Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007 8842088382, 9788842088387

Il carcere è un mondo immerso nella società, ma è anche un'istituzione sempre pronta a ripararsi dagli sguardi estr

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Italian Pages 254 [255] Year 2009

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Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia 1943-2007
 8842088382, 9788842088387

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Storia e Società

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009

Christian G. De Vito

Camosci e girachiavi Storia del carcere in Italia 1943-2007 Prefazione di Guido Neppi Modona

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8838-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Enrico

PREFAZIONE di Guido Neppi Modona Oltre venticinque anni orsono, nel corso di un convegno della Fondazione San Servolo di Venezia sulla storia e sugli archivi manicomiali, ospedalieri e carcerari1, avevo avuto occasione di rilevare che la ricerca storica sulle carceri italiane era stata prevalentemente condotta «dalla parte delle istituzioni». Sia per il periodo liberale che per il ventennio fascista e gli anni della Repubblica, le ricerche avevano privilegiato la legislazione e i regolamenti penitenziari, le circolari ministeriali, i dibattiti parlamentari, gli atti della Direzione generale delle carceri e dei riformatori (poi Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena), conservati presso i fondi del ministero dell’Interno e della Giustizia depositati all’Archivio centrale dello Stato. Ed ancora, le cronache e i saggi dottrinali pubblicati su riviste giuridiche specializzate, a loro volta diretta espressione dei vertici ministeriali dell’amministrazione carceraria. È vero che nella storia dalla parte delle istituzioni esistevano necessariamente anche i detenuti: stante l’organizzazione rigidamente burocratica e gerarchica dell’Amministrazione penitenziaria, i direttori delle carceri avevano una scarsissima autonomia gestionale e dovevano quindi chiedere il parere della Direzione generale prima di dare corso a qualsiasi decisione sulle migliaia e migliaia di istanze presentate dai reclusi. Dalla fittissima corrispondenza tra i direttori e la Direzione generale, relativa ad esempio agli anni a cavallo tra Otto e Novecento, emergeva il quadro di una umanità misera e dolente di detenuti sacrificati nei bisogni più elementari. Le feroci e brutali vessazioni discendenti da una fiscale e burocratica applicazione del Regolamento carcerario del 1891 e il conseguente clima di violenza fi-

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sica e morale erano comunque filtrati e giustificati dalle esigenze di ordine e di sicurezza a cui si appellava la Direzione generale. I detenuti rimanevano nell’ombra, comparivano come mere pratiche burocratiche impersonali, risolte alla luce dell’interpretazione del monumentale Regolamento, ricco di ben 891 articoli. Avevo allora suggerito una diversa prospettiva di ricerca, per passare appunto dalla storia delle istituzioni penitenziarie alla storia dei detenuti, privilegiando le fonti archivistiche locali, presumibilmente depositate nelle sezioni provinciali dell’Archivio di Stato o ancora conservate nelle stesse carceri. Avevo anche segnalato che una storia dalla parte dei detenuti non avrebbe potuto prescindere dall’altro polo del rapporto carcerario, cioè il personale a diretto contatto con i reclusi, agenti di custodia e dipendenti civili dell’Amministrazione penitenziaria. Opportune ricerche a campione sui dati significativi emergenti dai loro fascicoli personali, quali i livelli di istruzione e preparazione e la provenienza sociale e regionale, avrebbero potuto recare validi contributi per comprendere le radici del clima di violenza e di sopraffazione che ha sempre caratterizzato con impressionante continuità il mondo carcerario. Ebbene, questo volume di storia del carcere in Italia dalla Repubblica di Salò all’inizio del nuovo secolo, frutto di lunghi anni di appassionata ricerca del giovane Christian G. De Vito, ha in gran parte realizzato quegli auspici, privilegiando, tra le «molte storie possibili», le «vicende dei detenuti uomini nelle carceri per adulti». Sullo sfondo rimangono altre «storie», ad esempio quella dei manicomi – ora ridenominati ospedali psichiatrici – giudiziari; attenzione solo marginale ed episodica è d’altra parte riservata alle detenute donne e ai detenuti minorenni, alle varie strutture, istituzionali o volontarie, per l’assistenza ai liberati dal carcere, e così via. Finalmente una storia dalla parte dei detenuti, nella quale si lascia intendere che vi è spazio per scrivere altre «storie», qui solo sfiorate. Alla luce di questa premessa, non è casuale che la storia scritta da De Vito si apra con una Introduzione che ha come principali protagonisti i detenuti e le loro condizioni di vita in un periodo senza tempo, fuori dall’impianto cronologico lungo il qua-

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le si sviluppa il volume. Sin dalle prime pagine emergono così alcuni caratteri fondamentali del mondo carcerario: la secolare continuità di logiche e di meccanismi di governo che si basano sul clima di violenza tra custodi e custoditi e tra gli stessi detenuti, sull’emarginazione, separazione e impermeabilità rispetto al mondo esterno, sulla perenne contraddizione tra le finalità dichiarate (di emenda, di recupero sociale, di rieducazione dei condannati) e quelle attuate di fatto mediante consolidate e apparentemente immutabili prassi carcerarie. I contenuti dell’Introduzione sono comunque collocabili, grazie a qualche data nel testo e al materiale d’archivio e bibliografico richiamato in nota, nell’arco del quindicennio tra il 1960 e l’approvazione del nuovo Ordinamento penitenziario del 1975. Scrivere una storia del carcere dalla parte dei detenuti vuol dire fare parlare in primo luogo gli stessi reclusi attraverso le lettere scritte e mai inoltrate perché sequestrate dalla direzione del carcere. Ma vengono utilizzati anche le cartelle biografiche e le loro relazioni, le lettere, i documenti ufficiali dei direttori di vari istituti di pena, delle direzioni distrettuali penitenziarie, dei comandanti e dei marescialli degli agenti di custodia, dei giudici di sorveglianza e dei pubblici ministeri, cioè di soggetti che per ragioni di ufficio si sono occupati di questioni e problemi di singoli detenuti ovvero più in generale delle condizioni di vita della popolazione carceraria. Questa inedita e ricca documentazione è tratta da un campione rappresentativo sotto molteplici aspetti dell’universo carcerario italiano. Con riferimento alla sola Introduzione, sono elencati quali fonti l’Archivio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, numerosi fondi dell’Archivio centrale dello Stato e delle sezioni provinciali di Firenze, Perugia, Roma e Torino, nonché la documentazione reperita presso numerose carceri che conservano alla rinfusa materiale non conferito – e forse non lo sarà mai – agli archivi di Stato. Quanto alla dislocazione sul territorio, la documentazione è relativa agli istituti di pena o alle case circondariali, non più in funzione o ancora attivi, di Firenze, Pisa, Torino, Milano, Lecce, Roma, Volterra, Orvieto, Bologna, Bari, Favignana, Trapani, Ravenna, Spoleto, Saliceta San Giuliano, Fermo, San Gimignano, Lucca. Sono stati utilizzati anche fondi dell’Archivio della Scuola di

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formazione e aggiornamento del Corpo di polizia e del personale dell’Amministrazione penitenziaria di Cairo Montenotte, vari archivi privati di soggetti, istituzioni, associazioni, fondazioni culturali che hanno svolto ruoli di rilievo nell’Amministrazione penitenziaria, nell’assistenza ai detenuti, in attività di ricerca su tematiche carcerarie. Spazio è poi dedicato alla memorialistica dei detenuti e di altri attori delle istituzioni penitenziarie, a testimonianze e interviste. Attraverso gli occhi e le parole di chi vive dentro il carcere perché imputato o condannato o lo frequenta per motivi di lavoro, il lettore è subito proiettato nella dura realtà di quel mondo, a cominciare dai locali, dall’atmosfera e dalle prassi che caratterizzano l’ordinaria vita quotidiana: limitatissima dimensione degli spazi a disposizione, circoscritti alla cella e ai cortili per il passeggio, rigide scansioni temporali della giornata, dipendenza dagli agenti di custodia per qualsiasi esigenza. Ma ben presto il detenuto si rende conto che in carcere non esistono condizioni di vita «ordinarie» e che prevalgono gli aspetti patologici: dall’astinenza sessuale alle pratiche omosessuali, dall’autolesionismo per attirare l’attenzione sulle proprie vicende ed esigenze personali o giudiziarie sino al rimedio estremo del suicidio, tentato o consumato, dai traffici interni di qualsiasi «merce», anche armi, alcolici e droga, alla formazione di clan o cosche, centri di potere e di sopraffazione tollerati dalla direzione per l’essenziale funzione svolta nel mantenere l’ordine interno. In carcere i detenuti convivono con gli agenti di custodia, di cui viene documentata e sottolineata la «sostanziale omogeneità sociale» con la stragrande maggioranza della popolazione carceraria, la provenienza dalle regioni meridionali e insulari, il bassissimo livello di istruzione, l’ossessione per la disciplina militare, il sistema delle ricompense e delle punizioni sotto molti aspetti assimilabile a quello previsto per i detenuti e comunque essenzialmente improntato a esercitare la sorveglianza e forme di controllo sugli stessi sorveglianti. Via via che ci addentriamo nelle prassi di governo e di controllo della complessa macchina carceraria, così diversa, imprevedibile e misteriosa rispetto alle finalità dichiarate nelle leggi, nei regolamenti e nelle circolari ministeriali, scopriamo le reali «tecniche» carcerarie, stratificate nel tempo grazie all’esperienza sul

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campo dei direttori e dei marescialli degli agenti di custodia: detenuti disposti a collaborare, amici della direzione o infami a seconda dei punti di vista, strumento essenziale per conoscere e prevenire i piani di evasione, proteste e rivolte, presenza di armi e droga; l’esasperata differenziazione delle condizioni dei reclusi, tra chi lavora e chi è costretto all’ozio, tra chi collabora con la direzione e ha maggiore libertà di movimento e privilegi, ad esempio in tema di colloqui e di contatti con il mondo esterno, e chi è sottoposto a un regime particolarmente severo, tra chi è destinatario di sanzioni disciplinari e chi riceve ricompense, tra chi è trasferito per punizione e chi invece ottiene a titolo di premio la traduzione in un carcere più gradito e «confortevole». La storia «dalla parte dei detenuti» è il filo conduttore anche delle vicende che si snodano seguendo lo sviluppo cronologico dal 1943 ai tempi nostri, dalle «carceri in guerra» all’indulto dell’estate 2006. Un pietoso velo di oblio ha sinora coperto gli orrori, in gran parte ignoti al grande pubblico, delle carceri nel territorio della Repubblica di Salò, divenute strumento di persecuzione poliziesca e politica, serbatoio e centro di raccolta e di smistamento di manodopera da inviare nei campi di lavoro in Germania, sino a concedere ai nazisti di istituire proprie sezioni all’interno dei principali istituti di pena, tra cui San Vittore, Marassi, Regina Coeli. Le fughe in massa organizzate dai partigiani nelle zone da loro controllate, ovvero durante i frequenti bombardamenti e poi a ridosso del crollo definitivo del nazi-fascismo, consentono al lettore, dopo tanti orrori, di trarre un liberatorio sospiro di sollievo anche al riemergere di situazioni e vicende sostanzialmente ricorrenti nella storia carceraria, dalle deplorevoli condizioni edilizie e igienico-sanitarie degli istituti penitenziari, ora certamente aggravate dai bombardamenti e dalle devastazioni belliche, alle violente e sanguinose rivolte di Regina Coeli, Le Nuove, San Vittore nell’immediato dopoguerra. Dopo il periodo terribile dal 1943 al 1945 i detenuti tornano a parlare e anche a trovare ascolto. L’occasione è offerta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri, la prima e unica nella storia dell’Italia unita, istituita nel 1949, alla quale i detenuti indirizzano centinaia di lettere, ampiamente utilizzate da De Vito per disegnare «una vera e propria geografia sommersa delle

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carceri italiane di quegli anni». Le proteste dei detenuti e le speranze di riforma sollevate dalla Commissione parlamentare si spengono però ben presto: entro i primi anni Cinquanta, insieme alla ricostruzione materiale degli stabilimenti penitenziari, l’amministrazione porta a compimento un’opera di normalizzazione della disciplina carceraria e di restaurazione del carattere afflittivo della pena detentiva. Di decennio in decennio, De Vito ci conduce lungo la storia sociale, politica ed economica del paese vista con gli occhi dei detenuti dall’interno del carcere. Ed è appunto in questo intreccio tra la storia e le specifiche vicende penitenziarie che incontriamo il carcere «morale» e ormai «pacificato» degli anni Cinquanta e Sessanta, emblematicamente rappresentato dalle visite dei pontefici e delle Dame di San Vincenzo e dal ruolo paternalistico di conforto e di contenimento dei cappellani. In quegli anni incomincia anche a essere sperimentato nelle sezioni di alcuni istituti il modello del «carcere-clinica», che fa del detenuto un oggetto di studio e di osservazione scientifica della personalità, secondo le finalità dei programmi di «trattamento individualizzato» volti alla sua rieducazione. Ma la fine del carcere «morale» è segnata soprattutto dalle diffuse e violente rivolte tra il 1969 e i primi anni Settanta, sull’onda lunga della contestazione studentesca del 1968, dell’autunno caldo dell’anno successivo e più in generale della «scoperta», sia sul terreno culturale che su quello della lotta politica, delle istituzioni totali, dall’ospedale psichiatrico al carcere e alla caserma. I detenuti «rivoltosi» e «sobillatori», che denunciano le disumane condizioni di vita del carcere e chiedono le sempre promesse e mai realizzate riforme dei codici penali e del regolamento penitenziario, sono repressi duramente con migliaia di trasferimenti punitivi, che hanno peraltro l’effetto di diffondere le parole d’ordine della protesta negli istituti di pena fino ad allora immuni. La nuova ondata di rivolte suggella le prime forme di collegamento tra studenti e operai in carcere per reati di carattere politico-sociale e detenuti che stanno scontando lunghe pene per reati comuni, soprattutto clamorose rapine, e che avevano avuto momenti di popolarità nella cronaca nera e giudiziaria di quegli anni. Ha così inizio la stagione della politicizzazione della popolazione carceraria, reale e in parte solo prefigurata, che si prolunga, attraverso la stagione tragica del terrorismo, sino alla metà degli

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anni Ottanta. Durante le rivolte all’inizio del 1971 e poi nel 1972 si sperimentano i primi collegamenti tra le cosiddette «avanguardie interne» dei detenuti comuni «politicizzati» e i detenuti politici, per lo più giovani militanti in Lotta Continua; all’esterno è ancora Lotta Continua a indicare le connessioni tra le rivendicazioni dei detenuti e gli obiettivi e i significati politici della protesta carceraria, anche attraverso le iniziative del Soccorso Rosso. Questa lunga stagione è seguita da vicino da Christian G. De Vito, sulla base di fonti e prospettive d’indagine sinora non utilizzate ai fini della storia carceraria, a cominciare dalla definitiva incompatibilità tra l’iniziativa politica di Lotta Continua, volta a coinvolgere l’intera massa dei detenuti e a formare nuclei di discussione e di dibattito all’interno di ciascun carcere, senza trascurare il miglioramento delle condizioni di vita dei reclusi, e gli obiettivi di gruppi clandestini quali i Nuclei armati proletari, che si propongono di addestrare e usare singoli detenuti politicizzati per evasioni e attentati. La stagione del carcere «politico» si intreccia inizialmente con le vicende della riforma penitenziaria approvata nel 1975 in un testo assai meno avanzato di quello discusso e votato due anni prima dal Senato; testo sul quale avevano certamente influito le rivendicazioni dei settori più politicizzati e maturi della protesta carceraria. Negli anni successivi a intrecciarsi con il carcere saranno invece le tragiche vicende del terrorismo e i mortali attentati dei Nuclei armati proletari, delle Brigate Rosse, di Prima Linea, che colpiscono pesantemente anche il personale civile e militare dell’Amministrazione penitenziaria e i magistrati distaccati presso la Direzione generale. Le ricadute dell’emergenza terrorismo sulle istituzioni penitenziarie a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta sono puntualmente colte e documentate: in particolare, il notevolissimo e accelerato sviluppo dell’edilizia e delle strutture penitenziarie di sicurezza e la cosiddetta «modernizzazione», soprattutto in termini di maggiori controlli sulle aree interne ed esterne degli istituti per prevenire evasioni, disordini e rivolte, nonché l’aumento degli organici degli agenti di Polizia Penitenziaria. Al riguardo, non è casuale che la prima vera e propria differenziazione tra i detenuti, sanzionata anche con un formale de-

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creto interministeriale, sia stata realizzata nel 1977, attraverso la creazione del circuito di massima sicurezza, ideato soprattutto per i terroristi, destinato ad ospitare un migliaio di detenuti, che diventeranno circa 3500 alla fine del decennio. Allo specifico fenomeno della dissociazione dei terroristi si rispose invece con la creazione delle cosiddette «aree omogenee», specularmente opposte al circuito di massima sicurezza, destinate a chi, pur senza avere tenuto condotte di collaborazione con l’autorità giudiziaria, aveva espresso e manifestato una definitiva condanna politica e ideologica delle pratiche del partito armato e si era distaccato dalle organizzazioni clandestine di appartenenza. De Vito mette in luce che il fenomeno della dissociazione avrebbe avuto un ruolo nel favorire l’impianto complessivo della «legge Gozzini» del 1986, che aveva appunto formalizzato, estendendolo a tutti i detenuti, il doppio circuito degli istituti speciali di massima sicurezza, caratterizzati dall’isolamento, dalla rarefazione dei contatti con il mondo esterno e dalla disciplina di rigore, e del carcere ordinario, o a sicurezza attenuata, per i detenuti di «buona volontà», favoriti nella concessione delle misure alternative al carcere e, almeno sulla carta, da un trattamento penitenziario volto al recupero sociale e al reinserimento nella società libera. La linea di tendenza della differenziazione, ulteriormente sviluppata nel corso degli anni Novanta nei confronti degli appartenenti alle associazioni di stampo mafioso, è emblematicamente rappresentata da un lato dall’accesso eccezionalmente agevolato alle misure alternative al carcere per i collaboratori di giustizia, dall’altro dalla disciplina di particolare rigore – il regime di sorveglianza speciale – introdotta dalla «legge Gozzini» nell’art. 41bis dell’Ordinamento penitenziario per una vasta tipologia di reati riconducibili alla criminalità organizzata, in sostituzione dell’art. 90 dell’originaria legge penitenziaria del 1975. Questa visione un po’ manichea, che sostanzialmente rispecchia, sia pure semplificandole e appiattendole, le due anime che sono sempre esistite nella popolazione carceraria, entra a sua volta in crisi verso la fine degli anni Novanta: la diffusa applicazione delle misure alternative previste dalla «legge Gozzini» e degli altri benefici via via introdotti per ridurre la durata della pena detentiva, ovvero per sospenderne prima dell’inizio l’esecuzione,

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viene additata quale causa della crescente incertezza e imprevedibilità della pena detentiva stessa. La progressiva disarticolazione del sistema in realtà tocca tutti i settori della giustizia penale: varie forme di «indulgenza di Stato» hanno praticamente cancellato la natura di illecito di numerose categorie di reati; il processo penale si avvia verso una progressiva e crescente paralisi; nel sistema sanzionatorio si moltiplicano i meccanismi legislativi di fuga dalla pena detentiva, dettati dall’esigenza di fronteggiare l’insostenibile sovraffollamento della popolazione carceraria; nel carcere le forme e le modalità di esecuzione della pena sono sempre più diversificate e frammentate a seconda dei gruppi di detenuti cui si riferiscono, in violazione del principio costituzionale di eguaglianza di fronte alla legge. Tutti questi elementi concorrono, ciascuno per la sua parte, a modificare profondamente le istituzioni penitenziarie e, prima ancora, lo stesso sistema della giustizia penale, rendendo al momento impossibile intravedere la direzione e gli sbocchi dei mutamenti in atto. In particolare, nel corso dell’ultimo decennio si è intensificata la politica dei condoni fiscali e tributari (tra cui il cosiddetto «condono tombale»), nonché in tema di abusi edilizi, di emersione del lavoro nero, di capitali illecitamente trasferiti e mantenuti all’estero (il cosiddetto «scudo fiscale») ecc., sottraendo alla giustizia penale ed eventualmente alla pena detentiva autori di reati assai frequenti e diffusi in vasti strati della popolazione appartenenti ai ceti medio-alti. La crisi di funzionalità e di efficienza della giustizia penale ha aumentato a dismisura i tempi processuali, sì che l’estinzione dei reati per prescrizione è divenuta l’ordinario esito della maggior parte dei processi anche di media gravità; si salvano solo alcune categorie di reati gravissimi, dall’omicidio ai delitti della criminalità organizzata, dalle violenze sessuali alla pedo-pornografia e allo sfruttamento sessuale dei minori. Malgrado la situazione di pressoché totale paralisi del processo penale, il carcere continua a vivere il paradosso di essere sempre sul punto di esplodere a causa del sovraffollamento. Il carcere è in effetti divenuto il contenitore temporaneo, talvolta per brevissima durata, delle due categorie di detenuti più neglette e disperate, imputati extracomuni-

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tari e tossicodipendenti in attesa di giudizio, che si rinnovano continuamente di settimana in settimana, e anche di giorno in giorno. Questa situazione paradossale è anche conseguenza della disgregazione del sistema sanzionatorio. Da un lato la legge continua a privilegiare la sanzione detentiva, ma nella maggior parte dei casi la pena della reclusione sta scritta solo nel codice penale e nelle sentenze di condanna. L’impossibilità di contenere in carcere tutti i condannati determina incertezza circa l’an, il quantum e il quomodo della pena: nel momento in cui l’imputato viene condannato, non vi è certezza se sconterà effettivamente la pena detentiva, non si conosce quale ne sarà la durata e quali ne saranno le modalità di esecuzione, se in carcere o fuori del carcere, ovvero in parte in carcere e in parte fuori, ovvero sin dall’inizio in luogo diverso dal carcere. La fuga dal carcere si realizza mediante strumenti legislativi sempre più complessi e sofisticati: misure alternative alla detenzione, applicate dal Tribunale di sorveglianza (semilibertà, detenzione domiciliare, abbuoni di pena); permessi per motivi di studio o di lavoro; lavoro all’esterno del carcere; varie forme di sospensione dell’esecuzione degli ultimi due o tre anni della pena detentiva da scontare, ovvero anche dell’intera pena ove questa non sia superiore a tre anni; l’indulto, come quello concesso con la legge 31 luglio 2006, n. 241, che ha condonato tre anni di pena detentiva, anche residua di una maggior pena, con la sola eccezione delle condanne per alcuni reati gravissimi (delitti di terrorismo e di criminalità organizzata, sequestro di persona a scopo di estorsione, traffico di droga, violenza sessuale, pedo-pornografia, sfruttamento della prostituzione minorile). Il loro insieme concorre a rendere l’esecuzione della pena scritta nella sentenza di condanna sempre più imprevedibile, discrezionale e indeterminata, in palese violazione del principio di legalità in materia penale. In sé e per sé le fughe dal processo e dal carcere non sono un male, posto che entrambi non assolvono più alle rispettive funzioni di giudicare tutti gli imputati in tempi ragionevolmente brevi, nel rispetto del principio di eguaglianza, e di custodire quasi 60.000 detenuti in condizioni minime di umanità, di civiltà e di decenza. Quello che non è accettabile sono le ricadute di queste ormai incontrollabili forme di indulgenza di Stato sul principio

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della certezza e della legalità della pena e sulla credibilità del sistema penale. Per non intaccare questi fondamentali principi costituzionali, le misure alternative alla detenzione dovrebbero divenire pene principali, come tali previste e disciplinate dalla legge e applicate direttamente dal giudice del processo con la sentenza di condanna, nel rispetto delle garanzie di legalità e di eguaglianza in materia penale, cioè della previa conoscenza da parte di tutti i destinatari della natura della pena minacciata dalla legge e delle sue modalità di esecuzione. Alla disgregazione del sistema sanzionatorio fa riscontro la progressiva frammentazione degli istituti di pena e delle sezioni al loro interno, e ovviamente anche della stessa popolazione carceraria. Una situazione che De Vito definisce come il «carcere frammentato» degli anni Novanta del secolo scorso e dei primi anni Duemila. Nel carcere continuiamo a trovare le tradizionali separazioni tra reparti maschili e femminili, tra sezioni giudiziarie e sezioni penali, tra zone di massima sorveglianza e reparti destinati ai detenuti ammessi al lavoro all’esterno o in semilibertà. Ma ora, sia pure raramente, vi sono anche sezioni modello per il recupero dei tossicodipendenti, assimilabili a vere e proprie comunità terapeutiche, e reparti riservati agli studenti universitari che frequentano lezioni e sostengono esami in carcere; a fronte di questi esperimenti, stridente è il contrasto con i reparti occupati dagli extracomunitari, veri e propri gironi infernali in cui i reclusi sono privi di qualsiasi forma di assistenza e di trattamento, stipati sino all’inverosimile in spazi ristrettissimi. Vi sono poi le sezioni «protette» per i collaboratori di giustizia e quelle riservate ai transessuali, quelle con un regime detentivo relativamente aperto e quelle a «celle chiuse», e via dicendo. La frammentazione all’interno degli istituti di pena corrisponde grosso modo alle divisioni tra le categorie di detenuti. I tradizionali detenuti per i reati tipici della delinquenza individuale, che rappresentavano la maggioranza della popolazione carceraria sino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, sono ora in netta minoranza. Attualmente, un terzo dei detenuti è formato da tossicodipendenti, un terzo da extracomunitari. L’ultimo terzo si divide tra i condannati «tradizionali», per i quali, almeno sulla carta, dovrebbero essere attuati programmi di trattamento individualizzati, volti al recupero sociale e al reinserimento nella società

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libera, affidati a educatori, assistenti sociali, esponenti del volontariato laico e cattolico, psicologi, criminologi, cioè i componenti dei Gruppi di osservazione e trattamento (GOT), e condannati per reati della criminalità organizzata, a loro volta divisi tra quelli sottoposti alla sorveglianza speciale ex art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario e i collaboratori di giustizia. Se queste sono le principali categorie in cui è frammentata la popolazione carceraria, è facile comprendere le ragioni per cui non è più possibile parlare di detenuti come di un’entità omogenea, capace di esprimere esigenze e rivendicazioni comuni. Quelli che stanno peggio di tutti, e che invece avrebbero maggior bisogno di assistenza e di attenzione in vista dell’inserimento nella società libera, quantomeno ai fini dell’apprendimento della lingua italiana e di un addestramento professionale, sono gli extracomunitari, abbandonati a se stessi, privi di contatti con il mondo esterno e della possibilità di usufruire a causa del loro isolamento sociale delle misure alternative al carcere e degli altri benefici penitenziari. Subito dopo vengono i condannati per reati connessi allo stato di tossicodipendenza, a loro volta portatori di peculiari esigenze, dal bisogno di affrontare le crisi di astinenza ai programmi di disintossicazione e riabilitazione, attuati solo nei confronti di pochi. Altrettanto particolari, per motivi tra loro specularmente opposti, sono poi le condizioni dei collaboratori di giustizia e dei condannati per reati di criminalità organizzata rimasti fedeli alle organizzazioni di appartenenza. Un posto a sé spetta ai transessuali e agli omosessuali, sovente sottoposti ad abusi anche da parte di agenti di custodia. Infine, tendenzialmente isolati tra loro sono i condannati per i tradizionali reati propri della delinquenza individuale, attenti soprattutto a rispettare le regole formali e le prassi di condotta interne per potere usufruire, nella logica premiale introdotta dalla «legge Gozzini» e poi potenziata dalle leggi successive, delle misure alternative al carcere, dei permessi, del lavoro all’esterno e delle varie opportunità di riduzione della pena. Quest’ultima categoria di detenuti – che è poi quella per cui era stata scritta la legge penitenziaria del 1975 – è presumibilmente destinata a comprendere solo i condannati per alcuni gravissimi reati, puniti con l’ergastolo o con pene superiori a 5-10 anni. Per gli altri, è auspi-

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cabile che vengano previste sanzioni da scontare sin dall’inizio in libertà. Se questo è il quadro dell’attuale popolazione carceraria, non è facile prevedere quale sarà il futuro delle istituzioni penitenziarie e quali potranno essere i programmi di trattamento intramurario destinati alle due attuali principali categorie di detenuti, tra l’altro portatori di esigenze di recupero e reinserimento sociale tra loro molto lontane. La sfida è appunto quella di trasformare il carcere – ancora basato sul principio, peraltro mai realizzato, del trattamento di detenuti italiani condannati per i reati della tradizionale delinquenza individuale – in comunità destinate a fare convivere qualche decina di migliaia di tossicodipendenti e di immigrati extracomunitari, assicurando condizioni di vita materiali e morali degne di un paese civile. La speranza è che, tra le varie forme di detenzione che attualmente coesistono nel carcere frammentato degli anni Duemila, sopravvivano, opportunamente adattati ovvero inventati ex novo, solo modelli, così come sono prefigurati dalla Costituzione, conformi al senso di umanità che deve sorreggere l’esecuzione della pena e idonei al recupero e al reinserimento sociale dei condannati: chiunque essi siano, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana. Torino, dicembre 2008

Introduzione IN CARCERE

«Mi trovo a Bologna nel bar Capital. Mi si avvicina un signore, mi chiede i documenti e mi dice: ‘Polizia, mi segua’. Sono in sei e cioè: Impossibile fuggire. Mi portano al Comando Carabinieri, poi telefonano a Forlì e si sente che dicono: ‘L’abbiamo preso, venitelo a prendere’. Poi arriva il fotografo, fa alcune fotografie, prendono le impronte delle dita e si attende. Ore 18: arrivo a Forlì si entra al Comando Carabinieri. Qui entro in una sala, attendo 30 minuti in compagnia di 2 carabinieri, poi mi viene portato un foglio su cui si dice che sono accusato di aver compiuto un furto la sera di sabato 4 in concorso con G.T. e B.G. per un valore di lire 7.180.000. Senza chiedere di discolparmi mi associano alle Carceri di Forlì, poi domani mi interrogherà il Giudice. Mi mettono le solite manette [...] Ore 20: arrivo alle carceri, ci consegnano ai secondini. Solite foto, impronte, perquisizione, il numero: 126. Mettono i nostri valori sotto chiave. Andiamo uno per volta a prendere le coperte per fare il letto. Dobbiamo restare isolati, cioè in una camera da soli perché finché il Giudice non ci ha interrogato non possiamo parlare con nessuno [...] C’è una piccola branda e con le coperte mi faccio il letto. Dalla porta non passa uno spillo, la camera è 5x2, ha una finestra da cui entra molta aria (fredda), due piccole mensole, il gabinetto ed il lavandino. Mi viene consegnato un catino, un bicchiere, una forchetta ed un cucchiaio, una brocca ed un altro recipiente che deve servire per tutto il resto. Tutto di plastica. La sera stessa, siccome non ho ancora mangiato niente, mi viene portato un piatto con due polpette e patate fritte. Da notare che in isolamento la luce deve restare sempre accesa»1.

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Introduzione. In carcere

3 febbraio 1969. Alle sei della mattina successiva – continua il detenuto nella sua lettera clandestina – viene data la sveglia, accompagnata da un bicchiere di latte caldo e di caffè; due ore dopo, la passeggiata nel cortile: isolato, sorvegliato da una guardia armata di mitra e per il solo tempo necessario a scaldare i piedi congelatisi al freddo della cella. Alle undici va dal comandante per una firma, a mezzogiorno riceve una fetta di mortadella, due pagnotte e un piatto di maccheroni per pranzo. Più tardi nel pomeriggio la visita del medico, poi la cena, poi in branda. Stessa scena nei giorni successivi: sveglia, passeggio, pranzo, cena, freddo, sonno. Nel più completo isolamento. «Del giudice nessuna traccia. Speriamo domani.» «Ingoiato dal carcere», l’individuo arrestato per la prima volta rimane incredulo. Trasportato verso la cella, il detenuto attraversa lo spazio carcerario, percepisce lo squilibrio tra l’inquietante imponenza del carcere nel suo insieme e la soffocante esiguità dei volumi concessigli2. Dallo spazio complessivo interno al muro di cinta a quello degli edifici delle sezioni; da questo alla superficie del singolo piano; da qui ai pochi metri quadrati della cella: ecco il repentino restringimento dello spazio carcerario, che rende l’idea di una reclusione che non è soltanto separazione del detenuto rispetto a ciò che è all’esterno della cinta muraria, ma anche ulteriore delimitazione dello spazio interno allo stabilimento penitenziario, separazione tra individui rinchiusi in sezioni e celle differenti, creazione di zone vietate del tutto ai reclusi. Stretto in un angolo del grande edificio carcerario, ciascun recluso cerca di conservare una propria identità, ma è forzato a dipendere completamente dagli altri: dagli agenti, dalle autorità carcerarie, dagli altri detenuti. Per utilizzare gli oggetti di sua proprietà depositati nel magazzino, per fare la spesa al «sopravvitto»3 con il denaro versato sul proprio conto corrente, per richiedere trasferimenti, visite mediche e colloqui con i familiari, egli deve fare la cosiddetta «domandina», ossia quella richiesta al direttore che quotidianamente sancisce la perdita della sua capacità di autogestirsi. Come poi il recluso non può muoversi liberamente negli spazi del carcere, così egli non ha neppure la facoltà di decidere quando muoversi all’interno delle zone consentite: deve rimanere in

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cella in certi orari e uscire in altri, consumare i pasti in un dato periodo di tempo e passeggiare nel cortile solo in determinati momenti della giornata4. Le ore trascorse in carcere scandiscono così il lento procedere di una pena della reclusione definita anch’essa in anni, mesi e giorni. L’individuo incarcerato è continuamente espropriato del proprio tempo, che diviene per lui il terreno del conflitto permanente tra sé, interessato solo ad accelerarlo, e le autorità penitenziarie che mirano a riempirlo di contenuti morali, dentro il quadro più generale dell’ideologia della sua «redenzione», della sua «rieducazione», della sua «risocializzazione». Contro ogni fuga, in larga parte illusoria, dalla monotonia del tempo carcerario concorrono anche prassi direttamente determinate dalle esigenze di sicurezza. L’operazione della «battitura dei ferri», ad esempio. Per tre volte al giorno si controlla l’integrità delle sbarre poste alle finestre delle celle: nella prima mattinata, nel tardo pomeriggio e nel corso della notte, gli agenti in servizio entrano nelle celle e con un piccolo ferro battono ripetutamente contro le grate. Una finalità analoga ha anche la «conta generale», operata dagli agenti due volte al giorno, che consiste appunto nel contare i detenuti presenti nell’istituto per accertare eventuali evasioni o tentativi di evasione in corso. Vengono così spezzate le ore spese dai detenuti in attività associabili a quelle condotte fuori dallo stabilimento penitenziario. Viene così riaffermata la assoluta preminenza delle esigenze carcerarie e, con esse, l’impossibilità per il recluso di decidere fino in fondo sulle modalità di impiego del tempo. La separazione tra carcere e società esterna resta la finalità principale del meccanismo penitenziario. Gli affetti dei detenuti vengono così filtrati da un sistema di «colloqui» circoscritto ai parenti diretti, costretto in poche ore mensili e ostacolato dai frequenti trasferimenti da un istituto carcerario all’altro. Atteso per giorni, preparato dalle frammentarie informazioni scambiate attraverso una corrispondenza che fino alla riforma penitenziaria del 1975 è sottoposta a censura, il colloquio si carica di una spropositata tensione che le lacune organizzative e le esigenze di sicurezza dell’istituzione contribuiscono ad accentuare. Entrati nel carcere, un lungo iter attende ancora i parenti: la

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consegna dei pacchi e l’umiliante perquisizione, poi le ore di anticamera, soprattutto nelle grandi carceri giudiziarie. Infine sono accompagnati nella sala colloqui: una stanza spoglia, con delle panche o delle sedie poste sui due lati lunghi di un bancone. Su quelle siedono di fronte al recluso, talvolta divisi da vetri o da grate per evitare che passino oggetti, impossibilitati ad accarezzare, toccare, baciare il loro figlio, padre, fratello, marito. In quelle condizioni parlano contemporaneamente anche otto, dieci detenuti con i rispettivi congiunti, mescolandosi le conversazioni pacate ai litigi, i pianti ai silenzi, il tutto sotto lo sguardo degli agenti addetti a quel servizio, che hanno la facoltà di sospendere immediatamente i colloqui nel caso ravvisino una qualunque irregolarità. Un’ora di incontro, talvolta di più per concessione degli agenti, poi i saluti sono d’obbligo. La separazione del detenuto dai propri affetti ha nella forzata astinenza sessuale una conseguenza specifica e particolarmente grave, fattore di sofferenza fisica e psicologica per i reclusi, sostanziale estensione della punizione anche ai loro coniugi5. Negata nella sua dimensione reale, la sessualità si manifesta nelle fantasie erotiche che i detenuti comunicano alle loro compagne con lettere clandestine, si alimenta con le decine di foto di donne nude incollate o appese alle pareti delle piccole celle e dei cubicoli, trova infine una forma di soddisfazione nella pratica della masturbazione. Dopo i primi mesi poi, soprattutto per gli individui condannati a pene molto lunghe, l’adattamento all’istituzione si concretizza nell’accettazione di quella vasta gamma di pratiche omosessuali che i vecchi detenuti offrono ai nuovi entrati dopo averli circuiti con rituali ben codificati, offrendo loro sigarette e favori, talvolta anche denaro6. I documenti riferiscono così di individui che si masturbano reciprocamente durante la visione di film; di altri che, appartatisi, praticano a turno il sesso orale; di compagni di cella sorpresi di notte dall’agente di turno «nello stesso letto che si erano congiunti carnalmente per via anale»7. Ridotte a puro sfogo della repressione sessuale, le pratiche omosessuali sono spesso vissute dagli stessi detenuti come una colpa e dunque accompagnate da una ipocrisia di fondo. L’approccio dell’Amministrazione penitenziaria rispetto alla questione sessuale nelle carceri accentua quegli atteggiamenti omofobi8.

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Importanti funzionari direttivi, chiamati a esprimersi sull’eventuale concessione ai detenuti di incontri intimi con le proprie mogli, liquidano ancora negli anni Settanta la questione sostenendo che «anche l’astinenza sessuale deve far parte integrante della pena, che è, e deve essere, soprattutto sofferenza»9. È sui detenuti dichiaratamente omosessuali, sui travestiti e sui transessuali che la repressione dell’istituzione scende in modo più pesante. Le riservate informazioni sulle loro abitudini sessuali circolano rapidamente per mezzo delle annotazioni dei direttori sugli estratti delle cartelle biografiche o anche mediante apposite note informative, e ovunque arrivino fanno sì che quelle persone siano trattate come soggetti potenzialmente «seminatori di malcontento tra i compagni». Vengono dunque posti sotto particolare sorveglianza, pronti per essere puniti disciplinarmente anche a dieci giorni di isolamento per «atti osceni e contrari al buon costume», sempre in cima alle liste dei trasferimenti, magari diretti a un manicomio giudiziario, che molti sanitari e direttori mostrano di considerare il luogo più idoneo alla «cura» di quella «perversione». Gli omosessuali dichiarati cercano così di rimanere nell’ombra, di non far conoscere le proprie abitudini sessuali agli altri detenuti e alla direzione. Talvolta, in verità molto di rado, accade che essi stringano all’interno degli stabilimenti penitenziari dei rapporti amorosi, ma questi sono facilmente scoperti, come le lettere clandestine che provano a inviarsi anche dopo essere stati divisi. Ciascun recluso porta con sé la propria storia di vita, spesso connotata da una lunga e iterata emarginazione, da situazioni estreme di «disadattamento» che passano per le maglie di diverse istituzioni totali. A dominare molte di quelle storie è un profondo senso di impotenza, che i meccanismi giudiziari e penitenziari non fanno che amplificare. Il processo gli si presenta come uno strano spettacolo di signori togati che parlano gerghi che ha sì imparato a conoscere negli anni, ma che ogni volta gli paiono distanti dal suo modo di spiegare le proprie azioni, inserite in un contesto di vita ben preciso che tra quei banchi non viene menzionato se non per aggravare ulteriormente l’imputazione. In carcere egli non ha la possibilità di esprimere i suoi stati d’animo se non in modo frammentario a qualche recluso più attento, anch’egli però gravato di pro-

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blemi analoghi e ugualmente impossibilitato a intervenire direttamente a suo vantaggio. Per attirare l’attenzione delle autorità sulla sua situazione giuridica o personale, soprattutto nelle grandi carceri, il detenuto non trova altro modo che quello di dar vita a forme di reazione individuale estreme e sovente inconcepibili all’esterno dell’istituzione. Per essere trasferito vicino alla famiglia inizia scioperi della fame di breve durata e di solito scarsamente efficaci. Per andare via subito da un istituto penitenziario accatasta le brande contro la porta blindata della cella e minaccia di non uscire fino all’arrivo di un’autorità, a volte prendendo in ostaggio i suoi stessi compagni di cella. Per parlare con il giudice è pronto a distruggere l’«arredamento» della cella, a dare fuoco ai materassi, ad arrampicarsi sui tetti o sui finestroni da solo o con pochi altri reclusi. Una delle forme più estreme, ma senza dubbio anche la più frequente per ottenere qualsiasi concessione, è quella dell’autolesionismo10. I detenuti sono soliti tagliarsi in qualsiasi parte del corpo e ingerire qualunque tipo di oggetto, dalle lamette da barba intere o frantumate alle molle delle brande, dai rebbi delle forchette di ferro agli aghi, e ancora chiodi di svariate dimensioni, pezzetti di fil di ferro, pennini, parti di spazzolini da denti. Una prassi talmente diffusa da essere considerata dai detenuti assolutamente normale: una «normalità» che a sua volta fa riflettere sul livello generale di alienazione prodotta dal carcere. La pressione della reclusione sui detenuti trova la sua estrema conseguenza nel fenomeno dei suicidi in carcere11. Sugli individui che commettono quello che nel gergo dell’istituzione penitenziaria viene chiamato «l’insano gesto», o che tentano di compierlo, si abbatte, anche solo per alcuni momenti che possono però rivelarsi fatali, la disperazione derivata dalle più svariate situazioni familiari, giudiziarie o carcerarie, aggravata dal senso di completa impotenza dato dalla reclusione. Giovani imputati o vecchi ergastolani decidono così di «farla finita» e si concentrano allora con minuziosa lucidità sui dettagli dell’esecuzione dei loro piani, per la realizzazione dei quali utilizzano il poco materiale di cui dispongono. Alcuni si danno fuoco nelle celle imbottite dove sono rinchiusi per punizione; altri cercano di asfissiarsi aspirando il gas delle bombolette da campeggio utilizzate per cucinare nelle celle; altri ancora ingoiano grandi quantità di pasticche accumulate in

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giorni e giorni. Qualcuno si getta nella tromba delle scale oppure dai ballatoi delle sezioni, nelle carceri in cui non esistono le reti di protezione. I più, con una striscia di lenzuolo, una cintura, le stringhe delle scarpe, le bretelle delle tute di lavoro, di nascosto dai compagni di cella fabbricano una corda, la conservano accuratamente in attesa della notte, poi la legano alle sbarre, infilano la testa nel cappio, si lasciano cadere dagli sgabelli. I compagni che li vedono penzolare nella penombra si alzano di soprassalto, si avventano su di loro per cercare di sollevarli e di tagliare quelle corde improvvisate, poi di rianimarli mentre altri strepitano per chiamare gli agenti, che aprono i cancelli e li trasportano d’urgenza all’ospedale più vicino. In alcuni casi non c’è più nulla da fare. Tutta la popolazione detenuta rimane allora «sbigottita, ma composta ed in religioso silenzio»12. I compagni di cella e gli agenti raccolgono i pochi oggetti personali per restituirli ai parenti che si presentino eventualmente al portone del carcere. Nelle tasche dei pantaloni o tra gli altri vestiti trovano talvolta i biglietti di addio. Un ragazzo poco più che ventenne grida contro una vita «troppo faticosa per rimanere in questo mondo infame perché da quando sono nato io non ho avuto un giorno che mi sia divertito». Un padre di famiglia denuncia che «qua siamo considerati peggio che le bestie», chiedendo poi perdono ai propri figli per quel «disonore». Uno cerca la morte lasciando sul letto la lettera della moglie che gli annuncia di aver trovato un nuovo amore; l’altro imprecando contro i parenti della vittima, che non gli hanno permesso di spiegare la sua versione dei fatti. Nella forma pacata di una lettera agli amici si saluta «con un sorriso di tenerezza», nella leggerezza di una poesia si aspira solo a diventare «cittadino dello spazio». Dietro le sbarre, la pressione dell’istituzione sull’individuo incarcerato va di pari passo con l’esistenza di una prassi e di una mentalità proprie della «comunità dei detenuti»13. I reclusi non sono solo oggetti passivi della disciplina, ma contribuiscono essi stessi a costruire l’ambiente carcerario in una continua dialettica tra adattamento e reazione rispetto alle dinamiche che esso tende a imporre loro. L’eterogeneità della popolazione carceraria e la sua forte mobilità fanno sì che una comunità dei detenuti possa strutturarsi so-

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lo attorno ai nuclei di riferimento in essa relativamente più stabili. Il ruolo determinante è quindi svolto dai recidivi, dai «delinquenti professionali» e da coloro che, più in generale, con o senza soluzione di continuità, hanno trascorso «dentro» un lungo periodo. Abituati a vivere per anni tra celle e sezioni, per loro il carcere non ha più segreti, ovunque vadano trovano compagni già noti e dei singoli istituti conoscono sia le strutture che la maggior parte degli agenti di custodia, l’organizzazione dei loro turni, le differenze nella disciplina rispetto agli altri stabilimenti. Al di là delle evasioni, le attività sotterranee riguardano in prevalenza la quotidianità della vita dei detenuti: il vitto, il lavoro, la corrispondenza con l’esterno, il gioco delle carte. Ai reclusi, quei meccanismi paralleli non garantiscono solo una risposta a bisogni materiali. Scambiandosi i prodotti contenuti nei pacchi portati dai parenti, essi affermano una solidarietà tanto elementare quanto essenziale nell’ambiente carcerario. Approfittando dei periodi in cui è consentito fare visita ai compagni di sezione, si invitano a turno nelle proprie celle e qui discutono del più e del meno sorseggiando il caffè preparato sulle reti metalliche delle brande, divenute per l’occasione dei fornelli. La possibilità di praticare molte di quelle attività parallele poggia sull’esistenza di un articolato sistema di traffici. In cambio di vari oggetti o anche di denaro versato sui loro conti correnti attraverso i parenti, alcuni reclusi rendono disponibile a quanti ne facciano richiesta pressoché qualunque merce: dall’alcol ai medicinali, dai generi vittuari ai televisori per le celle dei detenuti benestanti, fino a coltelli, seghetti e in determinati periodi perfino armi da fuoco, occupandosi contestualmente anche della necessaria opera di corruzione degli agenti. I detenuti addetti ai servizi interni hanno spesso una funzione determinante: è facile scoprire «cucinieri» che sottraggono i generi vittuari per rivenderli, «scopini» o «spesini» che si incaricano di consegnare la corrispondenza clandestina, reclusi occupati negli uffici che alterano le scritture contabili per nascondere passaggi illeciti di somme di denaro o per coprire sottrazioni di oggetti dai magazzini. I protagonisti di quei traffici possono essere soggetti isolati o appartenere invece a raggruppamenti strutturati per lo più attorno alla medesima provenienza regionale. Sono clan con funzione prevalentemente difensiva o cosche affiliate a una organizzazione

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mafiosa14: i primi più orientati a limitare gli effetti disgreganti della reclusione attraverso un’azione comune tra detenuti; le seconde più impegnate nella «protezione» esclusiva dei propri membri e tacitamente legate alle autorità penitenziarie nella gestione del carcere. Entrambi comunque pronti a punire quanti sono sospettati di essere «infami», ossia gli imputati o condannati per violenza carnale e coloro che con le loro delazioni alla polizia, alla magistratura o alla direzione carceraria rischiano di frantumare l’unità di quei gruppi e dell’intera comunità dei detenuti. I clan e le cosche, elemento di massima organizzazione all’interno del disgregato ambiente carcerario, non si limitano così a gestire i propri interessi. Attraverso il proprio sistema di potere interno allo stabilimento penitenziario, essi creano di fatto le condizioni per l’esistenza di una mentalità che impongono alla maggioranza dei detenuti e che questi con il tempo fanno propria, almeno esteriormente. La loro azione «mette ordine» nella comunità altrimenti caotica dei detenuti, distinguendo tra infami e mammasantissima, cantatori [spie] e guappi, disegnando gerarchie all’interno della malavita organizzata tra picciotti e pezzu ’i nuvanta, e tra gli autori di reati diversi, dai lavoranti [borseggiatori] ai romani ricottari [rei di sfruttamento della prostituzione], fino ai duristi [rapinatori], assegnando a quei termini un valore non solo descrittivo, ma anche morale15. La scena carceraria non è popolata soltanto di detenuti. Attorno alla metà degli anni Sessanta sulle colonne della pubblicazione mensile dei funzionari direttivi dell’Amministrazione penitenziaria fa la sua comparsa uno strano personaggio, tale Procopio Tirimacco, presto dileguatosi, non prima però di narrare la sua storia di «povero ma onesto Agente di custodia» con una peculiare, quasi involontaria, polemica ironia16. Appena conseguita la licenza elementare, rimasta frustrata la sua aspirazione di diventare uno spazzino, si trova a tavola, in una sera di campagna elettorale, con alcuni voraci uomini politici locali dai quali il padre «bifolco» ottiene la promessa di una sua «sistemazione» qualora siano eletti in Parlamento; e si trova poi, pochi mesi più tardi, in quel di Cairo Montenotte, un paesino dell’entroterra ligure, a fare l’allievo del Corpo degli agenti di custodia, «che sarebbero quelle Guardie che, Vigilando Redimere,

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si vanno a passare la vita in galera per portare un pezzo di pane a casa». In quegli anni, le Scuole allievi agenti di custodia di Cairo Montenotte (Savona) e di Portici (Napoli) cercano di dare agli aspiranti agenti di custodia da un lato una sorta di educazione primaria, dall’altro i primi rudimenti della tecnica penitenziaria17. Su entrambi gli aspetti grava una militaresca ossessione per la disciplina, evidenziata anche dalla divaricazione tra lo scarso approfondimento delle materie tecniche e di «cultura generale» e la cura con cui viene praticato l’addestramento più specificamente militare. Durante i corsi, gli allievi si abituano più che altro ai turni, ai permessi concessi assai di rado e al tempo cadenzato della vita militare e carceraria: sveglia, adunata, appello, colazione, scuola, primo rancio, adunata, appello, scuola, secondo rancio, libera uscita, contrappello, silenzio18. La formazione ricevuta non corrisponde alle mansioni che il nuovo agente è chiamato a ricoprire all’interno dell’istituto penitenziario al quale viene assegnato. Nelle carceri, la sorveglianza dei detenuti è la mansione più importante; essa viene affidata alla categoria meno qualificata del personale penitenziario, ossia agli agenti addetti al servizio in sezione: questo appare l’elemento più significativo del funzionamento della custodia. La sostanziale omogeneità sociale tra agenti e detenuti desta una permanente inquietudine tra i responsabili penitenziari. Fino almeno agli anni Settanta, gli agenti sono originari in larghissima parte delle regioni meridionali e insulari, hanno un livello di istruzione per lo più elementare e prima dell’arruolamento risultano di solito disoccupati o impiegati come muratori e manovali, autisti, meccanici, agricoltori, operai generici19. Il contatto quotidiano con i reclusi crea inoltre un’infinità di situazioni nelle quali i rapporti personali rompono di fatto la rigidità dei ruoli assegnati dallo status di carceriere e carcerato. I legislatori hanno cercato di impedire formalmente i contatti tra detenuti e guardie. Nel Regolamento penitenziario del 1931 hanno imposto ai detenuti l’obbligo del silenzio e hanno previsto tutta una serie di barriere formali, compresa quella di dare del «voi» agli agenti; nel Regolamento degli agenti di custodia del 193720 hanno fatto obbligo a questi di «non parlare con i detenuti se non di argomenti attinenti al servizio». Quelle prescrizioni so-

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no abrogate nell’immediato dopoguerra ma la cancellazione di quell’aspetto formale non muta la sostanza del problema. Il sistema gerarchico continua a essere complessivamente disegnato più per consentire la sorveglianza sugli agenti di custodia che per garantirne i diritti. Il suo scopo primario è quello di sorvegliare i sorveglianti. Il Regolamento del 1937 prevede l’applicazione di sanzioni spropositate a fronte di piccole infrazioni ricorrenti. La minaccia rappresentata da un sistema disciplinare tanto rigido fornisce paradossalmente alle direzioni la possibilità di rafforzare un atteggiamento paternalistico che funge anche da collante tra gli appartenenti al Corpo. In ultima istanza interessa più preservare l’assetto gerarchico complessivo che punire la specifica infrazione. Le sanzioni possono quindi essere applicate in modo solo parziale e anche sospese se l’agente mostra remissività rispetto al superiore che gli chiede di discolparsi; allo stesso modo, un avanzamento di carriera può essere concesso anche in presenza di qualche precedente disciplinare, puntando a un futuro miglioramento. Quella strategia di accorta selettività nella punizione e nel premio inserisce così l’agente all’interno di un rapporto con i superiori che, se all’evenienza può dimostrarsi rigidamente gerarchico, è solitamente improntato a uno scambio di favori, sorretto dalle manifestazioni collettive dello «spirito di corpo» e da una quotidiana frequentazione con il maresciallo. Quest’ultima figura, che riassume in sé il volto repressivo e insieme paternalistico, può così farsi portavoce dell’insieme degli agenti di fronte all’autorità direttiva, ai detenuti, al contesto politico. In generale, la strategia seguita dall’Amministrazione penitenziaria nei confronti degli agenti raggiunge i risultati sperati. La disaffezione al lavoro si manifesta quasi sempre esclusivamente nella forma individualistica dell’assenteismo, nel «darsi malati». Ciò crea indubbi problemi nell’organizzazione dei turni, ma non determina particolari difficoltà nella gestione della totalità del personale militare. A parte l’immediato dopoguerra e gli anni attorno alla riforma del 1975, le proteste collettive sono assai rare e prendono spunto più da malumori locali che da un programma di agitazione articolato e ben definito. Gli agenti non mettono mai in discussione l’autoritarismo al quale sono sottoposti, né elabo-

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rano piattaforme rivendicative in grado di influire sulle scelte strategiche generali dell’Amministrazione penitenziaria in materia di trattamento dei detenuti e sul senso stesso della custodia. L’introiezione acritica dell’ideologia della sicurezza li previene, in maggioranza, dallo sviluppare tale orientamento riformatore21. Rimangono pertanto legati a un’impostazione corporativa: le cause delle proprie cattive condizioni di lavoro le ricercano esclusivamente nell’insufficienza dei propri organici e nell’irrazionale organizzazione dei servizi interni; si lamentano della mancata rotazione di tutto il personale nelle mansioni più gravose svolte nelle sezioni, ma indirizzano la polemica contro i propri colleghi addetti agli uffici e non verso le più generali strategie poste in atto dalle altre autorità nella gestione del sistema carcerario. Di quali strumenti e di quali strategie si servono i funzionari penitenziari per dirigere un carcere? Come riescono, nello stesso momento, a garantire l’esigenza di controllo sui detenuti, a preservare la struttura gerarchica della custodia e a mediare tra le funzioni e le mentalità dei vari operatori? I codici penale e di procedura penale, le circolari ministeriali, i regolamenti e le leggi che li hanno parzialmente modificati descrivono un sistema di controllo rigido, fondato tuttavia su un ambivalente meccanismo di punizioni e ricompense. Riflesso di una stratificazione storica di norme dettate da sensibilità ed esigenze non univoche, quell’insieme di prescrizioni si presta a interpretazioni anche contrapposte. Nel dopoguerra, ogni direttore, funzionario o dirigente ministeriale può richiamarsi ad alcune norme piuttosto che ad altre, trovando comunque un appoggio formale nella duplice matrice legislativa: da un lato le prescrizioni apertamente afflittive di epoca fascista, dall’altro l’esito del dibattito costituzionale che ha sancito la necessità di una pena «rieducativa». Ad ampliare la discrezionalità dei funzionari penitenziari sta inoltre l’abisso esistente tra il modello di sistema carcerario che la legislazione lascia intravedere e la realtà delle carceri. In quei testi si presuppongono infatti stabilimenti penitenziari di moderna concezione architettonica, ma si hanno vecchi conventi cadenti e castelli fortificati risalenti al Medioevo; si lasciano immaginare scene di cooperazione tra operatori, ma ci sono direttori e marescialli di diversa mentalità, agenti mal preparati e pii cappellani in-

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seriti in una struttura burocratica irrazionale e continuamente esposta alle conseguenze dei problemi di organico. Alla necessità di «inventare» soluzioni immediate per problemi non previsti dalla legislazione si ricollega così la gran parte della prassi carceraria quotidiana, formata da un ampio ventaglio di «tecniche» e di modalità di intervento che nessun documento formale, per principio, potrebbe mai prevedere. Si prenda ad esempio la prevenzione delle evasioni. Il Regolamento ha previsto le sanzioni correlate alle tentate evasioni, ma non le modalità specifiche per scongiurare quel rischio. Ecco allora che dall’esperienza dei direttori, e soprattutto dei marescialli, emerge la «soluzione»: l’utilizzazione delle «spie». Una prassi contraria alle prescrizioni dello stesso Regolamento, che vieta esplicitamente che alcuni reclusi assumano posizioni preminenti rispetto agli altri, ma largamente in uso nelle carceri. Di detenuti disposti a «collaborare» se ne trovano sempre: gente che afferma di voler «badare ai fatti miei» e, stanca delle violenze agite, viste e subite, vuole «portare la pelle a casa», speranzosa di chiudere definitivamente i conti con la giustizia; c’è chi si firma con una certa fierezza «amico della direzione [...] degli agenti di custodia e del maresciallo» mentre ipocritamente sostiene di svelare quei piani anche per il bene di quelli che denuncia, e chi dichiara invece di farlo soltanto per ottenere un trasferimento, avendo anche cura di precisare, rivolto all’ispettore distrettuale: «lei sa che non mi piacciono gli uomini infami, e traficatori io non voglio fare ne l’uno e nell’altro»22. Ai marescialli in fondo quelle motivazioni importano poco. Serve loro che i reclusi raccontino quello che sanno, e di certo non è la capacità di parlare che manca a quei detenuti. In un italiano più o meno zoppicante, in forma metaforica o con vere e proprie «relazioni» piene di particolari, essi rivelano così nomi e cognomi di aspiranti evasi, svelano i piani delle proteste e delle rivolte, narrano di pistole nascoste nei bidoni dell’immondizia, determinando talvolta perquisizioni generali dello stabilimento che coinvolgono decine di agenti. Le leggi impongono un comportamento massificato e omologato verso centinaia di reclusi. La lezione fondamentale che l’«esperienza» insegna a chi lavora in carcere è invece quella della necessità di distinguere e dividere in gruppi sempre più picco-

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li i detenuti, fino ad agire in maniera diversificata per ciascun individuo. Ecco quindi che ogni aspetto della vita carceraria può essere trasformato dalle direzioni in un momento di differenziazione tra i reclusi: di selezione tra quanti vengono ammessi e quanti sono esclusi dal lavoro, dalla scuola, dai corsi professionali; tra chi collabora con la direzione e accede dunque a particolari privilegi e quanti invece sono sottoposti alla sorveglianza più rigida. L’organizzazione del tempo libero e quella dei colloqui, la durata dell’«aria» e la possibilità di trascorrere alcune ore con altri reclusi in sezione: tutto diviene modulabile per ciascuno stabilimento penitenziario, per ogni sezione, in rapporto a ogni singolo recluso. Il sistema disciplinare costituisce l’aspetto centrale della classificazione dei detenuti. Anche qui, alla certezza del meccanismo infrazione-sanzione immaginato dal Regolamento si sostituisce quello tipico della gestione selettiva carceraria, fondato sulla coppia premi-punizioni. In base ai casi, le sanzioni possono essere applicate integralmente, solo parzialmente, sospese o condonate. Per l’omosessualità forzata come per i traffici, lo scopo dell’azione disciplinare della direzione non è così quello di eliminare quei fenomeni bensì quello di gestirli, di controllare che rimangano entro livelli non dannosi per la sicurezza e l’ordine interno dell’istituto. Fino alla riforma penitenziaria del 1975, alle spalle di quella possibile flessibilità di applicazione sta peraltro un sistema disciplinare brutale. L’isolamento dei detenuti viene praticato sistematicamente e in ogni carcere esistono, oltre alle «normali» celle di isolamento, delle «celle imbottite» per scontare la punizione dell’isolamento nella «cella pane acqua e pancaccio». E poi ancora, il letto di contenzione, che un magistrato di sorveglianza nel novembre 1972 descrive come un «rozzo giaciglio caratterizzato dal famigerato ‘buco’ centrale [...] e dotato di fasce o di legami [...] di altrettanta ruvida materia atti a stringere le estremità degli arti superiori e inferiori del coercito»23. La minaccia di quelle punizioni è parte integrante del complesso meccanismo della gestione carceraria, che poggia in ultima istanza sui giudizi che i direttori dei vari stabilimenti danno sulla condotta dei reclusi all’interno degli estratti delle cartelle biografiche24. Molti direttori si mostrano convinti di poter cogliere l’essenza della personalità dei detenuti osservandone i comportamenti quotidiani in ambito penitenziario, attraverso una «teoria

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della natura umana» elaborata negli anni25. Si ritiene così di saper distinguere tra un «incontentabile querulomane», un «mitomane» e un «esibizionista», tra un’esuberanza e irrequietezza determinate solo dalla giovane età e un’indole invece in sé «arrogante e violenta». Si scopre quasi a prima vista un «simulatore», si compila la lista dei «turbolenti», si etichetta un detenuto come «soggetto primitivo, ipoevoluto, per niente intelligente». Alla sommità della ideale «scala di pericolosità» vengono posti i «sobillatori» e contro di essi scatta un provvedimento tipico del sistema del potere disciplinare: il «trasferimento per ordine e disciplina». Una pratica non prevista dal Regolamento ma talmente abusata da costringere gli uffici competenti della Direzione generale a intervenire ripetutamente per cercare di limitarla. Le direzioni sono peraltro assai poco propense a trattenere a lungo detenuti segnalati per problemi di disciplina, cosicché quei reclusi diventano spesso protagonisti di una «penosa odissea carceraria» fatta di decine di spostamenti nell’arco di pochi anni. Fino alla metà degli anni Settanta, una modalità particolarmente violenta di trasferimento punitivo è quella verso i manicomi giudiziari, celata dietro pretese necessità di «osservazione psichiatrica». Essi vengono così a rappresentare di fatto un particolare circuito nella rete delle «carceri dure», caratterizzate da condizioni strutturali più afflittive, da un livello di sicurezza relativamente maggiore, da una conduzione più rigida. Le «carceri di rigore» previste dal Regolamento del 1931 sono state formalmente abolite sulla scia dell’umanizzazione carceraria del dopoguerra e solo nel 1977 le carceri di massima sicurezza tornano ad esistere, ufficialmente come risposta alla «emergenza terrorismo». Anche nei decenni compresi tra quelle due date, tuttavia, le carceri dure non scompaiono di fatto dal panorama penitenziario e qualunque detenuto, funzionario o agente avrebbe potuto elencare le strutture punitive esistenti in quel periodo: le case di reclusione di Volterra, San Gimignano, Lecce, Noto, Favignana, Alghero, nonché la sezione «12 bis» della casa penale di Porto Azzurro, ricavata nell’ampio reparto di punizione. La questione del «potere disciplinare» richiama il problema della violenza in carcere nelle sue varie declinazioni: violenza strutturale dell’istituzione penitenziaria sugli individui detenuti,

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violenza dei detenuti contro i detenuti, violenza dei detenuti contro gli agenti, violenza degli agenti contro i detenuti. Come è possibile controllare i meccanismi di un potere che per definizione si sottrae a ogni sorveglianza formale esterna, obbedendo solo alle logiche intrinseche dell’istituzione? Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, mese dopo mese, le relazioni dei sostituti procuratori della Repubblica e dei magistrati di sorveglianza, investiti per legge anche delle funzioni ispettive, ripropongono la descrizione di alcuni selezionati aspetti della vita carceraria: la situazione delle presenze in rapporto alla capienza, l’igiene e lo stato delle strutture edilizie riscontrati nei locali visitati, talvolta una più specifica attenzione alla qualità del vitto. Il tutto confluisce in documenti altamente burocratici, traducendosi in formule sempre uguali, rotte soltanto dall’eccezionalità di eventi festivi o di situazioni temporanee26. Quella ritualità non manca di coinvolgere anche i detenuti. Stretti tra la minaccia disciplinare e l’adattamento istituzionale, finiscono per chiudersi in un individualismo da confessionale quando, richiesto il colloquio con il magistrato tramite la «domandina» d’obbligo, confidano dimessi a quell’autorità i loro problemi giuridici, supplicano la concessione di un sussidio per la loro povera famiglia, sollecitano le visite mediche o la concessione della grazia, fingendo essi stessi di non conoscere la durezza della disciplina carceraria, le provocazioni alle quali sono sottoposti, le violenze che avvengono all’interno degli stabilimenti. I magistrati addetti alla sorveglianza e vigilanza finiscono così per basare il loro «controllo» su documenti nei quali ciò che accade realmente entro un dato istituto penitenziario viene «tradotto» dai responsabili del carcere stesso in ricostruzioni e linguaggi corrispondenti alle prescrizioni formali della legge, dei regolamenti e delle circolari. In quel passaggio, inevitabilmente, si liquefanno i ricorsi alle «spie» per evitare le evasioni e gli elementi che fanno di determinati stabilimenti delle carceri di rigore sono presentati come frutto di contingenze temporanee. Scompaiono inoltre le violenze messe in atto dagli agenti sui detenuti o vengono riferite come «legittima difesa» seguita a precedenti assalti da parte dei reclusi: nulla resta nei documenti ufficiali delle «squadrette» delle guardie che penetrano in forze nelle sezioni e poi nelle celle, dei pestaggi dei reclusi mentre vengono portati nelle cel-

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le di isolamento, dei calci e delle manganellate distribuite dopo ogni protesta a detenuti costretti a passare tra due file di agenti. Sottoposto al controllo di molteplici autorità, dunque, il sistema penitenziario riesce comunque a proiettare sui documenti ufficiali un’immagine sempre sostanzialmente in linea con le leggi e i regolamenti vigenti. Ciò che è «sorvegliato» è un’immagine fittizia della vita carceraria, non la realtà quotidiana di essa. Il carcere è un mondo immerso nella società, ma è anche un’istituzione sempre pronta a ripararsi dagli sguardi estranei, nascondendosi dietro le mura di cinta. Un’istituzione che cambia con il mutare della società, ma con un andamento sempre meno lineare e più lento di quanto non tenti di mostrare all’esterno; che si trasforma, ma che rivela anche un’impressionante continuità di fondo nei meccanismi che dominano il suo funzionamento quotidiano, nella sua materialità fatta di sbarre, cancelli e camminamenti di ronda. Le descrizioni delle pagine precedenti si basano per lo più su fonti relative agli anni Sessanta e Settanta, ma per la maggior parte delle questioni si faticherebbe a trovare significative differenze nella realtà attuale delle carceri italiane, come pure in quella degli istituti penitenziari di venti anni prima. È per questa ragione che sin dalle pagine introduttive di questo volume il lettore è stato gettato in modo forse irriguardoso tra celle e sezioni, «domandine», «infami» e cortili dell’«aria». Già il titolo in verità lo ha proiettato dietro le sbarre: nel gergo carcerario i «camosci» sono i detenuti, i «girachiavi» sono gli agenti di custodia. È proprio da quell’inusuale e scomodo punto di vista che è invitato anche nei capitoli che seguono a guardare ad alcune pagine centrali della storia politica e sociale italiana: osserva dagli istituti penitenziari la fase conclusiva della Seconda guerra mondiale e il dopoguerra (cap. I), si trova di fronte a un «miracolo economico» sfocato perché vissuto da dietro le sbarre (cap. II), vede il sistema carcerario trasformarsi sotto la spinta della contestazione post-1968 (cap. III), per addentrarsi poi negli «anni di piombo» e negli anni Ottanta (cap. IV) e rivivere le più recenti trasformazioni legate ai flussi migratori globali e alle politiche fondate sulla «sicurezza» (cap. V). Le ricerche storiche sul sistema penitenziario italiano non sono molte, specialmente per gli anni dal 1943 a oggi. Più che di ap-

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profondire o affinare interpretazioni precedenti, si tratta quindi di cominciare a dissodare questo terreno, di scegliere tra le tante voci pronte a raccontare le molte possibili storie del carcere, di selezionare tra la mole di una documentazione archivistica ricchissima, complessa e nella maggior parte dei casi inesplorata, anche per la difficoltà di accesso ai luoghi di conservazione che corrispondono ancora, troppo spesso, alle carceri stesse. Le scelte di fondo compiute e la necessità di mettere a fuoco un numero limitato di argomenti fanno sì che molte storie possibili rimangano sacrificate. Qui la narrazione è concentrata principalmente sulle vicende dei detenuti uomini nelle carceri per adulti e benché non manchino riferimenti alle donne e ai minorenni reclusi, non è a essi che si rivolge in primo luogo l’attenzione. Sullo sfondo restano anche altre storie, come quella dei manicomi giudiziari, che pure meriterebbero attenzione in virtù della loro posizione di confine tra sistema carcerario e circuito manicomiale, tra cultura criminologica e sapere psichiatrico. Si è voluta far prevalere in questo volume una visione non settoriale della storia penitenziaria, che più che agli aspetti istituzionali o tecnici guarda al carcere per provare a leggere la società, e viceversa. La «questione carceraria» è vista principalmente come «questione sociale» e il carcere non solamente come luogo dell’esecuzione della pena, ma anche, contemporaneamente, come una parte della pubblica amministrazione, un laboratorio di teorie politiche e un’istituzione totale connessa al ruolo repressivo dello Stato e al controllo sociale. Per interpretare queste funzioni del carcere in rapporto alla società, ci si è voluti muovere in una continua dialettica tra la visione complessiva delle vicende penitenziarie e l’analisi dettagliata delle singole questioni interne a essa, tra le problematiche del carcere e quelle della società, agendo nello spazio di intersezione della storia sociale, istituzionale, politica e intellettuale e dialogando con le altre discipline che da punti di vista differenti, teorici o specialistici, si interessano dell’argomento. Così configurato, lo studio storico del sistema penitenziario è divenuto una sfida complessa e assieme appassionante; una ricerca che coinvolge, un impegno a portare alla luce una realtà troppo scabrosa per essere nota, forse un contributo alla sua trasformazione. Christian G. De Vito

