Bellezza e pensiero 8871663330


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Bellezza e pensiero
 8871663330

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Carlo Del Bravo

A Z Z E L L E B | O R E I S N E P E ITRICE LE LETTERE

Bellezza e pensiero riunisce ventotto saggi, editi e inediti, di storia dell’arte italiana e francese dal Quattrocento al

Novecento, composti fra il 1985 e il 1996; in luogo di prefazione ha cinque brevi scritti su contemporanei, in parte autobiografici. Collegando il significato delle opere d’arte ed eventualmente di memorie letterarie, l’autore ricompone discorsi storici che possono indicare all'uomo d’oggi libertà estetica e grandezza di pensieri.

In sovraccoperta:

Andrea Del darto, Pala di Gambassi, particolare Firenze, Galleria Palatina.

BIBLIOTHECA

CARLO

DEL BRAVO

BELLEZZA E PENSIERO

FIRENZE CASA EDITRICE LE LETTERE 1997

Copyright © 1997 by Casa Editrice Le Lettere, Firenze ISBN 88 7166 333 0 *.

Scritti su contemporanei, in luogo di prefazione

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https://archive.org/details/bellezzaepensier0000delb

Colacicchi,

1985

È un mondo esistito nel cuore degli uomini, da loro stessi conosciuto solo

in parte, e in altre parti sarà stato autonomo e grandemente assorto — com'è per il mondo fisico e per quanto accade —: ma di esso «nondimeno è necessario aver notizie giuste, per giudicar bene del nostro stato presente». Il presente. Nell’autunno appena trascorso, a un amico dell’arte ho consi-

gliato di andare a Milano, e gli ho scritto: uscito dalla Stazione, prenda il sottopassaggio: lì, giustapposti a qualche graffito di bruti, troverà manifesti dell'Assessorato, che porgono semplicemente, nero su bianco, e all’inizio non ci si può credere, una poesia: non una poesia di contenuto sociale, ma una lirica di privati sentimenti...

Raggiunta piazza Duomo, vada a piedi verso piazza del Carmine: strada facendo incontrerà, in un largo, l’ingrandimento, alto come una casa, di una foto di Fallai: pubblicità di uno stilista? indirettamente; per me e, credo, per Lei, ben più un’inven-

zione estetica, e la coraggiosa offerta di spazio a un fotografo che dà forma apprensiva a una bellezza d’oggi: nello spirito, albale... Proceda dunque fino a piazza del Carmine. Vi sono, già nella piazza, tre grandi

sculture di Mitoraj: su dai basamenti, torsi incavati e colmi come colline, dai profili solenni e dolci, che bruciano con quiete fiamme tutto quanto di banale entra nello

sguardo insieme ad esse. Educazione civile della bellezza. La stessa meraviglia, anzi talora più alta, nella galleria d’arte, aperta sulla piazza, dove sono varie opere dell’artista... Una plastica ricca, di grande tradizione moderna: velata su certi capelli e lenti sguardi, come in scultori tedeschi del primo Novecento, e allora risucchiata dal tempo fino alla loro origine culturale, i sogni consapevoli del diciottesimo secolo. Fin da

questa radice, un grande classicismo moderno si pone tutto soggettivo; fragile eppur tenuto; dibattuto da idee diverse e compresenti...

«Sono un uomo siffatto», disse una volta Colacicchi, «che non posso far

trascorrere un giorno senza vedere la bellezza»; e nello studio c’era il quadro di una nuda distesa su un promontorio contro il mare e il tramonto lucentissimi accecanti: ancora, lì vicino, le foto d’erbe e cespugli fatte d’estate sulla costa. Come ho pensato in questi ultimi anni a Colacicchi? Recuperando la sua

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BELLEZZA E PENSIERO

pittura per un’audacia del gusto; poi, sentendola come incitamento saggio a

un'esistenza libera e solare; ma ora i tempi sono maturati a che io possa intendere un valore critico in quella sua necessità di bellezza. E questo valore critico purifica della tentazione di far mito della stessa amichevole partecipa-

zione alla sua esistenza, con ricordi delle rose e dei mirti, del pergolato e delle colazioni estive al tavolo sotto l’albero — presso la villetta consunta, all’attacco della collina, sempre assediata, nei discorsi di Flavia, nell’aria, e quando scende

la sera sulla palude di luci arancioni, dalla città dilagata. La libertà che egli ci testimonia non lega più dunque con l’avventura aristocratica del Nothing but Nudes, né con l’intelligenza che conduce alla semplicità abbagliata della spiaggia riposta o del mare aperto — ma con una nuova felicità per la vita e la cultura meditativa. Nel 1927 Colacicchi prese a frequentare la grande casa fiorentina che era stata di Hildebrand, in piazza San Francesco di Paola: dentro a un riservato recinto, i cipressi, il podere in salita, le sculture, i nudi eroici nella sala della musica, lo studio — tutto ancora pieno della fede per una bellezza alta e intera

nella libertà. Ascoltando guardando sentendo, vi riceveva anche inconsapevolmente la lezione di Hildebrand stesso, von Marées, Klinger, Otto Greiner, Feuerbach, dei romantici tedeschi in Italia e in Grecia; infine, di Hélderlin e del giovane Goethe. E allora, le nature morte col flauto, le cave conchiglie, i relitti del mare; un Orfeo che muore nella notte variata dalle faci, la gioventù

fig. 2

che si asciuga dall’ultimo bagno dell’estate, l’uomo grande che dorme all’aperto, un accadimento terribile fra spiaggia e macchia... Cioè: la bellezza e il respiro che si disperdono in una vita più ampia (nella nostra, in un’altra); irripetibile, ogni singolo momento della vita; la salute magnanima; la tragicità, contemplata. Huxley, nel ’30, già avvisava sul nemico, il puritanesimo nell’arte: «la paura di quel che è semplicemente bello, di quel che è tradizionalmente e pur naturalmente... sì, naturalmente, piacevole e stimolante». Ma col senno del poi vedremo in tale ostico puritanesimo non tanto la pruderie, facile a deridersi,

quanto la connessione sua con l’efficienza. «Oggi non si può», mi diceva un giovane, «alzar gli occhi dal libro in biblioteca, levarsi gli occhiali e inseguire le idee nate da quella lettura, che i compagni efficienti ti credono fumato». Non stupisce, in un tempo appena emerso da quello in cui l’operatore culturale sembrava aver abolito l’intellettuale, l’operatore artistico, l’ispirato; la mostra e

la scheda, la saggistica; la cosa, libertà. In un’acquiescenza senza Sessanta aveva pur detto: «Sono sono, piuttosto che a giudizi. Le

il giudizio; la spregiudicatezza di parole, la critica. Uno degli artisti più noti degli anni interessato a cose che suggeriscono cose che cose più convenzionali, le più ordinarie - mi

sembra che noi possiamo avere a che fare con queste cose senza doverle giudi-

care; mi sembra che esse esistano come fatti chiari, che non comportano una gerarchia estetica». E se l’avventura libertina, nella grande Germania di prima del nazisme

COLACICCHI,

1985

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portava alla modernità d’acciaio e di cristallo come al solare e corporale classicismo — ad esempio intorno ad Herbert List -, il moderno del dopoguerra non è forse spesso decaduto a strumento della speculazione? e il geometrico nello

stesso tempo, non è divenuto minimal? Minimal, ABC Art, inarticolato eppur imposto a destinatari che non dovevano ragionare, ma in silenzio accettare e

consumare. Non si poteva chiedere di partecipare del commovente (in ogni caso) e del perdonabile (in ogni caso) desiderio di superare in orizzonti internazionali le proprie origini ristrette e solitarie, a chi aveva già superato, e da tempo, questa

fase del suo processo... Comprendere oggi, quando forse si è superato anche il tempo in cui, per ritrovar la Grecia, si andava in Grecia, alcune idee-base di Colacicchi contrarie alla volontà programmatica e all’astrazione nell’arte, cer-

candole espresse nella sua pittura più che nella sua prosa critica. «Se l’artista farà arbitrariamente prevalere nella sua opera un elemento a danno degli altri, tutto l’edificio armonico basato sull’unione e sulla pienezza, crollerà», così lo

parafrasa una sua amica — e, con distacco dai programmi, gli oggetti nelle nature morte son posati e accostati con calma anche nel vigore, come idee in un discorso di «tempo» non volitivo, invece molto sereno (e riflessi argentei, celeste, sole schietto, finestre al mare, o tempesta vicina, pregio di bacche rosse

o gusto di frutti). E il suo «dar forma ad immagini umane» non ci dirà solo di naturalezza come Colacicchi scrisse nel ’47, nell’esprimere «idee, e aspirazioni, e senti-

menti, e spirituali pensieri»: ma, a chi sta oggi superando l’efficienza e l’operazione, dirà di liberamente togliersi gli occhiali e seguire con un altro sguardo le forme che va prendendo il mistero: dopo l’imponenza di sistemi moderni,

profili umani come tracce sensibili dei tempi lunghi e variati della meditazione e della immaginazione. Il suo mondo è stato circondato da esercizi critici di orecchianti sdegnosi o da miti del sentimentalismo armato. A petto alla sua costanza svaniscon sereni,

allontanati via dalla fronte, anche i suoi conforti per vivere: pur saggi e dolci, si diceva: le siepi di rose, quelle di mirto, la pergola ventilata, le colazioni sotto l’albero circondati di sole; e nello studio, i fiori secchi, l’idea che è data solo in

pittura, della resurrezione della carne come un’aurora sulle vette, che ha già raggiunto e svegliato alcuni, e sta scendendo a svegliare altri, nel loro bel corpo, a guardarla nuovamente; e poi le conchiglie, gli oggetti carissimi. 1985 ze Pubblicato in Giovanni Colacicchi, catalogo della mostra, Firenze 1986.

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Tre artisti nel 1988

Certo che negli ultimi venti anni siamo andati recuperando l'ammirazione franca per la bellezza e abbiamo ritrovato lo spirito con cui Aldous Huxley nel 1930 criticava il moderno Puritanism in Art, che è stato tanto obliquo ed ironico. In questo periodo abbiamo avuto da superare anche l’inconsapevole idealismo della nostra formazione, per cui temevamo come impoetica la forma composta e fluente. L’amore per la bellezza è stato fin dagli anni Sessanta partecipato con candore dalla pittura di Renzo Dotti. Ha chiarito e custodisce, e conforta con letture, il suo dono, sempre raro ed oggi culturalmente poco inteso, della contemplazione; ma sul piano che può maggiormente mutar coi tempi, dal ’76

la sua pittura per essere lirica volle poco peso di parole, ed accettò di trascrivere solo quanto e come una folgorazione ispirata aveva trascelto: quindi frammenti di bellezza, appoggi stupefatti, evanescenze smarrite, ma anche zone bianche e mute: così religioso da non ritoccare mai la gettata pittorica di quel momento. Però nel maggio del 1980 apparve in una sua tela la figura intera: se fosse solo un prolungamento dell’apnea contemplativa o un intuitivo anticipo di mutamenti futuri, a lungo fu difficile dirlo, giacché gli anni del nuovo decennio parvero svolgersi intellettualmente amorfi, e solo oggi li vediamo percorsi da lenti ma divaricati fiumi di mutamento. Ancora nel 1986, per presentare una sua mostra non seppi far altro che estrarre due frammenti da miei scartafacci che non avevan trovato una sintesi: in quei frammenti parlavo, oltre che del suo costante misticismo artistico, di esterne occasioni, a volte tre rametti di pesco 0 di melo fiorito, rose piccole legate con la rafia, in un vetro limpido; e alludevo

ai suoi nudi come fioriti. Rimasero nelle righe cancellate i ricordi di quadri con anemoni dal cuore di nero velluto o in una nuvola azzurra, e con rose screziate o color carne; con ciclamini o settembrina

echeggiante. Ma lentamente - così acquistando perdendo ripetendo rivoli stesure continue rette a fiato sospeso brevissime liriche di schegge fulgenti,

nella fine d’estate svuotata ed

da non saper bene dire da quando -, di tono condotti in punta di pennello o con sempre maggiore finezza, non più senza virgole o punti, ma quasi periodi

in endecasillabi: ibouquets interi, ora, con i petali trasparenti, o quello rinvigo-

12 fig. 4

BELLEZZA E PENSIERO

rito dalla rosa di porpora raccontata nei suoi molti bordi. E così anche nella

figura un periodare alato sul petto, sul volto che non è più un lampo dicolore ma porta in sé il tempo di stati prolungati di malinconia, sonno, di altrui ricordi; di solenne morte, nell'immagine come di uno sportivo caduto: muta o

coi suoni impercettibili dello sboccio di quei colori. E nei fogli tutto questo si tende in un segno come vascolare e a punta d’argento. Ma sul piano etico, se la bellezza dei temi trattati ha indotto fino al decennio scorso alla libertà e all’aria pura del progresso, ora induce alla fede nei fondamenti: di fronte a rose lui può dire talvolta che la natura per sua bellezza è insostenibile; ma che l’essere umano, avendo una sua volontà, quando è sincero è ancor più potente e, così, nudo come per metafora diciamo nuda la verità, messi a nudo i sentimenti, e più raramente possiamo dire «poesia nuda». Un altro pittore, Rodolfo Meli, nel 1983 elaborò in due quadri i disegni

architettonici di Giuseppe Poggi, compiuti e serenamente assolati, a lui misteriosi come gli idoli di religioni di cui abbiamo perso la mitologia (ma di cosa del passato e del differente non l’abbiamo persa, oggi?). Già intorno al ’70 aveva imparato a scuola un disegno fedele alla fotografia, studiando pubblicità: una

gioventù applicata alla realtà fotografata, cioè solo veduta e quindi incapace di deludere, immobile e silente come quegli idoli, e come le figure di Piero della Francesca, tanto amato infatti nell’interpretazione scolastica che era quella metafisica di Longhi. E così anche il movimento, se si svolgeva, era incantato da

questa idolatria: nel ’77, al protagonista del suo film Amore vien fatta guardare attentamente una cartolina del ritratto con turbante rosso di Van Eyck e staccare dal muro ed indicarne un’altra con l’Amore e Psiche di Picot, e di lì si sviluppano

solenni gli impersonamenti, i costumi di scena, le apparizioni del «mistero» in quel teatro della fantasia liberata che può essere per un giovane il suo proprio appartamento, semivuoto e bianco. E per quell’interpretazione metafisica di cui dicevo, gli è facile intorno al 1985 il passaggio a quanto di metafisico si trova nel Casorati e nell’architettura italiana degli anni Venti e Trenta, contemporanei al Piero di Longhi. Ma è il talento, ecco, a portargli la quiete languida della luce sulle architetture moderne a quegli anni; e la meraviglia del cielo marino su una spiaggia invisibile d’elegiache estati, oltre l’esedra e la torre delle colonie; e la solitudine d’allora, di quelli che guardavano dall’alto il mare in Grecia o a Capri, così intensamente azzurro. Ma anche il presente, per chi vive oggi, può essere

senza codice, come dicono la fantascienza o la performance intima col televisore acceso e pure il raccoglimento, in altri suoi film. Dopo aver visto la sua mostra a Prato, nei giorni di Pasqua dell’87, gli mandai una cartolina di sinceri complimenti; passai a fargli visita vari mesi dopo, era già novembre: stava finendo una tela, iniziata per sé ma poi destinata

a un'amica comune, con due ragazze quasi speculari al fonte, con un paesaggio franceschiano, in un gran tono turchino. La cifra metafisica nelle figure si era all'improvviso ridotta, ma l’alta poesia era ancora quella che nasce davanti agli

TRE ARTISTI NEL 1988

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idoli; subito dopo, e credo sia un tempo di cui si debba serbar memoria, nei

temi di Rodolfo il mistero si sposta dalle incomprensioni della modernità dimentica alla profondità e grandezza della cultura antica. Dell’ Aminta aveva dato prima una trascrizione filmica pedissequa ma con accettazioni di poesia già pronta, per le quali era un attrito quel recitar nella villa fiorentina assediata

da clacson e spiata da condomìni lontani: ma oggi, un altro Aminta, un grande frammento dove l’azione comincia sì con metafisica stranezza: incede una donna, la quale da un vassoio fa cadere vetri nella luminosa sala che ha alla

parete un quadro del regista-pittore - ma poi vengono altri scorci ed altre appropriazioni: entra in scena Amore, un poeta sfoglia e sfoglia sonore pagine, e poi legge e legge endecasillabi, sapienti e fluenti: il mistero, non più nella stranezza dell’incompreso,

ma

appunto

nel grande e nel profondo di una

cultura che conobbe intrepidamente le possibilità del cuore umano e poi ne dètte forma misurata: cultura spudorata ed amabile. Ancora nel gran tono blu, un quadro che trae lo spunto compositivo dall’Apollo e Dafni del Perugino, ha in sé modellato lentamente e particolarmente il paesaggio, e così il corpo di due giovani: ad uno di questi la lettura di un libro fa sollevare e fissare nel vuoto lo sguardo; una via sassosa passa vicina, ma più vicino è il dio, immaginato e non veduto, la testa intensa contro il cielo, la

mano vibrante davanti alla gola come per trasmettere quello che le labbra non pronunciano: feci notare che così era stato ritrovato un pensiero di Plotino,

«l’insegnamento non può far più che indicare la via e il viaggio; ma la visione è propria di chi ha voluto contemplare». Con potenza ormai serena passò ad un altro quadro, a toni non più di lapislazuli bensì pacati e gentili di terra, rosa, oro;

ancor più a lungo e fluidamente modellate le forme e descritto il breve momento dell’anno in cui il sole già vivo di primavera sorprende e riscalda le foglie dorate delle querci. Questo momento fu caro a Poussin, dal quale discende anche la composizione, modulata dai versi d’Ovidio che son l’origine ritrovata del tema non più enigmatico di Apollo che fa bere al poeta acqua castalia; Apollo, grande e d’oro, è clemente eppur assorto da un suo cielo più degno; e la fisionomia del poeta richiamando la modernità, in questa diviene improvviso, dirotto, lo stupore di ritrovar anche solo il concetto, il nome, di ispirazione.

Avendolo a lungo elaborato, uno spunto di Klinger sull’arrivo di Amore è irriconoscibile, essendo sopravvenuto ancora il ricordo dell'Amore di Picot: il dio ha svegliato un poeta con un colpo, in una camera urbana, nell’alba di un’estate: il materasso per terra, il lenzuolo dibattuto, la squallida nudità di

quelle notti. La luce fredda da una finestra, dall’altra il rosato si effonde miracoloso e solenne sul dio. E la nostalgia, in quella notte di luglio, dei lontani

miti mediterranei, andando verso l’azzurro anche una cultura imponente e

liberatrice (ha letto Hélderlin sull’Arcipelago: «È questo il tempo?»).

Mi disse Scatizzi nel 1983, era appena tornato dalla mostra di Manet, mi

disse d’aver visto una pittura come piombo fuso (si riconosceva forse nel-

fig. 3

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BELLEZZA E PENSIERO

l’espressione pittorica quasi una gettata che si dirami nell’acqua quale il calore | liberamente la spinge: penserà il futuro a far degna la libertà). Nel 1984 mi disse: durante un fugace passaggio in Maremma aveva visto

muri calcinati e cielo blu, 0, su quei muri, in basso e in alto manifesti di circhi,

d’intero giallo rosso e celeste. Quest'anno mi ha detto di aver visto nei negozi, a marzo, uva d’importazione, celeste; e d’aver visto poi e talora acquerellato —- la conoscevo? sì, la

conoscevo — la zona di Marcialla, anzi fra Marcialla e Montespertoli; che per gli ultimi suoi quadri qualcuno aveva parlato di naturalismo, ma che significa?; soltanto, lui non si sentiva di ignorare la natura che ci circonda. Dall’84 all’86, coi ricordi di quelle strisce d’abbaglio e blu o dei rettangoli

di colori interi — l’aggressione compositiva di due scene in basso e in alto sulla stessa tavola, con bordi di pennellate nere che iniziavan cariche come gridi e poi si perdevano fioche, e scavi di spatola come impazienze e rabbie di una pur dolce voce. Allora, anche una luna che si rifletteva nel mare — canzone e incanto, forma scomposta e insieme liquidissima memoria.

Ma quest’anno. Alla fine dell’inverno, nelle Uve era stata aggredita anche la bellezza pittorica, con arditissime somme di stonature; con la buona stagione, fra Marcialla e Montespertoli, come nella scelta di quelle uve celesti da consumismo, così ha sfidato lo sconcerto della Toscana d’oggi col ronzio della ruspa che la cambia, e con le industrie nelle valli — allo sconcerto, lui si è sempre esposto, da interprete dell’Italia moderna, dove il turismo, l’altrui destrezza,

l’eccesso automobilistico di immagini sono il rovescio che mai dimentichiamo, stanchi e apprensivi, d’ogni pagina ancora serena: e là è sereno in questo modo un grandissimo cielo ricco d’ogni nuvola, e il misto più che vario di campi e d’alberi ricciuti. Temerari come sempre il luogo sfuggente, la posizione instabile dell’osservatore, lo scatto prima dell’inquadratura, il mistero montante ma còlto immaturo della luce, la nube, una nube, non scelta. Temerari — come si dice temerario un giudizio —, le occhiate, i ricordi affrettati; e poi, nello studio, fig. 5)

con strisce diverse da quelle della Maremma ondeggiano intempestivi le ginestre ed il grano, i papaveri e le fronde, i tanti cespugli, protraendosi un giugno toscano col suo bel volto eppure minato dai cambiamenti. E non più aggressioni del quadro come altro da sé. Parlano di un suo attuale naturalismo: ma quale? qui, in fondo, su ogni oggetto ci si posa velocemente; vaga, la rappresentazione: continui invece, gli arrischiati slanci del cuore.

Io ero molto preso di quei paesaggi di Scatizzi; ne parlavo col Dotti ad ottobre, nello spiazzo della mia campagna fra ombre e luci volatili, fra gli alberi, prima che andassimo in gita a riveder la zona di Marcialla. Mi diceva

che in quei dipinti trovava una grande bellezza: - Maanche il rischio. — La bellezza è rischio. 1988

è8 Pubblicato su «Artista», 1989.

