Callimaco: Aitia. Libro terzo e quarto 8862272820, 9788862272827

Il volume conclude l'edizione critica, con traduzione e commento, degli Aitia del poeta greco Callimaco, di età ell

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Callimaco: Aitia. Libro terzo e quarto
 8862272820, 9788862272827

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AITIA LIBRO

TERZO

E QUARTO

CALLIMACO

INTRODUZIONE, TRADUZIONE

E

A

CURA

DI

MASSIMILLA

DI

PISA FABRIZIO

CRITICO,

COMMENTO

GIULIO

BIBLIOTECA

TESTO

STUDI

ANTICHI

:

92.

: ROMA

SERRA MMX

EDITORE

BIBLIOTECA

DI

STUDI

ANTICHI

Collana diretta da Graziano Arrighetti e Mauro Tulli Redazione: Maria Isabella Bertagna *

92.

AITIA LIBRO

TERZO

E QUARTO

CALLIMACO

INTRODUZIONE, TRADUZIONE

E

GIULIO

CRITICO, A

CURA

MASSIMILLA

PISA FABRIZIO

TESTO

COMMENTO

- ROMA

SERRA MMX

EDITORE

DI

Il volume CaLLIMACO, Aitia. Libro tergo e quarto, introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di Giulio Massimilla,

è stato pubblicato con il contributo del mIuR. *

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l'adattamento,

anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc. senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa - Roma.

Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. *

Proprietà riservata - All rights reserved © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore®, Pisa - Roma. Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, fse(@libraweb.net

Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06704523456, fax +39 0670476605, fse.roma(@libraweb.net www.libraweb.net x

ISSN 1723-4433 ISBN 978-88-6227-282-7 (BROSSURA) ISBN 978-88-6227-283-4 (RILEGATO) ISBN 978-88-6227-284-1 (ELETTRONICO)

Al ricordo di mia madre Diana Lambertini Even memory is not necessary for love. There is a land of the living and a land of the dead

and the bridge is love,

the

only survival, the only meaning. T. WILDER

INDICE PREMESSA SIGLE, COMPENDI E SEGNI CONVENZIONALI ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

11 13 16

INTRODUZIONE I. Il terzo e il quarto libro degli Aitia II. Metrica e prosodia III. Presentazione dell'opera

39 41 54 61

TESTO CRITICO Conspectus librorum papyraceorum secundum ordinem temporum Etymologicorum codices laudati. Sigla Aetiorum liber tertius Aetiorum liber quartus Aetiorum fragmenta quae ad librum tertium aut quartum fortasse spectant Fragmenta incertae sedis quae ad Aetiorum librum tertium aut quartum fortasse spectant Fragmenta incerti auctoris quae ad Callimachi Aetiorum librum tertium aut quartum fortasse spectant

65 67 69 71 131

TRADUZIONE

191

164 172 185

Aitia, libro terzo

193

Aitia, libro quarto Aitia, frammenti che forse appartengono al terzo o al quarto libro Frammenti di incerta collocazione che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia Frammenti di autore incerto che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia di Callimaco

204 213

COMMENTO

215 218 219

Aitia, libro terzo

221

Aitia, libro quarto Aitia, frammenti che forse appartengono al terzo o al quarto libro Frammenti di incerta collocazione che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia Frammenti di autore incerto che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia di Callimaco

420 522

INDICI Index nominum et verborum Index fontium Comparationes numerorum

526 558 567 569 593 600

Premessa Questo volume porta a compimento l'edizione commentata degli Aitia di Callimaco, facendo séguito al tomo pubblicato nel 1996, che riguardava 1 libri primo e secondo. È per me un piacere ringraziare i Professori Graziano Arrighetti e Mauro Tulli, che hanno accolto anche questa seconda parte del mio lavoro nella Biblioteca di Studi Antichi. L'interesse della comunità scientifica per la poesia callimachea è oggi quanto mai vivo. Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le occasioni di confronto in questo campo, perché Callimaco costituisce sempre più spesso 1] fulcro di congressi, giornate di studio e seminari, o comunque ne rappresenta una componente di spicco. Un simile fervore di iniziative mi è stato di grande stimolo, mentre elaboravo la mia ricerca. Ho infatti potuto frequentemente discutere sui temi dei quali mi stavo occupando. Da questi incontri ho tratto spunto per scoprire nuove prospettive di indagine e per riconsiderare 1 miei punti di vista. La mia riconoscenza va perciò a tutti coloro, con i quali ho avuto modo di interloquire così proficuamente. Ringrazio inoltre quanti, nel corso degli anni, hanno gentilmente manifestato interesse per questo mio lavoro. La loro attenzione mi ha sostenuto e spronato, mentre percorrevo il lungo cammino che la stesura del volume ha richiesto. Spero che le pagine seguenti possano contribuire, anche in misura minima, a incoraggiare nuovi studi su Callimaco. Il libro è dedicato a mia madre Diana Lambertini. A lei, che ha svolto le

sue ricerche in un campo lontano dall'antichità classica (la Chimica industriale), devo tuttavia 1 presupposti stessi per la scelta dell'àmbito di studi, nel quale questo volume si inserisce. Se infatti fin dall'inizio mi sono immerso negli affascinanti mondi delle fabulae callimachee, è perché ho imparato da lei che l'immaginazione può arricchire la vita. Napoli, Dicembre 2008

G.M.

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Sigle, compendi e segni convenzionali 1) Nomi di studiosi B.-M. =E. A. Barber - P. Maas Ba. = E. A. Barber Hu. = A. 5. Hunt

L.=E. Lobel L.J.-P.= H. Lloyd-Jones - P. J. Parsons Li.=E. Livrea Ma. = P. Maas

Me. = C. Meillier N.-V.=M. Norsa - G. Vitelli Pa. = P. 1. Parsons

Pf. = R. Pfeiffer Schn. = O. Schneider Vit. = G. Vitelli Vo. = A. Vogliano Wil. = U. von Wilamowitz-Moellendorff

2) Periodici Le sigle dei periodici sono quelle usate in J. Marouzeau, Dix années de bibliographie classique (1914-1924) I-II (Paris 1927-1928), J. Marouzeau (e successori), L'année philologique I- (Paris 1928-) e S. Lambrino, Bibliographie de l'antiquité classique 18961914 I (Paris 1951). Differiscono solo: «PdP» = La parola del passato. Rivista di studi antichi «PLLS» = Papers of the Langford Latin Seminar

3) Sillogi, collane di testi e opere di riferimento CA =]. U. Powell, Collectanea Alexandrina (Oxford 1925) CEG = P. A. Hansen, Carmina epigraphica Graeca (Berlin - New York), 1: Carmina saeculorum VIII-V a.Chr.n. (1983); 2: Carmina saeculi IV a.Chr.n. (1989) Cramer, AO = 1. A. Cramer,

Anecdota

Graeca

e codd. manuscriptis Bibliothecarum Oxo-

Graeca

e codd. manuscriptis Bibliothecae Regiae

niensium (Oxford 1835-1837) Cramer, AP

= J. A. Cramer, Anecdota

Parisiensis (Oxford 1839-1841) Ebert = 1. Ebert, Griechische Epigramme auf Sieger an gymnischen und hippischen Agonen (Berlin 1972) EGM = R. L. Fowler, Early Greek Mythography I: Text and Introduction (Oxford 2000) EpGr. ... Kaibel = G. Kaibel, Epigrammata Graeca ex lapidibus conlecta (Berlin 1878) FGE = D. L. Page, Further Greek Epigrams (Cambridge 1981). Si citano 1 versi secondo la numerazione continua FGrHist = F. Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker (Berlin-Leiden 19231958) FHG = C. Müller e T. Müller, Fragmenta historicorum Graecorum (Paris 1841-1872) Frisk = H. Frisk, Griechisches Etymologisches Wörterbuch (Heidelberg 1960-1972)

14

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

GDRK = E. Heitsch, Die griechischen Dichterfragmente der römischen Kaiserzeit (Göttingen 1963-1964) GGM = C. Müller, Geographi Graeci minores (Paris 1855-1861) GP = A. S. F. Gow - D. L. Page, The Greek Anthology. The Garland of Philip and Some Contemporary Epigrams (Cambridge 1968). Si citano 1 versi secondo la numerazione continua Gramm.

Gr. = A. Hilgard, A. Lentz, R. Schneider, G. Uhlig, Grammatici

Graeci

(Leipzig

1867-1910) GVI = W. Peek, Griechische Vers-Inschriften I. Grab-Epigramme (Berlin 1955) HE = A. S. F. Gow - D. L. Page, The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams (Cambridge 1965). Si citano i versi secondo la numerazione continua IG = Inscriptiones Graecae (Berlin 1873-) Kühner-Gerth = R. Kühner - B. Gerth, Ausführliche Grammatik der griechischen Sprache. Zweiter Teil: Satzlehre (Hannover-Leipzig 1898-1904) LIMC = Lexicon iconographicum mythologiae classicae (Zürich-München-Düsseldorf 1981-1999) LSJ

= H.

6.

Liddell

- R.

Scott, rev.

H.

Stuart Jones

- R.

McKenzie,

A

Greek-English

Lexicon (ed. 9, Oxford 1940) LSJ Suppl. = P. G. W. Glare - A. A. Thompson, Greek-English Lexicon: Revised Supplement (Oxford 1996) Miller = E. Miller, Mélanges de littérature grecque (Paris 1868) OGI = W. Dittenberger, Orientis Graeci inscriptiones selectae (Leipzig 1903-1905) PCG =

KR. Kassel - C. Austin, βοείας comici Graeci (Berlin - New York), I: Comoedia Do-

rica, mimi, phlyaces (2001); II: Agathenor-Aristonymus (1991); ΠῚ 2: Aristophanes (Testimonia et fragmenta) (1984); IV: Aristophon-Crobylus (1983); V: DamoxenusMagnes (1986); VI 2: Menander (Testimonia et fragmenta) (1998); VII: MenecratesXenophon (1989); VII: Adespota (1995) PG = J. P. Migne (ed.), Patrologiae cursus completus. Series Graeco-Latina (Paris 18571866) PMG = D. L. Page, Poetae melici Graeci (Oxford 1962) PMGF = M. Davies, Poetarum melicorum Graecorum fragmenta I. Alcman. Stesichorus. Ibycus (Oxford 1991) RE = A. Pauly - G. Wissowa (edd.), Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft (Stuttgart 1893-1980) Reitzenstein, Erym. = R. Reitzenstein, Geschichte der griechischen Etymologika (Leipzig 1897) RML = W. H. Roscher - K. Ziegler (edd.), Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie (Leipzig-Berlin 1884-1937) SEG = Supplementum epigraphicum Graecum (Leiden-Amsterdam 1923-) SGO=R. Merkelbach - J. Stauber, Steinepigramme aus dem griechischen Osten (StuttgartLeipzig-München 1998-2004) SH = H. Lloyd-Jones - P. Parsons, Supplementum Hellenisticum (Berlin - New York 1983)

SIG? = W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum Graecarum (Leipzig 1915-1924) SLG = D. L. Page, Supplementum lyricis Graecis (Oxford 1974) Suppl. SH = H. Lloyd-Jones, Supplementum Supplementi Hellenistici (Berlin - New York 2005)

SIGLE, COMPENDI E SEGNI CONVENZIONALI

15

TrGF = Tragicorum Graecorum fragmenta (Göttingen), I: Didascaliae, catalogi, testimonia et fragmenta tragicorum minorum ed. B. Snell (198€); II: Adespota ed. R. Kannicht - B. Snell (20072); III: Aeschylus ed. S. Radt (1985); IV: Sophocles ed. S. Radt (19992); V: Euripides ed. R. Kannicht (2004)

4) Altre abbreviazioni e segni convenzionali app. = apparatus criticus | apparato critico (ma app. delle fonti = apparato delle fonti) C. = Callimaco comm. = commentarius

| commento, commentario

* = nelle citazioni di poeti, l'asterisco indica che la parola o la frase occupano la medesima sede metrica della parola o della frase callimachea in questione | = nelle citazioni di poeti, la sbarra segna l'inizio o la fine del verso (ma non viene impiegata quando si cita un solo verso per intero)

Abbreviazioni bibliografiche 1) Edizioni di Callimaco che includono i frammenti degli Aitia (si indicano solo le edizioni citate nell'apparato critico: per un elenco completo, vd. L. Lehnus, Nuova bibliografia callimachea

(1489-1998), Alessandria 2000, pp. 29-41; le due

edizioni complessive di riferimento sono Pfeiffer I-II e SA) Bentley = R. Bentley, in T. Graevius, Callimachi hymni, epigrammata et fragmenta I (Ultrajecti 1697) pp. 303-429, 434-438 Ernesti = J. A. Ernesti, Callimachi hymni, epigrammata et fragmenta (Lugduni Batavorum 1761) Valckenaer = L. C. Valckenaer, Callimachi elegiarum fragmenta (Lugduni Batavorum 1799) Blomfield = ( 1. Blomfield, Callimachi quae supersunt (Londini 1815) Rauch = J. Rauch, Die Fragmente der Aitia des Kallimachos (Rastatt 1860) Schneider I-II = O. Schneider, Callimachea (Lipsiae), I: Hymni et epigrammata (1870), II: Fragmenta (1873) Mair = A. W. Mair, Callimachus and Lycophron

(London - New

York

1921); edizione di-

vulgativa Pfeiffer! = R. Pfeiffer, Callimachi fragmenta nuper reperta (Bonnae 1923) Pfeiffer I-II = R. Pfeiffer, Callimachus (Oxonii), I: Fragmenta

(1949,

1965?); II: Hymni et

epigrammata (1953) Howald-Staiger = E. Howald - E. Staiger, Die Dichtungen des Kallimachos (Zürich 1955); edizione divulgativa Trypanis = C. A. Trypanis, Callimachus. Aetia (...) and Other Fragments (Cambridge Mass. - London

1958); edizione divulgativa

SH = H. Lloyd-Jones - P. Parsons, Supplementum Hellenisticum (Berlin - New York 1983) D'Alessio

=

G.

B.

D'Alessio,

Callimaco.

Inni,

epigrammi

e frammenti

(Milano

1996,

20074); edizione divulgativa con traduzione integrale e ampie note Asper = M. Asper, Kallimachos. Werke (Darmstadt 2004) Suppl. SH = H. Lloyd-Jones, Supplementum Supplementi Hellenistici (Berlin - New York 2005) Durbec = Y. Durbec, Callimaque. Fragments poétiques (Paris 2006); edizione divulgativa

2) Recenti edizioni e commenti di singole opere callimachee a) Aetia Libri I e IT: il mio precedente volume Libro II: Fabian = K. Fabian,

Callimaco,

Aitia II: Testo

critico,

traduzione

e commento

(Torino 1992) Libro IV, fr. 213

(110 Pf.): Marinone

= N. Marone,

Berenice da Callimaco

a Catullo:

Testo critico, traduzione e commento (Bologna 19972) b) Carmina Iyrica (frr. 226-229 Pf.) Lelli = E. Lelli, Callimachi Iambi XIV-XVII: Introduzione, testo critico, traduzione e com-

mento (Roma 2005) c) Epigrammata Gow-Page, HE

1035-1348

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

17

d) Hecale Hollis

= A.

S. Hollis,

Callimachus,

Hecale:

Edited

with Introduction

and

Commentary

Hymn

Introduction

(Oxford 1990) e) Hymni I:

McLennan

=

G.

KR.

McLennan,

Callimachus,

Commentary (Roma 1977) II: Williams = F. Williams, Callimachus, Hymn to Apollo:

to

Zeus:

and

A Commentary (Oxford 1978)

III: Bornmann = F. Bornmann, Callimachi Hymnus in Dianam: Introduzione, testo critico e

commento (Firenze 1968) IV: Mineur = W. H. Mineur,

Callimachus, Hymn

to Delos: Introduction and Commentary

(Leiden 1984) IV: Gigante Lanzara = V. Gigante Lanzara, Callimaco, Inno a Delo (Pisa 1990) V: Bulloch = A. W. Bulloch, Callimachus, The Fifth Hymn: Edited with Introduction and

Commentary (Cambridge 1985) VI: Hopkinson = N. Hopkinson, Callimachus, Hymn to Demeter: Edited with Introduction and Commentary (Cambridge 1984) ἢ) Iambi III e V: Livrea = E. Livrea, Callimachi Iambus III, «ZPE» machi Iambus V, «ZPE» 144 (2003), pp. 51-58

146 (2004), pp. 47-52 e Calli-

3) Letteratura critica Acosta-Hughes = B. Acosta-Hughes, Polyeideia. The Iambi of Callimachus and the Archaic lambic Tradition (Berkeley - Los Angeles - London 2002) Acosta-Hughes, Farewell = B. Acosta-Hughes, Unwilling Farewell and Complex Allusion (Sappho, Callimachus and Aeneid 6.458), «PLLS» 13 (2008), pp. 1-11 Agosti = G. A gosti, La Cosmogonia di Strasburgo, «A&R» NS 39 (1994), pp. 26-46 Altheim = F. Altheim, Kallimachos und die römische Geschichte, «WG»

4 (1938), pp. 306-

317 Ambühl = A. Ambühl, Kinder und junge Helden. Innovative Aspekte des Umgangs mit der literarischen Tradition bei Kallimachos (Leuven - Paris - Dudley, MA 2005) Andor = J. Andor, Die römische Episode bei Kallimachos, «A AntHung» 1 (1951), pp. 121126 Angiò

= F. Angiö,

Callimaco, Aitia, fr. 64, 10 Pf., in A. Martina - A. T. Cozzoli

(edd.),

Callimachea I (Roma 2006), p. 57 Ardizzoni, Echi = A. Ardizzoni, Echi pitagorici in Apollonio Rodio e Callimaco,

«RFIC»

93 (1965), pp. 257-267 Ardizzoni

= A. Ardizzoni,

Sulla

«Chioma

di Berenice»

(Callimaco fr. 110 Pf., Catullo

LXVI, 55-56), «GIF» 27 NS 6 (1975), pp. 198-200 Arias = P. E. Arias, Euthymos di Locri, «ASNP» S. II 17 (1987), pp. 1-8 Aricò = G. Aricò, Diviso vertice flammae, «RFIC»

100 (1972), pp. 312-322

Arnim = H. von Arnim, Zum neuen Kallimachos (Wien 1910) Arnott = G. Arnott, Annotations to Aristaenetus, «MPhL» 1 (1975), pp. 9-31 Asper, Onomata = M. Asper, Onomata allotria. Zur Genese, Struktur und Funktion poeto-

logischer Metaphern bei Kallimachos (Stuttgart 1997) Axelson

= B.

Axelson,

Das

Haaröl

der

Berenike

bei

Catull

und

bei

Kallimachos,

in

AA.VV., Studi in onore di L. Castiglioni I (Firenze 1960) pp. 15-21. Rist. in Kleine

18

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Schriften zur lateinischen Philologie (Stockholm 1987), pp. 310-314 Bajoni

=

M.

G.

Bajoni,

Ales

equos:

Catull.

66,

54

e

Callimaco

110

Pf.

52-54,

«Aevum(ant)» 3 (1990), pp. 163-167 Barbantani = S. Barbantani, Arsinoe II Filadelfo nell'interpretazione storiografica moderna, nel culto e negli epigrammi del P.Mil.Vogl. VIH 309, in L. Castagna - €. Riboldi (edd.), Amicitiae templa serena. Studi in onore di G. Aricò I (Milano 2008) pp. 103-134 Barber,

Editions

= E.

A.

Barber,

Recent

Editions

of the Alexandrian

Poets,

«CR»

37

(1923), pp. 2-5 Barber,

Recensione

= E. A.

Barber,

recensione

a Pf., Die

neuen Auyypijcerc zu Kallima-

chosgedichten (München 1934), «CR» 49 (1935), p. 176 s. Barber

= E. A.

Barber,

The

Lock

of Berenice:

Greek Poetry and Life. Essays presented (Oxford 1936), pp. 343-363

Callimachus

to G. Murray

and

Catullus,

in AA.VV.,

on His Seventieth Birthday

Barber, Notes = E. A. Barber, Notes on the Diegeseis of Callimachus (Pap. Mil. 18), «CO»

33 (1939), pp. 65-68 Barber-Maas, Callimachea = E. A. Barber - P. Maas, Callimachea, «CQ» 44 (1950), p. 96 Barber-Maas, Callimachea HI = E. A. Barber - P. Maas, Callimachea, «CQ» 44 (1950), p.

168 Barber, Recensione II = E. A. Barber, recensione a Pf. I, «CR» 65 NS 1 (1951), pp. 78-80 Barber, Recensione III = E. A. Barber, recensione a POxy. XIX (London 1948), «CR» 65

NS 1 (1951), pp. 80-82 Barber, Callimachea = E. A. Barber, Callimachea varia, «CR» 69 NS 5 (1955), p. 241 s.

Barchiesi = A. Barchiesi, Riflessivo e futuro. Due modi di allusione nella poesia, ellenistica e augustea, «Aevum(ant)» 5 (1992), pp. 207-244 Barigazzi, Epinicio = A. Barigazzi, L'epinicio per Sosibio di Callimaco, «PdP» 6 (1951), pp. 410-426 Barigazzi, Note = A. Barigazzi, Note all'«Aconzio e Cidippe» di Callimaco, «Prometheus» 1 (1975), pp. 201-208 Barigazzi, Frigio = A. Barigazzi, L'aition di Frigio e Pieria in Callimaco, «Prometheus» 2 (1976), pp. 11-17 Barigazzi, Euticle = A. Barigazzi, L'aition callimacheo di Euticle di Locri, «Prometheus» 2

(1976), pp. 145-150 Barigazzi, Fr. 85, 9 = A. Barigazzi, Call., Aet. II,fr. 85, 9, «Prometheus» 3 (1977), p. 254

Barigazzi, Fr. 79 Pf.= A. Barigazzi, Callimaco, fr. 79 Pf., «Prometheus» 4 (1978), p. 127 Barigazzi, Due note = A. Barigazzi, Due note callimachee, in AA.VV.,

Studi in onore di A.

Ardizzoni I (Roma 1978) pp. 49-60 Barigazzi,

Callimaco

= A. Barigazzi,

Callimaco

e i cavalli di Berenice

(Pap.

Lille 82),

«Prometheus» 5 (1979), pp. 267-271 Barigazzi

= A.

Barigazzi,

Per

la ricostruzione

del

Callimaco

di Lilla,

«Prometheus»

6

(1980), pp. 1-20 Barigazzi, Fr. 96 Pf.= A. Barigazzi, Callimaco,fr. 96 Pf., «Prometheus» 6 (1980), p. 106 Barigazzi,

Esiodo

=

A.

Barigazzi,

Esiodo

e

la

chiusa

degli

'Aitia'

di

Callimaco,

«Prometheus» 7 (1981), pp. 97-107 Bastianini-Gallazzi = G. Bastianini - C. Gallazzi (con la collaborazione di C. Austin), Posidippo di Pella. Epigrammi (P.Mil.Vogl. VIII 309) (Milano 2001) van der Ben = N. van der Ben, The Meaning of γνῶμα, «Glotta» 73 (1995-1996), pp. 35-55

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

19

Benedetto = G. Benedetto, Diptychum Callimacheum, «AIIS» 13 (1995-1996), pp. 105-125 Benedetto, Bonum facinus = G. Benedetto, Bonum facinus: Catull. 66.25-28 tra Igino e Giustino, in P. F. Moretti - C. Torre - G. Zanetto (edd.), Debita dona. Studi in onore di I.

Gualandri (Napoli 2008), pp. 33-70 Binder-Hamm = G. Binder - U. Hamm, Die "Locke der Berenike" und der römischen Liebeselegie, in A. E. Radke (ed.), Candide iudex. Beiträge zur Dichtung. Festschrift für W. Wimmel zum 75. Geburtstag (Stuttgart 1998), Bing = P. Bing, The Well-Read Muse. Present and Past in Callimachus and Poets (Göttingen 1988) Bing,

Reconstructing

Collecting

=

P.

Bing,

Reconstructing

Berenike's

Lock,

in

Ursprung der augusteischen pp. 13-34 the Hellenistic

G.

Most

(ed.),

Fragments. Fragmente sammeln (Göttingen 1997), pp. 78-94

Bleisch = P. R. Bleisch, Silence is Golden: Panegyric at the Close of Horace, Carm. 3, 2,

Simonides, Callimachus, and Augustan « QUCC» 97 NS 68, 2 (2001), pp. 21-40

Blomgvist = J. Blomqvist, On Adverbs in Callimachus: A Contribution to Greek Poetical Language, in M. A. Harder - R. F. Regtuit - G. C. Wakker (edd.), Callimachus (Groningen 1993), pp. 17-36 Blümner = H. Blümner, Zu den griechischen Hochzeitsbräuchen, in AA.VV., Festgabe für

G. Meyer von Knonau (Zürich 1913), pp. 1-12 Blumenthal

= A. von Blumenthal,

Beobachtungen

zu griechischen

Texten,

«Hermes»

71

(1936), pp. 452-458 Blumenthal, Diegesis = A. von Blumenthal, Zur Kallimachos-Diegesis III 34, «Philologus»

91 NF 45 (1936), p. 115 5. Bonanno, Recensione = M. G. Bonanno, recensione aR. Pretagostini, Ricerche sulla poesia alessandrina. Teocrito, Callimaco, Sotade (Roma 1984), «RFIC» 113 (1985), pp. 341-

347 Bongelli,

Note

= P.

Bongelli,

Note

alla

Victoria

Berenices

di Callimaco,

«Acme»

49

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Callimaco

= F. Bornmann, Il nuovo

Callimaco

NS

23

auf Berenike,

di Lille, «Maia»

NS

32

(1980), pp. 246-252 Bornmann,

Note = F. Bornmann,

Note

sulla fortuna

di Callimaco

a Roma,

«RFIC»

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Bulloch,

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«PCPhS»

199 NS

19

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Cataudella,

Osservazioni

intorno

ad alcuni papiri

letterari

di PSI,

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Elementi

callimachei

e teocritei

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Problems

=

E.

Courtney,

Problems

in

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Translations,

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26

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Callimaco

e i suoi 'critici'. Considerazioni su un recente lavoro,

«Eikasmös» 9 (1998), pp. 135-154 Crusius,

Recensione

= O.

Crusius,

recensione

a POxy.

VII

(London

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«LCB»

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dans

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22 De

CALLIMACO Sanctis = G. De

Sanctis,

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Callimaco

e Orazio

Coclite, «RFIC»

63 NS

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«SIFC»

NS

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Rist. in Kleine Schriften zur klassischen Altertumskunde (Kônigstein/Ts. 1982), pp. 441448 Di Benedetto

= V. Di Benedetto,

Posidippo

tra Pindaro

e Callimaco,

«Prometheus»

29

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Interprétation

=

Y.

Durbec,

Callimaque,

Aitia fr

260

A

SH:

Une

nouvelle

interpretation, «ZPE» 157 (2006), pp. 43-45 Durbec, Callimaque = Y. Durbec, Notes de philologie II: Alexandre d'Étolie, fr. 1 Magnelli; Callimaque, fr. 64 Pf.; Lycophron, Alexandra vv. 1-30, «ARF» 9 (2007), pp. 6972 Ebert, Fr. 383 = 1. Ebert, Callim.fr. 383, 8 ss. Pf., «MCr» 15-17 (1980-1982), p. 151 5. Rist. con aggiunte come Berenikes Gespann (Kallim. fr. 383, 8 ff. Pf.) in Agonismata. Kleine philologische Schriften zur Literatur, Geschichte und Kultur der Antike (Stuttgart-Leipzig 1997), pp. 63-65 Ehrhardt

= N.

Ehrhardt,

Poliskulte

bei

Theokrit

und

Kallimachos:

Das

Beispiel

Milet,

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nel sesto

libro

di Pausania,

«BPEC» NS 27 (1979), pp. 3-29 Gallavotti,

Aition

= C.

Gallavotti,

Un

'aition' di Callimaco

e un'iscrizione

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sul fr. 64 Pf., «Eikasmös»

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Kallimachoscitate

=

J.

Geffcken,

Die

Kallimachoscitate

der

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24

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=

K.

Gutzwiller,

Callimachus'

Lock

of Berenice:

Fantasy,

Romance,

and

Propaganda, «AJPh» 113 (1992), pp. 359-385 Gutzwiller,

Callimachus

= K. Gutzwiller, Callimachus

and Hedylus.

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A. Harder,

Thanks

to Aristaenetus

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in Callimachus'

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nari - L. Lehnus (edd.), Callimaque (Vandœuvres-Genève 2002), pp. 189-233 Harder,

Invention

=

M.

A.

Harder,

The

Invention

of Past,

Present

and

Future

in

Callimachus' Aetia, «Hermes» 131 (2003), pp. 290-306 Harder,

Callimachus

= M.

A. Harder,

Callimachus,

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and

in I. J. F. de Jong

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in Ancient

- R. Nünlist

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To

Teach

= M.

A. Harder,

To

Teach

or Not To

Teach

...? Some

Aspects

of the

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= A.

Commentatio

Henrichs,

Zur

critica de Anthologia

Meropis:

Herakles'

25

Graeca

Löwenfell

und

(Lugduni Athenas

Batavorum zweite

Haut,

«ZPE» 27 (1977), pp. 69-75 Herter, Kallimachos = H. Herter, Kallimachos aus Kyrene, RE (Suppl.) V (1931) pp. 386452 Herter, Bursian 255 = H. Herter, Bericht über die Literatur zur hellenistischen Dichtung

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= A. S. Hollis, Callimachus Aetia fr. 75.58-59 Pf., «ZPE»

86 (1991),

pp. 11-13 Hollis,

Hellenistic

Colouring

= A.

S.

Hollis, Hellenistic

Colouring

in

Virgil's

Aeneid,

«HSPh» 94 (1992), pp. 269-285 Hollis, Rite = A. 5. Hollis, The Nuptial Rite in Catullus 66 and Callimachus' Poetry for Berenice, «ZPE» 91 (1992), pp. 21-28 Hollis, Artica = A. S. Hollis, Aftica in Hellenistic Poetry, «ZPE» 93 (1992), pp. 1-15 Hollis, Nonnus = A. S. Hollis, Nonnus and Hellenistic Poetry, in N. Hopkinson

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Aetia

=

G.

O.

Hutchinson,

The

Aetia:

Callimachus!

Poem

of Knowledge,

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Huxley, Zovzöpoc= G. Huxley, Zovzöpoc Apcıvönrc, «IHS» 100 (1980), p. 189 5. Jackson,

Callimachus

=

S.

Jackson,

Callimachus,

Ister

and

a

Scapegoat,

«LCM»

19

(1994), pp. 132-135. Rist. con aggiunte come Callimachus, Istrus and a Scapegoat in Istrus the Callimachean (Amsterdam 2000), pp. 105-113 Jackson

= S. Jackson,

Callimachus:

Coma

Berenices:

Origins,

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= E.

Kalinka,

recensione

a PÎ.,

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neuen

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Two

Notes

= L. Lehnus,

Two

Notes

on

Callimachean

Fragments,

«ZPE»

142

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VI, «Eikasmös»

cultura

un

ellenistica.

15 (2004), pp.

141-

146 Lehnus, Medley = L. Lehnus, A Callimachean Medley, «ZPE» 147 (2004), pp. 27-32 Lehnus, Cavallo = L. Lehnus, Il cavallo alato d'Arsinoe, in G. Barbarisi (ed.), Vincenzo

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Callimaco

= E. Livrea, Il nuovo

Callimaco di Lille, «Maia» NS

32 (1980),

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a S. Saba, «ZPE»

156

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Callimachea

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Callimachea,

«Hermes»

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Recensione

II =

P.

Maas,

Neue

Papyri

von

Kallimachos

Airra,

«Gnomon»

10

(1934), pp. 162-165 Maas, Recensione HI = P. Maas, recensione aM.

Norsa - G. Vitelli, Azrzyrjeeiedi poemi di

Callimaco in un papiro di Tebtynis (Firenze 1934), «Gnomon» 10 (1934), pp. 436-439 Maas, Exkurs I = P. Maas, Exkurs I. Die litterarische Form der Diegeseis und der 'Scholia

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Papiri della R. Università di Milano I (1937) pp. 160-165 Maas, Exkurs II = P. Maas,

Exkurs III. Zur Gesamtausgabe

der Dichtungen des Kallima-

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168 Maas,

Hephthemimeres

= P. Maas,

Hephthemimeres

im Hexameter

des Kallimachos,

in

AA.VV., Festschrift B. Snell zum 60. Geburtstag (Minchen 1956), p. 23 s. Rist. in Kleine Schriften (Minchen 1973), p. 92 s. Maass = E. Maass, Der Kampf um Temesa, «JDAI» 22 (1907), pp. 18-53 McLennan,

Preposition

=

G.

R.

McLennan,

The

Preposition

as

Post-Positive

in

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=

I. Männlein-Robert,

Stimme,

Schrift

und

Bild.

Zum

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der

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un Eracle

(quasi)

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cent'anni

di papiri

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Ein

alexandrinisches

Gedicht

vom

Raube

der Kore,

«Hermes»

45

(1910), pp. 506-553 Manakidou

=

F.

Manakidou,

Beschreibung

von

Kunstwerken

in

der

hellenistischen

Dichtung (Stuttgart 1993) Manni

= E. Manni,

Licofrone,

Callimaco,

Timeo,

«Kokalos»

7 (1961), pp. 3-14. Rist. in

Cixeñixa καὶ Irodixd. Scritti minori di storia antica della Sicilia e dell'Italia meridionale II (Roma 1990) pp. 533-544 Manteuffel = G. Manteuffel, Studia Callimachea, «Eos» 41 (1940-1946), pp. 81-103 Marinone, Conone = N. Marinone, Conone, Callimaco e Catullo 66, 1-6, «Orpheus» NS 1 (1980), pp. 435-440. Rist. come Conone, Callimaco e Catullo in Analecta Graecolatina

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Scienza

e tecnica nelle letterature classiche (Genova

di Berenice»,

1980), pp.

125-163.

Rist. in Analecta Graecolatina (Bologna 1990), pp. 143-170 Marinone,

Diofilo

= N. Marinone,

Catullo 66, 66 e il frammento

di Diofilo, in AA.VV.,

Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore I (Bologna 1981) pp. 347-356. Rist. come Catullo e il frammento di Diofilo in Analecta Graecolatina (Bologna 1990), pp. 115-124. Marinone,

Profumi

=

N.

Marinone,

I profumi

di

Berenice

da

Callimaco

a

Catullo,

«Prometheus» 8 (1982), pp. 1-20. Rist. in Analecta Graecolatina (Bologna 1990), pp. 125-142 Marinone, Catullo = N. Marinone, Catullo 66, 57-62, in AA.VV., Filologia e forme lettera-

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32

CALLIMACO

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di Callimaco,

in G.

Cerboni

Baiardi

- L. Lomiento

- F. Perusmo

(edd.),

Enjambement. Teoria e tecniche dagli antichi al Novecento (Pisa 2008), pp. 115-126 *Massimilla, Theudotus = G. Massimilla, Theudotus of Lipara (Callimachus, fr. 93 Pf.) (articolo in corso di stampa) *Massimilla,

Amori

= G.

Massimilla,

Amori

difficili

(Asclepiade,

Teocrito,

Callimaco)

(articolo in corso di stampa) Matthews,

Coma

= V. 1. Matthews,

From

Coma

to Constellation:

Callimachus,

Catullus,

and Catasterism, «Eranos» 102 (2004), pp. 47-57 Mattingly = H. Mattingly, Zephyritis, «AJA» 54 (1950), pp. 126-128 Mazzarino = S. Mazzarino, Il pensiero storico classico II 1 (Bari 1966) Meillier = C. Meillier, Callimaque et son temps. Recherches sur la carrière et la condition d'un écrivain à l'époque des premiers Lagides (Lille 1979) Meillier, Papyrus = C. Meillier, Papyrus de Lille: Callimaque, Victoria Berenices (suppl. hell. 254-258).

Éléments

de

commentaire

sur

la divinité

de

Bérénice,

«CRIPEL»

8

di contatto

e

(1986), pp. 83-87 Mele

= A. Mele, L'eroe di Temesa

tra Ausoni

e Greci, in AA.VV.,

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218 Mette

= H.

J. Mette,

Zu

Catull

66,

«Hermes»

83

(1955),

pp.

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=

A.

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Morrison,

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Narrator

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=

L.

«AFLN»

Nicastri,

Catullo

traduttore

del

HÂdxauoc:

il problema

dei

vv.

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= M.

Pohlenz,

Kallimachos'

Aitia,

«Hermes»

68

(1933),

pp.

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Kleine Schriften II (Hildesheim 1965) pp. 44-58 Pohlenz, Gaius = M. Pohlenz, Der Römer

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= A. Porro, Conscius

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Carratelli

= G.

Pugliese

Carratelli,

Culti

aniconici

a Rodi

e Lesbo,

«SCO»

3

(1953), pp. 5-8 Radici Colace = P. Radici Colace, I! nuovo Callimaco di Lille, Ovidio e Stazio, «RFIC»

110

(1982), pp. 140-149 Ragone = G. Ragone, Callimaco e le tradizioni locali della Ionia asiatica, in A. Martina -

A. T. Cozzoli (edd.), Callimachea I (Roma 2006), pp. 71-113 Rehm

= B. Rehm,

Catull

66, I und der neue Kallimachosfund,

«Philologus»

89 NF

43

(1934), p. 385 s. Reinsch-Werner = H. Reinsch-Werner,

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recensione

a G. Coppola,

Cirene

e il nuovo

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Homertext

=

A.

Rengakos,

Der

Homertext

und

die

hellenistischen

Dichter

(Stuttgart 1993) Riese = A. Riese, Geographica, «RhM» NF 36 (1881), pp. 206-214 Robert

= L.

Robert,

4ugıdaAre,

in AA.VV.,

Athenian

Studies

presented

to

W.

Scott

Ferguson, «HSPh», Supplementary Volume I (Cambridge 1940) pp. 509-519 Rosenmeyer, Guests = P. A. Rosenmeyer, The Unexpected Guests: Patterns of Xenia in Callimachus' 'Victoria Berenices' and Petronius' Satyricon, «CO» 85 NS 41 (1991), pp. 403-413 Rosenmeyer = P. A. Rosenmeyer, A Cold Reception in Callimachus' Victoria Berenices (S.H. 257-265), «CQ» 87 NS 43 (1993), pp. 206-214

36

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

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Il successo

del

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Teocrito

e Apollonio

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= M.

Treu,

Sizilische

Mythologie

bei

Simonides

(P.Ox.

2637),

«Kokalos»

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Quoting

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100

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= G.

Urso,

/ Peucezi

alle porte

di Roma:

nota

a Callimaco,

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38

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

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= A. Wifstrand,

griechischen

Till det senaste

Epik

und zu

Kallimachosfyndet,

verwandten

«Eranos»

32

Gedicht-

(1934),

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= U. von Wilamowitz-Moellendorff, Hellenistische Dichtung

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C.

Youtie,

Callimachus

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Tax Rolls,

in AA.VV.,

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130

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INTRODUZIONE

I. Il terzo e il quarto libro degli Aitia Negli ultimi due libri degli Aitia viene meno la cornice narrativa del dialogo onirico con le Muse, che caratterizza i due libri precedenti. Le elegie sono ora divise l'una dall'altra, senza alcun tipo di connessione esterna. Infatti, quando i papiri tramandano la fine di un aifion e l'inizio dell'aition successivo, constatiamo l'assenza di raccordi: cf. 1 trapassı dal fr. 162 al fr. 163, dal fr. 165 al fr. 166 e (in condizioni testuali più incerte) dal fr. 174 al fr. 175, dal fr. 180 al fr. 181, dal fr. 185 al fr. 186, dal fr. 195 al fr. 196, dal fr. 198 al fr. 199 (vd. Pf. II p. XXXV). La diversa strategia narrativa adottata da C. nei due libri conclusivi li distingue marcatamente dai due libri iniziali e, come vedremo, è ricca di conseguenze per l'impostazione e lo sviluppo delle singole elegie. La struttura complessiva dei libri terzo e quarto si lascia individuare con più facilità rispetto a quella dei libri primo e secondo. Infatti 1 riassunti dei vari aitia forniti dalle Diegeseis Mediolanenses per un'ampia parte del terzo libro fino alla sua conclusione (equivalente almeno ai due terzi delle elegie che lo costituivano) e per la totalità del libro quarto ci permettono di conoscere quasi sempre la successione dei carmi, di delinearne spesso il contenuto generale e di leggerne varie volte l'incipit, con un grado di completezza che diviene progressivamente maggiore nell'avvicinarsi alla fine dell'opera. Bisogna inoltre tenere presente che, sino a tempi recentissimi, l'apporto dei papiri ha giovato in maniera speciale al libro terzo, portandone alla luce cospicue sezioni. La seconda metà degli Aitia, dunque, offre un quadro d'insieme meno lacunoso della prima. Vediamone allora la configurazione. 1.1. Libro terzo (frr. 143-187) I frr. 143-156 sı susseguono a partire dall'inizio del libro e appartengono al suo primo aition. Non abbiamo notizie sulla serie che cominciava con la seconda elegia e si chiudeva prima del successivo insieme di aitia: è incerto che 1] fr. 157 e il fr. 158 risalgano a un qualche punto di questo tratto di testo (vd. oltre). Dal fr. 159 alla fine del libro, i frammenti e gruppi di frammenti formano una sequenza continua di elegie: esse sono disposte in un ordine che rispecchia quello delle Diegeseis, discostandosene solo nella serie dei frr. 182 + 183-185 + 186-187. Ecco lo schema del libro: 3.1. Frr. 143-156 La vittoria di Berenice, proemio e primo aition del libro: C. celebra la regina Berenice II, i cui cavalli hanno vinto la corsa delle quadrighe nelle gare nemee; il mito eziologico riguarda la fondazione dei giochi nemei da parte di Eracle uccisore del leone: ci si sofferma sulle soste dell'eroe a casa del vecchio contadino Molorco, prima e dopo lo scontro con la belva. Frr. 157 e 158: come si è detto, per nessuno di questi due frammenti

42

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(incentrati l'uno su Pitagora e l'altro su un villaggio di Delfi) è sicura la pertinenza a un qualche punto del tratto di testo che si interponeva fra la Vittoria di Berenice e Faleco di Ambracia: essi, infatti, potrebbero anche spettare a un qualche luogo dei tre aitia sconosciuti che intercorrono tra 1 frr. 174 e 178; con ogni probabilità, invece, vanno collocati qui 1 frr. inc. lib. Aet. 6564 (Onnes e Tottes - La statua di Apollo delio - Una storia tracia incerta),

pubblicati nel precedente volume. 3.2. Frr. 159-160

Faleco di Ambracia:

mentre assedia Ambracia,

il ti-

ranno Faleco viene dilaniato da una leonessa perché ne ha preso in braccio un cucciolo; probabilmente si specifica che l'incontro tra Faleco e il leoncino è voluto da Artemide e che perciò 1 riconoscenti Ambracioti innalzano una statua della dea con accanto una leonessa. 3.3. Frr. 161-162 Le Tesmoforie attiche: un mito eziologico, che sembra concernere l'ira di Demetra nei confronti di una fanciulla, ha un esito rituale

che viene reso esplicito alla fine dell'elegia: da allora in poi le vergini non possono assistere ai misteri di Demetra durante le Tesmoforie attiche. 3.4. Fr. 163 Il sepolcro di Simonide: il defunto poeta Simonide rievoca l'empio smantellamento della propria tomba ad Agrigento da parte di un condottiero di quella città, che pagò il fio della sua azione. 3.5. Frr. 164-165 Le fonti di Argo: l'elegia verte sulle quattro fonti di Argo, che presero nome da altrettante figlie di Danao, e sul diverso impiego rituale delle loro acque. 3.6. Frr. 166-174 Aconzio e Cidippe: la presenza di una stirpe di Aconziadi nella città di Iulide a Ceo è spiegata da una vicenda mitica, che C. narra estesamente: Aconzio, un giovane di Ceo, si innamora di una fanciulla

di Nasso chiamata Cidippe e, adottando un insolito stratagemma, le fa pronunciare in nome di Artemide un giuramento che infine la conduce a sposarlo. 3.7. Fr. 175 Primo aition sconosciuto: il contenuto non è determinabile. 3.8. Fr. 176 Secondo ation sconosciuto: il contenuto non è determinabile. 3.9. Fr. 177 Terzo aition sconosciuto: il contenuto non è determinabile (non si può escludere che tra Aconzio e Cidippe e il Rito nuziale eleo ci siano due aitia sconosciuti, invece di tre).

3.10. Frr. 178-180 Il rito nuziale eleo: a quanto pare, una cerimonia nuziale celebrata in Elide, dove figura un uomo armato, è lo spunto eziologico del mito esposto in questa elegia: per rimediare alla scarsità di uomini causata dalla morte di molti Elei durante la sua guerra contro il re dell'Elide Augia, Eracle fa ingravidare le mogli dei caduti dai suoi soldati; si osservi che la storia del conflitto con Augia è anche connessa alla fondazione delle gare olimpiche da parte di Eracle. 3.11. Fr. 181 L'ospite di Isindo: l'esclusione degli abitanti della città mi-

INTRODUZIONE

crasiatica di Isindo dalle cerimonie sacre degli Ioni si deve camente un certo Etalo fu ucciso da un suo ospite di Isindo. 3.12. Fr. 182 Artemide dea del parto: vengono proposte gazioni del fatto che la dea vergine Artemide è invocata preda ai dolori del parto. 3.13. Frr. 183-185 Frigio e Pieria: Frigio, giovane re

43

al fatto che antitre diverse spiedalle donne in milesio, vede la

fanciulla Pieria di Miunte durante una festa in onore di Artemide, se ne in-

namora e le promette di concederle tutto ciò che desidera: Pieria coglie l'occasione per chiedere che abbia fine la lunga inimicizia fra Mileto e Miunte, ottenendo il suo scopo; probabilmente l'elegia si conclude con l'esito eziologico del mito: da allora in poi le donne della Ionia esprimono tradizionalmente il desiderio che i loro mariti le rispettino come Frigio rispettava Pieria. 3.14. Frr. 186-187 Euticle di Locri, ultimo aition del libro: Euticle, olim-

pionico di Locri Epizefiri, viene ingiustamente accusato di tradimento dai suoi concittadini, che ne mutilano la statua; quando su Locri si abbatte una

carestia, l'oracolo di Apollo proclama che si tratta della punizione divina per il disonore inflitto all'atleta; di conseguenza i Locresi venerano la statua di Euticle, gli costruiscono un altare e gli riservano un culto all'inizio di ogni mese (si osservi che la suddetta sequenza degli ultimi due aitia corrisponde a quella attestata nel POxy. 2212, mentre il papiro delle Diegeseis offre la successione Artemide dea del parto - Euticle di Locri, probabilmente preceduta da Frigio e Pieria).

1.2. Libro quarto (frr. 188-215) Nell'intero libro la serie degli aitia è garantita dalle Diegeseis. Fa eccezione il fr. 215, cioè l'epilogo dell'opera, che è omesso nel papiro delle Diegeseis: la sua posizione finale è però assicurata dal POxy. 1011. Come vedremo, permane qualche dubbio che il fr. 188 vada riunito con 1 frr. 189-191 in una sola elegia e sussiste la remota possibilità che tra il fr. 196 e 1 frr. 197-198 si interponesse un aition. In termini generali bisogna rilevare che di molte elegie sopravvive soltanto il primo verso, trasmesso nelle rispettive Diegeseis.

Ecco lo schema del libro: 4.1. Fr. 188 Quarto aition sconosciuto, primo aition del libro: il contenuto non è determinabile; sappiamo però che l'elegia cominciava con un'invocazione alle Muse (non è impossibile che questo frammento vada accorpato ai frr. 189-191 e faccia dunque già parte della Dafneforia delfica). 4.2. Frr.189-191 La Dafneforia delfica: la processione chiamata Dafneforia delfica, durante la quale un fanciullo si reca da Delfi a Tempe e torna indietro incoronato di alloro, rievoca gli atti purificatori compiuti da Apollo bambino sùbito dopo avere ucciso il drago che infestava Delfi. 4.3. Fr. 192 Abdera: l'elegia verte su un rito di purificazione svolto ad

44

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Abdera da un uomo impiegato come vittima espiatoria (papuaxoc), che viene poi estromesso dai confini con un lancio di pietre. 4.4. Frr. 193-195 Melicerte: un sanguinoso rituale in onore di Melicerte (con neonati uccisi e madri accecate), anticamente praticato dai Lelegi nell'isola di Tenedo e poi soppresso, ebbe origine dopo che il cadavere di Melicerte venne rigettato dal mare sulla spiaggia di Tenedo. 4.5. Fr. 196 Teodoto di Lipari: mentre assediano l'isola di Lipari, gli Etruschi giurano ad Apollo che gli sacrificheranno il Liparese più forte, se il dio li renderà vincitori; perciò, quando hanno la meglio sui nemici, immolano un combattente di nome Teodoto (è estremamente improbabile che Teodoto di Lipari e Limone fossero separati da un'elegia di argomento ignoto). 4.6. Frr. 197-198 Limone: un Ateniese, avendo scoperto che sua figlia Limone ha un amante segreto, la chiude in camera sua con un cavallo, che la

uccide, e inoltre ammazza il seduttore e ne trascina per la città il corpo attaccato a un cavallo; l'elegia termina con la conseguenza eziologica del mito: da allora ad Atene esiste un luogo chiamato «del Cavallo e della Fanciulla».

4.7. Fr. 199 Il cacciatore sbruffone: un cacciatore, dopo avere catturato un cinghiale, afferma che coloro i quali superano Artemide in abilità venatoria non sono tenuti a dedicarle le loro prede e perciò appende in proprio onore la testa della fiera a un pioppo; addormentatosi sotto l'albero, l'uomo resta ucciso perché la testa del cinghiale gli cade addosso; la vicenda si svolge probabilmente in Italia. 4.8. Fr. 200 Le mura pelasgiche: l'antica muraglia pelasgica di Atene rievoca la propria costruzione da parte dei Tirreni. 4.9. Frr. 201-202 Eutimo: 11 pugile olimpionico Eutimo di Locri Epizefiri libera la città magnogreca di Temesa da un tributo, consistente in uno stupro rituale di fanciulle, cui la sottoponeva l'Eroe, cioè il demone di un compagno di Odisseo rimasto a infestare la zona; Eutimo riceve onori eroici; due sue statue, a dimostrazione della sua sacralità, vengono toccate nello stesso

giorno da un fulmine a Locri e a Olimpia; può darsi che questo racconto fungesse da aition del proverbio «L'eroe di Temesa». 4.10. Fr. 203 La statua antichissima di Era a Samo: l'effigie di Era a Samo era all'inizio una semplice asse grezza, che si ritiene provenisse da Argo, e solo in séguito diventò antropomorfa. 4.11. Fr. 204 L'altra statua di Era a Samo: una più recente statua di Era a Samo ha una vite fra 1 capelli e una pelle di leone ai piedi perché questi simboli indicano che la dea trionfa su Dioniso ed Eracle, figli illegittmi di Zeus. 4.12. Fr. 205 Pasicle di Efeso: Pasicle, governatore di Efeso, viene inse-

guito nottetempo

da uomini

che faticano a ucciderlo

a causa del buio;

INTRODUZIONE

45

quando arrivano al tempio di Era, sua madre, sacerdotessa della dea, sente 1]

trambusto e si fa portare fuori una lampada; proprio grazie a questa luce, i persecutori riescono a uccidere Pasicle. 4.13. Fr. 206 Androgeo: si spiega che il cosiddetto «eroe sulla poppa» è Androgeo; la designazione viene collegata all'antico porto ateniese del Falero. 4.14. Fr. 207 Esidre trace: i Pari uccidono il tracio Esidre e subiscono un lungo assedio, probabilmente localizzato nella loro colonia Taso; consultano perciò l'oracolo di Delfi, il quale impone loro di pagare in ammenda alla popolazione tracia dei Bisalti, cui presumibilmente apparteneva Esidre, ciò che sia gradito a questi ultimi. 4.15. Fr. 208 Il trascinamento di Antigone: dopo che 1 suoi fratelli si sono uccisi a vicenda, Antigone trascina il cadavere abbandonato di Polinice sulla pira funebre di Eteocle, ma la fiamma del rogo si biforca, ribadendo così l'eterna inimicizia fra i due; questo mito ha un duplice effetto sul piano eziologico: da un lato, con ogni probabilità, C. spiega che ne è scaturita la denominazione di un luogo tebano, detto appunto «Trascinamento di Antigone»; dall'altro il poeta chiarisce che la prodigiosa scissione della fiamma si verifica tuttora in ogni sacrificio comune a Eteocle e Polinice. 4.16. Frr. 209-210 Caio romano: mentre le mura di Roma sono assediate dai Peucezi (qui identificabili con gli Etruschi), un Romano di nome Caio attacca e uccide il comandante degli aggressori, venendo però ferito a una coscia; quando in séguito si cruccia di zoppicare, un rimprovero di sua madre lo induce a rianimarsi. 4.17. Frr. 211-212 L'àncora della nave Argo lasciata a Cizico: gli Argonauti, diretti verso la Colchide, sbarcano a Cizico per rifornirsi d'acqua e lasciano ai piedi della fonte Artacia la pietra da loro usata come äncora, perché è troppo leggera, prendendone a bordo una più pesante; la pietra rimasta a Cizico viene in séguito consacrata ad Atena. 4.18. Fr. 213 La Chioma di Berenice: la costellazione chiamata Ricciolo di Berenice fornisce l'aition del suo appellativo: quando Tolemeo IH, marito di Berenice II, era partito per muovere guerra alla Siria, la regina aveva fatto voto di dedicare a tutti gli dèi una ciocca dei suoi capelli, se il coniuge avesse fatto ritorno; allorché Tolemeo

è rientrato, la regina ha tenuto fede

alla promessa, ma, non appena il ricciolo è stato reciso e offerto, Afrodite se l'è fatto portare in cielo da Zefiro e lo ha mutato in una costellazione; nonostante la magnificenza del suo nuovo stato, il ricciolo preferirebbe trovarsi ancora sul capo di Berenice (il fr. 214, che verte su Lesbo e spetta sicuramente al quarto libro, non si lascia attribuire a nessuna delle suddette elegie con un sufficiente margine di probabilità: potrebbe però appartenere a Melicerte).

4.19. Fr. 215 Epilogo, fine degli Aitia: C. cita espressamente un brano

46

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

posto all'inizio degli Aitia, cioè l'incontro fra Esiodo e le Muse presso la fonte Ippocrene sul monte Elicona (fr. 4), si congeda da una divinità femminile (forse l'eroina Cirene, eponima della sua patria) e da Zeus e segnala la transizione fra gli Aifia e il libro dei giambi nella raccolta delle proprie opere, curata da lui stesso in tarda età. 1.3. Frammenti degli Aifia che potrebbero appartenere al terzo o al quarto libro (frr. 216-251) I frr. 216-250 sono lacinie che, per motivi papirologici, spettano probabilmente al terzo libro. Un po' più ampio è il fr. 251, che per ragioni papirologiche può essere riferito al terzo o al quarto libro: il testo superstite è forse compatibile con il Trascinamento di Antigone del libro quarto. Come si è detto, i frr. 65-64 (pubblicati nel precedente volume) appartengono quasi certamente al terzo libro e sembrano risalire a un qualche punto della lacuna testuale che intercorre fra la Vittoria di Berenice e Faleco di Ambracia. Ciascuno dei frr. 111-115 (pubblicati nel precedente volume) può rimontare a un qualsiasi libro degli Aizia. 1.4. Qualche osservazione sulla struttura

Per indicare le elegie del terzo e del quarto libro, farò uso dei numeri da 3.1 a 4.19, che le contraddistinguono negli schemi proposti sopra in I.1. e 1.2. 1.4.A. Tempi, temi, luoghi. La seconda diade degli Aifia è racchiusa fra due ampi carmi in onore di Berenice II (3.1 e 4.18) e termina con una preghiera di C. a Zeus, perché salvaguardi la famiglia regale (4.19: fr. 215, 8). La contemporaneità fa dunque irruzione in due sedi di particolare rilievo, cioè il principio della seconda franche e la fine dell'intera opera. Analogamente il prologo degli Aitia (fr. 1) e, in misura minore, l'elegia iniziale del primo libro (fr. 9, 13 s.) aprono uno squarcio sul mondo del poeta. Ma è ovviamente il mito a dominare il campo. Alcune divinità hanno un ruolo di forte spicco: innanzitutto Apollo (Onnes e Tottes: fr. 65 + fr. 64, 13; La statua di Apollo delio: fr. 64, 4-17; 4.2, 4.5, 4.14, fr. inc. lib. Aet. 112, forse fr. 158 e fr. dub. 115) e sua sorella Artemide (3.2, 3.6, 3.12, 3.13, 4.7, frr. inc. lib. Aet.111 e 114), ma pure Era (4.10, 4.11, 4.12). Fra gli eroi, non

ci sorprende vedere risaltare la figura di Eracle (3.1, 3.10, 4.11 e forse Una storia tracia incerta: fr. 64, 18-25). Anche gli eventi e i personaggi storici sono però ampiamente rappresentati (fr. 157, 3.2, 3.4, 3.14, 4.5, 4.9, 4.12, 4.14, 4.16). È notevole che ben due

elegie (3.14 e 4.9) abbiano come protagonisti atleti olimpionici di Locri Epizetiri. Temi caratterizzanti di moltissimi carmi sono il rito e il culto nelle loro varie forme, spesso intesi come esito eziologico delle vicende narrate (Onnes e Tottes:fr. 65 + fr. 64, 1-3; 3.3, 3.5, 3.10, 3.11, 3.14, 4.2, 4.3, 4.4, 4.9, 4.13, 4.15, 4.17, frr. inc. lib. Aet.111, 114, fr. dub. 115). C. tratta vo-

INTRODUZIONE

47

lentieri 1 riti di purificazione (3.5, 4.2, 4.3) e quelli prenuziali e nuziali (3.10, 4.9; cf. anche 3.6: fr. 174, 1-3) e precisa in due occasioni che un an-

tico rito è stato successivamente soppresso (4.4, 4.9). Ricorre con grande frequenza il motivo della statua: incontriamo effigi aniconiche di divinità (Onnes e Tottes: fr. 64, 2; 4.10), statue di dèi il cui

peculiare aspetto innesca l'eziologia (La statua di Apollo delio: fr. 64, 4-17; 3.2, 4.11), statue di atleti olimpionici divenute oggetto di venerazione (3.14, 4.9). Diversi monumenti del passato (talora scomparsi) campeggiano in altre elegie (3.4, 4.8, 4.17). Due carmi spiegano l'origine di singolari toponimi (4.6, 4.15). Nel terzo libro ci imbattiamo in due storie d'amore, che hanno entrambe

un felice compimento sotto gli auspici di Artemide (3.6, 3.13). Ma anche la guerra ha un certo peso, soprattutto nel quarto libro (Onnes e Tottes: fr. 65, 15-21; 4.5, 4.14, 4.16).

Specialmente nel libro conclusivo,

inoltre, l'atten-

zione del poeta si volge spesso a temi cruenti, quali l'assassinio e la lesione corporale (3.11, 4.3, 4.4, 4.5, 4.6, 4.12, 4.14).

C. specifica sempre l'ambientazione geografica delle sue elegie. Per quanto possiamo giudicare, un'eccezione in questo senso è costituita da 3.12: la cosa si giustifica alla luce del fatto che quel componimento verte su un'usanza generale e non limitata a un determinato luogo (si noti, comunque, che la sezione mitica di 3.12 riguarda in parte il travaglio di Latona a Delo). Il medesimo ragionamento può forse valere per l'esiguo fr. inc. lib. Aet.113. Alcune terre sono molto rappresentate: le città dell'Asia Minore (Onnes e Tottes: fr. 65 + fr. 64, 1-3; 3.11, 3.13, 4.12); le isole Cicladi (La statua di

Apollo delio: fr. 64, 4-17; 3.6, fr. inc. lib. Aet. 112; cf. 4.14); Atene e l'Attica (3.3, 4.6, 4.8, 4.13,fr. dub. 115); la Tracia (Una storia tracia incerta: fr. 64, 18-25; 4.3, 4.14). Notevole rilievo hanno inoltre Nemea e Argo (3.1, 3.5; cf. 4.10 e Una storia tracia incerta: fr. 64, 19), nonché l'isola di Samo (4.10,

4.11). A Troia si collegano in parte Una storia tracia incerta (fr. 64, 25) e il fr. inc. lib. Aet.112. Varie elegie sono ambientate fra la Sicilia, la Magna Grecia, l'antica Italia e Roma: in Sicilia, Agrigento e Lipari fanno rispettivamente da sfondo a 3.4 e 4.5; la città magnogreca di Locri Epizefiri è lo scenario di 3.14 e si affianca alla vicina Temesa in 4.9; un contesto italico va con ogni probabilità assegnato a 4.7; nella città di Roma e nei suoi dintorni si collocano rispettivamente 4.16 e il fr. inc. lib. Aet. 114. Singoli carmi si situano ad Ambracia (3.2), in Elide (3.10), a Delfi e Tempe (4.2), a Tebe (4.15) e - fuori dal continente greco - nell'isola di Tenedo (4.4) e a Cizico sulla Propontide (4.17). Il fr. 158 verte su Delfi, il fr.

214 su Lesbo, il fr. inc. lib. Aet.111 sull'Arcadia. Dopo averci condotto in lungo e in largo attraverso un àmbito geografico

48

così vasto,

CALLIMACO

C. riserva

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

volutamente

all'ultimo aition dell'opera

(4.18)

uno

spazio che è insieme più privato e più universale: da una parte Alessandria e il vicino tempio di Arsinoe Zefiritide, dove Berenice ha rispettivamente promesso e compiuto la sua dedica; dall'altra parte il cielo, dove il Ricciolo di Berenice ha ormai acquisito il suo status di nostalgica costellazione. 1.4.B. Ampiezza. Le ultime otto elegie del terzo libro e l'intero libro quarto totalizzavano insieme circa 1.300 versi, come si ricava dal POxy. 1011 (vd. Pf. I p. XXII s. e la disamina di Hollis a p. 339 5. della sua edizione dell'Ecale, ma si osservi che nel POxy. 1011 tra il fr. 175,3 e ıl fr. 215, 1 intercorrevano 32 pagine, non 34 pagine come scrive Pf.). Inoltre un segno sticometrico presente nel POxy. 2213 (vd. l'app. al fr. 184, 11) indica con ogni probabilità che il millesimo verso del terzo libro si trovava all'interno del suo aition finale (3.14). La combinazione dei due dati implica che

sia il terzo sia il quarto libro erano costituiti da un migliaio di versi e che le ultime otto elegie del libro terzo occupavano circa 300 versi. Come mostra lo schema proposto sopra in I.1., nel terzo libro si possono individuare diciassette carmi (3.1, Onnes e Tottes - La statua di Apollo delio - Una storia tracia incerta, da 3.2 a 3.14). Poiché sappiamo che il libro quarto conteneva probabilmente diciotto aitia prima dell'epilogo (vd. sopra lo schema in 1.2.), è plausibile che le diciassette elegie ravvisabili nel terzo libro lo occupassero per intero o quasi. Ciò significa che i circa 300 versi coperti dagli ultimi otto componimenti del libro terzo dovevano bastare per la seconda metà (o poco meno) di quel libro. A quanto pare, dunque, alcuni carmi inclusi nella prima metà erano abbastanza estesi, il che viene confermato dalla notevole ampiezza di 3.1 e 3.6. Specialmente 3.1, la grande elegia che apre il libro terzo, ha dimensioni del tutto inusitate: con ogni probabilità totalizzava circa 240 versi e dunque riempiva da sola pressoché un quarto dell'intero libro (vd. il comm. ai frr. 143-156). Ma pure 3.6 si segnala per la sua considerevole lunghezza, in quanto abbracciava non meno di 150 versi (vd. il comm. ai frr. 166-174).

Inoltre l'ultimo aifion dell'opera (4.18), anche in virtù della sua posizione di rilievo e del suo ruolo di pendant con 3.1, raggiunge la ragguardevole ampiezza di 94 versi. Altre elegie, per contro, sono molto succinte. La statua di Apollo delio (fr. 64, 4-17) è di 14 versi, 3.4 ne contiene 18 o poco più (vd. il comm. introduttivo al fr. 163) e 3.5 è di analoghe dimensioni (vd. il comm. ai frr. 164-165). I due esigui carmi 3.4 e 3.5 precedono il vasto 3.6: anche altrove C. avrà fatto in modo di alternare componimenti lunghi e brevi. 1.4.C. Aspetti dell'eziologia. Come ho cercato di far risultare dagli schemi presentati sopra in I.1. e I.2., quasi tutte le elegie dei libri terzo e quarto si lasciano ricondurre a un aition di fondo (questo vale anche per la serie Onnes e Tottes - La statua di Apollo delio - Una storia tracia incerta:

INTRODUZIONE

49

frr. 65-64; vd. ı comm. ad locc.). Possiamo constatare che talvolta l'esito eziologico delle vicende narrate viene espressamente indicato alla fine dei carmi: è il caso di 3.3 (cf. fr. 162, 9-12), 3.13 (cf. fr. 185 con il comm. introduttivo), 4.6 (cf. fr. 198, 4 s. con il comm.). Vediamo pure che alcune

elegie si aprono con l'enunciazione di quanto sarà spiegato nei versi seguenti (3.12, 4.11, 4.13). Particolare interesse suscita 3.12, dove ci si chiede per

quale motivo le donne invochino la dea vergine Artemide fra i dolori del parto: a giudicare dalla Diegesis, venivano proposte tre diverse spiegazioni di quest'uso, senza che si optasse per l'una o per l'altra. C'è anche qualche carme apparentemente privo di un nucleo eziologico, soprattutto nel quarto libro (3.4, 4.5, 4.7, 4.12, 4.14, 4.16).

Bisogna però

precisare che, quando le nostre informazioni su una data elegia dipendono solo o prevalentemente dalla sua Diegesis, non possiamo essere certi dell'assenza di tale aspetto, in quanto le Diegeseis sono talora lacunose e comunque forniscono spesso notizie generiche o incomplete (vd. *Krevans p. 237; per un tentativo di individuare l'eziologia di 4.12, vd. Stroux p. 313 n. 21). Tuttavia il fatto che un componimento come 3.4, preservato in buone condizioni e leggibile quasi per intero, non esibisca un aition di base contribuisce a farci ammettere che C. inserisse qua e là anche carmi sprovvisti di un fulcro eziologico. Vd. Körte, Literarische Texte 1935 p. 236, *Krevans p. 237 s. 1.4.D. Collegamenti fra le elegie. Nel precedente volume (Introd. IL.1., 11.3., 11.8.) abbiamo visto che con ogni probabilità C., dopo avere pubblicato in età giovanile i primi due libri degli Aitia, allestì la seconda diade in vecchiaia, utilizzando almeno in parte carmi già composti in forma autonoma. Abbiamo anche osservato che il poeta decise di racchiudere la seconda metà della sua opera fra due solenni elegie recentemente scritte in onore di Berenice II (3.1 e 4.18), sostituendo questa cornice più semplice al dialogo onirico con le Muse, che introduceva e teneva insieme 1 primi due libri. Il nesso palese fra 3.1 e 4.18, dovuto alla comune dedicataria e al rispettivo ruolo di apertura e conclusione degli aitia inseriti nei due libri finali, è anche confermato da osservazioni più minute (vd. i comm. al fr. 143, 1 Znvi e al fr. 215,8). Abbiamo inoltre visto che nello stesso tempo l'anziano C. procedette verisimilmente a una seconda edizione degli Aitia, costituita ora dai quattro libri definitivi, ponendo il prologo (fr. 1) in testa al libro primo e l'epilogo (4.19) in coda al quarto. Nell'epilogo C. si richiama esplicitamente al proemio degli Aitia, citando quasi alla lettera la scena dell'incontro fra Esiodo e le Muse presso la fonte Ippocrene sul monte Elicona (fr. 4, 1 s.; vd. il comm. al fr. 215, 5 s.). Ma è possibile ravvisare anche altri agganci, che coinvolgono in vario modo il principio e la fine sia del terzo sia del quarto libro. Le elegie che aprono e chiudono il libro terzo (3.1 e 3.14) sono entrambe collegate ai gio-

50

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

chi panellenici, rispettivamente di Nemea e di Olimpia (vd. Fantuzzi-Hunter p. 66 = 46 s.). Il verso iniziale del libro quarto (4.1) sembra rimandare sia

all'epilogo (4.19) sia all'esordio del terzo libro (3.1) sia al prologo degli Aitia (fr. 1): vd. il comm. al fr. 188. Inoltre, nell'epilogo (4.19) C. menziona prima le Cariti e poi le Muse dell'Elicona, così come al principio dell'opera parla innanzitutto delle Muse nell'invocazione (fr. 2) e nella scena del sogno eliconio (frr. 3-4) e poi delle Cariti nel primo aition (frr. 5-98): vd. il comm. al fr. 215, 2 Χαρίτων. Con analoga disposizione speculare, un racconto sul viaggio di andata della nave Argo

verso

la Colchide

(4.17)

precede

l'ultimo

aition

dell'opera

(4.18),

esattamente come una narrazione dedicata al ritorno degli Argonauti (frr. 91-23) segue il primo aition (frr. 35-918). È insomma evidente che C., per conferire una qualche unità a un'opera molto eterogenea (cf. fr. 1, 3 οὐχ ἕν ἄειεμα διηνεκές), crea una rete di rimandi che toccano l'inizio e la fine sia degli interi Aifia sia della seconda diade sia singolarmente dei libri terzo e quarto. Simili collegamenti sono talvolta riconoscibili anche nelle elegie che si trovano all'interno del terzo e del quarto libro: si possono infatti individuare, sulla base di affinità contenutistiche, sia serie di aitia contigui sia richiami a distanza fra aitia separati. A questo proposito, però, è necessario muoversi con una certa cautela. In merito alle sequenze di carmi, quando le nostre informazioni sull'ordine delle elegie dipendono solo dalle Diegeseis, non dobbiamo riporre una fiducia eccessiva nell'attendibilità della loro testimonianza. Sappiamo infatti che, almeno

in un caso, una

successione

di componimenti

attestata nelle

Diegeseis (3.12 - 3.14, probabilmente preceduta da 3.13) differisce da presente in un altro papiro (POxy. 2212), dove abbiamo la serie 3.13 (vd. Pf. II p. XXXVI e il mio comm. tra il fr. 181 e il fr. 182). E il simo POxy. 2212 sembra esibire, dopo La statua di Apollo delio (fr.

quella - 3.14 mede64, 4-

17), un'elegia diversa da Una storia tracia incerta (fr. 64, 18-25), che invece

troviamo nel POxy. 2211 (vd. l'app. al fr. 64, 18). Si ha insomma l'impressione che la natura stessa degli aitia della seconda diade, sciolti come sono l'uno dall'altro e privi dei reciproci raccordi narrativi forniti nei primi due libri dal dialogo con le Muse, li esponesse a una certa instabilità nell'ordine di trasmissione. Perciò non possiamo essere certi che l'assetto delle elegie presente nelle Diegeseis (o anche in altri papiri) rispecchi sempre le intenzioni di C. Per quanto riguarda poi il riconoscimento di richiami a distanza fra carmi separati, non sembra opportuno eccedere in sottigliezza. Ricordiamo che, con ogni probabilità, C. incluse nei due libri finali degli Aitia anche poesie già composte in forma autonoma. Quindi non è plausibile che, lavorando almeno in parte su materiale preesistente, potesse (o volesse) istituire collegamenti interni troppo numerosi e complicati.

INTRODUZIONE

51

Fatte queste precisazioni, vediamo quali siano le serie di elegie che presentano affinità contenutistiche. Nel libro terzo si susseguono due componimenti che vertono (il secondo in forma esclusiva) su statue di Apollo: On-

nes e Tottes (fr. 64, 2) e La statua di Apollo delio (fr. 64, 4-17); Artemide è la protagonista di 3.12 e ha un ruolo di spicco in 3.13 (vd. Fantuzzi-Hunter p. 66=47). Nel quarto libro sia 4.2 sia 4.3 trattano riti di purificazione; a sua volta 4.3 ha in comune con 4.4, 4.5 e 4.6 il tema cruento (vd. Herter, Bursian 255 p. 139, Swiderek p. 232, *Krevans p. 239); 4.4 e 4.5, nello

specifico, esibiscono sacrifici umani compiuti da popolazioni non greche; 4.10 e 4.11 si imperniano su due statue di Era a Samo e formano con tutta evidenza una coppia; vi si può agganciare 4.12, dove anche figura Era (vd. M. Norsa - G. Vitelli, 4z777/ces di poemi di Callimaco in un papiro di Tebtynis, Firenze 1934, p. 14 n. 1, Herter, Bursian 255 p. 139, Mras p. 54,

Swiderek p. 232). Consideriamo infine alcuni richiami a distanza fra elegie separate. All'interno del terzo libro, sia 3.1 sia 3.10 presentano Eracle come fondatore di giochi panellenici, rispettivamente i nemei e gli olimpici (vd. FantuzziHunter p. 66=47). Il terzo libro è inoltre caratterizzato dall'inconsueto rilievo che ha in esso la materia erotica, rappresentata da due carmi (3.6 e 3.13) accomunati fra l'altro dal lieto fine e dall'importanza del ruolo di Artemide (vd. Fantuzzi-Hunter p. 66 s. = 47): vediamo che C., per introdurre un significativo elemento di variatio, ribalta la prospettiva adottata nelle due elegie, assegnando una funzione centrale e attiva al personaggio maschile in 3.6 e a quello femminile in 3.13 (vd. la fine del comm. ai frr. 183-185 e più avanti I.4.E.). All'interno del quarto libro, sia 4.5 sia 4.8 narrano vicende collegate ai Tirreni, identificati nel primo caso con gli Etruschi e nel secondo con 1 Pelasgi: gli Etruschi figurano probabilmente anche in 4.16 (vd. il comm. ai frr. 209-210). Altri rapporti si possono individuare fra terzo e quarto libro: Onnes e Tottes (fr. 65 + fr. 64, 1-3), 4.5 e 4.14 condividono il tema della guerra e la rilevanza del ruolo di Apollo; sia 3.14 sia 4.9 hanno come protagonisti atleti olimpionici di Locri Epizefiri e specificano che le loro statue diventarono oggetto di venerazione (può darsi che il motivo degli olimpionici, soprattutto magnogreci e spesso associati alle loro statue, fosse un tratto tipico della seconda diade degli Aitia: vd. la fine del comm. ai frr. 186-187). 1.4.E. Voci narrative, apostrofi, Callimaco sul proscenio. Nella seconda metà degli Aifia, venuta meno la cornice del dialogo onirico con le Muse, C. può scegliere e gestire in tutta libertà le voci narrative cui affidare le singole elegie. Così, benché (a quanto risulta) la maggior parte dei carmi faccia capo a un narratore primario esterno, alcuni sono posti integralmente sulla bocca di narratori interni, secondo una tipologia derivata dalla poesia epigrammatica. Parlano in questo modo il defunto poeta Simonide (3.4), il

52

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Ricciolo di Berenice (4.18), probabilmente l'antica muraglia pelasgica di Atene (4.8) e forse la vittima espiatoria di Abdera (4.3: vd. il comm.

al fr.

192). La soluzione compositiva è inoltre presente, ma sotto forma dialogica, nella Statua di Apollo delio (fr. 64, 4-17), che si svolge dall'inizio alla fine su uno scambio di battute fra la statua e un interlocutore anonimo,

senza

l'impiego di raccordi narrativi. Vd. *Krevans pp. 161, 218 s., Harder, Callimachus p. 68 s., Morrison pp. 197-199. Nelle elegie (o nei brani di elegie) che esibiscono - di certo o apparentemente - un narratore esterno, si riscontra un uso abbondantissimo di apostrofi. Questo è un tratto fra 1 più tipici degli Aitia, volto a rendere vivace e icastica l'esposizione. Tali apostrofi ricorrono in tutti 1 punti dei carmi: al principio, all'interno e alla fine (vd. in generale Lapp p. 104 s.). In sede iniziale (vd.

*Krevans

pp. 217 s., 222 s., 229),

si trovano fre-

quentissime apostrofi ai protagonisti delle elegie. Esse sono varie volte affiancate da un'esplicita menzione dei protagonisti stessi (o da un più obliquo riferimento a loro) e talora da una coordinata geografica: l'accorgimento dà modo al lettore di entrare sùbito in medias res e di orientarsi meglio nello scenario proposto. Rispondono a questa configurazione 3.14 (fr. 186: qui sappiamo che l'apostrofe continua più avanti nel carme), 4.4 (fr. 193), 4.12 (fr. 205) e 4.13 (fr. 206). In 3.11 l'apostrofe è accompagnata dal richiamo a un elemento basilare della trama (fr. 181, 1). Può darsi che anche 3.12 cominci con un'apostrofe alla protagonista del componimento, cioè Artemide, in questo caso inglobata nel quesito eziologico al quale l'intera elegia intende rispondere (fr. 182: vd. il comm. ad loc.). Un'ampia apostrofe al popolo dei Liparesi, cui appartiene il personaggio principale, apre forse 4.5 (fr. 196, 1-5: vd. il comm. introduttivo). Contengono apostrofi gli esordi lacunosi di 3.10 (fr. 178) e forse di 3.7 (fr. 175, 1 s.). Nell'incipit del terzo libro (3.1: fr. 143, 2 s.) C. si rivolge direttamente alla dedicataria Berenice.

In alcuni casi, le apostrofi iniziali hanno destinatari diversi dai protagonisti dei componimenti. In 4.17 (fr. 211) si tratta del luogo di svolgimento dell'aition. L'eroe eponimo o il luogo stesso viene apostrofato all'inizio di 4.3 (fr. 192; ma si ricordi che forse, come abbiamo visto, qui parla il protagonista del carme). Una singolare apostrofe di portata panellenica e (a quanto sembra) con funzione esortativa apre 4.16 (fr. 209: vd. il comm. ad loc.).

Vediamo poi che, nel corpo stesso delle elegie, le apostrofi ai protagonisti sono numerose. Qui, per nostra fortuna, ne possiamo spesso apprezzare la notevole efficacıa sul piano poetico. In questa prospettiva, & interessante mettere a confronto 3.6 e 3.13, due elegie erotiche che hanno molti punti in comune, ma anche un essenziale elemento di opposizione:

in 3.6, infatti, 11

ruolo centrale e attivo viene assegnato al personaggio maschile, in 3.13 a quello femminile (vd. sopra 1.4.D.). La differenza è perfettamente rispec-

INTRODUZIONE

53

chiata nell'uso delle apostrofi, che in entrambi i carmi sono abbondantissime e continuano fino alla conclusione, ma in 3.6 spettano ad Aconzio e in 3.13 a Pieria: cf. rispettivamente fr. 174, vv. 40, 44 s., 48, 51, 53, 74 5. e fr. 184,

vv. 5,8, 10 s., 14, 18-20. Un altro aition caratterizzato dal massiccio impiego di apostrofi al protagonista è 3.14: ce n'è una già nel primo verso (fr. 186, vd. sopra) e se ne trovano

molte altre nello sviluppo della vicenda

(fr. 187, vv. 3, 5 s., 9: vd.

Harder p. 110). La medesima ricchezza si riscontra in 3.5, che verte sulle quattro sorgenti di Argo chiamate con il nome di altrettante figlie di Danao: vengono apostrofate due di loro, Automate e Amimone, rispettivamente nel fr. 164, 1 e nel fr. 165, vv. 2, 4, 6, e probabilmente tutte insieme nel fr. 165, 1 (per la chiusa del carme, vd. oltre). Anche l'antichissima statua di Era,

sulla quale si impernia 4.10, è la destinataria di un'apostrofe (fr. 203, 1 s.). Molorco, figura chiave di 3.1, viene forse apostrofato nel fr. 148, 12 (vd. il comm. ad loc.).

Vediamo inoltre apostrofare sonaggio imprecisabile in Una comm. introduttivo). In 3.6 C. animo (fr. 174, 4-7: vd. oltre).

Apollo Cinzio in 3.6 (fr. 166, 5 s.) e un perstoria tracia incerta (fr. 64, 22 e 24: vd. il dirige un'ampia apostrofe al proprio stesso Notiamo en passant la presenza di apostrofi

nei frr. inc. sed. 265 (a Teogene) e 266 (a Demetra) e nei frr. inc. auct. 281 (forse a Melicerte o ad Aiace figlio di Oileo) e 282 (a Melicerte o a Eracle).

Quando sono poste alla fine delle elegie, le apostrofi assumono varie volte la funzione di congedo, espresso dagli imperativi χαῖρε o χαίρετε secondo una consuetudine tipica degli inni. Le quattro sorgenti argive di 3.5, dopo essere state oggetto di numerose apostrofi nel corso dell'aition (vd. sopra), vengono menzionate e salutate una per una negli ultimi versi (fr. 165, 7-9; l'apostrofe alle quattro fonti, con la menzione di ciascuna di esse, com-

pare forse anche all'interno di 3.1: cf. fr. 144, 4 s. con il comm.). Il saluto finale di Onnes e Tottes (fr. 64, 2) è verisimilmente rivolto a un'effigie aniconica di Apollo milesio, il dio che ha un ruolo di primo piano nella vicenda narrata (vd. il comm.

ad loc.). Si osservi per inciso che, tramite il verbo

χαῖρε, 11 Ricciolo di Berenice si congeda probabilmente da Arsinoe nella chiusa della prima redazione di 4.18 (fr. 213, 94: vd. il comm. ad loc.) e C. saluta forse l'eroina Cirene e di sicuro Zeus nell'epilogo degli Aitia (fr. 215, 7 s.; cf. anche v. 2 5. con il comm ai vv. 2-5). Un'apostrofe conclusiva di tutt'altro tipo viene forse indirizzata all'infelice protagonista di 4.6 (fr. 198, 3: vd. il comm. ad loc.).

Un ultimo aspetto, sul quale vale la pena soffermarsi, è l'attitudine di C. a mettere qua e là in primo piano la propria persona. Nelle due elegie che danno inizio e fine alla seconda metà degli Aitia (3.1 e 4.19), è naturale che

venga soprattutto alla luce il suo status di poeta cortigiano, entusiasta elogiatore della vittoria nemea di Berenice (frr. 143 e 144) e sollecito della

54

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

prosperità dei monarchi (fr. 215, 8). Ma nell'epilogo C. dà risalto anche ad altri caratteri della propria persona: da un lato, forse, il suo attaccamento alla patria Cirene (vd. il comm. al fr. 215, 2-5); dall'altro la sua qualità di poeta filologo, che chiude gli Aitia segnalando la transizione fra di essi e il libro dei giambi all'interno della raccolta dei suoi scritti da lui stesso curata (fr. 215,9). L'enfasi conferita da C. alle proprie strategie compositive si rivela con tutta evidenza all'interno di 3.1 (fr. 154). Qui C., in un passo di impronta pindarica, fa appello direttamente al lettore e lo esorta a colmare da solo una cospicua lacuna narrativa, riducendo così l'estensione del carme. Il procedimento risulta tanto più notevole, in quanto serve anche a ribadire il rifiuto callimacheo di soffermarsi sui miti più divulgati e contribuisce a realizzare una raffinata aposiopesi doppia, che coinvolge prima C. e poi un suo personaggio (vd. il comm. introduttivo ad loc.). La variegata persona di C. emerge con particolare insistenza nell'esteso fr. 174, che tramanda in condizioni eccellenti gli ultimi settantasette versi di 3.6. Nei vv. 4-9 C., sul punto di rievocare le nozze clandestine fra Zeus ed Era, si blocca bruscamente (di nuovo con il ricorso a una movenza pindarica) e - interrompendo il filo del racconto - spiega e commenta la propria autocensura: ricorda con foga al proprio animo che non è consentito divulgare 1 segreti divini, gli rimprovera la sua incauta loquacità e osserva, con effetto di forte ironia, che l'erudizione è un grave male, se non si è capaci di tenere a freno la lingua. Più avanti, nei vv. 44-49, C. esprime il parere personale (δοκέω) che Aconzio, dopo essere finalmente riuscito a sposare Cidippe, non avrebbe per nulla al mondo rinunciato alla prima notte di nozze con lei e aggiunge che la sua opinione sarà condivisa da chi sa quanto possa essere difficile l'amore: così dicendo, C. lascia intendere di conoscere per esperienza i travagli della passione. Infine, nell'ampia chiusa del carme (vv. 50-77), C. mette sul proscenio la propria attività di erudito: rivela al lettore che in 3.6 ha avuto come fonte lo storico Senomede di Ceo e offre una rassegna delle altre notizie fornite da Senomede sul passato mitico dell'isola. Anche 4.4 termina con la menzione della fonte cui C. si è rifatto (qui probabilmente Leandr(1)o di Mileto: cf. fr. 195, 2 5. con il comm.).

Non a caso sia in 3.6 sia in 4.4 C. precisa che queste fonti sono antiche e veritiere (vd. il comm.

al fr. 195, 2 s.). Le sue Muse sono di fatto 1 volumi

della biblioteca di Alessandria. II. Metrica e prosodia Tenere presenti le caratteristiche metriche e prosodiche della poesia callimachea è particolarmente importante quando si ha a che fare con un'opera pervenutaci in stato frammentario come gli Aitia. Infatti il campo delle integrazioni e congetture possibili è limitato dalle rigide norme che regolano i

INTRODUZIONE

55

versi di C. Per di più, i componimenti callimachei in distici elegiaci obbediscono a leggi più severe di quelli in esametri. 11.1. Metrica 11.1.A. Esametri IL.1.A.a. Esametri spondaici (West, GM p. 154) I frammenti attribuibili con certezza agli Aifia offrono quattordici esempi di esametro spondaico: frr. 1,31; 19, 9; 44, 1a; 50, 68; 65, 17; 110, 6; 149, 27; 156, 8; 162, 7; 166, 17; 174, 34; 182; 184, 8; 231, 5. Gli esametri spon-

daici callimachei hanno le seguenti caratteristiche: 11.1.A.a.i. Il quarto piede deve essere un dattilo. 11.1.A.a.ii. Il verso termina quasi sempre con parola tetrasillabica (- - -), talora con parola esasillabica (Ὁ ν᾽ - — — —: in tal caso si tratta di un verbo composto), rarissimamente con parola trisillabica (- - -). Quasi tutti i luoghi

degli Aitia elencati sopra corrispondono al primo schema, uno (fr. 156, 8) al secondo, uno o al primo o al secondo (fr. 231, 5).

IL.1.A.a.ïii. Negli esametri spondaici degli Aitia, la cesura (verificabile solo in alcuni casi) è femminile:

la cesura maschile si riscontra forse sol-

tanto nel fr. 184, 8. In proposito, gli Aitia differiscono dagli inni e dall'Ecale, dove la percentuale di esametri spondaici con cesura maschile è rispettivamente del 53% e del 33% (vd. p. 18 s. dell'edizione dell'Ecale di Hollis). Vd. i comm. al fr. 182 e al fr. inc. auct. 277. 11.1.A.b.

Cesura

(Maas,

MG

ὃ 90, West,

GM

p.

153; vd. anche

II.2.A.,

11.2.D.) Tutti gli esametri hanno una cesura nel terzo piede: la femminile è più frequente della maschile. Per le caratteristiche degli esametri con cesura maschile, vd. II.1.A.c.v.

IL.1.A.c. Leggi che regolano la fine di parola in altre sedi del verso I. 1.A.c.i. (Maas, MG $$ 94, 137, West, GM p. 155, Magnelli, Norme p.

143 s.). Parole che cominciano nel primo piede il «secondo trocheo» («prima legge di Meyer»). cezioni, quando la sillaba breve del «secondo postpositivum. Casi del genere si riscontrano

non possono terminare con La legge ammette varie ectrocheo» è occupata da un in due frammenti di questa

edizione (fr. 174, 10 | not μέν efr. inc. auct. 282 | ψευδόμεναί ce) e in alcuni altri luoghi callimachei (tra le infrazioni esibite dai frammenti pubblicati nel precedente volume, si inserisca fr. 98, 9 | -vu- | xo[t']): vd. gli elenchi di passi offerti da Pf. nel comm. a Hec. fr. 230 Pf. (= 1 H.) con l'Adden-

dum nel vol. I e da Magnelli, nonché l'app. al fr. 143, 13. Le uniche due reali violazioni della legge nell'opera di C. sono Ap. 41 πρῶκες ἔραζε e Cer. 91

| ὡς δὲ Minavri. IL.1.A.c.ii. (Maas, MG $ 94, West, GM p. 155, Magnelli, Norme p. 144).

Parole che cominciano nel primo piede non possono terminare con il secondo biceps («legge di Giseke»). In questa edizione, la norma è violata nel

56

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

fr. 163, vv. 3 | καὶ γὰρ ἐμόν κοτε e 13 | δαιτυμιόνων ἄπο e nel fr. 260, 1 | καὶ κυάμων ἄπο (sempre, dunque, in presenza di appositivi). Νά. anche il comm. al fr. 144, 7. I.1.A.c.iii. (Maas, MG $ 92, West, GM p. 155, Magnelli, Norme p. 144).

Quando il secondo piede è spondaico, parola («legge di Hilberg»). Sono quando il biceps del secondo piede è preceduto da un altro monosillabo.

dopo di esso non può esserci fine di ammesse eccezioni a questa regola un monosillabo, soprattutto se esso è In questa edizione, cf. fr. 162, 9 |

τοὔν]εκεν οὔ toc. Cf. inoltre fr. 65, 13 | Ὄννης μὲν νῦν, Del. 113 | ὦ πάτερ, où μήν, Ep. XIV 1 Pf. = HE 1241 δαίμονα tic δ᾽ εὖ e forse Hec. fr. 291, 1 Pf. = 113, 1 H. | ἡνίκα μὲν γάρ (se la parola successiva cominciava per consonante). I.1.A.c.iv. (Maas, MG ὃ 95, West, GM p. 155, Magnelli, Norme p. 144). Parole di struttura giambica (-—) si trovano raramente davanti alla cesura

maschile

(«seconda

legge

di Meyer»).

Fanno

p.es.

eccezione fr.

131

|

Ῥήγιον Actv λιπών, Hec. SH 288, 24 = fr. 70, 9 H. | τουτάκι δ᾽ ἣ μὲν ἑξῆς e forse fr. 1,91... |. .penv (se c'era il verbo ἔην non preceduto da un praepositivum). Cf. anche gli altri passi elencati da Wifstrand, Von Kallimachos p. 65 s. e da Magnelli. IL. 1.A.c.v. (Maas, MG

$ 93, Clarke p. 18, Maas, Hephthemimeres, West,

GM p. 155). Nei carmi callimachei in distici elegiaci (Aifia, epigrammi, quinto inno, elegie minori), gli esametri con cesura maschile presentano sempre anche la cesura eftemimere seguita dalla dieresi bucolica («schema a») o la sola dieresi bucolica («schema ß»). In ciò l'esametro elegiaco si dif-

ferenzia da quello usato stichicamente, perché quest'ultimo - quando è inciso da cesura maschile - ammette anche una terza configurazione, cioè la presenza della sola cesura eftemimere, purché il terzo biceps sia bisillabico («schema y»). I componimenti di C. in distici elegiaci contengono quattro sicure eccezioni alla suddetta regola, perché in quattro esametri con cesura maschile si riscontra lo «schema y». Una delle eccezioni si trova all'interno

degli Aitia (fr. 110, 2 -vv- Γλαύ]κωι Λυκίωι, ὅτε cıpAöc ére-), ma qui l'irregolarità metrica è in parte giustificata dalla presenza del nome proprio

Γλαύ]κωι e dell'etnico Λυκίωι, che terminano l'uno prima della cesura maschile e l'altro prima dell'eftemimere. Le altre tre eccezioni compaiono nel quinto inno (vv. 5, 33, 63), ma 1 versi in questione hanno tutti un nome proprio che termina prima della cesura maschile. Un quinto caso dubbio di esametro elegiaco con «schema y» figura tra 1 frammenti di questa edizione

(fr. 192 ἔνθ᾽, “ABSnp’, où νῦν |... λεὼ φαρμακὸν ayıvei), ma qui il testo è incerto e forse la cesura è femminile (vd. il comm.

ad loc). Vd. anche i

comm. al fr. 149, 29 Bpa[xé]n ἔνι e ai frr. inc. auct. 280 e 282 e l'app. al fr. 174, 28. II.1.A.c.vi. (Bulloch, Refinement). Si ammette fine di parola dopo il terzo

INTRODUZIONE

57

piede solo se l'esametro ha la dieresi bucolica e se c'è fine sintattica di colon (tale da esigere, o almeno raccomandare, un segno di interpunzione) in corrispondenza o della cesura del terzo piede o della dieresi bucolica o di en-

trambe: cf. p.es. fr. 179 Ἦλιν avaccecdoı, Διὸς oikiov, ἔλλιπε Φυλεῖ. Tra gli esametri presenti in questa edizione, la norma sembra violata (per l'assenza della seconda prerogativa) nei frr. 149, 33 ἵπόιν ıT’ ἀνδίκτην. te

μάλ᾽ εἰδότα μιαικρὸν ἁλέιεθαι e 174, 50 ἐκ δὲ γάμου κείνοιο μέγ᾽ οὔνομα μέλλε νέεεθαι. Ma, come osserva lo stesso Bulloch, Refinement p. 259 s., i versi in questione non rientrano nella categoria cui si applica la legge: infatti in essi l'avverbio μάλ(α) e l'aggetivo μέγ(α) hanno valore prepositivo. IL.1.A.c.vii. (Maas, MG

$ 97, West, GM p. 155). Fine di parola non può

cadere contemporaneamente dopo il quarto e dopo il quinto princeps («legge di Tiedke-Meyer»). Per un'eccezione, cf. Del. 311 ἕδος «κολιοῦ λαβυρίνθου |. Vd. anche il comm. al fr. inc. auct. 280. II. 1.A.c.viii. (Maas, MG ὃ 91, West, GM p. 155). Non c'è mai fine di pa-

rola dopo il «quarto trocheo» («ponte di Hermann»). Vd. anche 11.2.D. e i comm. al fr. 270 e al fr. inc. auct. 282. I. 1.A.c.ix.

(Maas, MG

$ 92, West,

GM

p.

154 s.). Quando

il quarto

piede è spondaico, dopo di esso non può esserci fine di parola («ponte di Naeke»). Vd. anche II.2.D. e ı comm. ai frr. 156, 16 e 175, 1 e al fr. inc. auct. 282. I. 1.A.c.x. (Maas, MG

$ 96, West, GM p. 156). Un monosillabo alla fine

del verso è sempre preceduto dalla dieresi bucolica. Cf. p.es. fr. 174, 26

ὁππότε ch παῖς |. Vd. anche il comm. al fr. inc. auct. 280. 11.1.A.d. Pause di senso (Maas, MG

$ 98, West, GM p. 153)

Pause di senso si riscontrano di rado in sedi diverse dalle seguenti: -vul-Iuu-lulu-uul-uu--| Vd. l'app. al fr. 162, 3, il comm. al fr. 215, 2-5 e il comm. di Pf. al fr. inc. auct. 755. 11.1.B. Pentametri IL.1.B.a. Limitazioni relative alle parole che precedono la dieresi (vd. anche II.2.A., IL.2.C., 1.2.D.) 11.1.B.a.i. (West, GM p. 158). I praepositiva possono trovarsi prima della dieresi solo se sono preceduti da un altro praepositivum: cf. p.es. fr. 1, 28

dtpirto]vc, ei καὶ ctervotepnv ἐλάςεις ed Ep. XLV 4 Pf. = HE 1090 ed y’, ἐμός: οὐ παρὰ τὰς εἴκοει μεμφόμεθα. II.1.B.a.ii. (West, GM p. 158). Un monosillabo compare prima della dieresi solo se è preceduto da una parola che consiste di un'unica sillaba lunga

o di due sillabe brevi: cf. p.es. fr. 174, 7 ἐξ ἂν ἐπεὶ kai τῶν ἤρυγες ictopinv. Eccezioni si verificano quando il monosillabo in questione è un postpositivum (vd. West, GM p. 158 n. 67): in questa edizione, cf. fr. 189 |

58

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Δειπνιὰς ἔνθεν μιν δειδέχαται. Vd. anche il comm. al fr. 149, 8. II.1.B.a.iii. (Maas, MG $ 95, West, GM p. 158, Magnelli, Norme p. 144).

Una parola di struttura giambica (--) può trovarsi davanti alla dieresi soltanto se è preceduta da un monosillabo. In questa edizione, cf. fr. 174, vv.

23 Λύγδαμιν où γὰρ ἐμὴ τῆμος ἔκηδε κάεις e 39 κούρην, ἢ δ᾽ av’ ἐτῶς πᾶν ἐκάλυψεν ἔπος (in entrambi i casi, l'anomalia è ulteriormente alleviata dal valore prepositivo dei nessi où γάρ e del preverbio in tmesi av’), frr.

213, 40 --οὐ ] Mv te κάρην @uoca cov te βίον e 215,1

]Ἰ

ιν ὅτ᾽ ἐμὴ

μοῦτατί. ‚Jaceraı (pure qui l'irregolarità è resa ancora più blanda dalla natura prepositiva della congiunzione ὅτ᾽). Cf. inoltre Ep. I 16 Pf. = HE

1292 οὕτω καὶ cò, Δίων, τὴν κατὰ cavıov ἔλα. Un caso più complesso è offerto, in questa edizione, dal fr. 149, 8 -vu-v | θεῶν τοῖει παλαιοτέροις,

dove è ipotizzabile che la parola θεῶν fosse preceduta non da un monosillabo, ma comunque da un nesso fornito di una certa funzione prepositiva (vd. il comm.

ad loc; fra l'altro, non si può escludere che il vocabolo θεῶν

vada scandito per sinizesi come un'unica sillaba lunga: -vu-vv ]Be@v). νά. anche l'app. al fr. 213, 26 e il comm. di Pf. al fr. inc. auct. 728. IL.1.B.b. (Pf. II p. 135, Index rerum notabilium s.v. Metrica) Non esiste un esempio sicuro di un'unica parola che occupi per intero il secondo colon di un pentametro. Un caso dubbio si trova nel fr. 68, 9: vd. il comm. ad loc. IL.1.B.c. (West, GM p. 159) 51 evita di porre un monosillabo alla fine del pentametro. IL.1.B.d. Pause di senso (Pf. II p. 135, Index rerum notabilium s.v. Metrica) Prima della dieresi non può esserci una pausa di senso. 11.2. Prosodia 11.2.A. Iato (Maas, MG ὃ 141, West, GM pp. 15, 156, 158)

Neli componimenti callimachei in distici elegiaci, lo iato è ammesso solo tra un princeps e un biceps bisillabico (mai, però, dopo un kai o dopo una desinenza -aı che può essere elisa). Esistono due configurazioni tipiche di lato: a) fra un dativo uscente in -n o in -@ e una preposizione in anastrofe, come p.es. nel fr. 50, 46 κεφαλιῆι ἔπι keilueviov (vd. il comm. ad loc.); Ὁ)

dopo la disgiuntiva ἤ, come p.es. nel fr. 275, 3 ἢ φίλον ἢ ὅτ᾽ ἐς ἄνδρα ουνέμπορον ἢ ὅτε κωφαῖς. Ma ci sono anche altre configurazioni: cf. p.es. fr. 110, 2 Λυκίωι ὅτε, Ep. XIV 3 Pf. = HE 1243 | τᾷ ἑτέρᾳ. In questa edizione, un anomalo iato tra la seconda sillaba di un biceps e il successivo princeps si riscontra nel fr. 156, 20 è wc ἕνα: il fenomeno è spiegabile su basi stilistiche (vd. il comm. ad loc.). Gli intenti espressivi di C. giustificherebbero invece lo iato irregolare | ἢ ὦ (fra un princeps e un biceps monosillabico), cui si è pensato per integrare il fr. 163, 10 (vd. il comm. al v. 9 s.). Si noti inoltre che lo iato non è ammesso nella cesura dell'esametro e nella dieresi del pentametro: vd. da un lato l'app. al fr. 143, 9, dall'altro il comm.

INTRODUZIONE

59

al fr. 134 (per il testo del fr. inc. sed. 506 Pf., bisogna adesso tenere conto dei nuovi dati forniti da Menci p. 25). 11.2.B. Correptio 11.2.B.a. Correptio epica ovvero in hiatu (Maas, MG $ 129). Nei carmi di C. in distici elegiaci, la correptio epica (che riguarda soprattutto le desinenze -aı e -oı) si verifica di regola soltanto nella seconda sillaba di un bi-

ceps: cf. p.es. fr. 174, 42 χὴ θεὸς ebopkeito kai ἥλικες αὐτίχ᾽ ἑταίρης. Ma essa è talvolta attestata anche nella prima sillaba di un biceps: cf. 1 passi raccolti da Pf. nel comm. al fr. inc. sed. 535, cui si devono aggiungere fr. 64, 6

à καὶ ἀφα[ρής | ed Ep. XLII 3 Pf. = HE 1077 | "Ἄκρητος καὶ Ἔρως. Un caso dubbio è costituito dal fr. 26, 13 &ypeîov κ[αὶ ἀμείλιχον, dove l'integrazione è puramente esemplificativa.

Vd. anche l'app. al fr. 143, 9 e il

comm. al fr. 272 Τκαθνώδει. 11.2.B.b. Correptio prima di muta cum liquida (Pf. II p. 138, Index rerum notabilium s.v. Prosodiaca). Il gruppo m.c.l. per lo più rende lunga la vocale breve precedente. Tuttavia, quando una parola termina con vocale breve e la successiva inizia con m.c.l., può accadere che la vocale breve resti tale (correptio); ma 51 noti che, se la vocale breve in questione fa parte di un articolo, la correptio si verifica solo nella seconda sillaba di un biceps (cf.

p.es. frr. 163, 7 οὐδὲ τὸ γράμμα |, 174, 16 ἐετόργυντο tà rAicpio), mai nella prima (vd. il comm.

di Pf. al fr. inc. sed. 671). Molto rara è invece la

correptio davanti a m.c.l. all'interno della medesima parola: in questa edizione, cf. fr. 163, 4 | Ζῆν᾽] ᾿Ακραγαντῖνοι. Cf. anche i passi raccolti da Hopkinson nel comm. a Call. Cer. 35. 11.2.B.c. Correptio prima di nessi biconsonantici diversi da muta cum liquida (West, GM p. 18). Tra i frammenti di questa edizione, si riscontra un fenomeno prosodico molto raro. Il gruppo uv, impiegato all'inizio di una parola, assume valore monoconsonantico e perciò lascia breve la vocale del-

l'articolo ὃ che lo precede (correptio): fr. 157 | τὼς μὲν 6 Μνηςάρχειος (vd. il comm.

ad loc).

11.2.C. Allungamento (West, GM p. 157 5.) Neli componimenti di C. in distici elegiaci, è molto raro che una vocale breve posta in fine di parola si allunghi davanti a un vocabolo iniziante con una liquida o una nasale (in questa edizione si registrano alcune eccezioni:

cf. fr. 166, 11 ἐπὶ λαεςείοιο γέροντος | con il comm., frr. 184, 20 ὅτι ῥη[τ]ῆρας ἐκείνου |, 187, 6 | ὧς] δέ c’ ἐπὶ ῥήτρῃς): a maggior ragione, quindi, bisogna escludere che un simile allungamento si possa verificare all'interno della medesima parola (vd. il comm. al fr. 39). Inoltre, prima della dieresi del pentametro non si trova quasi mai una vocale breve che si allunga «per posizione»: in altre parole, se il primo colon del pentametro termina in vocale, questa vocale è quasi sempre lunga «per natura» (ma si riscontrano eccezioni, come nel nostro fr. 215, 3 -οἸτέρης οὔ ce yevdov[

60

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

v-v]uoti e negli Epp. VIII 4 e XLVIII 2 Pf. = HE 1308 e 1166). Νά. anche il comm. al fr. 148, 20. 11.2.D. Elisione (Maas, MG $$ 121, 139, West, GM pp. 153, 156, 158) L'elisione è piuttosto rara nei nomi, negli aggettivi e nei verbi. Per 1 nomi e gli aggettivi, l'elisione più frequente è quella di -« (cf. p.es. frr. 144, ὃ αἷμ᾽, 174, 50 μέγ᾽), ma nei nostri frammenti sono anche attestate quelle di -e (cf. fr. 192 ”ABönp’) e di -o (cf. frr. 174, 21 e 184, 3 τοῦτ᾽). Per i verbi, nei frammenti di questa edizione si riscontrano le elisioni di -£ (cf. fr. 149, vv. 10 fax’ e 13 ἥκατ᾽, frr. 196, 11 ἤλυθ᾽, 230, 6 ἔχ᾽ e forse fr. 178 ein’), di -a

(cf. fr. 174, 75 ξυγκραθέντ᾽, probabilmente fr. 148, 16 ἐξέρυς᾽ e forse fr. 148, 7 πωτηθεῖς᾽, di -o (cf. fr. 156, 19 λήςαθ᾽ e forse fr. 251, 5 x&ar’) e di -1 (cf. fr. 262, 2 ἴςθ᾽, a meno di non correggere in οἷςθ᾽). L'elisione è evitata nella cesura dell'esametro (ma vd. le eccezioni elencate da West, GM p. 153 n. 44; vd. anche gli app. ai frr. 143, 9 e 144, 3) e nella dieresi del pentametro (ma vd. le eccezioni raccolte da Pf. nel comm. al fr. inc. sed. 498; vd. anche i comm. ai nostri frr. 9, 22 e 134 e l'app. al nostro fr. 156, 23). Essa è bandita dai «ponti» di Hermann e di Naeke (vd. sopra II.1.A.c.vili.-ix.): nel fr.

149,9 ὃ δ᾽ ὅτ᾽ ἔκλυεν ny[mv |, l'elisione ὃ è’ (che sembra violare il «ponte di Hermann») è giustificata dal valore prepositivo del nesso ὁ è”. 11.2.E. Digamma (Maas, MG

$$ 132, 133)

In principio di parola un digamma che precede una vocale non ha quasi mai valore consonantico. All'interno di questa edizione, il raro fenomeno si

verifica nel fr. 166, 13 | not εἰδομένη (cf. anche i passi elencati nel comm. ad loc.). L'unico vocabolo nel quale il digamma iniziale funge quasi sempre da consonante è il pronome di terza persona ot è: in questa edizione, cf. fr.

149, vv. 15 6 οἱ μετὰ [xepleiv ξίκειτο | e 31 | ἄμφ[ιά] οἱ cıcöpnv [t]e, fr. 156, 20 πέμψε δέ o[1] τὸ[ν] ὀρῆα, tiev dé È bc ἕνα πηῶν (per un'eccezione, cf.fr. 4, 3 pJév οἱ Xüeoc γενες con il comm.). 11.2.F. Altri fenomeni prosodici (Lapp pp. 137 s., 144 s.) 11.2.F.a. Crasi. Ci sono vari esempi di crasi dopo l'articolo, kat e ὦ: vd.

il comm. al fr. 1, 32 οὑλ[αϊχύς. In questa edizione figura con ogni probabilità anche la crasi di δή: cf. fr. 254 δἤπειτα (vd. il comm. ad loc). 11.2.F.b. Sinizesi. La sinizesi è abbastanza frequente e può verificarsi sia nel princeps sia nel biceps. In questa edizione, per il princeps cf. fr. 163, 11

ὑμιέας,fr. 174, vv. 15 ᾿Αίδεω e 44 δοκέω, fr. 199, 1 θιεοί (con il comm.), frr. 207 Οἰεύδρεω, 215, 9 Movc&wv (è invece improbabile che θεῶν nel fr. 149, 8 rappresenti una sinizesi); per il biceps cf. frr. 165, 8 νυμφέων, 196, 3

ὑμέας, 213, 51 ἀδε[λφεαΐ e forsefr. 157 covoivéo (vd. il comm. ad loc). 11.2.F.c. Sinalefe. La sinalefe, che si verifica finora comparsa nei frammenti attribuibili agli quente nei giambi, ma si riscontra anche molto negativa un - negli esametri (cf.fr. 636 Pf., Ep.

sempre nel Aitia. Essa di rado - e VIII 5 Pf. =

princeps, non è è piuttosto fresempre dopo la HE 1309) e nei

INTRODUZIONE

61

pentametri (cf. Lav. 52 e forse Ep. XLI 4 Pf. = HE 1060).

11.2.F.d. Aferesi. L'aferesi è abbastanza comune nei giambi, ma molto rara (fatta eccezione per la particella pa=àpa) nelle opere in esametri e in distici elegiaci. Negli Aifia c'è un esempio di aferesi in un nome proprio: fr.

57 ΤάμμεωΞ᾽᾿Αθάμαντος. 11.2.F.e. Apocope.

Frequente è l'apocope delle preposizioni. In questa

edizione figurano le apocopi di ἀνά (fr. 184, 1 | ἂν v&poc), κατά (fr. 165, 51 κὰκ κεφ[α]λῆο) e παρά (frr. 151, 4 πὰρ peya[A-, 165, 4 [πὰ]ρ kavöveccı). Nel fr. 270, 2 si può congetturare la tmesi πὰρ ... ἦεν (vd. il comm. ad loc). III. Presentazione dell'opera III.1. Scelta e disposizione dei frammenti II.1.A. Frr. 143-187. Questi frammenti appartengono certamente o con ogni probabilità al terzo libro degli Aitia (vd. Introd. 1.1.). I frr. 143-156 si susseguono a partire dall'inizio del libro e spettano alla sua prima elegia. Il fr. 157 e il fr. 158, isolati l'uno dall'altro, sono disposti secondo l'ordine alfabetico delle fonti che li tramandano: ciascuno di essi potrebbe risalire al tratto di testo che si interponeva fra il primo componimento e il successivo insieme di carmi (che ha inizio con il fr. 159) o a un qualche luogo dei tre aitia sconosciuti che intercorrono tra 1 frr. 174 e 178. Dal fr. 159 al fr. 187,1 frammenti e gruppi di frammenti formano una sequenza continua di elegie, fino all'ultimo aition del libro. I carmi sono disposti in un ordine che rispecchia quello delle Diegeseis Mediolanenses, discostandosene solo nella serie dei frr. 182 + 183-185 + 186-187 (dove si è privilegiata la testimonianza del POxy. 2212): ho edito le singole Diegeseis di séguito alle relative elegie. Si osservi che, all'interno del terzo libro, questa edizione contiene quattro nuovi frammenti e un nuovo verso rispetto all'edizione di Pf. e al Supplementum

Hellenisticum (frr. 144,

161,

176,

177; fr. 175,

1). Si noti inoltre

che 1] fr. 76, 1 Pf. corrisponde qui al fr. 178. III.1.B. Frr. 188-215. Questi frammenti risalgono sicuramente o con un alto grado di verisimiglianza al quarto libro (vd. Introd. 1.2.). Dal fr. 188 al fr. 213, i frammenti e gruppi di frammenti formano una serie continua di elegie, estendendosi dal primo verso del libro fino al suo ultimo aition (è molto improbabile che tra il fr. 196 e 1 frr. 197-198 si interponesse un ulteriore carme). I componimenti sono disposti nell'ordine attestato dalle Diegeseis Mediolanenses: ho edito le singole Diegeseis di séguito alle relative elegie. Ho poi collocato 1] fr. 214, che appartiene sicuramente al libro quarto ma non si lascia attribuire a uno specifico carme con un sufficiente margine di probabilità. Si trova in ultimo il fr. 215, che tramanda parzialmente l'epilogo degli Aitia fino alla conclusione del libro. III.1.C. Frr. 216-251. Questo gruppo comprende frammenti di incerta sede all'interno degli Aitia, che forse appartengono al terzo o al quarto libro

62

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(si tratta soltanto di frustuli papiracei). I frr. 216-250 sembrano risalire al libro terzo, perché i papiri dai quali sono tramandati contengono - in altri frammenti - parti di quel libro: li si trova ordinati secondo la numerazione dei papiri di Ossirinco che li preservano. Il fr. 251 sarebbe attribuibile sia al terzo sia al quarto libro, in quanto è trasmesso da un papiro che contiene - in altri frammenti - parti di entrambi quei libri: un suo possibile aggancio contenutistico con il fr. 208 fa propendere per il libro quarto. II.1.D. Frr. 252-276. Questo gruppo include frammenti di incerta collocazione che forse spettano al terzo o al quarto libro degli Aitia: essi, cioè, potrebbero risalire a parti di quei libri il cui contenuto ci è noto, o comunque inserirsi con naturalezza nella seconda metà degli Aitia, perché trattano il tema - lì molto cospicuo - degli atleti olimpionici, soprattutto magnogreci. Sono frammenti di tradizione indiretta, isolati l'uno dall'altro e disposti secondo l'ordine alfabetico delle fonti. IILLE. Frr. 277-284. Questi frammenti di autore incerto potrebbero appartenere al terzo o al quarto libro degli Aitia callimachei per i motivi già indicati a proposito del gruppo precedente. Vengono tràditi per via indiretta indipendentemente l'uno dall'altro e sono disposti secondo l'ordine alfabetico delle fonti. HI.1.F. I frammenti esclusi. Gli ultimi tre gruppi di frammenti sono stati allestiti in base a un criterio di scelta necessariamente soggetto a errori: di certo essi comprendono materiale estraneo agli ultimi due libri degli Aitia e ancor più escludono frammenti che vi appartengono (ciò vale, con ogni probabilità, per i frr. inc. lib. Aet. 65-64, pubblicati nel precedente volume; si ricordi inoltre che ciascuno dei frr. inc. lib. Aet. 111-115, inseriti nel precedente volume, potrebbe rimontare a un qualsiasi libro degli Aitia). Senza dubbio, fra i numerosissimi fragmenta incertae sedis e incerti auctoris di Pf. (frr. 467-814) e 1 pochi fragmenta incertae sedis del Supplementum Hellenisticum (295-308) si celano altri passi che risalgono alla seconda metà dell'opera, ma noi non siamo in grado di identificarli come tali, perché non esistono nessi contenutistici evidenti fra di essi e ciò che sappiamo dei libri terzo e quarto degli Aitia. Comunque, in calce ai singoli frammenti o gruppi di frammenti dei primi tre gruppi (e nei luoghi corrispondenti del commento), ho segnalato ı frammenti pfeifferiani che, per il loro argomento, potrebbero spettare a quelle parti dell'opera. 111.2. Testo critico e commento Quest'opera è divisa in quattro sezioni: testo critico, traduzione, commento e indici. I criteri che presiedono alla traduzione e all'Index nominum et verborum sono indicati nelle apposite premesse. Segnalo qui le principali caratteristiche del testo critico e del commento. 111.2.A. Testo critico Ho studiato autopticamente tutti 1 papiri che tramandano 1 frammenti qui

INTRODUZIONE

63

editi. Ho esaminato: nell'Ottobre 1997 1 PST 1092 e 1218 presso la Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze; nel Maggio 1998 il PBerol. inv. 11629 A presso la Papyrussammlung degli Staatliche Museen a Berlino; nel Settembre 1998 ı numerosi papiri di Ossirinco presso l'Ashmolean Museum, Papyrology Rooms (ora Sackler Library, Papyrology Rooms) e (per il POxy. 1011) presso la Bodleian Library a Oxford; nel Giugno 1999 il PLille 76(d) + 78(abc) + 79 + 82 + 84 presso l'Institut de Papyrologie et d'Égyptologie, Université de Lille III; nel Settembre 1999 11 PMilVogliano 18 presso il Museo Egizio al Cairo; nel Maggio 2003 1 nuovi frammenti del medesimo papiro (PMilVogliano inv. 1006 + 28(b)) presso la sezione di Papirologia e Egittologia del Dipartimento di Scienze dell'Antichità dell'Università Statale di Milano; nel Giugno 2005 e nel Dicembre 2007 il PSI 1500 presso l'Istituto Papirologico "G. Vitelli" a Firenze. Fin dall'inizio della ricerca, ho avuto a disposizione le riproduzioni di tutti i papiri. Si è anche reso necessario ispezionare l'Etymologicum Genuinum, del quale sono comparse in tempi recenti edizioni parziali, ma manca ancora un'edizione completa. Ho perciò esaminato - di persona e sulle fotografie - i due manoscritti che tramandano il Genuinum, cioè il Vat. gr. 1818 (redazione A) e il Laur. gr. S. Marci 304 (redazione B), controllando 1 luo-

ghi desumibili dall'opera di Pfeiffer, che si riferiscono ai frammenti da me editi. L'indagine - che è confluita nel mio articolo compendiato come Massimilla (vd. le Abbreviazioni bibliografiche) -, oltre a introdurre qualche miglioramento nel testo di alcuni lemmi, ha rivelato lemmi sconosciuti della redazione A (li dove Pfeiffer era costretto a scrivere «de A non constat») e

ha chiarito la forma esatta di quei lemmi della redazione B che erano noti soltanto dall'inaffidabile edizione di E. Miller (Mélanges de littérature grecque, Paris 1868, pp. 1-318; sugli inconvenienti di quest'opera, rimando alle osservazioni di Hollis nella sua edizione dell'Ecale di C., p. 52). Talvolta, inoltre, ho potuto rilevare che A o B non riportano le citazioni callimachee attribuite loro da Pfeiffer. Più in generale, analizzando nel dettaglio tutti gli Etimologici, ho potuto constatare che, tra le fonti indicate da Pfeiffer, alcuni di essi erano erroneamente esclusi e altri erroneamente

in-

clusi. Per quanto concerne 1 papiri, l'impiego di microscopi, lenti di ingrandimento e (ove possibile) strumenti informatici mi ha permesso di ridurre 1] numero delle lettere integrate, sostituendo a esse le lettere contrassegnate dal punto di incertezza: di quest'ultimo ho fatto un uso frequente, anche quando il contesto non dava adito a dubbi di lettura. Nei frammenti già editi da Pfeiffer ho preferito accogliere nel testo un certo numero di integrazioni congetturali (seguendo l'esempio di quello studioso), piuttosto che relegarle nell'apparato critico come ho invece fatto nei frammenti derivanti dal Supplementum Hellenisticum (uniformandomi alla prassi più severa di Lloyd-

64

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Jones e Parsons): si ricordi comunque che, dato il carattere complesso e imprevedibile dello stile callimacheo, molti supplementi accolti nel testo hanno un valore puramente esemplificativo. Ogniqualvolta è possibile distinguere gli esametri dai pentametri - anche nei frammenti più lacunosi -, ho adottato la stampa alternata dei due tipi di verso, sfalsando 1 pentametri un po' a destra rispetto agli esametri. I frammenti hanno sia l'apparato delle fonti sia l'apparato critico: in entrambi, ho spesso riproposto verbatim lo splendido Latino di Pfeiffer e di Lloyd-Jones e Parsons. Nell'apparato delle fonti ho fornito riferimenti precisi alle migliori edizioni per le testimonianze di tradizione indiretta e, quando un frammento è trasmesso da più papiri, ho indicato dettagliatamente i versi nei quali cominciano e finiscono le singole intersezioni. Nell'apparato critico, quando ho dato conto di letture, integrazioni e congetture, mi sono sforzato di segnalare sempre le sedi dove gli studiosi le hanno proposte; quando un frammento è tramandato da diversi papiri, ho indicato le lettere contenute in ognuno di essi per ciascun verso. 111.2.B. Commento Ho

fatto confluire nel commento,

oltre alle nuove

acquisizioni, tutto il

ricchissimo materiale offerto dalle note commentarii instar di Pfeiffer e di Lloyd-Jones e Parsons. Ho premesso a ogni frammento e a ogni gruppo di frammenti un'esposizione sintetica dei contenuti. Oltre a commentare 1 singoli versi, ho cercato dov'era necessario - di fare il punto su questioni di carattere generale, dando anche conto delle principali posizioni della critica. Per orientarmi nella selva della letteratura su C., mi è stata di inestimabile aiuto la Nuova bibliografia callimachea di Luigi Lehnus. Oltre allo studio della ricezione callimachea dei modelli classici, particolarmente fruttuosa si è rivelata l'analisi dei rapporti fra 1 testi qui editi e la restante poesia ellenistica, ivi comprese le altre opere di C. Ho spinto la mia indagine sino alla fine dell'età antica, considerando i poeti sia greci sia launi.

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TESTO CRITICO

Conspectus librorum papyraceorum secundum ordinem temporum (siglorum papyrorum conspectum alphabeticum in indice fontium invenies) Pf. = Conspectus librorum papyraceorum secundum ordinem temporum, in R. Pfeiffer, Callimachus II (Oxford 1953) pp. IX-XXVI M-M =D. Marcotte - P. Mertens, Les papyrus de Callimaque, in M. Capasso - G. Messeri Savorelli - R. Pintaudi (edd.), Papyrologica Florentina XIX (Firenze 1990) pp. 409-427 Mass. = Conspectus librorum papyraceorum secundum ordinem temporum, in G. Massimilla,

Callimaco. Aitia, Libri primo e secondo (Pisa 1996), p. 53 sq.

MP = P. Mertens - R. A. Pack, Catalogue des papyrus littéraires grecs et latins, editio tertia (http://www2.ulg.ac.be/facph/services/cedopal/index.htm) LDAB = Leuven Database of Ancient Books (http://www.trismegistos.org/ldab/) CPP = Catalogue of Paraliterary Papyri (http://cpp.arts.kuleuven.be/) 1 (M-M=MP? 207.3, LDAB 527, CPP 171) PLille 76(d), 78(abc), 79, 82, 84, pap. saec. IIIII a.C.; Aer. II frr. 143.2-9, 148, 150-153; ed. C. Meillier, «CRIPEL» 4 (1976), pp. 261286 et 345 sq., denuo P. J. Parsons, «ZPE» 25 (1977), pp. 1-50; tabulae I-IV in «CRIPEL» 4, tabula II in E. G. Turner, «S&C» 4 (1980), tabulae I et II in B. Boyaval - C. Meillier,

Album des papyrus littéraires (Paris 1984), tabula LXXV in E. G. Turner, Greek Manuscripts of the Ancient World (London 1987), p. 127, tabula XLIX in G. Cavallo - H. Maehler, Hellenistic Bookhands

(Berlin - New York 2008), p. 84

2 (Pf. 1, M-M=MP* 214, LDAB 524) PSI 1092, pap. saec. I a.C.; Aer. III fr. 213.44-64; ed. G. Vitelli, «SIFC» NS 7 (1929), pp. 3-12 (= Vit.!) et Papiri della Società Italiana IX (Firenze 1929) pp. 148-152 (= Vit); tabula VI in PSI IX, tabula VIII in M. Norsa, La scrittura letteraria greca dal secolo IV a.C. all'VIII d.C. (Firenze 1939), tabula (ad volumi nis finem) in N. Marinone, Berenice da Callimaco a Catullo (Bologna 19972), tabula VI in G. Cavallo - E. Crisci - G. Messeri - R. Pintaudi (edd.), Papyrologica Florentina XXX (Firenze 1998) 3 (Pf. 6, M-M=MP3 207.4, LDAB 469) PSI 1218 + POxy. 2170, pap. saec. I-II p.C.; Aer. II frr. 148.21-34, 149, Aet. IV frr. 195, 196, 198, 199, fr. inc. lib. Aet. 251; PSI 1218 ed. G. Vitelli, «ASNP» S. II 3 (1934), pp. 7-12 (= Vit.!) et Papiri della Società Italiana XI (Firenze 1935) pp. 134-139 (= Vit), POxy. 2170 ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XVIII (London 1941) pp. 54-56; PSI 1218 frr. a+b denuo ed. E. Livrea, in R. Pintaudi (ed.), Miscellanea papyrologica (Firenze 1980), pp. 135-140 (= E. Livrea, Studia Hellenistica I, Firenze

1991, pp.

175-180);

tabula X in PSI XI (PSI

1218), tabula VIII in POxy. XVII

(POxy. 2170), tabula VIII in R. Pintaudi (ed.) Misc. Pap. (PSI 1218), tabulae III et IV in E. Livrea, Stud. Hell. II (PSI 1218) 4 (MP 211.11, LDAB 471, CPP 17) POxy. 4427, pap. saec. I-II p.C.; Aer. II fr. 174.11-15; ed. M. Richter - P. J. Parsons, The Oxyrhynchus Papyri LXIV (London 1997) pp. 114-116; tabula XI in POxy. LXIV 5 (Pf. 8, M-M=MP3 211, LDAB 470, CPP 188) PMilVogliano 18 (coll. Y, Z, I-VD, pap. saec. I-II p.C.; Diegeseis Mediolanenses ad Aet. III (frr. 159-162,

166-187) et Aet. IV; coll.

Z et I-VI ed. M. Norsa - G. Vitelli, Arzyrjesic di poemi di Callimaco in un papiro di Tebtynis (Firenze 1934), pp. 1-23, 33-41, denuo (novis fragmentis coll. Z et I-II additis) A. Vogliano, Papiri della R. Università di Milano 1 (1937, 19662) pp. 66-99, 114-131, 172 sq.;

68

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

col. Y et novum fragmentum col. Z ed. C. Gallazzi - L. Lehnus, «ZPE» 137 (2001), pp. 718; tabula II in «PRIMI» I? (coll. Z et I-VI), tabula I in «ZPE» 137 (coll. Y et Z aucta) 6 (Pf. 11, M-M=MP?

208, Mass. 9, LDAB

489) POxy. 2212 (frr. 1-18 et 20-27), pap. saec.

II p.C. ineuntis; Aer. II frr. 156.1-11, 184.1-21, 185, 186, frr. inc. lib. Aet. 216-234; ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XIX (London 1948) pp. 22-27 (cum Addendis p. 144); tabulae V et VI in POxy. XIX 7 (Pf. 12, M-M=MP? 212, LDAB 491) POxy. 2213, pap. saec. II p.C.; Aer. III frr. 174.5058, 180, 181, 183, 184.4-24, 187, frr. inc. lib. Aet.235-250; ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XIX (London 1948) pp. 28-35 (cum Addendis p. 144 sq.); tabulae V-VII in POxy. XIX 8 (Pf. 22, M-M=MP? 209, LDAB 490) POxy. 2169, pap. saec. II p.C. exeuntis; Aer. III fr. 156.8-25; ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XVII (London 1941) pp. 52-54; tabula VII in POxy. XVII,

tabula IXb in G. Cavallo, Ricerche

sulla maiuscola

biblica

(Firenze

1967) 9 (Pf. 23, M-M 207.2, MP3 207.2+207.21, LDAB 495) POxy.2173 + PSI 1500, pap. saec. I-II p.C.; Aet. III frr. 143, 144; POxy. 2173 ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XVII (London 1941) p. 66 sq., PSI 1500 ed. L. Ozbek - G. B. D'Alessio - G. Massimilla - G. Bastianini (= Bastianini!), «Comunicazioni dell'Istituto Papirologico "G. Vitelli"» 6 (2005), pp. 3-20 et (novo fragmento addito) G. Bastianini, Papiri della Società Italiana XV (Firenze 2008) pp. 177-182 (= Bastianini?); tabula VII in POxy. XVII (POxy. 2173), tabulae I et II in «Comunic. Ist. Vitelli» 6, tabula XXXV in PSI XV (PST 1500) 10 (Pf. 31, M-M=MP? 210, Mass. 23, LDAB 506) POxy. 2211 (fr. 1), cod. pap. saec. III p.C.; Aet. III frr. 162, 163, 165, 166; ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XIX (London

1948) pp. 15-21; tabulae III et IV in POxy. XIX 11 (Pf. 35, M-M=MP* 211.1, LDAB 514) POxy. 1011 (foll. 1 et 2 'verso', 1-10), cod. pap. saec.

IV

p.C.

exeuntis;

Aer.

III frr.

Oxyrhynchus Papyri VII (London (foll. 1 'recto' et 2 'verso')

174,

175,

Aet. IV

fr.

215;

ed.

A.

S.

Hunt,

The

1910) pp. 15-31, 60-69; tabulae II et IH in POxy. VII

12 (Pf. 32, M-M=MP? 201, Mass. 22, LDAB 518) PBerol. inv. 11629 A, cod. pap. saec. IVV p.C.; Aer.II frr. 154, 156.18-22; ed. U. von Wilamowitz-Moellendorff, «SPAW» (1914),

pp. 222-227; tabula I in «SPAW» (1914) ('recto'), tabula Xb in G. Cavallo - H. Maehler, Greek Bookhands of the Early Byzantine Period. A.D. 300-800 (London 1987), p. 29 13 (Pf. 37, M-M=MP* 186, LDAB 523, CPP 55) POxy. 2258 (B frr. 1 et 2; C frr. 1 et 2 verso", frr. inc. sed.8 et 12), cod. pap. saec. VI-VII p.C.; Aet.II frr. 149.4-6, 173, 174.3-6,

Aet. IV fr. 213.43-55 et 65-78 et 89-94 cum scholiis; ed. E. Lobel, The Oxyrhynchus Papyri XX (London 1952) pp. 69-71, 82-89, 92-98, 103 (cum Addendis pp. 104-107); tabulae XII-XV in POxy. XX, tabula XLVII in E. G. Turner, Greek Manuscripts of the Ancient World (London 19872), p. 84 sq., tabulae tres (ad voluminis finem) in N. Marinone, Berenice da Callimaco a Catullo (Bologna 1997), tabula I in M.-O. Goulet-Cazé (ed.), Le commentaire entre tradition et innovation (Paris 2000)

TESTO CRITICO

69

Etymologicorum codices laudati Etymologicum Genuinum (lemmata', quae ad fragmenta «SIFC» 91 5. III 16, 1998, pp. 159-170): A

Vat.

gr.

1818,

saec.

X-XI;

littera

e bis

apparet,

hic edita spectant, ipse edidi

primum

abbreviata

(AN),

deinde

plenius exscripta (AT) B

Laur. gr. δ. Marci 304, ann. 994

Etymologicum Gudianum:

d

Vat. Barb. gr. 70, saec. XI (additamenta varia = d?)

πῦον

Etymologicum Magnum: Dorv. Bodl.X 1. 1, 2, saec. XV Matr. N 21, saec. XV Marc. gr. 530, saec. XIII Par. gr. 2654, ann. 1273 Hauniensis reg. 414, saec. XV Escor. gr. II 11, saec. XIV

Etymologicum Symeonis: C E

Laur. gr. S. Marci 303, saec. XIII Parm. 2139, saec. XIV

F

Vind. phil. gr. 131, saec. XIV

V

Voss. gr. Q 20, saec. XIII

Sigla aßy 1...[ [...] [---] [By] ιαβγι

litterae incertae litterarum vestigia ambigua litterarum quae perierunt numerus (aestimatus, non exactus). [ |: una littera pertit; [ ] (sine puncto): aut una littera periit aut nıhil litterarum quae perierunt in Scholiis et Dieg. papyraceis numerus indefinitus litterae ab editoribus suppletae litterae in papyro deperditae, quae ex alio fonte supplentur

“aßy“ laßyl

litterae a librario additae litterae a librario deletae

(aßy) (αβγ) {aBy} n, ni, 0, oı

litterae per compendium scriptae litterae ab editoribus additae litterae ab editoribus deletae iota tum tantum adscripsi, cum subscripsi

in papyro

adscripsit ipse librarius; alibi

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AETIORUM

LIBER TERTIUS

143-156 (Victoria Berenices) 143 (383 Pf. + SH 254), initium libri

5

10

Ζηνί te καιὶ Neuen τι yapicrov Edvov ὀφείλω, γύμφα, κα[ειγνή]των ἱερὸν αἷμα θεῶν, nuleltepo [......] ev ἐπινίκιον ἵππωϊν. ἁρμοῖ γὰρ LAavaod γιῆς ἀπὸ Bovyevéoc εἰς Ἑλένης vnceîd]a καὶ εἰς Παλληνέα μάϊντιν, ποιμένα [φωκάων], χρύςεον ἦλθεν ἔπος, Εὐφητηϊάδ[αο παρ᾽ ἠρίον οὕνεκ Ὀφέλτου ἔθρεξαν προ[τέρω]ν οὔτινες ἡνιόχων ἄεθματι Al... |. πιμιδας, ἀλλὰ Ber diva ov ὡς ἀνέμων ιοὐδεὶς εἶδεν ἁματροχιάς

nnev n ποί

καὶ πάρος Ἄργει

KOLPOTOUC Tel

15

Κολχίδες ἢ Νείλω[ι λεπταλέους ἔξυςαν | cid via φαλιὸν τι αἰθιρον ἰηλεμίςεαι

. .Jox@v otel ..].v κόμα!

hl

Schol. in PLille 82 (= SH 255), de quibus accuratissime egit Pa. pp. 7-10, exarata sunt post

w 10bD............ ]...[-1 2 dl. 3-6) θυγάτηρ τῶ]ν θεῶν ἀδελφῶν, οἵ elia Πτοϊλεμαῖος καὶ ᾿Αρ]εινόη ὧν &vnyépeulov τὴν Bepelviknv. ἦν δὲ ér°] ἀληθείας θυγάτηρ Mlaya | τοῦ θείου τοῦ Ε]ὐεργέτου | (suppl. Pa. ap. Me.; 4: post von spatium vacuum) 4(1.9) ] I SODO. ..... Ἰλαντος υἱός | (post τος spatium vacuum; fort. Πρωτεὺς Πάλ]λαντος υἱός Me., ut Παλλῃηνεύς a Pallante ortum videretur; si ita, aut errat aut fabulam affert aliunde ignotam)

᾿Αρχέμορος ἐκαλεῖτο |---1........... 1 23)

.......... Jepov AYOVICUE

Inv οὔτινες &öpauovo.. [--

Le A

I

7 (1. 14 sq.)

8017......... Jew

Leve

] . [ Jev

........... ]

I

nv τῶν Tpote,, [---1

91

19-

Lei

Ἰυτων chart χλιᾶναι inno [1

Bacıkicenc ἅρμα ἧνιρχί--- (19: πρότ]ερον Me.; 20: ἦν vel ἢν vel ἣν, mox πρότεροίν vel προτέρωϊν Pa. ap. Me.; 21: fort. ὥςτε; 22: αὅματι pap. , litt. 8 supra è scripta; fort. ἵππων) 1 POxy.2173,1

Schol. (BCEQ; Callimachi versum om. D) Pind. Οἱ. VII 21 €, I p. 241.

28 Drachmann ἀμφοτέρους δὲ τοὺς ἀγῶνας τούτους (scil. Olymp. et Nem.) ἀνάπτει τῷ Διί, παρόοον καὶ ἡ Ὀλυμπία καὶ h Νεμέα Διός. καὶ ὁ Καλλίμαχός gner: ᾿Ζηνί-ὀφείλω᾽

]

72

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

2-9 POxy. 2173, 2-9 (litt. ante lacunam) + PLille 82, 2 (v. 2), 7 sq. (v. 3 sq.), 10 (v. 5), 12 sq. (v. 6 sq.), 16 (v. 8), 18 (v. 9) (litt. post lacunam)

4 Hesych. s.v. Bovyevéov, B 882, I p. 337 Latte τῶν μελιεςῶν. Καλλίμαχος ‘üpuotβουγενέος᾽. καὶ ἡ [καὶ ἢ cod.: ἡ δὲ Hecker p. 165] μέλιςεα Bovyevnc, ὅτι ἐκ βοείων ὀοςτέων γεννᾶται ΕἸ. Gen. A 5.ν. ἁρμοῖ [&puot AB] (a 1198, II p. 210. 4 LasserreLivadaras; p. 160 Massimilla; Callimachi versum om. Er. Gen. B, Et. Sym.

a 1391/94 II p.

210. 27 Lasserre-Livadaras) - τὸ ἀρτίως ἢ τὸ ἁρμοδίως [ἁρμωδίως A], οἷον ... [Call. Hec. fr. 274, 1 Pf.=45,1H.] Καλλίμαχος ‘&puot-Bovyevéoc’ [Καλλίμαχος-βουγενέος om. B]. εἴρηται δὲ [δὲ om. B] παρὰ τὸ ἄρω [ἄρω Er. Sym: ἀρῶ AB], τὸ ἁρμόζω, ἦρμαι, ἁρμοῖ. οὕτως Θέων ὁ τοῦ ᾿Αρτεμιδώρου [fr. 2 Guhl]. προςτίθηει δὲ ὅτι τὸ ἁρμοῖ [οὕτως-ἁρμοῖ om. Β] ψιλούμενον μὲν [μὲν A: δὲ Β] εημαίνει τὸ ἀρτίως [ςημαίνει τὸ ἀρτίως B: τὸ ἀρτίως εημαίνει A], δαευνόμενον δὲ τὸ ἁρμοδίως [hic desinit B]. Μεθόδιος (de Theone vd. adn. ad fr. 49 et Bongelli p. 287; de Callimachi fragmentis a Methodio allatis vd. Pf. ad

Hec. fr.274=45H.) Lasserre-Livadaras;

ΕἸ. Gen. A sv. ἁρμῷ [ἀρμῶι B: ἀρμῶ A] (a 1197, II p. 209. 12 p.

161

Massimilla;

cf. Et. M.

α

1822

codd.

DMPRS

II p. 209.

23

Lasserre-Livadaras, cod. Voss. gr. Q 20 in marg. ap. Lasserre-Livadaras ad Er. M.1.1., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233 ap. Lasserre-Livadaras ad Et. M. 1.1.; Callimachi versum om.

Et. Gen. B): muaiver δὲ τὸ ἀρτίως. cdv τῷ [τῷ compendio Β: τὸ A] τ γράφεται. ἔςτι γὰρ ὃ ἁρμός, τοῦ ἁρμοῦ, τῷ ἁρμῷ καὶ (tà) [addidi] λοιπά: αὕτη ἣ δοτικὴ μετῆλθεν εἰς ἐπιρρηματικὴν εὐνταξιν καὶ ἐφύλαξεν τὴν αὐτὴν γραφήν, οἷον ‘èpuò ἔγραψα᾽, ἀντὶ τοῦ ἀρτίως. 6 δὲ Τεχνικὸς [Herodian. TI. ὀρθογρ., Gramm. Gr. III 2, p. 478. 23 Lentz] λέγει ὅτι δείκνυει καὶ ἐκ τῶν Cvparovciov [Cupaxociov A] διὰ τοῦ ı γραφόμενον [γραφξἕ A]: ἐκεῖνοι γὰρ ἁρμοῖ λέγουει κατὰ ευετολὴν τοῦ ὦ εἰς τὸ 0 [οἱ B; hic desinit B], οἷον ὡς παρὰ Καλλιμάχῳ [Καλλιμάχῳ Er. M. cod. Voss. gr. Q 20 in marg., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233: Καλλιμάχου A] ‘èpuoî-Bovyevéoc?, ἀντὶ tod ἀρτίως. XoipoBocxéc 9 sq. Porphyr. Quaest. Hom. Il. p. 264. 15 Schrader in Schol. (B) Hom. Il. XXIII 422, IV p.

319. 32 Dindorf (V p. 434 Erbse in adn. ad Schol. 422 4) où dei Öucxepaivew, εἰ τῶν νῦν παιδευτῶν τοὺς πολλοὺς λανθάνει τινὰ τῶν ‘Ounpixôv, ὅπου καὶ τὸν δοκοῦντα εἶναι axpipéctarov καὶ πολυγράμματον Καλλίμαχον ἔλαθεν ἡ διαφορὰ τῆς ἁρματροχιᾶς ἣν ἔχει πρὸς τὴν χωρὶς τοῦ p λεγομένην ἁματροχιάν. Eri δὲ ἁματροχιὰ τὸ ἅμα τρέχειν καὶ μὴ ἀπολείπεεθαι, οἷον ὁμοδρομία τις odca ... ἁρματροχιὰ δὲ τῶν τροχῶν τὸ ἴχνος. ἄμφω δὲ παρ᾽ Ὁμήρῳ κεῖται ... τῇ ῥ᾽ εἶχεν Μενέλαος ἁματροχιὰς ἀλεείνων᾽ {Π. XXIII 422]... τὴν εὐνέμπτωειν τοῦ δρόμου φυλαττόμενος ... οὐδέ τι πολλή | γίγνετ᾽ ἐπιςςώτρων ἁρματροχιὴ κατόπιεθεν | ἐν λεπτῇ κονίῃ᾽ ΠΠ. XXIII 504-506] ... μὴ πολὺ yivecdaı τὸ τῶν ἐπιοςςώτρων ἴχνος ... ἀγνοήεας δὲ ταῦτα ὁ Καλλίμαχός gnew: ᾿ἀλλὰ-ἁματροχιάςο᾽. βούλεται μὲν γὰρ εἰπεῖν ὡς οὐδεὶς εἶδεν ἴχνος διὰ τὸ θεῖν ὡς ἀνέμους: ἁματροχιαὶ δὲ οὐ δηλοῦει τὰ ἴχνη τῶν θεόντων ἁρμάτων, ἀλλ᾽ αἱ μετὰ τοῦ p λεγόμεναι ἁρματροχιαί = Call. test.81 Pf. 10-19 POxy. 2173, 10-19 10 Er. M. codd. DPR s.v. ἁματροχιά (a 1028, I p. 387. 23 Lasserre-Livadaras, cod. Voss. gr.Q 20 in marg. s.v. ἁματροχιά ap. Lasserre-Livadaras ad Er. M.LI., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233 s.v. ἁματροχία ap. Lasserre-Livadaras ad Et. M. 11; νεωτέρων mentionem om. Et. Gen. A sv. ἁματροχιάς a 606 I p. 387. 11 Lasserre-Livadaras, Ef. Sym. s.v. ἁματροχιά o 739/39 Ip. 386. 23 Lasserre-Livadaras, Zonar. s.v. ἁματροχία p. 148 Tittm.; deest articulus in Ef. Gen. B): rap’ ‘Ouñpo ΠΙ. XXIII 422] À τῶν τροχῶν coykpovcic,

παρὰ τοῖς νεωτέροις ὁ τῶν τροχῶν ἐν γῇ τύπος. ἁματροχιά teri τὸ ἅμα τρέχειν καὶ un

TESTO CRITICO: AET. II FR. 143

73

ἀπολείπεεθαι, οἷον ὁμοδρομία τις οὖτα: τροχοὺς γὰρ τοὺς δρόμους ἔλεγον. ὀξυτονεῖται [ὀξυτονεῖται Er. Gen. A: ὀξύνεται cett.] δὲ ὡς φυταλιὰ καὶ δαούνεται ἡ ἄρχουεα. ἐν ὑπομνήματι Ἰλιάδος [ἐν- Ἰλιάδος Εἰ. Gen. A: om. cett.] (e Schol. Hom. Il. grammatici passim, vd. Reitzenstein, Etym. p. 19. 16 c. adn.) 16 Et. Gen. A s.v. ἰάλεμος (p. 161 Massimilla; cf. Et. M. p. 463. 5 Gaisf.; Callimachi versum om. Et. Gen. B, Et. Gud.p. 269. 3 Sturz, Gudiani cod. Sorb. atque Et. Sym. cod. V

ap. Gaisf. ad Et. M.11., Zonar. p. 1077 Tittm.) eyuatver τὸν θρῆνον ... crv [ἔετιν om. A] nur: ἐκ τούτου γίνεται [γίνεται A: γὰρ B] inoc: ἐκ τοῦ ἴηος γίνεται [γίνεται A: γὰρ B] ineuoc [ex ἴεμος correctum in B, littera n intra © et e addita] διὰ τοῦ e κατὰ τὴν napoññyovcov: εἶτα κατὰ τροπὴν τοῦ ἡ εἰς a ideuoc: καὶ πλεοναςμῷ τοῦ A ἰάλεμος ἐπὶ τοῦ θρήνου. καὶ ἰαλεμίςαι [ioAeuicor Sylburg: inAeuficor Ett.] ἐπὶ τοῦ θρηνῆεαι, ὡς παρὰ Καλλιμάχῳ, οἷον ᾿εἰδυϊαι-ἰηλεμίεαι᾽ [bc-inAguicor om. Β]. οὕτω Φιλόξενος Περὶ μονοουλλάβων [fr. 8 Theodoridis], ὥς gnew Ὠρίων [Περὶ- Ὠρίων om. B] (de Philoxeno Callimachum afferente vd. ad fr. 25, 15, de Orione vd. Pf. ad Hec. fr. 263 = 80 H.; vd. etiam Lentz ad Herodian. II. παθῶν, Gramm. Gr. III 2, p. 236. 16, Reitzenstein, Erym. p.

160. 24) Et. Gen. AB s.v. φαλακρόν (p. 161 Massimilla; Callimachi verba om. Er. Orion. s.v. φαλακρός p. 159. 19 Sturz, Er. Sym. cod. V s.v. φαλακρός ap. Gaisf. ad Et. M.

p. 787. 1, Et. M. s.v. φαλακρός 11): 6 τὸ ἄκρον ἔχων φαλόν, 6 ἐετι λευκόν. παρὰ τὸ φάος: φαλιὸν [ἰφάλιον Etf: correxi] γὰρ τὸ λευκόν: Καλλίμαχος ᾿εἰδυϊαι-ταῦρον᾽ Schol.

Ambr.

et Vat.

(KGUEA;

Callimachi

verba

om.

T)

Theocr.

IV

28

a, p.

143.

18

Wendel παλύνεται] μολύνεται, ὑπὸ εὐρῶτος λευκαίνεται. πάλην γὰρ ἔλεγον τὸ λεπτότατον τοῦ ἀλεύρου. παρὸ καὶ φαλιὸν [φάλιον codd.] λέγεται τὸ λευκόν - "eiövianταῦρον᾽

Hesych.

s.v. φαλιόν,

φαλιόπουν: λευκόπουν: φαλιοὶ

o 107, IV p. 229 Schmidt λαμπρόν

(cf. Hesych.

s.v.

[φαλαιοὶ cod.: corr. Sopingus] γὰρ οἱ [γὰρ οἱ cod.:

ταῦροι Schmidt] λευκομέτωποι, [Arcad.] De accent. (= Exc. ex Herodian. Pros.) p. 41. 4

Barker = p. 44. 18 Schmidt φαλιὸς è λευκομέτωπος ὡς τριεύλλαβον ὀξύνεται, Theognost. Canon. 308, Cramer, AO II p. 57. 32 τὰ διὰ τοῦ Aoc τριούλλαβα ὀξύτονα … οἷον ... φαλιό Suid. s.v. inAeuficon, 1 225, II p. 620. 17 Adler θρηνῆεαι (ex eodem fonte grammatico quo Ett., vd. supra)

1 nvıpap. suppl. LL Νεμέᾳ cod. Q xapicwv (ΕΟ: χάριειν B, ed. Rom. (em. Bentley) ὀφείλω BCQ: ὀφείλει E 2 vou@à pap. καἰειγνή]των e schol. ἀδελφῶν suppl. Pa. ap. Me. 3 init. suppl. L. posto punctum in linea prob. ] τεῶν (nisi ]. &@v = ςεαυτοῦ, cf. fr. inc. sed. 472 Pf.); fort. igitur ἡμ[έ]τερον [παιᾶνα], τεῶν κτλ. (L.J.-P.): [ποίημα] Barigazzi, Callimaco p. 267 adn. 1: [ξυνόν τε] D'Alessio (p. 447), longius spatio; haud probandum ὀφείλω(ν) (v. 1) ... [rpotnut] (v. 3) Luppe, Anfang fin. suppl. Me. 4 &puôt pap., ἀρμοὶ Er. Gen. utroque loco, sed vd. app. ad Hec. fr. 274, 1 Pf. = 45, 1 H. de

aspiratione suppl. L. ἅρμοι (ex ἅρμι correctum) γὰρ Δανάου (sic) γῆς ἐπὶ yevéoc (e yevéac correctum) Hesych. cod. ((Bovyyevéoc expleverat Musurus): ἀρμοὶ γὰρ Δαναῶν γῆς ἀπὸ Bovyevecéoc Et. Gen. s.v. ἁρμοῖ: ἀρμοὶ γὰρ Δαναῶν γῆ we ἀπὸ βουγενέοθαι Et. Gen. s.v. ἁρμῷ: ἁρμοῖ γὰρ Δαναῶν (Δαῶν codd. DPS) γῆ ὡς ἀπὸ βουγενέως Er. M. cod. Voss. gr. Ὁ 20 in marg., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233: Δαναοῦ γῆς ἀπὸ βουγενέος recte restituerat Latte p. 56 sq. (qui propter kat ἣ uéAicco glossam ipsam et explicationem uediccòv e Callimachi textu haustam esse optimo iure negaverat - ut olim F. W. Schneidewin, Eustathii prooemium

commentariorum Pindaricorum, Gottingae

1837, p. 39

-, at Bovyevéoc propter positionem vocabulorum non cum Δαναοῦ sed cum γῆς coniunxerat

74

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

et 'terram Argivam quae boves gignit' perverse interpretatus erat): Δαναοῦ γῆς ἐπὶ Bovyevéoc proposuerat Schneidewin 11., Bovyevéoc cum Δαναοῦ recte coniungens ('Danai ex Ius bovis genere): Δαναοῦ γῆς ἄπο Bovyevéoc Th. Bergk, Anthologia lyrica (Lipsiae

18682), p. 150 5 εἰς Ἕλενηί iam distinxerat L. cum PLille nondum nota esset, de ‘EXévn[c ... vficov vel sim. iam cogitaverat Pf. et Ἑλένη[ς νηεῖδα suppleverat Ba., Recensione ΠΡ. 80 uò[vtiv suppl. Lloyd-Jones ap. Me. 6 ποιμένα pap. suppl. LloydJones ap. Me. 7 ευφετιαδ pap., 1 in n correctum et { suprascr. m?; patronymicon Archemori recognovit Pf. ap. L. suppl. 1. Bousquet ap. Me. post npiovov et ante οφελτου

spatium vacuum

8 ἔθρεξαν pap.

cum PLille nondum nota esset, de προ[τέρων ...

ἡνιόχων iam cogitaverat Barigazzi, Epinicio p. 419, coll. Bacch. V 43-45 in comm. allato:

προ[τέρω]ν suppl. Lloyd-Jones ap. Me. (cf. etiam schol. ]epov et tpote . [): πρὸ [τεῶ]ν Me. et Barigazzi, Callimaco p. 269 οὔτινες vix intelligitur: οὔτινας optime coni. Kassel, Nachtrag fviogov coni. Ebert, Fr. 383 9 ἀεθματι pap. ]..: primo loco fort. e, c;

secundo e, c

χλι[ζαίνοντε]ς ἐπωμίδας optime suppl. et coni. Lloyd-Jones ap. Me. (cf.

schol.

et

χλιᾶναι

Apollonid.

Anth.

Pal.

IX

244,

4

=

GP

1212

in

comm.

allatum;

χλι[αίνοντες etiam Ma. ap. Trypanis (p. 232), Pf. et Ma. ap. Lehnus p. 26); quid autem

scripserit librarius, incertum: χλι[αίνοντε]ς επιμίδας (leg. ero-) spatio longius {r° &yxAilnvolv Barigazzi, Callimaco p. 269: χλι[ἤναε]αι Ebert, Fr. 383 (XAu[dvoc]ar iam Luppe p. 43), sed huiusmodi correptio - rarissima in Callimachi carminibus elegiacis (vd.

Introd.11.2.B.a.) - ante hexametri caesuram tolerari nequit: yAMi[fivai] ce) vel χλι[ῆναί] ς᾽ (ἐπ᾽ Li., Cavalli p. 200=188, sed vd. Introd.II.2.A.,I1.2.D. 9 sq. suppl. L. Callimachi verba recte interpretatus erat A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata (Berolini 1861), p. 153, male Schn. II p. 404 Oeovc@v coni. Fuhrer p. 233 11 possis ἢ

μὲν δὴ no (sic L.), ἠμὲν δή role (sic Pf., coll. Hom. Il. I 453* in comm. allato),à μὲν δὴ πο[λὺ (sic Pf.) etc. 12 apy£ı pap. 13 koipwlilrove i.e. καίρῳ τοὺς ml: καιρωτοὺς m? καιρωτοὺς τε[λαμῶνας e.g. Pf.: etiam καιρωτούς τ᾽ ἐ[ possis (vix καιρωτούς τε: vd. Introd. 11.1.A.c.1.): καιρωτοὺς τέ[χν- vel te[by- Thomas p. 106 sq. = 90 14 κολχίδες pap.

nex et corr. ml, ut videtur

vetào pap.

Tia rapoıkecin e.g. suppl. Pf. ap.

Lehnus p. 26 15 λέουςέξ pap. 16 suppl. L. []αϊφάλιον pap.: ταῦρον Ef. Gen. s.v. idAeuoc: εἰδύωναι φαλόων ταύρων Er. Gen. A εἰδυώναι (nullo accentu) φαλίων ταύρων Et. Gen. B s.v. φαλακρόν: ταῦρον Er. M.: ἣδὺ ἂν φάλιον Schol. Theocr. codd. KG: ἡδὺ ἀνάφαλον

εἰδυῖαι φάλιον s.v. φαλακρόν: εἰδυῖα φάλιον codd. UEA (inde

εἰδυῖαν I. Casaubonus, Theocriticarum lectionum libellus, Heidelbergae 1596, p. 42, coll.

Et.M.)

inAeuficor Er. Gen. Et. M. cod.



17 βομβ]ύκων Thomas p. 111 adn. 115=p.

98 adn. 115 ote[ cumL.J.-P. scripsi: te[ Pf. 18 ].:0 vel fort. e In POxy. 2173 v. 1 primus erat voluminis, id est carminis et Aetiorum libri tertii (cf. frr. 146-147).

Cum PLille 82 nondum

nota esset, Pf. vidit hoc carmen esse Nemeaeum

epini-

cium et monuit νύμφην, quam alloquitur Callimachus v. 2, ipsam victricem esse posse, fort. Berenicen (vd. adn. ad fr. eleg.388 Pf.)

144 (674 Pf. + novum)

LI

Ἰναχ[ίδα]ις κει

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 143-144

75

δωδι εἰκάκις TLEPL δίφρον ἐπήγαγεν ὄθματα {δίφρουτ

καὶ τί]. ᾿Αμυμών[η

5

κρή[ν]η καλὰ vaovca κ Spoulälcıv : Δαναοῦ del

Ἱππα[ςτ]ῆρ᾽ ἅτε τοῦτο gel

Αἴγυπτος γενεῆς αἷμ᾽ αἰ δηθάκι] μου τὸν Νεῖλοί κεῖνος ὃς ἐν Προίτου é[ ὡς Évenev: toi δ᾽ ἦχον |

10

venne vel ἐκ λαγόνων [.]. θερί ἔςταθεν ἤκου!

15

ovta. dl οὐκ ἐρέω |

αὔριον | εἰνρίζει |

ἀ]λλαποδί

20

ὄ]θμα xpıl

Jicopev: el locol

1-24 PSI 1500 (= PSI inv. 1923 (initia vv. 2-11, v. 12, initia v. 13 sq., vv. 15-24) + PSI inv.

2002 (v. 1, partes mediae vv. 2-11 et 13 sq., vd. Pernigotti p. 70); pap. coniunxit Bastia-

nini?)

3 Schol.(DEGO) Pind. Pyth. V 44 b, Πρ. 178. 15 Drachmann ποδαρκέων δωδεκαδρόμων τέμενος] ὅτι δὲ δωδεκάκις τρέχουει, μαρτυρεῖ [μαρτυρεῖ om. E] καὶ Καλλίμαχος: 'δωδεκάκις-δίφρου᾽ Schol. (BDEGOQ) Pind. Pyth.V 39, II p. 178. 2 Drachmann apiddpuatov] … φαεὶ δέ τινες ὅτι δώδεκα δρόμους ἀνύει τὸ τέλειον ἅρμα, τὸ δὲ πωλικὸν ὀκτώ. τοῦτο δὲ μαρτυρήςει καὶ ὁ Καλλίμαχος [φαεὶ-Καλλίμαχος Β: iisdem fere verbis DEGQ, qui hic desinunt] λέγων ᾿δωδεκάκις-δίφρου᾽ = fr. 674 Pf. 1].[: punctum in linea

2 ἵνα pap.

suppl. Bastianini? (de Tvaxiönc vel sim. iam cogi-

taverant Ozbek, D'Alessio, Massimilla, cum de litt. ἵνα

| tantum constaret)

3 Callimachi

fragmentum traditum in Schol. Pind. supra allatis hic suppleverunt D'Alessio et Massimilla,

cum de litt. δωδί tantum constaret κάκις pap. ἐπήγαγεν ὄθματα DEGQ: ἐεήγαγεν ὄθματα BS. περὶ voccav ἐεήγαγεν οἴματα δίφρου Heyne (coniectura x. voccav fort. recipienda est: vd. comm.): ὃ. περὶ Tölppovt échyæyev ἴθματα δίφρου I. G. Schneider, P. Buttmann

et Blomfield

Drachmann in ἴθματα δίφρου δ. περὶ δίφρον praef. p. XIV:

(p. 320)

(coniecturam

Schol. Pind., necnon Hecker, C.C. p. 132 ὅτ᾽ ἤγαγεν ὄθματα 8. περὶ τύμβον (vel

pessimam

{Quote

receperunt Boeckh

et

Hecker et Schn., vd. infra): δ. περὶ φιτρὸν ἐςήγαγεν (ad Hom. Π. XXIII 327-333, ubi ξύλον αὖον = vocco): νωμῶν Th. Bergk, Anthologia lyrica (Lipsiae 1868‘) περιδινέ᾽ ἐπήγαγεν ἴθματα δίφρου Schn. II p. 629

76

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(contra περιδινέ᾽ vd. Introd. IL.2.D.): omnia sana praeter δίφρου in fine existimavit Pf., qui pro hac 'dittographia' dativum participii desiderari censuit (prob. ‘ei qui currum duodecies

circumagit') et e.g. prop. è. περὶ δίφρον ἐπήγαγεν ὄθματ᾽ ἐλῶντι (Le. tmesis verbi περιελάω; Pf. ipse fassus est elisionem displicere): δ. περὶ voccav ἐπήγαγετ᾽ ὄθματα δίφρος e.g. D'Alessio, de Berenices curru oculos spectatorum (Inachidarum?, cf. v. 2) in se

convertente (displicet elisio): è. περὶ voccav ἐπήγαγεν ὄθματα δίφρῳ e.g. proposuerim 4 ].: prob. v (possis τ[ὸ]ν, t[i]y) suppl. Bastianini? ’Auvuov[n vel -nc, -n, nv); de fonte Amymona iam cogitaverat Pernigotti p. 70 καὶ t[i]v ᾿Αμυμώνη καὶ Φυεάδεια φίλη e.g. prop. Bastianini?, coll. fr. 165, 7 5 suppl. Bastianini? (de κρήνη, i.e. de fonte quodam Argivo, iam cogitaverant Ozbek, D'Alessio, Massimilla, cum de litt. xpn[ tantum constaret)

véov pap. κ[αὶ Αὐτομάτη te καὶ Ἵππη e.g. prop. Bastianini?, coll. fr. 165,8 6 suppl. Bastianini? (de δρωμ[- iam cogitaverat Massimilla, cum de litt. öpw .[ tantum constaret, coll. Euph. SH 429 I 25 δρωμῶοει et Hesych. s.v. ôpœou@) ειν-δαναοῦ pap. 7 fipàre pap. (nulla apostrophus post fip dinoscitur, sed h.l. papyrus derasa est)

suppl. Bastianini?

8 ou’ pap. ἀπ᾿ Apectopidéov e.g. D'Alessio ap. Bastianini?, coll. Call. Lav.34 9 δηθά pap. δηθάκι] suppl. Bastianini? praeeunte Ozbek veipap. Netào[v suppl. Bastianini?: τὸν Νεΐλο[ς excludi nequit (si τὸν est pron. relativum; cf. Nic. Ther. 566*) 10 xeipap. hasta deorsum infer. additum in marg. infer.

dc vel öc’ possis = eumportov pap. 11in marg. sin. signum ancorae (cum directa) respicit ad v. 12, per errorem in textu omissum et postea in marg. (vd. ad L.); de ancora vd. Bastianini? (p. 181) ἐνεπεν τοιδ Ὦχον pap. 12 add. m? (vd. ad v. 11): numerus litterarum quae initio perierunt valde incer-

tus 13 λαγό et θὲρ pap. de [κα]ὶ Bep[u- cogitat Bastianim? = 140ev- pap. 15 fort. αὐταὶ vel αὗται 17 dv pap. [: pes hastae verticalis 18 suppl. Ozbek ρί pap. .[: vestigium minimum in media linea 19 suppl. Ozbek ἄϊλλᾳ ποδί vel ἀ]λλὰ ποδί, nisi ἀ]λλ᾽ ἀπὸ δ vel ἀ]λλ᾽ ἀποδί (vd. comm.) supra ὃ inter lineas atramenti vestigium curvum, fort. correctura vel vl. 20 1] pap., ut videtur suppl. Ozbek (]θμὰ spatio non

convenit) 221 fort. o]icoyev vel tJicouev Bastianini? ἰθ[αγεν- e.g. D'Alessio

24 ἴθ pap.: iB[ua- vel iÖ[v- vel

Columnae partem superiorem habet POxy. 2173 (= fr. 143), inferiorem PSI 1500 (= fr. 144) ex eodem volumine; si terga inspicis, ambo ad eandem columnam pertinere veri simile est; si ita, aut frr. 143, 19 et 144, 1 vestigia tradunt ciusdem hexametri aut inter frr. 143 et

144 perierunt unus pentameter aut pauci versus: de PSI 1500 vd. Bastianini! (p. 19 sq.), ap. quem N. Gonis de POxy. 2173 disseruit. Frr. 143 et 144 ad eandem columnam respicere senserunt etiam D'Alessio (p. 12) et Massimilla (pp. 14-17), qui respexerunt rem narratam et computaverunt rattonem inter POxy. 2173 + PSI 1500 et columnas PLille 82 et 76d intercedentem (vd. app. ad fr. 148)

145 (54 Pf. = SH 266) [Prob.] in Verg. Georg. III 19 sq., III 2 p. 377. 5 Thilo-Hagen ‘lucos Molorchi’ Nemeam dicit. Molorchus fuit Herculis hospes, apud quem is diversatus est, cum proficisceretur ad leonem Nemeum

necandum.

qui cum immolaturus esset unicum arietem, quem habebat,

ut

Herculem liberalius acciperet, impetravit ab eo Hercules ut eum servaret, immolaturus vel victori tamquam deo vel victo et tinterfecto leone cum solutus esset} [interfecto Manibus. interfecto autem leone cum sopitus esset Keil advocans

sibi O. Jahn, «RhM»

NF 3

(1845),

p. 620 et Naeke p. 119] vel odio lunonis, ne ei caelestes honores contingerent, vel fatigatus,

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 144-147

77

experrectus mira damnum celeritate correxit, sumptaque apiacea [apiacea Jahn et Naeke LIL: picea codd.] corona, qua ornantur qui Nemea vincunt supervenit itaque et Molorcho paranti sacrificium Manibus, ubi et aries immolatus erat. inde Nemea instituta sunt: postea Archemori Manibus sunt renovata a septem viris, qui Thebas petebant. sed Molorchi mentio est apud Callimachum in Αἰτίων libris (vd. M. Gioseffi, commento a Virgilio dello Pseudo-Probo, Firenze-Milano 1991, p. 32 adn. 71)

Studi

sul

Ex subscriptione non pro certo habere licet Callimachum totam fabulam eodem modo narravisse quo scholiasta. Leo Nemeaeus et Apesas mons in Aetiorum tertio libro fuisse traduntur (frr. 146-147 infra); cum eis Molorchi hospitium (frr. 148-151) coniunctum esse veri simillimum est (de ariete cf. fort. fr. 151, 12-21 c. comm.). De corona apii (cf. fort. fr. 148, 16 c. comm.) et de ludis Nem. cf. fr. 156, 5 c. comm.

146 (55 Pf. = SH 267) τὸν μὲν APLCKLÖNC εὖνις ἀνῆκε Διός ”Apyoc ἔθειν, ἴδιόν περ ἐὸν λάχος, ἀλλὰ γενέθλῃ Ζηνὸς ὅπως «κοτίῃ τρηχὺς ἄεθλος ἔοι 1-3 Schol. (BD) Pind. Nem.X 1 c, ΠῚ p. 166. 4 Drachmann ”Apyoc Ἥρας δῶμα θεοπρεπές

(v. 2)] ὁ δὲ νοῦς ὅλος: τὴν τοῦ Δαναοῦ πόλιν καὶ τῶν πεντήκοντα θυγατέρων αὐτοῦ, φημὶ δὲ τὸ Ἄργος, ἥτις πόλις ᾿Αργείων οἰκητήριον θειωδέεοτατόν ἐςτι τῆς Ἥρας, duvicate, ὦ Χάριτες. fer δὲ παρὰ τὸ 'Ομηρικὸν ... [1 IV 51 sq.] καὶ Καλλίμαχος Tövἔοι 1 Et. Gen. A s.v. ἀριεοκυδής (o 1175, II p. 198. 15 Lasserre-Livadaras; p. 161 Massimilla; Callimachi versum om. Er. Gen. B, Et. Sym. a 1369/72 II p. 198. 26 Lasserre-Livadaras, Et.

M.a 1795 Πρ. 199. 33 Lasserre-Livadaras, Zonar. p. 298 Tittm.)- ἡ ἄγαν ὀργιζομένη, à [ἢ om. B] ὀργίλη: Καλλίμαχος ἐν τῷ [τῷ R. Reitzenstein, Inedita poetarum Graecorum fragmenta, I, Progr. Rostochii 1890/91, p. 12: τοῖς A] γ΄ τῶν Aitiov ‘rov-Awc’ [Καλλίμαχοες-Διός om. B]. παρὰ τὸ ἀρι τὸ [τὸ om. B] ἐπιτατικὸν ἐπίρρημα [grippnuo A: μόριον Β] καὶ τὸ εκύζεεθαι, ἣ ἄγαν εκυζομένη [litterae υζομένη aegre dispiciuntur in B]“κύζεεθαί

οἱ

εἰπὲ

[eine

ΑἹ

θεούς᾽

[Hom.

I.

XXIV

113;

hic

desinit

Β].

οὕτως

᾿Αρτεμίδωρος (ex Artemidori λέξεων libro, vd. Diehl, Hypomnema p. 410 adn. 94) 1 τὸ Et. Gen. εὔνης D, Et. Gen. comm.) γενέθλους D

2 ἔεθειν

0

ἐὸν codd.: ἑὸν Schn. II p. 375 (sed vd.

V. 1 tòv leonem Nemeaeum esse cognovit Wil., «SPAW» (1914), p. 225 (aper Erymanth., de quo cogitavit Tycho Mommsen, Parerga Pindarica, Progr. Moenofrancofurti 1877, p. 20, neque a Iunone missus est neque Argos vastavit). Propter rem narratam fragmentum hoc loco inseri potest: vd. Pa. p. 40

147 (56 Pf. = SH 267A) Steph. Byz. s.v. ’Artcoc, α 356, Ip. 224. 14 Billerbeck ὄρος τῆς Νεμέας, ὡς Πίνδαρος [fr. 295 Sn.-M.] καὶ Καλλίμαχος ἐν γ΄ [vd. ad fr. 59], ἀπὸ ᾿Αφέεαντος [᾿Απέεαντος Xylander] ἥρωος βαειλεύεαντος τῆς χώρας, À διὰ τὴν ἄφεειν τῶν ἁρμάτων À τοῦ λέοντος: ἐκεῖ γὰρ

78

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ἐκ τῆς ceAñvnc ἀφέθη (sequitur Jamb. fr. 223 Pf.) Rei narratae causa fragmentum hoc loco dubitanter posui: vd. Pa. p. 40 148 (176 Pf. + 372 Pf. + 590 Pf. + 711 Pf. + 722 Pf. + SH 257)

10

15

20

εἰς ἔριν nvix[ δῶκε Ταναγιραιπαιδὶ kacıyv[ntὡς ἀέκων € | ληιτιαὶ Ταφιοί λήνεα γουναί πωτηθεὶς av[ κυπωθεὶς ταί ὄφρα δεταις τόφρα δετω τόξα διαπληΐ καὶ μὲν οτοι [ «κῶλός μοι B_[ αὐλείην παρ᾽ ἄχίερδον ἐξέρυς᾽ ἑρμαίο[υ λέξας κεν τα | Oc φάτο τῶι δ᾽ ο | τὴν προτέρην [ δοῖεν, ὃ δ᾽ ἁρπακίτ-

αἰνολέων ἀπόλοιτο εἰ

καὶ θεὸς ἡ καινε[ 1, 1... μ.}

25

30

ὄφρα kenıo [| Jo ce πάλιν πυρὶ δεῖπινον ...]uevov δυερῇ μηδὲ cdv ἀξυλίῃ ._Ja νυν, δρεπάνου γὰρ ἀπευθέα τέρχνιεια | ... Ja πολύεσκαρθμος τοῦτον ἔχειν͵ .].| ] εκαὶ λίπτουεα δακεῖν κυτίςζοιο [χίμαιρα μηκ]άζει πυλέων ἐντὸς ἐερ[γομένη

..] δυςηβολίοιο τράγου [.].L.]...1 {πος ἀλγήςαι πᾶς κεν ἰδὼϊν

._]vopod ποίμνῃειν ἐελδί

....1, θαςοόντῶν ὡς περὶ [

..] οὐχ ὡς dEJovVauv ἵνᾳ [ 35

..Jeo.[...]. ςκληρὸν ἔτικίτrn Ἰεθαι πατερε, ἀμεμ, .[

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 147-148

l.......... E.. [ ]..v.ı..ıc. .ocava,

79

carmen an scholium? carmen an scholium?

ν͵

carmen an scholium?

l.......ıc”Apyocex.. 0

40

l......... te,

carmen an scholium?

|

carmen an scholium?

l........ xm...|

Schol. in PLille 76d et 79, de quibus accuratissime egit Pa. pp. 15-26 PLille 76d, col.I (= SH 256) nihil restat nisi rari linearum fines: e scholiis omnia (ad superiorem carminis locum spectantibus), nisi fortasse 11 et 13 2 ].vevve (].: fort. 0, ὦ; e.g.

ἐν Nelu£ou] Pa. ap. Me.) 3 | τιτουμεγαὰ (|: fort. hasta verticalis; e.g. | τὶ τοῦ ueyo(-)) 8].. 11] ρυξ (eg. κῆρυξ Me) 13 | evo (e.g. ἔκειτο Me) 17 ].0 (prob. το) 19 sq. desunt (vd. app. ad vv. 1-14 infra)

22]...v

... καταλέγει Me., non fuit ] πρόβατα λέγε) rau

331]

26]...

32]

καταλέγει (prob. ]

ὧν (primo locoa velA)

PLille 76d, col. II (= SH 258 pars prior); Scholia exarata sunt post vv.

35]x

6 (. 7) ἔρια

39 επι[-

τοὶ 13 (Il. 15-18) ava ὦ [---ἰκλινεν [---ἰ|ἰ Ταναγρα [---ἰ γὰρ τὸ τοξί--- (15: fort. ἀναπωτ[ηθ- adv. 7 Pa. p. 17; 15 sq: fort. [()έϊκλινεν ad v. 8, cf. paraphr. vet. Lyc. 1442 κυπώκεας δόμον] ταράξας, κλίνας τὸν οἶκον; 17: cf. v. 2; 18: cf. v. 11) 14?(1. 19 vel 20) [--1 14(1 21 sq.) τόξον er|[---I βατιή owov[---l (21: cf. v. 11; 22: vd. app. ad v. 13) 15 (1. 24) ἄχερδος [---I (e.g. [ἡ ἀγρία ἄπιος L.J.-P., coll. Schol. (ΒΟ) Hom. Od. XIV 10 in comm. ad v. 16 allato; de hoc scholio vd. McNamee, Sigla p. 76)

17 (1. 27) δῶρον επαί--

-l 19 (I. 30-33) ἐπεὶ nporel---| βούλεται e[---Iön τὸ εωιζί---ἰ εὐχήν [---1 21 (L 36) SewoXgo[v --1 23 (1 39) οὐκ ἠδυναζ(---Ἰ (e.g. οὐκ ἠδύναντο - ξυλίζεεθαι διὰ (vel goBoduevo1) τὸν | Pa. p. 19; scholium pergit in PLille 79; de 1. 40 sq. vd. app. ad v. 23) PLille 79 (= SH 258 pars altera); Scholia exarata sunt post vv. 23 (Il. 1-4; scholii initium

in PLille 764, col. Il 1. 39) λέοντα. ἐὰν odv a. [....]..[---1ò ΜόΪλ]ορκος λέγει͵ .[.]ev&o .{--ι| ὑποδέξαεθαι +. [. ]..... [---[ἰλίζεεθαι. ἐὰν δὲ ἀπὸ [---ἰ[((: ἃ [: prob. v; 2: MéXoproc,

non

(ut alibi) -xoc:

ita [Apollod.]

II 5,

1, 1 (semel),

Nonn.

Dion.

XVII

52,

Steph. Byz. s.v. Μολορκία (codd.), vd. comm. ad fr. 145 et Morgan pp. 533-535; 3: paenul-

timo loco fort. 1) 26 (ll. 8-11) «καρθμὸς κίνησις unva [---ἰθμον διὰ τὸν ἀγῶνα edckap[Ou- --- ἥππων εὐκείνητα τέρχνεία ---Ἰ δένδρον τι [ 18: ad fin. y vel 7, fort. ufiva π[ολύεκαρθμος Pa. p. 21 (vd. app. ad v. 26); 8 sq.: fort. [πολύςκαριθμον διὰ τὸν ἀγῶνα, 1.6. equorum vel athletorum certamen, Pa. 1.1.; 9 sq.: haec fort. ad Hom. Il. XII 31

ἐύεκαρθμοι φέρον ἵπποι, ubi Schol. D εὐκίνητοι; 10: cf. v. 25) 28 (IL. 14-16) &]nıdv uodce τῆς κυτίο[ου ---ἰ .].... Î αἷξ où δύναταίι ---ἰ 1. [ 1(15: propter spatium vacuum non fuit -n αἴξ; cf. v. 27 sq.) 29(L 18) |... evroc ôvcocuov [--1 (fort. Kepoevtoc) 30 (1.20 sq.) .]. τον τὸν ἀετὸν διαςκε [---1.].... [ 1(20:]..: primo loco < vel fort. £?, secundo a, A,x;ı.: 8 potius quam 0; . .ı8ov vel . .ıoov, fort. ]. 1@ov vel 7. .ı00v, vd. app. ad v. 30; e_ |: vestigium aut nullum aut minimum, e.g. 1, v; 21: fort. emo)

32 (1. 24) π]ερικαθημένων [ 1 341. 27-29) οὐ]χ οἷον [Üva τὸν Κρόνον £_[---I τε]κεῖν ἀλλὰ τῶι ὄντι λίθον ---| Ἰννηκέναι [ 1(27: vd. app. ad v. 33; 28: fort. ἀλλὰ τῶι ὄντι respicit ad v. 33 οὐχ ὡς bôé)ova uv; 28 sq.: λίθο[ν γεϊγεννηκέναι prop. Pa. p. 25; fort. 11. 33-35 (vv. 38-40 supra) ad scholia pertinent) 40 (1. 36 = SH 257,41). .]....71“Hpac &crw 7. [---ἰ (secundo loco fort. c, tertio fort. &; e.g. ὅτι Ἥρας ἐςτὶν τὸ ”Alpyoc Pa. p. 26; fort. 1. 37 sq. (v. 41 sq. supra) ad scholia pertinent)

80

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

1-20 PLille 76d, col. II, 1-6 (vv. 1-6), 8-14 (vv. 7-13), 19 vel 20 (v. 14), 23 (v. 15), 25 sq. (v. 16 sq.), 28 sq. (v. 18 sq.), 34 (v. 20)

2 fort. Steph. Byz. s.v. Τάναγρα, p. 601. 2 Meineke πόλις Βοιωτίας, ἣν “Ὅμηρος [Il. II 498] Γραῖαν καλεῖ διὰ τὸ πληείον εἶναι. ἐκαλεῖτο δὲ πρότερον Ποιμανδρία ... [Lyc. 326]. τὴν δὲ Γραῖαν ἔνιοι λέγεοθαι [λέγεεθαι ἘΝ: λέγουει Ald.] τὸ νῦν τῆς Θηβαϊκῆς καλούμενον ἕδος [(Péac) ἕδος Meineke], τινὲς δὲ τὴν Ταναγραίαν, ὧν εἷς ἐςτι καὶ Καλλίμαχος, ᾿Αριοτοτέλης [fr. 613 Rose] δὲ Γραῖαν [’A. γέραιαν R: ’A. δὲ γεγραίαν V] τὴν νῦν Ὦρωπόν = fr. 711 Pf. (huc traxit Li. ap. Me.) 5 Hesych. s.v. ληιτιαί, À 839, II p. 592 Latte ἡγεμονίαι, ετρατιαΐ, λαφυραγωγίαι (λαφυραγαγίαι, quod delet 6 fort. Varr. De ling. Lat. V Polybius [fr. 57, IV p. 522. rettulit Li. ap. Me.) 21-23 PLille 76d, col. II, 35

(fr. 176, 1-3 Pf.)

Latte, servandum esse videtur: vd. comm.; contulit Me.) 113, p. 35. 13 Goetz-Schoell = p. 74 Collart lana Graecum, ut 16 Büttner-Wobst] et Callimachus scribunt = fr. 722 Pf. (huc (v. 21), 37 (v. 22), 38+40+41 (v. 23) + POxy. 2170, fr.3, 1-3

23 Schol. (M) Aesch. Prom. 368, p. 128 Herington ποταμοὶ πυρὸς δάπτοντες ἀγρίαις γνάθοις... Cusehioc Aevpodc γύας (v. 368 sq.)] ἔνθεν ὁ Καλλίμαχος 'πυρὶ δεϊπνόν᾽ onct = fr. 590 Pf. (huc iam traxerat Pf.)

24-34 PLille 79, 5-7 (vv. 24-26), 12 sq. (v. 27 sq.), 17 (v. 29), 19 (v. 30), 22 sq. (v. 31 sq), 25 sq. (v. 33 sq.) + POxy. 2170, fr.3, 4-14 (= fr. 176, 4-14 Pf.) 25 Hesych. s.v. tépyvea, τ 565, IV p. 144 Schmidt φυτὰ νέα. À ἐντάφια (contulit Pa. p. 21) 33 fort. Suid. s.v. ὑδέουειν,υ 41, IV p. 634. 15 Adler &öovcı, Aéyovew = Hec.fr. 372 Pf., 151 H. (huc rettulit Me.)

35-42 PLille 79,30-35 (vv. 35-40), 37 sq. (v. 41 sq.) 1-42 quantum inter frr. 143 et 148 desit, nescimus: fort. vv. circ. 35; cum enim PLille columnae sint 38 vel 39 linearum, si PLille 82 (= fr. 143, 2-9 cum schol.) prima voluminis columna fuit (vd. adn. ad fr. 143), PLille 76d (col. I: vd. supra; col. II = fr. 148, 1-23 cum

schol.) tertia et quarta, tum inter fr. 143, 9 et fr. 148, dimidiam partem in scholiis fuisse dubitanter conicias: 45: horum decem (fr. 143, 10-19) supplet POxy. 2173: 148, 1 versus Callimachei circ. 35 (quorum 24 supplet

1 perierunt lineae circ. 90: harum perierunt ergo elegiae versus circ. desunt ergo inter fr. 143, 19 et fr. fr. 144, tres fr. 146) 1-14 Plille

76d media rima dirimitur, ita ut omnino desint lineae duae, col. I 19-20 (vd. supra) et co/. II 19-20 (post v. 13), quae aut carminis fuisse possunt aut scholiorum; in col. II, si recte

disticha restituta sunt (vv. 9-10, 11-12), alteruter pentameter fuit (1.e. v. 14), alter scholii linea (aut post v. 13 aut post v. 14 exarata) 1 fuir”, à (A, ἢ) vue, ἣν Av) ἱκ2.54. suppl. Me. 2 aut Tavayıpain (urbis nomen) aut Ταναγ[ραῖος vel Tavoyl[pain (gentile) 4e [:o,c 6 e Varronis loco supra allato J. Scaliger, Coniectanea in M. Terentium Varronem de lingua Latina (Parisiis 1565), p. 54 coniecerat τὸ Afjvoc fuisse in Call. (e Nonn. Dion. VI 146 in comm. allato nihil de Call. colligi posse recte monuerat Pf. contra Rauch (p. 51) et Schn. II p. 584) fort. γοῦν, youvalE-, yodvalccıw (cf. Theocr. XXIV 76 sq. in comm. allatum) 7 etiam πωτηθεῖς᾽ possis 8 Td[guoc Li., Recensione p. 593=291

9 sq. fort. δὲ ταῖς ... δὲ τῶ[τ, τώ, τῶ[ν, sed etiam alia possis (δετός, ἔτη) 11 dà Anl; SuarAnfec- etc. (hoc v.l. ap. Hom. Il. XXIII 120, Od. VIII 507*) 12 fort. καὶ μὲν 6 tor potius quam καί με vétor? [:γ.π 13 vix Ce®AX6curbs β [: fort. a, A fort. εκῶλός

TESTO CRITICO: AET. II FR. 148

81

μοι βᾳ[τιή te Pa. ap. Me; 'βατιή lemma ... ap. schol. (22), sed in commentario v. 14, non v. 13; ergo aut dormivit librarius, aut βατιή vv. et 13 et 14 adhibuit poeta, aut v. 13 aliter

supplendum est aut aliter disticha vv. 1-13 restituenda (si enim PLille 76d 11 (19) et (20) commentarium

habent

ambo,

excidit

'v.

14' noster;

tum

spectant; at tum v. 13 pentam.)' L.J.-P. (vd. comm.)

Me.

(15-22)

omnia

16 ἑρμαίρ[υ suppl. Li., Nota p. 8=162: ἕρμαιο[ν Durbec, Notes p. 164

κεν potius quam

obscurum 180

schol.

λέξαςκεν

ad v.

13

[5 ἄχ[ερδον e schol. suppl. Pa. ap.

. .[: primo loco è potius quam

e.g. τὰ ὃ [, τάδε [πάντα possis (Pa. p. 17)

a; secundo

17 λέξας vestigium

etiam de 'dono' dixit (cf. schol.)

[: hasta verticalis quam secat altera minor transversa, fort. deletionis nota

e.g. τῶι δ᾽

ὁ γέρων ἀνταπάμειπτο τάδε (cf. fr. 98, 8) suppl. Pa. p. 18 19 προτέρην scil. εὐχήν (cf. schol.) 20 ἁρπακΙ[τὴς Me. (cf. Ep. II 6 Pf. = HE 1208), vix ἂρ raî[da (vd. Introd. II.2.C.)

21 PLille litt. awoAewvonoA, POxy.litt. Arto e tradunt

PLille litt. ante [ ], POxy. litt. post [ ] tradunt

εἰ: fort. yvelc

ἢ ex εἰ corr. pap., ut videtur

22

[ ]: litt. aut

nullae aut almodum paucae ....[ (quattuor, haud quinque litterarum vestigia dispexi): primo loco aut v aut αἱ sim.; secundo fort. x, x, τῇ, v?; tertio fort. e |. .]: lacuna duas

litteras, haud unam, mihi capere videtur e.g. ἢ, à, 1; deinde καίνε[1], coive[1]v? (Pa. 11.) ]. .: oA, do, Au? 23. PLille litt. ante [ ] (ultimo loco vestigium correctum, incertum), POxy. litt. post [| | (usque ad pıöe) tradunt; in PLille marg. infer. manus altera addidit ogpaxert. | (1. 40) et Ἰπυριδε [{{. 41), fort. ut librarii in 1. 38 (i.e. v. 23 nostro) mendum corrigeret (lineae duae unius hexametri partes esse coni. Pa. ap. Me., vd. etiam Pa. pp. 14 et 19) Molorchus Herculi hospitium praebebit (cf. schol.) init. pro certo ὄφρα κ᾽ vel ὄφρα xe, de sequentibus non constat: fort. legendum ὄφρα ke πιώγω ce, corrigendum in

πιαίνω (Pa. p. 19); ariwco ce coni. Li., Polittico p. 23 sq. = 183 sq.

πυρίδειπνον Schol.

Aesch.: distinxerat Hecker, C.C. p. 145 (contra Bentl. errorem, qui Scho/. supra allatum ad

Aesch. Prom. 371 πυρπνόου ζάλης | rettulit et πυρίπνοον coniecit, J. Toup, Emendationes in Suidam et Hesychium, et alios lexicographos Graecos II, Oxonii 1790, p. 573 Schol. ad v. 368 sq. pertinere vidit et codd. lectionem defendit, 'Siciliam sive agrum Aetnaeum πυρίδειπνον,

ab igne

esum,

ambustum'

esse

explicans,

cf. Hor.

Carm.

III 4, 75

sq. in

comm. allatum; vocis compositae formam inauditam et vix credibilem in partes suas diremit Hecker 1.1. coll. Orac. 84, 6 sq. Parke-Wormell = ep. adesp. Anth. Pal. XIV 89, 1

sq. Μίλητε ... | noAAoicıv δεῖπνον ... γενήςῃ | (cf. e.g. Zenodot. v.l. Hom. 1.15 | oiovoict te δαῖτα); ad Aetnam rettulerat Hecker, ad Siciliam Schn. II p. 551, ad hominem quendam

dubitanter Pf. coll. e.g. Hom. //. XXIII 182 sq. in comm. allato: nunc videmus de ligno hic

agi) XLIV

πυρὶ deimvov [öndccac e.g. M. L. West ap. Pa. 11. (huic supplemento Nonn. Dion. 149 πυρὶ Βάκχον èrdcco* suffragari moneo) 24-42 post PLille 76d, col. II

subsequitur PLille 79 nullo intervallo: nam PLille 76d, col. II, 38+40+41 (= v. 23) idem est ac POxy.2170, fr.3,3 et PLille 79, 5 (= v. 24) idem est ac POxy. 2170, fr.3, 4: vd. Pa. p.

14 24 PLille litt. pevovòvepnundecvva$, POxy. litt. δυερημηδεουγαξυλΐἴῃ tradunt (ad fin. litt. n satis incerta) αὐό]μενον Li., Polittico p. 24 = 183 sq. et Barigazzi p. 2: ἁψάμενον D'Alessio (p. 452) 25 PLille litt. avvvaperovovyapore[ 1θε, POxy. litt. πανουγαραπευθεατερχνί |ακ tradunt τέρχνιεια suppletum e schol. ad ν. 26 et Hesychio supra allato init. e.g. οἷα τ]ὰ νῦν Lloyd-Jones et R. A. Stoneman ap. Pa. p. 21 (longius spatio), vel Spu]a νυν Pa. LI. aut post ἀπευθέα interpungas (scil. &cri) aut ad

fin. (e.g. τέρχνιειᾳ [θάλλει Pa. 11.) 26 PLille litt. απολυςκαρθμοοτουτοί ]εχει, POxy. litt. uoctovtovéyew[...]. tradunt fort. οἷα τ]ὰ νῦν (v. 25)... μῆν]α πολύεκαρθμος (cf. schol.) τοῦτον ἔχει N[eué]m Pa. 1.1. (verbum fuit ἔχω potius quam χέω), coll. schol. ἀγῶνα

82

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

27 PLille litt. .exaıdınrovcadoxeıvkvrı, POxy.litt. τουοαδακεινκυτί ‘]coio tradunt ].: Y vel τ vel fort. x velx (e.g. ἡ Sé] te vel ὁππό]τε Pa. p. 22, alterum spatio longius) xvrico1o firmatum, χίμαιρα suppletum (Pa. ap. Me.) e schol. ad v. 28 28 PLille litt. aleınvAewvevroceep, POxy. litt. eovevtoceep tradunt init. suppl. M. L. West ap. Pa. p.

22 (βληχ]άζει Pa. ap. Me., longius spatio)

fin. suppl. Pa. ap. Me.

29 PLille litt.

δυςηβολιοιοτραγουί,

||... POxy. litt. enBohMoiotpayoul ]. tradunt

|]. ..[: secundo

loco fort. e vel c

init. fort. οὐδὲ] A. W. Bulloch ap. Pa. p. 23

ποςαλγηςζαιπαοκενιδω, POxy. litt.

(POxy.)

τροεαλγηί

Jaırack tradunt

30 PLille litt.

1 : a, 6, À, 0 (PLille); B, à

de aquila est sermo (cf. schol.), unde τὸν] Διὸς &Aycar πᾶς κεν ἰδὼν ὧὐ-- prop.

Pa. ap. Me.; 'sed quid in fine v. 30 steterit, quid in initio schol. (20) - idem fort. locis ambobus - non perspeximus: nusquam occurrit ἔριθος cum iota brevi' L.J.-P. 31 PLille

litt. vouova[..]uvneweeXS, POxy. litt. μδυποιμνηϊει tradunt ad fin. ἐελδί[ομένῃει(ν) υ---- Pa. p. 24

ol. schol.

init. e.g. ἀλλὰ] vel οὐδὲ],

32 PLille litt. accovrovocrepr., POxy. litt. cc

Jcxe tradunt 7]: aut circuli pars (e.g. 0) aut trianguli (e.g. ©) ὧς περὶ fulcit optime θαςεόντων ὡς περὶ dfvcuevéov Lloyd-Jones ap. Pa. 1.1. (cf. fr. epic. adesp.

SH 923,3 c. comm.), ad init. fort. odpe]a vel sim. (subiectum ad v. 31) prop. Pa. 11. 33 PLille litt. ovxacvöouc| .]vwa . (ad fin. fort. wa, litteris una vel duabus suprascriptis), POxy. litt. ὡςυδί |ov tradunt ὕδους[ι]ν spatio in PLille convenit, vS[é]]ov[cw in POxy.:

illud per se acceptum, cf. Suid. s.v. 560, v 42, IV p. 634. 16 Adler τὸ ἄδω [καὶ λέγω add. F], Et. M. p. 776. 12 Gaisf.; huic suffragatur Callimachi fragmentum supra allatum (verbum ὑδέουειν Hecalae tribuunt propter Suidae testimonium e lege Heckeriana, sed vd. app. ad

fr.19,9) δά fin. fort. tva Κρ[όνον --οὐὐ--- (Kp[6vov suprascr.) Pa. ap. Me. coll. schol. ad v. 34 (etiam Call. ἴον. 53 ἵνα Κρόνος" conferri posse moneo) 34 PLille litt. eo |... .] .exinpoverik, POxy. litt. ck[ . .]po tradunt .[: fort. uvelv ].6: primo loco hasta verticalis; secundo c vel e, 9,0 de Crono et Rhea agitur (cf. schol.): e.g. θ]εὸν [Ῥείη

ςκληρὸν ἔτικ[τε v- vel cxAnpôv ἔτικ[τε ‘Pen Pa. p. 25 33 sq. τὸν δ᾽Ἶ (iam Pa. 1.1.) οὐχ ὡς DEE) ve uv tva K[pévov ἐξαπατήςῃ, | ἀλλ᾽ ἐτ]εὸν [Ῥείη ςκληρὸν ἔτικ[τε λίθον Li., Polittico p. 25=184 (cf. schol.; λίθον suppl. etiam Barigazzi p. 2) 36] :γ, π, τ (γὰρ, rap? Pa. 11.) male formatum)

B..[: primolocofort o 37 pe..: primo loco fort. 1, secundo fort. p (sed uw. [: primo loco fort. 1, secundo €, 0,0,c? 36 sq. -v] γὰρ ᾿Αργείων

οὐκέτι Bov[Aouevn | κλήζε]οθαι πατέρειρα dubitanter Pa. p. 26

39] : secundo loco θ,

0? v.:evelc potius quam θ velo 1: primo loco ζ vel È vel fort. τ; secundo ε vel 0 τς (1 εἰ vel di vel fort. una litt. 9 ava. : primo loco fort. & vel € (vel 19); secundo ε vel 0 τοὺς ἵξεις εἷος dv ἀξενί{ην dubitantissime Pa. 11. 40 post ”Apyoc fort. ev (schol.), sed

fort. εκηδί (pentam. ”Apyoc Exnöle »- Pa. 11)

prob. ac

ΑἹ sq. = SH 257,42 sq.

41 ante τε

42e.g.]....auov «rue vel κτήγεᾳ (pentam.?) Pa. p. 27

Si rem narratam respexeris, veri simile ducas fr. 148 (= PLille 76d+79) priorem carmi nis locum tenuisse quam frr. 150+151 (= PLille 78b+78a, eiusdem columnae caput et pedem ut videtur): vd. Pa. p. 39. De collocatione fr. 149 post fr. 148 (fort. nullo vel minimo intervallo) vd. adn. ad loc. Li., P.Oxy. 2463 pp. 143-145=199-202 suspicatus est POxy. 2463 - ubi post Amphitryonis mentionem fusius agitur de Poimandro, a quo Tanagram (cf. v. 2 supra) conditam esse constat, et de eius filio Ephippo ab ipso Poimandro interfecto - commentarium in fr. 148, 1-11 et versus aliquot praecedentes tradere. Li. etiam censuit verba νυκτελίοις ἱεροῖς ἐπικείμενος (scil. lapis, cuius ictu Poimander filium occidit) ap. Plut. Mor. 299 D (Quaest. Gr. 37) Callimachea esse (vd. iam A. D. Nock ap. W. R. Halliday, The Greek Questions of

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 148-149

83

Plutarch, Oxford 1928, p. 160) et ad hanc Aetiorum partem spectare. Adsensus est LloydJones, vd. Suppl. SH pp. 25-27. Sed nihil certi has coniecturas comprobat

149 (177 Pf. = SH 259)

Ivial

5

δίκρον. PUTPÔLV ἀειριαμένιη J'Aehal. 1] 'ιετέγος οὐδ᾽ Gcov ε | ] παιδὶ véuovca μέροο. ἀςτὴρ δ᾽ εὐτ᾽ ἄρ᾽ ἔμελλε βοῶν ἄπο μέεεαβα [λύεειν αὔλιοο]ι, ὃς δυθιμὴν eicıv ὕπ᾽ ἠελίου ] ὡς κεῖνος Ὀφιονίδηιει φαείν[ει θεῶν τοῖει παλαιοτέροιε,

10

15

Ἰτηρι θύρην ὁ δ᾽ ὅτ᾽ ἔκλυεν ἠχ[ήν, ὡς ὅτε τις βαλ]ιῆς Tax’ ἐπ᾽ οὖς ἐλάφου ςκ]ύμνος, [μέ]λλι[ε] μὲν öccov ἀκουέμεν, ἦκα δ᾽ ἔλ[εξεν: ‘oxAnpot, τί τό![δ᾽ αὖ γείτονες ἡμε[τ]έρων ἥκατ᾽ ἀποκνα [{|ςοντες, ἐπεὶ μάλα [γ7 οὔτι φέρε[ςθε; ξ]είνοις κωκυμιοὺς ἔπλαςεν ὕμμε θεός. d]c ἐνέπων τὸ ulev ἔργον. 6 οἱ μετὰ [χερ]εὶν ἔ[κειτο, ῥῖψ]εν, [&ἐπεὶ ςμιίνθοις κρυπτὸν ἔτευχε δόλον

ἐν! δ᾽ ἐιτίθιειτ miaylılıdeccıv ὀλέθρια δείλατα δοιταῖς

αἴϊρινοιίν ἐϊλλεβ[όρῳ] μιίγδα μιάλευρον ἑλών

20

Ivi. low of... 1. . θάνατον δὲ κάλυψε LIL LE, rem... Lo. 0cw ἔπι

25

ποιλλάκις LEIK λύχνου πῖον ἔλειξαν ἔαρ ἀλικαίαις ἀφύεαντες, ὅτ᾽ οὐκ ἐπὶ πῶμ[α τεθείη ἅλ]μαις καὶ φιάλῃς, ἢ ὁπότ᾽ ἐξ ἑτέρου ]ιλήῆεαὰ, ἄλοιο, τά τ᾽ ἀνέρος ἔργα πενιχροῦ

..ne.vl. élckiprolt

l....tw.....|

...Jovoy,,, crAnpoò cxi(u)m[teto λίδιος ὕπο

KA vo...

Li... ὠ!ρχήεαϊντο

βρέγματι καὶ κανιθῶν ἤλαςιαν ὦρον à ἄπο,

ἀλλὰ τόδ᾽ οἱ civrat Bpalxé]n ἔἕνι γυκτὶ TEA ecco

30

κύντατον, ὧι πλεῖςτἶον] μήνατο κεῖνος ἔπι, ἄμφιά] οἱ cicdpnv[τ]ε κακοὶ κίβιείν τε διέβρων’

35

τοῖει δὲ] διχθαδίους εὐτύκαςεν φονέας, ἱπόιν LT ἀνδίκτην. τε μάλ᾽ εἰδότα μιαικρὸν ἁλέιεθαι. LL]. ἀνέλυςε θύρην | ἐπεὶ θαμὰ uicyeto κεί[ν Juv ἐνναέτης

84

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

]. OL. οἱ. ]v llοὔτε KAeov[ Schol. in marg.

infer. POxy.

2258 B, fr. 2 ‘recto' ἀναΪκτορίῃει

(vocabulum

ante v. 2

usurpavit Callimachus): Bacı[Atkaic (suppl. L. coll. Hom. Od. XV 397 c. Schol.) ---I---]c. . μήτ[η]ρ .[ (Suppl. L.; fort. ad vv. 2 ἀειραμένη, 4 vépovco) ---1--- ..... B_a_[-----]. vol .].o81«( ). .[---| [vestigia 2 linearum, infra quas charta vacat] Schol. in marg. infer. POxy. 2258 B, fr. 2 'verso' (incertum

est, utrum

pertineant ad

praecedentis textus partem an ad ipsum fr. 149) ]...[ ---I--Awcerp[---H---]. poryaporde. [--I---] αὐτα"͵ ‚in[---P---Jevrarpexe | (e.g. ἐν τῷ τρέχει[ν Pf.) ---I---].v τονμςελ, [---ἰ---]

„Sevoc λα, [--4---] ivevpeye@n. [---ἰ---], ceo]. verrà [---Π0--- [{ν {Ἰχαλκε, [4]. [. ‚Jöpl.Javra|.].[ (e.g. xoAxe_[ ... [&v]Sp[Y]dvra L.) ---4--]..*[.].[.]ro6l--- (vd. in priore volumine /ntrod. 11.5.: Krevans, POxy. haec vestigia veri similius interpretata est quam Hollis, Composition, Li., P.Oxy. 2463, McNamee p. 207)

1-3 PSI 1218, fr. a, 1-3

2 Et. Gen. AB s.v. Sixpov καὶ δίκροον (p. 161 Massimilla; cf. Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M. p. 276. 23, Et. M.11.; Callimachi verba om. Zonar. p. 525 Tittm.): τὸ δίκρανον ξύλον: ᾿Αριςτοφάνης τήνδε [τήνδε Aristoph. codd.: τὴν δὲ A] μὲν Suepoîc ἐώθουν [ἐώθουν Aristoph. codd.: ἐῶθεν ΑἹ τὴν θεὸν κεκράγμαειν᾽ [Pax 637]. Καλλίμαχος [τήνδε-Καλλίμαχος om. B] ᾿δίκρον-ἀειραμένη᾽. εἴρηται [εὕρηται Β] ὅτι δίκαρόν τί [τί om. Β] &ctı, τὸ δύο [δύο B: β΄ A] ἄκρας καὶ οἷον κάρη ἔχον [ἔχων A], καὶ κατὰ ευγκοπὴν δίκρον ... ἐγὼ [prob. Herodian. II. παθῶν, Gramm. Gr. III 2, p. 385. 19 Lentz] δὲ νομίζω μᾶλλον παρὰ τὸ κέρας, ὃ δὴ καὶ xépoc, ἵν᾽ ἡ Sikepoc καὶ καθ᾽ ὑπέρθεειν δίκρεος καὶ τροπῇ τοῦ ε εἰς o [εἰς o om. A] δίκροος Er. Sym. cod. V s.v. μικκός [μίκκος Erymologica cett.] (ap. Gaisf. ad Et. M. p. 587. 42; cf. Et. M.LI.; Callimachi verba om. Er. Gen. ΑΒ u 247 Casadio «MCr» XV-XVII 1980-1982 p. 269 = G. Massimilla «SIFC» LXXXII 5. II 8

1990 p. 187, Zonar. p. 1361 Tittm.)- ... KoAAuayoc ... [fr. 55, 11, quod exhibent Er. Gen., Et. M, Zonar.: om. Et. Sym. cod. V] ... ‘ôikpoc’ τὸ φουρκίον ‘grpéc’ [δίκρος-φιτρός Er. Sym. cod. V: ᾿φιτρὸς δίκρος᾽ τὸ govpriov Et. M] 4-6 PSI 1218, fr. a, 4-6 + POxy. 2258 B, fr. 2 ‘recto!

6 Schol. (A) Hom. I. XI 62 al, III p. 136 Erbse οὔλιοι] ὅτι τινὲς γράφουειν ‘œblioc’, 6 ter Écrepoc [Écrepoc Et. Gen., Et. M., Eustath. IL infra IL: ξεπέριος A], πρὸς ὃν αὐλίζεται τὰ ζῷα. καὶ Καλλίμαχος ᾿δε-ἠελίου᾽. ἔετι δὲ féAdrwct [= ravctavroc?, fort. ἄλυπος cum Dindorf scr., sed nom. propr. ᾿Αλύπιος] καὶ εἰς ἀνάπαυειν ἄγων τὰ ζῷα (inde Et. Gen. AB s.v. οὔλιος ἀοτήρ ap. Erbse ad Schol. Hom. Il. LL = Et. M. p. 641. 8 Gaisf.; cf. Eustath. ad Hom. //. 1.1., p. 831. 10)

7-10 PSI 1218, fr. a, 7-10 11-20 PSI 1218, fr.b (init. vv.) + fr. a, 11-20 (fin. vv.)

17 Et. Gen. AB s.v. δέλεαρ (p. 162 Massimilla; cf. Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Er. M. Ὁ. 254. 47, Et. M.1.l., Zonar. p. 482 Tittm.; Callimachi versum om. Et. Orion. p. 45. 7 Sturz,

Et. Gud. ἃ p. 343. 14 de Stef.)- τὸ τῷ Aykicrpo περιτιθέμενον, ἐφ᾽ © τοὺς ἰχθύας ἀγρεύεεθαι, ἀφ᾽ [ἐφ᾽ B] οὗ καὶ δείλατα ὁ Καλλίμαχος [ἀφ᾿ -Καλλίμαχος etiam Et. Sym. cod. V: ἀφ᾽ οὗ καὶ δείλατος οἷον Zonar.: καλεῖται Et. M. (ubi καλ᾽ cod. D), i.e. compendium nominis male explicatum (de compendiorum confusione vd. ad fr. 32)] ᾿ἐν-δοιαῖςο᾽

TESTO CRITICO: AET. II FR. 149 18 Et. Gen. AB

s.v. μάλευρον

(u 21 Curiazi, «MCr»

XV-XVII,

85 1980-1982, p. 239; p. 162

Massimilla; cf. Zonar. p. 1334 Tittm.; Callimachi verba om. Et. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad

Et. M. p. 1629 in adn.): ἄλευρον καὶ πλεοναςμῷ τοῦ u [πλεοναςμῷ tod u Zonar.: om. cett.] uddAevpov: ἱμίγδα μάλευρον᾽ (glossa udAevpov etiam in Et. Sym., vd. Reitzenstein, Etym. p. 282, sed de textu nihil constat) 21-38 PSI 1218, fr. a, 21-38

22 Schol. Nic. AL. 87 Ὁ, p. 59 Geymonat eiap ἐλαίης] εἶαρ δὲ ὑπὸ τῶν νεωτέρων τὸ αἷμα, τὸ λίπος, ὡς καὶ Καλλίμαχος ἐλαίας τὸ αἷμα, τὸ ôadovt [δαῖον Hecker, C.C. p. 10, al.: fort. αὖον Pf., coll. Et. Gen. B s.v. ἔαρ p. 96 Miller = Et. M. p. 307. 43 Gaisf. παρὰ τὸ αὔω … ἐπὶ τοῦ αἵματος] eine: 'πολλάκις-ἔαρ᾽ Et. Gen. AUB s.v. ἐρῳδιός [ἐρωδιός A: ἐροωιδιός B] (p. 162 Massimilla; cf. Et. Gud. dp. 533. 3 de Stef. 'πῖον ἔλειξαν᾽, Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M. p. 380. 8 ('Cyrenaei' mentio), Et. Μ. 1.1. 'niov-£ap’, Callimachi

verba om. Et. Orion. p. 57. 12 Sturz, Zonar. p. 862 Tittm.): ἐτυμολογεῖται διαφόρως. οἱ μὲν παρὰ τὸ ἔαρ, τὸ εημαῖνον τὸ αἷμα, ὡς παρὰ [bc παρὰ B: ὥςπερ A] Κυρηναίῳ - αἷμα γὰρ λύχνου τὸ ἔλαιον - ἱπῖον-ἔαρ᾽ [πῖον-ἔαρ om. Et. Sym. cod. Ν] Schol. Aglai. SH 18, 19 (p. 8) εἰαριήτης] αἱματίτης λίθος. τὸ γὰρ ἔαρ Καλλίμαχος αἷμα λέγει, Νίκανδρος δὲ εἶαρ [Ther.701 coni., Αἱ. 87,314]

23 Schol. Ap. Rh. IV 1613-1616 Ὁ, p. 323. 21 Wendel κήτεος ἀλκαίη (v. 1614)] (n) [add. Keil] οὐρά. κυρίως ἀλκαία λέγεται i τοῦ λέοντος οὐρά, ἀπὸ τοῦ δι᾽ αὐτῆς εἰς ἀλκὴν τρέπεεθαι. καὶ ὁ ποιητὴς οὐρῇ δὲ πλευράς τε καὶ ἰςχία ἀμφοτέρωθεν | μαςτίεται᾽ [Hom. IH. XX 170 541. Καλλίμαχος δὲ κακῶς ἐπὶ τῶν μυῶν τέθεικεν - ᾿ἀλκαίαις ἀφύεαντες᾽ 28 Et. Gen. AB

s.v. ἄωρος (a 1544, Πρ. 371. 5 Lasserre-Livadaras; p. 163 Massimilla; cf.

Et. M.s.v. ἄωροι a 1511 codd. DMPRS II p. 98. 8 Lasserre-Livadaras; Callimachi versum om. Et. Sym. s.v. ἄωρος α 1691/99 II p. 370. 24 Lasserre-Livadaras, Zonar. s.v. ἄωρος p. 367 Tittm.): ' τοι [ τοι Hom. codd.: ἤτοι AB, Et. M. (vd. M. L. West, Homeri Ilias, p.

XVII] (πόδες εἰεὶ δυώδεκα πάντες ἄωροι᾽ [Hom. Od. XII 89], τοῦ dopoc) κατὰ πλεοναςμὸν τοῦ (a τοῦ) bpoc μηδὲν πλέον εημαίνοντος [πόδες-ἄωρος et a τοῦ suppl. Lasserre-Livadaras, coll. Et. M: ἤτοι κατὰ πλεοναςμὸν (And) τοῦ poc μηδὲν πλέον εἡμαῖνον Reitzenstein, Epigramm p. 152 adn. 3]. @poc γὰρ ὁ ὕπνος: Καλλίμαχος “βρέγματι-ἄπο᾽. καὶ Cargo, οἷον ᾿ὀφθάλμοις [ὀφθαλμοῖς ΑἹ δὲ μέλαις νύκτος [νυκτὸς A] ἄωρος᾽ [fr. 151 Voigt = C. Calame, Etymologicum Genuinum. Les citations de poètes

lyriques, Roma 1970, nr. 31 p. 19; καὶ-ἄωρος om. B] ... Καλλίμαχος [fr. dub. 808 PÉ.] ... οὕτως Ἐπαφρόδιτος [Ἐπαφροδίτιδος A; hic desinit B] ἐν ὑπομνήματι τοῦ μ΄ τῆς Ὀδυεςοείας

[fr. 44 Braswell-Billerbeck;

vd. F. Montana,

«MH»

65 (2008), pp. 93-96]

(de

Epaphrodito vd. adn. post fr. 62)

33 Poll. X 156, II p. 236. 19 Bethe μυάγρα ... ᾿Αριοτοφάνης ... ἐν δὲ Πλούτῳ [fort. 815] inov τὴν μυάγραν καλεῖ. καὶ Καλλίμαχος δὲ ἔφη: ἽἹἵπον-ἁλέεοθαι᾽, ὡς καὶ τὸν ἀνδίκτην ὄντα εἶδος μυάγρας Et. Gen. ΑΒ s.v. ἀνδίκτης [litterae ἀνδί aegre dispiciuntur in B] (o 820, II p. 36. 8 Lasserre-Livadaras; p. 164 Massimilla; cf. Et. M. a 1327 codd. DMPRS

II

p. 37. 24 Lasserre-Livadaras, cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233 ap. Lasserre-Livadaras ad Et. M.11.; Callimachi verba om. Et. Sym. a 990/89 II p. 36. 25 Lasserre-Livadaras, Zonar.

p. 170 Tittm.)* εἶδος παγίδος: ᾿ἀνδίκτην-ἁλέοθαι᾽. παρὰ τὸ δικεῖν [δικεῖν Pf.: dikew Ett], τὸ βάλλειν

[verba δίκειν τὸ et littera βὶ aegre dispiciuntur in B], ἐξ οὗ

᾿δίκετε

(πεδόςε) [δίκετε πεδόεςε Eur. codd.: δίκεται ΑΒ] τρομερὰ couota’ Εὐριπίδης [Bacch. 600]. καὶ ἄνδικε ἀνάρριψον [καὶ-ἀνάρριψον Εἰ. M, cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233: om. cett.] Hesych. s.v. ἀνδίκτης, α 4708, I p. 164 Latte τὸ &vappınröuevov τῆς

86

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

μυάγρας ξύλον L.J.-P. praestiterunt textus recensionem, quam Li. statuerat Gen. A, Et. Sym.

cod. V, Et. M.

(emendaverat I. Casaubonus,

2 suppl. Vit.

φίλτρον Er.

Theocriticarum

lectionum

libellus, Heidelbergae 1596, p. 45 sq.): ξύλον Et. Gen.B hexametri anonymi fragmentum a Schol. Aristoph. Pac. 637 allatum, 1.e. (Call.) fr. inc. auct. 785 Pf., neque in pentametrum redigendum neque cum hoc loco confundendum est; aut Callimachus ipse sua verba variavit aut imitator quidam —3]...1cumLi. scripsi: | ἐπὶ Pf. 4 PSI litt. omnes, quae leguntur, POxy. litt. veuo tradunt ρος" PST 5 PSI tt. omnes, quae leguntur, POxy. litt.

ρεμελλεβ tradunt

ἀετὴρ εὖτ᾽ et λύειν suppl. Vit.?, δ᾽ propter spatium et λύςειν Pf., cum

semper fere inf. fut. in Call., utique in locis 'epicis' 6 PS/litt. νειεινυπηελίου, POxy.litt. unviciu (1e. (e)icı uler’, vd. infra) tradunt suppl. Vit., αὔλιος suppleverat Blomfield (p.

314) ex Ap. Rh. IV 1630 in comm. allato εἰεινυπ PSE eicw ὕπ᾽ 1.6. ὑπὸ δυθμὴν Pf. (π᾿ ἠελίου non recte Vit.): eicı pet? POxy. (ubi (ε)ῖαι μ[ετ᾽, Schol. Hom. (eicı ét’ i.e. μετὰ δυθμὴν)͵ 7 init. [ἐννύχιος δ᾽ suppl. Vit? (non recte: vd. comm.) oœeto pap. fin. suppl. Vit?

8 θεῶν 'vocab. iamb.' ante diaeres. pentam. (vd. Introd.11.1.B.a.iii.) fort.

h.l. excusari conexu verborum, ut e.g. γαίης νέρθε] θεῶν (οἱ ἔνερθε θεοί Hom. Il. XIV 274) susp. Pf.; vix θεῶν per synizesin, ut fr. 199, 1 θεοί (vd. Introd. IL.1.B.a.ii., II.2.F.b.)

9 init. e.g. ξῦεέ τι δὴ κνηο]τῆρι tempt. Pf.

nv°oöötex pap.

pro οδοτ᾽ ὁπότ᾽ vel ὁκότ᾽

coni. Vit. ad elisionem in quarto trochaeo vitandam (vd. Introd. II.2.D.), sed elisio 'nexu praepositivo' è è’ excusatur finem suppl. Vit.; si accentus vestigia supra litt. n, fort. ñx[ov

vel ἤχ[ου 10 ].: hasta verticalis, 1 esse videtur, vix p: βαλ]ιῆς Ma. ap. Vit.? (ὡς ὅτε τις Ba., Callimachea p. 241; ad βαληιῆς ... ἐλάφου conferri posse moneo Leonid. Alex. Anth. Pal. VI 326, 4= [ΟΕ 1883 βαλιαῖς ... ἐλάφοις): ὀκνη]ρῆς Vit. (adsentitur Li., qui Inpfic dispicere sibi visus est et ὡς ὁπότ᾽ ὀκν]ηρῆς suppl.) |] ἢεξιαχεπ᾽ους pap.: ἴαχε ποὺς Vit. ἴαχ᾽ En’ οὖς Pf.; post x supra lin. non acc. gravis, sed elisio, ut vv. 17,29 20 contra Vit. fr. b hic inserendum esse censuit Pf., cf. imprimis vv. 14, 16, 17

1111

cx]éuvoc dubitanter suppl. PÎ., qui supplementum suum in textum non recepit (. . ]vuvo .

scribens) [μέ]λλι[ε] μὲν legit et suppl. Li., coll. Hom. Il. XIV 125, Od. IV 94 (vd. comm.): |. .].![.JuevPf. #A[e6ev suppl. Ma., Recensione ΠΡ. 165 12 potius οἰτίτό quam οἰτίπό pap. (tertius accentus incertus): τόϊ[δ᾽ suppl. Pf. (aut zol[t’, quod in textum recepit) ἄυ pap. ἥἧμεϊτ] cum Li. scripsi: Auer Pf. potius ep (Vit., Li.) quam epo (hoc in textum recepit Pf.)

13 “kot Vit., sed dexteram partem litt. n in pap. exstare vidit

Pf. (de verbi ἥκατε forma vd. comm.)

]cov et o supra α pap.: érokval[i]covtec suppl. Pf.

(Groxvatlcoviec scripsit Li.) inter μάλα (pap.) et 6v (pap.) nil nisi y suppleri potest propter spatium (Pf.) @épo[vtec dubitanter suppleverat Pf. (qui ad finem o vel @ (2), non £ dispexit): gépe[c8e praetulit Li., quod legi posse mihi videtur: φέρο[ιθε D'Alessio (p. 457), cui adsentitur Durbec (p. 53) 14 init. suppl. Pf. ( Jeivoic vel voro Vit?) κώκυ pap.: κωκυμιούς disp. Pf. (vd. comm.) vue altera litt. u suprascripta et O£oc* pap. 15 ölc

évérov suppl. Ma., Recensione II p. 165 τὸ I[u]èv suppl. L. ap. Vit? (μὲν cum Li. scripsi) ooı νεῖ οθι pap. ad fin. [yep]civ ἔ[κειτο suppl. Ma. LI, in textum recepit Pf. (] .: ligamenti vestigium in summa linea, cum litt. c congruens; Jovel legerat Vit.; |... .].ıwe scripsit Li.), cf. [Theocr.] XXV 2 in comm. ad v. 15 sq. allatum [16 piw]ev e.g. suppl. L.

ap. Pf., fort. longius spatio (Pilwev scripsit Li.): fix]ev (scil. ἐκ χειρῶν, cf. Hom. IZ. XVII 299, Od. XXII 84) Pf., fort. brevius [|ςεὶ Vit., sed post lacunam non c sed dextera pars rotunda litt. x: suppl. Pf. culivBotc disp. L. et Pf. ap. Ma., Recensione I p. 165 (cui pap.)

TESTO CRITICO: AET. II FR. 149 κ[ρ]υπτὸν scripsit Li.

ad fin. fort. - pap. (Li)

17 suppl. Vit.

87 init. vestigia litt. fr. b, 7

optime quadrant: [δ᾽εἰ, non δὲ et ultima litt. y, non € (P£) ἐν δ᾽ ἐτίθει Er. Gen. B, Et. M: ἐν δὲ τίθει Er. Sym. cod. V: ἐν δετίθει Er. Gen. A: ἐνδιετέθη Zonar. én et scripsit Li. rayidecıv Zonar. πιαγιίδεοοιν scripserunt Pf., Li. δειδαταὰ litt. À suprascr. pap.: δείλατε Et. Gen. A intra δείλατα et Soraîc librarius Et. Gen. B per errorem scripserat δειλαῖς, quod ipse delevit 18 at]pivol[v ἐ]λλεβ[όρῳ] legit et suppl. Li: . .].w.[. ]l εἰ ..] Pf. μιίγδα μιάλευρον suppl. Pf. e Zonar. supra allato (μι iyda: cum Li. scripsi: μίιγδα Pf.; iam ἄλευρον Vit.!, u]aAevpov Vit?) uydokevpov nullo accentu Et. Gen. A propter Phot. Lex. s.v. μάλευρον, p 67, II p. 535 Theodoridis τὸ ἄλευρον. ᾿Αχαιός (TrGF 20 F 51), verba ab Zonara allata Achaei esse coni. G. Hermann;

Th. Bergk, Poetae Lyrici

Graeci III* (Lipsiae 1882) p. 175 pro ᾿Αχαιός coni. ᾿Αλκαῖος (fr. 70 = fr. 127 Diehl = fr. inc. auct. 217 Lobel; fragmentum omittunt Lobel-Page et Voigt) et μίγδα μαλεύρῳ coll. Theocr. XV 115 sq. in comm. allato; verba poetae anonymi Callimachi esse vidit Pf., qui monuit ea optime et ad spatium et ad sensum quadrare ελών pap. 19 [Ἰὼ cum Li. scripsi: [.].!oPf. «.:forl.t |]. .: priore loco vestigium infra lineam; altero vestigium (fort. angulus) in linea suppl. Pf. coll. 'dolo Promethei' Hes. Theog. 538-541 (vd. comm.)

20 ..].x.![.].[...yeın. cum Li. scripsi (ante x fort. α, post x fort. τ, post ἡ fort. hasta verticalis): . .].I[..... Jyeua Pf.

7] ας vel ] «y Pf. (7. Αγ in textum recepit Li.; ante « fort.

A, μι x) de tmesi &ywcıv ἔπι cogitavit Pf. in indice vocabulorum 21 v[. lc kipxo[u legit et suppl. Li. (de κίρκ- iam cogitavit Pf.): .{..]cxi...[. Pf. xippap. post κίρκο[ι recensionem meam dedi (prob. ‘] pap.; ante τι fort. e; post τι pars superior litterae rotundae et fort. pars inferior litterae rotundae): 1 . on

(cum vestigiis non congruit) 22 suppl. Vit. πολλάκι δ᾽ ἐκ Schol. Nic. Myvov Schol. Nic. cod. v et Ald. πεῖονελιξαν pap.: πῖον ἔλειξεν Schol. Nic. codd. G!Y: πῖον ἔληξαν codd. BRv et Ald.: τὶ ἔλειξαν Et. Gen., Et. M: τι ἔλεξεν Et. Gud. εἶαρ Schol.Nic. (ἔαρ Ald.)

in Er. M. loco supra laudato recte 'mures' intellexerat Sylburg (p. 797 editionis a.

1816) 23init suppl. L. ap. Vit? et Diehl, Kallimachos p. 473 κάι pap.: ἀλκαίας Schol. Ap. Rh. &odcca Schol. Ap. Rh. cod. L: &gäccovP fin. e.g. suppl. A. Körte ap. Diehl, Kallimachos p. 473 adn. 2 (τεθὲν τὸ πῶμα Babr. LVII 8): πώμ[ατ᾽ ἔκειτο Vit? πῶμα scripsit Li.

..rot’Pf.

24 GA porc καὶ φιάλῃς, ἢ ὁπότ᾽ legit et suppl. Li.: _. |uauc και, An

dA et ὁπότ pap. (spiritum dispexit Li.)

(de &]ıA cogitavit Pf.)

1

25°] À pap., ante À hasta verticalis

= ]rAnea, . Ao ego: „].Anc... .Ao1o Pf.: εἸύληςαν πίλοιο Ma.

ap. Vit? (ad vestigia non convenit): e]iAncav xnAoio Li. revixpov olim pap. 26. ]ovov... ego: ἰοιον. monuit): ...]Jovorx... Li. εκληροῦ εκί(μγπίτετο A]&oc ὕπο pap. dispexit): erAnpove xvr[.....].cor. Pf. (qui ante cv

iam cogitavit, coll. vv. 20, 28, 30)

(cum vestigiis non congruit) Pf. (qui etiam Jo legi posse legit et suppl. Li. (qui cxi in legit 1 vel o et ad fin. de dro

27 ]ercuov pap.: xA]icuòv dubitanter suppl. Pf. (qui

suum supplementum in textum non recepit), conferens v. 10 s1aye, v. 22 reıov et notans κλειομός pro KAucuöc in codd. saepius inveniri @...... LL... ego (_[: fort. τ): α΄, 0. In Pf. a... .terl....... Li ὠ]ρχήεαίντο legit et suppl. L. ap. Vit.?: ölpxricalcdan Li.

28 suppl. Vit. βρέγματι (cum accentu) pap.: πολλάκι πολλάκις Et. M. codd. MS (vd. Massimilla, Papiri p. 31 αντῷρον pap.: ἠλάεαςα dpov Et. Gen.: nAüccoca @pov Dilthey p.71 29 δ᾽ διςί ρᾷρ. Bpolxé]n suppl. Ma. ap. Vit

Ef. Gen., Et. M. codd. DPR: sq.) κανθιὧν scripsit Li. Et. M: fhacav @pov coni. et Recensione I p. 164 ἔνι

cum Pf. (in adn.) et Li. scripsi (vd. Introd. IT.1.A.c.v.): ἐνὶ Pf. (in textu) téAeccov Ma. Il: τελέεεαι Vit. 30 xò et ὧϊ pap. ὧι mAeicr[ov] dist. et suppl. L. ap. Vit?

88

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

μήνατο ᾿ κεϊνοςέπι pap. 31 ἄμφ[ια] suppl. Ma., Recensione IT p. 164; de accentu cf. Schol. Dion. Thr., Gramm. Gr.1 3, p. 196. 11 Hilgard ὀιςιού et κιβίς pap. παρέβρων del. tap et tt sscr. pap. (ad fin. ov Pf.: ὧν Li., qui tamen ov in textu scripsit)

32 e.g.

suppl. Ma., Recensione II p. 164 τοῖε]ι [δὲ] scripsit Li. διχθαδίος v supra lin. add. pap. tdetvé pap. 33 suppl. Ma. ap. Vit. et Recensione ΠΡ. 164 μάλ (cum accentu) pap.: μάλ᾽ Poll., Et. Gen. A, Et. M., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233: καὶ μάλ᾽ Er. Gen. B εἰδότι Et.M.cod.R μιαικρὸν cum Li. scripsi: ιμαικρὸν Pf. ἀλέεθαι Er. Gen. B: ἄλεεθαι Et. Gen. A (utrobique spiritu leni)

ex ΕἸ. et Hesych.

supra allatis colligitur

εἰδότα … ἁλέεθαι ad ἀνδίκτην referendum esse (aliter Schn. II p. 476) 34].[: apex hastae verticalis ἀνέλυςε cum Li. scripsi: aveAvce Pf.: fort. [o]dk ἂν ἔλυςε Vit, vix recte 35 etiam ἔπειθ᾽ ἅμα dividere possis (Pf. ap. Lehnus p. 23) κεί[ν cum Li. scripsi: xe PE. 370[...]v scripsitLi. de Κλεωναί iam cogitaverant Ma., Recensione H p. 163 et Vit, Κλεων[άς (Molorchi domicilium) in textu scripsit Li.: vix κλέων[ται Pf. (coni. où praeced. ut Hom. //.I 262 où ... οὐδὲ ἴδωμαι, Od. VI 201, XVI 437) Fragmentum ad Aetia pertinere videtur, cum eadem manu scriptum sit qua libri tertii fr. 148, 21-34 et libri quarti frr. 195-196 et 198-199 (necnon libri incerti fr. 251) et repertum sit cum frr. 195-196. 'Fabulae libri quarti nobis notae sunt; misi diegetes hanc fabulam per errorem omisit, libro quarto fragmentum ascribi nequit; neque e libri quarti fabulis tot loci afferri solent quot ex hoc fragmento laudati sunt' iam Pf. Cum fr. 148, 21-34 habitu scripturae propius accedat ad fr. 149, Pf. dubitanter coniecit fr. 148, 21-34 ante fr. 149 in eadem columna stetisse (notans vitam rusticam adsensus est Ba., Recensione II p. 80).

describi

et in fr.

148, 21-34 et in initio fr. 149;

Pfeifferi coniectura fretus, Li. fr. 149 hic inseruit: optime (fr. 149 non est collocandum ante fr. 148, ut postea coniecit Hollis, Composition p. 470 sq.). Quod nulla probat papyrorum iunctura (neve pro certo habeas unius ambo columnae fuisse), probat ratio et res ipsa, cf. inprimis v. 37 KAewv[ (Molorchi domicilium, vd. comm. ad fr. 145): vd. in universum Li., Der Liller Kallimachos, Nuovo

Callimaco et Polittico, necnon textus recensionem

ab

eodem viro docto prolatam, quam supra in Conspectu librorum papyraceorum laudavi. Hoc tantum animadverto: si revera in POxy. 2170 + PSI 1218 fr. 148, 21-34 et fr. 149 ad partem superiorem et inferiorem eiusdem columnae pertinent, necesse est fr. 149 nullo vel minimo intervallo post fr. 148 incipere; nam, si deest unus pentameter inter fr. 148, 37 et fr. 149, 1, columna 56 vv. continebat, 1.6. fr. 148, 21-37 + pentametrum + fr. 149 totum (54 vv., si fr. 148, 37 idem erat ac fr. 149, 1); putandum est erusmodi versuum numerum

columnam funditus vel propemodum explevisse (in papyris Callimacheis columna 55 vv. semel

occurrit:

cf. PSI

1216, col. II = Jamb. fr. 195, 35-68 Pf. + fr.

196,

1-21

Pf.): vd.

Carlini p. 237. Locum fragmento idoneum duas PLille columnas praebuisse veri simile est (cf. fr. 148): nullo vel minimo intervallo incipere videtur fr. 150 (columnae caput)

150 (SH 260) ] ‚Ovectip,, [

]Gev, nvôuyapl ].eicwodwıoc. |

carmen an scholium?

carmen an scholium? carmen an scholium?

οἰΐτιει δῶκαλυρ | 5

|. w.uoryepov [

carmen an scholium?

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 149-151 Luo]...

89 carmen an scholium?

Schol. in PLille 78b (vd. Pa. p. 27 sq.) exarata sunt post vv. 1(1L 2-4) ---Jerixopn [---l--]dtov καὶ andnc .[---I--]e ypñcopor τῇ, [---ἰ (2: e dispexi (fort. &]rıxopny[- Me.); 3: ἄπληστ[Ἕον Pa.; 4: fort. τῆι a. τῆι τῇ

2(.6)---]meviov

| |

1-6 PLille 78b, 1 (v. 1), 5 (v. 2), 7-10 (vv. 3-6) 11.:γ, τ @..[: fort qual, A| fort. finis hexam. (ἐστι φιλί----}) aut pentam. (écri già[fov) 2 ]Gev. : primo loco £ vel c, secundo £ vel c; è valde dubium; Pa. p. 28 prop. uu ὁ] Ζεὺς chv dà) ——- (pentam.), 'ob tuam paupertatem'? (cf. schol. reviov) 3 hexam.? |: potissimumz —. |: fort. u (si ita, scholium), sed fort. e.g. ac vel oc; fort. ἀθώϊος --οὐ--- Pa. LI. (de forma quadrisyllaba, cf. IG XII 8, 265. 6 al., necnon dein Call.

Jamb.fr. 195, 22 PÎ.) 4 sine dubio pentam., suppl. Pa. 1.11. -vu-vu- οἤὔτιοι δῶκα Avp .D p: etiam de $ agi potest [[: fort. 0, 0, sed alia possis e.g. δῶκα λύρη[ν, δῶκα Adpolv, δῶκί(α) vel δῶκ(ε) TA vpolv 5 hexam.? ||] τν : primo loco vestigium incertum, fort. u; secundo e alia [: prob. ὁ -vu-vu- ].tv ἐμοί, γέρον, o[vu--? 6]... |: tertio loco fort. o vel ὦ, ı suprascripto; quarto e.g. y,T Fr. 150 superiorem, fr. 151 inferiorem columnae partem habet; ambo ad eandem columnam pertinere satis veri simile est, si terga inspicis (vd. Pa. p. 38); si ita, inter fr. 150, 6 et fr. 151, 1 desunt versus (carminis vel scholiorum) tres vel quattuor. De frr. 150+151 posteriorem carminis locum quam fr. 148 prob. tenentibus et nullo vel minimo intervallo post fr. 149 prob. collocandis vd. adnn. ad locc.

151 (333 Pf. + 557 Pf. + SH 260A)

gico ].de κανὼν tépalc

εἴτε μιν ᾿Αργείιων χρή WE) καλεῖν ἀι άτην |.ovarte ἀρηχειξ |

5

Lie

]. Δαναοῦ φρείατι πὰρ ueyalA-

Ἰ]φίκλειος ἀδελφεζοῖο veu [

ΠΝ

Ἰεμήξας ἀντι yernc vel

| reracayı μόνον tepipal ]. Eccoli) καὶ τάχα βουκτέανοίς

1000000. ].. πε[ί]εω Ζεὺς ὅτι παιδογόνος nn ]...... πέσω δ᾽ ὑπ᾽ ddovili l......... puoAAovunol carmen an scholium? ] rn ]

wncal

carmen an scholium? [

carmen an scholium?

90

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

15

20

|. αἰτεγεος

carmen an scholium?

Jouot Botòv ev | €] EIVOCÙVNCA [

carmen an scholium? carmen an scholium?

].eocöo, col ]..vo | loc | 1. [Inll vel

carmen an scholium? carmen an scholium? carmen an scholium?

].[.].vew[

carmen an scholium?

Schol. in PLille 78a (= SH 261), de quibus accuratissime egit Pa. pp. 31-33, exarata sunt post vv. 2(13sq) ........ 1.τὰ καλεῖν δεῖ αὖτο [--1 ........ ] [ 16: δεῖ ad

Callimachi χρή spectat; fort. - nta (explic. ad ἀάτην) καλεῖν δεῖ αὐτὸν) 8.11). . Jowt&avoc, τοῦτο dè no [---ἰ Goxtéavoc (fort. 0° pap., i.e. Blooktéovoc) ad Callimachi βουκτέανο[ς pertinet; post νος spatium vacuum; ad fin. prob. roA[v-) 10 (1.14) ....... ] ς εὐπειθη [---ἰ (tertio vel quarto loco fort. spatium vacuum; εὐπειθη ad Callimachi ze[i]co spectare videtur; fort. γὰρ edne10nc) 1-21 PLille 78a, 1 sq. (v. 1 sq.), 5-10 (vv. 3-8), 12 sq. (v. 9 sq.), 15-25 (vv. 11-21)

2 Herodian. IL. μον. λέξ., Gramm. Gr. III 2, p. 948. 15 Lentz τὰ εἰς τη λήγοντα διεύλλαβα … (ημειῶδες ἄρα τὸ ἄτη ἐκτεῖνον τὸ α΄ λέγεται δὲ καὶ τριουλλάβως ἐν cuctoAf| Tod a, ὧς παρὰ τῷ Kupnvaio- ᾿εἴτε-ἀάτην᾽. τὸ δὲ αἴτιον τῆς ἐκτάσεως ἐν τῇ διουλλάβῳ προφορᾷ Gramm.

ἐν ἑτέροις εἴπομεν (non exstat; Lentzii coniect. vd. Herodian. II. καθολ. πρ., Gr. II

1, p. 342.

13; II. παθῶν,

Gramm.

Gr. II 2, p. 314. 21; vd. etiam Lehnus,

Notizie VII p. 155 sq.) = fr. 557 Pf.

9 fort. Suid. s.v. ἐπικλινές, e 2389, II p. 361. 23 Adler ἐπιρρεπὲς εἰς κακόν " ᾿ἐπικλινέςτάλαντον᾽ Καλλίμαχος = Hec. fr.333 Pf., 134 H. 1 ].: hasta verticalis, potissimum fort. n, sed etiam e.g. 1, © possis

suppl. Pa. ap. Me.

ypnuo et ad fin. α, à, À pap.: corr. et suppl. Pa. ap. Me. (cf. schol. dei)

2

χρῆ μὲν καλεῖν

Herodiani cod. (unicus; deest in Vindob.); χρῆν pe vel χρή ue coni. Hecker p. 200, unde xpñv pe L. Doederlein, Homerisches Glossarium I (Stuttgart 1850) p. 161, Schn. II p. 644,

Pf., χρή ue Th. Bergk, Anthologia Iyrica (Lipsiae 18682), p. 151, Rauch (p. 66); χρὴ καλέειν proposuerat Lehrs p. 599 et ad Herodiani Studien II (St. Petersburg 1862) p. 159 3]:7,1,x

11., unde A. Nauck, Euripideische τε πνεῖ τι adfinuvelv fort.

παρ᾽ nyerevi, leg. παρ᾽ ἠχήεν[τ- Me.; παρ᾽ ἠχήεν[τι Χαράδρῳ e.g. prop. L.J.-P. (vd. comm.) 4].: hasta verticalis, fort.n δά fin. ney&[Aov, μεγάλῳ) Me. 5 suppl. Me: de Ἰ]φικλεῖος (i.e. genetiv. 'Iphiclis', fratris Herculis) cogitat Durbec, Interpretation p. 44

αδελφξἕοιο pap. [: parvum vestigium, ε ἢ 10 ὦ (vix 0 Ὁ) possis; veun[tnc, veué[cca sim. prop. Pa. p.32 6 ad fin. ἀντί ye τῆς (γ᾽ ro yelvefic e.g. Pa. 1.1. (vd. comm.) 7ad fin. fort. περὶ Bé[ktpov Pa. 1.1. (vd. comm.) 8 corr. et suppl. Pa. ap. Me. ].: potissimum v 9 | : potius 6, 0, ὦ quam e,c_[: potissimum 0, 6; fort. e,c aut &nıxAf{e}ivec | possis aut &nıxA{e}ıvech|, sed hic fort. inserendum Suidae citatum supra allatum (Pa. ap. Me.);

verba ἐπικλινές &crı τάλαντον Hecalae tribuunt propter legem Heckerianam, sed vd. app. ad fr.19,9 écti Suid. codd. AFVM: δὲ GI (per errorem, post G. Dindorf, Thes. Ling. Gr. IN p. 1639 D et Bernhardy, Schn. I p. 532 et I. Kapp, Callimachi Hecalae fragmenta, Berolini 1915, p. 79 apographa GI secuti sunt (τε Wil. ap. Kapp); recte iam A. Meineke,

TESTO CRITICO: AET. IN FRR. 151-153 Fragmenta

1.1.)

comicorum

Graecorum II 1, Berolini

10 init. fort. treslitt. (e.g. ic, oc)

cf. schol. εὐπειθη. [) 34 (optime)

91

1839, p. 273, de quo falsa rettulit Schn.

suppl. Me.

re[i]co non pro certo legitur (sed

11]...... : ultimis locis prob. οθηι vel cm1, fort. ΕἸύρυεθῆι Pa. p.

suppl. Pa. ap. Me.

ad fin. e.g. λέοντος (Pa. ap. Me.), χάρωνος (Pa. p. 34)

12 pentam., μᾶλλον ὑπὸ [vv-? schol., e.g. ...... ὅπερ μᾶλλον ὑπὸ [,adv.11?

13]...

..: secundo loco fort. è; tertio e.g. ἡ; quarto vestigium dubium ([ ] Pa. p. 29); sexto ε, 8; septimo a, À, 0? e.g. Botvnc, Bowwica[to Pa. p. 34 (aut ex ipso carmine, aut scholiorum lemma) 14 papyrus omnino derasa 15 pentam., καὶ τέγεος [vw vel -vvaı τέγεος

16 .[:e.g. 7

hexam., -vu-vu-u τῇ μοι βοτὸν εν [vu-- (Pa. 11.)?

17 [: potissimum

x, sed © excludi nequit pentam., ξ]εινοούγης ac [»- (Pa.11)? 180. : primo loco e.g. 7, v; secundo 0,0 hexam., θεόςδοτος @[vv--? 19 prob. schol., e.g. ]. .v örlo]ioc δ [,

Qvor[o]iòc 8 [Pa p.35

21schol.?

[]ego: fort. g Pa. 1.1.

].:e,0,0, c (fort. θύειγ)

De fragmenti sede vd. ad fr. 150

152 (SH 262)

]

lox[ oul

carmen carmen carmen carmen

1

an an an an

scholium? scholium? scholium? scholium?

1-4 PLille 78c 1 fort. carminis versus, cuius initium ἐν ἐκθέςει periit in marg. sin.

lineae ἐν eicÖ&cer incipientes

2 ομί: etiam cu[ possis

2 sq. fort. scholiorum

3. [: priore loco fort. pars supe-

rior litt. e vel c; altero x vel fort. n

De fragmenti loco non constat

153 (SH 263)

] Li [ ] ΕΝ [ ] Lu. [. . k . [

luca

5

|. Ar

1-6 PLille 84 (deest ap. Pa.)

|

voxaı,

] .0%. [. ] .V

carmen an scholium? carmen an scholium? carmen an scholium?

carmen an scholium?

|

carmen an scholium? [

carmen an scholium?

92

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Schol. in PLille exaratum post v. 4 --- π]ενιχρὸν δ᾽ [---I (vestigium ultimum dispexi; -typCall. frr.25, 4; 149, 25; lemma?)

1dispexi

2].:fort.v

[: prob. n (vestigium dispexi)

potius quam x; secundo fort. n, vix e vel 0): Jal. fort. ὦ, ἐν ἵππῳ possis; prob. 0; À: fort. n; post

3 sic ego (]...[: primo loco γ,τ

a, À potius quam è; tertio pars inferior sinistra litterae rotundae; τ: Jr [Me:] [L.J.-P. 4 sic ego (] : fort. v; x. .: altero loco π΄: fort. 1): | π| _locxz [| Me: ]....... [LJ-P. 5sicego(].: ὦ fort. spatium, id est scholii interpunctio?; a. .: fort. a vel À; pes

hastae verticalis): Ἰλλί. ]voxoi[ Me.: ]AÀ. ὦ, καὶ [L.J.-P. 6 sic ego (].: p potius quam ß; .[: pars sinistra litterae rotundae; e.g. ]poxo[p]Jov: Jox.[..].v[Me.: Jox[...].v [L.J.-P. De fragmenti loco non constat

154 (57 Pf. = SH 264) αὐτὸς ÉTLPPOCCOLTO, τάμοι δ᾽ ἄπο μῆκος ἀοιδῇ: ὅεεα δ᾽ ἀνειρομένῳ φῆΪε]ε, τάδ᾽ ἐξερέω: “ἄττα γέρον, τὰ μὲν ἄλλα πα[ρὼν ἐν δ]αιτὶ μαθήςει, νῦν δὲ τά μοι even Παλλὰξϊς. [{{{{|

5

.Jel

1-5 PBerol.inv.

l.«

11629 A 'recto'

1 φράκεαιτο -τάμοιδ᾽ et μῆκος pap. ao1ôf pap. (vix ao1ôf., ie. ἀοιδῆς, L.J.-P) 2 dccad’ et uévogf pap. suppl. Wil. Ô’ebepéo: pap. 3 yepov: et άλλα pap. suppl. Wil. Oncer-pap. 4in marg. sin. litt. vestigia [ Je disp. Pf! réven pap. ].[.].[ ego: ]..[Pf. HoXAà[c ἔειπε Ber e.g. suppl. Wil. 5].«: fort. c (disp. L.J.-P.) Hercules,

Cleonas

reversus

leone

interfecto,

Minervae

vaticinium

Molorcho

referre

incipit ut videtur (cf. infra fr. 156, 13). Vd. Pa. p. 40

155 (58 Pf. = SH 268) ἄξονται δ᾽ οὐχ ἵππον ἀέθλιον, οὐ μὲν ἐχῖνον βουδόκον >

Ν

>

92

>

/

,

4

»

A

1 sq. Er. Gen. AUB s.v. ἐχῖνος (p. 164 Massimilla; cf. Er. Gud. d? p. 574. 22 de Stef. ᾿ἄξονται-βουδόκον᾽, Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M. p. 404. 50 ᾿οὐχ-βουδόκον᾽, Er. M.1.l. ‘&xivov Bovöökov’;, Callimachi verba om. Zonar. p. 938 Tittm.): xepcaîov ζῷον … KoAkiyoxoc ... [fr. inc. sed. 527 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed. 177 H.] ... καὶ ὃ λέβης ὁμοίως ἐχῖνος: Καλλίμαχος ᾿ἄξονται-βουδόκον᾽, ἀντὶ Tod λέβητα [pro ὁμοίως-λέβητα Er. M. habet οἷον ‘è. β.᾽ ἀντὶ τοῦ λέβητα Καλλίμαχος (Καλλίμαχος M: καὶ D (de eiusmodi compendiis vd. ad fr.32): nomen om. cett. codd.)]

1 δι᾽ et εθλιον Et. Gen.

A

2 βοοδόκον Er. Gen.

A

hunc versum eundem esse ac fr.

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 153-156 156, 1 dubitanter coni. Pf. (vd. app. ad loc.) Schn. II p. 489 (vd. Wil., «SPAW», 1914, p. 226) fragmentum ad vaticinium certaminis

Nemeorum revocavit (de quo cf. fr. 154): 'certaminis praemium ferent neque ... sed coronam apii', coll. Nonn. Dion. X 333-335 in comm. allato. Schn. coniecturam secutus, fragmentum orationi Herculis, quae incipit fr. 154, 3, inseruit Pf.: heros Minervae verba

Molorcho refert. Vd. app. ad v. 2 et Pa. p. 40

156 (59 Pf. = SH 265)

Jxpvcoto. [

10

καί μιν "AAnıreidaı πιουλὺ γεγειότερον τοῦδε παρ᾽ Αἰμγαίωνι τθεῷ τελέοντες ἀγῶνα θήσουσιν νιΐκης CÔL pBokov TO μιάδος ζήλῳ τῶν Νιεμέηθε' πίτυν δ᾽ ἀιποτιμήςουειν, À πρὶν ἀγων ποτὰς ἔστεφε τοιῦς Ἐφύρῃ. ] vontetzoi, γέρ[ον

]. οὐδ᾽ ἱερὴ a |

15

20

]c ἐμοὶ rpoul lov Παλλὰς El γ]ὰρ ἐν ὧι τόδ[ε οἸὴν κατ᾽ ἐπω[νυμίην.᾽ Jvc τε MoXöpl[xeioc ]. θυμὸν üpelccanevoc, ν]ύκτα μὲν αὐτόθι piuvev, ἀπέετιχε δ᾽ Ἄργος ἑῷος: οὐδὲ ξεινοδόκῳ λήςαθ᾽ ὑποεχεείης, πέμψε dé oli] τὸ[ν] ὀρῆα, τίεν δέ è ὡς ἕνα πηῶν. ν]ῦν δ᾽ ἔθ᾽ [ἀ]γις[τείη]ν οὐδαμὰ ravcouévnv

HET 25

].. Hekorn |

].. &Ecxov ἀναί Ἰέετηςαν dc ] παιεὶν ἀνας[

|....c

Schol. in marg. dext. PBerol. inv. 11629 A 'verso' 20 τὸν ὄνον 21 t{ov)t(écriv) ou. | [. fort. αἰωνί[αν L.J.-P.: αἰώ[νιον Pf. cum Wil.) (om. | ego: αἴ

1-7 POxy. 2212, fr. 18, 1-7 2 Tertullian. De coron. VII 4, p. 97 Fontaine = p. 22. 34 Ruggiero (e Claudio Saturnino)

94

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(quae praecedunt, vd. ad fr. 204) Hercules nunc populum capite praefert, nunc oleastrum [fr. inc. auct. 284], nunc apium (sine nomine auctoris; quae sequuntur, vd. ad fr. 191) inde Isidor. Orig. XVII 11, 1, p. 243 André Hercules ... nunc populum capite praeferebat, nunc oleastrum [fr. inc. auct. 284], nunc apium

5-9 Plut. Mor. 677 B (Quaest. conv. V 3, 3), IV p. 160. 6 Hubert ἡ μὲν πίτυς ἦν «τέμμα τῶν ἀγώνων [scil. Isthmiorum] πάτριον, ἐκ δὲ Νεμέας κατὰ ζῆλον ὁ τοῦ cehivou ξένος ἂν ἐπειοῆλθε δι᾽ Ἡρακλέα καὶ κρατήεας ἠμαύρωεεν ἐκεῖνον ... ἐγὼ γοῦν ἀνεπειθόμην καὶ προςεῖχον, ὥςτε καὶ τῶν μαρτυρίων ἐκμαθεῖν πολλὰ καὶ μνημονεύειν, Εὐφορίωνα μὲν οὕτω roc περὶ Μελικέρτου λέγοντα ᾿κλαίοντες δέ τε κοῦρον ἐπ᾿ Ταϊἰλίει πιτύεςοι | κάτθεςαν, ὁκκόθε δὴ τοτεφάνων ἄθλοις gopéovio: | οὐ γάρ πω τρηχεῖα λαβὴ καταμήεατο χειρῶν | Μήνης παῖδα χάρωνα παρ᾽ ᾿Αςωποῦ γενετείρῃ, | ἐξότε πυκνὰ ςἔλινα κατὰ κροτάφων ἐβάλοντο᾽ [CA fr. 84 p. 45, vd. Magnelli, Studi p. 152 sq.], Καλλίμαχον δὲ μᾶλλον διαεαφοῦντα- λέγει δ᾽ ὁ Ἡρακλῆς αὐτῷ περὶ τοῦ εελίνου - ‘kartἘφύρῃ᾽ (vd. Cameron, Mythography p. 121, D'Ippolito p. 89 sq., Magnelli, Poeti p. 219; e Plut. Schol. B confusa ad ep. adesp. Anth. Pal. IX 357,4, III 1 p. 318 Stadtmüller)

5 Schol. (BD) Pind. /sthm. II 19 d, III p. 217. 13 Drachmann ᾿Αλήτην γὰρ αὐτήν (scil. τὴν Κόρινθον) gaci vixicar, ὅθεν καὶ ᾿Αλητίδαι οἱ Κορίνθιοι Et. Gen. AB s.v. ᾿Αλήτης (a 452,1 p. 287. 6 Lasserre-Livadaras; p. 165 Massimilla; cf. Et. Gud. d p. 87. 2 de Stef., Er.

Sym. a 515/20? I p. 286.

18 Lasserre-Livadaras, Et. M. a 818 codd. DPRS

I p. 287. 22

Lasserre-Livadaras) è Ἡρακλέους ἀπόγονος è τῆς Κορίνθου βαειλεύς, υἱὸς δὲ Ἱππότου, ἀφ᾽ οὗ καὶ οἱ Κορίνθιοι ᾿Αλητίδαι [Αλητίδα B] Lexicon Aiuodeîv s.v. ᾿Αλήτης, a 39 p. 880 Dyck ὁ Ἡρακλέους ἀπόγονος, ἀφ᾽ οὗ καὶ οἱ Κορίνθιοι ᾿Αλητίδαι ὀνομάζονται 7 fort. Steph. Byz. s.v. Ἰεθμός, p. 338. 12 Meineke ... καὶ νίκη Ἰεθμιάς (ex h.l., nisi e Pind. /sthm. VIII 4 Ἰεθμιάδος te νίκας ἄποινα vel Nem. II 9) 8-11 POxy. 2212, fr. 18, 8-11 + POxy. 2169, 4-7

8 Steph. Byz. s.v. Neuéa, p. 472. 10 Meineke ... καὶ Νεμέηθεν ἐπίρρημα 12-17 POxy. 2169, 8-13 18-22 PBerol. inv. 11629 A 'verso' + POxy. 2169, 14-18

20 Hesych. s.v. πηῶν, x 2235, III p. 109 Hansen φίλων, cvyyevov 23-25 POxy. 2169, 19-21 1-25 inter fr. 154, 5 et fr. 156, 1 quattuordecim vel sedecim versus desunt (si inter fr. 154, 5 et fr. 156, 18 versus 31 vel 33 deesse ex Zxd Apc. fr. 228 Pf. computare licet) 1].: fort.

pars dext. inferior litt. ὦ (vel β velo?) [:fort. à si ]Jovdl, fort. = fr. 155, 2 βουδόκον] odd[ (PL)? 2].:evela? post go pars inferior litt. rotundae, prob.c 23. 6te pap. 4 potius ypvcoîto quam ἑλι]χρύοοιο [: fort. 9% 53-9 suppl. L. 5 ]τεῖδαι pap.: ἀλητίδαι codd. Plut. (Αλητιάδαι Xylander), Schol. Pind., Eft., Lexicon Atuwdeîv; vd. comm. ad fr.

174,32 Koöpetönc

potius τοί quam 1 pap., fort. ro dde yey.

πουλὺ L.

6 αἰγέωνι vel

αγεῶνι codd. Plut.: corr. Turnebus 8 τωνεμέηθεν codd. Plut. (Νεμεῆθεν Steph. Byz. codd.): corr. Turnebus (Neuénôt coniecerat A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata, Berolini 1861, p. 210, qui etiam Del. 284 coniecturam Δωδώνηθι probat;

scribere debuit Neuénei, Δωδώνης)

POxy. 2212 litt. euend, POxy. 2169 litt. denirvvö’o

tradunt 9 POxy. 2212 litt. tac, POxy. 2169 litt. c&cregero tradunt 10 POxy. 2212 litt. .vo, POxy. 2169 litt. nreteöwyep tradunt (vo POxy. 2212 sub toc et ἡ POxy. 2169 sub c finalem vocabuli ἀγωνιοτὰς

in v. 9, iunctura minime

certa)

].: fort. o, sed potius ὦ;

ἡμι]όνωι vel mui]ovov valde dubitanter L., coll. v. 20 c. schol. (neque 1 neque v pro n legi

TESTO CRITICO: AET. III FR. 156

potest)

aut te τεοί aut τ᾿ ἐτεοί

suppl.L.

95

11 POxy. 2212 litt. ο, POxy. 2169 litt.

ουδιερηπ͵ tradunt (fort. litt. 0, quae in POxy. 2212 legitur, eadem est a qua incipit ουδ in POxy. 2169; at hoc minime certum est) [: litt. rotunda, e.g.o 12 divisit Ma. ap. Pf. Ip.

500

13é pap.

14 divisit et suppl. Ma. Il

suppl. Pf. (scripturam Μολόρ[κειος

15 ἣν ρᾷρ.

suppl.L.

16 λόρ pap.

mavult Morgan p. 537, cf. Schol. ad fr. 148, 23 c.

adn.): MoAöpl[xov vel [x contra normam metr. L. (vd. Introd. I.1.A.c.ix.) fort. ἐλαχ]ύς et in fine ööproc Pf. 17 ].: hasta verticalis, vel v suppl. L. vel &pe[cköuevoc, sed cf. Nonn. Dion. XXV 370 in comm. allatum 18 PBerol. litt. omnes, quae leguntur, POxy. litt. θιμίμνεν "απ tradunt (accentum in POxy. 2169 dispexi) αὐυτόθιμιμνεν -απέςτιχείν

d'apyoce®oc. PBerol. suppl. Wil. 19 PBerol. litt. omnes, POxy. litt. ANco0'vrog tradunt νοδόκ, εαθ᾽ et inc: PBerol. ἔξεινοδόκου PBerol. (quod defendit Ma., vd. Lehnus, Notizie VI p. 144 sq.): corr. Wil. 20 PBerol. litt. πεμψεδερί τοί lol. -Ἰδεξωςεναπηῶν, POxy. litt. ρῆα -τίενδέ tradunt suppl. 1. δέ μιν ὡς coni. Ma. ap. Pf., at contra normam (vd. Introd. IL.2.A.) hiatum è ὡς admittere videtur poeta propter sonum è ὡς ἕνα; ad & retinendum, cf. etiam Hom. 7. XXIII 705, [Hes.] Scut. 85 (coni.), Call.

231, 1Pf.=2,1H.tiov δέ ἐξ POxy. litt. vovSouar tradunt Wil.,

fort.

longius

spatio

(etiam

Hec. fr.

21 PBerol.litt. vvO #0] γι[. Ἱμαπαυςομένην, 0[.]...[ ego: 0[.]..[ Pf: 6... .[LJ.-P. init. suppl. odéa]uò

suppleverat,

quod

nunc

in POxy.

legitur)

[ἀ]γις[τεΐίη]ν e.g. suppl. Pf., de quo dubitant L.J.-P.: quoad vidi, Pf. supplementum haud absurdum est (]...[: primo et secundo loco tam bene γι quam x; tertio vestigium minimum in summa linea, cum litt. c congruens; in PBerol. [τειηνουδα] cum spatio optime convenit); cf. fr. 89,3 ayıcröv 22 PBerol.litt. .[.]. et ....c, POxy.litt. Πελοόπη, tradunt (in

PBerol. etiam vestigia minima |. .[.].[ parte respondent) ].[.].[ ego: ]...[Pf. c

rn

.: inıtium lineae horizontalis, non pars litt. 1, sed fort. trema iuxta, non supra, ı

positum? (L. ap. Pf.) ceJAñvnc:

dispexi, quae litteris in POxy. traditis ex aliqua |. πὶ primo loco superior pars litt. rotundae, ut

ad fin. ]Anvne dispicere sibi visus est Wil., qui suppl. γα]λήνης vel

omnia incertissima

23]

.: vr’ vel vy’ dubitanter L.; elisio in diaeresi

pentametri rarissima (vd. Introd. 11.2.D.), at hl. fort. ]|v τ΄ vel [v γ᾽ prop. Pf., coll. fr. 95 εἶχεν ἀνακτορίηνξ 24 ὅς pap.

ἔσχον &valktopinv

Vv. 13-15 Hercules Minervae vaticinium Molorcho referre desinit ut videtur (cf. supra fr.154, 4). νά app. ad v. 1 et Pa. p. 40 Veri simillimum mihi videtur ad «Victoriam Berenices» spectare fr. inc. sed. 264 de Hercule pellem leonis Nemeaei ex umeris suspendente, quod inter frr. 151 et 154 collocandum esse ludico. Fr. inc. sed. 274 de Hercule pelle leonina induto ad hanc elegiam respicere posse (paulo ante fr. 154) non nego. Fr. inc. auct. 278 de Leonis sidere non ad hanc Aetiorum partem, sed ad «Comam Berenices» (= fr. 213, 65) pertinere censeo. Fr. inc. auct. 766 Pf. &cnepıov ξένον ad Herculem apud Molorchum fort. referendum est, de quo fr. 156,

18 (post leonem necatum) expressis verbis dicitur ν]ῦκτα μὲν ... μίμνεν, ἀπέετιχε δ᾽ … £boc (vd. comm. ad loc.): sed etiam de Theseo in Hecala cogitare licet (praeterea cf. fr. 92 c. comm.). An fr. inc. sed. 688 Pf. ad hoc aetion spectet, omnino incertum est (vd. Pf. ad loc.). Scholiorum reliquiae in POxy. 2258, fr. 12 'recto', ubi 1. 3 Berenice commemoratur, ad

«Victoriam Berenices» pertinere non videntur, sed potius ad «Comam Berenices» revocandae sunt (cf. Schol. ad fr. 213, 26 sqq. c. adn.)

96

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Ad quam libri tertii partem fragmenta 157 et 158 pertineant, non constat, cum eorum argumenta respicere videantur neque ad «Victoriam Berenices»

(frr. 143-156) neque ad duas series continuas fabularum, quarum res notae sunt, i.e. frr. 159-174 et (usque ad libri finem) frr. 178-187. Utrumque fragmentum inseri potest et hoc loco et inter frr. 174 et 178. Frr. inc. lib. Aet. 65-64 ad hunc libri tertii locum spectare videntur

157 (61 Pf.) τὼς μὲν ὃ Μνηςάρχειος ἔφη ξένος, ὧδε ευναινῶ Priscian. Inst. gramm. II 12, Gramm. Lat. I p. 52. 11 Hertz praeterea m ante n posita fecerunt quidam communes ut Callimachus in tertio Aitiov ‘rüc-covoiv@” id. Inst. gramm.1 30, ibid. p. 23. 12 Hertz Callimachi ... in Αἰτίοις ... ‘TOC-covaw@’ id. Inst. gramm.1I 11, ibid. p. 10. 18 Hertz Καλλίμαχος [sine op. et Ib.] ‘rwc-covaiv®” Hephaest. I IT. κοινῆς

8, p. 6.9 Consbruch ἣ διὰ τοῦ uv cdvradıc ἐποίηςέ που καὶ βραχεῖαν, ὧς … [Cratin. PCG 162, Epich. PCG 80] καὶ παρὰ Καλλιμάχῳ ‘Toc-Eévoc’ Choerob. in Hephaest., p. 201. 22 Consbruch παρὰ Καλλιμάχῳ ᾿τὼς-ξένος᾽ 14. (CVO) in Theodos. Can., Gramm. Gr. IV 2, p. 78. 17 Hilgard τὸ uv ἀποτελοῦν κοινὴν ευλλαβήν, οἷον ὡς παρὰ Καλλιμάχῳ ‘toc-Eévoc’ Schol. Marc. (VN) Dion. Thr., Gramm. Gr. 13, p. 350. 29 et 32 Hilgard ‘rüc-Eevoc’ Exc. ex Choerob. = Parecbolae ex Herodian. ed. J. La Roche 1863, p. 12 (cf. Cramer, AP IV p. 226. 9) ὡς παρὰ Καλλιμάχῳ ‘Toc-Éévoc’ πῶς Choerob. in Hephaest. cod. Var., Parecb. ex Herodian.: οὕτω Schol. (VN) Dion. Thr.

32 Mvñcapyoc Choerob. in Theodos. (CV) ἔφα ξένος Choerob. in Hephaest. cod. Vat: «φάξεν Exc. ex Choerob. AP IV: εφάξῃ Parech. ex Herodian.: ἐφύλαξεν Choerob. in Theodos. (CV): vix cum paucis codd. deter. ἔφα scribendum fort. © δὲ Pf. cuvaivéo coni. Pf. ap. Lehnus p. 22 Huc fort. pertinent alia quaedam fragmenta, quae ad Pythagoram spectant (fr. inc. sed. 260) vel spectare possunt (frr. inc. sed. 255, 262). Hoc fragmentum, nisi fabulae initium sit, ad «Tertium aetion ignotum» (fr. 177) revocari posse non omnino negandum: vd. app. ad Dieg. Med. Z 40 sq.

158 (62 Pf.) Steph. Byz. s.v. Λυκώρεια, p. 422. 15 Meineke κώμη ἐν Δελφοῖς. Καλλίμαχος τρίτῳ [vd. ad fr. 59] (de Stephani testimonio vd. F. Atenstädt, «Philologus» 80 NF 34, 1925, pp. 325-

327)

Fr. inc. sed. 725 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed. 178 H. καὶ ὡς λύκος ὠρυοίμην huic fragmento admovere non licet (vd. comm.)

TESTO CRITICO: AET. III FRR. 157-160

97

Abhinc usque ad libri finem fabulae nullo intervallo continuari videntur 159-160 (Phalaecus Ambraciotes)

159 (665 Pf.) Schol. (Bab; Callimachi mentionem om. Pm;CFDGZC, Conr.) Ov. Ib. 501, p. 146 La Penna feta tibi occurrat patrio popularis in arvo | sitque Phalaeceae [paphagee, paphegee, pesagee, pegasee, alla codd.: corr. Heinsius coll. Nic. fr. 38 Schneider] causa leaena necis (v. 501 sq.)] Pegasus [BaZ Conr.: Paphagus b] Epirotes, cum circumsederet Ambraciam, exivit venatum et leaenae catulum nactus sustulit; quem consecuta leaena laniavit, auctore

Callimacho Pf. iam monuerat huc revocari posse Aetiorum libri tertii fr. 160. Nunc Diegeseos Mediolanensis fragmentum novum docet fabulam de catulo leonis hoc terti libri loco narratam fuisse

160 (60 Pf. = SH 268A) Et. M. codd. DMPR

s.v. βρέφος

(B 307, II p. 497. 20 Lasserre-Livadaras; Callimachi

mentionem om. Er. Orion. p. 35. 8 Sturz, Et. Gen. AB βὶ 250 II p. 497. 3 LasserreLivadaras, Et. Gud. d p. 286. 15 de Stef., Er. Sym. B 203/13 II p. 496. 25 Lasserre-

Livadaras, Zonar. p. 408 Tittm.) + τὸ νεογνὸν παιδίον, κυρίως ἐπὶ ἀνθρώπου. Καλλίμαχος ἐν τρίτῳ τῶν Αἰτίων καὶ ἐπὶ εκύμνου τίθηει Callimachum de catulo leonis locutum esse veri simillimum (vd. comm.): de frr. 159 et 160 ad idem aetion referendis vd. adn. ad fr. 159. Hoc leonis βρέφος leonem Nemeaeum ‘filium lunae' fuisse (vd. comm. ad fr. 147) perperam suspicati erant Rauch (p. 44) et Schn.

Il p. 137

Diegesis Mediolanensis ad «Phalaecum Ambraciotem» (frr. 159-160)

(col. Y) ---]Jer.[.]v...[---]. „Aecevel------ τῶν οἰκείων [---Ἰ---] τὰς χεῖρας, ἀπεο[φάγη Ι΄ ὑπὸ τῆς ἀπο]τεκρύεης λεαίν[ης ---I--- ὑπέ]οχοντο τῇ ᾿Αρτέμ[ιδι ---I---]

|

PMilVogliano 18, col.Y,1-7= PMilVogliano inv. 1006, 1-7 diegeseos vestigia ad fabulam Phalaeci spectare viderunt Gallazzi-Lehnus lemma et diegeseos inittum in fine praecedentis columnae fuisse veri simile 17 [;nvelı ...[: primo loco ὁ potius quam 6; secundo ß vel p potius quam 1; tertio o potius quam 8 vele 2]. : priore loco punctum in summa

linea; altero fort. e, 0, 0, c, ©

téhecev vel ὥλεεεν

vel horum

verborum formas

compositas e.g. prop. Gallazzi-Lehnus 3-5 suppl. Gallazzi-Lehnus 3 7]ôv οἰκείων scil. leonum vel agrorum? (cf. Ov. Ib. 501 sq. patrio popularis in arvo |... leaena) 4 cf. Ant.

Lib. IV 5 ἀναλαβόντος δὲ εἰς τὰς χεῖρας (scil. Phalaeci) etiam de ἀπες[πάεθη vel ἀπεςο[παράχθη cogitaverunt Gallazzi-Lehnus 6 drélcyovro (scil. Ambracienses) suppl. M. L. West ap. Gallazzi-Lehnus: cf. Dieg. V 42 sq. ad fr. 213

fin. suppl. Gallazzi-Lehnus

Fragmenta nonnulla incertae sedis ad Phalaeci fabulam pertinere posse monuerunt C.

98

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Gallazzi - L. Lehnus, «ZPE» 137 (2001), p. 11 sq.: fr. 509 Pf. de Epiri urbe Buchetio (vd. etiam Lehnus, Notizie V p. 283); fr. 523 Pf. de aliquo (leaena?) sanguinem devorante; fr. 620? Pf. de puella zonam nondum gestante et vestem in altero humero solo adhuc configente (sicut Diana Venatrix?); fr. 646 Pf. de Arattho flumine Ambracio

161-162 (Thesmophoria Attica) 161 (novum), aetii initium

1.[.Ivl..1.L..... Jel PMilVogliano lemma

18 (= Diegeseis

].[: apex hastae

Mediolanenses),

]v[ potius quam Jıy|

col. Y, 8 = PMilVogliano

inv.

1006,

8:

].[: fort. e,0,0,cvely,n,t

162 (63 Pf.)

l'doredv παιδί. 8 [. 1. er. π]ολλὸν κῆρι βαρυ[νομέ]νη

Ϊκαλέουςα γυνὴ τ

.[...... LI

[, .1..{.10ὺ.4ἀν-ς1...1.}

|.nı γρηὺς yeirolv.].|.Ipxonevn

5

]. ᾿ ἰδεῖν où γάρ uw [.._]xAmiccev[. Jovro ].c* ἄφαρ δ᾽ ἀνὰ μὲν θυμὸς [E]yevro Belfilc ] τος: πολλὸν δὲ περὶ φρεεὶν ἀχθήναεα Jen κούρηι πζό]τνα χαλεψαμένη. τοὔν]εκεν οὔ πως ἐςτὶν ἐπ᾽ ὄθμαειν olilcıv ἰδέ[εθ]αι παρθενιϊκαῖς Δηοῦς ὄργια Oecuopépou πρὶν] πόειν ἐλθέμεναι, πρὶν νύμφια λέκτρα τελέεςαι εὐαγ]ὲς ἐκ κείνου χρήματος ᾿Ακτιάειν.

10

Scholiorum reliquiae in POxy. 2258, inc. sed. fr. ὃ 'verso' (= Call. fr. 725a 'verso' Pf.) ad hoc fragmentum spectare possunt, ut vidit Pf. (γυ]ναικί ad v. 3 γυνή fort. pertinet): vd. Schol. ad fr. 163

---]

[--- (vestigia incerta)l--- γυναικὶ (suppl. L.) κατί---ἰ---]ὰ |. Jo. .anl[---I---ne.[---P-

--lac[---

1-12 POxy.

2211,

fr. 1 'verso' abc,

1-9; 1-3 in marg.

superiore ab alia manu

(m?)

add.,

prob. suo loco: tres versus ad partem inferiorem paginae nunc perditam pertinere (post fr. 163, 19) veri dissimile est

12 Steph. Byz. s.v. ᾿Ακτή, a 176, I p. 124. 18 Billerbeck ... τὸ ἐθνικὸν ᾿Ακταῖος καὶ

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 161-162

99

᾿Ακταία [cf. Hec.fr.230 Pf. = 1 H.]... &cri καὶ ᾿Ακτιάς 1 ἴδοι N. 1. Richardson ap. Hollis, Artica p. 14 adn. 62

δίθ et -Geupap.

È

[: fort. pars

sinistra litt. e (θε[ἢ possis, cf. v.6) [..]....: primo loco δ᾽ vel B; secundo fort. 0; tertio fort. x (si duae litt., fort. τ); quarto fort.ı post der (fort. vestigia atramenti supra 1) litt.

caudata, fort. p

2 ὁνκῆ pap.

suppl L.

3Aéetàvpap.

ἐγ]καλέουεα W. S. Barrett

ap. Hollis, Attica p. 14 adn. 62 punctum post dv librarii errorem esse susp. Hollis, Artica p. 13 adn. 61 metri causa (vd. Introd.IL.1.A.d.) 4].: prob. À ypfüc pap. (de accentu vd.

Pf. ad Hec. fr. 260, 50 = SH 288, 50 = fr. 74,9 H) γεέιτ et μένῃ pap. suppl. L. &]pxouévn vel élpxouévn vel horum verborum formas compositas possis 5 ] : fort. p τδ etxAnicpap. [&ve]cAmiccev [i]ovta (non revocavit abeuntem') prop. Pf. 6]-c pap. (Je vel ülc L.) «αφαρδ᾽ ανὰμενθυμὸς[ 7 pap. suppl. L. 7 noAAdv et φρεεϊναθή pap., x supraser. m2 8xopic]@n W. S. Barrett ap. Hollis, Articap. 13 adn. 61, ὠργίε]θη Ma. et Li. ap. Magnelli, Callimaco p. 50 adn. 17 (utrumque spatio longius)

x6vpnua[/] et

uévn: pap. suppl. L. 9 suppl. L. ὀυπωςεοςτὶνεπόθμαεινο ᾿Π]εινῖ δὲ pap. cum pap. ἐςτὶν scripsi et cum L. v. 12 eday]tc supplevi: in Hom. semper οὔ πῶς ἔςτι(ν) c. (acc. et) inf. (vd. comm.) 10 interlineas add. m! suppl. L. καϊοδηοῦοόρ et göpovpap. 11 sq. delendos vel totum fragmentum Callimacho abiudicandum esse censuit Ma. ap. Pf. (sed

vd. comm.)

11 xpiv] dubitanter suppl. Pf. (altero πρὶν retento vel in καὶ mutato), sed

supplementum suum in textum non recepit: geminationi πρὶν] ... πρὶν suffragatur SGO I

04/07/05 v. 3 πρὶν γάμον ἐκτελέεαι, πρὶν εἰς μέτρον ἀνέρος ἐλθεῖν, ut vidit Magnelli, Memoria p. 53 πόειν pap.: καὶ] ποεῖν perperam Howald-Staiger (p. 250) ελθέ et vouoproñéktpatehécoon pap. 12 suppl. L. (vd. app. ad ν. 9) κέι, χρή et tia pap.

Diegesis Mediolanensis ad «Thesmophoria Attica» (frr. 161-162)

Gol.Y)--] [NET

Jef...

Eat

PMilVogliano 18, col. Y, 8 sq. = PMilVogliano inv. 1006, 8 sq. inittum diegeseos ad «Thesmophoria Attica» hic agnoverunt Gallazzi-Lehnus: nam 1) huius papyri columnae non plus quam 44 versus capiunt; ii) columnae Y vv. 1-7 exhibent partem alteram diegeseos ad «Phalaecum

Ambraciotem»,

ultimi

vv.

continebant

lemma

et

initium

diegeseos

ad

«Acontium et Cydippam» (cuius altera pars in capite col. Z cernitur): quamobrem inter lemma v. 8 et lemma diegeseos ad «Acontium et Cydippam» paulo plus quam 30 versus erant; 111) cum in hac papyro diegeseis ad singula aetia e circ. 10 versibus constent, veri simile est inter diegesin ad «Phalaecum Ambraciotem» et diegesin ad «Acontium et Cydippam» trium fabularum diegeseis fuisse; iv) cum POxy. 2211 doceat «Thesmophoria Attica», «Sepulcrum Simonidis», «Fontes Argivos» et «Acontium et Cydippam» continuari nullo intervallo, hoc esse inittum diegeseos ad «Thesmophoria Attica» concludas 8

lemma = fr. 161 (de singulis litt. vd. app. adloc.)

9][:avelô

].:avele

Ad hoc aetion respicere possunt frr. inc. sed. 259, ubi de muliere in Thesmophoriis papavere vescente fort. agitur, et 266 de Cerere in puteo Eleusinio post raptum Proserpinae considente.

Frr.

inc. sed. 610 Pf. et 704 Pf., ubi de Thesmophoriis

fort. agitur, ad hanc

elegiam pertinere posse non omnino negandum est (vd. comm. ad locc.). Suppl. SH 308 B

100

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

οἷς où θέμις ὄμμα βάλῃειν ap. Synes. Provid. II 5 (Opusc. p. 123 Terzaghi), si revera Callimacheum est (ut primus comecit M. L. West ap. Hollis, Light p. 36), «Thesmophoria Attica» spectare susp. Hollis, Light p. 36 adn. 7, coll. fr. 162, 9-12

ad

163 (64 Pf.) (Sepulerum Simonidis)

Οὐδ᾽ ἄ]ν τοι Καμάρινα tocov κακὸν okkôocov ἀ[ν]δρός κινη]θεὶς δείου τύμβος ἐπικρεμάεαι: καὶ γ]ὰρ ἐμόν κοτε cu, τό μοι πρὸ πόληος ἔχ[ευ]αν Ζῆν ᾿Ακραγαντῖνοι Ξείνιτ[ο]ν ἁζόμενοι, ἶφι κ]ατ᾽ οὖν ἤρειψεν ἀνὴρ κακός, εἴ τιν᾽ ἀκούει[ς Φοίνικ]α πτόλιος CXÉTMOY ἡγεμόνα, πύργῳ] δ᾽ ἐγκατέλεξεν Èἐμὴν λίθον οὐδὲ τὸ γράμμα ἠδέεθιη τὸ λέγον τόν LIE Λεωπρέπεος keicho.nı Κήϊον ἄνδρα τὸν ἱερόν, ὃς τὰ repiccé

5

10

.. καὶ] μνήμην πρῶτος ὃς ἐφραςάμην,

οὐδ᾽ ὑμιέας, Πολύδευκες, ὑπέτρεςεν, οἵ με μελάιθιρου μέλλοιντος πίπτειν ἐκτὸς ἔθεςθέ κοτε δαιτυμιόνων ἄπο μοῦνον, ὅτε Κραννώνιος ιαἰιαῖ ὦιλιειθιειν μεγιάλοιυς, οἶκος ἐπὶ LC κι οἰπάδι IC.

15

ὥνακες, dA [i], γὰρ ἔτ᾽ἦν [ Ι.. -ῳφοὔμεδ ... Model

an net.|

I

|| Bociv | ].iovvöo|

lev ἀνῆγεν

1.1.1. ετ΄ καὶ}

Scholiorum reliquiae in POxy. 2258, inc. sed. fr. 8 'recto' (= Call. fr. 725a 'recto' Pf.) ad fr. 50, 42 vel ad hoc fragmentum respicere possunt, ut monuit L. (Kouapıw( } ad v. 1 fort. spectat); si in pagina versa de muliere fabulae Atticae agitur (fr. 162, 3, vd. Schol. ad fr. 162), pagina recta potius ad hoc fragmentum pertinet (Pf.)

---]ı Καμαρινί )[--- (in init. 1 vel v)I---]@n. [---I---Inc. [---

1-19 POxy.

2211,

fr. 1 'verso', 10-28

7-9 Aelian. Περὶ προνοίας fr. 66 p. 56. 12 Domingo-Forasté ap. Suid. s.v. Ciuoviönc, € 441, IV p. 362. 9 Adler ... ᾿Ακραγαντίνων [AG: -tivoc VM] ετρατηγὸς ἦν, ὄνομα Φοῖνιξ" Copaxovcioic δὲ ἐπολέμουν οὗτοι. οὐκοῦν ὅδε ὁ Φοῖνιξ διαλύει τὸν τάφον Tod (ιμωνίδου μάλα ἀκηδῶς τε καὶ ἀνοίκτως, καὶ ἐκ τῶν λίθων τῶνδε ἀνίετηει πύργον. καὶ κατὰ τοῦτον ἑάλω ἣ πόλις

[διαλύει-πόλις etiam Suid. 5.ν. ἀκηδής, a 860, I p. 80. 24

Adler]. ἔοικε δὲ καὶ Καλλίμαχος τούτοις ὁμολογεῖν. οἰκτίζεται γοῦν τὸ ἄθεομον ἔργον, καὶ λέγοντά γε αὐτὸν ὃ Κυρηναῖος πεποίηκε τὸν γλυκὺν ποιητήν ᾿οὐδὲ-ἄνδρα᾽ … [vd. infra ad vv. 11-14]

TESTO CRITICO: AET. II FR. 163

8 sq. Lex. Ambr. cod. L s.v. Λεωπρέπης (ιμωνίδου - 'τόν-ἄνδρα᾽ παρ᾽ Αἰςχύλῳ (sic) 11-14 Aclian. Περὶ προνοίας fr. 66 p. 56. 16 441, IV p. 362. 11 Adler ... [vd. supra ad (κοπάδας᾽., τιμωροὶ μὲν δὴ θεοὶ τοῖς ἀξίοις

101

(ap. Pace p. 323) Λεωπρέπει δὲ τοκεῖ τοῦ Domingo-Forasté ap. Suid. s.v. (ιμωνίδης, c vv. 7-9] κάτ᾽ εἰπὼν ἄττα ἐπιλέγει: ‘od’ κτλ. fort. Quintilian. Inst. or. XI 2, 14, II p.

644. 23 Winterbottom est autem magna inter auctores dissensio Glaucone Carystio an Leocrati an Agatharcho an Scopae scriptum sit id carmen [scil. epinicium, cui laudes Dioscurorum

additae

erant

=

Sim.

PMG

510],

et Pharsali fuerit

haec

domus,

ut ipse

quodam loco significare Simonides videtur [cf. fort. PMG 521] utque Apollodorus [FGrHist 244 F 67] et Eratosthenes [FGrHist 241 F 34] et Euphorion [fr. 55 Scheidweiler = 61 De Cuenca = 179 van Groningen]

266 F 6] Callimachusque machus

Bentley:

... tradiderunt, an Crannone,

[Cal(l)imachusque p, Schneidewin:

Callimachius

Preller],

quem

secutus

Cicero

ut Apollas

[FGrHist

Calimachus G: Calli[De

orat. Π

351-353,

vd.

comm.] hanc famam latius fudit

14 prob. Hesych. s.v. ὥλιςθεν, ὦ 166, IV p. 323 Schmidt ἐςφάλη, ὠλίεθηςεν (nisi ad Soph. EI. 746, ubi ὥλιεθεν cod. L, cett. recte ὥλιςθε) 1-14 = Sim. test. 21 Campbell

1 coronis in marg.

sin. nunc abscisso initium elegiae

novae indicavit: cf. infra frr. 165, 9; 175, 1 (2), 180, 3; 195, 3; 199,1

1.54. suppl. Pf. ap.

L., collato proverbio de Camarina (vd. comm.) 17] ντοικαμά et κακόνόκκόςοναί Ἰδρὸς pap. 2 Beicociovrd et éco: pap. 3 suppl. L. εμόν, εἢματό et πόληοςέχ pap. 4 init. suppl. Pf. ap.L. τῖνοιξέινι ραρ. Zeivi[o]v suppl. L. (quamvis [o]va brevius spatio esse videatur)

Couevor pap.

δ ἶφι suppl. Ba., Recensione II p. 81 (κεῖνο longius spatio

proposuerat Pf.), cett. L. οὔνἠριψενανὴρκακός -εἰτινακόυει pap. 6 sq. suppl. L. e Suid. supra ad vv. 7-9 allato 6 πτόλιοςεχέ et μόνα: pap. 7-9 et 11-14 recte contra priores omnes, qui fragmentum a Suida servatum epigrammati cuidam deperdito adscripserant, de Aetiorum parte cogitavit Wil., Hell. Dicht.I p. 180 adn. 1 7 δ᾽ ἐνκατέ et

λίθονουδὲ pap. 8 init suppl. 1. Agyoviov[_]e pap.: υἱόν ue Lex. Ambr. ([u]e in pap. iam suppleverat Ma. ap. L.): λεγόμενον υἱὸν Suid. (div A, viviv V): λέγον I. Pearson: λέγον u’ υἷα Bentley Aewnpeneoc pap.: Λεωπρεπέος Lex. Ambr. (quod iam coniecerat Bentley: -πρέπεος C. W. Göttling, Commentatio de duobus Callimachi epigrammatis, Progr. Ienae 1857, p. 9 = Opuscula academica, Lipsiae 1869, p. 261): Λεοπρεποῦς Sud. cod. V: Θεοπρεποῦς G: Medorperode A 9 suppl. L. κήϊονάνδρα, ἵερόν et repitca

pap.

κόιον ἄνδρα Lex. Ambr: κεῖνον ἄνδρα Suid. cod.

A

10 καὶ suppl. L., init. ἤδη

(= idea) dubitanter Pf. et Ma. ap. L., quia ne hoc quidem lacuna capere videtur (praeterea Callimachum forma contracta 'Attica' ἤδη pro ἤδεα usum esse valde incertum): ἤειςα] Angiò p. 57 et Gronewald p. 46 (sed 'asyndeton' h.l. tolerari nequit): ἡ ὦ καὶ] Li., Simonide

p. 57 (Call. Zamb. fr. 195, 3 Pf. ἄλφα βῆτ[α conferri posse moneo):

eDpov kai] vel

ἐξεῦρον] Magnani p. 19 (utrumque spatio longius; ‘asyndeton' h.l. tolerari nequit): ὥνηςα]

et öc’ &pp. Di Marco p. 55, qui tà repiccò (v. 9) adverbium et xp. öc’ ἐφρ. 'exclamationem relativam' esse putat (τὰ mepucò adv. iam J. Lightfoot in comm. ad Parthen. fr. 39 = SH

651; öc’ iam Barigazzi, Due note p. 58) μνήμηνπρῶτοοδεεφραςάμῃην pap. 11-14 suppl. L. 11 éacet ünépap. οἴμοι Suid. cod. A 12 πίπτραρ. ἐθεεθέ pap., Suid. cod. 6: ἔθεεθαί M: ξεεεθέ A: ἔεεεθαι V KOTE pap.: note Suid. 13 ὀνωναπομοῦνον “ὁτεκραννώνϊος[͵ Ἰαῖ pap. ἄπο Suid. (ἄτρη cod. V) Kpavövı Suid. cod. A: Kpavvwviov cett.: correxerat Bentley

αἴας Suid.: correxerat Bentley

14 μέγας

102

CALLIMACO

Suid.: correxerat Bentley fuisse potest xec' pap.

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

πάδ pap. αλ vel ay

15

litt. incertissima, at vix aliud vocab. in init. . .[: vestigium in summa linea et apex hastae

verticalis ||: brevis hasta verticalis yùpét’fiv pap. 16 fort. ζῳοῦ Pf. (cett. νος. in -®oc properispom.?) at litt. ὦ incertissima (op?) tö]ußoc?L. v.[ cum. L. scripsi: v[ per errorem Pf. 17 ἴρ νεῖ τῷ 19 fort initium fabulae sequentis Finitur aetion de sepulcro Simonidis, incipit aetion de quattuor fontibus Argivis aut in huius fragmenti v. 19 aut paulo post in paginae parte inferiore deperdita: nam vv. 1-9 sequentis paginae finem novae fabulae tradunt (= Call. fr. 165)

164-165 (Fontes Argivi) 164 (65 Pf.)

Αὐτομάϊτης | εὐναὲς Er®vo[uov, ἀλ]λ᾽ ἀπὸ cleî]o λούονται λοχίην οἰκέτιν͵ ὁ ὁὃΘ6Ξ΄ Inc 1 sq.

Commentar.

in Antim.

in PMilVogliano

17, col.

II,

14-16,

vol.

I (1937)

p.

51

Vogliano = p. 81 Wyss = p. 441 Matthews (praecedit Antim. fr. 179 Wyss = 104 Matthews lacunosum de fonte Argivo Physadeia; supplementa quorum auctor non laudatur, editoris

principis sunt) οὐκ ἀ[πὸ] τῆς Φυς[αδ]είας pnciv 6 Καλλ[ίμαϊχος τὰς Aeyodc (-odc edd.: corr. Fowler) λ[ούεςθ]αι Alodech]laı suppl. L. ap. Vo.), ἀλλ᾽ [ἀπ]ὸ τῆς Αὐτομάτης: ᾿Αὐτομά[της-]ης᾽΄. καὶ ᾿Αγίας [καὶ Δερκύλο]ς ἐν τ[οῖ]ς ᾿Αργολικοῖς gacv (farci pap.) οὕτως: ᾿ὑδ[ρεύϊονται ἐ]κ μὲν τοῦ Ἱ[ππείου (Ἰ[ππείου suppl. L., POxy. Part XIX, 1948, p. 20, coll. τοῦ Αὐτοματείου infra et fr. 165, 8 ‘H[paiov Vo. et dubitanter D'Alessio, Argo p.

117) παρ]θένο[ι al] καλοῦνται ‘Hpeciôec καὶ φ[ζέϊροντι τὰ] λοετρὰ τ[ᾷ Ἥρᾳ τᾷ] ᾿Ακρεί[ᾳ] (aut ᾿Ακραίᾳ aut ᾿Ακρίᾳ prop. Pf., cf. Paus. et Hesych. in comm. allatos), ἀπὸ δὲ τοῦ Αὐτοματείου φέϊρουεαι (fort. gélporcor Cassio p. 266) ὑ]δρεύονται π[αρθένοι αἱ] καλοῦ [ν]ται Λοχεύτριαι, ἐπεί κέ (xd? K. Latte ap. Wyss, sed vd. Cassio p. 266) τις τ[ῶν | γυναικῶν] (γυναικῶν suppl. Wyss) λοχεύητ[αι τῶν Su]oido[v] (suppl. L. et Ma. ap. Vo.: λοχεύἣτί[αι, i.e. λοχεύεητ[αι, Cassio p. 263 adn. 2 coll. Dercyl. FGrHist 305 F 5 = EGM test. 2). ἴδια (δία pap.: ἰδίᾳ Wyss) δ᾽ ἀπὸ τᾶς λοχείας pépovftil ....... [FGrHist 305 F 4 = EGM fr. da] (quae sequuntur, vd. ad fr. 165, 3)

fort. Hesych. s.v.

Ἠρεείδες, n 757, II p. 293 Latte κόραι αἱ λουτρὰ κομίζουεαι τῇ “Hp

(ad hoc aetion

dubitanter rettulit Pf.: Haec glossa potius e Callimacho quam ex 'Argolicis' [scil. Agiae et Dercyli]; fort. in hac Aetiorum parte, ubi de Hippe fonte agit [cf. fr. 165, 8], vocabulo usus est) fort. Et. Gen. AB s.v. Hpeciôec (p. 165 Massimilla; cf. Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad

Et. M. p. 436. 49 Gaisf., Et. M.11.): ai ἱέρειαι τῆς ἐν τῷ “Apyer Ἥρας. ἀπὸ τῆς Ἥρας [&rö-"Hpoc Er. Sym. cod. V, Et. M: om. AB]. ἢ ἀρυείδες, αἱ ἀρυόμεναι τὰ λουτρά, παρὰ τὸν ἀρύεω μέλλοντα (ad hoc aetion dubitanter rettulit PÎ.: vd. ad Hesychium supra allatum) 1 e commentarii paraphrasi colligi potest Callimachum in disticho praecedente οὐκ ἀπὸ

Φυεαδείας dixisse Αὐτομάϊίτης suppl. Vo., qui particulam elisam ante eùvatc deesse coni. ἐπώνυϊμον suppl. Vo., scil. νᾶμα vel ὕδωρ ἀλ]λ᾽ suppl. Vo. c[eî]o suppl. Ma. ap. Vo.

2 medium λούονται mirum

quot litterae in lacuna perierint, valde incertum (in

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 163-165

103

fin. 1. 15 aut nullae aut admodum paucae, init. 1. 16 circ. 5): subiectum ad λούονται deesse

videtur, i.e. παρθένοι Argivae quae dicuntur Λοχεύτριαι Res ipsa docet fragmentum spectare ad aetion de fontibus Argivis, cuius finis in fr. 165 exstat (hoc distichon et fr. 165, 3 eidem Aetiorum parti iam adscripserat Vo.)

165 (66 Pf.)

5

1-9 POxy. 2211,

npôccat [ | τᾶς Ἰαείδος ver[o]decνύμφα TIfoc]eısawvoc ἐφυδριάς, οὐδὲ μὲν Ἥρης ἁγνὸν dI φιαινέμεναιτ! τῆιει HÉUMLAEI πάτος «τῆναι [πὰ]ρ kavöveccı πάρος θέμις ἢ τεὸν ὕδω[ρ κὰκ κεφ[α]λῆς ἱρὸν πέτρον ἐφεζομένας χεύαεθαι, τὸν μὲν εὖ μέοον περιδέδρομας ἀμφίς: πότνι᾽ ᾿Αμυμώνη καὶ Φυςάδεια φίλη Ἵππη τ᾿ Αὐτομάτη τε, παλαΐτατα χαίρετε νυμφέων οἰκία καὶ λιπαραὶ ῥεῖτε IleAacyıadec. fr. 1 'recto', 1-9

2 sq. Meletius De nat. hom., Cramer, AO HI p. 93. 22 et F. Ritschl, Opuscula philologicaI (Lipsiae 1866) p. 700 (de codd. vd. ad Hec. fr. 263 Pf. = 80 H.; ibid. de Melet. fontibus) τὸν

. τοῦ διαφράγματος ὑμένα περίπεπλον Akyovcı διὰ τὸ περιειλεῖεθαι αὐτὸν τοῖς «πλάγχνοις: ἢ πέπλον διὰ τὸ ὑφαπλοῦεθαι [ἐφαπλοῦεθαι Schn. II p. 652]: ἢ πάτος ἀπὸ τοῦ πεπῆχθαι καὶ οἷον ευνεοφίχθαι: διὸ καὶ 6 Καλλίμαχος οὕτως ἔφη: “Ἥρης-πάτος᾽ [ἢ πότος - πάτος om. BCK] 3 Commentar. in Antim. in PMilVogliano 17, col. I, 23, vol. I (1937) p. 51 Vogliano = p. 83 Wyss = p. 442 Matthews (quae praecedunt, vd. ad fr. 164; supplementa quorum auctor

non laudatur, editoris principis sunt) κ[αὶ τοῦτο ἐκ] τῶν ’A[yi]ov καὶ Δερκύλου [FGrHist 305 F 4 = EGM fr.4ab] παρέκειτο, [ἀφ᾽ | ὧν ἐφαίνετο ([&p’] &[v ἐφαίνετο suppl. Ma. ap. Vo.) è Ka[XAiuoyoc] ἅπαντ[α eliàangoc: καὶ δὴ καὶ τὸ πάτος ἐϊκεῖθζένν éc[rlivἱἁγνὸν-πάτος᾽ Hesych. s.v. πάτος, x 1119, III p. 54 Hansen... καὶ ἔνδυμα τῆς Ἥρας 1-5 suppl. L.

1np@ccoi pap.

].: prob. a, sed À excludi nequit

1Gc pap. (si recte, cf.

Hec. fr. 338 Pf. = 87 H. et prob. fr. 213, 44 de gen. in -ac pro -nc?): [βα]λιᾷς Ba. ap. Trypanis (p. 48): [φα]λιᾷς Lehnus, Two Notes p. 31 (optime) tacidoc et dec: pap. 2 vou pap. ]vpap., s suprascr. m? κεν pap., x del. et suprascr. m? ἥρης pap. 3 ayvovül., loivéuevol Ἰτῆιειμέμη[. Ἱπάτος pap.: œyvovl ]uevarrn|[. Ἰιμεμηλεπατος Commentar. in Antim. ὑφηνέμεναι Melet. cod. A: -γέμεναι M 4 civoul Jp κανόνεςειπάροεςθέμιςεητεόνῦ pap. 5 Aficipovré et μένας pap. 6 χέυαεθαι τον uèvevuécov ρᾶρ. περὶδέδρομες pap.: -δέδρομας aut -δέδραμες Pf. αμφίς: pap. 7 πότνι αμυμώνηκαιφυςἀδειαφίλη: pap. 8.ἱππητ᾽ αυτομάτητε-παλάιταταχαίρετε pap. (trema ante - non supra - ı disp. Pf.)

marg. sin. (vd. ad fr. 163, 1) Ma. ap. Trypanis (p. 48)

εὐυμφέων pap., € del. et v suprascr. m?

otkia, paipel et &öec-pap.

9. coronis in

IleAocyw&cw dubitanter coni.

104

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

166-174 (Acontius et Cydippa)

166 (67 Pf.) Αὐτὸς Ἔρως ἐδίδαξεν ᾿Ακόντιον, ὁππότε καλῆι ἤιθετο Κυδίππηι παῖς ἐπὶ παρθενικῆι, τέχνην - οὐ γὰρ OY Ecke πολύκροτος - ὄφρα λέγο͵ | τοῦτο διὰ ζωῆς οὔνομα κουρίδιον. À γάρ, ἄναξ, ὁ μὲν ἦλθεν Ἰουλίδος N δ᾽ ἀπὸ Νάξου, Κύνθιε, τὴν Δήλωι chv ἐπὶ βουφονίην, © x 4 m > / ς 4 / αἷμα τὸ μὲν γενεῆς Εὐξαντίδος, ἣ δὲ IIpoundlic, καλοὶ νηςάων ἀεςτέρες ἀμφότεροι. πολλαὶ Κυδίππην ὀλ[ί͵]γην ἔτι μητέρες υἱοῖς EOVACTLV κεραῶν ἤιτεον ἀντὶ βοῶν: κείνης ο[ὑ]χ ἑτέρη γὰρ ἐπὶ λαείοιο γέροντος CiAnvod νοτίην ἵκετο πιδυλίδα 3 A 2 , , e y NC n ἠοῖ εἰδομένη μάλιον pédoc οὐδ᾽ ᾿Αριήδης ἐς χ]ορὸν εὑδούεης ἁβρὸν ἔθηκε πόδαἸήκης! 1. δ᾽ ἔκεταεις, οὔτινος αὐτῆς

5

10

15

lvl

Jc ἔχειν il. ].ov°

Jociv ὠικίς[ςα |]. ἀ]πειπάμεν[αι

JL.IV ἐπιτιμί

20

ulodvov ἔμεν αἱ

Jo

].[.]v ὄθμακιν[

1-22 ΡΟχν. 2211, fr. 1 'recto', 10-31

7 Et. Gen.B s.v. Edéavtidoc [Εὐξάντιδος cod.] (p. 165 Massimilla; cf. Et. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M. p. 394. 34 ‘yeveñc Εὐξαντίδος᾽, Et. M.1.l. γενεῆς Εὐξαντίδος᾽; deest articulus in Et. Gen. A, ubi A! praebet lemma Εὐξαντίδος (Εεὐξάντιδος cod.) sine explicatione): οἷον ᾿αἱμα-Εὐξαντίδος᾽. Εὐξάντιος, τὸ πατρωνυμικὸν Εὐξαντιάδης, τὸ θηλυκὸν Εὐξαντιὰς Εὐξαντιάδος. ἀρον τὸ a καὶ γίνεται Εὐξαντὶς [Εὐξαντὶς Er. Sym. cod. V, Et. M. cod. M: om. B] Εὐξαντίδος [Εὐξάντιδος Β]. Ἡρωδιανὸς Περὶ παθῶν [Gramm. Gr. III 2, p. 239.

13 et

Add. p. 1250 Lentz;

Ἡρωδιανὸς-παθῶν

Et. Sym. cod. V, Et. M.: om. B]

Schol. Vat. (C) Dion. Thr., Gramm. Gr. 13, p. 222. 9 Hilgard τὸ δὲ Εὐξαντιὰς Εὐξάντιος, τὸ δὲ ᾿Εὐξαντίδος᾽ παρὰ Καλλιμάχῳ ὕφεειν ἔχει tod u 8 Schol. (b(BCE3)T) Hom. Π. XIX 1 b, IV p. 572 Erbse ῥοάων] Βοιώτιος À φωνή τῶν εἰς ec Apcevik@v ... [(Call.) fr. inc. auct. 786 Pf., ubi vide; Epich. PCG 121] τῶν εἰς oc ἱκαλοὶ-ἀςτέρες᾽ 12 fort. Hesych. s.v. πιδυλίς [πηδυλίς cod.: corr. C. A. Lobeck, Pathologiae Graeci prolegomena, Lipsiae 1843, p. 125], x 2163, III p. 106 Hansen πέτρα ἐξ

ἀπὸ Tod καὶ ἀπὸ καὶ ἀπὸ sermonis ἧς ὕδωρ

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 166-167

105

ῥέει (praecedit glossa πηδύειν duplicata: in alterius explicatione verbum πηγάζειν legitur) 1 ἐρωςεδίδαξενακόντιον ὁππότεκαλῆι ρᾷρ. 2 ἤιθετο pap. (1 add. m?) κυδίππηιπᾶις et κῆι pap. 3 τέχνην ουγὰρὅγ᾽ ἑςκεπολύ et ὄφραλέ pap. τέχνην cum ἐδίδαξεν ᾿Ακόντιον coniunxit Pf., cum πολύκροτος L. de particula γάρ tertio loco posita cogitans (vd. comm.) fort. λέγοιτί[ο legi potest (pes hastae ad dexteram paulum inclinatae et pars inferior hastae infra lineam descendentis; vd. Pa. ap. Cairns p. 472 adn. 14): λέγοι tlic

Gigante p. 209-470: vix λέγοι u[w Kassel p. 100-373 vel λέγοιμ[ζεν Kassel ap. Kenney, Love p. 410 adn. 29: vix Aéyore[v Barigazzi, Note p. 202 4 τοῦ et ζωῆοόυνομα κουρίδιον - pap. κουρίδιος, si λέγοιτίο v. 3, exspectat L. (sed vd. comm.) 5 ἢγαράναξὸὁ et iovAldoc -ἣδ᾽ απονάξου pap. 6 κὐνθιετηνδήλωιςἠνεπὶβουφονί pap. 7 ἁῖμα et yevefjcevgovriöochderpo pap. Εὐξαντίδος Et. Sym. cod. V, Et. M. cod. D (om. cett. codd. Et. M): Εὐξάντιδος Et. Gen. suppl. L.: Προμήθ[ου Barigazzi, Note p. 203 fort. recte (vd. accentum πρὸμηθί in pap.) 8 καλὸινηςᾳωναςτέρεςαμφότεροι pap. verba in Schol. Hom. supra allatis laudata Callimacho tribuerat Naeke p. 58, huic Aetiorum parti Dilthey p. 53 adn. 4 (etsi de insulis Cycladibus ipsis cogitans) 9 πολλὸι pap.: corr.

L. xvöinanvoAl’Jynverumtepechiic, pap. suppl. L. 10 ἑδνῆοτινκεραῶνήιτεον avtiBo&v pap. fort. &övncriv voluit Callimachus (vd. comm.) 11 suppl. L. ξετέρῃ εἰ λαείοιογέ pap. 12 ςξιληνουνοτίηνζ κ pap. πηγυλίδα pap.: πηδυλίδα vel potius πιδυλίδα Pf. 13 ηοϊειδομένημάλιονρέθος ουδ᾽ αριήδης pap. aut ’Hoî? 14 suppl. L. povevdôv et αβρὸνέθηκεπόδα: pap. 15m pap. ].: vestigia curvaturae supra lineam ö’Excracıc-9vpap. 16 | v:fort.n xevelkp Jcevellee ] οὔ: fort. superior pars litt. cautp 17 οἰκί pap. (prius vadd. m?) suppl. L., ad fin. atramenti vestigia minima, fort. e vel o; finis hex. spondiaci (vd. Introd. IL1.A.a.) esse videtur, aut oıkic[cacQ]e aut (si capit

lacuna) @uic[covt]o act.

ἀἸπειπάμεν[αι

18 rau pap. aut

part.

Callimachus (vd. comm.) övvove&pap. Aal velya[

aor.

ἀ]π suppl. L. (ἐ]π vel d ]a? Pf.), ν[αι Pf.; inf. aor. med.?

h.l.

vocabulum

xectöc

fort.

usurpavit

19] [: fort. inferior pars. litt.c u[velv[ 20 suppl. L. 21 Jc[u]v legi potest. 60u pap. (accentum dispexi) 22].[:

y vel x vel partes duarum litt.

167 (68 Pf.) /

5

5

,

e

,ὕ

A



μέμβλετο δ᾽ eienvnAauc ὁππότε κοῦρος ἴοι φωλεὸν ἠὲ λοετρόν 1 sq. Er. Gen. AUB s.v. εἰςπνήλης (Wendel ad Schol. Theocr. XII 12-16 Ὁ, p. 253; p. 165 Massimilla; cf. Et. M. p. 306. 22 Gaisf. 'μέμβλετο-ἴοι᾽, Zonar. p. 628 Tittm. ἱμέμβλετολοετρόν᾽; Callimachi verba om. Ef. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M. 11): ὃ ἐρώμενος: Καλλίμαχος 'μέμβλετο-λοετρόν᾽. ὁ ὑπὸ τοῦ ἔρωτος εἰςπνεόμενος: Λακεδαιμόνιοι γὰρ eienveiv φαει τὸ ἐρᾶν. ἢ παρὰ τὸ ἔπεεθαι τοῖς ἐρωμένοις, ἐςπνήλης τις ἢν καὶ εἰςπνήλης (confusionem in Ert. cave ne cum Bentleio corrigere coneris)

Aristaenet. I 10, p. 21. 9

Mazal οἱ δὲ φιλοθεάμονες τοῦ κάλλους sic διδαςκάλου προϊόντα περιεςκόπουν ευνωθοῦντες ἀλλήλους 2 Hesych. s.v. φωλεόν, @ 1092, IV p. 265 Schmidt διδαςκαλεῖον

(scil. ᾿Ακόντιον)

106

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

1 δὲ Et. Gen. ἃ Su note Et. M.cod. M 2ἢ Et. Gen., Zonar.: corr. Tittmann κοῦρον Acontium esse et fragmentum huic fabulae tribuendum primus vidit D. Ruhnken ap. Ernesti, coll. Aristaeneti loco supra allato. Fr. inc. sed. 500 Pf. hic inserere non licet. Fort. fr. inc. sed. 257 ad Acontium λοετρὸν ἰόντα referendum est

168 (69 Pf.) πολλοὶ καὶ φιλέοντες ᾿Ακόντιον ἧκαν ἔραζε οἰνοπόται (ικελὰς ἐκ κυλίκων λάταγας 1 sq. Athen. XV 668 B, III p. 477. 17 Kaibel τοῦτο δὲ λέγοντες [praecedit Achae. TrGF 20

F 26]

παρ᾽ öcov τῶν

κοςςάβους.

διὸ

καὶ

ἐρωμένων (οφοκλῆς

ἐμέμνηντο, ...

[TrGF

ἀφιέντες

277]

καὶ

En’ αὐτοῖς τοὺς

Εὐριπίδης

...

[77

λεγομένους 631]

καὶ

Καλλίμαχος δέ ner: πολλοὶ-λάταγας᾽ [sequitur Pannych. fr. 227, 5-7 PI] id. XV 668 E, II p. 478. 16 Kaibel ὅτι δὲ &cnobdacro παρὰ τοῖς (ικελιώταις 6 κότταβος δῆλον ἐκ τοῦ καὶ οἰκήματα ἐπιτήδεια τῇ παιδιᾷ καταςκευάζεεθαι, ὡς icropet Δικαίαρχος ἐν τῷ περὶ ᾿Αλκαίου [fr. 108 Mirhady]. οὐκ ἀπεικότως οὖν οὐδ᾽ ὁ Καλλίμαχος (ικελὴν τὴν λάταγα προεηγόρευεεν ex Athen. 1111. Schol. vet. (VT) Aristoph. Pac. 1244 ς, p. 177 Holwerda Καλλίμαχος 'πολλοὶ-λάταγας᾽ 1 καὶ Athen.: δὲ Schol. Aristoph.

ἀκόντιον codd.: nomen proprium cognovit Bentley:

᾿Ακοντίῳ coni. Ma., Callimachea p. 259=85 Νὴ ἔραζε Schol. Aristoph.: ἔργαζε Athen.

ἧκαν Athen.: ἧκον Schol. Aristoph. (ἧκον

Acontius, qui amatores neglegit, 'famosus' vel 'exitialis' fort. dicitur in fr. inc. sed. 276

169 (70 Pf.) ἀλλ᾽ ἀπὸ τόξου αὐτὸς ὁ τοξευτὴς ἄρδιν ἔχων ἑτέρου 1 sq. Et. Gen. AB s.v. ἄρδις [totum lemma lectu difficillimum in B] (α 1137, Il p. 180. 9 Lasserre-Livadaras; p. 165 Massimilla; cf. Er. Gud. d° p. 189.

14 de Stef., Er. M. a 1754

codd. DMPRS II p. 181. 4 Lasserre-Livadaras, cod. Voss. gr. Q 20 in marg. ap. LasserreLivadaras ad Er. M.LI.; Callimachi verba om. Er. Sym. & 1337/41 II p. 180. 25 Lasserre-

Livadaras, Zonar. p. 297 Tittm.): ἡ ἀκὶς tod βέλους: Καλλίμαχος ‘&AN’-Etépov”. εἴρηται παρὰ τὸ ἄρω [ἄρω Er. Gud., Et. Sym., Et. M, cod. Voss. gr. Q 20 in marg.: ἀρῶ AB], τὸ ἁρμόζω, ἀφ᾽ οὗ καὶ ὁ ἄρτος, ὁ εὐναραρώς: παρὰ οὖν τὸ po [ἀφ᾿ -ἄρω Er. Gud.: om. cett.] ἦρμαι, ἦρται, ἄρτης διὰ τοῦ τ [διὰ-τ Er. Gud. om. cett.], ἔνθεν πυλάρτης- καὶ ὥςπερ ἀπὸ τοῦ [ἀπὸ τοῦ Β: παρὰ τὸ Α] προφήτης γίνεται παρωνύμως προφῆτις, οἰκέτης οἰκέτις, οὕτως ἄρτης ἄρτις καὶ τροπῇ τοῦ τ εἰς ὃ [τροπῇ-δ Εἰ. Gud.: om. cett.] ἄρδις, ὡς χλιτὴ χλιδή [ὡς-χλιδή Er. Gud. om. cett.]. ἢ παρὰ τὸ ἄρης, ὃ εημαίνει τὸν ciônpov [hic desinit B], ἄρις [ἄρις Et. Gud., Et. Sym., Et. M. cod. M, cod. Voss. gr. Q 20 in marg.: ἄρης A] καὶ ἐν πλεοναςμῷ tod ὃ [Ev-Ö Er. Gud.: nheovacu®-8 Et. Sym. codd. CV: om. cett.] ἄρδις, ἢ παρὰ τὸ ἠρτῆεθαι [ἢ-ἠρτῆεθαι Er. Gud. om. cett.]. οὕτως Ἐπαφρόδιτος [fr. 60 Braswell-Billerbeck] (de Epaphrodito vd. adn. post fr. 62; h.l. potius e lexeon' libro quam

TESTO CRITICO: AET. HI FRR. 167-171 ex Aetiorum hypomnemate

per Orum

in ΕΠ. pervenit:

107

vd. Braswell-Billerbeck ad loc.)

Aristaenet. I 10, p. 22. 14 Mazal ἔδει γὰρ τὸν καλὸν (scil. ᾿Ακόντιον) Tocobtovc τετοξευκότα τῷ κάλλει (cf. frr. 167-168) μιᾶς ἀκίδος ἐρωτικῆς πειραθῆναί ποτε καὶ γνῶναι «αφῶς οἷα πεπόνθαειν οἱ δι᾽ αὐτὸν τραυματίαι. ὅθεν ὁ Ἔρως οὐ μετρίως ἐνέτεινε τὴν νευράν ..., ἀλλ᾽ ὅεον εἶχεν Icxboc προςελκύςεας τὰ τόξα εφοδρότατα διαφῆκε [διεφῆκε cod.: διαφῆκε Abresch] τὸ βέλος 1 ἀπὸ codd. (ἐπὶ Sylburg) τοῦ τόξου Et. M. codd. MS et (teste Gaisf.) cod. Voss. gr. Q 20 in marg. 2 αὖτις Schn. II p. 399 ἑλὼν A. Meineke, «Zeitschrift für die Alterthumswissenschaft» NF 3 (1845), p. 1066 ἑτέρου Er. Gen., Et. Gud. (cod. Par. 2636 ap. Cramer, AP IV p. 60. 19 ἑτέρον): ἑτέραν Et. M. cod. R et cod. Voss. gr. Q 20 in marg.:

ἑτέ( ) Et.M.codd. DPS: ἑτερέρους Et. M. cod. M: cgetépov Schn. 1.1. Acontii et Cydippae supra allato

fabulae distichi fragmentum

inseruit Pf., coll. Aristaeneti loco

170 (71P£) Steph. Byz. s.v. AfiXoc, p. 227. 4 Meineke ... ἐξ αὐτοῦ Δήλιος καὶ Δηλία καὶ Δηλιάς. καὶ Δηλίτης ὁ εἰς Δῆλον ἐρχόμενος χορός, Καλλίμαχος τρίτῳ [vd. ad fr. 59] Acontium cum θεωρίᾳ Cea, Cydippam cum Naxiaca Delum venisse nunc constat (cf. fr. 166, 5 sq., necnon fr. 174, 26). Recte igitur P. Buttmann, Mythologus II (Berlin 1829) p. 125 et Dilthey p. 52 fragmentum ad hanc Aetiorum partem rettulisse videntur; at de ipso inter huius partis fragmenta loco non constat

171 (72 Pf.) ἄγραδε τῷ πάςῃειν ἐπὶ προχάνῃειν ἐφοίτα Schol. (LR Ed. Rom.) Soph. Ant. 80, p. 219. 20 Papageorgios (L) et ap. V. De Marco, De

scholiis in Sophoclis tragoedias veteribus (Roma 1937), p. 88 (R) cò μὲν τάδ᾽ ἂν προὔχοιο] cd μὲν ταῦτα προφαείζου τὰς γὰρ προφάςεις προχάνας ἐκάλουν, ὡς καὶ Καλλίμαχος ᾿ἄγραδε-ἐφοίτα᾽ ἐν τῷ γ΄ Αἰτίων [Αἰτίων R Ed. Rom.: αἰτιῶν 1] Apoll. Dysc. De adv., Gramm. Gr. II 1. 1, pp. 182. 10 Schneider οἴκαδε, ἄγραδε et 203. 16 Schneider &ypade, οἴκαδε Herodian. II. Ἰλιακῆς πρ., Gramm. Gr. ΠῚ 2, p. 103. 29 et 31 Lentz in Schol. (A) Hom. I. XVI 697 b!, IV p. 291 Erbse &ypade ... &ypode [dype δὲ et άγρα δὲ cod. A: corr. Lehrs

et Villoison]

Ioann. Philopon.

Tov. rapayy.

(Exc. ex

Herodian. Pros.) p. 34. 6 Dindorf &ypade (cf. Herodian. TI. καθολ. πρ., Gramm. Gr. II 1, p. 498. 7 Lentz) Hesych. s.v. Ὠλέναδε [ὠλένα δέ cod.: corr. Is. Voss; fr. adesp. SH 1126], ὦ 153, IV p. 322 Schmidt ὡς ἄγραδε [ἄγρα δὲ cod.: corr. Is. Voss] Aristaenet. I 10, p. 23. 52 Mazal (Acontius) ἐδεδίει τῷ τεκόντι φανῆναι καὶ εἰς ἀγρὸν ἐπὶ rom προφάκει τὸν πατέρα φεύγων ἐφοίτα άγραδετω Schol. Soph. L (ἄγε δέ tw R, ἀγροδέτω Ed. Rom): ἄγραδε divisit P. Buttmann, Ausführliche griechische Sprachlehre Il 2 (Berlin 1827), p. 274 sq., tum rot cum Bentley: τῷ Dilthey p. 72 (i.e. τῷ πατρί, falso; recte Schn. II p. 135 'quam ob rem!) προχάναιοιν

108

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Schol. Soph. L: rpoxävnciv Ed. Rom. Huic Aetiorum parti primus fragmentum adscripsit D. Ruhnken, (Lugduni Bat. 1751) p. 43, coll. Aristaeneti loco supra allato

Epistola

critica Il

172 (73 Pf.) ἀλλ᾽ ἐνὶ δὴ φλοιοῖει κεκομμένα tocca PEPOLTE γράμματα, Κυδίππην ὅςς᾽ ἐρέουει καλήν 1 sq. Schol. vet. Tr. (ET; Callimachi versus om. RLh) Aristoph. Ach. 144, p. 28. 9 Wilson

ἴδιον ἐραςτῶν ἦν τὸ τὰ τῶν ἐρωμένων ὀνόματα γράφειν ἐν τοῖς τοίχοις {ἢ δένδροις} [del. Wilson] ἢ φλοιοῖς [φλοιοῖς Bentley: φύλλοις codd.] δένδρων [hic desinit R] οὕτως ‘è

δεῖνα καλός᾽ [hic desinit Lh]. καὶ παρὰ Καλλιμάχῳ ᾿ἀλλ᾽ -καλήν᾽ (cf. Suid. s.v. καλοί et 5... ὃ δεῖνα καλός, ubi desunt καὶ παρὰ - καλήν)

Aristaenet. I 10, p. 23. 56 Mazal ἀλλ᾽

᾿Ακοντίῳ οὐκ ἀμπελῶνος ἔμελεν, où εκαπάνης, μόνον δὲ φηγοῖς ὑποκαθήμενος À πτελέαις ὡμίλει τοιάδε: ‘ele, & δένδρα, καὶ νοῦς ὑμῖν γένοιτο καὶ φωνή, ὅπως ἂν εἴπητε μόνον: ᾿Κυδίππη καλή᾽΄. ἢ γοῦν τοεαῦτα κατὰ τῶν φλοιῶν ἐγκεκολαμμένα φέροιτε γράμματα, ὅεα τὴν Κυδίππην ἐπονομάζει καλήν᾽ 1 φύλλοιει Schol. Aristoph.:

gAowoicı Bentley (quam coniecturam confirmavit 1. Pierson,

Verisimilium libri duo, Lugduni Bat. 1752, p. 98 sq. = Lipsiae 1831, p. 60, coll. Aristaeneti loco supra allato: codd. φύλλοιοι defendunt Dilthey pp. 81-83, White, Further Notes p. 210 sq.)

2 oc Schol. Aristoph.:

öcc’ Ernesti, Adag. 2595 (vd. R. Kassel, «Gnomon»

55, 1983,

p. 5 = Kleine Schriften, Berlin - New York 1991, p. 457) Acontii et Cydippae fabulae distichon adscripsit Bentley. Aristaeneti locum supra allatum ad hoc fragmentum primus rettulit Pierson 1.1. Ante hos soliloquii versus fr. inc. sed. 275 inserere voluit Dilthey p. 74

173 (74 Pf.)

LI

Lan

Aıpocı ἐγώ, τιΐ dé cor τόνδ᾽ ἐπέθηκα φόβον;

J.eko | 1-4 POxy. 2258 B, fr. 1 'recto'

3 Hesych. s.v. λειριόεντα, À 547, II p. 581 Latte ἁπαλά. λείριον γὰρ τὸ ἄνθος, διὰ τὴν λειότητα. διὰ τοῦτο καὶ (tà) [add. Latte] τοῦ e γραπτέον ... τὸ δὲ λιρός [λῖρος cod.], ὃ δηλοῖ τὸν ἀναιδῆ, διὰ τοῦ 1. Καλλίμαχος "Aupoc-pößov;’ παρὰ τὸ λίαν. ἀμέτρως γὰρ ὀχεύονται [δδεύονται cod.: corr. Pf.] οὗτοι Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 107. 26 Bekker λιρός [Aîpoc cod.], ὃ δηλοῖ τὸν ἀναιδῆ, διὰ τοῦ 1. καὶ Καλλίμαχος ‘Apòdc ἐγώ᾽- παρὰ τὸ λίαν

[Arcad.] De accent. (= Exc. ex Herodian. Pros.) p. 68. 14 Barker = p. 78. 10

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 171-174

109

Schmidt (Herodian. TI. καθολ. πρ., Gramm. Gr. III 1, p. 191. 5 Lentz) ὀξύνεται ... λιρὸς ὁ ἀναιδής Hesych. s.v. λιρός, A 1113, II p. 602 Latte &vaicyvvroc, ἀναιδής, θραεύς inde Suid. s.v. Aupöc, À 596, III p. 275.