CAMOSCI E GIRACHIAVI STORIA DEL CARCERE IN ITALIA 1943-2007

I CARCERI IN GUERRA, CARCERI DEL DOPOGUERRA

Le carceri della Repubblica sociale italiana Dall’interno del carcere, durante la notte, i detenuti si unirono ai tumulti che avvenivano nelle vie circostanti1. Danneggiate 139 celle, 1349 reclusi evasero, aiutati anche dalla folla. Rappresentavano poco meno della metà dei presenti. Un centinaio di agenti di custodia e altrettanti soldati impiegati nella vigilanza esterna, immobilizzati e malmenati, non reagirono se non a livello individuale. Il direttore delle carceri giudiziarie romane di Regina Coeli, dovendo rispondere di quegli eventi della notte tra il 25 e il 26 luglio del 1943, sostenne che si era trattato dell’«improvviso, impreveduto e incoercibile scatenarsi di forze contro le quali [...] non era stato possibile opporsi efficacemente»2. Un uragano che aveva spazzato via ogni tentativo di resistenza. I reclusi ripresero l’agitazione circa un mese e mezzo dopo, quando furono raggiunti dalla notizia dell’armistizio. Cercarono di forzare i cancelli. Gli agenti di custodia e quelli addetti alla vigilanza esterna utilizzarono questa volta le armi per fermarli. Un detenuto venne ucciso, altri cinque persero la vita a seguito della repressione armata di ulteriori tumulti scoppiati l’11 e il 12 settembre. Un anno prima di quegli eventi il sistema penitenziario fascista poteva contare su un migliaio di impiegati civili e su circa 8000 agenti di custodia. I detenuti erano oltre 67.000, di cui 9000 donne. Tale situazione si era modificata rapidamente per effetto degli eventi politici e bellici. La liberazione di Mussolini avvenuta il 12 settembre 1943 e la costituzione formale della Repubblica sociale

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italiana (RSI) il 23 settembre successivo, determinarono la necessità di trasferire al Nord gli uffici del ministero di Grazia e Giustizia. La sede ministeriale fu inizialmente stabilita a Brescia, mentre la nuova Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena fu posta a Cremona: su ordine del ministro, lì confluì gradualmente il personale prescelto per costituire l’Amministrazione penitenziaria della RSI. La gestione delle carceri, come ogni altro aspetto della vita civile, amministrativa e politica tra il 1943 e il 1945, fu pesantemente condizionata dalla situazione bellica. Il sistema penitenziario, organizzato capillarmente sul territorio, si dimostrava infatti sensibile a ogni mutamento dei fronti di guerra. Del resto, le caratteristiche stesse della Seconda guerra mondiale, largamente combattuta con mezzi aerei, facevano sì che anche territori – e quindi istituti carcerari – posti molto lontano dai fronti, potessero essere colpiti dai bombardamenti. Compito delle autorità carcerarie era di provvedere celermente a risolvere le varie situazioni determinatesi. Di fatto, nella RSI come nell’Italia centro-meridionale, le difficoltà legate alle condizioni imposte dalla guerra prevalsero sugli sforzi fatti dalle due Amministrazioni penitenziarie. I bombardamenti imponevano continui sfollamenti delle carceri, ma quei trasferimenti di massa a loro volta erano resi oggettivamente difficili dalla situazione di guerra. L’impatto degli sfollamenti dipendeva anzitutto dalla capienza degli istituti e dalle presenze effettive dei detenuti. In alcuni casi si trattava di poche centinaia di reclusi, ma in ciascuna delle carceri giudiziarie centrali delle principali città la popolazione detenuta superava nettamente il migliaio di unità. Il servizio delle «traduzioni» era in uno stato di totale disorganizzazione. Il direttore generale, Alessandro Toeschi, lamentava la totale assenza di mezzi di trasporto dei detenuti proprio in quel periodo in cui si aveva la «più ingente somma di spostamenti da effettuare»3. I fronti di guerra si modificavano, i ritmi e la consistenza dei trasferimenti aumentavano. Alla fine del settembre 1944 si impose lo sfollamento di tutte le carceri a sud del Po: centinaia di detenuti e decine di agenti furono trasferiti dalle carceri emiliane in direzione di Venezia e da quelle liguri verso Torino e Milano. Alla situazione già grave determinata dalla guerra si aggiungeva nel caso della Repubblica di Salò il problema dei contrasti tra

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le frammentate e duplicate istituzioni che gravitavano attorno al settore carcerario. Le carceri erano allora, in proporzioni assai più ampie che in tempo di pace, non solo un luogo di pena e di custodia preventiva, ma anche un luogo in cui esercitare il controllo poliziesco sulle persone ritenute politicamente pericolose. Molti erano gli individui trattenuti per motivi politici dalla Guardia nazionale repubblicana (GNR) e dalle questure o dalle gendarmerie, dall’Ufficio del lavoro e da altri comandi tedeschi4. Lo scontro tra la Direzione generale e le altre autorità politiche e amministrative fu costante. Il direttore generale delle carceri lamentò a quel proposito «il sovvertimento vero e proprio della disciplina» e molti tra i funzionari rilevarono il carattere assolutamente «banditesco» delle azioni delle Brigate Nere e della GNR in particolare5. I rapporti tra le autorità fasciste e quelle naziste sollevavano problemi di portata politica anche più ampia. Essi si svolgevano infatti nel quadro di uno Stato, la RSI, che sin dal momento della sua nascita era stato interpretato dalla maggioranza delle autorità naziste come un governo fantoccio, tale da potere e dover essere gestito nei suoi snodi principali direttamente dai Comandi militari tedeschi. Per garantire i propri interessi legati al mondo carcerario, i nazisti installarono «uffici» all’interno degli istituti penitenziari 6 e assunsero la gestione diretta di alcune sezioni degli stabilimenti più importanti. La loro presenza nel terzo e quarto braccio delle carceri giudiziarie di Regina Coeli a Roma è attestata sin dalla fine del 1943. I militi tedeschi disponevano a proprio piacimento dei circa 400 detenuti lì reclusi, e quelli politici li prelevavano senza alcuna autorizzazione anche dai bracci controllati dalle autorità fasciste. L’occupazione delle sezioni delle carceri giudiziarie, ancor più che la creazione di «uffici» interni agli stabilimenti, aveva come fine principale l’avviamento dei detenuti al lavoro obbligatorio in Germania, una delle pagine più tetre della storia carceraria – e non solo – della RSI. Dietro quella prassi e le normative tecniche a essa relative si celò infatti la deportazione di centinaia di persone, condannate, imputate o anche semplicemente arrestate nelle retate delle varie autorità di polizia, prive di fatto di qualsiasi strumento legale di difesa7. Nel giugno del 1944 il ministero della Giustizia e le autorità naziste firmarono un protocollo di intesa per «convogliare nello sfor-

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zo bellico dell’Asse anche il lavoro carcerario dei detenuti attualmente inoperosi nelle carceri italiane»8. Le autorità fasciste concepivano l’avvio al lavoro in Germania come una prosecuzione della politica che aveva ispirato la legge del 27 giugno 1942, n. 827, sull’estensione della concessione della libertà provvisoria: come allora si era trattato di favorire la mobilitazione in Italia dei detenuti sul fronte militare o sul «fronte del lavoro», così ora si rendeva necessario inviarli direttamente nei luoghi di produzione in Germania per garantire una strenua resistenza contro il nemico. I funzionari della RSI tentarono di contrapporre motivazioni giuridico-formali alla prassi arbitraria dei nazisti, in particolare cercando di distinguere tra i vari tipi di detenuti e di far rispettare gli accordi presi. Non mancò del resto, anche da parte di alcuni funzionari fascisti, la volontà di potenziare il lavoro obbligatorio, in Italia e all’estero. Lo stesso ministro della Giustizia Pisenti prese addirittura in considerazione la possibilità di utilizzare quella prassi per gli ex detenuti: poiché essi, «anziché costituire abili energie per la ricostruzione nazionale si sbandano per vie ignote e si danno a sistemi equivoci di vita», egli vedeva una «opportuna soluzione nell’avviamento dei detenuti liberati al servizio obbligatorio del lavoro»9. Le autorità naziste non ritenevano di avere bisogno di alcuna giustificazione giuridica per effettuare il trasferimento dei detenuti nelle fabbriche e nelle carceri tedesche. In ritirata di fronte all’avanzata degli Alleati, i nazisti prelevavano illegittimamente i reclusi. Il 13 giugno 1944 a Perugia, con le truppe britanniche ormai alle porte, gli allarmi antiaerei suonavano senza sosta nella città immersa nel buio, le granate piovevano sugli edifici colpendo anche il reparto femminile delle importanti carceri giudiziarie10. Tra i detenuti terrorizzati si diffondevano le voci di probabili deportazioni in Germania e di decimazioni da parte di tedeschi e fascisti. A partire dal settembre precedente già a migliaia erano stati deportati, a decine fucilati. Gli 800 reclusi presenti quel giorno si rifiutarono di restare nelle celle, i «politici» tennero comizi, poi tutti insieme presero a forzare i cancelli approfittando dell’assenza degli agenti di custodia e del direttore, fuggiti anch’essi. Sei militi tedeschi nel frattempo sopraggiunsero con 50 prigionieri di guerra inglesi. Resisi conto di quanto avveniva, salirono sul muro

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di cinta e cominciarono a fare fuoco con moschetti e bombe a mano sugli ultimi che fuggivano, uccidendone uno e ferendone altri tre. Alcuni tra i fuggiaschi, aiutati dal cappellano del carcere, don Ettore Minestrini, trovarono rifugio sul campanile della chiesa di San Domenico e lì rimasero fino all’ingresso in città delle truppe alleate, che avvenne il 20 giugno. Diversa sorte toccò ai reclusi delle due sezioni controllate dai nazisti. Già il giorno 13 essi «furono verso sera portati via dal carcere e a piedi, incolonnati a gruppi con sentinelle tedesche, avviati verso il Nord». Pochi giorni dopo quegli eventi una circolare ministeriale autorizzò i delegati delle Militärkommandanturen – Gruppi Lavoro ad accedere anche nel carcere giudiziario di San Vittore per «scegliere i detenuti italiani in espiazione di pene ed in attesa di giudizio, idonei fisicamente al lavoro»11. San Vittore divenne così centro di raccolta di tutte le persone destinate al lavoro provenienti dal Piemonte, dalla Liguria e dalle province della Lombardia. Il loro numero fu presto tale che si rese necessario separarle dai detenuti reclusi nell’istituto per altri motivi. Fu dunque concesso alle autorità tedesche di occupare il quarto raggio del carcere, con una capienza di circa 350 persone, quanti erano normalmente gli individui lì reclusi in attesa di essere trasportati in Germania. Di fronte alle rimostranze del procuratore generale di Milano per gli arbìtri dei nazisti, questi ultimi affermavano di non capire «il perché delle preoccupazioni legalitarie per la sorte dei singoli detenuti, siano pure giudicabili ed eventualmente innocenti, quando la guerra giustifica[va] le giornaliere retate di cittadini liberi». Appena un mese dopo l’emanazione della circolare lo stesso procuratore generale dovette descrivere impotente la deportazione di oltre 500 persone12. Sottoposti a un indicibile arbitrio, i fermati, gli imputati, i condannati e i liberati dal carcere, già rinchiusi nelle anguste celle di San Vittore, di Marassi e delle altre prigioni e caserme dell’Italia settentrionale, si ritrovarono così ammassati su quei carri bestiame che, dopo giorni di inumana sofferenza, li condussero a Dachau, a Mauthausen, a Ebensee, nelle carceri della Germania meridionale, nei campi di lavoro. In Germania, «politici» e «comuni» vennero sfruttati nelle miniere, nelle fabbriche di grandi società come la AEG e la Siemens. Quanti divennero inutilizzabili, quanti si ri-

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bellarono o furono sorpresi a prendere anche solo un tozzo di pane per sopravvivere vennero sistematicamente sterminati. Quali erano le condizioni di vita di coloro che erano reclusi nelle carceri della RSI?13 Per i detenuti vi era innanzitutto la preoccupazione per la propria esistenza, minacciata dai bombardamenti. Durante i raid aerei essi venivano condotti dagli agenti in rifugi di fortuna, nella maggioranza dei casi del tutto insufficienti a salvare la vita di chi vi entrava. Allora era il panico, con i reclusi che, spinti dalla paura, cercavano di trovare una via di fuga attraverso le brecce aperte dalle bombe o forzando i cancelli. Gli istituti penitenziari più piccoli erano spesso del tutto sprovvisti di ricoveri antiaerei: nelle carceri mandamentali di Sampierdarena, ad esempio, in caso di bombardamento circa una ventina tra uomini e donne rimanevano chiusi nelle celle, mentre i custodi si ricoveravano frettolosamente nelle gallerie della zona. Il moltiplicarsi del numero di autorità e i conflitti tra le stesse accresceva quel senso di insicurezza, anche in virtù della frequenza dei maltrattamenti fisici. C’era inoltre la preoccupazione per la sorte dei familiari, che in alcuni casi si trovavano al di là del confine tra la RSI e l’Italia centro-meridionale, con i quali in nessun caso la maggior parte dei detenuti poteva sperare di avere contatti diretti o epistolari. La vita quotidiana all’interno degli istituti penitenziari era segnata, come quella di gran parte della popolazione libera, dalla miseria e dalla penuria di cibo, vestiario e casermaggio, aggravate proprio dalla impossibilità di contare sugli apporti dei familiari. Nello specifico della situazione carceraria, questo si sommava alle endemiche condizioni di scarsa igiene e di scarsa pulizia dei locali e alla generalizzata situazione di sovraffollamento che raggiungeva livelli di emergenza soprattutto nelle grandi carceri giudiziarie. Alla metà di febbraio del 1945 la situazione a San Vittore appariva drammatica. Con solo un terzo dei fabbricati del carcere a disposizione delle autorità fasciste, nel secondo braccio risultavano reclusi circa 900 detenuti, un numero superiore alla capienza complessiva dell’istituto. I giacigli erano limitatissimi e si avevano solo 150 coperte; i bagni erano completamente inagibili e di conseguenza i detenuti apparivano «all’aspetto, in condizioni morti-

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ficanti»14. Un mese più tardi il nuovo commissario straordinario descrisse in una nota la situazione dei raggi di pertinenza dell’Amministrazione fascista. Vi si diceva di celle che «rigurgitano di detenuti ammassati come i polli in gabbia»15: privi di qualunque tipo di giaciglio, avevano trascorso in quelle condizioni degradanti l’intero inverno. Nelle carceri giudiziarie di Torino, Le Nuove, all’inizio del 1945 la situazione si era presentata simile all’ispettore generale16. Nella sua relazione, questi aveva insistito anche sulla situazione di scarsa disciplina esistente nell’istituto penitenziario torinese. Mancava il direttore titolare, bloccato dagli eventi bellici in Sicilia mentre trascorreva lì i giorni di una licenza; mancavano i due comandanti assieme ad altri undici agenti di custodia. Al momento della visita, le celle erano quasi tutte aperte e anche nel quarto braccio, riservato ai «detenuti politici antinazionali», ci si poteva muovere liberamente per tutta la sezione. Era così in tutti gli istituti carcerari della RSI. Ovunque, le Direzioni denunciavano la carenza di personale addetto alla custodia interna allo stabilimento: scarsi gli organici, ancor più ridotte le presenze dato il forte tasso di assenteismo tra il personale militare. Non di rado gli agenti erano accusati di essere conniventi con i detenuti, talvolta addirittura con quelli politici. In vari rapporti si diceva, ad esempio, che il personale di custodia del carcere di Venezia era «infido e pericoloso»; una nota rivelava poi che il capoguardia e il vicecapoguardia delle carceri di Vicenza, assieme al direttore, «durante il periodo badogliano si sono comportati da accaniti antifascisti angariando in ogni modo gli squadristi arrestati», mentre «sono stati larghi di agevolazioni ai fermati antifascisti, andando loro incontro in ogni modo, facendo ad essi dimostrazioni di stima e di riguardo»17. Vi furono alcuni agenti di custodia che presero parte attiva alla Resistenza al nazi-fascismo e che pagarono molto cara quella loro scelta. Il 1° febbraio 1945 due agenti di custodia di La Spezia, Efisio Raccis e Duilio Manci, che avevano ammesso di aver partecipato al Comitato di liberazione nazionale (CLN) locale e di aver eseguito alcune azioni a mano armata, furono avviati al campo di concentramento di Mauthausen, dal quale non avrebbero fatto più ritorno18. La maggioranza di quelle «informative» tuttavia, provenienti

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dai vari corpi di polizia della RSI, erano del tutto false, delle calunnie ordite per motivi personali e politici. Come tali del resto furono spesso considerate anche dai responsabili penitenziari. Più che del reale comportamento degli agenti, esse sono rivelatrici dei contrasti tra le varie autorità della RSI e di un altro meccanismo tipico di quella fase: le autorità di Salò, infatti, non riuscendo a risolvere i problemi strutturali che erano alla base della rottura della disciplina nelle carceri, individuarono un utile capro espiatorio nell’anello più debole dell’Amministrazione carceraria stessa, ossia, appunto, gli agenti di custodia. In realtà, la sostanziale rottura della disciplina difficilmente poteva essere imputata agli agenti. Se i detenuti camminavano liberamente per le sezioni, come a Torino, e le porte delle celle erano aperte e prive di serrature, come un po’ ovunque, ciò era dovuto agli stessi motivi per cui mancavano la nafta o il cibo, le lenzuola e i pagliericci: la situazione complessiva era tale da non permettere l’espletamento dei servizi comunemente svolti dall’Amministrazione carceraria, compresi quelli di sorveglianza. Vigeva quella che John Foot ha chiamato «anarchia nella dittatura»19: una situazione segnata cioè dalla mancanza spesso totale di legalità, sicurezza e disciplina, concomitante alla pretesa, da parte delle autorità penitenziarie e politiche della RSI, di garantire il pieno controllo sull’istituzione. Le evasioni, nel frattempo, si moltiplicavano. Ovunque, in conseguenza dei bombardamenti, i reclusi approfittavano delle distruzioni nelle strutture carcerarie per allontanarsi20. Scappavano i detenuti dagli ospedali civili in cui erano ricoverati, si davano alla fuga gli internati scelti per essere avviati al lavoro in Germania. Riuscivano a evadere sempre più frequentemente anche i detenuti politici, ciò che ovviamente destava la massima preoccupazione nelle autorità della RSI. Alcune carceri, dove maggiore era la concentrazione di detenuti politici, soprattutto in Piemonte e in alcune zone della Liguria, erano praticamente al di fuori del controllo dell’Amministrazione penitenziaria e delle autorità giudiziarie fasciste. All’inizio del 1945, nelle carceri giudiziarie di Torino una «fonte fiduciaria» denunciava la presenza «di agenti del comitato di liberazione nazionale e del partito comunista» che fornivano viveri, oggetti e denaro ai detenuti, permettendo loro di «passeggiare liberamente

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per i corridoi». La propaganda antifascista era estremamente attiva: le autorità lamentavano «la continua fioritura di distintivi comunisti e, nelle ore di ricreazione, di canti antinazionali». In alcuni casi le brigate partigiane che agivano nel territorio in cui era situato il carcere riuscivano a esercitare sugli agenti di custodia e sulle direzioni una pressione considerevole. Quando poi erano sufficientemente organizzate e numerose, si giungeva a veri e propri assalti armati alle carceri. Così avvenne ad esempio ad Apuania, a Bologna e ripetutamente a Fossano nel corso del 1944. Le autorità carcerarie fasciste cercarono di potenziare il sistema di sorveglianza esterna degli istituti penitenziari e di limitare gli accessi alle carceri, ma un controllo effettivo su questi ultimi era reso impossibile dalla prassi arbitraria che le varie autorità seguivano nel prelevare e nel gestire i detenuti a loro disposizione. Si tentò allora di centralizzare la gestione dello scottante problema della sicurezza delle carceri. Dalla fine di marzo del 1945 questa fu interamente demandata al ministero dell’Interno, presso il quale era già stato istituito dal settembre precedente un Ispettorato generale dei servizi carcerari, a capo del quale era il prefetto di Milano, Ippoliti21. Quest’ultimo si pose l’obiettivo ambizioso di eliminare «ogni possibilità [di] evasioni» ma, dato il tempo assai ridotto in cui poté operare, si limitò in realtà a impostare una rilevazione dello stato di tutti gli stabilimenti e a effettuare tra il settembre 1944 e il febbraio successivo una serie di visite ispettive alle carceri giudiziarie più importanti (Milano, Torino, Venezia, Varese). In quell’ultimo aprile della RSI l’ispettore generale Ippoliti dovette constatare impotente il moltiplicarsi delle evasioni. I detenuti comuni, individualmente, a coppie, a volte in gruppi anche di sei-sette, fuggivano dalle carceri giudiziarie di Torino, Bolzano e Bologna. A decine evadevano dalle carceri mandamentali, scappavano dagli ospedali civili, abbandonavano gli ospedali psichiatrici. Il giorno 16, sceso il buio, partigiani travestiti da agenti delle Brigate Nere liberarono dalle carceri di Verbania sei detenuti politici a disposizione del comando tedesco lanciando una bomba a mano per coprirsi la fuga; cinque giorni dopo, ventuno partigiani fecero saltare il portone d’ingresso dello stesso carcere con una bomba a mano e liberarono una detenuta politica. Era uno specifico aspetto della più generale agonia del regime

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neofascista, ormai prossimo alla caduta definitiva. La sera del 24 aprile 1945, nella sede milanese del ministero della Giustizia, il guardasigilli Pisenti «aveva dato l’addio ai funzionari del suo Gabinetto, avvertendoli che l’indomani si sarebbero avute delle novità. Dopo quella sera il Gabinetto si liquefece e i diversi funzionari si dispersero per la città e per altri centri». Il mattino del 25, iniziata l’insurrezione, il Palazzo di Giustizia fu occupato dai partigiani e vi si insediarono il commissario alla Giustizia avv. Becca e il suo vice, nominati dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI). Lo stesso commissario, alcuni giorni dopo, diede l’ordine di arrestare i consiglieri Berardelli e Verra, rispettivamente capo dei servizi e capo di gabinetto dell’ex ministero della Giustizia22. Le carceri dell’Italia liberata e del dopoguerra «Gli stabilimenti carcerari, salvo qualche rara eccezione, sono in condizioni disastrose. Vecchi conventi, antiche fortezze, tetri castelli occupano la maggior parte delle carceri italiane. Nessuno è idoneo allo scopo: locali privi di luce, sporchi, sforniti dei più elementari servizi igienici, malsani, incapaci a contenere la pletora della sempre crescente popolazione carceraria, senza possibilità organizzative di lavoro, mancanti di oggetti di casermaggio, malsicuri, senza luce, senza aria, pieni d’insetti e di parassiti. I detenuti vivono abbandonati alla rinfusa in indecenti, asfissianti cameroni o costretti in parecchi in celle infelicissime. Tutti gli istituti ospitano un numero superiore di individui a quello previsto dalla capienza massima»23. Era un affresco a tinte fosche quello dipinto nel 1944 dalla Commissione visitatrice e di assistenza ai detenuti di Roma nella sua relazione sulle «deficienze del vigente sistema penitenziario e sulla necessità di una urgente riforma». Frutto del giro di tutte le carceri dell’Italia liberata, essa si addentrava nella descrizione delle condizioni di ogni istituto penitenziario. Alle poche carceri di più recente costruzione, come quelle di Lagonegro e di Reggio Calabria, facevano riscontro le molte si-

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tuazioni di disagio, come nel caso dell’«orrido e vecchio convento» che fungeva da carcere ad Agrigento, del «vecchio e orrido edificio» delle carceri giudiziarie di Salerno e delle simili strutture di Cosenza, Noto, Catania e Messina. Nelle più grandi carceri giudiziarie si concentravano i maggiori problemi. In quelle di Poggioreale, a Napoli, quattro padiglioni di sezione e il padiglione delle celle di punizione risultavano distrutti a causa delle incursioni aeree; i locali della caserma degli agenti e parte dei locali della direzione erano occupati da truppe alleate. La capienza era quindi ridotta da 2500 a 1500 posti, ma circa 3000 detenuti affollavano l’istituto penitenziario, formando «un agglomerato penoso», senza possibilità di svolgere attività lavorative, disponendo solo di «un pagliericcio, una coperta, un bacile, una gavetta, un cucchiaio, un boccale, un bicchiere» ciascuno. La biancheria non era sufficiente al fabbisogno di tutti i detenuti ed era completamente assente il vestiario invernale. Il personale di custodia, infine, era nettamente sotto organico. Dopo che dagli istituti carcerari furono tolte le insegne fasciste e quando, successivamente, furono dichiarati nulli gli atti emessi dal governo della RSI anche in materia penitenziaria24, rimasero nelle mani delle nuove autorità istituti vecchi e sovraffollati, non raramente danneggiati dalla guerra, spesso privi dei muri di cinta e comunque non in grado di garantire le condizioni minime di sicurezza e di igiene. Il 20 maggio 1945 il direttore generale Volpe prese possesso del suo ufficio, dal quale gestiva ora tutte le carceri italiane. Nel suo saluto inaugurale invocava la necessaria «opera di ricostruzione materiale e morale» e su quel cammino «irto di difficoltà» invitava a porsi direttori, funzionari e agenti. Richiedeva loro «l’adempimento scrupoloso dei propri compiti, la dedizione più assoluta al dovere, il più stretto rispetto dell’ordine e della disciplina»25. La macchina penitenziaria andava riavviata. Gli uffici centrali della Direzione generale dovevano essere riorganizzati, il servizio statistico ripristinato, lo stato di ciascun istituto penitenziario censito. L’opera di ricostruzione durò circa un decennio e non fu facile né celere, date le carenze infrastrutturali dell’epoca e in considerazione delle alterne vicende politiche. In attesa di una riforma complessiva dell’ordinamento peni-

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tenziario e dei codici, bisognava dare anche segnali di rottura rispetto al regime repressivo che il fascismo aveva imposto sulle carceri. Nei primi mesi dopo la Liberazione si susseguirono le circolari che intervenivano sulle condizioni materiali di vita dei detenuti. Gradualmente venne migliorato il vitto, sia pure in termini relativi, aggiornando le tabelle nella quantità e nella qualità. La durezza delle disposizioni disciplinari venne mitigata, in particolare eliminando la riduzione del vitto prevista per alcune infrazioni e regolamentando l’uso dei mezzi di contenzione fisica. Si provvide inoltre a migliorare l’igiene personale dei detenuti e degli ambienti in cui essi vivevano e a riorganizzare alcuni servizi sanitari specialistici, ad esempio creando dei dispensari per detenuti sifilitici26. Un ostacolo al processo di ricostruzione fu rappresentato dal peculiare contesto sociale del dopoguerra. La fluidità della situazione politica ebbe ripercussioni molto forti, nei primi anni dopo il conflitto mondiale, sui tassi di criminalità27. In particolare, rispetto al mezzo milione di delitti che erano stati oggetto di primo provvedimento dell’autorità giudiziaria nel 1935, le statistiche ne segnalarono 866.984 per il 1945 e oltre un milione per l’anno successivo. Il numero degli omicidi volontari, nello stesso periodo, crebbe di quasi quindici volte; quello dei furti quasi triplicò. Fu solo alla metà degli anni Cinquanta che si tornò sui livelli precedenti alla guerra. Nell’immediato dopoguerra il problema carcerario fu accomunato a quelle tendenze generali e si impose pertanto all’attenzione dell’opinione pubblica essenzialmente come problema di ordine pubblico. Di fronte a una popolazione che si dibatteva per lo più in difficili situazioni economiche, gli specifici problemi dei detenuti rimasero sostanzialmente inascoltati, mentre le evasioni e le rivolte carcerarie, unite alle vicende più clamorose della cronaca nera, venivano lette come un’ulteriore conferma dell’instabilità del nuovo sistema democratico. Il fenomeno della rottura della disciplina da parte dei detenuti caratterizzò un lungo periodo che, con fasi alterne, iniziò nella peculiare situazione bellica e si protrasse fino ai primi anni Cinquanta. Su di esso gravarono le profonde debolezze strutturali degli istituti carcerari e, per altro verso, l’incremento numerico senza precedenti che in quegli anni si registrò nella popolazione

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detenuta. La media delle presenze giornaliere, che prima della guerra si aggirava attorno ai 55.000 detenuti, balzò a 84.000 nel 1946 e si assestò ben oltre i 60.000 negli anni immediatamente successivi28. Le carceri erano semidistrutte e, contemporaneamente, strapiene. Non sorprende quindi che le evasioni, individuali e talvolta collettive, abbiano caratterizzato quel periodo. Accanto a esse, le grandi rivolte furono allora il simbolo più eclatante della rottura della disciplina interna agli stabilimenti penitenziari. Le più importanti si ebbero nelle carceri giudiziarie romane di Regina Coeli (luglio 1945), a Le Nuove di Torino (dicembre 1945) e nell’istituto milanese di San Vittore (21 aprile 1946) e furono in larga misura la prosecuzione di analoghe violente proteste occorse nel periodo bellico. Il 22 luglio 1945 a Regina Coeli i reclusi del quinto braccio, sopraffatte le guardie di servizio, si riversarono nella seconda rotonda, svellendo i cancelli del settimo e ottavo braccio, poi si diressero verso la prima rotonda e forzarono anche le celle delle altre sezioni29. I carcerati rivendicavano l’unità fra detenuti «politici» e «comuni», chiedevano un provvedimento di amnistia generalizzata e pretendevano la «immediata presenza del Ministro Togliatti». Quest’ultimo si recò nell’istituto romano il giorno successivo ed ebbe modo di parlare con una loro delegazione. «Regina Coeli non è un carcere, ma un cattivo campo di concentramento»: queste furono le parole del guardasigilli comunista di fronte alla situazione che ebbe modo di vedere. Ma altre priorità muovevano le forze politiche, più pressanti dell’esigenza di miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Lo stesso Togliatti, insieme alla quasi totalità della classe politica e della stampa, si fece così portatore di un’istanza di «normalizzazione» che passò attraverso la repressione delle rivolte e l’imposizione di una rigida disciplina interna alle carceri. Nel clima emergenziale seguito alla rivolta di Regina Coeli furono firmati dal guardasigilli comunista due provvedimenti destinati a pesare sul futuro della storia penitenziaria italiana30. Il primo fu dato dalla circolare del 14 agosto e riguardava esplicitamente la disciplina degli stabilimenti penitenziari. In essa erano presenti cenni significativi alle condizioni di vita dei detenuti e alcune promesse di miglioramento di esse, ma il tono ge-

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nerale del documento era ben altro. Bisognava restituire «ordine e disciplina» agli istituti carcerari, combattere «con energia ogni manifestazione di disordine, di indisciplina e di corruzione»; le porte delle celle dovevano essere chiuse, dal momento che «la libera e non controllata circolazione dei detenuti nelle carceri è [...] la causa principale dell’indisciplina, delle sommosse, e ad essa si deve porre fine». Venivano infine minacciati provvedimenti disciplinari contro i direttori che avessero continuato a tollerare comportamenti dei detenuti al di fuori del regolamento penitenziario. Nella circolare si faceva anche riferimento ai problemi degli agenti di custodia e si preannunciava un ulteriore provvedimento per ridefinire la loro posizione. Quest’ultimo si ebbe con il decreto legislativo luogotenenziale del 21 agosto successivo. La principale novità lì introdotta era la militarizzazione del Corpo degli agenti di custodia, che assumeva in quel modo funzioni e caratteristiche analoghe a quelle degli altri corpi armati in servizio di pubblica sicurezza. La disciplina degli agenti, già severamente definita dal Regolamento del 1937, ne risultò rafforzata; la militarizzazione innescò inoltre un processo di autentica «invenzione della tradizione» che mescolando elementi religiosi e militari intendeva creare uno spirito di Corpo31. Non più «secondini» ma «soldati della Legge», gli agenti di custodia misero «per la prima volta sulle loro mostrine le stellette metalliche» e presero a «scrollarsi d’addosso quel senso di vergogna per il lavoro svolto». Ricevettero il motto Vigilando Redimere, scrissero le prime pagine del loro Diario storico ed ebbero in san Basilide un protettore, ne «L’Agente di Custodia» il proprio giornale, nel 12 settembre la propria festa. Quest’ultima, insieme ai messaggi di fine anno del comandante generale, diede occasione ai nuovi ufficiali di riversare sui subalterni la retorica del «sacrificio», dell’«adempimento adamantino del dovere», del «martirologio» che commemorava gli «oscuri ed ignorati eroi che rimasero fedeli alla consegna sugli spalti degli Istituti». Ai provvedimenti repressivi approvati, la classe politica sentì l’esigenza di dare una giustificazione in termini ideologici. Della stessa rivolta di Regina Coeli, Togliatti diede in pubblico una lettura opposta a quella che aveva potuto riscontrare nei fatti: la descrisse come una protesta organizzata da elementi fascisti e volta

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al sovvertimento del nuovo Stato democratico. Così avvenne anche per la rivolta della Pasqua del 1946 a San Vittore, nel corso della quale rimasero uccisi quattro detenuti e un giovane agente di custodia, Salvatore Rap, che con il suo intervento bloccò i reclusi e permise l’arrivo dei rinforzi, circa un migliaio tra poliziotti, carabinieri e militi32. Al termine degli eventi, il carcere risultò completamente distrutto, oltre 100 detenuti rimasero feriti e tutti i reclusi ritenuti responsabili furono trasferiti in massa in altri stabilimenti penitenziari. Anche in quel caso si invocò un presunto ruolo eversivo di gruppi fascisti come origine di quegli eventi. In mancanza di ricerche specifiche che analizzino i documenti interni agli istituti carcerari coinvolti nelle proteste, sembra comunque possibile escludere che le formazioni neofasciste avessero una tale capacità di mobilitazione nelle carceri in quei primi mesi dopo la Liberazione33. Alcune testimonianze spingono anzi a ipotizzare un’influenza di segno politico opposto nelle principali rivolte. I gruppi neofascisti non solo mancavano della capacità di coordinamento necessaria per organizzare rivolte tanto estese e diffuse, ma non mostrarono allora alcun interesse specifico rispetto alla questione penitenziaria. Soltanto a partire dal 1953 il Movimento sociale italiano (MSI) attivò uno specifico impegno nei confronti di quei detenuti, peraltro limitato allo scambio epistolare e al recapito di pacchi dono in occasione delle feste. Alcune inefficaci proteste furono organizzate da detenuti fascisti solo attorno alla metà degli anni Cinquanta, quando la situazione nelle carceri era mutata radicalmente ed essi stessi erano ormai ridotti a poche centinaia. Una riduzione così drastica del numero dei detenuti condannati per reati connessi al fascismo era stata resa possibile del resto in virtù del provvedimento di amnistia emanato dallo stesso guardasigilli Togliatti nel 1946: promulgato con l’intento della «pacificazione nazionale», esso smentiva di per sé la tesi della presenza di un pericolo derivante dai fascisti detenuti, che vennero liberati in massa dalle carceri senza che alcuno specifico evento lo giustificasse. Nelle carceri italiane dell’immediato dopoguerra le proteste furono numerose e ripetute. Facevano parte di una più generale e diffusa rottura della disciplina penitenziaria che le circolari ministeriali rilevavano mese dopo mese con l’intento di contrastarla,

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mettendone al contempo in luce le motivazioni oggettive, radicate nelle condizioni di vita interne agli stabilimenti penitenziari34. Furono i detenuti in prima persona a incaricarsi di riferire su queste ultime. Lo fecero con tutta la veemenza necessaria in una straordinaria corrispondenza che a centinaia intrattennero con i membri della Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri, non appena ebbero notizia della sua istituzione nel luglio 194935. Si fidarono di quei parlamentari, molti dei quali erano stati detenuti politici durante gli anni del regime, e presero a raccontare. Un uomo di oltre settant’anni inoltrò un’istanza di grazia segnalando – incredibile a dirsi – di essere detenuto dal marzo del 1898. Un altro scrisse dalla casa penale di Volterra raccontando di essere stato condannato, per il reato di furto, a diciassette anni e sei mesi in virtù della legislazione speciale di epoca fascista. Inviarono lettere ergastolani, internati dei manicomi giudiziari e delle case di lavoro, ex fascisti ed ex partigiani. Per ottenere l’attenzione della Commissione i detenuti di Poggioreale escogitarono un singolare stratagemma, spedendo individualmente ma secondo un evidente piano comune centinaia di lettere: tutte quante insistevano sui medesimi argomenti, erano personalizzate con espressioni colorite contro il «nefando Regime» fascista e inneggiavano all’«Anno Santo» portatore di un atto di clemenza «verso coloro che sono nati avversati da un duro e crudele doloroso destino». Dall’insieme di quelle lettere emerge una vera e propria geografia sommersa delle carceri italiane di quegli anni. La situazione igienico-sanitaria e vittuaria, unita alla grave questione del sovraffollamento, risultava in impressionanti descrizioni dell’interno degli edifici carcerari. Era così per le «condizioni spoetizzanti» delle carceri giudiziarie delle Murate di Firenze e per gli ambienti degni dell’«abolizione completa» della casa penale dell’isola di Favignana, dove il cibo era immangiabile e mancavano vestiti e medicinali. Nella casa di lavoro all’aperto di Tramariglio, in Sardegna, a un internato sembrava che il tempo si fosse «fermato alle invasioni barbariche»: era «latitante» l’igiene, i bagni risultavano «una utopia», mentre frequenti erano le punizioni. Le pessime condizioni di vita erano legate da molti alla rigidità della disciplina. Venivano denunciati nei dettagli i soprusi subiti da par-

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te degli agenti, come pure le minacce di trasferimento nelle case penali più disagiate e dure, quali Volterra, Porto Azzurro o San Gimignano. In due lettere presero la parola un padre e suo figlio, l’uno recluso nella casa penale per minorati fisici e psichici di Soriano nel Cimino, l’altro a Poggioreale. Non di ladruncoli si trattava, né di detenuti politici e neppure di reclusi che si erano adeguati all’istituzione carceraria, come tanti altri che scrissero o che rimasero in attesa, nel silenzio. Condannati entrambi a pene lunghissime, essi erano, dichiaratamente, fieramente, dei ribelli, dei sobillatori36. Il figlio, ergastolano, schedato come «noto brigante» e che in quello stesso anno aveva provato la via dell’evasione, aveva in sé l’esperienza di vita e la rabbia di chi, sospinto ai margini della società, aveva elaborato una mentalità intessuta di un illegalismo quotidiano misto a elementi di critica radicale, non priva di venature politiche. Una figura tipica del mondo carcerario di ogni tempo, un «delinquente professionale», come l’Amministrazione penitenziaria amava denominare quelli come lui: individui che assai di rado lasciano traccia scritta delle proprie idee, e che ancor meno pensano a dibatterne con un organo istituzionale. Quella lettera perciò, a tratti sprezzante nei confronti degli onorevoli destinatari, costituisce un documento unico: Un uomo – e siamo decine di migliaia in questa Italia che vanta il suo sole il suo azzurro, è chiuso, la sua vita è strongata, dietro una grata pesante, nell’umidore, nel fetore, senza luce, senz’aria [...] Le bocche di lupo, la promiscuità in celle ristrettissime e malsane, i buglioli37 scoperti in cella, l’acqua scarseggiante mista di sabbia e d’insetti, lurida, fetida e puzzolente all’infinito, sono i più intelligenti apporti al dilagare della tubercolosi ed altre malattie! Ecco la redenzione proclamata, ecco l’uomo entrato sano fra queste umide pareti grige, in pochi anni si è trasformato in un essere miserando, che sputa sangue, abbrutito, dolorante. Nella scarsa ora di passeggio, elargito come un premio, e non come un diritto di respirare, ci si chiude in dieci dodici in pochi metri di fetido cubicolo, cubicoli dove prendono aria gli stessi tubercolosi, pavimentato di polvere infetta, sputacchiera e orinatoio, attorniato da esalazioni nauseabonde. E dall’altro un cattivo aguzzino armato di mitra Ci sorveglia, Ci spia, Ci colpisce colla sua creduta spiritosaggine. Civiltà. Progresso. 1949. Quante parole vane, inconcludenti!

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Pochi giorni prima aveva organizzato una protesta nel penitenziario di Porto Azzurro, sedata dagli agenti che lo avevano picchiato e poi trasferito a Poggioreale per punizione. Ma era riuscito a portare con sé di nascosto il manoscritto, nel quale spiegava le ragioni profonde di quei gesti di ribellione dal punto di vista di chi non doveva interessarsi del mantenimento dell’ordine, ma piuttosto della propria sopravvivenza in un ambiente squallido e violento, del quale, uno dopo l’altro, enumerava gli elementi costitutivi. Del medesimo tono era la lettera del padre. Questi era esplicito nell’avvertire la Commissione che per «veramente conoscere la vera macchina Carceraria, che regola la vita dei ‘sepolti vivi’», non avrebbe dovuto fermarsi di fronte alle apparenze, davanti alle parate fitte di detenuti sorridenti, «addomesticati», proni rispetto alle direzioni, né al cospetto delle limitazioni imposte dalle strutture burocratiche dello Stato. Sarebbe dovuta andare fino in fondo, e con urgenza, dal momento che le sevizie e le vessazioni non si sarebbero fermate ad attendere la relazione finale degli illustri parlamentari.

Speranze di riforma Approvata dopo oltre un ventennio di dittatura, la Costituzione della Repubblica italiana ribadisce espressamente i fondamenti dello Stato di diritto, soffermandosi in particolare, nell’art. 13, sul tema dell’inviolabilità della libertà personale, ammettendone la limitazione solo nei casi e con le modalità previsti dalla legge e punendo ogni violenza fisica o morale commessa a danno di persone su quelle basi recluse. Memore dei processi sommari condotti dai Tribunali speciali del regime fascista, la legge fondamentale dello Stato definisce inoltre la difesa un «diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24), indica il principio della personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1) e quello della presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino al momento della condanna definitiva (art. 27, comma 2). Nel terzo comma dell’art. 27 chiarisce la funzione della pena. Il dibattito attorno a quel tema in sede di Assemblea Costituente

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fu ampio e rivelò le posizioni delle varie forze politiche, mostrando le tendenze che sarebbero rimaste costanti nella storia carceraria del periodo repubblicano38: quella dell’umanizzazione della pena, l’approccio rieducativo nei confronti dei condannati, la forte e persistente tradizione «retributiva», che alla pena detentiva attribuiva un valore principalmente afflittivo. Nella seduta conclusiva, il 15 aprile 1947, tutti gli interventi furono concordi nell’inserire nel testo un passaggio sull’umanità del trattamento da riservare ai detenuti. Lo scontro si accese invece sull’opportunità di far riferimento alla funzione rieducativa della pena. Si formarono su quel tema due raggruppamenti di forza assai diseguale. Quanti si opposero alla menzione nel testo della funzione rieducativa della pena furono guidati da insigni giuristi come Giovanni Leone, Giuseppe Bettiol e dal giovane Aldo Moro. I primi due, in particolare, erano illustri rappresentanti di quella tradizione penalistica italiana che in molti scritti vantavano di aver difeso, durante l’epoca fascista, dalla minaccia portata al principio di legalità dagli influssi del diritto penale nazista. Quei politicigiuristi miravano alla conservazione dei principi tradizionali del diritto penale e valutavano negativamente qualsiasi modifica che intaccasse l’impianto e il significato di fondo del Codice penale del 1930, ritenuto un’abile mediazione tra la scuola positiva e la scuola classica del diritto penale. Vi era la preoccupazione che l’introduzione del concetto di rieducazione, nel testo dell’articolo relativo alla pena, minasse l’intero impianto del sistema penale: la rieducazione aveva già un suo posto, ed era nell’ambito delle misure di sicurezza; alla pena della reclusione spettava la connotazione retributiva che, sia pure mitigata da un processo di umanizzazione, doveva rimanere ben visibile. Di fronte a quel blocco accademico-politico compatto, il gruppo dei sostenitori della funzione rieducativa della pena si presentava in aula eterogeneo e non coordinato. Di esso facevano parte soprattutto i social-comunisti, che vedevano nell’introduzione del concetto di rieducazione un momento dell’indispensabile umanizzazione dell’esecuzione penale. Le argomentazioni dei «riformatori» furono vaghe, non fondate su alcuna particolare riflessione teorica sul tema penale e penitenziario, ma prevalentemente su considerazioni di carattere ideologico. Specie per gli espo-

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nenti della sinistra, emergeva una realtà inconfutabile: la mancanza di una cultura politica specifica in materia penale e penitenziaria. Lo squilibrio esistente tra conservatori e riformatori imponeva di fatto la supremazia delle posizioni dei primi anche in assenza di espliciti riferimenti a esse nei testi legislativi. Lo stesso terzo comma dell’art. 27, nella sua stesura definitiva, non parlava della funzione retributiva della pena e recitava invece: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La funzione retributiva della pena tuttavia, pur non nominata esplicitamente in quel testo, era scritta nel sistema sanzionatorio previsto dal Codice penale e nelle relative sentenze di condanna; trovava conferma nel potere discrezionale del giudice nella determinazione della misura e della pena e nelle modalità concrete di intervento delle forze di Pubblica Sicurezza – ad esempio in tema di arresto obbligatorio e facoltativo in flagranza di reato, disposti in relazione all’entità della pena detentiva. I conservatori potevano dunque limitarsi a rimanere nell’ombra. Per quanto riguarda la riforma penitenziaria, in ogni passaggio decisivo essi appaiono come i grandi assenti. Il processo di umanizzazione della pena sembra un’inarrestabile forza destinata a risolvere ogni problema; le discussioni nelle Commissioni parlamentari e ministeriali in materia di trattamento dei detenuti fanno proprie le posizioni di avanguardia del contesto mondiale e le riforme sembrano essere solo questione di scelta tra le varie proposte innovative, da mediare al massimo con le peculiari caratteristiche tecniche del sistema penale italiano. Tuttavia i quasi trent’anni che passano tra l’enunciazione del principio della funzione rieducativa della pena nel testo costituzionale e l’approvazione di una riforma penitenziaria fondata su di esso sono il segno inequivocabile della presenza e della forza delle posizioni dei conservatori. Lo stesso articolo 27 della Costituzione, al quarto comma, stabiliva l’abolizione della pena di morte, mantenendola soltanto nei casi previsti dalle leggi militari di guerra39. Eliminata dal Codice penale del 1889, la pena capitale era stata reintrodotta dalle leggi «fascistissime» del 1926 per reati di natura essenzialmente politi-

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ca e successivamente estesa dal Codice penale del 1930 anche a reati comuni considerati di maggiore gravità. Dopo l’avvento del governo Badoglio, Radio Roma ne aveva annunciato l’abolizione; il relativo Regio decreto legislativo non risultò però mai pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale del Regno» e probabilmente non vi era neppure mai stata una reale discussione in merito. L’esigenza dell’abolizione della pena capitale era comunque sentita da tutte le forze politiche dell’Italia liberata dagli Alleati. Uno schema di decreto legislativo, proposto dal ministro di Grazia e Giustizia, fu approvato nel corso della riunione del Consiglio dei ministri del 27 luglio 1944. Alle «concezioni nettamente autoritarie» che ispiravano i codici fascisti, il «rinnovato clima spirituale del popolo italiano» imponeva di contrapporre la tradizione giuridica di Beccaria e del Codice liberale Zanardelli del 1889, a cominciare dalla soppressione della pena di morte nella giurisdizione generale. Fu appunto la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948 ad abolirla in maniera definitiva. Quella decisione era anche il prodotto del ricordo degli arbìtri e degli orrori commessi dal regime fascista contro gli oppositori politici. Culmine di ogni umanizzazione, l’abolizione della pena capitale fu uno dei pochi segnali di rottura netta con il passato nel dopoguerra. Sarebbe rimasta vuota dopo di allora la cella nella quale, nel carcere torinese de Le Nuove, venivano usualmente rinchiusi i condannati a morte in attesa di essere portati al luogo delle esecuzioni, il «Martinetto». Era ritratta in una foto: un tavolaccio di poco rialzato dal pavimento, un pagliericcio a strisce verticali. Il grigiore dei muri. La sporcizia. Una finestra con le sbarre di ferro. Le sbarre del cancello40. La volontà di rottura con il periodo fascista su queste pratiche non impedì che l’ombra della pena capitale si allungasse anche sui primi anni del nuovo Stato democratico. Né essa riguardò soltanto alcuni dei fascisti imputati di collaborazionismo e di altri reati militari. La temporanea estensione ad alcuni reati comuni ne permise l’utilizzazione negli anni tra il 1945 e il 1947 come misura per contrapporsi all’incertezza della situazione dell’ordine pubblico. Gli ultimi condannati a morte in Italia furono tre «borsaneristi» siciliani immigrati in Piemonte, autori, con una quarta persona trovata morta prima del processo, dell’omicidio di dieci agricoltori di Villarbasse (Torino), avvenuto alla fine del novembre

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194541. Assistiti dall’allora cappellano de Le Nuove, padre Ruggero, furono anch’essi portati al «Martinetto» il 29 novembre 1947, dopo che il presidente della Repubblica Enrico De Nicola ebbe rigettato l’istanza di grazia. 36 poliziotti della Celere ricevettero un proiettile ciascuno; la metà erano a salve. I condannati furono bendati. Seguiti dai fotografi, senza voltarsi verso le autorità presenti, alzarono il volto al cielo e gridarono frasi inneggianti all’indipendenza della Sicilia. Gli ordini vennero dati a gesti, tranne la parola finale: «Fuoco!». La presenza in Parlamento di molti antifascisti perseguitati e incarcerati durante il regime fascista accentuò la sensibilità politica sulla necessità di procedere all’umanizzazione delle condizioni detentive. È esemplare da questo punto di vista la vicenda della Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri, alla quale già si è accennato rispetto alla corrispondenza inviata dai detenuti. Proposta dall’onorevole Piero Calamandrei, essa fu istituita il 10 dicembre 1948 con decreto del presidente della Repubblica. Tra i suoi dieci componenti spiccavano alcune figure di primo piano dell’antifascismo che avevano direttamente subito l’esperienza della carcerazione negli anni della dittatura ed era un ex perseguitato politico lo stesso presidente della Commissione, il senatore democristiano Giovanni Persico42. Uno dei primi atti della Commissione fu quello di raccogliere le testimonianze di altri senatori che avevano conosciuto il carcere durante il periodo fascista. A personaggi noti del movimento di Liberazione, come Michele Giua, Pietro Secchia ed Emilio Sereni, Rodolfo Morandi e Umberto Terracini, furono richieste «notizie della loro dolorosa esperienza carceraria per tenerle utilmente presenti nelle indagini che essa [la Commissione parlamentare] intende svolgere con la massima obiettività ed efficacia»43. Alcuni di essi, tra l’altro, avevano già contribuito alla pubblicazione, nel marzo di quell’anno, di un numero speciale della rivista «Il Ponte», diretta da Calamandrei, appositamente pensato come appoggio e stimolo ai lavori di quella Commissione. Si tratta, come è stato detto dallo storico e giurista Guido Neppi Modona, del contributo «più organico e completo di conoscenza, documentazione e denuncia della realtà penitenziaria mai espresso dalla classe politica italiana»44. Esso conservava le memorie e le ri-

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flessioni degli ex detenuti politici, eccezionali testimonianze non soltanto dello stato delle carceri nel momento in cui vi soggiornarono gli autori, ma anche della loro capacità di mettere su carta le impalpabili sensazioni di ogni detenuto, le verità sempre taciute. Veniva lì analizzato il sottile rapporto tra la paura imposta dalle autorità ai detenuti e l’ipocrisia che questi le contrapponevano; vi si metteva in luce la «deformazione carceraria» che si produceva negli agenti, costretti a «personificare» l’astratto regolamento, divenendo al tempo stesso interpreti e succubi delle sue minute disposizioni. Vittorio Foa tratteggiava poi quegli stessi effetti della carcerazione con riferimento ai reclusi, ricalcando la descrizione che un altro detenuto politico, Antonio Gramsci, aveva fatto delle modificazioni psicologiche prodotte dalla detenzione nelle sue Lettere dal carcere pubblicate per la prima volta nel 194745. «Bisogna aver visto», recitava il titolo dell’editoriale di quel numero de «Il Ponte». Bisognava entrare nelle carceri, andare a vedere quali fossero le condizioni effettive di reclusione, sentirle raccontare dalle voci dei protagonisti. A partire dall’estate del 1949, i membri della Commissione si recarono sistematicamente in decine di istituti penitenziari e provarono anche ad affrontare le situazioni che richiedevano interventi di emergenza. La prospettiva dell’umanizzazione della pena fatta propria della Commissione parlamentare era ammirevole nella misura in cui comportava una considerazione attenta delle condizioni materiali dei detenuti, una grande capacità di ascolto per le loro sofferenze che non si sarebbe trovata più in nessuna altra commissione ministeriale o parlamentare italiana. Quell’approccio volontaristico tuttavia rivelava anche i limiti della Commissione, incapace di articolare un programma di lungo periodo di riforma dell’istituzione penitenziaria, che contribuisse a intaccare alcune basi tradizionali del sistema penale. Dietro l’apparente «pragmatismo» della Commissione Persico stava insomma quella stessa carenza di cultura politica sulla specifica materia penale e penitenziaria che si è già avuto modo di rilevare con riferimento ai riformatori impegnati nel dibattito sulla pena alla Costituente. La Commissione parlamentare ebbe a disposizione decine di testimonianze di detenuti sulle condizioni nelle carceri, che poté anche controllare direttamente. Essa poté inoltre servirsi di un esteso materiale proveniente da paesi esteri per analizzare il pro-

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blema penale anche in chiave teorica e comparata46. Vi erano quindi le basi per una proposta di riforma complessiva del sistema penale e penitenziario, ma prevalse il senso dell’urgenza del cambiamento, la generica volontà di dare un segnale politico di innovazione. Il quadro politico si trasformava invece nel frattempo in senso contrario e ciò aveva un riflesso diretto nel bloccare l’attività delle parallele Commissioni ministeriali, istituite nel 1947-48 con l’incarico di formulare progetti di riforma dei codici penale e di procedura penale e del regolamento penitenziario47. La prospettiva della riforma penitenziaria finì per essere non organicamente legata alla riforma dei codici penale e di procedura penale; la permanenza di una legislazione penale sostanzialmente immutata segnò per essa invalicabili confini. La Commissione presieduta dal senatore Persico si chiuse così ancor più in un orizzonte di mera umanizzazione delle condizioni di detenzione. Quando si trattò di tradurre in articoli di regolamento i dati raccolti, la mancanza di un riferimento teorico generale, di una visione politica chiara in materia, portò la Commissione a ricalcare a sua volta il deludente approccio del Progetto elaborato dal Comitato ministeriale48. Nella relazione finale del senatore Persico, lavoro, istruzione e religione rimasero i «pilastri del trattamento», ciascuno per giunta interpretato in termini fortemente tradizionali. In generale, accanto ad alcune proposte innovative sulle liberazioni anticipate e sul rafforzamento del ruolo del giudice di sorveglianza, figuravano posizioni addirittura conservatrici, tra l’altro nel fondamentale campo della disciplina carceraria. I suggerimenti della Commissione legati all’umanizzazione della pena trovarono comunque una parziale applicazione nella circolare emanata il 1° agosto 1951 dal guardasigilli democristiano Adone Zoli49. Con essa venne abolito l’obbligo del silenzio imposto ai detenuti dal regolamento e quello, ugualmente volto alla degradazione dell’individuo, del taglio della barba e dei capelli. Si diede nuovamente a tutti i reclusi la facoltà di essere chiamati con il proprio cognome e venne limitato l’obbligo di indossare l’uniforme ai soli condannati a pene superiori a un anno. Ai detenuti fu concesso di tenere in cella le fotografie dei congiunti e l’occorrente per scrivere, ciò che di fatto già avveniva in molti istitu-

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ti anche in epoca fascista, ma che in quella circolare trovò una non superflua formalizzazione; alle donne venne data la facoltà di fumare, prima di allora negata esplicitamente. Ai direttori venne raccomandato di fare un uso limitato dell’isolamento e della «cintura di sicurezza» (il letto di contenzione), furono date disposizioni per eliminare il fenomeno dei trasferimenti arbitrari e vennero anche indicate le modalità per incrementare le conferenze e le rappresentazioni cinematografiche e teatrali. Infine, fu consentito che le salme dei reclusi fossero messe a disposizione delle famiglie, laddove in precedenza esse divenivano patrimonio dei laboratori di ricerca anatomica. Ai funzionari dell’epoca, la circolare di Zoli parve esprimere quel segnale politico di attenzione al problema carcerario che era sostanzialmente mancato nei primi anni dopo la guerra, e per questo motivo venne caricata di un significato anche maggiore di quello che essa aveva in realtà. A una analisi più approfondita, non può infatti sfuggire la limitatezza di quell’intervento rispetto alle aspettative di riforma complessiva del sistema penale e penitenziario che erano state sollevate nei primi anni dopo la guerra. A fronte di quelle promesse, quel governo delle carceri attraverso le circolari ministeriali, che la nota di Zoli inaugurò, manifestava il fallimento di una prospettiva organicamente riformatrice. In una serie di interventi al Senato nei primi anni Cinquanta fu lo stesso senatore Giovanni Persico a sottolineare quell’aspetto. Da lui vennero critiche veementi all’indirizzo dello stesso ministro Zoli, che sfociarono nella seduta del 24 aprile 1952 in un vero e proprio battibecco. Persico denunciò lì la mancata volontà di porre mano a una reale riforma da parte del governo e di quello stesso guardasigilli, che pure va annoverato tra quelli più liberali della storia carceraria italiana.

Ricostruzione, normalizzazione Nel 1951, quando il guardasigilli Zoli emanò la sua controversa circolare, il clima politico era già profondamente cambiato rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra. In generale, la ricostruzione in Italia si sviluppò in assenza di riforme profonde in

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grado di produrre nuove basi per l’evoluzione sociale ed economica; al contrario, essa operò all’interno di un quadro di sostanziale continuità con gli assetti istituzionali preesistenti. A livello politico, inserita nel clima di una Guerra Fredda sempre più influente anche sulle vicende interne delle singole nazioni, essa si tinse di connotazioni fortemente conservatrici. L’istituzione penitenziaria ebbe un ruolo non secondario nella gestione del passaggio dalla situazione di forte conflittualità politica e sociale caratteristica soprattutto del primo quinquennio dopo la Liberazione, alla forzata «pacificazione» degli anni Cinquanta. Insieme alla magistratura e alle forze di Pubblica Sicurezza, il carcere svolse nel dopoguerra un’ampia funzione di contenimento e controllo dell’opposizione politica e sociale organizzata. Si servì per questo di una strategia flessibile che faceva largo uso deterrente della detenzione preventiva contro i militanti politici e sindacali. Solo in alcuni casi l’imputazione diveniva definitiva, con pene che tendevano comunque a non essere molto lunghe e che spesso venivano amnistiate quando le condizioni politiche e sociali, anche per effetto della repressione, erano state riportate alla «normalità»50. Come nel caso della magistratura, delle forze di Pubblica Sicurezza e di altri ambiti della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria privata, anche l’apparato penitenziario non conobbe alcun significativo processo di epurazione dopo la Liberazione51. La Commissione per l’epurazione stilò precisi elenchi del personale in possesso delle varie qualifiche legate al regime fascista: decine di magistrati, cancellieri e funzionari risultarono «squadristi», «sciarpa littorio», «marcia su Roma», «legionari fiumani», «antemarcia» e iscritti al Partito fascista repubblicano (PFR). A livello politico e amministrativo tuttavia fu data priorità all’esigenza di garantire la riorganizzazione e la funzionalità degli uffici e in quell’ottica il giudizio di epurazione incombente su molti impiegati e funzionari costituiva un freno che andava limitato il più possibile. Si volle dunque ridurre il numero dei dipendenti passibili di epurazione, e a questo fine si procedette a una continua reinterpretazione dei comportamenti censurabili. Già alla fine di novembre del 1945 il commissario per l’Epurazione chiariva la linea da seguire52. Stanti le «desiderabili, ideologicamente limitate finalità dell’epurazione», il criterio soggetti-

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vo era il canone da favorire: i commissari dovevano essere in grado di distinguere gli «elementi indegni» dalla massa composta da «persone fondamentalmente oneste, e non faziose [...] reprensibili per aver difettato di coraggio». Veniva dunque eliminato l’elemento politico dell’epurazione – giudizio politico collettivo su un regime dittatoriale – che, perdendosi così dietro ai cavilli giudiziari, alle prove spesso impossibili da trovare, alle infinite attenuanti che potevano essere considerate nel valutare il comportamento di ciascun imputato, si dissolveva in un inconcludente esercizio tecnico-amministrativo. La magistratura chiamata a decidere, peraltro, era scampata essa stessa all’epurazione in virtù di quei medesimi meccanismi. Nel 1948, quando l’equilibrio economicopolitico era stato ormai decisamente garantito, fu infine possibile al governo addirittura intervenire nel senso della definitiva estinzione dei giudizi di epurazione e della revisione dei provvedimenti epurativi già adottati53. Come dimostra anche la mancata epurazione, la scelta compiuta nel dopoguerra fu principalmente quella di non cambiare i punti fondamentali degli assetti preesistenti dell’organizzazione penitenziaria. L’impermeabilità di lungo periodo dell’istituzione carceraria rispetto alle trasformazioni occorse nella società è stata più volte sottolineata da Guido Neppi Modona. Dall’Unità fino agli anni più recenti, all’immobilismo delle strutture burocratiche si è intrecciata l’«inazione di governi e legislatori di fronte al problema carcerario»54. Il problema della continuità nella storia dell’istituzione penitenziaria italiana pone dunque anche la questione della mancata epurazione in un contesto più ampio. Essa impedì indubbiamente il processo di rinnovamento delle strutture e favorì per contro il permanere di mentalità impermeabili al cambiamento: venuto meno anche quel segnale politico di rottura, decadde ogni eventualità di effettiva democratizzazione dell’ambiente carcerario. Non soltanto poi gli uomini (e le donne, in numero assai più contenuto) continuarono a essere gli stessi, salvo il fisiologico ricambio generazionale. Essi continuarono anche a tramandare le mentalità collettive di vere e proprie corporazioni professionali che agivano nell’Amministrazione penitenziaria, diverse e spesso in

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conflitto tra di loro ma tutte accomunate dal fatto di non essere state soggette ad alcuna riforma significativa. Per molti decenni non si provvide ad alcuna riforma del Corpo degli agenti di custodia, né del personale medico penitenziario, né si pose mano all’adeguamento dell’edilizia carceraria, dalla quale derivavano in larga parte sia le inaccettabili condizioni igienico-sanitarie nelle quali erano costretti a vivere i detenuti, sia l’annoso problema del sovraffollamento. Si dovette attendere l’inizio degli anni Novanta per una limitata riforma dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Fino ad allora la sua struttura rimase la medesima sancita dal Regio decreto del 1922 che ne aveva definito l’impianto rigidamente centralistico e gerarchico55. Nel dopoguerra, allo sforzo di ristrutturazione degli Uffici centrali corrispose l’opposizione a ogni prospettiva di decentramento amministrativo che consentisse ai funzionari direttivi di accedere alle posizioni di vertice dell’allora Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena. Queste ultime restarono riservate esclusivamente a magistrati della Corte di Cassazione distaccati presso l’Amministrazione penitenziaria, che dai penitenziaristi veniva pertanto definita «acefala». Le differenze tra le culture tecniche dei funzionari direttivi e dei magistrati e, da parte dei primi, la sensazione di vedere continuamente mortificata la propria esperienza professionale conquistata sul campo, spiegano la veemenza delle critiche mosse, in particolare nell’immediato dopoguerra e al principio degli anni Settanta. Una continuità di fondo riguardò poi le scelte compiute e ribadite nel tempo in merito all’organizzazione di alcuni servizi fondamentali per il funzionamento degli istituti, importanti anche per la vivibilità delle istituzioni penitenziarie. Si trattava in particolare dei trasporti carcerari, delle forniture carcerarie e delle lavorazioni, tradizionalmente gestiti facendo uso del sistema dell’appalto ai privati. Una qualità solitamente insufficiente dei servizi forniti, un’opinabile convenienza economica per le casse pubbliche ed evidenti meccanismi clientelari caratterizzavano quel sistema organizzativo. Una reale trasformazione della concezione tradizionale della pena avrebbe dovuto passare anche dalla modificazione di quegli aspetti organizzativi; la continuità formale di essi manifestava, per contro, una ben più sostanziale continuità con le concezioni re-

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tributive della pena. E se dunque la pena non era realmente chiamata a una funzione rieducativa – come pure venne scritto nella Costituzione – anche il sistema degli appalti poteva continuare a svolgere la sua funzione: più che quella di garantire l’efficienza dei servizi demandati alle imprese, quella di riprodurre margini di potere discrezionale che nella concreta realtà carceraria divenivano momenti dell’immutato carattere afflittivo della detenzione. La ricostruzione delle carceri era, contemporaneamente, un fatto tecnico e un atto politico. Si ricostruivano gli edifici negli stessi anni in cui si decideva di non mutare gli assetti strutturali del sistema penitenziario, negli stessi mesi in cui si tornava a imporre attraverso e dentro gli istituti penitenziari un processo di normalizzazione sociale e politica. Con l’inizio degli anni Cinquanta, nelle sezioni delle carceri, le porte delle celle tornarono a chiudersi. Anche le proteste andavano ormai scemando e assumevano connotazioni molto differenti rispetto a quelle del decennio precedente. Le agitazioni carcerarie del biennio 1951-52 mirarono principalmente a ottenere all’interno di ciascuno stabilimento l’applicazione delle limitate aperture della circolare Zoli: restarono dunque un fenomeno non soltanto locale, ma anche privo di apprezzabili tentativi da parte dei reclusi di elaborare piattaforme rivendicative autonome. A fronte di quegli episodi ormai ridotti di indisciplina – senza più eco, peraltro, nella stampa nazionale – giungeva allora a compimento la ristrutturazione del sistema penitenziario. All’inizio del 1952 risultavano ricostruiti o riparati quasi tutti gli edifici penitenziari distrutti durante la guerra, mentre nuove carceri erano sorte a Treviso, Ragusa e Bari (minorile) ed era quasi terminato il carcere di Messina56. San Vittore, distrutto dai bombardamenti durante la guerra e poi dalla furia dei detenuti nel corso dell’aprile 1946, appariva ormai completamente ristrutturato e «ordinato». L’agente addetto al centralino sorvegliava ora mediante appositi dispositivi di allarme la situazione interna, quella sul muro di cinta e in alcuni posti fissi. Lo stesso militare era in grado di regolare dalla sua postazione un apparecchio ricetrasmittente che, posto nell’auditorium, serviva per eventuali comunicazioni del direttore ai detenuti, per la trasmissione di brevi conferenze istruttive e di musica sa-

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cra e profana, opportunamente scelta. Dalla rotonda centrale, a stella, si dipartivano sei raggi, di cinque piani ciascuno. Ogni tipologia di detenuti trovava in essi il suo posto: gli imputati di gravi delitti nel secondo raggio; i recidivi e gli imputati di delitti contro la proprietà nel terzo; gli imputati di delitti più lievi contro il patrimonio, gli arrestati e gli inquisiti nel sesto; i condannati a pene brevi e gli addetti ai lavori interni all’istituto erano nel primo raggio; i detenuti sottoposti a cure mediche nel quarto; la maggior parte dei restanti nel quinto. La rappresentazione di quel moderno panopticon, riportata in un articolo della «Rassegna di studi penitenziari», era senza dubbio mitizzata, ma sintetizzava bene la nuova aria che si respirava nelle carceri a partire dagli anni Cinquanta. Fu la circolare del 24 febbraio 1954 del ministro di Grazia e Giustizia De Pietro a sancire in modo formale la definitiva svolta repressiva57. Le frasi che il guardasigilli del nuovo governo Scelba scrisse in quella circolare riportavano a una concezione rigidamente retributiva della pena, che metteva tra parentesi il dettato dell’art. 27 della Costituzione repubblicana. «Pur dovendo tendere [...] alla rieducazione del condannato», la pena non poteva essere «totalmente privata [...] del carattere afflittivo» ed era quindi «inevitabile che [arrecasse] sofferenze». Doveva essere chiaro ai detenuti che non esistevano per loro «pretesi diritti», ma soltanto doveri, in modo tale da evitare che finissero per considerare «le case di pena quasi come luoghi di soggiorno e di riposo». Abbandonato ogni «pietismo», «l’umanità più sensibile» doveva conciliarsi con l’«esigenza insopprimibile che l’ordine carcerario sia rigorosamente rispettato». Tra le pieghe di un processo di umanizzazione assai limitato e sullo sfondo di una più profonda continuità strutturale, veniva così allo scoperto il lato più repressivo della concezione e della prassi della pena. L’assenza di una riflessione politica e teorica in materia penale e penitenziaria mostrata dai politici riformatori li aveva costretti a farsi propugnatori di un’umanizzazione superficiale, li aveva resi incapaci di influire sugli squilibri complessivi del sistema carcerario. Il protrarsi delle misere condizioni dell’edilizia penitenziaria lo dimostrava, come pure la costante situazione di sovraffollamento, determinata anche da una carcerazione preventiva riguardante mediamente metà della popolazione detenuta58.

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I riformatori rimasero quindi confinati, almeno fino agli anni Settanta, al ruolo di comparse sulla scena silenziosamente dominata dalle forze conservatrici. Queste ultime agirono attraverso la strategia delle «mancate riforme». Rinviare per decenni la prospettiva di una riforma strutturale del settore penale e penitenziario volle dire in concreto mantenere ogni trasformazione nei limiti di una rincorsa affannosa delle evoluzioni in atto nella società e nella politica criminale, più rapide e più incisive. Il carcere è divenuto così principalmente un contenitore in cui gettare i rifiuti e gli ostacoli dei processi socio-economici in atto. L’umanizzazione si è assunta il compito di ripulire saltuariamente quel luogo tetro e maleodorante; talvolta soltanto quello di ricordarne l’esistenza.

