggetto di dibattito e reinterpretazioni che tengono conto degli sforzi di adattamento che ogni attore sociale coinvolto è chiamato a mettere in atto e del­ le transizioni, spesso conflittuali, che ne derivano, in ogni ambito. Scollamento, arroccamento, lobbismo, sono tante le strategie difen­ sive, da un lato, o i caveat prudenti o catastrofisti, dall'altro, che, in ogni Paese (in Italia, particolarmente), i guardiani delle filiere hanno opposto alla prospettiva disintermediante, portata avanti con fervore dai tecno-entusiasti. Eppure, al netto degli accenti opposti, come fa notare Gino Roncaglia (2011), le argomentazioni dei due gruppi antagonisti sono straordinariamente simili e nascondono una notevole confusione di idee. Perciò, in questa sede, si vorrebbe fare chiarezza sugli aspetti di un fenomeno che riguarda un numero sempre maggiore di cittadini e utenti della società globale e che merita di essere approfondito insie­ me ai protagonisti e ai testimoni dei cambiamenti avviati, ma anche a chi, da parte sua, difende strenuamente forme di mediazione tra­ dizionali, ritenendole legittime e necessarie al buon funzionamento dei sistemi. Mentre il cambiamento è diventato la regola, così come la mobilità dei comportamenti (di voto o di acquisto), lo scontro, 10

è evidente, si basa sul bisogno dei vecchi poteri di contare ancora e su quello dei nuovi di sbarazzarsene. Prendendo in esame le pe­ culiarità italiane, passeremo in rassegna, dunque, il rapporto tra la disintermediazione digitale e la nuova sfera pubblica, per osservare quanto i socia! media hanno cambiato la gestione del consenso e le élite stanno cambiando il rapporto con !"'offerta" (partiti, imprese, Chiesa) e perdendo, al contempo, il ruolo di guida delle masse; con­ centreremo l'attenzione sulla fiducia dei cittadini verso le istituzioni, i mass media e la Rete e sul loro approccio all'informazione. Con particolare riferimento alla società italiana, vedremo poi quale spa­ zio legittimo resti ai corpi intermedi nell'era postmoderna e come essi vadano trasformandosi per rispondere a bisogni in evoluzione. Poiché la disintermediazione, anche in politica, sembrerebbe portare a una perdita di rilievo dei tradizionali soggetti di mediazione, pren­ deremo in considerazione scenari e prospettive riguardo a partiti, sindacati e principali associazioni di categoria, facendo il punto sugli ultimi aggiornamenti legislativi in materia di lobbismo, rappresen­ tanza di interessi diffusi e partecipazione civica. Se nelle arene poli­ tiche i cambiamenti in atto rispetto al tema sono tanti, non meno lo sono quelli avviati nel mondo produttivo, all'interno delle imprese investite dalla quarta rivoluzione industriale e dall'avvento di nuove forme organizzative che accorciano filiere un tempo lunghe e artico­ late, favoriscono la nascita di nuove relazioni industriali e surrogano pezzi di welfare sociale in dismissione. Di fronte al radicamento di un individualismo sempre più dilagante (già in Putnam, 2004), che si riflette in forme di rappresentazione sempre più solipsistiche, sia reali che virtuali (tag, hashtag, selfie) e, per contrasto, allo sviluppo di alcune nuove forme di civismo nate come antidoto alla crisi del senso di comunità, all'antipolitica e all'antimercato (più vicine alla base che alle élite) che si candidano ad essere i protagonisti di quello che è stato ribattezzato «new deal civico» (Schiavi, 2015) o «ostinazione civile» (Ambrosoli, 2016), si cercherà di analizzare tutti gli strumenti di comunicazione a di­ sposizione sia dei corpi intermedi tradizionali sia delle aggregazioni nascenti, a partire dai socia! network, dalle rivoluzionarie app della sharing economy e dalle nuove formule di slow journalism e smart 11

curation. In Blogdemocrazia (2011) avevo cercato, insieme a studiosi ed esperti, di fare luce sui cambiamenti che i socia! media stavano generando sui meccanismi di formazione dell'opinione pubblica, sulla qualità del dibattito e sulla consapevolezza degli utenti. A distanza di sei anni appare più chiaro che se, da un lato, essi han­ no contribuito ad acuire il processo di disintermediazione in atto, dall'altro, hanno, spesso, radicalizzato il dibattito e, in non pochi casi, sono diventati la più evidente rappresentazione dell'individua­ lismo delle società postideologiche, i contenitori dei nostri selfie e dei nostri monologhi: più che luoghi di confronto, dunque, luoghi di scontro o di generico sfogo. In Italia i corpi intermedi sui quali si è costruita l'ossatura civile, sociale, economica del Paese per oltre mezzo secolo, sono in cri­ si d'identità più che altrove e, mentre cercano di cambiare pelle e funzioni, si affermano, tutt'intorno, nuove forme di mediazione, destinate a raccogliere sempre più fiducia e consenso e a pesare sempre di più sul meccanismo decisionale. Le passeremo in rasse­ gna e ne indagheremo natura e scopi per meglio comprendere in che modo questa spinta propulsiva alla creazione di nuovi progetti, nuovi linguaggi, nuove applicazioni (socia! app) sia in grado di so­ stituire o "allargare" corpi intermedi ormai delegittimati, svuotati (attaccati) da più parti. A partire da queste considerazioni, provere­ mo quindi a capire quale potrebbe essere il punto di saldatura tra il vecchio gerarchico mondo della comunicazione verticale e il nuovo mondo della comunicazione condivisa e orizzontale in cui, almeno apparentemente, tutti compartecipano alla creazione di senso e di valore. E, in questo contesto, quale sia la via possibile per un'in­ termediazione che sappia usare il lessico del futuro (mettendo da parte i totem del passato) e i nuovi canali, imparando a governarli piuttosto che ad esserne governata. Chi saranno i nuovi intermedia­ ri del Terzo Millennio tra l'utente e l'informazione? E tra il clien­ te e un determinato tipo di servizio? E il cittadino e la politica? Il lavoratore e l'impresa? Emergeranno davvero quei nuovi attori per i quali John Hagel, Mare Singer (2016) e Stefano Epifani (2015, secondo cui la disintermediazione non esiste) hanno già coniato il neologismo «infomediari»? O basteranno gli algoritmi di Google 12

a fare matching tra domanda e offerta? A queste e altre domande proveremo qui a dare delle risposte, tenendo sempre presente che in ogni momento può nascere una startup che cambia le prospettive su cui avevamo puntato sino a pochi giorni prima e avvia cambia­ menti ai quali non eravamo preparati. Anche se, non sempre, basta una nuova applicazione per far transitare servizi che diventino poi stili di vita, selezionare contenuti e istanze che si fissino in politiche pubbliche, o avvenimenti che si trasformino in notizie.

13

14

Disintermediazione e nuova sfera pubblica

1.

1.1.

Italiani sempre più smart e più digitai

Se il Dodicesimo Rapporto sulla comunicazione (2015) del CENSIS­ UCSI, facendo un bilancio sulla grande trasformazione avviata dai mass media nell'ultimo decennio (2005-15) aveva già rilevato il pote­ re di disintermediazione dei new media (come si legge in una nota): Si sta sviluppando così una economia della disintermediazione digitale che spo­ sta la creazione di valore da filiere produttive e occupazionali tradizionali in nuovi ambiti. Negli anni della crisi la diminuzione delle disponibilità finanzia­ rie ha costretto gli italiani a tagliare su tutto. Ma non sui media digitali connessi in Rete, perché grazie ad essi hanno aumentato il loro potere individuale di disintermediazione, che ha comportato un risparmio netto finale nel bilancio familiare. Usare internet per informarsi, per acquistare prodotti e servizi, per prenotare viaggi e vacanze, per guardare film o seguire partite di calcio, svolgere operazioni bancarie o entrare in contatto con le amministrazioni pubbliche, ha significato spendere meno soldi o anche solo sprecare meno tempo: in ogni caso guadagnare qualcosa.

Il Tredicesimo Rapporto sulla comunicazione contesto sempre più digitai, si è spinto oltre:

(2016),

rimarcando un

Le ultime tendenze indicano che gli strumenti della disintermediazione digi­ tale si stanno infilando come cunei nel solco di divaricazione scavato tra élite e popolo, prestandosi all'opera di decostruzione delle diverse forme di autorità costituite, fino a sfociare nelle mutevoli forme del populismo che si stanno dif­ fondendo rapidamente in Italia e in Occidente.

Fra i tanti numeri, il rapporto ha rilevato, tra l'altro, che il 73,7% degli italiani naviga in Internet (la penetrazione è aumentata di 2,8 punti percentuali nell'ultimo anno); il 56,2% è iscritto a Facebook (1'89,4% dei giovani under 30); poco più del 16% usa lnstagram, mentre 15

l'utenza di YouTube è passata dal 38,7 del 2013 al 46,8% del 2016. La radio si conferma un medium a larghissima diffusione, con un'u­ tenza dell'83,9%, mentre la televisione continua ad avere una quo­ ta di telespettatori pari al 97,5%, anche se, sotto questo ombrello, si trovano pure le nuove TV Mobile, Smart e Web. In questo contesto, l'unico segno meno continua ad essere quello della carta stampata per la quale non si inverte il ciclo negativo. Diminuiscono i lettori dei quotidiani rispetto al 2015 (-1,4%); mentre sono in crescita i lettori di quotidiani online (+1,9% nell'ultimo anno), di portali di informa­ zione ( +1,3%) e di ebook ( +1,1% ). Un'altra tendenza sottolineata dal rapporto è il ricorso ad un'informazione sempre più frammentata e al contempo personalizzata. Anche se la gerarchia tra fonti informa­ tive cambia a seconda dell'età anagrafica e la frattura generazionale diventa sempre più larga: le distanze tra i consumi mediatici giovani­ li e quelli degli anziani continuano a essere rilevanti tanto che, nella fascia giovane, oltre la metà del campione consulta i siti web d'infor­ mazione, contro appena un anziano su dieci. Gli italiani diventano più digitai anche in diverse pratiche della vita quotidiana, non soltanto nel consumo di news. La funzione di In­ ternet più sfruttata giornalmente pare essere quella della geolocaliz­ zazione. Oltre il 60% degli utenti cerca strade e località attraverso il Web. Ma anche prodotti e servizi ormai passano per questo canale per oltre la metà della popolazione, assieme alle funzioni dell' home banking. Più complicato risulta ancora sbrigare pratiche con uffici pubblici, un'attività alla quale si dedica ancora meno di un quinto dei cittadini, ma che, se ottimizzata da parte dei gestori e nell'ottica della smart city, probabilmente potrebbe salire di molti punti. Che gli italiani negli ultimi anni abbiano speso meno in tutto, tran­ ne che nei devices tecnologici e nell'accesso alla Rete, lo conferma­ va anche il capitolo Comunicazione e media del 49 ° Rapporto sulla situazione sociale del Paese (CENSIS, 2015), soffermandosi proprio sui ritardi nella transizione digitale della pubblica amministrazione italiana, causa della scarsa interazione degli utenti con gli uffici pub­ blici, al di sotto della media europea (33% ). Se si considera che, nel 2015, ha avuto contatti con la PA solo il 36% degli internauti italiani, contro il 74% dei francesi, il 60% dei tedeschi e il 56% degli inglesi, 16

si capisce meglio di che numeri stiamo parlando. Il ricorso al canale digitale per effettuare le operazioni di pagamento delle tasse o l'i­ scrizione dei figli a scuola, l'accesso ai circuiti bibliotecari comunali o alle pratiche anagrafiche, alle prestazioni di previdenza sociale o alla prenotazioni di esami diagnostici risulta ancora molto limitato, ma non il "fare da sé", saltando gli intermediari grazie ai dispositivi digitali per spendere meno e risparmiare tempo, come rileva il 50 ° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/20I6 (2016) pubblicato dal CENSIS. Lo dimostra il dato del 24% di utenti che utilizza rego­ larmente la piattaforma Amazon e l'aumento significativo dei turisti che scelgono i servizi di prenotazione di Booking o Airbnb; ma so­ prattutto, più in generale, lo dimostra la crescita di ogni tipologia di utenza socia! su tutte le piattaforme. Come i social media cambiano la gestione del consenso Dato che la diffusione dei social network ha ampliato i modi e le for­ me della partecipazione, di quella civica, ma anche di quella politica, i partiti, i politici e gli amministratori hanno capito che uno stru­ mento, se ben utilizzato, non si limita a intercettare la propria base ma può ampliare (e di molto) il potenziale elettorato con un effetto che si potrebbe definire "a macchia d'olio". Nell'ambito del Semina­ rio sulla comunicazione politica attraverso i social network, tenutosi a Monza il 13 giugno 2015, Carla Attianese, community manager del Partito democratico e social media strategist, sintetizzava così il rap­ porto tra social media, cittadini e partecipazione: 1.1.1.

Su Facebook si sviluppano reti sociali tra persone basate sul capitale sociale più importante: la fiducia. È dimostrato che entrare in contatto con tematiche inerenti la politica avrà un impatto sulla partecipazione e sull'attivismo digitale, così come sull'interesse delle persone all'attività istituzionale. Stare su Twitter ha senso perché tutto avviene in tempo reale e nessun filtro né algoritmo tra utenti e twittosjèra si pone e per la politica [ ... ] nessun filtro tra cittadini e istituzioni.

Già, la fiducia. « Trasformare la fiducia in una quantità misurabile è un lavoro complesso. Prima di quantificarla bisogna definirla, poi ideare dei parametri che consentano di trasformare un'idea in un numero», secondo Eugenio Cau, collaboratore delle pagine virtuali 17

del "Foglio" (2016). Qualcuno tuttavia ci prova ogni anno, usando un metodo, appunto, quantitativo. La Fondazione Edelman che, con il suo "Trust Barometer" tasta periodicamente il polso dell'opinione pubblica mondiale, nell'indagine del 2014 aveva osservato il più bas­ so livello di fiducia nei governi mai rilevato prima; nel 2015 (con la 15a indagine), ne ha invece registrato un lieve aumento, reso possibile dalla crescita della stessa presso il gruppo delle élite e non da parte delle masse (i due gruppi sono suddivisi in base a parametri di acces­ so alle informazioni, ricchezza netta, livello di education). Sembra, anzi, che tra i due gruppi ci sia sempre meno contatto e permeabilità, come vedremo in seguito anche da altre analisi, tanto che l'uno non influenzerebbe più l'altro. Il dato più interessante per la nostra ricer­ ca, a quanto pare, però, è quello italiano. In Italia, più che negli altri 2 7 Paesi analizzati, la fiducia starebbe pian piano risalendo dall'anno precedente: cautamente nei confronti delle istituzioni (dal 28 al 31%), maggiormente nei confronti delle aziende (oggi al 5 7%) e delle ONG (60% ), sempre di più nei confronti dei media online, verso i quali il tasso di fiducia dal 2014 è salito di oltre 10 punti in due anni, dal 50 al 61%. «Gli italiani si fidano di più dei propri amici e familiari che di tecnici e accademici e danno molta importanza agli aspetti sociali ed etici delle aziende e dei loro top manager, premiandole sul mercato», spiega Fiorella Passoni (2016), amministratore delegato di Edelman Italia. Verrebbe da dire che a crescere è soprattutto la fiducia tra pari (sulla quale tra l'altro si basano i principali meccanismi della sharing economy di cui parleremo più avanti), che potrebbe diventare il ce­ mento su cui fondare nuovi patti tra aziende e consumatori, banche e clienti, istituzioni e cittadini, eletti ed elettori. Un dato confermato, tra l'altro, anche dalla già citata indagine 2016 di GfK, come spiega Siliprandi: « I pari diventano un punto di riferimento in tutte le rela­ zioni sovraindividuali mentre la sfiducia investe tutti gli altri interlo­ cutori». Gli organismi di Stato (dal presidente della Repubblica alla magistratura) ma anche le banche, o i sindacati, come emerge pure dal rapporto Demos & PI (2017). Chi, nell'ecosistema della Rete, accetta l'orizzontalità del rapporto e trova quei modi per ricostruire la fiducia smarrita, conquista il con­ senso (Pelagalli, 2015): 18

La condivisione di valore peer-to-peer; la partecipazione dei cittadini alla com­ plessità della cosa pubblica mediante consultazioni e trasparenza; la collabo­ razione dei dipendenti alla gestione aziendale attraverso alleanze di rispetto, responsabilità e processi orizzontali; la messa sul mercato di prodotti e servizi di qualità che generano esperienze positive; l'attenzione al linguaggio; la mol­ teplicità delle sorgenti di informazione; l'economia del dono e della collabora­ zione che nel non profit ricrea il capitale di fiducia delle relazioni, consumato dal mercato e dalle istituzioni.

Se ha senso misurare la fiducia anche per categorie professionali, gli italiani dimostrano di avere maggiore fiducia verso quelle aziende che hanno saputo fidelizzarli come clienti e verso quegli accademici in cui si riconoscono a livello valoriale; minore è invece la fiducia che ripongono nei politici, nei giornalisti (come vedremo meglio nel CAP. 2), nelle celebrities in generale, tanto che il quotidiano "La Stam­ pa", cogliendo lo spirito del tempo, a maggio 2016, ha lanciato un sondaggio online per chiedere direttamente ai suoi lettori cosa può far crescere la fiducia (cfr. PAR. 2.1). Nell'analisi sul trust index Cau (2016) si spinge oltre la misurazione del polso del paziente effettuata da Edelman, ovvero individua cosa fa salire e scendere la febbre della fiducia mondiale: «Dal report Edelman è possibile desumere una conclusione interessante seppu­ re non esplicita nello studio: anche la fiducia è diventata vittima di quel processo di disintermediazione che ha investito diversi settori industriali, i trasporti, i media» . Ci si fida se il rapporto è disinter­ mediato? Ci si fida di più nella Rete perché ci si può rapportare alla pari? Questo spiegherebbe anche la corsa dei politici verso quella trasparenza e quell'informalità che li costringe a catturare consensi pubblicando online le dichiarazioni dei redditi, postando su Face­ book i momenti spesi con la famiglia, arrivando a socializzare con gli elettori i gesti più privati. In linea con questo Zeitgeist dunque, Snapchat, I'ultimo socia! network arrivato sulla piazza, ha proposto, in occasione delle elezioni americane del 2016, di dare agli elettori il diritto di scattarsi un selfie all'interno della cabina elettorale, anche se gli Stati avevano già precedentemente vietato la pratica. Che il rischio di una deriva sia dietro I'angolo lo hanno già detto in molti. Proprio nel rapporto CENSIS (2015) di cui sopra, si ravvisava, 19

nella somma di tutte le pratiche descritte (personalizzazione dei pa­ linsesti televisivi, uso continuo dei socia! network attraverso atti co­ municativi sempre più solipsistici e narcisistici, come la mania diffusa del selfie), l'ipotesi di un'autonomia che possa degenerare in solitu­ dine dei singoli: un tema sul quale il presidente del CENSIS Giuseppe De Rita (2014b) è ritornato spesso, auspicando la rivalutazione delle cinghie di trasmissione, dei corpi intermedi, di quei contenitori per "tenere insieme" dei quali, parrebbe, non riusciamo a fare a meno senza isolarci. Dal punto di vista squisitamente politico, la guerriglia tra i leader ormai, come sottolinea Sebastiano Messina (2015), si fa solo a colpi di tweet, post e selfie, all'inseguimento di follower e di "mi piace". Se Facebook facilita dinamiche egotiste tanto che Alessandro Franzi e Paolo Madron (2015, p. 40) ne parlano addirittura come di un ego­ network, a scarsa propensione dialogica, Twitter, che è diventato par­ te integrante del discorso politico, è dichiaratamente asimmetrico e «nel suo indurre spesso alla sintesi esclamativa e a un'emotività pre o addirittura anti-analitica [ ... ] si offre naturalmente [ ... ] alla battuta dissacrante, alla nota derisoria, al motteggio, che ironizzando ridi­ mensiona e svela, così come a un continuo gioco di glosse e postille e allo sfogo della propria abilità aforistica» (Vasta, 2016). Dichia­ razioni che non restano a galleggiare sulla superficie sino a che non vanno a fondo, ma si riproducono invece per decine o centinaia di volte, perché, come fa notare Vincenzo Latronico (2016): «Il fatto che ogni comunicazione sia pubblica, e indirizzabile all'attenzione di qualcuno con il tag@, rappresenta una garanzia che una frecciata ben calcolata faccia il massimo dei danni [ ... ] una buona battuta o . . . . , un osservazione acuta trovano istantaneamente risonanza e risposta. Da questo punto di vista, Twitter offre il primo assaggio della tanto decantata "realtà aumentata"». Il problema, non sfugge, non ha a che fare soltanto con il logorio virtuale dell'elettore o con il chiacchieric­ cio che fanno da sottofondo al discorso politico al tempo dei socia! network. Quelle centinaia di tweet, post e selfie, corredati delle loro innumerevoli punteggiature (hashtag e tag) vanno a costruire uno storytelling quotidiano che si differenzia dalle narrazioni dei leader 20

del passato (portate avanti da abili fotografi e spin doctor predigitali) per l'alto tasso di semplificazione. Lo scrittore Andrea Bajani stigmatizza così il (dis)valore della sem­ plificazione, attaccando duramente la «politica fatta a botte di 140 caratteri» ( Truzzi, 2016) : Sono uno scrittore e il terreno della letteratura è quello della complessità, del coraggio di non accettare versioni addomesticate del presente. Ora assistiamo [ nel dibattito pubblico] al pericoloso spettro della semplificazione. Della Co­ stituzione [ si fa riferimento alla recente riforma sottoposta a referendum e poi, in effetti, bocciata] e soprattutto del pensiero. Lo chiamano storytelling politi­ co. L'obiettivo, mi pare, è trasformare l'Italia in un Paese docile e inoffensivo [ ... ] . Se si alleggerisce la memoria, insegna la tecnologia, tutto gira meglio [ ... ] . E la Costituzione è ridotta a una nuova app della democrazia.

Come le élite hanno cambiato il rapp orto con }' "offerta" Non sono solo i socia! media ad avere mutato le relazioni tra le élite, le masse, le istituzioni e i corpi intermedi. C'è stato un ruolo pro­ attivo anche da parte di ognuno di quegli attori sociali, all'interno di questo cambiamento paradigmatico. Lo ha ben descritto un'a­ nalisi di GfK Eurisko (La Globalizzazione e le imprese, in Le PMI e la strategia per l 'Italia, dicembre 2014) che affrontava le ricadute della globalizzazione sui Paesi occidentali. Tra le questioni prese in considerazione, nel mondo occidentale e, in particolare, in Italia, in quell'analisi del 2014 c'era già in nuce il mutamento formale in atto: «la Società ha cambiato forma», vi si legge, «ha perso coesione e si è allungata. La Gente sta ridisegnando, con voce chiara e forte, il nuo­ vo tipo di relazione che auspica l'Offerta (partiti, imprese, istituzio­ ni, Chiesa) voglia instaurare». La forma che ha assunto, da piramide, a botte, sino a diventare clessidra, rappresenta l'assottigliamento del­ la classe media e l'allargamento sia dei segmenti bassi sia delle élite: un cambiamento che in Italia si sta verificando tardivamente rispetto ad altri Paesi europei e che porta con sé molte novità che generano altrettanti cambiamenti nell'approccio verso la sensibilità sociale, la relazione, il consumo (di suolo, di cultura, di esperienze) e i consumi (di beni e servizi). Se quindici anni fa il rapporto tra i segmenti alti e I' "offerta" era caratterizzato dal verticalismo e da una certa passi1.1.2.

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vità, oggi si pretende sempre più orizzontalità, trasparenza e coin­ volgimento. Questo vale per la relazione tra imprese e consumatore (Silverstein et al., 2015; Koder, 2015; Bonferroni, 2016), ma anche per il rapporto con i partiti politici, le associazioni di categoria o addirit­ tura la Chiesa cattolica, come vedremo nel CAP. 2. E riguarda solo i segmenti alti, mentre quelli più bassi restano esclusi dal dialogo. La crescita delle diseguaglianze, l'aumento del numero degli esclusi (e l'assottigliamento della classe media), sono sanciti peraltro anche dai più recenti dossier della Banca d'Italia e dai già citati rapporti CENSIS (2015, 2016); meno ottimistica qui è la visione dei rapporti tra individui, imprese, famiglie, istituzioni. La caduta delle strutture intermedie di rappresentanza che hanno sempre garantito un certo livello di coesione sociale, porterebbe, secondo l'impietosa fotogra­ fia scattata dal CENSIS, a una specie di letargo collettivo, dove vinco­ no gli interessi particolari. La disintermediazione non garantirebbe, in quest'ottica, un maggiore contatto tra mondi, ma una mancata «osmosi tra politica e mondi vitali sociali che hanno caratterizzato i migliori periodi della nostra storia recente». Che la concentrazione di ricchezza, oltre che di risorse cognitive e informative, nelle mani di esigue élite potesse essere lesiva del corpo sociale in sé lo scriveva già il politologo Marco Almagisti (2011, p. 45): «Numerosi studi hanno evidenziato la tendenza da parte dei gruppi socialmente svantaggia­ ti all'autoesclusione dalla sfera pubblica». Una autoesclusione che, quando non sfocia in proteste di piazze, si esprime nel voto antisiste­ ma. Qualche anno dopo, con potente capacità descrittiva, De Rita (2014b), sulle colonne del "Corriere della Sera", anticipava invece al­ cuni aspetti che il rapporto (del 2016), come si legge nella nota sotto, avrebbe poi distintamente dettagliato: 1 ) I sindacati dei lavoratori cambiano le leadership di vertice e al tempo stesso sono tentati di attivare spallate conflittuali; i partiti vagano nella nebbia, rele­ gandosi all'accettazione di decisioni verticistiche; le classi dirigenti locali, sia provinciali sia comunali, si dichiarano disperate, costrette come sono a difende­ re risorse necessarie per i servizi comunitari; le rappresentanze delle professioni medio-alte vivono alternando lamento e rabbia per la marginalizzazione ad esse imposta; Rete Imprese Italia si arrocca sul suo brand e sulla ricchezza vitale delle piccole medie imprese [... ] .

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2) Una società che continua a funzionare nel quotidiano, rumina gli input esterni e cicatrizza le ferite [ ... ] . Una « macchina molecolare » senza un sistemi­ co orientamento di sviluppo in cui proliferano figure labili e provvisorie.

La mancanza di baricentro nel ceto medio, a cui ormai sente di ap­ partenere solo il 3 9 % degli italiani (Demos & PI, 2016), non ha a che fare solo con la crisi economica ed è un problema in primo luo­ go per chi amministra, scrive Dario Di V ico (2016a), analizzando l'Italia che cambia, «perché vengono a mancare tradizionali punti di riferimento e di stabilizzazione» . E i socia! network si configu­ rano come contenitore di quel rancore e di quel disagio che, pro­ prio dall'aumento delle diseguaglianze, scaturiscono. Secondo Di V ico essi costituiscono: «Una moderna forma di intermediazione sociale, molto differente dalle classiche perché non prevede la mo­ bilitazione fisica e la formazione di un soggetto stabile di rappresen­ tanza/lobby ma si limita alla denuncia (spesso all'ingiuria) o tutt'al più organizza qualche flash mob» . Il pessimismo degli italiani, ri­ levato da Demos & PI (2016) e dalle ricerche successive, sarebbe dunque l'unica reazione al rancore e al disagio, come spiega anche il sociologo Ilvo Diamanti (2016a): «Non per questo viviamo tempi di ribellione [ ... ] ci siamo abituati al declino. Non siamo contenti di quel che avviene, ovviamente. Ma "resistiamo". Attaccati alla fami­ glia, alle reti sociali, distese sul territorio» . Matteo Renzi (e prima di lui Silvio Berlusconi) ha cercato nei suoi 1.000 giorni di governo di utilizzare le variazioni positive dell'economia, per quanto lievi e contraddittorie, per sollevare il morale agli italiani e migliorare il clima d'opinione ("Enews", 429, 30 maggio 2016): Come spiega Ilvo Diamanti su Repubblica il vero nemico da battere è il pes­ simismo. Giro come una trottola l' Italia, partecipo a inaugurazioni, cerco di trasmettere energia e entusiasmo perché sono assolutamente certo che il mon­ do di domani può vedere l'Italia protagonista [ ... ] . Mi accusano di essere un dispensatore di ottimismo. Ma in realtà io vorrei soltanto recuperare la fiducia degli italiani nell'Italia.

Ma, come sappiamo, anche il rottamatore ha perso le sue scommesse e il contatto con il polso del Paese, divenendo, egli stesso, bersaglio 23

di quel dissenso verso chi governa che, con varianti locali, ha colpito tutti i Paesi del mondo, dall'Inghilterra della Brexit alla Francia dei Le Pen. Sino agli Stati Uniti di Trump.

1.2.

Comunità, territori e "innovatori diffusi"

Scavando nella stessa terra infeconda Luigino Bruni (docente di Economia politica della LUMSA), curatore di un capitolo all'interno del World Happiness Report 2 0 1 6 , il secondo rapporto annuale che misura il grado di felicità lorda nei Paesi del pianeta, ha trovato però le radici "peculiari" della nostra infelicità collettiva - l'Italia nella classifica mondiale della felicità è scesa al 5 0 ° posto (Stringa, 2 0 1 6 ) : « La felicità individuale è molto collegata a quella pubblica e l' Italia oggi è sem­ pre più periferia nel contesto mondiale, c'è un incattivimento sociale nuovo dovuto a diversi fattori, tra i quali l'immigrazione, l'aumento delle disegua­ glianze, il terrorismo, la sfiducia nelle istituzioni europee e sono venute meno le ideologie sulle quali si è costruito il miracolo economico: per questo è una nazione senza più un perché stare insieme [ ... ]. La crisi italiana non è mai sta­ ta una crisi solo economica, è piuttosto una crisi morale, civile e relazionale: l'impresa italiana è una specie di comunità messa a reddito, perciò svendere il patrimonio civile/industriale/immobiliare, incide sulla carne viva dei territo­ ri e delle comunità » considera Bruni. Quel che resta è un mercato piuttosto promiscuo e privo contemporaneamente dei vecchi legami (del mondo coope­ rativo, delle banche popolari, delle imprese familiari) e dei nuovi legami (quelli regolamentati nei Paesi anglosassoni dal lobbismo, dalle attività regolatorie di autorevoli organi indipendenti, da processi decisionali trasparenti e meccani­ smi sanzionatori efficaci).

Che in diversi territori i legami tra il tessuto produttivo e le comunità si siano consumati o addirittura spezzati e vadano ristabilite delle rela­ zioni nuove, facendo i conti con i cambiamenti imposti dalla globaliz­ zazione, è particolarmente evidente di fronte alle crisi o alle riorganiz­ zazioni aziendali a seguito di acquisizioni da parte di multinazionali. Ogni giorno se ne contano di nuove. Solo per la Lombardia, la regione motore d'Italia, tra la fine del 2 0 1 5 e il primo semestre del 201 6 , sono fi­ nite sul tavolo della Commissione consiliare regionale e del MISE (mi24

nistero dello Sviluppo economico) i casi di Alstom-General Electric, Italcementi-HeidelbergCement, ENI-Versalis, Konig-Pewag, Alcatel­ Lucent. I delegati sindacali e gli incaricati degli enti locali, in questi contesti, tendono a mettere in atto una rappresentazione simbolica, che usa un lessico convenzionale, fatto di parole chiave ("ricadute pe­ santi': "sofferenze importanti", "depauperamento del territorio"), che identificano le istanze dei lavoratori e i bisogni del territorio in que­ stione. Le scelte dei gruppi industriali, i condizionamenti imposti dal mercato sui costi del lavoro e le politiche sovranazionali rendono, nella maggior parte dei casi, questo tipo di audizioni dei momenti di me­ diazione più formale che sostanziale, che si traducono in messaggi di partecipazione generica e dichiarazioni d'intenti utili per le bacheche di Facebook o Twitter. Ma, come ben sappiamo, l'attivismo virale sui socia! network, se può servire a guadagnare consenso, non incide sulle decisioni che oggi vengono prese sempre più spesso fuori da quelli che un tempo erano i tradizionali luoghi della mediazione e non cambia il destino né l'indotto socio economico delle comunità che un tempo erano tutt 'uno con i luoghi produttivi e s'identificavano con le fabbri­ che e con i "padroni". A insistere da tanti anni sul concetto di impresa come comunità territorializzata, iscritta nelle relazioni locali è un fine osservatore delle dinamiche tra comunità e territorio. Aldo Bonomi, sociologo e fondatore del Consorzio Aaster, è convinto che la rottu­ ra di quel legame casa-campanile-capannone, sul quale si era retto lo sviluppo di quello che lui chiama « capitalismo molecolare» italiano, porti inevitabilmente a una metamorfosi collettiva e all'individuazio­ ne di nuovi modelli piuttosto che al recupero dei corpi intermedi di stampo novecentesco (Dell' Olio, 2016c): A partire dal 2 0 0 8, il vento gelido della crisi ha scavato profondamente nelle forme di convivenza sottostanti alle comunità operose, costrette a fare i conti con la fine improvvisa del capitalismo molecolare come forma egemone dell'or­ ganizzazione produttiva e sociale [ ... ]. È questa la fase della resilienza nella quale la prospettiva di vita uscita dal ' 9 0 0 deve fare i conti con forze dirompenti che minacciano gli standard di vita acquisiti, che polarizzano la società attaccando ferocemente l'ampio bacino del ceto medio, sempre meno tutelato da un welfa­ re state in contrazione. Se è vero che queste caratteristiche del modello italiano sono oggi poste sotto stress dalla competizione, occorre tuttavia evitare di " but-

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tar via il bambino con l'acqua sporca e cercare invece i comprendere il modo migliore per coniugare le lunghe derive antropologiche del nostro modello con la simultaneità della globalizzazione". Un'analisi che è anche un messaggio di speranza per il nostro Paese.