12 Adler ὁ ἀναιδής

Cramer, AO II pp. 235. 3 Aıpöc [Alpoc cod.[- εημαίνει λίαν ὁρᾶν- οἱ γὰρ ἀναιδεῖς λίαν dpôciw et 238. 25 ὀξύνεται (prob. ex Herodian. TI. καθολ. πρ., Gramm. avonönc) Er. Gen. A s.v. λειρόφθαλμος (A 168, p.

Choerob. De orthogr.,

δὲ τὸν ἀναιδῆ, διὰ Aupöc- ὁ ἀναιδής, Gr. III 1, p. 448. 23 49. 3 Alpers; p. 166

τοῦ τ, παρὰ τὸ διὰ τοῦ ı- καὶ Lentz λιρὸς ὁ Massimilla; cf.

Et. Gud. p. 364. 26 Sturz, Et. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Er. M. p. 562. 40, Et. M.1.., Zonar.

p. 1295 Tittm.; deest articulus in Er. Gen. B): ei μὲν οημαίνει τὸν προςηνῆ, διὰ τῆς er διφθόγγου : παρὰ τὸ λείριον, è εημαίνει τὸ ἄνθος. εἰ δὲ τὸν ἀναιδῆ, διὰ τοῦ 1° παρὰ τὸ λιρὸς γάρ ἐςτι, τοῦτο δὲ παρὰ τὸ λίαν ὁρᾶν [quae sequuntur ad lemma λείριον spectant: vd. Alpers δά loc.] Ef. Gen. A s.v. λιρός (A 181, p. 50. 21 Alpers; p. 166 Massimilla; cf. Et. Orion. p. 93. 4 Sturz, Et. Gud. p. 371. 19 Sturz, Gudiani cod. Haun. 1971 ed. Bloch ap. Gaisf. ad Et. M. p. 562. 40, Zonar. p. 1309 Tittm.; deest articulus in Et. Gen. B): muaiver

τὸν ἀναιδῆ, παρὰ τὸ λίαν ὁρᾶν οἱ γὰρ ἀναιδεῖς λίαν ὁρῶει Fustath. ad Hom. Od. XIX 91, p. 1856. 64 λιρὸς [λίρος (sic) cod.] ὁ ἀναιδής, ἴοως παρὰ τὸ λίαν τὸ po τὸ λέγω Aristaenet. I 10, p. 24. 64 Mazal (Acontii soliloquium) © δυςτυχὴς ἐγώ, τί δέ cor (scil. Κυδίππῃ) τοῦτον ἐπῆγον τὸν φόβον; 2 ].: pars inferior hastae verticalis

Πρ. 472

3 suppl. L.

λῖρος Apoll. Soph., Hesych.: corr. Schn.

τίδες, ὅταν dè Hesych.: corr. Bentley

ènécerca A. Meineke, «Zeitschrift für

die Alterthumswissenschaft» NF 7 (1849), p. 416 = Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata (Berolini 1861), p. 181: ἐνέθηκα Schn. II p. 473, coll. Xenoph. Anab. VII 4,

1 ὅπως φόβον ἐνθείη καὶ τοῖς ἄλλοις (sed vd. comm.)

4]: hapex hastae verticalis

[:

fort. duo apices hastarum verticalium (duae litt.?) In POxy. 2258 inter v. 4 huius fragmenti (= B, fr. 1 'recto', 4) et fr. 174, 7 (post v. 6 = B, fr. 1 'verso', 4) textus Callimachei columna tota erat, 1.6. versus circ. 24: desunt ergo inter

fr. 173, 4 et fr. 174, 1 versus circ. 18. Ad Acontii et Cydippae fabulam v. 3 rettulerat J. Pierson,

Verisimilium

libri duo

(Lugduni Bat.

1752), p. 100 = (Lipsiae

1831), p. 61, coll.

Aristaeneti loco supra allato

174 (5PL.)

5

10

ἤδη καὶ κούρωι παρθένος edvécato, τέθμιον ὡς ἐκέλευε προνύμφιον ὕπνον ἰαῦεαι ἄρεενι τὴν τᾶλιν παιδὶ εν ἀμφιθαλεῖ. Ἥρην γάρ κοτέ paci - κύον, κύον, ἴοχεο, λαιδρέ θυμέ, εὖ γ᾽ ἀείςῃ καὶ τά περ οὐχ δείηὥναρ κάρτ᾽ ἕνεκ᾽ οὔ τι θεῆς ἴδες ἱερὰ φρικτῆς, ἐξ ἂν ἐπεὶ καὶ τῶν ἤρυγες ictopinv. ἢ πολυιδρείη χαλεπὸν κακόν, ὅςτις ἀκαρτεῖ γλώεοης: ὧς ἐτεὸν παῖς ὅδε μαῦλιν ἔχει. ἦοι μὲν ἔμελλον ἐν ὕδατι θυμὸν ἀμύξειν οἱ βόες ὀξεῖαν δερκόμενοι δορίδα: δειελινὴν τὴν δ᾽ Eike κακὸς χλόος, ἦλθε δὲ vodcoc,

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CALLIMACO

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50

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

αἶγας ἐς ἀγριάδας τὴν ἀποπεμπόμεθα, ψευδόμενοι δ᾽ ἱερὴν φημίζομεν : ἣ τότ᾽ ἀνιγρή τὴν κούρην ᾿Αίδεω μέχρις ἔτηξε δόμων. δεύτερον ἐςτόργυντο τὰ κλιςμία, δεύτερον ἢ πα[ἴ]ς ἑπτὰ τεταρταίωι μῆνας ἔκαμνε πυρί. τὸ τρίτον ἐμνήςαντο γάμου κάτα, τὸ τρίτον αὖτ[ε Κυδίππην ὀλοὸς κρυμὸς ἐςῳκίςατο. τέτρατον [ο]ὐκέτ᾽ ἔμεινε rnathp po. [ Φοῖβον' ὁ δ᾽ ἐννύχιον τοῦτ᾽ ἔπος ηὐδάκοτο. “᾿Αρτέμιδος τῆι παιδὶ γάμον βαρὺς ὅρκος ἐνικλᾶι: Λύγδαμιν οὐ γὰρ ἐμὴ τῆμος ἔκηδε κάεις οὐδ᾽ ἐν ᾿Αμυκλαίωι θρύον ἔπλεκεν οὐδ᾽ ἀπὸ θήρης ἔκλυζεν ποταμῶι λύματα Παρθενίωι, Δήλῳ δ᾽ ἦν ἐπίδημος, ᾿Ακόντιον ὁππότε CH παῖς ὦμοςεν, οὐκ ἄλλον, νυμφίον ἑξέμεναι. ὦ Kg, ἀλλ᾽ ἤν με θέλῃς εὐμφράδμονα θέεθαι, νῦ]ν γε τελευτήςεις ὅρκια θυγατέρος: ἀργύρῳ οὐ μόλιβον γὰρ ᾿Ακόντιον, ἀλλὰ φαεινῶι ἤλεκτρον χρυςῶι φημί ce μειξέμεναι. Κοδρείδης εὖ γ᾽ ἄνωθεν ὁ πενθερός, αὐτὰρ ὁ Κεῖος γαμβρὸς ’Apicraiov Ζηνὸς ἀφ᾽ ἱερέων Ἰκμίου, οἷει μέμ[η]λεν ἐπ᾽ οὔρεος ἀμβώνεςειν πρηΐνειν χαλε ᾿πὴν Meipav ἀγερχομένην,

αἰτεῖεθαι τὸ δ᾽ ἄημα παραὶ Διὸς ᾧ τε θαμεινοί πλήκοονται λινέαις ὄρτυγες ἐν νεφέλαις ἢ θεός: αὐτὰρ ON άξον ἔβη πάλιν, εἴρετο δ᾽ αὐτήν κούρην, ἡ δ᾽ ἀν᾽ ἐτῶς πᾶν ἐκάλυψεν ἔἔπος κἣν αὖ ςῷς: λοιπόν, ᾿Ακόντιε, ςεῖο μετελθεῖν ΝΕ wvıöınv ECè Arovociddo. χὴ θεὸς εὐορκεῖτο καὶ ἥλικες αὐτίχ᾽ ἑταίρης εἶπον ὑμηναίους οὐκ ἀναβαλλομένους. οὔ ce δοκέω τημοῦτος, ᾿Ακόντιε, νυκτὸς ἐκείνης ἀντί κε, τῇ μίτρης ἥψαο παρθενίης, οὐ ςεφυρὸν Ἰφίκλειον ἐπιτρέχον ἀςταχύεςειν οὐδ᾽ ἃ Κελαινίτης ἐκτεάτιςτο Μίδης δέξαεθαι, ψήφου δ᾽ ἂν ἐμῆς ἐπιμάρτυρες εἶεν οἵτινες οὐ χαλεποῦ νήιδές eicı θεοῦ. ἐκ δὲ γάμου κείνοιο μέγ᾽ οὔνομα μέλλε νέεεθαι' δὴ γὰρ ἔθ᾽ ὑμέτερον φῦλον ᾿Ακοντιάδαι πουλύ τι καὶ περίτιμον Ἰουλίδι ναϊετάουειν, Κεῖε, τεὸν δ᾽ ἡμεῖς ἵμερον ἐκλύομεν τόνδε παρ᾽ ἀρχαίου Ξενομήδεος, ὅς ποτε πᾶςαν

TESTO CRITICO: AET. HI FR. 174

111

55

vijcov ἐνὶ μνήμῃ κάτθετο μυθολόγῳ, ἄρχμενος ὡς νύμφῃει[ν ἐϊναίετο Κωρυκίηιειν τὰς ἀπὸ Παρνηςοοῦ λῖς ἐδίωξε μέγας, Ὑδροῦεοαν τῷ καί μιν ἐφήμιςαν, ὥς τε Κιρώδης

60

ὥ]ς τέ μιν ἐννάςςαντο τέων ᾿Αλαλάξιος αἰεί Ζεὺς ἐπὶ ςαλπίγγων ἱρὰ βοῇ δέχεται Κᾶρες ὁμοῦ AeAéyecci, μετ᾽ οὔνομα δ᾽ ἄλλο βαλέςθ[αι Φοίβου καὶ Μελίης îvic ἔθηκε Kéocἐν δ᾽ ὕβριν θάνατόν τε κεραύνιον, ἐν δὲ γόητας Τελχῖνας μακάρων τ᾽ οὐκ ἀλέγοντα θεῶν ἠλεὰ Δημώνακτα γέρων ἐνεθήκατο δέλτοις καὶ γρηὺν Μακελώ, μητέρα Δεξιθέης, ἃς μούνας, ὅτε vicov ἀνέτρεπον εἵνεκ᾽ ἀλ{ι]τ[ρῆς ὕβριος, ἀςκηθεῖς ἔλλιπον ἀθάνατοι: TECCAPOC ὥς τε roma ὁ μὲν tetyicce Meyax[A]fic Κάρθαιαν, Xpvcode δ᾽ Εὔπ[υ]λος ἡμιθέης εὔκρηνον πτολίεθρον Ἰουλίδος, αὐτὰρ ᾿Ακαῖος

9. Qucf Ἰτο,, ᾧκεεν ἐν Καρύαις,

65

70

Ποιῆςςαν Χαρίτων ἵδρυμ᾽ ἐυπλοκάμων,

ἄςτυρον ἔΑφραετος δὲ Κορή[ε]ιον, εἶπε δέ, Κεῖε,

75

ξυγκραθέντ᾽. αὐταῖς ὀξὺν ἔρωτα ςέθεν πρέεβυς èἐτητυμίῃ ueueAnuévoc, ἔνθεν ὁ παιδός μῦθος ἐς ἡμετέρην ἔδραμε Καλλιόπην.

Schol. in marg. sup. POxy. 427 23-- [ ].[-1---]0n ὑπὸ m..[-4--]. περὶ τὸν Λύγδ[αμιν ---I---]cov [ (post τὴ non potest legi c, ut videtur; ].: fort. p, v, x, τ; suppl. Richter-Parsons) 25 Παρθένιο]ς: ποταμὸς τῆς HagAafyoviac ἐν ὧι ἡ "Ἄρτεμις ἐλούετο, ὅθεν τῶι ποτ]ᾳμῶι Παρθένιος ποτα[μὸς ὄνομα ἐγένετο (e.g. suppl. Richter-Parsons) 1-49 Aristaenet. I 10, p. 24. 81 Mazal τῇ δὲ Κυδίππῃ πρὸς ἕτερον ηὐτρεπίζετο γάμος ... ἀλλ᾽ ἄφνω νενόεηκεν À παῖς καὶ πρὸς ἐκφορὰν ἀντὶ νυμφαγωγίας OÙ τεκόντες ἑώρων.

εἶτα παραδόξως dvéconde καὶ δεύτερον ὁ θάλαμος ἐκοομεῖτο- καὶ ... αὖθις Evöcen. τρίτον ὁμοίως ταὐτὰ [ταῦτα cod.: ταὐτὰ Dilthey p. 130] ευμβέβηκε τῇ παιδί. ὃ δὲ πατὴρ τετάρτην οὐκ ἀνέμεινε νότον, ἀλλ᾽ ἐπύθετο τοῦ Πυθίου τίς ἄρα θεῶν τὸν γάμον ἐμποδίζει τῇ κόρῃ. ὁ δὲ ᾿Απόλλων πάντα εαφῶς τὸν πατέρα διδάοςκει, τὸν νέον, τὸ #





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μῆλον, τὸν ὅρκον καὶ τῆς 3

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᾿Αρτέμιδος τὸν θυμόν: καὶ παραινεῖ θᾶττον ,

te

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,

4

2

x

LI

εὔορκον

,

.

ἀποφῆναι τὴν κόρην. ᾿ἄλλως te’, gnci, ᾿Κυδίππην ᾿Ακοντίῳ [᾿Ακόντιον Κυδίππῃ scribere debuit: aut textum corruptum legit aut ipse aberravit (vd. comm. ad v. 30 sq.)] cvvarıov οὐ 2

ΠῚ

,

,

,

9

,

>

μόλιβδον ἂν εὐνεπιμίξαις [cuvemuiéaic cod: εὐνεπιμίξειας Hercher] ἀργύρῳ, ἀλλ ἑκατέρωθεν ὁ γάμος ἔκται χρυεοῦς᾽. ταῦτα μὲν ἔχρηςεν ὁ μαντῷος θεός, ὁ δὲ ὅρκος ἅμα τῷ χρηςμῷ coverAnpodto τοῖς γάμοις. αἱ δὲ τῆς παιδὸς ἡλικιώτιδες ἐνεργὸν ὑμέναιον ἦδον οὐκ ἀναβαλλόμενον ἔτι ... τῆς νυκτὸς ἐκείνης ᾿Ακόντιος [recte interpunxit Dietzler p. 40] οὐκ ἂν ἠλλάξατο τὸν Μίδου χρυςόν ... καὶ εὔμψηφοι πάντες ἐμοί, ὅοοι μὴ καθάπαξ τῶν ἐρωτικῶν ἀμαθεῖς

;

112

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

1-41 POxy. 1011, fol. 1 verso! 3-6 POxy. 2258 B, fr. 1 'verso' (vestigia minima, vd. app.)

3 sq. Schol. (T) Hom. I. XIV 296 a, III p. 635 Erbse εἰς εὐνὴν φοιτῶντε, φίλους Andovre τοκῆας (scil. Iuppiter et Iuno)] ... διὸ καὶ μέχρι νῦν ὑπόμνημα φυλάεςεεοθαι παρὰ Ναξίοις καὶ τὸν ἀμφιθαλῆ τῇ τάλι [ἀμφιθαλῆ τῇ τάλι PF: ἀμφιθάλην τῇ τάλῃ (τῇ ἰτάλῃ V) TI ουγκατατίθεεθαι [Erbse: ευγκατατιθεῖςθαι TV): εὐγκατατεθεῖεθαι Bekker] 3 Schol. (LMR) Soph. Ant. 629, p. 248. 25 Papageorgios (L) et ap. V. De Marco, De scho-

liis in Sophoclis tragoedias veteribus (Roma 1937), p. 91 (MR) τᾶλις λέγεται παρ᾽ Alokeöcw ἡ (ior)ovouocdeîco [suppl. Pf., coll. Hesych. s.v. τᾶλις: ἡ μελλόγαμος παρθένος καὶ κατωνομαεςμένη τινί et Polyb. V 43, 1 παρθένον odcav, γυναῖκα τῷ βαειλεῖ κατωνομαεςμένην] τινι νύμφη Καλλίμαχος ᾿ἄρεενι-ἀμφιθαλεῖ᾽ἠ Poll. II 40,1 Ρ. 167. 15 Bethe παιδίον ἀμφιθαλὲε ... εὐγκατακλίνεται τῇ ... νύμφῃ ... ἄρρεν 11-15 POxy. 4427 (partes vv., vd. app.)

14 Schol. Ap. Rh. I 1019, p. 90. 2 Wendel Ἱερὴ δὲ φατίζεται] Kar’ εὐφημιομόν. τὰ γὰρ μεγάλα τῶν παθῶν εὐφήμως ἱερὰ καὶ καλά φαμεν, ὡς καὶ τὰς Ἐρινύας Edueviôac καὶ τὴν λοιμικὴν vocov ἱεράν, ὡς καὶ Καλλίμαχος ᾿'ψευδόμενοι-φημίζομεν᾽ (pestilentia' nusquam 'sacra' appellatur neque ad Call. explic. quadrat; error scholiastae esse videtur)

34 Schol. (b(BCEPENHT) Hom. ZI. XIV 19 a, III p. 566 Erbse ... eicì γὰρ [scil. οἱ ἄνεμοι] ἐξ ἱκμάδος, καὶ ἵἵκμενον odpov’ [Hom. I. I 479 al], καὶ Ἴκμιος Ζεὺς τιμᾶται, è τῶν ἀνέμων δεςπότης Et. Gen. AB s.v. ἄμβων (a 613, I p. 390. 2 Lasserre-Livadaras; p. 166 Massimilla; cf. Et. Gud. d? p. 111.

18 de Stef., Er. M.

a 1047 codd. DLMPRS I p. 395.

17

Lasserre-Livadaras, cod. Voss. gr. Q 20 in marg. ap. Lasserre-Livadaras ad Er. M.1.1., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233 ap. Lasserre-Livadaras ad Er. M.1.1.; Callimachi verba om. Et. Sym. a 743/43 I p. 388. 26 Lasserre-Livadaras, Zonar. p. 142 Tittm.): κυρίως τὸ χεῖλος τῆς λοπάδος: παρὰ τὸ ἐν Avaßaceı [üvßaceı A] εἶναι, οἷον 'πολλῶν ἤδη λοπάδων τοὺς

ἄμβωνας περιλείξας [ἄμβωνας περιλείξας Et. Sym. cod. VP°, Et. M. codd. DMPRS, cod. Voss. gr. Ὁ 20 in marg., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233: ἄμβωνας περιειλίξας B: ἄμβωνάς rep εἰλήξας AJ’ [Eupol. PCG 60, 2]. λέγονται dè καὶ οἱ ὀρεινοὶ [ὀρινοὶ A] καὶ ὑψηλοὶ τόποι, οἷον “ἐπ᾿ -ἀμβώνεςεοι᾽ (prob. e Methodio; de Callimachi fragmentis a Methodio allatis vd. Pf. ad Hec. fr. 274 = 45 H.)

36 fort. Choerob. De orthogr., Cramer, AO II p. 180. 6 θαμεινὸς διὰ τῆς er διφθόγγου γράφεται (prob. ex Herodian.; etiam ad [Hom.] Hymn. IV 44 pertinere potest, ubi θαμιναί codd. in θαμειναί corr. Radermacher) 42-77 POxy. 1011, fol. 1 'recto', 42-77

46 Schol. Lond. (AE) Dion. Thr., Gramm. Gr. I 3, p. 532. 4 Hilgard μέμφονται τὸν Ζηνόδοτον, ἐπειδὴ τὸ ᾿ἀρνέων ἐκ κεφαλέων᾽ [Hom. Il. IN 273 c. Schol. A] κτητικὸν ἔλεγε, καὶ τὸν Καλλίμαχον ‘yeip HoAvdevrein’ [fr. 19, 14] καὶ ‘cpupôv Ἰφίκλειον᾽, ὅτι ἐπὶ ζώντων ἐχρήεατο κτητικοῖς ἐπὶ C@LATIKOD μέρους. περὶ οὗ φαμεν ὅτι περιφράςει ἐχρήεατο ὥςπερ τὸ ‘Bin Ἡρακληείη᾽ [Hom. I. XI 690] 50-58 POxy. 2213, fr. 11 (a+b+c) (vestigia minima, vd. app.) 64-69 Schol. (Ba) Ov. Ib. 469, p. 126 La Penna fulminati sunt a love (scil. Capaneus et Demonax), ut ait Callimachus [H. cod.: vd. ad fr. 27] 2 ὑπνονΐαυεαι pap.

p.32)

3 apcevi POxy. 1011: αὐτίκα Schol. Soph. (vd. Massimilla, Papiri

οὖν ἀμφιθαλεῖ Schol. Soph. L: εὐναντιθαλεῖ MR

icxeo POxy. 1011

litt. cyeo tradit POxy. 2258

litt. da tradit POxy. 2258

5 yaewn POxy. 1011

4

litt. ἡ alteram

TESTO CRITICO: AET. HI FR. 174

tradit POxy.2258

dcin; Graindor p. 50

113

Schol. in marg. dext. POxy. 2258 φαν[---ἰνυμί-

-- (voulo- prop. Pf.) 6 post wvoo litt. x (haud v), post ap litt. τ vel y POxy. 1011, prob. xopt (de aspiratione neglecta ante ἕνεκα vd. ad fr. inc. sed. 474 Pf.): κάρ(θ᾽ coni. Hu: (u)dpy' Wil. ap. Hu. ἴδεοΐερα POxy. 1011 (alterum trema dispexi) litt. q@ tradit POxy.

2258 7eGovener ml: εξενέπει et v inter lineas supra ı post corr. pap.: ἐξ ἂν ἐπεὶ divisit Housman p. 115-802 et Aizza p. 477=798: ἐξενέπειν-ἤρυγες Hu: φρικτῆς ἐξενέπειν Arnim p. 3, A. D. Knox ad Herod. VIII 79, p. 398 teropinv pap. 8 ἴδριη pap, litt. € supra alteram litt. uscripta κακον ὅς pap. 9 post γλώςεης interpunxit Hu. εχει" pap.

in marg. sin. inter 9 et 10 signum » [10 ὕδατι pap. 11 litt. οιβόεοοξεϊανδὲρ tradit POxy.4427 δορίδα POxy. 1011 post dopida interpunxit Platt p. 112 (post δειελινήῆν v.12Hu.) 12litt. δὲιελὶνηντὴνδ tradit POxy. 427 Sele POxy. 1011 Abe in POxy. 1011 disp. L. ap. Pf.: εἷλε legerat Hu. (n non εἰ, post À litt. 6, inter 8 et è spatium c. atramenti vestigiis) 13 litt. “Ἰγαςἐεαγρὶάδα tradit POxy. 4427 puedo POxy. 1011 14 litt. eddopevordì" tradit POxy. 4427 S'iepnvonuibouevntot” POxy. 1011 15 litt. Wide tradit POxy. 4427 (litt. 1 desunt in POxy. 1011: ’A[iò]eo iam suppleverant Crusius, Recensione

p. 557, Housman

Grenfell-Hunt p.137)

p. 115=802

et Afrza p. 477=798,

eteSe POxy.1011, n sser. ml!

W.

Kroll ap. Lehnus,

16 vix κλίομια Brinkmann p. 477

(vd. comm.) suppl. Hu. 17 «ww pap., post ὦ inter lineas τ add. corr. 18 post γάμου κ τ΄ pap., spatium et vestigia atramenti post x potius in α quadrant quam in o: κοτέ Hu. (cui contradixit Wil. ap. Hu., at fort. κοτέ = ‘tandem'?): κάτα P£.! (ad 'praeverbium' postpositum

cf. fr. 149, vv. 28 et 30,fr. inc. auct. 779 Pf.)

suppl. Pf. coll. Call. Dian. 121 τὸ τρίτον

αὖτ᾽: αὖτις Hu. 19 fort. kavudc (voc. nov.) L. ap. Pf., LSJ s.v., sed potius p quam o in pap. (cf. etiam Soph. TrGF 507 in comm. ad v. 17 allatum) 20 et'eueive pap.: suppl. Hu. post πατήρ litt. e, tum quattuor vel quinque litt. obscurae, litt. 9 et post unam (vel duas?) litt. o satis certum, tum fort. v et duae aliae litt.: ἐς Δέλφιον &plac distinguere sibi visus est

Hu. (ad Δέλφιον cf. Macrob. Sar. I 17, 65 ᾿Απόλλωνα Δέλφιον vocant, ex Apollod. I. θεῶν, FGrHist 244 F 95) 21 φοιβον οδ᾽ pap. ἐμμύχιον coni. Pohlenz, Cydippa 22 τῇ pap., litt. 1 post n supra lineam add. (additamentum dispexi) 23 tngoc in pap. Pf., ut recte lam coniecerat Platt p. 112 et New Callimachus: tnvov per errorem postea τημος: vd. Lehnus, Grenfell-Hunt p. 138) 24 Opiov pap.: corr. Hu. pap. 25 λύματα disp. Wil. ap. Hu. rapfevioi pap., τ mutum add. m. rec.

dispexit Hu. (sed ουδ᾽ απὸ 26 ö’nv

pap. 28 oknvé in pap. cognovit Pf., Neue Lesungen p. 67 (a... VE, ante vé litt. n vel v iam Hu.; ackqvéL. ap. Lehnus, Lettere p. 233) αλλ᾽ὴν pap. ueBeAetc pap.: corr. Hu., qui scripsit μ᾽ ἐθέλῃς: ue θέλῃς Pf! in Add. p. 119 metri causa, idem A. D. Knox, «Philologus» 87 NF 41 (1932), p. 30 adn. 17 (vd. Introd.II.1.A.c.v.) 29 dubitanter suppl. Pf. (adverb. exspectes quod significet αὐτίκα, τάχα, cf. etiam paraphr. Aristaeneti supra ad vv. 1-49 allatam θᾶττον): πάϊντᾳ Hu. 30 ἀργυρονουμολίβωι pap., m? (2) add. accentum gravem supra 1 (i.e. μόλι-) et supra @1 litteram quae v esse censuit Pf. ('spiritus asper cum

angulo acuto' Hu.): μόλιβον igitur voluit pap. pro μολίβωι, recte opinatus est Pf., qui ἀργύρῳ coni. (ἀργύρῳ οὐ μόλιβον) iam Legrand p. 9 et Mair in adn. et in versione Anglica, coll. Aristaeneti paraphr. supra ad vv. 1-49 allata): ἄργυρον où μολίβωι γὰρ ᾿Ακοντίῳ Ma., Callimachea p. 259=85 φαεινῶι pap. 3116 pap. 32 c0y' pap. 33 . vocaugiepov pap., litt. u perducta lineola et litt. e post p infra lineam add. (ut v. 62): legit Pf., Neue Lesungen Ὁ. 69, recte coniecerat Housman p. 117=804 et 4/7:p. 477=798 (Call.

Ep. XL 1 Pf.=HE1255‘epén) 34 54. suppl. Hu. 34 οὔρεος pap. ἀμβώνεει Er. Gen. A, Et. M. codd. LR, cod. Voss. gr.Q 20 in marg.

οὔρεως Et. Gen. A verba in Etf. supra

114

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

allatis laudata Callimacho (aut Euphorioni) tribuerat A. Meineke, Analecta Alexandrina (Berolini 1843), p. 168 36 δαημα pap. θαμεῖνοι pap. (cf. Choerob. supra allatum): θαμινοί Hu.: θαμειοί Wil. ap. Hu. 37 Aıvouc pap., € supra va add. 38 6’avtnv pap.

39 κουρηνηδ᾽ ρᾷρ. avetac pap.: dv’ ἐτῶς i.e. ἀληθῶς Kapp p. 174 coll. Hesych. s.v. ἐτά- ἀληθῆ, idem iam valde dubitanter Housman p. 118=805 et per litteras ad G. Vitelli a. 1910 H. Diels (vd. Vit., Noterelle p. 301): ἡ δ᾽ ἀν᾽ ἐτ(εγῶς et ἐτῶς Vit. LL: ἀνὰ τῷ coni. Knox, Notes p. 121 et Brinkmann p. 474 40 xnvovcoc pap., recte divisit P. Schwister ap.

Brinkmann p. 476 (κἢν αὖ c@c à iam Crusius, Recensione p. 557) alteram litt. c atramenti vestigia, fort. aliquid inter lineas add. ml

coc pap., supra scripsi (. .[.] Pf.):

ot. vel et. Hu.: ὅ τε Housman p. 118=805: ὃ δὲ fort. legi potest clellevo pap. ελθει pap. (cf. v. 54 roca, fr. 215, 8 ανάκτῶ, lamb. fr. 194, 97 Pf. Sevdpe®): μετελθεῖν Hu. (μετέλθῃ Hu., Kydippe p. 574) lacunam inter 40 et 41 indicavit Graindor p. 51 41 prima litt. fort. a vel δ, secunda e.g. v vel p vel g, tertia fort. potius y vel x quam τ, quarta et quinta ox vel Aı vel δι, sequitur fort. τ (?), tum n valde incertum: ectarinv Hu. (érMe) Hu., Kydippe p. 574): νύμφην τὴν (quod Barigazzi, Note p. 207 excogitavit) sensui satisfacit, sed cum vestigiis non congruit prob. ἰδίην in marg. infer. dext. versuum numerus (falso) subscriptus ù in paginae novae marg. sup. sin. numerus pvß (i.e. 152), vd. Hu. (p. 19) et Pf. ad Jamb.fr. 191, vv. 1 (26-46) et 78-98, Jamb.fr. 194, 65-106; vd. etiam Introd.

14.B.

42 αυτικ᾽ pap., x’ sser. fort. m!

Pf., coll. Call. Del. 257 et Nonn.

43 εἰδον pap. (εἶδον defendit L. ap. Pf.): εἶπον

Dion. XLIII 392 in comm.

allatis (εἶπαν postulat A. W.

Bulloch in comm. ad Call. Lav. 98): ñôov Wil. ap. Hu. ovx’ pap. (apostrophum dispexi): οὐκ᾽ et 00x’ saepius occurrunt in POxy. 1011 et in aliis papyris Callimacheis, vd. app. ad fr. 50, 79 (adde Jamb. fr. 194, 97 sq. Pf.) 45 της pap.: τῇ G. Murray ap. Hu.: τῆς relativum Hu. ad μίτρης refert quod est postpositum: τῆς = ἧς νυκτός 'qua nocte eunte' Housman p.

119=806 pap.

46 ἴφικλειον pap.

49 νηΐδες pap.

470vÖ’pap.

κεληνιτῆς pap.: corr. Hu.

50-77 = Xenomed. FGrHist 442 F 1, EGM fr.1

48 d’oveunc 50 uey POxy.

1011 (apostrophum dispexi) ΡΟχν. 2213 (Ὁ) litt. Aev tradit μέλλεν Ec)ecOat coni. Brinkmann p. 478: &r)ecdaı Platt p. 112, coll. Pind. Nem. X 37 sq. (ἕπεται … τιμά, textus incertus: vd. Farnell ad loc.)

tradit 1011 tradunt

51 γαρεθ᾽ POxy.

52 POxy. 2213 (a)litt. ovi tradit POxy. 2213 (a) litt. epov tradit

1011

POxy. 2213 vestigium nullum

ἴουλιδι POxy. 1011 52 δ᾽ ημειεἵμερον POxy. 54 POxy. 2213 (Ὁ) litt. e[. Jun, (0) litt. renacav

κοτε Hu., coll. v. 4 (et 18, vd. app.), sed hic ποτε πᾶςαν, ut v. 4 κοτέ ... κύον,

κύον, fr. 50, 54 nolt£],fr. 50, 67 kot(e), v.l. Dian. 238, Del. 171 et Ep. XXI 3 Pf. = HE 1181 (PE) παεὰ POxy. 1011 (vd. supra ad v. 40) 55 POxy.2213 (c) litt. yo: tradit 56 apxlloluevoc POxy. 1011, cf. Call. Dian. 4 codd. suppl. Hu. xopvrıncı POxy. 1011: POxy. 2213 (ὦ) litt. vrıncıv tradit, 1 muto intra ἡ οἵ ς addito 57 Παρνηςοῦ dubitanter Pf. ap. Lehnus p. 22, coll. Del. 93 Παρνηοόν POxy. 2213 (c) litt. c in fine versus tradit 58 τῷ POxy. 1011: τῷ Hu.: τῷ Platt p. 112 in POxy. 1011 litterae post cav incertae, sed de x1p dubitare non licet (vd. Pa. ap. Hollis, Callimachus p. 13) POxy. 2213 (©) fort. litt. «|. .]© tradit (prima litt. prob. x, post lacunam unius vel duarum litt. vestigium in summa linea et prob. accentus' L.) œoctekip® , . . Hu.: Κιρώδης e.g. prop. G. Murray ap. Hu. coll.

Kipoddac ep. adesp. App. Plan. 6,3 = HE 3920, cf. Kipovidov 10 VII 385, 1 = /.Oropus 31, 1 ed. Petrakos: Κυρήγης, quod prop. Gunning p. 13 et Storck p. 7, cum vestigiis non congruit 59 ante ©xeev omnia incertissima init. ο Pa. Ll: [o.. Hu. (qui reliquas litt. θυς[ ]to.. valde dubitanter legit): init. υἱός, quod prop. Storck 1.1. (vd. etiam H. Diels ap. Lehnus, Diels p. 6), teste Pa. excludi nequit (vd. ettam L. ap. Lehnus, Lettere p. 233)

TESTO CRITICO: AET. HI FR. 174

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edcli]row ᾧκεεν tempt. Ba., Callimachea p. 241 60 suppl. Hu. 62 er pap. (fort. Ivler), infra lineam prob. u scr. m! (cf. supra v. 33) δ αλλὸ pap. βαλειςθί pap.: βαλέςθί[αι L. ap. Pf.: καλεῖςθ[αι coni. Hu. 64 δ᾽ ὕβριν pap. 65 cAeyovtallc] pap. 66 δημωνακί α τα pap. suppl. Hu. 67 de accentu voc. γρηῦν vd. Pf. ad Hec. fr. 260,

50 = SH 288, 50 = fr.74,9H.

68 ewer'aA[.].[ vel &ö[.].[ pap.: suppl. Wil. ap. Hu. (vd.

comm.) 70 suppl. Hu. (sed litt. post ue valde incertae, vd. R. Coles ap. Lehnus p. 18) 71 xpercove vel yporcove pap. (cf. supra v. 24 θριον pro Bpvov): Xpvcodc (vel Kpicodo) prop. Wil. ap. Hu., cf. Hesych. s.v. Χρυςώ: δαίμων, /G XII 1, 176 = H. Collitz - F. Bechtel, Sammlung der griechischen Dialekt-Inschriften III 1 nr. 3853 (Rhod.) Xpvcodc: Bpicodc

prop. Huxley p. 243 ovcevn pap., δ᾽ inter lineas supra ce scripto Εὔπ[υ]λος suppl. Hu., sed possis etiam Εὔπ.α]λος IG XII 5, 219 vel Eör[o]Aoc /G IX 2, 1062 (Pf.!) 72 tovAdoc pap. ακαι, pap.: ᾿Ακαῖος prop. Pf.!: ”Axaıpoc Arnim ap. Pf.! 73 litt. post xapırav valde dubiae, post v potius litt. rotunda e vel 9 quam ı (at Éôprov legi nequit): ἵδρυμ᾽ prop. Wil. ap. Hu. (de corrept. v in verbis in -bw vd. W. Schulze, Quaestiones epicae, Gueterslohae 1892, p. 347 sq., cf. pp. 310, 337 adn. 1; Greg. Naz. Carm.12,31,6=

PG 37 p. 911 ἵδρυμ᾽ dvAov contulit Pf.; ad vocabulorum nexum Ioann. Barb. Anth. Pal. IX

426, 2 ἕδος Χαρίτων conferri posse moneo): εἴρυμ᾽ (= Epvu’) Knox, Notes p. 121 (quod vestigiis fort. melius convenit) et idem ad Herod. I 26, p. 24 adn. 5 à δρύμ᾽ (N) 74 xapn[ .]Jtov pap.: corr. et suppl. Hu. finis versus omnino incertus 75 ξυγκραθέντ᾽ (&vv pap.) αὐταῖς (scil. quattuor urbibus Ceis) sanum esse perperam negavit Ma. ap. Pf. Ip. 501, qui coniecit ἀνίαις coll. Cat. LXVIII 17 sq. in comm. allato (ἀάταις olim Pf.); de avraıc in pap. non dubitandum 76 ernrvuun pap., i.e. dat. 1 muto omisso: ἐτητυμίης coni. Hu. coll. Soph. Ai. 1184 τάφου μεληθείς, at vd. comm. finis versus omnino incertus παιδί pap., Soc iterum scr. m! inter lineas supra πα 77 initium versus prorsus incertum

Diegesis Mediolanensis ad «Acontium et Cydippam» (frr. 166-174) (col. Z) ---]c παρθένου ἐκ I--- Κυδίππης μήλῳ καλιλίετῳ nn ‘uù τὴ]ν "Ἄρτεμιν, ].cevndendelS---]veto- ὡς δὲ εἰ---ηθεῖ[. .Jw[.].pol---] ’Axovitio γαμοῦμαι᾽

‚yau[---1 PMilVogliano

18, col. Z, 1-7

2-4 suppl. Vo. ex Aristaeneto (I 10, p. 22. 37 Mazal: vd.

comm. adfrr. 166-174) 3 &rwypoyac: μὰ Vo., at περιγεγράφηκας, πέριξ ... γράμματα, τὸ repiypeuuo Aristaenetus (I 10, p. 22. 26, 31, 35 Mazal); fort. igitur περιγράψας vel sim. supplendum Pf. νὴ τὴ]ν Ma, Exkurs I p. 158 adn. 2, sed μὰ τὴν Ἄρτεμιν Aristaenetus (I 10, p. 22.37 Mazal) 4 : forte nöende fort. dittographia (ut Dieg. VI 2 sq. et 35, ad amb. frr. 191 et 193 Pf.) Ma. ap. Vo.: ἣ δὲ deko] Vo.: ἡ δὲ nôélc On] L. Castiglioni ap. Vo. 5 deye Vo., potius cerectePf. 6 [ |. scripsi (apex hastae longae, fort. @ vel 1): .. Pf. 1-7 ad exemplum Aristaeneti supplere conatus est Ba., Notes p. 65 et suspicatus est in fine columnae praecedentis mhil fuisse misi lemma et Z 1 inittum esse diegeseos (neque Callimachum neque Aristaenetum incipere fabulam a mali inscriptione monuit Pf.; at fort. diegetes omisit omnia quae in frr. 166-169 exstant; ad Barberi coniecturam inclinant C. Gallazzi - L. Lehnus, «ZPE»

137, 2001, p. 14)

Quamvis fr. inc. lib. Aet.239 (1.e. POxy. 2213,fr. 12) erusdem partis esse videatur, unde fr. 174, 50-58 (quorum vestigia minima in POxy. 2213, fr. 11 exstant), locus illi laciniae

116

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

idoneus non invenitur in textu fr. 174 satis integro. De frr. inc. sed. 257, 275 et 276 ad «Acontium et Cydippam» fort. spectantibus, vd. supra ad frr. 167, 172 et 168. Fr. inc. auct. 139, necnon frr. inc. sed. 480 Pf. et 528 Pf. ad hanc elegiam respicere posse non omnino negandum est (vd. comm. ad locc.). De frr. inc. sed. 116-119 ad Acontii et Cydippae fabulam vix pertinentibus, vd. adn. post fr. 119. Etiam frr. inc. sed. 500 Pf., 510 Pf. et 676 Pf. ad hoc aetion vix attinent (vd. comm. ad locc.). Fr. inc. sed. 549 Pf. et fr. inc. auct. 779 Pf. «Acontio et Cydippae» tribuenda non sunt (vd. comm. ad locc.)

175 (76, 2 sq. Pf. + novum) (Primum aetion ignotum), aetii initium

1-3 POxy. 1011, fol. 1 'recto', 78-80 (finis paginae) 1 lemma in Dieg. Med. I 3 (= fr. 178, «Eleorum ritus nuptialis» initium) eundem hexametrum esse, a quo incipit in POxy. 1011 aetion post Acontii fabulam narratum, coniecerat Pf. valde dubitanter. Pf. contulit POxy. 1011 mense Febr. a. 1938, antequam vidit Dieg. fragmentum novum ab Achille Vogliano primum editum, et in initio v. 78 legit eınaye (ovyapt Hu.) et in fine qimàn (cum Hu.), at fort. dic, Aıc, vic: omnia incertissima esse monuit Pf. Post ovyap Hu. legere sibi visus est TacnoAı@voruiccocacon (ubi Wil. post πολίων prop.

olrcıac, Hu. x pro pi fort. legi posse, o1 lineola traductum esse videri dixit; supra c alterum ante «cac litt. 1 scr.), nil certi dispicere potuit Pf. Nunc autem videmus PMilVogliano inter «Acontium et Cydippam» et «Eleorum ritum nuptialem» lacinias diegeseon ad tria (vix duo) aetia ignota exhibere (vd. infra app. ad Dieg. Z 26-29): nisi igitur POxy. 1011 haec tria aetia omisit, existimandum est v. 1 nostri fragmenti initium «Primi aetii ignoti» tradere. Praeterea R. Coles ap. C. Gallazzi - L. Lehnus, «ZPE» 137 (2001), p. 14 sq., POxy. 1011 iterum examinata, docuit vestigia v. 78 nullo modo

cum Dieg. I 3 convenire; versus

recensionem a viro docto prolatam hic praestiti (cum a. 1998 papyrum inspicerem, ipse veri similiores putavi litteras quae Hu. legerat etoAA potius quam oAı dispicere mihi visus sum) ..a: Τῇ vel τοι x (vel accentus acutus?) supra xo, fort. 1 supra secundam litt. a superscripta: eiusdem correcturae vestigia vel potius igouicco' 1°? accentus supra 1 incertus aco: è pro a, € pro €, c pro o possis — supra litt. priores v. 1 vestigia paragraphi (7); in marg. sin. signum /, prob. coronis initium partis novae indicans (vd. ad fr. 163, 1); in marg.

dext. reliquiae Scholiorum

[-- λλει [--- (fort. μέλλεὺ

2 (= fr. 76, 2 Pf.) ἐς ti ce divi-

sit W. Morel ap. Pf. II p. 113, de quaestione aetii cogitans (ce potius quam γε pap., vix

ἔκτιςε de institutione certaminis Olympici) ζῆνος pap., tum orı vel emi (Örıc prop. Crusius, Recensione p. 557) 3 (= fr. 76, 3 Pf.) αλλ᾽ pap., tum praeter xp et τὸν omnia incertissima (post tova fort. +): kxpovrovAıy L. ap. Lehnus, Lettere p. 233

Diegesis Mediolanensis ad Primum aetion ignotum (fr. 175)

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 175-177 PMilVogliano

18, col.

Z,

26-29

= PMilVogliano

inv.

28b,

117

26-29

cum

diegesis

ad

«Acontium et Cydippam» in pede praecedentis columnae Y inceperit et diegeseis ad singula aetia e circ. 10 versibus in papyro Mediolanensi constent, hic agnoscendus est finis diegeseos ad aetion quoddam ignotum post Acontii fabulam narratum (potius quam diegeseos 1psius ad «Acontium et Cydippam»); si ita, hoc aetion ignotum idem est atque illud, quod in POxy. 1011, 78 incipit (cf. supra fr. 175) 26 ]..[: priore loco punctum in summa linea; altero fort. 1, n, k, v, x (si unius litterae vestigia, n vel x possis) 27] : À potius quam ἃ

176 (novum) (Secundum aetion ignotum), actii initium

looc PMilVogliano lemma

18 (= Diegeseis

Mediolanenses), col. Z, 30 = PMilVogliano inv. 28b, 30:

litt. oc exstant in marg. sin. 1. 30 insequentis columnae I (woc Gallazzi-Lehnus: vec N.-V.) hexametri finis ut videtur

Diegesis Mediolanensis ad Secundum aetion ignotum (fr. 176) (col. Z)39--|]@0C l---l---l-=-]g[---l---]. @ce. [---PP---pouevov I---] Aovuel---] τίμημα I---] PMilVogliano

18, col. Z, 30-38 = PMilVogliano inv. 28b, 30-38

30 lemma = fr.

|

176 (vd.

app. ad loc.) 34 ].: fort. n.1, v, x potius quam p,v [: fort. e,0,0,c,® 35 litterae ὦ pars dextera et littera v exstant in marg. sin. 1. 35 insequentis columnae I (ὧν GallazziLehnus: ov N.-V.) 2326] : fort. e potius quam n vela litterae € partem dexteram in marg. sin. 1. 36 insequentis columnae I disp. Gallazzi-Lehnus 37 litterae a partem dexteram in marg. sin. 1. 37 insequentis columnae I disp. Gallazzi-Lehnus τίμημα potius quam

τιμὴ μα- Gallazzi-Lehnus 177 (novum) (Tertium aetion ignotum), aetii initium

|vöe γενέςθαι PMilVogliano lemma

18 (= Diegeseis

Mediolanenses), col. Z, 39 = PMilVogliano inv. 28b, 39:

litterae θαι exstant in marg. sin. 1. 39 insequentis columnae I

Diegesis Mediolanensis ad Tertium aetion ignotum (fr. 177) (col. 2) ---|vöe γενέςθαι 19---]pov καὶ 1[---I---]uroca

[---|--- ν καὶ I---] .exer I] τὰν |

(col. 1)... .be.l...Ju.x[.......... ].[r]poyetpoc ral---]

|

118

CALLIMACO

PMilVogliano

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

18, col. Z, 39-44 (= PMilVogliano

inv. 28b, 39-44) et col. I, 1 sq.

col.Z

39 lemma = fr. 177 (vd. app. ad loc.) 40 sq. Πυθαγό]ρου ... (ά]μιος valde dubitanter Gallazzi-Lehnus, fr. 157 ad hoc aetion revocari posse monentes, misi fr. 157 primus fabulae

versus sit 41 .[: si unius litt. vestigia, prob. v potius quam x; si duarum litt., 1 [ 42].: nvelı 43].:1,v,rpotius quamn fort. ἔχει, ἀνέχει, &]méyer sim. Gallazzi-Lehnus 44 ].:Bvelp coll 15sq.]x.[...]u.x[ et initium. 1. 2=fr. B, 1 sq. (vd. app. ad Dieg.I 3-9) 1x:: fort. apices duarum hastarum verticalium wu.x: vestigium minimum, fort. littera rotunda (0, e?) | [: vestigium minimum in summa linea suppl. Vo.

178-180 (Eleorum ritus nuptialis)

178 (76, 1 Pf.)

Ein aye por. .L.l...el....... LI]... αἰῆγις PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. 1,3: lemma Ba., Notes p. 66 ad frr. 178-180 spectare vidit Schol. (AD) Hom. 1. XI 700, Ip. 406. 23 Dindorf = p. 378 van Thiel

in proecd. a. 2000 (II p. 264 Erbse) Ἡρακλῆς προςτάξαντος Εὐρυςθέως ἀνεκάθηρε τὴν Adyeiov κόπρον ἀπαιτοῦντι δὲ αὐτῷ τὸν μιεθὸν οὐκ ἀπεδίδου, λέγων ἐξ ἐπιταγῆς αὐτὸν πεποιηκέναι. Φυλεὺς δὲ ὃ τούτου παῖς κριτὴς γενόμενος κατέκρινεν τὸν πατέρα ὁ δὲ ἀγανακτήεας ἐξέβαλεν αὐτὸν τῆς χώρας ... [vd. ad fr. 179] à icropia παρὰ Καλλιμάχῳ (cf. Eustath. ad Hom. 1]. 11., p. 879. 50) Ba., Notes p. 66 ad frr. 178-180 rettulit etiam Schol. (AD Gen.) Hom. 71. Π 629, I p. 123. 6 Dindorf = p. 115 van Thiel in

proecd. a. 2000 (I p. 315 Erbse, II p. 42. 15 Nicole) ὃς εἰς τὸ Δουλίχιόν note ἀπῳκίοθη διὰ τὸ καταμαρτυρῆεαι Tod πατρὸς Adyeiov πρὸς Ἡρακλέα περὶ τοῦ μιεθοῦ, dv ὑπέοχετο παρέξειν τῷ Ἡρακλεῖ è Αὐγείας, εἰ καθάρειεν αὐτοῦ τὰς ἐπαύλεις μεοτὰς οὔεας τῆς κόπρου τῶν βοῶν. N ἱετορία καὶ παρὰ Καλλιμάχῳ ex (in Dieg. col. 2, 5 ad dexteram partem extremam) et ayeuor ...[.]...0 (= fr. Β, 3) sinistram partem co/.I,3 esse iam ex imag. phototyp. cognovit Ma., confirmavit Vo. p. 114 Ein’ ἄγε vel Εἴπατε possis post uo hasta litt. 1, vix v (potius μοι quam Μοῦςᾳ Vo.), tum litt. rotunda c, e, 8 (p?), tum 1 (2), mox è vel a, lacuna unius litt.; post lac. c (vel 0), pars infima hastae verticalis, mox κ vel À et a, lacuna litterarum fere septem, tum vestigia trium

litt.; in fine λᾳταιῆνις vel potius αδυγαιῆγις, supra n non solum accentus circumflexus, sed etiam spiritus vel accentus acutus vel potius litt. 1 (fort. voluit îvic?): πίμπ]λᾳται ἦγις

Ba., Notes Ὁ. 66: πίλ]ναται ἦνις Ma. ap. Lehnus, Fr. 76 Pf. p. 157

179 (77 Pf) Ἦλιν ἀνάεςεεθαι, Διὸς οἰκίον, ἔλλιπε Φυλεῖ Schol.

(BCDEO)

Pind.

Ol.

X

55

c, I p.

324.

22

Drachmann

Ἦλιν

vl

"Adrıw]

᾿Αριοτόδημος [FGrHist 383 F 11] γράφει ἀντὶ τοῦ Αλιν "Akrtıv ... Δίδυμος [fr. V 19 p. 222 Schmidt] Sè κατὰ χώραν ἐῶν τὴν γραφὴν τὸν Πίνδαρον τὴν Πίεαν Ἦλιν λέγειν gnciv: οἱ γὰρ Ἠλεῖοι ὑφ᾽ ἑαυτοὺς ποιηεάμενοι τοὺς Πιεαιάτας Ἦλιν τὴν Hicov

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 178-180

119

μετωνόμαςεαν. εἰ οὖν ἡ Πίεα μετέβαλε, τί ἂν εἴη ἐμποδὼν γράφειν λιν; καὶ Καλλίμαχος δὲ τὴν Ἦλιν Διὸς οἰκίον εἶπεν ἀντὶ τοῦ Πίεαν - “Ἦλιν-Φυλεῖ᾽. ἱερὰν δὲ τὴν Ἦλιν ἀντὶ τοῦ Πίοαν (sequitur famb. fr. 196,1 Pf.) ad frr. 178-180 spectat Schol. (AD) Hom. II. XI 700, I p. 406. 23 Dindorf = p. 378 van Thiel in proecd. a. 2000 (III p. 264

Erbse) ... [vd. ad fr. 178] Ἡρακλῆς δὲ ἐπιοτρατευςάμενος Ἦλιν ἐπόρθηςεν καὶ μεταπεμψάμενος τὸν Φυλέα ἐκ Δουλιχίου rapadtöncıv αὐτῷ τὴν Bacıkeiov. ὀλιγανδρίας δὲ οὔεης διὰ τὸ πολλοὺς ἐν τῷ πολέμῳ εὐυνεφθάρθαι, Ἡρακλῆς ουγκατέκλινεν τὰς τῶν τετελευτηκότων γυναῖκας τῷ ciparò, οὕτως τε πολλῶν γεννηθέντων ἔθηκεν τῷ Διὶ τὸν Ὀλυμπιακὸν ἀγῶνα καὶ αὐτὸς πρῶτος τῶν ἀγωνιςμάτων ἥψατο. ἡ ἱετορία παρὰ Καλλιμάχῳ (cf. Eustath. ad Hom. ZI. 1.1., p. 879. 50) adfrr. 178180 pertinet Schol. (AD Gen.) Hom.

//. II 629, I p. 123. 6 Dindorf = p. 115 van Thiel in

proecd. a. 2000 (I p. 315 Erbse, II p. 42. 15 Nicole) ... [vd. ad fr. 178] ἡ ictopia kai παρὰ Καλλιμάχῳ ἱερὴν ante Ἦλιν in fine pentametri add. Schn. II p. 447 e Schol. Pind. ἱερὰν δὲ τὴν Ἦλιν, at verba Scholiastae sunt, non Callimachi, ut monuit Pf. (Ἦλιν ἱεράν bis in Schol. 55 Ὁ et c

ante h.l., cf. etiam 55 4 Ἦ. καθιέρωςε, scil. Hercules)

τοῦ IlicavD

οἰκεῖον ( ante corr.

ἔλιπε

Ἦλιν-οἰκίον post τὴν Ἦλιν ἀντὶ

φιλεῖ Cante corr.

ἔλλιπε Φυλεῖ om. D

De re vd. Schol. Hom. Il. XI 700 supra allatum; inde satis certum est fragmentum ad hanc Aetiorum partem pertinere (vd. iam Schn. II p. 65, Ba., Notes p. 67). Hunc versum eundem esse posse ac fr. inc. lib. Aet. 81,3 non omnino negandum: vd. app. ad loc.

180 (77a Pf. + 158, 1 Pf.)

1-3 POxy. 2213, fr. 2, 1-3 4 POxy.2213, fr. 2, 4 + fr. 3, 1 ad frr. 178-180 spectat Schol. (AD) Hom.

Il. XI 700, I p. 406. 23 Dindorf = p. 378 van

Thiel in proecd. a. 2000 (III p. 264 Erbse) ... [vd. ad frr. 178 et 179] ἡ ictopia παρὰ Καλλιμάχῳ (cf. Eustath. ad Hom. 71.1.1., p. 879. 50) ad frr. 178-180 pertinet Schol. (AD Gen.) Hom. N. II 629, I p. 123. 6 Dindorf = p. 115 van Thiel in proecd. a. 2000 (I p. 315

Erbse, Πρ. 42. 15 Nicole) ... [vd. ad fr. 178] à icropia kai παρὰ Καλλιμάχῳ 1])...[: vestigia in linea ipsa, mox fort. x, init. hastae ascendentis ad dexteram (n[A]wa (= init. fr. 179) legi non potest Pf.)

3 in marg. pars superior coronidis (vd. ad fr. 181, 1; de

coronide in universum vd. ad fr. 163,1)

4 POxy.2213 fr. 2, 4 fivu[ cum fr.3,1].n[ E

Call. fr. inc. lib. Aet. 158, 1 Pf.) coniunxi suadente L.: vd. ad fr. 181 fiv pap.: ἦν ul divisit Pf. ].: punctum in summa linea supra vestigium deorsum curvatum in linea

120

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Diegesis Mediolanensis ad «Eleorum ritum nuptialem» (frr. 178-180)

(col. D Ein’ ἄγε or ...[.]...ol 1.[.1..- «αἰῆγιςε ! ®]nciw ev Ἤλιδι ε [Tv .]. [γἹαμουϊδμένας παρθ]ένους ---]. οἱ .] οὐ π[έϊπλους ἐχούεας e[---].[.....Jov[A..] δόρυ δὲ ev[---1 δὲ gnew α [---ἰ ἄνδρα καθωπίλιεμένον ---I PMilVogliano

18, col. I, 3-9

3-9 eux (in col. Z, 5 ad dexteram

partem

extremam)

et

oyeuor ...[.]...0 + init. Il. 4-6 + Il. 7-9 (= fr. B, 3-9) sinistram partem col. I, 3 544. esse lam ex imag. phototyp. cognovit Ma., confirmavit Vo. p. 114 3 lemma = fr. 178 (de singulis litt. vd. app. ad loc.) 4 init. suppl. Vo., fin. Ma. ap. Vo. 5 suppl. Vo. 8 _[: fort. v velt

9 suppl. Ba., Notes

p. 66, qui etiam ll. 4, 5, 7, 8 restituere conatus est

Ad hoc aetion fort. spectat fr. inc. lib. Aet. 229, ubi v. 2 Ἱπεπλοί legitur (cf. Dieg. I 5 sq. supra π[έϊπλουο). Huc referri possunt fr. inc. sed. 271 (Κρόνου λόφος Olympiae) et fr. inc. auct. 284 (Herculis corona oleastni). Fr. inc. lib. Aet. 81 huc pertinere posse non omnino negandum est: vd. adn. ad fr. 179. Fr. inc. sed. 541 Pf. (de Olympiadum ratione) potius ad

librum Περὶ ἀγώνων (fr. gramm. 403 Pf.) respicit. Neque fr. 295 Pf. (quod ad Hecalam attinet = fr. 114 H.) neque fr. inc. auct. 279 (de Milone) fabulae Herculis et Augeae inserere licet, ut Schn. II p. 65 contendit

181 (78 Pf. + 158, 2 sq. Pf.) (Hospes Isindius)

Ὥφειλες οὐλοὸν ἔιγχο[ς

undl.......... Ikoôl 1 sq. POxy.2213, fr. 2, 5 sq. + fr.3,2 sq.

fort. ad hoc fragmentum spectat Steph. Byz.

s.v. “Icwdoc, p. 338. 14 Meineke πόλις Ἰωνίας. 6 πολίτης Ἰείνδιος Ταϊνετιτάς [sic R: ἐναιτιτάς V: ἐναιτίτας PR: ἐνετίτας PP: ἐνετιτός Ald.; sub hac corruptela (cf. αἰνετιῶν V, ad fr. 33) fort. ἐν Αἰτίων τρίτῳ vel similia latent verba, nomine poetae omisso] (cf. Dieg.I 11 infra) fort. ad hoc fragmentum spectat Suid. s.v. Αἴθαλος, αἱ 111, Πρ. 164. 25 Adler

(= Lex. Ambr. 159 et 170 teste Adler, Zonar. s.v. Αἴθαλος p. 67 Tittm.): ὄνομα κύριον, καὶ τόπος (cf. Ov. Ib. 621 in comm. allatum) 1 PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. I, 10: lemma

POxy. 2213 fr. 2, 5 sq. cum fr. 3, 2 sq. (= Call. fr. inc. lib. Aet. 158, 2 sq. Pf.) coniunxi suadente L.: vd. ad fr. 180, 4 et infra ad v. 1 Lin marg. POxy. pars inferior coronidis (vd. ad fr. 180,3) suppl. Pf. e lemmate Dieg. I 10 (= fr. B, 10), ubi w ‚edec: vestigia litterae

inter ὦ et e in @ quadrant, non in è (ὧδ᾽ ἕλες Vo.), possis etiam ὥφειλέ ς᾽ (de @gelke in POxy. iam L. cogitaverat) potius ey quam εἰ in lemmate Dieg.: Èy[yoc suppl. Ma, Exkurs II p. 161 (huic supplemento suffragatur POxy. fr. 3: vd. infra) POxy. fr. 2 litt. @ge, fr. 3 litt. γχο tradunt: "ante x neque y neque τ legi possunt, ut videtur: huc igitur pertinere vix potest' Pf., quamvis L. putaret fr. 3 eiusdem partis esse, unde fr. 2; sed moneo e]vxole in fr. 3 optime legi et suppleri posse (ante x reliquiae lineae descendentis a sinistra, 1.e. pars media obliqua litt. v): de scriptura vy pro yx in papyro, cf. e.g. Call. fr. 1, 36

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 181-182

evieAo[d@ (idem in Schol. Lond. et Comm. Oxon. ad loc.)

121

fr. inc. sed. 261 +&@eAèc

οὔλοον Öctpov ad hunc versum prob. referendum est: coniecerim Herodianum vel eius fontes &ctpov pro ἔγχος per errorem scripsisse, cum reminiscerentur Homerici loci οὔλιος

ἀςτήρ (I. XI 62, οὔλιος nusquam alibi in Hom.) prob. commemoratus est (cf. Suid. supra allat. c. adn.)

κοῦ tradunt

vir nomine Αἴθαλος in hoc carmine 2 POxy. fr. 2 litt. μηδ, fr. 3 litt.

μηδέ suppl. L.

Diegesis Mediolanensis ad «Hospitem Isindium» (fr. 181) (col. D 1 Ὥφελες οὐλοὸν ἔγ[χος ---I---]Jeic Ἰείνδιον S[---1---] . vra[---1---]cıe[---1 [IL 14-24

desunt] PS. ].[..].[--locg].].10[---I PMilVogliano

18, col. 1, 10-13 (= fr. B, 10-13: vd. app. ad Dieg. I 3-9) et 25 sq.

lemma = fr. 181, 1 (vd. app. adloc.)

11]Jeıvix n

10

Jeıc Ἰείνδιον Pf. coll. Ov. Ib. 621 in

comm. allato et Steph. Byz. supra ad fr. 181 allato (φ]ηεὶ cwvötov, ‘quid εἴνδιον sit ignoro' Vo.) vestigia correcturae in litt. v priore 25 sq. fort. finis Dieg. sequentis, cuius pars maior perdita est, vd. adn. infra 25] [ (prius): fort. pars inferior litt. rotundae 26

φ[ι]λία[7 Pf. Novae fabulae narratio in lacuna inter ll. 13 et 25 prob. incipiebat: cum enim in hac papyro diegeseis ad singula aetia e circ. 10 versibus constent, veri simile non est in Il. 10-26 nihil nisi Isindii historiam relatum esse. Pf. susp. 1. 25 sq. pertinere ad Phrygii et Pieriae

fabulam (fr. 183-185) et prop. [Mvovctoic καὶ MuAnctloıc φ[ι]λίαί[ν, cf. fr. 184, 19 necon Plut. et Polyaen. ad fr. 184 allatos (φιλίας). Si ita est, non suo loco diegetes Phrygii et Pieriae fabulam narravit: vd. adn. post Dieg. I 27-36 ad fr. 182 et app. ad fr. 185, 3 De fr. inc. sed. 261 cum fr. 181, 1 prob. congruente vd. app. ad loc. Fr. inc. lib. Aet. 235 ad «Hospitem Isindium» respicere potest, si Neptunus ibi commemoratur (fort. ad sollemnia Ilavibvia): sed veri similius est Callimachum in «Hospite Isindio» ᾿Απατούρια commemorasse, ut coniecit Ragone pp. 100-106 (vd. comm. ad fr. 181)

182 (79Pf.) (Diana Lucina)

Ted δὲ χάριν ο[

κικλήςσ]κουειν

PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), οοἱ.1, 27 sq.: lemma

ante o vestigium minimum in linea dispexi, fort. &,6,x,% Τ[ fort. pes hastae Aoxlinv Barigazzi, Fr 79 Pf., coll. Eur. Suppl. 958 et Iph. Taur. 1097 in comm. allatis: λόχ[ιαι vel Xoy[inv L. ap. Pintaudi p. 201 et ap. Lehnus, Nota p. 214 suppl. Ma., Recensione II p. 439 de Aoxlinv ce (vel λόχ[ιαί ce) ... κικλήοσἠκουειν cogitaverim (vd. Introd. I.1.A.a.iii.); inter ce et κικλήσκουσιν supplere possis βοηθόε (cf. Dian. 21 sq. ὅτ᾽ ὀξείῃειν ὑπ᾽ @diveca γυναῖκες | τειρόμεναι καλέωει βοηθόον, 153 sq. ἵνα θνητοί ce βοηθόν |... κικλήςκωςιν)

122

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Diegesis Mediolanensis ad «Dianam Lucinam» (fr. 182) (col. I) Ted δὲ χάριν 0 [--- κικλήείκουειν "E&file] gIna γυναῖκας S]uchoxodcac τὴν "A n 3130 θέ 3 λεῖ e ἢ , ue 5 x ρτείμιν καίπερ ο]ύβθεαν παρθένον ἐπ[ικαλεῖν, ὅτι | [τη ἀπεκυήθη, ἢ ὅτι δ[ιὰ ἐφημοούϊνην τοῦ Διὸς i Εἰλείθυια [αὐτὴν] τοῦτ΄ ἔχειν ἔδωκεν ἐξ[α]ίρετον, Subti τὴν ἑαυτῆς unt[épa ἐ]λύεατο F5 τῶν ὠδίνων ὅτε ἀπέτικτεν | τὸν ᾿Απόλλωνα. | Lal

3

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x

La

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Lai

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18, col. I, 27-36

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x

#4

27 sq. lemma = fr. 182 (vd. app. ad loc.)

28-30

ôlvchokodcac suppl. Ma., Recensione II p. 439, cett. N.-V. ('ESf[c]: [na N.-V.: inter punctionem del. L. ap. Vo.) 29tox e toy correctum esse mihi videtur 30 sq. ].. Imm: litt. prior iam non exstat, in fine apex hastae verticalis (de av cogitaverat Vo.); 'cf. hy. III 24 sq. Latona Dianam sine doloribus utero gestavit et enixa est ...; inde apparet 1. 30 non r]poltn (N.-V.) suppleri posse, quod etiam litt. vestigia dissuadent, sed vocabulum illam rem miram

exprimens (sic recte Vo.) Pf. 32 €110 pap. suppl. Vo. dev et TEUKT pap.

31 δ[ιὰ suppl. N.-V., ἐφημοού- Pf. (pràdogpocò- N.-V.) 33 sq. 2]Aöcaro suppl. Wifstrand p. 139, cett. N.-V. 35

Subsequitur in Dieg. «Euthycles Locrus» (frr. 186-187), at in POxy. 2212, fr. 1 (b) E Call. frr. 185 et 186) «Euthyclem Locrum» antecedere videtur «Phrygius et Pieria» (frr. 183-185): omisit igitur diegetes Phrygii et Pieriae fabulam aut potius alio loco post historiam Hospitis Isindii inter frr. 181 et 182 narravit, vd. adn. pone Dieg. I 10-13 et 25 sq. ad fr.181

183-185 (Phrygius et Pieria)

183 (81 Pf.) Ϊκτεαγνίον 15’ ἀκου|ςΦρύ]γιος’ ].vevcev

5

da|toctpé[petar

1-5 POxy. 2213, fr. 17 1-3 suppl. L. ap. Pf. (supplementa incertissima) 3 oc: pap. 4 vevcav et e supra a pap. (xot]évevcev suppl. L., at ante vev vix ε legi potest) 5 suppl. L. ap. Pf. (supplementum incertissimum) Suadente L., fragmentum inter Pieriae fabulae reliquias (fort. ad init. fr. 184) valde dubitanter inseruit Pf., quia pap. pars eiusdem columnae esse videtur quae fines vv. fr. 184, 4-22 servavit (= POxy. 2213, fr. 1). Ad rem conferre potes Aristaeneti verba allata ad fr.

184 τὴν εὐδαίμονα πόλιν (vix Aristaeneti verba ibidem allata Φρύγιος ... κατένευςε, vd.

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 183-184

123

app. ad v. 4 supra), at rem ipsam in illis vv. 12-15 narratam esse apparet. Barigazzi, Frigio pp. 11-13 collocavit hoc fragmentum continuo post fr. 184 et coniecit huius fragmenti v. 5 eundem pentametrum esse, a quo incipit fr. 185

184 (80 Pf. + 82 Pf.) ἂν νέφος av[ εἴθε γὰρ οὐκαπί τοῦτ᾽ εἰπεῖν [

5

]

ἐ]ξ ἐμέθεν tel ἢ] ῥα’ cè δ᾽ οὐ πυλι εῶν Λ]ύδιον οὐ κα[ίρωμα

λάτριες, οὐκογί, .].1x. |

Ιντα.᾿ οὐ κά]λυκεε, I Κάειρ[α]ι

Ις,

τ]οῖς ἔπι θηλύτίερ]αι | ᾽ἰαίνεςθε ἔξαιτον, πυκιϊ[νοῦ γνώματος ἐξ[ἐ]βαλ[ο]ν 10

αἰδοῖ δ᾽ ὡς φοί[νικι] τεὰς ἐρύθουεα παρειάς

ἤν]επες dgllBaAuolîc ἔμπαλι |... Jouevl.] | 1 le χρήζοιμι [νέ]εεθαι 15



[

[. μετὰ πλ]εόνων.᾽ ]. e, νόον δ᾽ ἐφ[ρ]άςεατο ceîo ] πατρίδι μαιομένης.

.

|

]

[

ll

I I ΠῚ

ἣν γὰρ τοῖο] Μυι[όε]ντα καὶ ot Μίλητον ἔναι[ον

20

covbeci]n: poùvi[ne νηὸν ἐς] ᾿Αρτέμιδος ξυνῇ π]ωλε[ἴεθαι NnlAnidolc], ἀλλὰ εὖ τῆμος βουκτ]αειῶν ἀρι[τὺν πιςτο]τέρηϊν Erauec, ἔνδει]ξας καὶ Κύπι[ρι]ν ὅτι ῥη[τ]ῆραιϊς ἐκείνου τ]εύχει τοῦ Πυλί![ου kpJéccovac oùlk ὀλίγος. ἐ!ξεείαι rnokéel[c γὰρ ἀπ᾿ ἀμφοτέροιο uo]Aodcaı ἄςτ]εος ἀπρήκτ[ους οἴκαδ᾽ ἀνῆλθον ὁδούς.

1.01. ]de.| 1-24 Aristaenet. I 15, p. 37. 16 Mazal Μίλητος ... καὶ Μυοῦς αἱ πόλεις ... ἀνεπίμικτοι διετέλουν, πλὴν Scov ἐς Μίλητον οἱ τῆς ἑτέρας ὑπόςπονδοι βραχὺ προςεφοίτων, καιρὸν ἔχοντες καὶ μέτρον τῆς αὐτόθι τιμωμένης ᾿Αρτέμιδος τὴν πανήγυριν ... Πιερία ... ἐκ τοῦ Μυοῦντος ... ἐπεδήμηςε τῇ Μιλήτῳ ... Φρύγιος δὲ ὁ τοῦ ἄεστεος βαεοιλεὺς πρὸς τῶν Ἐρώτων κατατοξευόμενος τὴν ψυχὴν ... ἔφη ..." ᾿εἴθε γὰρ θαρροῦεα λέξειας, ὦ καλή, τί ἄν cor χαριέετατα γένοιτο παρ᾽ ἐμοῦ. καὶ διπλαείαν ἡδέως τὴν αἴτηειν ἀποπληρώεοω᾽. τοιαῦτα μὲν ὃ δίκαιος ἐραςτής: cè δέ, ὦ παςῶν ὑπερφέρουεα γυναικῶν καὶ κάλλει καὶ γνώμῃ, τῆς ἔμφρονος [ἔμφρονος Lesky: εὔφρονος cod.] οὐ παρήγαγεν εὐβουλίας οὐχ ὅρμος, οὐχ ἑλικτῆρες, où πυλεὼν [πόλεων cod.: corr. L. ap. Pf.] ὃ πολύτιμος [ὃ πολύτιμος Lesky: τὸ πολύτιμον cod.], οὐ περιδέραιον, οὐ Λύδιός τε καὶ ποδήρης χιτών, οὐ πορφυρίδες, οὐ θεράπαιναι τῆς Καρίας οὐδὲ Λυδῶν ὑπερφυῶς ἱετουργοῦεαι γυναῖκες, οἷς ἅπαειν ἀτεχνῶς ἀγάλλεεθαι τὸ θῆλυ πέφυκε γένος, ἀλλ᾽ εἰς γῆν ἑώρας τὸ rpocozov

124

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

[τὸ πρόεωπον del. Tollius], ὥςπερ τι covvoovuévn. εἶτα ἔφης ἐπιχαρίτως πεφοινιγμένη τὰς παρειὰς καὶ τὸ πρόεωπον ἐξ αἰδοῦς ἀποκλίναςα [broxMvaca Tollius] ..." ‘értvevcov, & βαειλεῦ, ἐμέ τε καὶ τοὺς ἐμοὺς ουγγενεῖς εἰς τῆνδε τὴν εὐδαίμονα πόλιν ὅταν ἐθέλοιμεν [ἐθέλωμεν Hercher] ἐπ᾿ ἀδείας ἰέναι᾽. ὁ δὲ Φρύγιος τῆς φιλοπάτριδος γυναικὸς ὅλον κατενόηςε τὸν «κοπόν, ὡς διὰ τούτων ἐκείνη «πονδὰς πρὸς Μιληείους πραγματεύεται τῇ πατρίδι, κατένευςέ te βαειλικῶς καὶ τὸ «πουδαςθὲν ἐκύρωςε τῇ φιλτάτῃ, πιοτότερον ἢ κατὰ θυείαν ἐμπεδώοας ἐξ ἔρωτος τοῖς ἀςτυγείτοει τὴν εἰρήνην ... οὕτως οὖν ἐκφανῶς δεδήλωκας, & Πιερία, τὴν ᾿Αφροδίτην ἱκανὴν εἶναι παιδεύειν ῥήτορας οὐκ ὀλίγον ἀμείνους καὶ τοῦ Νέστορος τοῦ Πυλίου πολλοὶ γὰρ πολλάκις ἑκατέρωθεν τῶν πόλεων εοφώτατοι πρέεβεις ἐξ ἑτέρας εἰς ἑτέραν ὑπὲρ εἰρήνης eicıövrec διὰ κενῆς ὅμως [ἄλλως Hercher] κατηφεῖς τε καὶ ἀςχάλλοντες ἄπρακτον ἀνέλυον τὴν πορείαν (quae sequuntur, vd. ad fr. 185)

Plut. Mor. 253 F (Mul. virt. 16),

I 1 p. 251. 2

Nachstädt-Sieveking-Titchener ἔν ticiv ἑορταῖς ἐφοίτων εἰς Μίλητον ἐκ τοῦ Μυοῦντος ai γυναῖκες ... odenc οὖν ἑορτῆς ᾿Αρτέμιδι καὶ θυείας παρὰ Μιληείοις, ἣν Νηληΐδα Rpocayopedoucıw ... τῶν ... Νείλεω παίδων ὁ δυνατώτατος ὄνομα Φρύγιος τῆς Πιερίας ἐραεθεὶς ἐνενόει τί ἂν αὐτῇ μάλιετα γένοιτο παρ᾽ αὐτοῦ reyapicuévov. εἰπούεης δ᾽ ἐκείνης ‘ei διαπράξαιό μοι τὸ πολλάκις ἐνταῦθα καὶ μετὰ πολλῶν βαδίζειν᾽, coveic οὖν [οὖν del. Bernardakis] ὁ Φρύγιος δεομένην φιλίας καὶ εἰρήνης τοῖς πολίταις κατέπαυςε τὸν πόλεμον (quae sequuntur, vd. ad fr. 185)

e Plut. Polyaen. VII 35, p. 398. 8 Wölfflin-

Melber Πιερία, ἑορτῆς obenc παρὰ Μιληείοις ἣν Νηληΐδα κλήζουειν, ἧκεν ἐς Μίλητον. τῶν Νηλέως παίδων (ὃ δυνατώτατος [add. Casaubonus e Plut.] ὄνομα Φρύγιος Πιερίας ἐραεθεὶς ἤρετο τί ἂν αὐτῇ μάλιετα γίγνοιτο xeyapicuévov. ἡ δὲ ἔφη "el μοι διαπράξαιο τὸ πολλάκις καὶ μετὰ πολλῶν ἐνθάδε βαδίζειν δύναςεθαι᾽. covfikev ὁ Φρύγιος ὡς εἰρήνης καὶ φιλίας τοῖς πολίταις δέοιτο καὶ τὸν πόλεμον ἔπαυςε (quae sequuntur, vd. ad

fr. 185)

1-3 POxy. 2212, fr.4 (a), 1-3

4-6 POxy. 2212, fr. 4 (a), 4-6 + POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 1-3 5 Poll. V κεφαλῆς «τεφάνην πυλεῶνας

96, I p. 288. 11 Bethe τὰ τῶν γυναικείων kécuov ὀνόματα … κατὰ μέρη μὲν rocuriuota Ὅμηρος λέγει ... [4 XXII 469] cò δ᾽ ἂν npocdeinc παρ᾽ Ὁμήρου λαβών … ἢ]. XVII 597] καὶ ᾿'πυλεῶνα᾽ [πυλαιῶνα ABC] παρὰ Καλλιμάχου καὶ κάλυκας rap’ Ὁμήρου LI. XVII 401] τε

᾿Ανακρέοντος

[fr. 156 Gent. = PMG

479] κτλ.

Schmidt], x 4361, III p. 214 Hansen ct&pavoc Latte γυναικεῖος Köcuoc

fort. Hesych.

s.v. πυλ(εγών

prob. id. s.v. κάλυκες,

δὲ καὶ FS: καὶ

[explevit

x 537, II p. 403

7 POxy.2212, fr.4 (a), 7 et (b), 1+ POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 4 8 POxy.2212, fr. 4 (a), 8 et (Ὁ), 2 + POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 5 + (marg. dext) POxy.2213,

fr. 25, 1 fort. Hesych. s.v. iaivecde, 1 269, II p. 350 Latte edopaivecde [ένεεθαι: εὐφραίνεεθαι cod.]

9-12 POxy. 2212, fr. 4 (a), 9-12 + POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 6-9 + (marg. dext.) POxy. 2213, fr.25,2-5

9 fort. Hesych. s.v. ἔξαιτον, e 3522, II p. 116 Latte ἐξαίρετον, μέγα (neque ad Hom. //. XII 320 neque ad Ap. Rh. IV 1004 pertinere potest)

13 POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 10 + (marg. dext.) POxy.2213, fr. 25, 6 14 sq. POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 11 sq. + POxy. 2212, fr. 2 (a+b), 1 sq.

16-18 POxy. 2212, fr. 5, 1-3 + POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 13-15 + POxy. 2212, fr. 2 (a+b), 3-5 19 POxy. 2213, fr. 9, 1 + POxy. 2212, fr. 5, 4 + POxy. 2212, fr. 1 (a), 1 + POxy. 2212, fr. 2

TESTO CRITICO: AET. HI FR. 184 (a+b), 6 + POxy.

2213, fr. 1 (a+b), 16

prob. Hesych.

125

s.v. &pröv,

a 7539, I p. 255 Latte

φιλίαν καὶ cdußacıv 20 sq. POxy. 2213, fr. 9,2 sq. + POxy. 2212, fr. 1 (a), 2 sq. + POxy. 2212, fr. 2 (a+b), 7 sq. + POxy. 2213,fr. 1 (a+b), 17 sq. 22 POxy. 2213, fr.9,4 + POxy. 2213, fr. 1 (a+b), 19 23 sq. POxy. 2213, fr.9, 5 sq. POxy. 2212, fr.4 (a) et (b) et POxy. 2213, fr. 1 (a+b) ad eandem fabulam pertinere vidit Pf., qui ea coniunxit; POxy. 2213, fr. 25 in marg. dext. vv. 8-13 collocavit L. (vd. app. ad v. 11); POxy. 2212, fr. 2 (a+b) et fr. 5 inseruit L. suadente Pf.; POxy. 2213, fr. 9 + POxy. 2212, fr. 1 (a) (fragmenta contunxerat L. ap. Pf. coll. Aristaenet. supra allato = olim Call. fr. 82 Pf.) cum reliquis POxy. 2212 et 2213 fragmentis, quae vv. 19-22 tradunt, 1unxerunt B.M., Callimachea

(vd. B.-M., Callimachea

II adn.

1)

Phrygii et Pieriae fabulam amato-

riam in compluribus fragmentis utriusque papyri (POxy. 2212 et 2213) exstare cognovit Pf. coll. Aristaenet., Plut. et Polyaen. supra allatis: Aristaeneti epistulam et propter 'poeticum colorem' et propter αἴτιον in fine additum quasi paraphrasin esse elegiae Callimacheae suspicatus erat R. Reitzenstein, /nedita poetarum Graecorum fragmenta, III, Progr. Rostochii 1892/93, pp. 15-17 (‘non sine iusta causa' Pf.! p. 89) 1-3 vocabula divisit Pf. 2 eute pap. (quapropter εἴτε scripsit PL): correxi, coll. Aristaenet. supra allato εἴθε γὰρ

θαρροῦεα λέξειας κτλ. (ad εἴθε γάρ, cf. Call. Hec. fr. 260, 48 Pf. = SH 288, 48 = fr. 74, 7 H. c. locis a Pf. in comm. allatis, fr. eleg. adesp. SH 967, 7* etc.: vd. comm.)

δά fin. x

potius quam t 4-12 vv. initia in POxy. 2212 (v. 7 sq. | we | et Jon _{ in fr. Ὁ), fines in POxy. 2213 4sq. suppl. L. 4 ἐ]ξ ἐμέθεν telA&cavroc (= ἐμοῦ ἐκτελέεςαντοορ) tempt. Ma. ap. Pf. II p. 113, coll. Aristaenet. ἀποπληρώεσω supra allato

5cv pap.: cè L., qui ap.

Pf. πυλ (non vu) et Av (non À) legere sibi visus est in papyris et ad Aristaenet. ἐπόλεωντ supra allatum suppl. πυλιεών e Poll. supra ad v. 5 allato (vd. Massimilla, Papiri p. 36)

κά]λυκες suppl. L. ap. Pf., coll. Hom. /I. XVIII 401 c. Schol.

κες[ 7 pap.

6 suppl. Pf.,

κα[ζίρωμα τά θ᾽ ictovpyodc]i e.g. L. ap. Pf. ad Aristaenet.

supra allatum:

fort. melius

κα[ίρωμα ποδηνεκές, οὐχ]ὶ e.g. Barigazzi, Frigio p. 17 ad Aristaenet. 7 τες" pap. vocabula divisit Pf. Jar vel ]v? si v, fort. tres litt. desunt post y: οὐκ ἀγ[αθ]ᾳΐ Barigazzi ll. olvel@[(.[scripsi: οἱ Pf) c:pap. 8 τ]οῖς suppl. Pf. &rıpap. θηλύτ[ερ]αι suppl. L. .[: litt. rotunda, metri causa prob. @ (non £): θαλερὰς gpévac] vel θαλερὸν θυμὸν] e.g. Pf. 9 ἐξ pap. suppl. L. (τυκιίν, γνώματος, 28[E]BaA|) et Pf. 10 Soî pap. suppl. Pf.

11 ἔνν]επες suppl. Pf.: potius ἤν]επες propter spatium Ma. ap. Pf. II p. 113

ὀφι[θαλμο]ῖς suppl. Pf. win eux corr. ex v, post 1 inter alia v legi potest, ad fin. fort. pes curvatus hastae verticalis: ἔμπαλιν [icyJouév{olilc e.g. PL: ἔμπαλιν [AA Jouév[o]yc L. ap. Pf.: ἔμπαλι κ[λιν]ομέν[ο][ς vel β[αλλ]ομέν[ο]{ς Herter, Recensione p. 79, coll. Hom. Il. III 427 et Od. XVI 179: supplemento x[Aıv] suffragari moneo Aristaenet. &roxAivaca supra allatum (vd. ettam comm.) ad dexteram v. 11 fere ('v. 7 fere' per errorem Pf.) fuisse signum stichometricum x, i.e. 1000, putat L., POxy. Part XIX, Add. p. 145 (vd. ad /amb. fr. 194, 10 Pf. fort. B?); si recte, versus millesimus libri tertii in columna sequenti fuit, prob. in

Euthyclis fabula (infra fr. 187 = POxy. 2213, fr. 8), quam ultimam ıllius libri esse constat (vd. Introd.1.4.B.) 12 suppl. Pf. 13]. [: pars superior hastae verticalis et apex hastae ad laevam flexus suppl. Pf. coll. Plut. supra allato (πλ]εόνων iam L.) 14 POxy. 2213 litt. .e-voovöeg|[. . Jcatoceto, 2212 litt. eg[.]eccaro[.|Jer tradunt ].: finis dexter hastae a laeva descendentis in summa linea suppl.L. 15 POxy. 2213 litt. omnes, quae leguntur

126

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(ad fin. *), 2212 litt. öyuononevnc tradunt 16-18 vv. initia in POxy. 2212, fr. 5, fines et in POxy. 2213, fr. 1 et in POxy. 2212, fr.2 16 POxy. 2213 litt. ντακαιοιμιλητονεχοῦ (var supra χοῦ scr., 1.6. &xovl[cı in ἔναιζον correctum), 2212 litt. wıÄnrovevo tradunt init.

suppl. B.-M., Callimachea, Mol[éelvra Pf., &vonfov L.

17n:pap.

POxy. 2212 litt.

omnes, quae leguntur, 2213 litt. δος tradunt uodvifnc suppl. Pf., cett. B.-M. LI, quorum supplementis suffragari moneo Ap. Rh. IV 452 sq. et Rufin. Anth. Pal. V 9, 6 in comm.

allatos: vix igitur uodvi[nc δ᾽ ἱερὸν] Pf. (vd. ad v. 18), etsi ἱερὸν ᾿Αρτέμιδος" legitur ap. (Call.)fr. inc. auct.800 Pf. 18 ὼλ pap. POxy. 2212 litt. Antôo[ 7 αἰ. . .Jurn, 2213 litt. λλαεύτημος tradunt ξυνῇ r]oAel[îcda1 suppl. B.-M. 11. (propter accentum ©À fort. potius ἐπιπ]ὼλει[ιεθαι seribendum censuit Pf.: vix recte, vd. adv. 17) Nn]Aniso[c] suppl. Pf. e Plut. supra allato (ubi Νηληΐδα codd., idem codd. Polyaen. supra allati, cf. Call. Dian. 226, at Νείλεω lamb. fr.191, 76 Pf.) 19 v. pars prima et in POxy. 2213,fr. 9 et in POxy. 2212,fr. 5; secunda in POxy. 2212, fr. 1 (a); tertia et in POxy.

2212, fr. 2 et in POxy. 2213,

fr.1

POxy. 2212 litt. vera ]ες",

POxy. 2213 litt. «cıo|[ . .]p, 2212 litt. vop tradunt

2213 litt. @uec* tradunt βουηκτ]ᾳςιὧν dubitanter suppl. Pf. (qui Bovet]ac[1]@v scripsit) coll. Aristaenet. À κατὰ θυείαν supra allato (‘comparatio compendiaria'; ad gen. plur. -10v (neque -τἰάων neque -ı&wv) cf. Hom. I. XXIII 112 xAıcı@v, [Hom.] Hymn. II 312 θυειῶν et cetera exempla quae collegit H. W. Smyth, The Sounds and Inflections of the Greek

Dialects. Ionic, Oxford 1894, pp. 358-364 (e poetis, Hippocr., inscript.)): vix λοιβ]αςίων Ma. ap. Lehnus, Intervento p. 264 ἀρι[τὺν suppl. Pf. ap. B.-M., Callimachea II adn. 1 ex Hesych. supra allato πιςτο]τέρηϊν suppl. B.-M., Callimachea coll. Aristaenet. nıctötepov supra allato 20 sq. vv. partes primae in POxy. 2213, fr. 9; secundae in POxy. 2212, fr. 1

(a); tertiae et in POxy. 2212,fr. 2 etin POxy.2213,fr.1

20 POxy. 2212 litt. «εκεί. ἰου

(praecedente litterae αἱ vestigio), 2213 litt. κείνου tradunt ἔνδει]ξας suppl. B.-M. LL (de -dei] iam cogitaverat Pf.), cett. L. ap. Pf. ex Aristaenet. supra allato 21 POxy. 2212 litt. koAıy (praecedente litterae Ὁ vestigio), 2213 litt. yovc: tradunt suppl. L. ap. Pf. ad fin.

ov in ὦ corr. B.-M. LL: ad οὐκ ὀλίγως cf. fr. 50, 83 c. app. et comm.

(ὀλίγον adv.

Aristaenet. supra allatus) 22 v. inittum in POxy. 2213, fr. 9, finis in POxy. 2213, fr. 1 ecinv pap., ot supra nv scr. (prob. voluit ας' adnotaverat Pf., sed vd. comm.) £]&ectau suppl. L. ap. Pf., cett. B.-M. LI. (γὰρ tertio vel quarto loco sequi videtur' iam Pf.) 23

suppl. B.-M. 11. (ἀπρηκτί iam L. ap. Pf.)

24] : laeva pars litt. e, 0?

.[: vestigium

minimum in summa linea

185 (83 Pf.)

LELI LI [τῶν Φρύγιος [t]iu[e]e Mel[p]inlv. 1-3 POxy. 2212, fr. 1 (b), 1-3

prob. Aristaenet. I 15, p. 39. 65 Mazal (quae praecedunt,

vd. ad fr. 184) ἐντεῦθεν τοιοῦτος εἰκότως παρὰ ταῖς Iovia [oc cod.: corr. Pf.] πάτριος ἐπεκράτηςε λόγος: ‘elle με παραπληείως ὁ chvouxoc τιμήςειε τὴν ὁμόζυγα ὥςπερ ὁ Φρύγιος τὴν καλὴν τετίμηκε Iepiov' prob. Plut. Mor. 254 A (Mul. virt.16), Il 1 p. 251.

14 Nachstädt-Sieveking-Titchener

(quae

praecedunt,

vd.

ad fr.

184)

ἦν

οὖν

ἐν

TESTO CRITICO: AET. II FRR. 184-187

127

ἀμφοτέραις ταῖς πόλεει δόξα καὶ τιμὴ τῆς Mepiac, ὥςτε καὶ τὰς Μιληείων εὔχεςοθαι γυναῖκας ἄχρι νῦν οὕτως ἐρᾶν (τοὺς ἄνδραρ) [deest in codd.: add. Duebner ex Xylandri versione Latina a. 1570] αὐτῶν ὡς Φρύγιος npécôn Πιερίας prob. Polyaen. VIII 35, p. 398. 15 Wölfflin-Melber (e Plut. pendens; quae praecedunt, vd. ad fr. 184) καὶ ἔνδοξος ὁ Φρυγίου καὶ Πιερίας ἔρως pap. iterum examinata L. ap. Pf. vidit hoc fragmentum finem fabulae Pieriae esse posse (v. 4 = initium ultimi aetü libri tertii, fr. 186) coll. Aristaenet. supra allato; inter fr. 184, 21 =

POxy. 2212, fr.1 (a), 3) et fr. 185, 1 pauci versus deesse videntur: si ita, post fr. 184 Incipit fr. 185 nullo vel minimo intervallo 2 fort. ]c Ἰωγί[ει vel ’Iovıladeccı vel sim. Pf. coll. Aristaenet. supra allato, nisi id '4. trochaeum' efficit 3 ®pölyıoc et Πιε[ρί- suppl. L. ap.

Pf., [t]iule]e Tnelp]in[v Pf. coll. Aristaenet. supra allato: optime (perperam obloquitur Bulloch, Order pp. 496-500, qui, haud recte computans quot versus in POxy. 2212 perlisse possint inter Call. fr. 184, 21 et fr. 185, 1, contendit in POxy. 2212 - sicut prob. in Dieg. Mediolanensibus (vd. adn. pone Dieg. I 10-13 et 25 sq. ad fr. 181) - Phrygii et Pieriae historiam locum habuisse ante fabulam Dianae Lucinae (fr. 182) et existimat fr. 185 «Dianae Lucinae» finem tradere) [te]uu (ut videtur) et reıe pap. Ad hoc aetion pertinere potest fr. inc. sed. 256, ubi de Pieria pacis Interprete fort. agitur

186-187 (Euthycles Locrus) 186 (84 Pf.)

Ἦλθες ὅτ᾽ ἐκ Hicinc, Εὐθιύκιλεες, ἄνδρας ELAEYSacC

IT POxy. 2212, fr. 1 (b), 4 PMilVogliano lemma (e quo suppletur POxy.) suppl. L.

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. I, 37 sq.:

in Dieg. ἡλθεοκοτεκπειςής: corr. N.-V.

187 (85 Pf.) LELI

δ]ήμιον el

LI

κατὰ] χρέος [

ἵκ]εο Mvc[...... l.[.... „low. |

5

ἔν]θεν ἀνερχόμενος] πάλιν δῶ]ρον ἀπηναίους ἦλθες ὀρῆ[ας ἄγων ὧς] δέ c’ ἐπὶ ῥήτρῃει λαβεῖν κα[τὰ πατρίδος εἶπε δῆ]μος [ἐπ᾽] ἀφνειοῖς αἰὲν ἀπαγχόμενος, πά]ντες ὑπὸ ψηφῖδα κακὴν βάλον. ἣν δ᾽ ἀπὸ [χαλκοῦ

128

CALLIMACO

10

15

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

εἰκόν]α chv αὐτὴ Aoxpic ἔθηκε [πόλ]ις, ὃν πλ]άεται Teuecatov ἐπειπ[ζόντες καλέουει]ν __] ἀαμελιςςάων ἀμφιεὸλοιτυπί π]ολλά τε καὶ μακάρεεειν ἀπεχ[θέα ῥέξαν ἀνι]γροί: τ]ῷ cpiciv ἐν χαλεπὴν θῆκ[ε τελεςφο]ρίην, ὅν]τινα KırAnckoveıv Ἐπόψίιον!, Löctic ἀιλιτρούς αὐιγάζειν ἰθιαραῖς οὐ δύναται λογάειν Ἰνειετη

II 1-16 POxy. 2213, fr. 8 (a+b+c) 3 fort. Steph. Byz. s.v. Mucria, p. 465. 4 Meineke [FGrHist 556 F 41]. oi οἰκήτορες Muctiovot, ὡς τῆς 10 Steph. Byz. s.v. Teuécn, p. 615. 2 Meineke πόλις χαλκόν᾽ [Od. I 184] ... ὃ πολίτης Teuecatoc (cf.

πόλις Covvitov. Φίλιοτος ἐνδεκάτῳ Ὠςτίας Ὠετιανοί Ἰταλίας. “Ὅμηρος ἐς Teuéenv μετὰ id. s.v. Tevéen, y 48, I p. 414. 11

Billerbeck et s.v. Täuacoc, p. 599. 11 Meineke)

14 sq. Et. M. s.v. λογάδες [λογχάδες cod. M; articulus extra ordinem in fine litt. A] (p. 572. 37 Gaisf.; Callimachi verba om. Ef. Orion. p. 92. 6 Sturz; deest articulus in Et. Gen.)- ἐπὶ

τῶν ὀφθαλμῶν τὰ λευκά: αἱ κόραι λοχῶει καὶ οἷον πρὸς τὸ y. ἢ ὅτι λοξοῦνται ἱλοξῶν τὰς λογάδας [PCG

Καλλίμαχος ᾿ὅετις-λογάειν᾽. εἴρηται δὲ οἷον λοχάδες, ἐν αἷς λέχος εἰεὶν αὐταῖς. ἢ οἷον λευκάδες, κατὰ ευγγένειαν τοῦ κ ἐν τῷ βλέπειν κατὰ τὰς ἐπιετροφάς: (ζώφρων ἐν Θυννοθήραις 48]. οὕτως Copavòc (ad Soran. De etym. corp. hum. vd. Pf. ad

Hec. fr. 263

Meletius

= 80 H.)

De

nat. hom.,

Cramer,

AO

III p. 69. 7 et F. Ritschl,

Opuscula philologica I (Lipsiae 1866) p. 699 (de codd. vd. ad Hec. fr. 263 Pf. = 80 H.; ibid.

de Melet. fontibus) “Ὅμηρος ‘éppe κακὴ γλήνη᾽ [Π. VII 164] τὰ λευκὰ τῶν ὀφθαλμῶν λέγει. è ἐπιπεφυκὼς δὲ χιτὼν λογάδες καλεῖται [-odvrar Β] παρὰ τῷ ποιητῇ. ᾿λοξῶν᾽ gnei τὰς λογάδας᾽ [Sophron 1.1.]. è δὲ Καλλίμαχος 'δετις-λογάειν᾽ [ὃ δὲ Καλλ.-λογάειν om. codd. AC, exstat in codd. BKM

et cod. Petrei]

15 Hesych. s.v. idapaîc, 1 386, II p. 354 Latte {ταχέειν,} ἱλαραῖς, καλαῖς, καθαραῖς [xa0apaîc cod.: corr. Musurus], κούφαις, [λευκείαις (γλυκείαις Lobeck), ταχείαις} fragmentum ad Euthyclis fabulam spectare vidit L.

vix plus quam unum distichon deest

inter frr. 186 et 187, fort. nihil et v. 1 pentameter primus esse potest

1].[.].[: priore loco

infima pars lineae descendentis a sinistra; altero pars inferior litt. rotundae

] [ (per erro-

rem om. Pf.): pes hastae ad sinistram flexus

2 suppl. L. (xatà] vel ἐπὶ] xp.): ἐ[κπεμφθείς

τι κοτὰ] xp. e.g. Pf., at prob. longius spatio

_[: a (L.), vel potius pes hastae ad dexteram

flexus (Pf.)? 3 ἵκ]εο suppl. L. Mvc|[r suppl. Pf. (i.e. Mvc[tiav- ethnicon urbis Mustiae, cf. Steph. Byz. supra allatum): Μυο[κέλλου (Crotonis conditoris) Ba. ap. Pf. Ip. 114 | .[: pars infima hastae satis longe infra lineam descendentis οἶκο[ν vel oixi[ov prop. L. 4 suppl. L. πάλιν [οἴκαδε B.-M., Callimachea IT ad fin. fort. supplendum esse ἐς πολιήτας et ad hoc οἱ] (L.) in v. 6 spectare censuit Pf. 5 init. suppl. 1. νάιοῦεηλθες pap., litt. v supra alteram litt. c scripta (ad v.l. cf. v. 9): poeta alloquitur Euthyclem in primo versu (fr. 186) et fort. per totam fabulam (vd. Introd.1.4.E.); ἦλθεν error correctoris fin.

TESTO CRITICO: AET. II FR. 187

suppl. L. (ἄγων vel ἔχων)

129

6 init. suppl. B.-M., Callimachea II (vd. ad v. 7): oi] dubitanter

suppleverat L. (vd. ad v. 4) pfitnpct pap., post τ supra lineam add. p et p ante c del. post εἰν priore loco prob. x, altero vestigium in linea: suppl. B.-M. 11. coll. Dieg. I 43 sq.

ὡς κατὰ τῆς πόλείως εἰλ]ηφότα (ad versus finem pap. vestigium in linea tradit, cum litt. o congruens): κρ[άγον, ὥς τ᾽ ἐδίκαζε e.g. suppleverat Pf. (ad κράζειν c. acc. et inf. cf. Philod. Rhet., II p. 98 Sudhaus) 7 ôfiluoc dubitanter suppl. L. et appositionem esse ad subiect. plur. vv. 6 (oi], vd. app. ad loc.) et 8 susp.: aliter Pf. (vd. eius supplementum ad fin. v. 6): multo meliora sunt quae B.-M. 1.1. excogitaverunt (cf. v. 6 c. app.), monentes etiam

Μῶ]μος hic suppleri posse coll. Lucian. Deor. conc. 12 in comm. allato (at δῆ]μος veri similius) ἐπ᾿ suppl. Pf. (vd. comm.): ὑπ᾽ L. avin auev supra aliam litt., quae iam legi nequit, pap. $init. suppl. Pf. ψηφειδαὰ pap. interpunxisse videtur pap. post BaAov, tum ἣν; signum supra nv mirum, fort. spiritus et accentus?: ἣν Pf. fin. suppl. B.-M. LI, qui totius sententiae vv. 8-12 structuram optime restituerunt (cf. v. 12): ἀπέζκοψαν dubitanter suppleverat Pf. 9 init. suppl. L. ]etnv pap., supra + scr. litt. ç, quae capite carere

videtur; cv scripsit Pf. propter ἣν v. 8, i.e. ‘cv εἰκόνα mutilaverunt ἣν etc.' (de traiectione pron. relativi cf. fr. 8 c. comm.): adiectivum civ optime congruit etiam cum vv. 8 et 12 supplementis, quae B.-M. protulerunt ad fin. ] . . in litteram ἢ et punctum in linea

quadrare videntur (L.), tamen [röA]ıc (quod vix legi posse monuit L.) dubitanter cum Pf. scripsi: vix ἔθηκε[ν ὅλ]η Barigazzi, Fr. 85,9 10 άεται et aîov pap. suppl. Ma. ap. B.M., Callimachea IT: πλ]άςται iam Pf., qui temptaverat οἱ πλ]άςται T. ἐπεί π[οτε χαλκὸν ἔχευαν (vd. ad v. 11) 11]: Υ νεῖ τ, fort. clegi potest 64 pap. ἔρ]γα μελιεεάων ἀμφὶ coAoırvr| L. (Maced. cons. Anth. Pal. V 240, 2 = 10, 2 Madden ἔργα ueAuccawv" conferri posse moneo): εολοιτυπίίαι tempt. Pf. (vd. ad v. 10 et comm. ad hunc versum), qui monuit

vocabula etiam aliter dividi posse (τάμε vel ἔκ]ταμε λιςςάων ἀμφὶς ὀλοιτυπί, fort. ὀλοι(όγτυπ[οο): εολοιτυπί[ίην postulat LSJ Suppl. s.v. coAowvrin: εολοιτυπ[ίῃ Asper (p. 150) 12 π]ολλά et ἀπεχ[θέα suppl. L. ad fin. ]ypor: (pro yp excludi nequeunt x vel tp; litt. o valde incerta) et supra yp inter lineas [ep .[ pap.: ῥέξαν &vilypoi suppl. B.-M. 11. 13 suppl. L. (teXecoo]pinv ap. Pf.) coll. Call. Ap. 77 sq.: θῆκ[ε κακοςπο]ρίην vel θῆκ[εν ἐπιςπο]ρίην Ba., Recensione HI p.81 14 sq. suppl. L. 14 6cric Er. M. et Meletii cod. Petrei: οὔτις cett. codd. Melet. ἀλιτρούς Er. M. et Melet. cod. Petr.: εὐλήρους Melet. cod. B: -λίρους M: -kAñpovc

K

13 quae litterae in pap. exstant, solito maiores sunt: litt.

av sine dubio ἐν ἐκθέςει scriptae erant (vd. ad fr. 249, 2) ιλ et 0 supra À scr. pap. (i.e. ἰθαραῖς e ἱλαραῖς correctum): καθαραῖς Et. M. et Meletius δύνανται Melet. codd. KM λογάειν Melet. cod. Petr.: Aoyacı Melet. codd. KM (Aayacı B): λοχάειν Er. M. codd. MP: λογχάειν Et. M. cod. D supra ad fr. 184, 11

ad hanc columnam pertinere potest signum stichometricum, vd.

Diegesis Mediolanensis ad «Euthyclem Locrum» (frr. 186-187) (col. I) Ἦλθες ὅτ᾽ ἐκ Ilicnc, Εὐθύκλεες, dvidpac ἐλέγξας Φηςὶν Εὐθυκλῆν | τὸν Ὀλυμπιονίκην, πεμφθέντα npecßevrmv καὶ ἀνακάμψανιτα οἴκαδε cdv ἡμιόνοις ἃ εἰλήφει | δῶρα πᾳρά τινος ξένου, εὐκοϊφαντηθῆναι ὡς κατὰ τῆς πόλεϊως εἰλ]ηφότα ἐφ᾽ ᾧ κατεψήφ[ιοςα]ν | (col. ID αἰκίεαςθαι [τ]ούτου τὸν ἀνδριάντα. ἐπεὶ δὲ | λοιμ[ὸ]ς ἐπικατ[έ]π[εο]εν, Eyvocav οἱ πολῖϊται αὐ[τ]οῦ παρὰ τοῦ [᾿ΑἸ]Ἰπόλλωνος ὡς διὰ τὴν | ἀτιμίαν αὐτο[ῦ π]ροοβέβλητ[αι aföroic. Ι5 τὸ μὲν ἄγαλμα τ[οῦ Εὐ]θυκλέ[ο]υς κατ᾽ icov | τῷ τοῦ Διὸς ἐτ[μη]ςαν, ἔτι δὲ καὶ βωϊμὸν roucavrelc

1] τί.]. .[. Jo

[. ijerauélvov

130

unvöc.

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO

E QUARTO

|

PMilVogliano 18, col. I, 37-44 et col. I, 1-8 coll 37 sq. lemma =fr. 186 (vd. app. ad loc.) 39 vewnv pap. 41 sq. ἡμιόνοις (dispexit Vo.) à ... δῶρα (mira attractio relat.

inversa?): ἂς Ma. ap. Vo.: -ovioic ἃ Kapsomenos p. 4 N.-V.

post gota spatium vacuum

42 ad fin. - pap.

44 init. suppl.

fin. dubitanter suppl. Gallavotti, Recensione p. 203

et Pf. (δου. act., ut perf. act. Dion. Hal. Ant. Rom. IV 58, 2, V 8,3%), cf.fr. 187,8

1-7 suppl. N.-V.

col. II

2 Aewf[ò]c i.e. Au[6]c coni. Walton p. 603 adn. 6, coll. Euseb. Praep.

ev. V 34, 15-16 in comm.

ad frr. 186-187 allato (vd. etiam L. ap. Pintaudi p. 201, ap.

Lehnus, Nota p. 214 et ap. Lehnus, Lettere p. 227) (καὶ Eyvacav ... (1. 4 sq.) a]dtoîc, | τὸ μὲν ἄγαλμα Ma. ap. Pf. Ip. 501 (vd. ad 1. 5) roAeıpap. 4 ατειμιᾷν pap. 5 (καὶ τὸ Vo., sed de 'asyndeto' vd. Kapsomenos p. 4 (vd. ad 1. 2)

ἔθυον N.-V., quod non erat in pap. non possunt in pap.

6 ere[uu pap.

7rowhcavtelc

|ςτί .]v.[..]vc Vo,, at litt. in textu omissae dispici

Fort. post fr. 187 unius tantum versus intervallo sequitur fr. inc. lib. Aet. 238 (quod fort. eiusdem partis est unde fr. inc. lib. Aet. 249); fr. inc. lib. Aet. 248 vicinum fr. 187 esse potest. Ad Euthyclis aetion fort. spectat fr. inc. sed. 267 de Locris Epizephynis. Scholiorum reliquiae in marg. infer. POxy. 2258 B, fr. 2 'verso', ubi 1. 10 sq. de 'statua aénea' fort. agitur, ad Futhyclis fabulam (cf. fr. 187, 8 sq.) pertinere non videntur, sed potius ad «Victoriam Berenices» revocandae sunt: vd. Schol. ad fr. 149 Ad tertium Aetiorum librum respicere videntur frr. 65-64 et 216-250. Cum in frr. 186187 de pentathlo Euthycle Locro agatur, fragmenta nonnulla de alits Olympionicis ad librum tertium pertinere possunt: frr. inc. sed. 265 (fort. Theogenes Thasius), 268 (victores Crotonienses in universum), 273 (Astylus Crotoniates), fr. inc. auct. 279 (Milo Crotoniates). Ad librum tertium trahi potest etiam fr. inc. sed. 271 de Κρόνου λόφῳ Olympiae. Fr. inc. sed. 541 Pf., ubi Coroebus Eleus commemoratur, ad librum Περὶ ἀγώνων (fr. gramm. 403 Pf.) referendum esse videtur, non ad Aetia

AETIORUM LIBER QUARTUS Ordo argumentorum totius libri e Dieg. Mediolanensibus notus est PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. II, 9: Aetiorum libri quarti inscriptio à

[Aitiov]; cf. subscriptiones in Dieg. col. VI marg. sup. (post Dieg. ad Call. fr. 213) et in POxy. 1011, fol. 2 'verso', 10 (postfr. 215)

188 (86 Pf.) (Quartum aetion ignotum), initium libri

Mod]cai μοι BacıAn[ PMilVogliano

ἀείδειν

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. II, 10: lemma

init. suppl. N.-V., fin. Ma., Recensione HI p. 439, qui prop. βαειλῆ[α θεῶν coll. ultimo disticho 1. IV fr. 215, tum Vit. ap. Vo. e.g. add. δότε πρῶτον Ad hunc hexametrum spectat diegeseos inittum quod in papyri Mediolanensis col. II Il. 11-13 cernitur (cf. infra); erusdem columnae 11. 14-20 in lacuna perierunt, 11. 21-28 partem

alteram diegeseos ad «Daphnephoriam Delphicam» (frr. 189-191) exhibent. Cum in hac papyro diegeseis ad singula aetia e circ. 10 versibus constent, veri simile non est in ll. 11-28 nihil nisi «Daphnephoriam» relatum esse et hunc hexametrum «Daphnephoriae» exordium fuisse. Pottus «Daphnephoriae» narratio in lacuna inter Il. 13 et 21 incipiebat et hexameter noster inittum erat aetii cuiusdam ignoti, «Daphnephoriam» praecedentis

Diegesis Mediolanensis ad Quartum aetion ignotum (fr. 188) (col. II) 19 MoÖlcat μοι βαειλη[--- aeildew Α]Ἰὕτη πρώτη &Alelyleio ---]rpov[---I---]v icropta[---Janep[---1---]coœ1 [---] et[---l [Il. 14-20 desunt] | PMilVogliano 18, col. II, 10-13 p.302 adn. 4, al.

10lemma =fr. 188 (vd. app. ad loc.)

11 suppl. Stroux

fin. Il. 11-13 fr.C, add. Vo.

189-191 (Daphnephoria Delphica)

189 (87 Pf.) Δειπνιὰς ἔνθεν μιν δειδέχαται Steph. Byz. s.v. Δειπνιάς, p. 223. 16 Meineke κώμη OeccaXiac περὶ [παρὰ R] Λάριεςαν, ὅπου paci τὸν ᾿Απόλλωνα Beunvñcor πρῶτον, ὅτε ἐκ τῶν Τέμπεων καθαρθεὶς ὑπέστρεψεν: καὶ τῷ παιδὶ τῷ διακομιοτῇ τῆς δάφνης ἔθος εἰς τῆνδε παραγενομένῳ δειπνεῖν. Καλλίμαχος δ΄ [vd. ad fr. 59] 'Δειπνιὰς-δειδέχαται᾽ Hesych. s.v. δειδέχαται, 8432,1p. 411 Latte ἤεπαεται, διαδέχεται δειδέχαται ΕΝ ZZ δειδείχαται Pp: δεδείχαται Ald. (emendaverat Bentley)

132

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Fragmentum huc revocaverunt N.-V. 190 (88 Pf.) Schol. Ap.

Rh.

II 705-711

Ὁ, pp.

181.

15 et 182.

2 Wendel

Δελφύνην

Δελφύνης ἐκαλεῖτο ὁ puAäccav τὸ ἐν Δελφοῖς χρηςτήριον, Atavöpoc Keil, at vd. C. Wendel,

«Hermes»

70,

1935, pp. 356-360;

FGrHist

(v. 706)]

ὅτι

[Μαιάνδριος C. 492 F 14 al Kol

Καλλίμαχος εἶπον [εἶπον Keil: εἶπεν L: gna P]: δράκαιναν δὲ αὐτήν φησιν εἶναι, θηλυκῶς καλουμένην Δέλφυναν, αὐτὸς ὁ Καλλίμαχος (Schol. g τὴν δὲ ἀναιρεθεῖεαν δράκαιναν Δέλφυναν καλεῖοθαι θηλυκῶς gna Λεάνδριος (FGrHist 492 F 14 b)) Fragmentum huc rettulit Pf., 4z7777/cescp. 11

191 (89P£) Tertullian. De coron. VII 5, p. 97 Fontaine = p. 22. 35 Ruggiero (e Claudio Saturnino) (quae praecedunt, vd. ad frr. 204, 284 et 156, 2) ... habes Pindarum [ad Dith.II fr.70 Ὁ Sn.M. spectat] atque Callimachum, qui et Apollinem memorat interfecto Delphico dracone lauream induisse qua supplicem Fragmentum huc traxit Pf., Szrzyrjeeicp. 11

Diegesis Mediolanensis ad «Daphnephoriam Delphicam» (frr. 189-191) (col. ID ---]el---]ore[---1. ]1. .[---Jo[--- An]öAAov γὰρ παῖς ὧν k[patñcoc τοῦ] Ivl250ot Spakovrolc] ἀπενίψα]το [τὰς] xeipac ἐν τῶι Πη[ν]ει[ῶὃι . .]vSl .] πα[ραϊκειμέϊνην δάφνην aol. 1] εἰ. |. ἐκτεμὼν Ιπεριβάλλει τῶι [-

leo 1.

|

PMilVogliano 18, col. Π,21-28 23 suppl. N.-V. 24 suppl. Stroux p. 303 adn. 4, x satis certum (pace Pf.) 25 Spaxovto[c] pap., at c deletum et 1 suprascriptum esse videtur in

pap.: vix δρακοντα L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p.215 ἀϊπενίψα]το suppl. Vo. (&lenyvicalto K. Latte ap. Vo.: ἀϊἰπελυμήνα]το olim Pf., 4z777/ce1cp. 10, fort. longius spatio)

τὰς suppl. N.-V.

τὴ]ν δίξ Vo.

26 articuli τῶι litt. 1 postea addita in pap.

27] εἰ pes hastae verticalis

spatium neque litt. vestigia quadrant

suppl. N.-V.

in ea quae N.-V. et Pf. 1.11. olim suppl., neque

28 inter ὦ (valde incertum) et ı fort. v

Callimachum in hac Aetiorum fabula Minervam 'Pronacam', de qua cf. fr. inc. sed. 592 Pf., Apollinem reducentem fecisse (ut Aristonous in pacana Delphico, CA I 17-32 p. 163) non constat

192 (90 Pf.) (Abdera)

”EvO’, "Aßönp’, od vòv_[.._]Ae0 φαρμακὸν ἀγινεῖ PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. II, 29 sq.: lemma

Schol. (CFD; cf.

Ba; Callimachi mentionem om. Pm3bGZC, Conr.) Ov. Ib. 467, p. 126 La Penna Callimachus dicit quod Abdera est civitas in qua talis est mos, quod quoque anno cives totam civi-

TESTO CRITICO: AET.IV FRR. 189-193

133

tatem publice lustrabant; et aliquem civium quem in illa die habebant [emptum hominem Pos: in festis Iani Ba] devotum pro capitibus omnium lapidibus occidebant [ut ait H. add. Ba,

Le.

Callimachus:

vd.

ad fr. 27]

(scholiastae

fidem

abrogaverat

Geffcken,

Kallima-

choscitate p. 95, cui iure oblocutus est Zipfel p. 32 sq., vd. etiam Rostagni p. 90 sq.) si recte ἔνθ᾽ (&ct’ coni. Deubner p. 186 adn. 2 = p. 442 adn. 2 sine iusta causa) - οὗ, vocati-

vus ”Aßönp’ aut nominis herois (Ma., Exkurs I p. 161) aut nominis urbis (”Aßönpoc Ephor. FGrHist 70 F 154, vulg. τὰ Ἄβδηρα) [ vestigium incertum, non è (‘pars laeva superior litt. p vel A' Pf., quod valde dubium mihi videtur: αἱ legit Pf. ap. Lehnus p. 20); post lacunam pars dextera litt. À; inter et 9 spatium vacuum, at nulla atramenti vestigia;

δ[ιάπ]λεω(ν), quod e Dieg. II 33 suppl. N.-V., neque vestigiis litt. neque sermoni epico convenit: νῦν μ[ε π]λέω(ν) tempt. Ba., Recensione I p. 79 (iuxta normam metr.: vd. Introd. IL.1.A.c.v.), coniciens φαρμακόν ipsum loqui œyeivet pap. ad &yiveï in pentametro subiectum esse potest cn πόλις, si poeta vel φαρμακός heroem alloquitur (Ma. LL), aut

βαειλεύς (N.-V. coll. Dieg. II 38), si urbem

Diegesis Mediolanensis ad «Abderam» (fr. 192) (col. ID Ἔνθ᾽, "ABènp’, οὗ vòv [- ]Ιλεὼ φαρμακὸν 199 &yiveî ᾿Αβδήροις ὠνητὸς ἄγθρωιϊιπος καθάρειον τῆς πόλεως, ἐπὶ πλίνίθου ἑςτὼς φαιᾶς, θοίνης ἀπολαύων | δαψιλοῦς, ἐπειδὰν διάπλεως γένηται, | προάγεται ἐπὶ τὰς Προυρίδας καλουβμένας πύλας εἶτ᾽ ἔξω τοῦ τείχους | περίειει κύκλωι (ai) περικαθαίρει ἐν(μ!αυτῶι (2) τὴν πόλιν, καὶ τότε ὑπὸ | τοῦ βαειλέως καὶ τῶν ἄλλων λιιθοβολεῖται, ἕως ἐξελαςθῇ τῶν I ὁρίων. | PMilVogliano 18, col. II, 29-40 29 sq. lemma = fr. 192 (vd. app. ad loc.) 31 init. πος iterum infra πος scr. pap. 32 6 in dov corr. e è ectoc pap., prior litt. c perducta esse videtur, suprascr. v (neutr. &ctöc fort. per errorem propter καθάρειον): ἑετὼς Ma., Recen-

sione INI p.439

ὧν e correctura pap., cf. ectoc

33 δαψιλας pap.: corr. N.-V.

επιδαν

pap. 34 npoayovran pap.: corr. N.-V. (προάγονται defendit Gallavotti, Recensione HI p. 95) 36 sq. περικαθαιρειενίαυτωι pap. (ut legerant N.-V., non καθαιϊρειῖων, ut Deubner p. 190-446 et Vo.): (kat) περικαθαίρει ἐν(ψφ αὐτῶι N.-V., coll. Schol. Ov. Ib. (supra ad fr. 192 allato) quoque anno: περικαθαίρων αὑτῶι Deubnerl.l.: καὶ περικαθαίρειὲν αὐτῶι Vo.: περικαθαίρει οὖν αὐτῶν Kapsomenos p. 6 (qui post κύκλωι interpunzit): περικαθαίρων

αὐτῶι 1.6. κύκλωι 'magico' Pf.: περικαθαίρων οὕτω L. ap. Pf. I p. 501: περικαθαίρειν ἐνιαυτῶι Gallavotti, Recensione HI p. 95 (infinitum 'epexegeticum')

193-195 (Melicertes)

193 (91 Pf.) Α PMilVogliano

Μελικέρτα, μιῆς ἐπὶ πότνια Bòvn

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. I, 41: lemma

134

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

inter & et u apices litterarum quarum non plus quam quattuor capit lacuna: ‘A[yeòpnc] N.V. spatio longius, misi litteras aliquas omisit pap. (supra lineam nihil add.): vocabulum &ykbpnc, quod optime invenerunt N.-V., potius in pentametri initio sequi opinatus est Pf.

(μῆς ἐπὶ … ἀγκύρης melius quam ἀγκύρης ... μιῆς ἔπ)

᾿Αἰόνι᾽ ὦ], quod spatii ratione

habita prop. Ma. ap. Trypanis (p. 70), cum vestigiis non congruit nequit, ut vidit L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p. 215

μιῇ ς᾽ ἐπὶ excludi

194 (SH 275)

ἅλματος Ἰνῴοιο ueunvotoc ὅετις ἀπευθής Herodian. II. καθολ. rp. ap. H. Hunger, «Jahrb. 4. Österr. byz. Ges.» 16 (1967), fr. 44 pp.

12 et 18 καὶ τὸ ὀρεεκῷος δέ, ἐπεὶ ἔχει τὸ 1 πρὸς τῷ ὦ καὶ ἐπιθετικόν ἐςτι, προπεριςπᾶται ὁμοίως τῷ [: ὁμοίως τὸ West p. 203] Ἰνῷος: Καλλίμαχος 'ἅλματος-ἀπευθής᾽ ἀπευθής non ἀπενθής cod. (vd. West LL) Fragmentum huc rettulit Hunger 1.1.

195 (92 Pf.)

1...

cn. .[ Il. lol φθ[έγγ]ονται [

l.e..|

AeJavôpidec et τι παλαιαί Ιυφαν ictopia.

1-3 POxy. 2170, fr. 1, 1-3 (init. vv.) + PSI 1218, fr. c, 1-3 (fin. vv.) pap. comunxit L. litterae rotundae

1].e: pars inferior litt. rotundae . [ pes hastae et pars inferior 2 suppl. Pf., Arypriceic p. 11 adn. 2 (vd. Vo., Excursus IV p. 172):

Ierc]avdpidec Ma. ap. Vit. et Recensione Ip. 163 pap., v satis Incertum

3 Jo vel Jo: suppl. L.

voavlavl

post v. 3 in POxy. paragraphus, sed margo sin. cum coronide (vd.

ad fr. 198, 5) periit; de coronide in universum vd. ad fr. 163, 1

Finem huius de Melicerta fabulae et initium sequentis iam e PSI 1218, fr. c, 4 et Dieg. II 12 sq. (= fr. 196, 1) cognoverat L. ap. Ma., Recensione III p. 439 (adsensus erat Vo., Excursus IV), confirmavit POxy. 2170, fr. 1

Diegesis Mediolanensis ad «Melicertem» (frr. 193-195) (col. II) A... Μελικέρτα, μιῆς ἐπὶ πότνια Bôvn | (col. III) Ἑξῆς: ἐπεὶ (cdv) Μελικέρτηι τῶι παιδὶ ξαυϊτὴν κατεπόντιςεν Ἰνώ, ἐξέπεϊεεν εἰς αἰγιαλὸν τῆς Τενέδου τὸ colu[a] τοῦ Μελικέρτου : τοὺς δὲ ἐκεῖ molte κατοικοῦντας Λέλεγας ποιῆεαι αὐτῷ βωμόν, ἐφ᾽ οὗ ἡ πόλις ποιεῖ | θυείαν, ὅταν περὶ μεγάλων φοβῆται, τοι[ά]νδ[ε7: γυνὴ τὸ ἑαυτῆς βρέϊφος κα[ταθύ]ε[α]εᾳᾷ παραχρῆμα τυφλοῦ Πῦται. τοῦτο δ᾽ ὕε]τερον κατελύθη, ὅτε | οἱ ἀπὸ ’Olpectov] Λέ[ςβ]ον ᾧκηςαν. | PMilVogliano

18, col. I, 41 et col. NI, 1-11

col.II

41 lemma = fr. 193 (vd. app. ad

TESTO CRITICO: AET.IV FRR. 193-196

135

loc.) col.II 1 ἑξῆς N.-V. (ie. 'deinceps', ut Dieg. I 28 ad fr. 182 ‘E&fi[c] gna, vd. Schol. Pind. ed. Drachmann, Indices, vol. III p. 384 s.v. #Éfic): ἐξ ἧς Kapsomenos p. 7 = 'postquam' (sed significaret potius ‘ex quo‘) οὖν add. Castiglioni p. 149 (vd. etiam L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p. 215): ἐπὶ add. N.-V. 2eworpap. 4 suppl. N.-V. 5 λελεξας pap., € del. et y sser. 7®vcıac pap., v supra c ser. 8 suppl. N.-V. 9 suppl.

Körte, Literarische Texte 1935 p. 234: κα[ἰταθύου]οᾳ N.-V.: κα[ταςφάξα]ςᾳ Ma., Recensione II p. 439 (fort. longius spatio)

10 suppl. N.-V.

11 ’O[péctov] suppl. Körte 11.

Aé[cB]ov recte Vo. (Aé[cB]ov vel Agleß]ıoı N.-V.): vd. etiam L. 11. Fort. huc pertinet unum libri quarti fragmentum, quod adhuc incertae sedis est, infra fr. 214 de Lesbo (cf. supra Dieg. III 11). Ad hanc elegiam respicere potest fr. inc. sed. 252 de Apollinis cultu Lesbio. Fort etiam unum vel alterum frr. inc. auct. 277 (Ino), 280 (prob. eadem), 282 (fort. Melicertes-Palaemon), 281 (idem?) huic parti Aetiorum tribui potest

196 (93 Pf.) (Theudotus Liparensis)

Νέκταιροοα, Jıvı γλύκιον γένος ηραπι εδο[

κί 1 δονηδυ

5

le ἀμβροείης

ὑμέας γαῖ᾽ ἀνέδ[ωκε, τ]ὰ καὶ τερπνίοτατα πάντων νεῖςθε διὰ γλῶς[εαν γλεύ]κεος öcca πέρα. δείλαιοι, τυ[τθόν] μιν ἐπὶ rXé)ov ἢ ὅτον αὖον χεῖλος ἀναγλί ]r_p ἀναινομένου

ἀνδρὸς avovv|.......... Jc ἐπέταςςενί͵ .].| ω͵[.] μίαν νης] 10

οἰκήςας Λιπά[ρτής, Tolpenv-

ἤλυθ᾽ ἄγων nl

πολλά, τὸ δ᾽ ἐκ [

pnl. ap ἀποτρί 15

ἱερὸς εἰ Φοίβου [ δημόθεν ὡς [ τοῦτο ere

‚Jet ἐπὶ τὴν vl

Incarov προτί

1-18 ad hoc fragmentum spectat Schol. (CFD; cf. BabG; 'Galli' mentionem om. Pm3ZC, Conr.) Ov. Ib. 465, p. 125 La Penna Tyrrheni, obsidentes Liparium castrum, promiserunt Apollini quod, si faceret eos victores, fortissimum Liparensium ei sacrificarent. habita autem

victoria, promissum

reddiderunt,

inmolantes

ei quendam

nomine

Theodotum

[hic

desinunt Pm;]. unde Gallus [scil. Callimachus: vd. Pf. ad (Call.) fr. inc. auct. 789]: Theodotus captus Phoebo datur hostia, quamvis | nequaquam sit homo victima grata deo' (Schol. ad Callimachi Aetia redire iam coniecerat Zipfel p. 32; vd. etiam Rostagni pp. 71 et 90)

136

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

1-7 POxy. 2170,fr. 1, 4-10 (init. vv.) + PSI 1218,fr. c, 4-10 (fin. vv.) 1 PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. II, 12 sq.: lemma

fort. Hesych.

s.v. ψύθιον, y 257, IV p. 314 Schmidt ὀλιγοχρόνιον 8-18 POxy. 2170,fr. 1, 11-21 pap. coniunxit L. (vd. adn. ad fr. 195)

1 suppl. L.

.[: in POxy. potius α quam o, in

Dieg. pars laeva litt. rotundae (potius o quam 0) JyAvktov PSE ]v. θιον Dieg., prob. ]v ψύθιον, v.1.? ad fin. méôo[w Körte, Literarische Texte 1935 p. 234: eco[ legit L. ap. Pintaudi p. 201 et ap. Lehnus, Nota p. 214 @eddoroc Liparensis in hoc carmine prob. commemoratus est (cf. Schol. Ov. supra allata) 2init.xvelx 3-5 omnia e.g. suppl. L., praeter v. 5 αὖον, quod ipse supplevi (vd. *Massimilla, Theudotus et comm. ad v. 5 sq.; L. proposuerat ἄκρον, quod cum ultimo vestigio non congruit) 3 vusgc vel vusoc 5 Td pap. επιπλον pap.: corr. Ma. ap. Vo., Excursus IVp. 172 (cf. fr. inc. sed. 636 P£.*) ad

fin. pars superior sinistra litt. Ὁ vel τ vel y

6 γλί vel yk[

Kai]zep dubitanter Vit?

([Theogn.] 710 καίπερ évouvouévac* conferri posse moneo) 7 tace pap., altera litt. c suprascripta | [: apex hastae ad laevam flexus 8 @p vel ὡς prob. vñco[v 9 sq.

suppl. L. (cf. Dieg. II 13 sq.) 9 οἰκήςας vel οἰκί[ο]ςτας L. 10 @.. ego (priore loco hasta verticalis; altero apex hastae verticalis): ©. Pf. 13 of [γ]ὰρ ἀποτρ[έψειν Ma. ap. Pf. (cf. Hom. A. II 37 φῆ γὰρ 6 γ᾽ aipfhcew*): ἀποτρ[οπίη dubitanter Li. in comm. ad Ap. Rh. IV 1504

suerim

15

[fort a

16 potius yequamte

rego: vPf.

τοῦτό γ᾽ ἐπεὶ propo-

18v]ncaîtov? Pf.: Ἰθιοδ vel Incò L., at post c potius a, ut v. 13 in ano

Diegesis Mediolanensis ad «Theudotum Liparensem» (fr. 196) ---] Auraparo (col. II) Néktapoc .[...... ]Ἰν ὐθιον γένος niparedo[--Topenv[---]vac[---15...]eme[---]do[---I---]..[---I [IL 17-23 desunt] |---]. te[---I PMilVogliano 18, col. III, 12-16 et 24 12 sq. lemma =fr. 196, 1 (de singulis litt. vd. app. ad loc.) 13 Aurop in pap. disp. Pf., Papyrus p. 384 et Armyrjceicp. 12 (vrap N.-V.), mox oto, ut videtur, potius quam «10 (a1o Vo., vd. etiam L. ap. Pintaudi p. 201 et ap. Lehnus,

Nota p. 214)

13 sq. ὑπ]ὸ | Τυρεηγ[ῶν prop. L. LL.

in lacuna Il. 17-23 novam enarratio-

nem incipere potuisse non omnino est negandum Huc respicere potest fr. inc. sed. 253, ubi de victima humana coronata fort. agitur. Fr. inc. sed. 723 Pf. de 'Cadmilo', 1.6. Tyrrhenorum Mercurio, potius ad /amb. fr. 199 Pf. pertinere videtur

197-198 (Limone)

197 (94 Pf.) Τὸν vexplölv .[......1.t... υβατονιςτιναευὼ PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. III, 25 sq.: lemma ad hoc et insequens fragmentum spectat Schol. Aeschin. In Timarch. 182, p. 53 Dilts Ἱππομένης ἀπὸ

TESTO CRITICO: AET.IV FRR. 196-198

137

Κόδρου καταγόμενος. ἡ δὲ θυγάτηρ Λειμωνίς. οὕτω Καλλίμαχος

adhoc et insequens

fragmentum

spectat Schol.

(BaGCF;

cf. bZ

Conr.)

Ov.

Ib. 335, p. 67 La Penna Limone,

Hippomenis filia, cum quodam adultero deprehensa est, qui cum curru Hippomenis tractus dilaceratus est. illa vero cum quodam equo ferocissimo inclusa ab eo dilacerata est. unde Darius [Darius aGCFbZ: Clarius B: Clarus Conr.|: 'Limone moritur etc.' ad hoc et insequens fragmentum spectat Schol. (CFD; 'Daril' mentionem om. Bab) Ov. /b. 459, p. 68 La Penna Limone, filia Hippomenis, in adulterio deprehensa, Athenis cum equo fuit inclusa et ab equo consumpta, ut dicit Darius (de 'Dario' vd. adn. pone fr. inc. auct. 283)

suppl. N-V. _[:fort.nn ].: hasta verticalis ad Ἰυβατον Pf. contulit Dion. Chrys. Or. XXXII 78 τόπος οὕτω καλούμενος “Ἵππου καὶ Κόρης ἄβατον᾽ (cf. fr. 198, 4 sq. c. app. ad v.5)

tctivaevo pap., ante ἃ punctum (non lineola), supra € scr. o (non δ): ei τιν᾽ ἀκούω

coni. Ma. et Pf.

Ip. 502 coll.fr. 163, 5 εἴ τιν᾽ dicode[c* (ubi vd. etiam comm.)

198 (95 Pf) mi

πατρο [ daxpvcac |

5

αἰαῖ καὶ μαλί καὶ Κούρης᾽ ol

“Ἵππου

1-5 POxy. 2170, fr. 2, 1-5 ad hoc οἵ praecedens fragmentum spectat Schol. Aeschin. In Timarch. 182, p. 53 Dilts (vd. ad fr. 197) adhoc et praecedens fragmentum spectat Schol. (BaGCF; cf. bZ Conr.) Ov. Ib. 335, p. 67 La Penna (vd. ad fr. 197) adhoc et praecedens fragmentum spectat Schol. (CFD; 'Darii' mentionem om. Bab) Ov. /b. 459, p. 68 La Penna (vd. ad fr. 197) 1 ..[: hasta ad dexteram paulum inclinata et cauda litt. infra lineam 2 oc legi non potest (post o pars inferior hastae verticalis) 3 [: hasta ad dexteram paulum inclinata 4 suppl.

Pf., cognomina prisca locorum (Prop. IV 1, 69) canit Callimachus app. ad fr. 197

5 &[Bartov? Pf., vd.

paragraphus in pap. et in marg. sin. coronis (vd. ad fr. 195, 3)

Diegesis Mediolanensis ad «Limonen» (frr. 197-198) (col. ID) 25 Τὸν verp[ò]v .[......].tl... Ἰυβατονιοιτιναεῦ | [..... [μ{ .Jvn[ .Jevoveroc αὑτοῦ nofilôla Λειμ]ώνῃην φθαρεῖςαν λάϊθρα εἰς τὸν θ[άλα]μον [ε]υγκατακλείςας | ἵππῳ διὰ τού[τ]ου διέφθειρεν - ὅθεν ᾿Αθή!βύνῃηοιν törolc] Ἵππου καὶ Κόρης: τὸν δὲ | cuyyevöuevov αὐτῆι δόρατι παίεας | νεκρὸν ἐξέδηςεν ἵππου, ὥςτε καϊτὰ τοῦ ἄςτεος εὕρεεθαι. | PMilVogliano 18, col. III, 25-33

258 sq. lemma = fr. 197 (de singulis litt. vd. app. ad loc.)

26 Juf, vix ]v[ n[.Je pap. (inter n et e pars inferior hastae verticalis satis longae, 9? (p, 1)' perperam Pf.): [ὅτι Ἵππο]μ[έ]νη[ς] γένους rac (-) Vo. (de Hippomene vd. Schol. Aeschin.

138

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

et Schol. Ov. supra ad fr. 197 allata) Vo. contra litt. vestigia in pap. pap. 33 copecdanlcl pap.

27-30 suppl. N.-V.

28 wctov et vvixata pap.

27 Λειμ]ωνί[δ]ᾳ dubitanter 29 διεφθιρεν pap.

31 covye

Ad Limones fabulam pertinere possunt frr. inc. sed. 254 de aliquo eculeum Thessalicum regente et 263 de Thessalis interfectores circum defunctorum sepulcra trahentibus. Cave vero ne has coniecturas

comprobare

coneris laudans Ovidii /bim, ubi de Thessalico tractu

(v. 331 sq.) et de Atheniensis adulteri supplicio (v. 335 sq.) minimo intervallo agitur: nam Ovidius in diris /bidis similes fabulas conectere solet, sed inde colligere non licet Callima-

chum idem fecisse (ut collegit e.g. Rostagni, 4777/cescp. 292 adn. 1 = p. 343 adn. 1)

199 (96 Pf.) (Venator gloriosus)

© 1801 πάντεις κομποῖς νεμεεήμονες, ἐκ δέ TE πάντων Ἄρτεμις αἰ

1 sq. POxy. 2170, fr. 2, 6 sq. 1 PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. III, 34 sq.: lemma Lin marg. sin. POxy. pars inferior coronidis (vd. ad fr. 198, 5; de coronide in universum vd. ad fr. 163,1) suppl. L. 2 Dianam in hoc pentametro commemoratam esse tam coniecerant Ma., Recensione III p. 439 et Pf., Ayriceic p. 15, cum POxy. nondum nota esset

μάλιετα vel ἔξοχον vel sim. sequi com. Pf. 1.1.

Diegesis Mediolanensis ad «Venatorem gloriosum» (fr. 199) (col. III) Θεοὶ πάντες κομποῖς veuechuovec, ἐκ dé τε PP πάντων Κυνηγὸς Tadwıoct ἑλὼν | κάπρον ἐπεῖπεν οὐ δέον ᾿Αρτέμιδι ἀνατιθέναι τοὺς ἡγουμένους ἐκείνης | καὶ ἑαυτῷ ἀνήρτηςε τὴν κεφαλὴν | τοῦ ὑὸς ἐξ ἀγείρου, I ὑφ᾽ à καθυπνώεας ἐπιπεοούεης αὐϊτῷ τῆς κεφαλῆς ἀπέθανεν. PMilVogliano 18, col.III, 34-41 34 sq. lemma = fr. 199,1 35 «Awıoc pap.: aut 'ethnicon' venatoris Itali (cf. testimonia in comm. allata), ut ‘AAñtoc (flumen “A%nc prope

Paestum), ᾿Αλούειος Schol. Theocr. VII 78-79 Ὁ (Ἰταλιώτης, vd. Pf., Arzyrjieeiep. 16 sq.), Λάιος vel Aaîvoc (urbs Lucaniae Aùoc, vd. L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota Ὁ.

215) aut epitheton, ut ἀλαζών (vd. etiam Blumenthal, Diegesis p. 116 adn. 4)

36 verbum

£reinev e Callimachi textu haustum esse coni. Barigazzi, Fr. 96 Pf., coll. Ep. XXXVII 2 Pf.

= HE1130 œôeov pap.: où δέον Pf., Azyyrfceic p. 17 (cf. Liban. in comm. allatum; ὡ(ς od) δέον L. LI): lc) δέον et 1. 37 ἡγουμένους (Seîcda1) Pohlenz, Gaius p. 121 adn. 3 = p. 66 adn. 3 37 τιθοναῖι pap.: corr. N.-V. τοὺς ἡγουμένους ἐκείνης i.e. 'viros praccedentes illam' (scil. Dianam; cf. etiam Liban. τιμιώτερον τῆς θεοῦ in comm. allatum et Diod. IV

81, 4 τῆς ᾿Αρτέμιδος αὑτὸν πρωτεύειν … ἀπεφήνατο, sal. Actaeon); frustra h.l. coniecturis (vd. Herter, Bursian 255 p. 136) temptatus est, nec placet interpretato quam Smiley,

Recensione proposuit, &(c) ... τοὺς ἡγουμένους ἐκείνης (scil. εἶναι) ‘eos qui existimant

TESTO CRITICO: AET. IV FRR. 199-201 illius (scil. Dianae) esse praedam' (1. 36 ic) δέον)

139

39 ad fin. xa@vrvove ser. et del. pap.

200 (97 Pf.) (Moenia Pelasgica)

Tupenvôv teiyxicua HeXocyixòv εἶχέ με γαῖα PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col.IV, 1 sq.: lemma

Schol. vet. (RVET;

Callimachi verba om. M) Aristoph. Av. 832, p. 130 Holwerda τῆς πόλεως τὸ Πελαργικόν] ὅτι ᾿Αθήνηει τὸ Πελαργικὸν τεῖχος ἐν τῇ ἀκροπόλει [ἐν-ἀκροπόλει om. R], οὗ μέμνηται Καλλίμαχος: “Τυρεηνῶν-Πελαεγικόν᾽ TUPCILVOV pap. nekacyıkov pap.: Πελαργικόν Schol. Aristoph. fata pap. si telyicuo appositio ad ue et γαῖα (scil. Kexporin vel sim. in pentametro? Pf., cf. Ap. Rh. IV 1779) subiectum est, poeta murum loquentem facit (ut Simonidem defunctum fr. 163, comam Berenices fr. 213, Mercuri imaginem Jamb. fr. 197 Pf., al.: vd. Introd.1.4.E.)

Diegesis Mediolanensis ad «Moenia Pelasgica» (fr. 200) (col. IV) Topenvòv teixicua Πελαογικὸν εἶχέ | pe γαῖα: ἹἹετορεῖ περὶ τῶν ᾿Αθήνηϊειν Πελαογικῶν ὅρων (2) καὶ τοῦ ποιηθένι!τος ὑπ᾿ αὐτῶν τείχους. | PMilVogliano 18, col.IV, 1-4 1.54. lemma = fr.200 (vd. app. adloc.) 2 post lemmata non interpunxit pap. nisi h.l. et IX 32 ad Jamb. fr. 203 Pf. 3 ὅρων defendunt Körte, Literarische Texte 1935 p. 235 adn. 7, Castiglioni p. 151, Gallavotti, Recensione p. 203 et Kapsomenos p. 10, qui etiam ὑπ᾽ αὐτῶν ut constructionem κατὰ coveciv explicare conantur, cf. Soph. Trach. 260 c. exemplis a Schneidewin-Nauck et Jebb allatis: δρζίγων (ut Dieg. II 40 ad fr. 192) de ‘finibus' a Pelasgis habitatis? Pf.: (ὀμγόρων N.-V., quod cum ᾿Αθήνηειν coniungi nequit: ζοἰκητ)όρων Wifstrand p. 139, optime, si Πελαςγῶν scr.

201-202 (Euthymus)

201 (98 Pf.) Εὐθύμου τὰ μὲν Öcca παραὶ Διὶ Iîcav ἔχοντι PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. IV, 5: lemma

ad hoc et insequens

fragmentum spectat Schol. Paus. VI 6, 4, III p. 221. 30 Spiro τὰ κατὰ Εὔθυμον τὸν πύκτην, οὗ καὶ Καλλίμαχος μέμνηται (similis Arethae glossa marg. ad Pausaniam de Astylo, vd. ad fr. inc. sed. 273) evônuo®v pap.: corr. N.-V.: papyri lectionem defendit Gallavotti, Iscrizioni p. 11 (vd. etiam

Gallavotti, Aition p. 215), qui prop. Ed δήμου τὰ μὲν ὄεεα (haud recte: vocab. dcca nusquam in Call.; ad τὰ μὲν öcca cf. fr. 50, 12*) εχοιτι pap., litt. v supra priorem litt. ı scripta

140

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

202 (99 Pf.) Plin. Nat. hist. VII 152, II p. 52. 19 Ian-Mayhoff = p. 95 Schilling consecratus est vivus sentiensque eiusdem oraculi [scil. Delphici] iussu et lovis deorum summi adstipulatu Euthymus pycta, semper Olympiae victor et semel victus. patria ei Locri in Italia; ibi imaginem eius et Olympiae alteram eodem die tactam fulmine Callimachum ut nihil aliud miratum video deumque [deumque Io. Caesarii editio Coloniensis a. 1524 et E3: Tad eumque? codd. vett.] iussisse sacrificare [-ari E?Rd], quod et vivo factitatum et mortuo,

nihilque de eo [de eo FRAT: deo DE!Fle: adeo F?vett.: deo Gallavotti, Aition p. 216] mirum aliud quam hoc placuisse dis (vd. C. Dilthey, Analecta Callimachea, Diss. Bonnae 1865, p. 21 sq. cum Ottonis Jahn et suis ipstus coniecturis) ad hoc et praecedens fragmentum spectat Schol. Paus. VI 6, 4, III p. 221. 30 Spiro (vd. ad fr. 201) Callimachum harum rerum fort. alio loco mentionem fecisse coniecit Pf. (sed vd. comm.). Fragmentum Aetiis tam dederat Maass p. 48 sq.

Diegesis Mediolanensis ad «Euthymum» (frr. 201-202) (col. IV) 5 Εὐθύμου τὰ μὲν öcca παραὶ Διὶ ITicav ἔχοντι | “Ὅτι ἐν Teuécn ἥρως περίλοιπος τῆς ὈΙδυςςέως νεὼς ἐδαςμοφόρει ἐπιχω!ρ[ίου]ς τε καὶ ὁμόρους, ode κομίζοντας αὐτῷ κλίνην καὶ κόρην ἐπίγαμον [19 ἐάεαντας ἀπέρχεεθαι ἀμεταςετρειπτεί, ἕωθε[ν] δὲ τοὺς γονεῖς ἀντὶ παριθέ[ν]ου γυ[ναῖ]κα κομίζεεθαι. τὸν δὲ I δ[αε)μὸν [tod]tov ἀπέλυεεν

Εὔθυμος Ιπύκτης [ .]. λέξας τὰς [τῶι ἥρ]ωϊ κυ!ὅν ζ΄

Imoel........].[.].mp

[ro . [---Icv[---]. . [---1 [IL 18-21 desunt] |

PMilVogliano 18, col.IV,5-17 5lemma = fr. 201 (vd. app. ad loc.) 6 qnco> pap. 8 suppl. N.-V. 9 κλίνην disp. Wifstrand p. 139: Bownv N.-V., sed litt. À ante ı satis certa et vestigia inter ὦ et À potius in x quadrant quam in 9 10 œuetacctpe pap. 11-13 suppl. N.-V. 12 κομιεζεεθαι pap. (κομιειζεεθαι perperam Pf., imagine phototyp. deceptus)

14 | : apex hastae verticalis ([ἐπ]ιλέξας Vo.) suppl. Ma., Recensione III p. 439 οἵ pap. 15v.: pes hastae verticalis ].[.]. scripsi: |... Pf. 1670 [:forty post 17 fin. huius fab. et init. sequentis desunt Ad Euthymi aetion fort. spectant frr. inc. sed. 267, ubi de Locris Epizephyriis agitur, et 270, cuius textus parum certus est

203 (100 Pf.) (Iunonis Samiae simulacrum antiquissimum)

οὔπω (κέλμιον ἔργον ἐύξοον, ἀλλ᾽ ἐπὶ τεθμόν x 7 VÀ 3 , δηναιὸν γχυφάνων ἄξοος ἦεθα εανίς’ ὧδε γὰρ ἱδρύοντο θεοὺς τότε' καὶ γὰρ ᾿Αθήνης ἐν Λίνδῳ Δαναὸς λιτὸν ἔθηκεν ἕδος „



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7

e,

1-4 Plut. Περὶ τῶν ἐν Πλαταιαῖς δαιδάλων fr. 158, VII p. 99. 9 Sandbach ap. Euseb. Praep. ev. ΠῚ 8, 1, VIN 1 p. 124. 17 Mras = p. 186 des Places λέγει δ᾽ οὖν Πλούταρχοοε … ἡ δὲ τῶν ξοάνων ποίηεις ἀρχαῖον ἔοικεν εἶναί τι καὶ παλαιόν, εἴ ye ξύλινον μὲν ἦν τὸ

TESTO CRITICO: AET. IV FRR. 202-203

141

πρῶτον εἰς Δῆλον ὑπὸ Ἐρυείχθονος ᾿Απόλλωνι ἐπὶ τῶν θεωριῶν ἄγαλμα, ξύλινον δὲ τὸ τῆς Πολιάδος ὑπὸ τῶν αὐτοχθόνων ἱδρυθέν, ὃ μέχρι νῦν ᾿Αθηναῖοι διαφυλάττουειν. Ἥρας δὲ καὶ (άμιοι ξύλινον εἶχον ἕδος [εἶδος codd.: corr. Bentley], ὥς onciv Καλλίμαχος: ᾿οὔπω-ἕδος᾽ (vd. D'Ippolito p. 90 sq., Magnelli, Poeti p. 219) 1 Schol. Paus. VII 4, 4, III p. 222. 7 Spiro ὅτι (μῖλις Αἰγινήτης τὸ ἄγαλμα τῆς Couiac Ἥρας εἰργάεατο Δαιδάλῳ κατὰ τὸν αὐτὸν χρόνον γεγονώς: ὁ δὲ Καλλίμαχος (κέλμιν ἀντὶ (μίλιδός gner 2 fort. Hesych. s.v. ἀόξοος (ἄξοος corr. H. Stephanus), a 5673, I p. 194 Latte ἀδιάγλυφος (contulit Gallavotti, Scultore p. 296) 1 (κέλμιος coni. Bentley, probavit L. ap. Pf. I p. 502: εκέλμιον (scil. 'Daedalicum') Pf. ap. Lehnus p. 23 οὔ πῶς Κέλμιον perperam Gallavotti, Scultore p. 295 (vd. comm.)

εἰςοξόανα Euseb. cod. A: εἰς ξόανον cett.: em. Bentley 1 sq. ἐπὶ τεθμόν | δὴ νεόγγλυφον ὦναξ θεᾶς A: ἐ. τ. | δὴ νεόγλυφον à. 0. I: è. τ. | δηναιόγλυφον à. 0. BONV ἐπὶ τεθμοῦ Is. Voss, Catulli opera (Londini - Lugduni Bat. 1684), p. 259: ἐπὶ teQuod | δηναιοῦ Bentley: ἔτι teduò | δηναιῷ A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata (Berolini 1861), p. 131, probavit Schn. II p. 369: ἔτι τεθμόν | δηναιὸν Th. Bergk, Anthologia lyrica (Lipsiae 1868), p. 151, probavit L. 1.l.: de codd. lectione dubita-

bat Pf. γλυφάνῳ ἄξοος Bentley: γλυφάνων 1. Toup, Emendationes in Suidam et Hesychium, et alios lexicographos Graecos II (Oxonii 1790) p. 92 sq. 3 yàp ἱδρύοντο A: γὰρ καθιδρύοντο cett.: καθιδρύοντο Is. Voss 1.1., A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et

epigrammata (Berolini 1861), p. 188

4 λίθον A: λεῖον cett. (defendit D'Alessio (p.

515): em. Is. Voss LL: Aicrov Cazzaniga p. 11 (de coniectura λιτόν non est dubitandum: vd. comm.) Fragmentum huc rettulerunt N.-V. Initium aetii deest, fort. - ut coniecit Pf. - non plus quam unum distichon (lemma cum Dieg. IV 18-21 perditum est), in quo poeta 'lignum indolatum' Iunonis Samiae alloquitur. Haud veri simile Οὔπω (κέλμιον ἔργον elegiae exordium esse, ut susp. Ma. ap. Pf. Ip. 502 coll. Call. Cer. 24, ubi incipit fabula Οὔπω τὰν

Kvidiov, ἔτι κτλ. (vd. comm. ad v. 1 sq.)

Diegesis Mediolanensis mum» (fr. 203)

ad

«lunonis

Samiae

simulacrum

antiquissi-

(col. IV) ---Iyı .ol--I...... τὸ ξόα]νον τῆς Ἥρας [ἀνδριϊαντοειδὲ]ς ἐ[γένετο ἐπὶ βαςιλέως [25 Προκ[λέους: τὸ] δὲ ξύ[λο]ν, ἐξ οὗ εἰργάεθη le. nl... .] «αμί ]c. .v, ἐξ Ἄργους δέ galcıl Jorac ἔτι πάλαι εανιδῶ!δες [κομι]εθῆναι κάταργον ἅτε μηδέϊπω π[ροκ]εκοφυίας τῆς ἀγαλματομικῆς. | PMilVogliano

18, col. IV, 22-29

ante 22 fin. praecedentis et init. hutus fabulae desunt

γι vel π, vix n, tum fort. c vel 8 vel sim., ante 9 potius a quamo

23 sq. ξόα]νον dubitan-

ter suppl. N.-V., τὸ et [ἀνδριαντοειδὲ]ς Körte, 4777/24 e Clem. Alex. in comm. allato 24 ἐγένετο suppl. N.-V. ἐπὶ βαςιλέως disp. Pf., 4777/10p. 19 et Wifstrand p. 139; cf. supra Dieg. II 38 ad fr. 192 25 Hpox[Aéoc suppl. Pf. 1.1. propter spatii angustias, sed lacuna etiam -£ovc (sic Wifstrand p. 140) capere videtur; ad 'archontis' nomen cf. Clem.

Alex. in comm. allatum

τὸ suppl. et interpunxit Wifstrand LI.

26 init. valde incertum: post e, τ (N.-V.) potius quam

ξύ[λο]ν suppl. N.-V.

ı (Vo.); tum v (?); ante lacunam

142

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

potius n quam v

ante a fort. À, vix c; post à potius u quam v

sequitur aliud vestigium (&u[cdov N.-V.), sed ὦ excludi nequit cv tempt. Mras p. 52

post c litt. rotunda quam

ἔτι v[ov ἐν] Céulol

27 Bp]étoc olim Pf., Auryriceiep. 18 probante Vo., sed litt. Jo satis

certa in pap. 28 suppl. Pf. 1.., cf. e.g. [Apollod.] Epit. VI 27 τὸ (scil. ἐν Ταύροις) ξόανον … κομιοθβὲν ... εἰς ᾿Αθήνας et Paus. VII 4, 4 in comm. allatum κάταργον i.e. 'omnino inelaboratum' Kapsomenos p. 11 coll. κάθυγρος, κάτακρος al.: κἄτ᾽ (ie. καὶ ἔτι) ἀργὸν N.-V.: κα( ἀργὸν F. Zucker (per litt. ad Pf.), Kalinka, Recensione p. 711; exempla voca-

buli ἀργός = àvépyactoc, οὐκ eipyacuévoc (de lapidibus et metallis) affert Mras p. 53, cf. etiam Clem. Alex. Protrept. IV 46, 3, I p. 35. 18 Staehlin-Treu ’Aptéuidoc τὸ ἄγαλμα ξύλον ἦν οὐκ εἰργαςμένον (lignum ... indolatum Arnob. Adv. nat. VI 11) 29 suppl. N.V. rouxnc hasta longa inter μ et x postea inserta in pap.: ἀγαλματο(το)μικῆς Körte LI. (vd. etiam L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p. 216), sed 'haplologiae' exempla afferunt Blumenthal p. 458 et Mras p. 53 sq., cf. etiam &yaAuorvreic Maneth. IV 569 et

CEG 1 nr. 96, 1 χαλκόπτης (pro χαλκοκόπτηο) c. adn. Huc spectare potest fr. inc. sed. 127, fort. de lavacro simulacri. Fr. inc. auct. 769 Pf., de prima Iunonis Argivae sacerdote (cf. supra Dieg. IV 26), Hesiodo (fr. inc. 125 M.-W.) potius quam Callimacho tribuendum est

204 (101 Pf.) (Iunonis Samiae simulacrum alterum)

“Hpn τῇ Cauin περὶ μὲν τρίχας ἄμπελος ἕρπει PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col.IV, 30: lemma

Tertullian. De coron.

VII 4, p. 96 Fontaine = p. 22. 30 Ruggiero (e Claudio Saturnino, qui Varrone uti videtur, cf. Arnob. Adv. nat. VI 11) Iunoni vitem Callimachus induxit. ita et Argi [Argi A?: Argis AIFNXRB; Argis recepit Pf. adnotans: 'si er Argis significat 'etiam in Heraeo Argivo', ad lunoni supplendum Samiae', vd. iam Pf., Arrzyrzeeicp. 20 adn. 3] signum eius palmite redimitum, subiecto pedibus corio leonino, insultantem ostentat novercam de exuviis utriusque

privigni (quae sequuntur, vd. ad frr. 284; 156, 2 et 191) npnta pap.: corr. N.-V. 51 npnirqicoglint in fr. inc. lib. Aet. 243, 1 legi potest, quod adhuc nimis incertum est, partes trium versuum sequentium h.l. inserendae sunt

Diegesis Mediolanensis ad «Iunonis Samiae simulacrum 204)

alterum»

(fr.

(col. IV) 50 Ἥρῃ τῇ Capin περὶ μὲν τρίχας ἄμπελος ἕρπει | Λέγεται ὡς τῇ ζαμίαι Ἥρᾳ περιέρπει | τὰς τρίχας ἄμπελος, πρὸς δ᾽ ἐδάϊφει λεοντῆ βέβληται, ὡς λάφυρα | τῶν Διὸς νόθων παίδων, Ἡρακλέϊβδους καὶ Διονύςου. | PMilVogliano 18, col. IV, 30-35 30 lemma =fr. 204 (vd. app. ad loc.) 31 wcca pap., litteris τῇ supra cc scriptis. comici pap.: corr. N-V. 31 sq. περιερπεινείλεγε pap.: corr. Pf., Arzyreeicp. 20 adn. 3 (de confusione constructionum cf. Dieg. V 11 et 29 ad frr. 207 et 209-210; infinitum post ὡς defendit Kapsomenos p. 24) 33 Agovenv pap.: corr. Pf. 11.

TESTO CRITICO: AET. IV FRR. 204-206

143

βεβληεθαι pap., litt. τ supra c0 scripta De fr. inc. lib. Aet. 243 potest fr. inc. sed. 127, fort. ad hanc elegiam respicere «Victoriae Berenices» (frr.

ad hoc aetion fort. spectante, vd. app. ad fr. 204. Huc pertinere de lavacro simulacri. Fr. inc. sed. 274 de Herculis pelle leonina posse non omnino negandum. Fr. inc. sed. 264 de cadem re 143-156) potius quam huic aetio tribuendum est

205 (102 Pf.) (Pasicles Ephesius)

’Hicduvoc Ἐφέοου, HacikAeec, ἀλλ᾽ ἀπὸ δαίτης PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. IV, 36: lemma

novuvec pap. vir nomine Μέλας in hoc carmine fort. commemoratus est (cf. Ov. Ib. 623 in comm. allatum)

Diegesis Mediolanensis ad «Pasiclem Ephesium» (fr. 205) (col. IV) ’Hicvuvac ’Egécov, IacikAeec, ἀλλ᾽ ἀπὸ δαίτης | ®nciv ὅτι Παεικλῆς Ἐφεείων ἄρχων | ἐξ εὐωχίας ἀνέλυεν:' ἐπιτιθέμεινοι δέ τινες αὐτῷ ὑπὸ Tod cxôtouc 18° ἐδυεθέτουν, ὅτε δὲ προῆλθον (xpdc) | τὸ Ἥραιον, i μήτηρ τοῦ Παεικλέους | ἱέρεια οὖτα διὰ τὸν ψόφον τοῦ | διωγμοῦ λύχνον ἐκέλευςεν προϊ(οοί. V)eveyketv (oi): οἱ δὲ τυχόντες φωτὸς ἀνεῖϊλον αὐτῆς τὸν παῖδα. PMilVogliano

ad loc.)

|

18, col. IV, 36-43 et col. V,1sq.

col.IV

36 lemma =fr. 205 (vd. app.

40 εδυεθετουν disp. Ma., Recensione II p. 439: &ödvcderodv(to) coni. Vo., sed

act. intrans. etiam Diod. XIV 113, 3 (vd. Kapsomenos p. 11) ηλθὸον ex nAdev correctum πρὸς add. Stroux p. 310 (vd. app. Dieg. V 36 ad frr. 211-212): npo(cfABov N.-V. 41 μῆτερ pap.: corr. N.-V. παεῖκεους sscr. À pap. col.V 1 ceveykeiv pap.: corr. et ol

add. Ma. ap. Pf., coll. Dion. Cass. XXXIX 31, 1 τὸν λύχνον οἱ προφέρων 206 (103 Pf.) (Androgeos)

“Hpoc ὦ Kat πρύμναν, ἐπεὶ τόδε κύρβις ἀείδει PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. V,3 sq.: lemma Schol. Clem. Alex. Protrept. II 40, 2 (in comm. allatum), I p. 309. 15 Staehlin-Treu Φαληροῖ! Φαληρεὺς

λιμὴν τῆς ᾿Αττικῆς: ὁ δὲ κατὰ πρύμνας ἥρως ᾿Ανδρόγεώς &ctıv, υἱὸς Μίνωος, οὕτως ὀνομαεθεὶς ὅτι κατὰ τὰς πρύμνας τῶν νηῶν ἵδρυτο. καὶ Καλλίμαχος ἐν δ΄ τῶν Αἰτίων μέμνηται

(primus contulit A. Nauck,

«Philologus» 4, 1849, p. 361

adn. 5)

Hellad.

Chrest. ap. Phot. Bibl. 279 (p. 532 Ὁ 9), VIII p. 178 Henry ὅτι τὸ κύρβις [-euc codd.] oi μὲν ᾿Αττικοὶ ἀρρενικῶς ἐκφωνοῦει, Καλλίμαχος δὲ οὐδετέρως (Hellad. per errorem κύρβις cum τόδε coniunxisse videtur: vd. Massimilla, Papiri p. 35; ap. Hellad. sequitur Call. fr. inc. sed. 500, 1 Pf.)

144

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Diegesis Mediolanensis ad «Androgeum» (fr. 206) (col. Νὴ Ἥρως à κατὰ πρύμναν, ἐπεὶ τόδε κύρβις | ἀείδει Φηηεὶν ὅτι ὁ καλούμενος 'κατὰ πρύμναν ἥρως᾽ ᾿Ανρόγεώς écriv: (---) | πάλαι γὰρ ἐνταῦθα τὸν Φαληρικὸν | τ

3

©

x

ne

2

x

4

4

-

ὅρμον εἶναι, οὗ τὰς ναῦς ὁρμίζεεθαι | πρὶν γενέεθαι τὸν Πειραιᾶ.

|

PMilVogliano 18, col.V,3-8 3.54. lemma = fr. 206 5 lacunam indic. N.-V.: Φαληροῖ post ἥρως add. Vo. 6 gaAnpetkov pap. 70tov pap. (Le v correctum): corr. N.-V.

207 (104 Pf.) (Oesydres Thrax)

Οἰεύδρεω Θρήϊκος Ep’ αἵματι πολλὰ Θάεοιο PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col.V,9: lemma

contra pap. Ὀδρύςεω coni. N.-V., at vd. comm. et cf. fort. Arch. fr. 91, 7 W. Οἰού]δρης (suppl. West) θρηΐκος pap. apuarı pro αἵματι in tabula legere sibi visus est Manteuffel p. 93, vix recte ut mihi videtur (post « potius 1 male formatum quam p)

Diegesis Mediolanensis ad «Oesydrem Thracem» (fr. 207) (col. V) Otcdöpew Θρήϊκος ἐφ᾽ αἵματι πολλὰ ®dcoro 1° Φηεὶν Παρίους Οἰεύδρην τὸν Θρᾷκα | φονεύεαντας διαπολιορκηθῆναι Ball . . . „oc τὸ ἀρέςκον Βιεοάλταις [ἐϊπιτίιμιο[ίν τ]ΐίνειν ἔχρηςεν ὁ θεός’ οἱ δετειῖχο [ὅς | αὐν [ ] Qacior

eplo]tal!c....]ew.n.[ --|

Ἰπέμπειν zol--1.[......].L.l.e.l.......... JrAn. ol. [-

= Arch. fr. 92 W.

PMilVogliano 18, col. V, 9-17 9lemma =fr. 207 (vd. app. ad loc.) 11 govevcaviec pap.: corr. N.-V.; de confusione constructionum cf. Dieg. IV 31-33 (ad fr. 204) et V 29 (ad

frr. 209-210)

11 sq. interpungendum post -θῆναι et supplendum ®olct[oıc $(&)] ὡς dubi-

tanter coni. Pf.: Θαϊεί[ους ad Παρίους i.e. Thasi colonos suppl. Körte, Literarische Texte

1935p.236

12 é]ocN.-V.

sione ΠῚ p.439)

βειεαλταῖις pap., e βειεαλτας correctum (disp. Ma., Recen-

12 sq. suppl. N.-V.; ad oraculum Herodot. VI 139, 2 = Orac. 83 Parke-

Wormell contulit Vo.

13 Jewew pap.

13 sq. οἱ δ᾽ ἔτ᾽ eilxov [τὴν] γαῦν ὅθεν [τοῖς]

suppl. N.-V.: vficov pro voöv coni. Pohlenz, Gaius p. 121 adn. 3 = p. 66 adn. 3: οἱ δὲ zeilyovl[c... PÎ. postyo apex sin., fort. v (N.-V.) vel v (Vo.), non c; post lac. potissimum v (N.-V., Vo.), haud x (P£.); post 08 in photogr. priore litteram e fuisse testatur Vo., £ non iam est in pap.; tum litt. rotunda, vix v; tum lacuna quattuor vel quinque litterarum, [toic] N.-V.

brevius spatio, [αὖθις] F. Hiller von Gaertringen (per litt.) ap. Vo.

14 sq. ep[ .]roula

pap.: suppl. et corr. N.-V. (1 falso adscriptum Dieg. VI 1 ad Jamb. fr. 191 Pf., IX 29 ad

Jamb.fr. 202 Pf.)

1185 [keAedleuw suppl. Vo.

15 sq. mv [ναῦν ἀπο]πέμπειν πάϊλ{ιν

suppl. Körte 11., K. Latte (per litt.) ap. Vo. et F. Hiller von Gaertringen (per litt.) ap. Vo. (post za litt. deesse possunt) 15 .n.: priore loco fort. 1; altero vestigium minimum [6

.[: vestigium valde incertum, yvelvvelA,u ].[: fort.v .œ.: priore loco littera correcta, potius x quam v; altero fort. À [πλ cum Vo. scripsi: 1. πλ Pf. 16 sq. κοιμ[ίζεεθαι dubi-

TESTO CRITICO: AET.IV FRR. 207-208

145

tanter prop. Vo. (init. 1. 17 fort. μὶ legi potest) 13-17 fort. Thraces (Bisaltae) Thasiis rogantibus dicunt quid mittendum sit; de altero oraculo non est cogitandum

208 (105 Pf.) (Syrma Antigones), aetii initium

‚Jöel........ Lol... Iidetovò, 1 PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. V,

18: lemma

Ov. Tr. V 5, 33-39

consilio, commune sacrum cum fiat in ara | fratribus (scil. Eteocli et Polynici), alterna qui periere manu, | ipsa sibi discors, tamquam mandetur ab illis, | scinditur in partes atra favilla duas. | hoc, memini, quondam fieri non posse loquebar, | et me Battiades iudice falsus erat: | omnia nunc credo (contulit Pf., Ammiceicp. 20 sq.) Ὧ]δε suppl. Vo., ut Dieg. V 25 = fr. 209*

dubium, fort. a?

—partem mediam suo loco restituit Vo.

ad fin. ö[ |[ς[ Vo., vix recte



hexametri finis ut saepius initio lineae

sequentis fuisse potest

Diegesis Mediolanensis ad «Syrma Antigones» (fr. 208)

(col. V) .]öel........ 1.0.

hôerovô. .[---Iel........ Jrwol.......... vo.[.].[-

PO... Jrawou[............ Jicoey[--I....... lo. Li... Ἰεναγι[---, .popav w|...... ] muoav [A lcöeov .e φι[λά]δ[ελ)φον anoAer[--,. . nv ᾿Αν[τ]ιγόνην ὡς οὐδὲ Exewv[---I PMilVogliano 18, col. V, 18-24 18 lemma =fr. 208 (vd. app. ad loc.) [19 sq. partem mediam suo loco restituit Vo. 19 @ valde dubium, ®[nci Vo. (sed vd. app. ad fr. 208) vo [{.] .[ scripsi (priore loco linea horizontalis in media linea; altero vestigium in media linea): vo [ Pf. 20 init. etiam y possis 21 post cy nihil nisi pars infima hastae verticalis, non 'apex hastae longae' (Pf.), n excludi nequit: fort. cx1[6 vel exılc i.e. scinditur flamma vel

fumus vel favilla, cum Oedipodis filiis parentatur (Pf.) |].[: hasta verticalis &voryi[Gew vel ἐναγι[ομός sim. Pf., Papyrus p. 384 et dAiyyricercp. 20 22 6]agopàv? Pf., Auzyrieeic p.21

αὖ cum Vo. scripsi: & [ PÎ.

ad fin. pars sinistra litt. rotundae

23 οὔτε Vo.

suppl. Vo. 23 sq. δὲ οὐκ ἔφη [ἀ]δ[ελ]φὸν anoder[oızeivon L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p. 216 24 z]nv suppl. Vo. (vd. etiam L. LL), ᾿Αν[τ]ιγόνην N.-V. ad fin. vel formae pron. ἐκεῖνος vel verb. κινεῖν suppleri possunt litt. desunt (Pf.)

fort. post 1. 24 init. quattuor

51 POxy. 2170, fr. 4 (= fr. inc. lib. Aet. 251) ad Aetiorum 1. IV pertinet, quod minime constat, fort. huc referri potest. Ad hoc aetion fort. respiciunt frr. inc. sed. 258, ubi χύτλα = évayicuata (cf. supra Dieg. V 21), et 272, ubi de vulture corpus Polynicis rostro lacerante fort. agitur

146

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

209-210 (Gaius Romanus)

209 (106 Pf.) "Qöel... PMilVogliano

| yeiveche Πανελλάδος, ὧδε teXé[c]con

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. V, 25: lemma

init. Ὧδε[ (cf. fr. 208?) propter anaphoram N.-V., cf. fr. 157 tc-bôe (7); sed vocat. © del excludi nequit ὯΩδ᾽ &[cOAoi] prop. Ba., Callimachea p. 241 (longius spatio; 'voc. plur. praecedere et relationem quandam inter yeivecde ('gignimini, nascimini”) et teA&ccaı (‘ad finem perducat' aut intr. 'exitum habeat'?) esse suspicor' adnotaverat Pf.): Ὧ δ᾽ E[pxoc] D'Alessio (p. 521) potius ]y quam τ (i.e. teivecde) de forma γείνομαι vd. Schn. Ip.

205 sq.: yivecde Vo., sed cf. Call. Del. 214 yeiveo, yeiveo (imperat.) al. πανν vel παλιν pap.: -οθαι πάλιν Ἑλλάδος coni. N.-V. (at in lacuna post wöe| syllabam brevem periisse minime veri simile est): Hav{v}eAAaöoc

Vo., recte ut videtur (geminatio falsa passim in

pap.), cf. Pind. Paean. VI fr. 52 f, 62 sq. Sn.-M. Πανελιίλάδος Lehnus, Medley p. 30 adn. 33

pro ὧδε altero ὥςτε coni.

suppl. N.-V.

210 (107 Pf.) Plin. Nat. hist. III 139, I p. 288. 16 Ian-Mayhoff = p. 107 Zehnacker Arsiae gens Liburnorum iungitur usque ad flumen Titium [al. Titum vel Tityum]. pars eius fuere Mentores, Himani, Encheleae, Bulini et quos Callimachus Peucetios appellat, nunc totum uno nomine

Illyricum vocatur generatim (Πευκετέας in Call. fuisse frustra coniecerat Schn. II p. 576: nam teste Zehnacker Plinii cod. A Peucetios sicut cett. codd. tradit, haud Peucetias)

Fragmentum hoc loco dubitanter inseruit Pf. praeeuntibus N.-V. propter nomen Πευκετίων in Dieg. V 26. Plinius de Peucetiis Illyriae referre videtur, Peucetios urbem Romam oppugnantes gentem eiusdem nominis Apulam vel Samnites vel Aequos vel Fidenates vel potissimum Ftruscos fuisse veri similius est (vd. comm. ad frr. 209-210). Fort. igitur Callimachum Peucetiorum Illyriae alio loco mentionem fecit

Diegesis Mediolanensis ad «Gaium Romanum» (frr. 209-210) (col. V) 25 "Del

. . . .] yeivecde Παγελλάδος,

ὧδε τελέ[ζε]εαι | ®[n]ci, Πευκετίων

npockoßnuevov [τ]οϊο! τεἰχεοειτῆς Ῥώμης,τῶν Ρωμαίων Tdliov EvaAAöuevov καταβαλεῖν τὸν | ἐϊκείνων ἡγούμενον, τρωθῆναι δὲ εἰς 15° τὸν μηρόν " μετὰ δὲ ταῦτα ἐπὶ τῷ «κάζειν | δυςφορήεαντα παύεαεθαι τῆς ἀθυμίας | ὑπὸ τῆς μητρὸς ἐπιπληχθέντα. | PMilVogliano 18, col.V,25-32 25 lemma =fr. 209 (vd. app. ad loc.) 26 suppl. N.-V. vix Πευκετιῶν (-τιέων), ut monuerunt N.-V. (vd. ad fr. 210) 27 sq. yaliov pap. 28 κατακαλεῖν pap.: corr. Ma. ap. Vo., i.e. 'Gaium insilientem prostravisse Peucetiorum ducem' (vd. etiam L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p. 216): κατακανεῖν W. Theiler ap. Vo: καταγαγεῖν Gallavotti, Recensione p. 203: κατακαλεῖν defendit

Kapsomenos p. 12 sq.

ἐναλλόμενον = "insultantem' ad τὸν ... ἡγούμενον refert L. Casti-

TESTO CRITICO: AET.IV FRR. 209-212

147

glioni ap. Vo. 29 suppl. N.-V. etpo scr. pap. et del. € (vix €), fort. similis confusio constructionum atque Dieg. IV 31-33 (ad fr. 204), V 11 (ad fr. 207) Frr. inc. sed. 613 Pf. (de Iapygibus) et 617 Pf. (de Tarentinis) ad hoc aetion respicere posse non omnino negandum est

211-212 (Ancora Argus navis Cyzici relicta)

211 (108 Pf.) "A py® καὶ cé, Πάνορμε, κα[τ]έδραμε καὶ τεὸν ὕδωρ PMilVogliano 18 (= Diegeseis Mediolanenses), col.V,33: lemma

prob. Schol.Ap. Rh. I

954, p. 83. 18 Wendel λιμὴν ὑπέδεκτο] ὁ Πάνορμος λιμὴν τῆς Κυζίκου, οὗ ὁμώνυμος πόλις ἐν (ικελίᾳ (cum portum Cyzici ad occidentem situm, cui fons Artaciae proximus erat (cf. Ap. Rh. I 957), Panormum appellat, scholiasta Callimachum sequi videtur: vix recte vituperatur a criticis, vd. e.g. K. Lehmann-Hartleben, Die antiken Hafenlagen des Mittelmeeres, Leipzig 1923 (Klio, Beiheft XIV), p. 293 adn. 4)

rapocue pap.: corr. W. Morel per litteras ad G. Vitelli (vd. Pf., Suzyrrceic p. 47 adn. 1)

suppl. N.-V. youteov pap.: corr. N.-V. fort. recte, cf. fr. 165, 4 À τεὸν ὕδω[ρ (de yoi τεὸν ὕδωρ scil. νύμφαι in pentam. cogitavit Pf., coll. [Orph.] Arg. 493 sq. in comm. ad frr. 211-212 allato; de crasi vd. comm. ad fr. 1,32 οὐλ[α]χύο)

212 (109 Pf.) Schol. Ap. Rh. I 955-960 c, p. 83. 27 Wendel κρήνῃ ὑπ᾽ ᾿Αρτακίῃ (v. 957)] ᾿Αρτακία κρήνη περὶ Κύζικον, ἧς καὶ ᾿Αλκαῖος [fr. 440 Voigt] μέμνηται καὶ Καλλίμαχος, ὅτι τῆς Δολιονίας Éctiv Fragmentum huc rettulerunt N.-V.: nam Apollonius fontem Artaciam commemorat ubi Argus ancoram Cyzici relictam esse narrat (vd. comm. ad frr. 211-212)

Diegesis Mediolanensis ad «Ancoram Argus navis Cyzici relictam» (frr. 211-212) (col. V) ᾿Αργὼ καὶ cé, Πάνορμε, κα{ζτ]έδραμε καὶ τεὸν ὕδωρ | Φηεὶ τοὺς ᾿Αργοναύτας Ὀδρεύεαςθαι ἀβποβάντας εἰς Κύζικον ἀπολιπεῖν τὸν | λίθον ἐνθάδε © ἐχρῶντο ἀγκύραι, re) | ἐλαφρότερον ὄντα - τοῦτον δ᾽ ὕετερον | καθιερωθῆναι ᾿Αθηνᾷ -, ἕτερόν ye μὴν | βαρύτερον avaraßelilv. | PMilVogliano

18, col. V, 33-39

33 lemma = fr. 211 (vd. app. ad loc.)

vöpevcachen litt. p postea addita in pap.

36 λινον pap.: corr. N.-V.

34 verbi

ev0adeo ex

evdadee correctum 7°) Castiglioni p. 148, &{te) Pf. (vd. etiam L. ap. Pintaudi p. 202 et ap. Lehnus, Nota p. 216; in fine versus pap. om. litt. VIII 21 ad /amb. fr. 198 Pf., IV 40 (5) ad fr. 205; &teIV 28 ad fr. 203, X 22 ad Hec.): α ad fin. del. N.-V.: ἄγκυραν Kapsomenos

148

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

p. 13 accusativum praedicativum, vd. app. καταιερώθηναι ρᾶρ. 39 suppl. N.-V.

Dieg.

VI 39 ad lamb. fr.

193

Pf.

38

Agmen aetiorum claudit fabula de Argonautarum ad Colchos itinere, ut in initio post primum de Gratiis Pariis aetion Argonautarum reditus narratur (frr. 919-23) «Comam Berenices» (fr. 213) et epilogum (fr. 215) in editione altera (qua diegetes usus est) a poeta addita esse veri simile: vd. in priore volumine Introd.11.1., IL3., 11.8.

213 (110 Pf.) (Coma Berenices)

Πάντα τὸν ἐν γραμμαῖειν ἰδὼν ὅρον À τε φέρονται ἢ με Κόνων ἔβλεψεν èEv ἠέρι τὸν Βερενίκης βόετρυχον ὃν κείνη πᾶειν ἔθηκε θεοῖς 13/14 26

40

εὔμβολον ἐννυχίης

ἀεθλοεύνης (9) μεγάθυμον

(9

chv te κάρην @uoca cv τε βίον

43 45

50

55

ἀμνάϊμωϊίν Θείας ἀργὸς ὑ]περφέ[ρ]ετί[αι,

βουπόρος ᾿Αρεινόηις μιητρὸς céo, καὶ διὰ pé[ccov Μηδείων ὀλοαὶ νῆες ÉBncav "Ad. τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ᾽ οὔρεα τοῖα ειδήρῳ εἴκουειν; Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος, γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφιηναν πρῶτοι καὶ τυπίδων ἔφραςαν ἐργαείην. ἄρτι [ν]εότμητόν με κόμαι ποθέεεκον ἀδε[λφεαΐ, καὶ πρόκατε γνωτὸς Μέμνονος Αἰθίοπος ἵετο κυκλώςας βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης, innolc] ἰοζώνου Λοκρίδος ᾿Αρεινόης, ἤ[λ]αες δὲ πνοιῆι με, δι᾽ ἠέρα δ᾽ ὑγρὸν ἐνείκας Κύπρ]ιδος εἰς κόλιπους θῆκεν [ἄφαρ καθαρούς.

60

αὐτή! μιν Ζεφυρῖτις ἐπὶ xpeolc ἧκε ἢ πέτεεθαι .... K]avoritov ναιέτις αἰ γιαλοῦ, ὄφρα κε] μὴ νύμφης Μινωίδος ο[ὑρανὸν ἵζοι χρύςε]ος ἀνθρώποις μοῦνον ἔπι ς[τέφανος εἰς ἅπ]αν ἐν πολέεεειν ἀρίθμιος, SAM paveinv

TESTO CRITICO: AET.IV FR.213

149

καὶ Βερ]ενίκειος καλὸς ἐγὼ πλόκαμ[ος. ὕδαςι] λουόμενόν με παρ᾽ ἀθα[νάτους ἀνιόντα Κύπρι]ς ἐν ἀρχαίοις ἄετρον ξ[θηκε véov: 65

]

]

ιπρόεθε μὲν ἔρχομεν

70

μετοπωρινὸν. Ὠκ]εανόνδε

Lol ἀ]λλ᾽ εἰ Kali 1. Im!

l.....v

- rapdéve μὴ] κοτέςῃ[ς Ῥαμνουειάς: οὔτ]ις ἐρύξει

βοῦς Erocı

ἰΙη[ 1.1. lede.| Ivöweıe,|

.L Ιβη 1. Bpacoc aler]epec ἄλλοι Jococol. ]tex | Jo -

75

οὐ! τάδιε! μοι τοςςήνδε φιέιρει χάριν öclco|v ἐκείνης ἀ]οχάλλω κορυφῆς οὐκέτι θιξόμεν[ος, ἧς ἄπο, παρ[θ]ενίη μὲν ὅτ᾽ ἦν ἔτι, πολλιὰ πέιπωκα λιιτιά, γυναικείων δ᾽ οὐκ ἀπέλανυςα μύρων.

89 90

o | nel

vol 94 94a

to [

1:

vol

yeilrovec loc oc [ |. Ὑδροχί[όο]ς καὶ [ x] φίλη τεκέεςει |

9ab

Ὠαρίων.

AOL...

Schol.(POxy.2258)

26 sqq. (2) inc. sed.fr. 12 'recto' ---].o.. .[---H--]....... anl------]

. Bepevi [---l---Javerhev ... [---P---] roZepatoc, [---I---]yvi[---I---] [--- (1: primo loco fort. B, paenultimo 1 aut v; 3: ultimo loco potius € quam n (7); 4: ἀνεῖλεν aut Jav eikev)

verso' ---].[ ].[--+--]..[.]..ti[----], πα[ρ]θένου Ι---] ὀλίγος οικα[---ἰδὅ---] τοῦτ τί--

+--Jrome( ) τονωκο---1---, .ere. [. ].{---|---] 1. {---.- [--- @: suppl. Pf.; 5: ante τί duae litt. rotundae) scholium fort. ad Berenices facinus (vd. comm. ad v. 26) spectare coni. L.; ἀνεῖλεν (‘recto' 1. 4) = 'interfecit' scil. Demetrium et Ptolemaeo nupsit (Tustin.

XXVI 3, 2-8); si ἀγῶνας] ἀνεῖλεν = 'certamina vicit Olympia vel Nemeaea, cf. Hygin. Astron. II 24 ad fr. eleg. 388 Pf. allatum et ipsam «Victoriam Berenices» Callimacheam (frr. 143-156); ap. Hygin. 1.1. Berenice hostes interfecisse dicitur (aut e.g. «τρατι]ὰν ethev? Pf.). «Comae» versus 10-32 in pagina recta scriptos fuisse necesse est (vd. Pfeifferi Prolegomena de pap. nr. 37), in pagina versa, quae praecedebat, vv. 1-9 et finem carminis alterius. Elegiam (in Magam et Berenicen) cuius fr. 388 Pf. exstat, in POxy. 2258 fuisse adhuc non constat (in POxy. 1793 ante Victoriam Sosibii, fr. eleg. 384 Pf., collocata erat) 45-57

C fr. 1'recto' „OROPOV,,

45 in marg. infer. Bovröp.ocı ᾿Αρειν(όηο): βουπόρος 6 ößekicxole] |. .] 1 ”A]@%ov (suppl. L., qui Ayez δὲ τὸν 1 ”A]@cov e.g. prop. (idem Pf. omisso

150

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

δὲ)) in marg. sin.’Apewéne untp(öc): κατὰ τιμὴν eilnev, ἐπεὶ θυγάϊτηρ ᾿Απάμας κ(αὶ) I Moya: 48 in marg. infer. Χιαλύβων ὡς ἀιπόιλοιτ(ο) yév(oc): Χάλυβίεο) (κυθί(αῷ) (vel (κυθι[κ](ὁν)) ἔθνος, παρ᾽ οἷς πρώτοις ηὑρέθη | à ἐργαεία τοῦ ς[ιδ]ήρου κίαὶ) ἴετως ἐντεῦθεν [λέ]γετίαι) τὸ περιτεμεῖν τὸ nepıcrv[Bilcon 8. [ ]. τῷ (κύθῃ I εἰδήρῳ (suppl. L.; ad περιςκυ[θί]οαι cf. Steph. Byz. s.v. (κύθαι; mox δέρ[α]ς prop. Pf. (δέρ[μ]ᾳ neque vestigiis neque spatio convenit), qui contulit Suid. s.v. ἀποςκυθίςαι

... τὸ ἐπιτεμεῖν (=

Covoyayı AEE. ypnc., a 892 p. 122 Cunningham: περιτεμεῖν Et. M) τὸ ... δέρμα cov θριξί al. et susp. scribendum esse ἐντεῦθεν [λέ]γετίαυ) περιςκυθίςαι τὸ περιτεμεῖν δέρ[α]ς τ. (κ. c. (περιςκυθίςαι τὸ περιτεμεῖν εἰδήρῳ iam coniecerat L.); ad (κύθῃ I εἰδήρῳ cf. Aesch.

Sept. 816 sq.; de hoc scholio vd. McNamee,

Sigla p. 76)

49 in marg. infer.

γειόιθ(εν), [εἴρ]ητίαυ) ἐκ τῆς γ[ῆ]ς (suppl. L.) ἰπ marg. sin. τὴν τοῦ εἰδήρου | γένες[ι]ν κακὸν | φυτὸν εἶπεν - (suppl. L.) 52 in marg. sin. πιρόκ(ατε)- εὐθέως (suppl. L.) in marg. infer. καὶ πρόκατε yvar(öc) Méuv(ovoc): γνῳτὸς Μέμνονος ὁ Ζέφυρος: Μέμνων

yapviolc] .......... I..]... ‘Hcoô(oc): ‘’Actpaio δ᾽ Ἠὼς aveuovıcı nine’ [Theog.

378]. περὶ μὲν τοῦ Μέμνονος "Ou(npoc) τόν ῥ᾽ Ἠοῦς ἔκτεινε galewfic ἀγλαὸς υἱιός᾽ [Od. IV 188]. ‘HcioS(oc) δὲ “Τιθωνῷ δ᾽ ι Ἠὼς τέκε Μέμνονα χαλκοκορυςτήιν᾽ [Theog. 984] (vestigia) (dio[ pap.; viò[c] suppl. Pf., qui mox Ἠρῦς, ὡς καὶ οἱ | ἄνε]μοι" e.g. prop.; versum suppl. Pf.: de Phaethonte filio Aurorae et Cephali, Hes. Theog. 986 sq., cogitaverat

L. (qui Schol. ‚ecrw[. δ]ιὰ τὸ

τὸν μὲν pro περὶ μὲν legerat); rell. suppl. L.) 53in marg. sin. βαλιά: ποικίλα (cf. Eur. Hec. 90 Schwartz c. loc. sim.) in marg. dext. θῆλυς anna [: ---] pa | | καὶ a[---]. wvral---] (vestigia) (suppl. L.) in marg. sin. θῆλυς δὲ ἀήτί(ηο | γόνιμον | π]νοῦς ἁπαλός (avr(c) pap.: énr(ne) L.; ö]ı& suppl. L.; π]νοῦς dubitanter

suppl. L., 'haec vox in scholio sane mira, at vix aliud suppleri potest' Pf.; ad ἁπαλός cf.

Schol. Call. Ap. 37 a)

54-57 in marg. infer. --- ]pracQfiva[i] ὑπ[ὁ] τοῦ Ζ[ε]φύρου κ(αὶ)

εἰς τοὺς κόλπους τεθῆναι τῆς (vestigia) I---]v πεμφθέντος, &[c] ancıv - αὐτή μιν Ζεφυρῖτις

ἐπιπρο .[ (vestigia) I---] ’Apcwöln] ἔχει ἐν ᾿Αλε[ξ]ανδρείῳ χωρίον te . 6ΘδοῸ μενον τετρα[μμένον ---I---] Λοκροὶ Ἐπιζεφύρι[ο]} eicı- διὰ τοῦτο ἐκαλεῖτο Λο[ζκ]ρίς. Aéyet(ot) .[------] (vestigia) è. Ζέφυρος (vestigia) [---I---] (vestigia) [--- (suppl. L.; de &]prac0five[i] vd. app. ad Call. v. 55; Onva[ Jüx pap.; e.g. onciv è Πλόκαμος &]proc0fva[i] … τῆς ᾿Αφροδίτης ὑπὸ | τῆς ᾿Αρεινόης ἐφ᾽ αὑτὸ]ν πεμφθέντος. suppl. L.; e.g. aipviölıov) dé φίηοιν) ὁ Πλόκαμί(οο) ἁ]ρπαςθῆναᾳμᾳι] ... τῆς ᾿Αραιγόης ὑπὸ | ταὐ(τηο) εἰς τ(ὸ) Πάνθειο]ν πεμφθέντος suppl. Pf. (sed de Pantheo in Callimachi textu non est cogitandum: vd. comm.

ad Call. vv. 51-68); spatium vacuum intra litt. &v et litt. τῇ verbi αὐτή; cAe[. Ἰανδρια pap.; post τε litt. 1 et trema supra eam scr., ut videtur, mox è, duae hastae verticales, pars media

litt. p: non bis τετραμμένον; fort. tetpa[uuév(ov) I πρὸς Ζέφυρ(ον) äveu(ov), οὗ] suppleri posse monuerunt L. (πρὸς et od) et Pf. (Z. &.) coll. fr. inc. sed. 267, sed nunc videmus zerpaluu£v(ov) lineae finem non explere; huiusmodi scholium ad «Comae Berenices» vv.

54-57 fort. repetitfr. inc. sed. 267: vd. adn. adloc.) 55 in marg. dext.{..]act..[.] ὑγρόν" ἁπαλόν (üypoy pap.; cf. I. Bekker, Anecdota Graeca I, Berolini 1814, p. 115. 13 dypôv: τὸ ἁπαλόν) 65-78 C fr. 1'verso' 65 sq. in marg. dext. vestigia Il. 1-6, at paucae litt. in 4 sq. legi possunt ---]v.[...]JAop. αἱ, [--l--]ve[ J. v. [. ].. [-— 65-68 in marg. infer. (numeros linearum affero in quas scholia in pap. divisa sunt) 277... uec.[.].[.....]..

-τ(ωο) ékovcréov, ἐπεὶ ὃ Λέων κατηςτ[έ]ριοςται ὑπὸ τῇ “Apiro: "Aparl[oc] 'πος(οὶ δ᾽ ὑπ ἀμφοτίέροιει [28 Λέων ὑπιὸ! καλὰ φαι εἶνιει᾽ [148] τῆς ΓἌρκτου λέγει: ταῖς δὲ Πλειά[ε]ι glaciv?) ἐοικέναι τὸν Πλόκαμοί(ν) κατ[ὰ τ]ὸ εχῆμα διὰ το [---[2 καὶ πυκνοὺς ἐν [- 1].



TESTO CRITICO: AET.IV FR.213

151

ἀςτέρας κεϊεθίαυ), καθὰ wlan) AtoquÀ |. ἐ]ν τῷ ἐπιγραφομένῳ Προκί, |]ῳ οὕτ(ωο) : ART ἠ7βθιδὲ κεῖνο δι᾽ ἠέρ[ος] ἐμφανὲς &lc]tpov ὄμματ᾽ ἐπιςτ[ἤ]εαςα κ(α)τ᾽ ἀετ[ερ]όεεςαν “Αμαξίαν]: τὴν ἄραπαν[ JBL ἀεὶ κ(ο)τ(οα)κείμενον |. In ἐκταδίη κέχυτίαι) πολλοὶ δ᾽ ὡς ἀςτέρες ἀμφίς καὶ θαμέες τυπόωειν ἀτὰρ [||82είδεται ὥμων Παρθένου οὐδὲ Λέοντος ἀπόπροθεν αἰωρεϊτί(αι), oùpav[i]owo Λέοντος, ἐπιψαῦυε[.). [ Jl 33 Πξύος ἀκροτάτ(ηο), Éret(a1) dé οἱ ἄγχι Bowrnc "Apitov ἀπο[ς]κοπέων noı, eyacxooro|[ ] [SH 391]

---B#ov.[.]..[..].[.].[.Jom() τὸν [N]}{6]isapo(v) eine) διὰ τὸ τὸν Βοώϊτην] ner’ αὐτὸν ἀνατέλλειν [e καὶ δύνειν. ἵνις ἼἌκμονος β5Χχ, [- ὁ Οὐρανός: οὗτος γὰρ “Axuovoc vilölc. îvic δὲ κυρίως] è ὑποτίτθ[ι]ος ἀπὸ t(od) [ivodv τουτέςτι θηλάζεινβ ͵᾽ [ ὁ ..7.νι κανόνιον. πρόεθε μὲν ἐρχομεν, μετοπωριγίόν): κοινηι [---ἰ57. [εἴρηται ἐπί] τε τῆς ἀγ[α]τολῆς κ(αὶ) τῆς Soceac. ἀνατέλλ(ει] μὲν γάρ, φίηειν), ὁ Πλόκαμί(οο) πρ[ὸ τῆς μετοπωρινῆς ἰςημερίας P8--- δύνε]ι δὲ μετὰ [τὴ]ν ἐαρινὴν ἰςημερίαν [κοινηι-ἰςημερίαν = Hes. fr. 292 (a) M.-W.] (pleraque suppl. 1..;27: ünorncapkto pap.: corr. L.; 8 ὕπαμφοτ pap.: δ᾽ ὀπιεθοτέροιει recte codd. Arat.; 28: Aewvür pap.; g(acìv) A. Rehm ap. Pf. Ip. 502: e(nciv) L. (cui adsentitur McNamee p. 211), ubi Pf. adnotaverat: 'de subiecto ad gnciv non constat; Aratus

(vv.

145, 255) de ciusmodi

similitudine locutus non est neque

video

quomodo in Call. Coma ipsa in vv. 65/6 de Pleiadibus quoque loqui potuerit' (vd. app. ad v.

66); διὰ τὸ μ[ικροὺς e.g. suppl. Pf. coll. Manil. IV 522 et Commentar.in Arat. p. 55. 24 sq. Maass ἐκ μικρῶν πάνυ καὶ πεπυκνωμένων (scil. ἀςτέρων): sed vd. ad 1. 29; 29: fort. comparatur Coma cum Pleiadibus quia 'glomus' est stellarum exiguarum ut illae, cf. Manil. 11. Pleiadum parvo ... glomeramine sidus (L., Pf.; praeterea L. prop. valde dubitanter ἐν τριγόνῳ ἀςτέρας (cf. [Eratosth.] Catast. 12 p. 98 Robert), quod lacuna non capit nisi schol. siglum adhibuit): de hac re vd. SH adn., ubi lacunam 1. 28 et lacunam primam 1. 29 aliter suppleri posse monuerunt L.J.-P.; καθὰ pap.: καθάπερ correxerat L., at cf. e.g. Eustath. p.

1909. 55 καθά που καὶ ὁ κωμικός; Auößgıkolc aut Διοφίλῃ (cf. éricr[i]caco fem. in hex. secundo): vd. SH adn.; fort. Προκ[ομί]ῳ (de mulierum coma anteriore Strab. IIT 164, cf. lat. antiae, 1.6. capilli muliebres in frontem demissi, ap. Apul. Flor. III), nisi longius spatio est,

aut IKA)ox[du]® coniciendum? (Pf.): vd. SH adn.; hexametri init. πο disp. et noAAalxı δὴ] suppl. Pf. (vd. etiam SH app.); 30: ἴδε L., Pf. (vd. etiam SH app.); ἐμφανὲς cum atramenti

vestigiis reconciliari posse videtur: de ἀμφανὲς = ἀφανές ut ἀμφαείη = &Kpacın cogitaverat L.:

ἀμφανὲς

idem

significare

atque

ἀμφιφανές.

suspicatus

erat

Pf.

(cf.

ἀμφαής

=

ἀμφιφαής, ἀμφορεύς = ἀμφιφορεύο) coll. Achill. Isag. 37 = Commentar. in Arat. p. 74. 3 Maass τὰ βορειότερα καὶ μεταξὺ ἀρκτικοῦ κύκλου καὶ imuepivod ... τινα τῶν ἐνταῦθα κειμένων ἄστρων τῆς αὐτῆς νυκτὸς ἀνατέλλειν καὶ δύνειν, ἃ καλεῖται ἀμφιφανῆ, Schol. Arat. 617, 618 al. (vd. etiam SH app.); ομματ᾽ pap.; poetam vel poetriam de muliere caelum contemplante loqui apparet; tertii hexametri vestigium primum pars infima hastae in linea

ad dexteram flexae, ut paucis aliis locis pes litterae τ: τὴν ἄρα πᾶν L.: τὴν ἄρ᾽ ἅπαν Pf.; post παν potissimum a, fort. v, vix è: &[ctpov μὲν] suppl. Pf.; 37: τὴν ...K(d)t(0) κείμενον = "illius (scil. Plaustri) e regione situm' (sal. sidus Comae) L., Pf.; In ἐκταδίῃ x&xur(au) (scil. sidus Comae)

L., κέχυται de sideribus Arat. 320, 611:

at de &xtaöin

dubitabat Pf.,

cum non videret qua de causa Coma vel pars Comae 'exporrecta' appellari posset (de sideris forma vd. supra ad Il. 28 et 29), neque duas litteras priores dispicere poterat: de [eiA]n

152

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ἑπταδίη (?) 'agmen septemplex' (appositione ad &[ctpov - vd. ad 1. 30 - aut praedicativo ad κέχυτ(αι)) cogitavit Pf., monens Diophileum locum afferri, quia illic οχῆμα sideris descri-

bitur (sed vd. SH adn. et app.); δως pap.: dé ot coni. Pf. (ἀμφίς c. dat. cf. Hom. Il. V 723): vd. etiam SH app.; ad ἀμφίς ... tunöwcıv cf. Arat. 170 sq. οἷά μιν … | ἀετέρες ἀμφοτέρωθεν ... τυπόωειν; ci[ vel en[ dispicere sibi visus est L.: xa[t«] legit et suppl. Pf. coll. Arat. 144 sq. c. Schol. (vd. etiam SH app.);32: εἴδεται dov L., Pf.: xaltep]leiseron buoy Li., Recensione p. 594=293; rapdevocovie pap.: corr. L.; subiectum ad Ἰείδεται (cf.

Arat. 93) et αἰωρεῖτ(αι) (cf. Arat. 387, 403) et ruyavel est d[ctpov (vd. ad 1. 30), sidus Comae quod sequitur Bootes; ἐπυψαύε[ι] L., Pf.; de lacuna vd. SH app.; 33: ad [iJévoc cf. Arat. 144 al.; fort. ἀκροτάτί(αιο) vel -r(oıc); οἱ 1.6. Comae?, cf. 1. 34 et Cat. v. 67; prob. noray L., qui tum ἐγαςχοοπαί legit: norguetacigoora. [ dispicere sibi visus est Pf. (εἴ τ et x perperam, quoad viderunt L.J.-P.), qui pro fine corrupto e.g. novum finxit compositum

ἀμετάεκοπος intuens

Ursam

(cf. ἀκατάεκοπος (maiorem),

quae

act. et pass. et ἀδιάσκοπος pass.), 'Bootes ut scopum non

retro

versa

facie

intuens

illi semper

[praecedit

ἡγεῖται} À οἱ &ueräckonoc ai[év aut si hiatus offendit ei’ «ueräckonoc (cf. &cxonoc c. gen. Aesch. Ag. 461 sq.), Ursa enim semper ad alteram partem currens 'Orionem observat'

Hom. Od. V 272-274 = Il. XVII 487 sq. Βοώτην | "Apktov θ᾽... 17... Ὠρίωνα δοκεύει; 34: init. ἀνάγειν t(òv) BoJérn(v) suppleverat L. propter ἀνατέλλειν: ἄγειν Pf.; μετ᾽ pap.; post ἀνατέλλειν τί vel af: τ[ε καὶ δύνειν suppl. Pf., 35: de Acmonis filio cf. fr. inc. sed. 498 Pf.; du[.]c pap.; de îvic κτλ. cf. Choerob. De orthogr., Cramer, AO II p. 220. 24 s.v. ... À παρὰ τὸ ivodv τὸ εημαῖνον τὸ θηλάζειν (ivodv τοῦ εημαίνοντος τὸ θηλάζειν in pap. suppleverat L. longius spatio: ἰ. τουτέετι θ. ego); 36: ] νι: pars hastae verticalis descendentis infra lineam; post on fort. superior pars sinistra litt. p et supra lineam v, tum /, 1.6. μετοπωρινί(όν) et signum finis lemmatis, dubitanter L.; si recte, kowvnı init. explicationis

est: κοινῇ v[oeî (vel v[6er) | ἐπί] te (L 37), quod A. Rehm ap. Pf. I p. 502 proposuerat (Exi] τε lam L.), spatio brevius esse nunc apparet (cf. ettam Hes. fr. 292 (a) M.-W. c. app. et vd.

adn. ad L 14 sq. infra); 37: [εἴρηται

ἐπί] re suppl. L. (non recepit Pf.); πρ[ὸ τῆς

μετοπωρινῆς imuepioc suppl. Pf.: πρ[ὸ τῆς χειμερινῆς τροπῆς L. propter vocabulum ἰςημερίαν sequens (haec supplementa defendit McNamee, Links p. 409), at vd. infra ad 1. 14 sq.; 38: imuepuav pap.) 67-70 in marg. dext. (numeros linearum affero in quas scho-

lium in pap. divisum est) 7 πρόο]θε μὲν Epx(ouev-) 18 (ad dexteram 1.7) ἈΤ[[--- (ad dexteram L.7).v.e.[---1!° τῇ μὲν] μετοπωρινῇ imuepio I! ἕωθεν ἀναᾳ!Π2τελλοντ, [τροπῇ δὲ 113 θερινῇ ἕωθεν Suvovi[---1!4 Ηείοδος ἀν(ο)τίελλοντ-), κατ᾽ εὐθεῖα!|Ἕν [15 δὲ δυνοντ [--- [fr. 292 (0) M.-W.] (omnia suppl. L.; 8 sq. cum scholio ad Call. v. 65 sq. (vd. supra) coniunxit McNamee p. 210; 10: Juepivnicwepia pap.: corr. L. (prob. un]juepwniciuepia per

'dittographiam', non χειϊμερινηΐοειμερια Pf.); 12: fort. τελλοντί(ων)

L.; nil nisi [τῥροπῇ δὲ

suppleri potest, at vd. infra; 14 sq.: av et supra lineam τ pap., non ἀντὶ τοῦ, sed potius

ἀν(ο)τί(ελλοντ-)} esse putat L.: si recte, inter lineas textus Call. scriptum erat (πλάγιον μέν, ὡς dubitanter Pf. coll. Gemin. pp. 90. 7 et 9; 92. 9 Manitius), quod Hesiodus dixit de sidere exoriente, scil. de Boote, de quo sine dubio dictum est κατ᾽ eddeîa[v | δὲ Gvvovt [, cf.

Schol. (E) Hom. Od. V 272 Bowrnv ... ὀρθὸν καταφέρεεθαι et ad rem ex Eudoxo Arat. 581-585, 721-723 et contra eos Hipparch. II 2, 11 sqg., p. 140. 24 sqq. Mamtius (Pf. coni.

κατ᾽ εὐθεῖᾳ[ν] δὲ Sbovre, deleta litt. v, partem esse hexametri (sed vd. app. ad Hes. fr. 292 (b) M.-W.) ex Hesiodi Astronomia, cui carminifr. 163 M.-W. = Vorsokr.4 B 6, I° p. 39. 13 D.-K. de Boote plerique adscripserunt, Merkelbach-West ipsi dubitanter abiudicaverunt); in 1. 36 sq. (vd. supra) fort. 'commune' Comae et Booti et exorientibus et occidentibus esse

TESTO CRITICO: AET.IV FR.213

153

dicitur anni tempus: κοινὴ ... ὥρα scil. τοῦ ἐνιαυτοῦ (vel @dcic?); de his enim temporibus

agitur in scholiis quae sequuntur: ἀνατέλλει] ... γάρ xtÀ., scil. Coma 1. 37 sq., Bootes IL. 10-15; Bootis vel potius stellae Arcturi in Boote ortus matutinus solet in Calendarits

Graecis, vd. C. Wachsmuth,

Calendaria

μετοπώρου

Graeca

ἀρχή

esse

pone Io. Laur. Lydi

librum De ostentis (ed. II, 1897) pp. 184. 4, 214 sq. et passim (cf. etiam [Hippocr.] Περὶ

διαίτης III 68. 13, VI 1 p. 76. 15 Joly μέχρι ἡλίου τροπέων ... μέχρι ᾿Αρκτούρου ἐπιτολῆς καὶ imuepinc, Aristot. Hist. an. VI 15 p. 569 B 3 dr’ ’Apktobpov μετοπωρινοῦ μέχρι τοῦ Éapoc): exoriri igitur incipit Coma (quae semper praecedit, cf. supra 1. 34 et Cat. v. 67) mane 'ante aequinoctium autumnale', ut supra 1. 37 suppl. Pf.; Coma occidit mane 'post aequinoctium vernum', ut recte dicit schol. 1. 38: nam Arcturi occasus matutinus in Calen-

dariis notatur in initio aestatis (C. Wachsmuth,

Calend. Gr. p. 255. 6 ’Apktodpoc £oc

δύνει = 4. 11. m. Maii, p. 255. 14 θέρους ἀρχή = d. 12 m. Maii, Caesaris Calend.: init. aest. 10. Mai. et Arct. occ. 11. Mai., vd. A. Rehm, Parapegmastudien, «Abh. Bay. Ak.», Phil.-hist. Abt., NF 19, 1941, p. 63 et adn. 1) aut in aestatis parte priore (vd. A. Rehm,

Parapegm. p. 74 omnia Calend. Gr., Indices s.v. solstitio aestivo (24.-26. schol. 1. 12 sq., sed fort.

de Arcturi apparitionibus testimonia; vd. etiam C. ᾿Αρκτοῦρος et Arcturus) inter 21. Mai. et 10. Iun., Iun.): si revera in pap. [τῥροπῇ δὲ | θερινῇ scriptum fuit [πρὸ τροπῆς | depwii(c) ut prop. A. Rehm ap.

Wachsmuth, numquam in erat, erravit Pf. I p. 502;

dierum intervalla, quibus Alexandriae ca. annum 250 a. Chr. Coma et Bootes mane exoriebantur et occidebant, computaverunt et indicaverunt H. M. Nautical Almanac Office in

litteris ad Edgarum Lobel datis et paulo accuratius Marinone (pp. 186, 255, 258): ortus heliacus matutinus Comae 2.-8. Sept., Bootis 29. Sept. - 18. Oct.; occasus heliacus matutinus Comae 26 Mar. - 5. Apr., Bootis 6. Mai. - 15. Iun. (aequinoctium vernum 25. Mart., solstitium aestiv. 26. Iun., aequinoctium autumnale 27. Sept., solstittum brumale 28. Dec.; idem fere dies in Calendariis antiquis, vd. C. Wachsmuth, Calend. Gr., Indices p. 362 sq.))

72 in marg. dext. βοῦς ἔπος: vouiculo) 16 Eötöocav οἱ φλυ[αἱροῦντες [--- (suppl. L.) 73 in marg. dext. διχί Jouer . 1 (Su() fort. lemma, etsi linea / deest; Siy(a) McNamee p. 212) 75 sq. in marg. dext. où τιά!δε port | tocc(Mvde) φέρει[: | o]ò tocodTOv, φί(ηείν), è MAbga[utoc) I χ]άριν ἔχει ὅτι ἐν οὐρα[νῷ | ἐςτιν öclov | ἄχθεται ἐπὶ τῇ κε[φαϊλῇ μὴ εὐμπεφυ [--- (suppl. L.; de φέρει vd. app. ad v. 75; couvre pap.; ultima litt. γ΄ vel ε΄ esse videtur) 77 in marg. infer. πολλὰ {πολλὰ} πέπωκα λιτά: [--- (vestigia) 78 in marg.

sin. .[..].[.]..[--- (cum scholio ad Call. vv. 65-68 (vd. supra) coniunxit McNamee p. 210) 92-94 C fr. 2 'verso' 92 in marg. sin. ---Jactept (i.e. &ct£pı) vel ]actepu (i.e. &ctepu( )) 93 sq. in marg. sin. γείτονες] Ectwcov | Ὑδρο]χ[ό]ος καὶ Qpt(wv) (suppl. L.) 1 PMilVogliano

18 (= Diegeseis Mediolanenses), col. V, 40: lemma

7 sq. Schol. (MVUA;

Callimachi versus om. DA) Arat.

146, p. 147.

15 Martin ἁπλόοι

ἄλλοθεν ἄλλος ἀνωνυμίῃ φορέονται] ἁπλόοι δέ, τουτέετιν ἀκατονόμαετοί gici, Kal οὐδὲν ευμπληροῦται εἰς τύπον ἐξ αὐτῶν ... [hic desinunt DA] Κόνων δὲ ὃ μαθηματικὸς Πτολεμαίῳ χαριζόμενος Βερονίκης [Βερνίκης MI πλόκαμον ἐξ αὐτῶν κατηοςτέριςε [cf. Dieg. V 41 541. τοῦτο καὶ Καλλίμαχός πού new: ᾿ἠ-θεοῖς᾽ (cf. Exc. Marc. p. 575 a 20 Maass) Hygin. Astron. II 24, 1, p. 67 Le Boeuffle sunt aliae septem stellae ad caudam Leonis in triangulo conlocatae [de loco vd. ad fr. inc. auct. 278 et app. ad v. 65 infra], quas crines Berenices esse Conon Samius mathematicus et Callimachus dicit (quae sequuntur, vd. ad finem huius apparatus, ad Call. fr. eleg. 388 Pf. et infra ad v. 26)

13/14 fort. Agath. Anth. Pal. V 294, 17 sq.,I p. 408 Beckby = 90, 17 sq. Viansino kai tò

154

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

φίλημα | ‘couBoñov ἐννυχίης᾽ εἶχον ᾿ἀεθλοεύνης᾽ (Agathiae locum ad Cat. LXVI 13 C. Weyman,

«Bayer.

Blätter f. d. Gymnasialschulwesen»

60,

1924, p. 222

'similem'

attulit;

ipsa Callimachi verba esse susp. Pf., Zdxauoc p. 183-104, ut Agathias totum fere pentametrum hausit e Call. fr. 1, 6, vd. comm.

I p. 46 Latte ἀγωνίας

ad loc.)

fort. Hesych.

s.v. ἀεθλοεύνης, a 1247,

(huc dubitanter revocavit Pf.: certe neque ex Agath.

supra allato

neque e Paul. Sil. Anth. Pal. VI 54, 2 = 4, 2 Viansino ἀθλοούνας μνᾶμα, cf. epp. adespp. App. Plan.67,2,377,4)

26 Hygin. Astron. II 24, 2, p. 68 Le Boeuffle (quae praecedunt, vd. supra ad v. 7 sq., infra ad finem huius apparatus et ad Call. fr. eleg. 388 Pf.) pro quo etiam Callimachus eam [scil. Berenicen] magnanimam dixit

40 Et. Gen. AB s.v. θῆλυς [e θηλύς correctum in A] (p. 166 Massimilla; cf. Et. Gud. s.v. θῆλυς καὶ θήλεια p. 261.31 Sturz et Gudiani codd. Par. 2630 et 2638 ap. Gaisf. ad Er. M. p. 450. 33 (εἴρηται καὶ “xépn’, enciv è Καλλίμαχοο), Et. M.s.v. θηλαμών LL 'chv-Btov’; Callimachi verba om. Et. Sym. cod. V s.v. θηλαμών ap. Gaisf. ad Er. M11.): παρὰ τὸ θῶ, τὸ τρέφω, ἀφ᾽ οὗ ῥηματικὸν ὄνομα OnAn : καὶ τροπῇ τοῦ n εἰς v θῆλυς [θηλύς A], οὗ γένος θηλυκὸν θήλεια: οὕτω Φιλόξενος [fr. 102 Theodoridis]. θηλὴ [οὗ γένος - θηλὴ Er. Gud.: om. cett.] bc κάρη κάρυς: εἴρηται γὰρ καὶ [καὶ om. B] κάρη θηλυκόν, ὧς παρὰ Καλλιμάχῳ [ὡς-Καλλιμάχῳ om. B] 'chv-Biov’ (de Philoxeno Callimachum afferente vd. ad fr. 25, 15) 43 POxy.2258 C, fr. 1 'recto', 1

44-55 PSI 1092, 1-12 + POxy. 2258 C, fr. 1 'recto', 2-13 48 sq. Schol. Ap. Rh. 1 373-376 a, p. 159. 7 Wendel Χάλυβεε ... | ἐργατίναι- toi δ᾽ ἀμφὶ εἰδήρεα ἔργα μέλονται (v. 375 sq.)] οἱ δὲ Χάλυβες ἔθνος (κυθικὸν μετὰ τὸν Θερμώδοντα, οἱ μέταλλα cröhpov εὑρόντες μοχθοῦει περὶ τὴν ἐργαείαν ... μέμνηται αὐτῶν καὶ Καλλίμαχος: 'Χαλύβων-ἔφηναν᾽ 48 Schol. Ap. Rh. I 1321-1323 a, p. 119. 29 Wendel Χαλύβων

(v. 1323)] Χάλυβες ἔθνος

(κυθίας, ὅπου è clönpoc γίνεται. Καλλίμαχος "Χαλύβων-γένος᾽ 49 Apoll. Dysc. De adv., Gramm. Gr. II 1. 1, p. 188. 19 Schneider (Tryphon fr. 75 p. 53

van Velsen) ἔτι ἐπηπόρει [scil. Tryphon], πῶς γεγόνοι τὸ yeıödev, παραδεχόμενος ὡς ἀνάλογον τὸ γῆθεν (sequitur Hec. fr. 272 Pf. = 52 H. Δεκελειόθεν) 54 Hesych. s.v. ἰόζωνος, 1737, II p. 367 Latte πορφυρόζωνος 56-64 PSI 1092, 13-21 57 Steph. Byz. s.v. Ζεφύριον, p. 296. 1 Meineke ... Ecrı καὶ ἄκρα τῆς Αἰγύπτου, ἀφ᾽ ἧς ἣ Agpodtm καὶ ᾿Αρεινόη Ζεφυρῖτις [-Imc codd.: corr. Xylander], ὡς Καλλίμαχος 65-78 POxy. 2258 C, fr. 1 ‘verso! 89-94? POxy. 2258 C, fr. 2 'verso', 1-8

ad hoc fragmentum spectat Hygin. Astron. II 24, 1, p. 67 Le Boeuffle (quae praecedunt, vd. supra ad v. 7 sq.) cum Ptolomaeus Berenicen Ptolomaei et Arsinoes filiam sororem suam [filia Magae et Apames cum filia Ptolemaei II et Arsinoes confunditur toto Hygini capite] duxisset uxorem et paucis post diebus Asiam obpugnatum profectus esset, vovisse Berenicen, sì victor Ptolomaeus redisset, se crinem detonsuram; quo voto damnatam crinem in Veneris Arsinoes Zephyritidis posuisse templo, eumque postero die non comparuisse. quod factum cum rex aegre ferret, ut ante diximus, Conon mathematicus, cupiens inire gratiam regis, dixit crinem inter sidera videri conlocatum et quasdam vacuas a figura septem stellas ostendit, quas esse fingeret crinem (quae sequuntur, vd. ad Call. fr. eleg. 388 Pf. et supra ad v. 26; Hyginum Eratosthenis qui dicuntur 'catasterismis' usum esse satis veri simile est, vd.

TESTO CRITICO: AET.IV FR.213 1. Dietze, «RhM»

155

NF 49, 1894, p. 24 sq.; sed in ceteris catasterismorum excerptis Graecis

et Latinis nihil inest misi brevis sententia de positione sideris, cf. testimonia in comm. ad fr. inc. auct. 278 allata) 2 vocabulum &ct&pec subiectum fuisse ad verbum φέρονται coni. Ba. p. 354 ad pentametri finem &rıcräuevoc vel sim. dubitanter prop. Cassio, Incipit p. 330 adn. 3 7 î ue

Schol. Arat. codd. MU: ἣ με V: ἡ μὲν A: ἠδὲ Ald.: à pe Valckenaer (quam coniecturam in textum non recepit Pf., scribens ?n ue): «uè

MA:

ἀέρι U: ἀρέῖν

dubitanter Ma. ap. Trypanis (p. 80)

βερενίκης U: Bepoviknc VA: Bepviknc

M

ἠέρι

8 πᾶς᾽ ἀνέθηκε

Scaliger et Valckenaer (cf. nunc Dieg. V 42 ἀναθήςειν), at huiusmodi elisio non admittitur

9 participium edyouévn hic fuisse coni. Zwierlein p. 280-237, sed potius de εὐξαμένη cogitaverim (cf. Call. Ep. LV 2 sq. Pf. = HE 1126 sq. ἔθηκε θεῷ, Ι εὐξαμένα) 13 sq. quibus distichi locis et quo mutuo ordine voces couBodov ἐννυχίης ἀεθλοούνης (si revera Callimacheae) usurpatae sint, non constat: fort. in v. 14 pentametro, ut in v. 18 Agathiae

epigrammatis supra allato, | couBoñov ἐννυχίης ...

ἀεθλοεύνης |

26 μεγάθυμον ad

Catulli et Hygini supra allati magnanimam dubitanter suppl. Pf. (si Call. vocabulum in pentametro adhibuit sicut Cat., versus structura erat — v v — v v — - μεγάθυμον © —: vd. Introd. 11.1.B.a.ii.): μεγαλόψυχον (cui locum idoneum hexameter, haud pentameter praebere poterat) Schn. II p. 158, at poetas uti vocibus μεγάθυμος, μεγαλήτωρ sim. monuit Pf.,

Méoxauocp. 183-104

40îv Et. iv Sylburg; de forma (&)öc reflex. I et II personae vd.

ad fr. inc. sed. 472 Pf., at pro adiectivo possessivo cv (non reflex.) iuxta cöv forma ἥν tolerari nequit neque coma per ἣν = ἐμὴν κάρην iurare potest 44 PSTlitt. uo et gel. ler,

POxy. litt. zepg tradunt

ἀμνά]μοωϊν Beine ἀργὸς suppl. Pf. per litteras ad G. Vitelli a.

1928 (vd. Coppola, Callimachus p. 283 adn. 1) et /ÄAdxauocp. 188 sq. = pp. 109-111 (vestigia litterarum supplemento non obstant), init. e Suid. s.v. Oeiac ἀμνάμων (-upov

codd., vd. ad Hec. fr. 338 Pf. = 87 H.), ἀργός = 'clarus': Oeiac pro Oeinc Coppola 1.1. et Hollis

in

comm.

ad

Hec.

fr.

87

(de

forma

Θεία

drepoé[p]er[or suppl. Castiglioni, Recensione p. 268

vd.

West

ad

Hes.

Theog.

135)

45 PSI litt. Bovropocapcıvon et

cceokandıane, POxy. litt. B et nrpocc tradunt (in PSI œpcivon[ contra ceteros recte legit Vo., «PRIMI» I, 1937, p. 131 adn. 2; Bovröpoc ᾿Αρεινόη[ς inter alia temptaverat Kuiper, De fragmento p. 128; de ᾿Αρεινόῃ iam cogitaverant etiam Harrison p. 124 et Kalinka p. 268) ᾿Αρανόηις μιητρὸς e schol. suppl. L. fin. suppl. Vit. 46-50 PSI litt. omnes,

quae leguntur, tradit (sed v. 48 εἰ ]kovcw) 46 POxy.litt. un et eBncav tradit 47 POxy. litt. τιπ et ot'ovp tradit τί πλόκαμοι ῥέξειαν iam Scaliger (vd. Tissoni pp. 222 et 251) suppl. Vit. 48 POxy. litt. euco et wcanoA tradit 49 POxy. litt. yewo[ Jev et Kkokovo tradit yewo0ev POxy., Schol. Ap. Rh., in Apoll. Dysc. codice ynoBev in yeıodev recte mutatum esse videtur e correctore quodam A*: mo0ev PST

προ! Jouorrunt et sppacav tradit .Jova, PSTlitt. otuntov etc. tradunt

suppl. Vit

50 POxy. litt.

51 POxy. litt. april Jeotuntovuel . Jouoınodec(sic)[ init. suppl. L., fin. Vit 52 POxy. litt. kan], [κατεί

‚Jvwrocueuvovoca[ . ]oroc, PSI litt. rpokate etc. (sine ultima litt. c) tradunt 53 POxy. litt. 1e7[. JukAocac| JuAıantepaßndvel. ]ητης, PSI litt. {{7τὸ etc. tradunt 54 POxy.litt.

inzo[.]LoCov[..]Aox[.]tdocapervone, PSI litt. 10[. JovovAoxpıkoc etc. tradunt suppl. L. (de ἵππος iam cogitaverat Vit.!, at reiecit Vit.?) ἰο[ζ]ώνου in PSI recte dispexerat et suppleverat M. Norsa ap. Vit.

praetuli, vd. app. ad Cat.) litt. ervornı tradunt

Aokpidoc POxy: Aokpucòc PSI (Λοκρίδος dubitantissime

55 POxy.litt.

[.]ocedervo[. nıueöinspaö’vypoveveikac, PSI

.[.]: pars inferior hastae verticalis, in lacuna fort. duae litt. angustae:

156

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

n[pr] lacuna capere non videtur neque in scholiis ad vv. 54-57 vestigia ante x in litt. p

quadrare videntur, 'tamen vix aliud atque ἤ[ρπ]αςς in textu et è]prac0fiva[i] in scholiis fuisse potest' Pf.: i[A]oce Gallavotti p. 160 (optime) in POxy. post zvo[.]n potius c quam 1 fuisse susp. L., at vestigia incertissima

56 Κύπρ]ιδος suppl. Vit., κόλιπους — + ἔθηκε ©

— e scholiis L. (κόλποις Κύπριδος iam Scaliger; de ἔθηκε iam cogitaverat Vit.2): 10fixev [ἄφαρ καθαρούς Ardizzoni p. 199: ιθῆκε [θεῆς ἱερούς Matthews, Coma p. 50 57 αὐτή suppl. L. e scholiis (ut coniecerat G. Coppola ap. Vit.) χρέος suppl. Vit. e scholiis fort. etiam verbum in fine hexametri (aut initio pentametri?) suppleri potest (ἔπεμψε vel (rpo&)nxe(v), cf. etiam Nonn. Dion. XXXVII 75 in comm. ad v. 53 allatum (Pf.): ἧκε πέτεεθαι e.g. suppl. Pf. (qui supplementum suum in textum non recepit), n&techan etiam de equiis passim apud Hom., cf. II. XI 281 al. (ἧκεν ἐκεῖνο proposuerat Pf., /Aöxauocp. 202-125) 58 suppl. Vit. ante K]avoritov non plus quam quattuor litt. desunt; vocabulum trochaicum Graecum Tpoîa (cf. coniecturam Baehrensianam Graiia in Catulli textu) formari nequit; fort. Cat. de suo adiectivum grata addidit, ut lusit v. 62, Call. autem initio

pentametri

verbum

Recensione p. 613

aut epitheton ad ypéolc collocavit, ut κεῖνο, quod

e.g. suppl. Ma.

postafiyioAoò punctum posuit Pf., ut Lachmann post litoribus in

Catulli versione: vd. comm. ad vv. 51-68 59 ὄφρα suppl. Vit., xe Coppola p. 215: ὄφρα δὲ], quod Vit. suppleverat, in textum recepit Pf., puncto in fine versus praecedentis posito (vd. app. ad loc.), sed opinatus est etiam cfiua dè] et ad fin. ὄφρα v — — suppleri posse o[dpavov ot suppl. Vit. (in textum non recepit Pf.) propter vocabulum caeli in versione Catulliana, L., POxy. Part XX (1952) p. 94 sq. monuit verba Callimachea Îvic ’Akuovoc (= Οὐρανόο), de quibus agitur in 1. 34 sq. schol. in marg. infer. POxy. 2258, ad hoc distichon quodammodo pertinere posse: sed, ut L. ipse vidit, longe veri similius est illud scholium ad v. 68 spectare, cum intermixtum sit explicationibus vv. 65-68 (vd. app. ad v. 68) 60 χρύςε]ος suppl. Vit. (in textum non recepit Pf.) .[: pars sinistra litt. rotundae (c, 9, 0), c[tégavoc suppl. Vit. (in textum non recepit Pf.) post un (v. 59) non est cogitandum de indicativo ἐπις[τρέφεται, quod Pf. dubitanter prop. in indice vocabulorum s.v. ἐπί comma ad fin. huius versus (non post vocabulum ἀρίθμιος in v. 61) posuit Pf. praeeunte L.,

POxy. Part XX (1952) p. 95 adn. 1, etsi nullum exemplum coniunctionis ἀλλά quinto loco usurpatae (v. 61) exstare videtur (de ἀλλά postposito vd. comm. ad fr. 12): at Catulli versio ostendit versus 61 verba usque ad ἀρίθμιος respicere ad Ariadnae Coronam (vd. app. ad v. 61) 61 vestigium primum pars dext. inferior litt. &, haud congruens cum φάεο]ιν, quod suppl. 5. Eitrem ap. Vit? (receptum in textum a Pf.), vel teipec]ıv, quod suppl. Ma. ap. Vit? et Kuiper, De fragmento p. 128: εἰς ἅπ]αν supplevi ad Cat. fixa fin. suppl. Vit.:

ἀλλ[ὰ gaeivoL. LL: &GAA[d γένωμαι Ma. ap. Pf. (receptum in textum a Pf., qui comma posuit ad fin. v. 60, non post vocabulum ἀρίθμιος: vd. app. ad v. 60) 62 suppl. Vit. post πλόκαμ[ος contra Pf. punctum posui (vd. Coppola pp. 214-217), ut Muretus post

exuviae in Catulli versione: vd. comm. ad vv. 51-68 63 ὕδαει] vel ὕδατι] suppl. Vo. ap. Vit?: κύμαοι] vel κύματι] Vit. longius spatio ($dxpvci] lacunam non capere monuit Vit., cf. Palladii coniecturam fletu pro fluctuin Catulli textu)

fin. suppl. Vit.

64 suppl. Vit.

65 h.l. optime inseri potest fr. inc. auct. 278 de Leone écyatinv ὑπὸ πέζαν ἐλειήταο Λέοντος ('asyndeton explanationis' ad v. 64 ἐν ἀρχαίοις &ctpov ... νέον, vd. Kühner-Gerth II 2 p. 344), ubi vox dubia ἐλειήταο prob. = Cat. saevi Catulli textus ostendit Booten (de quo cf. ettam schol. ad vv. 65-681. 34 et schol. ad vv. 67-70 Il. 10-15) non esse commemoratum in disticho 65 sq. (ubi de Comae astrothesia agitur), sed in v. 68: vd. app. ad loc. et Lehnus, Notizie V p. 286 sq. 66 huc fort. spectat fr. inc. sed. 269 de Callisto in hoc

TESTO CRITICO: AET.IV FR.213

157

versu verbum indicativum usurpatum esse conicio, e quo pependisse suspicor v. 67 participium &pxöuevoc: 'propinqua sum Virgini et Ursae' vel aliquid simile dicere poterat Coma

(cf. Cat.), e.g. Παρθένον εἰςορόω πῦρ te Λυκαόνιον

in disticho 65 sq. locum vel

formam novi sideris cum Pleiadibus comparata esse (cf. schol. ad vv. 65-68 1. 28 sq. c. adn.), causa non est cur cogitemus: vd. etiam Lehnus, Notizie V p. 286 67 fin. in pap. legit L., cett. idem suppl. e schol. ad vv. 65-68 1. 36 et schol. ad vv. 67-70 L 7 casus participii adhuc incertus, sed prob. &pxöuevoc (vd. app. ad v. 66) adverbium μετοπωριγόν docet in hexametro de occasu vespertino verba fieri (de quo etiam Cat. v. 67

sq.)

68 fort. ]vo[, nisi ]\.o[

in pentametro de ortu matutino tractari e schol. ad vv. 65-

68 IL. 34-38 necnon e schol. ad vv. 67-70 colligere licet (hanc φάσιν omisit Cat.) Coma Booten sursum ducit ad Caelum, ı "Axuovoc îvuvi ἔπι (quod optime coniecerunt L. et Pf.), si - ut videtur - schol. ad vv. 65-68 1. 34 sq. huc referendum est (vd. app. ad v. 59): eîa δ᾽

ὅτ᾽ ᾿Αρκτοφύλαξ L”Akuovoc Îvwi ἔπι e.g. proposuerim (de vocabulo

᾿Αρκτοφύλαξ =

Βοώτης in distichis 65-68 usurpato iam Pf. cogitaverat; de sententiae vv. 65-68 structura vd. app. adv.66) 69%X’eıpap. ante v vestigia incertissima: primo et secundo loco ap?;

quarto 0?; quinto €, 1, 0?

suppl. L. ad Cat. sed quamquam: πάννυχον ἀ]λλ᾽ ei kalt ue

θεῶν πόδες ἐμπατέουει]ν e.g. Pf. ad Cat.; ad in scholiorum reliquiis 70 roA]ını Τη[θύϊ canae Tethyi, unde πολιῆι Τηθὺϊ iam Ba. tractari et e Cat. et e schol. apparet; incertum

ortum vespertinum spectat, de quo nihil exstat fort. in vestigia quadrare censuit L. (cf. Cat. p. 353); in pentametro de occasu matutino est utrum anni tempus, ad quod schol. ad vv.

65-68 1. 37 sq. spectat (γάρ, φίηειν), ὁ HAökau(oc) ... δύνε]ι ktA., cf. schol. ad vv. 67-701. 13), indicatum sit a Callimacho (potius εἴαρος, eiapıvöv quam θερινόν sim. Pf.), ut in disticho praecedente (μετοπωριγόν), an diei tempus solum, ut in Catullo (/ux = "Hoc dea in Callimacho? Pf.): hoc veri similius est quam illud, ut mihi videtur (vd. comm.) 7lunvv

—] xotéen suppl. L.: un v v -] κοτέςῃ[ς dubitanter Pf.: παρθένε un] κοτέςῃ[ς Merkelbach p.218

‘Popvovetde suppl. Ba., Recensione II p. 80 (vd. iam Scaligerum et Ba. p. 353)

οὔτ]ις suppl. L. 72 suppl. L. e schol. (vix βοῦς ἔπος ante οὔτ]ις in v. 71) 73 διχ() in schol. lemma (i.e. dty(0)) aut μ]ελεῖ[ςτί supplendum? (L.) ante Gpacoc pes hastae verticalis (δι]ὰ legi nequit) suppl. L. 74 non ετή]θεος, ut videtur (cf. Cat. pectoris) non kv[, e.g. κύ[θ]ὦ (cf. Cat. condita) 75-78 e schol. et suo Marte suppl. L. 75 etsi φιέιρει sensui optime satisfacit (cf. Cat. laetor), in Callimachi textu et in schol. ad v. 75 sq.

vestigia potius in por quadrare videntur quam in pet

76 ἀςχάλλω iam Ba. p. 353

(ἀεχαλόω ad pentametri finem Scaliger, vd. Tissoni pp. 237 et 251) 77 οτην pap. 78 τ᾿ οὐκ pap.: corr. L. Catulli vv. 79-88 nihil respondet in pap.; nihil deest inter finem fr. 1 'verso' et primum versum fr. 2 'verso', si L. fragmenta huius [0111 recte coniunxit 91 vocabulum εἶαρ vel ἔαρ, quod est αἷμα et λίπος et ἔλαιον (vd. fontium app. et comm. ad fr. 149, 22 ἔαρ), hic a Callimacho usurpatum

esse susp. Pf., coll. Cat. v. 91 lectione tradita

sanguinis et coniectura Bentleiana unguinis

92-94? etiamsi &ctépt legi potest in schol. ad

v. 92, vv. POxy.

179,

fr. 1, col. II, 1-4 (cf. Call. fr. eleg. 387 Pf. c. adn.) non iidem esse

possunt, quorum reliquiae hic exstant

(τόφ[ρα Pf.)

92

[: pars laeva litt. rotundae, potius ᾧ quam c

93 e.g. suppl. L. (cf. Cat. v. 94 proximus)

horizontalis, fort.

prob. χ[αῖρε] (L.)

è

suppl. L. ad schol.

94

[:ôvelA

1] : finis lineae

944-945 non exstant in Catulli versione

945

post φίλη dubitanter interpunxit L., qui etiam φίλη tokéecci coni.: vd.

comm. 94 primo loco pars laeva lineae horizontalis (11,79) Je. [ vel ]Jı.ıe..[ (proe etiam o vel c legere possis) ultimo loco finis laevus lineae horizontalis ut litt. x,t post

v. 94 Victoria Sosibii (fr. eleg. 384 Pf.) incipit

158

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO Catullus LXVI

10

Omnia qui magni dispexit lumina mundi, qui stellarum ortus comperit atque obitus, flammeus ut rapidi solis nitor obscuretur, ut cedant certis sidera temporibus, ut Triviam furtim sub Latmia saxa relegans dulcis amor gyro devocet aerio, idem me ille Conon caelesti in lumine vidit e Bereniceo vertice caesariem fulgentem clare, quam multis illa dearum levia protendens brachia pollicita est, qua rex tempestate novo avectus hymenaeo

15

vastatum finis ierat Assyrios, dulcia nocturnae portans vestigia rixae quam de virgineis gesserat exuviis. estne novis nuptis odio Venus? atque parentum frustrantur falsis gaudia lacrimulis ubertim thalami quas intra limina fundunt. non, ita me divi, vera gemunt, iuverint!

20

id mea me multis docuit regina querellis invisente novo proelia torva viro; et tu non orbum luxti deserta cubile,

25

30

35

40

sed fratris cari flebile discidium. quam penitus maestas exedit cura medullas! ut tibi tunc toto pectore sollicitae sensibus ereptis mens excidit! at ego certe cognoram a parva virgine magnanimam. anne bonum oblita es facinus, cum regium adepta es coniugium, quod non fortior ausit alis? sed tum maesta virum mittens quae verba locuta es! luppiter, ut tristi lumina saepe manu! quis te mutavit tantus deus? an quod amantes non longe a caro corpore abesse volunt? atque ibi me cunctis pro dulci coniuge divis non sine taurino sanguine pollicita es, sı reditum tetulisset. is haut in tempore longo captam Asiam Aegypti finibus addiderat. quis ego pro factis caelesti reddita coetu pristina vota novo munere dissoluo. invita, o regina, tuo de vertice cessi,

invita: adiuro teque tuumque caput;

TESTO CRITICO: AET.IV FR.213

45

50

55

digna ferat quod si quis inaniter adiurarit! sed qui se ferro postulet esse parem? ille quoque eversus mons est, quem maximum in oris progenies Thiae clara supervehitur, cum Medi peperere novum mare cumque iuventus per medium classi barbara navit Athon. quid facient crines, cum ferro talia cedant? luppiter, ut Chalybum omne genus pereat et qui principio sub terra quaerere venas institit ac ferri stringere duritiem! abiunctae paulo ante comae mea fata sorores lugebant, cum se Memnonis Aethiopis unigena impellens nutantibus aera pennis obtulit Arsinoes Locridos ales equos: isque per aetherias me tollens avolat umbras et Veneris casto collocat in gremio. ipsa suum Zephyritis eo famulum legarat, grata Canopitis incola litoribus hi du ven 1017 vario ne solum in lumine caeli

60

65

ex Ariadneis aurea temporibus fixa corona foret, sed nos quoque fulgeremus devotae flavi verticis exuviae. uvidulam a fluctu cedentem ad templa deum me sidus in antiquis diva novum posuit: Virginis et saevi contingens namque Leonis lumina, Callisto iuncta Lycaonia, vertor in occasum, tardum dux ante Booten

70

75

qui vix sero alto mergitur Oceano. sed quamquam me nocte premunt vestigia divum, lux autem canae Tethyi restituit (pace tua fari hic liceat, Rhamnusia virgo: namque ego non ullo vera timore tegam, nec si me infestis discerpent sidera dictis condita qui vere pectoris evoluo), non his tam laetor rebus quam me afore semper, afore me a dominae vertice discrucior,

80

quicum ego, dum virgo quondam fuit, omnibus expers unguentis nuptae, vilia multa bibi. nunc vos optato quas iunxit lumine taeda, non prius unanimis corpora coniugibus tradite nudantes reiecta veste papillas, quam iucunda mihi munera libet onyx,

159

160

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vester onyx, casto colitis quae iura cubili. sed quae se impuro dedit adulterio illius a! mala dona levis bibat irrita pulvis: namque ego ab indignis praemia nulla peto. sed magis, o nuptae, semper concordia vestras, semper amor sedes incolat assiduus.

85

tu vero, regina, tuens cum sidera divam

90

placabis festis luminibus Venerem, sanguinis expertem non siris esse tuam me, sed potius largis effice muneribus (sidera cur iterentur?) uti coma regia fiam:

proximus Hydrochoi fulgeret Oarion. de siglis vd. Marinone (p. 60 sq.) 1 dispexit Calphurnius: despexit OG lumina OG: limina Rehm p.386 2 obitus e: habitus OG 5 sub Latmia (n) Calphurnius: sublamina O: sublimiaG 6 gyro Veneta editio: guioclero OG: giro Calphurnius: guro Baehrens 7 in lumine /s. Vossius: lumine &: numine OG 9 dearum OG: deorum cod. Hamb. 11 avectus cod. Brix: auctus OG 12 vastatum Gn: vastum OG 15 atque OG: anne È 17 limina &: lumina OG 21 et OG: at G superser.: an codd. recc. 23 quam Bentley: cum OG 25 suppl. Avantius 27 cum Guarini: quam OG: quo Pucci adepta es Calphurnius: adeptos O: adeptus G 28 quo non fortius coni. Muretus ausit Pucci aut sit OG 33 me Pucci: pro OG 35 si G superscr.: sed OG 41 adiurarit cod. Harl., Avantius: adiuraret OG 43 maximum Pucci: maxima OG 44 Thiae Is. Vossius: phitie O: phytie G 45 cum GP: tum OG?" — peperere n: propere OG: rupere codd. recc. cumque O: atque G 48 Chalybum Politianus (vd. Magnelli, Recensione p. 87): celerum O: celitum G 50 ferri Kn: ferris OG stringere Heyse: fingere O: fringere G 54 Locridos Bentley: elocridicos OG: Locricos Achilles Statius (Locridos dubitantissime praetuli) ales equos ζ: alis equos OG: alisequus coni. Statius (i.e. 'alis Venerem Arsinoen sequens', scil. Zephyrus) 55 avolat O: advolatG umbras OG: undas Zwierlein p. 282=238 57 zephiritis En (zephiris cod. Pal.): cyphiritis OG 58 grata cod. Petropol., Calphurnius: gracia O: gratia G: Graia Lachmann: Graiia Baehrens (cf. Ov. Met. XV 9 sq. Graiia [gratia cod. Basil.] quis Italicis auctor posuisset in oris | moenia et vd. Mariotti p. 59 adn. 13 = p. 78 adn. 13) Canopitis cod. Laur., Statius (vd. Wil., Locke p. 216 adn. 1): conopicis O: canopicis G: Canopieis Romana editio post litoribus primus interpunxit Lachmann, quem Pf. secutus est

59 hi dii ven ibi OG

(multas coniecturas, quibus h.l. temptatus est, dili-

gentissime collegit Marinone (pp. 166-168)) lumine a: numine OG 60 ariadneis n: adrianeis OG 62 post exuviae primus interpunxit Muretus, a quo Pf. dissensit 63 uvidulam Pucci, Guarini: uvidulum non solum En, sed etiam O (vd. Matthews, Coma p. 54

adn. 44): vindulum G?: viridulum GP° OG iuncta Calphurnius: iuxta OG

deum me Gn: decume OG 66 calisto a: calixto Callistoe iuncta Lycaoniae coni. Parthenius "Leo

sub Ursa maiore locum habet, cf. schol. ad Call. vv. 65-68 I. 27; neque Leo neque Coma

cum Ursa iuncta dici potest, iuxta fort. sensui satisfacere potest, sed prosodia obstat' Pf.: iuncta defendit Marinone (p. 183 sq.; vd. iam Marinone, Diofilo pp. 350-355=119-124) 70 autem D: aut OG

OG

Tethyi Guarini, Avantius: theti OG

71 pace RP: parce OGR?°

72 ullo O: nullo G

restituit Lachmann: restituem

773 si me0: sine OG

74 qui

TESTO CRITICO: AET.IV FR.213

161

OG: quin R superser. vere OG: veri cod. Ric. DP° (verei Lachmann) evoluo 8: evolue OG: evoluam Parmensis editio 77 si v. 78 lectio tradita una (pro coniectura nuptae) accipitur, omnibus est suspectum, cum desideretur vox quae voci γυναικείων correspondeat comma post fuit delevit Ma. ap. Pf. Ip. 502 et - retenta v. 78 lectione una - explicavit: 'cum quo (scil. vertice) una 78 nuptae W. Morel ap. Pf. II p. 116: una OG ('quamquam totius distichi structura satis dura fit, coniecturam mihi valde arridere confiteor' Pf., vd. comm.

Call. v. 77sq.)

O: millia G

ad

vilia e Call. Lobel ap. Pf. (vd. etiam POxy. Part XX, 1952, p. 98): milia

"ut λιτά, γυναικείων ... μύρων, ita unguentis nuptae, vilia opposita sunt' Pf.

79 quas Calphurnius: quem OG: quom Haupt 80 prius Palladius, Guarini: post OG unanimis 0: uno animus OG 81 reiecta n: retecta OG 85 dona ante levis cod. Petropol., Veneta editio (vd. Magnelli, Recensione p. 87), post bibat OG 86 indignis R superscr.: indignatis O: indigetis GR 87 vestras cod. Guarner., 0 (vd. Magnelli 1.1.): nostras OG 91 sanguinis OG: unguinis Bentley siris Lachmann: vestris OG tuam Avantius: tuum 0G 92effice OG: afficed post muneribus interpunxerunt multi 93 iterentur Nardo, Recensione p. 94: iterent OG uti cod. Brix.: utina O: utinam G (lectio saepe recepta) textus ante coma incertissimus, multis variisque coniecturis temptatus: vd. Marinone (p. 226 sq.) 94 idrochoi G: id rochoi O

Diegesis Mediolanensis ad «Comam Berenices» (fr. 213) (col. Νὴ 4° Πάντα τὸν ἐν γραμμαῖειν ἰδὼν ὅρον à te φέρονται | Φηεὶν ὅτι Κόνων κατηςτέριςε τὸν Bepevilknc Böctpuyov, ὃν Beolic] ἀναθήςειν ὑπέεχεϊτο κείνη, ἐπειδὰν ἐπανήκῃ ἀπὸ τῆς κατὰ Culptav μάχης. Ι PMilVogliano 18, col. V, 40-44 Bocctpvyov pap. suppl. N.-V.

40 lemma = fr.213,1 41 sq. βερνιίκης pap. ova@newv pap. 43 eroavnkn pap.: corr. N.-V.

42 43

sq. subiectum deest, scil. è Πτολεμαῖος: post ἐπανήκῃ suppl. è ἀνὴρ N.-V., ὃ γαμέτης L. Castiglioni ap. Vo. Narratio brevissima litteris paulo minoribus in infima parte col. V scripta est. De Aetiorum epilogo (fr. 215) silet diegetes. Sequitur in col. VI marg. sup. Aetiorum libri quarti

subscriptio τῶν à Aitiov Καλλιμάχου

|

Smyficer

Ι; cf. inscriptionem in Dieg. col. II

9 (ante fr. 188) et subscriptionem in POxy. 1011, fol. 2 'verso', 10 (post fr. 215) In POxy. 2258 «Coma Berenices» non Aetiis inserta, sed cum elegia de victoria Sosibii (fr. 384 Pf.) scripta et fort. cum aliis elegiis minoribus, quales exstant in POxy. 1793 (cf. frr. 385-391

Pf.), coniuncta est; diegetam

secutus

«Comam»

in Aetiorum

fine collocavi.

«Comam» partem ultimi Aetiorum libri fuisse tam suspicatus erat Wil., «GGN» (1893), p. 731 adn. 4 = Kleine Schriften II (Berlin 1941) p. 31 adn. 4 (vd. etiam A. L. Wheeler, Catullus and the Traditions of Ancient Poetry, Berkeley - Los Angeles 1934, p. 269 adn. 28); cui libro, cum ex singulis elegiis compositum fuisse constet, sine difficultate inserere

poterat Callimachus carmen quod antea separatim emiserat: vd. in priore volumine Introd. 11.1.,11.3.,11.8. Veri simillimum mihi videtur fr. inc. auct. 278 app. ad loc. Fr. inc. sed. 269 de Callisto ad «Comae» Fr. inc. sed. 267 fort. repetit scholium ad eiusdem inc. sed. 505 Pf. «Comae» v. 12 esse non potest: vd.

tradere v. 66 elegiae comm.

«Comae Berenices» v. 65: vd. pertinere potest: vd. app. ad loc. vv. 54-57: vd. adn. ad loc. Fr. ad loc.

162

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

214 (111 Pf.) Steph. Byz. s.v. Μυτιλήνη [Μῦτυλήνη V: Μιτυλήνη et hic et in sequentibus R], p. 465. 8 Meineke πόλις ἐν Aécho peyicen. Ἑκαταῖος Εὐρώπῃ [FGrHist 1 F 140] ἀπὸ Μυτιλήνης τῆς Μάκαρος [uaicapoc codd.: corr. Xylander] ἢ Πέλοπος θυγατρός, οἱ δὲ ὅτι Μυτίλης [μιτύλης R: μυτήλης VZZ Μύτιλος Salmasius] ἦν ὁ οἰκιςτής, οἱ δὲ ἀπὸ Μύτωνος τοῦ Ποςειδῶνος καὶ Μυτιλήνης, ὅθεν Μυτωνίδα [μιτανίδα R: μυτανίδα cett. codd.: corr. Berkel] καλεῖ τὴν Λέεβον Καλλίμαχος ἐν τῷ τετάρτῳ [vd. ad fr. 59]. Παρθένιος [SH 660 = fr.48 Lightfoot] δὲ Μυτωνίδας [μυτωνίδου codd.: corr. Xylander] τὰς Λεοςβικάς onct Ante epilogum (fr. 215) hoc fragmentum σαί Pf. inserui, cum certae libri quarti fabulae attribui nequiret: sed fort. Callimachus Lesbon commemoravit in aetio de Melicerta (frr. 193-195), ubi diegesis 1. 11 illius insulae mentionem facit. Ad hoc fragmentum respicere potest fr. inc. sed. 252 de Apollinis cultu Lesbio. Vd. Snell, Recensione p. 536

215 (112 Pf.) (Epilogus)

0] ιν ὅτ᾽ ἐμὴ podca τί

Ἰάεεται

ονὐν]του καὶ Χαρίτων [᾿ς . Ἱτέρης οὔ ce wevöov|,..... [ματι

5

1-9 POxy.

πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντᾳ τ[ελ]εςφόρον εἶπέν, [1

κείν τῷ Μοῦκαι πολλὰ νέμοντι Bora οὖν μύθους ἐβάλοντο rap’ ἴχν[ι]ον ὀξέος ἵππου: χαῖρε, εὺν εὐεςτοῖ δ᾽ ἔρχεο λωϊτέρῃ. χαῖρε, Ζεῦ, μέγα καὶ εὖ, cho δ᾽ [ὅλο]ν οἶκον ἀνάκτων’ αὐτὰρ ἐγὼ Μουςέων πεζὸν [ἔ]πειμι νομόν.

1011, fol. 2 'verso', 1-9

7 fort. Hesych. s.v. λωϊτέρη (λωιτήνη cod.: corr. H. Stephanus), À 1502, II p. 617 Latte ευμφορωτέρα inter fol. 1 = pp. (151) 152 (vd. supra ad fr. 174, inter vv. 41 et 42) et fol. 2 = pp. (185) 186 (vd. ad /amb.fr. 191, 26-46 Pf.) desunt pp. 153-184, i.e. 16 folia: vd. Introd.14.B. 1]:

priore loco a vel ὃ vel A; altero p vel e; ]apw fort. = ]epew Hu., sed ἰδεῖν minime excludi potest (ἀεί]δειν Platt p. 112) ὃτ᾽ ὃ, μοῦ et &ce pap. (in hac parte multi accentus, spiritus etc. am! add., ut videtur; accentum supra litt. £ dispexi) τι κομπ]άςεται G. Murray ap. Hu.: τι τεχν]άεεται vel κωμ]άςεται Coppola, Callimachus p. 274 2 init. |rov, vix [που Ἰριᾳ vel Joux vel ]ova, tum uoioò’ pap. (post u nisi 0, fort. α (Hu.), sed litt. o satis certa esse videtur (Pf.)), ad fin. inter av et nc litt. duae vel tres incertae (sed atramenti vestigia

ante nc in litt. cc quadrare mihi videntur): πλούτου καὶ Χαρίτων [κοεμήτ]ριᾳ, μαῖα δ᾽ &väcenc Platt, Restoration, de Venere cogitans (mA.ov] longius spatio): Βάτ]του E. Bignone ap. Coppola, Callimachus p. 278, [κηδεύτ]ριᾳ, μαῖα Coppola p. 175 adn. 2, de Cyrene: [κομμώτ]ριᾳ (quod iam Platt, Restoration dubitanter proposuerat) Gallavotti, Prologo p.

243, de Calliope Musa 3 ἡμετέρης G. Murray ap. Hu., cett.: due]tépne Arnim p. 9 et Wil., Hell. Dicht. II p. 95, Iovem in vv. 1-7 loqui arbitrati ψψεῦδον [ἐπ᾽ οὐνό]ματι G. Murray ap. Hu. (ὅτ᾽ où. Platt, Restoration): [ὅτε «τόϊματι Ellis p. 118: [ὄναρ cröluarı

TESTO CRITICO: AET.IV FRR. 214-215

163

Coppola, Callimachus p. 274: [ὕδος πόματι Gallavotti, Epimetron p. 86: [ἔπος crö]uorı Ba. ap. Trypanis (p. 84; vd. iam Gallavotti, Prologo p. 243): ψευδομ[ένῳ «τό]ματι iterum coni. Ma., Exkurs III p. 171, id quod legi posse recte negaverat lam Coppola, Callimachus p. 275 (vd. etiam L. ap. Lehnus, Lettere p. 235) 4 sq. rayt’pap. suppl. Hu. εἶπέν ἴῃ

pap. legit L. ap. Coppola, Callimachus p. 274 (eine .... Hu.): eine μίοι ὥςπερ Coppola, Callimachus p. 274, sed u legi non potest: εἶπεν [ἀοιδός | κεῖνος Mair (p. 218) et Ma, Exkurs II p. 171, sed vd. ad v. 5: εἶπεν, [[ὁμάρτεις | κείνῳ κτλ.᾽ Pohlenz p. 324=55 (lovem in vv. 4-7 loqui arbitratus) et Puelma p. 267=68=214 (Apollinem in vv. 4-6 loqui

putans): ein’ ἐν [ἀοιδῇ Ba. ap. Trypanis (p. 86) potius x quam x, inter v et t Hu. ὦ legere sibi correctura in pap. cogitavit; atramenti vestigia in tur, fort. κείνου (non -oc, vd. etiam accentum) chea p. 259=85, at nulla colorum varietas in Call.

5xeiv. τε pap., del. e et @ sser.: init. visus litt. © μοῦ sine

est, sed ipse valde dubitavit et de vix quadrant, duae litt. esse videnpap. πελλὰ coni. Ma., Callimacausa propria (Pf.) 6 βάλ, ixv et

Ééoc pap. suppl. Hu. 7 ev supra lineam add. pap. oîd’épy pap. A@ttépn pap.: Awitépn Hu. (1 mutum saepius om. pap.): λωϊτέρῃ Gallavotti, Epimetron p. 84 8 Ce, cv-camô”, οἶκον et ανάκτῷ (vd. ad fr. 174, 40) pap. (punctum post cv dispexi)

suppl.

Hu.: [guò]v Ellis p. 117 et Wil., Sappho und Simonides (Berlin 1913), p. 299 adn. 1 (vix capit lacuna) 9 ἐγωμουςέωνπὲζ et ad fin. - pap. πεζὸς Hu., sed potius πὲζον quam πὲζος in pap. legit L. ap. Coppola, Callimachus p. 275 et iam in tabula phototyp. Herzog p.

29: rèCov veri similius quam πὲζος etiam mihi videtur, cum vestigium post èCo in litt. v (vix ©) quadret et spatium inter &£o et ner litteris v[e] expleatur (c[e] spatio brevius) suppl. Hu.

νόμον Kapsomenos p. 31 (sed vd. comm.)

POxy. 1011, fol. 2 'verso', 10: Aetiorum libri quarti subscriptio Καλλιμάχου [Αἰτί]ωνè; cf. inscriptionem in Dieg. Med. col. II 9 (ante fr. 188) et subscriptionem in Dieg. Med. col. VI marg. sup. (post Dieg. ad Call. fr. 213) Cum in frr. 201-202 de pugili Euthymo Locro agatur, fragmenta nonnulla de als Olympionicis ad librum quartum pertinere possunt: frr. inc. sed. 265 (fort. Theogenes Thasius), 268 (victores Crotonienses in universum), 273 (Astylus Crotoniates), fr. inc. auct. 279 (Milo Crotoniates). Ad librum quartum trahi potest etiam fr. inc. sed. 271 de Κρόνου λόφῳ Olympiae. Fr. inc. sed. 541 Pf., ubi Coroebus Eleus commemoratur, ad librum Περὶ ἀγώνων (fr. gramm. 403 Pf.) referendum esse videtur, non ad Aetia

AETIORUM FRAGMENTA QUAE AD LIBRUM TERTIUM AUT QUARTUM FORTASSE SPECTANT Pleraque fragmenta incerti libri Aetiorum in priore volumine edidi (frr. 63115). Ad librum primum aut secundum eorum maxima pars spectare videtur et sine dubio pertinent frr. 98-99 (quibus iungi possunt frr. 100-109). Sed moneo veri simillimum esse frr. 65-64 ad tertium librum respicere (inter frr. 156 et 159). Non omnino negandum est fr. 81, 3 exiguam partem eiusdem versus tradere posse, qui in fr. 179 libri tertii integer exstat, sed potius ad secundum librum fr. 81 attinet. Cui Aetiorum libro tribuenda sint frr. 111115, diiudicari nequit 216-234 prob. Libri ΠῚ 216 (138 Pf.)

Il ]$ov [ |. πεταὶ larov[ 1.

217 (139 Pf.)

218 (139a Pf.)

| œpl ] nel ] nel ] vor.| 5 Jevl ] Aol

ΝΕ

1-4 POxy. 2212, fr.3

1-6 POxy. 2212, fr. 6

columnae caput, ut videtur

1nihil nisi cauda litt. p

1 primo loco etiam α, A, u

[: pars laeva litt. rotundae

Ju | ΠῚ

POxy. 2212, fr. 7 4

possis 2].: pars superior hastae verticalis (non p) A ex € correctum 3 potius τ quam y

219 (140 Pf.)

II J 6. lal ] el

220 (141 Pf.)

lecl La. D

1-4 POxy. 2212, fr 8

1-2 POxy. 2212, fr. 9

2 [: init. hastae ad dexteram ascendentis 3 .[: init. hastae ad dexteram ascendentis

2].: vestigia in litt. À quadrant, at accentus circumflexus supra litt. fuisse videtur _[: pars laeva litt. rotundae

TESTO CRITICO: FRR. INC. LIB. AET. 216-228

221 (142 Pf.)

222 (143 Pf.)

Ἰαρήϊα |

l.ypel

Lv

I

]|vocv[

Juox. | lexpnl l.el

5 1-2 POxy. 2212, fr. 10 1].:

1-5 POxy. 2212,fr. 11

vestigia litt. x, ut videtur, at nullum

vocabulum a ype incipit in linea

165

2

: vestigium

1 ᾿Αρήϊα vel π]αρήϊα possis punctum

verticalis

in linea

3

ΒΕ

[: apex hasta

4 expn| pap.

5 ].: apex

hastae verticalis

223 (144 Pf.)

Inveed

224 (145 Pf)

Lev

]xodca|

]. nl

lov

LI 1-2 POxy. 2212, fr. 12 2]..: fort. vevele

I

1-4 POxy. 2212, fr. 13 1 ].: finis lineae descendentis a laeva

].: pars dextera litt. o vel ὦ

225 (146 Pf.)

226 (147 Pf.)

᾿Ἰάδην!

pal

POxy. 2212, fr. 14

POxy. 2212, fr. 15

ante accentum fort. vestigia spiritus asperi

.[: initium hastae ad dexteram ascendentis

227 (148 Pf.)

228 (149 Pf.)

Rol 1.ττ| lol

1.1

]DAA0[

10.

4

166

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

1-3 POxy. 2212, fr. 16

1-3 POxy. 2212, fr. 17

1 |: init. hastae ad dexteram ascendentis 2 ].: pars inferior hastae verticalis

1 priore loco o vel 0; altero fort. À 2 adiectivum esse, non nomen, docere videtur

accentus: cf. [Arcad.] De accent. (= Exc.ex

Herodian. Pros.) p. 53. 16 Barker = p. 60. 5 Schmidt Ψύλλος τὸ κύριον, τὸ δὲ κυλλὸς ὀξύνεται ὡς ἐπιθετικόν (Pf); sed etiam de nomine yvAAöc agi posse vidit G. B. D'Alessio, «ZPE» 106 (1995), p. 14, qui monuit hanc laciniam fort. spectare ad elegiam (prob. libri tertii), cuius finem fr. 64, 1-3 tradit (vd. comm. ad fr. 64, 2 sq.) 31]: punctum in media linea (vestigium dispexi) .[: pars laeva extrema litt. rotundae

230 (151 Pf. + 157 Pf.)

229 (150 Pf.)

Jvec@ou |

|

ul ] ol ] vl

IrerxAol Micovrat |

Ιἀλλὲπιμε!

5]

] ]

αἶψα δομ [ ὀφθαλμοὺς [ ὡς ἔχ᾽ enop |

Inzl

1-4 POxy. 2212, fr. 20

1-7 POxy. 2212, frr. 21+27 (comunxit L. in POxy. Part XIX, Add. p. 144)

2 Pf. contulit Dieg. Med. 15 sq. π[έϊπλους ad frr. 178-180 libri tertii («Eleorum ritum nuptialem») 3 .[: apex hastae verticalis

1-3 (Le. POxy. 2212, fr. 27) per errorem separatim edidit Pf. (= Call. fr. 157 ıllıus editionis) 3 _[: superior pars sinistra litt.

paulum curvatae ἐπὶ pel

rotundae 4 [:ovelo vel δ᾽ duo[, δ᾽ ὅμω[ possis

41... ἀλλ᾽ ἐπιμεί aut

δόμοί, δόμω 6 χ᾽ pap.

ad fin. spatium, tum hasta verticalis

231 (152 Pf.)

232 (153 Pf.)

Ιχειρα!

]torov]

roc 5

|

luncacda

᾿

LI

|

|

5

Jpvecev[

I

[

1-7 POxy. 2212, fr. 22

1-6 POxy. 2212, fr. 23

ex eadem parte, unde fr. 232

ex eadem parte, unde fr. 231

I

TESTO CRITICO: FRR. INC. LIB. AET. 228-236

233 (154 Pf. + 155 Pf.)

234 (156 Pf.)

κ]εῖτο nl

1-7 POxy. 2212, frr. 24+25

167

PAL

1-2 POxy. 2212, fr. 26

POxy. 2212, frr. 25 (v. 1 et finis v. 2 = 1] : finis dexter lineae horizontalis ut litt. Call. fr. 155 Pf.) et 24 (initium v. 2 et vv. y, 1 (vestigium dispexi) 2 [: fort. u 3-7= Call. fr. 154 Pf.) coniunxi suadente L. 1 suppl. L. 2 œiwv& pap.: adiectivum, non nomen (de αἶνος, Αἶνος, aivöc cf. Epimerism. alph. in Hom. a 305 Dyck et Et. Gen. B a 215-216, Et. Sym. a 285/87-286/88, Et. M. a 513 Lass.-Liv.; de Aeno urbe cf. Call. fr. inc. sed. 697 Pf.) Ἀἱ[: priore loco superior pars litt. rotundae, θ vel o (supra has litt. inter lineas vestigium dubium) 5 .[: initium hastae ad dexteram ascendentis 7 ].: fort. x

Frr. 216-234 reperta sunt cum fragmentis libri tertii frr. 156, 184-186 (omnia tertii libri) et fr. inc. lib. Aet. nere potest ad elegiam quae finitur in fr. 64, 1-3 (prob. De fr. 229 ad «Eleorum ritum nuptialem» (frr. 178-180

Aetiorum eadem manu scriptis: cf. 64 (prob. tertii libri). Fr. 228 pertitertii libri): vd. supra ad fr. 228, 2. tertii libri) fort. spectante, vd. supra

ad fr. 229,2

235-250 prob. Libri ΠῚ

235 (159 Pf.)

236 (160 Pf.)

Jceıö« |

[κοί

Javl on

Juap| 1.ολλ | 5

leyev|

]. οιτόν[

Ἰεκυμαλί

168

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

1-2 POxy. 2213,fr.4 1 [:fort ὦ ad fr.

181

1-6 POxy. 2213,fr. 5

Io|ceddalv e.g. Pf., fort. (de

sollemnibus

Πανιωνίοις,

2

[: pars laeva litt. rotundae

loco

prob.

«,

ultimo

(GoAAe[ possis)

sed vd. comm. ad loc.)

fort.

3 primo e

vel

sim.

4 [[: t ut videtur, sed

pes ad laevam flexus (éyevt[o possis) 5 ].: pars inferior lineae curvae descendentis alaeva 6 κῦμα possis

237 (161 Pf.)

238 (162 Pf.) ἔ]δεθλον-:

ko. [ Inpal

le.

Joc Éoic κε πτ]έρυγι:' 1. αλλὼν

5

1. lexol 1-2 POxy. 2213,fr.6

1-7 POxy. 2213,fr. 10

initia versuum, ut videtur

1

[: potius v

quam μ

fort. post fr. 187 unius tantum versus intervallo sequitur: vd. POxy. Part XIX, Add. p. 144 et infra ad frr. 248 et 249

vocabula suppl. et divisit L. 1 ad ἔ]δεθλον Pf. contulit Dieg. Med. II 5-8 de Euthyclis heroo ad frr. 186-187, si hoc fragmentum illuc pertinet (vd. supra) 2 fort. [εἰ aut Je 5

].: potius v quam ı

6 ].: hasta flexa ad dexteram, fort. o vel c

239 (163 Pf.)

240 (164 Pf.)

1.8.

] acc, [

].ov ul

Ἰαυτεχί

ἸΦοίβῳ τί

] epov[

Ἰβου!

1-3 POxy. 2213, fr. 12

1-4 ΡΟχν. 2213, fr. 13

hoc fragmentum eiusdem partis esse, unde

1] .: finis lineae curvae descendentis a laeva [: infima pars lineae ascendentis

Jr. 11 (abe) = Call.fr. 174, 50-58, susp. L.,

at nihil huiusmodi exstat in textu «Acontii et Cydippae» fr. 174 supra 1: fort. 1, at differt alitt.ıinv.2 3].: fort. ı, at differt a litt. vin v. 2

ad dexteram

2].:yvelt

169

TESTO CRITICO: FRR. INC. LIB. AET. 236-246

241 (165 Pf.)

242 (166 Pf.)

LI InoAz|

Ϊκατί

Inc

|

Iticot| ]euco |

1-2 POxy. 2213, fr. 14 fort. non ad hanc pap. pertinet e vel 0

1-4 POxy. 2213, fr. 15 1].[: cauda litt. infra lineam 2 fr. inc. auct. 742 Pf. ἀχρὴς δ᾽ ἀνέιπαλτιο hic

2].: fort.

suppleri posse vidit Pf. ap. Lehnus p. 24 4 [: angulus hastae verticalis et lineae horizontalis

243 (167 Pf.)

244 (168 Pf.)

] ica. | ] ovpecol

1...

Jrenv|

| ted udc ox

Jeraicop| ] πολιηί

Ἰραιςενπί

5

[.ητελ | Jarnpvl

l.ceul leyaAl

1-4 POxy. 2213, fr. 16 1 primo loco fort. pars dextera litt. n vel x, ultimo inittum lineae ascendentis ad

dexteram; fort. “Hpni τ]ῆι Cop[ini = fr. 204 quarti libri, sed alia possis (L.) 2].: fort. yvelt δά fin. potius o (L.) quam c (Pf., qui distinxit uecc[) 3 uòc pap.: quid

1-8 POxy. 2213, fr. 18 1 ]...{: primo loco fort. u; secundo fort. £; tertio fort. pars infima hastae verticalis 4 ] .: vestigia supra lineam, fort. accentus gravis 5 ].: fort. vestigia duarum litt. .[: fort. inferior pars laeva litt. rotundae

accentus am? add. sibi velit, incertum

6 annpv[ncovto e.g. Pf. et Ma. ap. Lehnus p.

25

(cf.

Call.

etiam Pfeifferi

ἀπαρνέομαι)

7 ].: fort. pars dextera litt. n

Del.

100,

indicem

NI Jevnl Inxov[

106;

vd.

8 fort. u]eyoA[ Pf. ap. Lehnus LI. (vd.

etiam Pfeifferi indicem vocabulorum s.v. μέγαρο)

245 (169 Pf.)

Cer.

vocabulorum s.v.

246 (170 Pf.)

ler.| Ina

170

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

].y ove [

5

Iıinorto|[

]uevol

M..I

1-7 POxy. 2213, fr. 19

1-2 POxy. 2213, fr. 20

1 .[: supra lineam pars lineae descendentis ad dexteram 4 : pes hastae ad dexteram

1

[: pars laeva litt. rotundae

paulum curvatus, fort. v [: fort. τ, sed hasta satis longa 5 λ]ιπόπτο[λις Ma. ap. Pf., coll. Nonn. Dion.IX 78 al. etiam λ]ιποπτό[λεμος possis, cf. Nonn. Dion. XXXV 389 7 |: fort. co

247 (171 Pf.)

248 (172 Pf.)

Jav] lov] lor |

LELI Jkon | l.ıc |

1δὲ[

lecdou[

II 1-4 POxy. 2213, fr. 21

1-4 POxy. 2213, fr. 22 (vd. XIX, Add. p. 144 sq.)

3.

finis columnae esse videtur; fort. vicinum

[: fort. pars laeva superior litt. v

erat fr. 187 (ut fr. 238?) verticalis et ad laevam

POxy. Part

2

|: hasta

acuminis

vestigia

lineae horizontalis, fort. τ

249 (173 Pf.)

5

250 (174 Pf.)

LI ] dol lol Ier 10] {|τ

1-6 ΡΟχγ.

2213, fr. 23 wa.

]

POxy. Part

XIX, Add.p. 144 sq.)

1-4 POxy.

2213, fr. 24 (vd.

POxy. Part

XIX, Add. p. 145)

hoc fragmentum simile esse videtur fr. 238

et fort. vicinum eratfr. 187

ἀνερί I nel ] ol 1...

1]

[: fort. ὃ

4

[|[: priore loco e vel Ὁ), altero y vel x?

TESTO CRITICO: FRR. INC. LIB. AET. 246-251

171

2 ].: fort. pars dextera litt. rotundae (haec littera ἐν ἐκθέςει scripta esse videtur: vd. ad fr. 187,15) Frr. 235-250 reperta sunt cum fragmentis libri tertii Aetiorum eadem manu scriptis: cf. frr. 174, 180, 181, 183, 184, 187. Fort. fr. 238 post fr. 187, quod partem elegiae de Euthycle Locro tradit, unius tantum versus intervallo sequitur et ad idem carmen spectat: etiam frr. 248 et 249 vicina fuisse fr. 187 videntur (vd. supra ad locc.). De fr. 235 ad «Hospitem Isindium» (fr. 181) fort. pertinente, vd. supra ad fr. 235, 1. Fr. 239 eiusdem partis esse videtur, unde fr. 174, 50-58 (ex elegia de Acontio et Cydippa), sed locus huic laciniae idoneus non invenitur in textu illius fragmenti satis integro: vd. supra ad loc. Fr. 243 exordium lacunosum aetii quarti libri de Tunonis Samiae simulacro altero (fr. 204) tradere, valde incertum: vd. supra ad fr. 243, 1. Fr. inc. auct. 742 Pf. ad fr. 242, 2 revocari posse non omnino negandum (vd. supra ad loc.)

Libri IV (?) 251 (175Pf.)

1 Bel. .19.} Jo.[..]voc[ ].vl.].eßo.l la. p.0v

5

lvl. lol. ]xeotov] ]rvproific | ]vauaxedvn[ |. νανει | Jon vol

1-9 POxy. 2170,fr.4 1 0 loco inferior esse videtur .[: e vel@ 2 nil nisi dextera pars litt. Jo ].e tvely [: infima pars hastae, fort.v 5]o[i] κέατ᾽ ου[ e.g. Pf. ἅμα xeSvn[ 9A v: pars inferior sinistra litt. a. velo

[:ν νεῖ] λ 3 7 μακεδνηί vel

Fragmentum repertum est cum fragmentis eadem manu scriptis libri Aetiorum et tertii (frr. 148, 21-34;

149) et quarti (frr. 195,

196,

198,

199). Pf. valde dubitanter coniecit hos

versus pertinere ad quarti libri fabulam «Syrma Antigones» (fr. 208) de communi filiorum Oedipodis rogo (cf. v. 6 πυρκαΐῆς et fort. v. 5 κέατ᾽ c. comm.) et de Antigone Polynicis corpus ad hunc rogum trahente (una cum Argia Polynicis uxore?, cf. fort. v. 7 ἅμα κεδνηί c. Stat. Theb. XII 411-446 et Hygin. Fab.LXXII 1). Sed Pf. monuit rupkaunv huius fragmenti etiam pyram Broteae esse posse, de qua cf. fr. inc. auct. 283

FRAGMENTA INCERTAE SEDIS QUAE AD AETIORUM LIBRUM TERTIUM AUT QUARTUM FORTASSE SPECTANT 252 (485 Pf.) ὁ δ᾽ ἀείδων Μαλόες ἦλθε χορός Choerob. in Theodos. Can., Gramm. Gr. IV 1, p. 152. 14 Hilgard οἱ Δωριεῖς τῶν εἰς εἰς

τῶν διὰ τῆς er διφθόγγου ἀποβάλλουοει τὸ 1, οἷον χαρίεις χαρίες,τιμήεις τιμῆες, Μαλόεις Mahôec: τοιοῦτον γάρ ἐςτι [τ. y. ἐςτι N: τοιοῦτοι γάρ elcıv (] καὶ παρὰ Καλλιμάχῳ- ᾿ὁxopöc’, ἀντὶ τοῦ Μαλόεις. Μαλόεις δέ [δέ add. Hilgard] &ctw 6 Atcßıoc [ὃ ἐλέεβιος N]

δὲ ἀείδων NC (deest in V) Fragmentum trahi potest ad fabulam Melicertae (frr. 193-195), ubi de Lesbo agitur: fr. 214 de huius insulae nomine rariore ad eandem elegiam fort. respicit (vd. adn. ad loc.)

253 (481 Pf.) dub. oi δὲ τὸν αἰνοτάλαντα KOTÉCTEWOV Choerob. in Theodos.

Can., Gramm.

Gr. IV

1, p. 268. 35 Hilgard (quae praecedunt de

uékavtoc, vd. ad fr. 21) ὅτι δὲ καὶ τοῦ τάλας τάλαντος ἦν ἣ yevixh, δηλοῖ è ᾿Ιππῶναξ εἰπών- τί τῷ τάλαντι Βουπάλῳ εὐνοίκηεας;᾽ [cvvoixncac Bergk: -rkncac NC: -οικήσας V; fr. 15 W. = 18 Degani] καὶ è Καλλίμαχος [Καλλ. V: ᾿Αντίμαχος NC (fr. dub. 155 Wyss = fr. eiciendum 207 Matthews)] δὲ yırockeı τὴν διὰ τοῦ vr κλίειν ἐν οἷς φησιν "oiKOTÉCTEW OV ? αἰνοτάλαντα V: λινοτάλαντα NC (iam correxerat Bekker)

katéctayov Ν᾽: κατέετυγον

NC: κατέετεφον coni. Schn. II p. 661 Codicem Venetum Marcianum secutus (de quo vd. A. Hilgard, Gramm. Gr. IV 1, p. CVID hexametri fragmentum Callimacho vindicavit Pf. (de confusione nominum Antima-

chi et Callimachi vd. ad fr. dub. 807 Pf.). τὸν αἰνοτάλαντα scil. νεκρόν quendam Schn. 1.1, sed ettam de victima humana coronata agi posse monuit Pf., ut e.g. de Theudoto fr. 196

254 (488 Pf.) ᾿Ατράκιον δἤπειτα λυκοςπάδα πῶλον ἐλαύνει Choerob. in Theodos. Can., Gramm. Gr. IV 1, p. 287. 24 Hilgard τὰ εἰς αξ λήγοντα ὑπὲρ μίαν ευλλαβὴν ἁπλᾶ διὰ τοῦ x κλίνονται ... ςεςτημείωται τὸ ἅρπαξ ὅἅρπογος ... ἔτι , vos M ‘ n 2 „ RT, VR »% sn ςεςημείωται τὸ "Arpo& "Arpayoc διὰ τοῦ y κλιθέν (ἔςτι δὲ ἔθνοο), περὶ οὗ ἔςτιν εἰπεῖν ὅτι τοῦτο ἀναλογώτερόν ἐςτι διὰ τοῦ x κλινόμενον, οἷον ”’Atpaxoc, ὡς παρὰ Καλλιμάχῳ- ᾿“᾿Ατράκιον-ἐλαύνει᾽, ἀντὶ τοῦ ἼἌτρακα πῶλον ἐλαύνει ἀποςπαεθεῖςαν ἀπὸ λύκου Steph. Byz. 5.ν. ’Atpoë καὶ ᾿Ατρακία, a 523, I p. 298. 7 Billerbeck πόλις

TESTO CRITICO: FRR. INC. SED. 252-256

173

eccodtac τῆς TIekacyıorıdoc μοίρας. ἐκλήθη ἀπὸ “Atparoc τοῦ Πηνειοῦ ... krucdeico. 4 5 \ 4 + x x 4 , Sos” A m 2 2 τὸ ἐθνικὸν ᾿Ατράκιος καὶ θηλυκὸν ᾿Ατρακία καὶ "Arpa& ὁμόφωνον τῇ πόλει: Λυκόφρων καὶ δευτέρους ἔπεμψαν "Ἄτρακας λύκους᾽ὶ [1309]. τινὲς δὲ διὰ τοῦ y ἔκλιναν "Arpayoc ᾿Ατράκιον Choerob. codd. NC: ἄτρακαν δὲ ἔπειτα Choerob. codd.: δἤπειτα Schn. II p. 633: δ᾽ ἄρ᾽ ἔπειτα dubitanter A. Lentz, Herodian. IT. xAicewc ὀνομάτων, Gramm. Gr. ΠῚ 2,p. 740.18 fort. ἔλαυνεν Schn. 11. De certamine quodam fabuloso, ut. e.g. frr. 197-198, cogitavit Pf. (Schn. 1.1. de certamine Olymp., ubi πώλων κέλητα non ante annum 268 introductum esse Pf. monuit): vd. ad fr. inc. sed. 263

255 (499 Pf.) ἀλλ᾽ ἐπακουούς

οὐκ ἔεχεν 1 sq. Et. Gen. B s.v. ἀκουός

(α 349, I p. 226. 7 Lasserre-Livadaras; p. 167 Massimilla; cf.

Et. Sym. à 415/19 I p. 226. 24 Lasserre-Livadaras, Et. M. a 689 codd. DPRS I p. 229. 9 Lasserre-Livadaras; deest articulus in Er. Gen. A, cuius prima folia usque ad mediam glos-

sam ἀλευρόττηεις perierunt) + Καλλίμαχος ᾿ἀλλ᾽ -ἔοχεν᾽- ἐπακούοντας. καὶ ἀκοόν [Plat. PCG 250, vd. infra]: ἐπήκοον ἢ ἀκουςτικόν [καὶϊ-ἀκουςτικόν Et. M: om. cett.] (cf. Covayayn ALE. χρης. s.v. ἀκοός [ἄκοος cod.], α 752 p. 579 Cunningham = Phot. Lex. s.v. ἀκοός [ἄκοος codd.], a 794,

Ip. 86 Theodoridis ἀντὶ τοῦ ἀκουςτικός: Πλάτων)

1 ἐπακουοὺς Er. Sym.: utrum &raxkovodc an ἐπ᾿ ἀκουοὺς exhibeat Er. Gen., non dinoscitur:

ἐπακουὸς Et. M: ἔτ᾽ ἀκουοῦς Schn. II p. 478 Ad

varias

Aetiorum

fabulas

rettulerunt

viri

docti:

vd.

Schn.

11., Knaack

p.

37,

A.

Gercke, «RhM» NF 44 (1889), p. 136 adn. 3. Cum fr. 157 coniunxit Hecker p. 269, qui subiectum ad verbum &cxev Pythagoram fuisse coniecit, coll. Ov. Mer. XV 73 sq.

256 (502 Pf.) ἣν μο(ζύγνη ῥύετο παῖς ἀμαλή Et. Gen. A s.v. ἀμαλή [&udAn AB] (α 582, I p. 372. 5 Lasserre-Livadaras; p. 167 Massimilla; cf. Er. M. a 1006 codd. DPRS

I p. 371. 26 Lasserre-Livadaras ᾿ἀμαλὴ παῖς᾽, cod.

Voss. gr.Q 20 foll. 210-233 ap. Lasserre-Livadaras ad Er. M. LL ᾿ἀμαλὴ παῖς᾽; Callimachi verba om. Et. Gen. B, Et. Gud. dè p. 105. 17 de Stef.)- ἡ ἁπαλή [ἁπαλή B: μάλη AI. à δὲ λέξις Μακεδόνων, ὅθεν καὶ πρόμαλος [πρόμαλος Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 28. 19 Bekker: πρόμαλα AB, Er. M., cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233: rpouoAn nullo accenti Er.

Gud.] εἴρηται à [ἡ om. B] πρὸ τοῦ δέοντος αὐξομένη [αὐξανόμενα B] μυρίκη [οἷον à μυρίκη B]: μαλεῖν γὰρ τὸ αὔξειν: καὶ ὃ τριχῶν ἔχων αὔξηειν (töroc) [add. R. Reitzenstein, Inedita poetarum Graecorum fragmenta, I, Progr. Rostochii 1890/91, p. 11]

μάλη. ἔετι δὲ ἁπαλὴ καὶ τροπῇ ἀμαλή [ἀμάλῃ AB; hic desinit B]. Καλλίμαχος ἣνἀμαλή᾽. Μεθόδιος (de Callimachi fragmentis a Methodio allatis vd. Pf. ad Hec. fr. 274 =

174

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

45H) Hesych. s.v. &uoAn, α 3408, Ip. 119 Latte ἁπαλή, νέα (teste Pf.) s.v. ἀμαλή [ἀμάλη cod.]: ἁπαλή ἣν μόνη Ef. Gen.:

Cyrill. cod. Voss. 63

“Hcıövn coni. Reitzenstein LL, qui etiam ἣν uo(d)vn

scribi posse

concessit (‘non licet structuram sententiae ἣν ... ῥύετο παῖς corrumpere neque e fr. 698 colligere licet 'Hesionam' apud Call. quemquam servavisse vel protexisse' Pf.) ἀμάλη Er.

Gen.

initio pentametri — πόλις vel — πόλιν e.g. proposuerim (ἣν ad πόλιν vel πατρίδα

referri veri simile est' iam Pf., coll. locis Homericis in comm. allatis) Quae 'puella tenera' fuisset, se nescire confessus est Pf., quamvis notaret miram simili-

tudinem in Praxitheae oratione de filia pro urbe moritura ap. Eur. Erechth. fr. 10, 14 sq. et 34 sq. Carrara = TrGF 360, 14 sq. et 34 sq. (vd. comm.). De Pieria pacem inter Miletum et patriam Myuntem conciliante (cf. frr. 183-185) cogitat D'Alessio (p. 709), quae coniectura mihi valde arridet (cf. imprimis fr. 184, 18-23)

257 (534 Pf) καί Pa περὶ «καιοῖο βραχίονος ἔμπλεον ὄλπιν Et. Gen. AB s.v. ὄλπις [οὔλπις A] (Wendel ad Schol. Theocr. II 156, p. 292; p. 167 Massimilla; cf. Et. M. p. 623. 3 Gaisf. ᾿καί-ὄλπιν᾽, Zonar. p. 1444 Tittm. 'περὶ-ὄλπιν᾽; Callimachi versum om. Ef. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M. 1.1.)- Καλλίμαχος [nomen

aegre dispicitur in B] 'καί-ὄλπιν᾽. εημαίνει δὲ τὴν λήκυθον εἴρηται δὲ [δὲ om. A] παρὰ τὸ οἱονεὶ ἐλαιόπιν [ἐλαιόπιν Εἰ. M. codd. MP, Zonar.: ἐλαιόλπιν ΑΒ] τινὰ εἶναι [εἶναι Et. M. codd. MP: om. cett.], διὰ τὸ δι᾽ [δι᾽ om. B] αὐτῆς ὀπιπεύεεθαι [ὀπίπεεθαι B; verba

εἴρηται-αὐτῆς

et litterae

ὀπί

aegre

dispiciuntur

in B],

ὅ ἐετιν

ἐπιτηρεῖεθαι

καὶ

διαφυλάττεεθαι [ὅ-διαφυλάττεεθαι Zonar.: om. cett.], τὸ ἔλαιον [τοὔλαιον Β]

verba καὶ-ἔμπλεον aegre dispiciuntur in Ef. Gen.

Β

περὶ Et. Gen., Zonar.: παρὰ Et. M.

(quod in textum recepit Pf., cum de lectione Et. Gen. B e Miller p. 225 falsa collegisset et de Et. Gen. A nondum constaret: vd. Massimilla p. 169 sq.): κατὰ A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata (Berolini 1861), p. 188 cxofoto e cxeoîo correctum in Et. Gen. B, litteris αὐ supra litteram e scriptis ἔμπλεων Zonar. cod.K ὅλπιν Fr. Gen. A Per errorem de Hecala cogitaverunt Naeke p. 110 sq. (post alios) et Schn. II p. 438 (quasi ὄλπις hic esset πρόχοος ‘ad aquam hauriendam'). At hoc loco et grammatici et res ipsa docent ὄλπιν esse λήκυθον, 1.6. ampullam oleariam (vd. comm.). Eos, qui ad youvacıov vel ad λοετρόν irent, ὄλπιν olei plenam secum gestasse monuit Pf. (vd. comm.): si quidem versus ad fabulam nobis notam pertinet, optime Acontio λοετρὸν ἰόντι (fr. 167) fragmentum convenire Pf. vidit

258 (540 Pf.) χύτλων ἀντιάςαντες Et. Gen. B s.v. χύτλα (Wendel ad Schol. Ap. Rh. I 1075-1077 a, p. 94; p. 167 Massimilla; Callimachi verba om. Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Er. M. p. 816. 8, Et. M. LI, Zonar. p.

TESTO CRITICO: FRR. INC. SED. 256-259

175

1864 Tittm.; deest articulus in Er. Gen. A, cuius ultima folia post glossam φωριαμός perie-

runt)- οἷον 'χύτλα τέ οἱ xebovro [xedovro Ap. Rh. codd.: yebavro ΕΠ] καὶ fyvıcav ἔντομα μήλων᾽ [Ap. Rh. II 926]. χύτλα κυρίως eicì τὰ μεθ᾽ ὕδατος ἔλαια, καταχρηςτικῶς δὲ καὶ τὰ ἐναγίοματα: Καλλίμαχος 'χύτλων ἀντιάςαντες᾽. ἔντομα μήλων τὰ εὐνοῦχα, ἐπειδὴ ταῦτα μάλιετα ἔθυον τοῖς νεκροῖς, ὡς ἄγονα ὄντα ἀγόνοις καὶ αὐτοῖς οὖειν (inde ab ἔντομα e gl. ἔντομα repetita, priora e Schol. Ap. Rh. plenioribus; Milleri p. 312 errores, quibus Schn. II p. 636 sq. deceptus est, iam correxit L. Deicke, De scholiis in Apollonium Rhodium quaestiones selectae, Diss. Gottingae 1901, p. 11 adn. 1) ἀντιαςεάντων Et. Gen:

ἀντιάςεαντες Schn. 1.1. (etiam &vriacavtoc, -τι, -τα, -TE, -τας resti-

tui posse monuit Pf.): 'ἀντιαςάντων (quod legitur in B) metri causa tolerari nequit, nisi in fine hexametri steterat et alia vocabula post χύτλων in B omissa sunt ... sed gen. plur. 'eorum qui participes fuerunt', cum gen. plur. 'ibaminum' coniunxisse Call. vix credibile est' Pf. Cum χύτλα, ἐναγίοματα mortuis vel dis inferis offerantur (vd. comm.), Pf. dubitanter coniecit Callimachi verba ad fr. 208 respicere, ubi de filiis Oedipodis mortuis prob. agitur,

coll. imprimis Dieg. Med. V 21 ad loc. ]evoyi

259 (574 Pf.) ὃ δὴ μήκωνα πατεῖται Et. Orion. s.v. φάτνη (p. 162. 22 Sturz; Callimachi verba om. Er. Gen. AB [de cod. B vd. Miller p. 299], Et. Gud. p. 550. 18 Sturz, Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Et. M.p. 789. 15, Er.

M.1.l., Zonar. p. 1796 Tittm.): ... δύναται δὲ καὶ παρὰ τὸ πατῶ τὸ ἐεθίω. ὅτι δὲ πατῶ ἐπὶ τοῦ ἐςθίω κεῖται, τίθηει τοῦτο καὶ Καλλίμαχος λέγων ᾿δ-πατεῖται᾽. πάτνη οὖν καὶ τροπῇ τοῦ x εἰς 9 φάτνη Meletius De nat. hom., Cramer, AO III p. 83. 12 et F. Ritschl, Opuscula philologica I (Lipsiae 1866) p. 699 (de codd. vd. ad Hec. fr. 263 Pf. = 80 H.; ibid.

de Melet. fontibus) παρὰ τὸ φαγεῖν γὰρ péyvn καὶ φάτνη À παρὰ τὸ πατῶ [netto cod. Petrei] τὸ io, ὅθεν καὶ τὸ πάεαεθαι ἀντὶ τοῦ γεύεαεθαι καὶ φαγεῖν " ἢ ὡς Καλλίμαχος ἱμήκωνα πατεῖται᾽ e fonte communi, fort. Soran. De etym. corp. hum., vd. Pf. ad Hec. fr. 263 = 80 H. (cf. Schol. (ΒΟ ΩΤ Hom. I. I 464 c, unde Er. Gen. B = Et. M. s.v. ἐπάεαντο, p. 353. 48 Gaisf.) 6 per errorem scripsitPf.

ὃ δὴ 'ob quam causam' explic. Schn., «Philologus» 6 (1851), p.

534 = Schn. II p. 609, coll. Ap. Rh. IV 651,

1720*

πατεῖται Orion et Melet.

cod. M:

πατεῖτε AC (om. BK): παττόνται (sic) cod. Petrei in ed. Meletii a. 1552 p. 80 Ov. Fast. IV 531-534 de Cerere papaver colligente et gustante contulit Schn., «Philologus» 6 (1851), p. 534 = Schn. II pp. 107 et 609: 'ob quam causam mulierem θεεμοφοριάζουεαν papavere vesci' coniecit (cf. Serv. in Verg. Georg. I 212). Si ita est (quod minime constat, cf. e.g. Hec. fr. 277 Pf. = 102 H.), fragmentum ad «Thesmophoria Attica» (frr. 161-162) fort. spectat

176

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

260 (553 Pf.) καὶ κυάμων ἄπο χεῖρας ἔχειν, ἀνιῶντος ἐδεςτοῦ, κἠγώ, Πυθαγόρης wc ἐκέλευε, λέγω 1 sq. Gell. IV 11, 2, I p. 177. 9 Marshall opinio vetus falsa occupavit et convaluit Pythagoram philosophum non esitavisse ex animalibus, item abstinuisse fabulo, quem Graeci

κύαμον appellant. ex hac opinione Callimachus poeta scripsit: ‘xai-Xéy0' 1 χεῖρας codd. recentiores et editio princeps 1469: yerpioc

1526: exev V Hecker p. 269

V

ἔχειν utraque ed. Colon.

edectove V: ἀνιῶντος ἐδεοτοῦ e corrupta τόπον! lectione iam restituerat 2 κἀγώ et Πυθαγόρας codd.: corr. Hecker 11.

Fort. idem loquitur, qui in Aetiorum 1. ΠῚ fr. 157 Pythagorae adsentiri videtur

261 (SH 300=270) ἀφελὲς οὔλοον Üctpov Herodian. II. καθολ. rp. ap. H. Hunger, «Jahrb. 4. Österr. byz. Ges.» 16 (1967), fr. 46 pp.

12 et 17 (de accentibus 6Ao6c/obAooc) ... μέντοι τινὲς παρὰ τῷ Κυρηναίῳ [id est, apud Herodianum, Callimacho potius quam Eratostheni: vd. Lasserre p. 84 sq. = 177, Fraser II p.

1099 adn. 521] προπαροξύνουειν τό, ᾿ἀφελὲς-ἄςτρον᾽ ἀφελὲς sine dubio corruptum, fort. ex @gekec (cf. fr. 181, 1)

&ctpov pro ἔγχος per erro-

rem Herodianum vel eius fontes scripsisse suspicor (cf. fr. 181, 1 c. app.)

In hoc fragmento eadem verba latere, quae tradit fr. 181, 1 (ὥφελες οὐλοὸν Eyxoc), coniecit West p. 203, veri simillime ut mihi videtur (vd. app. ad loc.)

262 (586 Pf.) ei θεὸν οἴεθα, ἴςθ᾽ ὅτι καὶ ῥέξαι δαίμονι πᾶν δυνατόν

trà



τ)

hi



/

+

Cai

#

1 sq. [Plut.] Mor. 880 Ε (Plac. phil.I 7,3), V 2, 1 p. 65. 17 Mau = Aëtius, Doxograph. Gr.

p. 299. 3 Diels ἀναιρείεθω γάρ, gnciv, è ποιητικὸς λῆρος cdv [edv codd.: ἂν v.l. ev cod. Marc. 521] Καλλιμάχῳ τῷ λέγοντι: ᾿εἰ-δυνατόν᾽. οὐδὲ γὰρ ὁ θεὸς δύναται πᾶν ποιεῖν" ἐπεί τοί γε ... ποιείτω τὴν χιόνα μέλαιναν, τὸ δὲ πῦρ ψυχρόν κτλ. (vd. D'Ippolito p. 91 sq.) 2 %01 ὅτι codd.: fort. o& 0” A. Meineke, «Zeitschrift für die Alterthumswissenschaft NF 3

(1845), p. 1066

δαίμονι ῥέξαια

Sententiam esse vere Pythagoream Vorläufer (Leipzig 1914), p. 72 adn. comm. allato, et hoc fragmentum fort. ram spectant vel spectare possunt (cf.

πᾶν codd.: περὶ M censuit E. Rohde, Der griechische 1, coll. Tambl. Vir. Pyth. c. 28 p. addendum esse ceteris fragmentis, imprimis Aetiorum 1. III fr. 157 c.

Roman und seine 79. 5 Deubner in quae ad Pythagoadn.). At cf. iam

TESTO CRITICO: FRR. INC. SED. 260-263 similes Homeri et Pindari locos in comm.

177

allatos

263 (588 Pf.) πάλαι δ᾽ ἔτι Oeccakdc ἀνήρ ῥυςτάζει φθιμένων ἀμφὶ τάφον φονέας 1 sq. Procl. in Plat. Remp. 391 B, Ip. 150. 14 Kroll τὰς ... Ἕκτορος ἕλξεις περὶ τὸ hu τὸ Πατρόκλου] εἴρηται μὲν οὖν καὶ ὑπὸ τῶν παλαιῶν, ὡς Θετταλικόν τι τοιοῦτον ἔθος ἦν (καὶ ὃ Κυρηναῖος μαρτυρεῖ ποιητής: 'πάλαι-φονέαςἾ καὶ ὡς ταῦτα εὐμπληροῦντα τὴν περὶ τὸν Πάτροκλον δείαν παρείληπται δελοί. (ABD Gen.) Hom. Il. XXII 397, II p. 243. 27 et IV p. 299. 5 Dindorf = p. 553 van Thiel in proecd. a. 2000 (V p. 341 Erbse, I p.

215. 18 Nicole) ἐς covpdv ἐκ πτέρνης] διὰ τί ᾿Αχιλλεὺς θανόντα εὕρει τὸν Ἕκτορα; καὶ λέγομεν ὅτι οὐ δι᾽ ὠμότητα ... ἀλλ᾽ ὅτι πρότερος ὁ Ἕκτωρ εἰς τὸν Πάτροκλον ᾿ἀεικέα μήεατο ἔργα᾽ [cf. Hom. Π. XXII 395] ... 6 δὲ Καλλίμαχός gnew ὅτι πάτριόν Ecrı Θεεεαλοῖς τοὺς τῶν φιλτάτων φονέας εὕρειν περὶ τοὺς τῶν φονευθέντων τάφους: Cîuov [Ciuov Dindorf: εἵμων A: cıuöc Β] γάρ φηει, Θεεεαλὸν [θετταλὸς Β] τὸ γένος, Εὐρυδάμαντα τὸν Μειδίου [cdpar add. D, om. Bekker] ἀποκτείναντα Θράευλλον τὸν ἀδελφὸν αὐτοῦ ἄρξαεθαι [ἄρξαςεθαι D Gen.: ἅψαεθαι Β] τοῦ νόμου πρῶτον [Θεεεαλὸνπρῶτον om. A]: τοῦτον γὰρ [γὰρ om. A] ἐξάψαι τοῦ δίφρου τὸν φονέα καὶ περὶ τὸν τοῦ τετελευτηκότος τάφον ἕλκειν. ὅθεν καὶ τὸν ᾿Αχιλλέα ὡς Θεςεεαλὸν [δθεν-Θεςεαλὸν A: ὧς Θ. οὖν καὶ τ. ᾿Αχ. Bl πατρίῳ ἔθει τοῦτο ποιῆεαι [hic desinit A] καὶ Sficar τὸν Ἕκτορα Schol.

(Ba; cf. bZs3; Callimachi

mentionem

om.

GCFEHC,

Conr.]

Ov. Ib. 331, p. 64 La

Penna Callimachus dicit Eurydamantem et Thrasyllum inimicos fuisse et, Eurydamante [e.g. suppl. Pf. collato cod. C: Eurydamante del. F. Lenz, La Penna], Eurydamantem dicit postea interfectum a Simo [Simo F. Lenz: Lino Ba: Simone b: Linio

Z:

Lamo

CF]

Larisaeo,

amico

Thrasylli,

et ter tractum

mortuum

circa

Thrasylli

bustum. unde Darius: 'Eurydamas etc.' (de 'Dario' vd. adn. pone fr. inc. auct. 283)

1 Ciuoc, Εὐρυδάμας et Θράεουλλος (vd. supra) ab ipso Callimacho commemorati esse videntur Sine dubio recte Schn. II p. 627 sq. contra Bentley, qui fragmentum /bidi Callimachi dederat coll.

Ov.

Ib. 331

sq.

(vd. infra), historiam

Thessalicam

ad Aetia rettulit, quibus

passim Ovidium in /bide usum esse scimus. Fragmentum respicere potest ad Limones fabulam (1. IV frr. 197-198), ubi de simili supplicio Atheniensis adulteri agitur (cf. fort. etiam fr. inc. sed. 254). Fabulam ipsam Thessalicam e Call. sumpsit Ov. Ib. 331 sq. (vd. comm.); sequuntur distichon de Hectore et Achille (v. 333 sq.) et distichon de Limones adultero illo Callimacheo a patre puellae per urbem tracto (v. 335 sq.), at eas tres fabulas in Call. quoque conexas esse ex Ovidio colligere non licet (vd. adn. post Dieg. Med. III 25-33 ad frr. 197198, sim. in adn. post Dieg. Oxon. ad frr. 28-34; recte contra priores lam Perrotta p. 184

adn. 1 = p. 290 adn. 8). In Schol. Hom. supra allatis finis ὅθεν καὶ τὸν ᾿Αχιλλέα κτλ. potius λύεις ἀπορήματος est quam pars aetii Callimachei

178

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- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

264 (597 Pf. = SH 268C) θηρὸς ἀερτάζων δέρμα κατωμάδιον Schol. Ap. Rh. I 1243-1248 a, p. 112. 25 Wendel ἠύτε τις θήρ (v. 1243)] κυρίως οἱ ποιηταὶ τὸν λέοντά pacı θῆρα, ὡς καὶ Καλλίμαχος ‘Onpdc-karouäôtov” ἦν post ἀερτάζων add.P

κατωμάδιον P: κατωμάδοε!,

Veri simillimum mihi videtur hoc fragmentum, ubi de Hercule pellem leonis Nemeaei ex umeris suspendente agitur (vd. comm.), spectare ad «Victoriam Berenices» (frr. 143156): hunc versum inter frr. 151 et 154 collocandum esse iudico. Vd. etiam adn. ad fr. inc. sed. 274

265 (607 Pf.) un cò ye, Θειόγενες, κόψας χέρα Καλλικόωντος; Schol. vet. Tr. (RV; Callimachi versum om. Lh) Aristoph. Pac. 363 a (R) et d (V), pp. 60 et

61 Holwerda οὐδὲν πονηρόν, ἀλλ᾽ ὅπερ καὶ Κιλλικῶν] ... ὃ γάρ τοι Κιλλικῶν [Κιλίκων V] ἐπὶ πονηρίᾳ διαβόητός ἐςτιν. gacì γὰρ αὐτὸν οἱ μὲν (άμον ἢ Μίλητον προδοῦναι Πριηνεῦειν. Θεόπομπος [Θεόφραετος V: corr. Preller;, FGrHist 115 F 111] δὲ ἐν τῷ y τῶν

ἱωτοριῶν τῶν ἑαυτοῦ (ύρον [(ὕρον Dindorf: edpov VI gnciv αὐτὸν τὴν vficov προδεδωκέναι (αμίοις ... τῆς δὲ προδοείας τοιαύτην ὑποςχεῖν τιμωρίαν. Θεαγένην τινὰ ἄνδρα Copiov ... πρὸ πολλοῦ μετοικήεαντα εἰς τὴν (άμον κρεοπωλεῖν καὶ οὕτως ἀπάγειν (2) τὸν ἑαυτοῦ βίον. Ayavarıncavra δὴ ἐπὶ τῇ προδοείᾳ τῆς πατρίδος, ἐπιςτάντος τοῦ Κιλλικῶντος ὠνήεαςθαι παρ᾽ αὐτοῦ κρέας, δοῦναι κρατεῖν αὐτῷ, ἵνα ἀποκόψῃ τὸ περιττόν. τοῦ δὲ πειεθέντος καὶ κρατοῦντος, τοῦ (2) Κιλλικῶντος [τοῦ Κιλλικῶντος del. Jacoby], προφάςει τοῦ πλεονάζον ἀποκόψαι τὸ κρέας, ἐπανατεινάμενον τὴν κοπίδα κόψαι τὴν χεῖρα τοῦ Κιλλικῶντος καὶ εἰπεῖν ὡς ταύτῃ τῇ χειρὶ ἑτέραν οὐ προδώςεις πόλιν᾽ [hic desinit Lh, ubi eadem fere verba leguntur quae V praebet; è γάρ τοι

Κιλλικῶν - πόλιν V: ὕετερον μὲν οὖν παρὰ Θεαγένους eichAdev ὠνηςόμενος κρέα. κἀκεῖνος ὑποδεῖξαι ἐκέλευςε, πόθεν κόψαι θέλει. προτείνας δὲ Ττῇ χειρὶΐ ἀπέκοψεν τὲ τὴν gavtodi χεῖρα καὶ εἶπε: 'ταύτῃ cov τῇ χειρὶ οὐ μὴ προδώςῃς πόλιν ἑτέραν RI. μέμνηται δὲ [δὲ om. R] καὶ [om. V] Καλλίμαχος: ᾿μὴ-Καλλικόωντος᾽ [hic desinit RI]. icropei δὲ καὶ Aéavôpoc ἐν δευτέρῳ Μιληειακῶν [FGrHist 492 F 15] προδοῦναι Μίλητον καί, ὅτε ἀνέφξε τὰς πύλας, τῶν πολιτῶν [πολιτῶν Jacoby: πολεμίων VI πυνθανομένου τινὸς ὅ τι τοῦτο groincev, ἀποκρίναςθαι: ᾿ἀγαθὰ Κιλλικῶν᾽ [Καλλίκων V] Suid. s.v. πονηρός, x 2040, IV p. 171. 20 Adler ... è Καλλικῶν [hic et semper -κῶν A post corr., M ante corr. et V: -g®v A ante corr.,

M post corr. et 6] οὗτος προὔδωκε

Cépov, οἱ δὲ Μίλητον ... ἐπὶ πονηρίᾳ γὰρ τεθρύλληται ὁ Καλλικῶν οὗτος, ὃς προὔδωκε Μίλητον Πριηνεῦει ... ὕστερον μέντοι παρὰ Θεαγένους τινὸς εἰςῆλθεν ὠνηςόμενος κρέα. κἀκεῖνος ὑποδεῖξαι ἐκέλευςε, πόθεν κόψαι θέλει. προτείναντος δὲ τὴν χεῖρα, ἀπέκοψε καὶ εἶπε: 'ταύτῃ τῇ χειρὶ οὐ προδώκεις πόλιν ἑτέραν᾽. μέμνηται δὲ καὶ Καλλίμαχος: ᾿μὴ-Καλλικόωντος᾽. προδοὺς δὲ Μίλητον τοῖς πολεμίοις, πυνθανομένου τινὸς ὅ τι τοῦτο ἐποίηςεν, ἀποκρίναεθαι: ᾿ἀγαθὰ Καλλικῶν᾽

TESTO CRITICO: FRR. INC. SED. 264-267

179

Θειόγενες Καὶ, Suid. codd. GVM: Oeöyevec V, Suid. cod. A: Θειάγενες Bentley: Θειογένης Schn. ΠΡ. 470 κόψας, Suid.: κόψῃς R: κόψαις Bentley χεῖρα V, Suid. codd. GV: εἰ deletum in Suid. cod. Μ Καλικόωντος V: Καλλικόωντος Suid. codd. AVM (-φόωντος A ante corr., M post corr.): Καλλιφῶντος Suid. cod. G (et sic semper s.v. πονηρός et s.v. Καλλίκων, sed Κιλίκων Κιλλκών s.v. Κιλίκων et s.v. Κιλλικών et s.v. ἀγαθὰ Κιλίκων): Κιλλικόωντος Βὶ'ὶ puncetum interrogationis posuit Pf. Incertum est, utrum κόψας participium an indicativum sine augmento sit (si participium, sententia est imperfecta aut μὴ οὖ ye 'ellipticum' sine verbo pars dialogi est et fort. ἀλλά sequebatur). Indicativum praetulit Pf., qui coniecit sententiam esse interrogativam ("Num tu, Theogenes, abscidisti manum Callicontis”) et negationem secutam esse (Non sum ille Theogenes, sed Thasius periodonica', vd. comm.). Si de athleta Theogene hic agitur, fragmentum pertinere potest ad Aetiorum librum tertium vel quartum, ubi alli Olympionicae commemorantur (Euthycles in 1. III frr. 186-187, Euthymus in 1. IV frr. 201-202). Vd. etiam in comm. quae disseruit Lehnus, Notizie IT pp. 286-291

266 (611 Pf.) Καλλιχόρῳ ἐπὶ φρητὶ καθέζεο παιδὸς ἄπυετος Schol. (PM) Clem. Alex. Protrept.II 20, 1, I p. 303. 25 Staehlin-Treu ἀλωμένη γὰρ à And κατὰ Inencw τῆς θυγατρὸς τῆς Κόρης περὶ τὴν Ἐλευεῖνα ... ἀποκάμνει καὶ φρέατι ἐπικαθίζει λυπουμένη] τὸ φρέαρ Καλλίχορον οἱ παλαιοὶ ὀνομάζουειν. Καλλίμαχός φησιν: Καλλιχόρῳ-ἄπυετοςο᾽ ἄπαυετος codd. (defendit White p. 152): corr. Naeke p. 11 in versu sequenti fort. supplendum esse ἁρπαγίμης coni. Ma. ap. Pf., coll. Cer. 9 et Zx4 Apc. fr. 228, 45 sq. Pf. in comm. allatis Non in textum hymni Callimachei in Cererem (cf. v. 15) hunc hexametrum intrudi posse, sed prob. Aetiorum fragmentum esse monuit contra priores tam Schn. I p. 373. Ex Ov. Met. V 341-661 et Fast. IV 393-620 partem Aetiorum restituere conatus est Malten pp. 506-553;

hoc

multis

probavit

(vd. Pf., Kallimachosstudien

quidem ex parte confirmatum est. Versus vero, Thesmophorüs Atticis (frr. 161-162). De Hecala illtus carminis editionem dubitanter recepit (fr. (γρήϊον εἶδος &xouce) dubitantissime coniunxit,

p. 33

adn.

2), at ne minima

ut vidit Pf., respicere potest ad aetion de cogitavit Hollis, qui hexametrum in suam 172) et cum fr. inc. sed. 490 Pf. = 173 H. coll. [Hom.] Hymn. II 98-101

267 (615 Pf.) Schol. Dion. Per. 364, GGM II p. 445 a 27 Ζεφύρου παραφαίνεται ἄκρη Ι τῇ δ᾽ ὕπο Λοκροὶ ξαειν (v. 364 sq.)] οὗτος μὲν ἀπὸ Ζεφύρου ὄρους, ὁ δὲ Καλλίμαχος καὶ ἄλλοι πολλοὶ Ἐπιζεφυρίους [ὑποζεφυρίους cod. H] φαεὶ τοὺς Λοκροὺς καλεῖεθαι διὰ τὸ πρὸς ζέφυρον ἄνεμον xeîcdor Eustath. ad Dion. Per. 364, GGM II p. 280. 18 ὄρος Ζεφύριον ὦν ἀφ᾽ οὗ οἱ Ἐπιζεφύριοι Λοκροὶ δοκοῦει κληθῆναι, oc περὶ αὐτὸ κείμενοι. ἄλλοι δὲ οὕτω φαεὶ καλεῖεθαι αὐτοὺς πρὸς διαςτολὴν ἄλλων Λοκρῶν, διὰ τὸ ἐκείνους μὲν

180

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ἀλλαχοῦ κεῖεθαι, τούτους δὲ πρὸς ζέφυρον ἄνεμον, καθά που προγέγραπται [ad Dion. Per. 29] Similia scholia ad fr. 213, 54-57

dicere videntur et fort. Schol. Dion.

Per. et Eustath.

Callimachum poetam per errorem afferunt pro scholiis grammaticorum in «Comam Berenices». Sed Locrorum Epizephyriorum veriloquium Callimachus ipse attingere poterat in fabulis de Futhycle vel Euthymo Locris (frr. 186-187 et 201-202). A. Meineke, Analecta Alexandrina (Berolini 1843), p. 107 coniecit Callimachum usum esse forma adiectivi

ἐπιζέφυρος, quae in uno Euph. CAfr. 121 p. 51 exstat

268 (616 Pf.) Schol. Dion. Per. 369, GGM II p. 445 a 37 πτολίεθρον ἐυετεφάνοιο Kpörwvoc] ἐυςτεφάνοιο δὲ Κρότωνος eine διὰ τὰς νίκας τὰς ἐκ τῶν οἰκούντων, ὥς gna Καλλίμαχος. πολλοὶ γὰρ Κροτωνιᾶται νικήεαντες τοὺς ἱεροὺς ἀγῶνας οτεφάνοις [Περοὺς «τεφάνους καὶ ἀγῶνας codd.: ετεφάνους καὶ tacite del. Ruhnken-Ernesti: ἀγῶνας «τεφάνοις

Pf.]

ἐςτεφανώθηεαν

Eustath.

ad Dion.

Per.

369, GGM

U p. 282.

29

ἐυςτέφανον διὰ τὸ πολλοὺς Κροτωνιάτας ἐν τοῖς καθ᾽ Ἑλλάδα ἱεροῖς ἀγῶει νικῶντας «τεφανοῦεθαι Fragmentum respicere potest ad Aetiorum librum terttum vel quartum, ubi duo Magnae Graeciae Olympionicae commemorantur (Euthycles Locrus in 1. II frr. 186-187, Euthymus Locrus in 1. IV frr. 201-202)

269 (632 Pf.) Schol. (AD) Hom. Il. XVII 487, Πρ. 172. 3 Dindorf = p. 500 van Thiel in proecd. a. 2000

(IV p. 532 Erbse) Ζεὺς Καλλιοτοῦς τῆς Λυκάονος ἐραεθεὶς &uicyero αὐτῇ λανθάνων Ἥραν. éniyvodca δὲ ἡ θεὸς μετέβαλεν αὐτὴν εἰς ἄρκτον καὶ ὡς θηρίον ᾿Αρτέμιδι προςέταξεν τοξεῦεαι. Ζεὺς δὲ εἰς οὐρανὸν αὐτὴν ἀναγαγὼν πρώτην κατηςτέριςεν. À ictopia παρὰ Καλλιμόχῳ Callimachum totam hanc fabulam ita narravisse e subscriptione concludi nequit; ad verbum fere eadem Paus. VIII 3, 6 (ex eodem compendio mythogr., unde ictopia in Schol. AD”. Fragmentum spectare potest ad /ov. 41 Avkaovinc ἄρκτοιο, ubi metamorphosis tecte significatur (ad quem locum ictopiav in Scho/. AD dubitanter refert A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata, Berolini 1861, p. 5), vel ad fr. 19, 9 sq.

iINovaxpivni | Kadkıcı[o de sidere (cf. Hec.fr. 352 Pf. = 140 H.) vel ad v. 66 «Comae Berenices» (fr. 213) Callisto ... Lycaonia (in Catulli versione) de sidere (vd. app. ad loc.)

270 (635 Pf.) ὁ δ᾽ ἐκ Λοκρῶν τείχεος Ἰταλικοῦ

παρῆν ἀμύντωρ 1 sq. Schol. (b(BCE3E*)T) Hom. I. XXII 56 a, V p. 275 Erbse τεῖχος (ad v. 56 sq. eicépyeo τεῖχος ... ὄφρα εαώςῃς | Tp@ac)] τὴν πόλιν. Καλλίμαχος ᾿ὁ-ἀμύντωρ᾽

TESTO CRITICO: FRR. INC. SED. 267-272

181

2 παρῆν ἀμύντωρ om. T in fine hex. παρῆεν ἀμύντωρ Hecker, C.C. p. 144, caesura trochaica non perturbatus (vd. /atrod.II.1.A.c.viii.), coll. Hom. ἢ. XV 610 in comm. allato:

πὰρ €...) ἦεν (in tmesi) Schn. II p. 650: παρῆν ἀμύντωρ A. Meineke, Callimachi Cyrenensis hymni et epigrammata (Berolini 1861), p. 240 et Th. Bergk, Anthologia Iyrica (Lipsiae 1868?) praef. p. XVIII, e carmine lyrico vel epigrammate, ubi pentametro dactylico subiectus

est trimeter iambicus,

ut [Sim.]

Anth. Pal. XIII

14, 2 sq. = FGE

823

sq. (sed

carmina his variis metris scripta rarissima sunt: vd. comm.): παρῆν ἀμύντωρ 'hypomnematistam addidisse' coni. Diehl, Hypomnema p. 427 adn. 10, sed - ut monuit Pf. - veri dissimile est παρῆν ἀμύντωρ additamentum prosaicum scholiastae esse, cum ἀμύντωρ vocabulum plane poeticum sit et tota sententia ὁ δ᾽ - ἀμύντωρ imitatio et variatio Homerica esse videatur (vd. comm.), suspicionem nullam movens: in fine hex. παρῆν (E6Bvuoc) ἀμύντωρ Gallavotti, Iscrizioni p. 11 (vd. ettam Ma. ap. Lehnus, Contributi p. 432) Si πὰρ €...) Nev ἀμύντωρ vel παρῆν (...) &ubvrop pars hexametri est, 'defensor ab arce Locris' fort. Euthymus est, Temesae liberator (frr. 201-202), ut coniecerunt Maass p. 50 et Mair (p. 351): de epigrammate Euthymi memoriam instaurante iam cogitaverat Bergk 1.1.

271 (641 Pf.) Schol. (Nt) Lyc. 42 a, p. 11. 6 Leone et Tzetz. in Lyc. 42, II p. 33. 18 Scheer Κρόνου rap’

αἰπὺν ὄχθον] τόπος ἐςτὶν ἐν Ὀλυμπίᾳ Κρόνου λόφος καλούμενος (cf. paraphr. vet.), οὗ μέμνηται καὶ Καλλίμαχος (ὄχθος ἡ Ὀλυμπία: πρώην γὰρ Κρόνιος λόφος ἐλέγετο add. Tzetz.) prob. Er. Gen. AB s.v. Κρόνιος λόφος [Κρονιὸς A. ΑἹ (Reitzenstein, Etym. p. 322. 18; p. 167 Massimilla)- ἀπὸ τοῦ Κρόνου οὕτως zpocnyépeutar [rpocnyopederan A]. 7Qpoc [om. B] (vd. Reitzenstein, Erym. p. 326 adn. 1, ubi suspicatur Orum II. ἐθνικῶν etiam h.l. Callimachi Aetiorum fragmentum servavisse; de Oro vd. ad fr. 49) Fragmentum fort. pertinet ad «Eleorum ritum nuptialem» (frr. 178-180), ubi de institutione certaminum Olympicorum agitur, sed etiam in universum spectare potest ad Aetiorum librum terttum vel quartum, ubi duo Olympionicae commemorantur (Euthycles in 1. II frr.

186-187, Euthymus in 1. IV frr. 201-202). ] Kpö|vov λόφος inter alia suppleri potest in fr. inc. lib. Aet. 81,2

272 (647 Pf.)

ῥάμφεϊ fkovober Töpyoc ἔκοπτε νέκυν Schol. (Nmt; Callimachi versum om. A) Lyc. 598 a, p. 120. 4 Leone et Tzetz. in Lyc. 598,

II p. 205. 1 Scheer péupec{cht] ῥάμφος καλεῖται τὸ ἐπικαμπὲς χεῖλος τῶν ὀρνέων, ὡς καὶ Καλλίμαχος ᾿ῥάμφεϊ-νέκυν᾽ καθνώδει t Tzetz.: κυκνώδει Nm: ἀκανθώδει D. Ruhnken, Epistola critica I (Lugduni Bat. 1751) p. 47 (sed vd. Introd. 11.2.B.a.): κανθώδει T. Hemsterhuis ap. Ernesti (veri simile, ut mihi videtur): καμψώδει Schn. II p. 455: κυθνώδει dubitanter Pf. (sed vd.

comm.):

κυκνώδους

C. G. Müller ad Schol. Lyc.: κυθνώλη M. Schmidt, Verisimilium

capita duo (Progr. Ienae 1861), p. 32 (iterum ad Hesych. s.v. t6pyoc) et Th. Bergk, Antho-

logia lyrica (Lipsiae 1868?) praef. p. XIV: κυθνώδη vel κυθώδη vel λυθρώδη M. Schmidt,

182

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Verisimilium capita duo LI., coll. etiam Hesych. s.v. κυθώδεος- Sucöcuov Fragmentum ad «Syrma Antigones» (fr. 208) respicere posse monuit D'Alessio (p. 759), qui coniecit h.l. de vulture corpus Polynicis rostro lacerante agi, coll. e.g. Soph. Ant. 29 sq., 205 sq., 1021 sq.

273 (666 Pf.) Schol. Paus. VI 13, 1, III p. 222. 1 Spiro περὶ ’AcrbAov, οὗ καὶ Καλλίμαχος μέμνηται (similis Arethae glossa marg. ad Pausaniam de Euthymo, vd. ad fr. 201) De Astylı Crotoniatis domo in carcerem conversa (cf. Pausaniae locum in comm. allatum) Callimachum in Aetiis rettulisse coniecit Wil., Pausanias-Scholien p. 245 sq. Fragmentum pertinere potest ad Aetiorum librum terttum vel quartum, ubi ali Magnae Graeciae Olympionicae commemorantur (Euthycles Locrus in 1. III frr. 186-187, Euthymus Locrus in 1. IV frr. 201-202): simillimae sunt Euthyclis et Astyli historiae (vd. comm.)