Fotografie di Alessandro Sardelli

Attratto da manifesti, torno a San Casciano, una sera di giugno: vado a una

mostra di fotografie. Per la partita alla televisione, nelle strade le automobili abbandonate e la solitudine, come in una fine; il clima mutato improvvisa-

mente, e un vento freddo colpisce chi ha traversato le ginestre per venir qua. Sembra quando la stagione cambia a fine settembre, ma senza raccoglimenti. Strano ritorno al paese natale. Le luci forti e sole, il condominio a terrazzini e serrande dove era la grande casa dalle persiane grige, concentrata sulla penombra; e profumata dalla cappella domestica. Per tutta la mia gioventù essa è tornata, anche nel sogno: una volta percorrevo le soffitte già sgombre, piene di sole ove la polvere, bianca si muoveva — e avanzavo in quel silenzio che in altro

tempo c’era fra l’uno e l’altro richiamo umano. Tra i parcheggi dilaganti, nella piazzuola cintata, sotto una pensilina la luce accesa, nel freddo nuovo, dunque

per la mostra. Rileggo: Appunti di paesaggio; ma, soprattutto, Alessandro Sardelli, per sapere come si chiama chi ha visto così certe salite, certe curve di strada, nell’aria dei pomeriggi freschi quassù. Vi riconosco qualcosa di me nei momenti più liberi, quando non ho età perché non penso a quel che ho perduto. Filari come vezzi di chicchi vitrei verdognoli, dorati, o assolutamente scintillanti. E nella nebbia - è giusto, ad ottobre e di mattina — gli alberi si disegnano, la conoscenza è calma: e sul viadotto, passa un camion rosso, come

fig. 7

sempre fin dall’infanzia dei giovani d’oggi. Chi fa suo lo spirito di questi giovani può accorgersi che l’aria è limpida anche fra due olivi nell’asfalto, piano grigiazzurro dove la Uno rossa del raccoglitore brilla, lavata, e un ramoscello vi è volato. Questa è la Toscana che

conoscono e posson vedere bellissima. Sulla strada che gira ampiamente in salita, con la striscia bianca al centro (una dolce geometria), il ragazzo senza pensiero, in scooter rosso, con l’elmo nero, — e supremo, al di sopra, il cielo,

pittoresco di bianchi e turchini da giacinto che si impastano, e trasportati volano sul celeste. Son tornato a questa mostra il pomeriggio dopo; dietro i pannelli una compagnia d’adolescenti giocava, spesso volgare. Ma in quelle foto, occhi

fig. 6

16

BELLEZZA

E PENSIERO

limpidi; i due adolescenti sullo sfondo d’una, assolti, son sciolto movimento, e rosso bianco e azzurro. E una felicità ad aver ancora, al limite del mondo, un

cespuglio elegante a fiori d’oro, e la strada dove correre, e il palo dell’elettricità: e la spalletta su una veduta infinita, allegorica. Sopra, un cielo freddo, astratto per qualche riga e qualche soffio bianco; in basso poi, rosa. Sardelli ha cinquant’anni, mi dice. Passano su un tavolo altre foto, e molto

più a fondo intendo che quella giovanile accettazione — della serie di San Casciano passa una foto che non fu esposta, dov’è un angolo di fili con panni moderni, rosa nel vento come fiori di macchia - è per una terra ancora apertamente bella, ma domani?, per un attimo di giovinezza ancora, come bandierine e festoni ventilati su una terrazza tesa alla notte dell’avanzante futuro moderno. E così già in una foto a nero dell’83, con l’attimo di un hare krishna, della sua gioventù, espressione, nella luce; del batticuore della sua vita lanciata

- tutto sul cupo dello sfondo. Ma si dispiega con le foto del sole nascente sulla bellezza statuaria parlante e spezzata, e con il lavoro ora in corso, la cartella di fondi neri come lo spazio infinito, su cui è l’attimo dell’incontro con una luce —

quando? -, di manifesti strappati: detriti penduli nella nostra vita, scabri o lievi per il nostro tatto vivo, gentili, scomparsi. 1990 èe Pubblicato su «Artista», 1991.

Mitoraj, novembre 1992

Tante volte, mentre preparavo queste righe su Mitoraj, ètornato dagli anni Sessanta il corridoio semibuio di una scuola d’arte, dov’eran certamente, co-

perti di polvere e non più guardati, gessi dell'Ara pacis, e dove la mia immaginazione supponeva anche, sugli armadietti, il gesso grandioso della testa di un dio romano, troppo bello per quel luogo, con la fronte paziente esposta senza tempo alla polvere e alla luce grigia. I «moderni» ci imponevano di non guardarlo, lo beffavano e vi scrivevano sopra delle parole, ma il cuore sentiva

pur fraterna quella testa mansueta: la sentiva così per natura, per ingenua educazione familiare al bello e al buono, nonché alla sincerità e alla fantasia. Ma i «moderni», ancora, ci dicevano in un loro senso che temevamo univer-

sale, che tutto questo non esisteva. Tornando dal nostro incontro in un giorno colmo e sereno, a novembre,

guido tra visioni di velocità, e vedo ricordi, fuggenti anch'essi, della volta che andai a Pietrasanta senza conoscere l’artista, ma pur con la speranza di intrave-

dere qualche opera sua. Quella volta era, in un luogo così vicino al mare, una precoce fine dell’inverno, credo dell’86: dalla terra infradiciata degli orti, fra rottami di marmo, arbusti fioriti gialli e rossi. Ma oltre tutto questo, infine oltre un recinto, modelli grandiosi di gesso bianco: uno, di un volto dimentico,

con lo sguardo oltre il sole. Fra le automobili, dunque, sull’autostrada: ma poco prima Mitoraj mi ha detto che quando lavora non pensa alla forma bensì al sentimento; il pomeriggio bello di novembre è dolcemente dorato sotto una cupola di rosa, e talvolta mi abbaglia qualche specchio di allagamenti lontani. Mi ha detto che per le sue opere non pensa alla forma, ma al sentimento; e inoltre, che studia poco dal vero, che disegna sempre meno (quindi, lavora di

immaginazione: ma quali caratteri ha la sua immaginazione?). Parlavamo (l’alto soggiorno era aperto alla luce riflessa dalla bella giornata sui muri e sui sempreverdi) di certi rilievi narrativi: la sua opera più svolta, ha detto che è un gruppo con due fanciulle collegate vagamente, in gesso lì vicino ai vetri (la sua immaginazione non è dunque portata allo svolgimento, ma incantata nella contemplazione: ed essa e l’ispirazione sono un mistero, avevamo detto la

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BELLEZZA E PENSIERO

mattina). Facendo vedere una foto del medaglione con De Sabata per la Scala, ne ha parlato poi come di una divinazione, avendo raffigurato il maestro con una blusa, e con incavi rettangolari sul petto, senza sapere che quella era la sua tenuta da lavoro, e che in gioventù egli aveva composto musiche futuriste.

Allora scompare l’ipotesi dell’assemblage surrealista per la somma, nelle

sue sculture, di elementi diversi - i tasselli, imedaglioni, altri volti, le fasce, sui volti assorti, sui bei torsi -. Del Surrealismo, egli ha detto che ricorda il cielo

dietro certi alberi di Magritte, ma che surrealista gli sembra anche la testa del

Cristo, contro il cielo, nella Trasfigurazione di Napoli del Bellini. Il mistero, e

l’ambiguo sovrapporsi di immaginazioni differenti, significherà dunque antica eredità simbolista e vocazione alla poesia: e sarà proprio questa a dargli l’aspirazione inesausta a un’opera semplicissima, e il procedimento di cui mi parla, per

cui prima costruisce la forma intera, e poi la taglia — la riduce alla sola parte in cui qualcosa brilla essenziale e puro —. Mi ha detto anche che preferisce non capire, non ridurre a concetti la sua

arte. Con questa natura, nella Parigi degli anni Settanta soffrì per la posizione di chi dominava nell’arte praticando terrorismo intellettuale. Gli ho recitato qualche parola di una recensione a un Salon del 1897, sull’opera come «figlio del sogno», nato e cresciuto nel raccoglimento e poi «consegnato al pubblico, tutto nudo, nella luce cruda», e mi ha detto di aver pur provato questo sentimento.

Solo fuggendo nel Messico, in un ambiente semplice trovò la pace e la sicuTCz20! Queste parole recenti, mentre le rievoco, hanno in me una risonanza antica

e straziante, di amore per la vecchia Europa. Negli anni Cinquanta, fra casa e scuola potevan crescere ciecamente nature estetiche e contemplative, inclinate

a ridurre il mondo a sogni e ad immaginazioni: e le vecchie famiglie assecondavano, ingenuamente annuendo alla poesia; i libri che esse conservavano e quelli a cui ci induceva la scuola essendo ancora classici o simbolisti; e i romanzi che

si leggevano da universitari, essendo ancora quelli sull’adolescenza, spesso in francese, Fromentin, Mauriac, Green. Da un Pascoli di casa, in pelle verde,

sorgevano le Sirene «guardando / il mare calmo avanti sé, guardando / il roseo sole che sorgea di contro; / guardando immote; e la lor ombra lunga / dietro rigava l’isola dei fiori»... «vide che le due Sirene, / le ciglia alzate su le due pupille, / avanti sé miravano, nel sole / fisse, od in lui»; in Fromentin tornando

(ricordo ancora) una pioggia avvertita dalla camera dell’adolescenza mentre

cadeva «paisible, chaude et sans bruit, comme des pleurs de joie»; da Mallarmé, ad esempio, una fraterna «nudité de héros tendre», e da tutte quelle aspirazioni giovanili agli incontri, uno strazio per i veli di tempo, luogo, limiti, che

coprivano alla nostra vita l’umanissimo volto di chi poteva risponderci.

Tutto questo, per il terrorismo intellettuale di maestri e condiscepoli «mo-

derni» non esisteva.

MITORAJ, NOVEMBRE

1992

19

Quelle forme antiche sono ora tornate, qualcuno le ha difese contro quei

crudeli interdetti: necessarie, ingenue, sognate non comprese. A questo mondo giovanile, egli ha aggiunto sul ’90, dei sofferti pensieri nuovi: la bellezza, come può tanto decomporsi? E i titoli ricordano vicende

tristi. Ma la persistenza della bellezza è affidata a un’opera che prediligo, Testa iberica adagiata in un riposo indifeso, cieco e dolce: sul limite di un mondo di pace com'era Orizzonte del 1986, tradotto ora dal bronzo al marmo, il collo

ampio e solo l’attacco del volto sollevato. 1992

è@ Pubblicato su «Artista», 1995.

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Saluto a Max Seidel nel giorno inaugurale della sua direzione dell’Istituto Tedesco di Firenze

Due saggi illuminanti dell’ultimo decennio fanno proposte insolite ed ardite: di considerare la cultura non come attivismo, ma come coltivazione dell’anima, e di costruire un museo come edificio decoroso e sobrio dove si

possano vedere i quadri tranquillamente (e da un secolo fa sale la voce di un autore che loda i musei che sono «luoghi propizi a gustare completamente la pittura», dove «si sa che l’opera è lì che ci attende, ci si prepara a riceverne il

colpo; e quando la si lascia, ci accompagna ancora per un po’ di tempo»). Vorrei esprimere un voto, altrettanto temerario: che le biblioteche diven-

gano luoghi di meditazione: so di espormi, ricordando che l’attivo vicedirettore di una grande biblioteca italiana mi disse cortesemente che, sì, lui sapeva

che c’erano altre persone oltre a me che avevano la limitazione di volersi concentrare al tavolino. E certo che è insolito, fra tanti che, volendo essere bibliograficamente inattaccabili, battono sulla tastiera di archivi elettronici, ricordare l’insegnamento che dava un maestro della critica, di trascrivere e ritrascrivere a mano le cento volte un testo meritevole, per comprendere la sua struttura invisibile e le intenzioni segrete delle sue parole. Eppure mi spingerò oltre: le parole che ho letto e trascritto a migliaia all’Istituto Tedesco nelle sue due sedi, a migliaia sono uscite dalla mia memoria e dalla mia vita, mentre gli insegnamenti ricevuti dalle sue persone e dalle sue cose sono ancora profondi e operanti, come quelli di un grande testo osservato e meditato alzando gli occhi dalle pagine della lettura e della trascrizione o affacciandosi un momento alla finestra. Giacché talvolta si può, come ci ha rivelato Rousseau, sentire il limite

delle parole, ancora parole e sempre parole, e che «ragionare sempre è la mania degli spiriti piccoli. Le anime forti - come quella dell’Istituto, io direi - hanno

un tutt'altro linguaggio», e scuotono l'immaginazione con oggetti che esse

espongono agli occhi, soprattutto se gli occhi sono di giovani sinceri. Io, quando arrivai per la prima volta all’Istituto Tedesco di palazzo Guadagni - era, mi sembra, il giugno del 1956 -, vi fui accolto da un professor Middeldorf, allora possente, in maniche corte; cominciai subito a studiare, ma

DI,

BELLEZZA E PENSIERO

anche a meditare su altre cose. Seppi dalla signorina Becherucci che un costume era già decaduto: quello delle riunioni di giovani studiosi tedeschi e italiani, che si informavano a vicenda dei vari percorsi delle loro ricerche, e alla

fine invitavano il sorriso di Dioniso con un poco di vino versato delicatamente da un fiasco. Mi accorsi che stavano finendo anche i conviti da Angiolino, di tedeschi e italiani più anziani di me. Ma c’erano pur sempre, preparazione 0 umano accompagnamento a quel paradiso di immagini e di idee, le scale per cui vi si ascendeva, scale da Firenze scura e triste, la famiglia Miniatelli col

figlioletto in grembiulino, la gatta, la terrazza interna e le tegole. E in fototeca la bellezza fotografata e bianco-nera si accompagnava, nella bella stagione, a quella degli alberi grandiosi che, fuor delle finestre, facevan onde cangianti, alla brezza e al sole. Già, per la mia classe non c’eran più conviti fra italiani e tedeschi e altri, ma il direttore mio coetaneo di un museo straniero mi ha detto

di conservare ancora nel cuore gli inviti a cena di un tedesco alla trattoria all’aperto sull’angolo della piazza, quando anche per lui, che come tanti studenti poveri di allora beveva latte come supplemento a una nutrizione parsimoniosa, tornava il sorriso di Dioniso con due dita di vino; e il tanto studio si riscaldava anche, allora, per tutti, in quella piazza, con i giri in bicicletta dei fanciulli, col mercatino, coi discorsi dei vecchi.

Il professor Middeldorf continuò a lungo a dar questo insegnamento per la via degli occhi: e ne è un vivo ricordo per me quella mattina presto del fig. 8

settembre 1979 in cui, appostandomi, lo fotografai mentre traversava la città

leggendo poesia latina, un dito della destra fra le pagine del dizionario: ormai fragile, vestito di chiaro, sotto un cazzotto e un obelisco dell’Italia cambiata. Ma anche via Giusti ha i complementi, anzi i coronamenti, alle tante idee racchiuse nei suoi tanti libri, alla tanta bellezza in fotografie bianche e nere:

come la fascia di glicine su un suo fianco, il pergolato, la veduta d’alberi e nuvole dalla porta-finestra delle Riviste, il signor Mugnai che fischia mentre fa il suo lavoro sui prati. Altri coronamenti sono scomparsi: il susino da fiore che a marzo riempiva di miracoloso rosa le finestre impiombate delle stanze O ed S, è caduto: però un ributto sta crescendo, come da un mediceo broncone, figura

della vitalità dello spirito dell’Istituto, augurio ad multos annos per Max Seidel, per me, e per tutti i presenti a questa inaugurazione, e legame visibile che parlerà a lungo alla fantasia di chi è simile a noi. 1993

è8 Pubblicato su «Artista», 1994.

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Primo Quattrocento

Cominciamo guardando il David bronzeo donatelliano, che fu di Cosimo: penseremo il cappello, con un culmine forato! a sostener un pennacchio, esser cappello d’arme, cioè elmetto da parata; e la corona d’alloro che lo cinge,

ornata di un nastro ricco e frangiato, esser la corona gloriae che l’Ecclesiastico ricorda per David; e l’altra, più grande, corona ai piedi, che la voluta di un

nastro collega all’azione, cingere il basamento del trionfatore, che nei cassoni vediamo sul carro parato?. E allora, fino a questo punto leggeremo nel David: Il trionfo... E continuando: nella sua fanciullezza, e nella sua nudità con gli schinieri vedremo (come in parte John Dixon*) un ricordo di quei versetti del Libro dei Re, in cui David affronta fanciullo e indifeso il gigante armatissimo? — e quindi proseguiremo: Il trionfo di chi, benché più debole, e indifeso...

David ha vinto il gigante Golia: la testa mozza porta ancora l’elmo, e nei due rilievi sulla visiera è ripetuta una scena che si addice a Golia come «vir spurius»°: in quella scena un uomo panciuto sta su un carro faticosamente trainato da Amori, e un altro Amore gli si genuflette, con le mani unite a coppa, a ricever tre oggetti uguali, forse tre monete; sul carro e sul suolo, vasi da vino: l'amor venale, dunque, e dissoluto, da cui nacque quel bastardo: I/ trionfo di chi, benché più debole, e indifeso, ha vinto un «bastardo»... Il trionfo di David fece nascer l’invidia di re Saul”, che fu causa di tante

persecuzioni: e allora concluderemo la nostra lettura nel modo che segue: I/ trionfo di chi, benché più debole, e indifeso, ha vinto un «bastardo», sarà, come quello di David, perseguitato dall’invidia.

Questa conclusione riflette pensieri di Cosimo vincitore degli avversari, pensieri che ci sono stati tramandati: «[Cosimo] disse: e conosco che alla mia fine i mia figliuoli restano in maggiori guai, ch’e’ figliuoli di cittadini che siano morti a Firenze già è lungo tempo, perché so che io non ho a avere il cappello d’alloro più che s’abbino avuto gli altri cittadini. Usò queste parole perché conosceva la difficultà era a tenere uno Stato come aveva tenuto lui, avendo tante opposizioni di cittadini potenti nella città, trovatisi grandi come lui in altri tempi»: lui aveva dovuto esser molto accorto «per fuggire la invidia

fig. 9

26

BELLEZZA E PENSIERO

quanto poteva»; l’invidia, pessima erba: «erano pochi, se non erano molto savi, che non si rovinassino sotto, come per isperienzia s’era veduto»?.

Se il tempo di esecuzione del David è (secondo la più recente proposta di Pope-Hennessy?) sul 1450, siamo nel tempo - e diremo, nel clima — della

decorazione di quella sala terrena del palazzo di Cosimo, con dipinti del

Pesellino e di Paolo Uccello, che in altra occasione!° ho creduto d’interpretare come moniti d’accortezza e serietà, che Cosimo intendeva lasciare al figlio e ai nipoti quale testamento morale privato. Non si può dire se il David, nelle intenzioni del committente, dovesse stare proprio lì: giacché di quella sala abbiamo una descrizione della fine del secolo, quando essa era alterata, e il David stava nel cortile; ma il foro sul cappello d’arme di David, e anche

quell’altro sull’elmo di Golia, se suppongon pennacchi tanto leggeri da sostenersi col solo inserimento, posson far preferire una protettiva sistemazione al chiuso, in un luogo inoltre più confacente alla privatezza del monito. Il testamento invece politico di Cosimo, mi è sembrato!', e tuttora mi sembra, che egli intendesse esprimerlo con la decorazione pittorica di un’altra sala, grande, al primo piano, dove il Pesellino e poi i Pollaioli cominciarono a

trattar temi che ho interpretato come di opposizione alla tirannide. Del tempo e, dirò, del clima di questi inizi, oggi mi sembra la donatelliana Giuditta,

originariamente nel palazzo, eroina che decapita l’oppressore della sua patria. Nella colonna che la sosteneva c’era scritto, fra l’altro, regna cadunt luxu, cioè

per la dissolutezza, come quella attribuita nel David alle origini di Golia: e se lì c’eran due vasi di vino in un ignobile trionfo, qui l’arredamento della ricca! tenda di Oloferne ammette uno sgabello intagliato con temi di ubriachezza, e sovrastato da un morbido cuscino. Potremo aggiungere, per stringer variamente sulla preminenza del pensiero di Cosimo nella commissione di queste due opere donatelliane per la sua dimora, che dell’invidia e delle persecuzioni di Saul verso David parlano, oltre

alla «Scrittura santa» che lui conosceva, i Moralia di San Gregorio!*, che aveva letto avidamente'*. Ma, diciamolo, questi pensieri del committente son robustamente superati da quelli di Donatello: indichiamo, per restar sul nuovo,

l’ardente ellissi con cui egli ci fa solo immaginare quanto circonda le figure: il carro trionfale per David (e il fanciullo vi si regge in equilibrio, fissando davanti a sé), la tenda da campo per Oloferne, orientalmente ricca. E indichiamo la corolla come di narciso, bronzea, culmine del cappello di David. Se supereremo le abitudini, vedremo talvolta che ad artisti del Quattrocento è stato chiesto di dar forma a pensieri attuali, a inquietudini vive: abbiamo detto di angustie per l’invidia, e per l’avvenire dei propri figli; diremo ora di malattia e di dolore. La cappella di San Luca da cui proviene il tabernacolo oggi a Peretola di

Luca della Robbia, era unita alle corsie dell’ospedale di Santa Maria Nuova'5. Il Padre Eterno nel timpano; nella lunetta, Gesù morto fra Maria e Giovanni; più

PRIMO QUATTROCENTO

21,

in basso, lo Spirito Santo in singolare evidenza — fra tanto marmo, in un tondo

rilievo bronzeo incorniciato da una corona di palma sorretta da due angeli —. Con questa forma il tabernacolo ci trasmette splendidi i seguenti pensieri di un ospedale, e forse di un consulente pietoso: Come dice san Paolo nella lettera ai Romani (5, 1-11), la Grazia divina ci è stata restituita dal sangue e dalla morte di Cristo: così che noi possiamo esser fieri nelle tribolazioni, poiché nelle tribolazioni nasce la pazienza, nella pazienza la forza d’animo, e in questa la speranza: e tale speranza non delude «poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Ma i pensieri degli artisti, che questa ricerca ha ritrovato o supposto, sembrano più belli, per intrinseca avvenenza oltre che per l’intimità con la

forma. Per quell’avvenenza di pensiero, ascendiamo oltre le possibilità dei nostri tempi. L’unico occhio che il Brunelleschi chiedeva di accostare da tergo alla tavoletta dove aveva dipinto frontalmente e prospetticamente il Battistero nella sua piazza, così che attraverso un foro corrispondente al punto di convergenza

della prospettiva, la vedesse riflessa in uno specchio'°, quell’unico occhio varrà per l’occhio della mente: anzi occhio dell’intelletto, se inoltre corrispondeva alla prospettiva, che è vera e propria scienza'”, necessaria (dirà Piero!*) perché

l’intelletto comprenda secondo geometria il visibile. Allora, a questo punto: L'occhio dell’intelletto...; se lo specchio significa vana apparenza, proseguiremo dicendo: L’occhio dell’intelletto va oltre le apparenze, e considerando un’immagine artistica «geometrica»... ma era un’immagine artistica «geometrica» che al posto

del cielo dipinto aveva una superficie specchiante che doveva riflettere quello naturale, e che quindi ancora una volta rimandava il pensiero: al cielo naturale, come il connesso dipinto rimandava al Battistero vero: a due contingenze dichiarati e in quel cielo passavano «e nugoli [...] menati dal vento, quand’e’ trae»!°, ma dalle contingenze l’occhio dell’intelletto risale alle forme ideali. E in conclusione, allora, riscattando l’arte figurativa dal giudizio platonico d’esser speculare apparenza (Resp., 596d-e) e coinvolgendola nell’elevazione intellettiva della geometria (ivi, 509a-511b, 527b), si voleva dire: L'occhio dell’intelletto va oltre le apparenze, e considerando un'immagine artistica «geometrica» risale dagli oggetti contingenti alle loro forme ideali. Ma da tutti gli oggetti contingenti? Il Battistero, creduto tempio degli Antichi, era armonioso; così gli oggetti geometrici delle tarsie marmoree”? o lignee che il Brunelleschi ispirò?! — corone appese, codici e cassette, sportelli a griglia -; e così, famoso esempio, per il suo Crocifissso, Cristo «il quale fu [...] in tutte le parti il più perfetto uomo che nascesse giammai». Nella storia vasariana??, la contesa fra Brunelleschi e Donatello a proposito dell’interpretazione della figura di Cristo, potrebbe sembrarci limitata a quest’unica persona storica, dunque perfetta per il Brunelleschi, cui quella di Donatello sembrò

fig. 11,1

28

BELLEZZA E PENSIERO

invece di contadino: ma notiamo bene che Donatello conclude dicendogli «a te è conceduto fare i Cristi e a me i contadini»: in opposizione al Brunelleschi, allora, Donatello, che pur rivela con la prospettiva visione mentale e ulteriorità

alle apparenze, ci fa ricordare da Plotino che in una tragedia possono non esservi solo eroi, ma anche grossolani contadini: la tragedia però non sarebbe più bella se li togliessimo, poiché essa raggiunge la sua pienezza anche per via di loro; e questo è analogo a quanto accade nell’universo??. E allora propongo inauditamente che la seconda tavola prospettica del Brunelleschi?* esponesse idee non dell’autore, già esposte nella prima, ma di un