La nostalgia per un sistema nel quale ogni forma di rappresentanza di interessi legittimi e di energia sociale veniva incanalata all'interno di corpi intermedi rigidamente organizzati (gli unici autorizzati a se­ dersi ai tavoli o a trasferire istanze dalle comunità alle istituzioni), ci porterebbe a guardare soltanto indietro, impedendo di scorgere, oltre l'orizzonte della crisi, segnali di trasformazione importanti. In un'ot­ tica più complementare che antagonista e in uno scenario non tan­ to lontano si potrebbe infatti assistere alla contaminazione tra corpi intermedi tradizionali (riorganizzati) e "innovatori diffusi': ossia sog­ getti che, all'interno della grande categoria dei nuovi intermediari (o reintermediatori), si configurano come stakeholders di istanze di cam­ biamento sociale, economico e culturale all'interno della cornice della cosiddetta economia leggera, come vedremo tra poco. «Con nuova economia leggera ci riferiamo certamente a startup e pratiche di sharing economy, ma anche ad una varietà di espressioni che includono i nuo­ vi artigiani digitali, "vecchie" professioni creative, imprese sociali e culturali fino ai ''pubblici produttivi" della rete» (Consorzio Aaster, 20 1 5 ) . E, all'interno di questa categoria, vanno senz'altro inserite le fondazioni comunitarie, dei veri e propri nuovi "intermediari filantro­ pici" con un rapporto continuativo e permanente con il territorio, e la capacità di raccogliere proposte bottom-up, favorire legami e capitaliz­ zare e canalizzare risorse inerti. Di questi nuovi protagonisti parlere­ mo più diffusamente nel CAP. 5.

1.3. Lo spazio dei corpi intermedi nella democrazia digitale Diversi studiosi hanno misurato la qualità delle democrazie, richia­ mandosi a Tocqueville, sulla tenuta del legame tra corpi intermedi e società civile; a seconda della fluidità o densità di quei legami in­ nervanti il corpo sociale, il paziente poteva dirsi in salute o meno. 26

L'antidoto proposto da Tocqueville, ossia il «rimedio democrati­ co», è costituito proprio da una diffusa partecipazione associativa, come ricorda Almagisti (2011, p. 5 1): «Le possibilità di evitare derive populistiche dipendono soprattutto dalle relazioni che si instaurano fra le istituzioni democratiche, i cittadini e i corpi intermedi, i sog­ getti della qualità democratica». Si tratterebbe sempre di alimentare dei corpi intermedi. Per restare dentro la metafora della buona salute torniamo ancora una volta a un virgolettato di De Rita (2014a), che sentenzia: «Se non ha processi di rappresentanza una società non funziona, né nella sua quotidiana fisiologia, né sul suo dialogo con la politica e le sue decisioni». Lo spazio che la Costituzione italiana riserva ai corpi intermedi e alla sussidiarietà verticale (tra enti e governo centrale) e orizzontale è ampio e ultra garantito, a partire dall'art. 2, nel quale si fa già cen­ no alle formazioni sociali «ove si svolge la personalità» del cittadi­ no; per proseguire nell'art. 18 (sulla libera associazione), nell'art. 3 9 (dedicato all'organizzazione sindacale), nell'art. 45 (sulla funzione sociale della cooperazione), nell'art. 46 (sul diritto dei lavoratori alla collaborazione alla gestione delle imprese), nell'art. 49 (dedica­ to ai partiti politici e alle associazioni); sino all'art. 1 1 8 che implica la cooperazione tra enti territoriali di vario grado ma anche di cittadi­ ni (singoli o associati) a sussidio dell'intervento pubblico centrale. Gli articoli che nel Codice Civile regolamentano l'associazionismo e delineano le responsabilità di chi si assume la gestione di un'as­ sociazione (o di una fondazione) vanno dal 14 al 42. Nonostante i capisaldi presuppongano dunque un reciproco riconoscimento di tutti i soggetti che concorrono a perseguire l'interesse collettivo, ul­ timamente l'azione di rappresentanza (e di mediazione) è entrata un po' in declino presso l'opinione pubblica per una molteplicità di cause che vanno dagli scandali che hanno coinvolto gli enti di secondo livello e i partiti (Regioni sprecone, Comuni in fallimento, Comunità montane senza montagna, Mafia Capitale), al carattere troppo corporativo delle battaglie combattute dalle associazioni professionali e di categoria, al connotato egoistico delle mobilita­ zioni di alcuni movimenti intorno a issues locali o particolari (sin­ drome NIMBY, "Not in My Back Yard"); sino all'autoreferenzialità 27

delle rappresentanze sindacali, incapaci di mettersi in relazione con un mondo del lavoro in pieno cambiamento. Nello spazio lasciato libero da partiti sempre più "personalizzati" e centri di potere sem­ pre più autoreferenziali si sono insediate altre forme di partecipa­ zione (più che di rappresentanza) basate sui nuovi media. Se oggi - come cittadini - viviamo, dunque, due vite, una ojfline e una on line, e il vecchio modo di interpretare, di mediare e di rappresenta­ re gli interessi legittimi è destinato a scomparire o a trasformarsi, qual è il perimetro (reale e virtuale) entro il quale si può giocare la partecipazione associativa, ma anche la rappresentanza di interessi particolari o generali? In realtà gli spazi della partecipazione asso­ ciativa, pur se vanno al di fuori dei perimetri degli attuali partiti o di altri super strutturati corpi intermedi, non si trovano solo in Rete. Semmai, gli innovatori dei quali abbiamo parlato poco prima (pro­ tagonisti della nuova economia della condivisione), i nuovi comita­ ti, le formazioni civiche fondate intorno a una causa, usano la Rete per mobilitare o per fare massa critica e opinion making. Proprio in questo senso Franco Gallo ( 2 0 1 3 ) , già presidente della Corte Costi­ tuzionale, suggeriva, qualche anno fa, un concetto sul quale si sono poi posizionati in molti: La sopravvivenza della democrazia rappresentativa rigenerata dal fattore tec­ nologico richiede non solo l'intangibilità della funzione parlamentare quale regolata da tutte le costituzioni dei paesi occidentali, ma anche il recupero del perduto ruolo di mediazione dei partiti. Questi [... ] dovrebbero modernizzarsi ed assumere struttura e funzioni diverse. Dovrebbero cioè accettare di diventa­ re porosi e permeabili, rafforzati nella loro capacità di elaborazione politica dal contributo di associazioni, centri studi e fondazioni di origine non correntizia, aventi esclusivo fine di ricerca [... ] . In questo contesto, i partiti sarebbero non più gli esclusivi protagonisti della scena politica, ma soggetti che utilizzano essi stessi la Rete e concorrono con essa alla formazione dell'opinione pubblica e della cosiddetta cittadinanza digitale, senza essere sovrastati o sostituiti dal web. Così la democrazia rappresentativa parlamentare può trovare linfa ed essere in­ tegrata e migliorata, ma non soppiantata dalla democrazia digitale.

D'altra parte, tutto questo potrà compiersi pienamente solo una volta che, pur senza "costituzionalizzare" il Web, saranno effettiva28

mente garantiti anche nella Rete, a tutti i soggetti, gli stessi diritti di cui ogni cittadino gode fuori dalla Rete (a partire dall'uguale diritto di accesso), al netto delle caratteristiche del canale, sulla cui capacità di essere uno strumento di partecipazione più efficace di quelli tra­ dizionali (anche quando questi sono carenti) si dibatte da tempo. In primis per questioni appunto di accessibilità (quanto è rappresentativo rispetto al corpo dei votanti, o al corpo sociale in generale, il campione di partecipanti a una consultazione digitale?); poi, per­ ché la Rete favorisce la creazione di nicchie di affini che tendono a non confrontarsi con il pensiero antagonista, mentre le opinioni e i comportamenti che si formano dentro alle nicchie necessiterebbero di essere sintetizzate attraverso un processo più ampio di condivi­ sione e comunicazione prima di cristallizzarsi in opinioni pubbliche (Stringa, 2011, p. 141) ed essere considerate massa critica e domanda di public policy da rappresentare; ultimo, ma non meno importante, perché il linguaggio e lo spazio dei socia! network riducono la pos­ sibilità di uno scambio dialettico articolato (come quello che può aver luogo in un circolo, in un'assemblea pubblica, in un dibattito di Commissione o di Aula, in un tavolo di trattative) configurandoli piuttosto, come suggeriva Di Vico (2016a) in "sfogatoi" per il mal­ contento e il rancore.

1 . 4 . Il lobbismo e i nuovi portatori d' interesse legittimi Negli Stati Uniti il processo di lobbying è protetto dal Primo emen­ damento. Presso le istituzioni dell'Unione Europea è stato regola­ mentato attraverso codici di condotta, registri per la trasparenza dei soggetti appartenenti a gruppi di pressione che, a vario titolo (se ne contano oltre 9.000 ), partecipano al processo decisionale e incentivi alla registrazione; tuttavia, non c'è carattere di obbligatorietà, tant'è che il Parlamento ha chiesto alla Commissione di presentare una proposta legislativa cogente al fine di rendere obbligatorio il registro anche per quei soggetti che non intendono registrarsi. Una regola­ mentazione del fenomeno è presente, al momento, in 23 Paesi nel mondo, dei quali 6 in Europa. 29

In Italia è un modello di relazione istituzionale che, proprio per la presenza di un variegato sistema di corpi intermedi e di aggregatori di valori e di interessi (partiti, sindacati, corporazioni, Chiesa catto­ lica), e per la mancanza, sino a pochi mesi fa, di una legislazione sul fenomeno, non ha mai assunto uno sviluppo importante, anzi, è sta­ to spesso demonizzato. Anche se, va detto, in molti hanno cercato di mettere il cappello su una legge che ne determinasse i capisaldi: dalla fondazione della Repubblica sono stati presentati oltre una cinquan­ tina di progetti di legge che non hanno mai visto la luce o si sono arenati nelle segrete stanze. Mentre la presenza delle lobby italiane a Bruxelles, a livello di numeri (dalle grandi imprese alle associazioni di categoria, al sindacato), è inferiore a quella degli altri Paesi europei. Il processo di progressiva "lobbizzazione" della cultura politica italiana va di pari passo, come vedremo meglio più avanti, con l'esplosione dei think tank, nati in molti casi proprio come cornice culturale ad azioni di lobbying indiretta o a loro supporto. Più recentemente, mentre si restringeva lo spazio di rappresentanza agito dai corpi intermedi tradizionali, saltava il cosiddetto secondo livello dell'intermediazione e si creava spazio per l'azione di altri gruppi di pressione (generando, al contempo, pluralismo e disor­ dine), ci hanno provato, senza risultato, il secondo Governo Prodi, il Governo Monti, il Governo Letta e diverse Regioni, alcune delle quali si sono poi dotate di una normativa a riguardo (Abruzzo, To­ scana, Molise e Lombardia). Nella maggior parte dei casi il trava­ gliato iter delle proposte di legge è stato puntualmente avversato proprio dalle rappresentanze tradizionali, le uniche (a detta loro) legittimate a considerarsi portatrici di interessi diffusi (Coldiretti, Confagricoltura, CIA, Confindustria, Confcommercio, Confeser­ centi ecc.). Il 2 6 aprile 2 0 1 6 è stata approvata dalla Giunta per il regolamento della Camera la prima Regolamentazione dell 'attivita di rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera dei deputati. E il 1 8 gennaio 2 0 1 7 è stato completato anche l'ultimo passaggio formale con l'approvazione dell'Ufficio di presidenza di Monteci­ torio. E intanto anche il ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha lanciato un registro per la trasparenza per gli "interlo­ cutori del M I S E" che a gennaio 2 0 1 7 contava già oltre 5 0 0 soggetti. 30

Nel frattempo si sta pian piano muovendo anche il Parlamento, in modo da andare oltre i regolamenti e fornire finalmente una legge certa al fenomeno, ponendo fine a una situazione che l'ultimo rapporto sulla trasparenza di OpenPolis (2017 ) definisce «abbastanza statica anche se negli ultimi mesi due iniziative hanno mosso un po' le acque». Il 12 luglio 2016 il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato il progetto di legge per regolamentare le attività di rappresentanza di interessi nei processi decisionali presso il Consiglio regionale, frutto dell'abbinamento di due proposte, una della maggioranza e l'altra dell'opposizione, passate al vaglio di decine di audizioni con i por­ tatori d'interesse e di sedute di discussione di un gruppo di lavoro ad hoc. Il provvedimento impegna anche la Giunta a dotarsi di un regolamento per la trasparenza dell'attività di rappresentanza degli interessi. La disciplina costituisce l'inizio di un processo di regola­ mentazione del meccanismo decisionale presso il parlamentino lom­ bardo, il cui apice dovrebbe essere la definizione della regolamenta­ zione del processo partecipativo da parte dei cittadini. «Un segnale di trasparenza», come l'ha definito Ruben Razzante, docente di Di­ ritto dell'Informazione all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che continua: « I gruppi di pressione spesso occulti che ten­ tano di condizionare i lavori del Consiglio regionale avranno vita più dura». Dalla Camera, alle assemblee regionali, sino al Comune di Milano. La rappresentanza tracciata è arrivata, su proposta dell'as­ sessore alla Partecipazione della Giunta di Giuseppe Sala, Lorenzo Lipparini, anche a Palazzo Marino. Lipparini, nell'ottica di una ren­ dicontazione trasparente ha lanciato, da settembre 2016, un'agenda settimanale online degli incontri con i portatori d'interesse, su base volontaria, per tutti gli assessori. Occorre qui ricordare che i termini relativi all'universo semantico del lobbismo non sono mai circolati tanto attraverso i mass media italiani e i social network più diffusi come durante l'anno 2016, nel quale anche i cittadini meno attenti e informati sono stati martellati dalla retorica delle "cordate di affaristi", dei "petrolieri influenti", dei "gruppi di pressione occulti", dei "conflitti d'interesse con gli stake­ holders", della "questione morale sulla discrezionalità" e via così. Di lobbista in lobbista, di scandalo in scandalo (Mafia Capitale, Basili31

cata gate, Dentopoli lombarda) di dimissioni in dimissioni, nei mi­ nisteri come nei Comuni e nelle Regioni (del ministro allo Sviluppo economico Federica Guidi, del presidente della Commissione consi­ liare lombarda alla Sanità Fabio Rizzi; di diversi consiglieri e assessori del Comune di Roma), si è diffusa la consapevolezza dell'esistenza di un sistema di lobbying illecito, prima ancora che il legislatore avesse tracciato giuridicamente il perimetro del lobbismo lecito. E nell'Ita­ lia della rottamazione e della disintermediazione, preso atto dell'im­ possibilità di un sistema di potere lobby-free e sotto la pressione di un sentimento collettivo sempre più antilobbistico, non si poteva più restare senza un regolamento sulla tracciabilità e trasparenza dei rapporti tra decisori e portatori d'interesse. «Nelle democrazie occidentali il procedimento decisionale si svolge mediante la com­ posizione di interessi concorrenti. Avviene così dappertutto», insi­ ste Pier Luigi Petrillo, professore di Teorie e Tecniche del Lobbying alla LUISS Guido Carli di Roma ( Chirico, 2016), già coinvolto come esperto nell'elaborazione di diverse bozze di legge. Anche se, secon­ do alcuni, non sarà l'istituzione di un registro a salvarci dai cattivi lobbisti. «Non basterà certo l'annunciato registro di quelli che pu­ dicamente vengono chiamati portatori di interessi in Parlamento a rendere trasparente ciò che arriva nelle stanze della politica senza mediazioni e ostacoli», sentenziano Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi (2016), dopo aver mappato i principali gruppi (oltre che conflitti) d'interesse italiani. E lo stesso relatore del provvedimento alla Camera ha ammonito: «Non bisogna dimenticare che da anni i lobbisti puntano, più che sul Parlamento, sui Palazzi del Governo» (Martirano, 2016). Il punto, osservando il dibattito in atto, pare esse­ re soprattutto quello di abilitare presso l'opinione pubblica un mec­ canismo - o una modalità relazionale - che costituisce da sempre un presupposto delle democrazie delegate. Come ha spiegato Nicola Pasini, docente di Scienza della Politica all'Università degli Studi di Milano (audizione in Commissione Attività istituzionali, Consiglio regionale lombardo, 25 maggio 2016): Un p olicy network è un triangolo di ferro formato da un rappresentante politico, un funzionario del ministero o della Giunta e un portatore d'interessi o lobbi-

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sta: questa dinamica c'è sempre stata, è chiaro che debba avvenire con una certa accountability . La politica semmai è in ritardo perché privilegia il tradizionale rapporto con quelle associazioni di categoria che sono un po' obsolete e non sempre rappresentano gli interessi reali. Ci sono oggi tanti nuovi interessi emer­ genti che meritano di essere ascoltati.

In realtà: «Gli interessi, purché legittimi, hanno tutti diritto di esse­ re rappresentati. Anche una segnalazione relativa a questioni non an­ cora presenti nell'agenda pubblica ma già presenti nella società, deve poter essere portata all'attenzione del decisore pubblico», chiarisce Emilio D'Orazio, docente di Etica pubblica e direttore di "Politeia". In uno scenario più complesso, con un pluralismo di interessi ben maggiore di qualche anno fa, dunque, la sfida della politica non si esaurisce nel produrre norme che garantiscano trasparenza nei pro­ cessi di rappresentanza, ma nel saper fare sintesi tra le legittime ri­ chieste di tanti più stakeholders.

1 .5 . Neop op ulismo virtuale e sentimento anticasta Mentre i partiti diventavano comitati elettorali permanenti al ser­ vizio dei propri leader e il processo di sradicamento territoriale finiva di compiersi, in Italia si faceva strada anche un sentimento collettivo di sfiducia nei confronti delle élite, genericamente iden­ tificabili come "caste", e della maggior parte delle strutture inter­ medie ritenute sempre più inutili e costose, come abbiamo visto poco sopra. Per dirla con i numeri, Diamanti (2015a) registra una perdita di consenso verso tutte le organizzazioni di rappresentanza, ma anche degli enti territoriali presso i cittadini in pochi anni: la CGIL, verso la quale il grado di fiducia è sceso dal 27% al 18% dal 2008 al 2015; gli altri due principali sindacati (CISL e UIL) scesi dal 23% al 15%; le associazioni imprenditoriali, scese dal 30 al 23%; le Regioni, il cui consenso nel 2014 aveva perso 14 punti; e, infine, i Comuni, che ne hanno persi 12. La delegittimazione delle struttu­ re intermedie e degli enti intermedi (a cominciare dalle Comunità montane, divenute simbolo dello sperpero pubblico e delle molte cariche, dei consorzi, dei parchi) e il rafforzamento delle leader33

ship dei principali attori politici agenti nel sistema sono andati di pari passo: quella dell'ex premier e segretario del PD Matteo Renzi, che ha fatto della disintermediazione un percorso politico; quella del leader della Lega Nord Matteo Salvini, che ha cambiato pelle a un partito indebolito dagli scandali e dagli sprechi attraverso una forma di personalizzazione estrema; quella del fondatore del Movi­ mento s Stelle, Beppe Grillo, che ha costruito un non-partito, pro­ prio in Rete, per veicolare la protesta e delegittimare tutti i soggetti della scena pubblica. Ognuno di loro, differentemente, ha usato la Rete per costruire un consenso diretto, saltando quei logori residui di rappresentanza, che un tempo raccoglievano istanze e incanalavano interessi, e facen­ doli apparire sempre più degli ostacoli, invece che delle cinghie di trasmissione, dei pesi piuttosto che dei contrappesi. Lo hanno fat­ to con un uso compulsivo dei social network, con l'allontanamento dei giornalisti-mediatori considerati sempre più inaffidabili, con un lessico polarizzante nel quale tutte le parole chiave dei processi di mediazione apparivano sempre più in disuso e sempre meno adat­ te a denotare bisogni e interessi collettivi, puntando sempre più alla pancia (vuota) del Paese. Il linguaggio dei tre leader ha in comune soltanto la semplificazione (e, quindi, l'identificazione costante del nemico: "i gufi", "i professoroni", "i ladroni", "i morti viventi", "i vec­ chi arnesi", "i furbi", "i dinosauri", "i burocrati") e l'adattamento alle caratteristiche (brevità, effettività, individualità) dei canali socia! che contraddistingue la nuova deriva populista da quelle del passato. Pur se la brevitas del messaggio politico ha sempre coinciso, nella storia, con il venir meno della partecipazione pubblica; non si tratta di un fatto nuovo: gli slogan e i motti c'erano già prima dell'avvento di Internet. «Seneca che preparava il discorso politico di Nerone attra­ verso un periodare secco ed essenziale», spiega Aristide Malnati, pa­ pirologo ed esperto di storia greco-romana, «costituisce un primo, importante indizio del passaggio, in epoca romana, dalla pluralità di soggetti politici nella scena pubblica della Repubblica alla demago­ gia del Principato». Anche le risposte populiste dei leader postmoderni, pur con i dovuti distinguo, tendono a scavalcare ogni forma di intermediazione per 34

rivolgersi direttamente al popolo: l'unico destinatario degno di ri­ cevere dei messaggi. «Quando i poteri forti diventano poteri morti, il populismo è la sola opzione possibile», sintetizza Giacomo Papi (2014), analizzando la crisi di credibilità che ha travolto quelle che un tempo erano le articolazioni dell'ossatura del sistema democrati­ co, come l'avevano concepito i padri costituenti. E a poco valgono gli appelli dei rappresentanti istituzionali al rispetto e alla valorizzazio­ ne di tutte le componenti del sistema democratico, corpi intermedi compresi, come quello della presidente della Camera Laura Boldrini (2015) davanti alle associazioni del mondo agricolo: Credo che i corpi intermedi - come i sindacati e le associazioni - abbiano un ruolo centrale, per il nostro Paese in particolare, perché quel ruolo è nella no­ stra Costituzione, e dobbiamo rispettarlo se vogliamo rispettare la Costituzio­ ne. Una democrazia è tanto più solida quanto più si fonda su un ruolo fattivo di tutte le sue componenti - dal Parlamento a quelle realtà associative previste dalla Costituzione [ ... ]. Penso all'esperienza tedesca, alla quale in tanti guarda­ no con ammirazione anche qui in Italia: c'è una guida indubitabilmente forte come Angela Merkel, ma insieme un Bundestag che conta, Laender molto più rilevanti delle nostre Regioni, partiti influenti, sindacati che partecipano perfi­ no alla vita e alla gestione delle aziende. I cosiddetti corpi intermedi non sono piombo nelle ali di quel Paese, ma fattori essenziali della sua forza. È un mo­ dello inclusivo, che non lacera la società e chiama tutti ad un contributo, senza intaccare affatto la leadership che anzi ne risulta potenziata.

Per quanto riguarda la personalizzazione, della quale altri leader, in passato, avevano già fatto un metodo di approccio alla gestione del potere servendosi di altri mezzi (si pensi, in particolare, a Berlusconi con il mezzo televisivo), qui c'è qualcosa di diverso e di peculiare. I social network sono, per definizione, autoreferenziali, anche per l'uomo comune, prima che per il leader. Il selfie, classificato da un gruppo di ricercatori di Toronto come una forma di dipendenza di secondo grado, ne rappresenta, in questo senso, il più potente sim­ bolo. Il modello di socialità che essi promuovono è una somma di individualità, ben più di quanto non lo fosse già il Web pre-2.0, su cui Manuel Castells (2002, p. 1 29) aveva postulato «L'individualismo in Rete è un modello sociale». E, come ha scritto Ughetta Vergari 35

«I nuovi media hanno aperto le porte a una nuova era antro­ pologica, caratterizzata dalla crisi di tutte quelle forme moderne di aggregazione sociale e di tutte le forme tradizionali di partecipazione politica dei cittadini». Il fenomeno, va detto, non è peculiare soltanto dell'Italia: disinter­ mediazione e ascesa del populismo virtuale vanno di pari passo an­ che in altri Paesi europei dove, alla perdita di fiducia nei confronti dei partiti tradizionali e delle strutture intermedie, si è accompa­ gnata la crescita di movimenti antisistema. Uno degli ultimi nati, in questo senso, in una Francia attraversata da un profondo malconten­ to, #MaVoix si propone di far sentire la voce degli elettori, entrare in Parlamento, aprendo a nuove forme di democrazia digitale dove tutti possono votare attraverso una piattaforma online. «Un sogno di democrazia diretta che in Italia ha dato la spinta al Movimento 5 Stelle», scrive Marco Bresolin (2016), « [ ... ] al posto dei soliti faccio­ ni dei candidati c'è uno specchio. Chi ci passa davanti si vede riflesso, metafora perfetta di quello che MaVoix vorrebbe fare: portare in Par­ lamento la voce dei suoi elettori. Senza mediazioni». (2010):

1 . 5 . 1 . Leadership forti e corpi intermedi La tentazione del fare a meno delle mediazioni ha attraversato tutta l'azione politica del Go­ verno Renzi sin dai primi giorni del suo insediamento. Il "Gran Rot­ tamatore" (dei vecchi poteri, del vecchio partito) è stato da sempre convinto che ogni forma di rinnovamento, in un Paese che per troppo tempo lo ha aspettato, potesse passare solo attraverso la velocità e il "fare" («C'è un'Italia che funziona ed è orgogliosa di andare avanti #avantitutta», 23 giugno 2015, pagina F B ; «C'è chi spera nel peggio ma noi lavoriamo per cambiare le cose senza arrendersi alle difficoltà #lavoltabuona», 3 giugno 2015, pagina FB ; «#avantitutta Il meglio deve ancora arrivare», 18 maggio 2016, Twitter, dopo aver incassato l'ok dall'Unione Europea sui conti italiani; #lasvoltabuona, Twitter, 11 marzo 2014, quando l'Italia si preparava a guidare l'Unione Euro­ pea), perciò, in questo senso, i corpi intermedi non sono stati altro che ostacoli che rallentavano la corsa del suo governo. «Non voglio prendermela con i corpi intermedi, ma la disintermediazione dei cor­ pi intermedi avviene dai fenomeni di cambiamento che la realtà sta 36

producendo», ha dichiarato in apertura di una delle ultime "Leopol­ de" (Gioffreda, 2014). È così che pian piano quasi nessuna forma di sussidiarietà orizzontale e verticale ha resistito senza essere toccata dall'onda renziana. Un'onda ben descritta da Michele Ainis (2015): Nelle imprese il Jobs act, allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager. Diventano licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capoga­ binetto del ministro regnerà come un monarca. Nel frattempo viene destruttu­ rato il territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). Così l'onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l'altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia.

Il metodo, va detto, non era nuovo per Matteo Renzi: già da sindaco di Firenze, il segretario del PD tendeva a saltare le mediazioni per ri­ volgersi direttamente ai suoi cittadini. Nel 200 8 inviava ai fiorentini una newsletter con i temi della sua ultima Giunta, appena prima di incontrare i giornalisti per la conferenza stampa ufficiale a Palazzo Vecchio. In questo senso, la newsletter del sindaco, ben lungi dall'es­ sere uno strumento sorpassato dall'arrivo dei socia! network, ha permesso per anni a Renzi di parlare alla sua community senza "di­ sturbatori': di dettare l'agenda senza intermediari, di tematizzare la vita pubblica locale senza interferenze, esattamente come la "Enews" che periodicamente ha inviato agli italiani durante i suoi 1.000 giorni di governo. Una newsletter che aveva lo scopo di comunicare e di coinvolgere, con un tono più colloquiale che istituzionale: «lo sono convinto che guidare il Paese più bello del mondo sia una responsa­ bilità strabiliante: coinvolgere in questo sforzo quanti più cittadini possibili è per me un'autentica fissazione. L'email ormai la conosce­ te: [email protected]... Ciao, Matteo » ("Enews': 428, 25 maggio 2016). Naturalmente c'è molto di più. Disintermediante non è solo la comunicazione renziana (l'uso spinto di Twitter, oltre che della newsletter): tutta la sua azione politica ha ambito studiatamente ad esserlo, nei confronti dei sindacati, di Confindustria, del suo partito, 37

degli enti territoriali, dell'ANM. Per Renzi non sono mai esistiti degli interlocutori privilegiati "o delegati", solo degli interlocutori: i citta­ dini, i lavoratori, gli italiani. Il Leitmotiv è stato sempre il "fare a meno": dei sindacati, a cui non ha mai mandato a dire che «chi si aggrappa all'art. 18 è come chi cerca il buco per infilare un gettone nell'iPhone [ ... ] . Il precariato non si com­ batte organizzando manifestazioni e convegni» (26 ottobre 2014, Leopolda), «Avanti anche senza di loro» (6 maggio 2014, TG 5); di Confindustria, a cui ha tirato uno "schiaffone" (Anfossi, 2015) recan­ dosi nello stabilimento della FIAT di Melfi per incontrare gli operai nel giorno dell'Assemblea confindustriale annuale che, nel 2015, si è svolta nella cornice simbolica di Expo (la FCA di Marchionne è uscita da Confindustria): «Ho visto con i miei occhi i neoassunti della FIAT a Melfi. Pensare che, grazie alla qualità dei lavoratori, all'innovazio­ ne degli ingegneri e alla strategia del management, nel profondo Sud adesso si costruiscono le Jeep che poi da Civitavecchia vanno in Ame­ rica mi allarga il cuore», scrive appena dopo sulla "Enews" 3 9 3 del 29 maggio 2015; delle parti sociali in generale: «Sono vent'anni che, guardando la TV, si vedono Confindustria e sindacati arrabbiarsi, ce ne faremo una ragione. L'importante è che l'Italia cambi» (23 marzo 2014, TG1); dell'Associazione nazionale magistrati (ANM): «L'ANM protesta? Brrr, che paura ... Noi andremo avanti» (Adnkronos, 2014); della Chiesa, che ha sfidato apertamente con l'approvazione della leg­ ge sulle unioni civili, con parole dure e sorprendenti: «Ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo»; di Confcommercio, cui repli­ cava, all'Assemblea generale 2016, tenutasi a Roma: «Io vado avanti con la buona politica. L'IVA non sale e il lavoro cresce [ ... ] . Fischiatemi pure ma la politica deve essere con la P maiuscola». Perfino del mon­ do della cooperazione contrario alla riforma sul sistema del credito cooperativo (nel corso della conferenza stampa tenutasi a Palazzo Chigi il 20 gennaio 2015): «Interveniamo sul Senato della Repubbli­ ca figuriamoci se abbiamo paura di intervenire sul sistema bancario. Abbiamo troppi banchieri e facciamo poco credito [ ... ] . Non si tratta di danneggiare la storia dei piccoli istituti ma di far sì che le banche sul territorio siano all'altezza delle sfide europee e mondiali» (Posa­ ni, 2015). L'unico corpo intermedio non delegittimato dalla retorica 38

renziana è sempre stata la famiglia: «Mi interessa il consenso delle famiglie, non quello delle associazioni» (23 marzo 2014, TG1). Una famiglia che non è più quella a cui fa riferimento la Chiesa cattolica, né il popolo dei "Family Day"; una famiglia laica, flessibile, aperta, allargata, dove i diritti sono estesi a tutti, ovvero quella sancita dalla nuova legge Cirinnà (legge 20 maggio 2016, n. 76), uno dei risultati più importanti portati a casa dal suo governo. «Però non è che la disintermediazione l'abbia inventata Renzi - pun­ tualizza Antonio Belloni -. Pur se Renzi è stato più capace di altri a sfidare i corpi intermedi, i sindacati in particolare, e a portare l'opi­ nione pubblica dalla sua parte» . Attraverso una leadership all'appa­ renza forte e indipendente che alla prova dei fatti si è rivelata debole e isolata, con una parabola simile a quella di altri leader occidentali. A ben guardare infatti anche la retorica leghista è da sempre infarcita di attacchi ai corpi intermedi, sebbene, naturalmente, gli attacchi dei rappresentanti della Lega Nord siano indirizzati ad altri bersagli che hanno la colpa di essere "diversamente ostacoli". Come, ad esempio, gli enti istituiti sulle aree protette a salvaguardia e tutela delle stes­ se, accusati dai leghisti lombardi di essere scatole vuote e contenitori inutili (ltalpress, 2016) : « I parchi ? Li abolirei tutti, perché ormai hanno perso la loro funzione, sono diventati dei "poltronifici" per mogli, mariti, parenti e amici vari [ ... ] » . Lo ha detto [... ] l'assessore all'Agricoltura della Lombardia, Gianni Fava, intervenen­ do a Marcaria all'incontro pubblico su "Agricoltura e zootecnia tra prospettive e criticità". « I parchi non sono delle riserve incontaminate, ma purtroppo qual­ cuno, con l'appoggio compiacente di giornali assolutisti, ha contribuito a creare una contrapposizione esasperata con gli agricoltori [ ... ] dipingendoli agli occhi dell'opinione pubblica come inquinatori e distruttori, quando invece non è così, anzi, creano ricchezza ai territori » .

Gli "imprenditori" e gli "operai" renziani sono gli "agricoltori" leghi­ sti nella prospettiva disintermediante. I "parchi" e i "giornali" assolu­ tisti sono invece centri di potere che esercitano un ruolo improprio e distorcono i messaggi che giungono all'opinione pubblica. L'assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia (x Legislatura) non è nuovo a questo genere di dichiarazioni contro i corpi interme39

di "inefficienti". Se, nella proposta leghista, l'interfaccia diretta con il cittadino e le categorie produttive è l'ente locale, il potere intermedio inefficiente può essere addirittura il governo: un rammarico, che è di­ ventato un refrain, è che la Lombardia non possa avere un dialogo diretto con l'Unione Europea. « Per dimensioni potremmo essere tra i primi sei Stati membri comunitari», ha sostenuto in diverse occa­ sioni, « ma l'idea di Stato centralista che è alimentato dal governo e che si esplicita, fra l'altro, con l'inefficienza di AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), ci vieta di poter parlare di zootecnia diret­ tamente con Bruxelles». Del resto anche nel "Salvini pensiero", fatta salva l'uscita dall'euro, occorre recuperare sovranità nel dialogo con Bruxelles e combattere assieme (Nord, Centro e Sud, ricompresi nel perimetro della nuova Lega Nord) lo "Stato sprecone" e i corpi inter­ medi inutili come Confindustria, « una casta, un sistema di potere, che non rappresenta più gli imprenditori italiani» ("La Verità", 2016). Per dirla con le parole di Michele Serra (2017 ), le mediazioni sono oggi tutte sospettabili di generare caste secondo diversi leader po­ litici che, per contro, alimentano il mito dell'autorappresentanza: « Ognuno si metta l'elmetto e inizi a rappresentare se stesso» (Di Maio, pagina FB). Eppure, chiunque, negli ultimi anni, in Occidente abbia puntato sul carisma per conservare a lungo il proprio progetto politico alla gui­ da di un partito o di un governo, ha visto poche stagioni da leader. Società sempre più liquide e polverizzate e opinioni pubbliche sem­ pre più destrutturate e meno misurabili, fanno da sfondo alle ascese e alle cadute di capipopolo sempre più fragili. Un'attenta analisi di Paolo Macry (2016), all'indomani delle dimissioni del presidente del Consiglio Matteo Renzi, sintetizzava così « la grande debolezza delle leadership forti»: Sebbene i partiti versino in condizioni sempre peggiori, non per questo l'agone politico occidentale sembra dominato da leader forti, in grado di prenderne il posto e di controllare [ ... ] i propri Paesi [ ... ]. La verità è che le onde dell'opinio­ ne pubblica [... ] mostrano [oggi] un'autonomia radicale.