274 (677 Pf. = SH 268B) τὸ δὲ cKbAoc ἀνδρὶ καλύπτρη γιγνόμενον, νιφετοῦ καὶ βελέων ἔρυμα 1 sq. Schol. (LOGMR) Soph. Ai. 26 a, p. 20 Christodoulos katnvapicuévac] ... ἄκυρον " τὸ γὰρ εκυλεύειν ἐναρίζειν ὅτι τὰ ἔναρα «κῦλα ... καὶ τὸ παρ᾽ "Ounpo τοιοῦτόν ἐςτιν … [Il. XXI 485]. πῶς γὰρ οἷόν τέ ἐετι «κυλεύειν τοὺς λέοντας, εἰ μὴ εἴη καὶ ἐπὶ τῶν ἀλόγων ζῴων τὸ εκυλεύειν; Καλλίμαχος ἐπὶ τῆς λεοντείας δορᾶς 'τὸ-τἔρυμα᾽ e Schol. Suid. s.v. κατηναριςμένας, x 1052, III p. 76. 9 Adler iisdem verbis ᾿τὸ-ἔρυμα᾽ 1 cxbAoc L: εκῦλος O: εκῦλ᾽ GMR καλύπτρη LG: καλύπτρα O: καλίπτη M: καλλίπη R 2 ywvöuevov codd. ἔρυμα LO: ἔνυμα GMR E. H. van Eldik, Suspicionum specimen (Zutphaniae 1764), p. 23 = Thesaurus criticus novus I (Lipsiae 1802) p. 197 rettulit ad pellem leoninam Herculis, quem ipsum loqui coniecit Wil., «SPAW» (1914), p. 226, 'quia nemo nisi Hercules ipse Herculem ἄνδρα appellare posset' (hoc satis incertum, vd. comm.). Hoc fragmentum et fr. inc. sed. 264 de eadem pelle leonina cum Molorchi fabula, quam nunc scimus partem mediam fuisse «Victoriae Berenices» (frr. 143-156), comunxit Schn. II p. 67 (fort. recte' L.J.-P.): Schneidero de hoc fragmento adsensus est Wil. LI., qui fr. inc. sed. 264 ad aliam fabulam pertinere putavit. Utrumque fragmentum Molorchi historiae admoveri posse perperam negavit Pf. (vd. comm.). Hoc quidem fragmentum de Hercule pelle leonina induto non solum ad «Victoriam Berenices» respicere potest (paulo ante fr. 154), sed etiam ad elegiam de Iunonis Samiae simulacro altero (fr. 204, cf. Dieg. Med. IV 33) vel ad alium Callimachi locum: Herculis fabulas in omnibus Aetiorum libris fuisse moneo (vd. Massimilla, Leone p.

29 adn. 47)

TESTO CRITICO: FRR. INC. SED. 272-275

183

275 (714 Pf.) κουφοτέρως τότε φῶτα διαθλίβουειν ἀνῖαι, ἐκ δὲ τριηκόντων μοῖραν ἀφεῖλε μίαν, ἢ φίλον ἢ ὅτ᾽ ἐς ἄνδρα coveurtopov ἢ ὅτε κωφαῖς +

ΖΝ

2

la

3



>

>

Cai

7

Bla

>

,ὔ

FAGLIA

Cal

Cai

ἄλγεα μαψαύραις ἔεχατον ἐξερύγῃ 1-4 Stob. IV 48 b Ὅτι οἱ ἀτυχοῦντες χρήζουει τῶν ευμπαςχόντων, 24, V p. 1014. 7 Hense (ecl. cum lemmate STr: om. MA) Καλλιμάχου 'κουφοτέρως-ἐξερύγῃ᾽ 2 Et. Gen. AB

sw. ôvct (V. Casadio,

«MCr»

XXITI-XXIV,

1988-1989, p. 349; p. 168

Massimilla; cf. Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Er. M. p. 290. 51, Et. M.11.)- ictéov ὅτι ἐπὶ μὲν τῶν ἀριθμῶν Scor μὲν Ev μιᾷ φωνῇ τὰ τρία γένη δηλοῦειν où κλίνονται ... εἰ ἄρα οὖν τὸ δύο ἐν μιᾷ φωνῇ τὰ τρία [τρία Α: γ΄ Β] γένη δηλοῖ - οἱ δύο γὰρ καὶ αἱ δύο καὶ τὰ δύο -, δηλονότι οὐκ ὥφειλεν κλίνεεθαι τοῖς [τοῖς AB, Et. Μ.: ταῖς Et. Sym. cod. V] δυείν. Ecrı δὲ εἰπεῖν ὅτι πολλάκις αἱ διάλεκτοι κλίνουοι ταῦτα, ὡς παρ᾽ ᾿Αλκαίῳ ‘etc τὼν δυοκαιδέκων [εἰ (e καὶ correctum) «τῶν δύο καὶ δέκων A: εἰς τῶν δυοκαιδέκων (quod etiam δυοκαιδόκων legi potest) B]’ [fr. 349 e Voigt = C. Calame, Etymologicum Genuinum. Les citations de poètes lyriques, Roma 1970, nr. 57 p. 24], ἀντὶ τοῦ δυοκαίδεκα [δύο καὶ δέκα A]. καὶ πάλιν Καλλίμαχος ἐν τοῖς [τοῖς AB, Er. M: om. Er. Sym. cod. V] ἐλεγείοις ᾿ἐκ-μίαν᾽, ἐκ τοῦ τριήκοντος ἀντὶ Tod ἐκ τῶν τριάκοντα (ad ἐν τοῖς ἐλεγείοις vd. fontium app. ad fr. 48, ubi ad Aetiorum

fragmentum Stobaei codex recens adnotavit

ἐλεγείο) 2 τριήκοντον Et. Gen. A ἀφεῖλε Stob., Εἰ. Gen. B, Et. M: ἀφῆκε Er. Sym. cod. V: ἀφεῖλεν Et. Gen. À 3° φίλον om. Tr 4 ἐξερρύη Stob.: em. A. D. Knox, Herodes, Cercidas and the Greek Choliambic Poets (London - New York 1929), p. 101 adn. 1 (ad Herod. II 102) et Pf. coll. Hesych. s.v. &pvyeiv- φωνεῖν (confirmari videtur imitatione Greg. Naz. Carm. II 1, 12, 45 sq. = PG 37 p. 1169 in comm.

1949, p. 193 adn. 43; Callimachus

rarissimum verbum

allata, vd. B. Wyss, «MH»

ἐξερυγγάνω

6,

etiam in fr. 174, 7

usurpat simili sensu; ad vocabulorum nexum cf. Nic. Al. 459 ἐξερύγῃειν ἀλεξόμενος κακὸν ἄλγος N: ἐξερέῃ H. Grotius, Dicta poetarum quae apud Io. Stobaeum exstant (Parisiis 1623), pp. 469 et 558 (hanc coniecturam multis probatam defendit Schn. II p. 218 sq. coll. Nic. Ther. 484, ubi épée - si ita legendum est, vd. infra - praesentis esse temporis apparet, 'narrat' significans; at ante Nicandrum nullum certum exemplum vocabuli ἐρέω rem praesentem indicantis exstare videtur; de re futura ἐρέω novies apud Callimachum etiam fr. 172, 2 -, ἐξερέω semper apud omnes scriptores, nisi cum 'quaero' significat; praeterea in Nic. Ther. 484 fort. te ῥέει cum Gow-Scholfield legendum est, vd. LSJ Suppl. s.v. péoI 2)

In Ett. verba ἐν (totc) ἐλεγείοις post αἱ διάλεκτοι et Alcaei fragmentum lyricum Aeolicum non titulum libri peculiaris (ut Bentley et alii putaverunt), sed metrum indicare vidit Schn. II p. 215 sq. (vd. Dilthey p. 74 sq., Wil., Die Textgeschichte der griechischen Bukoliker, Berlin 1906, p. 127 adn. 1). Acontio hoc fragmentum dedit (in soliloquio ante fr. 172) Dilthey 1.1. (vd. G. Knaack, Festgabe für F. Susemihl, Leipzig 1898, pp. 64-66); at ipsum Dilthey tradit R. Bürger, «JAW» 39 (153) (1911), p. 138 sq. mutata sententia mulieri tribuisse de virorum fato meliore loquenti. Hoc sane veri dissimillimum est: si quidem

184

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

φῶτα dicit poeta, non ‘virum' opponit 'mulieri'; neque vir a muliere ideo felicior dici potest quia auris miseriam suam effutiat, id quod mulieri non minus licet (perperam sententiam ab Eur. Med. 244-247 originem ducere censet Bürger). Cum Aconti fabula, quoad aut in Aetiis exstat aut ex Aristaeneti paraphrasi suppleri potest, consentire non videtur hoc fragmentum. Neque constat utrum pars sit soliloquii hominis miseri an poeta sententiam proponat (fort. Acontium secum loquentem inducens?); neque quae causa aerumnarum fuerit aut ex 1psis distichis aut e locis similibus in comm. allatis colligi potest. Caveas igitur de elegia 'amatoria' alucineris. Genus dicendi non epigramma sapit, sed Aetia (carminibus elegiacis minoribus adhuc notis propter rem tribui nequit)

276 (SH 301=269) Symeon. Syrnagog. ap. Nickau ad Ammon. Diff. verb. 135, p. 35. 15 app. (usque ad καλοῦει eadem fere Ammon. Diff. verb. 135, p. 35. 10 Nickau, Herenn. Phil. Adf. vocab. diff. 50, p. 157 Palmieri, id. De propr. dict. 16, p. 242 Palmieri, Et. Gud. p. 355.

15 et 31 de Stef.; cf.

Eustath. ad Hom. Od. XIX 71, p. 1856. 11) διαβόητος καὶ ἐπιβόητος διαφέρει. διαβόητος μὲν γάρ ἐςτιν ὁ Er’ ἀρετῇ éyvocuévoc. ἐπιβόητος δὲ è μοχθηρὰν ἔχων φήμην … τοῦτον δ᾽ ἔνιοι τῶν ποιητῶν ἐπίφατον [ἐπίφατον Herenn. Phil., Symeon.: &ricpatov Ammon., Et. Gud.] καλοῦει: Καλλίμαχος ἐπὶ Τἀκοςτίου [᾿Ακοντίου dubitanter Nickau: etiam de ἀκοντίου al. agi posse monuerunt L.J.-P.] τέταχε, Θουκυδίδης δὲ ἐπίρρητον εἶπεν ἐν τῇ τρίτῃ [ἐν τῇ τρίτῃ plane falsum, fort. corruptum: ἐν τῇ ἕκτῃ dubitanter L.J.-P., coll. Thuc. VI 16, 1 ὧν γὰρ πέρι ἐπιβόητός εἰμι: Φωκυλίδης pro Θουκυδίδης et ἐπὶ τοῦ ( ) pro ἐν τῇ τρίτῃ dubitanter Nickau p. 179] Si nomen ᾿Ακοντίου recte restitutum est pae fabulam (frr. 166-174) pertinet: si ita, ἐπίφατος, quae in disticho elegiaco usurpari (vd. comm.) est, cum amatores neglegat (cf.

[email protected]...| &ricgaroc a metro discrepare

(vd. supra), fragmentum ad Acontii et CydipCallimachus forma &ricgaroc usus est (haud nequit). Fort. Acontius famosus' vel 'exitialis' fr. 168). L.J.-P. monuerunt in fr. 174, 20 ἐ

FRAGMENTA INCERTI AUCTORIS QUAE AD CALLIMACHI AETIORUM LIBRUM TERTIUM AUT QUARTUM FORTASSE SPECTANT 277 (745 Pf.) Βύνης καταδέκτριαι αὐδηέξςοης Et. Gen. AB s.v. Βύνη (B 292, Πρ. 515. 9 Lasserre-Livadaras; p. 168 Massimilla; cf. Et. M. B 363 codd. DMPR II p. 515. 35 Lasserre-Livadaras; poetae verba om. Et. Gud. d° p. 291.

16 de Stef., Et. Sym. B 238/51 II p. 514. 30 Lasserre-Livadaras) ij Λευκοθέα [Λυκοθέα A], à Ἰνώ, οἷον 'Βύνης-αὐδηέεεοης᾽. εἴρηται παρὰ τὸ εἰς βυθὸν δύνειν Βυθοδύνη [Βυθοδίνη B] καὶ κατὰ ευγκοπὴν Βύνη. ἢ παρὰ

[ἢ Βύνη παρὰ Β] τὸ δύνω Δύνη [Δύνη om. BI, ἣ

καταδῦεα [καταδῦεα Εἰ. M: κατὰ δῦεα Et. Sym. codd. CV: καταδύεαςα AB, Er. Sym. codd. EF] εἰς θάλαεεοαν [hic desinit B], καὶ Βύνη κατὰ τροπήν

[hic desinunt A et cett.].

ἄλλοι θάλαεεα [ἄλλοι θαλάμη Er. M: corr. Berkel, cf. Hesych. s.v. Bovn: dadocce] À πεύκη [sub voce πεύκη nomen Λευκοθέα latere dubitanter coni. Magnelli, Problemi p. 116; hic desinit Et. M. cod.

M

(vd.

Magnelli,

Problemi

p.

114 adn.

27)], ὡς παρὰ

Λυκόφρονι [107, 757; παρὰ Avk( ) Er. M. cod. D (vd. Magnelli 1.1.)] (e Schol. Lyc. 107 deperditis)

Βύλης Et. Gen. AP°: BnAnc vel aliquid simile A? (vd. Magnelli, Problemi p. 112 adn. 18) καταλέκτριαι Et. Gen. A, Et. M.: καταλέκτρια Et. Gen. B: κατὰ λέκτρ᾽ ἴεν tempt. G. Dindorf, Thes. Ling. Gr. s.v. καταλέκτριαι: καταδέκτριαι Pf. addnécene Er. Gen. B: αὐδηέεης Et. M: avdiécene Et. Gen. A De Callimacho auctore cogitavit Schn. II p. 721: fabulam de Inus filio Melicerta in Aer. 1. IV frr. 193-195 narratam fuisse nunc constat (cf. imprimis frr. 193 et 194). At moneo haec verba ad Aetia spectare metri causa veri simile non esse: vd. Introd. II. 1.A.a.in.

278 (748 Pf.) écyatinv ὑπὸ πέζαν ἐλειήταο Λέοντος Et. Gen. AUB s.v. ἐλειήτης (p. 168 Massimilla; cf. Er. Sym. cod. V ap. Gaisf. ad Er. M. p. 330. 20, Et. M.11.)- ὃ λέων - ‘écyotinv-Aéovroc’. εἴρηται παρὰ τὴν ÉAnv, τὴν θερμότητα, À [ἢ ΑἹ καὶ εἵλη λέγεται πλεοναςμῷ τοῦ 1, παρ᾽ ἣν ἕλιος καὶ ἥλιος. ἢ παρὰ τὸ ἕλος, ὅτι πρὸ τοῦ καταεςτεριομοῦ ἐν ἕλεειν ἐνέμετο [litteras vé supra lineam intra ἑ et pero add. B] [hic desinit B]. Ὦρός gnew οὕτως [ὮὯρός-οὕτως A (nomen diserte scriptum): Qpoc Et. M. cod. M: Ὠρίων Et. M. cod. P: © sscr. p Et. M. cod. D: om. Et. Sym. cod. V] (de Oro vd. ad fr. 49, de Ortone vd. Pf. ad Hec. fr. 263 = 80 H.; de hoc fragmento vd. Pf. ΠΡ. XXX adn. 2)

ἐοχατιὴν codd. (-àv Et. Sym. cod. V)

ἐλειήταο codd., sed fort. ἑλειήταο scribendum

esse monuit Pf. (vd. etymologias supra et explic. in comm., necnon LS] s.v.): Ἑλειήταο Pf. Hexametrum ad sidus Leonis (scil. Nemeaei) spectare et Orus dicit et res ipsa docet.

186

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Callimacho fragmentum tribuit Hecker p. 78 sq., qui coniecit hunc fuisse v. 65 «Comae

Berenices» (fr. 213), coll. Catulli versionis v. 65 sq. saevi = &Xeınroo?) contingens ... Leonis | lumina (secuti sunt Th. Bergk, Anthologia lyrica, Lipsiae 18682, p. 154, Schn. IT p. 722, Catulli interpretes

nonnulli).

Contra dixerat Pf., Kallimachosstudien p.

11 adn.

2 et

/TAöxauoc pp. 208-210 = 132-134, quia πέζαν esse 'pedis plantam' vel 'marginem imum' cum ceteris putaverat, Βερενίκης πλόκαμον

autem supra Leonem

esse secundum

astrono-

mos monuerat (vd. comm.). At postea Pf. ipse, novis testimomis collatis (vd. comm.), perspexit hoc loco πέζαν fort. esse partem extremam caudae Leonis, quae in siderum imaginibus antiquis semper super tergum reversa est, et non negavit hunc hexametrum esse posse exemplar v. 65 sq. Catullianae versionis, quamvis fateretur se non videre quomodo cum disticho praecedente aut cum reliquiis versuum sequentium coniungi posset. Mihi quidem veri simillimum videtur hoc fragmentum tradere «Comae Berenices» v. 65: de sententiae vv. 65-68 structura vd. app. et comm. ad locc. Hexametrum a «Victoria Berenices» (frr. 143-156) alienum esse existimo, etsi Nigidius Figulus (fr. 93 Swoboda) sic scribat de leone Nemeaeo ab Hercule et Molorcho interfecto: leonem caelesti memoria dignari voluntate lunonis arbitrantur

279 (758 Pf.) οὐδὲ Κροτωνίτης ἐξεκάθηρε Μίλων Et. Gen. AB

s.v. (παρτιάτης

(p. 168 Massimilla; poetae verba om. Er. Sym. cod. V ap.

Gaisf. ad Et. M. p. 722. 48, Et. M.11.)- ἀπὸ τοῦ (πάρτη (παρτίτης καὶ πλεοναςμῷ τοῦ a (παρτιάτης [(παρτιάτης Er. Sym. cod. V, Et. M: om. AB]. ὅμοιόν ἐετι τὸ Κροτωνιάτης: ᾿οὐδὲ-Μίλων᾽: εἶτα Κροτωνιάτης πλεοναςμῷ Tod a. Ἡρωδιανὸς Περὶ παθῶν [Gramm. Gr. III 2, p. 221. 2 et Add. p. 1249 Lentz; Ἡρωδιανὸς-παθῶν Er. Sym. cod. V, Et. M: om.

AB]

ἐξεκάθηρε A (quod in textum recepi, vd. Massimilla p. 170: verbi similis τεκμαίρομαι tantum aoristo utitur Call. /ov. 85, Ap. 35; Ernesti correxit codicum ἀνεξήραινον in

ἀνεξήραναν ap. Call. Cer. 113; formam ἐξεκάθηρα usurpat Greg. Naz. Anth. Pal. VII 79, 8 eodem pentametri loco): ἐξεκάθαιρε B (quod in textum recepit Pf., cum de Et. Gen. A

nondum constaret, coll. Hom. Il. II 153 ἐξεκάθαιρον impf., ubi tamen ἐξεκάθηραν dubitanter coni. Nickau ad Ammon. Diff. verb.365) μήλων AB: corr. Miller p. 269 Callimacho vindicaverunt hoc fragmentum Schn. II p. 737, Wil., Hell. Dicht. I p. 185 adn. 6. Pf. monuit pentametrum proprie Callimacheum videri, coll. fr. 174, 47 οὐδ᾽ ἃ Κελαινίτης ἐκτεάτιετο Miônc, et dubitanter coniecit eum in simili 'comparationum' serie fuisse. Quid ne Milo quidem 'expurgaverit', nescimus; erravit Schn. II p. 65, qui hunc versum coniunxit cum fr. 295 Pf. (quod ad Hecalam pertinet = fr. 114 H.) et de comparatone cum Hercule Augeae stabulum expurgante (ad frr. 178-180) cogitavit. Fragmentum respicere potest ad Aetiorum librum terttum vel quartum, ubi alli Magnae Graeciae Olympionicae commemorantur (Euthycles Locrus in 1. III frr. 186-187, Euthymus Locrus in 1. IV frr. 201-202). Ad Milonem non sunt referenda frr. inc. sed. 264 et 274 de Herculis pelle leonina (vd. comm. ad fr. 274)

TESTO CRITICO: FRR. INC. AUCT. 278-281

187

280 (774 Pf.) Λευκοῦ πεδίου Hesych. s.v. Λευκοῦ πεδίου, A 743, II p. 588 Latte τοῦ Μεγαρικοῦ χωρίου [χωρίον cod., Latte: corr. Schn. II p. 745] Λεύκου πεδίον cod., Latte: corr. Schn. 11: Λευκοῦ πεδίοιο Pf. (cf. Nonn. Dion. comm. allatum) 51 fragmentum Callimacheum est et haec duo verba (hoc ordine intervallo usurpata) pars distichi elegiaci sunt, eorum collocatio fuit aut | — Λευκοῦ in hexametro vel pentametro aut | — v ὦ — Λευκοῦ πεδίου in hexametro (vd.

X 76 in et nullo πεδίου Introd.

ILLA.c.V., vu, x.) Collatis Nonn. Dion. X 75-77, Schol. Hom. Od. V 334 et Etr. s.v. Λευκοθέα in comm. allatis, Schn. 11. Hesychium correxit et de Callimacho auctore cogitavit, de Callimacho vel

Euphorione propter Nonni imitationem Wil., Der Glaube der Hellenen I (Berlin 1931) p. 217 adn. 1. Inus in mare se praecipitantis fabulam in Aet. 1. IV frr. 193-195 narratam fuisse nunc constat (in Euph. CA fr. 9, 9 p. 31 dual. νωϊτέρης ad Ino et Melicertem loquentes rettulit Wil., «Hermes» 63, 1928, p. 377 = Kleine Schriften IV, Berlin 1962, p. 462 sq., sed

sine dubio erravit, vd. Pf. ad Call. Hec. fr. 296 = 59 H. et Magnelli, Studi p. 148 sq.); de Melicerta mortuo et ludorum Isthmiorum instituttone Euph. CA fr. 84 p. 45 (vd. fontium app. ad fr. 156, 5-9). Hesiodo hoc fragmentum dubitanter tribuerunt Merkelbach-West ad Hes. fr. 70, 2-5

281 (781 Pf.) ἀκμήν τοι βρύα τῆμος ἐπὶ «τήθεςει κέχυνται Ioann.

Philopon.

Tov.

παραγγ.

(ἔχε.

ex

Herodian.

Pros.)

p.

29.

35

Dindorf

(περὶ

ἐπιρρημάτων) καὶ τὸ πρῴην δὲ παρ᾽ αἰτιατικὴν cynpatiloveiv: "fide πρῴαν᾽ [locus ignotus] καὶ τὸ ᾿ἀκὴν ἐγένοντο cori)’ [Hom. Π. III 95 al.] καὶ ᾿ἀκμὴν-κέχυνται᾽ (cf. Herodian. II. καθολ. πρ., Gramm. Gr. ΠῚ 1, p. 490. 8 Lentz)

βρυάτημος cod. Haun.: divisit Bloch

κέχυντο Pf. ('ad κέχυνται optime quadrat ἀκμήν,

sed post τῆμος exspectes κέχυντο": κέχυνται defendit Li. in comm. ad Ap. Rh. IV 252, coniciens τῆμος h.l. (sicut ap. Ap. Rh. 1.1.) idem ac νῦν significare Si βρύα scil. θαλάεεης, i.e. ‘algae', fort. recte de Melicerta cogitavit Schn. II p. 760 et hexametrum Callimacho tribuit: Melicertae fabulam in Aer. 1. IV frr. 193-195 narratam fuisse nunc constat; ibi puerum alloquitur poeta (fr. 193) et Diegesis Mediolanensis tradit

&Génelcev εἰς αἰγιαλὸν τῆς Τενέδου τὸ colu[o] (pectus algis obsitum?) τοῦ Μελικέρτου (III 2-4). Sed etiam de Aiace Oileo submerso hic agi posse moneo, quem ἐκριφέντα ...

νεκρὸν Θέτις ἐλεήεαεα θάπτει, ut testatur Schol. (AD) Hom. I. XIII 66, fort. e Callimachi Aetiorum libro primo (fr. 42, vd. fontium app. et comm. ad loc.): cf. Lyc. 398 sq. τάριχον

ἐν μνίοις δὲ καὶ βρύοις εαπρόν (scil. Aiacem) | κρύψει κατοικτίεαεα Nncatac κάεις (scil. Thetis)

188

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

282 (787 Pf.) ψευδόμεναΐ ce Παλαῖμον Schol. (A) Hom. ZI. III 182 b, I p. 392 Erbse ὀλβιόδαιμον] προπαροξυτόνως: ἔετι γὰρ εὔνθετον. τὰ δὲ μακρᾷ παραληγόμενα Baporova, ἔχοντα κλητικὴν εἰς ov περατουμένην, προπεριςπᾶται ἁπλᾷ ὄντα, Μαχᾶον

[Hom. Il. XIV

3], ᾿Αρετᾶον

[cf. Hom.

Il. VI 31],

εὔνθετα μέντοι ὄντα ἀναδίδωει τὸν τόνον … ὅθεν muerddec ἐκεῖνο κατὰ κλητικήν, “ἰὼ Λακεδαῖμον᾽ ᾿Αριςοτοφάνης Ὁλκάοει [fort. ἐν ᾿Αριςτοφάνους Ολκάει Kassel- Austin; PCG 420] rai, εἰ εὔνθετον [καὶ {εἰ} εὔνθετον prop. Villoison, quem secuti sunt Pf. et Erbse (sed vd. Schol. Graec. in Hom. Il. VII p. 281): codicis A lectionem defendunt Kassel-

Austin ad Aristoph. 11], τὸ ᾿ψευδόμεναί-Παλαϊῖμον᾽

(ex Herodian. II. Ἰλιακῆς πρ.,

Gramm. Gr. II 2, p. 40. 13 Lentz)

ψευδόμεναί εε A, ut vidit Erbse: ψευδόμενοί ce Pf. et omnes editores

apud Callimachum

haec verba mhil nisi initium hexametri esse possunt (vd. Introd. II. 1.A.c.v., vili., 1x.) et eo

quoque loco contra normam metricam ψευδόμεναί ce, in primo dactylo incipiens, post secundum trochaeum finem habet, sed vd. pauca similia exempla in /Introd. IL 1.A.c.. (vix

ψευδόμεναι cè IT. scribendum) Callimacho tribuit Schn. II p. 773, qui propter wevô. de periuriis in Palaemonis penetrali Corinthio cogitavit, coll. Paus. II 2, 1 in comm.

allato. Melicertae-Palaemonis fabulam

Tenediam in Aet.1. IV frr. 193-195 narratam fuisse nunc constat: ad hanc fabulam fort. respicit fragmentum. Sed poetae verba aliter explicari posse monuit Pf.: si enim nominis

Palaemonis veriloquium παρὰ τὴν πάλην καὶ τὸ αἵμων (cf. Choerobosci locum in comm. allatum) ad hoc fragmentum pertinet, etiam de Hercule agi potest (cf. Lyc. 663 c. Schol. et alios locos in comm. allatos) et ψευδ. fort. est 'mendacium dicentes', ut e.g. in Hom. Il. V 635*, [Hom.] Hymn.I 6* et ipsius Callimachı fr. 174, 14* (vd. comm.)

283 (796 Pf.) Schol. (CFD; 'Darii' mentionem om.Pm3BabGC;vs Cald.) Ov. Ib. 517, p. 155 La Penna quodque ferunt Brotean fecisse cupidine mortis, | des tua succensae membra cremanda pyrae (v. 517 sq.)] Broteas [Brothea GCFDC,: Brotea Ba], lovis filius, excaecatus est a love quia nequissimus erat, et ideo proiecit se in pyram ardentem, odio habens vitam suam [Br. poeta habens odio vitam suam in ignem se posuit Ba], ut ait Darius Fragmentum Callimacho dubitanter tribuit Pf.: nam Darium in Schol. Ov. Ib.335 et 459 ad Callimachi Aetiorum fabulam de Limona (frr. 197-198) spectare nunc constat et Darius in Schol. Ov. Ib. 331 ad Call. fr. inc. sed. 263 pertinet (vd. fontium app. ad locc., necnon Pfeifferi adn. ad fr. inc. auct. 795). Pyra Broteae - ut momuit Pf. - eadem esse potest ac πυρκαιῆ, quae commemoratur in fr. inc. lib. Aet. 251, 6

284 (804 Pf.) Tertullian. De coron. VII 4, p. 97 Fontaine = p. 22. 33 Ruggiero (e Claudio Saturnino) (quae praecedunt, vd. ad fr. 204) Hercules nunc populum capite praefert, nunc oleastrum,

TESTO CRITICO: FRR. INC. AUCT. 282-284

189

nunc apium [fr. 156, 2 sine nomine auctoris] (quae sequuntur, vd. ad fr. 191) inde Isidor. Orig. XVII 11, 1, p. 243 André Hercules ... nunc populum capite praeferebat, nunc oleastrum, nunc apium [fr. 156, 2]

Tertulliani testimonium de Herculis coronis populi et oleastri est inter duas Callimachi mentiones, ad coronas viteam Iunonis (fr. 204) et lauream Apollinis (fr. 191) spectantes, et antecedit nullo intervallo testimonium de Herculis corona apii (ad fr. 156, 2, ubi heros ipse de hac corona loquitur: vd. supra). Inde veri non dissimile est populi quoque et oleastri coronarum exempla e Callimacho sumpta esse: Pf. susp. coronam populi coniunctam esse cum Herculis descensu ad inferos (vd. comm.), de quo agitur in fr. inc. sed. 515 Pf. (de inferis cf. etiam fr. inc. sed. 628 Pf.), coronam oleastri pertinere ad Olympia ab Hercule instituta coniecit Schn. II p. 588, quae nunc scimus commemorata esse in Aer. 1. III frr. 178180: cf. imprimis Schol. (AD) Hom. A. XI 700 (ad fr. 179 allatum) αὐτὸς (scil. Hercules)

πρῶτος τῶν ἀγωνιεμάτων ἥψατο

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TRADUZIONE

51 traducono qui: 1 frammenti che contengono parti del testo callimacheo; in corpo minore, i frammenti rappresentati da testimonianze antiche, dove non sono citate le parole di Callimaco; in corpo minore, gli scoli papiracei e le Diegeseis Mediolanenses che si riferiscono al frammenti callimachei editi in quest'opera. Le parentesi quadre contengono aggiunte che migliorano la versione italiana. Nei luoghi frammentari, si tenga presente che: la sbarra / separa le possibili traduzioni di una parola, o anche di un gruppo di lettere divisibili in vario modo; le parentesi quadre racchiudono il senso approssimativo di brevi lacune; il punto interrogativo segnala ogni caso di dubbio; quando nel testo non è possibile stabilire la desinenza o la parte iniziale di una parola (che lasci comunque intravedere il suo senso), si riproduce questo stato di cose nella traduzione, omettendo l'inizio o la fine della parola italiana corrispondente. Per le parole isolate dal contesto, si tenga presente che: si danno tra parentesi tonde le informazioni inerenti all'analisi grammaticale, logica e del periodo, indicando - se c'è motivo di incertezza - le possibili alternative (la mancanza di informazioni tra parentesi tonde indica che il genere è maschile e il caso è nominativo); 1 casi genitivo e dativo - dove si può - sono resi in modo convenzionale, premettendo alla parola in questione rispettivamente la preposizione di e la preposizione a.

Aitia, libro terzo Frammenti

143-156 (La vittoria di Berenice)

Frammento

143 (383 Pf. + SH 254)

A Zeus e a Nemea devo un dono di riconoscenza, sposa, sacro sangue degli dei fratelli, nostr- (prob. acc. masch. on.) ... epinicio (acc.) dei tuoi (?) cavalli.

Or ora infatti, dalla terra di Danao discendente della giovenca all'isoletta di Elena e al vate pallenio (5) pastore di foche, è giunta un'aurea notizia, che presso il tumulo di Ofelte figlio di Eufete essi corsero senza riscaldare (?) con l'anelito alcuna (?) spalla (?) di aurighi precedenti, bensì, mentre correvano come vènti, nessuno vide le impronte delle ruote (10) la/sia/davvero ...

e in precedenza Argiv- ... bene intessuti (? acc.) ... le Colchiche o al Nilo ... cimarono sottili ... (15) bianco ... chiom- ...

sapendo

(femm. pl.) lamentare

il toro pezzato

di

Scoli al v. 1: ... al v. 2: figlia degli dè fratelli, che sono Tolemeo e Arsinoe, dei quali proclamavano [che fosse figlia] Berenice. Ma in realtà ella era figlia di Maga, zio dell'Evergete alv.4... alv.5S:..di-lantefiglio al v. 7: ... si chiamava Archemoro ... al v.8:... alv.8s.:... garegg- ... dei precedent- (?) ... nessuno corse ... riscaldare con l'anelito cavall- (forse gen. pl.) ... carro (nom. o acc.) della regina aurig- ...

Frammento

144 (674 Pf. + nuovo)

. agli Inachidi ... dodici volte intorno al cocchio diresse gli occhi ... e ... Amimone

(caso incerto)

... fonte fluente (nom.

o voc.) in bel modo

... (5)

corrono / corrano / ai correnti; di Danao ... equestre (acc.) come questo (nom. o acc. n.) ... Egitto della stirpe sangue (nom. o acc.) ... spesso di me il Nilo (acc. / che (acc.) il Nilo ... quello che / quante cose (nom. o acc.) in ... di Preto ... » (10) Così diceva; ed essi il suono (acc.) ... dai fianchi ... cald(9)... stettero: sent- (impf. o ind. aor.) ... quelle/queste (?) ... (15) non dirò ...

domani ... fischi- ... altri (nom. o acc. n.) pied- / ma pied- / ma da ... occhio (nom. o acc.) avvicin-/ungIlegittim- (ἢ Frammento

... (20) porteremo/onoreremo

(?) ... pass-/dritt-

145 (54 Pf. = SH 266)

[Prob.] in Verg. Georg. II 19 s.: Chiama Nemea boschi di Molorco. Molorco prestò ospitalità a Frcole, che alloggiò presso di lui quando si mise in viaggio per uccidere il leone nemeo. Poiché egli si apprestava a immolare l'unico ariete che aveva, per ricevere Ercole con maggior generosità, Ercole ottenne da lui che lo conservasse, per poi immolarlo 0, se avesse vinto, a lui stesso come

a un dio 0, se fosse stato vinto vuoi per l'odio di Giunone, affinché non gli toccassero onori celesti, vuoi per la stanchezza, svegliatosi rimediò alla perdita con straordinaria velocità e, presa una ghirlanda di apio, con la quale si ornano i vincitori dei giochi nemei . Così sopraggiunse anche mentre Molorco preparava il sacrificio per i Mani, nel quale pure l'ariete era stato immolato. Da allora vennero istituiti 1 giochi nemei: in séguito

194

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

essi furono rinnovati, per i Mani di Archemoro, dai sette eroi che si recavano a Tebe. Ma la

menzione di Molorco si trova presso Callimaco nei libri degli Atria.

Frammento

146 (55 Pf. = SH 267)

lo scatenò la sdegnatissima sposa di Zeus a devastare Argo, sebbene fosse la propria parte ottenuta in sorte, affinché però la prole clandestina di Zeus avesse un'aspra fatica Frammento

147 (56 Pf. = SH 267A)

Steph. Byz. s.v. Apesante: Monte di Nemea, come [dicono] Pindaro e Callimaco nel terzo libro [degli Aitia, così chiamato] dall'eroe Afesante che fu re della regione oppure per lo scatenamento (&gectc) dei carri o del leone: lì infatti esso venne scatenato giù dalla luna. Frammento

148 (176 Pf. + 372 Pf. + 590 Pf. + 711 Pf. + 722 Pf. + SH 257)

a contesa quand- (?) ... diede Tanagr-/Tanagres- ... a figlio/a fratell-/sorell. come

(?) involontario

... ruberie Tafi-

... (5) lana (nom. o acc.)

dun-

que/supplic-/ginocch- ... avendo volato (part. masch. o femm.) ... essendosi curvato ... e (?) finché alle (?) ... frattanto al (? masch.

o n.) ... (10) arco

(nom. o n.) attraverso/spezz- ... ed egli a te / e me austri ... spina a me e rovo (9)... presso il pero selvatico del cortile ... (15) tirai/tirö via dal mucchio di

pietre ... avendo detto / avresti detto / diceva ... » Così parlò e a lui ... la precedente (acc.)

... diano e il rapac- ... (20) il

tremendo leone perisca ... e il dio / la dea o/la/che (femm.) uccide/uccidere (?) … affinché io ti (acc.) ... di nuovo pasto (acc.) per il fuoco ... né con

misera mancanza di legna ... ora/dunque, infatti i ramoscelli ignari (nom. o acc.) della falce ... (25) ... saltellante (masch. o femm.) questo (acc.) avere/ha/versava ... e/anche la capretta, bramando mordere ıl citiso, bela rin-

chiusa dentro le porte ... del caprone spiacevole da incontrare ... di Zeus (?) ognuno potrebbe angustiarsi vedendo ... (30) ... alle greggi di pascolo desid. come se assediassero intorno ... non, come dicono, affinché Crono (? acc.) ... partoriv- un duro (masch. o n.) ... (35) ... infatti / da parte (?) degli

Argivi non più ... padr- ... Argo (nom. o acc.; forse la parola non spetta ai versi callimachei, ma agli Scoli) ... (40) ... Scoli spettanti al tratto di testo precedente PLille 76d, col. I, 2: ... 3:... grand- ὦ δ: 11: ... araldo (?; forse la parola non spetta agli Scoli, ma ai versi callimachei) 13: giaceva (?; forse la parola non spetta agli Scoli, ma ai versi callimachei) 17:... 22... 26:... 32:elenca ὦ) 33:.. 35: 39:.. Scoli al v. 6: lane (nom. o acc.) ... ai vv. 11-13: ... inclinava (?) ... Tanagr- ... infatti l' (nom. oacc.n)arc-.. alv.14(N:.. al v. 14: arco (nom.o acc.) ...rovo:... alv. 15: pero selvatico: ... al v. 17: dono nom. o acc.) ... alv. 19: dal momento che precedent(9)... vuole ... il (nom. o acc. n.) salv- ... preghiera (acc) al v. 21: tremendo leone ... al v. 23: non potev- ... leone (acc.). Qualora dunque ... Molorco dice ... accogliere ... Qualora invece ... alv.25s.: salto [significa] movimento. Mese (? acc.) ... a causa della gara ben saltant- ... di cavalli ben mobili (nom. o acc. n). Ramoscelli (nom. o acc.) ... un albero

TRADUZIONE

195

(nom. o acc) al v. 27 s.: desiderando (femm. sg.) il citiso ... la capra non può ... al v. 29: ... del maleodorante (prob. masch.) αἱ v. 30: ... l'aquila (acc.) ... alv. 32: di assedianti intorno (prob. masch.) al v. 33 s.: non come affinché Crono (acc.) ... partorire ma realmente una pietra (acc.) ... (i vv. 38-40 del fr. 148 spettano forse agli Scoli) al v. 40: ..diEra&.. (il ν. 41] s. delfr. 148 spetta forse agli Scoli)

Frammento 149 (177 Pf. = SH 259) ... sollevando (femm. sg.) un ceppo biforcuto ... tetto (nom. o acc.) neanche

un po' / né quanto (acc. masch. o nom. n. 0 acc. n.) ... al figlio / alla figlia / al fanciullo / alla fanciulla assegnando (femm. sg.) una parte. Quando stava per sciogliere le cinghie del giogo ai buoi l'astro (5) della stalla, che viene al tramonto del sole ... allorché quello risplende per i discendenti di Ofione ... più antichi degli dèi, ... la porta (acc.); ed egli, quando udì il suono, come quando le grida di un leoncino giungono all'orecchio di una cerva screziata, (10) indugiò il tempo sufficiente per sentire e disse a voce bassa: «Importuni vicini, che cos'è ciò che ancora del nostro siete venuti a sgraffignare, dal momento che proprio niente vi portate via? Il dio vi ha plasmati come afflizioni per gli ospiti!» Così dicendo, lasciò andare il lavoro che gli stava fra le mani, (15) perché fabbricava un tranello nascosto per i topi: metteva in due trappole esche letali, prendendo farina di loglio mescolata con elleboro ... e ricoprì la morte ... su (20) ... come falchi ... leccarono spesso il grasso sangue dalla lampada, attingendo con le forti code quando non era stato messo il coperchio su salamoie e tazze o quando da un altro (masch.o n.) ... e i lavori (nom. Ο acc.) di un uomo povero (25) ... spingeva sotto una dura pietra il giaciglio ... danzarono alla testa e allontanarono il sonno dagli occhi. Ma i predoni in una breve notte gli compirono questo, la cosa più da cani, per la quale quello si infuriò soprattutto: (30) i malvagi gli divorarono le vesti e la cappa di pelo caprino e la bisaccia; ma egli preparò per loro doppi uccisori, un peso che schiacciava e un legno assai capace di balzare lontano ... disserrò la porta ... dal momento che di frequente / poi insieme si mescolava quell- (35) ... abitante ... né Cleon- ... Scoli (spettanti al tratto di testo precedente e forse al vv. 2 e 4) alle sovrane: alle regali ... madre ... (spettanti al tratto di testo precedente o a qualche punto del fr. 149) ... infatti ... corr- ... ben grand. ... bronz- ...

Frammento

150 (SH 260)

… è (9)... Zeus (?) ... impunito/a / illeso/a (2?) (forse le parole fin qui tradotte non spettano ai versi callimachei, ma agli Scoli) ... a nessuno diedi la lira / diedi la piantaggine / diedi (oppure diede) privo di lira (agg. acc. masch. 0 nom. n.0 acc. n.) (Ὁ) ... a me, o vecchio (?) (forse le parole a me, o vecchio (?) non spettano ai versi callimachei, ma agli Scoli) ... (5) ... Scoli (il v. / del fr. 150 spetta forse agli Scoli) al v. 1: ... e insaziabil- (?) ... userò ... (il v. 2 delfr. 150 spetta forse agli Scoli) alv.2:... povertà (acc) (il v.3 e il v. 5 s. del

196

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

fr. 150 spettano forse agli Scoli)

Frammento

151 (333 Pf. + 557 Pf. + SH 260A)

… avendo ucciso il mostro ... sia che 10 debba chiamarlo rovina degli Argivi ... presso il risuonante (masch. o n.) (?) ... presso il grande (?) pozzo di / il pozzo del grande (?) Danao ... ificlio del fratello ... (5) ... pulendo in cambio della / di vera ... accostassi / mi accostassi solo (forse avv.) intorno ... sarai

anche presto possessore di buoi ... ancora più inclinata [a mio danno] è la bilancia (?) ... persuaderò

che Zeus

mi fu genitore

(10)

... e cadrò sotto la

zanna ... (forse le parole tradotte da qui in poi non spettano ai versi callimachei, ma agli Scoli) più sotto (?) ... del tetto (ἢ) ... (15) ... la bestia (nom. o acc.) che (? nom.o acc.) a me (2) ... ospitalità (nom. o gen. o dat.) ... (20)... Scoli al v. 2: ... bisogna chiamare quello (?) ... al v. 8: ... possessore di ... e ciò (nom. o acc.) ... alv. 10... persuasiv-... (i vv. 12-21 delfr. 151 spettano forse agli Scoli)

Frammento 152 (SH 262) ... (si tratta forse di Scoli) Scoli

(vv. /-4 del fr. 152 spettano forse agli Scoli)

Frammento 153 (SH 263) ... (si tratta forse di Scoli) Scoli (i vv. 1-4 del fr. 153 spettano forse agli Scoli) αἱ v. 4: ... povero (nom. masch. o nom.n.oacc.n.)... (ilv.5s.delfr. 153 spetta forse agli Scoli)

Frammento

154 (57 Pf. = SH 264)

consideri da sé e tagli la lunghezza al canto; ma ciò che rispose a lui che lo interrogava, questo dirò: «Caro vecchio papà, apprenderai le altre cose trovandoti al banchetto, ma ora sentirai quello che a me Pallade ... (5) Frammento

155 (88 Pf. = SH 268)

e riporteranno come premio non un cavallo, non certamente un calderone che può contenere un bue Frammento 156 (59 Pf. = SH 265) ... corona (nom. O acc.) ... quando

... di oro (?) ... e 1 discendenti di Alete,

compiendo una gara molto più antica (5) di questa presso il dio Egeone, lo renderanno simbolo della vittoria istmica per emulazione dei Nemei e spregeranno il pino, che prima coronava 1 gareggianti di Efira. ... e tuoi / e veri, o vecchio ... (10) ... né sacra ... a me ... Pallade ... infatti nel quale (masch. o n.) questo (nom. o acc. n.) ... secondo 1] tuo nome.» (15) ... e di Molorco ...

avendo placato l'animo, di notte restò lì e al mattino tornò ad Argo: né dimenticò la promessa fatta a chi lo aveva ospitato, ma gli inviò il mulo e lo rispettò come uno dei suoi congiunti. (20) E ancora adesso una cerimonia

TRADUZIONE

197

(acc.) che non cesserà mai ... pelope- ... ebbi/ebbero ... posero ... ai fanciulli / alle fanciulle ... (25) Scoli al v. 20: l'asino (acc)

Frammento

al v. 21: cioè eterna (? acc)

157 (61 Pf.)

come disse lo straniero figlio di Mnesarco (?), così 10 concordo così disse lo straniero figlio di Mnesarco

oppure

(?) e quello (masch. o n.) con il

quale 10 concordo Frammento

158 (62 Pf.)

Steph. Byz. s.v. Licorea: Villaggio di Delfi. [Lo menziona] Callimaco nel terzo libro [degli Aitia].

Frammenti

159-160 (Faleco di Ambracia)

Frammento

159 (665 Pf.)

Schol. (Bab) Ov. Ib. 501 una leonessa della tua terra, fresca di parto, possa venirti incontro nella regione patria ed essere [per tel causa di una morte uguale a quella di Faleco] L'epirota Pegaso, mentre assediava Ambracia, uscì a cacciare e, imbattutosi in un cucciolo di leonessa, lo sollevò; ma la leonessa lo inseguì e lo sbranò, secondo la testimonianza di

Callimaco.

Frammento

160 (60 Pf. = SH 268A)

Et. M. codd. DMPR s.v. neonato (Bpégoc): il bambino appena nato, in senso proprio con riferimento a un uomo. Callimaco nel terzo libro degli Aitia usa [la parola] anche a proposito di un leoncino. Esposizione milanese di «Faleco di Ambracia» (col. Y) … dei locali (genere incerto) ... le mani (acc.), fu trucidato dalla leonessa che aveva partorito ... (5) ... promisero ad Artemide ...

Frammenti

161-162 (Le Tesmoforie attiche)

Frammento

161 (nuovo)

Frammento

162 (63 Pf.)

. con la fanciulla / il fanciullo ... molto oppressa in cuore ... donna chiamando ... vecchia vicin- cominciando/venendo ... vedere, infatti non lo richiamò mentre andava (?) (5) ...; e sùbito insorse l'ira della dea ..., e molto

profondamente afflitta nell'animo ... la signora sdegnata contro la ragazza. Perciò non è affatto pio per le vergini attiche vedere con i propri occhi i misteri di Deo Legislatrice (10) prima di giungere allo sposo, prima di adempiere il letto nuziale, a partire da quell'avvenimento.

198

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Scoli ... a una donna (spetta al v. 3”) ... Esposizione milanese delle «Tesmoforie attiche» (col. Y) ...

Frammento

163 (64 Pf.) (Il sepolcro di Simonide)

Nemmeno Camarina potrebbe fare incombere quanto la tomba rimossa di un uomo religioso: mulo, che gli Agrigentini mi avevano eretto Zeus Ospitale, di forza dunque lo abbatté un sentito nominare

(5) Fenice,

su di te un male tanto grande e infatti un giorno il mio tudavanti alla città rispettando uomo malvagio, se mai hai

sciagurato condottiero

della città, e inserì la

mia lapide in un baluardo, né riverì l'iscrizione, la quale diceva che [là] giacevo 10, il figlio di Leoprepe, il sacro uomo di Ceo, io che conoscevo (7) le cose straordinarie e che per primo escogitai la mnemotecnica, (10) né paventò voi, Polluce, i quali una volta poneste fuori dall'abitazione che stava per crollare soltanto me fra i commensali, quando - ahimé - la casa di Crannone rovinò sui grandi Scopadi. O signori, ... infatti ero/a ancora ... (15) ... riconduceva ... Scoli ... Camarin- (spetta al v. 19)...

Frammenti

164-165 (Le fonti di Argo)

Frammento 164 (65 Pf.) [acqua] (nom.o acc.o voc.) dal bel flusso il cui nome deriva da Automate,

ma [attingendo] da te ... lavano la serva che ha partorito Frammento

165 (66 Pf.)

eroine, discendenti (nom. o νος.) della Iaside ...; ninfa acquatica sposa di Posidone, nemmeno a quelle che si curano di tessere il santo abito di Era è lecito stare in piedi presso le canne del telaio prima di essersi versate in testa la tua acqua, sedute sul sacro masso (5) che, posto nel mezzo, tu circondi

scorrendo tutto intorno: augusta Amimone e cara Fisadia e Ippe e Automate, salute a voi, antichissime dimore di ninfe, e fluite lucenti, [fonti] pelasghe!

Frammenti 166-174 (Aconzio e Cidippe) Frammento

166 (67 Pf.)

Amore stesso insegnò ad Aconzio, quando il ragazzo ardeva per la bella vergine Cidippe, un'astuzia - perché egli non era certo scaltro -, affinché chiam- questo nome legittimo (prob. acc.) per tutta la vita. Infatti, signore Cinzio,

l'uno venne

da Iulide e l'altra da Nasso

(5) al sacrificio di buoi

compiuto in Delo per te, l'uno sangue della stirpe di Eussanzio e l'altra discendente di Prometo, entrambi begli astri delle isole. Molte madri

TRADUZIONE

199

avevano chiesto per i figli Cidippe ancora piccola come sposa da ottenere con doni, in cambio di buoi cornuti. (10) Infatti nessun'altra si recò all'umida

roccia del villoso vecchio Sileno o pose il piede delicato nella danza di Ariede dormiente, che più di lei somigliasse in viso all'aurora; ... spostamento/esaltazione, di nessuno/a (genere incerto) di quella (15) ... avere ... vi insediaste / si insediarono (?) ... annunciare / negare / annunciando (femm. pl.) | negando (femm. pl.) (?) ... solo (acc. masch. o nom. n. o acc. n. 0 avv.) essere ... (20) ... agli occhi ... Frammento

167 (68 Pf.)

e il fanciullo stava a cuore agli spasimanti, quando andava a scuola o ai bagni Frammento

168 (69 Pf.)

e molti bevitori di vino innamorati di Aconzio lanciarono a terra le gocce sicule dal fondo delle coppe Frammento

169 (70 Pf.)

ma da un altro arco l'arciere stesso ricevendo una punta di freccia Frammento

170 (71 Pf.)

Steph. Byz. s.v. Delo: ... da esso [derivano gli etnici] Delio, Della e Deliade. E Delite [è chiamato] 1] coro che va a Delo, [come dice] Callimaco nel terzo libro [degli Aitia].

Frammento

171 (72 Pf.)

perciò se ne andava in campagna con ogni pretesto Frammento

172 (73 Pf.)

ma proprio sulle cortecce portiate incise tante lettere, quante diranno che Cidippe è bella Frammento

173 (74 Pf.)

… me svergognato, ma perché ti ho imposto questo timore? ... Frammento

174 (75 Pf.)

e già la vergine era giaciuta con il fanciullo, come il rito ordinava che la fidanzata dormisse il sonno precedente alle nozze con un ragazzo maschio i cui genitori fossero in vita. Dicono infatti che Era una volta - cane, cane, férmati, animo sfacciato! Tu di certo canterai anche ciò che è empio! (5) Ti

giovasti assai di non avere affatto veduto le cerimonie della dea raccapricciante, perché anche di esse avresti rigurgitato la storia. Realmente la molta conoscenza è un grave male per chi non domina la lingua: davvero questi è un bambino che ha [in mano] uno stilo!

200

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ΑΙ mattino 1 buoi dovevano straziarsi l'animo vedendo

[riflesso] nell'ac-

qua (10) l'affilato coltello sacrificale; ma di sera la prese un brutto pallore e venne il morbo che ricacciamo sulle capre selvatiche e che mentendo chiamiamo «sacro»: penoso esso allora logorò la fanciulla fin quasi alla dimora di Ade. (15) La seconda volta si stendevanoi giacigli / stendevano 1 giacigli, la seconda volta la ragazza restava sette mesi malata di febbre quartana. La terza volta pensarono alla nozze, la terza volta ancora un brivido mortale si insediò in Cidippe. La quarta volta non indugiò più il padre ... (20) Febo (acc.); ed egli proferì quest'oracolo dal buio della cella: «Un grave giuramento per Artemide ostacola le nozze di [tua] figlia: mia sorella, infatti, non imperversava su Ligdami né intrecciava giunco nel tempio di Amicle né lavava via la sporcizia nel fiume Partenio [al ritorno] dalla caccia, (25) bensì stava fra il po-

polo di Delo allorquando tua figlia giurò che avrebbe avuto in sposo Aconzio, non un altro. Ma, Ceice, se vuoi prendermi per consigliere, adesso porterai a effetto il giuramento

di [tua] figlia: dichiaro infatti che

[le] unirai

Aconzio non come piombo ad argento, ma come elettro a splendente (30) oro. Tu, il suocero, sei sì per origine un discendente di Codro, ma il [tuo]

genero di Ceo [proviene] dai sacerdoti di Zeus Aristeo Icmio, che sulle cime del monte si curano di mitigare il sorgere dell'opprimente Mera (35) e di invocare da Zeus il soffio per il quale le quaglie urtano fitte nelle nuvole di lino.»

Disse il dio: egli quindi ritornò a Nasso e interrogò la fanciulla stessa; ed ella svelò sinceramente tutto il racconto e fu di nuovo sana e salva: per il resto (?), Aconzio,

[spettò] a te recarti (40) ... propria (? acc.) a Dionisiade.

E la dea vide rispettato il giuramento e le coetanee pronunciarono sùbito gli imenei della compagna non [più] rimandati. Non credo che allora, Aconzio, in cambio di quella notte nella quale toccasti il cinto virginale, (45) avresti accettato la caviglia di Ificlo che correva al di sopra delle spighe o [1 beni] che si era procacciato Mida di Celene, e del mio giudizio potrebbero essere testimoni coloro 1 quali non sono ignari del difficile dio. Da quelle nozze doveva venire un grande nome: (50) davvero infatti gli Aconziadi abitano ancora a Iulide come vostra stirpe numerosa e molto onorata, [ragazzo] di Ceo, e noi apprendemmo questo tuo invaghimento dall'antico Senomede, che un tempo pose tutta l'isola in un memoriale mitologico, (55) cominciando [col dire] come era abitata da ninfe coricie che un grande leone aveva cacciato dal Parnaso, e perciò la chiamarono Idrussa, e come Cirode (?) ... risiedeva a Carie, e come la abitarono Cari insieme a Lelegi, i cui sacrifici Zeus Alalassio riceve sempre (60) al clamore delle trombe, e [come] Ceo creatura di Febo e di Melia [le] fece assumere un altro nome; e

la tracotanza e la morte causata dal fulmine e gli stregoni Telchini

e Demo-

natte che insensatamente non si curava degli dèi beati, (65) [tutto ciò] inserì

TRADUZIONE

201

il vecchio nelle tavolette, e la vecchia Macelo, madre di Dessitea, che sole

gli immortali lasciarono illese quando sconvolsero l'isola a causa della scellerata tracotanza; e [raccontò] che cinse[ro] di mura quattro città, Megacle

(70) Cartea ed Eupilo figlio della semidea Criso la città di Iulide dalla belle sorgenti e Acco Peessa sede delle Cariti dalle belle trecce e Afrasto il villaggio di Coresia, e mescolato a esse narrò, [ragazzo] di Ceo, il tuo intenso amore

(75) il vecchio sollecito della verità, donde la storia della fanciulla

corse alla nostra Calliope. Scoli al v. 23: ... da... al séguito di Ligdami ... al v. 25: Partenio: fiume della Paflagonia nel quale si bagnava Artemide, donde il fume ebbe il nome di fiume Partenio Esposizione milanese di «Aconzio e Cidippe» (col. Z) ... della vergine da ... di Cidippe con una bellissima mela ... «Per Artemide, sposerò Aconzio» ... come (?) ... (5) ... spos- (9)...

Frammento 175 (76, 2 5. Pf. + nuovo) (Primo aifion sconosciuto) . molt- assopendo/assopiresti (?) ... a che cosa te (?) di Zeus ma/altr- ...

di Pisa ...

Esposizione milanese del Primo aition sconosciuto (col. Z) ...

Frammento

176 (nuovo) (Secondo aition sconosciuto)

Esposizione milanese del Secondo aition sconosciuto (col. Z) ... (30) ... (35) ... ammenda (? nom. o acc.) ...

Frammento

177 (nuovo) (Terzo aition sconosciuto)

... ESSETE Esposizione milanese del Terzo aition sconosciuto (col. Z) ... essere: ... (40) ... €... e ... (col. I)... prontamente ...

Frammenti

178-180 (Il rito nuziale eleo)

Frammento 178 (76, 1 Pf.) Suvvia, dimmi / Ditemi ... vecchie (acc.) un anno / figlio / figlia (?) Frammento 179 (77 Pf.) lasciò a Fileo l'Elide, dimora di Zeus, da dominare Frammento

180 (77a Pf. + 158, 1 Pf.)

... Indic- ... parol- ... ero/era ...

202

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Esposizione milanese del «Rito nuziale eleo» (col. I) Suvvia, dimmi / Ditemi ... vecchie un anno / figlio / figlia (D: Dice che in Elide ... fanciulle (acc.) che andavano spose ... indossando pepli (5) ... e lancia (nom. o acc.) ... dice ... uomo armato (acc.) ...

Frammento 181 (78 Pf. + 158, 2 5. Pf.) (L'ospite di Isindo) Oh se tu/te la lancia (nom. o acc.) / lancia (voc.) funesta ... né (?) ... Esposizione milanese dell'«Ospite di Isindo» (col. I) Oh se tulte la lancia / lancia funesta ... : (10) ... di Ismdo (agg. sg: acc. masch. o nom. n. 0 acc. n.) ... [mancano i righi 14-24] ... (25) ...

Frammento

182 (79 Pf.) (Artemide dea del parto)

Per quale motivo ... invocano Esposizione milanese di «Artemide dea del parto» (col. I) Per quale motivo ... invocano: Successivamente dice che le donne con un parto difficile chiamano in atuto Artemide, sebbene ella sia vergine, perché ... (30) ... fu procreata o perché Ilizia per ordine di Zeus le concesse di avere questa prerogativa o perché ella liberò dalle doglie la propria madre quando stava partorendo (35) Apollo.

Frammenti

183-185 (Frigio e Pieria)

Frammento 183 (81 Pf.) possesso (? nom. o acc.) ... sent- ... Frigio: ... si rivolge (5) Frammento 184 (80 Pf. + 82 Pf.) su una nube (nom. o acc.) ... oh se infatti non ... dire ciò ... da me (2) ... » Disse dunque [così]; ma non un diadema ... non orecchini, (5) non un tes-

suto lidio ... serve carie, non ... - [cose] per le quali voi donne ... vi allietate specialmente - ti allontanarono dall'assennato giudizio; e arrossando le tue guance di pudore come di porpora (10) dicesti con gli occhi ... dall'altra parte: « ... vorrei tornare ... con più numerosi.» ... e intuì il tuo pensiero ... che bramavi per la patria. (15) C'era infatti, tra gli abitanti di Miunte e quelli di Mileto, l'accordo di andare in comune al tempio della sola Artemide Neleide, ma tu allora stringesti un'amicizia più sicura di [quelle che si realizzano con] sacrifici di buoi e dimostrasti che Cipride produce oratori non di poco più validi del celebre (20) [eroe] di Pilo. Infatti molte legazioni venute da entrambe le città erano tornate a casa in viaggi inutili. ... Frammento

185 (83 Pf.)

… Frigio rispettava Pieria.

TRADUZIONE

Frammenti

186-187 (Euticle di Locri)

Frammento

186 (84 Pf.)

203

Quando venisti da Pisa, Euticle, dopo avere prevalso su uomini Frammento

187 (85 Pf.)

... per un affare pubblico ... andasti Mis- ... da dove tornando indietro ... venisti portando come dono dei muli da carro: (5) ma quando il popolo, che si sente sempre soffocare contro i ricchi, disse che li avevi presi con dei patti a danno della patria, tutti emisero di nascosto un voto sfavorevole; e alla tua

statua, che la città stessa di Locri aveva innalzato con il bronzo che 1 plasmatori per nome chiamano temeseo, (10) battitori (?) intorno alle opere (?)

delle api / il colpo funesto fecero [danni] numerosi e maturazione di frutti colui vare gli scellerati con occhi

(?) tagliò (?) di lisce ... tutto intorno, gli infami invisi ai beati; perciò impose loro una difficile che chiamano Sorvegliante, che non può ossercompiaciuti (15) ...

Esposizione milanese di «Euticle di Locri» (col. I) Quando venisti da Pisa, Euticle, dopo avere prevalso su uomini: Dice che l'olimpionico Euticle, inviato come ambasciatore e ritornato (40) in patria con dei muli che aveva preso in dono da un ospite, venne falsamente accusato di averli presi a scapito della città: e per questo come condanna votarono (col. II) di mutilare la sua statua. Ma dopo che una pestilenza si abbatté [sulla città], 1 suoi concittadini seppero da Apollo che essa era stata scagliata contro di loro perché lo avevano disonorato. Essi [allora] onorarono l'effigie di Euticle al pari (5) di quella di Zeus e moltre, avendo costruito anche un altare, ... all'inizio del

mese.

Aitia, libro quarto Frammento 188 (86 Pf.) (Quarto aition sconosciuto) Muse (prob. voc.), a me re (numero e caso incerti) ... cantare Esposizione milanese del Quarto aifion sconosciuto (col. II) Muse, a me re ... cantare: (10) Questa prima elegia ... stori- ... [mancano i righi 1420]

Frammenti

189-191 (La Dafneforia delfica)

Frammento

189 (87 Pf.)

da qui / da dove Dipniade lo riceve Frammento

190 (88 Pf.)

Schol. Ap. Rh. II 705-711 Ὁ Delfine] Leandro e Callimaco affermarono che il custode dell'oracolo di Delfi si chiamava Delfine e lo stesso Callimaco dice che era una dragonessa chiamata Delfina al femminile. (Schol. g Leandrio dice che la dragonessa uccisa si chiamava Delfina al femminile)

Frammento

191 (89 Pf.)

Tertullian. De coron. VII 5: ... Hai Pindaro e Callimaco, il quale narra che anche Apollo,

dopo avere ucciso il drago di Delfi, vestì l'alloro in quanto supplice. Esposizione milanese della «Dafneforia delfica» (col. ID ... infatti Apollo da fanciullo, avendo vinto il drago di Pito, si lavò le mani (25) nel Peneo e 1'(?) alloro (acc.) che stava vicino ... dopo avere reciso mette intorno al (masch. o

Frammento 192 (90 Pf.) (Abdera) Lì, Abdero/a, dove ora ... conduce la vittima espiatoria Esposizione milanese di «Abdera» (col. II) Lì, Abdero/a, dove ora ... conduce la vittima espiatoria: Ad Abdera un uomo com-

prato pasto fuori viene

(30) come purificazione della città, che sta in piedi su un mattone grigio e gusta un sontuoso, dopo essersi rimpinzato viene condotto alle porte chiamate Pruridi; poi dalle mura (35) gira in cerchio e purifica tutt'intorno la città per un anno (?) e allora colpito con pietre dal sacerdote e dagli altri, finché non è cacciato dai confini. (40)

Frammenti

193-195 (Melicerte)

Frammento 193 (91 Pf.) ... Melicerte (voc.), l'augusta Bina su una sola / te su una sola

TRADUZIONE

Frammento

205

194 (SH 275)

chiunque / il quale ignaro del folle salto di Ino Frammento

195 (92 Pf.)

... Se le antiche storie di Leandro ... dicono qualcosa. Esposizione milanese di «Melicerte» (col. II) ... Melicerte, l'augusta Bina su una sola / te su una sola: (col. III) Successivamente: dopo che Ino si gettò in mare con il figlio Melicerte, il corpo di Melicerte fu spinto sulla spiaggia di Tenedo; i Lelegi, che allora abitavano li, gli costruirono (5) un altare, sul quale la cittadinanza - qualora abbia grandi motivi di timore - compie il seguente sacrificio: una donna, dopo avere sacrificato il proprio neonato, viene sùbito accecata. Questa [cerimonia] fu in séguito abolita, quando (10) i discendenti di Oreste si stanziarono a Lesbo.

Frammento 196 (93 Pf.) (Teodoto di Lipari) Stirpe (nom. o acc. 0 νος.) più dolce / dolce (v./. effimera / più effimera (?)) ... del nettare ... dell'ambrosia, la terra vi fece scaturire e voi andate attra-

verso la lingua come le cose più soavi di tutte quelle che sono oltre il mosto. Infelici, lui/lei/esso (acc.) un po' di più di quanto (avv. o agg. (acc. masch. o nom. n. 0 acc. n.) l'arido (5) labbro (nom. o acc.) ... di un uomo che rifiuta ... ordinava ... una sola (acc.) isola (7) ... abitando/fondando Lipar- ... Tirren... (10) giunse portando ... molte cose (nom. o acc.) e il (nom. o acc. n.) ...

disse infatti (?) ... sacro se di Febo ... dal popolo ... (15) ... dopo che proprio questo (? nom. o acc. n.) ... sulla ... isolano (? acc. masch. o nom. n. o acc. N.) … Esposizione milanese di «Teodoto di Lipari» (col. III) Stirpe effimera / più effimera (?) ... del nettare ... : ... Lipares- ... Tirren- ... (15) ... [mancano i righi 17-23] ...

Frammenti

197-198 (Limone)

Frammento 197 (94 Pf.) Il cadavere (acc.) ... Frammento

198 (95 Pf.)

... padr- ... piangesti/piangendo/piansi/pianse ... ahimé!, e ... «del Cavallo e della Fanciulla» ... (5) Esposizione milanese di «Limone» (col. III) Il cadavere ... (25) ... : ... chiusa a chiave la propria figlia Limone - che era stata segretamente sedotta - in camera sua con un cavallo, si servì di questo per ucciderla: perciò ad Atene [c'è] un luogo [chiamato] «del Cavallo e della Fanciulla»; e (30) colpito con una lancia colui che era giaciuto con lei, ne legò il cadavere a un cavallo, sicché esso fu trasci-

206

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

nato per la città.

Frammento

199 (96 Pf.) (Il cacciatore sbruffone)

Gli dèi sono tutti sdegnosi con gli spavaldi, ma fra tutti Artemide ... Esposizione milanese (col. III) Gli dèi sono avere catturato (35) un mide coloro i quali la pioppo; si addormentò

del «Cacciatore sbruffone» tutti sdegnosi con gli spavaldi, ma fra tutti: Un cacciatore ..., dopo cinghiale, affermò che non devono dedicare [le loro prede] ad Artesuperano e appese in proprio onore la testa del porco selvatico a un sotto questo, la testa gli cadde addosso (40) ed egli morì.

Frammento 200 (97 Pf.) (Le mura pelasgiche) La terra aveva me, muraglia pelasgica dei Tirreni Esposizione milanese delle «Mura pelasgiche» (col. IV) La terra aveva me, muraglia pelasgica dei Tirreni: Il racconto riguarda i confini (5) dei Pelasgi ad Atene e il muro da loro costruito.

Frammenti 201-202 (Eutimo) Frammento 201 (98 Pf.)

Di Eutimo quante cose (nom. Ο acc.) presso Zeus che domina Pisa Frammento 202 (99 Pf.) Plin. Nat. hist. VII 152: Fu eroicizzato in vita e nel pieno possesso delle sue facoltà per ordine del medesimo oracolo [di Delfi] e con l'assenso di Giove, sommo fra gli dèi, il pugile Eutimo, sempre vincitore e una volta sola vinto a Olimpia. La sua patria era Locri in Italia; vedo che Callimaco si è sorpreso come di niente altro per il fatto che una sua effigie in quel luogo e un'altra a Olimpia vennero toccate da un fulmine nel medesimo giorno e per il fatto che il dio ordinò di compiere sacrifici [in suo onore], cosa che fu comunemente praticata sia quando era vivo sia quando era morto, e non c'è niente altro di sorprendente sul suo conto se non che questo sia piaciuto agli dei. Schol. Paus. VI 6, 4: Le vicende del pugile Eutimo, che anche Callimaco menziona.

Esposizione milanese di «Eutimo» (col. IV) Di Eutimo quante cose presso Zeus che domina Pisa: (5) [Racconta] che a Temesa un eroe lasciato indietro dalla nave di Odisseo imponeva un tributo ai popoli indigeni e limitrofi, cioè che essi, portandogli un letto e lasciandogli una fanciulla da marito, se ne an-

dassero senza voltarsi (10) e che al mattino 1 genitori se la portassero via donna invece che vergine. Questo tributo lo abolì il pugile Eutimo ... dicendo che le all'eroe ... (15) ... [mancano i righi 18-21]

Frammento 203 (100 Pf.) (La statua antichissima di Era a Samo)

non eri ancora l'opera ben levigata di Scelmide, ma secondo un antico uso un'asse non levigata dagli scalpelli; così infatti innalzavano allora statue agli

TRADUZIONE

207

dèi: infatti anche Danao pose a Lindo una semplice effigie di Atena Esposizione milanese della «Statua antichissima di Era a Samo» (col. IV) ... la statua di Fra divenne antropomorfa al tempo del re Procle: il legno con il quale fu fatta (25) ... ma da Argo dicono che ... in epoca ancora antica venne portata sotto forma di asse del tutto non lavorata, visto che la statuaria non era ancora progredita.

Frammento 204 (101 Pf.) (L'altra statua di Era a Samo)

All'Era di Samo una vite serpeggia intorno al capelli Esposizione milanese dell'«Altra statua di Era a Samo» (col. IV) All'Era di Samo una vite serpeggia intorno ai capelli: (30) Si dice che all'Era di Samo una vite serpeggia intorno ai capelli e sulla base [della statua] è gettata una pelle di leone, come spoglie dei figli bastardi di Zeus, Fracle e Dioniso. (35)

Frammento 205 (102 Pf.) (Pasicle di Efeso) Governavi Efeso, Pasicle, ma da un banchetto Esposizione milanese di «Pasicle di Efeso» (col. IV) Governavi Efeso, Pasicle, ma da un banchetto: Dice che Pasicle, signore di Efeso, tornava da un convito; alcuni uomini, che si misero ad aggredirlo, erano in difficoltà a causa del buio, ma quando arrivarono al (40) tempio di Fra, la madre di Pasicle - che era

sacerdotessa - per il rumore dell'inseguimento ordinò di portarle fuori una lampada; (col. V) ed essi, disponendo della luce, uccisero suo figlio.

Frammento 206 (103 Pf.) (Androgeo)

O eroe sulla poppa, dal momento che una tavola canta questo Esposizione milanese di «Androgeo» (col. V) O eroe sulla poppa, dal momento che una tavola canta questo: Dice che il cosiddetto «eroe sulla poppa» è Androgeo: (5) anticamente infatti lì c'era l'ormeggio del Falero, dove si ormeggiavano le navi prima che esistesse il [porto del] Pireo.

Frammento 207 (104 Pf.) (Esidre trace) Per il sangue di Esidre trace molte cose (nom. o acc.) di Taso Esposizione milanese di «Esidre trace» (col. V) Per il sangue di Esidre trace molte cose di Taso: Dice che 1 Pari, dopo avere ucciso il tracio Esidre, (10) vennero lungamente assediati Tas- ... il dio vaticinò che bisognava pagare in ammenda ciò che fosse gradito ai Bisalti; 1 ... ai Tasi che chiedevano ... mandare ... (15)...

Frammento 208 (105 Pf.) (Il trascinamento di Antigone)

208

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Esposizione milanese del «Trascinamento di Antigone» (col. V) ... (20) ... scind- (?) ... sacrifi- (?) ... disaccordo (? acc.) ... indic- ... né (?) affezionata (acc.) al fratello / e disse (?) che 1] fratello non (?) abbandon- (? perf) ... Antigone (acc.) come nemmeno quell- / muov- (impf. o ind. aor.)

Frammenti 209-210 (Caio romano) Frammento 209 (106 Pf.) Così ... nascete (ind. o imperat.)

| nascevate di tutta la Grecia, così com-

piere/compia Frammento 210 (107 Pf.) Plin. Nat. hist. III 139: Il popolo dei Liburni segue l'Arsia fino al fiume Tizio. Ne facevano parte 1 Mentori, gli Imani, gli Enchelei, 1 Bulini e quelli che Callimaco chiama Peucezi: ora esso è tutto genericamente designato con l'unico nome di Illirico. Esposizione milanese di «Caio romano» (col. V) Così ... nascete/nascevate di tutta la Grecia, così compiere/compia: (25) Dice che, mentre 1 Peucezi assediavano le mura di Roma, il romano Caio abbatté il loro comandante

balzandogli contro, ma venne ferito alla coscia: in séguito, quando si affliggeva per il fatto di zoppicare, (30) mise fine allo scoraggiamento allorché fu rimproverato da sua madre.

Frammenti 211-212 (L'àncora della nave Argo lasciata a Cizico) Frammento 211 (108 Pf.)

Argo approdò anche/sia a te, Panormo, e/sia alla/la tua acqua (nom. o acc.) Frammento 212 (109 Pf.) Schol. Ap. Rh. I 955-960 c ai piedi della fonte Artacia] Artacia [è] una fonte nei dintorni di Cizico, che menzionano

sia Alceo sia Callimaco,

[dicendo] che si trova nella terra dei Do-

lioni. Esposizione milanese dell'«Àncora della nave Argo lasciata a Cizico» (col. V) Argo approdò anche/sia a te, Panormo, e/sia alla/la tua acqua: Dice che gli Argonauti, sbarcati a Cizico per rifornirsi d'acqua, lasciarono lì la (35) pietra che usavano come àncora, perché era troppo leggera - essa venne poi consacrata ad Atena -, e ne presero a bordo un'altra più pesante.

Frammento 213 (110 Pf.) (La Chioma di Berenice)

Avendo guardato nei disegni tutto lo spazio celeste, come / e come si muovono ... (5) ... proprio Conone nell'aria vide me, ricciolo di Berenice, che ella dedicò a tutti gli dèi ... (10) ... segno (prob. acc.) della lotta notturna

(9)... … (15) ... (20) ... (25)... coraggiosa (7 acc.) ... (30) ...

… (35)...

TRADUZIONE

209

... gluro per il tuo capo e per la tua vita (40) ... il limpido rampollo di Tia sorvola, immane spiedo di tua madre Arsinoe, e in mezzo (45) all'Ato anda-

rono le navi funeste dei Medi. Che cosa potremmo fare noi riccioli, quando monti di tale grandezza si arrendono al ferro? Perisca la stirpe dei Calibi, i quali per primi lo fecero apparire che spuntava - mala pianta - dalla terra e mostrarono l'opera dei martelli! (50)

Appena da poco reciso mi rimpiangevano le chiome sorelle, e sùbito 1] fratello di Memnone etiope si slanciava roteando le ali veloci, alito fecondo,

cavallo della locrese Arsinoe cinta di viole, e mi sospinse con un soffio e portandomi per l'umida aria (55) mi depose rapidamente sul casto grembo di Cipride. Zefiritide stessa, ... abitatrice della spiaggia di Canopo, lo aveva inviato in volo alla bisogna, affinché non solo l'aurea corona della sposa Minoide occupasse il cielo sugli uomini (60) annoverata per sempre fra molti, ma

splendessi

anch'io,

bel ricciolo di Berenice.

Mentre

lavandomi

nelle acque salivo verso gli immortali, Cipride mi pose nuova costellazione fra le antiche: ... (65) ... andando (prob. nom. masch. sg.) davanti d'autunno

nell'Oceano ... Ma anche se ... (70) - non sdegnarti, vergine di Ramnunte: nessun bue tratterrà le [mie] parole ... audacia (prob. acc.) gli altri astri ... - questo non mi arreca tanto piacere quanto mi angustio perché non toccherò più la sua (75) testa, dalla quale, quando era ancora virginale, ho bevuto molti semplici [oli] e non godetti di unguenti da donna. [I POxy. 2258 C non contiene versi che corrispondano ai vv. 79-88 della traduzione catulliana] … (90) ... vicini ... l'Acquario e ... Orione!

Salve (2), cara ai figli ... (942) ... (94b). Scoli ai vv. 26 ss. (N: ... Berenic- ... uccise/vinse/prese ... Tolemeo ... ων di vergine ... piccolo ... al v. 45: immane spiedo di Arsinoe: immane spiedo (βουπόροορ [È] lo spiedo (6BeAicxo[c]) ... Ato (acc) della madre Arsinoe: [lo] ha detto come titolo onorifico, dal momento che [Berenice era] figlia di Apama e di Maga al v. 48: perisca la stirpe dei Calibi: τ Calibi [sono] un popolo della Scizia, presso i quali per primi fu scoperta la lavorazione del ferro e forse per questo recidere si dice scotennare (repiaev[Bi]co1) ... con il ferro scitico alv. 49: dalla terra (γειόι Oev}): significa «dalla terra» (ἐκ τῆς y[fi]o) la nascita

del ferro l'ha chiamata mala pianta

αἱ v. 52: sùbito (nıpöx(are)): sùbito (ed0éwc)

e

sùbito il fratello di Memnone: il fratello di Memnone [è] Zefiro: Memnone infatti figlio ... Esiodo: «Ad Astreo Aurora partorì 1 vènti». A proposito di Memnone, Omero [dice]: «che (acc.) lo splendido figlio della lucente Aurora uccise»; ed Esiodo: «A Titono Aurora partorì Memnone armato di bronzo» ... alv. 53: veloci: variegate alito fecondo: ... e... € alito fecondo [sigmfica] - grazie alla fertilità - soffio delicato ai vv. 54-57: ... essere ghermito da Zefiro e deposto sul grembo di ... mandato (part. gen., prob. masch.), come dice: Zefiritide stessa lo ... Arsinoe ha ad Alessandria un terreno ... rivolto ... è Locri Epizefiri: perciò [ella] era chiamata locrese. Si dice ... Zefiro ... alv.55:... umida: molle al v. 65 s.:...

al vv. 65-68:

... bisogna intendere, dal momento

che la costellazione del Le-

210

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

one si trova sotto l'Orsa; Arato [scrive]: «Il Leone risplende vivamente sotto entrambe le zampe», vuol dire dell'Orsa. Dicono (?) che la Chioma somigli alle Pleiadi riguardo alla posizione/forma,

per il fatto che (?) ... e serrati

... astri si trovano, come

anche Diofil- nel

[carme] intitolato ... [scrive] così: « ... quella costellazione palese (prob. acc.) per l'aria, | fissando (femm. sg.) gli occhi presso il Carro astrale: | quest'ultimo (acc.) dunque tutta (? prob. nom) ... sempre collocata (prob. nom.) ... | estesa (nom. o dat.) si diffonde e come (Ὁ) molti e fitti astri | d'intorno configurano e ... è visibile delle spalle | della Vergine e sta sospesa non lontano dal Leone, | il Leone celeste, sfior- ... | la cima (gen.) del fianco e la se-

gue da vicino Boote | osservando l'Orsa ... ». ... ha detto la Chioma per il fatto che Boote sorge e tramonta dopo di essa. Creatura di Acmone: ... Urano: questi infatti [è] figlio di Acmone. «Creatura» (îvic) [È] propriamente il lattante [e la parola deriva] da «rafforzare»

([ivodv), cioè «allattare» ... sbarretta/tabella (nom. o acc.). Andando davanti d'autunno: in comune (?) ... è stato detto a proposito della levata e del tramonto. Infatti - dice - la Chioma sorge prima dell'equinozio autunnale ... e tramonta dopo l'equinozio primaverile ai vv. 67-70: andando davanti. ... sorgend- al mattino nell'equinozio autunnale e tramontand- al mattino nel solstizio estivo (?) ... Esiodo, sorgend- ma tramontand- verticalmente ... alv. 72: bue parole: moneta che sborsavano i chiacchieroni ... al v. 73: in due parti (9)... al v. 75 5.: questo non mi arreca tanto: il ricciolo - dice - non tanto ha piacere perché è in cielo, quanto si cruccia di non essere cresciuto insieme (?) sulla testa ... al v. 77: ho bevuto molti semplici: … alv.78:... alv.92:... astr- al v. 93 s.: siano vicini l'Acquario e Orione

Catullo LXVI Colui che scorse tutte le luci del grande universo, che conobbe il sorgere e il calare delle stelle, come si oscuri l'infiammato fulgore del sole ardente,

come

scompaiano

in periodi determinati le costellazioni, come

un dolce

amore, confinando furtivamente Trivia sotto le rocce del Latmo, (5) la attiri

giù dalla sua orbita nell'aria, quel medesimo Conone nella luce celeste vide splendere chiaramente me, chioma della testa di Berenice, che ella promise a molte dee tendendo le braccia levigate, (10) al tempo nel quale il re, distolto dal recente matrimonio, era andato a devastare la terra assira, recando

le dolci tracce della rissa notturna che aveva compiuto per le spoglie della vergine. È forse odioso l'amore alle spose novelle? Certo esse vanificano la gioia dei genitori (15) con le finte lacrimucce che versano copiosamente sulla soglia della camera nuziale. Non è vero - così mi assistano gli dèi! - il loro lamento. Me lo ha mostrato la mia regina con le sue molte lagnanze, quando 1] recente marito guardò verso fiere battaglie; (20) e tu, abbandonata, piangesti non solo il letto vuoto ma di più la triste separazione dal caro fratello. Quanto profondamente l'affanno ti divorò le viscere afflitte! Come allora, mentre eri di tutto cuore angosciata, nel deliquio dei sensi ti venne meno la ragione! Eppure io di certo ti (25) sapevo coraggiosa fin da piccola ragazza. Hai forse dimenticato la tua valorosa azione - quando conseguisti il connubio regale - che altri più forte non oserebbe? Invece allora, congedando afflitta tuo marito, che parole dicesti! Per Giove, quanto spesso ti strofinasti

TRADUZIONE

gli occhi con la mano!

(30) Quale dio così grande ti cambiò? O

211

fu il fatto

che chi ama non vuole stare lontano dalla persona cara? E così allora mi promettesti, non senza sangue di toro, a tutti quanti gli dèi in cambio del coniuge diletto, se avesse fatto ritorno. Egli in un tempo non lungo (35) conquistò l'Asia e la aggiunse alla terra d'Egitto. E 10, assegnata per questi eventi al consesso celeste, sciolgo 1 voti antichi con una funzione nuova. Contro voglia, o regina, mi allontanai dalla tua testa, contro voglia: lo giuro per te e per il tuo capo; (40) e se qualcuno ha vanamente giurato per esso, subisca la pena adeguata! Ma chi può pretendere di essere pari al ferro? Fu abbattuto anche quel monte, che nel mondo è il più alto sul quale vola la limpida progenie di Tia, quando i Medi crearono un nuovo mare e quando la gioventù (45) barbara navigò con una flotta in mezzo all'Ato. Che faranno 1 capelli, se cose di tale grandezza si arrendono al ferro? Per Giove, perisca tutta la stirpe dei Calibi e chi in principio cominciò a cercare sottoterra i filoni e a forgiare la durezza del ferro! (50)

Separata da loro poco prima, le chiome sorelle piangevano il mio destino, quand'ecco che si presentò il fratello di Memnone etiope, battendo l'aria con le penne ondeggianti, cavallo alato della locrese Arsinoe. Esso, sollevandomi, vola via fra le ombre dell'ètere (55) e mi depone sul casto grembo di Venere. Zefiritide stessa, gradita abitatrice delle spiagge di Canopo, aveva inviato a quello scopo il suo servitore ... affinché nella varia luce del cielo non solo l'aurea corona proveniente dalle tempie di Arianna (60) stesse infissa, ma splendessimo anche noi, spoglie votive di una testa bionda. Mentre umida passavo dal flutto agli spazi divini, la dea mi pose nuova costellazione fra le antiche: toccando infatti le luci della Vergine e del feroce Leone, (65) unita a Callisto licaonia, mi volgo al tramonto come guida davanti al lento Boote, che tardi si immerge appena nell'Oceano profondo. Ma sebbene di notte mi calchino le orme degli dèi e la luce mi restituisca alla canuta Teti (70) (con tua buona pace mi sia ora lecito dirlo, vergine di

Ramnunte: io infatti per nessun timore nasconderò il vero, neanche se gli astri mi faranno a pezzi per le parole moleste con le quali espongo veracemente i segreti del cuore), non tanto mi rallegro di questo, quanto mi angustio perché sarò lontana per sempre, (75) sarò lontana dalla testa della mia signora, con la quale io, mentre un tempo era vergine, priva di tutti gli unguenti da sposa, molti umili ne bevvi. Ora voi, che la fiaccola ha maritato con la sua desiderata luce, non con-

cedete il corpo agli unanimi coniugi, (80) lasciando cadere la veste e denudando 1 seni, prima che l'alabastro mi versi piacevoli offerte, l'alabastro di voi che onorate 1 diritti in un casto letto. Ma 1 doni cattivi di colei che si dà a un impuro adulterio, ah!, inefficaci se li beva la polvere leggera: (85) 10 infatti non cerco ricompense dalle indegne. Ma invece, o spose, sempre la

212

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

concordia, sempre l'amore abiti costante le vostre dimore. E tu, regina, quando contemplando gli astri placherai la dea Venere nei giorni festivi, (90) non lasciare priva di sangue me che sono tua, ma fa' piuttosto in modo con ricche offerte (perché raddoppiare le costellazioni?) che 10 diventi chioma regale: prossimo all'Acquario splenda Orione! Esposizione milanese della «Chioma di Berenice» (col. V) Avendo guardato nei disegni tutto lo spazio celeste, come / e come si muovono: (40) Dice che Conone collocò fra le costellazioni il ricciolo di Berenice, che ella promise di dedicare agli dèi, qualora [il marito] tornasse dalla battaglia contro la Siria.

Frammento 214 (111 Pf.) Steph. Byz. s.v. Mitilene: La più grande nome deriva] da Mitilene figlia di Macare [suo] fondatore e altri [asseriscono che la Mitilene, donde Callimaco chiama Lesbo chiama Mitonidi le donne di Lesbo.

città di Lesbo. Ecateo nell'Europa [dice che ἢ o di Pelope, ma altri [affermano] che Mitile fu il città trae 1l nome] da Mitone figlio di Posidone e Mitonide nel quarto libro [degli Aitia]. Partenio

Frammento 215 (112 Pf.) (Epilogo) ... quando la mia musa ... -rà di (?) ... e delle Cariti ... e nutrice (7 νος.) della

nostra (?) signora non te ingann- ... disse del tutto buona e del tutto efficace ... quell- (forse gen. sg.), con il quale le Muse - mentre pascolava molte greggi - (5) scambiarono parole presso l'orma dell'impetuoso cavallo: salve e vieni con più vantaggioso benessere! Salve molto anche a te, Zeus, e preserva l'intera casa dei signori! Io invece andrò nel pascolo pedestre delle Muse.

Aitia, frammenti che forse appartengono al terzo o al quarto libro Probabilmente dal libro terzo Frammenti

216-234

Frammento 222 (143 Pf.) marziali (nom. o acc. n.) | guance (nom. o acc.) (2) (1) ... Frammento 228 (149 Pf.) ... curv- / pietr- cubic- (2) ... Frammento 229 (150 Pf.) ... pepl- (2) ... vanno (?) (3) ... ma su (?) (4)... Frammento 230 (151 Pf. + 157 Pf.) ... sübito cas- / e sübito simil- (4) ... occhi (acc.) (5) ... come (?) aveva/abbi

(6) ...

Frammento 231 (152 Pf.) man- (1) ... luogo (? acc.) (2)... Frammento 233 (154 Pf. + 155 Pf.) giaceva (1) ... al tremendo (masch. o n.) (2) ... tremend-/lod-/le terr- (4)...

(2?) (3) ...

Probabilmente dal libro terzo Frammenti

235-250

Frammento 235 (159 Pf.) Posidone (?) (1) ... Frammento 236 (160 Pf.) ὦν compatt- (?) (3) ... divennero (?) (4) ... flutto (? nom. o acc.) (6) ... Frammento 238 (162 Pf.) sede (nom. o acc.) (1) ... potresti essere (3) ... all'ala (4) ... Frammento 239 (163 Pf.) ... a Febo (2)...

214

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Frammento 242 (166 Pf.) … balzò su (7) (2) ... Frammento 243 (167 Pf.) .. USO (3) ... Frammento 244 (168 Pf.) ... canuta (? caso incerto) / cittadin- (?) (4) ... neg- (? impf. o ind. aor.) (6) ... grand- (?) (8) Frammento 245 (169 Pf.) ... esule/disertore (?) (5) ... Frammento 250 (174 Pf.) uom- (1)...

Forse dal libro quarto Frammento 251 (175 Pf.) ... glacevano (?) (5) ... della pira ... alta (caso incerto) / insieme diletta (caso incerto) ...

Frammenti di incerta collocazione che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia Frammento 252 (485 Pf.) e cantando venne il coro maloente

Frammento 253 (481 Pf.), dubbio

ed essi incoronarono il povero infelice Frammento 254 (488 Pf.)

davvero poi cavalca un puledro atracio stretto dal morso / sottrattosi a un lupo (ἢ Frammento 255 (499 Pf.) ma non ebbe ascoltatori Frammento 256 (502 Pf.)

che (acc. femm.) una tenera fanciulla proteggeva da sola Frammento 257 (534 Pf.)

e intorno al braccio sinistro l'ampolla piena (acc.) Frammento 258 (540 Pf.)

ricevendo (nom. pl.?) libagioni per 1 morti Frammento 259 (574 Pf.)

che (masch.o n.) / per il qual motivo si nutre di papavero Frammento 260 (553 Pf.)

e anch'io - come ordinava Pitagora - dico di tenere le mani lontane dalle fave, cibo tormentoso Frammento 261 (SH 300-270) ... Costellazione funesta (nom. o acc. 0 voc.) Frammento 262 (586 Pf.)

se sai [che c'è] un dio, sappi che a una divinità è anche possibile fare tutto Frammento 263 (588 Pf.)

e ancora da lungo tempo l'uomo tessalo trascina gli uccisori intorno al sepolcro dei morti Frammento 264 (597 Pf. = SH 268C)

sollevando la pelle della fiera in modo che gli pendesse dalle spalle

216

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Frammento 265 (607 Pf.) forse tu, Teogene, troncasti la mano di Calliconte? Frammento 266 (611 Pf.)

sedevi sul pozzo Callicoro senza notizie di [tua] figlia Frammento 267 (615 Pf.) Schol. Dion. Per. 364 appare il promontorio di Zefiro: e sotto di esso ci sono i Locresi] Questi [ritiene che il nome di Locri Epizefiri derivi] dal monte di Zefiro, mentre Callimaco e molti altri dicono che Locri si chiama Fpizefiri perché è rivolta verso il vento Zefiro. Eustath. ad Dion. Per. 364: Monte Zefirio ... dal quale sembra che prese nome Locri Epizefiri, in quanto è situata vicino a esso. Altri invece dicono che [la città] si chiama così per distinguersi da [quelle di] altri Locresi, visto che esse sono situate altrove mentre questa [è rivolta] verso il vento Zefiro, come è stato [da me] già scritto da qualche parte.

Frammento 268 (616 Pf.) Schol. Dion. Per. 369 la città di Crotone ben coronata] Ha detto Crotone ben le vittorie [che le derivavano] dai [suoi] abitanti, come racconta Callimaco. Crotoniati, dopo avere vinto gli agoni sacri, vennero incoronati. Eustath. 369: [Scrive] ben coronata perché molti Crotoniati, vincendo negli agoni sacri venivano incoronati.

coronata per Infatti molti ad Dion. Per. della Grecia,

Frammento 269 (632 Pf.) Schol. (AD) Hom. I. XVII 487: Zeus, innamoratosı di Callisto figlia di Licaone, le si univa all'insaputa di Fra. Ma la dea, venuta a conoscenza [del fatto], la trasformò in orsa e

ordinò ad Artemide di saettarla come [se si trattasse di una] fiera. Però Zeus, sollevandola in cielo, la collocò fra le costellazioni per prima [tra 1 mortali]. Il racconto [si trova] presso Callimaco.

Frammento 270 (635 Pf.)

ed egli era presente come difensore da Locri, fortezza italica Frammento 271 (641 Pf.) Schol. (Nt) Lyc. 42 a e Tzetz. in Lyc. 42 un luogo chiamato colle di Crono, che parola] altura [si riferisce a] Olimpia: prob. Et. Gen. AB sw. Colle di Crono: scrive] Oro.

presso la scoscesa altura di Crono] A Olimpia c'è anche Callimaco menziona. (Tzetz. aggiunge: [La in precedenza, infatti, era detta colle di Crono.) È stato chiamato così da[l nome di] Crono. [Lo

Frammento 272 (647 Pf.) l'avvoltoio beccava ıl cadavere con il rostro ...

Frammento 273 (666 Pf.) Schol. Paus. VI 13, 1: A proposito di Astilo, che anche Callimaco menziona.

TRADUZIONE

217

Frammento 274 (677 Pf. = SH 268B)

e la pelle che diventa/diventava velo per un uomo, riparo dalla neve e dai proiettili Frammento 275 (714 Pf.)

più lievemente le afflizioni opprimono un uomo ed egli [ne] sottrae una parte su trenta, allorquando su un amico o su un compagno di viaggio o alle sorde brezze incostanti riversa infine i [suoi] dolori Frammento 276 (SH 301=269) Symeon. Synagog. ap. Nickau ad Ammon. Diff. verb. 135: [Le parole] famoso (διαβόητοοῦ) e famigerato (£rıßöntoc) differiscono. Famoso è infatti chi è conosciuto per la virtù, mentre famigerato è chi ha una cattiva fama ... Quest'ultimo alcuni fra 1 poeti lo chiamano famigerato (ἐπίφατοο). Callimaco ha assegnato [l'aggettivo] ad Aconzio (?) e Tucidide ha detto famigerato (èxippntoc) nel terzo libro.

Frammenti di autore incerto che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia di Callimaco Frammento 277 (745 Pf.)

accoglitrici di Bina dalla voce umana Frammento 278 (748 Pf.) sotto l'ultima estremità dell'ardente (?) Leone Frammento 279 (758 Pf.)

né il crotoniate Milone ripulì Frammento 280 (774 Pf.)

della pianura Bianca Frammento 281 (781 Pf.)

ancora allora/ora ı muschi marini ti si sono riversati sul petto Frammento 282 (787 Pf.)

mentendo (femm. pl.) te, Palemone (voc.) Frammento 283 (796 Pf.) Schol. (CFD) Ov. Ib. 517 e - ciò che dicono abbia fatto Brotea per desiderio di morte possa tu dare le tue membra da bruciare a un rogo acceso] Brotea, figlio di Giove, fu accecato da Giove perché era cattivissimo e per questo si gettò in un rogo ardente, avendo in odio la propria vita, come dice Dario.

Frammento 284 (804 Pf.) Tertullian. De coron. VII 4: Ercole porta sul capo ora pioppo ora oleastro ora apio. Orig.XVII 11, 1: Ercole ... portava sul capo ora pioppo ora oleastro ora apio.

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COMMENTO

Aitia, libro terzo Frammenti

143-156 (La vittoria di Berenice)

Il terzo libro degli Aitia si apre con un'ampia elegia ispirata alle forme dell'epinicio arcalco: C. celebra la regina Berenice II, i cui cavalli hanno vinto la corsa delle quadrighe durante 1 giochi nemei, probabilmente nel 245 a.C. (vd. il comm. introduttivo al fr. 143). Il carme appare suddiviso in tre sezioni: proemio encomiastico, narrazione mitica ed epilogo eziologico. Nel proemio €. esalta il successo di Berenice, ottenuto a Nemea presso il sepolcro di Archemoro (fr. 143) nell'ippodromo (fr. 144). La parte mediana è quella di maggiore ampiezza e verte sulla fondazione mitica delle gare nemee. Le linee generali del racconto risultano dal fr. 145: mentre si sta recando ad affrontare il leone nemeo, Eracle viene ospitato da Molorco; costui si appresta a uccidere il suo unico ariete per ricevere più degnamente l'eroe, ma Fracle lo convince ad attendere la fine dello scontro con la belva e gli prescrive di sacrificare l'ariete a lui se avrà la meglio o ai suol Mani se verrà sopraffatto; dopo avere ammazzato il leone, Fracle si addormenta; ri-

svegliatosi, prende con sé una corona di apio (futuro premio dei vincitori nemei) e torna rapidamente da Molorco, che ha già ucciso l'ariete e si prepara a compiere il sacrificio per 1 Mani di Fracle; dall'impresa dell'eroe traggono origine le competizioni nemee, che in séguito saranno nuovamente istituite dai sette eroi diretti contro Tebe, come tributo funebre

per Archemoro. Non è sempre possibile stabilire in quale misura questo sommario rispecchi l'effettiva trattazione callimachea, ma esso ci aiuta a rintracciare la concatenazione degli al-

tri frammenti. Il leone nemeo viene inviato a devastare Argo da Fra, che intende infliggere una terribile fatica a Eracle (fr. 146). Il covo della belva si trova sul monte Apesante (fr. 147). Messosi in cammino da Argo per affrontare il leone, Fracle giunge nel podere di Molorco, il quale gli illustra con angoscia 1 danni causati dalla fiera alla coltivazione e alla pastorizia (fr. 148). Mentre il sole tramonta, Molorco ospita l'eroe nella sua umile casa e allestisce delle trappole per 1 topi, che lo assillano sempre con le loro ruberie (fr. 149). Probabilmente l'indomani, Eracle - poco prima dello scontro con il leone - dichiara a Molorco di confidare nella vittoria, ma forse gli richiede anche di sacrificare l'ariete in suo ricordo, nel caso di

una sconfitta terminabili. Nessuno sive: la lotta con estrema

(frr. 150+151). La collocazione e il contenuto dei frr. 152 e 153 non sono dedei frammenti superstiti si riferisce alle fasi del mito immediatamente succescon la fiera e la sua uccisione erano probabilmente del tutto omesse o narrate concisione; mentre non sappiamo se C. menzionasse il sonno e il risveglio di

Eracle, è certo che ne descriveva il ritorno a casa di Molorco con la corona di apio.

Tralasciando volutamente altri particolari, C. riporta un discorso dell'eroe al vecchio contadino, incentrato su una profezia fornita a Fracle da Atena, che gli è apparsa in occasione del suo cimento (fr. 154). La dea gli ha rivelato che i vincitori delle gare nemee - ora istituite dopo la fatica di Eracle - non avranno in premio né un cavallo né un calderone (fr. 155), bensì appunto una ghirlanda di apio; detto ciò, l'eroe pernotta a casa di Molorco e la mattina seguente riparte per Argo (fr. 156, 1-20). L'epilogo dell'elegia, nel quale si passa nuovamente dal mito all'attualità, è per noi rappresentato solo dalla sua parte iniziale, cioè ıl fr. 156, 21-25: la celebrazione dei giochi ne-

222

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

mei - scrive il poeta - dura ancora adesso e non finirà mai. Il carme doveva concludersi dopo non molti versi: con effetto di Ringkomposition rispetto al proemio, C. accennava forse alla rifondazione delle gare in memoria di Archemoro e rivolgeva probabilmente una lode finale a Berenice. La fisionomia dell'intero componimento è oggi ricostruibile soprattutto grazie al PLille, che ci ha anche consentito di riconoscere l'esordio del terzo libro degli Aitia nel fr. 143 (già in parte noto come fr. 383 Pf.) e di attribuire alla storia di Molorco il fr. 148, 21-34 (già in parte conosciuto come fr. 176 Pf.) e un ampio numero di frammenti tramandati per via indiretta. La comparsa del PLille ha inoltre originato una più approfondita riflessione sul fr. 149 (già noto come fr. 177 Pf.) e il suo inserimento nel nostro aition. La fonte del fr. 145 garantisce che la vicenda di Molorco figurava negli Aitia; la sua pertinenza al terzo libro si ricava dal testimoni dei frr. 146 e 147, dedicati al leone nemeo. Poiché nel PLille uno scolio al fr. 148, 23 menziona Molorco, siamo certi che il fr. 148

(incentrato sulla belva) risale alla nostra elegia: con ogni probabilità questa attribuzione vale anche per i frr. 143 e 150+151, tramandati dal medesimo papiro e connessi rispettivamente ai giochi nemei e al leone, nonché per 1 malridotti frr. 152 e 153. Al fr. 143 si collega a sua volta sul piano papirologico il lacunoso fr. 144, nel quale è per altro individuabile l'elogio della vittoria nemea di Berenice. L'inclusione del fr. 149 nella storia di Molorco si deve a ragioni soprattutto contenutistiche (vd. il comm. introduttivo ad loc.). Che in essa rientri il fr. 156, è dimostrato dal suo v. 16 (MoAöplxetoc): considerazioni papirologiche e tematiche provano che il fr. 154 fa parte della medesima elegia. La collocazione del fr. 155 nell'aition di Molorco è infine resa verisimile dal suo argomento. Quanto alla successione dei frammenti, bisogna innanzitutto notare che in POxy. 2173 il v. 1 del fr. 143 è il primo verso di un rotolo: se ne deduce che il fr. 143 dà inizio al terzo libro degli Aitia (a meno che il papiro in questione non tramandasse la Vittoria di Berenice in una raccolta miscellanea di carmi callimachei invece che all'interno degli Aitia: vd. Parsons p. 48). Con ogni verisimiglianza la fine del fr. 143 coincide con l'esordio del fr. 144 o i due frammenti sono separati da un breve intervallo. Ho poi inserito il fr. 145, perché esso come si è detto - consiste in un sommario della storia di Molorco. Seguono 1 frr. 146 e 147, che - con le loro notizie relative all'origine e al covo del leone - potrebbero spettare alla parte iniziale del mito. Molto probabilmente il tratto di testo coperto dal fr. 148 precedeva i frr. 150+151, perché il fr. 148 sembra contenere la conversazione intercorsa fra Fracle e Molorco al loro primo incontro. La plausibilità narrativa consiglia di porre poi il fr. 149: sul far della sera, il vecchio ospita in casa l'eroe e prepara le trappole per 1 topi. Nei frr. 150+151 si ravvisa un secondo colloquio fra i due personaggi, nell'imminenza della lotta fra Eracle e il leone. Ho collocato poi i miseri frr. 152 e 153 (il cui argomento non è riconoscibile), perché sono trasmessi dal PLille. I frr. 154, 155 e 156 - disposti in un ordine dettato dai loro contenuti

- chiudono

la serie, perché

51 riferiscono

alla fase conclusiva del

mito: dopo avere ucciso la fiera, Fracle riferisce a Molorco le profezie di Atena, pernotta a casa sua e l'indomani riparte per Argo. L'elegia era molto estesa, come dimostrano i seguenti calcoli sticometrici fondati sui papiri: il fr. 143 ha 19 versi; tra 1 frr. 143 e 148 intercorrono 35 versi circa (vd. il comm. introduttivo al fr. 148); ıl fr. 148 consiste in almeno 37 versi; tra 1 frr. 148 e 149 è caduto forse solo 1 verso (vd. il comm. introduttivo al fr. 149); il fr. 149 ha 38 versi; tra 1 frr. 149 e 150+151 forse non c'è soluzione di continuità o esiste un intervallo minimo (vd. il comm. introduttivo al fr. 149); 1 frr. 150+151 (dove spesso non si riesce a stabilire se 1 singoli righi

COMMENTO:

AET.II FRR. 143-156

223

tramandino resti di versi callimachei o di scoli) consistono in 20 versi circa; dopo una la-

cuna di ampiezza imprecisata, il fr. 154 ha 5 versi; tra 1 frr. 154 e 156 mancano 14 o 16 versi (vd. il comm. introduttivo al fr. 156); il fr. 156 ha 25 versi. Dalla somma delle varie cifre risulta un totale di circa 195 versi. Ma la lunghezza complessiva dell'elegia era sicuramente maggiore, come si deduce dalle seguenti considerazioni: 1) Nel precedente conteggio, abbiamo presupposto che gli intervalli tra 1 frr. 143 e 148, tra 1 frr. 148 e 149 e tra 1 frr. 149 e 150+151 abbiano sempre la minima estensione possibile: non è escluso, però, che in uno o più punti sia caduto un numero maggiore di versi. 2) In ogni caso bisogna tenere presente che un certo spazio era occupato da brani dell'elegia per i quali non è pervenuto alcun frammento: si tratta soprattutto delle vicende mitiche intercorse fra la partenza di Fracle dalla capanna di Molorco alla ricerca del leone e il ritorno dell'eroe a casa del vecchio con la ghirlanda di apio (tra 1 frr. 150+151 e 154), ma anche della conclusione del carme (dopo il fr. 156). Tutto considerato, si può congetturare che la Vittoria di Berenice abbracciasse circa 240 versi: a quanto sembra, dunque, essa occupava da sola pressoché un quarto del libro terzo degli Aitia, che era probabilmente costituito da un migliaio di versi (vd. Introd.1.4.B.). La solenne elegia in onore di Berenice, collocata all'inizio del terzo libro, corrisponde

alla Chioma di Berenice (fr. 213), posta alla fine del quarto: Parsons p. 50 ha molto plausibilmente ipotizzato che C. allestì da vecchio gli ultimi due libri degli Aitia e li racchiuse fra la Vittoria e la Chioma, scritte di recente in onore della regina. Come nei libri primo e secondo 1] colloquio fra il «personaggio C.» e le Muse fungeva da cornice e da elemento connettivo, così nei libri terzo e quarto Berenice apriva e chiudeva la serie degli aitia nel ruolo di dedicataria e di figura unificante. Vd. nel precedente volume /ntrod.II.3. e IL&. e il

comm. al fr. 143, 1 Znvi. Berenice compare anche altrove nell'opera di C.: cf. frr. eleg. 387-388 Pf. e probabilmente Ep. LI Pf. = HE 1121 ss. È possibile che al fr. eleg. 388 Pf. si riferisca Igino quando racconta (Astron.II 24) che una volta Berenice montò a cavallo e guidò con successo l'esercito del padre (vd. il comm. al fr. 213, 26). Nel medesimo luogo, Igino scrive anche che secondo C. e altri - ella era solita allevare cavalli e inviarli ai giochi olimpici. La frase di Igino potrebbe significare che, in un qualche suo carme, C. celebrò una vittoria olimpica di Berenice: quest'ipotetico epinicio compariva forse nella medesima elegia rappresentata per noi dal fr. 388 Pf. (vd. Coppola, Callimachus p. 285 e Coppola pp. 187-190) o in un componimento diverso (vd. Parsons p. 45). Vd. in generale il comm. di Pf. al fr. 388. È comunque certo che Berenice partecipò spesso agli agoni greci. Ella gareggiava sicuramente con cavalli di Cirene, la sua città di origine: nella nostra elegia il compatriota C. la esalta come Pindaro aveva fatto con Arcesilao. Vd. Parsons p. 45. Sono di recente venuti alla luce ben cinque epigrammi di Posidippo (78-82 AustinBastianini), che celebrano vittorie ippiche ottenute da Berenice sia a Olimpia (78) sia come qui - a Nemea (79, 80 e forse 81) sia all'Istmo (82 e forse 81): vd. Bastianini-Gallazzi pp. 205-211, nonché i comm. al frr. 143, ὃ 5. e 144, 3 (ma secondo L. Criscuolo, «Chiron» 33, 2003, pp. 327-332 e D. J. Thompson, in K. Gutzwiller (ed.), The New Posidippus,

Oxford 2005, pp. 274-279, la Berenice esaltata da Posidippo non sarebbe la sposa, bensì la sorella di Tolemeo III (contra, da ultimo, W. Huß, «ZPE»

165, 2008, pp. 55-57); è comun-

que inaccettabile 11 tentativo, compiuto da Criscuolo, di identificare con questo personaggio anche la dedicataria del nostro aition). La Vittoria di Berenice presenta notevoli somiglianze con la Vittoria di Sosibio (fr. 384

224

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Pf.), dove C. celebra in forma elegiaca questo dignitario per un successo istmico riportato nella corsa delle quadrighe e per altri exploits atletici, ivi incluso un trionfo nemeo: le più significative affinità formali tra i due carmi sono illustrate nei comm. ai frr. 143, 6 xpdceov … ἔπος e 156, 7 νιίκης co uBodov. Ma sussiste una fondamentale differenza: il mito, che ha

un ruolo preponderante nella Vittoria di Berenice, risulta del tutto assente nella Vittoria di Sosibio. Vd. Parsons p. 44 s. L'estesa narrazione della storia di Fracle e Molorco si ispira al quattordicesimo libro dell'Odissea omerica, dove il falso mendicante Odisseo viene ospitato nella capanna del porcaro Eumeo (vd. i comm. al fr. 148, 15 e 16). Lo stesso C. sviluppa con maggiore ampiezza il modello odissiaco nell'Ecale, 11 cui tema centrale è appunto l'amorevole accoglienza offerta dalla povera vecchina a Teseo, quando l'eroe sta per affrontare il toro di Maratona: la stretta connessione fra l'elegia e l'epillio risulta evidente già da questo breve sommario (osservazioni più minute si trovano nei comm. al fr. 149, 5 s. e 37 e al fr. 156, 15 e 16). Il motivo dell'eroe ricevuto in un umile casa si intravede forse anche nel fr. 92 (vd. il comm. ad loc.). L'atteggiamento ospitale di Molorco nei confronti di Eracle si contrappone invece all'inospitalità di Tiodamante verso il medesimo eroe nel primo libro degli Aitia (frr. 26-27). Soprattutto per influsso dell'Ecale callimachea, i successivi poeti sia greci sia latini descrivono frequentemente l'arrivo di dèi (spesso sotto mentite spoglie) a casa di contadini, che offrono loro una semplice ma generosa ospitalità e ne ricevono in cambio una ricompensa. Fratostene, allievo di C., narrava nell'Erigone che Dioniso venne accolto da Icario e

gli donò la vite (CA frr. 22-27 e forse 31 e 36 pp. 64-68; cf. Nonn. Dion. XLVII 34-69). Nelle Metamorfosi di Ovidio (VII 620-724) leggiamo che Giove e Mercurio, assunto aspetto umano, furono ospitati dal vecchi coniugi Filemone e Bauci e trasformarono la loro capanna in un tempio; un punto del racconto ovidiano è particolarmente simile alla nostra elegia: come qui - almeno a giudicare dal fr. 145 (ma vd. anche il comm. al fr. 151, 12-21) Eracle vieta a Molorco di uccidere sùbito il suo unico ariete e lo convince ad aspettare l'esito dello scontro con il leone nemeo, così nelle Metamorfosi (VIII 684-688) Giove e Mercurio trattengono Filemone e Bauci - ormai consapevoli di avere in casa due dèi - dall'imbandire loro la sola oca che possiedono; il poeta latino risente del modello callimacheo anche sul piano formale: vd. il comm. al fr. 149, 2. Ovidio racconta miti analoghi nei Fasti: Cerere, sotto le sembianze di una vecchia, è accolta dagli anziani coniugi Celeo e Metanira e risana il loro figlio Trittolemo (IV 507-546); Giove, Nettuno e Mercurio sono ricevuti

sotto spoglie mortali in casa di Irieo e gli lasciano in dono 1] piccolo Orione (V 495-536). Secondo Silio Italico (VII 162-211) Bacco venne ospitato da Falerno, ignaro della sua identità, e gli regalò la vite. Un esplicito richiamo alla vicenda di Eracle e Molorco si rinviene infine nelle Dionisiache di Nonno (XVII 37-86), dove Brongo accoglie Dioniso e ne riceve in premio la vite; anche il racconto nonniano riprende il motivo callimacheo dell'ariete risparmiato: Dioniso, infatti, impedisce a Brongo di sacrificargli una pecora (vv. 4649; vd. il comm. al fr. 145). Vd. in generale lo studio The Hospitality Theme di A. S. Hollis alle pp. 341-354 della sua edizione dell'Ecale. Anche la sezione dell'Eneide di Virgilio, dove Enea soggiorna presso Evandro e quest'ultimo gli racconta l'uccisione di Caco da parte di Ercole (VIII 102-369), presenta punti di contatto con l'aition callimacheo: vd. Hollis, Hellenistic Colouring p. 285, Tueller pp. 371-375. Per 1 nessi tra la nostra elegia e l'episodio della visita di Encolpio alla strega Enotea nel Satyricon di Petronio (134-138), vd. Rosenmeyer, Guests

e G. Sommariva,

«A&R»

COMMENTO:

AET. II FRR. 143-156; 143

225

NS 41 (1996), p. 70. È inoltre probabile che il poema di Pancrate su Adriano e Antinoo (GDRK XV) imitasse in più punti questa parte degli Aitia: vd. Hollis, Myth p. 13 s. Come abbiamo detto, la Vittoria di Berenice sı ispira alle movenze dell'epinicio arcaico. Ciò vale specialmente per il proemio encomiastico (frr. 143 e 144), ma anche per il resto dell'elegia (vd. p.es. i comm. ai frr. 148, 13 e 156, 7 νιίκης ... Ἰεθμιάδοο). Sul piano strutturale, C. risente soprattutto della quarta Pitica di Pindaro, che è anch'essa un ampio carme rivolto a un personaggio cireneo (Arcesilao) per una vittoria con la quadriga e caratterizzato da una vasta e unitaria sezione mitica centrale; la nostra elegia si richiama a questo componimento pindarico anche per uno specifico modulo stilistico: vd. il comm. al fr. 154, 1 τάμοι δ᾽ ἄπο μῆκος ἀοιδῇ. Può darsi inoltre che C., nel ricondurre all'uccisione del leone l'origine dei giochi nemei e nel rievocare la profezia fornita da Atena a Fracle a proposito delle future gare (frr. 154, 4 - 156,

15), abbia come

modello 1 vv. 44-57 del tredicesimo

epinicio di Bacchilide: vd. il comm. al fr. 154, 4. Vd. in generale Parsons pp. 41 e 45. C. sembra avere tenuto presente anche la terza Olimpica di Pindaro, dove Fracle fonda gli agoni olimpici e importa a Olimpia l'oleastro, con il quale saranno incoronati i futuri vincitori: vd. Bornmann, Papiro e Nuovo Callimaco p. 246 s. A sua volta la Vittoria di Berenice ha influito su vari passi del venticinquesimo idillio pseudo-teocriteo, Eracle uccisore del leone: vd. i comm. ai frr. 143, 1 Éôvov; 148, 18-42 e 21; 149, 15 s.; 151, 1 κανὼν τέρας e forse 7, nonché ai frr. inc. sed. 264 e 274. Si tenga

comunque presente che le comunanze fra 1 due carmi sono di natura stilistica e lessicale, ma non riguardano la trattazione vera e propria del mito: mentre infatti C. ometteva del tutto o liquidava in poche parole la fatica dell'eroe, lo pseudo-Teocrito le riserva un resoconto dettagliato che occupa per intero la seconda metà del lungo idillio (vv. 153-281). Vd. Parsons p. 44.

Frammento

143 (383 Pf. + SH 254)

Il frammento costituisce l'esordio del terzo libro degli Aitia, come prova il fatto che - nel POxy. 2173 - il suo primo verso dà Inizio a un rotolo papiraceo (vd l'annotazione dopo il testo). Si tratta di un epinicio per Berenice II, i cui cavalli hanno vinto i giochi nemei nella corsa delle quadrighe. Non conosciamo la data precisa dell'evento, ma esso va certamente collocato poco dopo l'ascesa al trono di Berenice, che si verificò in occasione delle sue nozze con Tolemeo III (246 a.C.; vd. il comm.

al v. 2): probabilmente, dunque, la vittoria

celebrata da C. ebbe luogo negli agoni nemei del 245 a.C. (piuttosto che nel 243 o addirittura nel 241, come suggeriscono alcuni: vd. Cameron p. 106). Vd. Durbec, Notes p. 162. Nei vv. 1-10 C. afferma che la sua elegia è un dono di riconoscenza dovuto a Zeus e alla ninfa Nemea, perché dall'Argolide è appena giunta in Egitto la notizia della vittoria riportata dal cavalli di Berenice. I vv. 11-15 sono di contenuto incerto, ma sembrano riguardare

lo stesso argomento del v. 16, cioè ıl bue Api venerato nella città egizia di Menfi: C. lo identifica forse con Epafo figlio di Io (v. 12) e menziona probabilmente la tessitura delle bende di lino che servono ad avvolgerne la mummia (vv. 13-15). Nel v. 16 viene descritta la lamentazione funebre delle donne in suo onore. Il senso dei vv. 17-19 non è ricostruibile. Nella parte meglio preservata del frammento (vv. 1-10) si individuano numerosi richiami agli epinici di Pindaro e Bacchilide: vd. i comm. ai vv. 1, 4-6, 8 προ[τέρω]ν ... ἡνιόχων. Sussistono anche notevoli consonanze fra questi versi e gli epigrammi agonistici di epoca ellenistica: vd. Fuhrer pp. 100-103.

1 Ζηνί re καιὶ Neuen τι χαρίειον Éôvov ὀφείλω: Ὁ. si dichiara debitore di un

226

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

dono che esprima la sua riconoscenza a Zeus, il dio in cui onore si tengono le gare nemee, e a Nemea stessa, la ninfa eponima della sede dei giochi. La gratitudine del poeta, come lui stesso spiegherà a partire dal v. 4 (γάρ), è originata dalla recente vittoria nemea della quadriga di Berenice; il dono in questione è l'elegia stessa (v. 3), nella quale C. celebra l'evento.

Quest'esordio ha un colorito fortemente pindarico. Per il canto di lode che accomuna

Zeus e Nemea, cf. Pind. Nem.IV 9-11 Kpoviôg te Ai καὶ Νεμέᾳ | … | ὕμνου προκώμιον, VII 80 5. Διὸς δὲ μεμναμένος ἀμφὶ Νεμέᾳ | πολύφατον θρόον ὕμνων dover Sulla concezione della poesia onorifica come un debito cui assolvere, cf. Pind. Οἱ. Χ 3 γλυκὺ γὰρ

αὐτῷ μέλος ὀφείλων ἐπιλέλαθ᾽, Pyrh. IV 2 5. ὄφρα ... | Moîca, Aatoidarciv ὀφειλόμενον Πυθῶνί τ᾽ αὔξῃς οὖρον ὕμνων con il comm. di Braswell (e poi Synes. Hymn. I 70 5. Lacombrade τὸν ὀφειλόμενον | ὕμνον); anche i vocaboli τίνειν, τελεῖν e χρέος sono impiegati da Pindaro in maniera analoga (cf. Οἱ.

I 7, X 8, 12, Pyth. 1 79, II 13, VII 33, IX

89, 104). Per l'impronta pindarica, vd. anche il comm. ἃ yapiciov, a Éôvov e ai vv. 4-6. Più in generale, a proposito dell'espressione impiegata da C., cf. Soph. Ant. 331 ὀφείλω

τοῖς θεοῖς πολλὴν χάριν I, forse lo stesso Call. Zamb. fr. 202, 55 Pf. ἐγὼ δ᾽ ἄλλην τιν᾽ ὀ[φ]λής[ω χάρ]ιν | (suppl. N. Terzaghi, «Aegyptus» 31, 1951, p. 176), Theocr. II 130 νῦν δὲ χάριν μὲν ἔφαν τῷ Κύπριδι πρᾶτον ὀφείλειν, Nonn. Dion. XXI 101 | coì γὰρ ὀφειλομένην ὀπάεω χάριν, XXX 67 | δός μοι ὀφειλομένην προτέρην χάριν. Ζηνί: C., come qui all'inizio del terzo libro menziona Zeus e sùbito dopo (v. 2) apostrofa Berenice, così nell'ultimo esametro dell'opera (fr. 215, 8) apostrofa Zeus e sùbito dopo menziona la coppia regale, cioè Tolemeo III e Berenice: questo parallelismo è un ulteriore elemento a favore dell'ipotesi che €. allestì la seconda metà degli Aitia in epoca successiva alla composizione della prima metà (vd. nel precedente volume /ntrod. II.3., 11.8.). Per il nome di Zeus collocato all'esordio, cf. /ov. 1 Ζηνός

con in comm. di McLennan.

Neuen: Nonostante lo scetticismo di Pf. - secondo il quale C. si riferirebbe alla località di Nemea come sembra fare Pind. Nem. IV 9 (riportato sopra) -, è probabile che qui si tratti della ninfa eponima, figlia di Zeus e Selene secondo la Hypothesis Pindari Nemeonicarum c. (III p. 3. 22 Drachmann): a lei era intitolata una tragedia di Eschilo (TrGF 149a), che ne faceva la madre di Archemoro (vd. Fuhrer p. 64 n. 220). L'incipit dell'elegia (vv. 1-7) è caratterizzato dalla menzione di numerose figure divine ed eroiche (Zeus, Danao, Elena, Proteo, Ofelte), tra le quali la ninfa Nemea si inserisce con piena naturalezza.

Come toponimo, il vocabolo è già impiegato - nella forma Neuein - da Hes. Theog. 329, 331 (vd. il comm. introduttivo al fr. 146) e ricorre nel fr. 156, 8.

xapicıov Édvov ὀφείλω: A C. si ispirano Greg. Naz. Carm. II 2, 4, 205 (PG 37 p. 1521) χαρίειον (ίετιον codd.) ὕμνον delco* e Paul. Sil. Ecphr. Soph. 341 χαρίεια δῶρα κομίζων". xapicıov: Solo in questo passo, nelle imitazioni di Gregorio Nazianzeno e Paolo Silenziario riportate sopra e ancora presso Paul. Sil. Ecphr. Soph. 348*, l'aggettivo significa riconoscente. La parola è attestata a partire da Eupoli (PCG 1, 3) e Aristofane (PCG 211, 2), che la riferiscono a un particolare tipo di focaccia. Altrove la sı trova applicata a una specifica pianta (cf. Aristot. Mir. 846 B 7, [Plut.] De fluv. XVII 4) oppure impiegata nel senso di gratuito (cf. Damasc. Isid. 216). L'aggettivo introduce un ulteriore rimando a Pindaro. Questi, infatti, utilizza talvolta il

vocabolo χάρις a proposito di un carme: cf. Ol. VIII 56 5. καὶ Νεμέᾳ γὰρ ὁμῶς | ἐρέω zadrav χάριν, X 11 5. κοινὸν λόγον | φίλαν ticopev ἐς χάριν.

COMMENTO:

AET.II FR. 143

227

£övov: Anche qui C. si rivela seguace di Pindaro, che per primo impiega il sostantivo nel numero singolare, pur conferendogli il senso omerico di dote (Οἱ. ΓΧ 10). Il significato generico di dono, attestato a partire dal nostro passo, si riscontra anche presso [Theocr.] XXV 114 (vd. Conti Bizzarro p. 330, Fuhrer p. 129 s.). Ma di certo C. allude nel contempo al significato proprio del termine, visto che 51 sta rivolgendo alla novella sposa Berenice (cf. v. 2 vöugo): vd. R. Hunter, in M. A. Harder - R. F. Regtuit - G. C. Wakker (edd.), Genre in Hellenistic Poetry (Groningen 1998), p. 116 n. 9 (rist. in On Coming After I, Berlin - New York 2008, p. 291 n. 9).

2 νύμφα, κα[ειγνή]των ἱερὸν αἷμα θεῶν: La sposa cui C. si rivolge è Berenice II, che aveva di recente celebrato le nozze con Tolemeo

III (246 a.C.). Berenice, benché

nata dal re di Cirene Maga e da Apame, a titolo onorifico venne detta figlia dei precedenti monarchi, 1 coniugi fratelli Tolemeo II e Arsinoe II venerati già in vita come dei: cf. lo scolio al nostro verso, Posidipp. Ep. 74, 13 Austin-Bastianini (vd. Bastianini-Gallazzi p. 202), Theocr. XVII 130, Herod. I 30 (con i comm. di Headlam e di Cunningham), stesso Call.fr. 213, 45 con lo scolio e il comm. Vd. Parsons, Poesia p. 10.

nonché

lo

νύμφα: Per questa forma di vocativo caratterizzato dall'alpha breve, cf. (Call.) fr. inc. auct. 788 Pf. con il comm. Vd. anche Pf., Kallimachosstudien p. 7 n. 2.

ἱερὸν αἷμα: L'impiego della frase da parte di C. ha influito su Nonno in Met. III 1, dove le parole ἱερὸν αἷμα designano - come qui - una singola persona. Sul piano formale, si noti che il nesso è utilizzato da Bione (I 22) per descrivere il sangue di Afrodite. Cf. inoltre Greg. Naz. Carm.II 2, 2, 27 (PG 37 p. 1479) αἷμ᾽ ἱερόν (in senso astratto). αἷμα: Il vocabolo è riferito concretamente a Berenice (cf. anche fr. 166, 7 αἷμα τὸ μὲν γενεῆς Εὐξαντίδος con il comm.). Per quest'uso, oltre al passo di Nonno riportato sopra e ai luoghi raccolti da Fuhrer p. 234 n. 824, cf. Aesch. Eum. 89, EpGr. 831, 1 Kaibel, Heliod.

VII 19, 2, SGO IV 19/13/01 v. 7, Nonn. Dion. XLVII 676 al. Nel v. 282 dell'inno a Delo, C. utilizza il vocabolo per designare l'intera popolazione degli Iperborei (τολυχρονιώτατον αἷμα I, vd. Bredau p. 70 s.); quest'impiego collettivo del termine ricorre inoltre presso Theocr. XXII 164 e [Orph.] Arg. 254. Anche il latino sanguis può designare concretamente un individuo: cf. Verg. Aen. VI 835, Ov. Met. V 515, Ib. 511. Su αἷμα, vd. inoltre il comm.

al fr. 144, 8. 3nuleltepo

|...... ] .£0v

ἐπινίκιον ἵππων : Con ogni probabilità, abbiamo

qui una duplice apposizione di ἕδνον (v. 1). Ottimo è il supplemento di L.J.-P. nul&]repov [παιᾶνα]. τεῶν ἐπινίκιον ἵππω[ν (vd. app.): il dono dovuto a Zeus e Nemea - scrive C. rivolgendosi a Berenice - è il nostro gia celebrativa (meno efficace mi posto di παιᾶνο). L'uso del plurale tanza generale (vd. anche il comm. se si accettasse la proposta [ξυνόν

peana, l'epinicio dei tuoi cavalli, cloè questa stessa elesembra l'integrazione ποίημα, suggerita da Barigazzi al ἡμ[έ]τερον indica che il poeta si fa portavoce dell'esulal fr. 144, 21). Il possessivo equivarrebbe invece a ἐμόν te] di D'Alessio (nostro e comune epinicio), fondata su

alcuni passi pindarici (Ol. VII 21, X 11, XIII 49, Pyrh. III 2) dove gli aggettivi ξυνός o κοινός si riferiscono all'aspetto comunitario del canto del poeta: mi pare però che questo supplemento, oltre a risultare troppo lungo per lo spazio disponibile in lacuna, offuschi il

voluto parallelismo fra ἡμ[έ]τερον e τεῶν. Vd. in generale l'app. A proposito di [παιᾶνα]. osserviamo che nel corpus omerico ricorre solo la forma παιήων: cf. Hom. 1.1473, XXII 391, [Hom.] Hymn. III 518. 7 .g0v ἐπινίκιον ἵππων: Cf. Parmen. Anth. Pal. XII 18, 1 = FGE 273 θοῆς

ἐπινίκια πώλου e (sul piano formale) Maneth. V 172 ἐπινίκιον ἵππον. In poesia l'uso so-

228

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

stantivale del vocabolo ἐπινίκιον risale a Eschilo (Ag. 174). 4-6: L'annuncio del successo di Berenice è or ora pervenuto da Nemea ad Alessandria. Nel v. 4, C. si riferisce all'Argolide (dov'è collocata Nemea) attraverso la menzione del suo mitico re Danao e specifica che costui discendeva da Io. La precisazione non è oziosa, perché sottolinea l'antico legame fra Argo e l'Egitto: infatti la giovenca Io diede fine alle sue peregrinazioni proprio in terra egizia, dove - grazie a Zeus - riebbe il suo aspetto umano e partorì il re Epafo (si noti fra l'altro che C. collega Io all'Egitto anche nell'Ep. LVII 1 Pf. = HE

1135, dove l'eroina viene identificata con Iside; cf. inoltre Stat. Theb. I 254 Phariae

...

iuvencae |). Qui si potrebbe riconoscere un ulteriore tratto pindarico dei nostri versi, visto

che in Nem. X 1-5 Pindaro nomina Argo Δαναοῦ πόλις, per poi passare ai πολλὰ ... ἄστη fondati in Egitto da Epafo: sull'accentuato pindarismo di questa elegia, vd. il comm. al v. 1. Per il nesso fra l'Argolide e l'Egitto, vd. il comm. al v. 12, nonché il comm. al v. 8 del fr. 144 (di poco successivo). Vd. anche Stephens, Egyptian Callimachus pp. 240-250 e Stephens p. ὃ 5. Si osservi che, secondo Suida, C. scrisse un'opera intitolata L'arrivo di Io (Ἰοῦς ἄφιξις,

test. 1.11 Pf.). Sull'erotna verte probabilmente il fr. inc. sed. 685 Pf., nonché forse il fr. inc.

sed. 472 Pf. (vd. i comm. ad locc.). Invece (Call.) fr. inc. auct. 769 Pf. | Ἰὼ Καλλιθύεςςα sembra piuttosto spettare a Esiodo (fr. inc. 125 M.-W.).

4 ἁρμοῖ γὰρ LAavaod γιῆς ἀπὸ Bovyevéoc: La notizia della vittoria riportata dal cocchio di Berenice è appena giunta dall'Argolide (regione nella quale si trova Nemea), l'antico regno di Danao discendente di Zeus e di Io, che un tempo la gelosa Fra aveva mutato in giovenca. La genealogia è la seguente: Io - Epafo - Libia - Belo - Danao. Nel fr. 165, 1 C. specifica che Io fu progenitrice di quattro figlie di Danao. Più avanti nella Vittoria di Berenice, le due altre superstiti menzioni di quest'ultimo personaggio risultano in qualche modo collegate al fatto che egli fu padre delle quattro fanciulle: cf. frr. 144, 6* e 151, 4*. Per Danao, cf. anche fr. 203, 4* e Lav.48.

ἁρμοῖς L'avverbio è già impiegato da Pind. Isthm.fr. 10 Sn.-M., Aesch. Prom. 615, Lyc.

106. C. lo utilizza anche in Hec. fr. 274, 1 Pf. = 45, 1 H., venendo forse imitato da Ap.

Rh. I 972 (dove ἁρμοῖ è una varia lectio attestata negli scoli). Cf. poi Theocr. IV 51. νά. Smiley p. 67, Schlatter p. 50, Fuhrer p. 130 s. Δαναοῦ ymc: Come si è detto, la perifrasi designa l'Argolide, nella quale è situata Nemea: cf. Hypothesis Pindari Nemeonicarum c. (Il p. 3.21 Drachmann) ἣ Νεμέα τῆς τῶν ᾿Αργείων χώρας μοῖρα. Alcuni ritenevano che il nome stesso di Nemea fosse collegato a Danao, perché i suoi figli si spartirono (κατενείμαντο) quel territorio: cf. Hypothesis cit. (II p. 4. 1 Drachmann). Se si accogliesse la lezione Δαναῶν degli Etimologici (vd. Massimilla p. 169), si potrebbe richiamare Call. Lav. 142*. Bovyevéoc: L'aggettivo è attestato a partire da Empedocle (31 Β 61, 2 D.-K.®). Lo si trova applicato alle api, che si pensava nascessero dalla putrefazione della carne bovina: cf. Plulit. fr. 17 Sbardella = 14 Spanoudakis,

Bianor. Anth. Pal. IX 548, 2 = GP

1740*.

La

forma alternativa Bonyevñc, sempre a proposito delle api, si riscontra presso [Mel.] Anth. Pal. IX 363, 13. Si tramanda che Eumelo di Corinto compose un poema intitolato

Bovyovia (festt. 4 e 14, Ip. 106 s. Bernab£). Il fatto che qui C. riferisca l'aggettivo Bovyevnc all'argivo Danao crea un'analogia fra il nostro passo e un luogo plutarcheo (Mor. 364 F = De Isid. et Osir. 35), nel quale si legge

che gli Argivi conferivano quest'appellativo a Dioniso: ἐπίκλην ἐεςτίν.

᾿Αργείοις δὲ Bovyevnc Auövvcoc

COMMENTO:

AET.II FR. 143

229

Abbiamo visto che, nel pentametro callimacheo, il vocabolo Bovyevric indica la discendenza di Danao da Io. Non ritengo verisimile che, come osserva Pf., l'uso della parola con-

tenga anche un'allusione a una notizia fornita da alcuni testimoni, secondo 1 quali proprio a Nemea si originò la nascita delle api dalla putrefazione dei bovim: cf. Eutecn. Paraphr.

Nic. Al. p. 49. 12 Geymonat τὸ δὲ τούτων γένος τῶν μελιττῶν ἐκ μόζχου «κήνους μὲν τὴν ἀρχὴν εἶναι κατὰ φύειν ἐδέξατο ἐγένοντο δ᾽ οὖν αἱ μέλιτται ἐν Νεμέᾳ πρῶτον καὶ αἱ ταύτῃ δρύες εἶχον αὐτάς. Né è plausibile che C. alluda a un'antica etimologia del toponimo Nemea, secondo la quale il luogo doveva il suo nome ad alcune giovenche argive sacre ad Fra, pascolanti (νεμομένων) in quella zona: cf. Hypothesis Pindari Nemeonicarum c. (III p. 3. 23 Drachmann).

5 εἰς ‘EXévn[c vncîd]a καὶ εἰς Παλληνέα

ualvrıv: L'annuncio della vittoria è

giunto in Egitto, qui designato con la menzione sia dell'isoletta di Elena, posta davanti alla foce canopica del Nilo, sia di Proteo, il preveggente dio marino che proveniva da Pallene nella penisola calcidica e si era stanziato presso l'isola egizia di Faro, collocata anch'essa davanti alla bocca canopica. Elena, Proteo e l'Egitto risultano già collegati nell'Odissea omerica (IV 347-570), dove Menelao racconta a Telemaco che - nel tornare da Troia insieme alla moglie - è stato trattenuto a Faro dalla mancanza di vènti e ha interrogato Proteo sulla maniera di placare l'ira divina, sul destino dei suoi compagni e sulla propria vita futura. Secondo una versione mitica attestata - con particolari differenti - presso Stesicoro (PMGF 192-193), Erodoto (II 112-120) ed Euripide (Elena), Elena non si recò a Troia con Paride, ma restò affidata a Proteo in Egitto, dove Menelao la ritrovò di ritorno dalla guerra.

Nilo

‘EXrévn[c νηςῖδ]α: Per la collocazione dell'isoletta davanti alla foce canopica del (cioè quella più occidentale), cf. Hecat. FGrHist 1 F 309 ap. Steph. Byz. sv.

"EA&veioc τόπος πρὸς τῷ Κανώβῳ, Eustath. ad Dion. Per. 11 τὴν πόλιν ἐπ᾽ αὐτῷ (scil. τῷ κυβερνήτῃ) Κάνωβον ὀνομάζει (scil. ὃ Μενέλαοο): ἔνθα που καὶ vfcoc τὸ ‘EAéviov (’EAevnıov? Pf.) τῇ Ἑλένῃ παρώνυμον, Plin. Nat. hist. XXI 59 in Helene (v.l. Helenae) insula. Non è chiaro se Plinio parli della medesima isola in Nat. hist. V 128; cf. forse anche

Steph. Byz. σιν. ’Apyaic- ... πρὸς τῷ Κανώβῳ μικρὰ vfcoc ᾿Αργέου, id. s.v. ᾿Αργέου. Sull'identificazione moderna dell'isola, vd. A. Osborne, Nelson Island, «Bulletin de la Société

archéologique d'Alexandrie» NS 6 (1925), pp. 78-85 (specialmente p. 82). Elena è presente anche altrove nell'opera di C.: cf. Dieg. Pannych. fr. 227 Pf. e Dian. 232. Per il diminutivo vncic, vd. il comm. al fr. inc. sed. 120 (δ) νηᾶδα.

Παλληνέα μάϊντιν: Per questa designazione di Proteo, cf. Lyc. 126 5. nAavnc | Παλληνίαν ἐπῆλθε, Verg. Georg. IV 390 5. patriam ... revisit | Pallenen (vd. Bornmann, Nuovo

Callimaco p. 248, Thomas,

Proteus), Nonn.

Dion. XLII

225 | Πρωτεὺς

... οἶδμα

λιπὼν Παλληνίδος ἅλμης | (vd. Hollis, Myth p. 2 n. 3), 334 | δαίμονα Παλληναῖον (riguardo al passo di Virgilio e al primo brano di Nonno, vd. anche il comm. al v. 6 ποιμένα [φωκάων]). Non sembra invece nel giusto lo scolio del PLille, secondo il quale Proteo sarebbe detto pallenio perché figlio di Pallante (a meno di non ipotizzare che sia qui attestata una tradizione altrimenti ignota). Per Pallene calcidica, cf. anche

Call. Hec.

SH

288, 27 = fr.70, 12H. IIeXAMvnv ... ᾿Αχαιϊίδα con il comm. di Hollis. Proteo è espressamente menzionato da C. in Zx@ Apc. fr. 228, 39 Pf. | Πρωτῆϊ: anche qui il dio abita l'isola di Faro e viene raggiunto da notizie relative a una regina (apprende cioè che Arsinoe è appena defunta: sull'analogia fra i due passi, vd. D'Alessio (p. 448)). Per la residenza di Proteo a Faro, cf. inoltre Posidipp. HE 3100 = Ep.

Lucan.

X 509-511,

Val. Fl. II 318, Greg. Naz.

Carm.

115, 1 Austin-Bastianini,

II 1, 11, 808 (PG

37 p. 1085),

230

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Claudian. Epithal. de nupt. Honor. 50 s., Nonn. Dion.I

13 s., XLIII 76 s., Paul. Sil. Ecphr.

Soph. 918 5. Vd. inoltre il comm. al fr. 144, 9. 6 ποιμένα [φωκάων]: Già nell'Odissea omerica Proteo sovrintende a un gregge di foche (IV 404-450), in mezzo alle quali egli si corica come un pastore fra le sue pecore:

λέξεται ἐν pécenct, vouedc ὡς πώεοι μήλων (v. 413). Per l'espressione impiegata da C., cf. soprattutto Nonn. Dion. XLII

229 | φωκάων

... vouña I, ma anche [Theocr.] VIII 52 à

Πρωτεὺς φώκας καὶ θεὸς ὧν Eveuev, Verg. Georg. IV 395 turpis pascit sub gurgite phocas | (riguardo ai passi di Virgilio e di Nonno, vd. anche il comm. al v. 5 Παλληνέα μάϊντιν). Più in generale,

cf. Val.

Fl. I 319,

Claudian.

Laus

Serenae

(Carm.

min. XXX)

128

s.,

Nonn. Dion. LXII 78, 226, 251. xpdceov ... ἔπος: L'aurea notizia consiste nella vittoria nemea della quadriga di Berenice: questo nominativo è corredato di due proposizioni completive, introdotte da

οὔ[νεκ Ἶ (v. 7) e coordinate da ἀλλά (v. 9). Per il nesso, cf. Nonn. Dion. VII 115 ypòcetov ἔπος (ma qui la frase è impiegata in senso proprio). Per l'uso metaforico dell'aggettivo

xpöceoc, cf. Pind. Pyth. II 73 ὑγίειαν ... xpvc&av, Soph. Ant. 699 χρυεῆς ... τιμῆς. Nella parte iniziale della Vittoria di Sosibio callimachea (fr. 384, 8 Pf.), il festoso annuncio del

successo riportato dal dignitario nella corsa dei carri durante le gare istmiche viene intro-

dotto in termini simili al nostro passo: τοῦτ᾽ ἔπος ἡδείῃ λεχθὲν En’ ἀγγελίῃ. 7 Εὐφητηϊάδ[αο rap] ñpiov od[ver'] ᾿Οφέλτου: Dopo la fondazione originaria da parte di Eracle in onore di Zeus (cui si riferisce la vicenda di Molorco, trattata da C.

di séguito al nostro proemio: cf. soprattutto fr. 156, 6 τοῦδε con il comm.), i giochi nemei furono nuovamente istituiti al tempo della spedizione dei sette contro Tebe, per onorare la morte del piccolo Ofelte (chiamato anche Archemoro, cf. lo scolio nel PLille), figlio di Eufete. Secondo il mito i sette eroi, partiti da Argo e diretti verso Tebe, incontrarono nel territorio di Nemea la nutrice Issipile, che teneva in braccio 1] lattante Ofelte, e le chiesero dove

potessero trovare dell'acqua: la donna, per accompagnare 1 guerrieri alla fonte più vicina, posò a terra il bambino, che venne ucciso da un serpente; gli eroi ammazzarono

il mostro,

seppellirono Ofelte e istituirono presso la sua tomba gli agoni nemei (cf. anche Call. Jamb. fr. 223 Pf. con il comm.). Come hanno messo in luce recenti scavi archeologici, l'ippodromo delle gare nemee si trovava effettivamente vicino al tumulo di Ofelte: vd. G. B. D'Alessio, «Comunicazioni dell'Istituto Papirologico "G. Vitelli"» 6 (Firenze 2005), p. 10.

Εὐφητηϊάδ[αο: Per la nascita di Ofelte da Eufete, cf. Hypothesis Pindari Nemeonicarum c. (III p. 3. 1 Drachmann) τὰ Néued gacıv ἄγεοθαι ἐπὶ Ὀφέλτῃ τῷ Εὐφήτου καὶ Κρεούεης παιδί, ὃν Εὐφητ(ίδγην (suppl. Pf: ’Apx&uopov? Drachmann) ἐκάλεςσαν οἱ ᾿Αργεῖοι τελευτήσαντα ὑπὸ τὸν Θηβαϊκὸν πόλεμον, Schol. Clem. Alex. Protrept. II 34, 1, Ip. 306. 28 Staehlin-Treu Ὑψιπύλῃ ... tpegoden παιδίον Ὀφέλτην καλούμενον Εὐφήτου (Εὐφήγου codd. PM: corr. Nauck ex Hypoth. Pind. LI.) καὶ Εὐρυδίκης (su questo nome della madre, cf. Hypothesis Pindari Nemeonicarum b., II pp. 1. 17 e 2. 17 Drachmann). Come qui un patronimico occupa per intero il primo emistichio di un esametro, così - a quanto pare - un patronimico riempie il primo colon di un pentametro nel fr. 23, 4

(Λαομεδοντείφ). ἠρίον: Vd. il comm. al fr. 50, 4. Per la collocazione metrica, cf. p.es. Hom. N. ΧΧΙΠ 126, Call. Hec.fr. 262 Pf. = 79 H., Theocr. II 13, Ap. Rh. I 1165, Euph. SH 453. οὕ[νεκ᾽]: Qui οὕνεκα equivale a ὅτι con valore dichiarativo, come nel fr. inc. sed.

483, 1 Pf.: vd. il comm. al fr. 1, 3 eivexe,v. Per la prolessi di Εὐφητηϊάδ[αο nap’] ñpiov rispetto a οὕ[νεκ Ἶ, vd. il comm. al fr. 8.

COMMENTO:

AET.II FR. 143

231

᾿Οφέλτου: Sul personaggio, cf. Vict. Sosib.fr. 384, 26 e 30 Pf. Per il genitivo in -ov di un nome il cui nominativo termina in -nc, vd. il comm.

al fr. 39.

8 5. ἔθρεξαν προ[τέρω]ν οὔτινες ἡνιόχων |ἄεθματι χλιί

[1.0 πιμιδαε:

Il soggetto sottinteso di ἔθρεξαν sono gli ἵπποι (cf. ν. 3) di Berenice. L'integrazione προ[τέρω]ν di Barigazzi e Lloyd-Jones sembra corroborata dalle sequenze }epov e tpore. .[, presenti nello scolio del PLille successivo al v. 9. Con ogni probabilità bisogna recepire l'ottima congettura obtivac di Kassel e il supplemento e la correzione xAdatvovtelc ἐπωμίδας brillantemente proposti da Lloyd-Jones (benché l'integrazione sia troppo lunga per lo spazio disponibile in lacuna e presupponga perciò una qualche corruttela nel PLille): si osservi che l'uso del verbo χλιαίνω è qui confermato dalla presenza di χλιᾶναι nello sco-

lio del PLille e dal passo di Apollonide riportato nel comm. ad ἄεθματι χλιί,

1]. πιμιδας

(vd. app.). I cavalli della quadriga di Berenice, nella loro corsa, non hanno riscaldato con il loro anelito le spalle di nessun auriga che li precedeva, cioè hanno mantenuto per tutto il tempo la prima posizione. Non convincono le proposte testuali alternative, avanzate da Meillier, Luppe, Barigazzi, Ebert, Livrea e Fuhrer: esse implicano spesso irregolarità prosodiche (vd. app.) e sono per lo più problematiche sul piano dei contenuti (rimando in proposito alle giuste obbiezioni di D'Alessio (p. 448 s.)). L'inafferrabilità del carro di Berenice nelle gare nemee viene descritta in termini analo-

ghi da Posidippo (Ep. 79, 3 s. Austin-Bastianini): τάχει δ᾽ ἀπελίμπανεν ἵππων | δίφρος ἐπεὶ [κάμψα]ι τὸν πολὺν ἡνίοχον. Νά. Lelli, Posidippo p. 126. 8 ἔθρεξαν: Per l'impiego del verbo τρέχω a proposito di cavalli, cf. Hom.

7. XXIII

393, 520, Alem. PMGF 1, 59, Theocr. II 147, Posidipp. Ep. 86, 1 Austin-Bastianini, ep. adesp. Anth. Pal. TX 20, 4 = FGE 1323, Babr. fr. 4, 14 Luzzatto - La Penna. Cf. forse anche

fr. 144, 6 δρωμ[ῶ]ειν con il comm. Sulla forma aoristica ἔθρεξα (invece di ἔδραμον), vd. il comm. di Bulloch a Call. Lav. 23 $uuaßp&&aca. npoltépolv ... ἡνιόχων: Cf. Bacch. V 43-45 οὔπω νιν (scil. il cavallo da corsa Ferenico) ὑπὸ rpoté[polv | ἵππων Ev ἀγῶνι κατέχρανεν κόνις | πρὸς τέλος ὀρνύμενον (per i vv. 39 e 46-48, vd. il comm. al v. 9 5. θειόιντιων [ ὡς ἀνέμων).

9 ἄεθματι χλιξ.

|]. πιμιδαε: Sul piano formale, cf. Apollonid. Anth. Pal. IX

244, 4 = GP 1212 χλιῆναι vorepoic &cduocıv ὠκὺ γόνυ, a proposito di cerve che sperano di riscaldarsi le zampe nelle esalazioni dei fiumi (per le frequenti imitazioni di C. negli epigrammi di Apollonide, vd. R. Reitzenstein, RE II 1, 1895, p. 120. 15).

L'immagine callimachea si richiama a Hom. 1. XXIII 380 s. πνοιῇ (scil. dei cavalli di

Diomede) δ᾽ Εὐμήλοιο μετάφρενον edpée τ᾽ ὥμω | θέρμετ᾽: il passo omerico spetta alla corsa dei cocchi nei giochi funebri per Patroclo, un episodio che C. tiene presente anche nel v. 10 (vd. il comm. ad loc.). Ma C. sembra avere tenuto anche conto di Soph. EI. 718 s.

ἀμφὶ νῶτα ... |... εἰεξέβαλλον ἱππικαὶ πνοαί | (pure qui riguardo a una corsa di carri). Il nostro brano ha a sua volta influito su Nonn. Dion. XXXVII 294-296 (in una sezione dedi -

cata ai giochi funebri per Ofelte) Ἐρεχθέος ἵππος ... |... παλίμπνοον ἄεθμα τιταίνων | ἀλλοτρίου θέρμαινε μετάφρενον ἡνιοχῆος (vd. anche il comm. al v. 10). Una scena simile (ma a proposito di una corsa a piedi) viene tratteggiata da Nonn. Dion. X 406 μετάφρενον

ἄεθματι θάλπων |. Il fiato di cavalli o di persone addosso a qualcuno che li precede di poco nella corsa figura anche in altri due passi dell'Iliade omerica: cf. rispettivamente XVII 501 5. ἵππους |...

ἐμπνείοντε μεταφρένῳ

(in una battaglia) e XXIII 765 | κὰδ δ᾽ ἄρα οἱ κεφαλῆς χέ᾽

232

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ἀντμένα (in una corsa a piedi). Da parte loro i poeti latini, nel descrivere serrate corse di carri, amano specificare che gli aurighi sentono sulla schiena l'ansito dei cavalli successivi, adottando dunque immagini simili a quella callimachea: cf. Verg. Georg. II 111 umescunt ... flatu ... sequentum |, Si. XVI 421 s. flatus ... vapore | terga ... auriga calescere sentit |, Stat. Theb. VI 438 5. sequentum| ... multa ... umeros incenditur aura | (nei giochi funebri per Ofelte). Cf. inoltre Stat. Theb. VI 604 s. | inspirat ... umero flatuque ... | terga premit (in una corsa a piedi durante 1 medesimi giochi). Vd. Bornmann, Nuovo Callimaco p. 249, Radici Colace pp. 144-147. ἄεθματι: Il vocabolo designa l'anelito di un cavallo presso Opp. Hal. V 186 e nei brani di Nonno riportati sopra. Vd. anche il comm. al fr. 144, 13.

xAul....].: I verbo χλιαίνω è attestato a partire da un frammento elegiaco di Sofocle (fr. 4, 1 W.). Il Hermesian. CA fr. riportato sopra. ‚rınıdac: Se servi che in poesia

primo iota è lungo come presso Aristoph. Lys. 386, Alex. PCG 153, 11, 7, 89 p. 100*, fr. eleg. adesp. SH 964, 19 e nell'epigramma di Apollonide - com'è probabile - qui dobbiamo riconoscere la parola ἐπωμίδας, si osil vocabolo compare a partire dalla tragedia (Eur. Hec. 558, Iph. Taur.

1404, Achae. TrGF 20 F 4, 3, Chaerem.

TrGF 71 F 14, 2) e si riscontra poi presso il com-

mediografo Apollodoro di Caristo (PCG 4, 1): mentre nei due passi euripidei e in quelli di Cheremone e di Apollodoro il sostantivo designa la parte della tunica agganciata sulla spalla (ovvero la tunica stessa), nel brano di Acheo esso significa spalla (come qui e ancora presso Call.

Del. 143*, Nonn.

Archimel. SH 202, 13 =

Dion.

I 81*

al, Met.

V 34*

e - con uso traslato - presso

FGE 95*). Tecnicamente la ἐπωμίς è la punta della spalla connessa

alla clavicola (cf. Hippocr. Art. 1 al.). Il nesso ἐπωμίδας ἀλλά: si ritrova in un epigramma di Alceo di Messene (Anth. Pal. IX 588, 5 = HE

110), dove il sostantivo ha il senso gene-

rico di spalla.

9 ς. ἀλλὰ θειόιντιων | ὧς ἀνέμων Loddelc εἶδεν ἁματροχιάε:

cavalli di Be-

renice non hanno solo conservato la prima posizione durante l'intera gara (v. 8 s.), ma sono anche corsi con la rapidità del vento, in modo tale che le ruote del loro cocchio non hanno

lasciato tracce visibili sulla sabbia della pista. θειόνντιων | ὧς ἀνέμων: Per l'immagine dei cavalli che corrono veloci come il vento, cf. Hom. Il. X 437 θείειν δ᾽ ἀνέμοιειν ὁμοῖοι | (scil. ἵπποι), XVI 149 Ξάνθον καὶ

Βαλίον, τὼ ἅμα πνοιῇει πετέεθην, XIX 415 (parla il cavallo Xanto) νῶϊ δὲ καί κεν ἅμα πνοιῇ Ζεφύροιο θέοιμεν, Bacch. V 39 πῶλον ἀελλοδρόμαν e 46-48 ῥιπᾷ γὰρ ἴοος βορέα! … [ἵεται (per i vv. 43-45, vd. il comm. al v. 8 προ[τέρω]ν ... ἡνιόχων), XX 9 I ἵππουοε ... icov[éuovc |, Ebert nr. 59, 7 5. = 560 1 06/02/21 v. 7 5. (la quadriga di Attalo vittoriosa a Olimpia), Ap. Rh. IV 221, 1368, Mnasalc. Anth. Pal. VII 212, 1 = HE 2643, Archias Anth. Pal.IX

19, 1 = GP 3700, ep. adesp. Anth. Pal. IX 20,

4= ΟΕ

1323, ep. adesp. Anth. Pal.

IX 531, Verg. Georg. III 193-201, Aen. XII 84 al., Ov. Fast. IV 392, Manil. V 79, Sil. II 173 al., Stat. Theb. VI 310 al., Quint.

Smyrn.

IV 532 al., Claudian. Panegyr.

de VI cons.

Honor. 474-476 al., SGO IV 19/14/02 v. 1 s., Nonn. Dion. XVII 8 al. Vd. anche il comm. al v. 10. Nell'inno a Delo di C. (v. 112 s.), Latona paragona la fuga precipitosa del fiume Peneo alla rapidità dei vènti e gli ricorda che non ha montato un cavallo da corsa: Πηνειὲ Φθιῶτα,

τί νῦν ἀνέμοιειν ἐρίζεις; | à πάτερ. où μὴν ἵππον ἀέθλιον ἀμφιβέβηκας. Νά. anche il comm. al fr. 213, 54.

10 οὐδεὶς

εἶδεν

ἁματροχιάς:

Porfirio, nel tramandare queste parole (vd. l'app.

COMMENTO: delle fonti al v. 9 s.), rimprovera

AET.II FR. 143

C. di avere confuso

due vocaboli

233 omerici, utilizzando

ἁματροχιάς (corse ravvicinate > scontri di cocchi) come se si trattasse di ἁρματροχιάς (impronte delle ruote). Entrambi i sostantivi sono hapax omerici e ricorrono nel ventitreesimo libro dell'Iliade, dov'è descritta una corsa di cocchi nell'àmbito dei giochi funebri per

Patroclo (vd. anche il comm. al v. 9 ἄεθματι χλιί, .]. πιμιδαο). C. si ispira certamente all'attestazione iliadica di ἁρματροχιή (vv. 504-506): οὐδέ τι πολλή | γίγνετ᾽ ÉnuccoTpov ἁρματροχιὴ κατόπιςοθεν | ἐν λεπτῇ xovin (i cerchioni delle ruote lasciavano dietro di sé una lieve impronta nella polvere). In effetti, però, egli utilizza stranamente la forma ἁματροχιάς, che - come si è detto - nell'/liade ha tutt'altro significato (v. 422): τῇ ῥ᾽ εἶχεν

Μενέλαος ἁματροχιὰς ἀλεείνων (Menelao guidava evitando gli scontri con altri cocchi). L'esempio di C. viene seguito da Nic. Ther. 262 5. ἐν δ᾽... 1... ἁματροχιῇει κατὰ erißov (cf. Schol. 263 a ἀντὶ τοῦ ἁρματροχιαῖς ... ταῖς ἐγχαράξεοι τοῦ τροχοῦ). Invece Quinto Smirneo, quando descrive la corsa dei cocchi durante 1 giochi funebri per Achille (TV 516

s.), rispetta la distinzione omerica nell'imitare il passo iliadico: οὐδ᾽ ἁρματροχιὰς ἰδέειν (πέλεν) (suppl. Rhodomann) οὐδὲ roôotwlév χθονὶ εήματα. L'oscillazione fra ἁματροχιάς e ἁρματροχιάς si riscontra nella tradizione manoscritta di Polluce (VII 116). Il vocabolo ἁματροχιή riaffiora presso Maneth. IV 108, con riferimento al moto simultaneo dei corpi celesti. Si noti inoltre che nell'Odissea omerica è attestato il nesso ἅμα

τροχόωντα (XV 451). Per l'immagine tratteggiata da C. nel ricordo dell'Iliade omerica (1 cavalli hanno trainato il cocchio con tale velocità che sulla pista non sono rimaste impronte visibili delle ruote),

cf. Nonn. Dion. XXXVII 279-281 | ἅρματα ... |... ἐπὶ γαίῃ | ἀκροφανῆ πεφόρητο μόγις ψαύοντα Kovinc, 459 5. καὶ où τροχόεντι ειἰδήρῳ |λεπταλέης ἀτίνακτα yapocceto νῶτα κονίης (i due passi spettano ai giochi funebri per Ofelte: vd. il comm. al v. 9 ἄεθματι χλι. ...]..ruidac). In àmbito latino, per il motivo della polvere lasciata quasi intatta nella rapidità della corsa (talora associato al paragone con i vènti: vd. il comm. al v. 9 5. θειόιντιων I ὡς ἀνέμων), cf. soprattutto Manil. V 78 vixque rotis levibus summum contingere campum (dove si parla di un carro), ma anche - a proposito di cavalli - Verg. Georg. II 195 vix summa vestigia ponat harena |, Sil. IV 147 tenuia vix summo vestigia pulvere signat, nonché - con riferimento a uomini - Sil. II 309 pedum frustra vestigia quaeras |, XIV 507 s. ferret ... pulvere plantas | vix tacto, XVI 485 nullaque transmissa vestigia signat harena, Stat. Theb. VI 640 raraque non fracto vestigia pulvere pendent. L'impiego callimacheo della frase οὐδεὶς εἶδεν in riferimento alla velocissima corsa di un carro trova infine un parallelo nel seguente passo di Silio Italico (XV 212 s.): currum ... per auras | haud ulli durant visus aequare volantem. Data la frequenza dell'immagine di carri o cavalli in corsa che quasi non sollevano la polvere presso 1 poeti successivi e data soprattutto l'imitazione esibita dallo zelante callimacheo Nicandro (nel passo riportato sopra), preferisco vedere - come già Porfirio - nel nostro ἁματροχιάς un equivalente dell'omerico &puorpoyidc, piuttosto che attribuirgli il medesimo senso dello ἁματροχιάς iliadico, cioè corse allineate di carri (vd. Luppe p. 44, Corbato p. 239, Ebert, Fr. 383 p. 152=65, D'Alessio (p. 449), Asper (p. 117)) ovvero - più precisamente - collisioni di carri (vd. Giangrande p. 450=135, Livrea, Cavalli p. 201 s. = 189 s., Durbec (p. 47)). Vd. Jan p. 41, van der Valk Ip. 278, Rengakos p. 37 5. 11 npev Ôn rolf: La sequenza si presta a varie divisioni (vd. app.). Mentre L. proponeva ἣ μὲν δὴ rol, Pf. suggerisce ἠμὲν δή ποίτο anche à μὲν δὴ πο[λὺ. Per ἠμὲν δή nolt,

cf. Hom. Al. I 4531 ἠμὲν δή not’ ἐμεῦ πάρος ἔκλυες (il verso comincia con À μὲν nello

234

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Schol. (T) Hom. A. XVII 75); il nesso ἠμὲν δή mot” ricorre ancora presso Hom. Il. XIV

234, XVI 236. Per à μὲν δὴ no[Ad, cf. Hom. 71.11 798 e IX 348 | à μὲν δὴ μάλα πολλά. 12 καὶ πάρφς ’Apyeıl: Basandosi sul probabile contenuto dei vv. 13-16 (la preparazione delle bende di lino nelle quali si avvolgeva la mummia del bue Api e il compianto funebre per l'animale nella città egizia di Menfi), Pf. individua qui il possibile punto di sutura fra la sezione precedente del frammento, di tematica argiva e nemea (fino al v. 10), e quella successiva, di ambientazione egiziana (a partire dal v. 13). Pf. osserva che Api viene talvolta identificato con Epafo, il figlio di Zeus e dell'argiva To, che lo partorì dopo essere giunta in Egitto sotto forma di giovenca (vd. il comm. al vv.

4-6). Cf. p.es. Herodot. II 153 ὁ δὲ Aric κατὰ τὴν Ἑλλήνων yAûccäv teri "Eragoc, POxy.

1241, col. II 31 ”Arıv τὸν

Ἰοῦς. Inoltre, secondo alcuni storici del III e del II sec.

a.C., Api era un re di Argo che fondò Menfi e venne divinizzato con il nome di Serapide. La prima informazione viene fornita da Aristippo nella sua opera dedicata all'Arcadia (FGrHist 317 F 1), la seconda da Aristea argivo (FHG IV p. 320) e da Ninfodoro anfipolitano (FHG fr. 20, II p. 380): tutti si trovano citati presso Clemente Alessandrino (Strom. I 21, II p. 68. 20-27 Staehlin-Treu). Anche

Varrone (fr.

13, Historicorum Romanorum

reli-

quiae, II p. 16. 8 Peter, ap. Augustin. De civ. D. XVIII 5) considerava Api un re di Argo, giunto in Egitto e divinizzato come Serapide. Pf. ipotizza dubbiosamente che C. ricavasse le notizie relative agli antichissimi tessuti di lino degli Argivi da opere Περὶ ᾿Αργολικῶν. La congettura di Pf., secondo la quale C. istituiva qui un collegamento tra Api ed Epafo figlio di Io, è oggi corroborata dal v. 4 grazie al contributo del PLille: constatiamo infatti che nel verso in questione viene menzionato Danao re dell'Argolide, discendente della giovenca, sùbito prima di due località egiziane (vd. il comm. al vv. 4-6). Per il nesso fra l'Argolide e l'Egitto, vd. anche il comm. al v. 8 del fr. 144 (di poco successivo). Su questo specifico verso, vd. inoltre Cameron p. 245 s.

13 kaıpwrovc tel: L'aggettivo καιρωτός - presente solo qui - deriva dal sostantivo kotipoc, designante ciascuna delle strisce che nei telai tenevano separate le fila dell'ordito attraverso le quali passava la spola (si noti che la prima mano del papiro aveva scritto καίρῳ Tode): per il significato di koîpoc, cf. le testimonianze grammaticali antiche raccolte e commentate da Pf. in relazione al frr. inc. sed. 547 e 640 di C. La trattazione erudita dei vocaboli collegati a καῖρος prende le mosse da un verso dell'Odissea omerica (VII 107):

καιροςέων δ᾽ ὀθονέων ἀπολείβεται ὑγρὸν ἔλαιον (si descrivono le ancelle di Alcinoo intente alla tessitura). Cf. Schol. (EHQ) ad loc. καιροςέων γὰρ τῶν εὖ κεκαιρωμένων Kal εὐυφῶν, Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 94. 9 Bekker, Hesych. σιν. καιρωςέοων, Eustath. p. 1571. 55. La forma καιρωτόο si richiama al verbo καιρόω, delucidato così da Polluce (VII 33): τὸ

δὲ covôñcar τὸν «τήμονα καιρῶεαι. Come si è detto, l'aggettivo καιρωτός (il cui senso sembra dunque essere bene intessuto) rappresenta - a quanto ci risulta - un'innovazione callimachea, ma Pf. avanza dubbiosamente l'ipotesi che C. leggesse καιρωτῶν δ᾽ ὀθονέων al posto di xarpocéov δ᾽ ὀθονέων nel passo omerico. Certo è che egli si ispirò anche altrove al luogo odissiaco, perché fece uso dei sostantivi καίρωμα (fessuto: probabile nel fr. 184, 6 e sicuro nel fr. inc. sed. 547 Pf.) e koipoctpic (tessitrice: fr. inc. sed. 640 Pf.), entrambi non attestati in altre fonti letterarie. Poiché sia nel verso dell'Odissea sia nel fr. inc. sed. 547 Pf. di C. si parla di tele, Pf. congettura che qui καιρωτούς designi le bende di lino nelle quali veniva avvolto a Menfi il cadavere mummificato del bue Api (cf. v. 16). A questo proposito sono essenziali le infor-

COMMENTO:

AET.II FR. 143

mazioni contenute nel PGenev. 201 (vd. L. Mitteis - U. Wilcken,

235 Grundzüge

und Chresto-

mathie der Papyruskunde, I 2, Leipzig-Berlin 1912, nr. 85 p. 112 s.), dal quale si apprende che nel 170 d.C. - dopo la morte del bue Api - il tempio di Socnopeo fece pervenire a Menfi una stoffa di bisso di dieci cubiti, per contribuire all'avvolgimento della mummia (cf. soprattutto 11. 16-19). L'uso egiziano di avviluppare le mummie in bende di bisso è attestato anche - a proposito di esseri umani - presso Erodoto (II 86, 6): kateıktccovcı πᾶν αὐτοῦ τὸ coua cwöovoc Bvccivne τελαμῶοει. Cf. inoltre, in un contesto più generico, ep. adesp.

Anth. Pal. XI 125, 3 ἀπ᾿ ἐνταφίων τελαμῶνας |. Fondandosi sugli ultimi due passi, Pf. propone di integrare qui καιρωτοὺς te[Aau@vac. Il benché ovviamente siano possibili altre divisioni delle que convincente la ricostruzione generale del contenuto tiva da Thomas pp. 105-112=89-98). La rinomanza del lino egiziano e il suo impiego nel plichino l'epiteto liniger a Iside (talora identificata con

suggerimento è molto suggestivo, lettere (vd. app.; non trovo comundei vv. 12-17, proposta in alternaculto fanno sì che i poeti latini apIo, vd. il comm. ai vv. 4-6) o agli

adepti della dea: cf. Ov. Am. II 2, 25, Ars I 77, Met. I 747, Ex P.I 1, 51 s., Mart. XII 28, 19,

Tuv. VI cf. Sil. Gli comm. loc.).

533, Claudian. Panegyr. de IV cons. Honor. 573. Più in generale, per il lino egizio II 375, Val. Fl. V 423. altri frammenti callimachei dove si parla di tessitura e tessuti sono indicati da Pf. nel al fr. inc. sed. 520: vi si può forse aggiungere il fr. inc. sed. 532 Pf. (vd. il comm. ad

14 Κολχίδες ἢ Neido[t: La menzione dell'etnico Colchiche e del fiume Nilo fa supporre che qui si parli ancora del lmo utilizzato per avvolgere la mummia del bue Api (cf. v.

16). Infatti, come risulta dal fr. inc. sed. 672 Pf. dello stesso C. (Κολχίδος ἐκ καλάμηο e dalla fonte che lo tramanda (Schol. Pind. Pyth. IV 377), la terra dei Colchi era considerata una colonia degli Egiziani ed entrambe le popolazioni coltivavano e lavoravano il lino. Sul lino proveniente dalla Colchide e in generale sulle connessioni fra 1 Colchi e gli Egiziani, vd. il comm. di Pf. al fr. 672 e Stephens, Egyptian Callimachus p. 251 s. A questo contesto di riferimento si richiama l'integrazione esemplificativa tfìa rapoıkecin, proposta da Pf. per colmare il verso (il senso del pentametro sarebbe: le Colchiche o quelle che abitano lungo il Nilo, cioè le Egiziane). Il vocabolo KoAyic compare a partire dai Corinthiaca di Eumelo (fr. 3, 8, Ip. 110 Bernabé = fr. 24, 8 Davies) ed è impiegato anche da Ap. Rh. III 794. Il Nilo è già menzionato nella Teogonia esiodea (v. 338) e ricompare poco più avanti nella nostra elegia (fr. 144,9). 15 λεπταλέους ÉEvcav: Le due parole spettano all'opera tessile: C. sembra riferirsi a delle tessitrici (probabilmente le KoAyidec del v. 14) che cimarono i sottili panneggi nelle quali viene avvolta la mummia del bue Api (cf. v. 16), cioè ne rasarono la peluria superficiale in modo da renderli lisci. Quest'uso del verbo Edo ricorre già nell'/liade omerica (XIV

178 s.), dove a proposito di Era si legge: &ußpöciov ἑανὸν ἕςαθ᾽, ὅν où ᾿Αθήνη I ἔξυς᾽ &añcocæ. Cf. Schol. (AbT) ad loc. ἐκέρκιςε: ξύουει γὰρ τὴν κρόκην πρὸς τὸ πυκνωθῆναι. οἱ δὲ ἐλέανεν, ἀπὸ μεταφορᾶς τῶν ξύλων. οἱ δὲ ἀντὶ τοῦ ἔγναψε μετὰ τὸ ὑφανθῆναι, Eustath. p. 976. 16, nonché Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 70. 13 Bekker ἔξυς᾽ Acktcaca λεπτῶς κατειργάεατο (vd. Rengakos p. 36). Analogo è il significato del com-

posto διαξύω presso Nonn. Dion. XXIV 253 καὶ κτενὶ πουλυόδοντι διαξύουεα χιτῶνα. Cf. anche Elegia adesp. in Maecenatem I 74 lenisti morsu levia filia parum. L'aggettivo λεπταλέος è un hapax omerico (I. XVII 571*): vd. il comm. al fr. 1, 24

236

CALLIMACO

Aentokenv.

Per il suo

impiego

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO a proposito

di tessuti,

cf. Ap.

Rh.

II 30

5. φᾶρος

!

λεπταλέον, IV 169 | λεπταλέῳ Eav®, Posidipp. Ep. 45, 4 Austin-Bastianini λε[πταλέον] «τήμονα, Antip. Sid. Anth. Pal. VI 174, 2 = HE 191 λεπταλέον «τάμον᾽. All'interno dei poemi omerici, il verbo ξύω compare solo in 7. XIV 179 (riportato sopra) e in Od. XXII 456 (dove si riferisce alla raschiatura di un pavimento). Lo hypsilon dell'aoristo, lungo nel nostro

esametro,

è breve

in un frammento

di Partenio

(SH 619

= fr. 9 Lightfoot,

vd. 1

comm. ad loc).

16 cid visar φαλιὸν τιαιῦιρον ἰηλεμίςεαι: Il verso descrive la lamentazione funebre delle donne per il bue Api, il toro pezzato di bianco adorato a Menfi (il soggetto di età vtia sono forse ancora le tessitrici delle bende che servivano ad avvolgerne la mummia, cf. v. 14 5. coni comm.): quando uno di questi animali moriva, si sceglieva un successore e il cadavere veniva mummificato e seppellito durante un periodo di lutto e digiuno che durava settanta giorni. L'aggettivo φαλιός si riferisce qui alla macchia bianca che spiccava sulla fronte del bue Api (λευκομέτωπον, cf. i passi di Esichio e dello pseudo-Arcadio riportati nell'app. delle fonti) ed era uno dei suoi tratti distintivi: cf. Herodot. III 28, 3 ἔχει

δὲ ὁ uöcxoc οὗτος ὁ Aric καλεόμενος εημήια τοιάδε, ἐὼν μέλας ἐπὶ μὲν τῷ μετώπῳ λευκόν τι τρίγωνον κτλ. Per il compianto e la sepoltura del bue Api, FGrHist 264 F 25 (vol. II A p. 56. 24) ap. Diod. I 84, 7. Cf. anche (Call.) Come già osservava Ernesti, il nostro pentametro è imitato da Tibullo legia I 7: te (scil. Nile) canit atque suum pubes miratur Osirim | barbara, gere docta bovem. Questo componimento tibulliano è ricchissimo di echi

cf. Hecat. Abder. fr. dub. 811 Pf. nel v. 27 s. dell'eMemphitem plancallimachei: ıl v.

1 s. risente di Jamb. fr. 202, 9 Pf., il v. 22 di Vict. Sosib. fr. 384, 27 Pf., il v. 24 di Vict. Sosib. fr.384,31 Pf., il v. 51 delfr. 9, 12, il v. 54 del fr. inc. sed. 709 Pf. νά. G. Luck, The

Latin Love Elegy (Edimburgh 1969), p. 89 s., Bulloch, Tibullus p. 80, Cameron p. 477. φαλιόν: L'aggettivo si ritrova nel PPerr. II 35 pp. 115 e 117 (III sec. a.C.) e presso Alex. Aphr. Probl. IV 184, 2 5. e Procop. Goth. V 18 (C. lo impiega forse anche nel fr. 165, 1 a proposito di Io, candida giovenca: vd. il comm. ad loc.). Corrisponde a φάλαρος (cf. Theocr. V 103, [Theocr.] VIII 27, Nic. Ther. 461; vd. I. C. Cunningham, «ZPE»

150, 2004,

p. 66). Per l'immagine, cf. Ov. Met. IX 691 varius ... coloribus Apis |. ἰηλεμίεαι: Il verbo è attestato solo nelle opere di C., che lo impiega anche in /amb. fr. 193, 38 Pf. (vd. il comm. di Livrea). Vd. Bredau p. 68. 17... .Jokeov: Visti i riferimenti alla tessitura dei vv. 13 e 15, è molto suggestiva

l'integrazione βομβ]ύκων (dei bachi da seta), suggerita da Thomas. Frammento

144 (674 Pf. + nuovo)

Il frammento viene trasmesso dal PSI 1500 ed è costituito dal resti di ventiquattro versi che occupano la parte inferiore di una colonna di testo: si tratta probabilmente della medesima colonna, la cui parte superiore è tramandata dal POxy. 2173 e corrisponde agli inizi dei primi diciannove versi del terzo libro (fr. 143). Ciò è suggerito sia dall'indagine papirologica sia dall'esame dei contenuti riconoscibili nel nostro frammento sia dai calcoli sticometrici condotti in parallelo su POxy. 2173 + PSI 1500 e sulle colonne dei PLille 82 e 76d (vd. il comm. introduttivo al fr. 148). L'esigua traccia che rappresenta il nostro v. 1 appartiene forse all'esametro conclusivo del fr. 143, oppure tra 1 due frammenti 51 sono perduti un solo pentametro o pochi versi. Vd. l'annotazione dopo 1] testo. La prima parola intellegibile del frammento si riferisce agli Argivi (v. 2), cioè agli abitanti della regione dove ha avuto luogo il successo nemeo della quadriga di Berenice. Il v. 3

COMMENTO:

AET. II FRR. 143-144

237

descrive 1 dodici giri compiuti nell'ippodromo dal cocchio vittorioso della regina. L'ambientazione argiva viene ribadita nei vv. 4-6: qui vediamo menzionata l'Amimone, una delle quattro sorgenti di Argo che presero nome da altrettante figlie di Danao (v. 4); essa stessa o una delle sue sorelle è poi definita fonte fluente in bel modo (v. 5); la corsa dei cavalli ovvero lo scorrere delle fonti argive compare all'inizio del v. 6, dove figura anche il nome di Danao. La competizione equestre risulta rievocata ancora nel v. 7. Nel v. 8 troviamo l'Egitto e il riferimento a una qualche stirpe, sicuramente in relazione al trionfo nemeo della regina egiziana. Dai vv. 9 e 11 deduciamo che una porzione imprecisata dei versi fin qui analizzati (forse tutti) rientrano nel discorso diretto di un qualche personaggio, il quale smette di parlare alla fine del v. 10: infatti 11 v. 9 contiene il pronome personale uov e il v. 11 la frase conclusiva così diceva. Il v. 9 s. lascia ancora trasparire la commistione del contesto argivo con quello egiziano, dal momento che nel distico vengono menzionati prima il Nilo e poi Preto re di Tirinto. Nel v. 11, dopo l'indicazione che il suddetto discorso finisce, si fa forse riferimento

a coloro che ne odono il suono. Nel v. 13 potrebbero trovarsi i fianchi dei cavalli vincitori e il loro caldo anelito. Il v. 14 rievoca una qualche immobilità e un qualche ascolto. La frase non dirò nel v. 16 fa parte di un nuovo discorso o più verisimilmente spetta al poeta stesso. Dopo la comparsa dell'avverbio domani (v. 17), il v. 18 5. potrebbe riguardare di nuovo la performance della quadriga di Berenice, ricordando il fischio prodotto dal suo procedere vorticoso e le zampe dei cavalli che lo hanno condotto alla vittoria. Non sappiamo pol di chi sia l'occhio presente nel v. 20. La prima persona plurale di un indicativo futuro, che affiora nel v. 21, è forse connessa alle intenzioni celebrative del poeta e di tutti 1 sudditi.

2 Ἰναχ[ίδα]ις: Sono così chiamati gli Argivi, discendenti del dio fluviale Inaco, padre di Io e quindi progenitore del re argivo Danao (vd. il comm. al fr. 143, 4). La forma compare già presso Eur. /ph. Aul. 1089. C. menziona il fiume Inaco in Del. 74 e Lav. 50,

utilizzando anche i derivati Ἰνάχιος (Lav. 140, Ep. LVII 1 Pf. = HE 1135) e Ἰναχιώνη (Dian. 254, a proposito di Io).

3 δωδιεικάκις πιερὶ δίφρον ἐπήγαγεν ὄθματα {δίφρουτ: L'esametro si riferisce al cocchio vittorioso di Berenice negli agoni nemei. Le fonti indirette del verso, cioè due scoli alla quinta Pitica di Pindaro, collegano esplicitamente le parole di C. al dodici giri di pista compiuti dalle quadrighe di cavalli adulti. Gli scoli in oggetto delucidano un passo pindarico, nel quale il poeta parla dei dodici giri eseguiti dai carri durante 1 giochi pitici

nell'ippodromo di Crisa (Pyth. V 30-33): ἀριεθάρματον |... γέρας ... |... | ποδαρκέων δώδεκ᾽ ἂν δρόμων τέμενος (δώδεκ᾽ ἂν δρόμων è una congettura di Thiersch, mentre i codici hanno δ(υγώδεκα δρόμων o lezioni simili). Evidentemente la medesima norma valeva anche per le gare nemee. Altre testimonianze (vd. oltre) documentano la pratica dei dodici giri pure negli agoni olimpici e istmici. La quadriga di cavalli adulti, con la quale Berenice partecipava ai giochi panellenici, viene espressamente menzionata da Posidippo in due epigrammi (78, 13 e 81, 4 AustinBastianini): il primo brano (I τεθρίππου ... τελείου) spetta a una gara olimpica, il secondo a due competizioni forse proprio nemee ovvero istmiche (ἅρμ]ατι δὶς τελέῳ |, cf. v. 1

Δ]ωρικὰ φύλλα ceAtvov | con il mio comm. al fr. 156, 9). Faccio notare che (Ὁ. stesso sembra nominare il τέλειον ἅρμα con il quale Sosibio trionfò negli agoni istmici, all'inizio dell'elegia incentrata su quel personaggio: cf. Vict. Sosib. fr.384, 2 Pf. | ετελειοί (da parte sua Pf. pensava che il nostro esametro potesse appartenere alla Vittoria di Sosibio).

238

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Il verso ci è stato trasmesso in forma corrotta e ha dato luogo a numerosi interventi congetturali, senza per altro raggiungere un assetto testuale soddisfacente. I punti fermi sono due: in primo luogo bisogna recepire il nesso ἐπήγαγεν ὄθματα, che viene corroborato dal

confronto con lo stesso Call. Ap. 50-52 αἶγες 1... ἧειν ᾿Απόλλων | Bockou&vnc’ ὀφθαλμὸν ἐπήγαγεν e che è certamente preferibile alla variante &chyayev ὄθματα (a quanto pare, dunque, qualcuno - forse anche qui un dio - diresse gli occhi sul cocchio di Berenice nei suoi dodici giri); in secondo luogo è certamente sano il vocabolo stesso ὄθματα (sul quale tutti i codici concordano), visto che la rara forma ὄθμα ricorre numerose volte nei papiri degli Aitia ed era forse l'unica impiegata da C. (cf. 1 passi raccolti nel comm. al fr. 1, 37*, cui si può ora aggiungere il v. 20 del nostro frammento). Le precedenti considerazioni valgono a confutare la maggior parte delle congetture

avanzate dagli volte guidò gli sostegno dello μηδὲ δευτέρην

studiosi, cioè: δι slanci del cocchio stesso Call. Jamb. κάμψῃς, | μή τοι

περὶ vòccav Ecnyayev οἴματα δίφρου di Heyne (dodici intorno alla meta), dove però la frase περὶ vöccav ha il fr. 195, 26-29 Pf. icxe δὲ δρόμιου | μαργῶντας ἵππους περὶ vocen δίφριον | ἄξωειν ed è altrove attestata in po-

esia (cf. Theocr. XXIV 119, [Opp.] Cya.IV 103*, Maneth. VI 738, Nonn. Dion.I 497* al. Met. VII 50); la fortunatissima correzione ἴθματα di J. G. Schneider, Buttmann e

Blomfield, i quali proposero è. περὶ tôtppovt Echyayev ἴθματα δίφρου (dodici volte guidò i passi del cocchio intorno a ...); è. περὶ φιτρὸν Echyayev ἴθματα δίφρου di Hecker (dodici volte guidò i passi del cocchio intorno al ceppo), con la ripresa di ἴθματα e l'impiego della parola φιτρός per indicare la meta sulla falsariga di Hom. //. XXIII 327-333 (dove un

tronco secco funge da meta in una corsa di carri); è. περὶ δίφρον ὅτ᾽ ἤγαγεν ὄθματα νωμῶν di Bergk (quando per dodici volte mosse gli occhi intorno al cocchio conducendo);

δ. περὶ τύμβον (ovvero περιδινέ᾽ ἐπήγαγεν ἴθματα δίφρου di O. Schneider (dodici volte diresse i passi del cocchio intorno alla tomba ovvero diresse i passi circolari del cocchio), con il recupero di ἴθματα e il richiamo - nella prima alternativa - alla tomba di ArchemoroOfelte o di Melicerte (giochi nemei o istmici) ovvero - nella seconda alternativa - al per-

corso del carro intorno alla meta; 6. περὶ voccav ἐπήγαγετ᾽ ὄθματα δίφρος di D'Alessio (dodici volte il cocchio attirò su di sé gli occhi intorno alla meta), con la ripresa di vOccov e l'ipotesi che gli ὄθματα siano quelli degli spettatori (gli Inachidi del v. 2). L'opportunità di preservare la frase ἐπήγαγεν ὄθματα viene tenuta presente solo da Pf., il quale ritiene che l'unica corruttela dell'esametro sia il δίφρου finale (inteso come una dittografia del precedente δίφρον) e pensa - in base al passo dell'inno callimacheo ad Apollo riportato sopra - che gli si debba sostituire il dativo di un participio. Lo studioso suggerisce

dunque è. περὶ δίφρον ἐπήγαγεν ὄθματ᾽ ἐλῶντι (diresse gli occhi su di lui che per dodici volte guidava il cocchio d'intorno), con il verbo περιελᾶν (riferito all'auriga) che reggerebbe in tmesi il complemento oggetto δίφρον: poiché - come abbiamo visto - il verso si trova citato negli scoli alle Pitiche di Pindaro, Pf. osservava dubbiosamente che il soggetto di ἐπήγαγεν poteva essere Apollo, compiaciuto spettatore della vittoria di un qualche atleta

(cf. Bacch. XI 15-17 ἵλεώι vw ὃ ... υἱὸς ... Λατοῦς | δέκτ[ο] βλεφά[ρω]ι; Barigazzi, Epinicio p. 426 n. 1 pensava invece che si trattasse del Sole). Si osservi, del resto, che in vari

passi callimachei gli dèi volgono gli occhi sul mondo dei mortali (vd. il comm. al fr. 187, 15). Vd. in generale l'app. Pf. mette in campo varie considerazioni a sostegno della sua congettura: per quest'uso di

περιελᾶν,

cita Xenoph.

Symp. II 27 μιμεῖεθαι τοὺς ἀγαθοὺς

ἁρματηλάτας,

θᾶττον

περιελαύνοντας τὰς κύλικας; ricorda il frequente impiego della tmesi da parte di C. (vd. il

COMMENTO:

AET. II FR. 144

239

comm. al fr.20,8 ἀπ᾿ ἠέρα νηὸς ἐλάεςῃο); riguardo alla contrazione ἐλῶντι, richiama il fr. inc. sed. 260, 1 ἀνιῶντος e rileva che l'imperfetto ἔλων si trova già presso Hom. A. XXIV 696 e Od. TV 2 e lo stesso participio ἐλῶντα presso [Hom.] Hymn. IV 355, ricordando anche che E. Schwartz, Die Odyssee (München 1924), p. 314 propose di scrivere ἐλῶντες al posto di ἑλόντες presso Hom. Od. IX 387; più in generale, in merito all'uso del verbo

ἐλαύνω per la guida dei cocchi nelle gare, cita Hom. I. XXIII 531 ἐλαυνέμεν ἅρμ᾽ ἐν ἀγῶνι | e Pind. Ol. VI 76 riportato più avanti; nota infine che la frase δίφρον ἐλ]ᾷν è una verisimile integrazione nel fr. 1, 27 (vd. il comm. ad loc.). Nonostante tutti questi supporti, la congettura di Pf. - come egli stesso riconosce - ha il limite di inserire nel testo la sgradita

elisione ὄθματ᾽. Se comunque si accoglie in termini complessivi l'impostazione esegetica di Pf., il dio che guarda l'auriga vittorioso non sarà Apollo pitico (vd. sopra), bensì - come osserva D'Alessio - Zeus nemeo (cf. fr. 143, 1). In quest'ottica, recuperando il vöccav di Heyne, sugge-

risco p.es. δ. περὶ voccov ἐπήγαγεν ὄθματα δίφρῳ (dodici volte diresse gli occhi sul cocchio intorno alla meta). Che le quadrighe di cavalli adulti compissero dodici giri intorno alla meta nell'ippodromo, è attestato non solo per 1 giochi pitici (grazie al brano delle Pitiche pindariche riportato sopra e al relativi scoli, che trasmettono il nostro verso), ma anche per quelli olimpici e istmici, come provano tre passi delle Olimpiche di Pindaro e i loro scoli: cf. II 48-51

Ὀλυμπίᾳ μὲν γὰρ αὐτός (cioè Terone con il carro) | γέρας ἔδεκτο, Πυθῶνι (ulteriore testimonianza sugli agoni pitici) δ᾽ ὁμόκλαρον ἐς ἀδελφεόν (cioè Senocrate) | Ἰεθμοῖ τε κοιναὶ Χάριτες ἄνθεα τεθρίππων δυωδεκαδρόμων | ἄγαγον con Schol. (A) 92 a ὅτι δώδεκα δρόμους ἔτρεχον τὰ τέλεια ἅρματα, Tovzecrv ι΄ καὶ β΄ καμπτῆρας; II 33 5. δωδεκάγναμπτον περὶ τέρμα δρόμου | ἵππων con Schol. (DO) 59 δώδεκα γὰρ ἐν Ὀλυμπίᾳ τρέχει τὸ τέλειον ἅρμα, τὸ δὲ πωλικὸν ὀκτώ (la medesima precisazione è fornita dallo Schol. Pind. Pyth. V 39, riportato nell'app. delle fonti, e dal codice di Costantino-

poli menzionato più avanti); VI 75 5. περὶ δωδέκατον δρόμον | ÉAavvévtecctv con Schol. (BDEO) 124 a κατὰ τὴν Ὀλυμπίαν περὶ τὸν δωδεκάκυκλον δρόμον éyoviwapévoic. La notizia è confermata, per l'ippodromo di Olimpia, da quanto si legge in un codice dell'antico Serraglio di Costantinopoli (vd. H. Schöne, «IDAI» 12, 1897, p. 155): τρέχουειν ...

ἅρματα (tà) (add. Schöne) μὲν πωλικὰ κύκλους ὀκτώ, τὰ δὲ τέλεια κύκλους δώδεκα. Vd. in generale O. Schroeder, Pindari carmina (Lipsiae 1900), Proleg. p. 54 5. e App. (1922) p. 505 s. e il comm. di Giannini a Pind. Pyth. V 33. δωδιεικάκιο: L'avverbio è di uso prosastico, ma cf. Aristoph. Plut. 852. πιερὶ δίφρον: Se le due parole non celano un guasto testuale, si osservi che esse compongono un nesso in due brani dell'Iliade omerica (XI 535 = XX 500).

4xait|

] . ᾿Αμυμών[η: Amimone è una delle quattro fonti di Argo che presero

nome da altrettante figlie di Danao:

C. dedica loro un breve aition, anch'esso del terzo libro

(frr. 164-165, vd. 1 comm. al vv. 7 s., 7 e 8 del fr. 165). Riguardo specificamente all'Amimone, cf. fr. 165, 7 ‘Auvuwvn* con il comm. All'inizio del pentametro sarebbe possibile leggere e integrare καὶ t[ò]v oppure καὶ [i]v. Bastianini preferisce il secondo supplemento, osservando che lo iota del pronome tiv - quantunque altrove in C. sempre lungo «per posizione» (cf. fr. 26, 3, Dian. 90, Epp. XXXII

1 e XXXIV

1 Pf. = HE

1149 e 1151, nonché

Cer.

25 probabilmente corrotto) e

lungo «per natura» presso Theocr. II 20 - risulta breve «per natura» presso Bacch. XVIII 14. Fondandosi

sul v. 7 del fr. 165, dove sono menzionate la fonte Amimone

e sua sorella

240

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Fisadia (πότνι᾽ ᾿Αμυμώνη καὶ Φυεάδεια φίλη), Bastianini suggerisce di integrare καὶ τ[ὶ]ν ᾿Αμυμών[η καὶ Φυςάδεια φίλη, intendendo: per te (cioè in onore di Berenice vittoriosa) l'Amimone e la cara Fisadia e le altre due sorgenti sorelle (eventualmente nominate nel v.

5) scorrono (v. 6 èpou[®]cw; vd. i comm. ai vv. 5 e 6). Vd. in generale l'app. Si osservi però che, se anche si privilegia il supplemento ᾿Αμυμώγ[η (rispetto all'ugualmente ammissibile genitivo ’Auvu@v[nc o dativo ’Auvuov[n o accusativo ’Auvu@v[nv) e si accoglie tutta l'integrazione esemplificativa di Bastianini, ᾿Αμυμώγ[η potrebbe essere non un nominativo, bensì - proprio come nel fr. 165, 7 - un vocativo (e lo stesso varrebbe, come nel fr. 165, 7 s., per i nomi delle altre fonti eventualmente qui presenti nel v. 4 s.). In tal caso ad Amimone stessa (e forse all'intera serie delle sorelle) spetterebbe l'ipotetico t[i]v: a ze (ovvero per te), Amimone e cara Fisadia ecc. Se così è, il verbo Spoyu[®]cw del v. 6 si riferirà con più naturalezza alla corsa dei cavalli nelle gare nemee. 5 κρή[ν]η καλὰ νάουεα: La frase potrebbe qualificare l'Amimone (menzionata nel v. 4), ma anche una sua sorella (eventualmente nominata nella parte perduta di quello stesso verso). Euforione (CA fr. 23, 3 p. 34), nell'imitare il nostro passo, applica la frase καλὰ vdovcav* alla fonte Fisadia, che è appunto una delle sorelle di Amimone: ἵπποι καλὰ vdovcav ἐπορνύμενοι Φυςάδειαν (vd. Pernigotti p. 70). Questo però non implica che già C. qualificasse così proprio la Fisadia: si può infatti ipotizzare che Euforione, per amore di variatio, attribuisse alla Fisadia una frase riferita da C. a una sua sorella (forse la stessa

Amimone). Che la sorgente fluente in bel modo fosse già negli Aitia la Fisadia, risulterebbe dalle integrazioni esemplificative suggerite da Bastianini per colmare il v. 4 s.: immaginando che nel v. 4 C. menzionasse non solo l'Amimone, ma anche la Fisadia (vd. il comm.

ad loc.), lo studioso - ispirandosi al fr. 165, 8 ([Ἵππη τ᾽ Αὐτομάτη Te) - suggerisce di completare così il nostro verso: κ[αὶ αὐτομάτη te καὶ Ἵππη. Vd. in generale l'app. Riguardo ai possibili contesti sintattici e contenutistici del nostro verso, vd. il comm.

al v. 4.

Gli ascendenti omerici della frase callimachea sono Od. VI 292 ἐν δὲ κρήνη ver e Il. XXI 197 rücaı κρῆναι ... véovciv |. Si osservi che C. applica l'attributo εὐναές a una delle fonti argive (l'Automate) nel fr. 164, 1 e le definisce tutte Aırapat per il loro flusso luminoso nel fr. 165, 9. L'intera frase κρή[ν]η καλὰ véovca è inoltre analoga all'espressione

κράνᾳ ... καλὰ peoice |, impiegata da C. a proposito dell'Ippocrene in Lav. 71. Cf. poi [Orph.] Arg. 494 κρήνῃ da’ ᾿Αρτακίῃ καλὰ νάματα (su questo passo, vd. il comm. ai frr. 211-212). Per il solo καλὰ véovca, oltre al luogo di Euforione riportato sopra, cf. Ap. Rh.

IV 1300 καλὰ véovtroc* con il comm. di Livrea. 6 δρωμ[ῶ]ειν - Δαναοῦ: Riguardo a δρωμ[ῶ ]ειν, cf. Euph. SH 429 I 25 Ἰδρωμῶει, Hesych. σιν. δρωμῷᾷ- τρέχει. Conformemente alla ricostruzione ipotetica dei nostri vv. 4 e 5 suggerita da Bastianini (vd. 1 comm. ad locc., qui il verbo potrebbe significare scorronolscorrano e avere come soggetto le fonti argive. A parziale sostegno di tale idea, si osservi che nel fr. 165, 6 troviamo il verbo περιδέδρομας riferito all'Amimone (menzionata nel nostro v. 4). Ma è forse più plausibile che èpou[@]cw (da intendere come indicativo o congiuntivo o participio) descriva la corsa dei cavalli nei giochi nemei (cf. inraler]fip’ nel verso seguente), così come nel fr. 143, 8 il verbo ἔθρεξαν spetta ai cavalli vittoriosi di Berenice. Vd. il comm. al v. 4. La menzione di Danao è probabilmente collegata al suo essere padre delle fanciulle che diedero nome alle fonti argive (vd. i comm. ai vv. 4 e 5). Troviamo nominato il personaggio altre due volte nella Vittoria di Berenice: cf. frr. 143, 4* e 151, 4* con 1 comm. Dato il veri-

simile contesto dei nostri versi, è soprattutto notevole il secondo passo, dove si parla di un

COMMENTO:

AET. II FR. 144

241

pozzo di Danao argivo.

7 ἱἹππα[εςτ]ῆρ᾽ ἅτε: L'aggettivo ἱππαςτήρ (equestre) ricorre solo presso Asclep. Anth. Pal. V 203, 1 = HE 832 ἱππαςτῆρα μύωπα le Antip. Sid. Anth. Pal. VII 424, 9 = HE 378 |

inracthp ... κημός, dunque rispettivamente come attributo di uno sprone e di una musoliera. Il suo Impiego nel nostro passo si lascia facilmente ricondurre alla vittoria nemea della quadriga di Berenice. Sul piano metrico, il rispetto della norma enunciata nell'Introd. ILI.A.c.11. richiede che ἅτε (sicut) venga considerato prepositivo rispetto al testo seguente (come in Hec. SH 287,7 = fr.48,7 H.) e non pospositivo rispetto alla parola che precede (come nel fr. 1, 6). 8 Αἴγυπτος γενεῆς αἷμ᾽ a[: La menzione dell'Egitto e (nel verso seguente) quella del Nilo, interposte come sono fra vari riferimenti all'Argolide (cf. vv. 2-6, 10), ribadiscono

la commistione fra la tematica argiva e quella egiziana, che è un tratto distintivo di questo esordio della Vittoria di Berenice (vd. 1 comm. ai vv. 4-6 e 12 del fr. 143). Tale commistione è quanto mai adeguata alla lode della regina egiziana, trionfatrice nei giochi nemei. Benché ci sfugga il contesto sintattico della frase γενεῆς αἷμ᾽, è verisimile che venisse così designato un qualche rapporto di discendenza (per un'analoga combinazione, cf. fr.

166, 7 αἷμα τὸ μὲν γενεῆς Edéavtiôoc con il comm.; all'inizio della nostra elegia (fr. 143, 2), Berenice stessa viene definita αἷμα dei precedenti sovrani). Alla luce della suddetta compenetrazione fra temi argivi ed egiziani, risulta molto ingegnoso il supplemento esemplificativo ἀπ᾽ ᾿Αρεςτοριδέων, suggerito da D'Alessio alla chiusa del nostro verso in base a Lav.34 μεγάλων παῖδες "Apectopidàv | (gli Arestoridi sono gli Argivi, in quanto Arestore era il padre di Argo). Vd. app.

9 δηθάκ[1]

μου τὸν NeîAo[: Come abbiamo detto nel comm. introduttivo, il pro-

nome pov si riferisce alla persona loquens, che smette di parlare nel v. 10. La successiva menzione del Nilo è forse un indizio del fatto che questa figura si collega in qualche modo all'Egitto. Non sappiamo di chi si tratti: D'Alessio pensa a Proteo, il vate residente in Egitto che - nel primi versi della Vittoria di Berenice - riceve la notizia del successo nemeo ripor-

tato dalla regina (cf. fr. 143, 5 Παλληνέα μάϊντιν con il comm.). Abbiamo qui la più antica attestazione dell'avverbio δηθάκι(ο),, che significa spesso (cf. Hesych. s.v.) e risulta successivamente Impiegato solo nella poesia esametrica, dove occupa quasi sempre - come nel nostro caso - l'inizio del verso: cf. Nic. Αἱ. 215 a/., Opp. Hal. V 48, [Opp.] Cyr. I 27 (vd. la nota di Mair) al., Maneth. II 182 al. (una diversa collocazione metrica si riscontra presso Maneth. III 79). Sono poi lecite due integrazioni, che conferiscono al brano due diversi giri sintattici: da un lato τὸν NeîAo[v, dall'altro τὸν Neikol[c (con τὸν pronome relativo, come presso Nic. Ther. 566*; vd. app.). Il Nilo figura anche poco prima nella nostra elegia (fr. 143, 14). 10 κεῖνος dc ἐν Προίτου : Ignoriamo chi sia il κεῖνος, del quale si sta parlando. Si osservi inoltre che, al posto di öc, sarebbe lecito il neutro öc’ (vd. app.). Preto è un re di Tirinto in Argolide, pronipote di Danao (genealogia: Danao - Ipermestra - Abante - Preto). Tre sono i miti più celebri collegati a questo personaggio: la contesa fra Preto e suo fratello Acrisio per il regno di Argo; l'amore di Antea/Stenebea, moglie di Preto, per Bellerofonte (cf. già Hom. Il. VI 157-170); la follia delle figlie di Preto e il loro rinsavimento (cf. già Hes. frr. 37,

10-15;

131 M.-W. e lo stesso Call. Dian. 233-236).

Apollonio Rodio, in un

passo estraneo ai miti suddetti (I 136-138), scrive che Preto era nipote di Amimone, la figlia di Danao menzionata nel nostro v. 4 (genealogia: Danao - Amimone - Nauplio - Preto). D'Alessio (p. 803) adduce Pind. Nem. X 41 s., dove compare il termine ὅσαις e si esaltano

242

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vittorie atletiche della città di Preto.

11 ὧς Zvenev- τοὶ δ᾽ ἦχον: Come indicano altri due passi callimachei (Dian. 158 ὡς Évenev* e fr. 149, 15 ὧ]ς ἐνέπων5), qui termina un discorso diretto, ma non è chiaro né dove esso inizi né chi lo pronunci (vd. il comm. introduttivo). Si osservi comunque che nella Vittoria di Sosibio (fr. 384 Pf.) la celebrazione dei successi agonistici riportati dal dignitario è affidata via via a numerose voci, compresa quella del fiume Nilo (vv. 27-34). Ignoriamo anche chi siano i successivi toi, ma il sostantivo ἦχον (per il cui uso da parte di C., vd. il comm. al fr. 1, 29 Aıybv ἦχον) lascia congetturare che si tratti degli ascoltatori del discorso appena concluso, il cui suono essi hanno udito (cf. forse anche v. 14 ἤκου [). A

sostegno di questa interpretazione, cf. Hec. SH 288, 9 = fr. 69,9 H. è μὲν φάτο, τοὶ δ᾽ ἀϊόντες |. 13 ἐκ λαγόνων [| θερ[: La parola λαγόνες forse qui designa i fianchi dei cavalli di Berenice: per quest'uso del termine, cf. lo stesso Call. Dian. 223 λαγόνες (i fianchi dei

Centauri), Lav. 6 ἱππειᾶν ... λαγόνων I, Posidipp. Ep. 72, 2 Austin-Bastianini ἐκ λαγόνων. In tal caso, il possibile θερ[μ- successivo (vd. app.) sarebbe riferibile al caldo anelito dei cavalli nella corsa (cf. fr. 143, 9 ἄεθματι, di poco precedente al nostro passo). Ma è anche ipotizzabile che il vocabolo λαγόνες descriva qui i fianchi di un monte, come presso lo

stesso Call. fr. inc. sed. 552 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed. 169 H. | BprAnecod Aoyöveccw. Altrove C. impiega il termine a proposito dei fianchi di Atena: cf. Lav. 88. La parola λαγών, assente nei poemi omerici (ma cf. [Hom.] Batr. 222), ricorre in poesia a partire dal dramma: cf. p.es. Eur. ec. 559. Il nesso ἐκ λαγόνων si rinviene - come qui - a inizio di esametro presso Nonn. Dion. IV 435, XXI 223, Mer. IX 96, Ioann. Gaz. II 8.

14 ἔεταθεν- Akov[: La forma di aoristo ἔεταθεν viene usata anche da Ap. Rh. IV 1330 (molto dubbia è la sua presenza presso [Sim.] FGE 733, vd. il comm. di Page). Il successivo ἤκου va ricondotto all'imperfetto o all'aoristo del verbo ἀκούω: si parla forse di qualcuno che ha sentito 1] discorso conclusosi nel v. 10 (vd. il comm. al v. 11). 16 οὐκ ἐρέω: Come si è detto nel comm. introduttivo, queste parole sembrerebbero pronunciate dal poeta in prima persona. Per il nesso, cf. ep. adesp. App. Plan. 299, 5, Orac. Sib. Il 124 = [Phocylid.] Sent. 52, [Opp.] Cyr. I 30, II 598, Diog. Laert. Anth. Pal. VII 123, 3, Colluth. 298 Livrea (sempre a inizio di esametro). 18 ε]υρίζει _]: Il verbo è già impiegato in poesia da Ipponatte (fr. 79, 11 W.=Degani). Forse qui la parola descrive il fischio prodotto dall'incedere vorticoso del cocchio di Berenice. Si noti infatti che copie può indicare il sibilo di oggetti colpiti dal vento (cf. Eur.

Iph. Taur. 431 s. | ευριζόντων ... |... πηδαλίων |, Nonn. Dion. LX 340 | δένδρεα cupißen) oppure del vento stesso (cf. Babr. CXIV 4 | ἀνέμου ... copicavtoc). È inoltre significativo che una raffinata evocazione del frastuono causato dall'asse del carro durante la corsa figuri

nella Vittoria di Sosibio (fr.384, 5 s. Pf.): ἔτιτ χνόον ... | ἄξονος ’AcBôcrnc ἵππος ἔναυλον ἔχει. 19 ἀ]λλαποδ[: Sono lecite varie articolazioni (vd. app.): ἄϊλλᾳ ποδί. ἀ]λλὰ ποδί (cf.

[Opp.] Cyn. II 10 | ἀλλὰ ποδῶν, Nonn. Dion. X 385 | ἀλλὰ todoreinc), ἀ]λλ᾽ ἀπὸ dl e ἀ]λλ᾽ ἀποδί (cf. Hom. I. XXII 118 | ἀλλ᾽ ἀποδάεςεςθαι). Il vocabolo πούς o un suo composto potrebbero riferirsi alle veloci zampe dei cavalli che hanno portato alla vittoria 1] cocchio di Berenice. 20 ὄ]θμα: Per questa forma tipicamente callimachea, cf. il nostro v. 3 e vd. il comm. al fr.1,37. 21 ]icopev: Sono ammissibili i futuri o]icopev e t]icopev (vd. app.). In via del tutto

COMMENTO:

AET.II FRR. 144-145

243

ipotetica, si potrebbe immaginare che qui il poeta, facendosi interprete dell'esultanza generale, esprima l'intenzione di portare in dono (cf. fr. 143, 1 ἕδνον) alla regina la sua elegia, ovvero di onorare la regina con la sua elegia. Per quest'uso del plurale in funzione celebrativa all'inizio della Vittoria di Berenice, cf. fr.143,3 con il comm.

Frammento

145 (54 Pf. = SH 266)

Il frammento consiste in un resoconto sommario di ciò che C. narrava su Fracle e Molorco. Lo pseudo-Probo, nel commentare l'espressione virgiliana /ucosque Molorchi (Georg. III 19), narra la seguente storia: Eracle, poco prima di uccidere il leone nemeo, venne ospitato da Molorco; costui, per accogliere più degnamente l'eroe, voleva uccidere il suo unico ariete, ma Fracle lo convinse ad attendere la fine dello scontro con il leone: Mo-

lorco avrebbe dovuto sacrificare l'ariete a lui se avesse avuto la meglio o ai suoi Mani se fosse stato ucciso dalla belva; dopo avere ammazzato il leone, Fracle si addormentò per in-

tervento della malevola Fra o per effetto della stanchezza; risvegliatosi, prese con sé una corona di apio (futuro premio dei vincitori nemei) e raggiunse di corsa la casa di Molorco, che aveva già ucciso l'ariete e si accingeva a compiere il sacrificio per i Mani di Fracle; da questa Impresa dell'eroe si originarono le competizioni nemee, che in séguito vennero nuovamente istituite dai sette eroi diretti contro Tebe, come tributo funebre per Archemoro. Lo

pseudo-Probo conclude la sua esposizione tramandando che C. menzionava Molorco negli Aitia. Non è sicuro che C. abbia raccontato l'intero mito nella versione offerta dallo pseudoProbo. Sappiamo per certo che nel terzo libro degli Aitia figuravano il leone nemeo (fr. 146) e il monte Apesante dove dimorava la belva (fr. 147). È estremamente plausibile che la sosta di Eracle presso Molorco (frr. 148-151) appartenesse al medesimo aition (le istruzioni date dall'eroe al contadino in merito all'ariete si potrebbero riconoscere nel fr. 151, 1221: vd. il comm. ad loc.). La corona di apio (per la quale cf. forse fr. 148, 16 con il comm.) e l'istituzione

dei

giochi,

menzionati

dallo

pseudo-Probo,

si rinvengono

nel fr.

156,

5,

sicché è molto verisimile che anche il fr. 156 risalga a questa sezione dell'opera (e con esso 1frr. 154 e 155). νά. l'annotazione dopo il testo. La figura di Molorco non è attestata prima di C.: potrebbe trattarsi di una sua creazione, ma non è escluso che 1] poeta dipenda da una qualche fonte storiografica di àmbito argolico, per esempio - come propone Morgan p. 538 - Agia e Dercilo (riguardo al loro influsso su altre parti degli Aitia, vd. il comm. al fr. 164). In merito alle offerte compiute da Molorco per il ritorno di Eracle, è interessante osservare che, secondo la testimonianza di Philochor.

FGrHist 328 F 109 ap. Plut. Thes. XIV 3, la vecchia Ecale (altro personaggio callimacheo) promise di effettuare un sacrificio a Zeus se Teseo fosse rientrato sano e salvo dallo scontro

con il toro di Maratona: εὔξατο μὲν ὑπὲρ αὐτοῦ τῷ Διὶ βαδίζοντος ἐπὶ τὴν μάχην, εἰ cc παραγένοιτο, θύςειν. Cf. anche Call.fr. inc. sed. 516 Pf. con il comm. Altri testimoni narrano la vicenda di Fracle e Molorco senza fare il nome di C. (per l'oscillazione tra le grafie MöAopxoc e Μόλορκοο, vd. Morgan pp. 533-537): Nigid. Figul. fr. 93 Swoboda in Schol. German. Arat. (a) p. 72. 1, (b) p. 131. 9 Breysig (cf. Ampel. II 5, p. 3 Assmann) Nigidius refert hunc leonem nutritum apud Lunam iussu Junonis ad Herculis exitium demissumque caelo a Iunone in terram Arcadiam (Argolicam Merkel) in regionem Nemeae. in qua speluncam esse, ubi hic leo victus memoratur Tquia mihidymont (mihdymon, michdimon (Ὁ): quae Amphidymon E. Curtius, cf. Et. M. a 1176 Lasserre-Livadaras et vd. Barigazzi p. 15) nomine fuerit (quam quidam tamphyriso dicunt

244

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

add. (b), cf. Hygin. Fab. XXX 2). quem (om. (a), add. (b)) Hercules iussu Eurysthei interfecit cum Molorcho hospite suo, cuius clavam (quam: del. Breysig) viribus tributam (add. Bücheler ex Ampelio) principio est adeptus eaque leonem interfecit. itaque postea clava pro gladio, pelle pro scuto in reliquo tempore uti instituit et apud omnes mortales gratus ob virtutem haberi coeptus est; lunoni porro magis in odio pervenerat. quapropter leonem caelesti memoria dignari voluntate lunonis arbitrantur. plerique Nemeae gymnicos ludos ab hoc arbitrantur leone institutos. [Apollod.] Π 5, 1, 1-4 (cf. Pediasim. De XII Herculis laboribus 1 2-4) πρῶτον μὲν οὖν

ἐπέταξεν αὐτῷ (scil. ὃ Ebpvcdedc) τοῦ Neuéov λέοντος τὴν δορὰν κομίζειν - τοῦτο dè ζῷον ἦν ἄτρωτον, ἐκ Τυφῶνος γεγεννημένον. πορευόμενος οὖν ἐπὶ τὸν λέοντα ἦλθεν εἰς Κλεωνὰς καὶ ξενίζεται παρὰ ἀνδρὶ χερνήτῃ Μολόρκφ. καὶ θύειν ἱερεῖον θέλοντι (θύειν Διὶ μέλλοντι Pediasim.) εἰς ἡμέραν ἔφη τηρεῖν τριακοςτήν, καὶ ἂν μὲν ἀπὸ τῆς θήρας choc ἐπανέλθῃ, Διὶ cotfipt θύειν, ἐὰν δὲ ἀποθάνῃ, τότε ὡς (τῷ τέως codd.: corr. Aegius) ἥρωι ἐναγίζειν. εἰς δὲ τὴν Νεμέαν ἀφικόμενος καὶ τὸν λέοντα μαςτεύεας ἐτόξευςε τὸ πρῶτον. bc δὲ ἔμαθεν ἄτρωτον ὄντα, ἀνατεινάμενος (ἐντεινάμενος Pediasim.) τὸ ῥόπαλον ἐδίωκε. ευμφυγόντος δὲ εἰς (TO) ἀμφίετομον «πήλαιον αὐτοῦ τὴν ἑτέραν ἀνῳκοδόμηεεν (ἐν- E) eicodov, διὰ δὲ τῆς ἑτέρας ἐπειςῆλθε τῷ θηρίῳ, καὶ περιθεὶς τὴν χεῖρα τῷ τραχήλῳ κατέεχεν ἄγχων ἕως ἔπνιξε, καὶ θέμενος ἐπὶ τῶν ὥμων ἐκόμιζεν εἰς Κλεωνάς (Κλεωνάς Pierson e Pediasim.: Μυκήνας codd.). καταλαβὼν δὲ τὸν Μόλορχον ἐν τῇ τελευταίᾳ τῶν ἡμερῶν ὡς νεκρῷ μέλλοντα τὸ ἱερεῖον ἐναγίζειν, corfipi θύεας Διὶ ἦγεν εἰς Μυκήνας τὸν λέοντα. Serv. in Verg. Georg. III 19 (cf. Mythogr. Vat.I 52) 'lucosque Molorchi': id est silvam Nemeam, in qua celebratur agon in honorem Archemori. Molorchus autem pastor fuit, qui Herculem venientem ad occidendum Nemeaeum leonem suscepit hospitio. Schol. Stat. Theb. IV 159-160 (cf. Mythogr. Vat. II 160) Cleonaei] Cleonae (Pf.: Cleonaei vel Cleoneia codd.) civitatis nomen est Nemeae silvae vicinae. Herculem eo loco Molorchus accepit hospitio censu pauper, dives affectu, ut ... (Lucan. IV 612 s.). ergo cum Hercules ad occidendum leonem isset ab Eurystheo missus, a Molorcho susceptus hospitio est, cuius filium leo interfecerat, didicitque ab eo quemadmodum adversus ferum coiret. quo superato ludos instituit, quos a loco Nemea appellavit.

Steph. Byz. s.v. Μολορκία: πόλις Νεμέας, ἀπὸ Μολόρκου Tod Eevicavroc Ἡρακλέα ἀπιόντα ἐπὶ τὸν ἀγῶνα. τὸ ἐθνικὸν Μολορκίτης. Rispetto al racconto dello pseudo-Probo, le testimonianze riportate aggiungono dei particolari o forniscono delle versioni alternative in qualche punto: Euristeo ordinò a Fracle di portargli la pelle del leone (ps.-Apollodoro); la fiera era cresciuta sulla luna per volere di Era, che la inviò nella regione di Nemea perché uccidesse Fracle (Nigidio), ovvero si trattava di una creatura invulnerabile nata da Tifone (ps.-Apollodoro); Molorco risiedeva a Cleone, nel territorio di Nemea, ed era povero (ps.-Apollodoro, Schol. Stat.); allorché Mo-

lorco stava per compiere il sacrificio, Eracle lo convinse ad attendere trenta giorni: Molorco avrebbe dovuto sacrificare a Zeus Salvatore se Fracle fosse ritornato entro questo lasso di tempo, mentre in caso contrario avrebbe dovuto compiere offerte funebri in onore dell'eroe morto (ps.-Apollodoro); Molorco, il cui figlio era stato ucciso dal leone, diede a Fracle dei consigli sul modo di affrontare la belva (Schol. Stat.); Eracle andò a scontrarsi con il leone,

il cui covo era una spelonca (Nigidio, ps.-Apollodoro); l'eroe uccise la fiera insieme a Molorco, colpendolo con una clava datagli da Molorco stesso che da allora in poi divenne la sua tipica arma (Nigidio), ovvero lo aggredì da solo, tentò in un primo momento di ammaz-

COMMENTO:

AET. HI FR. 145

245

zarlo con le frecce, ma poi - resosi conto della sua invulnerabilità - lo inseguì brandendo la clava, lo bloccò dentro la spelonca e lo soffocò (ps.-Apollodoro); Fracle utilizzò da quel momento la pelle del leone come scudo (Nigidio), ovvero tornò a Cleone con la belva morta sulle spalle, trovò che Molorco - essendo scaduto il trentesimo giorno - stava per compiere le offerte funebri in onore dell'eroe, celebrò invece lui stesso il sacrificio per Zeus Salvatore e portò il leone a Micene (ps.-Apollodoro); per volere di Fra, il leone nemeo venne trasformato in una costellazione (Nigidio); da Molorco prese nome la città nemea di Molorchia (Stefano Bizantino). Due di queste notizie 51 trovano anche nel racconto di C., cioè la povertà di Molorco e molto verisimilmente - la sua residenza a Cleone:

vd. da un lato i comm.

ai frr. 149, 25 τά

τ᾽ ἀνέρος ἔργα revix[ po? e 153, 4, dall'altro il comm. al fr. 149, 37. Ma anche ulteriori dettagli forniti dal precedenti testimoni potevano trovare posto nell'elegia callimachea. Forse il poeta rievocava la discesa del leone dalla luna (cf. fr. 147 e vd. il comm. introduttivo al fr. 146 e i comm. ai frr. 147 e 148, 33 s.) e diceva che il suo covo era in una spelonca del monte Apesante (vd. il comm. al fr. 147). Poiché sembra che C. - descrivendo ıl primo incontro fra Eracle e Molorco - si soffermasse sull'arco dell'eroe, potremmo riconoscere qui un riferimento prolettico all'inutilità dell'arma nello scontro con la fiera (vd. il comm. al fr. 148, 11). D'altra parte, se Eracle - poco prima di affrontare la sua fatica - diceva a Molorco che sperava di colpire il leone con la clava, le sue parole potrebbero prefigurare l'importanza di quest'ultima nella riuscita dell'impresa (vd. il comm. al fr. 151,

7).

Probabilmente

l'eroe,

tornato

vittorioso,

comunicava

al

contadino

che

da

lui

avrebbe preso nome la città di Molorchia (vd. il comm. al fr. 156, 15). Non è escluso che C. accennasse al catasterismo del leone (vd. Parsons p. 43), ma è comunque improbabile che il fr. inc. auct. 278 risalga al nostro aition (vd. il comm. ad loc.). È invece poco plausibile che Molorco - nel suo primo colloquio con Fracle - lamentasse la morte del figlio a causa della belva (vd. il comm. al fr. 148, 20) o anche che C. menzionasse questo figlio descrivendo l'ospitalità offerta da Molorco all'eroe (vd. il comm. al fr. 149, 4). Di sicuro negli Aitia Molorco non partecipava allo scontro con il leone, ma attendeva a casa il rientro di Fracle: questi infatti, di ritorno dalla sua fatica, dice al vecchio che gli rac-

conterà a tavola come si è svolta la lotta (cf. fr. 154, 3). La trattazione callimachea della frugale ospitalità offerta da Molorco a Fracle nel borgo nemeo di Cleone prima dello scontro con il leone ha influito su vari poeti successivi: cf. Verg. Georg. III 19 lucosque Molorchi | (in relazione al giochi nemei; il commento dello pseudo-Probo

al passo virgiliano è, come

abbiamo

visto, la fonte del nostro frammento),

[Tib.] IV 1, 12 5. quin etiam Alcides, deus ascensurus Olympum, | laeta Molorcheis posuit vestigia tectis (vd. ıl comm. al fr. 156, 16), Stat. Silv. III 1, 29 s. nec pauperis arva Molorchi | nec formidatus Nemees ager, IV 6, 50 s. nec torva effigies (scil. di Ercole) epulisque aliena remissis, | sed qualem parci domus admirata Molorchi, Theb.IV 160 | sacra Cleonaei ... vineta Molorchi | (vd. il comm. al fr. 148, 25), Mart. IV 64, 29 s. pios Penates | ...

facti modo divitis Molorchi | (vd. il comm. al fr. 151, 8), IX 43, 13 (Ercole) fuit quondam placidi conviva Molorchi |. Particolarmente elaborata è l'imitazione che si rinviene nelle Dionisiache di Nonno (XVII 37-86), dove l'anziano pastore Brongo - per ospitare degnamente Dioniso nella sua umile capanna - si accinge a servirgli una pecora, ma ne viene dissuaso dal dio, che si accontenta di un umile pasto a base di olive e formaggio e infine gli dona il vino. Nonno

246

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

paragona esplicitamente la parca ma gradita accoglienza riservata da Brongo a Dioniso con

quella offerta da Molorco a Eracle. Cf. soprattutto i vv. 46-62: καὶ μίαν εἰροπόκων ὀίων ἀνελύεατο uavöpnc, |dppa κε Sartpedcere θυηπολίην Διονύεῳ- ἀλλὰ θεὸς κατέρυκε: γέρων δ᾽ ἐπεπείθετο Βάκχου | νεύμαειν ἀτρέπτοιειν, div δ᾽ dyavcrov ἐάεςεας | ποιμενίην τινὰ δαῖτα θελήμονι θῆκε Λυαίῳ, | τεύχων δεῖπνον ἄδειπνον ἀδαιτρεύτοιο τραπέζης | (45) eidacıv οὐτιδανοῖει καὶ ἀγραύλοιει κυπέλλοις, | (52) οἷα Κλεωναίοιο φατίζεται ἀμφὶ Μολόρκου. | κεῖνα, τά περ «πεύδοντι λεοντοφόνους ἐς ἀγῶνας | ὥὕπλιςεν ἭἩρακλῆι. χύδην δ᾽ ἐπέβαλλε τραπέζῃ | εἰν ἁλὶ νηχομένης φθινοπωρίδος ἄνθος ἐλαίης | Βρόγγος, ἔχων μίμημα φιλοετόργοιο νομῆος, | πλεκτοῖς ἐν ταλάροις νεοπηγέα τυρὸν ἀείρων, | ἱκμαλέον, τροχόεντα. θεὸς δ᾽ yéhacce δοκεύων | ἀγρονόμων λιτὰ δεῖπνα. φιλοξείνῳ δὲ νομῆι ἵλαον ὄμμα φέρων ὀλίγης Évavce τραπέζης | δαρδάπτων ἀκόρητος: ἀεὶ δ᾽ ἐμνώετο κείνην | εἰλαπίνην ἐλάχειαν ἀναιμάκτοιο τραπέζης (per quest'ultimo verso, vd. il comm. al fr. 156, 16).

Frammento

146 (55 Pf. = SH 267)

La collocazione del frammento a questo punto del racconto deriva dal suo contenuto. Pur di procurare un'ardua fatica a Eracle, figlio bastardo di Zeus, Fra invia il leone nemeo contro Argo, la terra che lei stessa ha ottenuto in sorte.

Che Fra avesse allevato il leone e lo avesse posto nella regione di Nemea, è già detto da

Hes. Theog. 327-331 Νεμεαῖόν te λέοντα, | τόν ῥ᾽ Ἥρη θρέψαεα Διὸς κυδρὴ παράκοιτις | γουνοῖειν κατέναςςε Νεμείης, πῆμ᾽ ἀνθρώποις | ἔνθ᾽ ἄρ᾽ ὅ γ᾽ οἰκείων ἐλεφαίρετο φῦλ᾽ ἀνθρώπων, | κοιρανέων Τρητοῖο Νεμείης ἠδ᾽ ᾿Απέοςαντος (vd. Reinsch-Werner pp. 312315; per Apesante, cf. fr. 147). La belva fu allevata da Fra nella piana di Nemea secondo

Bacch. IX 4-9 Νεμεαίου | Ζηνὸς εὐθαλὲς πέδον | … ὅθι μηλοδαΐκταν | Opewev è λευκώλε[νο]ς | Ἥρα περι[κλει]τῶν ἀέθλων | πρῶτον ['H]p[a]xAeî βαρύφθογγον λέοντα. Epimenide cretese asserisce che la luna mandò giù il leone per volere di Era (fr. 33, 2 s., II

3 p. 135 Bernabé): dreceicato θῆρα λέοντα | FEv νεμεαία (vel veuearav) ἄγους ἢ αὐτὸν διὰ πότνιαν Ἥραν. La medesima versione si rinviene nel fr. 93 Swoboda di Nigidio Figulo, riportato nel comm. al fr. 145. Per quanto riguarda la discesa del leone dalla luna, vd. 1 comm. ai frr. 147 e 148, 33 s. Cf. anche fr. 151, 2 con il comm.

Mentre qui il poeta chiarisce che la responsabile dell'arrivo del leone fu la gelosa Fra, nel v. 199 5. del venticinquesimo idillio pseudo-teocriteo l'ignaro Eracle - quando comincia a rievocare la sua stessa fatica - dà voce all'erronea congettura che la belva sia stata inviata da un qualche dio, irato con gli Argivi per un'inadempienza rituale: οἷον δ᾽ ἀθανάτων τιν᾽

Eickouev ἀνδράει πῆμα

ἱρῶν unvicavta Dopwvneccıv ἐφεῖναι.

1 τόν: Cioè il leone nemeo, come intuì Wilamowitz (vd. l'annotazione dopo il testo).

&pickvônc: L'aggettivo è un hapax. Cf. Hom. Il. VIII 482 5. où cev ἔγωγε οκυζομένης ἀλέγω (parole di Zeus a Era). Vd. Bredau p. 37, Schmitt p. 165.

|

edvic ... Διός: Per il nesso, cf. Leonid. Alex. Anth. Pal. IX 355, 3 = FGE 1984 Διὸς edvi. Il vocabolo edvic corrisponde a εὐνέτις ed è proprio della tragedia: cf. Soph. Track. 563, TrGF 221, 18, Eur. Or.929, Iph. Aul.397, 807 (ma lo si trova anche in (ΕΟ 2 nr. 576,

2* (IV sec. a.C.)). Non è chiaro se Antimaco (SH 69, 3 = fr. 121, 3 Matthews εὔνιοιν) utilizzi anche lui il nostro sostantivo o impieghi l'aggettivo eùvic (privo), già presente nei poemi

omerici

(ἢ. XXII

44,

Od.

IX

524).

Cf.

poi Maxim.

De

action.

ausp.

60,

560

II

16/34/28 v. 6, Greg. Naz. Carm.I 2, 1, 626 (PG 37 p. 570) al. 2”Apyoc

... ἴδιον

... λάχος: Quando gli dèi si divisero la terra con un sorteggio,

COMMENTO:

AET.II FRR. 145-146

247

Argo toccò a Era. Cf. Call. Del. 74 Aaxev Ἴναχον Ἥρη | (l'Inaco è appunto un fiume argivo) - frase ripresa da Nonn. Dion. XLVII 476* -, nonché Nonn. Dion. XLVII 603 s. "Apyoc ... Ἥρη 1 ἔλλαχεν; per il sorteggio divino in generale, cf. fr. 69, 1 5. con il comm. Il rapporto privilegiato fra Era e Argo è già presente nell'/liade omerica, dove la dea dice (IV

51 s.): ἤτοι ἐμοὶ τρεῖς μὲν πολὺ φίλταταί elcı πόληες, | [Ἄργος κτλ. Cf. anche Pind. Nem. X 2 | Ἄργος Ἥρας δῶμα θεοπρεπές (uno scolio a questo passo tramanda il nostro frammento: vd. app. delle fonti). #0e1v: All'interno dei poemi omerici, il verbo figura solo in due passi (II.IX 540, XVI 260). C. riecheggia la prima attestazione, dove la parola si riferisce a un'altra famigerata

belva, il cinghiale calidonio: ὃς κακὰ πόλλ᾽ Epdecxev ἔθων Oivfioc ἀλωήν. Utilizzando il verbo con il significato di devastare, C. prende posizione nella disputa erudita relativa al senso del termine. Alcuni, infatti, lo collegavano a εἴωθα e ritenevano che significasse sono solito (in tal caso, nel verso omerico riportato, sia κακά sia ἀλωήν dipenderebbero da

épSecxev). Per il senso recepito da C., cf. Schol. (Aït) Hom. Π. IX 540 Ὁ οἱ yAwccoypagoı τὸ ἔθων ἀποδιδόαει βλάπτων, Hesych. s.v. ἔθει- φθείρει. Vd. Frisk s.v. ἔθων, il comm. di Hamsworth a Hom. Il. IX 540, Rengakos p. 29 s., Tosi pp. 232-234. ἴδιόν περ ἐόν: Cf. Call. Hec. SH 288, 52 = fr. 74, 11 H. αὖον ἐόν περ |, Iov. 24 διεροῦ περ ἐόντος |, 58 rpotepnyevéec περ ἐόντες |. Questi paralleli smentiscono la conget-

tura &6v di Schneider (vd. app.). Per ἴδιον, vd. il comm. di Bulloch a Lav. 26. Aaxoc: Il vocabolo ricorre già in [Theogn.] 592. Il significato della parola nel nostro verso (parte ottenuta in sorte) si riscontra presso Pind. OL. VII 58 λάχος ᾿Αελίου | (nel sorteggio delle terre fra gli dei: vd. il comm. al fr. 69, 1 s.), Nem.X 85 (l'immortalità spettante a Polluce), Aesch.

Eum.

400

(il promontorio

del Sigeo

toccato

ad Atena),

Orac.

539,

1

Parke-Wormell λάχος ᾿Απόλλωνι |. C. fa anche il medesimo uso della rara forma equivalente λάξις, allorché - apostrofando Zeus - scrive che i re sono la sua parte ottenuta in sorte

(ov. 80 τεὴν … λάξιν D). Il verbo corrispondente λαγχάνω è impiegato con questo senso in un passo del Timeo di Platone (23 D) riportato da Pf. nel comm. a Call. fr. inc. sed. 519 = (Hec.) fr. inc. sed. 167

H. ἀλλὰ θεῆς ἥτις ue διάκτορον ἔλλαχε Παλλάς

(parole pronunciate da una civetta).

Molto simile al nostro luogo è Call. Del. 74 (riportato sopra), ma cf. anche Ap. 43 κεῖνος

(scil. Apollo) ὀϊοτευτὴν ἔλαχ᾽ ἀνέρα, κεῖνος ἀοιδόν (vd. il comm. di Williams). Il verbo λαγχάνω è riferito agli dèi (oltre che nei brani riportati sopra) da Hom.

Π. XV

190-192,

[Hom.] Hymn. I 86 s., IV 428, 430, VI 2, XIX 6, XXIX 3, Antim. fr. 53, 2 Wyss = 131,2 Matthews, Theocr. VII 103, XVI 84, Ap. Rh. I 920, 1226, Crinag. Anth. Pal. VI 253, 4 = GP 2025, Diod. Anth. Pal. VI 243, 1 = GP 2112 (variazione di Call. Del. 74), [Orph.] Arg. 2, Quint. Smyrn. XII 168 e nell'Orac. 517, 4 Parke-Wormell.

2 5. γενέθλῃ | Ζηνὸς ὅπως cxotin τρηχὺς ἄεθλος ἔοι: C. tratteggia un'immagine simile nel v. 108 5. dell'inno ad Artemide: Ἥρης &vvecincw, ἀέθλιον "Hpaxkfi | ὕετερον ὄφρα γένοιτο (a proposito della cerva cerinea). In entrambi i passi l'intento malevolo di Era nei confronti di Eracle è espresso da una proposizione finale e dall'impiego del

sostantivo ἄεθλοοω(ἀέθλιον. Cf. anche Ap. Rh. I 996 5. δὴ γάρ που κἀκεῖνα θεὰ τρέφεν αἰνὰ πέλωρα (scil. i Giganti) | Ἥρη, Ζηνὸς ἄκοιτις, ἀέθλιον Ἡρακλῆι (lo scolio ad loc. commenta: ὃ δὲ μῦθος ἀπὸ τοῦ Νεμεαίου Afovtoc). γενέθλῃ

|... εκοτίῃ: Attraverso questo nesso (che è impiegato anche da Ap. Rh. I

810 cxotin δ᾽ ἀνέτελλε yevé0%n |) C. allude all'unica attestazione omerica dell'aggettivo οκότιος (Il. VI 24), dove pure ci si riferisce a una nascita clandestina: οκότιον dé ὃ γείνατο

248

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

μήτηρ |. Per tale uso, cf. forse Eur. Alc. 989 s. cxôtiot ... |... παῖδες, nonché lo stesso Call.

fr. inc. sed. 527 Pf. τοὺς αὐτῷ cxotiove ἐμπελάτειρα Τκαὶ ἔτεκε γυνή con il comm. Altrove l'aggettivo si trova applicato al giaciglio (cf. Eur. Tr. 44, Ion 860 s., Eubul. PCG 67, 1) o al connubio (cf. Eur. Tr. 252, Adaeus Anth. Pal. VII 51,2 = GP 12*, Maneth. VI 212).

In quanto nato da Alcmena, Eracle non è figlio legittimo (yvñcroc) di Zeus, bensì un suo bastardo (vößoc): cf. Aristoph. Av. 1650-1668, Plut. Them. I 3. Questa circostanza, come ri-

corda C., provocò l'odio di Era nei suoi confronti: cf. poi Archias App. Plan. 94, 8 = GP

3787 lHpnc ... μιοονόθοιο χόλον |. Lo sdegno di Fra verso le amanti di Zeus e 1 loro figli è un motivo portante dell'inno a

Delo di C.: cf. vv. 55-57 ñ μὲν ἁπάεαις | δεινὸν ἐπεβρωμᾶτο λεχωίειν at Διὶ παῖδας | ἐξέφερον, 240 5. (parla la dea) οὕτω νῦν, ὦ Ζηνὸς ὀνείδεα, καὶ γαμέοιεθε | λάθρια καὶ τίκτοιτε κεκρυμμένα (cf. qui cxotin). E nel medesimo inno la pavida Iride, rivolgendosi a Era, si affretta a specificare (v. 220) che è lei l'unica sovrana legittima (yvncin) dell'Olimpo. 3 ὅπως ... ἔοι: C. costruisce la proposizione con ὅπως e l'ottativo anche in Dian. 74

ὅπωο ... δοίη I. Per la forma ἔοι, vd. Kuiper p. 5. τρηχὺς

deBdAoc: L'impiego metaforico che fa qui C. dell'aggettivo τρηχύς ha i più

vicini paralleli in Eur. TrGF 702 τόλμα cò, κἄν τι τραχὺ νείμωειν θεοί e nell'ep. adesp. Anth. Pal. XII 160, 1 = HE 3776 τρηχεῖαν ... ἀνίην |. Altrove in poesia l'uso traslato della parola riguarda le battaglie e 1 conflitti (cf. [Hes.] Scut. 119, Tyrt. fr. 12, 22 W. = 9, 22 Gent.-Pr., Pind. Zsthm. IV 17, Euph. CA fr. 84, 3 p. 45) oppure 1 sentimenti, l'indole e le azioni (cf. Bacch. XII 111, Fur. Med. 447, Men. Sam. 550, Ap. Rh. I 613, Theocr. Ep. VI 4 Gow, [Theocr.] XXV 74, Mel. Anth. Pal. VII 79, 5 s. = HE 4658 s., Opp. Hal. I 529, [Opp.]

Cyn. II 187, [Apolin.] Met. Ps. VII 26, Greg. Naz. Carm. II 1, 11, 1318 = PG 37 p. 1119 al., Nonn. Dion. XII 215, Agath. App. Plan. 332,7 = 16,7 Viansino).

Il vocabolo ἄθλος è spesso impiegato a proposito delle fatiche di Eracle. Per quanto riguarda specificamente l'uccisione del leone nemeo, cf. Pind. Isthm. VI 48 Onpéc, ὃν

πάμπρωτον ἄθλων κτεῖνά ποτ᾽ ἐν Νεμέᾳ, [Theocr.] XXV 204. In termini generali cf. p.es. Bacch. IX 8, Call. Dian. 145 (con valore ironico), Ap. Rh. I 1318,

1347,

[Mosch.] IV 88,

[Orph.] Hymn. XI 2 e 12 Quandt.

Frammento

147 (56 Pf. = SH 267A)

Il frammento spetta forse alla parte iniziale del racconto, ma potrebbe risalire anche ad altre fasi. Stefano Bizantino tramanda che Pindaro (fr. 295 Sn.-M.) e C. nel terzo libro degli Aitia menzionavano Apesante, monte di Nemea. Stefano fornisce tre spiegazioni del topomimo: esso potrebbe derivare dall'eroe Afesante (antico re della regione) o dallo scatenamento (&gecıc) dei cocchi durante le gare nemee o dallo scatenamento del leone nemeo, che scese giù dalla luna su quel monte. In base alla testimonianza di Stefano non siamo in grado di stabilire se C. sı limitasse a menzionare il monte o fornisse qualche elemento collegato all'origine del suo nome. Poiché nel terzo libro degli Aifia C. narrava che Fra fece imperversare il leone nemeo su Argo (fr. 146), è estremamente probabile che il monte Apesante - nominato nel medesimo libro - figurasse come il luogo sul quale la fiera venne insediata da Fra: l'Apesante risulta connesso alla dea e alla belva già presso Hes. Theog. 327-331 (riportato nel comm. introduttivo al fr. 146). Il confronto tra le notizie fornite da Stefano Bizantino e le fonti che tramandano la vicenda di Eracle e Molorco (riportate nel comm. al fr. 145) permette di formulare alcune

COMMENTO:

AET.II FRR. 146-148

249

congetture più specifiche: forse C. narrava che il leone scese giù dalla luna (cf. Nigid. Figul. fr. 93 Swoboda e vd. più avanti il comm. al fr. 148, 33 s.) sul monte Apesante e ne occupò una spelonca facendone il suo covo (cf. Nigid. Figul. /./., [Apollod.] II 5, 1,3). Cf. anche (in contesti estranei alla storia di Molorco) il passo di Epimenide riportato nel comm. introduttivo al fr. 146, Euph. CA fr. 84, 4 p. 451 Μήνης παῖδα χάρωνα, Sen. Herc. fur. 83, Thyest. 855 s., Hygin. Fab. XXX 2 Leonem Nemaeum, quem Luna nutrierat, in antro amphistomo ... necavit (scil. Hercules). Le precedenti considerazioni ci permettono di escludere che C. menzionasse l'Apesante a proposito dei sacrifici compiuti da Perseo in onore di Zeus Apesantio (vd. Wilamowitz, «Hermes» 33, 1898, p. 513 s. = Kleine Schriften IV, Berlin 1962, p. 24 s.). Stefano fornisce

quest'epiteto del dio (connesso al monte in questione) sùbito dopo il passo che tramanda il nostro frammento e cita di séguito Call. Jamb. fr. 223 PÎ.: ἀφ᾽ où Ζεὺς "Anecävruoc.

Καλλίμαχος … ᾿... τὠπέεαντι πὰρ Ati |...” (in un contesto relativo ai giochi nemei). Sulle offerte a Zeus Apesantio inaugurate da Perseo, cf. Paus. II 15, 3. Secondo Stazio (Theb. II 460-464), dal monte Aphesas Perseo si levò in volo con i suoi sandali alati.

Frammento 148 (176 Pf. + 372 Pf. + 590 Pf. + 711 Pf. + 722 Pf. + SH 257) L'esame dei contenuti sembra indicare che nel PLille il frammento precedeva (piuttosto che seguire) il gruppo verisimilmente costituito dal frr. 150 e 151; tutto lascia pensare che il fr. 149 occupasse lo spazio intermedio e cominciasse sùbito o poco dopo il nostro frammento (vd. l'annotazione dopo il testo). È probabile che l'inizio del frammento disti dalla fine del fr. 143 circa 35 versi, all'interno dei quali vanno conteggiati i 24 versi del fr. 144 ei 3 versi del fr. 146 (vd. l'app. ai vv. 1-42). Il v. 1 si legge in cima alla seconda colonna del PLille 76d. Ci sono anche pervenute scarse vestigia della prima colonna, costituite dalle ultime lettere di alcuni righi: sono quasi sempre linee di scoli, con la possibile eccezione dei righi 11 e 13 (forse x]fipvé ed E]xerto), che potrebbero tramandare la fine di due esametri (vd. l'annotazione sùbito dopo il testo greco di C.). Il contenuto generale del frammento è il seguente: Eracle, che si sta recando ad affrontare il leone nemeo, trova sulla sua strada la casa di Molorco e intrattiene un dialogo con il

vecchio. 1-17: La sezione è delimitata dalla presenza del nesso dc φάτο nel v. 18, che segna la fine di un discorso. Sino al v. 13 l'individuazione degli esametri e dei pentametri non è sicura, perché dopo il v. 13 il PLille presenta una lacuna di due righi: poiché il v. 15 è un esametro (come si deduce contando a ritroso dal v. 23, sicuramente esametrico), se i due ri-

ghi in questione contenevano un verso e una linea di scoli o una linea di scoli e un verso, in lacuna è andato perso un pentametro e quindi il v. 13 deve essere un esametro, così come si è Indicato nel nostro testo; se invece 1 due righi mancanti erano occupati da due versi o da due linee di scoli, il v. 13 deve essere un pentametro, sicché la disposizione degli esametri e del pentametri nei vv. 1-13 andrà invertita e bisognerà numerare l'attuale v. 15 come v. 16 (se in lacuna sono caduti due versi) o come v. 14 (se in lacuna sono cadute due linee di scoli). Ma la disposizione dei versi presentata nel nostro testo ha un altissimo grado di pro-

babilità, perché gli incipit πωτηθείς e kunwdeic da un lato (vv. 7-8) e ὄφρα δεταις[ e τόφρα detol dall'altro (vv. 9-10) si adattano perfettamente a due distici elegiaci. Vd. l'app. ai vv. 1-14. Come si è detto, nel v. 18 qualcuno smette di parlare: perciò 1 nostri versi, per lo meno

250

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

in parte, devono contenere un discorso diretto. Nel v. 13 il pronome μοι segnala che un personaggio sta parlando: esiste la possibilità che le sue parole vengano introdotte dal v. 12 (vd. il comm. ad loc.), ma può anche darsi che la sua pficic sia già in corso nel primo verso del frammento. Poiché nella sezione seguente si legge un discorso di Molorco dedicato al leone nemeo (vv. 18-42, vd. il comm. ad loc.), è molto probabile che la persona loquens dei nostri versi sia Fracle. Ci sono, del resto, alcuni indizi che fanno pensare all'eroe: 1 Tafi menzionati nel v. 5 vennero sconfitti da Anfitrione; l'arco nominato nel v. 11 è un'arma ti-

pica di Eracle. Purtroppo, prima del v. 13, per lo più il contesto ci sfugge: non sappiamo a che proposito venisse ricordata la città di Tanagra nel v. 2, né comprendiamo il riferimento alla lana nel v. 6; ci lasciano perplessi 1 vv.

1, 3-4, 7-10 (ma vd. il comm.

ai vv.

1-11). A

partire dal v. 13, il quadro diventa più chiaro: spine e rovi colpiscono lo sguardo di Eracle (v. 13), che è giunto nel cortile di Molorco, delimitato da un muro di pietre sulla cui cima

cresce il pero selvatico (vv. 15-16). Segue forse un invito di Eracle a Molorco, perché prenda la parola (v. 17). Tenendo conto di questi elementi, Parsons p. 15 ha ricostruito il possibile svolgimento della scena: Eracle giunge nel podere di Molorco, per chiedere indicazioni sul modo di raggiungere il leone nemeo; il vecchio ammira l'arco dell'eroe, che probabilmente racconta di averlo ricevuto in dono da Anfitrione, il vincitore dei Tafi; Fracle dice poi a Molorco di

essere molto stupito per l'incuria nella quale si trova il terreno circostante, assediato da spine e rovi fino al cortile dello stesso Molorco (cf. v. 25 con il comm.); l'eroe chiede dunque al contadino di spiegargli il motivo di tanto abbandono. 1-11: Livrea, Beozia pp. 31-33=191-193 ha esaminato nel dettaglio questi versi, proponendone un'ingegnosa esegesi che prende le mosse dalla tematica generale ravvisabile come si è detto - nei vv. 5 e 11, cioè la vittoria di Anfitrione sui Tafi e il dono del suo arco a

Eracle (vd. anche Livrea, Recensione p. 593 s. = 291). Lo studioso ipotizza che qui Eracle, parlando con Molorco, gli esponga appunto l'aition del proprio arco, ricordando le origini argive di Anfitrione e 1 motivi del suo trapianto in Beozia (cf. v. 2). Ecco dunque l'analisi di Livrea, che si richiama alle vicende mitiche esposte più avanti nel comm. al v. 5: la contesa del v. 1 è quella tra le famiglie di Pterelao e di Elettrione a causa dei buoi; il nesso παιδὶ kacıyv[nt- (v. 3) si riferisce ad Alcmena, figlia di Elettrione, e ai suoi fratelli massacrati dai Tafi; la frase ὡς ἀέκων (v. 4) riguarda Anfitrione, che uccide involontariamente Elettrione,

colpendolo a Tebe (cf. supplica di ginocchia);

con la clava lanciata per ricondurre alla mandria uno dei buoi, e perciò va esule Pherecyd. Athen. FGrHist 3 F 130 = EGM fr. 13b); la lana del v. 6 spetta alla asilo a Tebe da parte di Anfitrione (cf. anche, nel medesimo verso, le eventuali il possibile participio femminile πωτηθεῖς᾽ (v. 7) descriverebbe una metamor-

fosi di Cometo

in uccello dopo il tradimento della patria (l'eroina, cioè, avrebbe la stessa

sorte di Scilla); nel v. 8 il nesso kunwdeic Τάζφιος (suppl. Livrea) designa il tafio Pterelao distrutto da Anfitrione che invade la sua città. In termini più generali, è anche possibile che - come suppone Bongelli, Note p. 152 l'excursus sull'arco di Eracle non sia messo sulla bocca dell'eroe stesso (le cui parole verrebbero introdotte solo nel v. 12), bensì costituisca «una sorta di presentazione di carattere

epico-eroico da parte di Callimaco di Fracle che si avvicina alla fattoria di 1 nvix[: Le lettere possono essere divise in vario modo (vd. app.). congiunzione ἠνίκα, bisogna osservare che essa è un hapax omerico (Od. che [Hom.] Batr. 155). 2 Tavayıpar-: Può darsi che a questa parola faccia riferimento il fr.

Molorco». Se si tratta della XXII 198; cf. aninc. sed. 711 Pf.,

COMMENTO:

AET.II FR. 148

251

costituito da una testimonianza di Stefano Bizantino (vd. app. delle fonti): il grammatico, nell'illustrare i diversi pareri dei dotti sul toponimo omerico Γραῖα (11. Π 498), tramanda che C. lo identificava con la città beotica Tovaypaio (altrimenti detta Tüvæypa). Se quindi il fr. 711 Pf. spetta al nostro verso, qui bisogna integrare un qualche caso del toponimo

Ταναγιραίη (vd. app.). Per il dibattito erudito su Tpoîa, cf. Strab. IX 404 ἡ Tpaîa δ᾽ &cri τόπος Ὠρωποῦ tÀNciov ... τινὲς δὲ τὴν (Γραῖαν fi) (suppl. Pletho) Τανάγρᾳ τὴν αὐτήν gacw (che dipende forse dal Περὶ νεῶν καταλόγου

di Apollodoro:

vd. Wilamowitz,

«Hermes»

21,

1886, p. 106 n. 2 = Kleine Schriften V 1, Berlin 1937, p. 16 n. 2). Secondo Pausania (IX 20,

1-2), Tanagra si chiamava originariamente Ταναγραία, ma poi assunse il nome Γραῖα e lo conservò fino all'epoca di Omero, per riprendere infine l'antica denominazione Tavaypaia. L'identificazione della Γραῖα omerica con Tavoypaio viene invece respinta dallo Schol. (bBCE3E*)) Hom. //.II 498 c (cf. Eustath. p. 266. 18), dove si precisa che i Tanagresi non parteciparono alla guerra di Troia: Γραῖαν] ἀπὸ Tpotoc τῆς Mege@voc θυγατρός,

Λευκίππου δὲ γυναικός. Ταναγραῖοι γὰρ οὐκ Ectpätevcav, ὡς Edgopiov: ‘ot πλόον ἠρνήςαντο καὶ ὅρκιον Αἰγιαλήων᾽ (CA fr. 59 p. 42; ὅρκιον, già brillantemente congetturato da Pf. sia per ragioni metriche (vd. Introd. IIL.1.A.c.1x.) sia in base al confronto con Hom. A. IV 158* (unica attestazione del singolare ὅρκιον nei poemi omerici), è oggi confermato dall'edizione di van der Valk del commento di Eustazio all'Hiade (ὅρκιον αἰγιαλοῖο): lo scolio omerico ha ὅρκον: Eustazio offre anche la varia lectio ὅρμους: Meineke propose öpkovc). Νά. Sistakou p. 166 s. Se invece qui abbiamo un qualche caso dell'etnico Tavay[paîoc o Tavay[pain (vd. app.), si noti che in poesia lo si ritrova presso [Scymn.] 496, Babr. V 1, Nonn. Dion. I 235, IV 334, XLIV 5. Può darsi che al nostro verso spetti lo scolio vergato nel PLille dopo il v. 13, all'interno del quale si legge Tovaypo. [. Su Poimandro, il fondatore di Tanagra, e sulla sua uccisione del proprio stesso figlio, vd. nel testo l'annotazione dopo il nostro frammento.

3 παιδὶ kacıyv[nt-: Cf. Call. Vier. Sosib.fr. 384, 25 Pf. παιδί. kacyvitto. 4 ὡς ἀέκων: Cf. Nonn. Dion. I 347, XVI 53, XLII 69, 219. 5 ληιτιαὶ Tagio[: L'hapax ληιϊτιαί viene in genere connesso dagli studiosi al sostantivo λήϊτον (municipio, vd. Frisk s.v. λαόο), ma può darsi che C. lo collegasse al vocabolo ληΐς (preda), visto che i Tafi - menzionati sùbito dopo - avevano fama di essere appunto Anictopec. Se quest'ipotesi è corretta, nella spiegazione che Esichio fornisce per il lemma Anırıot (vd. app. delle fonti), bisognerà accogliere la parafrasi λαφυραγωγίαι e non espungerla come fanno gli editori (incluso Latte). I Tafı sono gli abitanti delle isole Tafie, collocate fra Leucade e la costa dell'Acarnania,

e vengono da alcuni autori identificati con 1 Telebor. Per la loro attività piratesca, cf. Hom.

Od. XV 427 Τάφιοι ληΐετορες ἄνδρες I, XVI 426 Anicrfjpew ... Tagioriv |, Ap. Rh. I 750 ληιςταὶ Τάφιοι", Euph. SH 415 II 18 5. Anidinici ... Böeccı Τηλεβόαι, Suid. s.v. Τάφιος: ἕν ὁ λῃοτής. Ε probabile che, nel nostro passo, 1 Tafi siano menzionati in riferimento ad Anfitrione,

padre putativo di Fracle: sappiamo infatti che 1 figli di Pterelao, re dei Tafi, razziarono i buoi di Elettrione, re di Micene e padre di Alemena, dopo un sanguinoso scontro con 1 figli di costui, e che per questo motivo Anfitrione mosse guerra ai Tafi; la loro roccaforte poté essere conquistata perché Cometo, figlia di Pterelao, per amore di Anfitrione recise dal capo del padre il capello d'oro che rendeva inespugnabile la città, ma fu poi giustiziata dallo

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CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

stesso Anfitrione per il suo tradimento. L'intera vicenda è rievocata da Euforione (SH 415 II 14-19, vd. sopra) e dettagliatamente esposta dallo pseudo-Apollodoro (II 4, 6-7); la cruenta contesa tra i Tafı e 1 figli di Flettrione a causa dei buoi è narrata da Esiodo (fr. 193, 16-19 M.-W.) e da Apollonio Rodio (I 747-751, vd. sopra); la strage degli Elettrionidi e l'attacco ai Tafi capitanato da Anfitrione compaiono nello Scudo di Eracle esiodeo (vv. 17-27). Cf. inoltre Pind. Nem. X 13-15, ep. adesp. Anth. Pal. VI 6, Lyc. 932-942, ep. adesp. Anth. Pal.

IX 684 = FGE 1432 ss., Plaut. Amph. 203-261, Ov. Ib. 361 s., Christod. Anth. Pal. II 367371. È interessante osservare che, come nei nostri vv. 1-11 si parla probabilmente dell'arco usato da Anfitrione nel conflitto con 1 Tafi e poi ereditato da Eracle, così presso Theocr. XXIV 4 s. leggiamo che lo scudo di Pterelao, riportato da Anfitrione come spoglia di guerra, funge da culla per il piccolo Fracle. Vd. Fantuzzi-Hunter p. 349 s. = 259 s. 6 λήνεα yovval: Può darsi che all'uso del vocabolo λήνεα nel nostro pentametro si riferisca il fr. inc. sed. 722 Pf., costituito da un passo del De lingua Latina di Varrone (vd. app. delle fonti): vi si tramanda che Polibio (fr. 57 Biittner-Wobst) e C. impiegavano l'equivalente greco della parola latina lana. Il termine Afivoc ricorre per la prima volta presso

Aesch. Eum. 43 5. κλάδον | Anver ... ἐςτεμμένον | (delucidato da Hesych. s.v. λήνει- ἐρίῳ, cf. lo scolio al nostro verso nel PLille), al quale si è probabilmente ispirato €. Il vocabolo si rinviene poi in altri poeti ellenistici e negli epici di età imperiale: cf. Ap. Rh. IV 173 |

μαρμαρυγῇ Anveov (cui spetta Et. Gen. AB s.v. ληνέων - ... τὸ Mivoc muaiver τὸ ἔριον, λινὸν δὲ τὸ λινοῦν, che dipende da scoli ad Apollonio non pervenutici), 177 | βεβρίθει Mveccw (con lo scolio ai vv. 176-177 τοῖς ἐρίοις, ὅθεν καὶ λανάριοι καλοῦνται οἱ κτενιοταί), Nic. Αἰ. 452 εὔτριχι λήνει !, fr. 115 Schneider (a quanto pare), Dionys. Bass. fr. 19", 20 Livrea | ἱερὰ Añvea πλεκτά, Nonn. Dion. VI 146 eipoxöum Eaivovca περὶ Krevi λήνεα κούρη (a proposito di Persefone futura madre di Zagreo; si osservi che questa sezione delle Dionisiache è ricca di echi callimachei: 11 v. 151 si ispira al fr. inc. sed. 520 Pf. e il v. 165 al fr. 50, 117). Vari passi callimachei vertono sulla lavorazione della lana e del lino; per i luoghi di C. dedicati alla tessitura, vd. il comm. al fr. inc. sed. 520 Pf. Le lettere yovva[ sono suscettibili di varie divisioni (vd. app.). Se si tratta di

yobvalccıv, può essere rilevante il confronto con Theocr. XXIV 76 5. πολλαὶ ᾿Αχαιιάδων μαλακὸν περὶ yobvarı νῆμα | χειρὶ κατατρίψουοιν: Teocrito si riferisce alle filatrici che strofineranno con la mano la lana (cf. qui Aveo) sul ginocchio (vd. il comm. di Gow, che cita anche Leonid. Tar. Anth. Pal. VII 726, 7 s.= HE 2417 s.).

7 πωτηθείε: Sarebbe anche ammissibile il femminile πωτηθεῖς᾽ (vd. app.). All'interno dei poemi omerici questa forma frequentativa di πέτομαι compare solo in 4. XII 287 (cf. anche [Hom.] Hymn.

INI 442, IV 558, XXX

4). Può darsi che al verbo si richiami la prima

riga dello scolio vergato dopo il v. 13 nel PLille (@vorot[n0-9). 8 kunoßeic: Stando al LSJ, il verbo κυπόω si riscontra solo presso Lyc. 1442. Forse il verbo è spiegato dallo scolio presente nel PLille dopo il v. 13 ([(-JElxAwvev?: vd. l'annotazione ad loc).

9 s. ὄφρα δεταις[ | τόφρα Setol: Per la correlazione ὄφρα ... τόφρα Ô(É), vd. l'inizio del comm. introduttivo al fr. 99. Le lettere δεταις e dero[ possono essere divise in vari modi (vd. app.): se abbiamo forme dell'aggettivo δετός, si osservi che esso compare solo due volte nei poemi omerici (Il. XI 554 = XVII 663).

11 τόξα διαπλη[: Il vocabolo τόξα (cui sembrano spettare alcune parti degli scoli vergati dopo i vv. 13 e 14 nel PLille: τὸ to&|, τόξον) si riferisce probabilmente all'arco di

COMMENTO:

AET.II FR. 148

253

Eracle, che è - a quanto pare - un dono del suo padre putativo Anfitrione, il vincitore dei Tafi (vd. 1 comm. ai vv. 1-11 e al v. 5): può darsi che l'esplicita menzione dell'arma preluda al futuro scontro con il leone nemeo. Si osservi infatti che secondo lo pseudo-A pollodoro, nell'esposizione del mito di Eracle e Molorco (II 5, 1, 2 riportato nel comm.

al fr. 145), in

un primo momento l'eroe scoccò inutilmente le sue frecce contro la belva: cf. anche [Theocr.] XXV 229-241. L'arco di Fracle è menzionato da Stazio sia in un passo che rievoca la permanenza dell'eroe presso Molorco (Theb.IV 163, vd. il comm. al fr. 145) sia all'interno della frase Cleonaeus ... arcus |, dove l'etnico si riferisce al borgo di Cleone, dimora di Molorco (Silv. V 2, 49, vd. il comm. al fr. 149, 37). Più in generale, per le armi di Eracle, cf. Call. fr. inc. sed. 692 Pf.

Le lettere διαπλη διαπλήεοω,

sono

divisibili in diverse maniere:

si noti che esso ricorre solo due volte nei poemi

nel caso omerici

si tratti del verbo (/1. XXIII

120, Od.

VII 507*; in entrambi i casi v./.: vd. app.). 12 καὶ μὲν oto [: Anche qui le lettere consentono varie divisioni (vd. app.). Se si tratta di καὶ μὲν 6 τοι, forse C. introduce il discorso di Eracle a Molorco rivolgendo un'apostrofe a quest'ultimo: in tal caso 1] v. 13 dà inizio, in asindeto, alle parole dell'eroe. Ma è an-

che possibile che la pficıc di Eracle sia già in corso all'inizio del nostro frammento (vd. il comm. ai vv. 1-17).

13 εκῶλός

μοι B

[: È molto probabile che qui si debba riconoscere il vocabolo

οκῶλος (per il quale cf. fr. 26, 1* con il comm.), piuttosto che il toponimo (κῶλος (città della Beozia, cf. Hom. 7/. Il 497). Il pronome di prima persona indica che ci troviamo in un discorso diretto: forse Fracle esprime a Molorco il suo stupore per le spine che nei dintorni gli si mostrano dovunque (l'eroe non sa che i contadini trascurano l'agricoltura per paura del leone). Vd. Ambühl p. 66. Per il séguito è ottima l'integrazione Ba[rın τε di Parsons, che si fonda sullo scolio vergato nel PLille dopo il v. 14, dove compare la forma ionica βατιή come lemma. Gli stessi L.J.-P. avanzano dei dubbi su questo supplemento, osservando che lo scolio in questione non segue il v. 13 ma appunto il v. 14, e formulano una serie di ipotesi per aggirare l'ostacolo (vd. app.). La loro cautela sembra eccessiva, perché anche in un altro caso uno scolio del PLille delucida una parola Impiegata da C. non nel verso (o nel gruppo di versi) precedente, ma in un luogo anteriore del testo: vd. il comm.

Il vocabolo Bat

al v. 2.

risulta impiegato solo da Pindaro, che lo utilizza in un contesto ana-

logo (OL. VI 53 s.): ἀλλ᾽ Ev | κέκρυπτο γὰρ cqoivo βατιᾷ (βατείᾳ codd.: corr. Wilamowitz per esigenze metriche) τ᾽ ἐν ἀπειρίτῳ. Livrea, Nota p. 7 5. = 161 5. rileva l'accostamento dei toponimi (κῶλος e Tpoic (cf. v. 2 con il comm.) presso Hom. Π. II 497 s. | Cyotvôv τε

(κῶλόν te ... |... Γραῖάν te, nonché dei vocaboli βάτος (affine al nostro βατιή) e ἄχερδος (cf. v. 15) presso Theocr. XXIV 90, Alc. Mit. Anth. Pal. VII 536, 2 s. = Alc. Mess. HE 77 s. e Nonn. Dion. XIV 368 5. Per Béroc, cf. anche Call. Jamb.fr. 194, 96 Pf. Νά. inoltre

Fuhrer p. 131 s.

15 αὐλείην παρ᾽ ἄχ[ερδον: L'integrazione di Parsons è praticamente sicura, perché si basa sullo scolio nel PLille (ἄχερδοο): a quanto pare, Eracle parla dello spinoso pero selvatico che sovrasta la recinzione del cortile di Molorco. Qui €. si ispira al quattordicesimo libro dell'Odissea omerica, dove sono descritti l'arrivo del falso mendicante Odisseo nella

capanna di Fumeo e l'ospitalità offertagli dal porcaro (l'intera scena funge da archetipo poetico per l'incontro fra Eracle e Molorco, vd. il comm. ai frr. 143-156): cf. vv. 5-10 αὐλή |...

I... ἥν pa ευβώτης | αὐτὸς δείμαθ᾽ … 1... | putoîciv Adeccı καὶ ἐθρίγκωεεν ἀχέρδῳ (vd.

254

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

anche il comm. al v. 16). È questa l'unica occorrenza del vocabolo ἄχερδος nei poemi omerici: cf. poi Soph. Oed. Col. 1596, Pherecr. PCG 174 e 1 luoghi di Teocrito, Alceo di Messene* e Nonno citati nel comm. al v. 13.

16 ἐξέρυς᾽ ἑρμαίφ[υ: Se - com'è probabile - le parole rientrano in un discorso di Eracle a Molorco, il verbo va interpretato come una prima persona &&£pvc(a) piuttosto che come una terza persona ἐξέρυς(ε). Si deve a Livrea, Nota p. 8 5. = 162 5. il supplemento ἑρμαίρ[υ, corredato di una brillante spiegazione: qui épuoîov designa il mucchio di pietre con il quale Molorco ha recintato il suo cortile ed equivale al più comune vocabolo αἱμαειά. Livrea osserva che nell'Odissea omerica il cortile di Eumeo è similmente delimitato da pietre di cava (XIV 10 | ῥυτοῖειν Adeccı, vd. il comm. al v. 15) e soprattutto ri-

chiama lo Schol. (V) Hom. Od. XVI 471 ἑρμαῖος (Epu-) λόφοι] ὁ copòc τῶν λίθων Ev ταῖς δδοῖς ἑρμαῖον ὀνομάζεται. Eracle, dunque, afferma di avere tirato via qualcosa dal mucchio di pietre che recinge il cortile di Molorco. Livrea, Nota p. 9 s. = 163 suppone che si tratti di un frutto del sovrastante pero selvatico (ἄχερδος, cf. v. 15), cioè di una ἀχράς, divelta e mangiata dall'affamato eroe nel giungere a casa del contadino (secondo alcune fonti, la pera selvatica è un cibo adatto ai maiali e agli abitanti di Tirinto: cf. rispettivamente Aristot. Hist. an. VII (VII) 6 p. 595 A 29 e Aelian. Var. hist. III 39). Livrea suppone inoltre che da ciò prese origine la corona di apio tipica dei vincitori nelle gare nemee, a partire dallo stesso Eracle (cf. il passo dello pseudo-Probo che tramanda il fr. 145, ma anche fr. 156, 5), giacché la

Gyepdoc viene definita apio selvatico nello Schol. (ΒΟ) Hom. Od. XIV

10 ἀχέρδῳ] τῇ

ἀγρίᾳ ἀπίῳ (su questo scolio si basano L.J.-P. per proporre un'integrazione esemplificativa dello scollo vergato nel PLille dopo il v. 15: vd. l'annotazione ad loc.). Meno probabile è il supplemento ἐξέρυς᾽ ἕρμαιρίν di Durbec, che dà al sostantivo il significato (più comune) di guadagno insperato: sarebbe così definita una pera selvatica, che l'affamato Fracle tirerebbe via dalla pianta.

17 λέξας κεν τα

[: Si potrebbe anche leggere λέξαςκεν o interpretare λέξας come

un indicativo aoristo senza aumento, ma è più probabile che λέξας sia qui un participio aoristo. Parsons propone di integrare τάδε [πάντα e - tenendo conto del sostantivo δῶρον presente nello scolio del PLille a questo verso - immagina che Fracle, prima di cedere la parola a Molorco, gli dica: «Se mi dicessi tutto questo (cioè: se mi spiegassi perché il terreno circostante è così incolto), mi faresti un grande regalo». 18-42: Il contenuto generale di questa sezione è abbastanza chiaro fino al v. 37. Come dimostra lo scollo vergato nel PLille dopo il v. 23, abbiamo qui un discorso di Molorco. Rivolgendosi a Fracle, il vecchio auspica la morte del leone nemeo, per ritrovare il coraggio di uscire a far legna e potere così ospitare in futuro l'eroe accendendo il fuoco nel camino; per colpa della fiera, 1 ramoscelli (verisimilmente di vite) non vengono sfrondati e le capre non sono portate al pascolo (vv. 18-32). Seguono un riferimento piuttosto misterioso a una pietra partorita da Rea, forse trasformatasi nel leone nemeo (v. 33 s.), e una probabile menzione di Fra che ha inviato la belva a tormentare la regione di Argo (v. 36 s.). Tutto si complica nei vv. 38-42, dove non riusciamo nemmeno a distinguere con certezza 1 righi di poesia da quelli di scolio: forse si continuava a parlare di Fra e del leone. La paura provocata dal leone nemeo è descritta in termini simili nel venticinquesimo

idillio pseudo-teocriteo, dove Eracle dice (vv. 218-220): οὐδὲ μὲν ἀνθρώπων τις Env ἐπὶ Bovcì καὶ ἔργοις | φαινόμενος cropiuoto δι᾽ αὔλακος ὅντιν᾽ ἐροίμην. | ἀλλὰ κατὰ «ταθμοὺς χλωρὸν δέος εἶχεν ἕκαετον (νά. Barigazzi p. 8). Per contrasto, un epigramma di

COMMENTO:

AET.II FR. 148

255

Archia (App. Plan. 94 = GP 3780 ss.) festeggia la serena ripresa delle attività bucoliche dopo l'uccisione della belva nemea. 18 dc φάτο τῶι δ᾽ o [: Eracle smette di parlare e Molorco comincia il suo discorso.

È ottima l'integrazione esemplificativa di Parsons ὁ y[&pov ἀνταπάμειπτο τάδε (il secondo emistichio figura nelfr. 98, 8; vd. app.). 19 τὴν προτέρην: Forse Molorco qualificava così il sostantivo εὐχήν, visto che esso compare nello scolio del PLille a questo verso. Come osserva Parsons p. 18, le lettere coué[ nel medesimo scolio e l'ottativo δοῖεν nel v. 20 potrebbero far pensare che il vecchio formulasse una preghiera di compia.

20 δοῖεν, è δ᾽ ἁρπακῖ|τ-: L'ottativo è probabilmente collegato all'&röAorto del v. 21. Forse il verbo aveva come soggetto gli dèi: Molorco sembra augurarsi che essi esaudi-

scano la preghiera (cf. v. 19) di debellare il leone. Cf. Hom. Od. VIII 410 5. | cot δὲ θεοὶ ... πατρίδ᾽ ἱκέεθαι | δοῖεν. Per quanto riguarda le lettere successive, sono molto attraenti la

divisione e il supplemento di Meillier ὁ è’ &prax[tñc, dove l'aggettivo rapace spetterebbe alla belva (cf. v. 21): si noti che C. utilizza la parola nell'Ep. II 6 Pf. = HE 1208 (la forma affine ἁρπακτήρ è un hapax omerico, Il. XXIV 262). Sarebbe anche possibile dividere e

integrare © δ᾽ ἂρ roi[$a, perché - secondo lo Schol. Stat. Theb. IV 159-160 riportato nel comm. al fr. 145 - il leone aveva ucciso il figlio di Molorco (cf. fr. 149, 4 παιδί con il comm. e vd. Livrea, Der Liller Kallimachos p. 38=166): ma la divisione e 1] supplemento non sono plausibili, dal momento che nei pentametri callimachei il primo colon non termina quasi mai con una vocale breve allungata «per posizione» (vd. Introd.11.2.C.). 21 αἰνολέων ἀπόλφιτο: Molorco auspica la morte del leone nemeo. La parola αἰνολέων, che - come annota lo scolio nel PLille - corrisponde a δεινολέων, non ricorre prima del nostro verso. Da qui la ricava lo pseudo-Teocrito (XXV 168), il quale la applica alla medesima fiera (vd. il comm. al fr. 151, 1 κανὼν tépalc): si osservi che, nell'idillio in

oggetto, il leone nemeo viene definito anche θηρίον aivév | (v. 205) e Aîc aivöc (v. 252). Per il tipo di composto cf. i passi raccolti da Gow nel comm. a [Theocr.] XXV 168, cui si possono aggiungere ep. adesp. Anth. Pal. Append. VI 217, 14 (vol. III p. 512 Cougny)

αἰνόλυκος ed Eudoc. Cypr. I 282 αἰνοδράκοντα |. Un uso diverso si riscontra presso Call. fr. inc. sed. 253 αἰνοτάλαντα e Del. 92 aivoyéverov. 22 καὶ θεὸς

n Kkaivel: Sono lecite varie interpretazioni. Il vocabolo θεός potrebbe

essere maschile o femminile (nella seconda eventualità si riferisce forse ad Atena, che par-

lerà effettivamente a Fracle dopo la morte della belva: cf. fr. 154, 4). Il seguente n può essere inteso come disgiuntiva o articolo o pronome relativo e kouve[ va forse ricondotto al verbo xoivew (uccidere), che sarebbe adeguato alla vicenda di Eracle e del leone nemeo: cf. fr. 151, 1 κανών con il comm. Vd. in generale l'app. 23 ὄφρα xenıw | ]o ce πάλιν πυρὶ deinıvov: A quanto sembra, Molorco si augura di potere in futuro accendere di nuovo la legna (πυρὶ δεῖπινον) nel camino, per offrire a Eracle una cena ospitale (cf. frr. 145 e 151, 17): attualmente, infatti, per paura del leone non esce a far legna (cf. v. 24). La sequenza kex1® | Jo è con ogni probabilità corrotta: la si dovrà forse correggere in ke nıatvo (affinché io ti ingrassi) con Parsons o in ke nn@co (affinché io ti tratti come un parente) con Livrea (a proposito di πιαίνω, si osservi che il verbo ci è noto a partire da Sem. fr. 7, 6 W.). Alla fine dell'esametro poteva esserci un participio riferito a Molorco, dal quale dipendeva l'accusativo δεῖπινον: West propone ördccac (vd. il comm. al v. 24 μενον): faccio notare che, in favore di πυρὶ Seta vov

[brdccac, milita Nonn. Dion. XLIV 149 πυρὶ Βάκχον öräcco*. Νά. in generale l'app.

256

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Un contenuto del genere è in armonia con le tracce dello scollo vergato nel PLille dopo il nostro verso, la cui parte iniziale è interpretabile approssimativamente così: A causa del leone i contadini non potevano far legna. Molorco dice che, se la belva morrà, sarà in grado di offrire accoglienza accendendo il fuoco. Per il concetto e l'espressione, cf. Call. fr.

inc. sed. 535 Pf. ὄφρα ce πλειοτέρῃ δεῦρο δέχωμ᾽. Nel nostro passo abbiamo probabilmente una proposizione finale di modo congiuntivo, introdotta da ὄφρα κε: per il costrutto, cf. Call. Vict. Sosib.fr. 384, 23 Pf." e, a quanto pare, Hec. SH 285,

1 = fr.40,

1 H.; per

ὄφρα ke con l'ottativo, cf. fr. 213, 59*. πυρὶ δεῖπινον: Il pasto per il fuoco è il legno, che Molorco si augura di potere presto bruciare nel camino per accogliere degnamente Eracle. Prendendo le mosse dal nostro passo, Lehnus, Spigolature p. 294 s. e Pindaro ha brillantemente emendato un luogo pindarico corrotto (fr. 168 Ὁ, 3 Sn.-M.), recuperando in esso la frase πυρὶ δεῖπνον e portando così alla luce il modello dell'espressione callimachea. Per di più, già 11 brano di Pindaro si riferiva a un fuoco acceso per Fracle, che grazie a esso poteva in quel caso fagocitare ben due buoi. Vd. Fuhrer pp. 132-134. L'immagine del fuoco che mangia o divora risale all'/liade omerica (XXIII 182 s.), dove Achille si propone di dare in pasto il cadavere di Ettore non al fuoco, ma ai cani: Ἕκτορα

δ᾽ οὔ τι | δώεω Πριαμίδην πυρὶ δαπτέμεν, ἀλλὰ Kbveccw. Più vicini all'uso callimacheo sono Aesch. Prom. 368 5. ποταμοὶ πυρὸς δάπτοντες ἀγρίαις γνάθοις | … (ικελίας λευροὺς γύας | (uno scolio a questo passo tramanda appunto il nostro nesso: vd. app. delle fonti) e Hor. Carm. III 4, 75 s. nec peredit | impositam celer ignis Aetnen. Cf. inoltre Hes. fr. 267 M.-W., Verg. Aen. I 175 s., Ov. Met. XV 354, Sil. XVII 97, [Apolinar.] Mer. Ps. LXXXII 28 e i luoghi filosofici citati da Bornmann, Nuovo Callimaco p. 252. Radici Colace p. 147 s. adduce Ov. Mer. VIII 641-643 e Stat. Theb. VI 100: 1 due passi sono particolarmente significativi, perché il primo rientra nell'episodio di Filemone e Bauci (che è molto influenzato da questa parte degli Aitia, vd. il comm. ai frr. 143-156) e il secondo spetta alla descrizione della pira di Ofelte a Nemea.

24

.]uevov δυερῇ μηδὲ cdv &EvAin: Molorco auspica che la misera mancanza

di legna della sua casa possa in futuro cessare grazie alla morte del leone (cf. v. 23 con il comm.). .. .Jpevov: Il participio potrebbe riferirsi a ciascuno dei due accusativi presenti nel v. 23. Se spetta a ce, esso regge dein vov e significa forse che fornisci o qualcosa di simile (in relazione a Eracle). Se si applica a deinıvov, esso può dipendere con quest'ultimo da un participio nominativo riferito a Molorco posto alla fine del v. 23 (p.es. önüccoc, vd. il comm. al v. 23): alla seconda ipotesi si adatterebbero i supplementi adé]uevov di Livrea e

Barigazzi e àùyd]uevov di D'Alessio (procurando legna ... accesa; vd. app.). δυερῇ: Il filologo Callistrato leggeva δυερός al posto di διερός presso Hom. Od. VI

201 (cf. Schol. HEPQT ὃ ἐπίπονος, παρὰ τὴν δύην, ἤτοι κακοπαθητικόο): vd. in proposito i comm. ai frr. 17, 6 ἤμελλε e 149, 17 e H.-L. Barth, Die Fragmente aus den Schriften des Grammatikers Kallistratos zu Homers Ilias und Odyssee (Diss. Bonn 1984), p. 226. Come osserva Hollis a p. 359 della sua edizione dell'Ecale (Appendice ΝΡ), C. forse impiegava il vocabolo ôvepôv anche nell'epillio. L'aggettivo si legge con certezza nella poesia imperiale: cf. GVI 1029, 2*, Maxim. De action. ausp. 65, 182, 546 (Massimo si ispira spesso al nostro

frammento: vd. il comm. al v. 25 tépyv1e10), Procl. Hymn. I 29, Eudoc. Cypr.122. ἀξυλίῃ: Il sostantivo è un hapax esiodeo (fr. 314 M.-W.), utilizzato poi da Strab. XV

725, XVI 739. Nei poemi omerici compare invece l'aggettivo ἄξυλος (Il. XI 155 ἐν ἀξύλῳ

COMMENTO:

AET.II FR. 148

257

ἐν 5A 1), sul cui significato gli esegeti antichi discutevano.

25

Ja vov, δρεπάνου γὰρ ἀπευθέα τέρχνιεια [: Il senso generale dell'esa-

metro è chiaro: rispondendo a una probabile domanda precedente di Fracle relativa all'incuria del terreno circostante (vd. il comm. ai vv. 1-17), Molorco osserva che a causa del leone i ramoscelli sono ignari della falce (il vecchio si riferisce probabilmente alla vite). Ci sfugge invece la struttura sintattica del verso, anche in rapporto al successivo pentametro. È plausibile che un'interpunzione vada posta non dopo ἀπευθέα (con ἐςτί sottinteso), ma alla fine dell'esametro: la lacuna conclusiva potrà essere riempita da un verbo avente per soggetto τέρχνιειᾳ (come p.es. il θάλλει proposto da Parsons). Per l'inizio, Lloyd-Jones e Stoneman suggeriscono οἷα τ]ὰ νῦν. L'integrazione ha il vantaggio di fornire un possibile collegamento con il v. 26 completato dai supplementi di Parsons (tale è la condizione in cui ora - poiché i ramoscelli abbondano ignari della falce - Nemea ecc.), ma sembra troppo lunga per lo spazio disponibile in lacuna. Da questo punto di vista, è preferibile il supplemento ὅρμ]α νῦν proposto da Parsons (Molorco esorterebbe Eracle a uccidere il leone: muoviti dunque, perché i ramoscelli abbondano ignari della falce), che però non istituisce un legame sintattico tra 1 due versi. Vd. in generale l'app. Il nostro verso è imitato da Stat. Silv. V 2, 69 5. nescia falcis | silva (vd. Bornmann, Pa-

piro p. 188 e Siegeslied) e - con studiata variatio - da Nonn. Dion. XLII 296 | ἄμπελος ...

&uuopoc ἅρπης |. Sul piano dei contenuti, cf. Stat. Theb. IV 160 vineta Molorchi | (vd. il comm. al fr. 145).

Sperdvov: Νά. il comm. al fr. 50, 69 δρέπανον. ἀπευθέα: L'aggettivo presenta due sole occorrenze nei poemi omerici, dove il suo significato è una volta passivo (ignoto, Οὐ. ΠῚ 88*) e una volta - come qui - attivo (ignaro, Od. III 184*). C. utilizza la parola in altri due passi, sempre in senso attivo: fr. 194 (pure qui con genitivo dipendente) e Hec. fr. 282, 1 Pf. = 109, 1 H.* Il valore attivo si riscontra anche in Posidipp. Ep. 54, 3 Austin-Bastianini, Cerc. fr. 2, 3 Livrea=Lomiento e (in unione con un genitivo) Arat. 648* (ma vd. il comm. di Kidd), Dion. Per. 194*, Theophan. Anh. Pal.XV 14, 5*, ep. adesp. App. Plan.303, 1. τέρχνιεια: Il vocabolo veniva delucidato dallo scolio presente nel PLille dopo il v. 26. Ne offre la spiegazione anche Esichio (vd. app. delle fonti), al quale si deve inoltre la voce

tpéxvoc: crékeyoc, κλάδος, φυτόν, βλάετημα. La parola è forse una glossa di origine cipriota: vd. O. Masson, Les inscriptions chypriotes syllabiques (Paris 1983) nr. 217.9, 18 s., 22. Da C. la mutua Massimo Astrologo (De action. ausp. 502, vd. il comm. al v. 24 ôvepñ); cf. pure Besantin. Anth. Pal. XV

26

.. Ja πολύεκαρθμος

25, 6.

τοῦτον

Eyew[

. . .] .[: L'aggettivo πολύεσκαρθμος

(saltellante) era spiegato dallo scollo vergato nel PLille dopo questo verso, dove ci si riferi sce al vocabolo cxapOuöc e alla parola omerica &öckapduoı (1. XIII 31): come osserva Parsons p. 21, è possibile che il nome accordato occupasse la fine del pentametro e cominciasse con la lettera v dopo l'indicativo presente ἔχει; poiché nello scolio compare il termine ἀγῶνα, Parsons ipotizza che il nome in questione fosse Neuén: Molorco menzionerebbe la saltellante Nemea riferendosi proletticamente alle competizioni sportive in séguito istituite dal suo interlocutore Fracle, o forse alle capre (cf. v. 27) che in essa ruzzano (non credo invece che, come propone Barigazzi p. 5, qui roAbckapÖuoc possa significare piena di agitazione ed essere collegato alla paura provocata dal leone). Quanto all'aggettivo τοῦτον, Parsons nota che esso potrebbe accordarsi a un sostantivo terminante in a collocato

all'inizio del verso: dal momento che lo scolio presenta la sequenza unve, egli suggerisce di

258

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

integrare ufiv]o (questo mese). Il pentametro così ricostruito offrirebbe un senso accettabile insieme al verso precedente, se in questo si integrano all'inizio οἷα τ]ὰ νῦν e alla fine p.es. θάλλει: Molorco direbbe che spera di potere in futuro ricevere Eracle senza difetto di legna, tale è la condizione in cui ora - poiché i ramoscelli abbondano ignari della falce - la saltellante Nemea trascorre questo mese (da quando la infesta il leone). Ma si ricordi che il supplemento οἷα τ]ὰ νῦν sembra troppo lungo per la lacuna. Vd. in generale l'app. πολύεκαρθμοεο: L'aggettivo è un hapax omerico: cf. I. II 814 cfiua πολυεκάρθμοιο

Mopivnc |, con Schol. (AD) ad loc. πολυκινήτου, ταχείας κτλ. e Strab. XII 573 εὐςκάρθμους γὰρ ἵππους λέγεεθαι διὰ τὸ τάχος: κἀκείνην οὖν πολύεκαρθμον διὰ τὸ ἀπὸ τῆς ἡνιοχείας τάχος. Lo si ritrova presso Nic. Ther. 350, Quint. Smyrn. V 657, Nonn. Dion. III 92 al., Musae. 277. Sulla predilezione callimachea per gli aggettivi composti con il prefisso roAv-, vd. il comm. di Williams ad Ap. 80. Cf. inoltre Call. Dian. 100 |

crkotpodcac ἐλάφους. 278. ...].e καὶ Aintovca δακεῖν κυτίςοιο [χίμαιρα I μηκ]άζει πυλέων ἐντὸς éep[youévn: Molorco menziona un altro danno causato dalla presenza del leone nemeo: per paura della belva, 1 pastori non portano più al pascolo le capre, che - desiderose di brucare il citiso - belano rinchiuse negli ovili. La lettura xvticowo e l'integrazione

[χίμαιρα sono confermate dallo scolio presente nel PLille (τῆς κυτίο[ου ... ἡ αἴξ). Il supplemento μηκΊ]άζει di West va preferito al βληχ]άζει di Parsons, che pare troppo lungo per lo spazio disponibile. La lacuna finale del v. 28 si colma con certezza grazie al molti paralleli omerici (vd. più avanti il comm.). Resta in dubbio l'inizio del v. 27: fra le due proposte avanzate da Parsons, il calcolo degli spazi rende più plausibile ἡ δέ] te rispetto a ὁππό]τε. Vd. in generale l'app. Per l'immagine, cf. Stat. Theb. IX 189 s. leonem, | quem propter clausi ... greges. Bornmann, Papiro p. 188 e Nuovo Callimaco p. 248 chiama a confronto un passo dell'Eneide virgiliana (IX 59-64), dov'è descritto «Turno che si aggira intorno al campo dei Troiani come un lupo affamato ... intorno a un gregge che trema e bela rinchiuso nel suo recinto» (cf. soprattutto v. 61 s. tuti sub matribus agni | balatum exercent). 27 Aintovca δακεῖν κυτίςοιο [χίμαιρα: Cf. Theocr. V 128 | ταὶ μὲν ἐμαὶ κύτιοον ... αἶγες ἔδοντι | (con il comm. di Gow), X 30 | è αἷξ τὰν κύτιοον ... διώκει |, Verg. Ecl.I 77 s. capellae, | ... cytisum ... carpetis, II 64 cytisum sequitur ... capella |. Aintovca: Come spiega lo scolio nel PLille, corrisponde a ἐπιθυμοῦεα. Nelle sue prime attestazioni, 11 verbo si presenta di diatesi media: cf. Aesch. Sept. 355, 380 (nel secondo passo la parola è accompagnata dal genitivo). La forma attiva ricorre presso i poeti ellenistici: cf. Lyc.

131, 353, Ap. Rh. IV 813 (con genitivo), Nic. Ther. 126.

δακεῖν: Il verbo è impiegato in modo analogo da Arat. 1111 5. ποίης | δάκνωειν (a proposito di un gregge di pecore). kvticoro: In poesia il vocabolo ricorre a partire da Cratino (PCG 105, 8; 363, 2) ed Eupoli (PCG

13, 3). Cf. inoltre Euph. SH 438, 6, Nic. Ther. 617, 944.

[χίμαιρα: Come nome comune (cioè non in riferimento al mostro Chimera), il vocabolo è un hapax omerico (Il. VI 181*). 28 μηκ]άζει: Il verbo è impiegato solo da Nicandro (Ther. 432, Al. 214). Come si è detto, l'integrazione alternativa BAnx |&Geı sembra eccedere lo spazio della lacuna: la parola è attestata soltanto presso Autocr. PCG 3, mentre il sostantivo βληχή compare già nell'Odissea omerica (XII 266).

πυλέων

ἐντὸς

éep[youévn:

Per πυλέων

ἐντός, cf. Hes.

Theog. 741

πυλέων

COMMENTO:

AET.II FR. 148

259

Zvrocde, Ap. Rh. I 782 πυλέων ... ἐντός. Nell'impiego del nesso ἐντὸς ἐερ[γομένη, C. si ispira agli omerici ἐντὸς ἐέργει | (Il. II 617, 845, IX 404, XXII

121, XXIV

544), ἐντὸς

Eepyev | (Il. XVIII 512) ed ἐντὸς Éepyov | (Od. VII 88); l'explicit ἐντὸς ἐέργει ricorre pure presso Hes. Theog. 751, Op. 269. Cf. poi Greg. Naz. Carm. II 2, 1, 108 (PG 37 p. 1459)

ἐντὸς éepyouevoc*. Per la forma gep[youévn, cf. anche Call. Hec. SH 285, 11 = fr.42,5H. 29s. ....] δυςηβολίοιο τράγου | .].[.]1...[1....].10c &Ayficar πᾶς κεν ἰδώ[ν: Molorco continua a illustrare il sovvertimento causato dal leone nemeo nella vita pastorale. Per tentare di ricostruire 1] contenuto del distico, abbiamo a disposizione due dati: nel v. 29 è menzionato il caprone, mentre dallo scolio del PLille deduciamo che nel v. 30 si

faceva riferimento all'aquila. Quest'ultima circostanza e il fatto che la prima traccia del v. 30 potrebbe essere un ὃ rendono plausibile la lettura Διός prima di &Ayfıcau: la lacuna iniziale poteva contenere l'accusativo di un articolo connesso forse a un sostantivo che occupava la fine del pentametro e significava uccello o messaggero o qualcosa di simile. Nello scolio del PLille la parola in oggetto precedeva probabilmente la delucidazione τὸν ἀετόν e terminava quindi in ]. τον (si trattava forse di un vocabolo maschile, sicché all'inizio del v. 30 Parsons propone di integrare τόν): purtroppo non si è finora riusciti a stabilire quale fosse Il sostantivo in questione. Quanto al senso generale del distico, se si accoglie il supplemento οὐδέ di Bulloch per il principio del v. 29, sarebbe lecita la seguente interpreta zione: né alcun figlio del caprone spiacevole da incontrare potrebbe attualmente angustiarsi vedendo l'uccello di Zeus. Molorco, cioè, direbbe che al momento

le capre - tenute

lontane dai pascoli per colpa del leone (cf. v. 27 s.) - non temono di essere predate dall'aquila. Vd. in generale l'app. 29 δυςηβολίοιο: L'aggettivo non è attestato altrove. Lo scolio al nostro verso nel PLille fornisce due spiegazioni del suo utilizzo a proposito del caprone: quest'animale sarebbe spiacevole da incontrare o perché cornuto (ma la parola non si legge con sicurezza) o perché maleodorante. Un aggettivo equivalente è attestato nel lessico di Esichio (ò 2570, I

p. 485 Latte): δυεηβόλον - δυςάνζτγητον (suppl. Hemsterhuis); Hollis, Light p. 52 congettura che δυςηβόλον comparisse nell'Ecale callimachea e designasse il toro di Maratona (vd. anche Hollis, Citations p. 67). Per l'impiego di termini analoghi da parte di C., cf. fr. 26, 5 ἀβόληςε con il comm. Riguardo al fetore del caprone, cf. Hor. Carm.I 17, 7, Mart. III 93, 11 αἱ. Avian. XII 9 e 12. τράγου: Il vocabolo è un hapax omerico (Od.IX 239). 31s. ....] νομοῦ ποίμνῃειν ἐελῦ! 1 ....]. θαεεόντων ac περὶ [: Come si deduce dal v. 31, Molorco descrive ancora1 disagi patiti dalle greggi per colpa del leone

nemeo. Nell'esametro bisogna con ogni probabilità integrare il participio ἐελδίομένῃει(), riferendolo a roiuvnew. Per quanto concerne il v. 32, la parafrasi π]ερικαθημένων presente nello scolio del PLille garantisce che le parole Oaccövrav e περί costituiscono un nesso: è verisimile che la congiunzione ὡς gli desse il valore di una comparativa ipotetica. Tenendo conto di questi elementi, Parsons ha ipotizzato che il v. 31 iniziasse con l'avversa-

tiva ἀλλά o con la negativa οὐδέ e si concludesse con un verbo presente indicativo, avente per soggetto un vocabolo come οὔρε]ᾳ collocato al principio del v. 32; per la fine del medesimo verso, Lloyd-Jones ha proposto ö[vcusv&wv (si può chiamare a confronto il fr. epic. adesp. SH 923, 3 ]c B&ccovew, dove Lobel propose di integrare Svcuevée]c: vd. il comm. ad loc.). Molorco direbbe: Ma 1 monti sono preclusi (oppure: né 1 monti sono accessibili) alle greggi desiderose di pascolo, come se nemici assediassero intorno. Vd. in generale l'app.

260

CALLIMACO

31 νομοῦ é(e)ASduevoc di mule), Od. Quint. Smyrn.

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

... ἐελδ[: C. sembra tenere presenti i passi omerici nei quali il participio si accompagna al genitivo: cf. Π. XXIII 122 ἐλδόμεναι πεδίοιο (a proposito XIV 42 ἐελδόμενός που ἐδωδῆς | (con riferimento a Odisseo). Cf. inoltre I 397 Iroinc ἐλδομένη ... πόρτις Ι.

roluvncıv: Il vocabolo è un hapax sia omerico (Od. IX 122) sia esiodeo (Theog. 446).

32 Qaccoviov

... περί: Se qui abbiamo il verbo Odcco seguito dall'avverbio περί, si

osservi che la forma O&cco non ricorre prima di Alceo (fr. 113, 5 Voigt) e che l'equivalente omerico è Badcco (I. IX 194 al). Se invece si tratta di repıd&cco in tmesi, bisogna notare che questo verbo non compare altrove.

335...

.] dx

ὧς dô(Éjovauiv ἵνα [1

....]eo.[...].

ςκληρὸν ἔτικ[τ-:

Per cercare di risalire alla struttura sintattica e al contenuto del distico, è molto utile lo sco-

lio vergato nel PLille dopo il v. 34. Innanzitutto, come ha osservato Parsons, la presenza in

esso della frase [{]va τὸν Κρόνον rende piuttosto plausibile il supplemento {va K[p6vov nel v. 33. Più in generale, lo scolio in questione ci informa che il distico aveva il seguente tema: la pietra che Rea diede in pasto a Crono non fu da lei sostituita al neonato Zeus, ma venne davvero generata da Rea stessa. Desta sorpresa l'improvvisa menzione di questa storia inusitata sùbito dopo il resoconto dei danni prodotti dal leone nemeo (vv. 25-32). Con ogni cautela, Parsons immagina che C. riesumasse o inventasse la seguente versione del mito, a noi altrimenti ignota: Rea partorì veramente una pietra, la quale si trasformò nel leone nemeo (si noti che, secondo alcuni testimoni, il leone - come un meteorite - fu mandato

giù dalla luna: cf. Epimenid. fr. 33, 2 s., II 3 p. 135 Bernabé riportato nel comm. introduttivo al fr. 146, Nigid. Figul. fr. 93 Swoboda riportato nel comm. al fr. 145 e vd. il comm. al fr. 147). Recependo da Parsons quest'ipotesi interpretativa e le integrazioni τὸν δ᾽ al principio

del v. 33, {va K[pòvov più avanti nel medesimo verso e ['Peiln ed ἔτικ[τε rispettivamente prima e dopo di ςκληρὸν nel v. 34, Livrea ha suggerito di completare così i due versi: da un

lato va K[pévov ἐξαπατήςῃ alla fine del v. 33, dall'altro ἀλλ᾽ ἐτ]εὸν e ἔτικ[τε λίθον rispettivamente all'inizio e alla fine del v. 34 (λίθον è anche supplemento di Barigazzi). Molorco affermerebbe a proposito del leone nemeo: E Rea lo partoriva sotto forma di dura pietra non, come dicono, per ingannare Crono, ma veramente. Faccio notare che una rico-

struzione del genere è corroborata dall'impiego, nel v. 53 dell'inno callimacheo a Zeus, del nesso ἵνα Κρόνος in merito alla sopravvivenza del piccolo Zeus, tenuta celata a Crono. Vd. in generale l'app. Può darsi allora che, come sospetta Radici Colace p. 149, il monito di Ovidio a non di-

scostarsi dal mito tradizionale di Rea e della pietra (Fast. IV 203 s.) rappresenti un'allusione polemica all'innovativo racconto callimacheo. Una ricostruzione contenutistica del tutto diversa è stata suggerita da Fuhrer p. 69 n. 247: la dura pietra partorita da Rea sarebbe - in senso figurato - la dea Fra (vd. 1 comm. al vv. 36 s. e 38-42), che nella sua crudeltà ha inviato il leone a tormentare la regione di Argo. Ma una simile ipotesi non si armonizza altrettanto bene con lo scollo successivo al v. 34 nel PLille, dove la menzione di Crono poco prima del vocabolo pietra fa appunto pensare a quanto accadde in occasione della nascita di Zeus.

33 dé(é)overtiv: Mentre il PLille esibisce ὕδους[]ν (forma attestata presso Suida e nell'Etymologicum Magnum),nel POxy.il calcolo degli spazi induce a integrare dé[é]ov[cw (vd. app.). La seconda lezione è l'unica possibile sul piano metrico e sembra corrispondere al fr. 372 Pf., che consiste appunto nel verbo ὑδέουειν tramandato da Suida senza indica-

COMMENTO: zione di paternità (vd. rito nell'Ecale in base Aitia sia nell'Ecale (fr. La pertinenza a C.

AET.II FRR. 148-149

261

app. delle fonti). Data questa circostanza, il frammento era stato insealla legge di Hecker: può darsi che C. scrivesse dôéovetv sia negli 151 H.). Νά. app., nonché i comm. ai frr. 19,9 Novaxpivn e 151,9. della testimonianza di Suida non è inficiata da Nic. Al. 525 τὸ δή ῥ᾽

dôéover μύκητας | (cf. Schol. 525 Ὁ καλοῦει (καλεῖ R), 525 d Aéyova), perché il lessicografo non riporta mai glosse tratte da Nicandro: costui dunque, assegnando al verbo il significato di dire, chiamare

(cf. anche Al. 47 dôedct |), imita C. Invece nelle sue altre occor-

renze ὑδεῖν ha il senso di cantare, celebrare. Se non ha ragione Wilamowitz a correggere

ἰδεῖν in ὑδεῖν presso Eur. TrGF 752g, 15, la prima attestazione della parola è rappresentata da Arat. 257 ὑδέονται | (vd. il comm. di Martin). Cf. poi Call. Jov. 76 dôetouev (con lo scolio e il comm. di Mclennan), Hec. fr. 371 Pf. = 78 H. dôéouu I, Ap. Rh. II 528 ὑδέονται" (con lo scolio ai vv. 528-529 a ἄδονται, λέγονται), IV 264 ὑδέονται | e forse Euph. SH 436, 1 (vd. il comm. di L.J.-P.). 34 cxAnpöv: L'aggettivo è attestato a partire da Esiodo, che lo impiega con valore av-

verbiale nella frase | cxAnpòv δ᾽ ἐβρόντηςε(ν) (Theog. 839 = fr. 54 a, 7 + 57,4 M.-W.,fr. 30, 13 M.-W.). 36 s. ].ap ᾿Αργείων οὐκέτιβ [| In Ἰςθαι πατερε. „a: Tenendo conto che nello scolio del PLille vergato dopo il v. 40 viene menzionata Era, Parsons pro-

pone dubbiosamente di integrare γὰρ ᾿Αργείων οὐκέτι Bov[Aousvn [κλήζε]ςθαι πατέρειρα. Molorco direbbe che Era, non volendo più essere chiamata patrona degli Argivi, scatenò il leone contro Nemea (cf. fr. 146). Ma lo stesso Parsons riconosce che, per quanto C. usi volentieri il suffisso -eipo. e impieghi anche la parola μήτειρα (SH 303, vd. il comm. ad loc), il vocabolo πατέρειρα - non attestato altrove - sarebbe estremamente singolare. Parsons, inoltre, osserva che le tracce successive a natepe . „a sembrano refrattarie a una lettura provvista di senso. Vd. in generale l'app. 38-42: In questa fine di colonna diventa difficile stabilire quali righi tramandino versi callimachei e quali contengano scoli: siamo soltanto certi che il rigo successivo al nostro v. 40 rappresenta uno scolio, dov'è nominata Fra e si dice forse che Argo appartiene a lei. Parsons ha formulato con molta cautela le seguenti ipotesi: Se immaginiamo che il nostro v. 38 sia in realtà un rigo di scolio, il v. 39 risulterà un pentametro e in esso potremmo leggere -ovc ἵξεις εἷος &v’ &Éevi[nv. Forse Era, rivolgendosi al leone nemeo, gli ha detto: giungerai dagli Argivi finché provocherai inospitalità nella loro terra. Si osservi che il vocabolo ἀξενία si rinviene presso Eratosth. fr. IB 9 Berger e Diod. I 67. Se Invece 1 nostri vv. 38-39 sono o un pentametro e un esametro o due righi di scoli, il v. 40 rappresenterà un pentametro, il cui secondo emistichio potrebbe cominciare con la

frase ”Apyoc Exnöle (affliggeva Argo), riferita al leone o a Era. Nell'eventualità che il nostro v. 42 contenga un pentametro, il suo secondo colon potrebbe iniziare con la parola κτῆμα oppure κτήνεα. Quest'ultima è assente nei poemi omerici, ma ricorre presso

[Hom.]

Hymn. XXX

10 e Hes. fr. 200, 9 M.-W.;

C. la utilizza in

Dian. 125. Vd. in generale l'app.

Frammento

149 (177 Pf. = SH 259)

L'appartenenza del frammento agli Aitia si deduce dal fatto che esso figura nei frr. a+b di PSI 1218: infatti altri frammenti del medesimo papiro contengono brani del terzo libro

262

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(fr. 148, 21-34), del quarto libro (frr.

195-196,

198-199), nonché

di un libro incerto

(fr.

251), e in particolare alcune sezioni dei frr. 195 e 196 compaiono nel fr. c di PSI 1218. Già Pf. riteneva improbabile che il nostro frammento risalisse al libro quarto, sia perché non lo si può collocare nella serie continua di aitia attestata per il libro in questione dalle Diegeseis milanesi, sia perché le elegie del quarto libro non dispongono solitamente di tante testimonianze indirette quante ne esibisce il nostro frammento (vd. app. delle fonti). Pf. osservava che, sul piano paleografico, 1] nostro frammento si rivela soprattutto simile al fr. 148, 21-34 e ipotizzava con ogni cautela che tali versi e 1] fr. 149 rappresentassero rispettivamente la parte superiore e inferiore della stessa colonna, notando fra l'altro che l'ambientazione rustica del fr. 148, 21-34 si ritrova nei primi versi del fr. 149. Prendendo le mosse dalla congettura di Pf., Livrea ha collocato il fr. 149 dopo il fr. 148 e ha riconosciuto in Molorco il protagonista del nostro frammento (va invece escluso che il fr. 149 precedesse il fr. 148, come ha in séguito ipotizzato Hollis). La brillante supposizione di Livrea, benché priva di un sicuro supporto papirologico, viene confermata dall'analisi contenutistica. In questo senso, è soprattutto significativa - nel v. 37 - la verisimile presenza del toponimo Cleone, dato che in questo borgo abitava Molorco (vd. il comm. al fr. 145). Livrea ha proposto e argomentato la sua ipotesi e ha offerto un muovo testo critico e una minuta esegesi del frammento in una serie di importanti contributi: vd. Livrea, Der Liller Kallimachos, Nuovo Callimaco e Polittico, nonché l'edizione commentata che ho segnalato

nel Conspectus librorum papyraceorum. Faccio osservare che, se davvero in POxy. 2170 + PSI 1218 i frr. 148, 21-34 e 149 oc-

cupavano rispettivamente la sezione superiore e inferiore della medesima colonna, allora tra 1 frr. 148 e 149 non c'è soluzione di continuità o è caduto un numero minimo di versi. Infatti, anche ammesso

che tra il fr.

148, 37 e il fr. 149, 1 intercorresse un solo pentametro,

un'unica colonna di POxy. 2170 + PSI 1218 doveva tramandare cinquantasei versi, cioè fr. 148, 21-37 + il pentametro in questione + la totalità del fr. 149 (cinquantaquattro se 51 immagina che il v. 37 del fr. 148 coincidesse con il v. 1 del fr. 149): certamente un simile numero di versi esauriva o quasi lo spazio disponibile in una colonna, se si tiene conto che nei papiri callimachei a noi noti la colonna più estesa totalizza cinquantacinque versi (PSI 1216, col. II = Jamb.fr. 195, 35-68 Pf. + fr. 196, 1-21 Pf.). Verisimilmente il fr. 150 cominciava sùbito dopo il nostro frammento o ne era separato solo da qualche verso. Infatti, poiché il fr. 148 occupa due colonne intere nel PLille, è probabile che il fr. 149 (costituito da un numero analogo di versi callimachei) trovasse spazio sufficiente in due colonne del medesimo papiro e venisse seguito - immediatamente o a brevissima distanza - dal fr. 150, situato in cima a una colonna. Vd. in generale l'annotazione dopo il testo. Nella parte iniziale (vv. 1-4), il contenuto del frammento non è chiaro: un personaggio femminile di dubbia identità solleva un ceppo biforcuto (v. 2) e assegna una parte di qualcosa a un fanciullo o a una fanciulla o a un figlio o a una figlia (v. 4); il gesto è in qualche modo collegato a un tetto (v. 3). La sezione centrale (vv. 5-33) - preservata piuttosto bene - contiene una scena che si svolge nell'umile casa di Molorco, dove questi ha con ogni probabilità fatto entrare Eracle: al sopraggiungere del tramonto, il vecchio ode un rumore alla porta e comprende che si tratta di topi; dopo avere scagliato un'invettiva contro questi animali, che lo assillano di continuo con le loro ruberie, Molorco tralascia ogni altra occupazione e sistema esche avvelenate in due diverse trappole; €. enumera 1 misfatti compiuti dal topi ai danni del conta-

COMMENTO:

AET.II FR. 149

263

dino, tra 1 quali figurano 1 seguenti: essi hanno leccato l'olio della lampada, hanno mangiato salamoie e altri cibi servendosi delle code per attingere, durante la notte hanno tenuto sveglio Molorco ruzzandogli al di sopra della testa e - azione più irritante di tutte - hanno divorato le vesti, la cappa e la bisaccia del pover'uomo; perciò il vecchio ha allestito le due trappole, cioè un peso che piomba sul topo e un legno che scatta in avanti per schiacciarlo. Nella parte conclusiva (vv. 34-38), il filo del racconto si perde di nuovo: C. dice forse che Molorco, abitante di Cleone, apre la porta per dare accesso ai topi e farli cadere nelle trappole. L'ampio resoconto della lotta fra Molorco e 1 topi - incluso com'è nell'elegia iniziale del terzo libro (dove si celebra la vittoria nemea di Berenice e si rievoca la fondazione mitica dei giochi) - è pervaso da un'ironia tipicamente callimachea. L'impronta comica deriva in primo luogo dal fatto che C. espone l'umile tema con un lessico e uno stile solenni, improntati molto spesso alle opere omeriche ed esiodee:

vd. i comm.

ai vv. 5 s., 7, 9-11,

14, 16

topi immagini e parole adeguate non a questi piccoli animali, bensì ai leoni (vd. i comm. ai vv. 9-11, 23 ἀλικαίαις, 29 civrar): il poeta offre così ai lettori una sostituzione ‘in miniatuταὶ dell'imminente scontro fra Eracle e il leone nemeo, che da lui non sarà narrato o verrà ri-

ferito in maniera cle vittorioso sul cillio (Anth. Pal. cato a mani nude Grazie

estremamente sintetica (vd. Seiler p. 92). L'ironica equiparazione fra Eraleone e un ammazzatore di topi diventa esplicita in un epigramma di LuXI 95), dove un nano afferma di essere un novello Eracle per avere soffoun topo nella sua tana. Vd. inoltre Livrea, Nuovo Callimaco p. 252 s.

al suo contenuto,

il nostro frammento

ha esercitato un notevole influsso

sulla

Batracomiomachia pseudo-omerica: vd. il comm. al v. 17. Il fr.2 del POxy. 2258 B, che sul 'recto' tramanda scarsi resti dei nostri vv. 4-6, contiene

esigue vestigia di scoli sia sulla rimanente parte del 'recto' sia sulla totalità del ‘verso’. Poiché ignoriamo in quale ordine si susseguissero le due facce, non si può stabilire se gli scoli del 'verso' riguardino un tratto di testo precedente o successivo all'inizio del nostro

frammento: possibili integrazioni, come ἐν τῷ tpexeılv nel rigo 5 (Pf.) e χαλκε | … [&v]Sp[yYdvra nel rigo 10 5. (L.), possono far pensare ai giochi di Nemea e alle statue che ne effigiavano i vincitori, e quindi al tema complessivo della Vittoria di Berenice (frr. 143156; vd. nel precedente volume Introd. IL.5.: la ricostruzione contenutistica di questi scoli proposta da Krevans, POxy. va senz'altro preferita a quelle di Hollis, Composition, Livrea, P.Oxy. 2463 e McNamee p. 207). Per quanto riguarda gli scoli sul 'recto', il loro rigo 1 dimostra che C. impiegava il voca-

bolo &vartopina prima del nostro v. 2: la probabile delucidazione Boac[Axatîc, offerta dallo scolio, indica che non si tratta del sostantivo &vaxtopin (vd. il comm. al fr. inc. sed.

95 εἶχεν dvorxtopinv), ma dell'aggettivo ἀνακτόριος

(cf. Hom.

Od. XV

397 Gecciv

ävaxtopinciw con gli scoli). Può darsi che la parola μήτ[η]ρ, letta e integrata da L. nel rigo 2, sı riferisca alla figura femminile menzionata nei nostri vv. 2 e 4.

2 dikpovi φιτρὸιν ἀειριαμένιη: Non sappiamo chi sia il personaggio femminile che solleva un ceppo biforcuto. Potrebbe trattarsi della madre che viene forse menzionata nel frammentario scollo del POxy. 2258 B (vd. sopra). Livrea pensa che qui e nel v. 4 C. si riferisca alla moglie di Molorco: nel nostro pentametro costei userebbe il ceppo in questione per staccare dal soffitto (v. 3) il cibo destinato alla cena di Eracle. Il medesimo gesto è compiuto dalla vecchia Bauci, ospite ignara di Giove e Mercurio, in un passo delle Metamorfosi ovidiane che contiene un'evidente imitazione della frase callimachea (VII 647):

264

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

furca levat illa bicorni | (vd. il comm. ai frr. 143-156). Per la struttura del verso callima-

cheo, cf. (Call.) fr. inc. auct. 749 Pf. ἡἠγαλέην κάλπιν ἀειρομένη Ι. Vari studiosi hanno a torto ritenuto che il nostro passo coincidesse con (Call.) fr. inc.

auct. 785 Pf. töixpavov ἤρυγε φιτρὸν ἐπαιρόμενος, proponendo congetture che trasformavano quest'ultimo in un pentametro. Si tratta invece di due luoghi distinti: l'esametro adespoto potrebbe risalire a C. (che avrebbe adoperato in due componimenti parole analoghe con lievi variazioni) o a un suo imitatore. Vd. app. e l'edizione dell'Ecale callimachea di Hollis, p. 336 (Appendice 1). ôikpov: In poesia l'aggettivo è attestato a partire da Il. parv. fr. 5, 2,1 p. 77 Bernabé =

fr. 5, 2 Davies δίκροος atyun I. Cf. poi soprattutto Timocl. PCG 9, 6 δίκρουν ξύλον I, ma anche Aesch. TrGF 246c Sixpa ὄψις, 239 κάμακος … | yYAocmuo Sikpovv (coni), Aristoph. Pax 637 δικροῖς ... κεκράγμαειν |, Nic. Ther. 228 5. Sikpn tyAwcen. Per l'etimologia della parola, vd. Frisk σιν. δίκροος. φιτρόιν: Già nei poemi omerici (I. XII 29, XXI 314, XXIII 123, Od. XII 11) e poi presso Ap. Rh. I 405, III 1209, [Orph.] Arg. 571, 952, 963 e Nonn. Dion. XXXVII 33 la parola significa - come qui - ceppo. Quinto Smirneo (XII 137) dà al sostantivo il significato affine di tronco d'albero, mentre Bacchilide (V 142) e Licofrone (v. 913) lo usano nel senso di fizzone. 3 créyoc: Ignoriamo in quale contesto la parola venisse impiegata: Pf. leggeva ἐπὶ «τέγος (cf. Call. Vict. Sosib. fr.384,35 Pf.*) e ipotizzava che qui una donna, sollevando un ceppo biforcuto (v. 2), ritornasse a casa sul far della sera (cf. v. 5 s.; per un'altra più plausibile interpretazione, vd. il comm.

al v. 2). Il vocabolo, che ricorre a partire forse da Alc-

mane (PMGF 2, 2) e con certezza da Eschilo (Pers. 141, Ag. 310), significa propriamente tetto, ma spesso per sineddoche equivale a casa, edificio. Quest'ultimo è il senso conferito alla parola da C. nel passo citato della Vittoria di Sosibio.

οὐδ᾽ öcov: Il confronto con Call. Ap.37 οὐδ᾽ Sccov (e in parte con Ep. XLVI 9 Pf. = HE 1055 | οὐδ᾽ öcov ἀττάραγον e Jamb.fr. 196, 43 Pf. Sccov οὐδὲ πάς[ςοα]λοῖν D induce a supporre che qui colti da Schneider οὐδ᾽ öcov* öccov 1925, Apollonid.

la frase non significasse né quanto, I p. 172, cui si possono aggiungere | (vd. Kuiper p. 31), Crinag. Anth. Anth. Pal. VII 378, 1 = GP 1149*,

42, 8 (PG 37 p. 1344), Leont.

bensì neanche un po': cf. 1 passi racPhilit. fr. 4, 2 Sbardella=Spanoudakis Pal. IX 224, 6 e 291,3 = GP 1902 e GVI 1924, 5, Greg. Naz. Carm. Il 1,

Anth. Pal. VII 573, 4. Vd. anche il comm.

di Williams

al

luogo citato dell'inno callimacheo ad Apollo. 4ἀπαιδὶ νέμουεα uépoc: Questa figura femminile coincide probabilmente con quella del v. 2. Qui, dato il vocabolo παιδί, potrebbe a maggior ragione trattarsi della madre forse nominata nel frammentario scolio del POxy. 2258 B (vd. il comm. introduttivo). Basandosi sullo Schol. Stat. Theb. IV 159-160 riportato nel comm. al fr. 145, Livrea ipotizza che la moglie di Molorco assegni una parte di qualcosa a suo figlio: s1 noti però che, secondo lo scolio in oggetto, il figlio di Molorco era stato ucciso dal leone nemeo quando Fracle arrivò a casa sua (vd. il comm. al fr. 148, 20). Molto allettante è la proposta di Corbato p. 239 s., secondo il quale C. parlerebbe qui proprio di Eracle, definendolo figlio di Zeus o di Alcmena (vd. anche Ambühl p. 65 s.). Ovviamente, comunque, la parola παῖς potrebbe pure designare una figlia o in generale un fanciullo o una fanciulla.

véuovca uépoc: Per il nesso, cf. Eur. Suppl. 241 v&uovrec ... μέρος I, Iph. Aul. 499 νέμω ... μέρος I, TrGF 184, 3 | veuov ... μέρος 1, Babr. LVII 4 5. u£poc ... νέμων. Frasi analoghe si riscontrano nell'Odissea omerica: cf. VIII 470 μοίρας τ᾽ ἔνεμον, XIV 436 τὰς δ᾽

COMMENTO:

AET.II FR. 149

265

ἄλλας (scil. μοίρας) νεῖμεν, XV 140 véue μοίρας |. Il vocabolo μέρος, assente nei poemi omerici, si rinviene a partire da [Hom.] Hymn. Π 399.

5.5. ἀςτὴρ δ᾽ εὖτ᾽] ἄρ᾽ ἔμελλε βοῶν ἄπο μέεεαβα δυθιμὴν

εἶειν

ὕπ᾽

ἠελίου:

[Adcew

| adAuoclı, dc

Vespero, l'astro che viene al tramonto del sole, sta per re-

care ai buoi la liberazione dal giogo e il ritorno alla stalla. Lo Stundenbild di colorito epico (cf. anche Call. Hec. frr. 238, 19 s. e 291 Pf. = 18, 5 s. e 113 H.) prosegue nel distico successivo e introduce ironicamente la battaglia di Molorco contro 1 topi.

5 ἀςτὴρ δ᾽ εὖτ᾽] ἄρ᾽ ἔμελλε βοῶν ἄπο μέεεαβα [Adcerv: C. allude all'explicit omerico βουλυτόνδε,

che designa l'arrivo della sera quando i buoi vengono

sciolti dal

giogo: cf. Il. XVI 779 = Od. IX 58 ἦμος δ᾽ Ἠέλιος uerevicero βουλυτόνδε con Schol. (A) al passo dell'Iliade e Schol. (QVT) a quello dell'Odissea (vd. A. W. James, «MPhL» 3, 1978, p. 169, Harder p. 105). In poesia il vocabolo βουλυτός si trova inoltre presso Aristoph. Av. 1500 e - con uso molto simile al nostro verso - Ap. Rh. III 1342-1344

βουλυτόν ... 1... 1... βοῶν δ᾽ ἀπελύετ᾽ ἄροτρα |. Anche Arato descrive la sera come βουλύειος ὥρη (vv. 825, 1119). Cf. inoltre Ap. Rh. IV 1629 5. riportato nel comm. al v. 6 αὔλιος], Hor. Carm. III 6, 41-43 sol ubi ... | ... iuga demeret| bobus fatigatis, Heliod. II 19,

6 καὶ ἦν μὲν ὥρα περὶ βουλυτὸν ἤδη, V 23, 2 ἦν μὲν ἤδη τῆς ἡμέρας ὅτε ἀρότρου βοῦν ἐλευθεροῖ γηπόνος. C. ribalta l'immagine esiodea dell'aurora che impone il giogo ai buoi (Op. 580 5. 1 ἠώς, À

te... 1. πολλοῖει ... ἐπὶ ζυγὰ Povcì τίθησιν |), da lui stesso ripresa nelfr. 23, 3 éviñcovico λόφον βοός: vd. il comm. ad loc. e Reinsch-Werner p. 144. Lo scioglimento degli animali

dal giogo viene delineato anche altrove da C.: cf. Dian. 162 5. ὑπὸ ζεύγληφι Audeicac |... κεμάδας, Lav.9 5. ὑφ᾽ ἅρματος αὐχένας ἵππων | λυεαμένα. βοῶν

ἄπο: Cf. Hom. I. XX

188*. Per la posposizione di ἀπό nell'opera di C., cf. il v.