II IMMAGINI DAL CARCERE PACIFICATO Il carcere morale All’esterno di Regina Coeli si disposero i carabinieri in alta uniforme1. Era il 26 dicembre 1958 e Giovanni XXIII varcava la soglia delle carceri giudiziarie romane. Nell’atrio d’ingresso era schierato il picchetto d’onore degli agenti di custodia, con i mitra puntati a quarantacinque gradi verso il cielo e gli elmetti in testa. Nella sala convegno il capo della Chiesa cattolica era atteso dal ministro di Grazia e Giustizia Gonella, dal direttore generale delle carceri, Reale, dal presidente della Corte di Cassazione e da altre alte autorità della magistratura. Il direttore e il cappellano del carcere fecero gli onori di casa. Il Pontefice officiò una messa nella prima rotonda del carcere, per l’occasione arredata come una cappella. All’ufficialità dell’evento e alla sacralità del rito si aggiunse, dopo la celebrazione, l’affabilità paterna del «Papa buono». Una celebre foto lo ritrae con l’abito bianco e le braccia in un gesto assieme di preghiera, saluto e benedizione, vicino al guardasigilli, in mezzo a detenuti sorridenti ripresi a mezzobusto, vestiti dell’uniforme di tela grezza a strisce e di una maglietta bianca. Il clima rimase amichevole. Delle volte – disse Giovanni XXIII – sfugge all’uomo «il senso di quella che è la rettitudine»: si cade allora nella disgrazia, nelle pene e nello sconforto. Poteva accadere a tutti. Anche un suo cugino era stato arrestato per essere andato a caccia senza licenza. Ma tutto ciò «può essere elevato e trasformato quando è penetrato dal tocco della grazia del Signore». Alcuni detenuti gridarono «Viva il Papa!». Uno di essi gli si av-

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vicinò, si inginocchiò davanti a lui. Piangendo, chiese se le sue parole di misericordia valessero anche per un assassino. Papa Giovanni non rispose. Gli tese una mano, lo fece alzare in piedi, poi lo abbracciò. Quella cerimonia sembra ripetersi all’infinito, su scala ridotta, negli anni tra il 1953 e il 1968, nei rituali che marcavano ogni minimo evento della vita carceraria. L’inaugurazione di una sala convegno per gli agenti di custodia e l’apertura di un nuovo istituto, un nuovo teatro all’interno di un carcere e l’inizio dell’anno scolastico in un istituto «modello», la costruzione di una cappella o la sua benedizione: tutto era occasione per stringere legami con le autorità locali, mostrare loro la dinamicità del settore, ribadire le gerarchie interne e quelle cittadine. A quelle cerimonie, «semplici e austere»2, nelle prime file assistevano ministri, magistrati, cardinali, vescovi, nobildonne. Lo status dei partecipanti dipendeva dall’importanza del carcere e dal tipo di iniziativa. C’erano ministri, arcivescovi e procuratori generali all’inaugurazione di un corso professionale nelle carceri giudiziarie di una grande città; un «trattenimento musicale» in una casa penale di provincia attirava invece procuratori della Repubblica, presidenti aggiunti di tribunale e «distinte signore componenti il Consiglio di Patronato»3. In ogni caso, lontana ormai la stagione della guerra, delle rivolte e del disordine, il mondo benestante poteva adesso darsi convegno anche in carcere e lì rafforzare i suoi legami sociali e ostentare paramenti e abiti eleganti di fronte a quei detenuti in uniforme o in vestiti lisi. L’Amministrazione penitenziaria negli anni Cinquanta e Sessanta presentava se stessa alla società esterna come una grande famiglia della quale tutti facevano parte, ciascuno collaborando al suo funzionamento in base alla propria posizione gerarchica. Era quello anche il riflesso della modalità organizzativa prevalente negli istituti penitenziari, specie nel caso di quelli di piccole e medie dimensioni4. Si era ben lontani da quel modello di strutturazione burocratizzata che si sarebbe imposto nei decenni successivi, fondato sulla divisione delle competenze amministrative tra aree e uffici. Quelle degli anni Cinquanta e Sessanta erano ancora largamente carceri «a conduzione familiare», dove ogni funzione era rappresentata da una persona: un direttore, un maresciallo, un

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cappellano, eventualmente un maestro della scuola e un capo d’arte dell’azienda appaltatrice. I rapporti tra quei responsabili erano segnati da una frequentazione quotidiana che sovente proseguiva anche fuori dalle mura di cinta e che dava sostanza a quel modello paternalistico che finiva per coinvolgere anche detenuti, volontari e agenti. L’orizzonte «familiare» era inscindibilmente legato a un paradigma etico. Al centro di esso stava un’idea di «redenzione» del detenuto che declinava il principio costituzionale della rieducazione nel senso della morale cattolica. La prospettiva era quella della trasformazione complessiva dell’animo traviato del recluso più che del sostegno al suo reinserimento sociale. Un’indicazione forte in quel senso la si poteva ritrovare tra l’altro nel discorso che ai detenuti aveva rivolto Pio XII in occasione del Natale 1951, trasmesso nelle carceri attraverso Radio Vaticana. Aveva detto infatti il Pontefice: Non meno che per gli altri uomini – tutti quaggiù in qualche modo rei e prigionieri – per voi Gesù è venuto a recare una più nobile ed intima liberazione, quella che dal giogo e dalle catene delle passioni e del peccato redime alla pace dello Spirito annunciata nella Notte Santa; che opera la interiore rinnovazione e rapisce nella luce ristoratrice di una Epifania di redenzione. Se dalle pene che vi stringono saprete librarvi sulle ali della fede, non solo gusterete queste gioie arcane, ma le possederete così che mai nessuno verrà a rapirvele5.

«Il tempo perso per le attività ricreative tornava certamente a vantaggio delle anime»6: era questa la traduzione operativa che dei principi enunciati dal Pontefice faceva padre Ruggero, cappellano de Le Nuove di Torino. I cappellani avevano allora all’interno degli stabilimenti penitenziari un ruolo centrale, rafforzato dall’istituzione nel 1947 del loro Ispettorato generale. Essi non si limitavano all’espletamento di attività propriamente religiose, ma avevano il compito di censurare la corrispondenza e di gestire le biblioteche interne, partecipavano al Consiglio di disciplina e in generale portavano avanti un’azione morale pervasiva, che aveva appunto il suo centro nell’organizzazione del «tempo libero». Vi erano cappellani ingegnosi, organizzatori spregiudicati e ca-

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paci. Lo stesso padre Ruggero riuscì negli anni a ottenere l’apertura di corsi professionali, ad accompagnare ripetutamente gruppi di detenuti in pellegrinaggio a Lourdes, a organizzare i «giochi con frontiera» e a mettere in funzione un campo di calcio con tribuna e gradinate. Il giorno dell’inaugurazione di quest’ultimo, i reclusi in maglia juventina e interista assistettero allibiti all’atterraggio a centrocampo dell’elicottero che trasportava il ministro di Grazia e Giustizia e il cardinale. In un’altra occasione lì si esibì il circo Togni: vi fu qualche problema per l’ingresso in carcere dei dodici cavalli e soprattutto dei cinque elefanti, ma alla fine un migliaio di detenuti e alcune decine di agenti di custodia poterono assistere all’impensabile spettacolo. Sull’alta pedana si esibì addirittura una contorsionista in bikini. Altrove i cappellani si servivano di strumenti più ordinari per coinvolgere i detenuti e far passare i contenuti che avrebbero dovuto favorire la loro redenzione morale. A partire dagli anni Sessanta la proiezione di film e documentari costituì senza dubbio quello più abituale, permettendo di coniugare l’intrattenimento con il messaggio morale imposto durante gli immancabili dibattiti. Spesso i film avevano un contenuto apertamente religioso, tratti dai cataloghi delle case cinematografiche cattoliche, e narravano storie di santi o vicende di donne e ragazzi risollevatisi dal peccato attraverso la fede. Altri cappellani anche in quel campo si mostravano più audaci. Tentavano di provocare l’attenzione dei detenuti utilizzando i loro gerghi, sfidandoli nei loro campi di interesse, nelle loro mentalità. Le suore in servizio di custodia nelle carceri femminili di Santa Verdiana a Firenze guardavano esterrefatte ogni settimana il cappellano delle carceri giudiziarie fiorentine, don Cubattoli, proiettare «certi film, i più sexy di quel momento»7. «Loro vedono questi porcai – diceva lui – queste stupidaggini. E noi su questi ruderi dobbiamo costruire la persona. È il messaggio cristiano». Una volta, ormai all’inizio degli anni Settanta, «don Cuba» giunse perfino a proiettare un film che raccontava la storia di una suora missionaria rimasta incinta a seguito di uno stupro. Le suore erano sconvolte, ma non poterono evitare di notare l’interesse che quel filmato produsse tra le detenute. La dimensione morale della pena trovava in quei decenni nelle carceri femminili un terreno particolarmente fertile. Il servizio

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di custodia era svolto in quegli istituti penitenziari da «suore guardiane» di varie congregazioni, organizzate gerarchicamente con la superiora a svolgere il ruolo del maresciallo, sottoposta all’autorità della direzione carceraria. Vivevano in carcere in condizione di semiclausura, restando per decenni in modo pressoché continuativo all’interno delle mura di cinta. Vedevano in questo la propria missione, si sforzavano di condividere la vita delle detenute, di penetrarne l’animo. Avevano un’idea fortemente pedagogica del concetto «rieducativo» e attraverso essa si rapportavano alle detenute cercando di costruire con loro un rapporto diretto dentro una complessiva dimensione «familiare». Ciascuna suora nel tempo si formava un’opinione sulla pena, sul carcere e sulle persone che le stavano davanti. Nei reclusi in generale vedevano «Gesù prigioniero», nel carcere un’istituzione fortemente «maschile», violenta, portatrice di sofferenza e lontana dalla superiore giustizia divina. Con le pluriomicide provavano a instaurare un dialogo, nelle «zingarelle» scorgevano delle ragazze che subivano una doppia sofferenza, abituate a vivere per strada e costrette invece dietro le sbarre spesso insieme ai più piccoli dei loro molti bambini; nelle prostitute, che costituivano la maggioranza delle detenute, vedevano delle «donne traviate» che avevano perso il «dono di Dio» ma che potevano ancora redimersi e ritrovare la strada della fede. Dopo un’intera giornata trascorsa tra le continue emergenze che costituivano la routine della vita carceraria, la sera la comunità religiosa rappresentava per loro il «luogo privilegiato per rifocillarci spiritualmente, psichicamente, per fare quattro risate». Poi si ritiravano nella propria stanza: una cella come quella delle detenute. Nelle carceri degli anni Cinquanta e Sessanta, la creazione di quell’universo «familiare» che era alla base del carcere morale era favorita dalla limitatezza dei contatti con l’esterno. In quegli anni la radio fece gradualmente ingresso negli istituti, trasmettendo però programmi rigidamente selezionati dalle direzioni, spesso con contenuto «morale». La corrispondenza era mediata dalla censura di direttori e cappellani. I contatti diretti con persone esterne erano limitati ai colloqui con familiari, seduti al di là di lunghi tavoli, e all’opera di donne ferventemente cattoliche che,

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assieme a vestiti e coperte, portavano ai reclusi la consolazione della fede e il messaggio della redenzione. «Il carcere – scriveva Costanza Itala Baudana Vaccolini, nobildonna marchigiana fondatrice nel giugno 1956 della Casa dell’amore fraterno di Roma – può costituire [...] uno dei più fecondi campi di apostolato; in esso può realizzarsi in tutta la sua pienezza il messaggio evangelico inteso come redenzione»8. Le volontarie cattoliche non tendevano a un semplice reinserimento dei detenuti nella società; volevano produrre in essi una profonda modificazione della mentalità e delle abitudini di vita. Era una dama della carità vincenziana la contessa Vaccolini, ed era a un volontariato cattolico di stampo tradizionale che l’assistenza in carcere era affidata in modo pressoché esclusivo. La Società di San Vincenzo de’ Paoli ne costituiva l’esempio più rappresentativo, essendo stata la prima organizzazione a occuparsi dei detenuti, sorta già nel 1633 per opera di Vincenzo de’ Paoli, all’epoca cappellano generale delle galere di Francia9. Negli anni Cinquanta del Novecento, la strutturazione generale della Società era divenuta complessa, articolata in una casa madre a Parigi e, per l’Italia, in cinque case provinciali dalle quali dipendevano le comunità locali. A essa non corrispose mai, tuttavia, un adeguato livello di coordinamento. La pur numerosa presenza vincenziana in Italia non poté così tradursi in un’azione incisiva a livello nazionale. Ogni gruppo locale agiva di fatto in maniera slegata dall’insieme della Società, privilegiando il momento del conforto spirituale e umano che ciascun volontario vincenziano portava ai detenuti. L’attività assistenziale era solitamente riassunta nell’immagine poco lusinghiera ma indubbiamente rispondente alla realtà di quelle dame aristocratiche che, rivolgendosi a famiglie ugualmente altolocate, raccoglievano vestiti da portare settimanalmente al carcere e denaro per le famiglie bisognose del paese. Si configurava in quel modo una pura attività di beneficenza, commisurata al livello arretrato delle condizioni di vita in carcere, ma priva di qualsiasi incisività strutturale e intrisa di una concezione religiosa imposta ai detenuti. La prassi e l’ideologia della redenzione morale corrispondevano alla realtà del carcere degli anni Cinquanta e della gran parte degli anni Sessanta: un carcere fortemente isolato rispetto alla so-

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cietà esterna, ripiegato su se stesso. Un carcere «pacificato», se paragonato a quello dell’immediato dopoguerra. La circolare del guardasigilli De Pietro nel 1954 aveva chiuso simbolicamente una fase della storia carceraria italiana, quella della ricostruzione degli edifici, della precaria situazione disciplinare interna agli istituti, delle rivolte, delle evasioni. L’arco cronologico di quei mutamenti aveva coinciso con la ristrutturazione sociale e politica e con l’azione repressiva, e ciò non mancò di influenzare la disciplina carceraria. Alla ristabilita «normalità» nella società esterna corrispose un marcato calo del numero dei detenuti politici e una sensibile diminuzione delle presenze in carcere sin dall’inizio degli anni Cinquanta. Nel 1956 una indagine dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) rilevò 37.749 detenuti maschi e 2474 donne10. Le presenze nelle carceri italiane si sarebbero mantenute su quelle cifre per tutto il decennio successivo. Raramente da quel tipo di carcere si alzavano voci di protesta e in esso le rivolte erano prevenute da uno stillicidio di quotidiani atti amministrativi piuttosto che dall’impiego della forza pubblica. L’ordine e la disciplina sembravano poter assorbire anche le evasioni, che pure continuarono a manifestare l’impossibilità di un controllo totale sui detenuti, stanti anche le condizioni edilizie sempre precarie, del resto non solo dal punto di vista della sicurezza. Alle fughe dei reclusi guardarono ancora con allarme i ministri che si succedettero in quegli anni. Come sempre, essi affidarono a una serie di circolari i propri insistenti richiami a una maggiore vigilanza11. In verità però anche le evasioni rientravano ormai in una routine alquanto sonnolenta: nella maggior parte dei casi a prevenirle bastavano esperti marescialli e qualche detenuto «amico della direzione». Il «carcere morale» trovava consenso tra i detenuti. Perlomeno, questo è quello che appariva esteriormente, frutto in realtà dell’azione di forze contraddittorie: la parziale condivisione dell’orizzonte etico dominante, il valore deterrente degli strumenti repressivi, il senso di rassegnazione che pervadeva la maggior parte dei reclusi. Fu quella situazione che si trovò di fronte il celebre etnologo Diego Carpitella quando, nel corso dell’estate del 1964, entrò nei penitenziari di Pianosa e Porto Azzurro per registrare i canti dei reclusi12. In quei brani, testimonianze di tempi recenti o di una cultura carceraria stratificata in decenni, le voci stesse dei

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detenuti-interpreti, con i loro entusiasmi, le incertezze, i tremori, le timidezze, crearono un doppio livello rispetto ai testi. Essi si calavano in situazioni e drammi non propri per parlare della propria condizione di reclusi, attualizzandone il contenuto. Martellanti sono i temi intimistici legati all’affetto e all’amore provato per i genitori, i figli, le compagne, le mogli. Al lamento per la lontananza si aggiunge sovente lo strazio per situazioni estreme, quali la malattia o la morte della mamma, l’abbandono da parte di tutti gli amici e parenti o la fine del rapporto con l’amata, di cui il detenuto viene a conoscenza per vie traverse o a mezzo di un interminabile silenzio da parte del coniuge. In tutti i casi, il detenuto è solo nella sua disperazione. L’impotenza domina la condizione del recluso anche nel ricordo del reato, che non è accompagnato da religioso pentimento, ma anch’esso dalla rassegnazione di fronte a quella che è stata una situazione incontrollabile, e che per questo meglio prende forma nelle descrizioni dei delitti passionali. È dal contrasto tra la fissità della reclusione e l’ansia per quanto accade all’esterno che i canti traggono la loro drammaticità. Il carcere è il muro, il limite, la negazione della libertà, degli affetti. Esso viene identificato attraverso alcuni oggetti, innalzati a simboli della ripetitività e della miseria della vita quotidiana: le celle buie, pagliericci e cancelli, le bocche di lupo alle finestre, i «ferri» che le «guardie» battono ritmicamente a ogni conta, il numero di matricola, il vitto fatto di minestre acquose. Infine, la disciplina: intrisa di soprusi, ricatti, severità, violenze fisiche e morali. Un ordine interno che il detenuto subisce, come tutto il resto; verso il quale azzarda, talvolta, una critica, già sapendo che ne deriverà nuova violenza, nuova sofferenza. È il circolo della rassegnazione e della disperazione che si chiude.

Il carcere-laboratorio L’Istituto nazionale di osservazione (INO) aveva sede in due palazzine non molto alte, all’interno del muro di cinta di quelli che solo quindici anni più tardi sarebbero diventati gli stabilimenti penitenziari di Roma-Rebibbia13. Allora, nel 1958, anno in cui fu

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fondato, attorno a quegli edifici non c’erano ancora le strutture del futuro «Nuovo complesso». In un’altra palazzina lì accanto erano recluse alcune decine di detenute, trasferite in quegli stessi mesi dall’istituto femminile de Le Mantellate di via della Lungara, accanto a Regina Coeli. Da allora, e per circa un decennio, l’INO fu il fiore all’occhiello dell’Amministrazione penitenziaria italiana, il «carcere modello» per eccellenza. Alcuni osservatori esterni che ebbero modo di visitarlo lo descrissero come la «prigione razionale, sana e organizzata», un carcere «sperimentale, che assomma anche molte caratteristiche di una clinica medica»14. Erano recluse lì in media ogni giorno trenta-quaranta persone, giunte su propria domanda o su segnalazione ministeriale, accuratamente selezionate in base al parere espresso dalle direzioni degli istituti penitenziari di provenienza. Attorno a ciascun detenuto lavoravano, oltre al personale di custodia, uno psichiatra, uno psicologo, assistenti sociali ed educatori. Questi formavano un’équipe che portava avanti l’«osservazione scientifica», per poi elaborare un piano individualizzato di trattamento. Si partiva dalla ricostruzione del reato e dalle notizie sui precedenti penali e penitenziari, ma esse avevano una importanza solo relativa. Erano ritenute più rilevanti le informazioni biografiche e le note sui precedenti clinici dei detenuti lì reclusi e dei loro parenti più stretti: alla ricerca della familiarità di eventuali malformazioni fisiche, di problemi psichici e di particolari attitudini psicologiche, alcuni operatori dell’équipe svolgevano al di fuori dell’istituto approfondite «inchieste sociali»; dentro quel carcere-clinica altri esperti sottoponevano a indagine continua ogni aspetto della vita di ogni singolo detenuto. A quelle informazioni preliminari si aggiungevano le risultanze di esami di tipo clinico. Si procedeva all’esame medico e all’analisi dei tatuaggi, poi all’esame comportamentale, che riguardava l’atteggiamento tenuto all’interno del carcere di provenienza, riferito dalle direzioni per mezzo della cartelle biografiche. L’esame neuro-psichiatrico valutava l’evoluzione della personalità e il livello intellettivo del soggetto. L’esame psicologico si serviva dei test mentali per rilevare il quoziente di intelligenza, le attitudini astratte e alcuni aspetti più profondi della personalità del soggetto. Infine, il test di Rorschach permetteva una più precisa classifi-

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cazione dei detenuti in ipertimici, abulici, istrionici, labili di umore, freddi e fanatici. Al termine del periodo di osservazione di sessanta giorni, una nota conclusiva redatta dall’équipe ne riportava gli esiti e suggeriva i contenuti del programma di trattamento. Ai detenuti «studiati» all’interno dell’INO era data facoltà a quel punto di indicare tre istituti carcerari nei quali essere trasferiti. Le loro richieste erano in generale esaudite dall’Ufficio competente dell’Amministrazione penitenziaria. Si trattava comunque di una soluzione temporanea. I programmi dell’Amministrazione penitenziaria erano infatti ben più ambiziosi. In quello che il direttore dell’INO, Mario Fontanesi, definì il «periodo criminologico e scientifico» si formò all’interno della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena un gruppo di «riformatori» numericamente ristretto ma intellettualmente ben attrezzato e combattivo. Era composto da giovani criminologi come lo stesso Fontanesi, Crispino De Luise, Franco Ferracuti e Giacomo Canepa, dagli assistenti sociali Renato Breda, Anna Sabattini e Domenico Cortellessa, da magistrati come il futuro direttore generale Giuseppe Altavista, Girolamo Tartaglione e soprattutto Giuseppe di Gennaro, che del gruppo dei riformatori fu la personalità di spicco. Essi provenivano nella quasi totalità dei casi dal settore penitenziario minorile, dove sin dall’immediato dopoguerra la concezione rieducativa della pena si era concretizzata nel potenziamento delle strutture scolastiche e nell’ingresso in carcere di personale educativo e di assistenti sociali15. Ciò che era stato possibile sviluppare in ambito minorile non era tuttavia facilmente riproponibile con riferimento al sistema penitenziario degli adulti, presidiato dai settori giudiziari fautori della funzione retributiva della pena. Passati dall’Ufficio minorenni agli altri Uffici centrali dell’Amministrazione penitenziaria, gli esponenti riformatori si imposero di evitare uno scontro diretto con i conservatori su quel terreno. Cercarono piuttosto di rafforzare la proprie posizioni interne all’Amministrazione penitenziaria, raccogliendosi prima nella Sezione I del Centro studi penitenziari e successivamente, dal febbraio 1968, nell’Ufficio studi, ricerche e documentazione. Da lì elaborarono una strategia caratterizzata da una progressiva

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accumulazione di conoscenze, accorte alleanze e limitate (ma altamente simboliche) sperimentazioni. A quest’ultimo aspetto si ricollegava l’esperienza dell’INO di Rebibbia. I riformatori dell’Amministrazione penitenziaria miravano a creare una rete di istituti di osservazione e di trattamento che gradualmente avrebbe dovuto estendersi a tutte le carceri e comprendere la totalità dei detenuti. Già a partire dalla metà degli anni Cinquanta era stata istituita una serie di Centri criminologici presso le carceri giudiziarie di Napoli, Bari, Genova e Milano, aventi la medesima funzione di osservazione dell’INO di Rebibbia. Negli anni successivi si procedette a una prima messa a regime di quegli istituti sperimentali. Alla fine del 1961 una circolare del direttore generale reggente, Garofalo, ne determinò con precisione le modalità di funzionamento: per quelli che venivano ora denominati «istituti di osservazione per condannati adulti» definì il medesimo statuto degli altri stabilimenti carcerari e fissò gli organici, le linee generali del lavoro, la tipologia di esami clinici da svolgere e il tempo massimo di soggiorno del condannato in essi16. Nel progetto riformatore, alla fase dell’osservazione scientifica della personalità avrebbe dovuto seguire la fase del trattamento dei condannati. In quei medesimi anni si giunse alla fondazione di due altre carceri «modello»: nello stesso stabilimento di Rebibbia a Roma fu creato l’Istituto di trattamento progressivo per «giovani-adulti»17, mentre all’interno della casa penale di Civitavecchia venne istituita una sezione per il trattamento della stessa categoria di detenuti. Per gli osservatori esterni che ebbero modo di visitarli, quegli istituti penitenziari costituirono i termini di paragone tra «vecchio» e «nuovo». Le strutture moderne degli istituti di Rebibbia e di Civitavecchia erano in netto contrasto ad esempio con quelle cadenti della casa di reclusione di Favignana, sita all’interno del castello svevo, sul punto più alto dell’isola. «A secoli da Favignana» – avrebbe commentato un giornalista televisivo alla fine degli anni Sessanta18 – erano i macchinari degni delle migliori cliniche, lo stretto contatto tra i detenuti e il personale altamente specializzato, le celle con i poster di Mina e di Rita Pavone sui muri, le aule scolastiche ampie, i laboratori creativi, il club musicale dove a Civitavecchia i detenuti suonavano trombe, batterie e chitarre.

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Alle sperimentazioni i riformatori affiancarono un sistematico impegno teorico e costruirono nel tempo una fitta rete di rapporti intellettuali che fecero dell’Amministrazione penitenziaria italiana uno dei punti di riferimento del dibattito sul trattamento dei detenuti che attraversava l’Europa degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1968 quel percorso sarebbe stato coronato dall’apertura a Roma, accanto alla sede di via Giulia dell’Amministrazione penitenziaria, dello United Nations Social Defence Research Institute (UNSDRI). In quel percorso furono importanti le due riviste ufficiali dell’Amministrazione penitenziaria italiana: la «Rassegna di studi penitenziari» e i «Quaderni di criminologia clinica», gestite direttamente dagli esponenti riformatori, esse diedero ampio spazio agli orientamenti che dall’immediato dopoguerra erano stati sviluppati dalla scuola francese della Defense sociale nouvelle, mediata dalla riflessione elaborata dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale (CNPDS) costituito a Milano già nel 1947. Pur nella loro varietà, le posizioni di quei magistrati e criminologi erano legate da un forte tratto comune. Essi vedevano nel reato la manifestazione di una deviazione della personalità e nel carcere la «clinica» in cui la personalità di ciascun detenuto avrebbe dovuto essere studiata. Ritenevano fosse quindi necessario osservare i detenuti e conseguentemente «trattarli» in base a programmi individualizzati all’interno di strutture penitenziarie specializzate. Rispetto alla concezione giuridica tradizionale si trattava di una vera e propria rivoluzione copernicana: al centro non era più posto il reato ma la personalità del reo. Il mondo penitenziario rivendicava in quel modo la sua piena autonomia rispetto al mondo giuridico: non si trattava di punire attraverso un meccanismo penale incapace di influire sulla personalità del reo, ma in primo luogo di «curare» quest’ultimo per prevenire ulteriori suoi comportamenti devianti e per garantire in questo modo una protezione reale alla parte sana della società. La funzione rieducativa della pena affermata nella Costituzione era così letta in termini essenzialmente clinici; il carcere diveniva contemporaneamente luogo di esecuzione della pena e laboratorio di osservazione e cura degli individui puniti19. Nei Centri criminologici i detenuti divenivano cavie per «indagini scientifiche» sull’omosessualità, l’incesto, la «personalità psicosomatica della prostituta». Le relazioni dei direttori descrivevano i detenu-

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ti aderenti al gruppo religioso dei Testimoni di Geova come «paranoici» e «affetti da infermità di mente» e le loro convinzioni come un «delirio lucido, coerente, radicato e tenace, il quale scaturisce da una erronea premessa, resistente ad ogni critica, che Iddio avrebbe detto che non bisogna avere due padroni»20. L’individuo era ridotto a oggetto passivo dell’osservazione compiuta dagli esperti, negato in quanto persona. Sradicata dal suo contesto sociale e familiare, la sua articolata storia di vita veniva trasformata in una lineare «storia clinica» in cui ogni evidenza finiva per confermare una diagnosi di fatto già decisa in partenza. Anche la «terapia» rientrava nella competenza esclusiva dell’esperto, con l’esclusione di ogni apporto esterno alla «risocializzazione» del detenuto. Non mancò neppure la tentazione di procedere a livello chirurgico e chimico sugli individui considerati «irrecuperabili», il cui comportamento si riteneva fosse interamente determinato da fattori biologici e fisici21. Il lento lavorio dei protagonisti del dibattito criminologico riuscì intanto a rimettere in moto il macchinoso processo della riforma penitenziaria. Nel corso della seduta dell’11 giugno 1960 il Consiglio dei ministri approvò il disegno di legge su «Ordinamento penitenziario e prevenzione della delinquenza minorile», presentato dal guardasigilli democristiano Guido Gonella22. Quel testo avrebbe costituito la base di tutti i progetti di riforma penitenziaria avanzati nel corso dei quindici anni successivi, compreso quello da cui derivò, nel 1975, il nuovo Ordinamento penitenziario. Il ministro elencava nella sua relazione le fonti ispiratrici del provvedimento, includendo le «felici esperienze già largamente attuate con lusinghieri successi negli ultimi anni dalla Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena». Il riferimento all’INO di Rebibbia era evidente e non era l’unico elemento di connessione con le tesi dei riformatori dell’Amministrazione penitenziaria. Il disegno di legge recepiva infatti i punti innovativi del progetto elaborato nel corso del 1958 in seno alla Commissione ministeriale istituita dal guardasigilli Aldo Moro nell’aprile dell’anno precedente23; di essa erano stati membri anche alcune delle principali personalità impegnate nel dibattito criminologico e giuridico che si andava sviluppando in quegli anni.

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Il progetto di Gonella conteneva aspetti assai moderati, ma introduceva per la prima volta i principi dell’osservazione scientifica e del trattamento individualizzato. Richiamandosi alle esperienze dei paesi esteri e al progetto ministeriale, introduceva anche il regime di semilibertà, che consentiva ai reclusi di trascorrere parte del giorno all’esterno del carcere per partecipare ad attività lavorative ed educative. Ai criminologi sembrò ormai prossima l’affermazione delle proprie tesi. Tra gli altri fu Gianluigi Ponti, direttore del Centro di osservazione criminologica delle carceri giudiziarie di San Vittore, a sottolineare nel 1963 come il disegno di legge approntato da Gonella avesse «assimilato e fatte proprie alcune delle fondamentali nozioni e dei presupposti essenziali della moderna criminologia clinica, che è criminologia prevalentemente medica e psicologica»24.

Carcere e società negli anni Cinquanta e Sessanta Dal 24 novembre 1959 al 26 gennaio 1960 due giornalisti del periodico «Tempo», Sennuccio Benelli e Franco Fedeli, diedero vita alla «prima inchiesta giornalistica del Dopoguerra sulle prigioni italiane»25. In dieci puntate scandite settimanalmente, essi non concessero nulla al sensazionalismo e tentarono anzi un’analisi approfondita della realtà carceraria, corredando il tutto con un notevole apparato fotografico. Degli istituti maschili per adulti l’inchiesta presentò uno spaccato significativo. Dalle grandi e vecchie carceri giudiziarie di Regina Coeli a Roma, di San Vittore a Milano e dell’Ucciardone a Palermo si passò al più noto dei penitenziari, quello di Porto Azzurro. Poi la realtà tradizionale di quegli istituti fu posta in contrasto con le esperienze d’avanguardia dell’INO di Rebibbia, della sezione per giovani-adulti della casa penale di Civitavecchia e della colonia agricola «Bellaria» di Lonate Pozzolo, dove erano state introdotte le tecniche del trattamento clinico dei detenuti. Nelle pagine della rivista fecero la loro comparsa alcuni dei detenuti più noti e attraverso di essi rivissero alcune delle vicende più significative degli anni precedenti. Con i giornalisti parlarono il «mostro di Nerola», «Mimì lo Zingaro», un rapinatore romano,

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un brigante sardo, numerosi ergastolani e i due detenuti che nel novembre 1945 avevano ucciso cinque agenti di custodia e un sottufficiale tentando l’evasione dalla casa penale di Alghero. Parlò anche Bernasconi, uno dei protagonisti della rivolta della Pasqua 1946 a San Vittore. L’assoluta inadeguatezza delle strutture edilizie e gli effetti psicologici della carcerazione colpirono fortemente i due giornalisti. Nella casa di reclusione di Porto Azzurro videro persone «in bilico tra la disperazione e la follia», «uomini chiusi in gabbia da anni, con le mani aggrappate al cancello». Li impressionarono soprattutto gli occhi degli ergastolani: «opachi», «statici», «fissi nel vuoto», «vacui», «privi di espressione», «sperduti»26. In quelle settimane la violenza istituzionale pretese il suo posto nel quadro d’insieme. A Regina Coeli un giovane detenuto di 19 anni morì sul letto di contenzione al quale era stato legato. Benelli e Fedeli scoprirono così quello che definirono uno «strumento di tortura barbarico». Alla luce di quell’episodio e delle testimonianze di soprusi, carenze e violenze ricevute in quelle settimane per lettera da centinaia di detenuti, sostennero: «la nostra inchiesta sulla situazione carceraria in Italia appare addirittura indulgente»27. Ricercarono le cause di quello stato di cose. Le individuarono in primo luogo in quel «sottofondo ministeriale che esercita una resistenza passiva, che crea un muro di gomma contro il quale le idee nuove rimbalzano e si disperdono come bolle di sapone»28. La loro descrizione delle carceri si trasformò di fatto in un’accurata denuncia, che le autorità politiche accolsero con fastidio. Subito dopo l’uscita del primo articolo, il direttore generale, Nicola Reale, fece sapere di essere rimasto «sinceramente addolorato e amareggiato» per l’inattesa piega critica che l’inchiesta aveva preso29. Come i due autori dell’inchiesta avevano previsto, i loro articoli non ebbero la capacità di produrre alcun cambiamento della realtà penitenziaria. Essi ruppero tuttavia per un istante il monopolio che l’Amministrazione penitenziaria aveva nella descrizione della realtà carceraria. Nelle pagine della «Rassegna di studi penitenziari» si forniva infatti un’immagine del sistema penitenziario fatta di carceri «modello», dibattiti eruditi, inaugurazioni di nuovi istituti e «Mostre del lavoro carcerario» in cui erano espo-

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sti i merletti di Trani, i lampadari in ferro battuto di Ancona, le biciclette di Padova. A leggere quegli articoli, una ventata di inarrestabile progresso sembrava spirare sugli istituti carcerari, capace di porre fine una volta per tutte ai maggiori problemi del settore penitenziario. La realtà era distante da quella rappresentazione e le autorità penitenziarie ne erano naturalmente a conoscenza. Nel 1957, ad esempio, le gravi condizioni dell’edilizia carceraria furono rilevate dal consigliere della Direzione generale Arru, autore di una dettagliatissima relazione sulle carceri della Sardegna30. Negli istituti di quella regione, alla vigilia del «miracolo economico», le caserme degli agenti di custodia erano ospitate in locali in penombra e malsani; in quella della diramazione «centrale» dell’Asinara sessanta tra guardie a cavallo e cavallai dormivano in un edificio che fungeva anche da porcile, da ovile e da stalla per le mucche e per i cavalli. Una situazione che il consigliere definì uno «sconcio». Quasi ovunque i dormitori dei detenuti mancavano degli impianti di riscaldamento ed erano sovente «umidi e gelidi». Nel carcere giudiziario di via Roma a Nuoro i cameroni da sedici detenuti, denominati «felloni», mancavano «della necessaria aerazione per deficienza di finestre, [erano] piuttosto scuri e [davano] la sensazione di vere e proprie stamberghe». Sui giovani imputati che vi erano reclusi il consigliere gettò uno sguardo sconsolato: «solo questi pastori e contadini sardi – scrisse – adusati a tutti i sacrifici, possono vivere in queste impossibili condizioni». Eppure, tranne che nel caso degli ergastolani, tutti quei detenuti presto o tardi sarebbero tornati in libertà. Che senso poteva avere trattenerli per la durata della pena in quelle condizioni di pressoché totale abbandono? E cosa fare perché a quel rientro nella società non seguisse, come frequentemente avveniva, un ritorno in carcere? A quei problemi cercava di dare una risposta l’assistenza postcarceraria, ma anch’essa, riflettendo le medesime carenze del sistema penitenziario in generale, si rivelava completamente inadeguata a quello scopo31. Nato nell’Ottocento come attività prevalentemente morale gestita da organizzazioni religiose, quel settore era stato razionalizzato dal legislatore fascista con il Codice pena-

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le del 1930 e il Regolamento penitenziario del 1931: preso atto dell’insufficienza e inadeguatezza dell’iniziativa privata, questi aveva istituito alcuni Assistenziari per i liberati dal carcere e soprattutto dei Consigli di patronato per i liberati dal carcere presso tutte le procure del Regno. Quella impostazione generale fu ereditata dallo Stato democratico dopo la caduta del regime e non ricevette sostanziali modifiche se non trent’anni più tardi, per effetto della riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975. Una continuità che appare aggravata dal colpevole stato di abbandono in cui il settore fu lasciato sin dall’epoca fascista, privo di mezzi finanziari proprio al livello di quei Consigli di patronato che avrebbero dovuto essere il volano del suo sviluppo. Nella maggior parte dei casi essi divennero così più un luogo di incontro tra personalità accomunate dall’alto ceto sociale che un efficace strumento di inserimento sociale per i detenuti. In essi lo stesso ruolo assistenziale era ridotto il più delle volte alla distribuzione settimanale di sussidi a singoli individui ex detenuti o parenti di detenuti. La debolezza di quelle strutture pubbliche faceva sì che anche gli enti privati che operavano localmente portassero avanti interventi per nulla coordinati, talvolta duplicati e comunque largamente insufficienti. Ciascuno di quegli enti rifletteva le specifiche motivazioni filantropiche o religiose dei propri fondatori, puntando a un’azione di controllo e «redenzione» che si protraeva oltre la fine della carcerazione32. Nonostante avesse scontato la pena stabilita dalla legge, ciascun ex detenuto rimaneva pur sempre «un essere che è stato avulso dalla convivenza sociale per effetto di una malattia che lo ha straniato per un certo periodo [...] dal consorzio umano»; come tale andava «sottoposto a disciplina educatrice, basata su atti ed esempi e lavoro e coltivazione della mente e sensibilità sempre per mezzo di realtà concrete, con un minimo di parole e specialmente di prediche»33. Ogni opera diveniva così un anello di quello che Michel Foucault avrebbe definito circa un decennio più tardi l’«arcipelago carcerario»34: un ingranaggio di un sistema di controllo sociale che proseguiva oltre le mura del carcere per ramificarsi nel tessuto stesso della società. I più emarginati tra gli ex detenuti, quelli che non avevano più nemmeno una casa propria e qualcuno che li ospitasse, erano così tratti in una rete di istituzioni che rinnovavano di fatto l’azione di disciplinamento iniziata in carcere. La lo-

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ro esistenza veniva ricondotta all’interno di una comunità che riproponeva il modello familiare accentuandone i tratti autoritari, imponendo orari e attività, limitando gli incontri, catechizzando e censurando i comportamenti considerati immorali, infine permettendo una più agevole sorveglianza delle forze di polizia su quegli individui, pure formalmente liberi. Le strutturali carenze dello specifico sistema di assistenza postcarceraria portava infine gli ex detenuti e le loro famiglie a rivolgersi agli enti dell’assistenza pubblica e privata generica. Anche questi ultimi erano caratterizzati da ruoli duplicati e limitate disponibilità finanziarie, fondati in larga parte sul volontariato o comunque sul lavoro non qualificato, per una malintesa supplenza dell’assistenza morale a quella sociale, della beneficenza al welfare. Eccoli dunque, i liberati dal carcere di quegli anni, uscire dagli istituti penitenziari quasi sempre senza soldi in tasca, con addosso quella tipica sensazione di straniamento derivata dalla detenzione subita. Eccoli vagare per città non di rado assai lontane da quella di residenza e perciò sconosciute, alla ricerca di conoscenti che potessero offrire loro un primo cibo caldo e una doccia. Poi, dopo un breve periodo trascorso presso quelli, eccoli nuovamente soli, inciampare quasi per caso nelle parrocchie per chiedere del cibo o del denaro, nelle mense popolari, negli «alberghi dei poveri», oppure, nel peggiore dei casi, dormire sui marciapiedi delle stazioni ferroviarie. La grande impalcatura dell’assistenza mostrava così, non soltanto per il settore carcerario del resto, il suo completo fallimento. Risorta dopo la guerra senza ripensamenti né particolari aneliti riformatori, essa non soltanto non era in grado di sostenere le effettive esigenze dei «bisognosi», ma finiva per generare stigmatizzazione e riprodurre emarginazione. Le carenze dell’assistenza penitenziaria erano conclamate. I membri della Commissione ministeriale del 1957-58, quando iniziarono ad affrontare quel tema, diedero per scontata la necessità dell’abolizione dei Consigli di patronato e di una ristrutturazione complessiva del settore. Bisognava procedere ora in direzione dello sviluppo del servizio sociale penitenziario, «punto nevralgico [di] una riforma moderna»35. I commissari si richiamavano alle

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esperienze estere, a quelle del settore penitenziario minorile italiano e alle sperimentazioni di servizio sociale introdotte in quel periodo. Dagli anni Cinquanta erano entrate infatti in alcune carceri un numero limitato di suore diplomate presso la Federazione italiana religiose assistenza sociale (FIRAS). A partire dal 1957, in virtù di un accordo con la Direzione generale, l’Ente nazionale per la protezione morale del fanciullo (ENPMF) aveva messo a disposizione la sua notevole rete di personale qualificato per l’assistenza ai figli dei detenuti e dei liberati dal carcere. Infine, dal 1958, alcuni assistenti sociali erano stati assunti direttamente dall’Amministrazione penitenziaria per prestare la propria opera presso alcuni Consigli di patronato e successivamente anche in alcune carceri36. Per i riformatori dell’Amministrazione penitenziaria il superamento del tradizionale sistema di assistenza si legava alla prospettiva della criminologia clinica e implicava la trasformazione dell’istituto della liberazione condizionale. Quest’ultimo doveva diventare «l’ultima fase di un trattamento progressivo»37: osservazione scientifica, trattamento individualizzato, messa in prova, affidamento al servizio sociale erano le fasi che avrebbero dovuto scandire il futuro del sistema penitenziario. I riformatori proponevano un modello coerente di modernizzazione tecnica del sistema penitenziario. Le nuove teorie e gli istituti modello rimasero tuttavia largamente marginali rispetto alle tradizionali modalità di gestione delle carceri, privati di un quadro legislativo e amministrativo in grado di generalizzarli superandone il carattere sperimentale. Le idee di quei funzionari e magistrati erano egemoni nelle pagine delle riviste specializzate, ma molto poco mutò sul piano di una prassi carceraria immobilizzata dalle resistenze di settori consistenti dell’Amministrazione penitenziaria. Il modello di un «carcere-laboratorio» fatto di medici in camice bianco e apparecchiature scientifiche all’avanguardia rimase largamente minoritario rispetto alla realtà del «carcere morale» quotidianamente popolata da agenti di custodia, cappellani, suore e dame di carità. In essa la «rieducazione» sancita nella Costituzione assumeva le sembianze di una «redenzione» di tipo religioso ben più di quanto si concretizzasse in un trattamento di tipo clinico. Le speranze dei riformatori si scontravano con l’immobilismo

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del quadro politico. Mancarono allora la capacità e la volontà politica di procedere alle necessarie riforme. Non solo quelle penitenziarie del resto. Molti autori hanno sottolineato il sostanziale fallimento della formula politica del centrosinistra negli anni Sessanta nel governare le trasformazioni sociali connesse al «miracolo economico». L’ipotesi di una programmazione dello sviluppo fu travolta da una realtà di «modernizzazione» del paese concretizzatasi in una crescita economica tanto impetuosa quanto territorialmente e socialmente squilibrata. Le conseguenze sociali e culturali da essa prodotte, legate alle migrazioni interne, all’urbanizzazione, alla trasformazione dei costumi, non furono affrontate adeguatamente dalla classe politica. Tra le altre cose, essa rinunciò a utilizzare la leva fiscale per determinare una redistribuzione del reddito, fallì nei suoi tentativi di favorire lo sviluppo industriale del Meridione e non pose mano a riforme strutturali delle politiche sociali, sanitarie e previdenziali. Le trasformazioni socio-economiche mutarono nell’arco di pochi anni la composizione sociale della popolazione detenuta; l’immobilismo politico lasciò il carcere uguale a se stesso. I mutamenti socio-economici trovavano un riscontro nell’evoluzione della criminalità, che, superate le forme corrispondenti a una società rurale, cominciò a sviluppare un livello organizzativo e modalità adeguati alla dimensione urbana nella quale ora si trovava prevalentemente ad agire. Le organizzazioni mafiose non abbandonarono i tradizionali insediamenti rurali, ma mostrarono una straordinaria capacità di inserimento nei processi di trasformazione delle stesse aree rurali, controllando larga parte della commercializzazione della produzione olearia e ortofrutticola. Parallelamente, esse spostarono l’asse dei propri interessi verso i settori economici più dinamici: lo sviluppo edilizio delle città, le opere pubbliche e gli appalti per i servizi furono i terreni sui quali si determinò per le mafie «un vero e proprio passaggio di fase»38. Fu l’epoca del «sacco di Palermo», gestito dai clan di Cosa Nostra in connivenza con i sindaci e gli assessori democristiani della città. Furono gli anni in cui una parte consistente dei finanziamenti erogati dalla Cassa per il Mezzogiorno finì alla mafia siciliana e alla ’ndrangheta attraverso la concessione di appalti e subappalti a imprese controllate o finan-

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ziate dai boss: un meccanismo che vide protagoniste le ’ndrine calabresi a metà degli anni Sessanta, in occasione del completamento dell’Autostrada del Sole nel tratto tra Salerno e Reggio Calabria. La criminalità organizzata usciva intanto dai propri confini originari. Si inserì nelle rotte del traffico illegale di tabacchi lavorati esteri e del commercio internazionale di stupefacenti. Gli accordi stretti alla fine degli anni Cinquanta tra esponenti siciliani e italo-americani di Cosa Nostra fecero progressivamente della Sicilia un punto strategico del traffico della droga tra il Sud-Est asiatico, il Medio Oriente, le coste sud-orientali dell’Europa, la zona andina dell’America meridionale e gli Stati Uniti. Si crearono così le condizioni per il successivo controllo di quel mercato da parte di Cosa Nostra, della ’ndrangheta e della camorra, reso anche possibile dal declino delle organizzazioni criminali marsigliesi dopo la chiusura del porto franco di Tangeri avvenuta nel 1960. La necessità di assicurare il riciclaggio del denaro derivato da quei traffici portò anche le organizzazioni mafiose a insediarsi nelle città dell’Italia centro-settentrionale. Lì agivano intanto anche alcune bande di rapinatori talvolta al centro di vere e proprie epopee nelle cronache nere dei giornali e nell’immaginario collettivo39. Tra Bologna, Roma, Genova e Torino operò nei primi anni Cinquanta la «banda Casaroli», composta dall’ex militare della X Mas Paolo Casaroli, dall’ex partigiano Romano Ranuzzi e da Daniele Farris, figlio illegittimo di una cuoca bolognese e di un immigrato. Allo stadio di San Siro negli anni Sessanta all’arbitro ritenuto colpevole di gravi errori si gridava «via Osoppo», riferendosi alla «rapina del secolo» compiuta da quella banda il 27 febbraio 1958 nel capoluogo lombardo: un gruppo di sette persone vestite con la tuta blu da operai aveva assalito un furgone portavalori; il bottino era stato di 600 milioni di lire. La Milano di quegli anni conobbe anche le gesta del «Solista del mitra», Luciano Lutring, autore di «spaccate» nelle pelliccerie del centro cittadino e poi di più impegnative rapine insieme a un gruppo di marsigliesi transitati per la Legione Straniera. Tra la Francia, la Germania e il nord Italia si muoveva intanto il «rapinatore gentile» Horst Fantazzini, l’anarchico che nelle banche non urlava, non sparava, non picchiava e che a un’impiegata atterrita fece recapitare un grosso mazzo di rose il giorno dopo una

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rapina: lui, atteso educatamente il suo turno, sul bancone poggiava una pistola giocattolo e con voce ferma ma cortese chiedeva di avere il denaro. A Torino i fari restarono invece accesi a lungo sulla banda formata dal torinese della «Barriera Milano» Pietro Cavallero, da Adriano Rovoletto e dall’immigrato pugliese Sante Notarnicola40. Formatisi in un ambiente sociale fortemente politicizzato, le loro rapine si rivolsero contro i simboli stessi del capitalismo italiano. Con una 1100 rubata e un mitra Sten assaltarono un’auto che trasportava le buste paga della FIAT, poi presero di mira le sedi di innumerevoli istituti bancari. Il bottino doveva servire a finanziare la guerriglia a livello internazionale. Al momento della cattura, il 25 settembre 1967, Cavallero avrebbe parlato a Notarnicola delle cene e degli altri modi in cui quei soldi erano stati in realtà sperperati nel corso degli anni. Non erano comunque i mafiosi e i rapinatori a costituire la massa dei detenuti, che rifletteva invece lo squilibrio manifestatosi tra sviluppo economico e progresso sociale. Immigrati meridionali, abitanti delle borgate e delle periferie metropolitane e strati di popolazione esclusa dal «miracolo economico» costituirono negli anni Cinquanta e Sessanta le componenti maggioritarie della popolazione reclusa. Le loro storie narravano di un’Italia nascosta dalla dominante retorica del «progresso». Erano le storie degli immigrati meridionali che popolavano le «coree» milanesi descritte da Danilo Montaldi e Franco Alasia o che vivevano stipati nelle soffitte torinesi come racconta Goffredo Fofi. Erano le esistenze dei «ragazzi di vita» pasoliniani, abitanti sottoproletari dei margini di una Roma stravolta dalla speculazione edilizia, che della «modernizzazione» del paese conoscevano solo l’aspetto repressivo e lo sradicamento materiale e culturale. Erano le storie dei tanti Bigoncia, Carolona e Orlando P. delle Autobiografie della leggera, protagonisti tragicomici di una scena affollata «d’avvocati disonesti, disoccupati che decidono di morir di fame, nobili che volgono agli imbrogli, compagni ubriachi, predicatori ecclesiastici, pellegrini, ex carcerati, ergastolani, zingari, vagabondi, saltimbanchi»41. Le inchieste dei primi assistenti sociali penitenziari fotografavano con chiarezza quella situazione42. Nel Meridione, gli opera-

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tori andavano nelle case «maltenute e poco arredate» dei detenuti e vi trovavano le loro mogli analfabete, i nuclei familiari numerosi ma spezzati dall’emigrazione, i bambini in bilico tra abbandono scolastico, lavoro minorile e piccoli reati. Si trovavano di fronte a un vivere materialmente ed esistenzialmente precario, forzosamente al confine tra legalità e illegalità, fatto di violenza, alcolismo e disagio mentale, disoccupazione, lavoro nero e sussidi delle parrocchie e degli enti comunali di assistenza. In assenza di una volontà politica di modificare alla radice quello stato di cose, al carcere era demandato principalmente il compito di controllare quegli strati della popolazione. E a sua volta il carcere, proprio perché popolato da quegli individui socialmente «invisibili», era radicalmente rimosso dal dibattito pubblico e finiva con il rispecchiare in maniera amplificata l’incapacità della classe politica di dare vita ad un progetto politico coerentemente riformatore. Come e più della «modernizzazione» della società, la «modernizzazione» delle carceri rimase solo sulla carta. I disegni di legge che furono stancamente riproposti in Parlamento negli anni Sessanta, pur assumendo alcune delle proposte dei riformatori, non avevano in sé la forza di trasformare la strutturazione del sistema penitenziario, di rinnovare un patrimonio edilizio spesso pluricentenario, di modificare i rapporti tra agenti e detenuti e le mentalità collettive sedimentatesi nei decenni. Continuamente rimandate nel tempo, le riforme si perdevano in realtà prima ancora di raggiungere le sedi politiche nelle quali avrebbero dovuto essere discusse e approvate. Nel corso degli anni Sessanta naufragò nuovamente l’ipotesi di procedere a una riforma dei codici, che pure era parsa matura all’inizio del decennio43. Ciò contribuì ad allontanare la prospettiva della riforma penitenziaria. Il disegno di legge presentato nel 1960 dal guardasigilli Gonella decadde a causa della fine della III Legislatura nel febbraio 1963, prima ancora di essere trattato nelle Commissioni giustizia delle due Camere. Alla fine del 1965 un nuovo tentativo fu fatto dal guardasigilli Oronzo Reale, che presentò un progetto basato su quello precedente e arricchito dalle conclusioni di un comitato ristretto di magistrati della Direzione generale e di una nuova Commissione ministeriale che aveva terminato i suoi lavori un anno prima44. La fine della IV Legislatura,

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nel 1968, portò anche quel testo a decadere: la Commissione giustizia del Senato era riuscita a esaminarlo solo parzialmente. Quando Guido Gonella, nuovamente nominato ministro di Grazia e Giustizia, ripropose nel 1968 praticamente inalterato il progetto presentato da Reale, la probabilità che esso conoscesse la medesima sorte dei precedenti disegni di legge era senza dubbio assai alta. Accadde tuttavia che negli anni seguenti non solo la situazione politico-sociale complessiva ma anche quella specifica del settore penitenziario mutarono radicalmente: altre teorie fecero la loro comparsa sulla scena, in larga parte travolgendo l’impianto teorico costruito nei due decenni precedenti; nuovi attori vi fecero irruzione, chi facendo valere fino in fondo le sue prerogative istituzionali – come nel caso di alcuni magistrati di sorveglianza – chi svellendo le porte delle celle, creando brecce nei muri e salendo sui tetti, per comunicare da lì bisogni che non trovavano alcuno spazio tra le pagine ormai polverose dei codici né all’interno delle categorie criminologiche.

III RIVOLTE, RIFORME, REPRESSIONE Il carcere sottosopra Le foto scattate da padre Ruggero, cappellano de Le Nuove, non lasciano dubbi1: è come se un uragano fosse passato nelle sezioni travolgendo l’ordine carcerario. I cancelli delle celle erano aperti, le pesanti porte di legno scardinate, i lucchetti rotti e gettati sul pavimento. I muri, anneriti dal fumo dei materassi bruciati, erano coperti di slogan contro la «giustizia di merda». Uno di essi ricordava che «il Capitale ha mille facce: le caserme, la famiglia, la scuola, la chiesa» e, naturalmente, il carcere. Altri simboli del potere penitenziario erano stati distrutti durante quella rivolta dell’aprile del 1969: l’ufficio matricola, il casellario, i macchinari ai quali i detenuti lavoravano otto ore per una mercede di 350 lire al giorno. Da Le Nuove la protesta si diffuse al carcere genovese di Marassi. Gli slogan principali: riforma dei codici, rispetto dell’uomo. In serata, 2000 tra poliziotti e carabinieri circondarono l’istituto penitenziario milanese di San Vittore2. Dai tetti altissimi sui quali precariamente si muovevano, sopra le file di finestre sbarrate delle celle, i detenuti tiravano tegole e qualsiasi oggetto a loro disposizione, sostenuti dai giovanissimi reclusi che dal prospiciente istituto penitenziario minorile lanciavano piatti e bicchieri. I reparti «celeri» accorsi da tutto il Nord Italia risposero con sventagliate di mitra, colpi di pistola, lacrimogeni. Dopo quindici ore, entrati nelle sezioni e liberati gli agenti presi in ostaggio, ebbero ragione dei ribelli. La battaglia era cominciata3. Quando ancora gli scontri impazzavano a Torino e Milano, un’eco giunse dal Sud, da quel carcere giudiziario di Bari con ol-

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tre 500 detenuti, sovraffollato e privo dei minimi requisiti igienici4. Il 15 aprile i reclusi forzarono i cancelli di tutto il corridoio centrale, appiccarono il fuoco alle lavorazioni e salirono sui tetti dopo aver forato il solaio. Ben presto, la distanza geografica tra Nord e Sud venne colmata, e in decine di carceri, in tutta la penisola e nelle isole, migliaia di reclusi protestarono. «In solidarietà con i rivoltosi di Torino e Milano»5 scesero in lotta i detenuti di Reggio Emilia, Bologna e Ancona, del piccolo istituto di Fermo, del giudiziario fiorentino e della casa di lavoro all’aperto di Capraia. Alla fine del mese anche il direttore delle carceri giudiziarie di Ferrara fu costretto a prendere atto del «clima di contestazione, che, purtroppo, ha contagiato, ormai, anche gli Istituti di pena»6. Si diffusero dunque a macchia d’olio le proteste, si diffusero le rivendicazioni alla base di esse. In parte erano le stesse già avanzate nel giugno 1968 nel corso delle rivolte de Le Nuove, di San Vittore, di Poggioreale e dell’Ucciardone. I detenuti erano «stufi che ci si prometta sempre riforma del codice ed una essenziale riforma carceraria che ci ridia dignità»7. Ora volevano lottare direttamente per affermare quella dignità, per cambiare i codici, le leggi, i regolamenti penitenziari e, insieme, per un aumento delle ore di passeggio e dei colloqui, per una maggiore pulizia delle celle, per un servizio sanitario decente e contro gli abusi degli agenti di custodia. Le mura di cinta, la censura, i cancelli, i delatori, i buglioli, le celle di isolamento, le sbarre: ecco la materia prima di cui erano fatte le proteste dei detenuti. Spontanea o organizzata, ogni mobilitazione dei reclusi era condannata a porre al centro la materialità del carcere. Era per forza di cose una «rivolta, al livello dei corpi, contro il corpo stesso della prigione», come scrisse in quegli anni Michel Foucault in una delle prime pagine del suo Sorvegliare e punire8. Quando i reclusi cessarono ogni resistenza e scesero dai tetti, dentro San Vittore vennero incolonnati e fatti passare tra due ali di poliziotti e guardie carcerarie che presero a percuoterli con manganelli, calci, pugni, cinghie, perfino catene9. Giunti così all’ufficio matricola, vennero ammanettati a gruppi di cinque e caricati su camion militari. Quanti erano diretti in Sardegna venne-

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ro ammassati nelle stive delle navi, poi, una volta giunti a destinazione, denudati, perquisiti ovunque, intimiditi con discorsi minacciosi, furono nuovamente picchiati dagli agenti locali e infine abbandonati per giorni nelle celle di punizione. Di fronte alle proteste l’attitudine prevalente delle autorità penitenziarie fu quella repressiva. Il tentativo fu quello di isolare il mondo carcerario dall’esterno. Nella tarda serata del 15 aprile 1969 un telegramma del ministro di Grazia e Giustizia, Antonio Gava, disponeva l’«assoluto divieto rilascio qualsiasi dichiarazione stampa et ogni altro organo informazione da parte personale civile et militare dipendente questa amministrazione»10. Circa una settimana più tardi un consigliere della Direzione generale comunicava all’ispettore distrettuale di Firenze che «i Parlamentari non possono indagare in merito ai recenti episodi di indisciplina»: qualora si fossero presentati all’ingresso delle carceri sarebbero stati «ricevuti coi riguardi dovuti al loro altissimo rango», ma avrebbero avuto diritto solo ai chiarimenti «che non riguardano le attuali agitazioni nelle carceri»11. Negli istituti penitenziari così isolati, i trasferimenti punitivi divennero una pratica di massa, attuati contro decine, talvolta anche centinaia di detenuti per volta12. Da Torino, Milano e Genova i «sobillatori» venivano mandati nelle carceri «dure» di Volterra, Pianosa e Porto Azzurro, o ancora più lontano, nelle carceri meridionali. Da lì, se tentavano di dar vita a nuove proteste, venivano ulteriormente allontanati. Modalità sempre più abusata di repressione, i trasferimenti disciplinari determinarono però un effetto ambiguo. Fu principalmente attraverso essi, infatti, che la protesta si diffuse, con i protagonisti delle grandi rivolte che entravano in contatto con i reclusi degli altri istituti penitenziari, riferivano di persona le esperienze fatte, diffondevano le parole d’ordine del movimento in via di formazione. A preoccupare i direttori carcerari non era solo l’«insostenibile clima di tensione» prodotto dall’arrivo di quegli «elementi turbolenti e sobillatori»13. Ogni ondata di trasferimenti portava anche squilibri crescenti nel già precario assetto dell’organizzazione penitenziaria, rendendo di fatto ancor più visibili i problemi che le proteste denunciavano. Per far fronte a quella oggettiva situazione di ingestibilità del carcere alcune direzioni finirono per recepire parte delle richieste avanzate dai detenuti. Scesi nuova-

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mente in lotta tra il dicembre del 1969 e il gennaio dell’anno successivo, i reclusi ottennero così, a seconda del carcere, di fare la doccia più frequentemente, di assistere per tre volte alla settimana agli spettacoli televisivi, di prolungare il tempo del «passeggio», di tenere in cella i fornelli da campeggio o l’aumento degli organici dei lavoranti preposti alle pulizie. Concessioni più generali vennero fatte a livello centrale14. Con due circolari emanate nel periodo giugno-luglio 1969 venne disposto un relativo miglioramento del vitto e si prese atto dell’incostituzionalità di alcuni articoli del regolamento penitenziario contrastanti con la libertà di culto. Già nel maggio 1969 una circolare dispose inoltre la costituzione in ogni stabilimento di una rappresentanza di detenuti per il controllo delle somministrazioni vittuarie, sia pure sorteggiata e non eletta come chiedevano i reclusi. Era un primo passo importante per l’affermazione delle istanze più propriamente politiche del movimento dei detenuti. Con la successiva circolare ministeriale del 14 febbraio 1970 il governo consentì la circolazione in carcere della stampa politica e delle varie associazioni operanti nel paese, purché legalmente riconosciute. Il movimento dei detenuti si mostrava capace di agitare le acque della palude carceraria. Si trattava ora di vedere se e come sarebbe riuscito a dare seguito a quelle proteste e quali obiettivi avrebbe potuto raggiungere.

I dannati della terra A circa vent’anni dalle grandi rivolte del dopoguerra i detenuti tornavano a far sentire la loro voce. Se non era cambiata più di tanto l’istituzione carceraria, come i reclusi stessi denunciavano, si erano trasformate tuttavia profondamente sia la composizione della popolazione detenuta che la società esterna. Le proteste del dopoguerra avevano rappresentato il prolungamento di una rivolta contro le condizioni materiali di vita in carcere, rese ancora più dure dalla congiuntura bellica e post-bellica: un sommovimento veemente, ma incapace di assicurarsi un’autonomia che gli consentisse di avere continuità. All’esterno, inoltre,

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esse non avevano trovato alcuna sponda politica e le stesse forze di sinistra avevano contribuito a isolarle e reprimerle agitando la bandiera di un fantomatico pericolo fascista. Adesso invece, alla fine degli anni Sessanta, a una popolazione detenuta ridisegnata dal «miracolo economico» corrispondeva un processo di sensibilizzazione attorno alla questione carceraria in alcuni settori dell’altrettanto mutato mondo esterno. Il movimento dei detenuti si sviluppava dentro il quadro più generale della contestazione che dal mondo studentesco e operaio tracimò verso il complesso della società e delle istituzioni statuali. La «lunga durata» di quel movimento contestativo fu la precondizione di ogni mobilitazione sociale specifica degli anni successivi, compresa quella dei reclusi. La frattura politica, culturale, sociale del Sessantotto non fu indolore per i suoi protagonisti. A Valle Giulia ci furono centinaia di feriti e molti arresti tra gli studenti. Quindici giorni dopo le camionette della polizia si riempirono di nuovo per trasportare in questura e poi in carcere alcuni tra gli operai della Marzotto di Valdagno e gli studenti di Padova e Trento che si erano uniti ai loro cortei. Così accadde ancora, ripetutamente, per gli operai di Porto Marghera e di Mirafiori. Nel corso di quegli anni, migliaia furono i fermi, centinaia le denunce, decine gli arresti. Per trovare capi di imputazioni per questi ultimi vennero rispolverati articoli dimenticati del Codice penale del 1930, molti dei quali configuravano reati di opinione. Nelle carceri, i militanti detenuti non cessavano di «fare politica». Senza dubbio essi rimanevano sconcertati dalla reclusione, catapultati nel giro di poche ore in quello strano mondo di cui sapevano poco o niente. Avevano forse in mente le lettere di Gramsci, incontravano invece ragazzi della loro età, ed era immediatamente evidente la differenza sociale e soprattutto culturale. Tuttavia, si instaurava un dialogo. Il carcere che conobbero quegli attivisti non era quello statico degli anni Cinquanta. Nonostante la censura, soprattutto i detenuti più giovani si mostravano sensibili a quanto accadeva fuori, seguivano le notizie sugli scontri di piazza, presto si avvicinavano ai nuovi giunti per saperne di più. Questi, in cambio, ascoltavano le loro storie di vita, imparavano i piccoli trucchi per sopravvivere in carcere, apprendevano delle

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proteste che i «comuni» portavano avanti, di come erano organizzate, degli obiettivi che si ponevano. Nel «lavoro politico» in carcere era impossibile riproporre le esperienze acquisite nelle lotte studentesche. Qui non c’erano assemblee in cui parlare, cortei, scontri di piazza e neppure riunioni, ma al massimo clandestini incontri con i compagni di cella e messaggi furtivamente consegnati ai passeggi. Il rapporto tra la contestazione generale e quella nelle carceri si basava su quel fragile legame, che alle spalle aveva un duplice processo: la sensibilizzazione di parte dei movimenti esterni verso la questione carceraria, da un lato; dall’altro, la «politicizzazione» di una parte dei detenuti comuni. A partire dall’autunno 1968, al termine degli spettacoli del Collettivo teatrale «La Comune» di Dario Fo e Franca Rame venivano raccolti fondi «per fabbriche occupate, per sostenere compagni incarcerati nel corso delle lotte antifasciste ed antimperialiste a livello nazionale ed internazionale»15. Si strutturò in quel modo un Soccorso Rosso che garantiva la difesa legale degli attivisti attraverso la collaborazione di avvocati schierati a sinistra. Fu un’azione a lungo irregolare e discontinua, che assunse tuttavia un valore politico notevole dopo i tragici fatti di Piazza Fontana. Dopo la «strage di Stato», la sinistra extraparlamentare si mobilitò e manifestò in occasione della morte dell’anarchico Pinelli, e il Soccorso Rosso iniziò una campagna per chiedere la liberazione di Valpreda; Franca Rame fu tra i primi a cercare un contatto epistolare con lui e con gli altri anarchici che restarono in carcere per molti mesi. Le lettere di Valpreda, poi il suo «diario dalla galera» non parlavano soltanto delle vicende processuali o del contesto politico generale; si soffermavano sulle condizioni del carcere, sulle celle piccole e sporche, i buglioli, il tempo scandito, il sesso negato16. Riprodotte su volantini e opuscoli ciclostilati, contribuirono ad abbattere il muro che separava il carcere dall’esterno. Alla metà del 1972, il Soccorso Rosso divenne Soccorso Rosso Militante per rispondere in modo adeguato alle crescenti esigenze di sostegno legale ed economico. L’intervento venne esteso ora ai detenuti «comuni» che mostravano una maggiore sensibilità per le lotte esterne e che erano alla testa delle proteste carcerarie: le cosiddette «avanguardie interne». Ognuno di loro veniva mes-

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so in contatto con una decina di sottoscrittori residenti nella zona del carcere. Nel giro di pochi mesi i sottoscrittori divennero circa 10.000, sparsi in tutta Italia. Scrivevano, inviavano pacchi viveri, libri, giornali, denaro, andavano ai colloqui. I comitati locali più attivi – Roma e Bologna prima di tutto – organizzavano anche iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema carcerario, portando in vari quartieri mostre fotografiche sulle lotte dei detenuti, diffondendo volantini, partecipando a manifestazioni indette dalle forze politiche e convocando assemblee. Una parte dei militanti cominciava quindi a interessarsi alla «questione carcere». Per altro verso, le proteste che avvenivano all’interno degli istituti penitenziari sembravano indicare la possibilità di un protagonismo dei detenuti in quella trasformazione. A tentare di stabilire un collegamento diretto tra quelle due situazioni, a partire dal 1971, fu la maggiore delle organizzazioni rivoluzionarie emerse dalle lotte del movimento studentesco e dell’«autunno caldo»: Lotta Continua17. Si trattava in realtà di una ridotta minoranza di militanti di quel gruppo, inizialmente neppure coordinati tra di loro. L’intervento sul carcere traeva forza tuttavia dall’analisi politica che i responsabili di Lotta Continua compirono tra la metà del 1970 e la metà del 1971. Dopo l’«autunno caldo», l’offensiva nelle fabbriche era giunta ad un punto morto, oltre il quale non poteva andare senza rischiare di essere assorbita e dispersa dalla politica riformista delle dirigenze sindacali. Era necessario quindi portare lo scontro fuori dai posti di lavoro, ovunque le contraddizioni del capitalismo si riflettevano con maggiore chiarezza. «Prendiamoci la città» fu lo slogan di quella fase, che sarebbe durata fino all’estate del 197318. Fu il momento delle occupazioni delle case della Falchera a Torino, di via Mac Mahon e viale Tibaldi a Milano, delle borgate di Roma, simboli estremi delle condizioni di miseria ed emarginazione di interi settori proletari. C’è una foto di Adriano Mordenti che ritrae, in una casa di borgata con i mattoni a vista e i calcinacci sparsi per terra, da un lato un ragazzo con i capelli lunghi e il megafono in mano, dall’altro dei bambini malvestiti, canottiera, pantaloncini, scarpe sporche e rotte19. La sostanza della svolta politica di Lotta Continua stava in quell’incontro tra i militanti e questo sottoproletariato che appariva abbandonato a se stesso ma che si dimostrava ric-

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co di combattività e assetato di giustizia sociale. Era un sottoproletariato «moderno», secondo l’analisi dei dirigenti del gruppo. Non era più la «gens sans feu et sans aveu» descritta da Marx, essendo ormai difficile «distinguere [...] tra proletari e sottoproletari in un quartiere di immigrati meridionali a Torino o nel ghetto di Detroit»20. Anche nelle città del Meridione, nella Mensa dei bambini proletari nel quartiere di Montesanto a Napoli come ai cancelli delle industrie di Stato, si ripeté l’incontro dei militanti con questo strano proletariato che, quando non emigrava al Nord o all’estero, si presentava con il volto di operai che all’uscita dalla fabbrica lavoravano nei campi o facevano i muratori, di chi viveva di lavori perennemente precari, di quanti si «arrangiavano» con attività illegali come il contrabbando, piccoli furti, truffe. Nella sede di Brindisi alle riunioni di Lotta Continua partecipavano «decine di marò del battaglione San Marco, riuniti in un gruppo di Proletari in divisa [...] e molti pregiudicati, scippatori, ex detenuti, contrabbandieri»21. Per capire quella nuova realtà quei militanti mescolavano con il consueto eclettismo i «classici» di Marx e Lenin agli scritti di Mao e di Frantz Fanon. I detenuti, per Lotta Continua, erano I dannati della terra22. Il carcere era per loro l’espressione più nitida di quella ghettizzazione sociale e di quella repressione che il sottoproletariato subiva quotidianamente anche sul territorio. Adesso però, come il sottoproletariato non era più necessariamente uno strumento passivo nelle mani della classe dominante, così anche il carcere poteva trasformarsi in una «scuola di rivoluzione». Come la fabbrica per gli operai, così il carcere per i sottoproletari poteva diventare un luogo di coesione, di crescita politica, di conflitto oltre che di sfruttamento e oppressione. Adesso era possibile «Liberare tutti»23.