Donatello (se non anche di un Masaccio) plotiniano. Bisognava supporvi quel

foro e quello specchio, simboli della visione mentale e della contemplazione ulteriore alle apparenze; poi, la tavola rappresentava prospetticamente una

veduta occasionale del Palazzo dei Signori, e buona parte della piazza con i suoi edifici medievali, cioè proprio quelli murati in un modo che al Brunelleschi (tramanda il Manetti) «e’ non gli piaceva»? Il profilo alto di questa pittura di edifici che non gli piacevano era poi ritagliato, e al di sopra c’era il cielo stesso, e non più un’immagine riflessa che vi rimandasse: al cielo, tanto migliore di questo mondo”, era dunque equiparata la pittura, e non ciò che essa rappresentava, che poteva dunque anche sembrare, come lì, occasionale, spiacevole e brutto: giacché le arti, aveva detto Plotino, non sono «una pura e semplice

imitazione [...], ma salgono di scatto in alto alle forme ideali donde nacque la natura», a quell’Arte ove risiede la bellezza assoluta”. Di questa rispondenza a Plotino troviamo altri segni in opere di Donatello. A cominciar dalla Cantoria, con quel rilievo intrecciato, ritmato però da coppie

di colonnine: ineguaglianze, opposizioni — dissonanze —, che rientrano nell’armonia”, proprio come nell’universo, ove niente infatti, benché incompiuto, è

senza ragione o brutto??. Ma l’opera che più dipende da Plotino è il bronzeo Amore. Ha la codina faunesca perché non è uno spirituale èrote ma un dèmone, di quelli generati dall'anima dell’universo per giovare alla sua totalità e dargli pienezza (Enneadi, 3, 5, 6). Somiglia a Cupido, come Ermafrodito («seu tu deus es, potes esse Cupido»: Ov., Met., 4, v. 321); come Ermafrodito, ha caratteri di Venere e di Mercurio: della prima, la rosa che porta nei capelli; del secondo, i

sandali alati e, sul cinturone, le capsule di papavero, sonnifere (Mercurio «somnos ducit»: Ov., Met., 2, v. 735); porta i calzoni, orientali come Ermafrodito che era del frigio Ida (Ov., Met., 4, v. 289). Amore ermafroditico dunque, come

quello che dà il titolo ai versi del Panormita dedicati a Cosimo®°. Ma Plotino, contemplativo, aveva ben scritto «ciò che pare contro natura è,

per il tutto, conforme a natura», e che nessuna nota peggiora l’armonia universale?!: e infatti quest'Amore alza le mani nel gesto di chi pizzica delle corde musicali (anzi, come mi precisa Clemente Terni, fa i gesti di chi ha pizzicato con la sinistra una corda di un’arpa posativa, e ride al suono, come bambino, e s'appresta a pizzicare un’altra corda con la destra): l'armonia dunque, univer-

PRIMO QUATTROCENTO

29

sale e anche etica: infatti quest’ Amore calpesta il serpente delle insidie e degli inganni, e Plotino aveva scritto «noi deriviamo di lassù la partecipazione a un’armonia, a un ordine, a un accordo, e proprio in queste cose consiste la virtù terrena»??.

E in alta contemplazione, anche nel Busto detto platonico Donatello sembra assumere dal mito platonico dei due cavalli dell’anima*, solo il concetto che l’anima ha, nell’amore, tendenze spirituali e carnali — ma ambedue accettabili qui, se l’un cavallo non è più volgare dell’altro*, e se l’auriga lascia lente le

guide ad ambedue, e parimenti li incita. Sdegnando moderne trattazioni categoriche di questi sentimenti in Dona-

tello, ricorderò il suo temperamento di memorabile sincerità e generosità, e

quindi anche amore*: racconta Lodovico Domenichi (1548) che, avendo litigato con un suo garzone ed essendosi focosamente proposto di ucciderlo, e anzi credendo d’averne avuta licenza, «incontrandosi il garzone in esso, cominciò di lungi a ridere. E Donatello, a un tratto rappacificato, corse ridendo inverso

lui»*. Nel quadro sterminato di un ordine in cui l’occhio della mente vedeva armonizzata ogni incompiuta cosa — e dunque neanche amore carnale, sproporzione, magrezza, vecchiaia, sono infine brutti —, poteva esclamare con

Plotino «l’uomo è una creatura bella, bella sino al limite in cui gli è concesso di esserlo e, intessuto com'è nell’ordito dell’universo, occupa la parte più nobile fra quanti altri viventi son sulla terra»?”, e così trarre diletto dalla raffigurazione di Maddalene e Giovanni maceri e vecchi, come dall’amore ermafrodi-

tico, come dal suo (dice il Domenichi) «tener in bottega bei discepoli». Masaccio seguì «sempre quanto e’ poteva le vestigie di Filippo e di Donato». Di Filippo, almeno nella prospettiva come contemplazione intellettiva dell’arte e dell’universo, oltre le vane apparenze, come abbiamo detto; e lui

forse esprime le vane apparenze dipingendo santi «che paiono di rilievo», un ritratto «che par vivo vivo», lacunari così ben scorciati «che pare che sia bucato

quel muro»*°. E «le vestigie» di Donato, io credo le seguisse proprio in quella concezione plotiniana dell’arte e dell’universo come armonia in cui si accordano note sempre

incompiute:

sia relativamente

belle, che in sé deboli e

scadenti: ed ecco giovani ma anche vecchi, alcune teste da moneta d’oro ed altre invece stempiate e deformi, atleti e un nudo «contadino» guardato da ben oltre la pudicizia e anzi concertato con monti e ruscelli, aria montana e tegole, le nuvole a schegge, panni bianchi...

Paolo Uccello e Andrea del Castagno possono esser confrontati, su alcuni punti, fra di loro e con il Brunelleschi.

Se le apparenze vengono nel Brunelleschi superate dall’occhio dell’intel-

letto, nei due sembrano presentate come inganno: assai di rado in Paolo, ma

frequentemente in Andrea, che fa credere a tanti pittura di figure quella che è invece pittura di sculture o addirittura pittura di pitture: essendo da giudicarsi

30

BELLEZZA

E PENSIERO

immagini di statue dipinte quelle di Legnaia e il Cenacolo e da attribuirsi alla decorazione dei vani, attentamente rappresentati, le incongruenze dimensionali che vi si vedono; e gli affreschi alti a Sant’Apollonia essendo da giudicarsi immagine della parete affrescata alla quale è supposto appoggiato il tabernacolo con le statue della Cena. Più spinta che negli artisti precedenti è in loro l’attenzione: che portò Paolo Uccello verso alcune «minuzie della natura»*, ed Andrea fino ad enu-

merare i cigli, e le verruche di Ester e Farinata. L’importanza negativa dell’inganno, e positiva invece dell’attenzione, ci risulterà stoica: e Andrea allora ci sembrerà più ostinatamente stoico di Paolo. Però, la verità ulteriore è matematica nell’arte di ambedue come in quella del Brunelleschi; e le loro armature, forme argentee tanto pure da essere come sbucciate dalle approssimazioni, sono analoghe alla geometria solida scorciata,

di codici, cassette e griglie, delle tarsie ispirate dal Brunelleschi. La base quanto a storia delle idee, oggi mi sembra possa risiedere in quel platonismo stoicizzato che Cicerone fa ampiamente svolgere da Lucullo nel dialogo che ne prende il nome: che è da supporsi letto a Firenze nel primo Quattrocento, se dall’opposizione a Lucullo, svolta dall’autore stesso, sembra così profondamente dipendere il Ghiberti, come diremo.

E un’opera di Paolo Uccello porta sublimi pensieri stoici sulla regola dell’universo. Concentriamoci sull’Orologio ed osserviamo che le ore vi sono segnate in un invaso che sprofonda verso l’oscuro cielo: da questo il raggio di una stella si allunga a indicar quella attuale. Quattro teste d’intorno, a simboleggiare i profeti, i quali indicarono ciò che la virtù motrice della Provvidenza, riposta come ingranaggio d’orologio, gli ispirò ed avrebbe poi puntualmente svolto*9. Nella pala per l’altare maggiore di San Marco, dell’Angelico, è simulata una tavolina con la Crocifissione, appoggiata alla tavola maggiore: leggendo san Tommaso, certo formativo per un domenicano come l’Angelico, compren-

diamo che qui non si presenta apparenza o inganno ma il difetto di chi considera le pitture e le sculture come cose, e lì ferma la sua attenzione, invece che

come tramiti per immaginare sacri personaggi, sacre scene‘. La mèta alta non sono dunque idee pure, come nei platonici, ma immagini, anche se interiori (vi

sono giunti — con l’ausilio, invece che dell’arte, della lettura e della preghiera — i Santi domenicani raffigurati nelle Celle come presenti in ispirito a vicende di Cristo: e venerano,

commiserano,

portano le mani agli occhi, piangono, si

gettano per terra). Tutto in quest’àmbito concerne l’immaginazione*, e le

evidenze non vi sono oggettive, naturalistiche (come pur è stato scritto): la pittura dell’Angelico, che guida le altrui immaginazioni, le invita dolcemente perché riflette l'immaginazione di un uomo dolce, la quale in ordine a tale sua natura ha trascelto, ricordato, e poi variamente trasfigurato‘ luci sull’azzurro

dei monti, primavere cittadine fra i muri e nelle fresche chiese, alberi fioriti,

PRIMO QUATTROCENTO

Si

albe... e quando è più precisa, riflette passati stupori, contingit ut ea quae admiramur, magis memoriae imprimantur*?.

L’immaginazione dell’Angelico - come noi la vediamo nello specchio della pittura — procede assecondata nel proprio carattere: e così, per tre azioni consecutive della stessa narrazione, nello stesso Armadio degli Argenti, si trasforma e cambia: dall’Orazione nell’Orto al Bacio scompaion pozzo, e recinto con peschi fioriti, e un altro pesco appare, rosato, nella penombra; per l’Arresto poi, le si presentan solo valli di terra, in cui alti fogliami s’indorano.

fig. 10

Se il Manetti scrive che nel Brunelleschi la virtù intellettiva era maggiore della pratica*, il Ghiberti scrive che in arte l’intelletto produce vane ombre, e la pratica invece, cose.

Dietro questa empiria del Ghiberti deve esserci quella della parte sostenuta da Cicerone stesso nel Lucullo: Cicerone vi dice che ad esempio i grandi scultori dell’antichità ebbero una loro scienza sufficiente, non intellettiva ma pratica,

fondata non su giudizi di vero e di falso, ma su opinioni sperimentate”. Continuando a riferirci a quella parte del Lucullo diremo che le esperienze

pur non comprese, nutrono la memoria"! (e quindi l'immaginazione, da cui discenderà l’immagine artistica): e così, per quanto ci interessa, l’artista empirico, senza mai proporsi di giudicare sul vero, si diletterà ad osservare? e poi immaginare la natura nella sua infinita mutevolezza5, e ancora di più quando così incontrerà qualcosa che lo inciterà ad un’azione** (il Ghiberti «e tutto e parte disfecie e rifecie» mentre «aveva per mano»

la cera della prima for-

mella5); azioni senza certezze, ma pur da compiere per la vita, come lo è ad

esempio la semina di grano o d’uomini*. Così, da un’immaginazione nutrita di ricordi di osservazioni non comprese, la pratica del Ghiberti fa, umanamente, delle cose: come possibilità fra tante, e perciò occasionali e fresche, l’edera che s’accavalla, lo scarabeo, foglie e pere fra loro miste, il malvone con fiori e bocci, occhi che vagano, rose... A questo siamo dunque arrivati estendendo al Ghiberti idee svolte da Cicerone come interlocutore del suo Lucullo, che con i Commentari del Ghiberti coincide per l’esaltazione, anche nella scultura, della pratica sulla scienza intellettiva. Ma vedo una conferma di questa coincidenza fra Ghiberti e Cicerone quando penso ai loro concetti sul rapporto fra proporzione e bellezza. Il

San Matteo del Ghiberti, si è osservato, ha proporzioni matematiche sommate a pratiche di laboratorio?” (e analogamente, nella struttura delle scene della Porta del Paradiso, parziali intellezioni prospettiche si sommano alla pratica figurativa): e Alhazen, dal quale il Ghiberti dipende tanto®’, si era accorto che la proporzione è la causa più frequente di bellezza, ma non davvero l’unica, fra tantissime altre, diverse e anche opposte fra loro®°. Ma ora richiamo che anche Cicerone osserva, nel De officiis®', che l’armonica disposizione delle membra dà bellezza ad un corpo umano, e pur lo dice in un contesto empirico che con-

clude sull’attrazione degli sguardi e sul diletto.

fig. 13

S2

BELLEZZA E PENSIERO

Cicerone e il Ghiberti possono dunque sembrare uniti dall’empiria, ma anche dalla consapevolezza del frequente rapporto fra proporzione e bellezza: che sarebbe a dire, storicamente, che posson sembrar uniti da quella scettica interpretazione del platonismo, che Cicerone stesso, nel dialogo, sostiene con-

tro l’interpretazione stoica sostenuta da Lucullo. Le persone quattrocentesche

di un dibattito analogo potrebbero essere il Ghiberti in luogo di Cicerone, e in luogo di Lucullo il Castagno, ma in fondo anche tutti quei dogmatici credenti in un vero intellettivo («lex veri rectique»®), che furono gli artisti oggi detti del primo Rinascimento. Ma, invece d’usar questa o altre categorie, mirerò più

liberamente a due diverse inclinazioni umane sostenute da due correnti diverse del pensiero antico. Nell’analogia fra il dibattito fiorentino e il Lucullo, attribuisco allora a chi

interpreta la parte di Cicerone la protesta contro «i geometri, che pretendono di non persuadere soltanto, ma per l’appunto di costringere»; e fino il grido di insopportazione «Hai tanta fiducia in te solo, da esporre tutta la teoria della

saggezza, da spiegare la natura delle cose tutte, da fissare l’assetto dei costumi, da determinare la definizione del sommo bene e del male»! 1988-1989

?e Pubblicato su «Artista», 1990.

NOTE

! Il foro è già stato notato da M. Scalini (L’arte italiana del bronzo -

1000-1700 etc., Bu-

sto Arsizio 1988, p. 76). ? Ecclesiastico, 47, 7. ® Vedi ad esempio P. Schubring, Cassoni, Leipzig 1923, nr. 127, 207, 287, 586-591.

ch’è oggi nello spedale di S. Maria Nuova», e

che (nel XIV secolo) era stata «attaccata a detta cappella la croce di quello spedale per gl’infermi» (cfr. A. Marquand, Luca della Robbia, Princeton 1914, p. 65; Z. Wazbinski, L’Acca-

demia medicea del Disegno a Firenze nel Cinque-

4 J.W. Dixon, The Drama of Donatello’s Da-

cento - Idea e istituzione, Firenze 1987, p. 424; E.

vid - Re-Examination of an «Enigma», «Gazette des Beaux-Arts», 1979, 1, pp. 6-7.

Brasioli, Storia della collezione dello Spedale di

SERCMMS/A3IZ47A SAI VISA 170470323) TUGLIE (OSE 8 Cfr. Vespasiano da Bisticci, Le vite, ed. A. Greco, Firenze 1970-1976, 2, pp. 192, 210.

? J. Pope-Hennessy, Donatello’s Bronze David, in Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri, Milano 1984, p. 124.

!° C. Del Bravo, Etica o poesia, e mecenatismo: Cosimo il Vecchio, Lorenzo, e alcuni dipinti, in Gli Uffizi - Quattro secoli di una galleria, atti del

Convegno (Firenze 1982), Firenze 1983, p. 201 ss. (ripr. in C. Del Bravo, Le risposte dell’arte, Firenze 1985, p. 73 ss.). 1! C. Del Bravo, Etica cit., p. 203 ss.; ripr. in Le risposte cit., p. 74 ss.

12 Giuditta, 10, 19. 13 Gregorio Magno, Moralia in Job, 5, 46, 84

e passim (vedi la voce David negli indici della ed. Turnholti 1979-1985). 14 Vespasiano da Bisticci, op. cit., 2, pp. 193, 1955

15 Francesca Brasioli ha giustamente collegato la documentata esecuzione del tabernaco-

Santa Maria Nuova a Firenze, tesi di laurea discussa nella Facoltà di Lettere di Firenze, relatore Mina Gregori e correlatore Anna Padoa, il

14 novembre 1988, pp. 53-56): fino ad oggi si credeva invece che la cappella per cui fu eseguito il tabernacolo fosse all’interno della chiesa, dedicata a Sant'Egidio. Ringrazio Francesca Brasioli, Mina Gregori e Anna Padoa per avermi concesso di rendere nota questa precisazione.

16 A. Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, ed. D. De Robertis, introduzione e note di G. Tanturli, Milano 1976, p. 57 ss.

17 Ivi, p. 56: «senza cagione non dico io scienza poco di sopra». 18 Piero della Francesca, De prospectiva pingendi, ed. G. Nicco Fasola, Firenze 1942, p. 129°

19 A. Manetti, op. cit., p. 58. 20 Per l’indicazione di un’idea brunelleschiana nelle prospettiche tarsie marmoree della Porta della Mandorla, vedi il mio (per tanti altri versi superato) La dolcezza della im-

lo per la cappella di San Luca nel complesso fiorentino di Santa Maria Nuova, con la noti-

maginazione, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1977, 2, pp. 767-768 e tav. XXI, 1. 21 Vasari-Bettarini e Barocchi, 3, testo, p.

zia, riportata da un documento cinquecentesco pubblicato da Zygmunt Wazbinski, che quella di San Luca era la «cappella maggiore

143. Come tarsie lignee brunelleschiane sono da considerarsi quelle più antiche della Sagrestia delle Messe, del Duomo di Firenze (vedi-

BELLEZZA E PENSIERO

34

ne riprodotte in M. Haines, La Sacrestia delle Messe nel Duomo di Firenze, Firenze 1983, tav.

V-XVII).

sto]»; «poi rivolgete gli occhi della vostra mente»; «considerate com’ella [Maria] considerava». 46 Tommaso d’Aquino, commento ad Aristotele, De memoria et reminiscentia, 361 («acci-

22 Vasari cit., 3, testo, p. 204 ss. 23 Enneadi, 3, 2, 11. 24 A. Manetti, op. cit., pp. 59-60.

dit quod quidam semel cogitando velocius firment in se consuetudinem quam alii, si multotiens cogitent hoc post illud; quod potest contingere vel propter naturam, quae est melius

25 Ivi, p. 55.

26 Enneadi, 2, 1,4. 27 Ivi, 5, 8, 1 (trad. V. Cilento).

28 Vedi il mio (che per altri versi qui si supera) Il Brunelleschi e la speranza, «Artibus et historiae», 3, 1981, p. 72 (ripr. in Le risposte cit.,

receptiva et retentiva impressionis. Et inde

etiam contingit, quod nos semel videntes quaedam, magis memoramur eorum quam alia

p. 28).

multotiens visa. Quia ea, quibus vehementius

29 Enneadi, 3, 2, 16 e 17. 3° Vedi Hermaphroditus, 1, 3, Ad Cosmum, virum clarissimum, de libri titulo.

intendimus, magis in memoria manent. Ea ve-

ro, quae superficialiter et leviter videmus aut cogitamus, cito a memoria labuntur»); Summa

theologiae: 1, 78, 4 («est enim phantasia sive

31 Enneadi, 3, 2, 17 (trad. cit.). lui A23A(cradicit):

imaginatio quasi thesaurus quidam formarum

33 Fedro, 253c-256a, messo in relazione con

per sensum acceptarum»); 1, 85, 2 («vis imagi-

questo busto da R. Wittkower, A Symbol of Platonic Love in a Portrait Bust by Donatello, «Journal of the Warburg Institute», 1937, pp.

nativa format sibi aliquod idolum rei absentis, vel etiam nunquam visae»); 2-2, 51, 3 (l’immaginazione «de facili potest formare diversa

260-261.

phantasmata»); 2-2, 173, 2 («in imaginatione giustamente osservato da G. Ca-

[...] non solum sunt formae rerum sensibilium

stelfranco in Donatello, Milano 1963, p. 99, n.

secundum quod accipiuntur a sensu, sed transmutantur diversimode»).

34 Come 84.

22 Vasari cit:,19,stesto, p.201 36 L. Domenichi, Detti e fatti di diversi signori e persone private, i quali comunemente si chiamano

facezie, motti, e burle (1548), Fiorenza 1562, p. 213.

37 Enneadi, 3, 2, 9 (trad. cit.). 38 L. Domenichi, loc. cit. 39 Vasari cit., 3, testo, p. 125. Salvi, pp 12834500427: 4! Può studiarsi nell’ambito dell’inganno l’illusione di complessa tridimensionalità che nella Battaglia di Londra i profili attribuiscono

a forme in cui invece il disegno del damasco si svolge in piano: enigma acutamente

indivi-

duato da J.N. O’ Grady (An Uccello Enigma, «Gazette

des Beaux-Arts»,

1985,

1, p. 109

ss.). 42 Vasari cit., 3, testo, p. 66.

4 Questa interpretazione è sviluppata dal ben più tardo, ma sempre nutrito di cultura sacra e umanistica, Picinelli (Mondo simbolico,

21, 10, 99).

44 Summa theologiae: 2-2, 81, 3; 3, 25, 3. 4 Sant'Antonino, Opera a ben vivere, 3, 11:

«cogli occhi della mente, più che con quelli del corpo, considerate la faccia sua [di Cri-

47 Tommaso

d’Aquino, commento

ad Ari-

stotele, De memoria et reminiscentia, 332.