28, frr. 163, 13; 213, 77,fr. inc. sed. 260, 1, Ex. Apc.fr. 228, 45 Pf. μέεεαβα: Sono le cinghie che collegano il giogo al timone dell'aratro. Il vocabolo è un hapax esiodeo (Op. 469 uecäBov, cf. Schol. 469 ἃ e vd. il comm. di West). C. lo utilizza

pure nel fr. inc. sed. 651 Pf. uéccaBa βοῦς ὑποδύς (vd. il comm. ad loc.), dov'è descritto l'aggiogamento di un bue. È anche attestato il verbo ueccaßöw, attacco al giogo (Lyc. 817). 6 αὔλιος]: Vespero è definito astro della stalla perché al suo apparire i buoi rientrano nei loro ricoveri. L'integrazione, che si deve a Blomfield, può dirsi sicura. Da un lato, in-

fatti, lo Schol. (A) Hom. 1. XI 62 a! cita le successive parole del pentametro all'interno di

una discussione sulla varia lectio «bloc &cthp | invece di οὔλιος ἀςτήρ | nel suddetto passo iliadico (vd. app. delle fonti). Dall'altro lato Apollonio Rodio impiega il nesso ἀστήρ | αὔλιος in uno Stundenbild molto simile a quello callimacheo (IV 1629-1631): ἦμος δ᾽

ἠέλιος μὲν ἔδυ, ἀνὰ δ᾽ ἤλυθεν ἀεςτήρ 1 αὔλιος, ὅς τ᾽ ἀνέπαυςεν ὀιζυροὺς ἀροτῆρας, | δὴ τότ᾽ κτλ. Per il significato di αὔλιος, cf. - oltre al citato scolio omerico - Schol. Ap. Rh. ll. e Steph. Byz. s.v. AdAñ. Νά. in generale l'app., nonché Rengakos, Homertext p. 133 s., Montanari, Filologi p. 57.

C. e Apollonio tengono presente [Hom.] Hymn. V 168 5. ἦμος δ᾽ ἂψ εἰς αὖλιν ἀποκλίνουει νομῆες | βοῦς. Hollis, Citations p. 67 ha richiamato l'attenzione sull'aggettivo ἐπιφάτνιος (di senso analogo ad abAtoc), che costituisce un lemma nel lessico di Esichio ed è qui spiegato come attributo di ἀςτήρ: Hollis congettura, con grande verisimiglianza, che la parola venisse usata da un qualche poeta ellenistico, forse in un explicit esametrico

ἐπιφάτνιος ἀςτήρ (vd. anche Hollis, Light p. 52). δυθιμὴν εἶειν ὕπ᾽ ἠελίου: Come osserva Pf., la preposizione ὑπό regge in ana-

266

CALLIMACO

strofe

δυθμήν:

Vespero

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

viene al tramonto

del sole (Vitelli scriveva erroneamente ὑπ᾽

ἠελίου). Il POxy. 2258 B e lo Schol. (A) Hom. Il. XI 62 a! tramandano la varia lectio banalizzante eicı μετ᾽ (da intendere come uét’): Vespero viene dopo il tramonto del sole. Vd. in generale l'app., nonché Massimilla, Papiri p. 37 s.

δυθιμὴν ... ἠελίου: In poesia il vocabolo δυθμή (δυςμή) si riscontra a partire da Pindaro (Isthm.IV 65 δυθμαῖοιν); C. lo utilizza anche in Cer. 10 ἔςτ᾽ ἐπὶ δυθμάς | (si noti che, nei vv. 7 e 8 dell'inno, viene menzionato “Ecnepoc). Per il nesso con ἠ(θ)λίου, cf. Aesch. Pers. 232 e Soph. Oed. Col. 1245. Cf. inoltre Call. Hec. SH 288, 54 = fr. 74, 13 H.

ἠέλιοι Sv[c]uéov etico πόδα πάντες &xovcı, Ep. II 3 Pf. = HE 1205 ἥλιον … kateddcauev, Ep. XX 1 5. Pf. = HE 1193 s. ἠελίου δέ | δυομένου, Theocr. XVI 76 ὑπ᾽ ἠελίῳ Öbvovril. Per la forma δυθμή, cf. Theognost. Canon., Cramer, AO II p. 112. 4 @un, δυθμή. eicıv: Già nell'/liade omerica il verbo può designare il cammino di una stella nel cielo:

cf. soprattutto XXII 317 5. 1 οἷος δ᾽ ἀςτὴρ eicı μετ᾽ ἀςτράει ... | Écrepoc, ὃς κτλ. (notevole per la menzione di Espero e l'aggiunta della proposizione relativa), ma anche XXII 26 s.

ἀςτέρ᾽ ... | ὅς ῥά τ᾽ ὀπώρης eicw, XXIII 226 &wcpöpoc eicı. Vd. la fine del comm. al fr. 213,68. 7 s. ] ὡς κεῖνος ’Ogioviönıcı φαείν[ει 1] θεῶν roicı παλαιοτέροις: Continua il solenne e ironico Stundenbild del v. 5 s. (vd. il comm. ad loc). All'ora del tramonto, il sole cala nell'Ade e illumina i discendenti di Ofione, dèi più antichi rispetto agli altri. La congiunzione ὧς ha probabilmente funzione temporale, come p.es. in Del. 81 e 200 e in Hec.

SH

288, 2 = fr. 69, 2 H. Invece

Vitelli le attribuiva valore comparativo,

integrava

[ἐννύχιος 8°] all'inizio dell'esametro e intendeva: e durante la notte Vespero risplende come quello (scil. il sole) per i discendenti di Ofione. Pf. scarta a ragione questo supplemento, perché Vespero - trovandosi in cielo - non può brillare insieme al sole nell'Ade. Vd. in generale l'app. La credenza che nottetempo il sole calasse negli inferi e risplendesse per gli dèi più antichi è presente nella religione egizia: vd. G. Roeder, RML IV (1909-1915) pp. 1185-1187. Per quanto riguarda i Greci, cf. Pind. Thren. fr. 129, 1 s. Sn.-M.

= 58 a, 1 s. Cannatà Fera

(περὶ τῶν εὐεεβῶν ἐν ”Aıdov) τοῖοι λάμπει μὲν μένος ἀελίου | τὰν ἐνθάδε νύκτα κάτω, 01.11 61-63 ἴεαις δὲ vortecew αἰεί, | ἴεαις δ᾽ ἁμέραις ἅλιον Éyovtec ... | ἐελοί (dopo la morte), Aristoph. Ran. 155 ὄψει τε (scil. ἐν “Αιδου) φῶς κάλλιετον ὥςπερ ἐνθάδε, Macrob. Sat. 1 18, 8 sol ... in supero id est in diurno hemisphaerio

... in infero id est nocturno,

Hymn. mag. in Solem GDRK LIX 4, 11 ἢν γαίης κευθμῶνα μόλῃς νεκύων τ᾽ ἐνὶ χώρῳ al. La nozione che gli dèi precedenti al dominio di Zeus risiedessero sottoterra nel regno di

Ade è attestata a partire dall'epica arcaica: cf. Hom. Il. VIII 479-481 Ἰάπετός te Κρόνος τε I... 1... βαθὺς dé te Τάρταρος dugic I, XIV 278 5. θεοὺς ... | τοὺς ὑποταρταρίους, ot Τιτῆνες καλέονται, Hes. Theog. 851 Τιτῆνές θ᾽ ὑποταρτάριοι Κρόνον ἀμφὶς ἐόντες. Cf. anche Antim. SH 52,7 = fr. 41a, 7 Matthews con il comm. di Matthews.

Che Ofione fosse il più antico fra gli dèi anteriori all'avvento di Zeus, ci è tramandato per la prima volta da Ferecide di Siro, secondo il quale Crono e 1 suoi alleati vinsero in uno scontro armato Ofione e i suoi seguaci: cf. 7 A 11 (Vorsokr. I° p. 46), B 4 (Vorsokr. 15 p. 49) τοῦ ... Ὀφιονέως θεοῦ καὶ τῶν Ὀφιονιδῶν. Questa teomachia è oggetto del canto di

Orfeo nelle Argonautiche di Apollonio Rodio: ἤειδεν δ᾽ ὡς πρῶτον Ὀφίων Εὐρυνόμη tel ’Dxeavic νιφόεντος ἔχον κράτος Οὐλύμποιο | ὥς τε Bin καὶ yepciv ὁ μὲν Κρόνῳ εἴκαθε τιμῆς, In δὲ ‘Pén, ἔπεοον δ᾽ ἐνὶ κύμαειν Ὠκεανοῖο (I 503-506 = [Orph.] fr. 67, II 1 p. 78

COMMENTO:

AET.II FR. 149

267

Bernabé = Orph. 1 B 16, Vorsokr. I° p. 14); non esistono tuttavia elementi per affermare che Apollonio si sia ispirato a una cosmogonia orfica (vd. l'annotazione di Bernabé).

Cf. inoltre Lyc. 1192 ἄνακτι τῶν Ὀφίωνος θρόνων | (cioè Zeus), 1196 5. μήτηρ À πάλης ἐμπείραμος | τὴν πρόςθ᾽ ἄναεεαν ἐμβαλοῦεα Ταρτάρῳ (la vittoria di Rea su Eurinome). Licofrone afferma dunque che Eurinome (la sposa di Ofione) fu gettata nel Tartaro dopo la sconfitta, collocando - come C. - questi dèi primordiali nell'Ade. Cf. in proposito

Schol. Lyc. 1191, 1196 e Tzetz. in Lyc. 1191 Κρόνος δὲ τὸν Ὀφίωνα καταβαλών, ‘Péx δὲ τὴν Εὐρυνόμην καταπαλαίςεαεα καὶ ἐμβαλοῦεα τῷ Ταρτάρῳ τῶν θεῶν ἐβαείλευεαν, οὖς πάλιν ὁ Ζεὺς ταρταρώεας Écye τὸ κράτος. Più in generale, per l'anteriorità di Ofione ed Eurinome rispetto a Crono e Rea, cf. Schol. Aesch. Prom.957 e Schol. Aristoph. Nub. 247 a. Sulla remota antichità di Ofione ed

Eurinome, cf. Schol. Arat. 16 προτέρη yeven] τινὲς τοὺς περὶ Ὀφίωνα καὶ Εὐρυνόμην καὶ Οὐρανὸν (καὶ) (add. Maass) Κρόνον e alcuni passi delle Dionisiache di Nonno (II 573, XII 44, XLI 352). A una diversa genealogia degli dei primordiali rimanda Call. fr. inc. sed. 498 Pf. (vd. il comm. ad loc). 7 ’Ogıoviönıcı φαείν[ει: La forma poetica φαείνω è spesso riferita al sole. Dato il contesto dei nostri versi, è rilevante soprattutto Hom. Od. XII 383 (parla Elio) δύεοομαι εἰς

"Atöoo καὶ ἐν verdeca φαείνω. Ma cf. anche Hom. Od. III 2 ἵν᾽ ἀθανάτοιει φαείνοι |, XII 385 μετ᾽ ἀθανάτοιει φάεινε |, Hes. Op. 528 Πανελλήνεεει φαείνει |. Vd. il comm. di Williams a Call. Ap.9 φαείνεται. 8 θεῶν τοῖει radatotéporc: Come indica il comparativo, i discendenti di Ofione vengono qui definiti più antichi di un altro gruppo di dèi, che sono probabilmente Crono e i Titani. Alla luce di questa considerazione, è suggestivo il supplemento di Pf. γαίης νέρθε]

(più antichi degli dèi sotterranei; cf. Hom. Il. XIV 274 oi ἔνερθε θεοί), che fra l'altro attenuerebbe l'irregolarità metrica del vocabolo di struttura giambica davanti alla dieresi del pentametro (vd. Introd.II.1.B.a.iii.), perché darebbe al nesso γαίης νέρθε un qualche valore prepositivo. Non è invece probabile che θεῶν sia da scandire per sinizesi come una sillaba lunga, allo stesso modo di θεοί nel fr. 199, 1 (vd. Introd. 11.2.F.b.): si tenga comunque conto che, se così fosse, prima di θεῶν bisognerebbe integrare una parola formata o da un'unica sillaba lunga o da due sillabe brevi (vd. Introd. II.1.B.a.1.). νά. in generale l'app. In modo analogo, nelle Eumenidi di Eschilo, viene espressa l'opposizione fra gli dei antichi - dei quali fanno parte le Erinni - e gli dèi nuovi insediati da Zeus: cf. 721 5. ἔν te τοῖς

νέοιει καὶ παλαιτέροις | θεοῖς, 778 θεοὶ νεώτεροι, παλαιοὺς νόμους | καθιππάεαεθε, 882 5. (Atena parla al gruppo delle Erinni) πρὸς νεωτέρας ἐμοῦ | θεὸς παλαιά. Nei poemi omerici il comparativo παλαιότερος è un hapax (Il. XXIII 788): vd. anche il comm. al fr. inc. sed. 119, 4 παλαίτερον.

Per la collocazione metrica di tota παλαιοτέροις,

cf. Call. Lav.

36 τοῦτο παλαιοτέρως " con il comm. di Bulloch.

9-11 ]inpi θύρην: ὁ δ᾽ ὅτ᾽ ἔκλυεν ἠχ[ήν, I ὡς ὅτε τις BaA]ific Tax’ En’ οὖς ἐλάφου | εκ]ύμνος, [μέ]}λ}5] μὲν ὅεεον ἀκουέμεν, fra δ᾽ ἔλ[εξεν: Comincia qui l'ampia sezione del frammento dedicata ai topi. Benché sia difficile ricostruire l'inizio del v. 9, gli ottimi supplementi proposti per il principio dei vv. 10 (Barber e Maas) e 11 (Pf. e Livrea) ci permettono di cogliere il senso del passo: un rumore proviene dalla porta (>); Molorco, quando ode il suono, come una cerva che ha sentito 1 ruggiti di un leoncino, si sofferma ad ascoltare; il vecchio pronuncia poi a bassa voce un'invettiva contro i

fastidiosi animali (vv. 12-14). Sı riscontra anche qui la connotazione ironica già presente

268

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

nei vv. 5-8. Particolarmente felice è la similitudine che equipara 1 topi al leoncino e Molorco alla cerva (vd. Hunter, Shadow p. 90). Nel séguito del frammento C. applicherà altre volte al topi parole che normalmente si riferiscono ai leom: vd. il comm. ai vv. 23 ἀλικαίαις e 29 civron. La circostanza è tanto più significativa, in quanto il poeta non descriverà lo scontro fra Fracle e il leone nemeo (o comunque lo liquiderà in poche parole): per il divertimento dei lettori, la battaglia di Molorco contro i topi surroga la grandiosa fatica dell'eroe. Sul piano lessicale e semantico, C. sembra risentire di Hom.

I. IV 452-456 | ὡς δ᾽ ὅτε

χείμαρροι ποταμοὶ ... |... 1... |T@v dé te τηλόςε δοῦπον ἐν οὔρεειν ἔκλυε ποιμήν - | dc τῶν μιςγομένων γένετο ἰαχή τε πόνος τε, XXII 451-453 (parla Andromaca) αἰδοίης ἑκυρῆς ὀπὸς ἔκλυον, ἐν δ᾽ ἐμοὶ αὐτῇ | «τήθεει πάλλεται ἦτορ ἀνὰ «τόμα, νέρθε δὲ γοῦνα I πήγνυται. Per il contenuto si può anche richiamare Hom.

Il. IV 243, dove Agamennone

rimbrotta così i soldati greci restii a combattere: τίφθ᾽ οὕτως ἔοτητε τεθηπότες ἠῦτε veßpot; 9 Ἰτηρι θύρην: Pf. propone dubbiosamente di integrare &cé τι δὴ κνηο]τῆρι: qualcosa appunto raschiò con una grattata (?) la porta (si tratterebbe dei topi che sfregano e grattano la porta con le unghie e 1 denti). Il supplemento sarebbe ammissibile solo se dessimo a Κνηςτήρ un senso astratto. Si osservi tuttavia che il vocabolo, nei poemi di Nicandro (cioè nelle sue due uniche attestazioni), significa concretamente grattugia: cf. Ther. 85 ἣν κνηςτῆρι κατατρίψειαν ὀδόντες | con Schol. 85 c, Al. 308* con Schol. 308 a. Quanto all'inversione del nesso δή τι, cf. Eur. ph. Taur. 946, TrGF 727c, 33.

à è’: L'anomala elisione dopo il «quarto trocheo» (vd. Introd. II.2.D.) è giustificata dal valore prepositivo del nesso à à”. Νά. app.

ἠχ[ήν: Sarebbe anche possibile integrare fx[ov o fix[ov (vd. app., nonché il comm. al fr.1,29 Auybv ἦχον). 10 5. ὡς ὅτε τις βαλ]ιῆς fox’ ἐπ᾿ οὖς ἐλάφου | εκ]ύμνος: Cf. Stat. Theb. VI 598 5. cervi | ... fremitum accepere leonis |, Quint. Smyrn. ΠῚ 171 φθόγγον ἐριβρύχμοιο veBpot τρομέωει λέοντος (in entrambi i casi - come qui - all'interno di similitudini). L'immagine contraria si rinviene presso Theocr. XIII 62 5. veBpod φθεγξαμένας tic ἐν οὔρεειν

ὠμοφόγος Aîc | ἐξ εὐνᾶς Écrevcev ἑτοιματάταν ἐπὶ δαῖτα (ancora in una similitudine). La cerva e il leone sono frequentemente accostati in poesia (spesso nelle similitudini):

cf. Hom. Il. II 23 s., XI 113, Od. IV 335 = XVII 126, VI 130-133, [Hes.] Scur. 402, [Theogn.] 949=1278c, Verg. Aen. X 723-725, Ov. Met. I 505, Fast. II 88, Phaedr. VI 5 s.,

Val. Fl. II 634-636, Stat. Theb. VII 670-672, Ach. I 466, Babr. XCV, CVII 4, Quint. Smyrn. IX 253, Claudian. Praef. Rapt. Pros.II 28, Nonn. Dion. XX 257 s., XXXII Per l'inarcatura fra il v. 10 e il v. 11, vd. Massimilla, Enjambement p. 123 s.

10 BaA]ific

254.

... ἐλάφου: Se l'integrazione di Maas coglie nel segno, si noti che qui

βαλιός significa screziato (come già presso Eur. Alc. 579), mentre nel fr. 213, 53 la parola ha il senso

di veloce

(βαλιὰ

πτερά,

vd. il comm.

ad loc.). Per il nesso,

cf. soprattutto

Leonid. Alex. Anth. Pal. VI 326, 4 = FGE 1883 βαλιαῖς ... ἐλάφοιο", ma anche Eur. Hipp. 218, Hec. 90, Nonn. Dion. XX 258, XXXII

133. Per l'uso dell'aggettivo a proposito di una

cerva, si può inoltre richiamare Simm. Anth. Pal. XV

27, 18 = CAfr.

26, 18 p. 119.

Tax’ ἐπ᾽ οὖς ἐλάφου: Per l'espressione, cf. soprattutto Call. Ap. 105 ᾿Απόλλωνος ἐπ᾿ οὔατα ... εἶπεν | con il comm. di Williams, ma anche /ov. 53 5. ἵνα Κρόνος οὔαειν ἠχήν | &cridoc eicaitoı, Dian. 63 κτύπον odacı δέχθαι |. Riguardo alla quantità lunga dello iota iniziale di ἴαχ᾽, vd. il comm. di Livrea ad Ap. Rh. IV 130. 11 εκ]᾿ύμνος: Il vocabolo εκύμνος, nella sua unica occorrenza omerica (11. XVII 319),

COMMENTO:

AET.II FR. 149

269

significa - come qui - leoncino. Altrove 1 poeti specificano ulteriormente la natura del cucciolo: cf. p.es. Aesch. TrGF dub. 452, 1 (= Aristoph. Ran. 1431) λέοντος crduvov, Soph.

Ai. 987 | cxduvov λεαίνης, Eur. Suppl. 1223 1 εκύμνοι λεόντων, Lyc. 1233 | cxduvovc λέοντας, Nonn. Dion. XIV 361 ckduvov ... λεαίνης I. Vd. il comm. al fr. 160. [uéJAX LE] μὲν Sccov ἀκουέμεν: È ottimo il supplemento [u&]AA[e] di Livrea, che si rifà al nesso omerico μέλλετ᾽ ἀκουέμεν attestato in 1]. XIV 125 e Od. IV 94 (dove il senso è diverso dal nostro passo). Nei poemi omerici l'infinito ἀκουέμεν, oltre che nei due

luoghi citati, compare in Il. I 547, VI 281, XV 129, Od. I 370, IX 3, XII 49, 160, XV 393, XVII 520 (sempre * tranne che in Il. XV 129). C. utilizza anche altrove infiniti in -Épev: cf.

Iov.81 pvAaccéuev* (vd. il comm. di McLennan), Dian. 251 ἀλαπαξέμεν, Hec.fr. 278, 2 Pf. = 99, 2 H. oicéuev, frr. inc. sed. 658 Pf. καιέμεν, 701 Pf. Aogorvéuev®. A quanto pare C., facendo dipendere l'infinito da öccov, impiega un nesso già attestato

nell'Odissea omerica: cf. V 484 öccov τ᾽ ἠὲ δύω ἠὲ τρεῖς ἄνδρας ἔρυεθαι. Successiva mente la costruzione risulta rara e di uso prosastico (cf. p.es. Aristot. Rhet. 1376 A 34), ma la si trova ancora presso Agath. Anth. Pal. V 216,3 s. = 73,3 s. Viansino.

ἧκα: Molorco parla a bassa voce per non compromettere l'efficacia delle trappole da lui predisposte (cf. vv. 16-19 e 32 5. e vd. Nisetich p. 273). L'avverbio figa è utilizzato con un

verbum dicendi già nell'/liade omerica (III 155): ἧκα πρὸς ἀλλήλους

ἔπεα πτερόεντ᾽

ἀγόρευον (per di più il luogo iliadico riguarda i vecchi di Troia, così come il nostro passo concerne l'anziano Molorco). Per quest'uso, cf. poi Ap. Rh. III 463 (segue nel v. 464 il

nesso interrogativo | τίπτε ... τόδ᾽, analogo al ti τό[δ Ἶ del nostro v. 12), 565, Quint. Smyrn. XII 30*, 31. 12 5. dxAnpot, ti τό[δ᾽] αὖ γείτονες ἡμε[τ]έρων | far? érokvali]covrec, ἐπεὶ μάλα [γ7 οὔτι φέρε[εθε;: La revisione del papiro operata da Livrea ha permesso di precisare o modificare il testo dei due versi offerto da Pf. La lettura τό[δ᾽ (già contem-

plata da Pf.) è migliore di ro[t'] (cui Pf. dava la preferenza): la sequenza τί τό[δ᾽ (che cos'è ciò che, vd. LSJ s.v. ὅδε I 4) va collegata al participio èroxva[i]covtec (vd. Massimilla, Enjambement p. 124 s.). Alla fine del v. 12 ἡμε[τ]έρων (Vitelli, Livrea) è più plausibile di ἡμέ[τ]ερον (Pf.): il genitivo dipende da τό[δ᾽ e ha funzione partitiva (Pf., invece, collegava ἡμέ[τ]ερον a ἥκατ᾽, sottintendendo δῶμα e chiamando a confronto Hom. //. VII 363 ἀγόμην ... ἡμέτερον δῶ | senza ἐς e Od. VII 301 | ἦγεν ἐς ἡμέτερον senza δῶ; lo studioso, inoltre, dubitava di ἡμε[τ]έρων perché riteneva improbabile che esso potesse venire

retto da anoxvalt]covrec, come se si trattasse di &noxvncovrec 0 ἀποκνίοοντες con il genitivo). Alla fine del v. 13, l'indicativo medio φέρε[εθε (Livrea) o forse l'ottativo medio con valore potenziale φέρο[ιεθε (D'Alessio, Durbec) sono preferibili al participio attivo g£polvrec (Pf.). Νά. in generale l'app. L'esasperato Molorco, rivolgendosi idealmente ai topi e definendoli importuni vicini, chiede loro che cosa mai siano ancora venuti a sgraffignargli, visto che - a causa delle loro continue incursioni - non hanno più niente da portare via. Livrea osserva che Leonida di Taranto, in un suo epigramma (Anth. Pal. VI 302 = HE 2191 ss.), scaglia contro 1 topi un'uguale invettiva, nel cui v. 8 il medio oïceat corrisponde al nostro φέρε[ςθε. Epigrammi di questo tenore - continua Livrea - furono composti anche da Aristone (Anth. Pal. VI 303 = HE 794 ss.) e Lucillio (Anth. Pal. XI 391). Vd. inoltre Corbato p. 244. In termini generali, il giro della frase callimachea sembra risentire di Hom. //. I 202 |

int’ adr’... εἰλήλουθας; |, Od. XI 93 s. I τίπτ᾽ αὖτ᾽ ... 1 ἤλυθες; Un sicuro antecedente dei vv. 12-14 è il passo dell'inno omerico a Ermes riportato nel comm. al v. 14. Per l'explicit

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- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

οὔτι oépelcôe, cf. Call. Hec.fr. 278, 1 Pf. = 99, 1 H. οὔτι φέρονται", (Call.)fr. inc. auct. 801 Pf. οὔτι popileer®. 12 ὀχληροί: L'aggettivo, usato abbastanza spesso dai prosatori, in poesia ricorre nel dramma attico: cf. Eur. Alc. 540 al., Aristoph. Ach. 460 al., Men. PCG

236, 7 al., ma anche

[Men.] Sent. 593 Pernigotti. yeitovec: Il tema dei vicini sgraditi o funesti figura più volte nelle opere di C.: cf. Cer.

117 ἐμοὶ κακογείτονες ἐχθροί | (ma Meineke propose la correzione xaxodatuovec, vd. il comm. di Hopkinson), /amb. fr. 194, 104 Pf. καὶ γὰρ γειτονεῦς᾽ anonviyeuc |, Hec. SH 287, 20 = fr. 49, 10 H. ἡμῖν δὲ κακὸς! παρενάεοαιτο γείτων | (con il comm. di Hollis). Cf. anche il passo di Ovidio riportato nel comm. al v. 14. 13 ἥκατ᾽: Abbiamo qui la prima occorrenza di questa forma di perfetto nella seconda persona plurale: cf. poi Teles p. 58. 10 Hense? (con l'app.) = p. 488 Fuentes Gonzalez, PGrenf. II 36, 18 (lettera del I sec. a.C.). Per la prima persona ἥκαμεν, cf. PSI VI 599, 2 (documento del III sec. a.C.) al. Un'esemplificazione più completa è offerta da E. Mayser, Grammatik der griechischen Papyri aus der Ptolemäerzeit I 2? (Berlin-Leipzig 1938), p. 148. Si possono anche chiamare a confronto la forma di aoristo εἰλάμεθα, adottata da C. in Vict. Sosib. fr. 384,

41

Pf.

(vd. il comm.

ad loc.), e le altre forme

verbali

raccolte

da

Bornmann nel comm. a Dian. 174.

anoxvalilcovrec: Il verbo è attestato in commedia: cf. Aristoph. Vesp. 681, Eccl. 1087, Antiph. PCG 239, 2. Per il senso, cf. Suid. s.v. «noxvoster- διαφθείρει, ἀποκόπτει,

ἀπολλύει, λυπεῖ, ὀδυνᾷ, s.v. ἀποκναίειν - ἐνοχλεῖν. 14 ξ]είνοις κωκυμοὺς ἔπλαςεν duue θεός: Continuando ad apostrofare i topi, Molorco esclama che il dio li ha plasmati per affliggere gli ospiti. Come osserva Livrea, il vocabolo ξ]είνοις rivela il rispetto del vecchio nei confronti di Eracle: i topi sono un tormento non solo per il padrone di casa, ma anche per chi - come l'eroe - ne viene ospitato. Vd. Rosenmeyer p. 208 s. Attraverso il verbo ἔπλαςεν C. allude ironicamente al celebre luogo de Le opere e i giorni, nel quale Esiodo racconta che Efesto plasmò la funesta Pandora: mAdcce κλυτὸς

᾿Αμφιγυήεις | (v. 70),

Πανδώρην ... |... πῆμ᾽ ἀνδράειν (v. 81 s.; vd. Reinsch-Werner p.

355). Il passo in questione rappresenta per noi la prima occorrenza del verbo rA&cco (nel v. 571 della Teogonia esiodea, il medesimo atto di Efesto viene reso dal composto cvunAacco). L'utilizzo di nA&cco

può inoltre contenere un accenno

scherzoso all'attività di Prometeo,

plasmatore del genere umano: cf. p.es. lo stesso Call. fr. inc. sed. 493 Pf. con il comm. L'insieme dei vv. 12-14 rivela che C. ha anche tenuto presente [Hom.] Hymn. IV 155 s.

e 160 5. (parole di Maia al neonato Ermes) τίπτε οὖ ... πόθεν τόδε νυκτὸς ἐν ὥρῃ | ἔρχῃ; € μεγάλην ce πατὴρ ἐφύτευςε μέριμναν | θνητοῖς ἀνθρώποιει. Per il solo v. 14 si possono ancora richiamare Hom.

/. VI 282 5. (parla Ettore a proposito di Paride) μέγα γάρ μιν

Ὀλύμπιος ἔτρεφε πῆμα | Tpoci, Od. XII 125 μητέρα τῆς (κύλληῃς, ἥ μιν τέκε πῆμα βροτοῖοειν. A sua volta lo ξ]είνοις callimacheo (così come il γείτονες del v. 13) sembra riverberarsi su Ov. Fast. I 552 non leve finitimis hospitibusque malum: poiché il verso ovidiano si riferisce a Caco, che sarà poi ucciso da Ercole, il poeta latino pare consapevole dell'ironica equiparazione - implicitamente istituita da C. - fra la guerriglia di Molorco contro 1 topi e lo scontro vittorioso di Eracle contro un altro mostro non meno temibile di Caco, cioè il leone

nemeo (vd. il comm. introduttivo). kokvuodc: La parola è un hapax e corrisponde a κώκυμα (cf. Aesch. Pers. 332 al.).

COMMENTO:

AET.II FR. 149

Per il tipo di alternanza, cf. κώλυμα e κωλυμός

271

(presente quest'ultimo negli Epimerism.

alph. in Hom. s.v. νήδυμος, v 47 p. 529 Dyck), ὄδυρμα e ὀδυρμόε, οἴκτιομα e οἰκτιεμός ecc. Lo stesso C., nel v. 312 dell'inno a Delo, impiega - invece di κιθαρίεματος

- la rara

forma κιθαριςμοῦ | (attestata anche - come osserva G. B. A. Fletcher ap. Pf. II p. 116 - in SIG? III 959. 10 κιθαριομοῦ, Chio II-I sec. a.C.).

Ὄμμε: Per la forma eolica, vd. il comm. al fr. 89, 23 [i πάτριον ὕ]μμι. 15 5. ὦ]ς ἐνέπων τὸ μὲν ἔργον, 0 οἱ μετὰ [χερ]ςὶν ἔ[κειτο, | piwlev: Mentre apostrofa 1 topi (vv. 12-14), Molorco lascia andare il lavoro che sta svolgendo e si dedica alla preparazione di due trappole mortali per i fastidiosi animali (vv. 16-19). L' ἔργον che tiene impegnato il vecchio è probabilmente connesso ai suoi doveri di ospite nei confronti di Eracle (vd. il comm. al v. 14). L'integrazione esemplificativa pèy]ev di L. è forse troppo lunga per la lacuna, mentre il supplemento ἧκ]εν suggerito da Pf. (con ἐκ χειρῶν sottinteso: cf. Hom. Il. XVII 299, Od. XXII 84) sembra occupare uno spazio troppo esiguo. Vd. in generale l'app.

Il nostro passo viene imitato da [Theocr.] XXV 2 ravcuevoc ἔργοιο τό οἱ μετὰ χερεὶν ἔκειτο (anche qui a proposito di un vecchio campagnolo che parla al cospetto di Eracle). Vd. Cataudella p. 37, Conti Bizzarro p. 330 s.

15 ö]c ἐνέπων: Cf. fr. 144, 11 ὧς Everev* con il comm. L'impiego del participio ἐνέπων per i discorsi diretti non è omerico, ma Apollonio Rodio (II 310) introduce con esso

una pficic. μετὰ [xep]civ: Cf. Hom. II. XI 4* al., Hes. Theog. 283”. 16 cuivOoic: Il vocabolo è attestato per la prima volta presso Aesch. Sisyph. satyr. TrGF 227. In poesia, cf. poi Lyc. 1306 e Tull. Sab. Anth. Pal. IX 410, 1 = GP 3364. NellYliade omerica (I 39) è già presente l'epiteto Cuw0edc a proposito di Apollo: secondo un'esegesi antica, il dio era venerato con questo nome perché aveva ucciso dei topi che devastavano i raccolti (vd. il comm. di Kirk ad loc). La parola cuivBoc veniva riferita al dialetto di Crisa e in generale della Troade e dell'Eolide oppure alla parlata di Creta: da una parte, cf.

Polem.fr. 31, FHG III p. 124 (Schol. (AD) Hom. I. I 39) ἐν Xp πόλει τῆς Mvciac ... κατὰ τὴν ἐγχώριον ... διάλεκτον οἱ μύες cuivBor καλοῦνται, Aelian. Nat. an. XII 5 ἔτι γὰρ καὶ τοὺς Αἰολέας καὶ τοὺς Τρῶας τὸν μῦν προςαγορεύειν εμίνθον; dall'altra parte, cf. Schol. Lyc. 1303 εμίνθοι ... παρὰ Κρηεὶν οἱ μύες, Schol. Clem. Alex. Protrept. Il 39, 7 Κρητῶν ἐπιχωρίων γλώττῃ cuivBove γὰρ τοὺς μύας οἱ Κρῆτες καλοῦειν. tura è specificata nel distico successivo. L'espressione callimachea combina due reminiscenze omeriche relative a Efesto: da un lato Od. VII 274-276 e 281 (il dio costruisce la rete che intrappolerà Ares e Afrodite; cf. anche l'inizio del nostro v. 17) ἐν δ᾽ #0e1°

ἀκμοθέτῳ μέγαν ἄκμονα, corte δὲ Secuode |... 1 αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ τεῦξε δόλον κτλ. e πέρι γὰρ δολόεντα τέτυκτο |; dall'altro lato 1]. XIV 166-168 (si parla del talamo di Era) τόν oi ... ἔτευξεν | “Hoarctoc, πυκινὰς δὲ θύρας craßuoicıv ἐπῆρεε | κληῖδι κρυπτῇ (unica attestazione omerica dell'aggettivo xpurtòc, che è un hapax anche esiodeo: cf. fr. 10 a, 97 Μ.-0.

Per il nesso κρυπτὸν ... δόλον, cf. Opp. Hal. II 97 κρυπτὸν δόλον, III 393 κρυπτὸς δόλος (in entrambi i luoghi a proposito di una trappola), Triph. 221 κρυπτὸν ... δόλον, ma anche Ap. Rh. III 592 | κρυπταδίους ... δόλους, [Opp.] Cyn. IV 108 δόλον κρύψαντες (in merito a un tranello teso dai cacciatori) ed Eudoc. Cypr. II 126 5. δόλον ... 1... κρύφιον. Per

18 p. 122 = fr. 3,18 Magnelli oi τεύξει ... δόλον I, Theocr. I 50 | πάντα δόλον tedyorca,

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CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Ap. Rh. II 578 Μινύαιει δόλους ... τεύχων I, Opp. Hal. III 560 Svcuevéeca δόλον tedyovtec, Nonn. Met. I 189 5. οὔτινι tedyovI... δόλον. C. impiega qui il sostantivo δόλος nel suo senso originario di tranello: già nell'Odissea omerica ıl vocabolo può designare la rete nella quale Efesto imprigiona Ares e Afrodite (VII 276 riportato sopra), il cavallo di Troia (VIII 494), l'esca del pescatore (XII 252 riportato nel comm. al v. 17), la tela di Penelope (XIX 137); presso Pindaro (Pyth. II 39) la parola si riferisce alla Nuvola di Issione. Particolarmente vicino al nostro passo è [Hom.] Batr. 116 ξύλινον δόλον, dove si parla appunto di una trappola per topi (vd. il comm. al v. 17, cui si rimanda pure per le molte comunanze tra questo frammento e la Batracomiomachia). Cf. inoltre Hom. Od. VII 281 riportato sopra, Hes. Theog. 540 5. riportato nel comm. al v. 19 e Opp. Hal. II 156 δολόεντα μόρον (anche qui in relazione a una trappola per topi,

vd. il comm. al v. 33 inoıv). 17 ἐν! δ᾽ ἐιτίθιειι πιαγιίιδεεειν ὀλέθρια

δείλατα

Sorraîc: Molorco colloca

esche mortali in due diverse trappole, che sono quelle menzionate e descritte nel v. 32 5. (διχθαδίους ... φονέας): a quanto pare, le esche vengono definite /etali sia perché contengono il velenoso elleboro (cf. v. 18) sia perché attirano i topi nel meccanismo micidiale dei due ordigni. Come

il v. 16, anche quest'esametro è ricco di echi omerici. Innanzitutto C. allude ai

due passi iliadici, nei quali Zeus pesa sulla sua bilancia i destini dei guerrieri: ἐν δ᾽ ἐτίθει

δύο κῆρε τανηλεγέος θανάτοιο (VIII 70 = XXII 210; per un incipit simile cf. Hom. Od. nel nostro v. 19). Ma anche l'impiego del vocabolo δείλατα costituisce un probabile richiamo alla poesia omerica. È infatti verisimile che C. (come poi il filologo Callistrato) leggesse questo termine - non attestato altrove - al posto di εἴδατα presso Hom. Od. XII

252 δόλον κατὰ εἴδατα βάλλων | (a proposito di un pescatore, vd. il comm. al v. 16 κρυπτὸν ἔτευχε δόλον): cf. Schol. (H) ad loc. εἴδατα] οὕτως ’Apicrapyoc: ὁ dè Καλλίετρατος 'δείλατα᾽ (R. Schmidt, Commentatio de Callistrato Aristophaneo in calce ad A. Nauck, Aristophanis Byzantii grammatici Alexandrini fragmenta, Halle 1848, p. 321 n. 37, H.-L.

Barth, Die

Fragmente

aus

den

Schriften

des

Grammatikers

Kallistratos

zu

Homers Ilias und Odyssee, Diss. Bonn 1984, pp. 291 ss.; per Callistrato, vd. i comm. al frr.

17, 6 ἤμελλε e 148, 24 Svepfi, nonché i comm. di Pf. a Call. fr. gramm. 452 e (Call.) fr. inc. auct. 808 e F. Montana, «MH»

65, 2008, pp. 77-98). Vd. Rengakos, Homertext p. 143.

A sua volta l'uso del vocabolo παγίς nel passo callimacheo ha influito su due luoghi della Batracomiomachia, probabilmente interpolati in età bizantina (in entrambi 1 casi ci si

riferisce a una trappola per topi): cf. 50 καὶ παγίδα crovéeccav, ὅπου δολόεις πέλε πότμος (per i vv. 47 e 48 s., vd. i comm. ai nostri vv. 28 καὶ κανιθῶν ἤλαειαν dpov ἄπο e 21) e 116 5. ξύλινον δόλον ἐξευρόντες, | ἣν παγίδα καλέουει, μυῶν ὀλέτειραν éodcav (per il v. 116, vd. il comm. al nostro v. 16 κρυπτὸν Erevxe δόλον). Per altre affinità tra il poemetto pseudo-omerico e questo frammento, vd. i comm. al v. 22, al v. 28 βρέγματι e al v. 31, nonché Pf., 4777jcetcp. 14 n. 5 e H. Wölke, Untersuchungen zur Batrachomyomachie (Meisenheim am Glan 1978), p. 60 n. 59 (vd. anche il comm. al fr. 1, 21 s.). rıayılıdeccıv: Il vocabolo è attestato a partire da Aristofane, che lo impiega a proposito di trappole per la cattura degli uccelli (Av. 194, 527), come poi Antip. Thess. Anth. Pal. VI 109, 2 = GP 364 e Babr. XIII 1. La parola designa - come qui - una trappola per topi nei passi della Batracomiomachia riportati sopra e trappole per la pesca presso Theaet. Schol. Anth. Pal. VI 27,3 e Tib. Ill. Anth. Pal. IX 370, 4.

COMMENTO:

AET.II FR. 149

273

ὀλέθρια: All'interno dei poemi omerici, l'aggettivo ricorre solo due volte (I. XIX 294*,409*) ed è in entrambi i casi attributo del sostantivo ἦμαρ.

18 at]puvo[v ἐ]λλεβ[όρῳ]

μιίγδα μιάλευρον

ἑλών: Nelle esche, Molorco me-

scola fra loro la farina di loglio (da lui usata per allettare 1 topi) e il velenoso elleboro. Il primo colon del pentametro è stato ricostruito grazie alle letture e alle integrazioni di Livrea (vd. app.).

ailpıvolv ... puede vpov: La forma μάλευρον equivale al più comune ἄλευρον: oltre agli Etimologici e al lemma di Fozio riportati rispettivamente nell'app. delle fonti e nel-

l'app. al nostro verso, cf. Et. M. s.v. μακάριος, p. 573. 40 Gaisf. ... πλεονάζει δὲ τὸ u ἐν πολλαῖς λέξεοιν ... καὶ ἄλευρον μάλευρον, Hellad. Chrest. ap. Phot. Bibl. p. 531 a 17, Epimerism. alph. in Hom. s.v. μάχη. u 45 p. 495 Dyck. La impiega anche Teocrito (XV 115

s.): εἴδατά θ᾽ Scca γυναῖκες ἐπὶ πλαθάνω nov&ovran | ἄνθεα uicyoicor λευκῷ παντοῖα μαλεύρῳ (si noti che μίογοιςαι richiama il nostro μιίγδο). La si deve probabilmente ripri-

stinare (come fa T. W. Allen) presso [Hom.] Ep. XIV 3 μάλευρα |(μάλ᾽ ἱρά vel μάλ᾽ ἱερά codd.).

Per l'uso della farina nelle esche destinate ai topi, vd. più avanti il comm.

a

ἐϊλλεβ[όρῳ] μιίγδα. La parola αἴρινος ricorre solo nelle opere mediche. L' ἄλευρον αἴρινον è menzionato da Dioscorid. II 112 e Archig. ap. Orib. VIII 46, 3. L'aggettivo si accompagna ad ἄλητα

(pasti) presso Aretae. Ὀξέων vobcov θεραπευτικόν II 6. La forma αἴρινος deriva da aîpo (loglio) e - come osserva Livrea - è simile ad altri aggettivi usati da C.: cf. ἀλέκτρινος

(Cer. 28), μύρεινος (Dian. 202), ὑδάτινος (fr. inc. sed. 547 Pf.). ἐ]λλεβ[όρῳ] μιίγδα: Come notava già Pf., nei Geoponica si legge che la farina viene mescolata al velenoso elleboro nero (XIII 4, 1) o ad altri ingredienti nocivi (XIII 4, 4) per attirare 1 topi. Livrea richiama inoltre Plin. Nat. hist. XXV 61 e Dioscorid. IV 148.

Il vocabolo ἐλλέβορος è di uso prevalentemente prosastico, ma lo si trova talora impiegato anche in poesia (a partire da Eucl. fr. 2 W. e Aristoph. Vesp. 1489 al.). Il nostro passo

è soprattutto vicino a Nic. Ther. 941 ἐλλεβόρου ... ἄμμιγα, Al. 483 ἐλλεβόροιο | (in entrambi 1 casi con riferimento alla preparazione di rimedi). Ma cf. anche Men. PCG 69, 1, Cillact. Anth. Pal. V 29, 2 (vd. FGE p. 114). In àmbito latino, cf. Cat. XCIX 14, Verg.

Georg. Il 451, Hor. Serm. 113, 82, Ep. II 2, 137, Pers. III 63, V 100, Mart. IX 94, 6. La parola μίγδα compare tre volte nel corpus omerico: in un passo si accompagna come qui - al dativo (Hom. N. VIII 437) e negli altri due viene impiegata assolutamente (Hom. Od. XXIV 77, [Hom.] Hymn. Π 426). Nicandro usa spesso parole affini a μίγδα nel descrivere - come fa qui C. - la preparazione di farmaci: μίγα (Al. 201 al), μιγάδην (Al.

277 al), μίγδην (Ther. 932 al), μιγῆ (fr. 68, 4 Schneider), ἄμμιγα (Ther. 850 al), ἀμμίγδην (Ther.41 al), ἀνάμιγδα (AI. 547), couutyônv (Ther. 677). L'utilizzo dello stesso uiyda in un contesto farmacologico si riscontra presso il poeta Andromaco (GDRK LXII 105). Il vocabolo si legge inoltre in vari passi di Quinto Smirneo (III 727 al.). Vd. Blomgvist p- 29. 19 θάνατον δὲ k&A[vwe: Nelle esche per i topi, Molorco dissimula il veleno in un involucro di cibo appetitoso (cf. v. 18 con il comm.). C. sembra riecheggiare ironicamente 11 passo della Teogonia esiodea, nel quale è descritto l'inganno perpetrato da Prometeo ai

danni degli dèi (v. 540 s.): ὀςτέα λευκὰ βοὸς Sorin ἐπὶ τέχνῃ | edBeticac κατέθηκε καλύψας ἀργέτι δημῷ (per Sorin, cf. δόλον nel nostro v. 16). Successivamente Oppiano, nei suol Halieutica (IV 354-373), tratterà in termini analoghi la pesca dei saraghi mediante esche composte da came di capra e farina. A proposito di θάνατον, cf. anche Hom. I. VIII

274

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

70 = XXII 210 riportato nel comm. al v. 17. 20 ἔπι: Per la posposizione di ἐπί nell'opera di C., cf. frr. 50, 46; 213, 60 e probabilmente 68*, Hec. fr. 238, 24 Pf. = 18, 10 H., Ep. fr.393, 3 Pf., Vict. Sosib.fr. 384, 21 e 38 Pf. (vd. Add.II p. 121),fr. inc. sed. 504 Pf. (vd. Add. II p. 126), Dian. 41, 88, 178, Del. 63, Cer.38.

Diverso è, con ogni probabilità, il caso del nostro v. 30*

(ma non è escluso che,

come suggerisce Pf., anche nel nostro pentametro si realizzi una tmesi, cioè &yocıv ἔπι: vd. app.). In questo frammento, le congiunzioni e i preverbi sono spesso collocati (rispettivamente in anastrofe e in tmesi) alla fine dei pentametri: vd. il comm. al v. 26 s. 21 ®]c κίρκο[ι: Livrea, nel proporre il supplemento (vd. app.), si richiama a Hom. Il. XXII 139 | Yöte κίρκος (a proposito di Achille) e ipotizza che le trappole per i topi siano qui paragonate a temibili falchi: a sostegno della sua interpretazione, lo studioso cita

[Hom.] Barr. 48 s. (parla un topo) ἀλλὰ δύω μάλα πάντα τὰ δείδια πᾶςαν ἐπ᾽ alav, | Kipkov καὶ γαλέην, οἵ μοι μέγα πένθος ἄγουειν (per il v. 47, vd. il comm. al nostro v. 28 καὶ κανιθῶν ἤλαειαν @pov ἄπο; per il v. 50 e - in generale - per le numerose affinità questo frammento e la Batracomiomachia, vd. il comm. al nostro v. 17). Ma si potrebbe che immaginare che C. confrontasse 1 topi stessi con 1 falchi, a causa delle loro rapine vocate sùbito dopo: se così fosse, il paragone esprimerebbe l'ironico accostamento tra 1

tra anriepic-

coli roditori e le fiere predatrici, introdotto dalla similitudine dei vv. 9-11 e ribadito dall'im-

piego dei vocaboli ἀλικαίαις e civrai nei vv. 23 e 29 (vd. i comm. ad locc). 22 ποιλλάκις Lem λύχνου πῖον ἔλειξαν ἔαρ: L'esposizione dei danni provocati dal topi in casa di Molorco si protrae fino al v. 31. Nel nostro pentametro C. ci informa che essi hanno molte volte leccato l'olio (il grasso sangue) della lampada. La medesima malefatta viene imputata ai topi da Atena nella Batracomiomachia (v. 180): ετέμματα

βλάπτοντες καὶ λύχνους εἵνεκ᾽ ἐλαίου. Inoltre nel v. 129 di questa opera leggiamo che i topi hanno come scudo la parte centrale di una lampada (λύχνου τὸ μεοόμφαλον). Per i molti nessi tra il nostro frammento e il poemetto pseudo-omerico, vd. il comm. al v. 17; più specificamente, per 1 vv. 181 5. e 184a della Batracomiomachia vd. il comm. al v. 31. Livrea, Eco osserva che l'immagine callimachea si riverbera sul v. 34 s. dell'ottava satira

di Giovenale, dove la si trova applicata a uno stuolo di cani macilenti: canibus ... |... siccae lambentibus ora lucernae |. Per di più, uno di questi cani ha l'altisonante nome Leo (v. 36),

così come 1 topi del nostro passo sono implicitamente equiparati a leoni (vd. il comm. al v.

23 ἀλικαίαιο. λύχνου: Il vocabolo è un hapax omerico (Od. XIX 34). πῖον: Per l'uso dell'aggettivo con riferimento all'olio, cf. già Herodot. II 94, 2. Si può

anche richiamare Nonn. Dion. V 260 I riovoc ... γονὰς ... ἐλαίης Ι. ἔλειξαν: Il verbo ricorre a partire da Eschilo (Ag. 828, 1229 (?), Eum. 106). Per di più, nel primo brano, lo stuolo di soldati fuoriusciti dal cavallo di Troia viene metaforicamente

descritto come un leone che lecca sangue regale in abbondanza, così come nel nostro passo i topi vengono implicitamente paragonati a leoni (vd. il comm. al v. 23 ἀλικαίαιο) che leccano a più non posso il sangue (ἔαρ) della lucerna (vd. Ambühl p. 84 n. 204). ἔαρ: La parola - non attestata prima di C. - significa propriamente sangue e ricorre più spesso nella forma etap. Il suo impiego a proposito dell'olio ha influito su Nicandro, che

scrive εἶαρ ἐλαίης | (Al. 87). Cf. inoltre Call. Hec. fr. 328, 2 Pf. = 62, 2 H. εἴαρι, fr. inc. sed. 523 Pf. etap con il comm., forsefr. 213, 91 (vd. il comm. ad loc.), Euph. CA fr. 40, 3

Ρ. 38 | εἴαρος, Nic. Ther. 701 εἶαρ coni. Al.314 etap |, Opp. Hal. Il 618 ἔαρ; Aglai(d)a di Bisanzio (SH 18, 19) definisce λίθος εἰαριήτης | l'ematite (riguardo al v. 7 del frammento

COMMENTO:

AET.II FR. 149

275

di Aglai(d)a, vd. il comm. di Pf. a Call. Hec. fr.364 = 3 H.). Sull'origine cipriota del voca-

bolo, cf. Hesych. s.v. ἔαρ: αἷμα. Κύπριοι e vd. O. Hoffmann, Die griechischen Dialekte I (Göttingen 1891) p. 112. Piùin generale, vd. Rengakos, Homertextp. 147 s., Magnelli, Studi p. 23 n. 63.

235. ἀλικαίαις ἀφύεαντες, ὅτ᾽ οὐκ ἐπὶ πῶμ[α τεθείη | ἅλ]μαις καὶ φιάλῃς: I topi hanno compiuto un altro misfatto: approfittando della circostanza che salamoie e tazze erano rimaste scoperchiate, ne hanno attinto il contenuto con la coda per ingurgitarlo. Le letture e i supplementi relativi al primo colon del pentametro spettano a Livrea (vd. app.). 23 ἀλικαίαις: Il vocabolo - che ci è noto a partire dalla poesia ellenistica - si riferisce alla coda di una balena presso Ap. Rh. IV 1614 (vd. il comm. di Livrea), Opp. Hal. V 264, 331; alla coda del Toro presso Nic. Ther. 123*; alla coda di un serpente presso Nic. Ther. 225. Lo scolio al passo di Apollonio Rodio, nel tramandare il nesso callimacheo ἀλκαίαις G@bcaviec, specifica che la parola ἀλκαία designa propriamente la coda del leone e biasima C. per averla utilizzata a proposito dei topi (vd. app. delle fonti). Bisogna invece rilevare l'intento ironico del poeta, che - applicando il termine ai piccoli animali - equipara l'umile lotta fra Molorco e i topi all'imminente scontro fra Fracle e il leone nemeo: per altro, la fatica dell'eroe non sarà affatto descritta (o comunque verrà liquidata in poche parole), sicché la guerriglia domestica del vecchio sostituisce a tutti gli effetti l'impresa del suo illustre ospite (vd. anche i comm. ai vv. 9-11 e al v. 29 civraı). Per la pertinenza del termine ἀλκαία alla coda del leone, cf. inoltre Method. in Et. Gen. (A) a 493 LasserreLivadaras, Et. Gud. pp. 90. 14 e 91. 17 de Stef. con le annotazioni, Schol. Nic. Ther.

123 a.

Come si è detto, la parola è per noi attestata a cominciare dal poeti ellenistici, ma un frammento della Λέξις κωμική di Didimo Calcentero (fr. I 5, 35 p. 71 Schmidt in Schol. Ap. Rh. IV 1613-1616 c) ci informa che il vocabolo denota non solo la coda del leone, ma anche quella del cavallo, del bue e di animali simili, 1 quali la usano come mezzo di difesa

(evidentemente dagli insetti): se ne deduce che C. si ispirò probabilmente alla commedia nell'impiegare il sostantivo con valore ironico.

agdbcavrec:Cf. Call. Cer. 69 δυώδεκα δ᾽ οἶνον ἄφυεοον |. ὅτ᾽ οὐκ ἐπὶ πῶμ[α τεθείη: L'integrazione esemplificativa di Körte si fonda su Babr. LVII 8 | τεθὲν τὸ πῶμα (vd. app.), nonché su Hom. Od. IX 314 ὡς εἴ te φαρέτρῃ rau’ ἐπιθείη | Per l'immagine dei topi che si avventano sui contenitori scoperchiati, cf.

Babr. LX 1 ζωμοῦ χύτρῃ μῦς éurecov ἀπωμάετῳ. 24 ἅλ]μαις: La parola designa la salamoia presso Herodot. II 77, 4, Aristoph. 1515, PCG

426 e

vari altri poeti comici, Archestrat. SH 149, 3 = fr. 19, 3 Olson-Sens

Vesp. al,

Matro SH 534, 77, Nic. fr. 70, 12 Schneider, [Orph.] Lith. 214. Altrove C. parla più specificamente di olive in salamoia: cf. Hec. SH 283, 4 s. = fr.36,4 s. H. (con il comm.

di Hollis),

Jamb.fr. 194, 77 Pf. α΄, λοιο: Da qui a βρέγματι (v. 28) il filo sintattico si perde: la lettura À ὁπότ᾽ di Livrea (vd. app.) ci consente però di riconoscere l'inizio di una proposizione disgiuntiva temporale. La prima parola dell'esametro potrebbe essere una qualche forma del verbo εἰλέω e la sequenza Ao1o sembra rappresentare la fine di un sostantivo nel caso genitivo, connesso all'attributo ἑτέρου: ma le letture e le integrazioni proposte finora dagli studiosi per l'inizio del v. 25 non si confanno alle tracce e comunque non offrono un senso adeguato (vd. app.).

276

CALLIMACO

25 τά τ᾽ ἀνέρος

ἔργα

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

πενιχ[ροῦ:

L'uomo povero è ovviamente Molorco (cf.

[Apollod.] II 5, 1, 1 e Schol. Stat. Theb.IV 159-160 riportati nel comm. al fr. 145 e vd. ἢ comm. al fr. 153, 4): con ogni probabilità qui si dice che 1 suoi /avori sono stati danneggiati dal topi. Per le incursioni di questi animali nelle case degli umili, cf. v. 12 5. con il comm. πενιχ[ροῦ: Cf. fr. 25, 4 revixpod* con il comm.

26 s. cxAnpod

εκί(μγ)π[τετο A]Goc ὕπο | κλ]ιεμόν: Pf. aveva già messo in evi-

denza la verisimiglianza di ὕπο, notando che nel nostro frammento le preposizioni in anastrofe e i preverbi in tmesi sono spesso collocati alla fine dei pentametri: cf. vv. 20 ἔπι, 28

ἄπο, 30 ἔπι (vd. anche il comm. a (Call.) fr. inc. auct. 779 Pf. e Lapp p. 48). A Pf. si deve anche l'integrazione xA]ıcuöy.

Successivamente Livrea ha aggiunto le letture e i supple-

menti cxAnpod cxi(u)t[teto A]&oc. Νά. in generale l'app. Siamo ora in grado di intendere il senso del passo: riferendosi probabilmente al quotidiano coricarsi di Molorco per il riposo notturno, C. scrive che il vecchio spingeva sotto una dura pietra il giaciglio. La pietra in questione sembra svolgere le funzioni di guanciale: nell'Ecale - come osserva Livrea - si dice con parole simili che qualcuno pose una dura

pietra sotto il capo (fr.375 Pf. = 153 H. θῆκε δὲ λᾶαν I ckAnpdv ὑπόκρηνον). Sùbito dopo avere menzionato il misero letto di Molorco, C. ci informa che egli non può dormire perché 1 topi gli ruzzano sul capo (v. 27 s.).

26 cxAnpod

... A]Goc: Per il nesso, cf. soprattutto il frammento dell' Ecale riportato

sopra, ma anche Merop.fr. 2,3,1 p. 133 Bernabé = fr. epic. adesp. SH 903 A, 5 c]xAnpfic πέτρης. Per cxAnpoò, vd. il comm. al fr. 148, 34. εκί(μ)π[τετο: Il verbo ricorre presso Pind. Pyth. IV 224, che gli conferisce il medesimo significato riscontrabile nel nostro verso (spingere giù, premere). La parola è impiegata da C. anche nel fr. 50, 47 [ε]κιμπ[τόμενο]ν, dove però il senso è traslato: vd. il comm. ad loc. 27 xA]ıcuöv: All'interno dei poemi omerici, la collocazione del vocabolo all'inizio dell'esametro si riscontra solo in Od. XVII 97.

27 5. o]pxñcalvro

| βρέγματι: È probabile che le due parole siano collegate fra

loro: verisimilmente C. racconta che nottetempo 1 topi danzarono spesso sulla testa di Molorco, sicché (come si legge con sicurezza nel séguito del v. 28) gli impedirono di dormire. Il ruzzare dei topi somiglia a una danza, che con ogni probabilità si svolge sulle assi del soffitto. L'immagine tratteggiata da C. richiama molto da vicino Arat. 1132 5. μύες, τετριγότες

ei mote μᾶλλον | εὔδιοι Eckiprricav ἐοικότα ὀρχηθμοῖειν e Damochar. Anth. Pal. VII 206, 5 5. οἱ δὲ μύες νῦν | ὀρχοῦνται. L'uso traslato del verbo ὀρχέομαι si riscontra anche presso Aesch. Choe. 167 ὀρχεῖται δὲ καρδία φόβῳ I, Anaxandr. PCG 60, 3 | ὀρχεῖ (scil. καρδία) e lo stesso Call. Del. 139 5. φόβῳ δ᾽ ὠρχήεατο teca | BeccoXin, Hec. fr.326 Pf. = 77H. αἴθ᾽ ὄφελες θανέειν {ἢ πανύετατοντ ὀρχήεαεαθαι (dove l'aoristo del verbo crea - come qui - una clausola spondaica: vd. Introd. II.1.A.a. e il comm. di Hollis al luogo dell'Ecale; cf. anche ἴον. 52 e Dian. 240 περὶ ... opxncavto® con i comm. di McLennan e di

Bornmann). Si veda inoltre Theocr. VI 45 ὠρχεῦντ᾽ ἐν μαλακᾷ ταὶ πόρτιες αὐτίκα ποίᾳ. 28 βρέγματι: Νά. il comm. al fr. 97, 1 Bpexuöv. Dati i numerosi punti di contatto tra questo frammento e la Batracomiomachia (per i quali vd. il comm. al v. 17), può essere significativo che nel v. 228 del poemetto pseudo-omerico si legga la parola Bpéyuartoc. καὶ κανιθῶν ἤλαειαν @pov ἄπο: I topi, ruzzando sulle assi del soffitto, hanno spesso provocato l'insonnia di Molorco. Si noti, per contrasto, che nel v. 47 della Batraco-

COMMENTO:

AET.II FR. 149

277

miomachia (all'interno di una sezione probabilmente interpolata in età bizantina) un topo

afferma: νήδυμος οὐκ ἀπέφυγεν ὕπνος δάκνοντος ἐμεῖο (per il v. 48 s., vd. il comm. al nostro v. 21; per il v. 50 e - in generale - per le numerose affinità tra questo frammento e il poemetto pseudo-omerico, vd. il comm. al nostro v. 17). Per la struttura del nostro penta-

metro, cf. (Call.)fr. inc. auct. 779 Pf. πάντων δ᾽ ἔπτυςε πουλὺ κάτα |. κανιθῶν: Il vocabolo designa propriamente l'angolo dell'occhio: cf. Aristot. Hist. an. I 9 p. 491 B 23, II 12 p. 504 A 25, Part. an. 657 B 18. In poesia esso ricorre a partire dal periodo ellenistico e appare con il suo significato specifico presso Eratosth. CA fr. 17, 2 p. 63, Nic. Ther. 673, SGO I 02/09/33 (= V 24/06) v. 11, GVI 755, 5; 1338, 8, [Orph.] Arg. 933, Greg. Naz. Carm. II 1, 1, 330 (PG 37 p. 995), Claudian. Gig. II 47, mentre negli altri passi presenta - come qui - il senso generico di occhio: cf. Moschio TrGF 97 F 9,9, Cerc. fr. 3a, 2 Livrea = 3, 2 Lomiento,

ep. adesp. Anth. Pal. XII 87, 6 = HE 3733, Phil. Thess. Anth.

Pal. VI 62, 6 = GP 2705 al., epp. adespp. Anth. Pal. VII 221, 2*, Anth. Pal. Append. III 170, 4 (vol. III p. 320 Cougny), SGO I 01/13/01 v. 1, GV/ 1301, 1, [Opp.] Cyr. II 511 ai, Maneth.

VI 552, Synes. Hymn.

I 446 Lacombrade,

Paul.

Sil. Anth. Pal. V 219, 3 = 66, 3

Viansino. &pov: Gli Etimologici, nel tramandare il pentametro callimacheo (vd. app. delle fonti), spiegano che il vocabolo significa sonno ed equivale alla forma ἄωρος, per la quale citano

Sapph. fr. 151 Voigt ὀφθάλμοις δὲ μέλαις νύκτος ἄωρος. Il nostro passo e il frammento di Saffo sono le uniche attestazioni della parola: è probabile che C. si sia ispirato alla poetessa, tanto più che κανιθῶν corrisponde a ὀφθάλμοις. L'equiparazione di ἄωρος e ®poc non sembra condivisa da Hesych. s.v. &opoc (sic): ἄυπνος. Μηθυμναῖοι, ma Latte osserva che bisogna forse correggere ἄυπνος in ὕπνος. Νά. Bredau p. 41 5. ἄπο: In questo frammento, la fine dei pentametri è spesso occupata da preposizioni in anastrofe e preverbi in tmesi: vd. il comm. al v. 26 5. Per la posposizione di ἀπό nell'opera di C., vd. il comm. al v. 5 βοῶν ἄπο. 29108’... téXeccov: Il pronome si riferisce proletticamente all'azione dei topi che ha irritato di più Molorco (v. 30), cioè il fatto che 1 roditori gli abbiano mangiato le vesti, la cappa e la bisaccia (v. 31). Per l'espressione, cf. Call. Hec. SH 288, 28 = fr. 70, 13 H. αἱ

φυλακοὶ κακὸν ἔργον Erepp&ccavro tedéccat. ςίνται: Come abbiamo già osservato (vd. i comm. ai vv. 9-11 e al ν. 23 ἀλικαίαιο), in questo frammento C. applica ai topi immagini e termini che rendono la lotta di Molorco contro di loro un ironico surrogato dell'imminente contesa fra Eracle e il leone nemeo, passata sotto silenzio dal poeta (o almeno riferita con grande concisione). Qui l'effetto comico è prodotto dall'aggettivo civtne - già omerico -, che si riferisce propriamente alle fiere predatrici: leoni (77. XI 481, XX 165) e lupi (II. XVI 353). La connotazione sinistra del termine è confermata dall'uso che ne fanno gli altri poeti, a partire dall'ellenismo: cf. Lyc. 386 (Nauplio), Nic. Ther. 623 (un serpente), 715 (un ragno velenoso), Orac. 492, 2 ParkeWormell (Pitone), Pancrat. GDRK XV 2, 7 (? un leone), Opp. Hal. IV 602 (predoni), [Apolin.] Met. Ps. CIV 26 (un predone), Maced. cons. Anth. Pal. VI 73,7 = 20,7 Madden

(lupi). Cf. anche Suid. s.v. civine: βλαπτικός. Lo stesso C. applica l'affine vocabolo civic a un leone: cf. Ap. 91 5. λέοντα | … βοῶν civiv con il comm. di Williams. Esiste anche la forma civtop, che in un epigramma adespoto (Anth. Pal. VI 45, 2 = HE 3843) si riferisce a un riccio.

Bpalxé]n ἔνι: Per il tipo di iato, vd. il comm. al fr. 50, 46 κεφαλιῆι ἔπι κείιμεγιον. Per l'accentazione parossitona delle preposizioni in questo genere di nessi, vd. il dibattito

278

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

grammaticale richiamato nel comm. al fr. 1, 21 ἐπί e (riguardo al nostro specifico passo)

MeLennan, Preposition p. 168 s. L'accorpamento metrico di ἔνι con Bpa[xé]n consente all'esametro di rispettare la norma enunciata nell'Introd. IL1.A.c.v. L'aggettivo βραχύς ricorre a partire da Semonide (fr. 7,75W.).

νυκτὶ T£ekeccav: Cf. Eudoc. Cypr.

171 νυκτὶ teréccac*.

30 κύντατον: Questo superlativo è un hapax morfologico nei poemi omerici (JL. X 503; cf. anche [Hom.] Hymn. Π 306); più frequente è invece il comparativo κύντερον (I. VII 483 al.). Il passo del decimo libro iliadico funge qui da modello, perché si inquadra nella sortita compiuta da Diomede e Odisseo nottetempo (cf. βρᾳ[χέ]ῃ ἔνι γυκτί nel nostro

v. 29): in esso leggiamo, a proposito di Diomede, αὐτὰρ ὁ μερμήριζε μένων 6 τι κύντατον ἔρδοι. Si osservi, fra l'altro, che poco prima Diomede - intento a trucidare Reso e i suoi compagni - viene paragonato a un leone (v. 485 s.; cf. civraı nel nostro v. 29 con il comm.). La forma κύντατος si riscontra anche presso Euripide (Suppl. 807) e Apollonio Rodio (III 192 al.). Nel riferire all'operato dei topi un aggettivo etimologicamente connesso ai cani, C. accentua la qualità comica della situazione.

μήνατο ... ἔπι: Probabilmente siamo di fronte al verbo ἐπιμαίνομαι in tmesi, piuttosto che al verbo μαίνομαι seguito dalla preposizione ἐπί in anastrofe (per la quale vd. il comm. al v. 20*; sull'impiego di preposizioni e preverbi alla fine dei pentametri nel nostro frammento, vd. il comm. al v. 26 s.). All'interno dei poemi omerici il verbo ἐπιμαίνομαι compare solo in Z. VI 160 (ἐπεμήνατο), dove però si riferisce alla furia d'amore. Il passo iliadico è più vicino all'altra attestazione callimachea del vocabolo (Cer. 29), dove esso esprime la smodata passione di Demetra per il suo bosco sacro: θεὰ è’ ἐπεμαίνετο χώρῳ I Anche il verbo semplice μαίνομαι si trova impiegato per designare la furia dell'ira: cf.

Philem. PCG

156 μαινόμεθα πάντες, ὁπόταν ὀργιζώμεθα con l'annotazione di Kassel-

Austin. Per la grande ira provocata dai topi mangiatori di abiti, cf. il passo della Batracomiomachia riportato nel comm. al v.31.

31 ἄμφ[ιά]

οἱ cicdpnv

[t]e κακοὶ κίβιείν te διέβρων: I malvagi topi hanno

divorato le vesti, la cappa di pelo caprino e la bisaccia del povero Molorco. La proposizione, anticipata dal τόδ᾽ prolettico (v. 29), costituisce un asindeto enfatico: il costrutto è

già attestato presso Hom. Od. IX 511 5. τάδε ... | χειρῶν ἐξ Ὀδυεῆος κτλ. Sul piano dei contenuti è notevole l'affinità tra il nostro passo e un luogo della Batracomiomachia, nel quale Atena si dichiara particolarmente irritata (cf. il nostro v. 30) perché 1 topi le hanno

mangiato un peplo da lei tessuto: τοῦτο dé μοι λίην ἔδακε φρένας οἷον ἔρεξαν. πέπλον μου κατέτρωξαν ὃν ἐξύφηνα καμοῦεα (v. 181 5.) e τούτου χάριν ἐξώργιομαι | (v. 1848). Per le molte comunanze tra questo frammento e il poemetto pseudo-omerico, vd. il comm. al v. 17; più specificamente, per il v. 180 della Batracomiomachia vd. il comm. al v. 22. Vd. pure H. Wölke, Untersuchungen zur Batrachomyomachie (Meisenheim am Glan 1978), p. 241. Cf. inoltre fr. inc. 48 Morel = fr. 20 p. 461 Courtney praetextam in cista mures rosere camilli. ἄμφ[ια]: Il vocabolo ἄμφιον (veste) è utilizzato da Sofocle (TrGF 420) e Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. IV 76). Nello Schol. Arat. 1073 esso denota - come qui - gli abiti di un uomo povero. cıcöpnv: La parola, che designa una cappa di pelo caprino utilizzata di giorno come indumento e di notte come coperta, è di matrice comica:

cf. Aristoph. Nub.

10, Vesp. 738,

1138, Av. 122, Lys. 933, Ran. 1459, Eccl. 347, 421, 840, nonché [Plat.] Eryx. 400 E, Babr.

COMMENTO: XVIII

AET.II FR. 149

279

13, Long. Soph. II 3, 1 e [Opp.] Cyr. IV 334. Tzetze (ad Lyc. 634) distingue fra

cicdpa, cicupva e cicuc, affermando che la prima è costituita da pelle villosa, la seconda è

una pelle senza pelo e la terza è un qualsiasi tipo di indumento dozzinale: per cicopva cf. Alc. fr. 379 Voigt, Aesch.

TrGF

109, Herodot.

IV

109, 2, VII 67,

1, Euph.

SH 418, 26,

Babr. XVIII 3; per cicvc cf. Sem. fr.31b W. Cf. anche Schol. Theocr. V 14-16 e-f con le altre fonti grammaticali raccolte da Wendel nell'annotazione. Che i topi rodano il cuoio, viene detto anche da Erodoto (II 141, 5) e Strabone (XIII 604): 1 due scrittori - riferendosi a episodi diversi - raccontano che una torma di topi campagnoli invase nottetempo un accampamento e divorò le armi e gli utensili di pelle. xißıcıv: All'interno dei corpora omerici ed esiodei il sostantivo compare solo presso [Hes.] Scur. 224, dove designa la bisaccia di Perseo contenente la testa della Gorgone (cf. anche SGO II 10/06/04 v. 6). La parola figura inoltre in un componimento eolico di attribuzione dubbia (fr. inc. auct. 30,3 Voigt, vd. l'app. ad loc.). C. la impiega anche nel fr. inc. sed.531 Pf. Vd. Schmitt p. 22, Reinsch-Werner p. 115.

Per i topi mangiatori di sacchi, cf. Theophr. Char. XVI 6 ἐὰν μῦς θύλακον ἀλφίτων διαφάγῃ, Bio Bor. fr. 31A Kindstrand ap. Clem. Alex.

Strom. VII 4, 24 (II p. 17. 22

Staehlin-Treu) ei ὁ μῦς ... τὸν θύλακον διέτραγεν (vd. il comm. di Kindstrand, p. 235 s.). διέβρων: Il verbo διαβιβρώεκω è di uso prosastico (così come il verbo ἐπιβιβρώςκω, impiegato da C. in /ov. 49).

32 toîci δὲ] διχθαδίους εὐτύκαςεν φονέας: Dopo l'ampia rassegna delle malefatte compiute dai topi in casa di Molorco (cominciata nel v. 22 o nei versi immediatamente precedenti), qui C. torna a parlare delle due trappole allestite dal vecchio per uccidere i roditori (che si trovano già menzionate nel v. 17) e ne offre una descrizione tecnica nell'esametro successivo. Il modello del nostro verso è un passo dell'Iliade omerica, nel quale

Achille afferma: | μήτηρ γάρ τέ μέ gna... Θέτις ... | διχθαδίας κῆρας φερέμεν θανάτοιο τέλοεδε (IX 410 s.). All'interno dei poemi omerici, l'aggettivo διχθάδιος compare soltanto in questo luogo e in Il. XIV 21 διχθάδι". εὐτύκαςεν:

Il verbo risulta probabilmente impiegato - nella diatesi media - solo da

Aesch. Sept. 149 εὐτυκάζου I (vd. il comm. di Hutchinson e cf. Hesych. s.v. εὐτυκάζουεὔτυκον ἔχε, ἕτοιμον); la voce attiva non è attestata altrove. C. utilizza anche l'aggettivo εὔτυκος (Lav. 3, vd. il comm. di Bulloch).

33 ἱπόιν ıT’ ἀνδίκτην. τε μάλ᾽ εἰδότα μιαικρὸν ἁλέιεθαι: Con i termini tecnici ἷποιν e ἀνδίκτην, C. designa le due trappole allestite da Molorco: vd. in proposito la bibliografia richiamata da Livrea nel comm. al nostro esametro. Per la configurazione metrica del verso, vd. Introd.IIL1.A.c.vi.

Îroiv: Si tratta di un pezzo di legno che piomba sul topo e lo schiaccia: cf. anche Aristoph. Plut. 815 (v./), Poll. VII 41, Eustath. p. 16. 40. Il vocabolo è attestato a partire da Archiloco (fr. 235 W.) e Pindaro (Οἱ. IV 7), rispettivamente a proposito di una pressa usata dal lavandai e dell'Etna che grava su Tifeo. Babrio descrive una trappola basata sullo stesso meccanismo, in merito a un lupo atti-

rato da un'esca (CXXX 7-9): rpocidyac | &ceıce τὴν «κυταλίδα καὶ χαλαεθείεοης | ῥάβδου μέτωπα οὖν τε ῥῖνας ἐπλήγη (cf. anche Eur. Hipp. 1172 ῥόπτρον con il comm. di Barrett). Diverso è il funzionamento di una trappola per topi illustrata da Oppiano (Ha/. II 156-161): qui, infatti, a cadere dall'alto è un recipiente rovesciato, che imprigiona all'improvviso la bestiola (per questo passo, vd. anche il comm. al v. 16 κρυπτὸν Erevxe δόλον).

dvôiktnvi τε μάλ᾽ εἰδότα μιαικρὸν

ἁλέιεθαι: C. spiega il meccanismo della

280

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

seconda trappola: 1ἀνδίκτης è un pezzo di legno che scatta in avanti e spiaccica il topo (vd. anche, nell'app. delle fonti, 11 lemma dedicato da Esichio alla parola). Spetta a Youtie p. 550=1040 il merito di avere scoperto che l'unica altra attestazione del termine si trova come soprannome di una persona - in un catasto fiscale su papiro (PMich. 223, 2665; vd. anche Parsons, Poesia p. 17). Il vocabolo può essere forse accostato all'aggettivo ἀνδικτήρ,

se coglie nel segno la congettura di Lobeck δούνακας ἀνδικτῆρας | (ἀντυκτῆρας cod.) presso Leonid. Tar. Anth. Pal. VI 296, 1 = HE 2271, dove pure si parla di una trappola.

μάλ᾽ εἰδότα: Cf. Hom. I. XI 710 μάλα εἰδότε. ἁλέιεθαι: Per questa forma di infinito, cf. [Opp.] Cyn. I 83*. 34 av&ivce θύρην: Da qui in poi, il filo del racconto si perde. La sequenza ovedvce va probabilmente intesa come &v&Avce piuttosto che suddivisa in ἂν ἔλυςε (vd. app.): la frase disserrò la porta può riferirsi a Molorco, che in precedenza (v. 9) ha forse udito i topi grattare la porta e adesso la apre per farli entrare e cadere nelle trappole. Per quest'uso del

verbo, cf. Ap. Rh. III 822 ἀνὰ κληῖδας ἑῶν Abecke θυράων I; un verbo simile si trova già impiegato in modo analogo presso Hom. Od. XXI 46 ἱμάντα ... ἀπέλυςε κορώνης | (a pro-

posito dell'apertura di una porta). Cf. inoltre Poll. X 27 τῷ ἀνοίγειν ταὐτὸν τὸ λύειν, ὡς ἔφη Εὐριπίδης- ‘Ade πακτὰ δωμάτων᾽ (TrGF 1003). 36 ἐνναέτης: Non sappiamo chi sia l'abitante: alla luce della probabile menzione di Cleone nel v. 37, potrebbe trattarsi di Molorco. Cf. fr. 97, 24 èvvaéta[c* con il comm. 37 KAewv]|: La sequenza di lettere rappresenta uno dei dati più significativi, sui quali si è basato Livrea per riferire il nostro frammento alla vicenda di Molorco. Con ogni probabilità, infatti, C. nomina qui la località argolica di Cleone, dove il vecchio abitava: cf. [Apollod.] II 5, 1, 1, Stat. Theb. IV 160 (con lo scolio), Nonn. Dion. XVII 52 riportati nel

comm. al fr. 145 (sarà quindi da scartare l'alternativa κλέων[ται contemplata da Pf.: vd. app.). Riguardo al passo di Stazio, vd. C. MeNelis, Statius' Thebaid and the Poetics of Civil War, Cambridge 2007, p. 84.

Non è verificabile l'ipotesi di Livrea, secondo la quale C. ambienterebbe a Cleone argiva la lotta contro i topi per alludere ironicamente al seguente aition, relativo all'omonimo borgo della penisola calcidica ed esposto da Aristotele nelle Costituzioni (cf. Heraclid. Lemb. Excerpt. Polit. 62 Dilts): quest'altra Cleone venne colonizzata da Calcidesi di Elimmo, allontanatisi dalla loro sede dopo avere subito una terribile invasione di topi (vd. anche Livrea, Polittico p. 21 s.= 181 s.).

Il toponimo Κλεωναί è un hapax omerico (JL. II 570”). La località è ancora connessa al leone nemeo da Call. Hec. fr.339 Pf. = 101 H. Κλεωναίοιο χάρωνος | (si osservi che Barigazzi p. 16 5. vorrebbe sottrarre questo frammento all'Ecale e attribuirlo a un qualche punto della nostra elegia: per la violazione della legge di Hecker, che ciò comporterebbe, vd. il comm. al fr. 19,9 Novaxpivn). Cf. poi Sen. Herc. fur. 798 Cleonaeum caput |, Lucan. IV 612 Cleonaei ... leonis | (vd. Kassel, Nachtrag), Sil. III 33 5. leonis | ... Cleonaei, Val. Fl. I 34 Cleonaeo ... hiatu |, Stat. Theb. I 487 Cleonaei ... monstri | (per il leone nemeo come monstrum, οἵ. fr. 151, 1 tépalc), Silv. IV 4, 28 Cleonaei ... sideris, Mart. IV 60, 2 Cleonaeo sidere, V 71,3 Cleonaeo ... leone |, Auson. Ecl. XXIV 1 Peiper Cleonaei ... leonis |, Claudian. In Rufin. I 285 Cleonaeum ... leonem |. Cf. anche Sen. Herc. Oet. 1811, 1891, Stat. Theb. VI 837, Silv. V 2, 49 (riportato nel comm. al fr. 148, 11), nonché forse fr. epic.

adesp. SH 948, 6 (vd. il comm. ad loc.).

COMMENTO:

Frammento

AET.IHI FRR. 149-151

281

150 (SH 260)

Considerazioni di natura papirologica rendono probabile che questo frammento e il fr. 151 occupino rispettivamente la parte superiore e inferiore della medesima colonna: in tal caso, tra ıl nostro frammento e il fr. 151 sono caduti solo tre o quattro righi, che potevano tramandare versi o scoli. Per la probabile collocazione dei frr. 150+151 in un punto dell'elegia successivo al fr. 148 e per la verisimile contiguità o vicinanza dei frr. 149 e 150, vd. rispettivamente i comm. introduttivi ai frr. 148 e 149. Vd. l'annotazione dopo il testo. Il frammento è molto esiguo e malridotto, tanto che in vari casi non si riesce a stabilire

se 1 singoli righi tramandino resti di versi callimachei o di scoli. Secondo l'interpretazione del v. 5 dubbiosamente proposta da Parsons, potremmo trovarci davanti a un discorso di Eracle a Molorco, che prosegue nel fr. 151. 1] ονεετιφ [: Se si tratta di un verso, potrebbe essere la parte finale tanto di un esametro quanto di un pentametro, contenente una qualche forma dell'aggettivo φίλος o di un suo composto (vd. app.). Nei tre successivi righi di scolio, forse qualcuno (p.es. il leone nemeo 0 Eracle) viene definito insaziabile; poco dopo, il verbo di prima persona χρήσομαι potrebbe essere un indizio del fatto che nel testo callimacheo figurava un discorso di Eracle a Molorco (vd. i comm. ai vv. seguenti). 2 |Gev . ηνδιψαρί[: Ove mai questo fosse un verso, potrebbe trattarsi di un pentametro: Parsons suggerisce di leggere e integrare ὁ] Ζεὺς cv δι(ὰν e immagina che alla fine comparisse un accusativo femminile equivalente a πενίαν (presente nel successivo rigo di scollo). Rivolgendosi a Molorco, Eracle direbbe: Zeus ... a causa della tua povertà. Νά. app., nonché il comm. al fr. 153, 4. 3 | .eicivaßwıoc . „|: Potremmo essere al cospetto di un esametro, nel quale figurava forse la parola ἀθώϊος (impunito/a oppure illesola). Per la forma quadrisillabica dell'aggettivo (attestato in poesia già presso Soph. TrGF 128a), cf. IG XII 8, 265. 6 (Taso, IV sec. a.C.) al.; si può inoltre richiamare lo stesso Call. Jamb.fr. 195, 22 Pf. θωϊή (vd. il comm.

di

Livrea). Vd. app. Come osserva Parsons, forse Eracle garantisce a Molorco che uscirä illeso dallo scontro

con il leone.

4 o]drıcı δῶκαλυρ

[: È questo l'unico rigo del frammento, per il quale possiamo

dire con certezza che si tratta di un verso, cioè del secondo colon di un pentametro. Dopo

oJörıcı sono possibili varie divisioni delle lettere: δῶκα λύρη[ν (diedi la lira), δῶκα λύρο[ν (diedi la piantaggine), $@x(0) oppure δῶκ(ε) dAvpolv (diedile privo di lira); vd. app. Come nota Parsons, forse Eracle - riferendosi al suo imminente scontro con il leone dice a Molorco che finora non ha mai dato sul proprio conto notizie funeste, e quindi tali da far tacere il suono festoso della lira (si potrebbe cogliere qui un ironico accenno alla proverbiale avversione di Eracle nei confronti della lira: cf. fr. 25, 5 wc cd λύρης con il comm.). L'aggettivo &Avpoc è attestato per la prima volta in tragedia (Soph. Oed. Col. 1222, Eur. Alc. 447 al). 5] .ıv uoryepov [: Questo è forse il residuo di un esametro, nel quale Eracle apostrofa Molorco con le parole ἐμοί, γέρον (vd. app.). Per il vocativo γέρον attribuito dall'eroe al contadino, cf. frr. 154, 3 e 156, 10*.

Frammento

151 (333 Pf. + 557 Pf. + SH 260A)

Il frammento (per la cui collocazione vd. il comm. introduttivo al fr. 150) sembra contenere un discorso di Eracle a Molorco - forse già intrapreso nel fr. 150 -, che viene pronun-

282

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ciato nell'imminenza dello scontro con il leone nemeo (probabilmente dopo una notte trascorsa in casa del contadino).

L'eroe afferma che, se ucciderà la terribile belva, darà sol-

lievo agli Argivi; come Melampo, guarendo l'impotenza di Ificlo, ebbe in premio la sua mandria per poi donarla al proprio fratello Biante, così Eracle, vincendo il leone, renderà Molorco possessore di buoi (perché lo libererà dalla paura di praticare la pastorizia); anche se la lotta si rivelerà ancora più ardua del previsto, Eracle avrà la meglio sulla fiera e dimostrerà di essere veramente figlio di Zeus (vv. 1-10). Nel v. 11 l'eroe prospetta invece l'altra eventualità, cioè che il leone lo uccida. A partire dal v. 12 il testo diviene molto lacunoso,

tanto che non si riesce a stabilire se 1 singoli righi tramandino resti di versi callimachei o di scoli. Ecco il possibile contenuto di questa sezione: se la belva avrà il sopravvento, Eracle prescrive a Molorco di sacrificare in suo onore l'ariete, che voleva offrirgli per cena quando è arrivato a casa sua (cf. fr. 145). 1 κανὼν tépa[c: È probabile che Eracle, rivolgendosi a Molorco, utilizzi la frase avendo ucciso il mostro per riferirsi alla sua possibile vittoria futura sul leone nemeo. La straordinaria ferocia della belva viene espressa dal sostantivo τέρας, il cui impiego nel nostro esametro influisce su [Theocr.] XXV 168* e 214* (per il primo passo, vd. il comm. al fr. 148, 21 e Conti Bizzarro p. 330): allo stesso modo il leone nemeo viene definito monstrum nella poesia latina (cf. Stat. Theb.I 487 (riportato nel comm. al fr. 149, 37), Mart. IV 57,5, V 65,9). Sùbito dopo, l'eroe dà della fiera una definizione alternativa altrettanto ica-

stica (v. 2 ᾿Αργείιων ... gLamv). κανών:

Il verbo

si riscontra a partire dalla poesia lirica (Timocr.

PMG

727, 9, Carm.

conv. PMG 895, 4) e tragica (Aesch. Ag. 1562 al.). C. ne fa uso anche in Dian. 12 e forse nel fr. 148, 22. Cf. inoltre Theocr. XXIV

92*, Antip. Sid. Anth. Pal. VII 745, 9 = HE 294*,

fr. epic. adesp. CA 2, 21 p. 73, SGO I 06/02/30 v. 9. τέρας: Per il significato di mostro, cf. già Hom. Il. V 742*, XII 209*, [Hom.] Hymn. 1Π 302. La parola ha il medesimo senso nel fr. inc. sed. 621 Pf. di C. ( εἰμὶ τέρας Καλυδῶνος, a proposito del cinghiale) e in vari passi dei poeti ellenistici e imperiali: cf. oltre ai due brani pseudo-teocritei citati sopra - Ap. Rh. I 258* al., Nic. Ther. 463*, Mel. Anth. Pal. V 178,7 = HE 4206, Archel. SH 129, 4 = FGE 74, Dion. Per. 604, [Orph.] Arg. 928* al., Opp. Hal. II 594* al., Triph. 289*, Quint. Smyrn. V 43 al., Greg. Naz. Carm.II

1,

11, 753 (PG 37 p. 1081), Nonn. Dion. IV 342*, XXXI 10*.

2 εἴτε μιν

᾿Αργείιων

χρή

u(e) καλεῖν

ἀιάτην: Poiché nel PLille lo scolio a

questo verso spiega le parole di C. con la frase καλεῖν δεῖ, Parsons ha corretto in xpnue la lezione xpnuo offerta dal papiro, identificando qui un pentametro callimacheo tramandato da Erodiano. Il PLille dimostra che Hecker aveva ragione a emendare in χρή pe la corruttela χρῆ μὲν, presente nel testo del grammatico. Vd. app. delle fonti e app. Quando il nostro verso era noto solamente per la testimonianza erodianea e si ignorava in quale contesto C. lo impiegasse, la sua interpretazione generava non poche perplessità. Ci si chiedeva innanzitutto se la parola ᾿Αργείων si riferisse specificamente agli Argivi del Peloponneso (come nel fr. 30, 12) o in generale ai Greci. Molti, al séguito di Lehrs, pensavano che il pronome uw designasse Elena (cf. Eur. Andr. 103, Tr. 940 s.); Dilthey p. 39 s., nel discutere il gusto callimacheo di assegnare etimologie al nomi propri (vd. 1 comm. a Hec. fr.231, 2 Pf.= 2,2 H.), ipotizzava che qui il poeta mettesse in atto un gioco verbale a proposito di un qualche nome, quale appunto quello di Elena. Grazie al PLille, vediamo ora che con ogni probabilità il nostro pentametro riguarda il leone nemeo (fra l'altro, a quanto pare, lo scolio papiraceo indica che qui uw equivale ad

COMMENTO:

AET.II FR. 151

283

αὐτόν): rivolgendosi a Molorco, Eracle dice di potere a buon diritto chiamare la fiera rovina degli Argivi (intesi nello specifico come abitanti dell'Argolide, contro 1 quali Era ha scatenato la belva: cf. fr. 146 con il comm. introduttivo). La proposizione è introdotta dalla disgiuntiva eite, che forse era preceduta o seguita da un altro eite. Accingendosi allo scontro con la terribile fiera, Eracle la definisce prima tépe[c (v. 1) e poi - con pari icasticità -

᾿Αργείων … ἀιάτην. Per l'espressione, cf. p.es. Plut. Alex. III 7 (parole dei magi di Efeso a proposito di Ales-

sandro) ἄτην ἅμα καὶ cougopàv μεγάλην τῇ ᾿Δείᾳ. La perifrasi applicata da C. al leone nemeo riecheggia nella poesia latina: cf. Ov. Her. IX 63 pestis Nemeaea, Sen. Herc. fur. 224 Nemeae timor |, Herc. Oet. 1193 | Nemeaea 71,7 terror Nemees.

... pestis, Mart. V 65, 2 Nemees

terror, IX

ἀιάτην: Le osservazioni di Erodiano su ἀάτη e ἄτη (vd. app. delle fonti) non sono condivise da altri grammatici: cf. Philoxen. fr. 452 e fr. dub. 644 Theodoridis, nonché Et. Gud. p. 226. 7 de Stef. con l'annotazione. La forma con doppio a/pha non è attestata altrove: W. Schulze, Quaestiones epicae (Gueterslohae 1892), p. 443 s. ne ipotizzò la presenza nelle opere omeriche ed esiodee; A. Meineke propose di correggere ἥδ᾽ Τἄτη in ñ ἀάτη (con sinalefe) presso Arch. fr. 127 W. 3] ovarte apnyetre [: Se si accolgono la correzione e i supplementi proposti da Meillier e da L.J.-P. (vd. app.), il secondo emistichio dell'esametro potrebbe essere rap’

Nxnev[tı Χαράδρῳ (il Caradro è un fiume argivo, cf. Euph. SH 430 II 29 con il comm. di L.J.-P.): forse Eracle dice a Molorco che, se ucciderà il leone nemeo (v. 1 s.), coloro 1 quali abitano presso il risuonante Caradro (cioè gli Argivi) avranno sollievo. Come risulta proprio dalla revisione del papiro che tramanda SH 430 (un commento alle Chiliadi di Euforione), C. parlava del Caradro nell'opera Περὶ ποταμῶν (fr. gramm. 457 Pf., vd. il comm. di L.J.-P. a SH 430 1 27-31).

4 Aavaod

φρείατι

πὰρ

ueye[A-:

Qualora alla fine si integrasse μεγάλου

o

ueyà[A (vd. app.), il passo potrebbe significare presso il pozzo del grande Danao oppure presso il grande pozzo di Danao: forse Eracle - nel rivolgersi a Molorco - afferma che, se ucciderà il leone nemeo (v. 1 s.), coloro 1 quali abitano presso il pozzo dell'antico re argivo Danao (cioè appunto gli Argivi) saranno liberati da quel flagello. La frase callimachea si spiega alla luce della tradizione, secondo la quale Danao individuò le falde acquifere e insegnò ai suoi sudditi lo scavo dei pozzi: cf. Strab. I 23, Plin. Nat. hist. VII 195, Nonn. Dion.

IV 254-259 e vd. Stephens p. 99. Secondo la versione esiodea del mito (fr. 128 M.-W. ap. Strab. VIII 371), 1 pozzi vennero scavati su impulso delle figlie di Danao; lo stesso C. (frr. 164-165) racconta che quattro di queste fanciulle diedero nome ad altrettante fonti argive (vd. il comm. al fr. 165, 7 s.). Danao

risulta menzionato

altre due volte nella Vittoria di Berenice:

cf. frr.

143, 4* e

144, 6*. È soprattutto notevole il secondo di questi brani, dove probabilmente si parla del personaggio in quanto padre delle suddette ragazze. φρείατι: Il vocabolo φρέαρ è un hapax omerico (Il. XXI 197; cf. anche [Hom.] Hymn. II 99). Per la forma contratta φρητί, cf. fr. inc. sed. 266 con il comm.

5 s. Ἰ]φίκλειος

ἀδελφε(ι)γοῖο veu

| | Jeundac

ἀντι γετης γε : L'acume di

Parsons ha individuato un possibile legame tematico fra il nostro distico, dov'è inaspettatamente menzionato Ificlo, e 1 versi precedenti e successivi. Rivolgendosi a Molorco, Eracle

sembra rievocare il seguente episodio: Melampo, quando suo fratello (cf. qui ἀδελφε()οῖο) Biante voleva procurarsi le vacche di Filaco, curò l'impotenza di Ificlo, figlio di Filaco, ra-

284

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

schiando via (cf. qui Ἰεμήξᾳας) della ruggine da un coltello, e ottenne in premio la mandria, per poi donarla a Biante; a quanto pare, Fracle afferma che - se avrà la meglio sul leone nemeo - consentirà a Molorco di dedicarsi nuovamente senza timore alla pastorizia e di possedere buoi (cf. v. 8) proprio come Melampo. La testimonianza più completa sul mito di Melampo e Ificlo ci è fornita da Ferecide di Atene (FGrHist 3 F 33 = EGM fr.33 ap. Schol. (MV) Hom. Od. XI 287): ıl re di Pilo Neleo stabilisce che darà in sposa sua figlia Pero solo a colui che sottrarrà al tessalo Ificlo le vacche possedute un tempo da Tiro, la madre di Neleo; Biante promette a Neleo che gli consegnerà le bestie e chiede a suo fratello, l'indovino Melampo, di compiere l'impresa per suo conto; costui, sorpreso a rubare le vacche, finisce in carcere; dopo circa un anno di prigio-

mia, Melampo - il quale comprende la voce degli animali - sente dire da alcuni tarli che la trave di sostegno del carcere è quasi totalmente consumata e perciò si fa portare fuori dalla prigione, appena prima che questa crolli; Ificlo e suo padre Filaco, saputa la cosa, promettono a Melampo di dargli la mandria, se riuscirà a curare l'impotenza di Ificlo; Melampo apprende da un avvoltoio la ragione del malanno: una volta, quando Ificlo era bambino, Filaco - preso dall'ira - lo inseguì con in mano un coltello, che dopo conficcò in un pero selvatico (la cui corteccia è poi cresciuta intorno all'arma), e Ificlo divenne impotente per lo spavento; l'avvoltoio prescrive a Melampo di recuperare il coltello, di raschiarne la ruggine e di darla da bere nel vino a Ificlo per dieci giorni come medicina (τὴν μάχαιραν τὴν ἐν τῇ

ἀχέρδῳ κομίζειν καὶ ἀποομήξαντα τὸν ἰὸν διδόναι ἀπ᾿ αὐτῆς πιεῖν ἐν οἴνῳ δέκα ἡμέρας Ἰφίκλῳ. yevicecdar γὰρ αὐτῷ παῖδας ἐκ τούτου); eseguita la cura, Ificlo ritrova la forza generativa e cede le vacche a Melampo; questi le consegna a Neleo e ne riceve in cambio Pero, che sposa Biante.

Una versione molto simile figura presso lo pseudo-Apollodoro (I, 9, 12), nel cui resoconto l'unica differenza significativa riguarda i motivi dell'impotenza di Ificlo: quando questi era piccolo, Filaco - intento a castrare dei montoni - gli posò accanto il coltello ancora sporco di sangue, sicché il bambino fuggì impaurito; Filaco piantò l'arma nella quercia sacra, che la ricoprì poi con la sua corteccia. Anche gli scoli a Theocr. III 43-45 offrono (ma in forma condensata) un racconto analogo a quello di Ferecide e ne differiscono solo quando spiegano l'origine del malanno di Ificlo: Filaco stava tagliando la legna e, per allontanare da sé il piccolo figlio, 51 slanciò a conficcare in un albero il coltello che aveva in mano, ma colpì per errore 1 genitali di Ificlo. Il mito è sinteticamente rievocato in due luoghi di Pausania (IV 36, 2-3 e X 31, 10).

Ma la storia di Melampo e Ificlo è già attestata in due punti dell'Odissea omerica e in tre passi del corpus esiodeo. Ecco il contenuto del primo luogo odissiaco (XI 287-297): 1] re di Pilo Neleo decide di dare in sposa sua figlia Pero solo a chi gli porterà le vacche del tessalo Ificlo; il vate Melampo tenta l'impresa, ma viene fatto prigioniero; dopo un anno Ificlo lo libera, per avere constatato le sue facoltà oracolari. Questo è il racconto offerto nel secondo

passo (XV 225-238): il vate Melampo viene imprigionato da Filaco a causa della figlia di Neleo, ma riesce a portare a Pilo le vacche di Filaco e a procurare una sposa a suo fratello. Nel Catalogo delle donne (fr. 37, 1-9 M.-W.) Esiodo narra così: Melampo subisce la prigionia per procurarsi le vacche che consentono al fratello Biante di sposare Pero. Le Grandi Eoie esiodee (fr. 261 M.-W.) contenevano questa versione del mito: il vate Melampo cerca di rubare le vacche di Ificlo, ma viene imprigionato; predice che il soffitto della casa di Ificlo crollerà e in questo modo lo salva; Ificlo lo libera e gli dà le vacche. La guarigione di Ificlo per opera di Melampo viene menzionata nella Melampodia esiodea (fr. 272 M.-W.).

COMMENTO:

AET.II FR. 151

285

Anche Apollonio Rodio (I 118-121) accenna alla storia, perché annovera tra gli Argonauti i figli di Biante e di Pero, nata da Neleo, per la quale Melampo patì nelle stalle di Ificlo (cf. inoltre Prop. II 3, 51-54). Vd. in generale I. Löffler, Die Melampodie. Versuch einer Rekonstruktion des Inhalts (Meisenheim am Glan 1963). Per quanto riguarda il giro sintattico del nostro distico, bisogna innanzitutto osservare che l'aggetivo Ἰ]φίκλειος doveva riferirsi a un sostantivo, posto forse all'inizio o alla fine dell'esametro: le due parole designavano probabilmente Melampo. È inoltre ipotizzabile che il soggetto, così costituito, si accompagnasse a un verbo di modo finito, collocabile anch'esso al principio o alla conclusione del v. 5. Il genitivo ἀδελφε(οῖο poteva collegarsi o al sostantivo o al verbo in questione: nella prima ipotesi, avremmo p.es. il soccorritore ificlio del fratello (immaginando che il verbo occupasse l'inizio dell'esametro, Parsons propone dubbiosamente di integrare veun[tüc, ma ammette che il senso del termine non è del tutto adeguato); in base alla seconda ricostruzione, avremmo p.es. il medico ificlio aiutò il fratello (supponendo che il sostantivo si trovasse al principio del v. 5, Parsons suggerisce con molte riserve di integrare un verbo come veué[cco, ma riconosce che anche in questo caso il significato della parola non pare confacente). Nel v. 6 è verisimile che il probabile participio Ἰςμήξας abbia per soggetto ancora Melampo, il quale guarì Ificlo pulendo la rug-

gine del coltello (cf. ἀποομήξαντα τὸν ἰόν nel passo di Ferecide riportato sopra). Per il secondo colon del pentametro, Parsons propone le letture e i supplementi ἀντί ye τῆς ye[vefic

oppure ἀντί γ᾽ ἐτῆς ye[vefic: Melampo guarì Ificlo con la ruggine in cambio della riproduzione oppure in cambio di vera riproduzione. Una diversa esegesi del distico è stata di recente proposta da Durbec, Interpretation, che nel v. 5 ravvisa un genitivo ἸΪφικλεῖος (sulla base del fr. epic. adesp. SH 903 A, 11 =

Merop. fr. 3, 4, I p. &ôekpetooîo

134 Bernabé

‘Hpaxkeioc)

a Ificle, fratello di Fracle.

e riferisce la sequenza

Accettando

le integrazioni

ἸΪ]φικλεῖος

esemplificative

di

Parsons, Durbec ritiene che Fracle nel v. 5 rivendichi la sua discendenza da Zeus, estranea

a Ificle, e nel v. 6 rievochi l'uccisione infantile dei due serpenti (dei quali egli avrebbe asciugato il veleno per sempre), impresa eroica da lui compiuta a compensazione della sua nascita successiva a quella di Ificle. Questa interpretazione, per quanto abbia il merito di chiamare in causa Ificle (che è certo più facilmente collegabile a Eracle di quanto non lo sia Ificlo), urta contro una serie di difficoltà: il genitivo Ἰ]φικλεῖος è dubbio sul piano morfologico (si osservi che nell'edizione di Bernabé la forma "Hpaxkeioc, risultante dal papiro della Meropide, si trova corretta in ‘HpaxAfoc); non è plausibile che Eracle si glori qui della sua nascita da Zeus (se davvero questo senso è estrapolabile dai supplementi di Parsons), per poi tornare sullo stesso tema nel v. 10; il richiamo all'uccisione dei serpenti e alla sua funzione di risarcimento per la nascita ritardata di Fracle sarebbe troppo ellittico e comunque espresso in maniera contorta; la scomparsa del riferimento alle vacche di Filaco fa perdere un importante aggancio al successivo Bovktéavolc (v. 8). Trovo dunque preferibile l'interpretazione complessiva di Parsons. Vd. in generale l'app.

5 Ἰ]φίκλειοο: L'aggettivo ricorre già presso Hom. Od. XI 290 βίης Ἰφικληείης I, 296 Bin TouwAnein |: i vv. 287-297 dell'undicesimo libro dell'Odissea sono con ogni probabilità tenuti presenti da C. nel nostro passo (vd. il comm. al v. 5 s.). La parola è utilizzata - con riferimento al medesimo personaggio - dallo stesso Call. fr. 174, 46 ’IgixAewv*. Un carme intitolato /ficlo venne composto da Partenio: ce ne rimane un solo frammento (SH 635 = fr. 23 Lightfoot).

ἀδελφε(ι)οῖο: Per la forma, cf. fr. 19, 6 ἀδελίφει-.

286

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

6 ]cunEac: Il verbo cuñxo è un hapax omerico (Od. VI 226; nel nostro pentametro potrebbe anche trattarsi di un composto). C. utilizza l'affine cuci in Lav. 32 cuacaueva (vd. il comm. di Bulloch). yernc: Se le lettere vanno divise in γ᾽ ἐτῆς, cf. fr. 174, 39 ἐτῶς con il comm.

7] πελάεσαιμι μόνον περιβα[: L'ottativo spetta forse alla protasi di un periodo ipotetico, la cui apodosi potrebbe riconoscersi nel v. 8. Non è chiaro se il verbo abbia qui valore intransitivo (mi accostassi) o transitivo (accostassi). In ogni caso, forse Fracle dice a Molorco che - se soltanto affronterà il leone nemeo - Molorco stesso potrà presto possedere buoi (v. 8), libero da ogni paura. Parsons

osserva che, con reÀdGcauu

transitivo, sarebbe

lecito il supplemento περὶ βάκτρον (vd. app.), in modo da ottenere il seguente significato: se soltanto accostassi

la clava

intorno

al leone.

Si noti che, presso

[Theocr.]

XXV

207,

Eracle muove contro la belva impugnando sia l'arco sia il βάκτρον: colpendo con la clava la testa della fiera (v. 255), egli la stordisce prima di soffocarla. Stando a Nigid. Figul. fr. 93 Swoboda (riportato nel comm. al fr. 145), Eracle uccise il leone con la clava; secondo [Apollod.] II 5, 1, 3 (riportato nel medesimo comm.), l'eroe inseguì la belva brandendo la

clava e poi la soffocò. Per il soffocamento della fiera, cf. lo stesso Call. Ep. XXXIV HE 1551 λεοντάγχ᾽ ὦνα (apostrofe a Eracle).

1 Pf. =

8 Ecealı) καὶ τάχα βουκτέανοί[ε: A quanto pare, Eracle promette a Molorco che sarà presto possessore di buoi, se 1] leone nemeo morrà per sua mano (l'uccisione della belva, cioè, gli consentirà di praticare tranquillamente la pastorizia). Questa prospettiva deve sembrare assai allettante al contadino, che adesso ha un solo ariete (cf. fr. 145) e - per paura della fiera - tiene le sue capre chiuse negli ovili (cf. fr. 148, 27-32). Fabbrini p. 203 collega il nostro verso a Mart. IV 64, 29 s. pios Penates | ... facti modo divitis Molorchi | (vd. il comm. al fr. 145) e osserva giustamente: «Il riferimento da parte di Marziale all'arricchimento di Molorco trova ... un puntuale riscontro nel racconto di Callimaco, ed anzi a tale racconto sembra propriamente alludere presentando come realizzata la previsione dell'Ercole callimacheo». Ëcea(r}: All'interno dei poemi omerici questa forma compare solo in #7. I 563 e IX 605. C. la impiega anche nell'Ep. X 2 Pf. = HE 1200.

Bovrt£avolc: La parola è un hapax. 9 ἔτι μᾶλλον ἐπικλίε fivéc ἐιετι τάλαντον

(7): Poiché nel papiro l'ultima let-

tera leggibile del verso potrebbe essere un epsilon, il secondo emistichio dell'esametro corrisponde forse alla citazione callimachea ἐπικλινές &crı τάλαντον, tramandata soltanto dal lessico di Suda (che non specifica da quale opera essa provenga). Data questa circostanza, il frammento era stato inserito nell'Ecale in base alla legge di Hecker: può darsi che C. utilizzasse le medesime parole negli Aitia e nell'Ecale (fr. 134 H.). Vd. app., nonché 1 comm. ai frr. 19,9 Novoxpivn e 148, 33. Si osservi tuttavia che, sul piano paleografico, l'ultima traccia del verso sembra adattarsi a un omicron o a un theta piuttosto che a un epsilon: ciò rende dubbia l'identificazione del nostro passo con la citazione di Suida. Nel caso la lettera in questione sia theta, qui si potrebbe riconoscere la forma verbale tua {e}ivec@[ (il verbo ἐπικλίνω è un hapax sia omerico sia esiodeo: cf. Hom. I. XII 121 e Hes. fr. 145, 16 M.W.). Vd. in generale l'app.

D'altra parte, la frase ἐπικλινές Écrit τάλαντον sembra del tutto adeguata al probabile contesto del nostro esametro, perché Suida - nel riportare le parole callimachee - precisa che esse vanno intese in malam partem. A quanto pare, Eracle dice a Molorco che, seppure la bilancia è inclinata ancora di più a suo danno (cioè se l'incombente scontro con il leone

COMMENTO:

AET.II FR. 151

287

si rivelerà ancora più duro di quanto immagina), mostrerà di essere davvero figlio di Zeus (v. 10), uccidendo la fiera. ἔτι μᾶλλον: Per l'impiego del nesso in questa posizione metrica, cf. Hom. Od. TX 13 al.

ἐπικλίε)}ινές ἐϊετι τάλαντον: A quanto pare, C. riecheggia Hom. I. XIX 223 5. ἐπὴν κλίνῃει τάλαντα | Ζεύς sia per la forma sia per il contenuto: come nel passo iliadico si dice che Zeus determina con le sue bilance l'esito delle battaglie, così qui Eracle sembra mettere in risalto la pericolosità della sua imminente lotta contro il leone nemeo. Perla quantità breve dell'ultimo iota di ἐπικλινέε, cf. Leonid. Tar. HE 2468 κατακλινής | e Maneth. VI 62 ἀποκλινέος. Nel corpus omerico il vocabolo τάλαντον occupa per lo più la fine dell'esametro come nel nostro passo, ma - quando significa bilancia - è di numero

plurale (Hom. 77. VIII 69 = XXII 209*, XII 433, XVI 658*, XIX 223*, [Hom.] Hymn. IV 324*: sempre a proposito della bilancia di Zeus, tranne che in //. XII 433). Per l'uso del singolare in questo senso, cf. [Theogn.] 157, Aesch. Suppl. 823, Aristoph. Ran. 797 (nei primi due luoghi si tratta della bilancia di Zeus). Il nostro brano sembra avere influito su Greg. Naz.

Carm. I 2, 1, 364 (PG 37 p. 549)

ἔνθα καὶ ἔνθα τάλαντον ἐπικλίνουει θέμιετος. 10 ze[ilco Ζεὺς ὅτι naıdoyölvoc: Nell'imminenza del durissimo scontro con il leone nemeo, Eracle sembra dire a Molorco che dimostrerà di essere veramente nato da Zeus,

uccidendo la belva (per la fraiectio di ὅτι, vd. il comm. al fr. 1, 11 Μίμνερμος ὅτι). La lettura e l'integrazione re[t]c@® sono incerte, ma vengono corroborate dalla sequenza εὐπειθη .[, presente nello scolio del PLille (vd. app.). Sul piano formale C. si ispira a Eur. Suppl. 628

s.

io Zed ... | παιδογόνε nöpıoc Ἰνάχου e influisce a sua volta su Nonn. Dion. XXXI 278

παιδοτόκος Ζεύς I. Ma (come ha segnalato Magnelli, Eracle) qui C. si mostra debitore di Euripide anche per i contenuti, perché nel v. 838 5. dell'Alcesti Eracle - prima di recarsi ad affrontare Thanatos - in presenza del servo si rivolge così al proprio cuore e alla propria

mano: | νῦν δεῖξον οἷον παῖδά ε΄...

ἐγείνατ᾽ ... ᾿Αλκμήνη Au |.

Il nesso fra l'eccezionale eroismo di Fracle e il suo essere figlio di Zeus risulta anche dall'apostrofe che gli rivolgono 1 Sali nell'Eneide di Virgilio (VIII 301 | salve, vera lovis proles) e da vari passi tragici di Seneca: cf. Herc. fur.36 (Giunone parla delle fatiche che ha inflitto a Ercole) | patrem probavi, 446 (Anfitrione parla delle tante Imprese di Ercole) nondum liquet de patre? mentimur Iovem?, Herc. Oet. 8-10 (Ercole si rivolge a Giove) parui certe love | ubique dignus teque testata est meum | patrem noverca, 791 (idem) | non false ... genitor, 1303 (idem) patrem verum, 1499 s. (Ercole si rivolge ad Alcmena) virtute nostra paelicem feci tuam | credi novercam. Del resto, il concetto espresso da Eracle richiama Hom. Il. XIII 449 ὄφρα ἴδῃ οἷος

Ζηνὸς γόνος ἐνθάδ᾽ ἱκάνω (parole di Idomeneo) e - per contrasto - Hom. I. V 636 ψευδόμενοι dé cé paci Διὸς γόνον αἰγιόχοιο (Tlepolemo a Sarpedone). Tissoni, Nonno p. 233 s. adduce Nonn. Dion. XLVI 44-46. raıdoyö|lvoc: Dopo il passo euripideo riportato sopra, in poesia il vocabolo ricorre presso Theocr.

Ep. IV 4 Gow, Dioscorid. Anth. Pal. V 54, 2 = HE

1498, [Phocylid.] Sent.

187, [Orph.]fr. 257, 2, II 1 p. 222 Bernabé, Nonn. Dion. XIV 200, XXV 317, XXVI 265, XXVII 272 (sempre con riferimento agli organi riproduttivi o all'atto sessuale). 11]...... éco è’ ὑπ᾽ ὀδόντ[ι: Eracle, che sin dall'inizio del frammento ha prospettato a Molorco la sua possibile vittoria sul leone nemeo, menziona qui l'eventualità contraria. Le parole leggibili (e cadrò sotto la zanna) rendono molto probabile il supplemento λέοντος oppure x&pwvoc, proposto da Parsons per la fine dell'esametro. Assai convincenti

288

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

sono anche la lettura e l'integrazione E[dpvc0f1, suggerite da Parsons prima di réc@ (vd. app.). È verisimile che il nostro verso contenesse una proposizione ipotetica, il cui contenuto era all'incirca il seguente: se invece compiacerò Euristeo e cadrò sotto la zanna del leone. Nella sezione successiva, Eracle sembra prescrivere a Molorco ciò che dovrà fare se il

leone lo ucciderà (vd. il comm. ai vv. 12-21). πέςω: Il valore pregnante del verbo (nel senso di cadere morto) è già riscontrabile nell'explicit omerico πῖπτε δὲ λαός (Il. VII 67 al.). L'uso è frequente presso i poeti successivi: cf. p.es. Theocr. III 53 al., Ap. Rh. I 1056 al., Dion. Per. 373, Triph. 27 al., Quint. Smyrn. I

187 al.

ὀδόντ[ι: Il sostantivo designa la zanna di un leone presso Pind. Nem. IV 64, Lyc. 215, [Theocr.] XXV

234 (dove sı parla - come qui - del leone nemeo), Quint. Smyrn. II 333 e

nel Carm. Anacreont. XXIV 4 West; cf. inoltre Call. Dian. 220 θηρὸς ὀδόντας | (le zanne del cinghiale calidonio). Come si è detto, Parsons propone di chiudere l'esametro con il supplemento x&pwvoc: a sostegno di quest'idea è possibile richiamare Call. Hec. fr. 339 Pf. = 101 H. Κλεωναίοιο χάρωνος |, dove si parla appunto del leone nemeo (per questo frammento, vd. il comm. al fr. 149, 37). D'altra parte, il sostantivo χάρων si riferisce alla belva nemea già presso Licofrone (v. 455) e pol presso Euforione (CA fr. 84, 4 p. 45; vd. Magnelli, Studip. 30 e 1 comm. al frr. 147 e 156, 5 s.). 12-21: Le vestigia di questi righi sono così esigue e malridotte che, per ciascuno di essi, non riusciamo a stabilire con certezza se si tratti di un verso o di uno scolio. Parsons ha suggerito una ricostruzione plausibile della sezione, mettendo a confronto il v. 16 s. (la bestia che (?) a me (?) ... ospitalità) con il commento dello pseudo-Probo a Verg. Georg. II 19 s., che espone sinteticamente la trattazione callimachea del mito di Eracle e Molorco (fr. 145), e con [Apollod.] II 5, 1, 2 (riportato nel comm.

al fr. 145), che narra la medesima vi-

cenda senza fare riferimento a C. Ecco dunque il possibile contenuto del nostro passo: recandosi ad affrontare il leone nemeo, Fracle menziona a Molorco l'unico ariete in suo pos-

sesso ([Prob.]), che ıl contadino voleva inizialmente uccidere per offrire all'eroe un'ospitalità più generosa ([Prob.]), e gli prescrive di sacrificarlo al suo spirito ( [Prob.]: ἥρωι [Apollod.]) se verrà sconfitto dalla belva (cf. v. 11), oppure a lui stesso come a un dio ovvero a Zeus Salvatore (victori tamquam deo [Prob.]: Διὶ corfipi [Apollod.]) se ammazzerà la fiera. 13 . . wncal: Si potrebbe leggere θοίνης (del banchetto) o anche Boivñcalto (banchettö): vd. app. Entrambi i vocaboli sarebbero adatti a descrivere il lauto pasto che Molorco voleva originariamente offrire a Eracle (vd. il comm. ai vv. 12-21). Il verbo θοινάομαι è un hapax omerico (Od. IV 36), mentre il vocabolo θοίνη non compare nei poemi omerici ed esiodei (ma cf. [Hom.] Batr. 40, [Hes.] Scut.114). 15 teyzoc|: Potrebbe trattarsi del genitivo di τέγος (tetto) o del nominativo τέγεος (vicino al tetto: Il. VI 248, hapax omerico). La parola designa forse la casa di Molorco, in un contesto del genere: quando Fracle è entrato nella capanna del vecchio, costui era intenzionato a imbandirgli per cena il suo unico ariete (cf. v. 16).

16 ]ouor Boröv: Parsons propone di integrare e dividere τ]ό μοι Botév (vd. app.). Forse Eracle dice a Molorco: la bestia che per me volevi uccidere, allo scopo di offrirmi la tua ospitalità (v. 17), riservala per un sacrificio successivo (vd. il comm. ai vv. 12-21). Per il vocabolo βοτόν, vd. il comm. al fr. 215, 5 v&uovri Bora.

17 ξ]εινοεύνηεα ricorre altrove.

[: Il vocabolo ξεινοούνη è un hapax omerico (Od. XXI 35) e non

COMMENTO:

AET. II FRR. 151-154

289

18 ] .eocöo . .c: Per quanto riguarda la possibile lettura £eocôotoc (vd. app.), si noti che l'aggettivo è un hapax esiodeo (Op. 320). 19 vo [ ]voc: Il rigo sembra spettare a uno scolio. La possibile lettura Ovor[o]ıöc (vd. app.) non risulta attestata altrove: il vocabolo parrebbe riferirsi a Molorco, che dovrà compiere 1 sacrifici prescritti da Fracle. 21 „veiv: Il rigo sembra spettare a uno scolio. È verisimile la lettura θύειν (vd. app.): il verbo si adatta al probabile contenuto del nostro passo (vd. il comm. al v. 19).

Frammenti 152-153 Questi frammenti

sono tramandati da due frustuli del PLille, la cui collocazione all'in-

terno della Vittoria di Berenice non è determinabile. Data la loro esiguitä e il loro pessimo stato di conservazione, non è quasi mai possibile stabilire se 1 singoli righi tramandino resti di versi callimachei o di scoli. Vd. in generale gli app. e le annotazioni dopo 1 testi.

Frammento

153 (SH 263)

4 Il rigo successivo a questo contiene sicuramente le vestigia di gura la parola poetica πενιχρόν, che è forse un lemma desunto dal poteva riferirsi a Molorco: cf. fr. 149, 25, lo scolio al fr. 150, 2 e [Apollod.] II 5, 1, 1 e Schol. Stat. Theb. IV 159-160. Per l'impiego callimachea, vd. il comm. al fr. 25, 4 πενιχροῦ.

Frammento

uno scolio: in esso fitesto di C. L'aggettivo nel comm. al fr. 145 della parola nell'opera

154 (57 Pf. = SH 264)

Arrivato al punto

culminante

del mito, cioè la lotta fra Fracle e il leone nemeo,

C. -

come gli è proprio - delude le aspettative comuni e omette (o almeno liquida in poche parole) il racconto di questo episodio celebrato dalla tradizione. Proprio fondandosi sull'estrema notorietà dell'impresa, C. - a quanto sembra - esorta il lettore a colmare autonomamente la lacuna narrativa e a ridurre così l'estensione del carme. C. dichiara invece che riferirà le risposte fornite da Fracle alle domande di Molorco, quando ritornò da lui dopo avere compiuto la fatica (con ogni verisimiglianza la parte finale del discorso di Eracle è riconoscibile nel fr. 156, 13: vd. l'annotazione dopo il testo). Ma le prime parole dell'eroe ci riservano una nuova sorpresa: rivolgendosi al vecchio, che lo vede arrivare con la pelle della fiera ed è certamente ansioso di sentire come si è svolto lo scontro, Eracle ne rimanda l'esposizione al successivo banchetto, mentre comincia

sùbito a dirgli che cosa la dea Atena (apparsagli in occasione del suo cimento) gli ha vaticinato riguardo alle future gare nemee e alla corona di apio che di esse costituirà il premio (cf. frr. 155-156; dai vv. 10-15 del fr. 156 si deduce che C. non presenterà Fracle nell'atto di descrivere la sua fatica al contadino). C. e l'eroe, dunque, danno vita a una doppia aposiopesi. Analogamente, nei vv. 10 e 15 del fr. 89, un primo e un secondo narratore esprimono una duplice asseverazione (vd. i comm. ad locc.). Vd. Fuhrer p. 125, Harder p. 100, Harder, Intertextuality p. 201, Harder, Callimachus p. 74, Ambühl p. 94, Harder, To Teach

p. 41.

1 αὐτὸς

ἐπιφράεεαιτο: Sul piano formale, cf. Arat. 76 αὐτὸν Erıppäccano*. Nel

nostro esametro, αὐτός si riferisce al lettore o all'ascoltatore di C. A quanto pare, il verbo

ἐπιφράζομαι è qui impiegato assolutamente: nei poemi omerici, invece, esso si accompagna all'accusativo (11. II 282 al.) o all'infinito (Od. V 183). Il secondo costrutto è adottato da C. in Hec. SH 288, 28 = fr. 70, 13 H.

290

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Anche Manetone, in due luoghi degli ᾿Αποτελεοματικά, invita il lettore a integrare da solo gli argomenti da lui omessi, utilizzando a questo scopo il verbo φράζομαι: cf. VI 260

5. ἢ γὰρ ἐχέφρων | ἀνὴρ καί κ᾿ ἀπὸ τῶνδε, τὰ δὴ λίπον, ὦκα φράκαιτο, 630 5. ἐπὶ δ᾽ εἴκελα τοῖει δύναιτ᾽ ἄν | φράζεεοθαι μάλα πολλὰ νόῳ πεπνυμένος ἀνήρ. τάμοι δ᾽ ἄπο μῆκος ἀοιδῇ: La lettura ἀοιδῇ va certamente preferita ad ἀοιδῆς (vd. app.). C. ama la stringatezza: sul suo rifiuto del μῆκος nei componimenti poetici, cf. Schol. Flor. 9 (a proposito del fr. 1, 1-12) e vd. il comm. al fr. 1, 5 ἐπὶ τυτθόν. Per l'espressione,

cf. Aesch. Eum. 201 μῆκος ... λόγου |, Soph. Oed. Col. 1139 μῆκος τῶν λόγων, Thuc. IV 62, 2 ἐν μήκει λόγων.

Si può anche richiamare l'accusativo avverbiale μῆκος:

cf. Soph.

Ant.446 cd δ᾽ εἰπέ μοι un μῆκος, ἀλλὰ covtouoc. Può darsi che C. usi il sostantivo μῆκος in modo analogo al nostro passo in /amb. fr. 203, 39 Pf. τομήκί (vd. il comm. ad loc.). Per

la rapidità del canto, cf. Triph. 5 taxein ... ἀοιδῇ |. Il verbo ἀποτέμνω compare solo due volte nei poemi omerici (Il. VII 87, XXI

347; cf. anche [Hom.] Hymn.IV 74): sul suo im-

piego nel nostro verso, vd. Hose p. 301 s. L'intervento del poeta, mirato ad abbreviare il carme, si riscontra già presso Pind. Pyth.

IV 247 5. μακρά μοι veicdon κατ᾽ ἀμαξιτόν - ὥρα γὰρ covénrer: καί τινα | οἶμον Tcanı βραχύν (vd. anche il comm. al fr. 1, 25-28) e negli altri numerosi passi pindarici raccolti da Fuhrer p. 123 n. 457, dov'è anche richiamato Bacch. X 51 s. (alla lista si può aggiungere Pind. Nem. III 26 s.). Vd. Corbato p. 241, Fuhrer pp. 71-75, 118-124, Asper, Onomata p. 137, Sevieri p. 72.

Cf. pol Ap. Rh. I 648 s., fr. epic. adesp. CA 1,7 p. 71, Ov. Met. III 225, Fast. II 248 ei due passi di Manetone riportati sopra. 51 noti inoltre che nelle Thesmoforiazusae di Aristo-

fane (v. 177 5.) il personaggio di Euripide dichiara: cogod πρὸς ἀνδρός, ὅςτις ἐν βραχεῖ | πολλοὺς καλῶς οἷός τε covtéuverv λόγους (= Eur. TrGF 28; cf. il nostro τάμοι ... ἄπο). E si osservi che nel primo giambo di C. (fr. 191, 32 Pf.) Ipponatte intenzione di non tirare per le lunghe la storia della coppa di ἄξω |. Il tema della concisione viene forse toccato da C. anche dove però l'aggettivo côvrouoc - affine al nostro verbo τάμοι controversa (vd. il comm. di Gow-Page).

rassicura l'uditorio sulla sua Baticle, dicendo où μακρὴν nell'Ep. XI 1 PÎ. = HE 1209, ... ἄπο - è di interpretazione

2 öcca δ᾽ ἀνειρομένῳ flc]e, τάδ᾽ ἐξερέω: Con notevole perizia C. colloca in un solo pentametro tre verbi, riferiti il primo a Molorco (&veipou&vo), il secondo a Eracle

(@fi[c]e) e il terzo a se stesso (ἐξερέω). Per il giro della frase, cf. fr. 89, 21 5. ὅες[α] δ᾽ ἐμεῖο c[é]ev πάρα θυμὸς dkodcarlixgiver, τάδε μοι A[é]Eov [ἀνειρομέν]ωι. τάδ᾽ ἐξερέω: Cf. Triph. 292 | ἐξερέω καὶ ταῦτα. Nei poemi omerici ἐξερέω è sempre impiegato intransitivamente: la sua unione all'accusativo si riscontra a partire dalla tragedia (cf. p.es. Soph. Oed. Tyr. 800).

3 ἄττα γέρον, tà μὲν ἄλλα πα[ρὼν ἐν δ]αιτὶ μαθήςει: Il discorso di Eracle a Molorco sembra proseguire fino al fr. 156, 15. ἄττα γέρον: L'apostrofe - utilizzata da C. anche nell'Ep.I 3 Pf. = HE 1279* - ricalca quella omerica ἄττα γεραιέ, rivolta al vecchio Fenice in un caso da Achille (4. IX 607) e in un altro da Menelao (/l. XVII 561). Eracle riserva a Molorco il vocativo γέρον probabilmente nel fr. 156, 10 e forse nel fr. 150, 5.

tà μὲν ἄλλα: Con effetto ironico, la generica designazione allude alla gloriosa lotta fra Fracle e il leone nemeo.

πα[ρὼν ἐν d]arti: A conferma del supplemento di Wilamowitz, cf. Panyas. fr. 16, 7 s., I p. 180 Bernabé = fr. 12, 7 5. Davies ἐνὶ dari |... παρεών. Per il nesso ἐν δαιτί, cf.

COMMENTO:

AET.II FRR. 154-155

291

Hom. Od. II 336, VII 76*, Hes. Op. 742*.

4 νῦν δὲ τά μοι reden Παλλὰϊς,. ] .[.].[:L'integrazione esemplificativa di Wilamowitz IoAAà[c ἔειπε θεή (vd. app.) fornisce al pentametro il senso richiesto: Eracle avvisa Molorco che adesso sentirà quanto gli ha detto la dea Pallade, apparsagli in occasione della sua fatica (per la traiectio del verbo πεύςῃ, vd. il comm. al fr. 8). Il discorso profetico di Atena occupa probabilmente l'intera pfjcıc di Eracle (cf. fr. 156, 13 Παλλάς). Può darsi che già in un epinicio di Bacchilide (XIII 44-57) la dea assistesse al cimento dell'eroe e preannunciasse le gare dei pancraziasti a Nemea; è comunque certo che su molti vasi ella è raffigurata nell'atto di presenziare all'uccisione della belva (vd. Parsons pp. 41 e 45, Corbato p. 243, Fuhrer pp. 125-127). Più in generale, per lo stretto legame fra Atena ed Eracle, vd. O. Gruppe s.v. Herakles, RE (Suppl) III (1918) p. 1096 5. Nell'opera callimachea figurano altri vaticini analoghi: cf. Lav.

105-130 (Atena), Hec. SH 288, 55-61 = fr. 74,

14-20 H. (la cornacchia), Jamb. fr.202, 58-70 Pf. (Apollo). reden: Qui il verbo equivale ad &kovceic: vd. in proposito il comm. al fr. 2, 6.

Frammento 155 (88 Pf. = SH 268) ἄξονται δ᾽ οὐχ ἵππον ἀέθλιον, où μὲν ἐχῖνον I Bovöokov: L'attribuzione del frammento agli Aitia e il suo inserimento tra 1 frr. 154 e 156 sono congetturali e si fondano su una plausibile ipotesi formulata da Schneider in base al confronto con Nonn. Dion. X 333-335 (vd. più avanti il comm.). A quanto pare, Eracle - nel riferire a Molorco la profezia di Atena riguardo alle future gare nemee (vd. il comm. introduttivo al fr. 154) - gli comunica che il premio dei vincitori non sarà né un cavallo né un calderone della capienza di un bue, bensì (come leggiamo nel fr. 156, 5-9) una corona di apio. Non si può escludere che il v. 2 del nostro frammento coincida con il v. 1 del fr. 156. Νά. l'annotazione dopo 1] testo. C. si ispira a un passo dell'Iliade omerica (XXIII 259 s.), nel quale Achille allestisce 1

premi per i giochi funebri in onore di Patroclo: νηῶν δ᾽ ἔκφερ᾽ ἄεθλα, λέβητάς te τρίποδάς te | ἵππους θ᾽ κτλ. La formulazione callimachea - riporteranno come premio non … non … (ma) - somiglia a quella di Diotim. Anth. Pal. IX 391, 3 s. = HE 1761 5. ἀγὼν où χαλκέου ἀμφὶ λέβητος, ! ἀλλ᾽ e ha influito soprattutto su Nonn. Dion. X 333-335 τοῖοι μὲν où tpinoc fev ἀέθλιον, οὐδ᾽ ἐπὶ νίκῃ | ἀνθεμόεις παρέκειτο λέβης, où φορβάδες ἵπποι. | ἀλλὰ ... αὐλὸς Ἐρώτων |, ma anche sull'ep. adesp. App. Plan. 90, 5 s. | οὐ ... κρητὴρ ... οὐδὲ λέβητες, | ἀλλ᾽ ... ἔπαθλον, su Charit. VI 2, 2 ἦν δὲ τὸ ἄθλον οὐ κότινος, οὐ μῆλα, οὐ πίτυς, ἀλλὰ κάλλος τὸ πρῶτον e sui luoghi di Luciano e Gregorio Nazianzeno addotti da Negri p. 87 n. 18. Cf. inoltre Nonn. Dion. XIX 138-146. 1 ἄξονται: Il verbo ha per soggetto i campioni nemei. ἵππον ἀέθλιον: La frase si ritrova presso Call. Del. 113*, dove per di più essa è pre-

ceduta da où uñv come qui da οὐχ. Tuttavia l'accusativo ἀέθλιον spetta nell'inno all'aggettivo ἀέθλιος (che corre per ottenere il premio), mentre nel nostro frammento esso rappre-

senta il sostantivo ἀέθλιον (premio). οὐ μέν: Cf. Call. /ov. 71* con il comm. di McLennan. ἐχῖνον: Gli Etimologici che tramandano il frammento sostengono che qui ἐχῖνος equivale a lebete (vd. app. delle fonti). Più precisamente, la parola ha il senso di calderone, come si ricava già dagli scritti di Ippocrate (Mul. II 172, Ster. 230) e dalla seguente nota di Froziano (Vocum Hippocraticarum collectio p. 41. 18 Nachmanson): Ecrıv ἐχῖνος χύτρας εἶδος μεγαλοςτόμου καὶ μεγάλης (cf. anche fr. 92 p. 121. 9 Nachmanson). Lo stesso Eroziano attesta che il vocabolo appariva - con il medesimo significato - in una commedia di

292

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Eupoli non specificata (PCG 453), negli Epitrepontes di Menandro (fr. 4 Körte-Thierfelder) e nei Mirmidoni di Filemone (PCG 46). Ma questo valore del sostantivo ci è noto anche da Aristofane: cf. Vesp. 1436 s., PCG

841. Il frammento aristofaneo corrisponde a Poll. VI 91;

cf. anche Poll. X 95.

2 Bovöökov: Questo hapax corrisponde all'aggettivo Bovxavönc, con il quale Anite (Anth. Pal. VI 153, 1 = HE 668) - in maniera analoga a C. - designa un lebete: | βουχανδὴς

ὃ λέβης (si veda la spiegazione offerta da Suida σιν. βουχανδής: βοῦν χωρῶν, nonché Hesych. s.v. βουχανδέα: πολυχώρητο).

L'equivalenza dei due aggettivi è confermata da

Hesych. s.v. χανδάνειν - ... δέχεεθαι. Anche βουδόκος, dunque, significa tale da contenere un bue. Vd. Bredau p. 33.

Frammento

156 (59 Pf. = SH 265)

Con ogni probabilità, soltanto quattordici o sedici versi intercorrono tra la fine del fr. 154 e l'inizio di questo frammento (vd. l'app. ai vv. 1-25). Poiché Plutarco, nel tramandare i vv. 5-9, attesta che essi sono pronunciati da Fracle, molto verisimilmente la parte iniziale

del frammento sviluppa resagli da Atena (cf. v. comincia nel fr. 154, 4 e frammento coincida con

e conclude il resoconto - fatto dall'eroe a Molorco - della profezia 13 Παλλάρ) in occasione della fatica nemea, la cui esposizione ingloba quasi certamente il fr. 155. Può darsi che il v. 1 del nostro 1] v. 2 del fr. 155. Vd. l'annotazione dopo 1] testo.

I vv. 1-4 sono molto malridotti: come si deduce dal séguito, Fracle dice al contadino di

avere appreso dalla dea che il premio delle gare nemee - ora istituite in séguito alla sua impresa - sarà una corona (cf. v. 2) di apio. Atena gli ha svelato che i Corinzi, benché celebrino già da tempo i giochi istmici in onore di Posidone, adotteranno la ghirlanda di apio per emulazione dei Nemei, sostituendola alla corona di pino da loro in precedenza utilizzata (vv. 5-9). Il contenuto dei vv. 10-17 si può ricostruire solo nelle linee generali: dopo una probabile apostrofe al vecchio Molorco (v. 10), Fracle nomina Pallade (v. 13) e termina forse il suo discorso annunciando al contadino che la città nemea di Molorchia sarà così chiamata in suo onore (v. 15); C. sembra poi narrare che Fracle desinò a casa del vecchio (v. 16 s.). Il filo del racconto ridiventa più perspicuo nei vv. 18-21: l'eroe pernotta da Molorco e l'indomani mattina riparte per Argo; da qui, tenendo fede a una promessa, invia un mulo al contadino, rispettandolo come avrebbe fatto con un suo congiunto; a quanto pare, C. menziona poi una cerimonia che vige ancora ed è destinata a durare in eterno (forse gli stessi giochi nemei). I vv. 22-25, infine, sono rappresentati da scarsi resti: nel v. 22 c'è un probabile riferimento al Peloponneso. L'interesse di C. per le gare sportive - ravvisabile nei nostri vv. 2-9 - è testimoniato dal fatto che egli compose un trattato Περὶ ἀγώνων (fr. gramm. 403 Pf.). Quanto alle ghirlande date in premio ai vincitori, cf. forse Call. fr. inc. sed. 655 Pf. (vd. il comm. ad loc).

1] ù .[: Poiché le tracce sono compatibili con ]ovô[, Pf. osserva che questo pentametro potrebbe corrispondere al fr. 155, 2 e che sarebbe lecito leggere e integrare βουδόκον]

οὐδ[: i vincitori nelle gare nemee riporteranno come premio non un cavallo, non certamente un calderone che può contenere un bue, né ... bensì (come si ricava dai vv. 5-9) una corona di apio. Vd. app. 2 ctégoc: La parola va certamente collegata al contenuto dei vv. 5-9: si tratta della ghirlanda di apio che Fracle reca con sé dopo avere ucciso 1] leone, destinata a premiare 1 campioni nemei (cf. fr. 145).

4 ]xpvcoro: Qui xpvcoto è più probabile di #A1]ypdcoro (vd. app.). Se Atena dice che

COMMENTO:

AET.II FRR. 155-156

293

la corona di apio, premio dei giochi nemei, sarà più preziosa dell'oro, cf. Call. Vier. Sosib.

fr. 384, 14 Pf. χρυοὸν δ᾽ εὐδικίη παραθεῖ | (la giusta valutazione degli atleti nelle gare istmiche è superiore all'oro): vd. il comm. di Pf. ad loc. 5 μιν: Il contesto del passo plutarcheo, dove sono tramandati 1 vv. 5-9 (vd. app. delle fonti), dimostra che il pronome

si riferisce al sostantivo c&X\ıvov: Eracle dice a Molorco di

avere appreso da Atena che i Corinzi (’AAn.reidaı) adotteranno la ghirlanda di apio come premio dei giochi istmici, sostituendola all'originaria corona di pino per emulazione dei Nemei. Che la ghirlanda di apio nemea scaturisse dalla vittoria di Fracle sul leone, viene già detto da Pind. Nem. VI 43 s. | Botàva … 1... & λέοντος I, delucidato così dallo Schol. 71

Ὁ: τὸ céA1vov ... ὅτι ὁ Ἡρακλῆς καταγωνιςάμενος τὸν λέοντα τοῦτο ἐνομοθέτηςεν εἶναι τὸ «τέμμα. Più in generale, per l'apio nemeo cf. Call. Vict. Sosib. fr.384, 21 5. Pf. c&Aıva | … ᾿ἈΙ[ργο]λικά I, Posidipp. Epp. 72, 3 e forse 81, 1 Austin-Bastianini (vd. BastianiniGallazzi pp. 199 e 210), Nic. Ther. 649, SGO I 03/02/70 v. 3, epp. adespp. Anth. Pal. IX 357,4, Anth. Pal. Append. III 130, 4 (vol. III p. 312 Cougny), Auson. Ec/. XIX 4 Peiper. ’AAn teidaı: Questo hapax designa i Corinzi: come spiegano vari passi grammaticali (vd. app. delle fonti), essi vengono detti discendenti di Alete perché così si chiamava l'Era-

clide che colonizzò Corinto. Cf. già Pind. OL. XIII 14 παῖδες ᾿Αλάτα (con gli Schol. 17 be oi Κορίνθιοι), nonché Ephor. FGrHist 70 F 18 Ὁ ap. Strab. VIII 389 οἰκιοτὰς ... Κορίνθου μὲν ᾿Αλήτην e F 18 c ap. [Scymn.] 527 öctepov ᾿Αλήτην δ᾽ oikicar Κορινθίους, Apollod. FGrHist 244 F 331 (1). Per la forma ᾿Αλητεῖδαι (invece di ’AAnrtiöou), vd. il comm. al fr.

174,32 Koöpetönc. 5 s. yeyeiötepov | ... ἀγῶνα: La maggiore antichità delle gare istmiche rispetto alla fatica nemea di Fracle è anche asserita da Euforione in un passo che Plutarco cita sùbito prima dei nostri vv. 5-9 (CA fr. 84, 3 5. p. 45; per ciò che precede e per il séguito, vd. il

comm. al v. 9): où γάρ ro τρηχεῖα λαβὴ Kartauncaro χειρῶν | Μήνης παῖδα xapwva παρ᾽ Acorod yevereipn (sulla discesa del leone dalla luna, vd. il comm. introduttivo al fr. 146 e i comm. ai frr. 145; 147 e 148, 33 s.).

L'aggettivo y&yeıoc, che era già impiegato da Ecateo di Mileto (FGrHist 1 F 362 = EGM fr. 362), ricorre in altri due luoghi

callimachei:

Hec. fr. 277,

1 Pf. =

102,

1 H.

βόεε

...

γέγειαι le fr. inc. sed. 510 Pf. ὃ yEyeıoc ... λόγος. Lo si ritrova presso SGO I 02/12/02 v. 3. Lobeck propose la congettura y&yeıoc in Aesch. Suppl. 859 (ἄγειος M: ἄρειος West). Per il significato, cf. Et. Gen. AB s.v. γέγειος : ὁ ἀρχαῖος (riportato nell'app. delle fonti di Call. Hec.fr. 102 H.). νά. Nikitinski p. 170 5. 6 Tod de: Il pronome corrisponde al sostantivo ἀγῶνος: i giochi istmici sono più antichi di questi giochi, che adesso vengono istituiti a Nemea. Come si deduce dal fr. 145, C. ritiene che le gare nemee cominciarono quando Fracle uccise il leone e furono successivamente rifondate in onore di Archemoro dai sette contro Tebe (vd. il comm. al fr. 143, 7). Per questa sequenza cronologica, cf. Hypothesis Pindari Nemeonicarum a. (ΠῚ p. 1. 3

Drachmann) τὸν ἀγῶνα τῶν Νεμέων τινὲς μὲν do’ Ἡρακλέους τεθεῖεθαί paciv ἐπὶ τῇ τοῦ λέοντος ἀναιρέςει, Schol. Pind. Nem. X 49 Ὁ οἱ γὰρ ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας ἀνενεώςαντο τὰ Νέμεα. L'ordine inverso, secondo il quale i giochi vennero istituiti in ricordo di Archemoro e rifondati da Eracle, si riscontra nelle Hypoth. Pind. Nem. a. ed e. (IMI pp. 1. 4 e 5. ὃ Drachmann): l'esplicita testimonianza dello pseudo-Probo nel nostro fr. 145 (cf. anche il passo di Nigidio Figulo e lo scolio alla Tebaide di Stazio riportati nel comm. ad loc.) consente di escludere che C. nella Vittoria di Berenice aderisse a questa seconda cronologia, come invece ritiene - insieme ad altri - Fuhrer pp. 78-85 (vd. Barigazzi p. 18, D'Alessio (p.

294

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

453)). Da parte sua Wilamowitz («SPAW» 1914 p. 226 n. 1) afferma erroneamente che nei nostri versi Fracle profetizza la fondazione delle gare da parte dei sette contro Tebe. παρ᾽ Airyaiovi 10e@: Le competizioni istmiche si svolgono in onore del dio Egeone, cioè Posidone. Quest'appellativo è già Impiegato da Licofrone (v. 135): cf. Tzetz. ad

loc. Αἰγαίωνος τοῦ Ποςειδῶνος, nonché Hesych. s.v. Αἰγαίων, Philostr. Ap. Ty. IV 6 Αἰγαίωνα ceıciydovo. Νά. il comm. di L.J.-P. al fr. epic. adesp. SH 910, 3. Che Posidone sia il patrono dei giochi istmici, viene messo in rilievo da C. nei vv. 9-12 della Vittoria di Sosibio (fr. 384 Pf., cf. forse anche il v. 1: vd. l'app. ad loc).

τελέοντες ἀγῶνα: Per il nesso, cf. soprattutto fr. epic. adesp. CA 8, 1-4 p. 81 ἐνὶ «ςκοπέλοιςι Νεμείης | … 1... 1... TeXÉ]coxc … ἀγῶνα | (scil. Eracle) e Orac. 487, 10 5. ParkeWormell I Ἡρακλέης &rekecc’ ... ἀγῶν᾽ ἐπὶ ... 1... Πέλοπι (a proposito dei giochi olimpici), ma anche CEG

1 nr. 5, 1 ἀγῶνα ... tedécoviec, SGO II 10/02/28 v. 12 ἐτέλεεςεν ἀγῶνα,

Nonn. Dion. X 378 ἀγὼν teréhecto, XLVIII 183 &téAeccev ἀγῶνα", Steph. gramm. Anth. Pal.IX 385, 23 ἀγῶνα ... ètéXeccev, nonché Nonn. Dion. XVII 134 5. e 315 5. ἡμιτελὴς ... |

Lu ἀγών. 7 νίκης εὐιμβολον: La frase callimachea sembra avere ispirato l'explicit còuBodo νίκης, presente nei due poemi di Nonno

(Dion. XXV

43, 334, XXVII

216, XXXVII

477,

Met. XIX 125) e nell'ep. adesp. Anth. Pal. XV 47,3. Altrove C. fa uso di espressioni simili:

cf. Dian. 219 εημήια νίκης |, ma anche Ep. XLIX 2 Pf.= HE 1172 νίκης μάρτυρα. Cf. inoltre Fur. Phoen. 12581 νίκης ... fiuo. Il vocabolo cöußoAov manca nei poemi omerici, ma si trova presso [Hom.] Hymn. IV 30, 527 (nel secondo luogo, a quanto pare, significa accordo). C. lo usa sempre con un genitivo dipendente. In due delle attestazioni callimachee, la parola occupa la medesima

sede metrica del nostro pentametro: cf. Vict. Sosib. fr. 384, 36 Pf. κάλπιδες, où κόεμου cbußoAov, ἀλλὰ πάλης (anche qui in merito a premi agonistici) ed Ep. XXVII 4 Pf. = HE 1300 piiciec, ᾿Αρήτου εὔμβολον (coni.) &yporvinc. Il termine ricorre probabilmente anche nel fr. 213, 13/14, in una posizione metrica imprecisata (forse all'inizio di un pentametro). viikne ... Ἰεθμιάδοε: Il nesso è gia impiegato da Pind. /sthm. VIN 4 Ἰεθμιάδος te νίκας ἄποινα (in una frase analoga a quella callimachea) e si ritrova presso Philod. Anth. Pal. VI 246, 4 = Marc. Arg.

GP

1388 = 35, 4 Sider*. Pindaro utilizza due volte (Οἱ. XII

33, Nem.II 9) il plurale dell'aggettivo istmici. Vd. Kenney p. 331.

Ἰοθμιάς in maniera assoluta, per designare i giochi

8 ζήλῳ τῶν Νιεμέηθε: Il sostantivo ζῆλος non figura nei poemi omerici (benché in Od. V 118 compaia il vocabolo GnAnpovec), ma ricorre presso Esiodo (Theog. 384*, Op. 195*); per la costruzione con il genitivo oggettivo, cf. Soph. Oed. Col. 942 s. τῶν ἐμῶν ... |

ζῆλος ξυναίμων. A proposito del nesso τῶν Νιεμέηθε (dei Nemei), cf. i passi raccolti da Schneider nel comm. a Nic. fr. 74, 2 | &v8e’ ’Ixovinde (tra i quali c'è anche Call. Del. 284 Δωδώνηθε Πελαογοί 1), con l'aggiunta di Call. Hec. fr. 275 Pf. = 53 H. tà μὲν οἴκοθε (vd. il comm. di Pf.). Vd. inoltre il comm. al fr. 143, 1 Neuen. ἀιποτιμήεουειν: Il verbo compare presso [Hom.] Hymn. IV 35 e Marcell. Sid. EpGr. 1046, 92 Kaibel (nell'/liade omerica figura invece l'hapax ἀπατιμάω, che significa disonoro: cf. XIII 113 ἀπητίμηςε): vd. Jan p. 81. L'esametro è spondaico: vd. Introd.II.1.A.a.

9 ἣ πρὶν

ἀγωνιιςτὰς

ἔετεφε toıde

Ἐφύρῃ: La sostituzione della ghirlanda di

pino con quella di apio nelle gare istmiche (il toponimo Ffira corrisponde a Corinto) per emulazione di quelle nemee viene ribadita da Fuforione in un frammento citato nel luogo di Plutarco cui dobbiamo anche la trasmissione dei nostri vv. 5-9 (CA fr. 84, 1 s. e 5 p. 45; per

COMMENTO:

AET. HI FR. 156

295

il v. 3 s., vd. il comm. al nostro v. 5 s.): κλαίοντες dé te κοῦρον (cioè Melicerte) En’ faida nırdeccı κάτθεςαν, ὁκκόθε δὴ Ferepavov ἄθλοις gopéovio |... |... | ἐξότε πυκνὰ ςἕλινα κατὰ κροτάφων ἐβάλοντο. Che la corona di pino premiasse 1 vincitori istmici, si legge nelle Hypotheseis Pindari Isthmiorum Ὁ. e c. (III pp. 193. 13 e 194. 18 Drachmann; cf. anche le fonti richiamate da Drachmann nell'annotazione). Bisogna però osservare che negli epinici di Pindaro 1 campioni istmici sono sempre insigniti di una ghirlanda di apio: cf. Ol. XII 33, Nem. IV 88, Isthm. II 16, VIII 64. Pindaro,

cioè, attesta che il premio

istmico corrispondeva a quello

nemeo: in questo egli concorda con la profezia di Atena riferita da Eracle nei nostri vv. 5-9. Per l'apio istmico,

cf. anche

Diphil.

PCG

31, 23, Call. Vier. Sosib. fr. 384, 4 Pf., forse

Posidipp. Ep. 81, 1 Austin-Bastianini (vd. Bastianini-Gallazzi p. 210), Nic. Al. 604-606. D'altro canto, a partire dai Κορινθιακά di Eumelo, la connessione fra il pino e i giochi istmici è frequente in poesia: cf. Eumel. fr. 8, 1, I p. 111 Bernabé = fr. 12, 1 Davies

{’I@uot”} εὐδαίμων πιτυώδεος ὄλβιος αὐχήν, Bacch. XII 38 5. où δ᾽ ἐν Πέλοπος ζαθέας | νάοου π[ι]τυώδεϊ δείρᾳ, Aesch. TrGF 78c, col. II 3 s. (da un dramma satiresco intitolato Θεωροί o Ἰεθμιαεταῦ) cd δ᾽ ἰεθμιάζεις καὶ πίτυος Ect[euuevoc (suppl. Lobel) | κλάδοις (rilevante anche per il nostro ἔστεφε), forse lo stesso Call. Vict. Sosib. fr. 384, 3 Pf. (vd. il

comm. ad loc.) e poi Phil. Thess. App. Plan. 25, 2 = GP 3067 | πίτυν λαβόντα τὴν κατ᾽ Ἰεθμόν, Ebert nr. 79, 6, epp. adespp. Anth. Pal. IX 357, 4 e Anth. Pal. Append. III 130, 3 (vol. III p. 312 Cougny) e Auson. Ec/. XIX 4 Peiper (dove il pino istmico è menzionato insieme alle piante che onorano i vincitori delle altre gare panelleniche), Stat. Theb. VII 97, Silv. V 3, 143, Greg. Naz.

Carm.I

2, 10, 759 (PG 37 p. 735). Cf. inoltre fr. adesp. PMG

956 ὃ τὸν πίτυος ctégavov e ancora Call. Dian. 200 5. (dove si menziona una corona di pino in un contesto diverso). Come sembrano dunque suggerire anche le fonti letterarie, nella corona istmica il pino fu usato dalla fondazione delle gare fino al primo quarto del V secolo a.C., l'apio venne impiegato da questa data fino a circa l'inizio del I secolo a.C. e il pino fu reintrodotto, in alternanza con l'apio, da allora fino ad almeno tutto il II secolo d.C. (vd. Negri p. 84 n. 5, con bibliografia). Come osserva Negri p. 84, «nel duplice uso di pino e apio si riflette verisimilmente la duplicità delle tradizioni mitico-religiose in cui l'agone istmico affondava le proprie radici», cioè la «concorrenza dei culti di Poseidone e di Melicerte-Palemone», dove

si fronteggiavano «l'apio funebre di Melicerte e il pino marittimo di Poseidone». dyovietàc:

Il vocabolo è di uso prosastico, ma cf. Eur. Jon

1257, Achae. TrGF 20 F

3,1. ἔετεφε: Il verbo compare solo due volte nei poemi omerici (4. XVIII 205, Od. VIII 170). Nel nostro pentametro il soggetto dell'azione è il pino stesso, che un tempo coronava i vincitori istmici: il medesimo costrutto è utilizzato da C. in /amb. fr. 194, 86 Pf. ἔετεφέν

uw à δάφνη l. Ἐφύρῃ: Questo nome alternativo di Corinto figura già presso Hom. //. VI 152 e 210. Secondo Eumelo (fr. 1, I p. 108 Bernabé = fr. 1 Davies = EGM fr. 1) ovvero Simonide (PMG 596), il toponimo traeva origine da Ffira, figlia di Oceano e Teti e moglie di Epimeteo: cf. inoltre

Eumel. frr. 3, 5 e 8, 2,I pp. 110 e 111 Bernabé =frr. 2A, 5 e 12, 2 Davies. C.

menziona Ffira anche in Vict. Sosib. fr. 384, 4 Pf. (ancora con riferimento ai giochi istmici) e in Del. 42, 43 (vd. il comm. di Mineur): sull'impiego callimacheo della parola in rapporto a quello omerico, vd. Sistakou p. 153 s.; sull'uso di vocaboli connessi a Efira nella poesia greca e latina, vd. R. Mayer,

«G&R»

S. II 33

(1986), p. 51

s. Per il dativo di luogo, cf.

296

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Antig. Caryst. SH 47,2 Ἐφύρῃ e vd. il comm. al fr. 89, 6 Α[ἰ]γύπτωι ... avectpégeto. 10 yép[ov: È probabile che Eracle, poco prima di concludere il suo discorso (v. 15), si rivolga a Molorco con il vocativo già utilizzato all'inizio della pficıc (fr. 154, 3). Cf. forse anche fr. 150, 5*.

13 Παλλάς: La menzione di Pallade sembra indicare l'imminente fine del discorso di Eracle a Molorco, così come ne caratterizzava l'inizio (fr. 154, 4*): l'eroe smette di esporre

al contadino le profezie di Atena riguardo alle future gare nemee.

15 ε]ὴν κατ᾽ ἐπω[νυμίην: Con ogni probabilità la fcic di Eracle a Molorco termina qui (vd. 1 comm.

ai vv. 16 e 17; nel v. 18 siamo tornati alla narrazione di C. in terza

persona). Verisimilmente l'eroe rivolge al vecchio la frase secondo il tuo nome per comunicargli che la città nemea di Molorchia sarà così chiamata in suo onore (cf. Steph. Byz. riportato nel comm. al fr. 145 e vd. Fuhrer p. 77 n. 289): in modo analogo, nell'Ecale callimachea, Teseo dà il nome della sua ospite a un demo attico e a un santuario di Zeus. L'im-

piego poetico del vocabolo ἐπωνυμία risale a Eschilo. Di particolare interesse è Sept. 829 κατ᾽ ἐπωνυμίαν |, ma cf. pure Suppl. 45. C. impiega la parola anche in Dian. 205. Cf. inol-

tre ep. adesp. Anth. Pal.1 85,1 kat’ ἐπωνυμίην. 16 |vc te MoÂéplyeroc: Ragioni metriche (vd. Introd. IL 1.A.c.ix.) impediscono di integrare un qualche caso del nome Μόλορχος

e raccomandano

invece il supplemento

Μολόρίχειος (vd. app., cui rimando anche per la grafia alternativa Μολόρ[κειος proposta da Morgan; il genere, il numero e il caso dell'aggettivo restano ovviamente incerti). La parola è un hapax, imitato in Latino da [Tib.] IV 1, 13 Molorcheis

... tectis | (vd. il comm.

al

fr. 145). Tuttavia nel nostro passo, dato il probabile contenuto del v. 17 (vd. il comm. ad loc.), l'aggettivo non sembra riferirsi alla dimora di Molorco, ma piuttosto alla cena con la quale egli rifocilla Eracle la sera prima del suo ritorno ad Argo (un pasto vespertino è offerto pure da Ecale a Teseo in SH 283, 4 5. = fr. 36, 4 5. H.). Della frugale cena imbandita da Molorco a Fracle parla anche Nonno nelle Dionisiache (XVII 46-62 riportato nel comm. al fr. 145), che però descrive il pasto consumato dall'eroe in casa del contadino prima del -

l'impresa nemea: il v. 62 di Nonno (| εἰλαπίνην ἐλάχειαν) ha ispirato Pf. nel proporre l'integrazione ἐλαχ]ῦς τε MoAbplyetoc ... δόρπος (vd. app.; per ἐλαχύς, vd. il comm. al fr. 1, 32 odA[a]yd0). 17 θυμὸν &pe[ccéuevoc: L. propone di integrare &pe[ckéuevoc oppure dè pe[cchuevoc (vd. app.): la seconda alternativa va preferita in base al confronto con Nonn. Dion. XXV

370 5. εἰλαπίνης Évavcev: &pecchuevoc δὲ τραπέζῃ | Bvuòv ἑὸν παλίνοροος κτλ. L'imitazione nonniana serve l'animo (cioè avendo passò la notte presso 18). Per l'espressione,

18 ν]ῦκτα

anche a ricostruire il probabile significato della frase: avendo placato saziato il suo appetito grazie alla cena offertagli da Molorco), Eracle il contadino e l'indomani si mise in viaggio per tomare ad Argo (v. cf. anche Ap. Rh. III 301 θυμὸν &peccav | con il comm. di Campbell.

μὲν αὐτόθι

piuvev,

ἀπέςετιχε è’ “Apyoc

Edoc: Eracle pernotta a

casa di Molorco e il mattino dopo riparte per Argo (a quanto sappiamo, presso C. l'eroe è sempre argivo). Il verso esibisce un chiasmo trimembre: nel primo emistichio si susseguono un complemento di tempo, un avverbio locale e un verbo, cui nel secondo emistichio corri-

spondono in ordine inverso un verbo, un complemento di luogo e un aggettivo temporale (vd. Lapp p. 40). L'esametro potrebbe far pensare che il ritorno di Fracle dal contadino, dopo la fatica nemea, era avvenuto durante la sera: in tal caso, è ipotizzabile che all'episo-

dio di Molorco risalga (Call.) fr. inc. auct. 766 Pf. ἑεπέριον ξένον. ν]ύκτα

μέν: Già presso Hom. 5. XVIII 274* il nesso esprime - come qui - un com-

COMMENTO:

AET. HI FR. 156

297

plemento di tempo continuato. Cf. poi Maneth. I 82*. αὐτόθι

piuvev: La frase è omerica: cf. I. IX 617, Od. VI 245, XI 187, 356, XII 161,

XXIV 464. La si ritrova poi presso Hes. Op. 96 5. (v./.), Ap. Rh. II 463 e numerose volte nei due poemi di Nonno (Dion. II 1* al., Met. I 118* al.). C. fa uso di un nesso simile in Hec. SH 288, 10 = fr. 69, 10H. αὖθι δὲ uiuvov 1. ἀπέετιχε δ᾽ ”Apyoc: Riguardo a quest'uso dell'accusativo semplice per esprimere il moto a luogo, cf. anche Call. Del. 153 Èctixe νήοους | con i comm. di Mineur e Gigante Lanzara. &@oc: L'aggettivo è attestato a partire dai giambografi arcaici (fr. adesp. 8,1 W.). C. lo impiega anche in Hec. fr. 291, 3 Pf. = 113,3 H.*, alla fine di un esametro chiastico che -

come il nostro (cf. ν]ύκταλ - si apre con un'altra indicazione temporale: | &cn£pıov ... &8ov |.

19 οὐδὲ ξεινοδόκῳ λήεαθ᾽ dbrocyecinc: Una volta giunto ad Argo, Eracle mantiene la promessa fatta al suo ospite Molorco, che consiste nell'invio di un mulo (v. 20). Il dono in questione non è menzionato dalle altre fonti (vd. il comm. al fr. 145): secondo un'ipotesi dubbiosamente avanzata da Parsons p. 41, Molorco aveva prestato un mulo a Eracle quando questi si era diretto contro il leone, ma la fiera lo aveva ucciso prima di venire a sua volta ammazzata, sicché ora l'eroe risarcisce il contadino mandandogli un mulo nuovo. Può

però anche darsi che più semplicemente, come suggerisce Livrea, Polittico p. 26=185, Eracle doni un mulo a Molorco per rendergli più agevoli 1 lavori agricoli cui il contadino dovrà ora dedicarsi dopo il lungo periodo di forzata incuria a causa del leone (cf. fr. 148, 13-26). Più in generale si osservi che, nel fr. 187, 5, Euticle riceve dei muli in regalo da un ospite: vd. Trypanis (p. 45).

ξεινοδόκῳ: Il papiro di Berlino offre la lezione ξεινοδόκου, che è stata corretta in ξεινοδόκῳ da Wilamowitz: il dativo sembra necessario, né mi pare che il genitivo (verisimilmente prodottosi per assimilazione a Drocgecine) possa qui essere inteso - secondo l'ipotesi di Maas (vd. app.) - come aggettivo, il cui senso - per altro inaudito - sarebbe riguardante chi lo aveva ospitato, da riferire alla successiva promessa. La parola ξεινοδόκος è già presente nei poemi omerici: in /7. INI 354 e in Od. VIII 210, 543, XVIII 64 essa funge da sostantivo come qui, mentre in Od. XV 55 e 70 ha valore aggettivale (in unione alla parola ἀνήρ). Cf. inoltre Hes. Op. 183, Aesch. TrGF dub.451h, 3, Opp. Hal. III 248, Nonn. Dion. III 96 al., Met. VII 107 al., Paul. Sil. Anth. Pal. X 15,8 = 25,8 Viansino, Areth. Anth. Pal. XV 32, 10. È singolare che presso Theocr. XVI 25-29 (in un brano dove il poeta esorta Ierone a essere generoso) figurino a breve distanza tre vocaboli presenti nel nostro v. 19 s.: παῶν (v. 25, cf. qui il v. 20), ξεινοδόκον (v. 27), tiew (v. 29, cf. qui il v. 20). Può darsi che C., nel tratteggiare la riconoscenza e la liberalità di Eracle verso Molorco, avesse in mente il passo teocriteo. drocxecinc: Il vocabolo compare una volta sola nei poemi omerici (/1. XIII 369), che esibiscono anche la forma parallela ὑπόςχεεις (11. II 286, 349, Od. X 483). C. lo adotta an-

che nell'Ep. LVII 2 Pf. = HE 1136*.

20 πέμψε δέ 9[1] τὸ[ν] ὀρῆα, tiev δέ & ὡς ἕνα πηῶν : Eracle manda un mulo a Molorco e rispetta il vecchio come se si trattasse di un suo congiunto. Si noti l'effetto preziosistico generato dal duplice impiego del pronome οὗ, il cui digamma iniziale conserva in entrambi i casi il suo valore consonantico (vd. Introd.1II.2.E.). Già la presenza di questo polittoto induce a respingere la correzione di & in μιν, suggerita da Maas. L'intervento di quest'ultimo era motivato dall'intenzione di rimuovere lo iato è ὡς: ma Pf. osserva che lo iato in

298

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

questione, insolito per C. (vd. Introd. II.2.A.), sembra giustificato dalla successione voca-

lica è ὡς ἕνα. Per di più - continua Pf. - il nesso tiev δέ è è di ascendenza epica e rientra nell'uso callimacheo (vd. più avanti il comm.). Vd. in generale l'app. ὀρῆα: Questa forma del vocabolo, che C. impiega anche nel fr. 187, 5, è estranea ai poemi omerici ed esiodei, dove ricorre solo la forma oùpedc (Hom. I. I 50 al., Hes. Op.

791 al). Νά. il comm. di Hopkinson a Call. Cer. 107 οὐρῆας. Per gli asini e i muli nell'opera di C., vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 650.

τίεν δέ ὃ ὡς ἕνα πηῶν: Per l'espressione, cf. Hom. τίεν îca τέκεςει |, XV 438 5. ὃν ... | ica φίλοιςει τοκεῦειν κεδνῇ ἀλόχῳ τίεν, Quint. Smyrn. I 86 καί μιν ... τίεν … δέ è παιδὶ tieckov | τηλυγέτῳ, ὃ δ᾽ ἄρ᾽ îcov ἑῷ πατρὶ τῖεν

1. XIII 176 = XV 551 ὁ δέ ἐτίομεν, Od. I 432 | ἶεα δέ εὖτε θύγατρα I, VII 647 5. ἐμὸν κῆρ, Maneth. VI 56,

μιν μιν ἴοον 145,

Greg. Naz. Carm. II 2, 5, 239 5. (PG 37 p. 1539). Per l'explicit ὡς Eva πηῶν, cf. Greg. Naz. Carm.I

1, 18, 21 (PG 37 p. 482) N τινα anov*.

tiev δέ è: Cf. Hom. Il. XXIII 705 e [Hes.] Scut. 85 (coni.) e Call. Hec. fr.231, 1 Pf. = 2,1H. tiov dé &* (per la quantità breve dello iota di tiev, vd. l'app. di Pf. al passo dell'Ecale). Cf. anche Theocr. XVI 29 τίεινἢ, discusso nel comm. al v. 19 ξεινοδόκῳ. πηῶν: Il vocabolo significa congiunto in parentela e compare sia nei poemi omerici (Il. III 163, Od.

VIII 581, X 441, XXIII

West). Cf. poi Antim. fr. 124 Wyss comm.

di Gow;

vd.

anche

il comm.

120)

sia presso Esiodo

(Op. 345*, vd. il comm.

di

= 159 Matthews, Lyc. 416, Theocr. XVI 25 (con il al nostro

v.

19 ξεινοδόκῳ),

Nic.

Ther.

3*, SGO

I

05/01/54 v. 3, GVI 1519, 1* al, [Orph.]fr. 779m, II 2 p. 322 Bernabé, [Opp.] Cy#. II 242, Quint. Smyrn. I 429 al., [Apolinar.] Met. Ps. LXXII 15*, Maneth. II 269, Greg. Naz. Anth. Pal. VII 131, 3 al., Nonn. Dion. XXXV 388, Eudoc. Cypr. II 403. Esiste anche il sostan-

tivo mmocòvn (cf. Ap. Rh. I 48). Per l'antico dibattito erudito Rengakos p. 30 s., Tosi p. 238.

sul senso

di πηός,

vd.

21 ν]ῦν δ᾽ ἔθ᾽ [&]yic[tein]v οὐδαμὰ ravcouévnv: A quanto pare, qui C. passa dal racconto mitico all'attualità, menzionando una cerimonia che ancora adesso si celebra e

che non cesserà mai: il rito in questione potrebbe essere lo svolgimento stesso dei giochi nemei, istituiti dopo che Fracle uccise il leone. La ricostruzione del pentametro, benché non

priva di incertezze, sembra corretta: il supplemento v]ùv di Wilamowitz potrebbe apparire troppo lungo per la lacuna, ma è garantito dal confronto con 1 passi riportati più avanti nel

comm.; l'integrazione [&]yıe[tein]v di Pf. risulta plausibile sul piano paleografico ed è sostenuta dal fr. 89,3 &yıcröv. Vd. in generale l'app.

vjüv δ᾽ #0”... οὐδαμὰ παυςομένην: Cf. Ap. Rh. I 1075 5. | ἔνθ᾽ ἔτι νῦν ... 1... ἔμπεδον αἰεί | (anche qui nell'eziologia di un rito), nonché p.es. Ap. Rh. I 1061 ἔνθ᾽ ἔτι νῦν, II 526 ἔτι νῦν e Nonn. Dion. V 277 | eicét1 νῦν (in contesti eziologici).

[ἁ]γις[τείη]ν: Il vocabolo è di uso prosastico: cf. p.es. Isocr. XI 28. οὐδαμά: In poesia l'avverbio è impiegato da Sapph. fr. 44 a, 11 Voigt al., Alc. fr. 69, 5 Voigt al. Anacr. fr. 29, 2 Gent. = PMG

[Theogn.]

411

(a), 2, Hippon. fr. 36, 2 W.

= 44, 2 Degani,

1363 al. Aesch. Suppl. 884, Soph. Ant. 763 al., Emp. 31 B 17, 6 D.-K®

al,

Timoth. PMG 791, 151, Theocr. X 9 s., Phalaec. HE 2938, [Sım.] Anth. Pal. VII 296, 3. La

parola compare molto di frequente anche presso Erodoto (I 5, 4 al.). 22 Πελοπῃ .[: Qui bisogna probabilmente riconoscere una menzione del Peloponneso, dove si trovano sia Argo (cf. v. 18) sia Nemea: meno verisimile mi sembra invece che C. faccia riferimento a una passata o futura vittoria olimpica di Berenice, come ipotizza con ogni cautela Fuhrer p. 78 n. 290. Per la forma Πελοπηΐς, cf. Call. Vict. Sosib. fr. 384, 11 Pf.

COMMENTO: Πελοπηΐδος,

AET. II FRR. 156; 157-158; 157

Del. 72 Πελοπηΐς, Ap. Rh. IV

299

1570 Πελοπηΐδα γαῖαν, Nic. fr. 104, 4 5.

Schneider IleAornic Ἱπποδάμη. 23 £cxov ἀνα: È molto attraente il supplemento &cxov ἀνα[ζκτορίην di Pf., che si fonda sul fr. 95 εἶχεν ἀνακτορίην ἢ (vd. il comm. ad loc). Mi sembra estremamente probabile che alla Vittoria di Berenice nisalga il fr. inc. sed. 264, dove Fracle solleva la pelle del leone nemeo così da farsela pendere dalle spalle: ritengo che il frammento in oggetto debba essere collocato tra 1 frr. 151 e 154, cioè dopo il congedo dell'eroe da Molorco nell'imminenza dello scontro e prima del suo trionfale ritorno alla capanna del contadino. Non escludo che possa far parte della nostra elegia il fr. inc. sed. 274, nel quale Fracle è abbigliato con la pelle leonina: in tal caso, il frammento andrebbe posto appena prima del fr. 154. Penso invece che il fr. inc. auct. 278, incentrato sulla costellazione del Leone, non rimonti a questa sezione degli Aitia, bensì rappresenti il v. 65 della Chioma di Berenice (fr. 213). È poi possibile che il fr. inc. auct. 766 Pf. ἑςπέριον ξένον si riferisca a Eracle, il quale - dopo avere ucciso la belva - rientra in casa di Molorco

a sera, come risulta dal v. 18 del fr.

156 (di notte restò lì e al mattino

tornò ad

Argo): ma le due parole descriverebbero bene anche Teseo, ospite serale di Ecale nell'epillio callimacheo (cf. inoltre fr. 92 con il comm.). È invece molto dubbio che alla nostra elegia risalga il fr. inc. sed. 688 Pf.: vd. il comm. ad loc. Quanto ai malridotti scoli contenuti nel fr. 12 'recto' del POxy. 2258, il cui rigo 3 esibisce il nome di Berenice, essi sembrano riguardare i vv. 26 ss. della Chioma di Berenice piuttosto che un qualche brano della nostra elegia: vd. il comm. al fr. 213, 26. Vd. nel testo l'annotazione dopo ıl fr. 156.

Frammenti 157-158 Non è possibile stabilire a quale parte del terzo libro risalgano questi frammenti, perché le loro tematiche non sembrano adattarsi né alla Vittoria di Berenice (frr. 143-156) né alle due serie ininterrotte di aitia 1 cui contenuti ci sono noti, composte rispettivamente dal frr. 159-174 e (sino alla fine del libro) dai frr. 178-187. Per uno dei due frammenti o per entrambi, è ipotizzabile una collocazione in questo punto o anche tra 1 frr. 174 e 178. È invece probabile che i frr. inc. lib. Aet. 65-64, appartenenti con ogni verisimiglianza al terzo libro, rimontino proprio al tratto di testo che intercorreva tra la Vittoria di Berenice e Faleco di Ambracia (frr. 159-160).

Frammento 157 (61 Pf.) τὼς μὲν ὃ Mvnedpyetoc

ἔφη ξένος, ὧδε cvvaıvo: La sintassi del frammento

pare ricostruibile in due modi diversi. Se si scrive ὧδε, il toc iniziale è probabilmente una congiunzione (come ... disse, così io concordo): la persona loquens sembra sul punto di esporre il suo assenso alle parole dello straniero e può darsi che l'esametro rappresenti l'inizio di un aition. Se invece si scrive ᾧ dè - come suggerisce dubbiosamente Pf. (vd. app.) -, è probabile che toc abbia valore avverbiale (così ... disse e quello con il quale io concordo ...): a quanto pare la persona loquens, appena dopo avere riferito le parole dello straniero, dà inizio a una proposizione relativa. Per l'uso dell'avverbio toc sùbito dopo un discorso diretto o indiretto, cf. soprattutto fr. 351 τὼ]ς μὲν ἔφη (dove però è anche possibile il supplemento ὧς), nonché già Hom. Il. II 330 = XIV 48 = Od. XVIII 271 | κεῖνος τὼς

ἀγόρευε. Ma chi è lo ξένος in questione? A meno che qui non si tratti dell'ospite di un ignoto

300

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Mnesarco, vari indizi rendono plausibile che C. si riferisca a Pitagora (vd. Hecker pp. 268272, Ardizzoni, Echi p. 266). Innanzitutto sappiamo che il padre di Pitagora si chiamava Mvilcapyoc:

cf. Heraclit. 22 B 129 D.-K.9, Herodot. IV 95, 1 al. In secondo luogo il nostro

ἔφη fa pensare alla frase αὐτὸς ἔφα, con la quale erano rievocate le affermazioni del filosofo (cf. Diog. Laert. VIII 46). Infine la parola ξένος sembra adeguata a Pitagora, perché questi lasciò Samo e venne accolto come straniero nelle città di Crotone e Metaponto: cf.

p.es. Aristot. Rhet. 1398 B 15 ξένον ὄντα, Ov. Met. XV 60-62 (in base a questa linea interpretativa, il vocabolo ξένος significherà appunto straniero piuttosto che ospite). Sussiste

tuttavia la difficoltà di collegare il patronimico Μνηςάρχειος al sostantivo ξένος. La figura e l'insegnamento di Pitagora sono delineati da C. in Jamb. fr. 191, 58-63 Pf. Alla parte degli Aitia cui spetta il nostro esametro risalgono forse altri frammenti callimachel, caratterizzati - con certezza o con qualche verisimiglianza - da temi pitagorici: cf. da un lato fr. inc. sed. 260, dall'altro frr. inc. sed. 255 e 262. Non si può escludere che 1] nostro frammento (purché non avesse funzione incipitaria) rientrasse nel Terzo aition sconosciuto (fr. 177): vd. il comm. ad loc. Vd. in generale l'annotazione dopo il testo. ὁ Mvncdpyetoc: Il vocabolo Μνηςάρχειος è un hapax. Come osservano i testimoni del nostro frammento, qui il gruppo uv ha eccezionalmente valore monoconsonantico, sicché il precedente omicron non si allunga «per posizione» (vd. Introd.11.2.B.c.). Su questo trattamento del nesso uv, cf. non solo Epich. PCG 80 e Cratin. PCG 162 (citati da Efestione nel tramandare il nostro esametro), ma anche CEG

1 nrr.

139,

1; 167, 3, Eur.

Iph.

Aul.68, 847 (uvnctedo L: μαετεύω Nauck). covaiv®: Il verbo ricorre forse già in un passo di Bacchilide (Encom. fr. 20 c, 18 Sn.M.) e certamente presso 1 poeti tragici. Se nel nostro frammento esso è preceduto dall'avverbio ὧδε (e non dal nesso © δὲ), può darsi che C. lo impieghi in forma assoluta: per questo tipo di uso, cf. Aesch. Ag.

1208, Soph. El.

1280, Phil. 122, Plat. Resp. 393 E, Nonn.

Dion. VII 106. Nel nostro esametro va tenuta presente la congettura covawéo di Pf., che rispristina la forma non contratta (vd. app.).

Frammento

158 (62 Pf.)

Stefano Bizantino attesta che C., nel terzo libro degli Aitia, menzionava il villaggio delfico di Licorea. Dall'Ef. Gen. AB s.v. Λυκώρεια (derivante da scoli ad Ap. Rh. IV 1490 più ampi di quelli pervenutici) apprendiamo che la città di Licorea, dedita al culto di Apollo,

prendeva nome dal suo fondatore Licoro, figlio di (οποία: πόλις Δελφίδος, Ev ἣ τιμᾶται ᾿Απόλλων, ἀπὸ Λυκώρου Tod (τοῦ om. A) xTicavtoc αὐτήν. υἱοῦ Κωρυκείας (Κωρυκίας A);

cf. anche

Schol.

Ap.

Rh.

IV

1490-1494

a con l'annotazione

di Wendel.

Altre fonti

(Schol. Ap. Rh. II 705-711 ἢ, Paus. X 6, 3) precisano che la ninfa Coricia fu eponima dell'antro coricio sul monte Parnaso e partorì Licor(e)o dopo essersi unita ad Apollo; per l'antro coricio, vd. il comm. al fr. 174, 56 s. Un'etimologia alternativa di Licorea è offerta da Pausania nel medesimo passo (X 6, 2): la città venne così chiamata perché 1 suoi fondatori,

durante il diluvio universale, erano fuggiti in cima al Parnaso lasciandosi guidare dai latrati dei lupi (λύκων ὠρυγαῖο); vd. in proposito il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 725 = (Hec.) fr. inc. sed. 178 H. (Pausania, sempre in X 6, 3 s., prende le mosse da Licoro per offrire varie

genealogie di Delfo, dal quale Delfi trasse il suo nome: vd. il comm. al fr. 61). In merito alla localizzazione di Licorea sul Parnaso, cf. inoltre Marmor Parium FGrHist 239 A 2. 4,

Strab. IX 418, 423. Può darsi che anche Euforione nominasse Licorea, se coglie nel segno 1] supplemento

COMMENTO:

AET. II FRR. 157-158; 159-160; 159

301

Λυκ]ώρειαν di F. 1. Williams per SH 434, 10 (vd. p. 861 = Suppl. SH p. 58). L'epiteto Avkœpebc, che si riferisce ad Apollo delfico, ricorre per la prima volta presso Call. Ap. 19. Da qui lo mutuano Ap. Rh. IV 1490 (nella forma Avik@petoc), Euph. CA fr. 80, 3 p. 44 (vd. Magnelli, Studi p. 25), [Orph.] Hymn. XXXIV 1 Quandt, Hymn. in Apoll. GDRK LI 10, Paul. Sil. Anth. Pal. VI 54, 1 = 4, 1 Viansino, ep. adesp. App. Plan. 279, 4 (Avkopeinv



κιθάρην D. Gli altri frammenti callimachei di argomento delfico sono indicati da Pf. nel comm. al fr. inc. sed. 517. Quanto si è detto in precedenza rende molto improbabile che il fr. inc. sed. 725 Pf. =

(Hec.) fr. inc. sed. 178 H. καὶ ὡς λύκος ὠρυοίμην ladombri l'etimologia del borgo di Licorea e vada accostato al nostro frammento. Vd. l'annotazione dopo 1] testo.

Frammenti

159-160 (Faleco di Ambracia)

Che C. narrasse in qualche sua opera la storia di Faleco dilaniato ad Ambracia da una leonessa perché ne aveva preso in braccio un cucciolo, era già noto dal fr. 159. Pf. collegò congetturalmente a questo mito il fr. 160, dal quale apprendiamo che C. - nel terzo libro degli Aitia - menzionava un leoncino. L'intuizione di Pf. è ora confermata da un nuovo frammento delle Diegeseis Mediolanenses, pubblicato da C. Gallazzi e L. Lehnus (PMil Vogliano inv. 1006, 1-7), nel quale si riconosce con chiarezza l'esposizione della vicenda di Faleco, dato che in esso compaiono - fra l'altro - le mani di qualcuno e una leonessa fresca di parto. La nuova porzione della Diegesis dimostra inoltre che la storia era collocata a questo punto del terzo libro. Vd. nel testo le annotazioni dopo ifrr. 159 e 160.

Frammento

159 (665 Pf.)

Nel v. 501 5. dell'/bis, Ovidio augura al suo nemico di incontrare nella regione patria una leonessa della sua terra che abbia appena partorito e di venire da essa ucciso come accadde a Faleco. Lo scolio ad loc. spiega che l'epirota Pegaso (sic), uscito a caccia durante l'assedio di Ambracia,

si imbatté in un leoncino, lo sollevò

da terra e venne inseguito

e

sbranato dalla madre del cucciolo: lo scolio aggiunge che la vicenda era narrata da C. La frase τ]ῶν οἰκείων, presente nella Diegesis Mediolanensis, indica forse che l'insistenza di Ovidio sul carattere encorico dell'incontro tra Faleco e la leonessa recupera un elemento già offerto dalla trattazione callimachea (vd. l'app. a Dieg. Y 3). Le forme Pegasus e Paphagus, con le quali gli scoli ovidiani designano alternativamente il protagonista della vicenda, non sono altro che versioni corrotte del nome originale: gli scoli all'/bis, infatti, presentano spesso corruzioni e variae lectiones dei nomi propri (vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 663). Che la forma impiegata da C. fosse Φάλαικος, è dimostrato sia da Ovidio sia da un excerptum di Antonino Liberale (IV 5) derivante dal primo

libro delle Metamorfosi di Nicandro (fr. 38 Schneider): ὅτε Φάλαικος ἐτυράννευε τῆς πόλεως (scil. "Außpaxtac), οὐδενὸς αὐτὸν δυναμένου κατὰ δέος ἀνελεῖν, αὐτὴν (scil. Αρτεμιν) κυνηγετοῦντι τῷ Φαλαίκῳ προφῆναι εκύμνον λέοντος, ἀναλαβόντος δὲ εἰς τὰς χεῖρας ἐκδραμεῖν ἐκ τῆς ὕλης τὴν μητέρα καὶ npocnecodcav ἀναρρῆξαι τὰ cr£pva τοῦ Φαλαίκου. τοὺς δ᾽ ᾿Αμβρακιώτας ἐκφυγόντας τὴν δουλείαν “Apteuw ‘Hyeuôvnv ἱλάεαεθαι καὶ ποιηεαμένους ᾿Αγροτέρης εἴκαομα παραςτήεαεθαι χάλκεον αὐτῷ θῆρα. Antonino, come si vede, tramanda una versione del mito più dettagliata di quella fornita dallo scolio ovidiano: Faleco, tiranno di Ambracia, era inviso ai suoi sudditi; un giorno, durante la caccia, Artemide gli fece incontrare un cucciolo di leone, che Faleco prese fra le

302

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

braccia; la leonessa madre, fuoriuscita dalla selva, lo dilaniò; gli Ambracioti, finalmente li-

beri dalla tirannide, si ingraziarono Artemide Egemone ed eressero un gruppo bronzeo nel quale era effigiata la dea Cacciatrice (Agrotera) con accanto una leonessa (vd. Cameron, Mythography p. 181 s.). Come nel nostro caso lo scolio al v. 501 dell'/bis cita C. a proposito di una leggenda narrata anche da Nicandro, così lo scolio al v. 475 dell'/bis cita Nicandro in merito a un mito rievocato anche da C. (cf. fr. 174, 64-69 con il comm.): la circostanza mostra una volta di più che il poeta colofonio si ispirò spesso agli Aitia (vd. il comm. al fr. 63). Dalla Diegesis, per di più, si ricava che nella nostra elegia figurava una promessa degli Ambracioti ad Artemide: con ogni probabilità, dunque, già C. narrava che essi innalzarono la staua della dea con una leonessa. Più sintetica è la testimonianza di Eliano (Nat. an. XII 40), secondo il quale la leonessa è oggetto di venerazione da parte degli Ambracioti perché il loro tiranno Faillo (sic) fu ap-

punto sbranato da una leonessa: ᾿Αμπρακιῶται dé, ἐπεὶ τὸν τύραννον αὐτῶν Φαύλον διεςπάεατο λέαινα, τιμῶει τὸ ζῷον αἴτιον αὐτοῖς ἐλευθερίας γεγενημένον. C. può avere tratto la storia di Faleco da Atanada, autore di un'opera storica intitolata ᾿Αμβρακικά, che Antonino Liberale indica come sua fonte insieme a Nicandro nell'intestazione del capitolo quarto (FGrHist 303 F 1) e che Jacoby colloca dubbiosamente all'inizio del III sec. a.C. (vd. FGrHist III B, Kommentar p. 10). È inoltre verisimile che la tirannide di Faleco risalga al V o al IV sec. a.C. Per quanto riguarda sia Atanada e Faleco sia il santuario di Artemide Egemone e la statua di Artemide Agrotera sia la frequente connessione tra Artemide e 1 leoni, vd. C. Gallazzi - L. Lehnus, «ZPE» vd. Wilamowitz, Hell. Dicht. II pp. 99, 319 s.

137 (2001), pp. 9-11. In generale

Che una leonessa epirota fresca di parto sia estremamente pericolosa per un cacciatore,

viene detto da C. anche in Cer. 50-52 χαλεπώτερον ἠὲ κυναγόν | épeciv ἐν Tuapiorciv ὑποβλέπει ἄνδρα λέαινα | ὠμοτόκος, τᾶς φαντὶ nekew βλοουρώτατον ὄμμα (per un'immagine più generica, cf. Ov. Mer. XIII 547 5. utque furit catulo lactente orbata leaena | signaque nacta pedum sequitur, quem non videt, hostem). A quanto afferma Pausania (II 3, 9), nel poema epico Naupactia si raccontava che Mermero, figlio di Giasone e Medea, fu ucciso da una leonessa mentre andava a caccia in Epiro (fr. 9, Ip. 126 Bernabé = fr. 9 Davies). Gli Epiroti hanno a che fare con una singolare statua di Artemide anche nei frr. 35-38; di carattere insolito è pure la statua di Atena sulla quale verte il fr. 110. Per quanto concerne

Ambracia, cf. Call. Ep. XXIII 1 Pf. = HE 1273 ὡμβρακιώτης Ι. Se, com'è probabile, C. impiegava qui il vocabolo λέαινα, si tenga presente che la parola è attestata a partire da Eschilo (Ag. 1258, forse TrGF 426): C. la utilizza in Del. 120 e Cer. 51.

Frammento

160 (60 Pf. = SH 268A)

L'Etymologicum Magnum testimonia τοῖα βρέφος, normalmente applicata ai ogni probabilità, quest'ultimo termine si sua unica occorrenza omerica (11. XVIII

che nel bambini riferisce 319, vd.

terzo libro degli Aitia C. impiegava la paneonati, per designare uno ckbuvoc. Con a un cucciolo di leone, come risulta dalla il comm. al fr. 149, 11 cxJouvoc) e dalle

delucidazioni di Aristoph. Περὶ övouaciac ἡλικιῶν fr. 172 B Slater ap. Aelian. Nat. an. VII 47 τῶν ἀγρίων ζῴων τὰ ἔκγονα τὰ νέα διαφόρως ὀνομάζεται ... λεόντων γοῦν cKbuvot ... παρδάλεων κτλ. (cf. anche Eustath. p. 1625. 45). Il leoncino in questione è molto verisimilmente quello raccolto per sua disgrazia da Faleco: vd. il comm. ai frr. 159-

160.

COMMENTO: Come

AET.II FRR. 159-162

si è detto, in genere il vocabolo denota i bambini neonati (cf. Aristoph.

303 Περὶ

ὀνομαείας ἡλικιῶν fr. 37 Slater βρέφος. τὸ ἄρτι γεγονός, a proposito di una persona). Ma già nella sua unica attestazione omerica esso spetta a un feto di mulo (1. XXIII 266 βρέφος ἡμίονον, vd. il comm. al fr. inc. sed. 122 βρεφέων) e lo si trova poi riferito a cuccioli di vari animali: cf. non solo lo stesso Call. Ap. 51 (capra), ma anche p.es. Herodot. III 153, 1 (mulo), Phylarc. FGrHist 81 F 36 (elefante), Aelian. Nat. an. III 8 (cavallo), Opp. Hal. V 464 (delfino). Come

osservano C. Gallazzi e L. Lehnus, «ZPE»

137 (2001), p. 11 s., 1 seguenti fram-

menti callimachei di incerta sede potrebbero risalire alla storia di Faleco: ıl fr. 509 Pf., dov'è menzionata la città epirotica di Buchezio; il fr. 523 Pf., a proposito di qualcuno che divora del sangue (il soggetto potrebbe essere la leonessa); il fr. 620? Pf., nel quale si parla di una fanciulla che ancora non indossa la cintura e affibbia la veste su una sola spalla (come Artemide Agrotera?); ıl fr. 646 Pf., dove si nomina l'Aratto, il fiume di Ambracia.

Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis Mediolanensis.

Frammenti

161-162 (Le Tesmoforie attiche)

Gli scarsi resti di un lemma, che si individuano in un nuovo frammento delle Diegeseis Mediolanenses pubblicato da C. Gallazzi e L. Lehnus (PMilVogliano inv. 1006, 8), corri-

spondono con ogni probabilità al primo verso di questo aition (fr. 161, vd. l'app. a Dieg. Y 8 s.). Più ampio e meglio conservato è il fr. 162, che trasmette in forma parziale gli ultimi dodici versi dell'elegia: dai vv. 9-12 si ricava che in questa sezione C. trattava la festa attica delle Tesmoforie, celebrate dalle donne in onore di Demetra.

Frammento

161 (nuovo)

Il contenuto del frammento non è determinabile.

Frammento

162 (63 Pf.)

I primi otto versi del frammento,

benché trasmessi in condizioni non pessime, restano

molto oscuri: essi dovevano contenere la parte finale di un mito che spiegava il tabù cultuale esposto nella chiusa dell'aition (vv. 9-12). Nel v. 1, dopo la menzione di una fanciulla o di un fanciullo, compare forse una dea (da identificare probabilmente con Demetra, cf. v.

6), cui potrebbe riferirsi l'oppressione d'animo descritta nel v. 2. Abbiamo poi una donna intenta a chiamare (v. 3) e una vecchia che comincia qualcosa o va da qualche parte ed è forse collegata a un vicino (v. 4). Nel v. 5 figura il verbo vedere e forse si dice che qualcuno non richiamò qualcun altro che andava via. Il quadro diventa più chiaro nei vv. 6-8, che presentano l'ira di una dea (quasi certamente Demetra) nei confronti di una fanciulla. Gli elementi di questa narrazione non si addicono ad alcun mito di nostra conoscenza. I vv. 9-12 illustrano le conseguenze rituali della storia appena narrata: le vergini attiche non possono assistere ai misteri di Demetra Legislatrice (Oecuogbpoc) prima di sposarsi. Il frammento ha suscitato delle perplessità anche sul piano formale. Maas propose in un primo momento di espungere il distico conclusivo (v. 11 s.) e congetturò in séguito che l'intero frammento fosse spurio, in quanto il suo stile non gli sembrava degno di C. (vd. l'app. al v. 11 s.): in effetti, a prima vista, la collocazione di participi medi femminili alla fine di ben tre pentametri (vv. 2, 4, 8) appare alquanto ripetitiva e l'insistenza sul corruccio della dea in ben tre versi consecutivi (vv. 6-8) risulta piuttosto ridondante.

304

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Ma l'ipotesi che il nostro frammento tramandi la parte finale di un'elegia non callimachea infiltratasi nella compagine degli Aitia - già di per sé poco plausibile - è stata efficacemente respinta su basi letterarie da Hollis, Aftica p. 13 n. 61 e più specificamente stilistiche da Magnelli, Callimaco pp. 48-55. Hollis osserva a ragione che l'insistenza sul motivo dell'ira di Demetra (cf. vv. 2 e 6-8) è interpretabile come una voluta ripresa dell'inno omerico alla dea (II), dove questo tema ha già un forte rilievo, in riferimento alla stoltezza di

Metanira (cf. vv. 251 | τῇ δὲ χολωςαμένη, 254 θυμῷ Kotécaca pod’ αἰνῶς |) e al ratto di Persefone (cf. v. 330 | θυμῷ ywouévno). Magnelli rileva acutamente che la comparsa, nella chiusa del frammento, di frasi in apparenza conformi alla sintassi omerica, ma in realtà im-

piegate all'interno di giri sintattici diversi (vd. i comm. ai vv. 9 οὔ rac éctiv e 11), non rappresenta solo «un voluto scarto rispetto alla dizione epica», ma realizza anche «un procedimento di deliberata misdirection e successivo riorientamento del lettore» (p. 52), senz'altro ascrivibile alla raffinata tecnica compositiva di C. Hollis, Articap. 14 5. ha anche avanzato una verisimile congettura riguardo al contenuto complessivo del frammento: avremmo qui una vicenda simile a quella narrata nell'inno omerico a Demetra (ma comunque da essa distinta), dove figurerebbero una famiglia attica che ospita la dea (vd. il comm. al v. 4) e una fanciulla di questa famiglia che si macchia di una qualche colpa, scatenando l'ira della divinità. Lo studioso riconosce che lo stato del testo non consente ricostruzioni più dettagliate (alcune proposte, avanzate in questo senso da Hollis stesso e da W.

S. Barrett, N. J. Richardson e R. Parker,

sono registrate da Hollis,

Attica p. 14 n. 62; vd. anche l'app. ai vv. 1,3 e 8). Va comunque escluso che il fr. inc. lib. Aet. 89 e il nostro frammento tramandino rispettivamente l'inizio e la fine di un unico carme: vd. il comm. al frr. 89-96. 1-3: I tre versi, vergati da una mano diversa nel margine superiore del papiro prima del v. 4, spettano con ogni probabilità a questo punto del nostro aition piuttosto che alla perduta sezione inferiore della pagina, dopo il v. 19 del fr. 163.

2 Bapv[vopé]vn: Il verbo assume il significato di essere oppresso in termini morali in Il. exc. fr.4, 8,1 p. 92 Bernabé = fr. 1, ὃ Davies Bapvvönevöv te νόημα | (riguardo alla furia di Aiace); per questa forma di participio, cf. inoltre [Theogn.] 990* (pure qui con valore metaforico). C. impiega il verbo nel senso suddetto anche in Del. 244 | ’Actepin δ᾽

οὐδέν τι βαρύνομαι (parole di Era; vd. il comm. di Gigante Lanzara). Cf. poi Strat. Anth. Pal. XII 221, 6 = 64, 6 Floridi βαρυνόμενος" (l'ira di Zeus). Del nostro passo sembra risentire più specificamente Nonn. Dion. VI 8 βαρυνομένης δὲ θεαίνης |, a proposito dell'ansia di Demetra per Persefone. 4 ypnde: Hollis, Artica p. 14 n. 62 osserva che la vecchia in questione potrebbe essere Demetra stessa sotto mentite spoglie, come nel v. 101 dell'inno omerico a lei dedicato (vd. il comm. di Hopkinson a Call. Cer. 42).

5 où γάρ μιν | . . JkAñiccev|[ .Jovra: Pf. propone dubbiosamente di integrare [ἀνε]κλήϊοςεν [{όντα (infatti non lo richiamò mentre andava, vd. app.). Per la forma di aoristo, cf. fr. epic. adesp. SH 953, 16 = Antim. fr. dub. 199, 16 Matthews &xAmMicce | (con il comm. di L.J.-P.).

6 ἀνὰ ... [E]yevro: Se qui abbiamo una tmesi, si osservi che il verbo ἀναγίγνομαι è attestato solo in questo passo. La forma aoristica ἔγεντο si rinviene presso Hes. Theog. 705, fr.43 a, 32 M.-W. (suppl.) e - senza l'aumento - presso Hes. Theog. 199 (vd. il comm. di West), 283. Vd. anche il comm. al fr. 65, 18 e il comm.

di Bulloch a Call. Lav. 59.

7 περὶ gpeciv ἀχθήναεα: A quanto pare, qui περί ha funzione avverbiale, come nel

COMMENTO:

AET.II FR. 162

305

brano omerico περὶ κῆρι ... ἐχολώθη | (I. XIII 206), la cui parafrasi esibisce il nesso περιςςῶς τῇ ψυχῇ. Si noti inoltre che probabilmente, nelle due uniche attestazioni omeriche della sequenza περὶ ppectv (Il. XVI 157*, Od. XIV 433), la prima parola è un avverbio e la seconda è un dativo semplice. Il verbo ἀχθαίνω è un hapax, che appare costruito sul nome ἄχθος come κερδαίνω su κέρδος. L'esametro è spondaico: vd. Introd. IL1.A.a. 8 π[ό]τνα χαλεψαμένη: Del medesimo nesso fa uso C., proprio in riferimento a

Demetra, nel v. 48 5. dell'inno a lei dedicato: μή τι χαλεφθῇ Ι| πότνια Δαμάτηρ. La forma πότνα è in genere impiegata per il caso vocativo (cf. già Hom. Od. V 215 al). Il suo uso nel nominativo si riscontra presso [Hom.] Hymn. II 118 πότνα θεάων | (in merito a Demetra, vd. il comm. di Richardson), Quint. Smyrn. IV 272, Agath. Anth. Pal. X 68, 4 = 53,4 Viansino*, Arab. Schol. App. Plan. 314, 2, ep. adesp. Anth. Pal.I 70, 1.

Il verbo χαλέπτω è un hapax sia omerico (Od. IV 423) sia esiodeo (Op. 5): in entrambi i passi la parola si riferisce a una divinità che danneggia, opprime un essere umano. C. invece usa Il verbo nel significato di irritare, far sdegnare. oltre al nostro passo e al luogo

dell'inno a Demetra riportato sopra, cf. Cer. 71 técco Διώνυοον γὰρ ἃ καὶ Δάματρα χαλέπτει. È interessante osservare che la parola, in tutte le sue attestazioni callimachee, è

impiegata a proposito di Demetra. Quanto all'utilizzo del medio yæhéntec@ou con il dativo (sdegnarsi contro qualcuno, cf. qui xoòpni), si possono richiamare Nic. Ther. 309

ἐχαλέψατο φύλοις le App. Bell. civ. II 29 αὐτῷ χαλεψάμενος al. In poesia il participio χαλεψάμενος viene usato (forse per imitazione di questo pentametro) da Ap. Rh. I 1341, III 382, Dion. Per. 484 χαλεψαμένης ᾿Αφροδίτης | e ha sempre il medesimo senso del nostro passo.

9-12: C. afferma che le vergini attiche non possono assistere alle Tesmoforie prima di sposarsi. Vari passi delle Thesmoforiazusae di Aristofane attestano che la festività era celebrata dalle donne maritate: cf. soprattutto il v. 330 (nonché Isae. VIII 19, III 80). Il v. 1150 s. della medesima commedia dimostra che gli uomini non avevano accesso alle Te-

smoforie: ἄνδρας iv’ où θέμις eicopàv | ὄργια. Invece l'esclusione delle vergini, asserita nel nostro aition, non ci è nota da ulteriori fonti. D'altro canto non si attribuisce in genere

alcun valore a due testimonianze (la prima testualmente guasta e la seconda molto tarda), dalle quali risulterebbe che le vergini partecipavano alle Tesmoforie: cf. Schol. (PT)

Theocr. IV 25 c εἰεὶ δὲ τὰ Θεεομοφόρια τοιαῦτα: FrapBévor γυναῖκες καὶ τὸν βίον ceuvai κτλ. (a torto corretto in παρθένοι γενναῖαι da Ahrens) e Lucian. Dial. Meretr. II 1 εἶδον ... αὐτὴν (scil. παρθένον) ... ἐν τοῖς Oecuogopior (non manca, però, chi presta fede a Luciano, come p.es. A. Kledt, Die Entführung Kores, Stuttgart 2004, pp. 115-120, che di conseguenza interpreta diversamente il passo callimacheo: il poeta qui non direbbe che le fanciulle sono escluse dalle Tesmoforie, bensì che durante quelle feste alcune fanciulle hanno

il compito di ripetere ritualmente una trasgressione compiuta in passato da una ragazza (cf. v. ὃ κούρη!) ai danni di Demetra). Riguardo ai nostri versi, vd. anche l'annotazione successiva al comm. 9 τοὔν]εκεν: La frase ha funzione eziologica, perché illustra gli effetti dell'evento mitico sul tempo presente, come τοὔνεκα

Hollis). οὔ πως

in Hec. fr. 278, 1 Pf. = 99, 1 H. (vd. il comm.

di

éctiv: Se L. ha ragione a integrare εὐαγ]ές nel v. 12, la frase è collegata a

quest'aggettivo (non è affatto pio) e regge con esso l'infinito ἰδέ[ςθ]αι. Data la forte traiectio, però, il lettore ha inizialmente l'impressione di trovarsi davanti al tipico nesso

306

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

omerico οὔ rac ἔςτι(ν) (non è possibile) con l'accusativo e l'infinito o con il semplice infimito: cf. ZI. XII 65 al. Νά. app. Sul piano metrico, la fine di parola dopo πῶς produce una violazione della «legge di Hilberg» (vd. Introd. IL.1.A.c.iii.).

En’ ὄθμαειν olilcıv idé[c0]o1: Cf. Quint. Smym. VIII 440 μετ᾽ ὄμμαειν oicıv ἴδωμαι. L'espressione ricorda Hom. I. I 587 ἐν ὀφθαλμοῖειν ἴδωμαι | (la frase ricorre, con vari modi e tempi dei verbi ὁράω e νοέω, in numerosi passi dei due poemi); si può an-

che richiamare Call. Hec. fr. 374 Pf. = 72 H. öuuocı* ... | éccouévn. Cf. inoltre Leonid. Tar. App. Plan. 306, 3 = HE 2153 ἐπ᾿ duuocw* ... δεδορκώς |. Nel nostro passo l'infinito ἰδέ[ςθ]αι designa la visione dei misteri di Demetra proprio come ἴδες nel fr. 174, 6 (vd. il comm. ad loc). Il nesso ἐπ᾿ Suuaci si trova già presso Hom. Z/. X 91*, Od. V 492. Per la forma ὄθμα, vd. il comm. al fr. 1, 37 (ai passi raccolti in quella sede sı può ora aggiungere il fr. 144, 20).

10 Δηοῦς ὄργια Θεεμοφόρου: Per la frase Δηοῦς ὄργια, cf. Antiphil. Anth. Pal. IX 298, 5 = GP 1027 ὄργια Anoûc I, SGOI 01/19/05 v. 13 1 Anodc ... ὄργια, GVI 879, 3 | ὄργια ὦ Δηοῦς I. L'appellativo Ano di Demetra, assente nei poemi omerici, ricorre nell'inno omerico alla dea (II 47, 211, 492); nel fr. 23, 10* C. ne fa uso a proposito dei misteri eleusini. Il

vocabolo ὄργια - anch'esso estraneo ai poemi omerici - si riferisce ai misteri di Demetra (eleusina) presso [Hom.] Hymn. II 273 (vd. il comm. di Richardson), 476, Aristoph. Ran. 386; nel nostro passo, il suo accostamento all'epiteto Oecuopöpov senza indicazioni di luogo mostra che C. si riferisce specificamente alle Tesmoforie attiche: cf. Aristoph. Thesm. 948 ὄργια ceuvà θεαῖν, 1151. La designazione ®ecuoWöpoc compare anche nel fr. 1, 10*, dove però non è accompagnata dal nome della dea: vd. il comm. ad loc. e A. B.

Stallsmith, «GRBS» 48 (2008), pp. 115-131. Magnelli, Callimaco p. 50 chiama a confronto Isid. Hymn. IV 4 Vanderlip Δηοῖ dyictn

Tai θεεομοφόρῳ. 11 πρὶν] nöcıv ἐλθέμεναι, πρὶν νύμφια λέκτρα τελέεεαι: La lacuna iniziale viene colmata molto bene dall'integrazione πρὶν], dubbiosamente proposta da Pf.: C. afferma che per le vergini attiche non è pio assistere ai misteri di Demetra prima di giungere allo sposo, prima di adempiere il letto nuziale (l'accusativo semplice röcıv esprime il complemento di moto a luogo εἰς nöcıv e la geminazione di πρίν è analoga alla sequenza

μέχρις - μέχ]ρι oppure μέχρις - ἄχ]ρι del fr. eleg. 388, 9 s. Pf.). L'anafora asindetica di πρίν rafforza l'effetto endiadico delle due proposizioni temporali, sicché è sconsigliabile correggere il secondo πρὶν in καὶ, come suggerisce con ogni cautela lo stesso Pf. Del resto, Magnelli ha scoperto che sia il supplemento iniziale sia la ripetizione di πρίν sono confer-

mati dall'eco callimachea presente nel v. 3 di SGO I 04/07/05: πρὶν γάμον ἐκτελέςαι, πρὶν εἰς μέτρον ἀνέρος ἐλθεῖν (vd. app.). Non credo, però, che il passo in questione debba indurci a vedere in ròcw il soggetto della nostra prima infinitiva (prima che giunga lo sposo, come intendono D'Alessio e Magnelli, Callimaco p. 54 s.): ritengo invece che le due infinitive condividano il soggetto sottinteso παρθενικάς (desumibile dal παρθενιϊκαῖς del v. 10), realizzando così una perfetta endiadi (sul piano espressivo, cf. Marc. Arg. Anth. Pal.

IX 229, 6 = GP 1432 κούρη πρὸς πόειν ἐρχομένη l). Lo stesso Magnelli, Callimaco p. 52 s. allega opportunamente una serie di passi (non anteriori a Euripide), che esibiscono - come il nostro verso - l'anafora πρὶν ... πρὶν con due infiniti: questo tipo di sintassi rappresenta una voluta deviazione dall'usus omerico, dove una sequenza di due πρίν implica di norma che il primo sia prolettico e avverbiale e che

COMMENTO:

AET.II FR. 162

307

solo il secondo sia una vera e propria congiunzione. Sicuramente da scartare sono l'integrazione e la lettura καὶ] nociv di Howald-Staiger,

che coordinerebbero l'infinito ἐλθέμεναι all'iög[cA]aı del v. 9 (e andare [lì] con i propri piedi): infatti, al di là di ogni altra considerazione, l'accentazione röcıv è garantita dal papiro (vd. app.).

νύμφια λέκτρα τελέξεςαι: Della frase callimachea è memore Nonn. Dion. XLVII 619 I vvugie, λέκτρα tékeccov (vd. Hollis, Artica p. 13 n. 61). Per il nesso, cf. Lyc. 1387 | vougeto … τελεῖν |, Nonn. Dion. XXXIII 306 ἵνα λέκτρα ... tek&cco |, nonché [Opp.] Cyn. I 254 5. τετέλεετο |... θάλαμος e le espressioni ἡμιτελὴς θάλαμος (Diod. Anth. Pal. VII 627, 1 = GP 2130, SGOI 04/24/14 v. 4), ἀτέλεετοι θάλαμοι (SGO II 09/07/10 (= V 24/15) v. 5 s.) e τέλος εὐνῆς (Opp. Hal. I 537). Cf. inoltre [Hom.] Hymn. XIX 351 ἐκ δ᾽ &réAhecce γάμον, Call. Ap. 14 τελέειν ... γάμον, Theocr. XVII 131, XXII 206, Ap. Rh. IV 1161, Maxim. De action. ausp. 64, [Opp.] Cyn.II 205, III 152, 377, Carm. Anacreont. XXXVI

16

e LX 23 West, Nonn. Dion. XVI 341, XLVII 645, Agath. Anth. Pal. VI 79, 6 = 63, 6 Viansino, ma anche Hom. Od. XX 74 τέλος ... γάμοιο |, Pind. Pyth. IX 66 γάμου ... τελευτάν |, Theoer. XXII 165 s., Ap. Rh. IV 1202, Antip. Sid. Anth. Pal. VI 276, 3 = HE 512, Opp. Hal.I 514, nonché l'aggettivo teAecciyauoc (Nonn. Dion. I 220 al., Met. XVII 51, Musae.

279) e le espressioni γάμος ἀρτιτέλεοτος e ὀψιτέλεετος (Nonn. Dion. XVI 333, XLII 385, XLVII 478). La frase νύμφια λέκτρα si rinviene (ma alla fine dell'esametro) presso GV/ 1853, 1 =

SGO III 16/22/02 v. 3 = 16/25/01 v. 3 = 15/03/06 e Agath. Anth. Pal. VII 583, 1 = 69, 1 Viansino (si osservi che l'epigramma tramandato dalla seconda iscrizione sembra risentire

di C. anche nel v. 4, dove il comparativo πλεόζνω]ν si riferisce ambiguamente ai morti come πλείονες nell'Ep. IV 2 Pf. = HE

1270). Più in generale cf. già Pind. Nem. V 30 5.

νυμφείας ... | εὐνᾶς e poi Ap. Rh. I 1031 νυμφιδίους θαλάμους καὶ λέκτρον ἱκέεθαι |, Posidipp. Ep. 58, 1 Austin-Bastianini ἐπὶ νύμφιον ἦλθε λέχος (vd. Bastianini-Gallazzi p. 181), Diod. Anth. Pal. VII 627, 1 = GP 2130 νυμφικὰ λέκτρα |, [Sim.] Anth. Pal. VII 507 bis, 1= [ΟΕ 1018 νυμφεῖα λέχη. νύμφια: L'aggettivo è attestato forse già presso Pind. Pyth. III 16 τράπεζαν vougiav | (coni.). Cf. pol - oltre al brano di Posidippo, alle epigrafi e al passo di Agazia riportati sopra

- Posidipp. Ep. 46, 5 Austin-Bastianini θαλάμων ἐπὶ νύμφιον οὐδόν, Nonn. Dion. XXXII 34 ᾿Ινύμφιον ... αἷμα. λέκτρα: Per questo sostantivo, l'uso del plurale al posto del singolare è un fenomeno post-omerico. 12 eday]éc: Il supplemento, proposto da L., non è esente da dubbi: vd. il comm. al v. 9 οὔ πῶς éctiv. L'aggettivo εὐαγής è estraneo ai poemi omerici, ma la forma avverbiale εὐαγέως si riscontra nell'inno omerico a Demetra (II 274, 369). Cf. anche Call. Del. 98

εὐαγέων δὲ Kal ebayfeccı μελοίμην | con il comm. di Mineur e Theocr. XXVI 30 αὐτὸς δ᾽ εὐαγέοιμι καὶ εὐαγέεςοιν &dou con il comm. di Gow. ἐκ κείνου χρήματος: L'espressione indica il punto di partenza eziologico del rito descritto nei vv. 9-12: il vocabolo χρήματος rimanda all'episodio mitico narrato nei versi

precedenti (vd. Magnelli, Callimaco p. 55 n. 33). Per il tipo di frase, cf. fr. 50, 78 ἐ[κ δ᾽ ἔτι κείνου con il comm. ᾿Ακτιάειν: L'etnico è attestato solo qui: da C. lo desume Verg. Georg. IV 463 Actias Orithyia | (vd. Kenney p. 331; riguardo alla predilezione callimachea per gli etnici femminili in -τός, vd. il comm. al fr. 96). Esso si collega al toponimo ’Axrn, equivalente di

308

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

᾿Αττική: per ᾿Ακτή, cf. Eur. Hel. 1673, Lyc. 111, Call. Jamb. fr. 194, 68 Pf., Euph. CA fr. 34, 1 p. 37 (coni.), Aglai. SH 18, 26 (coni.). La forma maschile dell'etnico, cioè ”Axrtıoc, si

rinviene presso Euph. CA fr. 16 p. 33. L'etnico femminile alternativo ᾿Ακταίη è la prima parola dell'Ecale di C. (fr. 230 Pf. = 1 H.). νά. R. Mayer, «G&R» S. II 33 (1986), p. 51. Se il fr. inc. sed. 259 riguarda una donna che si nutre di un papavero durante le Tesmoforie, può darsi che esso spetti a questo aition. Il medesimo collegamento vale forse per il fr. inc. sed. 266, dove troviamo Demetra assisa su un pozzo di Eleusi dopo il rapimento di Persefone. Non si può escludere che 1 frr. inc. sed. 610 Pf. e 704 Pf., forse pertinenti alle Tesmoforie, risalgano alla nostra elegia: vd. 1 comm. ad locc. Ammesso che West abbia ragione a ritenere callimachee le parole οἷς où θέμις ὄμμα βάλῃειν, citate anonimamente da Sinesio (Suppl. SH 308 B), si potrebbe prendere in considerazione l'ipotesi che esse facessero parte del nostro aition, come suppone Hollis in base al confronto con il fr. 162, 9-12. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammento

163 (64 Pf.) (Il sepolcro di Simonide)

Per uno studio approfondito del frammento, vd. Massimilla, Simonide: parte di ciò che segue è una versione abbreviata di quel saggio. Il primo verso del frammento coincide con l'esordio dell'aition. La persona loquens dei vv. 1-14 (come apprendiamo soltanto nel v. 8) è 1] defunto poeta Simonide, che narra la storia del suo sepolcro a un interlocutore imprecisato e probabilmente anonimo (cf. vv. 1 tot, 5 diodec). Poiché - come vedremo - la tomba in questione era stata distrutta, la voce di Simonide non può derivare da essa (secondo la consuetudine degli epigrammi funerari, rispettata invece nell'undicesimo giambo callimacheo, fr. 201 Pf.): con ogni verisimiglianza, C. non specificava da dove provenisse (non è verificabile l'ipotesi di Barigazzi, Due note p. 59, secondo il quale l'antico poeta parla da un nuovo sepolcro, che gli è stato costruito dagli Agrigentini). Simonide afferma che manomettere il sepolero di un uomo pio dà luogo a terribili mali: lo dimostra la vicenda di Fenice, condottiero agrigentino, che osò smantellare la tomba del

poeta di Ceo, costruita dagli abitanti di Agrigento davanti alla loro città, e inserire la sua lapide in un baluardo, senza rispettare né la grandezza di Simonide né la maestà dei Dioscuri, 1 quali un tempo lo avevano salvato dal crollo della casa degli Scopadi nella città tessalica di Crannone. I vv. 15-19 sono molto malridotti. Il v. 15 si apre con una probabile apostrofe ai Dioscuri: può darsi che cominciasse qui una preghiera, pronunciata ancora da Simonide o meno verisimilmente da C. in prima persona. Nel v. 16 si riconosce forse il vocabolo tomba (vd. app.). L'intero aition doveva concludersi dopo non molto, visto che nel POxy. 2211 il v. 19 occupa il ventottesimo rigo di una pagina, la cul facciata successiva comincia con gli ultimi nove versi dell'aition seguente (fr. 165), sicché il trapasso da una sezione all'altra avveniva di certo nella parte inferiore della pagina in questione: anzi, non è escluso che il v. 19 sia in realtà l'inizio delle Fonti di Argo (frr. 164-165; vd. l'app. al v. 19 e l'annotazione dopo il testo). In tal caso, nel complesso dell'opera il nostro frammento rappresenterebbe uno dei pochi aitia conservati dall'inizio alla fine (cf. anche il fr. 50, 18-83 del secondo libro e il fr. 64, 4-17, che appartiene probabilmente al terzo libro). In ogni modo, è possibile che nella chiusa di questo breve aition si accennasse al castigo

COMMENTO:

AET.TII FRR. 162-163

309

di Fenice, la cui inevitabilità era asserita da Simonide nel distico iniziale: come ci informa

Eliano (vd. l'app. delle fonti ai vv. 7-9), il baluardo costruito con le pietre del sepolcro di Simonide servì al Siracusani per espugnare Agrigento (vd. Barigazzi, Due note p. 57; sulla localizzazione del πύργος, vd. Lehnus, Medley p. 31 s.; per un possibile parallelo bizantino all'elegia callimachea, vd. Livrea, Simonide pp. 55-57). La maestria stilistica di C. dà qui una delle sue prove migliori. I due versi iniziali contengono una massima, la cui dimostrazione comincia nel v. 3 (y]&p) e si snoda in un unico periodo di ben dodici versi, dove sono concisamente toccati molti temi: l'innalzamento del

sepolcro da parte degli Agrigentini, la sua distruzione e il suo riutilizzo a opera di Fenice, il padre e la patria di Simonide, la sua statura intellettuale, l'intervento salvifico dei Dioscuri e

il crollo della casa degli Scopadi. Il periodo in questione si articola su una ricca ipotassi. Come si è detto, a esporre la vicenda è il protagonista stesso, cioè il defunto Simonide. Nella seconda metà degli Aitia, venuta meno la cornice narrativa del dialogo onirico con le Muse, C. utilizza quest'artificio in più di un'occasione (vd. Introd. 1.4.E.). Nel caso di Simonide, viene importata negli Aifia una tipologia caratteristica degli epigrammi funerari (vd. Parsons, Hellenistic Epigram p. 129 s., Meyer pp. 226-228): in un monologo, il morto si rivolge dalla tomba a un ipotetico viandante, comunicandogli la sua identità ed esponendogli la sua storia. C. stesso ha utilizzato questa forma in vari epigrammi sepolcrali (cf. Epp. II, XXI, XXXV, XL Pf. = HE 1271 s., 1179 ss., 1185 s., 1255 ss. e gli altri passi r1chiamati da Massimilla, Simonide p. 49 n. 57).

Tuttavia il modello epigrammatico usuale subisce qui una variazione (vd. Harder p. 97). La tomba, dalla quale dovrebbe provenire la voce di Simonide, è stata smantellata: anzi, il

suo abbattimento è il perno intorno al quale ruota l'intera elegia. L'antico poeta parla da un luogo imprecisato e mette in guardia i vivi dalla punizione che inevitabilmente colpisce chi profana il sepolcro di un uomo caro agli dèi. Le parole di Simonide non sono solo un invito alla pietas, ma anche una celebrazione della letteratura. Cedendo la parola al suo illustre predecessore, giustamente vendicato per l'offesa subita, C. esalta le conquiste dell'ingegno umano e la grandezza della poesia.

15. Οὐδ᾽

ἄ]ν τοι Καμάρινα

técov

κακὸν

Ööxköcov

&[v]ôpéc

I κινη]θεὶς

δείου τύμβος ἐπικρεμάεαι: Simonide comincia il suo discorso asserendo che rimuovere la tomba di un uomo religioso causa un male più grave di quello prodotto dallo spostamento della palude Camarina (bisogna sottintendere un participio kwwnfeîca riferito a Καμάρινα come κινη]θείς spetta a töußoc). La menzione callimachea di Camarina si comprende alla luce di un proverbio illustrato da Zenob. Arh. II 25, IV p. 199.1 Bühler (=

Cent. V 18) un river Καμάριναν (Kouopivav codd.)* gacıv εἶναι λίμνην τῇ πόλει τῇ Kauapivn (παρακειμένην) (e Suid. s.v. μὴ κίνει Καμάριναν suppl. Crusius) ὁμώνυμον (τ) αὐτῇ (e Suid. 1.1. Bühler; ταύτη cod. L: ταύτην cod. M), ἣν οἱ Καμαρινζαῦοι (corr. Gaisford: -ivor codd.) μετοχετεῦεαι εἰς τὸ πεδίον βουλόμενοι ἐχρήσαντο τῷ θεῷ" ὁ δὲ εἶπε: ‘un κίνει Καμάριναν᾽ (Orac. 127, 1 Parke-Wormell). οἱ δὲ παρακούεαντες τοῦ χρηςμοῦ EBAdßncav. κἀκεῖθεν ἡ παροιμία εἴρηται ἐπὶ τῶν βλαβερῶς τι ποιεῖν ἑαυτοῖς μελλόντων. Zenobio, dunque, spiega che il proverbio Non muovere Camarina ha la seguente origine: gli abitanti di Camarina, intenzionati a canalizzare verso la pianura l'omonima palude, interpellarono Apollo; benché 1] dio ordinasse appunto di non muovere Camarina, essi trasgredirono al vaticinio e ne pagarono il fio; da allora in poi l'espressione è utilizzata per chi si appresta a compiere un atto che li danneggerà. Il proverbio figura anche presso Steph. Byz. σιν. Καμάρινα, Serv. in Verg. Aen. III 701

310

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(in entrambi i casi nella forma esametrica completa μὴ xiveı Καμάριναν, ἀκίνητος γὰρ ἀμείνων) e Suid. s.v. μὴ κίνει Καμάριναν (la cui delucidazione è quasi identica a quella di Zenobio). Il passo di Servio offre ulteriori informazioni: gli abitanti di Camarina volevano disseccare la palude perché questa aveva scatenato un'epidemia di peste; la loro disobbedienza fu punita quando 1 nemici irruppero in città proprio attraverso la zona che prima era occupata dalla palude (per eam partem ingressis hostibus poenas dederunt). Il riferimento callimacheo al proverbio è il più antico che noi conosciamo: cf. poi Verg. Aen. I 700 5. fatis numquam concessa moveri | ... Camarina (per imitazione di C., ai cul Aitia Virgilio si ispira anche nel v. 702: vd. il comm. al fr. 50, 46 e O' Hara, Influence p. 380), Sil. XIV

198 et cui non licitum fatis, Camarina, moveri, Nicarch. ep. POxy. 4502, 7 |

un] κίνει Καμάριναν, ep. adesp. Anth. Pal. IX 685, 1 e Orac. Sib. III 736 un κίνει Καμάριναν, ἀκίνητος γὰρ ἀμείνων, Claudian. Rapt. Pros. II 59 5. (a proposito delle Na 1adi) quas pigra vado Camarina palustri | ... nutrit |. Per il frequente impiego di proverbi da parte di C., vd. Pf. II, Index rerum notabilium s.v. proverbia (p. 138). Sul suo ricorso a questo specifico proverbio, vd. Lelli, Vo/pe p. 152 s. L'accostamento fra la palude Camarina e la tomba di Simonide è doppiamente appropriato. Innanzitutto, sia Camarina sia Agrigento (dove un tempo si trovava il sepolcro) si affacciano sulla costa meridionale della Sicilia; in secondo luogo, come i nemici entrarono

a Camarina attraverso l'area dell'antica palude (cf. supra il luogo di Servio), così 1 Siracusani occuparono Agrigento grazie al baluardo costruito con le pietre della tomba di Simonide (vd. l'app. delle fonti ai vv. 7-9). Per l'originale variatio della topica maledizione contro 1 violatori di tombe, ravvisabile in questo esordio, vd. Durbec, Callimaque p. 70 s., Garulli p. 252 5. (vd. anche più avanti il

comm. al v. 1 técov κακόν). 1 Καμάρινα: Per la città di Camarina, cf. fr. 50, 42* récov κακόν: Cf. Greg. Naz. Anth. Pal. VII 201, una tomba: vd. la fine del comm. introduttivo). TOÒCOv ... 6Kköcov:Cf. Call. Cer.30 Scov dkkôcov* fr. 282, 1 Pf. = 109, 1 H. | öxköcov ... öccov. Per il solo

ÖKÖcot. 1 5. ἀ[ν]δρός

con il comm. 1* (in merito alla profanazione di con il comm. di Hopkinson, Hec. öxköcov, cf. Jamb.fr. 191, 16 Pf.

I... èciov: L'espressione anticipa il contenuto dei vv. 11-14, dove si

palesa il rapporto privilegiato fra Simonide e i Dioscuri (cf. anche v. 9 ἄνδρα τὸν ἱερόν). L'aggettivo ὅσιος compare in poesia a partire da Theogn. 132* (per la frase omerica οὐχ

dein, vd. il comm. al fr. 174, 5). Per il nesso ἀ[ν]δρός I... δείου, cf. Aesch. Suppl. 27 δείων ἀνδρῶν |, Eur. Ale. 10 | δείου ... ἀνδρός, SGO I 01/12/06 v. 4 öcuoc ... ἀνήρ I, GVI 1572, 1; 1949, 8, [Apolinar.] Met. Ps. XCII 40, C 13, Greg. Naz. Carm. I 1, 27, 68 (PG 37 p. 503), Agath. Anth. Pal. XI 350, 2 = 12, 2 Viansino. Anche i vocaboli φώς e βροτός si trovano

qualificati da öcıoc: cf. da una parte Mel. Anth. Pal. VII 352, 8 = HE 4749 οὐχ δείῳ φωτί (a proposito di Archiloco) ed ep. adesp. Anth. Pal. IX 505, 7 s., dall'altra [Apolinar.] Mer. Ps. ΧΕΙ 22. Posidippo (Ερ. 45, 5 Austin-Bastianini) impiega la frase δοίη γυνή (vd. BastianiniGallazzi p. 164). 2 ἐπικρεμάεςεαι: Il verbo - che manca nei poemi omerici ma è attestato presso [Hom.] Hymn. TI 284 (ἐπικρέμαται, v.l. brokp.-) - viene talora usato nella forma attiva con valore metaforico, come nel nostro passo: cf. soprattutto [Theogn.] 205 5. οὐδὲ φίλοιειν ἄτην

ἐξοπίεω παιεὶν ἐπεκρέμαςεν (dove il dativo φίλοιοιν ... παιείν corrisponde al tor del nostro v. 1 e il verbo occupa la medesima posizione metrica del nostro pentametro), ma anche

COMMENTO:

AET.II FR. 163

311

Polyb. II 31, 7, Diod. XVI 50. Più frequente è l'impiego metaforico della diatesi mediopassiva: cf. Theogn.

1184*, Sim. PMG

520, 4, Pind. Isthm. VII

14, Thuc. I 53, 4, II 40, 7,

VII 75,7, Ap. Rh. Π 222 ἐπὶ ... κρέμαται κακόν (cf. κακόν nel nostro v. 1), III 483, Antip. Thess. App. Plan. 133, 6 = GP 562*, Antist. Anth. Pal. VI 237, 4 = GP 1104*. Per la collocazione metrica, cf. Leonid. Tar. Anth. Pal. VII 198, 2 = HE 2085*, ep. adesp. Anth. Pal.

IX 820, 2*. 3 ἐμόν

κοτε

cfipa: L'accusativo si riferisce al verbo κ]ατ᾽ ... ἤρειψεν del v. 5. Sul

piano metrico, è notevole la violazione della norma enunciata nell'Introd. I. 1.A.c.11. Per il

nesso, cf. Call. Ep. XXI 1 Pf. = HE 1179 ἐμὸν παρὰ cu“. cîiua ... μοι ... ἔχ[ευ]αν: Il nesso cua xé0 compare spesso nei poemi omerici (dove denota propriamente l'innalzamento di un tumulo): per la presenza del pronome μοι il nostro verso è soprattutto simile a Od. XI 75 | εἣμά τέ μοι χεῦαι, ma cf. anche 1]. VII 861

εἣμά té οἱ χεύωειν, Od. I 291 | cu té οἱ χεῦαι, II 222 | cfiud té où χεύω. Cf. inoltre Pind. fr. 169 a, 48 Sn.-M. 4 Ζῆν᾽ ᾿Ακραγαντῖνοι Eeivilol]v ἁζόμενοι: Gli Agrigentini, costruendo davanti alla loro città un sepolcro per Simonide di Ceo, hanno mostrato rispetto verso Zeus

protettore degli ospiti (cf. Hom. Od. XIV 57 5. πρὸς γὰρ Διός eicıv ἅπαντες | ξεῖνοι). Frasi simili si rinvengono presso [Hom.] Ep. VIII 3 | aiöeicde Zevioro Διὸς céBac, Alex. Aetol. CA fr. 3, 14 p. 122 = fr. 3, 14 Magnelli Ζῆνα Ξείνιον αἰδόμενος |, Ap. Rh. III 193 | Ξεινίου αἰδεῖται Ζηνὸς θέμιν. Per il nesso Ζῆν Ἶ ... ἀζόμενοι, cf. Quint. Smyrn. XI 273 | Cero δ᾽ οὔτε Ζῆνα. Durbec (p. 72) allega un passo di Diodoro Siculo (XIII 83, 1), dal quale emerge la straordinaria ospitalità di un notabile agrigentino.

Ζῆν᾽] ... Egivi[o]v: Riguardo a Zeus Ospitale, oltre ai tre passi riportati sopra, cf. Hom. 1. XII 624 s., Od. IX 270 s., XIV 283 s., 389, Pind. Ol. VII 21, Nem. XI 8, Aesch. Suppl. 627

al., Eur.

Cycl. 354, Cratin. PCG

118, Aristot. PMG

842,

19 s., Theaet. Anth.

Pal. VII 499, 2 = HE 3357, Ap. Rh. I 1131 5. al., Damaget. Anth. Pal. VII 540, 1 = HE 1405, Nic. Al. 630, [Sim.] Anth. Pal. VII 516, 2 = FGE 1027, GVI 1362, 2, [Orph.] Arg. 992, Quint. Smyrn. XII 413, Nonn.

Dion. XX

176, Pamprep. fr. 4, 5 Livrea, Arab. Schol.

App. Plan.149, 2. ᾿Ακραγαντῖνοι: Eccezionalmente l'alpha iniziale non si allunga davanti al gruppo di muta con liquida all'interno della medesima parola: vd. Introd. II.2.B.b. L'etmico è già impiegato da Pindaro ({sthm. Π 17). ἁζόμενοι: Il verbo esprime il timoroso rispetto nei confronti degli dèi: cf. p.es. Hom.

IL. I 211 ἁζόμενοι ... ᾿Απόλλωνα |, [Theogn.] 748 | ἄζοιτ᾽ ἀθανάτους, 1140 οὐδὲ θεοὺς οὐδεὶς ἄζεται ἀθανάτους. 5 ἶφι: Il supplemento di Barber si del gesto di Fenice, espressa dal verbo κ]ατ᾽ οὖν ἤρειψεν: Il verbo in dica che Simonide riprende ıl filo del

adatta molto bene alla lacuna e accentua la violenza x]at’ ... fpeuyev (vd. Barigazzi, Due note p. 58). tmesi ha per oggetto cfiua (v. 3); l'avverbio οὖν inracconto, dopo avere dedicato un verso e mezzo al-

l'antica costruzione della tomba. Per l'inserimento di oùv fra il preverbio e il verbo, cf. Call.

Vict. Sosib. fr.384, 5 Pf. dn’ οὖν ιμέμβλιωκενἘ, Cer. 75 ἀπ᾿ ὧν ἀρνήεσατο con il comm. di Hopkinson. Vd. Lapp p. 47. All'interno dei poemi omerici il verbo κατερείπω compare solo (con valore intransitivo) in IL. V 92 κατήριπε e XIV 55 κατερήριπεν. Per il suo impiego come transitivo attivo, cf. Pind. Paean.

VIII a fr. 52 i, 22 5. Sn.-M.

| Ἴλιον

πᾶςεαν ... | κατερεῖψαι,

Orac. 94, 5 s.

Parke-Wormell κατὰ γάρ μιν ἐρείπει | πῦρ te καὶ ὀξὺς "Apnc e forse Nic. Ther. 724.

312

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Come osserva Harder p. 98, l'abbattimento del sepolcro di Simomde da parte di Fenice realizza un'eventualità prospettata da Simonide stesso: infatti l'antico poeta, criticando Cleobulo per avere proclamato l'eternità di un monumento funebre, rileva che la pietra può es-

sere spezzata perfino da mani mortali (PMG 581, 5 s. λίθον δέ | καὶ βρότεοι παλάμαι θραύοντι). Νά. anche Bruss pp. 62-64, Garulli p. 254 s., Männlein-Robert p. 171 n. 254. ἀνὴρ κακός: Si tratta ovviamente di Fenice (cf. v. 6): il nesso, di derivazione omerica (Od. IX 453*, dove Polifemo chiama così Odisseo colpevole di averlo accecato), segnala

che il profanatore è l'esatto contrario di Simonide, il quale si autodefinisce ἀνὴρ ὅειος e

ἱερός (vd. il comm. al v. 1 s. &[v]öpöc | … öctov). Nel v. 45 dell'inno a Demetra C. definisce κακὸν καὶ ἀναιδέα φῶτα | l'altrettanto empio Erisittone (per ἀναιδέα, cf. il nostro v. 7 s. οὐδὲ ... 1 ἠἡδέςθιη). Vd. Massimilla, Simonide p. 40. εἴ τιν᾽ ἀκούει[ε: C. sembra risentire della frase εἴ που ἀκούεις, già presente nel corpus omerico (Hom. Od. XV 403*, [Hom.] Hymn. V 111*), che però era usata assolutamente e non si accompagnava - come qui - all'accusativo di un nome. L'explicit εἴ tv” ἀκούεις compare anche presso Apollonio Rodio (III 362, vd. il comm. di Campbell), che

tuttavia lo unisce a una proposizione infinitiva: Ἠελίου γόνον ἔμμεναι εἴ τιν᾽ ἀκούεις I. C. invece lo impiega con l'accusativo di un nome di persona (cf. v. 6 Doivix]a), senza l'aggiunta di un infinito o di un participio. Anche in due epigrammi sepolcrali di Gregorio Nazianzeno la clausola εἴ τιν᾽ ἀκούεις regge l'accusativo semplice: cf. Anth. Pal. VIII 116, 1; 163, 1 (essa viene utilizzata assolutamente in altri due componimenti poetici di Gregorio, Anth. Pal. VII 140, 1 e Carm.II 2, 1, 143 = PG 37 p. 1462; vd. B. Wyss, «MH» 6, 1949, p.

193 n. 43). Le frasi εἴ τιν᾽ ἀκούεις oppure εἴ τιν᾽ ἀκούετε (dislocate in sedi diverse dell'esametro) figurano insieme a un accusativo semplice o a un accusativo con participio presso Ap. Rh. IV 1560, Eryc. Anth. Pal. VII 397, 3 = GP 2246, Greg. Naz. Anth. Pal. VII 111,3, Colluth. 70-72 Livrea, 278 Livrea. Può darsi che nel fr. 197 si debba individuare la clausola

εἴ τιν᾽ ἀκούω: vd. il comm. ad loc. Cf. inoltre Charit. VII 2, 3 ei tiva Ἑρμοκράτην ἀκούεις ctpatnyév (anche in rapporto a ἡγεμόνα nel nostro v. 6).

6 Φοίνικ]α πτόλιος εχέτλιον ἡγεμόνα: L'integrazione iniziale (come πύργῳ] nel v. 7) è garantita da un frammento di Eliano, che - prima di tramandare 1 nostri vv. 7-9 (da

οὐδέ ad &vöpa) e 11-14 - illustra l'evento al quale si riferisce C. (vd. app. delle fonti): durante un assedio di Agrigento da parte dei Siracusani, un condottiero di Agrigento (cf. qui πτόλιοο) chiamato Fenice inserì la pietra tombale di Simonide in un baluardo difensivo, che

però servì ai Siracusani per espugnare la città. Non conosciamo la data della guerra rievocata da C. Conflitti tra Agrigento e Siracusa si verificarono ai tempi del tiranno siracusano Agatocle (fra il 317 e il 306 a.C.) secondo Diodoro Siculo (XIX 3; 70 s., XX 56; 62), che sembra dipendere da Duride e Timeo. Sappiamo che Timeo menzionava Simonide nella sue Storie, raccontando che il poeta riconciliò fra

loro Ierone di Siracusa e Terone di Agrigento (FGrHist 566 F 93 b ap. Didym. fr. II 5,3

p.

215 Schmidt in Schol. Pind. Οἱ. Π 29 ἃ = Sim. test. 19 Campbell): forse, quindi, €. traeva da Timeo le notizie sulla sacrilega manomissione della tomba di Simonide, che non ci sono note da altre fonti. Vd. Wilamowitz, «SPAW» (1901), p. 1283 n. 2 = Kleine Schriften VI (Berlin-Amsterdam 1972) p. 246 n. 1. Su Timeo e C., vd. il comm. al fr. 50, 18-83.

In tempi più recenti, questa datazione è stata messa in dubbio, perché - stando al racconto di Diodoro - il conflitto tra Siracusa e Agrigento nell'epoca di Agatocle non provocò né un assedio né una conquista di Agrigento. Tuttavia i due tentativi di collegare lo scempio del sepolcro a epoche e a situazioni storiche diverse, intrapresi l'uno da J. A. de Waele,

COMMENTO:

AET.II FR. 163

313

Acragas Graeca ('s-Gravenhage 1971), pp. 47-49 (cui ora in parte si associa Livrea, Simonide p. 54 s.) e l'altro da P. 1. Bicknell, «CCC» 7 (1986), pp. 32-35, possono dirsi falliti: per una dettagliata confutazione, vd. Massimilla, Simonide pp. 41-43 (ingegnosa, più che persuasiva, è da ultimo l'ipotesi di Garulli p. 256 s., secondo la quale l'episodio descritto da C. non avrebbe una base storica, ma sarebbe un'invenzione poetica connessa sul piano metaletterario al testo simonideo riportato nel comm. al v. 5 κ]ατ᾽ οὖν ἤρειψεν).

7 πύργῳ]

δ᾽ ἐγκατέλεξεν

ἐμὴν λίθον : Fenice inserì la lapide di Simonide in un

baluardo: ciò dimostra che le opere di fortificazione vennero compiute in tutta fretta, tanto da costringere a smantellare sepolcri e a utilizzarne le lapidi. Il verbo ἐγκαταλέγω ricorre già con identico significato presso Tucidide (I 93, 2), il quale afferma che nelle mura di Atene - innalzate rapidamente su impulso di Temistocle - vennero inserite molte lapidi se-

polcrali e pietre lavorate: πολλαί te «τῆλαι ἀπὸ εημάτων καὶ λίθοι etpyacuévot ἐγκατελέγηςαν (cf. Schol. ad loc. p. 73. 15 Hude ἐξκατῳκοδομήθηεςαν). Per il resto, il verbo è raro e di uso soprattutto prosastico: dopo C., in poesia lo utilizzano - con significati diversi - Ap. Rh. IV 431, Lucill. Anth. Pal. XI 265, 3, Greg. Naz. Carm.II 2, 1, 153 (PG 37

p. 1462). Cf. anche [Orph.]fr. 16, 3, II 1 p. 30 Bernabé. Che un πύργος possa essere innalzato con cattivi auspici, viene detto dallo stesso C. nel secondo libro degli Aitia (fr. 50, 63). λίθον: Al vocabolo viene assegnato il genere femminile per indicare una lapide anche nell'ep. adesp. Anth. Pal. IX 67, 1 = FGE 1304 (erroneamente attribuito a C. da Planude) |

«τήλην ... μικρὰν λίθον". Vd. il comm. di Headlam e Knox a Herod. IV 21, p. 183 e Garulli p. 260 n. 33.

7 5. τὸ γράμμα |... τὸ λέγον: Per il mancato allungamento dello omicron di τὸ davanti al gruppo muta cum liquida, vd. Introd. 11.2.B.b. Il sostantivo γράμμα (che in poesia figura a partire dalla tragedia, cf. Aesch. Sept. 434 al.) ha qui il senso di iscrizione: per 1 vari significati assunti dal vocabolo nell'opera callimachea, vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed.468. L'iscrizione dice chi sia la persona sepolta: per l'immagine, cf. soprattutto Theocr.

Ep. XXIII 1 Gow adéncer τὸ γράμμα, τί cou te καὶ τίς ὑπ᾽ αὐτῷ con il comm. di Gow, GVI 1625, 1 5. λέξει ... | γράμματα ... οὔνομα τῶν γονέων 1, 120, 1 τίς αὕτη, γράμματα λέξει |, ma anche Call. fr. 172, 2 γράμματα, Κυδίππην öcc’ &p£ovcı καλήν (parole incise sulla corteccia degli alberi) ed Ep. X1 1 Pf. = HE 1209 ετίχος où μακρὰ λέξων | (un'epigrafe sepolcrale), nonché Antiphil. Anth. Pal. VI 97, 1 = GP 909 λέγει ... γράμματ᾽ (epigramma votivo). Vd. Männlein-Robert p. 169. Come si ricava dal v. 8 s., l'epigrafe tombale doveva consistere nelle parole (ιμωνίδης Λεωπρέπεος Κεῖος (vd. Wilamowitz, op. cit. nel comm. al v. 6). 8 τόν mie Λεωπρέπεοε: Per l'interposizione del pronome personale, cf. fr. 29 τόν ce Κροτωπιάδην con il comm. Simonide stesso, in un'elegia o in un epigramma, diceva di essere nato da Leoprepe: cf. fr. 89, 2 W2 παιδὶ Λεωπρέπεος (per ciò che precede, vd. il comm.

al v. 10). La notizia si rinviene anche presso Herodot. VII 228, 4, Paus. VI 9,9, Ov.

Ib.512 e nei testt. 1, 5 e 44 Campbell di Simonide (cf. inoltre il passo di Alcifrone riportato nel comm. al v. 15). In uno dei suoi giambi (fr. 222 Pf.), C. specifica che il progenitore della famiglia di Stmonide si chiamava Ilico. 9 Κήϊον ἄνδρα τὸν ἱερόν: Fenice ha mostrato una particolare empietà perché non ha tenuto conto del fatto che il sepolcro da lui distrutto apparteneva a un uomo sacro: Simonide si definisce tale in considerazione del suo rapporto privilegiato con 1 Dioscuri, che

egli stesso illustrerà nei vv. 11-14 (cf. già v. 1 5. ἀ[ν]δρός |... 6ctov). Un'espressione molto

314

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

simile viene utilizzata a proposito di Simonide da Teocrito (XVI 44): θεῖος (v./. δεινὸ)

ἀοιδὸς © Kifioc (in un passo che - come i nostri vv. 11-14 - riguarda gli Scopadi: vd. il comm. al v. 13 Κραννῴνιοο. La vicinanza di Simonide al mondo divino è già asserita da Platone, che nella Repubblica lo definisce θεῖος ἀνήρ (331 E = Sim. PMG 642 (a)) e lo an-

novera fra i μακάριοι ἄνδρες (335 E = Sim. test. 35 Campbell). Per l'impiego dell'etnico Κήϊος in riferimento a Simonide, cf. Call. Jamb. fr. 222, 2 Pf. ὃ Κεῖος Ὑλίχου vérovc |, [Sim.] Anth. Pal. VII 77, 1= FGE 1028 τοῦ Κείοιο (ιμωνίδου. La forma Κήϊος ricorre in vari passi di Bacchilide (III 98, XVII

130, XIX

11). Per il nesso

ἄνδρα τὸν ἱερόν, cf. Theaet. HE 3350 τὸν ἱερὸν ἄνδρ᾽ (il filosofo Crantore), Orac. Chald. 98 des Places | &vöpöc ... ἱεροῦ, Maneth. II 136 ἀνέρες ipoi Ι. Bing p. 68 s. osserva che la profanazione perpetrata da Fenice è tanto più grave, in quanto questo poeta sacro era soprattutto famoso per 1 suol carmi funebri: in tale àmbito, è specialmente notevole l'encomio per 1 morti delle Termopili (PMG 531), ma può darsi che esistesse anche un'elegia simonidea in memoria dei caduti a Maratona (cf. Vita Aeschyli = Sim.

test. 15 Campbell); la rinomanza della poesia funeraria di Simonide è dimostrata, fra

l'altro, da espressioni quali maestius lacrimis Simonideis (Cat. XXXVIII 8) e | Ceae ... neniae | (Hor.

Carm. II 1, 38). Nel nostro aition, dunque,

Simonide

difende dopo

la morte

proprio la tradizione poetica sepolcrale della quale è stato un così illustre rappresentante.

9 s. ὃς τὰ nepicco

|

. . xai] μνήμην

πρῶτος

ὃς ἐφραςάμην: Gli ultimi due

piedi del v. 9 e il primo piede e mezzo del v. 10 pongono problemi di ricostruzione ed esegesi (vd. P. Parsons in D. Boedeker - D. Sider (edd.), The New Simonides, Oxford 2001, p.

58 n. 31). L. pensava che la frase τὰ repiccà si riferisse alle lettere aggiuntive, cioè alle vocali lunghe n e ὦ e alle consonanti doppie & e w, delle quali Simonide sarebbe stato l'inven-

tore secondo POxy. 1800, fr. 1, 45 ss. e Suid. σιν. (ιμωνίδης- ... προςεξεῦρε dè καὶ τὰ μακρὰ τῶν ετοιχείων καὶ διπλᾷ (= Sim. fest. 1 Campbell; vd. anche Bing p. 68 n. 30 e cf. le testimonianze raccolte da Magnani p. 17). Perché il testo assuma questo significato, sarebbe opportuno integrare all'inizio del v. 10 un accusativo come γράμματα o «τοιχεῖα, che dovrebbe dipendere insieme a μνήμην da ἐφραςάμην, ma lo stesso L. riconosceva che la scarsa ampiezza della lacuna non consente un supplemento del genere. La linea interpretativa di L. è stata recentemente ripresa da Livrea e Magnani. Per l'inizio del v. 10, Livrea propone n ὦ καὶ] (io che per primo escogitai le [lettere] aggiuntive 7 ὦ e la mnemotecnica): l'ngegnosa Integrazione consentirebbe di attenersi allo spazio disponibile in lacuna e di preservare il necessario kat, ma implicherebbe un livello davvero estremo di barocchismo (comunque, sul piano prosodico, l'insolito iato n ὦ sarebbe senz'altro giustificato dall'intenzione espressiva: vd. Introd. II.2.A.; faccio inoltre notare che un qualche sostegno al supplemento di Livrea deriva dal confronto con lo stesso Call. amb. fr.

195, 3 Pf. ἄλφα Bfit[o). Magnani pensa che all'inizio del v. 10 sia caduto un verbo (per questo tipo di configurazione, vd. più avanti la proposta di Pf. e Maas) e suggerisce edpov

καὶ] ovvero ἐξεῦρον] (io che inventai le [lettere] aggiuntive (e) che per primo escogitai la mnemotecnica): ma la prima soluzione eccede di gran lunga l'ampiezza della lacuna, mentre la seconda - comunque troppo lunga - rinuncia al necessario καί (trovo inconcepibile che, in un contesto sintattico complesso come quello del nostro frammento, i due öc dei vv. 9 e 10 fossero accostati in asindeto). Più verisimile - almeno sul piano semantico - è l'ipotesi di Pf. e Maas, 1 quali ritengono che la frase τὰ mepiccà designi la straordinaria saggezza di Simonide e suggeriscono di integrare al principio del v. 10 un breve verbo avente per soggetto il pronome öc del v. 9 e

COMMENTO:

AET.II FR. 163

315

per oggetto appunto τὰ repiccà (si ottengono così due proposizioni relative coordinate, la μνήμην). A giudizio di Pf. e Maas, il verbo in questione potrebbe essere ἤδη (io che conoscevo le cose straordinarie): 1 due studiosi ammettono che il supplemento non è esente da dubbi, sia perché - pur nella sua brevità - sembra eccedere lo spazio disponibile in lacuna sia perché la forma attica contratta ἤδη (invece di ἤδεα, vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 482) pare inadeguata alla lingua poetica di C. A sostegno di quest'interpretazione di repiccò e del suo accostamento al verbo ἤδη in merito a un poeta, si può richiamare [Theogn.] 769 s. Movcüv θεράποντα ... εἴ τι περιεςόν | εἰδείη, dov'è anche notevole l'identica collocazione metrica di nepıccöv e l'impiego di εἰδείη all'inizio del pentametro successivo (il passo teognideo sembra ispirarsi a Hom. 7. II

831 5. ὃς περὶ πάντων | ἤδεε μαντοεούνας; si noti che C. risente forse del medesimo brano teognideo nel fr. inc. sed. 538 Pf.: vd. il comm. ad loc). Sull'uso dell'aggettivo repiccòc a proposito della bravura poetica, cf. inoltre Theodorid. Anth. Pal. VII 406, 1 = HE 3558

Εὐφορίων, ὁ nepıccdv ἐπιοτάμενός τι ποῆςαι. Riguardo alla presenza dell'articolo nell'espressione tà repiccà (le cose straordinarie), cf. Epic. fr. 409 Usener τὰ cogà καὶ τὰ περιττά. L'eccezionale sapienza di Simonide viene già messa in luce da Platone: cf. Resp.331 E

cogòc ... ἀνήρ (= Sim. PMG 642 (a)), 335 E (ιμωνίδην ... ἤ τιν᾽ ἄλλον τῶν οοφῶν ... ἀνδρῶν (= Sim. test. 35 Campbell). La rilevano poi Eraclide Pontico e Cicerone: il primo

afferma che il poeta era φρονιμώτατος καὶ ueyicinv δόξαν ἐπὶ copia ἔχων (fr. 55 Wehrli) e il secondo lo definisce doctus L'impostazione esegetica di proposizioni relative introdotte vise da Angiò e da Gronewald,

sapiensque (Nat. deor.I 22, 60). Pf. e Maas e la struttura sintattica da loro ipotizzata (due da due öc e corredate di due diversi verbi) vengono condiche però all'inizio del v. 10 propongono ἤειςα] (io che can-

tai le cose straordinarie, che per primo

escogitai la mnemotecnica):

ma, come

si è detto,

nel contesto del passo l'asindeto appare inaccettabile. Un diverso approccio al nostro brano è stato suggerito da Di Marco, che nel v. 10 non ravvisa un secondo ὅς, bensì (come già Barigazzi) il pronome 6c(a), e integra &vnca prima di μνήμην, interpretando il nesso τὰ repiccò del v. 9 in senso avverbiale (come già 1. Lightfoot,

senza ulteriori elaborazioni):

io che

giovai

straordinariamente

alla

memoria,

perché tanti furono gli accorgimenti che per primo escogitai (dove la frase πρῶτος öc’ Eppacaunv viene intesa come una 'esclamativa relativa'; per l'invenzione della mnemotecnica da parte di Simonide, vd. il comm. al v. 10). Questa ipotesi merita la massima attenzione, sia perché colma la lacuna all'inizio del v. 10 con il numero di lettere richiesto dallo

spazio sia perché inserisce in un giro sintattico plausibile il pronome öc(«), consentendo così di fare a meno dell'ingombrante καὶ] prima di μνήμην. È pur vero, però, che il supplemento ἤδη καὶ] di Pf. e Maas, sebbene problematico per la contrazione del verbo e per lo spazio occupato, ha in suo favore 1 paralleli formali e contenutistici riportati sopra e la

maggiore linearità delle due relative coordinate dc ... | ἤδη καὶ] ... ὃς ἐφραςάμην, quanto mai opportuna nel periodare fortemente ipotattico della nostra elegia. Vd. in generale l'app. La parola tepiecòe non è attestata prima di Esiodo (Theog. 399 e fr. 10 a, 61 M.-W.

tepiccà ... δῶρα). La frase callimachea ὃς τὰ repıccä può avere influito su Parthen. SH 651 = fr.39 Lightfoot | ὦ ἐμὲ τὴν τὰ περιεςά, il cui contesto ci è ignoto. 10 μνήμην πρῶτος dc Éppacäunv: A Simonide veniva attribuita l'invenzione della mnemotecnica. La notizia si trova qui per la prima volta, ma è presente in varie testimo-

316

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

nianze successive: cf. Sim. testt. 1 e 24-26 Campbell, POxy.

1800, fr. 1, 40 ss. con l'anno-

tazione di Hunt e i passi di Cicerone e Quintiliano discussi nel comm. ai vv. 11-14. Più in generale, è probabile che la straordinaria memoria dell'antico poeta fosse nota a C. grazie al medesimo carme di Simonide (elegia o epigramma) dove - come si è detto nel comm. al v. 8 - questi nomina suo padre Leoprepe: qui, ormai ottantenne, Simonide si vanta di avere

una memoria formidabile, fr. 89, 1 5. W.? μνήμην (vl. μνήμῃ) δ᾽ οὔτινά φημι (ζιμωνίδῃ ἰςοφαρίζειν | ὀγδωκονταέτει. Le sue straordinarie facoltà mnemoniche risultano anche dall'episodio narrato nei suddetti luoghi di Cicerone e Quintiliano (cf. inoltre Sim. test. 1 Campbell). Per l'espressione, cf. fr. 213, 50 πρῶτοι ... Éppacav. Il medio φράζεεθαι significa escogitare anche nel fr. inc. sed. 669 Pf. e viene utilizzato in maniera analoga da Dion. Per. 908 5. [πρῶτοι ... |... &ppäccavto |. 11-14:

Smantellando la tomba di Simonide, Fenice ha offeso la maestà divina dei Dio-

scuri, che dimostrarono un tempo di avere caro il poeta: infatti, mentre Simonide stava partecipando a un banchetto in casa dei nobili Scopadi nella città tessalica di Crannone, Castore e Polluce fecero in modo che egli ne uscisse e così salvarono lui solo in extremis dal crollo dell'edificio. Il celebre episodio (che corrisponde a Sim. PMG 510) è rievocato da vari testimoni, ma 1 resoconti più rilevanti si devono a Cicerone (De orat. II 351-353) e Quintiliano (Inst. or. XI 2, 11-16): il passo di quest'ultimo è in parte riportato nell'app. delle fonti al nostri versi, perché contiene un possibile riferimento all'aition di C. (le altre testimonianze inerenti alla vicenda sono indicate da Page e da Campbell alle pp. 242 e 379 delle rispettive edizioni; un'ironica deformazione dell'evento occupa per intero l'ottava satira del secondo libro di Orazio, come ha visto I. Marchesi, «TAPhA»

135, 2005, pp. 393-402).

Sia Cicerone sia Quintiliano premettono alla loro esposizione la notizia che Simonide inventò la mnemotecnica. Invece le loro versioni divergono in merito al convito fatale: mentre Cicerone sostiene che esso ebbe luogo a Crannone nella casa del nobile Scopa omonimo del suo progenitore (cum cenaret Crannone in Thessalia Simonides apud Scopam), Quintiliano volutamente non specifica il luogo e il padrone di casa. Per il séguito della vicenda, il racconto dei due concorda nelle linee generali: Simonide aveva composto e cantato un epinicio (Cicerone puntualizza che il destinatario era Scopa, mentre Quintiliano non riporta alcun nome, ma precisa che il carme celebrava una vittoria pugilistica); poiché nell'epinicio figuravano molte lodi dei Dioscuri, il celebrato disse che avrebbe corrisposto al poeta solo la metà della somma pattuita e lo esortò a farsi dare il resto da Castore e Polluce; durante il banchetto, Simonide ricevette il messaggio che due giovani lo chiamavano con urgenza fuori dalla casa, ma - una volta uscito - non li trovò: nel frattempo la sala del convito crollò, provocando la morte dei commensali (Cicerone: esse ferunt nuntiatum Simonidi, ut prodiret; iuvenes stare ad ianuam duo quosdam, qui eum magno opere vocarent; surrexisse illum, prodisse, vidisse neminem. hoc interim spatio conclave illud, ubi epulare-

tur Scopas, concidisse; ea ruina ipsum cum cognatis oppressum suis interisse), grazie alla sua memoria prodigiosa, Simonide riuscì a ricordare la disposizione di tutti 1 convitati, permettendo così ai parenti delle vittime - 1 cui resti erano ormai irriconoscibili - di seppellire ciascuno 1 propri cari. Qui si conclude il resoconto di Cicerone, mentre Quintiliano prosegue con una rassegna dei diversi pareri espressi dai testimoni riguardo al destinatario del carme simonideo e alla città nella quale si tenne il banchetto (vd. app. delle fonti). Dopo avere enumerato vari pos-

COMMENTO:

AET.II FR. 163

317

sibili nomi della persona celebrata (incluso lo stesso Scopa), il retore ci informa che secondo alcuni la vicenda ebbe luogo a Farsalo: questa opinione, che - a detta di Quintiliano sembrava trovare conforto in un passo dello stesso Simonide (cf. forse PMG 521 con il contesto della citazione presso Stob. IV 41, 62), era fra gli altri condivisa da Fratostene,

Euforione e Apollodoro. Quintiliano cita poi alcuni autori, che invece collocavano il convito a Crannone: in questo gruppo, oltre a Cicerone, il retore menziona Apolla e forse lo stesso C. (cf. il nostro v. 13 Kpavv@vioc), se il corrotto Apollas #Calimachus è stato opportunamente modificato dai correttori del codice P e da Schneidewin in Apollas Callimachusque (o anche da Bentley in Apollas et Callimachus) e ha invece torto Preller a scrivere Apollas Callimachius (congettura, questa, approvata da Lehnus, Medley p. 28). Secondo tutte le fonti - conclude Quintiliano - Scopa morì in quella circostanza. La rovina della casa e il salvataggio divino di Simonide sono rievocati anche da Ovidio nell'Ibis (v. 511 s.), che con ogni probabilità tenne presente il nostro passo: lapsuramque domum subeas ut sanguis Aleuae, | stella Leoprepidae (cf. v. 8 τόν ue Ae@rpéreoc) cum fuit aequa viro. Ovidio definisce discendente di Aleva il nobile che morì sotto le macerie, ritenendolo un membro dell'illustre casata tessalica degli Alevadi (residenti a Larissa), mentre C. scrive che il crollo travolse la famiglia degli Scopadi: Pf. imputa al poeta latino una mera confusione dei due nomi e respinge l'ipotesi di A. Boeckh (a proposito di Pind. Pyth. X, vol. II 2, Lipsiae 1821, p. 334), il quale - basandosi su quest'unico passo ovidiano asserì che gli Scopadi e gli Alevadi erano consanguinei. Ma a sua volta La Penna, nel comm. al passo dell'/bis, ritiene poco probabile un errore di memoria da parte di Ovidio e suppone che esistesse effettivamente un legame fra le due famiglie, perché gli Scopadi si facevano forse discendere dagli Alevadi o da una stirpe comune risalente a Fracle.

11 οὐδ᾽ duiéac, Πολύδευκες,

ὑπέτρεςεν: Simonide, apostrofando gli insepara-

bili Dioscuri (Ὁ μιέαο), si limita raffinatamente a menzionare il solo Polluce. In ciò è forse anche riconoscibile un'allusione al fatto che, secondo una specifica tradizione (cf. p.es. Pind. Nem.

X 80-82), Polluce prevaleva fra 1 due in quanto nato da Zeus, mentre Castore

era figlio di Tindaro. Tuttavia mi sembra che la cosa sı spieghi meglio alla luce della testimonianza di Quintiliano, secondo il quale - come abbiamo visto nel comm.

ai vv. 11-14 - il

carme composto da Simonide in occasione del terribile banchetto esaltava una vittoria pugilistica: poiché Polluce è il pugile per eccellenza a partire dal poemi omerici ({|. III 237 = Od. XI 300), nella nostra elegia la scelta di nominare soltanto lui risulta quanto mai appropriata (del resto lo stesso Simonide, in PMG 509, paragona a Polluce il pugile Glauco). Il procedimento contrario (cioè la menzione del solo Castore per intendere anche Polluce) viene messo in atto da C. nel v. 30 dei Lavacri di Pallade (vd. il comm. di Bulloch). Cf. inoltre Hor. Carm. III 29, 64 geminus ... Pollux |, [Verg.] Catalept. X 26 gemelle Castor et gemelle Castoris. Il concetto espresso da C. e forse anche l'impiego del verbo drétpecev sembrano risentire di un passo pindarico (fr. 224 Sn.-M.) tramandato nello Schol. (A) Hom. Il. XVII 98-99

Ὁ: è γὰρ φωτὶ μαχόμενος τῷ ὑπὸ θεῶν τιμωμένῳ À ὑπὸ θεῶν ἀγαπωμένῳ αὐτῷ τῷ θεῷ μάχεται τῷ ἐκεῖνον «τέργοντι. ὁ Πίνδαρος ἵοον μὲν θεὸν ἄνδρα τε φίλον (8e) (suppl. Heyne)’ ὑποτρέεαι ἐκέλευςεν, ἐπ᾿ tene τόν τε θεὸν καὶ τὸν φίλον θεῷ ἄνδρα (ito)? suppl. Schroeder) θεοφιλῆ. Per il vocativo IoXddeviec, cf. Call. Pannych. fr. 227,8 Pf. Πωλύδ[ευκες I. All'interno dei poemi omerici il verbo ὑποτρέω ricorre quattro volte (sempre *) ed è impiegato solo in questa forma aoristica: in un passo si accompagna - come qui - all'accusativo (I. XVII

318

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

587), mentre negli altri tre viene usato assolutamente (11. VII 217, XV

636, XVII 275). La

medesima forma verbale è utilizzata da C. nella stessa posizione metrica e con un giro di

frase identico al nostro verso in Del. 55 | οὐδ᾽ Ἥρην kot&ovcav drétpecoac

N μὲν κτλ. In-

vece, presso Call. Hec. SH 288, 2 = fr. 69,2 H.* e Ap. Rh. I 1049*, ὑπέτρεοα è intransitivo.

L'aoristo in questione si riscontra infine in vari passi di Quinto Smirneo (sempre *): in tre di essi è unito all'accusativo (I 8, 278, V 438), negli altri quattro viene Impiegato assolutamente (III 170, 352, IX 228, XI 405).

11 5. μελάιθιρου |... ἐκτός: Cf. Eur. Suppl. 982 | μελάθρων ... ἐκτός Ι. 12 πίπτειν: Per quest'uso del verbo, cf. Maneth. II 130 πτώςεις ὀρόφων, IV 617 πτώειας οἴκων |. ἐκτὸς ἔθεςεθε: Cf. GVI 1924, 47 e Greg. Naz. Carm. II 1, 17, 44 (PG 37 p. 1265) ἐκτὸς ἔθηκα. Per il luogo di Gregorio, vd. anche il comm. al fr. 166, 14 ἔθηκε πόδα. 13 δαιτυμιόνων ἄπο: Sul piano metrico, è notevole la violazione della norma enunciata nell'Introd.II.1.A.c.ii. Per la posposizione di ἀπό nell'opera di C., vd. il comm. al fr. 149, 5 βοῶν dro. Kpavv@vioc: L'aggettivo, derivato dalla città tessalica di Crannone, ci è noto in poesia a partire dal periodo ellenistico. Nel v. 138 dell'inno a Delo, C. impiega il nesso πεδίον Kpavvoviov, che ricorre anche nel v. 38 del sedicesimo idillio di Teocrito: per di più, nel componimento teocriteo, la frase compare sùbito dopo una menzione degli Scopadi (vv. 36-

38 (κοπάδαιοιν ... | .... |... ἂμ πεδίον Kpavvovıov, vd. il comm. di Gow ai vv. 34-39) e poco prima di un passo incentrato sull'immortalità conferita dal canto di Simonide ai suoi patroni tessalici (vv. 42-47; per il v. 44, vd. il comm.

al nostro v. 9). Uno scolio al v. 36 s.

di quest'idillio asserisce l'appartenenza degli Scopadi a Crannone e si appella, per tale noti-

zia, proprio ai θρῆνοι simonidei: οἱ δὲ (κοπάδαι Kpavvovıoı τὸ γένος. Κραννὼν δὲ πόλις Θεεεαλίας (= Sim. PMG 529; cf. in proposito anche Sim. PMG 510, discusso nel comm. ai vv. 11-14, nonché il passo di Alcifrone riportato nel comm. al v. 15; vd. Massimilla, Simo-

nide p. 48). La Crannone tessalica è nominata da C. in Cer. 76, mentre nel fr. gramm. 408 Pf. si fa riferimento alla Crannone epirotica. ιαἰιαῖ: L'interiezione, estranea all'epos arcaico, ricorre a partire da Arch. (?) SLG 478, 26, Carm. conv. PMG 907, 1, [Theogn.] 1341. C. ne fa uso anche nel fr. 198, 4 e in Jamb.

fr. 193, 37 Pf. 14 ὦιλιειθιειν: Il verbo (che nei poemi omerici compare solo due volte: 1. XX 470, XXIII 774; cf. anche [Hom.] Batr. 63) si trova applicato alla rovina di un edificio anche presso Iustinian. Constitutio Δέδωκεν (ed. P. Krüger, Corpus iuris civilis IP, Berlin 1920), 7a.

neyıakoıvcı οἶκος ἐπὶ ıCıKıo m&ÖöLo.c: Per quest'impiego dell'aggettivo μέγας, cf. Call. Lav. 34 μεγάλων παῖδες Apectopidàv*, 126 μεγάλοις ὕστερα Λαβδακίδαιοξ (vd. M. Bissinger, Das Adjektiv μέγας in der griechischen Dichtung I, München 1966, p. 34). Non è ben chiaro se Pindaro (fr. 255 Sn.-M.) usò la parola (κοπάδαι e le diede il senso specifico di Scopadi (nobili discendenti del tessalico Scopa): cf. pot Crit. fr. 8, 1 W. = 6, 1 Gent.-Pr., Theocr.

XVI

36 (vd. il comm.

al v.

13 Kpavvovıoc;

in entrambi i passi si fa

riferimento - come implicitamente qui - alla loro opulenza), Posidipp. Ep. 83, 2 AustinBastianini*. 15 @voxec: Se la lettura è corretta, qui potrebbe cominciare una preghiera rivolta a Castore e Polluce ancora da Simonide (vd. Barigazzi, Due note p. 57), o meno probabilmente da €. in prima persona. L'appellativo ”Avoxec a proposito dei Dioscuri è frequente:

COMMENTO:

AET. II FRR. 163; 164-165; 164

319

cf. IG III 195, I 34. 8, Π 699. 30, Cic. Nat. deor. III 21, Plut. Thes. XXXIII 2. Il loro tempio si chiamava

᾿Ανάκειον:

cf. And. I 45, Thuc.

VII

93, 1, Dem.

XLV

80, /G IX

1, 129, IV

1028. 4, II? 1400. 44. La loro festa prendeva il nome di ᾿Ανάκεια: cf. Lys. fr. 75, 3 Thalheim, /G P 258. 6, Poll. I 37. Riguardo all'impiego dell'epiteto *Avonec in relazione al crollo della casa degli Scopadi

(vv. 11-14), cf. Alciphr. III 32, 2 Schepers tic ἄρα μοι δαιμόνων ἐπίκουρος ἐγένετο; un ποτεοϊεοωτῆρες ”Avaxec (“AvaxecHercher: ἄνακτες codd.), oc (ιἱμωνίδην τὸν Λεωπρέπους τοῦ Κραννωνίου ευμποείου, κἀμὲ τῶν τοῦ πυρὸς κρουνῶν ἐξήρπαςαν (per Λεωπρέπουο, vd. il comm. al v. 8; per Κραννωνίου, vd. il comm. al v. 13 Kpavv@vioc).

La crasi Gvaxec è tipica di C.: cf. ὦναξ Ep. VII 6 Pf. = HE 1310; ὦνα fr. 26, 3, Iamb. fr. 195, 42 Pf., Iov. 33, Ep. XXXIV

1 Pf. = HE 1151. C. scrive invece © ἄνα in Jov.8 e Ap.

79. Più in generale, per la crasi nell'opera di C., vd. il comm. al fr. 1,32 odA[a]ydc. 19: Come si è detto, non è escluso che in questo rigo del papiro cominciasse già l'aition seguente.

Frammenti

164-165 (Le fonti di Argo)

Anche questo aition, come il precedente, aveva dimensioni ridotte. Infatti nel POxy. 2211 esso cominciava non prima del ventottesimo rigo di una pagina (vd. il comm. introduttivo al fr. 163) e si concludeva con il nono rigo della facciata successiva (fr. 165, 9). La sezione verte sulle quattro fonti di Argo che presero nome da altrettante figlie di Danao (Amimone, Fisadia, Ippe e Automate) e sul diverso impiego rituale delle loro acque. Forse C., in qualche punto dell'aition, spiegava che l'Ippe forniva alle sacerdotesse Fresidi 1 lavacri per la statua di Era Acrea o Acria, la dea dell'acropoli (vd. il comm. al fr. 164). Dopo avere probabilmente smentito che le serve puerpere vengano deterse con l'acqua della Fisadia, il poeta assegna di certo questa funzione all'Automate (fr. 164). Nella parte finale dell'aition, C. riferisce che l'Amimone è utilizzata per purificare preventivamente le donne incaricate di tessere l'abito di Fra e rivolge un saluto conclusivo alle quattro fonti (fr. 165).

Frammento 164 (65 Pf.) 1.5. Αὐτομά[της ] edvate ἐπώννυ[μον, aA]A’ ἀπὸ cleî]o

IAobovraı Aoxinv

oiketw|....... Inc: L'attribuzione del frammento agli Aitia, e in particolare alle Fonti di Argo, è congetturale e si ricava dal fatto che in esso figura la sorgente argiva Automate, menzionata da C. anche nel fr. 165, 8. Poiché il fr. 165 contiene gli ultimi versi dell'aition, è certo che il nostro frammento occupava un tratto di testo precedente. Il frammento è tramandato da un commentario papiraceo ad Antimaco. Dopo la citazione del fr. 179 Wyss = 104 Matthews di questo poeta, nel quale - nonostante la lacunosità del testo - si riconosce il nome della fonte argiva Fisadia, il papiro trasmette la notizia che secondo C. le puerpere non si lavano con l'acqua della Fisadia, ma con quella dell'Auto-

mate. La parafrasi offerta dal commentario e la dizione stessa del nostro v. 1 (&A]A” ἀπὸ c[gî]o) rendono probabile che nel distico precedente C. utilizzasse una frase del tipo οὐκ ἀπὸ Φυεαδείας, proprio per specificare - forse in polemica con Antimaco - che le abluzioni del parto non derivano dalla Fisadia (a proposito di questa fonte, cf. fr. 165, 7 con il comm.). Vd. app. Il commentario cita poi il nostro frammento, nel quale si dice che le puerpere di condizione servile sono lavate appunto con l'acqua dell'Automate. Sùbito dopo apprendiamo che le diverse provenienze delle acque lustrali ad Argo veni-

320

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vano precisate da Agia e Dercilo nella loro opera intitolata ᾿Αργολικά, in un passo riportato expressis verbis (FGrHist 305 F 4 = EGM fr. 4a). In questo aition il debito di C. nei confronti dei due storici è molto rilevante, come

attesta più avanti il medesimo

commentario

(vd. l'app. delle fonti al fr. 165, 3), e coinvolge anche la scelta del raro vocabolo πότος (fr. 165, 3: vd. il comm. ad loc., ma anche i comm. al fr. 165, 1 Taciôoc e 6 τὸν μὲν cd pécov περιδέδρομας èugic). Per Agia e Dercilo e per il loro influsso su altre parti degli Aitia, vd. il comm. ai frr. 5-9!8 e le osservazioni di Bulloch a p. 17 della sua edizione dei Lavacri di Pallade callimachei (vd. inoltre il comm. al fr. 145). I due storici, dunque, testimoniano che ad Argo le vergini Fresidi traggono l'acqua per le abluzioni della statua di Fra Acrea o Acria, cioè la dea dell'acropoli, dall'Ereo (se con

Vogliano si integra ‘H[patiov) ovvero dalla fonte Ippe (se si accoglie l'attraente supplemento 'I[rreiov, scil. ὕδατος, proposto da L. alla luce del successivo Αὐτοματείου e del fr. 165, 8). Data la massiccia influenza di Agia e Dercilo su questo aition e la presenza del lemma ’Hpecidec sia nel lessico di Esichio sia negli Etimologici (dov'è spiegato che si chiamavano così le sacerdotesse argive incaricate di recare i lavacri a Era), è plausibile che anche C. menzionasse le Eresidi in rapporto all'Ippe (il lemma in questione dipenderà da C. piuttosto che dagli stessi Agia e Dercilo: vd. app. delle fonti). Per il santuario di Fra Acrea

o Acria sull'acropoli di Argo, cf. Paus. Π 24, 1 ἀνιόντων δὲ ἐς τὴν ἀκρόπολιν (scil. Aapıcav) ἔςτι μὲν τῆς ᾿Ακραίας Ἥρας τὸ ἱερόν, Hesych. s.v. ᾿Ακρία- ... Ecrı δὲ καὶ ἣ Ἥρα ... προςαγορευομένη ἐν "Apyeı. Agia e Dercilo attestano poi che ad Argo le vergini Levatrici (Aoxedtpiat) recano acqua attinta dall'Automate quando una serva partorisce (come si vede, il contenuto del passo corrisponde ai nostri versi) e portano via individualmente le abluzioni usate per la puerpera.

1 Αὐτομά[της

| εὐναὲς

ErOvo[pov: Con ogni probabilità, gli aggettivi εὐναὲς

ἐπώνυϊμον si riferiscono a un sostantivo come νᾶμα ο ὕδωρ: l'acqua dal bel flusso il cui nome deriva da Automate è appunto la fonte Automate, omonima di una figlia di Danao; la lettera mancante prima di εὐναὲς era forse soltanto una particella elisa (vd. app.). Poiché

sùbito dopo C. apostrofa l'Automate (c[eî]o), è possibile che la sequenza edvaëc ἐπώνυμον costituisca un vocativo, ma il nominativo e l'accusativo non sono esclusi.

Αὐτομάϊ[της: Si chiamava così una Paus. VII 1, 6. Il nostro esametro e il v. 8 fonte argiva. edvaéc: L'aggettivo (con alpha lungo) entrambi i passi come attributo di πόρος.

delle figlie di Danao: cf. [Apollod.] II 1, 5, 3, del fr. 165 attestano che da lei prese nome una risulta impiegato solo da Bacch. I 75 e IX 42, in Una delle fonti argive viene definita κρή[ν]η

καλὰ véovca nel fr. 144, 5. Per l'acqua luminosa di tali fonti, cf. fr. 165, 9 λιπαραί. 1.5. ἀλ]λ᾽ ἀπὸ c[eî]o I Aodovraı Aoxinv oikétiv [|__| ne: Il soggetto della proposizione (nella quale C. si rivolge all'Automate con il pronome c[eî]o) occupava forse la fine del pentametro, la cui lacuna potrebbe corrispondere solo a cinque o sei lettere. La desinenza -nc sembra adatta a un maschile plurale, ma il senso richiede che il soggetto siano le vergini Levatrici (Λοχεύτριαι, vd. sopra il comm.), addette appunto a detergere con l'acqua dell'Automate la serva che ha partorito. Stupisce il fatto che C. impieghi il medio λούονται invece dell'attivo: cf. per contrasto lo stesso Call. Del. 123 5. (parla il fiume

Peneo) οἶδα καὶ ἄλλας | Aovcauévaoc dr’ ἐμεῖο λεχωίδας.Ν4. app. Per il bagno della puerpera, cf. anche Eur. El. 1107 5. &Aovroc ... | λεχώ, Lyc. 322 ἐκ λοχείας γυῖα χυτλῶεαι, lo stesso Call. Jov. 16 5. ῥόον ὕδατος, & κε τόκοιο | λύματα χυτλώεαιτο (vd. il comm. al fr. inc. sed. 126), Ap. Rh. II 1014 λοετρὰ λεχώια.

COMMENTO:

AET.II FRR. 164-165

321

2 Aoxinv: Νά. il comm. al fr. 44, 1 Aöxıov* (forse C. impiega il vocabolo pure nel fr. 182: vd. il comm. ad loc.). L'aggettivo si riferisce a una partoriente anche presso [Opp.] Cyn. II 292. οἰκέτιν: In poesia il vocabolo ricorre presso Soph. TrGF 866, Eur. ΕἸ. 104, ep. adesp. Anth. Pal. ΠῚ 10, 2* e (nel senso di padrona di casa) Theocr. XVII 38.

Frammento

165 (66 Pf.)

Il frammento contiene la fine dell'aition. Nel v. 1 C. parla di eroine argive discese da Io: con ogni probabilità, si tratta delle quattro figlie di Danao che diedero nome ad altrettante fonti,

menzionate

una

per

una

nel

v.

7

s. Nei

vv.

2-6

C.,

apostrofando

una

di

loro

(Amimone), descrive il seguente rito: le donne incaricate di tessere l'abito di Era non possono mettersi all'opera se prima non si sono asperse il capo con l'acqua dell'Amimone, stando sedute su un masso intorno al quale scorre questa sorgente. Nei vv. 7-9 C. rivolge un saluto conclusivo alle quattro fonti Amimone, Fisadia, Ippe e Automate. Inpöcca [ | .ı&c Ἰαείδος vér[o]Sec: Il pentametro preserva la fine di una proposizione: la Jaside è Io, figlia di Iaso; le eroine sue discendenti sono verisimilmente le quattro figlie di Danao

(disceso da Io, vd. il comm.

al fr. 143, 4), i cui nomi

si trasmisero

alle fonti argive menzionate singolarmente nel v. 7 s. Date le apostrofi contenute nei versi

seguenti, i vocaboli ip@ccar e νέπ[ο]δες potrebbero essere vocativi (oltre che nominativi). La sequenza [..].1&c sembra interpretabile come un genitivo collegato a Toctöoc: in tal caso sl avrebbe una desinenza -ac anziché -nc, come in Hec. fr. 338 Pf. = 87 H. e probabilmente nel fr. 213, 44 ®eioc. Poco convincente risulta il supplemento [Ba ]Aı&c di Barber, in quanto né screziata né veloce (possibili significati della parola: vd. il comm. al fr. 149, 10

βαληιῆς ... ἐλάφου) sarebbero qualificazioni adatte a Io, come rileva Lehnus, Two Notes p. 31. È invece ottima l'integrazione [φα]λιᾷς dello stesso Lehnus: il raro aggettivo (impiegato da C. anche nel fr. 143, 16 a proposito del bue Api pezzato di bianco) introdurrebbe qui l'immagine della candida Io, appropriatissima al luminoso biancore della giovenca nella quale l'eroina si vide temporaneamente trasformata (cf. in proposito 1 passi poetici raccolti

da Lehnus). Per l'espressione e per la sede metrica della frase Taciôoc νέπ[ο]δες, cf. fr. 97, 2 ]..i.r.vone veroöec con il comm. Vd. in generale l'app. Mpoccar: Il sostantivo non è attestato prima della poesia ellenistica. Cf. Ap. Rh. IV 1309, 1323=1358, Nicaenet. Anth. Pal. VI 225, 1 e 6* = CA fr.3, 1 e 6* p.3 = HE 2689 e 2694*. Per le occorrenze del vocabolo nelle epigrafi di Tera, vd. il comm. di Vian ad Ap. Rh. IV 1309. Qui C. lo utilizza per designare ninfe argive, così come nel fr. inc. sed. 602, 1 Pf. egli applica il sostantivo fipwidec alle ninfe libiche (vd. il comm. ad loc.). La forma

Mpotdec si rinviene anche in Dian. 185, mentre in Del. 161 troviamo la forma hpoivn. ’Iactöoc: La parola è un hapax. Probabilmente la notizia che Io fosse figlia di Iaso giunse a C. dagli ᾿Αργολικά di Agia e Dercilo, per il cui massiccio influsso su questo aition vd. il comm. al fr. 164. La genealogia figura presso [Apollod.] II 1, 3, 1 Ἄργου ... παῖς Ἴαοος, οὗ paciv Ἰὼ γενέεθαι ed è implicitamente accolta da Plut. Mor. 857 E (De Her.

mal. 14). Cf. inoltre Paus. Π 16, 1 Τριόπα δὲ Ἴαοος ..., Ἰὼ … ‘Iécov θυγάτηρ, Schol. (MTAB)

Eur. Or. 932 (dipendente dalla medesima fonte), Schol. (BQ) Hom.

Od. XVII

246 “Tacov Ἄργος] τὴν Πελοπόννηοον, ἀπὸ Tacov τοῦ τῆς Ἰοῦς (natpöc) (suppl. Pf. coll. Steph. Byz. σιν. ’Apyoc: ... ”Iocov, ἀπὸ Tocov τοῦ κατ᾽ ἐνίους πατρὸς Tode). Il patronimico callimacheo ha influito su Val. Fl. IV 353 | virginis lasiae (a proposito appunto di Io) e su Stat. Theb.II 254 | Jasides (riguardo alle donne argive).

322

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vén[o]dec: Cf. fr. 97, 2 véerodec* con il comm. 2-6: Questi versi sono un esempio estremo di artificiosità nella disposizione delle pa-

role. L'ordine naturale sarebbe: νύμφα Ποςειδάωνος ἐφυδριάς, οὐδὲ μὲν τῆιει μέμηλε ὑφαινέμεναι ἁγνὸν πάτος Ἥρης θέμις (ἐςτὶ) «τῆναι πὰρ κανόνεςει πάρος À χεύαςθαι κὰκ κεφαλῆς τεὸν ὕδωρ, ἐφεζομένας ἱρὸν πέτρον, τὸν μὲν uécov cd περιδέδρομας dugic. Vd. Massimilla, Enjambement p. 122 5.

2 νύμφα NM[oc]eıdawvoc ἐφυδριάς: La ninfa acquatica sposa di Posidone, cui C. si rivolge, è con ogni probabilità Amimone (cf. v. 7), la figlia di Danao che si unì al dio marino e ne ebbe in dono l'omonima sorgente (vd. il comm. al v. 5 ἱρὸν πέτρον; per Amimone νύμφη, vd. il comm. al v. 8 s.). C. si rifà alla forma originaria della leggenda, che sopravvive negli scoli ai vv. 185-188 delle Fenicie euripidee: dopo il connubio, Posidone fa scaturire la fonte con un colpo di tridente. Ispirandosi a questo mito, Eschilo compose il dramma satiresco Amimone (TrGF 13-15) e - forse insieme ad altri - introdusse nella versione più antica il personaggio di un satiro che, prima di Posidone, cercò di violare la fanciulla ma venne messo in fuga dal dio: la figura del satiro, estranea ai versi callimachei, si rinviene nei racconti dei mitografi (cf. [Apollod.] II 1, 4, 7-8, Hygin. Fab. CLXIX, CLXIX

A). Le altre testimonianze su Amimone sono raccolte da Wilamowitz, Aeschyli Tragoediae (Berolini 1914), p. 381 e da Radt ad Aesch. TrGF 13-15. Sul piano iconografico, vd. LIMC s.v. Amymone e il comm. al v. 5 ἱρὸν πέτρον. Per il connubio fra Amimone e Posidone, vd.

anche il comm. al v. 7 ’Apvuovn. L'aggettivo ἐφυδριάς non è attestato prima della poesia ellenistica, dove si accompagna sempre - come qui - al vocabolo νύμφη: cf. innanzitutto Alex. Aetol. CA fr. 3, 22 p. 123 =

fr. 3, 22 Magnelli ἐς νύμφας ᾧχετ᾽ ἐφυδριάδας | (con il comm. di Magnelli) e - verisimilmente per imitazione di C. o di Alessandro Etolo - Leonid. Tar. Anth. Pal. IX 329, 1 = HE

1984 e Hermocr. Anth. Pal. IX 327, 1 = HE 1947 | Νύμφαι ἐφυδριάδες (valore diverso ha la frase | νύμφη ἐφυδατίη presso Ap. Rh. I 1229, vd. il comm. di Vian; per l'epigramma di Ermocreonte, vd. anche il comm. al v. ὃ χαίρετε). Riguardo al vocativo νύμφα con alpha breve, vd. il comm. al fr. 143, 2 νύμφα. οὐδὲ μέν: Per l'uso del nesso senza una precedente negazione, cf. già Hom. I. X 181, XII 82, Od. X 447. “Hpnc: Per la prolessi del nome rispetto a tici (v. 3), vd. il comm. al fr. 8. 3 ἁγνόν: L'aggettivo è riferito agli indumenti di una dea anche da Nonn. Dion. IV 333 |

ἁγνὰ ... φάρεα Λητοῦς |. Cf. più in generale Greg. Naz. Carm. Il 1, 13, 120 (PG 37 p. 1237) ἁγνοῖειν ἐν einacı. tic

μέμηιλε.: Il verbo μέλει esprime qui un c6mpito rituale, come nel fr. 174, 34 e

in Lav. 137 5. ἀλλὰ δέχεεθε | τὰν θεόν, ὦ κῶραι, τῶργον ὅςαις μέλεται (vd. il comm. di Bulloch). πάτος: Come ci informa il commentario papiraceo ad Antimaco che tramanda il nostro pentametro (vd. app. delle fonti), C. - nel definire πάτος l'abito di Era argiva - si richiama agli storici Agia e Dercilo (FGrHist 305 F 4 = EGM fr. 4ab). Per la notevole influenza da loro esercitata su questo aition, vd. il comm. al fr. 164. Può darsi che un altro capo di vestiario ritualmente offerto a Era figuri nel fr. inc. sed. 547 Pf. di C., dove forse sı parla di un sottile velo dedicato a questa dea dai Deli (vd. il comm. ad loc). 4 crüvaı [πὰ]ρ xavovecci: L'uso del verbo «τῆναι si spiega alla luce del fatto che le tessitrici lavoravano in piedi, camminando avanti e indietro per far passare la spola tra i

fili dell'ordito: cf. Hom. Od. V 62 icröv ἐποιχομένη xpvcein κερκίδ᾽ ὕφαινεν e - per il

COMMENTO:

AET. HI FR. 165

323

nesso ictòv ἐποιχομένη - 1.1 31 (con il comm. di Leaf), Od. X 222, 226, 253. Cf. inoltre

Et. M. p. 367. 50 Gaisf. αἱ πάλαι γυναῖκες ἑςτῶοαι ὕφαινον. Il vocabolo κανών significa canna da telaio in una delle sue occorrenze omeriche (Il. XXIII 761). La spiegazione della parola nel passo iliadico risultava difficile agli antichi interpreti (cf. Eustath. p. 1328. 41), ma oggigiorno è comunemente accolta l'esegesi fornita

dallo Schol. (D) ad loc.: ὃ κάλαμος περὶ dv εἰλεῖται ὁ μίτος ὃ ictovpyıröc. Vd. il comm. di Leaf a Hom.

7. XXIII 760-763:

«L'antico telaio greco era verticale, con 1 fili dell'ordito

(uitoc) che pendevano fissati a un subbio. Ogni filo era attaccato (probabilmente mediante un occhiello) a una di due canne orizzontali (kavövec), tutti i fili pari a una e i dispari all'altra. Nello spingere avanti a turno ciascuna di queste canne, si creava un'apertura fra 1 due gruppi di fili (pari e dispari), attraverso la quale poteva essere fatta passare la spola che portava il rocchetto (anviov) della trama». Vd. inoltre H. Blümner, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste bei Griechen und Römern I (Leipzig-Berlin 1912) pp. 148-151. Il termine si rinviene, nel medesimo senso, presso Aristoph. Thesm. 822 e (per imitazione del luogo omerico) Nonn. Dion.X 411, XXXVII

631.

Gli altri frammenti callimachei dove si parla di tessitura e tessuti sono indicati da Pf. nel comm. al fr. inc. sed. 520: vi si può forse aggiungere il fr. inc. sed. 532 Pf. (vd. il comm. ad loc.).

4-6 πάρος

… ἢ τεὸν

ὕδω[ρ

... xebachoı: La costruzione è estranea ai poemi

omerici, nei quali la congiunzione πάρος si accompagna direttamente o all'infinito (Al. XI

573 al.) o all'accusativo e all'infinito (7. VI 348 al.). Per l'explicit À τεὸν ὕδωρ, cf. fr. 211 καὶ τεὸν ὕδωρ". C. continua ad apostrofare la fonte Amimone (cf. v. 2). 5.5. κὰκ κεφ[α]λῆς ... | χεύαεθαι: Cf. Hom. Il. XVII 24 e Od. XXIV 317 I χεύατο κὰκ κεφαλῆς, Od. XXIII 156 κὰκ κεφαλῆς yedev. Per il solo κὰκ κεφαλῆς, cf. Hom. Od. VII 85, XVII 355, [Theocr.] XXV 256, Orac. Sib. XIV 319, Quint. Smyrn. V 505 al., Greg. Naz. Carm.I 2, 1,347 (PG 37 p. 548). 5 ἱρὸν πέτρον: Il sacro masso circondato dall'acqua dell'Amimone (cf. v. 6) è probabilmente quello dal quale Posidone fece scaturire la fonte, per dimostrare la sua gratitudine dopo che la fanciulla gli aveva accordato i suoi favori (vd. il comm. al v. 2 νύμφα

ΠΙοε]ειδάωνος ἐφυδριάς; per il particolare della pietra, cf. Hygin. Fab. CLXIX A). Sui vasi greci si trovano effigiati sia il dio che colpisce la roccia con il tridente (cf. p.es. LIMC Amymone 48, circa 410-400 a.C.) sia Amimone seduta sulla roccia (cf. LIMC Amymone 79, circa 370-350 a.C.). Per le testimonianze sulle pietre sacre in genere, vd. E. Maass, «RhM» NF 78 (1929), pp. 1-25, U. Kron, in Kotinos. Festschrift E. Simon (Mainz/Rhein

1992), pp. 56-70 e il comm. al fr. 64, 2 s.

πέτρον épelouévac: Per il nesso, cf. Opp. Hal. II 302 ἐν πέτρῃειν ἐφέζεται (ν.1., ma già Hom. Od. IV 508 5. τὸ δὲ τρύφος (a proposito di una πέτρη menzionata nel v. 507) … [τῷ ... ἐφεζόμενοο. 6 τὸν μὲν cd uécov περιδέδρομας Kupic: C. continua ad apostrofare Amimone (cf. v. 2). L. aveva inteso il luogo nel Posidone, corse intorno al masso poi tazione di Pf.: l'acqua dell'Amimone tutto intorno (lo studioso osserva che

senso che la fanciulla, per sfuggire all'inseguimento di divenuto sacro (cf. v. 5). Va invece accolta l'interprecirconda perennemente la pietra sacra, scorrendole forse il flusso era incanalato in una vasca costruita ai

piedi della roccia, di forma non semicircolare, bensì circolare). A sostegno della sua ese-

gesi, Pf. osserva che il perfetto περιδέδρομε ha spesso valore di presente, richiamando so-

prattutto Dion. Per. 41 οὕτως Ὠκεανὸς περιδέδρομε γαῖαν ἅπαςαν (rilevante per l'affinità

324

CALLIMACO

contenutistica), ma

anche Theocr.

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO Ep. IV 5 Gow,

Nic.

Ther.

503*

al. (notiamo però che

repıö£öpoue ha valore di passato in vari passi delle Dionisiache di Nonno: cf. I 345 al.).

Pf. cita inoltre la frase omerica Aucen δ᾽ ἀναδέδρομε πέτρη | (Od. V 412, X 4) e la spiega zione περιτρέχει offerta dagli Schol. (BOT) Hom. Od. X 4 (per i due passi odissiaci, vd.

anche più avanti il comm. a περιδέδρομαο). Le notizie che C. fornisce sul ruolo dell'Amimone nel culto argivo di Fra derivano verisimilmente dagli ᾿Αργολικά di Agia e Dercilo, per il cui notevole influsso su questo aition vd. il comm. al fr. 164. In merito alla ridondanza dell'espressione, cf. Call. SH 288,

13 = fr. 69,

13 H. περί τ᾽

ἀμφί te Oncéi, Del. 300 cè μὲν περί τ᾽ ἀμφί te e vd. il comm. di West a Hes. Theog. 848. τὸν μέν: Il μέν solitarium dopo il pronome relativo ha valore enfatico, secondo una costruzione già nota ai poemi omerici: cf. 11.1234, XV 40 al.

περιδέδρομας: La lezione del papiro è nepıdeöpouec, che - come nota Pf. - va modificata nel perfetto περιδέδρομας o nell'aoristo secondo con raddoppiamento περιδέδραμες (vd. app.): poiché presso Hom. Od. V 412 e X 4 (vd. sopra il comm.) la lezione

ἀναδέδρομε si affianca alla varia lectio ἀναδέδραμε, può anche darsi che C. leggesse quest'ultima nel testo omerico e scrivesse περιδέδραμες nel nostro passo. Il verbo περιτρέχω è un hapax omerico (Il. XXII 369); altrove C. adotta il verbo περιτροχάω (Del. 28) e l'agget-

tivo repitpoyoc (Hec. fr. 304, 2 Pf. = 46, 2 H.). Per un possibile uso del verbo öpoy[ölcıv analogo al nostro περιδέδρομας, cf. fr. 144, 6 con il comm. 7s. Auvpovn ... Φυεάδεια ... | Ἵππη ... Αὐτομάτη: Concludendo l'aition, C. saluta le quattro fonti argive che hanno preso nome da altrettante figlie di Danao. Può darsi che nel fr. 144, 4 s. C. menzionasse non solo l'Amimone, ma anche - come qui - le sue so-

relle (vd. i comm. ad locc.). I nomi delle fanciulle si leggono pure nello Schol. (A) Eur.

Phoen. 188 Δαναοῦ θυγατέρες Ἵππη, ᾿Αμυμώνη, Φυςεά(δεια, Αὐτομάτη) (poca A: Sera suppl. Schwartz, che indica poi una lacuna: Αὐτομάτῃ suppl. Pf.; gli altri scoli sono dedicati alle sorgenti Lerna e Amimone). Le quattro fonti apostrofate da C. si possono accostare ai quattro pozzi di Argo menzionati in un passo di Strabone (VII 371): τὴν μὲν οὖν χώραν

(cioè la regione intorno ad Argo) coyyopode ebvöpeiv, αὐτὴν δὲ τὴν πόλιν Ev ἀνύδρῳ χωρίῳ (μὲν) (suppl. Kramer) κεῖοθαι, φρεάτων δ᾽ εὐπορεῖν à ταῖς Δαναΐειν ἀνάπτουειν, ὡς ἐκείνων ἐξευρουςῶν, ἀφ᾽ οὗ καὶ τὸ ἔπος ἐκπεςεῖν (ἐκπεςεῖν cod. Vat. rescript. ed. W. Aly, Roma 1956: εἰπεῖν rell.) τοῦτο: “Ἄργος ἄνυδρον ἐὸν Δανααὶ θέεαν ἴΑργος ἔνυδρον᾽ (Hes. fr. 128 M.-W.). τῶν δὲ φρεάτων τέτταρα καὶ ἱερὰ ἀποδειχθῆναι καὶ τιμᾶςθαι διαφερόντως. Strabone scrive dunque che, sebbene il territorio circostante ad Argo abbondi d'acqua, la città stessa si trova su un suolo secco ma è ricca di pozzi, individuati - secondo

la tradizione - dalle figlie di Danao, come risulta da un verso esiodeo; quattro di questi pozzi - continua Strabone - vengono considerati sacri e sono oggetto di una venerazione particolare (in base a una versione differente, Danao in persona scoprì le falde acquifere e insegnò ai suoi sudditi lo scavo dei pozzi: cf. lo stesso Call. fr. 151, 4 Δαναοῦ gpetarı πὰρ

μεγᾳ[λ- con il comm.). Dal passo straboniano è lecito dedurre che anche le quattro sorgenti erano all'interno della città di Argo (non nei pressi del monte Pontino vicino a Lerna, dove p.es. Paus. II 37, 1 afferma che si trovava il 'fiume' Amimone: questa ubicazione è invece preferita da D'Alessio, Argo

p. 117 s.). D'altro canto la tessitura dell'abito di Era e il relativo rituale, de-

scritti da C. nei nostri vv. 2-6, spettano con ogni probabilità ad Argo, non alla regione circostante. Ed è possibile che il poeta parlasse anche del culto di Fra Acrea o Acria, la dea

COMMENTO:

AET. HI FR. 165

dell'acropoli di Argo (vd. il comm. al fr. 164). 7 ’Anvu@vn: In poesia il nome ricorre

a partire

325

dall'ellenismo,

ma

l'aggettivo

᾿Αμυμώνιος è già impiegato da Eur. Phoen. 188 5. Ποςειδανίοις ᾿Αμυμωνίοις | döacı. Cf. poi Call.fr. 144, 4 ‘Auvuov[n*, Lav. 48 ἐς ‘Auvubvav* ... τὰν Δαναῶ | (nel v. 47 viene menzionata

la Fisadia,

che

C.

nomina

anche

nel

nostro

pentametro),

Ap.

Rh.

I 136

s.

Ποκοειδάωνι ... |... ᾿Αμυμώνη Aavaic ... ebvndeica |, [Orph.] Arg. 202 5. ᾿Αμυμώνηε … 1... edvndeica ... Evvocıyoto |, Nonn. Dion. VIII 241 γάμων ... ᾿Αμυμώνης, XLII 407 ἄλλῃ ᾿Αμυμώνῃ παρελέξατο κυανοχαίτης, Christod. Anth. Pal. II 61-64 ᾿Αμυμώνη … 1... 1...} εἰνάλιον «κοπίαζε μελαγχαίτην παρακοίτην. Come si vede, quasi tutti i passi riportati fanno riferimento al connubio tra Amimone e Posidone, per il quale vd. il comm.

al v. 2

νύμφα ΠΙίοο]ειδάωνος ἐφυδριάς. Anche nella poesia latina le menzioni di Amimone sono talora collegate al tema erotico: cf. Prop. II 26, 47-50, Ov. Am.I

10, 5 s., Her. XIX

129-

132, Mer. II 240, Val. FI. IV 374, Stat. Theb. IV 742, VI 287 s. Φυεάδεια: È probabile che la Matthews) venisse precedentemente parto - sùbito prima del fr. 164: vd. (nel v. 48 compare l'Amimone, che

fonte (per la quale cf. già Antim. fr. 179 Wyss = 104 menzionata da C. - in merito alle abluzioni rituali del il comm. ad loc. Cf. inoltre Call. Lav. 47 Docäderav | C. nomina anche nel nostro pentametro) e 1] relativo

scolio al v. 47 s.: Φυςάδεια καὶ ᾿Αμυμώνη θυγατέρες Δαναοῦ, ὅθεν τὴν ὀνομαείαν Écyov αἱ κρῆναι. La Fisadia si rinviene poi in un passo di Euforione (CA fr. 23, 3 p. 34): καλὰ

véovcav ... Φυεάδειαν | (vd. il comm. al fr. 144, 5). 8 ‘Iran: Forse C., in questa sorgente serviva dell'acropoli di Argo: vd. da C., deve il suo nome Ἵππης τῆς Δαναοῦ.

una parte dell'aition anteriore al nostro v. 1, riferiva che l'acqua di per il lavacro rituale della statua di Fra Acrea o Acria, la dea il comm. al fr. 164. L'Ippe, come le rimanenti tre fonti nominate a una figlia di Danao: cf. Hesych. s.v. “Irtuov: τὸ ”Apyoc. ἀπὸ

Αὐτομάτη: Cf. fr. 164, 1 Αὐτομά[της con il comm. παλαίτατα: Per il corrispondente comparativo παλαίτερον, cf. fr. inc. sed. 119, 4*. χαίρετε: Il saluto alle fonti segna la fine dell'aition (vd. il comm. al fr. 213, 94). Il medesimo congedo si trova in un epigramma di Leonida di Taranto (Anth. Pal. IX 326, 5 = HE

1982) e in uno di Ermocreonte (Anth. Pal. IX 327, 3 = HE

1949, per questo carme, vd.

il comm. al v. 2 νύμφα ΠΙοο]ειδάωνος Epvöpıac). Allo stesso modo Dionisio Periegete, nel concludere il suo poemetto geografico, saluta - fra l'altro - le sorgenti: xaipere* ... 1... | … Κρῆναι (vv. 1181-1183; per altri echi ellenistici nel brano di Dionisio, vd. E. Magnelli,

«ARF» 7, 2005, p. 106). 8 s. vvu@géov | οἰκία: Le quattro sorgenti sono le dimore di altrettante ninfe, da identificare con le Danaidi che diedero il proprio nome a questi corsi d'acqua (cf. v. 2 νύμφα, a proposito di Amimone). L'interesse di C. per le ninfe, evidente in molti suoi passi poetici, si concretizzò nell'opera erudita Περὶ νυμφῶν (fr. 413 Pf.). La nostra frase ha un esatto paral-

lelo nel fr. 179 1 Ἦλιν ... Διὸς οἰκίον, ma cf. già Hom. Od. XII 3 s. Ἠοῦε ... | οἰκία καὶ χοροί, 318 νυμφέων ... χοροὶ ἠδὲ θόωκοι le poi [Orph.] Hymn. LI 1 5. Quandt Νύμφαι … | … γαίης ὑπὸ κεύθεειν οἰκί᾽ &xovcan |. Per il vocabolo οἰκία, vd. il comm. al fr. 179 oikiov. 9 Aınapai: Per l'uso dell'aggettivo a proposito di corsi d'acqua, cf. Aesch. Suppl. 1028 λιπαροῖς yebuocı. Per la collocazione metrica, cf. fr. 65, 20 λιπαρ[" con il comm. Sul bel flusso delle fonti argive, cf. frr. 144, 5 e 164, 1.

TeAacyıaödec: Il vocabolo - che equivale ad argive - risulta impiegato per la prima volta da C., sia nel nostro passo sia in Lav. 4* (dove le donne argive sono definite

326

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

IIeXocyıadec, vd. il comm. di Bulloch e Sistakou p. 156 s.; riguardo alla predilezione callimachea per gli etnici femminili in -1&c, vd. il comm. al fr. 96). A C. si ispira Nonno in tre luoghi delle Dionisiache: dato il contenuto dei nostri vv. 2-6, è soprattutto notevole XLVII

534 MeAocyiàc ... Ἥρη

|, ma cf. anche XXVIII 34 TleAocyucc ... πήληξ | e XLVII 568

IeXocyukc ... εἀλπιγξ |. Per la ripresa della parola nella poesia latina, vd. Kenney p. 331 5. Non è necessaria la congettura IIeAacyıccıv, proposta dubbiosamente da Maas (e fluite lucenti per le Pelasghe).

Frammenti 166-174 (Aconzio e Cidippe) Ampie parti di questa sezione ci sono pervenute. Speciale rilevanza hanno 1 frr. 166 e 174, che consentono di leggere quasi per intero rispettivamente 1 primi quattordici e gli ultimi settantasette versi dell'aition. C. esordisce con un accenno all'astuzia impiegata dal giovane Aconzio per ottenere in sposa la fanciulla Cidippe e prosegue rievocando la partecipazione dei due (nobili e bellissimi entrambi) alla festa di Apollo nell'isola di Delo: Aconzio proviene da Iulide di Ceo e la splendida Cidippe da Nasso (fr. 166). Straordinaria è l'avvenenza di Aconzio, che in patria suscita l'ammirazione degli spasimanti (fr. 167). Ma il ragazzo non esaudisce i desideri ispirati dalla sua bellezza, sicché molti suoi adoratori, durante il gioco simposiale del cottabo, falliscono nel lancio delle gocce di vino e risultano quindi sfortunati in amore (fr. 168). Adesso proprio Aconzio, che ha trafitto tanti cuori, è destinato a invaghirsi di Cidippe e a subire lui stesso la freccia di Eros (fr. 169). Il giovane vede la fanciulla a Delo, mentre entrambi celebrano la festa di Apollo, essendo arrivati ciascuno con il coro allestito dalla

propria isola di origine (fr. 170). Nessuno dei frammenti superstiti risale alla fase del mito immediatamente successiva: Aconzio lancia di nascosto a Cidippe una mela, sulla quale ha scritto le parole «Giuro per Artemide che sposerò Aconzio»; la fanciulla legge ad alta voce la frase e così si impegna involontariamente a rispettare la promessa. Tornato a Ceo, Aconzio vuole nascondere agli sguardi dei familiari la sua passione e quindi coglie ogni pretesto per recarsi in campagna (fr. 171). Qui il ragazzo apostrofa gli alberi, incidendo su di essi le parole che esprimono il suo amore per Cidippe (fr. 172). Continuando a monologare, Aconzio si pente di avere imposto alla fanciulla il timore di essere punita da Artemide, ove mai venga meno al giuramento (fr. 173). L'ampio fr. 174 tramanda la fine dell'elegia: a Nasso i genitori di Cidippe, ignari della promessa da lei formulata, organizzano il suo sposalizio con un altro giovane, ma per ben tre volte la fanciulla cade vittima di gravi malattie nell'imminenza del matrimonio; Ceice, il

padre di Cidippe, interroga allora Apollo delfico e apprende che le nozze sono ostacolate da Artemide, la quale si trovava a Delo quando la fanciulla ha giurato in suo nome di sposare Aconzio e ora vuole che Cidippe tenga fede alla parola data; di ritorno a Nasso, Ceice sente confermato dalla figlia il responso di Apollo e si affretta a convocare Aconzio, che con incomparabile gioia sposa la sua amata; C. precisa che ha letto la vicenda di Aconzio e Cidippe presso lo storico Senomede di Ceo; costui ha anche tracciato la remota storia mitica dell'isola, che C. passa in rassegna. L'elegia era alquanto estesa, come si ricava dalle seguenti considerazioni: 1 versi superstiti (ivi inclusi quelli tramandati in forma parziale dalla tradizione indiretta e quelli più lacunosi, cioè 1 vv. 15-22 delfr. 166 e 1 vv. 1 s. e 4 del fr. 173) ammontano a circa 110; questo numero sale a circa 130, una volta sommata la ventina di versi che intercorreva tra i frr.

COMMENTO:

AET. II FRR. 165; 166-174

327

173 e 174; infine la narrazione callimachea relativa all'inganno della mela, che è andata del

tutto perduta, e altri raccordi tra i frammenti dovevano complessivamente occupare almeno una ventina di versi. Se ne deduce che Aconzio e Cidippe abbracciava non meno di 150 Versi. La Diegesis Mediolanensis è di scarsissima utilità per ricostruire 1 contenuti dell'aition: ce ne rimangono infatti solo gli ultimi sette righi, per di più in forma molto lacunosa (ma forse i righi in questione contenevano per intero la parte esplicativa della Diegesis ed erano immediatamente preceduti dal rigo che esibiva il lemma dell'elegia: vd. l'app. ad loc.). Le scarse vestigia ci consentono di affermare che 1] redattore menzionava Cidippe e la mela e riportava la promessa di sposare Aconzio, pronunciata dalla fanciulla in nome di Artemide. All'interno della Diegesis il giuramento è stato integrato nella forma [μὰ τὴ]ν Ἄρτεμιν, ᾿Ακον[τίῳ γαμοῦμαι], perché queste sono le parole impiegate da Aristeneto nell'epistola relativa ad Aconzio e Cidippe (vd. oltre; che la Diegesis e l'epistolografo si rifacciano alla medesima fonte, viene argomentato da Maas, Exkurs I p. 158 s.). Ovviamente la formula in

questione non deriva dal testo stesso di C.: per l'uso affermativo di μά (senza vai), cf. in primo luogo la frase μὰ ταύτην τὴν Ἄρτεμιν, che compare nel romanzo di Achille Tazio (VIII 5, 2), ma anche il nesso μὰ cé, δαῖμον, che si legge nel v. 13 di un'iscrizione epigrammatica egiziana attribuibile al I sec. d.C. e pubblicata in «Annales du Service des Antiquités de l'Égypte» 27 (1927), p. 31 s. C. fa pronunciare a Cidippe un giuramento in nome di Artemide, sull'esempio delle fanciulle in tragedia e delle donne in commedia: cf. da un lato Soph. El. 1239, Fur. Phoen. 569 al., Eccl.90 al.

192, dall'altro Aristoph.

Lys. 435 αἱ. Thesm.

517,

Per risalire alla configurazione generale dell'elegia è Invece preziosa la raccolta di Epistole amorose composta da Aristeneto: infatti la decima lettera del primo libro, dedicata alla storia di Aconzio e Cidippe, ricalca molto da vicino la trattazione callimachea (anche se il modello ellenistico viene spesso amplificato retoricamente o al contrario sintetizzato e modificato per facilitarne la comprensione). In vari casi Aristeneto parafrasa i versi di C. e funge quindi da vera e propria fonte per numerosi brani del testo poetico: vd. l'app. delle fonti ai frr. 167; 169; 171; 172; 173, 3; 174, 1-49. Non di rado la testimonianza di Aristeneto contribuisce alla costituzione testuale dell'elegia: vd. 1 comm. ai frr. 169; 172; 173, 3

τόνδ᾽ ἐπέθηκα φόβον; 174, vv. 21 ἐννύχιον, 28 s., 30 s., 44-49. L'epistolografo, data la sua stretta adesione all'esemplare callimacheo, ci guida talvolta nel tentativo di ricostruire il contenuto di passi callimachei lacunosi o non pervenutici: vd. rispettivamente i comm. ai vv. 18 e 21 del fr. 166 e al fr. 172. In un caso Aristeneto trae un motivo dalla nostra elegia, ma lo applica a un punto della narrazione diverso da quello che C. aveva a esso riservato: vd. il comm. al fr. 166, 1-3. Per le caratteristiche della parafrasi di Aristeneto, vd. Legrand pp. 11-13, Dietzler p. 41 s., Harder, Aristaenetus e soprattutto l'analisi di C. Consonni in A. Stramaglia (ed.), ‘Zar. Antiche trame greche d'amore (Bari 2000), pp. 113-128 e il comm. di Drago all'epistola I 10 (pp. 202-223). Poiché - come abbiamo detto - nessuno dei nostri frammenti si riferisce all'inganno escogitato da Aconzio, è utile riportare il passo corrispondente nella lettera di Aristeneto (p. 22. 26 e 36 Mazal). Qui il giovane (al quale l'epistolografo si rivolge sotto forma di apostrofe) scrive su una mela una frase ingannatrice e la fa scivolare di nascosto davanti ai piedi dell'ancella di Cidippe, che la consegna alla fanciulla; Cidippe legge ad alta voce il giuramento e, resasi conto delle parole che suo malgrado ha pronunciato, le respinge in

preda alla vergogna: Κυδώνιον ἐκλεξάμενος μῆλον. ἀπάτης αὐτῷ περιγεγράφηκας λόγον

328

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

καὶ λάθρᾳ διεκύλιςεας πρὸ τῶν τῆς θεραπαίνης ποδῶν ... ἡ δὲ κόρη κομιςαμένη καὶ τοῖς ὄμμαει περιθέουεα τὴν γραφὴν ἀνεγίνωοκεν ἔχουεαν Ode: "ud τὴν Ἄρτεμιν, ᾿Ακοντίῳ γαμοῦμαι᾽. ἔτι (δὲν (add. Maas, Exkurs I p. 158 n. 2) διερχομένη τὸν ὅρκον εἰ καὶ ἀκούειόν τε καὶ νόθον τὸν ἐρωτικὸν λόγον ἀπέρριψεν αἰδουμένη (per il significato di ἀπέρριψεν, vd. Arnott p. 14, Hunter, Echoes p. 179 n. 2 = p. 207 n. 2 e ad loc.). Sul piano dei contenuti, questo punto della lettera corrisponde esigui resti della Diegesis Mediolanensis (vd. sopra). L'elegia callimachea è inoltre riecheggiata molto spesso nelle Eroidi nesima di Ovidio, che consistono in due lettere scritte rispettivamente da

il comm. di Drago grosso modo agli ventesima e ventuAconzio a Cidippe

e da Cidippe ad Aconzio: vd. i comm. al fr. 166, vv. 1-3, 3 où γὰρ ὅγ᾽ Ecke πολύκροτος, 3 8., 4 κουρίδιον, 6 τὴν ... civ... Bovgovinv, 14 ἁβρὸν ἔθηκε πόδα e ai frr. 169; 170; 173,3; 174, vv. 10-19, 15, 20 s., 26 Δήλῳ δ᾽ ἦν ériônuoc, 32-37, 40, 40 5. (dove la ripresa ovidiana è rilevante per la costituzione del nostro testo), 56. Vd. in generale C. M. Hintermeier, Die Briefpaare in Ovids Heroides (Stuttgart 1993), pp. 103-151. Lo speciale interesse di Ovidio per questa parte degli Aitia è testimoniato anche da altri luoghi delle sue opere: cf. Ars 1455 5. littera Cydippen pomo perlata fefellit, | insciaque est verbis capta puella suis, Rem.381 s. Callimachi numeris non est dicendus Achilles, | Cydippe non est oris, Homere,

tui (= Call.

test. 65 Pf.), Trist. III 10, 73 5. poma

negat regio,

nec haberet Acontius, in quo | scriberet hic dominae verba legenda suae. Cf. inoltre Priap. XVI 5 s. malum ... littera pinxit Aconti | qua lecta est cupido pacta puella viro. Un confuso riferimento alla storia dei due giovani si coglie poi in un passo di Ausonio (Epist. XXVIII 16 s. Peiper). Una vicenda analoga a quella di Aconzio e Cidippe veniva narrata da Nicandro nelle Metamorfosi (frr. 49-50 Schneider), che si ispirò certamente al nostro aition. I protagonisti della storia sono una fanciulla chiamata Ctesilla, proveniente - come Aconzio - da Iulide di

Ceo, e un giovane ateniese di nome Ermocare: questi vide Ctesilla danzare a Cartea di Ceo (cf. il v. 71 del nostro fr. 174) intorno all'altare di Apollo e se ne innamorò; mentre la ragazza si trovava nel santuario di Artemide, Ermocare

colse, lesse il giuramento che sposerò l'ateniese Ermocare» vergogna; il padre di Ctesilla poi, il racconto di Nicandro si

le lanciò una mela; Ctesilla la rac-

il giovane vi aveva scritto - cioè: «Giuro per Artemide che - e, resasi conto dell'inganno, gettò via il frutto in preda alla acconsentì alle nozze in nome di Apollo. Da questo punto in discosta dal modello callimacheo, perché ha un esito tragico:

il padre di Ctesilla, dimentico del giuramento, fidanzò la figlia a un altro; Ermocare la rapi,

la condusse ad Atene e la sposò; Ctesilla diede alla luce un figlio e morì, mutandosi poi in una colomba. La somiglianza fra l'aition callimacheo e la narrazione di Nicandro viene messa in evidenza da Antonino Liberale, che è la fonte del fr. 49 Schneider: ὥςπερ ὅτε

Κυδίππην ᾿Ακόντιος ἐξηπάτηεεν (1 2). Vd. Puech p. 257 n. 1, Storck pp. 27-29, Lugauer p. 99 s., Zaffagno pp. 111-116. Per l'influsso esercitato dagli Aitia sulle Metamorfosi di Nicandro, vd. il comm. al fr. 63.

La trama della nostra elegia si è ripercossa inoltre sulla parte iniziale del romanzo di Senofonte Efesio (I 1-9): il giovane Abrocome va superbo della sua bellezza e spregia il dio Amore, che - per punirlo - scatena una cocente passione fra lui e la splendida fanciulla Anzia, allorché 1 due 51 incontrano durante la festa di Artemide a Efeso; 1 gravi effetti psico-

somatici del loro segreto tormento inducono 1 rispettivi padri a interrogare in comune l'oracolo di Apollo a Claro; dopo il responso del dio, si celebrano felicemente le nozze fra 1 due. Anche nei romanzi di Caritone (I 1, 4-6) e di Eliodoro (III 5, 4-6) il primo fatale incontro

COMMENTO:

AET. TI FRR. 166-174; 166

329

fra 1 due protagonisti si verifica in occasione di cerimonie religiose, cioè a Siracusa durante una festa per Afrodite e a Delfi durante 1 sacrifici per Neottolemo. Del resto lo stesso C. nell'elegia di Frigio e Pieria (frr. 183-185), appartenente anch'essa al terzo libro degli Aitia, racconta che il giovane si innamorò della ragazza quando per la prima volta la vide nella festa di Artemide a Mileto (per le analogie tra Aconzio e Cidippe e Frigio e Pieria, vd. Barigazzi, Frigio p. 14, Fantuzzi-Hunter p. 66 s. = 47; per una significativa differenza, vd. la fine del comm. ai frr. 183-185 e Introd.1.4.D.-E.). Il lancio ovvero il dono della mela, cioè l'espediente di Aconzio sul quale si impernia l'intero aition, era per gli antichi il tipico segnale di una profferta amorosa: cf. p.es. [Plat.] Anth. Pal. V 79 e 80 = FGE 590 ss. e 594 s., Paul. Sil. Anth. Pal. V 290 e 291 = 64 e 65 Viansino con il comm. di quest'ultimo e vd. Foster pp. 39-55, Lugauer pp. 104-115, Brazda pp. 35-44, 51 s. Con estrema probabilità, la celebre similitudine alla fine del sessantacinquesimo carme di Catullo (vv. 19-24 ut missum sponsi furtivo munere malum | procurrit casto virginis e gremio, | quod miserae oblitae molli sub veste locatum,

| dum adventu matris prosilit, excu-

titur, | atque illud prono praeceps agitur decursu, | huic manat tristi conscius ore rubor) si ispira alla scena callimachea di Cidippe che legge il giuramento sulla mela e - come possiamo senz'altro supporre anche sulla base di Ovidio e Aristeneto - è sùbito assalita dalla vergogna. La vena callimachea del brano è resa ancora più verisimile dal fatto che il carme sessantacinquesimo di Catullo costituisce la dedica a Ortalo del componimento successivo, cioè la traduzione della Chioma di Berenice dello stesso C. (fr. 213). Vd. Cantarella, Recensione p. 315, Daly p. 98, Hunter, Echoes, Formicola pp. 183-205, Porro, Rubor.

Frammento

166 (67 Pf.)

Il frammento tramanda l'inizio dell'aition. Dopo un accenno allo stratagemma della mela, ispirato da Amore ad Aconzio, C. rievoca la partecipazione dei due giovani alla festa di Apollo nell'isola di Delo, durante la quale Aconzio vide Cidippe e se ne innamorò. Il poeta precisa che essi venivano l'uno da Iulide di Ceo e l'altra da Nasso e discendevano l'uno da Fussanzio e l'altra da Prometo. La loro bellezza era straordinaria: fin da piccola, Cidippe era stata chiesta in sposa da molte madri per 1 figli, grazie alla sua avvenenza che la distingueva dalle altre fanciulle di Nasso (vv. 1-14). I vv. 15-22 sono in cattivo stato di conservazione. Probabilmente il v. 15 e forse il v. 18 vertono ancora sul fascino di Cidippe (vd. 1 comm. ad locc.); il v. 20 5. potrebbe trattare il medesimo tema, ma anche descrivere la bellezza di Aconzio, alla quale è dedicato il conti-

guo fr. 167 (vd. il comm. al v. 21).