«Ci siamo presi la libertà di lottare» «La città di Torino è in continuo fermento per l’attività delle forze extra parlamentari, e l’atmosfera di continue agitazioni che pervade la città esiste anche nel carcere»24. Il direttore de Le Nuove era preoccupato. «Le Nuove non dovranno più funzionare»,

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aveva scritto qualcuno sul giornale «Lotta Continua». In una riunione tenutasi in un circolo culturale della città, un «oratore maoista» aveva ripetuto quell’affermazione. Carceri giudiziarie di Torino, 16 gennaio 1971. 150 detenuti iniziano uno sciopero della fame. La protesta si trasforma in rivolta nel sesto raggio, che viene quasi completamente distrutto. Nei giorni immediatamente successivi si mobilitano i reclusi anche a Monza, Treviso, Milano, Genova. Contro la carcerazione preventiva e per la riforma dei codici e del regolamento penitenziario25. Ancora una volta Le Nuove scandivano i tempi del movimento dei detenuti, ma adesso si concretizzava anche la saldatura tra militanti rivoluzionari e «comuni». Tra i detenuti in rivolta c’era Adriano Sofri, leader di Lotta Continua, arrestato all’inizio di novembre del 1970 per «blocco stradale». Era suo il lungo documento firmato «I compagni delle Nuove», che sottolineava l’importanza della nuova connessione tra «dentro» e «fuori»26. Sofri venne scarcerato in febbraio e presto si recò a Napoli per impostare con gli altri il lavoro politico nel Sud. A Le Nuove restò comunque un collettivo di detenuti collegato a Lotta Continua. Il 10 febbraio una cinquantina di reclusi dichiararono di non volersi presentare ai processi per protesta contro i «codici fascisti». In 150 furono trasferiti, le concessioni fatte dalla direzione in gennaio vennero revocate, limitate proteste furono affrontate con i pestaggi. Il 12 aprile la rabbia dei reclusi esplose e la rivolta devastò quasi completamente lo stabilimento penitenziario. Come due anni prima, i trasferimenti di massa diffusero rapidamente la protesta e le sue rivendicazioni. Entro la fine del mese scesero in lotta i detenuti di Novara, La Spezia, Regina Coeli, Brescia, San Vittore, Udine. In giugno protestarono anche i reclusi dell’INO di Rebibbia, il carcere modello del sistema penitenziario italiano27. In quel contesto, nel corso del 1971 i militanti di Lotta Continua attivi sulla questione carceraria cominciarono a coordinarsi. All’inizio dell’anno si riunirono a Torino, nodo centrale della protesta, poi si spostarono a Pisa, più facilmente raggiungibile dalle varie città di provenienza28. La Commissione carceri era composta da una decina di persone, peraltro mai presenti contemporaneamente alle riunioni. Provava a stimolare i nuclei locali di Lot-

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ta Continua a effettuare il volantinaggio davanti alle carceri nei giorni e nelle ore in cui i parenti erano in coda per accedere ai colloqui, oppure ad «attacchinare» sui muri di cinta manifesti manoscritti che denunciavano episodi di violenza o segnalavano proteste svoltesi all’interno dei singoli istituti penitenziari. Si considerava un successo riuscire a deviare un corteo facendolo passare accanto al carcere, soprattutto quando tra le sbarre alcuni detenuti sollevavano i pugni chiusi in segno di saluto e solidarietà. Alle «avanguardie interne» era richiesto di non limitarsi a organizzare la resistenza in carcere. Dovevano anche farsi portatrici di una visione alternativa di società. A fare da modello, anche per la loro vicenda personale, furono soprattutto Pietro Cavallero e Sante Notarnicola. «Tutti i detenuti sono detenuti politici» era lo slogan che le «avanguardie interne» cercavano di diffondere tra i loro compagni di detenzione, in uno sforzo costante di coinvolgimento dei detenuti comuni nelle campagne che Lotta Continua e il movimento in generale portavano avanti all’esterno. Quella contro la repressione, dietro le sbarre prese la forma di una denuncia esplicita delle condizioni di detenzione, concentrandosi soprattutto sulle «carceri dure»29. Ecco così venire in primo piano la casa di reclusione Villa Bobò di Lecce, seminascosta tra le abitazioni. Una lettera clandestina nel febbraio 1972 la descriveva come luogo di «continue vessazioni», con «i compagni detenuti [...] [che] durante la notte sono stati presi dagli sbirri, gettati nelle celle di punizione, picchiati, denudati e seviziati nel modo più disumano». Ecco Alghero che, come scrisse un recluso nell’aprile del 1972, «è qualcosa di più che una tomba per vivi, è una classica bara comune»: lì le celle di punizione e i letti di contenzione funzionavano a pieno ritmo, le ore d’aria erano ridotte a due, mancava ogni forma di intrattenimento, non erano consentiti né libri, né fotografie, né tantomeno i fornellini da campeggio nelle celle di «forse un metro di larghezza, per uno e cinquanta di lunghezza». Ecco infine gli stabilimenti carcerari di Volterra, il centro della campagna di Lotta Continua: un luogo «mostruoso», con il letto di contenzione nei sotterranei sempre pronto all’uso; un «lager» dove – scrisse Notarnicola – «i pestaggi a sangue sono frequenti [...] le perquisizioni sono continue». Le «carceri dure» erano il punto finale dell’attività di sorveglianza dei direttori di tutte le carceri30. Era soprattutto in occa-

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sione delle proteste che i detenuti «politicizzati» venivano individuati. I solerti direttori schizzavano allora la figura di «un accanito rivoluzionario, esponente di ‘Lotta continua’», parlavano di un «sospetto appartenente al gruppuscolo di Lotta continua [...] indiziato di reggere le fila nascostamente e astutamente», scrivevano di «maoisti per i quali ogni opera di persuasione e di convincimento con applicazione al lavoro ed opera di trattamento è stata intrapresa con scarso successo». Alla fine del 1971 il direttore delle carceri giudiziarie di Volterra constatava la presenza di «un gruppo politico – aderente a Lotta continua e ad altri gruppuscoli, di estrema sinistra, extraparlamentare – collegato anche con ambienti esterni». Era uno di quelli che i militanti di Lotta Continua definivano «nuclei», attivati dalla metà del 1971 anche negli istituti di Porto Azzurro, Perugia, Lecce, Brescia, Torino e a San Vittore: centri di dibattito che testimoniano un considerevole salto di qualità nell’organizzazione del movimento dei detenuti, che tendeva così a divenire permanente31. Le direzioni intervenivano. Lo scopo era quello di «dividerli, trasferendoli in diversi Istituti per evitare che dalla loro unione scaturisca una forza difficile da contenere»32: era la pratica dello «sballamento», del trasferimento disciplinare da un carcere «duro» all’altro. Sottoposti a quella continua sorveglianza e repressione, i «nuclei» avevano una vita assai precaria. In quelle condizioni, lo stesso processo di «politicizzazione» dei detenuti comuni aveva necessariamente un carattere limitato e altalenante. C’erano indubbiamente delle «avanguardie» che acquisivano in breve tempo una notevole coscienza politica partendo praticamente dal nulla. Nella maggioranza dei casi comunque i detenuti che prendevano parte alle proteste erano «animati da un senso istintivo», più vicino alla logica difensiva dei clan che alla comprensione degli equilibri politici generali33. «La massa è apolitica e anarcoide» – scriveva nel settembre 1971 Notarnicola ai militanti esterni – e Cavallero due mesi dopo spiegava loro come fosse «difficilissimo far pensare il detenuto in modo politico», farlo uscire da un tipo di mobilitazione in cui «estremista» era il modo di porre le rivendicazioni, non il contenuto delle stesse. Del resto, la Commissione carceri con la quale quelle avanguardie dialogavano era a sua volta composta da pochi militanti attivi e si mostrava del tutto insufficiente rispetto al

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compito che si era prefissa. Non riuscì neppure mai a raggiungere il suo obiettivo minimo, quello della costituzione di nuclei di discussione e intervento nelle principali città34. Con un’organizzazione interna assai precaria e una struttura esterna così debole, la prospettiva del movimento dei detenuti non appariva certo rosea. Si sarebbe rivelata drammatica nel 1974, quando si dovette registrare un salto di qualità nella repressione che travolse il movimento e le sue strutture politiche. Nel 1972 però, e ancor più l’anno successivo, il movimento nelle carceri appariva in piena offensiva e l’attività frenetica assorbiva febbrilmente i militanti e le avanguardie interne, facendo passare in secondo piano quei problemi strutturali. Restava infatti l’insubordinazione diffusa di centinaia di detenuti «comuni», che era la materia prima di cui quel movimento era fatto. Le autorità penitenziarie non trovavano i termini per descrivere quel fenomeno così nuovo35. «Al 3° braccio c’è una teppaglia di detenuti indisciplinati» – scriveva il comandante de Le Nuove. Erano «elementacci» che mettevano «in serie difficoltà il personale militare, compreso il Maresciallo»; «facinorosi» che si rifiutavano di rientrare nelle celle dopo il «passeggio» e anche durante le due ore dell’«aria» non volevano «stare negli appositi cortili come si è sempre fatto». Esigevano di stare all’interno del braccio per via del tempo piovigginoso. Bisognava trasferirli presto altrove, certo, ma nel frattempo non si poteva far altro che cedere alle loro richieste. Proseguendo l’ondata di proteste della fine del 1971, nel corso del 1972 scioperi della fame e del lavoro, fermate all’aria e salite sui tetti si susseguirono ininterrottamente da gennaio fino almeno ad agosto, coinvolgendo ancora San Vittore e Le Nuove ma anche, tra le altre, le carceri giudiziarie di Venezia, Alessandria, Sulmona, Sassari, Lucera, Salerno. Una mobilitazione sorprendente se si considera il livello di repressione che diveniva nel frattempo sempre più alto36. Il 1° giugno a Poggioreale alcuni tra gli agenti di custodia e i 300 poliziotti presenti spararono contro i detenuti sui tetti ferendone tre. L’avvenimento scatenò un’ondata di proteste di solidarietà nel corso della quale nel carcere Sant’Agata di Bergamo la polizia sparò nuovamente raffiche di mitra e il direttore in persona avanzò con la pistola in pugno verso i detenuti. Durante il me-

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se successivo venne «inaugurato» con un pestaggio di massa il «Nuovo complesso» di Rebibbia. L’opinione pubblica, raggiunta dalla notizia, fu scossa, e sdegnata si mostrò anche per la morte in settembre di due diciassettenni reclusi nel carcere giudiziario di Trieste: si erano barricati in una cella e avevano dato fuoco alle suppellettili in segno di protesta contro quel particolare letto di contenzione che era chiamato la «balilla»; furono lasciati bruciare vivi dagli agenti di custodia che li «assediavano». Un nuovo ciclo di proteste si aprì alla fine del 1972 e proseguì praticamente per l’intero anno successivo37. Un’incalzante mobilitazione toccò ancora le carceri di Venezia, San Vittore, Poggioreale, Regina Coeli, gli stabilimenti di Torino e Perugia, ma anche istituti penitenziari precedentemente non coinvolti, come quelli di Avellino, Catania, Cagliari, Pescara, L’Aquila, Locri, Saluzzo, Trento, Noto. Su improvvisati striscioni fatti con le lenzuola i detenuti scrissero lo slogan: «riforme, riforme»38. I reclusi prendevano ancora di mira lo «sfruttamento del lavoro nelle carceri», la censura, le celle di punizione e i letti di contenzione. Chiesero l’«istituzione dei consigli di rappresentanza dei detenuti», le «celle aperte» e il diritto di voto. Sempre più spesso spingevano direttamente per una riforma della legislazione penale e penitenziaria. Rifiutavano l’ormai consueto intervento dei magistrati locali e chiedevano di «conferire con una commissione di parlamentari nonché coll’onorevole ministro Zagari in persona al fine di sollecitare la riforma dei codici»39. La richiesta fu accolta il 15 luglio. Un compatto sciopero della fame e del lavoro dei reclusi di Regina Coeli costrinse il guardasigilli socialista a confrontarsi nella rotonda centrale dell’istituto con un’assemblea di tutti i detenuti. Fu un’importante vittoria politica. Nonostante i problemi che cominciarono ad affiorare già alla fine dell’anno all’interno del movimento dei detenuti, essa contribuiva a fare di questo una realtà con la quale dovevano fare i conti non solamente i funzionari carcerari, ma anche i parlamentari che in quegli stessi mesi si occupavano della riforma dell’Ordinamento penitenziario.

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Aria di riforma Ora che le condizioni delle prigioni erano note a tutti – sembravano dire i reclusi – nessuno più poteva far finta di non conoscerle, nessuno poteva più nascondersi, chi sapeva doveva parlare. Le agitazioni dei detenuti potevano essere represse e la «normalità» ristabilita all’interno dei singoli istituti penitenziari, ma la critica dell’istituzione carceraria, nei primi anni Settanta, non poteva più essere facilmente contenuta. Si diffuse infatti rapidamente, a partire dai reclusi, tra i militanti della sinistra extraparlamentare e i settori giovanili legati ai movimenti di massa di quel periodo, fino a lambire strati più ampi della popolazione, ai quali giunse soprattutto in virtù dell’impegno di intellettuali, magistrati, artisti, cantanti. Non c’erano solo il Soccorso Rosso Militante e Lotta Continua a portare avanti il processo di sensibilizzazione del movimento esterno sulla questione carceraria. C’era una rete composita di «collettivi», «commissioni», gruppi e riviste come «Re Nudo», sulle cui pagine si mescolavano le citazioni di Mao e la cultura beat, la lotta per la liberalizzazione delle droghe e lunghi estratti da citazioni giudiziarie. Quelli furono gli anni in cui vennero pubblicati libri di denuncia sulle carceri come quelli di Ricci e Salierno e di Giovanni Senzani, ai quali fecero seguito importanti contributi teorici. Furono gli anni delle inchieste televisive sul carcere e di film come L’istruttoria è chiusa: dimentichi, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Fuga da Alcatraz. Fu il periodo nel quale perfino i Pooh, non certo noti per il loro impegno militante, raccontarono le vicende di detenuti in Pensiero e poi in Il primo giorno di libertà. E Fabrizio De André, da sempre attento narratore delle storie degli emarginati, cantò di un detenuto suicida ne La ballata del Michè e si schierò dalla parte dei detenuti in rivolta in Nella mia ora di libertà. Il carcere non poteva più contare sull’esistenza di quella spessa coltre di indifferenza che solitamente ne garantiva la silenziosa routine40. Le modalità con cui era organizzato, le prassi in uso al suo interno, l’ideologia che lo sosteneva venivano ora portate alla luce e radicalmente contestate. A rafforzare quella critica erano anche alcune voci che si levavano dall’interno del mondo giudiziario e penitenziario.

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«Noi collochiamo la radice di tutti i mali del personale direttivo penitenziario e della sua Amministrazione al SISTEMA autoritario e paternalistico vigente nel nostro settore»41: così si espressero nel 1969 i direttori e gli ispettori carcerari riuniti nell’Associazione funzionari direttivi Amministrazione penitenziaria (AFDAP). Con scioperi, lettere al ministro e altre azioni di protesta essi contestavano frontalmente la propria esclusione dai livelli superiori dell’Amministrazione carceraria. Fu la cosiddetta «rivolta dei direttori». Singoli funzionari si spinsero anche oltre. Denunciarono la «crisi di struttura» di un ambiente carcerario «tuttora arretrato ed oppressivo» e chiesero una «completa ristrutturazione del settore»42. Lo stesso fecero anche alcuni magistrati. Occasioni solitamente rituali come le inaugurazioni dell’anno giudiziario si animarono ora in virtù di una non mediata denuncia delle condizioni degli istituti penitenziari. Vi erano senza dubbio ancora tra i procuratori generali dei convintissimi conservatori come Mario Calamari a Firenze e Giovanni Colli a Torino, che continuavano a incentrare i propri interventi sul carattere «eversivo» delle proteste dei detenuti: vedevano in esse delle «rivolte contro la società e la legge» e sottolineavano che «una pena non afflittiva non sarebbe una pena, ma soltanto una contraddizione in termini»43. Le relazioni di altri procuratori generali parlavano tuttavia dei «vecchi edifici sprovvisti di ogni conforto, angusti, poco igienici e bisognevoli di riparazioni» e attaccavano senza più reticenze la «arretratezza in cui versano la maggior parte degli stabilimenti carcerari, sia per le condizioni di igiene, sia per quelle di sicurezza, sia per la deficiente organizzazione del lavoro e dell’istruzione» 44. Uno dei segnali più evidenti della profonda crisi che l’istituzione carceraria attraversò tra il 1969 e il 1975 fu nella «crisi del concetto tradizionale del trattamento», ossia dell’impostazione fondata sui dettami della criminologia clinica che aveva dominato gli anni Cinquanta e Sessanta. Furono gli stessi riformatori dell’Amministrazione penitenziaria a rinnegare le proprie precedenti convinzioni e a proporne di diverse, più in linea con il nuovo quadro45. «Un trattamento efficace deve essere ancora scoperto» – sentenziavano ora in un articolo il nuovo direttore generale Altavista e il consigliere Giuseppe di Gennaro. Il trattamento doveva ades-

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so essere concepito solo come una «offerta di servizi» e l’accento andava spostato dall’aspetto curativo a quello fattivamente rieducativo. «L’interesse del soggetto medesimo alla propria ‘guarigione’» diveniva ora la condizione essenziale per il trattamento e in primo piano venivano le tecniche in grado di favorire il coinvolgimento cosciente dei detenuti. Queste non erano più di tipo criminologico e psichiatrico, ma psicologico e pedagogico. Si attenuò fino quasi a scomparire il discorso relativo all’«osservazione scientifica», mentre si cominciò a parlare del processo di «liberalizzazione all’interno delle sezioni», di group counselling e di «équipes interdisciplinari». Né ci si limitava alla revisione del cosiddetto «trattamento intramurario». Divenne centrale la riflessione sulle «misure alternative alla detenzione», già da lungo tempo presente nel contesto internazionale ma rimasta marginale in precedenza nel dibattito italiano. Si parlava ormai della necessità di ricercare «misure penali sostitutive delle pene restrittive della libertà personale». Le esperienze britannica, francese, belga, scandinava indicavano la possibilità di fare ricorso alla probation, ossia la «messa in prova» del detenuto all’esterno del carcere dopo un determinato periodo di detenzione o direttamente su decisione del giudice al momento del processo. Al servizio sociale penitenziario doveva essere demandato il sostegno e il controllo del detenuto «affidatogli», al magistrato di sorveglianza la decisione sull’ammissione e sulla revoca di quel beneficio. Nel 1968 il guardasigilli Gonella aveva riproposto praticamente inalterato il disegno di legge presentato tre anni prima dal ministro Reale. I membri della Commissione giustizia del Senato che per primi ebbero il compito di vagliarlo lo considerarono «non [...] più rispondente alla realtà» e da modificare in tempi rapidi, vista l’urgenza di dare una risposta celere allo «stato di insofferenza e di protesta da parte dei carcerati»46. Ci sarebbero voluti in realtà circa sette anni perché l’iter parlamentare della riforma penitenziaria potesse finalmente concludersi. Fu rallentato dalle vicende politiche generali, dalle consuete complicazioni burocratiche, dall’esigenza di procedere a udienze conoscitive di esperti e visite degli stabilimenti penitenziari e soprattutto dal tentativo degli esponenti conservatori di limitarne la portata.

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Nel corso del dibattito emersero comunque alcuni elementi nuovi rispetto ai tentativi di riforma del passato. In particolare, la sinistra parlamentare mostrava adesso di avere una più puntuale capacità di analisi e proposta politica rispetto alle specifiche questioni giuridiche e penitenziarie. Il Partito comunista italiano (PCI) metteva a frutto ora gli stimoli forniti dal Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato, struttura interna a quel partito che riuscì a dare voce agli intellettuali e tecnici critici sul tema penale. Il Partito socialista italiano (PSI) approfittava della ormai decennale partecipazione diretta ai governi di centro-sinistra e del più specifico approfondimento condotto dalla sezione Problemi dello Stato e dei diritti civili47. La nomina del socialista Mario Zagari a ministro di Grazia e Giustizia nel corso del 1973 accrebbe inoltre il peso della sinistra nelle scelte relative alla riforma penitenziaria. Dopo la sua visita del 15 luglio a Regina Coeli per parlare con i detenuti, nel novembre successivo il guardasigilli volle dare un altro segnale di rottura presentandosi personalmente alla seduta della Commissione giustizia del Senato che aprì la discussione generale sul disegno di legge. Lì tenne un intervento da vero militante delle riforme48. «La riforma dell’Ordinamento penitenziario – disse – non è un impegno legislativo tecnicamente asettico, ma coinvolge una delle più profonde contraddizioni sociali dell’attuale momento storico». La crisi dell’istituzione carceraria e la «crescita della sensibilità democratica e civile» erano i due dati da cui partire. Il ministro riprese le argomentazioni dei principali organismi internazionali e degli stessi riformatori dell’Amministrazione penitenziaria: parlò del carcere come di una «extrema ratio in una gamma di misure ricca e flessibile», di cui le misure alternative alla detenzione dovevano essere il pilastro principale. Nel corso del 1973, anno in cui il movimento dei detenuti raggiunse il suo apice, quegli orientamenti ispiravano anche i membri della Commissione giustizia del Senato. Il 14 settembre 1973 alcuni di loro si recarono personalmente in visita alla casa di reclusione fiorentina49. Videro i cubicoli laidi, gli spazi compressi, l’oscurità accecante dei corridoi, ma non si trovarono di fronte visi passivi e lamentevoli. All’interno della stanza della redazione del foglio «Noi, gli altri» si affollarono «tutti i detenuti che poteva contenere» e lì alcuni reclusi presentarono agli illustri ospiti un

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«documento sulle riforme», «risultato delle richieste avanzate collettivamente da tutti i detenuti di questa casa penale». Ogni singolo articolo del disegno di legge era in esso analizzato in estremo dettaglio, commentato, stravolto. Ogni aspetto della vita dei reclusi veniva diffusamente trattato. Riguardo al lavoro, i detenuti chiedevano parità di diritti e di salario con i lavoratori liberi; sul sistema sanitario sottolineavano il fallimento economico e assistenziale dei centri clinici; con riferimento al letto di contenzione rivendicavano la «distruzione fisica di questo inutile e arcaico strumento di sofferenza»50. Poi denunciarono la pratica dei trasferimenti disciplinari, appoggiarono l’introduzione della probation e l’estensione della liberazione condizionale. I senatori recepirono quelle puntuali richieste. Essi centrarono la propria elaborazione sulla questione delle misure alternative alla detenzione, introducendo nel testo il regime della semilibertà e l’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale. Con appositi emendamenti posero le basi per un futuro inserimento della probation anche nella riforma del codice penale, in base a quanto da tempo alcuni studiosi affermavano al di fuori delle sedi parlamentari. La Commissione concluse i suoi lavori il 6 dicembre 1973. Il 18 dello stesso mese il testo fu approvato senza modifiche nell’Aula del Senato. Esso rappresenta il punto più alto raggiunto dal dibattito parlamentare sull’Ordinamento penitenziario negli anni compresi tra il 1969 e il 1975. Il successivo passaggio alla Camera nel corso del 1974 ebbe infatti l’effetto di stravolgerlo nei suoi punti più qualificanti, allineandolo alla tendenza conservatrice da allora nettamente predominante.

La virata conservatrice Per il movimento dei detenuti, il 1974 fu un anno di trasformazioni decisive, che affondavano le loro radici nel livello senza precedenti della repressione e nell’emergere di non più sanabili fratture all’interno del movimento stesso. La repressione non era un fenomeno nuovo. I trasferimenti disciplinari, i pestaggi, gli spari contro i detenuti sui tetti avevano

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già caratterizzato gli anni precedenti. Di fronte alla forza che il movimento aveva mostrato nel 1973 erano emerse le prime proposte di coordinamento delle forze di polizia. Contro le manifestazioni esterne di sostegno alle proteste dei detenuti, nell’agosto di quell’anno il Consiglio supremo della difesa diede l’assenso per «l’impiego di unità delle Forze Armate particolarmente idonee»51. Nel 1974 la repressione conobbe un deciso salto di qualità. Nella notte del 23 febbraio di quell’anno i detenuti della prima sezione del carcere giudiziario di Firenze iniziarono una protesta per la riforma dei codici e del regolamento penitenziario e per migliori condizioni di vita. La polizia circondò l’istituto e lanciò lacrimogeni all’interno dello stabilimento. I detenuti cercarono di salire sui tetti. Contro di loro gli agenti di custodia spararono raffiche di mitra. Un imputato ventenne, Giancarlo Del Padrone, rimase ucciso. Altri otto reclusi vennero feriti52. I detenuti si mobilitarono in molte carceri, mentre il quartiere fiorentino di Santa Croce, dove erano ubicati gli stabilimenti penitenziari, fu teatro di scontri tra militanti extraparlamentari e forze di Pubblica Sicurezza. Fu una fiammata che durò però pochi giorni. Nei mesi successivi le proteste restarono isolate, anche quelle nelle quali si dimostrava ancora l’esistenza di uno stretto collegamento tra i detenuti e gli attivisti esterni. L’evento decisivo giunse nel maggio del 197453. Il 9 del mese, verso le dieci di mattina, tre detenuti della casa penale di Alessandria entrarono nelle aule scolastiche ed estrassero da due borse alcune pistole e un coltello. Poi costrinsero il medico dell’istituto, un detenuto infermiere, un’assistente sociale, sei agenti e altrettanti insegnanti a entrare nell’infermeria. Dopo circa un’ora poliziotti e carabinieri circondarono l’istituto. I detenuti chiedevano di poter lasciare il carcere senza subire ritorsioni, minacciando altrimenti di uccidere uno ad uno gli ostaggi. In serata venne tentata per la prima volta una soluzione di forza: nel corso della sparatoria due ostaggi morirono. Nel pomeriggio del 10 maggio venne fatto entrare nell’istituto il furgoncino chiesto dai detenuti per allontanarsi; pochi minuti dopo partì da lì l’assalto finale, guidato dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel corso del quale morirono due dei reclusi e altri tre ostaggi.

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«Una azione meravigliosa, condotta magistralmente dai carabinieri», commentò in seguito il procuratore generale della Repubblica di Torino, Reviglio della Veneria. Una «strage nel carcere», gridò la sinistra extraparlamentare. Gli eventi di Alessandria dipesero in realtà da quanto accadeva in quelle settimane nell’entroterra ligure, dove le Brigate Rosse (BR) tenevano segregato il giudice Mario Sossi nel primo sequestro di lungo periodo compiuto da quella organizzazione clandestina54. I responsabili di quell’azione volevano principalmente lanciare un forte segnale ai «carcerieri di Sossi». Non solamente connessi alle vicende carcerarie, quegli eventi ebbero comunque effetti devastanti sul movimento dei detenuti. Dopo Alessandria la repressione nelle carceri dilagò. Negli stessi mesi in cui una circolare del ministro Zagari introduceva in via sperimentale negli stabilimenti penitenziari alcuni tra i più avanzati principi affermati nel testo approvato dal Senato nel 197355, nelle stanze della Direzione generale delle carceri si pianificava un drastico «ridimensionamento delle concessioni»56. Andava negato l’uso delle bombolette da campeggio e delle radio a transistor, dovevano essere limitati gli spettacoli televisivi, era necessario il «ritorno [...] al regime delle celle chiuse»; infine dovevano essere destinati «alcuni stabilimenti, o sezioni di essi, ad accogliere i detenuti più riottosi e ribelli». Il responsabile dell’Ufficio detenuti indicava esplicitamente alcuni luoghi: una sezione per 100 detenuti all’Ucciardone; la diramazione «Fornelli» della casa di lavoro dell’Asinara, per ottanta posti; una sezione degli stabilimenti penali di Porto Azzurro e «l’intera capienza degli stabilimenti penali di Volterra». In quegli istituti penitenziari, «particolarmente attrezzati per struttura e sorveglianza», andava imposto «l’immediato ripristino della rigida osservanza delle norme del vigente Regolamento Penitenziario». Nel novembre 1974 un documento dell’Ufficio studi e ricerche diede a quelle proposte una veste teorica, suggerendo la «metodologia per una classificazione operativa dei detenuti»57. I «detenuti di difficile controllo» erano quelli responsabili di precedenti evasioni, coloro che avevano manifestato un «atteggiamento sistematicamente protestatario» o che avevano dato prova inequivocabile della «volontà di entrare in possesso o di detenere armi proprie». Rappresentavano circa il 2% della popolazione car-

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ceraria di allora e per essi era necessario creare degli «istituti di massima sicurezza». Anche quel documento ne indicava alcune possibili sedi: Saluzzo o Fossano, Volterra, Lecce, Oristano e un istituto in Sicilia. Ne definiva con precisione le «caratteristiche strutturali»: la ridotta capienza e l’«austerità» del regime generale, le celle singole e l’introduzione di impianti tv a circuito chiuso, la dislocazione in zone «lontane dalle grandi città»; infine, il personale di custodia «in proporzione vantaggiosa rispetto al numero massimo dei detenuti previsti e scelto ad ogni livello in modo da garantire la comprensione delle particolari condizioni operative dell’istituto». Quella complessa strategia si sarebbe affermata compiutamente solo nel 1977, con l’istituzione delle carceri di massima sicurezza. Per il momento l’azione delle autorità carcerarie procedeva secondo le linee dettate, tra gli altri, da quei procuratori generali della Repubblica che chiedevano di «risalire la china» e di imporre una «restaurazione negli istituti penitenziari di un regime rigido e repressivo»58. Se Lotta continua non è in grado di dare una risposta immediata a questi problemi, lo sbocco inevitabile sarà da un lato la fine del nostro intervento, dall’altro, da parte dei detenuti che acquistano coscienza politica, la scelta di altre soluzioni individuali o avventuriste, che segneranno la sconfitta totale del movimento dei detenuti59.

La «compagna della Commissione carceri», presumibilmente Irene Invernizzi, fece un’analisi lucida della situazione davanti al Comitato nazionale di Lotta Continua riunito il 15 e 16 giugno 1974. I problemi da risolvere, dopo gli eventi di Alessandria, erano legati alla «stretta repressiva» in corso, ma riguardavano anche il gruppo extraparlamentare. C’era la necessità di andare oltre quel «semplice appoggio idealistico o solidaristico» che aveva reso l’intervento fin lì sviluppato sul carcere un’azione condotta «in maniera artigianale, spontaneista o avventurista». Durante la mobilitazione del 1973 non si era riusciti «a mettere in piedi una struttura organizzativa di [...] sostegno alle lotte» e questo aveva lasciato «ampio spazio alla repressione» e «accelerato il processo di isolamento dei detenuti».

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I militanti della Commissione carceri spingevano per una riorganizzazione dell’intervento nel settore specifico. La segreteria di Lotta Continua propose loro l’unificazione della Commissione stessa con la «Commissione Soccorso Rosso» e la futura fusione di entrambe in una «Commissione sui problemi della giustizia»60. Di fatto, in quel modo l’intervento del gruppo extraparlamentare sul carcere veniva a cessare. I responsabili dell’organizzazione sostennero che dopo i fatti di Alessandria la Commissione carceri avrebbe trovato davanti a sé una situazione «pesante», segnata dalla «sfiducia disperata» e dal «riflusso qualunquistico» dei detenuti. «Il tentativo di orientare dall’esterno un processo di sensibilizzazione politica e di iniziativa collettiva dei detenuti [...] non è ripetibile» – sentenziarono. La svolta era netta e si legava alla più generale virata politica che aveva coinvolto l’intera Lotta Continua sin dall’anno precedente61. La fase movimentista lasciava il posto alla «scoperta della politica», alla rivalutazione della dimensione istituzionale della politica. Da federazione di avanguardie locali, quale era stato di fatto almeno fino alla fine del 1972, quel gruppo mirava a diventare un partito, lasciando cadere i settori d’intervento che l’avevano caratterizzato in precedenza, primi fra tutti quelli da sempre considerati marginali. Le «avanguardie interne» si sentirono tradite. Accusarono Lotta Continua di «opportunismo», di aver prima strumentalizzato il movimento dei detenuti per propri interessi settari, poi di averlo lasciato solo a fronteggiare una repressione ogni giorno più dilagante62. Per i detenuti politicizzati, il gruppo extraparlamentare avrebbe dovuto compiere la scelta dell’illegalità e della clandestinità, necessaria per garantire lo sviluppo ulteriore delle lotte dei detenuti. Alcuni di loro quella strada avevano già cominciato a percorrerla. Già verso la fine del 1973 gruppi di ex detenuti e militanti esterni avevano cominciato a discutere della necessità della clandestinità anche al di fuori delle sedi di Lotta Continua: a Napoli si erano riuniti nel Movimento dei proletari emarginati, a Firenze nel Collettivo George Jackson 63. Era a loro che si riferivano la segreteria di Lotta Continua e i militanti della Commissione carceri nel prospettare una possibile scelta «avventurista» da parte di alcuni detenuti. Quella di «av-

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venturismo» fu anche l’accusa che Lotta Continua mosse ai militanti dei Nuclei armati proletari (NAP) che da quei due originari raggruppamenti derivarono. La pronunciarono in modo severo e insieme commosso anche in occasione della morte di Giuseppe «Sergio» Romeo e Luca Mantini, militanti dell’organizzazione a Napoli e Firenze64: morirono nel capoluogo toscano in un conflitto a fuoco con i carabinieri il 29 ottobre 1974, mentre con altri compagni tentavano di rapinare la sede della Cassa di Risparmio di piazza Alberti. Era una delle prime «azioni» dei NAP. I NAP cominciarono così ad agire, nel clima carcerario reso incandescente da una repressione che tra settembre e dicembre del 1974 produsse altri quattro morti tra i detenuti che protestavano65. Iniziarono nel primo giorno di ottobre con tre esplosioni contemporanee davanti alle carceri di Roma, Napoli e Milano. Le precedette un breve messaggio diffuso con degli altoparlanti: invitava alla «ripresa delle lotte nei carceri che ci veda uniti ora come nel ’69 in poi al proletariato»; chiariva che i NAP erano nati per «affiancare e sostenere la lotta dei detenuti, per rispondere agli omicidi ed alle stragi ed alle repressioni di Stato»66. La piattaforma rivendicativa di quel gruppo ricalcava le richieste avanzate dal movimento dei detenuti negli anni precedenti; la sua riflessione teorica ripercorreva nelle linee generali quella già propria della Commissione carceri di Lotta Continua. C’era però nei NAP tutta un’ansia di riscatto, un imperativo di «fedeltà ai principi della lotta ad oltranza, senza compromessi, senza tattiche deteriori»67. Incidevano indubbiamente su quella prospettiva politica anche le esperienze di vita di molti militanti del gruppo. Subita personalmente la violenza dell’emarginazione sociale e quella specifica dell’istituzione carceraria, essi sembravano voler farsi carico di cancellare quella realtà senza attendere oltre, per liberare subito loro stessi e i propri compagni. Il loro immaginario politico era dominato dall’urgenza del cambiamento, dalla ribellione violenta e istintiva, da una visione della società «composta di sfruttati e sfruttatori»68. Idee alle quali corrispondeva la scelta tattica della lotta armata, fatta di «azioni» esemplari nelle quali venivano individuati e colpiti i «nemici di classe», indicati come tali al movimento rivoluzionario e ai detenuti affinché seguissero l’esempio, moltiplicando gli attacchi contro il potere fino alla sua totale distruzione.

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Tra il 1974 e il 1975 i NAP, oltre ad alcune sedi e personalità legate alla Democrazia cristiana (DC) e alla magistratura, colpirono così una guardia carceraria che «spesso e volentieri comanda la squadra di picchiatori all’interno delle carceri di San Vittore»69, e fecero saltare in aria una sede commerciale della bTicino, una delle maggiori ditte appaltatrici delle lavorazioni carcerarie70. Il modello di «azione» per loro fu quello che tentarono di mettere in pratica nella prima metà di maggio del 1975, quando sequestrarono il consigliere dell’Amministrazione penitenziaria Giuseppe di Gennaro. A lui imputavano di avere un ruolo centrale nel «coordinamento di settori e singoli esponenti della repressione»71. Rivendicarono l’atto con una telefonata alla famiglia un’ora dopo che tre militanti del gruppo detenuti nella casa di reclusione di Viterbo avevano provato ad evadere. L’intervento degli agenti di custodia bloccò quel tentativo e i detenuti si barricarono nel carcere dopo aver preso un ostaggio. Le assicurazioni sull’assenza di ritorsioni portarono alla liberazione del magistrato, mentre i NAP diffondevano all’esterno documenti nei quali l’intera operazione era presentata come il primo successo dopo oltre un anno e mezzo di sconfitte dei reclusi. L’episodio rivelava la profonda differenza esistente tra Lotta Continua e i NAP rispetto alla questione del rapporto tra avanguardie interne e militanti esterni72. Lì si era trattato di portare all’esterno degli istituti penitenziari le denunce delle condizioni dei detenuti e, all’interno delle carceri, di favorire la formazione di nuclei di discussione e di agitazione politica che coinvolgessero stabilmente quanti più reclusi possibile; qui c’era da lanciare un messaggio di riscatto immediato, bisognava organizzare attentati ed evasioni. Lotta Continua non aveva condannato la pratica dell’evasione, ma l’aveva considerata un gesto legato ad un livello sostanzialmente pre-politico; per i NAP essa diveniva invece il momento culminante dell’azione delle avanguardie interne, negazione in sé del carcere come di ogni autorità costituita che proprio nel suo punto di maggiore repressione si dimostrava vulnerabile. I NAP anticiparono così l’attitudine tipica delle organizzazioni di lotta armata di sinistra nella seconda metà degli anni Settanta73. Esse avrebbero fatto del carcere uno dei terreni dello scontro frontale con lo Stato, negando a lungo ogni rilevanza ad un intervento settoriale dentro le carceri. I NAP originariamente erano an-

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cora radicati nello specifico del «carcerario», ma già rivolti ad una prassi di evasioni di massa che guardava prevalentemente all’esterno. Poi abbracciarono definitivamente il modello che veniva dalle organizzazioni clandestine maggiori: di fronte alla crescente repressione e ai limiti del proprio intervento, nel 1975 confluirono nelle Brigate Rosse e con quella organizzazione condussero azioni congiunte a partire dal marzo 1976. Siamo sinceri! Settanta italiani su cento, di fronte all’attuale situazione di agitazione e rivolte nelle carceri, sono pronti a rispondere suggerendo il rimedio della forza e della disciplina contro il preteso lassismo. Certo, la risposta è causata da pregiudizio, da comprensibile allarme, da ignoranza, da timore e da malafede; ma è pur sempre una risposta indicativa di una mentalità fortemente radicata e, quel che è peggio, ancorata alla persuasione che sia la risposta giusta74.

Il deputato socialista Felisetti era il relatore del disegno di legge sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario nella Commissione giustizia della Camera. Quel 17 aprile 1974 la Commissione si riuniva per prendere in esame il testo approvato dal Senato l’anno precedente. Il clima politico era radicalmente mutato da allora. C’era stato il salto di qualità compiuto dalle BR con il sequestro Sossi, poi la tragica vicenda del carcere di Alessandria, la strage di piazza della Loggia a Brescia di pochi giorni successiva, infine le prime azioni dei NAP. Anche i dati sulla criminalità comune destavano allarme: tra il 1970 e il 1975 gli omicidi passarono da 1328 a 1759, i furti denunciati da 546.213 a 1.527.662, le rapine, i sequestri e le estorsioni da 3170 a 11.44775. I media non mancavano di amplificare ulteriormente quei dati, suggerendo in modo più o meno esplicito la necessità di drastiche misure che permettessero di riportare l’ordine. Per parte sua, il governo inaugurò in quel contesto la lunga stagione delle «leggi di emergenza». Decisamente, non era il momento politico migliore per mettere mano alla riforma penitenziaria. Nella Commissione giustizia della Camera, in quella del Senato e nelle aule parlamentari risuonò spesso la parola «lassista» per definire la riforma, rea di essere troppo accondiscendente nei confronti dei detenuti e dei delinquenti. I parlamentari socialisti e comunisti, insieme ad alcuni

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esponenti democristiani, tentarono di respingere quell’accusa e di difendere un testo nel quale vedevano un tassello decisivo della modernizzazione delle istituzioni penitenziarie, giudiziarie e assistenziali. Condivideva quella impostazione anche il guardasigilli Zagari76, ma a seguito della crisi del governo Rumor e della costituzione di un governo Moro egli venne sostituito dal repubblicano Oronzo Reale, motivo di ulteriore rafforzamento dei settori conservatori. Erano soprattutto i deputati e i senatori liberali e missini a parlare di «lassismo». Per i primi il «trattamento penitenziario troppo blando» previsto nel testo della riforma avrebbe senza dubbio trasformato «la vita dei reclusi in un piacevole soggiorno, dove vitto e alloggio sono assicurati»77. I secondi furono protagonisti di quella che Neppi Modona ha definito una «vera e propria campagna di terrorismo ideologico»78: vedevano nella riforma, insieme, una risposta emergenziale alle rivolte e un provvedimento che fomentava le rivolte stesse, l’anticamera del «carcere-albergo» e un testo che non introduceva alcuna novità sostanziale rispetto alla codificazione di epoca fascista79. Il termine «lassismo» fu ripetuto infine dalla maggioranza dei parlamentari democristiani, che invitarono ripetutamente il governo a non «largheggiare» con le concessioni ai detenuti e si opposero strenuamente a qualunque innovazione significativa introdotta nel disegno di legge. Fu l’intesa di fatto esistente tra quegli esponenti democristiani e la destra a determinare lo stravolgimento del testo approvato al Senato nel dicembre 1973 durante il passaggio che questo subì nella Commissione giustizia della Camera80. In quella sede furono reintrodotte le spese di mantenimento a carico del recluso e soppressa la possibilità di concedere permessi ai detenuti di buona condotta; venne accantonata la proposta di introdurre misure sostitutive direttamente applicate dal giudice di cognizione, trasformandole in misure alternative alla detenzione applicate dal Tribunale di sorveglianza. Infine, fu introdotto l’articolo 90 dell’Ordinamento penitenziario, che permetteva al ministro di Grazia e Giustizia di sospendere temporaneamente ogni attività di trattamento in determinati istituti in concomitanza con «gravi ed eccezionali motivi di sicurezza». A partire dal 22 maggio 1975 il testo così modificato venne discusso nuovamente nella Commissione giustizia del Senato. Lì

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prevalse un’atmosfera di «malinconia»81 motivata da quella che l’onorevole democristiano Martinazzoli denominò «protervia repressiva della Camera»82. I senatori non ritennero comunque di poter modificare quell’esito e cercarono piuttosto di giungere ad una rapida approvazione del provvedimento, prima che esso finisse nuovamente nei cassetti del Parlamento. La legge n. 354 di riforma dell’Ordinamento penitenziario, approvata il 26 luglio 1975, costituì un indubbio passo in avanti rispetto alla normativa precedente83. In essa erano contenuti elementi che rafforzavano la giurisdizionalizzazione della fase dell’esecuzione penale e la tendenza all’umanizzazione della pena. Erano introdotti inoltre alcuni strumenti concreti di supporto alla funzione rieducativa della pena: una considerevole apertura alla comunità esterna, l’ingresso in ambito penitenziario di assistenti sociali ed educatori, la previsione di misure alternative alla detenzione e una maggiore attenzione all’individualizzazione del trattamento. La nuova legge mostrava tuttavia i segni del lungo iter parlamentare attraversato. Era un provvedimento non organico, che teneva insieme elementi del testo originario del 1960, di quello approvato dal Senato nel 1973 e le modifiche apportate dalla Camera nel corso del 1974. Non aggrediva i principali problemi strutturali rimasti aperti sin dal dopoguerra: mancavano precise disposizioni relative all’edilizia penitenziaria e al personale militare; mancava una chiara previsione relativa agli organici del nuovo personale educativo e di assistenza sociale; mancava qualunque innovazione riguardante la struttura gerarchica e burocratica dell’Amministrazione penitenziaria, fatto che contribuiva a rafforzare resistenze di tipo corporativo nei confronti delle novità in essa contenute. Infine, la riforma penitenziaria non era accompagnata dalle necessarie riforme dell’ordinamento giudiziario, del codice di procedura penale e del settore assistenziale, nonché del Codice penale: già nel 1973 la parte relativa alle misure alternative era stata esclusa dal progetto di riforma del Libro I del Codice penale; poi venne affossata anche la «novella» che avrebbe dovuto regolamentarla. Sul piano politico generale, quegli esiti contrastanti rivelavano l’incapacità della classe politica di perseguire un coerente disegno

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di riforme. Lo notò tra gli altri il futuro segretario della DC, Mino Martinazzoli, nella seduta del 18 giugno 1975 della Commissione giustizia del Senato. La sua fu una sommessa, quasi intimistica ma decisa autocritica, fatta a margine del dibattito. Nell’attività parlamentare non poteva non rilevarsi a suo dire «la quasi inconsistenza nel nostro paese di una politica veramente riformatrice e della capacità di edificare gli strumenti idonei per l’attuazione delle riforme»84. La «riforma fantasma» «MAESTRO: Stazione di Alessandria d’Egitto. Prigionieri italiani di guerra, dicembre 1940. Tre giorni confinati nella stazione sotto i bombardamenti Italo-tedeschi, Hangar, depositi, vagoni sono un’immensa cloaca. Il sottoscritto evacua dal finestrino, di notte, al terzo giorno, subito imitato dagli altri. Resta con la fissazione a vita di un gabinetto a disposizione. Un problema ridicolo a paragone di chi moriva di fame o di torture. SIGNORA: Infatti. (Proiezione: defecazione dei carcerati comuni italiani nel bugliolo davanti ai compagni.) Nessuna lezione da trarre? MAESTRO: La prigionia di guerra è dura a causa della guerra. Ma la prigionia di pace, in un paese civile, nell’anno 1975 di Cristo, non ha nessuna giustificazione alla sua durezza. È gratuita, è sadica. Carceri medioevali, regolamenti Borbonici, locali insufficienti, servizi antiigienici, in una società che ufficialmente educa a modelli raffinati di vita, sono tenuti in piedi per distruggere la personalità dei detenuti. Vi si aggiunga la disperazione, la rozzezza del personale, le umiliazioni davanti ai compagni, i cattivi odori, le sconcezze, il ‘tu’ del secondino, il numero di matricola, le botte, l’isolamento [...] SIGNORA: (Proiezione: letto di contenzione. Prigioniero che viene legato con violenza al letto, che è lasciato solo con la sua disperazione, la fame, la sete, i dolori ai polsi e alle caviglie, seminudo, nell’umidità; prigioniero che ha da fare i suoi bisogni, non può non riesce, finisce con l’orinare verso l’alto bagnandosi tutto il corpo. Grida, accorre un agente, schiaffi... Impotenza.) È così? MAESTRO: È così. (Al pubblico) Una società che si comporta così è civile?»85.

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Il testo teatrale Fabbrica di mostri, da cui questa scena è tratta, aveva una forte connotazione autobiografica. Il «Maestro» era anche l’autore del testo, Davide Melodia, ex prigioniero di guerra dei britannici in Egitto, maestro elementare nelle carceri di Livorno dal 1954 al 1961, fratello di Giovanni Melodia, deportato a Dachau e lì animatore del Comitato italiano dei prigionieri. Figlio di un pastore evangelico siciliano e pastore evangelico lui stesso a Sarzana nel dopoguerra, era una figura di spicco del Movimento non violento italiano e aveva anche seguito le vicende dei primi obiettori di coscienza italiani detenuti per la loro scelta nelle carceri militari. La prigionia, la deportazione, il carcere avevano segnato in profondità la sua esperienza personale e quella della sua famiglia. Tra di essi Melodia vedeva una profonda continuità a livello dei meccanismi disciplinari e nella sistematica negazione della dignità umana. Davide Melodia fu uno degli animatori della Lega non violenta dei detenuti, fondata il 4 novembre 1974 e scioltasi di fatto nel maggio 1977, sorta per «combattere il principio stesso del carcere, da cui nasce ogni stortura dell’ambiente, senza rinunciare ad intervenire per la eliminazione di queste stesse storture nell’immediato»86. Essa ebbe rilevanti rapporti con il Partito Radicale, molto attivo in quegli anni attorno ai diritti civili, ma la sua azione fu costantemente minata dal personalismo della sua autonominatasi segretaria nazionale, Giuliana Cabrini. Costituita da alcuni nuclei sparsi per lo più in Lombardia, Veneto e Toscana, la Lega rappresentò in quella fase il tentativo di dare continuità al movimento dei detenuti dopo l’abbandono del terreno da parte di Lotta Continua e in contrasto con l’opzione armata rappresentata dai NAP. Lo strumento di quella lotta erano azioni rivendicative non violente, in primo luogo lo sciopero della fame. Il suo contenuto era nella rivendicazione della piena applicazione della riforma carceraria del 1975 e del regolamento di esecuzione emanato il 29 aprile dell’anno successivo: «la riforma fantasma», la chiamò Davide Melodia nel suo libro in cui raccolse le testimonianze dirette dei detenuti. Le proteste degli anni precedenti avevano inneggiato alla riforma da approvare. Quelle del 1975-77 chiedevano l’«attuazione immediata [...] della riforma carceraria», soprattutto in materia di colloqui, trasferimenti e igiene; rivendicavano le nuove tariffe per

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le mercedi, la ricostituzione della commissione per il controllo del vitto o l’attivazione del servizio telefonico, denunciavano il «diniego sistematico dei permessi» e l’«apatia» mostrata dalle autorità competenti nell’applicazione dell’art. 21 della riforma (lavoro all’esterno del carcere)87. Le piattaforme rivendicative divennero dettagliate, riferite a precisi punti della nuova legislazione considerati in rapporto alla specifica situazione di ciascun carcere. Mostravano in concreto – secondo quanto scrissero i detenuti de Le Nuove nell’agosto 1976 – come si fosse di fronte a una «riforma ombra, inattuabile nei contenuti ed inconsistente nel dettato». «Chi partecipa direttamente alla vita carceraria sa bene che le più qualificanti innovazioni della Riforma non hanno avuto neppure un inizio di attuazione»88. Così dodici magistrati di sorveglianza facevano eco nel 1977 alle prese di posizione dei detenuti. Le carceri giudiziarie si chiamavano ora case circondariali, i manicomi giudiziari erano divenuti ospedali psichiatrici giudiziari, ma poco era cambiato. Le condizioni igieniche erano «quelle di sempre, anzi sempre peggiori» – scrivevano quei giudici. La limitazione imposta negli appalti delle lavorazioni carcerarie portò molte ditte private a lasciare il mondo penitenziario. «Non ci sono ‘osservazione’ e ‘trattamento’ dei detenuti, elementi fondamentali della recente legge» – proseguivano. Mancavano gli educatori e gli assistenti sociali, si costituivano solo molto lentamente e in mezzo a notevoli problemi organizzativi i Centri di servizio sociale per adulti (CSSA), punto di riferimento dell’innovativo istituto dell’affidamento al servizio sociale. «In poche parole – concludevano – nulla è stato fatto, in quasi due anni, per realizzare le condizioni minime necessarie affinché la Riforma trovi attuazione». Le carenze strutturali erano note alle autorità carcerarie89. Riguardavano soprattutto il personale militare e la questione dell’edilizia penitenziaria. La riforma non aveva minimamente intaccato la struttura gerarchica e burocratica del Corpo degli agenti di custodia90. Non aveva predisposto una adeguata qualificazione di quel personale e non ne aveva incrementato l’organico, che restava fissato in 14.932 unità. In quel periodo di crisi ideologica del carcere si accentuarono anzi le tradizionali difficoltà di arruolamento e si ebbe una flessione quantitativa degli agenti. Nel complesso, gli agen-

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ti effettivamente a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria erano circa 13.000, un migliaio dei quali risultavano peraltro impegnati in servizi all’esterno degli istituti carcerari. Di per sé quella situazione determinò un forte «stato di precarietà e di disagio» e ridusse ulteriormente la possibilità di applicare le norme previste dal testo di legge. Inoltre la riforma, pur attuata solo parzialmente, comportò un deciso aumento dei carichi di lavoro. La somma di quei problemi portò a una consistente ondata di proteste da parte degli agenti di custodia. Negli stabilimenti carcerari si moltiplicarono gli scioperi del vitto e le «autoconsegne». L’obiettivo fu prima di tutto quello di migliorare il trattamento economico e le condizioni di lavoro, ma esplicitamente venne anche richiesta una riforma dell’ordinamento del Corpo che prevedesse, tra le altre cose, il diritto di associazione e di rappresentanza. Si trattò di una mobilitazione relativamente ampia, che ebbe indubbi contatti con quella ben più vasta che si sviluppò in quegli anni all’interno della Polizia di Stato. Le autorità penitenziarie riuscirono tuttavia a contenerla. Alcuni agenti di custodia «sobillatori» furono deferiti ai Tribunali militari e lì processati. Parallelamente venne promessa la riforma dell’ordinamento del Corpo degli agenti di custodia sulla base di un testo elaborato in seno alla Direzione generale e mai discusso dalle forze politiche. L’esito finale di quelle proteste non fu quindi, come per la Polizia di Stato, quello della smilitarizzazione del Corpo. Si giunse solo, all’inizio del 1978, alla costituzione di un Comitato generale di rappresentanza del Corpo degli agenti di custodia, un organismo centralizzato che ben poco corrispondeva all’istanza di democratizzazione dell’organizzazione dell’Amministrazione penitenziaria posta dagli agenti. Per una riforma del personale militare si sarebbe dovuto attendere il 199091. L’altro problema strutturale che la riforma penitenziaria non aveva affrontato era quello dell’edilizia carceraria. Il nuovo ordinamento prevedeva istituti di limitate dimensioni e capienza, strutture integrate con il territorio circostante e ambienti differenziati all’interno di ciascuno stabilimento. I problemi che i responsabili penitenziari si trovavano a dover affrontare rimandavano a questioni molto più concrete. Le strutture erano vecchie, non garantivano un adeguato livello di sicurezza interna ed ester-

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na nè consentivano condizioni di detenzione in linea con i principi enunciati dalla riforma. L’incremento del tasso di criminalità e le leggi del 1974 sulla carcerazione preventiva avevano fatto passare nell’arco di pochi anni la popolazione detenuta da 21.000 a 32.000 unità92; la capienza degli stabilimenti penitenziari era invece rimasta ferma a quota 27.000. Le ex fortezze e gli ex conventi che costituivano la maggior parte delle strutture erano scarsamente modificabili per rispondere ai requisiti richiesti dal nuovo Ordinamento penitenziario e venire incontro alle esigenze di quell’accresciuto numero di reclusi. Il problema del sovraffollamento conobbe in quella fase un vero e proprio salto di qualità dal quale non sarebbe mai più tornato indietro, se non per effetto di provvedimenti di amnistia e indulto93. Soprattutto nelle grandi case circondariali la situazione era pressoché insostenibile. Nel mese di novembre del 1975 le presenze eccedevano la capienza di quasi 200 unità a Le Nuove di Torino e nella casa circondariale di Catania e di oltre 550 detenuti a Poggioreale. Lì le condizioni di vita si presentavano deteriorate già in aprile, quando erano state superate le 2000 presenze a fronte di una capienza di 1200 unità, portando a ripetuti sfollamenti nel corso dell’anno, fino a oltre 150 detenuti per volta. A San Vittore alla fine del 1976 i detenuti in eccesso risultavano poco più di 100, ma una nota della direzione accennava all’impossibilità di «ricevere le persone tratte in arresto»: gli arrestati rimanevano stipati per diversi giorni nella camera di sicurezza, che aveva una capienza di 24 persone ma giunse a contenerne quasi 70. A Regina Coeli la situazione edilizia e igienica era «ad un livello generalmente critico, che talora può definirsi di abbandono»94. Lo scriveva il procuratore della Repubblica di Roma. Le presenze dei detenuti erano passate nel 1975 da 418 in febbraio a circa 1300 in ottobre. I reclusi erano ormai anche nelle celle di sezioni dichiarate inagibili, mentre gli agenti di custodia protestavano contro lo «stato di assoluta inagibilità» della loro caserma95. Nel periodo 1975-77 la situazione nelle carceri appariva ancora aperta a vari possibili esiti. Il movimento dei detenuti, benché diviso tra le azioni armate dei NAP e gli scioperi della fame della Lega non violenta dei detenuti, mostrava ancora una notevole vitalità nello spingere per l’applicazione della riforma penitenziaria.

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Parallelamente, anche alcuni funzionari direttivi e magistrati di sorveglianza provavano ad adattare lo spirito della nuova legge alle immutate strutture. Con l’andare dei mesi, tuttavia, si ebbe un progressivo restringimento degli spazi di innovazione, che presto si configurò come un vero processo di restaurazione dell’ordine carcerario. L’imperativo della «sicurezza» prese a dominare l’azione delle autorità, ponendosi in contrasto con qualsiasi tentativo di apertura dell’istituzione penitenziaria. Si affrontò innanzitutto il problema della difesa degli istituti da attacchi provenienti dall’esterno, tradizionale punto debole dell’organizzazione carceraria96. Furono revisionati i «piani di difesa», installati sistemi di allarme più efficienti e si provvide ad instaurare rapporti sempre più organici con le forze di polizia per la vigilanza degli istituti in particolari occasioni o per il pronto intervento in caso di proteste e tentate evasioni. Sistemi di teleallarme cominciarono a connettere gli istituti carcerari alle centrali operative della Polizia di Stato, mentre si infittirono gli scambi di informazioni tra le Questure, gli Ispettorati distrettuali e le direzioni carcerarie. L’altro problema era quello del numero degli evasi, cresciuto notevolmente in pochi anni: 211 nel 1974, 286 nel 1975, 378 nel 1976 e 447 nel 197797. Aumentavano le evasioni e riguardavano sempre più spesso detenuti «pericolosi». L’Amministrazione penitenziaria diede allora una risposta in termini più organici rispetto al passato. Venne accentuata la sorveglianza sui detenuti «pericolosi» all’interno degli stabilimenti, raccomandando anche ripetutamente una maggiore riservatezza nella preparazione ed esecuzione delle loro traduzioni; vennero moltiplicate le perquisizioni personali e quelle generali, furono imposti controlli più rigidi sui pacchi e limitazioni nel numero e nelle modalità dei colloqui. Anche gli edifici subirono ristrutturazioni che miravano a innalzarne il livello della sicurezza. Furono costruite garitte e muri di intercinta, venne potenziata l’illuminazione e installate porte magnetiche e cancelli, citofoni e nuove serrature98. Le autorità carcerarie mostravano di aver appreso la lezione del periodo di crisi iniziato con le rivolte del 1969. Il cemento dei solai venne rafforzato per impedire ai detenuti di andare sui tetti nel corso

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delle proteste. Dentro le sezioni, si cercava di evitare gli assembramenti dei reclusi. Alcune direzioni cominciarono a elaborare progetti per fornire ciascuna cella di un televisore: non si trattava di una concessione dettata dalla volontà di umanizzare le condizioni di detenzione, bensì di una misura legata alla necessità di imporre un maggiore controllo su ciascun detenuto. «La chiusura delle celle deve tassativamente avvenire non appena cessate le attività in comune»99. Era quanto prevedeva una circolare dell’Ufficio «detenuti» della Direzione generale nel marzo 1977. Alcuni direttori si opposero; i detenuti diedero vita ad alcune proteste, ma, come nella casa circondariale de Le Murate a Firenze, queste furono affrontate con l’intervento delle forze dell’ordine100. In giugno il guardasigilli Bonifacio invocò il «ripristino della normalità» come «condizione assolutamente indispensabile per procedere ad ogni forma di trattamento e per dare completa attuazione alla riforma penitenziaria»101. I rapporti tra il personale di custodia e i detenuti dovevano essere «improntati a reciproca correttezza senza raggiungere mai la familiarità». Il sistema delle «celle aperte» doveva finire, «senza alcuna deroga ed eccezione». Infine, la legge 20 luglio 1977, n. 450, restringendo fortemente i termini della concessione dei permessi ai detenuti, impresse un sigillo giuridico a quel lungo e complesso processo di «normalizzazione»102. Due anni dopo la sua approvazione, la riforma dell’Ordinamento penitenziario sembrava già sepolta. Il vecchio carcere tornò forte. La gestione politica dell’«emergenza terrorismo» ne rivelò una vitalità che la crisi degli anni precedenti aveva forse fatto dimenticare.

IV MODERNITÀ PENITENZIARIA Massima sicurezza «Il carcere di Pistoia era piccolo. In quel periodo là c’erano una cinquantina di detenuti. Era molto ‘familiare’. Le nostre compagne venivano lì nelle strade vicine e riuscivamo a parlare attraverso le sbarre. Io non ci volevo stare in carcere. Avevo provato diverse volte a scappare. Comunque lì mi diedero una possibilità e mi misero a fare il barbiere. Non è sparito mai niente. Avevo avuto anche delle relazioni positive. Dicevano che ero una persona affidabile. Dopo tre-quattro mesi, una sera verso le nove venne la guardia: ‘Ti vogliono in Direzione’. Era il 21 luglio [1977]. Sai, la sera alle nove-dieci, ti senti chiamare in Direzione: tu pensi alla famiglia, a qualcosa che è successo. La guardia mi disse: ‘Vai pure in pigiama, tanto non c’è grandi cose’. In pigiama e in ciabatte, vado in Direzione. Poi entro nella stanza dei colloqui. Un brigadiere mi disse: ‘Bisogna perquisirti perché è sparito un rasoio’. Non era vero. Prendeva solo tempo. Volevano vedere se avevo qualcosa addosso atta ad offendere. Io abboccai. Tanto non avevo niente addosso. ‘Non mi risulta che sia sparito qualcosa, comunque...’. Mi tolsi la giacchetta del pigiama, mi levai i pantaloni. Restai nudo. Quando si accorsero che ero pulito si spalancarono due-tre porte. Entrarono una decina di carabinieri. Dissero: ‘Hai già capito’. ‘Eh sì, ho già capito’. Mi misero le manette e mi portarono via. In pigiama. Fuori c’era una Mercedes nera tipo Ministro degli Interni. Con due pattuglie dei Carabinieri, una davanti e una dietro. E tre carabinieri in

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macchina con me. Ogni po’ si cambiava pattuglia di scorta. Nella notte si arrivò a Cuneo. Lassù intorno al carcere c’era addirittura il filo spinato come in tempo di guerra, c’erano le caprette a piramide con il filo spinato come si vede nei film sullo sbarco in Normandia»1. Fu un’operazione militare a segnare l’inizio della nuova fase della storia carceraria italiana2. Sospese temporaneamente tutte le traduzioni ordinarie, tra il 18 e il 26 luglio 1977 oltre un migliaio di detenuti furono prelevati da centinaia di carabinieri dalle carceri in cui si trovavano e trasportati, anche per mezzo di aerei ed elicotteri, in cinque istituti di massima sicurezza. I responsabili penitenziari lo chiamavano il «circuito dei camosci». Era composto inizialmente dalle case di reclusione di Cuneo, Fossombrone, Trani, Favignana e dalla diramazione Fornelli dell’Asinara. Nel corso di quello stesso anno si aggiunsero anche gli stabilimenti penitenziari di Novara e Termini Imerese, poi la casa circondariale di Nuoro e la diramazione Agrippa della casa di reclusione di Pianosa, infine il carcere speciale femminile a Messina. Le autorità penitenziarie puntarono in quella fase a uniformare il più possibile il regime di detenzione e di sorveglianza di quegli stabilimenti penitenziari. Ovunque vi erano doppie sbarre alle finestre, rinforzi in cemento ai muri perimetrali e muri «intercinta» ossia, in pratica, un secondo muro di cinta. I detenuti erano per lo più reclusi in celle singole o con massimo due-tre posti letto, mentre il rapporto numerico era paritario tra reclusi e agenti di custodia, il cui organico fu appositamente potenziato3. Anche l’organizzazione interna a quegli istituti fu meticolosamente curata, specialmente in materia di colloqui, corrispondenza, udienze con i responsabili dell’istituto, organizzazione dei passeggi, servizio del sopravvitto e ricezione dei pacchi. Una particolare enfasi venne messa nel garantire la separazione dei detenuti dall’ambiente esterno. Nelle sale colloqui si concentrò così il livello visibilmente più elevato di sicurezza: spessi vetri divisori e citofoni filtravano il contatto tra il recluso e il parente durante l’ora o, eccezionalmente, le due ore di durata del colloquio stesso. All’esterno delle carceri di massima sicurezza vigilavano i carabinieri, organizzati in ronde di macchine che controllavano il

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perimetro degli stabilimenti incrociandosi a intervalli regolari. Il decreto interministeriale del 4 maggio 1977 che aveva creato gli istituti di massima sicurezza attribuiva ai carabinieri esclusivamente quel compito, ma di fatto il loro ruolo si estese fino a comprendere «la sicurezza, l’ordine e la disciplina all’interno degli istituti». Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu nominato «coordinatore dei servizi di sicurezza esterna degli istituti di prevenzione e di pena». A quella data era già responsabile del primo nucleo antiterrorismo, costituito il 24 maggio 1974, il giorno dopo il rilascio del giudice Sossi da parte delle Brigate Rosse, poche settimane dopo l’irruzione nel carcere di Alessandria della quale era stato protagonista. Nell’ottobre 1978, dopo l’uccisione di Aldo Moro, sarebbe stato nominato ufficialmente capo dell’Antiterrorismo dal ministro dell’Interno Rognoni4. Dalla Chiesa gestì personalmente l’intera operazione della creazione delle carceri di massima sicurezza. Il 20 maggio 1977 diramò una circolare diretta a tutti gli istituti penitenziari per assumere dettagliate informazioni circa le modalità di controllo sugli ingressi in carcere, sui pacchi, sui colloqui e sulle telefonate, sul lavoro dei detenuti, sulla «scrupolosa ottemperanza» del regolamento degli agenti di custodia. Su quella base all’inizio di giugno scelse i primi stabilimenti da adibire a carceri «speciali». Parallelamente, provvide a stilare le liste con i nomi dei detenuti da trasferire nei nuovi istituti5. C’erano detenuti politici, sia di sinistra che neofascisti6; c’erano detenuti appartenenti a organizzazioni mafiose; c’erano anche decine di nomi di «detenuti che presentano una particolare pericolosità in relazione ai delitti attribuitigli e al comportamento carcerario». Si trattava nella maggior parte dei casi di individui coinvolti negli anni precedenti in rivolte e proteste, evasioni, sequestri o violenze ai danni di agenti di custodia e di altri reclusi. La creazione degli istituti di massima sicurezza non era finalizzata esclusivamente alla detenzione dei militanti delle organizzazioni di lotta armata, che pure di essi divennero nel tempo il gruppo nettamente prevalente: da un lato già indubbiamente collegata all’azione antiterroristica, il suo scopo era anche quello di isolare dal resto del circuito carcerario i detenuti comuni politicizzatisi nelle lotte dei primi anni Settanta e gli individui che in anni più recenti avevano posto in atto le sempre più frequenti evasioni.