48 A. Manetti, op. cit., p. 70. 4 L. Ghiberti, ICommentari, ed. O. Morisani, Napoli 1947, pp. 1-2, 3. 50 Cicerone, Lucullus, 2, 47, 146. 218lv9 42453106; Sl SPA 11270 22853105) RAMIVINZA TRE27: 22851599 283241041

°5 A. Manetti, op. cit., p. 62. 5 Cicerone, op. cit., 2, 34, 108-109. 57 D. Finiello Zervas, Ghiberti?s «St. Mat-

thew» Ensemble at Orsanmichele: Symbolism in Proportion, «The Art Bulletin», marzo 1976,

p. 43. 58 Cfr. la prefazione di R. Krautheimer alla seconda edizione (1970) del suo Lorenzo Ghiberti. 5? Vedi G. Federici Vescovini, Contributo per la storia di Alhazen in Italia: il volgarizzamento del Ms. Vat. 4595 e il «Commentario terzo» del Ghiberti, «Rinascimento», 1965, pai7 ss.; Ead., Il problema delle fonti ottiche medioevali del «Commentario terzo» di Lorenzo Ghiberti, in Lorenzo Ghiberti nel suo tempo, atti del

PRIMO QUATTROCENTO Convegno 349 ss.

(Firenze 1978), Firenze

1980, p.

6° Alhazen, Opticae thesaurus, Basileae 1572, 2259:

6! Cicerone, De officiis, 1, 18. 62 Cicerone, Lucullus, 2, 9, 27.

5 Ivi, 2, 36, 116 (trad. R. Del Re). 99°101,/2- 96, 114(tradecit.):

45

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Preparativi per l’interpretazione di opere funebri quattrocentesche

Formati da due generazioni di critici d’arte che, poeti del vero o neorealisti, son stati solennemente o voracemente possessivi nei riguardi delle opere che commentavano, noi possiamo, oggi, sostando, chiederci se gli studi storici che

abbiamo aggiunto non frutteranno un interprete che con i testi sia, oltre che poeta e amoroso, comprensivo. Potrà accadere che egli cerchi di comprendere storicamente il grado e il tipo di dedizione spirituale dell’artista all’arte, per

conformarvi la propria dedizione: impazienti immaginiamo allora quanto e come egli si darà ad alcune opere famose che son primarie per la vocazione di molti. Nella ricca Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano agli Uffizi, eseguita per la ricca cappella di Palla Strozzi in Santa Trinita, e datata 1424... ad un

messaggio introducon le scritte sui cartigli dei profeti, rimandando a passi biblici esprimenti sempre che Iddio alterna prosperità e dolori!: e questi pensieri potevan essere dello stesso Palla, se in un dialogo più tardo che si dichiara documentato egli dice d’esser pronto alla sazietà come alla fame, all’abbondanza e all’indigenza?. L’adorazione dei Magi sembra al mondo un evento prospero della vita di Gesù, però nella tavolina centrale della predella, che risalta per centralità fuori

dell’ordine dei tempi e anche per dimensioni, si alterna il dolore, con la fuga in Egitto?, l’esilio; a quest’'ombra nella mente si somma quella della presenza, nella stessa ricca cappella, dei sepolcri per Palla e per la famiglia. Palla avrà goduto l’arte come la prosperità secondo i profeti che fa citare nei riquadri, come un «giardino di piacere» (Ez., 36, 35), come l’abbondanza e la sazietà cui si dichiara pronto nel dialogo: eppure il suo godimento sarà stato distratto dall’ombra di un dolore imminente. «Speri tu che alcuno possa essere lungamente felice e lieto?»: il fiore (come la ginestra la rosa la viola, in quella cornice) «mentre che noi ragioniamo, si secca» e «sparisce dinanzi agli occhi di coloro che guardando lo lodano»; così scriveva il tardo Petrarca'*. E anche in altra, diversa, occasione Gentile pone i beni terreni e il contrario: nella Madonna di Pisa, che è lussuosa in una pittura piacente, e pur ha un

atto di umiltà che dà la riserva del cuore.

38

BELLEZZA E PENSIERO

Dunque l’interprete comprensivo si consegnerà forse al piacere dell’arte

davanti all’Adorazione dei Magi di Gentile, ma con un suo fondo di distrazione, come preveggente.

Il sepolcro per Bartolomeo Aragazzi, di cui rimangono separati marmi a Montepulciano e a Londra, era già in lavorazione presso Michelozzo nel 1427; nel 1429 l’Aragazzi morì; a lavorare al sepolcro si continuò per vari anni... Il santo del nome dell’Aragazzi, Bartolomeo, benediva dall’alto, tenendo nella sinistra una palma da martire oggi perduta5 — ma Felicita, Felice, Felice sono i fig. 15

santi che, nei rilievi per l’arca, accolgono il defunto in Paradiso‘ e poi lo introducono alla Madonna in trono col Bambino. Nel momento dell’accoglienza, Felicita con la destra gli stringe la sua e con la sinistra gli conduce, dei sette figli che la circondano, il secondogenito Felice facendolo passare avanti al primo (che si volta sorpreso): ma Felice lo ha riconosciuto, e cordiale lo saluta con un braccio alzato: guarda la scena san Felice prete. Questi poi, nel secondo

rilievo introduce l’Aragazzi alla Madonna e al Bambino, sempre presente Felicita, la quale tien le mani sulle care spalle del secondo figlio in sviluppo e in età, ancora Felice dunque, che sta davanti agli altri. Bartolomeo Aragazzi, segretario apostolico e poeta,

a Roma, nelle sere

estive, come un epicureo antico convitava colti amici nella sua «vigna» e

piacevolmente conversava con loro”... Esortava ad avanzare negli studi il giovanissimo Valla*, che pubblicherà il suo De voluptate solo nel 1431, due anni dopo

la morte del mèntore: e da questi il De voluptate può aver tratto l’epicureismo cristiano ed altre particolari idee, se già vari anni prima l’Aragazzi aveva ordinato un sepolcro ove dichiarava la sua devozione a santi che portavano nel nome la felicità: dichiarava anzi una devozione di cui intravediamo le intime solitudini proprio grazie a righe del De voluptate: fra i santi che accoglieranno il beato in Paradiso, più degli altri amorevoli e indulgenti saranno quelli che egli in vita onorò maggiormente, e con i quali, anzi, si intrattenne in preghiera più

spesso. I santi dunque, si legge ancora nel De voluptate, con quale volto lo guarderanno? con quale voce lo saluteranno? Come madri, figli, fratelli, e anzi come

«qualcosa di più dolce ancora»?. Ed ecco che la dolcezza da madre, da figlio, da fratello, e anche più struggente, può esser stata un affetto che l’Aragazzi infuse in Michelozzo per le sculture che gli chiedeva, ben prima che il Valla ne parlasse nella sua opera. Ma ancora per preparare la sperata interpretazione poetica di quel monumento, penseremo a come Felicita risponda non solo con il suo nome ma anche con la sua storia, all’epicureismo cristiano, che riconosceva la bellezza e la

felicità del mondo, ma poi la trovava non comparabile a quella invece infinita ed eterna: Felicita, secondo san Gregorio, amava i suoi figli secondo la carne, ma amando di più la patria celeste volle che morissero nel martirio, anche

davanti a lei!°.

OPERE FUNEBRI QUATTROCENTESCHE

39

Michelozzo, di cui il Vasari esalta la pratica!!, poté, umanisticamente,

essere scettico e partecipare, così senza certezze, a qualunque disposizione

interiore se c’era un impulso sufficiente all’opera: in quei marmi ove l’Aragazzi aveva infuso i suoi pensieri, l'interprete amoroso sarà quindi colpito dalla bellezza dei belli, e dalla polvere candida della luce sulle strinte corolle delle

rose, parti di quella magnificenza del mondo di cui leggiamo nel Valla: ma la sua mente non vi si appoggerà, distaccata pensando all’infinito. Il tabernacolo con l'Annunciazione, di Donatello, eseguito per la cappella

Cavalcanti in Santa Croce, si crede sul 1435... Dal candelabro con una gran fiamma che compare nella copia a disegno che Bonaccorso Ghiberti fece del coronamento‘? poi infranto, iniziava un discorso neoplatonico e anzi giovanneo sul Dio-luce, che con angiolini, frutta e foglie, teste umane nei capitelli, zampe ferine nelle basi, tralci, e con l'Annunciazione, esprimeva l’«omnia per ipsum facta sunt» e il «Verbum caro factum est» (Giov., 1, 2 e 14). Di rimando,

dal cerchio coronato ed alato che è nella cornice inferiore si concepisce il moto inverso: il volo dell’anima virtuosa (forse dei defunti Cavalcanti), dalla natura su verso l’assoluto.

fig. 14

Questo discorso neoplatonico, se trovò forma plastica sul ’35, ebbe ancor

prima forma letteraria dal Marsuppini: nella sua consolatoria a Cosimo per la morte della madre, del ’33, egli scriveva fra l’altro della vita stagionale del verde, con aspetti così transeunti «ut merito a Platone nihil horum esse dica-

tur»: «nos, vero, qui Sacris Litteris imbuti sumus, [...] arbitraremur animos [...] ad caelum evolaturos»!*. Evolare dunque, come l’anima immortale fa nel simbolo del cerchio con le ali, nell’Annunciazione Cavalcanti, o in quello della

valva di conchiglia pure con le ali, nel sepolcro dello stesso Marsuppini. Il Marsuppini può aver deciso ancora vivente il modo della sua sepoltura: vivens, e vivrà fino al 1453, se lì son rami di palma nelle basi dei pilastri, nei

capitelli e nei due fregi che li sovrastano — e se la palma può augurar lunga vita, per il biblico «sicut palma multiplicabo dies» (Giobbe, 29, 18): lo ritroveremo più avanti, ma lo vediamo anche nel sepolcro che il vescovo Salutati si fece eseguire da Mino nel 1466 dichiarandosi «vivens»: dove nel bianco marmo

son simboli non di morte ma di sonno, cioè capsule di papavero; e

dove le palme della lunga vita abbondano: in candelabre terrenamente senza fiamma, e sul petto del busto, nelle mensole, e, conserte coi papaveri, sulle

doghe dell’arca. Nel sepolcro dunque che per il Marsuppini eseguì Desiderio da Settignano... nel culmine c’è il candelabro acceso, simbolo del neoplatonico e anzi giovanneo Dio-luce, da cui discendono, sostenuti da angeli, festoni di foglie e frutta, in un’allegoria anche qui, come già nel tabernacolo di Donatello, dell’irradiazione divina nello spirito e nella natura: giù giù fino alle sfingi del basamento, ove si concentra la natura animata, degli esseri umani e dei quadrupedi, degli uccelli e dei rettili, ed anche, per qualche bordo di foglia, la natura

fig. 17

40

BELLEZZA E PENSIERO

del verde. E nell’arca quasi il particolare di un angolo selvaggio, con tralci avvolti e spinose foglie, ed effimere corolle grandi e lievi. A questo livello, poi, le transeunti glorie terrene d’epitaffio e stemmi, e il corpo defunto: però, insieme a tanta caducità, come dicevamo c’è la valva di conchiglia, simbolo della metà che sopravvive dell’uomo, ed essa ha le ali, ali larghe per

volare in alto, verso quella Madonna col Bambino fra angeli, che (se ricordiamo uno dei rilievi di Michelozzo a Montepulciano) vale come la mèta cristiana, il Paradiso.

Tale discorso neoplatonico, che pensiamo introdotto dal Marsuppini nel-

l’arte, si svolge con altre forme in altre opere.

Nelle sculture di Desiderio in San Lorenzo ci son candelabre vegetali fiammeggianti, allegoria di come la natura sia trascesa dall’elevazione delfig. 16

l’anima, la quale come la fiamma sempre tende all’alto; e nei due candelabri

retti dagli angeli c’è poi l’allegoria dell’irradiazione della luce eterna nella natura e nello spirito, e poi quella del ritorno a quella luce, della metà dell’uomo che sopravvive alla morte... dal lume del cero di sinistra l’occhio scende a tralci e a un volto angelico intagliati sulla base di quel candelabro, e poi passa a una valva di conchiglia che è sulla base del candelabro di fronte, e infine, seguendo l’indicazione di un angiolino alato, sale nuovamente verso un lume,

simbolo del Dio-luce. Tali allegorie giovannee sono svolte in forma ampliata da Antonio Rossellino, e anch’egli vi comprende sfingi e tralci. Nella Cappella del Cardinale del Portogallo e in quella Piccolomini di Napoli, Iddio-luce è simboleggiato dalla finestra tonda quindi di forma perfetta, da cui il lume si irradia: a Napoli,

dapprima in un festone retto da putti, equivalente a quello Marsuppini; in ambedue le cappelle, in momenti dell’incarnazione del Verbo - l'Annuncio e la

Natività —. Su un’altra parete delle cappelle, le virtù terrene, e gli elogi, e il corpo defunto sono inquadrati dall’elevazione delle fiamme su dalle candelabre con sfingi e tralci, allegoria. Più in alto, a conclusione del percorso, in ambedue

i sepolcri come già in quello Marsuppini, la mèta paradisiaca. Un significato di elevazione platonica, ma ben in questa vita, si svolge anche fra il primo e il secondo dei portali del transetto a Badia Fiesolana. Il discorso vi inizia a sinistra con candelabri accesi che irradian giù fino a foglie e frutti fra l’acanto di quei capitelli, poi nei capitelli di destra esso procede con due vasi che buttan fiamme che tendon su a candelabri accesi, come alla loro mèta. Il vaso è il corpo come ricettacolo dell’anima'*, la fiamma è l’anima che

tende in alto: e così essi valgono a dire che l’uomo si innalza anche da vivo, e non solo da anima nuda. In particolare l’uomo è qui Piero de” Medici, giacché sua è l'impresa ripetuta nelle trabeazioni, alata come altrove è alata la nuda e imperitura valva di conchiglia (e anzi il vaso alato, sui culmini, portante un

ramo di palma augura a lui vita lunga in questo mondo, giacché, come abbiamo detto e preannunciato, la palma rimanda al biblico «sicut palma multiplicabo dies»).

OPERE FUNEBRI QUATTROCENTESCHE

41

L’interprete si chiederà: — Di tali idee neoplatoniche partecipano gli artisti? Le forme sono ben diverse fra gli uni e gli altri di quei monumenti, ma per il neoplatonismo la folta varietà percepibile è sovrastata da un ordine intellettivo misterioso e puro. Il tabernacolo di Donatello, a mossi gruppi di terracotta accanto a pietra comune scolpita impetuosamente e in più corrusca d’oro... In Desiderio invece,

come anche nel Rossellino, il regno delle forme è tutto di un bianco che chiama le carezze: così il cavo della conchiglia e le penne, ma anche i fiori ed i nastri, le foglie ed i frutti e le vesti e le carni. All’occhio e al cuore Donatello e Desiderio sembran molto diversi, eppure il più giovane eseguì la prima base del David bronzeo di Donatello facendovi «di marmo alcune arpie bellissime ed alcuni viticci di bronzo molto graziosi e bene intesi»'5,simboli, abbiamo visto, dell’esistenza naturale, dalla quale l’arte — come quella del David sovrastante -

secondo il neoplatonismo può esaltare lo spirito su fino ai princìpi, érì toùg Abyovg!°.

Quindi, seguendo l’insegnamento dell’antica e persa base del David, l’interprete geniale si abbandonerà alle opere neoplatoniche considerando non la differenza delle forme ma l’arte che potrà farlo salire érì toùs A6Yovg adempiendogli il suo destino, che dovrà essere necessariamente simile a quello della fiamma. 1990 2a Pubblicato su «Artibus et historiae», 23, 1991.

NOTE

figura rappresenta Cristo (R.W. Lightbown,

1 Da sinistra: Ezechiele, 36, 2 (ma vedi 33, 1-39, 29); Michea, 4,1 (ma vedi tutta la profezia); Esodo, 20, 3, e 20, 7 (ma vedi anche 20,

Donatello and Michelozzo, London 1980, p. 198).

5-6); David senza cartiglio, ma come musico,

(op. cit., pp. 215-216) propongono dei due ri-

può rimandare a molti passi dei Salmi, che parlano e di dolore e di esultanza; Baruch, 3, 38 (ma vedi 1, 1 - 5, 9); Isaia, 7, 14 (ma vedi 7,

lievi Aragazzi iconografie molto differenti da quella proposta qui, ma ed essi devo comun-

1 - 12, 6). Per una diversa interpretazione del significato delle scritte sui cartigli, vedi K.

un’accoglienza in Paradiso e non come un

Christiansen,

Gentile

da Fabriano,

London

1982, pp. 96, 98.

2 Franciscus Zephyrus Laurentio Stroctio patritio Florentino, BNF, cod. Magl., VI, 201, cc.

1v-2r, 34r. A questo dialogo già rimanda D.D. Davisson (The Iconology of the S. Trinita Sacristy, «The Art Bulletin», 1975, p. 332) per un’interpretazione del significato della sagrestia, che nell’insieme è molto differente da quella che qui propongo, nonostante la frase «disguised in the splendor of the adoring Magi is the symbol of humility and the recognition of the temporality of all earthly fortune». ® La proposta di D. Ekserdjian (Gentile da Fabriano’s «Journey from Bethlehem to Jerusalem», «The Burlington Magazine», 1982, p. 24), di interpretare come viaggio da Betlemme a Gerusalemme la Fuga in Egitto della predella di Gentile, non spiega perché ad un evento così transitorio sia dedicata la posizione centrale e una tavolina più larga delle due laterali. 4 Petrarca,

De

remediis

utriusque fortunae,

trad. Remigio Fiorentino, 1, 1 e 1, 2.

° Il solco, oggi vuoto, nella mano sinistra del Santo è stretto e svasato verso l’alto: non poteva dunque contenere né il manico del coltello del martirio (H.McN. Caplow, Michelozzo, New York-London 1977, p. 321) né l’asta

di una crocellina che avrebbe significato che la

6 Caplow (op. cit., p. 264 ss.) e Lightbown

que l’interpretazione del primo rilievo come

commiato dal mondo. ? P. Bracciolini, Historia convivalis disceptativa de avaritia et luxuria, in Opera, s.l. 1513, p. 2v. 8 L. Valla, Antidotum in Pogium, in Opera,

Basileae 1540, p. 35. ° L. Valla, De voluptate, trad. V. Grillo, 3, DE),

!° Gregorio, Homiliae in Evangelium, 3, 3 (Patrologia Latina, 76, col. 1087, 1088): Felici-

ta «spei gaudio adhibuit dolorem naturae»... «Amavit ergo iuxta carnem Felicitas filios suos, sed pro amore

caelestis patriae mori

etiam coram se voluit quos amavit». Vedi Acta Sanctorum, luglio, 3, pp. 7-8. 1! Vasari-Bettarini e Barocchi, 3, testo, p. 230.

12 BNF, cod. BR. 228, c. 69v: in questa car-

ta è disegnato un sepolcro che solo per il coronamento dipende dall’ Annunciazione Cavalcanti; per l’arca esso dipende dal sepolcro Marsuppini; per il tendaggio, dal sepolcro Co-

scia. !° C. Marsuppini, in P.G. Ricci, Una consola-

toria inedita del Marsuppini, «La Rinascita»,

1940, pp. 407, 410, 419. 14 Cicerone,

Tusculanae disputationes, 02:

«corpus [...] quasi vas est aut aliquod animi receptaculum». !5 Vasari cit., 3, testo, p. 400. 16 Enneadi, 5, 8, 1.

Piero e le occasioni

In Piero era dunque una capacità di risalire con l’arte a contemplare l’armonia non solo attraverso la matematica, ma anche oltre la varietà sterminata

delle apparenze. Ricordiamo allora la cultura plotiniana di Agostino, al quale già il Calvesi ha riferito molti pensieri che ritiene di Piero; di Agostino, nel quale noi

abbiamo trovato allo scopo pensieri differenti: — Il visibile non si dovrà offenderlo (De musica, 6, 29), giacché le cose sono buone, nel loro genere e nel loro ordine (ivi, 6, 28): ma le attrattive della visione non dovranno impedirci di riconoscere che i caratteri matematici per cui i corpi ci piacciono sono incomparabilmente inferiori alla geometria intellettiva (De ordine, 2, 42), né dovranno impedirci di, infine, altamente contemplare (Conf., 10, 34, 51-53) —.

Le «forme belle e varie» come i tronchi quasi cilindrici e le loro chiome folte e differenti, il pulviscolo danzante nel suo moto impreciso... e i «colori nitidi e piacevoli» come i bianchi dei marmi, il celeste del cielo, il roseo da fiori d’albero, i verdi molto variati... e la luce, «regina dei colori», in stagione e ora lentamente

mutanti,

mentre

i colori che vi stanno

immersi

sono

assorti o

commuovono; e talvolta fa specchio con l’acqua... nella loro bellezza relativa,

non coinvolgeranno lo spirito religiosamente libero: è questo, invece, che coinvolge la loro bellezza «nell’inno», nell’inno a Dio perché è lui che ha creato tutto. Nelle stesse righe delle Confessioni da cui ho tratto or ora alcune parole (10, 34, 51-53), il concetto dell’inno che lo spirito libero alza al Signore torna una seconda volta — e ora per le arti. Le opere delle arti sono varie e innumerevoli,

ma chi non le guarda esteriormente sa bene che «la bellezza che attraverso l’anima si trasmette alle mani dell’artista proviene da quella bellezza che sovrasta le anime, cui l’anima [...] sospira giorno e notte». Lasciata indietro l’opinione moderna per cui la grandezza d’un artista consiste nell’invenzione totale delle forme, e abbandonato pure il concetto d’immobilità «metafisica» che di Piero hanno molti, ci sembrerà invece che

anche dall’arte degli altri, come dalla natura, egli accolga imperfezioni, acci-

fig. 18

44

BELLEZZA

E PENSIERO

denti, occasioni, gioventù effimera, e moti del cuore, così da render varia come

un temporalissimo diario la forma della sua arte in ognuno dei suoi tempi: fu carità larga, e pur senza dedizione: da Agostino sapeva bene che l’arte era cosa fittizia: che lo fosse anche la propria lo figurò più volte giacché l’affresco di Monterchi rappresenta una statua colorata sotto un padiglione; quello di Sansepolcro, un dipinto in cornice; e l’altro del Duomo di Arezzo, un rilievo colorato, di terracotta a smalto forse, con incongruenze di proporzione copiate

fedelmente. «Etiam hinc dico tibi hymnum»: anche dai ricordi di un artista aggiornato, caritatevole e distaccato insieme.