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2.

2.1.

La comunicazione della fiducia e quella della manipolazione

Il ruolo dei mass media nel mondo interconnesso

I media svolgono, da sempre, all'interno delle società democratiche, un importante compito di intermediazione, controllo e costruzione di senso. Oggi però alla definizione dell'agenda quotidiana e alla creazione di senso comune partecipano anche milioni di utenti che collabora­ no al racconto degli eventi e alla ricostruzione dei significati, senza mediazioni. Sono nate, negli Stati Uniti come in Europa, variegate iniziative di citizen journalism per portare all'attenzione dei lettori tutte quelle questioni di cui i grandi media mainstream non si sono mai occupati, ma anche di Jact checking, per contribuire, attraverso processi di collaborazione civica, alla verifica delle notizie fornite dai media tradizionali, o di debunking, per smascherare le notizie false e proteggere i lettori dalle bufale virali che circolano in Rete: modelli partecipativi, basati sui nuovi media e nati da esigenze di comunità o di operatori della comunicazione per rispondere a una domanda diffusa. Considerato che, come sostiene il presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella (2017 ) : «In un sistema di informazione radi­ calmente decentralizzato aumentano notevolmente le possibilità che esse [le bufale] siano create e messe in Rete». Tuttavia, il punto non è tanto e non è solo accettare questa disintermediazione informativa favorendo, da parte degli utenti, l'acquisizione di maggiori compe­ tenze per poter distinguere ciò che conta da ciò che non conta affatto (come sta facendo Facebook con il suo "Journalism project" contro lefake news mettendo a disposizione degli iscritti materiale educativo utile a riconoscere le bufale), quanto piuttosto valutare in che modo delle nuove forme di intermediazione possano diventare utili alla co­ struzione di un'opinione pubblica più consapevole nell'uso critico di tutti i media (predigitali e socia!), nel contesto odierno. Un con41

testo «collaborativo», che ben aveva definito, già nel 2011, Antonio Dini, esperto di sociologia delle comunicazioni: «Fenomeni come il crowdsourcing, il passaparola digitale e il root journalism sono la premessa che dovrebbe aprire la strada a valutazioni più ampie e pro­ fonde sulla società: la teoria della generazione del valore, l'esistenza di un'economia basata su valori non economici (come la felicità), in ultima analisi la natura dell'essere umano» (Stringa, 2011, p. 12). An­ che in questa prospettiva occorre definire bene la cornice e le regole, dato che gli attori in campo sono molteplici e tutti compartecipano, anche se non con gli stessi mezzi, alla formazione di opinione pubbli­ ca. Chi riceve il messaggio deve aver chiaro da dove arriva e in quale contesto è stato concepito: nei casi sempre più frequenti in cui una grande azienda o un politico scavalchino i mass media tradiziona­ li per rivolgersi, con i social media, direttamente agli utenti, è im­ portante che le loro informazioni vadano sotto la voce "storytelling aziendale" o "narrazione politica", perché i follower di Renzi o di ENI su Twitter, per fare degli esempi, possono essere ben più dei lettori di un quotidiano o degli utenti di un programma TV. Che il politico o il capo di un'azienda scelgano per i propri messaggi dei contenitori al di fuori del perimetro dei media tradizionali, è legittimo, che questa forma di disintermediazione debba essere trasparente e usare, se non i contenitori, almeno i metodi, del giornalismo, è un aspetto cruciale, che Giovanni Boccia Artieri (Università degli Studi di Urbino) ha sollevato al x Festival internazionale del Giornalismo (La comuni­ cazione e una bella storia, Perugia, 9 aprile 2016), sottolineando che «è tutta una questione diframe ». «Le aziende oggi possono saltare il corpo intermedio, ad esempio un programma TV, e utilizzare un second screen. I social media lo permettono, si tratta di una sogget­ tivizzazione dell'informazione» , conferma nell'ambito dello stesso festival Daniele Chieffi ( Comunicazione e giornalismo come cambia­ no nell 'epoca dei socia/ media), responsabile Social Media Manage­ ment di ENI. La stessa azienda energetica italiana, nel dicembre 2015, ha risposto in diretta su Twitter alla trasmissione Report (RaiTre), che si occupava della delicata acquisizione di una licenza nel mare della Nigeria da parte della stessa, generando una case history che ha fatto storia. La strategia comunicativa di ENI, che affonda le radici 42

in una narrazione aziendale precisa, in funzione della creazione di valore reputazionale, è diventata, in quel caso, paradigmatica, perché non ha precedenti e perché ha coinvolto migliaia di utenti e di follo­ wer. Si tratta di una strategia volta a "riappropriarsi" del diritto a rac­ contare la propria storia che il direttore della comunicazione di ENI, Marco Bardazzi (201 6 ) , spiega con un proverbio africano: «Finché i leoni non cominceranno a raccontare le loro storie, i cacciatori sa­ ranno sempre gli eroi» . Secondo Bardazzi i protagonisti del mondo dell'impresa, della politica, dell'economia sarebbero i "leoni" mentre i giornali, le TV e gli altri media (non sociali s'intende) i "cacciato­ ri". «Ogni organizzazione, che sia un'azienda, una ONG o un ente pubblico ha oggi molto più che in passato la possibilità di raccontar­ si in prima persona, disintermediando la propria comunicazione e raggiungendo un pubblico le cui dimensioni possono dar vita a una crescita scalare grazie al digitale» (ibid. ). Se l'organizzazione diven­ ta una rete narrativa, capace di aggregare community, la questione del frame è tanto più importante nel contesto italiano dove, come rileva un recente saggio di Nando Pagnoncelli (20 1 6 ) basato su alcu­ ni sondaggi di IPSOS, molti cittadini non si informano e non sanno riconoscere le bufale dalle notizie vere. E il distacco tra percezione e realtà è più alto che in altri Paesi. Scrive Ilvo Diamanti nella post­ fazione del libro in oggetto (ivi, p. 96): «Il rapporto fra percezione e realtà costituisce un tema cruciale del nostro tempo. Soprattutto perché evoca e delinea quell'entità informe che passa sotto il nome di opinione pubblica» . Secondo gli studi condotti da Pagnoncelli e supportati dalle ricerche del suo istituto, in Italia lo scostamento tra dati percepiti e dati ufficiali è alto, essendo diffuso un «analfabeti­ smo numerico» che amplifica o attenua la portata della realtà, ma comunque la falsifica (ivi, p. 3 5 ) : Risultano fondamentali le modalità con cui le persone si informano, privile­ giando l' informazione rapida e superficiale, la sintesi, il breve servizio filmato di un TG, i titoli dei giornali, o delle notizie trasmesse alla radio quando al con­ trario la complessità di tali temi imporrebbe un approfondimento e un' anali­ si. I luoghi del confronto sono sempre più autoreferenziali, a partire dai socia! network, spazi di libertà e di democrazia trasformati in club a cui sono ammesse solo le persone che pensano nello stesso modo. O nel quale lo "scemo del vii-

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!aggio" come lo ha definito il compianto Umberto Eco si convince di essere un guru o un maitre a penser grazie ai like che ottiene dalla Rete. E sullo sfondo c'è sempre la minaccia costituita dall'attendibilità delle fonti e dalla velocità con cui si diffondono in Rete notizie false anche se apparentemente credibili.

Per offrire una bussola di orientamento ai suoi lettori, "La Stampa" e "la Repubblica" hanno lanciato un sondaggio, nel maggio 2016, per chiedere cosa potrebbe essere utile ad aumentarne la fiducia verso i quotidiani e i siti del gruppo. Si legge nel messaggio: Care lettrici e cari lettori, con la quantità di informazioni digitali disponibili, il giornalismo di alta qualità può essere distinto con difficoltà dai contenuti promozionali e dalle storie false. "La Stampa" e "La Repubblica" hanno deci­ so di aderire a un progetto internazionale, " Tue Trust Project", con l'obiettivo di migliorare l'offerta del giornale aumentando la nostra credibilità nei vostri confronti.

Dalle ricerche è emersa la conferma che quello che gli utenti vogliono dai giornali è una trasparenza verificabile e certificata che permetta di potersi fidare della testata e degli autori degli articoli, ma le piattafor­ me digitali dei giornali finora non hanno permesso di inserire sistemi di verifica. "La Stampa" inserisce questa iniziativa all'interno di un processo di riavvicinamento ai propri destinatari; in questo senso va anche l'introduzione, nel 2012, di un public editor, da considerarsi una specie di "garante dei lettori, al servizio della trasparenza". Il fat­ to che ci sia bisogno, in questo momento in cui si ravvisano pochi gatekeepers dell'informazione, di nuove forme di intermediazione affidabile lo dimostra anche la nascita, in diversi Paesi del mondo, di sperimentali formule di slowjournalism, aggregatori di storie "lente", ragionate, che si staccano dal flusso ininterrotto della quotidianità e, spesso, anche dai mainstream media, per approdare a nuovi modelli di "giornalismo sostenibile" (Slow news: la rivoluzione lenta, Festi­ val internazionale del Giornalismo, Perugia, 9 aprile 2016). Il gior­ nalista tedesco Frederik Fischer, fondatore della piattaforma piq.de, sul tema ha costruito un manifesto (Sustainable ]ournalism) i cui principi fondamentali sono: essere dialogico; rispettare i data 's users; supportare il reporting originale; basarsi su modelli di business che 44

garantiscano l'indipendenza editoriale; avere canali distributivi pro­ pri. Così come la smart curation, una forma di reintermediazione che si sta diffondendo rapidamente, anche in Italia, basata sul presuppo­ sto di selezionare l'eccesso di informazione e ricostruire percorsi di senso.

2.2.

I corpi intermedi naturali e la fiducia

Che gli italiani, più degli altri, diffidassero dei media tradizionali e di massa, è emerso, negli anni, da diverse rilevazioni; che, già prima del­ la diffusione capillare del socia! networking, ci fosse una ricca platea di fruitori non occasionali dell'informazione non-mainstream, lo ha indagato un'ampia ricerca, condotta, qualche anno fa da Francesca Pasquali e Michele Sorice (2005 ) . Mentre quella mainstream è con­ siderata spesso una comunicazione manipolatoria e non trasparente o comunque non obiettiva, la non-mainstream, potendo contare su indagini di prima mano, perché più vicina alla società civile o in con­ tatto diretto con i mondi che rappresenta, genera maggiore fiducia, oltre che maggiore coinvolgimento dei lettori (si pensi, ad esempio, alle testate o ai siti Internet delle ONG o delle associazioni del Terzo settore). Con la diffusione su larga scala del socia! networking, è aumenta­ ta la tendenza a riporre più fiducia nelle informazioni scambiate tra pari e assai meno in quelle veicolate dai mass media tradizio­ nali come corpi intermedi. C'è chi addirittura ritiene che proprio i socia! network siano diventati gli unici corpi intermedi degni di fiducia, perché il loro capitale relazionale si baserebbe sull'autore­ volezza reciproca e su quell'economia del dono che non caratterizza invece molte delle vecchie relazioni. Secondo Patrizia Grandicelli (201 6 ) , esperta di comunicazione digitale e contributor del progetto editoriale "Senza filtro", quel tessuto di relazioni e interessi che ha avuto un ruolo centrale, fino a poco tempo fa, nel funzionamen­ to della democrazia come dell'economia, è stato reso oggi obsoleto dalla Rete, che ha corroso le vecchie reti. Il nuovo corpo intermedio, ossia il socia! networking, ha invece caratteristiche completamente 45

diverse, « è tendenzialmente informale (cioè poco caratterizzato da ritualità), verticale negli scopi (cioè punta a obiettivi specifici) ma orizzontale nella struttura (non è irregimentato da gerarchie fisse); spesso è anche biodegradabile (svolge una funzione poi si estingue o cambia scopi) e ha tra i suoi valori fondanti la reputazione e la fiducia reciproca». Rispondono a queste caratteristiche anche la maggior parte dei gruppi di pressione nati intorno a una causa specifica e poi "scaduti" (proprio perché biodegradabili), o trasformatisi in qualcos'altro. Il capitale mobilitato, in questi casi, è, come nei mercati azionari più volatili, a elevato potenziale ma anche ad alto tasso di rischio, tanto da potersi consumare in poco tempo. Le femministe di "Se non ora quando", ad esempio, prima che si di­ videssero in SNO Q Factory e SNO QLibere, sono state protagoniste di una stagione di rinnovamento sociale e politico che ha portato in piazza, nel 2 0 1 1 , centinaia di donne di sinistra (ma anche di de­ stra), per un totale di 1 40 comitati sparsi in diverse città italiane. In cinque anni hanno detto la loro su diverse questioni che hanno animato il dibattito pubblico, dalla gravidanza al telelavoro, dalle quote rosa al tema della conciliazione famiglia-lavoro. Tuttavia, di quell'onda di indignazione, oggi restano attivi meno di una trentina di comitati, ognuno con la sua linea d'azione e con le sue attività; inoltre, su alcuni temi etici, diventati centrali durante la gestazio­ ne della legge sulle unioni civili, la Rete si è addirittura spaccata. Il movimento, che era nato contro il modello degradante dell' im­ magine femminile, portato avanti anche da alte cariche istituzionali durante gli anni del crepuscolo del berlusconismo, si proponeva di reagire avviando una rivoluzione culturale dentro le istituzioni, le associazioni, il mondo della scuola e le imprese, per impostare un nuovo modello di relazione tra uomini e donne; ma, venendo meno il "nemico" comune da combattere, è mancata la motivazione per stare 1ns1eme. Un altro esempio è costituito dal piccolo gruppo di pressione, lo­ cale e biodegradabile, nato a Milano, insieme ad altri comitati del "No" che si sono avvicendati durante l'anno di Expo 2 0 1 5 , contrari ad alcune scelte di trasformazione della città avviate in occasione del 46

grande evento: il comitato "No al Teatro Burri". Il gruppo di attivisti che voleva impedire l'installazione, nel Parco Sempione, di una co­ pia del manufatto che il maestro Burri donò a Milano negli anni Set­ tanta, ha mobilitato, in una discussione simbolica, gran parte degli ambienti della cultura cittadina, oltre alle due principali associazio­ ni ambientaliste nazionali, Legambiente e Italia Nostra, e ha avuto il merito di avviare un dibattito non banale su scopi e destinazioni dei parchi urbani. Una volta persa la battaglia si è discusso a lungo di come non disperdere le energie mobili tate: proseguire l'azione di sensibilizzazione limitatamente al tema del parco, confluendo sta­ bilmente nella fondazione che lo gestisce (Fondazione Perilparco); costituire un'associazione di tipo culturale che si proponesse come corpo intermedio tra i cittadini e l'istituzione comunale sui temi della cultura e del verde urbano, mettendosi in Rete con le altre già presenti; creare una lobby tematica, all'interno di una coalizione po­ litica esistente, mirata a ottenere la demolizione del Teatro Burri in cambio del sostegno dei suoi iscritti; dar vita ad una lista civica con un manifesto che partisse dai principi che sono stati alla base della battaglia del comitato, al fine di concorrere alle elezioni comunali del 2 0 1 6 . La scelta è caduta sulla quarta ipotesi e alcuni degli attivisti fondatori del comitato hanno costituito il movimento "Alternativa Municipale", trasformando, di fatto, un gruppo di pressione in un soggetto politico che ha partecipato alla corsa elettorale per la pol­ trona di Palazzo Marino nel 2 0 1 6 . Non tutte le cause però scadono o si trasformano. Ci sono gruppi di pressione costituitisi attorno a cause etiche, ambientali o umanitarie destinati a portare avanti il loro attivismo per lungo tempo. Come Slow Food, l'associazione internazionale nata in Piemonte negli anni Novanta in contrapposizione alla moda dilagante del fast food, impegnata da sempre nella difesa e nella valorizzazione del cibo di qualità, delle filiere agricole locali e del "diritto al piacere", in con­ trapposizione alle catene dijunkJood, diffuse in Italia dalla fine degli anni Ottanta. O le "Sentinelle in piedi", autodefinitesi con un epi­ teto più militare che libertario e, tuttavia, raggruppate attorno alla difesa della libertà di opinione e d'espressione, a vigilanza dei valori cattolici. Sulla scorta dei "Veilleurs debout" francesi (resistenti silen47

ziosi che si sono opposti alla legge per il matrimonio omosessuale in Francia), le Sentinelle difendono il principio della famiglia naturale fondata sull'unione tra uomo e donna e si sono schierate contro tutti gli ultimi progetti di legge in materia di allargamento dei diritti civi­ li. Con i loroflash mob e un'attivissima pagina FB hanno contrastato fortemente la caduta del divieto di fecondazione eterologa, le ado­ zioni da parte di coppie omosessuali, le unioni civili e via dicendo. Si tratta di gruppi informali e non strutturati che si ritrovano nelle piazze di varie città e stanno in piedi con dei libri in mano a manife­ stare il loro dissenso. I più si avvicinano attraverso i social network, che usano per fare rete. Per la comunicazione pubblica si sono dati un protocollo molto rigido, come ha spiegato una militante milane­ se a Michele Sasso sull"'Espresso" (201 4) : «La scelta è parlare solo in piazza, unico momento di presenza pubblica. Non abbiamo rap­ porti con la curia e altri mondi, siamo semplici partecipanti». Per il resto, la lobby ha scelto un silenzio assordante, che ha comunque provocato lo scontro con le associazioni che difendono i diritti della comunità LG BT. Con pressoché identiche finalità e sempre d'impor­ tazione francese, è nata, anche in Italia, "La Manif pour tous", un'as­ sociazione più strutturata rispetto alle Sentinelle, che opera nella resistenza passiva in difesa della stessa causa: la conservazione della famiglia tradizionale, cui ha dedicato un manifesto di valori contro l'abbattimento della cellula fondante della società e la standardizza­ zione dell'identità. Di manifesto in manifesto: un manifesto contro la standardizzazio­ ne dell'identità (dei vini), in difesa dei vitigni locali e delle tecniche enologiche che non mortifichino l'incidenza del territorio, lo ha presentato pure un gruppo di vignerons indipendenti: gli attivisti della " Tripla N', ossia i cosiddetti "Artigiani, Artisti, Agricoltori". I militanti-produttori si considerano dei "superstiti" e non si ricono­ scono né nelle associazioni di categoria tradizionali, come Feder­ vini, né in quelle di nicchia a tutela dei piccoli produttori, come la F IVI (Federazione italiana vignaioli indipendenti), che cura gli interessi dei vignaioli dediti a piccole produzioni autoctone e spesso biologiche o biodinamiche. Al centro della battaglia, come per Slow Food, oltre alla qualità, qui c'è la tracciabilità, un diritto (tutelato 48

dalle certificazioni: in Italia IGT, D OC, D OCG) sul quale si sono po­ sizionate anche diverse associazioni dei consumatori, raccogliendo il sentiment del 50,2% degli italiani (CENSIS, 2015) che considera il patrimonio enogastronomico l'incarnazione dell'identità delle co­ munità locali (Zunino, 2015) e delle cosiddette "urban tribes", che chiedono più sicurezza su cibi e etichette. Dalla resistenza alcolica alla resistenza verde, è tutto un fiorire di iniziative di cura o ripri­ stino dei diritti della terra, spesso, ma non sempre, legate ad asso­ ciazioni più strutturate di difesa dell'ambiente. Di importazione è, ad esempio, la rete dei "Guerilla Gardening" che impone, attraverso blitz o attacchi notturni, ma anche con forme più partecipate, che coinvolgono le comunità locali, azioni di giardinaggio "politico" in aree abbandonate delle città. Di marchio italiano è invece la rete "Libere Rape Metropolitane", nata a Milano nel 2010, per prendersi cura dei community gardens o orti condivisi. In comune con i Guer­ rilla hanno la difesa della stessa causa: la tutela del verde come pre. . z1osa risorsa comune.

2 .3. I soggetti dell'economia civile e i modelli di Big Society Lo spazio occupato dai corpi intermedi, in diverse epoche e latitudi­ ni, ha a che fare anche con quella terra di mezzo che raccorda, all' in­ terno di ogni società evoluta, la dimensione privata e quella pubblica, ossia la dimensione civile. Oggi che, di fronte ai processi di innova­ zione, si parla di Neoumanesimo, è importante ricordare che, anche nell'Umanesimo rinascimentale italiano, l'innovazione (economica e sociale) è stata portata avanti proprio dai corpi intermedi: le corpo­ razioni e le associazioni di professioni liberali, tutte iniziative espres­ sione del civile. Affinché ci sia un pieno sviluppo e il rispetto dell'individualità non vada a scapito del bene comune, nessuna delle tre dimensioni dovreb­ be prevalere sulle altre. Negli ultimi anni, in molti hanno puntato il dito contro l'immanenza della dimensione privata (mercato) come causa di crisi e sgretolamento sociale e relazionale, a partire dal pon­ tefice Benedetto XVI che, nella sua ultima enciclica del 29 giugno 49

2009 ( Caritas

in veritate, 7, 3 2) ha auspicato « una revisione profon­ da e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfun­ zioni e le distorsioni»: ( 7 ) [ ... ] Bisogna poi tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene co­ mune. È il bene di quel "noi-tutti': formato da individui, famiglie e gruppi in­ termedi che si uniscono in comunità sociale [ 4 ] . Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso e esigenza di giustizia e di carita. 1mpegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politica­ mente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di polis, di città [ ... ] (32) [ ... ] Va poi ricordato che l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel breve periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l'arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative.

Proprio per promuovere dinamiche collaborative e rispondere a biso­ gni reali emergenti sono nate, in Italia, diverse iniziative ed esperien­ ze, nell'ambito della cosiddetta economia civile e del welfare gene­ rativo. Come i progetti delle AC LI (Associazioni cristiane lavoratori italiani) volti a portare avanti una mobilitazione culturale per civiliz­ zare l'economia, rafforzando quei vincoli sociali diventati deboli, e rispondere, con la crescita delle imprese sociali e civili, alla domanda che emerge da tutti quegli spazi pubblici non più presidiati, come si può leggere nel documento delle ACLI delle Marche, Per un 'altra economia (2013): Le imprese civili hanno la funzione di promuovere le altre espressioni del Terzo settore, sperimentando legami non solo con i gruppi di portatori d'interesse, ma anche con associazioni, fondazioni e organizzazioni di volontariato. Dando vita a un fitto tessuto di imprese civili e riconoscendo le cooperative sociali con la legge 3 3 6 del 1 9 9 1, l' Italia non solo è divenuta la culla dell'impresa civile, ma ha dato un importante contributo a un nuovo modo di concepire il ruolo del mercato.

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Tutto questo aggrapparsi al capitale sociale, negli ultimi vent'anni, ha dinamiche specifiche a seconda del Paese, ma un denominatore comune: il contrasto a forme di individualismo esasperato che ha messo in crisi, ovunque, il senso di comunità. Se negli Stati Uniti, già nel 2 0 0 0, Robert D. Putnam parlava dunque di necessaria ri­ nascita della cultura civica e dell'invenzione di altre forme di coe­ sione: «Istituzioni come il Rotary, la Croce Rossa, i Boyscout, la National Association for Coloured People hanno funzionato bene per un secolo ma oggi appaiono fuori moda. Dobbiamo inventare altre forme di coesione sociale» (Bosetti, 2 0 0 4 ) ; in Inghilterra, tra il 2 0 1 0 e il 2 0 1 5 , si è fatto un gran parlare di modelli di "Big Society" per la partecipazione attiva dei cittadini al fine di migliorare la qua­ lità dei servizi, riducendo il ruolo dello Stato, ma l' idea oggi appare piuttosto in declino. Il dibattito tra chi ritiene che usare la parte­ cipazione come surroga ai compiti dello Stato e della politica sia improprio e strumentale, e chi obietta, di fronte all'evidenza delle inefficienze dello Stato e al ritrarsi del welfare state, che favorire e coordinare iniziative dal basso sia la soluzione di molti problemi, è sempre aperto. In Italia, negli ultimi mesi, si è concentrato, come vedremo più avanti, sulla questione del decoro urbano e della ge­ stione delle città, a partire dalla mobilitazione di Milano per me­ ° dicare la città ferita dai "No Expo" del 1 maggio 2 0 1 5 (#Nessun­ TocchiMilano, 3 maggio 2 0 1 5 ) alla campagna contro il degrado di Roma (#Romasonoio, luglio 2 0 1 5 ) , scatenando opposte reazioni (Gramellini, 2 0 1 5 ) : La proposta di cominciare la bonifica di Roma dal marciapiedi davanti a casa propria, avanzata dall'attore Alessandro Gassmann, sta facendo emergere per contrasto un altro tipo di italiano. Il signor Mi Rifiuto, figura trasversale che va dai commentatori dei giornali di destra all'archetipo dell'intellettuale di sinistra, il professor Asor Rosa. La sua tesi è che il cittadino non deve sosti­ tuirsi ai netturbini perché già paga le tasse. Questo richiamo al ruolo virtuo­ so delle imposte nel Paese che vanta il maggior numero di evasori fiscali suo­ na vagamente surreale. Ma pur di non prendere in mano una ramazza e senti­ re la città come - e casa - sua, il signor Mi Rifiuto è pronto a sciorinare tut­ to il repertorio dello scaricabarile. [ ... ] Le obiezioni del signor Mi Rifiuto, formalmente ineccepibili, sono alibi per continuare a rimanere come siamo:

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inerti e lamentosi. Ignorano l'effetto contagioso dell'esempio. Chi contribui­ sce in prima persona diventa più geloso del bene comune e più esigente ver­ so gli amministratori. « Pulisci davanti all'uscio di casa tua e tutta la città sarà pulita » , recita un proverbio cinese o forse scandinavo. Sicuramente non italiano.

E comunque, come vedremo meglio nel CAP. 4, mobilitare le com­ petenze dei cittadini e dei vari corpi intermedi della società civile ha senso se a ciò corrisponde una riorganizzazione di governance a vari livelli.

2.4. La Chiesa alla ricerca di un nuovo dialogo con i fedeli Nel secolo scorso la Chiesa è stata sfidata più volte, dai politici e dalla società, nelle sue varie componenti. E, tutte le volte che ha ac­ cettato una prova di forza, ha sempre perso, a causa dell'inesorabile laicizzazione della vita pubblica, come nei casi delle grandi batta­ glie civili portate avanti con gli strumenti referendari: sul divorzio nel 1 9 74, sull'aborto nel 1 9 8 1. Quelle battaglie, come ricorda Massi­ mo Franco (2016) sul "Corriere della Sera" «ne hanno sancito anzi la condizione di minoranza in Italia, scoraggiandola a ingaggiare nuove prove di forza con una società che non controllano più come negli Anni Cinquanta del Novecento» . Lo scontro al quale non ha potuto sottrarsi con il Governo Renzi in occasione della discussio­ ne della legge sulle unioni civili, che porterebbe, secondo la visio­ ne della CEI ( Conferenza episcopale italiana) alla distruzione delle basi della famiglia tradizionale, ha messo in luce però degli elementi nuovi, che vanno oltre la condizione minoritaria nella quale si trova ormai ad agire: anche al suo interno appare oggi divisa, indeboli­ ta e in cerca di nuove definizioni e la forte e innovativa leadership di papa Francesco non fa che rendere più evidenti le contraddi­ zioni. La CEI, in particolare, che dovrebbe, oltre che dare orienta­ mento ai fedeli e alla filiera, occuparsi proprio della mediazione con le autorità dello Stato italiano, è stretta tra gli attacchi che le arri­ vano da dentro e da fuori, il rischio di irrilevanza al quale sembra essersi condannata all'interno del dibattito pubblico e i continui 52

richiami di Jorge Mario Bergoglio all'ascolto della "base", al rinno­ vamento, alla ricerca di nuovi valori e all'abbandono dell'autorefe­ renzialità (69 a Assemblea generale della C E I , 16 maggio 2016, Città del Vaticano): Il presbitero è tale nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una comunità concreta di cui condivide il cammino. Il popolo fedele di Dio rimane il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato. Questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un' autoreferenzialità che isola e imprigiona: « Quando il tuo battello co­ mincerà a mettere radici nell'immobilità del molo - richiamava Dom Hélder Camara - prendi il largo». Parti !

Per stare entro la cornice della comunicazione, la distanza che la Chiesa e i suoi organi di relazione hanno ormai stabilito con la so­ cietà civile è tutta in una fotografia scattata, nel 2015, da Demos & PI che rappresenta la mappa del linguaggio del nostro tempo (quinta edizione del Mapping, come vedremo meglio nel CAP. 6): 7 cittadini su 1 o mettono la Chiesa tra le "parole del passato", insieme (manco a dirlo) ai politici, ai sindacati, ai partiti e ai giornali. Per contro, nel lessico "in", ossia tra le "parole del futuro", c'è papa Francesco, insieme a Internet, alle energie rinnovabili e alla famiglia. Eccoli dunque "i punti fermi" della nostra società, come li chiama Diamanti (2015b): «Per prima e sopra tutto la famiglia. Famiglia e Internet. Marcano i nostri luoghi di relazione e comunicazione». E poi a presidiare «la fortezza» c'è papa Francesco. «L'unica figura davvero "con-divisa". Mentre tutti gli altri personaggi pubblici - per primi i "politici" dividono. E allontanano». Come emerge pure dal rapporto Demos & P I (2016), già visto (nel PAR. 1.1.2), nel quale il papa è in cima alla graduatoria della fiducia insieme alle forze dell'ordine. Anche Bergoglio, sin dall'inizio del suo mandato, è stato un grande "disintermediatore", con i suoi gesti non convenzionali e la sua comu­ nicazione diretta ma anche postmoderna: «L'amore per sua natura è comunicazione, conduce ad aprirsi e a non isolarsi #ComMiseri­ cordia50» (7 maggio 2016, @pontifex_it); «Il problema del lavoro è grave, per gli alti livelli di disoccupazione giovanile e perché a vol­ te il lavoro stesso non è dignitoso» (2 maggio 2016, @pontifex_it); 53

«Affido alla misericordia di Dio le persone che hanno perso la vita » #Bruxelles (22 marzo 2016, @pontifex_it). Tutto questo lo ha subito avvicinato alla gente, facendolo sentire meno distante dalle persone di quelle gerarchie ecclesiastiche sulle quali esercita l'autorità papale e che dovrebbero costituire, effettivamente, la cinghia di trasmissio­ ne con un altro corpo sociale, quello dei fedeli, ma che, molto spesso, hanno dimostrato di non esserne più capaci. «L'argomento disinter­ mediazione è giunto a maturazione proprio attraverso una serie di soggetti che ne hanno incarnato l'azione, come papa Francesco, ma anche Obama », commenta Antonio Belloni. «Infatti, da grande in­ novatore quale è, Bergoglio, è già nella "seconda fase", che poi è quella della reintermediazione [ di cui parleremo meglio nel PAR. 6.5] : la ri­ strutturazione del pool di comunicazione del Vaticano compiuta nel 2015 ne è la prova concreta » .

2.5 . I partiti leggeri che perdono iscritti ed erogano servizi Se Enrico Berlinguer, all'inizio degli anni Ottanta, definiva i partiti «macchine di potere e clientela » , chissà che cosa avrebbe detto oggi di quelli della Seconda Repubblica e delle loro sedi locali, spesso at­ traversate da scorribande di interessi incrociati e chiuse alla società civile con la quale dovrebbero avere un dialogo permanente. Quella in cui ci troviamo a vivere è probabilmente la fase storica nella quale i partiti hanno toccato il più basso grado di gradimento e di fidu­ cia da parte dell'opinione pubblica, di tutti i tempi. E non si tratta solo degli scandali che hanno coinvolto, uno dopo l'altro, quasi tutti i partiti e i loro referenti locali, e che certamente hanno contribuito alla diminuzione delle tessere e alla disaffezione al voto; il quadro delle alleanze incrociate e provvisorie che si compone e ricompone in continuazione in diverse regioni e comuni, piccoli o grandi, ha aumentato il disorientamento e lo scetticismo degli elettori e indebo­ lito il senso di appartenenza. E a poco sono valsi, sino ad ora, i conti­ nui richiami al rinnovamento, alla pulizia, alle "ramazze", perché essi suonano ormai, nell'immaginario collettivo, esattamente al contra54

rio: come parole chiave della comunicazione della manipolazione, in perfetto stile orwelliano. «In questi anni è cresciuto un rapporto incestuoso fra politica, sin­ dacato e anche mondo delle imprese. Si sono create sacche di privi­ legio e rendite inaccettabili. Tutto questo va smontato [ ... ] . Bisogna che i corpi intermedi si rigenerino. E i primi a muoversi dovrebbero essere comunque i sindacati», ha dichiarato, pochi giorni prima del­ le amministrative del 2016, Matteo Orfini sul caso Mafia Capitale che ha coinvolto l'amministrazione romana, le aziende partecipate (ATAC) e diversi rappresentanti dei partiti e delle imprese (Rizzo, 2016). Matteo Salvini, sul nuovo scandalo che ha colpito la sanità lombarda nel 2016 e aveva come protagonista un politico della Lega Nord, Fabio Rizzi, ex presidente della Commissione consiliare Sani­ tà e Assistenza, ha sentenziato: «Non serve un'altra serata di scope [ come quella che sancì la fine della Lega bossiana e dei suoi scandali] . Se c'è qualcun altro che ha fatto qualcosa di sbagliato ben vengano nomi, cognomi, indirizzi, codice fiscale. lo sono orgoglioso di come funziona la sanità lombarda. A maggior ragione se qualcuno ci man­ gia sopra va punito con il doppio della pena prevista dal codice» (Ansa, 2016). E Beppe Grillo, che sulla legalità ha costruito l'offerta politica del M s S: « lo sto traghettando il Movimento verso nuovi orizzonti. Non intervengo direttamente, però credo che ci sia ancora bisogno della mia presenza [ ... ] . lo ora ho un ruolo da garante delle regole, ma prima o poi ci sarà un sistema per cui chi infrange sarà au­ tomaticamente espulso da un algoritmo» (Agi, 2016). Eppure, al di là delle tecno-utopie di Grillo, le considerazioni sui nodi consumati e sulla necessità di rinnovamento di quei legami, un tempo solidi, sono quasi sempre argomenti posteriori agli interventi della magistratura e rappresentano, in questo senso, il tentativo di ricucire un dialogo interrotto con un'opinione pubblica sempre più distante e sempre più arroccata sul principio dell'uguaglianza delle devianze. In realtà, proprio la trasformazione a matrice leaderistica degli attuali partiti o movimenti politici (di cui abbiamo parlato nel CAP. 1) ne hanno reso più destrutturata la fisionomia e più vaghi i confini. A ciò si aggiunge lo sganciamento dalla dimensione sindacale che era il vero collante con i territori e i ceti esclusi dalle reti d'opinione. Precisa Alessandro 55

Campi, docente di Storia delle dottrine politiche all'Università degli Studi di Perugia: I partiti erano già deboli, ma ora siamo davvero alla conclusione di un proces­ so: restano solo potentati locali e consensi personali. E i politici sul territorio spesso usano i referenti nazionali come se fosse un franchising [ ... ] . La verità è che i partiti non sono più in grado di tenere sotto controllo gli apparati a livello locale. Ciò che succede in periferia ormai sfugge: perfino al P D che è il partito più strutturato [ ... ]. Basta vedere cosa è successo dentro il P D romano (Rebotti, 2015).