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Con quell’operazione si intendeva quindi anche completare il processo di «normalizzazione» carceraria apertosi nel 1974. La strategia di differenziazione elaborata nell’anno della «strage di Alessandria» poteva essere messa in pratica ora, nel 1977, in virtù della mutata situazione politica. Sul terreno dell’approvazione della legislazione di emergenza si misurava la convergenza di comunisti e democristiani lungo l’accidentato percorso del «compromesso storico». Nel 1974 erano passati provvedimenti che avevano ampliato i termini massimi della carcerazione preventiva, poi la cosiddetta «legge Bartolomei» aveva aumentato le pene previste per i reati di rapina, sequestro, detenzione di armi, reintroducendo anche l’interrogatorio di polizia ed esteso il rito per direttissima. Successivamente era venuta la legge per il controllo sulle armi del 14 gennaio 1975 e soprattutto, tra il 1975 e il 1976, c’era stata l’approvazione e la riconferma della «legge Reale». Nel frattempo, profonde trasformazioni avevano attraversato il movimento di contestazione. La crisi dei gruppi extraparlamentari aveva prodotto una sempre più accentuata frammentazione. Il Movimento del Settantasette parve poterla ricomporre, tenendo insieme per un breve periodo quanto restava dei vecchi gruppi, i collettivi facenti capo all’area dell’Autonomia Operaia, il movimento femminista e gli «indiani metropolitani». Si trattò in verità soltanto di una parvenza di unità. La sconfitta di quel movimento segnò – come ha scritto Robert Lumley – «la fine di una fase storica di mobilitazioni di massa iniziata nel 1968»7. Nel vuoto lasciato da esso si inserì la contrapposizione frontale tra uno Stato sempre più pronto a chiudere i conti con quel lungo periodo di agitazioni sociali e le organizzazioni clandestine che bruciavano le tappe dello scontro militare. Di quel conflitto le carceri furono uno dei terreni decisivi. Lo scontro frontale Carceri giudiziarie Le Nuove, aprile 19778. I detenuti che formavano il «nucleo storico» brigatista, in arrivo per l’avvio del «processo-guerriglia», vennero concentrati nel «transito» al piano terra del sesto braccio. Era una sezione «speciale» a tutti gli ef-

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fetti, costituita prima dell’approvazione formale delle carceri di massima sicurezza. Le disposizioni circa il regime detentivo erano contenute in un ordine di servizio del direttore. All’«aria» si accedeva separatamente dagli altri detenuti comuni, che in nessun modo potevano essere autorizzati a recarsi in quella sezione. Almeno otto agenti «scelti fra i migliori e guidati da almeno un sottufficiale» erano chiamati a vigilare e a restare sempre «compatti ed in numero sufficiente a prevenire qualsiasi tipo di sequestro». Una «accuratissima perquisizione» doveva precedere ogni spostamento dei detenuti ed essere effettuata anche servendosi di metal detector. Per «conoscere ed eventualmente prevenire ogni forma di violenza» erano infine tenute «costantemente attivate tutte le fonti informative riservate». Quelle misure si rivelarono comunque insufficienti a contenere la forza dei detenuti politici. Il carcere torinese appare nei due anni successivi un luogo sotto assedio, continuamente scosso da eventi di portata nazionale e locale, esterni ed interni alle sue stesse mura di cinta. Un documento clandestino sequestrato a un militante brigatista recluso nel novembre 1979 a Le Nuove conteneva l’interminabile sequela di gambizzazioni, irruzioni, incendi, assalti e uccisioni posti in atto a livello nazionale dall’insieme delle organizzazioni di lotta armata nel corso del periodo precedente. Non mancava di elencare le «azioni» condotte contro «obiettivi» legati al sistema carcerario, a partire dall’uccisione dei consiglieri dell’Amministrazione penitenziaria Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, cui si sarebbe aggiunta nel marzo 1980 quella del consigliere Girolamo Minervini. Nel giugno 1978 i Proletari armati per il comunismo avevano «giustiziato» il «maresciallo bastardo» Antonio Santoro, comandante degli agenti di custodia del carcere di Udine; nell’ottobre successivo Prima Linea aveva ucciso a Napoli Alfredo Paolella, direttore del Centro di osservazione criminologica di Pozzuoli, nel contesto della lotta contro i «collaboratori di stato e i torturatori dei prigionieri politici». Anche a Torino la «campagna contro le carceri» dei vari gruppi armati era proseguita senza tregua. Durante il sequestro Moro, l’11 aprile 1978 era rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con alcuni brigatisti Lorenzo Cotugno, agente di custodia addetto ai colloqui nel carcere de Le Nuove. Nel dicembre successivo ai pie-

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di del muro di cinta le BR avevano colpito a morte gli agenti Salvatore Lanza e Salvatore Porceddu. Nel gennaio 1979 era stata Prima Linea a uccidere sotto casa l’agente Giuseppe Lorusso. Decine di telegrammi erano giunti alla direzione del carcere: questori, segretari di partito, ex partigiani, funzionari penitenziari comunicavano il proprio sgomento per il «barbaro assassinio», condannavano ed esecravano l’«efferato delitto», auspicavano l’immediato «smascheramento [degli] assassini»9. All’interno delle mura, quegli eventi facevano crescere ulteriormente la tensione. Tre altri agenti furono feriti nel settembre 1979 nei giardini antistanti l’ingresso del carcere. Le sentinelle sul muro di cinta erano sempre più spesso obiettivi di colpi di arma da fuoco sparati nella notte a scopo intimidatorio e a loro volta allontanavano con raffiche di mitra chiunque si aggirasse in modo sospetto attorno al carcere. Alla direzione arrivavano informative su probabili «sommosse generali» seguite da sequestri di personale militare e civile; le perquisizioni straordinarie permettevano di rinvenire pistole, cartucce e caricatori e portavano alla luce tunnel e materiale per le evasioni. Intanto i detenuti differenziati distruggevano citofoni e vetri divisori durante i colloqui e organizzavano nuove proteste contro i trasferimenti punitivi e i «lager di Stato». Il 13 aprile 1979 i «proletari prigionieri» festeggiarono il decennale della rivolta de Le Nuove rifiutandosi di rientrare in cella dall’«aria» e inneggiando alla «Rivoluzione per una società senza galere». Due giorni dopo avrebbero dovuto prendere in ostaggio tutte le guardie di servizio dei vari reparti ed evadere in massa. Così, perlomeno, riferivano alla direzione le consuete «fonti confidenziali»10. Nelle carceri speciali propriamente dette, la continua vigilanza esterna era l’elemento decisivo contro il quale si infrangevano i piani di fuga dei detenuti differenziati11. Il sistema di sicurezza complessivo mostrava comunque dei notevoli punti deboli e la separazione dei detenuti differenziati dal resto della popolazione reclusa si rivelava in pratica molto relativa. L’incremento numerico dei detenuti differenziati, che passarono dai circa 1000 trasferiti nel luglio 1977 a quasi 3500 alla fine del decennio, comportava un flusso costante tra le carceri ordinarie e quelle di massima sicurezza. Ciò impediva di per sé un ri-

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gido isolamento di queste ultime. Anche più rilevante era poi il flusso contrario, che conduceva quei detenuti nelle case circondariali o nelle case di reclusione per cure o per motivi giudiziari. Da questo punto di vista, la situazione de Le Nuove, pur nella sua peculiarità data dalla rilevanza dei processi che si svolsero a Torino, è rivelatrice dell’instabilità portata dall’arrivo dei detenuti differenziati in tutti i principali stabilimenti penitenziari. L’Amministrazione penitenziaria si servì anche per quel motivo delle «carceri dure» del periodo precedente, come Volterra o Porto Azzurro, come livello intermedio per ospitare i reclusi diretti in città maggiori fino al giorno immediatamente precedente il processo. Dentro gli stessi «speciali» i detenuti mostrarono tra il 1978 e il 1980 di poter aggirare le rigide norme disciplinari imponendo uno stato di conflittualità permanente. Le frequenti perquisizioni straordinarie impegnavano numerose squadre di agenti di custodia ma non potevano che prendere atto della presenza anche in quelle carceri di armi, esplosivo, coltelli e addirittura scimitarre. Alcune dettagliate note del generale Dalla Chiesa indicavano le modalità utilizzate più frequentemente per introdurre quegli oggetti12: durante i trasferimenti da un carcere all’altro erano nascosti nei pacchi viveri e negli indumenti; una volta nel carcere erano accumulati in cunicoli scavati nei muri, nelle intercapedini, nei tubi di scarico dei gabinetti, nei rulli delle macchine da scrivere. Renato Curcio avrebbe successivamente ricordato: «eravamo grandi appassionati di macchinette da caffè Moka [...]: riempite di plastico, con detonatore e miccia, diventavano ordigni di discreta potenza»13. Tra il 1978 e il 1979 l’anello forte del «circuito dei camosci» era rappresentato dalla diramazione Fornelli della casa di reclusione dell’Asinara14. Fu dal 19 al 26 agosto 1978 che i detenuti politici del «kampo di concentramento dell’Asinara» diedero vita a una rivolta prolungata che chiamarono la «settimana rossa». Con la successiva «battaglia dell’Asinara» del 2 ottobre 1979, la sezione Fornelli venne completamente distrutta e le autorità penitenziarie furono costrette a trasferire i «prigionieri» nel nuovo carcere di massima sicurezza di Palmi. Il Comitato di lotta che guidò quelle violente rivolte forniva un nuovo modello organizzativo ai detenuti differenziati15. All’Asinara attraverso di esso i «politici» si erano unificati al di là del-

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l’appartenenza alle differenti organizzazioni clandestine ed erano anche riusciti a coinvolgere i detenuti comuni. Analoghe strutture vennero create anche negli altri istituti di massima sicurezza e furono determinanti nelle mobilitazioni che in quei mesi interessarono il «circuito dei camosci» e le sezioni speciali istituite nelle maggiori case circondariali. Gli obiettivi generali erano quelli legati alla costruzione del «potere rosso» all’interno delle carceri: l’«abolizione del trattamento differenziato per tutti i prigionieri dei campi», l’incremento della «socialità» tra i detenuti, il sabotaggio delle «strutture del Campo per renderle inservibili». I detenuti differenziati lamentavano il disinteresse con cui le loro organizzazioni trattavano la situazione delle carceri. In ambito brigatista quella critica rappresentava di fatto un capitolo dello scontro politico che all’indomani del sequestro Moro si aprì tra il «nucleo storico» delle BR recluso all’Asinara e i nuovi responsabili dell’organizzazione16. Fu proprio il moltiplicarsi delle mobilitazioni all’interno delle carceri a modificare quella situazione. Con gli arresti della primavera del 1980 la crisi del gruppo dirigente esterno delle BR si approfondì. La Direzione strategica dell’ottobre successivo segnò una svolta politica anche rispetto alla questione carceraria17. Del circuito delle carceri speciali si sottolineava ora la funzione di «separare la minoranza per regolamentare la maggioranza»: a un’analisi dettagliata della situazione negli stabilimenti di massima sicurezza, per la prima volta nell’area brigatista veniva affiancata un’approfondita disamina dei problemi del circuito delle carceri ordinarie. Della nuova linea furono esemplari le vicende connesse al sequestro di Giovanni D’Urso, responsabile dell’Ufficio detenuti dell’Amministrazione penitenziaria18. Il Consigliere spiegò dettagliatamente i meccanismi di funzionamento del circuito speciale, nominò i vari magistrati dell’Amministrazione penitenziaria responsabili di essi e rivelò dove si trovavano i vari detenuti. Al sequestro si legò la «battaglia» nel carcere speciale di Trani; alla repressione della stessa, condotta dalle teste di cuoio anche grazie al supporto di elicotteri, i brigatisti risposero con l’uccisione del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, membro dell’Ufficio coordinamento dei servizi di sicurezza delle carceri. La «campagna D’Urso» aprì forti contraddizioni tra le forze

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politiche parlamentari. Come ai tempi del sequestro Moro la divisione era tra i fautori e gli oppositori della trattativa con i brigatisti. Questa volta prevalsero i primi. D’Urso venne liberato il 14 gennaio, mentre i brigatisti ottennero la chiusura dell’Asinara. Salutarono quell’evento come la «saldatura tra [le] lotte del proletariato prigioniero e [l’]iniziativa politico-militare delle Brigate Rosse», ossia il raggiungimento dell’obiettivo che i militanti incarcerati avevano perseguito da almeno tre anni prima19. A ciò seguì un inevitabile spostamento degli equilibri interni a quell’organizzazione, con la riduzione dell’influenza di Moretti e l’ascesa di Giovanni Senzani, responsabile del Fronte carceri che aveva gestito il sequestro e che da tempo si era accreditato come il fautore della valorizzazione del «carcerario» auspicata dal «nucleo storico» brigatista. I componenti di quest’ultimo terminarono nelle settimane del sequestro D’Urso la scrittura de L’albero del peccato, un ampio documento che intendeva analizzare la strutturazione complessiva del sistema penitenziario in rapporto all’evoluzione del «proletariato extralegale»20. Si soffermavano sull’esperienza dei NAP e delle «batterie» di rapinatori delle città settentrionali e gettavano anche uno sguardo su quelle «organizzazioni di massa storicamente consolidatesi» che erano Cosa Nostra e la ’ndrangheta. Della camorra sottolineavano la maggiore autonomia «nei confronti della borghesia e dello stato». Camorristi, pentiti e «irriducibili» La sera del 23 novembre 1980 il terremoto scosse il territorio campano e lucano, causando 2735 morti, circa 9000 feriti e la distruzione di interi centri abitati. Nel carcere di Poggioreale gli agenti aprirono i blindati delle celle per consentire ai detenuti di uscire nei corridoi. Non più divisi in base all’appartenenza ai diversi clan camorristici, i membri della Nuova camorra organizzata (NCO) e della Nuova famiglia (NF) si trovarono a diretto contatto. Michele Casillo, Giuseppe Clemente e Antonio Palmieri vennero uccisi da detenuti affiliati al primo raggruppamento, altri cinque detenuti furono feriti. In occasione della successiva scossa sismica del 14 febbraio 1981 altri tre membri della NF furono giustiziati nei padiglioni del carcere napoletano.

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Altri omicidi si verificarono in seguito. Il 7 luglio 1982 Salvatore Catapano, appartenente alla NCO, simulò un malessere e rinchiuse nell’infermeria gli agenti e il medico accorsi. Armato di pistola, coltello e bisturi si diresse verso la cella di Antonio Vangone, affiliato al gruppo avversario. Lo sgozzò nel corridoio, poi ne trascinò il corpo sanguinante su per una breve rampa di scale, fino a raggiungere un vano appartato. Lì lo decapitò, sezionò il torace e raggiuntone il cuore, lo baciò come richiedeva il macabro rituale. Infine, sceso al piano inferiore, dopo una lunga trattativa liberò lentamente tutti i sequestrati. Si guadagnò il soprannome di «boia delle carceri». Del resto, quella non fu l’unica esecuzione che portò a termine in quei mesi. Poi venne il tempo delle sparatorie. Fu nell’ottobre successivo. Nel carcere napoletano c’erano micce nelle cinture degli accappatoi, esplosivo nascosto nei soffitti, altre micce, pistole e mitragliette nelle pareti. Il 5 del mese dal padiglione Livorno alcuni membri della NF mirarono a un gruppo di cutoliani che rientravano dai colloqui attraversando un cortile. Il 27 una serie di colpi di mitra venne indirizzata verso il padiglione Salerno. Subito dopo un centinaio di agenti con passamontagna, caschi, cani poliziotto, manganelli e mitra entrarono in due padiglioni. Tutti i detenuti furono estratti a forza dalle celle, denudati, perquisiti e sotto la minaccia delle armi accompagnati con calci, pugni e manganellate verso le «comprese», le celle di isolamento nei sotterranei. Nudi e senza cibo né acqua, furono abbandonati lì per tre giorni e tre notti, mentre le loro celle venivano completamente distrutte. L’Amministrazione penitenziaria riprendeva così il controllo del carcere con la violenza. Tra il 1979 e il 1983 la «guerra di camorra» tra NCO e NF provocò complessivamente 900 omicidi nella sola Campania. Poggioreale era in quel periodo per entrambi i raggruppamenti «il vero centro direzionale di ogni attività delittuosa, il migliore centro di raccolta e di consolidamento dei vari consorzi criminosi»21. Lì si reclutavano i killer, da lì si gestivano gli affari, gli appalti, si regolavano i conti. Una situazione simile si verificava anche in altre carceri campane e in quelle in cui erano reclusi i boss dell’organizzazione. Dopo l’evasione dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa del 1978 e l’arresto dell’anno successivo, era dall’inter-

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no del carcere speciale di Ascoli Piceno che Raffaele Cutolo guidava la NCO che aveva fondato nel 1970. La sua forza e la pervasività dei suoi rapporti con il mondo istituzionale ed imprenditoriale furono mostrate dalla vicenda del sequestro da parte delle Brigate Rosse di Ciro Cirillo, ex presidente della Giunta regionale campana, assessore regionale all’urbanistica e presidente del Comitato per la ricostruzione post-terremoto. L’esponente democristiano fu sequestrato il 27 aprile 1981 e liberato il 24 luglio successivo a seguito di un’intensa trattativa che ebbe il suo fulcro in quello che un brigatista definì il «compare compagno Cutolo»22. Dalla cella del boss di Ottaviano passarono esponenti di spicco della stessa NCO, agenti dei servizi segreti, politici democristiani, funzionari dell’Amministrazione penitenziaria. Nella sezione in cui Cutolo era recluso furono appositamente «appoggiati» i brigatisti Sante Notarnicola, Luigi Bosso ed Emanuele Attimonelli, successivamente trasferiti nel carcere di Palmi per riferire gli esiti degli incontri al gruppo dirigente brigatista lì concentrato. Imprenditori legati alla NCO funsero da tramite per il pagamento del riscatto, risultando in seguito tra gli assegnatari degli appalti per la ricostruzione. Nel complesso, oltre 50.000 miliardi di lire piovvero sui 687 comuni colpiti dal sisma, gestiti senza alcun controllo da parte delle autorità pubbliche. L’affare della ricostruzione produsse una «svolta nell’evoluzione del fenomeno camorristico»23, fornendo ai clan una possibilità di accumulazione di capitali e di potere senza precedenti attraverso il sistematico sviamento del denaro pubblico. In termini complessivi, l’«affare Cirillo» e i contemporanei fatti di Poggioreale evidenziarono il passaggio dall’«emergenza terrorismo» all’«emergenza criminalità organizzata» che avrebbe segnato i due decenni successivi. La coincidenza di persone, metodi e luoghi in alcuni eventi fortemente simbolici accentuava la sensazione di quel passaggio in atto. Il 30 aprile 1982 il generale Dalla Chiesa si trasferiva a un’Antimafia riorganizzata sul modello dei nuclei Antiterrorismo, con la creazione di pool specializzati di magistrati e forze dell’ordine, l’uso di «pentiti» e l’attenzione al collegamento tra singoli crimini. Da Cosa Nostra Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso a Palermo il 3 settembre successivo.

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Nell’aprile 1982, intanto, su insistenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini, Raffaele Cutolo era stato trasferito dallo «speciale» di Ascoli a quello dell’Asinara, solo pochi anni prima simbolo delle lotte dei detenuti politici. Quelle vicende evidenziavano anche l’inizio del «crepuscolo delle BR»24. Con l’«affare Cirillo» le BR avevano ottenuto quel riconoscimento politico da parte dello Stato che era stato loro negato durante il sequestro Moro ma che già si era avuto con il sequestro D’Urso. La lunga trattativa, tuttavia, aveva manifestato il carattere idealistico del disegno brigatista di fare riferimento alla composizione sociale proletaria della camorra proprio nel momento in cui la strategia cutoliana era riuscita a unificare gran parte delle famiglie camorriste. Cutolo aveva costruito un esercito che nel 1980 contava 7000 affiliati25, imponendo ritualità e meccanismi gerarchici interni e creando le condizioni per sistematiche collusioni con settori rilevanti dello Stato che non erano certo estranee anche agli oppositori della NCO. Il sequestro Cirillo, ideato per denunciare il sistema di potere che si muoveva dietro la ricostruzione post-sismica, aveva finito per rafforzare quei meccanismi clientelari. Le organizzazioni clandestine scontavano del resto ormai anche pesanti limiti interni. Già dal 1981 le loro «campagne» erano «una semplice ostentazione di forza militare sullo sfondo di una debolezza politica ormai palese»26. La lunga agonia del «partito armato» si protrasse per tutti gli anni Ottanta in un contesto di crescente isolamento rispetto alle trasformazioni sociali in corso e sullo sfondo di forti frammentazioni interne. Mentre Prima Linea diveniva Polo Organizzato e alcuni suoi militanti rimasti liberi si dedicavano ormai in modo esclusivo alla «liberazione dei proletari prigionieri»27, le BR si frammentavano nella Walter Alasia, nel Partito comunista combattente (PCC) e nel Partito guerriglia (PG), quest’ultimo derivato dall’autonomizzazione del «Fronte carceri» guidato da Senzani. A ciò si aggiunse il salto di qualità compiuto dalla repressione a partire dal gennaio 1982, dopo la liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle BR-PCC nel dicembre precedente. Fu una stretta repressiva che si sviluppò – come ha scritto Giorgio Galli – «in un quadro di corrosione delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto»28. L’uso della tortura,

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negato ripetutamente dal ministro dell’Interno Rognoni, appare infatti provato dalle denunce provenienti da quanti furono sottoposti ad esse, confermate anche da fonti interne alla polizia29. Nel caso meglio documentato, quello di Cesare Di Lenardo, uno dei sequestratori del generale statunitense, si trattò di giorni di sevizie prima del trasferimento in carcere, di acqua e sale fatta ingoiare in grande quantità, di colpi ripetuti sotto la pianta dei piedi, finte fucilazioni, calci e scosse elettriche ai testicoli, con il brigatista costretto a rimanere sempre bendato e legato. La tortura non entrò invece nelle carceri, dove la repressione antiterroristica passò attraverso meccanismi diversi30. La strategia della differenziazione si dimostrò in quel contesto lo strumento decisivo nelle mani delle autorità politiche e carcerarie. Una minuziosa gradazione fu introdotta all’interno dello stesso sistema delle carceri di massima sicurezza31. Vi era l’istituto penitenziario di Palmi per soli detenuti politici e quello di Ascoli Piceno per soli detenuti comuni «pericolosi»; quello di Fossombrone era un istituto meno rigido del carcere speciale di Pianosa e soprattutto di quello di Badu ’e Carros a Nuoro, che dopo la temporanea chiusura dell’Asinara nel 1981 era divenuto il punto di massima repressione nel circuito. Lì i detenuti erano posti in condizione di completo isolamento, le porte e gli spioncini restavano sempre chiusi, tavoli e sgabelli in ferro erano fissati al pavimento, la televisione era attiva dalle 13 alle 23, la luce restava accesa dalle 17 alle 24; gli agenti portavano costantemente con sé i manganelli e vi erano idranti installati sopra i cortili del passeggio, dove i reclusi scendevano in numero massimo di sei per volta e per non più di due ore al giorno. Era quello il regime detentivo derivato dall’applicazione dell’art. 90 dell’Ordinamento penitenziario del 1975, che previde dal 1° gennaio 1983 la sospensione per motivi di sicurezza delle norme relative alla corrispondenza postale e telefonica, alla ricezione di generi alimentari e altri oggetti provenienti dall’esterno, alla partecipazione dei detenuti alle commissioni di controllo sul vitto e sulle attività culturali e sportive32. Alla data della sua prima emanazione, quel provvedimento riguardava 1140 detenuti, di cui 690 politici, 221 reclusi per motivi comuni, 205 appartenenti alla camorra e 24 a Cosa Nostra. Oltre a Badu ’e Carros esso fu applicato almeno fino all’ottobre 1984 all’interno di quelli che i de-

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tenuti differenziati chiamarono «braccetti della morte», ossia le sezioni speciali nelle carceri di Ariano Irpino, Foggia e Torino. «Ogni rottura del Noi proletario è solo tradimento, con ben poche spiegazioni: starà poi solo al movimento rivoluzionario decidere se usare o meno magnanimità»33. Così scrissero in un documento dell’ottobre 1982 alcuni detenuti appartenenti al Partito guerriglia reclusi nello «speciale» di Ascoli Piceno. La «legge Cossiga» del 6 febbraio 1980, voluta personalmente da Dalla Chiesa, permetteva ai militanti che collaboravano con le forze dell’ordine e la magistratura di accedere a significativi «sconti di pena». Già nel febbraio 1980 Patrizio Peci, membro della Direzione strategica brigatista recluso nella sezione speciale del carcere di Cuneo, iniziò a collaborare rivelando nomi, struttura organizzativa, storia e prospettive delle BR34. Il fenomeno del «pentitismo» portò tra le fila del «partito armato» quella che i detenuti politici definivano «desolidarizzazione». Le informazioni fornite dai «pentiti» mettevano a rischio la tenuta stessa delle organizzazioni clandestine. Gli arresti si moltiplicavano, molti covi venivano scoperti; all’interno delle carceri cresceva un clima di sospetto che coinvolgeva tutto e tutti. Per affrontare quella situazione era necessario, secondo molti detenuti differenziati, un sistematico lavoro di «deratizzazione»35. A partire dal 1981-82 settori consistenti di detenuti di varie organizzazioni si dedicarono ad una capillare schedatura di altri detenuti politici. Di fronte a essa si moltiplicarono gli atti di «autocritica» da parte di reclusi che avevano collaborato con le autorità giudiziarie o di polizia. Non sempre comunque l’«autocritica» era ritenuta sufficiente. All’esterno il Partito guerriglia sequestrò «l’infame Roberto Peci» e ne filmò l’esecuzione, avvenuta a Roma il 3 agosto 1981. Nelle carceri alcuni tra i «soggetti che si fanno strumenti del potere» furono feriti o uccisi36. È il caso di Giorgio Soldati, militante di Prima Linea con il nome di battaglia «Tommy»: pentito di essersi pentito, si sottopose volontariamente al «processo» condotto dai compagni reclusi nel carcere speciale di Cuneo e lì fu ucciso da militanti di diverse formazioni armate nel camerone comune, durante l’ora d’aria pomeridiana del 10 dicembre 1981. La stessa sorte toccò a Ennio Di Rocco, «Riccardo», brigatista pas-

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sato nelle fila del Partito guerriglia. Nell’ambito della «campagna contro i traditori» fu ucciso nel passeggio del carcere di Trani il 3 gennaio successivo. Con la sua morte si aprì un lungo e travagliato dibattito tra i detenuti politici attorno a quelle pratiche, anche in considerazione del fatto che spesso le informazioni erano fornite alle forze di Pubblica Sicurezza a seguito di torture o di pesanti interrogatori. «Ci siamo mossi perché in sostanza ci eravamo rotti [...] della situazione di qui, che poi rifletteva una condizione più generale di immobilismo e ghettizzazione. Da una parte la logica della deterrenza del Ministero [...] Dall’altra una sorta di ‘irriducibilismo’ tutto ideologico e parolaio che invece di fondarsi su un antagonismo reale si riduce alla difesa ad oltranza di ‘principi’»37. Era il 15 gennaio 1984, lo sciopero della fame di sei detenuti della sezione speciale di Badu ’e Carros iniziato il 7 dicembre si era concluso da pochi giorni. Lo sciopero della fame: una forma di lotta comune nelle mobilitazioni dei detenuti politici francesi e dei prigionieri repubblicani nord-irlandesi; praticata in Italia dalla Lega non violenta dei detenuti, mai prima di allora da militanti di organizzazioni clandestine. Gli scioperanti erano figure di spicco delle BR e tra loro c’era anche uno dei fondatori di quella organizzazione, Alberto Franceschini. Lottavano contro le condizioni di detenzione imposte dall’applicazione dell’art. 90 e contro i «braccetti della morte» e lo facevano al di fuori degli schemi ideologici della propria organizzazione. Dall’interno di quello stesso carcere di Nuoro, gli «irriducibili» delle BR-PCC li bollarono come «compagni che hanno svenduto allo Stato la loro identità di comunisti combattenti [...] abbandonando il punto di vista proletario e sposando l’individualismo più assoluto»38. Per quelle ragioni – dicevano – essi non appartenevano più alle BR e si erano collocati «fuori anche del movimento rivoluzionario e della classe». Da parte loro, i sei scioperanti sostenevano di «guardare con diffidenza» alle pratiche di «dissociazione» dalla lotta armata che si andavano nel frattempo affermando, ma non sembravano più neppure interessati a rispondere sul piano ideologico a quelle affermazioni dei loro compagni. «La politica – scrissero – veramente non ci interessa più, quindi neanche il confronto con lo Stato

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su problematiche o programmi generali». Premeva loro soltanto di «partire dalle questioni concrete, dalle esigenze di vita che sentiamo in noi e intorno a noi»39. Le due dissociazioni e la «legge Gozzini» «Oggi, nelle carceri italiane, all’interno di quella ampia fascia di compagni che si colloca tra le due rumorose polarità costituite da ‘combattenti’ e ‘pentiti’, esistono diverse posizioni o tendenze che spesso preferiscono la sordina, il pianissimo, insomma forme di comunicazione sottovoce. Tutti coloro che esprimono queste posizioni, tuttavia, sanno con certezza qual è il problema centrale: è la ricerca di una soluzione politica alla questione delle migliaia di compagni oggi detenuti, latitanti, esiliati o in libertà provvisoria».40 Iniziava così il «documento dei 51» nell’agosto 1982. Proveniva dal carcere di Rebibbia ed era firmato da esponenti dell’area dell’Autonomia Operaia, di organizzazioni come le Unità comuniste combattenti (UCC) e di altri gruppi minori. Con loro firmarono Valerio Morucci e Adriana Faranda, «fuoriusciti» delle Brigate Rosse. Il documento ebbe un effetto dirompente, per quanto il terreno fosse stato preparato da un ampio dibattito sulla «dissociazione» dalla lotta armata sviluppatosi tra il marzo e il dicembre 1981 sulle pagine del quotidiano «il manifesto»41. Quei detenuti politici riconoscevano senza mezzi termini la «radicale e definitiva» divaricazione tra movimenti sociali e lotta armata e rilanciavano un percorso di rivendicazione politica al di fuori della contrapposizione pentiti/irriducibili, a loro dire alimentata dallo Stato stesso. Sottolineavano la necessità di produrre una «cultura della depenalizzazione» che superasse sia in ambito giudiziario che carcerario la stagione della «emergenza». Puntavano quindi il dito contro l’applicazione dell’art. 90 dell’Ordinamento penitenziario e contro le norme della legislazione «speciale» che avevano portato l’estensione della carcerazione preventiva, i «mandati di cattura ciclostilati sulla parola dei pentiti», la prassi dell’attribuzione dell’onere della prova agli imputati, l’«estensione illimitata del reato di ‘banda armata’».

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Con la loro presa di posizione, essi favorirono l’apertura di un dibattito nella sinistra sulla questione del superamento della fase dell’emergenza. D’altra parte, la loro «dissociazione» aveva un tratto peculiare e debole, legato alle loro specifiche vicende processuali. Nella maggior parte dei casi essi si dissociavano da una pratica della lotta armata che non aveva mai fatto parte della loro esperienza di militanza. Era il caso soprattutto degli imputati nel processo «7 aprile», militanti dell’area dell’Autonomia Operaia che avevano praticato la violenza di massa nel corso di cortei e mobilitazioni, ma che non avevano mai né teorizzato né praticato la lotta armata clandestina. Il teorema accusatorio del procuratore della Repubblica di Padova, Pietro Calogero, era stato invece centrato sulla loro internità rispetto alle organizzazioni clandestine, fino al punto di considerare Toni Negri il «telefonista delle BR», direttamente coinvolto nel sequestro Moro. Le specifiche vicende processuali dei firmatari dell’appello sottolineavano con chiarezza la distorsione prodotta dall’«emergenza», ma lasciavano politicamente sullo sfondo la questione della loro «dissociazione». Si parlò a questo proposito di «dissociazione degli innocenti»42. La «dissociazione dei colpevoli» conobbe tempi e modalità diversi. I suoi protagonisti furono principalmente esponenti di Prima Linea, che tra l’ottobre 1982 e il giugno 1984 diedero vita ad un percorso collettivo di superamento della loro precedente esperienza della lotta armata. Durante i processi che si tenevano contro di loro, mentre in aula i giudici li condannavano applicando alcune delle più caratteristiche misure dell’emergenza, nelle gabbie dei tribunali e nelle sezioni delle carceri dove erano reclusi essi portavano avanti un ampio dibattito sul futuro della propria organizzazione. Il passaggio decisivo avvenne nel corso del processo di Torino, tra l’estate e il dicembre del 1983, facilitato dalle condizioni detentive relativamente meno rigide che trovarono nel nuovo carcere de Le Vallette. Situazione paradossale visto che il 24 dicembre 1977 essi stessi avevano occupato il cantiere di quell’istituto penitenziario, asportato i progetti edilizi e le planimetrie e minato gli edifici con quasi 100 chili di esplosivo. Dentro le mura di quel carcere sancivano ora lo scioglimento del gruppo nel corso di un’ultima Conferenza interna d’Organizzazione. A seguito di essa, nel

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giugno 1983, redassero il manifesto della loro dissociazione dalla lotta armata, un documento intitolato «Sarà che avete nella testa un maledetto muro»43. «Noi quindi riteniamo oggi delegittimata socialmente la pratica di lotta armata per il comunismo in Italia» – scrissero44. Chiedevano la depenalizzazione dei reati associativi, l’abrogazione dell’articolo 90 e della carcerazione speciale in genere. Per quegli obiettivi, nel marzo 1984 condussero un lungo sciopero della fame nel carcere di San Vittore. Ma il dato politico principale era un altro. Essi collocavano la loro «desistenza» dalla lotta armata dentro una rilettura complessiva del ciclo di lotta 1968-1983, considerato come una fase storica ormai chiusa e non ripetibile. Non rinunciavano ad un progetto di trasformazione sociale e politica, ma affermavano che esso doveva procedere al di fuori della pratica della lotta armata e degli schemi interpretativi che erano stati propri della sinistra nel corso del Novecento, innanzitutto in rapporto alla concezione della violenza politica. Settori consistenti della magistratura reagirono negativamente alla proposta politica dei dissociati. Nel maggio 1984 fu reso pubblico dal quotidiano «il manifesto» il documento di un gruppo di trentasei magistrati che si opponevano a qualunque ipotesi di apertura verso i terroristi, riproponendo la logica della legislazione speciale, dell’art. 90 e del pentitismo contro ogni forma di «abbassamento della guardia»45. L’Amministrazione penitenziaria favorì invece lo svilupparsi del fenomeno dissociativo e si dotò a questo fine di una strategia flessibile. Ne fu protagonista il direttore generale dell’epoca, Nicolò Amato, che pochi anni prima, da pubblico ministero nel primo processo Moro, aveva ottenuto pesanti condanne contro diversi militanti di organizzazioni clandestine. Dopo la fase della lotta «durissima e implacabile» contro il terrorismo, era venuto adesso il momento di avviare «una fase di pacificazione sociale, attraverso il recupero di tutti coloro che concretamente dimostrino di voler rientrare nel sistema ed accettarne le leggi»46. La dissociazione costituiva il punto centrale di quella strategia; il suo strumento furono le cosiddette «aree omogenee», ossia le sezioni in cui i dissociati cominciarono ad essere concentrati a partire dalla fine del 198347. Ne esisteva di fatto già una a Rebibbia dall’anno precedente, nella quale erano reclusi in prevalenza espo-

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nenti dell’area dell’Autonomia Operaia. Con una circolare del 3 agosto 1983 il responsabile dell’Amministrazione penitenziaria formalizzò l’istituzione delle «aree omogenee», motivandola con la necessità di «favorire e sviluppare processi di superamento dall’interno delle esperienze del terrorismo». Ne furono create quattro, nelle nuove carceri di Torino-Le Vallette, Roma-Rebibbia, Bergamo e Firenze-Sollicciano. Rappresentarono un ulteriore livello di differenziazione all’interno del circuito «speciale». Nelle «aree omogenee» il regime detentivo era opposto a quello delle sezioni in cui era applicato l’art. 90. Lì le autorità penitenziarie imponevano l’isolamento, qui facilitavano la «socialità» dei detenuti con sale comuni e celle aperte. Lì i detenuti venivano differenziati in base all’organizzazione di appartenenza, qui si mescolavano militanti di vari gruppi, anche della destra neofascista, per quanto quelli di Prima Linea rimasero a lungo in maggioranza. Nelle carceri di massima sicurezza vigeva una rigida separazione dall’esterno, simboleggiata dai vetri antiproiettile dei colloqui; nelle «aree omogenee» veniva favorito il confronto politico dei detenuti con l’esterno48. Alle frequenti visite di Nicolò Amato e degli altri funzionari penitenziari si aggiunsero presto i contatti con politici radicali come Franco Corleone e Adelaide Aglietta, con Marco Boato dei Verdi, con esponenti della sinistra garantista come Mauro Palma e Giuseppe Bronzini. Ripetuti incontri si svolsero con personalità di rilievo del mondo universitario e un ruolo centrale nella ricucitura del legame tra dissociati e società civile lo ebbero anche alcuni rappresentanti degli Enti locali e una parte del mondo cattolico. A Torino e a Firenze entrarono sistematicamente in carcere e mantennero una fitta corrispondenza con i dissociati alcuni esponenti del gruppo Nuova Corsia di Milano, del Gruppo Abele di Torino, dell’attivo mondo cattolico fiorentino che ruotava attorno a padre Ernesto Balducci alla Badia Fiesolana. A quest’ultimo facevano riferimento anche il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Alessandro Margara, il presidente del Tribunale minorile Gian Paolo Meucci, lo psichiatra protagonista della chiusura del manicomio locale, Carmelo Pellicanò, e il senatore della sinistra indipendente Mario Gozzini. Da quelle relazioni scaturirono collaborazioni con riviste, sorsero cooperative sociali e associazioni di volontariato. Su quella

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base, già alla fine degli anni Ottanta, alcuni dissociati ebbero accesso al beneficio del lavoro all’esterno e successivamente alla semilibertà. Fu la «legge sulla dissociazione» a consentirlo, annullando di fatto per i dissociati gli effetti giuridici della logica dell’emergenza, permettendo il loro accesso a permessi e misure alternative alla detenzione. Ne avrebbero beneficiato complessivamente 3013 persone49. Per volontà dei politici e degli stessi dissociati, quel provvedimento giunse comunque solo nel febbraio 1987, cioè dopo l’approvazione della legge 663 che si occupava dell’insieme della popolazione detenuta. I dissociati ebbero un ruolo significativo nella genesi della cosiddetta «legge Gozzini»50. Il disegno di legge originario, elaborato nel gennaio 1983 da Gozzini e Margara, prevedeva infatti un intervento legislativo assai limitato, il cui scopo era quello di «disciplinare la massima sicurezza», abrogando l’art. 90 dell’Ordinamento penitenziario e sottoponendo il regime della carcerazione speciale al periodico riesame in Parlamento e a più puntuali controlli da parte della magistratura. L’articolato della legge crebbe invece negli anni proprio in virtù del processo innescato dai detenuti delle «aree omogenee». Come riconobbe lo stesso Gozzini, essi spinsero «Governo e Parlamento a riprendere in positivo il problema penitenziario»51. Nel maggio 1985 le condizioni politiche sembrarono mature per procedere alla revisione dell’intero Ordinamento penitenziario. Il ministro Martinazzoli rinunciò a presentare un disegno di legge governativo, impegnandosi invece per il progressivo ampliamento del testo del senatore della sinistra indipendente. L’iter parlamentare questa volta fu celere. L’aula del Senato approvò il testo già il 5 giugno 1986, quella della Camera licenziò la nuova legge il 10 ottobre successivo. Il provvedimento rappresentò «una vera e propria riforma»52 e testimoniò quello che Gozzini definì il «trapasso di cultura» in corso in ambito penitenziario. Se a livello formale il testo modificava la legge 354 del 1975, esso superava le aperture in fondo timide di quella prima riforma. Previde l’estensione dell’affidamento in prova al servizio sociale a tutti i condannati a pene detentive fino a tre anni, eliminando anche le precedenti limitazioni relative ad alcuni reati. Diede facoltà al magistrato di disporre l’af-

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fidamento al servizio sociale anche senza una fase di osservazione in carcere. Analoga estensione riguardò la semilibertà, alla quale si poté accedere dopo aver scontato metà della condanna o, nel caso degli ergastolani, dopo venti anni di reclusione. La nuova legge ampliò anche la possibilità di beneficiare del lavoro esterno, introdusse la nuova misura alternativa della «detenzione domiciliare», rese più favorevole la liberazione anticipata e soprattutto istituì i «permessi premio» per i condannati di «regolare condotta». Quest’ultima rappresentava una novità particolarmente significativa, consentendo al detenuto di coltivare i propri rapporti affettivi nello stesso tempo in cui forniva alle autorità penitenziarie e alla magistratura di sorveglianza uno strumento di verifica circa la possibilità di ammettere il condannato ad un percorso di progressiva uscita dal carcere. Il ruolo dei dissociati nell’origine della «legge Gozzini» fu quindi notevole. La riforma penitenziaria del 1986, tuttavia, non è «nata nelle aree omogenee»53. Dai dissociati veniva una critica complessiva al carcere in quanto istituzione totale, interna ad un progetto di decarcerizzazione. Non erano i soli a sostenere quelle posizioni. Dal 30 novembre al 2 dicembre 1984 si tenne a Parma un convegno intitolato «Liberarsi dalla necessità del carcere»54. Vi parteciparono centinaia tra parlamentari e membri di giunte e consigli comunali, attivisti di collettivi e associazioni, esponenti di Psichiatria democratica, magistrati, operatori penitenziari, sociali e sanitari, cappellani penitenziari. Il discorso lì fu apertamente abolizionista. Si intendeva ripercorrere in ambito carcerario il processo di de-istituzionalizzazione che nei due decenni precedenti aveva caratterizzato l’ambito della salute mentale. In termini concreti, veniva indicata una strategia che avrebbe dovuto portare alla chiusura degli istituti carcerari minorili e degli ospedali psichiatrici giudiziari per poi estendersi agli altri ambiti del sistema penitenziario e penale. La «legge Gozzini» recepì quel clima culturale, quella istanza profonda di cambiamento, ma non fece proprio il contenuto deistituzionalizzante di quei movimenti. La prospettiva culturale e politica del superamento del carcere poteva interessare in termini teorici alcuni degli autori della nuova legge, ma il provvedimento tendeva alla modernizzazione dell’istituzione penitenziaria

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più che a una prospettiva di decarcerizzazione55. Da quel punto di vista esso si poneva in continuità con la logica di differenziazione della popolazione detenuta e delle strutture che era stata al centro del dibattito giuridico e penitenziario sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Era in linea con il dibattito degli anni Sessanta sul trattamento clinico, con le innovazioni introdotte dalla legge del 1975, con la strategia differenziata teorizzata dall’Amministrazione penitenziaria nel 1974 e concretizzatasi nella creazione delle carceri di massima sicurezza e nella successiva definizione di regimi detentivi diversificati all’interno dello stesso «circuito dei camosci». La «legge Gozzini» formalizzava l’esistenza di due circuiti distinti. Da un lato c’era l’area della detenzione «ordinaria», per la quale valeva il principio rieducativo e i percorsi di uscita dall’istituzione attraverso le misure alternative. Dall’altro stava il circuito della carcerazione «speciale», caratterizzato da una consistente attenuazione dei diritti e delle possibilità di reinserimento sociale. Esso fu ristrutturato dalla riforma del 1986, che sostituì all’art. 90 il nuovo art. 41-bis e introdusse il «regime di sorveglianza speciale» per i condannati o imputati «che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l’ordine negli istituti o con violenza o minaccia impediscono le attività degli altri»56. Mentre l’Amministrazione penitenziaria poteva così gestire l’insieme dei detenuti attraverso una serie di circuiti differenziati, i reclusi erano portati dalla stessa «legge Gozzini» a vivere la detenzione ciascuno per conto suo, in modo da non compromettere le proprie chance di accesso ai permessi premio, alla liberazione anticipata, alla semilibertà, all’affidamento al servizio sociale57. Erano le due facce della modernizzazione penitenziaria: da un lato la razionalizzazione degli assetti istituzionali, dall’altro il carattere «premiale» dei benefici goduti da ciascun detenuto. «Il clima generale del sistema penitenziario è profondamente cambiato: violenze e rivolte sono pressoché scomparse» – osservò Gozzini58. Già tra il 1985 e il 1986 il numero degli evasi scese da 117 a 72, l’anno successivo raggiunse quota 60, nel 1988 si fermò a 49. Anche dove si verificarono ancora episodi di proteste, si ebbe la prova dell’efficacia della nuova strategia di governo delle carceri. Il 25 agosto 1987 cinque detenuti del penitenziario di Porto

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Azzurro tentarono di evadere. Erano armati e li guidava Mario Tuti, condannato per la strage del treno Italicus avvenuta tredici anni prima. Presero in ostaggio due agenti di custodia, poi, fallito il tentativo di una fuga lampo, si asserragliarono nell’infermeria sequestrando altre trentaquattro persone, tra le quali il direttore del carcere. Due degli ostaggi furono legati alle sbarre delle finestre, i loro indumenti cosparsi di liquido infiammabile. I sequestratori chiesero un elicottero per allontanarsi dal carcere insieme a due ostaggi. L’intera vicenda durò otto giorni, al termine dei quali i detenuti non riuscirono comunque nel loro intento. Tra l’altro, nessuno dei detenuti del carcere li aveva appoggiati. Mario Gozzini avrebbe commentato alcuni anni più tardi: Porto Azzurro è l’eccezione che conferma la regola: l’ordinamento servì efficacemente sia a far schierare fin dal primo momento la massa dei detenuti dalla parte dello Stato contro i sequestratori sia a risolvere la drammatica situazione in modo non violento, senza una goccia di sangue né degli ostaggi né di Tuti e compagni. Nel 1974, quando il nuovo ordinamento non c’era ancora, nel carcere di Alessandria una rivolta di proporzioni assai più ridotte si concluse con morti e feriti. Spargimento di sangue si ebbe anche in rivolte successive, da Trani a Nuoro, quando non c’era ancora la legge del 1986 [...] Il fatto è che ora ognuno ha qualcosa da perdere: anche gli ergastolani, se commettono delitti in carcere, sanno che annullano certe possibilità, altrimenti aperte. L’ordinamento è uno strumento di governo che agevola il mantenimento dell’ordine e della sicurezza59.

La «Gozzini» aveva riscritto le regole del gioco penitenziario. I detenuti se ne resero conto e, nella maggioranza dei casi, adeguarono a esse i propri comportamenti60. Del resto, li spingevano in quella direzione anche altre trasformazioni di più lungo periodo, di cui la nuova legge era insieme causa ed effetto.

Il nuovo che avanza La contestazione e l’«emergenza terrorismo» avevano mutato profondamente il sistema penitenziario italiano. La riforma del 1975 aveva già enunciato alcuni punti chiave di quella «moder-

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nizzazione», ma la sua applicazione era rimasta sostanzialmente sospesa negli «anni di piombo». Ora la «legge Gozzini» riprendeva quei principi, rifletteva i cambiamenti avutisi anche negli anni successivi e, contemporaneamente, favoriva un loro ulteriore sviluppo. Al termine della fase 1968-1986 il carcere «morale» non esisteva più61. Gradualmente le suore guardiane lasciarono le carceri femminili, complice anche il calo delle vocazioni. Furono sostituite dalle vigilatrici, poi dalle agenti della Polizia Penitenziaria. Mutavano le persone, mutava l’approccio al carcere. Dal rapporto di tipo «familiare» delle religiose si passava a una relazione più simile a quella presente tra personale di custodia e detenuti negli istituti maschili. Questi ultimi, a loro volta, erano attraversati da un profondo cambiamento. La riforma del 1975 introdusse e la «legge Gozzini» rafforzò l’immissione nel sistema penitenziario dei «tecnici del trattamento»62. Non erano più singoli operatori sociali impegnati in programmi sperimentali, come era avvenuto nei primi anni Sessanta e all’inizio del decennio successivo. Anche se organici e strutture risultarono sempre largamente insufficienti, l’Ordinamento penitenziario poneva ora formalmente quelle figure professionali sullo stesso piano del personale di custodia e prevedeva per ciascun Centro di servizio sociale una direzione autonoma da quella carceraria. Nelle carceri, gli educatori sostituirono i cappellani cattolici nell’organizzazione delle attività ricreative e nel coordinamento di quelle scolastiche e lavorative. I cappellani rimasero negli istituti di pena ma in posizione ben più marginale che in passato. Marginale sarebbe stato da allora del resto anche il ruolo della religione, in precedenza uno dei tre «pilastri» del trattamento penitenziario. Le attività ricreative, lavorative e scolastiche erano inserite adesso all’interno di un percorso rieducativo. Insieme alla «buona condotta», costituivano il primo passaggio attraverso il quale poteva essere osservata la personalità di ciascun detenuto. Le tappe successive erano rappresentate da permessi premio, lavoro esterno, semilibertà e affidamento ai servizi sociali. A decidere sull’opportunità della concessione di quei benefici era chiamata, per ciascun detenuto, la magistratura di sorveglianza. Alle spalle

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di quel giudizio stavano i colloqui con psicologi, educatori e assistenti sociali, le «indagini sociali», i «rapporti di sintesi». All’iniziativa personale di cappellani, marescialli e direttori si sostituirono così le riunioni settimanali di équipe composte dagli operatori trattamentali dell’Amministrazione penitenziaria, da rappresentanti della direzione e del personale di custodia ed eventualmente da psichiatri, criminologi, insegnanti e volontari. Erano le riunioni dei Gruppi di osservazione e trattamento (GOT) di cui le circolari dell’Amministrazione penitenziaria cominciarono a trattare in maniera sistematica63. Un’altra rilevante trasformazione accompagnò l’ingresso del personale trattamentale nel sistema penitenziario, indotta dalla nuova legislazione benché non esplicitamente prevista da essa. Educatori e assistenti sociali erano in larga maggioranza donne. Dall’ambiente carcerario, tradizionalmente maschile, furono accolte inizialmente con curiosità e imbarazzo, quando non con diffidenza. Per conquistarsi un riconoscimento dovettero faticare molto, anche per lo statuto debole che circondava in generale le professioni sociali. Il loro ingresso diede comunque un notevole segnale di discontinuità con il passato, ricollegandosi al più ampio processo di apertura del sistema penitenziario alla società esterna. Il processo di modernizzazione fu completato a livello formale dalla legge n. 395 del 15 dicembre 1990 e dai «decreti delegati» e dalle circolari a essa relativi, emanati da Nicolò Amato nei due anni successivi64. Si trattò a tutti gli effetti di una «riforma dell’Amministrazione penitenziaria», intesa come struttura istituzionale. La Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena divenne il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) e con quei provvedimenti vennero affrontati due dei problemi rimasti irrisolti sin dal dopoguerra: la questione del personale di custodia e quella del personale direttivo. La riforma nacque con l’intento di modificare l’assetto del Corpo degli agenti di custodia. Questo fu trasformato nel Corpo della polizia penitenziaria, che venne smilitarizzato ed equiparato sia a livello gerarchico che nel trattamento economico alle altre forze di polizia. Non venne trasformata la struttura gerarchica, ma vi furono agenti, assistenti, sovrintendenti e ispettori capo dove in precedenza vi erano guardie, appuntati, brigadieri e marescialli.

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A livello politico, si voleva in quel modo contribuire a trasformare l’immagine che il Corpo aveva nella società e dare a esso un riconoscimento per il ruolo svolto negli anni dell’«emergenza terrorismo»65. In quella stessa ottica, ai poliziotti penitenziari furono riconosciuti i diritti sindacali ed essi si videro assegnare il compito delle traduzioni e dei piantonamenti precedentemente svolto da appositi nuclei dei carabinieri. Una particolare enfasi fu posta sulla formazione e l’aggiornamento: nell’arco di quindici anni alle due scuole originarie di Portici e di Cairo Montenotte e a quelle, aperte negli anni Ottanta, di Parma e di Monastir, si sarebbero aggiunte le strutture di Sulmona, Roma, Verbania, Aversa e San Pietro in Clarenza. Infine, crebbero in maniera sensibile anche gli organici, già ampliati nel corso degli anni Ottanta: la legge istitutiva del nuovo Corpo previde il passaggio da 35.299 a 40.020 unità nel periodo 1990-1995. Il nuovo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non era più una «direzione acefala». I funzionari direttivi poterono ricoprire anche le posizioni di vertice degli Uffici centrali. Un rinnovamento che si univa anche in quel caso al sia pur limitato accesso delle donne. Come quella della precedente Direzione generale, la struttura amministrativa del Dipartimento fu organizzata in Uffici centrali. Ridotti nel numero, essi acquisirono tuttavia un maggiore livello di complessità interna, risultando ulteriormente articolati in divisioni. Anche la struttura amministrativa dei singoli stabilimenti penitenziari venne ripartita in «aree operative», per ciascuna delle quali vennero previste funzioni specifiche e diversi responsabili. Infine, le nuove disposizioni riorganizzarono il livello periferico dell’Amministrazione penitenziaria. Dagli Ispettorati distrettuali, legati alla ripartizione territoriale dei distretti di Corte d’Appello, si passò ai provveditorati regionali corrispondenti alla struttura amministrativa che lo Stato si era data nel 1970 con l’istituzione delle Regioni. Si intendeva così anche favorire un processo di «territorializzazione della pena», garantendo la permanenza del detenuto nell’ambito del proprio territorio di residenza, al fine di limitare il distacco dagli affetti e dal contesto lavorativo e per costruire una rete di relazioni con istituzioni e associazioni locali. L’insieme di quelle trasformazioni pose fine al modello «familiare» che aveva caratterizzato il sistema penitenziario fino alla fi-

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ne degli anni Sessanta. Alla maggiore articolazione amministrativa esistente all’interno e tra i diversi uffici e all’aumento complessivo del numero degli operatori penitenziari, fece riscontro una qualità di rapporti tra questi ultimi sempre più mediati dalla struttura gerarchica e dalle funzioni. Il carcere fatto di rapporti personali tra marescialli, direttori, cappellani e maestri carcerari non esisteva più. Il processo di burocratizzazione aveva trasformato in profondità l’assetto organizzativo del sistema penitenziario italiano. Antigone e i volontari «CREONTE: [...] Lo conoscevi il bando, col divieto? ANTIGONE: E come non conoscerlo? Era chiaro. CREONTE: E questa legge hai osato trasgredirla? ANTIGONE: A proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove. E a violarle non poteva indurmi la paura di nessuno fra gli uomini, per poi renderne conto agli dèi... Un gesto folle tu lo credi? Forse il folle è chi m’accusa di follia66». Nel 1984, Antigone era sul palco della casa di reclusione di Rebibbia davanti alle più alte autorità dello Stato67. Per allestire quella rappresentazione, 50 detenuti avevano lavorato come attori, scenografi, elettricisti ed attrezzisti. Non volevano essere la «filodrammatica Rebibbia». Per loro recitare era «un mezzo per comunicare con l’esterno, per lanciare i nostri messaggi di partecipazione ed integrazione, per rompere l’isolamento sociale e culturale che la detenzione comporta». Neppure si limitarono all’attività teatrale. Nei mesi successivi organizzarono un convegno sulle misure alternative e uno su «Lavoro e formazione del detenuto», fondarono una cooperativa sociale, poi il circolo ARCI «Albatros», «strumento di confronto democratico e pluralistico fra le identità e le realtà interne ed esterne del carcere». Molti reclusi ne divennero soci, compresi alcuni degli immigrati che cominciava-

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no a popolare le carceri. Tra i soci esterni figuravano noti intellettuali e politici di sinistra. Quelle esperienze segnalavano la nascita di un forte volontariato carcerario laico, che trovava la sua ispirazione nell’art. 27 della Costituzione e nelle leggi di riforma68. Furono favorite anche dalla nuova attenzione che il PCI cominciò a rivolgere alla tematica penitenziaria e della giustizia in generale, dopo la lunga stagione dell’«emergenza terrorismo». In molte città cominciarono a sorgere comitati, cooperative e associazioni con nomi che rimandavano alla necessità di una connessione tra «carcere e società», tra «carcere e territorio». Li animavano giovani volontari provenienti in molti casi dalla Federazione giovanile comunista italiana (FGCI) o con alle spalle una militanza nei gruppi extraparlamentari. Aveva quella storia anche la presidente della maggiore associazione laica, l’ARCI «Ora d’aria», Carmen Bertolazzi, all’inizio degli anni Settanta membro della Commissione carceri di Lotta Continua. Quei volontari laici videro nell’associazionismo una forma di «militanza senza appartenenza»69, una prosecuzione ideale del proprio intervento nel campo sociale, ma al di fuori di un impegno partitico. Più tardi il loro percorso incontrò quello di molti ex detenuti politici, a cominciare da quelli «dissociati», che abbandonata ogni forma di militanza totalizzante e clandestina si coinvolsero in associazioni, centri di ricerca sociale e cooperative. Era un aspetto del più generale recupero di credibilità che l’istituzione penitenziaria aveva conosciuto dopo la grande crisi dei primi anni Settanta70. Il protagonismo dell’Amministrazione penitenziaria nella gestione dell’«emergenza terrorismo» e nella successiva stagione riformatrice stava dando i suoi frutti: anche chi manteneva un approccio critico verso l’istituzione carceraria lo faceva ora nella maggioranza dei casi restando all’interno dei limiti della dialettica tra carcere e società civile favorita dallo stesso Ordinamento penitenziario. Tornava dunque in scena Antigone. La sua ribellione contro la giustizia codificata nelle leggi affascinava in quel momento «di mutamento delle regole, di affermazione di nuovo diritto»71. Un momento in cui sembrava difficile definire chi fosse depositario della Giustizia – chi aveva il ruolo di Antigone, chi di Creonte, chi di Polinice sulla scena penitenziaria italiana degli anni Ottanta? –

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e appariva possibile perseguire una Giustizia più corrispondente ai diritti individuali, civili e sociali. Nel biennio 1986-1987 «Antigone» fu il titolo di una rivista bimestrale «di critica dell’emergenza», allegata al quotidiano «il manifesto»72. Perché innanzitutto bisognava chiudere la stagione delle leggi e della carcerazione speciali. La promossero alcune delle personalità intellettuali e politiche più coinvolte in precedenza su quel terreno. Tra gli altri: Luigi Manconi e Rossana Rossanda, Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, esponenti del Centro per la riforma dello Stato come Stefano Anastasia ed ex attivisti del Centro di documentazione sulla legislazione d’emergenza come Mauro Palma e Giuseppe Bronzini. Nel 1990, di fronte all’inizio della campagna per la limitazione dei benefici previsti dalla «legge Gozzini», quelle stesse persone, insieme a un ampio gruppo di parlamentari radicali e di sinistra, diedero vita a un’associazione «per i diritti e le garanzie nel sistema penale». Anch’essa, naturalmente, prese il nome di «Antigone»73. Il processo di modernizzazione del sistema penitenziario passava anche attraverso le trasformazioni del volontariato, considerato quale ponte tra carcere e società esterna74. I volontari vennero spinti a raggrupparsi in associazioni, a coordinare la propria attività con le direzioni carcerarie, con il personale addetto al trattamento, con gli Enti locali. Le varie associazioni vennero sollecitate a organizzare corsi di formazione per trasformare il tradizionale approccio caritatevole in un «volontariato mirato e competente – come scrisse Gozzini – in grado di dar vita, negli istituti, a iniziative permanenti»75. Fu un processo che si affermò senza particolari problemi nell’ambito dell’associazionismo laico, che era sorto negli anni Settanta e Ottanta e condivideva della riforma principi e clima culturale e politico di fondo. Fu più lento nel caso del volontariato cattolico, preesistente alla riforma e caratterizzato in principio, oltre che da una marcata frammentazione, anche da un’impostazione più tradizionale. Anche quel settore era comunque tutt’altro che statico. Il Concilio Vaticano II aveva avuto un ruolo significativo nel determinare un graduale mutamento della struttura e della mentalità del vo-

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lontariato cattolico. Le direttive sull’apostolato dei laici non si limitavano più a chiamare questi a farsi «testimoni di Cristo»76, ma indicavano con chiarezza gli ambiti di intervento, tra i quali era nominato esplicitamente quello carcerario. Inoltre, il Concilio aveva spinto a un maggiore coinvolgimento della Chiesa cattolica nei problemi concreti della società italiana, dunque a un radicamento sul territorio attraverso le parrocchie e le diocesi più che mediante le congregazioni e le associazioni tradizionali, proprio nell’ottica di favorire una partecipazione diretta dei laici. Per organizzare quell’intervento capillare, nel luglio del 1971 la Conferenza episcopale italiana (CEI) aveva deciso la trasformazione della Pontificia opera di assistenza (POA) nella Caritas italiana. A essa erano stati affidati, tra gli altri, «compiti di promozione della carità, di coordinamento di attività assistenziali promosse dalla Chiesa»77. Stimolate dalla riforma del 1975 e dalla «legge Gozzini», nel corso degli anni Settanta e Ottanta la Caritas e la connessa Fondazione Zancan si fecero promotrici a livello centrale di importanti seminari e convegni sulla problematica carceraria, sottolineando in particolare la questione delle condizioni di vita dei detenuti e quella della necessaria finalizzazione della pena al reinserimento sociale. Il percorso di trasformazione fu più complesso per quanto riguarda le organizzazioni cattoliche che specificamente si occupavano dell’assistenza carceraria e post-carceraria78. Benché infatti si fosse giunti sin dal 1967 alla fondazione del Segretariato enti assistenza carceraria (SEAC), questo non riuscì in un primo momento a svolgere quel ruolo di coordinamento che ne avrebbe dovuto costituire l’attività prevalente. L’impostazione politica assai tradizionalista e i contatti subalterni e talvolta apertamente clientelari nei confronti dei vari guardasigilli democristiani impedirono una rapida trasformazione del Segretariato. Solo dopo il 1975 la situazione aveva cominciato a mutare, anche per effetto delle più strette relazioni che i suoi dirigenti intrattennero con alcune figure di spicco dell’Amministrazione penitenziaria. «Comprendiamo che il Volontariato, come lo si faceva nel passato, non lo si può più fare: non può esistere un Volontariato carente di una adeguata specializzazione»79. Nel luglio 1984 il segretario nazionale del SEAC, Vittorio Bellucci, parlava ormai di «una nuova era». Con la successiva nomina di Mario Uggè a se-

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gretario nazionale alla fine del 1986 fu avviato un censimento di associazioni, enti e individui aderenti, mentre ai convegni nazionali, oltre ai consueti esponenti cattolici, cominciarono a essere presenti anche politici come Luciano Violante o la avvocatessa Bianca Guidetti Serra. Anche il SEAC si metteva insomma in pari con il processo di modernizzazione in atto nel sistema penitenziario, lasciando intravedere i margini per quella convergenza con l’associazionismo laico che si realizzò nel corso del decennio successivo. Influirono su di essa anche le più generali trasformazioni innescate dalla legge quadro sul volontariato n. 266 del 1991, che portò alla costituzione della Conferenza permanente dei presidenti delle associazioni e federazioni nazionali di volontariato. Nel volontariato penitenziario si fecero più sistematici i rapporti tra l’ARCI «Ora d’aria», il SEAC, la Caritas italiana e la Federazione italiana del volontariato (FIVOL). Quelle organizzazioni, insieme ai referenti dell’Amministrazione penitenziaria e degli Enti locali, animarono dall’agosto 1993 un gruppo di studio sul volontariato presso il ministero di Grazia e Giustizia, che nel marzo successivo licenziò il testo più significativo per la riformulazione del rapporto tra «partecipazione sociale ed esecuzione penale»80. Al mondo composito del volontariato, del «privato sociale» e dell’associazionismo ci si riferiva ormai come al «terzo settore», posto tra Stato e mercato, soggetto attivo nel ridisegnare il welfare in base ai canoni di uno «Stato partecipato» e non più ridotto alla dimensione puramente istituzionale. Il concetto chiave era quello di «sussidiarietà», già introdotto nella legge del 1991: ministero di Grazia e Giustizia, Enti locali e terzo settore dovevano ora concorrere «con pari dignità» alla realizzazione dello Stato sociale riconfigurato come welfare mix, prodotto dalla sinergia di più soggetti. Il progetto era ambizioso. Nel corso degli anni Novanta e nei primi anni Duemila modificò profondamente il panorama del volontariato, favorendo un sistematico processo di coordinamento e di istituzionalizzazione. In ambito penitenziario, il momento decisivo fu quello della nascita nel novembre 1996 della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, che riunì i principali enti laici e cattolici. Con il passaggio da «volontariato» a «terzo settore», anche il mondo delle associazioni e cooperative attive in ambito carcera-

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rio si inseriva nel più generale processo di modernizzazione in atto nell’Amministrazione penitenziaria e nel campo del welfare. Vedeva in quel modo relativamente rafforzata la propria posizione negli ambiti istituzionali, dove si presentava unito e con posizioni assai più omogenee che in passato. Quel maggiore coordinamento funzionò spesso tuttavia più a livello di dirigenze delle singole organizzazioni che in ambito locale. Il continuo moltiplicarsi di «tavoli tecnici» evidenziò la difficoltà di pervenire a un effettivo superamento della frammentazione organizzativa esistente, come pure di produrre consistenti trasformazioni della situazione carceraria in un momento in cui essa conosceva un progressivo peggioramento. Il processo di istituzionalizzazione ridusse anche i margini di autonomia del «terzo settore». Il meccanismo burocratico dei bandi e dei finanziamenti europei, ministeriali, regionali e comunali finì per trasformare molte associazioni e cooperative sociali in produttrici di «buone prassi» e in riproduttrici di progetti rivolti a numeri assai esigui di detenuti ed ex detenuti. Sempre più imbrigliate nell’ingranaggio della gestione istituzionale, esse persero anche gran parte di quella capacità di lettura d’insieme delle trasformazioni socio-politiche e del ruolo del carcere che pure ne aveva caratterizzato le origini.

Carceri vecchie, carceri nuove «Nelle vecchie carceri c’erano trecento persone tutte insieme in un’area di tre o quattro piani, però tutti aperti tra di loro, con i ballatoi ad ogni piano, come si vede nei film. Trecento persone messe in quel modo lì, che tra loro possono avere un contatto fisico, tu le gestisci male. Se tutte insieme ad un certo punto decidono di scendere le scale e andare a piano terra, tu le fermi male, anche con un numero di agenti pari a quello. Nelle carceri nuove hanno fatto in maniera che ci sono celle singole e camerotti. Sono create in una maniera tale che anche se ci fosse una rivolta, basterebbe chiudere un cancello per bloccarla, limitarla nei cinquanta metri di corridoio di ogni sezione e ridurla ad una protesta di una trentina di persone.

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Le nuove carceri sono posti dove tutto è bloccato al muro, i letti sono fatti in maniera che non puoi più smontarli e prendere dei pezzi da usare eventualmente in una protesta. Poi i detenuti stanno sempre in cella. È difficile anche essere in trenta tutti insieme. I soffitti poi, anche se le ditte ci hanno guadagnato risparmiando sui materiali, a mani nude non riesci più a scavarli per salire sul tetto. Anche andare dal primo piano verso su è impossibile, mentre allora tu andavi, salivi le scale e arrivavi al tetto».81 L’«emergenza terrorismo» fece affluire verso il sistema penitenziario i finanziamenti necessari alla costruzione di nuove carceri. Il 1° luglio 1977, nello stesso mese in cui il «circuito dei camosci» venne aperto, furono stanziati 400 miliardi di lire. Vennero integrati nel 1980 con altri 150 miliardi, l’anno successivo con uno stanziamento di 1050 miliardi. Nel 1992, sulle 200 carceri esistenti, il 30% risultò costruito dopo il 1975, riducendo a un altro 30% la quota degli stabilimenti penitenziari edificati prima del 1900. Tra il 1992 e il 2000, a seguito di ulteriori stanziamenti, furono costruiti altri ventiquattro istituti carcerari82. In un arco di tempo relativamente ridotto la situazione dell’edilizia penitenziaria italiana si trasformò quindi profondamente. La rapidità dell’operazione e il suo legame con la logica dell’emergenza produssero nondimeno considerevoli distorsioni. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta si discusse molto dell’opportunità di costruire nuovi stabilimenti penitenziari e delle modalità utilizzate nel farlo. Alcuni importanti architetti animarono quel dibattito, come Giovanni Michelucci e Sergio Lenci, quest’ultimo autore del progetto per il «Nuovo complesso» degli stabilimenti penitenziari di Rebibbia nel 1960 e successivamente del carcere di Spoleto nel 197483. Nei loro interventi, essi manifestavano un’ansia di cambiamento della realtà del «tugurio carcerario»84, parlavano di strutture penitenziarie legate alla concezione rieducativa della pena, inserite nel contesto urbano, aperte alla società esterna, progettate insieme ai detenuti e agli operatori penitenziari. In quegli stessi anni il coordinamento Liberarsi dalla necessità del carcere si interrogava su come coniugare la prospettiva del superamento dell’istituzione penitenziaria con l’esigenza di miglio-

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rare nell’immediato le condizioni di detenzione di migliaia di persone85. Bisognava contrastare i nuovi investimenti e i grandi progetti per la costruzione di nuove carceri, impedendo un aumento della capienza complessiva del sistema penitenziario. Sul sovraffollamento si doveva intervenire promuovendo tutte le possibilità di depenalizzazione e la fruizione effettiva delle misure alternative, tra l’altro anche utilizzando parte dei finanziamenti per la costruzione di «case della semilibertà» e altre strutture di accoglienza. I progetti per la costruzione di nuove carceri potevano essere appoggiati solo nel caso in cui sostituissero nella capienza e nella qualità le vecchie carceri inabitabili e antiigieniche. L’agenda dell’Amministrazione penitenziaria aveva altre priorità. Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale rimasero aperte come case circondariali nonostante la costruzione di grandi istituti penitenziari, rispettivamente, a Rebibbia, Opera e Secondigliano. Dove la chiusura dei vecchi stabilimenti penitenziari avvenne, come a Firenze o a Torino, Santa Teresa e Le Nuove ospitarono le sezioni di semilibertà, stante il fatto che nessun programma di edilizia per la semilibertà venne mai sviluppato. Quanto al «coinvolgimento dei soggetti sociali interessati» e al «controllo della comunità e degli enti locali», auspicati da Lenci, Michelucci e dal coordinamento, tali principi non furono minimamente tenuti in considerazione: i tecnici dell’Amministrazione penitenziaria assunsero su di sé la delega completa della progettazione. Tra la progettazione e la consegna degli edifici i tempi erano molto lunghi, i costi lievitavano86. Per il carcere di Palmi i lavori iniziarono nel 1963 e terminarono nel 1979, con una triplicazione dei costi previsti, da 1450 milioni a 4250 milioni di lire. Per quello di Foggia, realizzato tra il 1963 e il 1978, la spesa passò da 800 a 12.165 milioni. La casa circondariale Le Vallette di Torino venne completata nel 1986, dopo undici anni di lavori, e costò 99.620 milioni di lire a fronte di uno stanziamento iniziale di 8722 milioni. In quella situazione, come in settori analoghi dei grandi appalti statali, si inserì il fenomeno della corruzione, che emerse in tutta la sua ampiezza alla fine degli anni Ottanta, in relazione proprio ad alcuni appalti assegnati all’inizio del decennio. Lo scandalo denominato «Carceri d’oro» coinvolse tra i politici alcuni ex ministri dei Lavori pubblici e di Grazia e Giustizia. Esso mostrò tra l’altro quanto pesassero sulle scelte complessive in materia di edi-

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lizia penitenziaria i «giri d’affare e gli interessi economici» che già il coordinamento aveva denunciato. Sul piano della progettazione, il fatto che i finanziamenti fossero legati alla logica dell’emergenza fece sì che la priorità fosse attribuita al potenziamento delle caratteristiche di sicurezza87. Si innalzarono i muri di cinta fino a 7,50 metri, attorniati anche da barriere di «pre cinta» in profilato di ferro di oltre cinque metri di altezza; vennero introdotti sistemi elettronici di allarme, controllo e sicurezza, mentre furono utilizzati «vetri antispaccata» e acciai speciali. La formalizzazione di quelle caratteristiche si ebbe attorno al 1981. I tecnici dell’Amministrazione penitenziaria prepararono allora uno schema tipologico unico per tutti i nuovi edifici penitenziari, graficamente elaborato in tutte le sue componenti. Lo scopo dichiarato era quello di «ridurre al minimo i margini di discrezionalità sino allora concessi nella determinazione delle nuove strutture penitenziarie e [di] garantire su tutto il territorio nazionale l’omogeneità anche nel trattamento del detenuto e nello svolgimento dei servizi». Di fatto, le caratteristiche strutturali degli istituti di massima sicurezza furono estese a tutti i nuovi stabilimenti penitenziari. Come notò allora Sergio Lenci: «L’unica preoccupazione era quella della sorveglianza e di ridurre al minimo il movimento dei carcerati all’interno del recinto. Ed era un progetto inutilmente costoso. Un passo indietro di un secolo»88. La rigidità di quello schema fu criticata in seguito anche dagli ingegneri dell’ufficio tecnico dell’Amministrazione penitenziaria. La maggiore articolazione da loro proposta corrispondeva tuttavia a una concezione esclusivamente tecnica del principio della differenziazione penitenziaria, slegata da qualsiasi progetto di decarcerizzazione. Si parlava di tipologie architettoniche diverse per stabilimenti di minima, media e massima sicurezza, destinati a ospitare detenuti di analoghi gradi di pericolosità. La differenziazione si tramutava così in un’arte di minuti interventi che agivano fin nei particolari meno visibili degli edifici. Negli istituti di minima sicurezza dovevano essere evitati i camminamenti di ronda, i padiglioni dovevano ricreare «al loro interno l’immagine della comunità», il riferimento progettuale era nell’edilizia residenziale, le inferriate erano leggere e di ferro normale come i cancelli. Negli isti-

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tuti di media sicurezza compariva il muro di cinta di oltre sette metri per quaranta centimetri almeno di profondità, dotato di impianti di barriera laser; vi erano celle e camerotti di 3 o 5 posti, impianti tv a circuito chiuso per il controllo delle aree esterne e interne. Negli istituti di massima sicurezza, infine, si mirava esplicitamente all’«isolamento dell’individuo, realizzato sia con la creazione di tutte celle singole per il pernottamento, sia con la diffusione e specializzazione di ambienti destinati ad usi culturali, ricreativi, ecc.»89. Le nuove carceri costituivano un esempio eclatante delle contraddizioni implicite nel processo di modernizzazione in corso. La fine dell’epoca dei conventi e dei castelli adibiti a istituti penitenziari aveva coinciso con una svolta di sicurezza e di maggior controllo sui detenuti. Le scelte compiute nel campo dell’edilizia penitenziaria rivelavano un’interpretazione del concetto di differenziazione funzionale al mantenimento dell’ordine interno dell’istituzione più che a un processo di decarcerizzazione e di reinserimento dei singoli reclusi nel contesto sociale. I mutamenti che avrebbero attraversato le carceri negli anni Novanta erano in fondo già scritti nelle strutture dei nuovi edifici penitenziari.