Domenico Veneziano dipinge a Sant'Egidio di Firenze un mondo di attraenti visioni, opaline, lattee, turchine e rosa, macchiate vagamente. Incontri visivi con marmi di scavo: un Pothos di spalle (E. Battisti, Piero, 1,

p. 134); un nudo seduto, visto di fronte e di spalle; uno sguardo sulla coscia alzata e le pieghe sul ventre di un Ares. Imperfetta la geometria per cui piacciono marmi e monete assai tardi dell’Impero (dalla spalla scorciata di un conio, la spalla del Ritratto di Sigi-

smondo). E altrettanto imperfetta la geometria delle figure nuovissime, a Roma, del Filarete e d’Isaia: ma buona per le opere degli anni Cinquanta: la Fede Chaves d’Isaia, a testa ovale e fissa, a posa sovrumana, per la Vergine della

Misericordia, ad esempio. Effimere novità, poi, ed incontri con opere ancora nello studio, sculture fuori opera e fuor del punto di vista. Negli anni Sessanta, presso Antonio Rossellino, nudi di marmo bianco ben torniti, giusti per il Battesimo; e visi

molto vaghi negli occhi e appuntiti nelle labbra — per sùbito far elegante e assorta la Madonna del Presepio -; presso il Baldovinetti, profili ingioiellati sulla fronte, bordi gemmati, mani contratte; e da Agostino di Duccio c’era

ancora un Arcangelo che è oggi ad Acquapendente, con la corazza a gonnella molto lunga ed ornata all’eccesso, la spada di traverso, lo sguardo indecifrabile: quando era ancora nuovissimo, esempio per il San Michele degli Agostiniani. Poi, negli anni Settanta, altre informazioni attuali: le sculture di Giovanni

Dalmata per il sepolcro di Paolo II, ancora smontate e per poco ben visibili tutte, forme grosse e levigate, guance piene rasatissime, mani forti eppur

vibranti, la posa d’un dormente con un braccio sotto la testa e l’altro braccio sul fianco... da riportare, così fresche, nelle pale di Perugia e d’Urbino, con larghezza, oppur citando stretto in un Bambino anch’esso dormente proprio in

quella posa.

Sempre cose recenti, novità, anche a Venezia dopo l’Ottanta, cercandole

già nelle chiese o vedendole a caso nei laboratori: le pose erette ed assorte, le palpebre così ferme su un certo guardar vago, delle Virtù di Pietro Lombardo per il sepolcro di Pasquale Malipiero, che serviranno per la Madonna e angeli accolti da una quinta sola, come il San Sebastiano di Antonello; la quinta sola,

come nella Flagellazione.

PIERO

E LE OCCASIONI

45

Fra tanta temporalità non rifiutata, e anzi, sapendone la prima origine, coinvolta in un inno troppo alto, anchei sentimenti del Bellini a quegli anni, fatti propri per un Cristo flagellato, con la testa rivolta e dolce su un torso molto bello e chiaro, e per una Maddalena la quale sosta semplice e luminosa sotto un arco. «Etiam hinc»... ci raggiunge nella fantasia il giovane interprete-poeta che speriamo ci segua nelle idee: non so come potrà la sua voce vagare caritatevolmente sull’occiduo e il recente, e poi sempre elevarsi alla bellezza costante, cui

anche «la sua anima sospira giorno e notte». 1990

è@ Pubblicato su «Artista», 1991.

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Lorenzo e il monumento

Il sepolcro monumentale,

«patri patruoque»

del Verrocchio, che Lorenzo e Giuliano de’

Medici alzarono al padre Piero e allo zio nel varco fra una cappella del transetto sinistro e la Sagrestia Vecchia, in San Lorenzo. Sono andato a guardarlo in ore diverse. Dalle quattro cornucopie bronzee che sovrastano gli angoli del sarcofago sporgono, pure in bronzo, frutti dell’orto, degli alberi domestici e del

pino, e qualche fiore: ma per guardare le cornucopie che stanno dalla parte della cappella, non tutte le ore sono propizie; la vista vi è spesso contrastata

dall’oscurità e dal controluce. Ed è così anche per la ghirlanda bronzea che adorna da quella parte la faccia del sarcofago. In essa e in quella opposta, tra foglie cave, dentellate, ondulate o rigide, e qualche fiore, son grappoli, pine, melagrane, mandorle, ciliege... nocciòle, more, fragole, perine...

Nello stesso anno del sepolcro di cui stiamo parlando, nella sua Madonna di Washington, Carlo Crivelli dipinse nelle mani del piccolo Gesù una mela,

come altre volte una pera o un uccellino, col significato di bene e di diletto, che in altre opere del Crivelli e per i suoi contemporanei avranno anche la rosa nel bicchier d’acqua, la perina caduta, la boccia con il giglio, e che si moltiplicherà nel vaso di garofani, nell’alzata vitrea con pomi e fiori, e più frequentemente, nei frutti dei festoni (tutto questo in lui collegandosi, per un discorso senechiano!', ai marmi, agli ori, ai damaschi, alle gemme: beni leciti, quando l’anima ne sia distaccata e sappia, come il pittore, integrarli con la candeletta che andrà in fumo, il cretto nel marmo, l’immagine pittorica che, nel Beato

Ferretti, si dichiara ingannevole e fattizia; ma questo svolgimento senechiano è un altro discorso, e lo lasciamo). «Ah quanto poco al mondo ogni ben dura!»; «il tempo fugge e vola; / mia giovinezza passa e l’età lieta»; «ma tu perché ponesti tanto affetto / a mortal cosa, fragile e caduca, / come se eterno fussi il suo diletto?»: Or piango, come vuole il mio amore, ché ’1 tempo fugge per non tornar piue, e veggio esser non può quel che già fue:

or questo è quel ch’ancide e strugge il core?.

fig. 20

48

BELLEZZA E PENSIERO

Questi potevano esser dunque i pensieri struggenti di Lorenzo da giovane

di fronte ai doni e ai diletti della vita, propria e del padre morto da poco. AI declino del giorno, per la bella stagione, la Sagrestia è invasa dalla luce dorata delle finestre ad occidente: se si sta al centro della cappella, in penombra fig. 19

ed abbacinati, quasi tutto il sepolcro ci si mostra nero a contrasto: salvo la scritta col nome LAVRENT[Ivs], giacché il suo marmo è chiaro, e, lì in basso,

un poco di luce trasparita ribatte su dal pavimento. Scuotendoci da quella scura e splendente visione, noi possiamo, come altri allora, con successivi movimenti

e differenti posizioni, legger le quattro parti di quella scritta, seguendo l’invito dell’attacco nella cappella: LAVRENT[IVS] ET IVL[IANVS] PETRI F[ILH], poi, di fianco, POSVER[VNT],

poi ancora, a portarci, con un giro, nella Sagrestia,

PATRI PATRVOQVE, e infine, sull’altro fianco, MCCCCLXXII. Passati, dunque, seguendo la scritta, dalla cappella, dov’essa inizia (e lì il monumento

è sovrastato

dallo stemma), alla Sagrestia, dov’essa prosegue,

siamo anche passati, in questa fine di una giornata della bella stagione, da un nero controluce, che nulla o poco lasciava baluginare dei porfidi e dei bronzi,

dei frutti, delle foglie e dei fiori delle cornucopie e delle ghirlande, a una visione d’essi distinta e chiara nella gran luce contro il fondo invece tenebroso della cappella, che era profonda. «La luce è atto [...] del diafano in quanto diafano. Dove il diafano non è se non in potenza, ci sono le tenebre»: «l’esistenza del tempo non è possibile

senza quella del cambiamento»... «Questo è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi»: e, pensieri conclusivi, «nel tempo tutte le

cose nascono e periscono», ma «il tempo, di per sé, è piuttosto causa di corruzione»?. La nostra mente,

dopo questi ricordi, divaga. EL TENPO

CONSVMA,

è

scritto sotto un’immagine di giovane che emerge da cieche tenebre, opera del Botticini*: ove il passaggio dell’immagine dalla potenza all’atto, secondo i pensieri aristotelici su riportati si collega al tempo, il quale consuma, come ogni altra cosa, anche quella giovinezza (e la Vecchia di Giorgione lo conferma, attuandosi anch’essa dalle tenebre, e insieme commentando l’avvenuta consun-

zione della propria gioventù e della propria bellezza, col cartiglio ov’è scritto: COL TEMPO”). Questa geniale forma data alla temporalità di un oggetto facendone attuare l’illuminata immagine (aristotelicamente, la diafanità e il colore) da un fondo cieco, poteva risalire al Brunelleschi, maestro massimo nei rapporti fra concetti e forme. Sulla metà del secondo decennio, in tarsie del tabernacolo del San Pietro a Orsanmichele, il fondo scuro dichiara la temporalità di alcune forme

materiali dell’intellettiva geometria: in dipendenza da concetti della platonica

Repubblica, che con altra via ho ritenuto fondamentali per lui5, e che, nella sua

prima dichiarazione prospettica, lo portarono ad equiparare la geometria concreta del Battistero al cielo ove si movevan nel tempo le nuvole che il vento sospingeva”.

LORENZO E IL MONUMENTO

«PATRI PATRUOQUE»

49

E di conseguenza, nel 1424 Gentile da Fabriano, nella cornice dell’ Adorazione, varia l’immagine del fiore e del frutto, dipinge ginestre e roselline e mammole e ciliege, sempre su fondo nero a render il carattere effimero di ciò che è grato e bello: così, al committente Palla Strozzi richiamava parole del Petrarca tardo, formative per lui, come queste: il fiore «mentre che noi ragio-

niamo, si secca» e «sparisce dinanzi agli occhi di coloro che guardando lo

lodano»*. E di Gentile saranno ricordati anche due ritratti su fondo nero, di profilo, dei quali parla il Michiel®. Ora, io non credo che nella tradizione che

vo svolgendo, le figure su fondo nero, se di adolescenti e di belle fanciulle, spesso con abiti alla moda, sian sempre concepite come ritratti e non invece o anche come immagini dell’ahimè transitorio; e credo poi che il Giovane di Masaccio, oggi a Boston, accampi un profilo molto fisionomico non per un

qualche realismo, ma per ampliare i confini del caduco che può esser compreso

nell’ordine prospettico e matematico, cioè intellettivo — senza astringersi, come faceva il Brunelleschi, a «solidi» concreti: il corpo proporzionatissimo di Cristo, oppure il Battistero, codici, griglie, bussolotti, pine, tamburi, anelli, lanterne... che son nella sua prima tavola prospettica, o nelle tarsie, e nei rilievi

da sottarco, che dipendono da lui —. In questo modo Masaccio è dunque vicino a Donatello!°, che compone le sue turbolenze plastiche negli impianti geometrici della prospettiva e addirittura, nella Sagrestia Vecchia, in una geometrica

architettura brunelleschiana. Con quest’ultimo intervento siamo sul 1440, e dunque al tempo in cui un senese fiorentinizzato, Domenico di Bartolo, lavo-

rava in patria agli affreschi del Pellegrinaio: lo dico perché a una figura d’essi, un giovane cardinale nella storia di Celestino III, somiglia strettamente il profilo di giovinetto inturbantato, su fondo nero, oggi a Chambéry, commentato dalla scritta EL FIN FA TUTTO, che induce a vedere, al di là del transitorio,

il cerchio di un ordine metafisico che in Dio comincia e in Dio si conclude. Son pensieri fondati su Plotino e Agostino'', che, sul ’40, poteron coinvolgere

anche il giovane Piero della Francesca, il quale molto più tardi (per come io credo) li esprimerà comprendendo l’effigie di un potente decaduto, molti accidenti luminosi, e la temporalità del fondo nero, in un impianto geometrico: con il ritratto, cioè, di Sigismondo Malatesta, dove «l’acutezza implacabile del volto»!2, maggiore che nell’affresco di Rimini del ’51, da cui pure quel volto dipende, può significare un’influenza di Agostino di Duccio e Giovanni Dalmata, e dunque portarci verso il 1470!, tempo posteriore alla sconfitta

(1463) e fors’anche alla morte (1468) di Sigismondo. Una saggezza all’aristotelica, che ripete non esservi scampo alcuno alla consunzione del tempo, usa l’immagine su fondo cieco come forma della temporalità, nel ritratto di van Eyck con la scritta TTMQ0EO[Y]

LEAL SOVVE-

NIR. È un giovane, tiene in mano il rotolo di una lettera ricevuta, si identifica nel Timoteo cui san Paolo scrisse due volte: quella lettera arrotolata poteva allora provenire da un maestro lontano che gli scriveva come al proprio «Tuuo-

060 ynoiw téKv® év rioter», «Tuo0é® dyammiò tékv@» / «Timotheo dilecto

50

BELLEZZA E PENSIERO

filio in fide», «Timotheo carissimo filio»: «Nessuno disprezzi la tua giovane età; ma sii di esempio ai fedeli nelle parole, nei rapporti, nella carità, nella fede,

nella castità»: e poi, «Q Tyò@ge, tiv rapa0riknv pidatov / O Timothee,

depositum custodi» !*. «Timoteo» assicura al maestro che quello che gli è stato affidato, lui lo custodisce lealmente, inviandogli il proprio ritratto con una scritta che significa Leale ricordo di Timoteo, ma anche dando prova di osservata saggezza aristotelica, se la sua tenera giovinezza è raffigurata, per quel fondo nero, immersa nel tempo e quindi nella consunzione che esso opera universalmente; se lo stesso duro marmo del davanzale è crettato dal tempo, e se il cretto si estende anche al suo nome e al pur leale ricordo, che vi stanno incisi: «noi

siam soliti dire che il tempo logora e che tutto invecchia a causa del tempo e che a causa del tempo nasce l’oblio»... «in esso nasce l’oblio» - come dice Aristotele nella Fisica!5 —. Continuo a pensare all'immagine illuminata fuor dalle tenebre, come forma della temporalità: concetto, questo, che veniva coinvolto in discorsi di

differente ideologia. L’Angelico, in quattro lunette del chiostro di San Marco o nel Cristo di Livorno, vi ricorre per dichiarare temporanea e caduca l’immagine in sé come, altre volte, la qualifica ingannevole per l’anima, con la raffigurazione ad

inganno —, così impedendo l’idolatria, poiché l’immagine sacra non dev’esser altro, secondo l’Aquinate, che scala a una partecipazione immaginativa!. A conferma vediamo che Jacopo Bellini, nella Madonna col Bambino, su fondo nero, di Brera, sente bisogno di dichiarare che, nel 1448, questi aspetti lui li

dètte «sinceramente»: «ingenua mente». Nel Duomo di Firenze, al tempo del Brunelleschi, si pose l’effigie equestre, gloriosa, di Giovanni Acuto, dipinta da Paolo Uccello: su fondo nero, a

temperar la gloria terrena con un monito sul tempo che tutto consuma, anche l’applicazione della geometria ideale a quell'immagine concreta. Un discorso stoico e platonico insieme, cioè, il quale si ritrova anche nel resto dell’opera di

Paolo, nel Castagno!”, e poi anche in Antonello, nel quale, per immagini sacre o ritratti, l'osservazione, che si qualifica attentissima dichiarando fin le «minu-

zie della natura»!*— i cigli, la barba tornata sulle guance, il lustro delle pupille —, rivela l’inganno pittorico del cartellino (in più, vanamente inscritto col nome dell’autore e col numero d’un fuggevole anno), e, col fondo nero, la

temporalità dell’immagine. Ma in tutti e tre loro, infine, l’occhio dell’intelletto platonicamente risale dalla geometria concreta delle forme alla geometria ideale, che ne traspare.

E tutto stoico è poi il discorso del Mantegna in cui si inserisce il Redentore del 1493, su fondo nero, con le scritte EGO SVM: NOLITE TIMERE e MOMORDITE VOS MET IPSOS ANTE EFFIGIEM VVLTVS MEI, dove l’effigie in sé è, per quel fondo, qualificata temporanea e caduca, dovendo anche qui servir solo da scala all’immaginazione per un senso di presenza non fantasmica ma effettiva di Cristo come quella sua quando camminò sulle acque, o apparve nel Cena-

LORENZO E IL MONUMENTO

«PATRI PATRUOQUE»

5

colo post mortem, e ai discepoli, che lo credevano un fantasma, disse appunto «ego sum, nolite timere»!?; senso di presenza icastico, com’è l'immaginazione

veritiera secondo quello stoicismo?° che in altre opere ha fatto al Mantegna dichiarar l’inganno dei sensi, con una pertica obliquamente davanti e dietro a una cornice, e con un cavaliere o un volto umano apparsi nelle alte nuvole. Se poi, seguendo l’indizio di alcune scritte in opere sue, riteniamo Giovanni Bellini legato all’epicureismo cristiano, quello del Valla e del veneto Lorenzo Zane?!, potremo intendere secondo preminenza del piacere eterno su quello temporale, il significato di temporalità, appunto, del fondo tenebroso in opere sue come la tavoletta di Birmingham e il cosiddetto Ritratto di umanista di Milano. La prima, porta l’effigie di un gentilissimo fanciullo che emerge da un fondo, come dicevamo, di cieca tenebra, e su un davanzale finto di marmo ha la

scritta: OPVS BELLINI — qui, un cartellino dipinto ad inganno — IOANNIS VENETI / NON ALITER, a significare che la gioventù è transitoria e, non diversamente, lo è quest’'ingannevole opera di Giovanni Bellini. Chi pensa di divenir immortale con la sua opera si sbaglia, idealmente aggiunge il così detto Umanista, il quale, con quell’edera fra i capelli, sarà invece uno dei maggiori poeti dell’epicureismo pagano, Orazio, che nel primo dei suoi primi Carmina scrive «me doctarum hederae praemia fortium / dis miscent superis», ed è invece,

perfino lui, rappresentato nel tempo — nel tempo che tutto consuma - per quel passaggio del suo diafano e dei suoi colori dalla potenza nella tenebra all’atto nell’illuminazione. Posando nuovamente gli occhi sul monumento a Piero e Giovanni de’ Medici - in piedi come siamo nella Sagrestia invasa di luce dorata mentre declina un altro giorno ancora della stagione più bella -, ripenseremo che dipendano da Lorenzo le idee degli esempi dei beni caduchi, come le cornucopie stracolme, e le belle ghirlande di foglie, e frutti, e fiori, che noi possiamo

commentare con le sue parole «Ah quanto poco al mondo ogni ben dura!», «ché ’1l tempo fugge per non tornar piue, / e veggio esser non può quel che già fue».

Ma se l’immagine illuminata su da un fondo tenebroso, era, della

temporalità e della conseguente consunzione, una forma ormai diffusa nella pittura, sarà del Verrocchio l’adattamento suo alla scultura, con l’orgoglio dell’aggiunta di caratteri temporali propri di quest'arte, e all’altra invece negati. Noi stessi abbiamo, qui, visto il monumento prima nero in controluce e poi chiaramente illuminato, girandovi attorno per l’invito dell’epigrafe che è da leggersi secondo quattro positure in successione: e il Verrocchio e gli scultori del suo séguito «volevano, perché la scultura mostrava in una figura sola diverse positure e vedute girandovi a torno, che per questo avanzasse la pittura». Aggiungeremo anzi che è recisamente del Verrocchio un’inclinazione alla prassi, sostenuta anch'essa dal pensiero aristotelico, che lo faceva attento

all’azione. Questo ci dice l’iconologia di due sue opere, il Giovane dormente e il David. Il primo può significare che «fine del sonno è il risveglio, poiché esercitare le sensazioni e il pensiero è il fine di tutte le creature che hanno l’una

52:

BELLEZZA E PENSIERO

e l’altra di tali capacità: queste invero sono il meglio, e il fine è il meglio». Il David, poi, forza l’iconografia indossando quella corazza che il giovane eroe invece aveva rifiutato fidando tranquillo nella difesa della Provvidenza: e il Verrocchio segue così le Etiche sul coraggio di chi affronta, sì, le doverose difficoltà, ma temendole e perciò difendendosi?. Ma risentiamoci, e ci troviamo ancora nella Sagrestia Vecchia, con l’ormai

ridotta luce dorata, alla fine d’un giorno della bella stagione. Nel monumento PATRI PATRVOQVE, al padre e allo zio di Lorenzo, la temporalità è intrinseca al concetto di caduco fiore o frutto, cui lo scultore ha dato specifica forma in fiorellini, fragole, more, tra foglie fresche, nocciòle, e altro; la temporalità è anche nell’immagine illuminata su da un fondo di cieche tenebre; è anche nelle

aggiunte verrocchiesche di movimento. Eppure lì «il tempo labile», come dice Lorenzo, non scorre in un’infinita discesa e in un’infinita rovina, giacché

l’intellettiva geometria cui rimanda l’architettura brunelleschiana che accoglie quelle forme del fugace, le compone, anche, in un invisibile ordine superiore. È un ordine più comprensivo di quello del Brunelleschi stesso, la cui tradizione

fedele aveva fino a pochi anni prima decorato i sottarchi di San Lorenzo, solo con oggetti, pur quotidiani, capaci di rimandar sùbito l’occhio della mente alla geometria pura, con un appoggio, dicevo, alla Repubblica di Platone; è un

ordine analogo invece a quello di Masaccio e di Donatello, che credo plotiniano per la capacità di veder interiormente l’ordine che nell’universo sta oltre il vario e il complesso: quell’ordine che aveva giustificato per Donatello i suoi inserti nella Sagrestia, agli anni in cui un senese fiorentinizzato dipingeva su

fondo nero in quanto temporale e caduca, la gioventù e l’eleganza, ma con il commento metafisico e consolatorio EL FIN FA TVTTO. L’aristotelismo del Verrocchio, in questa via non sembra entrare che subor-

dinatamente. È Lorenzo che scrive quei versi che ci siamo ripetuti, sul tempo che fugge per non più tornare, sulle cose che non sono più le stesse, e quindi sulla mortificazione e lo struggimento del cuore, ma anche che, nel capitolo Magno Iddio, dopo aver parlato del «tempo labile», del dolce riposo di un

supremo ordine circolare, scrive: a te dolce riposo si conduce, e te, come suo fin, vede ogni pio; tu se’ principio, portatore e duce,

la via e ’l termin tu, sol magno Iddio?°. *

>*

A voler scegliere, negli anni successivi, qualche opera d’arte che corrisponda ai pensieri di Lorenzo che abbiamo inteso decifrare nel monumento al padre e allo zio, bisognerà pensare soprattutto ad architetture di Giuliano da San Gallo, che compongono la varietà in impianti geometrici di tradizione

LORENZO

E IL MONUMENTO

«PATRI

PATRUOQUE»

53

brunelleschiana. Bisognerà non pensare al Botticelli dei Giovinetti o delle Nude, la cui età fresca, la cui bellezza, così su fondo nero, son pensate come temporali

e caduche, ma poi integrate nell’ideologia platonica, adombrata, nella «Simonetta» dello Stidel, dal cammeo con Apollo e con Marsia legato, immagine che significa la secondarietà dell’armonia sensibile in confronto a quella intellettiva e divina. Bisognerà pensare poi che, per ragioni implicite, a quel monumento è

più vicino di quanto sembri, il Giovinetto del Perugino, che è agli Uffizi. Pietro Perugino aveva dato figura alla personalità poetica di Lorenzo,

discepolo d’Apollo, con l’Apollo e Dafni oggi al Louvre”?. Quel Giovinetto è nel primo fiore degli anni, è bellissimo, e porta negli occhi umidi e nelle labbra molli un suo struggimento, «ché ’l tempo passa per non tornar piue»: però,

implicitamente è nel contesto delle altre opere del Perugino, e queste hanno dimensioni armoniose ed impianto prospettico cioè geometrico: tali dimensioni significando, io credo, l’armonia della immaginazione quieta e «la dolcezza» relativa che ne proviene, secondo il Comento sempre di Lorenzo”; e la

geometria, il metafisico ordine che ci dà infine «dolce riposo». 1991 e 1992

è Pubblicato su «Artista», 1993.