Insomma, dal franchising al neofeudalesimo, le relazioni tra centro e periferia non sono più né codificate, né salde e garantire per un "marchio" di fabbrica di fronte all'opinione pubblica è sempre più difficile, anche per i leader stessi. E, per recuperare un ruolo di media­ zione, i partiti si danno all'organizzazione di servizi vari. Nell'anno di Expo Milano (2015) per esempio ha fatto discutere l'iniziativa del PD meneghino di promuovere la rivendita dei biglietti per l'esposizione universale, assieme all'iscrizione scontata al partito per gli under 3 0, come un'università o un supermercato. Eppure fornire supporto agli iscritti, in diverse maniere, può diventare una delle tante funzioni dei nuovi partiti "leggeri" per generare senso di appartenenza. Assicurare partecipazione e trasparenza, con il modello delle primarie ma anche con un accountability costante, portata avanti sui blog e sulle pagine FB, ed erogare servizi utili, è la risposta con la quale i partiti tentano di recuperare, almeno a livello locale, credibilità e fiducia tra gli iscritti. Pure se, a molti osservatori, sembra un meccanismo piuttosto debole: «Le cause della crisi di rappresentatività che ha investito i corpi in­ termedi, pescano in un processo che ha addirittura anticipato un cer­ to atteggiamento di sospetto e diffidenza. Anziché curare la propria rappresentatività, i corpi intermedi hanno curato l'efficacia dei servizi offerti ai propri associati. Il colpo di grazia è stata poi l'ondata di an­ tipolitica che ha colpito i partiti» , ha analizzato Lorenzo Ornaghi, presidente ASERI (Alta Scuola di economia e relazioni internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore), dialogando con il vicese­ gretario del PD Lorenzo Guerini sulla rappresentanza, in un incontro del ciclo "Integratori culturali" (organizzato da "Formiche" e ASERI 56

a Milano il 17 marzo 2015). Secondo Guerini la rappresentanza, che è parte costitutiva delle democrazie, non si cambia per decreto legge: «Bene fa il Governo a proporre una nuova legge per ridefinire le re­ gole interne e la trasparenza dei processi decisionali nei partiti, dando così piena attuazione all'articolo 49 della Costituzione, tuttavia non sarà certo lo strumento legislativo a risolvere questa crisi. C'è bisogno di ripensare un nuovo modello della rappresentanza».

2 . 6 . Le fondazioni : think tank o estensioni dell ' io ? Quella delle fondazioni collegate, in qualche modo, alla politica, è una rete fittissima di nomi e di contatti. A quanto pare, stando ai numeri, fondazioni, enti e think tank vari, giocano un ruolo centrale nella vita politica italiana. Ma da quando? OpenPolis, l'osservatorio civico sulla trasparenza politica, ha realizzato un "MiniDossier", col­ legandone lo sviluppo direttamente alla crisi dei partiti stessi: «Con l'esasperarsi del fenomeno dei cambi di gruppo e la continua nascita di correnti e sottogruppi, la tradizionale cornice partitica della politi­ ca sta perdendo di senso. In parallelo molte delle principali funzioni che storicamente appartenevano ai partiti politici [ ... ] traslocano e trovano casa nei think tank politici» (OpenPolis, 2015). Negli ultimi esecutivi e in gran parte dei banchi parlamentari sie­ dono e si sono seduti decine di politici con almeno un pensatoio di riferimento. Si può dire, addirittura, che quasi ogni carica istituzio­ nale abbia o abbia avuto il suo think tank. Da Fondazione Open a Glocus; da Fondazione Italia-USA a ltalianieuropei; da ltaliadeci­ de ad Astrid; da Vedrò a Magna Charta; dalla Nuova Italia a Free Foundation; da Foedus a Libertà Eguale; da Fondazione Rosselli a È possibile. Non c'è politico con qualche delega o carica istituzionale che non abbia generato una fondazione o non ne sia stato cooptato. Si tratta forse di corpi intermedi per la progettazione di policy con un compito simile a quello che un tempo era dei partiti e delle as­ sociazioni di categoria? Sembra di sì, dato che vengono loro affidate diverse funzioni tra cui quella di reclutamento di personale politi­ co, raccolta di finanziamenti, elaborazione delle idee e creazione di 57

spazi di incontro con la società civile. Che in Italia si fosse aperta la stagione del think tank personale, « il nuovo modello di consigliere del principe», lo aveva già detto Mattia Diletti, ricercatore presso la Sapienza Università di Roma e studioso dei pensatoi americani ed europei. « Questo è avvenuto in concomitanza con il processo di personalizzazione della politica (lo stesso è accaduto in altri Pae­ si europei) e di destrutturazione organizzativa dei partiti italiani», specifica Diletti (2009 ). Ricorda invece Sergio Rizzo (2015) che, nel 2012, quando Linda Lanzillotta (tra l'altro fondatrice di Glocus) provò, insieme al collega Salvatore Vassallo, a presentare un emen­ damento che mirava a introdurre le stesse regole di trasparenza pre­ viste per i partiti, anche per le fondazioni, fu colpita da fuoco incro­ ciato e bipartisan. Se il finanziamento pubblico ai partiti è stato poi abolito e sono state introdotte norme per garantirne trasparenza con buona pace di tutti, l' accountability delle fondazioni resta ancora un miraggio da raggiungere. Anche perché, attraverso vari escamotage, molte di esse non appaiono direttamente connesse all'attività poli­ tica né i loro organi direttivi sembrano controllati dai partiti stessi. OpenPolis, nel 2015, ne ha censiti 65 di think tank (tra fondazioni e associazioni), la metà dei quali nata dopo il 2000, con una presenza di oltre 500 politici di destra e di sinistra, in molti casi (43) in più di una. Poiché ali' interno di fondazioni e think tank che rappresen­ tano l'estensione, per così dire, "intellettuale" della singola proposta politica transitano, quasi sempre, insieme alle idee, migliaia se non milioni di euro (che arrivano da finanziatori, imprenditori e lob­ bisti di varia provenienza), sarebbe importante, sempre nell'ottica di una maggiore responsabilità di fronte all'opinione pubblica, fare chiarezza. Allargando il raggio d'azione anche ai think tank di ma­ trice non personale, la ricerca svolta nel 2012 da Mattia Diletti, per il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale della Sapienza Università di Roma in collaborazione con Vodafone Italia, aveva censito 105 strutture nel 2011, delle quali solo poco più del 3 2% era legato a leadership politiche singole, nate per oltre il 90% (proprio come confermato in seguito da OpenPolis, appunto) dopo il 2000, per il 50% di centrosinistra e il 3 2% di centrodestra, concentrate al 60% nella capitale. 58

Da più parti si è cercato dunque di indagare all'interno di questi neo­ costituiti corpi intermedi (OpenPolis, 2015; Gatti, Sansa, 2012) oltre agli scopi, anche i risultati conseguiti, ma il fenomeno resta tuttora da decodificare. Importante sarebbe infatti capire se il travaso valo­ riale, relazionale e finanziario dal partito alla fondazione, risponda soltanto all'esigenza dei politici di garantirsi nuovi contenitori (in­ dividuali) destinati a sfuggire al controllo, oppure se effettivamen­ te l'origine dei pensatoi sia frutto della necessità di avere dei centri di elaborazione permanenti con funzioni che i partiti "leggeri" non possono più assolvere: una sorta di startupping o hubbing per gene­ rare innovazione da fuori, come fanno le imprese. Sottolinea Diletti . . ,. 1n un 1nterv1sta: A maggior ragione con la fine del finanziamento pubblico ai partiti [2017 ] , non è più rimandabile fare chiarezza su tutti questi aspetti, perché molti think tank svolgono effettivamente un'intermediazione parallela rispetto ai partiti ma an­ che ad altri enti dal momento che non hanno quell' "istituzionalità pesante", an­ che se poi questa leggerezza a volte è debolezza della proposta o intermittenza delle stesse nel tempo, piuttosto che elaborazione permanente.

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3 . I poteri forti e la comunicazione debole

3.1. Il rip osizionamento delle associazioni di categoria Le associazioni di categoria che si occupano di rappresentanza per conto degli aderenti di un certo ambito (o sotto-ambito) economi­ co-produttivo, che un tempo avevano, insieme ai partiti, un ruo­ lo centrale in quella terra di mezzo della quale abbiamo già detto, stanno affrontando, negli ultimi anni, una faticosa riprogettazione del loro modello per rispondere alle nuove sfide e ai cambiamenti in atto. Non c'è associazione che non sia alla ricerca di una rior­ ganizzazione più funzionale per valorizzare la propria attività (e la propria immagine) e non essere marginalizzata all'interno del processo decisionale. La risposta più immediata è di norma l'allar­ gamento del pacchetto dei servizi proposti. Eppure, se da un lato, per non essere inghiottiti dal processo di disintermediazione in atto e dallo scetticismo dell'opinione pubblica, erogare servizi utili può essere un compito pertinente per un'associazione, dall'altro servono ben altri sforzi per avere un ruolo di primo piano e una capacità di influenza effettiva. Secondo Marco Cacciotto ( 2 0 1 0 ) , docente di Marketing politico all'Università degli Studi di Mila­ no e consulente strategico per organizzazioni politiche e sindacali, è prioritaria la questione del consenso, come per i partiti politici. «È la risorsa decisiva che i vari soggetti sociali e politici in campo devono cercare di conquistare per poter raggiungere i propri obiet­ tivi». Ma come? « Sapersi rappresentare per poter rappresentare gli interessi degli associati è importante. E usare la comunicazio­ ne in maniera efficace. Ma prima ancora di tutto questo, i corpi intermedi tradizionali devono chiedersi a che cosa servono oggi. Ed essere capaci di cambiare, se serve, completamente il modello. È un processo difficile ma è l'unico percorribile per non rischiare di fare il Blockbuster con Netflix ». Individuare messaggi chiari 61

che sappiano parlare a tutti i portatori d'interesse, sia dentro che fuori, ha a che fare ad esempio con la costruzione non tanto di un "marchio" quanto di una storia. L'importanza dello storytel­ ling non è un dato assodato soltanto per i politici alla ricerca di consenso elettorale o delle imprese che vogliono coinvolgere il consumatore in una relazione biunivoca ed emozionale: rafforza il senso di appartenenza e aiuta a condividere dei valori comuni, perciò si adatta perfettamente alla comunicazione delle associazio­ ni di rappresentanza. Se ne sono accorte Confindustria e il grup­ po Giovani Imprenditori della CNA (Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa), che hanno creato storie sull'impresa imitando le multinazionali, ma anche le P M I , che decidono di raccontarsi attraverso immagini o video che di­ ventano virali sui social network. «D'altronde la tendenza della comunicazione digitale è sempre più connessa al racconto», con­ ferma Giampaolo Colletti (2015). «Perché le storie comunicano, veicolano emozioni [ ... ] e creano nuove alleanze». Va da sé che la comunicazione non è l'unico aspetto che conta nel riposiziona­ mento di corpi intermedi che, per anni, sono stati caratterizzati da inerzia sia organizzativa che strategica, ma certamente può aiutare a diventare "lobby" in senso moderno. Che poi è stata la richie­ sta del mondo imprenditoriale al nuovo leader di Confindustria, Vincenzo Boccia, succeduto a Squinzi nel 2016 : un'associazione più lobbista e meno politica, capace di non farsi fiaccare dai par­ ticolarismi interni delle sue tante categorie e associazioni ( 241) e di essere più trasparente verso gli associati, il cui 90% è costituito da piccole imprese. Il pericolo, anche per la più grande e articolata associazione di rappresentanza italiana, è infatti quello dell'autore­ ferenzialità: far pesare il consenso delle federazioni che contano di più, piuttosto che arrischiarne la polverizzazione, non dà prova di democrazia e non genera fiducia da parte della base, che rischia di non sentirsi rappresentata; coinvolgere nell'azione di reclutamen­ to soggetti estranei al mondo produttivo (dalle banche alle ASL) può generare conflitto e allontanare aziende storicamente associa­ te. Mentre promuovere l'avanzamento delle più piccole e più agili, ascoltandone i bisogni e aiutandone i processi di innovazione, in 62

modo che possano contribuire al miglioramento del sistema nel suo complesso, porterebbe engagement e accrescerebbe la reputa­ zione presso l'opinione pubblica. La crisi delle associazioni di rappresentanza frena, tra l'altro, l' in­ novazione, quando potrebbe invece passare proprio attraverso quei contenitori naturali, senza doverne creare degli altri appositi. «NESTA [la charity anglosassone che vedremo meglio nel CAP. 6] in Inghilterra presiede al processo di innovazione con un network internazionale», ha spiegato Piero Bassetti, presidente della Fon­ dazione Bassetti, in occasione della rassegna " Wave" 2015, dedicata all'ingegnosità collettiva. «Il tema dell'imprenditorialità innova­ tiva dovrebbe essere più supportato da strumenti di dibattito cul­ turale e non solo» . E dell'innovazione del made in Italy, a basso tasso di scientificità e ad alto tasso di artigianalità, va da sé, dovreb­ bero occuparsi proprio le associazioni di categoria, sia in funzione della creazione di ecosistemi dedicati, sia in funzione del tema del finanziamento, cruciale in Italia. Lo sanno bene i dirigenti di CNA Lombardia la cui mission degli ultimi mesi è stata quella di costruire un dialogo tra il manifatturiero tradizionale e la manifattura 4 .0, in un territorio ad alto tasso di Jab lab. «L'associazione di categoria come contenitore di relazioni importanti e strumenti utili anche ai cosiddetti innovatori diffusi», postula Stefano Binda, area politiche del lavoro. E ne è convinto anche il direttore generale di Confcom­ mercio Francesco Rivolta, consapevole che, affinché l'associazione da lui diretta torni ad essere una spinta propulsiva per il Paese, deve saper cogliere il cambiamento e generare «efficienza intermedia», come scrive sulla sua pagina F B (23 marzo 2016; #corpintermedi #stato #rinnovamento #riforme). «Credo che siamo chiamati a costruire la Confcommercio del futuro [ ... ] . Vogliamo essere i pro­ tagonisti dell'innovazione e accompagnare le nostre imprese in un mondo che non è più in grado di fare a meno dell'innovazione di­ gitale» , ha detto in occasione del terzo appuntamento del "Club degli innovatori" (19 maggio 2016), il tavolo che Confcommercio ha creato per portare avanti il dibattito sul tema, nel quale ci si occupa dei luoghi del commercio, del rapporto con gli spazi della "Città che 63

cambia", degli strumenti più innovativi del settore (dai temporary stores ai distretti urbani). Per consentire alle sue piccole imprese di districarsi nella giungla degli appalti pubblici e assicurare trasparenza sfruttando l'innova­ zione possibile grazie al Web, Confartigianato ha invece costruito la piattaforma "Via alla gara", gratuita per gli associati, attraverso cui è possibile avere una mappa dettagliata di tutte le gare pubbliche che si svolgono in Italia e dei relativi esiti. Ma non è solo con l'innova­ zione digitale e la promozione di nuovi servizi, come dicevamo pri­ ma, che si recupera quel ruolo di guida e di tutela dei propri associati che, soprattutto le datoriali, sembrano aver smarrito. Un'altra causa sfidante sulla quale posizionarsi, che gli associati considerano una delega importante alle associazioni, è quella relativa al welfare inte­ grativo. Sia Confcommercio che Confartigianato, su questo tema, hanno recuperato un ruolo di intermediazione sostanziale rispetto al tema delle assistenze sanitarie integrative, l'una con CASAGIT e l'altra con San.Arti, cercando di interpretare i bisogni degli iscritti su una questione che rappresenta una partita fondamentale nella so­ cietà che si evolve. Anche l'associazione Federmanager vuole avere un ruolo da prota­ gonista e incidere nel dibattito pubblico, prendendo posizione sulle principali problematiche del nuovo capitalismo emergente. Lo ha chiarito il presidente Stefano Cuzzilla in occasione di una delle ul­ time assemblee nazionali di Federmanager (Roma, 6 maggio 2016): « Un grande corpo di rappresentanza deve mettere in atto strate­ gie e iniziative concrete nell'interesse della collettività per far sì che l'orologio della produttività torni a crescere. In una parola servono uomini della sintesi, capaci di lavorare per costruire il futuro». Al centro delle preoccupazioni di Federmanager c'è l' lndustry 4 .0, la rivoluzione digitale in atto che incide profondamente sui cicli pro­ duttivi e sulla catena di valore e inciderà sempre di più. E, accanto al cantiere tutto da costruire della Fabbrica 4 .0, c'è quello, non meno strategico, del nuovo welfare di secondo livello, sul quale sono chia­ mate a misurarsi tutte le associazioni di categoria, insieme alle im­ prese. Quel cantiere che oggi in Italia vale ancora molto meno che negli altri Paesi europei e che, per non lasciare migliaia di cittadini 64

nell'incertezza - 1 1 milioni di italiani nel 2 0 1 5 hanno rinunciato alle cure e alla prevenzione per motivi economici secondo il CENSIS e 1 0 milioni hanno fatto ricorso a 34 miliardi di "out of pocket", ossia spesa sanitaria privata (Sperandio, 2 0 1 6 ) - dovrà essere costruito in fretta, proprio attraverso l'intermediazione con i fondi sanitari.

3.2. Il sindacato tra crisi e voglia di selfie I sindacati sono ancora in grado di mediare tra la società e la politica? Tra lavoratori sempre più atipici e proprietà sempre più internaziona­ li e meno intercettabili? Rappresentano ancora gli interessi generali o soltanto sé stessi? Come potranno convincere l'opinione pubblica dell'importanza del loro coinvolgimento all'interno di una stagione di reale cambiamento sociale? E riavviare un nuovo metodo concer­ tativo? Quel che è certo è che si tratta dei corpi intermedi più dele­ gittimati in assoluto, stretti tra la necessità di non parlare di politica e il continuo rischio di sconfinarvi. Con una comunicazione sempre in bilico tra i totem del Novecento e le tentazioni da socia! network. La sintesi sta tutta nella risposta del leader della CGIL Susanna Camusso all'ex presidente del Consiglio e segretario del PD Matteo Renzi che, sull'art. 1 8 della Costituzione (in chiusura della Leopolda del 2 0 1 4 ; cfr. PAR. 1 .5 . 1 ) , aveva dichiarato: «È una regola degli anni Settanta, che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2 0 1 4 , è come prendere un iPhone e dire dove metto il gettone? Come pren­ dere una macchina fotografica digitale e provare a metterci il rulli­ no. È finita l'Italia del rullino». «Anche noi sappiamo fare i selfie come il presidente del Consiglio», aveva contrattaccato la Camus­ so restando nella metafora della contrapposizione vecchia e nuova tecnologia. « Ci pare che sia lui ad avere un problema: non sa ma­ neggiare la memoria che è invece una cosa importante per imparare rispetto al futuro». Che i sindacati dovessero capire che «la musica è cambiata» (Askanews, 2 0 1 5 ) e la cinghia di trasmissione tra partito e sindacato fosse rotta da tempo era già un dato certo; eppure il livello di scontro tra i leader della CGIL e i capi di partito non è mai stato così alto nel passato, anche se i rapporti della CGIL con i segretari 65

sono sempre stati piuttosto complicati (da Di Vittorio e Togliatti a Cofferati e D'Alema). E, certo, non era mai accaduto prima che i sindacati sostenessero dei referendum contro le principali riforme di un governo di sinistra. Ma, mentre la CGIL si fa, ogni giorno di più, contenitore del dissenso e coltivatore dell'indignazione di alcu­ ni pezzi di società che un tempo erano parte naturale del bacino della sinistra (dagli operai agli insegnanti), la CISL con i suoi 4.29 8.000 tesserati cerca un nuovo dialogo con la società, da impostare sulle ceneri del post-Bonanni, lontano dalle posizioni referendarie della CGIL e ripartendo dai luoghi di lavoro. «Abbiamo da recuperare un ruolo educativo, aggregante e propositivo tra i lavoratori che li tenga lontani da populismi e xenofobia», ha postulato Marco Bentivogli, segretario generale di FIM-CISL. Il rischio è ben chiaro ai sindacati, che paventano di essere travolti dalla stessa onda che sta sommergen­ do i partiti. Per il segretario generale della CISL Annamaria Furlan (2016), che si ripresenterà al congresso per essere rieletta e continuare il mandato iniziato nel 2014: La società italiana ha viaggiato verso una verticalizzazione del potere [ ... ] in una continua ricerca di leadership forti, ma non sempre con una chiara legittima­ zione sociale. Il risultato è stato una sottovalutazione del ruolo dei corpi inter­ medi che intercettano ogni giorno i reali bisogni e le esigenze dei cittadini, delle famiglie, dei lavoratori, dei giovani, delle imprese, delle persone più deboli. Se c'è una cosa che mette a rischio la democrazia "sostanziale" è quando le persone non si sentono determinanti e protagoniste. Ecco perché solo un grande "patto sociale" può oggi farci recuperare il rapporto con la gente ed evitare il rischio degli opposti populismi.

Recuperare il rapporto con la gente significa anche recuperare fiducia nell'opinione pubblica: la fine dell'era Bonanni e lo scandalo degli stipendi d'oro dei dirigenti della CISL hanno portato al cambio di leadership, alla modifica dei regolamenti e alla graduale sostituzione dei vertici, sotto la pressione dell'indignazione della base. E il nuovo segretario generale ha ricevuto un incarico ben preciso sin dal suo in­ sediamento, recuperare l'anima vera della CISL, e ha promesso, già nel 2014, una svolta radicale: «Abbiamo imboccato la strada della tra­ sparenza [ ... ] . Metteremo tutto su internet» ("Il Messaggero", 2015). 66

Recidere i legami con l'era precedente, in realtà, non è un'operazione facile (per nessuno dei corpi intermedi che devono rigenerarsi, come vedremo più avanti) e non ha a che fare solo con una più o meno efficace gestione della comunicazione, bensì con il riannodare il filo con le categorie e i territori, promuovere solidarietà e giustizia; ascol­ tare davvero i bisogni per farsene portatori d'interesse generale in un mondo del lavoro sempre più frammentato; erogare servizi insostitui­ bili. Pur tuttavia, la comunicazione ha una sua rilevanza. Lo hanno capito anche i sindacati, tanto che l'esortazione un po' provocato­ ria di Antonio Belloni (2015) a «studiare il marketing per non essere "asfaltati" o più elegantemente disintermediati», dopo le case history degli scioperi di Pompei e del Colosseo (diventate emblematiche per­ ché l'opinione pubblica si è schierata con i turisti e non con i lavorato­ ri che protestavano), ha generato un vivace dibattito tra gli addetti ai lavori: « spesso si sottovaluta, fuori dal mondo sindacale, il difficile la­ voro di governo del conflitto, di allargamento del consenso e di ricer­ ca della migliore soluzione possibile. Un'attività che spesso non ha i tempi subitanei dei social ma che richiede tempo e dedizione. Ed è su questo scarto che bisogna lavorare, ma senza cedere all' iperattivismo dei Troll» (Saccaia, 2015); «La riflessione sollevata è senz'altro im­ portante: una parte del rinnovamento sindacale riguarda la capacità di divulgare il suo operato e la sua immagine in maniera più efficace e strategica. Ma prima del marketing [ ... ] viene la comunicazione intesa come organizzazione, relazione e progettualità [ ... ] . La comunicazio­ ne con la base resta dunque il fulcro della strategia sindacale [ ... ] . Le potenzialità insite in sé nei social network non sostituiscono tuttavia il rapporto diretto con i lavoratori» (Brudaglio, 2015). Se davvero è finita, in Italia, l'era della concertazione, via via conside­ rata dal decisore pubblico un metodo di mediazione troppo lento e oneroso (dal Governo Monti al Governo Renzi), i sindacati, insieme alle altre parti sociali, devono scegliere se diventare delle "agenzie a chiamata" solo su singole questioni; andare allo scontro diretto con il governo, con il rischio di perderlo ed essere definitivamente con­ dannati all'irrilevanza; oppure essere portatori di un altro modello di partecipazione, per il conseguimento del bene comune, che si collo­ chi all'interno di un nuovo scenario d'azione (Carbone, 2014). 67

La contrapposizione di sindacato e governo tra vecchi metodi e nuo­ ve prassi si è giocata negli ultimi anni anche su partite meno sim­ boliche dell'art. 18 o del Jobs Act. Persino sulla compilazione delle dichiarazioni dei redditi è andato in scena lo stesso film, quello di un governo che spingeva sull'innovazione e di un sindacato che tirava il freno, rischiando di passare, non per chi guarda le spalle del con­ tribuente, ma per chi tutela le "lobby dei CAF". Dal 2 0 1 5 infatti, per pensionati, lavoratori dipendenti e parasubordinati è stato possibile scegliere di scaricare online il Modello 7 3 0 precompilato (e per liberi professionisti e partite IVA dal 201 6 il Modello Unico) e bypassare l'assistenza fiscale di CAF e professionisti, inviando la dichiarazione dei redditi direttamente all'Agenzia delle Entrate. Sia nell'annualità 2 0 1 5 che in quella 2 0 1 6 , tuttavia, mancavano alcuni dati per poter beneficiare di tutte le detrazioni e, in aggiunta, l'operazione non ri­ sultava né facile né del tutto sicura, un po' a causa del fatto che non è stata perfettamente concepita, un po' a causa dell'analfabetismo digitale di una parte dei contribuenti che si è arenata già in fase di richiesta del PIN. Proprio sul pericolo di commettere errori e perdersi tra PIN e login, i CAF hanno costruito una campagna di comunica­ zione anti-precompilato che ha avuto grande risonanza, mettendo al centro la loro rassicurante funzione di assistenza al lavoratore in dif­ ficoltà. Si va da slogan come «Per noi non sei solo un numero. Metti al sicuro il tuo 7 3 0, vieni al CAF CISL» , a «Pensi di farcela da solo? Ma quando mai. lo torno al CAF CISL» , sino a «Non dare retta a i' che dice Renzino, il 7 3 0 'un lo porta i' postino» ( CAAF CGIL Tosca­ na). Sull'assistenza fiscale, va detto, le lobby antigoverno sono state trasversali: non solo il sindacato si è arroccato sulla difesa della legit­ tima intermediazione; pure ACLI e CNA non hanno rinunciato senza combattere al "tesoretto" dei contributi (e alla tutela del lavoratore alle prese con il nuovo fisco digitale, s'intende), come si evince dai ri­ spettivi spot pubblicitari: « CAF ACLI: istruzioni 7 3 0 precompilato, certe cose è meglio farle in 2 ! » . «Per chi è a digiuno di computer e fisco non sarà facile. I CAF CNA contro rischi e incombenze». E mentre i sindacati perdevano il contatto con il Paese reale, soprat­ tutto con la fascia più giovane, in Rete "La Repubblica degli Stagisti", una testata giornalistica online fondata nel 2 0 0 7 da Eleonora Vol68

tolina, si è evoluta nel contenitore delle istanze che nessuno ha mai ascoltato (come il Bollino " o K Stage", creato sul modello di un mar­ chio delle agenzie di rating), divenendo un luogo di dibattito per­ manente per diversi temi del mondo del lavoro e un soggetto attivo ai tavoli e alle audizioni parlamentari e regionali, proprio come un nuovo corpo intermedio con delega a trattare le diverse issues relative al lavoro (da Garanzia Giovani a Dote Lavoro). « Gli stagisti non sono lavoratori ma lo diventeranno», afferma Eleonora Voltolina. «Abbiamo fatto advocacy e promosso cambiamenti normativi ma non costituiamo un altro sindacato. Mettiamo il nostro know how al servizio delle policies per implementarle, monitorarle ed eventual­ mente criticarle». Più che un sindacato degli stagisti, RDS è infatti un think tank molto operativo (i cui portatori d'interesse sono in primis i giovani e poi gli altri corpi intermedi e la politica), che ha promosso un cambiamento normativo affatto scontato ed è ora im­ pegnata in un'attività di monitoraggio costante sui risultati effettivi avviati dalle diverse normative regionali.

La responsabilità d' impresa in società postsindacali La relazione tra datori di lavoro e lavoratori tende a scavalcare sempre di più i sindacati e le tradizionali forme di trattativa, anche attraverso forme referendarie che coinvolgono l'intera popolazione aziendale, mentre l' Industry 4.0 sta cambiando il sistema produttivo che ha ca­ ratterizzato le organizzazioni del lavoro sino ad oggi e accorciando la catena di valore: un processo destinato a mutare anche i rapporti con fornitori, clienti, totalità degli stakeholders. II cosiddetto quarto capitalismo, ossia quello che stiamo attraversando, si basa su un nuo­ vo tipo di relazioni industriali che tengono assieme territorio (come abbiamo visto nel PAR. 1 . 2 ) , accordi aziendali, iniziative differenziate con una più decisa impronta sociale, moderne forme di partecipa­ zione alla produttività e personalizzazione dei contratti. In questo quadro di rinnovamento non sempre il sindacato è stato in grado di cogliere il senso profondo dei cambiamenti in atto, arroccandosi più spesso su un tipo di relazione improntata a paradigmi novecenteschi. Secondo Francesco Rotondi, partner dello studio legale LabLaw, specializzato in diritto del lavoro: «Nonostante la conflittualità per3.2.1.

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cepita a livello nazionale, in azienda si registra una generale tendenza alla collaborazione, considerato che le [nuove] misure portano be­ nefici per tutti» (Dell'Olio, 2016b). Come dire, le maggiori criticità stanno proprio sul canale: sono i mediatori più che i destinatari delle proposte a trincerarsi su posizioni di rigidità assoluta, piuttosto che accettare la sfida, che è quella di spostare una buona parte della con­ trattazione dal livello nazionale a quello aziendale. Anche la partita del welfare aziendale per tutti può aprire la strada, per le parti sociali, a una nuova collaborazione. Il fatto che l'azienda diventi un soggetto surrogante rispetto allo Stato nell'erogazione di servizi e di benefi­ ci per i lavoratori/ cittadini, risponde al principio di responsabilità sociale d'impresa e potrebbe anche portare a miglioramenti più ge­ nerali nell'efficienza complessiva del sistema, oltre che tamponare bi­ sogni collettivi sempre più diffusi (beni, servizi, piani di previdenza integrativi, strumenti di conciliazione). A partecipare a questa spe­ rimentazione collettiva non sono soltanto multinazionali o grandi imprese (da Vodafone a Ikea, da Luxottica a Brunello Cucinelli) che hanno mutuato esempi internazionali: sempre più soggetti si stan­ no muovendo in questa direzione e sono ormai centinaia gli accordi chiusi, dato che il legislatore ha dato una spinta a queste iniziative (con la legge di stabilità del 28 dicembre 2015, n. 208, il welfare azien­ dale è diventato più conveniente). Come scrive T iziano Treu (2016), già ministro del Lavoro e della previdenza sociale (19 9 5-9 8): L'obiettivo a mio avviso non è di sostituire spesa pubblica con spesa privata ma di mobilitare risorse aggiuntive per rispondere a bisogni altrimenti destinati a restare insoddisfatti. D'altra parte le esperienze testimoniano che i vari benefit possono contribuire positivamente non solo alla produttività aziendale e al be­ nessere dei lavoratori, ma anche al clima generale delle relazioni industriali e, se diffuse adeguatamente, all'efficienza complessiva del nostro sistema.

Nell'ottica dell'impostazione di un nuovo dialogo tra lavoratori e azienda sono state recentemente introdotte dal legislatore (con il Jobs Act, la legge di stabilità per il 2016 e il decreto interministeria­ le Poletti-Padoan del 25 marzo 2016) anche nuove misure che fissa­ no gli incentivi, basati su criteri di misurazione e verifica, con cui le 70

aziende possono realizzare il coinvolgimento paritetico dei lavorato­ ri all'interno di un'organizzazione. Lo scopo è quello di migliorare la produttività e spingere sull'innovazione, proprio facendo parte­ cipare ai processi il maggior numero possibile di attori. Una visione del tutto nuova, rispetto al verticalismo delle strutture che ha carat­ terizzato sin qui la maggior parte dell'impresa italiana, e che, negli Stati Uniti, è giunta sino alla formula dell'"olocrazia", un modello di autorganizzazione molto dibattuto nella letteratura manageriale contemporanea, divenuto punto di riferimento delle task farce d'in­ novazione (Bernstein et al., 2016) : I loro sostenitori descrivono queste forme [ di olocrazia] come ambienti orga­ nizzativi piatti che promuovono la flessibilità, il coinvolgimento, la produttivi­ tà e l'efficienza. I detrattori dicono che si tratta di esperimenti sociali ingenui e irrealistici. Di solito conviene usare un approccio diversificato. Le organizza­ zioni possono usare elementi di self management in aree in cui c'è una forte esi­ genza di adattabilità e modelli tradizionali dove conta soprattutto l'affidabilità.