V DALLO STATO SOCIALE ALLO STATO PENALE

La fine della «nuova cultura penitenziaria» Nel luglio 1990, qualche mese prima dell’approvazione della legge di riforma dell’Amministrazione penitenziaria, il clima politico era già mutato e le autorità carcerarie si erano mostrate immediatamente sensibili a quella trasformazione. Una circolare diramata il 9 del mese dal direttore generale Nicolò Amato impose una revisione restrittiva dei presupposti per la concessione dei benefici previsti dalla «legge Gozzini»1. Alcuni detenuti ritenuti particolarmente pericolosi avevano «abusato dei benefici loro concessi». Per accedere a permessi, semilibertà e misure alternative il recluso doveva ora mostrare una «sincera revisione critica dell’episodio o degli episodi, o in generale del proprio passato, criminali». Doveva anche manifestare la «sincera volontà di partecipare all’opera di rieducazione e di reinserirsi nella società civile, accettandone la legalità ed i valori». La stagione delle stragi mafiose coincise con un sistematico svuotamento della «legge Gozzini»2. Tra il 1990 e il 1993 una serie di provvedimenti legislativi introdussero crescenti limitazioni all’accesso dei permessi premio e alla semilibertà per gli autori di omicidi, rapine ed estorsioni. Ne risultò accentuato il doppio regime carcerario già previsto nella riforma del 1986, soprattutto attraverso il rafforzamento del regime di sorveglianza particolare (art. 14-bis dell’Ordinamento penitenziario) e della carcerazione speciale (art. 41-bis); si previde inoltre l’esclusione da ogni beneficio penitenziario dei condannati per reati associativi, fatta eccezione per i collaboratori di giustizia (art. 41-bis).

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Mario Gozzini notò che in quel modo la riforma del 1986 risultava «praticamente abolita»3. Eppure, a fronte di centinaia di permessi concessi, le percentuali di mancati ritorni erano minime, i delitti commessi durante le uscite «supera[va]no appena le dita di una mano». Contro quei provvedimenti restrittivi e in risposta alla campagna di stampa che attaccava l’intero impianto della legge, in decine di carceri in ogni parte d’Italia i detenuti bloccarono le lavorazioni ed entrarono in sciopero della fame. Seguì un’ampia campagna organizzata da tutte le principali associazioni di volontariato. In difesa della riforma del 1986 furono costituiti appositi comitati, si schierarono cappellani carcerari e cardinali, intervennero esponenti del Partito Radicale e delle forze politiche di sinistra4. All’interno delle carceri, il nuovo contesto politico fu interpretato da alcuni operatori penitenziari come un «via libera» per una gestione violenta dei detenuti. Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, 250 «uomini d’onore» furono concentrati nella diramazione «Fornelli» dell’Asinara e nella diramazione «Agrippa» della casa di reclusione di Pianosa. Rispetto a questo secondo stabilimento carcerario, il magistrato di sorveglianza di Livorno, Rinaldo Merani, riferì nel settembre 1992 di pestaggi e prassi illegali poste in atto da agenti del Servizio coordinamento operativo (SCOP), il reparto speciale della Polizia Penitenziaria5. «Il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose»: il magistrato di sorveglianza concludeva così la sua relazione, sottolineando come non fosse quello il modo di «riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione». Nel biennio 1992-1993, le pratiche violente non restarono confinate all’interno delle sezioni di massima sicurezza. Si respirava adesso «un’aria di chiusura generale nelle carceri che colpisce tutti i detenuti»6. Di «percosse» e «perquisizioni personali selvagge» si discusse anche nei convegni del SEAC del 1992 e dell’anno successivo con riferimento a diversi istituti penitenziari ordinari7. Pur reputando quegli «incresciosi fatti» delle eccezioni, i responsabili del coordinamento del volontariato cattolico vedevano in essi la manifestazione della fine della «nuova cultura penitenziaria» e della più ampia «crisi dell’ideologia del trattamen-

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to rieducativo del condannato, che porta verso un imbarbarimento della cultura penitenziaria». A confermare quella loro idea venne anche, nel giugno 1993, la destituzione di Nicolò Amato da direttore generale a opera del guardasigilli Mancino. Dopo dieci anni, l’uomo che aveva traghettato il sistema penitenziario italiano dall’«emergenza terrorismo» alla riforma della struttura amministrativa era costretto a lasciare il suo posto. La sua azione poteva essere variamente interpretata, ponendo in luce le novità o le contraddizioni del processo di modernizzazione che quel magistrato aveva favorito. In ogni caso, con il suo avvicendamento si chiudeva una stagione della storia penitenziaria italiana caratterizzata da una forte continuità d’azione che non si sarebbe più ripetuta negli anni successivi, segnati tra l’altro anche dal frequente avvicendamento dei massimi responsabili penitenziari. Il carcere tra globalizzazione ed «emergenza sicurezza» «Giuro su questa punta di pugnale di sangue di essere fedele a questo corpo di società, formata da uomini attivi, liberi, franchi e affermativi, con tutte le regole e le prescrizioni sociali. Giuro di sconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione. Giuro di dividere centesimo per centesimo, millesimo per millesimo come lo divisero i nostri vecchi fondatori: Conte Ugolino, Fiorentin di Russia e Cavalier di Spagna: che nella mano destra impugnavano un pugnale che tagliavano e rintagliavano pelle, carne ed ossa, fino all’ultima stilla di sangue. Giuro di mettere un piede nella fossa e l’altro nella catena per dare un forte abbraccio alla galera».8 Il giuramento che segnava l’ingresso nella Sacra corona unita ricalcava formule e riti della ’ndrangheta e della camorra. Come era accaduto per la Nuova camorra organizzata nel decennio precedente, anche l’ultima arrivata tra le mafie italiane legittimava la propria esistenza inventando un pesante apparato simbolico. Fondata nel carcere di Bari nel 1984, la «Società riservatissima» che si celava dietro quei riti apparentemente antichi era in realtà

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una moderna organizzazione criminale. Mettendo a frutto l’esperienza pluridecennale che la malavita locale aveva acquisito lungo le rotte del contrabbando di tabacchi, essa fungeva ora da garante delle organizzazioni criminali estere specializzate nel traffico di droga e di armi presso gli acquirenti siciliani e calabresi. Erano gli anni delle guerre jugoslave e della «rotta adriatica» nell’immissione dell’eroina sul mercato dell’Italia centro-settentrionale. Era spesso dietro le sbarre che i boss decidevano i ruoli delle varie organizzazioni nei singoli affari, le cifre da investire, le alleanze da definire con i gruppi criminali esteri. Come molte delle attività economiche legali nell’epoca della globalizzazione, anche i commerci illegali richiedevano un crescente livello di flessibilità organizzativa9. Le mafie tradizionali mostrarono ancora una volta di sapersi adeguare alle esigenze del mercato. Si moltiplicò il fenomeno della «doppia affiliazione», che formalizzava la ormai decennale cooperazione di Cosa Nostra, della ’ndrangheta e della camorra nel traffico degli stupefacenti. La presenza di mafie straniere sul territorio italiano rendeva ancora più necessaria quella integrazione tra le varie consorterie mafiose italiane. I gruppi organizzati nigeriani, rumeni, albanesi e cinesi potevano così gestire i propri traffici affiancandosi alle organizzazioni criminali italiane, qui cooperando, lì dividendosi il mercato o il territorio. I traffici stessi mutavano. Al persistere di quello delle sostanze stupefacenti e delle armi fece riscontro lo sviluppo su scala mondiale dei traffici di esseri umani, finalizzati ad alimentare il mercato della prostituzione e quello dell’immigrazione clandestina. L’organizzazione di quel moderno commercio degli schiavi era affidata a veri e propri network criminali caratterizzati da relazioni orizzontali tra clan mafiosi, gruppi di mamans sfruttatrici della prostituzione, imprese e «basisti» perfettamente inseriti nell’economia legale, consorterie locali di «scafisti», intermediatori. Strutture ramificate in diversi continenti e composte da individui provenienti da diversi paesi, quelle costellazioni organizzative avevano fatturati da imprese multinazionali e come le multinazionali agivano nei vari territori spinte dalla necessità di tutelare i propri interessi complessivi. L’uso della violenza e quello della tecnologia più avanzata potevano dunque coesistere. Del resto, anche le economie legali e quelle illegali si in-

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trecciavano in più punti e il loro confine spesso diveniva impercettibile. Il sistema penitenziario registrò quelle trasformazioni della criminalità organizzata. Come in passato, tuttavia, i detenuti appartenenti a quei raggruppamenti non superavano il 5% del totale della popolazione carceraria. Sulla massa dei reclusi influirono in maniera più consistente altre dinamiche determinate dal processo di globalizzazione, che ne provocarono in primo luogo un marcato incremento quantitativo10. Nel 1990 il tasso di detenzione in Italia era pari a 45 detenuti su 100.000 abitanti, ma già nel 1992 raggiunse quota 89. Gli ingressi annuali in carcere passarono dalle 57.735 persone del 1990 alle oltre 100.000 del 1994. Le presenze medie giornaliere negli istituti penitenziari, che nel 1990 si attestavano ancora attorno alle 26.000 unità, nel 1991 divennero oltre 35.000, l’anno successivo erano già 47.316. Alla vigilia dell’indulto dell’estate 2006 il dato delle presenze toccò quota 61.246 a fronte di una capienza massima degli istituti penitenziari stimata attorno alle 46.000 unità11. All’aumento dei detenuti corrispose un costante incremento delle persone in area penale esterna. Queste erano circa 12.000 nel 1996, poco oltre i 17.000 nel 1998, più di 28.000 nel 2000. Il solo dato relativo all’affidamento al servizio sociale mostrava un incremento tra il 1990 e il 2001 da 3473 a 26.195, di cui oltre 21.000 affidati senza essere transitati dal carcere. Alla vigilia dell’indulto del luglio 2006 quasi 50.000 persone rientravano nell’area penale esterna. Negli anni Ottanta si era guardato all’istituzione carceraria come a un modello arcaico di controllo sociale e alle misure alternative come a uno strumento di decarcerizzazione12. Un decennio più tardi lo scenario era radicalmente mutato. La popolazione carceraria aveva cominciato ad aumentare e, con essa, era aumentato il numero degli individui sottoposti alle misure alternative. Si dovette riconoscere la complementarità, la «non sostanziale alternatività delle alternative alla pena»13. Era il sistema del controllo nel suo complesso a espandersi, al di qua e al di là delle mura, creando anche una continuità di fatto tra sistema penitenziario e sistema assistenziale, tra carceri e centri di accoglienza. Quei fenomeni potevano essere spiegati solo parzialmente facendo riferimento all’incremento dei tassi di criminalità, che si

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mantennero su valori elevati ma sostanzialmente stabili14. Inoltre, il processo di ricarcerizzazione si dispiegava ormai a livello mondiale. Come per altri campi, il modello veniva dagli Stati Uniti. Lì nel 1973 c’erano stati 96 detenuti ogni 100.000 abitanti, nel 2005 erano saliti a 726; in numeri assoluti si era passati da 204.000 a oltre due milioni di reclusi. Quanto il contemporaneo aumento dei tassi di detenzione dei paesi europei fosse comparabile al trend statunitense fu un tema che appassionò gli studiosi negli anni a cavallo tra i due millenni. Di certo quell’incremento quantitativo lasciava stupefatti. Tra il 1983 e il 1995 il numero dei detenuti passò da 43.000 a 55.000 in Gran Bretagna, da 39.000 a 53.000 in Francia, da 14.000 a 40.000 in Spagna. Anche Stati tradizionalmente fautori di una politica di decarcerizzazione, come quelli scandinavi, videro aumentare sensibilmente i propri tassi di detenzione e nei Paesi Bassi la popolazione carceraria triplicò in quindici anni15. Le cause specifiche di quell’aumento quantitativo variavano in base ai contesti nazionali. Qui aumentava il numero assoluto degli ingressi negli istituti penitenziari, lì era l’incremento della durata media della pena a produrre l’aumento delle presenze in carcere; qui si verificava una restrizione sulle misure alternative, lì c’erano provvedimenti legislativi specifici legati a cicliche «emergenze». Il fenomeno presentava tuttavia una straordinaria contemporaneità e univocità pur riguardando paesi con culture politiche e tradizioni giuridiche differenti. Richiedeva pertanto spiegazioni che uscissero dai singoli contesti nazionali. Il «boom penitenziario» – scrissero sociologi e politologi da una parte e dall’altra dell’Atlantico – rappresentava l’altra faccia del processo di globalizzazione economica. L’accelerazione avutasi nell’internazionalizzazione e nella liberalizzazione dei mercati aveva accentuato gli squilibri esistenti tra le varie aree del mondo e tra i vari paesi che le componevano, determinando le condizioni per l’approfondirsi di condizioni di sottosviluppo preesistenti e per l’emergere di conflitti locali e regionali. Essa era anche alla base dei crescenti flussi migratori, che coinvolgevano milioni di persone non solo lungo le rotte tra «Sud» e «Nord» del mondo, ma anche all’interno delle singole macroregioni in cui la nuova divisione mondiale del lavoro aveva suddiviso il globo.

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All’interno dei singoli paesi, la mondializzazione aveva minato la sovranità nazionale e approfondito gli squilibri sociali attraverso la crescente precarizzazione del mercato del lavoro, la disoccupazione strutturale e l’estensione dell’area della marginalità sociale. Aveva altresì spinto a rispondere a quelle trasformazioni globali e locali attraverso politiche che miravano al rafforzamento della «sicurezza» nello stesso tempo in cui riducevano i margini per interventi di politica sociale e cedevano ad attori privati parti consistenti del welfare edificato nei decenni precedenti. I mutamenti che attraversavano i sistemi penitenziari erano legati a quelle trasformazioni generali. Era in corso uno spostamento dallo Stato sociale allo Stato penale. L’Italia non costituiva un’eccezione rispetto a quel trend mondiale. Qui l’incremento del numero delle persone sottoposte al controllo penale fu determinato principalmente dai provvedimenti legislativi relativi alla tossicodipendenza e all’immigrazione. I punti di partenza furono posti nel 1990, rispettivamente con la «legge Jervolino-Vassalli» e la «legge Martelli». In quello stesso anno, la ratifica della parte del Trattato di Schengen relativa alla circolazione delle persone nello spazio comunitario dettava le linee guida delle successive norme legislative sull’immigrazione: la «legge Turco-Napolitano» del 1998 e la «legge Bossi-Fini» del 2002. La versione italiana della War on Drugs statunitense sarebbe stata rappresentata invece dalla «legge Fini-Giovanardi» del 2006. Immigrati e tossicodipendenti fornivano ora stabilmente circa due terzi della popolazione carceraria complessiva. Nelle carceri delle maggiori città i detenuti immigrati da soli costituivano anche il 70% del totale. L’area della «detenzione sociale» cresceva mese dopo mese16. Guardando a quella situazione, l’ex magistrato antiterrorismo e procuratore della Repubblica di Palermo e ora direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria, Giancarlo Caselli, nell’aprile 2000 parlò del carcere come di un «contenitore di marginalità», prodotto di un doppio sistema processuale, garantista con i colletti bianchi, punitivo verso i «non-garantiti»17. La selettività su base sociale del sistema penitenziario non era un fenomeno nuovo18. Il carcere era l’ultimo anello di un processo di selezione ben più esteso, sul quale incideva il discorso poli-

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tico e mediatico sulla criminalità, la possibilità di accedere al diritto alla difesa, la struttura del codice penale e le prassi giudiziarie, la mentalità degli operatori di polizia, di quelli sociali, giudiziari e penitenziari. Era in ragione di quel processo che nelle carceri c’erano più consumatori di droga che spacciatori e organizzatori del traffico internazionale; più prostitute che trafficanti di esseri umani; più lavoratori in nero e disoccupati che sfruttatori di manodopera clandestina e responsabili delle morti bianche. Nei decenni si erano trasformati i «vocabolari di motivazioni punitive», ossia le priorità assegnate di volta in volta a questo o quel crimine, a questa o quella «emergenza»19. In cima a quella lista c’erano stati i briganti e gli omicidi nell’epoca post-unitaria, i detenuti politici durante il fascismo, gli emigrati meridionali nella fase del «miracolo economico», negli anni Settanta i terroristi e i rapinatori delle «batterie», nel decennio successivo i tossicodipendenti e i «mafiosi». Ora, sul finire del millennio, era la volta degli albanesi, cui seguirono i marocchini e i tunisini, i rumeni e i rom rumeni e della ex Jugoslavia. Nella maggior parte dei casi, quello spostamento dell’attenzione pubblica non derivava dall’aumento dei reati compiuti da quelle fasce sociali o da quei gruppi etnici. Le «emergenze» erano prodotte da meccanismi sociali più complessi, da un insieme intricato di interessi economici e reazioni culturali, da spinte ideologiche, percezioni collettive e speculazioni politiche. Nel contesto italiano, la crisi politica dell’inizio degli anni Novanta ebbe un ruolo centrale nel determinare un complessivo slittamento del linguaggio con cui i fenomeni sociali venivano descritti. Non Tangentopoli in sé, ma gli esiti della transizione politica che con essa si aprì segnarono le sorti del carcere. Nella storia del sistema penitenziario italiano la specifica vicenda dei «tangentisti» occupa infatti un posto «invisibile e ininfluente»20. Gli imputati di Tangentopoli arrivavano negli istituti carcerari sconfitti, moralmente già condannati dai media e dall’opinione pubblica, privati di quella presunzione di impunità che caratterizza spesso i «colletti bianchi» autori di reato. Una volta arrestati, presto confessavano l’intera catena del meccanismo della corruzione senza neppure che apposite leggi sul «pentitismo» dovessero spingerli in quella direzione. Tranne poche eccezioni la loro carcerazione durava poche settimane o qualche mese, talvolta solo

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qualche giorno. La detenzione domiciliare permetteva loro di superare la fase del giudizio, poi, una volta condannati, scontavano la pena beneficiando delle misure alternative previste dalla «legge Gozzini». Il mutato quadro politico influì invece profondamente sulle dinamiche carcerarie21. Lo sfaldamento dei partiti di massa determinò una diserzione di gran parte del mondo politico dai tradizionali ambiti della dottrina sociale cristiana, del pensiero legato al movimento operaio, dell’approccio socialdemocratico. I maggiori partiti della «Seconda Repubblica» mostrarono una tendenziale convergenza verso il terreno di politiche neoliberiste sia in campo economico che sul piano dell’accesso ai diritti sociali e civili. Uno dei principali ambiti di quella convergenza fu rappresentato dall’uso del concetto di «sicurezza». Le città italiane erano attraversate da profonde trasformazioni legate ai mutamenti del tessuto produttivo e sociale, ai cambiamenti demografici, al fenomeno dell’immigrazione e ai processi speculativi in ambito urbanistico. L’attenzione dell’opinione pubblica fu tuttavia concentrata sui concetti di «degrado», «decoro» e «microcriminalità», che media e politici utilizzavano spesso alludendo alla presenza di cittadini stranieri. Gli immigrati residenti in Italia risultarono alla fine del 2006 circa tre milioni22, ma il discorso sull’immigrazione venne sistematicamente costretto nello spazio angusto compreso tra i concetti di «integrazione» e «clandestinità». Gli immigrati furono visti come ospiti ed estranei più che come cittadini. La loro presenza sul territorio nazionale fu principalmente vissuta come un fatto sempre temporaneo e come un problema di ordine pubblico. Più in generale, la politica della «tolleranza zero» importata dagli USA produsse un completo rovesciamento rispetto al punto di vista tipico dello Stato sociale. Nella «microcriminalità» ora si scorgeva la forma più pericolosa di devianza anziché quella più legata a situazioni di esclusione sociale, di disgregazione familiare o di disagio psicologico; nei gruppi sociali più emarginati si individuavano le nuove «classi pericolose»; nelle baraccopoli sorte ai margini delle città si vedevano «covi di criminalità». Dall’intreccio tra rappresentazione mediatica, strumentalizzazione politica e insicurezza sociale emersero ciclicamente norme e istituzioni «speciali» corrispondenti alla logica dell’emergenza.

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Furono gli anni dei comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica, dei «patti per la sicurezza», del potenziamento del ruolo dei prefetti, dei sindaci e delle polizie locali. Del nuovo clima, i «pacchetti sicurezza» furono una delle manifestazioni più tipiche. Erano provvedimenti promulgati come risposta immediata ad episodi delittuosi circoscritti che le campagne mediatiche e i discorsi politici contribuivano a rendere simbolici di una situazione di più generale «degrado». Il «pacchetto sicurezza» approvato nel corso del 1999 riguardò direttamente il sistema penitenziario. In particolare, venne allora istituita una dirigenza autonoma del Corpo della polizia penitenziaria, fino a quel momento sottoposto a funzionari civili, e furono creati l’Ufficio per la garanzia penitenziaria (UGAP) e il Gruppo operativo mobile (GOM). Il primo era un servizio di intelligence con il compito ufficiale di «vigilare sulla sicurezza degli istituti penitenziari»; a esso vennero assegnati rilevanti poteri di controllo sull’intero sistema penitenziario, precedentemente di competenza del direttore generale. Il Gruppo operativo mobile era il Corpo speciale della Polizia Penitenziaria composto da circa 600 agenti, già creato per via amministrativa nel 1994. Ufficialmente impegnato nella gestione dei detenuti reclusi nelle aree di massima sorveglianza e dei collaboratori di giustizia, poteva anche intervenire nelle «gravi situazioni di turbamento» dell’ordine e della disciplina carceraria, assorbendo e ampliando i compiti precedentemente svolti dal Servizio coordinamento operativo (SCOP). Gli assetti della Polizia Penitenziaria risultarono ulteriormente irrigiditi. Se la riforma del 1990 aveva creato speranze per una democratizzazione del Corpo, già alla metà del decennio era evidente come essa avesse in realtà contribuito a rafforzare le strutture gerarchiche e gli atteggiamenti corporativi. I principali sindacati penitenziari si facevano promotori di campagne esclusivamente riferite all’incremento dei propri organici, al potenziamento dell’aspetto retributivo della pena e a un rafforzamento del ruolo della custodia a scapito delle funzioni trattamentali. La loro forza proveniva soprattutto dai numeri. Al 31 dicembre 2001 gli agenti rappresentavano quasi 43.000 dei 50.000 dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria, il doppio rispetto ai loro colleghi francesi a parità di detenuti. Mostrarono il loro peso nell’aprile del 1999, quando ottennero dal guardasigilli Oliviero Dili-

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berto l’allontanamento di Alessandro Margara dall’incarico di direttore generale delle carceri che ricopriva dall’autunno di due anni prima. L’evento aveva un forte valore anche simbolico. L’ex magistrato di sorveglianza dei distretti di Firenze e di Bologna era stato sin dagli anni Sessanta uno dei propugnatori della riforma dell’Ordinamento penitenziario e collaboratore nella stesura dei testi delle leggi del 1975 e del 1986. Da direttore generale aveva cercato in particolare di intervenire sulla questione della salute in carcere, sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e aveva provato a limitare lo squilibrio esistente tra l’area trattamentale e quella della custodia. Il suo esautoramento mise in luce quel «modello nuovo di zecca di città senza barboni e con galere fiammanti piene di delinquenti» di cui egli stesso parlò in quei giorni, dopo aver appreso dalla stampa di essere dimissionario23. Il clima bipartisan sulla «sicurezza» lasciava ben poco spazio a discorsi alternativi. Le analisi teoriche sulla connessione tra «boom penitenziario» e globalizzazione restavano dominio di pochi cultori della materia. Le denunce dei volontari e di singoli operatori carcerari sulle condizioni di detenzione venivano facilmente bollate come «buonismo». Nel corso degli anni Novanta, le strade delle principali città italiane cominciarono a essere battute in lungo e in largo da un gruppetto di strani investigatori usciti dalle pagine della letteratura noir24. Erano tipi schivi come il Gorilla, ex detenuti come l’Alligatore, avvocati dai solidi principi democratici come Guido Guerrieri. A Marsiglia l’agente Fabio Montale, di padre italiano e madre spagnola, scandagliava i quartieri nord e annegava nei bicchieri del Panier le amarezze della giornata; a Milano l’ispettore Ferraro si addentrava nei «cortili» di Quarto Oggiaro e osservava le facce dei lavoratori nigeriani, calabresi, rumeni e brianzoli seduti ai tavoli della Trattoria California, ruminando sulla città «volgare e arrogante» cresciuta lì attorno25. Gli autori del cosiddetto «noir italiano» non avevano forse la statura intellettuale di un Pier Paolo Pasolini, né il carisma di un Danilo Dolci. Come quaranta anni prima, tuttavia, i loro racconti rivelavano un’Italia di immigrati e pensionati, disoccupati e lavoratori precari, sfrattati e «senza fissa dimora»; un’Italia in cui si incrociavano senza incontrarsi i protagonisti delle feste plurimi-

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lionarie e i «nuovi poveri» che popolavano anche i dettagliati rapporti annuali della Caritas26. Adesso sui settori «a rischio» della società sembrava esserci sempre meno volontà politica di investire in termini di diritti e di inserimento sociale. Il welfare lasciava il posto al controllo delle forze di polizia, alla burocrazia delle espulsioni, al rafforzamento dell’istituzione penitenziaria. Anche in carcere l’intervento sociale diveniva più selettivo e affannato. Su alcuni settori di reclusi veniva ancora dispiegato un relativo impegno rieducativo, benché i suoi esiti fossero sempre più incerti e insidiati dalla pervasività dei discorsi securitari. Su altri invece non si metteva in campo alcun tipo di azione. Del primo gruppo facevano parte soprattutto i detenuti tossicodipendenti di nazionalità italiana27. La creazione di appositi istituti e sezioni «a custodia attenuata» all’inizio degli anni Ottanta segnò in quel caso l’avvio di uno specifico circuito penitenziario che successivamente si prolungò anche al di fuori delle mura delle carceri. Nella legislazione penitenziaria furono gradualmente introdotte infatti peculiari possibilità per i tossicodipendenti di accedere alle misure alternative, che nella maggior parte dei casi si concretizzavano nell’ingresso nelle «comunità terapeutiche» sorte a partire dagli anni Ottanta su tutto il territorio nazionale. L’entrata in «comunità» doveva permettere al tossicodipendente di evitare la carcerazione e di beneficiare di un trattamento sanitario e di reinserimento sociale. L’afflusso a volte di migliaia di individui, la possibilità di utilizzare il lavoro gratuito degli internati e gli ingenti finanziamenti pubblici fecero tuttavia di alcune comunità dei centri di potere regolati al proprio interno da meccanismi non dissimili da quelli in uso nelle carceri. La «legge Fini-Giovanardi» del febbraio 2006 accentuò quella tendenza. Attraverso la parificazione delle sostanze «leggere» e «pesanti» e la reintroduzione della penalizzazione del consumo determinò un incremento complessivo del numero di tossicodipendenti sottoposti al controllo penale, favorendo l’aumento di attività di quelle strutture. La contemporanea deregolamentazione dell’accesso alle «comunità» consentì ai soggetti privati di certificare direttamente lo stato di tossicodipendenza, evitando ogni passaggio dai servizi pubblici.

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Il circuito delle custodie attenuate e delle comunità si sviluppava inoltre in parallelo all’aumento del numero di tossicodipendenti nelle carceri. Il problema del trattamento di questi ultimi non conobbe mai un’adeguata soluzione28. Le strutturali carenze dei servizi pubblici non riuscivano a garantire un presidio sanitario continuo all’interno degli istituti di pena. Le crisi di astinenza producevano così una costante domanda di droga, alimentando un ampio traffico all’interno delle carceri e costringendo i detenuti all’uso promiscuo di siringhe o di oggetti di fortuna per iniettarsi le sostanze stupefacenti. A ciò si aggiungeva il problema dei detenuti sieropositivi, che la Lega italiana per la lotta all’AIDS (LILA) stimò nell’aprile 2000 in circa 4000. Con soli 100 posti disponibili nei centri clinici, nella maggior parte dei casi essi erano ricoverati nelle sezioni ordinarie, privati spesso delle terapie a causa della mancanza di infermieri e delle risorse economiche necessarie per l’acquisto dei farmaci. Si presentava drammatica anche la situazione dei detenuti in AIDS conclamato. La legislazione prevedeva la loro scarcerazione o l’ammissione alle misure alternative nel caso in cui avessero raggiunto un numero di linfociti T4 inferiore a 100. Le fasi finali della loro vita erano allora scandite dagli ingressi e dalle uscite dal carcere. Nel sistema penitenziario degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, la situazione dei tossicodipendenti mostrava quindi la contraddittorietà delle trasformazioni in corso nel concetto e nella prassi del trattamento. La detenzione dei migranti, specie per quell’85-90% di essi che risultavano privi del permesso di soggiorno al momento dell’ingresso in carcere, evidenziava per contro un processo di «incapacitazione», di mera custodia29. Nelle principali case circondariali, intere sezioni erano occupate esclusivamente da immigrati, talvolta distinti per gruppo etnico. Erano luoghi esclusi da ogni attività trattamentale, segnati pesantemente dal sovraffollamento e da condizioni igienico-sanitarie assai precarie. Erano popolati da imputati difesi in tribunale per lo più da avvocati d’ufficio, abitati da condannati esclusi di fatto dalla possibilità di accedere alle misure alternative. Solo alcuni di essi beneficiavano dei permessi, appoggiandosi presso i pochi posti letto dei centri di accoglienza. In un numero molto limitato di casi riuscivano ad accedere al meccanismo del lavoro esterno, della semilibertà o dell’affidamento al servizio sociale,

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trovando un lavoro temporaneo e malpagato presso le cooperative sociali. Quell’assenza di prospettiva portava a un’accentuazione degli atti di autolesionismo, dei tentati suicidi e dei suicidi. Portava anche a una maggiore incidenza delle evasioni o dei tentativi di evasione. Esclusi di fatto dai benefici della «legge Gozzini», quei detenuti restavano estranei anche alla logica premiale che era alla base di essa. Ma a fuggire erano in pochi, quelli che all’esterno avevano delle «bande» in grado di sostenere il tentativo. La maggioranza dei detenuti immigrati restava in carcere prima in attesa della condanna, poi in attesa del «fine pena» e della conseguente espulsione dal territorio italiano. Al momento dell’uscita dal carcere, nell’ufficio matricola ricevevano il foglio di via che li obbligava ad allontanarsi dal territorio nazionale. In alternativa, nel cortile dell’istituto di pena li attendeva il cellulare della polizia che li portava in un Centro di permanenza temporanea (CPT) in vista della successiva espulsione30. I CPT erano un’istituzione fondata sulla logica dell’incapacitazione. In applicazione delle direttive del Trattato di Schengen, furono istituiti in Italia con la «legge Turco-Napolitano» del 1998. Per definizione, essi non avevano alcuna finalità di reinserimento, collegandosi alla prassi amministrativa dell’espulsione. Formarono progressivamente un vero e proprio circuito che, pur non facendo formalmente parte del sistema penitenziario, di esso riprendeva dispositivi e modalità di gestione. Circa metà dei trattenuti provenivano del resto annualmente dalle carceri. Anche le condizioni di detenzione ricalcavano quelle delle sezioni più abbandonate dei giudiziari. Organismi internazionali come il Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e altre organizzazioni nazionali e locali denunciarono ripetutamente gli episodi di violenza subiti dagli internati, il moltiplicarsi dei casi di autolesionismo e dei tentati suicidi, la condizione di sovraffollamento, l’abuso di psicofarmaci a fronte di una assistenza sanitaria generalmente insufficiente. Nei primi anni Duemila, nel reparto giudiziario maschile del Nuovo complesso penitenziario di Firenze-Sollicciano, i detenuti della seconda sezione riprodussero su alcuni fogli l’immagine a grandezza naturale di uno degli educatori e la esposero su un mu-

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ro del corridoio. Sostenevano che quello fosse l’unico modo per vederlo. In quel momento, in quel carcere con capienza di 460 persone e presenze oscillanti tra gli 800 e i 1100 detenuti, gli educatori erano 5. La situazione era simile altrove. A San Vittore, con 1500 detenuti e 1100 agenti della Polizia Penitenziaria nel 1999, gli educatori erano solo sei. Nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, due sole educatrici dovevano provvedere ai complessi bisogni degli oltre 200 internati. A livello nazionale, circa 600 educatori si trovavano a far fronte alle necessità di oltre 50.000 detenuti. Nel caso degli operatori trattamentali la crisi del paradigma rieducativo si mostrava nel sovraccarico di lavoro, nelle carenze di personale, nell’eccesso di mansioni amministrative che riducevano ulteriormente il tempo da dedicare a quella massa di detenuti ogni giorno più ampia e con problematiche sempre più complesse31. Il frequente fenomeno del burn-out manifestava la difficoltà di ciascuno di quegli operatori a resistere tra la pressante e complessa domanda dell’utenza e la rigidità dell’istituzione. Le «condizioni di isolamento e di profonda solitudine»32 dell’operatore derivavano anche dall’ambiguità del mandato sociale della propria professione, che si muoveva tra il ruolo di aiuto formalmente sancito nella legislazione e il ruolo di controllo quotidianamente imposto dai limiti organizzativi e dalla montante ideologia della sicurezza. In Italia, la stagione del riformismo penitenziario era stata breve, stretta tra l’emergenza terrorismo e la crisi politico-sociale degli anni Novanta. Era stata anche attraversata da molte più contraddizioni di quanto non fosse sembrato nella seconda metà degli anni Ottanta. Gli stessi uffici dei primi Centri di servizio sociale per adulti erano stati aperti in sedi di fortuna, senza personale, senza materiale di cancelleria, senza tavoli né macchine da scrivere. Quelle lacune avevano potuto essere colmate dall’entusiasmo pionieristico delle prime assistenti sociali, che nella loro attività lavorativa avevano visto talvolta una forma di intervento sociale che coniugava la militanza politica e il mandato professionale. Di fronte alla marginalità sempre più evidente dell’area trattamentale rispetto a quella della sicurezza, quegli stessi operatori riconoscevano adesso che il servizio sociale penitenziario non era

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stato mai messo in condizione di «ricoprire appieno un ruolo di innovazione e di mutamento», costretto a un intervento meramente tecnico nel contesto di una crescente burocratizzazione che aveva «schiacciato la dimensione professionale e messo in crisi la qualità del lavoro». L’intero settore trattamentale appariva retrospettivamente ai suoi stessi dirigenti «marginale e comunque dipendente dalle logiche carcerarie, scarsamente rilevante sul piano istituzionale, sia a livello periferico che a livello apicale, e di fatto lasciato in uno stato di sopravvivenza, con rilevanti carenze sia a livello organizzativo che a livello strumentale»33. Il «vuoto di indirizzi programmatici» aveva riguardato in Italia l’intero ambito dei servizi sociali. Solo parzialmente esso venne colmato dalla riforma dell’assistenza sociale approvata nel novembre 2000, ricca di significative affermazioni di principio e attenta alla razionalizzazione dei costi e delle strutture organizzative ma non in grado di rompere la condizione di subalternità delle politiche sociali rispetto alla deriva securitaria in corso. Hotel a cinque stelle Il carcere degli anni Novanta e dei primi anni Duemila era un carcere frammentato34. «Buone prassi» e situazioni di violenza e abbandono convivevano in uno stesso istituto penitenziario. Soprattutto gli stabilimenti carcerari più importanti erano di fatto composti da tante carceri. Dentro lo stesso muro di cinta c’erano reparti maschili e femminili, spesso con direttori e comandanti distinti; c’erano sezioni giudiziarie e sezioni penali, reparti di alta sorveglianza e celle per detenuti ammessi al lavoro all’esterno. Dentro un medesimo reparto, erano una di fronte all’altra le sezioni per soli tossicodipendenti e quelle dove si concentrava la presenza di immigrati, i reparti di osservazione psichiatrica e i centri clinici, le sezioni per i detenuti transessuali, le sezioni «protette», le zone adibite a casa di cura e custodia. Le sezioni con un regime detentivo relativamente aperto erano vicine ad altre con le celle chiuse, i «progetti pilota» convivevano con il moltiplicarsi degli atti di autolesionismo. Il fenomeno non era interamente nuovo. Ogni stabilimento penitenziario aveva sempre costituito un mondo a sé. La logica

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della differenziazione accentuava però ora le caratteristiche distintive di ciascun istituto e condizionava il tipo di equilibrio che si realizzava tra i diversi operatori. Il processo di regionalizzazione dell’Amministrazione penitenziaria non riuscì mai a dare concretezza al principio della «territorializzazione» della pena, ma contribuì a creare notevoli disparità tra le varie aree geografiche. Queste erano ulteriormente accresciute dalle caratteristiche del terzo settore e degli Enti locali, che intervenivano in modo assai diversificato nelle carceri delle diverse città. Lo stesso personale penitenziario rimandava un’immagine di frammentazione, presentandosi diviso in tante corporazioni. Lo mostravano le rivendicazioni dei sindacati degli agenti, ma anche le prese di posizione dei funzionari direttivi e le modalità con cui alcuni psichiatri gestivano i reparti di osservazione ad essi affidati. Lo manifestò l’atteggiamento di chiusura con cui i medici penitenziari accolsero la «legge Bindi» che nel 1999 sancì il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Un passaggio che verso la fine del decennio successivo era avvenuto ancora solo limitatamente a pochi settori35. La popolazione detenuta si presentava altrettanto frammentata. Se il processo di politicizzazione era stato solo parziale negli anni Settanta, l’atteggiamento collettivo aveva comunque prevalso in quel decennio. Trenta anni più tardi, erano pochi i detenuti che avevano memoria di quelle vicende36. Comparandole con la situazione che vivevano quotidianamente nelle celle sovraffollate delle nuove carceri, essi non potevano che mitizzare la passata solidarietà e sottolineare la disgregazione del presente. Non c’erano più proteste e rivolte quando le autorità penitenziarie decidevano il trasferimento punitivo di uno di loro. Erano scarse le mobilitazioni collettive per ottenere cambiamenti delle condizioni di detenzione. La solidarietà era nei piccoli gesti quotidiani con cui i reclusi si aiutavano tra di loro nell’acquisto del sopravvitto, nella compilazione delle domandine al direttore e delle istanze ai giudici. Era una solidarietà difensiva, dettata dalle necessità di trascorrere tante ore in celle di pochi metri quadri con i blindati chiusi, insieme a due, tre, talvolta anche sei o sette persone con esperienze, storie, lingue e imputazioni diverse tra di loro. La premialità della «legge Gozzini» spingeva ciascun detenuto a conformarsi alle regole penitenziarie per beneficiare dei per-

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messi e delle misure alternative. L’intervento rieducativo, quando c’era, si riferiva a ogni recluso come ad un «caso»37. Nei convegni alcuni operatori sociali mostravano di leggere dietro quelle situazioni individuali anche il portato di più generali trasformazioni sociali; una volta dentro gli istituti penitenziari, complici il carico di lavoro e il sempre più pressante mandato di controllo, essi stessi erano costretti a inseguire la routine di un lavoro che si concentrava sui singoli «utenti» detenuti per consentire almeno ad alcuni di essi di beneficiare della semilibertà o delle misure alternative. Delle volte i detenuti provavano a far sentire la propria voce. Individualmente o in piccoli gruppi, spedivano lettere ai giornali, ai magistrati di sorveglianza e ai procuratori, alle organizzazioni di volontariato, al presidente della Repubblica. Raramente riuscivano a costituire all’interno delle carceri forme di rappresentanza stabili, commissioni in grado di articolare rivendicazioni puntuali ed eventualmente di dare vita a mobilitazioni. Le loro forme di aggregazione passavano principalmente attraverso le attività scolastiche, sportive e teatrali organizzate all’interno di alcune carceri dalle direzioni e dal terzo settore. In alcuni istituti più grandi, soprattutto nelle case di reclusione dove minore era il loro avvicendamento, gruppi di reclusi si trasformavano in redazioni. Di giornali dei detenuti, alla fine degli anni Novanta se ne contavano alcune decine. «Ristretti Orizzonti» rappresentava l’esperienza più significativa38. Formatasi nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova nel 1998, era animata da un gruppo di detenuti, originariamente costituitosi attorno alla figura carismatica di Ornella Favero, ex militante di Lotta Continua. Negli anni successivi la redazione di «Ristretti» rappresentò un solido punto di riferimento nella riflessione attorno all’istituzione penitenziaria, organizzando incontri nella casa di reclusione padovana aperti ogni volta a centinaia di persone e portando avanti una quotidiana attività di informazione su tutto ciò che attorno al carcere si muoveva. Il tentativo di creare un dialogo tra «dentro» e «fuori» passava principalmente dal collegamento con quella parte del mondo dell’associazionismo che si mostrava interessata anche ad un discorso di sensibilizzazione dell’opinione pubblica circa la realtà carceraria. C’era il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, l’associa-

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zione Forum Droghe con il suo «Fuoriluogo»; c’erano alcune delle associazioni aderenti alla Conferenza nazionale del volontariato giustizia e altri gruppi a livello locale. I movimenti sociali delegarono di fatto a quelle organizzazioni il discorso sul carcere. Il movimento no global tra il 2001 e il 2003 produsse significative analisi dei processi di criminalizzazione dei migranti e delle politiche di sicurezza in genere, si mobilitò contro i Centri di permanenza temporanea, ma non mise mai la questione carceraria tra i suoi interessi. L’area anarchica e «antagonista» continuò a occuparsi prevalentemente di detenzione politica e si limitò a portare la propria solidarietà ai «prigionieri» sotto le mura delle carceri con concerti e presidi. Il movimento dei «girotondi» guardò solo ad aspetti settoriali della «questione giustizia», disinteressandosi del problema carcerario e assumendo anzi spesso posizioni giustizialiste. I convegni, seminari, assemblee dell’associazione Antigone fotografavano anno dopo anno il processo di costruzione di un sistema legislativo «carcerogeno» e il conseguente deterioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena. Nel tentativo di arginare quella situazione, l’associazione si fece promotrice dell’istituzione a livello comunale e regionale delle figure dei garanti dei diritti delle persone private della libertà personale, sul modello dei paesi anglosassoni e nord-europei39. Alcuni garanti presero così servizio nei primi anni Duemila da Bari a Livorno, da Firenze a Roma, nel Lazio e in Sicilia. L’auspicata legge che avrebbe dovuto definire la nascita di una figura di garante nazionale non giunse però mai al termine dell’iter parlamentare. All’interno di Antigone fu costituito nel 2003 un Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione, con propri referenti in ogni regione incaricati di svolgere periodiche visite nelle carceri. Gli esiti delle stesse vennero raccolti annualmente nei «Rapporti sulle condizioni di detenzione». Come per le dettagliate inchieste di «Ristretti Orizzonti», l’uso di toni misurati faceva risaltare la gravità delle situazioni descritte. La «prigione malata» era abitata da migliaia di sieropositivi, era esposta a periodiche epidemie di scabbia e tubercolosi, era popolata da detenuti con crescenti problemi psichici, da anziani e disabili40. La prigione malata aveva al suo interno un sistema sani-

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tario del tutto insufficiente rispetto a quella situazione. Le ristrettezze di bilancio rendevano spesso impossibile acquistare anche i farmaci essenziali, nei centri clinici si era costretti a definire le priorità per l’acquisto di macchinari e strumentazioni. I detenuti lamentavano in maniera diffusa la sommarietà con cui erano effettuate le visite nelle infermerie, spesso vestiti e alla presenza di agenti della Polizia Penitenziaria. Riferivano anche delle difficoltà con le quali si riuscivano a ottenere le visite specialistiche, in particolare quelle odontoiatriche: nelle carceri più affollate era necessario spesso attendere diverse settimane e anche mesi prima che i medici convenzionati potessero effettuare la visita. Ciò incentivava di fatto pratiche mediche fai-da-te nelle celle, che unite alle condizioni igieniche complessive degli istituti incrementavano il rischio di contrarre infezioni e malattie. La situazione della sanità penitenziaria era tale da far guardare con sospetto a ogni morte avvenuta nelle carceri. L’insufficienza o la non tempestività dell’intervento medico a fronte di situazioni di crisi cardiaca o respiratoria si rivelavano talvolta fatali. Ai primi segni del malore, i compagni di cella e poi gli altri detenuti della sezione cominciavano a battere sulle sbarre e sulle porte di metallo per attirare l’attenzione degli agenti. A ritardare i soccorsi erano spesso procedure burocratiche e prassi dettate da motivi di sicurezza, che condizionavano del resto l’intero assetto della medicina penitenziaria. Solo il capoposto era autorizzato ad aprire le celle. Passavano così dieci, venti, trenta minuti. Poi era ancora necessario portare il recluso fuori dalla cella. Il personale medico e paramedico non era in servizio permanente, il suo arrivo richiedeva altro tempo, come pure quello dell’ambulanza del 118, che poteva accedere solo nel primo cancello del carcere, talvolta a diverse centinaia di metri dalle sezioni. Ai ritardi nelle situazioni critiche corrispondevano pratiche preventive intese dall’Amministrazione penitenziaria esclusivamente come tentativo di arginare i fenomeni di autolesionismo, i tentati suicidi e i suicidi. Alcuni progetti specifici vennero studiati a questo proposito, ma pochi conobbero un’effettiva applicazione e ancor meno furono quelli che si mostrarono efficaci41. Le informazioni sui cosiddetti «eventi critici» riempivano giornalmente in ogni carcere un apposito registro. Nel 1998 i dati ufficiali rilevarono 6342 atti di autolesionismo, 933 tentati suicidi e

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51 suicidi42. Alle persone che si toglievano la vita in carcere, perché non fossero solo un numero in una statistica, i detenuti di «Ristretti Orizzonti» cercavano faticosamente di dare un nome, ricostruendone la storia43. «Il carcere fa male», scrisse Antigone nel 2000. Anche l’uso degli psicofarmaci era ampio e spesso non soggetto ad alcun effettivo controllo medico. In molte carceri il carrello della «terapia» passava direttamente nei corridoi delle sezioni, divenendo uno strumento di controllo per le direzioni e un mezzo di temporanea evasione per i detenuti che facevano richiesta delle gocce attraverso gli spioncini dei blindati. Volontari e operatori che si recavano nelle sezioni riferivano così per alcune carceri di una metà di detenuti costantemente stesi sulle brande dei letti a castello davanti ai televisori accesi. Di quell’autentico stato di abbandono era complice anche la penuria di lavoro all’interno degli istituti di pena. Di fatto, questo si limitava alle occupazioni legate al funzionamento del carcere stesso: alcuni detenuti erano così cuochi, spesini, scopini, scrivani o imbianchini, idraulici, elettricisti e muratori. Altre eventuali «lavorazioni», come officine di riparazione di biciclette, laboratori artigianali e perfino call center, erano rarità nel panorama carcerario di quei decenni e occupavano solitamente un numero assai limitato di detenuti. Nella maggior parte dei casi l’accesso al lavoro era regolato secondo turni quindicinali, scarsamente retribuito e soggetto a un’eccessiva discrezionalità da parte di comandanti e ispettori, che lo utilizzavano come un premio piuttosto che considerarlo un diritto dei detenuti. Nel corso degli anni Novanta e Duemila, a fronte dell’accresciuto numero di presenze, si assistette a un progressivo deterioramento delle condizioni detentive. A nulla servirono i richiami del Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, né le prescrizioni del nuovo regolamento penitenziario, approvato nel 2000, che provò a mettere le carceri italiane a norma delle Regole minime delle Nazioni Unite e delle Convenzioni europee44. Esso prevedeva tra l’altro la presenza di docce e servizi igienici con acqua corrente in ogni cella, l’eliminazione di qualsiasi schermatura della luce esterna, la possibilità di tenere in cella fornelli per cucinare, la visita medica e il colloquio dei «nuovi giunti» con un educatore. Come previsto nel testo, cinque anni

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dopo l’approvazione si procedette alla verifica dell’applicazione del nuovo regolamento: nella maggioranza delle carceri, la quasi totalità delle disposizioni risultarono non applicate. Alla fine degli anni Settanta e nel decennio successivo la rinnovata legittimazione dell’istituzione carceraria era stata incanalata dal riformismo penitenziario in un consenso al modello rieducativo. Negli anni Novanta e nei primi anni Duemila quella legittimazione poggiava invece su una situazione di crisi del modello rieducativo e di emersione di un esplicito discorso securitario nella gestione delle problematiche sociali. Ciò produceva un sostanziale disinteresse del mondo politico e dell’opinione pubblica per il carcere. Il discorso dominante era quello che passava attraverso i media. Le carceri erano «hotel a cinque stelle» dove i detenuti avevano persino la «televisione in camera». Da esse uscivano con grande facilità per via della mai garantita «certezza della pena». I pochi casi di evasione e di mancato reingresso dai permessi venivano enfatizzati, la «legge Gozzini» era continuamente posta sotto accusa e con essa i magistrati di sorveglianza che la applicavano. Come era accaduto negli anni Cinquanta, si produsse uno scollamento tra la rappresentazione ufficiale del carcere e la realtà di esso. Nonostante il crescente numero di volontari e la quantità di progetti che legavano il «dentro» e il «fuori», il carcere tornava a chiudersi in se stesso. L’Amministrazione penitenziaria curava ora la comunicazione con l’esterno non solo attraverso le riviste e i convegni; aveva un proprio sito internet, come anche la Polizia Penitenziaria e i vari sindacati a essa relativi, singoli provveditorati regionali e alcuni stabilimenti penitenziari45. Erano luoghi virtuali in cui le informazioni erano selezionate accuratamente. Della realtà del carcere frammentato venivano fatte risaltare le «buone prassi», gli spettacoli teatrali e le «maratone letterarie», le premiazioni per i detenuti pasticceri, le «cene galeotte» di Volterra, le attività formative dell’Istituto superiore di studi penitenziari. Scremato dalla sua materialità fatta di sbarre e letti a castello a più piani, il carcere poteva essere descritto come un’istituzione moderna ed efficiente. Come un prodotto tra gli altri del made in Italy, poteva anche essere esportato nel mondo globalizzato, a partire dai luoghi più caldi della «guerra al terrore»46.

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In Afghanistan il consigliere Giuseppe di Gennaro, uno dei protagonisti del dibattito penitenziario degli anni Sessanta e Settanta, guidava ora una missione italiana impegnata nel sostegno al governo locale «nella ricostruzione delle sue istituzioni, in senso moderno e democratico». I funzionari ministeriali contribuivano direttamente alla stesura della «Legge sulle prigioni e i centri di detenzione» di quel paese, i tecnici individuavano dettagliati modelli penitenziari per la ristrutturazione e costruzione di edifici carcerari. Nel 2004 il modello risultava già applicato nella ristrutturazione dell’istituto penitenziario di Gardez, a 150 chilometri da Kabul: prevedeva torri di guardia e muro di cinta dotato di camminamento, blocchi detentivi costituiti da massimo tre piani con dieci celle da tre posti ogni piano, legati a un «nodo distributore» in cui erano accentrate le funzioni di controllo. In Serbia veniva invece valorizzata l’esperienza italiana nel contrasto alla criminalità organizzata. Le autorità penitenziarie italiane cooperavano sia nella definizione dei nuovi profili giuridici, sia nella indicazione delle modifiche da apportare alla nuova sezione di alta sorveglianza della prigione speciale di Belgrado. La limitazione dei colloqui e delle comunicazioni telefoniche con i familiari, la riduzione delle ore dell’«aria» e la predisposizione di celle singole, si univano così alle dettagliate prescrizioni relative alla tipologia degli infissi e all’introduzione di dispositivi di sicurezza automatici che gli agenti potevano regolare dall’interno dei box. Il tutto era finalizzato alla necessità di «garantire trasparenza nella adozione degli standard detentivi, come si conviene ad una moderna democrazia ed a uno Stato di diritto». Nel marzo 2002 dalle carceri serbe furono trasferiti 165 detenuti di etnia albanese/kosovara. L’operazione fu eseguita da un contingente di dieci agenti della Polizia Penitenziaria italiana assegnato al Penal Management Division – Kosovo Correctional nell’ambito del piano di cooperazione dell’Amministrazione carceraria italiana con la missione internazionale delle Nazioni Unite in Kosovo. Dal maggio 2000 il contingente era impegnato nella sorveglianza esterna, nei servizi di traduzione e nella formazione di operatori penitenziari kosovari in relazione all’istituto penitenziario di Dubrava, che con i suoi oltre 500 reclusi era il più grande dei Balcani.

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Dietro le mura di cinta, in Italia, il carcere dimostrava di essere un’istituzione opaca. Tanto più opaca perché nascosta sotto quella rappresentazione e legittimata dall’ideologia della sicurezza. Una istituzione opaca e sovente al di fuori della legalità. Attorno alla mezzanotte meno un quarto del 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziarono a battere sulle grate con le posate, poi diedero fuoco alle lenzuola, fecero esplodere alcune bombolette del gas47. Lo sciopero dei direttori dei giorni precedenti aveva impedito loro di avere il «sopravvitto» e le sigarette. Il 3 aprile successivo l’Amministrazione penitenziaria organizzò uno sfollamento generale dell’istituto. Durante l’operazione di trasferimento, almeno trentasei detenuti furono brutalmente picchiati. «Quel pomeriggio ero all’ora d’aria – ricordò davanti al giudice uno di loro – stavo giocando a carte. Tutt’a un tratto vedo i cancelli spalancarsi, entrare delle guardie, tutte in mimetica. Pugni e schiaffi, e poi mi hanno legato e picchiato, fino alla sala colloqui, nel corridoio della matricola [...] Ho visto anche la direttrice, nel corridoio. Stava fuori dalla sala colloqui e guardava». Altri detenuti vennero trascinati per terra ammanettati, spintonati da un agente all’altro, nuovamente colpiti con calci e pugni alla schiena e alle gambe. A uno di essi i poliziotti penitenziari immersero ripetutamente la testa in un secchio d’acqua. Nel febbraio 2003 la direttrice venne condannata a un anno con rito abbreviato. Vennero riconosciuti colpevoli anche il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria sarda, il comandante del carcere e dieci agenti. La particolarità dei fatti di Sassari non era nella loro gravità, ma nella tempestività con cui erano emersi, raccolti da associazioni esterne e supportati da denunce penali da parte di alcuni dei detenuti coinvolti. Ciò aveva consentito l’accertamento delle responsabilità anche in sede giudiziaria. Lo stesso accadde anche rispetto agli abusi che alcuni agenti del Gruppo operativo mobile e alcuni medici penitenziari compirono nel luglio 2001 contro una parte dei 500 individui transitati durante i giorni del G8 nella caserma di Genova Bolzaneto, allestita come carcere provvisorio in base ad un apposito decreto ministeriale. Lì decine di persone erano state costrette a subire ripetute violenze e a restare per ore in piedi con la faccia contro il muro; ad alcuni gli agenti avevano urinato in faccia, mentre diverse ragazze erano state minacciate di es-

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sere stuprate con i manganelli. All’inizio del 2004 furono alcuni agenti della Polizia Penitenziaria a confermare con le loro testimonianze i racconti dei detenuti della caserma di Bolzaneto48. Quasi sempre le cose andavano diversamente. La ricattabilità dei detenuti, l’omertà esistente tra gli operatori penitenziari, la debolezza dei gruppi esterni e il disinteresse degli Enti locali impedivano qualunque controllo effettivo su quanto avveniva nelle carceri. Nel caso di alcune morti avvenute negli istituti penitenziari le lacune e le contraddizioni presenti nelle ricostruzioni ufficiali erano tali da sollevare più di un sospetto. Così fu, tra le altre, per la vicenda del ventinovenne Marcello Lonzi, detenuto nella casa circondariale livornese de Le Sughere in attesa del prossimo trasferimento in una comunità terapeutica49. Ufficialmente morì per un’«aritmia maligna», ma questa difficilmente riusciva a spiegare le numerose ecchimosi presenti sul suo corpo. Il cadavere fu rinvenuto il 12 luglio 2003 sulla soglia della cella 21 della sesta sezione di quel carcere in cui fu accertata in quel medesimo periodo l’illegale esistenza di alcune «celle lisce» con funzione punitiva. Contro l’archiviazione del caso, in una situazione di isolamento pressoché totale, si mobilitò la madre di Lonzi, Maria Ciuffi. Ogni anno in luglio, insieme a un piccolo gruppo di familiari e attivisti, deponeva sull’asfalto davanti al cancello di Le Sughere un mazzo di fiori che poco dopo sarebbe stato rimosso dagli agenti della Polizia Penitenziaria.

Indulto e sacchi neri Una mano di vernice nera sulle ringhiere, l’erba delle aiuole tagliata, un centinaio di detenuti trasferiti in modo da allentare la tensione legata al sovraffollamento50. Regina Coeli si preparò così alla visita di Giovanni Paolo II del 9 luglio 2000, giorno del «Giubileo nelle carceri». Pareti imbiancate, tappeti azzurri e piante dappertutto, il Pontefice entrò con l’auto ufficiale dalla porta carraia, venne ricevuto dal guardasigilli Fassino e dal capo dell’Amministrazione penitenziaria Caselli. Poi a fatica raggiunse la prima rotonda. Per sua volontà, i cancelli delle tre sezioni furono tenuti aperti durante le due ore della cerimonia.

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L’anziano Papa parlò con un soffio di voce. Il peccato è devastante – disse – provoca danni nella psiche e nella biologia dell’uomo, toglie pace al cuore e produce sofferenza a catena nei rapporti umani. Il pentimento è una medicina. «Non è importante solo il momento in cui uscirete, ma il cammino che avete fatto qui dentro». In mondovisione, lo ascoltarono milioni di persone. Lì dentro, lo guardarono commossi un centinaio di agenti e altrettanti detenuti, alcuni vestiti dell’abito bianco dei chierichetti. Anche le letture sacre furono divise equamente tra «camosci» e «girachiavi», tra detenuti e agenti. Il Papa ruppe il cerimoniale, permise a quaranta detenuti di salutarlo personalmente. Fu un corteo di magliette dai toni sgargianti, jeans e vestiti a fiori quello che si mosse verso di lui. Un’anziana donna colombiana gli baciò la mano. Gli si avvicinò Yuvanita, la ex prostituta nigeriana che aveva cucito con altre detenute di Rebibbia i paramenti di seta di color verde acceso indossati dal Pontefice. Pasquale, ex pittore a piazza di Spagna con l’aria da romanaccio simpatico, la testa rasata e il codino da pirata, gli porse un suo dipinto con le «sette piaghe del secolo XX», tra cui Hitler, i lager, l’Olocausto, il muro di Berlino, un drago a sette teste e una «tossica» prosperosa con la siringa infilata nel braccio. Al termine della cerimonia un omone in maglietta gialla, lo «spesino» della quarta sezione, rivolse un «pensiero di ringraziamento» al Pontefice. I foglietti che aveva in mano Roberto tremavano, ondeggiavano. «Santità, scusate, è l’emozione». Tra le sbarre di Regina Coeli, Giovanni Paolo II pronunciò la frase più attesa. Chiese per i detenuti un «segno di clemenza [...] mediante una riduzione della pena». Davanti alle Camere riunite, il 14 novembre 2002 ripeté il suo appello a favore dell’indulto. L’ultimo provvedimento di indulto risaliva al dicembre 1990. L’anno successivo, in piena «emergenza mafia», una modifica della Costituzione aveva portato a due terzi del Parlamento il quorum necessario per l’approvazione di nuovi provvedimenti di clemenza. Ciò di fatto aveva bloccato a lungo ogni ulteriore passo in quel senso e anche ora sembrava porre ostacoli insormontabili. A chiedere con insistenza l’indulto e l’amnistia erano innanzitutto le associazioni che più da vicino conoscevano la realtà carceraria. Gruppi locali e organizzazioni nazionali, comunità terapeutiche e cooperative sociali, associazioni e sindacati avevano

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formato un vasto «cartello» già nei primi mesi del 200051. Era una coalizione inedita, e del tutto originale era anche la coppia che coordinava di fatto quella rete: da un lato Sergio Segio, l’ex comandante «Sirio» di Prima Linea, figura chiave del processo di dissociazione dalla lotta armata, divenuto responsabile della comunicazione del Gruppo Abele; dall’altro Sergio Cusani, uno dei pochi «tangentisti» ad aver visto da vicino e per lungo tempo il carcere. Diverso approccio, ma analoga insistenza sulla necessità dell’indulto, caratterizzava in quel periodo i ripetuti interventi di un altro protagonista della storia politica dei decenni precedenti: Adriano Sofri. Dalla cella del Don Bosco di Pisa dove era recluso per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, l’ex leader di Lotta Continua raccontava la quotidianità del carcere e interveniva nel dibattito politico attorno alla pena52. Per chi era più vicino alla realtà del carcere, l’indulto e l’amnistia rappresentavano un «risarcimento» necessario rispetto alle condizioni di illegalità in cui i reclusi erano costretti a vivere. Il cartello delle associazioni andava tuttavia oltre la sola denuncia delle condizioni di detenzione. Alle forze politiche si chiedeva di approvare un «piano Marshall per le carceri» insieme al provvedimento di clemenza. Forte dell’esperienza accumulata nell’ultimo ventennio, il terzo settore si proponeva come una rete di supporto in grado di dimostrare la praticabilità di una politica penale e penitenziaria alternativa a quella fondata sul paradigma securitario. All’approssimarsi della visita del Pontefice a Regina Coeli centinaia di firme furono poste in calce a due appelli intitolati «La società civile è pronta» e «Mandateci in carcere». L’intervento della Chiesa e delle associazioni consentì di riaprire un dibattito pubblico sul carcere. Diversamente da trenta anni prima, la spinta per un rinnovamento dell’istituzione penitenziaria veniva ora principalmente dall’esterno delle carceri. I detenuti sembravano mancare di una propria autonomia organizzativa e di analisi, si limitavano a fare proprie le piattaforme e la strategia complessiva elaborate dal cartello delle associazioni. Dopo anni di silenzio, tuttavia, la loro mobilitazione fu vasta e visibile, attuata in forma non-violenta con scioperi della fame, del lavoro e dell’«aria». L’appuntamento di maggior rilievo fu quello del 9 settembre 2002. L’associazione Papillon-Rebibbia, nata nel 1996 all’interno

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del carcere romano, lanciò un appello alla mobilitazione e la protesta si estese rapidamente a novantacinque istituti penitenziari53. Per alcuni giorni, i media furono costretti a parlare delle carceri, le immagini delle lenzuola agitate e bruciate oltre le sbarre delle celle conquistarono le prime pagine dei quotidiani e aprirono i telegiornali. I detenuti battevano sulle sbarre e sui blindati delle celle, denunciando ancora una volta «le condizioni di vita inumane, il sovraffollamento, le carenze strutturali in campo sanitario, nel vitto, nel lavoro interno ed esterno, nelle prospettive di reinserimento sociale»54. Chiedevano l’indulto generalizzato di tre anni, la riforma del codice penale, l’abolizione del regime del 41-bis, l’incremento delle misure alternative e della liberazione anticipata. La protesta nelle carceri durò diversi giorni ed ebbe in alcune città un’appendice anche nei mesi successivi. Di fronte a quella mobilitazione il mondo politico tentennò, prese tempo, generò illusioni. Partorì poi, il 1° agosto 2003, il cosiddetto «indultino»: prevedeva una riduzione massima di due anni per chi avesse scontato almeno la metà della pena, subordinandola per giunta a condizioni particolarmente restrittive. Ne poté così beneficiare un numero assai limitato di reclusi. «Dall’indulto all’insulto»55 fu il commento di quei giorni di molte associazioni, che denunciarono il carattere puramente simbolico del provvedimento, che rischiava di rigettare nel silenzio, immutato, l’universo carcerario. La delusione tra i detenuti fu grande. La «rivolta» nella IV sezione di Regina Coeli del 15 agosto 2004 la rese evidente. Gli oltre 150 detenuti lì reclusi volevano rendere inagibile quella parte del carcere romano, la più abbandonata e sovraffollata. Attorno alle ore 20,30 di quel giorno cominciarono a battere alle inferriate, poi fecero scoppiare alcune bombolette da campeggio nei corridoi, diedero fuoco ai materassi, presero a calci e pugni le porte, danneggiarono le tubature dell’acqua, ruppero water, lavandini, rubinetti, chiavistelli. 24 di loro furono denunciati per saccheggio, devastazione e associazione a delinquere, circa 50 furono trasferiti in altri penitenziari della regione. Il garante dei detenuti di Roma, Luigi Manconi, si recò davanti all’istituto penitenziario romano ma il suo ingresso non fu autorizzato. Con lui rimasero fuori anche alcuni esponenti di quell’associazione Antigone che il guardasigilli Castelli aveva indicato nel novembre 2002 come fo-

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mentatrice dei disordini, insieme ai parlamentari di sinistra e ai gruppi «anarcoinsurrezionalisti». Nuove ondate di proteste si susseguirono comunque nei mesi successivi. Nell’ottobre-novembre 2004 si ebbero oltre due settimane di sciopero della fame in molte carceri. Nell’aprile 2005 riguardarono ancora carceri da Lodi a Enna passando per gli istituti delle grandi città. In alcune località decine tra familiari, ex detenuti, volontari e attivisti diedero vita a presidi e concerti sotto le carceri in segno di solidarietà con le proteste dei reclusi. Il 31 luglio 2006 il provvedimento di indulto venne infine approvato. Prevedeva uno sconto di pena di tre anni per i reati commessi prima del 2 maggio di quell’anno. Dal provvedimento vennero esclusi gli autori di reati di terrorismo, strage, associazione a delinquere, pedo-pornografia, ma anche molti reati comuni; fu incluso invece il reato di falso in bilancio. Erano segnali di una profonda ambiguità politica, che non consentiva di recepire le istanze venute da detenuti, associazioni e operatori e costringeva invece, pur di ottenere i necessari due terzi dei voti in Parlamento, a un compromesso che destava in molti forti perplessità56. Alla metà del gennaio 2007 avevano beneficiato del provvedimento circa 24.500 detenuti, di cui 15.000 italiani e 9300 stranieri57. A essi andavano aggiunte oltre 7000 persone in custodia cautelare e circa 17.500 in misura alternativa. Il mondo politico rigettò l’ipotesi di un congiunto provvedimento di amnistia, che avrebbe cancellato e non solo ridotto le pene. Ciò creò notevoli problemi a un apparato giudiziario già oberato di carichi di lavoro arretrati e caratterizzato da organici e strutture insufficienti. Magistrati, avvocati, pubblici ministeri e cancellieri avrebbero continuato a lavorare negli anni successivi a migliaia di procedimenti per fatti comunque soggetti al provvedimento di indulto. Nessun «piano Marshall» accompagnò l’indulto. I limitati fondi previsti per favorire l’inserimento lavorativo e sociale degli indultati, stanziati dopo diversi mesi dai due ministeri competenti, cominciarono a essere erogati solo oltre un anno dopo l’approvazione del provvedimento. A molti ex detenuti non arrivò mai neppure la lettera predisposta dal ministero della Giustizia per consentire l’accesso a essi.

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Neppure si ebbero, in aggiunta all’indulto, provvedimenti volti alla depenalizzazione di reati minori, all’incremento delle misure alternative o all’intervento su quelle situazioni di esclusione sociale dalle quali provenivano la maggior parte dei detenuti. Rimasero in vigore tutte quelle che le associazioni definivano «leggi carcerogene», che portarono presto ad una nuova crescita del numero dei detenuti: scesi a 39.176 all’indomani dell’indulto, erano già 42.000 un anno più tardi, oltre 49.000 alla data del 31 dicembre 2007, più di 56.000 alla fine di settembre 2008. Proseguendo con quei ritmi, si prevedeva che alla fine del decennio avrebbero raggiunto quota 80.00058. Inevitabilmente si tornò a parlare della costruzione di nuove carceri. Il progetto era già stato reso pubblico in occasione della rivolta di Regina Coeli del 2004 dal capo dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tinebra59. Un «vasto programma di ammodernamento e dismissioni» avrebbe riguardato l’edilizia penitenziaria, con la costruzione di undici nuove carceri di cui già si individuavano i siti di Varese e Pordenone e un ampliamento del carcere di Bollate. Gli investimenti sarebbero stati pari a tre miliardi di euro, con l’obiettivo di ampliare la capienza complessiva del sistema penitenziario. I fondi ricavati dalla vendita degli stabilimenti carcerari più antichi sarebbero serviti a finanziare la costruzione delle nuove carceri, che per la prima volta avrebbe visto impegnate imprese private attraverso il meccanismo del leasing. Una società apposita, la Dike Aedifica, controllata al 95% dal ministero del Tesoro, era già stata costituita a quello scopo. Il dramma del sovraffollamento si trasformava così in business. Il provvedimento di clemenza fornì di fatto la materia prima per un ulteriore progresso della politica fondata sulla sicurezza. Sin dalle prime ore dopo l’indulto, i media iniziarono una sistematica contabilità di quanti, usciti con l’indulto, rientravano in carcere. Le loro storie venivano decontestualizzate, ridotte a mere carriere criminali per sostenere una tesi precostituita: l’indulto non andava fatto. Una ricerca commissionata dal ministero della Giustizia dimostrò nei mesi successivi che il tasso di recidiva era rimasto in realtà eccezionalmente basso tra le persone che avevano beneficiato dell’indulto60. Il messaggio politico sul presunto «lassismo» nel frattempo aveva però già fatto breccia nell’opinione pubblica. La nuova legge era presentata come un esempio di

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«buonismo» dello Stato che avrebbe portato ad un peggioramento della situazione della sicurezza dei cittadini onesti. Negli anni successivi, esponenti politici dei due principali schieramenti si mostrarono concordi nell’attaccare quel provvedimento che avevano essi stessi approvato: «la sicurezza non è né di Destra né di Sinistra» – amavano ripetere nei talk show – ed essa richiedeva nuovi «pacchetti sicurezza» e «certezza della pena», non certo provvedimenti di clemenza. Nei giorni dell’indulto, i detenuti del Nuovo complesso penitenziario di Firenze-Sollicciano venivano avvertiti all’ultimo momento della scarcerazione61. Si parlava da anni di quella legge, ma a guardare l’organizzazione, sembrava fosse un provvedimento del tutto imprevisto. Mancò qualunque piano di intervento a livello nazionale; non ci fu alcun coordinamento tra gli Enti locali; ogni Comune agì per suo conto. Quello di Firenze intervenne solo dopo alcuni giorni, distribuendo alla direzione del carcere un kit comprendente un biglietto dell’autobus, una lista non aggiornata dei centri di accoglienza, un foglio di informazioni generali riprodotto solo in un centinaio di copie in italiano e qualcuna in albanese. Solo una minima parte degli «indultati» ricevette il kit. I reclusi si preparavano, raccoglievano gli oggetti che avevano nelle celle, salutavano i compagni. Soprattutto nei primi giorni uscivano a decine per volta. All’ufficio «matricola» si creavano lunghe file e attese anche di ore. Alcuni immigrati venivano prelevati dentro il cancello del carcere con i cellulari e portati nei Centri di permanenza temporanea per poi essere espulsi. Ad altri veniva dato il foglio di via. I detenuti uscivano con i sacchi neri dell’immondizia in spalla. Lì dentro avevano i loro vestiti e oggetti. In molti, appena fuori dal carcere, si dirigevano verso il primo cassonetto e buttavano tutto. Un modo per lasciarsi alle spalle il carcere e per evitare di essere immediatamente identificati dalla polizia una volta arrivati in centro. Un modo per affermare la propria dignità. Un volontario faceva la spola tra l’ufficio matricola e il cancello, per annunciare l’arrivo di un altro gruppetto di persone ai volontari fuori dalle sbarre. Delle volte erano gli agenti a segnalargli i casi più problematici. C’era da accompagnare al treno una ragazza tossicodipendente appena uscita dalla casa di cura e custo-

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dia. C’era da ospitarne un’altra in attesa dell’arrivo dei suoi genitori dal Sud. Singoli indultati andavano accompagnati nei vari centri di accoglienza, che spesso però non avevano posto o erano costretti a rifiutare le persone senza permesso di soggiorno. Presso pensioni e affittacamere, alcuni volontari fornivano i propri documenti come garanzia; appena andati via loro, gli indultati venivano allontanati con vari pretesti. Interessando centinaia di detenuti in un arco di tempo breve, l’indulto mostrò con particolare evidenza i problemi di sempre di chi usciva dal carcere62. Molti ex detenuti dormirono per settimane sulle panchine dei giardini, nei vagoni dei treni, davanti alle sedi delle associazioni dove la mattina veniva distribuita la colazione. Cercarono un lavoro e spesso vennero rifiutati per via dei loro precedenti penali. Oppure lo trovarono: in nero, sottopagato, insicuro. Delle volte anche illegale.