1-3 Αὐτὸς

Ἔρως

ἐδίδαξεν

’Akövriov ... τέχνην: Aconzio, di solito poco scal-

tro (cf. v. 3), grazie agli insegnamenti di Amore escogitò un'astuzia che gli permise di conquistare Cidippe (cf. v. 2): si tratta ovviamente della mela con il giuramento. Tramite la menzione incipitaria di Eros, C. preannuncia il contenuto amoroso dell'elegia. Come osserva Maas ap. L., l'inizio del celebre aition callimacheo ha ispirato il primo verso di un distico epigrammatico composto dalla poetessa Erennia Procula e inciso sulla base di una statua di Amore rinvenuta a Tespie (vd. A. Plassart, «BCH»

K. Gutzwiller, «TAPhA»

50, 1926, p. 405,

134, 2004, p. 403): οὗτος Ἔρως ἐδίδαξε πόθους, αὐτὴ φάτο

Κύπρις. Risente del nostro passo anche Musae.

200 5. (a proposito di ”Epwc)

αὐτὸς ὃ

πανδαμάτωρ βουληφόρος teri Bpotoicw | αὐτὸς καὶ ποθέοντι τότε ypaicunce Λεάνδρῳ (vd. il comm. di Kost; per un'altra imitazione di questo frammento da parte di Museo, vd. il

330

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

comm. al v. 7 s.). Al brano callimacheo si richiama oltre Tib. I 8, 5 | ipsa Venus ... | per-

docuit (vd. Kassel p. 99=373). È infine notevole Nonn. Dion. VII 110 copdc αὐτοδίδακτος Ἔρως

(con gli altri luoghi

raccolti

da E. Rohde,

Der

griechische

Roman

und

seine

Vorläufer, Leipzig 1914, p. 174 n. 3, cui si può aggiungere Ach. Tat. V 27, 1 διδάςκει γὰρ ὁ Ἔρως καὶ Aöyovc). Più in generale, riguardo a Ἔρως ôd@ckæhoc, cf. Eur. TrGF 663, Nicias SH 566, Mosch. fr. 3, 7 s. Gow,

Bion fr. 10, 10-14 Gow

(con il comm.

di Reed),

Prop. 11, 4 5. e vd. il comm. di Drago ad Aristaenet. I 8 (p. 186 s.).

Sul piano formale, cf. da un lato Hom. Od. 1384 à μάλα δή ce διδάεκουειν θεοὶ αὐτοί I, IH. V 51 δίδαξε γὰρ "Ἄρτεμις αὐτή |, nonché Ap. Rh. I 144 Anrotönc, αὐτὸς δὲ θεοπροπίας ἐδίδαξεν; dall'altro Od. VI 233 s. = XXIII 160 5. ὃν Ἥφαιετος δέδαεν καὶ Παλλὰς ᾿Αθήνη Ι τέχνην παντοίην, lo stesso Call. Cer. 21 ἁνίκα Τριπτόλεμος ἀγαθὰν ἐδιδάσκετο τέχναν (da Demetra), Maced. Paean. CA v. 11 p. 138 ἐδίδαξε [τέ]χνη[ν (suppl. Dittenberger), Bion fr. 13, 9 Gow ὅς νιν τάνδε τέχναν ἐδιδάξατο. La seconda serie di passi dimostra che l'accusativo τέχνην del nostro v. 3 va costruito con ἐδίδαξεν ᾿Ακόντιον e non con il successivo πολύκροτος (vd. l'app. al v. 3 e Lapp p. 38). Più in generale, cf. Call.fr. inc. sed. 701 Pf. con il comm. e vd. Clausen p. 109 s. Che l'astuzia di Aconzio derivasse da Amore, viene detto anche da Aristeneto (p. 22. 22

Mazal): αὐτὸς ὁ τρώεας (scil. "Epwc) ἀεί τινας παραδόξους μηχανὰς διαπλέκων ὑπέθετό cor (scil. ᾿Ακοντίῳ) καινοτάτην βουλήν. Il concetto è più volte ribadito nella ventesima Eroide ovidiana, scritta da Aconzio a Cidippe (cf. vv. 23-34; vd. i comm. al v. 3 où γὰρ öy’ Ecke πολύκροτος e al v. 3 s., nonché Coletti pp. 294-296 e Pardini p. 64 s.).

1 Αὐτὸς

Ἔρως

ἐδίδαξεν: Cf. Nonn. Dion. XXIX 333 αὐτὸς Ἔρως τόξευεν e -

per il nesso αὐτὸς Ἔρως

- IV 2385, XIX 237*, XLVII 312*.

2 ἤιθετο Κυδίππηι παῖς ἐπὶ παρθενικῆι: L'uso metaforico del verbo αἴθομαι a proposito della passione amorosa si ritrova presso Xenoph. Cyr. V 1, 16 αἴθεοθαι τῷ ἔρωτι

e Theocr. VII 102 ἐκ παιδὸς "Aparoc ... αἴθετ᾽ ἔρωτι I. Cf. anche Ap. Rh. III 296 5. αἴθετο …

ως ἔρως, Mel. Anth. Pal. XII 83, 1 5. e 132 bis,

1= HE 4342 s. e 4110 λαμπάδ᾽ ... 1...

αἰθομέναν ed ἐκ πυρὸς αἴθῃ I, Marc. Arg. Anth. Pal. V 89, 4 = GP 1316 αἰθόμενος |, Quint. Smym.

II 95 αἰθόμενον

κῆρ I, Greg. Naz. Carm.

II 2, 3, 301

(PG 37 p. 1501)

αἰθομένοιειν ἔρωειν I, nonché Theocr. Π 40 ἐπὶ τήνῳ nüca καταίθομαι (dove - come nel nostro passo - il verbo si accompagna a ἐπὶ + dat.) Per l'attivo αἴθω, cf. Theocr. II 134,

[Theocr.] Anth. Pal. XV 21, 4 = Syrinx 4, Polystr. Anth. Pal. XII 91, 1 = HE 3040, Mel. Anth. Pal. XII

144, 3 = HE 4556; per l'attivo καταίθω,

cf. Theocr.

VII 56. Riguardo

al-

l'immagine, cf. anche Call. Ap. 49 ἠιθέου ὑπ᾽ ἔρωτι κεκαυμένος ᾿Αδμήτοιο (con il comm. di Williams) e gli altri luoghi callimachei raccolti da Spatafora pp. 449-451. παῖς ἐπὶ παρθενικῆι: Il distico iniziale dell'elegia, che contiene la menzione esplicita dei due protagonisti ('Ak6vriov ... Κυδίππηι), grazie a questa frase ci informa anche sulla loro giovane età (vd. Cairns p. 471). Dal punto di vista formale, cf. Call. Del. 298 | παρθενικαῖς, παῖδες. Per la collocazione metrica di παρθενικῆι, cf. Call. Ep. XX 2 Pf. =

HE 1194*. 3 où γὰρ by’ Ecke

rod dkpotoc: Di per sé Aconzio non era certamente scaltro, ma

lo divenne grazie ad Amore (cf. v. 1). La nozione viene ripresa da Ovidio nella ventesima Eroide, dove il ragazzo scrive a Cidippe: non ego natura nec sum tam callidus usu (v. 27) e consultoque fui iuris Amore vafer (v. 32; vd. il comm. ai vv. 1-3). E nella ventunesima Eroide Cidippe, immedesimandosi in Aconzio, usa l'espressione | arte ... mea | (v. 224). Come si è detto nel comm. ai vv. 1-3, l'accusativo τέχνην del nostro v. 3 deve essere co-

COMMENTO:

AET.II FR. 166

331

struito con ἐδίδαξεν ᾿Ακόντιον (v. 1) e non con πολύκροτος, benché C. ponga talvolta la particella γάρ al terzo e addirittura al quarto posto (cf. v. 11 e vd. il comm. al fr. 174, 23

γάρ). Νά. app. La frase parentetica caratterizzata dal nesso οὐ γάρ è tipicamente callimachea:

vd. il

comm. al fr. 89, 17-19.

roAdKporoc: C. sembra alludere al primo verso dell'Odissea omerica, dove il nesso |

ἄνδρα ... roAdtporov* (riferito al protagonista) ha appunto come varia lectio | ἄνδρα ... todd kpotov* (la variante è attestata solo nello Schol. Matr. Aristoph. Nub. 260 ff e presso Suid. s.v. τρίμμα ed Eustath. p. 1381. 48). L'aggettivo πολύκροτος ricorre in un luogo del Catalogo delle donne esiodeo (fr. 198, 3 M.-W.), dove si parla ancora di Odisseo: viòc

Aaéptao πολύκροτα μήδεα εἰδώς (vd. J. Schwartz, Pseudo-Hesiodeia, Leiden 1960, p. 586 s.; la ripresa da parte di Quint. Smyrn. V 238 υἱὸς Λαέρταο πολύτροπα μήδεα νωμῶν testimonia non tanto l'esistenza di una varia lectio πολύτροπα nel verso di Esiodo, quanto 11 fatto che Quinto intese correggere il passo del Catalogo in base all'inizio dell'Odissea: vd. il comm. di Vian). La variante omerica, ıl luogo esiodeo e il nostro passo - con il loro riferimento alla scaltrezza - richiamano usi analoghi dei sostantivi kpötaAov (Eur. Cyel. 104, ancora a proposito di Odisseo) e κρότημα (Soph. TrGF 913, [Eur.] Rhes. 499, sempre riguardo a Odisseo) e forse del verbo κροτέω (Theocr. XV

49, Adaeus Anth. Pal. X 20, 1 =

GP 43). Nell'inno omerico a Pan (XIX 37) il dio viene definito roAöxpotov*, ma qui l'aggettivo significa chiassoso (cf. anche Anacr. fr. 48, 2 Gent. = PMG

427, 2, Timoth. PMG

791, 12).

Vd. Coletti pp. 299-301, Rengakos, Homertext p. 148, Harder, Intertextuality p. 192 s. e soprattutto Pardini pp. 57-70, il quale a ragione pone l'accento sul fatto che il vocabolo si adatta perfettamente a un facile parlatore (cosa che Aconzio di certo non è). Per un'eco del πολύκροτος callimacheo presso Ovidio, vd. il comm. al v. 3 s.

3 s. ὄφρα

Akyo

. [I toöro

διὰ ζωῆς

οὔνομα

κουρίδιον: Il senso generale

della frase è chiaro: Amore ispirò ad Aconzio l'inganno della mela, affinché il ragazzo avesse per tutta la vita il nome di sposo legittimo di Cidippe. Tuttavia l'esatta ricostruzione ed esegesi del passo resta incerta. L. propone dubbiosamente di leggere e integrare ὄφρα λέγοιτίο e di correggere κουρίδιον in xovpidioc: affinché venisse chiamato per tutta la vita con questo nome di sposo legittimo. A sostegno della sua ipotesi, L. allega Plat. Apol. 23 A ὄνομα δὲ τοῦτο λέγεεθαι ὠφὸς εἶναι. Da parte sua Pf. osserva che il luogo platonico, nel quale l'aggettivo τοῦτο tiene dietro a un'ampia discussione sulla copio e sul copöc, non delucida l'uso di τοῦτο nel nostro passo. Comunque anche Pf. ritiene che, se con L. si dà a λέγοιτ[ο il senso di venisse chiamato, è necessario scrivere κουρίδιος (lo studioso cita in proposito Plat. Leg.

VII 842 E νόμοι ... λεγόμενοι τοὔνομα γεωργικοί). Non è infatti plausibile - continua Pf. che κουρίδιον sia un accusativo maschile risultante dall'assimilazione di κουρίδιος al precedente οὔνομα. Ma si noti che xovpiduov potrebbe ben essere un accusativo neutro accordato con οὔνομα: vd. in proposito Cataudella, Recensione p. 152. Un ulteriore elemento a favore di A&yoır[o nel senso di venisse chiamato è stato offerto da Maas ap. Pf., che adduce [Hom.] Hymn. V 126 s. (parla Afrodite sotto spoglie mortali)

"Ayxicew δέ ue qécxe (scil. "Epufic) παραὶ λέχεειν koAéecder | κουριδίην ἄλοχον. Da parte sua Cairns, Etymology ha chiamato a confronto il v. 33 della ventesima Eroide ovidiana, dove Aconzio esclama: sit fraus huic facto nomen dicarque dolosus (notevole non solo per A&yo. |... οὔνομα, ma anche per il precedente πολύκροτοο). Sul piano espressivo,

332

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

cf. inoltre Hom. Od. VI 244 où γὰρ ἐμοὶ τοιόςδε πόεις κεκλημένος ein, [Hom.] Hymn. V 241 5. i... |... ἡμέτερος ... πόεις κεκλημένος εἴης |, ma anche Musae. 220 οὔνομά pot Λείανδρος, ἐυετεφάνου πόεις Ἡροῦς. Questi paralleli rendono poco plausibile l'alternativa prospettata da Pf., secondo 1] quale λέγοιτί[ο può qui significare si scegliesse, il che - nella sua opinione - costituirebbe l'unica via per mantenere il tràdito κουρίδιον e per spiegare in qualche modo l'aggettivo τοῦτο. Il senso della frase sarebbe allora: affinché si scegliesse per tutta la vita questo nome, cioè sposo legittimo. Va inoltre tenuta nel massimo conto la proposta λέγοι τ[το di Gigante (affinché qualcuna [lo] chiamasse con questo nome ecc.). Scarsa plausibilità paleografica hanno invece 1 supplementi λέγοι μ[ιν di Kassel (affinché [Cidippe] lo chiamasse con questo nome ecc. ovvero - come preferisce intendere Hollis, Ovid p. 91 - affinché [Aconzio] la chiamasse con questo nome ecc), λέγοιμ[εν dello stesso Kassel (affinché noi [tutti lo] chiamassimo con questo nome ecc.) e A&yoıe[v di Barigazzi (affinché [gli uomini lo] chiamassero con questo nome ecc.). Vd. in generale l'app. 4 ζωῆς: Nei poemi omerici ed esiodei il vocabolo significa sempre sostanze, averi (cf. Hom. Od. XIV 96 al., Hes. Theog. 606) e non - come qui - vita. κουρίδιον: Benché non si comprenda se questo sia un accusativo neutro accordato con οὔνομα o un accusativo maschile riferito ad Aconzio o la corruzione di un originario κουρίδιος attribuito al medesimo personaggio (vd. il comm. al v. 3 s.), il contesto dimostra che C. ha in mente la frase omerica | κουρίδιον ... πόειν (Il. V 414 al.), con la quale viene designato un giovane che ha sposato una moglie ancora vergine: cf. la parafrasi ad loc. τὸν

ἐκ παρθενίας ἄνδρα γεγαμηκότα, Hesych. «ιν. Kovptötov: ... τὸν ἐκ παρθενίας ἄνδρα. L'uso callimacheo del vocabolo si riverbera sulla ventesima Eroide ovidiana, dove Aconzio

dichiara che il suo amore per Cidippe è quello di un | debitus ... coniunx (v. 10; vd. Coletti p. 301). Non credo che qui - come suppone Colonna, Recensione p. 46 - il termine κουρίδιον segnali anche un gioco etimologico fra il nome di Aconzio e il sostantivo ἀκόντιον (giavellotto, vd. il comm. al fr. 169), nel senso che - dopo la felice riuscita dell'espediente della mela - la parola non indica più tanto quest'oggetto, quanto piuttosto lo sposo per eccellenza. Né mi persuade l'idea di Cairns pp. 474-477, il quale - appellandosi proprio all'impiego omerico di xovpidioc e al relativo dibattito esegetico - congettura che nel nostro passo l'aggettivo xovpiduov alluda alla verginità del casto Aconzio (cf. frr. 168-169) prima delle nozze con Cidippe e proponga implicitamente un nesso etimologico con ἀκόντως. 5.5. ἄναξ ... | Κύνθιε: C. apostrofa Apollo, durante la cui festa nell'isola di Delo Aconzio si innamorò di Cidippe a prima vista e la vincolò con il giuramento scritto sulla mela. Per l'epiteto Κύνθιος, vd. il comm. al fr. 64, 8 Κύνθιε.

56 μὲν ἦλθεν Ἰουλίδος ἡ δ᾽ ἀπὸ Νάξου: La preposizione ἀπό è esplicitata solo nel secondo dei due complementi: cf. fr. inc. sed. 275, 3 ἢ φίλον ἢ ὅτ᾽ ἐς ἄνδρα cvvéuropov con il comm. ’IovAiödoc: È la città della brata da Simonide (PMG 621) menziona anche nei vv. 52 e 72 HE 1115 (sempre *). Νάξου: La Ciclade Nasso è

6 τὴν

... cv

Ciclade Ceo dalla quale proviene Aconzio. Iulide fu celee Bacchilide (fr. 43 Sn.-M.), che vi ebbero 1 natali. C. la del fr. 174 e (forse in forma aggettivale) nell'Ep. V 7 Pf. = la patria di Cidippe: cf. anche fr. 174, vv. 38 e 41.

... Bovgovinv: Per la costruzione, cf. fr. 64, 9 τὰς ... cücı ἰδανὰς

COMMENTO:

AET.II FR. 166

333

Χάριτας con il comm. La festa delia in onore di Apollo prevede un sacrificio di buoi. L'immagine callimachea viene ripresa da Ovidio nella ventunesima Eroide, dove Cidippe rievoca così le celebrazioni di Delo: dumque parens aras votivo sanguine tingit (v. 95). Vd. Coletti p. 302 s. Ankwı: Nei poemi omerici il toponimo compare una volta sola (Od. VI 162) ed è come qui - un dativo semplice di luogo. Cf. in proposito fr. 89, 6 Α[{Πγύπτωι ... ivectpégeto con il comm. Bovgovinv: Il vocabolo è un hapax, ma ha degli antecedenti poetici nel verbo Bovgovéo (Hom. I. VII 466), nell'aggettivo Bovgövoc ([Hom.] Hymn. IV 436, Aesch. Prom. 531) e nel sostantivo Bovgövıa (Aristoph. Nub. 985). Euforione (SH 418, 17) utilizzerà l'aggettivo βουφόντης. Dato il contesto dei nostri versi, è rilevante il fatto che in un'iscrizione delia del III sec. a.C. sia attestato il mese Βουφονιών (ZG XI 2, 203 A. 32 e 52).

7 5. αἷμα τὸ μὲν γενεῆς

Εὐξαντίδος,

ἡ δὲ IIpoundlic,

| καλοὶ

νηεάων

&ctépec ἀμφότεροι: Dopo aver detto che Aconzio e Cidippe giunsero a Delo rispettivamente da Ceo e da Nasso (v. 5 s.), C. precisa che 1 due bellissimi giovani discendevano l'uno da Fussanzio figlio di Minosse e l'altra da Prometo figlio di Codro. I versi callimachei

hanno influito su Musae. 21 5. ἡ μὲν Cncröv ἔναιεν, ὁ δὲ πτολίεθρον ᾿Αβύδου, | ἀμφοτέρων πολίων περικαλλέες ἀεςτέρες ἄμφω (a proposito di Ero e Leandro; per un'altra imitazione di questo brano da parte di Museo, vd. il comm. al vv. 1-3).

7 αἷμα

τὸ

μὲν

γενεῆς

Edéaviidoc:

La frase equivale a τὸ μὲν αἷμα γενεῆς

Εὐξαντίδος, l'uno (cioè Aconzio) sangue della stirpe αἱ Eussanzio. Il sostantivo αἷμα ha funzione predicativa, come p.es. presso Pind. Nem. VI 36, lo stesso Call. Del. 282 e Nonn.

Dion. XXXVII 231 Φαεθοντίδος αἷμα γενέθλης I, 335 Zegupnidoc αἷμα γενέθλης | (che sembrano risentire del nostro passo). Ma qui esso sostituisce a tutti gli effetti la menzione di Aconzio (cf. anche fr. 143, 2 αἷμα con il comm.) e corrisponde a παῖς, così come p.es. - in vari passi callimachei - nomi di cosa (talora astratti) rimpiazzano nomi di persona: cf. Ap. 85 Cwcrñpec (ma vd. il comm. di Williams), Del. 310 μύκημα (con il comm. di Mineur), Cer.95 μαετός (con il comm. di Hopkinson), Ep. L 1 Pf. = HE 1261 γάλα. In termini generali, si osservi che il vocabolo αἷμα esprime spesso il legame di sangue, a partire dai poemi omerici (I. VI 211 = XX 241 al.). Per un nesso analogo al nostro αἷμα τὸ μὲν γενεῆς, cf. fr. 144, 8 γενεῆς αἷμ᾽, dove perd il contesto sintattico è incerto. Come attesta Bacchilide (I 111-129), Fussanzio era figlio di Minosse e Dessitea (per la quale cf. fr. 174, 64-69 con il comm.). Alcuni dei figli di Fussanzio colonizzarono Ceo: cf.

Schol. Pind. Paean. IV fr. 52 d, 60 Sn.-M. τινὲ]ς τῶν Edéavriov πα[ίδω]ν τὴν Kéov [κατ]ῴκηςαν (per Eussanzio, cf. i vv. 35-39 del peana pindarico). Il vocabolo Εὐξαντίς si trova già impiegato da Bacchilide a proposito di Ceo: cf. II 8 s. Εὐξαντίδα valcov. Le vicende di questa famiglia, dalla quale discendeva Aconzio, vengono tratteggiate da C. nel fr. 174, 68-74 (vd. il comm. al fr. 174, 70-74). Ipoun0[ic: La parola è un hapax. Il supplemento di L. è corroborato dall'analogia morfologica con i patronimici Mwweic e Tnuevic, impiegati rispettivamente da Call. fr. 213, 59 e (Call.) fr. inc. auct. 780 Pf. Ma è forse preferibile l'integrazione Προμήθ]ου di Barigazzi (si dovrebbe allora intendere: l'uno sangue della stirpe di Eussanzio e l'altra di Prometo): infatti l'accento πρὸμηθ| nel papiro induce a ritenere che l'ultima parola del verso fosse parossitona. Vd. app. Prometo, figlio del re ateniese Codro, dopo avere ucciso suo fratello Damasittone andò

esule a Nasso e vi morì: cf. Paus. VII 3, 3 Δαμαείχθων ... καὶ Πρόμηθος Κόδρου raîdec.

334

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Πρόμηθος δὲ ὕετερον τὸν ἀδελφὸν Δαμαείχθονα ἀποκτείνας ἔφυγεν ἐς Νάξον, καὶ ἀπέθανε μὲν αὐτόθι ἐν τῇ Νάξῳ. La discendenza di Cidippe da Codro è ribadita da C. nel fr. 174, 32, dove il padre della fanciulla viene detto Koôpeiônc. Vd. Ragone p. 93 s.

8 καλοὶ νηςάων äct£pec: A quanto pare, C. riecheggia Hom. A. VI 401 | Ἕκτορίδην ... ἀλίγκιον ἀςτέρι καλῷ |. Per la metafora νηςάων ἀςτέρες, cf. Nonn. Dion. V 208 | ’Aovinc ... ἀςτέρα πάτρης |, LXI 149 Λιβανηίδος ἄετρον ἀρούρης | e forse Eur. Hipp. 1123 τὸν Ἑλλανίας φανερώτατον ἀεςτέρ᾽ {᾿Αθάνας | (se si accetta la congettura ἀςτέρα γαίας di Hartung; ma Fitton ha proposto ἀςτέρ᾽ ᾿Αφαίαο). Più in generale, la bellezza di uomini e dèi è spesso paragonata a quella degli astri: cf. [Hom.] Hymn. II 441, Alcm.

PMGF

3, 66 s., Ap. Rh. I 239 s., 774, II 40 s., Quint.

Smyrn.

V

131

s., VII 346,

Nonn. Dion. XXVI 143-145. Vd. il comm. di Kost al v. 22 di Museo (riportato sopra nel comm. al v. 7 s.) e l'excursus da lui dedicato agli Sternvergleiche nelle pp. 164-167 della sua edizione commentata.

Riguardo alla struttura del colon καλοὶ νηςάων, cf. (Call.) fr. inc. auct. 778 Pf. κοῦραι retpoav*. νηςάων: Per questa forma di genitivo, cf. anche Call. Del. 66, 275 coni relativi scoli (la si è inoltre congetturata nel fr. 6 al posto di καὶ vñcov: vd. il comm. ad loc.). Gli scoli omerici, che tramandano le prime tre parole del nostro pentametro (vd. app. delle fonti), la definiscono una peculiarità del dialetto beotico. Vd. inoltre l'app. delle fonti a Call. Hec. fr.

300 Pf. = 51H. 9 s. πολλαὶ

Κυδίππην

ὀλ[ί]γην

ἔτι

μητέρες

υἱοῖς

| ἑδνῆετιν

κεραῶν

ἤιτεον ἀντὶ βοῶν: Dopo avere rievocato la straordinaria bellezza di Aconzio e Cidippe (v. 8), C. si sofferma sull'avvenenza della fanciulla: il tema viene trattato fino al v. 14 (che nel frammento è l'ultimo leggibile per intero), ma sembra proseguire almeno nel v. 15 (per il fascino di Aconzio, cf. frr. 167-168, ma forse già il nostro v. 20 s.). Nel nostro distico C.

narra che, quando Cidippe era ancora piccola, molte madri cercavano già di farla fidanzare ai propri figli, offrendo buoi come doni nuziali: il motivo di ciò (cf. v. 11 γάρ) era appunto la sua incomparabile bellezza. Il nostro passo viene imitato da Virgilio, quando scrive a proposito di Camilla: | multae illam ... matres | optavere nurum (Aen. XI 581 s., vd. Tissol pp. 263-268). Un'eco più lontana si coglie presso Stat. Silv. I 2, 76 5. multum gener ... petitus | matribus, richiamato da Bornmann, Note p. 440.

9 πολλαί: Come qui molte madri cercano di avere Cidippe per nuora, così nel fr. 168, 1 molti innamorati si impegnano nel gioco del cottabo augurandosi di ottenere 1 favori di Aconzio (vd. Hutchinson, Aetia p. 52 n. 15 = p. 51 n. 14). Knox, Ovid p. 21 osserva che entrambi i passi di C. sono tenuti presenti da Ov. Mer. III 353 (a proposito di Narciso) multi illum iuvenes, multae cupiere puellae. VA. più avanti il comm. al v. 10 fiteov.

6A[t]ynv ἔτι: Per il nesso, cf. Hom. Il. XVI 68*. Riguardo al significato dell'aggettivo in questo verso, vd. il comm. di Gow a Theocr. XXI

113 ὀλίγος. Per l'immagine contraria,

cf. Call. Dian. 64 αἱ μάλα μηκέτι τυτθαί . 10 ἑδνῆετιν κεραῶν

ἤιτεον

ἀντὶ βοῶν: C. sembra rovesciare volutamente Hom.

Il. XII 365 s. | tee ... | Καεςςάνδρην ἀνάεδνον, dove si parla di Otrioneo che chiede in moglie Cassandra senza offrire al padre doni come contraccambio (vd. il comm. di Janko):

a quanto pare, l'hapax &övijcrwv è l'opposto dell'omerico ἀνάεδνον, attestato anche in //. IX 146, 288. I buoi erano i tipici regali elargiti dallo sposo ai genitori della sposa: cf. Hom. Il.

XI 243 5. πολλὰ δ᾽ ἔδωκε (scil. Éôva): Ιπρῶθ᾽ ἑκατὸν βοῦς δῶκεν, XVII 593 παρθένοι

COMMENTO:

AET.II FR. 166

335

ἀλφεείβοιαι | (explicit che si ritrova presso [Hom.] Hymn. V 119) con il comm. di Edwards e lo Schol. (AD) ad loc. ἔντιμοι καὶ διὰ τὴν εὐμορφίαν βόας ebpicrovcar ἕδνα κτλ., Od. XVII 278 | αὐτοὶ τοί γ᾽ (cioè i pretendenti) ἀπάγουει βόας, Hes. frr. 43a, 23; 180, 9; 198,

11M.-W. ἑδνῆςτιν: Il vocabolo, come si è detto, non compare altrove. L'accentazione properispomena figura nel papiro, ma non è esente da dubbi. Infatti, a quanto pare, l'accento perispomeno su eta renderebbe la parola un composto di ἕδνον ed ἔδω, mentre la forma ossitona &övnctiv sarebbe interpretabile come un sostantivo semplice caratterizzato dal suffisso -neric (femminile di -nctnc) aggiunto a Éôvov. Cf. in proposito le diverse opinioni dei grammatici riguardo alla formazione della parola ὠμηςταί, attestate nello Schol. (A) Hom.

IH. XI 454 a: ’Apictopyoc ὡς ἀθληταί, Τυραννίων (fr. 27 Haas) δὲ ὡς κωμῆται, εὔνθετον ἐκδεχόμενος τὴν λέξιν (scil. ὠμός + ἔδω). ἄμεινον δὲ λέγειν ὡς ὅτι τὰ εἰς της λήγοντα, τῷ n παραληγόμενα, ἔχοντα πρὸ τοῦ τ τὸ c, ὑπὲρ δύο ευλλαβὰς ὄντα, ὀξύνεται, ἑρπηςτής ὀρχηςτής (= Herodian. IT. Ἰλιακῆς πρ., Gramm. Gr. IN 2, p. 76. 26 Lentz; cf. id. II. καθολ. πρ., Gramm. Gr. ΠΠ 1, p. 79. 4 Lentz); cf. inoltre le spiegazioni dei termini νήςτης e νῆςτις, offerte nell'Er. Gud. pp. 408. 40 e 409. 14 Sturz (Herodian. Ἐπιμεριομοί fr.40, Gramm.

Gr. INI 1, p. XXXI

Lentz). Come

sembrano indicare tali testimonianze, chi

scrisse ἐδνῇοστιν ritenne il vocabolo un composto di ἕδνον ed ἔδω e gli attribuì il significato di colei che si nutre dei doni offerti dallo sposo. È invece più plausibile - come osserva Pf. che C. vedesse nella parola un sostantivo semplice e di conseguenza la accentasse

eSvnetiv, conferendole il senso di sposa per la quale si offrivano doni ai genitori. La derivazione di &dvnctic da Éôvov con l'aggiunta del suffisso -nctic avrebbe un parallelo nella parola τευχηςτής (τεῦχος + -neme), impiegata da C. (cf. lov. 77 e forse fr. inc. sed. SH 296, 4), nonché p.es. nel termine ἀργηςτής (ἀργός + -nernc); vd. anche il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 640 riguardo alla forma καιρω(ο)τ(ρ)ίδες. Kepa@v ... βοῶν: Il nesso è impiegato da C. anche nel fr. 25, 1*: vd. il comm. ad loc. (alle attestazioni omeriche dell'aggettivo kepoéc bisognerà aggiungere Il. XI 475, XV 271, XVI 158, sempre a proposito di cervi). ἤιτεον: Il verbo significa chiedere in sposa già presso Hom. Il. XIII 365 (riportato sopra) ed Eur. El. 21. Data la presenza di πολλαί nel nostro v. 9, può darsi che C. tenga pre-

sente Pind. Pyth. IX 107 τὰν μάλα πολλοὶ ἀριοτῆες ἀνδρῶν αἴτεον. 11-14: Con una raffinata litote, C. illustra l'ineguagliabile bellezza di Cidippe attraverso una duplice rievocazione delle attività svolte da lei e dalle altre fanciulle nella nativa Nasso: nessuna ragazza era più simile in viso all'aurora di quanto lo fosse Cidippe nell'approssimarsi alla roccia e alla fonte di Sileno e nel partecipare alla danza in memoria di Arianna addormentata (la celebre principessa cretese che Teseo abbandonò a Nasso mentre dormiva).

11 κείνης o[d]y ἑτέρη: La verbi ἵκετο ed ἔθηκε (vv. 12 e 14); di paragone introdotto da εἰδομένη Call. Ap. 93 où κείνου χορὸν εἶδε

negazione o[è]y e il nominativo ἑτέρῃ il genitivo κείνης (cioè Κυδίππηο è il μάλιον (v. 13). Νά. Lapp. p. 37. Per il θεώτερον ἄλλον ᾿Απόλλων e forse fr.

si riferiscono ai secondo termine tipo di litote, cf. 110, 10 5. (vd. il

comm. ad loc.). La movenza stilistica del nostro passo sembra risentire di un brano epita-

lamico di Saffo (fr. 113 Voigt): où γάρ | ἀτέρα νῦν πάις, ὦ yaußpe, τεαύτα (vd. Gallavotti, Recensione II p. 287 n. 1). yap:La particella occupa la quarta posizione nella frase: vd. il comm. al fr. 174, 23 γάρ. 2

ἐπὶ λαείοιο: Il nesso, che si rinviene anche presso [Theocr.] XXV

257, è notevole per

336

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

l'allungamento dello iota finale davanti al lambda. Questo fenomeno prosodico è attestato

anche in altri passi callimachei: cf. Dian. 47 vi Λιπάρῃ, Del. 292 | Odric te Λοξώ. Vd. inoltre il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 629 = Hec. fr. 47, 15 H. e la nostra /ntrod. 11.2.C.

Aacioro yEpovroc: Cf. Call. Del. 304 Avkioto γέροντος Ἐ con il comm. di Mineur. 11 5. Aacioıo ... | CıAnvod: Sileno risulta spesso collegato alle sorgenti, ai fiumi e ai pozzi. In questo senso, il nostro passo sembra avere influito anche formalmente su Nonn.

Dion. XIX 324 5. εἰςέτι (ἐξέτι Pf.) κείνου | CrAnvod λαείοιο φατίζεται ἀγκύλον ὕδωρ (a proposito di Marsia trasformato nell'omonimo fiume); un fiume di nome Sileno viene menzionato dallo stesso Nonn.

Dion. XIX 301, 346 s. Pausania tramanda che nella città laco-

nica di Pirrico c'era un pozzo donato da Sileno (III 25, 3): ἔετι dè ἐν τῇ Πυρρίχῳ φρέαρ ἐν τῇ ἀγορᾷ, δοῦναι dé caucı τὸν (τληνὸν νομίζουει. Le attestazioni iconografiche di Sileno come omamento

di fonti e pozzi sono numerose:

vd. E. Curtius, Die Plastik der Hellenen

an Quellen und Brunnen, «Abh. Berl. Akad.» (1876), p. 153 s. = Gesammelte Abhandlungen II (Berlin 1894) p. 139 s.; E. Kuhnert s.v. Satyros und Silenos, RML IV (1909-1915) pp. 483 s., 492. La frase callimachea è ripresa da Nonno in vari luoghi delle Dionisiache: oltre al passo

riportato sopra, cf. XI 352 e XXIII 214 (ιληνοῦ λαείοιο, ma anche XX 226 5. οὐρήν | (ιληνῶν λαείην, XXXI 261 λάειον δέμας (di un Sileno). γέροντος

| (ιληνοῦ: Il nesso ricorre numerose volte nelle Dionisiache di Nonno, sia

al singolare (XIV 96, XXVII 234, XXXII 258, XLV 318) sia al plurale (X 425, XX 248, XXIII 160, XLIV 25, XLVII 481, cf. anche XXXV 55 s.). Per 1 corrispondenti latini senex Silenus e senes Sileni, cf. da un lato Ov. Ars I 541, Fast. I 399, VI 339, Nemesian. Ecl. III 59 s., dall'altro Prop. II 32, 38.

12 CıAnvoö: Il gruppo dei Sileni è già presente nell'inno omerico ad Afrodite (v. 262), mentre un singolo personaggio con questo nome si riscontra a partire da Pindaro (fr. 156, 3 Sn.-M.; cf. anche fr. 157 Sn.-M.).

votinv: L'aggettivo ricorre solo due volte nei poemi omerici: cf. Π. XI 811 e XXIII

715 vörıoc ... ἱδρώς I. Il nesso omerico viene ripreso da Call. Del. 211 vörıoc ... ἱδρώς |, ma con diversa collocazione metrica della prima parola.

πιδυλίδα: Il papiro ha la lezione πηγυλίδα. La parola πηγυλίς è un hapax omerico (Od. XIV 476) ripreso da Apollonio Rodio (II 737) e in entrambi 1 passi significa glaciale. Invece nell'ep. adesp. Anth. Pal. IX 384, 24 e presso [Orph.] fr. 750, 4, II 2 p. 299 Bernabé essa funge da sostantivo e assume il senso di gelo. Poiché questi due significati sono inadatti al nostro contesto, L. suggerì di vedere in πηγυλίδα un diminutivo - non attestato altrove - dianyh (fonticella), richiamando i suffissi diminutivi in -vA Aoc ecc. esemplificati da L. Ianson, De Graeci sermonis nominum deminutione et amplificatione flexorum forma atque usu, «Jahrbb. f. classische Philologie», V Supplbd. (Leipzig 1864-1872), pp. 263-265. L'ipotesi di L. viene messa in dubbio da Pf., il quale osserva che una simile forma diminutiva non è verisimile e che lo stile di C. non si confà a un uso puramente esornativo dell'ag-

gettivo vorinv (l'umida fonticella, cf. Aesch. Prom.401 | νοτίοις ... παγαῖς |). Da parte sua Pf. considera il πηγυλίδα del papiro una corruzione di πηδυλίδα, a sua volta erroneamente scritto invece di πιδυλίδα: all'utilizzo callimacheo di questo hapax si

riferirebbe il lemma esichiano πιδυλίς (roccia dalla quale scorre acqua), corretta in tale forma da Lobeck (cf. rîdat) al posto del πηδυλίς presente nel manoscritto di Esichio (vd. app. delle fonti), dal momento che nei codici il verbo πιδύω (sgorgo) si trova talvolta corrotto in πηδύω (vd. Thes. L. Gr. s.v.). Pf. ritiene che anche nel nostro pentametro la lezione

COMMENTO:

AET.II FR. 166

337

originaria πιδυλίδα diede luogo all'erroneo πηδυλίδα e che quest'ultimo - data la sua unicità - venne confuso con l'omerico πηγυλίδα (così come p.es., presso Call. fr. gramm. 407 XVI Pf., nel codice palatino di Antigono di Caristo la lezione πηγνύειν è una corruttela di πηδύει ovvero πιδύει). La congettura di Pf. è convincente anche sul piano semantico, perché il nesso votinv ... πιδυλίδα (umida roccia) designa molto bene un masso dal quale scaturisce l'acqua di una fonte. Vd. in generale l'app. Spetta a Merkelbach, Literarische Texte p. 89 1] merito di avere compreso che cosa intenda C., quando parla dell'umida roccia di Sileno a Nasso. Il poeta si riferisce a una fonte di vino, scoperta da un Sileno allorché Dioniso sposò Arianna (l'episodio è raffigurato su una coppa calcidese del 520 a.C. circa = LIMC Dionysos 763): il miracoloso fluire del vino si ripeteva durante le feste annuali in onore dell'eroina. Per la sorgente di vino a Nasso, cf.

soprattutto Sen. Oed. 491 s., ma anche Prop. III 17, 27 5. e Steph. Byz. s.v. Νάξος. 13 ἠοῖ εἰδομένη ... ῥέθος: Cidippe è bella in viso come l'aurora (può pure trattarsi del nome proprio "Hot, vd. app.): poiché qui si parla anche della sua partecipazione alla danza (v. 13 s.), possiamo immaginare che C. si riferisca al lieve rossore che invade il volto della ragazza durante il ballo. Pf. osserva che i successivi poeti sia greci sia latini sı ispirarono forse a questo verso quando confrontarono le belle fanciulle con l'aurora. Nel diciottesimo idillio di Teocrito (vv. 26-28), le vergini paragonano il viso dell'Aurora a quello di Elena e affermano che costei - come Cidippe nel nostro passo - è di un'avve-

nenza incomparabile: ᾿Αὼς dvreAAoıca καλὸν διέφανε πρόεωπον | … ὧδε καὶ è χρυεέα Ἑλένα διεφαίνετ᾽ ἐν ἁμῖν (νά. Gallavotti, Recensione H p. 287 n. 1). Properzio (III 24, 7) ricorda di avere spesso paragonato il colorito di Cinzia all'aurora: er color est totiens roseo collatus Eoo. Claudiano, nell'epitalamio per Onorio e Maria (v. 270), fa dire a Venere che

le dita della sposa sono più rosee di quelle di Aurora: | Aurorae vincis digitos. E nelle Dionisiache di Nonno (XXXIV 106), Morreo - destatosi all'aurora da un sogno nel quale gli è apparsa l'amata Calcomede - si rivolge idealmente alla fanciulla con queste parole:

Χαλκομέδη poddecco poöocteg£oc πλέον Ἠοῦς. Il confronto con l'aurora si trova anche applicato a un puer in un frammento di Lutazio Catulo (fr. 2 p. 77 Courtney).

ἠοῖ εἰδομένη: Il digamma all'inizio di εἰδομένη ha valore consonantico, come presso Hom. Od. III 372 φήνῃ εἰδομένη al. Per il digamma operante nella poesia callimachea, cf.

anche Ep. XIV 1 Pf. = HE 1241 τίς δ᾽ εὖ οἶδε,fr. inc. sed. 532 Pf. Ι τῷ ἴκελον, Del. 232 | τῇ ixéAn, Ap. 113 χαῖρε, ἄναξ, ἴον. 8 e Ap. 79 ὦ ἄνα, Dian. 204 | Obmı ἄναες᾽, 49 μέγα ἔργον I. νά. inoltre Zntrod.II.2.E. μάλιον: Questa forma corrispondente a μᾶλλον viene considerata ionica o dorica dagli antichi grammatici: cf. Choerob. De orthogr., Cramer, AO II p. 240. 2 Ἴωνες τὸ

μᾶλλον μάλιον λέγουειν διὰ τὸ μὴ ευςτεῖλαι τὸ a (probabilmente derivato da Herodian. II. ὀρθογρ., Gramm. Gr. ΠῚ 2, p. 548. 9 Lentz), Eustath. p. 1643. 31 AoîcBoc λοίεθιος καὶ … πρὸς τοιαύτην ἀκολουθίαν καὶ οἱ Δωριεῖς τὸ Äccov Ücciov ... καὶ τὸ αἶψα αἴψιον Kal τὸ μᾶλλον μάλλιον (sic, ma vd. il comm. di Hopkinson a Call. Cer. 89), Hesych. s.v. μάλιον: μᾶλλον. Sulla base di queste fonti, G. M. Schmidt corresse in μάλιον il μᾶλλον offerto dai codici per Tyrt. fr. 12, 6 W. = 9, 6 Gent.-Pr. pé00c: Nei poemi omerici il vocabolo è sempre di numero plurale (Il. XVI 856 = XXII 362, XXII 68) e - a quanto pare - significa membra. Il suo uso al singolare nel senso di viso

è proprio dell'eolico: cf. Schol. (Ab(BCE3)T) Hom. Fl. XXII 68 Ὁ ῥέθη δὲ τὰ ζῶντα μέλη … Αἰολεῖς ö£tönpöcanov (Sapph. fr. 22, 3 Voigt péd0c) καὶ ῥεθομαλίδας τοὺς εὐπροεώπους act. Questo significato si trasmette dai lirici eolici ai poeti tragici, ellenistici e imperiali,

338

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

che lo applicano quasi sempre - come qui C. - al numero singolare: cf. Soph. Ant. 529, Eur. Herc. 1204 (con il comm. di Wilamowitz), Lyc. 173 (per il quale la parafrasi εώματι è er-

ronea), 1137, Theocr. XXIX 16 kai μέν cev τὸ κάλον τις ἴδων ῤέθος αἰνέεαι (con il comm. di Gow), Ap. Rh. II 68 ῥεθέων (Schol. ad loc. προςώπων), Rhian. Anth. Pal. XII 93, 5 = CA fr. 71, 5 p. 19 = HE 3212*, Hegesian. SH 466, 3*, Nic. Ther. 165, 721 (ma vd. il comm. di Jacques), Al. 438, 456*, Antip. Sid. Anth. Pal. VII 218, 11 = HE 330*, Nonn. Met. IX 35*, Iulian. cons. Aeg. Anth. Pal.V 298, 4.

13 5. ’Apınönc | ἐς y]opév: C. si ispira a Hom. Il. XVIII 590-592 χορὸν ... I... οἷόν ποτ᾽ ἐνὶ Kvocò εὐρείῃ | Δαίδαλος fcxncev ... ᾿Αριάδνῃ I. Tuttavia la parola χορός, che nel passo omerico significa pista da ballo (vd. p. 609 s. nell'edizione commentata di Leaf e 1] comm. di Edwards), ha qui il senso di danza (vd. il comm. al v. 14 ἐς y]opòv ... ἔθηκε πόδα). È anche notevole che, nel richiamare il luogo iliadico, C. ne recepisca la lezione ze-

nodotea ᾿Αριήδῃ: cf. Schol. (ATi) ad loc. παρὰ Ζηνοδότῳ (A: Ζηνόδοτος T) ᾿Αριήδῃ (A: ᾿Αρπήδη T). La poesia callimachea mostra in vari luoghi di essere influenzata dal testo omerico di Zenodoto:

vd. il comm.

al fr. 17, 6 ἤμελλε, nonché Rengakos, Homertext p. 85,

Montanari, Filologi p. 54. Il nome APIHAA si leggeva su un vaso attico della fine del V secolo a.C., registrato da J. D. Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painters II (Oxford 1963?) p. 1316: il vaso in questione - ora perduto - venne pubblicato da O. Jahn, Vasenbilder (Hamburg 1839), p. 11 5. con la tavola II. Forme simili del nome sono anche attestate sugli specchi etruschi: areada, araBa, ariada, cf. LIMC (II Addenda) Ariadne/Ariatha, rispettivamente 15 (= Dionysos/Fufluns 73), 37 (= Aminth 1) e 4. Cf. inoltre Hesych. s.v. ᾿Αριήδαν (᾿Αριδήλαν cod.: la correzione ’Apındav, proposta da L., è stata recepita da Latte): τὴν ᾿Αριάδνην. Kpfitec. La danza delle fanciulle in onore di Arianna a Nasso rientra nei festeggiamenti che gli abitanti dell'isola riservavano all'eroina: cf. Plut. Thes. XX 9.

’Apınönc Dion. XLVII

| ... ebôodcnc: Per Arianna dormiente a Nasso, cf. soprattutto Nonn. 269-294, 511. Riguardo alla corona di Arianna trasformata in costellazione,

cf. fr. 213, 59-61. 14 ἐς y]opòv ... ἔθηκε πόδα: C. risente soprattutto di Bur. El. 859 | θὲς ἐς χορὸν ... ἴχνος, Bacch. 862-864 ἐν ... χοροῖς | fica ... 1 πόδ᾽, Più in generale, nel descrivere Cidippe che muove alla danza, C. è probabilmente memore di espressioni omeriche quali //. III 393

5. χορόνδε | ἔρχεςθ᾽, XV 508 ἐς … χορὸν ... ἐλθέμεν, Od. VI 65 | ἐς χορὸν ἔρχεεθαι, 157 χορὸν etcoyvedcav I, XVII 194 ἴῃ ... χορόν; cf. anche [Hom.] Hymn. VI 12 5. ἴοιεν | ἐς χορόν, Pind. Parthen. Il fr. 94 b, 39 Sn.-M. ἤλυθον ἐς χορόν I. ἁβρὸν ἔθηκε πόδα: Il nesso si ispira a vari modelli euripidei: cf. soprattutto Hel. 1528 ἁβρὸν πόδα τιθεῖς᾽, Tr. 506 τὸν ἁβρὸν ... πόδα |, ph. Aul. 614 | ἁβρὸν τιθεῖεα κῶλον, ma anche Med. 830 | βαίνοντες ἁβρῶς, 1164 ἁβρὸν βαίνουεα παλλεύκῳ ποδί |, Tr. 821 ἁβρὰ βαίνων |. Cf. inoltre Orac. 54, 2 Parke-Wormell ποδαβρέ, Dioscorid. Anth.

Pal. VII 31,9= HE 1583 ἁβρὰ xopedenc | (notevole per il nostro χ]ορόν, vd. G. 1. de Vries in AA.VV.,

Studi classici in onore di Q. Cataudella II, Catania

1972, p. 223), Mel. Anth.

Pal. XII 158, 2 = HE 4497 | &Bporéôtoc, ep. adesp. Anth. Pal. TX 189, 2 = FGE 1177 ἁβρὰ ποδῶν βήμαθ᾽ (dove pure si parla di una danza),fr. lyr. adesp CA v. 3 p. 181 = fr.3, 3 Cunningham Notidec ἁβρόςφυροι |, Nonn. Dion. XIX 191 ἁβρὸν ὁδεύων I, Hesych. s.v. covxporodec: è pporodec. L'avvenenza dei piedi di Cidippe viene messa in risalto anche da Aconzio nella ventesima Eroide ovidiana (v. 62): et, Thetidis quales vix rear esse, pedes.

COMMENTO:

AET.II FRR. 166-167

339

ἔθηκε πόδα: Cf. 5601 06/02/34 v. 2 e Greg. Naz. Carm.II 1, 17, 44 (PG 37 p. 1265)

ἔθηκα πόδα" (per il luogo di Gregorio, vd. anche il comm. al fr. 163, 12 ἐκτὸς ἔθεςθε); cf. inoltre Greg. Naz. Carm.I 2, 15, 12 (PG 37 p. 766) θῆκε πόδα |. Per la frase πόδα τιθέναι, cf. Aesch.

Suppl.31

s. al., Eur. Andr.

546 al., Aristoph.

Thesm.

1100,

[Theocr.] XXI

59,

Mel. Anth. Pal. XII 85, 3 = HE 4612, Nicarch. Anth. Pal. V 40, 2, GVI 40, 1, Nonn. Dion. XLII 72. La menzione del piede (o dei piedi) in contesti di danza ricorre in altri passi callimachei: cf. Dian. 246, Del. 306.

15 Exctacıc, οὔτινος αὐτῆς: Il vocabolo Exeracıc designa forse lo spostamento della fanciulla durante la danza (cf. v. 13 5.) oppure l'esaltazione di chi la contempla: è una parola di uso prevalentemente prosastico, ma cf. Men. Aspis 308, 422, Epitr. 573, fr. 136 Körte-Thierfelder (sempre nel senso di sconvolgimento, follia) e poi Greg. Naz. Carm. (PG 37) I 2, 25, 36 e 347 (pp. 816 e 837, nel senso di ira), II 1, 12, 648 (p. 1213, nel senso di

cambiamento). Benché non sia possibile ricostruire il giro sintattico, la sequenza οὔτινος αὐτῆς fa pensare che C. continuasse a illustrare l'incomparabile bellezza di Cidippe sotto forma di litote, come nei vv. 11-14.

17 Jacıv ὠικίς[«α 1] : Cf. fr. 89, 34 | κύμαειν., ... écowxicorto |. A quanto pare, l'esametro è spondaico (possibili &uic[cac0]e e Wucic[cavt]o): vd. app. e Introd.II.1.A.a. 18 ἀϊπειπάμεν[αι: Se è corretta l'integrazione ἀ]π-, se questo è un infinito aoristo attivo (vd. app.) e se il significato del verbo è negare, forse C. diceva che Afrodite adornò Cidippe di tutte le sue glorie, con esclusione del cinto. Infatti Aristeneto, poco prima di pa-

rafrasare il fr. 167 (vd. l'app. delle fonti ad loc), scrive (p. 21. 3 Mazal): τὴν μὲν ἅπαει τοῖς ἑαυτῆς φιλοτίμοις κεκόςμηκεν ᾿Αφροδίτη, μόνου τοῦ κεςτοῦ φειςαμένη- καὶ τοῦτον πρὸς τὴν παρθένον εἶχεν ἐξαίρετον ἡ θεός (vd. Barigazzi, Note p. 204). Se tale ricostruzione coglie nel segno, è probabile che qui C. impiegasse il vocabolo kectöc, forse con valore sostantivale come nel fr. 50, 53 xect[o]ò: in tal caso, la testimonianza fornita dallo Schol. (A) Hom. #1. II 371 Ὁ potrebbe riferirsi anche al nostro passo (vd. l'app. delle fonti, l'app. e il comm. al fr. 50, 53). Ma è pure ipotizzabile che, come ritiene Sell p. 371, il cinto di Afrodite venisse menzionato nel v. 20: infatti la parola callimachea u]oòvov può corrispondere a μόνου nel brano di Aristeneto riportato sopra. 21 ὄθμαειν[: Per la forma della parola, vd. il comm. al fr. 1, 37 (ai passi raccolti in quella sede si può ora aggiungere il fr. 144, 20). Forse C. descriveva gli occhi di Cidippe (come reputano Sell p. 371 e Barigazzi, Note p. 205) o quelli di Aconzio (al quale - come osserva Pf. - potrebbe già riferirsi il v. 20). Infatti Aristeneto, sùbito dopo il passo riportato nel comm. al v. 18 e appena prima di parafrasare il fr. 167 (vd. l'app. delle fonti ad loc.),

scrive (p. 21. 5 Mazal): καὶ τοῖς ὄμμαει (scil. Κυδίππηο) Χάριτες où τρεῖς … ἀλλὰ δεκάδων περιχορεύει δεκάς. τὸν δὲ νέον ἐκόςμουν ὀφθαλμοὶ φαιδροὶ μὲν ὡς καλοῦ (καλοί cod.: καλοῦ Douza), φοβεροὶ δὲ ὧς cHppovoc (ςῴφρονες cod: coppovoc Douza). A sostegno dell'ipotesi che possa trattarsi di Aconzio, si noti che in vari passi callimachei gli occhi rivelano il pudore o - al contrario - la spudoratezza di una persona: cf. frr. 97, 29

ἀναιδέος ὄθμ[α]τος, 99, 7 αἰδὼς ἴζεν ἐπὶ βλεφ[άροις e 99, 10 ]yn λίπεν ὄθματα con i comm. Frammento 167 (68 Pf.) μέμβλετο è’ eicnvnAaıc ὁππότε κοῦρος ἴοι | φωλεὸν ἠὲ λοετρόν: L'appartenenza del frammento agli Aitia e a questo punto di Aconzio e Cidippe si ricava dalla parafrasi di Aristeneto (vd. app. delle fonti). Dopo avere tratteggiato la straordinaria bellezza

340

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

di Cidippe (cf. fr. 166, 9 ss.), C. passa a descrivere l'eccezionale avvenenza di Aconzio (cf. anche i due frammenti successivi): il fanciullo, quando andava a scuola o ai bagni, era con-

templato da una folla di spasimanti. Per l'immagine, cf. Cat. LXII 64 s. ego gymnasi fui flos, ego eram decus olei: | mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida con il comm. di Morisi. Gli sguardi cupidi che gli épactat rivolgono ai κοῦροι sono descritti da C. nel fr. inc. sed. 571, 1 Pf. κούροιςιν ἐπ᾿

ὄθματα λίχνα φέροντες |. Mentre è mammissibile che il fr. inc. sed. 500 Pf. si riferisca all'interesse generale suscitato da Aconzio, il fr. inc. sed. 257 potrebbe descrivere il ragazzo mentre si reca ai bagni (vd. l'annotazione dopo il testo).

1 μέμβλετο: La forma è impiegata da C. anche in Hec. fr. 354 Pf. = 142 H. (vd. i comm. ad loc). Il verbo μέλω è tipico del lessico erotico: cf. [Theogn.] 1320 còv ... εἶδος rücı véorci μέλει | con i luoghi raccolti da Vetta nel comm., ai quali si può aggiungere Diod. Anth. Pal. V 122, 5= GP 2110. Analogo è l'uso del vocabolo cura in àmbito latino: cf. Hor. Carm. II 8, 8 con il comm. di Nisbet e Hubbard.

eicrvñäarc: Com'è evidente dal contesto, il vocabolo eicervhAnc equivale a &pacrnc: nel tramandare il nostro frammento (vd. app. delle fonti), gli Etimologici danno della parola una spiegazione confusa, perché le conferiscono prima il significato di ἐρώμενος e poi quello di épacthc. Il termine è un hapax, ma Teocrito adotta la forma affine eicrvnAoc e precisa che si tratta di un vocabolo laconico, così come ἀΐτης (= &pwuevoc) è una voce tes-

salica: ὃ μὲν εἴσπνηλος, gain χ᾽ "Quvxkoiakov, | τὸν δ᾽ ἕτερον πάλιν, ὥς κεν ὁ Θεςεαλὸς εἴποι, ἀίτην (XII 13 s., vd. il comm. di Gow e R. Hunter, Theocritus and the Archaeology of Greek Poetry, Cambridge 1996, p. 193 s.). La corretta delucidazione di eicrvnAoc viene

fornita dallo Schol. Theocr. XII 12-16 a ὑπὸ Λακώνων λεγόμενος εἴοπνηλος τουτέοτιν ἐραςτής ... ὑπὸ Θεεεαλῶν ditac, τουτέετιν ἐρώμενος (per l'origine laconica della parola, cf. anche gli Etimologici che tramandano il nostro frammento). Cf. inoltre l'Argumentum a. dell'idillio teocriteo (p. 249. 19 Wendel) con i luoghi simili elencati da Wendel, nonché

Choerob. in Theodos. Can., Gramm. Gr. IV 1, p. 166. 33 Hilgard ienvikoc, iervüne … (cnuaiver δὲ τὸν ἐραςτήν). Sia gli Etimologici sia altre testimonianze antiche consentono di collegare la parola al verbo eicrveîv, sicché l’eicrvnAnc sarebbe l'ispirato dall'amore 0 più probabilmente - l'ispiratore dell'amore nell'animo dell'ép@uevoc: cf. soprattutto Aelian.

Var. hist. II 12 οἱ ἐν Λακεδαίμονι καλοὶ ... δέονται τῶν ἐραςτῶν eicrveiv αὐτοῖς. Νά. Bredau p. 57, Schlatter p. 51 s., Schmitt p. 19. Sul soffio dell'amore, cf. Cerc. fr. 2,

5 Livrea=Lomiento con il comm.

di Livrea, Tib. II

1, 80; 3, 71, Prop. II 24, 5, Sil. XI 420, Hadrian. FGE 2136. ἴοι: All'interno dei poemi 2 φωλεόν: Il sostantivo 88, 4 Degani), significa solo al lemma esichiano φωλεόν,

omerici questa forma compare solo in //. XIV 21. PwAeöc, che è attestato a partire da Ipponatte (fr. 86, 4 W. = qui scuola, mentre di solito designa una tana o un covo. Oltre che spetta al nostro passo (vd. app. delle fonti), cf. Et. Gen. B

s.v. φωλεοί" τὰ παιδευτήρια (è anche noto il vocabolo φώλαρχος, per il quale vd. Fraser IT p. 1014 n. 68). Poiché Nicandro (fr. 83, 3 Schneider) e Antipatro di Tessalonica (Anth. Pal. IX 302, 4 = GP 456) impiegano il plurale φωλεά, Dilthey p. 34 s. congetturò che il nostro φωλεόν rappresentasse un accusativo neutro: è invece più probabile che φωλεά sia un plurale eteroclito. λοετρόν: Il vocabolo è sempre di numero plurale nei poemi omerici (44. XIV 6* al). Il singolare è attestato a partire da Hes. Op. 753.

COMMENTO:

Frammento 168 (69 Pf.) 1 5. πολλοὶ καὶ φιλέοντες

AET.II FRR. 167-168

341

᾿Ακόντιον ἧκαν ἔραζε | oivonétar CixeAàc ἐκ

κυλίκων λάταγαε: La pertinenza del frammento agli Aitia e alla nostra elegia si ricava dalla menzione di Aconzio. Come il fr. 167, il distico riguarda la passione suscitata negli ἐραςταί dal bellissimo ragazzo. Dopo avere forse parlato nel verso precedente di altri innamorati o degli innamorati in generale, C. racconta che gli innamorati di Aconzio non videro esaudito il proprio desiderio. Per esprimere questo concetto, il poeta fa riferimento al celeberrimo gioco del cottabo, che si teneva durante 1 simposi

(vd. K. Schneider, RE XI 2, 1922, pp.

1528-1541 e

cf. lo

stesso Call. Pannych. fr. 227, 6 Pf. con il comm. di Lelli): 1 partecipanti lanciavano gocce di vino (Adtayec) dal fondo delle loro coppe e tentavano di centrare un piatto (πλάςτιγξ o λεκάνη); in campo amoroso la riuscita del tiro era di buon auspicio, mentre l'insuccesso era

di cattivo augurio: cf. Schol. Lucian. Lexiph. 3, p. 195. 12 Rabe ei δὲ τῶν πλαςτίγγων ἣ λάταξ διαμάρτοι, ἡττᾶςθαι δοκεῖ ὁ ἐρῶν καὶ ὑπὸ τῶν παιδικῶν ἠμελῆεθαι, Schol. vet. (ΕΝ) Aristoph. Pac. 343 a, Et. Gen. Β s.v. κοτταβίζω = Εἰ. M.p. 533. 16 Gaisf. C., dunque, scrive che molti bevitori di vino innamorati di Aconzio fallirono nel lancio, sicché le gocce

provenienti dalle loro coppe andarono a finire per terra. Le λάταγες sono definite sicule perché 1] gioco del cottabo proveniva dalla Sicilia: cf. p.es. Anacr. fr. 31 Gent. = PMG 415, Crit. fr. 2,1 s. W. = 1, 1 s. Gent.-Pr., Athen. XV

668 E (vd. app. delle fonti).

Le precedenti considerazioni inducono a respingere la pur attraente congettura ᾿Ακοντίῳ di Maas, che conferirebbe al distico il seguente significato: e molti bevitori di vino innamorati lanciarono a terra per Aconzio le gocce sicule dal fondo delle coppe. L'intervento di Maas sembrerebbe trovare sostegno in passi quali Pind. Encom. fr. 128, 2 s. Sn.-M.

᾿Αγάθωνι δὲ (’Ayadwviög: coni. Wilamowitz) | βάλω κότταβον, Cratin. PCG 299, 4 ‘ina λάταγας τῷ Κορινθίῳ née, Xenoph. Hell. II 3, 56 Grokottapicavia εἰπεῖν αὐτόν‘Kpıria τοῦτ᾽ ἔετω τῷ καλῷ᾽, dal quale dipende Cic. Tusc. I 96 hoc pulchro Critiae. Ma l'ipotesi di Maas si scontra con il fatto che nessuna fonte menziona un tipo di cottabo, nel quale 1 giocatori lanciassero di proposito le gocce a terra (né, in merito, si può chiamare a confronto Theophr. fr. 570 Fortenbaugh-Huby-Sharples ap. Athen. X 427 ©). Il fr. inc. sed. 276 tramanda forse che C. applicava ad Aconzio l'epiteto famigerato ovvero rovinoso: esso potrebbe riferirsi all'indifferenza del ragazzo nei confronti dei suol spasimanti (vd. l'annotazione dopo il testo). 1 πολλοί: Come qui molti innamorati si impegnano nel gioco del cottabo augurandosi di ottenere 1 favori di Aconzio, così nel fr. 166, 9 molte madri cercano di avere Cidippe per nuora (πολλαΐ, vd. il comm. ad loc). καί: La congiunzione è posposta: vd. il comm. al fr. 1, 15 Μαεςοα γέται ικιαί. ἔραζε: Nei poemi omerici la parola compare sempre - come qui - alla fine dell'esametro (II. XII 156 al.). C. mantiene la collocazione omerica anche in Hec. SH 288, 46 = fr. 74, 5H., ma non in Ap. 41.

2 οἰνοπόται: Il vocabolo è attestato a partire da Anacreonte (fr. 57 Gent. = fr. eleg. 4 W.) e si ritrova, fra l'altro, in un epigramma pseudo-callimacheo (Ep. XXXVI 1 Pf. = HE 1325), nel cui v. 2 compare la parola κύλιξ come nel nostro passo c'è κυλίκων. L'Odissea omerica offre già la forma οἰνοποτήρ (VIII 456).

ἐκ κυλίκων Adtoyoc: Per il nesso, cf. Alc. fr. 322 Voigt λάταγες ποτέονται κυλίχναν ἀπὺ Tniav. Il vocabolo κύλιξ ricorre a partire da Semonide (fr. 27 W.). Per le Adreyec,

oltre ai passi di Cratino e Crizia indicati sopra, cf. Soph.

TrGF 277,

1, Achae.

342

CALLIMACO

TrGF

20 F 26, 3, Hermipp.

PCG

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO 48, 7, Dion.

Chalc. fr. 3, 6 W.

= 2, 6 Gent.-Pr., Agath.

Anth. Pal. V 296, 6 = 80, 6 Viansino.

Frammento 169 (70 Pf.) ἀλλ᾽ ἀπὸ τόξου | αὐτὸς ὁ τοξευτὴς

ἄρδιν ἔχων ἑτέρου: L'appartenenza del

frammento agli Aitia e a questo punto di Aconzio e Cidippe è stata riconosciuta da Pf. in base alla parafrasi di Aristeneto (vd. app. delle fonti). Aconzio, il quale come un arciere ha trafitto tanti ammiratori con i dardi della sua bellezza (cf. frr. 167-168), riceve nel cuore una punta di freccia proveniente da un altro arco, cioè l'arco di Eros che lo fa innamorare di Cidippe. La testimonianza di Aristeneto smentisce le congetture di Sylburg, Schneider e Meineke (vd. app.). Nelle parole di C. si coglie un'allusione scherzosa al nome di Aconzio: la parola ἀκόντιον, infatti, significa giavellotto. Cf. Ov. Her. XXI 211-214 (Cidippe ad Aconzio) mirabar quare tibi nomen Acontius esset: | quod faciat longe vulnus, acumen habes (dove acumen richiama il nostro ἄρδιν). | certe ego convalui nondum de vulnere tali, | ut iaculo scriptis eminus icta tuis. Per Aconzio colpito a sua volta dalle frecce di Amore, cf. Ov. Her.

XX 233 5. νά. Dilthey pp. 37, 41 s., Ο' Hara p. 32 e il comm. al fr. 174, 75 ὀξὺν ἔρωτᾳ. 2 τοξευτής: Il sostantivo è un hapax omerico (Il. XXIII 850), ripreso anche da Arat. 306, 547, Dion. Per. 751, Maxim. De action. ausp. 552, Quint. Smyrn. VII 302.

ἄρδιν ἔχων: Aconzio ha nel cuore la freccia di Eros. C. fa un uso identico del verbo ἔχω nell'Ep. XXXVII Pf. = HE 1129 ss., dove un arciere dedica a Serapide l'arco e la faretra senza le frecce, perché i nemici Esperiti le fanno tutte nel cuore: τοὺς δ᾽ ὀϊοτούς | ἔχουειν ‘Ecxepiton (v. 5 s. = HE 1133 s.). Il senso del verbo è reso più esplicito da Mnasalce, che gli affianca il complemento ἐν κραδίαις in un analogo epigramma votivo (Anth.

Pal. VI 9, 3 s. = HE 2609 s.): ἰοὺς δὲ πτερόεντας ἀνὰ κλόνον ἄνδρες ἔχουειν | ἐν κραδίαις. L'impiego callimacheo del verbo ἔχω (senza ulteriori specificazioni) per designare chi riceve in sé il dardo amoroso viene imitato da Nonn. Dion. VI 2 1 ἕν βέλος îcov ἔχοντες (a proposito degli dèi invaghiti di Persefone). Per la medesima metafora, espressa

però da un verbo diverso, cf. Rufin. Anth. Pal. V 87,2 βελέων δεξάμενον φαρέτρην Ι. ἄρδιν: Il vocabolo risulta utilizzato per la prima volta da Aesch. Prom. 880, gna con esso il pungiglione del tafano: al passo eschileo fa esplicito riferimento s.v. ἄρδις: ἀκίς. Invece nel nostro pentametro la parola significa specificamente freccia (cf. nell'app. delle fonti gli Etimologici e il passo di Aristeneto). Questo

che desiHesych. punta di senso del

termine si riscontra già presso Herodot. I 215, 1, IV 81, 4; 5; 6: alla penultima attestazione

erodotea si richiama espressamente Suid. s.v. ἄρδιν ἀκίδα βέλους. I poeti alessandrini impiegano il sostantivo nel significato erodoteo: oltre al nostro frammento, cf. Lyc. 63, 914 (con le rispettive parafrasi), Dosiad. Anth. Pal. XV 26, 18 = CA v. 18 p. 175. Per una possibile presenza della parola nel v. 122 dell'inno ad Artemide di C., vd. Massimilla, Artemis p. 54.

Frammento

170 (71 Pf.)

Stefano Bizantino tramanda che C., nel terzo libro degli Aitia, impiegava l'etnico Δηλίτης (non attestato altrove) a proposito del coro che si reca a Delo. Buttmann e Dilthey avevano già congetturato che il frammento spettasse alla nostra elegia: la loro ipotesi sembra oggi confermata dal fr. 166, 5 s., dove C. scrive che Aconzio e Cidippe si recarono a Delo per partecipare a una festa in onore di Apollo, giungendo l'uno con l'ambasceria di

COMMENTO:

AET.II FRR. 168-172

343

Ceo e l'altra con quella di Nasso (cf. anche fr. 174, 26 e Ov. Her. XXI 67-104). Non sappiamo in che punto dell'aition C. parlasse del coro Δηλίτης, ma è plausibile che lo menzionasse allorquando rievocava il coup de foudre sperimentato da Aconzio alla vista di Cidippe nell'isola di Delo, dal quale prendono origine lo stratagemma della mela e il delirio amoroso del giovane (cf. frr. 171-173). Vd. l'annotazione dopo il testo. Tucidide (III 104, 3) riferisce che già anticamente convenivano a Delo gli Ioni e gli abitanti delle isole vicine, che alle processioni partecipavano anche le mogli e 1 figli e che le

città conducevano i propri cori: ἦν δέ note καὶ τὸ πάλαι μεγάλη Ebvodoc ἐς τὴν Δῆλον τῶν Ἰώνων τε καὶ περικτιόνων vricwrov: ξὺν τε γὰρ γυναιξὶ καὶ παιεὶν ἐθεώρουν ... χορούς τε ἀνῆγον αἱ πόλεις (a riprova di queste informazioni, Tucidide cita [Hom.] Hymn. III 146-150). Da Strabone (X 485) e da altri apprendiamo che soprattutto le Cicladi - delle quali fanno appunto parte Ceo e Nasso - inviavano cori alla πανήγυρις di Delo. I cori mandati a Delo figurano anche in altre opere di C.: vd. il comm. al fr. 97, 19. Per le ambascerie di Ceo e di Nasso a Delo, cf. da un lato p.es. Pind. Paean. IV fr. 52 d

Sn.-M. (Ketoıc εἰς Δῆλον), IG XII 5, 544 A2. 39 5. yopnyyncac παιεὶν εἰς Δῆλον con il test. 1485 e vd. dall'altro lato R. Herbst, RE XVI 2 (1935), p. 2086. 39-65.

Frammento 171 (72 Pf.) ἄγραδε τῷ näcncıv ἐπὶ προχάνῃειν ἐφοίτα: Lo scolio sofocleo che tramanda il frammento ne attesta l'appartenenza al terzo libro degli Aitia: che esso spetti a questo punto della nostra elegia, è dimostrato dalla parafrasi di Aristeneto (vd. app. delle fonti). Tornato a Ceo da Delo, dove si è innamorato di Cidippe e l'ha astutamente vincolata con il giuramento scritto sulla mela (cf. Dieg. Z 1-4 e il passo di Aristeneto riportato nel comm. ai frr. 166-174), Aconzio si trova in preda alla furia della passione. Fra l'altro, vergognandosi di apparire al cospetto del padre e volendolo evitare, coglie ogni pretesto per recarsi in campagna.

ἄγραδε: Questa forma è un hapax. Cf. l'analogo Ὠλέναδε (fr. adesp. SH 1126; il raffronto è istituito da Esichio, vd. app. delle fonti). Anche la forma affine ἀγρόθι, che C. impiega in Cer. 135, non è attestata altrove. τῷ: Perla posposizione dell'avverbio, cf. fr. 174, 58. Vd. anche il comm. al fr. 65, 16 τω.

racncıv

ἐπὶ προχάνῃειν: Cf. Call. Cer. 73 προχάνα ... nüco | con il comm. di

Hopkinson. Il termine rpoydvn figura anche come lemma in un glossario papiraceo di parole poetiche ellenistiche (PHorak 4, col. II, fr. A, 17 Menci), forse desunte proprio da un

carme esametrico o elegiaco dello stesso C. Al vocabolo, che ci è noto solo da questi tre passi, viene sempre attribuito il significato di πρόφαεις (pretesto): cf. lo scolio al passo citato dell'inno a Demetra

di C., lo scolio sofocleo che tramanda il nostro frammento

(vd.

app. delle fonti), la delucidazione offerta dal suddetto glossario papiraceo (vd. Menci p.

29), Hesych. σιν. rpoyxdvn: fur, πρόφαεις καὶ καλύπτρα, Eustath. pp. 723. 28, 1109. 39, 1778. 21. Non è chiaro se la parola derivi da προχαίνειν (come asserisce Eustazio) o da προέχεεθαι (come si legge nello scolio sofocleo), ma si tende oggi a preferire la seconda etimologia: vd. Frisk s.v.

Frammento 172 (73 Pf.) 15. ἀλλ᾽ ἐνὶ δὴ φλοιοῖει κεκομμένα tocca φέροιτε |ypaunara, Κυδίππην ὅες᾽ ἐρέουει καλήν: L'appartenenza del distico agli Aitia e a questo punto della nostra elegia si ricava dalla menzione di Cidippe e dalla parafrasi di Aristeneto (vd. app. delle

344

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

fonti). Il frammento, così come il successivo, rientra in un monologo di Aconzio: rifugiatosi

in campagna per nascondere agli sguardi altrui la sua bruciante passione (cf. fr. 171), il giovane apostrofa gli alberi e auspica che essi portino incise sulle cortecce le lettere necessarie a dire che Cidippe è bella. Ma, come osserva Pf., forse Aristeneto traeva da C. anche un'e-

spressione che - nella sua parafrasi - precede di poco il passo corrispondente al nostri due versi, cioè ad Aconzio non importava della vigna, non della zappa (vd. app. delle fonti): a sostegno della sua ipotesi, Pf. richiama il fr. 184, 5-9 di C. e la relativa parafrasi di Aristeneto (I 15, p. 38. 36 Mazal), che hanno in comune l'anafora della negazione où (e si può ora aggiungere che uno zappatore e un tralcio di vite compaiono nel fr. 110, 6-8: vd. D'Alessio (p. 478)). Come spiega lo scolio aristofaneo che tramanda il frammento (vd. app. delle fonti), la frase Cidippe è bella equivale ad amo Cidippe. Aconzio, pentito per avere imposto alla fanciulla il timore di essere punita da Artemide ove mai non si attenga al giuramento da lui scritto sulla mela (cf. fr. 173, 3), incide ora sugli alberi parole d'amore che non rischiano di danneggiare Cidippe.

Il distico callimacheo è simile a Theocr. XVIII 47 | γράμματα δ᾽ ἐν φλοιῷ γεγράψεται e a Glauc. Anth. Pal. IX 341, 4 = HE 1822 κατὰ φλοιοῦ γράμμ᾽ ἐκόλαψε (come dimostrano questi due passi e la parafrasi di Aristeneto, Bentley ebbe ragione a correggere in φλοιοῖοι il @bAAoıcı offerto dai codici dello scolio aristofaneo che tramanda il nostro frammento: vd. app.). Le incisioni amorose sulle cortecce degli alberi sono un motivo ab-

bastanza frequente in poesia: cf. ep. adesp. Anth. Pal. XII 130, 3 s. = HE 3764 5. où δρυὸς οὐδ᾽ ἐλάτης ἐχαράξαμεν οὐδ᾽ ἐπὶ τοίχου | τοῦτ᾽ ἔπος (cioè Δωείθεος καλός), Gall. fr. 3 p. 268 Courtney = fr. 141 Hollis ap. Verg. Ecl. X 53 5. teneris ... meos incidere amores | arboribus, Prop. I 18, 21 s. la quotiens ... | scribitur ... vestris Cynthia corticibus! | (notevole per l'apostrofe agli alberi e per corticibus che corrisponde a φλοιοῖςι, vd. anche il comm. introduttivo al fr. inc. sed. 275), Ov. Her. V 23 s. incisae servant a te mea nomina fagi | et legor Oenone falce notata tua, Calp. Sic. III 89 figentur in arbore versus |, Flor. 248, 2 p. 377 Courtney cortici summae notavi nomen ardoris mei (notevole per cortici). Vd. in generale Puelma, Vorbild p. 238 5. = 377 5. e Hollis, Propertius p. 106. Una deformazione ironica del cliché costituito dall'impiego dell'aggettivo καλός nelle scritte amorose viene messa in atto dallo stesso C. in Ep. fr.393, 1 5. Pf. = HE 1333 5. (vd. l'app. e il comm. di Pf. ad loc). Non è escluso che il fr. inc. sed. 275 faccia parte del monologo di Aconzio (ovvero lo introduca per bocca di C.) e preceda il nostro frammento: vd. l'annotazione dopo il testo.

1 ἀλλ᾽ Evi δὴ φλοιοῖει: La particella δή è inserita fra la preposizione e il sostantivo: cf. fr.3,4 ὡς ἐνὶ δὴ πατρίο(ιο). φλοιοῖοσι: La parola compare una volta sola nei poemi omerici (Il. I 237; cf. anche [Hom.] Hymn. V 271) e designa propriamente la corteccia tenera d'albero, adatta - come dimostra ıl nostro frammento - a essere incisa. Per l'impiego del vocabolo nel numero plurale, cf. Strab. XI 8, 7, XV

1, 20; 60.

κεκομμένα: È singolare che il verbo κόπτειν abbia il senso di incidere: significati affini sono forgiare (p.es. Hom. Il. XVII 379) e coniare (p.es. Herodot. III 56, 2). 2 γράμματα ... ὅες᾽ ἐρέουει: Per l'espressione, cf. fr. 163, 7 5. con il comm. Per il soggetto neutro plurale öcc’ accordato al verbo plurale &p&ovcı, vd. il comm. al fr. 174, 16

ἐςτόργυντο τὰ κλιομία. Κυδίππην: Riguardo alla prolessi del nome rispetto a öcc’, vd. il comm. al fr. 8.

COMMENTO:

Frammento

AET. II FRR. 172-174

345

173 (74 Pf.)

Tra questo frammento e il successivo intercorrono circa diciotto versi. Il v. 3 è leggibile per intero grazie alla tradizione indiretta: la sua pertinenza agli Aitia e a questo punto della nostra elegia era già stata riconosciuta grazie alla parafrasi di Aristeneto (vd. app. delle fonti). Proseguendo il suo monologo (cf. fr. 172), Aconzio si pente per avere imposto a Cidippe il timore di essere punita da Artemide, ove mai non si attenga al giuramento da lui spudoratamente scritto sulla mela. Vd. l'annotazione dopo il testo.

3 Aıpöcı ἐγώ, τιί dé cor τόνδ᾽ ἐπέθηκα péBov;: Il senso di colpa sperimentato da Aconzio si ritrova nella ventesima Eroide ovidiana (v. 127 s.), dove egli scrive a Cidippe: maceror interdum, quod sim tibi causa dolendi, | teque mea laedi calliditate puto. Può anche darsi che Ovidio fosse a conoscenza dell'etimologia proposta da alcuni per il raro aggettivo Aıpöc, cioè λίαν + ὁρᾶν (cf. Cherobosco e gli Etimologici nell'app. delle fonti), perché il suo Aconzio - illustrando a Cidippe le emozioni che ha sperimentato quando l'ha vista per la prima volta - scrive: te dum nimium miror (Her. XX 209). Aıpöcı ἐγώ: È interessante osservare che Medea, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, dà inizio ai suoi monologhi con la frase δειλὴ &y@(v) e - come qui Aconzio - non uti-

lizza una particella esclamativa (III 636, 771); l'interiezione | δειλὸς ἐγώ sarà poi adottata da Nonno (Dion. V 475 e 512). L'aggettivo Aıpöc viene sempre spiegato come un equivalente di ἀναιδής (vd. app. delle fonti): lo si ritrova solo nel nostro pentametro e presso

Alex. Aetol. CA fr. 3, 30 p. 123 = fr. 3, 30 Magnelli λιρὰ voedca γυνή | (vd. il comm. di Magnelli).

τόνδ᾽ ἐπέθηκα φόβον: Il verbo ἐπέθηκα figura nel codice di Esichio, che tramanda il nostro verso, e sembra anche essere la lezione presupposta dalla parafrasi ἐπῆγον di Aristeneto (vd. app. delle fonti): Aconzio si duole di avere imposto a Cidippe il timore di una grave punizione da parte di Artemide, come se si trattasse di un doloroso peso da sopportare (per la paura intesa come un peso, cf. Eur. Phaëth. TrGF 773, 50 | βαρὺν ... φόβον). Sono perciò da scartare le congetture érécerca di Meineke ed ἐνέθηκα di Schneider (vd. app.). Vd. anche Dietzler p. 13 s.

Frammento

174 (75 Pf.)

Il frammento,

che tramanda

la fine dell'aition, può

essere

suddiviso

in due

parti:

la

prima rappresenta la conclusione della vicenda di Aconzio e Cidippe, mentre la seconda consiste in un excursus dedicato alla storia mitica di Ceo (la patria di Aconzio). Tra i frammenti degli Aitia questo rappresenta un unicum, perché è costituito da una sequenza ininterrotta di ben settantasette versi leggibili quasi per intero: esso ci consente perciò di apprezzare le qualità poetiche di C. in un ampio brano pressoché integro. I caratteri essenziali del passo sono l'originalità della trattazione e la varietà dello stile. Nella prima parte C. evita 1 toni patetici e sentimentali (cui si presterebbe la tematica erotica del mito) attraverso una serie di accorgimenti: interviene in prima persona nella narrazione, o per interromperla o per esprimere il suo giudizio in proposito; costella il racconto di riferimenti dotti; ricorre a spunti ironici; impiega uno stile nitido e incalzante. Nella seconda parte il poeta mette sul proscenio la propria attività di erudito: rivelando al lettore che la sua fonte di informazioni è lo storico Senomede di Ceo, C. passa in rassegna la storia mitica dell'isola e condensa in pochi versi una ricca messe di notizie, grazie a uno stile vertiginosamente rapido e a un abbondante utilizzo dell'ipotassi. Vd. Legrand pp. 8-10, Cairns,

346

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Tibullus pp. 117-120, Hopkinson, Callimachus II pp. 93-96.

Anthology

p.

102,

Kuhlmann

pp.

21-28,

Harder,

1) 1-49: La conclusione della vicenda di Aconzio e Cidippe A) 1-9: Nell'imminenza del matrimonio sbagliato Cidippe, ormai sul punto di sposare il giovane prescelto dai suol genitori, ha già espletato il seguente rito prenuziale vigente a Nasso: prima del matrimonio, la fidanzata giace e dorme con un fanciullo impubere, i cui genitori devono entrambi essere in vita (vv. 1-3). Indicare l'imminenza dello sposalizio attraverso l'erudita e concisa menzione della cerimonia nassia è un procedimento tipico dell'arte callimachea: si osservi per contrasto che Ari-

steneto, nella sua parafrasi, offre solo un anodino τῇ δὲ Κυδίππῃ πρὸς ἕτερον ηὐτρεπίζετο γάμος (vd. l'app. delle fonti ai vv. 1-49). Le modalità del rito vengono ribadite in uno scolio omerico e in un brano di Polluce, che 51 riferiscono al nostro passo e sono perciò riportati rispettivamente nell'app. delle fonti ai vv. 3 s. e 3; lo scolio conferma anche la localizzazione dell'usanza a Nasso. Cerimonie simili, volte a propiziare la fecondità del connubio, si

riscontrano presso vari popoli: vd. Stuart pp. 302-314, Blümner p. 6, Gruppe pp. 225-229, Kagarow p. 362, Herter, Bursian 255 p. 132 (diverse e meno convincenti interpretazioni dell'usanza vengono proposte da Bonner pp. 402-409, Kuiper, Mariage pp. 320-345, Samter pp. 90-98). Il rito prenuziale di Nasso è anche raffigurato su una /ekythos di Taranto, che risale al 480-470 a.C. circa: cf. LIMC (III Addenda) Ariadne 52. La scena si inquadra nel mito di Teseo e Arianna e illustra l'imminente abbandono dell'eroina dormiente a Nasso. Ecco ciò che si vede rappresentato sull'ampolla: mentre la dea Notte si trova in cielo, Arianna giace addormentata con il piccolo dio Sonno accovacciato sulla testa; al fianco di Arianna, Teseo

viene svegliato da Atena, che gli ordina di partire senza la principessa; un ragazzo è disteso al contrario sul letto della coppia: è evidentemente 1] fanciullo del quale parlano le fonti letterarie. A quanto pare, il pittore ha riunito in un'unica scena la notte prenuziale (durante la quale Arianna dormi con il ragazzo impubere) e la notte nuziale (nella quale Arianna giacque con Teseo). Per questa /ekythos, vd. 1. D. Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painters I (Oxford 1963?) p. 560 nr. 5 (‘near the Pan Painter"), 1. D. Beazley - M. Robertson, The Pan Painter (Mainz 1974), p. 17 nr. 5. C. mette in rapporto l'usanza di Nasso con la vicenda di Fra e di suo fratello Zeus, che prima del matrimonio si unirono all'insaputa dei genitori: C. fa solo una brevissima allusione a questo mito (dicono infatti che Era una volta), perché immediatamente si autocensura e ricorda con foga al proprio animo che non è consentito divulgare 1 segreti divini (v. 4 s.). Dato il suo scrupolo documentaristico, probabilmente C. non inventò il nesso eziologico fra gli amori clandestini di Zeus ed Fra e la cerimonia nassia (asserito anche nello scollo omerico citato sopra), ma lo dedusse da una fonte a noi ignota (che C. qui proponga un collegamento eziologico fra il connubio segreto di Zeus ed Fra e il rito nassio, viene a torto negato da Kuiper, Mariage pp. 346-358). Per l'unione nascosta dei due dèi - già attestata presso Hom. II. XIV 295 5. e poi rievocata da Nonn. Dion. XXXII 32-35 - cf. fr. 56 con il comm. Riguardo ai nostri vv. 1-5, vd. Massimilla, Rito.

Continuando ad apostrofare il proprio animo, C. si compiace che esso non abbia assistito al misteri di Demetra, perché in caso contrario avrebbe propalato anche quelli (v. 6 s.). C. osserva pol che l'erudizione è un grave male, se si accompagna alla loquacità: il dotto

COMMENTO:

AET. II FR. 174

347

che, quando occorre, non sa mantenere il silenzio è come un bambino che maneggia un coltello (v. ὃ s.). Come

si vede, 1 vv. 4-9 interrompono momentaneamente il filo del racconto dedicato a

Cidippe e intercalano la voce di C. nel tessuto del carme, producendo un effetto di giocosa bizzarria. Vd. Diehl, Digressionsstil p. 23.

1 ἤδη καὶ κούρωι παρθένος

edvécaro: Con ogni probabilità, il καί è in seconda

posizione (vd. il comm. al fr. 1, 15 Maccoyyétar ıkıat); la vergine è ovviamente Cidippe, mentre il fanciullo è ıl ragazzo impubere menzionato anche nel v. 3. A quanto sembra, il pentametro e - più in generale - tutta questa sezione dell'aition hanno ispirato sul piano espressivo alcuni epigrammi, nei quali si legge che fanciulle in procinto di sposarsi sono morte a causa di una grave malattia: cf. p.es. Antip. Sid. Anth. Pal. VI 711, 1eSe7=HE

548 e 552 e 554 ἤδη μὲν ... ἀφαρπάξαεα δὲ vodcoc | (cf. v. 12)... ευνάλικες (cf. v. 42), Mel. Anth. Pal. VII 182, 3 e 5 = HE 4682 e 46841 ἄρτι γὰρ ἑςπέριοι ... 1 ἠῷοι (cf. v. 10). 2 τέθμιον ὡς ἐκέλευε: Per l'espressione, cf. Call. Lav. 100 Κρόνιοι δ᾽ ὧδε λέγοντι νόμοι | con il comm. di Bulloch. Riguardo a τέθμιον, vd. il comm. al fr. 50, 26 (ai passi lì raccolti si aggiunga [Opp.] Cyn.1 450). La parola ha qui valore sostantivale. προνύμφιον: L'aggettivo (attestato solo nel nostro verso) va inteso nel senso che Cidippe dormì il sonno rituale non durante la notte immediatamente anteriore al matrimonio, ma un po' di tempo prima: infatti il v. 12 chiarisce che la sera precedente alle nozze la fanciulla cadde malata. Vd. Dietzler p. 20. ὕπνον ladcaı: Il verbo inderv è già presente nei poemi omerici (Il. IX 325* al), ma la sua unione all'oggetto interno ὕπνον si trova solo a partire da [Hom.] Hymn. IV 289*, V 177%. Cf. poi Theocr. ΠῚ 49*, Posidipp. Ep. 100, 1 Austin-Bastianini* (vd. Bastianini-

Gallazzi p. 227), SGO I 01/01/07 v. 7*, IV 17/03/01 v. 1*, [Orph.] fr. 855, 1, II 2 p. 378 Bernabé, Opp. Hal. II 111*, 662 s., Quint.

Smyrn.

XIII 27*, Greg. Naz. Carm.

I 1, 28,

1

(PG 37 p. 506), Nonn. Dion. XVI 98* al., Met. XI 47* al., ep. adesp. App. Plan. 375, 1*.

Nessi simili si riscontrano presso Soph. Ai. 1204 ἐννυχίαν τέρψιν ἰαύειν I, [Eur.] Rhes. 740 τὸν ὑπαςπίδιον κοῖτον laver. C. associa l'oggetto interno ὕπνον anche ad altri verbi: cf. Ep.IX 1 s. Pf. = HE 1231 s. ὕπνον | κοιμᾶται, Ep. XVI 3 5. Pf. = HE 1217 s. ἀποβρίζει I... ὕπνον (vd. Lapp p. 129). 3 &pcevi ... παιδί: Per il nesso (dove παῖς significa Lycophronid. PMG 843, 1 e lo stesso Call. Del. 298 s. παῖδες ... | takıv: Il vocabolo compare solo presso Soph. Ant. 629 e sofocleo (vd. app. delle fonti) - è di origine eolica. Esichio s.v.

ragazzo, non figlio), cf. äpcevec. secondo gli scoli al passo τᾶλις (in parte riportato

nell'app. delle fonti) dà alla parola vari significati: ἣ μελλόγαμος παρθένος καὶ κατωνομαομένη τινί. οἱ δὲ γυναῖκα γαμετήν, οἱ δὲ νύμφην. ἀμφιθαλεῖ: C. precisa che il ragazzo coinvolto nel rito nassio deve essere ἀμφιθαλήο. L'esatto significato dell'aggettivo è già chiaro nella sua unica attestazione omerica (Il. XXII 496): si dice ἀμφιθαλής il fanciullo fiorente da entrambe le parti, che cioè ha in vita sia il padre sia la madre (cf. anche Plat. Leg. 927 D). Nelle iscrizioni la parola si trova applicata a giovinetti che partecipano a riti religiosi (come qui) o agonistici per motivi propiziatori: cf. SEG

XXXII

1243. 4 (Cuma

eolica, I sec. a.C. - I sec. d.C.), Inscr. Magn.

98.

19, Monu-

menta Asiae Minoris antiqua IX 30 (II sec. d.C.). Νά. Robert pp. 509-519 e - per 1 pueri patrimi et matrimi - J. G. Frazer, Publii Ovidii Nasonis Fastorum libri sex II (London 1929) p.

201. 4 Ἥρην

γάρ

κοτέ

gacı: C. sta per rievocare l'unione prematrimoniale di Era con

348

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Zeus, ma smette sùbito. A quanto sembra, è di Sotade un frammento nel quale - con una di-

zione molto simile al passo callimacheo - si accenna probabilmente agli amori prenuziali di

Zeus ed Era (CA fr. 16 p. 243): Ἥρην ποτέ gacw Δία τὸν τερπικέραυνον. Con grande verisimiglianza, Pretagostini pp. 145-147 ha riconosciuto qui una vera e propria allusione di C. a Sotade e ha congetturato che il suddetto verso di Sotade fosse l'incipit del carme, nel quale egli criticava le nozze incestuose fra Tolemeo II e sua sorella Arsinoe (cf. CA fr. 1 p. 238), evidentemente paragonati a Zeus ed Fra: Pretagostini osserva che la tempestiva autocensura di C. (v. 4 s.) e la sua tirata contro l'incauta divulgazione dei segreti divini (vv. 6-9) indicano una sua netta presa di distanza dall'irriguardoso Sotade. Può darsi che anche la successiva apostrofe ingiuriosa κύον, κύον contenga un'allusione al cinedologo Sotade, come suppone Lorenzoni p. 226. Molto allettante è Inoltre l'ipotesi, avanzata da Bonanno, Recensione p. 347, che la frase οὐχ dcin, impiegata da C. nel v. 5 per esprimere il suo scrupolo religioso, ribalti allusivamente il nesso οὐχ δείην, usato da Sotade con Intento denigratorio proprio in CA fr. 1 p. 238. Analogamente Tirsi, nel v. 105 del primo idillio di Teocrito, comincia a parlare dell'unione di Afrodite e Anchise, ma si affretta a far silenzio, lasciando la frase in sospeso:

| où

λέγεται τὰν Κύπριν ὁ βουκόλος; (vd. il comm. di Gow). κύον, κύον: C. apostrofa così il proprio θυμός. Nei poemi omerici il vocativo κύον è sempre impiegato - come qui - per stigmatizzare l'impudenza di qualcuno: cf. I. VIII 423, XI 362 = XX 449 (* del secondo κύον), XXI 481, XXII 345, Od. XVIII 338 (* del secondo

κύον), XIX 91; cf. anche Ap. Rh. IV 59 (* del primo κύον), Quint. Smyrn. III 344 al. Per la geminazione del vocativo, cf. soprattutto lo stesso Call. Cer. 63 κύον κύον" (invettiva di Demetra a Frisittone), ma anche Aristoph. Vesp. 1403 & κύον κύον | (dove però ci si riferisce a una cagna vera e propria): vd. Pontes pp. 251-255, Durbec, AVovp. 603. Nel comm. al brano dell'inno callimacheo a Demetra, Hopkinson raccoglie gli altri passi di C. dove le geminazioni di una parola si trovano nella medesima sede metrica del nostro κύον, κύον. Vd. inoltre qui sopra il comm. a Ἥρην γάρ κοτέ gacı.

4 5. icxeo, Aa1dpé | θυμέ, εὖ γ᾽ Keien καὶ τά περ οὐχ dcin: C., troncando sul nascere il racconto dell'unione prenuziale fra Zeus ed Fra, biasima la sfacciataggine del proprio animo e gli ordina di fermarsi, per non divulgare 1 segreti divini. L'autocensura callimachea ha ispirato Paolo Silenziario (Ecphr. Soph. 756 s.): icxeo ToAunecca μεμυκότι

χείλεϊ φωνή. | und’ ἔτι γυμνώςειας ἃ μὴ θέμις ὄμμαει Acbccew. Questo tipo di aposiopesi, dettata dal rispetto per gli dèt, si riscontra più volte nella poesia pindarica: cf. 1 passi raccolti da Fuhrer p. 123 n. 457. C. tiene soprattutto presente Ol. IX

35-42,

dove

Pindaro

interrompe

l'esposizione

dello

scontro

di Fracle

con

Posidone,

Apollo e Ade ed esorta se stesso a rigettare quel racconto, perché l'offesa degli dèi è un'odiosa sapienza (cf. la pericolosa noAvıöpein nel nostro v. 8), e a portare la lingua (cf. γλώεοης nel nostro v. 9) sulla storia di Deucalione e Pirra. La familiarità di C. con questo brano è anche confermata dal fatto che altrove egli mette appunto a frutto la trattazione pindarica del mito di Deucalione e Pirra (cf. fr. inc. sed. 496 Pf. = SH 295, 1 con il comm.

di

Pf.). C. evita di trattare vicende erotiche che una volta (cf. qui xote) comvolsero Zeus anche

nell'Ep.LII 3 5. Pf. = HE 1069 5. | vaixı πρὸς ... Tavvundeoc, ... Zed,

καὶ εὖ ποτ᾽ ἠράεθης

- οὐκέτι μακρὰ λέγω. Le opere callimachee offrono altri due esempi di aposiopesi ricondu-

cibili a scrupolo religioso: cf. Cer. 17 un un ταῦτα λέγωμες ἃ δάκρυον ἄγαγε Δηοῖ (vd. il comm. di Hopkinson) e Hec. SH 288, 51 = fr. 74, 10 H. | vai μὰ rıöv, (giuramento ellit-

COMMENTO:

AET. II FR. 174

349

tico); riguardo al secondo passo, Suida osserva: οὐκέτι ἐπάγει τὸν θεόν. ῥυθμίζει δὲ ὁ λόγος πρὸς εὐςέβειαν. Cf. inoltre Ap.

Rh.

I 916-921,

IV 247-250

con 1 comm.

di Vian e le osservazioni

di

Morrison pp. 294 e 302 (entrambi i brani condividono con il nostro passo il verbo ἀείδειν e nel secondo figura - come qui - il vocabolo Bvuöc), Hymn. in Venerem, CA fr. epic. adesp. 9, col. IV 8 p. 84 = fr. a, col. III 8 Meliadò I μῦθον μὲν τοῦτον παρελώμεθα (con il comm.

di Meliadò), Maneth. VI 734-737 (notevole per ἀείδοι ... ἀοιδήν), Greg. Naz. Carm. (PG 37) I 1,3, 49 (p. 412), I 2, 29, 94 (p. 891) μηκέτι μοι τὰ πρόεω φθέγγεο, YAOcca λάλε (per vAöcca λάλε, cf. il nostro v. 8 s.; vd. B. Wyss, «MH» 6, 1949, p. 193 n. 43), Agath. Anth.

Pal. V 263, 4 = 85, 4 Viansino θυμέ, τὸ λοιπὸν ἔα | (notevole per l'apostrofe voué). Sul versante latino, cf. Ov. Fast. III 325 s. (dove canentur corrisponde al nostro &eicn), Ex P. I 2, 59 lingua, sile. non est ultra narrabile quicquam (per lingua, sile, cf. il nostro v. 8 s.),

Auson. Mos. 186-188. Un'espressione simile a ἴσχεο, λαιδρέ | θυμέ viene impiegata da C. nel quinto giambo (fr. 195, 26 5. Pf.), dove pure si raccomanda la moderazione a un'indole sfrenata: îcye δὲ δρόμιου | μαργῶντας ἵππους. Per l'impiego di icxeo in un contesto analogo, si veda anche il carme di Gregorio Nazianzeno citato nel comm. al v. 7. Del nostro passo risente poi Nonno in vari punti delle Dionisiache, dove la clausola icxeo, φωνή segnala - come qui un'aposiopesi, venendo usata o da sola (I 135, XXIX

141, XLVI

204) o con un genitivo di-

pendente (XLVII 370 5. icxeo, φωνή, | &opocdvno). L'aggettivo λαιδρός è attestato per la prima volta presso C.: oltre al nostro passo, cf. Jamb. fr. 194, 82 Pf. Ιλαιδρὴ κορώνη (anche qui a proposito dell'eccessiva loquacitä); cf. poi Nic. Ther. 689*, AI. 563, Maxim. De action. ausp. 377, 438. C. apostrofa il proprio animo con il vocativo θυμέ anche nel primo verso dell'inno a Delo. 5 &eicn: Per l'alpha lungo del verbo, cf. i passi raccolti nel comm. al fr. 30, 8 (con l'aggiunta di Call. Jamb.fr. 203, 63 Pf.) e vd. ıl comm. di Livrea ad Ap. Rh. IV 1399. οὐχ Öcin: Il nesso è probabilmente impiegato da C. anche nel fr. 81, 4. Esso ricorre

solo due volte nei poemi omerici (Od. XVI 423 οὐδ᾽ è., XXII 412 οὐχ 6.), dov'è seguito dall'infinito ed equivale - come

qui - all'espressione impersonale è empio.

Vd. anche 1

comm. al v. 4 Ἥρην γάρ κοτέ qact e al v. 6 5. 6 5. ναφ κάρτ᾽ ἕνεκ᾽ οὔ τι θεῆς ἴδες ἱερὰ φρικτῆς, | ἐξ ἂν ἐπεὶ καὶ τῶν ἤρυγες ἱετορίην: Proseguendo l'apostrofe al proprio animo, C. gli fa osservare che per fortuna non ha assistito ai riti celebrati in onore della terribile Demetra, perché altrimenti

anche di quelli avrebbe rigurgitato la storia. Per la segretezza dei misteri di Demetra, cf. [Hom.] Hymn.II 478 s. (con il comm. di Richardson) e Herodot. II 171, 2: nel primo caso si parla dei misteri eleusini, nel secondo di quelli connessi alle Tesmoforie. Entrambe le celebrazioni figurano negli Aitia: vd. rispettivamente i comm. al fr. 23, 9 s. e al fr. 162, 9-12 e 10. Per il ritegno del poeta in relazione ai misteri di Demetra, cf. anche Theocr. III 50 s. (con il comm.

di Gow), Hor.

Carm. III 2, 25-29 (vd. Bleisch p. 25), Ov. Ars II 601-604,

Fast. IV 552. D'Alessio (p. 480) fa riferimento alla tradizione aneddotica, secondo la quale Eschilo avrebbe empiamente divulgato i misteri di Eleusi.

6 &vao

κάρτ᾽

ἕνεκ᾽: Per l'espressione, cf. Theocr. XV 55 | ὠνάθην μεγάλως ὅτι

κτλ. (vd. Puech p. 261 n. 2) e per @voo il passo di Manetone riportato nel comm. al v. ὃ ἦ

roAvıöpein χαλεπὸν κακόν. L'avverbio κάρτα, estraneo all'uso omerico, è attestato a partire dal poeta epico Aristea (fr. 5, 2, Ip. 152 Bernabé = fr. 2 (ID, 2 Davies). Sull'uso di

ἕνεκ᾽ al posto della congiunzione ὅτι, vd. il comm. al fr. 1,3 eivexeiv.

350

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

où τι... 10ec: Nel nostro passo il verbo ἴδες designa la visione dei misteri di Demetra, al pari di ἰδέ[εθ]αι nel fr. 162, 9. Come abbiamo detto, C. si compiace del fatto che il proprio θυμός non abbia veduto cose proibite. Fu proprio questa la colpa involontaria di Tiresia, quando assistette alle abluzioni di Atena: cf. Call. Lav. 78 οὐκ ἐθέλων δ᾽ εἶδε τὰ μὴ θεμιτά | (il concetto è più volte ribadito nell'inno, sempre con l'impiego del verbo ἰδεῖν: cf.

vv. 52, 53, 88, 102, 113). θεῆς



ἱερὰ φρικτῆς: Per la frase, cf. da un lato Antip. Sid. Anth. Pal. VI 219, 1 =

HE 608 φρικτοῖο θεᾶς (Cibele) e Philod. De dis I 17 to[dc gperltode (scil. θεούς, suppl. H. Diels); dall'altro [Orph.] Arg. 467 ὄργια φρικτὰ θεῶν e Nonn. Dion. III 262 5. φρικτὰ ... θεαίνης | ὄργια (i misteri di Era). L'aggettivo φρικτός risulta impiegato per la prima volta nel nostro verso: in poesia cf. poi - oltre al passi riportati sopra - p.es. Archias Anth. Pal. XV 51, 4 = GP 3777, Phil.

Thess. Anth. Pal. VII 405, 2 = GP 2862, [Orph.] Arg. 842, Hymn. LXV 4*, LXXII

1*

Quandt al.,fr. 691, 16, II 2 p. 250 Bernabé, Hymn. mag. in Lunam GDRK LIX 9, 5; 12, 9, Philostr. App. Plan. 110, 2, ep. adesp. Anth. Pal. IX 524, 22, Greg. Naz. Carm. I 1, 4, 46

(PG 37 p. 419) al., Pallad. Anth. Pal. XI 353, 6, Nonn. Dion. I 18 al., Met. II 103 ai. Eudoc.

Cypr.I

138, Christod. Anth. Pal. II 278, Georg. Pis. Anth. Pal. I 120, 1, Pietr. Anth.

Pal.IX 817,4. 78€ ἂν ἐπεὶ καὶ τῶν

fpuyec

ictopinv: Qui si riscontrano sia la tmesi ἐξ...

ἤρυγες sia la posposizione di ἐπεί: per il primo fenomeno (che in questo frammento figura anche nei vv. 18, 39, 45-48 e 62), vd. il comm. al fr. 20, 8 ἀπ᾿ ἠέρα νηὸς &Aacenc; per il secondo, vd. il comm. al fr. 26, 1 ck@Aoc ἐπεί μιν. L'immagine callimachea ha ispirato

Gregorio Nazianzeno (Carm. II 1, 34, 47-50 = PG 37 p. 1310): | πολλὰ μὲν oicxpü udyxAorciv ἐρεύγεται ... | … |... 1 πολλὰ δὲ τῶν κρυπτῶν obacıv ἐξεμέει. Per di più, il carme di Gregorio - incentrato sul silenzio quaresimale - esordisce con l'ammonizione | ἴοχεο, yAßcca φίλη (cf. anche v. 190 s.), che si richiama ai nostri vv. 4 5. e ὃ 5. Cf. anche

[Apolinar.] Met. Ps. XCII 7 yAocen &pevyöuevor κραδίης ἀθεμίετιον ὕβριν, Greg. Naz. Carm. (PG 37) II 1, 45, 46 5. (p. 1356) | yAöcca. ... | θυμὸν épevyouévn, II 1, 38, 38 (p. 1328) | yA@cc® ἀπερευγομένη (nell'ultimo brano la frase è impiegata in bonam partem).

ἐξ... npvyec: Stando al LSJ, il verbo ἐξερυγγάνω è attestato solo presso C., che lo utilizza - con analoga metafora - nel fr. inc. sed. 275, 4 (dove va senz'altro accolta la congettura ἐξερύγῃ di A. D. Knox e di Pf.): in realtà, bisogna registrarne l'utilizzo anche da parte di Nicandro (Ther. 732, Al. 196, 459). Per l'impiego traslato dell'affine ἐξερεύγομαι,

cf. LXX Ps. 44, 2, 1 ἐξηρεύξατο À καρδία μου λόγον ἀγαθόν, ep. adesp. App. Plan. 328, 2 ἐξερεύγεται λόγους I, Greg. Naz. Carm. II 1, 11, 1548 (PG 37 p. 1136) ἐξερεύγεται Aöyoc | (diatesi passiva); per l'uso metaforico del corrispondente verbo latino evomo, cf. Enn. Ann. 275 Skutsch (con il comm.). Un significato simile sembra avere la forma ἤρυγε presso (Call.) fr. inc. auct. 785 Pf. (vd. il comm. di Pf.); cf. anche Theocr. XII 58, Nonn. Dion. XVI 27, XVII 318, XX

136. Vd. il comm. di De Stefani a Nonn. Met.I 194 ἀνήρυγεν.

ictopinv: In poesia il vocabolo ricorre a partire da Euripide (TrGF 910, 1). 8 à πολυιδρείη χαλεπὸν κακόν: Dopo avere biasimato il proprio animo perché era sul punto di svelare 1 segreti degli dèi (vv. 4-7), C. osserva che conoscere molte cose è un grave male, se non si è capaci di tenere a bada la lingua. La constatazione, espressa dal poeta erudito par excellence, ha un sapore fortemente ironico. Vd. anche 1] comm. al v. 4 8.

D'Alessio (p. 480) richiama Heraclit. 22 B 40 D.-K.6 πολυμαθίη νόον ἔχειν où διδάσκει. Per il concetto, cf. Maneth. II 197-200 μακάρων τε löpyıa γιγνώσκοντας, dc’ ἐν

COMMENTO:

AET. II FR. 174

351

βίβλοις ἐχαράχθη | κρυπταῖς, ἃς où πᾶει βροτοῖς θέμις ἐν ppeciv ἴδμεν - | ταύτης δ᾽ οὐκ ὄναιντο δαημοεύνης (per ὄναιντο, cf. ὥναρ nel nostro v. 6). πολυιδρείη: All'interno dei poemi omerici il vocabolo è impiegato nel numero plu-

rale e si riscontra solo in Od. II 346 νόου noAwıöpeinci | e in Od. XXIII 77 πολυιδρείῃοι (v.1. nokvkepôeinci) νόοιο |; cf. anche [Theogn.] 703 roAvıöpincıw. L'uso del singolare risale forse a Hes. fr. 193, 5 M.-W. πολ[υ]ιδρίη[ς τε | (suppl. West). 8 5. ὅετις

ἀκαρτεῖ

| yYA@bcenc:

C. sembra essersi ispirato a Aesch.

Prom.

885 |

vAöcenc ἀκρατής, ma cf. inoltre [Theogn.] 479 5. οὐκέτι κεῖνος | τῆς αὐτοῦ yAdcenc (v.l. yv@une) καρτερός e Soph. El. 1175 κρατεῖν ... οὐκέτι yAwcenc @.l. yvaunc) εθένω Ι. Il concetto sı trova formulato con parole simili anche presso [Men.] Sent. 136 Pernigotti = Chares I 22 Young yAbcenc μάλιετα πανταχοῦ πειρῶ κρατεῖν e forse [Orph.] fr. 378, 40

5. II 1 p. 309 Bernabé yA@cencI

εὖ μάλ᾽ ἐπικρατέων (dove γλώεεης è una congettura).

La necessità di dominare la lingua viene già asserita da Esiodo (Op. 719 s.): yAwcenc tor

Oncavpöc ἐν ἀνθρώποιειν Apıcroc | φειδωλῆς, πλείετη δὲ χάρις κατὰ μέτρον iodene (vd. Reinsch-Werner p. 370). Cf. inoltre [Theogn.] 421 5. πολλοῖς ἀνθρώπων γλώεεῃ θύραι οὐκ ἐπίκεινται | ἁρμόδιαι, fr. adesp. PMG 1020 πᾶν ὅττι κεν ἐπ᾿ ἀκαιρίμαν |yAbccav ἴῃ κελαδεῖν, [Men.] Sent. 318 Pernigotti i) γλῶεςά cov χαλινὸν ἐχέτω ἢ εὐκόπως λάλει, Dicta Catonis 13, 1 virtutem primam esse puto, compescere linguam, Greg. Naz. Carm.

(PG 37) II 1, 2, 21 5. (p. 1019) ei δ᾽ ἀχάλινος | YA@cca θέοι, II 1, 83, 1 (p. 1428) Ι ei μὴ γλῶεοαν Éônca richiamato nel centrale di vari 132, 2 e 7 s. =

λάλον e l'intero carme II 1, 34 di Gregorio Nazianzeno (PG 37 p. 1307), comm. al v. 7. Gli effetti rovinosi di una yA@cca senza freno sono il tema epigrammi dedicati a Tantalo e a sua figlia Niobe: cf. Theodorid. App. Plan. HE 3581 e 3586 s., Antip. Thess. App. Plan. 131, 9 = GP 555, Gall. App.

Plan.89, 6 = FGE 232. Νά. anche il comm.

al v. 4 5.

Che la lingua possa costituire un pericolo, viene forse detto da C. anche altrove: cf.

(Call.) fr. inc. auct. 754 Pf. ὅτε yAocen πλεῖετος ὄλιεθος ἔνι . 9 ὡς ἐτεὸν παῖς ὅδε uadAıv ἔχει: Intensificando l'ironia del verso precedente, C. mette in campo un'espressione proverbiale: l'erudito incapace di frenare la lingua può farsi del male proprio come un bambino che ha in mano un coltello (si osservi che i Telchini accusano C. di assomigliare a un παῖς per le sue scelte poetiche: cf. fr. 1, 6). Il proverbio cui

C. fa riferimento ci è noto nella forma μὴ παιδὶ μάχαιραν (non dare un coltello a un bambino): cf. Paroem. Gr. rec. Bodl. 648, p. 77 Gaisford = [Diogenian.] Cent. VI 46, Ip. 276. 7

Leutsch-Schneidewin un παιδὶ μάχαιραν " μὴ τοῖς ἀπείροις ἐγχειρεῖν μεγάλα πράγματα. un πως καθ᾽ αὑτῶν χρήεωνται (vd. anche l'annotazione allo pseudo-Diogeniano). Per il frequente impiego di proverbi da parte di C., vd. il comm. al fr. 53, 1a-1 e Pf. II, Index rerum notabilium s.v. proverbia (p. 138).

ὡς ἐτεόν: Per l'espressione, cf. Call. Branch.fr. 229, 6 Pf. ἐτ[εὸ]ν γάρ ἐςτιν I, Del. 83 | À ῥ᾽ ἐτεόν e vd. il comm. al fr. 89, 15. παῖς ὅδε: La sequenza si ritrova in Hec. fr.345 Pf. = 13 H., dove però la sintassi è diversa (vd. R. Kassel, «RhM»

NF

116, 1973, p. 111 = Kleine Schriften, Berlin - New York

1991, p. 389). μαῦλιν: Il vocabolo ricorre qui per la prima volta: cf. poi Nic. Ther. 706, Besant. Anth. Pal. XV 25, 4. Per il significato, cf. Hesych. σιν. μαῦλις (Lovpie cod.) μάχαιρα; secondo Eustazio (p. 691. 55), il termine è eolico e designa specificamente un coltello letale:

μαῦλις Αἰολικῶς 1 ἀφανιοτικὴ Herodian.

II. καθολ.

πρ.,

Gramm.

μάχαιρα; quanto all'accentazione properispomena, cf. Gr. III

1, p. 90.

8 Lentz.

È anche

attestata la forma

352

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

μαυλία (prima declinazione): cf. Schol. Thuc. I 6, Suid. s.v. μαυλίας.

B) 10-19: Le malattie di Cidippe C. riprende il filo del racconto. Per ben tre volte le nozze fra Cidippe e il giovane prescelto dai suoli genitori vengono impedite dal fatto che la fanciulla, nell'imminenza del matrimonio, cade vittima di tremende malattie: come Apollo spiegherà al padre della ragazza nei vv. 22-27, queste infermità sono causate da Artemide, in nome della quale Cidippe ha involontariamente giurato di sposare Aconzio. L'indomani mattina - narra C. - 1 buoi sono destinati a cadere come vittime sacrificali in occasione delle nozze, ma la sera precedente Cidippe è aggredita dall'epilessia, che quasi la uccide. Quando si allestisce di nuovo il matrimonio, la febbre quartana invade la ragazza per sette mesi. Allorché si programma ancora lo sposalizio, un brivido mortale si insedia nella fanciulla. La sintassi della sezione segue da vicino la struttura metrica: la cosa risulta tanto più evidente, in quanto C. colloca termini correlati all'inizio degli esametri e ripetizioni anaforiche dopo la dieresi bucolica, mettendo così in maggior risalto l'autonomia sintattica dei distici e (in un caso) del doppio distico. L'aggettivo temporale ἠῷοι, riferito ai buoi e posto al principio del distico 10 s., corrisponde a δειελινήν, spettante a Cidippe e collocato all'inizio del doppio distico 12-15 (dov'è descritta la prima malattia della ragazza). A sua volta l'avverbio temporale δεύτερον, situato al principio del distico 16 5. (seconda malattia) e ripetuto in anafora nell'esametro, viene ripreso da τὸ τρίτον, posto all'inizio del distico 18 5. (terza malattia)

e anch'esso

reiterato anaforicamente

nell'esametro,

nonché

da τέτρατον,

collocato al principio della sezione successiva (v. 20, dove leggiamo che il padre di Cidippe non indugia /a quarta volta, ma si decide a consultare Apollo). C. acuisce l'effetto prodotto dall'incalzante serie numerica degli avverbi temporali con l'impiego del nesso ἑπτὰ τεταρταίωι nel v. 17. E interessante osservare che Aristeneto, nella sua parafrasi, rimane

piuttosto fedele al testo di C., sebbene non specifichi - come fa il suo modello - l'esatta natura dei tre morbi (vd. l'app. delle fonti al vv. 1-49 e Arnott p. 15). Anche la Cidippe ovidiana, pur dando voce al tema callimacheo delle tre malattie che le hanno via via impedito di sposarsi, sl esprime in maniera generica: ter mihi iam veniens positas Hymenaeus ad aras | fugit et e thalami limine terga dedit (Her. XXI 159 s.). Per possibili echi dei nostri versi in àmbito neotestamentario e bizantino, vd. rispettivamente Lalleman p. 66 e Gentile Messina pp. 408-421. Nel dire che Cidippe subisce terribili mali per tre volte ma la quarta viene messa in salvo dall'iniziativa del padre, C. riprende ed elabora una struttura compositiva tipica dei poemi omerici, secondo la quale tre tentativi sono seguiti da un evento imprevisto o (più di rado) da una riuscita: per i passi, vd. Massimilla, Artemis p. 54 n. 15. L'impianto del nostro

brano (ivi compreso il v. 20 | τέτρατον [ο]ὑκέτ᾽ ἔμεινε πατήρ) ha un preciso parallelo nei vv.

120-122 dell'inno callimacheo ad Artemide,

dove C. - apostrofando la dea - rievoca i

quattro lanci con i quali ella inaugurò il suo arco d'argento: πρῶτον ἐπὶ πτελέην, τὸ δεύτερον ἧκας ἐπὶ δρῦν, | τὸ τρίτον αὖτ᾽ ἐπὶ θῆρα. τὸ τέτρατον οὐκέτ᾽ ἔμεινας, | ἄρδιν εἰς ἀδίκων ἔβαλες πόλιν (le parole ἔμεινας, | ἄρδιν è’ sono mie congetture al posto teni dpòvi, | ἀλλά tuw: vd. Massimilla, Artemis p. 53 s.). In termini più generali,

δὲ δ᾽ di lo

sviluppo narrativo somiglia anche ai vv. 249-255 dell'inno a Delo di C.: κύκνοι ... 1...

ékvkAdcavtro ... | ἑβδομάκις περὶ Δῆλον, ἐπήειοαν δὲ λοχείῃ |... 1... 1... | ὄγδοον οὐκέτ᾽ Gercav, ὁ δ᾽ ἔκθορεν. Per la sola enumerazione,

si può pure richiamare Call. Ap. 72 5.

COMMENTO:

AET. II FR. 174

353

πρώτιεοτον ... | δεύτερον αὖ ... τρίτατον. Inoltre il dipanarsi della vicenda in questa sezione, dove un evento che si verifica per tre volte provoca una consultazione di Apollo, è analogo a quello ravvisabile nel fr. 36: vd. il comm. al v. 5 di quel frammento. Lo stile prescelto da C. per 1 nostri versi conferisce loro un ritmo asciutto e martellante, che esclude ogni connotazione patetica (vd. Harder, Untrodden Paths p. 304). La rapida sequenza di aggettivi e avverbi temporali e la duplice anafora stemperano nel nitore della forma le gravi sofferenze della povera Cidippe.

10 s. ἠῷοι

μὲν

ἔμελλον

ἐν

ὕδατι

θυμὸν

ἀμύξειν

| οἱ

βόες

ὀξεῖαν

δερκόμενοι δορίδα: Adottando un insolito punto di vista, C. si immedesima nei buoi che l'indomani mattina saranno immolati per festeggiare le nozze fra Cidippe e ıl fidanzato assegnatole dai genitori: essi proveranno il terrore della morte, perché - tenuti con la testa china su un recipiente d'acqua - vi vedranno riflesso il coltello che li ucciderà (per l'originale prospettiva prescelta da C., vd. Webster p. 111, Zanker p. 55 s. e soprattutto le osservazioni di D'Alessio a p. 5 s. della sua edizione callimachea). Il tipo di sacrificio viene descritto da Servio (in Verg. Aen. XII 173): obliquum etiam cultrum a fronte usque ad caudam ante immolationem ducere consueverant. Come segnala Housman p. 115 s. = 803, l'immagine callimachea viene imitata da Ovidio in due passi: cf. Fast.I 327 praevisos in aqua timet hostia cultros | e Met. XV 134 5. (in merito all'immolazione di un giovenco) cultros | ... in liquida praevisos ... unda |. Per il tema della pena dei buoi in poesia, vd. il comm. al fr. 23, 3 ἀνιήοουιεα λόφον βοός. C., come qui si immedesima nei buoi, così nella Vittoria di Sosibio

(fr. 384, 5 s. Pf.)

assume il punto di vista di un cavallo che ha trainato il carro vittorioso di quel personaggio,

scrivendo che esso ha ancora nelle orecchie il frastuono dell'asse: 711 χνόον ... | ἄξονος ᾿Αεβύετης ἵππος ἔναυλον ἔχει. 10 ἠῷοι μέν: Sul piano metrico, la violazione della «prima legge di Meyer» è attenuata dal postpositivum: vd. Introd.II.1.A.c1. for: Νά. il comm. al fr. 36, 3. Come qui la parola è correlata all'aggettivo temporale

δειελινήν (v. 12), così in Hec.fr. 291, 3 Pf. = 113,3 H. gli aggettivi &cn&pıov e ἑῷον sono fra loro connessi (trovandosi rispettivamente all'inizio e alla fine del verso) e nell'Ep. XX

1

5. Pf. = HE 1193 5. f@®o1* si collega alla frase temporale ἠελίου dé | δυομένου: in tutti i casi, 51 esprime il contrasto fra il mattino e la sera. Cf. anche l'epigramma di Meleagro riportato nel comm. al v. 1. ἐν ὕδατι: Il complemento spetta al verbo δερκόμενοι (v. 11). Per il nesso, cf. Call.

Del. 111*, 191*. θυμὸν ἀμύξειν: ( imita Hom. 77. I 243 cd δ᾽ ἔνδοθι θυμὸν dudéerc* (all'interno dei poemi omerici il verbo compare poi solo in I. XIX 284*, con il senso concreto di graf-

fiare). Cf. anche Triph. 471 θυμὸν duvccov*, Nonn. Dion. XXXVII 165 θυμὸν dudén*, Met. VI 189 θυμὸν éubccer*, XVI 79 ἀμύξετε θυμόν, Paul. Sil. Ecphr. Soph. 252 θυμὸν Gubönc*. Frasi simili sono impiegate da Bacch. XVII 18 5. καρδίαν τέ où |... ἄμυξεν ἄλγος I, XVII 11 À ti τοι κραδίαν ἀμύεςει;, Aesch. Pers. 115 φρὴν Aubcceran φόβῳ, 161 | καί με καρδίαν ἀμύεςει φροντίς, Theocr. XIII 71 χαλεπὸς γὰρ Éco θεὸς ἧπαρ Kuvccev |, Nonn. Dion. V 334 e XXVII 95 ἵνα φρένα μᾶλλον ἀμύξῃ |. L'impiego dell'espressione nel nostro passo non è casuale: il graffio metaforico, che la paura della morte infliggerà all'animo dei buoi, precederà immediatamente lo squarcio mortale inferto al loro collo dal coltello. 11 Sopida: Il vocabolo designa propriamente il coltello sacrificale e si trova già presso

354

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Anaxipp. PCG 6,3. 12 δειελινήν: L'aggettivo ricorre a partire dalla poesia ellenistica: cf. Theocr. XIII 33, Ap. Rh. I 452, Ioann. Gaz. I 351, Paul. Sil. Anth. Pal. V 275, 1 = 62, 1 Viansino (sempre *).

Lo pseudo-Teocrito (XXI 39) impiega anche - con valore avverbiale - la forma prosastica |

δειλινόν, per la quale cf. già PCG adesp. 869 δειλινός. τήν: Il pronome si riferisce ovviamente a Cidippe. δ᾽: Per il δέ in terza posizione (che qui si riscontra anche nei vv. 36, 62 e 74), vd. il

comm. al fr. 1, 12 ἡ μεγάλη δ᾽. εἷλε κακὸς χλόος: Il brutto pallore che coglie Cidippe è la tipica avvisaglia di un attacco epilettico: infatti il primo malanno che si abbatte su di lei è proprio l'epilessia (cf. v.

14). Una frase simile viene impiegata da Ap. Rh. II 1216 noA&eccı δ᾽ ἐπὶ χλόος εἷλε παρειάς |, che va anche messo in rapporto con lo stesso Call. Del. 80 ὑπόχλοον Ecxe παρειῆν | (si noti però che in questi due passi il pallore non è dovuto a un malanno fisico, bensì alla paura). Un antecedente dell'immagine può essere la celebre espressione di Saffo

χλωροτιέρα δὲ πιοίας | Eur (fr.31, 14 5. Voigt). εἷλε: Per l'uso del verbo αἱρέω a proposito di una malattia, cf. p.es. Plat. Theae. 142 B. κακὸς xA0doc: La frase callimachea sembra avere influito su Nic. Al. 541 κακὸς

τρόμος". Per quest'uso di κακός, cf. già Hom. 1.1 10 | voöcov ... κακήν, Hes. Theog. 527 κακὴν … vodcov. In poesia il vocabolo χλόος ricorre a partire dall'ellenismo: cf. Ap. Rh. II

1216* (riportato sopra), III XI 245, XXI 342*, XXXIII ἦλθε δὲ vodcoc: Per XXV 121 ἐπήλυθε vodcoc,

298, IV 1279*, Nic. Al. 474*, 570*, 579, Nonn. Dion. VIII 200, 23 (coni.). l'espressione, cf. Hom. Od. XI 200 vodcoc ἐπήλυθεν, [Theocr.] Carm. Anacreont. VINI 14 West vodcoc ἤν τις ἔλθῃ IL Cf. anche

l'epigramma di Antipatro di Sidone riportato nel comm. al v. 1.

13 αἶγας ἐς ἀγριάδας τὴν ἀποπεμπόμεθα: Il τήν funge da relativo e si riferisce al precedente vodcoc (v. 12). Per la prolessi di αἶγας ἐς ἀγριάδας rispetto a τήν, vd. il comm. al fr. 8. Cidippe viene aggredita dall'epilessia, che siamo abituati a ricacciare apotropaicamente sulle capre selvatiche. Le spiegazioni offerte da Esichio e Suida σιν. kat’ αἶγας ἀγρίας mostrano che quest'espressione aveva valore proverbiale ed Esichio specifica appunto che essa si applicava soprattutto all'epilessia: παροιμία λεγομένη εἰς ἀγρίας αἶγας

τρέπειν (τὴν vöcov) (add. Musurus), udAicta δὲ τὴν ἱεράν (Hesych.); παροιμία λεγομένη ἐπὶ κατάρας: κατ᾽ αἶγας ἀγρίας τρέπειν τὰ κακά (Suid.). Lo pseudo-Diogeniano (Cent. V 49) sostiene che kat’ αἶγας ἀγρίας equivale al proverbio ἐς κόρακας. Cf. inoltre Philod.

Ad contubernales I 3 (= PHerc. 1005, col. VII 8-10), p. 175 Angeli tpérouev [πρὸ]ς τὰς λεγομένας αἶγας ἀγρίας τὸ κακόν (con il comm. di Angeli), Aelian. Ep. rust. 17 ἐς ἀγρίας αἶγας τραπείη ταῦτα, Philostr. Heroic. 10, II p. 179. 6 Kayser εὐχώμεθα ... τὴν vécov … ἐς αἶγας, goci, τρέψαι, Athen. III 83 A ὥεπερ εἰς αἶγας ἡμᾶς ἀγρίας ἀποπέμπων τοὺς ζητοῦντας (dove ἀποπέμπων richiama il nostro ἀποπεμπόμεθα) e vd. Lelli, Volpe p. 146. Che gli antichi ravvisassero un legame fra l'epilessia e le capre, ci è testimoniato anche da Ippocrate nella sua opera Sul morbo sacro: il medico, infatti, stigmatizza l'erronea credenza che le persone affette da questa malattia non debbano mangiare carne di capra e avere giacigli o indumenti di pelle caprina (I 14-22, p. 62 Grensemann) e osserva che le capre sono particolarmente esposte alle crisi epilettiche (XI 3, p. 78 Grensemann).

αἶγας

... ἀγριάδαε: I nessi omerici corrispondenti sono αἷξ ἄγριος (Il. III 24 al)

oppure &ypin (Od. IX 118 5.) oppure &yporépn (Od. XVII 295). Esiste anche il vocabolo αἴγαγρος: cf. Babr. CII 8, [Opp.] Cyr. Π 338, 341. In àmbito latino, cf. Verg. Aen. IV 152

COMMENTO:

AET. II FR. 174

355

ferae ... caprae |. Per l'aggettivo ellenistico ἀγριάς, vd. il comm. al fr. 110, 10. Cf. inoltre

Call. Dian. 12 ἄγρια θηρία. ἀποπεμπόμεθα:

Per l'uso apotropaico

del verbo

cf. Eur.

Hec.

72 ἀποπέμπομαι

ἔννυχον ὄψιν, Ap. Rh. IV 685 νυχίων ἀπὸ δείματα πέμψεν ὀνείρων | (con il comm. di Livrea), Quint. Smyrn. VII 288 κακὴν δ᾽ ἀποπέμπεο φήμην | e il passo di Ateneo riportato sopra.

14 ψευδόμενοι δ᾽ ἱερὴν φημίζομεν: L'oggetto di φημίζομεν è ancora il pronome relativo τήν del v. 13: erroneamente siamo soliti chiamare sacro il morbo che si impossessa di Cidippe, cioè l'epilessia (lo scollo ad Apollonio Rodio, dove sono tramandate queste parole, è di certo fuori strada nel dire che qui si allude alla peste: vd. app. delle fonti e più avanti il comm. a ἱερήν). La precisazione di C. fa capo agli studi di Ippocrate, il quale nell'opera Sul morbo sacro aveva dimostrato che l'epilessia non è affatto più sacra di altre malatte. Lo scrupolo scientifico del poeta ellenistico smentisce, con effetto ironico, la vicenda

mitica da lui stesso narrata: l'epilessia di Cidippe è quanto mai sacra, perché proviene da Artemide (vd. Nikitinski p. 135, Fantuzzi-Hunter p. 84=63). ψευδόμενοι: Un impiego analogo di questo participio va probabilmente riconosciuto presso (Call.)fr. inc. auct. 282 -au*. Νά. il comm. ad loc. tepñv: È la designazione comune del morbo sacro, ovvero dell'epilessia: cf. p.es. Herodot. III 33, Hippocr. Morb. sacr. (titolo e passim), Theophr. Hist. plant. IX 11,3 e - in poesia - Posidipp. Ep. 97, 3 Austin-Bastianini, [Orph.] Lith. 479, Carm. de viribus herbarum GDRK LXIV

175, Maneth. II 499, VI 555, 609. A quanto risulta, anche Nicandro par-

lava dell'epilessia (fr. 11 Schneider). φημίζομεν: Il verbo - che compare anche nel v. 58 del nostro frammento - è un hapax esiodeo (Op. 764). La costruzione impiegata da C. in entrambi i passi (φημίζω τίνα ti) si riscontra pol presso Euph. CA fr. 57, 2 p. 41 (diatesi media), Dion. Per. 32 5. al., Orac. Sib. ΠῚ 406 al., Opp. Hal. I 157 5. al., [Opp.] Cyn. II 292, Nonn. Dion. IX 23 al., Met. XIV 15 al. &vıypn: L'aggettivo corrisponde ad ἀνιαρός e ricorre solo a partire da C. (cf. anche fr. 187, 12*). Per il suo uso a proposito di una malattia, cf. Philo Thars. SH 690, 5 ὀρθόπνοιαν

ἀνιγρήν | (coni.), Carm. de viribus herbarum GDRK LXIV 94 βῆχά τ᾽ ἀνιγρήν | e Greg. Naz. Carm.II 1, 22, 17 (PG 701, Al. 36, 627, Maxim. De 406, GVI 1678, 1, [Apolinar.] Greg. Naz. Carm. (PG 37) I

37 p. 1282) vodcoc action. ausp. 592, Met. Ps. XXX 17, 2, 1, 634 (p. 570),

ἀνιγρή 1. Cf. più in generale Nic. Ther. 8, Opp. Hal. I 141, III 188, [Opp.] Cyn. IV LIV 6, CVII 3, CXXII 7, Maneth. III 135, II 1, 16, 51 (p. 1258), Eudoc. Cypr. Π 28,

125, Iulian. cons. Aeg. Anth. Pal. VII 561, 3 (sempre *).

15 τὴν κούρην

᾿Αίδεω μέχρις ἔτηξε δόμων : La consunzione provocata dall'epi -

lessia porta Cidippe quasi alla morte. L'immagine è riecheggiata da Ovidio nella ventunesima Eroide (v. 47 s.), dove Cidippe scrive ad Aconzio: ei mihi! coniugii tempus crudelis ad ipsum | Persephone nostras pulsat acerba fores (qui, però, si parla di una malattia generica).

᾿Αίδεω μέχρις

... δόμων: Cf. soprattutto SGO I 04/14/01 v. 18 μέχρις Aideo | e

Pap. mag. Graec.T 1 v. 345 Preisendanz μέχρις ”Aiöoc eico |, ma anche Bianor. Anth. Pal. VII 644, 6 = GP 1666 e Antiphil. Anth. Pal. VII 635, 6 = GP 958 ἄχρι καὶ ᾿Αίδεω | (nel secondo passo la frase risulta da una congettura di Jacobs, mentre il codice palatino ha ἄχρις

᾿Αίδεω e quello planudeo ἄχρι καὶ εἰς ’Atönv), SGOI 01/19/43 v. 2 ἄχρι καὶ εἰς "Aidav |, Hymn. in Isin Andr. 42 5. ἄχρις ἐπ᾿ ebvüc | ”Atöoc (IG XII 5, 739; vd. W. Peek, Der Isishymnus von Andros und verwandte Texte, Berlin 1930, p. 16). Per il concetto, cf. [Mosch.]

356

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

IV 86 (Alcmena rievoca il difficile parto di Eracle) καί ue πυλάρταο cyeôdv ἤγαγεν Aiôwvñoc (riguardo al v. 84 del medesimo carme, vd. più avanti il comm. al v. 17 ἑπτὰ ... μῆνας ἔκαμνε). Sull'alternanza tra le forme ’Aiönc e ”Aic nelle opere di C., vd. il comm. di McLennan a /ov. 62. uéy pic: Nei poemi omerici la preposizione uéypt(c) ricorre solo in due passi, con valore una volta - come qui - locale (77. XIII 143 μέχρι θαλάεεης I) e una volta temporale (Il.

XXIV 128 τέο uexpıc). ἔτηξε: Per quest'uso del verbo, cf. Plat. Resp. 609 C εῶμα ... vöcoc (cf. vodcoc nel nostro v. 12) ... τήκει. Ma cf. anche Hom. Od. V 395 5. ἐν vodco κεῖται … | δηρὸν τηκόμενος, XI 200 5. vodcoc ... | τηκεδόνι. Nel v. 92 dell'inno a Demetra C. scrive ἐτάκετο a proposito della consunzione di Erisittone (vd. il comm. di Hopkinson). Cf. inoltre Greg. Naz. Carm.

II 1, 50, 15 s. (PG 37 p. 1386) vodcoclimeedoavi μελέων, Procl. Hymn. VII 44 Ιεαρκοτάκων ἐν vOUCEV |. 16 &ctöpvvvro τὰ κλιεμία: Qui C., come fa piuttosto spesso, sembra accordare un soggetto neutro plurale a un verbo plurale (si stendevano i giacigli): cf. i passi raccolti da

Schneider I p. 238 (nel comm. a Call. Dian. 197 | δίκτυα, τά cp’ ἐεςάωςαν) e da Lapp p. 135. Ma forse la diatesi di &ctöpvvvro è media: in tal caso, il soggetto sarebbe sottinteso

(come nel v. 18 &uvnicavto ... κάτῳ) e τὰ κλιομία fungerebbe da complemento oggetto (stendevano i giacigli, cf. anche il passo di Teocrito riportato più avanti). Comunque sia, la frase indica che per la seconda volta vengono approntate le nozze. Sul piano formale, un nesso simile si trova presso Herodot. VI 139, 3 κλίνην cipwcavtec. Per l'allestimento del letto nuziale, cf. Ap. Rh. IV 1141 &cröpecav λέκτρον uéya con gli antecedenti formali omerici e i passi paralleli raccolti da Livrea nel comm. (cui si possono aggiungere Aristoph. Pax 844, [Orph.] Arg. 1335, Nonn. Dion. II 326, XLII 395, Musae.

279, Paul. Sil. Anth. Pal. VII 604, 1 s. = 6, 1 s. Viansino); non si riferisce in-

vece a uno sposalizio Theocr. XXII 331 εὐνάς τ᾽ &ctöpvvvro. Per il mancato allungamento dell'alpha di tà davanti al gruppo di muta cum liquida, vd. Introd.11.2.B.b. κλιεμία:

Il vocabolo è attestato solo qui e in /G XI 2, 287 B. 20 (Delo, III sec. a.C.).

L'accentazione parossitona di questo diminutivo si riscontra anche nell'analoga forma αὐλίον, impiegata da C. nel fr. 92, 6 (dove l'accento è garantito dal papiro che tramanda il frammento): vd. il comm. ad loc. È dunque improbabile l'accentazione proparossitona suggerita da Brinkmann (vd. app.), il quale per di più porta a sostegno forme aggettivali come

τὰ décua, λόχμια, μύχια ecc. e non sostantivi. 17 ἑπτὰ τεταρταίωι μῆνας ἔκαμνε πυρί: La seconda malattia che piomba su Cidippe e che la tormenta per ben sette mesi è la febbre quartana, così chiamata perché si ripresenta a intervalli di quattro giorni. C. sembra tenere presente Soph. TrGF 507 τριταῖος

&cte πῦρ ... | κρυμὸν (cf. il nostro v. 19) φέρων (vd. l'annotazione di Radt). Il verso di C. è imitato da Pallad. Anth. Pal. IX 503, 2 5. χρονίῳ | ἠπιάλῳ κάμνοντι τεταρταίῳ. Il nostro brano sembra avere influito anche sulla dizione prescelta da Teocrito per il secondo verso del suo trentesimo idillio, dove l'amore per un fanciullo - che lo assale a intermittenza da

due mesi - viene appunto paragonato a una febbre quartana: τετόρταιος ἔχει παῖδος ἔρος

μῆνά ue δεύτερον (vd. il comm. di Gow e R. Hunter, Theocritus and the Archaeology of Greek Poetry, Cambridge 1996, p. 185 s.).

ἑπτὰ ... μῆνας

ἔκαμνε: Cf. [Mosch.] IV 84 δέκα μῆνας ἔκαμνον | (a proposito di

una gravidanza; per il v. 86 del medesimo carme, vd. più sopra il comm. al v. 15 ᾿Αίδεω

COMMENTO:

AET. II FR. 174

357

μέχρις … δόμων). τεταρταίωι ... πυρί: In pocsia l'aggettivo τεταρταῖος con riferimento alla febbre quartana compare solo qui e nel luogo di Pallada riportato sopra (si osservi però che il sostantivo τεταρταίη viene impiegato nel medesimo senso da [Orph.] Lith. 635). Il nostro passo ha invece vari paralleli prosastici: per il nesso τεταρταῖος πυρετός, cf. Hippocr. Aër. 7, Plat. Tim. 86 A; per tetaptatov ῥῖγος, cf. POxy. 1151. 37 (V sec. d.C.); per il semplice τεταρταῖος, cf. Hippocr. Aphor. II 25, POxy. 1088. 38 (I sec. d.C.); la frase πυρετῷ καὶ τεταρταίῳ si legge in 10 III 1424. A Samo Teraptoioc era personificato come dio: vd. G. Dunst, «ZPE» 3 (1968), pp. 149-153. Per la febbre quartana nella poesia latina, cf. Hor. Serm. II 3, 290, Mart. X 77,3, Τὰν. IV 57, IX 17. Νά. Dietzler p. 21.

ἔκαμνε πυρί: Il nesso è impiegato da Nonn. Dion. VI 363, XIII 494, XXXVII

116

(sempre con senso diverso). ἔκαμνε: Per l'uso del verbo a proposito di malattie, cf. Aristot. Hist. an. VII (VII) 21

p. 603 A 30 vochuacı ... κάμνουει, Babr. CII 3 vöco κάμνων |, [Orph.] Lith. 628 voicw κάμνοντα e il luogo di Pallada riportato sopra. πυρί: Il sostantivo significa febbre - oltre che nel brano di Sofocle riportato sopra p.es. presso Aristoph. PCG 346, ep. adesp. Anth. Pal. VI 291, 3 = Antip. Thess. GP 641, Nonn. Met. XI 1.

18 τὸ τρίτον ... τὸ τρίτον αὖτ[ε: Il nesso avverbiale τὸ τρίτον ricorre già nei poemi omerici (1. VI 186*, XXIII 733), come anche la sua estensione τὸ τρίτον αὖτε (Il. III 225, XXIII 842, Od. X 520, XI 28, sempre all'inizio dell'esametro). Nell'opera di C., cf. da

un lato fr. 89, 14, Ep. XLII 3 Pf. = HE 1105* e dall'altro Dian. 121 (riportato nel comm. ai vv. 10-19; fondandosi sul passo dell'inno ad Artemide, Pf. ha integrato qui αὖτίε invece di αὕτ[ις, come suggeriva Hunt: vd. app.).

éuvicavio

γάμου

κάτα:

Stando

al LSJ,

l'unica

altra occorrenza

del

verbo

καταμιμνήοσκομαι si trova nei Settanta (IV Macc. XIII 12); quanto alla tmesi, vd. il comm. al v. 7 e cf. in particolare (per la posposizione del preverbio) 1 passi citati nell'app. al nostro esametro.

Riguardo

all'espressione,

cf. Sol. fr. 27, 9 W.

= 23, 9 Gent.-Pr.

e Maxim.

De

action. ausp. 97 γάμου μεμνημένον (οὐ) εἶναι |, Eur. ph. Aul. 840 γάμων μεμνημένους |, Ap. Rh. IV 1196 ὅτε μνήεαιντο γάμοιο | 19 xpvpòc: La terza malattia che colpisce Cidippe è un brivido di freddo. L. suggerì di leggere xavuòc (bruciore), vocabolo non attestato altrove (cf. l'hapax omerico καῦμα, Il. V 865; la proposta di L. viene dubbiosamente accolta da LSJ s.v.). Ma la lettura kpouéc, oltre a risultare preferibile sul piano paleografico, è raccomandata dal passo sofocleo riportato nel comm. al v. 17 (TrGF 507), cui C. sembra richiamarsi in questi versi. In favore di xpvuòc militano inoltre Ov. Met. XI 416 s. cui protinus intima frigus | ossa receperunt, Cons. ad Liviam 153 frigus ... per ossa cucurrit|. Sofocle, che è il primo poeta a impiegare la parola kpvuòc, designa con essa - come C. un brivido di freddo: questo senso si riscontra anche presso Eur. TrGF 682, 3 (ma vd. l'annotazione di Kannicht), Hippocr. Morb. IV 53 e Ruf. ap. Orib. XLV 30, 21. In Dian. 115 C. utilizza 11 termine nell'altro suo significato (gelo). &coxicaro: L'uso metaforico del verbo si rinviene presso Plat. Resp. 424 D ἣ γοῦν

παρανομία … κατὰ εμικρὸν εἰςοικιςταμένη e Men. PCG 646 τὰ γὰρ καθάρεια λιμὸς εἰοοικίζεται (il secondo luogo è particolarmente simile al nostro passo). Per la posizione metrica di &cokicato, cf. fr. 89, 34* con il comm.

358

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

C) 20-37: Il responso di Apollo Dopo che Cidippe è stata vittima di tre malattie nell'imminenza del matrimonio con il giovane prescelto dai suoi genitori (vv. 12-19), il padre Ceice non indugia una quarta volta, ma va a consultare l'oracolo di Delfi per sapere se i malanni della fanciulla hanno origine divina. Apollo spiega che queste nozze contravvengono a un giuramento pronunciato da Cidippe in nome di Artemide: la dea, infatti, non stava castigando 1] re dei Cimmeri Ligdami a Ffeso né intrecciando giunco nel tempio di Amicle né lavando via la lordura della caccia nel fiume Partenio, ma si trovava proprio a Delo, quando la ragazza ha giurato di sposare Aconzio. Apollo, dunque, consiglia a Ceice di rispettare la promessa fatta da Cidippe, assicurandogli per di più che lo sposo è nobile quanto la sposa: se da una parte costei discende dal re ateniese Codro, dall'altra Aconzio ha nella sua famiglia 1 sacerdoti di Zeus Aristeo Icmio, che a Ceo si incaricano di mitigare l'arsura della Canicola e di invocare il

soffio dei venti etesi. La parafrasi di Aristeneto condensa il testo di C., omettendone i due passi più tipicamente ellenistici, cioè la rassegna dei luoghi dove Artemide non si trovava nel giorno del giuramento e il pedigree di Cidippe e di Aconzio. L'epistolografo tralascia inoltre 11 nome di Ceice, ma fa in compenso menzionare ad Apollo la mela fatale (dettaglio assente nel modello callimacheo). Egli recepisce dal poeta, in forma semplificata, l'equiparazione di Aconzio e Cidippe a metalli preziosi (v. 30 s.: per 1 problemi posti dal confronto testuale fra C. e Aristeneto in questo brano, vd. il comm. ad loc.). Vd. in generale l'app. delle fonti ai vv. 1-49. I nostri versi corrispondono all'Orac. 383 Parke-Wormell. Un altro vaticinio emesso in prima persona da Apollo delfico e incentrato sui voleri di Artemide ha inizio con ogni probabilità nel fr. 36, 6 (vd. il comm. ad loc.). Vd. Hutchinson, Aetia p. 55 s. = 58.

20 τέτρατον [ο]ὑκέτ᾽ ἔμεινε πατήρ: Νά. il comm. ai vv. 10-19. τέτρατον: L'aggettivo τέτρατος (forma poetica di tétaptoc) è già presente nei poemi omerici, dov'è anche usato - come qui - con funzione avverbiale (ma preceduto da τό): cf. Il. XII 20, XXI 177. 20 s. 8....0..0...[1 Φοῖβον: Benché la fine del v. 20 resti incerta, il senso della breve frase è sicuramente che il padre di Cidippe va a Delfi per interrogare Febo: dato il pessimo stato di conservazione delle tracce, non è verificabile la proposta di Hunt éc

Δέλφιον ἄρ[ας | Φοῖβον (la quarta volta non indugiò più il padre, salpando alla volta di Febo Delfio: per l'epiteto Aékotoc, vd. app.). La consultazione di Apollo a Delfi è anche menzionata da Ovidio nella ventunesima Eroide (v. 234), dove Cidippe scrive ad Aconzio: quaeritur a Delphis fata canente deo. L'oracolo di Delfi viene interrogato in vari luoghi degli Aitia: vd. il comm. al fr. 36, 5. 21 ἐννύχιον: A giudicare dalle nostre informazioni sull'oracolo di Delfi, l'aggettivo non indica che Apollo dà il suo responso durante la notte, apparendo in sogno al padre di Cidippe, come ritengono Cataudella, Recensione p. 153 e Hopkinson, Anthology p. 106. Invece, come ha ben visto Puech p. 263 n. 4, la parola segnala che il dio proferisce il suo vaticinio dal buio della cella: vd. F. Courby, Fouilles de Delphes Il (Paris 1927) pp. 47-80 (Le fond de la cella"), con particolare riguardo per le pp. 62 e 64, dove si parla dell'adyton e del-

l'antro profetico. Si può inoltre richiamare Hes. Theog. 990 5. ἐνὶ vnoic | νηοπόλον νύχιον (a proposito di Fetonte, custode nella cella del tempio di Afrodite): qui va certamente respinta la congettura μύχιον di Aristarco (attestata dagli scoli), che è invece accolta da West (vd. il suo comm. ad loc.). Un ulteriore supporto all'esegesi di Puech viene da Ov. Fast. VI

COMMENTO:

AET. II FR. 174

359

425 s. consulitur Smintheus lucoque obscurus opaco | hos non mentito reddidit ore sonos (citato dallo stesso Cataudella, Recensione p. 152). Queste considerazioni rendono superfluo l'intervento di Pohlenz, il quale corregge il nostro ἐννύχιον in ἐμμύχιον. È anche inaccettabile l'ipotesi di Dietzler p. 22 e di K. Ziegler (ap. Dietzler), che danno a ἐννύχιον il significato metaforico di oscuro (cf. (Call.) fr. inc. auct. 765 Pf.): infatti il responso di Apollo è molto chiaro e dettagliato, come conferma

Aristeneto nella sua parafrasi (p. 25. 90 Mazal ὁ δὲ ᾿Απόλλων πάντα εαφῶς τὸν πατέρα 818dcxe1: vd. l'app. delle fonti ai vv. 1-49). Acutissima è poi l'esegesi di Barchiesi p. 236 n. 36, secondo il quale &vvöxıov indicherebbe metaforicamente non il contenuto, bensì lo stile dell'oracolo di Apollo, cui C. conferi-

sce 1 tratti tipici della sua stessa voce poetica (così intende anche Ambiihl p. 145). Si noti tuttavia che una simile interpretazione potrebbe essere confortata dal carattere complesso ed erudito dei vv. 23-25 e 32-37, ma non dal tono semplice e confidenziale dei vv. 26-29.

τοῦτ᾽ ἔπος: C. impiega il nesso anche in Vict. Sosib.fr. 384, 8 Pf.

ηὐδάεατο: In poesia il verbo αὐδάζομαι è attestato a partire dall'ellenismo: cf. Lyc. 360, 892 (riguardo a un oracolo), Euph. SH 427, 3 (riguardo a un oracolo), Nic. Ther. 464, Euthyd. SH 455, 2, Dion. Per. 22, 94, [Orph.] Hymn. XXVII 9 Quandt, Opp. Hal. I 127,

Paul. Sil. Ecphr. Soph. 360. È possibile che in qualche punto dell'Ecale C. impiegasse la forma ηὐδάξαντο (vd. le osservazioni di Hollis a p. 360 della sua edizione dell'epillio, Appendice Vf).

22 βαρὺς proc: Cf. Soph. TrGF 933 | öpxoc ... βαρύς. ἐνικλᾷᾶι: Nelle sue due uniche attestazioni omeriche (Il. VIII 408, 422) il verbo significa - come qui - ostacolare. C. lo impiega anche, con il medesimo valore, in /ov. 90

ἐνέκλαςοας δὲ μενοινήν |. Cf. inoltre Ap. Rh. III 307 e vd. Rengakos p. 40. 23 Λύγδαμιν où γὰρ ἐμὴ τῆμος Éknôe κάεις: Apollo comincia a elencare i luoghi nei quali sua sorella Artemide non si trovava allorché Cidippe ha pronunciato un grave giuramento nel nome della dea (cf. v. 22): Artemide - dirà Febo alla fine della sua rassegna (v. 26) - era proprio a Delo quando la fanciulla ha promesso di sposare Aconzio (e quindi ora la dea pretende che la ragazza tenga fede alla parola data). La serie delle località comincia con Ffeso, dove Artemide annientò Ligdami, re dei Cimmeri (popolo nomade provemente dal Bosforo), che aveva cercato di distruggere il santuario della dea: l'empietà e la punizione di Ligdami sono estesamente rievocate da C. nell'inno ad Artemide (vv. 251-258, vd. il comm. di Bornmann). Il nome di Ligdami compare in uno scolio lacunoso al nostro passo, vergato nel margine superiore del POxy. 4427. L'ira di Artemide è un tema caro a C.: vd. il comm. al fr. 199. γάρ: Anche in altri passi callimachei γάρ occupa - come qui - la terza posizione: cf. frr. 1, 29; 50, 54; 89, 17, Hec. fr.282, 1 Pf. = 109, 1 H., Cer. 71, Ep. XII 2 Pf.= HE 1238 e-a quanto pare - fr. 184, 22 (probabilmente non rientra in questa categoria il γάρ del fr. 166, 3: vd. il comm. ad loc.). Talvolta C. colloca la particella anche al quarto posto: cf. fr. 166, 11, più avanti ıl v. 30, Vier. Sosib.fr. 384, 35 Pf.

ἐμή: L'anomalia metrica del vocabolo di struttura giambica davanti alla dieresi del pentametro è attenuata dal valore prepositivo del nesso où γάρ: vd. Introd. II.1.B.a.iti. τῆμος: L'avverbio si collega alla congiunzione ὁππότε del v. 26. Per questa struttura, cf. anche Lav. 112 s. (con il comm. di Bulloch),

Hec. fr. 238, 19-21 Pf. = 18, 5-7 H.

kacıc: Il sostantivo, che può significare sia fratello sia - come qui - sorella, compare inizialmente nella lirica (Anacr. fr. 11 Gent. = PMG 370, fr. adesp. PMG 1028, fr. adesp.

360

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

SLG 334, 5) ed è pol spesso impiegato in tragedia (Aesch. Sept. 494 al., Soph. Oed. Col. 1440, Eur. Med. 167 al.). Il vocabolo è abbastanza diffuso tra 1 poeti ellenistici e imperiali: cf. Lyc.

19 al., Nic. Ther. 345, Nicodem. Anth. Pal. VI 323, 1 = FGE 2040,

fr. eleg. adesp.

SH 964, 15, GVI 872, 2*, [Orph.] Arg. 1229, SGO I 04/14/01 v. 13, SGO III 16/58/01 v. 2, 16/61/04 v. 5, SGO IV 17/06/02 v. 11, Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 98, 1 al. ep. adesp. Anth. Pal. XIV 38, 1. Νά. Schmitt p. 22. 24 οὐδ᾽ ἐν ᾿Αμυκλαίωι Opbov ἔπλεκεν: Apollo dice che il giorno del giuramento Artemide non stava nemmeno intrecciando giunco nel tempio della città laconica di Amicle. Per il culto di Artemide nel santuario amicleo, vd. C. Tsuntas, « Egnuepìc

ἀρχαιολογική» 5. III (1892), pp. 18 e 23. 19 ᾿Αρτέμιτος [πατριώ]τιδος (iscrizione). Varie effigi di Artemide ornavano il celebre trono di Amicle: cf. Paus. III 18, 8; 9; 15 e 19, 4.

’Auvkkœiot: In poesia la parola ci è nota solo da questo passo. Cf. fr. inc. lib. Aet. 79

(a), 4 Ἰμυκλα. [ con il comm. θρύφν: Il sostantivo è un hapax omerico (Il. XXI 351; cf. Schol. D ad loc. e Hesych. s.v.). Il vocabolo si trova poi presso Theocr. XIII 40, Antip. Sid. Anth. Pal. IX 723,2 = HE

435, Lucian. Anth. Pal. X 122, 5, [Orph.] Arg. 916, Nonn. Dion. XIX 293, XXIII 263 (esiste anche l'aggettivo θρυόεις: cf. Nic. Ther. 200). Sulle monete siracusane Artemide viene rappresentata con una corona di giunco: vd. E. Boehringer, Die Münzen von Syrakus I (Berlin-Leipzig 1929) p. 95. ἔπλεκεν:

All'interno dei poemi

omerici, il verbo ricorre solo due volte (11. XIV

176,

Od. X 168). 24 5.008’ ἀπὸ θήρης | ἔκλυζεν ποταμῶι λύματα Παρθενίωι: L'elenco delle località dove Artemide non si trovava nel giorno del giuramento termina con il fiume Partenio in Paflagonia: la dea - dice Apollo - non era intenta a lavarsi in esso dopo la caccia. Un'immagine analoga viene tratteggiata da Apollonio Rodio (II 936-939): Παρθενίοιο ... |

… ποταμοῦ ... © ἔνι κούρη | Antoic, ἄγρηθεν ὅτ᾽ οὐρανὸν eicavaßatvn, | ὃν δέμας … ἀναψύχει. Lo scolio ai vv. 936-939 a precisa l'ubicazione del fiume e spiega che il suo nome, secondo lo storico Callistene, deriva appunto dal lavacri della vergine Artemide:

ποταμὸς Παφλαγονίας ... Παρθένιον δέ ancıv αὐτὸν ὠνομάεθαι Καλλιεθένης (FGrHist 124 F 40) διὰ τὸ τὴν "Ἄρτεμιν ἐν αὐτῷ λούεεθαι. Apollonio descrive le abluzioni di Artemide nel Partenio anche in ΠῚ 876-878 ἐφ᾽ ὕδαει Παρθενίοιο | … λοεςςαμένη ποταμοῖο | … Antoic (nello scolio al v. 876 leggiamo: Παρθένιος δὲ ποταμὸς Παφλαγονίας). Che il Partenio scorresse in Paflagonia e si chiamasse così per i lavacri di Artemide, è tramandato da altri testimoni (raccolti nell'annotazione di Wendel

a Schol. Ap.

Rh. I 936-939 a): vi si può ora aggiungere uno scolio al nostro passo, vergato nel margine superiore del POxy. 4427 (vd. le integrazioni esemplificative proposte da Richter e Parsons), ma anche Val. Fl. V 103 s. Parthenium, ante alios Triviae qui creditur amnis | fi-

dus. È significativo che entrambe le notizie si rinvengano in un'orazione di Libanio dedicata ad Artemide (V 9, II p. 143. 25 Martin), perché quest'opera esibisce altre consonanze con gli Aitia: vd. il comm. al fr. 182. Fiumi della Paflagonia figurano inoltre presso Call. frr. inc. sed. 501 Pf. e 600 Pf.

25 ἔκλυζεν

... λύματα: C. tratteggia una scena simile in Lav. 10 5. παγαῖς ἔκλυςεν

Ὠκεανῷ | ἱδρῶ καὶ ῥαθάμιγγας (a proposito di Atena che deterge le sue cavalle). Per l'uso del verbo κλύζειν con l'accusativo nel senso di lavare via, cf. già Soph. TrGF 854

κλύζουοει ... χολήν I, Eur. ph. Taur. 1193 θάλακεα κλύζει πάντα τἀνθρώπων κακά. Il verbo si riferisce alle abluzioni di Artemide anche presso Nonn. Dion. XLVII

340 ὅλον

COMMENTO:

AET. II FR. 174

361

δέμας ἔκλυςε κούρῃ |. Più in generale, per il bagno della dea dopo la caccia, cf. Ov. Met. III 163 s., Nonn.

Dion. V 483 s., XLVII

287 s. Per il solo motivo dei lavacrı di Artemide,

cf. Call. Lav. 113 s. χαρίεντα λοετρά | δαίμονος, Nossis Anth. Pal. VI 273,3 = HE 2837. Anche nelle sue due uniche attestazioni omeriche (71. 1314, XIV 171)il vocabolo λύματα designa la sporcizia lavata via, rispettivamente con acqua di mare e con ambrosia. Cf. inoltre Call. Lov. 171 λύματα χυτλώεαιτο (a proposito di Rea che vuole lavare via la sporcizia del parto con acqua fluviale).

ποταμῶι ... Παρθενίωι: Cf. Hom. 11.11 854 Παρθένιον ποταμόν (unica attestazione omerica del toponimo), Hes. Theog. 344, Ap. Rh. II 936 5. Παρθενίοιο ... |... ποταμοῦ, III 876 5. Παρθενίοιο I... ποταμοῖο | (per i due passi apolloniani vd. sopra il comm.), [Orph.] Arg.730 (con il comm. di Vian), Quint. Smyrn. VI 466. Nel fr. inc. sed. 127* C. menziona un altro fiume Partenio, localizzato a Samo.

26 Δήλῳ δ᾽ ἦν &rtönuoc: Finalmente Apollo svela al padre di Cidippe che Artemide stava proprio fra il popolo di Delo quando sua figlia, trovandosi nell'isola con l'ambasceria di Nasso (cf. fr. 170), ha giurato di sposare Aconzio: la dea, cioè, ha udito la promessa e vuole che la fanciulla mantenga la parola. La presenza di Artemide in occasione del fatale giuramento viene più volte ribadita nella ventesima Eroide di Ovidio, dove Aconzio scrive a Cidippe (con riferimento alla dea): adfuit et praesens, ut erat, tua verba notavit (v. 21), | adfuit et vidit ... | et vocem memori condidit aure tuam | (v. 99 s.), sancta praesente Diana | … numine teste (v. 213 s.). Il v. 226 dell'inno callimacheo ad Artemide comincia in modo estremamente simile al nostro esametro: Μιλήτῳ Ertönue* (vd. il comm. di Bornmann). Anche qui, infatti, l'aggettivo si riferisce alla dea e si accompagna al dativo semplice di luogo. Cf. inoltre Ap. 13 |

τοῦ Φοίβου ... étiônuncavtoc | con il comm. di Williams. Nei poemi omerici manca l'aggettivo &rtönuoc ma si riscontra la forma corrispondente

ἐπιδήμιος, che è talvolta impiegata - come qui ἐπίδημος - insieme al verbo εἶναι (cf. Od. I 194, 233). L'uso di ἐπίδημος in poesia risale a Sofocle (Oed. Tyr. 495). La parola è utiliz-

zata in modo analogo al nostro passo da Aristoph. PCG 407 ἀλλ᾽ où τυγχάνει | ἐπίδημος ὦν (a proposito di Posidone). Cf. anche Triph. 448*, Synes. Hymn. VIII 14 Lacombrade e forse Aristoph. PCG 556, 1. Per un aggettivo affine, cf. Call. Vict. Sosib. fr. 384, 49 Pf. ἐπίκωμος con il comm. ὁππότε: La congiunzione si collega all'avverbio τῆμος del v. 23 (vd. il comm. ad loc.). 27 οὐκ ἄλλον: La precisazione non è oziosa, visto che i genitori di Cidippe avevano stabilito di farla sposare con un altro giovane (cf. vv. 1-19). Sul piano espressivo, cf. forse fr.110, 10 5. (vd. il comm. ad loc.). νυμφίον: La parola compare solo due volte nei poemi omerici (Il. XXIII 223, Od. VII 65); C. la utilizza anche nel fr. inc. sed. 556 Pf. Per l'accento, cf. Herodian. II. μον. λέξ.,

Gramm. gr. II 2, p. 925. 31 Lentz, [Arcad.] De accent. (= Exc. ex Herodian. Pros.) p. 41. 23 Barker.

ἑξέμεναι: Questinfinito futuro è un hapax morfologico. 285.0 Κήυξ, ἀλλ᾽ ἤν με θέλῃς couppéôuova θέεθαι, | νῦ]ν ye τελευτήςσεις ὅρκια Yvyarépoc: Apollo esorta Ceice, il padre di Cidippe, a seguire il suo consiglio, che consiste nel portare adesso a effetto il giuramento di sua figlia. L'integrazione e la lettura di Pf. νῦ]ν γε sono piuttosto incerte, date le condizioni del papiro in questo punto: il nesso, tuttavia, esprime bene il suggerimento di realizzare all'istante la promessa della fanciulla, che si ricava anche dalla parafrasi di Aristeneto (p. 25. 93 Mazal θᾶττον: vd. l'app.

362

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

delle fonti ai vv. 1-49). Certamente meno adeguata è l'integrazione πά]ντα di Hunt (vd. in generale l'app.). La struttura del periodo ha qualcosa in comune con Hom. 1. VII 28 5. ἀλλ᾽

εἴ μοί τι πίθοιο, τό κεν πολὺ κέρδιον ein (= Hom. Od. XX 381): | νῦν μὲν rodcouev πόλεμον. 28 & KñvË: Grazie alla presenza di è, l'esortazione di Apollo comincia su un tono confidenziale (vd. Pf., Neue Lesungen p. 67 s.); per l'impiego di ὦ dopo il vocativo, cf. fr. 206 Ἥρως ᾧ κατὰ πρύμναν con il comm. Che il padre di Cidippe si chiamasse Ceice, è un dato assente sia nella parafrasi di Aristeneto sia nelle Eroidi ventesima e ventunesima di Ovidio: 1 due scrittori, del resto, omettono tutti i nomi propri, fatta eccezione per quelli di Aconzio e Cidippe. Vd. Ragone p. 94 n. 112.

ἀλλ᾽ ἤν ne θέλῃς

ευμφράδμονα

θέεθαι: Come ha visto Pf., il passo è imitato

dal poeta imperiale Naumachio nel suo carme sui doveri delle mogli (GDRK XXIX 22): ei

δ᾽ αὐτός (c') (add. Gaisford) ἐθέλει εὐμφράδμονα θέεθαι |. ἀλλ᾽: La parola si trova usata dopo il vocativo già nell'/liade omerica: cf. XV 472 | ὦ πέπον, ἀλλά, XVII 645 | Zed πάτερ, ἀλλά (vd. il comm. di Leaf al secondo brano). 0éAnc: La forma θέλω si riscontra probabilmente nel fr. 50, 72 (vd. l'app. e il comm. al ν. 72 5... εὐμφράδμονα: Nella sua unica attestazione omerica (/1.11 372) il vocabolo significa come qui - consigliere; cf. poi il luogo di Naumachio riportato sopra, [Apolinar.] Met. Ps.I 4* al., Greg. Naz. Carm. II 2, 6, 32 (PG 37 p. 1544)* al., Triph. 112. Invece presso Ap. Rh. CAfr.8, 1 p. 6 e Iulian. cons. Aeg. Anth. Pal. IX 365, 7* ıl senso della parola è concorde.

29 τελευτήςεις ὅρκια θυγατέροε: Per l'espressione, cf. Hom. Il. XIII 375 πάντα τελευτήςεις dc’ dreeerne I. Sul piano formale C. si richiama all'explicit omerico τελεύτηςέν / -Giv τε τὸν ὅρκον | (parte di un verso formulare rappresentato per noi da Hom. 11. XIV 280, Od. II 378, X 346, XII 304, XV 438, XVII 59, [Hom.] Hymn. II 89), ma ne cambia il senso: Infatti, mentre 1 passi omerici significano pronunciò | pronunciarono per intero la formula del giuramento, la frase di C. va resa come porterai a effetto il giuramento. L'equi valente omerico delle parole callimachee è il nesso ὅρκια / ὅρκον τελέειν: cf. Hom. 7. VII

69 ὅρκια μὲν Κρονίδης ὑψίζυγος οὐκ étéAeccev, [Hom.] Hymn. V 26 @uoce dè μέγαν ὅρκον, ὃ δὴ tereAecuévoc ἐςτίν. 305. ἀργύρῳ οὐ μόλιβον γὰρ ᾿Ακόντιον, ἀλλὰ φαεινῶι! ἤλεκτρον χρυςῶι φημί ce μειξέμεναι: Apollo rassicura Ceice sul fatto che, dando Aconzio in sposo a sua figlia, le unirà un marito non indegno di lei, bensì altrettanto nobile:

sarà come mescolare

non piombo ad argento, ma elettro a oro splendente. Nel primo emistichio del v. 30, il testo qui recepito si discosta dal papiro, che tramanda ἄργυρον où μολίβωι. Questa lezione è inaccettabile, perché Apollo - per tranquillizzare Ceice - non può dirgli che unire Aconzio a Cidippe non sarà come mescolare argento a piombo: è inconcepibile, cioè, che il dio paragoni Cidippe al piombo. Questa considerazione aveva già indotto Legrand e poi Mair a congetturare dubbiosamente ἀργύρῳ où μόλιβον, in modo che Cidippe fosse assimilata all'argento e Aconzio al piombo. Nell'emendare così il nostro esametro, Mair si era ispirato alla parafrasi di Aristeneto (p. 25. 94

Mazal): Κυδίππην ᾿Ακοντίῳ cvväartav où μόλιβδον ἂν εὐνεπιμίξαις ἀργύρῳ (si noti che il passo dell'epistolografo è a sua volta incongruo nella sequenza dei due nomi propri, perché anche qui ci imbattiamo nell'impossibile equiparazione di Cidippe al piombo e di Aconzio all'argento, mentre la coerenza richiederebbe ᾿Ακόντιον Κυδίππῃ: forse Aristeneto parafrasò un testo callimacheo già corrotto come il nostro o fraintese di suo; vd. l'app. delle

COMMENTO:

AET. II FR. 174

363

fonti ai vv. 1-49). La congettura di Legrand e Mair sembra in parte confermata da una lettura più attenta del papiro, compiuta da Pf.: è infatti probabile che l'originario μολίβωι sia stato successivamente corretto in μόλιβον. Questo dato paleografico rende l'intervento di Legrand e Mair più plausibile di quello di Maas, che lascia invariato ἄργυρον où μολίβωι, ma corregge ᾿Ακόντιον in ᾿Ακοντίῳ (anche per questa via si otterrebbe il senso desiderato, perché Cidippe sarebbe paragonata all'argento e Aconzio al piombo). Vd. in generale l'app., nonché Massimilla, Papiri pp. 38-40. Il séguito del periodo non pone problemi: unire Aconzio a Cidippe sarà come mescolare elettro (lega di oro e argento) a oro splendente. Qui la parafrasi di Aristeneto semplifica il

testo callimacheo (p. 25. 95 Mazal): ἀλλ᾽ ἑκατέρωθεν è γάμος ἔεται xpvcodc (vd. l'app. delle fonti ai vv. 1-49). L'accostamento di argento, elettro e oro risale all'Odissea omerica (IV 73): | xpvcod τ᾽

ἠλέκτρου te καὶ ἀργύρου. Cf. poi Pytheas

FGE 317 ἀργυρέων χρυςοῦ τε καὶ ἠλέκτροιο

φαεινοῦ, Orac. Sib. XIV 131=211 = Greg. Naz. Carm. I 2, 29, 331 (PG 37 p. 908) ᾿Ιχρυεῷ

τ᾽ ἠλέκτρῳ TE καὶ ἀργύρῳ, Greg. Naz. Carm.12, 10, 471 (PG 37 p. 714) οὐ χρυςός, οὐκ ἤλεκτρον οὐδὲ ἄργυρος. La menzione congiunta di oro e argento è comunissima a partire dal poemi omerici (II. X 438 al). Le parole impiegate da C. a proposito dell'elettro e del l'oro sono simili a quelle utilizzate dallo pseudo-Esiodo per descrivere lo scudo di Eracle

nell'omonimo poemetto: ἠλέκτρῳ θ᾽ ὑπολαμπὲς ἔην χρυςῷ te φαεινῷ | Aaunöuevov (v. 142 s.). Cf. poi GVI 1924, 62 ypvcoîo καὶ ἠλέκτροιο φαεινοῦ |, Orac. Sib. XII 168 | xpvcov τ᾽ ἤλεκτρον, Greg. Naz. Carm. (PG 37) I 2, 1, 4=528 (pp. 522 e 562) | xpvcod τ᾽ ἠλέκτρου φαάντερον, I 2, 2, 129 (p. 589) xpvcoîo καὶ ἠλέκτροιο e - sul versante latino Verg. Aen. VIII 624, Ov. Met. XV 316, Claudian. Panegyr. Probin. et Olybr. cons. 98. In

termini più generali, si può richiamare [Hes.] Scut. 225 5. θύεανοι ... φαεινοί | ypbceıoı, Panyas.fr. 7, 1,1 p. 176 Bernabé = fr. 4, 1 Davies κρητῆρα ... xpvcoto φαεινόν |. Sul piano

formale, cf. Ap. Rh. IV 605 5. φαεινάς | ἠλέκτρου λιβάδας, Dion. Per. 293 xpvcavyéoc ἠλέκτροιο | (in entrambi i passi, però, si parla dell'ambra). Tenuto conto che nel nostro distico compaiono la diseguaglianza di piombo e argento e l'equiparazione di elettro e oro, è probabile che C. si sia ispirato al seguente passo di Simo-

nide (PMG 592): παρὰ ypvcòv ἑφθόν | ἀκήρατον οὐδὲ μόλυβδον ἔχων. Nel tramandare il frammento simonideo, Plutarco (Mor. 65 B = De adul. et amic. 24) ne spiega il significato

con parole che si adattano bene anche ai versi callimachei: τὸν dè κρείττονα τρέμει καὶ δέδοικεν. Allo stesso tempo, C. sembra tenere presente la similitudine (ugualmente incen-

trata sull'oro e sul piombo) esibita da [Theogn.] 417 s. ἐς Bücavov δ᾽ ἐλθὼν παρατρίβομαι ὥςτε μολύβδῳ | ypvcée (cf. 1105 s., 1164gh). Che l'unione nuziale fra un uomo e una donna di alto lignaggio equivalga all'accostamento di due metalli preziosi, verrà pol detto da Dioscoro (GDRK XLII) in tre suol epita-

Heitsch), 22, 9 ὡς χρυοὸς χρυεῆς ἔτυχες, rav[apleiovec ἄμφω, 23, 24 ὡς χρυοὸς χρυεῶν ἔτυχε καὶ ἄργυρος ἄργυρον εὗρεν (sic). Si può anche richiamare un brano di Marziale (IV 13, 3 s.), dove un felice sposalizio è paragonato alla giusta mescolanza (cf. il nostro μειξέμεναι) del cinnamomo con il nardo e del vino massico con il miele attico: tam bene rara suo miscentur cinnama nardo, | Massica Theseis tam bene vina favis.

AI di fuori dell'àmbito nuziale, il reciproco accostamento di due personaggi equiparati a

metalli preziosi si rinviene già presso Ibyc. PMGF S 151, 41-45 τῷ δ᾽ [d]pa Tpotdov I wcei xpocdv ὀρειιχάλκῳ τρὶς ἄπεφθο[ν] ἤδη | ... I... £ickov. Infine la sintassi del nostro distico

364

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(où ... ἀλλά) e la presenza in esso del verbo μειξέμεναι lo rendono simile a un epigramma di Asclepiade (Anth. Pal. XII 163 = HE 916 ss.), che ha però tutt'altro contesto: μῖξαι ...

οὐχὶ μάραγδον Ixpuc® ... 1008’ ἐλέφαντ᾽ ἐβένῳ ... ἀλλὰ Κλέανδρον | Εὐβιότῳ. 30 ἀργύρῳ οὐ μόλιβον: Il vocabolo μόλιβος equivale a μόλυβδος e compare una sola volta nei poemi omerici (Il. XI 237), dove per di più è accostato - come qui - al dativo

ἀργύρῳ (cf. poi Greg. Naz. Carm. Π 2, 4, 178 s. = PG 37 p. 1519 μολίβοιο ... | ἀργυρέοιο). Per l'immagine tratteggiata da C., cf. Lucian. Apol. 11 tocodtov ἐοικότας ἀλλήλοις τοὺς βίους, öcov μόλυβδος ἀργύρῳ. γάρ: La particella si trova al quarto posto: vd. il comm. al v. 23 γάρ. 31 ἤλεκτρον: All'interno dei poemi omerici, la parola significa elettro solo in Od. IV 73 (passo riportato nel comm. al v. 30 s.). Si tratta di una lega costituita da oro e argento:

cf. Eustath. ad Hom. Od. 11., p. 1483. 25 ἤλεκτρος (sic) ... uaAıcra δὲ μίγμα τι χρυοοῦ καὶ ἀργύρου, Plin. Nat. hist. XXXII 80-81 (che fa anche lui riferimento al passo odissiaco), soprattutto 80 ubicumque quinta argenti portio est (scil. in auro), electrum vocatur. Νά. Dietzler p. 24.

32 Koöpetönc

εὖ y’ ἄνωθεν

ὁ nevßepöc: Apollo riconosce l'antica nobiltà di

Ceice, padre di Cidippe e futuro suocero di Aconzio: egli, infatti, discende per origine dal re ateniese Codro. L'appartenenza di Cidippe a quest'illustre casata è già asserita nel fr. 166, 7, dove la fanciulla viene detta IIpoundltc perché Prometo, figlio di Codro, è un suo progenitore (vd. il comm. ad loc). Si osservi che la nobiltà di Codro era tenuta in così alta considerazione da generare il proverbio eùyevéctepoc Κόδρου (cf. i passi raccolti da Prioux p. 91

n. 36). Koöpeiönc ... ἄνωθεν: Per il nesso, cf. Plut. Sol.I 1 Koëpiônc ἀνέκαθεν. Koöpeiönc: Il suffisso -eiönc, utilizzato da C. anche in altre parole di uguale natura (cf. fr. 156, 5 ᾿Αληιτεῖδαι, Vict. Sosib. fr. 384, 40 Pf. Λαγείδη), contravviene a una regola enunciata

da Erodiano,

che

in questi

casi

Choerob. De orthogr., Cramer, AO II p. 230.

prescrive

p.es.

Koöpiönc

e Κρονίδης:

19, Herodian. II. ὀρθογρ.., Gramm.

cf.

ΟΥ.1Π 2,

pp. 536. 18 e 435. 6 Lentz. ἄνωθεν: L'avverbio, che è attestato a partire da Ipponatte (fr. 92, 8 W. = 95, 8 Degani),

si riferisce a una genealogia anche presso Plat. Tim. 18 D τοὺς δ᾽ Eunpocdev καὶ ἄνωθεν γονέας, Dem. XLV 80 πονηρὸς ... ἄνωθεν, Theocr. XV 91 Κορίνθιαι εἰμὲς ἄνωθεν I, XXII 164 καὶ πατέρες καὶ ἄνωθεν ἅπαν πατρώιον αἷμα, IG II? 1072 ἐκ προγόνων ἄνωθεν τετιμημένος. Lo si trova utilizzato in questo senso nella Diegesis Mediolanensis (VIII 37) al nono giambo callimacheo (fr. 199 Pf.): 6 δέ (scil. "Epufic) pnciv ἄνωθεν εἶναι Topcnvéc; può darsi che l'epitomatore traesse la parola dal testo stesso di C. Cf. inoltre Theocr. VII 5 χαῶν τῶν ἐπάνωθεν con il comm. di Gow e forse lo stesso Argum. Hecalae, POxy. 2258 A, fr.11, 2 'verso' (Pf. Ip. 506) = Call. Hec. fr.5,2H. coni comm. 32-37: Apollo spiega al padre di Cidippe che anche Aconzio è nobilissimo. Infatti la famiglia del giovane, il quale proviene da Ceo e sarà presto genero di Ceice, fornisce per tradizione 1 sacerdoti preposti a un peculiare culto di Zeus celebrato sull'isola: nell'àmbito di tale culto, il dio viene detto Aristeo (perché queste cerimonie in suo onore furono fondate da Aristeo, figlio di Apollo e Cirene) e Icmio (cioè Umido, in quanto dispensatore del vento e della pioggia). I sacerdoti in questione, sulla vetta di un monte, hanno l'incarico di ottenere che Mera (cioè la Canicola) temperi la sua calura e di invocare Zeus perché invi 1 rinfrescanti venti etesi, che con il loro soffio spingono le quaglie contro le reti di lino degli uccellatori, sottili come nuvole. Poiché sappiamo che Aconzio discende da Fussanzio (cf. fr.

COMMENTO:

AET. II FR. 174

365

166, 7 con il comm.), è verisimile che proprio gli Fussanziadi fungano da sacerdoti di Zeus Aristeo Icmio. Il nostro passo ha strettissime analogie con un luogo delle Argonautiche di Apollonio Rodio (II 522-527), nel quale si menzionano l'istituzione a Ceo del culto di Zeus Icmeo da parte di Aristeo, i suoi sacrifici montani

a Sirio e Zeus, l'invio dei venti etesi da parte di

Zeus per quaranta giorni e le offerte tuttora compiute da appositi sacerdoti prima che sorga

la Canicola: καὶ βωμὸν roince μέγαν Διὸς Ἰκμαίοιο, | ἱερά τ᾽ εὖ Eppebev ἐν obpecıv &ct£pı κείνῳ | (ειρίῳ αὐτῷ τε Κρονίδῃ Aut. τοῖο δ᾽ ἕκητι | γαῖαν ἐπιψύχουειν ἐτήειοι ἐκ Διὸς αὖραι | ἤματα τεςεαράκοντα, Κέῳ δ᾽ ἔτι νῦν ἱερῆες | ἀντολέων προπάροιθε Κυνὸς ῥέζουει θυηλάς. Come nota Vian nel suo comm., le analogie fra i due brani di Apollonio e C. sono numerose anche sul piano espressivo: Διὸς Ἰκμαίοιο corrisponde al nostro Znvdc

… | Ἰκμίου; ἐν οὔρεειν a ἐπ᾽ οὔρεος ἀμβώνεςειν; ἐκ Διὸς αὖραι a αἰτεῖεθαι τὸ δ᾽ ἄημα παραὶ Διός; ἱερῆες a ἱερέων; ἀντολέων ... Κυνός a Maîpav ἀγερχομένην (più in generale, vd. Eichgrün pp. 119-124, Fraser I p. 639, Köhnken pp. 211-213=113-115). Per l'insediamento di Aristeo a Ceo durante una tremenda siccità e per lo spirare salvifico dei venti etesi, cf. Schol. Ap. Rh. II 498-527 con 1 luoghi paralleli raccolti da Wendel (pp. 167-172). Vd. inoltre Pf., Kallimachosstudien pp. 107-112, Wilamowitz,

Hell. Dicht. I p. 181n.3

e

più avanti il comm. ai vv. 56-58. In tempi recenti è venuto alla luce il frammento di un carme, composto con ogni probabilità da Euforione, nel quale si dice che 1 sacerdoti di Zeus a Ceo controllano la levata della Canicola secondo il rituale fondato da Aristeo (SH 443, 4-9, completato da alcune in-

tegrazioni di L. e di L.J.-P.; il supplemento all'inizio del v. 4 è mio): Ζηνὸς]

‘Apiuctaioto

θεοφροε[ὕνη]ς &Aéyo[vrec, | ὁππότ]ε διψαλέωι Kuvi κάρφεται huepic [ὕ]λη | αἰζη]ῶν καὶ γούνατ᾽ ἀναρδέα εειραίνονται, | αὐτίκ]α φράζονται καματώδεος ἀςτέρα Maipnlc | … δὴ γάρ cle] τὸ [εἴνεται ἠδ᾽ ôvivnauv: | εὖ φραεβ]εὶς ὀνίνη[ειν, ἐείνα]το δ᾽ εὖτε λάθηιει. È molto verisimile che questo passo si ispiri a C., sia perché il poeta sùbito dopo sembra richiamarsi ai nostri vv. 64-69 (vd. il comm. ad loc.) sia perché si riscontrano affinità espressive con il brano callimacheo: Ζηνὸς} ’Apictaioto corrisponde al nostro

᾿Αριςταίου Ζηνός; xopotodeoc ... Μαίρηϊ[ς ἃ χαλ[επὴν Maipov. Nonno si richiama a questi luoghi ellenistici in vari brani delle Dionisiache, dove racconta che Aristeo mitigò la calura della Canicola sacrificando a Zeus Icmeo, sicché il dio

mandò 1 venti etesi, tuttora apportatori di refrigerio nel periodo estivo: cf. V 220 s. (a pro-

posito di Aristeo) Διιπετέων ἀνέμων ζωαρκέειν αὔραις | λοίγιον edvñcavrr πυρώπιδος ἀςτέρα Μαίρης, V 269 5. e 274-278 (Aristeo) πυρὶ ςειριάοντα κατεύναςεν ἀεςτέρα Μαίρης | καὶ Διὸς Ἰκμαίοιο θυώδεα βωμὸν ἀνάψας e | Ζεὺς ... | πέμψεν ἀλεξικάκων ἀνέμων ἀντίπνοον αὔρην, | (είριον αἰθαλόεντος ἀναςτέλλων πυρετοῖο. | εἰςέτι νῦν κήρυκες ᾿Αριςταίοιο θυηλῆς | γαῖαν ἀναψύχουειν ἐτήειοι ἐκ Διὸς αὖραι, XII 286 5. ἐτηειὰς ἔρχεται αὔρη | δίψιον εὐνάζουεα πυρώδεος ἀςτέρα Μαίρης, XII 279-285 (Aristeo) ἀτμὸν ἔπαυςε πυρώδεα διψάδος ὥρης | Ζηνὸς ἀλεξικάκοιο φέρων φυείζοον αὔρην |... δεδοκημένος ἀετέρος αἴγλην | Ceipwv αἰθαλόεντος ἀναςτέλλων πυρετοῖο | ἐννύχιον πρήνε, τὸν εἰςέτι ... 1... | ἄεθμαει λεπταλέοιει καταψύχουοειν ἀῆται. L'influsso specificamente callimacheo su Nonno è segnalato dal ripetuto impiego del nome Mera e dall'utilizzo del verbo πρηὔνειν nell'ultimo passo (cf. il nostro πρηὔνειν ... Maîpav). Ma sono anche notevoli la comparsa del nesso Διὸς Ἰκμαίοιο nel secondo brano (cf. il nostro Ζηνὸς ... | 'Ixuiov) e la ribadita precisazione che i venti etesi furono inviati da Zeus (cf. il

nostro aiteîcda1 τὸ δ᾽ ἄημα παραὶ Ac).

366

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Per 1 resti del tempio di Zeus a Ceo, vd. P. Graindor, «MB» 25 (1921), p. 99. Sulle monete di Ceo sono effigiati Zeus, Aristeo e la stella Sirio: cf. IG XII 5, Test. p. XXIX nr.

1477 = LIMC Astra 94bc. Sui venti etesi in termini più generali, cf. Arat. 149-153 (con il comm. di Kidd al v. 152) e (Call.) fr. inc. auct.771 (vd. l'app. delle fonti ad loc.). Nel nostro brano, come

si è visto, le parole di Apollo mirano

a rassicurare Ceice

sul

fatto che Aconzio non è meno nobile di Cidippe. Ovidio, riprendendo il motivo nella ventesima Eroide (vv. 221-226), mette sulla bocca dello stesso Aconzio la rivendicazione della propria pari dignità, allorquando il giovane scrive che, se la madre di Cidippe prenderà informazioni sul suo conto, scoprirà che anche 1 suoi antenati sono illustri: sed tamen et quaerat quis sim qualisque. videto: | inveniet vobis consuluisse deam (cioè Artemide). | insula ... |... Cea ... | ... mihi patria est, nec, si generosa probatis | nomina, despectis arguor ortus avis. Vd. Kenney, Love p. 410 n. 38. Nel Branco di C. (fr. 229, 5-8 Pf.) Apollo, in maniera simile al nostri versi, richiama

alla mente del protagonista i suoi nobili progenitori, dal lato sia paterno sia materno (vd. anche il comm. di Pf. al v. 6).

32 5. è πενθερός

... è Κεῖος

| γαμβρόε: L'accostamento dei vocaboli nevdepöc e

γαμβρός si riscontra già presso Hom. Od. VIII 582 (dove πενθερός è *) e poi forse presso Euph. SH 418, 13 s. (vd. l'app. ad loc.). L'unica altra attestazione omerica della parola πενθερός è in Il. VI 170*. È interessante notare che - secondo Aristofane di Bisanzio (Περὶ ουγγενικῶν ὀνομάτων fr. 264 Slater) - il vocabolo πενθερός indicava in origine soltanto il padre della moglie, al quale appunto ci si riferisce qui. Per l'impiego dell'etnico Κεῖος in poesia, cf. Aristoph. Ran. 970. Cf. anche 1 nostri vv. 53 e 74, nonché forse fr. 102, 4.

33 ’Apictaiov: Quest'epiteto di Zeus, collegato al culto tributatogli dall'eroe Aristeo, viene ripreso in un carme composto probabilmente da Euforione (SH 443, 4 riportato nel comm. al vv. 32-37). All'infanzia di Aristeo potrebbe riferirsi Call. fr. inc. sed. 471 Pf. (vd. il comm. ad loc.). È invece improbabile che l'eroe figurasse nel nostro v. 58 s. (vd. il comm. ad loc).

33 5. Ζηνὸς ... ἱερέων | ’Ixpiov: Per il nesso, cf. Hom. Il. XVI 604 5. Διὸς ipede | Ἰδαίου. Lo iota iniziale di ἱερέων è lungo come quello di iep£n presso Call. Ep. XL 1 Pf. = HE 1255 (vd. app.). Per l'inarcatura fra il v. 33 e il v. 34, vd. Massimilla, Enjambement p. 119. 34 Ἰκμίου: La parola è connessa all'hapax omerico ἱκμάς (umidore, Il. XVII 392). Zeus viene detto Umido perché invia la pioggia e 1 rinfrescanti venti etesi: per usare le parole dello scollo omerico riportato nell'app. delle fonti, Zeus Icmio è il signore dei venti. Oltre che nel nostro esametro, quest'epiteto del dio si riscontra presso Clemente Alessan-

drino (Strom. VI 3, 29, 4, II p. 445. 1 Staehlin-Treu), che scrive Ἰκμίῳ Διί (Ἰεθμίῳ codd.: corr. PÎ.: Ἰκμαίῳ Valckenaer e gli editori), anche lui a proposito del culto istituito da Aristeo a Ceo. Il vocabolo compare poi nelle Dionisiache di Nonno, dove però significa umido con riferimento all'aria (II 490) e alle orme di Posidone (XLII 442*). Cf. inoltre Ioann. Gaz.

II 311 ἴκμιος "Am. La forma corrispondente Ἰκμαῖος, usata come epiteto di Zeus in relazione alle cerimonie di Ceo fondate da Aristeo, figura nei passi di Apollonio Rodio e di Nonno riportati nel comm. al vv. 32-37. Cf. anche (all'interno del medesimo contesto) [Prob.] in Verg. Georg.I 14 Jovi Icmaeo.

oicı ugu[n]Aev: Cf. fr. 165, 3 τῆιοει μέμηιλε: con il comm.

COMMENTO:

AET. II FR. 174

367

ἐπ᾽ οὔρεος: La sequenza occupa la stessa posizione metrica presso [Apolinar.] Mer. Ps. XIV 2, Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 204, 1, Carm.I 2, 2, 428 (PG 37 Ὁ. 612), dove però le due parole costituiscono sempre un nesso, a differenza di quanto avviene qui. ἀμβώνεςειν: Nell'àmbito dei poemi omerici, il vocabolo &ußwv compare solo - come varia lectio e con la medesima forma di dativo plurale - in ZZ. VIII 441 | ἅρματα δ᾽ ἂμ Bouoîc τίθει (e poneva il carro sui sostegni). Qui infatti, mentre Aristarco leggeva ἂμ Bouoîci, il commentatore omerico Diogene (vd. L. Cohn s.v. Diogenes 52, ΚΕΝ

1, 1903,

p. 777) preferiva @uPoveca (sui gradini): cf. Schol. (T) ad loc. ’Apictapyoc Ay) (add. Pf.) Bouoicı’, Διογένης ᾿ἀμβώνες(οι᾽, τοῖς ἀναβαθμοῖς (gli Schol. AÎMAIN sono simili). Vd. Rengakos, Homertext p. 144. La parola ἄμβων è sicuramente attestata nel dramma, dove significa orlo di scodella (Eupol. PCG 60, 2, Ephipp. PCG 5, 16) oppure - come qui - cima di monte (Aesch. TrGF

103; 231): vd. anche l'app. delle fonti. Schneider propose di scrivere ἐπ᾽ ἀμβώνεςει (sulle rive) nel fr. 74, 40 di Nicandro: la congettura è stata respinta da Gow-Scholfield. L'esametro è spondaico: vd. Introd. IL. 1.A.a.

35 πρηὕνειν

χαλ[ε]πὴν

Maîpav

&vepyopévnv: Che gli abitanti di Ceo osser-

vassero attentamente il sorgere della Canicola e arguissero dal suo aspetto se nell'anno seguente l'aria sarebbe stata salubre o nociva, veniva detto da Eraclide Pontico (VII fr. 141 Wehrli ap. Cic. De div.I 130). πρηΐνειν: Il verbo, assente nei poemi omerici, si riscontra presso [Hom.] Hymn. IV 417. Esiodo lo impiega in Theog. 254 e Op. 797. Nel primo passo esiodeo (vv. 252-254) l'atto del mitigare 51 esercita - come qui - su fenomeni meteorologici e forze della natura: |

Κυμοδόκη θ᾽, ἣ wbuar’ ... 1 πνοιάς te ζαέων ἀνέμων … | ῥεῖα πρηΐνει. Il medesimo impiego del verbo si rinviene in Orac. Sib. VII 432 e presso Nonn. Dion. XIII 283 (che si ispira al nostro passo: vd. il comm.

al vv. 32-37), 534, XXIII 233, XXIV

3, XXXVII

593.

Poiché il verbo può significare ammansire e riferirsi ad animali, il suo uso nel nostro pentametro allude anche al fatto che Mera era in origine un cane (vd. più avanti il comm. e cf. Xen. Μεμι. 13,9 κύνα ... πραὔνειν). χαλ[ε]πήν: L'aggettivo si trova impiegato in senso meteorologico già nei poemi ome-

rici: cf. Il. XIV 417 χαλεπὸς ... κεραυνός I, XXI 335 χαλεπὴν ... θύελλαν I, Od. XII 286 ἄνεμοι χαλεποί. Cf. poi Alc. fr. 347, 2 Voigt ὥρα χαλέπα (quella nella quale infuria la Canicola,

cf. qu

Maipav),fr. adesp. PMG

917 (c), 10, Arat. 314, 879, Theocr.

XXII

9,

Greg. Naz. Carm. (PG 37)I 1,36, 18 (p. 519), II 1, 15, 2 (p. 1250)”. Maîpav &vepyopévnv: Della frase callimachea sembra memore Tibullo, quando scrive Canis aestivos ortus (I 1, 27). Μαῖραν: Mera era il cane di Icario ed Frigone, trasformato in astro dopo la morte: vd.

il comm. al fr. 89, 3 5. e cf. Hesych. σιν. Mapa: κύων τὸ detpov. Cf. Arat. 326-337 con il comm. di Kidd (anche specificamente al v. 332). Il nome proprio Maipe in riferimento alla Canicola è attestato qui per la prima volta (nell'Iliade omerica, XVIII 48, si chiama così una delle Nereidi): cf. poi, oltre ai passi di Euforione e Nonno riportati nel comm. al vv. 32-37, Eratosth. CA fr. 16, 7 p. 62, Crinag. Anth. Pal.TX 555,

5 = GP 1951, Nonn. Dion. XVI 200,

XLII 169, 188. Licofrone (v. 334) impiega il vocabolo μαῖρα come nome comune (cagna). ἀνερχομένην: Per quest'uso del verbo, cf. Aesch. Ag. 658 (la luce del sole), TrGF adesp. 664, 27 (Lucifero), Arat. 178 al. Per la collocazione metrica del participio, cf. fr. 26,

4",

36 αἰτεῖεθαι τὸ δ᾽ ἄημα παραὶ Διόε: Utilizzando la frase αἰτεῖςθαι τὸ δ᾽ ἄημα,

368

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

C. allude al fatto che i venti etesi hanno questo nome appunto perché i sacerdoti di Ceo li invocano da Zeus: cf. Hygin. Astr. II 4, 6 nonnulli etiam aetesias appellaverunt, quod expostulatae sunt ab Iove et ita concessae (vd. E. Maass, Analecta Eratosthenica, Berlin 1883,

pp. 68 e 121). Già secondo il poeta comico Anfide, nel periodo della Canicola gli uomini invocarono e ottennero dagli dei le brezze rinfrescanti (PCG 47 = E. Maass, Commentariorum in Aratum reliquiae, Berolini 1898, pp. 251. 19 e 579). Vd. Pf., Kallimachosstudien

pp. 110-112. Riguardo più specificamente al nesso paretimologico fra gimciare aiteicdon, vd. K. Strunk, «Glotta» 38 (1959-1960), pp. 85-87, O' Hara p. 32.

Per l'espressione, cf. Theocr. XXVIII 5 vide γὰρ πλόον εὐάνεμον αἰτήμεθα πὰρ Atoc, ma anche fr. mim. adesp. 6, 45 Cunningham παρὰ θεῶν atteicdan |. δ᾽: Riguardo all'uso della congiunzione al terzo posto, vd. il comm. al v. 12 δ᾽. ἄημα: Il vocabolo è di uso tragico: cf. Aesch. Ag. 1418, Eum. 905, Soph. Ai. 674. C. lo utilizza anche in Dian. 55. παραὶ

Arc:

Cf. Hom.

Il. XV

175*, Ap. Rh. II 38*, SGO

I 01/12/02 v. 13*, nonché

Call. fr. 201 παραὶ Διί. θαμεινοί: Questa forma dell'aggettivo, sembra essere un hapax: il corrispondente [Hom.] Hymn. IV 44 Radermacher corresse (θαμειαί Barnes). C. fa anche uso della Wackernagel, «GGN» (1914), p. 119 n. 2 =

registrata da Cherobosco (vd. app. delle fonti), omerico è θαμειός (Il. I 52* al), ma presso in θαμειναί il θαμιναί tramandato dai codici forma θαμιναί con iota breve (Cer. 64). 1. Kleine Schriften Il (Göttingen 1953) p. 1176 n.

2 osserva che θαμύς ha dato luogo a θαμεινός come αἰπὺς ad αἰπεινός, ma vd. il comm. di Hopkinson al passo citato dell'inno callimacheo a Demetra.

37 nAnccovraı

λινέαις ὄρτυγες

ἐν νεφέλαις: Sospinte dal soffio del vento, le

quaglie urtano nelle reti di lino degli uccellatori, sottili come nuvole. C. identifica 1 venti etesi, apportatori di refrigerio nella calura estiva (cf. v. 35), con 1 venti settentrionali che spirano in primavera, quando gli uccelli migrano (vd. Puech p. 264 n. 6, Dietzler p. 25). I venti in questione vengono chiamati venti degli uccelli ovvero appunto deboli etesi: Aristo-

tele (Meteor. II 5 p. 362 A 23) scrive οἱ ὀρνιθίαι ... ἐτηείαι eiciv &cheveic e osserva che essi soffiano dopo il 21 Marzo (si noti che Lee, nella sua edizione dell'opera aristotelica, considera meridionali questi venti, ma ammette che, presso [Aristot.] De mund.395 A 4,

essi sono qualificati come settentrionali). La collocazione temporale dei venti ὀρνιθίαι risulta anticipata presso altre fonti: Gemino (p. 226. 23 Manitius) li definisce ψυχροί e ne situa la comparsa il 6 Marzo; stando ai Calendari greci, essi soffiano in un periodo che va dal 20 Febbraio al 14 Marzo (vd. C. Wachsmuth, Ioannis Laurentii Lydi Liber de ostentis et Calendaria Graeca omnia, Lipsiae 1897, p. 363).

Che le quaglie migrino lasciandosi sospingere dal vento del Nord, viene detto sia da Aristotele (Hist. an. VII (VIII) 12 p. 597 Β 5) sia da Plinio (Nat. hist. X 66 aquilone ... maxime volant): come spiegano entrambi gli autori, questa tecnica di volo si deve al fatto che le quaglie pesano molto ma hanno poca forza. Per di più Plinio (nel capitolo 65) scrive che le quaglie incappano di frequente nelle vele delle navi (velis saepe incidunt), proprio come C. osserva che esse urtano numerose nelle sottili reti di lino. L'accuratezza delle informazioni offerte da C. sui deboli etesi e sul volo delle quaglie non stupisce, se si pensa che egli compose opere erudite dedicate l'una ai venti (fr. gramm. 404 Pf.) e l'altra agli uccelli (frr. gramm. 414-428 Pf., vd. S. Martinez, «Faventia» 23, 2001, pp. 51-69).

Sul piano espressivo, C. si ispira a Hom. Od. XXII 469 | Éprer ἐνιπλήξωει (a proposito di uccelli). Gli esegeti antichi spiegavano il vocabolo ἕρκος in questo passo omerico come

COMMENTO:

AET. II FR. 174

369

un equivalente di λίνον (cf. Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 76. 26 Bekker) o di δίκτυον (cf. Schol. V ad loc.): la prima delucidazione corrisponde all'aggettivo λινξαις nel nostro verso.

Cf. poi Opp. Hal. III 117 (le murene) ὅτε κεν ... ἐνιπλήξωει λίνοιοι |. Un riecheggiamento del nostro verso si rinviene presso Paul. Sil. Anth. Pal. IX 396, 1 s.

=3,1s. Viansino λίνου νεφοειδέϊ κόλπῳ | ἔμπεςε cdv κίχλῃ Köccvgoc. nAnccovrat: Nella forma attiva il verbo si trova impiegato in maniera analoga presso

Hom. A. V 503 5. κονιςάλῳ ὃν ... | οὐρανὸν ἐς πολύχαλκον ἐπέπληγον πόδες ἵππων e Pind. Nem. X 71 Ζεὺς δ᾽ ἐπ᾽ Ἴδᾳ ... πλᾶξε ... κεραυνόν |. Aivéaic: L'uso dell'aggettivo in poesia risale ad Aristofane (PCG 18, 2). Esso viene Impiegato - come qui - a proposito di reti da [Opp.] Cyn. IV 386, 413 e Nonn. Dion. IX 266. Cf. anche Antim. fr. 57, 1 Wyss = 68, 1 Matthews Auigecı ... λινέοις |, Nonn. Dion. V

247 al., Met. XI 172 al. ὄρτυγες: In poesia il vocabolo è attestato a partire da Epicarmo (PCG 42, 2). νεφέλαιε: Si tratta di sottilissime reti per la cattura degli uccelli. Il vocabolo risulta impiegato in questo senso sia al plurale sia al singolare: cf. da un lato Aristoph. Av. 194

(con Schol. VR νεφέλη εἶδος δικτύου θηρευτικοῦ), 528, Athen. I 25 D; dall'altro Archias Anth. Pal. IX 343, 2 = GP 3739* (con il lemma δίκτυον del codice palatino), Antip. Thess. Anth. Pal. VI 109, 1 = GP 363, Satrius Anth. Pal. VI 11, 2 = Satyrius FGE 324 ὀρνίθων

λεπτόμιτον νεφέλην", Zosim. Anth. Pal. VI 185,2 = FGE 421*, Galen. De usu partium1 2 e forse ep. adesp. App. Plan. 229, 2*. Si noti che, riguardo a Hom.

Od. XXII 304 νέφεα

rroccovcan (scil. öpvıdec), lo scolio Q attribuisce a νέφεα il significato tà λίνα. In Ambito latino, cf. Auson. Epist. XVIII 4 s. Peiper (a proposito di un tordo) pendetque nexus retibus, | quae ... fluitant nebulosa.

D) 38-49: Le nozze di Aconzio e Cidippe Dopo che Apollo delfico ha fornito il responso (cf. vv. 22-37), Ceice torna a Nasso e interroga sua figlia Cidippe, la quale gli svela ogni cosa (cioè l'episodio della mela e del suo involontario giuramento di sposare Aconzio) e si procura così la salvezza dalle malattie ripetutamente abbattute su di lei da Artemide quando stava per sposare un altro giovane (cf. vv. 12-19). Ad Aconzio non resta che raggiungere l'isola di Nasso (detta Dionisiade in quanto è cara a Dioniso) per andare a prendere Cidippe: la dea Artemide vede rispettata la promessa formulata dalla fanciulla in suo nome e le coetanee di Cidippe possono finalmente intonare gli imenei per la loro compagna, senza ulteriori rimandi. A questo punto C. interviene in prima persona nella narrazione ed esprime il parere che Aconzio, in cambio della notte nella quale sciolse 1] cinto virginale di Cidippe (cioè la prima notte nuziale), non avrebbe accettato né le prodigiose caviglie di Ificlo, che erano così veloci da correre sulle spighe di grano senza piegarle, né le immense ricchezze di Mida, re della città frigia di Celene: C. ritiene che coloro 1 quali hanno fatto esperienza di Amore, il difficile dio, potranno testimoniare a favore di questo giudizio. Nella sua parafrasi, Aristeneto segue molto da vicino il passo callimacheo, pur arricchendolo di particolari estranei al modello (la dettagliata descrizione dell'imeneo, l'impazienza di Aconzio prima della notte nuziale e - dopo la versione in prosa del nostro v. 49 la passione amorosa e l'estrema bellezza dei due giovani). L'epistolografo si discosta dal poeta solo quando rievoca non la straordinaria velocità di Ificlo, bensì di nuovo (più banal-

mente) la ricchezza, forse di Tantalo (τὸν πάντα πλοῦτον cod: τὸν Ταντάλου πλοῦτον Reiske). Vd. l'app. delle fonti ai vv. 1-49.

370

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

38 ἡ θεός: Νά. il comm. al fr. 50, 78 φῆ θεόεο"- οἱ δ᾽ ἀϊόντες. δ: Si tratta ovviamente di Ceice.

ἔβη πάλιν: Cf. invece Call. Del. 320 où πάλιν αὖτις ἔβηςαν | C. fa uso di altre frasi simili: cf. Dian. 87 πάλιν rec, Ep. XLI 3 Pf. = HE 1059 πάλιν ᾧχετο, Ep. LIII 1 Pf. = HE

1153 πάλιν … ἐλθέ. 39 dv’... πᾶν ἐκάλυψεν

Enoc: Il verbo ἀνακαλύπτω si trova già presso Eur. Iph.

Aul. 1146, dove fra l'altro è impiegato in una frase simile alla nostra (ἀνακαλύψω ... λόγους I). Dato il nostro πᾶν, si può anche richiamare [Men.] Sent. 639 Pernigotti | πάντ᾽ ἀνακαλύπτων.

Per la tmesi, vd. il comm.

al v. 7. Nella ventunesima Eroide ovidiana (v.

243), Cidippe scrive di avere confessato il suo inconsapevole giuramento non al padre (come presso C.), bensì alla madre: fassaque sum matri deceptae foedera linguae. ἐτῶς: L'anomalia metrica del vocabolo di struttura giambica ἐτῶς davanti alla dieresi del pentametro è attenuata dal valore prepositivo del preverbio &v’ in tmesi: vd. Introd. II.1.B.a.ili. C. utilizza l'aggettivo &töc (= &teöc) probabilmente in /amb. fr. 202, 19 Pf. e forse nelfr. 151, 6 e in Hec. SH 288,

19 = fr. 70, 4 H.; cf. inoltre (Call.) fr. inc. auct. 780

Pf. Vd. Blomgvist p. 24. πᾶν

... ἔπος: Per il nesso, cf. Call. Ep.18 Pf. = HE 1284*.

40 κἦν αὖ c@c: L'accostamento di εἰμί a c@c si riscontra già presso Hom. 71.1117 al. Il femminile omerico dell'aggettivo è con (Il. XV 497), mentre l'uso di c@c per il femminile è una caratteristica dell'attico: cf. Fur. Cycl. 294, Aristoph. PCG

690, Plat. Phaed.

Per l'immagine, cf. soprattutto Lucian. Lexiph. 12 ἱκέτευον (scil. τὴν "Apteuw)

106 A.

ἐλεῆςαι

εφᾶς- ἣ δὲ αὐτίκα ἐπένευςεν, καὶ cÖc ἦν, ma anche Nonn. Met. V 501 vide, vodcov ἔχων cooc ἔπλεο. Riguardo alla crasi κῆν, cf. v. 42 χἠ e vd. il comm. al fr. 1,32 odA[a]ydc. L'espressione callimachea viene tenuta presente da Ovidio nella ventesima Eroide (v. 180), quando Aconzio preannuncia a Cidippe che, se respingerà l'attuale fidanzato e obbedirà ad Artemide, 1 suoi mali avranno fine: ef tu continuo, certe, ego salvus ero.

40 s. λοιπόν, ᾿Ακόντιε, ceîo μετελθεῖν | ... nvıdınv ἐς Διονυειάδα: Benché la lettura del passo sia ancora incompleta, il senso è chiaro (né sembra necessario ipotizzare, con Graindor, una lacuna fra 1 due versi): dopo che Cidippe ha dato conferma al padre Ceice di essersi suo malgrado impegnata a sposare Aconzio (v. 38 s.), quest'ultimo - apostrofato da C. come poi nei vv. 44*, 45 e 48 e varie volte nella chiusa dell'elegia (vd. il comm. ai vv. 50-77) - non deve fare altro che andare a prendere la fanciulla nell'isola di Dioniso (cioè Nasso) per portarla con sé a Ceo come moglie. Prima di λοιπόν, Housman proponeva di leggere ὅ te, ma sul piano paleografico è più plausibile ὃ δὲ; le tracce identificabili all'inizio del v. 41 non sembrano prestarsi a una ricostruzione soddisfacente, ma è probabile che il primo colon del pentametro termini con l'aggettivo

ἰδίην. Con ogni verisimiglianza l'infinito μετελθεῖν si riferisce ad Aconzio, che si reca a Nasso per prelevare Cidippe (nei poemi omerici quest'aoristo occupa sempre - come qui - la fine del verso: cf. II. IV 539 ai). Tale uso specifico del verbo si riscontra presso Plut. Mor.

297 C = Aet. Rom. 27 διὰ κηρύκων γὰρ ἔθος ἦν τὸ μετέρχεεθαι τὰς νύμφας; per l'analogo μέτειμι, cf. Antip. Thess. Anth. Pal. VII 367, 1 5. = ΟΡ 413 5. μετιόντι | νύμφην. La possibile sequenza ὃ δὲ λοιπόν sembra avere valore avverbiale (per il resto). Il comm. di Pf. lascia intendere che egli ricostruisce il giro della frase in questo modo: per il resto, Aconzio, tuo suocero ti invitò a recarti nella propria isola Dionisiade (in occasione della éyyôncic). Ma un'ipotesi del genere mi sembra poco plausibile, sia perché lo

COMMENTO:

AET. II FR. 174

371

spazio disponibile all'inizio del v. 41 risulta troppo esiguo per ospitare il soggetto e il verbo principale, sia soprattutto perché - come abbiamo visto - l'infinito μετελθεῖν raccomanda qui una menzione esplicita della sposa. Preferisco dunque intendere: per il resto, Aconzio, (fu) tuo cömpito recarti dalla tua propria moglie nell'isola Dionisiade (all'inzio del v. 41 la sequenza νύμφην τὴν, suggerita da Barigazzi, offre il senso richiesto, ma è esclusa dalla natura delle tracce e dal calcolo degli spazi): l'aggettivo idinv indicherebbe che Cidippe spetta ormai ad Aconzio, dopo essere stata più volte sul punto di sposare un altro (cf. vv. 119, nonché fr. 166, 3 s. con il comm.). Questa seconda ricostruzione - già in parte contemplata da Hunt nella sua nota di comm. e da Brinkmann p. 475 - appare moltre sostenuta dalla ventunesima Eroide di Ovidio (v. 245), dove Cidippe - verso la fine della sua lettera ad Aconzio - lo esorta così (implicitamente) a raggiungerla per prenderla in sposa: | cetera cura tua est (il passo ovidiano, addotto da R. Pichon ap. Puech p. 266, è per altro richiamato dallo stesso Pf.). Vd. in generale l'app. 41

Διονυειάδα:

Secondo

Diodoro

Siculo

(V

52,

1), Nasso

veniva

chiamata

così

perché in essa fu allevato Dioniso (per il collegamento fra l'isola e il dio, cf. frr. 5-918 e frr. inc. sed. 116-119 con 1 comm.). Stando invece a Plinio (Nat. hist. IV 67), l'appellativo si deve al fatto che Nasso è ricca di vigne. Per la forma del vocabolo, vd. Kenney p. 331. 42 x: Per la crasi, cf. v. 40 nv" con il comm. Riguardo specificamente alla crasi yi, cf. fr. inc. sed. 592 Pf.* θεός edopkeito: La dea è Artemide, in nome della quale Cidippe ha involontariamente promesso di sposare Aconzio: ora che il matrimonio fra i due giovani si realizza, Artemide vede rispettato il giuramento e perciò smette di tormentare la fanciulla con continue malattie (cf. vv. 12-19). Per θεός femminile, vd. il comm. di Bulloch a Call. Lav. 3. Il verbo ebopkéo è di uso prosastico, ma cf. Eur. Or. 1517; per l'impiego dell'insolita diatesi passiva in unione al sostantivo θεός, W. Arend ap. Pf. richiama Aesop. Fab. 67 (III) Hausrath-

Hunger τόν γ᾽ ἐπιορκούμενον θεὸν οὔκουν Añcere. L'aggettivo corrispondente eioproc è usato dallo stesso Call. Ap. 68 ἀεὶ δ᾽ εὔορκος ᾿Απόλλων | (vd. il comm. di Williams). 42 5. ἥλικες αὐτίχ᾽ ἑταίρης | εἶπον dunvatove: C. si ispira a Pind. Pyth. III 1719 παμφώνων ἰαχὰν ὑμεναίων, ἅλικες | οἷα παρθένοι gràforciv ἑταῖραι | ἑεπερίαις ὑποκουρίζεςθ᾽ ἀοιδαῖς (per l'accostamento ἥλικες ... ἑταίρης, cf. poi Mosch. II 28 5. ἑταίρας ἥλικας, 102 ἑτάραι ... ὁμήλικεο). Si noti che nel diciottesimo idillio di Teocrito le fanciulle intente a cantare l'epitalamio di Elena sono sue cvvoudkıkec (v. 22). A C. sembra richiamarsi Antipatro di Sidone in un passo riportato nel comm. al v. 1. La parola ἣλιξ è un hapax omerico (Od. XVIII 373). C. la impiega anche in due brani dell'inno a Delo (vv. 81, 297), dove essa è - come qui - di genere femminile, ma funge da

aggettivo (il secondo luogo dell'inno, come il nostro esametro, verte sulle nozze). Il femminile ἑταίρη compare solo due volte nei poemi omerici (Il. IX 2*, Od. XVII 271*), che presentano anche la forma ἑτάρη (4. IV 441). 43 εἶπον: La lezione del papiro, difesa da L., è εἶδον (videro). In un primo momento,

Pf. recepi la congettura di Wilamowitz

ἧδον (cantavano), adducendo

- a sostegno della

forma contratta - l'incerto 116° ὧδε di (Call.) fr. inc. auct. 140 (vd. il comm. ad loc) e il fatto che nei carmi esametrici di Teocrito coesistono gli imperfetti &Sev e ἄειδεν (cf. Theocr. XIV 30 e vd. il comm. di Gow a [Theocr.] VIII 62). Successivamente Pf. ha suggerito la correzione einov (pronunciarono), un intervento minimo che conferisce al testo un senso eccellente: lo stesso Pf., a conferma della sua proposta, richiama Call. Del. 257 |

εἶπαν Ἐλειθυίης ἱερὸν μέλος e Nonn. Dion. XLIII 392 | καὶ γάμιον μέλος εἶπεν (si os-

372

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

servi però che - per ragioni morfologiche - Bulloch considera accettabile la congettura di Pf. solo se scriviamo εἶπαν, come nel luogo dell'inno a Delo appena citato). Vd. in generale l'app.

dunvatove οὐκ ἀναβαλλομένουοε: Per l'immagine contraria, cf. Pind. OL. I 80 5. ἀναβάλλεται γάμον | θυγατρός, [Men.] fr. 4, 22 Jaekel | you(e)îv ἀναβάλλο]υ, Ach. Tat. II 12, 1 μηχανὴν δι᾽ ἧς ἀναβάλλεεθαι δυναίμην τὸν γάμον, Nonn. Dion. XLVII 218 ἀμβολίην ὑμεναίων | (che sembra risentire del nostro passo). dunvatove: Il vocabolo ὑμέναιος è un hapax omerico (Il. XVIII 493, ripreso da [Hes.] Scut. 274). La forma con eta ha un antecedente nel vocativo dunvaov, impiegato da Saffo (frr. 111 e 117 B (a) Voigt). La grafia ὑμῆναον si riscontra poi in un epigramma sepolcrale tramandato da un'iscrizione di Cirene risalente al II sec. d.C. (GVI 1522, 7), il cui

v. 3 esibisce un'eco callimachea (vd. il comm. al fr. 5, 1). Lo stesso C. adotta come epifo-

nema nuziale sia ὑμήν (amb.fr. 202, 11 Pf.) sia duév (fr. inc. sed. 473 Pf.). ἀναβαλλομένουε: Nei poemi omerici il verbo ἀναβάλλειν assume il significato di rimandare soltanto in due passi, una volta con la forma attiva (Od. XIX 584 | μηκέτι νῦν

ἀνάβαλλε ... τοῦτον ἄεθλον I) e una volta con quella media (77. II 435 5. μηδ᾽ ἔτι δηρόν | ἀμβαλλώμεθα ἔργον); per il secondo uso, cf. anche Hes. Op. 410, 412 e lo stesso Call. Ap. 22 καὶ μὲν ὁ δακρυόεις ἀναβάλλεται ἄλγεα πέτρος. C. impiega anche il sostantivo corrispondente ἀνάβληοις (differimento) in Ap. 46. 44-49:

La

costruzione

sintattica del brano

è la seguente:

οὔ

ce δοκέω

᾿Ακόντιε, ἀντιδέξαςθαί κε νυκτὸς ἐκείνης, τῇ μίτρης ἥψαο παρθενίης, Ἰφίκλειον ἐπιτρέχον Kctaxdeccıv οὐδ᾽ ἃ Κελαινίτης ἐκτεάτιοτο Μίδης.

τημοῦτος,

où εφυρὸν

Come già Pf. nella sua edizione, ho accolto per il v. 45 una congettura di Murray, il quale corregge il τῆς del papiro in τῇ (quella notte nella quale; non mi sembra consigliabile lasciare invariata - con Housman - la forma τῆς e intendere quella notte durante la quale, perché è improbabile che C. offrisse nel v. 44 s. una sequenza di ben tre genitivi femminili singolari indipendenti fra loro, quali sarebbero - stando a quest'interpretazione - νυκτὸς ἐκείνης, τῆς e μίτρης ... παρθενίης). Come osserva Pf., Murray però ha probabilmente torto quando riconosce in ἀντί (v. 45) una preposizione che regge in anastrofe - con duro

enjambement - νυκτὸς ἐκείνης (v. 44; per la posposizione di ἀντί, vd. 1. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Göttingen 1916, p. 181 n. 3 e cf. lo stesso Call. Ep.

LVI 2 Pf. = HE 1162 νίκης ἀντί με τῆς idinc I). La successione ἀντί ... δέξαεθαι (vv. 4548) andrà piuttosto interpretata come una tmesi, fenomeno del resto molto frequente nel nostro frammento (vd. il comm. al v. 7; il verbo ἀντιδέχομαι compare presso Aesch. Choe. 916, Eur. Iph. Aul. 1222). Intesa così, la sintassi coincide perfettamente con la parafrasi di

Aristeneto (p. 26. 106 Mazal): τῆς νυκτὸς ἐκείνης ᾿Ακόντιος οὐκ ἂν ἠλλάξατο τὸν Μίδου ypvcév (dove Dietzler fa di sicuro bene a separare la frase τῆς νυκτὸς ἐκείνης dal periodo

precedente e a collegarla con οὐκ ἂν ἠλλάξατο; vd. l'app. delle fonti ai vv. 1-49). Le precedenti considerazioni dimostrano che non si può concordare con Hunt (come fece in un primo momento Pf., Neue Lesungen p. 63 n. 2), secondo il quale ἀντὶ regge uitpnc … παρθενίης (v. 45), τῆς è un pronome relativo riferito proletticamente a μίτρης e νυκτὸς ἐκείνης funge da complemento di tempo all'interno della proposizione relativa τῆς ὦν ἥψαο (v. 45): in cambio del cinto virginale che toccasti quella notte. Vd. in generale l'app. Rivolgendosi dunque ad Aconzio, C. esprime l'opinione che il giovane, in cambio dell'agognata prima notte di nozze con Cidippe, non avrebbe accettato né la velocità di Ificlo

COMMENTO:

AET. II FR. 174

373

né la ricchezza di Mida. Nel prescegliere come esempi questi due personaggi, C. sembra ispirarsi a un'elegia di Tirteo (fr. 12, 1-9 W. = 9, 1-9 Gent.-Pr.), dove si afferma che 1] va-

lore bellico prevale su ogni altra qualità, ivi incluse l'attitudine a correre più rapidamente

del vento Borea (v. 3 5.1 οὐδ᾽ et... [νικῴη ... θέων ... Βορέην |) e la ricchezza di Mida (v. 5 s. [οὐδ᾽ et ...] πλουτοίη ... Μίδεω ... μάλιον |). C. applica il motivo alla sfera erotica, come fa anche l'autore dell'ottavo idillio pseudo-teocriteo, dove Menalca si rivolge idealmente al

suo amato con le seguenti parole (vv. 53-55): μή μοι Κροίςεια τάλαντα | ein ἔχειν, μηδὲ πρόεθε θέειν ἀνέμων, | ἀλλ᾽ ... ἄεομαι ἀγκὰς ἔχων Tv | (vd. il comm. di Gow ad loc., con ulteriori paralleli). Che una notte d'amore sia preferibile a tutti gli altri beni, si legge poi presso Nonn.

Dion.IV 120-124: οὐ ποθέω criAßovcav Ἐρυθραίην λίθον Ἰνδῶν, οὐ φυτὸν "Ecnepiöwv rayypbceov, οὐδέ με τέρπει | Ἡλιάδων ἤλεκτρον, öcov μία νυκτὸς ὀμίχλη, | τῇ ἔνι Πειεοινόην προςπτύξεται οὗτος ἀλήτης (scil. Cadmo). Cf. inoltre Hor. Carm. II 12, 21-24 num Phrygiae Mygdonias opes | permutare velis Tib. II 2, 13-16 nec tibi malueris (rispetto al per orbem | fortis arat valido rusticus arva Indis | nascitur (vd. Bulloch, Tibullus pp. 78 requiescere lecto | et quocumque

modo

tu quae tenuit dives Achaemenes | aut pinguis crine Licymniae | plenas aut Arabum domos, fedele amore della sposa), fotum quaecumque bove, | nec tibi, gemmarum quidquid felicibus e 82), Prop. I 8, 33-36 illa vel angusto mecum

maluit esse mea,

| quam sibi dotatae regnum

vetus

Hippodamiae | et quas Elis opes ante pararat equis (dove quas ... opes ... pararat è molto

simile al nostro ἃ ... ἐκτεάτιςτο), Ov. Mer. VII 59 s. (parla Medea) quemque ego cum rebus quas totus possidet orbis | Aesonidem mutasse velim. L'inferiorità di ogni beatitudine r1spetto all'amore è anche asserita in un famoso brano di Nosside (Anth. Pal. V

170, 1 s. =

HE 2791 s.): ὅἅδιον οὐδὲν ἔρωτος, ἃ δ᾽ ὄλβια δεύτερα navra lEctiv. Sul piano formale il nostro passo, dove C. esprime un parere personale (δοκέω) e uti-

lizza una serie di negazioni (où ... οὐ ... οὐδ᾽, è simile a un luogo del suo inno ad Artemide (vv. 221-223): οὐδὲ μὲν Ὑλαῖόν te καὶ ἄφρονα Ῥοῖκον ἔολπα | οὐδέ περ ἐχθαίροντας ἐν "Αἴδι μωμήεαεθαι τοξότιν. 44 δοκέω: All'interno dei poemi omerici il verbo significa credere solo in Il. VII 192 (cf. anche [Hom.] Hymn.IV 208). τημοῦτοε: L'avverbio - che equivale a τῆμος - è un hapax esiodeo (Op. 576), ripreso da C. anche in Dian. 175* e utilizzato poi da Nic. Ther. 926*. Vd. Reinsch-Werner p. 90, Cusset p. 310. ’Akövrıe: C. continua ad apostrofare Aconzio, come già nel v. 40* e poi nei vv. 45 e 48 e varie volte nella chiusa dell'elegia (vd. il comm. ai vv. 50-77). νυκτὸς ἐκείνης: La prima notte di nozze è designata così da Euripide: cf. ph. Taur.

205 νυκτὸς κείνας, Phoen. 1675 | νὺξ ... ἐκείνη. L'explicit νυκτὸς ἐκείνης compare già nella Piccola Iliade (fr. 24, 2, 1 p. 82 Bernabé = fr. 44, 2 Davies) e si ritrova nella Presa di

Ilio di Trifiodoro (v. 665): nel secondo passo la frase ha - come qui - valore enfatico, perché

si riferisce all'ultima notte di Troia. Cf. inoltre Eur. Tr. 204 νὺξ cita (la notte nella quale le prigioniere troiane saranno stuprate dai Greci), Lucan. X 68 nox illa (la notte del primo amplesso di Cesare e Cleopatra).

45 μίτρης ἥψαο παρθενίης: Sul piano formale, il passo è imitato da Nonn. Dion. XII 387 παρθενικῆς .... ἥψατο μίτρης | (dove παρθενικῆς non è un attributo di μίτρης, bensì un sostantivo). L'espressione callimachea ha un antecedente nell'Odissea omerica: | Adce δὲ ropBevinv

374

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ζώνην (XI 245, a proposito di Posidone e Tiro). Si tenga conto, però, che questo verso spettante al cosiddetto «catalogo delle eroine» - era ignoto a Zenodoto e veniva atetizzato da Aristarco. I poemi omerici offrono solo un'altra occorrenza dell'aggettivo παρθένιος (I. XVI 180), con il significato di figlio di donna non sposata. La parola è impiegata da C. anche nel fr. 213, 77.

Il vocabolo uitpn designa qui il cinto virginale. Per quest'uso, cf. Hes. fr. 1, 4 M.-W. (vd. Kaczynska p. 45), Ap. Rh. IV 1024, [Theocr.] XXVII 55, Mosch. II 73 παρθενίην

uitpnv, 164, SGO I 04/24/14 v. 3 ᾿παρθένον ... uitpnv, Greg. Naz. Carm. I 2, 29, 272 (PG 37 p. 904) μίτρην ... rapdevinv* (vd. B. Wyss, «MH» 6, 1949, p. 193 n. 43, Hollis, Light p. 45), Nonn. Dion. XVI 351 | pirpnv παρθενίην, XLVII 461 5. μίτρην | παρθενικῆς. Nell'inno callimacheo ad Artemide (v. 14=43), leggiamo che le Ninfe di nove anni seguaci della dea sono ancora ἄμιτροι, cioè non indossano il cinto delle vergini adulte (vd. il comm. di Bornmann). C. impiega il sostantivo Litpn con altri tre sensi: cintura sciolta dalla partoriente (lov. 21, Del. 222), reggiseno (Ep. XXXVIII 3 Pf. = HE 1145), diadema (Del. 166). Sui vari significati della parola, vd. il comm. di Gow a Theocr. XVII 19 αἰολομίτρας.

46 où εφυρὸν

Ἰφίκλειον

ἐπιτρέχον

Kctaydeccıv: Sul personaggio di Ificlo,

vd. il comm. al fr. 151, 5 s. Nel tratteggiare la straordinaria velocità dell'eroe, C. 51 ispira a un passo del Catalogo delle donne esiodeo, che verte appunto su Ificlo (fr. 62 M.-W.):

ἄκρον En’ ἀνθερίκων καρπὸν θέεν οὐδὲ κατέκλα (verso espunto da Wilamowitz, che lo ritiene interpolato da Hom. I. XX 227, dove si parla delle puledre figlie di Borea) | ἀλλ᾽ ἐπὶ πυραμίνων ἀθέρων δρομάαεκε πόδεεειν (oppure ὅς ῥ᾽ ἐπὶ πυραμίνους ἀθέρας gottacie πόδεεοιν) | καὶ οὐ civécketo καρπόν (vd. 1. Schwartz, Pseudo-Hesiodeia, Leiden 1960, p. 585, Reinsch-Werner p. 367). Sia Esiodo sia C. hanno influito su Maxim. De action. ausp.

422-424 = [Orph.] fr. 777, II 2 p. 312 Bernabé οὐδ᾽ εἴ x’ Ἰφίκλοιο Howrepoc αὐγάζοιο, | Sere καὶ ἀνθερίκοιειν ἐπέτρεχεν, οὐδέ τι καρπόν | civer’ ἀήευρα γυῖα φέρων ἐπὶ λήιον ἄκρον (qui anche ἀήευρα è di ascendenza callimachea, cf. Hec. fr. 311 Pf. = 24 H. coni

comm.) e su Nonn. Dion. XXVIII 284-287 εἰς δρόμον Ἰφίκλῳ ravouotioc, ὅς Tic … 1... |... «ταχύων ἐφύπερθε μετάρειον εἶχε ropeinv, | ἀνθερίκων «τάτον ἄκρον ἀκαμπέα rocciv ὁδεύων. La prodigiosa capacità di correre sulle spighe di grano senza piegarle viene attribuita da alcuni poeti a cavalli particolarmente veloci (con il recupero dell'immagine offerta dal passo omerico citato sopra): cf. Calp. Sic. VI 56 s. | ungula, qua ... sic exsultavit ... | tange-

ret ut fragiles, sed non curvaret, aristas, [Opp.] Cyn. I 231 ἵππος ἐπ᾿ ἀνθερίκων ἔθεεν κούφοιει nödeccıwv, Claudian. Panegyr. de III cons. Honor. 198-200 equos, qui ... possint | ... segetem ... levi percurrere motu, | ... ut ... nec proterat ungula culmos |. Virgilio e Ovidio attribuiscono invece questa straordinaria facoltà rispettivamente a Camilla e a Ippomene e Atalanta: cf. Aen. VII 808 s. illa vel intactae segetis per summa volaret | gramina nec teneras cursu laesisset aristas e Met. X 654 s. | posse putes illos ... | ... segetis canae stantes percurrere aristas |. coupòv Ἰφίκλειον: Per il tipo di nesso, vd. l'app. delle fonti al nostro verso e il

comm. al fr. 19, 14 (vd. inoltre il comm. al fr. 17, 6 ἤμελλε). L'aggettivo Ἰφίκλειος è impiegato da C. anche nel fr. 151, 5* (vd. il comm. ad loc.).

&nırp£xov:Cf. Call. Hec. fr. 274, 1 Ῥί. -- 45,1." &croaxdeccıv: Il vocabolo è un hapax nei poemi omerici (4. II 148*), attestato poi presso [Hom.] Hymn. II 454*, 456, Herodot. V 92 ζ 2. C. lo impiega anche in Del. 284 e Cer.20.

COMMENTO:

47 οὐδ᾽

à Κελαινίτης

ἐκτεάτιοτο

AET. II FR. 174

375

Miônc: Il re Mida (già menzionato in un

frammento di incerta paternità esiodea, fr. dub. 352 M.-W.) figura spesso come l'uomo ricco per antonomasia: cf. Plat. Resp. 408 B e - in poesia (oltre al luogo di Tirteo riportato nel comm. al vv. 44-49) - Aristoph. Plut. 287, fr. lyr. adesp. CA 37, 32 p. 200 = GDRK VII 33, Cat. XXIV 4, Stat. Silv. I 3, 105, II 2, 121, Mart. VI 86, 4, Greg. Naz. Carm. (PG 37) I 2, 10, 392 (p. 708), 28, 148 (p. 867), II 1, 12, 435 (p. 1197), 88, 13 (p. 1435). Il nostro pentametro ha una struttura molto simile al fr. inc. auct. 279 οὐδὲ Κροτωνίτης

ἐξεκάθηρε Μίλων. ἃ ... ἐκτεάτιετο:

Per l'espressione,

cf.

[Hom.]

Hymn.

IV

522

öc’

Ἑ κηβόλος

ἐκτεάτιεοται |, Theocr. XVII 105 τὰ δὲ κτεατίζεται αὐτός I. KeAauvirne: Mida è il sovrano della città di Celene in Frigia: cf. già Sosith. TrGF 99

F 2,1 5. Κελαιναί ... ἀρχαία πόλις | Μίδου. L'etnico Κελαινίτης è attestato qui per la prima volta e compare poi presso Dioscorid. Anth. Pal. IX 340, 5 = HE

Anth. Pal. VII 696, 4 = GP 3691*. Cf. inoltre Steph. Byz. s.v. Μελαιναί:

1689 e Archias

… Μελαινίτης ὡς

Κελαινίτης. Nella poesia latina si rinvengono il toponimo Celaenae e l'etnico Celaenaeus: cf. da un lato Stat. Theb. IV

186, Claudian. In Eutrop. Π 258, dall'altro Stat. Theb. II 666,

Mart. V 41, 2, X 62,9, XIV 204, 1.

48 5. ψήφου

δ᾽ Av ἐμῆς

ἐπιμάρτυρες

εἶεν

| οἵτινες où χαλεποῦ

νήιδές

eicı θεοῦ: Dopo avere espresso l'opinione che Aconzio non avrebbe per nulla al mondo rinunciato alla prima notte di nozze con Cidippe (vv. 44-48), C. aggiunge che del suo giudizio potrebbero essere testimoni coloro i quali non sono ignari del difficile dio, cioè Amore. Così dicendo, C. lascia intendere di conoscere in prima persona 1 travagli della passione. Questo passo e altri luoghi callimachei (soprattutto degli epigrammi) giustificano ciò che Ovidio scrive a proposito del nostro poeta (Tr. II 367 5. = Call. test. 67 Pf.): Battiade ... saepe legenti | delicias versu fassus es ipse tuas. Ed è anche significativo il monito rivolto dallo stesso Ovidio a chi vuole tenersi lontano dal turbamento erotico (Rem. 759 = Call. test. 66 Pf.): Callimachum fugito: non est inimicus Amori. 48 ψήφου ... ἐμῆς: In poesia il vocabolo ψῆφος ricorre a partire da Pindaro (Nem. VII 26 al). C. qui lo impiega non nel senso specifico di voto ma in quello generico di giudizio, come fa Platone in vari luoghi delle sue opere: cf. soprattutto Phil. 57 A κατὰ τὴν ἐμὴν ψῆφον, ma anche Prot. 330 C, Resp. 450 A. Un altro esempio poetico di quest'uso si rinviene presso Paul. Sil. Anth. Pal. V 244, 4 = 76,4 Viansino.

ἐπιμάρτυρες εἶεν: C. riecheggia l'omerico ἐπιμάρτυρος Ecto* (Il. VII 76; cf. anche Hes. fr. 75, 17 M.-W.*), utilizzando la forma parallela ἐπίμαρτυς che alcuni manoscritti

dell'Odissea tramandano in I 273 (ἐπιμάρτυρες ἔστων", al posto di ἐπὶ μάρτυροι È.): a quanto pare - come si ricava dagli scoli a Hom. /. II 302, II 280 e XIV 274 - nei poemi omerici la lezione (ἐπυ μάρτυρες era quella costantemente preferita da Zenodoto (per l'influsso del testo omerico

di Zenodoto

sulla poesia callimachea,

vd. il comm.

al fr. 17, 6

ἤμελλε; tale influsso risulta molto dubbio nel nostro specifico passo: vd. Rengakos, Homertext p. 86 n. 2). La forma Eriuaprvc, impiegata con sicurezza da Aristoph. Lys. 1287, è frequente nella poesia epica ed epigrammatica a partire dall'ellenismo: cf. Arat. Anth. Pal. XII 129, 5= HE 764, Ap. Rh. IV 229* (con il comm.

di Livrea), EpGr. 905, 5 Kaibel*, Doroth. p. 378.

Pingree al., [Orph.] Lith. 398* al., Maneth. IN 285, Nonn. 1575, Pamprep. fr. 4, 12 Livrea, Musae.

App. Plan.344, 5*.

1, Christod.

Dion. XI

14

157* al., Met. XII

Anth. Pal. II 195*, 387*, ep. adesp.

376

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

49 où χαλεποῦ νήιδες ... θεοῦ : Per l'espressione, cf. già Bacch. V 174 5. | νῆιν ... | Κύπριδος e inoltre Ap. Rh. III 32 vida μέν με πατὴρ τέκε τοῖο βολάων | (parole di Atena a proposito di Eros), nonché le frequenti attestazioni - nelle Dionisiache nonniane - della frase vfitc ἔρωτος (I 108, XLVII 243) e dell'explicit νῆις ἐρώτων (II 103, XIII 558, XV

376,422, XX 156, XXXII 324, XLVII 198, 465). Nei poemi omerici l'aggettivo vñic ricorre solo due volte: in un passo - come qui - è

unito a un genitivo e si inserisce in una litote (Od. VIII 179 ἐγὼ δ᾽ où νῆις ἀέθλων |); nell'altro è usato assolutamente (11. VII 198; per l'impiego assoluto, cf. anche [Hom.] Hymn. II

256, IV 487). Eros viene definito χαλεπὸς … θεός anche da Teocrito (XIII 71). La stessa Afrodite è detta χαλεπὴ Κύπρις in un epigramma di Asclepiade (Anth. Pal. XII 50, 2 = HE 881). L'applicazione degli aggettivi χαλεπή e χαλεπός alle due divinità responsabili della sofferenza amorosa rappresenta lo sviluppo semantico di un usus attestato sia nella lirica arcaica sia nelle elegie pederotiche che costituiscono il secondo libro della silloge teognidea, dove la parola χαλεπός si trova riferita all'affanno erotico (in ciò, i poeti ellenistici furono forse preceduti da Anacr. fr. 65, 1 Gent. = PMG 346, fr. 4, 1 χα]λεπῶι, presumibilmente riferito a Eros: ma qui si può anche leggere l'avverbio xa]Aer@c). Cf. da un lato Sapph. fr. 1, 25 5. Voigt χαλέπαν ... |... pepiuvov (nellinno ad Afrodite), Anacr. fr. 65, 4-6 Gent. = PMG

346,fr. 4, 4-6 ἐκφυγὼν Ἔρωτα 1... Secu[@v 1... χαλεπῶν δι᾽ ᾿Αφροδίτη[ν, Arch. fr. 193, 2 W. χαλεπῇει θεῶν ὀδύνῃειν ἕκητι I; dall'altro lato [Theogn.]

1308 | Kvrpoyevodc

...

ἔργων ... χαλεπῶν |, 1322 ἔρος ... χαλεπὸν γίνεται ἀνδρὶ φέρειν |, 1337 χαλεπὰς ... ἀνίας I, 1384 5. χαλεπώτατον ἄχθος, | ἂν μὴ Κυπρογενὴς δῷ λύειν ἐκ χαλεπῶν. L'impiego più tradizionale di χαλεπός, riferito non direttamente alle divinità dell'amore ma alle pene che da loro derivano, ha avuto esso stesso una certa fortuna presso C. e Teo-

crito. Cf. Call. Ep. XXX 3 s. Pf. = HE 1099 5. à pà ce δαίμων | odudc (scil. Eros) ἔχει, χαλεπῇ δ᾽ ἤντεο Oevuopin;, Ep. XLVI 10 Pf. = HE 1056 τῶ χαλεπῶ τραύματος (dell'amore), Theocr. II 95 χαλεπᾶς véco (dell'amore), XXIX 22 ὁ δέ τοί κ᾿ Ἔρος où χαλέπως ἔχοι |, 40 χαλέπω πόθω I, XXX 1 χαλέπω ... vochuatoc | (dell'amore), 17 χαλέπων ... ἐρώ(των) (suppl. Fritzsche), 23 χαλέπας ... (vöco) | (dell'amore; suppl. Bergk). Da parte sua l'evoluzione semantica, grazie alla quale lo stesso dio Eros diventa χαλεπός, passa dalla poesia ellenistica al romanzo: cf. Charit. IV 2,3 Ἔρωτι χαλεπῷ τυράννῳ, Ach.

Tat.I 11,3 (Eros) ἀντίδικον ... χαλεπώτερον. Νά. in generale *Massimilla, Amori. Riguardo al nesso χαλεποῦ ... θεοῦ, su un piano puramente formale, cf. già Hom. Il. XX

131 e [Hom.] Hymn. II 111 χαλεποὶ ... θεοί, ma anche Hom. Od. XIX 201 χαλεπὸς ... δαίμων |, [Theogn.] 638 χαλεποὶ δαίμονες e poi ep. adesp. App. Plan. 185, 5 χαλεπὴ θεός, Eudoc. Cypr.I 23 χαλεπὸν ... δαίμονα.

2) 50-77: La storia mitica di Ceo Prendendo spunto dalla famiglia degli Aconziadi di Ceo, cui diede origine il matrimonio di Aconzio e Cidippe, C. conclude la sua elegia con un ampio excursus dedicato alla remota storia mitica dell'isola (del tutto omesso nella parafrasi di Aristeneto). Nel v. 54 s. C. dichiara espressamente che la sua fonte è Senomede (cf. anche 1 vv. 66 e 76), uno storico vissuto con ogni verisimiglianza nel V secolo. I vv. 50-77 del nostro frammento corrispondono al primo frammento di Senomede nelle raccolte di Jacoby e di Fowler (FGrHist 442 F 1 = EGM fr. 1). Un'ottima indagine sui contenuti dell'opera di Senomede, alla luce di questi versi callimachei, viene offerta da Huxley pp. 235-245.

COMMENTO:

AET. II FR. 174

377

C. scrive dunque che le nozze di Aconzio e Cidippe inaugurarono la numerosa e nobile stirpe degli Aconziadi, la quale risiede tuttora a Iulide di Ceo. C. precisa di essere venuto a conoscenza dell'innamoramento di Aconzio dall'antico Senomede, che compose un memo-

riale mitologico relativo all'isola (vv. 50-55). Rifacendosi a Senomede, C. individua sei tappe nella storia mitica di Ceo: 1) L'isola fu inizialmente abitata da ninfe originarie dell'antro di Corico presso Delfi, che un leone aveva cacciato dal monte Parnaso (dove si trova l'antro in questione): per questo motivo Ceo venne chiamata Idrussa, cioè Acquosa (vv. 56-58). 2) La seconda fase è oscura, date le condizioni precarie del testo: C. menziona un personaggio misterioso (chiamato forse Cirode) e la città di Carie, da identificare con l'uno o con l'altro dei vari insediamenti così chiamati (v.

58 s.). 3) In séguito si stanziarono nell'isola le popolazioni micrasiatiche dei Cari e dei Lelegi, che compiono sacrifici per Zeus Alalassio (dio del grido guerresco) al clamore delle trombe (vv. 60-62). 4) Successivamente Ceo, figlio di Apollo e delle ninfa Melia, diede all'isola il suo nome attuale (v. 62 s.). 5) A Ceo si stabilirono poi 1 tracotanti stregoni Telchini, capitanati dall'empio Demonatte, che morirono fulminati per mano degli dèi: in quell'occasione gli immortali sconvolsero l'intera isola per punire l'arroganza dei suoi abitanti e risparmiarono solo la vecchia Macelo (sposa di Demonatte) e sua figlia Dessitea (vv. 6469). 6) Sorse infine la tetrapoli di Ceo: Cartea fu fondata da Megacle, Iulide ricca di sorgenti da Eupilo (o Eupalo o Eupolo) figlio della semidea Criso, Peessa sede delle Cariti da Aceo (o Acero), Coresia da Afrasto (vv. 70-74). In conclusione C. ribadisce che Senomede, insieme ai nomi di queste città, ha rievocato

l'amore di Aconzio per Cidippe: da tale fonte proviene la storia della fanciulla, che ha 1spirato la sua musa (vv. 74-77). La digressione erudita procede con un ritmo serrato, che 51 realizza grazie a un vero e proprio tour de force stilistico. Il v. 50 contiene un enunciato autonomo, che funge da raccordo fra la narrazione mitica e la dotta rassegna: dal matrimonio di Aconzio e Cidippe è derivato un grande nome. Seguono due proposizioni coordinate (vv. 51-54), delle quali l'una celebra la stirpe degli Aconziadi e l'altra asserisce la dipendenza di C. da Senomede. Dalla seconda procede una relativa (v. 54 s.) dedicata all'opera mitografica dello storico, cui a sua volta si aggancia il participio &pxuevoc (v. 56). Quest'ultimo regge quattro periodi che corrispondono alle prime quattro fasi mitiche enucleate in precedenza (vv. 56-63) - attraverso l'anafora della congiunzione ὡς (sottintesa nell'ultimo caso). Poi la frase γέρων ἐνεθήκατο δέλτ[οις (v. 66), riferita a Senomede, governa sintatticamente i vv. 64-69, che rappresentano la quinta tappa e si segnalano per la loro ricca ipotassi. Infine la sesta fase (vv. 70-74), consistente in quattro oggettive, è retta da una principale che ha come soggetto πρέεβυς (v. 76) - cioè ancora Senomede - e come verbo un eine sottinteso, desumibile dal v. 74. Qui quest'aoristo introduce una coordinata principale, che - con l'aggiunta di una relativa - fa risalire a Senomede la storia di Aconzio e Cidippe (vv. 74-77). Vd. Magnelli, Tecnica pp. 206-210. Per evitare che l'excursus risulti un'appendice estranea alla vicenda dei due giovani, C. vi inserisce varie apostrofi ad Aconzio, come ha già fatto nel tratto di testo appena precedente (cf. vv. 40, 44 5. e 48). Nel v. 51 l'aggettivo ὑμέτερον spetta a entrambi i protagonisti, mentre i vocaboli Keîe, teöv (v. 53), Keîe (v. 74) e εέθεν (v. 75) si richiamano al solo Aconzio (vd. Introd.1.4.E.). Non a caso le apostrofi sono concentrate al principio e alla fine di questa sezione: all'inizio esse attenuano lo stacco fra il racconto e la rassegna, mentre nella chiusa suggellano l'elegia ribadendone la tematica erotica. Νά. Bopp p. 42, Sanchez

378

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Ortiz de Landaluce p. 66 s. Bornmann, Nuovo frammento p. 206 osserva che questa parte del carme ha influito su un passo della Θεανώ di Michele Coniate, contenente le lodi di Ceo (II p. 387 vv. 351-354

Lambros): τῆς κλέα τοι πολιαὶ πολιαὶ δέλτοι κροτέουειν (cf. il nostro v. 66, ma anche i vv. 54 e 76). | ὥς note τέτραειν Öctecı τειχήρεςει κέκαςτο (cf. il nostro v. 70), | τῶν ὡς ἔκλυον odvöuor’ ἦν περίπυετα πάροιθεν (cf. il nostro v. 53) | Howecca, Kopncia τοι, Κάρθαια, Ἰουλίς (cf. i nostri vv. 71-74). Per le riprese di C. da parte di Michele Coniate, vd. il comm. al fr. 1, 1. Sul più antichi miti connessi all'isola di Ceo, vd. le dissertazioni di Gunning e Storck,

nonché Jock] pp. 142-156.

50 ἐκ δὲ γάμου

κείνοιο

μέγ᾽

οὔνομα

μέλλε

νέεεθαι: Che dalle nozze di

Aconzio e Cidippe sia sorta a Ceo la stirpe degli Aconziadi (cf. v. 51), è l'unico spunto eziologico complessivo ravvisabile nell'intera elegia: vd. Graindor p. 59, Körte, Literarische Texte 1913 p. 543, Cahen pp.

115,

124, Dietzler p. 45 s., Fantuzzi-Hunter p. 87=65,

Magnelli, Tecnica p. 205. Non credo invece che, come ritiene Fraser I p. 727, l'elegia sia del tutto priva di un esplicito aition centrale. Per la configurazione metrica del verso, vd. Introd. 1.1.A.c.vi.

ἐκ δὲ γάμου keivoto: Questo incipit sembra riecheggiato da Nonn. Dion. XVI 399 ἐκ δὲ γάμου Bpoutoto*. Per il solo ἐκ δὲ γάμου, cf. Nonn. Dion. XII 204*. μέγ᾽ οὔνομα: Per il nesso, cf. Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 147, 4*. μέλλε νέεεθαι: La frase è già omerica: cf. Il. XVII 497 ἔμελλον ... νέεεθαι |, Od. VI 110 ἔμελλε ... véecBo I. Ciò rende superflue le congetture degli studiosi (vd. app.). 51 ᾿Ακοντιάδαι: Il vocabolo è un hapax.

52 πουλύ τι καὶ περίτιμον: Sul piano formale, cf. Call. Lav. 58 | πουλύ τι καὶ πέρι δή con il comm. di Bulloch. πουλύ: Dal punto di vista morfologico, vd. il comm.

al fr. 9, 14 πουλύ. C. utilizza

l'aggettivo in modo analogo nell'inno ad Apollo (v. 70): πάντη dé τοι οὔνομα rovA |. περίτιμον: Pf. è in errore quando afferma che quest'aggettivo non compare altrove (il nostro passo è anche l'unico registrato in LSJ Suppl. s.v.): Infatti lo si ritrova in Orac. Sib. IV 170*. Forme analoghe sono l'aggettivo repıryuınecce ([Hom.] Hymn. II 65) e il verbo repıruuncovew | (Orac. Sib. V 266). Ἰουλίδι varetéovciv: Riguardo a Iulide (la città di Aconzio), vd. il comm. al fr. 166, 5 ’IovAtöoc*. L'impiego di ναϊετάω con il dativo semplice di luogo è già attestato nel

corpus omerico: cf. Hom. 71. II 387*, VII 9, Od. XVII 523, [Hom.] Hymn. XVII 6, XX 4. Cf. inoltre Alex. Aetol. CA fr. 1, 4 p. 122 = fr. 1, 4 Magnelli (ma vd. il comm. di Magnelli), Quint. Smyrn. III 649*. Per il dativo di luogo nell'opera callimachea, vd. il comm. al fr. 89,

6 Αἰἰ]γύπτωι ... &vectpegero. 53 Kete: Apostrofando Aconzio tramite il suo etnico, C. chiarisce in anticipo che l'isola cui Senomede ha dedicato il suo memoriale mitologico (cf. v. 55) è appunto Ceo. A proposito del vocabolo Κεῖος, vd. il comm.

al v. 32 5.

53 s. τεὸν δ᾽ ἡμεῖς ἵμερον ἐκλύομεν

| τόνδε παρ᾽ ἀρχαίου

ZEevoundeoc:

Per il giro della frase, cf. soprattutto Athen. SH 225, 5 5. = FGE 448 5. τοῦτο ... παρὰ Movcéov | ἔκλυεν, ma anche lo stesso Call. Vict. Sosib. 384, 47 Pf. τοῦτο μὲν ἐξ ἄλλων

ἔκλυον ἱρὸν ἐγώ. Più alla lontana, per ἐκλύομεν, cf. il passo di Michele Coniate riportato nel comm. ai vv. 50-77. 54 ἀρχαίου ZEevoundeoc: Dionisio di Alicarnasso (Thuc. V 2 = Xenomed. FGrHist

COMMENTO:

AET. II FR. 174

379

442 T 1, EGM test. 1) tramanda che Senomede di Ceo fu di poco anteriore alle guerre del Peloponneso e visse fino all'età di Tucidide (vd. Huxley p. 244 s.): ὀλίγῳ te πρεοβύτεροι

τῶν Πελοποννηειακῶν καὶ μέχρι τῆς Θουκυδίδου παρεκτείναντες ἡλικίας "EAAAVIKÖC τε ὃ Λέεβιος ... καὶ Ξενομήδης ὁ Κεῖος (Χῖος codd.: corr. Wilamowitz). La sua datazione al V secolo appare confermata dal fatto che C. lo definisce antico nel nostro esametro e vecchio nei vv. 66 e 76: vd. F. Jacoby,

FGrHist II B, Kommentar p. 288. Un'eco dell'anti-

chità di Senomede giunge fino al passo di Michele Coniate riportato nel comm. ai vv. 50-77. Approssimandosi alla fine dell'elegia, C. menziona la sua fonte (vd. Harder p. 104 e Harder, To Teach p. 40): un procedimento analogo sembra riscontrarsi nell'ultimo distico

dell'aition di Melicerte, risalente al quarto libro (cf. fr. 195, 2 5. Λε]ανδρίδες … παλαιαί | .. tcroptau |, vd. il comm.

ad loc.). Tenendo conto del nostro esametro e dei versi seguenti,

già nel 1927 Hunt aveva arguito che il colloquio fra il «personaggio C.» e le Muse doveva essersi concluso prima di questo punto del libro terzo (vd. POxy. Part XVII p. 58): le successive scoperte papiracee hanno mostrato che il dialogo in questione cessava con la fine del secondo libro. ὅς note πᾶεαν: Per il tipo di clausola, cf. Call. Dian. 190 ἧς rote Μίνως" con il comm. di Bornmann. Nel nostro passo Hunt propone di correggere gote nella forma ionica κοτε, ma la sua congettura va respinta per due motivi: in primo luogo la serie dei due pi iniziali produce un voluto effetto allitterante, come la sequenza dei tre kappa nel v. 4 κοτέ ... κύον, κύον (cf. anche fr. 98, 9 xo[t’] Éknôov); in secondo luogo C. oscilla anche altrove fra note e κοτε. Νά. l'app. al nostro verso e il comm. al fr. 50, 54 πο[τέ]. allesti un memoriale mitologico a proposito dell'isola di Ceo: F. Jacoby, FGrHist II B, Kommentar p. 288 ne deduce che egli compose una Kticic ovvero ᾿Αρχαιολογία della sua patria (vd. anche Huxley p. 235). Una possibile attestazione relativa ai Κεῖα di Senomede viene fornita dagli Etimologici: cf. Et. Gen. AB s.v. θέλγει (= Et. M. p. 445. 9 Gaisf.)- ...

+’Evouiônc δὲ ὁ τὰ Θεῖα γράψας, καὶ τοὺς TeAyîvac ἐτυμολογήεας εἶπεν ὅτι θελγῖνες ἦσαν, Et. Gud. s.v. θέλγειν, p. 257. 24 Sturz: ... ἡ Ἐνομίδης ἐτυμολογεῖ ὃ τὰ Θεῖα γράψας, παρό φηει καὶ τοὺς Τελχῖνας ὥςτε θελγῖνες κτλ. Si è infatti proposto di emendare il corrotto Ἐνομίδης in Ξενομήδης e di scrivere τὰ Κεῖα al posto di τὰ Θεῖα: che Senomede collegasse il nome dei Telchini alla loro natura di incantatori, risulta plausibile in considerazione del nostro v. 64 5. (γόητας | TeAxivoc, vd. Jockl p. 144). Invece F. Jacoby, pur recependo 1 lemmi degli Etimologici tra 1 frammenti di Senomede, esprime molti dubbi a riguardo (= FGrHist 442 F dub. 4, EGM fr. dub. 4) e suggerisce da parte sua una diversa soluzione (FGrHist III B, Kommentar p. 290): Ἐνομίδης andrebbe corretto in Ἐπιμενίδης, mentre bisognerebbe lasciare invariato tà Θεῖα, una designazione quanto mai adeguata alla Teogonia del poeta cretese; Jacoby fa inoltre notare che Epimenide veniva annoverato tra 1 possibili autori di una Τελχινιακὴ ictopia (Epimenid. FGrHist 457 T 10 = EGM test.4 = fr.39, II 3 p. 142 Bernabé).

55 s. ἐνὶ μνήμῃ κάτθετο μυθολόγῳ, | ἄρχμενος dc: Cf. fr. 9, 24 5. ἐνὶ μ]νήμῃ κάτθεο καὶ Μινύας, | ἄιρχμενος ὡς con i comm. al v. 24 ἐνὶ ulvriun κάτθεο e al v. 25 Gu pyuevoc ὡς. L'anafora di ὡς (cf. vv. 56, 58, 60, 70 e vd. il comm.

ai vv. 50-77) è un tratto

tipico dello stile catalogico: la si ritrova p.es. nel canti cosmogonici di Orfeo presso Ap. Rh. I 496-511 e di Sileno presso Verg. Ecl. VI 31-73, dove ut corrisponde a ὡς (i due brani sono citati da Fantuzzi-Hunter p. 115 n. 77 = p. 64 n. 79). 55 μνήμῃ: Il vocabolo significa qui memoriale, come presso Plat. Leg. 741 C e Aristot.

380

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Rhet. 1361 A 34. esametro). μυθολόγῳ: La parola è di uso prosastico e nelle altre sue attestazioni significa narratore di miti, applicandosi quindi all'autore e non - come qui - all'opera. In poesia, oltre che nel nostro passo, il vocabolo si riscontra presso Maneth. IV 445 nel senso di chiacchierone. I poemi omerici offrono già il verbo μυθολογεύω (Od. XII 450, 453). 56-58: Le ninfe coricie. L'isola fu inizialmente abitata da ninfe originarie dell'antro di Corico presso Delfi, che un leone aveva cacciato dal monte Parnaso (dove si trova l'antro in

questione): per questo motivo Ceo venne chiamata Idrussa, cioè Acquosa. Le notizie offerte da C. concordano solo in parte con quelle fornite da Eraclide Lembo in un passo degli Excerpta Politiarum (26-27, p. 22. 22 Dilts = Aristot. fr. 611, p. 377 Rose). Anche Fraclide tramanda che Ceo si chiamava anticamente Idrusa, perché vi risie-

devano alcune ninfe (la cui provenienza non è specificata); mentre però C. scrive che un leone cacciò le ninfe da Delfi a Ceo, Fraclide afferma che la fiera le fece fuggire da Ceo a Caristo, nel Sud dell'Eubea; l'epitomatore precisa poi che per questo motivo un promontorio di Ceo venne detto Leone; dopo un breve passo dedicato all'eponimo Ceo (vd. il comm. al v. 62 s.), Eraclide aggiunge che Aristeo imparò dalle ninfe la pastorizia; il brano si conclude con la rievocazione di una moria di piante e animali dovuta alla mancanza dei venti

etesi: ἐκαλεῖτο μὲν ‘Yôpodca i vijcoc, λέγονται δὲ oikficor νύμφαι πρότερον αὐτήν, goßrcavroc δ᾽ αὐτὰς λέοντος εἰς Κάρυετον διαβῆναι, διὸ καὶ ἀκρωτήριον τῆς Κέω (Kiac vel Kö codd: corr. Salmasius) Λέων καλεῖται ... (si trova qui il brano riportato nel

comm. al v. 62 5.) ’Apictaîov dé gar μαθεῖν παρὰ μὲν νυμφῶν τὴν τῶν προβάτων καὶ βοῶν ἐπιςοτήμην ... φθορᾶς δὲ οὔεης φυτῶν καὶ ζῴων διὰ τὸ λείπειν ἐτηείας. Si noti che διὰ τὸ λείπειν è una congettura di Schneidewin, il quale corresse in questo modo l'impossibile διὰ πνεῖν dei codici: infatti la mancanza

dei venti etesi, non certo il loro soffio, pro-

voca carestia e pestilenza, e del resto - come già osservava Schneidewin - la congettura διὰ τὸ λείπειν è suffragata da un passo di Clemente Alessandrino (Strom. VI 3, 29, 4, II p. 444.

30 Staehlin-Treu, vd. il comm. al v. 34 Ἰκμίου), nel quale si legge che la φθορά imperver-

sava a Ceo per la mancanza dei venti etesi (ἐκλειπόντων ποτὲ τῶν ἐτηείων ἀνέμων). Νά. in proposito le giuste osservazioni di M. Polito, Dagli scritti di Eraclide Sulle Costituzioni. Un commento storico (Napoli 2001), p. 106 n. 1. In merito ad Aristeo e ai venti etesi, vd. il

comm. al vv. 32-37. L'interesse di C. per le ninfe, evidente in molti suoi passi poetici, si concretizzò nell'opera erudita Περὶ νυμφῶν (fr. 413 Pf.). 56 νύμφῃει[ν 2]vaiero Kopveinıcıv: Questo passo ha ispirato Ovidio nella ventesima Eroide, dove Aconzio descrive così a Cidippe la sua patria Ceo: insula Coryciis quondam celeberrima nymphis (v. 223 s.). L'unione di vatouaı al dativo di agente si riscontra anche presso Theocr. XVI 88 &ctea

δὲ rpotéporai πάλιν ναίοιτο πολίταις, Ap. Rh. I 852 vaintar μετόπιεθεν ἀκήρατος ἀνδράει Afiuvoc (vd. il comm. di Vian), Dion. Per. 448 5. vñcov παεάων (cf. nücav | vficov nel nostro v. 54 5.) ἱερὸν πόρον, att’ ἐνὶ πόντῳ | ἀνδράει vatoviai (vi. φαίνονται). Riguardo a Κωρυκίηιςιν, cf. fr. 102, 1 x@pv[ con il comm.

56 5. vou@nci[v

... Κωρυκίηιςιν

I... ἀπὸ

Hapvnecod: Le ninfe dell'antro di

Corico sul Parnaso compaiono già presso Aesch. Eum. 22 s., Soph. Ant. 1126-1129 (prima attestazione dell'etnico Κωρύκιος in poesia), Philox. Cyth. PMG 829. Nel secondo libro

COMMENTO:

AET. II FR. 174

381

delle Argonautiche, Apollonio Rodio racconta che il giovanissimo Apollo saettò il drago

Delfine ai piedi del Parnaso (v. 705 ὑπὸ δειράδι Ilapvncoto |), mentre le ninfe coricie (v. 711 Κωρύκιαι Νύμφαι) lo esortavano a colpirlo con le sue frecce (vd. in proposito il comm. al fr. 20, 6 ‘INie). Uno scolio a questo passo apolloniano (Schol. Ap. Rh. II 705-711 h) precisa che la ninfa Coricia fu eponima dell'antro coricio sul Parnaso e partorì Licoreo dopo essersi unita ad Apollo: per questa e altre testimonianze relative alla ninfa e all'antro, vd. il comm. al fr. 158. Aristonoo, nel peana in onore di Apollo delfico, narra che le ninfe coricie donarono al dio 1 loro antri (CA I 35 s. p. 163). Ovidio racconta che Deucalione e Pirra, appena approdarono sul Parnaso scampando al diluvio, si misero a venerare | Corycidas nymphas (Met. I 320). Anche Dionisio figlio di Callifonte (vv. 75-77 = GGM I p. 240) precisa che l'antro delle ninfe Coricie si trova sul Parnaso: TIapvacöc ... | … εἶτα νυμφῶν

ἐχόμενον | Κωρύκιον ἄντρον. 57 Παρνηεςςοῦ: Un'altra menzione callimachea del monte si rinviene in Del. 93 Hapyvne6v. Forse la grafia con un solo sigma va preferita anche qui (vd. app.). Xîc

|

... uéyac: Il leone del Parnaso viene menzionato da Pausania (I 27, 9), secondo il

quale esso era spaventoso quanto quello nemeo: πάλαι δὲ ἄρα τὰ θηρία φοβερώτερα ἦν τοῖς ἀνθρώποις ὥς ὅ τ᾽ ἐν Νεμέᾳ λέων καὶ è TIapvaccıoc. Presso Iulide di Ceo si ergeva la statua di un enorme leone: vd. L. Savignoni, « Egnuepic ἀρχαιολογική» S. II (1898), pp. 231-237 con la tavola XIV 1. Cf. inoltre /G XII 5, Test. p. XXIX nr. 1476. Per il nesso, cf. soprattutto [Hes.] Scut. 172 μέγας Aic, Greg. Naz. Carm.I 2, 15, 29 (PG

37 p. 768)

λῖς … μέγας, ma anche Hom. Il. X 23 5. e 177 5. λέοντος | … μεγάλοιο, Quint.

Smyrn. II 299 μέγαν ... λέοντα |. Non è chiaro se un frammento corrotto di incerta paternità, nel quale ricorre due volte il vocabolo Aic, possa spettare ad Antimaco (fr. 113 Wyss = 65 Matthews) o a C. ((Call.) fr. dub. 807 Pf.). 58 ‘YSpodccav: Per quest'antico toponimo di Ceo, cf. l'excerptum di Eraclide Lembo riportato nel comm. ai vv. 56-58 (Ὑ δροῦςο), Plin. Nat. hist. IV 62 Hydrusam, Hesych. s.v. ‘Yàpodca. A proposito dei nomi propri terminanti in -odc(c)a, vd. il comm. al fr. 50, 86 K]Jiccodene παρ᾽ ὕδωρ. Quanto alla prolessi del nome rispetto a τῷ, vd. il comm. al fr. 8. τῷ καί μιν ἐφήμιεαν: La frase è imitata due volte negli Halieutica di Oppiano (V 70* e 632*). τῷ καί μιν: Sull'uso dell'avverbio τῷ da parte di C. e sulle sue possibili grafie, vd. il comm. al fr. 65, 16 to e l'app. al nostro verso. Qui esso è posposto come nel fr. 171. Nell'opera callimachea τῷ è spesso seguito - come qui - da un pronome personale: cf. fr. 187, 13 1 τ]ῷ coiciv, Zov. 58 1 τῷ τοι, 80 τῷ καί cpe*, Dian. 62 | τῷ εφέας, 80 Ι τῷ ... coe (vd. il comm. di Bornmann), Del. 15 | τῷ cos. Per la posposizione di καί, vd. il comm. al fr. 1, 15

Maccaryétar ικιαί. ἐφήμιεαν: Νά. il comm. al v. 14 φημίζομεν. 58 5. ὥς te Kıpwönc

ω θυς[ τὸ

ᾧκεεν ἐν Kapdarc:

Cirode (?) e Carie.

La seconda fase della storia mitica di Ceo è oscura, date le condizioni precarie del testo. La

lettura delle tracce alla fine del v. 58 è molto difficoltosa: Murray propone Κιρώδης, senza per altro che sia possibile identificare il personaggio (il nome Kipoddac è attestato nell'ep. adesp. App. Plan. 6, 3 = HE 3920, dove esso designa un re degli Odrisi sconfitto da Filippo V di Macedonia; vd. app.). Non si è ancora riusciti a leggere e integrare il primo colon del v. 59. Nel séguito del pentametro C. scrive che qualcuno (forse il misterioso Cirode) risiedeva a Carie: città con questo nome

si trovavano in Laconia, Arcadia e Licia, ma per nes-

suna di esse risulta un qualche legame con Ceo.

382

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Un quadro testuale così confuso si è prestato al tentativo di inserire qui la figura di Aristeo, 1 cui importanti collegamenti con l'isola di Ceo sono già adombrati da C. nei vv. 32-37 (vd. il comm. ad loc.): l'assenza dell'eroe dalla nostra rassegna mitografica è apparsa sorprendente agli studiosi. Molti hanno perciò adottato, a cavallo fra i vv. 58 e 59, la frase ὥς

ze Κυρήγης | vide (Κυρήγης spetta a Gunning e Storck, υἱός a Storck e già a Diels). La proposizione che così si ottiene (e come il figlio di Cirene - cioè appunto Aristeo risiedeva a Carie) è stata poi diversamente intesa: Gunning p. 13 pensa che Carie sia il nome, altrimenti ignoto, di una città di Ceo (vd. anche F. Jacoby,

FGrHist III B, Kommen-

tar p. 289); Storck p. 7 s. ritiene che C. parli di una Carie arcadica, dove Aristeo si sarebbe trasferito, appellandosi a Pind. fr. 251 Sn.-M., dal quale apprendiamo appunto che l'eroe emigrò da Ceo in Arcadia; Huxley p. 238 reputa che C. menzioni la celebre Carie posta nel Sud dell'Arcadia e cita in proposito sia Ap. Rh. II 519-521, secondo il quale Aristeo - partito da Ftia - raccolse gente parrasia (cioè arcadica) e si stabilii a Ceo, sia il suddetto frammento pindarico:

C. intenderebbe

cioè che Aristeo, dopo avere colonizzato Ceo, tornò in

Arcadia a Carie; Hollis, Callimachus p. 12 suggerisce di identificare la Carie callimachea con la città di Caristo in Eubea, allegando la congettura Kapöncıv di A. W. Mair a [Opp.] Cyn. IV 267 con la relativa nota di commento: per il possibile trasferimento di Aristeo da Ceo a Caristo, Hollis richiama ıl brano di Eraclide Lembo riportato nel comm.

ai vv. 56-58,

dove il medesimo passaggio viene attribuito alle ninfe. In termini generali, si noti che la presenza di Aristeo a questo punto della storia mitica di Ceo verrebbe in parte confortata e in parte contraddetta dalla testimonianza di Fraclide:

egli, infatti, da un lato tramanda che

Aristeo venne iniziato alla pastorizia dalle ninfe (le quali segnano la fase appena precedente nella rassegna callimachea, vv. 56-58), dall'altro però colloca l'eroe eponimo Ceo prima di Aristeo, non dopo di lui, come fa C. (v. 62 s.).

Ma tutte queste considerazioni si scontrano con il fatto che la natura delle tracce nel POxy. 1011 non raccomanda particolarmente υἱός e soprattutto esclude Kuprjvne, sicché - a meno di non voler pensare a un guasto testuale - dobbiamo riconoscere che l'oscurità del brano permane. Né si è ancora capito che cosa precedesse ᾧκεεν nel v. 59: l'aggettivo εὐς[ἴ7τοις proposto da Barber (Carie ricca di cibo) va considerato solo come un tentativo exempli gratia. Vd. in generale l'app. 59 @keev: La forma di imperfetto ᾧκεεί ) compare già presso Hes. fr. 13, 1M.-W. ed è pol Impiegata da Nonn. Dion. XII 286 al., Met. I 63 al., Christod. Anth. Pal. II 318. 60-62: Cari e Lelegi. In séguito si stanziarono nell'isola le popolazioni micrasiatiche dei Cari e dei Lelegi, che compiono sacrifici per Zeus Alalassio (dio del grido guerresco) al clamore delle trombe. 60 μιν ἐννάςςαντο: Questa forma aoristica di &vvoto - verbo attestato a partire dalla tragedia (Soph. Phil. 472, Oed. Col.788, Eur. Hel. 488) - è impiegata da C. insieme all'ac-

cusativo di luogo anche in Del. 15 τῷ coe καὶ ἰχθυβολῆες ἁλίπλοοι Évväccavto. Per &vväccavto, cf. Ap. Rh. IV 1213*. Per l'unione di ἐνναίω attivo all'accusativo di luogo, cf.

Ap. Rh. I 942 (coni), 1076*, [Mosch.] IV 36. τέων: Il pronome ha funzione relativa. Per quest'uso di tic nell'opera di C., cf. Del. 185 τέων (con lo scolio), Ep. XXVII 2 Pf. = HE 1042 τίς, Samb.fr. 191, 67 Pf. tic (con il comm.),fr. inc. sed. 680, 2 Pf. = (Hec.)fr. inc. sed.171,2H. τίς, forse fr.3, 18 τέων (vd. il comm. ad loc.) ed eventualmente fr. inc. sed. 560 Pf. tic (vd. il comm. ad loc.). Cf. inoltre Nossis Anth. Pal. V 170, 3 = HE 2793 τίνα, Nic. Al. 2 téwv* (con Schol. 2 e) e probabilmente Euph. SH 415 col. II 7 τέων (vd. il comm. ad loc.).

COMMENTO:

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383

᾿Αλαλάξιος: Comuto (Theol. 21, p. 41. 7 Lang) applica l'epiteto ad Ares, ma si osservi che i Cari (cf. v. 62) veneravano Zeus (τράτιος, secondo la testimonianza di Erodoto

(V 119, 2; vd. Huxley p. 239). Il grido di guerra ἀλάλαγμα figura presso Call. fr. inc. sed. 719, 1 Pf., dove esso viene per di più rivolto a un dio.

61 Ζεὺς ... ἱρὰ ... δέχεται: Cf. Hom. 1.11 420 6 γε (scil. Κρονίων) δέκτο μὲν ἱρά, [Hom.] Hymn. II 29 | Séyuevoc ἱερά (a proposito di Zeus), III 274 | δέξαι᾽ ἱερά (in merito ad Apollo) e poi Diod. Anth. Pal. VI 243, 2 5. = GP 2113 5. | δέξο ... 1... ἱερά, [Orph.] Hymn. XVIII 3 e LXXXIV 7 Quandt ἱερὰ δέξο, XXIX 2 e XLVI 8 Quandt ἱερὰ δέξαι |. Anche altrove C. impiega il verbo δέχομαι per indicare l'accettazione di un'offerta da parte di una divinità o di un eroe: cf. Epp. XXXIII 2 Pf. = HE 1150 (Artemide), XXXIV 2 Pf. = HE 1152* (Eracle). ἐπὶ caAriyyov ... βοῇ: L'impiego della tromba nel corso dei sacrifici è attestato da

Polluce (IV 86): ἔςτι δὲ ... καὶ ἱερουργικὸν (scil. caArıyuo) ἐπὶ θυείαις Αἰγυπτίοις te καὶ ᾿Αργείοις καὶ Τυρρηνοῖς καὶ Ῥωμαίοις. Il vocabolo εἀλπιγξ è un hapax omerico (Il. XVII 219 ἴαχε «ἀλπιγξ |; cf. anche [Hom.] Batr. 199). Per il nesso impiegato da C., cf. Aesch. Sept. 394 βοὴν εάλπιγγος, Nonn. Dion. XXII 250 βοῆς (a proposito di una ςἀλπιγξ). Più in generale, riguardo all'uso

del sostantivo Bot a proposito di strumenti φόρμῃηγές te βοὴν ἔχον, Pind. OL III ὃ βοὰν 38 cdv καλάμοιο βοᾷ, Bacch. IX 68 αὐ]λῶν 370,9 I xıdaptöoc βοαῖς, Ion TrGF 19 F 23

musicali, cf. Hom. A. XVII 495 αὐλῶν, Pyth. X 39 | λυρᾶν ... Boot, Boot |, Eur. Erechth. fr. 18, 8 Carrara αὐλὸς ἡγείεθω βοῆς I, Archias Anth.

| αὐλοὶ Nem. V = TrGF Pal. VII

696, 5 = GP 3692 βοὰν αὐλοῖο, Nonn. Dion. XV 56 βοῇ ... αὐλοῦ I. Lo squillo della tromba viene equiparato a un grido anche nei Persiani di Eschilo (v. 395): 1 εἀλπιγξ ...

Kür. 62 Κᾶρες ὁμοῦ AeXéyecci: Nei poemi omerici l'etnico Κᾶρες compare solo due volte (Il. II 867, X 428): nel secondo passo i Cari sono menzionati - come qui - sùbito prima dei Lelegi (X 429); cf. pol Verg. Aen. VIII 725 Lelegas Carasque e vd. Storck p. 15 s., D'Alessio (p. 488). I Lelegi figuravano anche nel quarto libro degli Aitia, quali antichi abitanti dell'isola di Tenedo (cf. frr. 193-195 con il comm.). Può darsi che, sul piano fonetico, la frase callimachea ὁμοῦ AeAgyeca risenta degli omerici ὁμοῦ vepéecciv* (Il. V 867) e ὁμοῦ verdeca* (1. XV 118). L'impiego assoluto di ὁμοῦ si riscontra invece presso Call. Del. 145*.

62 5. ner’ οὔνομα

δ᾽ ἄλλο

βαλέςθ[αι

| Φοίβου

καὶ Mekinc

ivıc ἔθηκε

Ké@c: L'eponimo Ceo. Successivamente Ceo, figlio di Apollo e delle ninfa Melia, diede all'isola il suo nome attuale. Anche Fraclide Lembo, all'interno del passo riportato nel comm. ai vv. 56-58, rievoca l'eponimo Ceo e precisa che egli giunse nell'isola dalla città lo-

crese di Naupatto: Κέως δ᾽ ἐκ

Ναυπάκτου διαβὰς ᾧκιοε καὶ ἀπ᾿ αὐτοῦ ταύτην ὠνόμαςαν

(Excerpta Politiarum 26, p. 22. 24 Dilts = Aristot. fr. 611, p. 377 sola derivasse da Ceo figlio di Apollo, lo leggiamo anche negli ninfa madre non si chiama Melia (come nei nostri versi), bensì Cf. Et. Gen. B s.v. Κεῖος e s.v. Κέως (pp. 181 e 184 Miller), che

Rose). Che il nome dell'iEtimologici, dove però la Rodoessa ovvero Rodope. - a detta di Miller - coinci-

dono con Et. M. s.v. Κεῖος, p. 507. 51 Gaisf., nonché Et. Gud. cod. Par. 2631 s.v. Κέω (sic)

ap. Cramer, AP IV p. 32. 30 ... Kéoc ... @vöuacton (ὠνομάεθη Εἰ. Gud.) ἀπὸ τοῦ Κέω τοῦ ᾿Απόλλωνος καὶ ‘Podogcene (Poöörnc Et. Gud.) νύμφης. Νά. Ragone pp. 96-98. A quanto pare, C. scrive che Ceo fece assumere all'isola un altro nome. La lezione

βαλειςθί del papiro venne corretta in καλεῖςθ[αι da Hunt, ma è più plausibile la congettura

384

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

βαλέςθ[αι di L.: da un lato, infatti, la frase ὄνομα μεταβαλών (cambiando nome) figura presso Eur. Cyc/. 691 e il nesso τὸ οὔνομα μεταβάλλειν è utilizzato piuttosto di frequente da Erodoto (cf. I 57, 2 al.); dall'altro il verbo μεταβάλλειν ha per complemento oggetto un

sostantivo accompagnato dall'aggettivo ἄλλος p.es. presso Eur. Iph. Aul. 343 μεταβαλὼν ἄλλους τρόπους | (adottando altri costumi, cf. i passi paralleli indicati da Stockert nel comm. ad loc.). Il verbo esprime forse un mutamento di nome anche nel fr. eleg. adesp. SH

961, 13 = Posidipp. 114, 13 Austin-Bastianini ’Ap[cı]vonc ποταμὸς μ[ε]τεβάλλετο [, dove però la lettura dell'ultima parola e il contesto generale sono incerti. Significato analogo ha il verbo μετατίθεμαι presso Dion. Per. 224 μετ᾽ οὔνομα Νεῖλον ἔθεντο I. Cambiamenti di nome delle isole compaiono spesso nell'opera di C.: vd. il comm. al fr. inc. sed. 119, 4. Per la tmesi μετ᾽ ... βαλέςθ[αι, vd. il comm. al v. 7. Anche l'unica attestazione omerica

del verbo μεταβάλλω è in forma di tmesi (cf. Π. VIII 94 μετὰ νῶτα βαλών), come pure l'altra occorrenza callimachea della parola (cf. Lav. 97 μετὰ πάντα βαλεῦ). Per il dé in terza posizione, vd. il comm. al v. 12 è”.

63 Φοίβου ... îvic: La frase callimachea si ripercuote sul v. 35 di SGO I 01/12/02 Φοιβήϊος îvic I. Il vocabolo îvic è inizialmente impiegato in tragedia: cf. Aesch. Suppl. 42 al., Eur. Andr. 799 al. (sempre nelle parti liriche, tranne Aesch. Suppl. 251). Le successive occorrenze riguardano sia 1 distici elegiaci sia metri diversi: cf. da un lato probabilmente il v. 68 del fr. 213 (vd. il comm. ad loc.), forse ıl fr. 178 e oltre SGO I 01/12/02 v. 35 (cf. sopra), IV

18/11/01

v. 7 e GVI

1302,

6; dall'altro lato Lyc.

570, Isyll.

CA

v. 53 p.

134

(dub.), Dosiad. Anth. Pal. XV 26,3 e 17 = CA vv. 3 e 17 p. 175, Besant. Anth. Pal. XV 25, 19, SGO V 24/34 v. 1. Per l'etimologia della parola, vd. Frisk s.v.

MeAinc: È un tipico nome di ninfa (la μελίη è il frassino): cf. Call. fr. inc. sed. 598 Pf.

(le ninfe Melie), /ov. 47 | Δικταῖαι Medion, Del. 79 s. νύμφη | αὐτόχθων MeAin (con il comm. di Gigante Lanzara). 64-69: I Telchini. A Ceo si stabilirono poi 1 tracotanti stregoni Telchini, capitanati dall'empio Demonatte, che morirono fulminati per mano degli dei: in quell'occasione gli immortali sconvolsero l'intera isola per punire l'arroganza dei suoi abitanti e risparmiarono solo la vecchia Macelo (sposa di Demonatte) e sua figlia Dessitea. Che C. rievocasse la morte del sacrilego condottiero sotto il fulmine di Zeus, era già noto grazie a una testimonianza degli scoli all''bis di Ovidio (vd. app. delle fonti). Come si è detto nel comm. al v. 54 s., non è sicuro che la narrazione della storia dei Telchini da parte dello storico Seno-

mede (cui attinge C.) abbia lasciato traccia anche negli Etimologici. La vicenda è trattata da vari poeti anteriori e successivi a C., in forma più o meno completa e secondo versioni talora discordanti. Il primo riferimento è per noi rappresentato dai vv. 42-45 del quarto peana di Pindaro, composto per gli abitanti di Ceo (= fr. 52 d Sn.-M.). Qui Eussanzio, il figlio di Dessitea, narra che Zeus con il fulmine e Posidone con il tridente mandarono in fondo al Tartaro l'1sola e l'esercito, risparmiando sua madre insieme all'intera casa: χθόνα τοί ποτε καὶ

«τρατὸν ἀθρόον |πέμψαν κεραυνῷ τριόδοντί τε | ἐς τὸν βαθὺν Τάρταρον. ἐμὰν μαϊτέρα λιπόντες καὶ ὅλον οἶκον εὐερκέα. Pindaro dunque, come poi C., riconosce in Eussanzio il figlio della donna lasciata incolume dagli dèi (il cui nome non figura nelle parti residue del peana) e l'antenato degli Eussanziadi (la stirpe di Aconzio: vd. il comm. al fr. 166, 7 αἷμα

τὸ μὲν γενεῆς Εὐξαντίδοο). La brevità del passo pindarico non consente di stabilire se, in base a questa versione, la madre di Fussanzio si salvò da sola o - come scrive C. - insieme a

Macelo (la quale per altro non viene menzionata da Pindaro). Nelle sezioni leggibili del pe-

COMMENTO:

AET. II FR. 174

385

ana, inoltre, non si fa parola dei Telchini.

La vicenda era poi dettagliatamente esposta da Bacchilide nel primo epinicio, dedicato ad Argeo di Ceo. La parte mitica del carme si comincia a ravvisare nel v. 19, ma fino al v. 83 il testo è molto malridotto ed è costituito da sezioni lacunose il cui ordine di successione è incerto (non ci sono pervenuti i versi nei quali veniva descritto il castigo divino abbattutosi su Ceo). A quanto pare, Bacchilide narra che Zeus e un altro dio (forse Posidone, come

dice Pindaro, o Apollo, come scrive Nonno nel brano esaminato più avanti) giunsero a Ceo e conversarono con le figlie del condottiero di Ceo (non menzionato nel tratto di testo superstite); Macelo (che potrebbe essere una delle ragazze, come sostiene Nicandro nel frammento

analizzato più avanti, o la madre di Dessitea, come

afferma C.) si scusò con i

due dèi per l'umile ospitalità che potevano loro offrire. Conclusasi una lacuna di circa trenta versi, inizia un passo conservato molto meglio (vv. 111-129). Qui Bacchilide racconta che dopo un po' arrivò a Ceo un drappello di Cretesi capitanato da Minosse, il quale giacque con Dessitea e ripartì lasciandole metà del suo esercito; la fanciulla diede alla luce Eussan-

zio. Si ha poi una lacuna di quasi dieci versi. Nei vv. 138-140 (abbastanza ben preservati), il poeta narra che le figlie del condottiero emigrarono in un altro punto dell'isola, cioè la città immersa

nella luce serale (vale a dire l'occidentale Coresia, letteralmente città delle

fanciulle). Per la ricostruzione del componimento, vd. R. J. Jebb, Bacchylides. The Poems and Fragments (Cambridge 1905), pp. 443-448, B. Snell - H. Maehler, Bacchylidis carmina cum fragmentis (Leipzig 1970), pp. XXXIX-XLI. Dunque anche Bacchilide, come C., considera Eussanzio figlio di Dessitea e capostipite degli Fussanziadi (dai vv. 140-142 si apprende che a questa famiglia apparteneva lo stesso Argeo, dedicatario dell'epinicio). Poiché nel v. 138 si dice che le figlie del condottiero andarono a Coresia, certamente

- secondo Bacchilide - Dessitea non si salvò da sola: forse

scampò alla rovina anche Macelo (come scrive C.). Nelle parti leggibili dell'epinicio la vicenda non è messa in relazione con i Telchini, ma forse un indizio in tal senso è presente

nel fr. 52 Sn.-M. di Bacchilide, dal quale risulta che il poeta menzionava i Telchini in qualche sua opera. Una

testimonianza di Servio ci informa che Fuforione raccontava questo mito, ma lo

riferiva ai Flegü (Serv. in Verg. Aen. VI 618 = Euph. CA fr. 115 p. 50). Servio scrive che, secondo Euforione, costoro erano un popolo isolano colpevole di empietà nei confronti degli dei: perciò Posidone colpì con il tridente la parte dell'isola nella quale vivevano e li sommerse tutti (che questi Flegii isolani corrispondano ai Telchini di Ceo, è dimostrato dal passo di Nonno discusso più avanti, dove 1 Flegii sono menzionati accanto a Macelo). Può darsi che il resoconto di Servio spetti al v. 10 s. di un frammento probabilmente euforioneo (SH 443, cf. v. 11 DAeyonici); l'ipotesi è tanto più plausibile, in quanto nel tratto di testo sùbito precedente (vv. 4-9) il poeta si ispira con ogni verisimiglianza ai vv. 32-37 del nostro frammento (vd. il comm. ad loc.). Purtroppo i due versi in questione sono molto lacunosi e non gettano luce sull'esatto contenuto di questo rapido cenno alla leggenda: infatti dal v. 10 potremmo

desumere che, come sostiene C., si salvarono sia Dessitea sia Macelo

(per altro

non menzionate nel testo superstite); invece il v. 11 sarebbe interpretabile nel senso che Macelo morì con gli altri Flegii. Vd. il comm. di L.J.-P. Lo scollo Bab al v. 475 dell'Ibis di Ovidio tramanda che la vicenda era esposta anche da Nicandro (fr. 116 Schneider): Nicander dicit Macelon filiam Damonis cum sororibus fuisse. harum hospitio lupiter susceptus, cum Telchinas (Thelonias B: Thelonios ab), quorum hic Damon princeps erat, corrumpentes venenis successus omnium fructuum, fulmine interfice-

386

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ret, servavit eas (eos Bab: corr. Lenz), sed Macelo cum viro propter viri nequitiam periit (la parte iniziale, fino a servavit eas, si trova pure nello Schol. P; il séguito figura anche negli Schol. G e C(FD)). Stando allo scolio, ecco dunque ciò che narrava Nicandro: Macelo, figlia di Damone, diede ospitalità a Zeus insieme alle sue sorelle; perciò il dio, quando

fulminò i Telchini (dei quali Damone era a capo) colpevoli di rovinare con 1] veleno 1 frutti della terra, salvò le fanciulle; Macelo invece morì con suo marito, a causa della malvagità di quest'ultimo; nel tratto di testo successivo, lo scolio ci informa che - secondo Nicandro -

Minosse si recò dalle ragazze superstiti e giacque con Dessitea, la quale partorì Eussanzio antenato degli Fussanziadi. Quest'ultima notizia accomuna la versione di Nicandro a quella callimachea. Ma il poeta colofonio differisce da C. sotto altri aspetti: il condottiero dei Telchini non si chiamava Demonatte,

bensì Damone;

Macelo

era sorella di Dessitea, non

sua madre;

Macelo

non

venne risparmiata, ma morì con gli altri Telchini (per l'accostamento di C. e Nicandro desumibile da un altro scolio all'/bis di Ovidio, vd. il comm.

al fr. 159).

Al mito accenna poi Ovidio in due punti dell'Ibis. Nel v. 469 5. egli scrive che il padre di Dessitea venne fulminato da Zeus: aut lovis infesti telo feriare trisulco | ut satus Hipponoo (cioè Capaneo) Dexitheaeque pater (Dexitheaeque è una congettura di Jurenka e Housman, perché 1 codici offrono Dexithoesque e numerose altre forme del nome: La Penna recepisce la congettura con molti dubbi, vd. l'app. e il comm. ad loc., come si è detto, uno scolio a questo passo fa riferimento ai nostri versi). Nel v. 475 dell'/bis leggiamo: ut Macelo rapidis icta est cum coniuge flammis. Secondo Ovidio, dunque, Macelo non scampò alla morte - come afferma C. -, ma venne anche lei fulminata.

La vicenda si riscontra infine nelle Dionisiache di Nonno (XVII che Macello (sic) ospitò Zeus e Apollo. Dopo una lacuna, leggiamo con il suo tridente sradicò dal mare tutti 1 Flegii e squarciò l'intera trambe (v. 38 | ἀμφοτέρας ἐφύλαξε): quest'ultima frase si riferisce

35-38). Il poeta scrive che Posidone, allorché isola, le preservò encon ogni probabilità a

Macello e Dessitea, la seconda delle quali doveva essere menzionata nel tratto di testo caduto in lacuna. Dicendo che le due donne scamparono insieme alla morte, Nonno concorda

con C., malgrado non sia chiaro se egli veda in Macello la madre o la (rispettivamente come C. e Nicandro). Nel sostituire 1 Flegii isolani ai richiama al passo di Euforione discusso in precedenza. Vd. J. Gerbeau Panopolis. Les Dionysiaques. Tome VII. Chants XVIII-XIX (Paris 1992), Per la vicenda descritta nei nostri versi, D'Alessio (p. 134) chiama

sorella di Dessitea Telchini, Nonno si F. Vian, Nonnos de p. 10 5. acutamente a con-

fronto lo stesso Call. Del. 30-33, dove si parla di Posidone che sradica le isole e le rovescia

nel mare, servendosi del tridente fabbricatogli proprio dai Telchini. 64 s. ἐν δ᾽ ὕβριν θάνατόν τε κεραύνιον, ἐν δὲ γόητας | TeAyxîvac: L'anafora dell'avverbio ἐν (qui ribadita dal preverbio di ἐνεθήκατο nel v. 66) è adottata da C. anche in Dian. 138-140 e Cer. 27 s. Come rilevano Bornmann e Hopkinson nei comm. ai due passi degli inni, è questo un tratto stilistico già omerico (cf. soprattutto Z!. XVIII 483-607): per di più, come nel brano iliadico 51 descrivono 1 vari soggetti effigiati da Efesto sullo scudo di Achille (con il frequente uso della frase | ἐν δ᾽ ἐτίθει), così qui si passano in rassegna gli episodi mitici che Senomede inserì (ἐνεθήκατο) nelle sue tavolette scrittorie. La combinazione dei nomi astratti ὕβριν e θάνατον con il nome di persona TeAyîvac

trova un parallelo presso Call. Del. 310 5. χαλεπὸν μύκημα καὶ &ypıov via …

Παειφάης

(vd. l'app. di Pf. ad loc.). 64 ὕβριν: La fracotanza è la colpa precipua di Demonatte e degli altri Telchini, al

COMMENTO:

AET. II FR. 174

387

punto che C. la rievoca sia qui sia nel v. 69, cioè all'inizio e alla fine di questa sezione mitica. θάνατον ... κεραύνιον: L'aggettivo κεραύνιος fa la sua prima comparsa in tragedia (a partire da Aesch. Sept. 430), dov'è Impiegato frequentemente. L'uso callimacheo (morte causata dal fulmine) non ha precisi paralleli. I passi più simili sono quelli nei quali la parola si riferisce a persone uccise dal fulmine: cf. Soph. Ant. 1139 ματρὶ cèv κεραυνίᾳ ed Eur.

Bacch. 6 μητρὸς ... τῆς κεραυνίας | (a proposito di Semele), Eur. Suppl. 496 5. Καπανέως κεραύνιον

| δέμας. L'aggettivo si ritrova poi nella poesia epigrammatica:

cf. soprattutto

Ale. Mess. App. Plan. 7,3 = HE 56 | καὶ (ζεμέλας ὠδῖνα Kepadviov, ma anche Antip. Sid. Anth. Pal. VI 115,3 = HE 484* ed Eryc. Anth. Pal. VII 174, 5= GP 2242*. 64 s. γόητας | Teixivac: I Telchini (per i quali vd. il comm. al fr. 1, 1 TeAgxîveo) sono definiti stregoni anche da altri autori: cf. Strab. XIV 654 (che dipende forse da Apollodoro), Diod. V 55, 3, Hesych. s.v. Τελχῖνες (riportato nell'app. delle fonti al fr. 1, 1). A quanto pare, Nicandro specificava che i Telchini di Ceo avvelenavano 1 frutti della terra (fr. 116 Schneider riportato nel comm. ai vv. 64-69), confermando forse una notizia già offerta da Senomede

(Et. Gud. s.v. θέλγειν, p. 257. 24 Sturz = Xenomed. FGrHist 442 F dub. 4a,

EGM fr. dub. 4 vd. il comm. al v. 54 s.); questa particolare stregoneria viene imputata ai Telchini anche da Strabone nel passo citato (vd. R. Nicolai, in F. Benedetti - S. Grandolini

(edd.), Studi di filologia e tradizione greca in memoria di A. Colonna 11, Napoli 2003, pp.

553-557). Il vocabolo γόης è attestato a partire dal poema

epico Foronide

(fr. 2, 1, 1 p. 118

Bernabé = fr. 2, 1 Davies*).

65 μακάρων ... οὐκ ἀλέγοντα θεῶν: C. si ispira a Κύκλωπες Διὸς ... ἀλέγουειν | οὐδὲ θεῶν μακάρων. Frasi Quint. Smyrn. III 651 | οὐδὲ θεῶν dAéyovca, XIV 428 5. οὐκ (scil. Zeus) | οὔτ᾽ ἄλλων μακάρων, Nonn. Dion. XXI 263

Hom. Od. IX 275 s. | où γὰρ simili si ritrovano poi presso ἀλέγοντεε … οὔτε ced αὐτοῦ | où μακάρων ἀλέγω τεκέων

Διός (per l'empietà espressa dalla negazione del verbo ἀλέγω, cf. inoltre Aesch. Suppl. 751

5. Bolubv ἀλέγοντες οὐδέν). L'immagine è invece ribaltata presso Ap. Rh. II 325 μακάρων τ᾽ ἀλέγοντες I. Qui C., accostando la parola μάκαρες al sostantivo θεοί, si uniforma all'uso prevalente nei poemi omerici: l'impiego assoluto di μάκαρες si riscontra invece nel fr. 187, 12 (vd. il comm. ad loc). 66 ἠλεά: C. adotta con significato avverbiale un aggettivo già presente nei poemi omerici in un duplice senso: insensato, come nel nostro passo (Il. XV

128, Od. II 243); che

rende insensati (Od. XIV 464*). Il primo significato ricorre anche in altri due passi calli-

machei (fr. inc. sed. 528, 1 Pf. ἠλεός e fr. inc. sed. dub. 528a Pf.

ἠλεά con funzione di ag-

gettivo neutro plurale). L'uso avverbiale di ἠλεά si riscontra anche presso Antip. Thess. Anth. Pal. VII 639, 2 = GP 392. Inoltre nel v. 251 dell'inno ad Artemide di C. figura ıl raro

verbo ἠλαίνω, che significa sono insensato e si riferisce - come qui - all'agire di un empio condottiero. Per l'inarcatura fra il v. 65 e il v. 66, vd. Massimilla, Enjambement p. 122.

Δημώνακτα: Questo nome (letteralmente signore del popolo) designa il capo dei Telchini solo nel nostro esametro.

γέρων: Vd. il comm. al v. 54 ἀρχαίου Ξενομήδεος. Sul piano stilistico, vd. il comm. al v. 67 γρηῦν. ἐνεθήκατο δέλτ[οιςο: L'explicit viene imitato da Eudocia nel v. 22 dell'Argumentum Homerocentonum (ἐνεθήκατο δέλτῳ") e tenuto presente da Michele Coniate nel passo riportato

nel

comm.

ai vv.

50-77.

Per

l'espressione,

cf.

Athen.

SH

226,

2 = FGE

439

ἐνθέμενοι cektcı 1. Sul piano formale, cf. Call. Del. 54 ἐνεθήκαο e (per δέλτ[οιο fr. 1,

388

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

21 δέλτον e fr. 1, 21 5. coni comm. 67 ypndv: Si noti che C. accosta con raffinatezza tra loro gli affini vocaboli γέρων (v. 66) e γρηῦν, riferendoli l'uno allo scrittore Senomede e l'altro a Macelo, un personaggio della sua opera storica. Μακελώ: Il nome ha tale forma nel v. 73 del primo epinicio di Bacchilide, nel fr. 116 Schneider

di Nicandro

e nel

v. 475

dell'Ibis

di Ovidio,

mentre

figura come

Μακελλώ

presso Nonn. Dion. XVIII 35 (per tutti questi passi, vd. il comm. ai vv. 64-69). Νά. in proposito E. Rohde, Der griechische Roman und seine Vorläufer (Leipzig 1914), p. 539 n. 2. Δεξιθέηες: Dessitea è già menzionata da Bacchilide (I 118) e viene poi rievocata da Nicandro (fr. 116 Schneider) e Ovidio (4b. 470): vd. il comm. ai vv. 64-69. Il nome significa colei che riceve gli dèi e si spiega alla luce del fatto che Macelo, madre (o sorella) di Dessitea, accolse a Ceo insieme a lei Zeus e Posidone (ovvero il solo Zeus ovvero Zeus e

Apollo): cf. 1 passi di Bacchilide, Nicandro e Nonno discussi nel comm. ai vv. 64-69. 68 vficov ἀνέτρεπον: La punizione che gli dèi inflissero a Ceo sembra trovare eco in una notizia di natura geologica, fornita due volte da Plinio nella Naturalis historia (II 206,

IV 62): un improvviso maremoto inghiottì la maggior parte dell'isola, provocando la morte di moltissime persone. Nei poemi omerici il verbo ἀνατρέπω è solo di forma media (Il. VI 64, XIV 447).

68 5. εἵνεκ᾽ &A.[1]t[pfic | ὕβριοε: Per εἵνεκ᾽... ὕβριος, cf. Hom. 71.1214 | ὕβριος εἵνεκα tfcôe. Anche in altri passi callimachei l'enjambement coinvolge la preposizione

εἵνεκα: cf. Del. 151 5. εἵνεκα thcôe | ἀντ᾽ ἐλεημοούνης, 244 5. etveroa τῆοδε | ἀμπλακίης. L'integrazione ἀλζ[ι]τ[ρῆς di Wilamowitz è estremamente plausibile: in primo luogo, ri-

guardo ad ἀλ{ι]τ[ρῆς | ὕβριος, cf. [Theogn.] 731 5. ἀλιτροῖς | ὕβριν; inoltre l'aggettivo ἀλιτρός compare già nei poemi omerici (11. VIII 361, XXIII 595*, Od. V 182) ed è ancora impiegato da C. nel fr. 187, 14* e in Ap. 2* (vd. il comm. di Williams); infine Filippo di

Tessalonica accosta le parole teAyîvec e ἀλιτροί nei vv. 2 e 7* di Anth. Pal. XI 321 = GP 3034 e 3039* (a proposito dei grammatici: vd. il comm. al fr. 1, 1).

69 ὕβριοε: Νά. il comm. al v. 64 ὕβριν. 70-74: La tetrapoli di Ceo. Sorse infine cle, Iulide ricca di sorgenti da Eupilo (o Peessa sede delle Cariti da Aceo (o Acero), Le quattro città di Ceo ci sono note da

la tetrapoli di Ceo: Cartea fu fondata da MegaEupalo o Eupolo) figlio della semidea Criso, Coresia da Afrasto. altri testimoni, che assegnano loro i medesimi

nomi di C.: cf. Strab. X 486, Plin. Nar. hist. IV 62, [Prob.] in Verg.

Georg.I

14 (le notizie

offerte da Strabone e dallo stesso C. hanno influito sul passo di Michele Coniate riportato nel comm. al vv. 50-77). Soltanto uno scolio (presente nel POxy. 841) al v. 13 del quarto peana di Pindaro (fr. 52 ἃ Sn.-M.) mette in campo una pentapoli di Ceo (τῆς πενταπόλεως τῆς [Ké0): vd. in proposito le osservazioni di Wilamowitz, Pindaros (Berlin 1922), p. 325 n. 1 e di Huxley p. 242 n. 51. Invece Ὁ. è l'unico a menzionare 1 quattro fondatori. Per le difficoltà di lettura poste dal papiro e le lacune che esso presenta, il primo nome è incerto, il secondo si presta a varie ricostruzioni (così come il nome della madre) e il terzo risulta molto dubbio; solo il quarto è leggibile con sicurezza. È però molto probabile che i quattro ecisti siano figli di Fussanzio, il capostipite degli Fussanziadi, cioè della stirpe cui appartiene Aconzio (vd. il comm. ai vv. 64-69 e Storck p. 24 s., Huxley p. 242 s.): cf. in proposito lo Schol. Pind. Paean. IV fr.

52 d, 60 Sn.-M., riportato nel comm. al fr. 166, 7 αἷμα τὸ μὲν γενεῆς Εὐξαντίδος. 70 τέεεαρας ... πόληας ... teiyicce: Νά. i comm. al fr. 50, 60 ἐτείχιςεαν δὲ

COMMENTO: πόληα ed étetyiccav. XVII 486). Mevyax[A]fic: Il questo punto rendono 71 Κάρθαιαν:

AET. II FR. 174

389

L'accusativo πόληας è un hapax morfologico nei poemi omerici (Od. nome è stato letto e integrato da Hunt, ma le condizioni del papiro in molto incerta la sua proposta (vd. app.). La città è menzionata da Pind. Paean. IV fr. 52 ἃ, 13 5. Sn.-M.

Κάρθαιια μὲν v — - ἐλα]χύνωτον crépvov χθονός. Per le sue mura e la sua rocca, vd. P. Graindor, «MB»

25 (1921), p. 91.

Xpvcodc: Nel papiro si legge ypecove oppure yporcove, mentre la forma Xpvcodc (0 in alternativa Kpicodc) risulta da una congettura di Wilamowitz: il nome Χρυςώ, oltre a comparire in un'iscrizione di Rodi, viene registrato nel lessico di Esichio, dov'è riferito a

una divinità (δαίμων) che potrebbe coincidere con il nostro personaggio. Huxley propone invece Bpicodc. Vd. app. Eör[v]Aoc: Il nome è stato integrato in questo modo da Hunt, ma paralleli epigrafici

rendono possibili anche i supplementi Εὔπ[α]λος ed Eör[o]Aoc (vd. app). ἡμιθέης: Nel genere maschile, il vocabolo è attestato già una volta nei poemi omerici (Il. XI

23; cf. anche

[Hom.]

Hymn.

presente solo in 16 XIV 1389 I 57. Nikitinski pp. 60-64. 72 εὔκρηνον: L'aggettivo, che è HE 2502 ἐυκρήνου διὰ πέτρης |, qui lide, infatti, trasse il suo nome da una

XXXI

19, XXXII

19). Il femminile,

invece, risulta

Cf. inoltre [Opp.] Cyn. III 245 ἡμιθεαίνας

I. Νά.

impiegato anche da Leonid. Tar. App. Plan. 230, 5 = non ha funzione puramente esornativa. La città di Iusorgente che vi scorreva: cf. Steph. Byz. σιν. TovAic-

πόλις ἐν Κέῳ τῇ vico ἀπὸ Ἰουλίδος κρήνης. ’IovAtöoc: Vd. il comm. al fr. 166, 5 ’IovAidoc*. ’Axodoc: Che le tracce corrispondano a questo nome (come suggerisce Pf.), è molto dubbio. Da parte sua, Arnim propone “Axka1poc. Ma le vestigia sono quasi indistinte, sicché non si è ancora giunti a una lettura definitiva. Vd. app. 73 Πριῆςςαν: La forma usuale del nome è Homecca. Tuttavia in un luogo della Naturalis historia di Plinio (IV 62) il codice R ha la lezione Poeessa e nel lessico di Stefano Bizantino (s.v.) i codici RV offrono la lezione IIoıneca, cioè Horficca. Χαρίτων ... ἐνπλοκάμων: Cf. [Hom.] Hymn. III 194 ἐυπλόκαμοι Χάριτες. Sui bei riccioli delle Cariti, vd. il comm. al fr. 9, 12. Per la collocazione metrica di ἐυπλοκάμων, cf. Antip. Thess. Anth. Pal. IX 26,4= GP

178*.

tà pop”: In questo punto le labili tracce del papiro hanno dato luogo a varie proposte di lettura e non si è ancora pervenuti a una soluzione univoca. Hunt suggerisce ἵδρυμ᾽ (per la quantità breve dello hypsilon non mancano 1 paralleli; in proposito cf. anche Call. fr. inc.

sed. 526 Pf. ἐλίνυςεν con il comm.): in poesia il sostantivo ἵδρυμα ricorre a partire da Eschilo

(Pers. 811

al.); per il significato sede, fondazione,

cf. Strab. VI

1, 1, Plut. Marc.

XX 4; faccio inoltre notare che in favore del nesso Χαρίτων ἵδρυμ᾽ si può richiamare Ioann. Barb. Anth. Pal. IX 426, 2 ἕδος Χαρίτων (a proposito della città di Berito). Ma sul piano paleografico è forse più plausibile la proposta eipvu’ (cioè ἔρυμ᾽ di A. D. Knox: Peessa sarebbe il baluardo delle Cariti. Lo stesso Knox suggerisce anche à δρύμ᾽, immaginando che C. scrivesse: Peessa, dove (sono) i boschi delle Cariti (si osservi però che nella poesia post-omerica lo hypsilon di öpvu- è per lo più lungo: vd. il comm. di Bulloch a Call. Lav.116). Vd. in generale l'app. 74 &ctvpov ... Kopi[c]iov: La perifrasi designa Coresia: cf. Steph. Byz. sv.

Kopncöc

(Kopiccòc

codd.)*

... Κορηεία

(R:

Kopiccia

AV)

πολίχνιον

τῆς Κέω

καὶ

390

CALLIMACO

ἐπίνειον; gli abitanti venivano

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

detti Κορήειοι, come risulta da /G XII 5, Test. p. XIII nr.

1243 e iscr. 531. 2. A quanto pare, C. impiega questo tipo di nesso in altri due luoghi della sua opera, dove il nome proprio di una città viene sostituito dalla combinazione del sostantivo &ctv e del-

l'etnico: cf. forse Branch.fr. 229, 13 Pf. Oikodc]uov ... &[c]rv (Oikodc]iov suppl. Pf. coll. Nicaenet. CA fr. 1, 1 p. 1, Μιλήε]ιον L.: vd. il comm. ad loc.) e probabilmente Del. 287

Ἴριον &cru (iepòv dev codd., em. Pf.: vd. l'app. ad loc.). Tale uso perifrastico di &etv si riscontra già in tragedia e nell'antica poesia elegiaca e lirica: con ogni probabilità nelle Fenicie di Frinico ricorreva la frase Cıö®viov

äcto

(TrGF3

F 9, 1), ripresa da Euripide nel

Frisso (TrGF 819, 1 | (ιδώνιον ... &ctv); cf. inoltre Sim. fr. 15,3 W.2 = 3 f, 3 Gent.-Pr.?

Κορίνθιον ἄςτυ, Bacch. XI 57 Τιρύνθιον dere, Eur. Alc.480 Φεραῖον &crv (il sostantivo πόλις è varie volte utilizzato in questo modo dallo stesso Euripide: cf. Hipp. 1424 ἐν πόλει TpoGnvie Ι al.; cf. anche il nostro fr. 187, 9 Aoxpic ... [πόλ]ις). La medesima circonlocuzione, costruita con la parola &ctv, si legge presso Antim. fr. 28, 2 Wyss=Matthews Adurov

&ctv | (vd. il comm. di Matthews): cf. poi Menel. Aeg. SH 552 Τεμμίκιον &crv I, fr. adesp. SH 1177 Tapriccwov ... &cru |, Opp. Hal. IN 208 5. &ctv | Κωρύκιον, Triph. 174 e Quint. Smyrn. I 52 al. e Colluth. 141 Livrea Tp®tov &ctv, Nonn. Dion. XL 289 Kv@cciwov üctv. Nella poesia ovidiana figura l'equivalente latino di questa costruzione: particolare rilievo ha la frase Romanae conditor urbis (che si trova alla fine di un esametro in Mer. XIV 849 e all'interno di un pentametro in Fast. III 24), in quanto vi si parla - come qui - del fondatore di una città; ma cf. anche Fast. VI 683 Romanam

... urbem

|. Vd. in generale W.

Schulze, «Zeitschr. f. vergleichende Sprachforschung auf dem Gebiete der indogermanischen Sprachen» 47 (1916), p. 186 = Kleine Schriften (Göttingen 1934), p. 472. Per il vocabolo &ctvpov, cf. fr. 13, 5* con il comm. Per il ruolo di Coresia nel primo epinicio di Bacchilide, vd. il comm.

ai vv. 64-69.

δέ: Riguardo al δέ in terza posizione, vd. il comm. al v. 12 è”. δέ, Keie: Data l'evanescenza delle tracce, la lettura è molto incerta sul piano paleografico. Tuttavia essa risulta plausibile dal punto di vista sia sintattico sia stilistico: da un lato, infatti, qui occorre una congiunzione; dall'altro, l'apostrofe ad Aconzio è consona all'intera

parte finale dell'elegia e viene del resto suffragata dal pronome ςέθεν del v. 75. Per entrambi gli aspetti, vd. il comm. ai vv. 50-77. Riguardo all'etnico Κεῖος, vd. il comm. al v. 32 s.

75 ξυγκραθέντ᾽ αὐταῖς ὀξὺν ἔρωτα cédev: Il verbo εὐγκεράννυμι risulta impiegato per la prima volta da Aesch. Choe. 744 s. τὰ μὲν παλαιὰ ευγκεκραμένα | &Ayn (già qui, dunque, l'uso è traslato). Simili al nostro passo - per l'impiego metaforico e per la

presenza del dativo - sono Soph. TrGF dub. 944, 1 = Diphil. PCG 105, 1 πενία δὲ cvykpadeica (Övekp- codd. corr. Gesner) ôvcceBet τρόπῳ, Plat. Phil. 50 A λύπῃ τὴν ἡδονὴν cuykepavvovon, Men. PCG 769, 2 5. | mv τοῦ λόγου μὲν δύναμιν ... | ἤθει ... χρηςτῷ coyrekpouévnv, Mel. Anth. Pal. XII 154, 4 = HE 4561 τὸ πικρὸν ... cuykepäcor μέλιτι |, Heliod. X 38, 4 γέλωτι δακρύων ευὐγκεραννυμένων (v.]. κεραννυμένων), Nonn. Dion. XLVII 256 s. ἠθάδα πειθώ | ψεύδεϊ ευγκεράεας. Nel romanzo di Eliodoro, anche l'aggettivo εὔγκρατος ha valore traslato e si accompagna al dativo: cf. III 15, 1 al. adraic: Il pronome si riferisce a téccapoc ... πόληας (v. 70), le quattro città di Ceo elencate fino al v. 74. Trovo la lezione del papiro ineccepibile (vd. Hutchinson p. 31 n. 11, Fantuzzi-Hunter p. 115 n. 82 = p. 65 n. 84) e non vedo la necessità di mutarla in ἀάταις (alle sciagure), come aveva inizialmente pensato Pf., o in ἀνίαις (alle pene), come suggerisce Maas richiamandosi a Cat. LXVII

17 s. non est dea nescia nostri, | quae dulcem curis

COMMENTO:

AET. II FR. 174

391

miscet amaritiem. La presenza di αὐταῖς è invece essenziale per collegare l'ampia rassegna di storia mitica dei vv. 56-74 (che si conclude appunto con la tetrapoli di Ceo) alla tematica

erotica dell'elegia ὀξὺν ἔρωτα: 91 ὀξὺν ἔρωτα, ὀξύτερος I, Greg.

(ὀξὺν ἔρωτα c80ev): vd. il comm. Per il nesso, cf. Telest. PMG 805 ma anche ep. adesp. Anth. Pal. Naz. Carm. II 1, 1, 249 (PG 37 p.

ai vv. (a), 5 XII 989)

50-77. Vd. in generale l'app. ὀξὺς ἔρως e Nonn. Dion. XXXII 17, 4 = Asclep. HE 991 πόθος ἵμερος ὀξύς. Più in generale, per

l'impiego dell'aggettivo a proposito di passioni e stati mentali, cf. Call. fr. inc. sed. 480 Pf.

μανίην ὀξυτάτην. Può darsi che, come notato da Fantuzzi-Hunter p. 115 n. 81 = p. 65 n. 83, l'uso di ὀξύν nel nostro passo segnali anche un'allusione all'etimologia del nome di Aconzio (cf. fr. 169 con il comm.).

76 πρέςβυς: Νά. il comm. al v. 54 ἀρχαίου Eevoundeoe. Il grado positivo dell'aggettivo manca nel corpus omerico, dove invece figurano il comparativo zpecßdtepoc (Hom. Il. XI 787 al.) e i superlativi πρεεβύτατος (Hom. A. IV 59 al.) e np&cßwtoc ([Hom.] Hymn. XXX 2). Presso [Hes.] Scut. 245 si riscontra la forma rpecßfjec. ἐτητυμίῃ μεμελημένοε: Come osserva Pretagostini, Autore p. 44=133, C. mette in risalto la veridicità di Senomede a garanzia del fatto che anche la propria elegia è pienamente attendibile. Per le forme del participio ueueAnuévoc* con il dativo di ciò che si ha a cuore, cf. soprattutto SGO IV 20/25/01 v. 3 ἐδφροεούνῃ μεμελημένον, ἔνθα (notevole pure per il nostro successivo ἔνθεν), nonché Quint. Smyrn. V 263 &öppocbvn μεμελημένος (μεμιγμένος codd: corr. Hermann), [Apolinar.] Met. Ps. protheor. 10 èxegpocòvn

ueueAnuévoc*, XXXVI

61 GPecuocovn ueueAnuévor® e Nonn. Mer. XI 208 θυηπολίῃ

ueueAnuévoc*, ma anche Antip. Sid. Anth. Pal. VII 26,

5 = HE 256 (testo incerto), SGOI

01/12/04 v. 3, GVI 1516, 3 5. ueueAmuévoc ἧς Ἐπικούρου | δόγμαειν, 1996, 5; 2010, 1, Orac. Sib. 11 341, Quint. Smym. IV 500 ἱππαείῃ μεμελημένον, [Apolinar.] Mer. Ps. XVIII 30 al., Maneth. IV 124 al., Nonn. Dion. XXV 424 Adpn μεμελημένον ἄνδρα al., SGO IV 21/03/02 v. 2, 21/23/03 v. 13. Questi passi smentiscono la congettura ἐτητυμίης di Hunt (vd. app.). ἐτητυμίῃ: Il sostantivo non è attestato prima del nostro esametro. Cf. poi Maxim. De action. ausp. 462, Greg. Naz. Carm. II 2,7, 207 (PG 37 p. 1567), Nonn. Mer. VII 68*, VII 129*, XVII 177*, XXI 140*, Tulian. cons. Aeg. Anth. Pal. IX 771, 2. ἔνθεν ... ra186c: Le due parole sono di lettura molto ardua, ma rispondono bene alle esigenze sintattiche e contenutistiche (per ἔγθεν, cf. anche SGO IV 20/25/01 v. 3 riportato sopra nel comm. a ἐτητυμίῃ ueueAnpévoc). Il sostantivo παιδός designa certamente Cidippe, dal momento che il vocativo Keie (v. 74) e il pronome cé0ev (v. 75) si riferiscono ad Aconzio. legge molto a fatica) indica che il racconto relativo a Cidippe ha preso le mosse dalla trattazione storica di Senomede ed è rapidamente giunto fino a C., ispirandone la musa (qui designata con il nome di Calliope). Per il concetto espresso, vd. Bing p. 27 s., Hopkinson, Anthology p. 110, Kaesser p. 109. Sul piano formale, il verso somiglia alla chiusa di un epigramma di Posidippo (HE 3140 s. = 121, 7 s. Austin-Bastianini), dove il poeta scrive

così a proposito del parassita Firomaco: ἐκ γὰρ ἀγώνων | τῶν τότε ληναϊκὴν ἦλθ᾽ ὑπὸ Καλλιόπην (i due passi sono stati accostati da H. W. Prescott, «CPh» anche Wilamowitz, Hell. Dicht.I p. 184, Führer p. 12).

μῦθος

5, 1910, p. 494; vd.