NOTE

1 Cfr. Seneca, De vita beata, 18 ss. 2 Lorenzo de’ Medici, son. Vidi madonna, canz. Il tempo fugge e vola, cap. L’amoroso mio

3 Aristotele, Dell’anima, 2, 7, 418b; Idem, Fisica: 4,11, 218b; 4, 11, 219b; 4, 13, 222b; 4, 112, Q2iloy 4 Besancon, Musée des Arts Décoratifs, inv. 896.1.157.

5 Vedi C. Del Bravo, Giorgione, «Medioevo e Rinascimento», 1987, p. 243 (ripr. in questo

libro, p. 65 ss.). 6 Platone, La Repubblica, 6, 510a-511b; 7, 527b; C. Del Bravo, Primo Quattrocento, «Artista», 1990, p. 154 (ripr. in questo libro,

Pu22): ? A. Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, a cura di D. De Robertis, introduzione e note di G. Tanturli, Milano 1976, p. 58. De

remediis

14 Ad Timotheum: 1, 1,2;2,1,2;1,4,12;1, 62201

15 Aristotele, Fisica: 4, 12, 221a-b; 4, 13,

stil, son. Io piansi un tempo.

8 Petrarca,

p. 44).

utriusque fortunae,

trad. Remigio Fiorentino, 1, 1 e 1, 2; C. Del

Bravo, Preparativi per l’interpretazione di opere funebri quattrocentesche, «Artibus et historiae»,

23, 1991, p. 83 (ripr. in questo libro, p. 37). ? [M. Michiel], Notizia d’opere di disegno, a

cura di J. Morelli (1800), Bologna 1884, pp. 147-148.

!° C. Del Bravo, Primo Quattrocento cit., pp.

154-158 (ripr. in questo libro, p. 29). !! Plotino, Enneadi, 3, 2, 16 e 17; Agostino, De musica, 6, 28.

12 M. Laclotte, Le portrait de Sigismond Malatesta par Piero della Francesca, «La revue du Louvre et des Musées de France», 1978, p. 259. !13 Vedi C. Del Bravo, Piero e le occasioni, «Artista», 1991, p. 168 (ripr. in questo libro,

222b.

16 Summa theologiae: 2-2, 81, 3; 3, 25, 3; C. Del Bravo, Primo Quattrocento cit., p. 160 (ripr.

in questo libro, p. 30). 17 C. Del Bravo, ivi, p. 158 (ripr. in questo libro, p. 30). 18 Vasari-Bettarini e Barocchi, 3, testo, p. 66. 19 Matteo, 14, 26-27; Luca, 24, 36-37. 20 Diogene Laerzio, 7, 49 ss. 21 Vedi C. Del Bravo, Giovanni Bellini in relazione al Valla, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1983, 3, p. 691 ss. (ripr.

in Le risposte dell’arte, Firenze 1985, p. 97 ss.). 22 Lorenzo de’ Medici, son. Vidi madonna e Io piansi un tempo.

23 Vasari cit., 4, testo, p. 46. 24 Aristotele, Del sonno e della veglia, 2, 455b. 25 Aristotele: Etica nicomachea, 3, 6-8; Grande etica, 1, 20; Etica eudemia, 3, 1. 26 Lorenzo de’ Medici, cap. Magno Iddio. 27 C. Del Bravo, Etica o poesia, e mecenatismo etc., in Gli Uffizi - Quattro secoli di una galleria, atti del Convegno (1982), Firenze 1983, pp.

211-212 (ripr. in Le risposte cit., p. 82). 28 Lorenzo de’ Medici, Comento, in Opere, a cura di A. Simioni, Bari 1913, 1, pp. 85-86; C. Del Bravo, La dolcezza della immaginazione, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1977, 2, p. 784 ss. (ripr. in Le risposte

dell’arte cit., p. 62 ss.).

Andrea della Robbia, da giovane e da vecchio

La sua vicenda esterna comincia negli anni fra il 1455 (quando aveva vent’anni) e il ?75, che non hanno opere certe, ma ai quali possiamo riferire lo sviluppo di modelli di Luca, zio, maestro, titolare della ditta, e anche una

lucrativa produzione personale a questi invisa', che suppongo di opere desiderabili nel tema, e — per non aver bisogno dei collaboratori di Luca - di piccolo formato: come le varie, anche molte, redazioni della Madonna col Bambino del tipo di San Martino alla Palma? e del tipo di Palazzo Bianco?: sempre variate, sia pur d’un poco rapido e gentile, come l’inclinazione, il sorriso, un particolare della veste (così, per tutta la vita, Andrea rinnoverà i mazzi d’uno stesso

fregio con varianti pur lievi, per fuggevole dettato, nel luogo e nella positura di fiori o frutti o foglie). Da Luca, in queste Madonne Andrea riprende l’attenzione all’arte altrui, e la soavità: ma mentre il maestro cita e compone formal-

mente figure dell’arte antica, e le uniforma poi con una carezza da epicureo... l’allievo, più contemplativo, non cita le sue figure ma fantastica sui loro caratteri, compone secondo disegno mentale, e traduce quella dolcezza, da tattile in

immaginativa. In un tempo seguente, che ha il 1475 come riferimento, Andrea immagina

sulla tersa moderazione di forme e sentimenti, del Verrocchio (per la documentata Madonna degli architetti*, per la Madonna di Santa Maria Nuova, e infine per l’Annunciata della Verna). In altro tempo, che si definisce con stemmi che ricordano il 14785 e il

1481-8256, e con i modelli degli Innocentini messi in opera nell’877, Andrea risogna del Ghirlandaio l’iniziale purità, e poi l’immagine in cui la dolcezza è temperata col ritmo*, e le figure ove i temperamenti son analogamente equilibrati tra fior degli anni e mitezza. Prima, l’acuto genio con l’anno 1478, a

Volterra; poi, un arcangelo stupìto e virgineo”, una testa di giovinetto riccio-

luta e affilata‘, un santo con gli occhi grandi eppur triste!!, bambini in fasce

56

BELLEZZA E PENSIERO

malinconici o vivi eppur mitemente rimessi. Un angelo, fra altri come lui fiorenti che adorano o suonano'°, tiene un flauto già prossimo alle labbra. Intorno al 1488 della lunetta piana dipinta a smalto col Padre Eterno fra due angeli‘, nel cuore di Andrea un interesse nuovo, per gli slanci di forma e di sentimento, del Botticelli contemporaneo, e fantasie intorno a queste novità,

poi figurate negli angeli che si offrono accesi e apprensivi nel timpano della pala della Misericordia, e nelle figure inclini della predella della stessa pala'‘, di quella pratese del Buonconsiglio, e del trittico di Santa Fiora!5. Nella predella pratese, l’Annunciata è snella ed ha la testa a bocciuolo piegato, come

la

fanciulla sensibile e lieve che con mani snelle e malinconia fa il gesto della Temperanza in un tondo parigino'5; e, oltre il velo di uno sviluppo altrui, nella Crocifissione della Verna!” le figure son alte e consumate dallo spirito come la nuda Verità nella Calunnia del Botticelli, e in un angelo a destra è figurato il colpo nella fantasia, d’un giovane altissimo e magro con la veste nel vento, disperato, le mani alle guance. E poi... con riferimenti cronologici in una messa in opera del ’91‘, nel ricordo d’un ufficio dello stesso anno!? e d’altro del ’92°, e nell’ Ascensione della Verna, già ricordata in un memoriale dell’anno successivo?!, si vedon nel-

l’opera di Andrea segni di frequenti apparizioni dentro di lui, di volti sensibili e belli circondati da lunghissime chiome ricciolute e luminose, e anche d’avvolgimenti e grovigli di panni: nate dal ricordo di visioni che furon intrise di pensieri e di sogni, visioni di fogli disegnati da Filippino”? allora a dipingere a Roma, passati per le sue mani in occasioni poi cancellate dal tempo. L’offerta pulita di un volto, libero dal disordine di lunghissime ciocche che da un lato s’appoggian poi sul dorso d’un’ala; moltiplicazione d’anelli d’una chioma a raggi; ghirlande folte di varietà e di minuzie; gloria, in rilievi lirici e potenti, di panni ad avvolgimenti dischiusi, come fossero rose, e di chiome lunghe sciolte,

come liberate da elmi d’eroi: eroi giovanissimi quale l’arcangelo degli Innocenti, e virili quali gli Evangelisti di Santa Maria delle Carceri e il Gesù delfig. 26

l’Ascensione: uomo grandioso, e commosso nelle sue altezze, «portant sur son

visage l’expression du plus tendre amour»?, circondato da trasporti e dedizioni, e sovrastando i discepoli che contemplano assorti, o piangono.

E poi... nel Cristo che era al Monte di Pietà*, i lunghissimi riccioli e il volto doloroso son ancora secondo Filippino, ma l’armonia del torso si compie in contemplazione, abbassando dai fianchi l’intralcio dei panni; e una simile contemplazione, offuscata dall’intervento altrui, anche nel Cristo morto e nel

Sebastiano di Montevarchi - armonie tratte (credo) dal Perugino”, col quale Andrea lavorò sul ‘95 per un altare di Santa Chiara?. E questa luminosa

armonia cede invece per l’innocenza di una fanciullezza limpida e civile, in

opere che hanno a riferimento, quanto al tempo, il ricordo d’un ufficio del

ANDREA

DELLA

ROBBIA

DA GIOVANE

E DA VECCHIO

57

1499: immaginazioni, forse, sulle figure del Ghirlandaio per l’altare di Santa Maria Novella. In quell’opera dunque con l’anno 1499, sotto lo stemma di

Giovachino Guasconi —- siamo a Certaldo - c’è un fanciullo con il sorriso timidamente lieto, e sulla luce della sua fronte son ciocche ben disegnate; altrove - nello stemma dell’Arte della Seta, e a San Gaetano, e alla Badia, e nel busto del Bargello — la molteplicità e la forza della natura, la malinconia, la grazia, son lucidamente comprese ed ordinate. Iniziando, nel 1504, la lunetta di Pistoia, e poi nel resto di quel decennio,

Andrea muove le dita sull’argilla, per modelli od opere definitive, pensando ai caratteri contrastanti di Leonardo, tornato a Firenze: ampiezza e fusione di

piani, ma talvolta una plastica turbolenta — e pensando a questo la sua mano ormai anziana sfuma con maggior comprensione le citazioni dalla Gioconda o dalla Madonna del cartone, che un figlio «neoarnolfiano», forse il più giovane, Girolamo, se appare solo così tardi, ha posto nella pala con san Michele a

Radicofani, e in quella ch'è oggi a Pomino”: nel piccolo Gesù della prima, facendo poi inarcare riccioli agitati —. Contrasti, dunque: e così, in due genietti che ricordano, a Scarperia, uffici del 1507? e del ?10?°, uno sguardo distolto verso un lato e trasparente sul profondo, e uno di fronte ma come di perla e

ambiguo e allusivo.

Una bonaccia, d’un mare ormai grande e sonante, in pensieri sulla dolce maestà, perfezione, saggezza, dell’ultimo Raffaello fiorentino, nel genio che ricorda, ad Arezzo, uffici svolti nel biennio 1510-11?°.

Ora sostiamo: abbiamo visto abbastanza che nell’opera di Andrea l’arte altrui riviene non secondo il ricordo di esteriori forme, ma secondo il fantasma,

il sogno, di caratteri: così riflettendo la tensione a un inizio di ulteriorità, che doveva esser connaturata ad Andrea: essa infatti è analoga, nelle sue opere, alla scelta di bellezze umane non esteriori, bensì trasparenti sull’anima — cioè,

anche qui, non di forme ma di caratteri. Questa è l’immaginazione superiore di cui trattan Plotino e Ficino?!: relativamente superiore, ma pur sempre «infima

cogitationum» poiché in parte legata al ricordo, elaborato, di sensazioni del temporale: e la parziale temporalità delle sue tante fantasie sull’arte — materia commossa, dischiusa in attesa del compimento ideale — si accentua nella continua successione di interessi per il nuovo.

L’immaginazione superiore e la coscienza del significato dell’attuale, mi sembran dunque caratteri profondi di Andrea: e così, penso che quando appaion contraddetti in opere della famiglia, bisogni pensare all'invenzione d’uno dei suoi figli. Giovanni della Robbia, ad esempio, cita esplicitamente le forme di Filippino e del Verrocchio”, e anche di Leonardo direi vedendo un

ricordo del suo Battista negli Angeli di Santi Apostoli, che credo di Giovanni

appunto, e non di Andrea cui pur li riferiscono i documenti. E inoltre, per

fig. 24

58

BELLEZZA E PENSIERO

quel che sappiamo dei figli, sembra che essi conservino staticamente il loro stile iniziale, ignorando il significato profondo e vivo che l’aggiornamento aveva nel padre. La commozione, dunque, verso la contemperanza di bellezza fisica ed ulteriore, che in lui abbiamo seguìto, ad esempio, dall’Arcangelo ghirlandaiesco

a quello degli Innocenti, dal Cristo dell’Ascensione ai genii leonardeschi di Scarperia, continua nelle due predelle di Bibbiena, posteriori al 1513, e in altre

poche opere consimili, che non superano gli anni della tarda vecchiezza di Andrea. Forme di sogni rinnovati da una vicenda nuova, grande, e col fuoco della gioventù: giacché in quelle predelle son torsioni morbide e maestà, calma raggiante di bei volti, ampiezza e calore del petto, come nel San Giacomo del Sansovino”; e nei genii che a Volterra e Scarperia ricordano uffici del 15125, e fig. 25

del ’14* e del ’20””, tenerezze palpitanti, parlanti, come nel suo Bacco. Riscaldate a questo fuoco, son anche immaginazioni pur superiori, sull’arte di Fra

Bartolomeo: nella lunetta che a Pieve Santo Stefano sovrasta una pala neoarnolfiana (dove però un ritocco di Andrea fa sorridere dolcemente un barbarico san Sebastiano alla visione che è dietro i suoi occhi celesti e perduti), che sovrasta una pala datata 1514, la bellezza di capelli lavati e gonfi su una testa fig. 23

potente, ma una lunga mano morbida sulla sontuosità della veste; nel San Sebastiano di Montalcino, i riccioli d’oro intorno al volto quadrato, ma la

camicia tirata giù sulla bellezza del torso e con le maniche annodate sotto i fianchi; e, infine, qualche giovane in clipeo, forse, come fig. 22

altri precedenti,

all’origine unito a un’epigrafe di ricordo e di pianti*, e ne penso uno” con le ciocche inarcate sulla testa potente, con lo sguardo che posa grave, da uomo ormai, su un lato, ingentem atque ingenti vulnere victum. *

*

>*

Ma oltre tutto questo ci sono il disegno mentale, e la scala cromatica,

ampiamente simbolica. Il disegno mentale di Andrea è molto semplice come traspare dalle composizioni in lui prevalenti, per largo simmetriche, per alto a fasce. Il candelabro da cui scendon festoni, più volte presente nei suoi fregi, è simbolo della

semplicità assoluta come luce che si irradia nel molteplice - secondo il neoplatonismo. E la scala cromatica in lui prevalente, che, di ritorno, dai colori

terrestri sale a quelli celestiali e allo splendore dell’oro divenendo vieppiù simbolica, può figurare un’intellezione per gradi: il neoplatonico Ficino, nell’àmbito di un’analogia fra l’intelletto come luce intelligibile, e la vista come luce visibile, nella purezza di quest’ultima vede compresi come gradi i vari colori: «quante sono le apparenze dei colori nelle cose composte, altrettante idee di colori la luce contempla in se stessa. La sua contemplazione di primo grado è l’idea del nero; di secondo grado, è l’idea del bruno; di terzo, dell’ocra; di quarto, dal turchino e del verde; di quinto, del celeste e del glauco; di sesto,

ANDREA

DELLA

ROBBIA

DA GIOVANE

E DA VECCHIO

59

del rosso; di settimo, del rosa; di ottavo, del giallo; di nono, del bianco; di decimo, del candido; di undicesimo, dello splendido; di dodicesimo, dello

splendore»*°.

In un corpus come il suo, corrotto dalla collaborazione, le opere più pure

mi son apparse quelle piccole. Puri mi son apparsi i ritratti, sempre vivi e particolari. Pure alcune Madon-

ne e alcune ghirlande. Puri i genii, sempre diversi e freschi, che sotto gli stemmi, all’esterno di palazzi pubblici toscani, mostrano, nel rotolo che tengono svolto con agili mani, il nome di un funzionario e l’anno, o gli anni, del suo

ufficio: e potevano anche esser nati in libertà e letizia, giacché lo stemma del funzionario e la smaltatura col suo nome potevan esser applicati solo quando l’ordinazione arrivava. Puri i rilievi delle predelle: nati senza la libertà del tema o

delle

misure,

ma,

nella

loro

evidenza

secondaria,

liberi

di non

adeguarsi agli interessi artistici che avevano segnato il modello del rilievo maggiore — consegnato anche anni prima alla lunga operazione dello sviluppo —, e di seguire invece amori nuovi. Meno pure mi sono apparse invece le teste di cherubini che adornan cornici e mandorle, dove pur c’è un’infinita grazia e varietà dell’inventiva — innocenze, sorprese, bronci, distrazioni, allegrie, sorrisi sboccianti...: Andrea sembra

aver modellato quelle testine liberamente e volentieri: ma per inserirle in opere ancora imprevedibili, sarà stato necessario fare una matrice dall’argilla fresca, e poi un modello in gesso, da conservare: venuta la commissione, da tale gesso si sarà tratto un’altra matrice, dove pigiare (come si dice) l’argilla del calco finale, che si doveva adattare alle forme e alle misure finalmente note, con tagli o con giunte; ma l’immagine, attraverso i calchi, perde in freschezza, e per questo, talvolta, l’avranno rifinita degli altri. Più limitatamente Andrea sembra aver lavorato ad opere grandi. Per esse avrà sempre dato a un aiutante un modello, affinché lo sviluppasse a misura:

in grande, avrà lavorato l’argilla solo per ritoccar sviluppi da modelli propri o, negli anni più tardi, qualche pala di stile neoarnolfiano, forse del figlio

più giovane.

Mentre le opere piccole Andrea avrà potuto lavorarle a casa e qui farle seccare, mandandole poi alla fornace suburbana solo per la cottura, è probabile

che lo sviluppo dei modelli e il ritocco avvenissero piuttosto in un locale della fornace stessa, anche per aver l’opera, una volta tagliata in numerosi pezzi pur

grandi e seccata, pronta lì per il fuoco senza i rischi del trasporto. Comunque, dopo la cottura tutto veniva portato a casa, in via Guelfa, per

esservi smaltato da Andrea e dai figli secondo le formule segrete ereditate da Luca, in un’«anticucina» ove un documento ricorda i trogoli per gli smalti e il forno domestico*! dove si poteva ottenere il calore sufficiente a fissarli. Fuori c’era un orto, una vigna, una viottola, una siepe”...

Ed ecco che in questa freschezza di opere si presenta con la luce della vita la

60

BELLEZZA E PENSIERO

sostanza di Andrea: la brevità delle sue applicazioni a caratteri stilistici ed umani, ed oltre questi alla semplicità del disegno mentale e dell’ascesi cromatica, ci dicono che la sua anima richiedeva elevazioni frequenti e rinnovate, aliena ai lavori lunghi, dai quali infatti si astraeva. L’opacità di chi eseguiva gli sviluppi non porti dunque a concludere su un’opacità dell’inventore, in più crescente con gli anni: all’opposto, essa era la contropartita della libertà lasciata a una solerzia spirituale che poteva applicarsi solo ad esecuzioni brevi, e che

riluce più mobile e varia nell’affettuosa e spregiudicata saggezza della vecchiaia: solo il suo corpo era allora come Andrea del Sarto lo rappresentò nel 1510,

consunto, piegato. 1994

e

Pubblicato su «Artista», 1995.

NOTE

! Vedi il testamento di Luca della Robbia, del 19 febbraio 1471, in A. Marquand, Luca della Robbia, Princeton 1914, p. XXXVII. ? Vedi A. Marquand, Andrea della Robbia and his atelier, Princeton 1922, 2, p. 19 ss. ® Vedi A. Marquand, Luca cit., p. 268 ss.

recente al 1464 (G. Gentilini, I Della Robbia La scultura invetriata nel Rinascimento, Firenze

s.a., p. 172) si basa su una pubblicazione turistica (A. Mazzolai, Le robbiane di Santa Fiora,

s.., s.a., pp. non numerate) in cui si legge che «la pieve, in parte bruciata al tempo di Bosio,

4 J. Pope-Hennessy, Thoughts on Andrea della

fu ricostruita ed abbellita da suo figlio Guido

Robbia, «Apollo», 1979, p. 186, a proposito della Madonna degli architetti: «The Child recalls Verrocchio». > Stemma di Francesco della Stufa, sulla facciata del Palazzo pretorio di Volterra. 6 Stemma di Taddeo dell’Antella, sulla facciata della Pretura di Sansepolcro. ? Vedi A. Piccini, Introduzione - Ricordi documentari etc., in AA.VV., Il Museo dello Spedale degli Innocenti a Firenze, Milano 1977, p. 12, e

Sforza intorno al 1464, anno in cui Guido invitò Pio II a Santa Fiora»: ma d’altronde, un

14 La pala, lacunosa e integrata, oggi alla Misericordia di Firenze ma proveniente dalla cappella Sassetti alla Badia Fiesolana, è stata

8 J. Pope-Hennessy, op. cit., p. 186: nell’alta-

AA.VV., La Misericordia di Firenze - archivio e

p. 63, n. 52.

poco più avanti, vi si legge anche che il trittico era «nato per una diversa sconosciuta destinazione».

13 Vedi A. Marquand,

Andrea cit., 2, pp.