FONDI DI ARCHIVIO E ABBREVIAZIONI

ACM

ACS

Archivio della Scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di polizia e del personale della Amministrazione penitenziaria – Cairo Montenotte (Savona) Archivio centrale dello Stato – Roma – Coppetti Fondo «Carte Coppetti» – MGG Commissione Fondo «Ministero di Grazia e Giustizia – Dipartimento Amministrazione penitenziaria – Segreteria – Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri» Fondo «Ministero di Grazia e Giusti– MGG disegni zia – Gabinetto. Disegni e proposte di legge di iniziativa parlamentare» Fondo «Ministero di Grazia e Giusti– MGG Gabinetto zia – Gabinetto» – MGG interrogazioni Fondo «Ministero di Grazia e Giustizia – Gabinetto. Interrogazioni, interpellanze, mozioni della I, II e III legislatura (1948-1953)» Fondo «Ministero di Grazia e Giusti– MGG Segreteria zia – Dipartimento Amministrazione penitenziaria – Segreteria» Fondo «Ministero di Grazia e Giusti– MGG UL zia – Ufficio legislativo» Fondo «Ministero dell’Interno. Atti– MI AAI vità assistenziali italiane e internazionali (AAI) – Presidenza (1944-1977)» Fondo «Ministero dell’Interno. Dire– MI IPAB zione generale servizi civili. Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (1943-1975)» Fondo «Ministero dell’Interno. Dire– MI PS zione generale di Pubblica Sicurezza. Circolari 1929-1949» Fondo «Presidenza del Consiglio dei – PCM ministri»

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Fondi di archivio e abbreviazioni – Regina Coeli

ADAP ADFM ADM AIC

AIG PCI AIGT MG AMP APII ASB

ASC FI ECA ASF DSP ASPG DCCP ASR

Fondo «Detenuti di Regina Coeli – Deceduti anni 1944-45» – RSI MG Fondo «RSI Ministero della Giustizia – Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena – Ufficio VII (1944-45)» – RSI Interno Fondo «Repubblica sociale italiana. Ministero dell’Interno. Ispettorato generale dei servizi» Archivio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Archivio del gruppo Dentro e fuori le mura – Firenze Archivio privato di Davide Melodia Archivio dell’Istituto Cattaneo – Bologna Fondo relativo al «Programma di studi e ricerche sul terrorismo e la violenza politica» Archivio dell’Istituto Gramsci – Roma Fondo «Partito Comunista Italiano» Archivio dell’Istituto Gramsci Toscano Fondo «Mario Gozzini» Archivio privato di Mauro Palma Archivio privato di Irene Invernizzi – Pavia Archivio di Stato di Bari – PGR forniture Fondo «Procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Bari. Contratti forniture carcerarie» – PGR trasporti Fondo «Procura generale della Repubblica. Pratica trasporti carcerari» – PR Borea Fondo «Procura della Repubblica. Patronato assistenziario Borea» – PR CM Fondo «Procura della Repubblica. Carceri mandamentali» – PR ENPMF Fondo «Procura della Repubblica. Bari. Ente nazionale Protezione morale del fanciullo» – PR Visite Fondo «Procura della Repubblica. Ufficio esecuzioni penali. Verbali mensili visite carcerarie. 1969-1971» Archivio storico comunale – Firenze Fondo «Ente comunale di assistenza di Firenze» Archivio di Stato di Firenze Fondo «Direzione degli stabilimenti di pena» Archivio di Stato di Perugia Fondo «Direzione casa circondariale Perugia» Archivio di Stato di Roma (sede succursale – via Galla Placidia) – RC Fondo «Detenuti di Regina Coeli» – Altavista Fondo «Altavista»

Fondi di archivio e abbreviazioni Le Nuove

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Archivio di Stato di Torino Fondo «Casa circondariale Torino Le Nuove» CTFR SR Archivio del Collettivo teatrale Fo-Rame – Milano Fondo «Soccorso Rosso» DS Istituti Pena Discoteca di Stato – Roma Fondo «Istituti di pena di Porto Azzurro e Pianosa» FUS Archivio della Fondazione «Ugo Spirito» – Roma Fondo «Mario Cassiano» – MC Fondo «Movimento Sociale Italiano» – MSI ILS DC Archivio storico Istituto Luigi Sturzo Fondo «Democrazia Cristiana» – Segreteria politica e uffici centrali (1944-1992) IRSIFAR Archivio IRSIFAR, conservato presso l’Archivio di Stato di Roma – sede succursale via Galla Placidia Fondo «Ferruccio Cesaretti» – FC Fondo «Guido Crainz» – GC Fondo «Raul Mordenti» – RM MP DMV Archivio «Marco Pezzi» Fondo «Di Marco – Voltaggio» OASI Archivio dell’Opera assistenza scarcerati italiani – Firenze ODR Archivio della Fondazione «Opera Divin Redentore – Casa dell’amore fraterno» – Roma RC Fondo privato di padre Ruggero Cipolla – Saluzzo (Cuneo) SEAC Archivio del Segretariato nazionale enti di assistenza ai carcerati SV Archivio delle carceri giudiziarie di San Vittore – Milano AST

Altre sigle CG CLA CPMP CR RSP QCC

Carceri giudiziarie Casa di lavoro all’aperto Casa penale per minorati psichici Casa di reclusione «Rassegna di studi penitenziari» «Quaderni di criminologia clinica»

NOTE Prefazione 1 M. Galzigna (a cura di), La follia, la norma, l’archivio. Prospettive storiografiche e orientamenti archivistici, Marsilio, Venezia 1984. In particolare, per la storia e gli archivi carcerari cfr. pp. 229 sgg.

Introduzione 1 ASF DSP, 19, 3, prot. n. 1213 CG Forlì, 3.2.1969. La ricostruzione del mondo carcerario contenuta nella presente introduzione fa riferimento soprattutto al periodo precedente alla riforma penitenziaria del luglio 1975 e si basa, dove non diversamente indicato, sulla documentazione conservata nel fondo ASF DSP. 2 Le considerazioni che seguono si basano sull’osservazione dei seguenti istituti penitenziari: ex casa circondariale di Firenze (Le Murate); ex casa di reclusione di Firenze (Santa Teresa); casa circondariale di Pisa (Don Bosco); ex casa circondariale di Torino (Le Nuove); casa circondariale di Milano (San Vittore); casa circondariale di Lecce; casa circondariale di Roma (Regina Coeli); casa circondariale di Roma-Rebibbia; casa di reclusione di Volterra; casa di reclusione di Orvieto; ex casa circondariale di Bologna (San Giovanni in Monte); casa circondariale di Bari; casa circondariale di Firenze-Sollicciano; ex casa di reclusione di Favignana; ex casa circondariale di Trapani; casa di reclusione di San Gimignano; casa di reclusione di Fossombrone. Sulla suddivisione dello spazio all’interno delle istituzioni totali, si rimanda in particolare a E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 249-268. 3 Il «sopravvitto» è il sistema che consente ai detenuti di acquistare cibi e altri beni conservati presso lo spaccio interno del carcere. I detenuti restano nelle loro celle, scelgono i beni che sono loro necessari tra quelli di un’apposita lista messa a disposizione dalla ditta appaltatrice; ciascun recluso compila una «domandina» in cella, la restituisce al detenuto incaricato di fare la spesa («spesino») e riceve successivamente da quest’ultimo le merci richieste. 4 ASR Altavista, 98, 5/3 Roma Regina Coeli, prot. n. 10408 della Direzione del Carcere giudiziario «Regina Coeli», 28 aprile 1975. Per una descrizione della scansione della giornata in carcere fatta da un detenuto: S. Stefanini, Una vi-

Note all’Introduzione

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ta dentro. Dal Cesare Beccaria a San Vittore, Edizioni Magazine 2, Milano 1998, p. 14. 5 Sulla sessualità in carcere: G. Bolino, A. De Deo, Il sesso nelle carceri italiane. Inchiesta e documenti, Feltrinelli, Milano 1970; G. Salierno, La repressione sessuale nelle carceri italiane, Tattilo, Roma 1973; B.M. Elia, Emarginazione e omosessualità negli istituti di rieducazione, Mazzotta Editore, Milano 1974; G. Pititto (a cura di), da Rebibbia con Amore, Il Cammino, Vibo Valentia 1989; G. Panizzari, Il sesso degli angeli, Kaos, Milano 1991. 6 ASF DSP, 46, 2, prot. n. 17556 della Direzione delle Carceri giudiziarie centrali di Firenze, 6 novembre 1971. 7 ASF DSP, 64, 3, prot. n. 5917 della Direzione degli istituti penali di Volterra, 10 giugno 1972. 8 Ad esempio: ASF DSP, 64, 4, prot. n. 12819.3.1 della Direzione della casa penale di Porto Azzurro, 23 settembre 1972; ASF DSP, 99, 2, prot. n. 536 CG Grosseto, 22 marzo 1975; ASF DSP, 40, 1, prot. n. 14889.3.1.10984 della Direzione della casa penale di Porto Azzurro, 3 settembre 1970; ASF DSP, 67, 1, prot. n. 1537.3.V della Direzione degli istituti penitenziari di Perugia, 6 agosto 1971; ASF DSP, 93, 1, prot. n. 1315.3.1.B della Direzione della casa penale di Santa Teresa, 21 giugno 1974; ASF DSP, 156, 2, prot. n. 7260 della Direzione della casa circondariale di Pisa, 12 aprile 1978. 9 C. D’Amelio, L’ambiente carcerario e la sua incidenza sulla personalità del detenuto, in RSP, XXIII, gennaio-febbraio 1973, 1, p. 15. 10 P. Coppola, A. Devoto, Sull’ingestione di corpi estranei in ambito carcerario: qualche osservazione d’insieme, in RSP, XIII, luglio-ottobre 1963, 4-5, pp. 608-613; A. Savoia, G. Fratantonio, Il fenomeno della violenza nelle carceri, in RSP, XXVIII, marzo-aprile 1978, 2, pp. 147-155. 11 Ministero di Grazia e Giustizia, Il suicidio nelle carceri. Indagine preliminare sui suicidi consumati e tentati dal 1960 al 1969, Tipografia delle Mantellate, Roma 1976; A. Madia, M. Granata, P. Spadaro, Il suicidio negli istituti di prevenzione e di pena, in RSP, VIII, settembre-ottobre 1959, 5, pp. 689-704. Per le considerazioni esposte di seguito nel testo si rimanda alla documentazione conservata in ASF DSP. 12 ASF DSP, 58, f. 3, prot. n. 192.3.1.G CG Ravenna, 14 gennaio 1972. Per le citazioni successive: ASF DSP, 20, f. 4, prot. n. 4780.3.1.C CG Spoleto, 27 giugno 1969; ASF DSP, 3, f. 2, prot. n. 8541 CLA Saliceta San Giuliano, 11 luglio 1967; ASF DSP, 50, f. 4, prot. n. 2702.3.1.D CG Fermo, 19 luglio 1969; ASF DSP, 50, f. 1, prot. n. 8196.3.1.R CR San Gimignano, 13 settembre 1974; ASF DSP, 92, f. 3, prot. n. 21856.3.1.N CG Firenze, 21 ottobre 1974; ASF DSP, 97, f. 2, prot. n. 7134.3.1.M CG Lucca, 27 giugno 1975. 13 L’espressione deriva dalla sociologia sul carcere. Clemmer ha parlato di una «comunità carceraria» (D. Clemmer, The Prison Community, The Christopher Publishing House, Boston 1940, pp. 83-87). Hayner e Ash hanno distinto invece in modo più preciso tra «comunità carceraria» (prison community) – la comunità formalmente gestita dalle autorità carcerarie – e «comunità dei detenuti» (prisoner community) – la effettiva rete di rapporti, formali e informali, che legano i reclusi tra di loro (N.S. Hayner, E. Ash, The Prisoner Community as a Social Group, in «American Sociological Review», IV, 1939, nn. 1-6, pp. 362-363).

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Note

14 Si accoglie qui sostanzialmente la distinzione proposta in I. Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, pp. 199-200. 15 Sul gergo carcerario si veda E. Ferrero, I gerghi della malavita dal ’500 a oggi, Mondadori, Milano 1972, dal quale sono anche tratti i termini riportati nel testo. 16 «La Voce Penitenziaria», dal n. 10-11 (ottobre-novembre 1965) al n. 5-6 (maggio-giugno 1966). Per una ricostruzione storica, ma fortemente agiografica, delle origini del Corpo degli agenti di custodia si veda P. Di Paolo, Origini storiche degli Agenti di Custodia, Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena, Roma 1989. Una esemplare analisi sociologica sugli agenti di custodia in Francia è in A. Chauvenet, F. Orlic, G. Benguigui, Le monde des surveillants de prison, Presses Universitaires de France, Paris 1994. 17 La ricostruzione si basa sulle fonti conservate presso ACM per il periodo 1966-1975. Si rinvia anche alle interviste con il maresciallo in pensione Aurelio Mascioli, con il comandante Salvo Uselli e con il maresciallo in pensione Di Matteo. 18 ACM, «Disposizioni a carattere generale VIII Corso allievi», f. «VII Corso Astrea. Disposizioni a carattere generale», documento intitolato «Scuola Militare Allievi Agenti di Custodia – Cairo Montenotte, IX Corso Argo, Orario di caserma». 19 Le considerazioni sono basate sull’elaborazione dei dati ricavati dalla documentazione conservata in ACM. 20 Ministero di Grazia e Giustizia – Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena, Regolamento per il Corpo degli agenti di custodia, aggiornato con le successive disposizioni legislative, Tipografia delle Mantellate, Roma 1978. 21 Nel 1977 l’Ufficio studi e ricerche della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena promosse una rilevazione sulle opinioni del personale militare circa le prospettive di riforma del Corpo degli agenti di custodia. Si vedano: ADAP, 31.55 D., f. «3/1.55 anno 1977», prot. n. 672451-31.55 del Ministero di Grazia e Giustizia [d’ora in poi MGG] – Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena [d’ora in poi DGIPP] – Ufficio studi e ricerche, 17 marzo 1977; ADAP, 31.55 D., f. «3/1.55 anno 1978», prot. n. 672985-31.55 del MGG – DGIPP – Ufficio studi e ricerche, 12 agosto 1977. 22 Per le citazioni si vedano: ASF DSP, 102, 2, lettera n. 14734 dall’Ispettorato distrettuale (Firenze), ricevuta il 23 settembre 1975; ASF DSP, 64, 2, prot. n. 49R.3.1.M della Direzione degli istituti penali di Volterra, 8 dicembre 1972; ASF DSP, 44, 4, prot. s.n. del Tribunale civile e penale di Pisa – Giudice di sorveglianza, 29 marzo 1971; ASF DSP, 213, 1, lettera non protocollata che inizia «Con questa lettera io intendo informarvi». 23 ASR Altavista, 124, sf. «Carceri Giudiziarie di Napoli. Suicidi detenuti e lesioni [...] Relazione giudice sorveglianza», prot. n. [...] 68 del Tribunale civile e penale di Napoli – Ufficio di sorveglianza, 17 novembre 1972. 24 L’analisi dei giudizi si riferisce agli estratti delle cartelle biografiche di 2000 detenuti maschi ristretti negli istituti dell’Ispettorato distrettuale con sede a Firenze negli anni compresi tra il 1966 e il 1976. 25 Le citazioni sono tratte dagli estratti delle cartelle biografiche conservate in ASF DSP.

Note al capitolo I

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26 Le considerazioni esposte nel testo si basano in particolare sullo studio sistematico del materiale conservato in ASB – PR Visite.

Capitolo I La ricostruzione che segue è basata sulla documentazione conservata in: Segreteria, 3-4; ACS, MGG Gabinetto, 61 e 62; ACS, RSI Interno, busta Unica. 2 ACS, MGG Gabinetto, 61, f. 130, sf. 1, ins. 43, 4 maggio 1944. 3 ACS, MGG Gabinetto, 62, f. 130, sf.1, ins. 15b, prot. s.n. del Ministero della Giustizia [d’ora in poi MG] – DGIPP, 30 luglio 1944. 4 ACS, RSI Interno, busta Unica, f. «Ispezione alle Carceri giudiziarie di Varese 8-9-10 febbraio 1945 XXIII», prot. n. 732/1/4/OP della Guardia nazionale repubblicana – Comando provinciale di Vicenza, 15 settembre 1944. Si veda anche ACS, RSI Interno, busta Unica, f. «Ispezione alle Carceri giudiziarie di Varese 8-9-10 febbraio 1945 XXIII», prot. s.n. della Questura repubblicana di Vicenza, 15 settembre 1944. 5 ACS, MGG Gabinetto, 61, f. 130, sf.1, ins. 51, prot. s.n. del MG – DGIPP, s.d.; ACS, MGG Gabinetto, 61, f. 130, sf. 1, ins. 9, prot. n. 542 della Procura generale presso la Corte d’Appello di Brescia, 13 febbraio 1945. 6 ACS, MGG Gabinetto, 61, f. 130, sf. 1, ins.18, prot. s.n. del prefetto di Varese, s.d. [ma 1945]. 7 I documenti archivistici principali sulla deportazione dalle carceri sono: decreto legislativo 2 aprile 1944, n. 120 e circolare n. 29, prot. n. 55385/5 del 23 giugno 1944 del MG. Per le annotazioni sulla prassi da seguire per disporre l’avviamento al lavoro in Germania dei detenuti, cfr. ACS, RSI Interno, busta Unica, f. «Segreteria particolare», prot. s.n. del MG – DGIPP, 10 luglio 1944. Per la ricostruzione che segue si vedano i documenti conservati in ACS, MGG Gabinetto, 62, 130, sf. 4, ins. 2. 8 ACS, MGG Gabinetto, 62, f. 130, sf. 4, ins. 2, 17 giugno 1944. 9 ACS, MGG Gabinetto, 62, f. 130, sf. 4, ins. 2, prot. n. 2928/Ris del ministro della Giustizia, 6 maggio 1944. 10 ASPG, DCCP, 4: prot. n. 16 CG Perugia, 30 giugno 1944; prot. n. 6225 CG Perugia, 18 maggio 1946. 11 ACS, MGG Gabinetto, 61, 130, sf. 1, ins. 22, prot. n. 17234/13 del MG – DGIPP, 9 novembre 1944. Informazioni relative all’origine dell’ufficio nazista a San Vittore sono contenute anche in ACS, MGG Gabinetto, 61, f. 130, sf. 1, ins. 22, prot. n. 6200/10-1 CG Milano, 27 febbraio 1945. 12 Si veda il materiale conservato in: ACS, MGG Gabinetto, 62, 130, sf. 4, ins. 2. 13 La ricostruzione che segue si basa sulla documentazione conservata in: ACS, MGG Gabinetto, 61 e 62; ACS, RSI Interno, busta Unica. 14 ACS, RSI Interno, busta Unica, f. «Ispezione Carceri Giudiziarie di Milano – 2-3 settembre 1944 XXII – 21 novembre 1944 XXIII – 23 febbraio 1945 XXIII», prot. s.n. del Prefetto Ispettore generale Ippoliti, 16 febbraio 1945. 15 ACS, RSI Interno, busta Unica, f. «Pratiche varie concernenti le direzioni 1

ACS, MGG

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Note

delle carceri della RSI», prot. n. 0106/S del Prefetto Ispettore generale Ippoliti, 23 marzo 1945. 16 ACS, RSI Interno, busta Unica, f. «Inchiesta funzion.to Carceri di Torino – 19 gennaio 1945», prot. s.n. del Prefetto Ispettore generale Ippoliti, 23 gennaio 1945. 17 Si vedano, rispettivamente: ACS, MGG Gabinetto, 61, 130, sf. 1, ins. 43, telegramma in cifra n. 91838 del capo del Nucleo di collegamento min.ro Giustizia al ministro Pisenti, s.d.; ACS, MGG Gabinetto, 61, 130, sf. 1, ins. 8, prot. s.n. della Prefettura repubblicana di Venezia, 20 agosto 1944; ACS, MGG Gabinetto, 61, 130, sf. 1, ins. 44, prot. n. 153/Ris del Partito fascista repubblicano – Federazione provinciale di Vicenza, 22 gennaio 1944. 18 ACS, MGG Gabinetto, 62, 130, sf. 2, ins. 4, prot. n. 1349 del MG – Capo di gabinetto, 20 aprile 1945. 19 J. Foot, The Tale of S.Vittore: Prisons, Politics, Crime and Fascism in Milan, 1943-1946, in «Modern Italy», III, 1998, 1, p. 27. 20 Per la ricostruzione che segue, si vedano i documenti conservati in: ACS, MGG Segreteria, 3, 15; ACS, MGG Gabinetto, 61 e 62; ACS, RSI Interno, busta Unica. 21 I documenti ufficiali sull’Ispettorato generale dei servizi carcerari sono in ACS, RSI Interno, busta Unica. 22 ACS, MGG Segreteria, 1, f. 15, sf. 12, prot. n. 8468/207 del Ministero di Grazia e Giustizia, gabinetto del Ministro, 18 luglio 1945. Il ministro Pisenti venne arrestato il 21 giugno 1945. Scontò poi circa un anno di detenzione preventiva, fino al processo, che iniziò nel luglio del 1946. La Sezione speciale della Corte d’Assise di Bergamo lo assolse con formula piena dall’imputazione di «avere in Brescia, in epoca posteriore all’8 settembre 1943 rivestita la carica di Ministro della Giustizia del sedicente governo della Repubblica Sociale Italiana», fatto che configurava il reato di «collaborazione col tedesco invasore». La sentenza fu in seguito confermata dalla Corte di Cassazione. Si veda la memoria scritta da Pisenti sul periodo in cui fu ministro della Giustizia della RSI: P. Pisenti, Una repubblica necessaria (RSI), Giovanni Volpe Editore, Roma 1977. 23 Cfr. Commissione visitatrice e di assistenza ai detenuti – Roma, Il problema carcerario italiano. Relazione sulle deficienze del vigente sistema penitenziario e sulla necessità di una urgente riforma, Tipografia delle Mantellate, Roma 1944. 24 Circolare n. 2893/1535, prot. n. 71699-1/12 del MGG – DGIPP – Ufficio I, 19 agosto 1945; Circolare n. 3066/1679, prot. n. 86047/1 del MGG – DGIPP – Ufficio II, 17 luglio 1945. 25 Circolare n. 1661, prot. n. 172/2.1 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria, 20 maggio 1945. Per la ricostruzione che segue si vedano: Circolare n. 2912/1548, prot. n. 131516/22 del MGG – DGIPP – Ufficio VI, 7 settembre 1944; Circolare n. 2995/1602, prot. n. 202/1 del MGG – DGIPP – Ufficio IV, 1 febbraio 1945; Circolare urgentissima n. 3126/1720, prot. n. 437/7.8 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria, 14 dicembre 1945; Circolare n. 2985/1597, prot. n. 13752.1/3 della DGIPP – Ufficio V, 13 gennaio 1945; Circolare n. 111 del Ministero dell’Alimentazione, 4 settembre 1945; Circolare n. 3299/1860, prot. n. 187437/9 Compl. del MGG – DGIPP – Ufficio VI, 20 dicembre 1946; Circolare n. 3288/1853, prot. n. 187609/9 Compl. del MGG – DGIPP – Ufficio VI, 2 dicembre 1946; Circolare n. 84/2582, prot. n. 27241/1-3 del MGG – DGIPP – Ufficio V, 2 luglio 1952. Sul graduale miglioramento del vitto si veda: B. Bruno, Relazione

Note al capitolo I

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sul miglioramento delle somministrazioni vittuarie negli istituti di pena, in RSP, VII, gennaio-febbraio 1957, 1, p. 353. 26 Si veda ad esempio: A. Marcozzi, La diffusione e l’andamento della sifilide negli istituti di prevenzione e di pena della città di Roma nell’ultimo quinquennio (1952-1956), in RSP, VII, gennaio-febbraio 1957, 1, pp. 362-372. 27 I dati che seguono nel testo sono tratti dal Sommario di Statistiche dell’ISTAT. Per le questioni relative all’attendibilità delle statistiche in materia penale e penitenziaria si rimanda peraltro alle valutazioni presenti in S. Bisi Trentino, Ideologia e statistica: la criminalità attraverso le pubblicazioni ufficiali, Tipolito Aurelia, Roma 1979. A parte le statistiche giudiziarie dell’ISTAT, la fonte più importante è data da: Ministero di Grazia e Giustizia – Ufficio studi, ricerche e documentazione della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena, La popolazione penitenziaria nel ventennio 1959-1978, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1984. 28 I dati della tabella differiscono da quelli forniti in G. Neppi Modona, Carcere e società civile, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1973, vol. V, 2, pp. 19031998, p. 1980, nota n. 2, che sono riferiti al 31 dicembre di ciascun anno e che risultano i seguenti: 1945 - 63.364; 1946 - 50.890. 29 Su Regina Coeli: ACS, Regina Coeli, f. 353, f. 388, f. 442. Si veda anche Neppi Modona, Carcere e società civile cit. 30 Circolare n. 3076/1684 del MGG – DGIPP – Ufficio VI, 14 agosto 1945; Circolare n. 3091/1693 del MGG – DGIPP – Ufficio VI, 13 settembre 1945 (relativa al decreto luogotenenziale 21 agosto 1945, n. 508). 31 Si veda su questo l’importante documentazione conservata in AST Le Nuove, 6699. 32 Sulla rivolta di San Vittore: Foot, The Tale of S.Vittore cit.; A. Bevilacqua, La Pasqua Rossa, Einaudi, Torino 2003; V. Costa, La tariffa, Il Mulino, Bologna 2000, p. 52; G. Pisanò, Io, fascista. 1945-1946. La testimonianza di un superstite, Il Saggiatore, Milano 1997, pp. 174-186. 33 Per le considerazioni che seguono ci si basa, tra l’altro, sulla documentazione conservata in FUS MC. Si veda anche M. Tarchi, Dal Msi ad An. Organizzazione e strategie, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 32-34. 34 Circolare «Riservata» n. 2979/1594, prot. n. 85660/1 del MGG – DGIPP – Ufficio II, 5 gennaio 1945; circolare n. 442/13376 del ministero dell’Interno – Direzione generale di Pubblica Sicurezza, 25 settembre 1945; circolare n. 442/ 3943 del Ministero dell’Interno – Direzione generale di Pubblica Sicurezza, 5 aprile 1946; circolare n. 442/20220 del Ministero dell’Interno – Direzione generale di Pubblica Sicurezza, 9 novembre 1946. 35 La documentazione relativa alla Commissione Persico è conservata in ACS, MGG Commissione. La notizia dell’istituzione della Commissione giunse nelle carceri per mezzo della Circolare n. 3704/2197, prot. n. 196/6.33 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria, 22 luglio 1949. Sulla Commissione si rimanda anche a: C.G. De Vito, La Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri (19491950), in «Rassegna penitenziaria e criminologica», 2002, numero speciale, pp. 103-152. 36 Le due lettere sono conservate in: ACS – MGG Commissione, 25, 138, sf. 1, prot. n. 42653.3.1.L CG Napoli, 25 novembre 1949; ACS – MGG Commissione, 25, 138, sf. 1, prot. n. 5405 CPMP Soriano nel Cimino, 6 agosto 1949. 37 Il «bugliolo» era il secchio metallico in cui i detenuti espletavano i propri

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Note

bisogni fisiologici per mancanza di impianti igienici adeguati nelle celle. Di solito veniva svuotato una volta al giorno. 38 Per una ricostruzione puntuale del dibattito si veda: G. Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in «La questione criminale», II, maggio-dicembre 1976, 2-3, pp. 319-372. 39 ACS, MGG UL, Cat. 17 da 1 a 24, f. 17/1-22, sf. 17/10, prot. n. 5573/Gab. del ministro di Grazia e Giustizia, 3 aprile 1944. Nello stesso sottofascicolo si veda anche lo «Schema di decreto legislativo del Ministro della Giustizia», non protocollato, distribuito il 24 luglio 1944. Nel sf. 2 si veda inoltre la nota: «Appunto sulla riforma del codice penale (Redatto dal Dr. Giacobbe su richiesta di S.E. Scarpello) Luglio 1963». Un quadro delle condanne a morte pronunciate dai Tribunali ordinari dall’entrata in vigore del Codice del 1930 al 31 dicembre 1942 è in: ACS, MGG Segreteria, 3, 15, sf. 3. 40 R. Cipolla, I «miei» condannati a morte, Il Punto, Torino 1998; R. Cipolla, Un francescano dietro le sbarre 1944-1994, Il Punto, Torino 2000. 41 G.F. Venè, Pena di morte. Quelli di Villarbasse, gli ultimi giustiziati in Italia, Bompiani, Milano 1984. 42 G. Persico, Quaderno di un detenuto, Barbèra, Firenze 1945. Si vedano anche: G. Persico, La nuova magistratura, Edizioni del secolo, Roma s.d. [ma 1946]; G. Persico, Per una giustizia migliore. Discorsi parlamentari, Tipografia del Senato, Roma 1953. 43 ACS, MGG Commissione, 25, 138, sf. 1, prot. n. 4 del MGG – Commissione Parlamentare per le carceri, 27 luglio 1949. 44 Cfr. Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria cit., p. 329. Il citato numero della rivista è: «Il Ponte», V, 3, marzo 1949. Una ristampa recente si trova in allegato alla «Rassegna penitenziaria e criminologia», 2002, numero speciale. Per altre testimonianze delle esperienze carcerarie dei detenuti politici durante il periodo fascista, si vedano: Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Editori Riuniti, Roma 1962; M. Alicata, Lettere e taccuini di Regina Coeli, Einaudi, Torino 1977; M. Giua, Ricordi di un ex detenuto politico 1935-1943, Chiantore, Torino 1945; S. Pertini, Sei condanne, due evasioni, a cura di V. Faggi, Mondadori, Milano 1970. 45 A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1971, p. 102. 46 La documentazione sui sistemi penitenziari esteri è conservata in ACS, MGG Commissione, buste 1, 2, 3, 4. 47 Per le citate Commissioni si rimanda a: ACS, MGG Segreteria, 26, 139, sf. 2; MGG – Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale – Comitato esecutivo, Progetto preliminare del Codice penale, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1950; MGG, Commissione ministeriale per la revisione del Codice di procedura penale, Comitato esecutivo, Progetto di modificazioni per l’aggiornamento del Codice di procedura penale, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1950. 48 MGG – DGIPP, Progetto del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, Tipografia delle Mantellate, Roma s.d. Cfr. anche: Relazione della Commissione parlamentare di indagine sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari, Tipografia delle Mantellate, Roma 1957. Si veda anche: MGG – DGIPP, Regolamento per gli Istituti di Prevenzione e di Pena Aggiornato con le successive circolari ministeriali, Tipografia delle Mantellate, Roma 1972. 49 Circolare n. 4014/2473, prot. n. 707/7.8 del MGG – Direzione generale isti-

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tuti prevenzione e pena – Ufficio Segreteria, 1 agosto 1951. L’importanza di quella circolare è emersa anche nel corso del colloquio con l’ex ispettore distrettuale Italo Innocenti e nell’intervista con il maresciallo in pensione Aurelio Mascioli. 50 Cfr. ACS, MGG – UL, Cat. 3 – da 1 a 12, f. 3/3, sf. 1, «D.P.R. 25 giugno 1947, n. 513 Amnistia e indulto per i reati attinenti a vertenze agrarie»; ACS, MGG – UL, Cat. 3 – da 1 a 12, f.3/4, sf.1, «D.L. 29 gennaio 1948, n. 32 Amnistia e indulto per i reati annonari comuni e politici»; ACS, MGG – UL, Cat. 3 – da 1 a 12, f.3/5, sf.1, «Legge 3 agosto 1949, n. 535 Delega al Presidente della Repubblica per concedere amnistia e indulto per i reati elettorali nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948». 51 Si vedano i documenti conservati in ACS, MGG Segreteria, 1 f. 1. 52 ACS, MGG Segreteria, 1, 1, sf. 9, Circolare protocollata in arrivo con n. 415/1.1 dalla DGIPP – Segreteria, 22 novembre 1945. 53 Si tratta del decreto legislativo 7 febbraio 1948, n. 48. Successivamente si ebbe la legge del 14 maggio 1949, per la quale cfr. M. Salvati, Amministrazione pubblica e partiti, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, Einaudi, Torino 1994, pp. 414-534. 54 Neppi Modona, Carcere e società civile cit., pp. 1906-1907. 55 Sulle vicende che portarono a questa strutturazione nel 1922 cfr. G. Neppi Modona e M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, in Storia d’Italia, annale 12, a cura di L. Violante, Einaudi, Torino, pp. 757-847. Le vicende dei funzionari direttivi possono essere seguite per gli anni che vanno dal 1947 al 1974 attraverso le tre riviste dei dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria: il «Bollettino Informazione – Associazione Dipendenti Amministrazione Carceraria», «Il Corriere Penitenziario» e «La Voce Penitenziaria». 56 Lavori edilizi negli istituti penitenziari, in RSP, II, gennaio-febbraio 1952, 1, pp. 120-122; G. Lattanzi, L’attività della direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena nel triennio 1953-1956, in RSP, VI, novembre-dicembre 1956, 6, pp. 753-765. Per la descrizione della situazione a San Vittore si veda: G. Borgioli, Le carceri giudiziarie ‘San Vittore’ in Milano, in RSP, II, maggio-giugno 1952, 3, pp. 502-510. 57 Circolare n. 314/2804, prot. n. 1527/5.2 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria, 24 febbraio 1954. 58 Sulla carcerazione preventiva: Ministero di Grazia e Giustizia – Ufficio studi, ricerche e documentazione della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena, La popolazione penitenziaria cit., pp. 964-965; Camera dei Deputati, La carcerazione preventiva. Ordinamento italiano e esperienze giuridiche straniere, Camera dei Deputati, Roma 1985.

Capitolo II 1 Per la ricostruzione della visita di Giovanni XXIII si rimanda a: La visita di Sua Santità Giovanni XXIII alle carceri giudiziarie di Regina Coeli, in RSP, VIII, novembre-dicembre 1958, 6, pp. I-VIII. Informazioni su quegli eventi si trovano in RSP, a partire dal 1951. 2 Riapertura dell’anno scolastico 1952-53 nella casa di reclusione di Alessan-

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Note

dria e consegna del diploma di geometra ad un detenuto, in RSP, II, novembre-dicembre 1952, 6, pp. 937-938. 3 Trattenimento musicale nella casa di reclusione di Ancona, RSP, II, luglioagosto 1952, 6, p. 656. 4 Per le considerazioni che seguono si fa riferimento all’intervista all’ex maestro carcerario, Piergiorgio Valeriani. Si veda inoltre I. Sturniolo, Per un rapporto umano e personalistico con il detenuto, Edizioni Laurus, Firenze 1978. 5 Un messaggio del Papa ai detenuti, in RSP, I, novembre-dicembre 1951, 6. 6 Intervista all’ex cappellano padre Ruggero Cipolla. La rivista dell’Ispettorato generale dei cappellani era «Itinerari». 7 Intervista a una ex suora guardiana, Castiglioncello, 28 novembre 1999. 8 C.I. Baudana Vaccolini, Cristo varca i cancelli, Treveri, Roma 1957, p. 12. 9 Oltre alla letteratura esistente sulla Società, la presente ricostruzione è basata anche sui colloqui privati avuti con suor Paola, suora vincenziana a Firenze, e con l’avvocato Stefano Zoani, presidente del Consiglio centrale della Società di San Vincenzo de’ Paoli. 10 ISTAT, Indagine speciale sui presenti negli istituti di prevenzione e di pena al 31 marzo 1955, Roma 1956. 11 Sono riportate in RSP, nei fascicoli relativi agli anni dal 1954 al 1963. 12 I nastri delle registrazioni e i libretti di campo sono conservati presso la Discoteca di Stato, a Roma, nella sezione «Istituti di Pena di Porto Azzurro e Pianosa» dell’Archivio etnico linguistico-musicale. Il fondo è costituito in totale da 123 brani. Le considerazioni che seguono sono svolte sulla base dell’ascolto dei 50 brani catalogati come «canti di carcere». Si veda: Discoteca di Stato, Etnomusica. Catalogo della musica di tradizione orale nelle registrazioni dell’Archivio Etnico Linguistico-Musicale della Discoteca di Stato, a cura di S. Biagiola, Cooperativa Editrice Il Ventaglio, Roma 1986, pp. 483-491. I «libretti di campo» e la lettera sono conservati in DS, raccolta 5M, 1, prot.166/FK/8 del sottosegretario di Stato, 26 febbraio 1964. 13 La ricostruzione che segue è basata sugli appunti di un colloquio avuto con la dott.ssa Anna Rita Fraiegari, già operatrice all’interno dell’INO. Sul dibattito criminologico italiano ed europeo dagli anni Cinquanta in poi si rimanda alle riviste: «Rassegna di studi penitenziari»; «Quaderni di criminologia clinica»; «Rassegna penitenziaria e criminologica»; «Revue Internationale de Défense Sociale», «Rivista di Difesa Sociale». Si vedano inoltre: B. Di Tullio, Principi di criminologia generale e clinica e psicopatologia sociale, Istituto italiano di medicina sociale, Roma 1971; G. Canepa, Personalità e delinquenza. Problemi di antropologia criminale e di criminologia clinica, Giuffrè, Milano 1974; M. Ancel, La défense sociale nouvelle (Un mouvement de Politique criminelle humaniste), Èditions Cujas, Paris 1981; Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, a cura di Franco Ferracuti, 17 voll., Giuffrè, Milano 1987-1990. 14 S. Benelli, F. Fedeli, A Rebibbia non esistono incorreggibili, in «Tempo», XXI, 1959, 49, pp. 52-58. 15 Sulle condizioni di detenzione nelle carceri minorili si vedano tuttavia: Minori in tutto. Un’indagine sul carcere minorile in Italia. Atti del Convegno giovanile Pro Civitate Christiana, Assisi 27-31 dicembre 1973, Emme, Milano 1974; G. Senzani, L’esclusione anticipata. Rapporto da 118 case di rieducazione per minorenni, Jaca Book, Milano 1970. 16 Circolare n. 1205/3666 del MGG – DGIPP – Ufficio III, 18 dicembre 1961.

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17 Per «giovani-adulti» si intendono i soggetti di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Si tratta di una categoria criminologica alla quale in quegli anni fu attribuita una notevole importanza e sulla quale furono concentrate le prime pratiche sperimentali di trattamento. 18 E. Sanna, Dentro il carcere, puntate trasmesse su Rai 2 nel 1969. Dall’inchiesta televisiva fu anche tratto un interessante libro, per il quale cfr. E. Sanna, Inchiesta sulle carceri, De Donato, Bari 1970. 19 La considerazione riprende la suggestione contenuta in M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1975, p. 272. 20 V.M. Palmieri, L’attività del centro criminologico di Napoli, in RSP, V, maggio-giugno 1955, 3, pp. 362-364; D. Ragozzino, La paranoia. Aspetti clinici e medico-legali. Osservazioni e rilievi, in RSP, VIII, marzo-aprile 1958, 2, pp. 173-174. 21 M. de Mennato, Le possibilità della psicochirurgia nella terapia della criminalità, in RSP, II, marzo-aprile 1952, 2, pp. 147. 22 Cfr. Approvato il disegno di legge sulla riforma penitenziaria, in RSP, X, maggio-giugno 1960, 3, p. 467. 23 Il materiale archivistico relativo alla «Commissione Reale» è conservato in ACS, MGG Segreteria, 26, f. 139. Si vedano inoltre gli articoli apparsi sull’argomento nella RSP dal novembre 1957 al marzo 1958. Alcune considerazioni critiche sulla Commissione si trovano in particolare in Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria cit., pp. 337-338. 24 Cfr. G. Ponti, Commento criminologico al progetto di Ordinamento penitenziario e programma per la differenziazione della esecuzione penale ai fini del trattamento, in QCC, VI, luglio-settembre 1964, 3, p. 273. 25 S. Benelli, F. Fedeli, Verità dietro le sbarre, in «Tempo», XXI, 1959, 47, p. 10. Gli articoli uscirono nei numeri 47-52 del 1959 e nei numeri 1-3 del 1960. 26 S. Benelli, F. Fedeli, I carcerati lo chiamano la soglia dell’inferno, in «Tempo», XXI, 1959, 51, pp. 57 e 59. 27 S. Benelli, Il morto di Regina Coeli, in «Tempo», XXII, 1960, 1, p. 59. 28 S. Benelli, F. Fedeli, Insegnano soprattutto l’uso del letto di contenzione, in «Tempo», XXII, 1960, 1, p. 47. 29 Ibid. 30 La relazione è conservata in ACS, MGG Segreteria, 26, f. 140. 31 Per un quadro dell’assistenza si rimanda in particolare agli articoli comparsi sulla RSP dal 1957 al 1975 e alla documentazione archivistica conservata nei fondi: ACS, MI AAI; ACS, MI IPAB; ASC FI ECA; OASI; ODR. 32 Sulla situazione degli enti di assistenza post-carceraria a Roma si rimanda a: ACS, MGG Segreteria, 15, 80; ACS, MI IPAB, 594, f. «26070-110», prot. n. 861 del Consiglio di Stato – Sezione Prima, 30 maggio 1961, documento allegato intitolato «Relazione sull’Opera degli Sbandati»; ACS, MI IPAB, 598, f. «26070-181», prot. n. E.3.758 del Ministero dell’Interno – Direzione generale AAGG e personale, 19 settembre 1962. Sull’OASI di Firenze si vedano in particolare: il materiale conservato in AST Le Nuove, 7294; i «diari dell’OASI » tenuti dal marzo del 1956 all’ottobre del 1982, che riportano gli eventi verificatisi giornalmente nel Centro; la rivista dell’OASI: «Il nuovo cammino». 33 V. Valenti, Condizioni e modi del recupero morale, in «Redenzione», X, ottobre 1956, 10, pp. non numerate. 34 Foucault, Sorvegliare e punire cit., p. 331.

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Note

35 ACS, MGG Segreteria, 26, f. 139, sf. 2, MGG – DGIPP, Verbale della XIV seduta, 13 marzo 1958, p. 98. 36 Sul FIRAS si vedano: ACS, MI IPAB, 592, f.n. 26070-87, prot. n. 0497/1273 del Ministero dell’Interno – Direzione generale degli Affari di culto – Divisione ric. giur. Sezione II, 13 marzo 1959; ACS, MI IPAB, 592, f.n. 75442 della Prefettura di Roma – Direzione OOPP, 3 febbraio 1958. Sull’ENPMF si veda in particolare ACS, MI IPAB, 592, f.n. 26070-93-2, appunto non protocollato del direttore generale della Assistenza pubblica, s.d. [ma 1977]; ASB, PR ENPMF, in particolare la relazione nella busta 8. Il periodico ufficiale dell’ENPMF era «Ragazzi d’oggi». Per una riflessione generale sulle prime esperienze di servizio sociale in ambito penitenziario: A. Sabattini, La situazione nel settore degli adulti fino al 1975, in R. Breda, C. Coppola, A. Sabattini, Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Giappichelli, Torino 1999, in particolare pp. 38-42. Sull’attività dell’AAI (Amministrazione Aiuti internazionali): ACS, MI AAI, in particolare nelle buste 181, 182, 183, 191. Sull’esperienza del Centro piemontese di recupero sociale del detenuto si veda la documentazione conservata in AST Le Nuove, 7294. 37 ACS, MGG Segreteria, 26, f. 139, sf. 2; MGG – DGIPP, Verbale della XX seduta, 31 ottobre 1958, p. 3. 38 E. Ciconte, Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ’ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 145. Sulla storia delle mafie italiane si rinvia anche a: F. Barbagallo, Il potere della camorra (1973-1998), Einaudi, Torino 1999; F. De Rosa, Un’altra vita. La verità di Raffaele Cutolo, Marco Tropea, Milano 2001; S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 2004; J. Dickie, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, Roma-Bari 2007; N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari. 1943-2008, Laterza, Roma-Bari 2008. 39 C. Armati, Italia criminale. Quella sporca dozzina. Personaggi, fatti e avvenimenti di un’Italia violenta, Newton Compton, Roma 2006. 40 Di Sante Notarnicola si vedano: L’evasione impossibile, Feltrinelli, Milano 1972; La nostalgia e la memoria, Giuseppe Maj, Milano 1986. Si veda anche: B. Guidetti Serra, Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), Linee d’ombra, Milano 1994, pp. 81-141. 41 D. Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi, Torino 1961, p. 61. Si vedano inoltre: F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960; G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1964; P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999; P.P. Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 2005; D. Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, Palermo 2008. 42 Si veda ad esempio la documentazione conservata in: ASB, PR ENPMF, buste 1, 2, 3, 4, 8, 9. 43 Si vedano in particolare: ACS, MGG – UL, Cat. 17 da 1 a 24, f. 17/1-21, sf. 2, 6 luglio 1963; ACS, MGG – UL, Cat. 17 da 1 a 24, f. 23/1, sf. 8, prot. n. 1138/U.L. 16/1-15 del Ministero di Grazia e Giustizia – Ufficio legislativo, 9 maggio 1964. 44 La notizia è riportata in RSP, XVI, marzo-aprile 1966, 2, numero speciale, pp. 27-28.

Note al capitolo III

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Capitolo III 1 Le foto sono conservate nell’archivio personale di padre Ruggero Cipolla, allora cappellano cattolico del carcere Le Nuove di Torino. 2 Per una descrizione dettagliata degli eventi: Invernizzi, Il carcere cit., pp. 215-216. Le vicende della rivolta di San Vittore del 1969 furono anche cantate in un disco: San Vittore 1969, Ricordi, Milano 1971. 3 Il movimento dei detenuti ebbe una dimensione internazionale tra il 1968 e il 1975. Per una sintesi si veda: C.G. De Vito, S. Vaiani, Ci siamo presi la libertà di lottare. Movimenti dei detenuti in Europa Occidentale, in «Zapruder», maggio-agosto 2008, 16, pp. 8-22. 4 Sull’episodio si veda: ASB, PR Visite, 1, f. «Procura della Repubblica – Bari, Verbali di visita mensile alle carceri. Da 1964 a 1967», prot. n. 11406 della Procura della Repubblica presso la Corte d’Assise di Bari, 11 novembre 1969. Sulla situazione nel carcere barese si rimanda alla documentazione conservata nel medesimo fascicolo. Per le altre proteste citate si rimanda a: ASF DSP, 18, f. 10, prot. n. 2061 CG Reggio Emilia, 15 aprile 1969; ASF DSP, 18, f. 10, prot. n. 4140 CG Bologna, 23 aprile 1969; ASF DSP, 18, f. 10, telegramma n. 5394 da Direzione Ancona at Procura Repubblica, 16 aprile 1969; ASF DSP, 26, f. 4, prot. n. 995.3.4.A CG Fermo, 24 aprile 1969; ASF DSP, 18, f. 10, prot. n. 6778 CG Firenze, 15 aprile 1969; ASF DSP, 18, f. 10, prot. n. 6877 CG Firenze, 17 aprile 1969. 5 ASF DSP, 18, f. 10, prot. n. 6778 CG Firenze, 15 aprile 1969. 6 ASF DSP, 15, f. 1, prot. n. 2173.10 CG Ferrara, 26 aprile 1969. 7 ASF DSP, 18, f. 10, prot. n. 5177 CG Perugia, 21 aprile 1969. 8 Foucault, Sorvegliare e punire cit., p. 39. 9 La testimonianza è riportata in Invernizzi, Il carcere cit., pp. 216-221. 10 ASF DSP, 18, f. 10, telegramma urgente s.n. del ministro di Grazia e Giustizia a tutti gli ispettorati, 15 aprile 1969. 11 ASF DSP, 16, f. 1, documento manoscritto relativo alla telefonata ricevuta il 21 aprile 1969 dal Consigliere I. 12 La ricostruzione che segue si basa sulla documentazione conservata in ASF DSP, con riferimento al periodo aprile-dicembre 1969. 13 ASF DSP, 25, f. 4, prot. n. 3830.10.1 CG Reggio Emilia, 20 luglio 1969. 14 Si vedano: circolare n. 1813/4271 del MGG, 11 giugno 1969; circolare n. 1819/4319 del MGG, 3 luglio 1969; circolare n. 1808/4266 del ministro di Grazia e Giustizia, 24 maggio 1969; circolare n. 1862/4319 del MGG, 14 febbraio 1970. 15 Cfr. CTFR SR, 9, f. «senza indicazioni», documento che inizia con «Il S.R. esiste da sempre, là dove c’è repressione nasce il S.R.». Sul Soccorso Rosso si veda anche la documentazione archivistica conservata in: CTFR SR, 9, f. «Relazione Franca sul lavoro carceri»; CTFR SR, 26, f. «Bologna»; CTFR SR, 38, f. «senza data»; ACS Coppetti, 205, f. «1972»; IRSIFAR FC, 1, f. 1; MP DMV, 3, f. «Attività del comitato di Bologna». 16 P. Valpreda, È lui! Diario dalla galera 1969-1972. Quello che può capitare a un cittadino italiano con idee un po’ diverse, Rizzoli, Milano 1974. Si veda inoltre P. Valpreda, Lettera dal ‘carcere del sistema’. Documenti nati tra le sbarre di Regina Coeli, Napoleone, Roma 1972. 17 Sulla storia di Lotta Continua si rimanda a: L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano 1988; A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivolu-

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Note

zione. 1968-1978: storia di Lotta continua, Mondadori, Milano 1998. Si rimanda inoltre ai giornali «Lotta Continua» e «Mo’ che il tempo si avvicina». Sull’intervento di Lotta Continua sul carcere: Lotta Continua, Liberare tutti i dannati della terra, Edizioni Lotta Continua, Roma 1971; Invernizzi, Il carcere cit.; Lotta Continua, Ci siamo presi la libertà di lottare. Il movimento di massa dei detenuti da gennaio a settembre ’73, Edizioni di Lotta Continua, Roma, s.d. [ma 1973]; E. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni Settanta. Lotta continua, Edizioni Associate Editrice Internazionale, Roma 2002. La ricostruzione dell’intervento della Commissione carcere di Lotta Continua si basa anche sui colloqui avuti con Irene Invernizzi e con Carmen Bertolazzi. La documentazione archivistica utilizzata è conservata principalmente in APII. 18 Prendiamoci la città, in «Lotta Continua», II, 12 novembre 1970, 20, pp. 2-5; ACS Coppetti, 205, f. «1971», opuscolo intitolato «Lotta Continua. Situazione politica generale e nostri compiti». 19 T. D’Amico, Gli anni ribelli. 1968-1980, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 34. 20 Invernizzi, Il carcere cit., p. 44. 21 Cazzullo, I ragazzi cit., p. 141. 22 F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962. L’espressione «damnés de la terre» compare nel testo originale, in lingua francese, de L’Internazionale. 23 Liberare tutti è anche il titolo di una canzone prodotta da Lotta Continua nel 45 giri Il popolo si fa giustizia da sé, supplemento a «Lotta Continua», III, 1971, 12. 24 AST Le Nuove, «5937-5938», f. 5937: prot. n. 23639 CG Torino, 26 ottobre 1971; prot. n. 3402 CG Torino, 8 febbraio 1972. 25 Per la ricostruzione degli eventi nel carcere torinese: Invernizzi, Il carcere cit., pp. 350-351; Il fenomeno criminale e l’attività dell’amministrazione penitenziaria nei discorsi inaugurali dei Procuratori Generali, in RSP, XXII, marzoaprile 1972, 2, pp. 351-352. Si veda anche la descrizione degli eventi nel diario collettivo conservato in RC. 26 Il documento è riportato in Invernizzi, Il carcere cit., pp. 331-338. 27 Sul nuovo ciclo di proteste si rimanda ai documenti conservati in ASF DSP, relativi al periodo aprile-dicembre 1971. 28 Le informazioni fornite nel testo derivano dal colloquio privato avuto con Irene Invernizzi. 29 Si rinvia agli articoli comparsi sui giornali: «Lotta Continua» e «Mo’ che il tempo s’avvicina». 30 Per le citazioni che seguono si vedano: ASF DSP, 55, f. 2, prot. n. 6828 CG Firenze, 12 aprile 1972; ASF DSP, 61, f. 2, prot. n. 2101.3.8 CG Parma, 28 luglio 1972; ASF DSP, 51, f. 1, prot. n. 13083.3. varie della Direzione degli istituti penitenziari di Perugia, 24 novembre 1971; ASF DSP, 48, f. 1, prot. n. 13579.3.4.A CG Volterra, 11 dicembre 1971 31 Sui «nuclei» si veda Invernizzi, Il carcere cit., pp. 251-346. 32 ASF DSP, 51, f. 1, prot. n. 13083.3. varie della Direzione degli istituti penitenziari di Perugia, 24 novembre 1971. Si veda anche: MP DMV, Fondo «Di Marco – Voltaggio», 2, documento intitolato «Relazione sulla situazione attuale d’intervento nelle carceri: critiche e prospettive», novembre 1972. 33 Le citazioni che seguono sono tratte da Invernizzi, Il carcere cit., p. 258, p. 278, pp. 287-288.

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Il quadro completo della situazione al novembre 1972 è contenuto in MP 2, documento intitolato «Relazione sulla situazione attuale d’intervento nelle carceri: critiche e prospettive», novembre 1972. 35 AST Le Nuove, «5937-5938», f. 5937, rapporto del maresciallo comandante al direttore, 15 settembre 1972. 36 Per la cronologia del movimento dei detenuti nel 1972 si rimanda soprattutto a: Invernizzi, Il carcere cit. pp. 356-362; MP DMV, 2, documento che inizia con «Da sempre il carcere», s.d.; MP DMV, 2, documento intitolato «Appunti sulla storia del proletariato prigioniero»; MP DMV, 2, documento intitolato «Traccia del percorso politico del mov. dei P.P.: TAPPE SALIENTI (’69/’80)». Sulle singole proteste si consulti la documentazione conservata in: ASF DSP, relativamente all’anno 1972; ASR Altavista, 127; ACS, Coppetti, 205. Il documento più significativo di quel ciclo di proteste è in MP DMV, 2, documento manoscritto intitolato «Sciopero della fame dei detenuti del carcere di S.Vittore», s.d. 37 Sul movimento dei detenuti del 1973 si veda soprattutto: Lotta Continua, Ci siamo presi la libertà di lottare cit.; Il fenomeno criminale e l’attività dell’amministrazione penitenziaria nei discorsi inaugurali dei Procuratori Generali, in RSP, XXIV, marzo-aprile 1974, 2, pp. 431-524. Molte informazioni sono contenute nel quotidiano «Lotta Continua». A livello archivistico, sulle singole proteste si rimanda alla documentazione contenuta in ASF DSP per l’anno 1973. Si veda anche ASR Altavista, 127. 38 T. D’Amico, Con il cuore negli occhi, Kappa, Roma 1982, pp. 108-111. 39 ASF DSP, 69, f. 1, fonogramma n. 140 da Ispettorato distrettuale Istituti di prevenzione e di pena per adulti Firenze at Ministero Giustizia – Ufficio Segreteria – Roma, 22 ottobre 1973. Sulla protesta legata a questo evento: ASF DSP, 69, f. 1, prot. n. 18162.3.8 della Direzione delle Carceri giudiziarie centrali di Firenze, 22 ottobre 1973. Sulla visita del ministro: La visita del Ministro di grazia e giustizia, on. Mario Zagari, alle carceri di ‘Regina Coeli’, in RSP, XXIII, maggiogiugno 1973, 3, pp. 515-516; Il ministro della giustizia va a trattare con i detenuti in lotta a Regina Coeli, in «Lotta Continua», II, 15 luglio 1973, 165, p. 1; Una vittoria per i detenuti. ZAGARI: LE PAROLE E I FATTI, ivi, p. 1; Lettera aperta dei detenuti di Regina-Coeli al ministro Zagari, in «Lotta Continua», II, 27 luglio 1973, 175, p. 1. 40 Si veda, tra l’altro, D. Del Rosso, Pena e Ordinamento penitenziario, in RSP, XXV, gennaio-febbraio 1975, 1, pp. 45-52. 41 V. Marolda, Per una amministrazione penitenziaria moderna ed efficiente, in «La Voce Penitenziaria», VII, luglio-agosto 1969, 7-8, pp. 157-162. L’articolo riporta l’intervento di apertura del V Congresso dell’Associazione funzionari direttivi dell’Amministrazione penitenziaria, tenutosi a Roma nei giorni 18-24 giugno 1969. Si vedano le interviste in A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l’ideologia carceraria, Einaudi, Torino 1971, pp. 365-382. 42 A. Tana, La riforma carceraria, in RSP, XX, maggio-giugno 1970, 3, pp. 455-486. Si veda anche: E. Pozzi, A. Barattucci, Note sulla attivazione delle carceri giudiziarie «Nuovo complesso» di Roma-Rebibbia, in RSP, XXII, novembredicembre 1972, 6, pp. 783-790. 43 Il fiore del male, dalla relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1973 del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Firenze, Mario Calamari, in «Qualegiustizia», gennaio-febbraio 1973, 19, p. 5; l’intervento del pro34

DMV,

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Note

curatore generale della Repubblica di Torino, Colli, in Il fenomeno criminale e l’attività dell’amministrazione penitenziaria nei discorsi inaugurali dei Procuratori Generali, in RSP, XXII, marzo-aprile 1972, 2, pp. 351-352 e p. 379. 44 Intervento del procuratore generale della Repubblica di Catanzaro, Marmo, in Il fenomeno criminale e l’attività dell’amministrazione penitenziaria nei discorsi inaugurali dei Procuratori Generali, in RSP, XXII, marzo-aprile 1972, 2, p. 309; intervento del procuratore generale della Repubblica di Messina, Buscemi, in Il fenomeno criminale e l’attività dell’amministrazione penitenziaria nei discorsi inaugurali dei Procuratori Generali, in RSP, XXI, marzo-aprile 1971, 2, p. 363. 45 Per la ricostruzione che segue si rimanda a: G. Altavista, G. di Gennaro, Il trattamento dei detenuti di fronte alla normazione internazionale e nazionale, in RSP, XXV, settembre-ottobre 1975, 5, pp. 723-739; N. Coco, ‘Parole’ e ‘Probation’: ipotesi e prospettive, in RSP, XXII, maggio-giugno 1972, 3, pp. 387-448; R. Breda, L’incarcerazione ha un avvenire? L’emprisonment a-t-il un avenir?, in RSP, XXV, gennaio-febbraio 1975, 1, pp. 53-70; I. Sturniolo, L’instaurazione mediante il «group counseling» di un rapporto intrapersonale valido con i soggetti detenuti e conseguente superamento, in RSP, XXIII, gennaio-febbraio 1974, 1, pp. 33-42; V. Traversi, Un esperimento di ‘Group-counselling’ in istituto penitenziario (Verifica delle reazioni d’ambiente), in RSP, XXII, luglio-ottobre 1972, 4-5, pp. 591-602; B. De Maio, G. Brunetti, Nuovi orientamenti della assistenza ai detenuti e ai liberati, in RSP, XXIII, luglio-ottobre 1974, 4-5, pp. 771-786; Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, V legislatura (1968-1972), Resoconti stenografici delle sedute della II Commissione permanente (giustizia), Tipografia del Senato, Roma 1972, anni 1968-1972, vol. I, p. 512, p. 860, p. 864. 46 Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, V legislatura (1968-1972), Resoconti stenografici delle sedute della II Commissione permanente (giustizia), Tipografia del Senato, Roma 1972, seduta del 12 novembre 1970, vol. II, p. 710, pp. 223-224. 47 G. Cotturri (a cura di), Un laboratorio della democrazia. Pensiero critico e riformismo del CRS. 1979-1998, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999; V. Balzamo, Istituzioni, società civile e riforma penitenziaria, in Carcere e società, a cura di M. Cappelletto, A. Lombroso, Marsilio, Venezia 1976, pp. 418-426. 48 Intervento del ministro di Grazia e Giustizia, Zagari, in Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, VI legislatura (1972-1976), Resoconti stenografici delle sedute della II Commissione permanente (giustizia), Tipografia del Senato, Roma 1976, seduta del 7 novembre 1973, vol. I; «Relazione sull’Amministrazione Penitenziaria», in AIGT MG, 6, f. 3, sottofascicolo «Ministero G. e G.»; Ministero di Grazia e Giustizia, Una strategia differenziata per la difesa sociale dal delitto. Riunione internazionale di studio organizzata dal Ministero di Grazia e Giustizia con la collaborazione dell’Istituto della Ricerca delle Nazioni Unite per la Difesa Sociale (UNSDRI), Roma, 2-3 febbraio 1974, Sala della Promoteca del Campidoglio, Tipografia delle Mantellate, Roma 1974, p. 147; telegramma allegato alla nota ASF DSP, 65, f. 4, prot. n. 11599.3.6 della Direzione della casa penale di Porto Azzurro, 31 agosto 1972. 49 Si vedano i numeri della rivista «Noi, gli altri», redatta dai detenuti della casa di reclusione di Firenze. La notizia della visita è contenuta in ASF DSP, 69, f. 2, prot. n. 14590 della Direzione delle Carceri giudiziarie centrali di Firenze, 25 agosto 1973.

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50 Cfr. Riforma codice e regolamento penitenziario, «Noi, gli altri», luglio-settembre 1973, 7, pp. 22-23. 51 Lettera prot. n. 1018/M del ministro dell’Interno al capo di Stato Maggiore della Difesa, 26 agosto 1973. Una copia fotostatica è pubblicata in Lotta Continua, Ci siamo presi la libertà di lottare cit. p. 142. 52 Si rinvia al documentario: Dentro e Fuori le Mura, La protesta delle Murate del 1974, Firenze 2005. 53 Avanguardia Operaia, Lotta Continua, PDUP (sezioni di Alessandria), La strage nel carcere, CELUD, Torino 1974; Comitato 10 maggio, Nel Carcere di Alessandria, Alessandria, s.d. [ma 1975]. 54 Il collegamento tra i due avvenimenti si trova ad esempio in R. Curcio, M. Scialoja, A viso aperto, Mondadori, Milano 1993, pp. 92-93. 55 Circolare n. 2163/4618 MGG, 24 aprile 1974. 56 ASR Altavista, 125, f. «Riunione 7.6.74 ore 17,30 Situazione stabilimenti penitenziari»; prot. n. 23822/2-7 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria – Rep. I, 14 giugno 1974; prot. n. 294108/1-1 del MGG – DGIPP – Ufficio III, 14 giugno 1974. 57 ASF DSP, 100, f. 7, allegato al prot. n. 642987.3/1.43 del MGG – DGIPP – Ufficio studi e ricerche, 15 novembre 1974. 58 Si vedano: ASR Altavista, 125, f. «Riunione nello studio del sig. Direttore Generale per il giorno 7 giugno 1974 (situazione stabilimenti penitenziari)»: prot. n. 30/74 Ris. della Procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Genova, 7 giugno 1974; e prot. n. 23996/5.3.Compl. del MGG – DGIPP – Segreteria – Ufficio I, 6 settembre 1974. 59 APII, documento a stampa intitolato «Una compagna della Commissione carceri», s.d. [ma giugno 1974]. 60 APII, documento a stampa intitolato «Osservazioni della Segreteria sulle carceri», s.d. [ma giugno 1974]. La posizione della Segreteria fu fatta propria dai militanti della Commissione Carceri: I. Invernizzi, Riforma carceraria, repressione e lotte dei detenuti, in Ordine pubblico e criminalità. Per una risposta di classe alle leggi liberticide del governo Moro, a cura di Lotta Continua et al., Mazzotta, Milano 1975, pp. 197-202. 61 Bobbio, Storia di Lotta continua cit., p. 8 e pp. 115-140; Cazzullo, I ragazzi cit., pp. 222-235. 62 Per una bibliografia sui Nuclei armati proletari (NAP), di cui si parlerà poco avanti, si vedano: Nuclei Armati Proletari, numero 1 di «Controinformazione», settembre 1978; Soccorso Rosso, I NAP, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano 1976; Criminalizzazione e Lotta Armata, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano 1976, pp. 99-143; A. Silj, Mai più senza fucile. Alle origini dei NAP e delle BR, Vallecchi, Firenze 1977; Processo alla rivoluzione. La parola ai NAP, Collettivo Editoriale Libri Rossi, Milano 1978; I. Farè, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie, interventi, riflessioni, Feltrinelli, Milano 1979; La mappa perduta, Sensibili alle Foglie, Roma 1994, pp. 65-73; Le parole scritte, Sensibili alle Foglie, Roma 1996, pp. 230-243. Si veda inoltre in MP DMV, Fondo «Di Marco – Voltaggio», opuscolo Collettivo Carceri, Col sangue agli occhi, Firenze 1975. 63 G. Galli, Il partito armato. Gli ‘anni di piombo’ in Italia, 1968-1986, Kaos, Milano 1993, pp. 83-84.

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Note

64 Come si ricordano due compagni ammazzati, in «Lotta Continua», III, 1 novembre 1974, 253, p. 1. 65 CTFR SR, 31, f. «Carcere Torino», documento intitolato «Documento pervenutoci da alcuni compagni detenuti (febbraio 1975)», 1975. 66 Le parole scritte cit., pp. 232-234. 67 Nuclei Armati Proletari, in «Controinformazione», settembre 1978, 1, p. 47. 68 ACS, Coppetti, 207, f. «Di interesse», opuscolo intitolato «Processo per l’esproprio di P.zza Alberti», s.d. [ma 1976]. 69 Nuclei Armati Proletari cit., p. 107. 70 Ivi, pp. 108-109. 71 Ivi, p. 87. 72 Su questo si veda: E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma 2004, pp. 93-110. Sull’attività dei NAP all’interno delle carceri si rinvia soprattutto ai seguenti documenti conservati in ASF DSP: 101 f. 1, prot. n. 5772 CR Volterra, 24 aprile 1975; 105 f. 1, prot. n. 18181 CC Firenze, 29 dicembre 1975; 103 f. 1, prot. n. 2433.3.6 CR Spoleto, 23 marzo 1975; 103 f. 3, prot. n. 7688 CR Pianosa, 11 maggio 1975; 103 f. 3, prot. n. 7742 CR Pianosa, 12 maggio 1975; 103 f. 3, prot. n. 7743 CR Pianosa, 12 maggio 1975; 106 f. 1, prot. n. 4564 CC Perugia, 12 maggio 1976. 73 Sull’impostazione delle varie organizzazioni clandestine di sinistra in rapporto alla questione carceraria, si vedano soprattutto: La mappa perduta cit.; Le parole scritte cit.; Il carcere speciale, a cura di M.R. Prette, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2006; V. Tessandori, Br Imputazione: banda armata. Cronaca e documenti delle Brigate rosse, Garzanti, Milano 1977; M. Galleni, Rapporto sul terrorismo. Le stragi, gli agguati, i sequestri, le sigle 1969-1980, Rizzoli, Milano 1981; Frammenti... di lotta armata e utopia rivoluzionaria, quaderno n. 4 di «Controinformazione», Controinformazione, Milano 1984; D. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, Il Mulino, Bologna 1990; H. Hess, Storia sociale del terrorismo italiano, RCS Sansoni, Firenze 1991; Galli, Il partito armato cit.; Le parole e la lotta armata. Storia vissuta e sinistra militante in Italia, Germania e Svizzera, a cura di P. Moroni e IG Rote Fabrik, Konzeptbüro, Shake, Milano 1999; G. Boraso, Mucchio Selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima Linea, Castelvecchi, Roma 2006; L. Manconi, Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008, Rizzoli, Milano 2008. Si vedano anche i documenti riportati in «Controinformazione», «Carcere Informazione» e «Il Bollettino» e in AIC, Programma di studi e ricerche sul terrorismo e la violenza politica, MD 0004 (E14) – D 0005 (C01), Brigate Rosse. Diario di lotta: Tribunali speciali di Bologna, Torino, Milano. Documento datato 3 settembre 1977; ASR Altavista, 127, f. «Casa Circondariale Torino»: prot. n. 411.6 CC Torino, 12 gennaio 1978 e prot. n. 7124 CC Torino, 14 febbraio 1978. 74 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI legislatura (1972-1976), Resoconti stenografici delle sedute della IV Commissione permanente (giustizia), Tipografia della Camera dei Deputati, Roma1976, seduta del 17 aprile 1974, p. 567. Sul mutato clima nel dibattito sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario si veda: Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria cit., pp. 357-365. 75 Ministero di Grazia e Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Libro bianco. I dati essenziali del sistema penitenziario italiano in ci-

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fre, Roma 1993 [pubblicazione per la circolazione interna nell’Amministrazione penitenziaria]. 76 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI legislatura (1972-1976), Resoconti stenografici delle sedute della IV Commissione permanente (giustizia), Tipografia della Camera dei Deputati, Roma1976, seduta del 17 aprile 1974, p. 575. 77 Ivi, p. 17781, pp. 17740-17744. 78 Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria cit., p. 361. 79 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI legislatura, Resoconti stenografici delle sedute della IV Commissione permanente (giustizia), Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1976, seduta del 1 ottobre 1974, p. 17715. 80 Camera dei Deputati, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni Parlamentari, 7 luglio 1974, pp. 4-7. 81 Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, VI legislatura (1972-1976), Resoconti stenografici delle sedute della II Commissione permanente (giustizia), Tipografia del Senato, Roma 1976, seduta del 18 giugno 1975, p. 1262. 82 Ivi, p. 1258. 83 Il commento più ampio e articolato sulla riforma penitenziaria del 1975 è in G. di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano 1997. Rilievi critici sul provvedimento sono in: E. Fassone, Carcere: una riforma da riformare, in «Il Ponte», 1975, pp. 76-94; A. Margara, La paura di riformare, in «Magistratura Democratica», 1975, 1, pp. 95-114; G. Neppi Modona, Vecchio e nuovo nella riforma dell’Ordinamento penitenziario, in Carcere e società cit., pp. 64-84; F. Imbriani, Riforma carceraria. Effetti, prospettive e limiti di una riforma, Rappolla, Napoli 1976; Magistratura Democratica, Il carcere dopo le riforme, Feltrinelli, Milano 1979. 84 Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, VI legislatura (1972-1976), Resoconti stenografici delle sedute della II Commissione permanente (giustizia), Tipografia del Senato, Roma 1976, seduta del 18 giugno 1975, pp. 1257-1258. 85 Le bozze del testo teatrale Fabbrica di mostri di Davide Melodia e i volantini di convocazione delle sue rappresentazioni sono conservati in ADM, f. «Dossier carceri DM». Sulla Lega: ADM, fascicoli «Dossier carceri DM» e «Questione carceraria (Selezione) DM» e la mia intervista a Davide Melodia, Frino di Ghiffa (Verbania), 4 settembre 2003. Alcune informazioni, anche su proteste di detenuti aderenti alla Lega non violenta dei detenuti, sono contenute in: AST Le Nuove, 5887, f. «Atti vari e Centro Clinico», prot. n. 2188. Gab della Prefettura di Torino, 18 novembre 1976; AST Le Nuove, 5887, f. «Atti vari», fonogramma n. 81 da Direzione casa circondariale Torino, 8 maggio 1978; AST Le Nuove, 6185, f. «Atti», Lettera della Lega non violenta dei detenuti, 10 luglio 1975; CTFR SR, 38, f. «Lega non-violenti», documento dattiloscritto intitolato «Lega nonviolenta dei detenuti (Milano, 3.5.1977) – Dimissioni» e documento dattiloscritto intitolato «Lega nonviolenta dei detenuti (Milano 18 maggio 1977) – Conferma delle dimissioni»; MP DMV, 1, documento intitolato «Interventi di Giuliana Cabrini Segretaria Nazionale della Lega Perseguitati dalla Giustizia di Regime»; MP DMV, 1, documento che inizia con «La Lega Socialista Nonviolenta dei Detenuti dalla Giustizia di Regime», s.d.; MP DMV, 1, documento intitolato «Proposta di statuto», s.d. Di Davide Melodia si veda soprattutto: Carceri: riforma fantasma, SugarCo, Milano 1976.