La parola d'ordine dell'impresa oggi è dunque "coinvolgere" nel pro­ cesso produttivo il maggior numero di stakeholders; nelle forme più sperimentali questo coinvolgimento non si ferma soltanto ai primi portatori d'interesse, ovvero i dipendenti, ma si allarga a una dimen­ sione partecipativa più ampia. Come sta facendo il Gruppo Casio, che ha scelto di far progettare i nuovi modelli di orologi del brand G­ Shock dagli utenti. Il "collaboration model" si basa sulla progettazio­ ne socia! dell'oggetto: attraverso i socia! media gli users diventeranno parte attiva del processo creativo fornendo idee e critiche attraverso i propri commenti. «Il ruolo dell'engagement degli utenti della Rete è fondamentale, lo scopo è quello di coinvolgere la community » si legge in una nota aziendale. Del resto, stanno prendendo forma diversi esempi di "extended en­ terprise" nel mondo. «Vuol dire aprirsi a una serie di attività inno­ vative, che vanno dalla comunicazione Web 2.0 con i propri clienti, alla condivisione della propria supply chain con i propri fornitori; all'implementazione degli "shared services centers" per fare leva su economie di scala tramite fabbriche esterne per potere "campo71

nentizzare" la catena del valore » spiega Salvatore Anello (201 1 ) , managing director di Accenture. A partire dai grandi gruppi, come Generai Electric, i modelli organizzativi concepiti per ripensare e allargare i confini d'impresa potrebbero presto essere applicati alle piccole e medie imprese. Le metodologie di relazione alternative, verso tutti gli interlocutori, che caratterizzano questo modello, pre­ suppongono filiere diverse da quelle attuali: aperte, interconnesse e destrutturate. L'ENI che, come abbiamo visto, ha fatto della comu­ nicazione uno strumento importante nella ridefinizione delle sue strategie di business, ha dato vita a una community di migliaia di utenti con un enorme potenziale comunicativo, intorno alla crea­ zione di una app per la smart mobility per la gestione del car sharing Enjoy. Non saranno i carburanti le risorse del Terzo Millennio, ma i giacimenti di dati che le imprese sapranno raccogliere spontanea­ mente dai propri portatori d'interesse.

3.3. L'Associazione nazionale magistrati sedotta da Twitter Da una recente indagine del CENSIS sull'avvocatura (Rapporto annua­ le sull'avvocatura italiana, del 201 6 ) risulta che, per il 75% degli italia­ ni, il sistema giudiziario non garantisce pienamente la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Addirittura, per oltre la metà del campione (il 57%) c'è stato un peggioramento nel tempo e, tanto è maggiore il livello di istruzione dei cittadini, tanto più basso è il livello di fiducia verso la giustizia, a quanto ci dice l'indagine. Il 5 1 % ha rinunciato alla tutela di un suo diritto proprio a causa di questa sfiducia di base nel sistema (lo avrebbe fatto almeno una volta oltre il 50% dei diplomati e laureati, contro "solo" il 3 8 % dei cittadini con la licenza media). E tut­ tavia, sempre la medesima fotografia scattata dal CENSIS ci restituisce l'immagine di un'Italia ambigua, per la quale, nella classifica delle pro­ fessioni d'eccellenza, dopo i medici (indicati dal 3 7 % del campione), al secondo posto si collocano proprio i magistrati (25 % ) e comunque resistono, nella top ten, gli avvocati (9% ). Anche perché, per il 6 0% degli italiani, la figura e la professione dell'avvocato è danneggiata proprio dal cattivo funzionamento del sistema, non dalla bassa qualità 72

professionale. Siamo sempre lì: prestigio e reputazione per i magistrati e gli avvocati, sfiducia nel sistema nel suo complesso. È un frame che abbiamo già visto per altri ambiti e ci obbliga ad aprire una finestra di analisi sull'ANM stretta, come gli altri corpi intermedi, tra il rischio di una deriva corporativa e quello dell'irrilevanza e sedotta da metodi comunicativi sempre meno istituzionali. L'ANM ha ben capito che, per non essere travolti, come gli altri corpi intermedi, dall'azione disinter­ mediante in atto, occorreva scegliere un leader che sapesse usare tre armi altrettanto appuntite per far breccia nella pancia molle dell'opi­ nione pubblica italiana: la semplificazione, la polarizzazione, la bana­ lizzazione. Pier Camilla Davigo, già noto al grande pubblico come il magistrato simbolo di Mani Pulite e dunque già icona pop della stagio­ ne delle manette, ha sempre bucato lo schermo, ma ha saputo adattarsi, nel passaggio dal berlusconismo al renzismo, anche al cambio di passo e di paradigma che i nuovi strumenti e i nuovi politici richiedevano. «Nuovo codice appalti? Tutta roba che non serve a niente. #Davigo» (16 giugno 2016, @ilfattoquotidiano.it); «Per anni ogni volta che in­ dagavo un politico iniziava una folgorante carriera politica [ ... ] #Da­ vigo» (10 giugno 2016, @lucapagni#giovaniconfindustria); «Non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» ( Caz­ zullo, 2016); «Servono leggi anticorruzione. Non alzare le pene se non sai a chi darle #Davigo» (19 giugno 2016, @skytg24#canale50); In Onda @InOndaLa7 «In Italia la legge tutela più chi la viola che chi subisce la violazione» #Davigo#inonda@La7tv; «L' #Anac non combatte la corruzione. I suoi poteri non c'entrano con la repressio­ ne della corruzione #Davigo» (1 1 giugno 2016, @ilfattoquotidiano. it): pur non avendo un account Twitter l'hashtag #Davigo ha nu­ meri e riscontri da capogiro sul medium fondato da Dorsey. E le sue dichiarazioni, oltre ad essere sempre ficcanti e sensazionali, stanno dentro ai 140 caratteri. Che il magistrato fosse un formidabile comu­ nicatore era già chiaro ai tempi di Tangentopoli; che i suoi messag­ gi fossero così in linea con lo spirito dei tempi non lo si sospettava. Come ben descrive Donatella Stasio (2016): La semplificazione estrema del linguaggio conduce spesso alla banalizzazione e alla contrapposizione (a volte anche alla manipolazione), eppure sembra l'uni-

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ca strada per veicolare messaggi che, per la loro complessità, richiederebbero in­ vece riflessione, argomentazione, tempo. Ergo: esisti soltanto se stai nel recinto di un tweet, nei secondi di una risposta da talk show, nelle battute di un titolo di giornale. Sempre che dentro ci siano anche gli ingredienti della polemica. Tutto il resto è noia [... ] . Ovviamente, gli interventi di Davigo negli ultimi venticin­ que anni vanno ben oltre la battuta e sono ricchi di contenuti [... ] . Oggi, però, cambiano il ruolo, la platea, gli interlocutori.

Come dire, oggi che rappresenta un'associazione corporativa, per avere voce, l'unico sistema è questo. Eppure di cantieri aperti, sui quali discutere, fuori e dentro il perimetro dell'associazione, ce ne sarebbero parecchi, a partire dalla linea associativa, per arrivare ai dibattiti sulle principali riforme, sui quali l'ANM è chiamata a espri­ mersi nelle sedi deputate, lontane dai video e dai social network con i quali si riempiono poi i titoli dei giornali del giorno dopo. L' iden­ tità della magistratura italiana, i suoi valori, le sue prese di posizione intorno ai problemi del nostro tempo dipendono anche dai conteni­ tori di comunicazione che si scelgono. Come per gli altri corpi inter­ medi, la deriva corporativa è sempre dietro l'angolo ed è gravida di conseguenze, non solo per i magistrati, ma, come sempre, per lo stato di salute della Repubblica.

3.4. Il mondo coop erativo alle prese con la sharing economy Per combattere l'inerzia organizzativa e in alcuni casi l'irrilevanza, una strada già percorsa dal mondo della rappresentanza francese è quella dell'unificazione. La nascita di Rete Imprese (che riunisce sotto un unico ombrello Confcommercio, Confartigianato, Con­ fesercenti e Casartigiani) per dare voce a tutto il vasto e variegato mondo della PMI italiana, ma anche gli accordi interconfederali già firmati da Legacoop, Confcooperative e AG CI vanno nella stessa di­ rezione. Poi, dal 2 0 1 1 , è partito il lungo e difficile percorso dei tre soggetti rappresentanti il mondo cooperativo italiano per dar vita a una rappresentanza unica, l'Alleanza delle Cooperative italiane: «È la risposta della cooperazione e dei cooperatori alla più grave crisi economica e sociale degli ultimi 8 o anni», aveva detto Mauro Lu74

setti, presidente di Legacoop, in occasione della presentazione del "Manifesto per un'economia pulita" (1° ottobre 2014). «Abbiamo perciò gettato le basi per realizzare il più innovativo progetto di ri­ organizzazione della rappresentanza in Italia. Lo abbiamo fatto per­ ché la cooperazione avverte la responsabilità del momento storico che il Paese sta vivendo». « Con l'Alleanza delle Cooperative diamo alla politica la possibilità di confrontarsi con un soggetto rappresen­ tativo in grado di dare voce a 43mila imprese, 1,2 milioni di occupati e 12 milioni di soci», ha puntualizzato nella stessa occasione Rosa­ rio Altieri, ca-presidente AGCI. Il manifesto, oltre che mettere al centro la legalità e la lotta alle false cooperative che tanto hanno danneggiato la reputazione del mon­ do della cooperazione, ha avuto il valore di entrare nel dibattito dettando un'agenda per punti per dare fiato a lavoratori e famiglie attraverso impegni concreti: "rispetto e responsabilità", "pulizia e trasparenza", "autonomia e indipendenza", "onestà e regole", "comu­ nità e persone". Il patto tra le sigle rosse, le sigle bianche e quelle verdi, che è già stato denominato "Alleanza 3.0", si struttura come un interlocutore unitario (del valore di circa 140 miliardi) con il compito di rilanciare la cooperazione ripartendo da «legalità, indi­ pendenza dalla politica e innovazione»: eccole le parole chiave del nuovo corso. E se della prima (legalità) abbiamo già detto, a partire dal "Manifesto per un'economia pulita", sulle altre due occorre fer­ marsi un momento. Come qualsiasi altro corpo intermedio, anche il mondo cooperativo è entrato in rotta di collisione con la politica, in occasione della riforma sulle banche cooperative. Il parziale coin­ volgimento iniziale della rappresentanza delle cooperative sul pro­ getto di legge che cambia il volto del credito cooperativo italiano ha reso il percorso tortuoso e portato avanti una disputa durata mesi: da un lato, le ragioni della politica sull'adeguamento del sistema al nuovo mercato europeo e ai bisogni emergenti; dall'altro, la difesa delle peculiarità distintive del modello italiano in essere da decenni. La legge 8 aprile 2016, n. 49, ha prodotto infine un punto di svolta all'interno di una storia ultracentenaria attraverso il completo ridi­ segno dell'architettura del sistema cooperativo mutualistico fram­ mentato, vigente dal XIX secolo. 75

Per quanto riguarda la terza parola chiave del nuovo corso, ovvero "innovazione", il movimento cooperativo sta facendo i conti con le tecnologie del XXI secolo e le piattaforme collaborative, mettendosi a confronto con gli esempi più tipici della sharing economy (che ana­ lizzeremo più in dettaglio nel CAP. 5). Il modello mutualistico delle cooperative ha molto in comune con le pratiche condivise che na­ scono dal basso, consentendo uno scambio tra pari di beni e servizi senza aggravio di costi e spesso in ambito di gratuità; molto meno con le pratiche di quella economia disintermediata che, più che sharing economy, è rental economy. «La piattaforma Airbnb (per la ricezio­ ne turistica) mette sì in relazione una comunità di pari che offrono e affittano abitazioni, ma è controllata centralmente ed è il centro che ne trae i massimi profitti» (Scuola Coop, Seminario Oltre il confi­ ne, 2 3 giugno 2 0 1 6 ) . Le forme cooperative, invece, possono prendere spunto dai modelli collaborativi per innovare, a partire dal platjòrm cooperativism (come suggerisce il teorico Trebor Scholz, New School of New York) con una forma emergente di distribuzione di servizi, di cui esistono già alcuni esempi nel mondo che costituiscono la rispo­ sta collettiva alle piattaforme distributive proprietarie. «In Germania "Fairmondo" ha avviato un negozio online di proprietà degli utenti che, con i suoi 2 . 0 0 0 membri, aspira a diventare la vera alternativa ai grandi attori dell'e-commerce » esemplifica Scholz, che continua: «Janelle Orsi ha invece pensato a una piattaforma cooperativa simile a Airbnb controllata da persone che affittano spazi ai viaggiatori e altre piattaforme prosumers stanno nascendo come risposta a piatta­ forme monopolistiche che attirano gli utenti con la promessa del ser­ vizio gratuito e monetizzano i loro dati e contenuti». La piattaforma cooperativa come modello, non tanto come dispositivo tecnologico che disintermedia la distribuzione, può dare dunque nuova linfa all'e­ conomia solidale sulla quale si basa il sistema mutualistico italiano? Secondo Vanni Rinaldi, responsabile Ufficio Energia Ambiente e Innovazione di Legacoop, nel DNA del movimento cooperativo c'è l'innovazione, sin dal XIX secolo. «È un tratto distintivo, perciò que­ sta innovazione delle piattaforme di scambio, per mettere a fattor comune asset di vario genere, ci interessa molto. Però, mentre alcuni attori della sharing economy, da Airbnb a Uber, hanno portato avanti 76

soltanto un'innovazione di processo, a noi interessa sviluppare un'in­ novazione di modello: da quello proprietario a quello cooperativo» . L'idea è proprio quella di trasferire tecnologia dentro la cooperazio­ ne, lasciando che a sorreggere l'impalcatura siano i solidi principi etici che hanno sostenuto il movimento già dal XIX secolo e che, da gennaio 2 0 1 7, con la somma delle sigle, conta 1 2 milioni di soci. «Per le unioni dei contadini del primo Novecento gli assets da mettere a fattor comune erano gli strumenti agricoli; per i consumatori delle Coop sono diventati i supermercati e per i prosumers del XXI secolo si tratta delle piattaforme digitali: cambiano solo le infrastrutture ma i principi restano gli stessi », aggiunge Rinaldi. Andrea Rapisardi, coautore della ricerca Dalla sharing economy all 'eco­ nomia collaborativa (Como et al., 201 5 ) e fondatore della cooperativa LAMA e di un hub innovativo (Impact Hub di Firenze), specifica me­ glio gli ambiti di intersezione tra cooperative e soggetti dell'economia collaborativa: «La tecnologia digitale potrebbe portare grandi van­ taggi in ambito produttivo, comunicativo, di governance e di gestione dei dati. Piattaformizzare la cooperativa, non cooperativizzare la piat­ taforma », puntualizza. E continua: «Alcuni degli strumenti di cui si serve da sempre la cooperazione sono quelli della sharing economy, con­ siderata tanto cool in questo momento» . Così cool da essere definita attrattiva dal 48% degli italiani (dati Consumer Life, GfK). «Perché in termini capitalistici è molto scalabile: si rivolge a milioni di utenti in tutto il mondo, non ha costi fissi enormi né costi logistici particolari», sintetizza Rapisarda. «Le cooperative però non devono fare copia e in­ colla dalle piattaforme ma usarle per l'innovazione, per creare e gestire nuovi servizi». Questa intersezione tra due mondi apparentemente vicini sarebbe dunque auspicabile per la crescita di entrambi.

3.5 . I corp i intermedi e la legislazione europ ea In base al principio di Archimede il peso dei corpi immersi in un fluido incide su una delle tre casistiche contemplate nella famosa leg­ ge della fisica da lui postulata: andare a fondo; restare in equilibrio; galleggiare. Fuori dal liquido e fuor di metafora, che peso hanno 77

oggi i corpi intermedi che agiscono una rappresentanza in un conte­ sto sovranazionale tra spinte verticali e ricerca di equilibrio? Come possono stare a galla e avere voce nell'era della sovraterritorialità, portando avanti gli interessi di un gruppo? La direttiva Bolkestein (2006/123 / C E del 12 dicembre 2006), in questo senso, è stata una palestra formidabile per diverse associazioni di categoria e sindacali che hanno dovuto misurarsi con dinamiche più ampie e interessi di ordine superiore. La direttiva dell'Unione Europea relativa ai servizi nel mercato comune ha superato i dieci anni di vita, ma ancora fa discutere. Basandosi sul principio dell'equiparazione dei cittadini di tutti i Paesi europei e della limitazione del potere degli Stati, e intro­ ducendo elementi di liberalizzazione e di competizione, nuovi per tanti settori, è stata attaccata sin dall'inizio da chi, sia da destra che da sinistra, si è posto in difesa degli interessi particolari e nazionali. I due maggiori gruppi che l'hanno portata all'approvazione (popolari e socialisti) hanno dovuto accettare deroghe e compromessi, stretti tra le richieste di governi, Regioni e lobbisti in difesa dell'interesse pubblico, della tutela dei lavoratori, della protezione dei consuma­ tori e, soprattutto, dei prestatori di servizi esistenti. In tutti questi anni diversi amministratori locali e parlamentari hanno cercato, poi, a colpi di regolamenti, di emendamenti o di richieste al governo, di proteggere le rendite di posizione di alcuni gruppi, facendosi inter­ preti della domanda che arrivava dalle varie associazioni di categoria attive sui territori o dagli imprenditori stessi. Dagli ambulanti agli esercenti degli stabilimenti balneari è stato un fiorire di manifesta­ zioni e slogan, alla ricerca di deroghe ed eccezioni. «Andiamo al di là dei sindacati, fuori dalla Bolkestein», «La Bolkestein non ti può distruggere» (Comitato spontaneo Ambulanti, 14 maggio 2015; 24 settembre 2015); «La Marcia dei silenziosi contro la direttiva Bolke­ stein per stralciare il settore degli ambulanti dalla sua applicazione, è stata una grande iniziativa di mobilitazione» (Associazione Imprese Oggi, 10 giugno 2016). Circa 200.000 microimprese di ambulanti hanno cercato di mettere in sicurezza i propri "posteggi" che, secondo la direttiva, avrebbero dovuto essere messi a gara (a partire dal 2017) invece che essere tra­ mandati di padre in figlio. E le trattative delle associazioni di cate78

goria, che raccolgono gran parte degli ambulanti italiani, non sono state sempre portate avanti da un fronte compatto: diversi comitati si sono formati in tutte le Regioni ai margini delle organizzazioni principali, APECA-FIVA (Confcommercio) e ANVA (Confesercenti), rifiutando loro una delega in bianco e accusandole di agire solo in funzione del tesseramento e di compiere azioni prive di efficacia nel contesto europeo, ottenendo risultati meno tutelanti per i propri iscritti rispetto agli altri partner dell'Unione. Alcuni atti d'indirizzo e interrogazioni, da parte di Regioni e parlamentari, hanno quindi fissato e raccolto queste istanze per portarle al Parlamento e chiedere che si facesse carico di agire presso la UE per un'ennesima deroga a protezione del settore. Lo stesso film è andato in scena nel settore delle concessioni degli stabilimenti balneari. L'Europa ha contestato la norma salva stabilimenti del governo ita­ liano che aveva prorogato sino al 2 0 2 0 la scadenza delle assegnazioni sull'arenile demaniale perché, anche in questo caso, la regola pre­ vedeva l'obbligatorietà di aprirsi alla concorrenza internazionale. Come i 2 0 0. 0 0 0 ambulanti, anche le 3 0. 0 0 0 imprese balneari che operano sul territorio italiano hanno cercato, sin dal 2 0 1 2 , di mette­ re in sicurezza il loro business, per quanto coscienti della condizione di illegittimità e precarietà nella quale si trovano a operare dall'av­ vento della Bolkestein. Supportate da FIBA-Confesercenti, SIB e Oasi balneari-Confartigianato, forti del braccio di ferro già portato avanti con la Corte Europea da Portogallo, Croazia e Spagna e blan­ dite trasversalmente da vari gruppi parlamentari, hanno definito le proprie attività come vitali per l'interesse nazionale, per i territori e per l'economia del Paese. E, pur di non perdere il consenso delle lobby, qualche politico non ha invece esitato a proporre di cedere direttamente le spiagge ai concessionari (proposta di legge promos­ sa da Forza Italia nel 2 0 1 6 , a firma Abrignani, Brunetta, Bergamini, Laconico). Ma, fuori dal perimetro della Bolkestein, sono decine ogni giorno le richieste di deroga o di tutela del particolare di fron­ te a possibili abusi di posizione dominante che i rappresentanti dei portatori d'interesse pongono in sede di legislazione comunitaria, nazionale e regionale: dagli orologiai riparatori ai cacciatori, sino 79

ai produttori di armi. Questi ultimi, rappresentati da ANPAM Con­ findustria e CONARMI, con 11.000 addetti, un valore produttivo di 700 milioni di euro e un contributo di 200 milioni di euro al saldo import-export (fonte: IEACS 2014), chiedono da sempre alle Regio­ ni e al governo di agire presso la UE al fine di fluidificare il sistema, accelerare la tempistica di rilascio delle autorizzazioni (che farebbe perdere loro quote di mercato rispetto ai competitor extraeuropei), snellire il sistema delle esportazioni. Le associazioni di categoria hanno fatto pressione a più livelli per chiedere la sburocratizzazione di un settore da loro definito « strategico per il tessuto produttivo manifatturiero italiano» (N. Perrotti, in P. Pedersoli, Osservazioni sulle problematiche burocratiche legate alle esportazioni del settore pro­ duttivo armiero, ANPAM-CONARMI, 3 0 ottobre 2014, Audizione in IV Commissione Attività produttive e occupazione, Consiglio re­ gionale della Lombardia).

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4. Individualismo, nuove fratture sociali e ricette di civismo

4.1 . Senso civico, p artecip azione e neorappresentanza La debolezza delle forme associative tradizionali, confermata anche dai più recenti dati di GfK (Siliprandi, 2016) che registrano solo il 4% di italiani iscritto a un partito e 1 ' 8% a un'organizzazione, non significa che non ci siano in giro bisogni latenti di identificazione e di scambio, ma che questi intercettano altri punti di riferimento. Del resto sono cresciuti partecipazione e impegno dispiegandosi in diverse direzioni (Demos & PI, 2017): verso iniziative collegate a problemi di quartiere o della propria città; verso iniziative promosse da associazioni di volontariato, o culturali; verso iniziative collegate all'ambiente o al territorio; verso attività di protesta o boicottaggio (di un prodotto, una marca, un'azienda), ma non solo. Fuori dalle logiche partitiche, soprattutto a livello locale, diverse forme di civi­ smo si fanno carico, già da tempo, di promuovere rappresentanza e dibattito, favorendo un allargamento della sfera pubblica. In genere si tratta di forme di civismo legate a delle proposte di azione, spesso biodegradabili, proprio come le cause dei gruppi di pressione che abbiamo visto nel CAP. 2 , ma non mancano esperienze continuati­ ve e fabbriche di sperimentazioni e avvio di nuovi percorsi, come vedremo. « Ci sono tantissime persone, infatti, che condividono dei valori e dei progetti e si rendono disponibili, mettendo a dispo­ sizione della comunità il loro tempo, la loro intelligenza e le loro energie [ ... ] questo significa avere una forte determinazione, l'osti­ nazione appunto», scrive Umberto Ambrosoli (2016, p. 13) che, su un progetto civico, ha fondato la sua proposta elettorale (regionali, Lombardia 2013, "Patto civico") e all'ostinazione civile ha dedicato un libro. Il civismo, secondo Ambrosoli, è complementare ai parti­ ti non antagonista, però necessita di flessibilità; per questo motivo, non può essere una struttura rigida, ma capace di lavorare a un singo81

lo scopo e, se serve, poi, di sciogliersi. Come «mobilitazione politica di coscienze» può essere caratterizzata appunto da «un'occasiona­ lità specifica e temporanea, legata alla particolarità dei luoghi e dei casi» (ivi, p. 8 9 ). Il civismo, in questo senso, scorre pacificamente tra due sponde: quella istituzionalizzata dei partiti e quella sponta­ nea, ma anche corrosiva, dell'antipolitica; perciò può, se si mette al servizio della politica partitica, aiutarla a uscire dalla crisi di credi­ bilità e fiducia nella quale è precipitata. Una crisi che l'Osservatorio sulla cultura civica in Italia, nel v Rapporto nazionale, promosso da COMIECO in collaborazione con IPSOS, Comune di Napoli, Asia e Legambiente (Natale, 2007 ), aveva già fotografato, in antitesi alle esperienze civiche, oltre dieci anni fa e per tutto il periodo del mo­ nitoraggio (2001-07 ). Già nel 2007, infatti, gli italiani dimostravano di nutrire doppia fiducia nei Comuni e nelle amministrazioni civi­ che locali rispetto al governo, e addirittura quadrupla, rispetto ai partiti. La gerarchia della fiducia, anche per il barometro di COMIE­ co, vedeva il podio accordato alle organizzazioni del privato sociale, da quelle di volontariato non profit a quelle ambientaliste, e il punto più basso della piramide della credibilità, lasciato alla rappresentan­ za partitica, vero fanalino di coda nella scala valoriale degli italiani. Gli elementi più interessanti emersi e poi analizzati da Paolo Natale (1Ps os) sono però più generali e ritengo qui utile richiamarli per­ ché di grande attualità rispetto alla nostra analisi su individualismo, civismo e nuove fratture e metterli in relazione con l'indagine sul senso civico realizzata a distanza di quasi dieci anni da COMIECO in collaborazione con il "Corriere della Sera". La civicness italiana sem­ brerebbe più una virtù individuale che una pratica collettiva, perlo­ meno dall'Osservatorio del 2007 : «gli italiani non sembrano avere molta fiducia nella collettività e nelle sue istituzioni, confermando una tradizionale "disaffezione" che ha fondamenti storici e sociali ol­ tre che culturali» (ivi, p. 20). Mentre la famiglia è il fulcro della vita quotidiana e sociale e il familismo il legame più importante, per tro­ vare tracce di solidarietà collettiva più ampia occorre scendere agli ultimi gradini della piramide; mancano legami sociali più larghi, senso di appartenenza (di classe, o professionale) e apprezzamento verso le classi dirigenti, ritenute, universalmente, poco capaci e di82

stanti (solo per l'1% degli italiani esse costituiscono un esempio da imitare per il senso civico). Ma si ravvisano, già nell'analisi del 2007, elementi di contaminazione valoriale e di comunicazione della fidu­ cia che abbiamo visto essersi poi palesati in analisi di altro tipo, negli anni successivi (PARR. 1 . 1 . 1 ; 2.2): interazione orizzontale, fiducia tra pari, attaccamento territoriale. Il barometro sul senso civico di co­ MIECO non registrava, nel 2007, un tasso di crescita sostanziale della civicness, mentre l'indagine promossa in collaborazione con il "Cor­ riere della Sera" otto anni dopo (2015), in un contesto modificato dalla crisi, confermava invece l'emergere di un senso civico "fai da te" appreso in famiglia (che resta il luogo di produzione ideologica privilegiato) e non sviluppato attraverso il contatto con la politica e le istituzioni (secondo il 7 8 % del campione). In sintesi, familismo e individualismo coesistono oggi assieme a esperienze di volontariato e di cittadinanza attiva (almeno il 50% degli italiani vi ha partecipa­ to anche secondo il rapporto Demos & PI, 2015) e a pratiche quoti­ diane virtuose (dalla raccolta differenziata all'uso della bicicletta al posto dell'automobile) che si autoalimentano, anche se spesso sono ignorate sia dai media che dalla politica, perché non utili alla "rap­ presentazione collettiva". Che diverse esperienze in contesti locali abbiano dunque dimostrato, in questi ultimi anni, che differenti leve (anche le classiche leve "egoi­ ste") hanno agito sulla crescita del senso civico e della partecipazio­ ne, è un dato di fatto, ma si tratta di situazioni più che altro contin­ genti e di esempi a macchia di leopardo. Che dalle microesperienze partecipative e dallo spontaneismo associativo dal basso si possa poi, per accumulo, risalire verso l'alto e riabilitare l'asset deteriorato della rappresentanza ci credono in pochi. Tra questi, Rodolfo Lewanski (2016), professore associato presso il Dipartimento di Scienze poli­ tiche e sociali dell'Università degli Studi di Bologna, è un convinto sostenitore della necessità della permanenza invece che della periodi­ cità del principio della partecipazione. Lewanski ritiene che proprio le decine di esperienze in corso suggeriscano come la partecipazione dialogico-deliberativa possa contribuire alla rivitalizzazione della de­ mocrazia integrando le istituzioni rappresentative. In sintesi la par­ tecipazione collettiva, secondo lo studioso, mobiliterebbe energie e 83

intelligenze generando scelte condivise, capaci di incorporare saperi esperti e saperi comuni e creando ponti tra valori, opinioni e interessi diversi e anche in conflitto tra loro. Uno schema che troveremo an­ che alla base di alcune teorie promosse dalle reti sovranazionali che saldano le esperienze delle proteste di piazza e le opportunità delle nuove piattaforme municipali di condivisione (PAR. 6.3).

4.2. Neofratture: i linguaggi delle élite e degli esclusi Le fratture storiche, novecentesche, quelle su cui si sono posizio­ nati i partiti di massa e gran parte dell'offerta politica postbellica, oggi non esistono più. Le nuove fratture (tra centro e periferie; tra giovani e anziani; tra connessi e non connessi; tra rent seekers e per­ sone che vivono del reddito del proprio lavoro) riguardano altri tipi di esclusione e richiedono nuovi strumenti per essere comprese e, eventualmente, ricomposte. Quel che è certo è il fatto che gli esclusi non si sentono rappresentati da nessuno: non da un partito politico, non da un grande sindacato, né da un'associazione di diritti civili o da un ente intermedio. Di solito affidano le proprie frustrazio­ ni, i propri desideri e la propria rabbia al primo populista che passa (per strada o per la Rete) e promette di risolvere i problemi o farsi promotore di un cambiamento. In casi particolari, quando riescono a coagularsi intorno a una causa specifica (con delle date, degli in­ dirizzi, degli appuntamenti) usano linguaggi propri e non sempre pacifici, dai No Logo ai No Global, da Occupy Wall Street ai No TAV, dagli Indignados sino ai No Expo. Secondo il famoso sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato in eredità il paradigma della "società liquida", si è interrotto il rapporto tra élite e popolo e la co­ municazione tra i due poli della società non funziona più. Lo stesso Bauman in un'intervista del 2 0 1 5 sintetizzava così la questione: L'insicurezza oggi è la cifra della modernità ed è composta da tre elementi: il sentimento di impotenza, quello di ignoranza e quello di perdita di autostima. Turto il sistema, nel suo insieme, ha perso il rispetto e la fiducia dei cittadini, perché ha dimostrato di non saper dare delle risposte efficaci alle catastrofi e alle crisi contemporanee [... ] siamo in un cul-de-sac per il fatto che i nostri problemi

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sono globali, così come il potere reale, che è quello finanziario, è globale, ma la politica e le istituzioni sono locali.

Élite sempre più globalizzate, « oligarchie inafferrabili» come le definisce Geminello Preterossi, autore di diversi saggi sulla crisi del­ le democrazie, costrette a confrontarsi con poteri sempre più extra­ territoriali, sono divenute incapaci di usare il linguaggio delle varie realtà locali, quello adatto a connotare le paure e le preoccupazioni che attanagliano le masse. Di più: « Sembra che i pochi non riesca­ no più a vivere come eguali tra i molti», proprio in casi di impove­ rimento come quello che stiamo vivendo, ci ricorda Nadia Urbinati (2016, p. 82), citando Aristotele. E così si affrontano due orizzonti geografici e temporali diversi, due linguaggi che, come abbiamo vi­ sto, non si intercettano più. Le masse tendono a non imitare più i comportamenti delle élite e le élite rinunciano a quei comporta­ menti guida che hanno sempre aperto il campo ai grandi cambia­ menti in ambito sociale e culturale, costruendosi "bunker". Quel che resta sono gli slogan di Grillo, Salvini e Marine Le Pen, le pa­ role shock di Trump, i muri di Orbàn e le vittorie amare di Farage: la semplificazione al posto dell'inclusione, la potenza distruttrice delle forze antisistema sulla debolezza di quelle di sistema. Eppure, secondo Preterossi, nelle semplificazioni si nascondono delle veri­ tà, che andrebbero analizzate perché sono i sintomi inequivocabili della rottura del patto sociale. Stretto tra tendenze oligarchiche e spinte populiste, posto di fronte alla crisi di legittimità che investe tutta l'Europa, come potrà resistere? C'è chi, come il filosofo Mare Lazar (Riva, 2016), pur riconoscendo il rischio che il XXI secolo si avvii ad essere connotato come quello dei populismi e che essi « sia­ no la febbre non la malattia», è ancora convinto della possibilità di una ricomposizione delle fratture profonde che stanno mettendo a rischio il patto sociale e, tra la strada dell'esclusione e quella dell' in­ clusione, sceglie quella dell'allargamento. «L'unica strada è modi­ ficare la composizione della classe dirigente. Si tratta di allargarla ai giovani, alle donne, tenere conto della diversità della popolazione. E naturalmente deve essere privilegiato il merito». Già, il merito: una delle parole magiche del lessico del futuro sulla quale torneremo più 85

avanti, considerato ormai dalla maggior parte dei cittadini e dalla totalità dei giovani (da destra a sinistra) l'unico strumento giusto per poter ristabilire quella che anche Lazar chiama «l'eguaglianza dei punti di partenza». Eppure, ancora una volta Urbinati ( 2016, p. 13 2) ci mette in guardia anche sul merito, al quale si appellano can­ didati, teorici e grandi manager per mettersi al riparo delle critiche della maggioranza esclusa: «Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve emergere da una società nella quale a tutti dovrebbe es­ sere concessa un'eguale opportunità di formare le proprie capacità e accedere ai beni primari, a cominciare dai diritti civili e dai diritti sociali essenziali per poter partecipare alla gara della vita».