... ἔδραμε: Dal punto di vista formale, cf. Eur. Jon 529 τρέχων ὃ μῦθος, Arat.

100 Aöyoc ... ἐντρέχει ἄλλος I, ma anche lo stesso Call. Dian. 245 ἔδραμε δ᾽ ἠχώ |.

392

CALLIMACO

ἡμετέρην

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

... Καλλιόπην: Cf. fr. 215, 1 ἐμὴ hodca con il comm. (per il pluralis

modestiae del nostro passo, vd. il comm. al fr. 1, 29 &etöouev). Riguardo a questo nesso

metonimico, cf. soprattutto Ioann. Gaz. I 76 5. ἡμετέρης ... | KadAıörnc, ma anche Ov. Trist.II 568 e Claudian. Laus Serenae (Carm. min. XXX) 1 mea Calliope. La menzione di Calliope senza un aggettivo possessivo può designare la produzione poetica (cf. [Verg.] Catalept. XV 4, Agath. Anth. Pal. IV 4, 61 = 2, 61 Viansino) o indicare 1] gruppo delle nove Muse (cf. Verg. Aen.IX 525). Sebbene considerazioni papirologiche inducano a credere che il misero fr. inc. lib. Aet. 239 (cioè ἢ fr. 12 del POxy. 2213) fosse originariamente vicino al fr. 11 del medesimo papiro, dove figurano in forma molto lacunosa i vv. 50-58 del fr. 174, l'insieme - quanto mai integro - dell'ampio fr. 174 non offre alcuna opportunità di collocare quel frustulo. Per la possibile pertinenza dei frr. inc. sed. 257, 275 e 276 alla nostra elegia, vd. i comm. ai frr. 167, 172 e 168. Non si può poi escludere che ad Aconzio e Cidippe spetti il fr. inc. auct. 139, nonché i frr. inc. sed. 480 Pf. e 528 Pf.: vd. i comm. ad locc. È invece improbabile che 1 frr. inc. sed. 116-119 siano da collegare a questo aition: vd. il comm. ai frammenti suddetti. Lo stesso vale per 1 frr. inc. sed. 500 Pf., 510 Pf. e 676 Pf.: vd. 1 comm. ad locc. Sicuramente estranei alla nostra elegia sono il fr. inc. sed. 549 Pf. e il fr. inc. auct. 779 Pf.: vd. 1 comm. ad locc. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammenti

175-177 (Tre aitia sconosciuti)

Un nuovo frammento delle Diegeseis Mediolanenses, pubblicato da C. Gallazzi e L. Lehnus (PMilVogliano inv. 28b), ha smentito l'ipotesi di Pf., secondo il quale la favola di Aconzio e Cidippe (frr. 166-174) era immediatamente seguita dalla sezione dedicata al Rito nuziale eleo (frr. 178-180). La congettura di Pf. risultava già molto incerta per la difficoltà di fare coincidere 1] malridotto lemma del Rito nuziale eleo offerto dalle Diegeseis con l'esametro pessimamente tramandato dal POxy. 1011 sùbito dopo la fine di Aconzio e Cidippe. Adesso il nuovo frustulo delle Diegeseis dimostra che tra le due elegie in questione si interponevano tre (o meno probabilmente due) aitia dal contenuto incerto: vd. l'app. a Dieg. Z 26-29, inerente al Primo aition sconosciuto.

A meno di Immaginare con scarsa plausibilità che il POxy. 1011 omettesse 1 tre aitia in oggetto, bisognerà dunque riconoscere nel fr. 175 (tramandato appunto dal POxy. 1011 immediatamente dopo Aconzio e Cidippe) 1 tre versi iniziali del Primo ation sconosciuto: vd. l'app. al fr. 175, 1. La possibile comparsa del verbo κοιμίζω e la menzione dello Zeus di Pisa nel v. 1 s. del fr. 175, ben conciliabili con il contenuto del Rito nuziale eleo (vd.

Barber, Notes p. 67 e il comm. al frr. 178-180), dovevano essere conformi anche all'argomento

del Primo

aition sconosciuto,

che

allo

stato attuale

delle nostre

conoscenze

non

siamo in grado di ricostruire.

Frammento

175

(76, 2 5. Pf. + nuovo) (Primo aifion sconosciuto)

1 xoıniccac: Può darsi che nella serie di lettere si debba riconoscere l'aoristo gouuiccoc oppure goiccoLc (vd. app.). Data l'equivalenza metrica di koiunca e xoiuicca, quest'ultima forma risulta impiegata molto raramente: vd. il comm. di Vian a [Orph.] Arg. 1007. Ma forse le lettere vanno interpretate e divise in modo diverso: a quanto pare, infatti, il verbo kowicco(1)c figurerebbe in posizione tale da violare il «ponte di Naeke» (vd. Introd.II.1.A.c.A4x.).

COMMENTO:

AET. II FRR. 174-177; 178-180

393

2 èc ti ce: Questa lettura e divisione delle lettere si deve a Morel, che pensa alla domanda introduttiva dell'aition (il pronome ce sembra più plausibile della particella ye). Pf. avanza con molta cautela l'ipotesi che possa trattarsi del verbo &ktice, con riferimento alla fondazione dei giochi olimpici. Vd. app. Πιεαίφυ Znvöc: Lo Zeus di Pisa è quello olimpio, dal momento che Pisa è la zona in-

torno a Olimpia: cf. fr. 201 Aut Iîcav ἔχοντι ε vd. il comm. al fr. 186 Ilicmc. Come epiteto di Zeus, il vocabolo TIıcatoc ricorre poche volte (in poesia lo si ritrova poi in un'iscrizione

epigrammatica del II secolo d.C., Ebert nr. 79, 3 5. Z[eùc]

[Πειο]ᾳῖοο). Può darsi che il suo

impiego da parte dei poeti latini derivi da questo passo callimacheo: cf. Stat. Theb. I 421 Pisaeo ... Tonanti | (con lo scolo), Silv. III 1, 140 5. Pisaeus ... | Iuppiter, Sen. Ag. 938 Pisaei Iovis |. Νά. W. Studemund, Anecdota Varia Graeca I (Berolini 1886) p. 265, Anon.

Ambr. 80, e p. 266, Anon. Laur. 77 (ἐπίθετα Arc) Πιεαίου (πιςεαίου codd.) e cf. Clem. Alex. Strom. VII 7, 48, 5, III p. 36. 16 Stachlin-Treu τοῦ [licatov Διός, Schol. Theocr. IV 29-30 c. C. assegna a Zeus una denominazione simile in Jamb. fr. 196, 1 Pf. | ᾿Αιλεῖος ὃ

Ζειύς. Lo iota di Ilicatov è lungo, come in tutte le occorrenze callimachee del toponimo Pisa: cf. frr. 186; 201, Jamb. fr. 196, 12 Pf. (con l'app.). La parola Ilrcertoc è utilizzata in poesia dall'ellenismo in poi: cf. p.es. Posidipp. Ep. 78, 4 Austin-Bastianini, Nic. fr. 74, 5 Schneider, Crinag. Anth. Pal. VI 350, 2= GP 1836*, Nonn. Dion. XII 324 al. È suggestiva la proposta, avanzata da Crusius, di leggere dopo Ζηνός il vocabolo ὄπις (avremmo allora la vendetta di Zeus). Vd. app.

Frammento

176 (nuovo) (Secondo aition sconosciuto)

]®oc: Queste tre lettere comparivano nel primo verso dell'aition, probabilmente alla sua conclusione. I miseri resti della Diegesis non ci sono di aiuto per risalire al contenuto dell'elegia.

Frammento

177 (nuovo) (Terzo aition sconosciuto)

]vôe γενέςθαι: È verisimile che, nel primo verso dell'aition, questa fosse la parte finale: l'infinito γενέεθαι è sempre collocato al termine dell'esametro nelle opere di C. (cf. Iov. 6, Lav.

117). Fondandosi

sulla lacunosissima

Diegesis, Gallazzi e Lehnus

ipotizzano

molto dubbiosamente che l'elegia vertesse su Pitagora e osservano che in tal caso essa sarebbe riferibile al medesimo punto del terzo libro cui risale il fr. 157: la congettura può essere presa in considerazione solo se lo stesso fr. 157 non rappresenta il primo verso di un aition. Vd. l'app. al rigo 40 s. della nostra Diegesis e il comm. al fr. 157.

Frammenti

178-180 (Il rito nuziale eleo)

Il merito di avere individuato il tema dell'elegia spetta a Barber. Lo studioso ha preso le mosse da alcune parole che si leggono per intero o si integrano in modo plausibile nella lacunosa Diegesis (l'Elide, delle fanciulle che si sposano, una lancia e un uomo armato) e le

ha connesse al seguente mito, la cui trattazione da parte di C. è testimoniata da due scoli all'liade omerica (vd. l'app. delle fonti ai frr. 178-180): il re dell'Elide Augia, dopo che Eracle ha ripulito dal letame le sue stalle, sı rifiuta di compensarlo in quanto l'eroe ha eseguito un ordine di Euristeo; Fileo, figlio di Augia, diviene arbitro della controversia e dà torto al

padre, che in preda all'ira lo manda in esilio; Fracle espugna l'Elide con un esercito, richiama Fileo dall'isola di Dulichio e gli consegna il trono; per rimediare alla scarsità di uo-

394

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

mini causata dalla morte di molti Elei durante la guerra, Fracle fa giacere le mogli dei caduti con i suoi soldati, il che porta alla nascita di numerosi bambini; l'eroe istituisce le gare

olimpiche in onore di Zeus, inaugurandole lui stesso. Dell'aition sopravvivono tre frammenti. Il fr. 178 consiste nel malridotto verso iniziale: vi si ravvisa un imperativo singolare εἰπέ o plurale εἴπατε, il cui ruolo nel contesto ci sfugge. L'esametro che costituisce il fr. 179 spetta al momento nel quale Augia, ucciso da Eracle, lascia a Fileo il domimo sull'Elide. Il fr. 180 tramanda in forma molto lacunosa gli ultimi quattro versi dell'elegia. Come

sembrano indicare i resti della Diegesis, C. illustrava un rito nuziale (0 - secondo

Barber - prenuziale) celebrato in Elide, che richiedeva la presenza di un uomo armato. Dai due scoli omerici considerati più sopra si deduce che il poeta spiegava la cerimonia con l'antico connubio fra le vedove elee e 1 soldati di Eracle. Altri riti nuziali caratterizzati dalla partecipazione di uomini in armi vengono raccolti da E. Samter, Geburt, Hochzeit und Tod. Beiträge zur vergleichenden Volkskunde (Leipzig-Berlin 1911), pp. 41-45. Montes Cala p. 391 s. osserva che il tema della nostra elegia esibisce una notevole somiglianza con uno degli Aetia Graeca plutarchei (58 = Mor. 304 C), dove un mito relativo a Fracle viene posto all'origine di una cerimonia nuziale contraddistinta da un insolito abbigliamento. Oltre ai due scoli omerici, altre fonti attribuiscono al contrasto fra Fracle e Augia lo

scoppio del conflitto tra l'eroe e gli Flei e rievocano la fondazione dei giochi olimpici per opera di Eracle: cf. Hypothesis Pindari Olympiorum (I p. 6. 14 Drachmann), Schol. Pind. OI.II 7 c, [Apollod.] II 5, 5 e 7, 2, 5 (nel resoconto dello pseudo-Apollodoro compaiono anche la testimonianza, l'esilio e il rientro trionfale di Fileo). Pausania riserva al mito un'e-

sposizione che coincide con le notizie finora esaminate per quanto riguarda la causa della guerra e il ruolo di Fileo (V

1, 9 - 3, 1), ma offre una versione diversa riguardo alla sorte

toccata alle donne elee dopo la sconfitta (V 3, 2): per la mancanza di giovani provocata dal conflitto, esse pregano Atena di restare incinte sùbito dopo essersi unite ai loro mariti; poiché la loro supplica viene esaudita, le donne dedicano un santuario ad ᾿Αθηνᾷ μήτηρ. Vd. M. Wellmann, De Istro Callimachio (Diss. Gryphiswaldiae 1886), pp. 116-119. È possibile che anche Antimaco accennasse all'invasione dell'Elide da parte di Fracle: cf. fr.33 Wyss = 32 Matthews con il contesto della citazione presso Paus. VIII 25, 10. A proposito delle competizioni olimpiche, cf. Call. Jamb. fr. 194, 58 Pf. ὡγὼν οὖν

Ὀλυμπίῃ. Frammento

178 (76, 1 Pf.)

Ein’ ἄγε μοι: Il nesso figura presso Hom. //. III 192 (nella teicoscopia), IX 673 = X 544, Od. XV 347, XXIII 261, Theocr. IV 58, Claudian. Anth. Pal. IX 754, 1, Eudoc. Cypr. I 193 e nel Certamen Homeri et Hesiodi, p. 228. 76 e 81 Allen (sempre *). Se invece di ein’ ἄγε si legge εἴπατε, bisogna osservare che nei poemi sia omerici sia esiodei questa forma di imperativo compare solo due volte (Hom. Od. II 427, XXI

198*, Hes.

Theog. 108*,

115).

È interessante notare che nei passi della Teogonia il verbo si riferisce alle Muse, come forse anche qui. Del resto lo stesso Call. Del. 82 apostrofa le Muse con l'imperativo εἴπατε, mentre nel v. 109 lo fa pronunciare a Latona che si rivolge alle ninfe. ].[.}... .awvıc: Può darsi che l'ultima parola dell'esametro sia l'accusativo ἦγις (vecchie un anno), presente nell'{liade omerica (VI 94=275, 309), e che nel papiro figuri la correzione îvic (figlio ovvero figlia). L'esame delle tracce non raccomanda particolarmente né il πίμπ]λᾳται vic suggerito da Barber (il quale ricostruisce così il senso complessivo:

COMMENTO:

AET.II FRR. 178-180

395

«Age dic mihi femina impleatur», con ἦγις inteso come femminile singolare equivalente a θήλεια) né d'altra parte il πίλ]ναται ἦγις proposto da Maas (la vergine si accosta, cioè si unisce a un uomo). Vd. app. Come per l'intero verso, il contesto ci sfugge del tutto.

Frammento 179 (77 Pf.) Ἦλιν ἀνάεςεεεθαι, Διὸς oiktov, ZAkıne Φυλεῖ: L'appartenenza del frammento agli Aitia e a questo punto dell'elegia è congetturale e si deduce dal suo contenuto: Augia, ucciso da Fracle, lasciò a suo figlio Fileo 1] dominio sull'Elide, definita dimora di Zeus in

quanto Eracle vi istituì i giochi olimpici in onore del sommo dio. Che il soggetto di ἔλλιπε sia Augia e non lo stesso Eracle, è reso probabile dall'affinità tra il nostro verso e un passo dell'Iliade omerica (II 107 s.), nel quale si parla di Tieste che lascia morendo lo scettro

regale ad Agamennone: αὐτὰρ ὃ αὖτε Ovécr’ ᾿Αγαμέμνονι λεῖπε gopfivat, | πολλῇειν vicorci καὶ "Αργεῖ παντὶ &vécceiv. Il medesimo brano induce a ritenere che nell'esametro callimacheo il verbo

&véccecdor abbia valore mediale,

come

accade una volta sola nella

poesia omerica: cf. Od. III 245 ἀνάξαεθαι con Schol. (HM) ἀντὶ tod βαειλεῦεαι. Il senso di Ἦλιν avüccecdan … ἔλλιπε sarà dunque lasciò l'Elide da dominare. Mentre è poco plausibile che alla fine del pentametro precedente comparisse l'aggettivo ἱερήν come immaginava Schneider (vd. app.), non possiamo escludere che il nostro verso coincida con il fr. inc. lib. Aet. 81,3 (vd. il comm. ad loc). λιν ... Διὸς oikiov: Qui c'è forse un ricordo dei numerosi passi omerici nei quali l'aggettivo δῖα è riferito all'Elide: cf. II. II 615, XI 686, 698, Od. XII 275, XV 298 (= Hymn.II 426), XXIV 431. Διὸς oiktov: Per il nesso, cf. Call. Dian. 141 Διὸς οἶκον (dove però la frase si riferisce propriamente alla casa di Zeus, cioè l'Olimpo). La frase Διὸς οἶκος ricorre poi presso Theoer. XVII 17, [Orph.] Lith. 13, Maneth. II 232, Nonn. Dion. II 258 al. oixtov: Fin dai poemi omerici (Il. VI 15 al.) il vocabolo si presenta quasi sempre di numero plurale (cf. anche Call. fr. 165, 9, Del. 282). Il singolare è attestato in poesia a partire da C.: oltre al nostro frammento, cf. Hec. SH 288, 67 = fr. 74, 26 H., Hec.

fr.324 Pf. =

129 H., Ep. I 15 Pf. = HE 1291*. Cf. poi Phil. Thess. Anth. Pal. VI 203, 7 = GP 3140, Nonn. Dion. III 411*, Mer. XVII 63*, Dioscor. GDRK XLII 22, 14*. Φυλεῖ: Il personaggio compare già nell'Iliade omerica: il passo più rilevante è II 628*, dove sono rievocati il litigio con il padre e l'esilio a Dulichio (vd. il comm. ai frr. 178-180), ma cf. anche X 110, 175, XV 530*, XXIII 637. Fileo ha inoltre un ruolo di spicco nel venticinquesimo idillio pseudo-teocriteo (vv. 55, 151, 154, 190; vd. il comm. introduttivo di

Gow).

Frammento

180 (77a Pf. + 158, 1 Pf.)

Che l'esiguo fr. 2 del POxy. 2213 tramandi le parti iniziali degli ultimi quattro versi dell'aition, è stato visto da Pf. Infatti nel margine sinistro del papiro il successivo principio di verso risulta contrassegnato da una coronide ed è dunque l'incipit di una nuova elegia: poiché tale incipit è stato identificato da Pf. con l'attacco dell'Ospite di Isindo, cioè della sezione che - come testimoniano le Diegeseis Mediolanenses - teneva dietro al Rito nuziale eleo, possiamo dedurne che il nostro frammento tramanda la fine di quest'ultimo aition. Una minima aggiunta al quarto verso è stata prodotta dall'unione del fr. 3 al fr. 2 del POxy. 2213, già suggerita da L., pol ritenuta da Pf. incompatibile con le tracce e ora da me argomentata sul piano paleografico: vd. l'app. al v. 4 e il comm. al fr. 181.

396

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Poiché nel rigo 5 5. della nostra Diegesis figura la parola πέπλους in riferimento alle

fanciulle elee che si sposano, forse il fr. inc. lib. Aet. 229 (nel cui v. 2 leggiamo [πεπλο[) spetta a questo aition. Potrebbero risalire alla nostra elegia il fr. inc. sed. 271 e il fr. inc. auct. 284, dove si parla rispettivamente del colle di Crono a Olimpia e della corona di oleastro portata in capo da Fracle. Esiste la possibilità che il fr. inc. lib. Aet.81 rientri nel nostro aition: vd. ıl comm. al fr. 179. Il fr. inc. sed. 541 Pf., che verte sulla successione delle più antiche Olimpiadi, sembra appartenere all'opera erudita Περὶ ἀγώνων (fr. 403 Pf.) piuttosto che al Rito nuziale eleo. Sicuramente erronea è la proposta, avanzata da Schneider, di attri-

buire alla vicenda di Eracle e Augia il fr. 295 Pf. (che in realtà rientra nell'Ecale = fr. 114 H.) e il fr. inc. auct. 279 incentrato su Milone. Vd. l'annotazione dopo il testo della Diegesis.

Frammento

181 (78 Pf. + 158, 2 s. Pf.) (L'ospite di Isindo)

"Qgperdec οὐλοὸν Éryxo[c μη .......... Ἰκοδ[: L'identificazione tra un inizio di verso tramandato nel misero fr. 2 del POxy. 2213 e il malridotto lemma della Diegesis relativa a questo aition si deve a Pf.: vd. il comm. al fr. 180. Io stesso poi - riprendendo un suggerimento di L., che Pf. aveva respinto perché lo riteneva incompatibile con le tracce, e corroborandolo proprio dal punto di vista paleografico - ho collegato al fr. 2 il piccolo fr. 3 del medesimo papiro, perché ho visto che nel fr. 3 si può ben leggere una parte del nostro v. 1, il cui inizio compare nel fr. 2: vd. l'app. al v. 1 e il comm. al fr. 180. Il probabile contenuto dell'elegia si ricostruisce grazie al vocabolo Ἰείνδιον, che Pf. ha individuato nel rigo 11 della lacunosissima Diegesis. L'aggettivo compare infatti in un brano dell‘ bis di Ovidio (vv. 621 5. e 625), dove il poeta augura al suo avversario la medesima sorte di Etalo, che morì trafitto dai dardi di un suo ospite di Isindo, città ionica tuttora

esclusa per questo motivo dalle cerimonie sacre degli Ioni: Aethalon ut vita spoliavit Isindius hospes, | quem memor a sacris nunc quoque pellit Ion, | ... |... | sic tua coniectis fodiantur viscera telis (Aethalon P,: Ethalon

e altre forme

cett; Isindius V ir: ysindius, insidius,

isidius e altre forme cett.; per 1 vv. 623 s. e 626, vd. il comm. al fr. 205). La spiegazione del passo ovidiano viene offerta dallo Schol. G (cf. anche Z): Isidius, a loco sic dictus, talon, hospitem suum, occidit; quare lIo omnes homines illius regionis a sa-

crificio suo repellit (i nomi propri sono stati corretti da Pf.: nessuna delucidazione in Ba: notizie inventate relative a Iside in bCFDConr.). Che 1 versi dellYbis recassero in sé tracce callimachee, era già stato giustamente supposto da Zipfel p. 39 5. e Perrotta p. 197 = 303 s. Vari elementi concorrono a suffragare la ricostruzione di Pf. Il più notevole consiste nel fatto che Stefano Bizantino registra l'etnico ’Ictvöroc e forse lo attribuisce appunto al terzo libro degli Aitia (vd. app. delle fonti). Inoltre Suida e altri lessicografi delucidano il nome proprio Ai0oAoc, che - come abbiamo visto - era secondo Ovidio l'uomo proditoriamente ucciso dall'ospite di Isindo (vd. app. delle fonti). Un ultimo dato a sostegno dell'ipotesi di Pf. è offerto dalla parola £ıyxolc, la cui presenza nel v. 1 del nostro frammento risulta confermata dal fr.3 del POxy. 2213: il vocabolo ἔγχος, infatti, sembra corrispondere ai tela con 1 quali l'ospite di Isindo trafisse Etalo stando all'/bis ovidiana. È probabile che il fr. inc. sed. 261 coincida con il nostro v. 1: vd. più avanti il comm. ad loc. Forse il fr. inc. lib. Aet. 235 risale all'Ospite di Isindo, se in esso viene menzionato Posidone: la cosa, infatti, può essere collegata alle festività celebrate da tutti gli Ioni (vd. sopra il comm.); tuttavia la convincente disamina di Ragone pp. 100-106 induce piuttosto a riconoscere nelle Apaturie la ricorrenza che fu scenario dell'assassinio e che da allora in poi

COMMENTO:

AET.II FRR. 181-182

397

negò accesso agli abitanti di Isindo. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

1 "Ὥφειλες οὐλοὸν Eryyo[e: L'inizio del verso potrebbe essere anche inteso come ὦφειλέ ε΄. Non è chiaro se οὐλοὸν Eiyxolc sia un nominativo, un accusativo o un vocativo. Il nostro emistichio corrisponde verisimilmente al fr. inc. sed. 261 t&gerèc οὔλοον ἄοτρον tramandato da Frodiano: ritengo che il grammatico o le sue fonti possano per errore aver

scritto &ctpov al posto di ἔγχος perché avevano in mente il nesso omerico οὕλιος ἀςτήρ | (scil. Sirio, 11. XI 62), unica attestazione della forma οὔλιος nelle opere omeriche.

”Qoeıkec: A quanto pare, il verbo introduce qui un desiderio irrealizzabile, come nell'Ep.XVII

1 Pf. = HE 1245 -e* e forse in Hec. SH 288, 38 = fr.73,9 H. -ov.

οὐλοόν: Questa forma alternativa di ὀλοός è impiegata da C. anche in Hec. SH 288, 58 = fr. 74, 17 H. Cf. inoltre Ap. Rh. II 85* al. Fratosth.

CA fr. 18, 2 p. 63, Nic. Ther. 352 al,

ep. adesp. Anth. Pal. XIV 74, 3*, Doroth. p. 369. 6 Pingree, [Orph.] Lith. 682* (οὐλοὸν dop), Maneth. Π 194 al., Procl. Hymn. I 49 al., Eudoc. Cypr. II 412. Nel corpus omerico

l'aggettivo si presenta come ὀλοός 0 οὖλος 0 - in un solo caso - οὔλιος (vd. sopra il comm.). La prima colonna delle Diegeseis Mediolanenses esibisce una lacuna tra il rigo 13, che spetta all'Ospite di Isindo (fr. 181), e il rigo 25, che Insieme a quello successivo precede senza interruzione il lemma di Artemide dea del parto (fr. 182). Poiché la sezione dedicata all'Ospite di Isindo, il cui inizio 51 trova nel rigo 10, verisimilmente non occupava da sola diciassette righi, è probabile che nella lacuna cominciasse una nuova esposizione, della quale 1 righi 25-26 costituiscono la fine. Pf. osserva che 1 due righi in oggetto consentono letture e supplementi adeguati al tema di Frigio e Pieria (frr. 183-185), cioè l'aition che nel POxy. 2212 sembra precedere immediatamente Euticle di Locri, elegia conclusiva del terzo libro (frr. 186-187: vd. il comm. introduttivo al fr. 185). Poiché d'altro canto nel papiro delle Diegeseis Artemide dea del parto si trova sùbito prima di Euticle di Locri alla fine del terzo libro, Pf. ipotizza che la latitante esposizione di Frigio e Pieria figurasse appunto tra l'Ospite di Isindo e Artemide dea del parto. Le ultime elegie del libro si susseguirebbero dunque in ordine differente nel POxy. 2212 e nel papiro delle Diegeseis: mentre l'uno sembra attestare la sequenza Frigio e Pieria - Euticle di Locri, l'altro offrirebbe la successione Frigio e Pieria - Artemide dea del parto prima di Euticle di Locri. La proposta di Pf. ha il duplice merito di spiegare l'assenza di Frigio e Pieria fra Artemide dea del parto ed Euticle di Locri nelle Diegeseis e di non estendere ulteriormente il già affollato terzo libro con un aition sconosciuto interposto fra l'Ospite di Isindo e la serie Artemide dea del parto - Frigio e Pieria - Euticle di Locri.

Frammento 182 (79 Pf.) (Artemide dea del parto) Ted δὲ χάριν .o |... kırAne]kovcıv: La Diegesis consente non solo di ricostruire con una certa precisione il contenuto generale dell'elegia, ma anche di individuare il probabile senso di questo esordio: perché mai le donne, quando sono in preda ai dolori del parto, invocano Artemide, che è una dea vergine? Il supplemento κικλήςσ]κουειν di Maas è estremamente verisimile. Molto allettante è inoltre l'integrazione Aoy[inv di Barigazzi, che si fonda su due passi euripidei riportati più avanti: qui al principio del carme ci si chiederebbe appunto per quale motivo le puerpere invocano Artemide come dea del parto (ma è anche possibile che venissero menzionate le partorienti stesse, come risulterebbe dal supplemento alternativo λόχ[ιαι di L.; per l'uso del vocabolo, vd. il comm. al fr. 44, 1 Aöxıov).

398

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

In aggiunta alle proposte di Maas, Barigazzi e L., suggerisco di integrare Aoyx[inv ce

(ovvero λόχ[ιαί ce) ... κικλήοσ]κουειν e di riconoscere qui un'apostrofe iniziale alla dea protagonista dell'elegia, secondo una movenza tipica degli Aitia (vd. Introd.1.4.E.). A supporto di tale supplemento, si osservi anche che negli esametri spondaici degli Aitia la cesura è di regola femminile (vd. Introd. II.1.A.a.111.). Segnalo inoltre che, per riempire il tratto di testo fra ce e kırAfickovcıv, si può pensare al supplemento βοηθόε: infatti l'aggettivo Bondöoc viene riferito ad Artemide in un passo dell'inno callimacheo alla dea (v. 21 s., riportato più avanti), il cui contesto è estremamente vicino al nostro verso sul piano sia dei contenuti sia della

forma. Ma è anche rilevante, in termini formali, un altro brano del mede-

simo inno (v. 153 s., parole di Eracle ad Artemide): ἵνα θνητοί ce βοηθόν 1... κικλήςκωειν. Il nostro verso risulterebbe allora Ted δὲ χάριν Aoxlinv ce (ovvero λόχ[ιαί ce), βοηθόε, kuwAñc]kovciv, Per quale motivo ti invocano come dea del parto, soccorritrice ovvero Per quale motivo le partorienti ti invocano, soccorritrice. Vd. in generale l'app. Come si ricava dalla Diegesis, il poeta offriva tre possibili ragioni per questa consuetudine. Il testo della prima è lacunoso nel papiro, ma con ogni probabilità essa si riferiva al fatto che Latona portò in grembo e diede alla luce Artemide senza soffrire. Infatti lo stesso C., nei

vv.

20-25

dell'inno

ad Artemide,

fa menzionare

alla dea bambina

il suo futuro

cömpito di assistere le partorienti afflitte dalle doglie, dovuto appunto alla circostanza che Latona non ha patito né quando era incinta di lei né quando l'ha generata: nökecıw è’

ἐπιμείξομαι ἀνδρῶν | μοῦνον ὅτ᾽ ὀξείῃειν da’ ὠδίνεςει γυναῖκες | τειρόμεναι καλέωει βοηθόον, ici με Μοῖραι | γεινομένην τὸ πρῶτον ἐπεκλήρωςαν ἀρήγειν, | ὅττι με καὶ τίκτουεα καὶ οὐκ ἤλγηςε φέρουεα | μήτηρ, ἀλλ᾽ ἀμογητὶ φίλων ἀπεθήκατο γυίων (vd. l'annotazione al rigo 30 5. della Diegesis). La seconda ragione prospettata nell'elegia era che Ilizia, per ordine di Zeus, concesse ad Artemide questa prerogativa. In proposito si noti che, nell'esordio del dodicesimo giambo, C. invoca Artemide come divinità equivalente a Ilizia (fr. 202, 1 Pf., vd. il comm.

ad loc.).

Secondo Diodoro Siculo (V 72, 5), Artemide collabora con Ilizia: tod δὲ Διὸς ἐκγόνουο ...

Εἰλείθυιαν καὶ τὴν ταύτης covepyòv Αρτεμιν. La terza ragione indicata nell'aition era che, appena nata, Artemide arutò Latona a partorire Apollo. A tale riguardo cf. [Apollod.] I 4, 1 Λητὼ ... γεννᾷ πρώτην Αρτεμιν, ὑφ᾽ ἧς μαιωθεῖεα ὕετερον ᾿Απόλλωνα éyévvncev (da qui dipende Tzetz. in Lyc. 401). L'informazione appare anche in due passi del commento di Servio a Virgilio (in Ecl. IV 10 e in Aen. ΠῚ 73), nel secondo dei quali leggiamo espressamente: unde, cum Diana sit virgo, tamen a parturientibus invocatur. Inoltre la notizia si rinviene due volte in un'orazione di Libanio

dedicata ad Artemide: cf. V 4, II p. 143. 1 Martin βοηθεῖ ... τῇ μητρὶ πρὸς τὸ καὶ τὸν ᾿Απόλλω texeiv e V 27, II p. 147. 14 Martin χεῖρα ἐν ὠδῖοιν Gpeyev. ἐπεὶ καὶ τὴν Εἰλείθυιαν ὅταν ἀκούεῃε, ἀκούεις τὴν "Ἄρτεμιν. È interessante osservare che questa orazione di Libanio mostra altre consonanze con gli Aitia callimachei: vd. 1 comm. al fr. 174, 24 s. (in merito al fiume Partenio) e al fr. 199 (riguardo al cacciatore sbruffone). Anche altrove, nella nostra opera, C. passa in rassegna aitia alternativi: vd. il comm. ai frr. 5-9!8 e - per gli antecedenti e le altre attestazioni di tale procedimento - il comm. al fr. 8. Ai passi dei Fasti ovidiani citati in quest'ultima sede, 51 aggiunga V 363-367 | vel quia ... |... I vel quia ... |... | vel quia (in una risposta eziologica fornita a Ovidio dalla dea Flora). Vd. inoltre Loehr pp. 194-198, Fantuzzi-Hunter p. 78=57. Artemide figura come divinità del parto in vari passi tragici: cf. Aesch. Suppl. 676 s. |

Αρτεμιν

… γυναικῶν λόχους ἐφορεύειν, Eur. Hipp. 166-168 τὰν δ᾽ eDAoyov ... | …

COMMENTO:

AET.II FRR. 182; 183-185

399

ἀύτευν | Αρτεμιν, Suppl. 958 "Ἄρτεμις λοχία |, ph. Taur. 1097 "Ἄρτεμιν λοχίαν |. Lo stesso C., nella successiva elegia di Frigio e Pieria, menziona il culto di Artemide milesia,

a proposito

della

quale

sappiamo

che

riceveva

offerte

dalle

partorienti

(fr.

184,

18

Nn]Aniöole], vd. il comm. ad loc.). Si può anche richiamare lo scolio al v. 204 dell'inno callimacheo ad Artemide: Οὗπις ἐπίθετον ’Aprémôoc : ἢ παρὰ τὸ ὀπίζεεθαι τὰς τικτούεας αὐτήν κτλ. Per Artemide dea del parto, cf. poi Leonid. Tar. Anth. Pal. VI 202, 3 5. = ΠΕ 1957 5. (e

altri numerosi luoghi epigrammatici), [Theocr.] XXVII 30, Euph. CA fr. 9, 11 s. p. 31, Cat. XXXIV 13 s., Hor. Carm. III 22, 2 s. al., Ov. Her. XX 193 s., Sen. Ag. 385, Mart. Spect. XII 5 s., [Orph.] Hymn. XXXVI 3-8 Quandt al., GVI 924, 10, Nonn. Dion. II 234-236 al. Νά. Tapia Zuniga p. 9. Ted δὲ χάριν: Con ogni probabilità il nesso introduce la domanda eziologica e ha quindi la medesima funzione della frase τεῦ δ᾽ ἕνεκεν", che si legge nel fr. 89, 25 ed è stata plausibilmente integrata nel fr. 64, 8 (proprio in alternativa a τεῦ δὲ χάριν", vd. l'app. ad loc.): nel primo brano, che sembra risalire al secondo libro, il «personaggio C.» chiede al suo interlocutore di spiegargli il motivo di una cerimonia celebrata a Ico, dopo avere impiegato nel v. 22 l'imperativo A[&]&ov; nel secondo luogo, che spetta quasi certamente al terzo libro, una voce anonima interroga la statua di Apollo delio in merito a una sua caratteristica. Come mostrano questi passi paralleli, non è facile individuare chi ponga il quesito nella nostra elegia: potrebbe trattarsi di C. o di una voce anonima o di altri. Poiché gli aitia dei libri terzo e quarto sono ognuno a sé stante, non è verisimile che il δέ collegasse questa elegia al tratto di testo anteriore. L'uso della particella si spiega piuttosto alla luce del precedente pronome interrogativo ted: nello stesso modo il nesso | tic δ᾽ viene Impiegato all'inizio di un discorso in Jamb. fr. 194, 64 Pf. (cf. gli altri passi citati, con indicazioni bibliografiche, nell'app. ad loc. e vd. le osservazioni critiche di Kerkhecker p. 102 n. 91). Vd. D'Alessio (p. 492), Fantuzzi-Hunter p. 326 n. 93 = p. 211 n. 91. kikAñc]kovciv: La plausibile integrazione di Maas rende spondaico l'esametro: vd. Introd. 11.1.A.a. Le forme kucAmeacoverv) e kixAñckovtoc si trovano già usate come explicit di esametri spondaici nella poesia omerica ed esiodea: cf. Hom. I. II 813, XVII 532, Od. IV 355, IX 366, [Hom.] Hymn. V 267, Hes. Op. 818. Cf. anche Call. Cer. 79 κικλήςκοιςα con il comm. di Hopkinson. Nel v. 154 dell'inno callimacheo ad Artemide (vd. sopra) il plurale xıcAnckwcıv designa - come qui - le invocazioni rivolte alla dea.

Frammenti

183-185 (Frigio e Pieria)

Per la posizione dell'elegia all'interno del terzo libro, vd. il comm. tra il fr. 181 e il fr. 182: come si è detto in quella sede, può darsi che due righi delle Diegeseis Mediolanenses tramandino la fine del riassunto dedicato al nostro aition, ma essi sono così lacunosi da non

risultare affatto utili per la ricostruzione dei contenuti. A questo scopo è invece preziosa la raccolta di Epistole amorose composta da Aristeneto: infatti la quindicesima lettera del primo libro, dedicata alla storia di Frigio e Pieria, parafrasa la trattazione callimachea, seb-

bene spesso la amplifichi retoricamente (vd. l'analisi di C. Consonni in A. Stramaglia (ed.), Epox. Antiche trame greche d'amore, Bari 2000, pp. 248-252 e il comm. di Drago all'epistola in questione (pp. 274-282). I temi dell'elegia si riconoscono anche grazie a un passo delle Mulierum virtutes di Plutarco e a un brano degli Stratagemata di Polieno, che dipende da Plutarco. Proprio la presenza di questi testimoni (soprattutto Aristeneto) ha consentito a Pf. di individuare la vicenda di Frigio e Pieria in una serie di frammenti che spettano ai no-

400

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

stri POxy. 2212 e 2213 e di scoprire così l'archetipo ellenistico della favola: poiché 1 luoghi di Aristeneto, Plutarco e Polieno fungono da vere e proprie fonti per il testo poetico, ne ho riportato ampi stralci nell'app. delle fonti al frr. 184 e 185. Oltre che a Pf., 1 tre autori in questione sono serviti da guida sia a L. sia a Barber-Maas nel connettere alcuni frammenti dei suddetti papiri e nell'integrare 1 versi callimachei. Vd. in generale l'inizio dell'app. critico al fr. 184. Il malridotto fr. 183 è stato dubbiosamente incluso da Pf. nella nostra elegia per motivi papirologici: se l'attribuzione coglie nel segno, esso va collocato poco prima del fr. 184, ma il suo contenuto non è identificabile. Il brano più ampio e meglio conservato consiste nel fr. 184: il confronto con 1 passi di Aristeneto, Plutarco e Polieno indica che il frammento tramanda la parte centrale e quasi tutta la conclusione dell'aition, d'altro canto, considerazioni papirologiche inducono a ritenere che esso preceda di poco - o immediatamente - il fr. 185 (cioè i presumibili resti degli ultimi tre versi dell'elegia). Ecco l'inizio mancante della vicenda, così come

si ricava dalle

tre testimonianze suddette: benché le città micrasiatiche di Mileto e Miunte siano da tempo in rapporti di reciproca inimicizia, esiste un accordo grazie al quale alcuni abitanti di Miunte possono recarsi a Mileto durante una ricorrenza festiva, per onorare insieme ai Milesi Artemide Neleide nel suo santuario (si noti che le notizie relative a questo culto, fornite dal tre testimoni seriori all'inizio della trattazione, vengono offerte da C. nel corso dell'ele-

gia: cf. fr. 184, 16-18); in una Pieria, i cui genitori - secondo il giovane Frigio, che secondo 5, p. 66. 10 Martini = p. 334.

di queste occasioni giunge da Miunte a Mileto la fanciulla Plutarco - si chiamano Πύθης e Ἰαπυγία; di lei si innamora Aristeneto è re di Mileto (cf. anche Parthen. Narr. am. XIV 23 Lightfoot) e secondo Plutarco il più potente tra 1 figli di

Neleo, fondatore di Mileto.

A questo punto comincia il testo del fr. 184: spinto dall'amore, Frigio promette a Pieria di concederle tutto ciò che ella desidera; l'assennata ragazza non chiede gioielli o tessuti preziosi, com'è tipico delle donne, ma esprime pudicamente il desiderio di tornare a Mileto con un maggior numero di concittadini; Frigio comprende allora che la richiesta di Pieria è dettata dall'amore di patria e ha come scopo la cessazione del conflitto tra Mileto e Miunte; in questo modo la fanciulla stringe fra le due città un'amicizia più salda di quelle sancite da sacrifici di buoi e dimostra con le sue semplici parole che l'amore procura un'irresistibile eloquenza;

Pieria realizza infatti la pace, a differenza delle molte

ambascerie

fra l'una e

l'altra città, che si sono inutilmente avvicendate a questo scopo. Il fr. 185 tramanda di certo le lacunosissime vestigia dei tre versi finali di un'elegia: si tratta con ogni probabilità della conclusione di Frigio e Pieria. Infatti nell'ultimo pentametro (e forse anche nel verso precedente) è possibile individuare lo spunto eziologico dell'intera vicenda, collocato alla fine dell'esposizione anche da Aristeneto e Plutarco: da allora in

poi le donne della Ionia (o della sola Mileto) esprimono tradizionalmente il desiderio che 1 loro mariti le rispettino come Frigio rispettava Pieria. Non sappiamo a quale fonte C. si sia rifatto in questa elegia, ma può darsi che qui come in altri casi - il poeta dipenda da Leandr(i)o di Mileto: vd. il comm. al fr. 190 e la fine del comm. introduttivo al fr. 65. È però anche ipotizzabile che C. abbia letto la vicenda nella Costituzione

di Mileto di Aristotele o nelle Storie milesie. Queste

due fonti, infatti,

sono registrate nella didascalia alla quattordicesima Sofferenza d'amore di Partenio, che si ambienta a Mileto e contiene - come abbiamo detto più sopra - una menzione di Frigio:

ἱοτορεῖ ᾿Αριετοτέλης (fr. 556 Rose) καὶ οἱ τὰ Μιληειακά (FGrHist 496 F 1). D'altro canto

COMMENTO:

AET. II FRR. 183-185; 183-184

401

è del tutto plausibile che, nella didascalia, la frase oi τὰ Μιληοσιακά si riferisca proprio ad autori di storiografia locale milesia del tipo di Leandr(i)o: vd. il comm. introduttivo di Magnelli ad Alex. Aetol. fr.3 = CAfr. 3 p. 122 e Lehnus, Argo p. 203 s. Invece, secondo Ragone pp. 80-86, la trattazione callimachea della vicenda di Frigio e Pieria scaturisce da eventi a lui contemporanei, cioè l'abbandono di Miunte da parte dei suoi abitanti e la loro confluenza sinecistica in Mileto (cf. Strab. XIV

1, 10, Paus. VII 2, 10-

11): «Alla base dell'aition ... non ci sarebbe dunque una fonte locale milesia ..., ma piuttosto una neoformata leggenda eziologica che nel III sec. a.C. tenta ... di esprimere in termini di archaiologia leggendaria uno degli esiti cultuali recenti del sinecismo miusio-milesio» (p. 84). Come qui Frigio si innamora di Pieria quando per la prima volta la vede durante la festa di Artemide a Mileto, così nell'elegia di Aconzio e Cidippe (frr. 166-174), appartenente anch'essa al terzo libro degli Aitia, il giovane si invaghisce della fanciulla allorché la incontra nella festa di Apollo a Delo. Per le analogie tra Frigio e Pieria e Aconzio e Cidippe, vd. Barigazzi, Frigio p. 14, Fantuzzi-Hunter p. 66 s. = 47. Si noti però che il personaggio di Pieria ha qui un ruolo centrale e attivo, riservato invece ad Aconzio nell'altra elegia: vd. Herter, Kallimachos II p. 255. Vd. Introd.1.4.D.-E.

Una storia per certi versi simile a quella di Frigio e Pieria si legge nella nona Sofferenza d'amore di Partenio (la didascalia la fa risalire alle Storie di Nasso di Andrisco, FGrHist 500 F 1): durante un assedio di Nasso da parte dei Milesi, la fanciulla nassia Policrita cede

alle profferte del giovane nemico Diogneto, ottenendo in cambio la proditoria consegna ai Nassi della roccaforte milesia e salvando così la sua patria.

Frammento

183 (81 Pf.)

L'analisi papirologica induce a ritenere che questa lacinia sia di poco distante dal fr. 184. Benché il nome di Frigio sia stato integrato da L. nel v. 3, l'attribuzione del frammento alla nostra elegia è alquanto dubbia: infatti le lettere residue e gli incerti supplementi suggeriti da L. non sembrano collimare con l'inizio della storia di Frigio e Pieria, così come la si

legge presso Aristeneto. Né però si concilierebbe con la parafrasi di Aristeneto la collocazione del frammento sùbito dopo il fr. 184 e appena prima del fr. 185, suggerita da Bari gazzi. Vd. l'annotazione dopo il testo. 1 |kteav[ov: Se si tratta del vocabolo κτέανον, si osservi che esso è attestato a partire dal corpus esiodeo (Op.315, fr. 257,5M.-W.).

Frammento

184 (80 Pf. + 82 Pf.)

1-3: Come indica la parafrasi di Aristeneto, nel v. 3 la frase τοῦτ᾽ εἰπεῖν fa parte del discorso di Frigio a Pieria: il giovane esorta la fanciulla a dire ciò che le sarebbe gradito ricevere da lui. È probabile che già il v. 1 s. contenga le parole di Frigio. 2 εἴθε γάρ: Ho corretto in εἴθε la lezione eıte del papiro (che darebbe luogo al nesso εἴτε γάρ, sia che infatti), fondandomi sul brano corrispondente della parafrasi di Aristeneto,

dove Frigio si rivolge così a Pieria: εἴθε γὰρ Bappodca λέξειας, ὦ καλή, τί ἄν cor χαριέοτατα γένοιτο παρ᾽ ἐμοῦ. La frase εἴθε αἴθε γάρ, del resto, è tipicamente callimachea: cf. Hec. fr. 260, 48 Pf. = SH 288, 48 = fr. 74, 7 H. con il comm.

di Pf., dove sono ci-

tati Call. Cer. 100, fr. inc. sed. 571, 1 P£.#, Ap. Rh. III 1100*, 1116. Si possono aggiungere

fr. eleg. adesp. SH 967, 7*, Greg. Naz. Carm. (PG 37) I 2, 14, 98 (p. 763), II 1, 51, 26 (p. 1396). Vd. in generale l'app.

402

CALLIMACO 3 τοῦτ᾽

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

εἰπεῖν: Riguardo alla collocazione metrica della frase, cf. Call. Ep. XLVI 8

Pf. = HE 1054 τοῦτ᾽ einau*. 4 ἐ]ξ ἐμέθεν tel: La parafrasi di Aristeneto e la presenza del nesso À] po all'inizio del verso successivo mostrano che con questo esametro ha termine il discorso di Frigio a Pieria. Come risulta da Aristeneto, il giovane promette alla ragazza di realizzare 1 suoi desideri:

Maas propone perciò di integrare ἐ]ξ ἐμέθεν te[A&cavroc, espressione che equivarrebbe a ἐμοῦ ἐκτελέεαντος (vd. app.). Per la frase ἐ]ξ ἐμέθεν, cf. Hom. Il. I 525, V 653*, IX 456*, XXI 217* e lo stesso Call. Lav. 120.

5-7 ἢ] pa: cè δ᾽ où πυλιεών ... ob κά]λυκες, | Α]ύδιον οὐ κα[ζίρωμα ... ]t Kasıplalı 1 Aarpısc, oùkayl .] ικ [[... ]c: Dopo avere riferito le parole di Frigio a Pieria, C. - fedelmente imitato da Aristeneto - apostrofa direttamente la ragazza (fino al v. 20,

nel

residuo

testo

ricostruibile;

vd.

Introd.

1.4.E.):

l'accusativo

cé è retto

dal

verbo

gE[€]BoA[o]v (v. 9). Quando il giovane le domanda che cosa desideri, Pieria non chiede gioielli o ricche stoffe: la serie dei beni preziosi comincia con un diadema (πυλεῶν); segue una breve lacuna, nella quale forse veniva menzionata una collana (cf. Aristeneto ὅρμος, περιδέραιον) o figurava semplicemente un aggettivo riferito ai successivi orecchini (possibile significato della parola κάλυκεο); compare poi un tessuto lidio (Λύδιον καίρωμα), cui forse fanno séguito stoffe confezionate da serve della Caria (nel v. 6 L. propone di integrare p.es. τά θ᾽ icrovpyodc]i, ispirandosi ad Aristeneto); la fine dell'enumerazione, contenuta nel danneggiato v. 7, non è ricostruibile: a giudicare da Aristeneto, vi erano forse menzionati degli abiti. Aristeneto sembra avere ampliato retoricamente la serie delle preziosità e ha di certo inserito fra queste le serve carie, che invece - come si è detto - C. menzionava forse in

quanto

tessitrici di ricche

stoffe:

ma

nel v. 6 è molto

attraente un'integrazione

come

kalipaua noönver£c, οὐχ]ὶ, suggerita da Barigazzi sulla base di Aristeneto, dalla quale risulterebbe che già C. includeva le serve carie fra 1 beni preziosi (non un tessuto lidio lungo fino ai piedi, non serve carie). E può anche darsi che, secondo un'ulteriore ipotesi di Barigazzi, nel v. 7 l'elenco si chiudesse - come poi presso Aristeneto - con la menzione delle

serve lidie, brave tessitrici (οὐκ &y[o@]at alla fine del primo colon del pentametro). Vd. in generale l'app. L'intero passo callimacheo - con la sua serie di cose lussuose precedute da negazioni sembra ispirarsi al vv. 64-73 del grande partenio di Alcmane (PMGF 1: vd. anche il comm.

al v. 6 Λ]ύδιον οὐ ka[ipœua). Allo stesso tempo C. può avere tenuto presenti i vv. 175-177 dell'Elettra di Euripide, dove la protagonista dichiara al coro la propria noncuranza per fe-

ste e collane: οὐκ En’ ἀγλαίαις, φίλαι, 5 πυλιεών:

θυμὸν οὐδ᾽ ἐπὶ xpvc&ouc | ὅρμοις ἐκπεπόταμαι.

Si tratta di un diadema femminile, che nel nostro passo va inteso come un

oggetto d'oro. Cf. già Alcm. PMGF 3, 65 e 60, 2 5. τόνδ᾽ ἐλιχρύεω πυλεῶνα | κἠρατῶ κυπαίρω, cui fanno riferimento Hesych. s.v. πυλεῶνα e Pamphil. ap. Athen. XV 678 A (quest'ultimo specifica che il πυλεών è una ghirlanda posta dagli Spartani sul capo di Era). Cf. poi Eratosth. CA fr. 10, 1 p. 60 e fr. adesp. SH 1095 (2) e vd. F. Bechtel, Die griechischen Dialekte II (Berlin 1923) p. 379. ka]Avxec: La lettura e l'integrazione di L. sono estremamente plausibili: infatti il vocabolo - nel senso di gioielli simili a boccioli, forse orecchini (corrispondenti agli

ἑλικτῆρες della parafrasi di Aristeneto) - è un hapax omerico: cf. I. XVII 401 κάλυκάς te καὶ ὅρμους | (= [Hom.] Hymn. V 163). Lo si ritrova presso [Hom.] Hymn. V 87 (vd. il comm. di Càssola), Anacr. fr. 156 Gent. = PMG 479 (cf. il luogo di Polluce riportato nell'app. delle fonti) e Nonn. Dion. XLII 401. Gli scoli Ab(BO)T al passo iliadico spiegano

COMMENTO:

AET. II FR. 184

403

che le κάλυκες sono gioie a forma di rosa e offrono tre possibili significati per il termine

(anelli, orecchini o fermacapelli): &ugepfj p66o1c. οἱ δὲ δακτυλίους, οἱ δὲ ἐνώτια, οἱ δὲ χρυςᾶς εὕριγγας τοὺς πλοκάμους περιεχούεας φαείν (vd. anche i comm. di Leaf e di Edwards al brano dell'Iliade). Si tratterebbe di collane secondo Hesych. s.v. κάλυκας: dpuovc, περιτραχηλίους xécuove. Dal passo di Polluce riportato nell'app. delle fonti si ricava solo che le κάλυκες

sono un ornamento per la testa, mentre Esichio - nell'illustrare le

κάλυκες (vd. app. delle fonti) - si limita a definirle un ornamento femminile.

6 Λ]ύδιον

où κα[ίρωμα: Le integrazioni, che spettano a Pf., sono ottime. La bel-

lezza degli accessori di abbigliamento lidi è già messa in risalto da Alcmane (PMGF

1, 67

s.): οὐδὲ μίτρα | Λυδία (vd. il comm. ai vv. 5-7). Per il vocabolo καίρωμα, utilizzato da C. nel fr. inc. sed. 547 P£.*, vd. il comm. al fr. 143, 13.

Kdeip[a]:: Nella sua unica attestazione omerica (11. IV 141 s.) l'etnico è inserito in un

contesto analogo al nostro passo: ὡς δ᾽ ὅτε τίς τ᾽ ἐλέφαντα γυνὴ φοίνικι μιήνῃ | Mnovic ἠὲ Κάειρα. Vd. Barigazzi, Frigio p. 16. 7 λάτριες:

Il vocabolo

è di uso

[Theogn.] 302*, 486. 8 5. τ]οῖς ἔπι θηλύτ[ερ]αι

prevalentemente

poetico

e ricorre

a partire da

.[ ... ] iaivec0e | Egartov: L'apostrofe di C. a Pieria

si estende qui a tutte le donne, che solitamente si compiacciono in modo particolare degli

oggetti preziosi. A sostegno dei supplementi di Pf. t]oîc e θ[αλερὸν θυμόν]), si possono richiamare sia il fr. adesp. PMG sia 560 I 01/19/01 v. 5 φρένας ἰαίνονται" sia Quint. Smym. ἀταλὰς (ἀταλὰς Lehrs: μεγάλας codd.) φρένας ἰαίνεοκεν, Νεοπτολέμοιο

φίλον

κῆρ.

La formulazione

callimachea

θαλερὰς φρένας] (ovvero 925 (e), 18 θαλερὰν φρένα VII 340 © ἔπι τυτθὸς ἐὼν 684 τοῖς ἔπι θυμὸν louve

può

avere

influito

su Quint.

Smyrn. I 605 5. χαλκὸν ἅλις καὶ ypvcöv (cf. i nostri vv. 5-7), à te φρένας ἔνδον ἰαίνει θνητῶν ἀνθρώπων. Il supplemento θαλερὰς φρένας] ovvero θ[αλερὸν θυμόν] affianca a ἰαίνεεθε un accusativo di relazione: per il costrutto, cf. da un lato Ap. Rh. II 639 φρένας ἔνδον ἰάνθη I

Greg. Naz. Carm.1 2, 1, 503 (PG 37 p. 560) ἰαινόμενος φρένα, dall'altro Hom. Od. XXIII 47 e [Apolinar.] Met. Ps. XLIV 21 θυμὸν ἰάνθης I, Ap. Rh. IV 914 e GVI 1517, 3 θυμὸν ἰανθείς |, [Apolinar.] Met. Ps. LKXXV 201 θυμὸν ἰαινοίμην, CXXI 1 e Greg. Naz. Carm. II 1, 1, 69 (PG 37 p. 975) θυμὸν ἰάνθην I, Cyr. Anth. Pal. IX 808, 9 e Musae. 107 θυμὸν ἰάνθη I. Più in generale, cf. Hom. A. XIX 174, XXIII 600, XXIV 321 = Od. XV 165, Ap. Rh. IH 1019, IV 23 s., 1096, Quint. Smyrn. IV 495, XIII 83. 8 θηλύτ[ερ]αι: Nelle opere omeriche ed esiodee l'aggettivo di forma comparativa θηλύτεραι è sempre attributo di γυναῖκες (Hom. A. VITI 520 al., Hes. Theog. 590 al). A quanto pare, invece, C. tratta la parola alla stregua di un sostantivo (il fenomeno è tipicamente callimacheo: vd. in proposito il comm. al fr. 50, 53 xect[o]®). L'uso sostantivale di θηλύτεραι diventa molto frequente in poesia a partire dal periodo ellenistico: cf. p.es. Theocr. XVII 35*, Ap. Rh. III 209 al., Bion fr. 15 Gow

(con il comm.

ioivec0e: L'allungamento dello iota iniziale del verbo pus omerico, dove figura all'inizio del verso: cf. Od. XXII con il comm. di Fernändez-Galiano e Heubeck. A partire da si riscontra con una certa frequenza: cf. Mel. Anth. Pal. XII Hal. II 617 ἰαίνονται", [Orph.] Lith. 268 ἰαίνεται, SGO

di Reed).

compare una volta sola nel cor58 5. εἰς ὅ κε còv κῆρ | ἰανθῇ questo luogo di C., il fenomeno 95, 5 = HE 4402 | iatvoı, Opp. I 01/19/01 v. 5 (riportato nel

comm. al v. 8 s.), Quint. Smyrn. IV 402 iaivoviar*, X 327 ἰήνειεν. Lo iota viene anche al-

lungato nel raro composto ευνιαίνομαι:

cf. [Opp.] Cyr. INI 167 ευνιαίνουει, Greg. Naz.

404

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Carm.I 2, 1,7 (PG 37 p. 522) ευνιαίνοιεθε. L'esametro è spondaico (vd. Introd. II.1.A.a.) e, se le integrazioni di Pf. θ[αλερὰς

φρένας] ovvero θαλερὸν θυμόν] colgono nel segno (vd. il comm. al v. 8 s.), ha insolitamente la cesura maschile: vd. /ntrod.II.1.A.a4n.

9 ἔξαιτον: La parola corrisponde qui all'avverbio ἐξαιρέτως (vd. il lemma di Esichio riportato nell'app. delle fonti). πυκι[νοῦ ylvouatoc: Già a partire dalla poesia omerica, l'aggettivo ruk(i)vöc significa spesso perspicace, assennato quando si accompagna a vocaboli che esprimono le fa-

coltà intellettive: βουλή (1. IX 76 al.), μήδεα (4. III 202 al.), ufitic (Hymn. II 414), νόος (II. XV 461), φρένες (Il. XIV 294 al.). I poeti successivi lo impiegano anche in unione a

θυμός (Pind. Pyth. IV 73), ἐπιφροοῦναι (Opp. Hal. III 170), νόημα (Opp. Hal. III 92 s., [Opp.] Cyn. 1350) e rparidec (Maneth. II 479 al., Christod. Anth. Pal. Il 171, ep. adesp. Anth. Pal. Append. III 256, 8, vol. III p. 333 Cougny). Per il vocabolo γνῶμα (attestato a partire da Aesch. Ag. 1352) e il suo uso in questo passo, vd. van der Ben pp. 51-54.

ἐξ[έ]βαλ[ο]ν: Il verbo regge l'accusativo cé del v. 5 (vd. Lapp p. 38). Gli oggetti preziosi menzionati nei vv. 5-7 non allontanarono Pieria dall'assennato giudizio: la fanciulla non desidera altro che la pace fra Miunte e Mileto.

10 αἰδοῖ δ᾽ ὡς goi[viki] τεὰς ἐρύθουεα zapeıdc: Quando Pieria rivolge la parola a Frigio, il pudore arrossa le sue guance come farebbe la porpora. Il supplemento

goilvuci] di Pf. è ottimo: C. sembra ispirarsi a Eur. Phoen. 1487-1489 τὸν ὑπὸ βλεφάιροις φοίνικ᾽, ἐρύθημα προεώπου, | αἰδομένα φέρομαι (per di più, nel v. 1485 compare la paτοῖα rapfidoc) e Iph. Aul. 187 5. gorviccovca παρῇδ᾽ ἐμάν laicxbvg νεοθαλεῖ. L'accostamento del rossore alla porpora si trova forse già presso Frinna (SH 401, 34 = fr. 4, 34 Neri), se si accetta l'integrazione φο]ινίκεος αἰδώς |, suggerita da Maas sulla base dell'ep. adesp.

Anth. Pal. IX 362, 14 | πορφυρέῃ ... αἰδοῖ I Cf. poi Quint. Smyrn. XIV 47 | αἰδοῖ πορφύρουεα παρήιον, Greg. Naz. Carm.I 2, 1, 346 (PG 37 p. 548) gorviccovca rapiov e Nonn. Dion. 183 5. αἰδομένη δέ | napdevinv πόρφυρε rapnida, nonché il nesso purpureus pudor impiegato da Ovidio (Am. I 3, 14, II 5, 34, Tr. IV 3, 70) e Stazio (Theb.II 231) e la

menzione della porpora in merito al rossore pudico delle fanciulle presso Verg. Aen. XII 64-69, [T1b.] III 4, 30-32, Claudian. Rapt. Pros. I 272-275 (in questi passi la porpora - come qui - funge da comparante all'interno di similitudini). L'explicit del nostro esametro, dov'è notevole la forma ἐρύθω (equivalente di ἐρεύθω)

non attestata in precedenza, ha influito sull'Hymn. in Isin Andr. 147 (IG XII 5, 739) ἸἹλαρὰν ἐρύθοιςα παρειάν | (vd. W. Peek, Der Isishymnus von Andros und verwandte Texte, Berlin 1930, p. 109). Il verso callimacheo riecheggia anche in Orac. Sib. VIII 467 s. (Maria dopo

l'Annunciazione) &nv δ᾽ ἐρύθηνε παρειήν |... θελγομένη φρένας αἰδοῖ I. Inoltre, per l'immagine, cf. soprattutto Ap. Rh. I 790-792 ἣ δ᾽ ἐγκλιδὸν ὄεςε βαλοῦεα (cf. il nostro v. 11) | παρθενικὰς ἐρύθηνε rapnibac: ἔμπα δὲ τόν γε | αἰδομένη ... npocévverev, II 681 5. τῆς δ᾽ ἐρύθηνε rapita» δὴν δέ μιν αἰδώς |napdevin κατέρυκεν, 963 θερμὸν δὲ παρηίδας εἷλεν ἔρευθος I, Quint. Smyrn. I 60 | αἰδὼς δ᾽ ἀμφερύθηνε raprıa, XIV 39-41 αἰδώς |... | καλὰς ἀμφερύθηνε παρηίδας, Musae. 160 5. παρθενικὴ .. ἐπὶ χθόνα πῆξεν ὀπωπήν (cf. il nostro v. 11), | αἰδοῖ ἐρευθιόωεςαν ὑποκλέπτουεα παρειήν

(con il comm.

di Kost),

ma

anche

Chaerem.

TrGF

71

F

1,3

5. αἰδὼς

δ᾽

ἐπερρύθμιζεν ἠπιώτατον | ἐρύθημα λαμπρῷ rpocrWeica χρώματι, Theocr. XXX 8 αἰδέεθεις προείδην ἄντιος (cf. il nostro v. 11), ἠρεύθετο δὲ χρόα, Leonid. Tar. Anth. Pal.

COMMENTO:

AET. II FR. 184

405

IX 322, 5= HE 2117 αἰδοῖ πάντα πρόςωπ᾽ ἐρυθαίνομαι, Greg. Naz. Carm. (PG 37) I 2, 29, 201 5. e 255 s. (pp. 899 e 903) (Oedc) ἐρύθηνε rapita ed ἐεθλὸν ἔρευθος, | αἰδώς, II 1, 45, 247 (p. 1370) | atöodc ... ἔρευθος I, II 2, 6, 48 5. e 77 (pp. 1546 e 1548) ἔρευθος I...

αἰδομένῃει ed ἔρευθος ... αἰδώς |, Nonn. Dion. XLII 217 ἐρύθημα ... αἰδοῦς |, Carm. Anacreont. XVII 20 West | ἐρύθημα ... Αἰδοῦς |, Musae. 173 αἰδοῦς ὑγρὸν ἔρευθος &rocrälovca προςώπου. Sul piano solo formale, cf. Opp. Hal. II 427 5. ἔρευθος | gorviccer. 11 ἤν͵]επες φῳ[θαλμο]ῖς ἔμπαλι [.. Jouev[ ] .[: Parlando con Frigio, Pieria volge altrove lo sguardo per pudore. Un gesto simile è compiuto dall'Elena omerica, quando contrariata rimprovera Paride (/l. III 427): | öcce πάλιν kAivaca. E in maniera analoga, nel quinto inno omerico (v. 182), il timoroso Anchise distoglie gli occhi da Afrodite:

Occe παρακλιδὸν ἔτραπεν ἄλλῃ |. Il confronto con questi due passi, la presenza della forma ἀποκλίναςα nella parafrasi di Aristeneto e l'impiego dell'avverbio ἐγκλιδόν da parte di Apollonio Rodio in un brano molto simile al nostro distico (I 790-792 riportato nel

comm. al v. 10) inducono a preferire l'integrazione di Herter ἔμπαλι κ[λιν]ομέν[ο] {ς, che mi

sembra

assai più plausibile delle proposte

di Pf. e di L., rispettivamente

ἔμπαλιν

[icxJousv[o]ılc ed ἔμπαλιν [AR Jouév[o]i{[c, e del supplemento alternativo di Herter ἔμπαλι β[αλληομέν[ο]ι[ς (basato su Hom. Od. XVI 179). Νά. app. Che la vergogna impedisca di guardare dritto in faccia, si legge anche nel passo di Teocrito e nel primo brano di Museo riportati nel comm. al v. 10. Secondo gli antichi, il pudore risiede principalmente negli occhi: cf. in proposito fr. 99, 7 con il comm. L'avverbio ἔμπαλι(Ν), assente nei poemi omerici, ricorre presso [Hom.] Hymn. IV 78. Viene impiegato da [Hes.] Scut. 145 a proposito del cipiglio di Fobo (ἔμπαλιν Öccowcıv πυρὶ λαμπομένοιει δεδορκώο). Euripide lo utilizza piuttosto spesso insieme al verbo (ἀπο)ετρέφω, per indicare uno sguardo distolto nell'imminenza di un delitto (Med. 923, Hec. 343, Iph. Aul. 1549) o in preda allo sdegno (Med. 1148). Apollonio Rodio lo usa quando descrive Medea che volge gli occhi altrove per non assistere all'uccisione del fra-

tello Apsirto: κούρη | ἔμπαλιν ὄμματ᾽ ἔνεικε, καλυψαμένη ὀθόνῃει (IV 465 s.). Νά. Barigazzi, Frigio p. 17. Sul piano formale,

si osservi che nell'/liade omerica l'avverbio πάλιν

si riferisce allo

sguardo distolto non solo nel passo riportato sopra, ma anche in XIII 3 e XXI 415 πάλιν

tpérev Öcce φαεινώ | (a proposito rispettivamente di Zeus e di Atena). 12 s. Je χρήζοιμι [νέ]εεθαι 1]. .[. μετὰ πλ]εόνων: Come si ricava da Aristeneto, Plutarco e Polieno, il distico conteneva la risposta di Pieria a Frigio: dopo che il giovane le ha chiesto che cosa gradirebbe ricevere da lui (cf. vv. 1-5), la fanciulla gli risponde che vorrebbe tornare a Mileto con più numerosi concittadini (l'integrazione μετὰ πλ]εόνων di L. e Pf. si fonda appunto sul μετὰ πολλῶν di Plutarco, vd. app.). Pieria, cioè, domanda implicitamente a Frigio di porre fine all'inimicizia tra Mileto e Miunte, in modo tale che tutti gli abitanti di Miunte possano sempre recarsi a Mileto, senza aspettare la ricorrenza festiva in onore di Artemide (cf. vv. 16-18).

12 xpiGorpi: Nei poemi omerici ed esiodei il verbo si presenta solo come χρηίζω (Hom. Il. XI 835, Od. XI 340, XVII 121, 558, Hes. Op. 351, 367, 499). La forma 4pñCo ricorre a partire da [Theogn.] 958.

14 s. | €, νόον δ᾽ ἐφ[ρ]άςεατο

ceio | | πατρίδι porouévne: Anche il conte-

nuto di questo distico si ricostruisce con l'ausilio di Aristeneto, Plutarco e Polieno.

Conti-

nuando ad apostrofare Pieria, C. scrive che Frigio intuì il suo pensiero: comprese, cioè, che

406

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

la ragazza bramava per la patria Miunte la pace con Mileto.

14 νόον δ᾽ ἐφ[ρ]άςεατο ceîo: Cf. Ap. Rh. III 826 ἵνα φράζοιντο νόον kai μήδεα kobpncl, fr. epic. adesp. SH 913, 6 vo[..] δ᾽ epp[ con il comm. 15 μαιομένης: Il participio μαιομένη ricorre già presso Hom. Od. XIII 367, [Hom.] Hymn.Il 44. 16-23: Questi versi, che risultano dalla combinazione di vari frammenti dei POxy. 2212

e 2213, sono stati integrati da Pf., L. e Barber-Maas grazie al confronto soprattutto con Aristeneto, ma anche con Plutarco e Polieno.

16-18: C. spiega che, prima dell'intervento pacificatore di Pieria, Mileto e Miunte erano nemiche fra loro: le ostilità si interrompevano - in virtù di un accordo - solo durante una ricorrenza festiva, allorquando gli abitanti di Mrunte potevano recarsi a Mileto per compiere con i Milesi una processione al santuario di Artemide Neleide (così chiamata dal nome di Neleo, figlio del re di Atene Codro e fondatore di Mileto). Proprio in una di queste occasioni il milesio Frigio ha avuto modo di conoscere Pieria, che proviene da Miunte. 16 Mv[6e]vta: La città veniva menzionata da Apollodoro nei Χρονικά (FGrHist 244

F 1). Μίλητον

Évar[ov:Il POxy. 2213 esibisce la lezione éxov[c poi corretta in ἔναι[ον,

che è certamente da preferire (vd. app.). L'erroneo Μίλητον &xovl[cı può essere imputato a

una reminiscenza di Hom. 71.11 868 | οἱ Μίλητον ἔχον, unica menzione della città di Mileto nei poemi omerici (cf. anche [Hom.] Hymn. ΠῚ 42, 180 1 καὶ Μίλητον &xeıc). 17 covdeci]n: μούν[ης νηὸν ἐς] ᾿Αρτέμιδος: Faccio notare che, a conferma delle integrazioni cov@eci]n e νηὸν ἐς] di Barber-Maas, si possono addurre Ap. Rh. IV 452

5. ᾿Αρτέμιδος νηῷ (νηῷ Fraenkel: vico codd.) ἔνι τῆν γ᾽ ἐλίποντο | covdecin e Rufin. Anth. Pal. V 9, 6 νηὸν ἐς ᾿Αρτέμιδος ", Non sarà dunque da recepire la proposta δ᾽ ἱερὸν] ᾿Αρτέμιδος di Pf. (vd. app. e il comm. al v. 18 π]ωλε[ἴεθαι), benché il nesso ἱερὸν ᾿Αρτέμιδος ricorra presso (Call.) fr. inc. auct. 800 Pf. Il vocabolo cuv@ecin compare solo due volte nei poemi omerici (Il. II 339, V 319).

18 π]ωλε[ῖεθαι: Pf. rileva che sarebbe forse preferibile integrare ἐπιπ]ωλε[ῖεθαι qui e un accusativo semplice nella lacuna finale del verso precedente (vd. app.): ma vd. il comm. al v. 17.

Νη]ληΐδο[ς]: Benché Erodiano (TI. ὀρθογρ., Gramm. Gr. ΠῚ 2, p. 450. 25) assegni al fondatore di Mileto la grafia Νειλεύς, distinguendola dalla grafia NnAedc che spetterebbe

al padre di Nestore, ho scritto - come già Pf. - Nn]Aniöolc] (non Nei]Anido[c]) sulla base del Νηληΐδα presente nei codici di Plutarco e Polieno. Del resto l'oscillazione tra le due forme del nome figura nelle opere dello stesso C.: mentre infatti 1 codici degli inni callimachei danno la lezione Νηλεύς (Dian. 226), la tradizione manoscritta di Diogene Laerzio offre la lezione NetAeo per il primo giambo di C. (fr. 191, 76 Pf.). Νά. app., nonché il comm.

di Magnelli ad Alex. Aetol.fr. 3,

1= CA fr.3, 1 p. 122 Νηληϊάδαο |.

Il nesso fra Artemide e Neleo risulta anche dal vv. 225-227 dell'inno callimacheo alla dea, dove leggiamo che l'eroe - quando partì da Atene per recarsi a fondare Mileto - si fece

guidare da Artemide: χαῖρε, Χιτώνη Μιλήτῳ ἐπίδημε: cè γὰρ romcato Νηλεύς | ἡγεμόνην, ὅτε νηυεὶν ἀνήγετο Κεκροπίηθεν. Su Neleo fondatore di Mileto e di altre città della Ionia, cf. Hellanic. comm.

di Magnelli

FGrHist 4 F 48 (= EGM fr. 48) con il comm. di Jacoby e vd. il

al frammento

citato di Alessandro Etolo; si ricordi che, secondo Plu-

tarco, Frigio è figlio di Neleo (vd. il comm. ai frr. 183-185). Quanto all'appellativo Chitone, lo Schol. Call. ov. 77 Ὁ tramanda che a Mileto esisteva una statua di Artemide Chitone e

COMMENTO:

AET. II FR. 184

407

offre due spiegazioni alternative dell'epiteto: secondo la prima, in séguito a un oracolo Neleo costruì un'effigie della dea con del legno proveniente dal demo attico di Chitone (non altrimenti

noto)

e la trasferì

a Mileto

quando

fondò

questa

città;

stando

alla seconda,

l'appellativo deriva dal fatto che le donne, allorché davano alla luce i figli, dedicavano ad

Artemide le proprie vesti (À ὅτι τικτομένων τῶν βρεφῶν

ἀνετίθεεαν τὰ ἱμάτια τῇ

᾿Αρτέμιδιυ): per un'usanza analoga, che sarebbe alla base dell'epiteto Λυείζωνος di Artemide ad Atene, cf. Schol. Ap. Rh. I 288. Vd. in generale il comm. di Bornmann a Call. Dian. 225-227 e Ehrhardt p. 282 5. Si osservi che Artemide dea del parto è il tema dell'elegia precedente, rappresentata per noi dal fr. 182 (vd. Introd.1.4.D.).

ἀλλὰ εὖ τῆμος: Prosegue l'apostrofe di C. a Pieria. 19 βουκτ]αςιῶν ἀρ[τὺν πιετο͵]τέρην Étauec: Dal momento che l'innamorato Frigio mette in pratica la rappacificazione di Mileto e Miunte richiestagli da Pieria, costei riesce a stringere fra le due città un'amicizia più sicura di quelle che si realizzano con solenni sacrifici di buoi: il genitivo βουκτ]ᾳςιῶν, integrato da Pf., esprime una comparatio compendiaria. Questo tipo di confronto è pure presupposto dal supplemento Aoıß]aciov di Maas (stringesti un'amicizia più sicura di quelle che si realizzano con vasi per le libagioni), che però risulta meno verisimile, anche alla luce del corrispondente passo di Aristeneto (ἢ

κατὰ Bvciav). Vd. app. I due lacunosissimi righi delle Diegeseis Mediolanenses che forse tramandano la fine del riassunto dedicato al nostro aition potrebbero riferirsi a questo punto dell'elegia: vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis successiva al fr. 181. Bovktlaci®v: Il vocabolo ricorre a partire dalla poesia ellenistica: cf. Ap. Rh. IV 1724 Booxtacioc (nella sezione incentrata su Anafe che si ispira al primo libro degli Aitia callimachei, vd. il comm.

introduttivo al fr. 23), Leomd.

Tar. Anth. Pal.

VI 263, 6 = HE

2270, Antip. Sid. Anth. Pal. VI 115, 8 = HE 489, Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 217, 4 (la forma Bovktocin compare solo nell'ultimo passo, mentre negli altri c'è Boogtacin). Per il

genitivo -1@v, invece di -τἰάων 0 -τέων, vd. app. ἀρ[τῦν

πιετο]τέρην

Erauec: Un'espressione molto vicina al nostro passo è utiliz-

zata da C. nel fr. inc. sed. 497a Pf. (vd. Pf. II p. 122): ἀρθμὸν δ᾽ ἀμφοτέροις καὶ φιλίην ἔταμες. Il supplemento di Pf. ἀρ[τὖν risulta plausibile sia per la somiglianza dei due brani callimachei sia perché il lemma ἀρτύν - presente nel lessico di Esichio e da lui delucidato come φιλίαν καὶ couBocw - deriva con ogni probabilità dal nostro pentametro (vd. app. delle fonti) sia infine perché C. ama utilizzare sostantivi in -τύς (vd. il comm. al fr. 12

uactdoc ... GAntbi). Fra i lemmi del lessico di Esichio figura anche il nominativo &pröc (con la spiegazione covraëic). Hollis, Citations p. 66 raccoglie alcuni lemmi esichiani in dc, che potrebbero derivare da poesia ellenistica ora peduta. Per lo specifico impiego del verbo τέμνω e per i vocaboli integrati cf. Hom. /. III

73=256 φιλότητα καὶ ὅρκια πιςτὰ ταμόντες | (simili 1]. III 94, 252, XIX Od. XXIV 483 1 ὅρκια πιςτὰ ταμόντες, Il. III 105 ὅρκια τάμνῃ | (simile 27. che (senza ὅρκια) Eur. Suppl. 375 ἄρα φίλιά μοι teuet; |, Here. 301 φίλ᾽ 1235 | cnovößc τέμωμεν, Ap. Rh. IV 340 | cvvdecinv ... ἐτάμοντο |. Vd. i Hom. 1. III 73 e di Collard a Eur. Suppl. 375. 20 s.: Pieria dimostra che Afrodite produce oratori molto più l'eroe di Pilo famoso per la sua eloquenza: l'innamorato Frigio, mente convincere dalle semplici parole dell'amata Pieria (cf. v. chea si ritrova (in contesti non erotici) presso Valg. Ruf. fr. 2,

191), Π.11 124 e IV 155), ma anἂν τέμοις |, Hel. comm. di Kirk a

efficaci perfino di Nestore, cioè, si lascia immediata12 s.). L'iperbole callima3 s. p. 288 Courtney = fr.

408

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

166, 3 5. Hollis dulcior (scil. vox) ut numquam Pylio profluxerit ore | Nestoris (vd. 1 comm. ad loc), Ov. Met. XII 63 qui licet eloquio fidum quoque Nestora vincat, Stat. Silv. V 3, 114 ora supergressus Pylii senis ein Laus Pisonis 64 inclita Nestorei cedittibi gratia mellis. La dolcissima loquela di Nestore, già messa in evidenza nell'/liade omerica (1 247-249),

fa sì che egli venga pot varie volte considerato - come qui - il modello del suadente oratore: cf. p.es. [Theogn.] 714, Sil. XV 456, SGO II 10/06/09 v. 4, Auson. Prof. Burdig. XXI 22-24 Peiper, Epist. XII 14 Peiper, Cyr. Anth. Pal. XV 9, 6 5. D'Alessio (p. 495) fa osservare che la menzione di Nestore è particolarmente adeguata

al nostro passo, in quanto l'eroe era capostipite dei Neleidi di Mileto (cf. v. 18 Nn]Aniöol[c] con il comm.). 20 Evösılöac: Nel testo residuo questa è l'ultima traccia riconoscibile della lunga apostrofe di C. a Pieria, che comincia con il v. 5. Nella sua unica occorrenza omerica (Il. XIX

83) il verbo évôeikvout è impiegato nella diatesi media e significa spiegarsi, dichiararsi. καί: La congiunzione è posposta: vd. il comm. al fr. 1, 15 Maccoryétar Lai.

ὅτι pn[t]fipac: Eccezionalmente lo iota si allunga davanti al rho iniziale della parola successiva: per il fenomeno, cf. fr. 187, 6 ἐπὶ ῥήτρῃει ε vd. Introd.11.2.C. Sulla fraiectio di

ὅτι, vd. il comm. al fr. 1, 11 Μίμνερμος ὅτι. Il vocabolo ῥητήρ è un hapax omerico: cf. I. IX 443 I μύθων τε ῥητῆρ᾽ ἔμεναι. 21 Πυλί[ου: Cf. Soph. Phil. 422 | Néctap ὁ Πύλιος. Nel nostro passo l'eroe viene designato per antonomasia con il semplice etnico: allo stesso modo

C. definisce semplice-

mente Φρύξ Paride nei Lavacri di Pallade (v. 18, vd. il comm. di Bulloch) e Φωκεύς Pilade in un epigramma (LIX 3 Pf. = HE 1313; cf. gli altri passi raccolti da Lapp p. 27). L'uso antonomastico di Pylius si rinviene in vari luoghi poetici latini: cf. Ov. Am. III 7, 41 al,

[Verg.] Catalept. IX 16, Manil. I 764, Sen. Tr. 212, Sil. VII 597 al., Stat. Theb. V 751 al, Mart. IV 1,3 al., Τὰν. X 246. Cf. inoltre - in àmbito greco - ep. adesp. Anth. Pal. VII 157, 4

e l'epigramma di Ciro citato nel comm. al v. 20 s.

οὐκ ὀλίγωε: Cf. fr. 1, 6 οὐκ ὀλίγη". La correzione di ὀλίγους in ὀλίγως, operata da Barber-Maas, può considerarsi sicura in base al confronto con la parafrasi di Aristeneto

(ῥήτορας οὐκ ὀλίγον ἀμείνους). Del resto il nesso οὐκ ὀλ[ί]γως è impiegato da C. nel fr. 50, 83 (vd. il comm. ad loc.). Vd. in generale l'app.

22 5. ἐϊξεείαι πολέε[ς γὰρ ἀπ᾽ ἀμφοτέροιο μο]λοῦεαι ! ἄςετ]εος ἀπρήκτ[ους οἴκαδ᾽ ἀνῆλθον δδούε: A differenza di Pieria, che è riuscita a mettere pace fra Mileto e Miunte, in passato molte legazioni hanno fatto la spola dall'una all'altra città senza realizzare questo fine: grazie all'amore di Frigio (cf. v. 20 s.), le poche parole di una fanciulla hanno superato in incisività gli elaborati discorsi degli ambasciatori. Se 1 supplementi di L. e di Barber-Maas colgono nel segno, C. sembra risentire di Hom. Od. XXI 20 τῶν ἕνεκ᾽

&&ecinv πολλὴν ὁδὸν ἦλθεν "Oducceöc (vd. il comm. di Fernändez-Galiano e Heubeck). 22 ἐ]ξεείαι: La correzione di £]&ecinv in éJéectot, presente nel POxy. 2213, va senz'altro accolta se si tiene conto del successivo uo]A0dcor e della parafrasi di Aristeneto. Non sarà dunque da recepire l'originaria congettura é]&eciac di Pf., basata sul fatto che nei poemi omerici le due uniche occorrenze del vocabolo spettano ai nessi &&ecinv* ἐλθόντι

(IL. XXIV 235) ed &&ecinv ... ἦλθεν (Od. XXI 20, riportato nel comm. al v. 22 s.): il lemma esichiano ἐξεοίας: πρεςβείας non può quindi risalire al nostro passo. Per il significato della

parola &Gecinv nei contesti omerici, cf. Schol. (A®*b(BCE3EHT) Hom. Il. XXIV 235 Ὁ δημοείαν ἔκπεμψιν e Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 70. 7 Bekker κατὰ npecßetov. γάρ: A quanto sembra, la particella è impiegata in terza posizione, come altrove presso

COMMENTO:

C. (vd. il comm. al fr. 174, 23 γάρ). uo]Aodcar: Cf. Hom. HH. XV 720%. 23 ἀπρήκτ[ίους οἴκαδ᾽ ἀνῆλθον

AET.II FRR. 184-185

409

66o%c: Se l'integrazione di Barber-Maas è cor-

retta, l'aggettivo ἄπρηκτος è impiegato in modo tale da ricordare l'espressione omerica |

ἄπρηκτόν ye νέεεθαι (11. XIV 221); cf. anche Thuc. I 111, 1 éxex@pncav ... ἄπρακτοι, IV 61, 8 ἄπρακτοι ἀπίαειν, 99 ἀπῆλθεν ἄπρακτος, I 24, 7 ἀπράκτους ἀπέπεμψαν. La frase callimachea avrebbe anche come paralleli soprattutto Orac. Sib. XIV 330 ἄπρηκτον ὁδόν,

ma pure Maxim. De action. ausp.37 ἄπρηκτα κέλευθα | e Nonn. Dion. XXI 15 ἄπρηκτος ὁδεύων |. Sul piano espressivo, si possono inoltre richiamare Hom. Od. II 273 | où ... ἁλίη ὁδός … οὐδ᾽ ἀτέλεετος |, 318 οὐδ᾽ ἁλίη ὁδός, II 316 = XV 13 τηὐείην ὁδὸν ἔλθῃς |, [Hom.] Hymn. IV 549 ἁλίην ὁδὸν eicıv, Theocr. XVI 9 ἀλιθίην ὁδὸν ἦλθον I. Il supplemento οἴκαδ᾽ ἀνῆλθον troverebbe infine una qualche conferma in Call. Del. 294 οἴκαδ᾽ ἵκοντο |.

Frammento

185 (83 Pf.)

Il frammento contiene sicuramente gli esigui resti dei tre versi finali di un'elegia, visto che nel POxy. 2212 il verso successivo coincide con l'incipit dell'aition dedicato a Futicle (fr. 186). Le letture e i supplementi di L. e di Pf. nel v. 3, molto plausibili sul piano paleografico, consentono di attribuire il frammento a Frigio e Pieria e di riconoscere nella chiusa lo spunto eziologico dell'intera vicenda, posto alla fine dell'esposizione anche da Aristeneto e Plutarco (vd. app. delle fonti, dove 51 è anche riportato il sintetico passo corrispondente di Polieno): dopo che Frigio ha rappacificato Mileto e Miunte per compiacere Pieria, le donne della Ionia (0, secondo Plutarco, della sola Mileto) formulano tradizionalmente il desiderio

che 1 loro mariti le rispettino come Frigio rispettava Pieria. Più incerta è la proposta Iovilcı oppure Iwvıladeccı avanzata da Pf. per il v. 2, in relazione appunto alle abitanti della Tonia memori di Frigio e Pieria: fra l'altro, data la probabile posizione delle lettere all'interno dell'esametro, tali letture e supplementi sembrano violare il «ponte di Hermann», come avverte lo stesso Pf. (vd. app.). 210v_[: A proposito dell'incerto Tovi[ideca suggerito da Pf., si osservi che il vocabolo Ἰωνιάς figura presso Nic. fr. 74, 4 Schneider.

3 [tJin[e]e: Forme analoghe si riscontrano a partire dalla poesia ellenistica, p.es. presso Nic. SH 562, 1 περιδώμεεν (da περιδωμάω), Mosch. IT 117 xvBictee (da κυβιετάω) e Nonn. Dion. I 321 ἐπεφοίτεε (da ἐπιφοιτάω): cf. inoltre i passi di Apollonio Rodio e Nonno citati da Biihler nel comm. al luogo di Mosco e da Keydell a p. 51* nel primo volume dell'edizione delle Dionisiache nonniane. Un precedente omerico si avrebbe in //. XI 639, se - al posto del tràdito explicit κνὴ tvpòv | - si accettasse l'incerta varia lectio xvée τυρόν |, presente in alcune edizioni aristarchee secondo il fr. dub. 61 Cohn di Eraclide di

Mileto ap. Eustath. p. 872. 18 (τινὲς τῶν ’Aputapyelwv ἐκδόςεων, cf. fr. 51 Cohn): la forma kvée è metricamente più plausibile (vd. il comm. di Leaf al passo iliadico), ma può darsi che - come osserva Pf. - essa derivi da un presente κνήω, non κνάω.

È possibile che al nostro aition risalga il fr. inc. sed. 256, dove forse compare Pieria nel suo ruolo di pacificatrice. Vd. nel testo l'annotazione dopo il fr. 185.

410

CALLIMACO

Frammenti

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

186-187 (Euticle di Locri)

Il contenuto generale dell'elegia si ricostruisce grazie di conservazione: l'olimpionico Euticle parte dalla sua con dei muli che ha avuto in dono da un ospite; poiché abbia ricevuto gli animali dopo avere tradito la patria, 1

alla Diegesis, che è in buono stato città come ambasciatore e ritorna si diffonde la calunnia che Euticle concittadini decidono con una vo-

tazione di mutilare la sua statua; sulla città si abbatte

allora una pestilenza,

che - come

spiega l'oracolo di Apollo - è stata inviata contro di essa per il disonore inflitto a Euticle; da quel momento 1 concittadini venerano l'effigie di Euticle al pari di quella di Zeus, gli costruiscono un altare e gli riservano un culto all'inizio del mese (le caratteristiche della cerimonia sono oscurate da una lacuna nella parte finale della Diegesis). Come ha scoperto Pf. (Papyrus p. 384 e Az7y7fcerc pp. 7-10), la storia di Futicle si rinviene anche in un passo dell'opera Γοήτων φώρα di Enomao di Gadara (fr. 2 p. 77

Hammerstaedt) citato da Fusebio (Praep. ev. V 34, 15-16, VIII 1 p. 287. 8 Mras): καὶ γὰρ καὶ ἐπὶ πεντάθλου ἀνδριάντι ὑβριςμένῳ éunvicav οἱ θεοί, καὶ Λοκροὶ ἐπείνηςαν διὰ τοῦτο ... Εὐθυκλέα τὸν πένταθλον ἐνέβαλον εἰς εἱρκτήν, αἰτιαςάμενοι αὐτὸν ἐπὶ τῇ πατρίδι εἰληφέναι δῶρα- καὶ οὐ μόνον τοῦτο, ἀλλὰ καὶ ἀποθανόντος καὶ οὗτοι εἰς τὰς εἰκόνας ἐξύβριζον, ἕως οἱ θεοὶ οὐκ ἀναςχόμενοι τῶν γιγνομένων ἐπαφῆκαν αὐτοῖς τὸν κράτιετον λιμόν: κἂν ὑπὸ τοῦ λιμοῦ διώλοντο ἄν, εἰ μὴ ἡ παρὰ coù (cioè Apollo) ἦλθε βοήθεια, λέγουεα ὅτι δεῖ αὐτοὺς τιμᾶν ἄνδρας πεφατνευμένους, odc οἱ θεοὶ φιλοῦειν (il nesso fra il brano di Enomao e C. era stato già individuato per congettura da E. Luebbert, Commentatio de Pindari poetae et Hieronis regis amicitiae primordiis et progressu, Progr. Bonnae 1886, p. XX s., il quale però pensava che il filosofo si rifacesse all'opera erudita

callimachea Περὶ ἀγώνων, fr. 403 Pf.). Rispetto alla Diegesis Enomao fornisce alcune notizie aggiuntive, prima fra tutte l'ambientazione della vicenda a Locri, confermata dal testo callimacheo (cf. fr. 187, 9). Il filo-

sofo tramanda inoltre che Euticle aveva vinto il pentatlo e che 1 Locresi - prima di infierire sulla sua statua - lo gettarono in carcere, dove l'atleta morì. In un caso la versione di Eno-

mao differisce da quella della Diegesis: secondo lui il castigo divino non si esplicò in una peste (kowuöc), bensì in una carestia (λιμός). La discrepanza è forse solo apparente, dal momento che i due termini sono molto simili e risultano spesso confusi nella tradizione manoscritta: tenuto conto che nel brano di Enomao il duplice λιμός è confermato dal precedente ἐπείνηςαν, Walton suggerisce di considerare erroneo il λοιμός della Diegesis (vd. l'app. a Dieg. II 2 e Prioux p. 169 n. 102). Quest'ipotesi sembra suffragata dalle parole stesse di C. nel punto del nostro aition dov'è descritto l'invio della punizione divina (fr. 187, 13, vd. il comm. ad loc.).

Dell'elegia callimachea ci sono pervenuti il primo verso (fr. 186) e un brano abbastanza ampio il cui lacunoso inizio potrebbe coincidere con il pentametro immediatamente successivo all'esordio o forse esserne separato solo da due versi (fr. 187). Nel fr. 186 C. rievoca il ritorno di Futicle vittorioso da Pisa (cioè Olimpia) a Locri. Nel fr. 187 sono individuabili tutte le fasi della vicenda fino al castigo divino: per sbrigare un affare pubblico, Euticle si reca in un luogo da identificare forse con le vicine città di Mistia o di Crotone; dopo che l'atleta è tornato a Locri con 1 muli da carro che gli sono stati donati, il popolo - invidioso della sua ricchezza - lo accusa di avere ricevuto gli animali in séguito al tradimento della patria; tutti votano in segreto contro Futicle e sfigurano empiamente la sua statua di bronzo, che la città stessa di Locri gli ha in precedenza eretto; per punire la loro scelleratezza, il dio Sorvegliante (presumibilmente Zeus) fa in modo che nella terra di Locri 1 frutti maturino

COMMENTO:

AET.II FRR. 186-187

411

con difficoltà. La consultazione dell'oracolo di Apollo delfico, che figurava nel successivo tratto di testo oggi perduto, è un motivo tipico degli Aitia: vd. il comm. al fr. 36, 5. Per questo specifico vaticinio, cf. Orac. 388 Parke-Wormell. Riguardo allo spiccato interesse del nostro poeta per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm.

al fr. 50, 18-83.

C. parla spesso di atleti olimpionici, molti dei quali provengono come Euticle dalla Magna Grecia. Nel quarto libro degli Aitia (frr. 201-202) compare Eutimo, anche lui di Locri (vd. il comm.

al v. 10 Teuecatov).

Su Astilo e Milone, entrambi Crotoniati, si incentrano

rispettivamente il fr. inc. sed. 273 e il fr. inc. auct. 279, mentre il fr. inc. sed. 268 verte sulla gloria sportiva di Crotone in termini generali: questi tre frammenti, proprio in virtù del loro tema, potrebbero risalire alla seconda metà degli Aitia (per Astilo, vd. il comm. ai vv. 8-12). A Teogene di Taso sarebbe riferibile il fr. inc. sed. 265, anch'esso per questo motivo da ascrivere forse al terzo o al quarto libro degli Aitia (si noti per di più che Enomao narra la storia di Teogene sùbito prima di esporre la vicenda di Euticle). Il colle di Crono a Olimpia figura nel fr. inc. sed. 271, che pure potrebbe perciò appartenere al libro terzo o quarto degli Aitia. Invece il fr. inc. sed. 541 Pf., che include una menzione dell'atleta eleo Corebo, sem-

bra spettare all'opera erudita Περὶ ἀγώνων (fr. 403 Pf.) piuttosto che agli Aitia. Vd. in generale Prioux p. 166. La città di Locri compare in vari frammenti callimachei di incerta sede: il fr. 267, dove si spiega l'origine dell'appellativo Epizefiri, potrebbe appartenere al nostro aition, ad altri contesti sembrano invece risalire 1 frr. 270; 661 Pf. e 669 Pf.

Frammento

186 (84 Pf.)

FHAGec ... Εὐθιύκιλεες: Come accade spesso negli Aitia, C. al protagonista dell'elegia: l'apostrofe è riconoscibile fino al fr. 187, ὅτ᾽: Per la posposizione callimachea di ὅτε, cf. p.es. lov. 21 e Pf.* e vd. il comm. al fr. 4, 2 öT’Avriacev. Iicme: Questo nome, che designa la zona intorno a Olimpia, Stesicoro (PMG 263). C. lo adotta anche nel fr. 201 (vd. il comm.

si rivolge direttamente 9. νά. Introd.1.4.E. Vict. Sosib.fr. 384, 37 è attestato a partire da ad loc.) e in Samb. fr.

196, 12 Pf.; cf. inoltre (Call.) fr. inc. auct. 792 Pf. e Theocr. IV 29, nonché il nostro fr. 175,

2 Πιεκαίρυ Ζηνός con il comm.

ἄνδρας

ἐιλέγξαε:

L'explicit viene imitato da Nonno in Met. XIX

114 ἄνδρας

ἐλέγχων" (con significato diverso). Nel nostro passo il verbo significa vincere in gara, come forse anche in Vier. Sosib. fr. 384, 41 Pf.*: per questo senso, cf. Pind. Pyth. XI 49, ep. adesp. SH 974,7= [ΟΕ

147 (con il comm.

di L.J.-P.), Dion. Per. 750*, Nonn. Dion. I 42*,

Toann. Gaz. II 330*, Agath. Anth. Pal. IX 619, 3 = 42, 3 Viansino*, ep. adesp. App. Plan. 351, 3*. Il verbo ἐλέγχω compare solo due volte nei poemi omerici (11. IX 522*, Od. XXI 424*). Riguardo ad ἄνδρας, Maas, Exkurs II p. 161 richiama Call. Vict. Sosib.fr.384, 37 Pf.

Frammento 187 (85 Pf.) 2 δ]ήμιον ... κατὰ] ypéoc: Euticle viene inviato in un'altra città per un affare di interesse pubblico: il supplemento esemplificativo ἐ[κπεμφθείς τι di Pf., benché probabilmente troppo lungo per lo spazio disponibile in lacuna (vd. app.), offre la sintassi e il senso richiesti (cf. Dieg. 139 5. πεμφθένιτα rpecBevmv). Riguardo all'espressione, cf. soprattutto

Hom. Od. IV 312-314 τίπτε dé ce χρειὼ δεῦρ᾽ ἤγαγε … |... | δήμιον À ἴδιον;, ma anche ΠῚ 82 | apfitic δ᾽ ἥδ᾽ idin, où δήμιος. Tenendo presente la dicotomia odissiaca, C. si avvale

412

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

del nesso κατὰ xpéoc* per delineare il concetto opposto nel fr. 89, 7 ἴδιόν τι κατὰ ypéoc. Vd. in generale il comm. di Campbell ad Ap. Rh. III 189 κατὰ xpéoc*. La simile frase ἐπὶ χρέος" figura nel fr. 213, 57. 3 ἵκ]εο: C. continua ad apostrofare Euticle. Movc[: A quanto sembra, qui viene indicata la città nella quale Euticle si reca per conto di Locri. Pf. propone di integrare un qualche caso dell'etnico Mvctiavoi, riferito alla città di Mistia che si affacciava sul Mare Ionio a Nord di Locri: cf. Philist. FGrHist 556 F 41 (riportato nell'app. delle fonti), Plin. Nar. hist. III 95 vestigia oppidi ... Mustiae, Pomp. Mel. II 68 Scyllaceus (scil. sinus) inter promunturia Lacinium et Zephyrium, in quo est ... My-

stiae (con il comm. di Parroni). Ma è anche possibile integrare con Barber Μυς[κέλλου e riconoscere qui una menzione della città di Miscello, cioè di Crotone fondata appunto da Miscello: cf. Oracc. 43-45 e 229 Parke-Wormell, Hippys Rheg. FGrHist 554 F 1, Antioch. Syrac. FGrHist 555 F 10, Ov. Met. XV 20 (con il comm. di Bòmer). Vd. in generale l'app.,

nonché il comm. al v. 8 πάϊντες ὑπὸ ψηφῖδα κακὴν βάλον. 4 ἔν]θεν &vepxöuelvoc]: La frase descrive il ritorno di Euticle a Locri dopo l'espletamento della sua missione. Per il nesso, cf. Greg. Naz. Carm. II 1, 38, 46 (PG 37 p. 1328)

ἔνθεν ἀνερχομένῳ I, Colluth. 221 Livrea | ἔνθεν ἀνερχομένοιο, ma anche lo stesso Call. Dian. 98 ἔνθεν ἀπερχομένη. 5 δῶρον ἀπηναίους ἦλθες ὀρῆας ἄγων: Come qui Euticle porta con sé dei muli ricevuti in dono da un ospite, così nella Vittoria di Berenice Eracle manda un mulo in

regalo a Molorco, nella cui casa l'eroe ha soggiornato: vd. il comm. al fr. 156, 19. ἀπηναίουε: L'aggettivo, non attestato altrove, chiarisce che i muli sono adatti a tirare

un carro. ἦλθες: C. apostrofa Euticle nel primo verso dell'elegia (fr. 186 ἤλθεὼ e poi in tutto il testo superstite (cf. vv. 3, 6, 9): perciò la correzione interlineare ἦλθεν, esibita dal papiro, va senz'altro respinta (vd. app.).

òpfi[ac: Νά. il comm. al fr. 156, 20 dpfia. 6 c’: Il pronome, che designa Futicle all'interno dell'apostrofe di C., è Il soggetto della proposizione oggettiva dipendente dall' ὡς ... eine integrato da Barber-Maas e ha come verbo l'infinito λαβεῖν.

ἐπὶ ῥήτρῃει λαβεῖν κα[τὰ rartpidoc: Il popolo invidioso (cf. v. 7) accusa Euticle di avere preso in dono 1 muli con dei patti

a danno della patria: il supplemento di Barber-

Maas si fonda sulla Dieg. I 43 5. ὡς κατὰ τῆς nökeloc εἰλ]ηφότα. L'imputazione per la quale Euticle viene processato (cf. v. 8) è tecnicamente chiamata δωροδοκία oppure δώρων γραφή e consiste appunto nel prendere doni (δῶρα λαβεῖν) durante l'esercizio di pubbliche

funzioni: cf. Harpocr. s.v. δώρων γραφή, è 88, p. 83 Keaney: ὁπότε τις αἰτίαν ἔχοι τῶν πολιτευομένων δῶρα λαβεῖν, τὸ ἔγκλημα τὸ κατ᾽ αὐτοῦ διχῶς ἐλέγετο, δωροδοκία Te καὶ δώρων γραφή. ἐπὶ ῥήτρῃει: Il sostantivo ῥήτρη compare una volta sola nei poemi omerici, dove significa - come qui - patto (Od. XIV 393, cf. Schol. VQ ad loc.): per questo senso, cf. p.es. Xenoph. Anab. VI 6, 28, Aelian. Var. hist. II 7, X 18, Nat. an. XV 24. Il nesso ἐπὶ ῥήτρῃειν ricorre forse nelfr. epic. adesp. SH 937, 35 = Choeril.fr. dub. 22, 35, I p. 205 Bernabé, cf. anche Nic. Al. 132 ὑπὸ ῥήτρῃειν. Il concetto opposto è espresso da Euph. SH 415 Il 8 παρὰ ῥήτρας. Sul piano prosodico è notevole che lo iota si allunghi davanti al rho iniziale della parola successiva: per il fenomeno, cf. fr. 184, 20 ὅτι ῥη[τ]ῆρας e vd. Introd. 11.2.C.

7 ôñluoc

[ἐπ᾽] ἀφνειοῖς

αἰὲν ἀπαγχόμενος: Il popolo calunnia Euticle perché

COMMENTO:

AET.II FR. 187

413

prova sdegno o piuttosto invidia nei confronti della sua agiatezza: esso, infatti, si sente sempre soffocare contro i ricchi. Per l'immagine, cf. Sil. XIII 584 angens utraque manu sua guttura Livor | e vd. la bibliografia indicata da D'Alessio (p. 498). L'uso metaforico del verbo ἀπάγχομαι ricorre presso Arch. fr. 129 W., Aristoph. Nub. 988, Vesp. 686, Aelian. Var. hist. V 8. Il medesimo

valore traslato può essere assunto dal-

l'analogo verbo ἀποπνίγομαι (utilizzato nella diatesi attiva da Call. Jamb. fr. 194, 104 Pf. ἀποπνίγεις |). Con quest'ultimo la causa del metaforico soffocamento è espressa da ἐπὶ +

dativo, il che rende l'integrazione [ἐπ᾽] di Pf. preferibile al supplemento [ὑπ 7 di L. (vd. app.):

cf. Dem.

XIX

199 ἐφ᾽ οἷς ἔγωγ᾽

ἀποπνίγομαι,

Lucian.

De

mort. Peregrin. 37

ἀποπνιγεὶς ἐπ᾿ αὐτοῖς, Gall. 28 ἐπὶ τῷ καταράτῳ Ciuavi ἀποπνίγομαι. Come alternativa al éfi]uoc integrato da L., Barber-Maas propongono Μῶ]μος (il Biasimo), chiamando in causa Lucian. Deor. conc. 12 (parla M@uoc) καὶ ὃ μάλιοτά με ἀποπνίγει. Ma il supplemento éfi]uoc, già di per sé preferibile nel confermato dal confronto tra il nostro passo e un brano dei Lavacri (v. 38 s.) dov'è delineata una situazione analoga a quella di Futicle. polo di Argo ordisce la morte per l'innocente Eumede, sospettandolo

contesto dell'elegia, è di Pallade callimachei Nell'inno, infatti, il podi tradimento: ὅς ποκα

βωλευτὸν γνοὺς ἐπί οἱ θάνατον | δᾶμον ἑτοιμάζοντα. Si osservi inoltre che la temibilità della vox populi è messa in rilievo da C. in Vict. Sosib. fr. 384, 58 Pf. | δείδια γὰρ δήμου vAöccov. ἀπαγχόμενος: Il verbo ἀπάγχω compare una volta sola nei poemi omerici (Od. XIX 230), con il senso proprio di soffocare. È molto probabile che, in un altro luogo degli Aitia (fr. inc. lib. 111), C. adottasse la parola nel suo significato proprio.

8 πά]ϊντες ὑπὸ ψηφῖδα

κακὴν

βάλον: In occasione del processo, tutti i Locresi

gettano di nascosto nell'urna una pietruzza che esprime un voto sfavorevole a Euticle. Il nostro passo è imitato nelle Metamorfosi di Ovidio (XV 43 s.), dove il poeta rievoca così l'ingiusta votazione contraria riservata dagli Argivi a Miscello, futuro fondatore di Crotone: et omnis | calculus inmitem demittitur ater in urnam (l'omnis ovidiano corrobora il supplemento πάϊντες di Pf.). Su Miscello e Crotone, vd. il comm. al v. 3 Mvc| e Knox, Ovid p.

68. Pf. ha probabilmente ragione a congetturare che la frase ὑπὸ ψηφῖδα ... βάλον significhi κρύβδην ἐψηφίοαντο, accostando la tmesi ὑπὸ ... βάλον a quella ὑπὸ ... καλλύνονται di (Call.) fr. inc. auct. 752 Pf. (sono abbelliti artificialmente, vd. il comm. di Pf.). L'interpre-

tazione di Pf. pare suffragata da Aristot. Resp. Ath. 68, 3 [ὅπως μὴ λ[άθ]η ὑπο[β]άλλων [τις ψή]φους. Il vocabolo ψηφίς figura in un solo passo dei poemi omerici (Il. XXI 260), con il senso concreto di pietruzza e all'interno di una frase che esibisce le medesime parole usate da C. in funzione differente - all'inizio del nostro verso: ὑπὸ ψηφῖδες ëracou | (questo è un altro elemento a favore del πάϊ]ντες integrato da Pf.). Secondo lo Schol. (Gen.) ad loc., nel brano dell'Iliade ψηφῖδες è un'interpolazione attica, dal momento che la parola si trova anche

nelle tavole delle leggi ateniesi: οὐχ ὑφ᾽ Ὃμήρου αἱ ψηφῖδες πεποίηνται, ἀλλ᾽ Ecrwn λέξις ᾿Αττική | οὕτως γὰρ καὶ ἐν τοῖς ἄξοειν. Particolarmente vicino al luogo callimacheo è Hippon. fr. 128, 3 W. = 126, 3 Degani ψηφῖδι (kaxfi)* (suppl. Musurus), dove pure il vocabolo significa voto. Ma cf. anche lo stesso Call. Jamb. fr. 193, 13 Pf. κακαὶ ψῆφοι Ι (vd. E. Degani, «Aevum(ant)» 8, 1995, p. 116 = Filologia e storia I, Hildesheim - Zürich - New York 2004, p. 142). Si può inoltre richiamare Agath. Anth. Pal. IX 482, 23 = 100, 23 Vian-

sino βαλὼν ψηφῖδας (dove però la frase descrive il lancio dei dadi).

414

CALLIMACO

ὑπὸ

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

... βάλον: Nei poemi omerici il verbo ὑποβάλλω compare solo due volte (Il.

XIX 80 e Od.X 353). ψηφῖδα: Per l'uso della parola in poesia - oltre ai passi dell'Iliade omerica, di Ipponatte e di Agazia riportati più sopra - cf. Ap. Rh. IV 655*, Opp. Hal. II 174*, Greg. Naz. Carm. I 2, 1, 672 (PG 37 p. 573) al., Agath. Anth. Pal. XI 365, 5 = 97, 5 Viansino*

(nell'ultimo

brano si tratta dei sassolini utilizzati da un astrologo per 1 suoi responsi). Il vocabolo designa spesso la tessera di un mosaico o il mosaico stesso: cf. SGO IV 22/77/01 v. 8* al. [Apolinar.] Mer. Ps. XVII

Ecphr. Soph. 507*

21*, Greg. Naz. Carm. I 2, 8, 136 (PG 37 p. 659) al., Paul. Sil.

al. C. usa anche il rarissimo aggettivo μελαμψήφις, che ha probabil-

mente coniato lui stesso: cf. Dian. 101, Del. 76 con il comm.di Mineur.

8-12: La complicata sintassi del brano si ricostruisce grazie alle plausibili letture e integrazioni di L., Pf., Barber-Maas e Maas (vd. app.): solo il v. 11 resta ancora piuttosto oscuro, ma probabilmente esso non interrompeva la sequenza sintattica introdotta dalla proposizione relativa del v. 10. La disposizione delle parole è molto artificiosa. L'ordine

naturale sarebbe: &viypoi δὲ ῥέξαν πολλά τε καὶ μακάρεεειν ἀπεχθέα chv εἰκόνα, ἣν αὐτὴ Λοκρὶς πόλις ἔθηκεν ἀπὸ χαλκοῦ, ὃν πλάεται καλέουειν ἐπειπόντες Τεμεςαῖον. Gli scellerati Locresi infliggono danni numerosi ed empi alla statua di Futicle, che la città stessa di Locri gli ha in precedenza innalzato con il bronzo chiamato temeseo dai plasmatori (in riferimento alla città magnogreca di Temesa). Analogamente, come si ricava dal fr. inc. sed. 273, C. raccontava forse che i Crotoniati

abbatterono la statua dell'atleta olimpionico Astilo loro concittadino: per usare le parole di Pausania nella narrazione dell'episodio (VI 13, 1), τὴν εἰκόνα καθεῖλον. Il tema delle sta-

tue affiora anche nell'elegia dedicata a Eutimo (cf. fr. 202 con il comm. e vd. più avanti il comm. al v. 10 Teuecoîov) e forse in un passo presumibilmente riferito all'olimpionico Teogene di Taso (fr. inc. sed. 265), dove è pure possibile che comparissero i temi della statua maltrattata, della conseguente calamità, della consultazione di Apollo delfico e degli onori eroici (vd. il comm. ad loc.). Più in generale, si osservi che le statue hanno un ruolo centrale in vari altri passi callimachei: vd. la fine del comm. introduttivo al fr. 64, 4-17. Riguardo alla statua di Euticle nella nostra elegia, vd. Manakidou p. 244.

9 εἰκόν]α ... ἔθηκε: Per il nesso, cf. Call. Ep. XXXVIII 2 5. Pf. = HE 1144 5. εἰκόν᾽ αὑτῆς | ἔθηκε (anche se nell'epigramma si tratta di un dipinto piuttosto che di una statua).

Un uso analogo del verbo τίθημι compare nel fr. 203, 4 Aavadc ... ἔθηκεν ἕδος I, a proposito di una statua di Atena. Il vocabolo εἰκών è già impiegato da Aesch. TrGF 57, 10. cnv: Nel papiro l'aggettivo risulta dalla correzione di un originario τήν (vd. app.): la modifica va certamente accolta, dal momento

che C. apostrofa Euticle fin dall'inizio dell'e-

legia (vd. il comm. al v. 5 ἤλθεο. Aoxpic ... [πόλ]ις: L'etnico Aokpic si riscontra presso Pind. Pyth.II 18 5. Ζεφυρία … | Aokpic παρθένος. C. lo impiega forse anche nel fr. 213, 54 e probabilmente nel fr. 661 Pf. Alla fine del nostro pentametro, benché le tracce non si lascino facilmente interpretare come τς, è difficile escogitare un supplemento alternativo a [πόλ]ις: per il tipo di nesso, vd. il comm. al fr. 174, 74 ἄςτυρον ... Kopii[c]uov. Sarà da scartare la proposta di Barigazzi ἔθηκε[ν ὅλ]η, in quanto Aokpic senza ulteriori specificazioni indica di norma la regione della Locride e non sembra applicabile alla città di Locri (in sostegno della sua ipotesi, Ba-

rigazzi si richiama a Plat. Tim. 20 A, dove però leggiamo εὐνομωτάτης ἢν πόλεως τῆς Ev Ἰταλίᾳ Aokpidoc). Νά. app. 10 nA ]actaı: Il vocabolo designa con precisione gli scultori in bronzo, che sono ap-

COMMENTO:

AET.II FR. 187

415

punto plasmatori (vd. ıl comm. al v. 11). La parola è attestata in poesia a partire dall'ellenismo: cf. p.es. Posidipp. App. Plan. 119, 1 = HE 3150 = 65, 1 Austin-Bastianini, ep. adesp. SH 974, ὃ = Dionysius (?) FGE 148. Teuecaîov: L'etnico, che viene registrato da Stefano Bizantino (vd. app. delle fonti) e non figura altrove, deriva dalla città magnogreca di Temesa, affacciata sul Mare Tirreno a Nord di Ipponio: è interessante osservare che a Temesa si ambienta una sezione del quarto libro degli Aitia (frr. 201-202), per di più incentrata sul personaggio di Futimo, anche lui un olimpionico di Locri come Euticle. Qui Teuecatov specifica la provenienza del bronzo (cf. v. 8) con il quale è stata costruita la statua di Euticle: allo stesso modo, nell'Ecale, C. pun-

tualizza che la spada nascosta da Egeo è fatta di bronzo della città euboica di Edepso (fr. 236, 2 Pf. = 10, 2 H. Αἰδήψιον ἄορ )). Menzionando qui il bronzo di Temesa, C. sembra prendere posizione nella disputa erudita innescata da un passo dell'Odissea omerica (I 184), dove il falso Mente dice di essere diretto | ἐς Teuéenv μετὰ χαλκόν. Come attestano gli scoli ad loc. la città veniva collocata

ora nell'Italia Meridionale ora a Cipro: cf. Schol. al Pontani Teuéem πόλις Κύπρου, κατὰ δέ τινας Ἰταλίας, Schol. Ὁ Pontani πόλις ἐν Oivotpoîc ἣ νῦν Τέμψα καλουμένη ἢ Βρεντήειον e vd. il comm. di 5. West al luogo odissiaco. Scrivendo che il bronzo statua del locrese Euticle proviene da Temesa, C. dichiara implicitamente di optare brano omerico) per la Temesa magnogreca, tanto più che quest'ultima venne a un punto sottomessa da Locri. Il parere callimacheo coincide con quello attestato presso

della (nel certo Stra-

bone (VI 255): ἀπὸ γὰρ Adov πρώτη πόλις écri τῆς Βρεττίας Teuécn ... (segue il racconto dello scontro fra l'eroe di Temesa ed Eutimo di Locri: vd. il comm.

ai frr. 201-202)

...

Λοκρῶν δὲ τῶν Ἐπιζεφυρίων ἑλόντων τὴν πόλιν ... ταύτης δὲ τῆς Teuécnc φαεὶ μεμνῆεθαι τὸν ποιητήν, οὐ τῆς ἐν Κύπρῳ Taudcov: λέγεται γὰρ ἀμφοτέρως ... καὶ δείκνυται χαλκουργεῖα πληείον ἃ νῦν ἐκλέλειπται. Cf. anche Steph. Byz. σιν. Teuém (riportato nell'app. delle fonti) e s.v. Tauacoc e vd. Barigazzi, Euticle p. 148, Sistakou p. 167, Prioux p. 164 n. 92. Le notizie offerte da Tzetz. in Lyc. 1067 riguardo alla Temesa magnogreca e al suo bronzo risalgono forse a Timeo: vd. Geffcken p. 141. 32. La discussione sul luogo odissiaco forse affiora anche nel v. 11, dove C. sembra alludere alla lavora-

zione del bronzo nell'isola di Cipro (vd. il comm. ad loc.). Il χαλκός Teuecatoc del nostro passo sembra avere più volte influito sulla poesia ovidiana: cf. Med. fac. 41 e Fast. V 441 Temesaea ... aera |, Met. VII 207 5. Temesaea ... | aera, nonché XV 707 Temeses ... metalla |. A Ovidio si ispira Stazio: cf. Silv. I 1, 42 Temese ... metallis |, 5,47 s. Temesaea ... | aera, Ach.1413 | aera ... Temese. Vd. in generale

Lelli, Onomastica pp. 109-111.

11

. | αμελιεεάων

éuogudkoitoz|: Il verso non ha ancora trovato un assetto

testuale adeguato, ma il supplemento e la divisione delle lettere ἔρ]γα ueAicchov ἀμφὶ εολοιτυπί (proposti da L.) hanno permesso a Pf. di individuare il probabile senso del pentametro. C., cioè, sembra indicare in breve il sistema con il quale è stata modellata la statua

bronzea di Futicle. Faccio osservare che l'integrazione di L. all'inizio del pentametro è suffragata sul piano formale da Maced. cons. V 240, 2 = 10, 2 Madden ἔργα ueıccawv*. Secondo Pf., la preposizione ἀμφί regge in anastrofe ἔρ]γα μελιοςάων: le opere delle api qui si riferiscono non al miele (cf. lo stesso Call. Zov. 50 ἔργα ueAicene | con il comm. di McLennan, Ap. Rh. III 1036, IV 1132 s., [Orph.] frr. 220, 2 e 221, 3, II 1 pp. 189 e 190 Bernabé) bensì alla cera ed equivalgono al | μελιεςᾶν ... πόνον | pindarico (Pyth. VI 53, cf. Schol. ad loc. τὰ κηρία). A proposito della sequenza εολοιτυπί, Pf. chiama in causa

416

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Hesych. s.v. οολοιτύπος: μυδροκτύπος (μυδρακτύπος cod.: corr. Alberti): καὶ χαλκός τις ἐν Κύπρῳ e collega la glossa esichiana alla città cipriota di Soli, celebre - secondo Galeno (XII pp. 214 e 220 Kühn) - per l'estrazione e la lavorazione del bronzo (l'allusione callimachea a Cipro è forse una traccia della disputa erudita su Hom. Od. I 184: vd. il comm. al v. 10 Teuecatov e Lelli, Onomastica p. 110 s.). Alla fine del pentametro Pf. integra la parola ςολοιτυπί[ίαι, non attestata altrove, e la riferisce al πλ]άςται del v. 10, così da ottenere i plasmatori battitori, cioè fabbri. Una diversa possibilità, deducibile dal LSJ Suppl. s.v. ςολοιτυπίη, è che qui si integri appunto un altrettanto inedito sostantivo οολοιτυπ[ίην, accordato al supplemento ὃν del v. 10: con il bronzo che i plasmatori per nome chiamano prodotto temeseo della battitura. Da parte sua, Asper propone il dativo cokouvz|in e intende: con il bronzo che i plasmatori per nome chiamano temeseo nella battitura. A quanto pare, dunque, C. spiega che la statua bronzea di Futicle è stata modellata con il sistema noto come en cire perdue: cf. fr. epic. adesp. SH 922, 5 (con il comm. di L.J.-P.), Poll. X 189 e vd. H. Blümner, Technologie und Terminologie der Gewerbe und Künste bei Griechen und Römern IV (Leipzig 1886) pp. 286 s., 325 5. Il procedimento consiste in ciò: si costruisce un supporto di argilla o gesso, sul quale si plasma una forma di cera corrispondente alle fattezze della futura statua; la forma di cera viene ricoperta a sua volta con strati

sottili di argilla applicati in maniera tale da seguire i lineamenti della forma e forati in vari punti; messo questo conglomerato sul fuoco, la cera scorre via attraverso i fori; tramite apposite condutture il bronzo fuso viene versato nella cavità precedentemente occupata dalla cera; induritosi il bronzo, l'involucro di argilla viene rimosso.

La struttura e il senso del v. 10 s. sembrano dunque essere: il bronzo che i plasmatori per nome chiamano temeseo, battitori intorno alle opere delle api. Si deve tuttavia riconoscere che, come osserva lo stesso Pf., sia la preposizione ἀμφί sia il riferimento alla battitura del bronzo non sembrano adeguati a descrivere il sistema en cire perdue, perché qui il bronzo non circonda la cera, bensì la rimpiazza (ci aspetteremmo piuttosto una preposizione che significhi invece o anche dopo), e non viene lavorato con il martello. Mi pare comunque che le difficoltà non siano così gravi da rendere preferibili 1 supplementi e le divisioni delle lettere proposti in alternativa da Pf.: τάμε (ovvero Ex]raue)

λιςςάων ἀμφὶς ὀλοιτυπί (forse meglio ὀλοι(όγτυπίοο), il colpo funesto tagliò di lisce ... tutto intorno. Secondo Pf., il nostro pentametro potrebbe già riferirsi - come il verso successivo - alla mutilazione della statua di Euticle per mano dei Locresi: C. direbbe che una percossa rovinosa tagliò l'effigie da tutte le parti. L'hapax ὀλοιτυπί, da correggere proba-

bilmente nell'altrettanto unico ὀλοιζόγτυπίος, sarebbe affine all'omerico ὀλοοίτροχος (Il. XII

137, cf. anche Orac. 6, 2 Parke-Wormell), al teocriteo ὀλοίτροχοι (XXI 49) e al posi-

dippeo 6Aottpoxoc (Ep. 19, 9 Austin-Bastianini), che secondo lo Schol. (A) al passo iliadico è un composto di ὀλοός (sul piano glottologico questa etimologia è inaccettabile: vd. i comm. di Leaf e di Janko al luogo omerico e di Gow a quello teocriteo). Per la forma dell'aggettivo Auccdov - il cui referente nel nostro passo resta oscuro -, Pf. si richiama a Call. Dian. 189 ἀλλάων e [Hes.] Scut. 7 κυανεάων | (lezione incerta: vd. il comm. di Russo). Vd. anche il comm. di Pf. a (Call.) fr. inc. auct. 786 Pf. e cf. lo stesso Call. fr. 166, 8 vncéoœv* con il comm. Vd. in generale l'app. Come si vede, questa seconda linea esegetica crea numerosi problemi sia per la comprensione delle singole parole sia per l'inserimento del pentametro nel probabile giro sintattico dei vv. 8-12. In definitiva - nonostante le perplessità suscitate dalla preposizione ἀμφί e dal richiamo alla battitura del bronzo - risulta più plausibile il primo approccio esegetico,

COMMENTO:

AET.II FR. 187

417

che individua nel nostro verso un riferimento al sistema di costruzione della statua di Futicle. 12 s.: Lo scellerato accanimento dei Locresi contro la statua e la conseguente punizione divina sono descritti in modo molto simile nel passo di Enomao riportato nel comm. ai frr.

186-187. 12 μακάρεεειν

ἀπεχ[θέξα: L'espressione risente di Hom. Od. X 74 ἄνδρα τὸν ὅς ke

Beoicıv ἀπέχθηται μακάρεεειν. Per l'impiego assoluto del vocabolo uékapec, vd. il comm. al fr. 69, la μακάρων. L'aggettivo ἀπεχθής è attestato a partire da Sofocle (Ant. 50); C. lo utilizza anche in Cer. 116. Sul piano fonetico, la frase callimachea sembra riecheggiata da

Greg. Naz. Carm.1 2, 2, 574 (PG 37 p. 623) uepöneccw anexd£o*. &vilypot: La lettura e l'integrazione sono alquanto incerte (vd. app.). Per l'aggettivo, cf. fr. 174, 14 &viypñ* con il comm. Dato il contesto del nostro passo, è soprattutto rile-

vante Hesych. s.v. ἀνιγρόν- ἀκάθαρτον ... ἀςεβές. 13 τ]ῷ c@uerv ἐν χαλεπὴν Ofik[e teAecgo]pinv: Perciò, vale a dire per castigare lo scempio della statua di Euticle perpetrato dai Locresi, Zeus Sorvegliante (cf. v. 14) im-

pose loro una difficile maturazione di frutti. Il supplemento di L. θῆκ[ε teAecgo]pinv si fonda su Call. Ap. 77 s. ἐν δὲ nöAnı | θῆκε τελεεφορίην (scil. Batto, vd. il comm. di Williams). Mentre però nell'inno teAecgopin significa rito, cerimonia (come presso Ap. Rh. I 917), qui il suo senso pare essere maturazione di frutti. si possono richiamare in proposito la frase περὶ καρπῶν tekecgopiac contenuta in un'iscrizione di Dorileo (vd.

«ABSA»

49,

τελεςφορίαις

1954,

p.

ἐρατειναῖς.

15) e [Apolinar.]

Met.

Ps.

CVI

75

καὶ

βιότου

κεχάρηντο

Risultano senz'altro inferiori le integrazioni alternative θῆκ[ε

κακοςπο]ρίην e Ofik[ev ἐπιςπο]ρίην (impose loro una difficile semina cattiva ovvero doppia semina), proposte da Barber 6 = GP 934* e Hes. Op. 446. Il Fnomao e smentire quella della scagliato contro Locri non è una

sulla base rispettivamente di Antiphil. Anth. Pal. VII 175, nostro pentametro sembra confermare la testimonianza di Diegesis (vd. il comm. ai frr. 186-187): il castigo divino pestilenza, bensì una carestia.

C. pare risentire di Hes. Op. 334 ἔργων ἀντ᾽ ἀδίκων χαλεπὴν ἐπέθηκεν ἀμοιβήν, dove - come qui - il soggetto è Zeus. Vd. Reinsch-Werner p. 277. τ]ῷ cgıcıv: Νά. il comm. al fr. 174, 58 τῷ καί μιν. teAecgo]pinv: Per le altre attestazioni del vocabolo, vd. sopra il comm. La lezione tedecgopioc nel v. 129 dell'inno callimacheo a Demetra è certamente guasta e va forse corretta in TeAecpop£ac (vd. il comm. di Hopkinson). C. impiega anche l'aggettivo Tekecpöpoc (efficace) nel fr. 215, 4.

14 Sv]tiva κικλήεκουειν

᾿Ἐπόψ[ιον]: C. spiega quale dio scagli la carestia con-

tro Locri: si tratta di colui che chiamano Sorvegliante (bisogna sottintendere un pronome ἐκεῖνος prima di ὅν]τινα). Come indicano i passi riportati oltre, il Sorvegliante che vede tutto dall'alto è con ogni probabilità Zeus (piuttosto che Apollo, cf. più avanti 1] lemma di Esichio). ὅν]τινα ... 10cT1c: Sebbene presso Call. Ap. 2 (che esibisce una clausola quasi identica al nostro verso: vd. oltre) il pronome öcrıc significhi chiunque, in vari luoghi callimachei 6(cjric equivale a ὅς e si riferisce - come qui - a qualcuno o qualcosa di specifico: cf. Ap. 23 (con il comm.

di Williams), Del. 8, 156, 229, Cer. 46 (con il comm.

di Hopkinson),

Ep. LIX 3 Pf. = HE 1313, Jamb. frr. 191, 59 e 192, 16 Pf.,fr. inc. sed. 519 Pf. = (Hec.)fr. inc. sed. 167 H. È interessante osservare che nell'unica attestazione omerica di quest'uso (Il. XXIII 43) si parli - come nel nostro verso - del sommo Zeus: Ζῆν᾽ ὅς tic te θεῶν ὕπατος

418

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(vd. il comm. di Leaf). Il polittoto del pronome ὅςτις non figura in altri passi callimachei (vd. Lapp p. 55). Ἐπόψ[ιον]: Nei poemi omerici la parola manca sia come epiteto divino sia come aggettivo (illustre): in quest'ultima funzione la 51 trova però presso [Hom.] Hymn. III 496*. Si noti, comunque, che Aristofane di Bisanzio (p. 176 Slater) leggeva ἐπόψιον invece di ὑπόψιον in Il. III 42. Sofocle applica per primo il vocabolo agli dèi, in termini generali (cf. Phil. 1040 θεοὶ ... ἐπόψιοι I). Poi lo si trova spesso riferito a Zeus, com'è dunque molto probabile che avvenga anche nel nostro passo: cf. lo stesso Call. Zov. 82 s. (con il comm. di

MeLennan), Ap. Rh. II 1123 Ζηνὸς Ἐποψίου (con il comm. di Matteo), 1133, [Orph.] Arg. 1035 ἀλλά οἱ οὔ τι λάθον Δί᾽ Ἐπόψιον ἠδὲ Θέμιςτα (Θέμιετα West: θέμιετας codd.; sempre ἢ), 5109 1264 = Inscr. Cret. ed. M. Guarducci ΠῚ (Roma

1942) p. 111, nr. IV 11,1

5. AU I Er[o]wt[o]ı (IV sec. a.C.), Hesych. σιν. Ἐπόψιος- Ζεύς: καὶ ᾿Απόλλων. Per Zeus è inoltre attestato l'epiteto Πανεπόψιος: cf. 560 II 08/01/48 v. 7.

Sono anche notevoli Hom. Od. XIII 213 5. Ζεύς εφεας ticarto ixemeoc, ὅς τε Kal ἄλλους ἀνθρώπους ἐφορᾷ καὶ τίνυται ὅς τις ἁμάρτῃ, TrGF adesp. 167a, 4 Ζεὺς ὃ πάντ᾽ ἐποπτεύων e Soph. El. 175 | Ζεύς, ὃς ἐφορᾷ πάντα, nonché Aesch. Sept. 485, Suppl. 627, Soph. El. 824, ep. adesp. App. Plan. 121, 3 = FGE 1386. Per l'onniveggenza di Zeus, cf. Hes. Op. 267 con il comm. di West e TrGF adesp.43 con l'annotazione.

ιὅετις ἀιλιτρούοε: Cf. Sol. fr. 13, 27 W. = 1, 27 Gent.-Pr. ὅςτις ἀλιτρόν, Call. Ap. 2 e Greg. Naz. Carm. I 1, 3, 52 (PG 37 p. 412) ὅςτις ἀλιτρός ἢ, Greg. Naz. Carm. I 1, 1,9

(PG 37 p. 399) ὅςτις ἀλιτρός. Per l'aggettivo, vd. il comm. al fr. 174, 68 5. 15 ad yaleıv ἰθιαραῖς οὐ δύναται λογάειν: Zeus Sorvegliante non può osservare con occhi compiaciuti quelli che agiscono in modo scellerato come i Locresi, ma al contrario si mette sùbito in azione per punirli. In vari passi di C. gli dèi volgono gli occhi

sul mondo dei mortali: cf. fr. 1, 37 5. ἴδον ὄθμαιτιι … | μὴ A088 (con il comm.), Ap. 51 5. e forsefr. 144, 3 e Hec. fr.374 Pf. = 72H. ὄμμαει λοξὸν ὑποδράξ | éccouévn. ad ıyaßeıv:Il verbo - nella sua forma media - è un hapax sia omerico (Il. XXIII 458) sia esiodeo (Op. 478). C. ne fa un uso analogo in Dian. 129, dove si parla di Artemide che

dall'alto osserva (ma con benevolenza) gli esseri umani: οἷς dé κεν εὐμειδής te καὶ ἵλαος odyacmon. Νά. Kuiper p. 81. ἰθιαραῖε: Il raro aggettivo è già attestato presso Alceo, nel fr. 58, 18 Voigt ἰθαρώτεροι | e forse nel lacunoso fr. 5, 8 Voigt [{]depoc (suppl. Diehl): nella prima ricorrenza la parola sembra riferirsi ai bevitori e significare più gioiosi, esibendo dunque il medesimo senso che ha nel nostro passo. Il vocabolo si ritrova poi - con il valore di puro presso Simm. Anth. Pal. XV 22, 6= CAfr.25, 6 p. 117 ἀπὸ κρανᾶν ἰθαρᾶν: qui la lezione ἰθαρᾶν, desumibile dall' @apàv presente nel codice palatino ante correctionem, è sicuramente superiore a καθαρᾶν, che compare sia come correzione nel codice palatino sia nei codici bucolici. C. impiega l'aggettivo - nel significato di agile - anche in Cer. 132 ἰθαρὸν γόνυ, dove l' ἰθαρόν del papiro va senz'altro preferito alla banalizzazione ἱκανόν dei codici medievali (vd. il comm. di Hopkinson). La rarità del vocabolo ἰθαρός e il suo utilizzo nell'inno callimacheo a Demetra inducono ad accogliere nel nostro pentametro la correzione (esibita dal papiro) della lectio facilior

ἱλιαραῖς in ἰθι αραῖς: si osservi che ἱλαραῖς figura tra i vari significati proposti da Esichio per il lemma

ἰθαραῖς

(vd. app. delle fonti). Ancora meno plausibile è la lectio facilior

καθαραῖς, offerta dai testimoni di tradizione indiretta che tramandano la fine del v. 14 e il

v. 15 (vd. app. delle fonti): come osserva L., sarebbe illogico dire che Zeus Sorvegliante - la

COMMENTO:

AET.II FR. 187

419

cui caratteristica è proprio quella di controllare sempre l'operato degli uomini - non può guardare con occhi puri gli scellerati (ed è quindi costretto a distoglierli da loro), mentre è ovvio che egli non possa guardarli con occhi compiaciuti. Si ricordi che la trivializzazione di ἰθαρ- in καθαρ- risulta nella trasmissione del luogo di Simmia riportato più sopra e si noti che anche καθαραῖς è uno dei significati suggeriti da Esichio per il lemma ἰθαραῖς. Vd. in generale l'app. delle fonti e l'app., nonché Massimilla, Papiri p. 33 s. Aoyäcıv: Stando ai testimoni di tradizione indiretta che trasmettono la fine del v. 14 e il v. 15 (vd. app. delle fonti), il termine designa specificamente le parti bianche degli occhi,

cioè le sclere: cf. anche Poll. II 70 τὸ δὲ μετὰ τὴν κόρην λευκὸν ἅπαν cgevöövn καὶ λογάς. τὰ μέρη δὲ τῶν ὀφθαλμῶν χιτῶνας Ékdhecav οἱ ἰατροί. Il vocabolo è già impiegato da Sophron PCG 48 (cui spetta Hesych. s.v. λογάδας) e si ritrova poi presso Nic. Ther.292 (cf. Schol. ad loc.) e Paul. Sil. Anth. Pal. V 270, 6 = 71, 6 Viansino (cui si riferisce Suid. σιν. Aoyàdec). Νά. Bredau p. 46. L'adozione di una terminologia tecnica nel campo dell'oculistica da parte di C. sarebbe congruente con l'ipotesi di H. Oppermann, «Hermes» 60 (1925), pp. 14-32 (rist. in A. D. Skiadas (ed.), Kallimachos, Darmstadt 1975, pp. 1-20), secondo il quale il v. 53 dell'inno callimacheo ad Artemide indica che il nostro poeta ha dimestichezza con i libri Περὶ ὀφθαλμῶν del medico Erofilo: vd. il comm. di Bornmann al passo dell'inno, Fraser I p. 356 e H. von Staden, Herophilus. The Art of Medicine in Early Alexandria (Cambridge 1989), p. 238. Considerazioni papirologiche permettono di istituire un collegamento tra il fr. 187 e alcuni frammenti di libro incerto degli Aitia: 11 fr. 238 (cui potrebbe essere vicino il fr. 249) comincia forse a un solo verso di distanza dalla fine del fr. 187; a quest'ultimo è forse prossimo 1] fr. 248. Per la possibile appartenenza del fr. inc. sed. 267 all'aition di Euticle, vd. la fine del comm. ai frr. 186-187. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis. Al terzo libro degli Aitia risalgono verisimilmente 1 frr. 65-64 e - a quanto pare - 1 frr. 216-250. I frr. inc. sed. 265, 268, 271 e 273 e il fr. inc. auct. 279 potrebbero spettare al libro terzo degli Aitia, mentre è improbabile che ne faccia parte il fr. inc. sed. 541 Pf.: vd. in proposito il comm. ai frr. 186-187.

Aitia, libro quarto Frammento 188 (86 Pf.) (Quarto aition sconosciuto) Moÿlcai por BacıAnl ... ἀεί]δειν : Con ogni probabilità l'elegia iniziale del quarto libro, il cui primo verso coincide con il nostro frammento, non era costituita dalla Dafneforia delfica (cf. frr. 189-191), ma da un aition a essa precedente. I pochi resti della Diegesis non ci sono di aluto per ricostruire 1 contenuti di questa sezione. A quanto pare, C. invoca le Muse in rapporto al canto e menziona uno o più re. La tradizionale epiclesi incipitaria alle Muse del quarto libro si contrappone all'appello ritardato

che C. rivolge loro nel libro primo (fr. 2). L'integrazione βαειλῆ[α θεῶν (cioè Zeus) di Maas, cui Vitelli fa e.g. seguire δότε πρῶτον a completamento del verso (Muse, concedetemi di cantare per primo il re degli dèi), creerebbe un effetto di Ringkomposition con l'ultimo distico del quarto libro (fr. 215, 8 s.), dove sono nominati prima Zeus e poi le Muse (vd. app.). Aggiungo che in questo modo si avrebbe anche un parallelismo con l'esordio del libro terzo, la cui parola iniziale è Znvi (fr. 143, 1). Non mi sembra invece probabile che qui C. si riferisca ad Apollo, come suggerisce dubbiosamente Pf., soprattutto per segnalare la possibilità teorica che il nostro esametro rappresenti il principio della Dafneforia delfica, il cui protagonista è appunto Apollo (in proposito, Pf. si appella a Pind. Pyth. II 27 5. ναοῦ

Bacıkeöc | Λοξίας, dove βαειλεύς equivale ad ἄναξ o decnörnc). D'altra parte è possibile che qui, come congettura D'Alessio (p. 500), C. si proponesse di celebrare un qualche membro della famiglia regale (BacıAn]): l'intento encomiastico accosterebbe questa elegia iniziale del quarto libro 518 all'esordio del terzo (la Vittoria di Berenice) sia alla conclusione del quarto (la Chioma di Berenice). D'Alessio ha comunque ragione a ravvisare nel nostro frammento una voluta corrispondenza con il principio del libro primo (cf. vv. 1-3 μοι ...

ἀιοιδῇ |... Modene ... 1... ἄειομα ... Bacık[n). Νά. Introd.1.4.D. Per l'incipit Mod]cat μοι, cf. l'esordio Modcé μοι di [Hom.] Hymn. V 1, Il. parv. fr. 1, 1,I p. 76 Bernabé =fr. dub. 2, 1 Davies, Hippon. fr. 128, 1 W. = 126, 1 Degani, Sim. fr. 92,

1 W.? (nell'ultimo passo, l'esametro è anche concluso dall'imperativo ἄειδε). Le Muse e l'infinito ἀείδειν occupano rispettivamente l'inizio e la fine del verso già presso Hes. Op.

662 | Μοῦκαι ... ἀείδειν I, Theog. 1 | Movcäwv ... ἀείδειν | (vd. Reinsch-Werner p. 395). Cf. anche Ap. Rh. IV 1381 |Movcdeav ... ἀείδω I, [Opp.] II 570 | Modca.... ἀείδειν IL Frammenti

189-191 (La Dafneforia delfica)

Il tema della sezione è stato riconosciuto da Pf., 477772: pp. 10-12 e Stroux p. 302 n. 4. N.-V., basandosi sulla lacunosa Diegesis, avevano Inopportunamente pensato che C. come pol Ovidio (Mer. I 416-567) - esponesse in un unico racconto la morte del drago delfico per mano di Apollo e la metamorfosi di Dafne. La verità è invece che C. spiega qui l'origine mitica della Dafneforia delfica, una solenne processione durante la quale un fanciullo si reca da Delfi nella valle tessalica di Tempe (dove scorre il fiume Peneo), si incorona con l'alloro che cresce in quella zona e fa ritorno al santuario delfico. Il rito (come in parte leggiamo nel brano residuo della Diegesis) rievoca gli atti compiuti da Apollo bambino sùbito dopo avere ucciso il drago che infestava Delfi: in quell'occasione, infatti, il dio si lavò le mani nel Peneo e si inghirlandò con l'alloro del luogo. Il contenuto generale dell'elegia callimachea si ricostruisce soprattutto grazie a un passo di Teopompo (FGrHist 115 F 80), che illustra nel dettaglio sia l'archetipo divino sia la ce-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 188; 189-191; 189

421

rimonia: διὰ μέεων δὲ τῶν Τεμπῶν ὁ Πηνειὸς ποταμὸς ἔρχεται ... πολλὴ δὲ κατ᾽ αὐτοῦ «ςκιὰ ἐκ τῶν παραπεφυκότων δένδρων καὶ τῶν ἐξηρτημένων κλάδων τίκτεται ... ἐνταῦθά τοί par παῖδες Θετταλῶν καὶ τὸν ᾿Απόλλωνα τὸν Πύθιον καθήραεθαι κατὰ πρόεταγμα τοῦ Διός, ὅτε τὸν Πύθωνα τὸν δράκοντα κατετόξευεεν ... «τεφανωςάμενον οὖν ἐκ ταύτης τῆς δάφνης τῆς Τεμπικῆς καὶ λαβόντα κλάδον εἰς τὴν δεξιὰν χεῖρα ἐκ τῆς αὐτῆς δάφνης ἐλθεῖν εἰς Δελφούς ... καὶ ἔτι καὶ νῦν δι᾽ ἔτους ἐνάτου οἱ Δελφοὶ παῖδας εὐγενεῖς πέμπουει καὶ ἀρχιθέωρον ἕνα «φῶν αὐτῶν. οἱ δὲ παραγενόμενοι καὶ μεγαλοπρεπῶς θύεαντες ἐν τοῖς Τέμπεειν ἀπίαει πάλιν ςτεφάνους ἀπὸ τῆς αὐτῆς δάφνης διαπλέξαντες ... καὶ τὴν ὁδὸν ἐκείνην ἔρχονται ἣ καλεῖται μὲν Πυθιάς, φέρει δὲ διὰ Θετταλίας κτλ. Teopompo, dunque, scrive che nella valle di Tempe fluisce il Peneo, circondato da una lussureggiante vegetazione; qui, secondo i Tessali, Apollo si purificò per ordine di Zeus dopo avere ucciso con le sue frecce 1] drago Pitone; il dio, inoltre, si inco-

ronò con l'alloro di Tempe e ne prese un ramo nella mano destra, recandosi poi a Delfi; perciò tuttora ogni otto anni un'ambasceria di fanciulli nobili, uno dei quali funge da architeoro, arriva nella valle di Tempe,

celebra un sontuoso

sacrificio, intreccia ghirlande con

l'alloro locale e torna indietro lungo la strada chiamata Pitiade. Poiché nella Diegesis la descrizione del rito è andata perduta, non sappiamo se C. esponesse alcuni dei particolari che figurano nel passo di Teopompo. Di certo, nell'elegia callimachea, l'uccisione del mostro da parte di Apollo avveniva quando questi era ancora un fanciullo (vd. in proposito il comm. al fr. 20, 6 ‘Ifue). Il fr. 190 dimostra inoltre che C. non parlava di un drago Pitone (per il quale vd. il comm. al fr. 20, 7), ma di una dragonessa Delfina. L'analisi dei contenuti permette di attribuire a questo aition tre frammenti callimachei. Nel fr. 189 si parla del fanciullo ambasciatore che, tornando dalla valle di Tempe, sosta per il pranzo - come già fece Apollo - nella città tessalica di Dipniade. Il fr. 190 precisa che il custode di Delfi era una dragonessa chiamata Delfina. Dal fr. 191 ricaviamo che Apollo, dopo l'uccisione del mostro, indossò una corona di alloro in quanto supplice. La Dafneforia delfica viene rievocata da C. anche in Jamb. fr. 194, 34-36 e 55 5. Pf. e

forse Del. 177ab (contra Mmeur nel comm. ad loc.). L'importanza dell'alloro per il culto apollineo è inoltre messa in risalto nell'inno di C. ad Apollo, il cui primo verso menziona à

τὠπόλλωνοο ... δάφνινος ὅρπηξ | (vd. il comm. di Williams). Il fiume Peneo, dove Apollo secondo il racconto callimacheo - si purificò le mani, è già menzionato nell'Iiade omerica (II 752 al.) e compare a più riprese nell'inno a Delo di C. (v. 105 al.). Può darsi che sia l'abluzione nel Peneo sia la Dafneforia delfica fossero già trattate da Pindaro nel decimo peana (fr. 52 1 Sn.-M.): vd. B. Snell, «Hermes» 73 (1938), p. 439. Cf. poi Lucan. VI 409 Thessalicae veniunt ad Pythia laurus |, Val. Fl.

1386 laurus Peneia.

Per gli altri frammenti callimachei di argomento delfico, vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 517.

Frammento Asınvıac

189 (87 Pf.) ἔνθεν

μιν

δειδέχαται:

Stefano Bizantino, nel tramandare il frammento,

lo attribuisce al quarto libro degli Aitia: questa notizia e il contesto della citazione rendono certa l'appartenenza del passo alla nostra elegia. Stefano, infatti, spiega che Dipniade (toponimo non attestato altrove) è un villaggio della Tessaglia vicino a Larissa, dove si dice che Apollo abbia per la prima volta pranzato (δειπνῆςαι, appunto) mentre tornava ormai puro da Tempe; il grammatico aggiunge che anche il fanciullo latore dell'alloro (cioè nella

422

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Dafneforia delfica) ha la consuetudine di pranzare, una volta giunto a Dipniade. La dizione del frammento indica che qui C. sta descrivendo il viaggio di ritorno del fanciullo ambasciatore da Tempe a Delfi: dopo una certa tappa (ἔνθεν), lo riceve Dipniade. Per l'insolita configurazione metrica del pentametro, vd. Introd.II.1.B.a.ll. Asırvıac: A quanto pare, il nome è in prolessi rispetto all'avverbio ἔνθεν: vd. in proposito il comm. al fr. 8. δειδέχαται: Riguardo alle forme verbali in -αται e -ato utilizzate come terze persone

singolari, vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 497. Per δειδέχαται in particolare, cf. fr. 97, 12* con il comm. Si osservi che quest'ultimo brano descrive un tragitto in varie tappe, come probabilmente il contesto perduto del nostro frammento.

Frammento

190 (88 Pf.)

L'appartenenza del frammento agli Aitia, e in particolare alla Dafneforia delfica, è congetturale e si ricava dal suo contenuto. Uno scolio ad Apollonio Rodio tramanda che, secondo Leandr(1)o di Mileto (FGrHist 492 F 14 a) e C., il drago custode dell'oracolo di Delfi - ucciso da Apollo - si chiamava Delfine (AeApövnc) e precisa che C. lo considerava di sesso femminile, facendone perciò una dragonessa di nome Delfina (Δέλφυνα; un altro scolio al medesimo brano apolloniano, riportato di séguito nel nostro testo, sostiene erroneamente che già Leandr(1)o (FGrHist 492 F 14 Ὁ) considerava femmina il mostro e lo chiamava Delfina: vd. le annotazioni di Wendel). Dagli scoli ad Apollonio Rodio dipende Er. Gen. AB σιν. Hapvecéc, nel quale si parla del drago Delfine. La voce del Genuinum è riportata da Wendel in calce agli scoli suddetti: esistono altri numerosi passi paralleli (citati dallo studioso nella medesima sede), dove si trova quasi sempre attestata la forma maschile Delfine. C. narra l'uccisione del mostro delfico da parte di Apollo anche in Ap.97-104 e Del. 9093: in questi due brani, però, esso viene genericamente definito ὄφις (glossato come ὃ Δελφύνης dallo scolio a Del. 91). Invece la versione fornita dalla nostra elegia, come ha visto Pf., Azzyrzceicp. 11 n. 2, sembra avere ispirato Apollonio Rodio, quando questi descrive l'impresa infantile di Apollo (II 705-713, vd. il comm.

al fr. 20, 6 'Inıe): Apollonio, infatti,

chiama il drago non Pitone (com'è usuale), bensì Delfine (v. 706 | Δελφύνην ... πελώριον, quindi di genere maschile: vd. il comm. di Vian). Il nome callimacheo del mostro si riverbera anche su Nonno, in un passo che però non consente di stabilire se si tratti di un ani-

male maschio o femmina (Dion. XIII 28 | Δελφύνην è’ édduacce). L'unico poeta che con sicurezza recepisce da C. non solo il nome, ma anche il sesso femminile della fiera è Dioni-

sio Periegete (v. 441 5. δράκοντος | ΔελφύνηοΤ). Sul piano morfologico, il nominativo e accusativo A&Agvva(v) non compaiono altrove: la femminilizzazione di Δελφύνης in Δέλφυνα può essere forse accostata a quella di cıybvvnc in ciyovva (forma, quest'ultima, registrata da Theognost. Canon., Cramer, AQ II p. 101. 6). Con ogni verisimiglianza €. trae da Leandr(i)o di Mileto 1] raro nome Delfine e lo trasforma nell'ancora più insolito Delfina. Leandr(i)o, infatti, è la fonte di vari passi callima-

cher: cf. soprattutto Jamb.fr. 191, 32-77 Pf. (con il comm. al v. 32) e fr. inc. sed. 265, probabilmente fr. 195, 2 s., ma forse anche fr. 65 (con la fine del comm. introduttivo) e frr. 183-185 (con il comm.). È notevole che il brano dei giambi e il fr. 65 riguardino l'oracolo di Apollo didimeo, così come la nostra elegia si riferisce all'oracolo di Apollo delfico. Per la connessione fra Leandr(1)o e C., cf. forse anche Call. test. 10a Pf. Su Leandr(i)o sono fondamentali il contributo di C. Wendel, «Hermes» 70 (1935), pp.

COMMENTO:

AET.IV FRR. 189-192

423

356-360 e 1 testi, 1 commenti e le note forniti da F. Jacoby in FGrHist 491-492.

Frammento

191 (89 Pf.)

La pertinenza del frammento agli Aitia, e specificamente a questa sezione, è congetturale e si deduce

dal suo contenuto.

Tertulliano tramanda che, secondo

C., Apollo

- dopo

avere ucciso il drago di Delfi - si pose sul capo una corona di alloro: la notizia coincide con quanto si legge nei resti della Diegesis. Tertulliano aggiunge che Apollo si inghirlandò di alloro in quanto supplice (infatti il dio, come sappiamo, in quel frangente si incamminava verso Delfi essendosi purificato nelle acque del Peneo). La precisazione di Tertulliano ha indotto Pf. a richiamare con ogni cautela il lemma di

Esichio ctermipio: «τέμματα ἃ οἱ οἰκέται (oi ἱκέται corr. Valesius) ἐκ τῶν κλάδων ἐξῆπτον. Come si vede, questo passo diviene attinente al tema del nostro frammento soltanto se si accetta la correzione

di Valesius:

in tal caso, infatti, l'hapax

cterti pia

desi-

gnerebbe corone attaccate ai rami dal supplici. Tuttavia non sembra necessario intervenire sul testo esichiano, secondo il quale gli crentnpıa sono corone attaccate ai rami dai domestici: vd. F. Pfister s.v. Septerion, RE II A 2 (1923), p. 1555 (che adduce Plut. Mor. 755 A = Amat. 10) e l'annotazione di Hansen al lemma di Esichio. Il sostantivo δάφνη - presumibilmente impiegato da C. nella nostra elegia - compare una volta sola nei poemi omerici (Od. IX 183; cf. anche [Hom.] Hymn. II 396, IV 109, XXVI 9). C. ne fa spesso uso in riferimento ad Apollo: cf. Jamb. frr. 194, vv. 26, 27 (bis),

30, 71 Pf., 195, 31 Pf., Branch. fr.229, 11 Pf., Del. 94. Non risulta che alla nostra elegia spetti il fr. inc. sed. 592 Pf., dove viene menzionata la Pallade Pronea di Delfi. Può darsi, però, che secondo C. Atena riconducesse a Delfi Apollo

dopo la sua purificazione nella valle di Tempe, come racconta Aristonoo nel suo peana ad Apollo delfico (CA I 17-32 p. 163). Vd. il comm. ad loc. e l'annotazione nel testo dopo la Diegesis.

Frammento 192 (90 Pf.) (Abdera) *Ev0”, "Aßönp’, od νῦν |. . ]Aeo φαρμακὸν &yiveî: Il contenuto dell'elegia, che cominciava con quest'esametro, si ricostruisce grazie all'ottimo stato di conservazione della Diegesis. C. descrive un rito della città tracia di Abdera, incentrato sulla figura di un φαρμακός (vittima espiatoria), e spiega che si tratta di una cerimonia di purificazione: un uomo appositamente comprato viene posto in piedi su un mattone grigio e rimpinzato con un pasto sontuoso, per poi essere condotto alle porte Pruridi; uscendo da queste, egli gira intorno alle mura e così purifica la città per la durata di un anno (ma qui il testo è incerto); a questo punto il sacerdote (BaciAedo) e gli altri lo bersagliano con delle pietre fino a estrometterlo dal confini. L'aition callimacheo ha sicuramente ispirato un passo dell'/bis di Ovidio (v. 467 s.), dove il poeta augura al suo avversario di fungere da vittima ad Abdera nelle ricorrenze rituali e di venire colpito con una gragnola di sassate: aut te devoveat certis Abdera diebus | saxaque devotum grandine plura petant. Gli scoli al luogo dell'/bis, nel segnalare che la fonte di Ovidio è C. (vd. app. delle fonti), riassumono il tema della nostra elegia in maniera sostanzialmente concorde con la Diegesis (vd. Gallavotti, Recensione III p. 96, Cameron,

Mythography p. 181), ma tramandano a torto che la lapidazione finale provocava la morte del capro espiatorio. Invece, che i gapuoxot venissero sottoposti non a un sacrificio umano

424

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vero e proprio ma a una sua simulazione, era già stato giustamente congetturato - fra gli altri - da G. Murray, The Rise of the Greek Epic (Oxford 1924), Appendix A, pp. 317-321 (con ricca rassegna di passi e approfondita discussione): vd. ora Hughes pp. 223-226, 250254, 260-262. Un pubblico lancio di pietre serviva ad allontanare l'officiante di un rito anche nell'isola di Tenedo, secondo la testimonianza di Eliano (Nar. an. XII 34): λίθοις

βάλλεται δημοείᾳ καὶ ἔςτε ἐπὶ τὴν θάλατταν φεύγει. L. ap. Pf.

Ip. 502 richiama inoltre

Commentar.E in Hippon.fr. 118, 14-16 W. = Commentar. D in Hippon. fr. 130, 15-17 De-

gani ἐγ]γὺς τῆς Ba[Adceme] … ἐκβάϊλλουει. Alcuni elementi essenziali dell'aition di C. sono venuti alla luce in un lacunoso scolio papiraceo (POxy. 3709 'recto', 3-6). La sezione di testo che questo scollo delucidava è perduta: secondo l'editore del papiro, M. Haslam, essa poteva appartenere a un carme, forse composto in metro trocaico (vd. anche W. Luppe, «APF» 38, 1992, p. 77 s.). Nello scolio in questione figurano una festa di Abdera, una vittima espiatoria nutrita, l'Attica e la celebra-

zione di una festa: ἑορτὴ ἐν ᾿Αβδήροις ... τρέφετίαι) papuaox[éc ... ἐν ᾿Αττικῇ ... ἑορτὴν ἄγει. Haslam suggerisce con grande verisimiglianza che lo scolio collegasse la cerimonia abderita del φαρμακός alla festa attica delle Targelie (su questo nesso, vd. più avanti il

comm. a φαρμακόν). La forma IMpovpidec, che nella Diegesis designa le porte attraverso le quali la vittima espiatoria esce per fare il giro delle mura, è attestata solo qui e corrisponde a ®povpidec (guardiane, composto di πρόεδράω): vd. E. Schwyzer ap. Deubner p. 189=445. Il vocabolo gpovpic è altrove impiegato come sostantivo, con riferimento a un nome ναῦς sottinteso: cf. 16 PP 21. 85, Thuc. IV 13, 2, Xenoph. He//.I 3, 17.

Quanto al φαρμακός che purifica tutt'intorno la città (Dieg. Il 36 5. περικαθαίρει ... τὴν πόλιν), cf. Hesych. s.v. papuoxoi: ... περικαθαίροντες τὰς πόλεις. Maas ap. Pf. Ip. 502 rimanda anche a Dio Chrys. Or. XLVII 17 περικαθήραντας mv πόλιν μὴ «κίλλῃ μηδὲ ὕδατι. Il βαειλεύς, che secondo la Diegesis (II 38) scagliai sassi con gli altri, è verisimilmente il sacerdote preposto alle cerimonie pubbliche: un altro Bacıkebc compare in Dieg.IV 24 (a proposito del fr. 203). Il tema complessivo dell'elegia è dunque chiaro. Purtroppo, invece, il suo esametro iniziale - cioè il nostro frammento - nel papiro delle Diegeseis è deturpato da una lacuna per la quale non si è finora riusciti a escogitare un'integrazione soddisfacente. Alcuni punti del verso, inoltre, hanno un significato incerto 0 sono corrotti e - a quanto pare - il soggetto della frase si trovava nel pentametro successivo. Comunque, il vocativo "Aßönp’ e il termine gapuoxév dimostrano che fin dall'inizio C. forniva l'ambientazione geografica e menzionava il protagonista del rito (vd. Introd.1.4.E.). Il nesso ἔνθ᾽... οὗ (lì ... dove) è accettabile (mentre non convince il suggerimento ἔςτ᾽ di Deubner). Esso incastona il vocativo ”Aßönp(e), che può riferirsi o all'eroe eponimo o ad Abdera stessa: nell'un caso, si osservi che Abdero è già menzionato - per di più al vocativo - nel secondo peana di Pindaro (fr. 52 b Sn.-M., vv. 1 e forse 104); nell'altro, si noti che la

forma ”Aßönpoc per indicare Abdera (invece del più comune tà "ABànpa) veniva impiegata da Eforo (FGrHist 70 F 154, vd. app.) e si ricordi che nell'opera callimachea compaiono varie apostrofi a luoghi geografici (vd. il comm. al fr. 50, 39). In entrambe le ipotesi, suscita stupore il fatto che C. elida un nome proprio (vd. Introd. II.2.D.) sùbito dopo l'elisione di un avverbio. Sul piano dei contenuti, si osservi che C. tratta spesso argomenti traci: vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 662. La lacunosa sequenza νῦν .[...]A£0 non ha ancora trovato un assetto testuale convin-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 192; 193-195

425

cente. N.-V. suggerivano νῦν δ[ιάπ]λεω(ν) sulla base di Dieg. II 33 διάπλεως, ritenendo che l'aggettivo si riferisse a φαρμακόν e designasse la sazietà provocatagli dal sontuoso pasto rituale (ora conduce la vittima espiatoria completamente sazia): questa proposta è però inaccettabile sia perché la lettera successiva a νῦν di certo non è un ὃ sia perché la parola διάπλεως è estranea al lessico epico ed elegiaco. Più plausibile è l'alternativa νῦν ule

π]λέωφ) di Barber (con l'aggettivo π]λέω(ν) spettante a φαρμακόν), per la quale non sussistono particolari ostacoli né paleografici né lessicali; le parole sarebbero pronunciate dallo stesso φαρμακός, il quale direbbe: ora conduce me, sazia vittima espiatoria (per questo tipo di voce narrativa, vd. Introd.1.4.E.). La proposta di Barber ha l'ulteriore vantaggio di evitare un esametro inciso da cesura maschile e privo di dieresi bucolica, che risulterebbe

insolito per 1 carmi elegiaci di C. (vd. Introd. IL 1.A.c.v.). La frase φαρμακὸν ἀγινεῖ sembra indicare che il capro espiatorio viene condotto in uno dei luoghi previsti dalla cerimonia (p.es. le porte Pruridi). Il soggetto del verbo compariva presumibilmente nel pentametro successivo. A seconda che C. o il φαρμακός apostrofassero con il vocativo ”Aßönp’ l'eroe Abdero o invece la città di Abdera, il soggetto in questione poteva rispettivamente essere cn πόλις (Lì, Abdero, dove la tua città conduce ecc.) 0

βαειλεύς (Lì, Abdera, dove il sacerdote conduce ecc.). Vd. in generale l'app. φαρμακόν: Il vocabolo è attestato a partire da Ipponatte, che in un suo componimento descriveva l'uccisione di un capro espiatorio: cf. frr. 6, 2; 7; 8, 2; 9, 2; 10, 2; 92, 4 (ἢ); 104, 49; 152 W. = 6, 2; 27, 28, 2; 29, 2, 30, 2; 95, 4 (9); 107, 49; 203 Deganı. Di particolare inte-

resse è il fr. 8 W. = 28 Deganı, dove Ipponatte menzionai cibi dati da mangiare alla vittima così come C. parlava del pasto sontuoso che gli Abderiti elargiscono al φαρμακός prima di cacciarlo dai loro confini. Il sostantivo è pol Impiegato nel suo senso proprio da Aristofane (Ran. 733) e da Istro allievo di C. (FGrHist 334 F 50, a proposito delle Targelie: vd. Jackson, Callimachus; per il φαρμακός e le Targelie, cf. anche Hippon. fr. 104, 49 W. = 107, 49 Degani e il passo del POxy.3709 discusso più sopra). Dal momento che i criminali fungevano da capri espiatori, la parola φαρμακός talvolta significa per estensione delinquente: cf. Aristoph. Eq. 1405, PCG 655, [Lys.] VI 53, Dem. XXV 80. La quantità dell'ultimo a/pha è lunga - come qui - nei frammenti di Ipponatte, breve nel passo dei Cavalieri e nel frammento aristofanei, indeterminabile nel luogo delle Rane di Aristofane; per l'alpha lungo, cf. anche Phot. Lex. s.v. φαρμακόε, IT p. 256 Naber ... οἱ δὲ Ἴωνες ἐκτείνοντες λέγουει φαρμακόν. Quanto all'accentazione ossitona, cf. [Arcad.] De

accent. (= Exc. ex Herodian. Pros.) p. 51. 9 Barker = p. 57. 7 Schmidt φαρμακὸς 6 ἐπὶ καθαρμῷ τῆς πόλεως τελευτῶν, φάρμακος δὲ 6 γόης (contra Th. Bergk, Poetae Lyrici Graeci I, Lipsiae 1882, p. 462 ad Hippon. fr. 5,2 = 6,2 W. = 6,2 Degani).

Frammenti

193-195 (Melicerte)

L'argomento dell'elegia risulta dalla Diegesis, che nella sua parte espositiva presenta poche lacune (per altro colmate in modo plausibile dagli studiosi): C. spiega l'origine mitica di un sanguinoso rituale, anticamente praticato nell'isola di Tenedo e poi soppresso. Dopo che Ino si lanciò in mare con il piccolo figlio Melicerte, il cadavere di costui fu rigettato dalle onde sulla spiaggia di Tenedo (isola dell'Egeo prospiciente le coste della Troade); i Lelegi, che in quel tempo abitavano a Tenedo, eressero un altare in onore di Melicerte; su

di esso, in caso di grave pericolo, si compiva il seguente sacrificio pubblico: una donna immolava il proprio neonato e sùbito dopo veniva accecata; la cerimonia fu poi abolita, allorché 1 discendenti di Oreste si stabilirono a Lesbo (situata poco più a Sud di Tenedo).

426

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Il folle balzo in mare di Ino (cf. fr. 194) insieme a Melicerte si verificò - secondo una versione del mito - quando Atamante, il marito di Ino còlto anche lui da pazzia, li inseguiva intenzionato a ucciderli, come aveva già fatto con l'altro figlio Learco; dopo essere caduti in acqua, Ino e Melicerte divennero dèi marini, rispettivamente con i nomi di Leucotea e Pa-

lemone (cf. forse fr. inc. auct. 282); in onore di Melicerte furono istituiti i giochi istmici: cf. Hypotheseis Pindari Isthmiorum c. e d. (III p. 194. 4 Drachmann), Paus. I 44, 7-8, Schol.

(AD) Hom. Il. VII 86, Schol. Eur. Med. 1284, Hygin. Fab. II e IV, Schol. Ov. Ib. 497. Il personaggio di Atamante compare forse nel fr. 57 del secondo libro: vd. il comm. ad loc. Che il popolo micrasiatico dei Lelegi abitasse anticamente le isole dell'Egeo, è confermato

dallo stesso C. nel fr.

174, 62, dove

si parla di Ceo.

Inoltre un commentario

a un

carme di Euforione (SH 431, 2-7) attesta che 1 Lelegi in passato occupavano Samo: vd. il comm. di L.J.-P. ad loc. e il nostro comm. al fr. inc. sed. 127. Il sacrificio di neonati in onore di Melicerte nell'isola di Tenedo è rievocato anche da

Licofrone (v. 229): Παλαίμων ... Bpegortovoc |. Lo scolio ad loc. spiega: Παλαίμων ὁ Μελικέρτης, ὁ τῆς Ἰνοῦς υἱός: οὗτος ςφόδρα ἐτιμᾶτο ἐν τῇ Τενέδῳ, ἔνθα καὶ βρέφη αὐτῷ ἐθυείαζον. Pf. osserva inoltre che un qualche nesso fra Ino e Tenedo si può forse desumere dallo Schol. (AD) Hom. 71.138, secondo il quale la sorella di Tenne, re ed eponimo

di Tenedo, si chiamava Leucotea (altrove il nome di questo personaggio è Emitea: cf. Paus. X 14, 2, Apostol. Cent. XVI 25, Steph. Byz. s.v. T&veöoc). La pratica di immolare lattanti a Melicerte va evidentemente collegata al fatto che lui stesso perì poco dopo la nascita (il tema del sacrificio umano ricompare nell'elegia dedicata a Teodoto, posta da C. sùbito dopo il nostro aition: vd. il comm. introduttivo al fr. 196 e Introd. 1.4.D.). L'accecamento delle madri va forse inteso come un simbolo della follia di Ino. La successiva abolizione del sacrificio, espressa nella Diegesis dal verbo κατελύθη (III 10), è analoga alla soppressione del tributo di Temesa compiuta da Eutimo, che C. narrava in un altro passo del quarto libro (frr. 201-202) ed è indicata dal verbo ἀπέλυςεν nella relativa Diegesis (IV 13). Similmente, in un aition di incerta collocazione (fr. 110), C. specificava che il culto di Atena fasciata a Teutide era finito (vd. il comm. introduttivo ad loc.). Che Lesbo venisse colonizzata dai discendenti di Oreste, viene detto in modo conciso da

Alceo (fr. 70, 6 Voigt): vd. lo scolio ad loc. e l'annotazione di E. Diehl, Anthologia Iyrical 4 (Lipsiae 193%), p. 106. Le fonti storiche e geografiche tramandano che la colonizzazione interessò non solo Lesbo, ma l'intera Eolide. Secondo Ellanico (FGrHist 4 F 32 = EGM fr.

32) essa venne realizzata da Oreste stesso, mentre la maggior parte delle testimonianze individua i colonizzatori nei discendenti dell'eroe, specificando talvolta che il primo di questi fu Pentilo, figlio di Oreste: cf. Ephor. ap. Strab. XIII 582 (con il comm. di Jacoby a Ephor. FGrHist 70 F 163), Ephor. FGrHist 70 F 119 ap. Strab. IX 401 s., Demo FGrHist 327 F 17, Anticlid. FGrHist 140 F 4, Paus. II 2, 1. Il sincronismo, attestato nella Diegesis al no-

stro aition, fra la soppressione della cerimonia di Tenedo e lo stanziamento dei discendenti di Oreste a Lesbo implica che un gruppo di Greci si spostò da Lesbo a Tenedo e pose fine al cruento rito. L'arrivo a Tenedo di uomini collegati a Oreste è confermato da Pindaro (Nem. XI 33-35), il quale afferma che il sangue spartano di Aristagora di Tenedo (il dedicatario dell'ode) risale al suo avo Pisandro, giunto nell'isola da Amicle con Oreste a capo di un esercito di Eoli. Il relativo scolio (43 Ὁ Drachmann) spiega: οὗτος δὲ (cioè Pisandro) cdv

"Opécrn ἀπῴκηεεν ἐκ (πάρτης καὶ τὴν Τένεδον κατῴκηςε ... περὶ dè τῆς Ὀρέετου εἰς τὴν Αἰολίδα ἀποικίας “Ἑλλάνικος ἐν α΄ Αἰολικῶν ἱετόρηκεν (FGrHist 4 F 32 = EGM fr. 32, cf. sopra; dallo scolio pindarico dipende Tzetz. in Lyc. 1374). Νά. in generale Secci pp. 97-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 193-195; 193

427

100, Hughes p. 216 s. Dell'elegia callimachea restano tre frammenti: il fr. 193 è l'esametro iniziale, nel quale vengono menzionati Melicerte e Ino; il fr. 194, di incerta attribuzione al nostro aition, rie-

voca il salto in mare di Ino; il fr. 195 esibisce in forma lacunosa gli ultimi tre versi dell'elegia, nei quali C. dichiara forse di avere tratto le sue informazioni dallo storico Leandr(i)o di Mileto. Un possibile collegamento fra le vicende narrate nella nostra elegia e i Μιλησιακά di Leandr(i)o è costituito dall'apparizione di Leucotea a Mileto, per effetto della quale venne lì fondato un agone ginnico in onore della dea (cf. Conon FGrHist 26 F 1 XXXII): vd. F. Jacoby, FGrHist III B, Kommentar p. 406, Polito p. 353 s., Giuseppetti p. 192. C. accenna a Melicerte-Palemone in /amb. fr. 197, 19 e 23 Pf. © Παλαίμονες le Vict.

Sosib.fr. 384, 25 Pf. καειγνήτῳ … Aedpyov |. Frammento 193 (91 Pf.) A... Μελικέρτα, μιῆς ἐπὶ πότνια Bövn: Questo è l'incipit dell'elegia, trasmesso dalla Diegesis: C. apostrofa Melicerte e nomina Bina, cioè Ino. N.-V. avevano integrato ᾿Α[γκύρης], ritenendo che con la frase ᾿Α[γκύρηε] ... μιῆς ἔπι il poeta proponesse una metafora frequente nelle letterature classiche: i figli sono le ancore dei genitori, perché danno loro stabilità come le ancore alle navi; d'altro canto un solo figlio è un'àncora insi-

cura, mentre è saldo chi ha un numero di figli maggiore, proprio come avviene per le navi che dispongono di più ancore. C. direbbe dunque che Ino, dopo la morte dell'altro figlio Learco, può fondarsi su una sola àncora, cioè Melicerte. In termini generali la ricostruzione di N.-V. è molto attraente, soprattutto se si osserva che il racconto callimacheo renderebbe

quanto mai appropriata la metafora: Melicerte, infatti, ben lungi dall'ancorare fermamente sua madre, si inabissa con lei nel mare e resta lui stesso in balia delle onde. Sul piano paleografico, però, lo spazio disponibile tra l'alpha iniziale e la parola successiva impedisce di collocare il vocabolo ἀγκύρης al principio del nostro verso (a meno di non ipotizzare l'omissione di qualche lettera): Pf., quindi, congettura che la parola ἀγκύρης aprisse il pentametro successivo, notando fra l'altro che la sequenza μιῆς ἐπὶ ... ἀγκύρης sarebbe più plausibile di ἀγκύρηςο ... μιῆς ἔπι (si noti, comunque, che le lettere umcezi si presterebbero anche alla divisione μιῇ c’ ἐπὶ). Per l'inizio del nostro esametro, Maas suggerisce ’A[övı’ à Μελικέρτα

(C., nell'apostrofare Melicerte, lo definirebbe

aonio, cioè beotico (cf. fr. 3, 9

con il comm.), in quanto nipote di Cadmo fondatore di Tebe): questo supplemento è adatto allo spazio, ma non alle tracce ravvisabili tra l'alpha iniziale e Μελικέρτα. Νά. in generale l'app. La metafora delle ancore è utilizzata da C. stesso in Jamb. fr. 191, 47 Pf. (parole di Baticle sul letto di morte) ὦ πιαῖδες à ιἐμαὶ τὠπιόντος ἄγκυραι: cf. anche i passi riportati da Pf. nel comm. ad loc. La proverbiale sicurezza fornita da due ancore è messa in evidenza da

Pind. Ol. VI 100 5. ἀγαθαὶ δὲ πέλοντ᾽ ἐν χειμερίᾳ | νυκτὶ θοᾶς ἐκ νοὸς éneckiupôa δύ᾽ ἄγκυραι.

AI contrario l'insufficienza di una sola àncora viene rilevata da Fur. Phaéth.

TrGF 774, 4 ναῦν tor ui’ ἄγκυρ᾽ οὐδαμῶς (οὐχ ὁμῶς coni. Badham) εῴζειν φιλεῖ (sentenza recepita da Apostol. Cent. XI 96 Ὁ), Herod. I 41 5. νηῦς μιῆς Er’ ἀγκύρης | οὐκ] ἀςφᾳλὴς δρμεῦςᾳ (con i passi raccolti da O. Crusius, Untersuchungen zu den Mimiamben des Herondas, Leipzig 1892, p. 10, che già pensava a un qualche impiego dell'immagine da parte di C.), Prop. II 22, 41 s. nam melius duo defendunt retinacula navim, | tutius et geminos anxia mater alit, Ov. Rem. 447 non satis una tenet ceratas ancora puppes, Anonym.

428

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Περὶ τρόπων, PWürzb. 2. 41-43 ed. U. Wilcken, «Abh. Berl. Ak.» 1933, 6, p. 25 un μιᾶι

ἀςφαλε[ςτέραν ... τάξιν ἐπὶ Svciv ἀϊγκύραις opu]òv (con il comm. di Wilcken a p. 30 s.), Heliod. IV 19, 9 Χαρίκλειά μοι ... μόνη παραψυχὴ Kal ὡς εἰπεῖν ἄγκυρα: Kal ταύτην ὑπετέμετο ... κλυδώνιον. Μελικέρτα: In poesia il nome è attestato a partire da Pind. /sthm.fr. 5,3 Sn.-M. Per questo vocativo, e più in generale per l'attacco del nostro aition, cf. Philod. Anth. Pal. VI 349, 1 = GP 3274 = 34, 1 Sider | Ἰνοῦς è Mediépro®.

Bövn: Quest'appellativo di Ino-Leucotea viene già usato da Licofrone (vv. 107 Bövn θεᾷ I, 757 Bòvno) e figura anche nel fr. inc. auct.277. Euforione chiama Bina il mare salso:

πολυτρόφα δάκρυα Bövnc | (CA fr. 127 p. 52; sull'accentazione di πολυτρόφα, vd. Magnelli, Studi p. 23 n. 65). Lo scolio al v. 107 di Licofrone collega il nome al verbo δύνω (mi

immergo) e specifica che si tratta di una voce dorica: Βύνῃ παρὰ τὸ δῦναι- τὸ γὰρ B ἀντὶ τοῦ ὃ παραλαμβάνεται παρὰ Awpıedcı ... τῇ Abvn Λευκοθέᾳ τῇ Tvoî κτλ. (invece, secondo l'Ef. Gud. αὖ p. 291. 18 de Stef., Βοιωτιακὴ ἢ λέξις). Da scoli perduti a Lyc. 107 derivano 1 passi degli Etimologici indicati nell'app. delle fonti al fr. inc. auct. 277: cf. inol-

tre Et. Gen. AB sw. λιβδοῦμεν, À 101 Alpers (= Er. M. s.v. λιβδούμεθα, vd. Magnelli, Studi p. 134), Et. M. sw. Ἰνώ, p. 471. 27 Gaisf. e Choerob. in Theodos.

Can., Gramm.

Gr.

IV 1, p. 307. 14 Hilgard. L'accostamento di Ino-Leucotea al verbo δύνω rimonta all'Odissea omerica (V 352), dove 51 legge che la dea, dopo essere emersa per incontrare Odisseo, ἐς πόντον ἐδύςετο. Sul nome Bina, vd. anche G. Lambin, «LEC» 74 (2006), pp. 97-103.

Frammento 194 (SH 275) &Auatoc Ἰνῴοιο neunvöroc ὅετις ἀπευθής: L'appartenenza del frammento agli Aitia e in particolare alla nostra elegia è congetturale e si ricava dal suo contenuto: qui, infatti, il folle salto di Ino si riferisce probabilmente al suo tuffo in mare con Melicerte. Il contesto sintattico dell'esametro è incerto: non sappiamo chi sia ignaro del balzo dell'eroina né è possibile dire se il pronome öcru abbia valore generico o spetti a una persona specifica

(vd. il comm. al fr. 187, 14 $v]Jrwva ... τὅετιο). Ino fra le onde marine è verisimilmente il tema trattato in SH 442 (vd. l'annotazione di L.J.-P.) da Euforione, se - come sembra plausibile - la paternità del frammento è sua. Può darsi che a questo passo si riferiscano alcune righe di un commentario euforioneo (SH 430 II 14-16: vd. l'annotazione di L.J.-P.) e che al medesimo carme spettino Euph. CA frr. 84 e 127 pp. 45 e 52 (per quest'ultimo brano, vd. sopra il comm. al fr. 193 Bövn). ἅλματος Ἰνῴοιο peunvotoc: Il nesso iniziale viene imitato da Nonn. Dion. IX 269 ἅλμαειν Tvooıcı*, che descrive i salti compiuti dall'eroina nel suo folle vagabondaggio sui monti. Ma cf. anche Nonn. Dion. XLIII 306 &Auoc untp@orcv*, dove si parla dei balzi compiuti da Melicerte a imitazione della madre Ino (ormai entrambi divinità marine) durante uno scontro con Dioniso (vd. Hollis, Allusions p. 145). Per la pazzia di Ino, cf. fr. adesp. PMG 931, 12 uaveicav ... Ἰνώ, Eur. Med. 1284 | Ἰνὼ poveîcov, Nonn. Dion. IX

255 | αἰνομανής, 281 5. Ἰνοῦς I... μεμηνότα γυῖα. ἅλματοε: All'interno dei poemi omerici il vocabolo compare solo in Od. VIII 103 e 128* (cf. anche [Hom.] Batr. 66 v.I.). ’Ivooıo: Come si è detto, l'aggettivo viene ripreso da Nonno. Secondo Macrobio (Sar.

V 17, 18), del vocabolo faceva uso anche Partenio nell'esametro Γλαύκῳ καὶ Νηρῆι καὶ Ἰνώῳ Μελικέρτῃ (SH 647 = fr. 36 Lightfoot): ma è più probabile che si debba leggere εἰναλίῳ al posto di Ἰνώῳ, perché Aulo Gellio (XIII 27, 1) - nel tramandare il frammento

COMMENTO:

AET.IV FRR. 193-196

429

con l'aggettivo εἰναλίῳ - dice espressamente che il verso di Partenio fu imitato con la variazione di due parole da Verg. Georg. I 437 Glauco et Panopeae et Inoo Melicertae (cf.

poi Lucill. Anth. Pal. VI 164, 1 Γλαύκῳ καὶ Νηρῆι καὶ Ἰνοῖ καὶ Μελικέρτῃ). ἀπευθήςε: Νά. il comm. al fr. 148, 25 ἀπευθέα. Frammento

195 (92 Pf.)

Si tratta di tre versi lacunosi, che rappresentano di sicuro la conclusione di un'elegia: infatti, nel papiro che tramanda il frammento, una paragraphos vergata sotto il v. 3 segnala appunto (insieme a una coronide perduta nel margine sinistro) la fine di un aition. Poiché nel papiro il verso seguente dà inizio all'elegia Teodoto di Lipari (fr. 196, 1), la cui Diegesis è Immediatamente successiva a quella di Melicerte, se ne può dedurre che 1 nostri tre versi sono il finale di quest'ultimo aition. Vd. in generale l'app.

2 5. Λε]ανδρίδες εἴ τι παλαιαί | φθ[έγγ]ονται ... ictopiat: A quanto pare C., nel concludere l'elegia, cita la fonte cui si è rifatto: le παλαιαὶ ... ἱοτορίαι del nostro distico corrispondono alle parole ἀρχαίου Zevoundeoc e πρέεβυς, utilizzate dal poeta nella parte conclusiva dell'aition di Aconzio e Cidippe (fr. 174, 54 e 76) per informarci che in quel caso le sue notizie derivavano da Senomede di Ceo (vd. /ntrod.I.4.E.). In modo analogo Ovidio, all'inizio dei Fasti, si rivolge così al lettore: sacra recognosces annalibus eruta priscis (I 7, vd. Fantuzzi-Hunter p. 115 n. 86 = p. 66 n. 87).

È molto attraente l'hapax Λε]ανδρίδες integrato da Pf.: l'elegia dedicata a Melicerte trarrebbe origine dallo storico Leandr(1)o di Mileto (FGrHist 491-492 F dub. 5), così come vari passi callimachei (vd. i comm. al fr. 190 e ai frr. 193-195; molto meno plausibile è 1l Πειο]ᾳνδρίδες di Maas, anch'esso non attestato altrove). C. sembra utilizzare l'espressione se le antiche storie di Leandro dicono qualcosa per mettere in rilievo la veridicità del suo racconto. Un uso analogo del verbo φθέγγομαι si riscontra presso Posidipp. HE 3147 5. =

122, 6 5. Austin-Bastianini φθεγγόμεναι cedidec | οὔνομα cdv nakapıcıöv (le colonne dei papiri di Saffo che fanno risuonare il nome di Dorica; vd. Bing p. 33). L'intera nostra frase conclusiva è inoltre molto simile alla fine del secondo mimiambo di Eroda, benché quest'ul-

tima sia inserita in un contesto assai diverso: εἴ τι un ψεῦδος | Ex τῶν παλαιῶν ἣ παροιμίη βάζει (v. 101 s., vd. Giuseppetti p. 191 n. 29). All'elegia di Melicerte risale forse il fr. 214, cioè l'unico frammento del quarto libro la cui precisa collocazione resta indeterminata:

esso, infatti, verte su Lesbo.

È anche ipotiz-

zabile che a questa parte degli Aitia appartenga il fr. inc. sed. 252, dove si parla del culto lesbio di Apollo. Potrebbero inoltre spettare alla nostra elegia uno o più frammenti di incerto autore, vale a dire 1 frr. 277 e 280 (incentrati, di sicuro il primo e probabilmente il secondo, su Ino) e 1 frr. 282 e 281 (relativi, forse il primo e più ipoteticamente il secondo, a Melicerte-Palemone). Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammento

196 (93 Pf.) (Teodoto di Lipari)

Per uno studio approfondito del frammento, vd. *Massimilla, Theudotus: parte di ciò che segue è una versione abbreviata di quel saggio. La Diegesis dell'elegia è molto malridotta: ne abbiamo, in forma assai degradata, 1 cinque righi iniziali ivi incluso l'esametro di esordio, che corrisponde al v. 1) e - dopo una lacuna di sette linee - un misero avanzo di rigo conclusivo. Poiché le Diegeseis occupano mediamente una decina di righi, è improbabile che nella lacuna cominciasse un'esposizione

430

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

nuova: ma se così fosse, ciò implicherebbe che tra la nostra elegia e Limone (frr. 197-198) si interponeva un aition dal contenuto ignoto. Il merito di avere identificato l'argomento complessivo di questa sezione spetta a Pf., Papyrus p. 384 e Azyyriceic pp. 12-14. Prendendo le mosse dalle parole mutile Lipares- e Tirren- riconoscibili all'inizio della Diegesis, lo studioso ha chiamato in causa gli scoli a un passo dell'/bis di Ovidio (v. 465 s.), nel quale il poeta augura al suo avversario di essere immolato sull'altare di Apollo come accadde a Teodoto per mano dei suoi nemici: victima vel Phoebo sacras macteris ad aras, | quam tulit a saevo Theudotus hoste necem. Gli scoli

in questione spiegano che Ovidio allude alla seguente storia raccontata da C. (poiché essi si riferiscono appunto alla nostra elegia, ne ho riportato 1] testo nell'app. delle fonti): mentre assediavano l'acropoli di Lipari, i Tirreni (in questo caso identificabili con gli Etruschi) giurarono ad Apollo che gli avrebbero sacrificato il Liparese più forte, se il dio li avesse resi vincitori; perciò, quando ebbero la meglio sui nemici, gli Etruschi immolarono un combattente di nome Teodoto. La congettura di Pf. è stata confermata dalla successiva pubblicazione del POxy. 2170, che tramanda le parti iniziali dei versi del nostro frammento: qui, infatti, sono menzionati Febo (v. 14), probabilmente l'isola (vv. 8 e 18) di Lipari (v. 9) e presumibilmente 1 Tirreni (v. 10). Guerre fra 1 Liparesi e gli Etruschi si profilarono già nella prima metà del VI secolo ed esplosero all'inizio del V: rilevanti, a questo riguardo, sono le testimonianze di Timeo (FGrHist 566 F 164, vol. III B p. 651. 8) e di Antioco siracusano (FGrHist 555 F 1; per il moderno dibattito storiografico, vd. i contributi critici indicati da *Massimilla, Theudotus).

Può darsi che Timeo o Antioco sia la fonte di C. per l'episodio di Teodoto (sui problemi posti talvolta dal rapporto fra Timeo e C., vd. il comm.

Apollon p. 574-229 pensa che sto: cf. Theophr. fr. 586 = 589 nome del personaggio aveva diano, che è compatibile con

al fr. 50, 18-83; da parte sua Colonna,

qui il nostro poeta si sia rifatto al Περὶ Τυρρηνῶν di Teofranr. 23 Fortenbaugh-Huby-Sharples). All'interno dell'elegia 1] di certo la forma Θεύδοτος, equivalente al Theudotus oviil metro: cf. anche fr. 89, 21 Qedyevec e vd. il comm. al fr.

inc. auct. 139 θεῦν. C., affiancando l'elegia su Melicerte (frr. 193-195) e il nostro aition, tratta due volte di

séguito il tema del sacrificio umano e lo attribuisce in entrambi 1 casi a popolazioni non greche, rispettivamente i Lelegi e gli Etruschi (vd. Introd. 1.4.D.). In questo modo il poeta precisa ai suoi lettori che una simile pratica è estranea al ΠῚ ellenici: vd. in proposito Pf., Amyrceicp. 13 s. Che gli Etruschi sacrificassero i nemici, è confermato da un passo di Livio relativo agli scontri fra Tarquinia e Roma verso la metà del IV secolo (VII 15, 10): trecentos septem milites Romanos captos Tarquinienses immolarunt. Secondo Eustazio (p.

1294. 22) anche i Galati immolavano i prigionieri di guerra: Γαλάταις ἔθος ... θύειν τοὺς αἰχμαλώτονε ... ἦν γάρ τις ἀπαρχὴ πρὸς τὸ θεῖον, οἷα Bvcia. Un'interessante testimonianza sull'uso etrusco di sacrificare esseri umani è stata individuata da Colonna, Apollon p. 559 5. = 214 5. nelle Chiliadi di Tzetze (VIII 884 s.): βίαιοι

γὰρ oi Τυρρηνοὶ καὶ θηριώδεις ἄγαν, | ὡς μέχρι καὶ Ἱέρωνος ἱερουργεῖν ἀνθρώπους. Colonna pensa che la notizia fornita da Tzetze, secondo la quale la crudele pratica durò fino ai tempi di Ierone, si riferisca proprio al nostro aition: perciò lo studioso (p. 563=217) colloca l'uccisione di Teodoto fra il 485 e 11 480 a.C., quando a Siracusa Ierone I stava per succedere a Gelone. Da parte mia, ritengo le parole di Tzetze troppo vaghe per essere riferite con un certo margine di verisimiglianza all'elegia callimachea. Comunque una datazione dell'episodio vicina a quella fissata da Colonna rientra pur sempre nella cronologia com-

COMMENTO:

AET.IV FR. 196

431

plessiva delle guerre fra 1 Liparesi e gli Etruschi (vd. sopra). I Tirreni figurano in altri luoghi callimachei: nel fr. 200 essi sono identificati con i Pelasgi che costruirono le antiche mura di Atene; una statua di Ermes tirrenico compariva nel nono giambo (cf.fr. 199 Pf. e Dieg. VIII 37 s.). Cf. inoltre /amb.fr. 202, 31 Pf. Tupenv.[ e forse fr. inc. sed. 725b Pf. (vd. Pf. II p. 123). Riguardo allo spiccato interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm.

al fr. 50, 18-83.

Al nostro aition potrebbe risalire il fr. inc. sed. 253, dove forse un uomo viene cinto con ghirlande prima di essere immolato. Invece il fr. inc. sed. 723 Pf., inerente all'Ermes tirrenico chiamato Cadmilo, sembra derivare dal nono giambo (incentrato appunto su Ermes) piuttosto che da questa elegia. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis. Dell'aition callimacheo ci sono pervenuti in maniera frammentaria 1 diciotto versi iniziali: dei primi sette sono parzialmente superstiti il principio e la fine, mentre dei restanti undici abbiamo solo gli inizi, talvolta in forma lacunosa. Ma proprio 1 distici di esordio, benché meglio conservati, presentano le maggiori difficoltà interpretative, tanto che non si è finora riusciti a individuare in maniera convincente il loro collegamento tematico con l'argomento complessivo dell'elegia. A quanto pare, C. apostrofa due o più esseri umani o animali o vegetali (cf. v. 3 buéac) scaturiti dalla terra e applica loro - nell'incipit dell'elegia - il vocabolo γένος (v. 1): tale stirpe viene inizialmente definita più dolce del nettare e dell'ambrosia (sono meno probabili interpretazioni

e scelte testuali diverse, vd. il comm.

al v. 1). A quanto

sembra,

C., insi-

stendo sul medesimo concetto, afferma poi che gli esseri in questione passano attraverso la lingua come gli alimenti più soavi, fra tutti quelli che superano in dolcezza perfino il mosto; dopo un'esclamazione di compianto o di esecrazione forse rivolta al medesimo gruppo (v. 5, δείλαιοι), ci si riferisce a qualcuno o qualcosa (μιν) e - di nuovo sotto forma comparativa (un po' di più di quanto) - si parla forse di un arido labbro (v. 5 s.), il che sembra ancora riguardare l'atto del bere. Un tentativo di connettere questi oscuri versi all'argomento generale dell'aition è stato compiuto da Barber, Recensione p. 177, secondo il quale il sangue di Teodoto immolato verrebbe posto a confronto con il nettare. A sua volta Pf. richiama dubbiosamente un passo dell'/ppolito euripideo (vv. 742-751), dove si descrivono 1 giardini occidentali degli dei percorsi da fonti di ambrosia, e osserva che - secondo uno scolio al v. 748 - in quelle plaghe hanno origine sia l'ambrosia sia il nettare. Come sl vede, queste proposte non sono sufficienti a delucidare 1 misteriosi versi di C. Lo stesso può dirsi per altri tentativi esegetici, sinteticamente messi in campo negli ultimi anni (vd. *Massimilla, Theudotus). Ci lascia soprattutto perplessi l'apostrofe contenuta nel v. 3 (la terra vi fece scaturire), perché il vastissimo campo di applicazione della frase γῆ &vadiSoci in poesia (vd. il comm. ad loc.) rende particolarmente difficile identificarne 1 destinatari e quindi comprendere di chi mai si parli nei primi sei versi dell'elegia. I vv. 1-6 restano dunque enigmatici. Trovo però molto attraente un'ipotesi interpretativa avanzata da Pagliara pp. 316-318, secondo il quale il nostro passo - con la sua insistenza sul tema della dolcezza - alluderebbe alla parola MeAryovvic, cioè all'antico nome di Lipari, registrato da C. stesso nell'inno ad Artemide (v. 47 s.; per le altre attestazioni del toponimo, vd. *Massimilla, Theudotus). Pagliara osserva che un plausibile significato etimologico di

MeAryovvic sarebbe nata dal miele ovvero nata nel miele (μέλι + γίγνομαι): tale significato farebbe riferimento alla fertilità di quell'isola vulcanica e avrebbe quindi la medesima connotazione dell'etimologia di Λιπάρα, cioè splendente, ricca (si noti, fra l'altro, che nel-

432

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

l'esordio dell'elegia C. riecheggia luoghi dell'Iliade omerica dove si parla del miele: vd. il comm. al v. 1). Se la congettura di Pagliara coglie nel segno, è possibile che qui la straordinaria dolcezza della stirpe (v. 1 yÉvoo) liparese - segnalata dal nome stesso (MeAıpoor:d) della terra che l'ha fatta scaturire (v. 3 e forse già méSo[to alla fine del v. 1: vd. app) venga contrapposta all'amarezza degli Ftruschi, 1 quali sacrificarono Teodoto senza pietà (v. 5 s.; mi sembra invece poco plausibile l'esegesi specifica dei nostri versi elaborata da Pagliara sulla base della sua brillante intuizione generale: vd. *Massimilla, Theudotus). A partire dalla fine del v. 6 il quadro generale diventa più chiaro. Le parole ἀναινομένου | ἀνδρός (v. 6 5.) sembrano costituire un nesso e possono spettare a Teodoto, del quale forse C. diceva che era un prode combattente, sebbene - quando stava per essere immolato - divenisse solo un uomo che rifiutava la morte (καίπερ ἀναινομένου, vd. l'app. al v. 6 e Nisetich p. 284); molto meno probabile è che il participio ἀναινομένου si riferisca ad Apollo, il quale - sebbene rifiuti per sua natura il sacrificio di un uomo - in questo caso divenne suo malgrado il destinatario dell'immolazione di Teodoto (la seconda teoria risale a L. ap.G. Vitelli, PSI XI, 1935, p. 135, che cita in proposito il distico fittizio offerto dagli scoli ovidiani riportati nell'app. delle fonti: ma vd. qui di séguito le osservazioni relative ai vv. 11-15). Il verbo ordinava (v. 7) descrive forse il comando di uccidere Teodoto, impartito dal condottiero degli Etruschi ai suoi uomini. Congetturo che C., dopo avere concisamente anticipato nel v. 6 s. la fine della vicenda, nei versi successivi risalisse alle sue fasi anteriori, cioè l'assedio di Lipari, 11 valore di Teo-

doto e il solenne voto degli Etruschi ad Apollo. L'aggettivo una sola (v. 8) è probabilmente accordato a un sostantivo isola: la frase può indicare che Lipari (menzionata nel v. 9) resiste senza alleati all'assedio degli Etruschi (probabilmente menzionati nel v. 10). Il suo più strenuo difensore - scrive forse C. - è Teodoto, che nel v. 9 sembra essere designato come un abitante di Lipari (meno plausibile è

che qui si parli di un fondatore dell'isola, come risulterebbe dall'alternativa oixi[c]coc: vd. app.). Il nesso giunse portando (v. 11) potrebbe essere collegato alla parola πολλά (v. 12): è ipotizzabile che qui il capo degli Ftruschi si accosti all'altare di Apollo recando con sé molte offerte animali propiziatorie (a sostegno di questa ricostruzione, cf. i passi di A pollomio Rodio e dello stesso C. riportati più avanti nei comm. ad locc.). Nel v. 13 il supplemento di Maas φῇ [y]op (disse infatti) si presterebbe bene a introdurre il voto proferito dal condottiero etrusco a nome di tutto il suo esercito, quello cioè di immolare ad Apollo il loro avversario più valoroso. Nel v. 14 il capo degli Etruschi asserisce forse che il sacrificio verrà espletato, se il sacro aiuto di Febo darà luogo alla conquista di Lipari. Il v. 15 può contenere la precisazione - messa ancora sulla bocca del comandante etrusco - che la vittima designata non sarà un soldato mercenario, ma un uomo preso dal popolo dei Liparesi (a supporto di questa esegesi di önuößev, cf. il brano di Apollonio Rodio riportato più avanti nel comm. al v. 15). Nel v. 16 il plausibile nesso dopo che proprio questo (vd. app.) potrebbe porre fine al conciso discorso del condottiero etrusco: enunciato il suo giuramento, egli - diceva forse C. - riprende l'assedio di Lipari. Nel v. 17 5. la sequenza ἐπὶ τὴν e il probabile aggettivo isolano sarebbero riconducibili a una breve descrizione del suo ritorno in guerra. 1.5. Néxtaypoc ... &ußpocinc: Il nettare e l'ambrosia sono spesso accostati fra loro: si noti che qui C. colloca con raffinatezza le due parole rispettivamente all'inizio e alla fine del distico. In origine l'ambrosia è il cibo e 1] nettare è la bevanda degli dèi (cf. Hom. Od. V 93, [Hom.]

Hymn. II 49, II

10, Plat. Phaedr.

247 E), ma alcuni poeti trattano l'ambrosia

COMMENTO:

AET.IV FR. 196

433

come una bevanda (cf. Sapph. fr. 141, 1 Voigt, Aristoph. Eg. 1095, Anaxandr. PCG 58, 1 s.) e il nettare come un cibo (cf. Alem. PMGF 42, Anaxandr. /./.). Per la menzione congiunta di nettare e ambrosia, cf. Pind. Οἱ. I 62, Pyth. IX 63, Aristoph. Ach. 196, Hermipp. PCG 77, 10, Moero CA fr. 1, 4 s. p. 21, Bion fr. 1, 3 Gow, [Orph.] fr. 221, 2, II 1 p. 190 Bernabé, GVI 1996, 9, Quint. Smyrn. VI 424, Nonn. Dion. X 285 al.

1 Néktoypoc

... γλύκιον:

Con ogni verisimiglianza γλύκιον è il comparativo di

γλυκύς e le due parole costituiscono un nesso (più dolce del nettare). C. si ispira a Hom. Il. I 598 γλυκὺ νέκταρ. Nell'’/liade omerica si trovano anche frasi simili al passo callimacheo

in termini più generali: cf. I 249 τοῦ καὶ ἀπὸ YAMcene μέλιτος γλυκίων ῥέεν adô (a proposito di Nestore, cf. διὰ yAöc|[cav nel nostro v. 4), XVII 109 πολὺ γλυκίων μέλιτος (in merito all'ira). Molto meno plausibile è che qui abbiamo l'aggettivo di grado positivo γλύκιος. Si osservi comunque che γλύκιον è attestato come varia lectio di Λύκιον in Soph. Phil. 1461 e che la parola ricorre presso Aristot. Eth. Eud. 1238 A 28 e in SGO I 01/12/01 v. 58 (I sec. a.C.?). A quanto pare, la Diegesis tramanda - al posto di γλύκιον - la varia lectio ψύθιον (vd. app.), per la quale Esichio fornisce il significato di effimero (vd. app. delle fonti), equivalente all'omerico μινυνθάδιον. Anche così l'aggettivo potrebbe essere di grado o positivo 0 comparativo (nel primo caso, cf. Nic. SH 562, 3 ψυθί[οιει] ... μύθοις | (suppl. Lobel), con un senso comunque diverso: vd. il comm. di L.J.-P.; nel secondo caso, bisognerebbe presupporre una base ἔψυθής e immaginare una gradazione del tipo ψευδής-ψευδίων). Nonostante il possibile raffronto con Call. Hec. fr. 288, 1 Pf. = 90, 1 H. ψύθος (che però significa menzogna), bisogna riconoscere che la presenza del vocabolo νέκταιρος rende preferibile la lezione γλύκιον. L'interpretazione di véxtaypoc ... γλύκιον come nesso costituito da un comparativo e da un termine di paragone (più dolce del nettare) è anche suffragata dal confronto con Mart. IX

11, 5 nectare

dulcius, Claudian.

Carm.

min. XXVII

99 nectare dulcior, Nonn.

Dion.

XLII 97 | νέκταρος ... γχυκερώτερον. 2 &ußpocinc: Lo studiato parallelismo nella disposizione dei vocaboli all'interno del distico (vd. il comm. al v. 1 s.) lascia pensare che anche questo genitivo, come probabilmente già νέκταιρος, funga da termine di paragone collegato al comparativo γλύκιον (più dolce dell'ambrosia): cf. Cat. XCIX 2 dulci dulcius ambrosia |. La straordinaria dolcezza dell'ambrosia veniva messa in evidenza da Ibyc. PMGF 325.

3 duéac γαῖ᾽ ἀνέδ[ωκε: Il verbo ἀναδίδωμι (assente nei poemi omerici, ma attestato presso [Hom.] Hymn. IV 111) è spesso riferito alla terra che fa scaturire, produce 1 suoi frutti (cf. p.es. Hippocr. Aér. XII 5, Thuc. III 58, 4, Plut. Cam. XV

3). Particolarmente

vicini ai nostri vv. 1-3 sono Asius fr. 8, Ip. 129 Bernabé = fr. ὃ Davies IleAacyòv (monte

ed eroe primordiale dell'Arcadia) ... | γαῖα μέλαιν᾽ ἀνέδωκεν, Eur. TrGF 484, 2-6 οὐρανός τε γαῖα ... | … | τίκτουει πάντα δένδρη, πετεινά, θῆρας oc θ᾽ ἅλμη τρέφει | γένος τε θνητῶν. per la posizione metrica del nostro γαῖ᾽ ἀνέδ[ωκε) Antim. fr. 32,

ἵνα θνητῶν γένος ein ed κἀνέδωκαν εἰς φάος: | Ma cf. anche (soprattutto 5 Wyss = 31, 5 Matthews

I αὐτὴ Tai’ ἀνέδωκε (scil. il cavallo Arione). Un'espressione simile si rinviene presso Ap.

Rh. II 1209 ὃν αὐτὴ Tail’ ἀνέφυςεε | (in relazione al serpente custode del vello d'oro). In quest'àmbito è anche interessante una testimonianza di Ippolito (Ref. haer. V 7, 3), il quale - parafrasando 1 versi di un anonimo poeta lirico (fr. adesp. PMG 985) - presenta un'ampia lista di uomini primordiali e divinità antropomorfe scaturiti dalla terra: di partico-

434

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

lare rilievo è la frase γῆ ... ἄνθρωπον ἀνέδωκε πρώτῃ. καί: La congiunzione è posposta: in proposito vd. il comm. al fr. 1, 15 Maccouyerau

ικιαί. tepavictata: L'aggettivo τερπνός non è attestato con certezza nei poemi omerici, ma compare come varia lectio in Od. VII 45: le prime occorrenze poetiche sicure si trovano presso Sem. fr. 7, 52 W. e Tyrt. fr. 12,38 W. = 9, 38 Gent.-Pr. Il superlativo regolare è ımpiegato da [Theogn.] 256 τερπνότατον (lezione incerta). Qui C. fa uso di un superlativo con doppio suffisso (scrive invece téprvictov in Hec. fr. 369 Pf. = 150 H. e téprvictot nel fr. inc. sed. 536 Pf.). Enrico Stefano (Thes. Ling. Gr. VII p. 2041 A) afferma di avere rinvenuto negli Etimologici il superlativo irregolare τερπνίοτατος al posto di τερπνότατοο, ma - a quanto risulta - nei codici degli Etimologici finora pubblicati questa forma non ricorre. Le fonti grammaticali attestano invece superlativi geminati a proposito di altri aggettivi: cf.

Et. Gen. AB s.v. λαλίοετατος: εἰς τὸ ... καλλίετατος (corretto da Alpers nella forma regolare kA ıcroc), Suid. s.v. ἀλγίοτατον (reg. &Ayictov). In poesia formazioni di questo tipo si incontrano inizialmente nel dramma satiresco e nella commedia: cf. da un lato Fur. Cyc/. 315 λαλίοτατος, dall'altro Aristoph. Vesp. 923 μονοφαγίετατον |, Pax 662 μιεοπορπακιςτάτη |, Thesm. 735 ποτίοταται I, Plut. 27 xAentictatov |, PCG 920 ψευδίετατον, Plat. PCG 58 ἁρπαγιοτάτου |, Men. PCG 129, 1

Aokicrorov | (nonché [Men.] Sent. 53 Pernigotti καλλίοτατον |). Se ne appropriano i poeti ellenistici e imperiali, a partire da C. nel nostro passo e in Hec. fr. 348 Pf. = 139 H. uoAxierotov? (ma la forma μάλκιοτος non risulta attestata). Cf. poi Nic. Ther. 3

kudictate* (reg. κύδιοτε), 344 npecßicratov* (reg. πρέςβιοτον), Bianor. Anth. Pal. IX 273, 1 = GP 1707 λαλίετατος, Greg. Naz. Carm.II 1, 14, 23 (PG 37 p. 1246) unkwromv. 4 yAed ]xeoc: Per le occorrenze del vocabolo in poesia, cf. TrGF adesp. 420, Nic. Al.

184, 299, fr. 70, 13 Schneider, Greg. Naz. Carm. II 1, 11, 849 (PG 37 p. 1088), Nonn. Dion. XIX 134, XXI 21. πέρα: La parola è in uso nel dramma (p.es. Aesch. Prom. 30) e nella prosa.

5 δείλαιοι: Νά. il comm. al fr. 27 deikoioıc. ἐπὶ πλ(έγον N: In àmbito poetico cf. Arat. 974 ἐπὶ πλέον" ἠέ e - per il solo nesso ἐπὶ πλέον - Mimn. fr. 5,3 W., Philit. Anth. Pal. VI 210, 1 = HE 3022, Arat. 580 al., Call.fr. inc. sed. 636 Pf., Theocr. III 47, Theaet. HE

3348, Nic. Al. 480, Opp. Hal. IV

147, Quint.

Smyrn. I 384 al., [Apolinar.] Met. Ps. LXXXIX 20, Maneth. III 169, ep. adesp. Anth. Pal. IX 135, 2 (sempre *).

5.5. qd[ov | xeidac: A sostegno dell'integrazione, cf. Nic. Ther. 339 | xeike” … αὐαίνεται, Quint. Smym. X 280 yetAecw αὐαλέοιοιν | (in entrambi i passi a proposito di persone assetate), ma anche lo stesso Call. Cer. 6 αὐαλέων «τομάτων con lo scolio ad loc.

abaréov χειλέων τοῦ ετόματος (riguardo a donne digiunanti). 6 |r ρ ἀναινομένου: A supporto del supplemento katlrep &vaivouévos di Vitelli, cf. [Theogn.] 710 καίπερ ἀναινομένας" (vd. app.). Per la collocazione metrica di ἀναινομένον, cf. anche [Theogn.] 1294”. 7 ènéraccev[: Il verbo è attestato a partire da Bacchilide (Prosod.fr. 13, 2 Sn.-M.). 9 Λιπά[ρ-: C. menziona Lipari anche in Dian. 47 (bis, * la prima volta). Cf. inoltre

Theocr. II 133 5. Λιπαραίω |... ‘Apaictoto. 10 To[penv-: Νά. il comm. al fr. 200 Τυρεηνῶν.

11 ἤλυθ᾽

ἄγων

xl: Notevole è la coincidenza con l'incipit esametrico 1400” ἄγων

ποίμνηθεν, impiegato da Ap. Rh. II 491: Apollonio, come forse qui C., parla di offerte

COMMENTO:

AET.IV FRR. 196; 197-198

435

animali per Apollo (vd. il comm. introduttivo e *Massimilla, Theudotus). Sul piano formale, cf. già Hom. Od. VII 62=471 ἤλθεν ἄγων. 12 πολλά: A supporto dell'idea che qui possa trattarsi delle molte offerte per Apollo

(vd. il comm. introduttivo), cf. fr. 20, 6 5. πολλὰ δ᾽ ἀπείλει | ἐς Πυθὼ πέΪμψειν, πολλὰ δ᾽ ἐς Ὀρτυγίην con il comm. al v. 7 πολλά. 15 önuößev: La forma è un hapax nei poemi omerici (Od. XIX 197*), dove - come spiega Eustazio (p. 1861. 46) - significa önuocig, a spese pubbliche. Invece, presso Ap. Rh.

I 6 5. ὅν τιν᾽ ἴδοιτο | δημόθεν οἰοπέδιλον, la parola equivale più letteralmente al nesso dal popolo (cf. Schol. 1.8 ad loc. ἐκ sere il senso adottato qui da C., che sto apollineo nel quale si colloca Theudotus). Un terzo significato si

τοῦ δήμου e vd. il comm. di Vian): questo potrebbe essembra avere in comune con Apollonio anche il contel'avverbio (vd. il comm. introduttivo e *Massimilla, riscontra in un epigramma di Leonida tarantino (Anth.

Pal. IX 316,2 = HE 2128), dove il vocabolo corrisponde alla frase dal paese. Infine, in ep.

adesp. Anth. Pal. Append. I 275, 2 (vol. III p. 45 Cougny, II sec. d.C.) la parola corrisponde al nesso quanto al demo. Vd. in generale Cusset p. 90. 16 tovto επει[: Sembra trattarsi di τοῦτό γ᾽ ἐπεί (vd. app.). Per la posposizione di

ἐπεί vd. il comm. al fr. 26, 1 «κῶλος ἐπεί uw. 18 _Incarov: Se - com'è plausibile - bisogna integrare vIncaîov, si osservi che l'aggettivo ci è noto a partire da Eschilo (TrGF 46a, 15).

Frammenti

197-198 (Limone)

Il tema dell'elegia si ricostruisce sulla base della Diegesis, sezione espositiva è conservata abbastanza bene e comunque grazie al confronto con numerose fonti parallele. L'ateniese bilmente integrato nel rigo 26: vd. l'app. ad loc.), dopo avere

che nella maggior parte della si lascia facilmente integrare Ippomene (il nome va probaappreso che sua figlia Limone

ha un amante segreto, la chiude a chiave in camera sua con un cavallo, che la uccide: per

questo motivo ad Atene c'è un luogo chiamato «del Cavallo e della Fanciulla»; Ippomene colpisce poi con una lancia il seduttore e ne lega a un cavallo il cadavere, che viene trascinato per la città. Come si vede, il nome Ippomene è quanto mai appropriato al personaggio. La prima attestazione della vicenda si riscontra presso Eschine (In Timarch. 182): senza fare nomi, questi racconta che un cittadino ateniese murò la figlia fornicatrice in una casa isolata insieme a un cavallo, il quale la divorò, e precisa che ancora ai suoi tempi sulla rocca di Atene si vedevano le fondamenta dell'edificio e che il luogo in questione era chiamato Παρ᾽ Ἵππον καὶ Κόρην. Lo scolio ad loc., nel rimandare a C. (vd. l'app. delle fonti al fr.197), spiega che il padre si chiamava Ippomene e discendeva da Codro, mentre il nome della figlia era Limonide. La storia veniva pol narrata da Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi (fr. 611.1 Rose), come apprendiamo da Eraclide Lembo (Excerpt. Polit. 1, 1, p. 14. 10 Dilts): nella versione aristotelica troviamo indicato per la prima volta il destino che toccò al seduttore. Ecco il racconto del filosofo: Ippomene discendente di Codro, sorpresa la figlia Limone con un amante, uccise quest'ultimo aggiogandolo al suo carro e rinchiuse la fanciulla con un cavallo finché ella morì. Vd. Wilamowitz, «Hermes» 33 (1898), pp. 121-124.

Solo sulla ragazza verte invece il resoconto di Nicola Damasceno (FGrHist 90 F 49 = Excerpt. Const. de virt. et vit., II 1 p. 340. 16 Büttner-Wobst), che spiega per quale motivo venne deposto l'arconte ateniese Ippomene: costui, dopo avere scoperto che la figlia era stata sedotta da uno dei cittadini, la legò a un cavallo e li chiuse im una stanza senza alimen-

436

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

tarli, finché l'animale sbranò la fanciulla e poi morì lui stesso di fame; da allora quel luogo venne chiamato Ἵππου καὶ Κόρης. Dal passo di Nicola dipendono Suid. s.v. ‘Intouévne e lo Schol. Berol. Liban. Epist. 251, 13, X p. 239 Foerster (cf. anche Diod. VIII 22). Alla vicenda sono dedicati due brani dell'Ibis di Ovidio, che si ispirò di certo al nostro

aition. Nel primo (v. 335 s.) il poeta augura al suo avversario di venire trascinato sul suolo, come accadde all'adultero attico quando la figlia di Ippomene subì un insolito supplizio: utque novum passa est genus Hippomeneia poenae | tractus et Actaea fertur adulter humo. Nel secondo (v. 459 s.) Ovidio auspica che un cavallo feroce divori le viscere del suo nemico, come toccò a Limone: solaque Limone poenam ne senserit illam | et tua dente fero viscera carpat equus. Dall'insieme degli scoli ai due luoghi ovidiani (riportati nell'app. delle fonti al fr. 197 perché citano C.) apprendiamo che Limone, figlia dell'ateniese Ippomene, venne sorpresa in compagnia di un amante e perciò rinchiusa con un cavallo che la sbranò, mentre Ippomene fece a pezzi il seduttore trascinandolo con il suo carro. Vd. Cameron, Mythography p. 181. Il triste destino della fanciulla divenne proverbiale, al punto che il cavallo di Limone passò a designare la rovina: cf. Hesych. s.v. ἵππος Λειμώνης- ὄλεθρος. Anche la scelleratezza di Ippomene assunse valore paradigmatico, come indica l'espressione &ceß&ctepoc ‘Irrouévove impiegata da Libanio (Epist. 251, 13) e recepita nelle raccolte dei paremiografi ([Diogenian.] Cent. III 1, dal quale derivano Apostol. Cent. IX 7 e Arsenio ibid.): nell'illustrare il proverbio, costoro narrano che Ippomene chiuse a chiave la figlia fornicatrice dandola in pasto a un cavallo e aggiungono che questa malvagità fece cessare il dominio dei discendenti di Codro, ai quali Ippomene apparteneva (solo Arsenio dà un nome alla ragazza, chiamandola Limonide forse per influsso dello scollo a Eschine). Vd. Lelli, Volpe p. 143 s. Secondo una versione alternativa della storia, la fanciulla fu violata dal medesimo

ca-

vallo che poi venne rinchiuso insieme a lei e la divorò. Lo sostengono alcuni scoli al v. 459 dell'Ibis di Ovidio, nei quali leggiamo che la ragazza era figlia di un altro Ippomene, che il fatto avvenne ad Atene e che il luogo della reclusione fu chiamato Ἵππου καὶ Κόρης: cf. Schol. (Pnzm;; cf. G) alterius Hippomenis filia, ob stuprum equi inclusa (in corio equino clausa G) ab eodem equo consumpta est Athenis, qui locus Hippukekores dicitur. Questa variante del mito figura anche presso Dione Crisostomo (Or. XXXII 78), il quale tramanda che una ragazza ateniese, invaghitasi di un cavallo, venne rinchiusa dal padre insieme all'animale e ne restò uccisa; Dione specifica che ancora ai suoi tempi c'era ad

Atene un posto chiamato Ἵππου καὶ Κόρης ἄβατον (cioè luogo inaccessibile). Aderiscono in misura diversa alla seconda versione anche 1 lessici di Fozio e Suida s.v. Hop” Ἵππον καὶ Köpn(v): essi spiegano che si chiamava così un luogo di Atene, dove Ippomene (ovvero, secondo Suida, Ippomane) - ultimo re della stirpe di Codro - recluse sua figlia con un cavallo furioso, sicché l'animale la sbranò (ovvero, stando a Suida, le usò vio-

lenza: dall'articolo di Suida dipende Apostol. Cent. XIV 10). Oikonomides p. 47 5. ha richiamato l'attenzione su un'epigrafe ateniese, databile fra il I secolo a.C. e ıl I secolo d.C., che sembra segnalare la zona nella quale gli antichi ubicavano il luogo «del Cavallo e della Fanciulla». Un supplizio connesso ai cavalli, inflitto per motivi inerenti alla sfera erotica e sfociato in un singolare toponimo, si rinviene anche presso (Call.) fr. inc. auct. 794 Pf. Dell'elegia callimachea sopravvivono solo, in forma estremamente lacunosa, l'esametro

iniziale (fr. 197) e gli ultimi cinque versi (fr. 198). A quanto pare, C. esordiva con la men-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 197-198

437

zione di un morto, presumibilmente l'amante di Limone. Nella chiusa figurava probabilmente il luogo di Atene Ἵππου καὶ Κόρης, cioè lo spunto eziologico dell'intero racconto (vd. Introd. 1.4.C.).

Frammento

197 (94 Pf.)

Τὸν verplölv |...... 1.τ[... _JvBarovicrivaevw: Questo è il primo verso dell'elegia, tramandato dalla Diegesis: come si vede, la maggior parte dell'esametro è estremamente lacunosa o corrotta. L'unico punto intellegibile è il Τὸν vexp[ö]v iniziale, che indica - a quanto sembra - l'amante di Limone ucciso da Ippomene. Pf. ha tentato di ricondurre la misteriosa sequenza ]Jußatov alla designazione Ἵππου καὶ Κόρης ἄβατον, applicata da Dione Crisostomo al luogo nel quale vennero rinchiusi Limone e il cavallo (vd. i comm. al frr. 197-198 e al fr. 198, 5). Pf. e Maas hanno poi tentato di correggere l'oscura clausola ıcrıvaeve in εἴ τιν᾽ ἀκούω, richiamandosi al fr. 163, 5 εἴ τιν᾽ ἀκούει[ο" (vd. il comm. ad loc.). Vd. in generale l'app.

Frammento

198 (95 Pf.)

Il frammento è costituito da resti dei cinque versi conclusivi dell'elegia: nonostante la loro esiguità, essi lasciano intravedere alcuni elementi essenziali della vicenda.

2ratpo [: Benché la traccia successiva a omicron non consenta di leggere πατρός (vd. app.), è estremamente probabile che qui C. si riferisse a Ippomene, il crudele padre di Limone. 3 öakpvcac [: Mi sembra plausibile che quest'aoristo sia un indicativo di seconda persona singolare (ôäkpvcac), con il quale C. apostrofava Limone piangente per il destino che le era toccato. Ma potrebbe anche trattarsi di un participio maschile ($axpdcac), forse riferito al padre addolorato (nonostante tutto) per la figlia o al seduttore sconvolto dalla morte imminente. Né va escluso un indicativo di prima o terza persona singolare ($dxpvca o δάκρυς᾽, attribuibile a uno dei personaggi (il cui strazio poteva esprimersi in discorso diretto o venire esposto da C.). 4 αἰαῖ: Νά. il comm. al fr. 163, 13 Laijaî. 4 5. [Ἵππου | καὶ Kodpne’: Il supplemento di Pf. nel v. 4 è garantito dalla Diegesis (1. 30) e dalle numerose fonti che attribuiscono questo nome al luogo di Atene dove si trovava la casa nella quale furono rinchiusi Limone e il cavallo (vd. il comm. ai frr. 197-198). Come osserva Pf., Properzio - allorché esprime l'intento di divenire ıl Callimaco romano si propone di cantare i nomi antichi dei luoghi (IV 1, 69 cognomina prisca locorum |, vd. app.). 5 a[: Pf. suggerisce dubbiosamente di integrare ἄβατον, sulla base del luogo di Dione Crisostomo discusso nel comm. ai frr. 197-198 (vd. anche il comm. al fr. 197): C. - come poi Dione - definirebbe luogo inaccessibile il sito dell'edificio dove in passato furono reclusi la fanciulla e il cavallo. Si osservi che in una qualche sua opera C. parlava forse della “"ABatoc vficoc (fr. inc. auct.811 Pf). All'aition di Limone possono forse risalire 1 frr. inc. sed. 254, dove troviamo qualcuno alla guida di un puledro tessalico, e 263, dove si parla dell'uso tessalico di trascinare gli assassini intorno alla tomba degli uccisi. A favore dell'attribuzione sı può senz'altro chiamare in causa l'analogia fra la consuetudine dei Tessali e il trattamento riservato da Ippomene al seduttore della figlia, che forse indusse C. a rievocare l'una quando descrisse l'altro. Non è

438

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

invece significativo - come a torto credeva p.es. Rostagni - il fatto che Ovidio nell'/bis menzioni il trascinamento tessalico poco prima di quello patito dall'adultero ateniese (rispettivamente vv. 331 s. e 335 s.): infatti gli accostamenti di invettive fra loro simili, operati da Ovidio nell'/bis, non implicano che anche C. esponesse insieme le storie corrispondenti. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammento 199 (96 Pf.) (Il cacciatore sbruffone) Θιςξοὶ πάντεις κομποῖς veuecnuovec, ἐκ δέ τε πάντων | "Aptenic: Il contenuto dell'elegia risulta sia dalla Diegesis, che è totalmente priva di lacune (anche se nella prima metà della sezione espositiva il testo è corrotto e ha dato luogo a varie congetture: vd. l'app. al righi 35-37), sia da alcune fonti parallele. Un cacciatore, dopo avere catturato un cinghiale, afferma che coloro 1 quali superano Artemide in abilità venatoria non sono tenuti a dedicarle le loro prede e perciò appende in proprio onore la testa della fiera a un pioppo; addormentatosi sotto l'albero, l'uomo resta ucciso perché la testa del cinghiale gli cade addosso. La storia del cacciatore sbruffone è narrata così da Diodoro Siculo (IV 22, 3): nei dintorni di Paestum c'è una roccia, presso la quale raccontano che si verificò un fatto strano

(τῆς Ποςειδωνιατῶν χώρας πρός tiva πέτραν, πρὸς à μυθολογοῦειν ἴδιόν τι γενέεθαι καὶ παράδοξον); un cacciatore locale famoso per la sua bravura (τῶν γὰρ ἐγχωρίων τινὰ κυνηγὸν ἐν τοῖς κατὰ τὴν θήραν ἀνδραγαθήμαει διωνομαεμένον), il quale in precedenza era solito dedicare ad Artemide la testa e le zampe delle prede inchiodandole agli alberi, abbatté un cinghiale gigantesco e - con sprezzo nei confronti della dea - dichiarò di volerne dedicare la testa a se stesso; detto fatto, la appese a un albero e poi si addormentò nell'afa del mezzogiorno; frattanto la corda che teneva legata la testa all'albero 51 sciolse da sola, sicché la testa gli cadde addosso e l'uccise. Poiché Diodoro localizza la vicenda in Italia, è

probabile che egli dipenda da Timeo (vd. Geffcken p. 54 s.). Secondo una plausibile ipotesi di PÎ., Azmyrrceic p. 16, proprio Timeo sarebbe la fonte cui si rifà C. nel nostro aition (contra Manni p. 5 n. 3 = p. 534 n. 3). Forse anche nella Diegesis è ripristinabile per via congetturale un etnico del cacciatore collegato a Paestum o all'Italia o alla Lucania (vd. l'app. al rigo 35). Si ricordi, del resto, che C. nutre un grande interesse per Roma, l'Italia e la Magna Grecia (vd. il comm. al fr. 50, 18-83, cui si rimanda anche per la questione del rapporto fra Timeo e C.). Poiché anche Libanio e forse gli scoli ovidiani (nei passi discussi qui di séguito), desumendo

la vicenda da C., fanno riferimento all'Italia o più specificamente alla Lucania, ri-

sulta poco plausibile l'ipotesi di Treu pp. 431-434, secondo il quale il nostro poeta si ispirerebbe non a Timeo, bensì a un antico lirico corale (forse Ibico) e ambienterebbe l'episodio nei pressi della città siciliana di Leontini. La proposta di Treu si fonda sulla frammentaria testimonianza di un commentario papiraceo al lirico (PMGF S 220, 1-19), dal quale si può dedurre che questi parlava di un'area sacra alle Ninfe nel territorio di Leontini, di un cacciatore orgoglioso per una ricca preda e del suo vanto forse punito (Treu suggerisce anche, con ogni cautela, di inserire nella Diegesis un etnico del cacciatore callimacheo connesso a Leontini). C. ha a sua volta ispirato Ovidio, che nell'/bis (v. 505 s.) augura al suo nemico di essere ferito da un cinghiale morto, come avvenne a colui sul quale rovinò la testa sospesa di un porco selvatico: isque (scil. aper) vel exanimis faciat tibi vulnus ut illi, | ora super fixi quem cecidere suis. Gli scoli ad loc. situano forse anche essi, come Diodoro, la storia in Italia (o

COMMENTO:

AET.IV FR. 199

439

ancora più esattamente in Lucania, se si accetta una congettura di Ellis approvata da La Penna nel comm. al passo ovidiano), mentre attribuiscono al cacciatore un nome specifico (forse inventato e comunque non ricostruibile con certezza) e precisano che la testa del cinghiale fu appesa a un pino: Schol. B(ab) (cf. P(m;) G[ZC] CFD) Conr.) apud +Cariam* (apud Italiam civitatem Conr.: apud Lucaniam Ellis) quidam venator nomine Thoas (Driamas sive Thoon Conr.) insolenter locutus in Dianam capite immanis apri, quod in pinu suspenderat, cadente mortuus est. Vd. Rostagni p. 67 s. L'elegia callimachea sembra avere influito anche su un'orazione di Libanio riguardante Artemide, che mostra altre consonanze con gli Aitia (vd. il comm. al fr. 182). Il racconto di Libanio (V 39, II p. 149. 22 Martin) corrisponde a quello di Diodoro, con l'unica differenza

che la vicenda viene genericamente ubicata in Italia: ἀνήρ τις περὶ Ἰταλίαν cvòc χρῆμα uéyictov ἑλών ᾿ἀλλ᾽ οὐ νῦν ye’ ἔφη πρὸς ἑαυτὸν λέγων “Tic ᾿Αρτέμιδος ἔεται τοῦ cvòc i κεφαλή, τῷ δ᾽ ἡρηκότι τοῦτο ἀνακείςεται ἐμοί᾽. ταῦτα εἰπὼν ἐκ δένδρου τὴν κεφαλὴν ἀναρτήςεας ὑπ᾽ αὐτῇ ᾿κάθευδε uemuppiac ἡἠκούεης, ἡ δὲ ἐπὶ τὸ «τῆθος τοῦ Secuod λυθέντος recodca κτείνει τὸν τιμιώτερον τῆς θεοῦ κυνηγέτην. Pf., degyiicere p. 17 da un lato osserva che la collocazione dell'episodio in Lucania collima con la rinomanza dei cinghiali lucani testimoniata da Orazio (Serm. II 3, 234 s.; 8, 6),

dall'altro cita alcuni passi che documentano l'uso di fissare agli alberi la testa o le zampe delle prede in onore di Artemide. Dell'aition callimacheo restano solo il verso iniziale, tramandato dalla Diegesis e in piccola parte dal POxy. 2170, e l'inizio del pentametro successivo, trasmesso dal POxy. 2170. C. apre l'elegia con una sentenza di portata generale, che spiega la punizione inflitta da Artemide al cacciatore: Gli dèi sono tutti sdegnosi con gli spavaldi, ma fra tutti Artemide si infuria in modo particolare (come nota Pf., è probabile che nel séguito del pentametro figurasse un avverbio equivalente a μάλιοτα o a ἔξοχον: vd. app.). Quest'attacco ha un carattere molto omerizzante: è soprattutto notevole il riecheggiamento di Hom. Od. V 118 εχέτλιοί

&cte, θεοί, ζηλήμονες (v.l. δηλήμονεε, cf. Hom. Il. XXIV 33) ἔξοχον ἄλλων (ma vd. anche i comm. al v. 1 Θιξοὶ πάντεις, Θιξοί ed ἐκ δέ te πάντων). Per la struttura sintattica, cf.

Hom. Od. II 432 s. | λεῖβον ... θεοῖο ..., 1 ἐκ πάντων δὲ μάλιετα Διὸς γλαυκώπιδι κούρῃ. Simile al nostro frammento è un luogo dell'inno callimacheo ad Artemide (v. 263), nel quale si rievoca il castigo imposto dalla dea ad Agamennone in Aulide per le sue vanterie

venatorie: οὐδὲ γὰρ ᾿Ατρείδης ὀλίγῳ ἐπὶ köunace uucO® (cf. già Soph. El. 566-570, soprattutto v. 569 | &xkouröcec). E anche a proposito di Atteone si raccontava - secondo una versione del mito (vd. D'Alessio (p. 187)) - che Artemide lo fece sbranare dai suoi stessi cani, perché si era vantato di esserle superiore nella caccia: cf. Eur. Bacch. 339 s. xpeiccov’ ἐν κυναγίαις Apréudoc εἶναι κομπάςαντ᾽. Perciò può darsi che C. abbia scelto di narrare la vicenda del cacciatore vanaglorioso proprio perché essa ripropone quei celebri episodi in forma banalizzata: lo scarto fra la dizione solennemente epica dell'incipit e la prosaicità del tema trattato accentua l'effetto ironico perseguito dal poeta. L'ira di Artemide è un tema caro a C.: cf. in generale Dian. 124-128 e 260-267 e Inoltre frr. 97, 26-31 (?, vd. il comm. introduttivo al frammento), 174, 23, fr. gramm. 461 Pf., frr. inc. sed. 569 Pf., 570 Pf.,fr. inc. auct. 798 Pf., nonché forse fr. inc. auct. 139 (vd. il comm.

ad loc.). Specificamente ventesima Eroide, cioè la cum sua ... numina laesa Il motivo di Artemide

al nostro passo potrebbe essersi ispirato Ovidio in un brano della lettera di Aconzio a Cidippe: nihil est violentius illa (cioè Diana) | videt | (v. 101 s.). irata si ritrova pol presso Nic. fr. 51 Schneider, Hor. Ars 454, Ov.

440

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Mer. II 251-254, XIII 185.

1 Quoi πάντεις: Cf. Hom. 1.1424 al. e Call. Dian. 148 θεοὶ ... πάντες. Θιεοὶ ... venecmpovec: Come si è detto, il modello della frase è certamente Hom. Od. V 118, ma su di essa ha anche influito [Theogn.] 660 | θεοὶ γάρ τοι veuechc’ (notevole, fra l'altro, per la sinizesi iniziale).

Θιξοί: La scansione monosillabica del sostantivo per effetto della sinizesi è attestata a partire dai poemi omerici: cf. Hom. 1.1 18 θεοί (con il comm. di Kirk), Od. XIV 2511 Beoicıv, Hes. Theog. 44 θεῶν (con il comm. di West), fr. 1, 5 M.-W. Beoic[w, fr. 185, 7 M.-W. θεο]ῖειν, [Hom.] Hymn.II 55 θεῶν, 259 θεῶν, 325 θεούς, nonché il passo teognideo riportato sopra nel comm. a Θιξοὶ ... veuechuovec. C. adotta la forma θεὺς l'in Cer. 57; l'accusativo θεῦν si riscontra nel fr. inc. auct. 139, probabilmente callimacheo (vd. il comm. ad loc.). Per un'altra sinizesi impiegata da C., cf. fr. inc. sed. 486 Pf. Vd. in generale Introd. II.2.F.b. κομποῖε: Il vocabolo si rinviene presso Eur. Phoen. 600 ed Epic. Sent. Vat. 45 Arrighetti. veuecfpovec: L'aggettivo non ricorre prima di C. e si riscontra poi presso Nonn. Dion. XXV 125, XXXIX 292*, Met. IV 218, VII 183, XI 32*, XV 93*, XVII 110, Paul. Sil. Ecphr. Soph. 205. Per un vocabolo affine, cf. Call. Del. 16 veuecntöv.

ἐκ dé τε πάντων: Γ΄ impiega il nesso δέ te solo qui e in Hec.fr. 291, 2 Pf. = 113,2 H. αὐτοὶ δέ te πεφρίκαειν |. Il suo uso nel nostro frammento si deve all'influsso di numerosi passi omerici, nei quali le due congiunzioni precedono la parola πᾶς: cf. soprattutto //. I 403 e Od. XXII 386 δέ te πάντες", IL. XV 625 δέ te nüca*, Od. VI 108 dé te πᾶεαι. Si

può anche richiamare Hes. Theog. 688 ἐκ δέ te πᾶσαν". Cf. poi ep. adesp. Anth. Pal. VII 621, 3 δέ te πάντως", Orac. Sib.II 40 δέ te nücıv", III 614 ἐκ δέ te rdvio*, Greg. Naz. Carm.I 2, 2, 123 e II 2, 4, 50 (PG 37 pp. 588 e 1509) δέ te πάντες".

Frammento 200 (97 Pf.) (Le mura pelasgiche) Τυρεηνῶν τείχιεμα IleAacyıröv εἶχέ με γαῖα: La brevissima Diegesis, perfettamente integra, fornisce due scarne informazioni (per altro confermate da testimonianze parallele). Il testo della prima è forse guasto (vd. l'app. al rigo 3), ma comprensibile in termini generali: secondo C. 1 Pelasgi abitavano nei pressi di Atene. La seconda notizia offerta dalla Diegesis consiste nel fatto che il poeta attribuiva a questi Pelasgi la costruzione di un muro di Atene. L'antica prossimità degli Ateniesi ai Pelasgi era già asserita da Ecateo di Mileto (FGrHist 1 F 127 = EGM fr. 127 ap. Herodot. VI 137), secondo il quale gli uni assegnarono agli altri il terreno sottostante all'Imetto per ricompensarli di avere innalzato le antiche mura sulla loro acropoli, ma poi li scacciarono: vd. il comm. di Jacoby ad loc., FGrHist I p. 343. Che 1 Pelasgi edificassero una cinta muraria sulla cittadella di Atene, lo tramandano oltre a Ecateo - numerosissime fonti, tutte raccolte da O. Jahn - A. Michaelis, Arx Arhena-

rum a Pausania descripta (Bonnae 19015), p. 79 5. (a proposito di Paus. I 28, 3). Vd. in generale W. Judeich, Topographie von Athen (München 19312), pp. 52 e 113-120 e Gras pp. 589-601 (specialmente p. 596 per l'ubicazione del muro). Dell'elegia callimachea resta solo l'esametro iniziale, trasmesso dalla Diegesis e - fino alla dieresi bucolica - da uno scolio agli Uccelli di Aristofane. Nel frammento il muro di Atene viene contemporaneamente definito dei Tirreni e pelasgico: l'identificazione fra 1 Pe-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 199-200

441

lasgi e i Tirreni si rinviene anche presso Hellanic. FGrHist 4 F 4 = EGM fr.4 (vd. il comm. di Jacoby, FGrHist I pp. 432-434), Soph.

Inach. TrGF 270, 4 (vd. l'annotazione di Radt),

Thuc. IV 109, 4. Particolarmente affine al verso di C. è la voce TleAocyıöv (-ςτικόν cod: corr. Musurus)

del lessico di Esichio, stando alla quale si chiamava così il muro di Atene

costruito dai Tirreni: τειχίον οὕτω ἐν ᾿Αθήναις καλούμενον Τυρρηνῶν κτιςάντων. Per gli altri luoghi callimachei nei quali figurano 1 Tirreni, vd. il comm. introduttivo al fr. 196: fra questi passi, particolare rilievo avrebbero gli scoli che costituiscono il fr. inc. sed. 725b Pf. (vd. Pf. II p. 123), se vi si parla dei Tirreni Pelasgi (vd. il comm. di Pf. ad loc. e Secci p. 103). Nel tramandare il nostro frammento lo scolio ad Aristofane offre, invece di Πελαςγικόν,

la lezione Πελαργικόν: sembra che questa variante si debba escludere, a giudicare dalla parte esplicativa della Diegesis. Verisimilmente essa si generò per effetto del brano stesso degli Uccelli commentato nello scolio, dove figura appunto il muro pelargico di Atene (v.

832 τῆς πόλεως τὸ Πελαργικόν; cf. anche v. 868 ἄναξ Πελαργικέ, a proposito di uno sparviero che si posa sul intento comico, in quanto τεῖχος fu presumibilmente vd. F. Jacoby, FGrHist I

muro). Nel contesto degli Uccelli l'epiteto Πελαργικός ha un i πελαργοί sono le cicogne, ma sul piano storico Πελαργικὸν la denominazione originaria, poi mutata in IleAocyuròv τεῖχος: p. 343 e Gras pp. 608 e 611 s. Per il muro pelargico, cf. inoltre

Schol. Aristoph. Av. 836, 1139 διὰ τὸ Πελαργικὸν τεῖχος τοὺς ἀπὸ Τυρρηνίας ἥκοντας ἀναετῆκεαι. La struttura sintattica dell'esametro è incerta. Sembra però plausibile che τείχιομα funga da apposizione del pronome pe e che il soggetto della frase 514 γαῖα, sostantivo designante con ogni probabilità la cittadella di Atene e perciò forse corredato (come propone Pf.) di un epiteto quale Kexponin nel pentametro successivo (cf. Ap. Rh. IV 1779 | γαῖαν Kekporinv). È dunque verisimile che il muro esponesse l'aition in prima persona: la terra Cecropia aveva me, muraglia pelasgica dei Tirreni. Anche altrove C. cede direttamente la parola al protagonisti dei suoi carmi, p.es. al defunto Simonide e al ricciolo di Berenice negli Aitia (frr. 163 e 213) e a una statua di Ermes nel settimo giambo (fr. 197 Pf.); vd. Introd. 1.4.E. Vd. in generale l'app. L'uso dell'imperfetto εἶχε nel nostro verso ha suscitato la perplessità di Pf. Ma si può forse ipotizzare che qui C. faccia specifico riferimento alla prima fase cronologica del muro pelasgico, quella cioè che - secondo Gras p. 591 - durò sino alla fine del VI secolo, quando 1 Pisistratidi si asserragliarono al suo interno sotto l'assedio di Cleomene (cf. Herodot. V 64, 2), e finì con il suo smantellamento. Nella seconda fase, protrattasi lungo tutto 1] V secolo,

sia la muraglia sia l'area da essa racchiusa vennero risistemate e adibite a vari impieghi (vd. Gras p. 597 s.). All'acropoli di Atene si riferisce anche il fr. inc. auct. 771 Pf., incentrato sulla fonte Clessidra (vd. Lehnus p. 24). Τυρεηνῶν: L'etnico, assente nei poemi omerici, si rinviene presso [Hom.] Hymn. VII 8* e Hes. Theog. 1016. teiyicua: Il vocabolo è di uso prosastico (cf. Thuc. III 34, 3 al.). Nel v. 1096 dell'Eracle euripideo Fix ha congetturato τυκίοματι | al posto del trädito tevicuortil. Πελαεγικόν: La parola ricorre solo due volte nei poemi omerici (Il. II 681*, XVI 233*). Cf. anche Call.fr. 97, 11*.

442

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Frammenti 201-202 (Eutimo) L'inizio e il centro della Diegesis si trovano in buono

stato di conservazione, mentre 1

righi successivi sono molto lacunosi e la fine è del tutto perduta: per altro le notizie fornite dalle parti leggibili si riscontrano presso alcune fonti parallele. Nella città magnogreca di Temesa (affacciata sul Mare Tirreno a Nord di Ipponio) un eroe lasciato indietro dalla nave di Odisseo assoggettava gli abitanti del luogo e dei territori vicini al seguente tributo: essi dovevano portargli un letto e una fanciulla da marito e poi andarsene senza voltarsi; l'indomani i genitori della ragazza la conducevano via non più vergine; il tributo venne abolito dal pugile Eutimo. Nell'ultimo tratto abbastanza integro della Diegesis si riconoscono forse il verbo dire riferito a Eutimo, un articolo plurale femminile e un nuovo riferimento all'e-

roe. La testimonianza più costituita da un brano di zione di Eutimo da parte timo proveniva da Locri Cecino. Vinse la gara di

ampia riguardo a Eutimo e alla sua avventura &v Teuécn è per noi Pausania (VI 6, 4-11; uno scolio a questo passo registra la mendi C.: vd. l'app. delle fonti ai frr. 201 e 202). Il glorioso pugile EuEpizefiri ed era figlio di Asticle o - secondo i Locresi - del fiume pugilato nelle Olimpiadi 74, 76? e 772 (cioè negli anni 484, 476 e

472), mentre fu sconfitto da Teogene di Taso nella 75? (cioè nel 480; si noti che, sia qui sia

nel successivo brano di Suida, i codici offrono la lezione erronea Θεαγένης al posto di Θεογένης ovvero Θευγένης; per Teogene, cf. fr. inc. sed. 265 con il comm.; sulle molteplici vittorie di Eutimo, cf. fr. 202 con il comm.). Stupenda è la sua statua a Olimpia (cf. fr. 202). Dopo

essere tornato in Italia, Eutimo

si batté contro l'Eroe (ἐπανήκων

δὲ ἐς Ἰταλίαν



ἐμαχέεατο πρὸς τὸν Ἥρω: si osservi che solo nella conclusione del passo Pausania assegna un nome all'avversario soprannaturale di Eutimo, vd. oltre). Ecco di chi si trattava: quando Odisseo reduce da Troia sbarcò a Temesa, uno dei suoi uomini

violentò ubriaco una fan-

ciulla del luogo e venne perciò lapidato dal Temesei (vd. Sistakou, Reconstructing p. 87 s.); Odisseo ripartì senza curarsi dell'accaduto, ma il demone dell'eroe morto prese a uccidere per vendetta gli abitanti di Temesa, finché essi - intenzionati ad abbandonare l'Italia - interrogarono la Pizia; questa invece prescrisse loro di restare a Temesa e di propiziarsi l'Eroe, assegnandogli un recinto sacro, costruendogli un tempio e dandogli ogni anno in sposa la più bella fanciulla della città (= Orac. 392 Parke-Wormell); la gente obbedì al vaticinio e non ebbe altro da temere da parte del demone. Eutimo, dunque, giunse a Temesa proprio nel periodo della celebrazione e - venuto a conoscenza del rito - entrò nel tempio e si innamord della ragazza. Costei gli giurò che lo avrebbe sposato in cambio della salvezza: 1] pugile allora batté l'Eroe, che si inabissò nel mare. Eutimo ebbe la sua sposa e la gente del luogo si liberò per sempre dal demone. A quanto si dice, Eutimo giunse all'estrema vecchiaia e trapassò in modo miracoloso. Pausania scrive di avere appreso da un commerciante navigatore che Temesa era ancora abitata al suoi tempi e di avere visto con 1 suol stessi occhi - a proposito dell'impresa di Eutimo - un dipinto che ne imitava uno più antico (ἀνδρὸς

Tikovca πλεύεαντος κατὰ ἐμπορίαν. τόδε μὲν fikovca, γραφῇ δὲ τοιάδε ἐπιτυχὼν οἶδα: ἦν δὲ αὕτη γραφῆς μίμημα ἀρχαίας: per il navigatore rievocato dal periegete, cf. Hom. Od. I 182-184, dove il falso Mente dice di essere diretto con la sua nave a Temesa, e vd. i

comm. ai frr. 89,7 μεμβλωκὼς ἴδιόν τι κατὰ χρέος e 187, 10 Teuecatov; per l'opposizione fra ciò che si è sentito dire e ciò che si è visto di persona, cf. Call. Vict. Sosib. fr. 384, 47 s.

Pf. τοῦτο μὲν ἐξ ἄλλων ἔκλυον ἱρὸν ἐγώ. | κεῖνό ye μὴν ἴδον αὐτός con il comm., ma vd. anche il comm. al fr. 89, 27-29). Nel dipinto - continua Pausania - era tra l'altro effigiato il demone stesso (nero di pelle, spaventoso e vestito con una pelle di lupo), cui un'iscrizione

COMMENTO: assegnava il nome

di Alibante (Αλύβας,

AET.IV FRR. 201-202 desunto forse da Hom.

443 Od. XXIV

304, dove si

chiama così il posto dal quale Odisseo - parlando con Laerte - dice ingannevolmente di provenire: il toponimo potrebbe essere collegato al verbo ἀλάομαι, vd. il comm. di Fernändez-Galiano e Heubeck ad loc., ma anche - per una diversa ipotesi - G. Camassa in G. Maddoli (ed.), Temesa e il suo territorio, Taranto 1982, pp. 201-204 e G. Camassa, Dov'è la fonte dell'argento, Palermo 1984, pp. 30-36; nel brano di Pausania, Bekker cor-

resse ᾿Αλύβας in Λύκας; a proposito dell'effigie illustrata dal periegete, vd. Wilamowitz, Der Glaube der Hellenen II, Berlin 1932, p. 14 n. 4, Lawson pp. 116-121 e Visintin pp. 104-107). Dal passo di Pausania dipende la voce Εὔθυμος nel lessico di Suida, dove pure l'eroe di

Temesa si chiama Alibante (τὸν ἐν Teuém ἥρωα ᾿Αλύβαντο): Suida precisa che lo scontro fra il pugile e il demone si verificò di notte e omette la descrizione del dipinto. La vicenda è esposta in maniera diversa e più sintetica da Strabone (VI 255, per il quale vd. il comm. al fr. 187, 10 Teuecotov): vicino a Temesa c'è il tempio dell'eroe Polite, com-

pagno di Odisseo (Mp@ov ... Πολίτου τῶν "Oôvccéwc ἑταίρων: Polite figura presso Hom. Od. X 224); questi, ucciso a tradimento dai barbari del luogo, diede sfogo al suo sdegno,

sicché

un

oracolo

ordinò

loro

di

riscuotere

tributi

in

suo

onore

(τοὺς

περιοίκους

δαςμολογεῖν αὐτῷ, cf. l'Éôacuopôpet della Diegesis); ne derivò un proverbio utilizzato a proposito dei tormentatori (καὶ παροιμίαν εἶναι πρὸς τοὺς dndeîc), cioè appunto L'eroe di Temesa; quando Locri Epizefiri conquistò Temesa, il pugile Eutimo sconfisse l'eroe e lo costrinse ad abolire il tributo. Da Strabone dipende Eustazio (p. 1409. 14), che però non menziona Eutimo e il suo scontro vittorioso:

mesa

secondo Eustazio, il proverbio L'eroe di Te-

51 applica a chi incrudelisce oltre misura e senza ragione. Sul diversi nomi del de-

mone, vd. De Sanctis, Eroe p. 165 s. = 22 s.

Rispetto a Strabone ed Eustazio, il proverbio viene spiegato in maniera differente dai

paremiografi (cf. Zenob. Arh. III 175 ὃ ἐν Teuécn ἥρως, [Plut.] Cent. II 31 ἐν Teuéen ἥρωο) e da Suida (s.v. ὃ ἐν Teuécn ἥρωο): secondo loro, infatti, il detto si riferisce a chi accampa pretese e risulta invece lui stesso debitore. Quest'esegesi del proverbio è anche presente, in forma variata, nel racconto dedicato a Futimo e all'eroe da Eliano (Var. hist. VII 18): l'illustre pugile Eutimo di Locri Epizefiri pose fine ai tributi che l'eroe di Temesa riscuoteva dalle genti del luogo; recatosi infatti nel suo santuario, Eutimo lo costrinse a ripagare più di quanto avesse rubato; ne derivò il proverbio, secondo il quale l'eroe di Temesa raggiungerà chi guadagna senza poi avvantaggiarsi; Eliano tramanda infine che, secondo alcuni, Eutimo scomparve immergendosi nel fiume Cecino. Gli elementi in nostro possesso non sono sufficienti per stabilire se l'elegia callimachea fungesse da aition del proverbio, come ritengono Snell, Recensione p. 536 e più dubbiosamente Lelli, Volpe p. 144 (quest'ultimo chiama a confronto l'undicesimo giambo callimacheo, cioè il fr. 201 Pf., la cul Diegesis attesta che esso spiegava appunto la genesi di un proverbio). Un'importante testimonianza su Eutimo, in un contesto estraneo alla storia del demone

di Temesa, è rappresentata dal passo di Plinio il Vecchio che coincide con il nostro fr. 202 (vd. il comm. ad loc.). Le notizie relative a Futimo sono riunite e discusse da Mele pp. 858864, Visintin pp. 9-30 e Currie pp. 24-30. Sia la provenienza magnogreca di Eutimo sia il suo status di atleta olimpionico sono motivi ricorrenti nell'opera di C. e costituiscono forse un tratto caratteristico della seconda metà degli Aitia: vd. in proposito il comm. al frr. 186-187, cioè l'elegia finale del terzo libro incentrata su Euticle, locrese come Eutimo (per le frequenti menzioni di Locri Epizefiri da

444

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

parte di C., vd. ancora il comm. ai frr. 186-187; più in generale, riguardo al vivo interesse del nostro poeta per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm. al fr. 50, 18-83). Nell'aition di Euticle c'è inoltre un riferimento a Temesa, con probabili risvolti di filologia omerica: vd. il comm. al fr. 187, 10 Teuecatov. Sui nessi fra la nostra elegia e quella di Euticle, vd. anche i comm. ai frr. 201 e 202.

La Diegesis specifica che 1 genitori della fancrulla coinvolta nel rito la lasciavano in balia dell'eroe di Temesa e poi se ne andavano senza voltarsi (ἀπέρχεεθαι Aueractpentet, l. 10 s.): analogamente gli Ateniesi, come apprendiamo da uno scolio al v. 98 delle Coefore di Eschilo, gettavano per strada l'incensiere di terracotta con il quale avevano purificato la casa e poi se ne andavano senza voltarsi (ἀμεταςτερπτεὶ ἀνεχώρουν). Le attestazioni relative a usanze di questo tipo sono raccolte da E. Rohde, PsycheIl? (Tübingen 1925) p. 85 n. 2. L'abolizione del tributo a opera di Eutimo, espressa nella Diegesis dal verbo ἀπέλυςεν (1. 13), è analoga alla soppressione del sacrificio di Tenedo, che C. narrava in un altro passo del quarto libro (frr. 193-195) ed è indicata dal verbo κατελύθη nella relativa Diegesis (II 10). Similmente, in un aition di incerta collocazione (fr. 110), C. precisava che il culto di

Atena fasciata a Teutide era finito (vd. il comm. introduttivo ad loc.). Dell'elegia callimachea restano due frammenti. Il fr. 201, cioè l'esametro di esordio tramandato dalla Diegesis, si riferisce alle vittorie olimpiche di Eutimo. Il fr. 202 consiste in una testimonianza di Plinio il Vecchio, dalla quale apprendiamo che - secondo C. - un fulmine toccò nello stesso giorno le statue di Futimo a Locri Epizefiri e a Olimpia e si istituirono sacrifici in onore del pugile sia vivo sia morto. Allettante è inoltre l'ipotesi, suggerita da Hutchinson, Aeria p. 54 n. 20 = p. 55 n. 19, che

la frase ἀντὶ παρθέ[ν]ου γυ[ναῖ]κα - utilizzata nella Diegesis (1. 11 5.) a proposito della fanciulla volta per volta portata via dai genitori donna invece che vergine dopo la notte trascorsa con l'eroe di Temesa - ricalchi da vicino il testo callimacheo: formulazioni simili si rinvengono infatti in poesia (cf. CEG

1 nr. 24, 1 s., Soph. Trach. 148 s., [Theocr.] XXVII

65). Un mito molto simile a quello di Futimo veniva narrato da Nicandro nel quarto libro delle Metamorfosi (fr. 53 Schneider), come attesta un excerptum di Antonino Liberale (VII): nella zona di Delfi, in un antro del monte Cirfide presso le falde del Parnaso, abitava un mostro di nome Lamia o Sibari, che razziava bestie e uomini; gli abitanti di Delfi, in-

tenzionati a emigrare, su ordine di Apollo effettuarono invece un sorteggio tra 1 loro stessi figli, per individuare una vittima da esporre al mostro; mentre il fanciullo sorteggiato, di nome

Alcioneo, veniva condotto alla spelonca, Euribato, discendente del fiume Assio, lo

vide, se ne innamorò ed entrò al suo posto nella grotta; Furibato catturò Sibari e la scagliò giù dalle rupi; il mostro si sfracellò il capo su una roccia e scomparve, ma dalla roccia scaturì una fonte, che da allora in poi venne appunto chiamata Sibari; 1 Locresi vollero poi dare il medesimo nome alla Sibari magnogreca. Vd. Pais p. 50=86, Pais, Eutimo p. 391 s. = 103, Visintin pp. 144-147.

Frammento 201 (98 Pf.) Εὐθύμου τὰ μὲν ὅεεα παραὶ Διὶ Πῖεαν ἔχοντι: Nel primo verso dell'aition Ὁ. menziona il protagonista e lo qualifica come olimpionico: infatti la domina Pisa si riferisce alle competizioni olimpiche, dal momento torno a Olimpia (cf. frr. 175, 2 IIıcatov Ζηνός e 186 ITicime con passo - come qui - Pisa figura all'inizio di un'elegia incentrata su un

frase presso che Pisa è la i comm.; nel atleta locrese,

Zeus che zona insecondo cioè Eu-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 201-202

445

ticle). Incerto è il contesto sintattico e semantico delle parole che compongono l'esametro. Si potrebbe p.es. immaginare un periodo del genere: le imprese pugilistiche di Eutimo, quante ne compì presso Zeus che domina Pisa e in altri giochi, furono tutte oscurate dal suo scontro vittorioso con l'eroe di Temesa. Εὐθύμου è una brillante congettura di Norsa e Vitelli, i quali corressero così la sequenza evènuov presente nel papiro delle Diegeseis, cioè nell'unica fonte che tramanda quest'esametro: si osservi che vari aitia dei libri terzo e quarto contengono il nome del protagonista nel verso iniziale (particolarmente simile al nostro verso è il fr. 186 Ἦλθες ὅτ᾽ ἐκ Πίωης, Εὐθιύκιλεεο). Non convince invece il tentativo, compiuto da Gallavotti, di preser-

vare la lezione del papiro. Lo studioso propone di scrivere Ed δήμου τὰ μὲν Öcca e immagina che il primo distico dell'elegia avesse un contenuto del genere: Bene alcuni eventi la voce del popolo riferì (relativamente a Eutimo) presso Zeus che domina Pisa, e altri prodigi a Locri Epizefiri. Ma il vocabolo öcca non è mai attestato nelle opere callimachee, laddove

il nesso τὰ μὲν Gcca figura nel fr. 50, 12*. Vd. in generale l'app. παραὶ Διί: La frase si trova già presso [Hom.] Hymn. Π 485*, III 5*. Cf. inoltre Call.

fr. 174, 36 παραὶ Auöc*. Per il riferimento alla sede degli agoni espresso da παρά + dativo del nome di un dio o di un eroe, vd. il comm.

di Pf. a Vict. Sosib. fr. 384, 40 s.

Frammento 202 (99 Pf.) Il frammento è costituito da un passo di Plinio il Vecchio. Questi scrive che, per comando dell'oracolo delfico e con l'assenso di Zeus, il pugile Futimo di Locri Epizefiri fu eroicizzato quando era ancora vivo e specifica che l'atleta trionfò a Olimpia in tutte le occasioni tranne una: riguardo alle vittorie olimpiche di Eutimo, vd. il comm. ai frr. 201-202 e cf. POxy. 222 col. I 12 e 25 (lista di vincitori olimpici), nonché - in termini più generali Cramer, AP II p. 154. 10 (all'interno dei cataloghi di atleti tratti dalla Cronaca di Eusebio e aggiunti nel cod. Par. Reg. 2600). Plinio tramanda poi che C. rievocö con grande stupore due eventi connessi al pugile: un fulmine toccò nello stesso giorno le statue di Eutimo a Locri Epizefiri e a Olimpia e, per ordine di Apollo, in onore dell'atleta si istitutrono sacrifici, che gli vennero regolarmente tributati sia da vivo sia da morto. Il brano di Plinio corrisponde all'Orac. 117 Parke-Wormell. Pur accogliendo il frammento nel nostro aition, Pf. osserva che esso potrebbe risalire a un àmbito diverso (vd. l'annotazione dopo il testo): la perplessità dello studioso è certamente dovuta al fatto che né la sezione leggibile della Diegesis né le altre fonti relative a Eutimo (vd. il comm. ai frr. 201-202) menzionano il prodigio del fulmine e gli onori eroici riservati all'atleta. Ma, a parte il fatto che queste informazioni potevano comparire nella perduta zona finale della Diegesis, bisogna osservare che entrambi i motivi trovano significativi agganci proprio in alcune delle testimonianze su Eutimo discusse nel comm. ai frr. 201-202. Da un lato, infatti, Pausania pone l'accento in modo esplicito sulla rilevanza della

statua di Futimo a Olimpia, perché la definisce estremamente degna di nota (ἀνδριὰς ... θέας ἐς τὰ μάλιετα ἄξιος); alcuni, la nascita e la morte Locresi lo credevano figlio nuto all'estrema vecchiaia,

dall'altro del pugile del fiume trapassò

lo stesso Pausania ed Eliano attestano che, a detta di ebbero un carattere miracoloso: il primo scrive che 1 Cecino e precisa di aver sentito dire che egli, pervein maniera misteriosa (ἀποθανεῖν ἐκφυγὼν αὖθις

ἕτερόν τινα ἐξ ἀνθρώπων ἀπέλθοι τρόπον); il secondo tramanda che, a quanto dicono, Eutimo si immerse nel Cecino e scomparve (ἀφανιεθῆναυ). Si deve dunque riconoscere che i temi del fulmine e degli onori eroici sono del tutto rispondenti alla caratterizzazione di Eu-

446

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

timo fornita dalle fonti parallele alla nostra elegia: fra l'altro il motivo delle statue si aggiunge ai numerosi punti di contatto di questa sezione con l'aition incentrato su Euticle di Locri (cf. frr. 186-187 con il comm. e soprattutto fr. 187, 8-12 con il comm., cui si rimanda per le altre statue di olimpionici trattate da C.). Riguardo al tocco del fulmine, vd. E. Rohde, Psyche I° (Tübingen 1925) pp. 320-322. Il blocco inferiore della base marmorea della statua di Eutimo a Olimpia è stato ritrovato (Ebert nr. 16 = CEG 1 nr. 399): su di esso sono incisi un distico che commemora la triplice vittoria olimpica dell'atleta e un'epigrafe che segnala Eutimo stesso come dedicatario e Pitagora di Samo come scultore della statua. Poiché entrambe le iscrizioni sono state rimaneggiate, si ritiene in genere che ciò sia avvenuto per attribuire a Eutimo una dedica compiuta inizialmente da suo padre o dalla città di Locri. Ma ha forse ragione Gallavotti, Iscrizioni p. 10 s. e Aition pp. 218-221 a reputare che la frase aggiunta in fine di pentametro (τήνδε Bpotoic’ &copav) sia collegata all'eroicizzazione di Eutimo e possa essere indizio di un restauro compiuto in armonia con la leggenda ben presto fiorita sul suo conto. Il culto di Eutimo è documentato da alcune terracotte locresi, nessuna delle quali è però precedente al IV-III secolo a.C.: vd. Fraser II p. 1072 n. 353, Arias pp. 1-8, il comm. di Maddoli, Nafissi e Saladino a Paus. VI 6,4 e Currie p. 29.

All'aition di Eutimo potrebbe risalire il fr. inc. sed. 267, che tratta di Locri Epizefiri. Sul piano del contenuto sarebbe attribuibile alla nostra elegia anche il fr. inc. sed. 270, che andrebbe però adattato alla configurazione metrica del distico elegiaco. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammento 203 (100 Pf.) (La statua antichissima di Era a Samo) L'inizio della Diegesis si è perduto, sicché non conosciamo il primo verso dell'elegia: il testo residuo, sebbene tramandi ampie parti di quasi tutta la delucidazione, presenta varie difficoltà di lettura e di supplemento che rendono spesso incerto il senso. Dalle fonti parallele si deduce che il tema dell'aition è la statua di Fra a Samo: a quanto pare, la Diegesis spiega che essa divenne antropomorfa nel periodo del re Procle (sul quale vd. Ragone p. 91 n. 94); dopo avere precisato qualcosa di non perspicuo riguardo al legno che la componeva, il διηγητής riferisce (anche qui in un brano lacunoso) che l'effigie in oggetto - a detta di alcuni - venne anticamente portata da Argo a Samo sotto forma di asse del tutto grezza, dato che la statuaria dell'epoca non era ancora progredita. A causa dei problemi testuali non è facile comprendere se l'asse e la statua antropomorfa fossero due entità distinte o se piuttosto la prima venisse poi trasformata nella seconda: la testimonianza di Aetlio (vd. oltre) e forse il distico iniziale del nostro frammento inducono a privilegiare la seconda soluzione (vd.

Pf., Arzyrzeeicp. 18 s., Ohly p. 41). Le notizie offerte dalla Diegesis coincidono con quelle fornite dallo storico Aetlio, autore di Annali dei Sami (Capiov @por) forse nel V o IV secolo a.C. (FGrHist 536 F 3 = EGM fr. 3 presso Clem. Alex. Protrept. IV 46, 2, I p. 35. 15 Staehlin-Treu, dal quale di-

pende Arnob. Adv. nat. VI 11): καὶ τῶν ἄλλων ἀνθρώπων οἱ ἔτι παλαιότεροι ξύλα ἱδρύοντο περιφανῆ (περιφερῆ Wilamowitz) ... καὶ τὸ τῆς Cauiac Ἥρας, ὥς φηεῖν ᾿Αέθλιος, πρότερον μὲν ἦν εανίς, ὕετερον δὲ ἐπὶ Προκλέους ἄρχοντος ἀνδριαντοειδὲς ἐγένετο. Come si vede, la Diegesis e lo storico concordano nel dire che l'antica immagine era inizialmente una semplice asse e divenne antropomorfa sotto l'arcontato di Procle: la consonanza delle due attestazioni spinge a supporre che Aetlio sia la fonte di C. (vd. il

COMMENTO:

AET.IV FRR. 202-203

447

comm. di Jacoby). L'esistenza di una tradizione secondo la quale l'effigie proveniva da Argo è nota anche a

Pausania (VII 4, 4): τὸ δὲ ἱερὸν τὸ ἐν Cauo τῆς Ἥρας εἰεὶν ot ἱδρύεαςεθαί paci τοὺς Ev τῇ ᾿Αργοῖ πλέοντας, ἐπάγεεθαι (ἐπάγεεθαι PIL!: ἀπάγεεθαι cett.) δὲ αὐτοὺς τὸ ἄγαλμα ἐξ "Ἄργους. Il periegete, dunque, tramanda che - secondo alcuni - il santuario di Era a Samo venne fondato dagli Argonauti, i quali vi portarono la statua da Argo. A proposito di questa tradizione argiva, vd. F. Jacoby, «Hermes» 57 (1922), pp. 366-374 = Abhandlungen zur griechischen Geschichtschreibung (Leiden 1956), pp. 334-341 e il comm. di Pf. al fr. inc. auct. 769. È possibile che Argo fosse anche collegata all'altra effigie di Era samia, illustrata da C. nell'aition seguente (fr. 204, vd. il comm. ad loc.). Il nostro frammento, l'unico superstite dell'elegia, consiste in quattro versi che con ogni probabilità distavano molto poco dall'inizio (vd. il comm. al v. 1 s.): apostrofando direttamente l'antica statua di Fra, C. ricorda che in passato essa non era ancora l'opera ben levigata dello scultore Scelmide, bensì - come un tempo era consueto - un'asse non rifinita dagli scalpelli; C. spiega poi che le immagini degli dèi erette dai nostri progenitori erano sempre così essenziali, come

dimostra la statua di Atena,

Lindo (il parallelismo fra le nao era il re di Argo, la città a Samo l'originaria effigie di Lo scultore Scelmide non nesso con l'utensile cxdàAun,

dedicata da Danao

nella città rodia di

statue delle due dee non sembra introdotto a caso, perché Dadalla quale - come si è detto - venne secondo alcuni importata Era). è noto da altre fonti: il suo pare essere un nome parlante, concoltello da intaglio (vd. Wilamowitz, Pausanias-Scholien p.

245). Non è chiaro quale statua di Fra, stando a C., venne levigata da Scelmide, ma è pro-

babile che si IV 23-25 e «MDAI(A)» questo tema, Secondo

tratti di quella risalente al regno di Procle (cioè la seconda della serie, cf. Dieg. vd. sopra) e non di un'immagine successiva, come propone E. Buschor, 55 (1930), p. 4 s. nella sua ricerca sulle diverse effigi dell'Era di Samo. Su vd. anche Mras, Kultbilder pp. 277-284. alcuni testimoni, invece, lo scultore della statua di Era a Samo

si chiamava

Smilide, altro nome parlante collegato al vocabolo cuiAn, che significa anch'esso coltello da intaglio. Pausania (VII 4, 4 e 7) tramanda che Smilide proveniva da Egina, era figlio di Euclide e apparteneva alla generazione di Dedalo: la prima e l'ultima notizia sono anche fornite dallo scolio al passo di Pausania riportato nell'app. delle fonti al v. 1; la seconda compariva inoltre nei Cauraxd dello storico Olimpico, attivo prima del 200 a.C. (FGrHist 537 F 1 = Clem. Alex. Protrept. IV 47, 2, I p. 36. 1 Staehlin-Treu). Che l'effigie di Era samia fosse opera di Smilide, viene detto infine da Atenagora (XVII, p. 54 Marcovich = p. 124 Pouderon). Pausania e implicitamente gli altri testimoni considerano Smilide l'autore della statua ancora visibile a Samo: a quanto pare, dunque, essi non si riferiscono (come Aetlio, C. e la Diegesis) alla remota immagine lignea successivamente resa antropomorfa da Scelmide, ma a un'altra effigie di epoca più recente. Quest'ultima potrebbe coincidere con la statua di Fra samia descritta da C. nell'elegia successiva (fr. 204, vd. il comm. ad loc.). Per uno sguardo d'insieme sulle fonti, vd. Papadopoulos pp. 91-93. Una sinossi delle questioni sollevate dal frammento viene offerta da Manakidou pp. 222-225. Spetta a Pino p. 63 s. il merito di avere scoperto una sicura imitazione del nostro brano in un luogo di Tibullo (I 10, 17-20). Qui il poeta esorta i suoi Lari a non vergognarsi di essere scolpiti in un antico tronco, come quando abitavano la casa degli avi, e osserva che la fede era più sincera allorché un dio di legno si ergeva umilmente in una piccola nicchia: neu pudeat prisco vos esse e stipite factos: | sic veteres sedes incoluistis avi. | tunc melius

448

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

tenuere fidem, cum paupere cultu | stabat in exigua ligneus aede deus. I due passi sono estremamente simili sia sul piano contenutistico (entrambi contengono apostrofi ad antiche statue lignee) sia su quello espressivo e lessicale: sic e tunc richiamano ὧδε e τότε; il plurale generico tenuere (sottinteso homines) risente di ἱδρύοντο; in exigua ... aede rimanda a

λιτὸν ... ἕδος. Al nostro aition risale forse il fr. inc. sed. 127, se il suo contesto originario era il bagno rituale della statua di Era nel fiume samio Partenio (vd. il comm. ad loc.). Il fr. inc. auct. 769 Pf., dov'è menzionata la prima sacerdotessa argiva di Fra, potrebbe spettare a C. e appartenere alla nostra elegia (nella quale - secondo la Diegesis - si istituiva un nesso fra Argo e Samo, vd. sopra), ma sembra più probabile che esso sia esiodeo (fr. inc. 125 M.-W.). Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

1.5. οὔπω (κέλμιον

ἔργον ἐύξοον, ἀλλ᾽ ἐπὶ τεθμόν | δηναιὸν γλυφάνων

&&00c ἦεθα cavic: È probabile che i due versi si trovassero a poca distanza dall'inizio dell'aition: Pf. congettura che essi fossero preceduti da un solo distico, nel quale C. cominciava ad apostrofare l'antica effigie di Fra. Da parte sua Maas si richiama a Call. Cer. 24

(dove il mito di Erisittone è introdotto dalle parole | Οὔπω τὰν Kvidiav, ἔτι κτλ.) per ipotizzare che il v. 1 (dove compaiono le parole οὔπω e forse ἔτι, vd. app.) rappresenti l'esordio dell'elegia: ma quest'idea è inaccettabile, perché i nostri versi, senza un antefatto che introducesse l'apostrofe di C. alla statua di Fra samia, sarebbero risultati incomprensibili ai lettori. Vd. l'annotazione dopo il testo. Hollis, Hellenistic Colouring p. 279 n. 16 ha colto un riecheggiamento del nostro distico in un brano di Properzio (IV 2, 59-61). Qui il dio Vertumno afferma che un tempo la sua effigie era stata frettolosamente sgrossata da un tronco di acero, mentre la statua di bronzo che attualmente lo raffigura è opera di un celebre scultore: stipes acernus eram, properanti falce dolatus, | ante Numam grata pauper in urbe deus. | at tibi, Mamurri, formae celator aenae ecc. (vd. anche Hollis, Propertius p. 119).

1 οὔπω

(κέλμιον

ἔργον ἐύξοον: Riguardo a οὔπω ... ἔργον, si osservi che C. fa

uso delle medesime parole nel v. 244 5. dell'inno ad Artemide (| où γάρ re ... | ἔργον), a proposito delle siringhe non ancora sostituite dai flauti, opera di Atena. L'avverbio οὔπω serve a segnalare una precisazione cronologica in numerosi altri passi callimachei di carattere antiquario:

cf. /ov.

18, Ap. 88

(con il comm.

di Williams),

Del. 39

s., 49, 90

s.

(nell'ultimo luogo la parola è seguita - come qui - dalla congiunzione ἀλλά), Cer. 24 (con il comm. di Hopkinson). Vd. Harder, Callimachus II p. 81 5. Per le espressioni equivalenti nella poesia latina, vd. Hollis, Hellenistic Colouring p. 279. (κέλμιον è il nominativo neutro di un aggettivo (non attestato altrove), che qualifica ἔργον e deriva dal nome dello scultore (κέλμις. Ma non si può escludere la congettura (κέλμιος di Bentley, che introdurrebbe nel verso il genitivo del nome suddetto. Sia (κέλμιον sia (κέλμιος sono suffragati da uno scolio a Pausania (riportato nell'app. delle fonti al nostro esametro), dove leggiamo che C. chiamava appunto Scelmide lo scultore della statua di Fra a Samo. Solo se presupponessimo un fraintendimento da parte dello scoliasta, potremmo prendere in considerazione la congettura οκέλμιον di Pf. (si tratterebbe di un aggettivo inusitato, da intendere nel senso di dedaleo, cioè costruito ad arte; un'interpre-

tazione analoga, ma priva di ricadute testuali, viene proposta da Papadopoulos p. 94 s.). Sicuramente da scartare è invece la congettura οὔ πως Κέλμιον ἔργον di Gallavotti, che intende: non eri certo un'opera di metallo secondo l'arte inventata da Celmide (si chiamava così uno dei Dattili [46], che scoprirono il ferro e la sua lavorazione: cf. p.es. Strab. X 473).

COMMENTO: Κέλμιον

AET.IV FR. 203

449

sarebbe un aggettivo (non altrimenti attestato) derivante dal nome Κέλμις.

Se-

condo Gallavotti, lo scoliasta a Pausania avrebbe erroneamente visto in Celmide l'autore di

una statua di Fra a Samo (invece che uno degli archegeti della metallurgia, come sarebbe stata intenzione di C.), ma non avrebbe sbagliato la forma del suo nome, in quanto la frase

ὁ δὲ Καλλίμαχος (κέλμιν (vd. app. delle fonti) esibirebbe solo una dittografia di sigma imputabile ai copisti bizantini (ὁ δὲ Καλλίμαχος {c}K&Auw). Oltre che per la scarsa plausibilità di un simile approccio al testo dello scolio, l'ipotesi di Gallavotti va esclusa per due considerazioni essenziali: il carattere tipicamente callimacheo della sequenza οὔπω ... ἔργον

ὦν ἀλλ᾽ (vd. sopra il comm. e D'Alessio (p. 514)) e l'inapplicabilità del nostro aggettivo ἐὐύξοον - chiaramente in contrasto con 1'@&ooc ... cavic del v. 2 - a un'opera in metallo (vd. Papadopoulos p. 94: « qui si parla certamente di una statua in legno»). Vd. in generale l'app.

ἐπὶ τεθμόν: Il nesso ἐπὶ τεθμόν | δηναιόν (v. 2) è frutto di un intervento congetturale operato sul testo (qui molto incerto) di Fusebio che tramanda il nostro frammento (vd. app.): Pf. chiama a confronto la frase omerica ἐπὶ «τάθμην (Od. V 245 al), corrispondente al latino ad amussim. Il vocabolo Becuéc è un hapax omerico (Od. XXIII 296; cf. anche [Hom.] Hymn. VIII 16*). La forma τεθμός è frequente presso Pindaro: cf. Ol. VIII 25 al; cf. poi Lyc. 859, 1173, lo stesso Call. fr. 243, 3 (notevole anche per il possibile contenuto: vd. il comm. ad loc.), Iamb. fr.203,41 Pf. e SGO I 02/12/01 v. 15 κατὰ τεθμά. 2 önvaıöv: L'aggettivo è un hapax omerico (Il. V 407), impiegato da C. anche in ἴον. 60. Per una possibile attestazione dell'avverbio ônvawv nell'Ecale, vd. le osservazioni di Hollis a p. 358 5. della sua edizione dell'epillio (Appendice Va). Νά. inoltre Schlatter p. 53. YXv@dv ov: Il sostantivo si trova presso [Hom.] Hymn. IV 41, Theocr. I 28, Paul. Sil. Amb. 156, Damochar. Anth. Pal. VI 63,7. &&800c: L'aggettivo, che è in contrasto con l'&0&0ov del v. 1, figura qui per la prima

volta: cf. poi Nonn. Dion. XXXVIII 172

ἄξοα ... δούρατα. Vd. Breadu p. 11 s., Schmitt p.

165. ἦσθα: L'apostrofe alle statue è un tipico motivo epigrammatico: vd. Meyer p. 231 5. cavic: Nei poemi omerici il singolare di questo vocabolo compare solo in Od. XXI 51, dove designa un soppalco; altrove ricorre il plurale cavidec, che si riferisce ai battenti di una porta (J!.IX 583 al.). A partire dall'ellenismo 1 poeti impiegano spesso la parola nel significato basilare di asse, come qui C.: cf. p.es. Antip. Thess. Anth. Pal. IX 269, 2 = GP 688, Antiphil. Anth. Pal. IX 546, 6 = GP 838*. 3 γάρ ... γάρ: Il primo γάρ serve a spiegare il singolare aspetto dell'antica statua di Era (cf. v. 1 s.): è perciò inammissibile il καθιδρύοντο suggerito da Is. Voss e Meineke al posto di γὰρ ἱδρύοντο (vd. app.). Il secondo γάρ introduce la menzione esemplificativa dell'effigie di Atena a Lindo. ἱδρύοντο: Il verbo è impiegato a proposito di chi innalza statue già da Eur. /ph. Taur. 1453, Aristoph. Pax 1091, Plut. 1153. Cf. lo stesso Call. fr. inc. sed. 592 Pf. e Dian. 238 (intransitivo in Ep. XXIV 2 Pf. = HE 1318), nonché [Anacr.] Anth. Pal. VI 138, 1 = FGE

508.

3 s. ᾿Αθήνης

I ἐν Λίνδῳ

Δαναὸς

λιτὸν

ἔθηκεν

ἕδος: Per Danao costruttore

della statua di Atena a Lindo, cf. [Apollod.] II 1,4, 6 (dal quale dipende lo Schol. AD Hom.

I. 142) e Diod. V 58, 1. Secondo Erodoto (II 182, 2), il Marmor Parium (FGrHist 239 A 9. 14-17) e altri testimoni, il santuario di Atena lindia venne fondato dalle figlie di Danao. Vd.

in generale C. Blinkenberg, L'image d'Athana Lindia (Kgbenhavn 1917), p. 8 e C. Higbie,

450

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

The Lindian Chronicle and the Greek Creation of their Past (Oxford 2003), p. 277 s. 4 Λίνδῳ: Νά. il comm. al fr. 9, 20 Λίνδος. Aavaôc: Per il personaggio, vd. il comm. al fr. 143, 4*. λιτὸν ἔθηκεν ἕδος: Cf. Crates SH 359, 4 λιτὸν ἔθηκε Biov*, ma anche lo stesso

Call. Hec. SH 288, 44 = fr. 74,3 H. λιτὸν eô | (l'ultima lettera è forse o oppure w). Un uso analogo del verbo τίθημι compare nel fr. 187, 9 eixöv]a ... ἔθηκε, a proposito della statua di Euticle (vd. il comm. ad loc.). Aıtöv: Quasi tutti i manoscritti di Fusebio (fonte del nostro frammento) tramandano λεῖον, che fu emendato in λιτόν da Is. Voss sulla base dell'impossibile λίθον del codice A.

La correzione è suggerita innanzitutto dai versi precedenti, la cui interpretazione più naturale è che l'analogia fra le antiche statue di Fra samia e di Atena lindia non si limitasse all'aniconicità (come ritengono Pugliese Carratelli p. 7 e Cazzaniga p. 9 s.), ma si estendesse

alla mancanza di levigatezza (cf. v. 2 àË0oc). Ne consegue che lo ξόανον di Atena non poteva essere liscio, cioè λεῖον (secondo la tradizione manoscritta) ovvero Atcnov (secondo una congettura di Cazzaniga, dalla quale risulterebbe inoltre che la statua di Atena non era di legno, ma di pietra; per il rarissimo aggettivo, cf. Aristoph. Ran. 826). In favore di λιτόν militano inoltre i luoghi di Cratete e C. riportati sopra e ıl brano di Tibullo riportato alla fine del comm. introduttivo (in exigua ... aede). In poesia l'aggettivo Aıröc è impiegato dai comici (Men. PCG 748, 2, Sicyon. fr. 3 Belardinelli, Sotad. PCG 1, 6 al.), da Cratete cinico (nel passo riportato sopra) e dallo pseudoFocilide (Sent. 81). C. lo utilizza piuttosto spesso: oltre al brano dell'Ecale riportato sopra, cf. fr. 213, 78, Vict. Sosib.fr. 384, 32 Pf., Ap. 10, 11, Lav. 25, Ep.XLVII 1 Pf. = HE 1175. ἕδος: In ämbito poetico il vocabolo è usato a proposito di statue divine da Soph. El. 1374, Oed. Tyr. 886 (vd. il comm. di Jebb).

Frammento 204 (101 Pf.) (L'altra statua di Era a Samo) Ἥρῃ τῇ Capin περὶ μὲν τρίχας ἄμπελος ἕρπει: La breve Diegesis, benché deturpata da vari errori (vd. app.), è perfettamente integra e consente di ricostruire il tema complessivo dell'aition: la vite che serpeggia intorno al capelli della statua di Era a Samo e la pelle leonina che è riversa sulla base della medesima effigie simboleggiano il trionfo della dea sui figli bastardi di Zeus, rispettivamente Dioniso ed Fracle. Che C. descrivesse in questi termini la statua di Era, era già noto grazie a una testimonianza di Tertulliano, il quale sembra applicare i medesimi attributi all'immagine di Fra argiva (vd. app. delle fonti; Argo veniva già chiamata in causa a proposito dell'antichissima effigie di Fra samia, che costituisce il tema dell'aition precedente, fr. 203: vd. il comm. introduttivo ad loc.). Non è chiaro se la statua qui illustrata da C. sia quella dell'artista Smilide (per la quale vd. il brano di Pausania e gli altri testimoni discussi nel comm. introduttivo al fr. 203) o un'altra scultura a noi ignota. Riguardo alle diverse effigi dell'Era di Samo, vd. E. Buschor, «MDAI(A)» 55 (1930), p. 4 5. e Mras, Kultbilder pp. 277-284. Gli elementi costitutivi della statua che C. descriveva nella nostra elegia si trovano raffigurati

in una moneta

samia

risalente

al 600

a.C.

circa

(vd.

E. Babelon,

Traité des

monnaies grecques et romaines II 1, Paris 1907, p. 206 s. nr. 356 con la tavola IX 3; Ohly p. 50, tavola IV 7), su un lato della quale sono rappresentate un'effigie di Fra e una pianta forse una vite piuttosto che un giunco (come ritiene E. S. G. Robinson) - e sull'altro una pelle leonina (come ha visto P. Jacobsthal). La corona di vite sul capo di Era è attestata nelle monete dell'Eubea: vd. Catalogue of Greek Coins. Central Greece (London 1884), p.

COMMENTO:

AET.TV FRR. 203-205

451

97 con la tavola XVII 14, nonché p. 123 con la tavola XXIII 11. νά. Cirio p. 141. Il contenuto generale dell'aition può essere accostato a un epigramma adespoto dell'Appendice Planudea (185), nel quale si passano in rassegna le affinità intercorrenti fra due statue di Eracle e Dioniso: fra l'altro, viene menzionato l'odio di Fra per entrambi (v. 5); inol-

tre, nel v. 4 dell'epigramma, l'effigie di Eracle esibisce la pelle di leone. Dell'elegia callimachea resta solo il verso iniziale, tramandato dalla Diegesis: in esso viene illustrato il primo attributo della statua di Fra, cioè la vite che le serpeggia intorno ai capelli. Può darsi che una minima parte del nostro esametro sia anche preservata nel fr. inc. lib. Aet. 243, 1: se così è, il frammento in questione trasmette in forma molto lacunosa 1 primi

due distici di questo aition. Alla nostra elegia risale forse il fr. inc. sed. 127, se il suo contesto originario era ıl bagno rituale della statua di Era nel fiume samio Partenio (vd. il comm. ad loc.). È possibile che il fr. inc. sed. 274, incentrato sulla pelle di leone indossata da Eracle, spetti a questa parte degli Aitia, ma sono ipotizzabili molte altre collocazioni (vd. il comm. ad loc.). Non è invece verisimile che rimonti alla nostra elegia il fr. inc. sed. 264, anch'esso relativo alla pelle leonina di Eracle: esso appartiene infatti con ogni probabilità alla Vittoria di Berenice

(frr. 143-156,

vd. il comm.

ad loc.). Vd. nel testo l'annotazione

dopo la Diegesis. ἄμπελος ἕρπει: L'explicit viene ripreso da Paul. Sil. Ecphr. Soph. 653*. Per la di-

zione, cf. Soph. TrGF 255, 2 5. Βακχεῖος βότρυς Ι ἐπ᾽

ἦμαρ ἕρπει.

Frammento 205 (102 Pf.) (Pasicle di Efeso) Ἠιεύμνας ’EQ&cov, Παείκλεες, ἀλλ᾽ ἀπὸ

δαίτης: Il contenuto dell'elegia si

ricava dalla Diegesis, che ci è pervenuta senza lacune: Pasicle, governatore di Efeso, men-

tre torna da un banchetto viene aggredito e si dà alla fuga; gli inseguitori sono messi in difficoltà dal buio, finché Pasicle e loro stessi arrivano al tempio di Fra; qui la madre dell'as-

salito, sacerdotessa della dea, sente il trambusto e si fa portare fuori una lampada; proprio grazie a questa luce, 1 persecutori riescono a uccidere Pasicle. Stroux pp. 310-313 ha scoperto che l'aition callimacheo viene sinteticamente riproposto nell'Ibis di Ovidio (vv. 623 5. e 626), dove il poeta augura al proprio avversario di essere ostacolato dall'aiuto dei suoi, come accadde a quello che, nascondendosi nelle tenebre per

sfuggire al suo uccisore Melante, venne tradito dalla stessa madre per mezzo di un lume: utque Melantea (-tea vel -thea codd.) tenebris a caede latentem | prodidit officio luminis ipsa parens, | ... | sic precor auxiliis impediare tuis (per 1 vv. 621 s. e 625, vd. il comm. al fr.181). Gli scoli al v. 623 (B(aCFD), cf. G(Z)) interpretano erroneamente il Melantea ovidiano (aggettivo di caso ablativo e di genere femminile riferito a caede) come un accusativo del nome proprio MeAavteöc e inventano una storia, fondata sul fraintendimento di Ovidio e - a quanto pare - su qualche spunto callimacheo, nella quale l'ucciso è appunto Melanteo: Melantheus homicidium fecit et in domum matris suae fugit ibique se abscondit. quem sequentes inimici eius quaesiverunt a matre. mater, accenso lumine - putabat enim illum non posse inveniri - cum ipsis coepit quasi inquirens ire per domum et sic filius repertus interfectus est. Già Norsa e Vitelli avevano rilevato che Pasicle compare in un luogo della Varia hi-

storia di Eliano (III 26): Πίνδαρος ὁ Μέλανος υἱός (sull'alternanza delle forme μέλας, -avroc, -avoc, -ἄνθιος vd. l'app. delle fonti e il comm.

al fr. 21 e il comm.

al fr. 61),

᾿Αλυάττου δὲ θυγατριδοῦς τοῦ Λυδοῦ, διαδεξάμενος τὴν Ἐφεείων τυραννίδα... τὸν

452

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Kpoîcov ... τῷ ... Πινδάρῳ προςτάξαι τῆς πόλεως ἀπαλλάττεεθαι. 6 δὲ ... τὸν υἱὸν καὶ τῆς οὐείας τὸ mÀeîctov τῇ πόλει παρακαταθέμενος καὶ ἕνα τῶν ευνήθων Παεικλέα ἀποδείξας ἐπίτροπον καὶ τοῦ παιδὸς καὶ τῶν χρημάτων, ἀπῆρεν εἰς Πελοπόννηοον. Eliano scrive dunque che il tiranno di Efeso Pindaro, figlio di Melane e nipote per via materna del re lidio Aliatte, dovette lasciare la città per ordine di Creso; prima di andare via,

egli consegnò alla πόλις suo figlio e la maggior parte delle sue ricchezze e scelse l'amico Pasicle come tutore dell'uno e delle altre. Mettendo in rapporto le testimonianze della Diegesis, di Ovidio e di Eliano, Stroux p. 312 s. ha molto verisimilmente congetturato che Pasicle si impadronisse a tradimento del potere e divenisse governatore (cicvuvitane) di Efeso e che per questo il figlio di Pindaro - chiamato Melan(t)e come il nonno - gli tendesse un agguato e lo uccidesse con l'auto dei suoi fautori. Vd. anche S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica (Milano 1989), p. 365 n. 560, Fraser II p. 1021 n. 97. Il tempio di Era a Ffeso, teatro della morte di Pasicle, non ci è noto da altre fonti. Pf.

cita però un passo di Strabone (XIV 640), nel quale leggiamo che vicino a Ffeso c'è il monte

Solmisso,

dove

dicono

che i Cureti

con il frastuono

delle loro armi

stordirono la

gelosa Era posta in agguato e agevolarono il parto di Latona senza darlo a vedere: ὄρος ὁ

CoAuuccöc, ὅπου «τάντας φαεὶ τοὺς Κούρητας τῷ ψόφῳ τῶν ὅπλων ἐκπλῆξαι τὴν Ἥραν ζηλοτύπως ἐφεδρεύουεαν καὶ λαθεῖν ευμπράξαντας τὴν λοχείαν τῇ Λητοῖ. Pf. congettura dunque che, come nell'isola apollinea di Delo, così nella città di Ffeso sacra ad Arte-

mide esistesse anticamente un culto di Era presso il bosco sacro di Ortigia (vd. Ragone p. 105). Un altro Erèo (quello di Argo) è menzionato da Call. Vier. Sosib. fr. 384, 45 Pf. Dell'aition callimacheo rimane solo il primo esametro, trasmesso dalla Diegesis: In esso C., apostrofando direttamente Pasicle, ne rievoca il governatorato

su Ffeso e il funesto ri-

torno dal banchetto. Ἠιεύμναςε: In poesia il verbo è usato da Fur. Med. 19 aicouv& χθονός | (anche qui con genitivo): cf. Schol. ad loc. ἡγεῖται καὶ ἄρχει e vd. il comm. di Page. Cf. inoltre Call. Iamb. fr. 192, 6 Pf. (impiego assoluto). Lo si ritrova insieme al genitivo in SGO IV

18/09/02 v. 1 t&cde ὃς œicouvüc 66% I. Nei poemi omerici compaiono già i sostantivi oicvurntnp (Il. XXIV 347) e αἰουμνήτης (Od. VII 258). C. adotta il femminile oicvuvfiric nell'Ecale (fr. 238, 10 Pf. = 17, 10 H.). La carica di αἰουμνήτης a Efeso non è altrimenti nota.

ἀπὸ δαίτης: Il sostantivo δαίτη è una forma poetica di δαίς: cf. p.es. Hom. Il. X 217, Od. III 44, Ap. Rh. II 761, Nic. Αἰ. 380, fr. 70, 18 Schneider*, Opp. Hal. Il 251. L'explicit

ἀπὸ [δ]αίτ[ης si trova forse nel fr. 50, 8 (vd. il comm. ad loc.). Per l'affine clausola ἀπὸ δαιτός, cf. Hes. Op. 736 e fr. 60, 1 M.-W.

Frammento 206 (103 Pf.) (Androgeo) “Hpoc ὦ κατὰ πρύμναν, ἐπεὶ τόδε κύρβις

ἀείδει: La breve Diegesis è otti-

mamente preservata, ma sembra avere subito la caduta di un tratto di testo (vd. l'app. al rigo 5). Così com'è, essa fornisce solo due notizie sconnesse: da un lato spiega che il cosiddetto «eroe sulla poppa» è Androgeo; dall'altro precisa che in un certo luogo c'era anticamente l'ormeggio del Falero, dove attraccavano le navi prima che venisse creato 1] porto del Pireo. Maggiori delucidazioni in merito sia al collegamento fra l'«eroe sulla poppa» e il Falero sia alla frase κατὰ πρύμναν sono offerte da un brano di Clemente Alessandrino (Protrept. II 40, 2) e dal relativo scolio (quest'ultimo è riportato nell'app. delle fonti perché fa esplicito

COMMENTO:

AET.IV FRR. 205-206

453

riferimento alla nostra elegia). Elencando una serie di divinità venerate localmente da singole città, molte delle quali sono tratte dalle opere callimachee, Clemente menziona anche un «eroe sulla poppa» e specifica che egli è appunto onorato al Falero: ἔςτι μὲν ἐφευρεῖν

καὶ ἀναφανδὸν οὕτω κατὰ πόλεις δαίμονας ἐπιχωρίους Κυθνίοις Μενέδημον (cf. fr. inc. sed. 663 Pf. con il comm.), (cf. fr. inc. auct. 733 Pf.), παρὰ Δηλίοις ”Aviov (cf. fr. inc. Λάκωειν ’Actpaßaxov (cf. Herodot. VI 69, 3). τιμᾶται πρύμναν ἥρως᾽. Da parte sua poppe» è Androgeo e motiva la questa parte delle navi. L'uso di zioni ci è noto da altre fonti: Stockert), Ov. Her. XVI

τιμὴν ἐπιδρεπομένους: παρὰ παρὰ Τηνίοις Καλλιςταγόραν sed. 133 con il comm.), παρὰ δέ τις καὶ Φαληροῖ ᾿κατὰ

lo scolio chiarisce (come la Diegesis) che l'«eroe sulle designazione con il fatto che una sua statua era collocata su porre sulla poppa le effigi dei numi tutelari delle imbarcacf. p.es. Fur. Iph. Aul. 239-241 e 275 (con il comm. di

114, Pers. VI 30 (con lo scolio e il comm.

di Kißel), Sil. XIV 437.

Resta però oscuro il motivo per il quale l'emblema di Androgeo aveva la funzione di proteggere le navi. La sua qualifica di κατὰ πρύμναν ἥρως lo rende forse simile all'eroe

Οἴαξ (Timone), venerato dall'associazione degli Οἰακιαςταί (vd. H. Collitz - F. Bechtel, Sammlung der griechischen Dialekt-Inschriften III 1, Göttingen 1899, nr. 4274). Che il porto del Falero fosse molto più antico di quello del Pireo (fatto allestire da Temistocle), lo confermano altre testimonianze: cf. Herodot. VI 116 al., Diod. XI 41, 2, Paus. I 1, 2 e 4. Una notizia interessante è offerta dall'ultimo brano di Pausania, dove leggiamo

che nel porto del Falero c'è un altare di Androgeo denominato «altare dell'eroe», almeno

secondo l'identificazione istituita dagli esperti nelle tradizioni locali: &crı δὲ καὶ ᾿Ανδρόγεω βωμὸς τοῦ Μίνω, καλεῖται δὲ Ἥρωος: ᾿Ανδρόγεω δὲ ὄντα Icacıv οἷς ἐςτιν ἐπιμελὲς τὰ ἐγχώρια capéetepov ἄλλων ἐπίεταεθαι (vd. Prioux p. 213 n. 72). Riguardo al culto di Androgeo ed eroi simili nel porto del Falero, vd. H. Herter, «RhM»

NF 85 (1936), p. 217 en. 4.

La morte di Androgeo e il lutto di suo padre Minosse sono alla base del primo aition dell'intera opera (frr. 5-9!8): vd. il comm. ad loc. A quanto pare, Properzio (II 1, 61 5.) menziona erroneamente Androgeo invece di suo fratello Glauco (vd. il comm. di Enk). Dell'elegia callimachea resta solo il verso iniziale, tramandato dalla Diegesis. Qui C. apostrofa l'«eroe sulla poppa» e aggiunge una proposizione subordinata, nella quale spiega che una tavola canta questo: non sappiamo in che cosa consista la tavola menzionata e quale sia l'oggetto del suo canto (il referente del prolettico τόδε si trovava certamente nel testo successivo). È presumibile, però, che tra le notizie offerte dalla tavola ci fosse appunto l'identificazione del κατὰ πρύμναν ἥρως con Androgeo. Poco probabile mi sembra l'ipotesi, avanzata da Hollis, Artica p. 8, che qui il vocabolo κύρβις avesse l'antico significato di tavola della legge (vd. più avanti il comm.): secondo Hollis, C. avrebbe riferito che il culto dell'«eroe sulla poppa» figurava nelle κύρβεις attribuite a Solone (vd. anche D'Alessio (p. 517). Più verisimilmente la κύρβις va qui intesa come una tavola con un'epigrafe dedicata ad Androgeo, che nel porto del Falero segnalava l'antico attracco delle imbarcazioni (cf. Dieg. V 6 ἐνταῦθο), oppure come un pannello con un'iscrizione esplicativa, che sulla poppa delle navi stava accanto all'effigie di Androgeo (vd. Nisetich p. 160). “Hpoc ὦ κατὰ πρύμναν: Per l'anastrofe di ὦ rispetto al vocativo del nome, cf. soprattutto [Hes.] Scut. 78 e 118 ἥρως & Ἰόλαεξ, ma anche Hom. Od. VII 408 e XVIII 122

= XX 199 πάτερ è ξεῖνε, Pind. Οἱ. VII 1 | μᾶτερ è ... Οὐλυμπία |, TrGF adesp. 625, 45 ἄνδρες ὦ φρενοβλαβεῖ[ς |, Simm. CAfr. 13, 1 p. 113 | μᾶτερ ὦ ποντία (sul fenomeno, vd. il comm. di Fraenkel all'Agamennone di Eschilo, vol. II p. 284 n. 2 e vol. II p. 829). Altri

454

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

esempi callimachei sono /amb. frr. 193, 1 Pf. ἄιναξι ὥπολλον,

199, 1 Pf. | Ἑρμᾶ

...

Γενειόλα |, Del. 118 | Πήλιον ὦ ... νυμφήιτον (vd. il comm. di Mineur), 325 | icrin vncov, Ep. LVII 1 Pf. = HE 1265 ξένος ὦ vovnyé. Vd. Lapp p. 47.

3 ῶ 3 (03)

Cf. inoltre Theaet. Anth. Pal. VII 499, 1 = HE 3356 | vavtihot & πλώοντες, Leonid.

Tar. HE 2281 | Πὰν ὦ καὶ Νύμφαι (ma vd. il comm. di Gow e Page), Ap. Rh. IV 14111 δαίμονες à καλαί (con il comm.

di Livrea), Crinag. Anth. Pal. VII 401, 7 = GP 2012 |

χθὼν à δυονύμφευτε, Anth. Pal. VII 636, 1 = GP 2030 ποιμὴν ὦ μάκαρ, Synes. Hymn. II 60 5. Lacombrade μονὰς & μονάδων, | TÉTEP ὦ πατέρων. κατὰ πρύμναν: Il medesimo nesso, caratterizzato dalla forma attica πρύμναν con alpha breve, si rinviene presso Theocr. XXII 10* (cf. invece Maneth. II 125 κατὰ πρύμνην )). Per il solo πρύμναν, cf. Arat. 604 (con le osservazioni di E. Maass, Aratea, Berlin 1892,

p. 108) e [Orph.] Arg. 691. Nell'/liade omerica (I 409) compare già la frase κατὰ πρύμνας;

cf. poi Soph. Phil. 1451 ed Eur. Iph. Taur. 431 κατὰ πρύμναν LL ἐπεὶ τόδε: Per il nesso, cf. già Hom. Od. XX 331*, XXI 73=106*. xò pf ic: In poesia il vocabolo fa la sua comparsa nel dramma classico: propriamente le κύρβεις sono tavole triangolari disposte in modo tale da formare una piramide a tre facce ruotante su un perno, che recano scritte le leggi (cf. Cratin. PCG 300, 2, Aristoph. Av. 1354 e in séguito Euph. CA fr. 6 p. 30). Gli antichi drammaturghi esibiscono anche un uso traslato della parola: Acheo e Aristofane la impiegano rispettivamente a proposito della scitala spartana (TrGF 19, 4) e di un leguleio (Nub. 448). I poeti successivi, come C. nel nostro frammento, ampliano la sfera semantica del sostantivo e lo applicano genericamente a tavole fornite di scrittura o immagini: mappe geografiche (Ap. Rh. IV 280), testi sepolcrali (SGO II 08/01/34 v. 1, vd. il comm. di Merkelbach e Stauber), pannelli dipinti (Nonn. Dion. XII 32 al.), i poemi omerici (Comet. Anth. Pal. XV 36, 2; cf. Agath. Anth. Pal.IV 5,1=3,

1 Viansino) e addirittura le colonne di Fracle (Agath. Anth. Pal. IV 4,37 = 2,37 Viansino). A proposito del vocabolo, cf. Apollod. TI. θεῶν FGrHist 244 F 107 e Schol. Ap. Rh. IV 279-281bc con i passi paralleli raccolti da Wendel.

Frammento 207 (104 Pf.) (Esidre trace) Οἰεύδρεω Θρήϊκος ἐφ᾽ αἵματι πολλὰ Θάεοιο: L'argomento dell'aition resta in parte oscuro per due motivi: da un lato la Diegesis, ben conservata nel lemma e nei primi due righi della spiegazione, diventa via via più lacunosa; dall'altro non disponiamo di fonti parallele, con l'eccezione di qualche frammento archilocheo alquanto malridotto (vd. oltre). Ecco gli elementi che 51 riescono a ricavare dalla Diegesis: 1 Pari uccidono il tracio Esidre e subiscono un lungo assedio, probabilmente localizzato nell'isola di Taso che è una loro colonia; essi consultano perciò l'oracolo di Delfi, il quale vaticina che devono pagare in ammenda ai Bisalti (popolazione tracia stanziata presso lo Strimone) ciò che sia gradito a questi ultimi; dopo la probabile e misteriosa menzione di una nave (cf. Dieg. V 14 ]vavv), si fa parola dei Tasi che chiedono qualcosa: verisimilmente la frase descrive i Tasi nell'atto di eseguire l'ordine di Apollo, cioè di domandare ai Traci quale risarcimento vogliano; nel tratto di testo successivo si riconosce il verbo mandare, usato in forma semplice o composta: forse qui i Traci spiegano che cosa 1 Tasi devono inviare loro (potrebbe trattarsi dell'enigmatica nave, vd. l'app. al rigo 15 s.). I resti della Diegesis e il frammento stesso di C. permettono di congetturare che l'uccisione di Esidre avvenne a Taso, dove nel VII secolo a.C. 1 colonizzatori provenienti da Paro 51 batterono a più riprese con le genti tracie dell'isola e del continente: il pagamento dell'ammenda ai Bisalti sembra indicare che Esidre fa-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 206-208

455

cesse parte di tale popolo (per il quale cf. anche Lyc. 417 Ἠιὼν ... Βιεαλτία |, Claudian. Cons. Stilich. I 134 Bisaltae). Vestigia poco perspicue di queste vicende, e forse anche della figura di Esidre, si colgono nei frr. 91-93b W. di Archiloco (il nostro frammento con la relativa Diegesis corrisponde al fr. 92): nel fr. 91,7 West propone l'allettante integrazione Oico]ôpnc. Per un riesame del monumentum Parium ad Archiloco come testimonianza di questi eventi storici (fr. 93a W.), vd. F. Hiller von Gaertringen, «GGN»

NF 1 (1934-1936), pp. 47 5. e 58. Νά. inol-

tre G. Türk s.v. Thasos, RE VA 2 (1934), p. 1312 5. Sugli argomenti traci nell'opera di C., vd. il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 662. Riguardo all'eroe eponimo di Taso, cf. fr. inc. sed. 133 con il comm. Dell'elegia callimachea sopravvive solo il primo esametro, trasmesso dalla Diegesis. Incerto è Il contesto sintattico e semantico delle parole che lo compongono, perché mancano il verbo e probabilmente il sostantivo qualificato da πολλά. Si potrebbe p.es. immaginare un periodo del genere: per il sangue di Esidre trace molte sciagure si impossessarono di Taso (con riferimento al lungo assedio cui l'isola venne sottoposta). Οἰεύδρεω:

Questo nome

tracio non è attestato con sicurezza altrove, ma - come

si è

detto - il supplemento Οἰού]δρης di West presso Arch. fr. 91, 7 è degno della massima attenzione. Per la forma del nome, si può anche chiamare a confronto Oicöun, cittadina costiera della Tracia situata davanti a Taso, nonché colonia ed emporio dei Tasi: cf. Thuc. IV

107,3 FaAnyòc ... καὶ Οἰούμη ... Θαείων ἀποικίαι, [Scyl.] 67 Οἰεύμη καὶ ἄλλα ἐμπόρια Θαείων al. ®pnixoc: Per la quantità lunga dello iota, cf. Call. Dian. 114 Θρήϊκιξ, fr. 1, 13 Θρήϊκαςο" (vd. il comm. ad loc). ἐφ᾽ αἵματι: Qui il nesso significa per l'uccisione, come p.es. presso Aesch. Suppl. 6 e Dem.

XXI

105; lo si trova, in senso più letterale, presso Hom.

Od. XI 82* e Phil. Thess.

App. Plan. 141, 5= GP 3106”. La lettura ἐφ᾽ ἅρματι di Manteuffel va esclusa, sia per la difficoltà di conciliare la frase su/ carro con le notizie desumibili dalla Diegesis sia soprattutto per motivi paleografici (vd. app.).

Frammento 208 (105 Pf.) (Il trascinamento di Antigone) Jlöel........ 1el.......... Jıöetovö . „[: I miseri resti costituiscono il primo rigo della Diegesis e risalgono dunque al verso iniziale dell'elegia: l'integrazione ὯΩ]δε di Vogliano, ispirata al probabile incipit dell'aition successivo (fr. 209"), è estremamente ipotetica. Può darsi che, come spesso accade nel papiro milanese, il lemma si estendesse alla parte iniziale del rigo seguente: in tal caso quest'ultima tramanderebbe la fine dell'esametro callimacheo. Ma anche il rigo in questione è così frammentario che non ci si può decidere per l'una o per l'altra soluzione (vd. app.). L'intera Diegesis è lacunosissima: Norsa e Vitelli vi avevano solo riconosciuto una menzione conclusiva di Antigone. Spetta a Pf., Papyrus p. 384 5. e Arryrjesic pp. 20-22 il merito

di averne

individuato

il probabile

contenuto,

ricostruendo

così il verisimile

tema

complessivo della nostra elegia. Lo studioso rileva innanzitutto la compresenza, nella Die-

gesis, della serie di lettere ]Jevoyı[ (facenti capo a parole come ἐναγίζειν oppure évayicuéc, relative ai sacrifici funebri, cf. più avanti sia Paus. IX 18, 3 sia il brano di Filostrato) e del

nome di Antigone e si richiama poi a un passo dei Tristia di Ovidio (V 5, 33-39 riportato nell'app. delle fonti), nel quale il poeta attesta che C. esponeva il seguente prodigio: quando si celebra un

sacrificio comune

sull'altare di Eteocle

e Polinice,

che morirono

l'uno per

456

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

mano dell'altro, la cenere esalata si divide in due parti, come se obbedisse ai fratelli discordi. Pf., dunque, riconduce la testimonianza ovidiana al nostro aition e osserva che altri

punti della Diegesis si lasciano riferire all'argomento illustrato dall'autore latino: l'eventuale

δ]ιαφορὰν seguito da muoiv | significherebbe che il prodigio indica l'eterno disaccordo dei fratelli; la possibile sequenza ]cx1[ designerebbe la scissione del fuoco o del fumo o della cenere durante 1 sacrifici per Eteocle e Polinice (cf. Strat. Anth. Pal. XII 199, 3 = 40,3

Floridi | χὠ λύχνος ἔοσχιοται διδύμην φλόγα). In séguito Vogliano ha proposto il supplemento φι[λά]δ[ελΊφον come attributo di Antigone: la fanciulla è affezionata al fratello perché decide di comvolgere Polinice nelle esequie di Eteocle (ma anche le differenti integrazioni suggerite da L. per il medesimo punto della Diegesis rimandano alla pietas soro-

rale dell'eroina: vd. l'app. a Dieg. V 23 s.). Aggiungo che, se la sequenza ὡς οὐδὲ ékety| va integrata con una forma del verbo κινεῖν, si potrebbe pensare a una frase del genere: Antigone trascinò il corpo di Polinice fino al rogo funebre perché in altro modo non riusciva nemmeno a muoverlo (cf. più avanti Paus. IX 25, 2). Gli interventi di Pf., corroborati dalle numerose fonti parallele che esamineremo

oltre,

rendono molto plausibile che la nostra elegia affiancasse due temi: da un lato, come inducono a supporre la menzione di Antigone, il risalto conferito al suo amore di sorella e il possibile impiego del verbo κινεῖν, C. descriveva il cosiddetto còpua ᾿Αντιγόνης, cioè il trascinamento del cadavere di Polinice da parte di Antigone intenzionata a collocarlo sulla pira funebre di Eteocle, in ricordo del quale - a detta di Paus. IX 25, 2 (cf. oltre) - un luogo tebano è appunto chiamato Còpua "Avrıyövnc; dall'altro lato il poeta raccontava che, quando la ragazza riuscì nel suo intento, la fiamma del rogo si scisse in due e - come dimostra il brano di Ovidio - precisava che 1] fenomeno si verifica in ogni sacrificio comune a Eteocle e Polinice. L'esposizione congiunta dei due temi da parte di C. era già stata ipotizzata da F. Spiro, De Euripidis Phoenissis (Berolin 1884), pp. 30-32 (su Impulso di Wilamowitz). Che nella trattazione callimachea del motivo della fiamma biforcuta il θαυμάειον (cioè il ripetersi del prodigio in tutti i sacrifici per Eteocle e Polinice) venisse spiegato dall' αἴτιον (cioè l'originario realizzarsi del fenomeno sulla pira dei due giovani), è una convincente

idea di Aricò

p. 318

s., il quale inoltre

- basandosi

su Paus.

IX

18, 3

(riportato più avanti) - suppone che il poeta accolga ed elabori una leggenda locale tebana. Per quanto sappiamo, C. fu il primo a introdurre in letteratura questi argomenti. Li si ritrova presso vari scrittori successivi, che illustrano la scissione della fiamma (esponendo

però separatamente o il θαυμάειον o 1' αἴτιον) o il coppa ᾿Αντιγόνης o entrambi. Tutti i passi relativi alla fiamma bifida sono raccolti, suddivisi nelle varie tipologie e acutamente discussi da Aricò p. 313 con la n. 1 e pp. 315-318. Più in generale, vd. Massimilla, Echi p. 224. La prodigiosa separazione ricorrente nei sacrifici figura presso Bianor. Anth. Pal. VII 396 = GP 1669 ss. (il fuoco), Paus. IX 18, 3 (il fuoco e il fumo), Hygin. Fab. LXVII 3 (il fumo) e Auson. Ep. XXV Peiper = Ep. Bob. LIT Speyer (la cenere). L'impiego del verbo

ἐναγίζειν avvicina il brano di Pausania ai resti della nostra Diegesis: gacì ... οἱ Θηβαῖοι ... καὶ τοῖς παιεὶν ἐναγίζειν τοῖς Οἰδίποδος: τούτοις δὲ ἐναγιζόντων αὐτῶν, τὴν φλόγα ὡεαύτως δὲ καὶ τὸν ἀπ᾿ αὐτῆς καπνὸν διίεταεθαι. La straordinaria biforcazione che ebbe luogo sul rogo funebre di Eteocle e Polinice viene rievocata da Antiphil. Anth. Pal. VII 399 = GP 947 ss. (cf. specialmente v. 5 | nvide πυρκαΐῆς üvıcov φλόγα), da Ov. Ib. 35 5. et nova fraterno veniet concordia fumo, | quem vetus accensa separat ira pyra (con valore di adynaton) insieme allo scolio P ... et sic uter-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 208; 209-210

457

que interfectus positus est in pyra ut combureretur. sed, ne vetus livor occultaretur, flamma una se divisit in duas partes e da Lucan. I 550-552 flamma ... | scinditur in partes geminoque cacumine surgit | Thebanos imitata rogos. Il trascinamento del cadavere di Polinice da parte di Antigone è descritto in un brano di Pausania (IX 25, 2), il quale spiega che una località tebana si chiama Cöpua ᾿Αντιγόνης a séguito di quest'evento. Il periegete precisa che inizialmente la fanciulla voleva sollevare il corpo, ma poi - non disponendo di aiuti - pensò di trascinarlo e, così facendo, riuscì a porlo

sulla pira ardente di Eteocle: καλεῖται δὲ ὁ courac τόπος ‘Coppo ᾿Αντιγόνης᾽- ὡς γὰρ τὸν τοῦ Πολυνείκους ἄραςθαί οἱ προθυμουμένῃ νεκρὸν οὐδεμία ἐφαίνετο pactovn, δεύτερα énevoncev ἕλκειν αὐτόν, ἐς ὃ εἴλκυςέ τε καὶ ἐπέβαλεν ἐπὶ τοῦ Ἐτεοκλέους ἐξημμένην τὴν πυράν. Secondo Igino (Fab. LXXII 1), Antigone spostò il cadavere fino al rogo con il soccorso di Argia, la vedova di Polinice. Sia il copuo ᾿Αντιγόνης con la collaborazione di Argia fida sulla pira dei due fratelli sono narrati nella Tebaide di tutto v. 431 diviso vertice flammae |. Filostrato (mag. Π cadavere da parte di Antigone (che lo seppellisce insieme

sia il prodigio della fiamma biStazio (XII 411-446): cf. soprat29) illustra il trascinamento del a quello di Fteocle) e aggiunge

che tuttora, nei sacrifici per i due fratelli, il fuoco si biforca: θαῦμα καὶ τὸ πῦρ τὸ ἐπὶ τοῖς Évayicuaciv: od γὰρ ξυμβάλλει ἑαυτῷ οὐδὲ ξυγκεράννυει τὴν φλόγα, τὸ ἐντεῦθεν δὲ ἄλλην καὶ ἄλλην τρέπεται (l'impiego del vocabolo vayicuata avvicina il passo di Filostrato ai resti della nostra Diegesis). Per uno sguardo d'insieme sul còppo sulla scissione della fiamma, vd. C. Zimmermann,

᾿Αντιγόνης e

Der Antigone-Mythos in der antiken Li-

teratur und Kunst (Tübingen 1993), pp. 224-227. Nell'ipotesi che il fr. 4 del POxy. 2170 (cioè 1] fr. inc. lib. Aet. 251) spetti al quarto libro, lo si potrebbe attribuire al nostro aition (vd. il comm. introduttivo ad loc.). A questa elegia risalgono forse il fr. inc. sed. 258, nel quale il vocabolo χύτλα equivale a ἐναγίοματα, e il fr. inc. sed. 272, dov'è ipotizzabile che venga descritto un avvoltoio intento a beccare 1] cadavere abbandonato di Polinice. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammenti 209-210 (Caio romano) La parte esplicativa della Diegesis è conservata molto bene, sebbene il testo in un punto sia corrotto e in un altro si presti a differenti interpretazioni (vd. l'app. al rigo 28). Se ne ricava, comunque, che il contenuto dell'elegia callimachea era grosso modo il seguente: mentre le mura di Roma sono assediate dai Peucezi (popolo stanziato sia in Illiria sia in Apulia, ma qui forse identificabile con altre genti, vd. oltre), un Romano

di nome

Caio attacca e

uccide il comandante degli aggressori, venendo però ferito a una coscia; quando in séguito si cruccia di zoppicare, un rimprovero di sua madre lo induce a rianimarsi. Il rimbrotto materno al figlio, claudicante dopo un'azione valorosa, è - come vedremo -

un fopos attestato spesso nelle fonti antiche. Qui C. lo applica a un personaggio romano vittorioso in un duello, designandolo con il solo prenome Caio - per altro comunissimo secondo la consuetudine greca (vd. Stroux p. 305). L'identità storica di Caio e la collocazione cronologica dell'assedio di Roma compiuto (in parte o del tutto) dai Peucezi, sono state variamente ricostruite dagli studiosi. Ecco una rassegna delle ipotesi messe in campo: 1) Stroux pp. 304-310 osserva che la trama dell'aition callimacheo corrisponde in più punti a un episodio narrato da Cicerone nel De oratore (II 249), secondo il quale Spurio Carvilio, zoppicante per una ferita ricevuta in difesa dello Stato, si vergognava di comparire in pubblico, finché la madre lo esortò a uscire, facendogli notare che ogni suo passo gli

458

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

avrebbe rammentato il suo valore: Sp. Carvilio graviter claudicanti ex volnere ob rem publicam accepto et ob eam causam verecundanti in publicum prodire mater dixit: 'quin prodis, mi Spuri? quotiescumque gradum facies, totiens tibi tuarum virtutum veniat in mentem!'.Fondandosi su questo brano, Stroux congettura che il Caio di C. coincida proprio con Spurio Carvilio e che l'assedio di Roma rievocato nella nostra elegia sia connesso alla guerra dei Galli contro la città nel 360 a.C.: 1 Peucezi, che si trattasse degli illirici o degli apuli (cf. fr. 210 con il comm.), avrebbero partecipato all'impresa come seguaci dei Galli. L'ipotesi di Stroux è stata ripresa in tempi recenti da Urso pp. 351-361, il quale però ritiene che Caio sia un personaggio leggendario (riconducibile alla figura tipica del soldato azzoppato per un atto di eroismo e ammonito in séguito dalla madre) e che 1 Peucezi possano loro stessi essere identificati con 1 Galli, in quanto questi ultimi avrebbero attaccato Roma prendendo le mosse da colonie siracusane stanziate per loro in Apulia. 2) Lenchantin pp. 108-111 equipara anche lui (come Stroux) la vicenda del nostro aition alla storia narrata da Cicerone, ma reputa che quest'ultimo parli di Spurio Carvilio Massimo, il quale all'inizio del IH secolo a.C. difese Roma vincendo 1 Tarantini: a costoro si sa-

rebbero alleati 1 vicini Peucezi dell'Apulia. Nel medesimo senso si orienta l'esegesi di Andor pp. 121-126, il quale però ipotizza che i Peucezi vennero affrontati da Spurio Carvilio Massimo in occasione di una loro alleanza con Pirro, allorché questi attaccò Roma nel

280 a.C. Lévéque pp. 49-51 accetta il contesto storico indicato da Andor, ma pensa che in Calo si debba riconoscere uno Spurio Carvilio un po' più giovane del Massimo. 3) F. Altheim, Epochen der römischen Geschichte II (Frankfurt am Main 1935) pp. 137144 e «WG» 2 (1936), p. 75 s. concorda in un primo momento con Lenchantin nel credere che Caio sia Spurio Carvilio Massimo. Successivamente Altheim pp. 306-317 preferisce escludere che Caio abbia una specifica identità storica. Lo studioso ritiene comunque che i Peucezi dell'elegia callimachea rappresentino il popolo definito appunto Πευκετιεῖς dallo pseudo-Scilace (15) e che quindi possa trattarsi di un gruppo sannita guerreggiante contro Roma nel 315 a.C. insieme ad altri Sanniti (si osservi che gli abitanti della città sannitica di Saura figurano nel fr. adesp. SH 1176, ma ciò non implica che il frammento in questione risalga al nostro aition, come sembrano suggerire L.J.-P. nel comm.). 4) De Sanctis pp. 289-301=311-324 esclude che la nostra elegia si possa collegare a Spurio Carvilio, perché reputa che il riferimento ciceroniano (comunque non applicabile a Carvilio Massimo) sia piuttosto tardo, cioè successivo a C. L'episodio callimacheo sarebbe invece la rielaborazione greca dell'antichissima leggenda romana di Orazio Coclite e Caio andrebbe identificato con quest'ultimo. La storia di Orazio Coclite, infatti, presenta molte

affinità con quella del nostro personaggio: quando nel VI secolo a.C. gli Etruschi capitanati da Porsenna assediarono Roma,

Orazio

difese strenuamente

il ponte

Sublicio dall'assalto

dei nemici, permettendo così ai suol concittadini di tagliarlo nel frattempo, e alla fine si salvò con un tuffo (ovvero una caduta) nelle acque del Tevere, dopo avere riportato una ferita alla coscia che lo rese per sempre zoppo e inadatto alla vita politica e militare (cf. soprattutto Dion. Hal. Ant. Rom. V 24, 2 - 25, 3, il quale parla della πήρωεις τῆς BPacewc, ma

anche il brano di Servio discusso più avanti). Stando a De Sanctis, la presenza dei Peucezi nell'elegia callimachea costituirebbe un elemento fittizio di matrice greca: si sarebbe, cioè,

favoleggiato di una partecipazione degli Iapigi (nel corso del tempo indicati specificamente come Peucezi) all'assedio di Roma messo in atto dagli Etruschi (a proposito degli Iapigi, si può citare Call.fr. inc. sed. 613 Pf.). 5) Mazzarino pp. 257-273 reputa che dietro Caio non si nasconda un preciso personag-

COMMENTO:

AET.IV FRR. 209-210

459

gio storico: si tratterebbe invece di una figura leggendaria collegata al topos del combattente valoroso, azzoppato in guerra e poi ammonito dalla madre. Lo studioso però osserva giustamente che non è lecito imputare a C. (come poi fa p.es. Fraser I p. 767 s.) la medesima genericità in merito alla situazione storica da lui descritta, il che contrasterebbe con il

ben noto scrupolo documentaristico del nostro poeta. Mazzarino, dunque, ritiene che i Peucezi corrispondano qui alle popolazioni italiche degli Equi o dei Fidenati, 1 quali attaccarono Roma a più riprese fra il 462 e 11 435 a.C. 6) Lehnus, Medley p. 30 s. mette in campo [Aristot.] Mirab. Ausc. 78 (già citato da Stroux p. 305 n. 6), dove troviamo associati - come nella nostra elegia - un certo Caio e un Peucezio, che però lì non sono avversari, bensì complici: leggiamo infatti che tentarono di sopprimere il condottiero spartano Cleonimo con un veleno del monte Circeo e furono messi

a morte dai Tarantini, evidentemente nel corso dei combattimenti

fra Taranto

(che

aveva chiamato in aiuto Cleonimo) e i Lucani alla fine del IV secolo a.C. (il brano pseudoaristotelico viene anche esaminato da Fraser I p. 768). Lehnus congettura allora che C. adattò un episodio esemplare di virtus romana dal sapore spartano (vd. oltre) al contesto storico dello scontro fra le città greche della costa ionica (soprattutto la dorica Taranto) e i vicini Lucani e Apuli (lapigi e Peucezi). Lehnus aggiunge che il fr. inc. sed. 617 Pf. (dove si parla della fondazione di Taranto e ricorre un'apostrofe di seconda persona plurale, come nel fr. 209) potrebbe risalire alla nostra elegia. Pf., pur non schierandosi a favore di una specifica ipotesi, respinse in un primo momento la ricostruzione di De Sanctis, né valse a fargli cambiare idea l'intervento di Della

Corte pp. 276-282=17-23, il quale tentò di identificare i Peucezi stessi con gli Etruschi e di rendere in questo modo più plausibile l'idea che Caio corrisponda a Orazio Coclite. Successivamente, però, Pf. prese atto del brillante contributo di Früchtel p. 189 s., che chiamava in causa un passo di Clemente Alessandrino (Strom. IV 56, 3, II p. 274. 10 Staehlin-

Treu): Hécrovuoc ὁ Ῥωμαῖος (cioè C. Muzio Scevola) ληφθεὶς ὑπὸ Hevietiovoc (cioè Porsenna) ... τὴν χεῖρα ἐπὶ τοῦ πυρὸς θείς κτλ. Früchtel osservava giustamente che, se Porsenna viene chiamato Peucezione, i Peucezi dell'aition callimacheo possono

senz'altro es-

sere gli Etruschi. Pf., di conseguenza, ammise che l'ipotesi di De Sanctis può essere tenuta in considerazione. E in verità l'idea che la nostra elegia rappresenti un rimaneggiamento della leggenda di Orazio Coclite mi sembra molto plausibile. Oltre alle evidenti somiglianze tra la storia di Caio e quella di Orazio e al possibile impiego dell'etnico Πευκέτιοι per designare gli Etruschi, militano in suo favore due significativi elementi: da un lato, come ha visto Pasquali p. 70=70 (per parte sua contrario alla ricostruzione di De Sanctis), un brano di Servio (in Verg. Aen. VII 646, II p. 292. 13 Thilo-Hagen) attesta che, allorquando si fece notare a Orazio la sua ineleggibilità nei comizi a causa della coscia difettosa, egli rispose con le medesime parole che - sia nel luogo ciceroniano riportato più sopra sia in altre fonti esaminate oltre - la madre del soldato ferito utilizza per rincuorare il figlio (per singulos gradus admoneor triumphi mei); dall'altro lato, poiché nella Diegesis si legge che il duello di Caio ebbe luogo mentre

i Peucezi assediavano

le mura di Roma,

è decisivo il fatto che l'unico

assedio di Roma celebrato dalla tradizione sia quello di Porsenna. L'aneddoto del soldato che si cruccia dello zoppicamento causato da una ferita riportata in guerra e della madre che lo rinfranca dicendogli che ogni passo gli ricorderà 1l suo valore viene applicato, oltre che a Spurio Carvilio da Cicerone, a un anonimo soldato spartano da numerosi testimoni, come ha osservato Pohlenz, Gaius. Stobeo (III 7, 28, ΠῚ. 316.