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Note

86 ADM, «Dossier carceri DM», Gruppo di Brescia, Bozza di statuto della lega non violenta dei detenuti, s.d. 87 ASF DSP, 105, f. 2, prot. n. 13043.3.8 CG Firenze, 1 ottobre 1975; ASF DSP, 98, f. 3, prot. n. 5573.3.8 CC Siena, 6 novembre 1975; ASF DSP, 109, f. 1, prot. n. 26524.3.8.Ris CC Firenze, 18 dicembre 1976; ASF DSP, 106, f. 1, prot. n. 10675 CC Perugia, 6 novembre 1976; ASF DSP, 128, f. 1, prot. n. 12997 CR San Gimignano, 16 luglio 1977; ASR Altavista, 98, f. «C.C. Regina Coeli Roma», sf. «Casa Circondariale ‘Regina Coeli’ 1976», prot. n. 27123/5.3 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria Rep. I, 6 ottobre 1976. 88 AIGT MG, 9, «Documento-lettera indirizzato ai gruppi parlamentari della Commissone Giustizia – Camera dei Deputati», s.d. [ma 1977]. 89 Si vedano: ASR Altavista, 125, f. «Appunto per l’On. Ministro sulla situazione penitenziaria», sf. «[Ufficio] II», prot. n. 5/1 del MGG – DGIPP – Ufficio II, 13 gennaio 1975; ASR Altavista, 25, f. «Riunione tenutasi il giorno 14 marzo 1975 con l’intervento degli ispettori distrettuali. 1975», prot. n. 24642/5-3/17 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria – Rep. I, 22 marzo 1975; ASR Altavista, 125, f. «Appunto per l’On. Ministro sulla situazione penitenziaria», sf. «Appunto per l’On. Ministro (Situazione istituti penitenziari)», prot. s.n. del MGG – DGIPP, 17 febbraio 1976. 90 Sulla situazione degli agenti di custodia si rimanda a: AST Le Nuove, 5889, fascicoli «Relazioni di servizio deficienza Personale Militare» e «Votazioni Agenti Custodia»; G. Neppi Modona, Liberare i carcerieri, in «la Repubblica», 4 settembre 1976. Per alcuni esempi di proteste degli agenti di custodia: ASF DSP, 132, f. 1, fonogramma n. 115/77 da Direzione casa reclusione Firenze at Ministero Giustizia Direzione generale carceri Ufficio II Roma, 14 marzo 1977; ASF DSP, 231, f. 4, prot. n. 54/R CR Capraia Isola, 18 novembre 1980; ASR Altavista, 127, f. «Casa Circondariale Torino», sf. «Situazione sulla Casa Circondariale LE NUOVE di Torino», prot. n. 15500/17-8-R riservata del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri – S.M. – Ufficio Operazioni, 17 ottobre 1977; ASR Altavista, 124, f. «Napoli Casa Circondariale», sf. «Napoli Carcere Giudiziario. Fonogrammi da parte del Comando Generale Arma C.C. Situazione Provinciale di Caserta (Appunto)», prot. n. 15500/10-13-4-P del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri – S.M. Ufficio Operazioni, 13 ottobre 1975. 91 Si vedano: ASR Altavista, 98, f. «C.C. Regina Coeli Roma», sf. «Casa Circondariale ‘Regina Coeli’ 1976», prot. n. 128496/20-1 del MGG – DGIPP – Ufficio II, 10 novembre 1976; circolare n. 2486/4939 del MGG – DGIPP – Ufficio II, 5 gennaio 1978. 92 Ministero di Grazia e Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Libro bianco. I dati essenziali del sistema penitenziario italiano in cifre, stampato in proprio, Roma 1993, p. 40. 93 I dati riportati di seguito derivano da: ASR Altavista, 125, f. «Appunto per l’On. Ministro sulla situazione penitenziaria», sf. «[Ufficio] III», prot. n. 299085/13 del MGG – Direzione degli istituti di prevenzione e di pena – Ufficio III, 25 novembre 1975; ASR Altavista, 124, f. «Napoli Casa Circondariale», sf. «Napoli», ins. «Situazione provinciale di Napoli. Appunti del Comando Generale Carabinieri», prot. n. 15500/4-26-P del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri – S.M. – Ufficio Operazioni, 26 aprile 1975; ASR Altavista, 124, f. «Napoli Casa Circondariale», sf. «Napoli», prot. n. 11018 Ris. del ministro dell’Interno, 25 febbraio 1975 e prot. n. 24688/5-3/A del MGG – DGIPP – Segrete-

Note al capitolo IV

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ria – Rep. I, 5 aprile 1975 e prot. n. 299094/4.16.L del MGG – DGIPP – Ufficio III, 25 ottobre 1976; ASR Altavista, 125 [fuori fascicolo], nota non protocollata su carta intestata del MGG – Direzione generale affari penali delle grazie e del casellario, s.d., intitolata «Appunto per il capo di Gabinetto dell’On.le Ministro»; ASR Altavista, 125, [fuori fascicolo], prot. n. 880/24-Ris. del MGG – Ispettorato generale, 18 maggio 1976. 94 ASR Altavista, 98, f. «Roma Regina Coeli», sf. «C.G. Regina Coeli. Relazione del Procuratore della Rep. di Roma n. 35 del 22.2.75», prot. n. 35/2.4 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, 22 febbraio 1975. La ricostruzione che segue si basa sulla documentazione contenuta nel medesimo fascicolo. 95 ASR Altavista, 98, f. «Roma Regina Coeli», sf. «Regina Coeli. Caserma Santacroce e Mantellate», prot. n. 15370 della Direzione del Carcere giudiziario «Regina Coeli» di Roma, 17 giugno 1975. 96 Si vedano soprattutto: ASF DSP, 100, f. 15, circolare n. 225/80 dell’Ufficio dell’ispettore distrettuale (Firenze), 21 marzo 1975; ASF DSP, 111, f. 1, prot. Cat. A.4/Div.Gab. urgentissima riservatissima della Questura di Firenze, 20 febbraio 1976; ASF DSP, 111, f. 1, prot. Cat. A.4/Div. Gab. urgentissima riservatissima della Questura di Firenze, 25 agosto 1976; ASF DSP, 111, f. 1, prot. Cat. A.4/Div. Gab. urgentissima riservatissima della Questura di Firenze, 18 dicembre 1976; ASF DSP, 111, f. 1, prot. Cat. A.4/Div. Gab. urgentissima riservatissima della Questura di Firenze, 23 settembre 1977. 97 AIGT MG, 6, f. 3, sottof. «Ministero G. e G.», «Dati numerici di evasioni ed omicidi avvenuti negli II.PP a decorrere dall’anno 1974». Sulle misure assunte contro le evasioni si rinvia ad esempio alla documentazione in: ASF DSP, 101, f. 1, prot. n. 10182 dell’Ufficio dell’ispettore distrettuale (Firenze), 27 giugno 1975; ASF DSP, 106, f. 1, fonogramma riservato n. 12/R/1975 da Ispettorato distrettuale carceri adulti Firenze, loro sedi, 17 aprile 1975; ASF DSP, 121, f. 1, fonogramma n. 543 da Ispettorato distrettuale II.PP. adulti Firenze, s.d. [ma 1977]; ASR Altavista, 125, f. «Locali ad uso colloqui detenuti e familiari», circolare n. 2258/4713 del MGG – DGIPP – Ufficio VIII, 18 settembre 1975; ASF DSP, 121, f. 3, circolare n. 225/109 dell’Ufficio dell’ispettore distrettuale (Firenze), 2 febbraio 1977. 98 Si segnala l’importante materiale archivistico conservato in ASF DSP, 121, f. 18. 99 ASF DSP, 121, f. 8, circolare n. 2401/4855 del MGG – DGIPP – Ufficio III, 16 marzo 1977. 100 ASF DSP, 132, f. 1, prot. n. 5023 della Direzione della casa circondariale di Firenze, 6 marzo 1977. 101 Circolare n. 2429/4882 del MGG – DGIPP – Ufficio III, 10 giugno 1977. 102 A. Margara, Memoria di trent’anni di galera. Un dibattito spento, un dibattito acceso, in «Il Ponte», LI, luglio-settembre 1995, 7-9, pp. 112-146, p. 120.

Capitolo IV Intervista a Vinicio Menchi. Sull’operazione di trasferimento dei detenuti si rinvia a: ASF DSP, 121, f. 1, fonogramma n. 2390 da Ministero Giustizia Ufficio III Roma at Ispettorato di1 2

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Note

strettuale carceri Firenze, 8 luglio 1977 ore 13,45. Sul numero di detenuti trasferiti: Le carceri speciali, in «Medicina Democratica», febbraio 1978, 9, p. 8; Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del ’77, Odradek, Roma 1997, p. 339. Le principali fonti archivistiche relative all’organizzazione, all’istituzione e alla gestione delle carceri di massima sicurezza sono in: circolare n. 2419/4873, prot. n. 28730/5-1-3 del MGG – DGIPP – Ufficio Segreteria – Rep. I, 12 maggio 1977, avente per oggetto «Sicurezza esterna degli Istituti Penitenziari» (riportata in RSP, XXVII, maggio-giugno 1977, 3, pp. 444-445); ASR Altavista, 125, fuori fascicolo, documento non protocollato, intitolato «Promemoria riservato», inviato dall’Ufficio III alle Direzioni delle carceri di Cuneo, Asinara, Fossombrone, Trani e Favignana, 16 luglio 1977; ASF DSP, 121, f. 531764/1.3.10 Ris. del MGG – DGIPP – Ufficio VIII, 20 maggio 1977; ASF DSP, 121, f. 9, messaggio urgente intestato «Legione Carabinieri di Firenze», prot. n. 19214 dall’Ispettorato distrettuale (Firenze), 21 maggio 1977; ASR Altavista, 127, f. «Casa Circondariale Torino», sf. «Casa Circondariale Torino – Centro Diagnostico Terapeutico», prot. n. 804658/A.1.9 del MGG – DGIPP – Ufficio XI, 1 ottobre 1977; ASR Altavista, 125, fuori fascicolo, prot. n. 44/25/1 del MGG, 8 giugno 1977; ASR Altavista, 125, fuori fascicolo, prot. n. 790480/AGP del MGG – DGIPP – Ufficio XII, 29 novembre 1977; ASR Altavista, 125, fuori fascicolo, prot. n. 29586/5-3 del MGG – DGIPP – Segreteria – Rep. I, 21 dicembre 1977; ASF DSP, 135, f. 2, fonogramma n. 26117 da CR Pianosa-Isola at Ministero Giustizia Ufficio Terzo Roma at Ispettorato distrettuale II.PP. adulti Firenze, 24 dicembre 1977. Una descrizione delle prime carceri di massima sicurezza è nella relazione di Igino Cappelli in Magistratura Democratica, Il carcere dopo le riforme, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 11-37. Per la ricostruzione delle vicende delle carceri speciali ci si è serviti anche di: intervista a Luca Nicolotti, ex militante delle Brigate Rosse; colloquio con il comandante Salvo Uselli; colloquio con un ex direttore carcerario (anonimo). Per degli esempi di «controinformazione» sulle carceri speciali si rimanda alle riviste «Carcere Informazione», «Controinformazione» e «Il Bollettino». La principale raccolta dei documenti e delle testimonianza dei detenuti differenziati è in Il carcere speciale cit. 3 Si vedano ad esempio: ASF DSP, 135, f. 2, fonogramma n. 15.L da Ministero Giustizia Ufficio Secondo Roma at direttore casa reclusione Pianosa Isola, 15 dicembre 1977; ASF DSP, 144, f. 3, prott. nn. 2053-2081 CR Pianosa, 9 gennaio 1978; ASF DSP, 144, f. 4, prot. n. 11569 CR Pianosa, 22 giugno 1978. 4 V. Morelli, Anni di piombo. Appunti di un generale dei Carabinieri, SEI, Torino 1988; P. Sapegno, M. Ventura, Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un caso aperto, Limina, Arezzo 1997; G. Armeni, La strategia vincente del generale Dalla Chiesa contro le Brigate Rosse... e la mafia, Edizioni Associate, Roma 2004. 5 ASF DSP, 121, f. 10, fonogramma riservato n. 2153/325244 da Ministero Giustizia Ufficio III Roma at Signori ispettori distrettuali adulti loro sedi, 25 giugno 1977; ASF DSP, 121, f. 10, prot. n. 13440 CC Pisa, 1 luglio 1977; ASF DSP, 121, f. 10, prot. n. 15401.3.6 CR Porto Azzurro, 1 luglio 1977. Si veda anche: Quadrelli, Andare ai resti cit., p. 118. 6 Per alcuni documenti relativi a detenuti appartenenti a organizzazioni armate neofasciste: ASF DSP, 101, f. 1, prot. n. 6856 CR Volterra, 19 maggio 1975; ASF DSP, 111, f. 1, fonogramma n. 10452/296800 da Ministero Giustizia Direzione generale Carceri Ufficio III Roma at Ispettorato distrettuale II.PP. per adulti Firenze, 13 settembre 1976; ASF DSP, 115, f. 1, prot. n. 5772 CR Volterra,

Note al capitolo IV

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5 maggio 1976; ASF DSP, 115, f. 1, prot. n. 6396 CR Volterra, 12 maggio 1976; ASF 130, f. 2, prot. n. 16029 CC Pisa, 8 agosto 1977; ASF DSP, 130, f. 2, prot. n. 16856 CC Pisa, 20 agosto 1977; ASF DSP, 130, f. 2, prot. n. 17336 CC Pisa, 30 agosto 1977; ASF DSP, 219, f. 1, sf. 1, fonogramma n. 18/80 da Direzione casa reclusione Spoleto at Ispettorato distrettuale II.PP. adulti Firenze, 10 gennaio 1980; ASF DSP, 234, f. 1, prot. n. 13045 CR San Gimignano, 22 agosto 1980. 7 R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Giunti, Firenze 1998, p. 286. 8 La ricostruzione che segue si basa sulla documentazione conservata in: AST Le Nuove, 5887; AST Le Nuove, 5972; AST Le Nuove, 6516. Per gli attentati citati si veda in particolare La mappa perduta cit.; Sguardi ritrovati, Sensibili alle Foglie, Roma 1995 e Le parole scritte cit. 9 AST Le Nuove, 5972, f. «Telegrammi di cordoglio ag. Lorusso». 10 Si veda AST Le Nuove, 6516, f. «Manifestazione di protesta e rifiuto di rientro in cella fino alle ore 18 del 13.4.1979 detenuti del 2° - 3° - 4° - 5° Braccio e Sezione celle», prot. n. 11811 Ris. CC Torino, 17 aprile 1979. 11 Per la ricostruzione che segue si rinvia a: ASF DSP, 148, f. 2, prot. n. 17662 CR Pianosa, 25 settembre 1978; ASF DSP, 158, f. 1, prot. n. 2517 del Corpo degli agenti di custodia – Comando regionale della Toscana, 26 settembre 1978; CTFR SR, 9, f. «Relazione Franca sul lavoro carceri», documento che inizia con «Occorre che io faccia un minimo di cronistoria», s.d.; ASF DSP, 188, f. 1, fonogramma n. 398/79 da Ufficio magistrato sorveglianza Livorno at casa reclusione Pianosa et Ispettorato distrettuale carceri Firenze, 7 agosto 1979; ASF DSP, 222, f. 1, prot. n. 24056 CR Pianosa, 22 novembre 1980. 12 ASF DSP, 148, f. 2, prot. n. 79/47 Ris. dell’Ufficio coordinamento servizi sicurezza degli istituti di prevenzione e di pena, 24 settembre 1978. 13 Curcio, Scialoja, A viso aperto cit., p. 179 14 I prigionieri del campo di concentramento dell’Asinara, La settimana rossa, Edizioni di Anarchismo, Catania 1978; G. Cassitta, L. Spanu, Supercarcere Asinara. Viaggio nell’isola dei dimenticati, Fratelli Frilli Editori, Genova 2002; CTFR SR, 38, f. «In ordine cronologico», sf. «1977», lettera dattiloscritta che inizia con «Gent.ma M., vogliamo chiarire». 15 Il carcere speciale cit.; Il carcere imperialista. Teoria e pratica dei proletari prigionieri nei documenti dei comitati di lotta, Bertani Editore, Verona 1979; MP DMV, 1, documento intitolato «Ristrutturazione e lotte nel kampo di Favignana», Favignana, gennaio 1979; MP DMV, 1, documento intitolato «La nuova fase e i compiti dei ‘comitati di lotta’», Asinara, marzo 1979; MP DMV, 1, documento intitolato «Documento n. 1», s.d. [ma 1979]. Sul «potere rosso»: MP DMV, 1, documento intitolato «La controrivoluzione ha innalzato le mura», Messina, marzo 1979. 16 CTFR SR, 38, f. «Carceri: Pianosa – Perugia – Civitavecchia», documento che inizia con «Un nuovo ‘carcere speciale’ è entrato in funzione nell’isola di Pianosa», dicembre 1977. 17 Il documento è riportato in Le parole scritte cit., pp. 148-197. 18 Sul sequestro D’Urso: La pelle del D’Urso: a chi serviva, chi se l’è venduta, come è stata salvata, a cura di L. Jannuzzi, Radio Radicale, Roma 1981. Gli «interrogatori» di D’Urso furono pubblicati dal settimanale «L’espresso» tra gennaio e febbraio del 1981. I comunicati delle BR sono riportati in Le parole scritte cit., pp. 198-223. DSP,

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Note

19 MP DMV, 1, documento che inizia con «Obiettivo di questo bilancio», s.d. [ma inizio 1981]. 20 Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse, L’albero del peccato, Rebelles, Paris, s.d. [ma 1981]. 21 Da un rapporto dei Carabinieri della legione di Napoli, citato in I. Cappelli, Gli avanzi della giustizia. Diario del giudice di sorveglianza, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 135. 22 Rapporto sulla camorra della Commissione antimafia, l’Unità, Roma 1994, p. 132. 23 I. Sales, La camorra le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 190. 24 G. Bocca, Noi terroristi, Garzanti, Milano 1985, p. 272. 25 Rapporto sulla camorra cit., p. 44. 26 Testimonianza citata in Quadrelli, Andare ai resti cit., p. 162. 27 S. Segio, Miccia corta. Una storia di Prima linea, DeriveApprodi, Roma 2005. 28 Galli, Il partito armato cit., p. 337. 29 Le torture affiorate, Sensibili alle Foglie, Tivoli 1998; V. Rognoni, Intervista sul terrorismo, Laterza, Roma-Bari 1989; AMP, 2, f. «La tortura». 30 Si rinvia per questo anche all’intervista a Luca Nicolotti. 31 La differenziazione all’interno del circuito di massima sicurezza fu rivelata tra l’altro dal consigliere D’Urso nei giorni del suo sequestro: Io, Giovanni D’Urso, a domanda delle Br, rispondo... in «L’espresso», XXVII, 11 gennaio 1981, 1, pp. 74-90. 32 Il testo dei decreti ministeriali istitutivi del regime dell’«art. 90», entrambi del 22 dicembre 1982, si trova in Il carcere speciale cit., pp. 445-446. Precise informazioni e testimonianze sul regime dell’art. 90 si trovano nella medesima pubblicazione alle pp. 431-432, p. 445, p. 451, pp. 459-464, pp. 485-487, pp. 493-496, pp. 504-509. 33 Ivi, p. 433. 34 Di Patrizio Peci si veda: Io, l’infame, a cura di G.B. Guerri, Mondadori, Milano 1983. 35 I principali documenti sono in: Il carcere speciale cit., pp. 402-403, pp. 409-411, pp. 421-424, pp. 425-427. Il meccanismo di controllo è descritto in: Quadrelli, Andare ai resti cit.; C. Bonini, R. Vallanzasca, Il fiore del male, Tropea, Milano 1999. 36 Il carcere speciale cit., p. 423. Sulla morte di Giorgio Soldati ed Ennio Di Rocco si vedano: La mappa perduta cit., pp. 335-336; P.V. Buffa, F. Giustolisi, Al di là di quelle mura, Rizzoli, Milano 1984, p. 91. 37 Il carcere speciale cit., p. 497. I documenti relativi allo sciopero della fame del dicembre 1983 sono conservati in Il carcere speciale cit., p. 493, pp. 497-502. Si vedano inoltre: S. Bussu, Un prete e i terroristi. Attraverso Badu ’e Carros un viaggio nel mondo dell’eversione, Mursia, Milano 1988. 38 Il carcere speciale cit., p. 501. 39 Ivi, pp. 498-499. 40 Ivi, p. 427. Si vedano anche i documenti di Prima Linea pubblicati in Le parole scritte cit. Sulla dissociazione si rinvia principalmente alla documentazione contenuta in AMP, corrispondenza privata; busta «Interventi»; busta «dissociazione legge approvata»; busta «Centro di documentazione»; busta «7 aprile Materiali iniziali processo; busta «7 aprile Padova»; busta «7 aprile Roma»; bu-

Note al capitolo IV

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sta «Sentenza UCC». Si veda inoltre: AIGT MG: busta 30 «dissociati»; busta 43 «terrorismo»; busta 110 «Carceri-corrispondenza». La ricostruzione più dettagliata si trova in S. Segio, Una vita in prima linea, Rizzoli, Milano 2006, pp. 209285. 41 Sul processo del «7 aprile» e sul dibattito successivo si veda: AMP, busta «7 aprile Materiali iniziali processo; busta «7 aprile Padova»; busta «7 aprile Roma»; busta «Sentenza UCC». Per le memorie di alcuni dei firmatari del documento: P. Lapponi, A. Leoni, V. Morucci, L’idea fissa, Edizioni Lerici, Cosenza-Roma 1983; A. Magnaghi, Un’idea di libertà San Vittore ’79 – Rebibbia ’82, manifestolibri, Roma 1985; V. Morucci, Patrie galere. Cronache dall’oltrelegge, Ponte alle Grazie, Milano 2008. 42 Segio, Una vita cit., pp. 245-247. 43 Il documento è riportato in Le parole scritte cit., pp. 275-281. 44 Ivi, p. 277. 45 Riportato in Segio, Una vita cit., pp. 230-234. 46 Il testo della circolare è riportato in Il carcere speciale cit., pp. 465-470. Di N. Amato: Un pubblico ministero in Corte d’Assise. «L’attentato al Pontefice Giovanni Paolo II», «Moro» ed altri processi, Schena, Fasano 1989; Diritto, delitto, carcere, Giuffrè, Milano 1987; Processo alla giustizia, Marsilio, Venezia 1994. 47 Sulle «aree omogenee»: Segio, Una vita cit., pp. 234-237; Intervista a..., in «Dei delitti e delle pene», IV, maggio-agosto 1986, 2, pp. 233-250. 48 Per alcuni esempi: AST Le Nuove, 4308; G. Neppi Modona, L’impegno universitario tra passato e presente della realtà carceraria, in La pena del non lavoro, a cura di L. Berzano, Franco Angeli, Milano 1994, pp. 17-26; Carcere e società: il ruolo della cultura universitaria. Atti del seminario 4 ottobre 1999, a cura di A. Chiribiri, Tirrenia Stampatori, Torino 2000, pp. 107-110 [intervento di G. Neppi Modona]; M. Galfrè, I rapporti di Ernesto Balducci con i dissociati dal terrorismo e con la realtà del carcere, in Ernesto Balducci. La Chiesa, la società, la pace, a cura di B. Bocchini Camaiani, Morcelliana, Brescia 2005; Il carcere speciale cit., pp. 509-513; Segio, Una vita cit., p. 237. 49 Segio, Una vita cit., p. 271. 50 Sulla genesi della «legge Gozzini» si rimanda soprattutto a: AIGT MG, 6, f. 1, documento s.d. [ma 1988-89]. Si vedano anche: M. Gozzini, Carcere perché carcere come: Italia, 1975-1987, Cultura della pace, Firenze 1988; M. Gozzini, La giustizia in galera? Una storia italiana, Editori Riuniti, Roma 1997. Le principali circolari attuative della legge sono: Circolare n. 3182/5632 del MGG – DGIPP – Segreteria Rep. I, 21 luglio 1986; Circolare n. 3391/5641 del MGG – DGIPP, 29 dicembre 1986; Circolare n. 3233/5683 del MGG – DGIPP – Segreteria Rep. I, 30 dicembre 1987; Circolare n. 3271/5721 del MGG – DGIPP – Ufficio studi e ricerche, 25 settembre 1989. 51 AIGT MG, documento dattiloscritto con segnatura «Zancan», s.d. [ma 1987]. 52 G. Bronzini, M. Palma, La riforma penitenziaria tra riduzionismo e differenziazione, in «Dei delitti e delle pene», IV, 1986, 3, pp. 490. 53 Segio, Una vita cit., p. 238. 54 La documentazione relativa al convegno e alla successiva attività del Coordinamento è conservata in AMP, «Liberarsi dalla necessità del carcere». 55 Su questo aspetto si rimanda in particolare a: MGG – Scuola di Formazione del personale civile penitenziario per adulti, Stage di aggiornamento inter-

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Note

professionale: «L’interazione dell’intervento trattamentale con le esigenze di controllo dopo la legge 10 ottobre 1986, n. 663». Roma, 14-18 dicembre 1987. Intervento di G. La Greca; relazione di Mario Gozzini e Alessandro Margara al convegno «Carcere, società, istituzioni. Idee, prospettive e volontà riformatrici per la politica penitenziaria», Firenze 18-19 giugno 1982. 56 Bronzini, Palma, La riforma penitenziaria cit., pp. 489-500. Sulle condizioni detentive nel regime del 41-bis: Camera Penale di Roma, Barriere di vetro. Voci dalla detenzione speciale in Italia, Palombi, Roma 2002. Sull’evoluzione del regime di alta sorveglianza si veda anche: R. Turrini Vita, Il contrasto al crimine organizzato nell’esperienza penitenziaria italiana, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», nuova serie, III, gennaio-dicembre 2000, pp. 127-144. 57 Si veda tra l’altro: S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, Odradek, Roma 2002, pp. 83-113. 58 AIGT MG, 12, f. «Porto Azzurro». Per i dati riportati si veda anche: AIGT MG, 6, f. 3, Sottof. «Ministero G. e G.», documento su carta intestata «MGG – DGIPP – Ufficio V, s.d., Dati numerici di evasioni ed omicidi avvenuti negli II.PP. a decorrere dall’anno 1974». Si veda inoltre: AIGT MG, 12, f. «Datt. anonimi ma prob di MG». 59 AIGT MG, 12, f. «Porto Azzurro», prot. n. 988800/3091 del MGG – DGIPP – Segreteria – Rep. I, 7 novembre 1987. Sugli eventi di Porto Azzurro si veda anche il resto della documentazione conservata nel fascicolo. 60 Si vedano ad esempio le interviste a: Vinicio Menchi; Luca Nicolotti; Giuliano Capecchi, presidente dell’associazione Pantagruel. 61 Si rinvia alle interviste alle suore guardiane (anonime), Castiglioncello 28 novembre 1999 e Viterbo, 12 dicembre 1999, e all’intervista a padre Ruggero Cipolla. 62 Ministero di Grazia e Giustizia, L’affidamento in prova e la semilibertà nei primi quattro anni di applicazione normativa. 1976-1979, Roma 1983; Ministero di Grazia e Giustizia, L’osservazione penitenziaria: metodologia ed analisi dell’osservazione di una équipe, Roma 1989. Per le considerazioni che seguono si rimanda anche all’ampia raccolta di circolari pubblicate in M.P. Giuffrida, I centri di servizio sociale dell’Amministrazione penitenziaria. Operatori e competenze nel contesto dell’esecuzione della pena, Laurus Robuffo, Roma 1999, pp. 251412. Si fa riferimento anche all’intervista alla dott.ssa Maria Pia Giuffrida. 63 Si veda anche: Supervisione per gli operatori penitenziari. Il progetto «Pandora» con i gruppi di osservazione e trattamento, a cura di G. Concato, L. Mariotti Culla, Franco Angeli, Milano 2005. 64 Ministero di Grazia e Giustizia, DAP, La riforma dell’amministrazione penitenziaria, Roma 1991; Ministero di Grazia e Giustizia, DAP, Le aree operative degli istituti penitenziari e dei centri di servizio sociale, Roma 1992; Ministero di Grazia e Giustizia, DAP, I decreti delegati in attuazione della riforma dell’Amministrazione penitenziaria, Roma 1993. Si tratta di pubblicazioni per la circolazione interna nell’Amministrazione penitenziaria. Per l’evoluzione successiva della struttura burocratica dell’Amministrazione penitenziaria: L’Amministrazione penitenziaria del 2000: un nuovo modello organizzativo, numero speciale della «Rassegna penitenziaria e criminologica», nuova serie, III, gennaio-aprile 1999. 65 Si vedano: AIGT MG, 12, dattiloscritto non datato; AIGT MG, 10, «Lettera di Gozzini al Ministro g.g. Virginio Rognoni», Roma 8 ottobre 1986.

Note al capitolo IV

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66 Sofocle, Tutte le tragedie, a cura e traduzione di F.M. Pontani, Newton Compton, Roma 2004, p. 34. 67 Sull’esperienza dei detenuti di Rebibbia: AMP, senza busta, «Albatros. Circolo ARCI Rebibbia Penale»; AMP, senza busta, «Convegno ‘Lavoro e formazione del detenuto’, Casa di Reclusione di Rebibbia, 18-19 giugno 1986»; AIGT MG, 6, f. 4. Si veda inoltre la corrispondenza tra Mario Gozzini e il guardasigilli Martinazzoli in AIGT MG, 10. 68 Si veda la documentazione conservata in AIGT MG, 7; APII, Convegno «Carcere, società civile, democrazia politica». Si rimanda anche all’intervista a Carmen Bertolazzi. Per un quadro dell’associazionismo sulla giustizia alla fine degli anni Novanta: Non solo carcere. Indagine nazionale sulle organizzazioni di volontariato nell’ambito della giustizia, a cura di R. Frisanco, FIVOL, Roma 2000. 69 Militanza senza appartenenza: schede su movimenti e associazioni della politica diffusa, a cura di M.L. Boccia et al., Editori riuniti riviste, Roma 1986. 70 Si veda tra l’altro Verde, Massima sicurezza cit., p. 100. 71 AMP, f. «Antigone Parma – dicembre 85», Documento manoscritto, Parma 18 dicembre 1985. 72 Sull’origine della rivista si veda in particolare la documentazone in: AMP, f. «Antigone Parma – dicembre 85»; AMP, f. «Antigone». Le considerazioni che seguono sono basate anche sul colloquio avuto con Stefano Anastasia, Roma, 11 settembre 2003. 73 Si rinvia al sito: www.associazioneantigone.it 74 Si veda ad esempio: Lettera circolare prot. n. 524750/11.4.C del MGG – DGIPP – Ufficio VII Servizio sociale ed assistenza, ai sigg.ri presidenti dei Consigli di aiuto sociale presso i Tribunali della Repubblica, 28 novembre 1977. 75 AIGT MG, documento dattiloscritto con segnatura «Zancan», s.d. [ma 1987]; circolare n. 2342/4796, prot. n. [illeggibile], del MGG – DGIPP – Ufficio VII Servizio sociale ed assistenza, 7 luglio 1986. 76 Cfr. Tutti i documenti del concilio, UCIIM-Massimo, Roma-Milano 1973, p. 49. Si vedano anche le pp. 369-370. Sul dibattito in seno alla Democrazia Cristiana rispetto alla riforma sanitaria e all’assistenza sociale si veda soprattutto la documentazione conservata in ILS, DC: Sc. 154, f. 14; Sc. 156, f. 33; Sc. 192, f. 7. 77 Si vedano: ACS, MI IPAB, 604, n. 26070-364, prot. n. 91 della Caritas italiana, 30 settembre 1971; ACS, MI IPAB, 604, n. 26070-364, prot. n. 1/18/210 del Ministero dell’Interno – Direzione generale dell’assistenza pubblica – Serv. coordinamento AA.GG. Leg., 5 luglio 1972; SEAC, f. «Corrispondenza», bozza programma di seminario della Caritas italiana e della Fondazione Zancan su «Alternative alla detenzione: ruolo dei CSSA, degli Enti Locali e del Volontariato – Nuove prospettive», Malosco (TN), 13-19 luglio 1997. 78 La ricostruzione che segue si basa sulla documentazione conservata in SEAC. Si veda anche N. Vella, Il volontariato nelle carceri. La storia del SEAC, FIVOL, Roma 2000. 79 SEAC, «Ministero di Grazia e Giustizia 1971-1985, 1986-1991, 1992-», f. «Ministero Grazia e Giustizia a tutto il 31.12.1985», intervento del segretario nazionale Vittorio Bellucci, s.d. [ma luglio 1984]. 80 SEAC, «Corrispondenza 1968-1985, 1986-1991, 1992-1995», f. «Corrispondenza a tutto il 1985», documento dattiloscritto «Ministero di Grazia e Giustizia – Commissione nazionale per i rapporti con le regioni e gli enti locali,

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Note

partecipazione sociale ed esecuzione penale – Linee di indirizzo in materia di volontariato», Roma, marzo 1994. 81 Intervista a Vinicio Menchi. 82 Per i dati citati: Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XIII legislatura, doc. CXVI, n. 5, Relazione sullo stato di attuazione del programma di edilizia penitenziaria (Anno 2000), Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo, Roma 2001; Ministero di Grazia e Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Libro bianco cit., pp. 216-219. 83 Di Michelucci si veda soprattutto: G. Michelucci, Un fossile chiamato carcere. Scritti sul carcere, a cura di C. Marcetti e N. Solimano, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 1993 (le citazioni che seguono sono alle pp. 34, 27 e 2930). Di Sergio Lenci: Progetto del nuovo istituto carcerario di Spoleto, in RSP, XXIII, marzo-aprile 1974, 2, pp. 263-266; Una esperienza di progettazione. Il Carcere giudiziario di Roma-Rebibbia, in RSP, XVIII, marzo-aprile 1968, 2, pp. 210-211; Elementi per una pianificazione edilizia delle istituzioni penitenziarie legata alle infrastrutture dei servizi assistenziali e culturali del territorio, in QCC, XII, luglio-settembre 1970, 3, pp. 3-24; Tipologie dell’edilizia carceraria, in Carcere e società cit., pp. 336-363; Colpo alla nuca, Editori Riuniti, Roma 1988. Si veda inoltre: Sergio Lenci: l’opera architettonica 1950-2000, a cura di R. Lenci, Diagonale, Roma 2000. Sul progetto del carcere di Roma-Rebibbia: UNSDRI, Prison Architecture. An International Survey of Representative Closed Institutions and Analysis of Current Trends in Prison Design, The Architectural Press Ltd, London 1975, pp. 152-158. 84 Lenci, Una esperienza cit., p. 198. 85 AMP, f. «Liberarsi dalla necessità del carcere», bozza di discussione su «Costruzione di nuovi carceri: sì o no?», s.d. [circa 1986]. 86 Per i dati che seguono: Ministero di Grazia e Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Libro bianco cit., p. 223. 87 C. Cavallo, Proposta di differenziazione degli istituti penitenziari, Roma, settembre 1983 [documento per la circolazione interna all’Amministrazione penitenziaria]; MGG – Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena – Ufficio VIII, Criteri per una moderna edilizia penitenziaria, Roma, novembre 1989 [documento per la circolazione interna all’Amministrazione penitenziaria]. 88 Lenci, Colpo alla nuca cit., p. 53. 89 MGG – Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena – Ufficio VIII, Criteri per una moderna edilizia penitenziaria cit.

Capitolo V Circolare n. 3291/5741 del MGG – DGIPP – Segreteria Rep. I, 9 luglio 1990. I principali riferimenti legislativi sono: decreto legislativo 12 gennaio 1991, n. 5; decreto legislativo 13 marzo 1991, n. 76; decreto legislativo 13 maggio 1991, n. 152; legge 12 luglio 1991, n. 203; decreto legislativo 8 giugno 1992, n. 306; legge 7 agosto 1992, n. 356; legge 14 giugno 1993, n. 187. Si vedano inoltre le sentenze della Corte Costituzionale: 28 luglio 1993, n. 349; 23 novembre 1993, n. 410. 1 2

Note al capitolo V

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M. Gozzini, E nelle carceri sparì la legalità, in «l’Unità», 22 ottobre 1992. Si vedano ad esempio: SEAC, «Corrispondenza 1968-1985, 1986-1991, 1992-1995», f. «Corrispondenza 1986/1991», Comunicato stampa, 28 novembre 1990; AMP, «Convegno Ergastolo (20-2-92) Comitati difesa della Gozzini (e decreto 8.6.92)», documento di Sergio D’Elia, dicembre 1992. 5 AIGT MG, 10, prot. n. 230/92 dell’Ufficio di Sorveglianza di Livorno, 5 settembre 1992. Sulla gestione dei detenuti appartenenti a Cosa Nostra si veda anche: AIGT MG, 6, f. 1, «Realtà e gestione del mafioso detenuto», relazione del presidente sezione sorveglianza Palermo al Convegno dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) Palermo, 21-22-23 gennaio 1983. 6 AIGT MG, 12, Lettera firmata da Pannella, Taradash, Bonino, D’Elia per il Partito Radicale, 25 giugno 1992. 7 Si veda ad esempio: «È in atto la nuova cultura penitenziaria?» XXVI Convegno, SEAC, Roma, 1993. Si vedano i documenti conservati in: SEAC, «Ministero di Grazia e Giustizia 1971-1985, 1986-1991, 1992-», f. «Ministero Grazia e Giustizia a tutto il 31.12.1985»: lettera di Uggè e Buonamano a Nicolò Amato, 17 settembre 1992; lettera di Uggè e Buonamano a dir. gen. Capriotti e vicedirettore generale Di Maggio, 15 dicembre 1993. 8 Citato in M. Massari, La Sacra Corona Unita. Potere e segreto, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 124. 9 Si rimanda soprattutto a: S. Becucci, M. Massari, Globalizzazione e criminalità, Laterza, Roma-Bari 2003. Per alcuni studi sulla criminalità in Italia: M. Barbagli, L’occasione e l’uomo ladro. Furti e rapine in Italia, Il Mulino, Bologna 1995; A. Colombo, Etnografia di un’economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, Il Mulino, Bologna 1998; M. Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna 1998; A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003; S. Becucci, Criminalità multietnica. I mercati illegali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2006; R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006; A. Leogrande, Ragazzi di mafia, in A occhi aperti - Le nuove voci della narrativa italiana raccontano la realtà, a cura di M. Desiati e F. Manzon, Mondadori, Milano 2008, pp. 41-56. 10 La sintesi più completa del dibattito avutosi nel corso degli anni Novanta e Duemila è in L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Laterza, Roma-Bari 2006. Si rimanda inoltre alla bibliografia ragionata in nota all’introduzione. 11 S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, Odadrek, Roma 2002, pp. 161, 217-222; MGG – DAP – Ufficio studi ricerche legislazione e rapporti internazionali, Il sistema penitenziario italiano. Dati e analisi, a cura di L.M. Solivetti, Ministero della Giustizia, Roma 2003, p. 72. 12 Si vedano soprattutto gli articoli pubblicati sulle riviste «La questione criminale» e «Dei delitti e delle pene». 13 A. Mosconi, Le trasformazioni della pena nello spazio della cultura diffusa, in «Inchiesta», XVIII, gennaio-giugno 1988, 79-80, p. 2. 14 MGG – DAP – Ufficio studi ricerche legislazione e rapporti internazionali, Il sistema penitenziario italiano cit., p. 16. 15 L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, Ombre corte, Verona 2002, p. 111. 3 4

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Note

16 L’espressione è di Alessandro Margara, riportata in L. Fazzo, Margara contro Diliberto «licenziamento in tronco», in «la Repubblica», 2 aprile 1999, p. 16. 17 D. Mastrogiacomo, Caselli: «In carcere vanno solo i poveracci», «la Repubblica», 2 aprile 2000, p. 5. 18 Si veda su questo: Foucault, Sorvegliare e punire cit.; I. Taylor, P. Walton, J. Young, Criminologia sotto accusa, Guaraldi, Rimini-Firenze 1975; J. Young, R. Matthews, Rethinking Criminology: The Realist Debite, SAGE Publications, London-Newbury Park-New Delhi 1992. In Italia il dibattito è stato portato avanti soprattutto nell’ambito delle riviste «La questione criminale» e «Dei delitti e delle pene». 19 D. Melossi, Incarcerazione, vocabolari punitivi e ciclo politico-economico in Italia (1896-1965): rapporto studi una ricerca in corso, in «Inchiesta», XVIII, gennaio-giugno 1988, 79-80, pp. 13-18. 20 Verde, Massima sicurezza cit., p. 166. 21 Sulle trasformazioni sociali in corso nei primi anni Duemila: S. Mezzadra, Diritto di fuga: migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre corte, Verona 2001; A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2002; Un’immigrazione normale, a cura di G. Sciortino e A. Colombo, Il Mulino, Bologna 2003; E. Pugliese, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna 2006; Ai margini della città. Forme del controllo e risorse sociali nel nuovo ghetto, Carocci, Roma 2006; L’amministrazione locale della paura. Ricerche tematiche sulle politiche di sicurezza urbana in Italia, Carocci, Roma 2006; Caritas italiana, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, a cura di M. Magatti, Il Mulino, Bologna 2007. 22 Caritas/Migrantes, Immigrazione Dossier Statistico 2007. XVII Rapporto, Caritas, Roma 2007, pp. 12-13. 23 Fazzo, Margara contro Diliberto «licenziamento in tronco» cit., p. 16. Si vedano anche: A. Margara, I venticinque anni della riforma penitenziaria in Italia, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», III, gennaio-dicembre 2000, pp. 177-188; F. Corleone, La Giustizia come metafora, a cura di L. Paci, Edizioni Menabò, Ortona 2001. 24 Si vedano ad esempio: J.-C. Izzo, Casino totale, e/o, Roma, 1998; S. Dazieri, La cura del gorilla, Einaudi, Torino 2001; L. Machiavelli, Sarti Antonio fra gente perbene, Mondadori, Milano 2005; M. Carlotto, La terra della mia anima, e/o, Roma 2006; G. Carofiglio, Ragionevoli dubbi, Sellerio, Palermo 2006; Crimini, a cura di G. De Cataldo, Einaudi, Torino 2007; Crimini italiani, a cura di G. De Cataldo, Einaudi, Torino 2008. 25 G. Biondillo, Con la morte nel cuore, TEA, Milano 2005, p. 148. 26 Si veda anche il Rapporto sui diritti globali redatto annualmente dalla Associazione SocietàINformazione Onlus e promosso da CGIL, ActionAid, Arci, Antigone, CNCA, Forum ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. 27 Per la seguente ricostruzione si rinvia a: G. Arnao, Rapporto sulle droghe, Feltrinelli, Milano 1976; Le droghe e la prigione. Atti del VI Seminario Internazionale di Studio, numero speciale della «Rassegna penitenziaria e criminologica», IV, 1982; M. Cagossi, Comunità terapeutiche e non, Borla, Roma 1988; La ragione e la retorica. Le politiche europee sulle droghe e il caso italiano, a cura di F. Corleone e G. Zuffa, Edizioni Menabò, Ortona 2004; C. Bellosi, Piccoli gulag. Sentieri e insidie delle comunità terapeutiche, DeriveApprodi, Roma 2004;

Note al capitolo V

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La guerra infinita. Le droghe nell’era globale e la svolta punitiva in Italia, a cura di F. Corleone e G. Zuffa, Edizioni Menabò, Ortona 2005. 28 SEAC, «Corrispondenza», «Il problema dei tossicodipendenti in carcere», s.d. [aprile 2000]. Si veda anche: La prigione malata. Letture in tema di AIDS, carcere e salute, a cura di B. Magliona e C. Sarzotti, L’Harmattan Italia, Torino 1996. 29 Si veda ad esempio: L. Re, La detenzione degli stranieri nelle carceri europee, in «Jura Gentium», 2008, 1 [rivista on-line]. 30 I CPT sono stati rinominati come centri di identificazione ed espulsione (CIE) in base al d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 2. Sui CPT-CIE: F. Sossi, Autobiografie negate. Immigrati nei lager del presente, Manifestolibri, Roma 2002; S. Galieni, A. Patete, Frontiera Italia, Città aperta, Troina 2002; Medici senza frontiere – Missione Italia, Rapporto sui centri di permanenza temporanea e assistenza, 2004, www.medicisenzafrontiere.it; Amnesty International, Italia: presenza temporanea, diritti permanenti, 2005, www.amnesty.it; Gruppo di lavoro sui CPTA in Italia, Libro bianco. I Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza in Italia, a cura di N. Dentico, M. Gressi, 2006, www.comitatodirittiumani.org; M. Rovelli, Lager italiani, BUR, Milano 2006. Si vedano anche i rapporti del Comitato di prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa, nel sito: www.cpt.coe.int 31 Complessità e servizio sociale nel sistema giustizia, a cura di F. Ferrario e A. Muschitello, Franco Angeli, Milano 1998; Giuffrida, I centri cit.; G. Certomà, Per un servizio sociale della giustizia umano, autonomo e creativo. In cammino verso la comunità, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2000; G. Certomà, Il servizio sociale: storia, ricordi, pensieri. Viaggio alla ricerca di una traccia, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2002. La ricostruzione si basa anche sulle risposte al questionario inviato nel febbraio 2001 alle direzioni dei CSSA, indirizzato agli assistenti sociali in servizio nell’Amministrazione penitenziaria prima del 1986. Si rinvia inoltre all’intervista a Maria Pia Giuffrida. Si vedano anche: SEAC, «Corrispondenza 1968-1985, 1986-1991, 1992-1995», f. «Corrispondenza 1992/1995», prot. n. 38/94 del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia, 2 giugno 1994. 32 AIGT MG, 6, f. 1, Relazione del gruppo di Milano a cura di G. Del Rio, «Il conflitto di ruolo degli operatori peniteniziari», 1992. 33 Giuffrida, I Centri cit., p. 62, 99 e 63. 34 Si vedano ad esempio: Carcere di tante carceri, a cura di C. Marcetti e N. Solimano, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze 1997; G. Corsi, A. La Palombara, C. Besio, L. Morici, Percorsi personali e di reclusione, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2002. 35 Sulla medicina penitenziaria: F. Ceraudo, La storia della medicina penitenziaria, Archimedia, Pisa 1998. Per «Legge Bindi» si intende il d.l. 22 giugno 1999, n. 230. 36 Si rinvia in particolare alle interviste a Vinicio Menchi e a Giuliano Capecchi. 37 Si veda ad esempio Verde, Massima sicurezza cit., pp. 83-113. 38 www.ristretti.it. 39 Cfr., Il difensore civico nella tutela dei detenuti, a cura di A. Cogliano, quaderno di Antigone, 1999. 40 Cfr., La prigione malata cit. 41 Cfr., Per non morire di carcere. Esperienze di aiuto nelle prigioni italiane

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Note

tra psicologia e lavoro di rete, a cura di G. Concato e S. Rigione, Franco Angeli, Milano 2005. 42 Associazione Antigone, Il carcere trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Castelvecchi, Roma 2000, p. 229. 43 I dossier «morire di carcere», dall’anno 2000, si trovano nel sito di Ristretti Orizzonti. La ricostruzione si basa anche sull’incontro con la redazione all’interno della casa di reclusione di Padova il 30 settembre 2003. 44 Le regole penitenziarie europee, a cura di P. Comucci e A. Presutti, Giuffrè, Milano 1989. 45 Si vedano in particolare: www.giustizia.it; www.giustizia.it/ministero/ struttura/dipartimenti/dip_amm_penitenz.htm; www.polizia-penitenziaria.it; www.osapp.it; www.sappe.it; www.ispcapp.org; www.leduecitta.com. 46 Per le descrizioni che seguono: G. di Gennaro, L’Italia e l’ONU per la riforma del sistema penitenziario in Afganistan, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», nuova serie, VIII, maggio-agosto 2004, 2, pp. 162-176; G. di Gennaro, Afganistan: la nuova legge penitenziaria sintomo del Paese che cambia, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», nuova serie, IX, gennaio-aprile 2005, pp. 133-180; S. Ardita, Studio per la definizione normativa ed organizzativa di un regime speciale di detenzione nella Repubblica di Serbia, in «Rassegna penitenziaria e criminologica», nuova serie, VIII, maggio-agosto 2004, 2, pp. 177-211. Le notizie sulla missione in Kosovo sono desunte dal sito internet della Polizia Penitenziaria. 47 Antigone in Carcere. Terzo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, Carocci, Roma 2004, pp. 202-205. 48 L. Guadagnucci, Noi della Diaz, Berti, Piacenza 2002; Antigone in carcere cit., pp. 205-206. 49 Antigone in carcere cit., pp. 199-200. Si veda anche il dossier nel sito di Ristretti Orizzonti. 50 La ricostruzione si basa sugli articoli pubblicati in «la Repubblica», 8-10 luglio 2000. 51 SEAC, «Corrispondenza», lettera di Sergio Segio a Livio Ferrari, 4 settembre 2000. La ricostruzione si basa sulla rassegna stampa curata da Sergio Segio. 52 A. Sofri, Le prigioni degli altri, Sellerio, Palermo 1993. 53 Si veda in particolare: www.papillonrebibbia.org. 54 ADFM, documento che inizia con «I detenuti della seconda sezione», al direttore della casa circondariale Firenze, s.d. [ma 2003]. 55 Il documento si trova nel sito: www.altrodiritto.unifi.it. 56 Si veda tra l’altro: G. Neppi Modona, Perdono e clemenza di Stato nel sistema della giustizia penale italiana, in «Quaderni degli Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento», Il Mulino, Bologna, in corso di stampa. 57 I dati sulla popolazione penitenziaria e sull’indulto sono ricavati dalle newsletter giornaliere di Ristretti Orizzonti, ripresi da quelli forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. 58 La stima è contenuta nel sito dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (OSAPP). 59 Le dichiarazioni del capo dell’Amministrazione penitenziaria sono in www.poliziaedemocrazia.it. 60 G. Jocteau, G. Torrente, Indulto e recidiva. Uno studio dopo sei mesi dall’approvazione del provvedimento, pubblicato sul sito dell’Associazione Antigo-

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ne. Alla data del 16 febbraio 2007 risultavano rientrati in carcere 2855 «indultati» che erano presenti in carcere al momento del provvedimento e 352 persone che beneficiavano di misure alternative al momento dell’indulto. La percentuale corrispondeva all’11,11% delle persone uscite dal carcere e al 6% di quelle in misure alternative al momento dell’indulto; il dato complessivo era pari al 10,16% a fronte di un tasso di recidiva ordinario stimato attorno al 68%. 61 La ricostruzione che segue si basa sull’osservazione diretta e sull’intervista a Giuliano Capecchi. 62 Per un’ampia ricerca sulle politiche di inserimento lavorativo degli ex detenuti si veda: Araba Fenice. L’inserimento lavorativo di persone provenienti da percorsi penali, a cura di A. Naldi, Sinnos Editrice, Roma 2004.

BIBLIOGRAFIA

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2. Materiali consultati Riviste «Il Bollettino» «Carcere Informazione» «Controinformazione» «Il Corriere Penitenziario» «Dei delitti e delle pene» «L’espresso» «Inchiesta» «Italia contemporanea» «Liberarsi dalla necessità del carcere» «Magistratura Democratica» «Modern Italy» «Noi, gli altri» «Il Ponte» «Quaderni di criminologia clinica» «La questione criminale» «Rassegna di studi penitenziari»

Bibliografia

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«Rassegna penitenziaria e criminologica» «Redenzione» «Revue Internationale de Défense Sociale» «Rivista di Difesa Sociale» «Tempo» «La Voce Penitenziaria» «Zapruder»

Quotidiani «Lotta Continua» «il manifesto» «Mo’ che il tempo si avvicina» «la Repubblica»

Siti internet www.altrodiritto.it www.amnesty.it www.associazioneantigone.it www.cpt.coe.it www.giustizia.it www.giustizia.it/ministero/struttura/dipartimenti/dip_amm_penitenz. htm www.ispcapp.org www.leduecitta.com www.osapp.it www.papillonrebibbia.it www.poliziaedemocrazia.it www.polizia-penitenziaria.it www.ristretti.it www.sappe.it

Colloqui e interviste registrate* * (Anonima). Castiglioncello (Livorno), 28 novembre 1999. Suora addetta alla sorveglianza delle detenute nelle carceri giudiziarie femminili di Firenze Santa Verdiana negli anni Sessanta e Settanta. * Con asterisco sono segnalate le interviste.

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Bibliografia

* (Anonima). Viterbo, 12 dicembre 1999. Suora addetta alla sorveglianza delle detenute nelle carceri giudiziarie femminili di Roma Regina Coeli e Rebibbia dal 1959 al 1979. * Aurelio Mascioli. Pisa, 11 gennaio 2000. Maresciallo degli agenti di custodia presso la casa penale di Porto Azzurro e presso la casa circondariale di Pisa, in servizio dagli anni Cinquanta all’inizio degli anni Novanta. Salvo Uselli. Pisa, 12 gennaio 2000. Al momento dell’intervista, comandante degli agenti della Polizia Penitenziaria della casa circondariale di Pisa Don Bosco, in servizio dal marzo 1969, già maresciallo nel carcere di massima sicurezza di Novara tra il 1984 e il 1988. * sig. Di Matteo. Cairo Montenotte (Savona), 15 febbraio 2000. Maresciallo degli agenti di custodia presso diversi istituti penitenziari dal 1946 al 1987. * Padre Ruggero Cipolla. Saluzzo (Cuneo), 16 febbraio 2000. Cappellano delle carceri giudiziarie/casa circondariale di Torino Le Nuove tra il 1944 e il 1994. * Luca Nicolotti. Torino, 15 marzo 2000. Ex militante delle Brigate Rosse, detenuto dal maggio 1980 anche all’interno di sezioni di massima sicurezza. Italo Innocenti. Firenze, maggio 2000. Direttore e ispettore distrettuale nell’AP, in servizio dal 1950 al 1997. * Alessandro Margara. Firenze, 12 giugno 2000. Attuale presidente della Fondazione Michelucci, già presidente e magistrato del Tribunale di sorveglianza di Firenze e Bologna a partire dalla metà degli anni Sessanta e direttore generale degli istituti di prevenzione e di pena alla metà degli anni Novanta. Irene Invernizzi. Pavia, 10-11 agosto 2000. Attivista della Commissione carceri di Lotta Continua tra il 1970 e il 1975 ca.; militante del PCI di Pavia all’inizio degli anni Ottanta.

Bibliografia

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(Anonimo). S.l., 5 ottobre 2000. Direttore di vari istituti di prevenzione e di pena dagli anni Sessanta alla fine degli anni Novanta. * Maria Pia Giuffrida. Roma, 10 novembre 2000. Attuale direttrice del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana, già dirigente superiore di Servizio sociale presso l’Ufficio centrale della formazione ed aggiornamento del personale – Divisione misure alternative. Suor Paola. Firenze, novembre 2000. Suora della Congregazione di San Vincenzo de’ Paoli. Carmen Bertolazzi. Roma, 1 febbraio 2001. Attivista della Commissione carceri di Lotta Continua negli anni Settanta. Attuale responsabile dell’Associazione Ora d’Aria e vicesegretaria della Conferenza nazionale volontariato della giustizia. Anna Rita Fraiégari. Roma, marzo 2001. Insegnante carceraria dal 1972 presso la casa circondariale femminile di Roma Rebibbia; educatrice presso l’Istituto nazionale osservazione di Rebibbia e presso la casa circondariale di Roma Rebibbia dal 1979. Guido Palazzolo. Roma, marzo 2001. Attuale presidente della Fondazione Opera Divin Redentore di Roma. Dott. Zoani. Roma, 15 settembre 2001. Attuale presidente del Consiglio centrale della Società di San Vincenzo de’ Paoli. * Redazione di «Ristretti Orizzonti». Casa di reclusione di Padova, 30 settembre 2003. * Piergiorgio Valeriani. Reggio Emilia, 23 marzo 2005 Insegnante elementare presso le carceri giudiziarie di San Tommaso, Reggio Emilia. * Giuliano Capecchi. Firenze, 3 marzo 2007, 15 maggio 2008. Fondatore della rivista «Carcere Informazione», attivista del coordi-

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Bibliografia

namento Liberarsi dalla necessità del carcere, ex presidente dell’associazione di volontariato Pantagruel, Firenze. * Vinicio Menchi. Pistoia, 12 giugno 2008. Ex detenuto, protagonista di alcune proteste carcerarie e recluso anche nelle carceri di massima sicurezza.

RINGRAZIAMENTI

A leggerlo in controluce, questo volume parla anche di un’infinità di incontri, di un intreccio di storie personali, di tanti luoghi, lungo quasi dieci anni di ricerca. Negli archivi, nelle biblioteche e nei centri di documentazione ho trascorso, naturalmente, molte ore. Per la loro gentilezza e professionalità, ringrazio soprattutto Claudio Lamioni, Lucia Marzo, Maria Paola Niccoli e Assunta Borzacchiello. Idealmente, e talvolta materialmente, queste pagine le ho scritte anche in un centro di accoglienza per detenuti, nelle sezioni di alcune carceri, durante gli incontri e le assemblee a cui ho partecipato nelle scuole, nei centri sociali, in una libreria parecchio particolare, in alcune comunità cristiane di base, nelle case del popolo fiorentine. Cito i luoghi anche se vorrei nominare le persone sempre interessanti che vi ho incontrato: le ricordo e le ringrazio tutte, purtroppo non c’è spazio per menzionarle. Nel corso della ricerca, non pochi mi hanno ospitato nelle loro case: tra gli altri, Joe Sim a Liverpool, Karen Leander a Stoccolma, Irene Invernizzi a Pavia, Paddy Hillyard a Belfast (nel suo trullo pugliese invece devo ancora andare). Le persone che ho intervistato mi hanno permesso di entrare in una parte della loro memoria, alcune mi hanno fatto frugare nei loro archivi personali, come Mauro Palma e Mick Ryan, altre mi hanno aperto le porte delle loro baracche e dei loro container sparsi nella piana fiorentina, come Gheorghe, Natasha, Mario, Adem, Nicosar e Thomas. Con grande stima e affetto ringrazio Paul Ginsborg, Sandro Margara, Guido Neppi Modona e Emilio Santoro, ognuno dei quali mi ha incoraggiato a scrivere questo libro. A Patrizio Gonnella, Thomas Mathiesen, Susanna Ronconi, Giovanni Senzani,

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Ringraziamenti

Stefano Anastasia e Sergio Segio sono riconoscente per la disponibilità che hanno mostrato nei miei confronti in tante occasioni. Voglio ringraziare in modo particolare alcuni amici con i quali lo scambio di idee, riflessioni ed esperienze non è mai venuto meno: Claudio Pedron, Filippo Benfante, Michele Vittori, Ilaria Di Lecce, Pietro Giovannoni, Anna Masecchia, Elena Iorio, Maria Pia Passigli, Luca Noale, Ilaria Casini, Luciano Malavasi, Elena Mazzini, Paola Ricciardi, Giuliano Capecchi, Silvia Vaiani, Felice Simeone, Lorenzo Guadagnucci, Kristin Jenkins, Nadia Caldieri, Salvatore Tassinari, Tilde Napoleone, Riccardo Torregiani, Anna Pellegrino, Jacopo Menichetti, Stefania Bernini, Camilla Lattanzi, Daniella Vangieri, Paola Dell’Omarino. Un abbraccio a mia mamma Tonia e a mio papà Federico, che mi sono sempre stati vicini. E un bacio grande a Natasja.

INDICI

INDICE DEI NOMI Aglietta, Adelaide, 110. Alasia, Franco, 55. «l’Alligatore», personaggio letterario, 138. Altavista, Giuseppe, 43, 72. Amato, Nicolò, 109-110, 116, 128, 130. Anastasia, Stefano, 120. Arru (s.n.), consigliere dell’Amministrazione penitenziaria, 49. Attimonelli, Emanuele, 102. Badoglio, Pietro, 23. Balducci, Ernesto, 110. Baudana Vaccolini, Costanza Itala, 39. Becca, Aurelio, 12. Beccaria, Cesare, 23. Bellucci, Vittorio, 121. Benelli, Sennuccio, 47-48. Berardelli, Giulio Antonio, 12. Bertolazzi, Carmen, 119. Bettiol, Giuseppe, 21. Boato, Marco, 110. Bonifacio, Francesco Paolo, 91. Bosso, Luigi, 102. Breda, Renato, 43. Bronzini, Giuseppe, 110, 120. Cabrini, Giuliana, 86. Calabresi, Luigi, 154. Calamandrei, Piero, 24. Calamari, Mario, 72. Calogero, Pietro, 108. Canepa, Giacomo, 43. Carpitella, Diego, 40. Casaroli, Paolo, 54. Caselli, Giancarlo, 134. Casillo, Michele, 100. Castelli, Roberto, 155. Catapano, Salvatore, 101. Cavallero, Pietro, 55, 67-68.

Ciotti, Luigi, 145. Cipolla, Ruggero, cappellano, 24, 3637, 58. Cirillo, Ciro, 102. Ciuffi, Maria, 152. Clemente, Giuseppe, 100. Colli, Giovanni, 72. Corleone, Franco, 110. Cortellessa, Domenico, 43. Cotugno, Lorenzo, 96. Cubattoli, Danilo, cappellano, 37. Curcio, Renato, 98. Cusani, Sergio, 154. Cutolo, Raffaele, 102-103. Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 76, 94, 98, 102, 105. De André, Fabrizio, 71. Del Padrone, Giancarlo, 76. De Luise, Crispino, 43. De Nicola, Enrico, 24. de’ Paoli, Vincenzo, 39. De Pietro, Michele, 32, 40. di Gennaro, Giuseppe, 43, 72, 81, 150. Di Lenardo, Cesare, 104. Diliberto, Oliviero, 137. Di Rocco, Ennio, 105. Dolci, Danilo, 138. Dozier, James Lee, 103. D’Urso, Giovanni, 99-100. Fanon, Frantz, 65. Fantazzini, Horst, 54. Faranda, Adriana, 107. Farris, Daniele, 54. Fassino, Piero, 152. Favero, Ornella, 145. Fedeli, Franco, 47-48. Felisetti, Dino, 82. Ferracuti, Franco, 43.

212 Ferrajoli, Luigi, 120. Ferraro, Michele, personaggio letterario, 138. Fo, Dario, 63. Foa, Vittorio, 25. Fofi, Goffredo, 55. Fontanesi, Mario, 43. Foot, John, 10. Foucault, Michel, 50, 59. Franceschini, Alberto, 106. Galli, Giorgio, 103. Galvaligi, Enrico, 99. Garofalo (s.n.), direttore generale reggente delle carceri, 44. Gava, Antonio, 60. Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, 34. Giovanni Paolo II (Karol Jozef Wojty¢a), papa, 152-153. Giua, Michele, 24. Gonella, Guido, 34, 46-47, 56-57, 73. «il Gorilla», personaggio letterario, 138. Gozzini, Mario, 110-111, 113-114, 120, 129. Gramsci, Antonio, 25, 62. Guerrieri, Guido, 138. Guidetti, Serra Bianca, 122. Invernizzi, Irene, 78. Ippoliti, Vincenzo, 11. Lanza, Salvatore, 97. Lenci, Sergio, 124-126. Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 65. Leone, Giovanni, 21. Lonzi, Marcello, 152. Lorusso, Giuseppe, 97. Lumley, Robert, 95. Lutring, Luciano, 54. Manci, Duilio, 9. Mancino, Nicola, 130. Manconi, Luigi, 120, 155. Mantini, Luca, 80. Mao Zedong, 65, 71. Margara, Alessandro, 110-111, 138. Martinazzoli, Mino, 84-85, 111. Marx, Karl, 65. Melodia, Davide, 86. Melodia, Giovanni, 86.

Indice dei nomi Merani, Rinaldo, 129. Meucci, Gian Paolo, 110. Michelucci, Giovanni, 124-125. Minervini, Girolamo, 96. Minestrini, Ettore, cappellano, 7. Montaldi, Danilo, 55. Montale, Fabio, personaggio letterario, 138. Morandi, Rodolfo, 24. Mordenti, Adriano, 64. Moretti, Mario, 100. Moro, Aldo, 21, 46, 94. Morucci, Valerio, 107. Mussolini, Benito, 3. Negri, Antonio, 108. Neppi Modona, Guido, 24, 29, 83. Notarnicola, Sante, 55, 67-68, 102. Palma, Mauro 110, 120. Palma, Riccardo, 96. Palmieri, Antonio, 100. Paolella, Alfredo, 96. Pasolini, Pier Paolo, 138. Pasquale, detenuto, 153. Peci, Patrizio, 105. Peci, Roberto, 105. Pellicanò, Carmelo, 110. Persico, Giovanni, 24-27. Pertini, Sandro, 103. Pinelli, Giuseppe, 63. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 36. Pisenti, Piero, 6, 12. Ponti, Gianluigi, 47. Porceddu, Salvatore, 97. Raccis, Efisio, 9. Rame, Franca, 63. Ranuzzi, Romano, 54. Rap, Salvatore, 17. Reale, Nicola, 34, 48. Reale, Oronzo, 56-57, 73, 83. Reviglio della Veneria, Carlo, 77. Ricci, Aldo, 71. Roberto, detenuto, 153. Rodotà, Stefano, 120. Rognoni, Virginio, 94, 104. Romeo, Giuseppe, 80. Rossanda, Rossana, 120. Rovoletto, Adriano, 55. Ruggero, padre, vedi Cipolla, Ruggero.

213

Indice dei nomi Sabattini, Anna, 43. Salierno, Giulio, 71. Santoro, Antonio, 96. Scelba, Mario, 32. Secchia, Pietro, 24. Segio, Sergio, 154. Senzani, Giovanni, 71, 100, 103. Sereni, Emilio, 24. Sofri, Adriano, 66, 154. Soldati, Giorgio, 105. Sossi, Mario, 77, 82, 94. Tartaglione, Girolamo, 43, 96. Terracini, Umberto, 24. Tinebra, Giovanni, 157. Tirimacco, Procopio, personaggio letterario, XXIX. Toeschi, Alessandro, 4.

Togliatti, Palmiro, 15-17. Tuti, Mario, 114. Uggè, Mario, 121. Valpreda, Pietro, 63. Vangone, Antonio, 101. Verra (s.n.), funzionario ministeriale, 12. Violante, Luciano, 122. Volpe, Gabriele, 13. Yuvanita, detenuta, 153. Zagari, Mario, 70, 74, 77, 83. Zanardelli, Giuseppe, 23. Zoli, Adone, 26-27, 31.

INDICE DEL VOLUME Prefazione di Guido Neppi Modona Introduzione. In carcere I.

Carceri in guerra, carceri del dopoguerra

VII

XXI

3

Le carceri della Repubblica sociale italiana, p. 3 - Le carceri dell’Italia liberata e del dopoguerra, p. 12 - Speranze di riforma, p. 20 - Ricostruzione, normalizzazione, p. 27

II. Immagini dal carcere pacificato

34

Il carcere morale, p. 34 - Il carcere-laboratorio, p. 41 - Carcere e società negli anni Cinquanta e Sessanta, p. 47

III. Rivolte, riforme, repressione

58

Il carcere sottosopra, p. 58 - I dannati della terra, p. 61 - «Ci siamo presi la libertà di lottare», p. 65 - Aria di riforma, p. 71 - La virata conservatrice, p. 75 - La «riforma fantasma», p. 85

IV. Modernità penitenziaria

92

Massima sicurezza, p. 92 - Lo scontro frontale, p. 95 - Camorristi, pentiti e «irriducibili», p. 100 - Le due dissociazioni e la «legge Gozzini», p. 107 - Il nuovo che avanza, p. 114 - Antigone e i volontari, p. 118 - Carceri vecchie, carceri nuove, p. 123

V.

Dallo Stato sociale allo Stato penale La fine della «nuova cultura penitenziaria», p. 128 - Il carcere tra globalizzazione ed «emergenza sicurezza», p. 130 - Hotel a cinque stelle, p. 143 - Indulto e sacchi neri, p. 152

128

216

Indice del volume

Fondi di archivio e abbreviazioni

161

Note

164

Bibliografia

197

Ringraziamenti

207

Indice dei nomi

211