Writing e strategie di contrasto : una nuova frattura ? Non tutte le community che si sviluppano su un territorio o in un dato contesto metropolitano, come abbiamo detto, sono inclusive e agi­ scono per il bene comune o per la difesa del patrimonio materiale o immateriale che di quello spazio è espressione. Qualcuna si svi­ luppa o si rifugia nella nicchia o nella marginalità, proprio perché si sente esclusa, dando vita a una comunicazione che si sovrappone a quella del mainstream ma non vi entra mai davvero in contatto. I writers contemporanei, in questo senso, con i loro gesti "illegali" sui muri e sui vagoni delle metropolitane e dei treni, sono la rappresen­ tazione postmoderna più simbolica di questa sfida calligrafica alle nostre società e ai nostri spazi comuni. Le loro tag altro non sono se non un'affermazione del sé in antitesi agli altri: gli altri writers, gli altri linguaggi (come quello della comunicazione pubblicitaria che caratterizza le nostre strade), la cultura mainstream, l'estetica preva­ lente che caratterizza i nostri codici urbani. Penetrano nei quartieri, occupano la nostra visione quotidiana, facendosi via via parte del paesaggio, mandano messaggi ai gruppi antagonisti, marcano i ter­ ritori. Non si tratta di una nuova forma di comunicazione, ma di un fenomeno di importazione americana, diffusosi, a partire da New York negli anni Settanta, anche in Europa, e diventato virale e po­ polare in Italia solo negli ultimi anni, soprattutto nei grandi centri. Anche se in realtà l'incrocio tra spazio urbano e spazio linguistico ha origini ben più antiche e comunque la definizione del fenomeno « è 4.2.1.

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lontana dal trovare una sua declinazione consensuale», come sotto­ linea propriamente Nicola Guerra (2012) in un'analisi puntuale sul graffitismo urbano, nella quale si dà conto del dilemma sulla natura vandalica o cultural-identitaria di questa espressione, diventata vera e propria frattura sociale, entrando nei dibattiti pubblici, nei pro­ grammi elettorali, negli statuti delle associazioni come obiettivo da combattere (Associazione Antigraffiti 2006; Associazione Retake Roma 2009 ; Associazione Retake Milano 2014). Quel che è certo è che, se la maggior parte dei discorsi tra cittadini (orali o scritti), compiuti nello spazio pubblico fruito linguisticamente, sono stati, nel tempo, regolati, il writing delle tribù metropolitane non solo non ha regole certe (come le affissioni, i messaggi pubblicitari, gli slogan delle manifestazioni pubbliche, le campagne istituzionali), ma non ha nemmeno molte ricerche sulle sue dinamiche evolutive né certificazioni scientifiche sulla sua reale natura. In questo senso, come scrive Guerra (ivi, p. 90) : «La città diviene un melting pot diamesico nel quale convivono oralità, scrittura, graffitismo, mura­ lismo, stickerismo (ossia il linguaggio degli adesivi affissi negli spazi pubblici) e tutte le forme di linguaggio telefonico [ ... ] delle quali fruiamo spostandoci nelle città» . Addirittura Luca Molinari (2015), critico e studioso degli spazi urbani, ravvisa nel graffitismo metropo­ litano una scrittura pre-social network: I graffiti, con la creazione d' infinite varianti calligrafiche, veri antesignani della scrittura nei social contemporanei [ il tag è stato prima un segno murale che virtuale] diventano uno strumento potente d'espressione, un luogo di scontro tra controcultura e istituzioni e l'inizio della colonizzazione di spazi metropo­ litani marginali. Con il passare degli anni, dai writing hip-hop si è assistito a esperienze di autori che guardano alla città reale come al luogo di espressione per eccellenza [ ... ] . Con la fine degli anni Novanta le amministrazioni si sono trovate di fronte a un bivio: la lotta dura oppure la possibilità di offrire luoghi in cui lasciare libera espressione a queste esperienze.

E proprio questo è il cuore del problema: tracciare una linea fra street art e graffitismo vandalico da un lato; e definire il livello di coabi­ tazione fra tutela della proprietà privata, difesa dei beni pubblici, pratica espressiva controculturale. Esattamente su queste questioni, 87

Eurispes e Telefono Azzurro hanno condotto, nel 201 5 , un interes­ sante sondaggio su un campione di giovani, dal quale emerge, come primo dato, che 3 ragazzi su 4 non considererebbero affatto i graffiti metropolitani come un atto vandalico. I graffiti piacciono infatti al 7 6 % degli intervistati. In particolare, per il 2 4 %, sono un linguaggio per esprimere delle opinioni, per il 44% una forma d'arte metropo­ litana, mentre solo lo o, 8 % li ritiene gesti d'espressione politica. In definitiva, almeno dai risultati di questo sondaggio, solo una piccola minoranza di giovani condanna i writers come vandali che scrivono su muri altrui, anche se la pratica è maggiormente biasimata quando si tratta di monumenti o beni pubblici. In realtà l'assunto di base è che si confondono, in tutte le indagini sociologiche, semiologiche o civiche, writing e street art. Arturo Pérez-Reverte, che si è calato tra i graffi.tari per ambientarci un romanzo di grande successo (Il cecchi­ no paziente, 2014) usa parole più forti sul linguaggio della commu­ nity anticivica dei writers cogliendo, in questa frattura, il sintomo pericoloso della rottura del patto sociale: «I graffiti selvaggi sono un sintomo di crepuscolo. Espressione di aggressività, frantumazione, egoismo. Ci segnalano che i vincoli sociali, solidali, si sono spezzati. Che la collettività non c'è più, s'è rotta» (Cicala, 2014). Per quanto una dialettica semplificante (quella di sinistra più lasca nei confronti della libera espressività sui muri, quella di destra più repressiva) e i cultori del "benaltrismo" abbiano cercato, in Italia, di minimizzare la portata del fenomeno del graffitismo vandalico, spes­ so confondendolo (anche per disonestà intellettuale) con la street art, i numeri più recenti ci dicono che esso è in crescita. I nostri muri ci parlano. Chi li conosce bene, come Fabiola Minoletti, studiosa del writing vandalico contemporaneo, sa che dietro ogni tag c'è l'acroni­ mo di una banda, o il nome di battaglia di qualche writers, addirittura l'evoluzione della sua parabola di strada. « Occorre fare molta atten­ zione ai segni che il territorio ci lancia. Se un writer ha cominciato da illegale e poi è passato alla street art ufficiale, accettando di lavorare su "muri liberi" assegnati dal Comune o su commissioni private, spes­ so non è capito e viene rigettato dagli altri writers, perciò i suoi lavori vengono "spaccati"» . Negli ultimi tre anni, secondo l'osservazione del fenomeno portata avanti da Minoletti, in collaborazione con il 88

Nucleo tutela decoro urbano della Polizia locale del Comune di Mi­ lano, l'imbrattamento sta assumendo aspetti più aggressivi. « Rile­ viamo un incremento del numero di crews e di giovani writers che spesso entrano in conflitto tra loro a colpi di bombolette e che utiliz­ zano nuove tecniche sempre più invasive, ad esempio rulli e estintori a spruzzi». Solo a Milano, la città più colpita in Italia, il numero di writers quantificato era di 1 . 3 5 0 nel 2 0 1 5 e di crews censite 3 4 0, mentre il numero di tag rilevato sul territorio ha subìto un aumento annuale tra il 1 5 e il 2 0 % . Il linguaggio reale usato sui muri viene poi viraliz­ zato sui socia! network per acquistare maggiore rilevanza. Sempre secondo i dati del 2 0 1 3 , il 3 0 % degli indagati negli ultimi mesi aveva già precedenti specifici per tale reato, confermandosi un soggetto re­ cidivo, e il 9% ha sviluppato anche altri reati. Tanto che, per chi ne studia la psicodinamica, è una nuova tendenza compulsiva (Roberto Pani, psicologo dell'Alma Mater Studiorum, Università degli Studi di Bologna), per chi lo combatte sul campo quotidianamente è un vero e proprio «reato soglia». Oggi la pratica del graffitismo è condannata dalle amministrazioni comunali, dagli enti locali, dai proprietari degli immobili e di at­ tività commerciali. Oltre a un inasprimento delle pene pecuniarie e di ripristino e a una più efficace ricerca sul piano delle responsa­ bilità penali dei writers portata avanti dagli inquirenti, la strategia più battuta dalle amministrazioni pubbliche, per le quali i graffiti vandalici rappresentano un danno economico, è stata quella di inci­ dere a livello educativo e culturale attraverso la separazione dei temi della street art e del graffitismo vandalico e la puntualizzazione della contrapposizione legale-illegale. Solo in Lombardia i danni toccano i 3 0 0 milioni di euro e ogni giorno sono in crescita. A Milano, se­ condo Assoedilizia, che ha provato a fare una stima, su 5 5 . 0 0 0 edifi­ ci 3 0. 0 0 0 sarebbero imbrattati; mentre ATM (la municipalizzata dei trasporti milanese) ha speso, negli ultimi tre anni, oltre 6 milioni di euro all'anno, per ripristinare i treni danneggiati. Senza considerare i danni ambientali che, da questo fenomeno, derivano per rimuovere 2 0 0 metri quadrati di graffiti da un treno servono 1 0 0 litri di solven­ te e 4 0 0 litri di acqua. E per l'opinione pubblica? «Agli occhi della società l'arte urbana non commissionata resta comunque un atto 89

vandalico» , esplicita Pietro Rivasi, esperto di street art, organizza­ tore della mostra I984 . Evoluzione e rigenerazione del writing (Mo­ dena, 23 giugno-18 settembre 2016). Secondo la cosiddetta "teoria delle finestre rotte" elaborata da James W ilson e George Kelling nel 1982, che ha fatto scuola nella New York del sindaco Rudy Giuliani e non solo (e che oggi da alcuni sociologi è considerata superata), la criminalità è anche l'inevitabile risultato del disordine; dunque, quando si trascurano fenomeni di violazione di legge anche di lieve entità, essi causeranno emulazione: se in un palazzo o in quartiere c'è una finestra rotta e non si provvede alla sua repentina riparazione ciò provocherà nei passanti e nei residenti l'impressione che nessuno se ne curi ed è probabile che altri atti vandalici di pari grado o supe­ riori, di lì a poco, si manifestino. «Se un graffito non verrà ripulito in maniera efficace dalla facciata di un manufatto, causerà nel tempo la comparsa di altri graffiti. Il graffito vandalico può causare l'habitat ideale per altri microreati » , spiega Minoletti. « Quando i cittadini e le istituzioni si disinteressano di quell'ambiente, rapidamente diven­ ta ingovernato e ingovernabile » . Come dire, pulire non è solo puli­ re, ha la portanza di un gesto simbolico e di una forma di resistenza c1v1ca, per questo non va trascurato.

4 .3. La difesa del bene comune tra senso civico e fai da te Il senso civico "all'italiana" di cui abbiamo detto sopra, dispiegato tra pratiche di volontariato e attenzione all'ambiente e originato da va­ lori più individuali che collettivi, negli ultimi anni, è stato stimolato da tanti cambiamenti culturali e dallo sviluppo di una rete sempre più capillare di associazioni ed è stato agevolato da alcuni primi, timidi, interventi del legislatore che ha cercato di dare una cornice alle inizia­ tive spontanee che si replicano con modalità diverse, su molti territo­ ri. Si tratta della somma di tanti e costanti piccoli gesti quotidiani e di alcune azioni più dirompenti (dalle spugne e dai rulli contro i graffiti vandalici alla lotta alle erbacce nelle aiuole pubbliche, sino alle pale contro il fango nelle situazioni di emergenza o alla ristrutturazione di edifici abbandonati), tutte sotto un comune segno: la riappropria90

zione dello spazio pubblico e la surroga rispetto alle mancanze di uno Stato inadempiente. Il Comune, la municipalizzata, la Comunità montana non sono in grado di prendersi cura fino in fondo di una co­ munità o di un territorio? Perché non rimboccarsi le maniche, anche in assenza di una regia o di un'autorizzazione formale? Hanno pen­ sato molti cittadini che si sono messi a disposizione della collettività con gesti non richiesti che hanno il pregio, oltre che di tamponare dei buchi, anche di sviluppare nuovi legami di coesione sociale fuori dal perimetro di corpi intermedi usurati. Tutto questo capitale, che a vol­ te precipita in contenitori temporanei (come abbiamo già osservato) e altre volte si traduce in proposte civiche più articolate e specifiche, nella maggior parte dei casi è invece soltanto energia allo stato puro che, se non produce PIL, almeno è utile alla finanza locale. L'art. 24 del decreto Sblocca Italia (12 settembre 2014, n. 13 3, poi convertito in legge 11 novembre 2014, n. 164) ha cercato, per la prima volta, di regolamentare le iniziative spontanee di cittadinanza attiva, inserendole in un quadro normativo di "Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizza­ zione del territorio". Dal 2014 infatti: I comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associa­ ti, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade, ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con fi­ nalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In re­ lazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare ridu­ zioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.

Come vedremo nei prossimi paragrafi (PARR. 4.4; 4.4.1), le norme volute dal governo per regolamentare la partecipazione dei cittadini al decoro pubblico sono state già recepite da alcuni Comuni virtuosi 91

che hanno fatto da apripista a iniziative innovative ed esemplari. Ep­ pure, sulla surroga dei cittadini e delle associazioni rispetto ai compiti normalmente appaltati alle istituzioni, non tutti sono d'accordo. I li­ miti del "fai da te" non coincidono solo con le ragioni del «signor Mi Rifiuto» (di cui parla Massimo Gramellini nell'esempio riportato nel PAR. 2 . 3 ) , convinto che la fiscalità collettiva serva appunto a pagare i netturbini, senza che i cittadini siano costretti a prendere le scope in mano. Spezzare il cosiddetto patto dell'inerzia al "non fare" non sa­ rebbe sufficiente a giustificare l'appalto di sgangherati pezzi di welfare alla collettività, perché potrebbe portare su una china pericolosa, da­ gli esiti imprevedibili, quando non si tratta di straordinarietà. Come dire, va bene il gesto simbolico e l'hashtag d'impatto, come quello dei milanesi contro i No Expo di #NessunTocchiMilano e Alessandro Gassmann con la ramazza in mano di #Romasonoio, ma poi ci pensi­ no i 'A MA, l'AMSA, i PICS (Pronto intervento centro storico di Roma Capitale), il NUIR (Nucleo intervento rapido del Comune di Milano) e gli altri enti preposti. Quando il degrado è frutto della complicità perversa e duratura di chi non governa e chi non è governato, il patto dell'inerzia va spezzato con modalità più strutturali che occasionali. «Il fai da te è un gesto naturale in una società civile e organizzata, altrove è qualcosa di disperato, una extrema ratio. Ha conseguenze impossibili o inaccettabili (la giustizia fai da te)» esplicita Gabriele Romagnoli (201 5 ) facendosi portavoce dei perplessi del neocivismo della ramazza e della spugnetta. In realtà, molti dei compiti che oggi si assumono i cittadini o le associazioni, in maniera assolutamente destrutturata, negli anni Settanta, con modalità più organizzate e de­ leghe più formali, se li assumevano i partiti, anche se oggi lo ricorda­ no in pochi. «Negli anni Settanta c'erano i comitati di quartiere, ci si industriava per creare servizi dove mancavano e il ruolo dei partiti era quello di aggregare persone attorno a un progetto e sostenerle. Aiutare i cittadini a farsi le cose da sé, questo dovrebbe essere ancora oggi il ruolo dei partiti», secondo Innocenzo Cipolletta, economista, presidente dell'Università degli Studi di Trento, già direttore gene­ rale di Confindustria e di Ferrovie dello Stato, fine osservatore delle dinamiche dei corpi intermedi (Penelope, 201 3 ) . Un compito che i partiti travasavano in maniera più strutturata dentro ai contenitori a 92

loro contigui, come rammenta Luisa Steiner Rollier, ex dirigente del­ la sezione sempionina "Dal Pozzo" del PCI milanese, già attivista del Coordinamento genitori democratici e dell'Associazione dei diritti dei pedoni di Roma e del Lazio, direttore responsabile di un giornale di quartiere militante tra il 1979 e il 19 92, che, nel 19 90, scriveva: Il giornale si è un poco trasformato: è diventato l'organo di un'associazione di persone che vogliono partecipare ed essere informate di quello che succede nel quartiere. In fondo la nostra zona ha più di centomila abitanti, è grande come una cittadina di provincia [ ... ] . Forse potremmo cercare di agire e dire qualco­ sa su molte faccende [ ... ] si può tentare [ ... ] magari con poco successo ma pur sempre sentendo di essere parte di una società in cui ogni giorno dobbiamo e vogliamo vivere.

Tra i detrattori del "fai da te" e i sostenitori dell'attivismo sponta­ neo, si collocano, come sempre, i realisti e i pragmatici: coloro che ri­ tengono che l'attività della rete di associazioni Retake (nata a Roma nel 2009 per prendersi cura del decoro pubblico, come vedremo nel PAR. 4.4.1) sia complementare e non surrogante i compiti dell'istitu­ zione, come spiega Marco Luciani, commissario aggiunto del Nucleo antigraffiti della Polizia di Milano: «I Retakers ci possono fornire informazioni in tempo reale, quando noi potremmo accorgerci di un atto di vandalismo dopo due mesi, loro sono più rapidi. Inoltre, noi ci occupiamo della repressione mentre loro puliscono i muri» ( Cal­ dara, 2015). E che l'art. 24 del decreto Sblocca Italia sia un'occasione e non un aggravio per la collettività: come Confabitare, l'associazio­ ne di rappresentanza dei proprietari immobiliari italiani che ha pro­ messo di impegnarsi nella manutenzione e nella cura di edifici e aree contigue, a fronte di sconti sulle imposte sulle case, unendo utilità sociale e tornaconto economico privato.

4.4. Dall'art. 24 alla Carta della Partecip azione La norma contenuta nel decreto Sblocca Italia (l'art. 24 di cui si è detto) rappresenta un primo riconoscimento importante al ruolo "politico" dei cittadini che si attivano per la cura dei beni comuni e la 93

valorizzazione dei territori legittimando tante e diverse attività di re­ cupero e di riuso, già realizzate o in via di realizzazione, passate inte­ gralmente in rassegna nei workshop di confronto che si sono svolti al primo Festival della partecipazione italiano (FdP, L'Aquila, 7-10 lu­ glio 2016), nato dalla collaborazione tra Cittadinanzattiva, ActionAid e Slow Food, riuniti nella coalizione "Italia Sveglia" per dare vita a una vera e propria fabbrica di idee e alla raccolta di esperienze che possano essere di esempio a associazioni, Comuni ed enti locali e contribuire allo sviluppo di nuove politiche pubbliche all'insegna della condivisione civica. I progetti in questo senso sono tanti: da­ gli "Urban Center" ai percorsi di progettazione partecipata, ai bi­ lanci partecipativi. «Il riuso è esattamente uno degli strumenti che rappresenta al meglio la cittadinanza attiva nonché le difficoltà che tante persone incontrano quando vogliono diventare soggetti attivi nel loro territorio. Riappropriarsi di risorse comuni è un segnale "pla­ stico" di come le cose possano essere cambiate», ha detto Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva in riferimento al progetto "Disponibile" a cui il movimento di partecipazione civica ha partecipato insieme ad altre associazioni (L'Aquila, 8 luglio 2016). Va specificato che qui non si tratta di un "esproprio proletario 3 . 0 ", anche se non mancano esperienze partite senza autorizzazioni che hanno avuto successo e da cui prendere spunto, ma di un percorso, partito anche grazie alla regia dell'Agenzia del Demanio, ancora tutto da costruire. Mentre l'Agenzia del Demanio, facendo seguito all'art. 26 del decreto Sblocca Italia, attuava un puntuale censimento dei beni immobili sparsi sulla penisola (rilevandone 45.000, dei quali 17.000 disponibili) e lo rendeva pubblico su una piattaforma open source avviando i primi bandi per gruppi (come quello sui "fari co­ stieri"), comunque la normativa ha continuato a evolversi. Oggi, ad esempio, il Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50) riconosce il baratto amministrativo, un diritto, fino a pochi anni fa, impensabile. Però ora serve tradurre in maniera siste­ matica le norme in un numero sempre maggiore di progetti concre­ ti. « Per fare ciò servono conoscenza, consultazioni pubbliche, gare con finalità chiare e capacità di elaborazione dei progetti. L'Agenzia ha il compito, in questa importante partita, di supportare i cittadini 94

e le associazioni a elaborare progetti di utilizzo e valorizzazione dei beni che possano essere utili alle comunità, oltre che sostenibili», spiega Roberto Reggi, direttore dell'Agenzia delle Entrate. Le espe­ rienze intanto si moltiplicano. Battendo questa strada Legambiente (assieme a diverse altre associazioni, anche di quartiere) ha avviato la ristrutturazione e la valorizzazione della Cascina Nascosta nel Parco Sempione e WWF quella di un faro costiero abbandonato dall'Ot­ tocento. «Oggi c'è l'opportunità reale di praticare la cittadinanza attiva a partire da questi temi. Un bene usabile può farsi contenitore di cittadinanza attiva, dai beni demaniali dismessi a quelli dei comu­ ni, sino ai beni sequestrati dalla mafia, che possono così tornare a vivere», ha dichiarato il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Paletti (L'Aquila, 8 luglio 2016), continuando: «Per par­ tire servono le leggi e le regole, ma poi perché le cose accadano ci vuole la condivisione, la comunità, la partecipazione attiva». È così che il ministro Paletti sogna di poter far tornare a vivere i capannoni industriali abbandonati che punteggiano il nostro territorio come malconci testimoni di un'altra guerra, che si è abbattuta sull'Italia negli anni Dieci, lasciando in piedi i muri ma svuotandoli di vita. Sempre Paletti afferma: Nelle altre guerre cadevano i muri e restavano solo le macerie. La crisi industria­ le che ha caratterizzato il nostro Paese negli ultimi anni invece ha lasciato delle strutture produttive vuote come gusci a deturpare la nostra geografia e il nostro paesaggio. Anche in questo caso serve un passo avanti nel tema della responsa­ bilità: le imprese che cessano l'attività devono assumersi l'onere dei resti della deindustrializzazione che lasciano sui territori, addosso alle comunità, oltre ai costi sociali che essa comporta. È un terreno non ancora abbastanza esplorato, in cui anche il legislatore deve muoversi meglio di quanto fatto sinora.

Il legislatore può aiutare, fissando in legge delle norme e dei nuovi vincoli, a cambiar passo, ma l'attività di controllo e raccolta di idee e progetti deve essere fatta propria dai cittadini partecipi attraverso un puntuale monitoraggio civico. Per accrescere la cultura della partecipazione dei cittadini e aiutare a dar vita a una rete di esempi, buone prassi e codici condivisi, INU (Istituto nazionale di urbanistica), AIP2 (Associazione italiana per la 95

partecipazione pubblica) e IAF (lnternational Association of Facilita­ tors) hanno promosso la "Carta della Partecipazione", un documen­ to che è una sorta di decalogo che definisce il processo partecipativo. Al primo posto nel decalogo figura la cooperazione, subito seguita dalla fiducia nel processo partecipativo che deve essere condivisa da facilitatori, partecipanti e decisori e dalla trasparenza nelle informa­ zioni; poi seguono l'inclusione, dato che i processi partecipativi si devono basare sull'ascolto di tutti gli stakeholders; l'efficacia e l' in­ terazione costruttiva. Infine, fast but not least, l'equità, l'armonia, il render conto e la valutazione. 4.4.1. Cittadinanza attiva e baratto amministrativo Cittadi­ nanzattiva è anche il nome di un'organizzazione senza scopi di lucro che promuove l'attivismo dei cittadini in molte direzioni, dalla dife­ sa dei diritti alla cura dei beni comuni sino al sostegno alle fragilità. La sua missione fa riferimento all'art. 1 1 8 della Costituzione, come recepito dalla riforma costituzionale del 2 0 0 1 , che riconosce l'auto­ noma iniziativa dei cittadini (singoli e associati) a svolgere attività di interesse generale in base al principio della sussidiarietà al quale la Costituzione, peraltro, dà ampia tutela anche in altre sue parti. Operando in questo senso Cittadinanzattiva è davvero il presidio permanente della "cittadinanza attiva" in tema di valutazioni (del­ la qualità dei servizi; delle poli tiche dei consumatori e dei servizi di pubblica utilità), lotta agli sprechi, promozione del decoro urbano e della migliore vivibilità possibile. Nel v Congresso nazionale, dal titolo "Inclusolo': che si è svolto a Fiuggi dal 2 6 al 2 9 maggio 201 6 , sono state ribadite le priorità strategiche per il quadriennio 2 0 1 6 - 2 0 ossia, oltre alla lotta alle diseguaglianze, proprio l'ampliamento degli spazi di partecipazione civica nei diversi ambiti e il consolidamento delle collaborazioni con altre realtà associative, come già fatto con il progetto "Disponibile" per il riuso degli spazi pubblici abbandonati da parte dei cittadini (di cui abbiamo già detto). Retake è invece un movimento apartitico spontaneo, che da Roma si è diffuso a Milano (nel 201 4 ) ed è oggi presente, con diversi comitati, in altrettante ven­ ti città italiane, con centinaia di gruppi attivi sul territorio. Si occupa in senso lato di decoro urbano, dalla rimozione delle scritte vandali96

che dai muri, alla piantumazione delle aiuole, al volontariato al ser­ vizio degli spazi carcerari, alla pulizia dei parchi. La fondatrice roma­ na, Rebecca Spitzmiller, è una docente americana in pensione che ha cominciato prendendosi cura del palazzo romano nel quale abita da trent'anni: «Abbiamo cominciato sette anni fa, lanciando un'azio­ ne isolata e dimostrativa di pulizia di Villa Borghese. La dimensio­ ne attuale di Retake è dovuta ai socia! network» (Leggo, 2016). Il presidente milanese, Andrea Amato, si è fatto invece le ossa nell'As­ sociazione Antigraffiti, poi confluita in Retake Milano con l'allar­ gamento della sua mission. Di Retake dice: «È una rete che opera con un modello uniforme, partendo dall'art. 118 della Costituzione. La logica è sempre quella del confronto e della collaborazione con le istituzioni. Noi, come volontari, non ci consideriamo antagonisti ma piuttosto complementari alle amministrazioni. Gli amministratori, da parte loro, dovrebbero muoversi a fianco dei cittadini, né dietro, né davanti». È questa, secondo Amato, la giusta distanza. La formu­ la magica della partecipazione che funziona. «A Milano senz'altro pesiamo nell'agenza politica comunale da ormai tre legislature, pur restando scorporati dalle logiche partitiche. E, insieme a tante altre associazioni, siamo diventati un po' il simbolo del Rinascimento ita­ liano». È qui che si sono sviluppate, assieme a Retake, diverse forme di partnerariato tra enti, istituzioni e imprese. Come quella con il Politecnico di Milano e il Touring Club Italiano per la tutela e la va­ lorizzazione dei beni vincolati dalla Sovrintendenza. Roma è invece stata una delle prime città, insieme a Bologna e a Como, a portare avanti il tema dei regolamenti a livello comunale (con l'assessore alla Partecipazione Paolo Masini della Giunta Marino) per permettere ai cittadini, singoli o riuniti in comitati di prendersi cura della città con dei "Patti di partecipazione". Como, con il Regolamento per la gestione dei contratti di sponsorizzazione, delle erogazioni liberali delle attivita di volontariato afavore del Comune di Como (approvato con delibera 10 marzo 2014, n. 13) e, successivamente, con la Disciplina sperimentale per le attivita dei writers (approvato con D.G. 18 giugno 2014, n. 209) è andato oltre. Al fine di incentivare la partecipazione e il consociativismo, nell'ottica di stabilire dei rapporti di collabora­ zione tra cittadini e Comune, l'amministrazione ha istituito l'Albo 97

delle Associazioni, previsto dallo Statuto comunale, al quale possono iscriversi tutti i comitati che operano per fini di solidarietà in diverse direzioni: a supporto della polizia locale, del decoro urbano, delle persone in stato di fragilità ecc. Inoltre, per combattere il graffitismo vandalico e promuovere e valorizzare forme di street art legali, ha isti­ tuito l'Elenco degli spazi da destinare all' «esercizio del graffitismo e della Street Art» (art. 5), con una postilla: «Ogni singolo artista è responsabile della superficie per cui ha ottenuto l'autorizzazione all'utilizzo e risponde direttamente dei danni causati dal suo operato durante la realizzazione dell'opera, delle attività non consone che vi saranno realizzate nonché di eventuali contenuti sconvenienti della stessa» (art. 9 ). Sia il rinnovo che una nuova autorizzazione all'uti­ lizzo dello spazio sono gestiti tenendo conto delle esigenze di manu­ tenzione e della destinazione d'uso del bene. E, complice la nuova regolamentazione, la partecipazione si è via via allargata: dalle strade pulite ai muri, ai giardinetti, i comaschi hanno scelto di partecipare, anche attraverso formali bandi, a interventi nelle scuole, nei cimiteri e nelle sedi delle circoscrizioni, tanto che l'assessore alla Partecipa­ zione Silvia Magni ha parlato di grande sorpresa: «Ci sono proprio un senso di appartenenza e una disponibilità a partecipare che rap­ presentano una modalità di collaborazione virtuosa tra pubblico e privato» (Aiani, 2 0 1 5 ) . Virtuosa è anche l'iniziativa milanese ''Adot­ ta un'aiuola", già avviata durante il governo di Letizia Moratti, ma sviluppata veramente durante gli anni dell'amministrazione Pisapia, quando il fenomeno della cura del verde pubblico da parte dei privati è decollato con la semplificazione delle procedure amministrative. Se, ad agosto 2 0 0 9 , le collaborazioni pubblico-privato su aiuole e giardinetti erano 1 7 5 , a settembre 2 0 1 4 avevano raggiunto quota 3 7 9 , per un totale di 2 2 . 0 0 0 metri quadrati, la cui cura è stata appaltata a cittadini e associazioni, ma anche a banche o a supermercati che usano la sponsorizzazione come leva aziendale. Altri comuni hanno fatto di più, convertendo il capitale della citta­ dinanza attiva in "baratto amministrativo". In provincia di Navara, un piccolo centro di 4 . 5 0 0 abitanti è passato dalle parole ai fatti: a Invorio, imbiancare i locali della scuola materna, tagliare i tigli da­ vanti al Municipio o aiutare i netturbini a tenere pulite le strade 98

sono attività che permettono ai cittadini maggiorenni con un basso indicatore ISEE di scontare i tributi comunali offrendo come con­ tropartita le proprie braccia e tanta buona volontà. Il regolamento comunale prevede un vero e proprio baratto, pattuito in ore-uomo: un'ora di lavoro per prendersi cura del bene pubblico è stata con­ teggiata in 7,5 euro. E i primi cittadini con indicatori fiscali bassi o morosità abitativa si sono fatti avanti, proponendo forza lavoro al posto delle tasse o dell'affitto. Il sindaco pilota si chiama Dario Piola e, nonostante la sua ricognizione su regolamenti, mozioni e delibere in diversi comuni italiani, ha dovuto inventarsi di sana pianta un provvedimento che, da quando è diventato legge il decreto Sblocca Italia, potrebbe essere applicato dappertutto. Prevede come contro­ parte non soltanto lavori di manutenzione al decoro urbano, ma anche abbellimento di aree verdi, piazze e strade, nonché recupero e riuso di aree e beni immobili inutilizzati per la valorizzazione di spazi urbani.

4.5 . Partecip azione 2 .0 : cittadinanza attiva e buone app Le tecnologie hanno facilitato la collaborazione tra cittadini e comu­ ni. In generale, l'utilizzo spinto di Internet e dei socia! media è cre­ sciuto molto nell'attivazione del rapporto tra amministrazione e cit­ tadinanza attiva. A Milano il profilo di Palazzo Marino su Facebook ha oltre 1 1 6 . 0 0 0 fan e l'account Twitter circa 2 4 0.0 0 0 follower. Esistono oltre una ventina di applicazioni collegate al Comune, di servizio ai cittadini per aiutare a vivere meglio la città e a sentirsi parte del processo di gestione e presa a carico, anche con una segna­ lazione o con un like. La maggior parte delle app sono state lanciate tra il 2 0 1 3 e il 2 0 1 6 , ma ogni anno ne nasce qualcuna nuova, dedicata a diversi servizi. Il fenomeno coinvolge vari ambiti della vita metro­ politana, da quello del verde a quello dello sport, sino a quello della pulizia lanciato da AMSA. "Puliamo" è l'applicazione scaricabile sul­ lo smartphone per segnalare situazioni di degrado ambientale alla municipalizzata. Dai cestini pieni, alla spazzatura nelle strade, alle discariche abusive: si può chiedere assistenza per il ritiro di rifiuti 99

ingombranti o informarsi sui giorni della raccolta differenziata per quartiere e materiale. "PrenotaUnCampo': utilizzata da una community di circa 2.0 0 0 uten­ ti solo su Milano e provincia (ora il network comprende anche altre città), serve a prenotare e pagare anticipatamente uno dei 1 1 0 campi di calcetto comunali; mentre "Playground", nata nel 20 1 5 , è la versione di "PrenotaUnCampo" dedicata agli appassionati di basket che vo­ gliono cimentarsi in uno dei 1 2 0 campi cittadini. "Ghe pensi mi" è invece dedicata alle sentinelle del decoro: scaricando l'applicazione e registrandosi è possibile segnalare incuria e degrado nelle aree verdi, chiedere interventi e seguirne la presa a carico in tempo reale. È pensa­ ta per aree giochi per bambini, all'interno delle quali si può incappare in scivoli rotti o giostre mal funzionanti, aree verdi trascurate o non mantenute, aree cani che possono presentare anomalie pericolose per gli animali. Anche in questo caso i cittadini iscritti sono stati subito un migliaio, sin dai primi mesi. "Trovami" è stata pensata per rintrac­ ciare un cane smarrito, attraverso foto e descrizioni dell'animale del quale si è alla ricerca; mentre "Open Wi-Fi" serve a trovare la Rete gratuita più vicina, proprio come "BikeMi" a rintracciare lo stallo bi­ ciclette in sharing più prossimo. Dal Comune di Milano a quello di Cremona: il progetto "Smart City Center", lanciato nell'autunno del 201 6 , si basa su una sofisticata app pensata per mettere in Rete la città. Mutuata dall'Olanda, ha lo scopo di avvicinare la domanda (famiglie in crisi) e l'offerta (negozi di vicinato ed esercizi commerciali che de­ vono essere rivitalizzati), ma anche di combattere gli sprechi alimen­ tari (redistribuendo l'eccedenza laddove venisse segnalata), mettere in contatto mondi distanti o che normalmente non hanno un canale diretto di comunicazione e informare i cittadini. Come "Last minute sotto casà' (LMSC), la app della community antispreco che unisce ne­ gozianti e consumatori nella battaglia allo spreco alimentare già attiva in molte città, da Torino a Palermo, da Terni a Milano. "Shelly" è invece una app già in funzione in tutta Italia nata con l' in­ tento di rendere i cittadini più sicuri all'interno dei contesti in cui vivono. È stata chiamata l' app del vicinato 2 . 0 perché dà la possibilità a chi la utilizza di inviare in tempo reale segnalazioni anonime di situazioni di potenziale pericolo o degrado allo scopo di prevenire 100

rischi o migliorare la vivibilità urbana. Quando una segnalazione ef­ fettuata riguarda un indirizzo vicino a una delle sentinelle iscritte, l'utilizzatore viene prontamente avvisato con un messaggio, in modo da poter scegliere il migliore tragitto mettendosi così al sicuro. Dalle app agli hashtag, più digitale è, meglio è. La partecipazione 2 . 0 fun­ ziona di più ed è più virale del solito passaparola tra vicini di casa o delle newsletter che avevano l'abitudine di informare i cittadini dell'ultimo disagio o della campagna appena lanciata. Quando, as­ sieme ai vertici dei municipi e al coordinamento di AMA, i Retakers romani hanno dato avvio alla campagna per la pulizia e il decoro ur­ bano 2 0 1 6 , l'hashtag #WakeUpRoma è stato utilizzato dagli utenti centinaia di volte e ha continuato ad essere attivo anche nei giorni successivi alla manifestazione; forte del successo narrativo di #Nes­ sunTocchiMilano, l'assessorato ai Lavori pubblici del Comune di Milano, nel 2 0 1 6 , a poche settimane dalle elezioni, ha lanciato un nuovo hashtag mobilitante #Facciamolapulita per invitare cittadini e associazioni a partecipare numerosi al "Cleaning Day" sui muri delle scuole milanesi imbrattati da tag vandaliche: anche in questo caso, non soltanto l' hashtag è diventato virale, ma è stato ripreso in chia­ ve ironica dagli "esclusi" per avviare una nuova "chiamata ai rulli", #NonLasciamoleSporche, individuato dall'Associazione Pro Arco Sempione per chiedere contributi per ripulire un istituto tecnico commerciale del quartiere presidiato, rimasto fuori dal perimetro della prima mobilitazione.