ὃ Hense)

460

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

tramanda che l'episodio figurava presso Dione Crisostomo (fr. 1 de Budé): ἐκ τῶν Δίωνος

Χρειῶν- Λάκαινα γυνή, τοῦ υἱοῦ αὐτῆς ἐν παρατάξει χωλωθέντος καὶ δυεφοροῦντος ἐπὶ τούτῳ, un λυποῦ, τέκνον᾽ εἶπεν 'καθ᾽ ἕκαετον γὰρ βῆμα τῆς ἰδίας ἀρετῆς ὑπομνηςθήςῃ᾽. Cf. inoltre

[Plut.] Mor.

241

E (Apophth.

Lacon.

13 e 14),

Gnomol.

Vat. 568

Sternbach,

Gnomol. Par. 98 Sternbach. Lo stesso Pohlenz ha rilevato che, nel De Alexandri Magni fortuna aut virtute di Plutarco (I 9 = Mor.331 B), le parole di incoraggiamento sono rivolte da Alessandro a suo padre Filippo, claudicante per una ferita di guerra alla coscia. Le fonti e le attestazioni della sentenza, soprattutto in rapporto alle vite di Alessandro Magno, sono prese in esame da P. Treves, «JHS» 63 (1943), p. 119n.9.

Il profondo interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia è più volte attestato nella sua opera: vd. il comm. al fr. 50, 18-83. Dell'aition callimacheo rimane il primo verso, tramandato dalla Diegesis (fr. 209): in esso C. esorta forse tutti 1 Greci a saper compiere imprese come quella di Caio. Non è affatto certo che alla nostra elegia spetti anche il fr. 210, dal quale risulta che C. menzionava i Peucezi dell'Illiria.

Frammento 209 (106 Pf.) *Qde[....] yeiveche Πανελλάδοε, ὧδε tehé[c]cau: La lettura, il contesto sintattico e il senso di quest'esordio sono incerti. Nella sequenza wöe| ... ode bisogna verisimilmente riconoscere l'anafora dell'avverbio ὧδε (cf. forse fr. 157 τὼς μὲν ... 6de* con il comm. e l'assai ipotetico *Q]8e* del fr. 208, incipit dell'elegia precedente): è invece improbabile che la serie wôe[ rappresenti l'interiezione © seguita da un vocabolo iniziante con le lettere de (per rendere immediatamente perspicua la sintassi del verso, Lehnus suggerisce di mutare in ὥςτε il secondo

ὧδε, così da avere una consecutiva infinitiva nella clausola:

si

tratta ovviamente di una proposta molto incerta). Si dovrà poi privilegiare la lettura yeivecde rispetto a teivecde, sia per motivi paleografici sia perché il verbo γείνομαι è frequentemente impiegato da C.: ciò, inoltre, rende poco plausibile la correzione yivecde di Vogliano. Anche la congettura -εθαι di Norsa e Vitelli va esclusa, perché la precedente lacuna di quattro lettere (per di più seguite da una consonante) non può corrispondere a una sillaba breve. L'inverisimiglianza di -εθαι implica che le successive lettere del papiro non siano da interpretare come παλιν, bensì come ravyv: bisogna dunque respingere la lettura

πάλιν Ἑλλάδος di Norsa e Vitelli (i quali mutavano -c@e in -εθαι proprio per renderla possibile) e accogliere invece la lettura e la correzione Πανίν ξελλάδος di Vogliano, corroborate dal fatto che il papiro delle Diegeseis contiene varie geminazioni errate di lettere. Il verbo yeivec0e può essere un presente (indicativo o imperativo) o un imperfetto senza aumento: l'ipotizzabile contenuto parenetico del verso (vd. oltre) sembra favorire l'imperativo, per il quale Call. De/.214 | yeiveo, yeivgo costituisce un ottimo parallelo. Sulla scia di un'osservazione di Pf., il quale suggeriva di colmare la lacuna precedente a yeivec@e con un vocabolo plurale e di riconoscere un qualche nesso fra questo verbo e il teA£l[c]caı finale

(ottativo o infinito), Barber ha proposto l'integrazione Ὧδ᾽ £[cOXoi], che però eccede lo spazio disponibile in lacuna. Invece il supplemento Ὧδ᾽ £[pxoc] di D'Alessio è della giusta lunghezza, ma la sequenza ὧδε + sostantivo appare meno naturale. Vd. in generale l'app. Forse C. esorta tutti 1 Greci a nascere già provvisti di quel valore che consentì a Caio di abbattere il condottiero nemico. Si potrebbe p.es. immaginare un periodo del genere: Nascete così prodi (ἐςθλοί), uomini di tutta la Grecia (oppure: nascete così riparo (Épxoc) di tutta la Grecia), così coraggiosi da compiere gesta come quella di Caio!

COMMENTO:

AET.IV FRR. 209-210; 211-212

461

Πανελλάδοοε: La parola è assente nei poemi omerici, che però esibiscono una volta l'etnico IlavéXAnvec (I. II 530, vd. Sistakou p. 155). Quest'ultimo ricorre anche presso Hes. Op. 528, fr. 130 M.-W. La prima attestazione del rarissimo Πανελλάς è rappresentata da Pind. Paean.

VI fr. 52 f, 62 s. Sn.-M.

Pf. cita anche Philodam.

Paean

Delph. 32, che

nell'edizione di Diehl (Anth. Iyr. I? 6 p. 122) offre la sequenza Jo Πανελλάδος: si noti però che, nel Collectanea Alexandrina di Powell (p. 166), il medesimo luogo viene pubblicato

come | ἅπαν Ἑλλάδος (questa forma testuale è recepita da L. Käppel, Paian. Studien zur Geschichte einer Gattung, Berlin - New York 1992, p. 376).

ὧδε teré[c]cor: Cf. Ap. Rh. I 895*, Eudoc. Cypr. I 1545. Frammento 210 (107 Pf.) Il frammento consiste in un passo di Plinio il Vecchio, dal quale risulta che C. menzionava 1 Peucezi dell'Illiria: poiché nella Diegesis si legge che Caio abbatté il comandante dei Peucezi, Norsa e Vitelli osservano che la testimonianza di Plinio potrebbe riferirsi al nostro aition. Come rileva Pf., la cosa e dubbia: infatti i Peucezi che nell'elegia callimachea asse-

diano Roma sono con maggiore probabilità l'omonima popolazione apula o forse 1 Sanniti o gli Equi o 1 Fidenati o - com'è più verisimile - gli Etruschi (vd. il comm. ai frr. 209-210). Può darsi, dunque,

che C. nominasse

i Peucezi dell'Illıria in un altro suo componimento.

Vd. l'annotazione dopo il testo. A giudicare da un excerptum di Antonino Liberale (XXXI 2), 1 Peucezi dell'A pulia figuravano nelle Metamorfosi di Nicandro (fr. 47 Schneider). Su di loro, vd. il comm. di Jacoby a Hecat. FGrHist 1 F 89 (vol I p. 337) e B. Schulze, De Hecataei Milesii fragmentis quae ad Italiam meridionalem spectant (Diss. Lipsiae 1912), pp. 31-50. Come 81 è detto nel comm. ai frr. 209-210, non è escluso che 1 frr. inc. sed. 613 Pf. e 617 Pf. risalgano al nostro aition. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

Frammenti 211-212 (L'àncora della nave Argo lasciata a Cizico) La trama dell'aition risulta con chiarezza dalla Diegesis, la cui parte esplicativa è preservata molto bene, fatta eccezione per poche corruttele facilmente sanabili o comunque non tali da pregiudicare il senso: gli Argonauti, sbarcati per rifornirsi d'acqua a Cizico (città situata sulla costa meridionale della Propontide), lasciano lì la pietra da loro usata come àncora, perché è troppo leggera, e ne prendono a bordo una più pesante; la pietra rimasta a Cizico viene in séguito consacrata ad Atena. La sostituzione dell'àncora, che si verificò durante il viaggio di andata degli Argonauti, e la sua successiva dedica vengono esposte da Apollonio Rodio (I 955-960), a quanto pare sulla scia di C. Dopo avere rievocato l'attracco della nave Argo al porto di Cizico (v. 953 s. riportati nel comm. al fr. 211), Apollonio racconta che gli Argonauti - su consiglio del timoniere Tifi - lasciarono al piedi della fonte Artacia (cf. fr. 212) la piccola pietra da ancoraggio finora utilizzata e ne presero una più pesante e aggiunge che successivamente gli Toni Neleidi (cioè 1 discendenti di Neleo, figlio del re di Atene Codro e fondatore di Mileto,

a sua volta colonizzatrice di Cizico), obbedendo a un vaticinio di Apollo (= Orac. 400 Parke-Wormell), la consacrarono nel tempio di Atena Giasonia: Keîce καὶ εὐναίης ὀλίγον

λίθον ἐκλύεαντες | Tipvoc Evvecincw ὑπὸ κρήνῃ &Ainovro, Ι κρήνῃ ὕπ᾽ ᾿Αρτακίῃ' ἕτερον δ᾽ ἕλον, ὅς τις ἀρήρει, βριθύν: ἀτὰρ κεῖνόν γε θεοπροπίαις Ἑκάτοιο | Νηλείδαι μετόπιεθεν Ἰάονες ἱδρύεαντο | ἱερόν, À θέμις ἦεν, ’Incovinc ἐν ᾿Αθήνης. Cf. anche la

462

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

spiegazione offerta da Schol. Ap. Rh. I 955-960 e Νηλείδαι] οἱ μετὰ Νηλέως τοῦ Κόδρου ἀποικήςαντες ἐκ τῆς ᾿Αττικῆς Ἴωνες καὶ τὴν Καρίαν καὶ Φρυγίαν καταςχόντες, χρηςμοῖς τοῦ ᾿Απόλλωνος ἐκεῖνον τὸν λίθον τῇ ᾿Αθηνᾷ ἀφιέρωςαν. A proposito del tempio di Atena a Cizico, cf. ep. adesp. Anth. Pal. VI 342, 5 5. L'episodio compare poi, in forma abbreviata e alquanto confusa, nelle Argonautiche orfiche (vv. 490-494), secondo le quali gli Argonauti stessi - giunti a Cizico - dedicarono ad Atena una pietra pesante, lì dove le Ninfe fanno sgorgare acqua copiosa ai piedi della fonte

Artacia: ἐν δ᾽ ἄρα Tiovc | … καὶ Alcovoc ... υἱός | εὖν τ᾽ ἄλλοι Μινύαι γλαυκώπιδι Τριτογενείῃ | θῆκαν ἀείραντες βριθὺν λίθον, ἔνθα τε Νύμφαι | κρήνῃ ὑπ᾽ ᾿Αρτακίῃ καλὰ νάματα πλημμύρουειν (in merito alla pietra, vd. l'annotazione di G. Hermann, Orphica, Lipsiae 1805, pp. 99-101; per le Ninfe, vd. il comm. al fr. 211; riguardo al v. 494, vd. il comm. al fr. 144, 5).

Secondo Plinio 11 Vecchio (XXXVI 99), la pietra per l'ancoraggio lasciata dagli Argonauti a Cizico venne chiamata pietra fuggitiva, perché sı allontanava spesso dal pritaneo, nel quale veniva custodita, e dovette perciò essere legata con catene di piombo: eodem in oppido est lapis fugitivus appellatus; Argonautae eum pro ancora usi reliquerant ibi. hunc e prytaneo - ita vocatur locus - saepe profugum vinxere plumbo. Può darsi che Plinio tragga queste notizie da Licinio Muciano, come avviene - proprio riguardo a una sorgente di Cizico - in XXXI 19 (= Licin. Mucian. fr. 28, Historicorum Romanorum reliquiae II p. 106 Peter; la seconda fonte corrisponde forse alla Clite: cf. Ap. Rh. I 1067-1069 con il comm. di Vian). Altri testimoni tramandano che l'àncora della nave Argo venne sostituita in luoghi diversi da Cizico: vd. Fraser I p. 628 s. e il comm. di Vian ad Ap. Rh. I 954. La nuova äncora figura verisimilmente presso (Call.)fr. inc. auct. 138: vd. il comm. ad loc. Dell'aition callimacheo restano due frammenti: nel fr. 211, che è l'incipit dell'elegia tramandato dalla Diegesis, Il poeta rievoca l'approdo della nave Argo a Panormo, porto di Cizico; dal fr. 212 apprendiamo che C. menzionava la fonte Artacia di Cizico e la localizzava specificamente nella terra dei Dolioni. C., come qui pone prima dell'ultimo aition (La Chioma di Berenice, fr. 213) un racconto sul viaggio di andata della nave Argo, così inserisce dopo il primo aition (Le Cariti, frr. 5-

918) una narrazione dedicata al ritorno degli Argonauti (frr. 91°-23): vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis. Vd. Introd. 1A.D. Un episodio tratto dal rientro degli Argonauti veniva narrato da C. nell'ottavo giambo (fr. 198 Pf.): anche in questo caso C. è imitato da Apollonio Rodio (vd. il comm. di Pf.).

Frammento 211 (108 Pf.) ’Apyo καὶ cé, Πάνορμε,. κα[τ]έδραμε καὶ τεὸν ὕδωρ: Dopo che W. Morel ha brillantemente corretto il zapocue del papiro in Πάνορμε, il senso e la sintassi di quest'esordio sono divenuti quasi del tutto perspicui fino alla dieresi bucolica: C. apostrofa Panormo, porto di Cizico, e ricorda che la nave Argo - fra le sue varie tappe - approdò anche in esso. Ma, se si accetta la correzione che ha inserito nel testo il secondo

kai (vd. oltre),

forse le due congiunzioni sono correlative e significano sia ... sia. Dubbie restano invece la lettura e l'interpretazione sintattica della clausola. Il papiro, infatti, offre la lezione you, che è stata corretta in καὶ da Norsa e Vitelli:

a sostegno della

congettura si può osservare che l'explicit καὶ τεὸν ὕδωρ sarebbe analogo alla frase À τεὸν ὕδωρ"

del fr. 165, 4. Se si accoglie καὶ al posto di xaı, restano aperte due possibilità:

COMMENTO:

AET.IV FRR. 211-212

463

forse τεὸν ὕδωρ è un accusativo coordinato al precedente cé e C. intende (con insolita ridondanza) che Argo approdò a Panormo e alla sua acqua, oppure τεὸν ὕδωρ è un nominativo o un accusativo incluso in una proposizione seguente e riferito (ancora sotto forma di apostrofe) a Panormo ovvero p.es. alla fonte Artacia (cf. fr. 212). Ma, come rileva Pf., non è affatto da escludere che il yo del papiro sia giusto ed equi-

valga a yai (per la crasi, vd. il comm. al fr. 1,32 οὐλ[α]χύο): in tal caso si potrebbe ipotizzare che nel pentametro successivo figurassero - come soggetto di una nuova proposizione le νύμφαι della fonte Artacia (cf. [Orph.] Arg. 493 5. riportato nel comm. ai frr. 211-212), alla quale dunque spetterebbe l'apostrofe τεὸν ὕδωρ in accusativo (e le Ninfe che abitano la tua acqua ecc.). Vd. in generale l'app. L'attracco della nave Argo al porto di Cizico è descritto da Apollonio Rodio (I 953 s.)

sùbito prima del passo riportato nel comm. ai frr. 211-212: ἔνθ᾽ ’Apyò προύτυψεν ἐπειγομένη évéuoict | Θρηικίοις: καλὸς (Καλὸς Merkel) δὲ λιμὴν ὑπέδεκτο θέουεαν. ᾿Αργώ: La nave è menzionata una volta sola nei poemi omerici (Od. XII 70*). A essa è dedicato il fr. 18. Πάνορμε: Come si deduce da Ap. Rh. I 953-960 (riportato sopra e nel comm. ai frr. 211-212), C. chiama così il porto Artace, situato a Ovest di Cizico: cf. lo scolio ad Apollo-

mio Rodio riportato nell'app. delle fonti. Di solito, invece, il toponimo viene riferito alla rada orientale della città, cioè l'attuale Panderma: vd. l'annotazione al nostro app. delle fonti e il comm. di Vian ad Ap. Rh. I 954. Panormo non è ubicato in maniera specifica da

Herodian. TI. καθολ. πρ., Gramm. Gr. II 1, p. 228. 8 Lentz λιμὴν Κυζίκου. Il nome Πάνορμος si collega all'aggettivo πάνορμος (che consente sempre di ormeggiare), per il quale cf. già Hom. Od. XII 195 λιμένες ... πάνορμοι |. Per l'apostrofe rivolta a un luogo geografico, vd. il comm. al fr. 50, 39 e Introd.1.4.E.

κατ[έ]δραμε: Il verbo è attestato a partire da Archiloco (fr. 89, 28 W.). Cf. anche Call. Dian. 191*. R. F. Thomas, «AJPh» 103 (1982), p. 154 = Reading Virgil and His Texts. Studies in Intertextuality (Ann Arbor 1999), p. 22 osserva che l'uso del verbo nel nostro passo potrebbe avere influito su Cat. LXIV 6 vada salsa cita decurrere puppi | (a proposito degli Argonauti).

Frammento 212 (109 Pf.) Uno scolio ad Apollonio Rodio tramanda che C., come già Alceo (fr. 440 Voigt), menzionava la fonte Artacia nei pressi di Cizico e specificava che essa era situata nella terra dei Dolioni: come si deduce dal passo di Apollonio riportato nel comm. ai frr. 211-212, con ogni probabilità C. scriveva che gli Argonauti lasciarono la pietra da ancoraggio della loro nave ai piedi della sorgente (riguardo a quest'ultima, cf. anche [Orph.] Arg. 494 riportato nel medesimo comm.). A proposito dei Dolioni, Stefano Bizantino (s.v. AoMovec) conferma che essi abitavano Cizico e precisa che Ecateo (FGrHist 1 F 219) li chiamava Δολιέες. La notizia che la fonte Artacia si trovava nella loro terra contribuisce a una più specifica ubicazione della sorgente stessa: infatti Apollonio Rodio (I 947 s.) spiega che essi occupavano l'istmo di collegamento con la penisola dell'Artonneso e l'attigua pianura, non il montuoso Artonneso (detto anche “Apktov Spoc): cf. anche Schol. Ap. Rh. I 936-949 a 0, 964-965 a. Lo stesso Apollonio (I 1047) chiama ’Aptaxrhc uno degli eroi dolioni uccisi dagli Argonauti. La città di Cizico è menzionata da Call. Ep. XII 1 Pf. = HE 1237 e Ap. Rh. I 1076. Il toponimo Δολιονίη ricorre presso Ap. Rh. II 765. Già l'Odissea omerica (X 108) conosce una

464

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

fonte ᾿Αρτακίη, situata però nella terra dei Lestrigoni (cf. poi [Tib.] IV 1, 60). Alle vicinanze di Cizico si riferiscono invece l'etnico ᾿Αρτακεῦς impiegato da Sofocle (TrGF 917) e la frase ᾿Αρτακίοιοιν ... αἰγιαλοῖοιν l utilizzata da Demostene di Bitinia (CA fr. 6 p. 26).

Frammento 213 (110 Pf.) (La Chioma di Berenice) La collocazione della Chioma di Berenice alla fine del quarto libro degli Aitia è attestata nelle Diegeseis, che ne riassumono il contenuto sùbito prima della subscriptio di tale libro. Invece nel POxy. 2258, cioè in uno dei due papiri che ce l'hanno in parte tramandata (vd. oltre), la Chioma è un componimento autonomo, in quanto viene immediatamente seguita dalla Vittoria di Sosibio (fr. 384 Pf.), che è essa stessa un'elegia a sé stante, e non dall'epilogo degli Aitia (fr. 215), che nel POxy. 1011 precede direttamente 1 giambi (la sequenza Aitia - giambi figura anche nelle Diegeseis). Con ogni probabilità C. pubblicò in un primo momento il poemetto come elegia singola, appena dopo l'annuncio dell'osservazione astronomica in esso descritta, e lo inserì poi come ultimo carme degli Aitia, creando così - in

omaggio alla regina - un perfetto pendant con l'esordio del terzo libro, cioè la Vittoria di Berenice

(frr. 143-156, vd. il comm. ad loc.). Per le vicende editoriali della Chioma, anche

in rapporto al processo compositivo degli Aitia, vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis, i comm. ai vv. 79-88 e 942-945e (nel precedente volume) Introd.11.1., IL3., II 8.

Ampi brani dell'elegia ci sono pervenuti: la Diegesis trasmette integro il primo esametro; fonti di tradizione indiretta citano o richiamano qualche passo; soprattutto, il PSI 1092

e il POxy. 2258 C tramandano l'uno 1 vv. 44-64 (in forma più completa) e l'altro 1 vv. 43-55, 65-78 e 89-94 (in condizioni più lacunose, talora aggravate da difficoltà di lettura); inoltre 1 ricchissimi scoli del POxy. 2258 (talvolta di decifrazione assai ardua) in alcuni casi permettono di integrare con certezza il testo callimacheo o comunque forniscono elementi essenziali per ricostruirne il contenuto. Abbiamo poi la fortuna di potere leggere l'intero poemetto nella traduzione latina che ne offre il carme LXVI

di Catullo, dedicata a Quinto Or-

tensio aluto, ginale posto perte

Ortalo (cf. LXV 15 s. = Call. test. 52 Pf.). La versione catulliana è di inestimabile perché ci fa risalire ai temi e all'andamento complessivo delle parti per le quali l'origreco o non è pervenuto o risulta troppo frammentario, consente di collocare al loro le citazioni di tradizione indiretta che spettano alle zone del componimento non codai papiri e favorisce 1 supplementi - o almeno la comprensione generale - dei versi

greci

trasmessi

in forma

lacunosa.

Un'eccellente

edizione

commentata,

che considera in

parallelo il modello greco e la versione latina ed è arricchita da un'ottima introduzione, da una puntuale traduzione e da un'utile appendice, si deve a Nino Marinone: quest'opera, preziosa soprattutto per lo studio del carme catulliano, è stata - come si vedrà - ampiamente messa a frutto nelle pagine seguenti. La persona loquens del poemetto è un ricciolo di Berenice II, divenuto una costellazione chiamata appunto Βερενίκης πλόκαμος (cf. v. 62) dall'astronomo Conone, che l'ha individuata in cielo. Il ricciolo fornisce l'aition di tale appellativo, esponendo gli eventi che lo hanno condotto al suo attuale stato di gruppo stellare (vd. Marinone p. 51): quando Tolemeo III, marito di Berenice, era partito per muovere guerra alla Siria, la regina aveva fatto voto di dedicare a tutti gli dei una ciocca dei suoi capelli, se il contuge avesse fatto ritorno; allorché Tolemeo è rientrato, la regina ha tenuto fede alla promessa, ma, non appena il ricciolo è stato reciso e offerto, Afrodite se l'è fatto portare in cielo da Zefiro e lo ha mutato in

una costellazione. La scelta di dare la parola direttamente al ricciolo rende la nostra elegia

COMMENTO:

AET.IV FRR. 212-213

465

simile ad altri aitia callimachei: vd. Introd. 1.4.E. Qui C. adotta un modulo compositivo che è tipico degli epigrammi votivi: vd. Cahen p. 239, Harder p. 98 s. Gli eventi storici rievocati nel carme spettano agli anni 246 e 245 a.C. Tolemeo e Berenice si sposarono nel gennaio del 246, ma già nella primavera di quell'anno ebbe luogo la partenza del re, che diede inizio alla cosiddetta Terza guerra siriaca: Tolemeo si recava a soccorrere la sorella (anche lei chiamata Berenice), rimasta da poco vedova del marito Antioco II re di Siria ed esposta ora alla riscossa di Laodice, prima moglie ripudiata di Antioco, che aveva ottenuto la designazione del proprio figlio Seleuco come successore sul trono. Mossosi contro Seleuco, Tolemeo occupò la Siria e invase molte regioni interne dell'Asia, ma - forse per il profilarsi di una coalizione antiegiziana - dovette tornare anzitempo in patria, probabilmente alla fine dell'estate o nell'autunno del 245. Al rientro del re dovettero seguire, in rapida successione, la dedica del ricciolo, la sua scomparsa dal tempio nel quale era stato deposto, l'osservazione astronomica di Conone (che colse l'opportunità per trasformare lo spiacevole evento in un atto di omaggio alla regina) e la stesura dell'elegia celebrativa di C. Vd. Marinone pp. 16 s. e 20 s. e il comm. al v. 63. Il riassunto della Chioma fornito dalla Diegesis è estremamente laconico, perché spiega in pochissime parole che Conone collocò il ricciolo di Berenice fra le costellazioni e che la regina aveva promesso di offrirlo agli dèi qualora il marito fosse tornato dall'impresa bellica contro la Siria. L'insieme della Diegesis è di fatto una parafrasi di due brevi passi del carme: da un lato il v. 7 s. (dov'è notevole la ripresa del vocabolo ßöctpvxoc) e dall'altro i vv. 33-35 (leggibili solo nella traduzione di Catullo). La testimonianza più completa sia sull'osservazione astronomica di Conone sia sul voto e sulla dedica di Berenice è costituita da un brano di Igino (Astron. II 24, dipendente con ogni probabilità dai Catasterismi dello pseudo-Fratostene), che comincia e finisce con una menzione esplicita di C. e si trova dunque in buona parte riportato nell'app. delle fonti al nostro carme: l'inizio e l'immediato séguito compaiono in calce al v. 7 s. e alla fine del suddetto apparato; la parte successiva è trascritta da Pf. dopo il fr. eleg. 388; la conclusione figura nell'app. delle fonti al nostro v. 26. Igino, dopo avere precisato che Conone e C. definiscono Chioma di Berenice una costellazione rappresentata da sette stelle disposte a forma di triangolo presso la coda del Leone (cf. fr. inc. auct. 278), narra le vicende che abbiamo in precedenza tratteggiato, fornendo la preziosa notizia che Berenice consacrò il ricciolo nel tempio di Afrodite Arsinoe al capo Zefirio (vd. il comm. ai vv. 51-68) e specificando che la ciocca era già sparita il giorno successivo (vd. il comm. al v. 51); Igino ribadisce poi che Conone, per placare l'ira di Tolemeo e nel contempo per ingraziarselo, individuò alcune stelle, cui fino a quel momento non era stata ancora assegnata una figura precisa, e asserì di avere riconosciuto

in esse il ricciolo di Berenice

(vd. il comm.

al v. 7

ἔβλεψεν ἐν ἠέρι). Per il resto del brano di Igino, vd. il comm. al v. 26. Le notizie fornite da Igino riguardo alle modalità dell'osservazione astronomica di Conone e al suo intento di compiacere Tolemeo

sono confermate in uno scolio ad Arato, che

cita anche il nostro v. 7 s. (vd. l'app. delle fonti ad loc). Molto più sintetico è Esichio s.v. Βερενίκης πλόκαμος, che nomina Conone ma tace su C.: τοῦτον κατηςτερίοθαι

(κατηγορεῖοθαι: corr. Musurus) onci Κόνων. Un resoconto collimante con quello di Igino (sia complessivo), ma privo di un esplicito richiamo a C. e giata da Tolemeo, al santuario dove avvenne l'offerta e rinviene presso 'Nonn.' Hist. I ad Greg. Naz. Or. V (In

per l'ampiezza sia per il contenuto generico in merito alla guerra ingagalla posizione del gruppo stellare, si Iulian. II) 5, p. 173. 7 Ninno Smith

466

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(per il luogo di Gregorio, vd. il comm. ai vv. 59-61) ἣ δὲ τοῦ Πλοκάμου τῆς Βερενίκης (scil. îctopio) écriv αὕτη. Βερενίκη γυνὴ ... Πτολεμαίου τοῦ Edepyétov ... τοῦ οὖν ἀνδρὸς … ὄντος ἐν πολέμοις ηὔξατο ὅτι, εἰ droctpéyer ἄτρωτος, τὸν πλόκαμον ἀποκαρεῖςα τὸν ἑαυτῆς, ἀναθήςει ἀνάθημα ἐν τῷ ἱερῷ: καὶ ἀνέθηκεν ἡ Βερενίκη. Κόνων οὖν τις ἦν ἀετρονόμος ... καὶ πρὸς κολακείαν αὐτῆς gna ὅτι οἱ θεοὶ τὸν πλόκαμον τοῦτον ἐν ἄςτροις ἀνέθηκαν. καὶ νῦν μέν ἐςτί τις βοτρυοειδὴς θέεις ἀςτέρων ἐν τῷ οὐρανῷ, ὃ καλοῦει Πλόκαμον Βερενίκης (dunque, secondo 'Nonno', la Chioma di Berenice ha la forma di un grappolo d'uva). Da 'Nonno' dipendono altri commentatori del Nazianzeno, cioè Cosma di Gerusalemme (p. 155. 30 Lozza), Basilio il giovane (PG 36 p. 1129) ed Elia Cretese (Greg. ed. Colon. 1690 II 2 p. 432 A, dove Tolemeo viene detto padre - invece che marito - di Berenice). Sembra che 'Nonno' utilizzasse gli scoli ad Arato (vd. A. Rehm,

«Hermes» 34, 1899, p. 264 n. 3): ma forse - come ipotizza Pf. - la fonte co-

mune a tutte le testimonianze suddette è un'esposizione dettagliata della nostra elegia, cui risalirebbe l'estratto offerto dalla Diegesis Mediolanensis. Alcuni passi vertono sulla costellazione, senza risentire del poemetto callimacheo: li si trova elencati da Pf., /Adxauocp. 224 n. 118 = p. 148 n. 118, nonché riportati e discussi da Marinone pp. 252-254, il quale osserva: «La nuova costellazione non divenne mai veramente popolare nell'antichità classica. Poche ne sono le testimonianze ... Sono ... attribuite alla Chioma le figure più diverse: un triangolo di sette stelle, un fuso con la conocchia, una foglia d'edera, una treccia». Vd. anche il comm. al fr. inc. auct. 278. Un ulteriore riferi mento di C. alla costellazione si coglie nel fr. eleg. 387, 2 Pf. ἀςτέιρι τιῷ Βερενίκης | (vd. il comm. ai vv. 79-88). Le principali caratteristiche della traduzione catulliana in rapporto all'originale callimacheo sono efficacemente sintetizzate da Marinone pp. 34-39. La modifica più basilare operata da Catullo riguarda ıl genere grammaticale della persona loquens (vd. Vox pp. 175181, Fantuzzi-Hunter p. 109 s. = 87) e consiste nel passaggio da un Böctpvxoc ovvero πλόκαμος

maschile (cf. vv. 8, 47, 62) a una caesaries

ovvero

coma femminile (cf. vv. 8,

93). In un caso, fra l'altro, questo cambiamento offusca l'intenzione allusiva perseguita da C.: vd. il comm. al v. 51. Fondandomi sulla versione catulliana, ho suddiviso l'elegia in otto sezioni (seguite dai vv. 942-94b, che con ogni probabilità furono eliminati quando la Chioma confluì negli Aitia: vd. sopra). La medesima analisi viene proposta da Marinone p. 30, al quale rimando per un'accurata dossografia delle suddivisioni indicate da altri studiosi (p. 30 n. 1). Fino alla conclusione della sesta franche, individuo inoltre - come suggerisce Gutzwiller pp. 377-384 (la quale però applica lo schema alla totalità del carme) - un'alternanza tematica fra le sezioni dispari, dedicate al racconto degli eventi che hanno condotto al catasterismo, e quelle pari, incentrate sulle reazioni emotive di Berenice e del ricciolo.

Nelle parafrasi delle singole sezioni ho riassunto fra parentesi quadre 1 tratti di testo leggibili solo nella traduzione di Catullo (in quanto l'originale callimacheo manca o è troppo frammentario). Ho invece incluso fra parentesi uncinate il compendio del v. 68, per segnalare che in questo caso - a mio parere - 1 dati enucleabili dagli scoli nel POxy. 2258 comportano una ricostruzione contenutistica del pentametro di C. diversa da quella cui darebbe adito la versione catulliana. Con ogni probabilità il fr. inc. auct. 278 corrisponde al v. 65 della Chioma di Berenice; è Inoltre possibile che il fr. inc. sed. 269 si riferisca al v. 66 della nostra elegia: vd. più avanti il comm. al v. 65 5. Non è escluso che il fr. inc. sed. 267 ricalchi uno scolio al vv. 54-

COMMENTO:

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57 della Chioma: vd. il comm. al v. 54. È invece sicuro che il fr. inc. sed. 505 Pf. non coincide con il v. 12 di questo aition. Vd. nel testo l'annotazione dopo la Diegesis.

1) 1-14: La nuova costellazione e la dedica di Berenice Il ricciolo spiega che Conone, indagatore dello spazio celeste sui disegni astronomici ed esperto riguardo al moto [delle stelle, alle eclissi di sole, al periodico occultarsi delle costellazioni e alle fasi lunari], lo ha individuato nel firmamento come il ciuffo di capelli che Be-

renice aveva offerto a tutti gli dèi, [adempiendo a un voto da lei formulato allorché il marito era partito per fare guerra alla Siria] poco dopo la prima notte di nozze.

1 Πάντα τὸν ἐν γραμμαῖειν ἰδὼν ὅρον: Il soggetto del participio ἰδών è Conone, che sarà menzionato solo nel v. 7. Nell'esordio dell'elegia C. lo presenta intento allo studio dello spazio celeste delineato sui disegni astronomici. A quanto pare il nesso ἐν γραμμαῖειν va inteso come avverbiale di ἰδών, non come attributivo di ὅρον: con ogni probabilità C.

mette in voluto contrasto le espressioni ἐν ypauuaîciv ἰδών ed ἔβλεψεν ἐν ἠέρι (v. 7), intendendo che Conone ha potuto guardare nei disegni gli altri astri già noti, ma ha visto nell'aria la nuova costellazione della Chioma di Berenice, da lui stesso individuata. Nella sua

traduzione Catullo - pur non facendo parola dei disegni - è rimasto fedele nella sostanza ai contenuti dell'originale, perché il suo primo esametro significa di fatto che Conone riuscì a distinguere le figure di tutti gli astri (cioè /umina, che non va corretto in limina come voleva Rehm p. 386: vd. il comm. di Marinone al v. 1 (p. 78)). Vd. anche il comm. al v. 93. L'esordio callimacheo ha influito su Verg. Ec/. II 40 5. Conon et ... quis fuit alter, | descripsit radio totum qui gentibus orbem? e Aen. VI 849 caelique meatus | describent radio et surgentia sidera dicent, come ha visto Cassio, Incipit.

γραμμαῖειν: Qui sono tecnicamente definite γραμμαί - nell'àmbito delle raffigurazioni astronomiche - non solo le righe che suddividono 1] cielo, ma anche 1 disegni geometrici relativi alla posizione e al movimento (cf. à te φέρονται) degli astri. È probabile che tali disegni fossero tracciati non su un planisfero (come supponeva Pf.), ma su un globo astronomico (come propone Cassio, Incipit p. 330 n. 1): vd. in generale W. Gundel, RML VI (1924-1937), pp. 1033 e 1050 s. Per quest'uso del termine, cf. Leonid. Alex. Anth. Pal.

IX 344, 1 = FGE 1940 ἦν ὁπότε ypoupotciv® ἐμὴν φρένα μοῦνον Éteprov con lo scolio B τῆς ἀετρολογίας καὶ ἀετρονομίας (richiamati da N.-V.), Dion. Per. 236 πρῶτοι (scil. gli Egiziani) δὲ ypaupfici (ν ]. -aîa)* πόλον dreuetpiicavto con lo scolio al v. 233 τὴν τῶν &ctpov διαγραφὴν εὗρον, Schol. Arat. 190 (riguardo alla figura di Cassiopea) ἣ μὲν πρώτη γραμμή ἐετι τὸ còua, ἡ δὲ πλαγία τὰ γόνατα, 185 al., Commentar.in Arat. p. 52. 33 Maass οἱ ἑπτὰ πλάνητες ἐπὶ τριῶν γραμμῶν, (Eudoxus ap.) Theon. Smyrn. p. 200. 24 Hiller ἑλικοειδεῖς γραμμὰς (scil. dei pianeti) ... ἱππικῇ παραπληείας. In poesia il vocabolo γραμμή è attestato a partire da Pindaro (Pyth. IX 118), che lo impiega nel senso di meta. ὅρον: C. definisce così lo spazio celeste, cioè il limite estremo dell'universo. Pf. riteneva che ὅρον, come già ypoupoîcw, rappresentasse qui un termine tecnico astronomico,

adducendo in proposito Aristot. De gen. et corr. II 3 Ὁ. 330 B 32 πῦρ μὲν γὰρ καὶ ἀὴρ τοῦ πρὸς τὸν ὅρον φερομένου (scil. τόπου), γῆ δὲ καὶ ὕδωρ τοῦ πρὸς τὸ uécov e II 8 p. 335 A 20 τὸ πῦρ διὰ τὸ πεφυκέναι φέρεςθαι πρὸς τὸν ὅρον, già richiamati da Rehm p. 385. Sembra invece avere ragione Cassio, /ncipit p. 329 n. 1, quando riconosce nel nostro ὅρον non un tecnicismo, ma una metafora per indicare il cielo: cf. [Aristot.] De mund. 6 p. 400 A

7 οὐρανὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ὅρον εἶναι τὸν ἄνω e Commentar. in Arat. p. 36. 13 Maass

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CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

οὐρανὸς ... Écyatoc ὅρος (già citati l'uno da Rehm p. 386 e l'altro da Pf.), nonché Aristot. De cael.I 9 Ὁ. 278 B 14 εἰώθαμεν γὰρ τὸ Écyorov καὶ τὸ ἄνω μάλιεοτα καλεῖν οὐρανόν. La parola ὅρος figura una volta sola nei poemi omerici (Il. XII 421), dove ha la forma

ionica οὖρος. À te φέρονται: La traduzione catulliana indica che il verbo si riferisce al moto degli astri in cielo, come del resto accade spessissimo nei Fenomeni di Arato (cf. 176*

al; vd. il

comm. di Martin ad Arat. 29): Barber congettura perciò che la parola &ctépec figurasse nel tratto di testo successivo (vd. l'app. al v. 2). A quanto pare l'avverbio î dipende da ἰδών e la congiunzione te precedeva uno o più te ovvero kat, introducendo la serie di osservazioni (cf. 1 vv. 2-6 di Catullo) compiute da Conone nei disegni astronomici. Ma è anche ipotizzabile che il te coordinasse ἰδών con un altro participio, dal quale dipendeva forse fi ... φέρονται: Cassio nota che poteva trattarsi di ἐπιοτάμενος o di un verbo analogo, collocato alla fine del v. 2 (vd. l'app. ad loc). Poiché, come

osserva Marinone nel comm.

al v. 4 (p. 82), «4 frequenti richiami a Co-

none in relazione alle previsioni astrometeorologiche presso Tolemeo ... attestano una speciale attenzione dell'astronomo a questi fenomeni», forse C., nei versi introduttivi dell'ele-

gia, intende fra l'altro specificare che Conone sistemò le fasi annuali delle costellazioni in un παράπηγμα, cioè un calendario astronomico e meteorologico (vd. anche Marinone, Conone p. 439 = 104 s.). Vd. l'indice di Heiberg alla sua edizione di Tolemeo, nonché A. Rehm s.v. Parapegma, RE XVIII 4 (1949), pp. 1295-1366. Si noti per di più che 1 vv. 67-70 della nostra elegia tratteggiano le fasi annuali della Chioma di Berenice: vd. 1 comm. ad locc.

7 ς. ἦ ue Κόνων ἔβλεψεν ἐν ἠέρι τὸν Βερενίκης | Boctpvyov: A giudicare da Catullo, la proposizione regge da sola tutto l'articolato periodo iniziale dell'elegia, costituito da ben quattordici versi. Essa ha 11 duplice scopo di fornire il nome dell'astronomo, le cui molteplici ricerche sono passate in rassegna nei versi precedenti, e di rivelare (con grande meraviglia del lettore) che la persona loquens del carme è un ricciolo di capelli trasformato in costellazione, le cui ultime vicende terrene vengono rievocate nel tratto di testo succes-

SIVO. 7 à ue: La congettura di Valckenaer, difficilmente eludibile (vd. app.), è quanto mai opportuna anche sul piano del contenuto: la particella À, infatti, da un lato richiama l'attenzione - dopo la rassegna scientifica dei versi precedenti - sull'evento che ha dato origine all'elegia e dall'altro mette in rilievo il ruolo del celebre Conone in questa specifica osservazione astronomica. Più invasiva e meno felice è la proposta κἠμὲ (anche me), avanzata dubbiosamente da Maas. Kövov: Nato a Samo, Conone fu attivo in Sicilia e nell'Italia Meridionale e si stabili ad Alessandria alla corte di Tolemeo III, dove condusse studi di matematica e astronomia ma

non fu designato astronomo ufficiale. Benché le sue opere non ci siano pervenute, sappiamo che scrisse un trattato astronomico in sette libri (cf. [Prob.] in Verg. Ec/.II 40). I suol studi sulle eclissi di sole, cui fa riferimento 1] v. 3 della traduzione di Catullo, sono attestati da un

passo delle Naturales quaestiones di Seneca (VII 3, 3): non è chiaro se l'argomento figurasse in un saggio autonomo o in una sezione dell'opera maggiore. Sugli interessi astrometeorologici di Conone, vd. il comm. al v. 1 à te φέρονται. Un preciso quadro di insieme della sua figura di scienziato viene offerto da Marinone nel comm. al v. 7 (p. 85 s.). Si noti che Conone è anche menzionato da Properzio (IV 1, 78).

ἔβλεψεν

ἐν

ἠέρι: La frase è posta da C. in voluto contrasto con il nesso ἐν

COMMENTO:

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γραμμαῖειν ἰδὼν dell'esametro iniziale (vd. il comm. al v. 1 Πάντα τὸν ἐν ypaunoicıv ἰδὼν ὅρον). È comunque importante puntualizzare che, come scrive Marinone p. 252, «non è ... pensabile che Conone abbia proclamato di aver visto per la prima volta quelle determinate stelle: egli semplicemente diede un nome ad un gruppo di astri ἀμόρφωτοι situati nell'area del Leone tra la Vergine, Boote e l'Orsa maggiore» (cf. vv. 65-68, nonché lo scolio ad Arato e il passo di Igino riportati nell'app. delle fonti al v. 7 s. e alla fine di tale apparato). ἔβλεψεν: Il verbo non compare nei poemi omerici (cf. invece [Hom.] Batr. 67). C. lo

utilizza con riferimento agli astri anche in /amb. fr. 197, 39 Pf. | ποτ᾽ ἀςτέρας βλίεπ (questo passo è ancora più simile al v. 89 della traduzione catulliana fuens cum sidera). ἐν ἠέρι: L'impiego del nesso a proposito di una costellazione è un esempio di come, nella poesia ellenistica, il vocabolo ἠήρ perda spesso il significato originario di foschia, nebbia (riscontrabile nel nostro v. 55) e assuma quello di etere, cielo (propriamente αἰθήρ):

vd. il comm. al fr. 1, 34 ἐκ δίης ἠέρος. Che 1'ἠήρ sia sede degli astri, viene detto da C. anche in Del. 176 teipecw, ἡνίκα πλεῖετα κατ᾽ ἠέρα βουκολέονται (vd. il comm. di Gigante Lanzara). Per la frase ἐν ἠέρι, cf. Call. Ap. 5, [Theocr.] XXV 92, Archias Anth. Pal. VI 16, 5 = GP 3600, Orac. Sib. II 208, Nonn. Dion. I 291 al. (sempre *).

τὸν Βερενίκης: Il medesimo explicit si legge presso Posidipp. Epp. 78, 13 e 82, 1 Austin-Bastianini. Menzioni della regina si rinvengono in altri passi callimachei: cf. frr. eleg. 387, 2 Pf., 388, 11 Pf. e probabilmente Ep. LI 3 Pf. = HE 1123 (sempre *). 8 Pöctpvxov: Il vocabolo è attestato a partire da Archiloco (fr. 114, 2 W.). Per le caratteristiche connesse al genere maschile della persona loquens, cui Catullo sostituisce il genere femminile, vd. il comm. introduttivo. È probabile che C. si riferisca specificamente alla crocchia di Berenice: vd. il comm. di Marinone al v. 8 (p. 89). ὃν κείνη πᾶειν ἔθηκε θεοῖς: Queste parole descrivono l'effettiva dedica del ricciolo da parte di Berenice: nel distico successivo C. rievocava il voto precedentemente formulato dalla regina, allorché Tolemeo III era partito per la guerra, quello appunto di consacrare una ciocca dei suoi capelli se il marito avesse fatto ritorno (può darsi allora che nel v. 9 figurasse il participio εὐχομένη, come suggerisce Zwierlein, o meglio εὐξαμένη, come

risulta dal confronto con Call. Ep. LV 2 5. Pf. = HE 1126 5. ἔθηκε θεῷ, | εὐξαμένα: vd. l'app. al v. 9). Nel passo corrispondente Catullo tace sulla dedica e parla solo del voto: vd. Pf., /Aoxauocp. 182 = 103 s., Barber p. 355 s., Meillier p. 145 e le osservazioni critiche di Marinone nel comm. ai vv. 9/10 (p. 93 s.). Marinone rileva inoltre che «l'offerta di capelli alla divinità, sia come promessa votiva sia come adempimento per la grazia ricevuta, è presente nella tradizione letteraria fin dal poemi omerici» e cita vari esempi in proposito (p. 19 s.). Vd. anche Nachtergael p. 240. πᾶειν ... θεοῖς: Fondandosi su questo passo, Pf. supponeva che Berenice dedicò il ricciolo in un pantheon di Alessandria. Lo studioso, d'altra parte, ammetteva che l'esistenza di un simile santuario nella città è attestata da un'unica fonte (il Chronicon Paschale, PG 92

p. 653) e per una data molto tarda (205 d.C.). L'ipotesi di Pf. è senz'altro da scartare e bisogna invece ritenere che la consacrazione del ricciolo da parte della regina avvenne nel tempio di Afrodite Arsinoe al capo Zefirio (cf. vv. 54 e 57 s.): vd. il comm. ai vv. 51-68, nonché Fraser I p. 239. L'uso di indirizzare un'offerta a tutti gli dèi nel santuario di una divinità specifica è documentato: vd. Fraser II p. 1023 n. 105.

ἔθηκε θεοῖς: Il verbo semplice τίθημι (invece di ἀνατίθημι) esprime anche altrove in poesia le dediche agli dèi: cf. soprattutto Eur. Phoen. 575 5. θεοῖς | ... ἔθηκε, Call. Ep.

XLVII 3 Pf. = HE 1177 I θῆκε θεοῖς, Ep. LV 2 Pf. = HE 1126 ἔθηκε θεῷ" (vd. sopra il

470

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

comm.), ma già Hom. Od. XIV 435 5. vougna καὶ Ἑρμῇ ... | θῆκεν e ancora Call. Epp. XXXIV 2, XXXVII 3, XXXVIII 3, XLVII 4 Pf. = HE 1152, 1131, 1145, 1178 (diatesi media nell'ultimo passo). Nella nostra elegia l'aoristo (ἔ)θηκεί() segna le tre fasi successive della vicenda del ricciolo: esso si riferisce qui a Berenice che lo dedica nel tempio dello Zefirio, nel v. 56 a Zefiro che lo depone sul grembo di Afrodite e nel v. 64 ad Afrodite che lo colloca fra le altre costellazioni.

13/14 cdußoAov

ἐννυχίης

... ἀεθλοεύνης

(9: Spetta a Weyman il merito di

avere messo in luce la somiglianza tra questa frase, applicata da Agazia a un bacio furtivo inteso come pegno per una notte d'amore in un pentametro di un suo lungo epigramma (Anth. Pal. V 294,

18 = 90, 18 Viansino), e l'espressione nocturnae

... vestigia rixae, che

nel v. 13 della Chioma di Berenice catulliana si riferisce ai segni della lotta sostenuta da Tolemeo per espugnare la verginità di Berenice, ancora freschi quando il novello sposo partì per la guerra siriaca (cf. Cat. v. 12). A sua volta Pf., fondandosi sull'osservazione che Agazia imita di frequente C. e in un caso ne riproduce un pentametro quasi per intero (vd. il

comm. al fr. 1, 6 τῶν δ᾽ ἐτέων ἡ δεκὰις! οὐκ ὀλίγη), ha molto verisimilmente supposto che le parole in oggetto derivino senza modifiche dal passo corrispondente della Chioma callimachea. Incerta resta la loro precisa disposizione all'interno del nostro distico, ma è plausibile che esse comparissero nel v. 14 e occupassero le medesime sedi del pentametro di

Agazia: | couBorov &vvoxinc … ἀεθλοούνης I. A ulteriore sostegno della sua ipotesi, Pf. osserva che il genitivo ἀεθλοούνης costituisce un lemma nel lessico di Esichio: è possibile che costui, come in molti altri casi, lo abbia desunto da C., mentre è inimmaginabile che lo

abbia ricavato da Agazia o dagli epigrammi di Paolo Silenziario e di poeti anonimi indicati più avanti. Vd. in generale l'app. delle fonti e l'app. Una formulazione simile si rinviene presso Hedyl. Anth. Pal. V 199, 6 = HE 1836

ὕπνου καὶ οκυλμῶν τῶν τότε μαρτύρια, dove però si parla degli indumenti di una fanciulla strappati via dall'amante (vd. Gutzwiller, Callimachus p. 530). Per la metafora évvvyine ...

ἀεθλοεύνης, cf. Musae. 230 | παννυχίων ... ὀάρων ... ἀέθλους |, Paul. Sil. Anth. Pal. V 259, 5 = 77,5 Viansino ravvvyincw ... παλαίετραις |. Sia le battaglie notturne dell'amore sia i segni impressi dalle vergini restie sul corpo di chi le deflora figurano nella poesia latina: vd. il comm. di Marinone al v. 13 (p. 97). Nel contesto dell'elegia callimachea l'impiego metaforico della parola ἀεθλοεύνης istituisce un arguto parallelismo tra la guerra siriaca intrapresa da Tolemeo e la sua prima notte di nozze: il sovrano deve affrontare un conflitto internazionale quando reca ancora su di sé le tracce dello scontro domestico.

couBoAov ... ἀεθλοεύνης: Sul piano formale, cf. Vier. Sosib. fr. 384, 36 Pf. εὔμβολον ... πάλης |. Per εὔμβολον, vd. il comm. al fr. 156, 7 vitene cd uBodov. ἀεθλοεύνης: Il vocabolo si trova in un'iscrizone epigrammatica della seconda metà del II secolo a.C. (Ebert nr. 74, 4 = SGO IV 23/02 v. 4) e poi nella poesia tarda: oltre al passo di Agazia riportato sopra, cf. fr. epic. adesp. GDRK XXXIV 122, Nonn. Dion.

XLVII 174, Paul. Sil. Anth. Pal. VI 54, 2 = 4, 2 Viansino ἀθλοούνας μνᾶμα, epp. adespp. App. Plan. 67, 2; 377, 4. Se nel nostro distico la parola occupava la fine del v. 14 (vd. sopra), 1 luoghi dell'iscrizione, di Agazia e dei due epigrammisti anonimi risultano *.

2) 15-32: Il dolore di Berenice alla partenza del marito ΠῚ ricciolo dichiara di avere compreso che le lacrime, con le quali le novelle spose

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ostentano ai genitori la propria avversione alle nozze, non sono sincere: glielo hanno dimostrato sia le lagnanze di Berenice, quando il marito si apprestò alla guerra poco dopo il matrimonio, sia il suo incontenibile strazio, quando il coniuge e fratello fu andato via. Benché

il ricciolo sapesse bene che la regina era da sempre] coraggiosa [e che proprio grazie al suo ardimento aveva compiuto un atto valorosissimo ai tempi dello sposalizio, le sue parole afflitte e il suo pianto dirotto nel separarsi da Tolemeo gliel'hanno fatta apparire sotto una luce del tutto diversa: una simile trasformazione fu ingenerata da un dio o più probabilmente dall'amore. | Che questa sezione e la successiva non figurassero nell'originale callimacheo ma rappresentino invece un'aggiunta autonoma di Catullo, è un'inverificabile ipotesi di Spira pp. 154-160: rimando in proposito alla dettagliata confutazione di Marinone pp. 40 s. e 48. Vd. anche il comm. ai vv. 33-38. 26 μεγάθυμον (7): L'aggettivo, inteso come accusativo femminile riferito a Berenice, è stato dubbiosamente integrato da Pf. in base al latino magnanimam.

Quest'ultimo, infatti,

compare sia nel corrispondente verso di Catullo sia in un passo di Igino, dove (dopo una serie di notizie sulla costellazione

della Chioma

e su Berenice,

vd. il comm.

introduttivo)

leggiamo che C. definiva così la regina (vd. app. delle fonti). Si è ampiamente discusso su tale attributo e sul misterioso bonum ... facinus, la valorosa azione di Berenice risalente al periodo delle sue nozze con Tolemeo, che Catullo rievoca enfaticamente nel distico succes-

sivo. Wilamowitz, Hell. Dicht. Ip. 215 e Pf., /ÄAöxauocp. 183=104 danno pieno credito alla testimonianza di Igino, ıl quale afferma espressamente che C. chiamava coraggiosa la regina in quanto costei aveva da fancıulla aiutato in battaglia il padre fuggitivo, montando lei stessa a cavallo e guidando 1 soldati superstiti alla vittoria: poiché il malridotto fr. eleg. 388 Pf. contiene 1 nomi di Berenice e di suo padre Maga re della Cirenaica, Pf. - nel comm. ad loc. (dov'è anche riportato 11 brano di Igino) - congettura che C. celebrasse per esteso l'atto eroico della principessa nell'elegia in questione ma vi alludesse anche - secondo la sua consuetudine - nei vv. 26-28 della Chioma. Invece già Ennio Quirino Visconti (vd. Benedetto, Bonum facinus p. 62 s.) e in séguito M. Haupt, Opuscula I (Leipzig 1875) pp. 60-62 e poi la maggior parte dei commentatori catulliani spiegano magnanimam e bonum ... facinus alla luce di un passo di Giustino (XXVI 3, 2-8), che riassumo con le parole di Marinone (pp. 17-19): «Magas poco tempo prima di morire promise la figlia in sposa a Tolemeo figlio del Filadelfo ... si trattò di un accordo diplomatico con cui Tolemeo si assicurava senza combattere l'annessione della Cirenaica e Magas ... poneva fine alla rivalità con l'Egitto. Ma la progettata unione dinastica non riuscì gradita a sua moglie Apame, che ... ambiva a continuare una dinastia locale indipendente dall'Egitto. Infatti poco dopo la morte di Magas la sua vedova ruppe il patto nuziale offrendo la mano di Berenice a Demetrio il Bello fratello di Antigono re di Macedomia. Ma il giovane principe ... si conquistò le simpatie della futura suocera, di cui divenne l'amante: donde la reazione di Berenice, che alla testa di un gruppo di insorti fece uccidere Demetrio nel letto della madre, a cui lasciò salva la vita ... Fu così possibile l'unione dei due regni, e alla morte di Tolemeo II Berenice, BaciAicco di Cirene, salì sul trono d'Egitto».

Dunque il bonum facinus della magnanima Berenice consisterebbe nell'uccisione di Demetrio il Bello (cui si riferirebbe, secondo D'Alessio (p. 693), anche il lacunoso fr. eleg. 388 Pf.). Per decidere in favore dell'una o dell'altra esegesi non ci sono purtroppo di aiuto le mi-

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CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

sere tracce di scoli tramandate da un frammento del POxy. 2258, la cul stessa pertinenza alla nostra elegia, e in particolare ai vv. 26 ss., è molto dubbia: infatti gli scoli in questione, dove si riconoscono 1 nomi di Berenice e Tolemeo, potrebbero anche spettare alla Vittoria di Berenice (frr. 143-156) o all'enigmatico carme nel quale figuravano Maga e Berenice (fr. eleg.388 Pf.: ma al momento non risulta che esso fosse incluso nel POxy. 2258). Del resto 1 frustuli in oggetto, anche ammesso che si riferiscano al nostri versi, sono così malridotti da

lasciarsi integrare in accordo sia con Igino sia con Giustino (vd. l'annotazione ad loc.). Ritengo comunque che la seconda interpretazione sia innegabilmente più consona al contesto del nostro passo: 1 vv. 11-36 sono infatti incentrati sull'amore coniugale di Berenice per Tolemeo, che è la felice conseguenza di un matrimonio reso possibile proprio dalla morte di Demetrio (cf. Cat. 27 s. cum regium adepta es | coniugium). Ed è inoltre impensabile che C. passasse sotto silenzio l'evento che aveva consentito l'annessione della Cirenaica all'Egitto e l'ascesa al trono egiziano della sua illustre compatriota. Più ingegnosa che convincente mi sembra invece la soluzione conciliatrice proposta da Marinone nel comm. al v. 27 (p. 112 s.), il quale segue Igino riferendo magnanimam all'exploit guerresco di Berenice, ma poi riconduce il suo bonum ... facinus all'uccisione di Demetrio il Bello.

3) 33-38: Il voto e l'offerta di Berenice ΠῚ ricciolo racconta che Berenice promise di offrirlo a tutti gli dèi con grandiose immolazioni di tori, qualora il marito avesse fatto ritorno: poiché Tolemeo conquistò di lì a poco la Siria annettendola all'Egitto, esso venne di fatto consacrato dalla regina e si vide assegnare un posto nel firmamento.] Per l'originalità callimachea della sezione, vd. il comm.

ai vv. 15-32. Fra l'altro il nesso

non sine taurino sanguine, utilizzato nella traduzione catulliana (v. 34) per designare 1 sacrifici di tori che Berenice intende compiere insieme alla dedica del ricciolo, è simile alla

frase οὐκ dA[i]yoc α[ἴ]μα βοὸς κέχνυ[τ]αι, impiegata da C. nel fr. 50, 83 (vd. il comm. ad loc.).

4) 39-50: Il disappunto del ricciolo reciso e l'invincibilità del ferro ΠῚ ricciolo afferma] con un solenne giuramento [di essersi separato a malincuore dal capo di Berenice, ma osserva che il ferro - colpevole della sua recisione - è invincibile: infatti un tempo venne abbattuto perfino] l'altissimo monte Ato, in mezzo al quale passarono le navi dei Persiani. Prendendo atto della propria impotenza nei confronti di un metallo cui si arrendono montagne così grandi, il ricciolo maledice 1 Calibi, primi estrattori e forgiatori del ferro.

40 cnv Te κάρην ὦμοεα cov te βίον: Il ricciolo assicura Berenice di essersi allontanato malvolentieri dalla sua testa, giurandolo per il capo e per la vita della sovrana stessa. La solenne affermazione sı configura innanzitutto come una spiritosa parafrasi dei giuramenti ufficiali in nome di Tolemeo e Berenice, cui si confà anche la formula esecratoria del

successivo verso catulliano: e se qualcuno ha vanamente giurato per esso (cioè per il capo

della regina), subisca la pena adeguata! Frasi rituali come ὀμνύω BociAuccav Βερενίκην compaiono del resto nei papiri: vd. Pf., /Zi0razocp. 184 n. 14 = p. 105 n. 14, Koenen p. 98 n. 172. L'espressione callimachea cv ... κάρην ὥμοεα è inoltre nel solco della tradizione letteraria, dove abbondano i giuramenti per la testa propria, dei propri cari o degli dèi: cf. p.es.

Hom.

Il. XV

39, [Hom.]

Hymn. V 27, Eur. Hel. 835

ἀλλ᾽ ἁγνὸν ὅρκον εὸν κάρα

COMMENTO:

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473

kot@uoca, probabilmente lo stesso Call. fr. 97, 1 Bpexudv γὰρ ἐπώμοεας ὅττι ueyılct (con il comm.), Ap. Rh. III 151, Verg. Aen. IX 300. Ma nel nostro brano il luogo comune letterario diventa un paradosso: un ricciolo giura per il capo dal quale esso stesso proviene e il giuramento ha per oggetto il suo forzato distacco da quel medesimo capo! Per un paradosso affine, vd. il comm. al v. 51.

Nell'impiego della frase ὥμοςα cöv ... βίον, C. sembra memore di Eur. Or. 1517 | τὴν ἐμὴν ψυχὴν κατώμος᾽. Il verbo ὄμνυμι si accompagna spesso all'accusativo di quello per il quale si giura (come accade per i verbi κατόμνυμι e probabilmente ἐπόμνυμι nei passi di Buripide e C. riportati sopra):

cf. p.es. Hom.

N. XIV

Aesch. Sept. 529, Soph. Trach. κάρην: Il vocabolo κάρῃ che in Hec. fr. 292, 1 Pf. = 65, cf. [Theogn.] 1024 (dove perd

271, XV

40, XXIII

584 s., [Hom.] Hymn.

IV 274,

1185. viene flesso come un sostantivo della prima declinazione an1 H. Il fenomeno si riscontra a partire dal poeti post-omerici: kdpn è forse una forma di neutro come p.es. Mpeg: vd. Pf.,

/Höxauocp. 183 n. 13 = p. 105 n. 13), Nic. Ther. 131 al., [Mosch.] IV 74, Dion. Per. 562 al., Quint. Smyrn. XI 58 al. Carm. Anacreont. LIT A, 1 West (ma vd. l'app. ad loc.). Νά.

Schmitt p. 18. Rengakos, Homertext p. 145 s. richiama l'attenzione sulla varia lectio |

φθεγγομένη ... κάρη (invece di φθεγγομένου ... κάρη) presso Hom. Il. X 457 = Od. XXII 329. Per l'insolita collocazione di una parola con struttura giambica davanti alla dieresi del pentametro, vd. Introd.II.1.B.a.ill.

44 ἀμνάϊμω[ν

Θείας

ἀργὸς

ὑ]περφέ[ρ]ετ[Ἕαι: Il pentametro descrive il vento

Borea (il limpido rampollo di Tia) che sorvola il monte Ato (cf. v. 43). Il contesto sintattico e semantico della frase si ricava dalla traduzione catulliana: il ricciolo, per dimostrare a Be-

renice l'invincibilità del ferro che lo ha reciso dalla sua testa (v. 42), le ricorda che grazie al ferro è stato perfino abbattuto quel monte (cioè l'Ato, cf. v. 46), che nel mondo è il più alto sul quale - appunto - vola Borea. Il senso generale del passo rende necessaria, nel v. 43 di Catullo, la congettura maximum al posto del tràdito maxima (vd. Nardo, Recensione p. 93): benché - come osserva Marinone nel comm. al v. 43 (p. 132) - i Greci conoscessero montagne più elevate dell'Ato, C. mette volutamente sulla bocca del ricciolo un'affermazione iperbolica, funzionale al suo intento di documentare la forza irresistibile del ferro (cf. v. 47

5. τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ᾽ οὔρεα tota εἰδή[ρῳ | eikovcıv;). Tale affermazione, del resto, è congruente con una serie di luoghi letterari che pongono in luce la straordinaria altezza dell'Ato: cf. soprattutto lo stesso Call. Zx4 Ape. fr. 228, 47

e 52-54 Pf. τὰν ὑπά[τ]αν ἐπ᾿ Ἄθω κολώ[ναν (intesa come un'ottima vedetta) | e ckonı&v … | χιονώδεα (dell'Ato), τὰν ἀπέχειν ἐλάχιοτίον ἄρκτου | ἥκει λόγος (con il comm. di Lelli), ma già Soph. TrGF 776 ”ABwec εκιάζει νῶτα Anuviac βοός e inoltre Ap. Rh. I 601604, Nic. fr. 26, 1 Schneider, Antip. Sid. Anth. Pal. VII 748, 5 = HE 414, Ov. Med. fac. 29 s., Stat. Theb. V 51 s., Claudian.

Panegyr. de IV cons. Honor. 475, Bell. Goth. 177, Nonn.

Dion. II 216 5. L'abbattimento del monte rievocato nel v. 43 corrisponde di fatto (anche qui con un'intenzionale iperbole che doveva già comparire nell'elegia callimachea) a un'opera compiuta dal Persiani per ordine di Serse, cioè lo scavo di un canale nell'istmo di collegamento fra la penisola Calcidica e il promontorio sulla cui estremità si erge l'Ato: quest'episodio storico verrà reso esplicito solo nel v. 45 5. (vd. il comm. al v. 46 Mnôeiuv). In maniera molto raffinata, dunque, C. si sofferma inizialmente sull'eccezionale altezza dell'Ato senza menzio-

narlo (v. 43 s.), inserisce pol una ricercata apposizione riferita al monte ancora anonimo

474

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(parte iniziale del v. 45) e utilizza infine una proposizione coordinata che ha per tema l'opera ingegneristica dei Persiani e contiene proprio in extremis il nome dell'Ato (chiusa del v. 45 e v. 46). I miseri resti del nostro pentametro si integrano con un certo grado di sicurezza. Il sup-

plemento v repp£lpler[aı di Castiglioni è garantito dal calco catulliano supervehitur. La brillante integrazione ἀμνά]μω[ν Θείης ἀργὸς, che spetta a Pf., corrisponde molto bene al progenies Thiae clara di Catullo. Per le prime due parole Pf. ha avuto come guida essenziale il lemma Θείας ἀμνάμων di Suida, che coincide con il fr. 338 Pf. = 87 H. dell'Ecale callimachea e viene spiegato da Suida come una designazione di Borea: a quanto pare, C. ripete qui 1 medesimi termini già utilizzati nell'Ecale, ma ne inverte l'ordine (come si può anche dedurre dal catulliano progenies Thiae). In séguito sia Coppola sia Hollis hanno opportunamente corretto in Θείας il @einc proposto da Pf., appellandosi alla forma del lemma di Suida (Hollis rimanda anche alle osservazioni di West nel comm. a Hes. Theog. 135). Vd. in generale l'app.

Che l'espressione &uvd]uo[v Θείας = progenies Thiae si riferisca a Borea, è una convincente ipotesi di Pf. In precedenza gli interpreti, sulla scia di Bentley, avevano pensato che venisse così definito il Sole, figlio di Tia e Iperione (interpretazione ripresa anche in tempi più recenti: vd. p.es. Huxley, Z007000c p. 190, Koenen p. 99). Invece Pf. ritiene a buon diritto che il nesso non abbia qui un significato diverso da quello accertato (grazie a Suida) per il frammento dell'Ecale già preso in esame: il rampollo di Tia non è suo figlio il Sole, bensì suo nipote Borea, cioè 1] figlio di sua figlia Aurora e di Astreo (cf. Hes. Theog. 371 s. e 378 s.). La perifrasi secondo la quale qualcuno viene designato come nipote di un

personaggio femminile trova sostegno nel fr. 165, 1 Ἰαείδος νέπ[ο]δες e inoltre la parola progenies può eventualmente designare in senso lato un nipote (o una nipote, cf. p.es. Cic. Pro Cael. 34), per di più, una circonlocuzione incentrata sui legami di parentela riguarda, nel nostro v. 52, un altro vento figlio di Aurora e Astreo, cioè Zefiro, definito fratello di

Memnone (vd. il comm. ad loc.). Anche la menzione dell'Ato induce a preferire l'esegesi di PF: infatti, soprattutto dal punto di vista degli abitanti di Alessandria (cf. 1 passi dell'Apoteosi di Arsinoe riportati sopra), un monte settentrionale come questo viene sorvolato non dal carro del Sole ma appunto da Borea. La presenza di Borea nel nostro verso è inoltre pienamente compatibile con l'aggettivo catulliano clara, se si tiene conto di Verg. Georg. I 460 claro ... Aquilone (vd. il comm. di Mynors). Del tutto corrispondente al clara di Catullo è l'aggettivo ἀργός (= &pyecrne), integrato da Pf. nel testo callimacheo: Borea è limpido perché spazza via le nuvole e illimpidisce il cielo. Si noti che per il nesso omerico αἰθρηγενέος Βορέαο | di ἢ. XV 171 e XIX 358 esisteva l'interpretazione τοῦ γεννῶντος αἰθρίαν, attestata nello Schol. (T) al secondo brano.

Lo stesso verbo ὑ]περφέ[ρ]ετ[αι = supervehitur si addice al volo di Borea (per i vènti alati, vd. il comm. al v. 53). Infatti il latino veli può fungere da sinonimo di volare: cf. Verg. Aen. VII 64 5. apes ... |... liquidum trans aethera vectae | e [T1b.] IV 1, 209 per liquidum volucris vehar aëra pennis | (passi citati da Herter, Bursian 255 p. 148), ma anche [Verg.] Culex 253 volucris evectus in auras |. D'altra parte proprio il composto ὑπερφέρεεθαι viene applicato da Plutarco alle oche che sorvolano il monte Tauro (Mor. 510 B = De garrul. 14). L'interesse erudito di C. per i vènti è testimoniato dal fatto che egli compose un trattato

Περὶ ἀνέμων (fr. gramm. 404 Pf.).

COMMENTO: Guva]uo[v:

AET.IV FR. 213

475

Il vocabolo è impiegato solo da C., ma la forma collaterale ἄμναμος si

trova già presso Licofrone (vv. 144, 872, 1227, 1338) ed è attestata anche nelle iscrizioni e

nei papiri: vd. LSJ Suppl. s.v. 11 comm. di Pf. a Hec. fr. 338 = 87 H. e C. Dobias-Lalou, «REG» 111 (1998), pp. 403-417. Oetac: Esiodo nella Teogonia racconta che la Titana Tia nacque da Urano e Gea (v. 135) e, unitasi al fratello Iperione, partorì - oltre al Sole e ad Aurora (vd. sopra) - Selene (v. 371). ἀργός: Il senso assunto qui dall'aggettivo fa capo al significato di lucente, già attestato nei poemi omerici: cf. 1.XXII 30, Od. XV

161.

Ὁ]περφέ[ρ]ετ[αι: In poesia il verbo è utilizzato a partire da Sofocle (Oed. Tyr. 381, Oed. Col. 1007).

45 βουπόρος

᾿Αρεινόηις

μιητρὸς

céo: Il vocabolo Bovröpoc è un'apposizione

(che Catullo omette) applicata all'Ato, l'altissimo monte cui C. si riferiva nel v. 43 senza farne ancora il nome (vd. il comm. al v. 44): a quanto risulta dal malridotto scolio nel POxy. 2258, la parola ha qui il significato che si riscontra - seppure con valore aggettivale - nelle sue altre attestazioni (vd. più avanti il comm.), cioè immane spiedo, e designa appunto l'Ato. La metafora si può intendere in rapporto alla forma cuspidata della vetta di tale monte (vd. Kuiper, De fragmento p. 128). Ma sı veda anche l'esegesi prospettata da Marinone nel comm. al v. 45 (p. 138): «L'immagine del Bovröpoc poté essere suggerita dall'obelisco che Call. ammirava nell' ᾿Αρεινόειον consacrato da Tolemeo II in Alessandria alla memoria della moglie ...: un esemplare grandioso, alto 35 m». Il ricciolo, apostrofando Berenice, definisce l'Ato immane spiedo di tua madre Arsinoe:

come spiega lo scolio nel POxy. 2258, Berenice - nata in realtà dal re di Cirene Maga e da Apame (vd. il comm. al v. 26) - a titolo onorifico venne detta figlia dei precedenti sovrani, i coniugi fratelli Tolemeo II e Arsinoe II (vd. il comm. al fr. 143, 2): così si comprende anche perché nel v. 22 (stando alla traduzione catulliana) C. chiamasse Tolemeo III fratello di Berenice e perché in due epigrammi di Posidippo (78, 5 s. e 82, 5 Austin-Bastianini) Tolemeo II sia detto padre di Berenice e in uno di essi (78, 8 Austin-Bastianini) Arsinoe venga implicitamente considerata madre di Berenice (vd. Bastianini-Gallazzi pp. 206 e 211; si osservi però che l'identificazione della Berenice posidippea con la sposa di Tolemeo III non è pacifica: vd. il comm. al frr. 143-156). La filiazione ufficiale di Berenice è testimoniata da alcune epigrafi, nelle quali Tolemeo II e Arsinoe II, cioè i θεοὶ ᾿Αδελφοί, figurano come genitori non solo di Tolemeo III (del quale in realtà Arsinoe II era solo madre adottiva), ma appunto anche di Berenice, cioè di entrambi i θεοὶ Εὐεργέται: cf. l'iscrizione di Samo nr. 13 (risalente al 243/2 piuttosto che al 247/6) pubblicata da M. Schede, «MDAI(A)» 44 (1919), p. 26. 34 τοῦ βαειλέως

Πτολεμαίου τιμὰς καὶ τῆς ἀδελφῆς (appellativo frequente nelle epigrafi, cf. OGI 60 e 61) αὐτοῦ PacAicenc Βερενίκης ... τῷ βαειλεῖ καὶ τῇ Bacıkicen καὶ τοῖς yovedav καὶ προγόνοις e l'iscrizione del Canopo (datata nel 2398) OGI 56. 21 βαειλεῖ Πτολεμαίῳ καὶ BacirAicen Bepevikn, θεοῖς Εὐεργέταις, καὶ τοῖς yovedciv αὐτῶν θεοῖς ᾿Αδελφοῖς καὶ τοῖς προγόνοις θεοῖς (ωτῆρειν (dove si dice espressamente che i genitori di Tolemeo III Evergete e Berenice II sono Tolemeo II Filadelfo e Arsinoe II e che i loro nonni sono Tolemeo I Sotèr e Berenice 1). Vd. anche il comm. al v. 94, nonché Weber p. 274 5.

Non è chiaro quale collegamento specifico fra Arsinoe e il macedone Ato motivasse, nell'anno 245 (quando fu composta la nostra elegia), la definizione di quest'ultimo come spiedo di Arsinoe: si noti comunque che l'Apoteosi di Arsinoe callimachea (fr. 228 Pf.),

476

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

scritta fra ıl 270 e il 268 per la morte della regina, conferisce un ruolo di primo piano a quel monte (vd. il comm. al v. 44). Una proposta interpretativa molto accattivante, che prende le mosse dalle osservazioni di Manteuffel p. 83, è confluita nel comm. di Marinone al v. 45 (p. 138): Arsinoe «fu regina di Tracia dal 300 al 281 come moglie ... di Lisimaco, che nel 285 conquistò da Demetrio la Macedonia e la Tessalia, inclusa ovviamente la penisola calcidica,

e dopo la morte del marito nel 281 accettò le nozze con il fratellastro Tolemeo Cerauno pur di cingere la corona di Macedonia. Poiché è attestata la sua personale signoria su talune località del grande regno ellenistico, non sembra fuori luogo supporre anche con il promontorio del monte Atos una particolare relazione della regina, che il poeta di corte avrebbe sfruttato per celebrarne la potenza già precedente all'assunzione del trono di Egitto». Vd. anche Koenen p. 99. Bovrépoc: Il vocabolo compare presso Erodoto, Euripide e Senofonte, che lo impiegano come aggettivo (atto a infilzare un bue) in riferimento a spiedi o a proiettili: cf.

Herodot. II 135, 4 ὀβελοὺς βουπόρους, Eur. Andr. 1133 5. ἀμφώβολοι!εφαγῆε ... βουπόροι, Cyct. 302 5. Bovröpoıcı ... | ὀβελοῖοι, Xenoph. Anab. VII 8, 14 βουπόρῳ ... ὀβελίεκῳ. ’Apcıvönıc: La regina era celebrata da C., oltre che nel carme lirico dedicato alla sua apoteosi (fr. 228 Pf., vd. sopra), in un'opera epica o elegiaca incentrata forse sulle sue nozze (fr.392 Pf.). Per Arsinoe Afrodite Zefiritide (menzionata nei nostri vv. 54, 56 s. e 64), che era oggetto di culto nel tempio del capo Zefirio, cf. Ep. V ὃ Pf. = HE 1116. Scrive Marinone nel comm. al v. 54 (p. 157): «La grande Arsinoe ... godette di onori straordinari in vita e in morte:

venerata come Afrodite, aveva culto in tutti i santuari egiziani e nelle colonie

d'oltremare ... È quindi spiegabile la dovizia di particolari sulla sua persona e l'insistenza del poeta di corte nel celebrarla». Sappiamo ora che tre epigrammi di Posidippo (36-38 Austin-Bastianini) riguardano offerte votive alla dea Arsinoe (vd. V. Gigante Lanzara, «PdP» 58, 2003, pp. 337-346, Lapini pp. 228-231). Ricerche a tutto campo sulla figura di Arsinoe sono state recentemente compiute da Lelli, Arsinoe e da Barbantani pp. 103-134.

καὶ διὰ ué[ccov: Cf. Nonn. Dion. VI 375 5. καὶ διὰ u&ccov* | pnyvouévov πρηῶνος ἐχάζετο pépuepov ὕδωρ, che sembra ispirarsi al nostro passo anche per l'immagine evocata: infatti, come

C. parla del canale artificiale scavato in Macedonia

dai Persiani, così

Nonno racconta che Posidone creò in Tessaglia con un colpo di tridente la valle di Tempe, attraverso la quale defluì l'acqua del diluvio universale. Cf. anche Zosim. Anth. Pal. VI 183,

5 = FGE 412 καὶ διὰ uécene*, Dion. Per. 351 e 659 e 823 ἧς διὰ uécenc*, 432 τοῦ διὰ uéccov*, 439 τῆς διὰ uécenc* (in Dionisio sempre a proposito di fiumi), Paul. Sil. Ecphr. Soph. 409 τῶν διὰ uécemnc*, 454 ὧν διὰ uéccov*. 46 Μηδείων: Nel 483/2 i Persiani diretti contro la Grecia compirono per ordine di Serse un'opera ingegneristica intesa a evitare la pericolosa circumnavigazione del promontorio sulla cui estremità si innalza l'Ato, a picco sul mare di Tracia: essi, cioè, scavarono un

canale nell'istmo di collegamento fra la penisola Calcidica e il promontorio stesso, tanto largo da consentire il passaggio di due triremi affiancate. Cf. Herodot. VII 22-24 e vd. il comm. al v. 44. Nella forma Μήδειοι, l'etnico è già impiegato da Ibico (PMGF 320) e Pindaro (Pyth.I 78). ὀλοαὶ vfiec: La natura funesta dei Persiani è poeticamente applicata alle loro navi. Una personificazione sinistra delle navi compare in forma molto più marcata nell'inno ad

Artemide di C. (v. 231 s.): Τευκρῶν ἡνίκα νῆες ᾿Αχαιίδες crea κήδειν | ἔπλεον ἀμφ᾽ Ἑλένῃ ‘Pauvovcidi θυμωθεῖεαι. Più tradizionale è l'espressione dell'Ep. XVII 1 Pf. = HE

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

477

1245 | ὥφελε und’ ἐγένοντο θοαὶ νέες (incipit di un carme sepolcrale per un uomo morto in mare). Ma cf. già Hom. Il. V 62 5. νῆας ... | ἀρχεκάκους, cioè le navi con le quali Paride rapì Elena (il passo è imitato da Colluth. 8 s. Livrea νηῶν | ἀρχεκάκων). "Ad0: Il monte

viene menzionato

una volta sola nei poemi

omerici

(Il. XIV

229; cf.

anche [Hom.] Hymn. III 33).

47 τί πλόκαμοι

ῥέξωμεν: Cf. Call. Dian. 155 5. ti δέ κεν πρόκες ἠδὲ λαγωοί |

ῥέξειαν; Nessi analoghi sono già omerici: per il contesto del nostro passo è soprattutto no-

tevole Od. IV 649-651 τί κεν ῥέξειε καὶ ἄλλος, ὁππότ᾽ ἀνὴρ τοιοῦτος ... | αἰτίζῃ;, ma cf. anche Z/. XIX 90 τί κεν ῥέξαιμι;, mentre A. XI 838 τί ῥέξομεν; è simile al brano callimacheo per l'uso del congiuntivo aoristo ma ne differisce quanto al senso, che non è potenziale

bensì deliberativo. Cf. Aesch. Eum. 788-818 τί ῥέξω; I, Eur. Alc. 263 | ti ῥέξεις; (paralleli formali), Ap. Rh. IV 1256 τί κεν ῥέξαιμεν;, [Theocr.] XXVII 25 τί ... ῥέξαιμι; (con il comm. di Gow), Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 26, 7 τί ῥέξετε;, Anth. Pal. VIII 128, 1 e 217,3

e Carm. I 2, 13, 11 (PG 37 p. 755) τί pééouev; (paralleli formali), Nonn. Dion. I 340 al., Met. VI 120 al. (τί + indicativo presente o futuro di ῥέζω oppure + ottativo di ῥέζω accompagnato o meno da kev oppure + congiuntivo di ῥέζω accompagnato da κεν). Molto suggestivo è pol l'accostamento, istituito da Vox p. 180 s., fra il passo callimacheo e un brano di Anacreonte (fr. 71, 7-9 Gent. = PMG

347, 7-9), dove qualcuno (forse il

poeta stesso) si dice angustiato perché 1 capelli dell'efebo Smerdi sono caduti vittima del ferro (cf. la fine del nostro verso) e si chiede che cosa mai possa fare: τομῇ c1ôfpo |

περιπεςο[Ὁ]ς᾽ (scil. κόμη) ... |... τί γάρ τις ἔρξῃ κτλι; πλόκαμοι:

Il sostantivo è un hapax omerico (Il. XIV

176; cf. anche [Hom.] Hymn.

XXIV 3). 47 5. ὅτ᾽ οὔρεα τοῖα c1ôn[po | eikovcıv: La frase οὔρεα τοῖα rimanda all'eccezionale altezza del monte Ato, enfaticamente descritta nel v. 43 s. (vd. il comm. al v. 44).

Per l'invincibilità del ferro, cf. Hes. Theog. 864 ciönpoc, ὅ περ κρατερώτατός ἐςτιν I, [Opp.] Cyn. Π 529 πανδαμάτωρ

... ciônpoc 1. Il rovescio dell'espressione callimachea si

rinviene presso [Apolinar.] Met. Ps. protheor. 89 οὐκ εἴξαντα εἰδήρῳ | (a proposito di Gesù). Riguardo al ferro, cf. anche il passo di Anacreonte riportato nel comm. al v. 47 τί

πλόκαμοι ῥέξωμεν. Per il soggetto neutro plurale οὔρεα accordato al verbo plurale eikovcıv, vd. il comm. al fr. 174, 16 &ctöpvvvro τὰ κλιομία. 48 Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος: Angustiato per la terribile sciagura che gli ha inflitto il ferro, cioè la separazione dalla testa di Berenice, il ricciolo prorompe in un'accorata invettiva (estesa sino alla fine del v. 50) contro i Calibi, il popolo scitico abitante sulla costa meridionale del Ponto Eusino che era considerato il primo estrattore e lavoratore di quel metallo (cf. anche lo scollo nel POxy. 2258). Per tali prerogative dei Calibi (le cui iniziali menzioni poetiche si riscontrano in tragedia), cf. Aesch. Sept. 728-730 Χάλυβος (κυθᾶν

ἄποικος |... |... Ciôapoc |, Prom. 714 5. οἱ cônpotéktovec |... Χάλυβες, Eur. Alc. 980 5. τὸν ἐν XadöBßoic ... 1... ciôapov I, Heracl. 161, Cret. fr. 1,6 Cozzoli = TrGF 472, 6, Cratin. PCG 265, Lyc. 1109, Ap. Rh. II 374-376 (vd. l'app. delle fonti al nostro v. 48 s.), 10011008, fr. eleg. adesp. SH 966, 4 (con il comm. di L.J.-P.), Verg. Georg. 158, Aen. VIII 420

s.,X 174, Ov. Fast. IV 405 s., Val. Fl. IV 610-612, V 140-143, Mart. IV 55, 11 s., Dion. Per. 768-771, Maxim. De action. ausp. 302. La stretta connessione dei Calibi con il ferro &

anche segnalata dal fatto che il vocabolo χάλυψ significa ferro forgiato: cf. Aesch. Prom. 133, Soph. Trach. 1260, Antip. Sid. HE 493, Paul. Sil. Anth. Pal. VI 65, 3 = 18,3 Viansino

(la parola ha valore aggettivale presso Nonn. Dion. XXXVI

182). Per la Scizia come terra

478

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

di origine del ferro, cf. anche Aesch. Prom. 301 s.

La sede precisa dei Calibi nella regione del Ponto è indicata in maniera diversa dalle fonti: vd. il comm. di Jacoby a Hecat. FGrHist 1 FF 202-203 (cf. anche Call. fr. inc. sed. 501 Pf. con il comm.). La scoperta del ferro viene fatta risalire anche ad altri: vd. il comm. di Jacoby a Hellanic. FGrHist 4 F 189 e cf. lo stesso Call. fr. inc. sed. 701 Pf. riportato nel comm. al nostro v. 49. Vd. in generale Riese p. 206 s. L'impiego di ὡς con l'ottativo semplice per la formulazione di un desiderio riguarda abbastanza spesso il verbo (ἀπ)όλλυμι. Poiché qui il ricciolo pronuncia un'invettiva contro i πρῶτοι εὑρεταί dell'estrazione e della lavorazione del ferro (v. 49 s.), il modello del nostro

passo va riconosciuto in Eur. Hipp. 407-409 ὡς ὄλοιτο παγκάκως | ἥτις πρὸς ἄνδρας ἤρξατ᾽ aicyòverv λέχη Ι πρώτη θυραίους (vd. il comm. di Barrett). Su C. ha anche influito [Theogn.] 894 ὡς δὴ Κυψελιδῶν Ζεὺς dAécere γένος (vd. Reitzenstein, Epigramm p. 69). Ma la costruzione è già omerica: cf. II. XVIII 107 ὡς ἔρις ἔκ te θεῶν ἔκ τ᾽ ἀνθρώπων ἀπόλοιτο, Od. I 47 ὡς ἀπόλοιτο καὶ ἄλλος ὅτις τοιαῦτά ye ῥέζοι (Il. XXII 286 con un verbo diverso). Si veda inoltre Soph. El. 126 5. ὡς ὁ τάδε nopwv | ὄλοιτ᾽. Per il solo nesso ἀπόλοιτο γένος, C. può anche essersi ispirato a [Hom.] Hymn. IV 309 εἴθ᾽ ἀπόλοιτο βοῶν γένος. Sul piano espressivo, cf. più in generale Hom. Od. XIV 68 5. ὡς ὥφελλ᾽ Ἑλένης ἀπὸ φῦλον ὀλέεθαι πρόχνυ. A sua volta il secondo colon del nostro pentametro è riecheggiato in SGO I 04/09/02 ν. 2 πᾶν ἀπόλοιτο yEvoc*. La frase di C. (con ὡς unito all'ottativo semplice) ha inoltre avuto un notevole influsso sulla poesia di Gregorio di Nazianzo: cf. Carm. (PG 37) I 2, 29, 275 s.

(p. 904) ὡς ἀπόλοιτο | πρῶτος ... ἐγκεράεας | (in un'elegia che risente di modelli callimachei anche nei vv. 19 e 141 s.: vd. rispettivamente il comm. di Pf. al fr. inc. sed. 571, 1 e il mio al fr. 89, 27-29), II 1, 13, 169 5. (p. 1240) ὡς ἀπόλοιτο | κεῖνος ἀνήρ, ὃς πρῶτος

ἀνήγαγεν ἐνθάδ᾽ ἀλιτροῦς (per un'altra eco callimachea in questo carme, vd. il comm. introduttivo al fr. inc. sed. 275), nonché I 2, 2, 439 5. (p. 613) ὡς ἀπόλοιτο | ευζυγίη, 10, 292

(p. 701) ὡς ὄλοιτο τοῖα ςκέμματα |, 25, 286 (p. 833) ὡς ὀλοίμην, II 1, 11, 406 5. (p. 1057) ὧς ὄλοιτ᾽ ἐκ τοῦ βίου | νόμος φιλίας. In àmbito latino, al nostro brano si ispira Tibullo (I 10, 1 s.): quis fuit, horrendos primus qui protulit enses? | quam ferus et vere ferreus ille fuit! (il primo verso tibulliano sembra

anche risentire di Parthen. SH 619 = fr. 9 Lightfoot Scr Er’ ἀνθρώπους ἔξυςεν αἰγανέας, a sua volta probabilmente debitore del passo callimacheo: vd. i comm. ad loc. e Bulloch, Tibullus p. 77). Riguardo all'invettiva contro il πρῶτος εὑρετής espressa dall'ottativo ἀπόλοιτο, cf.

inoltre Aristoph. Lys. 946 κάκιοτ᾽ ἀπόλοιθ᾽ ὃ πρῶτος äymcoc μύρον, Carm. Anacreont. XXIX A 45. West ἀπόλοιτο πρῶτος αὐτός | ὁ τὸν ἄργυρον φιλήεας. 49 γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφιηναν: L'esametro delinea il primo aspetto del ruolo di capostipiti svolto dai Calibi in relazione al ferro: essi, cioè, ne sono stati gli iniziali estrattori. Scrivendo che il ferro spunta dalla terra come una pianta (in quanto i Calibi lo portano alla luce dalle miniere), C. si collega a una tradizione letteraria e grammaticale che fin dal poemi omerici descrive la nascita dell'argento e pol appunto del

ferro: cf. Hom. 1.11 857 ’AXößnc, ὅθεν ἀργύρου ἐςτὶ yevé@An | (con i comm. di Leaf e di Kirk), lo scolio al nostro passo nel POxy. 2258 τὴν tod εἰδήρου yévec{u]v, Schol. Ap. Rh. I 1321-1323 a ὅπου ὁ ciönpoc γίνεται (vd. l'app. delle fonti al v. 48), Hesych. σιν. Χάλυβοι (sic): ... ὅπου ciônpoc γίνεται, Cyrill. cod. Vindob. 32 (nell'annotazione di Schmidt a Hesych. s.v. Χαλυβδική) ἔνθα ὁ ciônpoc τίκτεται, nonché forse fr. eleg. adesp. 61,4 W.

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

479

Vd. le osservazioni di F. Cumont ap. G. Vitelli, PSIIX (1929) p. 150. D'altra parte l'apposizione κακὸν φυτόν rende esplicito che il ferro è una mala pianta: il ricciolo di Berenice, nella sua invettiva contro i πρῶτοι εὑρεταί del metallo che lo ha reciso dal capo della regina, tiene a precisare che la fatica dei Calibi, apparentemente così simile a quella degli agricoltori, se ne differenzia per il suo funesto oggetto. Che le cure rivolte dai Calibi alla terra rappresentino uno stravolgimento delle normali pratiche agricole, risulta soprattutto chiaro da un passo di Apollonio Rodio (II 1002-1005): toicı μὲν οὔτε βοῶν

ἄροτος μέλει οὔτε τις ἄλλῃ | φυταλιὴ καρποῖο uektgpovoc ... |... | ἀλλὰ εἰδηροφόρον ςτυφελὴν χθόνα γατομέοντες κτλ. (vd. il comm. di Vian). Si noti inoltre che Valerio Flacco (Ν᾽ 142) chiama 1 Calibi ruricolae di Marte. Una metafora non molto diversa viene

applicata all'oro dallo stesso Call. Vict. Sosib. fr. 384, 15 Pf. xpvcòv ὃν ἀνθρώποι[εἼ]ι καλὸν κακὸν ἔτραφε [μ]ύρμηξ (vd. Herter, Recensione p. 80). Ma il verso racchiude anche un'allusione - segnalata dal nesso yeıödev ἀντέλλοντα - al fatto che ormai il punto di vista del ricciolo è quello della costellazione nella quale si è trasformato. Essa, che in quanto tale spunta dalle acque dell'Oceano (cf. v. 63), guarda con spregio al ferro, che invece spunta dalla terra (sull'impiego del verbo ἀνατέλλω per la levata degli astri, vd. più avanti il comm.). Il primo scavo delle miniere di ferro viene rievocato da C. anche nel fr. inc. sed. 701 Pf.

δέδαεν δὲ λαχαινέμεν ἔργα ειδήρου |, dove però ci si riferisce all'Eubea (vd. l'app. delle fonti e il comm. di Pf.).

Per la prolessi di γειόθεν ἀντέλλοντα rispetto a οἵ μιν, vd. il comm. al fr. 8. yeıödev: Questa forma (spiegata come ἐκ τῆς y[fi]c dallo scolio nel POxy. 2258) non compare altrove. L'equivalente γῆθεν è di uso tragico: cf. Aesch. Sept. 247, Eum. 904, Soph. El. 453, Oed. Col. 1591.

ἀντέλλοντα: Il verbo ἀνατέλλω è un hapax sia omerico (Il. V 777) sia esiodeo (fr. 135, 4 M.-W.): in entrambi 1 luoghi - come in molte altre attestazioni poetiche - esso funge da transitivo attivo e significa faccio scaturire, produco (il brano iliadico 51 riferisce a una pianta divina). Nel passo callimacheo, invece, il verbo è intransitivo e ha il senso di spuntare: con questo valore lo si trova utilizzato a proposito non solo di piante (cf. Theophr. Hist. plant. VII 1, 6 al.), ma anche di corpi celesti (cf. Aristoph. Nub. 754, Soph. Oed. Col. 1246) e specificamente di stelle (cf. Ap. Rh. III 959). Per 1 referenti sia vegetali sia astrali del nostro ἀντέλλοντα, vd. sopra il comm. κακὸν φυτόν: Il nesso si ritrova presso [Men.] Sent.398 Pernigotti (a proposito della donna). 50 πρῶτοι: Sul tema del πρῶτος εὑρετής, cf. soprattutto (dato il seguente Éppacav) fr. 163, 10 πρῶτος ... ἐφραςάμην (ma il medio ha un significato diverso) e vd. il comm. al fr.

53, la-1 ὃς τὸν ὄλεθρον | εὗρε, nonché Kerkhecker p. 67 n. 17. Per il suo impiego nelle invettive, vd. il comm.

al v. 48 e F. Leo, Plautinische Forschungen

(Berlin 1912?), pp. 151-

154.

καὶ τυπίδων Éppacav

£pyacınv: La frase descrive la seconda attività inaugurata

dal Calibi riguardo al ferro, cioè la sua forgiatura: come rileva Marinone nel comm. al v. 50 (p. 145), il nesso callimacheo l'opera dei martelli riguarda specificamente la fase intermedia

dell'antica fucinatura,

vale a dire il martellamento

a freddo

del ferro

(κόπτειν,

cpopndetetv), successivo all'ammollimento nella fornace e precedente alla rifinitura. τυπίδων: Il vocabolo è attestato per la prima volta qui e presso Ap. Rh. IV 762, 776, 957; cf. poi Agatharch. geogr. 25. Si conosce anche la forma τυπάς (cf. Soph. TrGF 844,

480

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

4). Nell'/liade omerica compare già il sostantivo turn (colpo, V 887). Égpacav:

Qui il verbo ha il senso di mostrare, come in Hec. fr. 245, 1 Pf. = 60, 1 H.

ppécov dé μοι εἰς ὅ τι τεῦχος | κτλ. e Ap. 65 πόλιν Eppace Βάττῳ |: in tale significato è implicito quello di insegnare (cf. [Hom.] Hymn. IV 442 Egpace θέςπιν ἀοιδήν 1). Per l'impiego callimacheo della diatesi media φράζομαι in un contesto analogo ma con significato diverso rispetto al nostro passo, vd. sopra il comm. a πρῶτοι. épyacinv: La parola, assente nei poemi omerici, ricorre presso [Hom.] Hymn.IV 486.

5) 51-68: Il ricciolo rapito in cielo e trasformato in costellazione Il contenuto di questa parte dell'elegia è qui illustrato in base al presupposto che Berenice dedicò 1] ricciolo nel tempio di Afrodite Arsinoe al capo Zefirio (vd. già il comm. al v. 8 nücıv ... θεοῖο). Suddivido il brano in tre sottosezioni di sei versi ciascuna, come suggerisce Marinone, la cui esegesi complessiva del passo (pp. 32 s., 161 s., 168 s., 176) mi trova concorde. 1) 51-56: Il ricciolo era stato da poco reciso e offerto, quand'ecco che l'alato vento Zefiro lo rapì dal tempio dello Zefirio e lo portò in cielo, deponendolo sul grembo di Afrodite. 2) 57-62: La dea stessa aveva inviato Zefiro a rimuovere il ricciolo dal proprio tempio, per fargli condividere la sorte astrale della Corona di Arianna. 3) 63-68: Mettendo in pratica il suo progetto, Afrodite ha trasformato 1] ricciolo nella nuova costellazione della Chioma di Berenice, che in quanto tale ha compiuto in quel momento la prima ascesa dalle acque dell'Oceano [e ha ottenuto un posto preciso nel cielo (tra il Leone, la Vergine e l'Orsa Maggiore)], nonché un determinato tramonto serale in anticipo [rispetto a Boote]. Uno degli elementi portanti di tale analisi è il riconoscimento, nei vv. 57-62 (cioè 1] secondo sottogruppo), di un periodo unico, separato dal tratto di testo successivo tramite un'interpunzione forte collocata alla fine del v. 62: questa punteggiatura, già proposta da Muretus nella traduzione di Catullo, è stata per la prima volta applicata al testo callimacheo da Coppola pp. 214-217. Νά. Marinone, Catullo p. 351 s. = 109 5. Il ricciolo, dunque, è passato direttamente dal tempio dello Zefirio al firmamento. La struttura sintattica dei vv. 57-64 viene invece ricostruita diversamente da Pf., la cui

esegesi si fonda sul presupposto che Berenice dedicò il ricciolo nel pantheon di Alessandria (vd. il comm. al v. 8 πᾶειν ... θεοῖο). Recependo la punteggiatura suggerita da Lachmann per la versione catulliana, Pf. - come già Vitelli nell'editio princeps del PSI 1092 - isola il v. 57 s. mediante un'interpunzione forte alla fine del v. 58 e individua nei vv. 59-64 un periodo unico. Perciò, stando all'interpretazione di Pf. (da lui sviluppata sulle orme di Vahlen pp. 13671369 = 289-291 e già esposta in /Adxauocp. 193 s. = 116), le tappe compiute dal ricciolo sarebbero state tre: Zefiro lo rapì dal pantheon di Alessandria (prima tappa) e lo portò nel tempio dello Zefirio, dove lo depose sul grembo di Afrodite Arsinoe (seconda tappa), eseguendo la missione affidatagli dalla patrona stessa di quel luogo sacro (vv. 51-58); Afrodite poi, per fare condividere al ricciolo la sorte astrale della Corona di Arianna, lo ha collocato

in cielo (terza tappa) e trasformato nella nuova costellazione della Chioma di Berenice, che in quanto tale è sorta in quel momento per la prima volta, bagnandosi nelle acque del capo Zefirio, e ha ottenuto la posizione astronomica, il tramonto serale e la levata mattinale dei

quali si è detto (vv. 59-68). Così intendono anche Herter, Kallimachos p. 406, Barber p. 343, Schwinge p. 70, Binder-Hamm p. 24 n. 48 (non molto diversa è l'esegesi di Zwierlein

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

481

p. 279=235s.). La ricostruzione di Pf. è senz'altro da scartare: prima di tutto, infatti, l'esistenza di un

pantheon ad Alessandria in età ellenistica non è documentata (vd. il comm. al v. ὃ rac ... θεοῖο); inoltre il viaggio del ricciolo in tre tempi risulterebbe alquanto macchinoso; soprattutto, infine, non c'è motivo di dubitare della testimonianza di Igino, il quale scrive esplici-

tamente che Berenice dedicò il ricciolo nel tempio di Afrodite Arsinoe al capo Zefirio (vd. la fine dell'app. delle fonti). Che l'offerta di Berenice avesse luogo nel tempio di Afrodite, è anche opinione di Fraser I p. 239 e II p. 1023 n. 105, Meillier p. 146 s., Huxley, Arsinoe p. 242, Koenen p. 100.

51 ἄρτι [ν]εότμητόν ne κόμαι rodéeckov ἀδε[ζλφεαί: L'esametro specifica in maniera enfatica (ἄρτι [vleotuntov, ribadito dal successivo καὶ πρόκατε) che Zefiro andò a prelevare il ricciolo non appena questo venne reciso e dedicato: sı noti che, secondo Igino, esso sparì dal tempio dello Zefirio il giorno dopo essere stato offerto (vd. la fine dell'app.

delle fonti). Per l'incipit ἄρτι [ν]εότμητόν με, vd. il comm. al v. 63. La dizione prescelta da C. conferisce al verso una movenza analoga a quella di vari epigrammi sepolcrali (vd. Meyer p. 236 n. 42): infatti in essi le sorelle, che qui sono le chiome, piangono la morte - spesso prematura - di un fratello, che qui è il ricciolo (vd. Selden p. 343; per le caratteristiche connesse al genere maschile della persona loquens, cui Catullo sostituisce il genere femminile,

vd. ıl comm.

introduttivo).

L'allusione viene resa

paradossale dal fatto che un tipico gesto delle donne durante il lamento funebre è appunto quello di strapparsi le chiome: per un paradosso affine, vd. il comm. al v. 40 cv τε κάρην

Quoca cov τε βίον. Riguardo al suddetto topos epigrammatico espresso in termini simili a quelli di C., cf.

Theocr. Ep. XVI 3 Gow δειλαίη, ποθέουεα τὸν eikocdunvov ἀδελφόν. Ma si può anche richiamare Call. Cer. 94 βαρὺ δ᾽ Écrevov αἱ δύ᾽ ἀδελφεαί (-eoi Meineke: -αἱ codd.; vd. il comm. di Hopkinson) consunzione.

|, dove le sorelle di Erisittone si disperano per la sua inesorabile

ἄρτι [vleétuntév pe: C. è memore di Soph. Ant. 1283 ἄρτι veotéuorci (per il tipo di nesso, vd. il comm.

di Jebb ad loc.). Sul piano formale, cf. Antip.

Sid. Anth. Pal. VII

210, 1 = HE 600 ἄρτι venyevéov ce”. ἄρτι: L'avverbio è estraneo all'epos arcaico e ricorre a partire da [Theogn.] 998. C. ne fa uso anche altrove: cf.

Zx@

Apc.fr. 228, 43 Pf.fr. inc. sed. 609 Pf., Lav. 2,75,Ep.LI2

Pf. = HE 1122. [ν]εότμητον: In poesia l'aggettivo non è attestato prima dell'ellenismo: cf. Theocr. VII 134, Ap. Rh. HI 857*. Il suo Impiego in riferimento al ricciolo di Berenice influisce su

Nonn. Dion. XXVI 153 νεοτμήτων δὲ κομάων | (cf. nel nostro verso il successivo κόμαν); in contesti diversi, la parola è utilizzata da Nonno anche in Dion. XXV 46 e XLVI 287. Per l'uso del vocabolo in prosa, cf. già Plat. Tim. 80 D e poi Dioscorid. II 70, 4, V 36, 1, Heliod.

X 6, 2. C. impiega una formazione simile nel fr. inc. sed. 676, 2 Pf. veocunktove (hapax omerico: Il. XII 342). ποθέεεκον: Quest'imperfetto iterativo è un hapax morfologico nei poemi omerici (Il.I 492). Per l'uso di tali forme nell'opera callimachea, vd. Lapp p. 139.

ἀδε[λφεαί: Il femminile ἀδελφεή manca nelle opere omeriche. 52 καὶ πρόκατε yvotòc Μέμνονος Alßionoc: Zefiro si slancia sollecito verso il tempio di Afrodite per rimuovere il ricciolo. C., che con grande raffinatezza non menziona mai esplicitamente questo vento nel nostro passo, ce lo presenta innanzitutto come il fra-

482

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

tello di Memnone re degli Etiopi: Zefiro e Memnone sono infatti fratelli uterini, in quanto Aurora partorì il primo ad Astreo e il secondo a Titono (cf. rispettivamente Hes. Theog. 378 s. e 984, già richiamati dallo scolio al verso di C. nel POxy. 2258; vd. Reinsch-Werner p. 393 s.). Una circonlocuzione incentrata sui legami di parentela riguarda, nel nostro v. 44, un altro vento figlio di Aurora e Astreo, cioè Borea, definito rampollo di Tia (vd. il comm.

ad

loc.). καὶ πρόκατε: L'avverbio πρόκατε è di matrice ionica e si riscontra in vari passi erodotei, dov'è sempre - come qui - preceduto da καί: cf. I 111, 5 (cui si riferisce Hesych. s.v. καὶ πρόκα τε δή ἀντὶ tod ἄφνω), VI 134, 2, VIII 65, 1; 135, 2 (cf. anche lo scolio al no-

stro verso nel POxy. 2258 πιρόκίατε): εὐθέωο). È inoltre attestata la forma πρόκα: cf. Hippocr. ap. Galen. XIX p. 132. 17 Kühn πρόκα- ἐξαίφνης, Ap. Rh. I 688 | καὶ πρόκα (con lo scolio πρόκα] εὐθέωο), gloss. Herodot. ap. H. Stein (ed.), Herodoti Historiae II (Berolini 1871) p. 469 πρόκα-: εὐθὺς καὶ παραχρῆμα. yvotéc: Già nell'Iiade omerica il vocabolo può designare, oltre che un consanguineo in genere

(III

174, XV

350),

specificamente

un fratello (XIII

697

= XV

336, XIV

485,

XVII 35, XXII 234). Quest'uso della parola 51 riscontra ancora presso Call. /ov. 58. Cf. poi

Ap. Rh. I 53, 165, Archias Anth. Pal. VI 180, 2 = GP 3609, GVI 949, 2*, Quint. Smyrn. III 207 = X 410, Synes. Hymn. VII 19 Lacombrade, Nonn. Dion. II 276 al., Tulian. cons. Aeg. Anth. Pal. VI 12, 1, Cosm. App. Plan. 114, 2. Vd. il comm. al v. 53 per l'imitazione di C. da

parte di Nonno e Rengakos p. 35.

Μέμνονος

Aidionoc: Cf. Hes. Theog. 984 5. Μέμνονα ... | Αἰθιόπων βαειλῆα, ep.

adesp. SH 983, 1 = [ΟΕ 1742 | Méluvovoc Αἰθιοπῆος. Memnone è menzionato una sola volta nei poemi omerici (Od. XI 522).

53%eto κυκλώεας

βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης: Zefiro, qui definito alito fecondo,

vola verso il tempio di Afrodite roteando le ali veloci. Kakridis p. 203 n. 1 individuò il modello di C. in un frammento relativo a un'aquila, citato senza indicazione d'autore da Attico

(fr. 2 p. 41 des Places ap. Euseb. Praep. Ev. XV 4, 5), che veniva attribuito ora ad Archiloco ora a Euripide (per la seconda ipotesi, vd. Th. Bergk, Poetae Lyrici Graeci IF, Lipsiae 1882, p. 408 ad fr. 87) e successivamente - riemerso in un papiro all'interno di un più ampio

contesto - è stato recepito nelle edizioni archilochee (fr. 181, 10 5. W.): ὠκέως δι᾽ αἰθέρος | λαιψηρὰ κυικλῴοας πτερά. In termini più generali si possono richiamare Hom. Od.II 151

ἔνθ᾽ ἐπιδινηθέντε τιναξάεθην πτερὰ πυκνά (due aquile) e Sapph. fr. 1, 11 Voigt | πύικνα δίνινεντες πτέρ᾽ (i passeri del carro di Afrodite). Il passo callimacheo ha avuto un'eco amplissima nelle Dionisiache di Nonno (illustrata da Kakridis p. 202 s., Pf., /iöxauocp. 186=107 e Montes Cala, Apunte). In VI 43 l'explicit

θῆλυς ἀήτης designa, come qui, Zefiro; questi viene altrove definito ἐρατεινὸς ἀήτης | (XI 364). In XXXVII 90 leggiamo a proposito di Euro: καὶ βαλιαῖς rrepbyeccw ἐχάζετο θερμὸς ἀήτης; poco prima (XXXVII 74 s.), riguardo al medesimo vento, si trova la frase

"Eocgöpoc ... |... γνωτὸν ἑὸν προέηκε, che sembra risentire dei nostri vv. 52 γνωτὸς e 57 (vd. il comm.

al v. 57 s.). In XXXVII

642 viene applicata a Borea la frase πτερύγων

βαλιὸν δρόμον. Riguardo a Eros, Nonno scrive: | kokAwcoc πτερὰ κοῦφα (XXXIII 184), δι᾽ αἰθερίης δὲ κελεύθου | κυκλώεας βαλιοῖειν ὁμόδρομον ἴχνος ἀήταις (XLII 35 s.), | καὶ πτερὰ κυκλώεοας (XLVII 473). Il volo di Ermes viene così descritto: κυκλώοσας βαλιῇειν ὑπηνέμιον πτερὸν αὔραις (IX 156). Per le ali dei vènti, cf. Aesch. Prom.

88 ταχύπτεροι πνοαί I, Verg. Aen. VIII 430, Ov.

Her. XI 16 al., Sil. III 524 al., Val. F1 I 611 al., Stat. Theb. V 433, Iuv. V 101, [Apolinar.]

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

483

Met. Ps. XVII 23, Claudian. Rapt. Pros. Π 88 (a proposito di Zefiro) al., Nonn. Dion. I 135,

203, II 181, XXV 216, XXXIV 349, XXXIX Ζεφύρου ... πτερόν. ἵετο: Cf. Call. Del. 161* (ν.1. ἵκετο).

195, 350, Paul. Sil. Ecphr. Soph. 459

xvxAi@cac: Il verbo è un hapax esiodeo (fr. 150, 28 M.-W.). I poemi omerici presentano la forma alternativa κυκλέω (solo in Il. VII 332).

βαλιὰ πτερά: L'aggettivo βαλιός - attestato a partire da Eur. Alc. 579 al. - ha, nelle sue occorrenze, talvolta il senso di screziato (per il quale cf. fr. 149, 10 BaA]ıic ... ἐλάφου con il comm.) e talaltra quello di veloce (cf. Et. Gen. ed Et. M. sw. βαλιαί- αἱ taxeiou. Benché lo scolio nel POxy. 2258 gli conferisca qui il primo significato, le numerose imitazioni nonniane riportate sopra dimostrano invece che nell'esametro di C. la parola ha il secondo valore. Oltre che ai suddetti passi di Nonno, l'uso callimacheo dell'aggettivo è vicino

a Synes. Hymn. I 77 Lacombrade βαλιῶν ἀνέμων, Nonn. Dion. XLII 346 βαλιῇει ... θυέλλαις I, Met. X 70 βαλιῇειν ... ἀέλλαις 1. In termini più generali, cf. [Opp.] Cyn. II 21*, 314, Triph. 84, Nonn. Dion. XIX 277. Nell'Hiade omerica si chiama BaMoc uno dei cavalli di Achille, figlio proprio di Zefiro (XVI 149, XIX 400): è significativo, in tal senso,

che nel nostro passo l'alato Zefiro sia descritto come un cavallo (v. 54; vd. Durbec, Rapt p.

75). Cf. poi Nonn. Dion. XXXVII 335 Βαλίον, Ζεφυρηίδος αἷμα γενέθλης |. Vd. Schmitt p. 53 5. θῆλυς ἀήτης: C. dà qui a θῆλυς il significato di fecondo, rifacendosi al nesso omerico θῆλυς éépcn* (Od. V 467, cf. anche [Hes.] Scut. 395* e la spiegazione di Esichio s.v.

θῆλυς éépen: à τὰ φυτὰ θάλλειν ποιοῦςεα; contra van der ValkI p. 254). Il senso di θῆλυς nel nostro passo è confermato dallo scolio nel POxy. 2258 δ]ιὰ τὸ γόνιμον [π]γοῦς ἁπαλός e da altri due luoghi callimachei, cioè Vict. Sosib. fr. 384, 27 Pf. | θηλύτατον ... ὕδωρ | (del Nilo) e fr. inc. sed. 548 Pf. θηλύτατον πεδίον (vd. il comm. ad loc., nonché Pf., Μιόκαμος p. 196 = 118 s., Pf., Storia p. 230 n. 108, il comm.

di Williams

a Call. Ap. 37 θηλείαις,

Rengakos p. 40 s., Rengakos, Homertext p. 143). Si noti inoltre che lo stesso C., nel v. 82 dell'inno ad Apollo, accosta esplicitamente 1] soffio di Zefiro alla rugiada in un brano incen-

trato sul rigoglio dei fiori: ζεφύρου rvetovroc gépenv | (vd. il comm. al fr. 50, 41). Dal punto di vista lessicale, cf. Marc. Arg. Anth. Pal. X 4,3 s.= GP 1453 5. κῦμα |... θηλύνει … Ζέφυρος I. Per le imitazioni dell'explicit callimacheo da parte di Nonno, vd. sopra il comm. Riguardo alla fecondità di Zefiro, cf. anche [Bacch.] Anth. Pal. VI 53, 2 =

FGE 543

πιοτάτῳ Ζεφύρῳ | con l'app. nell'edizione bacchilidea di Snell-Maehler (p. 121). Come

osserva Livrea nel comm.

ad Ap.

Rh.

IV

766,

C.

- accordando

al sostantivo

ἀήτης l'aggettivo θῆλυς, il cui genere grammaticale è maschile ma che di base significa femminile - propone «una dotta e spiritosa allusione» al dibattuto problema del genere grammaticale di ἀήτηί(ο) (vd. anche Rengakos, Homertext p. 100 s.). E si può aggiungere che tale allusione è resa ancora più arguta dal richiamo fonetico alla clausola omerica θῆλυς ἀντή" (Od. VI 122), modificata però in modo tale da ripristinare la correttezza morfologica (non più aggettivo con desmenza maschile + sostantivo femminile, ma aggettivo con desinenza maschile + sostantivo maschile). ἀήτης: C. colloca sempre la parola alla fine dell'esametro (Dian. 230 (vd. il comm. di Bornmann), Del. 318, Ep. V 3 Pf. = HE

1111), seguendo la pratica omerica (Il. XIV

254*

al.). Al vocabolo è dedicato un ampio articolo nel LSJ Suppl.

54 Trro[c]

ἰοζώνου

Λοκρίδος

soggetto γνωτός (v. 52) come già ἀήτης

’Apcıvönc: L'apposizione tTrro[c], spettante al (v. 53), introduce l'ultima pennellata dell'ampia

484

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

perifrasi riferita al vento Zefiro: in questo frangente esso è il cavallo di Arsinoe, deificata dopo la morte come Afrodite, che lo ha inviato nel proprio tempio del capo Zefirio a prelevare il ricciolo di Berenice (cf. v. 57 s. con il comm.). L'inevitabile ἵππος - trädito quasi per intero dal POxy. 2258, adatto alla lacuna iniziale del PSI 1092 e garantito dall'eguos della versione catulliana - ha suscitato 1] disappunto di Pf.: «minime gratus redit, quem in perpetuum e textu expulsum esse sperabamus, equus mirus». La perplessità dello studioso è Innanzitutto motivata dalla sua convinzione che altrove 1 vènti figurino come cavalieri, ma mai come cavalli: ciò era stato categoricamente asserito da Housman, Catullus, con il quale si dichiarava già d'accordo Pf., /Aöxauocp. 197 5. = 120 s. Pf. confessa inoltre di non capire per quale ragione Zefiro venga specificamente definito cavallo di Arsinoe e rileva che il lemma esichiano Ἱππία: ᾿Αρεινόη, ἢ τοῦ

Φιλαδέλφου γυνή, da lui stesso richiamato e discusso (vd. Pf., ZAoöxauocp. 199 n. 61 = p. 122 n. 61), non offre delucidazioni in tal senso (su questa glossa, vd. da ultimo V. Tammaro, «Eikasmös» 19, 2008, p. 151 s.).

Oggi sappiamo che l'asserzione di Housman era erronea: lo ha brillantemente dimostrato Agosti pp. 39-42, che passa in rassegna 1 luoghi letterari nei quali 1 vènti sono accostati ai cavalli o vengono appunto raffigurati come tali (in questo secondo gruppo, cf. Quint. Smyrn. XI 191-194 e Nonn. Dion. II 423; mi pare invece assai dubbio che presso Ion TrGF 19 F 17a, 2 la frase Βόρειον [ir]rov si riferisca a Borea e lo descriva come cavallo alato, secondo la proposta di Lehnus, Cavallo p. 988 s.). Del resto, un attento esame del contesto nel quale si inserisce l'espressione callimachea ne indica la piena congruenza. Infatti 11 poeta fa appello a due motivi ricorrenti fin dall'epos omerico, cioè da un lato il legame anche genealogico fra 1 vènti e i cavalli (cf. 1 numerosi passi già citati da Pf., /ZÂdxauoc p. 197 5. = 120 s., cui si può aggiungere Antim. fr. 37 Wyss = 34 Matthews) e dall'altro l'equiparazione tra la velocità degli uni e quella degli altri (da C. stesso ribadita nel fr. 143,9 s. Oa 6va ov | ὡς ἀνέμων, cf. i brani indicati nel comm.

ad loc.): ecco allora che Zefiro può essere raffigurato come il cavallo di Arsinoe, il quale viene spedito da quest'ultima (cf. v. 57) non appena il ricciolo è stato reciso e offerto (cf. v.

51 5. ἄρτι [ν]εότμητον ... καὶ πρόκατε) e vola rapidissimo verso il tempio dello Zefirio (cf. v. 53 ἵετο xvkAocoac βαλιὰ πτερά). Non bisogna dunque chiamare in causa, con Zwierlein p. 288=245, la metafora del cavallo come trasportatore di divinità né, con Bajoni p. 166, 1 risvolti antropologici del cavallo alato. Molto complesso risulta poi il problema testuale posto dalla terza parola del pentametro, che è Aokpixôc nel PSI 1092 e Λοκρίδος nel POxy. 2258: nel POxy. la lezione a testo è ribadita dallo scolio ai vv. 54-57, dove si cerca di spiegare perché Arsinoe viene definita locrese. La medesima alternativa sembra avere interessato la tradizione manoscritta della versione catulliana, in quanto la corruttela elocridicos può appunto essere risultata da una conflazione di Locricos e Locridos: certo è che, per sanare il testo latino, Achille Stazio conget-

turò Locricos e Bentley Locridos. Ci troviamo insomma di fronte a due variae lectiones fra le quali è difficile optare: da un lato il cavallo locrese Zefiro e dall'altro la locrese Arsinoe (per un recente

confronto

tra le due

alternative

e una

decisa

scelta

della

seconda,

vd.

Lehnus, Cavallo pp. 955-957). A favore di Aokpıköc (parola inusitata in poesia) milita soprattutto Dion. Per. 29 Aoxpoto ... Zegd poro |, in merito al quale Eustazio spiega che, siccome la città magnogreca di Locri si chiama Epizefiri perché è rivolta verso Zefiro, a sua volta Zefiro viene detto lo-

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

485

crese (Aoxpıköc). Pf. ritiene che nel nostro passo Aokpixôc sarebbe ammissibile se all'inizio del verso C. avesse scritto λάτρις (servitore locrese di Arsinoe), ma non possa conciliarsi con ἵπποίς]: tale obbiezione non ha molto valore perché, come osserva Marinone nel comm. al v. 54 (p. 154), «è inevitabile riconoscere in ἵππος la designazione del vento». La variante Λοκρικός sarebbe anche in linea con le notizie contenute nell'unico frammento superstite del trattato callimacheo Περὶ ἀνέμων (fr. gramm. 404 Pf.), dove si legge che - secondo lo studioso - 1 nomi di alcuni vènti erano connessi ai luoghi dai quali essi spiravano: nel nostro verso, allo stesso modo,

Zefiro sarebbe definito locrese perché soffia da Occi-

dente, dove si trova Locri Epizefiri (vd. Koenen p. 103). È poi possibile che in altra sede lo stesso C. spiegasse il toponimo di Locri Epizefiri con la sua esposizione verso Zefiro (fr. inc. sed. 267), il che - secondo il suddetto commento

di Eustazio a Dionisio Periegete - sa-

rebbe il presupposto per l'attribuzione a Zefiro dell'appellativo Aoxpıxöc (ma può anche darsi che la notizia contenuta nel fr. inc. sed. 267 non derivi da C., bensì proprio da uno scollo ai vv. 54-57 della Chioma: vd. il comm. ad loc). Sebbene le precedenti considerazioni rendano allettante Λοκρικός (accolto da Marinone nella sua edizione commentata, vd. pp. 153-155), do con molti dubbi la mia preferenza alla variante Λοκρίδος, pur cosciente del fatto che non si è ancora individuato un nesso certo fra Locri Epizefiri e Arsinoe, tale da spiegare con sicurezza per quale motivo quest'ultima viene qui detta locrese: vd. in proposito il comm. di Marinone al v. 54 (p. 152 s.), con la sua discussione critica delle proposte avanzate a tale riguardo da Mattingly p. 127 s. (cul si è pol parzialmente associato H. Hauben in E. Van't Dack - P. Van Dessel - W. Van Gucht (edd.), Egypt and the Hellenistic World, Lovanii 1983, p. 123 s.), da Forsyth p. 174 5. e da Huxley, Arsinoe p. 243 s. E nemmeno trovo probabile che, come pensa Hollis, Hellenistic Colouring p. 275, per effetto di una «labile associazione verbale» l'epiteto Zefiritide di Afrodite Arsinoe abbia evocato il nome della città di Locri Epizefiri e che questo nome abbia a sua volta dato luogo all'appellativo locrese per la medesima dea (così suppone anche Prioux p. 162 n. 90). Il principale elemento a favore di Λοκρίδος è il fatto che tale lezione risulta ribadita dal lacunoso scolio ai vv. 54-57 nel POxy. 2258, dove essa è oggetto di un tentativo di delucidazione ricostruibile pressappoco così: Arsinoe veniva chiamata locrese perché aveva ad Alessandria un terreno rivolto verso Locri Epizefiri. Questa esegesi (ammesso che sia stata ripristinata correttamente) non convince di per sé, ma ha il merito di richiamare la nostra attenzione (come a ragione osserva Lehnus, Cavallo p. 955) su un epigramma di Posidippo, dove l'esposizione verso l'italico Zefiro si riferisce non a una zona di Alessandria, bensì proprio alla costiera sulla quale sorgeva ıl tempio di Arsinoe allo Zefirio, cioè la meta del

volo di Zefiro nel nostro passo:

ἀνεμώδεα χηλήν,

| tiv ἀνατεινομένην

εἰς Ἰταλὸν

Ζέφυρον (HE 3112 s. = 116, 3 s. Austin-Bastianini, vd. il comm. al v. 57 s.). Se dunque il tempio dello Zefirio guardava verso Locri Epizefiri, non è impossibile che la sua patrona Arsinoe Zefiritide (cf. v. 57) venisse definita locrese. A sostegno di Λοκρίδος si può inoltre osservare che tale vocabolo è utilizzato altrove da C.: vd. il comm. al fr. 187, 9 Aoxpic ...

[πόλ]ις. Si noti infine che Ovidio attribuisce forse ad Arsinoe l'appellativo Locris (Ib. 352, cf. Call.fr. inc. sed. 661 Pf.): vd. Fraser II p. 1025 n. 106. ἰοζώνου: L'epiteto, che significa cinta di viole, non ricorre altrove. Sulla sua applicazione ad Arsinoe deificata come Afrodite può avere influito l'appellativo saffico ἰόκολπος, che forse designa questa dea nei frr. 21, 13 e 103, 3 s. Voigt (esso è Invece riferito a una sposa nel fr. 30, 5 Voigt e probabilmente alle Muse in un nuovo frammento papiraceo di

486

CALLIMACO

Saffo (vd. M. L. West, «ZPE»

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

151, 2005, p. 5)): vd. Acosta-Hughes, Farewell p. 3. Poiché

secondo Esichio ἰόζωνος equivale a πορφυρόζωνος (dal cinto purpureo, vd. app. delle fonti), è notevole che Bacchilide (XI 48 s.) impieghi la frase τέμενος | πορφυροζώνοιο θεᾶς a proposito del recinto sacro di Era, la cui ζώνη è sempre un dono di Afrodite a partire da Hom. MH. XIV 214-221: vd. il comm. al fr. 50, 53 kect{o]ù. Un ulteriore motivo per attribuire ad Arsinoe l'epiteto ἰόζωνος potrebbe essere la volontà callimachea di alludere a un anagramma ’Apcıvön = ἴον Ἥρας, come ha ingegnosamente supposto Martyn p. 194. ’Apcıvönc: Νά. il comm. al v. 45 ’Apcıvönıc.

55 fi[A]ace δὲ πνοιῆι pe, δι᾽ ἠέρα δ᾽ ὑγρὸν

ἐνείκας: Giunto al tempio dello

Zefirio, il vento Zefiro ha sospinto il ricciolo con un soffio e lo ha portato su per l'umida aria. L'esametro sembra avere come modello formale [Hom.] Hymn. VI 3 s., che descrive l'arrivo a Cipro di Afrodite, portata sull'onda marina dall'umido spirare di Zefiro: ὅθι μιν

Ζεφύρου μένος ὑγρὸν ἀέντος | Tivewkev. A sua volta l'immagine tratteggiata da C. in questo verso

e nel successivo pare ripercuotersi, forse attraverso la traduzione

passo delle Metamorfosi di Ovidio (II Arcade con un colpo di vento e li pose ter raptos per inania vento | inposuit nel comm. al v. 56. πνοιῆι: Per il soffio di Zefiro, cf.

catulliana,

su un

506 s.), dove leggiamo che Giove sollevò Callisto e in cielo sotto forma di costellazioni: sustulit et paricaelo. Cf. anche il passo pseudo-tibulliano riportato già Hom. Fl. XIX 415 πνοιῇ Zegdporo, Od. IV 402 |

πνοιῇ … Ζεφύροιο, X 25 πνοιὴν Ζεφύρου, Hes. fr. 75,9 M.-W. πν]οιὴ Ζεφύροιο. ἠέρα ... ὑγρόν: Qui ἠήρ designa lo strato basso dell'aria, conformemente al senso originario della parola (foschia, nebbia): cf. invece v. 7 ἐν ἠέρι con il comm. Quanto al ge-

nere maschile del vocabolo, vd. il comm. al fr. 1,34 ἐκ Sinc ἠέρος. Per il nesso ἠέρα ... ὑγρόν, cf. Emp. 31 B 38, 3 D.-K.® ὑγρὸς ἀήρ I, Aristot. De gen. et corr. 330 B 46 δ᾽ ἀὴρ ... ὑγρόν, Met. 348 B 28 ò ἀὴρ ... ὑγρός, nonché Pind. Nem. VIII 41 5. dypôv | αἰθέρα, Bur. Jon 796 ὑγρὸν ... αἰθέρα. Ma sono già rilevanti Hom. Od. V 478 e XIX 440 ἀνέμων ... μένος ὑγρὸν dévtov I, Hes. Theog. 869 e Op. 625 ἀνέμων μένος ὑγρὸν ἀέντων | e il passo dell'inno omerico ad Afrodite riportato sopra (cf. poi Opp. Hal. III 67, Quint. Smym. VI 486, XI 363). Riguardo a ὑγρόν, cf. anche lo scolio nel POxy. 2258.

δ᾽: Per il dé in terza posizione, vd. il comm. al fr. 1, 12 ἣ μεγάλη δ᾽. 56 Κύπρ]ιδος εἰς κόλιπους θῆκεν [ἄφαρ καθαρούε: Zefiro è rapidamente giunto in cielo, dove ha deposto il ricciolo sul casto grembo di Afrodite. Il supplemento iniziale spetta a Vitelli e rispecchia il Veneris di Catullo. Da parte sua L. ha osservato che un passo dello scolio ai vv. 54-57 nel POxy. 2258 (εἰς τοὺς κόλπους τεθῆναι) garantisce l'integrazione sia di xöALrovc sia di una forma aoristica del verbo τίθημι (da lui così sistemata nel secondo colon del pentametro: — v ἔθηκε v -). Prendendo le mosse dagli interventi di L., Ardizzoni ha proposto L0fikev [ἄφαρ καθαρούς: il nesso εἰς κόλιπουςε ... καθαρούς corrisponde bene alla frase casto ... in gremio della traduzione catulliana; l'avverbio ἄφαρ è appropriato al contenuto complessivo dei vv. 51-56, dove si ribadisce più volte che il prelievo del ricciolo da parte di Zefiro è stato tempestivo e veloce: vd. il comm. al v. 54. Meno riuscito mi sembra il supplemento 10fixe [θεῆς ἱερούς di Matthews. Vd. in generale l'app. L'Arsinoe del v. 54, la Cipride di questo pentametro (nonché del v. 64) e la Zefiritide del v. 57 sono la medesima

dea:

che le ultime due vadano

identificate, emerge

del resto

dalle parole stesse di C. (v. 57 αὐτή! ... Zegupîtie). Si tratta appunto di Afrodite Arsinoe

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

487

Zefiritide, che ha ordinato a Zefiro di portarle in cielo 1] ricciolo offerto da Berenice nel suo

stesso tempio del capo Zefirio, dove vige il culto di Arsinoe deificata come Afrodite e detta anche Zefiritide, dal nome della località (si noti che pure Igino, nel passo riportato alla fine dell'app. delle fonti, scrive in Veneris Arsinoes Zephyritidis ... templo; la triplice epiclesi è adottata da C. anche nell'Ep. V Pf. = HE 1109 ss.: vd. il comm. al v. 57 s.; dal v. 90 della traduzione di Catullo si deduce che C., verso la fine del carme, menzionava ancora Afrodite

celeste). Riguardo alla castità del suo grembo, vd. il comm. di Marinone al v. 56 (p. 160): «Afrodite-Arsinoe ... era venerata come patrona dei naviganti, piuttosto che come dea dell'amore». Riguardo al triplice impiego dell'aoristo (&)0nxe(v) nella nostra elegia, vd. il comm. al v. 8 ἔθηκε θεοῖς. Per un riecheggiamento del v. 55 s. nelle Metamorfosi di Ovidio, vd. il comm. al v. 55. Gaertner p. 199 ha inoltre individuato un'eco del nostro passo (non necessariamente mediata dalla traduzione catulliana) in un brano della prima elegia di Sulpicia (= [Tib.] IV 7, 3 s.): illum (cioè amorem) Cytherea ... 1 adtulit (cf. v. 55 &vetkac) in nostrum deposuitque sinum. Non si può accogliere l'ipotesi di West, Venus, secondo la quale la deposizione del ricciolo sul grembo di Afrodite (descritta nel nostro pentametro) non si verificherebbe in cielo, bensì nel mare, e soltanto nel v. 63 s. il ricciolo salirebbe dalle acque marine al firmamento (così intendono anche Koenen p. 100 s. e Matthews, Coma p. 55). Innanzitutto, infatti, è

poco plausibile che la scena si sposti dal mare (v. 56) al cielo (vv. 59-62) e poi di nuovo al mare (v. 63); in secondo luogo, soprattutto, la traduzione catulliana del v. 55 (isque per aetherias me tollens avolat umbras) indica che il movimento di Zefiro verso Afrodite è di tipo ascensionale (verso il cielo), né è lecito cercare di sminuire l'importanza di questo fatto attraverso l'ipotesi che qui Catullo trascuri o mascheri 1 dettagli astronomici (vd. West, Venus p. 62 5.) ovvero fraintenda il senso dei vv. 55 s. e 63 5. del modello callimacheo (vd. Matthews, Coma pp. 55-57).

57 5. αὐτή! μιν Ζεφυρῖτις ἐπὶ xp£olc ἧκε πέτειθαι | .... K]avoritov varerıc α[ἰγιαλοῦ: Il distico spiega chi abbia inviato Zefiro (μιν) allo scopo (ἐπὶ xpéo[c) di prelevare il ricciolo (cf. vv. 51-56). È stata Afrodite Arsinoe Zefiritide, cioè la patrona stessa del tempio dove era avvenuta l'offerta, posto sul capo Zefirio vicino alla foce più occidentale del Nilo, che scorreva presso la città di Canopo (a circa 22 km da Alessandria). Che il v. 57 cominciasse con αὐτή, è garantito dallo scolio nel POxy. 2258; il supplemento ἐπὶ xp£olc, già di per sé plausibile, corrisponde bene all'avverbio eo della traduzione catulliana. Più difficile è ricostruire la fine dell'esametro: probabilmente il verbo principale si trovava qui piuttosto che all'inizio del verso successivo (cf. legarat nel v. 57 di Catullo); la presenza di πεμφθέντος ed ἐπιπρο͵ | nel suddetto scolio inducono a ipotizzare che C. impiegasse un verbo come (Öreuwe o (npo&)nke(v); una qualche forma di fui o di un suo

composto sembra raccomandata dalla frase nonniana 'Ewcgöpoc ... 1... γνωτὸν δὸν προέηκε (Dion. XXXVII 74 s.), sicuramente debitrice del nostro v. 53 (vd. il comm. ad loc), molto allettante è dunque l'integrazione esemplificativa ἧκε πέτεςθαι di Pf., il cui infinito si adatta benissimo a Zefiro nella sua doppia natura di vento e di cavallo (cf. Hom. Il. XI 281 al. e vd. il comm. al v. 54).

Nel pentametro i supplementi K]avozitov e α[ἰγιαλοῦ combaciano con la frase Canopitis ... litoribus di Catullo. Incerta resta invece la prima parola, il cui equivalente catulliano è per di più controverso. Sicuramente da scartare è l'impossibile forma Γραῖα, cui si era

488

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

pensato in relazione alla congettura Graiia di Baehrens nel testo latino. Ma forse non occorre cercare un termine corrispondente al primo vocabolo del pentametro catulliano (che parrebbe essere grata, vd. Mariotti p. 58 s. = 78), perché il poeta latino non di rado inserisce aggiunte o modifiche personali (cf. p.es. v. 62). Il pentametro callimacheo poteva allora iniziare con un attributo di ypéo[c, come p.es. κεῖνο, suggerito da Maas. Vd. in generale l'app. Come attesta Strabone (XVII 800), il capo Zefirio si trovava poco a Est di Alessandria ed era la punta sabbiosa di una lingua di terra che correva fra il mare e il canale canopico, scavato per mettere in collegamento il Nilo con il porto alessandrino dal lato dell'isola di Faro: sul capo Zefirio, appunto, sorgeva il tempietto di Arsinoe Afrodite (τὸ Ζεφύριον,

ἄκρα volickov Exovca ᾿Αρεινόης ᾿Αφροδίτης). Dal vento Zefiro, favorevole alla navigazione in quelle acque, scaturirono sia il nome della località (esposta al suo comm. al v. 54) sia l'epiteto Zefiritide della dea Afrodite Arsinoe venerata nel st'ultimo era stato edificato dal navarca Callicrate per onorare la regina ancora che il passo di Stefano Bizantino riportato nell'app. delle fonti al v. 57 e, per l'ammiraglio, vd. H. Hauben, Callicrates of Samos

(Leuven

soffio, vd. il tempio: queviva. Cf. anla figura del-

1970) e P. Bing, «GRBS»

43

(2002-2003), pp. 243-266. Sul tempio dello Zefirio vertono tre epigrammi di Posidippo, che ne celebrano anche la costruzione da parte di Callicrate. Uno di essi indica precisamente la sede dell'edificio e contiene l'appellativo Zefiritide: cf. HE 3110-3117 = 116, 1-8 Austin-Bastianini (parla il

tempio stesso) uéccov ἐγὼ Φαρίης ἀκτῆς «τόματός te Κανώπου |... χῶρον ἔχω ... 1... | (per il v.3 s. vd. il comm. al nostro v. 54)... BacıAtcenc | ἱερὸν ᾿Αρεινόης Κύπριδος ... | ἀλλ᾽ ἐπὶ τὴν Ζεφυρῖτιν" éxovcouévnv ᾿Αφροδίτην |... βαίνετε. Cf. poi HE 3120-3122 = 119, 1-3 Austin-Bastianini τῆς Φιλαδέλφου | Κύπριδος ... ἱερὸν ᾿Αρεινόης | … ἐπὶ Zegupitidoc Είτιδος Valckenaer: -niôoc Athen. cod.) ἀκτῆς | ed Ep. 39, 2 Austin-Bastianini ‘Apcivôn | (una menzione della dea Zefiritide si cela forse nel lacunoso Ep. 110, 1 Austin-Bastianini:

vd. W. Lapini, «ZPE» 149, 2004, p. 47; per ulteriori proposte, vd. Lapini pp. 146-191). Vd. Vahlen, Arsinoe.

Lo stesso C., nell'Ep. V Pf., fa parlare una conchiglia che viene offerta alla dea dello Zefirio: cf. soprattutto vv. 1s.e8=HE 1109 5. e 1116 Ζεφυρῖτι" ... 1 Κύπρι e ’Apcwön l. Anche Edilo, in un suo epigramma (HE 1843 s.), tratta di un oggetto dedicato φιλοζεφύρου

κατὰ νηόν |. ᾿Αραινόης Ι. Riguardo al tempio e alla sua localizzazione, cf. i passi raccolti da Pf., /Zioxrazocp. 203 n. 68 = p. 126 n. 68 (con bibliografia) e vd. Fraser Ip. 239 s. e IT p. 388 n. 390, che critica le conclusioni di E. Breccia, Monuments de l'Égypte gréco-romaine I (Bergamo 1926) pp. 11 e 18e tavola II.

57 αὐτή! μιν Ζεφυρῖτιε: Cf. Hom. Od. XII 422 (parla Atena) | αὐτή μιν nöurevov, Ap. Rh. I 109 s. | αὐτή μιν Tprrovic ... | pcev ᾿Αθηναίη. Per l'incipit callimacheo, vd. il comm. al v. 63. Zegvpitic: La parola, che nei brani epigrammatici riportati nel comm. al v. 57 5. spetta o (come qui) all'Afrodite del capo Zefirio o a questa località stessa, altrove sı riferisce all'Occidente o al vento Zefiro: cf. Dion. Per. 346=727 rAevpfic Zegvpitidoc, [Orph.]

Hymn.LXXXI 1 Quandt αὖραι ... Ζεφυρίτιδες, [Opp.] Cya.IV 75 Zegupitic αὔραις |. ἐπὶ ypéolc: Per il nesso, cf. Pind. O1. I 45, Eur. Or. 150. Νά. il comm. al fr. 187, 2. 58 Κ]ανωπίτου ... α[ἰγιαλοῦ: Cf. Sol. fr. 28 W. = 10 Gent.-Pr. Κανωβίδος ... ἀκτῆς |. L'aggettivo Κανωπίτης, che deriva dal nome della città egizia Kavoroc, assume

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

489

qui valore locativo e ha una configurazione analoga agli etnici Kpwuvirnc e Κεραιίτης, impiegati da C. rispettivamente in Vict. Sosib. fr. 384, 12 Pf. e in Jamb. fr. 217 Pf. (Κεραϊοτής codd.) e connessi ai toponimi Κρῶμνα (cf. Steph. Byz. s.v.) e Kepoiaı (cf.

Suid. s.v. ‘Pravéc). Cf. inoltre Call. Ep. LV 1 s. Pf. = HE 1125 s. Κανωπίτᾳ ... |... θεῷ | (probabilmente Serapide, vd. il comm.

.. πολῖται,

Parthen.

SH

654

di Gow-Page), Parmen. SH 604 A, 1 5. Κανωπῖται |

= fr. 42

Lightfoot

(ap.

Steph.

Byz.

s.v. Bopvc@évnc)

Κανωπίτης ὁ "Ἄδωνις. ναϊέτιο: La parola non ricorre altrove. Afrodite trice della spiaggia di Canopo, perché il tempio dello spressione di Ap. Rh. I 1126 | ἐνναέτιν Φρυγίης, che rata in Frigia. Riguardo alla predilezione callimachea di Williams ad Ap. 48.

Arsinoe Zefiritide viene detta abitaZefirio è dedicato a lei: analoga è l'esi riferisce alla Grande Madre veneper i femminili in -(T)ıc, vd. il comm.

59-61 ὄφρα xe] μὴ νύμφης Μινωίδος o[dpavòv Tor | χρύςεε]ος ἀνθρώποις μοῦνον ἔπι ς[τέφανος | εἰς ἅπ]αν ἐν πολέεςειν ἀρίθμιος: Lo scopo di Afrodite, quando ha inviato Zefiro a rapire 1] ricciolo di Berenice (cf. v. 57 s.), è stato quello di fare in modo che non soltanto l'aurea Corona di Arianna - figlia di Minosse e novella sposa di Dioniso (autore del catasterismo che la riguarda) - occupasse un posto in cielo al di sopra degli uomini, venendo per sempre annoverata fra molti gruppi stellari, ma appunto (cf. v. 61 s.) anche il ricciolo diventasse una splendente costellazione. I supplementi del v. 59 s. qui accolti, che spettano tutti a Vitelli eccezion fatta per la particella xe integrata da Coppola, si richiamano (molto meglio delle proposte di altri, elencate da Marinone nel comm. al v. 60, p. 172) alla traduzione di Catullo: ὄφρα xe] μή corri-

sponde a ne, o[dpovòv ἵζοι a in lumine caeli ... foret,ypdce]oc ... ς[τέφανος ad aurea ... corona. Nel v. 61 il supplemento εἰς ἅπ]αν (per sempre) è mio: esso tiene conto della prima traccia presente nel papiro e corrisponde al fixa di Catullo, anche per la collocazione all'inizio dell'esametro. Il testo catulliano mostra anche che la parte iniziale del v. 61 (fino ad &pt@uoc) si riferisce ancora alla Corona di Arianna, mentre la successiva proposizione finale - coordinata

alla precedente da ἀλλ[ζά - verte sulla Chioma di Berenice: infatti ἀλλ[ὰ gaveinv | καὶ] κτλ. corrisponde perfettamente a sed nos quoque fulgeremus | ecc. Non si può dunque concordare con L. e Pf., i quali mettono una virgola alla fine del v. 60 e ritengono che l'intero

v. 61 abbia per soggetto la Chioma di Berenice, pensando che la congiunzione ἀλλ[ά sia inusitatamente collocata al quinto posto e integrando dopo di essa φαείνω

(L.) ovvero

γένωμαι (Maas),

risplendessi

così da avere il senso ma

anch'io, bel ricciolo di Berenice,

(oppure fossi) annoverato fra molte luci (oppure costellazioni: gli erronei p&ec]ıv di Eitrem e teipec]ıv di Maas e W. E. 1. Kuiper). Vd. in generale l'app. Che tutto il tratto di testo fra l'inizio del v. 59 e ἀρίθμιος riguardi la Corona di Arianna, è anche indicato da un luogo delle Metamorfosi di Ovidio (VIII 177 s.), dove leggiamo che Dioniso diede origine a quella costellazione ut ... perenni | sidere clara foret (cf. il nostro

ὄφρα ... o[bpavèv ἵζοι ...1 εἰς ἅπ]αν … ἀρίθμιος e - per il brano ovidiano - vd. i comm. ai vv. 59 Mivotöoc e 60 ypdce]oc ... c[tÉégavoo). Il fatto che nei vv. 59-62 C. menzioni l'una accanto all'altra la Corona di Arianna e la Chioma di Berenice può avere prodotto una certa confusione tra le due costellazioni: sarebbe cioè riconducibile al precedente callimacheo, piuttosto che a una vera e propria invenzione, l'erroneo posizionamento del Πλόκαμος ovvero Crinis (sic) di Arianna nel punto del cielo occupato dalla Chioma di Berenice (vale a dire accanto alla coda del Leone), per il

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CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

quale cf. 1 passi riportati nel comm. al fr. inc. auct. 278 e vd. Marinone p. 253 n. 23. Dei nostri versi è certamente memore Greg. Naz. Or. V (In Iulian. II) 5, p. 302 Bernardi

λέγε μοι καὶ cd τοὺς code ἀςτέρας, τὸν ᾿Αριάδνης «τέφανον καὶ τὸν Βερενίκης πλόκαμον. 59 ὄφρα κε] un: Per il nesso, cf. [Hom.] Hymn. II 131, Mosch. II 127, Opp. Hal. I 342, [Opp.] Cyn. I 103* al., Greg. Naz. Carm. I 1, 2, 24 (PG 37 p. 403)* al., Paul. Sil. Ecphr. Soph. 477*. La sequenza ὄφρα xe risulta impiegata dallo stesso C.: cf. Vict. Sosib. fr.38A4, 23 Pf.* e probabilmente fr. 148, 23* e Hec. SH 285, 1 = fr. 40, 1 H.

Muvoidoc: La designazione di Arianna (per la quale cf. fr. 166, 13) come figlia di Minosse risale all'epos arcaico: cf. Hom. Od. XI 321 5. e Hes. Theog. 947 s. ᾿Αριάδνην,. |

κούρην Μίνωος (imitati da Quint. Smyrn. IV 388 | Μίνωος κούρην). Ma il patronimico Mivoic è con ogni probabilità un'innovazione callimachea, sul tipo di IIpoundic (discendente di Prometo, forse presente nel fr. 166, 7: vd. il comm. ad loc.) e Tnuevic (figlia di Temeno, fr. inc. auct. 780 Pf.). Lo si ritrova poi varie volte nella poesia greca e soprattutto latina: cf. Ap. Rh. III 998 παρθενικὴ Mivoic (in un brano dov'è anche rievocata la Corona

di Arianna, vd. il comm. al v. 60 ypdce]oc ... e[t&pavoc), IV 433 παρθενικῆς Mwvotdoc®*, Nonn. Dion. XLVII 424 Μινωίδα κούρην I, XLVII 548 ἀλόχου MivotSoc* (dove ἀλόχου, al pari del nostro νύμφης, qualifica ulteriormente Arianna come sposa di Dioniso) e - sul versante latino - Cat. LXIV

60 Minois, 247 Minoidi al. Dato il contesto astronomico

del nostro passo, è soprattutto notevole [Verg.] Lydia 49 notum Minoidos astrum |, ma cf. anche

Ov. Mer.

VIII

174 Minoide

(nella sezione

dedicata alla Corona

di Arianna,

vd. 1

comm. ai vv. 59-61 e al v. 60 xpöceloc ... c[tépavoc). 60 xpöceloc

... c[tégavoc: La corona d'oro di Arianna fu, come scrive Arato (vv.

71-73), trasformata nella costellazione dello (τέφανος da Dioniso, che volle così eternare il

ricordo della sua sposa scomparsa (vd. il comm. di Martin): si osservi che Apollonio Rodio (III 1003) la definisce | ἀςτερόεις crépavoc. Il catasterismo veniva forse narrato anche nei Cretica attribuiti a Epimenide (EGM fr. 3 = fr. 38, II 3 p. 139 Bernabé), dove si specifica che Arianna aveva ricevuto la corona in dono da Dioniso e che essa era Ἡφαίοτου ... ἔργον

… ἐκ χρυοοῦ πυρώδους καὶ λίθων Ἰνδικῶν. È dubbio, inoltre, che ne parlasse Ferecide di Atene: cf. FGrHist 3 F 148 = EGM fr. 148, dove fra l'altro si legge che Dioniso δωρεῖται crépavov αὐτῇ xpucodv. Secondo Ovidio (Mer. VIII 177-182), il dio - dopo aver trovato Arianna nell'isola di Dia ed essersi unito a lei - le tolse dalla fronte la corona e la lanciò in cielo, dove essa divenne una costellazione (per questo brano ovidiano, vd. i comm.

ai vv.

59-61 e al v. 59 Mwoidoc). Il vocabolo 42, XXXII 6) l'inno XXXII, che si riferisce

ctégavoc è un hapax sia omerico (Il. XIII 736, cf. sia esiodeo (Theog. 576). Di particolare interesse perché qui la parola compare all'interno della frase - come il nostro χρύςε]ος ... ς[τέφανος - a un corpo

ἀνθρώποιε

anche [Hom.] Hymn. VII è la sua attestazione nel| ypvcéov ἀπὸ ετεφάνου, celeste, cioè la luna.

... ἔπι: Perla posposizione di ἐπί nell'opera di C., vd. il comm. al fr. 149,

20. L'unione della frase ἀνθρώποιεο rende il nostro passo simile ad Arat. 61 εἰς dr ]av: L'impiego della prosastico (cf. p.es. Plut. Marc. XII

... ἔπι e del verbo gaveinv (integrato alla fine del v. 61) 135 φαίνεται ἀνθρώποιοι . frase con il significato di per sempre è prevalentemente 7, Dio Chrys. Or. XXXI 130), ma lo si riscontra in po-

esia presso Areth. Anth. Pal. XV 34, 4. Riguardo Hom. I. XX 156*, Dion. Per. 628*.

alla collocazione metrica di ἅπαν,

cf.

ἐν noA&eccıv: Per il nesso, cf. Nic. Al. 242*, Maxim. De action. ausp. 355, Greg. Naz. Carm.Il 1,1, 88 (PG 37 p. 976)*.

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

491

ἀρίθμιος: L'aggettivo figura qui per la prima volta e si ritrova presso Rhian. CAfr. 1,

16 p. 101 ὥς xe μετ᾽ ἀθανάτοις dpiduroc* (ma può trattarsi della tmesi μετ᾽... ἀρίθμιος: vd. l'app. di Powell), Dion. Per. 263 | ἀνέρες ἐν ABdecciv ἀρίθμιοι" (che sembra risentire del nostro verso sul piano fonetico) e Opp. Hal. I 151 | ἐν καὶ ὄνος keivorcıv ἀρίθμιος (v.l. κείνοις ἐναρίθμιος). Forse C., scrivendo che la Corona di Arianna è annoverata fra le costellazioni, intende anche che essa è oggetto di uno speciale onore, nel qual caso il senso del vocabolo ἀρίθμιος si accosterebbe qui a quello dell'omerico ἐναρίθμιος (77. II 202; la parola ha una valenza diversa in Od. XII 65): un'esegesi di questo tipo è confortata dal significato che C. stesso assegna al sostantivo ἀριθμός nell'Ep. XXV 5 s. Pf. = HE 1095 5.

τῆς δὲ ταλαίνης | νύμφης ... οὐ λόγος οὐδ᾽ ἀριθμός | (passo già richiamato da Vitelli). Si noti, per converso, che nella poesia ellenistica e imperiale l'aggettivo ἐναρίθμιος significa semplicemente annoverato: vd. il comm. di Gow a Theocr. VII 86 (un riecheggiamento del Lo stesso vale per la forma &v&pıduoc, impiegata fra gli altri da Simm. Anth. Pal. XV 22, 5 = CA fr. 25, 5 p. 117 οὐκ ἐνάριθμος γεγαὼς ἐν προμάχοις ᾿Αχαιῶν (questo brano non può

essere chiamato in causa per corroborare l'integrazione &AA|& γένωμαι di Maas alla fine del nostro verso: vd. il comm. ai vv. 59-61).

61 5. ἀλλ[ὰ gaveinv | καὶ Beplevixeioc καλὸς

ἐγὼ πλόκαμ[οε: L'intento di

Afrodite, quando ha mandato Zefiro a prelevare il ricciolo (cf. v. 57 s.), è stato quello di far sì che non solo la Corona di Arianna occupasse il cielo (cf. vv. 59-61), ma anche 1] bel ricciolo di Berenice diventasse una splendente costellazione. I supplementi spettano a Vitelli:

le integrazioni Bep]evikewoc e πλόκαμίος sono palmari, mentre la sequenza &AA[& paveinv | καί] corrisponde pienamente alla frase catulliana sed ... quoque fulgeremus. Per l'explicit del v. 61, cf. inoltre Agath. Anth. Pal.135, 5= 7,5 Viansino ἀλλὰ φανείης.

62 Bep]eviketoc

... πλόκαμ[ος: Marinone, nel comm. al v. 62 (p. 173), rileva «la

semplicità quasi solenne con cui Call. nel proclamare il catasterismo annuncia il nome ufficiale della nuova costellazione» (Βερενίκης πλόκαμοο). Oltre che da C., l'aggettivo Bepevikewc è impiegato da Teocrito (XV 110), che però lo riferisce a Berenice moglie di Tolemeo I: sul tipo di forma aggettivale, vd. il comm. di Gow al luogo teocriteo. Per

rAökauloc, vd. il comm. al v. 47 πλόκαμοι. 63 ὕδαςι] λουόμενόν ue παρ᾽ ἀθα[νάτους

ἀνιόντα: L'esametro rievoca la

prima ascesa della Chioma di Berenice, ormai mutata in costellazione, dalle acque dell'O-

ceano al cielo. L'inizio del verso è stato integrato da Vogliano, che ha tenuto presente il fluctu della traduzione di Catullo: ı passi di Nonno riportati più avanti rendono il plurale ὕδαει preferibile al singolare ὕδατι (suggerito in alternativa dal medesimo studioso), mentre le integrazioni di Vitelli κύμαςι oppure κύματι - benché ancora più rispondenti al testo latino - eccedono lo spazio disponibile in lacuna. Il supplemento rap’ ἀθα[νάτους ἀνιόντα si deve a Vitelli e rispecchia il catulliano cedentem ad templa deum: per l'impiego astronomico del verbo &veuu, cf. Hom.

//. VIII 538 al., Hes. Op. 728*, Arat. 332* al.; riguardo

al participio ἀνιόντα in clausola, cf. anche Call. Del. 43 &vıövreck. Il verso introduce l'ultima delle tre sottosezioni di sei versi che compongono questa parte dell'elegia (vv. 51-68, vd. il comm. ad loc}. L'asindeto a inizio di periodo non fa difficoltà: anzi l'attacco asindetico e la presenza del pronome personale ue rendono l'emistichio ὕδαςι] Aovöuevöv ue perfettamente parallelo a quelli con i quali cominciano le due sottosezioni precedenti, cioè | ἄρτι [ν]εότμητόν ue (v. 51) e Ι αὐτή! μιν Ζεφυρῖτις (v. 57). Già nella poesia omerica il verbo λούω si trova applicato ai lavacri degli astri nell'Oce-

492

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ano prima della loro levata verso il cielo: cf. Hom.

Il. V 6 λελουμένος

Ὠκεανοῖο

|

(riguardo a Sirio), [Hom.] Hymn. XXXII 7 ἀπ᾿ Ὠκεανοῖο, Aosccauevn χρόα καλόν | (a proposito di Selene); nei poemi omerici, del resto, compare la frase λοετρῶν Ὠκεανοῖο | (Il. XVII 489 = Od. V 275). Il nostro esametro sembra avere a sua volta influito su due brani delle Dionisiache di Nonno, cioè XXXVIII 118 5. Ὠκεανοῖο | … ξἕὸν δέμας dOact

λούων le 308 5. ἀνέτελλεν ... | ὕδαει ... λελουμένος Ὠκεανοῖο |, riferiti rispettivamente al sorgere del Sole e di Fetonte che sostituisce 1] Sole nel suo percorso celeste. In àmbito latino, cf. tra gli altri Sen. Phaedr. 750 s. modo lotus undis | Hesperus. Per lo spuntare dall'acqua quale prerogativa degli astri, vd. il comm. al v. 49. Come rileva con ragione Pf., il participio presente Aovöuevov, che a prima vista suscita sorpresa, esprime nello specifico il primo lavacro della nuova costellazione (lo studioso aggiunge che C., se avesse solo voluto descrivere la Chioma di Berenice bagnata dalle acque, avrebbe impiegato un participio del tipo di teyyönevov). A questo proposito sono del tutto condivisibili le osservazioni di Marinone nel comm. al v. 63 (p. 176): «Nella realtà, anziché immaginare che il gruppo stellare fosse comparso improvvisamente in cielo, con una finzione meno fantasiosa e più aderente alla prassi astronomica, Conone e con lui Callimaco preferirono proclamare l'avvenuto catasterismo sfruttando la comcidenza con il periodo dell'anno in cui da Alessandria si vedeva sorgere la Chioma ad oriente nelle ultime ore della notte» (vd. anche Marinone, Catullo p. 351=109). Il periodo in questione era quello della levata mattinale visibile della Chioma (vd. il comm. al v. 68), che ad Alessandria per il 245 a.C. può essere fissato fra il 2 e l'8 settembre, settimana d'altro canto compatibile con il momento nel quale - secondo la ricostruzione storica più verisimile - Tolemeo tornò dalla guerra e Berenice dedicò il ricciolo (vd. inoltre il nostro comm. introduttivo e le pp. 21, 33 e 255 del comm. di Marone). Non convince l'interpretazione di Matthews, Coma pp. 51-57, che si articola nei termini seguenti: il nesso Aovöuevöv pe si riferirebbe al ricciolo non ancora sottoposto al catasterismo, che si bagna nelle acque marine mentre sale al cielo, e l'espressione &ctpov ἔθηκε νέον del v. 64 significherebbe che Afrodite, soltanto nel corso di questa sua ascesa, lo tra-

sformò in una nuova costellazione. Sconsigliano quest'esegesi sia 1] fatto che essa presuppone in maniera esplicita un fraintendimento dei vv. 55 s. e 63 5. da parte di Catullo (vd. anche il comm. al v. 56) sia la circostanza che il verbo ἔθηκε del v. 64 (rispecchiato dal posuit catulliano) non solo figura in contesti astronomici a proposito di nuove costellazioni collocate in cielo, ma segna pure (nel suo significato concreto di porre) le tre fasi successive della vicenda del ricciolo all'interno della nostra elegia (vd. il comm. ad loc).

64 Könpılc

ἐν ἀρχαίοις

ἄετρον

ἔ[θηκε νέον: Afrodite, che ha voluto il cata-

sterismo del ricciolo (cf. vv. 54, 56-58 e 61 s.), ha collocato in cielo la nuova costellazione

della Chioma di Berenice - emergente allora per la prima volta dalle acque dell'Oceano (cf. v. 63) - fra quelle già esistenti. Le integrazioni sono di Vitelli: Κύπρι]ς, che corrisponde al più generico diva di Catullo, è adatto alla prima traccia superstite e allo spazio disponibile in lacuna; ἔθηκε νέον equivale, anche per la posizione metrica, alla frase catulliana novum posuit. Altri dati concorrono a corroborare il secondo supplemento. Innanzitutto la frase &ctpov ἔθηκεν viene impiegata da Nonno (Dion. XLVII 254) a proposito di Zeus che pone in cielo la costellazione del Cane. Il medesimo poeta, inoltre, adotta il nesso νεώτερον &ctpov (XLI 246). Riguardo poi all'aoristo ἔθηκε, si noti che nel v. 71 dei Fenomeni di Arato esso indica la metamorfosi astrale della Corona di Arianna, operata da Dioniso. Nell'antica esegesi

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

493

aratea, infine, la frequente espressione ἐν τοῖς &ctpoic ἔθηκε(ν) (dove figurano anche altre forme dell'aoristo di τίθημι) designa i catasterismi: cf. p.es. Schol. Arat. 27, Commentar. in Arat. pp. 190 b 21 s.; 204 b 6 s. Maass. Qui C. rispetta la distinzione tecnica fra ἄστρον (costellazione) e ἀςτήρ (stella), a differenza di quanto fa nel fr. eleg. 387, 2 Pf. ἀςτέιρι τιῷ Βερενίκης I: vd. il comm. ad loc. Per il triplice impiego dell'aoristo (#)Onxe(v) nella nostra elegia, vd. il comm. al v. 8 ἔθηκε

θεοῖς. Verso la fine delle Metamorfosi di Ovidio (XV 749) il nesso sidus ... novum, già impiegato da Catullo in corrispondenza del nostro verso, designa la nuova costellazione nella quale si mutò Giulio Cesare divinizzato (vd. Knox, Ovid p. 76). Ma, come rileva Cameron

p. 482, può darsi che Ovidio abbia anche tenuto presente la ripresa del passo callimacheo e catulliano compiuta in precedenza da Virgilio, il quale all'inizio delle Georgiche (I 32) apostrofa Ottaviano e 51 chiede se egli si aggiunga novum ... sidus ai lenti mesi. Vd. inoltre A. Barchiesi, 1! poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo (Roma-Bari 1994), p. 262. 65 s.: Come

si ricava dal testo di Catullo, in questo distico la nuova costellazione della

Chioma specificava il luogo del cielo dove era stata collocata fra le antiche (cf. v. 64), cioè fra la Vergine, il Leone e l'Orsa Maggiore (vd. il disegno a p. 256 del comm. di Marinone). Ciò è anche confermato dagli scoli ai vv. 65-68 nel POxy. 2258, che esordiscono con una menzione del Leone e dell'Orsa e tramandano poco più avanti un frammento esametrico tratto dall'opera Προκόμιον (Frangia) ovvero Πλόκαμος del poeta Diofilo ovvero della poetessa Diofila (SH 391), nei cui vv. 1-8 leggiamo appunto che la Chioma di Berenice si trova accanto all'Orsa, alla Vergine e al Leone. Il brano diofileo, che nel complesso

si ri-

chiama a C. per il contenuto ma ad Arato per 1 termini adottati, offrirebbe un aggancio più specifico con la nostra elegia se in esso la donna intenta a osservare le costellazioni (v. 2, | ὄμματ᾽ éricr[ñ caca) fosse proprio Berenice: infatti, stando al v. 89 del testo catulliano (| tu vero, regina, tuens ... sidera), il carme di C. presentava verso la fine Berenice nell'atto di

contemplare gli astri. Cf. in generale gli scoli al vv. 65-68 con l'annotazione, nonché Diophil. SH 391 con l'annotazione e l'apparato.

Il v. 65 sembra corrispondere al fr. inc. auct. 278 ἐςχατίην ὑπὸ πέζαν ἐλειήταο Λέοντος (vd. il comm. ad loc.), il cui dubbio vocabolo ἐλειήταο equivale con ogni verisimiglianza all'aggettivo saevi utilizzato da Catullo nel v. 65 della sua traduzione come attributo di Leonis (l'asindeto nell'esametro callimacheo avrebbe allora funzione esplicativa rispetto al verso precedente: vd. sopra il comm. e Kiihner-Gerth II 2 p. 344). In tal caso nel v. 66 di C. dovevano essere menzionate sia la Vergine sia l'Orsa: poiché Catullo nel rispettivo pentametro definisce quest'ultima Callisto ... Lycaonia, è possibile che al nostro brano si riferisca il fr. inc. sed. 269, cioè uno scolio omerico nel quale leggiamo che C. rievocava il catasterismo di Callisto, figlia di Licaone, sotto forma di orsa. Probabilmente il patronimico

Avkoovin compariva già nell'originale callimacheo, tanto più che C. stesso impiega la frase Avkoovine ἄρκτοιο | nel v. 41 dell'inno a Zeus (vd. il comm. di McLennan e cf. poi Nonn.

Dion.I 462 Avkaovinc ... ᾿Αμάξης I; nel fr. 19,9 C. utilizza il matronimico di Callisto, cioè Novaxpivn). Congetturo allora che il v. 66 contenesse anche un verbo presente indicativo, tramite il quale il Πλόκαμος dichiarava la propria vicinanza alla Vergine e all'Orsa, e che da tale indicativo dipendesse 1] participio impiegato poi da C. nel v. 67, per il quale privilegio il caso nominativo (£pxöuevoc). Ipotizzo quindi, per il v. 66, una configurazione del genere: Παρθένον cicopé@ πῦρ te Λυκαόνιον. Vd. in generale l'app. Se dunque si fa coincidere il v. 65 con il fr. inc. auct. 278 e si accoglie la suddetta rico-

494

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

struzione esemplificativa del v. 66, il distico assume il seguente contenuto: sotto l'ultima estremità dell'ardente Leone osservo la Vergine e il fuoco licaonio.

67 ınpöcde μὲν ἐρχομεν,

petoropivòvi

‘Qx]eavovde: La parte iniziale del-

l'esametro è stata ripristinata da L. grazie agli scoli del POxy. 2258, che la tramandano due volte sotto forma di lemma: gli scoli ai vv. 65-68 riportano il verso fino alla dieresi bucolica, quelli ai vv. 67-70 fino alla cesura. A L. si devono anche la lettura e il supplemento Ὠκ]εᾳνόνδε. La combinazione del lemma con l'explicit è garantita dal rispettivo distico di Catullo, in quanto rpöcde μὲν Épyouev . . corrisponde a dux ante (v. 67) e ‘Qk]eavovôe a Oceano (v. 68). Il giro sintattico da me congetturato per il v. 65 s. (vd. il comm. ad loc.) suggerisce di riconoscere nel participio del nostro esametro un nominativo singolare

£pxöuevoc, riferito al Πλόκαμος. Come dimostrano il testo catulliano e le delucidazioni del lemma in oggetto, fornite dalle due serie di scoli, il nesso πρόεθε ... ἐρχόμεγος è impiegato da C. per indicare che la Chioma precede l'attigua costellazione di Boote (vd. il disegno a p. 256 del comm. di Marinone) nelle levate e nei tramonti. Che la Chioma sorga e cali prima di Boote, viene anche asserito in un altro punto degli scoli al vv. 65-68, come chiosa del frammento diofileo ivi citato (SH 391, vd. il comm. al v. 65 s.), nel cui v. 8 s. si legge - in termini generali - che Boote segue da vicino la Chioma. La clausola Ox]eavövde indica che il nostro esametro riguarda il tramonto dei due raggruppamenti stellari, allorquando essi si tuffano nell'Oceano e scompaiono sotto l'orizzonte. Come vedremo, l'avverbio μετοπωρινόν precisa a sua volta che qui si parla della fase annuale tecnicamente definita tramonto serale. Per comprendere

il contenuto

astronomico

dei vv. 67-70,

è necessario fornire alcune

notizie di base sulle quattro gàcer delle costellazioni. In proposito è utilissima la lucida sintesi fornita da Marinone (p. 249 s.): «Gli antichi ... annettevano speciale importanza a quattro ricorrenze annuali, denominate φάςεις τῶν ἀπλανῶν, in cui la costellazione si leva o tramonta in coincidenza con la levata o il tramonto del sole, perché ne deducevano in-

dicazioni indispensabili per il computo del tempo astronomico e meteorologico, cioè i παραπήγματα. Distinguevano pertanto: a) levata eliaca serale ..., quando al tramonto del sole si scorge per la prima volta la stella salire sopra l'orizzonte; b) tramonto eliaco mattinale ..., quando al sorgere del sole si scorge per la prima volta la stella scendere sotto l'orizzonte; c) levata eliaca mattinale ..., quando al sorgere del sole si scorge per la prima volta la stella salire sopra l'orizzonte e subito scomparire offuscata dalla luce del giorno; d) tramonto eliaco serale ..., quando al tramonto del sole si scorge per la prima volta la stella scendere sotto l'orizzonte e ivi restare invisibile durante la notte. Naturalmente non è possibile percepire ad occhio nudo le quattro fasi nel momento del loro verificarsi. Infatti, quando stella e sole attraversano contemporaneamente, sorgendo o tramontando, uno stesso lato dell'orizzonte, la luce solare copre la stella, che scompare tra 1 raggi del sole; analoga condizione si verifica quando la stella sorge nel momento in cui tramonta il sole, oppure tramonta nel momento in cui sorge il sole. Invece si può vedere la stella rispetto al sole appena essa lo precede all'alba o lo segue al tramonto. Quindi gli antichi tenevano distinte la

fase vera o reale (φάεις ἀληθινή) e quella apparente o visibile (p&cic φαινομένη), che era la sola praticamente valida. Al mattino la fase visibile segue quella reale, alla sera viceversa». Il testo callimacheo residuo, la traduzione di Catullo e gli scoli del POxy. 2258 al vv. 65-68 e 67-70 permettono di stabilire che, in ciascuno dei quattro versi 67-70, C. si riferiva

a una delle quattro suddette fasi annuali visibili: tramonto serale della Chioma e di Boote

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

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(v. 67); levata mattinale della Chioma e di Boote (v. 68); levata serale della Chioma (v. 69); tramonto mattinale della Chioma (v. 70). L'avverbio μετοπωριγόν mostra che il nostro esametro verte specificamente sul tramonto serale della Chioma e di Boote, perché si è calcolato che ad Alessandria nel 245 a.C.

(data di composizione dell'elegia) il periodo entro il quale di sera queste due costellazioni cominciavano a calare insieme al sole sotto l'orizzonte e via via scomparivano del tutto andava dal 9 al 19 settembre per la Chioma e dal 6 ottobre al 26 novembre per Boote (vd. Marinone pp. 186, 255, 258; per essere precisi - come osserva Marinone nel comm. al v. 68 (p. 187) - alcune stelle situate nella mano sinistra della figura di Boote non tramontano mai, in quanto circumpolari). La fase del tramonto serale viene riecheggiata in termini generici da Catullo, che si discosta da C. sia perché la priva dell'essenziale riferimento all'autunno sia perché le dedica un intero distico (v. 67 s.). Invece gli scoli del POxy. 2258 non prendono in considerazione questa precisa fase. Vd. in generale l'app. e cf. gli scoli al vv. 65-68 e 67-70 con le annotazioni. La significatività di μετοπωριγόν si estende anche al v. 68, in quanto - come vedremo proprio grazie all'avverbio possiamo determinare che lì si parlava della levata mattinale della Chioma e di Boote. È dunque impossibile concordare con Marinone, il quale - nel comm. al v. 67 (p. 186) - esclude μετοπωρινόν dal testo callimacheo e, più in generale, non crede che 1 vv. 67-70 si richiamino alle quattro fasi annuali (vd. anche il suo comm. al v. 69, p. 188). Poiché ritengo che sul piano sintattico il nostro esametro sia strettamente intrecciato al verso seguente, per il giro della frase vd. il comm. al v. 68. μετοπωρινόν: La parola è un hapax esiodeo (Op. 415*) e compare una volta sola anche nei Fenomeni di Arato (v. 1064*): in entrambi 1 luoghi essa si presenta, come qui, nella forma μετοπωρινόν con valore avverbiale. Altrove il vocabolo è di uso prosastico, fatta ec-

cezione per [Orph.] Hymn. XXIX 14 Quandt -&*. ’Qx]eavovde: Per questo explicit, cf. [Hom.] Hymn. IV 68, XXXI 16 (in entrambi i passi con riferimento al tramonto del sole), [Orph.] Arg. 1069. 68 ] .o[: Per ricostruire i contenuti del pentametro sono di primaria importanza gli scoli del POxy. 2258. Essi infatti, delucidando la parte iniziale del v. 67 (dove C. comincia ad asserire che la Chioma

tramonta

e sorge prima

di Boote,

vd. il comm.

ad loc.), indicano

esplicitamente i periodi dell'anno nei quali la Chioma e Boote compivano le rispettive levate mattinali visibili (per il significato tecnico di tale fase, vd. il comm. al v. 67): gli scoli ai vv. 65-68 spiegano che il Πλόκαμος sorge prima dell'equinozio autunnale e quelli ai vv. 67-70 chiariscono che Boote sorge al mattino nell'equinozio autunnale (qui l'avverbio ἕωθεν precisa che si tratta appunto della levata mattinale). Se ne deduce che nel nostro verso C. continuava a illustrare la precedenza della Chioma su Boote durante le due fasi annuali che si verificavano d'autunno (cf. v. 67 uerorwpıvöv): dopo il tramonto serale, indicato nell'esametro precedente, è qui la volta della levata mattinale (passata invece sotto silenzio da Catullo, che nella sua traduzione occupa l'intero distico con un generico riferimento al tramonto consecutivo delle due costellazioni: vd. il comm. al v. 67). I ragguagli temporali forniti dagli scoli coincidono nella sostanza con i calcoli dei moderni: si è infatti computato che ad Alessandria nel 245 a.C. (data di composizione dell'elegia) il periodo entro il quale di mattina la Chioma e Boote cominciavano a sorgere insieme al sole sopra l'orizzonte e via via apparivano del tutto andava dal 2 all'8 settembre per la Chioma e dal 29 settembre al 18 ottobre per Boote (vd. Marinone pp. 186,

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CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

255, 258). Un'allusione alla levata mattinale del Πλόκαμος era già presente nel v. 63: vd. il comm. ad loc. Una volta riconosciuto l'argomento del pentametro, possiamo tentare di ripristinarne la dizione. Anche in ciò è essenziale il contributo degli scoli nel POxy. 2258: Infatti quelli relativi ai vv. 65-68 contenevano il lemma îvic ”Axuovoc (creatura di Acmone) e chiariscono che si tratta di Urano, cioè ıl cielo. L. e Pf. ipotizzano quindi che nel nostro verso C. impiegasse la frase 1”Akuovoc tvivi ἔπι, per indicare l'ascesa al cielo della Chioma e di Boote nelle loro levate mattinali. La congettura è ottima, perché ne risulta un nesso che in ogni sua parola ha un carattere tipicamente callimacheo: sappiamo innanzitutto che altrove C. utilizzava il patronimico ᾿Ακμονίδης, appunto per designare Urano (fr. inc. sed. 498 Pf., vd. il comm. ad loc.); in secondo luogo il vocabolo îvic, proveniente dalla tragedia e talora attestato nei distici elegiaci, è esibito dagli Aitia anche nel fr. 174, 63 Φοίβου ... ivıc (vd. il comm. ad loc.) e forse nel fr. 178; infine la posposizione di ἐπί è frequente nella poesia callimachea (vd. il comm.

al fr. 149, 20*). Alla luce di tali considerazoni, risulta inaccetta-

bile il parere di Ciresola p. 279, secondo la quale gli scoli nel POxy. 2258 ricavarono l'espressione îvic ”Axuovoc da un poeta diverso da C., ipotesi poi ripresa sia da Marinone, che nel comm. al v. 68 (p. 187) non fa risalire ivıc ”Axuovoc al testo callimacheo, sia dubbiosamente da Lehnus, Notizie V p. 287. E in termini più generali Marinone è di certo in errore quando esclude, nel comm. al v. 67 (p. 186), che 1 vv. 67-70 si riferiscano alle quattro fasi annuali della Chioma: vd. il mio comm. al v. 67. Recepisco dunque la congettura 1”Akuovoc tvivi ἔπι di L. e Pf. e ritengo che la frase occupasse il secondo colon del pentametro. Credo infatti che il primo colon dovesse avere una configurazione tale da istituire il necessario legame sintattico fra i vv. 67 e 68, nei quali - come abbiamo visto - si diceva che d'autunno la Chioma precede Boote sia per il tramonto serale sia per la levata mattinale. È ovvio che la prima metà del verso doveva anche contenere una menzione di Boote: poiché nessun caso del vocabolo Βοώτης trova posto in un pentametro callimacheo, qui era probabilmente impiegato il nome alternativo ᾿Αρκτοφύλαξ (cf. Arat. 92, 579, 721), la cui possibile comparsa in qualche punto dei vv. 65-68 veniva già suggerita da Pf. 3 Congetturo dunque che l'insieme del verso avesse una struttura del genere: eicı δ᾽ ὅτ "ApktopbAodı"Akuovoc tvivi ἔπι. In favore di questa ricostruzione si possono addurre una serie di elementi: il verbo eîcuv) designa il cammino delle stelle già in alcuni brani dell'/-

liade omerica (cf. soprattutto XXII 26 5. ἀςτέρ᾽ ... | ὅς ῥά τ᾽ ὀπώρης eîcw, notevole per il μετοπωριγόν del nostro v. 67) e assume questo significato in un altro passo degli Aitia (fr. 149, 6 eicıw, vd. il comm. ad loc.); la posposizione di ὅτε ricorre di frequente nelle opere callimachee (vd. il comm. al fr. 4, 2 ὅτ᾽ Avriocev); lo stesso vale per la traiectio del verbo e

per la prolessi del sostantivo (qui ’Qx]eavovde del v. 67, vd. i comm. ai frr. 8 e 50, 53). Vd. in generale l'app. e cf. gli scoli ai vv. 65-68 e 67-70 con le annotazioni. In conclusione, fermo restando che il participio dell'esametro precedente è con ogni verisimiglianza un nominativo singolare ἐρχόμενος riferito al Πλόκαμος, il distico formato dal vv. 67 e 68 assumerebbe il seguente contenuto: andando davanti, quando d'autunno il Guardiano dell'Orsa va nell'Oceano e verso la creatura di Acmone.

6) 69-78: La nostalgia del ricciolo per il capo di Berenice Anche se [la levata serale e 1] tramonto mattinale assegnate al ricciolo in quanto costellazione lo mettono a contatto con gli dèi], esso dichiara - sperando nella clemenza di Ne-

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

497

mesi [ed esponendosi] senza paura [al rischio di essere fatto a l'audacia [delle sue sincere parole] - che la gloria della nuova gioia inferiore allo strazio di non potere più toccare la testa quando costei era ancora vergine - ha assorbito molti semplici guenti che utilizzano le donne sposate.

pezzi] dagli altri astri [per] condizione gli procura una di Berenice, dalla quale oli, senza fruire degli un-

69 ἀ]λλ᾽ ei kalt... ]..... v: Il supplemento ἀ]λλ᾽ ei kalt di L. si fonda sul sed quamquam della traduzione catulliana: come deduciamo dal corrispondente distico di Catullo, il ricciolo afferma che, sebbene abbia - in quanto costellazione - l'onore di venire cal-

cato nottetempo dalle orme degli dèi (cioè di brillare in cielo nelle ore notturne) e di essere riaccolto al mattino da Teti (cioè di tramontare nell'Oceano alle prime luci del giorno, cf. v. 70), la gioia di ciò è inferiore allo strazio di non potere più toccare il capo di Berenice (cf. v. 75 s.). Pf. ha ampliato l'integrazione di L. con un supplemento esemplificativo che - pur non particolarmente raccomandato dalle confusissime tracce precedenti al v finale - rende

bene il senso generale del verso: πάννυχον ἀ]λλ᾽ ei kalt ue θεῶν πόδες ἐμπατέουει]ν (vd. app.). Può darsi che €. istituisca di proposito un'arguta contrapposizione fra 1 piedi degli dei e la testa della regina. L'esametro si riferisce alla levata serale visibile della Chioma (per il significato tecnico di tale fase, vd. il comm. al v. 67). Si è calcolato che ad Alessandria nel 245 a.C. (data di composizione dell'elegia) il periodo entro il quale di sera, al tramonto del sole, la Chioma cominciava a sorgere sopra l'orizzonte e via via appariva del tutto andava dal 19 al 22 gennaio (vd. Marinone pp. 186, 255, 258).

70].

.[ ]vin[: È molto allettante l'integrazione πολ]ιῆι Τη[θύϊ, suggerita dubbiosa-

mente da L. in base al canae Tethyi di Catullo (le due frasi avrebbero anche la medesima sede metrica). Come si ricava dal testo catulliano, il ricciolo dice che, in quanto costellazione, viene restituito dalla luce del giorno alla canuta Teti, cioè tramonta di mattina nel-

l'acqua spumosa dell'Oceano (marito appunto di Teti): per il contesto semantico e sintattico del pentametro, vd. il comm.

al v. 69. Marinone, nel comm.

al v. 70 (p. 188 s.), rileva che

«l'epiteto "canuto, grigio, biancheggiante" ricorre in entrambe le lingue sia per 1 flutti spumeggianti ... sia per la canizie della vecchiaia ... L'una e l'altra accezione si adattano a Teti come mare e come dea, vecchia madre degli dèi e sposa dell'oceano». Per tale doppia valenza, Marinone richiama opportunamente lo stesso Call. Jamb. fr. 194, 52 5. Pf. λευκὴν

ἡνίκ᾽ ἐς τάφον Τηθύν | gépo[vei] παῖδες (vd. il comm. ad loc.). Vd. soprattutto Porro pp. 557-564, ma anche Hunter, Shadow p. 78.

È metro in tal Il

inoltre interessante l'ipotesi di Pf., secondo il quale l'astratto /ux del rispettivo pentacatulliano poteva corrispondere - nell'originale callimacheo - al nome della dea ’Hoc: caso il ricciolo affermerebbe che Aurora lo restituisce alla canuta Teti. verso riguarda il tramonto mattinale della Chioma (per il significato tecnico di tale

fase, vd. il comm.

al v. 67), come dimostrano sia la traduzione di Catullo sia gli scoli del

POxy. 2258. Questi ultimi infatti, delucidando la parte iniziale del v. 67 (dove C. inaugura il tema trattato nel v. 67 s., cioè la precedenza della Chioma su Boote nelle levate e nei tra-

monti), indicano esplicitamente i periodi dell'anno nei quali la Chioma e Boote compivano i rispettivi tramonti mattinali: gli scoli ai vv. 65-68 spiegano che il Πλόκαμος tramonta dopo l'equinozio primaverile e quelli ai vv. 67-70 chiariscono che Boote tramonta al mattino nel

solstizio estivo ([τροπῇ δὲ] θερινῇ, suppl. L.) o piuttosto prima del solstizio estivo ([rpò τροπῆς] depwfi(c), suppl. et corr. A. Rehm); nella seconda serie di scoli l'avverbio ἕωθεν precisa che si tratta appunto del tramonto mattinale. Le informazioni temporali fornite dagli

498

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

scoli (se in quelli ai vv. 67-70 accogliamo il supplemento e la correzione di Rehm) coincidono nella sostanza con 1 calcoli dei moderni: si è infatti computato che ad Alessandria nel 245 a.C. (data di composizione dell'elegia) il periodo entro il quale di mattina, al sorgere del sole, la Chioma cominciava a calare sotto l'orizzonte e via via scompariva del tutto an-

dava dal 26 marzo al 5 aprile e anticipava di circa quaranta giorni il lasso di tempo entro il quale 11 medesimo fenomeno interessava Boote (vd. Marinone pp. 186, 255, 258; per essere esatti - come nota Marinone nel comm. al v. 68 (p. 187) - alcune stelle situate nella mano sinistra della figura di Boote non tramontano mai, in quanto circumpolari). Pf. si chiede se C., oltre a indicare - come Catullo - l'ora del giorno nella quale ha luogo il tramonto mattinale della Chioma (cioè appunto l'aurora), specificasse che tale fase si realizza nella stagione primaverile: lo studioso osserva che, in questo caso, nel pentametro poteva comparire un vocabolo quale εἴαρος o εἰαρινόν, così come nel v. 67 figura l'avverbio uetonœpivôv. Ritengo che ciò sia improbabile, perché il riferimento alla primavera non bilancerebbe in maniera adeguata quello all'autunno. Mentre infatti quest'ultimo vale sia per il tramonto serale sia per la levata mattinale della Chioma e di Boote (trattati nel v. 67 s.), il richiamo alla primavera sarebbe adatto soltanto al tramonto mattinale della Chioma (descritto nel nostro verso) e non anche alla sua levata serale (esposta nel precedente esametro), che nell'anno di composizione dell'elegia si compiva durante l'inverno (vd. il comm. al v. 69). Vd. in generale l'app. e cf. gli scoli ai vv. 65-68 e 67-70 con le annotazioni.

71 παρθένε un] Kotécn[c ‘Pauvoverde: Comincia qui un'ampia frase parentetica, che - come si deduce da Catullo - occupa per intero i vv. 71-74 e separa le due subordinate concessive del v. 69 s. (riconoscibili tramite il testo catulliano) dalla proposizione principale del v. 75 (οὐ! τάδιει μοι τοςεήνδε φιέιρει χάριν): per il frequente impiego di frasi incidentali da parte di C., vd. il comm. al fr. 89, 17-19. Il nostro passo ha preso forma grazie ai supplementi via via suggeriti da L., Pf., Barber e Merkelbach (vd. app.), che si sono rifatti al corrispondente esametro catulliano (pace tua fari hic liceat, Rhamnusia virgo): 1] ricciolo prega Nemesi, la dea vergine della giusta punizione cui era dedicato un santuario nel demo attico di Ramnunte, di non sdegnarsi per quanto - a dispetto delle altre stelle che forse gli faranno scontare la sua audacia - sta per dire con tutta sincerità (vv. 71-74), cioè che la gloria di essere divenuto una costellazione (cf. v. 69 s.) gli arreca una gioia inferiore allo strazio di non potere più toccare la testa di Berenice (cf. v. 75 s.). xgotécn[c: Marinone, nel comm. al v. 71 (p. 190), rileva che già nei poemi omerici il verbo può designare la collera divina: cf. p.es. IZ. IV 168*, VII 391 = Od. I 101. ‘Pauvovcıdc: Per il santuario di Nemesi nel demo di Ramnunte (situato sulla costa nordorientale

dell'Attica

davanti

all'Eubea),

cf. Parmen.

App.

Plan.

222,

3 = GP

2626

ἔνδικος iöpvvdeica θεὰ Ῥαμνοῦντος ἐπ᾽ ὄχθαις, Paus. I 33, 2-8, Plin. Nat. hist. XXXVI 17. Oltre che nel nostro verso, il vocabolo ‘Pauvovcıdc si riscontra presso Marcell. Sid. EpGr. 1046, 61 Kaibel Ῥαμνουειὰς Οὖπι | (dove Upide è un epiteto di Nemesi). L'analogo ‘Pauvovcic viene impiegato dallo stesso C. nel v. 232 dell'inno ad Artemide, dove la frase Ἑλένῃ Ῥαμνουείδι indica che Elena è appunto considerata figlia di Nemesi (cf. lo scolio ad loc.). La designazione callimachea di Nemesi come παρθένος Ῥαμνουειάς ha dato luogo al nesso catulliano Rhamnusia virgo | non solo nell'esametro corrispondente, ma anche in LXIV 395 e LXVIII 77. Per il solo Rhamnusia, cf. [Verg.] Ciris 228, Ov. Mer. III 406, Trist. V 8,9, Stat. Silv. II 6, 73, III 5, 5 audiat infesto licet hoc Rhamnusia vultu,

Auson. Epist. XXVII 52 e 109 Peiper, Claudian. Bell. Goth. 631. Nelle opere di C. si trovano altri riferimenti

a Nemesi

(anche detta Adrastea):

cf. ον. 47, Cer. 56, Hec. fr. 299, 2

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

499

Pf. = 116,2 H.,fr. gramm. 464 Pf.,fr. inc. sed. 687 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed. 176 H.

71 5. οὔτ]ις ἐρύξει I βοῦς Eroci: L. ha integrato l'explicit del v. 71 (cf. Hom. Od. VII 315*) e l'ha connesso alla sequenza βοῦς ἔπος, il cui impiego nel testo callimacheo (con ogni probabilità all'inizio del v. 72) è garantito dal fatto che essa svolge la funzione di lemma in uno scolio del POxy. 2258 vergato nel margine destro del v. 72 (vd. app.). Utilizzando un'espressione proverbiale (vd. più avanti il comm.), il ricciolo proclama che nessuna paura di essere punito (= οὔτ]ις ... Bode) tratterrà le parole con le quali intende esprimere il suo vero pensiero, cioè il suo rimpianto della permanenza sul capo di Berenice (cf. v. 75 s.). Il concetto confluisce nel v. 72 della versione catulliana, con una necessaria rinuncia al

proverbio: namque ego non ullo vera timore tegam. La frase proverbiale messa a frutto nel nostro passo è impiegata anche da altri autori, che la applicano appunto a chi (volente o nolente) mantiene 1] silenzio: cf. Theogn. 815 5.

Bodc μοι ἐπὶ γλώεςῃ κρατερῷ ποδὶ λὰξ ἐπιβαίνων | icxeı κωτίλλειν καίπερ ἐπιοτάμενον, Aesch. Ag. 36 5. τὰ δ᾽ ἄλλα ειγῶ- βοῦς ἐπὶ γλώςςῃ μέγας | βέβηκεν, Strattis PCG 72 βοῦς ἐμβαίη μέγας, lulian. Or. VII 218 A τὸν βοῦν δὲ ἐπιτίθημι τῇ γλώττῃ. Le fonti paremiografiche, lessicografiche e scoliastiche offrono varie spiegazioni del proverbio: secondo una di queste (condivisa dallo scolio nel POxy. 2258), esso deriverebbe dal fatto che ad Atene coloro i quali parlavano con eccessiva franchezza dovevano sborsare come multa una moneta, avente la locale effigie di un bue (cf. Plut. Thes. XXV

3). Per tale esegesi, cf. Zenob.

Ath.131, p. 352 Miller βοῦς ἐπέβη (= Rec. Bodl. BV ad [Diogenian.] Cent. IN 61, I p. 226 Leutsch-Schneidewin): ἐπὶ τῶν ἐξαίφνης γιγνομένων ἀφώνων καὶ εἰωπώντων εἴρηται N παροιμία- καὶ οἱ μέν gaciv ὅτι τὸ ἀργύριον παρ᾽ ᾿Αθηναίοις ἐπίοημον εἶχε βοῦν- οἱ γὰρ ἀργυρίῳ ζημιούμενοι ἠναγκάζοντο εἰωπᾶν, Zenob. Cent. II 70 βοῦς ἐπὶ γλώττης (= Hesych. s.v. βοῦς ἐπὶ γλώεςῃ, Suid. s.v. βοῦς ἐπὶ γλώττηο)- παροιμία ἐπὶ τῶν μὴ δυναμένων παρρηκσιάζεεθαι ... ἢ διὰ τὸ τῶν ᾿Αθηναίων τὸ νόμιεμα ἔχειν βοῦν ἐγκεχαραγμένον, ὅπερ ἐκτίνειν ἔδει τοὺς πέρα τοῦ δέοντος παρρηςιαζομένους, Schol. (MF) Aesch. Ag. 36 ... ἢ φοβοῦμαι ζημίαν ἐπικειοςομένην μοι. Νά. R. Tosi, Studi sulla tradizione indiretta dei classici greci (Bologna 1988), p. 204 s. L'uso callimacheo del proverbio, attraverso il quale il ricciolo afferma che la paura di un castigo non lo ridurrà al silenzio, sembra avere influito su Synes. Epist. 154, p. 274. 3 Gar-

zya ὅτι μὴ τὸ «τόμα ευγκλείεας ἔχω καὶ τὸν βοῦν τὸν ἐκείνων ἐπὶ τῆς γλώττης τίθεμαι. Per il frequente impiego di proverbi da parte di C., vd. Pf. II, Index rerum notabilium s.v. proverbia (p. 138). Su questo specifico proverbio, vd. Lelli, Volpe p. 153 5.

73]

.| .]ede

[

]. @pécoc

ἀ[ετ]έρες ἄλλοι: Il ricciolo asserisce che non si

asterrà dal parlare per timore di un castigo (cf. v. 71 s.), nemmeno se - come risulta dalla traduzione catulliana - gli altri astri lo faranno a pezzi per la sua audacia, consistente appunto nell'affermazione di preferire l'antico stato di chioma regale a quello odierno di gruppo stellare (cf. v. 75 s.). Mentre il significato complessivo dell'esametro è chiaro, permangono dubbi sulla lettura e sull'integrazione della sua parte più corrotta. Innanzitutto l'esame paleografico esclude il supplemento δι]ὰ Opacoc, che corrisponderebbe appieno all'infestis ... dictis di Catullo. Inoltre non è facile valutare il contributo testuale offerto da uno scolio lacunoso del POxy. 2258, vergato nel margine destro del nostro verso: öıy( Jayeıl.]. La prima possibilità è che ci troviamo davanti a un lemma δίχα (per quanto non seguito dalla consueta sbarretta diagonale): se è così, l'avverbio in due parti era qui impiegato da C. per indicare la lacerazione che le altre stelle potranno infliggere al Πλόκαμος (cf. Soph. Ai. 236 δίχ᾽ ἀνερρήγνυ |). Ma è forse meglio ipotizzare che nello scolio la parola δίχα facesse

500

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

parte dell'esegesi di un altro avverbio utilizzato nel nostro esametro, eventualmente ricostruibile come u]eAgi[cti nel testo residuo: il senso sarebbe allora che gli altri astri potranno fare a pezzi la nuova costellazione. L'immagine della costellazione smembrata sembra alludere a un ipotetico spargimento nel cosmo dei singoli astri che la compongono. Vd. in generale l'app. Pf. riteneva che in questo punto dell'elegia esistesse una discrepanza fra l'originale callimacheo e la versione catulliana. Accogliendo infatti - nel v. 74 di Catullo - quin del codice R ed evoluam dell'edizione parmense, lo studioso stampava così 1 vv. 73-75: namque ego non ullo vera timore tegam, | nec si me infestis discerpent sidera dictis, | condita quin vere pectoris evoluam (io infatti per nessun timore nasconderò il vero, neanche se gli astri mi faranno a pezzi con parole moleste, così da non esporre veracemente i segreti del cuore): secondo Pf., dunque, mentre il Πλόκαμος di C. - a quanto pare (vd. sopra) - rischia per la sua franchezza di essere dilaniato dalle altre stelle, la Chioma di Catullo si espone solo al

pericolo di venire da loro diffamata. Ma la presunta divergenza scompare, se si accettano con Marinone - nel v. 74 di Catullo - qui (= quibus) dei due codici primari OG ed evoluo del gruppo di codici 0: namque ego non ullo vera timore tegam, | nec si me infestis discerpent sidera dictis | condita qui vere pectoris evoluo (io infatti per nessun timore nasconderò il vero, neanche se gli astri mi faranno a pezzi per le parole moleste con le quali espongo veracemente i segreti del cuore). θράεοε: Il sostantivo compare sotto questa forma una volta sola nei poemi omerici (Il. XIV 416*), mentre altrove ricorre come θάροος (ΠΝ 2 al).

ἀ[ετ]έρες ἄλλοι: Cf. Maneth. VI 147 ἀςτέρες ἄλλοι, ma anche Arat. 454 ἄλλοι ... &crépec, Theocr. II 165 5. e Maneth. II 266 5. e Nonn. Dion. XXXVII

240 5. ἄλλοι |

&ctépec, Maxim. De action. ausp. 530 àcrépac ... ἄλλους |. 74 Ἰνδινειε [ Jococo[ .]tex [| .]@©:1l pentametro concludeva l'ampia frase parentetica cominciata nel v. 71: a giudicare dalla versione di Catullo, il ricciolo ribadiva qui l'intenzione di esporre con sincerità 1 segreti del suo animo. Le lettere e le tracce superstiti non si sono finora lasciate né riunire in parole di senso compiuto né ricondurre ai contenuti del rispettivo verso catulliano: le lettere oc, successive alla prima lacuna, non sembrano in-

terpretabili come Be e quindi non consentono l'integrazione ςτή]θεος, che equivarrebbe al pectoris di Catullo; la traccia dopo x non collima con v, impedendo perciò di integrare p.es. il congiuntivo aoristo κύ[θ]ω, che troverebbe una qualche rispondenza nel condita catulliano. Vd. in generale l'app.

75 οὐ. t&öLeı μοι tocenvde φιέιρει χάριν: Dopo il lungo inciso costituito dai vv. 71-74, è questa la proposizione principale dell'intera sezione. Il pronome taöLeı si riferisce al contenuto delle due subordinate concessive del v. 69 s., cioè il conferimento al Πλόκαμος

- in quanto costellazione - di una levata serale e di un tramonto mattinale che lo mettono a contatto con il mondo degli dèi (vd. i comm. ai due versi in questione). Ciò - afferma il ricciolo - non gli procura tanta giola quanto è il cruccio che gli causa il non potere più toccare la testa di Berenice (cf. v. 76). In tal senso 51 orienta anche la spiegazione del passo offerta dallo scolio nel POxy. 2258.

od, τάδιει por: Cf. Nonn. Dion. XLVII 368* e 369*. φιέιρει χάριν: Il nesso è già omerico: cf. soprattutto ZI. V 211", IX 613*, XXI 458*, ma anche Il. V 874, Od. V 307. Cf. poi Ap. Rh. IV 1074, 1099, ΟΥ̓ 1257, 4, Mel. Anth. Pal. IV

1, 57 = HE

3982, Quint. Smyrn. II 627 al., Greg. Naz. Carm.

477) al., Nonn. Dion. I 492 al. ep. adesp. App. Plan. 377,3 (sempre *).

I 1, 15,7 (PG 37 p.

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

501

Sc[co]v ἐκείνης: Cf. Dion. Per. 460 6ccov ékeivn*. Il dimostrativo ἐκείνης va inteso come pronome riferito a Berenice (v. 75 5. ἐκείνης ... κορυφῆς = la testa di quella, cioè la sua testa), piuttosto che come aggettivo accordato a κορυφῆς (ἐκείνης ... κορυφῆς = quella testa). Così interpretò anche Catullo, come rivela la sua traduzione a dominae vertice (v. 76).

76 ἀ]εχάλλω κορυφῆς οὐκέτι θιξόμεν[ος: La traduzione catulliana indica che il ricciolo esprimeva sentimenti analoghi nei vv. 39 s. e 93: nel primo passo asseriva di essersi allontanato suo malgrado dalla testa di Berenice; nel secondo, alla fine dell'elegia, formu-

lava il desiderio di tornare sul capo della regina.

ἀ]εχάλλω: Il verbo compare di sicuro in un passo dell'Odissea omerica (II 193), accompagnato come qui da un participio; la forma ἀοχάλλων è inoltre attestata come varia lectio di ἀςχαλόων presso Hom. Od. XIX 534. La parola è anche un hapax nel corpus esiodeo (fr. 205, 3 M.-W.), dove pure si affianca a un participio. Cf. poi Theogn. 219, Aesch. Prom. 764, Soph. Oed. Tyr. 937, Eur. Or. 785, Heliod. SH 472, 12, Babr. L 14, Triph. 42, Carm. Anacreont. XII 14 West, Agath. Anth. Pal.IX 643,9 = 46, 9 Viansino.

κορυφῆς: Il vocabolo designa una testa equina presso Hom. //. VIII 83 e una testa umana presso Herodot. IV 187, 2, mentre viene impiegato a proposito di una testa divina (specificamente di Zeus) da [Hom.] Hymn. IN 309, Hes. fr. dub. 343, 12 M.-W., Ibyc. PMGF

298, 4, Pind.

Ol. VII 36, Aesch.

Suppl. 92 e dallo stesso Call. Lav.

135 (bis). La

scelta callimachea di indicare il capo della regina con un termine spesso applicato alla massima divinità, già di per sé significativa, risulta ancora più motivata se nel nostro passo il poeta istituisce di proposito un'arguta contrapposizione fra 1 piedi degli dèi e la festa di Berenice: vd. il comm. al v. 69. θιξόμεν[ος: Il verbo θιγγάνω, di uso prevalentemente poetico, ricorre a partire da Archiloco (fr. 118 W.) e Alcmane (PMGF 58, 2).

77 s. hc γυναικείων

ἄπο, παρ[θ]ενίη μὲν ὅτ᾽ ἦν ἔτι, πολλιὰ πέιπωκα | λιιτιά, δ᾽ οὐκ ἀπέλασυεα μύρων : Il ricciolo rimpiange i bei tempi nei quali ha

assorbito dalla testa ancora virginale di Berenice molti semplici oli ma non godette degli unguenti utilizzati dalle donne sposate. È naturale che per il ricciolo la felicità del passato si identifichi con 1 giorni nei quali Berenice era ancora vergine: infatti le successive nozze con Tolemeo hanno avuto come conseguenza il suo allontanamento dal capo della regina. Il coinvolgimento emotivo del ricciolo è messo in risalto dal perfetto πέιπωκα: pur essendo ormai diventato una costellazione, esso - in un certo senso - si sente ancora imbevuto

di

quegli oli che sono l'emblema della gioia perduta. La dizione stessa del distico sconsiglia l'esegesi di Pf., stando alla quale il ricciolo rievocherebbe sia la verginità sia ıl periodo coniugale di Berenice, affermando di avere assorbito molti semplici oli nella prima fase, ma di non avere potuto fruire degli unguenti impiegati dalla regina nella seconda epoca, perché è stato tagliato poco dopo le nozze. Che qui il ricciolo si riferisca unicamente ai tempi della verginità di Berenice, non può essere negato in base alla disposizione delle particelle μέν e ö(£) nel nostro distico, come fa - con molto acume - Courtney, Problems p. 50 (lo studioso osserva che, se C. avesse voluto parlare unicamente del periodo prenuziale di Berenice, avrebbe escogitato un modo metricamente va-

lido per scrivere napdevin ὅτ᾽ ἦν ἔτι, πολλὰ μὲν πέπωκα κτλ.). Infatti la normale dislocazione di μέν e dé viene spesso modificata in poesia, dove accade anche che - come qui - il μέν non si trovi nella frase corrispondente al primo polo della correlazione, ma venga anticipato all'interno di una frase che introduce entrambi 1 poli: vd. J. D. Denniston, The Greek Particles (Oxford 1954?), p. 371 s. (con raccolta di passi).

502

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Si noti, per altro, che nel nostro v. 78 il è’ è frutto di una congettura di L., in quanto il

papiro esibisce la congiunzione τ΄ (circostanza, questa, abitualmente trascurata nelle discussioni sul nostro distico). Se si accoglie il testo tràdito, il μέν del v. 77 potrà essere interpretato come solitarium e i due verbi coordinati πέιπωκα e ἀπέλαυςα saranno riferibili con

piena naturalezza alla proposizione temporale παρ[θ]εγίη μὲν ὅτ᾽ ἦν ἔτι. Il senso dell'originale callimacheo viene a coincidere con quello della versione catulliana, se nel v. 78 di quest'ultima si accetta non solo l'inoppugnabile correzione vilia (operata da L. sulla base di λιιτιά) al posto del tràdito milia, ma anche la congettura nuptae (proposta da W. Morel, guardata con favore da Pf. e recepita da Marinone) invece del problematico una dei codici. Ecco il testo che ne risulta: quicum ego, dum virgo quondam fuit, omnibus expers | unguentis nuptae, vilia multa bibi (con la quale [scil. testa] io, mentre un tempo era vergine, priva di tutti gli unguenti da sposa, molti umili ne bevvi). La contrappo-

sizione callimachea fra AutIÙ e γυναικείων ... μύρων corrisponde a quella catulliana fra vilia e unguentis nuptae. Vd. anche il comm. di Marinone ai vv. 77-78 (p. 200), nonché già Marinone, Profumi pp. 18-20=140-142. In merito alla distinzione fra i λιτά e i μῦρα, sono opportuni i ragguagli forniti da Marinone nel comm. ai vv. 77-78 (p. 199): «Gli antichi non conoscevano profumi in soluzione alcolica ..., ma soltanto oli variamente profumati, considerati segno di gusti raffinati ma anche di lusso effeminato; da cui erano distinti gli oli puri e semplici di uso prettamente maschile e sportivo. Gli uni e gli altri erano Impiegati sia per frizione sia per unzione. Nulla di più naturale che a costumi semplici e seri fosse stata improntata l'educazione della giovane Berenice» (vd. anche Herter, Haaröle p. 62 = 425 s. = 197 s. e Holmes p. 47 s.). Significativamente lo stesso C., nei Lavacri di Pallade, raccomanda

alle celebranti di non portare

alla sobria Atena unguenti (μύρα), cioè unzioni miste (χρίματα μεικτά) che la dea non ama, e poco oltre specifica che, prima del giudizio di Paride, Pallade si frizionò con unzioni

semplici (λιτὰ ... ypiuota), cioè soltanto con olio: cf. vv. 13-16 μὴ μύρα … 1... 1 μὴ μύρα ... I (où γὰρ ᾿Αθαναία χρίματα μεικτὰ φιλεῖ) e 25 5. ἐτρίψατο λιτὰ Padoîca | χρίματα, τᾶς ἰδίας ἔκγονα φυταλιᾶς con lo scolio al v. 25 Ὁ λιτά] &ckebacta, ἄμεικτα (per questo passo dei Lavacri, vd. anche il comm. ai vv. 79-88). E già Sofocle, in una scena che probabilmente apparteneva al dramma satiresco Kpicıc (incentrato appunto sul giudizio di Paride) e che sembra riecheggiata proprio nei vv. 13-32 dei Lavacri di Pallade callimachei, presentava la sensuale Afrodite cosparsa di unguento (μύρον) e l'austera Atena unta d'olio:

cf. Soph. TrGF 361 I ap. Athen. XV 687 C τὴν μὲν ᾿Αφροδίτην ... μύρῳ ... ἀλειφομένην παράγει .... τὴν δὲ ᾿Αθηνᾶν ... ἐλαίῳ χριομένην. Le unzioni elaborate sono inoltre un indizio di τρυφή presso Xenophan. fr. 3, 6 W.=Gent.-Pr. | &amroic ... χρίμαοει. Ma anche i μύρα ebbero una parte di rilievo nella vita di Berenice. Lo stesso C. descrive in un suo epigramma (LI 2 Pf. = HE 1122) una statua della regina che è stata appena plasmata e stilla ancora unguenti (xfrı pd porci vote, vd. il comm. introduttivo di Gow-Page, anche per la probabile identificazione della Berenice qui menzionata con la moglie di Tolemeo III). E Ateneo (XV 689 A) tramanda che la produzione di μύρα prosperava ad Alessandria, perché Arsinoe e Berenice ne erano appassionate. Vd. Marinone p. 23 s. 77 fc ἄπο: Per la posposizione di ἀπό nell'opera di C., vd. il comm. al fr. 149, 5 βοῶν ἄπο. Νά. Axelson p. 21=314, Fischetti p. 198 5.

παρ[θ]ενίη μὲν ὅτ᾽ ἦν ἔτι: Una frase analoga è impiegata da C. nel fr. inc. sed. 6202 Eckev ὅτ᾽ ἄζωοτος χἀτερόπορπος ἔτι (vd. il comm. ad loc.). Riguardo alla posposizione di ὅτε, vd. il comm. al fr. 4, 2 ὅτ᾽ nvriocev.

COMMENTO:

AET.IV FR. 213

503

παρ[θ]ενίη: Come osserva L. e ribadisce Marinone nel comm. ai vv. 77-78 (p. 197), questo è con ogni probabilità il femminile dell'aggettivo παρθένιος (riferito al sostantivo κορυφῆς del v. 76) piuttosto che il sostantivo παρθενίη (in tal caso il senso sarebbe: quando c'era ancora la verginità). Per rapBévioc vd. il comm. al fr. 174, 45. Quanto alla prolessi dell'aggettivo rispetto a ὅτ᾽, vd. il comm. al fr. 8. ὅτ᾽ ἦν ἔτι: Per il nesso, cf. Tymn. Anth. Pal. VII 211,3 = HE 3618*, Antiphil. Anth. Pal.V 111,1= GP 855*. té moka: Il verbo πίνω significa - come qui - assorbo già presso Aesch. Sept. 736, Eum. 980, Soph. Oed. Tyr. 1401. Lo 51 trova riferito ai capelli anche presso Asclep. Anth.

Pal.V 145,6 = HE 865 à ξανθή ye κόμη τἀμὰ πίῃ δάκρυα. 78 λιιτιά: Νά. il comm. al fr. 203, 4 λιτόν.

γυναικείων δ᾽ οὐκ ἀπέλαυεα μύρων: Il passo sembra avere influito su Parthen. SH 626, 1 = fr. 27 (a), 1 Lightfoot δύετη]νος γλυκερῶν οὐκ ἀπέλζαυςεψα yauov/tervov (suppl. Crönert, Cazzaniga; per un'altra imitazione callimachea in Partenio, vd. il comm. al fr.95 εἶχεν évaxtopinv). γυναικείων: L'aggettivo è un hapax sia omerico (Od. XI 437) sia esiodeo (Op. 753). Per la collocazione

metrica,

cf. Arch. fr.

13,

10 W.*,

Mel. Anth. Pal.

VII 352,

6 = HE

47475. ἀπέλαυεα: Il verbo (che in poesia è attestato a partire da Eur. Andr. 543 al. e Aristoph. Eq. 780 al.) si accompagna spesso - come qui - al genitivo. Di particolare interesse per il nostro luogo è la sua unione con sostantivi quali ποτῶν e ὀςμῶν (cf. Xenoph. Cyr. VII 5, 81, Hier. I 24). Vd. anche il comm.

di Gow a Machon 33.

μύρων: Il sostantivo ricorre inizialmente presso Archiloco (fr. 205 W.) e Semonide (fr. 7,64 W.). Peri μύρα cosparsi sul capo, cf. fr. 50, 13 con il comm.

7) 79-88: L'esortazione del ricciolo alle giovani spose ΠῚ ricciolo richiede alle giovani spose, prima che si uniscano ai mariti, di versargli come offerta rituale alcune gocce dell'unguento da loro custodito con funzione di profumo nei vasetti di alabastro, ma specifica che desidera tale dedica solo dalle mogli fedeli, non certo

dalle adultere (le cui libagioni saranno vane): alle prime esso augura una perpetua armonia coniugale.] Questi versi sono stati al centro dı un vivace dibattito critico a partire dalla pubblicazione del POxy. 2258 C. Secondo la sistemazione testuale stabilita da L., infatti, nel papiro in oggetto il fr. 1 'verso' precede immediatamente il fr. 2 'verso' e il pentametro conclusivo del primo frammento (v. 78) è seguito senza soluzione di continuità dall'esametro il cui inizio sopravvive nel secondo frammento (che corrisponde al v. 89 di Catullo): se ne deduce che nel POxy. 2258 la Chioma di Berenice era priva dei vv. 79-88 catulliani, cioè dell'intera sezione qui trattata (vd. app.). Per valutare correttamente questa circostanza, bisogna nel contempo tenere presenti le altre due peculiarità del POxy. 2258 in rapporto alla Chioma. Innanzitutto, infatti, nel papiro in questione l'elegia si chiude con un distico che la traduzione di Catullo non tramanda (vv. 948-94b, vd. il comm.

ad loc.). In secondo luogo, mentre le Diegeseis Mediolanenses

riassumono la Chioma come ultimo componimento degli Aitia, nel POxy. 2258 essa viene tràdita come carme autonomo, in quanto è Immediatamente seguita dalla Vittoria di Sosibio (fr. 384 Pf.), che è essa stessa un'elegia a sé stante, e non dall'epilogo degli Aitia (fr. 215), che nel POxy. 1011 precede direttamente 1 giambi (la successione Aitia - giambi è anche

504

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

attestata nelle Diegeseis). Nella laboriosissima editio princeps del POxy. 2258, L. si limita a offrire alcune osservazioni cursorie in merito all'assenza dei vv. 79-88 nel papiro in oggetto (pp. 92 e 98): pur non escludendo che essa possa risultare da un errore materiale, lo studioso propone di spiegare la duplice diversità tra la Chioma del POxy. 2258 e quella tradotta da Catullo (cioè la mancanza dei vv. 79-88 e l'eccedenza dei vv. 942-945) con l'ipotesi che esistessero due conclusioni alternative. L., d'altro canto, dichiara di preferire una Chioma priva dei vv. 7988, nei quali individua l'aition di un rito nuziale, secondo lui inadeguato a un carme avente

per oggetto l'origine di una costellazione. Si devono a Pf. sia un'analisi più approfondita dei problemi posti dai vv. 79-88 sia la formulazione di un'ipotesi che da un lato mette in reciproco rapporto le tre summenzionate caratteristiche del POxy. 2258 in merito alla Chioma e dall'altro le inserisce in una teoria generale sul processo compositivo degli Aitia. Pf. esclude innanzitutto che la presenza dei vv. 79-88 nella traduzione catulliana sia da interpretare come un'aggiunta autonoma del poeta latino. Infatti, secondo lo studioso, in essi C. espone un rito nuziale, dopo averne indicato l'aition nel distico precedente (v. 77 s.). Sebbene per il distico in oggetto sia opportuno accogliere un'esegesi diversa da quella di Pf. (vd. il comm. ad loc.), la sua idea che esista un nesso eziologico fra il v. 77 s. e 1 vv. 79-88 è ugualmente valida: poiché ai tempi della verginità di Berenice il ricciolo ha assorbito molti semplici oli e non godette degli unguenti utilizzati dalle donne maritate (v. 77 s.), ora esso esorta le giovani spose a offrirgli ritualmente alcune gocce di quegli unguenti prima di congiungersi ai mariti (vv. 79-88). Una volta stabilita l'originalità callimachea dei vv. 79-88, Pf. osserva che la loro man-

canza nel POxy. 2258 (a meno di non pensare a un errore materiale) e le altre due suddette caratteristiche di tale papiro in rapporto alla Chioma possono spiegarsi nel modo seguente: 11 POxy. 2258 tramanda il poemetto nella sua originaria forma di componimento autonomo, che difettava ancora dei vv. 79-88 e si chiudeva con i vv. 948-94b; invece Catullo ebbe davanti la redazione definitiva del carme, corredata dei vv. 79-88 e priva dei vv. 948-945, che

C. approntò quando inserì la Chioma come ultima elegia degli Aitia. Pf. illustra e argomenta la sua ipotesi non solo nel comm. ai vv. 79-88 e nell'annotazione finale all'elegia (I pp. 121, 123), ma anche nei Prolegomena ad fragmenta del suo Callimachus (I p. XXXVI s., XL). Nel suo insieme, la teoria di Pf. sul processo di composizione degli Aitia, ripresa e aggiornata da Parsons p. 50 alla luce della Vittoria di Berenice (frr. 143-156), coinvolge anche il prologo (fr. 1) e l'epilogo dell'opera (fr. 215): per un resoconto complessivo di tale teoria, vd. nel precedente volume /ntrod.II.1., 11.3.,11.8.

A mio parere, la valutazione dei vv. 79-88 suggerita da Pf. è ancora adesso la più convincente, proprio perché si inquadra in un'organica ipotesi ricostruttiva, che dà conto di tutte le peculiarità del POxy. 2258 rispetto alla Chioma e spiega in maniera plausibile 1 dati di carattere papiraceo, contenutistico e cronologico offerti dal prologo, dalla Vittoria di Berenice, dalla Chioma stessa e dall'epilogo. Ciò non può dirsi per le opinioni espresse in merito al vv. 79-88 da altri studiosi, che per lo più si limitano a discutere questi versi di per sé o insieme ai soli vv. 942-94b. E del resto le loro teorie sollevano seri dubbi anche intrinsecamente, come dimostrano la precisa dossografia e le accurate confutazioni di Marinone pp. 41-49, cui si rimanda per 1 dettagli. 51 può di fatto affermare che i critici, quando si sono discostati dall'ipotesi di Pf., hanno tentato di spiegare la mancanza dei vv. 79-88 nel POxy. 2258 in tutti 1 modi possibili.

COMMENTO:

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505

Si è innanzitutto pensato che tali versi siano un'aggiunta autonoma di Catullo (ipotesi questa, come abbiamo visto, già contemplata ed esclusa da Pf.), a partire da Della Corte, L'altro Catullo p. 33=197 (vd. anche Della Corte, Recensione p. 141 e, in tempi recenti,

Hutchinson p. 323, Cameron p. 106, Warden pp. 131-134). La matrice catulliana dei versi in oggetto sarebbe indicata dalla presenza in essi di un motivo epitalamico con relativa deplorazione dell'adulterio e lode della concordia coniugale (temi cari a Catullo) e da alcune caratteristiche di lingua e di stile tipiche del poeta latino, ma Marinone obbietta con ragione che qui non si tratta di un rito nuziale (come credevano anche L. e Pf.) bensì di una cerimonia ripetuta dalle giovani spose nel trascorrere del tempo e che toni specificamente catulliani permeano non solo questa sezione, ma l'intera elegia. Soprattutto, poi, il palese sforzo del poeta latino di aderire ıl più possibile alla struttura complessiva dell'originale callimacheo (vd. Marinone p. 48) rende altamente improbabile che egli inserisse nella compagine della Chioma dieci versi scritti da lui stesso. Inoltre, come opportunamente osserva Rossi pp. 299-312, l'insistenza stessa dei nostri versi sulla fedeltà e sull'armonia coniugali può ben rappresentare il contributo di C. alla diffusione di un'ideologia fondata sull'elogio del felice ménage matrimoniale delle coppie regali tolemaiche, della quale restano tracce significative non solo nel resto della Chioma, ma anche in altri testi letterari coevi.

In secondo luogo si è supposto che Catullo abbia contaminato la traduzione della Chioma con dieci versi ricavati da un'altra elegia callimachea, corrispondenti appunto ai vv. 79-88. Il carme in questione sarebbe quello del quale sopravvivono quattro lacunosissimi versi nel fr. eleg. 387 Pf. (vd. Mette p. 501 s. = 74 s.), eventualmente rappresentato anche dal fr. eleg. 388 Pf. (vd. Hollis, Rite). Il fr. eleg. 387 Pf. è stato chiamato in causa perché la fine del suo v. 2 (già nota per tradizione indiretta) contiene la frase πρὶν ἀςτέιρι 118 Βερενίκης, che molti - a partire da Naeke p. 162 - avevano pensato facesse parte della Chioma e collimasse con 1 vv. 80-82 del testo catulliano (non prius ... quam ... mihi): ma già Pf., che prima della pubblicazione del POxy. 2258 attribuiva alla Chioma gli attuali frr. eleg. 385-387 Pf. (vd. Pf.! p. 93 s.), nel comm. al fr. eleg. 387 Pf. ammette che Diehl, Hypomnema p. 375 ha ragione a escludere dalla Chioma la frase in oggetto e aggiunge che per motivi papirologici il fr. eleg. 387 Pf. non può trasmettere resti del brano della Chioma tradotto da Catullo nei vv. 79-88 (vd. anche Marinone p. 45 n. 32 e più avanti il comm. al v. 92, nonché Bing, Reconstructing p. 90 s.). È ovvio che l'inconciliabilità tra il fr. eleg. 387 Pf. e il passo catulliano perdura anche se ipotizziamo, come Mette, che ıl frammento in questione tramandi parte di un brano callimacheo risalente a un carme diverso dalla Chioma e importato da Catullo all'interno di quest'ultima. Né persuade l'idea di Hollis, Rite che nei vv. 79-88 Catullo abbia non propriamente tradotto, bensì rielaborato creativamente un passo del componimento cui spetterebbero 1 frr. eleg. 387-388 Pf.: ciò, infatti, contrasterebbe comunque con lo scrupolo del poeta latino nel rispettare l'impianto complessivo della Chioma (per l'estraneità del fr. 387 Pf. rispetto ai nostri vv. 79-88, vd. anche la fine analisi di Nicastri pp. 7-17). Si è Infine congetturato che i vv. 79-88 manchino nel POxy. 2258 o per effetto di un errore materiale (possibilità questa, come abbiamo visto, già tenuta presente da L. e Pf.) o per una voluta omissione del copista, dettata da ragioni moralistiche: vd. rispettivamente Herter, Recensione p. 77 e Nicastri p. 28. Ma la prima ipotesi si configura come una extrema ratio poco plausibile e la seconda come una supposizione inverificabile. In conclusione risulta insuperato il giudizio critico di Pf.: 1 vv. 79-88, ancora assenti nella prima redazione della Chioma composta come elegia autonoma appena dopo l'annun-

506

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

cio del catasterismo e tramandata dal POxy. 2258, vennero aggiunti da C. nella seconda redazione del poemetto, approntata allorché esso fu inserito come ultimo carme degli Aitia e successivamente tradotta da Catullo. La teoria di Pf. trova anche il consenso di Marinone, il

quale però specifica opportunamente che 1 nostri versi non trattano un rito nuziale, bensì una cerimonia raccomandata dal ricciolo alle giovani spose ogniqualvolta si uniscono ai mariti (vd. anche sopra). All'ipotesi di Pf. si allineano inoltre Gallavotti, Recensione III p. 91 s., Fraser I p. 730, Gutzwiller p. 381 s., Koenen p. 94, D'Alessio (p. 530), Binder-Hamm

p. 30 n. 70 (Jackson p. 8=102 e Harder, Invention p. 303 n. 38 aggiungono l'idea - sicuramente da escludere - che l'inserimento dei vv. 79-88 abbia comportato la scomparsa non solo dei vv. 948-945, ma anche dei vv. 89-92).

SI noti che l'originalità callimachea di questo passo è anche suggerita dalla somiglianza lessicale e stilistica fra la traduzione catulliana del v. 82 s. munera libet onyx, | vester onyx e

Call. Lav. 13-15 un μύρα μηδ᾽ ἀλαβάετρως |... I μὴ μύρα ... μηδ᾽ ἀλαβάετρως | (in un brano già richiamato nel comm. al v. 77 s. per la sua affinità con quel distico). Inoltre, come osserva D'Alessio (p. 538), l'insistenza sulla purezza è molto frequente nell'opera di C.: una particolare affinità contenutistica intercorre fra la traduzione catulliana del v. 86 namque

ego ab indignis praemia nulla peto e Call. Del. 98 (parla Apollo) εὐαγέων δὲ καὶ edoayéeca μελοίμην |. L'organicità dei vv. 79-88 rispetto alla sezione precedente e a quella successiva è illustrata con efficacia da Marinone nel comm. al v. 79 (p. 205): «Il pensiero procede scorrevole verso la conclusione dell'elegia: "sono rattristata di non poter più toccare il capo di Berenice, dal quale, quando essa era ancora fanciulla, ho avuto molti profumi semplici ma non quelli propri di una donna sposata (vv. 75-78); ora che sono una costellazione-dea offritemi voi, donne

sposate, quei profumi raffinati ... (vv. 79-88); tu invece, o regina, da parte tua

rendimi partecipe dei tuoi sacrifici ad Afrodite-Arsinoe e cerca di ottenere che io presto torni a essere tua chioma (vv. 89-94)"».

8) 89-94: L'appello del ricciolo a Berenice ΠῚ ricciolo chiede, sì, a Berenice di coinvolgerlo nei sacrifici propiziatori che - con lo sguardo sollevato verso gli astri - compirà in onore di Afrodite durante i giorni festivi, ricordandole che esso le appartiene, ma la prega soprattutto di fare in modo, con laute offerte, che la dea lo restituisca al suo precedente stato di capigliatura regale, giacché non ha senso raddoppiare le costellazioni (cioè avere in cielo - oltre alla Corona di Arianna - un secondo gruppo stellare proveniente dal capo di una donna, cf. vv. 59-62): splendano pure] vicini l'Acquario e Orione (il ricciolo, cioè, pensa solo a tornare sulla testa di Berenice e non si

cura della mappa astrale). Poiché del passo callimacheo sono ravvisabili solo poche parole interne al distico finale, la precedente parafrasi si fonda in gran parte sulla traduzione catulliana: per i tormentatissimi versi 92 e 93 di quest'ultima mi sono dubbiosamente attenuto al testo fissato da Marinone e - più in generale - ho recepito la sua esegesi dei versi latini 89-93 (vd. il suo comm. ad loc., pp. 214-227). Dissento invece dalla sua interpretazione del distico conclusivo di C. (per la quale vd. già Marinone, Dati p. 161 s. = 168 s.). 91: A giudicare dal corrispondente verso di Catullo, qui il ricciolo esortava Berenice a non lasciarlo privo di sangue sacrificale nell'indirizzare, durante le ricorrenze festive, le sue

offerte ad Afrodite (promotrice del catasterismo, cf. vv. 54-64). Nel testo latino una congettura ingegnosa ma niente affatto necessaria venne avanzata da Bentley, che suggerì di mu-

COMMENTO:

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tare il tràdito sanguinis in unguinis (la chioma, cioè, chiederebbe alla regina di versare in suo onore alcune gocce di unguento, uniformandosi in tal modo al rito illustrato nei vv. 7988). Né mi sembra probabile che qui - come propone dubbiosamente Pf. - C. fosse volutamente ambiguo, utilizzando il vocabolo εἶαρ ovvero ἔαρ proprio in quanto esso può significare sia sangue sia grasso sia olio (vd. l'app. delle fonti e il comm. al fr. 149, 22 ξαρ). Νά. app. 92 zo [: Potrebbe trattarsi di τόφρα, come suggerisce Pf.: forse il ricciolo auspica che Berenice, mentre lo coinvolge nei sacrifici per Afrodite, frattanto interceda in suo favore presso la dea, per farlo tornare alla sua antica condizione di capigliatura. Benché il lacunoso scolio nel POxy. 2258 contenga la parola &ctépr ovvero &ctepu( ), è impossibile che il fr. nostri vv. 92-94 per l'incompatibilità tra il frammento suddetto e la Chioma, vd. anche il comm. ai vv. 79-88. Vd. l'app. al v. 92 e ai vv. 92-94. 93 yei[tovec: L'integrazione, che spetta a L., si fonda sull'aggettivo proximus impiegato da Catullo nel v. 94: pur di tornare sul capo di Berenice (cf. v. 91 s.), il ricciolo accetta che 1 gruppi stellari dell'Acquario e di Orione (cf. v. 94) - la cul distanza reciproca è di circa novanta gradi - splendano fra loro vicini, cioè che la posizione delle costellazioni in cielo si sovverta. Per risalire al senso del distico callimacheo, bisogna tenere presente l'esegesi for-

nita dallo scolio nel POxy. 2258 (yetrovec] Écrocav | Ὑδρο]χ[ό]ος καὶ Ὠρί(ων), suppl. L.): l'imperativo &ctocav, infatti, dimostra che il ricciolo proclamava di essere propenso a un accostamento

delle due

costellazioni,

pur di ottenere il suo

scopo.

Qui,

cioè, veniva

espresso in forma icastica e paradossale l'irriguardoso pensiero già formulato in termini più circostanziati e cauti nei vv. 69-76: per il ricciolo, la sacra inviolabilità della mappa astrale che è parte costitutiva della sua natura divina - ha meno valore dell'amatissima testa di Berenice. Si noti che una ricostruzione del genere lascia intravedere, qui nel finale, un effetto

di Ringkomposition in rapporto all'esordio dell'elegia: nel v. 1, infatti, 51 parla dello spazio celeste delineato sui disegni astronomici. Sia il supplemento yei[tovec sia più in generale il suddetto restauro contenutistico del v. 93 s. sono confortati dal fatto che - all'interno delle Dionisiache di Nonno - l'unica attestazione del vocabolo Ὑδροχόος (cf. qui v. 94) ricorre nella frase | γείτονες Ὑδροχόοιο (XXXVIII 370) e si riferisce allo sconquasso prodotto in cielo da Fetonte: vd. Hollis, Nonnus p. 59 n. 11. L'opportunità che Orione se ne rimanesse al suo posto era invece già asserita da Pindaro

(Nem. II 10-12): ἔςτι δ᾽ ἐοικός | ὀρειᾶν γε Πελειάδων | un τηλόθεν Ὠαρίωνα veicdon. 94 ‘Yôpox[éolc: Per la costellazione dell'Acquario, cf. Arat. 283 al. La forma Ὑδροχόοο, impiegata da C. e quasi certamente recepita dallo scolio nel POxy. 2258 (vd. il comm. al v. 93), è l'unica riscontrabile presso gli autori sia greci sia latini (Hydrochous), con la sola eccezione del dativo Ὑ δροχοῆϊ, esibito da Arat. 389 e Nonn. Dion. XXIII 315. Perciò, nel corrispondente pentametro catulliano, Hydrochoi non va interpretato come un dativo Hydrocho(e)i, bensì come un regolare genitivo dipendente da proximus (vd. il comm. di Marinone al v. 94, p. 231). D'altro canto, la presenza stessa di proximus sconsiglia di modificare il genitivo Hydrochoi nel dativo Hydrochoo, come suggerisce dubbiosamente Pf. ’Qapiov: La menzione callimachea di Orione, garantita dallo scolio nel POxy. 2258 (vd. il comm. al v. 93), si trovava con ogni probabilità alla fine del nostro pentametro: in tal caso la metrica impone la forma ’Qapiov, integrata per l'appunto da L., della quale l'Oa-

508

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

rion catulliano sarebbe un calco perfetto sul piano sia della morfologia sia della posizione nel verso (vd. il comm. di Marinone al v. 94, p. 227 s.). I poemi omerici ed esiodei esibiscono solo la forma Ὠρίων (Hom. ZI. XVIII 486 al., Hes. Op. 598 al.), ma - come afferma A. Meillet, Lineamenti di storia della lingua greca (tr. it. Torino 1976), p. 195 s. «Ὠαρίων di Callimaco è senza dubbio la lezione buona, più che Ὠρίων che appare nei manoscritti dei poemi omerici, perché l'i di questa parola era breve». Per il personaggio di Orione nell'opera callimachea, cf. fr. inc. sed. 570 Pf. e Dian. 265 (in entrambi 1 passi ci si riferisce al tentato stupro di Artemide). Riguardo alla forma Ὠαρίων, oltre al passo dell'inno di C. appena citato (per il quale vd. il comm. di Bornmann), cf. Corinn. PMG 654 II

38; 662, 2, Pind. Nem.II 12, Dith.fr. 72, 2 Sn.-M., Eur. Hec. 1101, Nic. Ther. 15.

8 bis) 942-94P: II saluto finale I due lacunosissimi versi chiudono l'elegia nel POxy. 2258. Del distico sono leggibili solo due parole contenute nell'esametro, cioè l'aggettivo φίλη (verisimilmente di caso vocativo) e sùbito dopo il sostantivo tex&eccı: non sappiamo se i due vocaboli fossero collegati sul piano sintattico. È probabile che li precedesse immediatamente il verbo y[oîpe] all'inizio del verso. A quanto pare, dunque, il ricciolo rivolgeva un saluto finale a una donna, specificando forse che ella era cara ai figli. Sulla possibile identità di tale personaggio, vd. il comm. al v. 943. Il distico non trova rispondenza nel testo catulliano: con ogni probabilità esso fungeva da epilogo della Chioma nella sua prima redazione come carme autonomo, ma venne rimosso allorché C. inserì il poemetto come ultima elegia degli Aitia (redazione questa tradotta da Catullo) e compose un nuovo e più ampio epilogo (fr. 215) per concludere l'intera opera (vd. Pf.

I p. XXXVII,

Gallavotti, Recensione

III p. 92, Fraser II p.

1026 n.

109,

Koenen p. 112). Vd. più in generale il comm. ai vv. 79-88. Non è invece plausibile che Catullo avesse davanti un testo della Chioma ancora provvisto dei nostri due versi, ma decidesse di ometterli nella sua traduzione (vd. Della Corte,

Recensione p. 141) o perché ne riconobbe il ruolo di trapasso (vd. Herter, Recensione p. 77) o perché rifuggì dal loro contenuto troppo cortigiano (vd. Nicastri p. 23). Quest'ultima ipotesi viene ora guardata con favore da Fantuzzi-Hunter p. 549 e p. 562 n. 69 = p. 476 con n. 133, con l'aggiunta della seguente congettura, molto ingegnosa ma assai incerta: Catullo avrebbe conosciuto entrambe le redazioni della Chioma e avrebbe scelto di tradurre quella priva dei vv. 942-945 (inadeguati alla temperie ideologica di Roma), inserendo però un riecheggiamento del nostro distico all'inizio del carme LXVII, immediatamente successivo alla traduzione della Chioma callimachea contenuta nel carme LXVI iucunda parenti, | salve ecc.).

(0 dulci iucunda viro,

Poiché la persona loquens dell'intera elegia è il ricciolo, trovo poco probabile che il saluto finale, contenuto nei nostri versi, fosse pronunciato direttamente da C., come immagina

Koenen p. 112. Vd. Fantuzzi-Hunter p. 562 n. 67 = p. 476 n. 131.

94 x[

7. φίλη texéeccr: Come si è detto, l'esametro cominciava molto verisi-

milmente con l'imperativo x[oipe]: saluti espressi tramite forme del verbo χαίρω sono collocati da C. non solo - secondo la tradizione - alla fine di tutti i suoi inni, ma anche nella chiusa di varie sezioni degli Aitia (cf. frr. 25, 21%; 64, 2; 165, 8; 215, 7 e 8* e vd. Harder

pp. 107-109). L'ipotesi più naturale è che qui il ricciolo si congedasse da Berenice, apostrofandola con l'aggettivo φίλη: L. osserva però che in tal caso le due parole φίλῃ e texéeca non costituiscono un nesso e vanno separate con una virgola (vd. app.), giacché la Chioma

COMMENTO:

AET.IV FRR. 213-214

509

fu composta poco dopo le nozze di Berenice e quindi la regina non poteva ancora essere definita cara ai figli. Pf. invece collega sintatticamente φίλη e τεκέεςοι e ritiene che il ricciolo indirizzasse il suo saluto ad Arsinoe II, la quale - identificata con Afrodite - ha un ruolo di primo piano all'interno dell'elegia, sia come auspice del catasterismo nei vv. 54-64 sia (a giudicare dalla traduzione catulliana) come destinataria dei sacrifici di Berenice nel vicino v. 89 s. La defunta Arsinoe sarebbe cara ai figli, cioè a Tolemeo III e Berenice, di entrambi i quali Arsınoe stessa e il suo sposo fratello Tolemeo II (θεοὶ ᾿Αδελφοί) erano ufficialmente conside-

ταῦ i genitori. Vd. il comm. al v. 45 Bovrépoc ᾿Αρεινόηις umtpöc céo e Pf., Storia p. 207 n. 3, Fraser II p.

1026

n.

109, Koenen

p.

111

s., Benedetto

p.

123, Fantuzzi-Hunter

p.

549=476. In verità risulta difficile immaginare che un'elegia incentrata su Berenice si chiudesse con un'apostrofe ad Arsinoe invece che a Berenice stessa. Perciò vari studiosi sono tornati a ritenere che quest'ultima fosse la destinataria del saluto finale: l'ipotesi viene caldeggiata in termini generali da Gallavotti, Recensione HI p. 92 e Herter, Recensione p. 77, mentre Cire-

sola, Chioma p. 503 e Meillier, Papyrus p. 85 n. 13 credono - poco plausibilmente - che la presenza di Berenice nel nostro verso possa pur sempre conciliarsi con la frase φίλη texéecci, in quanto essa esprimerebbe un augurio di prolificità rivolto ai giovani sposi. Un'ottima ricostruzione contenutistica dei vv. 94? e 945 viene prospettata da Marinone p. 47 n. 37: forse il ricciolo si congedava sia dalla dea Arsinoe (φίλῃ texéecci) sia - nel séguito del distico - dagli stessi suoi figli ufficiali, cioè 1 regnanti Tolemeo III e Berenice, così come negli ultimi due versi dell'inno a Delo (325 5.) C. saluta con le formule χαῖρε e χαίροι l'isola, Apollo e probabilmente Latona. L'estrema frammentarietà del v. 94? induce invece a valutare con cautela la correzione di texéecci in Tokeeccı, suggerita dubbiosamente da L. (vd. app.) - in alternativa alla punteggiatura φίλη, texéecci (vd. sopra) - per far sì che l'aggettivo φίλῃ possa riferirsi a Berenice: costei, in tal caso, sarebbe definita cara ai genitori ufficiali, cioè 1 defunti e divinizzati

Tolemeo II e Arsinoe. Si noti che la congettura, di per sé allettante, potrebbe soprattutto trovare appoggio nell'impiego della sequenza φίλος (voc.), tokéecciv* da parte di Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 32, 5; il dativo tokéeccu{v), oltre che in numerosi altri passi poetici di Gregorio Nazianzeno (cf. p. es. Carm.I 1, 15,7= PG 37 p. 477*), ricorre presso [Phocylid.] Sent. 217, Theocr.

Append. Musae.

II 637, 180*.

XXII

159*, EpGr.

884,

1 Kaibel*, GVI 789, 3*, ep. adesp. Anth. Pal.

19 (vol. IH p. 196 Cougny),

In alcuni

Quint. Smyrn.

I 108 al., Maneth.

di questi luoghi, fra l'altro, la tradizione manoscritta

VI 99,

esibisce la

corruttela tex&eccu(v) . Per il probabile incipit x[oipe], φίλη, cf. Bion fr. 11, 4 Gow χαῖρε, φίλος (voc.)*. Per φίλη tekéecct, cf. Greg. Naz. Anth. Pal. VIII 30, 3 φίλας tekéecct (dove le due parole non sono sintatticamente connesse).

Frammento 214 (111 Pf.) Il frammento, relativo all'isola di Lesbo, consiste in un passo di Stefano Bizantino, che

si richiama in modo esplicito al quarto libro degli Aitia. Poiché 1 dati sui temi delle singole elegie di tale libro non ci consentono di riferire tezza a una di esse la testimonianza di Stefano, ho preferito - come frammento in coda a tutti gli altri, facendolo seguire solo dall'epilogo 215). Esiste però la possibilità che la menzione callimachea di Lesbo

a nostra disposizione con una qualche cergià Pf. - sistemare il dell'intera opera (fr. rientri nell'aition im-

510

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

perniato su Melicerte (frr. 193-195), giacché alla fine della relativa Diegesis leggiamo che un sanguinoso rituale praticato a Tenedo ebbe fine quando 1 discendenti di Oreste si stabiliΤΌΠΟ a Lesbo. È anche ipotizzabile che al nostro frammento sia collegato il fr. inc. sed. 252, dove si parla del culto lesbio di Apollo. Vd. l'annotazione dopo il testo. Nell'articolo dedicato a Mitilene, Stefano Bizantino passa in rassegna tre diverse teorie sull'origine del nome di questa città lesbia: secondo Ecateo esso deriva da Mitilene figlia di Macare o di Pelope, secondo altri dal suo fondatore Mitile e secondo altri ancora da Mitone

figlio di Posidone e Mitilene; in rapporto alla terza etimologia, Stefano tramanda che C. chiamava Mitonide Lesbo e che Partenio (SH 660 = fr. 48 Lightfoot) definiva Mitonidi le abitanti di Lesbo. Il personaggio di Mitone, fondatore ed eponimo di Mitilene, compare anche presso [Herodian.] De soloecismo et barbarismo ed. Nauck (in calce al Lex. Vindob.) p. 309. 13 =

J. F. Boissonade, Anecdota Graeca IN (Parisiis 1831) p. 258 βαρβαρίζουειν ... περὶ δὲ μετάθεειν οἱ λέγοντες τὸν δίφρον Spigov καὶ τὸν Μυτιληναῖον Μιτυληναῖον - ἀπὸ γὰρ Μύτωνος τοῦ κτίςτου Μυτιλήνη καλεῖται (cf. inoltre Grammat. De barbarismo ed. Valckenaer, in calce ad Ammon. Diff. verb. p. 195 = p. 179 nell'edizione del 1822). Una menzione di Mitone si può forse riconoscere in un minuscolo frammento di Alceo (fr. 226, 1 Voigt: vd. l'app. ad loc).

Frammento 215 (112 Pf.) (Epilogo) Il frammento tramanda gli ultimi nove versi degli Aitia. I lacunosi vv. 1-3 non si sono finora lasciati integrare in modo convincente: la prima frase riconoscibile è quando la mia musa, dove sı deve con ogni probabilità individuare un accenno di C. alla propria ispirazione poetica; la fine del v. 1 contiene la desinenza di un indicativo futuro (il cui presumibile soggetto è appunto uodca), mentre il v. 2 si apriva verisimilmente con il genitivo di un nome (del quale, a quanto pare, sopravvive la desinenza), prosegue con la menzione coordinata delle Cariti e - dopo una lacuna e una sequenza di lettere dall'incerta lettura - si chiude con il riferimento a una signora (cioè, come sembra, una regina tolemaica), qualifi-

cata al principio del v. 3 da un aggettivo del quale si è persa la parte iniziale; questo verso continua con un nesso che esprime il carattere non ingannevole di qualcuno o di qualcosa e nel contempo incastona un'apostrofe a un personaggio, da identificare probabilmente con una dea (vd. oltre); il v. 3 finisce con la desinenza di un dativo singolare. Lo stato del testo migliora a partire dal v. 4, benché la conclusione di tale verso e l'esordio del pentametro successivo non siano ancora stati letti e integrati in maniera soddisfacente (con notevole pregiudizio per l'esegesi complessiva del frammento). Nel v. 4 non sappiamo quale sia il soggetto del verbo disse, posto appena prima dell'indecifrabile clausola: da tale verbo dipende la precedente frase del tutto buona e del tutto efficace, che ha il probabile ruolo di predicativo dell'oggetto ce (v. 3) ed è la verisimile designazione di una dea; dopo il dimostrativo quello (forse un singolare di caso genitivo), il cul referente rimane dubbio, si rievoca il colloquio fra le Muse e il pastore Esiodo presso la fonte Ippocrene sul monte Elicona (v. 5 s.). Seguono due saluti: il primo presumibilmente destinato alla medesima dea apostrofata nel v. 3 s., cui viene ora rivolta l'invocazione di arrecare un più vantaggioso benessere (v. 7); il secondo indirizzato da C. a Zeus, con la preghiera di preservare l'intera casa dei Tolemei (v. 8). C. chiude l'opera esprimendo l'intenzione di andare nel pascolo pedestre delle Muse (v. 9). Sia il restauro testuale dei vv. 1-3 e del trapasso fra il v. 4 e il v. 5 sia l'interpretazione

COMMENTO:

AET.IV FRR. 214-215

511

dell'intero frammento hanno dato luogo ad accese discussioni. 51 può affermare che 1 critici concordano solo su due punti. In primo luogo, il v. 5 s. istituisce un voluto collegamento tra la chiusa e il proemio degli Aitia (frr. 3-4), dove C. riferiva di avere intessuto in sogno un dialogo con le Muse sull'Elicona e specificava che proprio su questo monte le dee erano apparse a Esiodo presso l'Ippocrene: anzi, il nostro passo è una ripresa quasi letterale del fr. 4, 1 5. (vd. il comm. ad loc.). In secondo luogo, nell'ultimo esametro della sua opera (v. 8) C. sceglie di omaggiare 1 Tolemei, pregando Zeus di salvaguardarne la casa con una movenza ispirata alle formule finali degli inni. Sul piano complessivo, appena dopo che Hunt pubblicò l'editio princeps del POxy. 1011 (dov'è appunto tramandato il frammento), Arnim pp. 7-10 suggerì di riconoscere qui un dialogo fra C. e Zeus: 1 vv. 1-7 spetterebbero al dio, che porrebbe fine al suo discorso con un saluto a C. (v. 7); il distico finale (v. 8 s.) sarebbe pronunciato da C., che nel v. 8 risponderebbe al saluto di Zeus. Questa ricostruzione, poi condivisa fra gli altri da Wilamowitz,

Hell. Dicht. Ip. 95, fu in un primo momento recepita da Pf.!, che però assegnava a C. i vv. 1-3, a Zeus 1 vv. 4-7 e di nuovo a C. il v. 8 5. Ma tale linea esegetica, di per sé poco plausibile e perciò giustamente avversata già da Barber, Editions p. 2, ha perso un importante sostegno formale allorché una revisione del papiro compiuta da L. ha mostrato che nel v. 4 c'è scritto ein£v: si tratta dunque dell'indicativo einz(v), a quanto pare seguito da un'enclitica, e non dell'imperativo εἰπέ, come credeva Hunt, né tanto meno dell'imperativo eine(o), come appunto immaginava Arnim, il quale vedeva qui un'esortazione di Zeus a C. E non può dirsi riuscito il tentativo, messo in atto da Pohlenz pp. 323-327=54-58, di conciliare 11 nuovo dato con l'ipotesi del colloquio fra Zeus e C. (dove 1 vv. 1-3 spetterebbero a C., i vv. 4-7 a Zeus e il v. 8 s. a C.), intendendo einev come una breve interruzione

delle parole del dio. Lo stesso espediente viene adottato - con uguale insuccesso - da Puelma pp. 247-268=43-69=189-216, che però (chiamando in causa la menzione congiunta di Apollo e Zeus nei proemiali vv. 94-96 della Teogonia esiodea e rifacendosi ai vv. 21-28 del nostro fr. 1, dove Apollo addita al piccolo C. la via poetica da intraprendere) pensa a un dialogo fra Apollo e C., nel quale si realizzerebbe un effetto di Ringkomposition con l'inizio dell'opera (vd. anche Koenen p. 93), e assegna a C. 1 vv. 1-3, ad Apollo 1 vv. 4-6 e di nuovo a C. 1 vv. 7-9. Nello specifico, sia Pohlenz sia Puelma ritengono che nel v. 4 s. il dio (si tratti di Zeus o di Apollo) sanzioni la validità della strada poetica, di matrice esiodea, percorsa da C. negli Aitia ora conclusi. Perciò essi leggono e integrano (sottintendendo un sostantivo come ὁδόν): 'πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντᾳ τ[ελ]εεφόρον᾽, εἶπεν, [[ὁμάρτεις | κείνῳ τῷ Modcor KrA., tu accompagni lungo una via del tutto buona e del tutto efficace colui, con il quale le Muse ecc. Νά. l'app. al v. 4. Con plausibilità molto maggiore, altri studiosi e poi anche - nel comm. al frammento Pf. (che già in /Ziöxauocp. 227=152 dichiarava di non condividere più la ricostruzione generale di Arnim) ritengono che tutti 1 nostri versi spettino a C. Questa idea è soprattutto raccomandata dall'inopportunità (riconosciuta, tra i fautori dell'assetto dialogico, solo da Puelma) di attribuire a due voci diverse il saluto del v. 7, la cui dizione è tipica delle epiclesi agli dèi (vd. il comm. ad loc.), e quello rivolto da C. a Zeus nel v. 8. Nonostante l'esitazione di Pf., inoltre, è praticamente certo che il χαῖρε del v. 7 si riferisce alla medesima dea apostrofata con ogni probabilità nel v. 3 (ce) e definita del tutto buona e del tutto efficace nel v. 4: vd. in proposito Barigazzi, Esiodo p. 97 s. Quanto all'identità di tale dea, sono state formulate varie congetture: vd. il comm. al vv. 2-5. Un'accurata dossografia del vivace dibattito critico sul nostro frammento nel quindicen-

512

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

nio 1921-1935 viene offerta da Herter, Bursian 255 pp. 140-145. Molto verisimilmente C. compose l'epilogo in tarda età, quando allestì la seconda edizione degli Aitia: vd. nel precedente volume /ntrod. II.1., II.3., II.8., nonché 1 comm. 2-5, ὃ 69 61] comm. al fr. 213, 79-88.

1

|.

al vv.

iv ὅτ᾽ ἐμὴ poùca τί ..

spirazione poetica di C. (sul piano formale, cf. anche Del. 82 ἐμαὶ θεαὶ ... Modcan |). È inoltre molto verisimile che il futuro terminante in J&cetou abbia per soggetto ἐμὴ μοῦεα. Murray propone di integrare [1 κομπ]άςεται (si vanterà di qualcosa). Per l'inizio del verso, da parte sua, Platt suggerisce l'allettante integrazione ἀείδειν. Plausibile è l'ipotesi - prospettata da Coppola, Callimachus p. 274 - che il nostro pentametro sia sintatticamente separato dal versi successivi («Callimaco prometteva di parlare ancora della divinità o dell'eroina che invoca nei versi che seguono», vd. anche Barigazzi, Esiodo p. 103): Coppola

propone quindi i supplementi z[ı τεχν]άςεται (creerà qualcosa) oppure 1[1 κωμ]άςεται (tripudierà in qualcosa). Vd. app. L'anomalia metrica del vocabolo di struttura giambica ἐμή davanti alla dieresi del pentametro è attenuata dal praepositivum ὅτ᾽: vd. Introd. 11.1.B.a.iüi.

2-5... [too καὶ Xapitov |...... Ἰριὰ μρφιαδ᾽ avacenc I... ]tépnc οὔ ce In Ἰματι I πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντα τ[ελ]εεφόρον εἶπέν [. 11 {ΠΠ κείν .: Nell'editio princeps del POxy. 1011 Hunt si limita a fornire qualche osservazione cursoria sull'esegesi di questo difficile brano: spetta però a lui il merito di avere plausibilmente congetturato che il pronome ce si riferisca alla medesima divinità salutata dal χαῖρε del v. 7 e di avere riconosciuto che a tale pronome può riallacciarsi la sequenza

πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντα τ[ελ]εςφόρον. All'inizio del v. 3 un'integrazione molto verisimile è ἡμε]τέρης, proposta da Murray come attributo di &v&cenc: poiché è estremamente probabile che questi versi contengano enunciati dello stesso C., la frase della nostra signora si spiega molto bene come designazione di una regina tolemaica (da scartare è invece il supplemento ὑμε]τέρης adottato da Arnim e Wilamowitz, che con scarsa plausibilità vedono in questo passo un discorso di Zeus a C.: vd. il comm. introduttivo). Nel resto del v. 3 Murray

suggerisce où cè yeddov [ἐπ᾽ obvöluarı (non ti falsavo per nome), senza però avanzare ipotesi sul nesso sintattico e tematico che questa frase avrebbe con l'esametro successivo (rilevo che, a favore di quest'integrazione, si può richiamare Call. Hec. fr. 288, 1 Pf. = 90, 1

H. où ψύθος οὔνομ᾽. Un

intervento

essenziale

si deve

a Platt, che individua nel v. 2 un'epiclesi

della dea

sùbito dopo apostrofata con il pronome ce e definita πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντᾳ τ[ελ]εεφόρον: tale approccio al v. 2 è stato accolto da altri studiosi, i cui contributi al restauro dell'esametro si configurano in sostanza come variazioni della linea interpretativa di Platt. Questi suggerisce innanzitutto di correggere l'incomprensibile sequenza μοιαδ᾽ ἀνάςςης in μαῖα δ᾽ ἀνάςςης: la congiunzione è’ coordinerebbe μαῖα a un precedente vocativo concluso dalle incerte lettere ]pıa, per il quale Platt propone il supplemento

[xocunt]pra. A sua volta, il gruppo [τοῦ (preferibile a ποῦ) sarebbe la desinenza di un genitivo coordinato dal καί al successivo Χαρίτων: Platt suggerisce l'integrazione πλού]του, che è però troppo lunga per lo spazio disponibile in lacuna. Nel v. 3 il critico - come già

Murray - riconosce l'imperfetto weddov e ipotizza poi [ὅτ᾽ οὐνό]ματι, collegando ὅτ᾽ a un aoristo di prima persona εἶπα nel v. 4, che è però inammissibile sul piano paleografico. La dea invocata da C. sarebbe Afrodite, cui dunque egli direbbe: ornatrice della ricchezza e

COMMENTO:

AET.IV FR. 215

513

delle Cariti e nutrice della nostra signora, non ti falsavo quando di nome ti dissi ecc. La signora alunna di Afrodite sarebbe Arsinoe, che con la dea ebbe uno stretto legame (vd. il comm. al fr. 213, 45 ’Apcwönıc). Il supplemento del v. 3 di Platt viene modificato in [ὅτε «τό]ματι da Ellis, che però vede qui un appello alla Musa e traduce: non ti falsavo quando a bocca aperta ti dissi ecc. Una diversa esegesi generale del passo è quella di Coppola, che via via la precisa e sviluppa in tre diversi contributi fra il 1930 e il 1935: la divinità invocata da C. sarebbe l'eroina Cirene, eponima della sua patria; la nostra signora sarebbe Berenice, della quale Cirene è nutrice perché in essa la regina nacque e trascorse la prima parte della vita. All'inizio del v. 2 Coppola accetta il supplemento di Bignone Βάτ]του, cioè il nome del mitico fondatore di Cirene e antenato di C., mentre nella successiva lacuna dell'esametro integra l'inatte-

stato [κηδεύτ]ριᾳ. Nel v. 3 lo studioso intende la sequenza wevdov[ come un participio neutro ψεῦδον e integra poi [ὄναρ «τό]ματι, richiamandosi all'incontro onirico fra il «personaggio C.» e le Muse nel proemio degli Aitia (vd. il comm. ai frr. 3-4) e considerando il nesso ψεῦδον [ὄναρ soggetto del verbo ein£(v) (v. 4). Poiché dall'autopsia di L. risulta che qui il papiro offre appunto un indicativo di terza persona, a quanto pare seguito da un'enclitica (vd. il comm. introduttivo), Coppola propone eine u[oı ὥςπερ e collega ὥςπερ al successivo κείνῳ (forma questa comunemente data per buona prima dell'edizione pfeifferiana del 1949, ma non raccomandata dalle tracce, che fanno piuttosto pensare a κείνου): però tale supplemento non convince, sia perché il u è escluso sul piano paleografico sia perché gli esametri callimachei non ammettono pausa di senso dopo il quinto piede (vd. Introd. 11.1.A.d.). Secondo lo studioso, data l'esplicita menzione delle Muse nel séguito del

v. 5, l'ipotetico nesso ὥςπερ κείνῳ andrebbe inteso come ὥςπερ Modcan εἶπον κείνῳ (vd. Coppola, Poeti p. 330 s. e Coppola p. 175 n. 4). Il sogno - direbbe C. - ha veracemente rivelato a lui, come le Muse rivelarono a Esiodo (cf. v. 5), che Cirene è πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντᾳ τ[ελ]εοφόρον: quest'ultima frase sarebbe la citazione di un passo esiodeo dedicato a Cirene e risalente al Catalogo delle donne, una cui sezione verteva appunto su questa eroina (cf. frr. 215-217A M.-W. e vd. Coppola, Callimachus p. 276 s.). Ecco dunque la traduzione di Coppola p. 175: «O terra natale della mia regina, o tutrice di Batto e delle Grazie, con parole non menzognere ti definì in tutto felice e di tutti 1 frutti feconda il sogno a me, come (con le stesse parole con cui ti definirono) le Muse a colui al quale» ecc. Un'altra interpretazione complessiva del brano è quella di Gallavotti, che la focalizza e argomenta in due interventi del 1933 e del 1934: lo studioso ritiene - come congetturava già Ellis - che la divinità invocata da C. sia la Musa, ma in più puntualizza che si tratterebbe specificamente di Calliope, cui bisognerebbe anche ricondurre la frase ἐμὴ podca del v. 1; la nostra signora andrebbe identificata con Arsinoe, giacché - come scrive Gallavotti, Pro-

logo p. 243 - «Calliope è la nutrice della regina ... alla regina Arsinoe erano gli Aitia probabilmente dedicati: essa si interessava, perciò quasi si nutriva, di poesia». Recuperando un supplemento già prospettato da Platt, nel v. 2 Gallavotti propone il vocativo [κομμώτ]ριᾳ e lo applica appunto a Calliope. Per il v. 3 lo studioso suggerisce di integrare ψεῦδον [ὕδος

πό]ματι e di vedere in yeddov [ὕδος il soggetto del verbo ein£(v), che avrebbe come complemento ferirebbe avrebbero comm. ai - direbbe

di termine il supposto κείνῳ del v. 5 (cioè Esiodo). La frase [ὕδος πό]ματι si riall'acqua dell'Ippocrene (la fonte rievocata sùbito dopo nel v. 6), che le Muse fatto bere a Esiodo allorché lo consacrarono poeta sul monte Elicona (vd. il frr. 3-4; sul piano formale, vd. il comm. al fr. 89, 20 πόματι"). Tale acqua bevuta C. - rivelò veracemente a Esiodo che Calliope è πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντᾳ

514

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

τ[ελ]εεφόρον: con ciò si alluderebbe all'elogio di Calliope nel v. 79 5. della Teogonia esiodea, che segue di poco la rievocazione dell'incontro fra l'antico poeta e le Muse sull'Elicona (vv. 22-34; vd. Gallavotti, Epimetron pp. 86-88 e 91). Il senso del passo sarebbe dunque: Ornatrice della ricchezza e delle Cariti e nutrice della nostra signora, l'acqua non ingannevole con la bevuta ti disse del tutto buona e del tutto efficace a colui con il quale ecc. (in termini generali, però, si noti che un'epiclesi di Calliope mal si concilierebbe con la successiva menzione delle Muse in terza persona nel v. 5 s., come ha acutamente rilevato Puelma

p. 250=47=193). Anche Barber riconosce nel v. 3 un participio neutro wedôov. Lo studioso propone, sùbito dopo di esso, [ἔπος crö]uarı (cui aveva già pensato Gallavotti) e considera wedôov [ἔπος il soggetto del verbo alla fine del v. 4: l'explicit di questo esametro sarebbe ein’ ἐν

[ἀοιδῇ (la parola non ingannevole con la bocca ti disse ... nel canto). Ma, a parte ogni altra considerazione, la sequenza ἔπος ... ein’ non risulta plausibile. Tra la fine del v. 3 e l'inizio del v. 5 la sintassi sarebbe molto più piana, se si potesse leggere e integrare con Maas ψευδομ[ένῳ crö]uarı e (come ipotizzava già Mair) εἶπεν [ἀοιδός

| κεῖνος:

con bocca

non menzognera

ti disse del tutto buona

e del tutto efficace

quel poeta (cioè Esiodo) con il quale ecc. Purtroppo, però, la sequenza wevôov| è certa e nel papiro c'è scritto prima εἶπέν (indizio, a quanto pare, del fatto che l'aoristo eine(y) era seguito da un'enclitica) e poi κείν, . (compatibile soprattutto con κείνου e meno bene con κείνῳ, ma non certo con κεῖνος). Da quanto si è detto risulta chiaro che la sistemazione testuale e l'esegesi del passo sono ancora molto problematiche. Nell'insieme, però, ritengo che la proposta interpretativa più allettante sia quella di Coppola, secondo il quale - come abbiamo visto - C. invoca Cirene. Infatti l'appassionato attaccamento di C. alla sua patria (cf. specialmente frr. inc. sed. 602, 3 Pf. e 716, 2 Pf. e vd. Pf. II p. XXXVIII s.) rende del tutto plausibile che questa venisse da lui celebrata in un punto molto cospicuo dell'opera, qual è appunto l'epilogo. Un altro importante elemento (finora trascurato dagli studiosi), che corrobora l'interpretazione di Coppola e allo stesso tempo la congettura di Platt uoîa δ᾽ ἀνάςςης nel v. 2, è la presenza del nesso Κυρήνη | μαῖα in un epigramma sepolcrale per Eratostene composto da Dionisio di Cizico (Anth. Pal. VII 78, 3 s. = HE 1443 s.). L'esegesi complessiva di Coppola viene anche accolta da Barigazzi, Esiodo pp. 99-107. Tale esegesi implica che la signora del v. 2 sia Berenice. Ma, anche a prescindere dalla ricostruzione generale di Coppola, trovo preferibile riconoscere Berenice, piuttosto che Arsinoe, nella &vacca. del nostro brano. A sostegno di questa ipotesi è possibile fare due considerazioni: in primo luogo un esplicito riferimento a Berenice si collegherebbe bene all'ultima elegia degli Aitia, la Chioma di Berenice (fr. 213), dalla quale l'epilogo era immediatamente preceduto; inoltre una datazione tarda dell'epilogo, che risulterebbe necessariamente dalla comparsa in esso di Berenice (ascesa al trono d'Egitto nel 246 a.C.), collima con la teoria più plausibile sul processo di composizione degli Aitia (vd. la fine del comm. introduttivo). Ma può forse far pensare a Berenice anche la menzione delle Cariti nel v. 2: vd. il comm. ad loc. Fra gli studiosi schierati invece a favore di Arsinoe si possono annoverare - oltre a Platt e Gallavotti, 1 cui contributi sono esposti più sopra - anche Cessi p. 98, Cahen p. 93 n. 4, Pohlenz p. 327=58 e Cameron p. 162. Mi sembra però che la presenza di Arsinoe nell'epilogo sia inverisimile per motivi cronologici: poiché infatti la regina morì fra il 270 e il 268 a.C., bisognerebbe immaginare - con scarsissima plausibilità - che qui C. definisse nostra

COMMENTO:

AET.IV FR. 215

515

signora la sovrana già defunta (per l'inverificabile congettura che l'epilogo chiudesse originariamente solo 1 primi due libri degli Aitia, 1 quali sarebbero stati appunto composti prima della morte di Arsinoe, vd. Knox pp. 59-65 e Knox, Epilogue, da me discussi nel precedente volume, /Introd. 11.4., 11.7., 11.8., vd. anche Koenen p. 93 s.). Né mi pare che, a favore di Arsinoe, militi il fr.3, 1 del proemio, dal quale - al contrario - credo si debba dedurre che

la regina non figurava nemmeno in quella parte dell'opera: Ritengono, fra gli altri, che la &vacca del nostro brano Barigazzi (negli interventi illustrati più sopra), ma anche 228=152, Maas, Recensione III p. 437, Deubner p. 185 n.

vd. il comm. ad loc. sia Berenice non solo Coppola e Mair (p. 216), Pf., /Ziöxauocp. 2 = p. 441 n. 2, Lavagnini p. 112

s. = 134 s. = 302 s., Reitzenstein, Recensione p. 465, Herter, Bursian 255 p. 141, Maas, Exkurs II p. 171, Manteuffel p. 99, Pf. I p. XL, Herter, Recensione p. 77, Howald-Staiger

(p. 295), Eichgrün p. 60, Torraca p. 105, Nicastri p. 6 n. 3, Fraser II p. 1029 n. 128, Meillier p. 148 s. e *Krevans p. 261. Per le numerose integrazioni e congetture sollecitate dai vv. 2-5, vd. in generale l'app. 2 Χαρίτων: C., come qui alla fine dell'opera menziona prima le Cariti e poi le Muse dell'Elicona (v. 5), così al suo principio parla innanzitutto delle Muse nell'invocazione (fr. 2) e nella scena del sogno eliconio (frr. 3-4) e poi delle Cariti nel primo aition (frr. 5-9'8): per questa voluta specularità, vd. la fine del comm. ai frr. 5-9!8 e Lehnus, Callimaco p. 82, nonché Introd.1.4.D. La cosa risulta particolarmente significativa, se si osserva che nel fr. 9, 13 s. C. prega le Cariti di dare fama durevole alle sue elegie. La menzione delle Cariti può nel contempo costituire un indizio utile al riconoscimento di Berenice nella &v&cenc che compare alla fine del verso: sappiamo infatti, grazie a un epigramma dello stesso C. (LI Pf.= HE 1121 ss.), che una statua di Berenice (probabilmente da identificare con la moglie di Tolemeo III, vd. il comm. di Gow-Page) venne aggiunta come quarta al gruppo delle Cariti. Vd. Howald-Staiger (p. 295). ἀνάςςης: L'explicit, che si riferisce con ogni probabilità a Berenice, anticipa la clausola ἀνάκτων" del v. 8, dove sono così designati la regina e suo marito Tolemeo III.

3... [τέρης οὔ ce yevdov[...... ματι: Sul piano prosodico, è insolito che il primo colon del pentametro termini con una vocale breve (cioè l'epsilon di ce) allungata «per posizione»: vd. Introd.11.2.C. 4 πάντ᾽ ἀγαθὴν καὶ πάντα τ[ελ]εεφόρον: Anche altrove C. utilizza πάντα in funzione avverbiale prima di un aggettivo: cf. Jamb. fr. 194, 46 Pf. | © πάντα καλή, fr. eleg. 388, 4 Pf. πάντων πά[ν]τα τελειότατε | (particolarmente simile al nostro passo), (Call.) fr.

inc. auct. 736 Pf. πάντη πάντα θαλυκρός. Sul piano formale, cf. lov. 57 πάντα τέλεια | (dove però πάντα ha funzione di pronome). La sequenza πάντα τελεςφόρον si riscontra già presso Hom. Od. Χ 467* e Hes. Theog.740*, ma in entrambi 1 luoghi la sintassi è diversa.

Vd. inoltre il comm. al fr. 9, 8 Jratehel Χαρίτων nel nostro v. 2). πάντ᾽

ἀγαθήν:

Jov (in un passo incentrato sulle Cariti, cf.

Cf. Call. fr. inc. sed. 608 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed.

168 H. κάρτ᾽

ἀγαθή. «[ελ]εεφόρον: Nei poemi omerici ed esiodei l'uso dell'aggettivo è limitato alla formula τελεςφόρον εἰς ἐνιαυτόν | (per un anno intero, cf. - oltre al passo omerico e a quello esiodeo

citati sopra

- Hom.

Il. XIX

32,

Od. TV

86, XIV

292, XV

230, nonché

[Hom.]

Hymn. II 343, XX 6). Per il significato di efficace - che si riscontra nel nostro passo -, cf. [Hom.] Hymn. XXIII 2*, Sim. PMG 511 fr. 1(b), 5, Aesch. Ag. 996, 1000, Prom. 511, Soph. Ai. 1390, [Orph.] Hymn. IX 9*, XXVI

2* Quandt, Orac. Sib. III 659* (spesso, come

516

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

qui, a proposito di una divinità). Τελεςφόρος è pure il nome di un dio associato ad Asclepio: cf. EpGr. 1027, 31 al. Kaibel, GV/ 880, 1. Per l'uso dell'aggettivo presso Opp. Hal. II 688*, vd. il comm. al v. 8. C. impiega anche il sostantivo teXecgopin: cf. fr. 187, 13 con il comm. Vd. inoltre il comm. al fr. 20, 4 doclnmipac.

5s.1® Μοῦεαι πολλὰ véuovii Bora | cdv μύθους ἐβάλοντο παρ᾽ ἴχν[ι]ον ὀξέος ἵππου: C. rievoca il colloquio fra le Muse e il pastore-poeta Esiodo sul monte Elicona (cf. Hes. Theog. 22-34, soprattutto 22-24) presso la fonte Ippocrene: quest'ultima viene chiamata orma dell'impetuoso cavallo, perché scaturì dal colpo di uno zoccolo di Pegaso, il cavallo alato di Bellerofonte. Il nostro passo è una ripresa quasi letterale del fr. 4,

1 s. ποιμιένι μῆλα νέμιοντι παρ᾽ ἴχνιον ὀξέος ἵππου | ‘Hadd10 Movcewv ἕεμδις ὅτ᾽ ἠντίαςεν (vd. il comm. ad loc.): in tal modo, come congetturava già Pf.! nell'annotazione al fr. 9, 85 (contro il parere espresso da Wilamowitz nell'editio princeps del POxy. 1011 di Hunt), C. istituisce un esplicito nesso fra il sogno eliconio del proemio (frr. 3-4) e la conclusione dell'opera. Ponendo la figura di Esiodo all'inizio e alla fine degli Aitia, C. indica di averlo assunto come modello letterario dei propri Aitia (vd. il comm. al frr. 3-4). È sicuramente

da escludere l'ipotesi, avanzata da Cameron

p. 371, che nei nostri due

versi si parli non di Esiodo, bensì del «personaggio C.» e del suo colloquio onirico con le Muse (cf. frr. 3-4). Infatti, a parte ogni altra considerazione, la figura del pastore-poeta è adatta a Esiodo, ma non certo a C. (vd. Cozzoli p. 139 s.). 5 Μοῦεαι: Νά. il comm. al v. 2 Χαρίτων. πολλά: È da scartare la congettura πελλά (scure) di Maas, perché - come osserva Pf. nella poesia callimachea i colori non hanno mai una funzione puramente esornativa (vd. app.).

νέμοντι Bora: Νά. il comm. al fr.4, 1 μῆλα νέμιοντι. Il verbo veuovri anticipa il vocabolo vouòv del v. 9. Il sostantivo Botév è un hapax nei poemi omerici (Il. XVIII 521): cf. anche fr. 151, 16.

6 ςὺν μύθους ἐβάλοντο: Il nesso - cui è sintatticamente collegato il pronome relativo τῷ del v. 5 - non significa che le Muse raccontarono i miti a Esiodo (come molti intendono), bensì che esse scambiarono parole, cioè colloquiarono con lui. Questo

è infatti 1]

senso di frasi affini presso altri autori: cf. Soph. Ai. 1323 ευμβαλεῖν ἔπη κακά |, Eur. /ph.

Aul.830 γυναιξὶ εὐμβάλλειν λόγους |, Xenoph. Cyr.II 2, 21 ευμβαλέεθαι ... A6yove, Plat. Leg.905 C λόγον ευμβάλλεεθαι. Νά. Ambühl p. 372 n. 33. rap’ ἴχν[ι]ον ὀξέος ἵππου: Νά. i comm. al fr. 4, 1 παρ᾽ ἴχνιον ὀξέος ἵππουἢ, rap’ ἴχνιον e ὀξέος ἵππου". 75. χαῖρε ... | χαῖρε: Sia il saluto χαῖρε indirizzato alle divinità sia il nesso αὐτὰρ ἐγώ nel v. 9 (vd. il comm. ad loc.) rappresentano una variazione delle formule finali degli inni: saluti espressi tramite forme del verbo χαίρω, d'altra parte, sono collocati da C. non solo alla fine di tutti 1 suoi inni, ma anche nella chiusa di varie sezioni degli Aitia (vd. il

comm. al fr. 213, 94%). In termini più generali, la tradizione degli inni ha influito sui versi conclusivi dell'opera nel loro insieme: vd. i comm. ai vv. 7, 7 ἔρχεο, 8, 8 χαῖρε ... μέγα e 9 (vd. Cameron p. 155). Grazie al duplice χαῖρε, 11 nostro brano risulta soprattutto affine agli ultimi due versi dell'inno callimacheo a Delo (325 s.), dove C. saluta con le formule χαῖρε e χαίροι l'isola, Apollo e probabilmente Latona (vd. Coppola, Callimachus p. 276 e il comm. al v. 7). 7yaîpe, cdv edectoî δ᾽ ἔρχεο λωϊτέρῃ: C., rivolgendosi alla medesima dea apostrofata con ogni verisimiglianza nel v. 3 (ce) e definita del tutto buona e del tutto efficace

COMMENTO:

AET.IV FR. 215

517

nel v. 4 (vd. il comm. ai vv. 2-5), la saluta e la prega di venire con più vantaggioso benessere. Una movenza molto simile si riscontra nella chiusa dell'inno callimacheo a Delo (v. 325), dove C. si congeda dall'isola con le parole | ἱστίη ὦ vilcov edéctie, χαῖρε: qui è erronea la spiegazione εὔοικε, offerta dallo Schol. 325 Ὁ per l'aggettivo edéctie, dal momento che il vocabolo significa prospera e corrisponde dunque pienamente al sostantivo edectot del nostro pentametro (vd. il comm. di Mineur; per questo passo dell'inno a Delo, vd. anche più sopra il comm. al v. 7 s.). Analoga è inoltre la dizione Impiegata dallo stesso C. in Ep.

LIII 1 5. Pf. = HE 1153 5. καὶ πάλιν, Εἰλήθυια, … ἐλθὲ … 1... ὠδίνων ... cdv εὐτοκίῃ (v.l. εὐτυχίῃ) |. edectot: Il vocabolo si trova già presso Aesch.

1, Arat. 1090 (sempre - come qui 534. Stando a Diogene Laerzio (IX anche il luogo dell'inno callimacheo bolo &zecto si rinviene presso Call.

Sept. 187, Ag. 647, 929, Herodot. I 85,

nel caso dativo) e poi presso Maxim. De action. ausp. 46), Edecto era il titolo di un'opera di Democrito. Cf. a Demetra riportato nel comm. al v. 8. L'affine vocafr. inc. sed. 718 Pf.

δ᾽: Per il δέ in terza posizione, vd. il comm. al fr. 1, 12

ueyaAn δ᾽.

ἔρχεο: Nelle preghiere compaiono di regola l'imperativo ἦλθον. Talora però si riscontrano - come qui - forme del Hymn. XXIV 4 ἔρχεο ... ἔρχεο (il v. 3 del medesimo inno 12), lo stesso Call. fr. 50, vv. 82 ἐρ]χέεθω e forse 36 ἔρχεο

ἐλθέ o altre forme dell'aoristo presente ἔρχομαι: cf. [Hom.] è riportato nel comm. al fr. 9, (vd. il comm. ad loc), nonché

[Orph.] Hymn. XXVII 11 e 14 Quandt ἔρχεο. L'uso di ἔρχομαι e verbi affini all'interno delle epiclesi è illustrato da Gallavotti, Epimetron p. 84 s., il quale osserva che «la "presenza" della divinità invocata e celebrata è indispensabile per il compimento del voto e per il gradimento della preghiera». λωϊτέρῃ: Nei poemi omerici questo comparativo è limitato al neutro avverbiale Awttepov (Od. 1376 = II 141). Per il maschile, cf. Ap. Rh. III 850, Antip. Sid. Anth. Pal. VII 713, 7 = HE 566; per il femminile, cf. Philod. Anth. Pal. V 112, 6 = GP 3273 = 5, 6 Sider, fr. epic.

adesp.

GDRK

XXIV

'recto',

15, Nonn.

Dion. IX

84, Colluth.

80 Livrea

(similmente la glossa omerica πλειότερος viene acquisita dai poeti ellenistici e imperiali: cf. Call. fr. inc. sed. 535 Pf. con il comm.). Nel nostro passo abbiamo il dativo λωϊτέρῃ attributo di edectoî, come vide già Hunt, piuttosto che il nominativo Awîtépn in funzione predicativa rispetto al verbo ἔρχεο e con riferimento alla dea salutata da C., come suppone Gallavotti (vd. app.).

8yaîpe, Ζεῦ, μέγα καὶ cò, cho δ᾽ [ὅλο]ν οἶκον ἀνάκτων: C. saluta, dopo la dea del v. 7, anche Zeus e lo prega di preservare l'intera casa dei signori, cioè di Tolemeo III e Berenice. La tutela dei sovrani viene affidata a Zeus, perché è da lui che discendono 1

re: cf. Hes. Theog.961èx δὲ Διὸς βαειλῆες (vd. Gallavotti, Prologo p. 244), espressamente citato e spiegato dallo stesso Call. /ov. 79 5. “ἐκ δὲ Διὸς βαειλῆες᾽, ἐπεὶ Διὸς οὐδὲν ἀνάκτων | θειότερον (vd. Coppola, Callimachus p. 279). C., come qui alla fine degli Aitia apostrofa Zeus e sùbito dopo menziona la coppia regale, così nell'esordio del terzo libro (fr. 143, 1 s.) menziona Zeus e sùbito dopo apostrofa Berenice: questo parallelismo è un ulteriore elemento a favore dell'ipotesi che C. allestì la seconda metà dell'opera in epoca successiva alla composizione della prima metà (vd. nel precedente volume /ntrod. II.3., 11.8.). Il nostro verso somiglia particolarmente alla conclusione di un brevissimo inno omerico

a Demetra (XIII 3): | χαῖρε, θεά, καὶ τήνδε céov πόλιν. Queste parole vengono del resto riprese dallo stesso C. quasi alla fine del suo inno a Demetra (v. 134 s.), con l'impiego della

forma dorica cd al posto di c&ov: χαῖρε, θεά, καὶ τάνδε cho πόλιν Ev θ᾽ ὁμονοίᾳ | ἔν τ᾽

518

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

εὐηπελίᾳ (cf. εν edectoî nel nostro v. 7). Molto simile al nostro passo è anche la chiusa dell'inno callimacheo per i lavacri di Pallade (vv. 140-142): | χαῖρε, θεά ... | χαῖρε … 1... καὶ Δαναῶν κλᾶρον ἅπαντα cdo | (vd. Pohlenz p. 324=55). Sussiste inoltre una notevole affinità con il verso finale di un epigramma adespoto che spetta probabilmente al 360 a.C.

circa (FGE 1565): χαῖρε, Ζεῦ βαειλεῦ, καὶ ςάω ᾿Αρκαδίαν. All'ultimo distico degli Aitia si ispira Gregorio Nazianzeno quasi al termine di una sua elegia (Carm. II 1, 16, 95-101 = PG 37 p. 1261): I χαίρετε … | χαῖρε ... 1 χαίρετε ... [χαῖρε

ἐν χαῖρε ...] αὐτὰρ ἐγώ (cf. il nostro v. 9)... 1... 1 ἀλλὰ cha ue, co ue. Ma si può anche richiamare Greg. Naz. Carm.I 2, 15, 159 5. (PG 37 p. 778) οἶκον ... ”Avoxtoc |... αὐτὰρ ἐγώ (pure qui verso la fine di un'elegia). Del nostro esametro e, più in generale, di questo epilogo sembra inoltre risentire la chiusa del secondo libro degli Halieutica di Oppiano (vv. 684-688), dove il poeta prega Zeus e gli altri dè di proteggere Marco Aurelio e suo figlio Commodo: cf. soprattutto vv. 684 ἀνακτορίης e 688 τελεοςφόρον (da accostare al nostro v. 4*, sebbene nel luogo oppianeo l'aggettivo abbia valore passivo). χαῖρε ... μέγα: Per il nesso, cf. soprattutto Hom. Od. XXIV 402 = [Hom.] Hymn. ΠῚ 466 μέγα χαῖρε (con v.l. μάλα, invece di μέγα, nel brano odissiaco), ma anche Hom. //. III

76 = VII 54 ἐχάρη μέγα. La frase presenta l'avverbio μάλα, al posto di μέγα, presso Hom. Od. VIII 413 e [Hom.] Hymn. II 225 e III 90 μάλα χαῖρε nell'ultimo passo si tratta di un imperfetto; cf. poi [Theocr.] IX 28). Per l'oscillazione fra μέγα e μάλα in unione al verbo χαίρω, vd. sia l'apparato critico di A. Ludwich sia il comm. di Fernändez-Galiano e Heubeck a Hom. Od. XXIV 402. C. leggeva μέγα nel testo omerico (vd. Rengakos, Homertext p. 151), come sembra indicato dal fatto che impiega invariabilmente il nesso μέγα χαίρειν: cf. Jov. 91 χαῖρε μέγα,

Κρονίδη (affine al nostro verso anche per il contenuto), Ap. 85 ἐχάρη μέγα, Dian. 44 | χαῖρε ... μέγα (imperfetto), 268 | χαῖρε μέγα, Cer. 2=119 μέγα χαῖρε. Per la frase μέγα χαίρειν, cf. inoltrefr. Iyr. adesp. CA 5,3 p. 184 = SGO IV 21/09/01 v. 3, GVI Thyill. Anth. Pal. VII 223, 7 = FGE 370 (e altri numerosi luoghi epigrammatici), Cyn. I 534, Quint. Smyrn. VII 179 al., [Apolinar.] Met. Ps. protheor. 47, Greg. Naz. I 2, 1, 11 (PG 37 p. 523) al., Synes. Hymn. V 69 5. Lacombrade al. fr. epic. adesp.

699, 5, [Opp.] Carm. GDRK

XXV 3, Dioscor. GDRK XLII 27, 2. Del resto, il μέγα avverbiale è frequente nell'opera di C.: vd. il comm. al fr. 1, 19 μέγα

WOPEODCAV ἀοιδήν. cao δ᾽ [ὅλο]ν οἶκον ἀνάκτων: Del nostro passo sembra risentire Synes. Hymn. VII 31 5. Lacombrade ὅλον Ἡευχιδᾶν δόμον | ὑπὸ εᾧ χερὶ κρύπτοις: sia questo riecheggiamento sia la comparsa della frase ὅλον οἶκον presso altri poeti (vd. più avanti) corrobo-

rano l'integrazione [ὅλο]ν di Hunt. Invece il supplemento [éuò]v di Ellis e Wilamowitz (secondo il quale ἐμὸν οἶκον ἀνάκτων equivarrebbe a οἶκον ἐμῶν ἀνάκτων per enallage dell'attributo) è troppo ampio per lo spazio disponibile in lacuna (il nesso ἐμὸν oîk[ov* potrebbe comunque integrarsi presso Call. Hec. SH 287, 22 = fr. 49, 12 H.): poco probabile è dunque la congettura di Pf., stando alla quale il v. 355 del poemetto di Dionisio Periegete

(Ρώμην tufeccav, ἐμῶν μέγαν οἶκον ἀνάκτων) potrebbe indicare che Dionisio leggeva ἐμὸν invece di ὅλον nel nostro esametro. Quanto al nesso co

... οἶκον, cf. GVI 866, 8

caodv οἶκον. c&o: Questa forma di imperativo si riscontra presso Hom. Od. XII 230 cho ... cao*, XVII 595* (ν.]. cäov), nell'epigramma adespoto riportato sopra (FGE 1565, vd. il comm. di Page), nei due passi degli inni dorici callimachei riportati sopra (Lav. 142 e Cer. 134*: vd. 1

COMMENTO:

AET.IV FR. 215

519

comm. di Bulloch e Hopkinson) e forse ancora presso Call. Ep. XXXII 2 Pf. = HE 1150 (cüov cod: corr. Anna Fabri; vd. il comm. di Gow-Page). La si ritrova in un epigramma di Fedimo (Anth. Pal. XII 2, 4 = HE 2910), in un'iscrizione epigrammatica di Efeso (SGO I 03/02/40 v. 1*), in varie poesie di Gregorio Nazianzeno

(oltre a Carm.

II 1, 16, 101 ripor-

tato sopra, cf. Anth. Pal. VIII 37, 4 al.) e in moltissimi luoghi della Parafrasi del Salterio dello pseudo-Apolinario (CXIV 12* al.).

[ὅλο]ν οἶκον: Il nesso è impiegato già da Pind. Paean. IV fr. 52 d, 45 Sn.-M. e poi da Nonn. Dion. XXXVIII 237*, Met. IV 246; sul piano formale, cf. anche Call. Ap. 2 ὅλον τὸ μέλαθρον. Nei poemi omerici l'aggettivo ὅλος ricorre solo nella forma odàoc: cf. Od. XVII 343, XXIV 118. οἶκον

ἀνάκτων:

Oltre a Dion. Per. 355 e Greg. Naz. Carm.I 2, 15, 159 (riportati so-

pra), cf. Maxim. De action. ausp.355 e Ammon ἀνάκτων:

L'explicit, che si riferisce

13 οἶκον ἄνακτος.

a Tolemeo

III e Berenice,

riprende la clausola

&väcenc* del v. 2, dov'è probabile che venga così designata Berenice (vd. il comm. ai vv. 2-5). Può darsi che il vocabolo ἀνάκτων qualifichi i Tolemei anche presso Call. Branch. fr. 229, 17 Pf., come suggeriscono sia Asper sia Lelli alle pp. 271 e 213 delle rispettive edizioni (vd. Lehnus, Intervento p. 263).

9 αὐτὰρ

ἐγὼ Movcéov

πεζὸν

[ἔπειμι vouöv: Dopo il duplice saluto alle divi-

nità (v. 7 s.), C. termina l'opera esprimendo l'intenzione di andare nel pascolo pedestre

delle Muse. Come segnalano il nesso αὐτὰρ ἐγώ e il futuro [ἔ]πειμι, il poeta offre qui una variazione delle formule conclusive di molti inni omerici:

αὐτὰρ

ἐγὼ καὶ ceto (ovvero

αὐτὰρ ἐγὼν ὑμέων te) καὶ ἄλλης uvricou’ ἀοιδῆς (II 495 al., XXV 7 al.) e μεταβήοομαι ἄλλον ἐς ὕμνον I (V 293 al). E si osservi che la frase αὐτὰρ ἐγώ è anche utilizzata, in contesti di trapasso e di chiusura, da Simonide

(fr. 11, 20 s. W.?

= 30, 16 s. Gent.-Pr.? αὐτὰρ

ἐγώ |... Modco |) e Posidippo (SH 705, 21 s. = 118, 24 5. Austin-Bastianini αὐτὰρ ἐγώ |... ἱκοίμην

N), come

114=1447-1450 ÉAedcouat).

rilevano

rispettivamente

Cameron

(quest'ultimo allega inoltre Emp.

p.

156

e Di Benedetto

31 B 35, 1 D.-KS

| αὐτὰρ

pp.

112-

ἐγὼ …

Nel nostro verso Hunt leggeva πεζός e pensava che l'aggettivo avesse funzione predicativa rispetto a ἐγώ (io invece andrò a piedi nel pascolo delle Muse). Tuttavia la lettura πεζόν di Herzog e L. è certamente superiore dal punto di vista paleografico (vd. app.): l'aggettivo, dunque, è un attributo di vouöv. Che l'ultima parola degli Aitia fosse appunto vouöv (pascolo) e non - come congettura Kapsomenos - νόμον (melodia), lo dimostrano sia 1 precedenti omerici ed esiodei cui C. può essersi rifatto per l'uso traslato del termine (vd. oltre) sia soprattutto il parallelismo che egli istituisce fra se stesso e il pastore-poeta Esiodo rievocato poco prima (cf. v. 5 νέμοντι e vd. Arnim p. 10). Per le imitazioni del nostro passo da parte di Gregorio Nazianzeno, vd. il comm. al v. 8. Ma che cosa vuole dire C.? In proposito, gli studiosi si sono schierati su due fronti. Hunt nell'editio princeps del POxy. 1011 e poi, fra gli altri, Legrand p. 3, Körte, Literarische Texte 1913 p. 543, Wilamowitz, Sappho und Simonides (Berlin 1913), p. 299 n. 1 e Hell. Dicht. I p. 210, Vitelli, Noterelle p. 302, Pohlenz p. 325 s. = 56 s., Coppola p. 75 s., Reitzenstein, Recensione p. 462

s., Herter,

Bursian

255 p.

144 s., Körte-Händel

p. 82 e

Hutchinson, Aetia p. 58 n. 31 = p. 62 n. 30 ritengono che qui C. proclami di volere abbandonare la poesia per dedicarsi interamente all'attività erudita nel Museo di Alessandria (Movcéwv ... vouôv) e completare i Hivoxec. L'elemento di maggior rilievo a favore di questa ipotesi è il fatto che l'aggettivo πεζός si trova spesso applicato alla prosa: vd. LSJ

520

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

s.v.II 1 e Barigazzi, Esiodo p. 106. Particolarmente notevoli sono le testimonianze di Strabone (I 18) e di Plutarco (Mor. 406 E = De Pyth. orac. 24), dalle quali si ricava che la poesia avanza sul carro mentre la prosa cammina a piedi. Risulta però inverisimile che C. si congedasse dall'attività poetica nella chiusa della sua più impegnativa opera in versi, oltretutto all'improvviso e in un solo pentametro. Plausibilità molto maggiore ha invece la seconda ipotesi esegetica relativa al nostro verso, avanzata da Herzog p. 29 s. e Pasquali, Cydippe p. 180 s. = 150 s., e poi recepita e sviluppata - fra gli altri - da Pf.! nell'annotazione al fr. 9, 89, Cahen p. 38 s., Coppola,

Callimachus p. 291, Pf.,

ITiöxauocp. 226 5. = 150 s., Maas, Recensione HI p. 437, Lavagnini p. 115=137=305, De Cola p. 14, Maas, Exkurs II p. 170 s., Kapsomenos pp. 28-32, Manteuffel p. 103, Puelma, Lucilius pp. 327-329, Della Corte, Recensione p. 142, Ciresola, Redazioni pp. 132-136,

Puelma p. 262 n. 1 = p. 61 n. 39 = p. 207 n. 39, Trypanis (p. 87), Torraca p. 104 s., Fraser I pp. 720 e 732 s., Serrao p. 233, J. Van Sickle, The Design of Virgil's Bucolics (Roma 1978), p. 104 s., Barigazzi, Esiodo pp.

105-107, Puelma,

Vorbild p. 292=393, La Penna p. 85 s.,

Bing p. 19 n. 20a, Clayman p. 277, D. P. Fowler, «MD»

22 (1989), p. 84, *Krevans pp.

121, 262 s., Koenen p. 91 n. 156, D'Alessio (p. 542 s.), Asper, Onomata pp. 58-62, Cozzoli

p. 138 s., K. J. Gutzwiller, Poetic Garlands (Berkeley - Los Angeles - London 1998), p. 184, Kerkhecker p. 286 s., Acosta-Hughes p. 47 n. 50, Asper (p. 179), Ambiihl p. 384. In base a questa seconda teoria, l'intento che qui proclama C. funge da transizione editoriale fra gli Aitia e il libro dei giambi nella raccolta delle opere callimachee, curata dal l'autore stesso in tarda età (vd. nel precedente volume /ntrod. II.1., IL3., II.8.). A favore di

tale congettura, si può Innanzitutto osservare che la sequenza Aifia-giambi è attestata sia dalle Diegeseis milanesi sia dal POxy. 1011. In secondo luogo, l'espressione pascolo pedestre delle Muse si presta a essere Intesa come un riferimento ai giambi: a questo riguardo, Barigazzi, Esiodo p. 106 osserva giustamente che «nel genere giambico si cammina a piedi, sia per il contenuto sia per il ritmo, il quale è più vicino al parlare quotidiano». Sull'uso di πεζόν nel nostro verso, vd. inoltre Giangrande, Notas pp. 127-130. Soprattutto se - come ritiene Pf. - ammettiamo che la frase pascolo pedestre delle Muse equivale a pascolo delle Muse pedestri per enallage dell'attributo, la dizione del nostro brano trova corrispondenza nel nesso Musa ... pedestri |, impiegato da Orazio (Serm. II 6, 17) riguardo alle proprie satire, per di più appena dopo un passo che riecheggia il prologo degli Aitia (v. 14 s., vd. il comm.

al fr. 1, 22-24):

si osservi, inoltre, che il medesimo poeta

definisce le sue epistole sermones ...| repentis per humum (Ep. II 1, 250 s.). È poi notevole che Orazio, nel v. 95 dell'Ars poetica, adotti la frase sermone pedestri | per designare lo stile della commedia (vd. il comm. di Brink ad loc.) e che Terenziano Mauro, nei vv. 22322239 del De metris, chiami pedestres fabulas 1 drammi composti in giambi comici. Molto interessante è l'idea, suggerita in tempi recentissimi da Cucchiarelli pp. 365-375, che le parole di C. segnalino un trapasso non editoriale, ma tematico, fra Aitia e giambi: il pascolo pedestre delle Muse si riferirebbe all'ambiente dei letterati alessandrini (umile in confronto alla casa dei signori del verso precedente), tratteggiato all'interno del primo giambo (fr. 191 Pf.). Cucchiarelli ritiene che la giustapposizione callimachea fra 11 mondo dei re e quello dei poeti sia stata colta ed emulata da Virgilio nella chiusa delle Georgiche (IV 559-566), dove 51 susseguono la figura di Ottaviano, simile a Giove (cf. qui v. 8) e destmato a entrare nel consesso degli dèi, e quella dello stesso Virgilio, ritirato nel suo ignobile otium. In termini più generali, la natura poetica - e non prosastica - del Movc&ov ... voubv cal-

COMMENTO:

AET.IV FR. 215

521

limacheo si desume anche dal richiamo alla formula μεταβήοομαι ἄλλον ἐς ὕμνον | tipica degli inni (vd. sopra, nonché Harder p. 109) e forse dall'uso stesso dei vocaboli [E]reyu e

vouòv (vd. più avanti). Sul piano espressivo, cf. fr. eleg. adesp. GDRK XXXI 40 ἐ[πικ]ὴν βήοομ᾽ ἐς ἀτραπιτό[ν |, fr. epic. adesp. GDRK XXXIV 33 νῦν δὲ νέην cretlyœouev [ἐπ᾿ Ἶ ἀτραπὸν ederfiaov (suppl. Wifstrand). [&]xe 11: È possibile che l'impiego traslato del verbo si debba all'influsso dell'incipit di

un'elegia senofanea (fr.

7 W. = 6, 1 Gent.-Pr.): | νῦν αὖτ᾽ ἄλλον ἔπειμι λόγον

(vd.

Kapsomenos p. 31 n. 1, *Krevans p. 172 s.). vouôv:

Può darsi che, nell'usare metaforicamente

il vocabolo,

C. si ispiri

a Hom.

Il.

XX 248 5. πολέες δ᾽ ἔνι μῦθοι | παντοῖοι, ἐπέων δὲ πολὺς νομὸς ἔνθα καὶ ἔνθα (vd. Manteuffel p. 102) o a [Hom.] Hymn. III 20 πάντῃ γάρ τοι, Φοῖβε, νομοὶ (νομοὶ Barnes: νόμος codd.) βεβλήατ᾽ ἀοιδῆς (vd. il comm. di Càssola) o a Hes. Op. 402 5. cd δ᾽ ἐτώεια πόλλ᾽ ἀγορεύεεις, | ἀχρεῖος δ᾽ ἔεται ἐπέων νομός (vd. il comm. di West). Vd. Cucchiarelli p.365 n. 7. I frr. inc. sed. 265, 268, 271 e 273 e il fr. inc. auct. 279 potrebbero risalire al quarto libro degli Aitia, mentre è improbabile che ne faccia parte il fr. inc. sed. 541 Pf.: vd. in proposito il comm. ai frr. 186-187.

Aitia, frammenti che forse appartengono al terzo o al quarto libro Quasi tutti 1 frammenti di incerto libro degli Aitia si trovano pubblicati nel precedente volume (frr. 63-115). La maggior parte è attribuibile al primo o al secondo libro e questa collocazione risulta sicura per 1 frr. 98-99 (cui possiamo aggregare i frr. 100-109). Si osservi però che con ogni probabilità i frr. 65-64 appartengono al libro terzo e rimontano al tratto di testo intercorrente fra la Vittoria di Berenice (frr. 143-156) e Faleco di Ambracia (frr. 159-160). Non si può escludere che le poche lettere del fr. 81, 3 spettino al verso trasmesso per intero nel fr. 179 del terzo libro, ma è molto più verisimile che il fr. 81 rientri nel libro secondo. Quanto ai frr. 111-115, tramandati dalle fonti con una generica indicazione di pertinenza agli Aifia, non è possibile arguire a quale specifico libro essi risalgano. Probabilmente dal libro terzo

Frammenti 216-234 I diciannove frammenti vanno con ogni verisimiglianza attribuiti al libro terzo, perché sono tràditi dal POxy. 2212, 1 cui frr. 1, 2, 4, 5 e 18 trasmettono sezioni dei frr. 156 e 184-

186 (tutti dal terzo libro) e il cui fr. 19 tramanda una parte del fr. inc. lib. Aet. 64 (a quanto pare dal terzo libro).

Frammento 228 (149 Pf.) 2 ]dAA0|: Potrebbe trattarsi di una qualche forma dell'aggettivo κυλλός (curvo, vd. app.), attestato in poesia a partire da Aristoph. Eg. 1083, Av. 1379: nei poemi omerici ri-

corre l'epiteto κυλλοποδίων applicato a Efesto (4. XVIII 371 al.). Ma è molto allettante la proposta, avanzata da D'Alessio, di individuare qui una forma del sostantivo yvAAöc e di ricondurre 1] frammento all'elegia (probabilmente del libro terzo) che si conclude nel fr. 64, 1-3 (passo preceduto con ogni verisimiglianza dal fr. 65 all'interno del medesimo carme). Sembra infatti che, nella chiusa in questione, C. apostrofi una delle due pietre cubiche (γυλλοί) raffiguranti l'Apollo venerato a Mileto. A ulteriore sostegno dell'ipotesi, si osservi che sia la nostra lacinia sia 1 vv. 15-17 del fr. 64 sono trasmessi dal POxy. 2212. Per maggiori dettagli, vd. il comm. al fr. 64, 2 s.

Frammento 229 (150 Pf.) 2 ]renAZo[: Il vocabolo può essere un indizio del fatto che il frammento risale all'elegia del terzo libro incentrata sul Rito nuziale eleo (frr. 178-180): infatti nel rigo 5 s. della Diegesis a questo carme figura la parola πέπλους in riferimento alle fanciulle elee che si sposano. Vd. app.

Frammento 230 (151 Pf. + 157 Pf.) 4 αἶψα Sop_[: L'ultima traccia appartiene a un ὁ oppure a un ὦ: se dopo αἶψα c'è una qualche forma del vocabolo δόμος (e non si deve invece articolare δ᾽ du-, vd. app.), cf. l'incipit esametrico aîya δόμον presso Greg. Naz. Carm.I 1, 18,30 (PG 37 p. 483). 5 ὀφθαλμούε: Già alcuni versi omerici cominciano con quest'accusativo: cf. I. XI 250, XVI 503, XXIV 463, Od. XXIV 296.

COMMENTO:

FRR. INC. LIB. AET. 216-234, 228-231; 235-250; 235-239

523

Frammento 231 (152 Pf.) 5 JuncacOaı: L'esametro è spondaico: vd. Introd. IL1.A.a. Sulla possibile pertinenza dei frr. 228 e 229 rispettivamente all'elegia che termina nel fr. 64, 1-3 (con ogni probabilità del terzo libro) e alla sezione del libro terzo imperniata sul Rito nuziale eleo (frr. 178-180), vd. sopra i comm.

ai frr. 228, 2 e 229, 2, nonché nel testo

l'annotazione dopo il fr. 234. Probabilmente dal libro terzo

Frammenti 235-250 I sedici frammenti vanno con ogni verisimiglianza attribuiti al libro terzo, perché sono tràditi dal POxy. 2213, 1 cul frr. 1, 2, 3, 8, 9, 11, 17 e 25 trasmettono sezioni dei frr. 174, 180, 181, 183, 184 e 187 (tutti dal terzo libro).

Frammento 235 (159 Pf.) 1 ]cerda [: Pf. osserva che si potrebbe integrare Πο]οειδάφί[ν e connettere il nome del dio alle sacre Isindo: in tal 181); tuttavia Apaturie, alle

cerimonie degli Ioni (Πανιώνια), dalle quali erano esclusi gli abitanti di caso il frustulo rientrerebbe nell'Ospite di Isindo, elegia del terzo libro (fr. risulta oggi più probabile che le festività menzionate in quell'elegia fossero le quali Posidone è estraneo (vd. il comm. ad loc.). Vd. app.

Frammento 238 (162 Pf.) Sul piano papirologico è plausibile che il frammento segua - con l'intervallo di un solo pentametro - il fr. 187, appartenente a Euticle di Locri del libro terzo (frr. 186-187). La cosa non sarebbe in contraddizione con l'unica parola superstite del v. 1 (vd. il comm. ad loc.). Νά. app., nonché 1 comm. al frr. 248 e 249. 1 ἔ]δεθλον: Pf. rileva che il vocabolo potrebbe designare l'eroo edificato dai Locresi in onore di Euticle per ordine di Apollo (cf. Dieg. II 5-8 e vd. app.). Forse il termine era già impiegato da Eschilo, se coglie nel segno la congettura ἔδεθλα di Auratus nel v. 776 dell'Agamennone. Lo utilizzano certamente Antimaco (fr. 35 Wyss = 33, 2 Matthews*, vd. 1 comm. ad loc.) e Licofrone (v. 987). C. ne fa uso in Ap. 72* e probabilmente all'interno dell'Ecale (vd. le osservazioni di Hollis a p. 359 della sua edizione dell'epillio, Appendice Ve). Cf. poi Ap. Rh. IV 331*, EpGr. 978, 9 Kaibel*, Dion. Per. 356*, Pamprep. fr. 3, 197 Livrea, ep. adesp. Anth. Pal. Append. VI 217, 15 (vol. II p. 512 Cougny)*, Nonn. Dion. XL 187 al., Met.II 111 al. Eudoc. Cypr.II 23*, Paul. Sil. Ecphr. Soph. 514* al., Amb. 183*. 3 Éo1c: All'interno dei poemi omerici questa forma ricorre solo in 11. IX 284.

4 πτ]έρυγι: Cf. Call. Lav. 124*. Frammento 239 (163 Pf.) Considerazioni papirologiche indurrebbero a credere che la lacinia fosse originariamente vicina al fr. 11 del medesimo papiro, dove figurano in forma molto lacunosa 1 vv. 5058 del fr. 174 (cioè una parte di Aconzio e Cidippe, frr. 166-174 del terzo libro). Benché la menzione di Febo nel v. 2 possa far pensare al responso di Apollo, riferito poco prima nell'elegia (fr. 174, 20-37), il testo - quanto mai integro - dell'ampio fr. 174 non offre alcuna possibilità di collocare il nostro frustulo. Vd. app.

524

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Frammento 242 (166 Pf.) 2 |noAt|[: Pf. osserva che qui sarebbe possibile integrare il fr. inc. auct. 742 Pf. ἀχρὴς δ᾽ ἀνέιπαλτιο (vd. app.). Riguardo all'identità di colui o colei che pallidola balzò su, Pf. aveva pensato a Medea atterrita da un sogno (cf. Ap. Rh. III 633). Lehnus p. 25 ritiene che possa anche trattarsi di Alcmena spaventata nottetempo dal grido del piccolo Ificle aggredito dai serpenti (cf. Theocr. XXIV 34) oppure di Diomede re dei Bistoni angosciato dalla notizia dell'attacco notturno di Fracle (in rapporto al fr. inc. sed. 64, 18-25: vd. il comm. ad loc.). Ma in epoca recentissima è venuto alla luce un nuovo dato, che favorisce l'originaria ipotesi di Pf.: si tratta di un poema epico forse ellenistico pubblicato per la prima volta da

G. B. D'Alessio (POxy. 4712), nel cui fr. 2, 20 leggiamo appunto che Medea ἐκ] λεχέων ἀνέπαλτ[(ο) (vd. il comm. ad loc.). Frammento 243 (167 Pf.) 1] τεὰ [: Dato l'aspetto delle tracce contigue alle lettere ıca, L. ha fatto presente che

qui si potrebbe riconoscere una parte del fr. 204 (Ἥρηι τιῆι (αμιίηι περὶ μὲν τρίχας ἄμπελος ἕρπει), cioè l'incipit dell'Altra statua di Era a Samo: in tal caso il frustulo non ri salirebbe al terzo libro, bensì al quarto. Aggiungo che l'appartenenza del frammento al suddetto aition illuminerebbe l'impiego del vocabolo τεθμός nel v. 3 (vd. il comm. ad loc.). Ma L. stesso riconosce che sono anche immaginabili altre articolazioni di queste poche lettere. Vd. app. 3 τεθμόε: Se davvero la nostra lacinia rientrasse nell'Altra statua di Era a Samo (fr. 204, ma la cosa è molto dubbia: vd. sopra), la parola creerebbe un efficace pendant fra l'elegia in questione e quella precedente, cioè la Statua antichissima di Era a Samo (fr. 203). Lì infatti - presumibilmente appena dopo l'attacco del carme - si parla dell'antico uso (fr. 203, 1 5. τεθμόν | δηναιόν) di utilizzare semplici assi come effigi degli dèi, mentre qui, cioè nel terzo verso dell'aition successivo (dedicato al culto della medesima dea), si farebbe riferimento al nuovo uso affermatosi nella statuaria. Per il termine τεθμός, vd. il comm.

al

fr. 203, 1 ἐπὶ τεθμόν. Frammento 245 (169 Pf.) 5 Jırorto|: Se coglie nel segno l'integrazione λιπόπτολις di Maas, questa è la prima attestazione di un aggettivo frequentemente Impiegato nelle Dionisiache di Nonno (III 296, IX 78, XII 245, XXXV 244, XLV 118). Ma potrebbe pure trattarsi dell'aggettivo Aınortökeuoc, che compare anch'esso nel medesimo poema (XXXV 389). Νά. app.

Frammento 248 (172 Pf.) Dal punto di vista papirologico il frustulo parrebbe vicino al fr. 187, frammento del terzo libro che spetta a Euticle di Locri (frr. 186-187). Vd. app., nonché 1 comm. ai frr. 238 e 249.

Frammento 249 (173 Pf.) Sul piano papirologico anche questo frustulo sembrerebbe essere vicino al fr. 187 e rientrare quindi nell'elegia Euticle di Locri del terzo libro (frr. 186-187); esso è particolarmente simile al fr. 238. Vd. app., nonché 1 comm. al frr. 238 e 248. Fra le precedenti lacinie, varie potrebbero essere riferite a specifiche sezioni del terzo libro: a Euticle di Locri (frr. 186-187) sarebbero attribuibili il fr. 238 (che forse cominciava

COMMENTO:

FRR. INC. LIB. AET. 242-251

525

solo un verso dopo il fr. 187) e 1 frr. 248 e 249 (apparentemente vicini anch'essi al fr. 187), vd. sopra 1 comm. ad locc., all'Ospite di Isindo (fr. 181) spetterebbe - in base a un'ipotesi molto incerta - il fr. 235, vd. sopra il comm. al fr. 235, 1; ad Aconzio e Cidippe (frr. 166174) sembrerebbe assegnabile il fr. 239, se non fosse che è Impossibile collocarlo in alcun punto del fr. 174, ai cui vv. 50-58 esso parrebbe vicino dal punto di vista papirologico, vd. il comm. ad loc. Solo il fr. 243 potrebbe far parte del quarto libro, perché le poche lettere del suo v. 1 sarebbero conciliabili con il verso trasmesso per intero nel fr. 204, cioè l'esordio dell'Altra statua di Era a Samo: ma le lettere in oggetto s1 prestano anche ad articolazioni diverse (vd. il comm. al fr. 243, 1). Non si può infine escludere che 1] fr. inc. auct. 742 Pf. coincida con il fr. 242, 2 (vd. il comm. ad loc).

Forse dal libro quarto Frammento 251 (175 Pf.) Dal punto di vista papirologico il frammento può essere attribuito al libro terzo o quarto, perché figura nel fr. 4 del POxy. 2170, che appartiene al medesimo rotolo del PSI 1218. Infatti gli altri frammenti di tale papiro risalgono sia al terzo sia al quarto libro: cf. da un lato frr. 148, 21-34 (POxy. 2170, fr. 3) e 149 (PSI 1218, frr. ab); dall'altro frr. 195-196 (POxy. 2170, fr. 1 + PSI 1218, fr. c) e 198-199 (POxy. 2170,fr. 2). Una più precisa collocazione è stata proposta con ogni cautela da Pf., il quale osserva che questi malridotti versi potrebbero spettare al Trascinamento di Antigone (fr. 208), elegia del quarto libro da lui stesso brillantemente ricostruita nei suoi contenuti sulla base della lacunosissima Diegesis (vd. il comm. ad loc.): la πυρκαιή del v. 6 designerebbe appunto il rogo comune di Eteocle e Polinice, il possibile verbo κέατ᾽ nel v. 5 si riferirebbe ai due fratelli che giacciono insieme sulla pira e la sequenza di lettere nel v. 7 sarebbe interpretabile nel senso che Antigone tirò sul rogo la salma di Polinice con l'atuto di Argia, la diletta mo-

glie di costui (ἅμα redvn[, cf. Stat. Theb. XII 411-446 e Hygin.

Fab. LXXII 1).

Però lo stesso Pf. rileva che sono lecite altre interpretazioni del frammento e chiama p.es. a confronto il fr. inc. auct. 283, incentrato sulla pira del suicida Brotea. Vd. l'annotazione dopo il testo.

5 Jo] |κεατοῦ[: Pf. suggerisce di articolare Jo[t] κέατ᾽ ov[ e osserva che già nell'/liade omerica il verbo κεῖμαι può descrivere un cadavere giacente sul rogo funebre: cf.

XXIII 210 5. πυρὴν … à ἔνι κεῖται Πάτροκλος (segue nel v. 237 il vocabolo πυρκαϊήν, cf. qui v. 6). Per la specifica forma x&or(o), Pf. cita Hom. Il. XXIV 610 | οἱ μὲν ἄρ᾽ ἐννῆμαρ κέατ᾽ ἐν φόνῳ, a proposito dei figli di Niobe che giacciono nel loro stesso sangue. 6 πυρκαϊῆε:

Pf. richiama Antiphil. Anth. Pal. VII 399, 5 = GP 951, che descrive così

la straordinaria biforcazione della fiamma sulla pira di Eteocle e Polinice: I vide πυρκαϊῆς Gvicov φλόγα (vd. il comm. al fr. 208 e il comm. introduttivo al nostro frammento). Per la collocazione del vocabolo alla fine del pentametro, cf. Erinn. Anth. Pal. VII 712, 6 = HE

1794 = 6, 6 Neri, Asclep. Anth. Pal. VII 217, GP 3223 = 16, 6 Sider, Parthen.

4 = HE

1005, Philod. Anth. Pal. V 124, 6 =

SH 618 = fr. 8 Lightfoot, Bass. Anth. Pal. VII 386, 4 = GP

1606, GVI 1557, 6, SGO IV 22/43/01 v. 2. 7 ]Jvauarxeôvn[: Come si è detto nel comm. introduttivo, le lettere sarebbero scompo-

nibili in ἅμα xeSvn[. Ma potrebbe anche trattarsi di paxeSvn[, forse in riferimento all'altezza del rogo. Si osservi che l'aggettivo μακεδνός è un hapax sia omerico (Od. VII 106) sia esiodeo (fr. 25, 13 M.-W.*).

Frammenti di incerta collocazione che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia Frammento 252 (485 Pf.) ὁ δ᾽ ἀείδων Μαλόες ἦλθε xopöc: Nel tramandare queste parole di C., Cherobosco spiega che coro maloente significa coro lesbio e dal testimoni riportati più avanti si ricava che esso è specificamente collegato al culto di Apollo nell'isola: il frammento può dunque risalire all'elegia di Melicerte (frr. 193-195), dove fra l'altro si parla di Lesbo, ed è anche lecito associarlo al fr. 214, che riguarda un nome alternativo dell'isola e forse appartiene esso stesso all'aition di Melicerte (vd. i comm. ad locc.). Vd. l'annotazione dopo il testo. Particolarmente vicina al nostro frammento è un'epigrafe edita da H. Collitz, Sammlung der griechischen Dialekt-Inschriften I, Göttingen

1884, nr. 255.

18 (= O. Hoffmann, Die

griechischen Dialekte II, Göttingen 1893, p. 120): τᾶς te ᾿Αρτέμιδος καὶ ᾿Απόλλωνος Μαλόεντος (μαλεοντος inscr.) &pxixopov. L'iscrizione proviene da Mitilene, nel cui circondario - come vedremo - si teneva una festa per Apollo Maloente.

6 è’ ἀείδων ... χορός: Cf. Call. Ap. 28 | τὸν χορὸν ... ἀείδει |, 30 è χορὸς ... ἀείςει | (anche qui a proposito di un coro apollineo). Per la quantità lunga dell'alpha di ἀείδων, vd.

il comm. al fr. 174, 5 &eicn. MoAöec: Ellanico tramanda che MoAöeıc era un epiteto di Apollo a Lesbo e il nome del luogo dove sorgeva un santuario del dio nell'isola: cf.

FGrHist 4 F 33 = EGM fr. 33 ap.