76-77.

recentemente datata al 1466 (G. Gentilini, in raccolta d’arte, Firenze

1981, pp. 228-230;

re Sassetti di Berlino, «a sense of interval that recalls Domenico Ghirlandaio». ? San Michele, lunetta, New York, Metropo-

Idem, I Della Robbia cit., p. 170) richiamandosi a documenti sulla committenza di Francesco

litan Museum. Vedi O. Raggio, Andrea della Robbia’s Saint Michael Lunette, «The Metropo-

Sassetti pubblicati da A. Warburg in Le ultime volontà di Francesco Sassetti, 1907 (ripubblicati

litan Museum of Art Bulletin», n.s. XX, 1961p.*135 ss. 10 Busto di giovinetto, in tondo circondato di corona di frutti, foglie, e fiori. Vaduz, Collezioni Liechtenstein. 11 San Ludovico, in tondo circondato di coro-

in La rinascita del paganesimo antico etc., Firenze

na di frutti e foglie. Siena, Basilica dell’Osser-

1966, pp. 218-219, e n. 1 di p. 219). Già nel

più specifico di tali documenti, una memoria del 1600 in cui si dice che Francesco Sassetti «nella badia di Fiesole edificò e dotò una cap-

pella, con figure bellissime di terretta», si può osservare che le azioni riferite a Francesco sono quelle di edificare e di dotare, e non di

vanza. 12 Incoronazione della Madonna, al centro del

ornare con «figure bellissime di terretta», che

trittico, Santa Fiora, pieve. Ritengo che questo trittico sia della seconda metà degli anni Ot-

sembrano ricordate per descrizione; ma un collegamento con la committenza di Francei

sco Sassetti è comunque impedito da una me-

caratteri del Ghirlandaio nei rilievi maggiori e quelli botticelliani nella predella. La datazione

che la pala portava «nell’imbasamento», oggi

tanta poiché a quel tempo

mi rimandano

moria di Stefano Rosselli, che nel 1657 vide

62

ANDREA

DELLA

ROBBIA

DA GIOVANE

perso, «l’arme de’ Gaddi», e ne trasse un disegno (BNF, Ms. II, IV, 536, S. Rosselli, Sepol-

tuario fiorentino, 1657, cc. 1390v-1391r). L’obiezione di V. Viti (La Badia Fiesolana, Firenze 1926, p. 66, n. 1) al Rosselli - non gli sembra possibile che la pala sia stata eseguita per i Gaddi, essendovi rappresentati «i santi Cosma e Damiano, a cui appunto la cappella Sassetti era dedicata» — cade per una notizia

riportata dallo stesso Viti (op. cit., p. 65), cioè che quell’intitolazione a Cosma e Damiano è del 1496, cioè posteriore al tempo plausibile

per lo stile dell’opera. 15 Vedi la n. 12. 16 L'attribuzione ad Andrea è di J. Pope-

E DA VECCHIO

21 A. de Riciis, Montis Alverniae descriptio anno 1493, in A. Chiappini, De vita et scriptis fr. Alexandri de Riciis, «Archivium Franciscanum Historicum», 1927, p. 332.

2 G. Gentilini, I Della Robbia cit., p. 216: «È [...] negli Evangelisti di Santa Maria delle Carceri che Andrea raggiunge il suo apice di complessità e ricchezza formale, adeguandosi, nei modi vibranti e tormentati, nell’anatomia scavata e nervosa, nel piglio eroico del San Matteo, alla plastica dello stesso Sangallo, o alla coeva pittura di Filippino Lippi che avrà un ruolo notevole negli orientamenti formali dei figli in specie di Giovanni» etc. 23 M. Reymond, Les Della Robbia, Florence

Hennessy (Luca della Robbia, Oxford 1980, pp.

1897, p.178.

!7 La Crocifissione della Cappella delle Stimmate alla Verna è da più autori datata al 1481

sparmio di Firenze.

sulla base di un ragionamento come: trovar nominati «nel medesimo foglio e sotto lo stes-

del Perugino» sono notate da G. Gentilini, ma

76-77).

so anno», 1481, del Giornale della Verna, An-

drea della Robbia e Maso degli Alessandri, «il quale secondo gli storici fu il committente», fa credere «di poter avanzare un’ipotesi non del tutto infondata», cioè «supporre» che la Croci-

fissione sia di quel 1481 (A. Pierotti, Un libro di amministrazione del Convento della Verna degli

24 Oggi nella collezione della Cassa di Ri25 «Analogie con la coeva attività pittorica per l’intento di «mortificare ogni precedente compiacimento formale e indugio descrittivo» (I Della Robbia cit., p. 258). 26 Vedi: G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze 1754-1762, 9, pp. 83-84; A. Marquand, Andrea cit., 2, pp. 218-219. La data

1495 è inscritta sul Compianto del Perugino, in origine sotto la lunetta robbiana con la Resur-

anni 1481-1518, in AA.VV., La Verna - Contri-

rezione in un altare laterale di Santa Chiara, e

buti alla storia del Santuario - Studi e documenti, Arezzo 1913, p. 156 ss.); ragionamento cui si è

oggi alla Galleria Palatina di Firenze. Quella

aggiunta la fantasia di un’inaugurazione «nel giorno anniversario della fondazione di quell’edificio sacro: 16 agosto 1481» (G. Matteuc-

sono oggi sotto il loggiato dell’Accademia di

ci, Da messer Orlando da Chiusi il dono del Monte Verna e due edifici sacri sulla scogliera delle Stima-

lunetta, e la sua compagna con l’Assunzione, Belle Arti. 27 È la pala che Marquand (Andrea cit., 2, p. 236, fig. 288) ricorda a Santa Maria ai Fossi, Pèlago; da questa chiesa, dal primo dopoguer-

te, La Verna 1964, pp. 143-144) — però sulla carta quel collegamento non c’è, giacché si

ra passata dal comune di Pèlago a quello della

tratta di pagamenti indipendenti, e comunque uno dei due storici addotti dice che l’altare fu

Pomino già da alcuni decenni.

fatto eseguire sì da Tommaso degli Alessandri, ma anche dai suoi eredi (A. Savelli, Breve dialogo nel quale si discorre come quel santo monte della Verna essere stato prima donato a S. Francesco etc.,

Fiorenza 1616, p. 79).

Rùfina, essa è stata trasportata nella pieve di

28 Stemma di Antonio Scali, sulla facciata del Palazzo vicariale di Scarperia. 2° Stemma di Bernardo Gondi, ibidem. 30 Stemma di Uberto de’ Nobili, all’interno del Palazzo comunale di Arezzo. 3! M. Ficino, In Plotinum, 4, 3, 30 e 3, 4,

18 Evangelisti di Santa Maria delle Carceri, a Prato: vedi A. Marquand, Andrea cit., 1, p. 109

3.4

ss.

Princeton 1920, pp. 93-95, 24-25, e, mante-

1? Stemma di Carlo Gondi, sulla facciata del Palazzo pretorio di Certaldo.

nendo l’attribuzione a Giovanni (anche se molto mediocremente assistito), le osservazioni di J. Pope-Hennessy sulle due pale nelle cappelline attigue al portico di San Girolamo a

20° Stemma di Giangaleazzo Trotti, nel cor-

tile del Bargello, a Firenze.

2 Vedi A. Marquand, Giovanni della Robbia,

BELLEZZA E PENSIERO

Volterra, che egli ritiene di Andrea (Thoughts Cit.: po192).

33 Documenti scoperti da M. Spallanzani e riportati da J. Pope-Hennessy (Thoughts cit., p. 19357197, n- 36). 3 G. Gentilini (I Della Robbia cit., p. 265) ritiene le predelle di Bibbiena, modellate «da

un assistente di eccezionali capacità prossimo al fare di Jacopo Sansovino — che gli piacerebbe identificare con Girolamo poco prima della sua partenza per la Francia (1517) —». 35 Stemma di Giovanni Gucci, sulla facciata

del Palazzo pretorio di Volterra (molto danneggiato: vedilo ripr. in condizioni migliori di quelle attuali, in A. Marquand, Robbia Heral-

dry, Princeton 1919, fig. 186). 36 Stemma di Bindaccio Ricasoli, sulla fac-

63

* Berlino, Graube, vendita del 25 gennaio 119357

4° M.

Ficino, Orphica comparatio Solis ad

Deum (1479), in Opera, Basileae 1576, pp. 825-826. Sul rapporto fra i colori della terracotta smaltata robbiana, e il neoplatonismo ficiniano, vedi il mio L’umanesimo di Luca della Robbia, «Paragone», 285, 1973, pp. 26-27 (ripr. in Le risposte dell’arte, Firenze 1985, pp.

50-51).

41 Vedi il testamento di Andrea, del 4 settembre 1522, che descrive l’anticucina della casa di via Guelfa, dove veniva svolta questa funzione, in A. Marquand, Andrea cit., 1, p. LVI. Non è superfluo far osservare che nel forno domestico ricordato in tale documento poteva ottenersi il calore sufficiente a fissare

gli smalti, ma non quello, molto maggiore,

ciata del Palazzo vicariale di Scarperia. 37 Stemma di Amerigo Pitti, ibidem. 38 Per la possibilità che i busti in clipeo cir-

vedere A. Brongniart, Traité des arts céramiques

condati di corona, fossero all’origine funerari,

ou des poteries (1844), Paris 1877, 1, p. 183.

considera la forma che ha la memoria del fondatore a Santa Maria del Morrocco (A. Mar-

4 Vedi i documenti riportati in A. Marquand, Andrea cit., 1, pp. XXXIII-XXXIV,

quand, Andrea cit., 2, pp. 192-193).

LVI-LIX.

necessario per la cottura: in proposito si potrà

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Giorgione

Quando, nel 1525, il Michiel! annotò d’aver visto, in casa di Taddeo Contarini, i grandi quadri di Giorgione, da vari anni il loro autore era morto, e

la situazione che quelle immagini significavano, era trascorsa. Giorgione era morto a trentatré anni nel 1510, e poco prima la guerra aveva disperso da Padova una concentrazione di aristotelici devoti ad Averroè, ricordati da un altro Contarini, Gaspare?: Cum Patavii essem... Quei tre grandi quadri, che ci appariranno aristotelici ed averroistici,

avranno portato in quella casa pensieri grandi e malinconici su l’intelletto, la fisica, il tempo; sulla persistenza dell’intelletto unico, e sulla generazione e corruzione dell’anima individuale.

Una grande tela rimandava all’esposizione di un mistero, che Anchise fece a suo figlio, nel regno dei morti: con parole mèmori di cose grandi viste ed udite (le piane liquide, il lucente globo della luna, gli astri titanii) gli disse di un solo spirito che nutre tutto dal di dentro, come vigore di fuoco d’origine celeste, per quanto non è ostacolato e indebolito dal corpo, dalle «moribunda membra». Concetti, questi del sesto dell’Eneide, vicini a quella teoria averroistica della persistenza di un unico intelletto, e della caducità invece dell’anima sensitiva individuale, che Gaspare Contarini dice non solo venerabile ma quasi

obbligatoria per gli aristotelici padovani di quell’inizio di secolo. In un’altra grande tela si vedeva Averroè stesso opporsi all’astronomia di Tolomeo*, cioè alla sua ipotesi delle orbite eccentriche dei pianeti®: il ritorno di

Averroè alla teoria aristotelica della concentricità riguardando anche i quattro elementi, che proprio in quattro sfere concentriche trovano la loro quiete: si muovono con l’imperfetto moto rettilineo”, come sa il terzo, giovane, filosofo

che in quel quadro tiene in mano la squadra insieme al compasso; in ordine al movimento si dividono in due coppie*, leggera e pesante, che tendono all’alto o al basso: e il giovane, caloroso, amabile, osserva l’aria e la luce oltre una gola di opaca terra, nella quale spiccia un sorgente”. E, nell’ambito di quella fisica,

trattando degli elementi in ordine al movimento, ci troviamo a indagare anche, lo dice esattamente Aristotele!°, la generazione e la corruzione —- l’entrata, il declino e la scomparsa nel teatro dell’essere —.

66

BELLEZZA

E PENSIERO

Il calore, l’amabilità, di quello studioso di fisica eran quelli del pittore

stesso!! quando dipingeva il Tramonto pensando a certe righe di Aristotele'?, che si possono così parafrasare: — Tutta la natura può esserci gradita nella raffigurazione artistica, e allora tanto più nella realtà e nelle sue cause: anche gli esseri più umili e apparentemente disgustosi hanno in sé qualcosa che può colmarci di meraviglia -. Lì due viandanti (in un paese strano, dunque) si indicano un animale per essi mostruoso (esce dal lago vicino alla sosta loro a una sorgente); in un’incisione di Giulio Campagnola, degli anni di Giorgione, un drago non

turba la separatezza del filosofo naturale. Di Giorgione e della natura, il Vasari scrisse in un primo tempo: «innamoratosi di lei»'*... non mi sembra impensabile allora che la Nuda di Dresda sia la Natura, bella e generatrice'*: dormente, essendo causa inconsapevole, finale'5.

Il terzo grande quadro in casa di Taddeo Contarini, raffigurava l’infanzia di Paride. Aristotele, che si poteva finalmente leggere a stampa in greco, diceva!°: «tutte le cose che sono suscettibili di generazione e di corruzione, e che, insomma, ora sono ed ora non sono, esistono necessariamente nel tempo»: «è necessario che tutte le cose che sono nel tempo, siano contenute dal tempo [...]. Ed è pur necessario che subiscano qualche affezione da parte del tempo: e anche per questo noi siam soliti dire che il tempo logora e che col tempo tutto invecchia e che col tempo nasce l’oblio, ma non diciamo affatto che col tempo si impari o si diventi giovani e belli; giacché il tempo, di per sé, è piuttosto causa di corruzione». E allora, nel mecenate e nell’artista il principio che il

tempo corrompe tutto, tutto quanto la generazione incessantemente gli consegna, è così radicale da comprendere anche l’età e la bellezza degli infanti:

perfino la celebre bellezza giovanile che attende l’infanzia di Paride (e che Giorgione raffigurò nel Paride col pomo)!” sarà solo uno stadio di quel corrompimento. Così, nella Vecchia di Venezia, l’incipit del cartiglio,

«Col tempo», avrà

come seguito «...non si diventa né giovani né belli». E se l’infanzia di Paride è illustrata anche nella Tempesta!8, i pensieri sul

tempo vi coinvolgono anche l’oblio, e vi trovano inoltre uno svolgimento simile a quello del Giovinetto con la freccia, oggi a Vienna. Il rudere, la colonna spezzata, e quelle parole della Fisica!?: «nel tempo,

invero, tutte le cose nascono e periscono», ma «è chiaro che il tempo potrà essere di per sé più causa di distruzione che di generazione»: e allora, l’ignoranza del tempo, nel quale nasce l’oblio. E poi, il fulmine nella Tempesta con Paride infante, e il volo della freccia

sostenuta dal giovane bellissimo, al pari della gioventù e della bellezza sono nel movimento e nel tempo. Le frasi impassibili di Aristotele?°, «ogni cambiamento è più veloce e più lento, mentre il tempo no: infatti il veloce e il lento sono determinati dal tempo»; «col tempo misuriamo il movimento, col movi-

mento il tempo»: e anche la visione dell’infanzia più bella, anche le guance più tenere e (Giorgione soggiungerà dopo una prima stesura del Giovinetto?!) occhi dolcissimi, si velano di malinconia.

GIORGIONE

67

Altri pensieri si sommano per il Doppio ritratto di Palazzo Venezia: su un

banco di un’illustre aula veneziana - a colonnine su pilastri -, un uomo

giovane e bello pensa con lo sguardo perduto, la testa appoggiata a una mano: anche lui è malinconico! Nell’altra mano regge un frutto dell’arancio; alle sue

spalle, un uomo ancora più giovane. Col tempo non si cresce né in gioventù né in bellezza, ma si decade e ci dimenticano; la vita, come l’albero dell’arancio, ha nel contempo frutti a varia maturazione, «alcuni cadono, altri maturano, ed

altri ancora vengono su»??. Analogamente, nell'immagine di quando la cosiddetta Laura era integra, la donna ha una mano sul fianco, e con l’altra s’apre la veste a mostrare il petto. È consapevole ed assorta: il petto è fresco, ma alle sue spalle i polloni d’alloro,

cioè d’una pianta che vigorosamente ributta, dicono che lei è il broncone, un tronco mutilato intorno al quale rami nuovi, di un’altra generazione ancora,

vengono su??.

E poi, nei due Concerti?*, il vecchio già si astrae dalle note o ha già arrotolato il foglio con la sua parte: sopravvengono altre voci, più e meno limpide perché di età scalata, come i frutti dell’arancio, come i rami dell’alloro — nella

appartenenza universale alla generazione e alla corruzione. Se il tempo lede tutto quanto entra in esso, l’individuo promesso all’annientamento pure nell’anima propria, avrà sovente pensieri di malinconia assoluta; e osserverà, per la durata del suo declino, un’etica solo terrena.

La Giuditta, con quella gamba nuda”: nell'immagine dell’eroina che altri assumevano a simbolo della vittoria su ciò che la metafisica diceva bestiale — Giorgione svela come onesta” e bella la naturale forza generativa, quella che risarcisce della decadenza e dell’oblio (le erbe, nel quadro, rifioriscono intorno

e sopra a muri sconnessi). Similmente capovolgendo l’iconografia, nell’autoritratto in veste di Davide, Giorgione rappresenta con il petto e il braccio difesi dalla corazza chi, per la fede in una totale difesa divina, affrontò invece a mani nude il leone e l’orso,

e senza corazza un gigante armatissimo””. Dopo l’immagine della donna onestamente carnale, nell'immagine dell’uomo, come è lui, Giorgione oppone dunque alla fiducia nella protezione divina - che fa i sicuri e i temerari —, que coraggio terreno, descritto da Aristotele, che sa del pericolo, lo teme — ha grandi e molte paure —, quindi se ne difende, e pur lo affronta se è bene far così. E vediamo che al ritratto etico di sé egli dà un’espressione consapevole, contristata e insieme orgogliosa. Sonetto scuro e virile. Così da restare come esempio

anche etico per coloro che gli si posero vicini: Sebastiano, per il Ritratto in armi, il Pordenone per il così detto Gattamelata degli Uffizi”. La religione, la pala di Castelfranco. Un basamento e un trono di legno dipinto, come in un apparato effimero; un pavimento a scacchi, con una prospettiva che dopo un gradino si restringe in una profondità illusoria, come poi su una scena disegnata dal Serlio: dunque (e così pure nella Sacra Famiglia di Washington), verità e illusione accostate, proprio come a teatro. La religione,

fig. 2

68

BELLEZZA E PENSIERO

allora, pensata come un sistema fittizio, non diversamente che nella dottrina di Averroè??, Malinconico, amoroso, coraggioso, non confortato dalla religione; suonava

il liuto. «Dilettossi continovamente de le cose d’amore, e piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili»?, che eran forse i suoi stessi mecenati: anche inserendosi, sembra, in esecuzioni polifoniche*. Sul piano dei pensieri coinci-

devano con gli intrecci della polifonia quei significati di sue opere, evocanti per lo stesso tempo velocità diverse ed esistenze di origine scalata; nonché, nei quadri a sfondo tenebroso, i cambiamenti diversi impliciti nell’immediata attuazione del diafano nella luce, secondo l’ottica aristotelica, e nella vivezza

degli sguardi, e nella velata morbidezza d’altre parti. E, nell'ormai ampio riferimento ad Aristotele, nuovi pensieri possono estendere il carattere polifonico anche alla cromia di Giorgione; essi ci vengono dall’aristotelico Senso e

sensibili*: — I colori diversi dal bianco e dal nero possono dipendere da una proporzione secondo numeri semplici, dei loro componenti; oppure da rap-

porti d’eccesso e di difetto, non misurabili. «Così accade con gli accordi dei suoni. I colori espressi con numeri semplici, come gli accordi dei suoni, pare siano i colori più graditi, quali il purpureo, lo scarlatto, e altri di questo tipo: pochi, per la stessa ragione per cui sono pochi gli accordi; gli altri colori, non

sono esprimibili in numeri» -. Quindi, gli accordi del purpureo, dello scarlatto, e degli altri colori graditi: dipingendo, come suonando e cantando divinamente, nella varietà della generazione e nei vari intrecciati gradi della corruzione di tutto. 1986

?e Pubblicato su «Medioevo e Rinascimento», 1987.

NOTE

! M.A. Michiel, Notizia d’opere di disegno etc., a cura di J. Morelli, seconda ed., a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, pp. 164, 165, 167%

? G. Contarini, De immortalitate animae, in

Opera, Parisiis 1571, p. 179. Vedine il commento in A. Poppi, Saggi sul pensiero inedito di Pietro Pomponazzi, Padova 1970, pp. 49-50.

3 Eneide, 6, vv. 723-734. * Per i precedenti, ma fra loro disparati,

coinvolgimenti dei nomi di Averroè e di Tolomeo nell’interpretazione dei Tre filosofi, vedi S. Settis, La «Tempesta»

1978, p. 21.

interpretata etc., Torino

° Per il rapporto fra l’astronomia di Averroè e quella di Tolomeo, vedi L. Gauthier, Ibn Rochd (Averroès), Paris 1948, pp. 118-127, Il

© Vedi: L. Gauthier, op. cit., p. 115; Aristotele, Del cielo, 2, 4. ? Sull’imperfezione della linea retta e sulla perfezione di quella circolare, vedi Aristotele, Del cielo: 1, 2, 269a; 2, 4, 286b. 8 Aristotele, Del cielo, 1, 8, 277b.

? Questo naturalismo dei Tre filosofi doveva essere ancora comprensibile per David Teniers, che dipinse del quadro la nota parodia

secondo trivialità (Dublino, National Gallery of Ireland). 10 Aristotele, Del cielo, 3, 1, 298b. 1! Un riferimento della pittura di Giorgione alla Fisica di Aristotele si trova già in un passo di T. Pignatti, I/ «corpus» pittorico di Giorgione, in Giorgione e l’umanesimo veneziano, atti del Corso d’alta cultura (Venezia, Fondazione Cini, 1978), Firenze 1981, pp. 138-139. Lo ri-

porto integralmente: rispetto alla cultura del Bellini, «quella di Giorgione si è adeguata alla

filosofia corrente, non è più influenzata soprattutto dal moralismo neoplatonico, ma invece profondamente interessata ai motivi della Fisica di Aristotele. È appunto questa Fisica,

insegnata anche nel vicino Studio di Padova, che data luci loro 12

così viene a dominare, con l’ampia parte al paesaggio, e con la realtà espressa da e colori che ormai hanno raggiunto una maturazione espressiva». Aristotele, Delle parti degli animali, 1, 5,

645a.

13 Vasari-Bettarini

e Barocchi,

4, testo,

p..42.

14 Sulla natura come «generazione delle cose che nascono», vedi Aristotele, Metafisica, 5, 4, 1014b.

15 Aristotele, Fisica, 2, 8. 16 Aristotele, Fisica, 4, 12, 221a-221b.

17 Interpretazione proposta da J. Wilde, Venetian Art from Bellini to Titian, Oxford 1974, pp. 80-81. Per la fortuna di questa interpreta-

zione, vedi A. Ballarin, Una nuova prospettiva su Giorgione: la ritrattistica degli anni 15001503, in Giorgione, atti del Convegno interna-

zionale di studi per il quinto centenario della

nascita (Castelfranco Veneto

1978), Castel-

franco Veneto 1979, p. 243, n. 21.