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5 . I nuovi protagonisti dell'economia leggera e condivisa

5 .1. Disintermediazione come sharing economy L'economia della condivisione e quella della disintermediazione sono le due facce di una stessa medaglia, quella che ridefinisce i rapporti tra domanda e offerta. Non sempre e non solo un'econo­ mia nella quale non esistono degli intermediari, ma dove gli inter­ mediari sono più difficili da identificare, più lontani, a volte non controllabili e, comunque, "light". La sharing economy è figlia del­ la crisi ma non ne è la diretta conseguenza. Ben altri fattori, oltre alla crisi, hanno contribuito, infatti, giorno dopo giorno, a scalfi­ re abitudini e a cambiare paradigmi, miti e bisogni tra i consuma­ tori mondiali. Poiché sin dalle prime pratiche si è mostrata capa­ ce di recuperare delle risorse e combattere degli sprechi, è apparsa subito pulita, efficiente e molto smart ai gruppi guida. E assai più conveniente anche alle masse, orientando il desiderio proprietario collettivo (dal sogno americano al bisogno europeo) verso quel­ lo dell'accesso a beni e servizi in condivisione (per la casa, per la mobilità, per l'informazione, per la cultura, per i viaggi). Le nuo­ ve piattaforme piacciono perché promettono di non essere più schiavi dell'acquisto e del possesso dei beni di consumo, sui qua­ li era basata la vecchia economia predigitale; eppure, anche nella nuova economia condivisa ci sono degli intermediari, per quanto apparentemente più convenienti. Si chiamano Amazon, Appie, Airbnb, Uber, Google, Booking, TripAdvisor ecc. Uber, che in Italia ha debuttato nel 2 0 1 4 come un servizio alterna­ tivo di trasporto passeggeri, stabilisce dei prezzi per far incontrare domanda e offerta (bypassando l'acquisto delle licenze, le relazioni istituzionali, le difese corporative, gli albi professionali, le tariffe imposte ecc.) ma è comunque noleggio, non si tratta di car pooling (come invece quello praticato da BlaBlaCar, che permette ai viag103

giatori di dividere le spese di viaggio), bensì di un servizio tra il car sharing e il taxi. La stessa cosa vale per Airbnb, che si occupa di un servizio di affitto di stanze o alloggi, e non ha nulla, in questo senso, in comune con quella pratica di condivisione che va sotto la definizione di couchsurfing. Stiamo dunque confondendo la sha­ ring economy con la rental economy per semplificazione e ideologia? Se lo sono già chiesti in molti (da T iziano Bonini a Giorgos Kal­ lis, a Emanuel Coen) cercando di mettere in guardia un'opinione pubblica già appiattita sul tecno-miracolo contemporaneo che ci renderebbe tutti users appagati piuttosto che proprietari frustrati. Semmai però il focus va spostato altrove, come scrive Francesco Grillo (2016) : Il problema è che un modello di sviluppo che promette il superamento di alcuni dei principi del capitalismo tradizionale, pone un dilemma cognitivo grosso. Nonché un conflitto di interessi a istituzioni che rischiano di essere scavalcate dal futuro. La chiave di successo sta in una combinazione di pragmatismo e di visione che è indispensabile per guidare la transizione tra un mondo che sta scomparendo ed uno che facciamo ancora fatica a "immaginare".

Convenzionalmente, dunque, usiamo il termine di sharing eco­ nomy per indicare fenomeni molto diversi tra loro: sia quelli che transitano su piattaforme che abilitano lo scambio tra pari (ma non stabiliscono prezzi e non erogano servizi), sia tutti quelli che in re­ altà sfruttano le nuove infrastrutture per disintermediare i rapporti tra produttore e consumatore ma non mettono in comune delle risorse collettive. Ogni processo e ogni progresso ha però bisogno di essere accompagnato da un regolatore che sappia interpretare lo spirito dei tempi ma prevedere anche i bisogni futuri. La Commis­ sione europea, e pure il Parlamento italiano, stanno provando da qualche tempo ad armonizzare la regolamentazione di un settore che, secondo le previsioni della U E, potrebbe arrivare, entro il 20 25, a 300 miliardi di euro di fatturato. L'esistenza di una trentina di diverse autorità regolatorie e l'ostilità e le azioni di lobbying delle varie associazioni corporative nazionali, tuttavia, hanno reso diffi­ cile mettere giù delle regole comuni, anche a fronte delle sentenze 104

che di volta in volta hanno interpretato in maniera differente la materia nei diversi Paesi. Le linee guida che alla fine la Commis­ sione ha stilato invitano i membri a rivedere in senso generale l'ap­ proccio complessivo verso la nuova economia uberizzata e a trova­ re un giusto equilibrio tra libera iniziativa economica e protezione dei consumatori, mettendoli in guardia contro barriere eccessive. Il neologismo uberization, che è ormai entrato nel gergo economico comune, fa riferimento all'adozione del modello di business Uber in tutti i settori (dal food ai servizi a domicilio, dalla logistica ai trasporti, dal marketing alla finanza) e coincide solo in parte con l'universo semantico della "piattaformizzazione" e della digitai disruption. La prima proposta di decreto per regolamentare la sharing economy in Italia e garantire trasparenza, leale concorrenza e tutela dei con­ sumatori, invece, è stata depositata alla Camera all'inizio del 2 0 1 6 e incardinata nella Commissione competente nel maggio successivo. Frutto del lavoro di un gruppo bipartisan, il progetto si è posto sin dall'inizio l'obiettivo di fornire una cornice di regole certe ai tan­ ti fenomeni che caratterizzano ormai diversi settori dell'economia, anche in Italia, nonché di dare delle risposte chiare ai consumatori, interpretando il sentiment collettivo, per evitare che, in futuro, altri tribunali blocchino applicazioni considerate fuori legge scatenando opposte reazioni come accaduto con Uber Pop. Lo Stato pensa an­ che, attraverso la regolamentazione, di garantirsi quegli introiti fi­ scali a cui sinora ha rinunciato: risorse da destinare all'innovazione delle pratiche stesse in un'ottica circolare e non vessatoria. La legge non entra nel merito dei vari settori ma disegna un perimetro che tiene dentro gli utenti-operatori e fuori le piattaforme professionali e stabilisce che le piattaforme debbano predisporre delle policy ad hoc, soggette al parere dell'AG COM, per il trattamento dei dati sensi­ bili, ossia il vero giacimento della sharing, digitai economy, come ab­ biamo già visto. Nessun tentativo di imbrigliare l'innovazione, però, solo fissare regole certe a tutela dei consumatori e degli operatori. Precisa Veronica Tentori, deputata PD e prima firmataria e relatrice della proposta di legge: 105

Ci siamo concentrati sugli utenti-operatori che mettono a disposizione un bene sottoutilizzato, in maniera occasionale, e lo condividono; abbiamo guar­ dato in faccia il cambiamento senza ostacolare il processo di innovazione che è anche un processo di crescita per il sistema Paese. L'Italia, tra l'altro, è il primo Paese della UE che cerca di dare una cornice alla sharing economy nel suo complesso; sino ad ora, infatti, sono stati fatti soltanto interventi spot su singoli settori e spesso con norme restrittive e penalizzanti nei confronti delle nuove pratiche. In questo senso l' Italia dà un primo contributo al dibattito, per questo ci hanno chiesto di analizzare il progetto di legge anche in sede comunitaria.

Mentre si scrive questo libro, l'iter della proposta di legge è in fase di audizioni di soggetti istituzionali, a cui seguirà un secondo giro dedicato a tutti gli altri stakeholders. Le ripercussioni anche sugli enti locali saranno importanti non appena la legge vedrà la luce. La rego­ lazione dell'economia condivisa dagli utenti è un elemento che serve ai livelli locali anche per abbattere i rischi di distorsione. Intanto, già prima della regolamentazione, si sono per esempio aperti tra Airbnb e diversi Comuni italiani tavoli di contrattazione per discutere il tema, affatto banale, della tassa di soggiorno.

5 . 2 . Le app che riconfigurano i servizi e ilfoodtech Non solo il settore del turismo e quello della mobilità possono es­ sere considerati i comparti simbolo della nuova economia disinter­ mediata, sebbene l'esplosione delle piattaforme, soprattutto nell'ho­ spitality, sia un dato oggettivo e parlare di rivoluzione, in questo caso, non sia affatto esagerato: oltre a Airbnb nel 2 0 1 6 , infatti, nelle principali città europee hanno registrato traffico Bedycasa, Ho­ meaway, Housetrip, Iha, Roomorama e Tripwell, solo per citare le principali piattaforme di condivisione degli alloggi. Senza contare il turismo nautico, una nicchia di mercato assai interessante dove il processo di disintermedizione ha subito attecchito e, da Sailsquare a Boatbound, sino ad Andos, sono numerose le startup che hanno creato app per fare incontrare in alto mare viaggiatori, skipper e proprietari. Un settore fertile nel quale far fruttare assets sottoutiliz106

zati è quello degli spazi di lavoro: al di là delle tante caffetterie che si sono ormai attrezzate, anche nelle principali città italiane, per il cojfice e degli spazi più strutturati di coworking che piacciono perché permettono la riduzione di un costo fisso come l'affitto (oltre che l'opportunità di poter lavorare assieme ad altre persone e, quindi, condividere idee e relazioni), dagli Stati Uniti è arrivato in Europa il cosiddetto l 'air-biz-nb, ovvero l'Airbnb del business, dal quale sono nate già tante proposte per mettere i lavoratori freelance di tutto il mondo in grado di usufruire di spazi messi in Rete senza affittare più un dispendioso ufficio. La postazione mobile invece che la po­ stazione fissa; location informali arredate con gusto al posto di uffici spersonalizzati all'interno di contesti esclusivamente di business: più destrutturato è, meglio è. Infine, prima del fintech, occorre parlare delfoodtech: quella che ha investito, a partire dal 2012, il settore agro­ alimentare, è stata una rivoluzione di massa, che ha cambiato, in un breve periodo, l'approccio all'approvvigionamento e al consumo di migliaia di individui e le soluzioni di decine di imprese. Il processo di innovazione è stato portato avanti da diverse startup che, in al­ cuni casi, sono state poi assorbite da gruppi più grandi (Google ne ha assorbite 91 dal 2010), che si sono portati l'innovazione in casa senza doverla produrre internamente. Ed è stata finanziata da venture capitalists che hanno capito che, anche in Italia, i tempi erano ma­ turi per avviare dei cambiamenti che avrebbero rivoluzionato stili di vita. È così che ogni area della "food experience" è stata toccata dalla digitai disruption: dalla ricerca dei ristoranti alla consegna di cibo a domicilio, dalle prenotazioni alle promozioni della GD o sino alla comunicazione. «Alla base di tutto c'è l'informazione sul pro­ dotto a disposizione di tutti e il coinvolgimento del consumatore e del produttore all'interno dello stesso processo», semplifica Andrea Di Camillo, fondatore e partner di P101, il fondo di venture capitai che ha finanziato diverse iniziative di startupping in questo campo, da Cortilia a Tannico. «Come in ogni rivoluzione, si sono create in­ frastrutture più efficienti delle precedenti e i settori che sinora hanno resistito, in realtà, resistono solo per inerzia». MiSiedo è un servizio real time di prenotazione tavoli per i migliori ristoranti in Italia: la 107

risposta italiana a Open Table, che già funziona da anni in giro per il mondo. Anche in questo caso l'utente, senza costi aggiunti, ha la possibilità di controllare in qualsiasi momento la disponibilità e rice­ vere conferma immediata della prenotazione, senza dover chiamare il locale. Il servizio non è solo un valore aggiunto per l'utente, ma permette anche ai ristoratori di gestire le prenotazioni con un rispar­ mio dei tempi calcolato intorno al 40% . Per accorciare la distanza tra produttori agricoli e consumatori è nata, qualche anno fa, Cortilia, un network di piccole imprese agricole che ha messo in Rete prodotti alimentari e bevande e ha fondato il suo business sulla "fiducia". «Il nostro obiettivo è accorciare le distanze tra produttori e consumato­ ri. Per raggiungerlo, le cascine vengono "aggregate" in piccoli mercati virtuali in base a criteri come la vicinanza, la varietà dei prodotti of­ ferti e l'ottimizzazione logistica», spiega Marco Porcaro, fondato­ re del primo mercato agricolo digitale italiano (Stringa, 2014). «La chiave del nostro modello è la consegna "just in time": i prodotti sono colti e recapitati nel giro di poche ore nel pieno rispetto del­ la catena del freddo. L'ottimizzazione della supply chain ci permette inoltre di ridurre al minimo gli sprechi e l'impatto sull'ambiente» . E, a proposito di riduzione degli sprechi, sono operative, anche in Italia, alcune piattaforme per permettere lo scambio dell'eccedenza di cibo (o altri prodotti), come Scambio Cibo, I Food Share o Next Door Help. Nell'area del socia/Jood e degli home restaurants, Gnam­ mo è la prima piattaforma italiana dedicata al socia/ eating, che offre agli utenti la possibilità di organizzare, a casa propria o in un'altra location privata, cene, pranzi o eventi sia per mettersi alla prova ai fornelli che per socializzare, con una rete che ormai è una communi­ ty di centinaia di persone. HomeRestaurant.com, altra piattaforma che riunisce intorno a una pagina FB un'attiva community di chef domestici, si sta sviluppando in modo esponenziale, come tutto il settore del resto, tanto che un altro intervento del legislatore (forte­ mente caldeggiato dalle lobby dei ristoratori professionisti) è già allo studio delle Camere e promette di mettere paletti ai tanti aspiranti cuochi casalinghi (progetto di legge Senaldi 2017 ). 108

5 . 3 . Fintech, banche e nuovi intermediari Il trend della disintermediazione, già in atto in diversi settori, all'in­ terno di un comparto ultraregolato come quello finanziario, è entra­ to come un vento caldo e sta via via riplasmando i servizi e i rapporti tra creditori e debitori, generando alternative concrete a quelle offer­ te dal tradizionale sistema assicurativo-bancario. Così l'ha descritto un articolo di " Tue Economist" (2015) che ha fatto storia: Tue magica! combination of "geeks" in T-shirts and venture capitai that has disrupted other industries has put fìnancial services in its sights. From payments to wealth management, from peer-to-peer lending to crowdfunding, a new generation of startups is taking aim at the heart of the industry. Like other disrupters from Silicon Valley "fìntech" fìrms are growing fast [ ... ] . Tue fìntech fìrms are not about to kill off traditional banks [ ... ] . Nonetheless, the fìntech revolution will reshape fìnance - and improve it - in three fundamental ways. First, the fìntech disrupters will cut costs and improve the quality of fìnancial services [ ... ] . Second, the insurgents have clever new ways of assessing risk [ ... ] . Third, the fìntech newcomers will create a more diverse, and hence stable, credit landscape.

Il passo più innovativo, all'interno di questo complesso processo, in un mondo che segue regole stringenti, è certamente quello di elimi­ nare le distanze tra prestatore e debitore e risparmiatore e mercati finanziari in generale, attraverso piattaforme che sostituiscono "isti­ tuzioni" storiche o simboliche, costruite su infrastrutture reali e non virtuali. Individui, famiglie, piccole imprese faticavano a reperire capitali at­ traverso i canali tradizionali? L'intermediazione bancaria oggi non è più l'unico modo di ottenere un credito, c'è il prestito tra privati e quello "della folla". La consulenza finanziaria tradizionale era appan­ naggio di poche società e promotori finanziari? Oggi le opportunità che si possono reperire in Rete sono molteplici e alla portata di tutti i portafogli e le esigenze. Il settore di pagamenti è sempre più virtuale? Giganti come PayPal, Google o Appie si sono posizionati sul settore delfintech più caldo del momento. 109

Per quanto riguarda il marketplace lending, ossia il prestito tra privati tramite piattaforme virtuali, in principio fu Zopa, nata nel Regno Unito nel 2005, pioniera e leader nel mercato anglosassone prima e in quello globale in breve periodo, nel prestito peer-to-peer. Nel no­ stro Paese, dalle ceneri di Zopa Italia è nata Smartika, ancora oggi una delle principali società di social lending, autorizzata come Istitu­ to di Pagamento e vigilata da Banca d'Italia nel 2012, ma nel mercato stanno arrivando sempre nuovi competitor. Come Prestiamoci, che opera con un approccio simile per prestiti tra privati che vanno tra i 1.500 e i 25.000 euro, a tassi che dipendono dall'affidabilità delle parti. Secondo un recente rapporto di KPMG e CB lnsights, gli in­ vestimenti globali nelle fintech companies hanno superato, nel 2015, i 19 miliardi di dollari, 13 dei quali provengono da fondi di venture capitai. Solo in Europa gli investimenti in società fintech sono au­ mentati da 1,1 miliardi di dollari nel 2014 a 1,5 miliardi nel 2015, con una crescita del 30% su base annua. E in Italia? Stando a una ricerca presentata da Che Banca !, Fintech Award nel 2016, sarebbero già 115 le società difintech attive in Italia che, nel 2015, hanno rastrellato da fondi di venture capitai e business angels risorse per oltre 3 3 milioni di euro (Dell'Olio, 2016a). Di queste società, una gran parte si oc­ cupa di servizi bancari e pagamenti, ma il 45% è tutto dedicato al crowdfunding, cioè la raccolta di denaro attraverso progetti presenta­ ti alla rete indistinta, che vedremo meglio tra poco. Eppure, se tra privati il peer-to-peer lending pare che stia prendendo sempre più piede, i canali di finanziamento innovativi per il mon­ do dell'impresa, nonostante le opportunità per le imprese si stiano moltiplicando, sembra siano ancora in fase di maturazione, secon­ do l'Osservatorio "Supply Chain Finance" della School of Mana­ gement del Politecnico di Milano. La PMI italiana, anche se a corto di risorse per innovare, tende ancora a rivolgersi a canali più tradi­ zionali, come riportato da Carlo Andrea Finotto (2016) che scrive: «Imprese e controparti restano ancorate, per il momento, a modelli "classici" di finanziamento del capitale circolante, ma cominciano a farsi strada anche forme più innovative". Un dato confermato anche da Antonio Lafiosca, partner e chief operating officer di Borsa del Credito, specializzata nei prestiti da privati a imprese, 10.000 prati110

che aperte e un hashtag che non lascia dubbi sulla portata del cam­ biamento, #ilcreditositrovaonline: Sul peer-to-peer verso le imprese, per il momento, in Italia ci sono solo pochi player. Il mercato italiano è fanalino di coda, anche perché il regolatore è ancora abbastanza sordo a questo tipo di iniziative. I vantaggi rispetto a un norma­ le credito bancario sono la velocità, la trasparenza e la professionalità. Tutto quello che si può fare in una filiale bancaria è anacronistico rispetto alla nostra value proposition: dalla condizione dell'offerta, ai costi e agli orari dei servizi. Le piattaforme invece rispondono proprio a queste esigenze offrendo prodotti a costi finiti e tempi rapidi.

Le imprese su Borsa del Credito ricevono risposte sulla fattibilità dell'investimento in meno di 24 ore e, se valutate meritevoli di cre­ dito, possono ottenere il finanziamento in tre giorni lavorativi senza doversi affidare alle lunghe pratiche dell'istituto bancario. Chi di­ venta prestatore percepisce un rendimento medio del s % annuo e in­ veste, tendenzialmente, su un rischio basso, perché va ad alimentare l'economia reale. Spiega Lafiosca: Il nostro sistema di rating non si basa sui metodi di garanzia tradizionali ma sui socia! network e sulle opinioni degli utenti. Quando finanziamo un baretto, un microbirrificio o la lavanderia sotto casa per dare loro l'opportunità di cam­ biare un macchinario o rivisitare la cucina, ci affidiamo ai giudizi degli utenti che, nella nostra ottica, valgono più di un articolato business pian perché ci di­ cono quanto quell'attività potrà essere solida e continuare ad andare avanti. Ci consideriamo dei nuovi intermediari. Il modello distributivo basato sulla rete di filiali è costoso e inadeguato per i tempi. Le banche devono riposizionarsi e cambiare i loro modelli; infatti, tante stanno già bussando alla porta del.fintech. È la sharing economy applicata alla finanza.

Se l'assedio al ruolo delle banche è dunque reale, tuttavia, come pre­ vedono anche gli analisti più catastrofisti, è irrealistico ipotizzare che le banche possano soccombere sotto il peso della democratizzazio­ ne portata ai servizi finanziari nel loro complesso dalla tecnologia. Lo scenario più prevedibile è quello di una convergenza trafintech e banche tradizionali, che possa portare a una condivisione di tecnolo­ gia, buone prassi e know how. Nel peer-to-peer lending, ad esempio, si 111

registrano, nel mondo, già diverse partnership tra banche e piattafor­ me (da Goldman Sachs e Symphony, a BBVA Compass e OnDeck). Prevede Giuseppe Donvito (2016), partner di P101: Le recenti esperienze hanno dimostrato che sarebbe drastico ipotizzare che nel breve termine le banche con modelli tradizionali possano soccombere del tut­ to sotto il peso delle nuove, giovani imprese tecnologiche [ ... ] . quelle banche che sapranno muoversi rapidamente per acquisire startup, creare partnership o collaborazioni con le impresefintech potranno intercettare le nuove tecnologie e ottenere l'accesso ai servizi specializzati prima che il costo di acquisizione di queste imprese salga.

È evidente, anche secondo Serena Torielli, partner e presidente di Advise Only, investor socia! network che aiuta utenti a scegliere come investire i propri risparmi, che, nonostante l'avvento di tutti questi nuovi attori, «le banche non spariranno, ma ci sarà un importante fenomeno di disintermediazione nel settore bancario tradizionale a favore dei nuovi ed efficienti player tecnologici». La contaminazione, intanto, è già un processo in atto e le banche non solo non riusciranno a non confrontarsi con questi nuovi efficienti player e nemmeno po­ tranno non ascoltare la voce di quella «neglected constituency (the customers) » ("Tue Economist", 2015) che sino a poco tempo fa non ne aveva affatto. Dal punto di vista delle banche sarà la coopetition il mo­ dello vincente in Italia, ossia un efficientamento del modello tradizio­ nale, spinto proprio dalle pratichefintech: «La banca digitale pura in Italia farà sempre più fatica che in altri Paesi per un fatto culturale. La relazione è ancora importante per il cliente italiano» , spiega Gianluca Bisognani, co-general manager & deputy CEO Banca Sella, che sull'in­ novazione ha puntato molto. «La multicanalità è il giusto mix perché somma la dimensione fisica tipica dell'infrastruttura bancaria e quella virtuale».

5 . 4 . Il crowdfunding e il digitai wealth management La raccolta di finanziamento dal basso sta riscuotendo in Italia un grande successo, anche al di là delle aspettative dei fondatori delle 112

prime piattaforme. Nel 2016, secondo un'accurata indagine di Iva­ na Pais che da qualche anno le cataloga per genere, se ne contavano 68 attive e altre in fase di lancio. La mappatura portata avanti dalla ricercatrice dell'Università Cattolica del Sacro Cuore utilizza per censirle quattro modelli puri e due modelli ibridi: le piattaforme basate su Ricompense che rappresentano il 45 % del totale; quelle basate su Donazioni e Equity (meno del 20%) ; le piattaforme fon­ date sul Debito, che costituiscono solo il 4% . Infine, i modelli ibri­ di Ricompense+ Donazioni e Donazioni+ Debito, rispettivamente uguali al 12% e all' 1%. Alcune delle piattaforme basate su Ricompen­ se si strutturano come delle vere e proprie community a sostegno di una causa considerata normalmente di nicchia o, comunque, sempre ai margini della cultura e del consumo mainstream, come Cineama, un'idea che va oltre il cineforum d'essai. Nata nel 2011 con l'idea di proiettare nelle sale i film che gli spettatori chiedono di vedere, si con­ figura come un interessante strumento di diffusione di progetti alter­ nativi, nonché socialmente rilevanti, che non avrebbero alcuna op­ portunità di essere messi a disposizione del pubblico; o Bookabook, la piattaforma di crowdfunding per sostenere dal basso la pubblica­ zione di un libro secondo un vero e proprio modello di editoria par­ tecipata. I portatori d'interesse sono posti tutti sullo stesso piano, dall'autore, ai lettori, ai distributori. Le piattaforme basate sulle Donazioni sono soprattutto piattaforme cooperative profit o non profit, oppure basate sullo sviluppo specifi­ co di un territorio, o a supporto di una causa solidaristica. E quelle di Equity finanziano startup con l'obiettivo di far incontrare capitale e innovazione. Le piattaforme di Debito conteggiate nell'indagine sono i lending marketplace dei quali abbiamo già parlato, da Smar­ tika a Prestiamoci, sino a Borsa del Credito. Il mercato del crowdfunding è dunque, come abbiamo visto, un comparto assai dinamico all'interno del fintech, anche se risente dell'alto tasso di volatilità e di mortalità di cui molte cause puntuali, intorno alle quali si strut­ turano i progetti (anche quelle supportate da gruppi di pressione di cui si parlava nel CAP. 2), spesso risentono. A credere nella di­ sintermediazione finanziaria attraverso il finanziamento della folla 113

sono soprattutto giovani imprenditori, sotto i 40 anni, residenti nel Nord Italia. Anche se l'interesse da parte di cittadini-investitori è in aumento costante, non tutti i progetti vanno per ora a buon fine. Si calcola, in realtà, che solo il 30% veda la luce di tutti quelli pre­ sentati e che, a concretizzarsi maggiormente, siano i progetti avviati sulle piattaforme di Ricompense e Debito. Al di là delle iscrizioni e del numero di progetti pubblicati, dunque, il tasso di successo dei finanziamenti attraverso le piattaforme di crowdfunding è ancora basso. «Le piattaforme effettivamente funzionanti si contano sulle dita di una mano», assicura Nicola Lencioni, fondatore e ammi­ nistratore delegato di Eppela, la piattaforma toscana, reward-based, nata nel 2010, che ha già finanziato oltre 2.000 progetti e raccolto oltre 10 milioni di euro. « Siamo indietro rispetto alla media euro­ pea, soprattutto rispetto a Francia e Spagna. Ci sono enormi spazi di crescita perché le aziende hanno capito che il crowdfunding può diventare anche una potente leva di marketing e di engagement. Non solo un metodo di finanziamento». La consulenza al piccolo risparmiatore è l'altra grande partita aper­ ta delfintech, che sposa finanza e tecnologia, disintermediando an­ cora una volta rapporti che fino a poco tempo fa erano esclusiva­ mente in capo a banche e reti di promozione finanziaria. In realtà, per essere precisi, la prima onda di disintermediazione, nel settore del digitai wealth management, è arrivata all'inizio del Duemila, con il fenomeno del trading online, pre-2.0, reso possibile dal rego­ lamento della CONSOB (1999) che ne normava, per la prima volta, gli aspetti, permettendo a chiunque di investire in titoli, obbliga­ zioni e azioni senza passare da società intermediarie. La nuova sta­ gione della consulenza alternativa ai grandi canali finanziari, basata sulle piattaforme digitali, è in qualche modo la risposta attuale a un bisogno latente. Il passo più innovativo all'interno del processo è proprio la possibilità di annullare le distanze tra risparmiatore e mercati finanziari. «La tecnologia permette di scardinare i vecchi schemi della consulenza finanziaria tradizionale, dando vita a un servizio trasparente ed efficiente», racconta Paolo Galvani, fonda­ tore e presidente di Money Farm, la società indipendente di ser114

vizi finanziari, iscritta all'Albo della CONSOB dal 2 0 1 2 e operativa tramite licenza FCA (Financial Conduct Authority) anche in Gran Bretagna dal 2 0 1 6 . «Abbiamo intercettato un bisogno che non ve­ niva assolto: fornire servizi che prima erano monopolio di pochi a tutti». In Italia, prima del digitai wealth management, sono sta­ ti fatti dei tentativi di consulenza finanziaria indipendente slegata dalla vendita dei prodotti, ma in tutti i casi non si rivolgevano, per sostenibilità del business, al piccolo risparmiatore, ma a investitori con rendite o patrimoni più significativi da manutenere. Non solo il mondo del prestito, dunque, subisce o coglie (a seconda delle prospettive) la digitai disruption ; anche quello della consulenza al risparmio si trova a dover fare i conti con nuovi player e con un processo di "democratizzazione" basato su modelli che, almeno in teoria, possono redistribuire la torta dei profitti. Che tutta questa nuova disponibilità platform based (nel peer-to-peer lending come nella scelta del migliore investimento) scardini, oltre a paradigmi e consuetudini, anche inefficienze e diseguaglianze di accesso, è un fenomeno tutto da osservare.

5 .5 . La nuova grammatica urbana: dai coworking aifab /ab Le nostre città stanno diventando condivise. Non soltanto nel senso della partecipazione al bene comune e della presa in carico della cosa pubblica, di cui abbiamo parlato nel CAP. 4. Stanno di­ ventando condivise anche dal punto di vista strutturale e urbanisti­ co: aumentano gli spazi per la condivisione della casa (cohousing) , del lavoro (coworking), dei servizi (social streets, lavanderie condi­ vise ecc.), della produzione (fab lab ), dei trasporti (bike sharing, car sharing). Anche questa è una rivoluzione che, partendo dagli Stati Uniti, è giunta in Italia con qualche anno di ritardo, eppure l'investimento sulle smart cities, su cui si stanno impegnando tante amministrazioni comunali, a partire da quelle che hanno avuto il recente status di città metropolitana, è anche e soprattutto questo: un investimento sulla razionalizzazione della condivisione o sull'e­ conomia degli "interstizi" (gig economy ), quella nella quale "non si 115

butta via niente", né il tempo, né le risorse esauribili del Pianeta, né lo stipendio. «La maggior parte delle piattaforme di sharing italia­ ne sono ancora molto giovani, quasi tutte hanno poco più di due anni di vita» , afferma Marta Mainieri, curatrice delle ricerche Shar­ ing economy: la mappatura delle piattaforme italiane, edizioni 2015 e 2016, presentate in occasione della Collaborative Week che, dal 2015, si svolge a Milano a novembre. Mainieri ha delimitato il pe­ rimetro, prendendo in esame soltanto le piattaforme che mettono direttamente in contatto le persone e abilitano la collaborazione tra pari, escludendo dunque tutti i modelli che da Uber Pop discendo­ no e che abbiamo visto poco fa, «perché si ritiene che siano forme di innovazione di mercato dovute all'introduzione della tecnolo­ gia e non servizi che propongono un ripensamento più sistemico del modo di fare economia» (Mainieri, 2015, pp. 3-4), si legge nelle premesse della prima indagine. Da poche, virtuose, buone pratiche, le pratiche condivise sono di­ ventate stile di vita per molte centinaia di cittadini, anche in Italia. Tanto che, solo per il coworking, si rilevavano, nel 2016, 285 spazi sparsi lungo la penisola (190 al Nord; 55 al Centro; 40 nel Sud e nelle isole; fonte: myCowo). E il dato è in continuo aumento. «Lo sharing è inevitabile, è la conseguenza della mancanza di risorse e la creazione di metodi più efficienti per affrontare le sfide» , spiega Pietro Martani, ideatore di uno dei primi hub di coworking italiani, Copernico 3 8, e amministratore delegato di Copernico Holding. «Il futuro del capitalismo è meno egoismo e più sussidiarietà» (Stringa, 2015). Bologna sta sperimentando attraverso il progetto "Bologna città collaborativa - ca-Bologna" una collaborazione sperimentale per la gestione dei beni comuni urbani tra cittadini e istituzioni. Torino, in cui si contano per ora 16 spazi di coworking (2016), ha creato il Living Lab, uno spazio urbano digitale condiviso tra cittadini, enti di ricerca e partner privati. Solo a Milano, la cui amministrazione ha stanzia­ to 400.000 euro di ca-finanziamento per 21 progetti attraverso un crowdfunding civico con la piattaforma Eppela, nel 2015, si contavano già circa 80 spazi di coworking, diverse esperienze di microcredito e di makers e una rete di 70 soggetti attivi che hanno partecipato a 116

"Milano Sharing City". Afferma Cristina Tajani, assessore al Lavoro, Sviluppo economico, Università e Ricerca: Osservo l'emergere di un vero e proprio nuovo ceto sociale diffuso, portatore di alto capitale umano (con un basso reddito) che è protagonista e agente di questa innovazione e per il quale occorre ora costruire al più presto una rap­ presentanza e predisporre nuove politiche pubbliche. Si tratta dei gruppi più dinamici e quindi anche più capaci di costruire nuove proposte.