Steph. Byz. s.v. Μαλόεις (μαλλόεις codd.: corr. Meineke) - ᾿Απόλλων ἐν Λέεβῳ. καὶ ὁ τόπος τοῦ ἱεροῦ Μαλόεις. ἀπὸ τοῦ μήλου τῆς Μαντοῦς, ὡς Ἑλλάνικος ἐν Λεςβικῶν a (riguardo al pomo di Manto, cf. più avanti lo scolio tucidideo). Tucidide precisa che gli abitanti di Mitilene celebravano una grande festa per A pollo Maloente fuori le mura della città:

cf. II 3, 3 ὡς ein ᾿Απόλλωνος

Μαλόεντος

ἔξω τῆς πόλεως

ἑορτή, Ev à πανδημεὶ

Μυτιληναῖοι ἑορτάζουει. Uno scolio al brano tucidideo (Schol. Patm., p. 164. 5 Hude) spiega l'appellativo Maloente con un mito: Manto, la figlia di Tiresia, nel corso di un coro vicino a Mitilene perse un pomo aureo che ornava la sua collana (μῆλον xpvcodv ἀπὸ τοῦ περιδεραίου) e fece voto che, se l'avesse ritrovato, avrebbe innalzato un santuario per Apollo; rinvenuto il pomo, adempi la promessa e fondò il santuario in questione, dove l'epiteto Μαλόεις del dio prese appunto origine dal μῆλον (vd. Wilamowitz, Der Glaube der Hellenen I, Berlin 1931, p. 394 n. 2). Su Apollo Maloente, cf. anche Hesych.

s.v. Μαλόεις

(nel codice si legge Μαλλόεις in contrasto con l'ordine alfabetico dei lemmi circostanti:

corr. Salmasius)- ᾿Απόλλωνος ἐπίθετον, À ἐπώνυμον e vd. W. Studemund, Anecdota Varia Graeca I Berolini 1886) p. 267, Anon. Laur. 28 (ἐπίθετα ᾿Απόλλωνοορ) μαλλόεντος. Per il toponimo Μαλόεις a Mitilene, cf. IG XII 2, 74. 5 (III sec. a.C.). Cherobosco, cioè la fonte del nostro frammento, asserisce che Μαλόες al posto di Moñéeic è un tratto dorico (similmente Choerob. De orthogr., Cramer, AO II p. 174. 15 οἱ

Δωριεῖς ... ἀςτερόες, αἱματόες). Ma, come rileva Pf., tale interpretazione è assai dubbia, tanto più che il grammatico chiama in causa anche la forma τιμήειο{τιμῆες: lo studioso fa inoltre notare che lo stesso Cherobosco spiega in modo erroneo l'uso callimacheo della forma βιοπλανές invece di βιοπλανεῖς nel fr. inc. sed. 489, 1 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed. 163, 1 H. (vd. gli app. delle fonti ad loc.). Pf. osserva poi che del resto il nominativo singolare -ec al posto di -eıc non sembra attestato nelle epigrafi e negli autori 'dorici' e aggiunge che le fonti grammaticali trattano anche la trasformazione del singolare -eıc in -nc, ma la ascri-

COMMENTO:

FRR. INC. SED.252-254

527

vono a dialetti non meglio specificati: cf. Apoll. Dysc. De adv., Gramm. Gr. II 1. 1, p. 163.

17 Schneider ἐν διαλέκτοις τὸ χαρίης καὶ τὰ τοιαῦτα, Et. Gud. p. 218. 20 de Stef. αἱ δὲ διάλεκτοι … ἀςτερόης, αἱματόης. In conclusione Pf. congettura che qui C. si limiti a mettere in opera un procedimento contrario rispetto a quello adottato nel fr. 97, 20, dove scrive ὀφρυόειν al posto di ὀφρυόεν (vd. il comm. ad loc.). Che Μαλόες sia un vero e proprio dorismo, è invece l'opinione di Giangrande, Gebrauch p. 272=80.

Frammento 253 (481 Pf.), dubbio οἱ δὲ τὸν aivotdiavia κατέετεψαν: La paternità callimachea di queste parole non è certa, perché la tradizione manoscritta di Cherobosco (fonte del frammento) offre in proposito due alternative: il codice V le attribuisce al nostro poeta, i codici NC ad Antimaco (si ricordi che la confusione dei due nomi è alquanto comune). Pf. propende però per C., dal momento che il codice V è di gran lunga più autorevole degli altri: il medesimo parere si riscontra presso gli editori di Antimaco, che guardano con sospetto al frammento (fr. dub. 155 Wyss) o lo respingono senz'altro (fr. eiciendum 207 Matthews). La maggiore affidabilità del codice V induce anche a preferire la lezione katéctayov rispetto al xotéctvyov di NC (né sembra necessario accogliere la congettura katéctegov di Schneider). Il povero infelice incoronato potrebbe essere un morto, come ritiene Schneider, ma Pf. osserva che è anche lecito pensare a un vittima umana (vd. più avanti il comm. a katécteyav): in tal caso le parole del frammento sarebbero p.es. applicabili a Teodoto di Lipari (fr. 196), immolato dagli Etruschi sull'altare di Apollo (vd. il comm. introduttivo ad loc.). Νά. l'annotazione dopo il testo. αἰνοτάλαντα: Il vocabolo è un hapax (vd. Bredau p. 34): sul tipo di composto, cf. fr. 148, 21 αἰνολέων con il comm. Cherobosco cita il nostro passo per dimostrare che originariamente

il genitivo

di τάλας

non

era τάλανος,

bensì τάλαντος,

e chiama

in causa

anche Hippon. fr. 15 W. = 18 Degani τάλαντι. Ma forse C. stesso ricorre al medesimo tipo

di flessione in un passo della

Zxééwcic Apcıvönc (fr. 228, 37 PE), dove leggiamo τὰ

τάλαντα: vista infatti la lacunosità del contesto, non possiamo essere certi che questo neutro plurale derivi da τάλαντον e non appunto da τάλας. κατέετεψαν: Il verbo, che in poesia è attestato a partire da Euripide, si addice all'incoronamento di una persona da immolare: cf. Eur. /ph. Aul. 1478 πλόκαμος ὅδε καταςτέφειν | (parole di Ifigenia nell'imminenza del sacrificio), ma già 905 5. col

καταςτέψας᾽ ἐγώ νιν ἦγον ὡς yauovuévnv, | νῦν δ᾽ ἐπὶ εφαγὰς κομίζω e 1080 5. cè δ᾽ ἐπὶ κάρᾳ ετέψονοει ... | πλόκαμον (parole rispettivamente di Clitennestra e del coro). Si noti però che il verbo può anche riferirsi alle corone poste sul capo di un morto: cf. Eur. Phoen.

1632 νεκρὸν ... καταςτέφων. Frammento 254 (488 Pf.) ’Arpaxıov δἤπειτα Avkocndada πῶλον ἐλαύνει: Pf. osserva che il frammento, nel quale qualcuno cavalca un puledro atracio (cioè tessalico) stretto dal morso (ovvero sottrattosı a un lupo), risale forse all'aition di Limone (frr. 197-198). In questa elegia C. narrava che il padre della fanciulla legò a un cavallo e trascinò per la città il cadavere del seduttore di sua figlia: la possibile pertinenza del nostro esametro alla storia di Limone ha in suo favore la testimonianza parallela del fr. inc. sed. 263, dal quale apprendiamo che appunto 1 Tessali riservavano un analogo trattamento agli assassini, trascinandoli intorno alla tomba degli uccisi. Vd. l'annotazione dopo il testo.

528

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

᾿Ατράκιον ... noAov:ComeC. parla di un puledro atracio, così Licofrone menziona gli "Ἄτρακας λύκους (v. 1309; la lezione Γάτρακας è trasmessa dal brano di Stefano Bizantino riportato nell'app. delle fonti, mentre 1 codici dell’Alessandra tramandano &prayac): la parafrasi spiega che il nesso equivale a lupi tessalici e designa gli Argonauti

(τοὺς Θετταλοὺς λέγει λύκους ἤγουν τοὺς ᾿Αργοναύτας). Stefano di Bisanzio, nel suddetto passo, specifica che Atrace o Atracia è una città tessalica della Pelasgiotide, che il suo nome deriva dal fondatore Atrace figlio del Peneo, che l'etnico è atracio/atracia oppure atrace (come nel verso di Licofrone) e che alcuni declinano ”Atpod& con il gamma invece del kappa (riguardo alla città di Atrace, situata non lontano da Larisa, vd. F. Stählin, Das

hellenische Thessalien, Stuttgart 1924, pp. 100-103). La flessione con il gamma, che risulta anche dal brano di Cherobosco riportato nell'app. delle fonti, ha dato origine alla forma ᾿Ατρύγιος, sempre assunta dall'etnico sia nelle epigrafi sia nelle monete: vd. da un lato gli

indici in SIG? vol. IV p. 65 s.v. ᾿Ατράγιος e in IG IX 2 p. 311 s.v. "Ἄτραξ, dall'altro B. V. Head, Historia numorum

(Oxford

1911?), p. 292. Esiste anche l'etnico femminile

᾿Ατρακίς

(cf. Paul. Sil. Ecphr. Soph. 641). L'eponimo Atrace, del quale dà notizia Stefano Bizantino, figura anche in un excerptum di Antonino Liberale (XVII 4) derivante dal secondo libro delle Metamorfosi di Nicandro (fr. 45 Schneider), dove leggiamo che Atrace era un Lapite padre di Ceneo: Kawvic μὲν

"Arpaxoc ... θυγάτηρ ... ἐγένετο Καινεὺς è Λαπίθης. Ma poiché Ceneo viene normalmente considerato figlio di Elato, è probabile che qui Antonino Liberale (come rileva Papathomopoulos nel comm. ad loc.) fraintendesse un'espressione nicandrea del tipo Καινεὺς ᾿Ατρακίδης, in realtà riferita alla provenienza del personaggio dalla città di Atrace: se è così, andranno a maggior ragione intesi come etnici (e non come patronimici) gli epiteti Atracides, Atracis e Atracia in alcuni passi di poesia latina, dove il primo vocabolo (cf. Ov. Met. XII 209 con il comm. di Bömer) si trova applicato a Ceneo, il secondo (cf. Ov. Her. XVII 250, Am.I 4, 8) e il terzo (cf. Val. ΕἸ. I 141) a Ippodamia. Altrove 1 poeti latini, con

movenza ellenistica, conferiscono ad Atracius il senso generico di tessalico: cf. probabilmente Prop. I 8, 25 (vd. La Penna, Properzio p. 117 n. 23) e poi Stat. Theb. I 106 (con lo scolo), Val. FI. VI 447 (vd. in generale R. Mayer, «G&R»

5. II 33, 1986, p. 50).

Benché le effigi di un cavallo e di un cavaliere si rinvengano specificamente su due monete della città di Atrace (vd. P. Gardner, A Catalogue of the Greek Coins in the British Museum.

Thessaly to Aetolia, London

1883, p. 14 e tavole II 7-8), è verisimile che nel no-

stro esametro ᾿Ατράκιον significhi tessalico in generale, proprio come gli etnici ΓΑτραξ di Licofrone e Atracius di vari poeti latini (vd. sopra). Si osservi Infatti che cavalli e cavalieri appaiono spesso sulle monete della Tessaglia (vd. B. V. Head, Historia numorum, Oxford

19112, pp. 290-312) e che le cavalle tessaliche sono μέγ᾽ &pictar già nell’/liade omerica (II 763), vengono ritenute degne di Oreste nell'Elettra di Sofocle (v. 703 s., vd. il comm. di Jebb) e sono elogiate in numerosi altri passi: cf. Orac. 1, 2 Parke-Wormell, Theocr. XVII 30 (con il comm. di Gow), Posidipp. Epp. 71, 4; 83, 1; 85, 4 Austin-Bastianini (vd. Bastia-

nini-Gallazzi p. 198), ep. adesp. Anth. Pal. IX 21, 1 = FGE

1326, Gratt. 502, Lucill. Anth.

Pal. XI 259, 1, Laus Pisonis 49, Val. Fl. I 424 al., Heliod. III 3, 3, Nonn. Dion. XXIX 16 al.

Del resto l'impiego di atracio come equivalente di tessalico è una preziosità tipica dello stile di C., che p.es. scrive Aiuovin per intendere Tessaglia e ’Aòvuoc per dire beotico (cf. rispettivamente frr. 9, 26 e 3,9 con i comm.) ed è anche in questi casi largamente imitato nella poesia latina. δἤπειτα: Nel passo di Cherobosco dov'è citato l'esametro, i codici presentano la cor-

COMMENTO:

FRR. INC. SED.254-255

529

ruttela δὲ ἔπειτα. La lieve modifica congetturale δἤπειτα di Schneider è certamente preferibile al δ᾽ ἄρ᾽ ἔπειτα proposto da Lentz, perché il nesso δἤπειτα, frequente in poesia a partire dall'Iliade omerica (XV 163* al), ricorre anche in due luoghi degli inni di C. (Del. 160* e Cer. 87*). Nelle varie attestazioni del sintagma gli editori oscillano tra la grafia distinta delle due parole (δὴ ἔπειτα) e la loro crasi (δἤπειτα): nel nostro frammento bisognerà senz'altro scegliere la seconda alternativa, vista la spiccata predilezione di C. per

la crasi, anche negli Aitia e nell'Ecale (vd. il comm.

al fr. 1, 32 οὐλ[α]χύς e Introd.

II.2.F.a.). Vd. in generale M. L. West, Hesiod. Theogony (Oxford 1966), p. 100, il comm. di Richardson a [Hom.] Hymn. II 91 e i comm. di Mineur e Hopkinson ai brani citati degli inni callimachei. λυκοςπάδα: L'aggettivo compare qui per la prima volta e si ritrova presso Nic. Ther. 742*, dove il senso è oscuro (vd. A. Crugnola, «Acme»

14, 1961, p. 130 s. e il comm.

di

Jacques; Gow e Scholfield espungono il verso). Secondo Eliano (Nar. an. XVI 24) si chiamavano λυκοςπάδες

i cavalli di una specifica razza, stanziata nel Sud dell'Italia o sulle co-

ste dell'Adriatico (cf. Hesych. s.v.). Il significato della parola era oggetto di dibattito da parte dei grammatici, come spiega espressamente Plutarco (Mor. 641 F = Quaest. conv. II

8): ἵππους λυκοςπάδας οἱ μὲν ἀπὸ τῶν χαλινῶν τῶν λύκων Épacav ὠνομάεθαι διὰ τὸ θυμοειδὲς καὶ δυεκάθεκτον οὕτω ςωφρονιζομένους. ὁ δὲ πατὴρ ἡμῶν ... ἔλεγε τοὺς ὑπὸ λύκων ἐπιχειρηθέντας ἐνπώλοις, ἄνπερ ἐκφύγωειν, ἀγαθοὺεμὲν ἀποβαίνειν καὶ ποδώκεις, καλεῖεθαι δὲ λυκοςπάδας. Stando ad alcuni, dunque, si chiamavano λυκοςπάδες i cavalli particolarmente focosi, che venivano

mansuefatti

con morsi forniti di chiodi, detti λύκοι

perché erano taglienti come zanne di lupo (cf. Hesych. s.v. λύκος... καὶ τὸ ἐν τοῖς χαλινοῖς clènpov): a questa esegesi si richiama l'espressione frena lupata (o il solo termine lupata), presente nella poesia latina (cf. Verg. Georg. III 208 con il comm. di Mynors, Hor. Carm. I 8, 6 5. con il comm. di Nisbet e Hubbard, Ov. Am. I 2, 15, Lucan. IV 758, Sil. I 217, Stat. Theb. IV 737 al, Auson. Epist. XXII 76 Peiper, Claudian. Rapt. Pros. II 194 al; i morsi stessi sono detti /upi da Ov. Trist. IV 6, 4, Manil. V 74, Stat. Ach.I 281). Secondo altri, in-

vece, si definivano λυκοςπάδες i cavalli aggrediti da lupi quando erano puledri, in quanto se riuscivano a sfuggire - risultavano validi e veloci: a questa interpretazione si collegano sia Cherobosco (dopo avere citato il nostro verso, vd. app. delle fonti) sia un luogo dei Geoponica (XV 1, 5) che dipende esplicitamente da Plutarco. Nel frammento callimacheo, perciò, non è possibile stabilire il senso preciso di Avkocraödc: in base a quanto si è detto, il vocabolo potrebbe significare stretto dal morso o sottrattosi a un lupo. Vd. Bredau p. 34. πῶλον ἐλαύνει: Il nesso ricompare nelle Dionisiache di Nonno (XI 140*, XXVIII 25*, XXIX

25; con significato diverso XXII 308*).

ἐλαύνει: L'impiego di δἤπειτα nel nostro verso indusse Schneider a congetturare dubbiosamente ἔλαυνεν: ma Pf. osserva che già nell'Odissea omerica la sequenza δὴ ἔπειτα è accompagnata una volta dall'indicativo presente (XVII 185). Il verbo ἐλαύνω significa cavalco anche nel fr. inc. sed. 670 Pf. di C. (vd. il comm. ad loc.).

Frammento 255 (499 Pf.) ἀλλ᾽ ἐπακουούς | οὐκ Ecxev: L'identità della persona che non ebbe ascoltatori è stata oggetto di varie congetture da parte degli studiosi. Hecker, secondo il quale le parole di €. si riferirebbero salirebbe alla medesima parte degli Aitia, cui spetta il fr. Hecker cita un passo delle Metamorfosi di Ovidio (XV 73

Molto attraente è l'ipotesi di a Pitagora e il frammento ri157. A sostegno della sua idea, s.), nel quale leggiamo che gli

530

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

insegnamenti di Pitagora non vennero ascoltati: talibus ora | docta quidem solvit, sed non et credita,

verbis

(un brano

callimacheo

chiamato

nel contempo

in causa

da Hecker,

cioè

Iamb. fr. 191, 62 Pf., ha ora raggiunto un assetto testuale che non è più compatibile con il contenuto del nostro frammento:

vd. H. Lloyd-Jones, «CR» 81 NS

17, 1967, pp. 125-127 =

Academic Papers II, Oxford 1990, pp. 128-130). νά. l'annotazione dopo il testo. Schneider corresse ἐπακουούς in ἔτ᾽ ἀκουούς, perché gli Etimologici citano il luogo callimacheo proprio nella delucidazione del vocabolo &kovöc, dove registrano anche l'analoga forma ἀκοός, impiegata da Platone comico (PCG 250) e in un frammento tragico anonimo (TrGF adesp. 279g, 10). Ma la genuinità di ἐπακουούς è garantita da una serie di considerazioni: C. utilizza volutamente un hapax esiodeo (Op. 29 ἀγορῆς ἐπακουὸν ἐόντα I, vd. Smiley p. 72); gli Etimologici stessi, sùbito dopo avere tramandato il nostro passo, aggiungono il chiarimento ἐπακούοντας; il termine ἐπακουούς è affine al più comune ἐπήκοος, attestato anch'esso nell'opera callimachea (Ep. XLVII 5 Pf. = HE 1169). Νά. in generale l'app. delle fonti. Per l'accentazione ossitona, cf. [Arcad.] De accent. (= Exc. ex Herodian. Pros.) pp. 45. 14 e 90. 12 Barker, corrispondenti a Herodian.

Il. καθολ. rp., Gramm.

ΟΥ.1Π1. p. 138. 2

Lentz ἀκουὸς καὶ ἐπακουός ep. 234. 13 Lentz ἐπακουός. Quanto all'explicit dell'esametro, cf. Philod. Anth. Pal. XI 44, 5 = GP 3306 = 27, 5 Sider ἀλλ᾽ Enaxoden” Carm. II 2,3, 6 (PG 37 p. 1480) ἀλλ᾽ En&kovcov*.

e Greg. Naz.

Frammento 256 (502 Pf.) ἣν po(d)vn poeto παῖς ἀμαλή: La lieve correzione apportata da R. Reitzenstein permette di riconoscere nel frammento un pentametro, mancante solo del piede iniziale. Da parte sua Pf. ha intuito che il pronome relativo ἥν si riferisce con ogni probabilità a un vocabolo come πόλις ο πατρίς, perché in alcuni luoghi dell'Iliade omerica il verbo (ἐ)ρύομαι viene appunto applicato a Ettore che da solo (cf. qui po(d)vn) protegge Troia: cf. VI 403

οἷος γὰρ &pbero Ἴλιον Ἕκτωρ I, XXII 507 οἷος γὰρ ... Epvco πύλας καὶ τείχεα, XXIV 499 οἷος ἔην, εἴρυτο δὲ ἄετυ. Si potrebbe allora pensare che nel nostro verso, dopo la prima sillaba lunga, comparisse proprio la parola πόλις o πόλιν. Ma chi è la tenera fanciulla che da sola protegge la città? Pf. pensa possa trattarsi di una ragazza che si immola per il bene della patria, rilevando che esiste una notevole somiglianza tra le parole callimachee e due brani dell'Eretteo di Euripide, entrambi inclusi in un discorso di Prassitea su sua figlia, la quale è destinata a morire per la salvezza di Atene: cf. fr. 10, 14 5. e 34 5. Carrara = TrGF 360, 14 5. e 34 5. τέκνα todd’ ἕκατι τίκτομεν, | oc θεῶν te

βωμοὺς πατρίδα te ῥυώμεθα e τἠμῇ δὲ παιδὶ ετέφανος εἷς μιᾷ μόνῃ | πόλεως θανούεῃ ich’ ὕπερ δοθήεεται (è alquanto dubbio che il primo dei due passi sia il modello di un frammento tragico di Ennio, molto incerto sul piano testuale, che viene appunto attribuito da Vahlen (v. 135 5.) all'Eretteo, mentre Jocelyn lo recepisce come frag. inc. fr. 222: vd. p. 281 s. del comm. di Jocelyn e il comm. di Carrara al luogo euripideo). Ma è molto allettante l'ipotesi di D'Alessio, secondo 1] quale il nostro brano risale forse all'elegia di Frigio e Pieria (frr. 183-185), in quanto la tenera fanciulla potrebbe essere proprio Pieria, unica protettrice della patria Miunte, perché lei sola riesce a mettere pace fra essa e Mileto (cf. soprattutto fr. 184, 18-23). Vd. in generale l'app. e l'annotazione dopo il testo. pero: L'imperfetto senza aumento ῥύετί(ο) è un hapax morfologico nei poemi omerici

(cf. II. XVI 799). duoAn: Le fonti del frammento spiegano che ἀμαλή equivale a ἁπαλή ed entrambi i

COMMENTO:

FRR. INC. SED.255-257

531

passi omerici, nei quali figura il raro aggettivo, esibiscono come varia lectio banalizzante

una forma di ἁπαλός: cf. II. XXI 310 &pv’ ἀμαλήν (vl. ἁπαλήν) e Od. XX 14 ἀμαλῇει περὶ ckvAGKkecct (vi. aroAficı). L'identità semantica di ἀμαλός e ἁπαλός viene ribadita, in mezzo ad altre notizie, dal numerosi contributi esegetici al brano iliadico (vd. Rengakos p.

32): cf. Schol. (b(BCBEHT 310 a, Schol. (Gen.) 310, Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 28. 18 Bekker, Hesych. s.v. ἀμαλήν (ἀμάδην cod.), Eustath. p. 691. 51 (che aggiunge τινὲς δὲ ἐκεῖ ἄρνα φαεὶ μαλήν) ep. 1270. 55. Come si vede, nell'usus omerico ἀμαλός spetta solo ad animali, mentre per le persone gli aggettivi corrispondenti sono ἁπαλός (cf. p.es. I. III 371) o ἀταλός (cf. p.es. Od. XI 39). L'impiego callimacheo dell'aggettivo a proposito di un essere umano ha un precedente nel v. 75 degli Eraclidi di Euripide, dove il nesso y&povt’

ἀμαλόν si riferisce a Iolao (cf. la spiegazione di Esichio σιν. ἀμαλόν- ἁπαλόν, ἀςθενῆ). Frammento 257 (534 Pf.) kai pa περὶ εκαιοῖο βραχίονος

ἔμπλεον

ὄλπιν: Per una corretta esegesi del

frammento, è in primo luogo essenziale stabilire il senso che ha in esso il vocabolo ὄλπιν.

Benché i termini ὄλπις e ὄλπη siano talora sinonimi di οἰνοχόη (come nei passi di Saffo e Tone di Chio citati più avanti, al primo dei quali si riferisce Hesych. σιν. ὄλπιο) e benché il lessicografo Clitarco registri per ὄλπη anche il significato di brocca (ap. Athen. XI 495 C

τὴν ... ὄλπην ... Oeccadode ... τὴν πρόχοον), è evidente che nel nostro verso ὄλσις significa ampolla per l'olio. Innanzitutto, infatti, gli Etimologici, dopo avere tramandato il fram-

mento, spiegano estesamente che ὄλπις equivale a λήκυθος: tale senso di ὄλπις e ὄλπη prevale del resto non solo nelle attestazioni poetiche (vd. più avanti il comm.) ma anche nelle fonti grammaticali

(cf. Schol. Theocr.

I

156, XVIII 45-46, Schol. Nic. Ther.

97 be,

Clitarch. 1.1. τὴν ... ὄλπην ... Κορινθίους ... καὶ Βυζαντίους καὶ Κυπρίους τὴν λήκυθον, Hesych. s.v. ὄλπα, Suid. s.v. ὄλπη). In secondo luogo, come rileva Pf., le parole stesse di C. possono solo riferirsi a qualcuno che porta con sé un'ampolla piena d'olio. Lo studioso osserva pol che questa consuetudine era tipica di chi si recava in palestra o al bagni e cita in proposito Theocr. II 156 e XVIII 45 (vd. 1 comm. di Gow ad locc., nonché A. S. F. Gow, «CQ» 34, 1940, p. 113 s.). Basandosi su tale considerazione, Pf. avanza l'attraente proposta

che il nostro esametro - se fa parte di un carme a noi noto - rimonti all'elegia di Aconzio e Cidippe e descriva il protagonista nell'atto di andare ai bagni (cf. fr. 167). Pf. scriveva παρὰ prima di ckawolo βραχίονος, accogliendo così la lezione dell'Etymologicum Magnum e rifiutando a ragione la congettura κατὰ di Meineke (del tutto arbitraria, specialmente perché si ignora quale fosse il verbo impiegato da C.): poiché le notizie allora disponibili sulla forma del lemma nell'Etymologicum Genuinum erano erronee o incomplete, lo studioso credeva che pure questo lessico fornisse la preposizione παρὰ. Oggi invece sappiamo che in entrambe le redazioni del Genuinum si legge περὶ, come poi anche nel lessico di Zonara. Alla luce del nuovo dato bisognerà scrivere περὶ «καιοῖο βραχίονος

e respingere παρὰ. Nessuna delle considerazioni fatte da Pf. a favore di quest'ultima preposizione ha valore cogente: complementi di stato in luogo possono essere espressi da παρά con il genitivo nel

senso di presso, come rap’ &cridoc (Hom. Il. TV 468) 0 πὰρ ποδός (Pind. Pyth. ΠῚ 60, X 62), ma anche da περί con il genitivo nel senso di intorno, come περὶ cretove (Hom. Od. V

68) o περὶ χροός (Ap. Rh. II 1129); il verso di Acheo ὄλπη παρῃωρεῖτο χρίματος πλέα (TrGF 20 F

19, 2) - dopo aver citato il quale Ateneo (X 451 D) precisa λευκὸν ἱμάντα ...

ἐξ où ἡ ἀργυρᾷ λήκυθος ἐξήρτητο - offre senz'altro un efficace parallelo per la nostra

532

CALLIMACO

ἔμπλεον

ὄλπιν,

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ma non basta a corroborare,

nell'esametro callimacheo, appunto mistichio omerico | καί pa πάροιθ᾽ tanto fonetica con la prima metà del que in parte controbilanciato, sul

περιςτενάχων e XII 184

con il preverbio zap-, la presenza di παρὰ

perché non sappiamo quale sia il verbo mancante; l'eαὐτοῖο (ZI. I 360 e 500) presenterebbe un'analogia solnostro verso (ove mai vi figurasse rapò) ed è comunversante di περὶ, da Quint. Smyrn. IX 49 | καί pa

καί pa περιτρομέων.

Per contro, a sostegno di περὶ militano non solo l'autorità dell'Etymologicum Genuinum (qui coadiuvata

dalla testimonianza

di Zonara),

ma

anche

il fatto che l'ampolla

olearia,

quando veniva trasportata, pendeva da una corda o da una cinghia avvolta intorno al polso (vd. C. H. E. Haspels, How the Aryballos was Suspended, «BSA» 29, 1927-1928, pp. 216233 e tavola IVa, già addotto da Pf.). Vd. in generale l'app., l'annotazione dopo il testo e Massimilla p. 169 s. ἔμπλεον: Questa forma dell'aggettivo non compare nei poemi omerici, dove invece ri-

corrono gli equivalenti ἔμπλειος (Od. XVII 119 al.) ed ἐνίπλειος (Od. XIV 113 al.). Per ἔμπλεος in poesia, cf. Carm. pop. PMG 847, Xenophan. 21 B 22, 2 D.-K.°*, Parm. 28 B 7, 24 D.-K.6, Timo SH 785 = fr. 11 Di Marco*, Theocr. fr. 3, 6 Gow, Leonid. Tar. Anth. Pal. VI 334, 5 = HE 1970* (e poi spesso negli epigrammi), [Mosch.] IV 16, Nic. Al. 162*, 164*,

GVI 1549, 2; 1996, 2, Greg. Naz. Carm. II 2, 1,318 (PG 37 p. 1474) al., Nonn. Dion. I 36* al., Met. VII

182* al., Pamprep. fr. 3, 80 Livrea*, Dioscor. GDRK XLII

12B,

1* al., Paul.

Sil. Ecphr. Soph. 787*. ὄλπιν: Il sostantivo si riscontra presso Sapph. fr. 141, 3 Voigt e Theocr. XVIII Schlatter p. 53): nel primo passo significa brocca da vino, mentre nel secondo ha qui - il senso di ampolla olearia. Le medesime alternative semantiche interessano bolo corrispondente ὄλπη, di uso più comune: cf. da un lato solo Ion TrGF 19 F dall'altro Achae.

TrGF

20 F 19, 2 (riportato sopra), CEG

45 (vd. - come il voca10, 1 e

1 nr. 452, Theocr. II 156*, Nic.

Ther.80*,97, Phil. Thess. Anth. Pal. VI 251, 6 = GP 2677.

Frammento 258 (540 Pf.) χύτλων avrıdcavrec: Nel tramandare il frammento, l'Etymologicum Genuinum specifica che qui χύτλα significa libagioni per i morti. Riguardo al seguente participio, il lessico trasmette il genitivo plurale &vrıacavıov: Pf. osserva che questa lezione diviene metricamente accettabile, solo se la poniamo alla fine dell'esametro e immaginiamo che il Genuinum abbia mancato di riportare 1 vocaboli intercorrenti fra la prima e l'ultima parola del verso; però, come rileva lo stesso Pf., è improbabile che C. faccia dipendere il genitivo χύτλων da un altro genitivo. Sarà allora meglio lasciare il participio sùbito dopo il sostantivo, ma correggendolo in &vriacavtec (come suggeriva Schneider) o in una qualche altra forma che termini con sillaba breve, cioè &vridcavtoc, -τι, -τα, -TE, -toc (come propone Pf.). Nel nostro frammento, dunque, chi è che usufruisce delle libagioni? Potrebbe trattarsi

dei morti stessi o degli dei inferi: cf. da un lato Hom. Od. X 518-520 e XI 26-28 (con il comm. di Heubeck al primo passo) e dall'altro Soph. Oed. Col. 469-481 (con il comm. di Jebb al v. 477). Pf. avanza con molti dubbi l'ipotesi che le parole callimachee possano far parte dell'elegia cui appartiene il malridotto fr. 208: in essa, infatti, si parlava con ogni probabilità degli onori funebri resi da Antigone ai suol fratelli, ed è particolarmente significativo che nella lacunosissima Diegesis di questo aition compaia la sequenza di lettere

Jevoyi (V 21), collegabile al vocabolo ἐναγίοματα, sinonimo del nostro χύτλα in base alla testimonianza degli Etimologici (vd. app. delle fonti). Vd. in generale l'app. e l'annotazione

COMMENTO:

FRR. INC. SED.257-260

533

dopo il testo. Il vocabolo χύτλα ricorre per la prima volta in una legge sacra di Cirene, risalente alla fine del IV secolo a.C., dove significa - come qui - libagioni funebri. vd. F. Sokolowski, Lois sacrées des cités grecques. Supplément (Paris 1962), nr. 115 A 49-50; cf. poi anche Ap. Rh. I 1075, II 926 e 927, [Orph.] Arg. 32, 573 (vd. Schmitt p. 71, Rengakos p. 43 n. 97; si noti che invece presso Ap. Rh. IV 708 sono così designate le libagioni per Zeus). Altrove il termine χύτλα (collegandosi in parte all'hapax omerico χυτλόω, Od. VI 80) indica l'acqua versata per il bagno: cf. lo stesso Call. Hec. fr. 245, 2 Pf. = 60, 2 H. con 1 passi raccolti nei comm. ad loc., cui si può aggiungere Nonn. Dion. XXV 490 (per questo significato della parola, cf. anche gli Etimologici nell'app. delle fonti). Nel v. 701 dell'Alessandra di Licofrone, infine, sono definiti χύτλα i corsi dei fiumi.

Per l'impiego del verbo ἀντιάω nel nostro frammento, cf. Hom. 1.1 66 5. ἀρνῶν viene

αἰγῶν te τελείων |... ἀντιάεας (scil. Apollo, cf. Schol. D ἀπαντήςας, μεταςχών e vd. il comm. di Kirk), Od. I 25 ἀντιόων ταύρων te kai ἀρνειῶν ἑκατόμβης (scil. Posidone), ΠῚ 435 5. ἦλθε δ᾽ ᾿Αθήνη l'ipôv ἀντιόωκα. Frammento 259 (574 Pf.) ὃ δὴ μήκωνα πατεῖται: Il nesso relativo ὃ δὴ può essere interpretato come un pronome nominativo maschile (da è) o neutro (da öc), con la funzione di soggetto della frase seguente: il senso del frammento sarebbe allora che si nutre di papavero (per ὃ δὴ neutro,

cf. lo stesso Call. Hec.fr. 355, 2 Pf. = 66, 2 H.*). Ma ὃ δὴ può anche significare per il qual motivo, come suggeriva Schneider sulla base di Ap. Rh. IV 651 e 1720*. Quanto all'esegesi globale del frammento, lo stesso Schneider chiamava in causa un brano dei Fasti di Ovidio

(IV 531-534), nel quale si racconta che Cerere - affranta per il rapimento di Proserpina raccolse un papavero e soprappensiero lo assaggiò, interrompendo così il suo lungo digiuno (cf. anche Serv. in Verg. Georg. I 212): secondo lo studioso, dunque, C. direbbe qui che per questo motivo una donna partecipante alle Tesmoforie si nutre di papavero in una fase della festa. Ove mai tale congettura cogliesse nel segno, le parole callimachee potrebbero risalire all'elegia incentrata sulle Tesmoforie attiche (frr. 161-162). Si tenga comunque presente che la ricostruzione di Schneider è molto ipotetica: il mangiatore di papavero del nostro frammento potrebbe essere p.es. un qualche animale, come leggiamo proprio presso

C., nel fr. 277 Pf. = 102 H. della sua Ecale: βόες ... | ἄνθεα μήκωνος ... É Bovet | (vd. il comm. di Hollis). Vd. in generale l'app. e l'annotazione dopo 1] testo. Il vocabolo μήκων compare una volta sola nei poemi omerici (Π. VIII 306). Per l'uso del verbo πατέομαι nelle opere di C., vd. il comm. al fr. inc. sed. 121.

Frammento 260 (553 Pf.) 15. καὶ κυάμων ἄπο χεῖρας ἔχειν, ἀνιῶντος ἐδεεςτοῦ, | κἠγώ, Πυθαγόρης ὡς ἐκέλευε, λέγω: Qualcuno, uniformandosi al precetto di Pitagora, suggerisce di tenere le mani lontane dalle fave, alimento tormentoso: la persona loquens potrebbe essere la medesima che nel fr. 157, stando a una delle due possibili interpretazioni (vd. il comm. ad loc.), dichiara di concordare con quel filosofo. Vd. l'annotazione dopo il testo e Ardizzoni,

Echi p. 266 s. Il distico presenta notevoli affinità sia contenutistiche sia formali con un esametro attri-

buito ora a Empedocle ora a Orfeo: δειλοί, πάνδειλοι, κυάμων ἄπο χεῖρας ἔχεεθαι. La paternità empedoclea del verso viene asserita da Gellio in un passo di poco succes-

534

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

sivo a quello nel quale l'erudito stigmatizza la diffusa credenza che Pitagora non mangiasse né carne animale né fave e riporta appunto - per esemplificare il secondo pregiudizio - il nostro frammento (vd. app. delle fonti): Gellio (IV 11, 9) spiega infatti che l'errore relativo alle fave è sorto proprio dal citato verso di Empedocle (31 B 141 D.-K., I° p. 368), seguace di Pitagora (Empedocli ... qui disciplinas Pythagorae secutus est), in quanto il vocabolo κύαμοι qui non significherebbe fave, bensì testicoli (si noti che già Aristotele, nel fr. 195 p. 158. 14 Rose = Pythagorische Schule 58 C 3 D.-K., I° p. 463. 10, includeva la somiglianza delle fave ai genitali fra i motivi per i quali Pitagora aveva raccomandato l'astensione da quella pianta). Che l'esametro risalga invece a Orfeo, è opinione di Didimo (cf. Geopon. II 35, 8 =

[Orph.] fr. 648 (XD), Π 2 p. 218 Bernabé): φέρεται δὲ καὶ Ὀρφέως τοιάδε ἔπη - δειλοί, (sic) κυάμων ἄπο χεῖρας Execdon’. Gallavotti, nella sua edizione dei Καθαρμοί empedoclei, opta per la matrice orfica del verso ed esclude che lo si possa ascrivere a Empedocle (fr. spur. 126, vd. il comm. ad loc). Per le testimonianze sul rispetto di Pitagora e dei suoi seguaci per le fave, vd. Vorsokr. I° pp. 101, 463 e 466 D.-K. e A. Delatte, Faba Pythagorae cognata, «Serta Leodiensia» = Bibliothèque de la Faculté de philosophie et lettres Univ. Liege, vol. 44 (1930), pp. 33-57.

Per il vegetarianismo di Pitagora, cf. lo stesso Call. Jamb. fr. 191, 61 5. Pf. ικἠδίδαξε νηςτεύειν [τῶν ἐμπνεόιντων. 1 ciata 149, Batr.

καὶ κυάμων ἄπο: Sul piano metrico, è notevole la violazione della norma enunnell'Introd.II.1.A.c.ii. Per la posposizione di ἀπό nell'opera di C., vd. il comm. al fr. 5 βοῶν ἄπο. Il vocabolo κύαμος è un hapax omerico (Il. XIII 589; cf. anche [Hom.] 125); in poesia lo si ritrova usato a proposito di Pitagora presso Diog. Laert. Anth.

Pal. VII 122, 163. κυάμων ἄπο χεῖρας

ἔχειν: C. risente di Hom. Od. XXII 316 κακῶν ἄπο χεῖρας

ἔχεεθαι | (dove κακῶν si riferisce a rapporti carnali illeciti). Dato poi il contesto pitagorico della frase, può darsi che il poeta riecheggi anche un passo della commedia Θηρία di Cratete, dove alcuni animali - con comprensibile entusiasmo per 1 tabù alimentari di Pitagora esortano gli uomini a mangiare solo verdura e pesce e a tenere le mani lontane da loro: ἡμῶν δ᾽ ἀπὸ χεῖρας ἔχεεθαι | (PCG 19, 2; vd. M. G. Bonanno, Studi su Cratete comico,

Padova 1972, p. 100). Cf. poi Diog. Laert. Anth. Pal. VII 121, 1 5. ἐμψύχων ἄπεχες χέρας … 1... Πυθαγόρη |. Un parallelo solo formale è costituito da Phil. Thess. App. Plan. 193,3 =

GP 3116 | ἀλλοτρίων ἀπέχειν ... χέρας. Sul piano espressivo, si può infine richiamare più alla lontana lo stesso Call. Hec.fr. 238, 20 Pf. = 18, 6 H. &yovcı δὲ χεῖρας ἀπ᾿ ἔργου |. àvi@vioc: L'impiego assoluto del verbo si rinviene già presso Hom. Od. XIX 66 ἀνιήςεις (mentre è erroneo il richiamo di Schneider a Hom. Od. XVII 446 δαιτὸς àvinv I, tormento del banchetto, vista la presenza del genitivo oggettivo). Per lo iota breve, cf. Hec. fr.263,2 Pf. = 80, 2 H. coni comm. Per la contrazione, cf. fr. 9, 13 Aınocıoc | (in contrasto

con Hec. SH 289,3 = fr.71,3 H. λιπόωντο) ed Ep. LII 2 Pf. = HE 1068 uicoinc (che però è immediatamente seguito dalla forma non contratta gr éorc); frutto di una congettura di Schneider è προφοροῖντο nel fr. inc. sed. 520 Pf.; molto poco plausibile è infine il περὶ ...

ἐλῶντι suggerito da Pf. nel fr. 144, 3 (vd. il comm. ad loc). édectoÿ:

Il sostantivo viene usato da Eur.

Cret. fr. 1, 20 Cozzoli = TrGF

472,

19 e

TrGF 892, 5, Plat. Tim.72 E. 2 kñy®: Per la crasi, vd. il comm. al fr. 1,32 οὐλ(αϊχύς. Πυθαγόρης: Le menzioni poetiche del filosofo cominciano nella Commedia di Mezzo

COMMENTO:

FRR. INC. SED. 260-262

535

(cf. Antiphan. PCG 166, 7) e vertono spesso - come qui - sulla dieta da lui propugnata. Dal fr. gramm. 442 Pf. apprendiamo che C. respingeva l'attribuzione a Pitagora di un poema parmenideo.

Frammento 261 (SH 300-270) ἠἀφελὲς οὔλοον &ctpov: Il vocabolo ἀφελές è di sicuro guasto, data la quantità breve dell'alpha. La regolarità metrica viene facilmente ripristinata dalla correzione ὥφελεο, che inoltre dà luogo all'incipit ὥφελες obAoov, identico alla sequenza iniziale del fr. 181, 1. Ritengo anche molto probabile che Frodiano (testimone del frammento) o le sue fonti abbiano per sbaglio scritto &ctpov al posto di ἔγχος: se così è, il nostro passo coincide in tutto e per tutto con il fr. 181, 1. Vd. il comm. ad loc. e l'annotazione dopo il testo. Erodiano cita il nostro frammento con l'esplicito scopo di informare che in questo passo alcuni grammatici ritengono giusta la forma proparossitona οὔλοον (e non la consueta forma ossitona οὐλοόν:

vd. il comm.

al fr.

181,

1). Da ciò non

si può

dedurre, come

fa

Lasserre p. 83=175, che qui l'aggettivo significhi crespo, Invece di funesto (sul diversi sensi della corrispondente forma omerica odàoc, vd. il comm.

di Hollis a Hec. fr. 74, 17 = SH

288, 58).

Frammento 262 (586 Pf.) ei θεὸν οἴεθα, | ἴεθ᾽ ὅτι καὶ ῥέξαι δαίμονι πᾶν δυνατόν: Il frammento ha l'aspetto di un'ammonizione: se sal che esiste un dio (ma questa frase può forse essere intesa diversamente: vd. più avanti), sappi che una divinità è anche capace di fare tutto. Le parole di C. sarebbero ascrivibili alla medesima parte degli Aitia, cui spetta il fr. 157 incentrato su Pitagora, se coglie nel segno la proposta - avanzata da Rohde - di interpretare il nostro brano come una sentenza pitagorica, sulla base di Iambl. Vit. Pyth. c. 28 p. 79. 5

Deubner où γὰρ εἶναι τὰ μὲν δυνατὰ τῷ θεῷ, τὰ δ᾽ ἀδύνατα, ὥςπερ οἴεεθαι τοὺς εοφιζομένους, ἀλλὰ πάντα δυνατά. La congettura è suggestiva, ma bisogna tenere presente - come segnala Pf. - che espressioni analoghe ricorrono già nell'Odissea omerica, in riferimento agli dei (X 306 θεοὶ δέ te

πάντα δύνανται |, imitato da Dion. Per. 1169) o al dio in generale (XIV 444 5. Beöc ... 1... δύναται γὰρ ἅπαντα |) o a Zeus (IV 237 Ζεὺς ... δύναται γὰρ ἅπαντα I). Aggiungo che in proposito è anche rilevante un passo pindarico, dove il potere divino viene indicato come nel nostro frammento - dall'aggettivo δυνατόν (Hyporch. fr. 108 Ὁ, 1 5. Sn.-M.): 1020

δὲ δυνατὸν ... | ἐκ νυκτὸς ... ὄρεαι φάος |. Inoltre, dato il nostro δαίμονι, si può addurre Lucian. Anth. Pal. X 122, 1 πολλὰ τὸ δαιμόνιον δύναται. Vd. in generale l'annotazione dopo il testo.

Quanto al senso della frase ipotetica ei θεὸν oîc0a, il seguente imperativo ic0’ rende improbabile - come osserva Pf. - che essa significhi se conosci il dio (cioè le sue caratteri-

stiche), in accordo con Heraclit. 22 B 5 D.-K.9 οὔ τι γινώοκων θεοὺς ... οἵτινές gici (cf. forse anche Xenophan. 21 B 34 D.-K.®), Protag. 80 B 4 D.-K.® περὶ μὲν θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι (v.l. οὐκ οἶδα) οὔθ᾽ ὡς εἰεὶν οὔθ᾽ ὡς οὐκ εἰεὶν οὔθ᾽ ὁποῖοί τινες ἰδέαν, Plat. Resp. 365 E αὐτοὺς (scil. θεοῦ) ἴομεν ἢ ἀκηκόαμεν (la frase callimachea potrebbe invece assumere questo valore, se nel v. 2 si correggesse îc0” nell'indicativo oic0’, come suggeriva Meineke).

Pf. ritiene giustamente che la traduzione più verisimile di ei θεὸν οἴεθα, icO’ ὅτι κτλ. sia questa: se sai che c'è un dio (cioè se ammetti l'esistenza di un dio), sappi che ecc. A tale n1-

536

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

guardo lo studioso chiama in causa alcuni passi latini fondati sulle teorie di filosofi più recenti (come forse Posidonio), 1 cui testi originali sono oggi perduti: cf. Cic. Tusc.I 70 ut deum noris, etsi eius ignores et locum et faciem, Sen. Quaest. nat. I praef. 13 discit quod diu quaesivit ... incipit deum nosse, Epist. XXXI 10 nemo novit deum. Sulla yvöcıc θεοῦ, vd. E. Norden, Agnostos theos (Leipzig-Berlin 1913), pp. 87-95. Comunque, come rileva lo stesso Pf., è anche possibile che nell'esametro callimacheo il

vocabolo θεόν designasse non il dio in termini complessivi, bensì una divinità che l'onnipotenza tratteggiata nel v. 2 non costituisse una caratteristica generica, coltà messa in atto nella realizzazione di un determinato prodigio. Quanto al nesso ἴςθ᾽ ὅτι, cf. GVI 1366, 4* (anche qui dopo una condizionale gli ultimi due piedi del precedente esametro), ep. adesp. App. Plan. 260, 4. Per

specifica, e ma una fache occupa il polittoto

otcOa ἴοθ᾽, vd. Lapp p. 64. Frammento 263 (588 Pf.) πάλαι δ᾽ ἔτι Beccaköc

ἀνήρ

| ῥυετάζει

φθιμένων

ἀμφὶ τάφον

govéac:

Leggiamo qui che 1 Tessali, secondo un'antica usanza, trascinano ancora gli uccisori intorno alla tomba dei morti: le fonti del frammento chiariscono che gli assassini vengono così tirati dopo essere stati a loro volta soppressi e che i sepolti sono le persone da loro uccise. Il testimone principale del nostro passo è Proclo, il quale cita le parole callimachee e precisa che l'uso tessalico adempie una cerimonia già espletata allorché Achille trascinò il cadavere di Ettore intorno al sepolcro di Patroclo (cf. Hom. Il. XXII 395-405, 463-465 e soprattutto XXIV 14-18, 754-756). Gli scoli a Hom. Il. XXII 397 fanno riferimento alla

trattazione del tema da parte di C. (senza tramandare 1 versi stessi del poeta) e forniscono in proposito Importanti notizie ulteriori: la tradizione tessalica fu inaugurata da un certo Simo, il quale - dopo che un tale Furidamante figlio di Midia aveva assassinato suo fratello Trasillo - lo uccise a sua volta, lo legò al proprio cocchio e lo tirò intorno alla tomba di Trasillo, sicché poi Achille, in quanto Tessalo, rispettò l'usanza patria e fece lo stesso con Ettore. Anche gli scoli a Ov. Ib. 331 attestano che C. toccò l'argomento, sebbene non ne riportino le parole, e offrono una versione della vicenda sostanzialmente concorde con quella preservata negli scoli iliadici, esibendo però una divergenza e due aggiunte: Simo e Trasillo non erano fratelli, bensì amici; la patria di Simo era Larissa; la salma di Euridamante

subì

tre giri intorno al sepolcro di Trasillo (però, come vedremo, tutte queste informazioni derivano dal distico di Ovidio delucidato negli scoli in oggetto). Vd. in generale l'app. delle fonti. La presenza dell'episodio di Simo, Trasillo ed Euridamante presso C. si ripercuote su Ovidio, che nell'/bis scrive così: utque vel Eurydamas ter circum busta Thrasylli | est Larisaeis raptus ab hoste rotis (v. 331 s.). Già questa circostanza induce a credere che il nostro frammento faccia parte degli Aitia, date le frequenti riprese dell'elegia callimachea nell'/bis ovidiana. Più in particolare, esso risale forse alla favola ateniese di Limone

(frr. 197-198),

dove C. raccontava che il padre della fanciulla uccise l'amante della figlia, lo legò a un cavallo e lo trascinò per la città: può darsi, infatti, che C. inserisse in tale aition un excursus

sull'analoga usanza tessalica e sulla sua antica origine. Il fatto, però, che Ovidio rievochi in tre distici successivi dell'/bis lo scempio dei cadaveri di Euridamante (v. 331 s.), di Ettore (v. 333 s.) e del seduttore di Limone (v. 335 s.) non è un dato sufficiente per congetturare che già C. collegasse fra loro ed esponesse nel dettaglio le tre storie o comunque che facesse parola della furia di Achille contro Ettore. Vd. in generale l'annotazione dopo il testo,

COMMENTO:

FRR. INC. SED. 262-264

537

nonché il comm. dopo il fr. 198. È possibile che, come congettura Schneider, le notizie di C. sul perpetuarsi dell'usanza tessalica derivino dal Problemi omerici di Aristotele: cf. infatti Aristot. fr. 166 Rose (=

Porphyr. Quaest. Hom. Il. p. 267. 1 Schrader nello Schol. B Hom. A. XXIV 15) διὰ τί è ᾿Αχιλλεὺς τὸν Ἕκτορα εἶλκε περὶ τὸν τάφον τοῦ Πατρόκλου ... eri δὲ λύεις (λύεις B: λύειν Mosq.), φηεὶν ’ApicrotéAnce, καὶ εἰς τὰ ὑπάρχοντα ἀνάγοντα (ἀνάγων Β: corr. Schrader) ἔθη, ὅτι τοιαῦτα ἦν, ἐπεὶ καὶ νῦν ἐν Θετταλίᾳ περιέλκουει περὶ τοὺς τάφους (si noti che Aristotele aveva trattato anche la vicenda di Limone: vd. il comm. ai frr. 197198). Vd. in proposito Sodano pp. 232-241. I nomi che C. assegnava a due protagonisti dell'episodio tessalico si riscontrano, in tutt'altro contesto, nell'orazione pseudo-demostenica contro Neera (LIX

108, vol. III Rennie),

dove leggiamo che questa meretrice ebbe rapporti ἐν Θετταλίᾳ ... καὶ Μαγνηείᾳ μετὰ Ciuov τοῦ Axpicaiov καὶ Εὐρυδάμαντος Tod Mnôeiov. Νά. Hughes p. 105 n. 37. 1 πάλαι

δ᾽

ἔτι: Il nesso, che a prima vista suscita perplessità, è suffragato da alcuni

passi paralleli: cf. Plut. Timol. X 6 ἔτι πάλαι (ἔκπαλαι coni. Madvig), Sull. III 4 ἔτι γε πάλαι, lambl. Vir. Pyth. c. 29 p. 89. 10 Deubner ἐκ παλαιῶν ἔτι. ®eccadöc ἀνήρ: L'impiego congiunto del vocabolo ἀνήρ e di un etnico è tipico di C.: vd. il comm. al fr. 9, 19 ἀνὴρ Avagatoc. In poesia il vocabolo OeccaAéc ricorre a partire da Pindaro (Pyth. X 70). 2 Pvcraßeı: Nell'usare il verbo, che è una forma frequentativa di ἐρύω, C. si ispira a

Hom. I. XXIV

755 5. πολλὰ ῥυςτάζεοκεν ἑοῦ περὶ cu’ ἑτάροιο | Πατρόκλου, τὸν

ἔπεφνες (parole rivolte da Ecuba al defunto Ettore e riferite al trascinamento della sua salma da parte di Achille: vd. sopra il comm.). Nell'àmbito dei poemi omerici, il verbo compare anche in Od. XVI 109 = XX 319, dove si riferisce allo stupro. Esistono pure 1 so-

stantivi ῥυςτακτύς (Od. XVII 224) e ῥύεταγμα (Lyc. 1089). τάφον: Nei poemi omerici il vocabolo designa solo i riti funebri (44. XXIII 29 al). La parola ha - come qui - il significato di sepolcro a partire da [Hes.] Scut. 477 e Pind. Isthm.

VII 57. Frammento 264 (597 Pf. = SH 268C) θηρὸς ἀερτάζων δέρμα κατωμάδιον:

Per uno studio approfondito del fram-

mento, vd. Massimilla, Leone pp. 24-30: parte di ciò che segue è una versione abbreviata di quelle pagine. Il verso descrive qualcuno nell'atto di sollevare la pelle di una fiera, in modo che gli penda dalle spalle (per l'esatta valenza del nesso ἀερτάζων ... κατωμάδιον, vd. più avanti il comm.). La fonte del frammento, cioè uno scollo ad Apollonio Rodio, garantisce che qui il sostantivo θήρ equivale a leone. Come vedremo, con ogni verisimiglianza C. parla di Fracle che si carica sulle spalle la pelle del leone nemeo: dalla successiva analisi risulterà anche che, secondo me, il pentametro risale alla Vittoria di Berenice

(frr. 143-156) e deve essere

collocato tra 1 frr. 151 e 154. Νά. in generale l'annotazione dopo il testo. Che il pentametro riguardi Fracle e la fiera nemea, è Indicato - come osserva Pf. - da un passo della sesta /stmica di Pindaro (v. 47 s.), dove l'eroe definisce appunto δέρμα ... θηρός

la pelle di quella belva: ὥςπερ τόδε δέρμα ue νῦν περιπλανᾶται | θηρός, dv πάμπρωτον ἀέθλων

κτεῖνά ποτ᾽ ἐν Νεμέᾳ.

Ma

esiste anche un antecedente

epico

(individuato da

Henrichs p. 72 s.), che conferma la pertinenza del nostro verso a Eracle e al leone nemeo, cioè due esametri del poema Eraclea di Paniassi di Alicarnasso, citati da Stefano Bizantino

538

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

a proposito del borgo nemeo di Bembina e molto simili fra loro: si tratta del fr. 4, I p. 175

Bernabé = fr. 1 Davies δέρμα τε θήρειον Βεμβινήταο λέοντος e del fr. 5, Ip. 175 Bernabé = fr. 2 Davies kat Βεμβινήταο πελώρου δέρμα λέοντος (vd. Massimilla, Leone p. 25 n. 28; 1] lemma di Stefano Bizantino è anche fonte di Rhian.

CA fr.7 p. 11). Com'è evidente,

le parole di Paniassi δέρμα ... θήρειον e δέρμα - che designano la pelle del leone nemeo -

sono riecheggiate nel θηρὸς ... δέρμα di C. (a sua volta l'emistichio Βεμβινήταο λέοντος ha influito sul fr. inc. auct. 278, quasi certamente callimacheo: vd. il comm. ad loc.). Che il nostro frammento spetti a Fracle e alla fiera nemea, è infine segnalato dalla duplice presenza del nesso δέρμα ... θηρός nel venticinquesimo idillio dello pseudo-Teocrito, con riferimento appunto alla pelle del leone nemeo che riveste l'eroe (vv. 163 e 175): il fatto ha particolare importanza, perché l'idillio in questione esibisce numerose imitazioni delle opere callimachee e soprattutto della Vittoria di Berenice (vd. la fine del comm. ai frr. 143156). L'ampio nucleo mitico di quest'ultima elegia, incentrato sulle permanenze di Eracle presso Molorco prima e dopo il suo scontro con la belva nemea, è con ogni probabilità il contesto originario del pentametro callimacheo: le obbiezioni di Pf., volte a escludere che il nostro frammento e il fr. inc. sed. 274 rimontino alla Vittoria di Berenice, sono poco cogenti o addirittura erronee (vd. in proposito il comm. al fr. 274). Del resto, anche ammettendo con Pf. che il quasi completo silenzio dei testimoni della storia di Molorco (riportati nel comm. al fr. 145) sulla trasformazione della pelle del leone nemeo in indumento implichi la mancanza di questo motivo nella trattazione di C. e che il poeta (come [Apollod.]II 4, 9 s.) presentasse Fracle già abbigliato con la pelle del leone citeronio (conclusioni, queste, la cui legittimità viene a ragione messa in dubbio da Henrichs p. 71 e n. 4), ciò escluderebbe dalla vicenda di Molorco 1] solo fr. 274, non il nostro verso.

Mentre infatti nel fr. 274 Eracle è effettivamente rivestito con la pelle del leone nemeo, qui l'eroe solleva la pelle della fiera e se la lascia pendere dalle spalle: questo gesto sembra indicare che Fracle - dopo avere ucciso e scorticato il leone nemeo - si carica sulle spalle la pelle della belva per trasportarla. A quanto pare, dunque, nell'elegia callimachea Fracle scuotava la fiera uccisa, recandone con sé la pelle: un importante elemento in favore di questa ricostruzione è il fatto che nel venticinquesimo idillio del corpus teocriteo, molto influenzato - come si è detto - dalla Vittoria di Berenice, l'impresa dell'eroe si conclude appunto con lo scorticamento della belva (vv. 272-278). Per l'attribuzione del verso all'episodio di Molorco, è inoltre preziosa la testimonianza di [Apollod.] II 5, 1, 1-4 (riportata nel comm. al fr. 145). Costui infatti, cominciando a esporre la fatica nemea di Fracle, scrive che Euristeo gli impose di portargli la pelle del leone (si noti che l'aition callimacheo di Molorco contiene forse una menzione di Euristeo nel fr. 151, 11: vd. il comm. ad loc.). Poco più avanti il mitografo ci informa che l'eroe eseguì l'ordine: Eracle infatti, una volta soffocato il leone, se lo mise sulle spalle e lo portò fino al

borgo nemeo di Cleone (θέμενος ἐπὶ τῶν ὥμων ἐκόμιζεν εἰς Κλεωνάο), dove abitava Molorco, proseguendo poi per Micene. La frase θέμενος ἐπὶ τῶν ὥμων, utilizzata dallo pseudo-Apollodoro, corrisponde al nesso ἀερτάζων ... κατωμάδιον, impiegato da C. nel nostro frammento. L'equivalenza delle due espressioni risulta ancora più chiara se si osserva che Pediasimo, autore bizantino dell'opuscolo Le dodici fatiche di Eracle modellato sulla Biblioteca dello pseudo-Apollodoro, descrive il sollevamento del leone morto sulle spalle da parte dell'eroe con le parole βαςτάεας νεκρὸν ἐπωμάδιον (I 4, p. 250. 17 Wagner;

COMMENTO:

FRR. INC. SED. 264-265

539

per la congruenza fra il comando di Euristeo e l'adempimento di Eracle, vd. Massimilla, Leone p. 29 n. 49). Il contesto originario del pentametro sembra quindi ricostruibile in questo modo: Eracle, dopo avere ucciso e scuoiato il leone nemeo (vd. ora anche Ambiihl p. 85 n. 208), solleva la pelle della fiera in modo che gli penda dalle spalle e si incammina poi verso Cleone. Ma in quale punto specifico dell'aition di Molorco si può situare il frammento? Credo che esso seguisse a non molta distanza il fr. 151, dove Eracle parla al contadino poco prima di recarsi ad affrontare il leone. Con ogni probabilità C. non descriveva affatto lo scontro vero e proprio, o almeno lo tratteggiava in estrema sintesi (vd. il comm. ai frr. 143-156), e passava senz'altro a riferire che Fracle, dopo avere vinto e scorticato il leone, si caricò sulle spalle la

pelle della belva e fece ritorno a casa di Molorco. È anche verisimile che il nostro brano precedesse di poco il fr. 154. Nel v. 1 s. di quest'ultimo frammento il lettore viene esortato a integrare autonomamente la fase del mito che C. ha omesso o condensato per amore di brevità, cioè appunto la celeberrima lotta fra Eracle e il leone: C. dichiara che riferirà invece le risposte di Eracle alle domande di Molorco (cf. fr. 154, 3 s.). L'esultante curiosità del vecchio è appunto stimolata dal fatto di vedere tornare l'eroe con la gigantesca pelle della fiera: ma Fracle si lancia in un resoconto relativo all'altra cosa che egli porta con sé dopo la sua impresa e che di certo entusiasma meno il povero contadino, cioè la corona di apio (cf. frr. 155 e 156, 1-9). Sul piano espressivo, l'immagine tratteggiata da C. è analoga a quella che Antipatro di

Sidone applica in un suo epigramma a una Menade: è μὲν ἀερτάζουεα δέμας PAocvpoio λέοντος (Anth. Pal.TX 603,3 = HE 594). θηρὸς ἀερτάζων: Cf. Call. Hec. fr. 258 Pf. = 67 H. 1 Onpöc &pwncoc, con riferimento a Teseo che soggioga il toro di Maratona.

ἀερτάζων ... κατωμάδιον: Cf. Ap. Rh. I 738 5. Ζῆθος ... ἐπωμαδὸν ἠέρταζεν | οὔρεος … κάρη con lo scolio ad loc. κατὰ τοὺς ὥμους ἐβάεταζεν, ἐπὶ τῶν ὥμων ἦρεν. A quanto sembra, però, nel nostro passo l'aggettivo κατωμάδιον ha funzione predicativa (sollevando ... in modo che gli pendesse dalle spalle). Cf. anche [Orph.] Lith. 224 s. | ἀμφὶ

δ᾽... αὐχένι ... ἀερτάζουοα … | λᾶαν, 622 5. 1TÒv 8°... 1... ἀερτάζειν περὶ ἕλκεϊ. Sul verbo ἀερτάζω, νά. il comm. al fr. 20, 6 coì χέρας ἠέρ]ταζεν; sull'aggettivo κατωμάδιοο, vd. il comm. al fr. 26, 10.

θηρὸς ... δέρμα: Dal punto di vista formale, cf. Alem. PMGF 53 δέρματα θηρῶν, Theop. PCG 46, 1 τὸ δέρμα τοῦ θηρός. Quanto al δέρμα leonino di Fracle (oltre ai luoghi di Pindaro, di Paniassi e dello pseudo-Teocrito riportati sopra), cf. Ap. Rh. I 1195, 1206, IV

1438, [Theocr.] XXV 277, epp. adespp. App. Plan. 100, 3; 124, 3 5.

Frammento 265 (607 Pf.) un εὖ ye, Θειόγενες, κόψας χέρα Καλλικόωντοε;: La vicenda cui si riferisce l'esametro, cioè 11 taglio della mano di Calliconte da parte di Teogene, viene illustrata dagli scoli al v. 363 della Pace di Aristofane e dal lemma di Suida che tramandano il frammento (per la forma precisa dei due nomi propri, vd. più avanti): Calliconte, macchiandosi di tradimento, consegnò Samo o Mileto agli uomini di Priene, ovvero - secondo Teopompo (FGrHist 115 F 111) - la Ciclade Siro al Sami; stando a Teopompo, Calliconte pagò il fio del suo misfatto, perché il macellaio Teogene,

abitante

a Samo

ma originario di Siro, si

sdegnò per il tradimento della sua patria e, quando Calliconte andò a comprare della carne, gliela fece reggere con la scusa di volerne tagliare via le parti di troppo (ovvero gli chiese di

540

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

indicargli da dove voleva che fosse tagliato il pezzo), approfittando così per mozzargli la mano e dicendogli poi che con essa non avrebbe in futuro tradito un'altra città; dopo avere citato il verso di C., i testimoni aggiungono che, secondo Leandro nel secondo libro delle Storie di Mileto (FGrHist 492 F 15), la città consegnata ai nemici fu appunto Mileto (cf. anche Hesych. σιν. Κιλλίκων e Zenob. Cent. I 3) e, allorquando Calliconte aprì le porte agli invasori, un concittadino gli chiese perché lo facesse, ricevendo la risposta «Calliconte ha 1

beni» (ἀγαθὰ Καλλικῶν: si spiega così il senso della battuta οὐδὲν πονηρόν, ἀλλ᾽ ὅπερ καὶ Κιλλικῶν nel v. 363 della Pace di Aristofane, delucidata dagli scoli che tramandano il

nostro frammento). Può darsi che proprio Leandr(1)o di Mileto fosse qui la fonte di C., come accade in vari altri casi: vd. il comm. al fr. 190. Da C. mostra a sua volta di dipendere (anche sul piano formale) Euforione in CA fr. 82 p. 45 κακώτερε Καλλικόωντος | (vd. Magnelli, Studi p. 25). Mentre il contesto di riferimento dell'esametro è dunque chiaro, il suo assetto testuale e

la sua struttura sintattica risultano incerti. Per quanto riguarda il verbo, è possibile che come ipotizza Pf. - la lezione κόψῃς, presente solo nel codice R di Aristofane, sia frutto di una congettura volta a rendere più perspicuo il senso dell'esametro, rispetto alla difficile sequenza μὴ ... κόψας (come si dirà, il codice R esibisce forse un'altra congettura nella forma del nome che occupa la fine del verso; per 1 difetti di R, vd. le pp. XX ss. della prefazione di J. van Leeuwen alla sua edizione fotografica di questo manoscritto, pubblicata nel 1904).

Ma già Schneider osservò che la frase un cò γε, Θειόγενες, κόψῃς χέρα Καλλικόωντος sarebbe insensata, perché - visto lo sviluppo della vicenda delineato dalle fonti - nessuno avrebbe potuto dire a Teogene di non troncare la mano di Calliconte (analogamente nessuno avrebbe potuto rivolgersi a Teogene augurandosi che non troncasse la mano di Calliconte, come risulterebbe dalla congettura κόψαις di Bentley). Altrettanto inaccettabile è però la soluzione suggerita da Schneider, il quale accoglie κόψῃς ma muta il vocativo Θειόγενες (trasmesso da tutti i testimoni) nel nominativo Θειογένης e immagina che C. adatti la storia a un altro personaggio, cui raccomanderebbe di non mozzare - come un novello Teogene - la mano di qualcuno, trattamento questo riservato una volta a Calliconte (ru non troncare, in quanto Teogene, la mano di un Calliconte). Contro questa ipotesi di Schneider, Pf. rileva che l'incontrastata lezione Θειόγενες è sostenuta dal precedente nesso μὴ εὖ ye, chiamando a confronto lo stesso Call. Del. 162, nonché p.es. Eur. Med. 1056, e nota inoltre che molte elegie del quarto libro degli Aitia si aprono con un vocativo: a tale proposito, è bene aggiungere che le apostrofi sono frequenti in tutti 1 libri degli Aitia, anche all'interno delle singole sezioni (vd. Introd.1.4.E.). Pf. preserva dunque sia Θειόγενες sia κόψας e cerca di interpretare il testo che ne risulta. Se il verbo è un participio, lo studioso prospetta due alternative: forse - come riscontriamo spesso nei lemmi delle Diegeseis Mediolanenses - il periodo sintattico è ancora incompleto alla fine dell'esametro (non tu, Teogene, che troncasti ovvero dopo avere troncato la mano di Calliconte ..., è questo 11 parere di G. Bernhardy nell'annotazione al luogo di Suida testimone del verso e di Diehl, Hypomnema p. 394 n. 6); oppure il nesso μὴ cd ye viene Impiegato ellitticamente senza un verbo di modo finito e fa parte di un dialogo, ve-

nendo forse seguito da una congiunzione ἀλλά (non farlo, Teogene, che troncasti ecc., ma …; cf. p.es. Soph. Oed. Col. 1441 con il comm. di Jebb, Eur. Hec. 408 5. con il comm. Hadley, Jon 439, 1335, Phoen. 532 con il comm. di Mastronarde, Plat. Resp. 345 B).

di

Ma Pf. preferisce riconoscere in κόψας la seconda persona singolare di un indicativo ao-

COMMENTO: risto senza aumento,

osservando

FR. INC. SED. 265

fra l'altro che nei poemi

omerici

541 l'aoristo indicativo

di

κόπτω è sempre privo di aumento, con la sola eccezione della tmesi ἀπὸ πείεματ᾽ ἔκοψα in Od. X 127 (dove però - come propone Pf. - si potrebbe scrivere ἀπὸ πείοματα κόψοα). Lo studioso suggerisce infatti di intendere l'esametro come un'interrogativa diretta in sé conclusa, che - essendo introdotta da un - presuppone una risposta negativa (forse tu, Teogene, troncasti la mano di Calliconte?). Pf. congettura poi che il destinatario della domanda replicasse di non essere quel Teogene, bensì l'omonimo atleta di Taso. Si tratterebbe cioè del celebre pugile e pancraziaste attivo nella prima metà del V secolo a.C., vincitore a Olimpia e negli altri giochi panellenici, sul quale cf. 5109 I 36 = Ebert nr. 37 = (ΕΟ 2 nr. 844 con i rispettivi commenti. Se l'ipotesi di Pf. coglie nel segno, può darsi che il nostro frammento rimonti al terzo o al quarto libro degli Aitia, dove compaiono altri olimpionici, cioè Futicle di Locri nei frr. 186-187 del libro terzo ed Eutimo di Locri nei frr. 201-202 del libro quarto. È fra l'altro notevole, come rileva lo stesso Pf., che nella Tontwv φώρα di Enomao

di Gadara la storia

di Teogene sia narrata sùbito prima di quella di Euticle (fr. 2 pp. 76 e 77 Hammerstaedt ap. Euseb. Praep. ev. V 34, rispettivamente 9-14 e 15-16: vd. il comm. a frr. 186-187). Νά. in generale l'app. e l'annotazione dopo il testo. L'esegesi di Pf. è stata accolta e sviluppata da Lehnus, Notizie II pp. 286-291, il quale pone l'accento sul fatto che sia Enomao (nel passo citato) sia Pausania (VI 11, 6-9, testimone principale) sia Dione Crisostomo (XXXI 95-97) narrano le prodigiose vicende della statua bronzea di Teogene: dopo la morte dell'atleta, essa fu presa a frustate da un avversario politico del defunto e gli cadde addosso uccidendolo (cf. [T'heocr.] XXIII 59 s. con il comm.

di Gow), sicché 1 Tasi la gettarono in mare; sull'isola si abbatté allora una carestia,

per la cui risoluzione non furono di aiuto due vaticini successivi dell'Apollo delfico (Oracc. 389-391 Parke-Wormell), finché alcuni pescatori non recuperarono casualmente nelle loro reti la statua di Teogene; allora la carestia ebbe fine e l'atleta divenne oggetto di un culto eroico. Come

osserva Lehnus, la focalizzazione sul tema della statua di un olimpionico ac-

costerebbe ancora di più il nostro frammento alle elegie degli Aitia su Euticle (frr. 186-187) e su Eutimo (frr. 201-202) e a un brano che verte su Astilo di Crotone e risale forse alla medesima opera (fr. inc. sed. 273): per di più, nel primo e nell'ultimo di tali carmi si riscontra anche il motivo della statua maltrattata, cui nel primo si aggiungono quelli della conseguente calamità, della consultazione di Apollo e degli onori eroici (su tutti questi argomenti, vd. i comm. ai frr. 186-187 e al fr. 187, 8-12). Lehnus nota inoltre che il soggetto della pesca miracolosa figura in Jamb. fr. 197 Pf. (a proposito di una statua) e forse nel fr. 58 (vd. il comm. ad loc.). Molto allettante è l'ulteriore ipotesi di Lehnus, che cioè la domanda presumibilmente contenuta nel nostro esametro dia inizio a un dialogo con la celebre effigie di Teogene, strutturato come il dialogo con la statua di Apollo delio nel fr. 64, 4-17, con ogni probabilità del terzo libro (vd. la fine del comm. introduttivo ad loc.). Lo studioso si richiama anche a un epigramma di Posidippo (HE 3126 ss. = 120 Austin-Bastianini, vd. Lapini pp. 137-145), la cui persona loquens è proprio la statua di Teogene (vd. inoltre Lehnus, Notizie III p. 148 s.). Sul rapporti intertestuali fra l'epigramma posidippeo e il nostro frammento, vd. poi D. Zoroddu, «Helikon» 35-38 (1995-1998), p. 121 s. e Prioux pp. 181-184 (trovo che le ipotesi avanzate da quest'ultima siano interessanti, ma molto incerte). un: La negazione ha forse valore interrogativo presso (Call.) fr. inc. auct. 747 Pf. un

μιν Édovciv ἄςαι; Θειόγενεες: Il nome è concordemente tramandato in questa forma dalle fonti del verso,

542

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

laddove - a quanto pare - Teopompo (FGrHist 115 F 111, vd. sopra) chiamava Θεογένης il macellaio vendicatore. La forma Θεογένης / Oevyévnc si rinviene in SIG? I 36 = Ebert nr. 37 = CEG 2 nr. 844, che - come abbiamo detto - riguarda l'omonimo atleta Teogene, cioè il

personaggio cui forse C. fa qui riferimento (vd. sopra; la forma Oevyévnc è anche impiegata da Posidipp. HE 3128 = Ep. 120, 3 Austin-Bastianini; Pausania e Dione Crisostomo adottano invece la forma Θεαγένηο). Si noti che, nel suo caso, la forma genuina del nome è appunto Θεογένης ovvero Oevyéwnc: vd. M. Launey, «RA» 5. VI 18 (1941), pp. 23 e 49, nonché C. Picard,

«RA»

S. VI

17 (1941), p.

101 e J. Pouilloux,

«BCH»

118 (1994), pp.

200-202. κόψας χέρα: Già nei poemi omerici il verbo κόπτειν può avere il senso di troncare: cf. soprattutto Od. XXII 477 | χεῖρας ... κόπτον. Καλλικόωντοοε: Il nome del traditore punito ha, nella prima sillaba, un alpha presso alcuni testimoni e uno iota presso altri: quest'ultima forma si rinviene nel v. 363 della Pace aristofanea e negli scoli ad loc., nel codice R di Aristofane (all'interno della citazione calli-

machea da parte dello scolio che delucida il passo della Pace), presso Teopompo (FGrHist 115 F 111, vd. sopra), in alcuni lemmi di Suida (vd. app.), presso Svet. Περὶ βλαςφημιῶν

87, p. 53 Taillardat Κιλλίκων ... προδότης (vd. il comm. di Taillardat, p. 132 s.), Hesych. s.v. Κιλλίκων, Zenob. Cent. 1 3 ἀγαθὰ Κιλλικῶν (vd. l'apparato e l'annotazione ad loc. nell'edizione di Leutsch-Schneidewin); il nome è invece trasmesso con alpha da tutte le fonti del nostro frammento (eccetto, come si è visto, il codice R di Aristofane), da due

lemmi di Suida (vd. app.), da Eustath. pp. 1669. 58 e 1864. 38 (nel medesimo elenco di πονηροί offerto da Svetonio) e - cosa molto significativa - da Euforione in un explicit esametrico (CA fr. 82 p. 45 riportato sopra) che si ispira al verso callimacheo ed è espressamente citato da Erodiano per illustrare il nome Καλλικόων (Gramm. Gr. II 2, p. 915. 19 Lentz, appena dopo la citazione di Call. fr. inc. sed. 556 Pf.). Con ogni probabilità, dunque,

la forma del nome impiegata da C. è Καλλικόωντος: Pf. ipotizza che il Κιλλικόωντος esibito dal codice R di Aristofane sia frutto di una congettura volta a conciliare il nome presente nel nostro frammento con quello attestato nel v. 363 della Pace e nei relativi scoli (è possibile che il codice R metta in opera un'altra congettura a proposito del verbo che qui usa C.: vd. sopra il comm.).

Frammento 266 (611 Pf.) Καλλιχόρῳ ἐπὶ φρητὶ καθέζεο

παιδὸς

Anvcroc: L'esametro è tramandato da

uno scolio a un passo del Protrettico di Clemente Alessandrino. Il contenuto di tale brano garantisce che nel nostro frammento la destinataria dell'apostrofe è Demetra: la dea giunge a Eleusi durante il suo vagabondaggio in cerca di Persefone e, presa dalla stanchezza e dallo sconforto, siede sul pozzo Callicoro senza notizie della figlia. Molto attraente è l'ipotesi, avanzata da Maas, che nel verso seguente figurasse l'aggettivo ἁρπαγίμης riferito al vocabolo παιδός (della figlia rapita): l'aggettivo in questione è infatti impiegato da C. come vedremo - in due passi (dell'inno a Demetra e dell! Zxééwcic Apervémo, che risultano simili al nostro frammento per l'uso della parola &rvcroc (certa nel primo luogo, integrata nel secondo; l'affinità è soprattutto significativa in rapporto al primo brano (Cer. 9), anche perché - come si dirà - il nostro esametro ha una stretta analogia pure con il v. 15 di quell'inno callimacheo). Del tutto inverificabile è la supposizione che il frammento rimonti a una parte degli Aitia, dettagliatamente ricostruita da Malten pp. 506-553 sulla base di Ov. Met. V 341-661

COMMENTO:

FRR. INC. SED. 265-266

543

e Fast. IV 393-620, il cui tema sarebbe stato il ratto di Persefone in Sicilia (vd. Pf., Kalli-

machosstudien p. 33, Cahen pp. 165-172). Né ci sono motivi per accogliere la congettura di Herter, Persephone, secondo il quale un'ipotetica trattazione del rapimento di Persefone negli Aitia sarebbe stata 11 modello primario di Ovidio nel passo dei Fasti e non in quello delle Metamorfosi. Sulle varie proposte degli studiosi, vd. Montanari p. 109 s. È invece possibile che il nostro verso appartenga all'elegia incentrata sulle Tesmoforie attiche (frr. 161-162; vd. Montanari p. 115). Ma potrebbe avere ragione Hollis, 11 quale, prendendo le mosse dal fatto che alcuni frammenti dell'Ecale sono collegati a Demetra e Persefone (cf. forse fr. 278 Pf. = 99 H. e di certo fr. 285 Pf. = 100 H.) e a Eleusi (cf. SH 287, 18-20 = fr. 49, 8-10 H. e fr. 328 Pf. = 62 H.), accoglie dubbiosamente l'esametro nella

sua edizione dell'epillio callimacheo (fr. inc. sed. 172 H.): lo studioso congettura anche, con ogni cautela, che il verso fosse immediatamente seguito dal fr. inc. sed. 490 Pf. = (Hec.) fr.

inc. sed. 173 H. γρήϊον εἶδος &xovco, sulla base di [Hom.] Hymn. II 98-101 | ἕζετο ... | Παρθενίῳ φρέατι (vd. più avanti il comm.) ... 1... [γρηὶ παλαιγενέϊ ἐναλίγκιος. Νά. in generale l'app. e l'annotazione dopo il testo. Esiste una stretta affinità tra 11 nostro esametro e il v. 15 dell'inno a Demetra dello stesso C., dove l'apostrofe alla dea si inquadra - come qui - in una rievocazione del suo affanno e

scoramento durante la vana ricerca della figlia: τρὶς δ᾽ ἐπὶ Καλλιχόρῳ χαμάδις ἐκαθίεεαο φρητί (lo scolio ad loc. spiega che Callicoro è il nome di un pozzo eleusino e di un demo attico; sulla consuetudine

callimachea

di ribadire le sue stesse innovazioni

poetiche,

vd.

Wilamowitz, Callimachi hymni et epigrammata, Berolini 19073, p. 13 della prefazione). Nell'inno omerico a Demetra, il pozzo presso il quale sedette la dea angosciata ha un

nome diverso, cioè Partenio (Hymn. II 98 s. | ἕζετο ... | Παρθενίῳ φρέατι), benché poi si dica che ella ordinò di costruirle un tempio al di sopra del Callicoro (v. 272 καθύπερθεν).

Stando

a Pausania

(I 39,

1), un terzo nome,

Καλλιχόρου

vale a dire Antio,

veniva as-

segnato al pozzo, sul quale si assise l'afflitta Demetra, dal leggendario compositore di inni Panfo (per il quale vd. M. L. West, The Orphic Poems, Oxford 1983, p. 53 e I. C. Rutherford s.v. Pamphos, Der neue Pauly Enzyklopädie der Antike IX, Stuttgart-W eimar 2000, p. 216). Gli studiosi sono inclini a identificare ıl Partenio con il Callicoro, malgrado

tale equiparazione coinvolga secondo alcuni il pozzo noto ma non il Callicoro cui si riferisce l'inno omerico, secondo vd. da un lato G. E. Mylonas, The Hymn to Demeter and Louis 1942), pp. 64-81 e il comm. di Beschi-Musti a Paus. del comm. di Richardson all'inno omerico a Demetra.

come Callicoro nel V secolo a.C. altri proprio quest'ultimo pozzo: Her Sanctuary at Eleusis (Saint I 38, 6; dall'altro le pp. 326-328

La versione callimachea si ritrova presso [Apollod.] I 5, 1, 2 ἐκάθιοςε ... παρὰ τὸ Καλλίχορον φρέαρ καλούμενον. Sul dolore di Demetra per il ratto di Persefone, cf. probabilmente Zamb. fr. 202, 36-40 Pf. e forse fr. inc. sed. 474 Pf. Sul culto eleusino di Demetra, cf. fr. 23, 9 5. con il comm.

Καλλιχόρῳ

ἐπὶ φρητί: L'emistichio ha influito su Nic. Ther. 486 KoAAiyopov

παρὰ gpetop* (anche qui a proposito della sosta di Demetra a Eleusi). Per il pozzo Callicoro, oltre a [Hom.] Hymn. II 272 (riportato sopra), cf. Eur. Suppl. 392, 619. Pausania (I 38,

6) ne spiega così il nome: φρέαρ te καλούμενον Καλλίχορον, ἔνθα πρῶτον Ἐλευεινίων αἱ γυναῖκες χορὸν ἔετηςαν καὶ ficov ἐς τὴν θεόν. Καλλιχόρῳ ἐπί: Per il tipo di iato, vd. il comm. al fr. 50, 46 κεφαλιῆι ἔπι κείιμεγιον. φρητί: Questa forma contratta non si rinviene prima di C., che la impiega qui e in Cer. 15 (riportato sopra; vd. il comm. di Hopkinson): per l'accento, cf. Choerob. in Theodos.

54

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Can., Gramm. Gr. IV 1, p. 372. 37 Hilgard cecnusintar τὸ φρητὸς ὀξυνόμενον (vd. il comm. di Fabian al nostro fr. 50, 42 (p. 227 s.)). Cf. invece fr. 151, 4 φρείατι e vd. il comm. ad loc. ärvcroc: L'aggettivo figura solo tre volte nei poemi omerici: in un luogo (Od. I 242) ha il significato di ignoto, mentre negli altri due passi (Od. IV 675*, V 127*) assume come qui - il senso di ignaro; inoltre in Od.IV 675 la parola si affianca, come nel nostro verso, al genitivo. Entrambi 1 significati si riscontrano nell'opera di C.: per ignoto, cf. Cer.9

ἁρπαγίμας ὅκ᾽ ἄπυετα μετέςτιχεν ἴχνια κώρας (dove si parla, come nel nostro frammento, di Demetra che cerca invano Persefone); per ignaro, cf. fr. inc. sed. 680, 2 Pf. = (Hec.) fr. inc. sed. 171, 2 H. | ᾿Αλκαθόου τίς ἄπυετος, Zx4 Apc. fr. 228, 45 5. Pf. céo δ᾽ ἦν

ἄπ[τυετος |, ὦ δαίμοειν ἁρπαγίμα (ἄπ|υετος Wilamowitz: ἀπ[ευθής D'Alessio (p. 665), Del. 215 änvcroc* (vd. Kuiper p. 161 s.). La parola significa ignaro ed è accompagnata dal genitivo anche presso Opp. Hal. II 232* e in /G XIV 1389 II 16. Si osservi che, nel nostro verso, ärvctoc è frutto di una correzione di Nacke, operata sul testo tràdito àravetoc: non è escluso che, come ritiene White, questa lezione possa essere

preservata, se nel pentametro seguente compariva un genitivo quale y6ov (sedevi sul pozzo Callicoro senza smettere [di lamentarti] per [tua] figlia). Per la costruzione, cf. forse Eur.

Suppl. 82 | äravctoc ... γόων |. Vd. in generale l'app. Frammento 267 (615 Pf.) Nel v. 364 s. del suo poemetto geografico, Dionisio Periegete menziona 1 Locresi italici, stanziati presso il promontorio Zefirio: delucidando il passo, lo scollo ed Eustazio rilevano che altri (incluso, secondo lo scolio, C.) non fanno derivare - come Dionisio - il nome

di

Locri Epizefiri dal vicino promontorio, bensì dalla sua esposizione verso l'occidentale vento Zefiro (per il collegamento terminologico fra Locri e Zefiro, cf. già il commento di Eustazio a Dion. Per. 29, discusso nel comm. al fr. 213, 54). Poiché pare che tale etimologia figuri anche in uno scollo papiraceo al vv. 54-57 della Chioma di Berenice (fr. 213), è possibile che gli esegeti di Dionisio facessero per errore risalire a C. una notizia fornita in realtà dagli antichi interpreti di quel luogo callimacheo. Ma è anche lecito pensare che C. stesso dichiarasse la sua opinione riguardo all'origine del nome di Locri Epizefiri nell'elegia su Euticle (frr. 186-187) o in quella su Eutimo (frr. 201-202), entrambi atleti locresi. Può darsi allora che, come congetturò Meineke, C. facesse uso della forma aggettivale ἐπιζέφυροε, attestata solo in un verso di Euforione (CA fr. 121 p. 51). Νά. l'annotazione dopo il testo. Benché lo scolio al brano di Dionisio Periegete asserisca che molti altri collegano come €. - il nome di Locri Epizefiri al vento Zefiro, non sembrano rimanere tracce di questo parere. Invece la seconda esegesi (quella, cioè, che chiama in causa il promontorio Zefirio) è attestata non solo presso Dionisio Periegete, ma anche presso altri autori: cf. probabilmente Pind. fr. 140 Ὁ, 4 5. Sn.-M. (con il comm. di Pf. a Call. fr. inc. sed. 669) e di sicuro p.es. Strab. VI 259, Dion. Hal. XIX excerptum IV (17, 5), Plin. Nat. hist. II 74.

Riguardo allo spiccato interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm. al fr. 50, 18-83.

Frammento 268 (616 Pf.) Commentando un brano di Dionisio Periegete, lo scolio e (più implicitamente) Eustazio attestano che C. faceva riferimento alle molte vittorie riportate negli agoni sacri dagli atleti

COMMENTO:

FRR. INC. SED. 266-269

545

della città italica di Crotone. Il frammento è forse attribuibile al terzo o al quarto libro degli Aitia, dove compaiono due olimpionici della vicina Locri Epizefiri, cioè Euticle nei frr. 186-187 del libro terzo ed Eutimo nei frr. 201-202 del libro quarto. Vd. l'annotazione dopo il testo. È del resto sicura una menzione del corridore crotoniate Astilo da parte di C. (fr. inc. sed. 273) ed è possibile che egli rievocasse anche il lottatore crotoniate Milone (fr. inc. auct. 279): vd. il comm. ai frr. 186-187. Fra 1 suoi atleti più celebri, Crotone vantava 1] saltatore Faillo (attivo nella prima metà del V secolo a.C.): cf. in proposito SIG? I 30. Sulla straordinaria gloria sportiva di Crotone, cf. Strab. VI 262 (dal quale dipende il passo di Eustazio successivo a quello riportato nel nostro testo). Sul profondo interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm. al fr. 50, 18-83.

Frammento 269 (632 Pf.) Uno scolio all'/liade omerica espone il seguente mito: Zeus si innamora di Callisto, f1glia di Licaone re dell'Arcadia (cf. Hes. frr. 161-163 M.-W.), e le sı unisce di nascosto da Fra; questa però lo viene a sapere e, trasformata la fanciulla in orsa, la fa colpire dalle frecce di Artemide; Zeus allora la rende oggetto del più antico catasterismo, mutandola nella costellazione dell'Orsa Maggiore. Lo scollo conclude il suo resoconto, dicendo che la narrazione si trova presso C. Questa postilla non ci permette di concludere che il poeta raccontasse l'intera vicenda (come fa p.es. Franz pp. 283-306): anzi, la stretta somiglianza fra il nostro scolio e un passo di Pausania (VIII 3, 6) fa pensare che entrambi dipendano dal medesimo compendio mitografico (vd. Cameron, Mythography p. 110). È più probabile che il frammento si riferisca a una menzione cursoria, da parte di C., di una qualche fase del mito. I testi superstiti consentono diversi agganci: ἰον. 41 Λυκαονίης ἄρκτοιο |, dove si allude alla metamorfosi in orsa;

fr. 19, 9 s. ıLNovoxpivn, | KoAkıca[o, dove si parla della costellazione (non è chiaro se a questo luogo spetti una testimonianza di Suida, recepita - in base alla legge di Hecker nelle edizioni dell'Ecale come fr. 352 Pf. = 140 H.: vd. il comm. al fr. 19, 9 Novaxpivn); fr. 213, 66, cioè ıl v. 66 della Chioma di Berenice, dove - com'è dimostrato dal passo corri-

spondente di Catullo (Callisto ... Lycaonia) - si menzionava la costellazione (per un restauro esemplificativo del verso greco, vd. 1 comm. al fr. 213, 65 s. e al fr. inc. auct. 278). Vd. l'annotazione dopo il testo. Le fonti relative alle varie versioni del mito di Callisto sono elencate da Marinone nel comm. al v. 66 della Chioma di Berenice callimachea e catulliana. Riguardo alle contaminazioni e alle innovazioni esibite da Ovidio nei luoghi che trattano il tema (Mer. II 401-530 e Fast. II 153-192), vd. R. Heinze, Ovids elegische Erzählung (Leipzig 1919), pp. 57 s. e 106-110 = Vom Geist des Römertums. Ausgewählte Aufsätze (Stuttgart-Darmstadt 19608), pp. 349 s. e 385-388. Come

si è detto, il brano dello scolio omerico, cui corrisponde il nostro frammento, pre-

cisa che Callisto fu la prima mortale trasformata in costellazione da Zeus: Franz p. 304 n. 2 ha acutamente osservato che il dettaglio va connesso a un'idea diffusa, secondo la quale gli Arcadi sarebbero stati il popolo più antico (vd. il comm. al fr. 110, 11). Per gli argomenti arcadici nell'opera di C., vd. il comm. di Pf. al fr. inc. auct. 802.

546

CALLIMACO

Frammento 270 (635 Pf.) ὁ δ᾽ ἐκ Λοκρῶν τείχεος

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Ἰταλικοῦ

| παρῆν ἀμύντωρ: Il frammento, nel quale

si rievoca la presenza di un difensore proveniente dalla fortezza italica di Locri Epizefiri, è problematico sul piano dell'interpretazione metrica. Mentre sembra certo che le prime parole fino a Ἰταλικοῦ costituiscano un pentametro mancante solo di una sillaba lunga e di una sillaba breve iniziali, la frase παρῆν ἀμύντωρ fa difficoltà e ha dato luogo a diversi tipi di congetture. Stando

a Meineke

e Bergk,

il nesso

non va modificato

e il frammento

deriva da un

carme lirico (secondo Meineke) o da un epigramma (secondo Bergk), nel quale un trimetro giambico teneva dietro a un pentametro, come presso [Sim.] Anth. Pal. XII 14, 2 s. = FGE 823 s.: si noti però che tale successione è molto rara (cf. anche CEG 1 nr. 280, 2 s., [Sim.]

FGE 898 s.) e non ricorre né negli epigrammi di C. a noi noti né nei frammenti di incerta sede e di incerto autore che possono essere ricondotti a epigrammi callimachei (elencati da Pf. nell'annotazione dopo Ep. fr. 402). A sua volta Diehl propone di escludere dal nostro brano il nesso παρῆν ἀμύντωρ, considerandolo un'aggiunta del commentatore all'interno dello scollo omerico che cita il luogo callimacheo. Questa ipotesi va senz'altro scartata: in primo luogo, infatti, ἀμύντωρ è un vocabolo prettamente poetico, tanto è vero che Apollonio Sofista (Lex. Hom. p. 29. 5 Bekker) lemmatizza la forma ἀμύντορας (Hom. Od. II 326) e la spiega con l'equivalente prosastico βοηθούς; in secondo luogo, come vedremo più avanti, tutto il nostro passo (da ὁ è’ fino ad ἀμύντωρ) rivela l'intenzione callimachea di imitare e nel contempo variare una serie di modelli omerici. L'approccio esegetico più persuasivo è quello di Hecker, il quale ritiene che la frase παρῆν ἀμύντωρ sia guasta e debba essere ricondotta a un esametro: se così è, ci troviamo davanti ai resti di un distico elegiaco. A sostegno della sua interpretazione, Hecker osserva

che qui C. tiene presente Hom. II. XV 610 5. αὐτὸς γάρ οἱ an’ αἰθέρος ἦεν ἀμύντωρ | Ζεύς (in un brano - costituito dai vv. 610-614 - omesso da Zenodoto e atetizzato da Aristarco, vd.

i comm. di Leaf e di Janko), cui si può aggiungere la clausola iliadica ἦλθεν ἀμύντωρ (XIII 384, XIV 449, XV

540, vd. il comm.

di Janko al primo passo): tuttavia la specifica corre-

zione proposta da Hecker, cioè παρῆεν ἀμύντωρ da porre alla fine dell'esametro, è inaccettabile, perché viola il «ponte di Hermann» (come non manca di rilevare lo stesso studioso). Perciò è forse nel giusto Schneider, il quale - per risolvere il problema metrico - suppone che l'esametro cominciasse con il preverbio in tmesi πὰρ e si chiudesse con la frase ἦεν ἀμύντωρ: si noti che il verbo πάρειμι subisce un'analoga tmesi presso Hom. Od. I 267 |

πὰρ δ᾽ ἄρ᾽ ἔην καὶ ἀοιδός. Se il nostro frammento risale dunque a un distico elegiaco, lo si potrebbe inserire nella storia del pugile Eutimo di Locri (frr. 201-202), che difese Temesa dalle vessazioni dell'Eτοῦ (vd. il comm. ad loc.): a questa ipotesi fa anche capo la proposta di Gallavotti παρῆν (EöÖvuoc) ἀμύντωρ (secondo emistichio di un esametro; vd. pure Gallavotti, Aition p. 218), che - come oggi sappiamo - era venuta in mente anche a Maas. A Futimo pensava già Bergk, che però - come si è visto - attribuiva le parole callimachee a un epigramma parzialmente giambico; la sua congettura fu poi rinverdita da Maass e da Mair, che la applicarono a un contesto dattilico. Vd. in generale l'app. e l'annotazione dopo il testo. 1 Λοκρῶν τείχεος Ἰταλικοῦ: Come qui Locri è chiamata fortezza italica, così nel fr. inc. sed. 669 Pf. l'armonia locrese viene detta Ἰταλὴν ... &puovinv |. Riguardo allo spiccato interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm. al fr. 50, 18-83.

COMMENTO:

FRR. INC. SED.270-272

547

τείχεος: Il vocabolo significa fortezza p.es. presso Herodot. IX 41, 2; 115, Xenoph. Cyr.VII 5, 13.

Frammento 271 (641 Pf.) Delucidando la frase di Licofrone Κρόνου παρ᾽ αἰπὺν ὄχθον (v. 42), lo scolio e Tzetze spiegano che il colle di Crono (Κρόνου Aögoc) è un antico luogo di Olimpia, menzionato anche da C.; l'Etymologicum Genuinum precisa che, secondo Oro, il nome Κρόνιος λόφος deriva dal dio Crono. Il frammento potrebbe risalire all'elegia sul rito nuziale eleo (frr. 178180), dove era rievocata l'istituzione delle gare olimpiche da parte di Fracle, ma è pure lecito attribuirlo più in generale al terzo o al quarto libro degli Aitia, nei quali compaiono gli olimpionici Euticle ed Eutimo (rispettivamente frr. 186-187 del libro terzo e frr. 201-202 del quarto). Assal incerta è invece la connessione tra il nostro frammento e il fr. inc. lib.

Aet. 81, una lacinia il cui v. 2 si lascerebbe fra l'altro integrare ] Kpö[vov λόφος (vd. il comm. ad loc). La menzione

callimachea del colle di Crono

si ispira a vari epinici di Pindaro (vd.

Smiley p. 69): cf. Ol. VIN 17 πὰρ Κρόνου λόφῳ I, V 17 Κρόνιον ... λόφον 1, IX 3 Κρόνιον παρ᾽ ὄχθον, Nem. XI 25 παρ᾽... 6100 Κρόνου I, OL. X 49 5. πόγον | Κρόνου, I 111 | ap” εὐδείελον ... Κρόνιον, VI 64 ὑψηλοῖο ... Κρονίου | (da Pindaro dipende anche Licofrone nel passo riportato sopra). Per il Kpövioc λόφος, cf. inoltre Alc. Mess. Anth. Pal. XII 64, 2

= HE 49, Schol. Pind. OL. II 22 a, II 41 bf, Paus. V 21, 2, VI 19, 1; 20, 1, Et. M. s.v. Ἦλις, p. 426. 20 Gaisf. Può darsi che il Κρόνου (ovvero Kpévioc) λόφος figurasse come lemma in un glossario papiraceo di parole poetiche ellenistiche (PHorak 4, col.I, fr. A, 21 Menci), forse desunte proprio da un carme esametrico o elegiaco dello stesso C.: vd. Menci p. 24.

Frammento 272 (647 Pf.) ῥάμφεϊ ἐκαθνώδει τόργος

ἔκοπτε νέκυν: Il pentametro descrive un avvoltoio

che becca con il suo rostro un cadavere. È molto allettante l'ipotesi, avanzata da D'Alessio,

che qui si parli del corpo abbandonato di Polinice (cf. p.es. Soph. Ant. 29 s., 205 s., 1021 s.) e che il verso appartenga al Trascinamento di Antigone (fr. 208). Vd. l'annotazione dopo il testo.

Per l'immagine, cf. Ov. Ib. 169 unguibus et rostro tardus trahet ilia vultur. Sul tema dell'uccello vorace di sangue nell'opera di C., vd. il comm. al fr. 1, 14. ῥάμφεϊ: Come spiegano le fonti del frammento (cioè lo scolio e Tzetze che commentano il vocabolo paugeccı presso Lyc. 598), la parola designa il becco ricurvo di alcuni uccelli. Essa ricorre nella commedia: cf. Aristoph. Av. 99 ῥάμφος (di un'upupa), 348 ῥάμφει (varia lectio attestata in Schol. V Ald. invece del ῥύγχει dei codici), Plat. PCG 147 ῥάμφος. Il termine è poi impiegato, oltre che da Licofrone (cf. sopra), da Plut. Mor. 980 E (De soll. an. 31). ἡκαθνώδει: In questo punto i testimoni del frammento (vd. sopra) tramandano due variae lectiones entrambe guaste: καθνώδει e κυκνώδει (vd. app.). I molti tentativi di correggere il testo non hanno finora dato luogo a una soluzione sicura. La desinenza -ὦδει lascia pensare che qui si celi un aggettivo riferito a ῥάμφεϊ (ed è questa, a mio parere, l'ipotesi più plausibile). La proposta ἀκανθώδει di Ruhnken è poco persuasiva, sia perché il rostro di un avvoltoio non si può definire spinoso sia perché la sequenza ῥάμφει ἀκανθώδει creerebbe un tipo di abbreviamento in hiatu molto raro nelle opere elegiache di C. (vd. Introd.II.2.B.a.). Si deve a Hemsterhuis la congettura κανθώδει

548

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(ricurvo), che - con la semplice inversione di due lettere in una delle lezioni tràdite - produce un aggettivo non attestato altrove, ma fornito del giusto senso (vd. anche LSJ s.v.; per

l'immagine, cf. già Hom. Il. XVI 428 = Od. XXII 302 αἰγυπιοὶ ... ἀγκυλοχεῖλαι |). In proposito mi sembra poco cogente l'obbiezione di Pf., secondo il quale la parola ῥάμφος - già di per sé designante un becco adunco - non potrebbe associarsi a un attributo del genere: ritengo infatti che la preziosità del nesso giustificherebbe la ridondanza, per la quale cf. del resto

Verg.

Aen.

XI

755

s. obunco |

... rostro,

Ov.

Met.

XII

562 rostro

... redunco

|,

Claudian. In Eutrop. II 230 rostro ... recurvo | (nell'ultimo passo in riferimento a un avvoltoio). Sulla stessa linea di Hemsterhuis si muove la congettura di Schneider, che suggerisce l'altrettanto inattestato καμψώδει, a costo però di un più massiccio intervento sul testo tràdito. Anche Pf. avanza con ogni cautela una sua proposta, la cui dettagliata argomentazione prende le mosse da un proverbio già addotto da M. Schmidt e Bergk riguardo al nostro frammento (vd. più avanti). Si tratta innanzitutto di Zenob. Ark. II 57, p. 372 Miller

κυθνώδης cougopà = Cent. IV 83 κυθνώδεις coupopat, grosso modo corrispondente a Suid. s.v. κυθνώδης coppopt: οὕτω λέγεται ἡ μεγάλη coupopé. οὕτω γὰρ οἱ Κύθνιοι κακῶς διετέθηεαν ὑπὸ

᾿Αμφιτρύωνος (Zenobio precisa che la notizia proviene dalla Co-

stituzione dei Citni aristotelica, fr. 523 Rose).

Come

si vede, secondo 1 testimoni il detto

κυθνώδης cvugopà significa grande sciagura e deriva dal fatto che Anfitrione uccise gli uomini della Ciclade Citno (cf. Esichio riportato più avanti). Dell'aggettivo è anche esplicitamente attestata la variante antica xv0v@Anc da parte di Hellad. Chrest. ap. Phot. Bibl. 279

(p. 533 a 14) ὅτι τὸ κυθνώλης διὰ τοῦ A γράφουειν, ἀλλ᾽ où διὰ τοῦ è: Elladio aggiunge che il termine è collegato al quasi completo sterminio degli uomini della regione argiva Κύθνιον per mano di Anfitrione. La parola viene lemmatizzata come κυθνώλης nel lessico

di Esichio (κυθμωλης cod), la cui spiegazione è ἐξώλης ἔνιοι dè πεποιῆεθαι τὴν λέξιν gacı ἀπὸ Κύθνου (κυθμου cod.) τῆς vicov: ἀπολέεθαι γὰρ αὐτὴν ὑπὸ ᾿Αμφιτρύωνος: come si vede, stando ἃ Esichio il vocabolo κυθνώλης

significa distrutto, rovinato ed è con-

nesso alla caduta dell'isola di Citno prodotta da Anfitrione. Valutando le fonti suddette, Pf. esprime il parere che 1 grammatici ignorassero il senso della glossa κυθνώδης: da ciò sarebbero sorte sia la spiegazione collegata a uno o all'altro luogo abitato dai Citni sia la varia lectio κυθνώλης (il cui accoglimento presso Zenob. Cent. IV 83 nella silloge di Leutsch-Schneidewin, come κυθνώλεις cougopai invece del tràdito κυθνώδεις cougopai, viene giustamente censurato dallo studioso). Nel nostro frammento, dunque, Pf. propone la correzione κυθνώδει: il rostro dell'avvoltoio sarebbe grande (secondo l'esegesi di Zenobio e Suida) ovvero rovinoso (con riferimento alla delucidazione di Esichio). La congettura di Pf. ha il merito paleografico di emendare l'una con l'altra le varianti καθνώδει e κυκνώδει, limitandosi alla sequenza delle sole lettere -a0- e -vic-. È opinabile,

però, che il becco di un uccello possa essere qualificato da un aggettivo, la cui unica associazione a un sostantivo - nelle nostre fonti - coinvolge l'astratto cougopà. Altrettanto dubbio è il reciso rifiuto della forma κυθνώλης a vantaggio di κυθνώδης, soprattutto in presenza dell'espressa testimonianza di Elladio. Mi sembra infine difficile conciliare l'interpretazione di Esichio con il senso che qui dovrebbe avere la parola κυθνώδει:

è vero, infatti,

che ἐξώλης può significare rovinoso, ma mi sembra chiaro che nel lemma esichiano il termine abbia il più comune senso di rovinato, del tutto inapplicabile al rostro di un avvoltoio (né il greco ἐξώλης può significare scellerato come il latino perditus, proposto da Pf. fra i

COMMENTO:

FRR. INC. SED.272-273

549

possibili significati del suo κυθνώδευ.. Un diverso approccio congetturale è quello di C. G. Müller, che tentò di inserire qui un nominativo da affiancare a töpyoc e suggerì un non altrimenti attestato κυκνώδους: ne risulterebbe uno strano avvoltoio cigno (in merito al quale lo studioso adduceva Lyc. 88 citato più avanti), per di più con il sacrificio della desinenza -ώδει. Si è anche cercato di immettere nel testo l'accusativo di un aggettivo da accordare a

νέκυν. M. Schmidt e Bergk proposero κυθνώλῃ o anche κυθνώδῃη (cadavere grande ovvero rovinato), richiamandosi ai passi di Zenobio ed Esichio discussi sopra: senza contare il cambiamento della desinenza, questa congettura si presta ad alcune delle precedenti obbiezioni. Sono infine poco convincenti altri due accusativi ipotizzati da Schmidt, in quanto implicano un intervento abbastanza cospicuo sul testo trasmesso: κυθώδη (ferido, cf.

Hesych. s.v. κυθώδεος - Övcöcuov) e AvOpPHÔN (lordo di sangue rappreso). Vd. in generale l'app. töpyoc: Oltre che nel nostro frammento, la parola compare tre volte nell'Alessandra di Licofrone: in due passi (vv. 357, 1080) significa - come qui - avvoltoio; nel terzo luogo (v. 88) è accompagnata dall'aggettivo ὑγρόφοιτος ed equivale a cigno (ma lo scolio ad loc. precisa κυρίως ὁ ydw). Il vocabolo è stato anche restituito congetturalmente nel testo di Musonio Rufo (fr. 18% p. 98 Hense). Lo si riteneva un termine siculo oppure cipriota: alla

Sicilia lo collega Hesych. s.v. töpyoc (= Gloss. Italiot. 255, PCG I p. 331): εἶδος γυπὸς αἱματορρόφου. ἐςτὶ δὲ Kal ὁ γὺψ παρὰ (ικελιώταις, secondo il quale la parola deriva dal siciliano monte Torgio, dove nidificano gli avvoltoi (s.v. Tépywv: ὄρος ἐν (ικελίᾳ, ὅπου νεοττεύουειν οἱ γῦπες. ἀφ᾽ οὗ καὶ αὐτοὶ τόργοι; per la località Torgio, cf. inoltre Diod. XX 89, 2); quanto a Cipro, cf. TAöccou κατὰ πόλεις cod. Urb. 157 ap.I. Bekker, Anecdota

Graeca II (Berolini 1821) p. 1095 Κυπρίων ... τόργος γὺψ (vd. O. Hoffmann, Die griechischen Dialekte I, Göttingen 1891, p. 125).

ἔκοπτε: Il verbo significa beccare anche presso Aristot. Hist. an. VII (VII) 3 p. 593 B

24, VII (IX) 1 p. 609 B 5, Arat. 449. Frammento 273 (666 Pf.) Il frammento è costituito da uno scolio a un passo di Pausania (VI 13, 1), dal quale apprendiamo che C. menzionava il corridore olimpionico Astilo di Crotone. Ecco il brano del

periegete, cui si riferisce lo scolio: ᾿Αςτύλος δὲ Κροτωνιάτης Πυθαγόρου μέν ἐςτιν ἔργον. τρεῖς δὲ ἐφεξῆς Ὀλυμπίαει «ταδίου τε καὶ διαύλου νίκας Ecxev. ὅτι δὲ ἐν δύο ταῖς ὑςτέραις ἐς χάριν τὴν Ἱέρωνος τοῦ Δεινομένους ἀνηγόρευςεν ἑαυτὸν (υρακούειον, τούτων ἕνεκα οἱ Κροτωνιᾶται τὴν οἰκίαν αὐτοῦ δεομωτήριον εἶναι κατέγνωςαν καὶ τὴν εἰκόνα καθεῖλον παρὰ τῇ Ἥρᾳ τῇ Λακινίᾳ κειμένην. Prendendo dunque spunto dalla statua di Astilo a Olimpia, Pausania ne racconta la storia: egli vinse in tre Olimpiadi successive (488, 484 e 480 a.C.), ma, poiché nelle ultime due si dichiarò siracusano per compia-

cere Ierone (qui erroneamente menzionato al posto di Gelone), 1 Crotoniati decretarono che la sua casa diventasse un carcere e abbatterono la sua statua nel santuario di Fra Lacinia (su Astilo e sui suol ulteriori successi, vd. C. Robert, «Hermes» 35, 1900, p. 163 s., Fraser II p. 1072 n. 354 e il comm. di Maddoli, Nafissi e Saladino al luogo di Pausania; sulla statua

dell'atleta nel santuario di Era Lacinia, vd. W. W. Hyde, Olympic Victor Monuments and Greek Athletic Art, Washington 1921, p. 363 s.). Ad Astilo era dedicato un epinicio di Simonide (PMG 506). Per gli olimpionici crotoniati nella poesia callimachea, vd. il comm. al fr. inc. sed. 268. Riguardo al vivo interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il

550

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

comm. al fr. 50, 18-83.

Wilamowitz congetturò che C. parlasse della casa di Astilo trasformata in carcere e che questo racconto figurasse negli Aitia. Le nostre attuali conoscenze permettono di supporre che una menzione callimachea di Astilo si trovasse nel terzo o nel quarto libro dell'opera: qui, infatti, due elegie si incentrano su atleti magnogreci, cioè Euticle di Locri nel libro terzo (frr. 186-187) ed Eutimo di Locri nel quarto (frr. 201-202); una specifica somiglianza intercorre fra la vicenda di Astilo e quella di Futicle, la cui statua fu ugualmente abbattuta dal concittadini (vd. il comm. al fr. 187, 8-12, cui si rimanda anche per il possibile motivo della statua di un atleta maltrattata nel fr. inc. sed. 265); più in generale, la focalizzazione sul tema della statua di un olimpionico si riscontra anche nell'aition di Eutimo (vd. ancora il comm. al fr. 187, 8-12). Vd. l'annotazione dopo il testo.

Frammento 274 (677 Pf. = SH 268B) τὸ δὲ εκύλος ἀνδρὶ καλύπτρη | γιγνόμενον, νιφετοῦ καὶ βελέων ἔρυμα: Per uno studio approfondito del frammento, vd. Massimilla, Leone pp. 25-30: parte di ciò che segue è una versione abbreviata di quelle pagine. 51 parla qui di una pelle animale, che diventa (ovvero diventava) velo per un uomo, τίparandolo dalla neve e dai proiettili. Le fonti del frammento, cioè uno scolio all'Aiace di Sofocle e un lemma di Suida, garantiscono che C. descrive la pelle di un leone: le parole stesse del poeta rendono molto probabile che la pelle sia quella del leone nemeo e che il vocabolo ἀνδρί designi Eracle, il quale se ne riveste per proteggersi dalle intemperie e dai nemici. Come vedremo, il brano può risalire alla Vittoria di Berenice (frr. 143-156), situan-

dosi appena prima del fr. 154, ma anche all'elegia su una delle statue di Era a Samo (fr. 204) o a un qualche altro carme callimacheo nel quale compariva Fracle. Che lo εκύλος del nostro passo sia la pelle del leone nemeo, risulta - come abbiamo detto - già probabile di per sé. Tale interpretazione è inoltre sostenuta dal fatto che il termine οκύλος designa la pelle di quella fiera, indossata da Eracle, in un punto del venticinquesimo idillio pseudo-teocriteo (v. 142 εκύλος αὖον ... χαροποῖο λέοντος I; vd. Conti Bizzarro p. 330): ciò ha particolare Importanza, perché l'idillio in questione esibisce numerose imitazioni delle opere callimachee e soprattutto della Vittoria di Berenice (vd. la fine del comm. ai frr. 143-156). L'ampio nucleo mitico di quest'ultima elegia, incentrato sulle permanenze di Eracle presso Molorco prima e dopo il suo scontro con la belva nemea, fu indicato da Schneider come il contesto originario sia del nostro brano sia del fr. inc. sed. 264 (dove troviamo la medesima pelle). L.J.-P. pensano che si tratti di un'ipotesi verisimile e accolgono i due frammenti in appendice alla sezione occupata dai resti della Vittoria di Berenice, osservando che l'appartenenza del nostro passo all'episodio di Molorco resterebbe possibile anche se la pelle qui descritta da C. non fosse del leone nemeo, bensì di quello citeronio: infatti, come vedremo, secondo una rara tradizione attestata presso lo pseudo-Apollodoro e Tzetze, Fracle vestiva già la pelle del leone citeronio (da lui ucciso in giovanissima età) quando affrontò la fiera di Nemea. Wilamowitz,

invece, attribuiva alla storia di Molorco il nostro brano, mentre ne esclu-

deva il fr. 264 perché reputava che C. non avrebbe descritto la pelle del leone due volte all'interno del medesimo aition. Lo studioso pensava inoltre che le parole contenute nei nostri versi fossero pronunciate da Eracle, giacché - secondo lui - solo Eracle poteva definire se stesso ἀνήρ. Ma in realtà, come rileva Pf., qui il dativo ἀνδρί è probabilmente funzionale

COMMENTO:

FRR. INC. SED .273-274

551

all'uso traslato del vocabolo καλύπτρη, che in senso proprio designa il velo, vale a dire un indumento femminile (cf. Hom. I. XXII 406* con la Appendix G (11) ap. 598 del secondo volume dell'edizione commentata di Leaf, nonché gli altri luoghi omerici citati più avanti): la pelle del leone, cioè, nel suo ruolo di copertura e riparo diventa velo per un uomo ; quindi le parole del nostro frammento possono spettare a Fracle, ma anche a un altro personaggio o a C. stesso. Pf., da parte sua, esprime il parere che né i nostri versi né il fr. 264 risalgano alla vicenda di Molorco (vd. in generale l'annotazione dopo il testo), suggerendo tre tematiche alternative, cui si potrebbero riferire 1 frammenti in questione: 1) Come apprendiamo dalla Dieg. IV 33, nel quarto libro degli Aitia C. scriveva che la pelle leonina di Eracle era effigiata ai piedi della statua di Era a Samo (fr. 204); 2) Diodoro Siculo (XII 9, 6) tramanda che l'olimpionico Milone di Crotone combatté contro 1 Sibariti con l'abbigliamento tipico di

Eracle, cioè la pelle leonina e la clava (λέγεται πρὸς τὴν μάχην ἀπαντῆεαι … Sieckevacpuévoc ... εἰς Ἡρακλέους ckevriv λεοντῇ καὶ ῥοπάλῳ, notizie desunte forse da Eforo, cf. Pythag. 14 A 14, Ip. 103. 2 D.-K.°): Milone viene menzionato nel fr. inc. auct. 279, che probabilmente spetta a C. e in particolare agli Aitia. 3) Ovidio, narrando che una volta Onfale si scambiò gli indumenti con Fracle, impiega l'espressione ipsa capit clavamque gravem spoliumque leonis (Fast. II 325): in tal caso - osserva Pf. - la pelle della fiera verrebbe definita velo per un uomo secondo il punto di vista di una donna (faccio notare che l'ultima ipotesi non sembra adattabile anche al fr. 264, dove compare il participio ma-

schile ἀερτάζων). La conclusione che né il nostro passo né il fr. 264 rimontino alla vicenda di Molorco viene raggiunta da Pf. in base alla testimonianza degli scoliasti e dei mitografi che trasmettono la storia di Fracle e del contadino (riportati nel comm. al fr. 145), soprattutto lo pseudo-Apollodoro (II 5, 1, 1-4).

Secondo Pf., il primo indizio contrario a un inserimento del nostro frammento e del fr. 264 nell'episodio di Molorco consiste nel fatto che 1 testimoni del mito non menzionano l'impiego della pelle del leone nemeo come indumento da parte di Eracle. Lo studioso è nel giusto quando rileva l'assenza di questo particolare presso le fonti, anche se - per essere precisi - Nigidio Figulo racconta che l'eroe, a partire dall'impresa nemea, utilizzò la pelle del leone come scudo. A sostegno della sua osservazione Pf. nota che, secondo lo pseudo-Apollodoro (II 4, 9 s.), Eracle uccise il leone citeronio e ne rivestì la pelle, prima di incontrarsi con Molorco e

sconfiggere il leone nemeo. Che il leone citeronio morisse per mano di Eracle, viene detto anche da Tzetze (Chil.IT 218 s.), ma esisteva una differente tradizione, in base alla quale la

fiera fu abbattuta da Alcatoo figlio di Pelope (cf. Dieuchid. FGrHist 485 F 10, Paus. I 41 3 s.). Lo pseudo-Apollodoro e Tzetze concordano anche nell'affermare che la pelle leonina indossata da Eracle apparteneva al leone citeronio, ma in ciò essi offrono un'informazione isolata (vd. in proposito le giuste osservazioni di Henrichs p. 71 e n. 4): infatti, secondo le altre testimonianze a partire dall'età arcaica, l'eroe era ricoperto dalla pelle del leone nemeo (vd. Massimilla, Leone p. 27 n. 39). Il secondo elemento addotto da Pf. contro l'inclusione del nostro brano e del fr. 264 nell'episodio di Molorco fa ancora capo allo pseudo-Apollodoro (II 5, 1, 1-4 riportato nel comm. al fr. 145): secondo lo studioso, il mitografo racconta che Fracle non uccise il leone nemeo, ma lo portò vivo prima a Cleone e poi a Micene, sicché 1 due frammenti - incentrati sulla pelle della fiera abbattuta - risulterebbero estranei alla vicenda di Molorco. Ma, come

552

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ha rilevato Henrichs p. 71 n. 4, il resoconto offerto da Pf. di quanto si legge nella Biblioteca è frutto di una svista: infatti lo pseudo-Apollodoro, al pari degli altri testimoni, narra che l'eroe uccise la belva, scrivendo espressamente che Fracle, mettendo il braccio intorno al

collo del leone, lo bloccò e strinse fino a soffocarlo (περιθεὶς τὴν χεῖρα τῷ τραχήλῳ

κατέεχεν ἄγχων ἕως ἔπνιξε). Anzi, il mitografo precisa che Euristeo aveva incaricato Eracle di consegnargli la pelle della fiera e che l'eroe, dopo avere soppresso 1] leone, se lo mise sulle spalle e lo portò prima a Cleone e poi a Micene (vd. il comm. al fr. 264). A quanto pare, dunque, nella Vittoria di Berenice Eracle scuoiava la fiera uccisa, recan-

done con sé la pelle: un importante elemento in favore di tale ricostruzione è il fatto che nel venticinquesimo idillio del corpus teocriteo, molto influenzato - come si è detto - da quell'elegia di C., l'impresa dell'eroe si conclude appunto con lo scorticamento della belva (vv. 272-278). Nulla vieta, allora, di collocare il nostro frammento nella lacuna intercorrente tra

1 frr. 151 e 154, cioè dopo il congedo di Fracle da Molorco nell'imminenza dello scontro con il leone e prima del discorso proferito dall'eroe che è tornato vittorioso a casa del contadino. Più in particolare, lo sı potrebbe riferire al momento nel quale quest'ultimo vede l'eroe tornare nella sua capanna con indosso la pelle del leone. Il distico, cioè, sarebbe collo-

cabile appena prima del fr. 154, dove Fracle comincia a parlare rivolgendosi al vecchio. Comunque l'attribuzione alla Vittoria di Berenice, secondo me estremamente probabile per il fr. 264 (vd. il comm. ad loc.), è a mio parere più dubbia per il nostro passo. In proposito non mi sembra avere un peso particolarmente negativo il confronto con i testimoni dell'episodio di Molorco, che - come si è visto - tacciono quasi del tutto sulla vestizione dell'eroe o (nel caso dello pseudo-Apollodoro) presentano Fracle già ricoperto dalla pelle del leone citeronio. Ritengo

invece che induca alla cautela il contenuto

stesso del frammento,

proprio perché Fracle vi compare nel suo abbigliamento più usuale. Il brano, cioè, potrebbe risalire ad altri contesti connessi con l'eroe, come p.es. il carme su una delle statue di Fra a

Samo (fr. 204), richiamato da Pf. E anche nell'ipotesi che il distico spetti effettivamente agli Aitia, vale la pena ricordare che Fracle figurava in tutti i quattro libri dell'elegia (vd. Massimilla, Leone p. 29 n. 47 e più in generale Couat p. 164).

1 cedAoc: Per il senso della parola, cf. Hesych. σιν. εκύλος (τον cod.) δέρμα, κώδιον kA. Il sostantivo, che manca nelle opere omeriche ed esiodee, si trova riferito alla pelle del

gigante Astero, scuolato da Atena, nel poema epico Meropide, attribuito da alcuni al VI secolo a.C. (fr. 6, 1,I p. 135 Bernabé) e da altri al IV o III secolo a.C. (fr. epic. adesp. SH 903 A, 20: per1 nessi fra il luogo della Meropide e il nostro frammento, vd. il comm. di L.J.-P. ad loc. e Henrichs p. 70). I poeti ellenistici ne fanno un uso abbastanza frequente: cf. Lyc. 1316 ἐρράου εκύλος | (ςκῦτος codd.: corr. Scheer, il vello d'oro), Leonid. Tar. Anth. Pal. VI 35, 2 = HE 2256 (ν.].«κύτοο), [Theocr.] XXV 142 riportato sopra (v./. εκύτος), Phalaec. Anth. Pal. VI 165, 2 = Flaccus (Ὁ) FGE 168 (vl. cxbtoc), Nic. Ther.422*, Al. 270*. καλύπτρῃη: Nel corpus omerico il vocabolo occupa sempre - come qui - la fine dell'esametro: cf. Hom.

1. XXII 406, Od. V 232, X 545, [Hom.] Hymn. II 197 (la parola è nella

medesima sede presso Call. Hec. fr. 292, 1 Pf. = 65, 1 H.). Per l'impiego traslato del ter-

mine nel nostro verso, cf. Nonn. Dion. IX 185 s. | Εὔιος ... | δαιδαλέην ἐλάφοιο φέρων ὦμοιει καλύπτρην. 2 vigetod: Il termine designa la nevicata e si incontra due volte nei poemi omerici ({]. X 7, Od.IV 566). C. ne fa uso anche nell'Ep. XXXI 3 Pf. = HE

βελέων

1037.

ἔρυμα: All'interno dei poemi omerici, la parola ἔρυμα compare solo in /I.IV

137 μίτρης θ᾽. ἣν ἐφόρει ἔρυμα χροός, ἕρκος ἀκόντων (si noti che la lezione tràdita ἔρυμα

COMMENTO:

FRR. INC. SED.274-275

553

era sostenuta da Aristarco, laddove Zenodoto e Aristofane di Bisanzio (p. 177 Slater) leggevano & vuo): qui il genitivo che dipende da ἔρυμα (riparo di) non ha la medesima funzione di quello del nostro pentametro (riparo da), ma è già presente l'immagine della difesa dai dardi, nella clausola ἕρκος

ἀκόντων.

Anche

l'unica attestazione esiodea del vocabolo

coinvolge il nesso ἔρυμα χροός (Op. 536), ma è interessante osservare che si tratta - come in parte nel nostro verso - di una protezione dalla neve (cf. v. 535 viga): vd. Rengakos,

Homertext p. 87. C. impiega ἔρυμα pure in Hec. SH 288, 24 = fr. 70, 9 H. fic ἔρυμα xBovöc, conferendo però al genitivo dipendente la funzione che si riscontra nei modelli epici (riparo di). Frasi simili al nostro βελέων ἔρυμα si rinvengono presso Hom. Il. V 3161

ἔρκος … βελέων, Alc.fr. 140, 9 Voigt ἔρκιος ... βέλεος I. Frammento 275 (714 Pf.) Un uomo allevia di un trentesimo il peso delle angosce che lo opprimono, quando può confidare i suoi dolori a un amico o a un compagno di viaggio o ai soffi del vento. È concepibile che, come congetturò Dilthey, i quattro versi spettino all'elegia di Aconzio e Cidippe (frr. 166-174) e rientrino nel monologo amoroso del protagonista, collocandosi prima del fr. 172 (vd. anche il comm. più avanti, nonché il comm. al v. 4 &cxatov; di certo erronea è invece l'ipotesi, successivamente avanzata dallo studioso, che queste parole siano pronunciate da una donna e riguardino la maggiore libertà dell'uomo nello sfogo dei turbamenti: vd. l'annotazione dopo il testo). Si osservi comunque che né le parti superstiti di Aconzio e Cidippe né la parafrasi di Aristeneto sembrano incoraggiare una collocazione del nostro frammento in quel contesto. Non è inoltre possibile stabilire se 1 due distici si inseriscano nel soliloquio di un infelice o in una massima di portata generale (ma è pur vero che, anche nel secondo caso, la sistemazione del brano suggerita da Dilthey sarebbe accettabile: forse C. introduceva così il monologo di Aconzio). Per di più, né il contenuto dei versi callimachei né quello dei luoghi paralleli (vd. oltre) consentono di stabilire quali siano qui i motivi degli affanni: in ogni caso non ci sono elementi per supporre che il frammento risalga a un'elegia nella quale C. esprimeva in prima persona le sue pene d'amore. In termini generali si può dire che, a giudicare dallo stile, 1 due distici non sembrano derivare da un epigramma, bensì appunto dagli Aitia (1 resti finora noti delle elegie minori di C. non si confanno al tema del nostro passo). Vd. l'annotazione dopo il testo. Nelle tragedie di Euripide molti personaggi raccontano le proprie afflizioni al cielo e ai

vènti: cf. soprattutto Med. 56-58 (parole della nutrice) ἐγὼ γὰρ ἐς τοῦτ᾽ ἐκβέβηκ᾽ ἀλγηδόνος | ὥςθ᾽ ἵμερός u’ ὑπῆλθε γῇ te κοὐρανῷ | λέξαι ohodcn δεῦρο δεςποίνης τύχας (il ν. 57 5. è tradotto da Enn. fr. trag. 106 Jocelyn e parodiato da Philem. PCG 82, 1 s.), ma anche Andr. 91-93, El. 59, Ion 870-875 (diversi sono 1 depositari dello sfogo in Hec.

68-72 e l'oggetto della confidenza in /ph. Taur. 42 s.). Nella commedia attica si comportano così gli innamorati: cf. Plaut. Merc.3-5 (modellato sull'Emporos di Filemone) non ego item facio ut alios in comoediis | vi vidi amoris facere, qui aut nocti aut die | aut soli aut lunae miserias

narrant

suas

con le osservazioni

di F. Leo,

Plautinische

Forschungen

(Berlin

19122), p. 151. Il motivo ricorre poi presso gli epistolografi, che lo traggono probabilmente

dalla commedia: cf. Alciphr. I 8, 1 κἀγὼ τὰ πολλὰ ταῖς αὔραις διαλαλήεας (detto da un uomo

in preda

alla miseria),

Aristaenet.

I 16, p. 40.

6 Mazal

ἅπας

γάρ,

δι᾽ ὁτιοῦν

ἀχθόμενος τὴν ψυχήν, τὸ λυποῦν ἐκλαλῶν ἐπικουφίζει (cf. il nostro xovgotépac) Frl διανοίᾳτ τὸ βάρος. Il tema è inoltre sfruttato da Nonno nelle Dionisiache: cf. XLII 112 κωφὸν ἐς ἠέρα ῥήξατο φωνήν | (notevole per il nostro κωφοῖο), 487 I ἠέρι μῦθον ἔειπε,

554

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

XLVII 514 s. | &vverev ... |... &véuorci. Il motivo assume una sfumatura differente in un passo di Properzio (I 18, 1-3), dove il

poeta esterna le sue pene amorose in un bosco solitario e percorso dalla brezza di Zefiro, non perché voglia confidarsi con essi, ma al contrario perché sa che lì non rischia di essere udito: haec certe deserta loca et taciturna querenti | et vacuum Zephyri possidet aura nemus. | hic licet occultos proferre impune dolores. Comunque l'affinità tra 1 versi callimachei e il brano properziano potrebbe forse corroborare l'ipotesi che il nostro frammento risalga all'aition di Aconzio e Cidippe: infatti il fr. 172 di questa elegia ha influito sul v. 21 s. del medesimo carme di Properzio (vd. il comm. ad loc.). Come ha rilevato B. Wyss, «MH»

6 (1949), p. 193 n. 43, due rielaborazioni del passo di

C. 51 trovano nelle poesie di Gregorio Nazianzeno:

cf. II 1, 12, 45 5. (PG 37 p. 1169)

ἀλγοῦντός ἐςτιν ἐξερεύγεεθαι πάθος | Θεῷ, φίλοις, yovedcı, yeitoci, ξένοις (notevole soprattutto per il nostro ἄλγεα ... ἐξερύγῃ, vd. il comm. ad loc.) e II 1, 13, 26 (PG 37 p. 1229) φάρμακον ἄλγεός ἐςτι καὶ ἠέρι μῦθον évicreîv (per un'altra eco callimachea in quest'ultimo carme, vd. il comm. al fr. 213, 48). Aggiungo Greg. Naz. Carm. II 1, 19, 8 (PG 37 p.

1271) βαιὸν ἄκος παθέεεειν ἐρευγομένη φρενὸς ὠδίς. Vd. anche il comm. al v. 1. 1 κουφοτέρως τότε φῶτα διαθλίβουειν ἀνῖαι: Per l'andamento della frase, cf. fr. 48,1 γηράσκει δ᾽ ὃ γέρων κεῖνος ἐλαφρότερον. C. sembra ispirarsi a Bacch. I 178 5. ὅντινα κουφόταται | θυμὸν δονέουει μέριμναι, che ha influito anche su Theocr. XVII 52 κούφας ... μερίμνας |. Una stretta analogia intercorre fra il nostro verso e Hermesian. CA fr.

7,92 p. 100 κουφοτέρας ... ἀνίας | (pentametro). Cf. poi Maxim. De action. ausp. 265 | κουφότερον τελέει πόνον ἀνέρι, 563 | ἦ τ᾽ ἂν κουφότερος... πόνος ... γένοιτο |. Dell'esametro callimacheo risentono vari luoghi poetici di Gregorio Nazianzeno: cf. Carm. (PG 37)

I 2, 1, 265 (p. 542) ξυναὶ καὶ μελεδῶναι ἐλαφρίζουειν ἀνίας (addotto daB. Wyss, «MH» 6, 1949, p. 193 n. 43), 1, 594 5. (p. 567) ἄλγεα καὶ μελεδῶναι | κουφότεραι (cf. ἄλγεα nel nostro v. 4), II 2, 4, 13 5. (p. 1506) ὥς κε βαρείας | κουφοτάτοιει πόθοιειν ἐλαφρίζωειν ἀνίας. Νά. anche la fine del comm. introduttivo. kovgotépoc: Nei poemi omerici la parola κοῦφος ha solo due occorrenze ed è impiegata - come qui - con valore avverbiale: cf. I. XIII 158 (κοῦφα), Od. VII 201 (κουφότερον). Per l'uso traslato di κοῦφος - oltre ai luoghi riportati sopra - si può richiamare Theocr. XI 1-3 φάρμακον .... 1... 1... κοῦφον. Cf. inoltre Eur. Med. 1018 κούφως

φέρειν χρὴ θνητὸν ὄντα coupopäc, [Men.] Sent. 392 Pernigotti κούφως φέρειν δεῖ τὰς rapectocac τύχας (molto simile a Comparatio Menandri et Philistionis I 81 Jaekel), Maxim. De action. ausp. 198 | κούφως ... πονοῖτο I. Per un analogo impiego del verbo ἐπικουφίζει, cf. il passo di Aristeneto riportato nel comm. introduttivo. Sul piano morfologico, si osservi che i comparativi avverbiali in -τέρως (invece di -tepov oppure-tepo) sono molto rari in poesia: vd. Blomqvist p. 25. τότε

φῶτα:

Per il nesso,

279*, XXII 226*. διαθλίβουειν

cf. Hom.

Il. XVI

810*, Maneth.

VI 602, Nonn.

Dion. VI

ἀνῖαι: Cf. [Apolinar.] Met. Ps. XLI 24 = XLII 5 καταθλίβοντος

&vin* (addotto da J. Golega, Der homerische Psalter, Ettal 1960, p. 54). Il verbo διαθλίβω è un hapax. La forma semplice θλίβω - che compare una volta sola nei poemi omerici (Od. XVII 221 θλίψεται con vl. φλίψεται, vd. il comm. di Russo) - si trova impiegata (come qui διαθλίβω) a proposito di un'oppressione di tipo morale presso lo stesso Call. De/.35 cè

δ᾽ οὐκ ἔθλιψεν ἀνάγκη Ι. 2 ἐκ δὲ τριηκόντων:

All'interno dei poemi omerici il numerale τριήκοντα ricorre

COMMENTO:

FR. INC. SED.275

555

solo in A. II 516=680=733. Lo declina nel caso genitivo già Hes. Op. 696 | μήτε τριηκόντων ἐτέων ... ἀπολείπων | (cf. l'annotazione di Tzetze e vd. i comm. di Rzach e di

West); cf. poi [Metrod.] Anth. Pal. XIV 123, 13 | ἐκ δὲ τριηκόντων ed ep. adesp. Anth. Pal. XIV 3, 9 τριηκόντων. La flessione nel dativo si rinviene presso Philod. Anth. Pal. XI 41, 1

= GP 3260 = 4, 1 Sider tpınkövteccw. Come spiegano gli Etimologici che tramandano il nostro pentametro, il fenomeno è tipico dell'eolico. μοῖραν ... μίαν: C. tiene a precisare che lo sfogo delle proprie pene dà un conforto molto esiguo, perché le allevia soltanto di un trentesimo: con l'esattezza della sua percentuale, il poeta - com'è tipico della sua arte - smorza il tono patetico del brano.

ἀφεῖλε: Un uso analogo del verbo si riscontra presso Aesch. Eum. 360 crevSduevoc δ᾽ ἀφελεῖν τινα τᾶςδε μερίμνας, 443 5. ἐκ τῶν ὑςτάτων | τῶν cûv ἐπῶν μέλημ᾽ Kopaıprıco μέγα. Nel nostro verso va certamente scartata la varia lectio ἀφῆκε: C., infatti, prende in prestito ἀφεῖλε dalla terminologia matematica per esprimere la sottrazione di un trentesimo

degli affanni (vd. LSJ s.v. ἀφαιρέω I 3). 3 ἢ φίλον ἢ ὅτ᾽ ἐς ἄνδρα covéuropov: Per la prolessi di φίλον rispetto a ὅτ᾽, vd. il comm. al fr. 8. Per la posposizione di ὅτε, vd. il comm. al fr. 4, 2 ὅτ᾽ nvriacev. La preposizione &c è resa esplicita solo nel secondo dei due complementi: a tale riguardo, sono

soprattutto notevoli - per la presenza della disgiuntiva À - Call. Dian. 172 | À Πιτάνῃ ... ἢ ἐνὶ Λίμναις | (benché Πιτάνῃ possa pure essere un dativo semplice di luogo) e Zamb. fr.

203, 15 Pf. θυμὸν À ‘ri yactépa (vd. Kerkhecker p. 256), ma cf. anche fr. 166, 5 ὁ μὲν ἦλθεν Ἰουλίδος ἡ δ᾽ ἀπὸ Νάξον I, Ap. 8 μολπήν te καὶ ἐς χορόν (con il comm. di Williams), Dian. 246 | Cépôrac ἔς τε νομὸν Βερεκύνθιον, Cer. 91 | ὡς δὲ Μίμαντι ... ὡς ἀελίῳ ἔνι (ma forse Μίμαντι è un dativo semplice di luogo) e i passi raccolti da Schneider nel comm. al fr. 70, 4 di Nicandro, cul si possono aggiungere Antip. Sid. Anth. Pal. VI 14, 5 = HE 172 (e altri numerosi luoghi epigrammatici), Opp. Hal. I 71, SGO IV 19/17/04 v. 4, EpGr. 878, 1 Kaibel, Quint. Smym. XIV 589, [Apolinar.] Mer. Ps. CXXXIV 12, Maneth. II 144 s. al., Greg. Naz. Carm. I 1, 27, 2 (PG 37 p. 499) al., Nonn. Dion. XLV 184. Per l'uso

di questo cyfiuo ἀπὸ κοινοῦ in tragedia, vd. il comm. di Barrett a Eur. Hipp. 1272 5.

ἢ ὅτ᾽

... ἢ ὅτε: Per lo iato dopo ἤ, vd. Introd. 11.2.A. Pf., nel comm. a Hec. fr. 287 (=

111 H.), elenca le occorrenze di tale iato allorché - come qui - la disgiuntiva è in anafora.

ἄνδρα cvv&unopov:Cf. Call. /ov. 71 ἄνδρα εακέςπαλον" e, per il tipo di nesso, Ap. 43 dictevmmv ... ἀνέρα con il comm. di Williams. covéuropov: Il vocabolo, attestato inizialmente nel dramma attico (cf. Aesch. Suppl. 939 al., Soph. Trach. 318 al., Eur. Hel. 1538 al., TrGF adesp.337, Aristoph. Ran.398) e in un epigramma funerario attico della fine del V secolo a.C. (CEG 1 nr. 93, 3*), riscuote

grande fortuna presso i poeti ellenistici e imperiali: cf. Crates SH 352, 3, Antip. Sid. Anth.

Pal. VII 413,

5= HE 652, Antiphil. Anth. Pal. VII 635, 3 = GP 955 al., Orac. Chald.217, 2

des Places, Opp. Hal.I 16 al., [Opp.] Cyn.I 64, [Apolinar.] Met. Ps. protheor. 51 al., Greg.

Naz. Carm.I 1,36, 19 (PG 37 p. 519) al. Nonn. Dion. I 368 al., Met. I 152 al., Colluth. 364 Livrea, Maced.

cons. Anth. Pal. V 238, 5 = 9, 5 Madden, Paul. Sil. Ecphr. Soph. 257

al. (sempre *).

3 s. À ὅτε κωφαῖς

ἄλγεα

μαψαύραις

Écyatov ἐξερύγῃ : Il cambiamento di

costruzione (da ἐς + accusativo al dativo semplice) e i termini stessi κωφαῖς ... μαψαύραις segnalano che il terzo possibile destinatario delle confidenze di un uomo afflitto è ben diverso dai primi due: mentre un amico o un compagno di viaggio possono davvero prestargli orecchio, le sorde brezze incostanti gli forniscono solo l'illusione di essere ascoltato.

556

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Questo sollievo che, secondo 1 nostri versi, si prova nel riversare al sordi vènti le proprie

pene è negato da Cassandra presso Lyc. 1451-1453 τί μακρὰ τλήμων εἰς ἀνηκόους πέτρας, | εἰς κῦμα κωφόν, εἰς νάπας δαςπλήτιδας | βαύζω; Il medesimo disincanto viene espresso da Arianna presso Cat. LXIV 164-166 sed quid ego ignaris nequiquam conquerar auris | ... quae nullis sensibus auctae | nec missas audire queunt nec reddere voces? Per l'uso traslato di κωφός nel nostro passo, cf. soprattutto Maecius/Maccius App. Plan. 198, 6 = GP 2541 κωφοῖς ... ἀνέμοις | e Nonn. Dion. XLII 112 (riportato nel comm. introduttivo), nonché Moschio TrGF 97 F 7, 5 κωφοῦ ... πέτρου | (ma è già simile Hom. 1. XXIV 541 κωφὴν ... γαῖαν). Non del tutto perspicua è l'espressione κωφεῖ λόγος | presso lo stesso

Call. Jamb.fr. 195, 34 Pf. 4 ἄλγεα ... ἐξερύγῃ: Nel brano di Stobeo che tramanda il nostro frammento, i codici esibiscono la corruttela ἐξερρύη. di Grotius, che però non fornisce rezione ἐξερύγῃ di A. D. Knox e lita prima di tutto la presenza del zianzeno

Per lungo tempo ha avuto successo la congettura ἐξερέῃ il senso richiesto (vd. app.). Può invece dirsi sicura la cordi Pf. (cf. Hesych. σιν. ἐρυγεῖν - φωνεῖν): a suo favore miverbo ἐξερεύγεεθαι in un luogo poetico di Gregorio Na-

(riportato alla fine del comm.

introduttivo), che sembra ispirarsi ai nostri versi;

inoltre C. adopera il rarissimo verbo ἐξερυγγάνω anche nel fr. 174, 7 (vd. il comm. ad loc.), dove la parola ha un valore metaforico analogo a quello del nostro pentametro (li si-

gnifica rigurgitare un segreto e qui riversare i dolori); infine la frase ἄλγεα ... ἐξερύγῃ trova un parallelo formale presso Nic. Αἰ. 459 ἐξερύγῃειν ἀλεξόμενος κακὸν ἄλγος | (dove però si parla concretamente di un veleno espulso con il vomito). Vd. in generale l'app. μαψαύραιοε: La parola designa le brezze che spirano in maniera irregolare. C. si rifà a

Hes. Theog. 872 | αἱ δ᾽ ἄλλαι μὰψ αὖραι, intendendo però μὰψ αὖραι come un unico sostantivo (vd. il comm.

di West): al passo esiodeo si riferisce Hesych. σιν. μαψαῦραι- αἱ

μάταιαι ἄελλαι (cuor cod: corr.Is. Voss), ἢ κοῦφαι πνοαί. Anche Licofrone interpreta il nesso di Esiodo come un solo vocabolo, ma gli conferisce funzione aggettivale: cf. v. 395

μαψαύρας crößovc | con lo scolio ad loc. ματαίας λοιδορίας. ἔεχατον: L'avverbio offre forse un qualche sostegno all'ipotesi che il nostro frammento faccia parte dell'elegia di Aconzio e Cidippe (vd. il comm. introduttivo): Aconzio, che in città cela ai familiari il proprio turbamento amoroso, ogniqualvolta si reca in campagna (cf. fr. 171) può infine sfogarsi nei suoi monologhi (cf. frr. 172-173).

Frammento 276 (SH 301=269) In un gruppo di passi grammaticali molto simili fra loro - provenienti dal De differentia verborum di Ammonio, dal De adfinium vocabulorum differentia e dal De propria dictione di Erennio Filone (vd. il comm. ai frr. inc. sed. 120 (a)-(b)), dall'Etymologicum Gudianum e

dalla Covayoyù πρὸς διαφόρους muawvouevov enuactoc di Simeone (vd. Reitzenstein, Etym. p. 256 e le pp. LX-LXII dei prolegomena di Nickau nell'edizione di Ammonio) - si

spiega la differenza tra le parole διαβόητος (famoso) ed ἐπιβόητος (famigerato) e si precisa che alcuni poeti utilizzano nel secondo senso il vocabolo ἐπίφατος (come leggiamo presso Erennio e Simeone) ovvero èricpatoc (come troviamo presso Ammonio e nel Gudianum). Tale termine - aggiunge il solo Simeone - viene impiegato da C. ἐπὶ dxoctiov: quest'ultima parola, di certo guasta, è stata dubbiosamente corretta da Nickau in ’Akovtiov

(ma, come

rilevano L.J.-P., esistono altre possibilità, fra le quali ἀκοντίου, giavellotto). Se la congettura di Nickau coglie nel segno, il frammento spetta alla storia di Aconzio e Cidippe (frr. 166-174):

se è così, C. usava di sicuro la forma ἐπίοφατος, dal momento

che ἐπίφατος non

COMMENTO:

FRR. INC. SED.275-276

557

si adatta metricamente al distico elegiaco. Può darsi che Aconzio venisse detto famigerato (o rovinoso, vd. più avanti) per la sua indifferenza nei confronti degli spasimanti (cf. fr. 168). Vd. l'annotazione dopo il testo.

Eustazio (p. 1856. 11), dopo avere segnalato la differenza tra διαβόητος ed ἐπιβόητος, scrive che il senso di ἐπιβόητος è comune a ἐπίφατος e testimonia che questa parola era

utilizzata da Sofocle: ὁμοία δὲ ἐναντιότης τῷ ἐπιβοήτῳ καὶ ἐν τῷ ἐπίφατος, ὃ κεῖται παρὰ (οφοκλεῖ (TrGF 1048). Per la forma ἐπίφατος, cf. anche Hesych. s.v. ἀνεπίφατον, α

4930 Latte &rpocô6kntov καὶ ἀμιγές, Suid. s.v. ἀνεπιφάτως, «2301 Adler: ἀπροςδοκήτως, ἀμιγῶς, καταμόνας ... ἢ ἀφθόνως. Riguardo a ἐπίοφατος, cf. invece Svet. Περὶ βλαςφημιῶν 110, p. 55 Taillardat ἐπίεφατος: è ὀλέθριος, cui si affianca Bustath. p. 1728. 14 éricgaroc πλεοναςμῷ ευνήθει τοῦ c, 6 ὀλέθριος, παρὰ τὸ πεφάεθαι (vd. LSI s.v. θείνω II, slain). Sulla linea esegetica più consueta si pone d'altra parte Hesych. σιν. éricportov, e 5272 Latte: ἐπιμωμητόν: À Τουνομιλητόν : À ἐπὶ κακῷ ὠνομαεςμένον. Le forme ἐπίφατος ed ἐπίεφατος figurano insieme nell'Ef. Gen. AB s.v. ἐπίοφατον (cf.

Et. M. p. 365. 11 Gaisf.)- ἐπίρρητον παρὰ τὸ φημὶ φατόε ... καὶ τὸ οὐδέτερον φατὸν Kal (καὶ om. A) ἐπίφατον καὶ πλεοναςμῷ τοῦ c ἐπίοφατον (per questo articolo, il codice A è stato controllato da L.J.-P., il codice B da K. Alpers).

Sono inoltre attestati i termini repiporroc e περίοφατος. Cf. innanzitutto Hesych. s.v.

περίεφατα, x 1894 Hansen: τὰ ἐπιθρήνητα καὶ ἐπονείδιετα καὶ μοχθηρᾶς ἐπιφωνήςεως ἄξια, id. s.v. περιςφάτως, π 1895 Hansen: περιωδύνως, περιβοήτως. A quanto sembra, l'avverbio περιοφάτως

compariva in tragedia, come

si può

evincere da Phot. Lex. s.v.

περιςφάτως ἔχων, II p. 85 Naber: περιωδύνως (TrGF adesp.333). Cf. infine Corpus Glossariorum Latinorum, III p. 604. 32-33 Goetz pestiferas (?), perifaton, perifaton, valitudo. Come si vede, l'etimologia di questi vari vocaboli viene per lo più collegata ai verbi φημί o φαίνω: in tale prospettiva, gri(c)potoc potrà effettivamente significare famigerato (vd. sopra). Solo Svetonio, che dipende forse da Panfilo ed è a sua volta seguito da Eustazio, connette &ricpatoc a newachoı (essere stato ucciso, cf. Hom. Il. XIII 447, XIV 471,

XXIV 254), dando alla parola il significato di ὀλέθριος (rovinoso): L.J.-P. sono inclini a credere che questo fosse il senso conferito da C. al termine, ipotizzando inoltre che le voci éricpotoc e repicgatoc furono originariamente coniate per analogia con l'omerico

πρόεφοατος (non decomposto, cf. Il. XXIV 757). Comunque, anche l'interpretazione di L.J.-P. è conciliabile con l'eventualità che il nostro frammento riguardi Aconzio, riferendosi forse alla noncuranza del ragazzo per 1 suol innamorati: infatti Aconzio potrebbe essere detto rovinoso, perché con il suo fascino miete tante vittime quante il giavellotto dal quale prende nome (vd. il comm. al fr. 169).

Frammenti di autore incerto che forse appartengono al terzo o al quarto libro degli Aitia di Callimaco Frammento 277 (745 Pf.) Bövnc καταδέκτριαι adônécenc: Qui è menzionata Bina dalla voce umana, cioè Ino che da donna mortale si trasformò nella dea marina Leucotea, e probabilmente si parla anche

delle

Nereidi,

che

accolsero

Ino

dopo

il

suo

tuffo

nel

mare

(vd.

il comm.

a

καταδέκτριαι). Il frammento venne attribuito a C. da Schneider. Le nostre attuali conoscenze incoraggiano questa ipotesi, perché sappiamo che nel quarto libro degli Aitia un'intera elegia era imperniata su Melicerte, il figlioletto di Ino inabissatosi con la madre (frr. 193-195, vd. il comm. ad loc): per di più, l'esordio di quel carme contiene proprio il nome Bina (fr. 193) e il folle salto di Ino viene descritto nel fr. 194 (appartenente con ogni probabilità alla medesima elegia), oltre a essere registrato nella relativa Diegesis (II 1 s.). Si osservi però che l'attribuzione stessa del brano agli Aitia è dubbia per motivi metrici, perché quest'opera non offre esempi sicuri di esametri spondaici con cesura maschile (vd. Introd. I_.1.A.a.ili.). νά. l'annotazione dopo il testo.

Bôvnc: Νά. il comm. al fr. 193 Bövn. καταδέκτριαι: Gli Etimologici testimoni del frammento offrono la problematica lezione καταλέκτριαι, un hapax che G. Dindorf (con poca plausibilità) cercò di correggere in κατὰ λέκτρ᾽ tev e che A. Meineke, Analecta Alexandrina (Berolini 1843), p. 123 n. 1

suggerì di interpretare come θαλαμηπόλοι (curatrici del talamo, ancelle) in riferimento alle Nereidi, le quali forse avrebbero così una mansione analoga a quella delle Ninfe presso

Ap. Rh. IV 1143-1145 e Plut. Περὶ τῶν ἐν Πλαταιαῖς

δαιδάλων fr. 157, VII p. 98

Sandbach. Aggiungo che un elemento a favore di καταλέκτριαι sembrerebbe fornito da un

passo pindarico (Pyth. XI 2), nel quale si legge Ἰνὼ δὲ Λευκοθέα ποντιᾶν ὁμοθάλαμε Νηρηΐδων: tuttavia sia lo scolio sia gli interpreti moderni intendono ὁμοθάλαμε in senso generico, come un sinonimo di covouxe (vd. Massimilla p. 170). È quindi preferibile la congettura καταδέκτριαι, avanzata con ottimi argomenti da Pf.: le Nereidi accolsero Ino dopo il suo salto nel mare. A sostegno di questa proposta, lo studioso mette in campo alcuni passi, nei quali le Nereidi e Posidone accolgono (δέχονται) Ino e Melicerte nelle acque marine: cf. Ov. Fast. VI 499 excipit illaesos Panope centumque

sorores, Nonn. Dion. X 121-123 ὑγροπόροιειν ὁμέετιον, Hypothesis … ἄλλεται εἰς OdAaccov μετὰ τοῦ che i nomi stessi di alcune Nereidi,

Λευκοθέην δέ |... ἐδέξατο Κυανοχαίτης | doiuocwv Pindari Isthmiorum d. (III p. 194. 23 Drachmann) Ἰνὼ παιδός: Nnpeidec δὲ αὐτὴν Ecwcav. Pf. osserva inoltre quali Δεξαμένη (cf. Hom. A. XVIII 44) e Cod (cf. Hes.

Theog. 243), sono collegati all'accoglienza salvifica che esse offrono. Per dimostrare infine la plausibilità morfologica dell'inattestato vocabolo καταδέκτριαι, Pf. fa appello alla forma δέκτρια, che si legge presso [Arch.]fr. 331,2 W. e Lucian. (o forse Lucill.) Anth. Pal. XI 400, 6: per di più il secondo brano presenta la medesima corruttela che sembra riguardare il nostro frammento, in quanto i codici palatino e planudeo hanno λέκτρια, emendato appunto nel necessario δέκτρια da Opsopoeus. Ai passi addotti da Pf. aggiungo Greg. Naz. Carm.I 2, 17, 22 (PG 37 p. 783) δέκτριαι.

ad ônécenc: Applicando l'aggettivo a Leucotea, il poeta si pone sulla scia di Hom. Od.

V 333 5. Ἰνώ | Λευκοθέη, À πρὶν μὲν ἔην βροτὸς αὐδήεεςα (vd. il comm. di Hainsworth). Lo Schol. (HPQ) ad loc. precisa che nel brano omerico la lezione adôñecca era difesa da

COMMENTO:

FRR. INC. AUCT. 277-278

559

Aristofane di Bisanzio, secondo il quale la parola designa le dee antropomorfe (vd. oltre) in quanto appunto fornite di voce umana, laddove Aristotele e Cameleonte leggevano odônecco (terrestre), perché Ino, prima di diventare una dea del mare, dimorava sulla terraferma:



μὲν ᾿Αριςτοφάνης (p. 197 Slater) τὰς ἀνθρωποειδεῖς θεὰς αὐδηέεςεας φηεὶν οἱονεὶ φωνὴν μετειληφυίας, ὁ δὲ ‘ApictotéAne (fr. 171 Rose) odôeccav λέγει οἱονεὶ ἐπίγειον: οὕτως καὶ Χαμαιλέων (IX fr. 21 Wehrli). L'autore del nostro frammento ha dunque recepito la lezione preferita anche da Aristofane, che del resto è presente in tutti 1 codici dell'Odissea. Vd. Rengakos, Homertext p. 91 s. Nei poemi omerici il vocabolo αὐδήεις occupa quasi sempre - come qui - la fine dell'esametro (con la sola eccezione di II. XIX 407, a proposito del cavallo parlante Xanto). Lo si trova riferito - oltre che a Leucotea - a Circe (Od. X 136 = XI 8 = XII 150) e a Calipso (Od.

XII 449), entrambe designate dall'emistichio δεινὴ θεὸς adônecco |. In Od. VI 125 la parola è invece applicata agli esseri umani (ἀνθρώπων ... αὐδηέντων |). Frammento 278 (748 Pf.) écyatinv ὑπὸ πέζαν ἐλειήταο Aéovroc: L'esametro fu attribuito a C. da Hecker, che lo identificò con il v. 65 della Chioma di Berenice (fr. 213) basandosi sul v. 65 s. della traduzione catulliana saevi contingens ... Leonis | lumina. Che la frase sotto l'ultima estremità dell'ardente (?) Leone spetti alla costellazione nella quale si trasformò la fiera nemea, è Indicato sia dal commento di Oro negli Etimologici testimoni del frammento sia dalle parole stesse del poeta. Inoltre il vocabolo ἐλειήταο, di senso incerto (vd. oltre), potrebbe corrispondere al saevi di Catullo. In termini più generali, la paternità callimachea del verso è resa molto plausibile dal fatto che l'espressione ἐλειήταο Λέοντος riprende l'explicit Βεμβινήταο λέοντος, impiegato da Paniassi di Alicarnasso in un brano (fr. 4, I p. 175 Bernabé = fr. 1 Davies) che C. tenne di sicuro presente nel fr. inc. sed. 264 a proposito del leone nemeo (vd. il comm. ad loc). La possibilità che il nostro esametro corrispondesse al v. 65 della Chioma di Berenice (messa in campo da Hecker e ritenuta plausibile da vari studiosi) venne in un primo momento esclusa da Pf., che dava al vocabolo πέζαν - come gli altri - il significato di parte inferiore della zampa ovvero estremità inferiore e faceva nel contempo notare che la Chioma di Berenice si trova sopra il Leone secondo le descrizioni degli antichi astronomi: cf.

[Eratosth.] Catast. 12 p. 98 Robert = Commentar.in Arat. p. 207. 4 Maass ὑπὲρ αὐτὸν Ev τριγώνῳ κατὰ τὴν κέρκον, Hygin. Astron. II 24, 1 supra simulacrum ... ad caudam Leonis (vd. l'app. delle fonti al fr. 213, 7 s.), Schol. German. Arat. p. 72. 19 Breysig iuxta caudam,

nonché Hipparch. Catalog. ap. Ptol. Synt. VII 5,1 2 p. 100. 15 Heiberg μεταξὺ τῶν ἄκρων τοῦ Λέοντος καὶ τῆς “Apitov. L'originario rifiuto dell'ipotesi di Hecker da parte di Pf. viene condiviso da Marinone nella sua edizione commentata della Chioma di Berenice callimachea e catulliana (p. 56 n. 2). Però successivamente Pf. ammise - pur restando scettico - che era possibile identificare il nostro esametro con il v. 65 della Chioma. Questo ripensamento prese le mosse da alcuni nuovi testi astrologici del cosiddetto Ermete Trismegisto pubblicati da W. Gundel, «Abh. Bay.

Ak.», Phil.-hist. Abt., NF

12 (1936), p. 189 s., dove figura un'antichissima testimo-

mianza (risalente al IV secolo a.C.) sulla costellazione che venne poi chiamata Chioma di Berenice da Conone: qui essa viene detta Criniera del Leone (vd. anche le aggiunte e le correzioni di F. Boll - W. Gundel, RML VI, 1924-1937, p. 956 s.). Pf. osserva pol che alcune fonti collocano la Chioma di Berenice, da loro erroneamente definita Πλόκαμος ov-

560

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vero Crinis (sic) di Arianna (vd. F. Boll, Sphaera, Leipzig 1903, p. 275 n. 1 e il comm. al fr. 213, 59-61), sopra oppure sotto la coda del Leone: cf. [Fratosth.] Catast. 5 p. 68 Robert

= Commentar. in Arat. p. 193 Ὁ 7 Maass ἐπὶ τῆς κέρκου τοῦ Λέοντος, [Eratosth.] Catast. Fragm. Vat. ed. A. Rehm (Ansbach 1899), p. 1. 15 = Commentar. in Arat. (Exc. Marc.) p.

573. 16 Maass = Schol. (Q) Arat. 73, p. 109. 17 Martin ὑπὸ τὴν κέρκον τοῦ Λέοντος, Schol. German. Arat. p. 62. 9 Breysig sub cauda Leonis, Commentar. in Arat. p. 193 a 6 Maass (Aratus Latinus) sub caudam Leonis. Tenendo presenti queste due notizie, cioè da un lato l'antica denominazione di Criniera del Leone attribuita a quella che poi fu detta Chioma di Berenice e dall'altro il posizionamento della Chioma sotto la coda del Leone in alcuni testi astronomici, Pf. avanza due con-

siderazioni: in primo luogo il vocabolo πέζα, nel nostro frammento, potrebbe significare non parte inferiore, bensì estremità, assumendo proprio il senso riscontrabile nella sua unica attestazione omerica (dove - come vedremo - πέζα indica un'estremità del timone di un carro e la parola viene delucidata dagli esegeti in termini generali con la frase πᾶν τὸ ἄκρον) e riferendosi appunto al tratto finale della coda del Leone; in secondo luogo, negli antichi disegni astronomici la coda del Leone è sempre rovesciata al di sopra del dorso e nel Planisfero Vaticano raggiunge il collo e la criniera (vd. F. Boll - W. Gundel, RML VI, 1924-1937, p. 898). Pf. ne deduce che le parole del nostro verso (sotto l'ultima estremità del … Leone) sarebbero allora adatte a descrivere il posto occupato dalla Chioma rispetto al Leone, sotto la punta della sua coda ribaltata e quindi sopra di esso. Lo studioso non nega, dunque, che l'esametro possa coincidere con il v. 65 della Chioma di Berenice, ma confessa

di non riuscire né a inserirlo nel relativo distico (del tutto perduto) né a coordinarlo con i due versi precedenti e con 1 resti dei due versi successivi. Credo invece che sia possibile soddisfare entrambe le esigenze. Il nostro esametro introduce con piena naturalezza la spiegazione di quanto appena detto nel pentametro, Cipride mi pose nuova costellazione fra le antiche (fr. 213, 64): il nuovo &ctpov, infatti, illustra ora il luogo del cielo dov'è stato collocato fra quelli preesistenti, cioè fra il Leone, la Vergine e l'Orsa Maggiore. Ferma restando, perciò, l'identità del v. 65 con il nostro frammento, ricostruisco così il giro sintattico dei vv. 65-68 (proponendo integrazioni esemplificative per il v. 66 e per il primo emistichio del v. 68 e recependo i supplementi di L. e

Pf. per la seconda parte del medesimo verso): Lécyatinv ὑπὸ πέζαν ἐλειήταο Aéovroci | [Παρθένον εἰςορόω πῦρ τε Λυκαόνιον], | ırpöcde μὲν ἐρχόμενος μετοπωρινὸν! Ὠκ]εᾳνόνδε | [eicı δ᾽ ὅτ᾽ ᾿Αρκτοφύλαξ] L”Akuovoc ivıvı [ἔπι], sotto l'ultima estremità dell'ardente Leone osservo la Vergine e il fuoco licaonio (cioè la costellazione dell'Orsa, derivante dal catasterismo

di Callisto figlia di Licaone),

andando

davanti,

quando

d'au-

tunno il Guardiano dell'Orsa (cioè Boote) va nell'Oceano e verso la creatura di Acmone (cioè verso il cielo). Per 1 particolari, vd. 1 comm. al vv. 65 s., 67 e 68 del fr. 213.

La probabile appartenenza del nostro frammento alla Chioma di Berenice ne sconsiglia l'attribuzione alla Vittoria di Berenice (frr. 143-156), cui potrebbe far pensare la notizia tramandata da Nigidio Figulo (fr. 93 Swoboda riportato nel comm. al fr. 145) - che Era trasformò in costellazione il leone nemeo dopo la sua morte per mano di Fracle e Molorco: vd. Massimilla, Leone p. 23 s. Vd. in generale l'annotazione dopo il testo.

écyatinv ὑπὸ πέζαν: L'emistichio ha influito soprattutto su Nonn. Dion. XXIII 294 ᾿Αρκτῴην δ᾽ ὑπὸ réCov* (anche qui a proposito di una costellazione) e - tramite Nonn. Dion. VIII 158 ὑετατίην ἐπὶ nelav* - su Paul. Sil. Ecphr. Soph.364 dcrorinv ὑπὸ rnéCav*. Ma cf. pure Nonn. Dion. VI 237 καὶ Öpocepnv ὑπὸ πέζαν" (in un contesto astronomico).

COMMENTO:

FRR. INC. AUCT. 278-279

561

Per il solo ὑπὸ πέζαν, cf. Nic. Ther. 67" (v.1.), Dion. Per. 535, 894*, 1162, Nonn. Dion. IX 188*, XXVII 162*, Paul. Sil. Ecphr. Soph. 384. écyatinv: L'aggettivo ἐςχάτιος (forma ampliata di &cxatoc) è attestato solo nella poesia ellenistica e imperiale: cf. Nic. Ther. 746*, Orac. Sib.I 2, XII 104, [Opp.] Cyr. I 124, Quint. Smyrn. X 332a, Maneth. III 48*, Ioann. Barb. Anth. Pal. VII 555, 1. Sul piano morfologico, cf. Call. Ap. 79 veratiov" (con il comm. di Williams), Lav. 54 navvcerarıov |.

πέξζαν: Il vocabolo è un hapax nei poemi omerici, dove designa una delle due estremità

del timone di un carro (vd. sopra il comm.): cf. IZ. XXIV 271 5. ἐπὶ ῥυμῷ. I nein ἔπι πρώτῃ e Schol. (b(BCHRPEN) al v. 272 πᾶν τὸ ἄκρον πέζα καλεῖται. ἔχει δὲ ὃ poudc πέζας δύω ... τὴν οὖν πρὸς τὸ ζυγὸν πρώτην λέγει (analoghe spiegazioni si trovano nello Schol. T e presso Eustath. p. 1350. 11). Questo significato del termine è talora recepito dai poeti successivi, che lo applicano p.es. a indumenti (Ap. Rh. IV 46*, Leonid. Tar. Anth. Pal. VI 211, 2 e 286, 1 = HE

1960 e 2207, Antip. Sid. Anth. Pal. VI 287, 2 = HE 517), alla distesa ma-

rina (Hermesian. CA fr. 7, 17 p. 98) o a territori (Ap. Rh. IV 1258, Euph. SH 429 I 20, fr. eleg. adesp. Suppl. SH 1187, 11). ἐλειήταο Λέοντος: L'explicit risente di Panyas.fr. 4, Ip. 175 Bernabé = fr. 1 Davies Βεμβινήταο λέοντος (vd. sopra il comm.). Entrambi i luoghi sembrano riecheggiati da Maxim. De action. ausp. 102 Νεμειήταο Λέοντος", dove ci si riferisce - come nel nostro esametro - alla costellazione del Leone. ἐλειήταο: La parola, che non ricorre altrove, è di difficile interpretazione. Dagli Etimologici testimoni del frammento apprendiamo che Oro la collegava ai vocaboli ἕλη εἴλη (calore solare) oppure ἕλος (palude): il leone nemeo mutato in costellazione sarebbe dunque definito ardente oppure abitatore delle paludi (nel secondo caso il poeta alluderebbe ai luoghi di Nemea dove la belva risiedeva). Stando a Pf., la prima esegesi si dovrebbe solo al fatto che i grammatici equipararono il termine - del quale ignoravano il senso - agli epiteti comunemente usati per il Leone, quali φλογερός, θερμός ovvero fervidus, saevus: si noti che così lo intese Catullo nella sua traduzione della Chioma

di Berenice, se - com'è molto

probabile (vd. sopra il comm.) - il nostro esametro coincide con il v. 65 della Chioma callimachea (cf. Cat. LXVI

65 saevi ... Leonis). Può darsi comunque

che, come rileva Pf., la

vocale iniziale della parola sia aspirata (&Aeınrao, vd. già LSJ s.v.), vista appunto la sua

presunta derivazione da ἕλη εἵλη oppure ἕλος. Meno persuasiva è invece l'altra ipotesi di Pf., che cioè Ἑλειήταο sia un etnico (collegato a un'ignota località “EAe(1)0 della regione nemea), come Βεμβινήταο e Νεμειήταο negli affini brani di Paniassi e Massimo Astrologo (riportati sopra), come Μαλειήτης presso lo stesso Call. fr. inc. sed. 689 Pf. e come vari termini uscenti in -ἥτης elencati da Steph. Byz. s.v. Αἴγιναι (parzialmente riportato da Pf. nell'app. delle fonti al fr. inc. sed. 689). A&ovtoc: La costellazione del Leone è varie volte menzionata da Arato (v. 148 al.).

Frammento 279 (758 Pf.) οὐδὲ Kporwvirnc ἐξεκάθηρε Μίλων: Il frammento, nel quale viene menzionato il lottatore olimpionico Milone di Crotone (attivo nella seconda metà del VI secolo a.C.), è stato attribuito a C. da Schneider e Wilamowitz: l'ipotesi - come rileva Pf. - ha in séguito

trovato sostegno nel v. 47 del fr. 174 οὐδ᾽ à Κελαινίτης ἐκτεάτιοτο Miônc, che ha una struttura molto simile al nostro pentametro (Pf. congettura dubbiosamente che anche questo verso rientrasse in una serie di paragoni). Ignoriamo che cosa nemmeno Milone abbia ripulito. sicuramente erronea è la proposta, avanzata da Schneider, di ricondurre questo fram-

562

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

mento e il fr. 295 Pf. (che in realtà rientra nell'Ecale = fr. 114 H.) a un confronto tra Milone ed Fracle che epura le stalle di Augia (vicenda mitica inserita - come oggi sappiamo - nel Rito nuziale eleo, frr. 178-180:

vd. il comm.

ad loc). In termini generali, invece,

si può

supporre che il nostro passo risalga al terzo o al quarto libro degli Aitia: qui, infatti, due elegie sı incentrano su atleti magnogreci, cioè Euticle di Locri nel libro terzo (frr. 186-187) ed Eutimo di Locri nel quarto (frr. 201-202). Di certo estranei a Milone sono 1 frr. inc. sed. 264 e 274 sulla pelle leonina di Eracle (vd. il comm. al fr. 274). Νά. l'annotazione dopo il testo.

Per gli olimpionici crotoniati nella poesia callimachea, vd. il comm. al fr. inc. sed. 268. Riguardo al profondo interesse di C. per Roma, l'Italia e la Magna Grecia, vd. il comm. al fr. 50, 18-83. Kpotovitnc: Questa forma dell'etnico non è attestata altrove. ἐξεκάθηρε: L'Etymologicum Genuinum, che tramanda il frammento, presenta l'aoristo

ἐξεκάθηρε nel codice A e l'imperfetto ἐξεκάθαιρε nel codice B. Pf., cui non era nota la lezione di A, mise in testo ἐξεκάθαιρε, osservando che il tempo imperfetto figura nell'unica occorrenza omerica del verbo, cioè Il. II 153 | οὐρούς τ᾽ ἐξεκάθαιρον: non è però escluso che nel brano iliadico si possa anche leggere l'aoristo ἐξεκάθηραν, come propone dubbiosamente Nickau sulla base della corruttela οὐρούς τ᾽ ἐξεκάθζηρον τ presente nel testo del De differentia verborum di Ammonio (365). È proprio l'aoristo ἐξεκάθηρε, cioè la lezione di A, che ho accolto nel nostro verso, fondandomi

su una serie di considerazioni:

C. im-

piega l'affine verbo τεκμαίρομαι solo nell'aoristo (Zov. 85, Ap. 35); nel v. 113 dell'inno

callimacheo a Demetra, Ernesti corresse il tràdito ἀνεξήραινον in ἀνεξήραναν; l'aoristo ἐξεκάθηρα occupa la medesima sede metrica del nostro frammento in un epigramma di Gregorio Nazianzeno (Anth. Pal. VIII 79, 8). Νά. app. e Massimilla p. 170. In poesia il verbo ἐκκαθαίρω è impiegato anche da Eschilo (Suppl. 264). Nel testo di Theocr. XII 69 i codici tramandano ἐξεκάθαιρον, ma Gow accetta la congettura αὖτε καθαίρουν di Wordsworth (vd. il comm. ad loc.). Il verbo ἐκκαθαίρω si trova poi in opere poetiche successive all'ellenismo, dove compare l'aoristo ἐξεκάθηρα (non l'imperfetto

ἐξεκάθαιρον): cf. ep. adesp. App. Plan. 92, 7, Greg. Naz. Carm.1 1,3, 51 (PG 37 p. 412), ep. adesp. Anth. Pal. Append. III 333, 5 (vol. III p. 346 Cougny). Μίλων: Miller ha emendato così la corruttela μήλων, esibita dall'Etymologicum Genuinum (vd. app.). La correzione è certa: il poeta menziona il lottatore olimpionico Milone di Crotone,

celebre per la sua forza straordinaria (cf. p.es. Paus.

VI

14, 5-8). L'atleta ha

spesso attratto l'interesse dei poeti: cf. Alex. Aetol. CA fr. 11 p. 128 = fr. 14 Magnelli, Dorieus SH 396, 1 = FGE 159, [Sim.] App. Plan.24, 1 = FGE 784 = Ebert nr. 61, 1 (vd. il comm. di Ebert all'epigramma in questione). In vari brani 1] nome Milone è scandito - come qui - con iota breve: cf. Ov. Met. XV 229, Ib. 609, ep. adesp. (attribuito a Lucillio nella Planudea) Anth. Pal. XI 316, 1, Greg. Naz. Carm. I 2, 25, 126 (PG 37 p. 822), Christod. Anth. Pal. I 230 e - riguardo all'omonimo uccisore di Clodio

- Lucan.

I 323, Τὰν. II 26.

Benché risulti improbabile che il Milone nominato da Teocrito nel quarto idillio (vv. 6, 11) sia il lottatore (vd. il comm. di Gow al primo passo), la possibilità che i versi teocritei contengano un'allusione a quel personaggio storico non è affatto da escludere (vd. FantuzziHunter p. 220 = 169 s.).

Frammento 280 (774 Pf.) Λευκοῦ

πεδίου:

Il frammento consiste in un lemma di Esichio, la cui forma tràdita

COMMENTO:

FRR. INC. AUCT. 279-281

563

Λεύκου πεδίον è stata così corretta - in base ai passi riportati più avanti - da Schneider, il quale emendò anche la delucidazione τοῦ Μεγαρικοῦ χωρίον in Tod Μεγαρικοῦ χωρίου (si noti che invece Latte, nella sua edizione di Esichio, preserva le lezioni del codice):

se gli

interventi di Schneider colgono nel segno, il poeta menzionava la pianura Bianca, situata appunto presso Megara. Schneider congetturò che, nel contesto originario, il toponimo servisse a spiegare l'etimologia del nome di Leucotea. Infatti, secondo varie fonti, Ino fu divinizzata come Leucotea perché, prima di gettarsi in mare, corse (θεῖν) attraverso la pia-

nura Bianca (Λευκόν): cf. Nonn. Dion. X 75-77 ἔτρεχεν Ἰνώ- | καὶ Λευκοῦ πεδίοιο διατμήγουεα κονίην | Λευκοθέη πεφάτιςτο φερώνυμος (vd. il comm. di Chrétien), Schol. (EV; cf. BPOT) Hom. Od. V 334 Λευκοθέα ἐκλήθη ἡ Ἰνὼ ἀπὸ τοῦ Bedcor, 8 ἐςτι δραμεῖν, διὰ τοῦ Λευκοῦ λεγομένου πεδίου τῆς Μεγαρίδος, Et. Gen. AB (= Er. M. Et. Sym.) s.v. Λευκοθέα- ἡ Ἰνώ ... διὰ τοῦ Λευκοῦ πεδίου θέουςα, ὅ ἐετι περὶ τὴν Μεγαρίδα, ἑαυτὴν εἰς τὴν θάλαςεαν ἔρριψεν. Schneider attribuì 1] frammento a C. Le nostre attuali conoscenze forniscono un importante sostegno a questa ipotesi, perché sappiamo che nel quarto libro degli Aitia un'intera sezione era imperniata su Melicerte, ıl figlioletto di Ino inabissatosi con la madre (frr. 193195, vd. il comm. ad loc.): per di più proprio il salto di Ino in mare viene descritto nel fr. 194 (appartenente con ogni probabilità alla medesima elegia) e comunque registrato nella relativa Diegesis (III 1 s.). Da parte sua Wilamowitz, fondandosi sull'imitazione da parte di Nonno, assegnò il frammento a C. o a Euforione: fra 1 brani superstiti di quest'ultimo, ce n'è uno incentrato sulla morte di Melicerte e sull'istituzione dei giochi istmici (CA fr. 84 p. 45, vd. i comm. al vv. 5 s. e 9 del fr. 156), la cui tematica è affine al probabile contesto del nostro passo, ma non tanto quanto quella del citato carme callimacheo. Lo stesso può dirsi del fr. 70, 2-5 M.-W. di Esiodo, cui Merkelbach e West propongono dubbiosamente di collegare il nostro frammento: infatti, a quanto sembra, nel luogo esiodeo in questione si dice solo che gli dèi concessero a Ino-Leucotea di risiedere nelle profondità marine. Vd. in generale l'annotazione dopo il testo. Prendendo spunto dal brano di Nonno riportato sopra, Pf. suggerisce con ogni cautela di scrivere Aeviod πεδίοιο. Se invece si accoglie la più facile correzione Λευκοῦ πεδίου e se le due parole si susseguivano in quest'ordine senza vocaboli intermedi all'interno di un distico elegiaco callimacheo, le collocazioni metricamente possibili sono solo due: | — Λευκοῦ πεδίου in un esametro o in un pentametro oppure | — v v = Λευκοῦ πεδίου in un esametro (vd. Introd.IL.1.A.c.v., vii., x.). Vd. app.

Frammento 281 (781 Pf.) ἀκμήν τοι βρύα τῆμος ἐπὶ cindecci κέχυνται: Le parole stesse del frammento inducono a supporre che qui i muschi (βρύα) siano quelli del mare (vd. più avanti): il poeta sembra rivolgersi a una persona annegata (τοι), sul cui petto si sono ancora allora (oppure ora) riversati i muschi marini. Interpretando così il nostro esametro, Schneider lo attribuì a

C. e congetturò che la salma fosse quella del piccolo Melicerte, con il quale la madre Ino si era gettata in mare. Le nostre attuali conoscenze forniscono un importante sostegno a questa ipotesi, perché sappiamo che nel quarto libro degli Aitia un'intera sezione era imperniata su Melicerte (frr. 193-195): tale elegia, per di più, esordiva con un'apostrofe di C. al bambino (fr. 193) e - secondo la relativa Diegesis (III 2-4) - rievocava l'approdo del suo corpo sulla spiaggia di Tenedo. Credo però che, se il verso è davvero callimacheo, sia anche possibile riferirlo ad Aiace

564

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

figlio di Oileo: infatti il cadavere di Aiace, annegato durante il ritorno da Troia, fu spinto dalle onde sulla terraferma e sepolto dalla pietosa Teti, come tramanda lo Schol. (AD)

Hom. I. XIII 66 (ἐκριφέντα ... νεκρὸν Θέτις ἐλεήεαςα θάπτει), traendo forse la notizia da un passo del primo libro degli Aitia di C. (fr. 42, vd. l'app. delle fonti ad loc; benché l'ampio scolio si concluda con un esplicito rimando al libro primo degli Aitia, non è facile stabilire quali fossero i limiti esatti dell'esposizione callimachea: vd. ıl comm. al fr. 42). Questa esegesi alternativa trova supporto in un brano di Licofrone, dove il vocabolo βρύα è appunto riferito ai muschi marini che ricoprono la salma di Aiace quando Teti gli dà sepol-

tura: τάριχον ἐν μνίοις δὲ καὶ βρύοις εαπρόν | κρύψει katoreticaca Νηςαίας κάεις (V. 398 s.). Vd. in generale l'annotazione dopo il testo.

ἀκμήν τοι ... τῆμος

... κέχυνται: Per il nesso, cf. Call. Del. 106 coi δ᾽ ἔτι τῆμος

.. ἔκειτο |. Il perfetto κέχυνται, del tutto adeguato all'avverbio ἀκμήν (ancora), suscita perplessità in unione all'avverbio τῆμος (allora): perciò va forse accolto il piuccheperfetto κέχυντο, congetturato da Pf. A difesa di κέχυνται, è però molto allettante l'ipotesi (avanzata da Livrea) che qui τῆμος significhi ora, come presso Ap. Rh. IV 252. νά. app. ἀκμήν: L'avverbio ha lo stesso significato di ἔτι: vd. R. Reitzenstein, /nedita poetarum Graecorum fragmenta II (Progr. Rostochii 1892/93) p. 4, nr. 3 con la n. 6 e cf. Moeris α 149 Hansen con l'annotazione, Phrynich. Ec/. 93 Fischer con l'annotazione. Il termine compare presso Aesch. TrGF 339a, Men. PCG 504, Theocr. IV 605, [Theocr.] XXV 164,

Antip. Sid. Anth. Pal. VII 30, 3 = HE 278*, Antiphil. Anth. Pal. VI 252, 4 e VII 141, 7 = GP 794 e 927, Strat. Anth. Pal. XII 211, 1 e 251, 2 = 53, 1 e 93, 2 Floridi, Carm. Anacreont. XXV 9 West. βρύα: Come si è detto, il sostantivo designa qui con ogni probabilità i muschi marini. I prosatori lo impiegano in questo senso sia al singolare (p.es. Hippocr. Mul. I 53, Aristot.

Hist. an. VII (VIII) 2 p. 591 B 12, Theophr. Hist. plant. IV 6, 6, Dioscorid. IV 98) sia al plurale (p.es. Plut. Caes. LII 6). In poesia il vocabolo ha il medesimo significato del nostro frammento presso Lyc. 398 (βρύοις, vd. sopra), [Theocr.] XXI 7 (Bpdov*, vd. il comm. di

Gow), Nic. Ther. 792 (βρύα), Antiphil. Anth. Pal. IX 551,8 = GP 848 (βρύον),fr. adesp. SH 1134A, 2 (p. 863, βρύα), [Orph.] Lith. 519 (βρύα), Nonn. Dion. I 116 (βρύα), XLII 414 (βρύον), XLIII 100 (βρύον), Carm. Anacreont. LVII 13 West (I βρύον). In àmbito poetico, il vocabolo si legge inoltre (nella forma βρύα) presso Nic. Ther. 71 | ἄγνου te

βρύα λευκά, 415, 898 | οἰνάνθης βρύα: λευκά, Nonn. Dion. XLI 120: nel secondo luogo esso ha il senso di muschi palustri, mentre negli altri significa inflorescenze muscose. Esiste anche l'aggettivo βρυόεις: cf. Nic. Ther. 208 al., Nonn. Dion. I 206 al., Toann. Gaz. II 79. ἐπὶ «τήθεεει: Per l'impiego del nesso in questa posizione metrica, cf. Hom. I. IV 420,

IX 490, XII 151, XXI 254, Dion. Per. 703, 845, Triph. 65, Greg. Naz. Carm.I 2, 9, 15 (PG 37 p. 668). κέχυνται: Per quest'uso del verbo, cf. Hom. 1]. IX 6 5. κῦμα ... |... πολλὸν ... παρὲξ ἅλα φῦκος ἔχευεν |. L'explicit κέχυνται ovvero κέχυντο si rinviene già nei poemi omerici: cf. H.V 141, Od. XXII 387, 389. Frammento 282 (787 Pf.) ψευδόμεναί ce Παλαῖμον: Il frammento è costituito dal participio nominativo femminile plurale ψευδόμεναι (mentendo) e da un'apostrofe a Palemone. Schneider congetturò la paternità callimachea del brano e lo mise in rapporto con il fatto che - come apprendiamo da Pausania (II 2, 1) - nel santuario di Posidone a Corinto esisteva un sacrario del dio

COMMENTO:

FRR. INC. AUCT. 281-282

565

Palemone, dove si pronunciavano giuramenti che, se falsi, perseguitavano chiunque li pro-

feriva: ”ASvtov ... ἔνθα δὴ τὸν Παλαίμονα κεκρύφθαι paciv: ὃς δ᾽ ἂν ἐνταῦθα ἢ Κορινθίων ἢ ξένος ἐπίορκα ὀμόςῃ, οὐδεμία Ecttv οἱ μηχανὴ διαφυγεῖν τοῦ ὅρκου. Oggi sappiamo che nel quarto libro degli Aitia un'intera sezione - collegata però all'isola di Tenedo - verteva su Melicerte, il figlioletto di Ino che si inabissò con la madre e divenne appunto il dio marino Palemone (frr. 193-195, vd. il comm. ad loc.): può darsi che il nostro passo rimonti a questa elegia. È però molto allettante un'esegesi alternativa suggerita da Pf., che prende le mosse da un'antica interpretazione etimologica del nome Παλαίμων come vocabolo composto (esperto di lotta, nöAn+oiumv), attestata in un brano di Cherobosco riportato più avanti e implicitamente nello stesso scolio omerico fonte del frammento. Pf. osserva che, se questa antica etimologia 51 riferisce al nostro passo, Palemone potrebbe essere qui una denomina-

zione di Eracle: cf. Lyc. 663 Παλαίμονος | con gli scoli ad loc. Ἡρακλῆς ... Παλαίμων ... διὰ τὸ παλαῖςαι αὐτὸν τῷ Διί oppure διὰ τὸ radoîcar αὐτὸν ᾿Ανταῖον À ᾿Αχελῷον (per la lotta di Eracle contro suo padre Zeus a Olimpia, cf. lo stesso Lyc. 40-42 con lo scolio al v. 41); dagli scoli a Lyc. 663 apprendiamo anche che, secondo Ferecide di Atene (FGrHist 3 F 76 = EGM fr. 76), Eracle si unì alla moglie di Anteo e generò un figlio chiamato appunto Palemone (Hollis, Citations p. 68 nota che sarebbe attribuibile a un contesto callimacheo di

questo tipo la glossa esichiana Κινύφιον, il cui interpretamentum è appunto τὸν ’Avtaîov, ἀπὸ Κινύφου τοῦ ποταμοῦ; per il fiume Cinife, cf. Call. Vict. Sosib. fr.384, 24 Pf.; vd. an-

che Hollis, Light p. 52 s.). In tale prospettiva - continua Pf. - è possibile intendere così il nostro brano:

alcune persone,

Palemone

(Fracle), ti chiamano

in questo modo

mentendo

(cioè dicendo il falso). Per il senso e per la movenza stilistica, cf. p.es. Hom. N. V 635 |

ψευδόμενοι dé cé paci Διὸς γόνον, [Hom.] Hymn.I 5 s. ἄναξ ce AÉyover... | ψευδόμενοι e proprio Call. fr. 174, 14 ψευδόμενοι δ᾽ ἱερὴν φημίζομεν. La codice schile brevità Se

nuova edizione degli scoli all'/liade omerica curata da Erbse ha messo in luce che il A, dove si legge lo scolio che è fonte unica del nostro passo, non tramanda il maψευδόμενοι (come si era sempre creduto), bensì il femminile wevööuevan: data la del frammento, non riusciamo comunque a stabilire l'identità di tale soggetto. queste tre parole risalgono a un esametro di C., le norme metriche da lui osservate

rendono inevitabile un loro posizionamento all'inizio del verso (vd. Introd. IL. 1.A.c.v., vil.,

ix.). La violazione della «prima legge di Meyer» (wevööuevatce) risulta attenuata dal post positivum (vd. Introd. 11.1.A.c.i.): non è dunque il caso di scrivere ψευδόμεναι cè. Vd. app. Παλαῖμον: Se il destinatario dell'apostrofe è Melicerte-Palemone, cf. già Eur. Iph.

Taur. 271 Παλαῖμον e poi [Orph.] Hymn. LXXV

3 Quandt | k1uxANcxo ce Παλαῖμον",

nonché proprio Call. Tamb. fr. 197, 19 e 23 Pf. è Παλαίμονες | con il comm. Lo scolio omerico testimone del nostro frammento rileva che il vocativo properispomeno Παλαῖμον è peculiare, perché il nome Παλαίμων - in quanto parola composta - dovrebbe avere un vocativo proparossitono: a tale riguardo, cf. Choerob. in Theodos. Can., Gramm. Gr. IV 1, p.

395.7 Hilgard εημειούμεθα δὲ καὶ τὸ ὦ Παλαῖμον προπεριςπώμενον κατὰ τὴν κλητικὴν καὶ οὐ προπαροξυνόμενον " Ecrı δὲ εὔνθετον παρὰ τὴν πάλην καὶ τὸ αἵμων, ὃ εημαίνει τὸν ἔμπειρον, Epimerism. alph. in Hom. ss.vv. "Ἄπολλον e Λακεδαίμων Λακεδαίμονος, a 94 e À 15 pp. 93 e 466 Dyck cecnueioran τὸ à Λακεδαῖμον καὶ τὸ ὦ Παλαῖμον, Et. Gud. ss.vv. "AnoAAov (p. 173. 19 de Stef.), Λακεδαίμων (p. 361. 19 Sturz) e ὀλβιόδαιμον (p. 424. 52 Sturz).

566

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Frammento 283 (796 Pf.) Nel v. 517

5. dell'/bis, Ovidio

si augura che il suo nemico

muoia

suicida in un rogo,

come Brotea. Lo scolio ad loc. spiega che Brotea, figlio di Giove, fu accecato dal padre per la sua grande malvagità e, prendendo in odio la vita, si gettò in un rogo: lo scolio aggiunge che la vicenda era narrata da 'Dario'. Poiché in alcuni scoli all'/bis il nome Darius è una storpiatura di Callimachus e si riferisce due volte a un'elegia degli Aitia, Pf. propone di attribuire il nostro frammento a C. e, più in particolare, osserva con ogni cautela che il rogo di Brotea potrebbe coincidere con quello menzionato nel v. 6 del lacunosissimo fr. inc. lib. Aet. 251. Vd. l'annotazione dopo il testo. Brotea figlio di Giove ricorre - del tutto a sproposito (vd. l'annotazione di La Penna) nello scolio al v. 297 s. dell'Ibis: la redazione del codice H specifica che egli impazzì, preparò un rogo e vi si pose sopra. È assai dubbio che, come congetturò S. Eitrem, «SO» 11 (1932), p. 112 s., Brotea coincida con Batraco, il costruttore del tempio di Giove Statore a Roma.

Secondo l'Epitome dello pseudo-Apollodoro (II 2), Brotea era un cacciatore che non onorava Artemide: reso quindi folle dalla dea, si gettò nel fuoco.

Frammento 284 (804 Pf.) Tertulliano scrive che Fracle ha in testa una corona di pioppo o di oleastro o di apio. Queste notizie sono incastonate fra due menzioni di C., l'una relativa a Fra e alla sua corona di vite

(fr.204), l'altra ad Apollo e alla sua corona di alloro (fr. 191). Sappiamo inoltre che la testimonianza su Eracle conla corona di apio, benché priva di un esplicito richiamo al nostro poeta, si riferisce a un luogo della sua Vittoria di Berenice, dove l'eroe stesso parla di tale ghirlanda, destinata a premiare i campioni nemei (fr. 156, 2). È verisimile, dunque, che anche i riferimenti di Tertulliano a Fracle con la corona di pioppo o di oleastro derivino dalle opere di C. Per quanto concerne la ghirlanda di pioppo, Pf. suppone che C. la menzionasse insieme alla cattura del cane infernale Cerbero da parte di Fracle, sulla quale verte il fr. inc. sed. 515 Pf. (riguardo all'Ade, cf. anche fr. inc. sed. 628 Pf.). Risulta infatti che l'eroe, in occasione

di quella fatica, trovò il pioppo sulle sponde dell'Acheronte e se ne incoronò: cf. Theocr. II

121 κρατὶ δ᾽ ἔχων λεύκαν, Ἡρακλέος ἱερὸν ἔρνος con lo scolio al v. 121 a (Ἐρατοεθένες Ev) Ὀλυμπιονίκαις (Ὀλυμπιόνικος cod: corr. Jacoby; FGrHist 241 F 6) φηεὶ τὸν Ἡρακλέα κατελθόντα εἰς “Διδου εὑρεῖν παρὰ τῷ ᾿Αχέροντι φυομένην τὴν λεύκην καὶ αὐτῇ ἀναςτέψαεθαι, ἣν Ὅμηρος ἀχερωΐδα καλεῖ (Il. XII 389 = XVI 482; vd. il comm. di Leaf al primo brano omerico e cf. 1 passi raccolti da Jacoby nel comm. al frammento di

Eratostene), Schol. (AD) Hom. I. XII 389 Ἡρακλέους ετεψαμένου αὐτῇ ἐπὶ τῇ τοῦ KepBépov νίκῃ, Serv. in Verg. Ecl. VII 61. Sono note alcune erme di Eracle con la ghirlanda di pioppo: cf. LIMC Herakles 1174-1176, 1179. In poesia cf. inoltre Verg. Ecl. VII 61, Georg. II 66, Aen. VIII 276 s., Ov.

Her. IX 66, Phaedr. LX 4, Sen.

Herc.

fur. 893

s.,

912, Herc. Oet. 578, 789, 1640 s., Stat. Silv. III 1, 185. In merito alla corona di oleastro, è possibile che - come congetturò Schneider - C. ne facesse parola quando rievocava l'istituzione dei giochi olimpici da parte di Fracle: oggi sappiamo che questo tema spetta al Rito nuziale eleo nel terzo libro degli Aitia (frr. 178-180). La ghirlanda di oleastro (κότινος) è il premio degli olimpionici: cf. Aristoph. Plut. 586, 592, Theophr. Hist. plant. IV 13, 2, ep. adesp. Anth. Pal. IX 357, 4. A favore dell'ipotesi che Eracle se ne coprisse il capo quando fondò gli agoni olimpici, si osservi che, stando al resoconto dell'elegia callimachea offerto dallo Schol. (AD) Hom. I. XI 700, l'eroe inaugurò quelle gare in prima persona (vd. il comm. ai frr. 178-180). Vd. l'annotazione dopo il testo.

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INDICI

Index nominum et verborum Numeri

nullis litteris praepositis instructi fragmenta

significant, quae vocabula ipsa

Callimachea tradunt. Quod ad vocabula ex testimoniis, scholiis et Diegesibus Mediolanen-

sibus excerpta attinet, ex 115 desumpta invenies tantum nomina atque verba potiora sive poetica. Quae e testimoniis desumpta sunt, siglo «cf.» significavi. Quae in scholiis ad singula fragmenta leguntur, praeposita littera «S» notavi (e.g. S 213.65-68 = Scholium ad fr. 213.65-68). Dieg. Mediolanenses littera «D» indicavi (e.g. D 211-212 = Dieg. Mediolanensis ad frr. 211-212). Versionem Catullianam «Comae Berenices» (fr. 213) siglo «(Cat.)» significavi (e.g. 213.36 (Cat.) = versionis Catullianae versus 36). Asteriscus unus * omnibus additur, quae quamquam in textum recepta, non tamen sine dubio inserta sunt, aut quae viri docti supplendo vel coniectando restituere conati sunt. Duos asteriscos ** omnibus 115 locis invenies, ubi lectiones coniecturas et supplementa in apparatu critico tantum notata laudavi. Littera «(N)» (Le. «novum») verba indicantur, quaecumque nondum in LSJ eiusque supplemento inveniuntur; litteris «(s.d.)» semel dicta vocabula notantur; cruce * vocabula

corrupta significantur; siglum «(inc.)» (i.e. «incertum») usurpatur, quotiescumque de verbi genere numero casu modo tempore persona ambigitur; nullo additamento genus masculinum et casus nominativus indicantur.

ἀάτην 151.2; -ouc **174.75

ἄβατον (inc.) **197, #*198.5 ”ABönp(e) (heros aut urbs) 192 ἁβρόν (acc. masc.) 166.14 ἀγαθήν 215.4; -ai **184.7

ἀγινεῖ 192 üyıcreinv *156.21 ἀγκύρης **193; cf. D 211-212 ἁγνόν (acc. n.) 165.3 ἄγραδε (s.d.) 171 ἀγριάδας 174.13 (ἄγω) ἄγε “178 (ein’ ἄγε); ἄγων “187.5, 196.11; ἤγαγεν **144.3; ἄξονται 155.1 ἀγῶνα 156.6 ἀγωνιςοτάς 156.9 ἀδελφεαί *213.51 ἀδελφειοῖο *151.5 (ἄδω) dov (3. pl.) **174.43; vd. ἀείδω ἀέθλιον (acc.) 155.1 ἄεθλος 146.3 ἀεθλοεύνης *213.13/14 ἀείδει 206; -eiv #188, *#215.1; -ov 252;

neıca **163.10; &eten (fut. med.) 174. 5, vd. ἄδω

ἀειραμένη 149.2; vd. αἴρω

ἀέκων 148.4 ἀερτάζων 264 ἁζόμενοι 163.4 ἄημα (acc.) 174.36 ἀήτης 213.53 ἀθάνατοι 174.69; -ovc *213.63 ᾿Αθῆναι cf. D 197-198, D 200 ᾿Αθήνης 203.3; cf. D 211-212

ἀθώϊος **150.3 (inc., nisi schol.)

(AV00) -w 213.46

αἰαῖ 163.13, 198.4

Αἰγαίωνι (Neptuno) 156.6 αἰγιαλοῦ *213.58 Αἴγυπτος 144.8; cf. 213.36 (Cat.) (αἰδέομαι) ἠδέεθη 163.8 "Aide 174.15 αἰδοῖ 184.10 αἰεί 174.60; αἰέν 187.7 Αἴθαλος **181.1

Aidtonoc 213.52 (αἴθω) ἤθετο 166.2 αἷμα 166.7; αἵματι 207; αἷμα (voc.) 143. 2; au(x) (inc.) 144.8 αιν[ 233.3 αἰνολέων 148.21

570

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

(œivôc) -& (inc.) 233.2 αἰνοτάλαντα (acc. masc.) (s.d.) 253 (αἴξ) αἶγας 174.13 (αἱρέω) ἕλες **181.1; eîhe 174.12; ἑλών 149.18, **169.2

αἴρινον (acc. n.) *149.18 (αἴρω) ἄρας **174.20; vd. deipo (aicvuvao) ἠεύμνας 205 (αἰτέω) ἤτεον (3. pl.) 166.10; αἰτεῖεθαι 174.36

αἶψα 230.4 ’Aratoc *174.72 "Ἄκαιρος **174.72

ἀκανθώδει (n.) **272 (ἀκαρτέω) -eî 174.8 ἀκμήν (adv.) 281 ”Axkuovoc

᾿Αμυμώνη (voc.) 165.7, (inc.) *144.4 (**

(patris Urani)

**213.68

(cf. 5

213.65-68)

166.1,

168.1

175.3

ἅλματος 194 (ἅλμη) -αις *149.24 ‘Akobcroc cf. #*D 199 ἄλυρον (inc.) **150.4 ἅμα (adv. aut pracp.) **149.35, **251.7 ἀμαλή 256 ἁματροχιάς 143.10 ᾿Αμβρακία cf. 159 &ußpocinc 196.2 ἀμβώνεεειν 174.34 ἀμνάμων *213.44 ἄμπελος 204 ᾿Αμυκλαίῳ (templo Amyclaeo) 174.24

᾿Ακοντιάδαι 174.51 ἀκόντιον cf. **276 ᾿Ακόντιον

-0 (acc.) 154.3, (inc.) **144.19; ἀλλ᾽

(**-@),

174.26,

*

174.30 **-@); -e 174.40, 174.44; cf. ἘΞ 276

nc, En, Env)

ἀμύντωρ 270.2 ἀμύξειν 174.10 ἀμφί + acc. **187.11 (postp.), 263.2 ἀμφιθαλεῖ 174.3 (ἄμφιον) -a (acc.) “149,31 &upic adv. 165.6, **187.11

tàxoctiov 276

᾿Αμφιτρύων cf. **148 (in adnotatione)

ἀκουούς (N) #7255.1

ἀμφότεροι 166.8; -o10 7184.22

ἀκούω

**197; -euc *163.5;

-éuev

149.11;

ἤκου 144.14; ἀκου[ς *183.2

ἄν + ind. aor. **149.34, 174.7; + opt. Ἐ163. 1, 174.48; inc. **148.39 (nisi schol.)

᾿Ακραγαντῖνοι 163.4

αν 148.7, 184.1

ἄκρον (inc. n.) **196.5 "Axtıccıv 162.12 ᾿Αλαλάξιος (Tuppiter) 174.60 ἀλγήεαι 148.30 (ἄλγος) ἄλγεα (acc.) 275.4 ἀλέγοντα (acc. masc.) 174.65

ἀνά adv. *162.6 (nisi ἀναγίγνομαιυ); inc. (fort. praep. + acc.) 184.1 (ἄν) ἀναβαλλομένους 174.43 (ἀναγίγνομαῃ) (8.d.) ἀνὰ ... ἔγεντο *162.6; sed vd. ἀνά et γίγνομαι ἀναγκῖ vel ἀναγλί 196.6 (ἀνάγω) avfiyev|[ 163.18 (ἀναδίδωμι) ἀνέδωκε *196.3 ἀναινομένου 196.6 (ἀνακαλύπτω) ἀν᾽... ἐκάλυψεν 174.39 (E ἀνὰ... È.) (ἀνακλήζω) (N) ἀνεκλήϊοςεν **162.5 ἀνακτορίην **156.23 (évaxtéproc) -incı cf. S 149 (ἀναλύο) aveAvce *149.34

‘AM toc cf. ἘΞ) 199

᾿Αλητεῖδαι 156.5 ἀλιτρούς 187.14; -fic *174.68

ἀλκαίαις 149.23 GAM (di) 143.9, #*144.19, 146.2, **148.31, *#148.34, 149.29, *164.1, 169.1, 172.1, 174.28, 174.30, 184.18, 203.1, 205, 213.61, *213.69 (**postp.), **2294, 255.1, **265 (in adnotatione); sexto

(ἅλλομαι) ἁλέεθαι 149.33

loco **213.61; ἀλλ᾽ 175.3

ἄναξ (voc.) 166.5; ἀνάκτων 215.8; dvaxec *163.15

ἄλλον 174.27: -o1 213.73; -ο (acc.) 174.62;

(ἀναπάλλω) ἀνέπαλτο **242.2

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

ἀνας[ 156.25 Gvöcenc *215.2 (évécco) -εεθαι 179 (ἀνατέλλω) ἀντέλλοντα (acc. masc.) 213. 49

571

ἀπευθής 194; -ἔα (inc. n.) 148.25 (**nom.) ἀπεχθέα (acc. n.) *187.12 ἀπηναίους (s.d.) 187.5

ën(6), ἀφ᾽ 143.4, **144.8, **144.19, 149.5 (postp.),

163.13

(postp.),

164.1,

166.5,

(ἀνατίθημι) ἀνέθηκε **213.8 (ἀνατρέπω) ἀνέτρεπον (3. pl.) 174.68 ἀνδίκτην 149.33 ᾿Ανδρόγεως cf. D 206 (ἄνειμι) ἀνιόντα (acc. masc.) *213.63 ἀνειρομένῳ 154.2 ἀνέμων 143.10 ἀνερχόμενος *187.4; -nv 174.35; ἀνῆλθον

ἀποδ- **144.19 ἀποκναίοοντες 149.13 (ἀποκόπτω) ἀπέκοψαν **187.8 (ἀπολαύω) ἀπέλαυεα 213.78 (ἀπολέγω) ἀπειπάμεναι *166.18 (inf. act.

ἀνήρ

196.7;

(ἀπόλλυμι) ἀπόλοιτο 148.21, 213.48

ἄνδρα

᾿Απόλλων cf. 191, 202, D 182, D 186-187, *D 189-191, D 207

@. pl.) *184.23

163.5, 263.1;

ἀνέρος

149.25;

169.1, 174.24, 174.33, 174.57, *184.22, *187.8, 205, 213.77 (postp.), 260.1

(postp.)

aut part. med.) ἀνδρός

163.1,

ἀνδρί 274.1;

163.9, 275.3, ἄνδρας 186; ἀνερί 250.1

ἀνθρώποις 213.60 (ἀνιάω) ἀνιῶντος (n.) 260.1 Gviypoi #187.12; -ἡ 174.14 (vin) -αι 275.1; -aıc **174.75 (ἀνίημῃ) ἀνῆκε 146.1 avovv[ 196.7 ἀνταπάμειπτο **148.18

ἀποπεμπόμεθα 174.13 (ἀποςτείχω) anecrıye 156.18 ἀποςτρέφεται *183.5 (ἀποτέμνω) τάμοι ... ἄπο 154.1 ἀποτιμήοουειν 156.8 ἀποτρί 196.13 (**@rotpéyewv, **rotpo-

ἀντί

ἀπρήκτους (fem.) *184.23 (ἅπτομαι) (tango) ἥψαο 174.45 (into) (incendo) ἁψάμενον (acc. n.) **

151.6,

πίη)

166.10, **174.45 (fort. postp.,

nisi ἀντιδέχομαι) ἀντιάςαντες

ov,

7258 (oc,

Pr,

Pro,

he,

#00)

᾿Αντιγόνη cf. *D 208

148.24

ἄπυετος (fem.) *266

ἀντί ... δέξαεθαι *174.45-48; sed vd. ἀντί

ἄρ(α) **148.20, 149.5, **254; pa 184.5;

et δέχομαι ἄνωθεν 174.32 ἀξενίην **148.39 (nisi schol.) ἄξοος (fem.) *203.2

᾿Αργείων 148.36, 151.2; Ἄργει 143.12 ᾿Αργοναῦται cf. D 211-212 ”Apyoc (acc.) 146.2, 156.18, inc.) 148.40

ἀξολίῃ 148.24

ἀοιδῇ *154.1 N), **215.4 ἀοιδός *#215.4 ἀολλε- **236.3 "Aövule) **193 ἀπαγχόμενος 187.7 (ἀπαρνέομαι) drnpvilcavio **244.6 (&rac) ἅπαν *213.61 (adv. εἰς &.) àrorvetoc (fem.) **266 (ἀπελαύνω) ἤλαεαν ... ἄπο 149.28 ᾿Απέεας (heros) cf. **147 ᾿Απέεας (mons) cf. 147

καί pa 257

(**acc., nisi schol.); cf. D 203

ἀργός (nitens) 213.44 ἀργύρῳ *174.30 (**-ov) Apyo 211 ἄρδιν 169.2 dpeccouevoc 7156.17 (**&pecxbuevoc) ’Apectopidéov **144.8 ’Apnia (inc.) **222.1 ’Apwnönc 166.13 ἀρίθμιος 213.61 ἀριοκυδής (fem.) (s.d.) 146.1 ᾿Αριςταίου (Iovis) 174.33

572

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

”Apitoc cf. S 213.65-68

#*144.5 αὐτός 154.1, 166.1, 169.2; -ἡ 187.9, 213. 57, ic 166.15; -nv 174.38; -ou **144.

᾿Αρκτοφύλαξ **213.68 ἅρματι #*207 ἁρμοῖ 143.4 ἁρπαγίμης **266 (ἁρπάζω) fprroce **213.55 ἁρπακίτ #148.20 CN) &pcevt 174.3 ’Apcwòne (ID 213.45, 213.54 ᾿Αρτακία (fons Cyzicenus) cf. 212 *Apreuic 199.2; ᾿Αρτέμιδος 174.22, 17; cf. 269, *D 159-160, *D 182 ἄρτι **149.21, 213.51

15; -aîc 174.75

(αὔω) αὐόμενον (acc. n.) **148.24 (ἀφαιρέω) ἀφεῖλε v.1. 275.2

ἄφαρ 162.6, *213.56

184.

*Awpactoc 174.74

ἀφύεαντες 149.23 ἄχερδον “148.15 ἀχθήναεα (s.d.) 162.7 ἀχρής (inc.) (s.d.) **242.2

ἀρτύν “184.19 ἀρχαίου 174.54; -oıc (n.) 213.64 &pyuevoc 174.56; ἀρχομένη **162.4 ἄεθματι 143.9 ’Acin cf. 213.36 (Cat.) ἀςκηθεῖς (acc. fem.) 174.69 "Accòpioc cf. 213.12 (Cat.) dctaydecci 174.46 ἀςτήρ “149.5; 213.73

dcrépec

166.8, **213.2,

τἀφελές (inc.) 261 ᾿Αφέοας cf. 147 dofke v.l. *#275.2 ἀφνειοῖς 187.7

(Baivo) ἔβη 174.38; ἔβηεαν 213.46 βάκτρον (acc.) **151.7 Bouc

*149.10; -Gc **165.1; -& (acc.) 213.

53 *

(βάλλω)

βάλῃειν

**161-162 (in adnota-

tione); βαλλομένοις **184.11

&ctpov (acc.) 213.64, (inc.) 261 (ἄετυ) &cteoc “184.23

Bapvvouévn “162.2 βαρύς 174.22

ἔλετυλος (Crotoniates) cf. 273

βαειλεύς **192; βαειλη[ 188 (**-fia) βατιή **148.13 Βάττου (Cyrenes conditoris) **215.2 βελέων 274.2 Bepeviketwoc (ad Berenicen II spectans) 213.

ùctvpov (acc.) 174.74 ἀεχάλλω 213.76 ἅτε (sicut) 144.7 ἄτη vd. ἀάτη ᾿Ατράκιον (acc. masc.) 254

ἅττα 154.3

62

Βερενίκης (II) 213.7

oò 149.12, 174.40

βίον 213.40

αὐγάζειν 187.15 (αὐδάζομαι) ηὐδάεατο 174.21 adônécenc 277 αὐλείην 148.15 αὔλιος *149.6 αὖον (inc. n.) *196.5 αὔριον 144.17

Βιοάλται cf. D 207 (βλέπω) ἔβλεψεν 213.7 βληχάζει **148.28 (βλώεκω) μολοῦεαι *184.22

αὐτάρ 174.32, 174.38, 174.72, 215.9

Pöctpvxov 213.8 Botév (inc.) 151.16 (nisi schol.); -& (acc.)

αὖτε *174.18 αὐτίκα 174.42 (αὐτίχ᾽

βοῇ 174.61

βοηθόε (fem.) **182 βομβύκων **143.17

215.5

αὖτις **169,2, **174.18

Bovyevéoc 143.4 (**fem.)

αὐτόθι 156.18

βουδόκον (acc. masc.) (s.d.) 155.2 βουκταειῶν *184.19

Αὐτομάτης

*164.1; -n (voc.) 165.8, (inc.)

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

573

γῆς 143.4

βουκτέανος (s.d.) #151.8 βουλομένη **148.36 βουπόρος 213.45

yivecde (ind. praes. aut imperat. praes. aut impf.) **209, γιγνόμενον (nom. n.)

274.2; γένωμαι **213.61; γενέεοθαι 177; Éyevro *162.6 (sed vd. ἀναγίγνο-

βοῦς **213.71, 213.72; βόες 174.11; βοῶν 149.5, 166.10

Bovgovinv (s.d.) 166.6

μαι), **236.4

γλεύκεος *196.4 γλύκιον (inc.) v.l. #196.1; sed vd. γλυκύς (yhvkdc) γλύκιον (inc.) v.l. #196.1; sed vd. γλύκιος γλυφάνων *203.2 (#*0) γλώςεοης 174.9; -αν * 196.4 γνώματος * 184.9 γνωτός 213.52 γόητας 174.64 (γόνυ) yobvaccıv **148.6

Bobrnc cf. 213.67 (Cat.) et ἘΞ. 213.65-68

βραχίονος 257 (Bpayxdc) Bpaxen *149.29 Bpéyuart 149.28 Bpévoc cf. 160 Bpicodc **174.71

Bpotéac cf. 283 βρύα 281 Bövn 193; -nc 277 γαῖ(ο) 196.3, 200; -nc**149.8; γαιαί[ 233.4

yodv **148.6

Γάϊος (miles Romanus) cf. D 209-210 γαλήνης "156.22 γαμβρός 174.33

γουναζ- **148.6 ypauno(acc.) 163.7; ypauuora (acc.) 172.2

γάμου

ypnöc 162.4; -öv 174.67 γυλλός 228.2 γυναικείων (n.) 213.78 γυνή 162.3

ypouuoicw 213.1

174.18, 174.50; -ον 174.22

γάρ 143.4, 148.25, **148.36, *156.14, 163. 15, 174.4, *184.16, **196.13, 203.3;

tertio loco **166.3 (où γάρ), 174.23 (οὐ γάρ), *184.22; quarto loco 166.11

(οὐχ ... γάρ), 174.30 (où ... γάρ); δὴ γάρ 174.51; εἴθε γάρ 184.2; ἦ γάρ 166. 5; καὶ γάρ *163.3, 203.3; οὐ γάρ 162.5,

166.3, 174.23, **175.1; οὐ(χ) ... γάρ

166.11, 174.30

y(e) #149.13, **151.6, **156.23, **175.2, #*196.16; νῦν ye "174.29, post pron.

pers. οὖ y{e) 174.5, 174.32, 265; Üy(e) 166.3 γεγειότερον (acc. masc.) 156.5 yeivecOe (ind. praes. aut imperat. praes. aut impf.) *209 (**-a1)

γειόθεν (s.d.) *213.49 (v.]. Ἐξγηόθεν) γείτονες *213.93, (voc.) 149.12; γείτο[ν162.4

γενέθλῃ 146.2 γένος 213.48, (inc.) 196.1 γέρων **148.18, 174.66; γέροντος 166.11; (nisi

schol.),

1543,

Aavobc

*

(rex

Argivus)

(v.1.), 144.6, 1514

203.4;

-oò

143.4

δάφνη cf. 191, D 189-191 6(€)

γενεῆς 144.8, **151.6, 166.7

γέρον **150.5 156.10

δαίμονι 262.2 (Soc) δαιτί *154.3 δαίτης 205 δαιτυμόνων 163.13 δακεῖν 148.27 δάκρυει **213.63 (δακρύω) δάκρυεα vel -c(a) vel -cac vel -c(£) vel δακρύεας 198.3 (Aavaot) -@v v.l. #*143.4

144.11, **148.9, **148.10, 148.18, 148.20, **148.33, *149.5, **149.7, 149.9, 149.11, 149.17, 149.19, **149. 22 (v.1.), *149.32, 151.11, 154.1, 154.2, 154.4, 155.1, 156.8, 156.18, 156.20 (bis), 156.21, **157, 162.6, 162.7, 163. 7, 166.5, 166.7, 167.1, 173.3, 174.12, 174.14, 174.21, 174.26, 174.38, 174.39, **174.40, 174.48, 174.50, 174.53, 174.

574

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

64 (bis), 174.71, *174.74, 182 (initio carminis), 184.5, 184.10, 184.14, ** 184.17, 187.6, 187.8, 196.12, 213.55, ##213.59, **213.68, #213.78, **215.2, 215.8, **230.4, **242.2, 252, 253, ** 254, 263.1, 270.1, 274.1, 275.2; tertio loco 174.12, 174.36, 174.62, 174.74, 213.55, 215.7; δέ te **148.27, 199.1

δεῖ 144.6, **209

δειδέχαται (3. sg.) 189 δειελινήν 174.12 δείλαιοι (voc.) 196.5 δείλατα (acc.) 149.17 Δειπνιάς 189 δεῖπνον (acc.) *148.23 δέλτοις “174.66 Δέλφιον (acc. masc.) **174.20 Δελφοί cf. 158 Δέλφυνα cf. 190 Δεξιθέης Macelus filiae) 174.67 δερκόμενοι 174.11 δέρμα (acc.) 264 δετῷ vel -ὦ vel -@v (inc.) **148.10; δεταῖς #4148,9

δεύτερον (adv.) 174.16 (bis) δέχεται 174.61; δέξαεθαι **174.48 (sed vd. ἀντιδέχομαι)

δή #143.11 CT μὲν δή), **149.9: δὴ γάρ

174.51; δἤπειτα (= δὴ ἔπειτα) Ἐ254: ὃ δή 259 (fort. = ob quam causam); inter praepositionem et subst. 172.1

(διδάςκω) ἐδίδαξεν 166.1 (δίδωμι) δῶκε 148.2; δῶκ- 150.4 (ka, Ἐβδῷκί(α), **50x(£)); δοῖεν 148.20; δότε **188

(δικάζω) ἐδίκαζε **187.6 δίκρον (acc. masc.) 149.2 Διονυειάδα (Naxum) 174.41 Διόνυοος cf. D 204 ἐδίφρου 144.3 (ἔπος, **-@); τον Ἐ144.3 δίχα adv. #*213.73 (cf. *S 213.73)

διχθαδίους 149.32 (διώκω) ἐδίωξε 174.57 δοιαῖς 149.17 δοκέω 174.44 Δολιονία οἵ. 212 δόλον 149.16 δόμων 174.15; δόμο- vel δόμω- **230.4 δορίδα 174.11 δόρπος **156.16 δρεπάνου 148.25 ôpou(é) **174.73 δρωμῶοειν (ind. aut coni. aut part.) *144.6

δυερῇ 148.24 δυθμήν 149.6 δύναται 187.15 δυνατόν (nom. n.) 262.2 δυςηβολίοιο (s.d.) 148.29 δυομενέων **148.32 δωδεκάκις 144.3 δῶρον (acc.) *187.5

δηθάκι * 144,9 Δηλίτης cf. 170

ἔαρ (sanguinem) 149.22; ἔαρ vel etap (inc.)

Δήλῳ 166.6, 174.26

(ἔαρ) (ver) εἴαρος **213.70 ἐγκαλέουεα **162.3 ἐγκατέλεξεν 163.7 (ἐγκλάω) ἐνικλῷᾷ 174.22 ἔγχος (inc.) *181.1 = **261

δήμιον (acc. n.?) “187.2 δῆμος *187.7; -ov **201; δημόθεν 196.15 Δημώνακτα (Telchinum ducem) 174.66 δηναιόν (acc. masc.) *203.2 (**-0d, **-0) Anode 162.10 Sud) + gen. 166.4, 213.45; + acc. **150.2 (nisi schol.), 196.4, 213.55, **213.73; inc. **148.11

(διαβιβρώεκω) διέβρων (3. pl.) 149.31 διαθλίβουειν (s.d.) 275.1 διάπλεων (acc. masc.) #192 διαπληςς- **148.11

**213.91

ἐγώ

173.3, 213.62, 215.9, 260.2 (in crasi

κὐγώ); ἐμέθεν 184.4; μου 144.9; ἐμοί ##150.5

(nisi schol.),

156.12;

μοι

148.

13, **151.16 (nisi schol.), 154.4, 163.3, *178, 188, 213.75, ##215.4, ἐμέ ἘΣ 213.7 (in crasi κὴμέ); ue **148.12, * 151.2, 163.8, 163.11, 174.28, **192, 200, 213.7, 213.51, 213.55, 213.63, **

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

(ἐκβάλλω) ἐξέβαλον (3. pl.) #184.9

213.69

ἔδεθλον (inc.) *238.1 &dectod (subst.) 260.1 ἐδνῆςτιν (s.d.) #166.10 (**£ôvncriv) Eövov (acc.) 143.1 ἔδος (acc.) 203.4 ἔθειν 146.2 et + ind. praes.

575

ἐκείνου 184.20; -nc 174.44, 213.75; -o (acc.) ##*213.57; vd. κεῖνος

163.5, 195.2, **197, 262.1;

et καί 213.69 (**+ ind. praes.); inc. 196.14

εἶαρ vd. ἔαρ εἰαρινόν (adv.) **213.70 εἰδομένη 166.13 εἴθε *184.2 (εἴθε γάρ) εἴκουειν 213.48 (εἰκών) εἰκόνα *187.9 Εἰλείθυια cf. D 182

cm)

ἐλέγξας 186 ἐλειήταο (s.d.) #*213.65 = *278 (FFE EU -

εἴληεαν #*149.25; vd. ko

(εἰμί) &cti(v) **150.1 (nisi schol.), Ἐ151.9, #162.9 (**fcruv), **#192 (écr’); eici 174.49; Eouc 238.3; ἔοι 146.3; εἶεν 174. 48; ἔμεν 166.20; ἐόν (acc. n.) 146.2; Éceon *151.8; ἔεεεθαι **174.50; Ada 203.2; ἦν 174.26, 174.40 (in crasi kñv), *184.16, 213.77, (inc.) **148.1,

163.15,

180.4; &cke 166.3

(εἶμι) eîcuv) 149.6, **213.68; ἴοι 167.1; ἰόντα (acc. masc.) **162.5; ἴεν #*277 εἵνεκα vd. ἕνεκα εἶπον νά. λέγω (εἴρομαι) εἴρετο 174.38 εἰς, ἐς 143.5 (bis), 148.1, *166.14, 174.13, *#17420, 174.41, *174.77, *175.2, * 184.17, **187.4, 213.56, *213.61, 275. 3

(eic) ἕνα 156.20; μιῆς “193 CN);

(ἐκκαθαίρω) ἐξεκάθηρε *279 (**8fexddope) ἐκπεμφθείς **187.2 ἔκοταεις 166.15 (ἐκτελέω) ἐξ.... ted écavtoc**184.4; sed vd. ἐκ (ἐκτέμνω) ἔκταμε **187.11 ἐκτός + gen. 163.12 (postp.) ἐλαύνει 254 (ἐξ ἔλαυνεν); ἤλαςεε *213.55 ἐλάφου 149.10 ἐλαχύς **156.16 (ἔλδομαι) ἐελδί 14831 (ἐξ ἐελδομένῃ-

μίαν

196.8, 275.2

(eicéyo) Echyaryev v.l. **144.3 (εἰοοικίζω) Ecoxicato 174.19 εἰοορόω “213.66 εἰεπνήλαις (s.d.) 167.1 εἴτε 151.2, **184.2 ἐκ, ἐξ 144.13, 149.22, 149.24, 162.12, 168. 2, 174.50, *184.4 (nisi ἐκτελέω), 186, 199.1, 270.1, 275.2 &x- 196.12

TOO)

Ἑλειήταο **278 Ἑλένης “143.5 ἐλιχρύοοιο **156.4 Ἑλλάδος **209 ἐλλεβόρῳ *149.18 ἐμμύχιον (acc. n.) (s.d.) #*174.21 ἐμόν **215.8; -n 174.23, 215.1; -fic 174. 48; -nv 163.7; -όν (acc.) 163.3

ἔμπαλι 184.11 (Ξἔμπαλιν) ἐμπατέουειν **213.69 ἔμπλεον (acc. fem.) 257 ἐν adv. 174.64 (bis); praep. + dat. 144.10,

#*1534 (nisi schol.), *1543, 156.14,

174.10, 174.24, 174.37, 174.59, 203.4, 213.1, 213.7, 213.61, 213.64, **215.4;

ἐνί praep. + dat. 149.29 (postp.), 172.1, 174.55 ev- 151.16 (nisi schol.); ev[ 217.5

ἔνδειξας *184.20 Evex(a) = ὅτι 174.6; οὕνεκ(α) = ὅτι *143. 7, eivex(o) + gen. 174.68; τοὔνεκεν = hanc ob rem *162.9 &venov 149.15; fvenec tec); Evenev 144.11

*184.11

(**Évve-

ἔνθ(α) demonstrat. 192 (£. ... οὗ) ἔνθεν

relat.

(postp.)

*174.76,

*187.4;

inc.

189

576

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

ἐνναέτης (incola) 149.36 &vvüccavto 174.60 ἐννύχιος **149.7; (acc.) 174.21

-nc

(ἐπιλέγω) ἐπεῖπεν cf. **D 199; ἐπειπάμεναι **166.18 (inf. act. aut part. med.); *213.13/14;

-ov

(ἐντίθημι) ἐν ... ἐτίθει 149.17; ἐνέθηκα ἘΣ 1733;

ἐν

... θῆκε

*187.13

ev...

θῆκεν); ἐνεθήκατο 174.66 ἐντός + gen. 148.28 (postp.) ἔξαιτον (adv.) 184.9 ἐξαπατήςῃ (coni.) **148.33 ἐξενέπειν **174.7 ἐξερέω 154.2; ἐξερέῃ **275.4 (£Sepvyyavo) ἐξ ... ἤρυγες 174.7; ἐξερύγῃ *2754

ἐξέρυς᾽ 148.16 (ἐξέρυς(α) aut ἐξέρυς(ε)) ἐξεείαι ?184.22 ("nv (vl), #00) ἐξεῦρον (1. sg.) **163.10 ἔξοχον (adv.) **199.2 (£öc) é@v (tuorum) **143.3; &6v (acc.) (suum) **146.2; vd. ὅς (ἐπάγω) ἄγωειν ἔπι "149.20 (sed vd. ἐπί); ἐπήγαγεν v.l. 144.3 (᾿ ξέἐπηγάγετί(ο)) ἐπακουούς 255.1 ἐπεί

149.13, *149.16, #149.35, **187.10, 206; tertio loco 174.7; ere 196.16 (**

ἐπεί tertio loco) ἔπειμι (ab einı) #215.9 ἔπειτα **149.35 (ἔπειθ᾽), 254 (δὴ ἔπειτα in crasi δἤπειτα (**Èreto)) ér(1), ἐφ᾽ + gen. **169.1, *193 (**postp.), #*203.1; + dat. *149.30 (postp., nisi ἐπιμαίνομαι), 162.9, 166.2, 171, 174. 34, 174.61, 184.8 (postp.), 187.6, *187. 7, **193 (postp.), 207, *213.60 (postp.), ##215.3, 266, 281; + acc. **143.9, ** 149.3, 149.10, 163.14, 166.6, 166.11, *#187.2, 196.5, 196.17, *203.1, 213.57,

#k213.68 (postp.); inc. *149.20 (ἔπι fin. vers., nisi ἐπάγω), **175.2, #*2294

ἐπίδημος (fem.) 174.26 ἐπιζέφυρος **267 (in adnotatione) ἐπικείμενος **148 (in adnotatione); ἐπὶ ... ἔκειτο **149.23 ἐπικλινές *151.9 ἐπικλινεςθ- **151.9 ἐπικρεμάεαι (opt) 163.2

ἐπειπόντες *187.10 (ἐπιμαίνομαι) μήνατο … ἔπι “149.30; sed vd. ἐπί et μαίνομαι ἐπιμάρτυρες 174.48 ἐπιμε- #*229.4 ἐπινίκιον (subst.) (acc.) 143.3

ἐπιπωλεῖεθαι **184.18 (Enuceiw) Eneceıca **173.3 ἐπιςπορίην **187.13 ἐπιςτάμενος **213.2 ἐπιοςτρέφεται **213.60 ἐπίεφατος cf. **276 (v 1.) (Enıräcco) Êtétaccev| 196.7 (ἐπιτίθημι) ἐπέθηκα 173.3; ἐπὶ … τεθείη * 149.23

ἐπιτιμί 166.19 ἐπιτρέχον (acc. n.) 174.46 ἐπίφατος cf. #276 (v.1.) ἐπιφράεςεαιτο 154.1 (ἕπομαι) ἕπεεθαι **174.50 ἔπος 143.6, ##215.3, (acc.) 174.21, 174.39, #*213.71, 213.72 Ἐπόψιον (acc. masc.) (prob. Iovem) *187. 14

ἑπτά 174.17 ἐπωμίδας **143.9 ἐπωνυμίην “156.15 ἐπώνυμον (inc. n., fort. νος.) “164.1

érmg- 230.6 ἔραζε 168.1 £pyacınv 213.50 ἔργον 203.1, (acc.) 149.15; -a (acc.) **187.

11, (ine.) 149.25

(Epyo) ἐεργομένη 7148.28 ἔριν 148.1 ἕρκος #209 ἕρμαιον (acc.) (fortuitum lucrum) **148.16

ἑρμαίου (maceriae) *148.16 ἕρπει 204 (£pvyyavo) Hpvyec **174.7 ἐρύθουεα 184.10 (ἐρύκω) ἐρύξει 213.71 ἔρυμα 274.2; eipvu(o) (acc.) **174.73 ἔρχεο 215.7; ἐρχομένη **162.4; épyouev-

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

213.67 (**tpyéuevoc); ἦλθες 186, 187. 5 (vl. Ῥκῆλθεν); ἠλθείν) 143.6, 166.5, *174.12, 252; ἥλυθ(ε) 196.11; ἐλθέμεvor 162.11

(Epac) ἔρωτα 174.75 Ἔρως

577

εὐχομένη vel εὐξαμένη **213.9 ἐφεζομένας 165.5 ’Evécov 205 "Egınnoc cf. **148 (in adnotatione)

ἐφυδριάς (voc.) 165.2 Ἐφύρῃ (Corintho) 156.9 ἐχῖνον 155.1 (ἔχω ἔχει 174.9; ἔχουει v.l. **184.16; &x(e)

166.1

ἐεθλοί **209 ἐςχατίην **213.65 = 278 ἔσχατον (adv.) 275.4 ἑταίρης 174.42

(imperat. aut impf.) 230.6; &xew 166.16,

260.1; ἔχειν[ 148.26 (* Eye); ἔχων 169.

ἐτεοί **156.10; -6v (adv.) **148.34, 174. 9; -ῶς **174.39 ἑτέρη 166.11; -ov (n.) 169.2, (inc.) 149.24 (**masc.)

eîye200; Ecxev255.2;&cxov (inc.) 156.23 tooc 156.18 (ἕωο) εἷος (+ ἄν) **148.39 (nisi schol.)

(Exnc) -ouc **148.9 ἐτητυμίῃ 174.76 C*-Nd)

Ζεύς **150.2 (nisi schol.), 151.10,

Ex(1), ἔθ᾽ 151.9, 156.21, 163.15, 166.9, 174.51, **203.1, 213.77, **255.1, 263. 1

(&xöc) ic **151.6; -@c *174.39 εὐαγές “162.12 εὑδούεης 166.14 edectoî 215.7 Εὐθύκλεες (Locre) 186 (Locrus)

**270.2;

174.61;

Διός 146.1, **148.30, 174.36, 179; Ζηνός 146.3, *174.33, 175.2; Διί 201; Znvi 143.1; Ziv(o)

#163.4; Ζεῦ 215.8;

cf. 202, 269, 283, D 182, D 186-187, D 204 Zepvpiric (Venus Arsinoe) 213.57

ed **201

Εὔθυμος

2, #*187.5; &ovrı 201; ἑξέμεναι 174.27;

ζέφυρος cf. 267 ζήλῳ 156.8 -ov

*201;

cf.

ζωῆς 166.4 Cod (inc.) **163.16

202

ebkpnvov (acc. n.) 174.72 (εὐνάζω) εὐνάεατο 174.1 (edvorñc) -Éc (inc., fort. voc.) 164.1 edvic (uxor) 146.1 Εὐξαντίδος 166.7 ἐύξοον (nom. n.) *203.1 edopreito 174.42 Εὔπαλος (Tulidis conditor) **174.71 ἐυπλοκάμων (fem.) 174.73 Εὔπολος (Iulidis conditor) **174.71 Εὔπυλος (lulidis conditor) “174.71 εὗρον (1. sg.) **163.10 Εὐρυδάμας (Thrasylli interfector) **263.1 Εὐρυεθῆι **151.11 edciroic (fem.) **174.59 edt(e) + ind. *149.5 ebrbkocev 149.32 Εὐφητηϊάδαο *143.7 εὐχήν **148.19

T 143.14, **148.1, **148.22, 149.24, 167.2 (ἠέ), 196.5; À ... À ... À 275.3; πάροε ...

+ inf. 1654

ἢ 174.8, #213.7; à γάρ 166.5;À μὲν δή ἘΣ 143.11 n (litteram) **163.10

ἡγεμόνα 163.6

ἤδη 174.1

ἠέρι 213.7; ἠέρα 213.55 ἧκα 149.11 ἥκατί(ε) 149.13 ἤλεκτρον (acc.) 174.31 (ἠλεόὼ -& (adv.) 174.66 ἥλικες (fem.) 174.42 {fMoc) ἠελίου 149.6 (CHA1c) Ἦλιν 179 ἡμεῖς 174.53 muév **143.11 ἡμετέρης **215.3; -nv *174.77, - ov Ἐ149.

578

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

12 (**-ov (acc. n.)); Nuetepo- *143.3 Οὐ ἡμέτερον (acc. masc. aut n.))

(ἠμῦ À 17438, *184.5

148.22 (inc.), 149.14,

-0d

174.49;

174.38,



174.42

156.6; -6v

**

148.34, 262.1; -oi 199.1; -@v 143.2, 149.8, 174.65, **188, **213.69; -oîc 213.8; -odc 203.3

ἤν (= ἐάν) 174.28

ἡνίκ(α) **148.1 ἡνιόχων 143.8 (**-ov)

θεόεδοτος **151.18 (nisi schol.) Bep[ 144.13 (**depu-) θερινόν (adv.) **213.70 Θεςμοφόρου (Cereris) 162.10 Θεςεαλός 263.1

ἦνις (nom. sg.) **178 (vel acc. pl.?)

na 230.7 Ἠπειρώτης cf. 159 npl 250.2

Θεύδοτος (miles Liparensis) **196.1

(in fontium

app.) Ἥρης

θεός

(fem.);

ἡμιθέης 174.71 ἡμιόνῳ vel -ov #*156.10

Ἥραιον cf. D 205 Ἡρακλῆς cf. 145, 284, D 204 ‘Hpecidec (vel ’Hp-) **164

θέμις **161-162 (in adnotatione), 165.4

165.2; -n 204 = **243.1; -nv 174.4;

cf. 269, S 148.40, D 203

ἠρίον (acc.) 143.7 ἥρως (voc.) 206; cf. D 201-202 hpôccar (inc., fort. voc.) 165.1 Ἡειόνη (Laomedontis filia) **256 (Man) Av #149.9 ἠχήεντι **151.3 ἤχου vel -ov **#149.9; -ov 144.11

ἦῷοι 174.10

(θέω) θεόντων 143.9 (**Beovcàv) θῆλυς 213.53; θηλύτεραι “184.8 (θήρ) θηρός 264 θήρης 174.24 θιξόμενος 213.76 (θοινάω) θοινήεατο **151.13 (nisi schol.) θοίνης **151.13 (nisi schol.) Opécoc (prob. acc.) 213.73 @pacvAkoc (Thessalus) **263.1 Θρήϊκος 207 (θρίξ) τρίχας 204 θρύον (acc.) 174.24 θυγατέρος 174.29 θυμός 162.6; -όν 156.17, -é 174.5

(ἠφὼ -oî *166.13

174.10, **184.8;

θύρην 149.9, 149.34

"Hoc **213.70; -oî **166.13

(θύω) -euv **151.21 (nisi schol.) θαλερόν (acc. masc.) vel -&c **184.8 θάλλει ** 148.25 θαμά *149.35 θαμεινοί (s.d.) *174.36 θαμειοί **174.36 θαμινοί **174.36

iotvecde 184.8 Taciôoc 165.1 todcon 174.2

θάνατον 149.19, 174.64

Odcoto 207 Baccvrov (inc.)*148.32 (**masc.); sed vd.

Tepidàcco den

**154.4, #72 13.56

**162.1; -fic "162.6,

174.6,

Toy(e) (impf.) 149.10 ἰδίην **174.41; -ov (acc. n.) 146.2 \öpvu(o) (acc.) *174.73 ἱδρύοντο 203.3 ἱερέων 174.33 ἱερόν (subst.) (acc.) **184.17; ἱεροῖς **148 (in adnotatione); ἱερά 174.6; ἱρά 174.61 ἱερός 196.14; ἱερόν 163.9; ἱρόν 165.5;

Θείας *213.44 (**n0)

ἱερούς

Θειόγενες (periodonica potius quam macel-

174.14, **179; ἱερόν (voc.) 143.2

larie) vc)

#265

θέλῃς 174.28

(**®erdyevec,

**Oeroyé-

**213.56; iepn

ot #213.59 inAepicon (inf.) 143.16 (inu) ἧκεν) **149.16,

156.11;

*213.57;

ἱερήν

ἧκαν

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

ἐκαθνώδει (n.) 272

168.1; ἵετο 213.53

ἰθαγεν- **144.24 ἰθαραῖς v.l. 187.15 ἴθματα (acc.) **144.3; ἰθμα- **144.24 ἰθυ- **144.24 ix- **148.1

Ἰκμίου 174.34 (ἱκνέομαυ) ἵκεο *187.3; ἵκετο 166.12 (Ko) ἵξεις **148.39 (nisi schol.) ἱλαραῖς v.l. ##187.15

**213.68

143.5,

143.12,

144.4, **144.4,

##144,

5, **144.13, 148.12 (*kod μέν), 148.22, 148.27, 149.24, 149.28, 151.8, **151. 15 (nisi schol.), 156.5, **162.11, *163. 3, *163.10, 165.9, 174.5, 174.7, 174.40

(in crasi κἦν), 174.42 (in crasi xr), 174. 174.67, 184.16, 211, *211 (**in

crasi xat), **213.7 (in crasi κἠμέ), 213. 45, 213.50, 213.52, *213.62, 213.94, 215.2, 215.4, 215.8, 257, 260.1, 260.2 (in crasi κἠγώ), 262.2, 274.2; secundo loco 168.1, 174.1, 184.20, 196.3; tertio

ἵμερον 174.53 ἵνα (ut) (inc.) 148.33 (**+ coni.) Ἰναχίδαις *144.2 174.63, **178; Tvw 213.65-68) ’Ivooto (n.) 194

καί

42, 174.52, 174.63, 198.4, 198.5, 203.3,

ἰλλομένοις **184.11; vd. εἰλέω

ivic

579

(cf. 5

loco

174.58;

ei καί

143.1, **144.5,

*213.69;

te καί

187.12; καί ... (t(e) …

re) 165.7; καὶ γάρ vd. γάρ; καί pa vd. ἄρα

ἰοζώνου (fem.) (s.d.) 213.54 Ἰουλίδος 166.5, 174.72; -1 174.52

καΐνει vel -eıv **148.22; κανών 151.1

inov 149.33 ἱἹππαςτῆρ(ο) *144.7

καίπερ **196.6 καίρῳ **143.13 καίρωμα *184.6 καιρωτούς (s.d.) *143.13

“Iran (voc.) 165.8, (inc.) **144.5 Ἱππομένης (Atheniensis) cf. **D 197-198 ἵππος 213.54; -ov *198.4 (Ἵππου), 215.6; τῷ **153.4 (nisi schol.); τον 155.1; τῶν

163.5, 174.12; -ot 149.31; -nv 187.

8; τόν 174.8, (acc.) 163.1, 213.49

κακοςπορίην **187.13

*1433

Ἰεθμιάδος 156.7 Ἰείνδιος cf. D 181 (ζετημι) ]JEcmcav 156.24; «τῆναι ἔεταθεν 144.14 ictopinv 174.7; -o 195.3 tcrovpyodct **184.6 icyeo 174.4; icyouévoic **184.11

κακός

καλέουειν *187.10; καλεῖν 151.2; Ἰκαλέovca 162.3

165.4;

Καλλικόωντος v.l. #265 (ξ᾿ἘΚαλλιφόωνToc)

Καλλιόπην 174.77 Καλλιετώ cf. 213.66 (Cat.), 269 Καλλιχόρῳ (puteo Eleusinio) 266

Ἰταλικοῦ (n.) 270.1

καλός 213.62; -oi 166.8; - 166.1; -Nv 172.

Ἰταλιώτης cf. ἘΞ 199 ἶφι “163.5

2; -& (adv.) 144.5 κάλυκες *184.5 καλύπτρη 274.1 κάλυψε *149.19 Καμάρινα 163.1 (κάμνω) ἔκαμνε 174.17 καμψώδει (n.) (N) **272 (xav0éc) -@v 149.28 κανθώδει (n.) (s.d.) **272 kavöveccı 165.4 Kavorirov 213.58 Κᾶρες 174.62; vd. Κάειραι

Ἰφίκλειος (Iphiclius, ad Iphiclum Thessalum spectans)*151.5; -ov (acc. n.) 174.46 (TowAñc) (Herculis frater) -eioc **151.5

ἴχνιον (acc.) 215.6 Ἰωνιάδεςει vel Tovicr **185.2 Κάειραι “184.6; vd. Κᾶρες καθαρούς *213.56; -aic v.1. “187.15

καθέζεο (impf.) 266 καθιδρύοντο **203.3

580

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

κάρην 213.40 Κάρθαιαν 174.71 Kapt(a) *174.6 (**xdp0”)

Κέως (heros) 174.63 κηδεύτρια (voc.) (N) **#215.2 (κήδω) Erde **148.40 (nisi schol.), 174.23

Καρύαις (urbe incertae sedis) 174.59 καςιγνήτων *143.2; kacıyv[nt 148.3

Kñiov (acc. masc.) 163.9; vd. Κεῖος κῆρι 162.2

kdcic (fem.) 174.23 κατί(ό) + gen. 165.5 (κὰκ kegakfic), *187.

κῆρυξ cf. **S 148 (col. I 11) Κήυξ (Cydippae pater) (voc.) #174.28 κίβιειν 149.31

6, **257; + acc. #277

156.15,

*187.2, 206,

kikAñckovciv #182, 187.14

καταδέκτριαι (s.d.) #277 καταλέκτριαι (s.d.) #*277 (καταμιμνήεκομαι) ἐμνήεσαντο .. κάτα ἢ 174.18; sed vd. μιμνήεκω (κατανεύω) κατένευςεν **183.4 (καταςετέφω) κατέοτεψαν ν.1. #253 (ξἴκαTÉctegov) (καταςτυγέω) ratécruyov (3. pl.) v.l. **253 (κατατίθημι) κάτθετο 174.55 (κατατρέχω) κατέδραμε *211 κατ᾽... ἤρειψεν *163.5 κατωμάδιον (acc. n.) 264 καυμός (s.d.) **174.19 keövn- **251.7 Ke 144.2 (kein) κεῖεθαι 163.9; ἔκειτο *149.15, cf. ##S

148

(col.

I

13);

κεῖτο

*233.1;

xéat(0) (3. pl.) **251.5 κεῖνος 144.10, 149.7, 149.30; -ow 174.50; τῇ 213.8; -nc 166.11; του 162.12; -ο **

163.5, *#213.58; xeiv- 215.5 (ΟἹ κεῖνος, Ἐξκείνου, Frkeivo); Keilv- 149. 35; vd. ἐκεῖνος Κεῖος 174.32; -e 174.53, "174.74; vd. Κήϊος

Kexpozin **200 Kehouvirnc 174.47 (κελεύω) ἐκέλευε 174.2, 260.2 Κέλμιον (nom. n.) **203.1 κείν)

+ opt.

148.30,

238.3;

+ inf.

Κιλλικόωντος v.l. **265 κινηθείς *163.2 κίρκοι 149.21 Κιρώδης *174.58 (κλέω) κλέωνται **149.37 Κλεων[ (urbs Argiva) *149.37 (**-&c) κλήζεςθαι **148.37 κλινομένοις **184.11 κλιομία (inc., fort. nom.) 174.16 (**xAicu)

κλιομόν 149.27 (κλύζω) ἔκλυζεν 174.25 (κλύω) ἔκλυεν 149.9; ἐκλύομεν 174.53 κνηςτῆρι **149.9

Κοδρείδης 174.32 κοιμίοοας *175.1 (F*koruiccouc) κόλπους 213.56 Κολχίδες 143.14 κόμαι 213.51; κομαί 143.18 κομμώτρια (voc.) **215.2 kourdceton **215.1 κομποῖς 199.1

Κόνων (mathematicus) 213.7 (κόπτω) ἔκοπτε 272; κόψας

(ind. potius

quam part.) *265 (**-nc (v.1.), **-atc);

κεκομμένα (acc.) 172.1 Κορήειον (acc. n.) 174.74 κορυφῆς 213.76 174.45;

inc. *148.17 (fort. + ind. aut part.);ö@pa

x(e) + coni. 148.23; ὄφρα ke μή + opt.

kocuntpie (voc.) **215.2 κοτέ 163.3, 163.12 (v.1.), 174.4, **174.18, **174.54; vd. ποτέ

κεραύνιον (acc. masc.) 174.64

xotéenc *213.71 (®*-n) κότινος cf. 284 κούρης 198.5 (Kodpnc);-n 162.8; -nv 174.

kectöc **166.18 (κεύθω) κύθω **213.74 κεφαλῇς 165.5

15, 174.39 kovpiduov (prob. acc. n.) *166.4 (**-00) κοῦρος 167.1; τῳ 174.1

*213.59

(kepoöc) -&v 166.10

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

κουφοτέρως 275.1 κράγον (3. pl.) **187.6 Kpavvovioc 163.13 xpéccovoc 7184.21 κρήνη (inc.) *144.5 Kpicoèc **174.71

Κρόνον **148.33; cf. 271 (Κρόνου λόφος vel Kpövioc Aöpoc) Kpötwv cf. 268 Κροτωνίτης 279 κρυμός *174.19 κρυπτόν (acc. masc.) 149.16

Ἱκτεανον (inc.) *183.1 (κτεατίζω) ἐκτεάτιοτο 174.47

581

λαιδρέ 174.4 Λαῖνος vel Λάιος cf. ἘΞ 199 (λαμβάνω) λαβεῖν 187.6 (λανθάνω) Ancoro 156.19 Acad) λακείοιο 166.11 λάταγας 168.2 Λάτμιος cf. 213.5 (Cat.) λάτριες (fem.) 184.7 λάχος (acc.) 146.2 λέαινα cf. 159, ἘΠ 159-160

AgavSpidec

(ad

Leandr(ijum

Milesium

spectantes) *195.2

λέγω 260.2; λέγο- 166.3 (**Aéyor, *FAÉyouuev, ἘΣ λέγοιεν, Ἐξλέγοιτο); λέγον

κτῆμα (πο.) **148.42 (nisi schol.)

(acc. n.) 163.8; ἐρέω

κτήνεα (inc.) **148.42 (nisi schol.) (κτίζω) Extıce **175.2 κυάμων 260.1

172.2; λέξας (ind. aut part.) *148.17 ΟΣ

Κυδίππῃ 166.2; -nv 166.9, 172.2, 174.19 Κύζικος cf. 212, D 211-212 κυθνώδη (acc. masc.) vel -eu(n.) (N) **272

κυθνώλη (acc. masc.) #*272 κυθώδη (acc. masc.) **272 κυκλώεας 213.53 ἐκυκνώδει (n.) **272 κυκνώδους (N) #*272 κυλίκων 168.2 κυλλός **228.2 κῦμα (inc.) **236.6; κύματι vel κύμαει ** 213.63

Κύνθιε 166.6 κύντατον (acc. n.) 149.30 (κυπόω) κυπωθείς 148.8 Κύπρις #213.64; Κύπριδος 213.56; Κύπριν Ἐ184.20; cf. 213.90 (Cat.)

κύρβις 206 Κυρήνης (heroidis) **174.58 «vico 148.27 (κύων) κύον 174.4 (bis) κωκυμούς (s.d.) 149.14 koudceran #*215.1 Κωρυκίῃειν (Parnasiis) 174.56 (**-ncı) κωφαῖς 275.3

(AG) Aüoc 7149.26 λαγόνων 144.13

144.16;

ἐρέουει

λέξαεκεν); ἔλεξεν *149.11; eine 174. 74, *187.6; einev- 215.4 (**eîne, ἘΣ ein(e), **eîrnev, **einé); ἔειπε **154.4;

εἶπον 174.43 (**-av); etr(é) 178 (ein’ ἄγε) ("*einote imperat.); εἰπεῖν 184.3 Λειμώνη cf. *D 197-198 (**Aeuovic) λεῖον (acc. n.) **203.4

(heine) ἔλλιπε 179; -ov 174.69 (λείχω) ἔλειξαν 149.22 λέκτρ(ο) (acc.) 162.11, ἘΞ277 AeXéyecc 174.62; cf. D 193-195 λεοντῇ cf. D 204

λεπταλέους 143.15 AécBoc cf. ἘΠ 193-195

λεύκη (populus) cf. 284 Λευκοῦ πεδίου 280 (λέων) λέοντος **151.11 (Λέων) (sidus) Agovtoc**213.65 = 278 (cf.

213.65 (Cat.) et S 213.65-68)

Λεωπρέπεος 163.8 ληιτιαί (s.d.) 148.5 λήνεα (inc.) 148.6 λίθον *#148.34 (masc.), 163.7 (fem.)

Λίνδῳ 203.4 λινέαις 174.37 Λιπά[ρ- #196.9 (Aızapöc) -at (voc.) 165.9 λιποπτόλεμος **245.5 λιπόπτολις *4245.5 λίπτουεα 148.27

582

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

λιρός 173.3 λῖς 174.57

λίεπον (acc. n.) **203.4 Auccaov **187.11 λιτόν (acc. n.) "203.4; -d (acc.) 213.78

%0[ 217.6

Aoyascıv (oculis) 187.15 λοετρόν (acc.) 167.2 λοιβαείων **184.19 λοιπόν (inc., fort. nom. n.) 174.40 Λοκρικός (Locrensis Epizephyrius) v.l. ἘΣ 213.54 Aoxpic (Locrensis Epizephyria) 187.9; Ao-

κρίδος v.l. *213.54 Λοκρῶν (oppidi Locrorum rum) 270.1; cf. 202, 267

Epizephyrio-

λούονται

(acc. masc.)

164.2; Aovöuevov

213.63

λόφος cf. 271 (Κρόνου λόφος vel Kpövioc λόφοο) λοχίην 164.2, **182 (vel Λοχίην); -αἱ ἘΞ 182

Λύγδαμιν 174.23 Λύδιον (nom. n.) *184.6 λυθρώδη (acc. masc.) #*272 Λυκαόνιον (acc. n.) (ad Lycaona Arcadem spectans) **213.66 (cf. 213.66 (Cat.)) Λυκάων (rex Arcadiae) cf. 269

λυκοςπάδα 254 Λυκώρεια cf. 158 λύματα (acc.) 174.25 λύρην **150.4 Ab pov (acc.) **150.4 λύχνου 149.22 (Ado) λύςεειν Ἐ149.5; ἔλυςε 7149.34 λωϊτέρῃ *215.7 (**-n) μαῖα (voc.) **215.2

(μαίνομαι) unvoro *149.30 (sed vd. ἐπιμαίνομαι); μεμηνότος (n.) 194 μαιομένης 184.15 Μαῖραν (sidus) 174.35

μακάρων 174.65; -ecciv 187.12 uaxeövn- **251.7 Μακελώ (acc.) 174.67 μακρόν (adv.) 149.33

ua] 198.4 udA(0) 149.13, 149.33; μᾶλλον 151.9, ἘΞ 151.12 (nisi schol.); μάλιον 166.13; μάλιετα #*199.2 μάλευρον (acc.) 149.18 Μαλόες (= Μαλόειο) 252 (μανθάνω) ua0fcer (2. sg.) 154.3 μάντιν “143.5 udpy(e) **174.6 μαῦλιν 174.9 μαψαύραις 275.4 ue[ 213.90, 217.2, 217.3, **229.4

μεγάθυμον (acc. fem.) “213.26 Μεγακλῆς (Carthaeae conditor) *174.70 μεγαλόψυχον (acc. fem.) **213.26

μέγας 174.57; μεγάλους 163.14; uéy(a) 174.50, (adv.) 215.8; ueya[A 151.4 (** μεγάλου masc., Ἐξμεγάλῳ n.); μεγαλDALE

μειξέμεναι 174.31; vd. uicyo (ueic) μῆνα **148.26; μῆνας 174.17 μελάθρου 163.11 Μέλας (filius Pindari tyranni Ephesii) ἘΞ 205

uedeicti ##213.73 Meàinc 174.63 Μελικέρτα 193 μελιςεάων **187.11 μέλλοντος (n.) 163.12; ÉéueAAe 149.5; μέλλε *149.11, 174.10

174.50 (**ugàAev); ἔμελλον

uéunAe(v) 165.3, 174.34; μεμελημένος 174. 76; μέμβλετο 167.1 Méuvovoc 213.52 μέν 146.1, *148.12, 149.11, 149.15, 154.3, 156.18, 162.6, 166.5, 166.7, 174.10, 174.70, 201, 204, 213.67, 213.77; ἢ μὲν δή **143.11; où μέν 155.1; οὐδὲ μέν

165.2; tc uev 157; post pron. rel. 165.6 (μένῳ) ἔμεινε 174.20 μέρος (acc.) 149.4 (u&coc) uéccov 213.45; uécov (acc. masc.) 165.6; uecc- **243.2

uéccoPa (acc.) 149.5 μετά + gen. *184.13; + dat. 149.15; + acc. v.l. #*149.6 (postp.)

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

(μεταβάλλω) μετ᾽ ... βαλέεθαι *174.62 (μετακαλέω) μετ᾽... καλεῖεθαι **174.62 μετελθεῖν 174.40 ("Ῥμετέλθῃ) μετοπωρινόν (adv.) #213.67 μέχρις + gen. 174.15 μή prohib. + coni. *213.71, **265; prohib. sine verbo **265; desider. + opt. **265;

interrog. + ind. *265; ὄφρα xe μή final. + opt. 213.59 (**Uun ... ὄφρα)

583

μύρων 213.78 Mvc| 187.3 ἐΜυεκέλλου, **Muctiov-) Μυτωνίς cf. 214 Μῶμος **187.7

ναϊετάουοιν 174.52 ναιϊέτις (s.d.) 213.58 (ναίω) ἔναιον (3. pl.) v.l. *184.16; Évateto

μηδέ 148.24; umô[ 181.2 (**undé)

174.56 νᾶμα (inc., fort. voc.) **164.1

Mnôetov 213.46 μηκάζει *148.28

Νάξου (insulae) 166.5; -ov 174.38 vdovca (inc.) 144.5

μῆκος (acc.) 154.1

Νείλῳ 143.14; Νεῖλο( 144.9 (**-0c, ἘΞ ον)

μήκωνα 259 μῆλον (malum) cf. D 166-174 μητρός 213.45; μητέρα 174.67; -ec 166.9;

νεκρόν (acc. masc.) Ἐ197 νέκταρος 196.1 νέκυν 272 Neuen (locus Argivus) **148.26; Νεμέηθε

cf.

D 205, D 209-210

μίγδα + dat. 149.18 (postp.)

156.8; cf. 145, 147

Miônc 174.47

Μίλητον 184.16 Μίλων (Crotoniates) 279 (uvcko) &uvncovro **174.18; sed vd. καταμιμνήςκομαι (μίμνω) μίμνεν 156.18 uw

(=

αὐτόν)

151.2,

**156.20,

**166.3,

Neuen (nymphae) 143.1 (veuecow) veuécca (impf.) **151.5 veuecnuovec 199.1 νεμητής **151.5 νέμοντι 215.5; véuovca 149.4 {véouon) veicde 196.4; νέεεθαι 174.50, * 184.12

189, 213.49, 213.57; (= αὐτήν) 174.58,

véov (acc. n.) *213.64

174.60;

νεότμητον (acc. masc.) 213.51 νέποδες (inc. fem., fort. νος.) *165.1

inc.

156.5,

162.5

(**masc.),

196.5

Μινωίδος 213.59 uicyeto 149.35; vd. μείγνυμι μίτρης 174.45 μνήμῃ 174.55; -nv 163.10 Mvncapxeioc 157 μοῖραν 275.2

νέρθε + gen. **149.8 (postp.) νεφέλαις 174.37 νέφος (inc., fort. acc.) 184.1 νήιϊιδες 174.49

Νηληΐδος

(Milesiae) "184.18 (**Neuni-

doc)

μόλιβον *174.30 (**-w) Μολόρχειος *156.16 (**MoA6pxetoc) Μόλορχος cf. 145, 5 148.23 (MöAopxoc) μοῦνον 163.13; μούνη *256; μούνης “184.

νηόν *184.17

17; μούνας 174.68; μόνον (adv.?) 151.7; μοῦνον (adv.) 213.60, (inc.) *166.20 Modca 215.1 (uodca), (voc.) **178; -at 215.5; τέων 215.9; -αὶ (prob. νος.) #188

(vndo) νῆες 213.46 νικ- **148.1

μυθοί 180.3 μυθολόγῳ (fem.) 174.55

νιφετοῦ 274.2

vncatov (inc.) **196.18

vneida *143.5 vficov 174.55, 174.68, **196.8; -dov 166.8

νίκης 156.7 ]vwovron- 229.3 νόμον ##215.9

μῦθος *174.77; -ovc 215.6

νομοῦ 148.31; -6v 215.9

Μυόεντα *184.16

νόον 184.14

584

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

vodcoc 174.12

κεν); τῶν 174.7; relat. 6 **259 (ὃ δή, nisi a öc); τῷ 215.5; τόν 165.6; τῇ ἢ

votinv 166.12 νότοι ** 148.12 vo[ 213.91

174.45 id); τήν (v..); mc #*143.14,

νυκτελίοις (n.) **148 (in adnotatione) νύμφης 213.59; -nv **174.41; -α 143.2, 165.2; -o1 **211; τέων 165.8; -ncıv 174.56 νυμφίον (sponsum) 174.27 (vòugioc) (sponsalis) -a (acc. n.) 162.11 νῦν **148.25 (τὰ νῦν), 154.4, *156.21,

174.13, **187.9 1653; τάς 174.

57; τό (acc.) 163.3, (inc.) **151.16 (nisi schol.); τοῖς *184.8; τά 154.4, 174.5,

*#*184.6; τὸ τρίτον (adv.) 174.18 (bis); za vöv (adv.) **148.25;τῷ (adv. = quam ob rem) 171 (postp.), 174.58 (postp., ** τῷ), *187.13; inc. 6 148.20 (**artic.); τῷ (inc.) **148.10; τόν **144.4, 144.9

#174.29 (νῦν ye), 192; νυν **148.25

(**artic. aut relat.); τώ (inc.) **148.10;

(νύξ) νυκτός 174.44; νυκτί 149.29; νύκτα

τῶν (inc.) **148.10; τούς **143.13; N

156.18

##143.11,

voccav **144.3

**148.1,

**148.22; τῆς

196.

10; τήν 196.17; ταῖς **148.9; τό (inc.)

196.12; τά (inc.) **148.17

νωμῶν **144.3

ὅγε vd. γε Ξείνιον (acc. masc.) *163.4 ξεινοδόκῳ "156.19 (**-ov (adi. fem.)) ξεῖνος vd. ξένος ξεινοεύνη- #151.17 (**-nc, nisi schol.) Eevoundeoc 174.54 ξένος 157; ξείνοις Ἐ149.14 ξυνόν (acc. n.) **143.3; -ἢ (adv.) Ἐ184.18 Edce **149.9; ἔξυεαν 143.15 ö artic. **148.18, #*150.2 (nisi schol.), 157, 169.2, 174.32 (bis), 174.70, *174.76, 252; τοῦ

184.21; τόν

**148.30,

*156.

20, 163.8, 163.9, 197, 213.1, 213.7, 253; οἱ 149.29, 174.11, **187.10; τῶν 156.8; τοῖοι 149.8; τούς 156.9; ἣ ἘΞ 148.27,

174.16,

174.42

(in crasi

xn);

τῆς **151.6; τῇ 174.22, 204 = **243.1; τὴν 148.19, 166.6, 174.3, 174.15, ἘΣ 174.41; αἱ *#211 (in crasi yo); τάς #k175.1; τό 274.1, (acc.) 149.15, 163.7, 163.8, 174.36; tà *196.3, (acc.) 154.3, 163.9, (inc.) 149.25, 174.16 (fort. nom.), 201; (μέν) ... + ö(&) ἣ 166.5, 166.7; τήν 174.12; + μέν ... (δέ) ὃ 166.5; τό 166.7; demonstrat.

ὁ **148.12,

149.9,

174.21,

174.38, 270.1 (**artic.); τῷ 148.18, ** 174.39; τόν 146.1, **148.33; οἱ **187. 6, 253; toi 144.11; τοῖς) *149.32, * 184.16; ἣ 174.39; τοῦ *162.9 (τοὔνε-

ὅδε 174.9; τοῦδε **156.5, Ἐ156.6; τόνδ(ε) 173.3, 174.54; τόδ(ε) (acc.) *149.12, 149.29, 206, (inc.) *156.14; τάδ(ε) 213. 75, (acc.) **148.17, **148.18, 154.2

(086) -odc *184.23 (66o%c) ὀδόντι *151.11 Ὀδρύςεεω **207 ’Odvccedc cf. D 201-202 ὄθμα (inc.) #144.20; ὄθμαειν 162.9; ὄθμαcıv[ 166.21; ὄθματα 144.3; vd. ὄμμα oi 250.3 (οἶδα) οἶεθα 262.1; il) 262.2 (** oic0(a)); εἰδότα

149.33;

16; ἤδη (1. sg.) **163.10 οἴκαδ(ε) *184.23, **187.4

εἰδυῖαι

143.

οἰκέτιν 164.2 (οἰκέω) ᾧκεεν 174.59; οἰκήεας *196.9 οἰκήειας **175.1

(οἰκίζω) φκίε[ςα- 166.17 (**@riccache, ** ®xiccavto); olkiccac **196.9 oiktov (acc.) 179, (inc.) **187.3; -a (voc.) 165.9

οἶκος 163.14; -ov **187.3, 215.8

οἴματα (acc.) **144.3 οἰνοπόται 168.2 (otoc) οἷα (adv.) **148.25 Oicoôpew 207 οκί 243.3 ὀκνηρῆς **149.10

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

ὀλέθρια (acc.) 149.17 ὀλίγην 166.9; -wc *184.21 (ἔτους, **ov (adv.))

585

**#148.22, 156.9, 174.14; nc 213.77; ἥν #*148.1, *187.8, 256; ἄς 174.68; 6 149.15, **174.40, (nom. aut adv. (= ob

(ὀλιεθάνω) ὥλιεθεν 163.14 ὀλοιτυπ- vel ὀλοιότυπος (N) **187.11

quam causam)) *259 (ὃ δή, nisi a ὁ); è

ὀλοός 174.19; -at 213.46; vd. οὐλοός

##161-162

(öXoc) -ov *215.8; -n **187.9 ὄλπιν 257 ᾿Ὀλυμπία cf. 202, 271

ouf *152.2 (nisi schol.) ὁμάρτεις **215.4 ὄμμα (acc.) **161-162 (in adnotatione); vd.

ὄθμα (ὄμνυμι) ὥμοεα 213.40; -εν 174.27 duo- vel ὁμω- **230.4 ὁμοῦ + dat. 174.62 ὄναρ **215.3 (ovivnui) bvnca **163.10; ὥναο 174.6 ὀξέος 215.6; ὀξύν 174.75; ὀξεῖαν 174.11 òrdccoc **148.23 ὄπις **175.2 (önöcoc) okkécov (acc. n.) 163.1 (Töcov ... à.) ὁπότ(ε) + impf. **1499 (vel öxöt(e)); + ind. aor. (?) 149.24; ὡς ὁπότ(ε) **149. 10; ὁππότε + ind. praes. **148.27; + opt. praes. 167.1; + impf. 166.1; + ind. aor. 174.26 (tñuoc ... 6.)

ὅπως + opt. 146.3 (ὁράω) tôec 174.6; εἶδεν 143.10; εἶδον ἘΞ 174.43; ἴδοι **162.1; ἰδεῖν 162.5; ἰδών #148.30, 213.1; ἰδέεθαι *162.9

ὄργια (acc.) 162.10 (ὀργίζομαι) ὠργίεθη **162.8 Ὀρέετης cf. “D 193-195 ὀρῆα 156.20; -ac *187.5

ὅρκια (acc.) 174.29 ὅρκος 174.22 ὅρμα (imperat.) **148.25 öpov 213.1 ὄρτυγες 174.37 (öpx&ouon) ὠρχήεαντο *149.27 (F*6pyñcacda1) Sc relat. *144.10, 149.6, 163.9, *163.10, 174.54; ὅν *187.10, 213.8; ot 163.11, 184.16, 213.49; oicı 174.34; ἥ **148.1,

149.30, (inc.) 156.14, **157; oic (inc.) (in adnotatione);

&

174.47;

+ τὲ © (n.) 174.36; adv. à (ubi) **174. 73, (quomodo) 213.1; οὔ (ubi) 192 (ἔνθ᾽ .. OÙ) (dc) ἥν (meam aut tuam) **213.40; oicıv (suis) #162.9; vd. &öc

ὅς 156.24

öcin 174.5 dciov 163.2 öcov (inc., fort. adv.)

(récca

196.5; ὅος(α)

… 6.), 196.4; Sca)

172.2

(acc.)

**

163.10, (inc.) **144.10; öcca (acc.) 154.

2, (inc.) 201; 00d’Scov (prob. adv.) 149. 3; öccov (adv.) 213.75 (toccnvde ... 6.),

(adv. + inf.) 149.11

dcca **201 öctıc 174.8, 187.14, 194; ὅντινα *187.14;

οἵτινες 174.49 ὅτ(ε)

**144.3, 149.9, 149.23, 156.3, 163. 13, 174.68, 186, 213.47, **213.68, 213. 77, 215.1, **215.3, 275.3 (bis, τότε ...

d. ...0.); ὡς ὅτε *149.10

ote[ 143.17 ὅτι 151.10, 184.20, 262.2 οὐ, οὐκ, οὐχ 144.16, 148.33, 149.23, ἘΞ 149.34, **161-162 (in adnotatione), 174.5, 174.27, 174.43, 174.44, 174.46, 174.49, 174.65, 184.2, 184.5, *184.5, 184.6 (postp.), 184.7, 184.21, 187.15, 213.75, 213.78, 215.3, 255.2; οὐχί ἘΞ

184.6; où γάρ 162.5, 166.3 (**postp.), 174.23 (postp.), #*175.1; où(x) ... γάρ * 166.11,

174.30; οὔ πως 162.9, **203.1;

οὔ τι (adv.) 174.6; οὐχ ... ob μέν 155.1;

où ... οὔτε **149.37 (οὗ) pron. pers. οἱ 149.15, 149.31, “156.20; & 156.20

ol 233.6, **251.5 οὐδαμά 156.21 odÔ(É)

156.11,

156.19,

*163.1,

279; οὐδὲ

μέν 165.2; οὐδέ ... obÖ(E) **148.29-31,

586

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

163.7-11; (οὐχ)... οὐδ(ξ) **156.1, 166.

Παλαῖμον (Melicertes aut Hercules) 282

13; (où ... où)... 006(£) 174.47; (où) … odO(É) ... 006(é) 174.24; οὐδ᾽ ὅοον (prob.

(radardc) -at 195.2; παλαιοτέροις 149.8; παλαίτατα (voc.) 165.8

adv.) 149.3

πάλιν 148.23, 17438, 187.4 (πάλιν[), ἘΞ

οὐδείς 143.10 ovde- 245.4

209 Παλλάς *154.4, 156.13

odkét(1) 148.36, 174.20, 213.76

Παλληνέα (ad Pallenen Chalcidicam spec-

οὐλοόν (inc. n.) 181.1 = 261 (οὔλοον) (2); vd. ὀλοός

Πανελλάδος *209

οὖν inter 'praeverbium' et verbum 163.5 οὕνεκα, οὕνεκεν vd. ἕνεκα

οὔνομα 174.50; οὐνόματι **215.3; οὔνομα (acc.) 174.62, (prob. acc.) 166.4

15, 213.63, 215.6; rapai + gen.

οὔτινος

(inc., fort. fem.)

166.15; obrıvec *143.8 (**-ac (fem.)); odrıcı #150.4; οὔτι (acc.) 149.13 (οὗτος) τοῦτον 148.26; αὗται **144.15; τοῦτί(ο) (acc.) 174.21, 184.3, (prob. acc.) 166.4, (inc.) 144.7; tovto- 196.16 (** τοῦτο (inc.))

op] 230.2 ὀφείλω 143.1 (**-wv); ὥφελες *181.1 ΟΣ ὥφελε) = **261 Ὀφέλτου 143.7 ὀφθαλμοῖς “184.11; -οὖς 230.5 ’Opioviônet 149.7 ὄφρα final. + coni. 148.23 (è. k(£)); + opt. 166.3, *213.59 (ὃ. κε μή *un … 69po)); temp. 148.9 (È. ... τόφρο) ὀχληροί (voc.) 149.12

παιᾶνα **143.3

παιδογόνος *151.10 166.2, 174.9, *174.16 (fem.), 174.26

256

(fem);

παιδός

(fem.), 266 (fem.); παιδί

174.76

148.3 (inc.),

149.4 (inc.), 162.1 (inc.), 174.3, 174.22

(fem.); παῖδα 156.25

πάλαι 263.1

παρειάς 184.10; vd. παρήϊον (πάρειμυηπαρών Ἐ154.3; παρῆν “270.2 (** παρῆεν, **TÙp ... ev) παρήϊα (inc.) **222.1; vd. παρειή παρθενικῇ 166.2; -αἷς *162.10 {rapdévioc) -n 213.77; -nc 174.45 {{Iap9évioc) (flumen Paphlagonium) τῷ 174.25 παρθένος 174.1; -e *213.71 (apBévoc) (sidus) -ov **213.66 (cf. 213.

65 (Cat.))

Πάριοι cf. D 207 Hopvnccod (montis Hopvncod)

Phocei)

ropoıkecin **143.14 πάρος adv.(?) 143.12; πάρος

*174.57

(**

... À + inf.

165.4 πᾶς 148.30; πάντα 213.1; πάντες “187.8, 199.1; πάντων 199.1; πᾶειν 213.8 (**r0c); πᾶκαν 174.54; πάεῃειν 171; πᾶν (acc.) 174.39, 262.2; πάντων "196. 3; ravı(o) (acc.) **148.17, #*174.29,

roytdeccıwv 149.17

(fem),

174.36;

165.4

οὖς (acc.) 149.10 οὔτε 149.37 (FFoù ... οὔτε)

παῖς

Πάνορμε (portus Cyzici) *211 παρί(ά) + gen. **148.36, 174.54, "257; +

+ dat. 201; πάρ + dat. 151.4 (postp.), *

οὔρεος 174.34; -α **148.32, 213.47

*213.71;

πάννυχον (acc. masc.) **213.69

dat. **151.3, 156.6; + acc. *143.7, 148.

οὔπω 203.1 οὐρανόν *213.59

οὔτις

tantem) 143.5

**148.20; παιείν

(inc.)

(adv.) 215.4 (bis) IlacixAeec (Ephesi rector) 205 (πατέομαι) πατεῖται 259

ποτέρειρα (N) **148.37 πατήρ 174.20 πάτος (vestem) 165.3 πατρίδος *187.6; -1 184.15 πατρο- 198.2

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

παυςομένην 156.21

πιδυλίδα (s.d.) #166.12

πεδίου *280 (**F-ov (inc.), **-ot0) (Λευκοῦ T.)

πέδοιο **196.1 πέζαν **213.65 = 278 πεζόν (acc. masc.) #215.9 (**-60) (πείθω) reico (fut.) #151.10 Πειραιεὺς ὅρμος cf. D 206 Πειοανδρίδες (ad Pisandrum Camirensem spectantes) **195.2 Πελαργικόν (prob. acc. n.) ν.1. **200

(voc.)

Iltepinv (puellam Myusiam) *185.3

πίλναται **178 πίλοιο **149.25 πίμπλαται **178 (πίνω) πέπωκα 213.77 πίπτειν

163.12; πέεω 151.11; πεοόντες **

149.21

Πιεαίου 175.2 Ilienc 186; -αν 201

(πελάζω) πελάεαιμι 151.7 Πελαςγιάδες

587

165.9

(**IeAacyià-

cv) Πελαογικόν (prob. acc. n.) v.l. 200

πελλά (acc.) **215.5 Hekorn- 156.22 πέμψε 156.20, **213.57 (vel ἔπεμψε) nevdepöc 174.32 πενιχροῦ 149.25; -6v (inc.) cf. *S 153.4 Ἱπεπλοί 229.2

πιςτοτέρην Ἐ184.19 πίτυν 156.8 (πίων) -ov (acc.) 149.22 (nAücco) ἔπλαςεν 149.14 πλόκται *187.10 (πλέκω) ἔπλεκεν 174.24 (πλέω) ἔπλει **174.41 πλέων (acc. masc.) **192 πλη- **148.11 πλήεεοονται 174.37 πλόκαμος 213.62; -01 213.47

περ inter adi. et part. ἐών 146.2; post pron. rel. 174.5

πλούτου “215.2

πέρα + gen. 196.4 (postp.) περί adv. *148.32 (nisi περιθόκεω), **151.

ποδηνεκές **184.6 ποθέεεκον (3. pl.) 213.51

7 (nisi praep.+ acc.), *162.7 (nisi praep. + dat.); praep. + gen. *257; + acc. 144. 3, 204

περιδινέ(α) (acc. pl.) **144.3 περὶ ... ἐλῶντι *4144.3 (περιθάεεω) (N) Baccéviov (inc. (F* masc.)) ... περί "148.32; sed vd. Odcco et περί repıcca (acc.) 163.9 (**adv. τὰ x.) περίτιμον (nom. n.) 174.52 (περιτρέχω) περιδέδρομας *165.6 (**7eριδέδραμεο) πέτεεθαι *213.57 πέτρον 165.5

πνοιῇ *213.55 (**-No)

ποι **171

ποίημα (acc.) **143.3 Ποιῆεεαν 174.73 Ποίμανδρος cf. **148 (in adnotatione)

ποιμένα 143.6 roiuvnew 148.31 πολιηί 244.4 πολιήτας **187.4

(roAıöc) -N **213.70 πόλις #187.9, #192, ##256; πόληος 163.3; πτόλιος 163.6; πόλιν 77256; πολίων ** 175.1; πόληας 174.70

πηγυλίδα **166.12

πολλάκις 149.22 Πολύδευκες 163.11 πολυιδρείη 174.8 πολύκροτος 166.3

Πηνειός (flumen Thessalicum) cf. ἘΠ) 189191 πηῶν 156.20

(πολύο πολλοί 168.1:πολλαί 166.9; πολέες #184.22; πουλύ 174.52; πολύ (inc.) ** 143.11; noA&eccıv 213.61; πολλά (acc.)

Πευκέτιοι cf. 210, D 209-210

πηώεω (coni.) **148.23 πιαίνω (coni.) **148.23

*187.12,

207,

213.77,

πολλόν

215.5,

(adv.)

(inc.)

*162.2,

196.12,

162.7;

588

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

πουλύ (adv.) *156.5, **156.6; πολλ- * 175.1; πλεόνων *184.13; πλέον *196.5

πύργῳ *163.7

(adv. ἐπὶ π.); πλεῖετον (adv.) #149.30

πωλεῖεθαι *184.18 πῶλον 254 πῶμα *149.23 (Ῥἐπώματί(ο)) πῶς 162.9 (οὔ roc), #*203.1 (οὔ roc) πωτηθείς *148.7 (**-£eîc(0))

πολύεκαρθμος (inc.) 148.26 (**fem.)

πόματι **215.3 Ποςειδάων **235.1; -wvoc *165.2

πόειν 162.11 ποταμῷ 174.25 not(é) **143.11, **149.12, **163.12 (v.1), 174.54, **187.10; vd. κοτέ

πότνα (nom.) *162.8 πότνια 193, (voc.) 165.7 (πότνι᾽ (mode) πόδα 166.14; πόδες **213.69; rociv #k162.11; roò- **144.19

πυρκαϊῆς 251.6

pa vd. ἄρα ‘Pauvovetde (voc.) “213.71 paugei 272 (ῥέζω) pééav “187.12; pééœuev 213.47;

δέξαι (inf.) 262.2

πρό + gen. **143.8, 163.3 προίημι **143.3; rpoénike(v) **213.57 Προίτου 144.10 πρόκατε 213.52

‘Pen vel Ῥείη **148.34 ῥέθος (acc.) 166.13 peite (imperat.) 165.9 ῥητῆρας *184.20 ῥήτρῃει 187.6 ῥῖψεν "149.16 ῥύετο 256 ῥυςτάζει 263.2

Προκλῆς (rex Samius) cf. *D 203

Ῥωμαῖοι cf. D 209-210

rpou| 156.12 Προμηθίς “166.7 Προμήθου **166.7

coAriyyov 174.61

πρέεβυς 174.76 πρηΐνειν 174.35 πρίν adv. 156.9; + inf. *162.11, 162.11

“Ῥώμη cf. D 209-210

προνύμφιον (acc. masc.) (s.d.) 174.2

Coutn 204 = **243.1: cf. **D 177

npöcde adv. 213.67 npot| 196.18 προτέρων *143.8; -nv 148.19 Προυρίδες πύλαι cf. D 192

Cauoc cf. ἘΞ 203 cavic 203.2 cda (imperat.) 215.8

rpoxavncıv 171 (v.1. **-arav)

c&kıvov cf. 145

πρύμναν 206

ua

πρῶτος

adipo 213.47 CuceAdc 168.2 Cunvod 166.12

ceMMvnce **156.22; cf. 147

163.10; -ov **188; -o1 213.50

πτερά (acc.) 213.53 πτέρυγι “238.4 Πτολεμαῖος (IT) cf. S 213.26 sqq. πτολίεθρον (acc.) 174.72 Πυθαγόρης (philosophus) 177 Πυθώ cf. D 189-191 πυκινοῦ (n.) "184.9

260.2;

**213.59, (acc.) 163.3

Ciuoc (Thessalus) **263.1 cf. **D

πυλεών 184.5 (πύλη) -Ewv 148.28 Πυλίου (Nestoris) *184.21 (τυνθάνομαυ) neben 154.4 (Op) πυρί 148.23, 174.17; πῦρ **213.66

εἶνται 149.29 aicopnv 149.31 «καιοῖο 257

«κέλμιον (nom. n.) (N) **203.1 (κέλμιον (nom. n.) (ad Scelmidem statuarium spectans) *203.1

((κέλμιο (statuarius) (κέλμιος **203.1 cxiunteto *149.26 ckAnpod 149.26; -6v (inc.) 148.34 (**acc. masc.)

INDEX NOMINUM ET VERBORUM

(κοπάδας 163.14 ckorin 146.3 ςκύλος 274.1 ckduvoc *149.11 ςκῶλος 148.13 Cx@®Aoc (urbs Boeotia) **148.13 Jeungoc 151.6 cuivBorc 149.16 ςολοιτυπίῃ vel -nv (s.d.) **187.11 (coAorrvrinc) (N) -o1 **187.11 côv 213.40; ch 174.26, **192; εἦν **150.2 (nisi schol.), “156.15, 166.6, *187.9 (v.1.), #213.40; vd. τεός

cı| 249.4 cte- 233.5

créyoc (inc.) 149.3 (**acc.) ctégavoc 7213.60 «τέφος (inc.) 156.2 (ςτέφω) ἔετεφε 156.9 «τήθεος **213.74; «τήθεεει 281 «τόματι **215.3 (τόρνυμῃ) ἐετόρνυντο 174.16 εὖ 165.6, 174.5, 174.32, **184.5, 184.18, 215.8, 265; ceîo *164.1, 174.40, 184.14; céo 213.45; céev 174.75; tiv **144.4; cor 173.3; τοι **148.12,

163.1, 281; cé

#184.5, 211, **282; c(e) **143.9, 148. 23, 174.31, 174.44, *175.2, **181.1, ** 182, 187.6, **193, 215.3, 282

(ευγκεράννυμι) ξυγκραθέντί(ο) (acc. masc.) 174.75

cbAncav **149.25 (ουμβάλλωῳ) cdv ... ἐβάλοντο 215.6 cbußoAov 13/14

(acc.) 156.7, (prob. acc.) *213.

couppédpova 174.28 còv + dat. 148.24, 162.1, 174.3, 215.7

589

«ὃς (fem.) 174.40

τάλαντον "151.9 τᾶλιν 174.3 τάμνω vd. téuvo Tovoypaı- 148.2 (aut **Tovaypain urbis nomen aut **Tavoypaîoc vel **Tava-

γραίη gentile); cf. S 148.13 tod pov 143.16

Τάφιος **148.8; Tagio[ 148.5 τάφον 263.2 τόχα 151.8 aie), θ᾽ #*143.3, ##143.9, **143.13, 97148. 13, 149.25, **156.10, 156.16, **156. 23, 174.36, **174.40, 174.64, 174.65, **184.6,

**187.6, 213.1

(fort. te … (te

… etc.) vel te … (kat ... etc.)), #*213. 66, **213.78; tertio loco 174.70; te καί 143.1, **144.5, 187.12; δέ τε **148.27, 199.1; t(e) ... te *149.31, 149.33, *174. 58-60, 213.40; (Kai) ... t(£) ... te 165.8;

ὅς τε vd. ὅς τέγεος **151.15 (nisi schol.) (téyoc) τέγεος **151.15 (nisi schol.) τέθμιον (nom. n.) 174.2 τεθμός 243.3; -6v *203.1 ποῦ, #4-@) reivec@e (ind. praes. aut imperat. praes. aut

impf.) vel τείνεεθαι **209 {ter ilo) τείχιεςε 174.70 telyicuo (prob. acc.) 200 {tetyoc) -eoc 270.1

rekéecct 213.942 τελαμῶνας **143.13 rehecoopinv *187.13 τελεςφόρον (acc. fem.) “215.4 τελευτήςεις 174.29 (τελέω) τελέοντες 156.6; téAeccov 149.29;

covoivo 7157 (F*-£o)

tedéccor (inf.) 162.11, (opt. aut inf.) *

cvv£uropov (acc. masc.) 275.3

209

cvvdecin "184.17 Copta. cf. D 213 ουρίζει- ?144.18

TeAyîvoc 174.65

(coelc) coiciv 187.13

cpetépov (n.) **169.2 covpôv (acc.) 174.46

Teuécn (urbs Italica) cf. D 201-202 (téuvo) ἔταμες 184.19; τάμε **187.11 Tévedoc cf. D 193-195

cyétÀ10v (acc. masc.) 163.6

τεόν

Teuecatov (prob. acc. masc.) (ad Temesam Italicam spectantem) 187.10

174.53;

-o1 **156.10;

-ôv

"71433,

590

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

##143.8; -Gc 184.10; -6v (acc.) 165.4, (inc., fort. acc.) 211; vd. cöc

τέρας (acc.) 151.1; teipeciv **213.61 tepavictata 196.3 tépyvea (inc.) 148.25 (**nom.) téccapac 174.70 τεταρταίῳ (n.) 174.17 τέτρατον (adv.) 174.20 τεύχει “184.21; teòy- 143.13; ἔτευχε 149.16

texväceran **215.1 τέχνην 166.3; τέχν- **143.13 (τήκω) Ernte 174.15

τῆμος 174.23 (tr. … ὁππότε), 184.18, 281

τημοῦτος 174.44

(τίθημι) θήοουειν 156.7; ἔθηκε() 166.14, 187.9, 203.4, 213.8,

τυπίδων 213.50 Topenvüv 200; Tu[penv *196.10 τυτθόν (adv.) *196.5 τώς = sicut aut sic 157 (τὼς μέν) ὕβριος 174.69; ὕβριν 174.64 ὑγρόν (acc. masc.) 213.55 ὑδέουειν #148.33 ὕδος **215.3; vd. ὕδωρ

Τηθύϊ #*213.70 (cf. 213.70 (Cat.))

174.63,

τρίτον 174.18 (adv. τὸ τ.) (bis) τύμβος 163.2, **163.16; τον #*144.3

**213.56,

*213.64; θῆκεν *213.56 (θῆκε); ἔθεεθε 163.12; θέεθαι 174.28

(τίκτω) ἔτικ[τ- 148.34 (**-e) τίμεε (impf.) #185.3 (tic) interrog. τεῦ (n.) 182; ti (acc.) 149.12

@*adv.), *175.2, 213.47, (adv.) 173.3 (ti δέ); pro relat. τέων 174.60

τις indef. *149.10, **166.3; τινία) 163.5, ##197; τι **149.9, 174.52, (acc.) 143.1, *#187.2, 195.2, **215.1, (adv.) 174.6

ticopev ##144.21; tiev 156.20 tor- 217.4 τοῖα 213.47

ror£eccı *#213.942 τοξευτής 169.2 τόξου 169.1; -α (inc.) 148.11 ]rorov[ 231.2 zöpyoc 272 tocov (acc. n.) 163.1 (T. ... ÖKkÖcov); TÖcceL (acc.) 172.1 (t. ... öcc(a)) rocchvöe 213.75 (t. ... Üccov)

‘Yöpodccav (Ceam) 174.58 Ὑδροχόος *213.94 (bôwp) ὕδατι 174.10; ὕδωρ (acc.) 165.4, (inc., fort. acc.) 211, (inc., fort. voc.) ** 164.1; ὕδαει “213.63 (ὕδατι); vd.

doc υἱός **174.59; -oîc 166.9

ὑμέας 163.11, “196.3; Dune 149.14 ὑμετέρης **215.3; τον 174.51 dunvaiovc 174.43 ὑπερφέρεται “213.44 ὕπνον 174.2 ὑπίό) + gen. 149.26 (postp.); + dat. 151.11, *#187.7;

+

*#213.65 schol.)

= 278;

acc.

149.6

(v.l.,

inc.

(nisi

ὑπὸ ... βάλον (3. pl.) 187.8 (brokéyo) ὑπειπάμεναι **166.18 (inf. act. aut part. med.)

drocyecinc 156.19 (ὑποτρέω) ὑπέτρεςεν 163.11 ὑφαινέμεναι 165.3 (φαεινόο) -ῷ 174.30 (φαείνω)

-e1 *149.7; -w (coni.) **213.61;

vd. galvo (φαίνω) Épnvav 213.49; gaveinv *213.61; vd. φαείνω

zör(e) 174.14, 203.3, 275.1 (7. ... ὅτε)

Φάλαικος (dux Epirotes) cf. 159

τόφρα 148.10 (ὄφρα ... τ.), 7213.92 τράγου 148.29 (τρέχω) ἔδραμε 174.77; ἔθρεξαν 143.8 τρηχύς 146.3 τριηκόντων (fem.) 275.2

Φαληρικὸς ὅρμος cf. D 206

Τριοδῖτις (Luna) cf. 213.5 (Cat.)

postp.),

**151.12

φαλιόν 143.16; -ἂς **165.1

(ga0c) gascıv **213.61 φαρμακόν 192 oe[ 144.7 φέρει *213.75 (**-01);

φέροιτε

172.1;

INDEX NOMINUM ET VERBORUM olconev

**144.21,

évetkac

213.55;

qépecde 7149.13 (**oépovtec, ἘΣ φέροιςθε); φέρονται 213.1 φημί 174.31; gaci 174.4; afice 154.2; ἔφη 157 (vl. oo); gf **196.13; φάτο 148.18

φημίζομεν 174.14; ἐφήμιςαν 174.58 φθέγγονται *195.3 φθιμένων 263.2 φιάλῃς 149.24 gu **150.1 (nisi schol.) φιλέοντες 168.1

591

χαλκοῦ *187.8; -όν 7187.10

Χαλύβων 213.48 Χαράδρῳ (flumine Argivo) **151.3 χάριν 213.75, (adv.) 182 (τεῦ ... χάριν) (Xdpic) Χαρίτων 174.73, 215.2 xapicıov (acc. n.) 143.1 χάρωνος **151.11 χεῖλος (inc.) 196.6 χέρα 265; xepciv "149.15; χεῖρας 260.1; Ἰχειραί 231.1 (χέω) ἔχει #*148.26; ἔχευαν *163.3, ἘΞ 187.10; χεύαεθαι 165.6; κέχυνται 7281

φιτρόν **144.3, 149.2 gdorwoîa *172.1 φόβον 173.3

(ἐκέχυντο) χηλοῖο #*149.25 χίμαιρα Ἐ148.27 χλι[143.9 (ξ᾿χλιαίνοντες, Ἐξἐχλίηναν, ἘΞ χλιῆναι, Ἐξχλιήναςαν) χλόος 174.12

Φοίβου

χορός 252; -6v *166.14; cf. 170

φίλον 275.3; -n (voc.) 165.7, (prob. voc.) 213.94, (inc.) **1444; -ov **150.1 (nisi schol.)

174.63,

196.14; τῷ 239.2; -ov 174.

21

φοίνικι *184.10 (Φοῖνιξ) (dux Acragantinus)

Φοίνικα



163.6

(φοιτάω) ἐφοίτα 171 φονέας 149.32, 263.2

(φράζω) Eppacov 213.50; ἐφραςάμην 163. 10; égpéccato *184.14; ppacc| 180.2 φρείατι 151.4; φρητί 266 gpeciv 162.7; φρένας **184.8

χρέος (acc.) *213.57, (acc.?) 187.2 χρή "151.2 χρήζοιμι 184.12 χρήματος 162.12 xpı[ 144.20 ypbceoc *213.60; -ov (nom. n.) 143.6 xpvcoio **156.4; -© 174.31 Xpvcodc *174.71

χύτλων 258 χωρίεθη **162.8

φρικτῆς 174.6

Φρύγιος (rex Milesius) *183.3, *185.3 Φυλεῖ 179 φύλλοιοει #*172.1 φῦλον 174.51 Φυεάδεια (voc.) 165.7, (inc.) **144.4 φυτόν (acc.) 213.49 φωκάων *143.6 φωλεόν 167.2 φῶς (lux) vd. φάος (960) (homo) φῶτα 275.1

ψευδονί 215.3 (**yeddov (impf. 1. sg. aut

χαῖρε

o (litteram) **163.10

(imperat.)

**213.942,

215.7,

215.8;

χαίρετε 165.8 χαλεποῦ

174.49; -ἦν

174.8

χαλεψαμένη 162.8

174.35,

187.13; -όν

part. nom. n.), **yevdouévo (n.)); wevδόμενοι 174.14; -αι 282

ψηφῖδα 187.8 ψήφου 174.48 (wvONc) (N) -tov (inc.) v.l. **196.1; sed vd.

ψύθιος ψύθιον (inc.) v.1. **196.1; sed vd. ψυθής ὦ

*174.28, **193 (post voc.), 206 (post voc.), #*209; in crasi ὥνακες *163.15

Dapiov *213.94 Ô(e) "157 (fort. toc ... ὧδε = sicut ... sic), **181.1, 203.3, **208, #209, 209 Ὠκεανόνδε *213.67

592

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

cpl **196.8, 217.1 @pov 149.28 ὡς = sicut 143.10, 148.33, **149.7, *149,. 21, 156.20, 174.2, 184.10, 260.2;+ part.

(= tamquam) 148.32; ὡς ὅτε *149.10 (**oc ὁπότ(ε)); = cum, ut primum 149. 7, #187.6, **187.6; = ὅτι 174.56, *174.

58, *174.60, 174.70; + opt. (= utinam) 213.48; exclamat. (+ adv.) 174.9; inc.

148.4, 230.6 ὥς 144.11, 148.18, #149.15 @c- **196.8, 196.15

ὥςπερ **2154 ὥετε + inf. **209

Index fontium Aelian. fr. 66 Domingo-Forasté: 163.7-9; 163.11-14 Aétius, Doxograph. Gr. p. 299. 3 Diels: 262 Agath. Anth. Pal. V 294, 17 sq: 213. 13/14 Anecd. Ox. ed. Cramer II, Choerob. De orthogr.

p. 180. 6: 174.36 p. 235. 3: 173.3 p. 238. 25: 173.3 III, Meletius De nat. hom.

p. 69. 7: 187.14 sq. p. 83. 12: 259 p. 93. 22: 165.2 sq. Anecd. Par.ed. Cramer, IV

Et. Gud. cod. Par. 2636, p. 60. 19: 169 Exc.ex Choerob., p. 226. 9: 157

Apoll. Dysc. De adv., Gramm. Gr. Il 1.1 ed. Schneider p. 182. 10: 171 p. 188. 19: 213.49 p. 203. 16: 171 Apoll. Soph. Lex. Hom. p. 107. 26 Bekker: 173.3 [Arcad.] De accent. p. 68. 14 Barker = p. 78. 10 Schmidt: 173.3 Arethas cf. Schol. Paus. Aristaenet. ed. Mazal 110 p. 21. 9: 167 p. 22. 14: 169 p. 23. 52: 171 p. 23. 56: 172 p. 24. 64: 173.3 p. 24. 81: 174.1-49 115 p. 37. 16: 184 p.39. 65: 185

Artemid. Λέξεις cf. Et. Gen. s.v. &pickvSic Athen. XV 668 B: 168

XV 668 E: 168 Cat. LXVI: 213 (versio Latina) Choerob. De orthogr. cf. Anecd. Ox. ed. Cramer

et Et. Gen. s.v. ἁρμῷ in Hephaest., 157

p. 201.

22 Consbruch:

in Theodos. Can., Gramm.

Gr. IV let

IV 2 ed. Hilgard IV 1,p. 152. 14: 252 IV 1, p. 268. 35: 253 IV 1, p. 287. 24: 254 IV 2, p. 78. 17: 157 Exc. ex Choerob. (Parecbolae ex Herodian. ed. J. La Roche

1863, p. 12;

cf. etiam Anecd. Par. ed. Cramer): 157 Claud. Saturnin. De coron. cf. Tertullian. Commentarius in Antim. (PMilVogliano 17) col. IT, 14-16: 164 col. IT, 23: 165.3

Cyrill. cod. Voss. 63 s.v. ἀμαλή: 256 Diegeseis Mediolanenses cf. PMilVogliano 18 Epaphrodit. ed. Braswell-Billerbeck fr. 44: 149.28 fr. 60: 169 Et. Gen.

B s.v. ἀκουός (a 349 Lass.-Liv.): 255 AB s.v. ᾿Αλήτης (a 452 Lass.-Liv.): 156.5

A s.v. ἀμαλή (a 582 Lass.-Liv.): 256 AB s.v. &ußov («613 Lass.-Liv.): 174. 34

AB s.v. ἀνδίκτης (o 820 Lass.-Liv.): 149.33 AB s.v. &pSuc (a 1137 Lass.-Liv.): 169

A s.v. ἀριοκυδής (a 1175 Lass.-Liv.): 146.1 A s.v. ἁρμοῖ(α 1198 Lass.-Liv.): 143.4 As.v. puo(a 1197 Lass.-Liv.): 143.4

AB

s.v. ἄωρος

(α 1544 Lass.-Liv.):

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

173.3

A s.v. Aupöc (A 181 Alpers): 173.3 AB s.v. udAevpov: 149.18 AB s.v. ὄλπις: 257 AB s.v. (παρτιάτης: 279 AB s.v. φαλακρόν: 143.16 B s.v. χύτλα: 258 Et. Gud.

ed. de p. p. p.

Stefani 87. 2: 156.5 111. 18: 174.34 189. 14 (cf. ettam Anecd. Par. ed. Cramer): 169 p. 533.3: 149.22 p. 574. 22: 155 ed. Sturz p. 261. 31 (codd. Par. 2630 et 2638 ap. Gaisf. ad Et. M. p. 450. 33): 213.40 p. 364. 26: 173.3 p. 371. 19 (cod. Haun. 1971 ed. Bloch ap. Gaisf. ad Et. M. p. 562. 40): 173.3

Et. M.

ed. Lasserre-Livadaras a 689: 255 α 818: 156.5 α 1006: 256 α 1028: 143.10 α 1047: 174.34 o 1327: 149.33

o o o B B

1511: 149.28 1754: 169 1822: 143.4 307: 160 363: 277

ed. Gaisford

. 254. 47: 149.17 276. 23: 149.2 290. 51: 275.2 306. 22: 167.1 330. 20: 278 380. 8: 149.22 394. 34: 166.7 404. 50: 155 436. 49: 164 450. 33: 213.40 463. 5: 143.16 562. 40: 173.3 572.37: 187.14 sq. 587.42: 149.2 623. 3: 257



149.28

AB s.v. Bövn (B 292 Lass.-Liv.): 277 AB s.v. δέλεαρ: 149.17 AB s.v. δίκρον καὶ Sikpoov: 149.2 AB s.v. ôvct: 275.2 ANB s.v. εἰςπνήλης: 167 ANB s.v. ἐλειήτης: 278 AUB s.v. ἐρφδιός: 149.22 B s.v. Εὐξαντίδος: 166.7 AUB s.v. ἐχῖνος: 155 AB s.v. Ἠρεείδες: 164 AB s.v. θῆλυς: 213.40 A s.v. ἰάλεμος: 143.16 AB s.v. Kpövioc λόφος: 271 A s.v. λειρόφθαλμος (A 168 Alpers):

Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ Ὁ

CALLIMACO

>

594

Et. Orion. ed. Sturz

p. 93. 4: 173.3 p. 162. 22: 259 Et. Sym.

s.v. ἀκουός (a 415/19 Lass.-Liv.): 255 s.v. ᾿Αλήτης (0 515/208 Lass.-Liv.): 156.5

s.v. δέλεαρ (cod. V, ap. Gaisf. ad Er. M.p. 254. 47): 149.17

s.v. δίκρον καὶ dikpoov (cod. V, ap. Gaisf. ad Et. M. p. 276. 23): 149.2 s.v. Övct (cod. V, ap. Gaisf. ad Εἰ. M. p. 290. 51): 275.2

s.v. ἐλειήτης (cod. V, ap. Gaisf. ad Er. M.p. 330. 20): 278

s.v. ἐρφῳδιός (cod. V, ap. Gaisf. ad Er. M.p. 380. 8): 149.22

s.v. Εὐξαντίδος (cod. V, ap. Gaisf. ad Et. M. p. 394. 34): 166.7

s.v. éxîvoc(cod. V, ap. Gaisf. ad Et. M. p. 404. 50): 155 s.v. Ἠρεείδες (cod. V, ap. Gaisf. ad Er. M. p. 436. 49): 164

s.v. λειρόφθαλμος (cod. V, ap. Gaisf. ad Et. M. p. 562. 40): 173.3

INDEX FONTIUM

Euseb. Praep. ev. III 8, 1: 203

Eustath. ad Dion. Per. 364: 267 369: 268 ad Hom. Od. p. 1856. 64 173.3 Gell. IV 11, 2: 260 Hellad. Chrest. cf. Phot. Hephaest. p. 6. 9 Consbruch: 157 Herodian. II. Ἰλιακῆς πρ., Gramm. Gr. III 2 ed. Lentz p. 40. 13: 282 p. 103. 29 et 31: 171

II. καθολ. np. Gramm. Gr. II 1 ed. Lentz p. 191. 5: 173.3 p. 448. 23: 173.3 p. 490. 8: 281 p. 498. 7: 171 ap. H. Hunger, «Jahrb. d. Österr. byz. Ges.» 16 (1967), p. 12 fr. AA: 194 fr.46: 261

IT. μον. λέξ., Gramm. Gr. III 2, p. 948. 15 Lentz: 151.2

IL. ὀρθογρ. Gramm. Gr. I 2, p. 478. 23 Lentz:

143.4 cf.

Choerob.

De

orthogr.,

Ox. I p. 180. 6 Cramer

Anecd.

IL. παθῶν, Gramm. Gr. II 2 ed. Lentz p. 221. 2 (et Add.p. 1249): 279 p. 239. 13 (et Add.p. 1250): 166.7 p.385. 19: 149.2 Exc. ex Herodian. Pros. cf. [Arcad.] et Toann. Philopon. Hesych. ed. Latte a 1247: 213.13/14 3408: 256 4708: 149.33 5673: 203.2 7539: 184.19 882: 143.4 432: 189 3522: 184.9 757: 164 269: 184.8 386: 187.15 737: 213.54 x 537: 184.5 À 547: 173.3 743: 280 839: 148.5 1113: 173.3 1502: 215.7 ed. Hansen π 1119: 165.3 2163: 166.12 2235: 156.20 4361: 184.5 ed. Schmidt τ 565: 148.25 @ 107: 143.16 1092: 167.2 y 257: 196.1 o 153: 171 166: 163.14 Hygin. Astron. II 24, 1: 213.7 sq.; 213 II 24, 2: 213.26 Toann. Philopon. Tov. napayy. (Exc. ex Herodian. Pros.) ed. Dindorf p. 29. 35: 281 p. 34. 6: 171 39 m

s.v. uuxkôc (cod. V, ap. Gaisf. ad Et. M. p. 587. 42): 149.2 Et. M. aut Et. Sym. cod. Voss. gr. Q 20 foll. 210-233 ap. Lass.-Liv. ad Et. M. a 1006: 256 ap. Lass.-Liv. ad Et.M.a1028: 143.10 ap. Lass.-Liv. ad Et.M. «1047: 174.34 ap. Lass.-Liv. ad Et.M. «1327: 149.33 ap. Lass.-Liv. ad Et. M. « 1822: 143.4 Et. M. aut Et. Sym. cod. Voss. gr. Q 20 in marg. ap. Lass.-Liv. ad Et. M. α 1028; 143.10 ap. Lass.-Liv. ad Et. M. α 1047: 174.34 ap. Lass.-Liv. ad Et. M. a 1754: 169 ap. Lass.-Liv. ad Et. M. « 1822: 143.4

595

Isidor. Orig. XVII

11, 1: 156.2; 284

596

CALLIMACO

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

Lexicon A\uodetv, a 39 Dyck: 156.5 Lex. Ambr.

159 et 170 s.v. Αἴθαλος (ap. Adler ad Suid. αι 111): 181 cod. L s.v. Λεωπρέπης (ap. Pace p. 323): 163.8 sq. Meletius De nat. hom. ap. Ritschl, Op.I (cf. etiam Anecd. Ox. ed. Cramer) p. 699: 187.14 sq. p. 699: 259 p. 700: 165.2 sq. Methodius cf. Et. Gen. s.v. ἀμαλή, s.v.

ἄμβων, s.v. ἁρμοῖ Orion. Er. cf. Et. Orion.; Et. Gen. s.v. ἰάheuoc, Et. M. p. 463. 5 Gaisf.; Et. M. p. 330. 20 Gaisf.

Orus cf. Et. Gen. s.v. Kpôvioc λόφος; Et. Gen. s.v. ἐλειήτης, Et. M. p. 330. 20 Gaisf. Ov. Tr. V 5, 33-39: 208 PBerol. inv. 11629 A (= pap. 12) ap. Wil., «SPAW» (1914), pp. 222-227 'recto': 154 'verso': 156.18-22 PLille (= pap. 1) 76d,

col. I: vestigia

ante

148

(omnia

fere scholia) 76d, col. II: 148.1-23 78a: 151 78b: 150 78c: 152 79: 148.24-42 82: 143.2-9 84: 153 PMilVogliano 17 cf. Commentar. in Antim. 18 (= pap. 5): Diegeseis Mediolanenses (ad frr. 159-162 et 166-213) col. Y,8 (lemma'): 161 col. 2,30 (‘lemma’): 176 col. 2,39 (‘lemma’): 177 col. I, 3 (‘lemma’): 178 col. 1, 10 (‘lemma’): 181.1 col. I, 27 sq. (lemma'): 182 col. 1,37 sq. (lemma'): 186 col. IT, 10 (lemma'): 188

col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col.

II, 29 sq. (lemma'): 192 II, 41 (lemma'): 193 II, 12 sq. (lemma'): 196.1 III, 25 sq. (lemma'): 197 II, 34 sq. (lemma'): 199.1 IV, 1 sq. (‘lemma’): 200 IV, 5 (lemma'): 201 IV, 30 (‘lemma’): 204 IV, 36 (‘lemma’): 205 V,3 sq. (lemma'): 206 V,9 (‘lemma’): 207 V, 18 (lemma'): 208 V, 25 (lemma'): 209 V, 33 (lemma'): 211 V, 40 (lemma'): 213.1

POxy. 1011 (= pap. 11) fol. 1'verso': 174.1-41 fol. 1 'recto', 42-77: 174.42-77 78-80: 175 fol. 2 'verso', 1-9: 215

2169 (= pap. 8): 156.8-25 2170 (= pap. 3) fr. 1, 1-3: 195 4-21: 196 fr. 2, 1-5: 198 6 sq.: 199 fr.3: 148.21-34 fr. 4 251 2173 (= pap. 9): 143 2211 (= pap. 10) fr. 1 ‘verso’, abc et 1-9: 162

10-28: 163 fr. 1'recto', 1-9: 165

10-31: 166 2212 (= pap. 6) fr. 1(a): 184.19-21 fr. 1(b), 1-3: 185 4 186 fr. 2(a+b): 184.14-21 fr. 3: 216 fr. Ka): 184.1-12 fr. 4b): 184.7 sq. fr.5: 184.16-19 fr. 6: 217 fr. 7: 218

INDEX FONTIUM

fr. Jr. fr. fr. fr. fr. fr. fr. fr. fr. 2213 fr. fr.

17: 228 18: 156.1-11 20: 229 21: 230.4-7 22: 231 23: 232 24: 233.2-7 25: 233.1 sq. 26: 234 27: 230.1-3 (= pap. 7) 1(a+b): 184.4-22 2, 1-4 180 5sq.: 181 Jr.3, 1: 180.4 2 sq.: 181 fr. 4: 235 fr. 5: 236 fr. 6: 237 fr. 7 vacat Jr. 8(a+b+c): 187 fr. 9: 184.19-24 fr. 10: 238 Jr. 11(a+b+c): 174.50-58 fr. 12: 239 fr. 13: 240 fr. 14: 241 Jr. 15: 242 fr. 16: 243 fr. 17: 183 fr. 18: 244 fr. 19: 245 fr. 20: 246 fr. 21: 247 fr. 22: 248 fr. 23: 249 fr. 24: 250

597

fr. 25: 184.8-13 (marg. dext.) 2258 (= pap. 13) B fr. 1'recto': 173 fr.1 verso": 174.3-6 fr. 2 'recto': 149.4-6 fr. 2 'verso': scholia ad textum ante 149 vel ad ipsum 149 pertinentia C fr. 1'recto': 213.43-55 fr. 1'verso': 213.65-78 fr. 2 'verso', 1-8: 213.89-94b

inc. sed. fr. 8 recto": scholia ad 163 fort. pertinentia inc. sed. β΄. ὃ verso’: scholia ad 162 fort. pertinentia inc. sed. fr. 12 'recto' et 'verso': scholia ad 213.26 sqq. et ad textum praecedentem fort. pertinentia 4427 (= pap. 4): 174.11-15 PSI 1092 (= 1218 (= fr. a: fr.b:

pap. 2): 213.44-64 pap. 3) 149 149.11-20

fr.c, 1-3: 195

4-10: 196.1-7 1500 (= pap. 9): 144 Philoxenus ed. Theodoridis fr. 8: 143.16 fr. 102: 213.40 Phot. Bibl. 532 b 9: 206 Plin. Nat. hist. III 139: 210 VII 152: 202 Plut. Mor. Mul. virt.16 253 F: 184 254 A: 185 Quaest. conv. V,3,3, 677 B: 156.5-9

II. τῶν ἐν Πλαταιαῖς

δαιδάλων fr.

158 Sandbach: 203 [Plut.] Mor.880 F (Plac. phil.I 7,3): 262 Poll. III 40: 174.3 V 96: 184.5

598

CALLIMACO

X 156: 149.33 Polyaen. VIII 35: 184-185 Porphyr. Quaest. Hom. Il. Schrader: 143.9 sq.

p.

- AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

264.

15

Priscian. Inst. gramm., Gramm. Lat. II ed.

Hertz I 11,p. 10. 18: 157 I 30, p. 23. 12: 157 II 12, p. 52. 11: 157 [Prob.] in Verg. Georg.ΠῚ 19 sq.: 145 Procl. in Plat. Remp. 391 B: 263 Quintilian. Inst. or. XI 2, 14: 163.11-14 Schol. Aeschin. In Timarch. 182: 197198 Schol. Aesch. Prom. 368: 148.23 Schol. Aglai. SH 18, 19: 149.22 Schol. Ap. Rh. 1954 211 I 955-960c: 212 1 1019: 174.14 I 1243-1248a: 264 I 1321-1323a: 213.48 II 373-376a: 213.48 sq. II 705-711b: 190 IV 1613-1616b: 149.23 Schol. Arat. 146: 213.7 sq. Schol. Aristoph. Ach. 144: 172 Av. 832: 200 Pac. 363a et d: 265 1244c: 168 Schol. Clem. Alex. Protrept. II 20, 1: 266 II 40, 2: 206 Schol. Dion. Per. 364: 267 369: 268 Schol.

Dion.

Thr.,

Gramm.

Gr.

I 3

Hilgard p. 222. 9: 166.7 p.350. 29 et 32: 157 p. 532. 4: 174.46 Schol. Hom. Il. II 629 (Schol. AD Gen.): 178-180 II 1820: 282

ed.

XI 62al: 149.6 XI 700 (Schol. AD): 178-180 XIV 19a: 174.34 XIV 296a: 174.3 sq. XVI 697b!: 171 XVIII 487 (Schol. AD): 269 XIX 1b: 166.8 XXII 56a: 270 XXII 397 (Schol. ABD Gen.): 263 XXIII 422 (Schol.B): 143.9 sq. Schol. Lyc. 42a: 271

598a: 272 Schol. Nic. Al. 870: 149.22 Schol. Ov. Ib.

331: 335: 459: 465: 467: 469: 501: 517:

263 197-198 197-198 196 192 174.64-69 159 283

Schol. Paus.

VI 6, 4: 201-202 VI 13, 1: 273 VII 4, 4: 203.1 Schol. Pind.

Isthm. 11 194: 156.5 Nem. X 1c: 146

Ol. VII 21c: 143.1 X 55c: 179 Pyth. V 39: 1443 V 44b: 1443 Schol. Soph. Ai.26a: 274 Ant.

80: 171 629: 174.3 Schol. Theocr. IV 28a: 143.16

Soranus De etym. corp. hum. cf. Et. M. p. 572. 37 Gaisf.; Et. Orion. p. 162. 22 Sturz et Melet.

De

nat. hom.

Ox. II p. 83. 12 Cramer

Anecd.

INDEX FONTIUM

Steph. Byz. ed. Billerbeck a 176: 162.12 a 356: 147 o 523: 254 ed. Meineke p. 223. 16: 189 p. 227. 4: 170 p. 296. 1: 213.57 p: 338. 12: 156.7 p.338. 14: 181 p. 422. 15: 158 p. 465. 4: 187.3 p. 465. 8: 214 p. 472. 10: 156.8 p. 601. 2: 148.2 p. 615. 2: 187.10 Stob. IV 48b, 24, V p. 1014. 7 Hense: 275

Suid. ed. Adler au111: 181 ε 2389: 151.9 1225: 143.16 x 1052: 274

599

À 596: 173.3 π 2040: 265 c 441: 163.7-9; 163.11-14 υ 41: 148.33 Symeon. Synagog. ap. Nickau ad Ammon. Diff. verb. 135: 276 Tertullian. De coron. VII 4: 156.2; 204; 284 VII 5: 191 Theo fr. 2 Guhl: 143.4 Tryphonfr. 75 van Velsen: 213.49 Tzetz. in Lyc. 42: 271 598: 272 Varr. De ling. Lat. V 113: 148.6 Zonar. ed. Tittmann p. 67 (s.v. Αἴθαλοο:: 181 p. 482 (s.v. δέλεαρ): 149.17

p. 628 (s.v. eienvnAnc): 167 p. 1295 (s.v. λειρόφθαλμοο:: 173.3 p. 1309 (s.v. Aupöc): 173.3 p. 1334 (s.v. μάλευρον): 149.18 p. 1444 (s.v. ὄλπιο): 257

Comparationes numerorum 1. PFEIFFER - MASSIMILLA 54 = 145 55 = 146 56 = 147 57 = 154 58 = 155 59 = 156 60 = 160 61 = 157 62 = 158 63 = 162 64 = 163 65 = 164 66 = 165 67 = 166 68 = 167 69 = 168 70 = 169 71=170 72=171 73 = 172 74 = 173 75= 174 76.1 = 178 76.2 sq. = 175.2 sq. 77=179 77a = 180 78=18 79=18 80 = 184.1-22 81=183 82 = 184.19-24 83 = 185 84 = 186 85 = 187 86 = 188 87 = 189

88 = 190 89 = 191 90 = 192 91 = 193 92 = 195 93 = 196 94 = 197 95 = 198 96 = 199 97 = 200 98 = 201 99 = 202 100 = 203 101 = 204 102 = 205 103 = 206 104 = 207 105 = 208 106 = 209 107 = 210 108 = 211 109 = 212 110 = 213 111=214 112 =215 138 = 216 139 = 217 139a = 218 140 = 219 141 = 220 142 = 221 143 = 222 144 = 223 145 = 224 146 = 225 147 = 226

148 = 149 = 150 = 151 = 152 = 153 = 154 = 155 = 156 = 157 = 158.1 158.2 159 = 160 = 161 = 162 = 163 = 164 = 165 = 166 = 167 = 168 = 169 = 170 = 171= 172 = 173 = 174 = 175= 176 = 177 = 333 = 372 = 383 = 481 = 485 =

227 228 229 230.4-7 231 232 233.2-7 233.1 sq. 234 230.1-3 = 180.4 sq. = 181 235 236 237 238 239 240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 148.21-34 149 151.9 148.33 143 253 252

488 = 254 499 = 255 502 = 256 534 = 257 540 = 258 553 = 260 557=151.2 574=259 586 = 262 588 = 263 590 = 148.23 597 = 264 607 = 265 611 = 266 615 = 267 616 = 268 632 = 269 635 = 270 641 = 271 647 = 272 665 = 159 666 = 273 674 = 1443 677 = 274 711 = 148.2 714=275 722 = 148.6 725a = Schol. 162-163 745 = 277 748 = 278 758 = 279 774 = 280 781= 281 787 = 282 796 = 283 804 = 284

COMPARATIONES

2. 254 = 255 = 256 = 257= 258 = 259 = 260 = 260A

NUMERORUM

601

SUPPLEMENTUM HELLENISTICUM - MASSIMILLA

143 Schol. 143 Schol. 148 148 Schol. 148 149 150 = 151

261 = 262 = 263 = 264 = 265 = 266 = 267 = 267A

3. MASSIMILLA - PFEIFFER 143................... 144................... 145................... 146................... 147................... 1488 ...................

Schol. 151 152 153 154 156 145 146 = 147

268 = 155 268A = 160 268B = 274 268C = 264 275 = 194 300 (270) = 261 301 (269) = 276

SUPPLEMENTUM HELLENISTICUM

383 ................... v.3=674................ #.................... 55.................... 56.................... v.2=711................ v. 6 = 722 vv. 21-34 = 176 v. 23 = 590 v.33 = 372 149................... 177 LL 150.....................4444 440404 ee ee νιν 151................... v.2=557................ v.9= 333 | [> VA 153 LL 154................... 57.................... 155................... 58 .................... 156................... 59.................... 157................... 61 158................... 62 159................... 665 160................... 60 .................... 161................... ee eee eee eee eee 162................... 63 163................... 64 164................... 65 165................... 66 166................... 67 167................... 68 168................... 69 169................... 70

254 266 267 267A 257

259 260 260A 262 263 264 268 265

268A -

602

CALLIMACO - AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

171................... 172................... 173................... 174................... 175................... 176................... 177................... 178................... 1799................... 180................... 181................... 182................... 183................... 184................... 185................... 186................... 187................... 188................... 189................... 190................... 191................... 192................... 193 ................... |5277 195................... 196 ................... 197................... 198 ................... 199................... 200................... 201................... 202................... 203................... 204................... 205................... 206................... 207................... 208 ................... 209................... 210................... 211................... 212................... 213................... 214................... 215...................

72 73 74 75 v. 2 sq. = 76.2 sq. . . . ......... ue eee ee eee eee ue eee ee eee eee 76.1 77 77a + 158.1 78 + 158.2 sq. 79 81 80+82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 0044 ee eee νιν νιν νον νιν 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112

COMPARATIONES

DIT Li 218................... DID νννν ν νιν νιν ως 220................... 221................... DID νιν νιν νιν ως 223................... DIA ννννννν ως 225................... 226................... BIT nn 228 ................... 229 νιν ννωις 230................... 231................... 232................... 233................... BA «Ὁ νν νιν νιν ως 235................... 236................... BIT νιν νιν νιν ως 238................... 2399................... 240................... 241 ................... 242 ................... BB νν νιν νιν ως BM ν νιν νιν ως 245................... 246................... INT eee 248 ................... BID ν νιν νν ως 250................... 251................... 2592.................... 253................... 254... ...Ὁν νιν νιν νννν ως 255................... 256................... 257................... 258 ................... 259 ννν νν νιν ως 260................... 1)

NUMERORUM

139 139a 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151+157 152 153 154+155 156 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 485 481 488 499 502 534 540 574 553 eee.

eee...

603

300 (270)

604

CALLIMACO - AITIA, LIBRI TERZO E QUARTO

263................... 588 264................... 597 ................... 265................... 607 266................... 611 267................... 615 268................... 616 269................... 632 270................... 635 271................... 641 272................... 647 273.................... 666 274................... 677 ................... 275................... 714 276......................................... 277................... 745 278................... 748 279................... 758 280................... 774 281................... 781 282................... 787 283................... 796

COMPOSTO

IN CARATTERE

FABRIZIO

SERRA

STAMPATO TIPOGRAFIA

DANTE

EDITORE,

MONOTYPE PISA

E RILEGATO

DI AGNANO,

DALLA

: ROMA.

NELLA

AGNANO

PISANO

(PISA).

x

Aprile 2010 (cz 2

FGZ)

A |

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