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6 . Stili internazionali, reintermediazione e neorappresentanza

6.1. I think tank a vocazione sovranazionale Nonostante le élite continentali si siano dimostrate, negli ultimi anni, sempre meno capaci di guidare imprese, istituzioni, corpi in­ termedi e abbiano via via perso il contatto con l'opinione pubblica e con le masse (come abbiamo visto nel PAR. 1 . 1 . 2 ) , «rendendosi in­ sopportabili con la loro sicumera e superficialità [ ... ] a cominciare dal giornalismo e dall'intellettualità economico-giuridica», per dirla con Ernesto Galli della Loggia (2016), tuttavia non hanno rinuncia­ to al loro ruolo di leadership. In modi differenti ma a sostegno degli stessi valori (leadership preparate, "diverse" e consapevoli), all' in­ terno di contenitori che potremmo genericamente chiamare think tank, alcuni gruppi guida portano avanti lo studio di nuovi model­ li e di proposte programmatiche da sottoporre a governi, imprese, enti regolatori, istituzioni internazionali. Avvalendosi dei migliori talenti e delle consulenze più esperte, mettono a confronto dati e in­ trecciano reti, disegnano scenari, producono policy papers e puntuali report e, in molti casi, sono chiamati a interpretare emergenze e sono in grado di influenzare le agende politiche internazionali. I primi think tank nella storia sono di origine americana e, per la loro storia e impostazione, differiscono dalla più recente diffusione europea e italiana. Per quanto attiene i think tank italo-europei invece, molti di essi sono fondazioni di derivazione politica e matrice personale (di cui abbiamo già detto nel PAR. 2.6). Concentrandoci su alcuni serbatoi indipendenti e a vocazione internazionale che, con una co­ municazione non polarizzata ma costante, promuovono sé stessi e le proprie multi o single issues a supporto di cambiamenti culturali ed economici, usiamo qui come griglia definitoria l'ancora attualissima scaletta di Mattia Diletti (200 9 ): 119

In un sistema così competitivo è indispensabile avere chiara la propria mission, la propria funzione nel sistema politico, quali strumenti sono i più utili a perse­ guire i propri obiettivi: e questo vale a qualsiasi latitudine. Quale aspetto si in­ tende favorire ? Quello del centro di ricerca, del forum informale di discussione, dello strumento di informazione, della consulenza, dello strumento di pressio­ ne (il cosiddetto issue lobbying), del " watchdog" che passa ai raggi X l'azione di governo ? E con quali strumenti e per quale audience ? Un club di élite, una vasta comunità di spettatori informati, le istituzioni e i governi, il grande pubblico ?

Come già detto i think tank italiani nel 201 1 erano 105, ma, per sot­ trazione, solo il 67% di essi non risultava estensione di una persona­ lità politica di riferimento e può, quindi, essere ricondotto all'area della ricerca (policy oriented, il 41%), della memoria politica (il 19%), dei policyforum ( 7,6% ). In quest'ultima categoria ricadono tutti quei network di confronto tra classi dirigenti di orientamento plurale, che spesso hanno rapporti internazionali e buoni livelli di specializzazio­ ne rispetto ai propri temi di riferimento e che la ricerca coordinata da Diletti definisce "ponte" con il resto del mondo e con l'Europa. Lo stesso studioso ammette: Non essendoci un perimetro netto, è difficile individuare o stabilire che cosa è o che cosa non è un think tank. Si tratta di un perimetro convenzionale. Anche nelle ricerche successive a quella del 2 0 1 1 [in corso di pubblicazione] , ci siamo trovati a dover fare delle scelte in base a parametri stabiliti, dopo di che, di con­ tenitori, collegati ad altri corpi intermedi come centri studi, ce ne sono molti di più. Quel che è certo è che, sul target su cui noi ci siamo concentrati, non è aumentato il livello di internazionalità ed è invece diminuito il budget, per questo la "resilienza" è forse la caratteristica più rilevante di quei pensatoi che continuano a sopravvivere.

Nel 2011 il 46,4% dei think tank analizzati non aveva alcun rapporto internazionale e soltanto il 19,6% interagiva con almeno s strutture non italiane. L'Aspen lnstitute Italia, tra questi ultimi, emanazione del think tank nato negli Stati Uniti negli anni Cinquanta del se­ colo scorso, ha avviato la sua attività nel 1 9 84 configurandosi come un luogo di dibattito per la promozione dell'internazionalizzazione delle leadership imprenditoriali, politiche e culturali italiane. La sua missione è proprio quella di interpretare le sfide del momento attra120

verso un matching costante di idee all'interno di una community globale costituita da leader politici, rappresentanti del mondo indu­ striale e di quello finanziario e personalità dell'ambiente accademico internazionale. Il metodo privilegiato, per assicurare la riservatezza della discussione, è quello del dibattito a "porte chiuse". La stessa scelta effettuata anche da Tue European House-Ambrosetti. Con un club di 3 0 0 membri scelti tra le alte direzioni dei maggiori gruppi in­ dustriali italiani e multinazionali che operano in Italia, Ambrosetti, noto soprattutto per il celebre Forum (l'appuntamento che si svolge ogni anno a Cernobbio con la partecipazione di capi di Stato, Nobel ed economisti di livello mondiale), dal 2 0 0 1 ha accelerato la sua vo­ cazione internazionale, dando vita a una serie di financial workshop e di summit con think tank dedicati in vari Paesi dell'Africa e dell'Asia, dall'Iran al Sudafrica alla Cina. E, nelle edizioni 201 3 , 2 0 1 4 e 2 0 1 5 del "Global Go To Think Tank Index Report" dell'Università della Pennsylvania, è stato nominato primo think tank italiano e quarto think tank europeo. « Siamo consapevoli di avere un format unico al mondo», spiega Paolo Borzatta, senior partner di Tue European House-Ambrosetti, che continua: «Tra i prestigiosi summit a porte chiuse, un business forum di rilevanza mondiale, un magazine onli­ ne e una community per un confronto permanenti, si sta creando un network internazionale di leader che hanno come punto di ri­ ferimento l'Italia. Il nostro obiettivo per il futuro è di creare altre comunità di vertice attraverso la nostra capace intermediazione». Non una struttura alternativa alle infrastrutture pubbliche sulle qua­ li dovrebbe transitare la business community per l' internazionaliz­ zazione, ma piuttosto un contenitore di raccordo: «Noi facciamo l'approfondimento di lungo periodo e offriamo servizi di networ­ king permanenti a chi fa parte delle nostre community ». Del resto, il filone della politica estera è sempre stato il più affollato a livello di proposte di elaborazione permanente e i primi think tank si sono po­ sizionati proprio qui, dallo IAI (Istituto affari internazionali) all'1sP1 (Istituto studi politici internazionali), capaci di intercettare la mol­ teplicità di esigenze degli stakeholders e di generare, attraverso i loro network e i loro periodici papers, una logica di sistema e un'influenza costante sulle agende dei governi. 121

I cosiddetti think tank single issue, ossia quelli con una missione ben specifica su un obiettivo da perseguire, contano spesso una maggiore serie di risultati concreti e misurabili, perché da un lato costituiscono il punto di riferimento rispetto a temi che nessuno presidiava prima e perché vengono considerati degli interlocutori affidabili con i qua­ li confrontarsi anche dalle istituzioni. Il Forum della Meritocrazia (FdM), fondato nel 2 0 1 1 con l'obiettivo di promuovere e diffonde­ re la "Cultura del Merito" nel Paese, attraverso progetti e iniziative di cittadinanza attiva, oggi ha un network di 1 5 0 soci, una decina di aziende e istituzioni sponsor attive e altre 5 che partecipano alla campagna "Leadership e meritocrazia", 3 università che partecipano al programma di "Mentorship" del Forum e circa 5 . 0 0 0 persone che, a un secondo livello, partecipano alle iniziative in qualità di porta­ tori d'interesse. È con questi numeri che, da poco più di un lustro, il Forum porta avanti la cultura del merito, intesa come eguaglianza delle opportunità, libero dispiego delle potenzialità dei singoli e ri­ conoscimento dei meriti individuali, in un Paese che con il merito ha sempre avuto poco a che fare. «A livello internazionale la promozio­ ne del merito non è mai stata una vera issue; in Italia, invece, la man­ canza di meritocrazia a tutti i livelli è una delle cause per cui il Paese non cresce, per cui diffonderne la cultura significa aiutare la crescita. Campanilismo, clientelismo e altre forme di cooptazione non basate sul merito sono sempre stati alla base dei meccanismi di recruiting. La situazione dopo cinque anni di lavoro non è però cambiata mol­ to» ammette Nicolò Boggian, direttore generale di FdM, sociologo e advisor di aziende multinazionali. Il Forum opera attraverso tre modalità operative differenti: come vero e proprio think tank per elaborare pensiero strutturato e scientifico sul merito su cui basare la formulazione di proposte ai policy makers, come advocacy per pro­ muovere la cultura del merito, ingaggiando stakeholders su campa­ gne di comunicazione mirate e come community per fare education a partire da scuole e università. Tra i progetti più noti c'è quello del "meritometro': il primo indicatore europeo sullo stato del merito di un Paese, elaborato in collaborazione con l'Università Cattolica del Sacro Cuore. E, accanto al meritometro, il progetto per misurare la meritocrazia nei consigli di amministrazione. «Le quote rosa hanno 122

allargato la rappresentanza e aggiunto diversità (di genere), ma non hanno cambiato del tutto le cose, dato che, in molti casi, la nomina funziona ancora per cooptazione», secondo Boggian. Sulla questione della diversità ha lavorato molto un altro advocacy think tank italiano, nato nel 2009 dallo sforzo comune di 12 aziende impegnate nella promozione dei valori della diversità, del talento e della leadership al femminile per la crescita delle imprese e del Paese, che oggi conta un network di 152 imprese. Oltre all'impulso a modelli di governance più inclusivi ed equilibrati, Valore D ha portato avanti la diffusione di strumenti di welfare più flessibili volti ad aiutare la conciliazione e a eliminare stereotipi di genere che vedevano attribu­ ire al ruolo femminile quello di unico care giver, limitandone di fatto la crescita professionale e una giusta work lift balance. La crescita pro­ fessionale femminile, in Italia, infatti, è ancora un percorso a ostacoli: il pay gap tra uomini e donne resta del 17% (dati EUROSTAT 2016), mentre il 55,1% delle donne con figli lascia ancora il lavoro per pren­ dersi cura della famiglia (dati ISTAT, Rapporto annuale 2014), quando è stato calcolato che un'occupazione femminile al 60%, come preve­ dono gli obiettivi europei, porterebbe ad un aumento del 7% del PIL (dati Banca d'Italia 2013). Proprio per questo, Valore D promuove la leadership e il talento al femminile per la crescita delle aziende e del Paese. « La metà delle imprese associate che ha partecipato alle nostre attività ha attivato al suo interno misure concrete come la sperimen­ tazione di progetti di work lift balance, tipo smart working o remote working» , racconta il direttore generale Anna Zattoni. L'azione di Valore D non si declina solo verso le aziende, ma anche in direzione delle istituzioni. Il think tank rosa è ormai un interlocutore tecnico che partecipa ai lavori parlamentari in sede di audizioni, dando con­ tributi effettivi su temi legati agli strumenti di conciliazione e di wel­ fare, anche se non svolge un'azione lobbistica ma consultiva.

6.2.

Dal MEDEF a NESTA : come comunicano gli altri

Le Mouvement des entreprises de France (MEDEF) è la più grande associazione di categoria francese che ha sostituito, dal 19 98, Le 123

Conseil national du patronat français (CNPF) e rappresenta il mon­ do delle imprese d'oltralpe, con oltre 700.000 iscritte, di cui il 90% costituito da piccole e medie. Il MEDEF svolge a più livelli un'azio­ ne costante di lobbying che, in diverse occasioni, si è dimostrato un potente strumento di promozione di cause o parti politiche speci­ fiche, offrendo appoggio in maniera trasparente, proprio come un gruppo di pressione. Come nel 2012, quando ha pubblicato il ma­ nifesto "Besoin d'aire" (bisogno di aria o d'area?), un libro bianco contenente un articolato programma di sviluppo in 23 punti che, sostanzialmente, rappresentava l'appoggio formale dell'associazione confindustriale al candidato di centrodestra Nicolas Sarkozy, con­ tro la visione europeista contenuta nel carnet del partito socialista guidato da François Hollande e contro il programma economico di Marine Le Pen. Una scelta di campo che è sempre stata la cifra della comunicazione e dell'azione del MEDEF, anche prima della presiden­ za di Pierre Gattaz che, appena dopo il voto inglese sulla Brexit, non ha esitato comunque a porre in evidenza le necessità e le priorità su cui investire, in maniera esplicita e netta, pur sapendo che una par­ te dei suoi stessi associati, delusi e spaventati dalle molteplicità delle incertezze (economiche, politiche e sociali) in una Francia sempre meno europeista, attraversata dalla paura del terrorismo, dalle pro­ teste sindacali e dall'opposizione alla Loi Travail (legge proposta dal ministro del Lavoro Myriam El Khomri e adottata il 21 luglio 2016), non le avrebbe condivise (Brexit: Turn the Crisis into an Opportunity, 30 giugno 2016, http://medefcom/news). La Confindustria italia­ na, della cui cifra comunicativa abbiamo già detto, in un'ottica di tutela degli associati, non ha mai usato lo stesso stile interventista del MEDEF e non ha mai messo «i piedi nel piatto» , per dirla con Di V ico (2016b), così pesantemente come in occasione del referendum costituzionale del dicembre 2016, quando ha presentato un docu­ mento di quattro pagine elaborato dal suo centro studi che riportava scenari economici catastrofici in caso di vittoria del "No". Anche se, a differenza del "Besoin d'aire" del MEDEF, l'allarme lanciato dalle élite industriali italiane poco prima del referendum, in caso di scon­ fitta del "Sì", più che a un posizionamento politico (di appoggio al Governo Renzi) sembrava corrispondere a una scelta "pedagogica" e 124

alla volontà di riprendere quel ruolo di intermediazione nei confron­ ti non solo degli associati, ma dell'opinione pubblica intera, consi­ derata non attrezzata a fare una scelta consapevole, con il rischio di un esito simile al referendum inglese sulla Brexit. Il neopresidente Vincenzo Boccia, investendo sul "Sì", con l'azzardo che un'operazio­ ne del genere avrebbe portato con sé, ha fatto una scelta di campo che nessun dirigente confindustriale prima di lui aveva compiuto e che ha inaugurato un nuovo approccio comunicativo, più interventista e reintermediante nei confronti delle grandi scelte del Paese. NESTA, a cui abbiamo già accennato, è un'organizzazione non pro­ fit indipendente (di fatto sostenuta dal governo britannico e anche finanziata dallo stesso) che si struttura come un hub permanente per lo sviluppo dell'innovazione in Gran Bretagna. La sua mission è quella, tra l'altro, di misurare l'indice di innovazione secondo preci­ si parametri di riferimento, censire annualmente una lista di "inno­ vatori radicali" esemplari (individui o imprese), strutturare proposte per il governo, aiutare le startup e gli imprenditori che propongono soluzioni innovative per risolvere problemi economici o sociali con­ creti che, se scalabili, potrebbero cambiare il destino e lo stile di vita di milioni di persone. L'organo che presidia il tema dell'innovazione nel Regno Unito è dunque strategico per la crescita dell'economia britannica perché ne sostiene le imprese, alimentando la ricerca e lo sviluppo nei settori di volta in volta più cruciali. Tra i progetti di vario tipo portati avanti sinora da NESTA piace qui ricordare, perché coerente con questa analisi, "Cities of service UK ", un progetto che prende le mosse da un movimento di sindaci sviluppatosi negli Stati Uniti (promosso dal sindaco di New York nel 2009 ), che mette al centro delle grandi sfide l'impegno dei cittadini a risolvere proble­ mi o il supporto ad azioni di cittadinanza attiva. Una mobilitazione innovativa che, negli Stati Uniti dove è partita, ha già coinvolto 1 7 0 città e circa s o milioni di americani e promette di fare lo stesso non solo in Gran Bretagna, ma anche in Spagna, dove si stanno facendo degli esperimenti simili per trasformare il civismo in un asset. Oltre a NESTA, si occupa da dieci anni di misurare l'innovazione e il suo impatto sulla vita di milioni di individui, anche il Global lnnova­ tion Index (GII) che, dal 2008, cerca di cogliere le varie dimensioni 125

dell'innovazione e la relazione che esse hanno con la crescita delle economie mondiali. Il Gli rappresenta, in questo senso, uno stru­ mento unico perché mette assieme diversi indicatori ed è utile per tarare le policies di decine di Paesi al mondo rispetto ai fattori di cre­ scita che derivano dall'innovazione. Non solo, coprendo un largo spettro di aspetti legati all'innovazione, l'indagine riesce ad essere predittiva anche a livello locale, e non esclusivamente su scala macro.

6.3. Reti diffuse e cittadinanza attiva transnazionale Nuove forme di reintermediazione stanno sorgendo a livello interna­ zionale come risposta collettiva e partecipativa all'Europa dei tecno­ crati e delle banche, sempre più lontana dal suo progetto originario e sempre più contenitore delle ondate di populismo e regionalismo identitaria, nate come antidoto alle frustrazioni e alle paure che ogni giorno la attraversano. Si tratta di reti o di contenitori temporanei che si configurano come spazi di discussione e di proposta e tendo­ no ad aggregare intorno a burning issues attivisti, studiosi, innovatori più o meno radicali, cittadini comuni e "indignati" di lungo corso che mettono assieme e incrociano, in una prospettiva transnazionale, esperienze e competenze allo scopo di riattivare processi democra­ tici più diffusi. Decentralised Citizens Engagement Technologies (D -CENT) è una community internazionale che basa la sua propo­ sta sulla fiducia nell'intelligenza collettiva, partendo dal presuppo­ sto che i movimenti nati a cavallo tra gli anni Dieci e gli anni Venti per portare avanti le istanze di quel 9 9 % di cittadini globali che non si sente più rappresentato dalle istituzioni e dalle élite (l' 1 % ) , siano solo il punto di partenza di un più vasto movimento mondiale che riporterà la democrazia al centro attraverso la disintermediazione e il socia! networking (Calleja, Toret, 201 4 , p. s): Tue tactic and strategie deployment of (socio)technologies for collective action has been a recurrent gesture of these movements. Experimentation and large scale citizen participation have gone hand in hand with a multitudinous de­ ployment of information and communication technologies (1cTs). A poll in 17 countries of the s continents, carried out in 2 0 1 3 by the communication lab of

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Lisbon University, coordinated by Gustavo Cardoso, points to che existence of a global tendency on this regard: millions of people across che world ( especially in countries where protests and uprisings took piace between 201 1 and 201 3 ) have developed politica! practices in and through socia! networks. At che same time, according to Manuel Castells (2014), between 50% and 80% of che citi­ zens of che world do nor feel represented by politica! parties and governments; they call into question che institutional rules of democracy. Movements such as those mentioned above [ Occupy, Yosoy13, OccupyGezi, 15M] repose che very meaning of democracy in che contemporary networked societies that they themselves help to (re)constitute [ ... ] . Tue D - CENT project tries to bring to che table a sociotechnical contract that prioritizes users' rights.

Secondo D -CENT c'è una stretta correlazione tra i socia! network (di Internet) e gli "human networks" che nascono per le strade del mon­ do, e la saldatura tra le due dimensioni sta già portando all'emergere di nuove forme di comunicazione, di organizzazione e di azione col­ lettiva in grado di influenzare le agende transnazionali. Poiché tutto questo avvenga, nella prospettiva di D -CENT, le nuove autostrade del­ la reintermediazione collettiva devono essere senza pedaggio: piatta­ forme libere e non proprietarie che rappresentano una sfida duplice ai tradizionali aggregatori politici e ai media mainstream network. A livello municipale esperimenti di processi partecipativi attraverso piattaforme open source sono già stati portati avanti su specifiche issues a Barcellona, Madrid, Reykjavik e Helsinki. A livello teorico D ­ CENT affonda le radici nel grande dibattito portato avanti da Manuel Castells, Clay Shirky, Evgeny Morozov, Helton Levy. A riportare al centro del dibattito europeo valori come la cittadi­ nanza attiva, la solidarietà e la partecipazione ci hanno pensato an­ che gli attivisti di European Alternatives (Euralter ), l'associazione internazionale fondata sui « diritti dei cittadini che vengono pri­ ma di quelli delle istituzioni e del mercato» (come si legge sul sito https: // euroalter.com/it/): Aiutiamo società civile, singoli e movimenti sociali ad agire in modo coordina­ to a livello europeo per immaginare, richiedere e produrre alternative e influire sui processi decisionali. Sosteniamo una concezione ampia di solidarietà eu­ ropea promuovendo l'estensione delle politiche più progressiste a tutti i pae­ si europei, combattiamo xenofobia, omofobia e stereotipi. [ ... ] Le più urgenti

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questioni politiche e sociali non possono più essere affrontate a livello naziona­ le: promuoviamo cittadinanza attiva transnazionale per ripristinare il controllo democratico sul proprio futuro. [ ... ] EA vede nell'Europa e nelle sue istituzioni un interlocutore a cui indirizzare richieste da parte della cittadinanza.

Dal 2 0 1 1 Euralter organizza conferenze, festival, flash mob, oltre a firmare manifesti e raccogliere proposte da proporre alle istituzioni europee. Una forma di reintermediazione che nasce dalla protesta per generare un processo partecipativo permanente su diverse questioni. Con i suoi vari progetti (come quello di mettere in Rete "le città del cambiamento" in Europa) Euralter cerca di rispondere a una nuova pressante domanda che arriva dal basso e chiede di essere declinata non soltanto a livello locale, ma anche internazionale. Tra le varie ini­ ziative portate avanti da Euralter spicca il Festival TransEuropa, un contenitore di cultura, politica e arti varie, concepito come una fab­ brica di idee o uno spazio temporaneo per un confronto sulla demo­ crazia, sulla leadership e sui valori comuni. TransEuropa non è il solo contenitore di proposte e riflessioni sulla democrazia che si configura­ no come laboratori di idee; altri ne sono nati in questi ultimi anni, dal Forum di Persona! Democracy alla Biennale Democrazia a Torino, attiva dal 2 0 0 9 ("Partecipare attiva(la)mente", 2 2- 2 6 aprile). Più si de­ legittimano e perdono consistenza i contenitori tradizionali e i luoghi più istituzionali dell'intermediazione, più cresce la domanda di nuovi hub per l'elaborazione di modelli alternativi e più partecipati.

6.4. Il lessico del p assato e quello del futuro Se stiamo vivendo una profonda trasformazione, non solo dei mercati, ma anche della nostra democrazia e delle sue piattaforme, dobbiamo fare attenzione a come tutto questo si riverbera sul discorso pubblico contemporaneo. Il tasso di trasparenza, di consapevolezza e di condi­ visione del nostro dibattito si misura anche dall'utilizzo delle parole presenti quotidianamente nella vita pubblica. Quali sono dunque le parole e i segni attorno a cui ruota prevalentemente la nostra vita pub­ blica fuori e dentro il perimetro dei media vecchi e nuovi? Sono gusci 128

vuoti o denotano ancora significati condivisi? «Quando in un discor­ so pubblico ci sono parole che non sono completamente messe a fuo­ co, ciò può costituire un danno per la vita democratica nel suo insie­ me», postula Giovanni Moro (FdP, L'Aquila, 8 luglio 2016). La stessa parola "disintermediazione" che allude a processi a cui in molti hanno già in effetti preso parte, è una parola non completamente messa a fuoco dalla collettività, per lo meno non nell'accezione ampia nella quale la stiamo considerando dall'inizio di questa analisi. «Il tema in Italia è stato politicizzato e si è voluto stressare solo alcuni aspetti, col­ legandone l'avvento con la leadership renziana», commenta Antonio Belloni, che continua: «È importante ricondurne invece il termine ad una matrice economica e alla riduzione dei passaggi, nonché ricordare che, anche in ambito politico, tanti piccoli elementi di disintermedia­ zione sono pre-renziani». Anche perché sarebbe importante che le parole che descrivono il nostro tempo e il nostro spazio non fossero ambigue e strumentali, ma chiare e significative in modo che alcuno possa farne un uso improprio. Ma qual è esattamente il linguaggio del nostro tempo, quello comune e quello mediale, che serve a identificare e a identificarsi? A includere e a escludere? Demos & PI, che ha tracciato una mappa sul linguaggio del nostro tempo (XLVI Osservatorio sul Capitale sociale degli ita­ liani, sondaggio Demetra, giugno 2015), ha evidenziato due regioni separate, una della semantica "buona" e una di quella "cattiva", divise da una «Terra di mezzo», che Ilvo Diamanti (2015b) definisce «luo­ go di conflitti e di battaglie ricorrenti [ ... ] di cui sono divenuti "canali" importanti i "socia! media": Twitter e Facebook. Ma anche i giornali e la TV». La semantica cattiva è una valle del disincanto, dove sono state relegate dagli italiani quelle parole che evocano un sentimento di delusione e che sono denotative soprattutto della stanchezza della nostra società: "lo Stato': "l'Euro", "l'Unione Europea" o "il respingi­ mento degli immigrati" si collocano qui, tra le parole "out". Mentre tra le parole "in" ci sono "la ripresa", "le esportazioni" e "le riforme': tanto per essere chiari. La linguistica del disincanto contro quella della spe­ ranza. Sorprendentemente ma non troppo, nella categorizzazione tra le parole del passato e quelle del futuro, quasi tutti i corpi intermedi fi­ niscono nel primo gruppo: "i partiti': "i sindacati", "i politici': "il presi129

dente della Repubblica", "i giornali", ma anche "la Chiesa" (come ave­ vamo già visto nel PAR. 2.4). In realtà il rapporto Demos & PI (2015) (il cui Mapping al quale abbiamo accennato sopra fa riferimento al modello francese dell'Institut Médiascopie) non fa che confermare un sentimento collettivo che abbiamo cercato, sin qui, di catturare, attraverso le considerazioni degli esperti, l'analisi dei commenti che viaggiano sui socia! network e le fotografie scattate su alcuni mondi che un tempo erano le cinghie di trasmissione tra i cittadini/utenti e le istituzioni/fonti. Non è irrilevante, poi, che anche il discorso politi­ co, di questi tempi, tenda a dividere tra nuovi miti e «vecchi arnesi», «vecchio» (tutto ciò che si fonda sul principio di rappresentanza e necessità di corpi intermedi) e «nuovo», tutto ciò che consente di autorappresentarsi (Matteo Salvini, in Adnkronos, 2016; Michele Serra, in "la Repubblica", 2017 ) e a polarizzare la comunicazione tra elementi di facile contrapposizione come «lo stallo» (Matteo Renzi, TGcom 24, 18 marzo 2016) e il movimento; la ridondanza e «la sem­ plificazione» (Maria Elena Boschi, in " Il Sole-24 Ore", 2014). Tuttavia, se "la famiglia" e "Internet" sono diventati, nell'immagina­ rio collettivo, gli unici luoghi di consumo della relazione, significa che gli altri luoghi sono sentiti dalla maggioranza delle persone come superflui, o comunque marginali all'interno di una visione colletti­ va. E, al netto della coolness che gli italiani, facili all'innamoramento, attribuiscono a certe parole divenute di uso comune anche perché denotative di una particolare "visione buona" del mondo, come la stessa "sharing economy", "l'innovazione': o "le energie rinnovabili", non si può non rilevare che l'importanza attribuita al "merito" o al "bene comune" o alla "lotta alle diseguaglianze" rappresenti un' in­ dicazione chiara per un sillabario della ripresa che identifica bisogni comuni e condivisi sui quali occorrerebbe soffermarsi un po' più a lungo e in altre sedi.

6 . 5 . Strategie di reintermediazione e sillabari postcrisi Sembra che combattere le diseguaglianze e investire sul merito sia dunque in cima all'agenda dei cittadini reduci dalla grande crisi, 130

un'agenda piena di cancellature e di rimandi. «Gli italiani hanno in­ teriorizzato la crisi come un contesto permanente», sintetizza Luca Comodo, group director Ricerche politico-elettorali IPSOS Public Affairs, presentando un'analisi commissionata su "Il clima del Paese" ( Consiglio regionale della Lombardia, gruppo PD, 2016). «Si muo­ vono ormai da anni dentro questa cornice e hanno ridimensionato le attese rispetto alla ripresa che sino all'inizio del 2016 erano alte». Di sicuro gli italiani sono cambiati, anche se è ancora presto per dire quanto, e si stanno muovendo incerti, dentro i nuovi assetti - dei quali la disintermediazione è un aspetto importante e centrale, anche per ragioni economiche -, alla ricerca di nuovi ancoraggi e di nuovi interpreti del cambiamento, anche inediti, come le marche che gio­ cano oggi un ruolo sempre più politico e sociale perché «portatrici di valori e vissuto reali» (Italia 2 0I7: la realta su misura, IPSOS Flair Collection). La generazione cresciuta nella penuria del lavoro e spesso dei beni materiali è anche la prima cresciuta nell'abbondanza della comunicazione: la condivisione e il mutuo soccorso, vecchi rimedi della società sotto i colpi dell'economia, si fanno più facili grazie alla tecnologia e alla sua accessibilità diffusa. I cambia­ menti nei consumi, di certo indotti da vincoli di bilancio spesso drammatici, sono anche accompagnati o accompagnano nuovi modelli e stili di vita: quanti di questi resteranno, quanti spariranno per tornare al grasso spreco di prima ?

Roberta Carlini (2015) descrive con queste parole gli italiani e la crisi, paragonando la "Grande Recessione" alla Grande Depressione del 1 9 29 e riflettendo sul fatto che, come l'avvio del New Deal di Roosevelt e di gran parte degli istituti di welfare moderni sono figli legittimi della più grave crisi economica novecentesca, anche dalla crisi del secolo successivo potrebbero svilupparsi nuove piattaforme. «Il welfare per categorie non ha più senso» spiega Carlini. «Posso­ no nascere nuove forme di solidarietà, si stanno già creando anche spontaneamente diverse reti di mutuo soccorso che danno risposte sulle diseguaglianze, mentre i corpi intermedi tradizionali lasciano fuori troppi soggetti e non sanno più dare risposte a questo tema». Lo ha detto chiaro, come abbiamo visto, anche il rapporto Demos & PI (2017), del quale Luigi Ceccarini (2017) ha evidenziato la dico131

tomia tra sfiducia nelle istituzioni e partecipazione alla dimensione pubblica attraverso nuove forme di coinvolgimento che passano da Internet. La difficoltà a cambiare pelle dei corpi intermedi italiani e a recidere i legami con il passato - che, come abbiamo visto, non può risolversi con un restyling da socia! network o un maquillage a base di storytell­ ing - non lascerà, dunque, il campo a una disintermediazione totale, ma, come in ogni processo di trasformazione, la riarticolazione del sistema avverrà sia attraverso interventi di manutenzione più o meno strutturale che attraverso interventi di sostituzione totale. «Poiché è un processo ciclico e non lineare, a mio avviso, la disintermediazione è già nella sua seconda fase, che è proprio quella della reintermedia­ zione» , anticipa Antonio Belloni. «I nuovi intermediari sono aggre­ gatori, selezionatori, ricostruttori» . I candidati alla reintermediazione, a cui spetta il compito di assu­ mersi anche la rappresentanza dei "finora esclusi", possono essere sia quegli interpreti tradizionali capaci di reinventarsi, mettendosi diret­ tamente in pancia i fautori del cambiamento (i giovani, i disrupters e gli innovatori), perché disposti ad assumerne il rischio, sia i nuovi in­ terpreti, ossia coloro che hanno colonizzato nuovi territori e hanno presidiato bisogni sinora inascoltati. Ci ricorda Alessandro Rosina, ordinario di Demografia dell'Università Cattolica di Milano, che: L' Italia, in una certa fase, è riuscita a combinare positivamente crescita demo­ grafica, sviluppo economico e welfare che generava benessere diffuso, e lo ha fatto attraverso degli interpreti che hanno portato avanti questo modello per anni, con successo, tenendolo in equilibrio. Ora quel modello non esiste più, però gli interpreti di quell'equilibrio perduto [i vari corpi intermedi] cercano di difenderlo e di mantenerlo in vita il più a lungo possibile, anche se non genera più benessere e non dà più risposte alla maggior parte, pur di non perdere delle rendite di posizione e non correre dei rischi. Ma congelare l'equilibrio non è mai possibile, anche se in Italia siamo allenati a farlo con una certa resilienza e, in questo senso, la Torre di Pisa è il nostro simbolo nazionale più calzante.

Chi non è disposto a resistere, anche perché non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare, sono i millennials (i nati tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila), la cui principale istanza è il tema dell'ingiusti132

zia sociale (Istituto Giuseppe Toniolo, 2016), in cima alla lista di tutti i temi che abbiamo visto denotati dal lessico del futuro nel rapporto Demos & PI (2015) (dalla difesa dell'ambiente all'investimento sulle energie rinnovabili, alla valorizzazione del merito). « Questa seman­ tica delle nuove generazioni è trasversale a destra e a sinistra, classi sociali medio basse e classi sociali medio alte, Nord e Sud del Paese, non c'è frattura che tenga, perché esprime la loro visione della società e del mondo», spiega ancora Rosina. È proprio a questo sillabario postcrisi, secondo chi scrive, che dovranno guardare i nuovi interme­ diari o i reintermediatori, che dir si voglia, perché è soltanto dentro questo e altri sillabari condivisi che si possono ricostruire significa­ ti e percorsi comuni - evitando così di andare in ordine sparso - e costruire una progettualità di lungo respiro sul cambiamento, come altri Paesi più attrezzati fanno da tempo. Qualunque strategia è però destinata a non avere successo, a prescindere dall'appropriatezza dei linguaggi e dei canali, se alla base non c'è l'autenticità.

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