18 Perla storia di questa interpretazione, vedi S. Settis, op. cit., p. 60. 19 Aristotele, Fisica, 4, 13, 222b. 20 Aristotele, Fisica, 4, 10, 218b; Fisica, 4, 12, 220b.

21 Cfr. L. Mucchi, Caratteri radiografici della pittura di Giorgione, nel catalogo della mostra I tempi di Giorgione (Castelfranco Veneto), Firenze 1978, 3, p. 46: «Nel viso la radiografia indica una prima stesura degli occhi che guar-

davano in basso con le palpebre abbassate».

70

CARLO DEL BRAVO

22 Plinio, Storia naturale, 12, 7.

17, 4-7.

23 A parte il notissimo significato che ebbe

28 Vedi: Etica nicomachea, 3, 6-8; Grande etica, 1, 20; Etica eudemia, 3, 1.

il broncone per la stirpe medicea, si consideri un ritratto d’uomo con libro e astrolabio, davanti a un rudere e a ributti di alloro, e con la

29 Credo che possa essere opera giovanile del Pordenone per confronto con la sua pala di

scritta ENITINOMENOI®Y sul davanzale (Fo-

Susegana,

toteca dell’Istituto Tedesco di Storia dell'Arte di Firenze, nr. 152948, sotto Vincenzo Catena).

«imitando il fare di Giorgione da Castelfranco» (cfr. Vasari cit., 4, testo, p. 429).

ma

anche

che sia stato eseguito

24 Alludo ai quadri di Palazzo Pitti e di

30 Sulla possibilità che le idee di Averroè

Hampton Court: quest’ultimo, a mio vedere,

sulla religione siano state conosciute per qual-

opera finita da Giorgione su una base di Vincenzo Catena: la società di Giorgione con questo pittore è accertata da una scritta sul tergo

che tramite ebraico ben prima della pubblica-

della cosiddetta Laura di Vienna.

25 Sulla iconografia della Giuditta di Giorgione, vedi J. Bialostocki, La gamba sinistra della «Giuditta»: il quadro di Giorgione nella storia del tema, in Giorgione e l’umanesimo veneziano, atti cit., pp. 193-220. 26 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, 3, 11. 27 Libro dei Re, 1, 17, 34-39; vedici anche 1,

zione (1859) dei trattati relativi, vedi L. Gauthier, op. cit., pp. 266-268. 31 Vasari cit., 4, testo, p. 42. 32 Vedi N. Pirrotta, Musiche intorno a Gior-

gione, in Giorgione, atti del Convegno di Castelfranco Veneto, cit., p. 43. 33 Aristotele, Dell’anima, 2, 7, 418b; Del senso e dei sensibili, 3, 439a-439b. 34 Aristotele, Del senso e dei sensibili, 3, 439b4402.

L’Equicola e il Dosso

La mano di un umanista, Mario Equicola, scrive a Ferrara, il 9 ottobre

1511, per la marchesa Isabella di Mantova: «Al S." Duca piace che reste qui otto dì: la causa è la pittura di una camera nella quale vanno sei fabule overo istorie. Già le ho trovate e datele in scritto»!. Questo passo di un’antica lettera, nei

nostri ultimi decenni è stato vieppiù collegato e infine stretto alla decorazione pittorica del Camerino del duca Alfonso”, che ora sappiamo esser stato in un corpo sporgente, o rivellino, del Castello di Ferrara?.

In calce alla sua opera principale, il libro Della natura d'amore (composto in latino fra il 1495 e il 96, tradotto in volgare sul 1510 e così stampato nel ’25*), Mario Equicola scrive: «Tra filosofiche sette, eligemmo la academia. La verità cristiana sempre abbracciamo»?... «Accademia» voleva dire una condotta intellettuale che il nostro tempo, così categorico, difficilmente comprende: nelle parole di Cicerone (De div., 2, 150), che lo insegnò agli umanisti, «è proprio dell’Accademia di non fiapporre un proprio giudizio; di approvare ciò cheè più simile al vero; di confrontare le posizioni ed obiettare quanto si può contro ogni parere; di non far uso della

propria autorità, e di lasciar intatto e libero il giudizio degli ascoltatori»... E così la navicella dell’opera dell’Equicola ha, nelle sue parole, Platone e Dionigi al timone, Aristotele e Agostino alle vele, Cicerone, con storici e poeti, ai

remi’... e noi aggiungeremo che è spinta dal vento dei pensieri d’Epicuro sul piacere, degli Stoici sulla Provvidenza, di Pitagora e Platone sull’illuminazione divina, e sulla luce delle idee che traspare ed attrae dai numeri. Parlando delle pitture del Camerino d’Alfonso, il Vasari dice fra l’altro:

«Similmente nella porta d’un armario dipinse Tiziano dal mezzo in su una testa di Cristo», che è poi il suo giovanile Cristo della moneta”. Anni fa si scrisse che questa notizia sembrava poco credibile, dato che i quadri grandi del Camerino erano uniti solo dalla sensualità ed eran quindi contesto inadatto a un quadro sacro*. Ma in proposito si ha da indagare ancora se quella decorazione fosse unita non già da una costante sensualità, ma dall’ordine di pensieri dichiarato dal suo «inventore» Equicola, accademico

in filosofia e insieme

fedele alla «verità cristiana». Con tolleranza da filosofo accademico egli riferi-

72

BELLEZZA E PENSIERO

sce che per «tanti preclari uomini» (come, aggiungeremo, il Cicerone del De finibus’), fra corpo ed anima c’è amicizia ed unione, e per questo «non si può pensare nonché separare l’azione dell’animo dal corpo, né quella del corpo considerar senza l’anima»'9... così che le parole di Cristo davanti al fariseo e alla moneta, parole che ammettono il tributo a Cesare insieme al tributo a Dio,

in quell’ordine di pensieri avranno invitato all’equità verso i diritti del corpo e verso quelli dell’anima, diritti pari anche se di genere diverso. Partendo dagli uni e dagli altri, dice ancora l’Equicola, si vede che «il piacere e voluttà ne

governa, che di quello più ci cale per cui vivemo più che gioiosi, e di quello avemo maggior cura, che maggior piacere ne può apportare»'!.

Dunque — sorge quest’ipotesi — da lui dipendono non solo le «favole», ma anche i concetti, della decorazione del Camerino d’Alfonso: concetti che dovettero rimaner stabili anche se uno dei quadri, per la parete minore dov'era la finestra, non fu eseguito, e se, nel corso dell’esecuzione degli altri, alcune favole furon cambiate, e così gli artisti. 1° dicembre 1598, un fiduciario di Cesare d’Este scrive un memoriale, dopo

il soggiorno del rapace cardinal Aldobrandini nel Castello di Ferrara per la devoluzione del ducato alla Chiesa. «Apperti i due usci del primo Camerino

d’Alabastro», egli aveva trovato che mancavano, secondo i ricordi di due pratici del luogo, mancavano dunque, a partir da sinistra, nella parete maggiore, che per prima si offrì alla loro vista: il Bacco ed Arianna di Tiziano; gli Andrii, sempre di Tiziano, e il Convito degli dèi, di Giovanni Bellini; e, proseguendo,

nella parete minore ad occidente, «testata» della stanza, la Festa degli Amori di Tiziano, e il quadro del Dosso che i due pratici ricordavano come «pittura con figure d’uomini e di donne»! (ma che il Vasari dice «una Baccanaria d’uomini» !). Il Bacco ed Arianna, con le parole e le azioni di Bacco in una delle fonti accertate, «cura fidelior», «abstulit» (Ars amandi, 1, vv. 553, 560), risponde ai

concetti di Equicola sulla Venere giusta, in cui non c’è disparità fra anima e corpo: la prima traendone il piacere dell’amor ricambiato, e il secondo, quello dei sensi!5.

Gli Andrii (che sostituirono un Trionfo di Bacco chiesto invano a Raffaello) lodano il vino, che rende gli uomini come ricchi, convincenti, soccorrevoli per gli amici, belli, grandi (così Filostrato, 1, 25). E il Convito degli dèi, o Festa di Bacco secondo una delle fonti accertate!6, loda i dolci conviti semplici e lieti, dov’è impropria e ridicola l’oscenità (Fasti, 1, vv. 391-440). Ambedue sem-

brano rispondere ad una frase dell’Equicola in cui egli parla dei conforti di una virtù non sovrumana, e ricorda lo «studio di eguali», i «giuochi», il «convivio»!7.

La Festa degli Amori poi (ci siamo, a questo punto, mentalmente girati, seguendo il sopralluogo del 1598, verso la parete minore intera) dipende, come

è stato ben detto'5, dalla sesta descrizione delle prime Immagini di Filostrato: ma, aggiungo, per dar figura non già all’amore carnale bensì all’amicizia,

L’EQUICOLA E IL DOSSO

Us)

giacché le azioni degli Amori centrali, in primo e in secondo piano, il lancio dei pomi, il petto offerto alla freccia, son da quell’autore commentate, nel terzo paragrafo, con le parole ineludibili «queste cose significano amicizia, e desiderio reciproco» (e con questo significato sciogliamo l’incomprensibilità dell’accettazione di un tema finora presunto erotico, da parte di un religioso come Fra Bartolomeo, che aveva cominciato a lavorarvi poco tempo prima d’essere interrotto dalla morte e quindi sostituito da Tiziano). Il quadro del Dosso, ultimo in una visita mentale che proceda secondo il sopralluogo dell’inverno 1598, e quindi quello più a destra entrando, avrà rappresentato, come dice il Vasari, «una Baccanaria d’uomini» (magari secondo

il concetto noto all’Equicola per cui l’umana bellezza è androgina'’, se ai due pratici sembrava di ricordarvi anche delle donne), giacché essa poteva dar figura al piacere della caccia, e sostituire un’altra favola equivalente, la Caccia di Meleagro, di cui forse il duca aveva parlato all’aiutante di Raffaello che passò a

trovarlo nel settembre del 1518, e per cui il maestro aveva fatto poi un disegno «bellissimo»?°: e poiché, aggiungo, la dizione «Baccanaria d’uomini» corrisponde alla terza delle Immagini di Filostrato il Giovane, la quale descrive un quadro con cinque giovani cacciatori su un prato, uno avendo in mano una

coppa piena a metà, e per tutti stando a disposizione un otre di vino. Sopra a questi grandi quadri, nel Camerino girava un fregio con dieci tele basse, tutte del Dosso. Accompagnando mentalmente chi fece il sopralluogo nel 1598, le vediamo ancora lì: ne furono estratte per Scipione Borghese circa dieci anni dopo. Frammentariamente descritte dal Vasari, da documenti, da un

inventario Borghese del 1693, e in parte superstiti?!, rappresentavano episodi

dell’Eneide: io credo, per dar figura con ogni quadro a una stazione del pensiero sulla virtù, dell’inventore delle favole, a integrazione di quello sull’equità verso corpo ed anima, figurato con il Cristo della moneta, e di quello sul piacere giusto,

figurato nei quadri maggiori: e a sostegno dico che lo stesso Equicola, lodando l’utilità delle favole poetiche scrive: «piglino esempio i prencipi dal vergiliano Enea in tolerar le fatiche»??. Il discorso etico che lì si svolgeva può risorgere, credo, per noi; anche se lacunoso. La fortuna è volubile (forse così cominciava), e, anche se propizia come fu dapprima ai compagni d’Enea contro i nemici di Troia, facilmente gira??. L’uomo non può vincerla, e così Niso, benché fosse il migliore, perse alla corsa, e Didone concluse suicida «quem dederat cursum Fortuna» — circondati

dai grandi disegni del fato e di Giove? —. Tutte le nostre azioni son mosse dalla speranza del piacere: anche la virtù, ed è per questo che Enea dètte coraggio, in Libia, ai suoi compagni dicendo «durate, et vosmet rebus servate secundis»??. Ma il piacere deve esaltare, non sminuire come gli abbracci di Venere che ammolliron il volere di Vulcano”. [...] Il principe, se ha pietà e meriti placa i furori del popolo come Nettuno placò la tempesta suscitata dai vènti”. Infine,

«grazia ch’el cielo a pochi dona» è la sapienza, con la quale l’ingegno può

74

BELLEZZA

E PENSIERO

aggiungere d’intender la verità recondita et involta», come dice l’Equicola: essa è «l’aurato ramo» che «al vergiliano Enea fu concesso [...] acciò che potesse gire al cospetto del caro padre nelli Campi Elisii»?*. Bisogna pensare che in singole sezioni del fregio c'erano, a colpir l'occhio, queste cose: «diverse figure e foco» per la «istoria di Troia»; oltre alla corsa di Niso e degli altri, e alla colonna di fumo, altissima oscura, del «tantus ignis» del rogo di Didone, tutt'intorno Venere che annuncia il futuro, Giove e Mer-

curio in piumatissimi cappelli, il volo dei cigni (è il quadro oggi a Birmingham); «figure, bandiere, vascelli, et altro», e l’orazione d’Enea a destra di due

guardie con la spada (questo è il quadro oggi, dimidiato, a Washington); Venere nuda con un ignudo, che il Vasari credette Marte ma sarà stato Vulcano mentre essa lo induce a far le armi per Enea, cui egli attenderà di lì a poco «in

una grotta [...] con due fabbri alla fucina»; «marina e vascello grosso e tritoni in mare», con Tritone, dunque, e Cimotoe che liberan le navi dagli scogli mentre Nettuno scorre con ruote lievi sulle onde e le calma; infine, nell’Enea ai Campi

Elisi oggi ad Ottawa, l’eroe mentre «ramum adverso in limine figit», e carnose figure stan su verdissimi prati, e mantelli di porpora s’alzano ai soffi mutevoli d’un vento. Il duca accettava dunque il pensiero dell’Equicola su piacere e virtù (sia pur leggendo Filostrato anche lui?’, ed esponendo i progetti a Raffaello, e ad un suo giovane di passaggio per Ferrara?°). E li accettava il Dosso, suppongo, se aveva un carattere «affabile molto e piacevole» che corrispondeva a quello del duca — il quale molto lo amava d’altronde anche «per le sue qualità nell’arte della pittura»®! —. Ma l’influenza del pensiero dell’Equicola sul Dosso sembra riguardar anche caratteri generali della pittura. L’Equicola, in un suo elogio della vista, mostra la superiorità dell’uomo sui bruti anche nel diletto che lui

solo trae dal colore: dal colore, che per questo non è dunque da meno della proporzione e della grazia: i bruti, «bellezza di cosa alcuna non discernono.

Noi, grazia, colore, e proporzione di membra diletta»?. E su la proporzione e la grazia dell’uomo, l’Equicola scrive poi che l’uomo bello dev’esser d’altezza media, ed in carne, con un petto largo in cui l’ossatura si intraveda appena, e con mani piuttosto grosse; che la sua faccia deve tendere al tondo, e mostrar fronte spaziosa, naso piccolo, e labbra medie; che il suo colorito dev’esser

bianco e rosso, e gli occhi, neri nel bianco, «lucidi, tumidetti: allegri»*. E tutto questo rimanda con forza al dilettoso colore dei quadri del Dosso, e alle sue

figure solide, carnose, brune, graziose. D'altronde un’analogia fra lettere e pittura esisteva per l’Equicola, che nelle sue Instituzioni la svolge fra scrittori in volgare e pittori dell’antichità — credendo la poesia più autorevole e degna della pittura, che pur dev’esser lodata, e «sommamente», «per esser arte della natura imitatrice» —*.

E già nel fregio dell’Eneide dipendon, credo, dall’Equicola, oltre al pensiero accademico e all’adattamento delle favole ai significati, anche idee sui colori, derivate dal passo ciceroniano sulla loro mutevolezza*, o dal detto dello scet-

L’EQUICOLA E IL DOSSO

75

tico Pirrone, che la porpora ha toni diversi alla luce del sole, o della luna, o

della lampada”; con una forte preferenza per le fantasie virgiliane, di colori sgargianti e di abbagli: la porpora e l’oro, l’oro in fronde che crepita al vento, l’arcobaleno che scaglia mille vari colori, la nube ardente di raggi e d’oro, le vesti tutte lucenti, le armi che raggiano”... Quando l’Equicola morì, il suo Natura d’amore, appena stampato e poi

riedito più volte, ne mantenne e ne allargò la fama: e noi vediamo che a Ferrara il Dosso e i suoi committenti custodirono il legato del suo pensiero, pur

con figure trovate da altri, le quali (nonostante l’incertezza della cronologia del pittore) credo esser simboliche, piuttosto che narrative come le «favole» trovate dall’Equicola. Fin qui poteron arrivare gli uomini di lettere: che però ancor oggi stupiscono e lodano davanti a quel che la pittura aggiunge di specifico nell’arte del Dosso: l’»imitazione della natura», che intenderemo come frutto di un’imma-

ginazione più vicina ai sensi e più particolare di quella sorta dalla poesia, e più gratuita di quella fondata sui concetti. Compito da pittore fu anche, in analogia con l’eclettismo del pensiero e del latino dell’Equicola*’, fondere quelle immaginazioni da antichi autori mediterranei, con le fronde inclinate, costellate, fruscianti, con le voragini di rosa e d’oro, con le nubi impennate e candide, di

un pittore tedesco come l’Altdorfer: e il Vasari ben ricorda che nel Camerino del Duca di Ferrara l’opera del Bellini risentiva della pittura tedesca‘; e inoltre

dice che il Dosso dipinse i paesi meglio di ogni altro nell’Italia del Nord, «massimamente dappoi che si è veduta la maniera tedesca»‘!. *

*

>*

Nella Disputa nel Tempio del Dosso, che dice a Gesù fanciullo del dolore con cui lei fanciullo che oppone ai loro sentimenti 48-49). È questo un pensiero che, come nel

conosciamo in copia, la madre che e Giuseppe lo avevano cercato, e il l’autonomia del divino (Luca, 2, Cristo della moneta del Camerino di

Alfonso, sarà stato vòlto a significare l’ineludibile presenza, nell’uomo, sia del corpo coi suoi sentimenti, che dell’anima con le sue altezze.

In un grande quadro oggi a Malibu, alcuni Amori dal cielo scagliano frecce verso un fauno e verso una giovane donna in corazza‘, che sbuca di dietro ad alberi di cedro: il fauno regge la siringa della musica lasciva ed ha dappresso un ricco mesciroba che altra volta, nel Dosso, intendiamo contener dell’oro‘; il

cedro invece può esser simbolo del peso che comportano i frutti graditi**. Le

due figure sono il Vizio e la Virtù, ed ambedue amano, dunque: amano la nuda dormente, che sarà l’innocente Natura: ma un’austera vecchia seminuda e

stracciata, e quindi con i segni della Filosofia‘, fa il gesto di difenderla: e insieme, volge le spalle al Vizio, invita la Virtù. Tutto questo espone simbolicamente pensieri dell’Equicola. Egli riconosce

che la vita pratica come la morale, e anche la contemplazione, hanno per fine il

76

BELLEZZA E PENSIERO

piacere, la «voluttà»*; e che, se non dobbiamo rifiutare «la voluttà de’ sensi,

quanto sostentazione de natura e nostro bene esser richiede»‘”, dobbiamo invece rifuggire la dissolutezza e il meretricio**, affinché sotto la signoria della

ragione, «l'amor che in noi naturale e necessariamente ne move, tenda in virtù».

Deriverà da un letterato l’evocazione fantastica dei simboli e delle signifi-

cative pose, e sarà poi del Dosso l’incontro con la brezza dorata, e con la forma

che han preso le rose sul prato: l’armonia indecifrabile, che non si ripeterà, di

sparse bianche a cinque petali ricchissime di stami, e d’un tralcio lungo col voltato fiore peso e col boccio, da un rosaio di dolce tinta, da cui una mano ha

còlto anche petali caduchi e un’altra rosa. Allusione gratuita a una giornata di giugno, perché le rose son già affrante e impallidite, e con i bocci ultimi; e la brezza è calma sulle fronde adulte, ormai.

Nel così detto Bagno oggi a Castel Sant'Angelo, non è difficile riconoscere l’«immagine» dell’isola «aurea» fra quelle descritte da Filostrato (2, 17, 12-13), isola dove nessuno lavora, dov’è abbondanza di fontane, alcune fresche ed altre invece riscaldate da sotterraneo fuoco; dov'è una città giocattolo per il

divertimento di un fanciullo reale e dei suoi compagni, con un piccolo ippodromo ove corrono cagnolini maltesi guidati da scimmie, le quali fanno anche da domestici (e nel quadro, infatti, a un rivo caldo si son lavate o si lavano

alcune persone libere e giovani; un maltese e una scimmia stanno accanto a

ignudi fanciulli). Filostrato, dunque, fornisce anche qui figure a pensieri dell’Equicola, e fors’anche del Dosso, ora in particolare sulla naturalezza della «voluttà»: per quei pensieri, «vivere secondo la natura non devemo intender se non quello che la natura ci porge libera dal costume»5°; e, contro gli ipocriti, è facile

osservar questo: «tutti la voluttà appetere, e non essendo per consuetudine negata, né per legge interdetta, né per paura impedita, né per infamia proibita, O per religione vetata, licenziosamente fruirla»". Ma il Dosso aggiunge poi quel che non è necessario a questo svolgimento di idee: la dolcezza corporale per cui si accompagnano un fianco d’uomo, una mano di donna, gli omeri e un ginocchio d’un altro; il violinista con la testa barbuta, così urbana, piegata sul

suo nudo davanti agli occhi degli altri; la tenera giovane che si accosta le dita d’una mano e d’un piede. Sul giusto piacere dei sensi per «sostentazione de natura», l’Equicola scrive che «il tatto in tanto devemo frequentare, quanto alla natura si renda il debito della obligazione con lei nascendo contratta»: e al Dosso fu dato da raffigurare il momento in cui gli animali vengon fatti salire sull’Arca, per salvare la prosecuzione della vita. Ma non si ecceda, scrive l’Equicola, né col tatto né col gusto: l’avidità perverte la natura, e i filosofi hanno esaltato la temperanza, che conserva la salute e il piacere”: e, di conseguenza, nella Festa di Cibele -

come hanno già indicato”, immaginata su Ovidio (Fasti, 6, v. 319 ss.) — semplicissimi cibi per i divini convitati, e disonore invece per l’oscena speranza

L’EQUICOLA E IL DOSSO

DI

di Priapo — come anche nella festa di Bacco illustrata dal Bellini per Alfonso, anche lì su idee dell’Equicola e su fantasie d’Ovidio —. E fra i piaceri moderati, come nella Festa degli Amori per Alfonso, l’Equicola pone l’amicizia, «con la sentenzia di M. Tulio esortando ciascuno ad amare e

mantenere le amicizie con fede e perseveranzia»®: e nel Ritratto d’uomo oggi a

Hampton Court, un intellettuale si mostra puro e costante amico, per le pure e durissime pietre dei cinque anelli alle dita delle sue grosse mani: ma poi, per il Dosso, la proporzione corporale cara all’Equicola si intenerisce nella maturità virile, con gli occhi divenuti, da allegri, dolci, e la bocca indulgente ormai. Dunque, ad andar oltre la «sostentazione de natura» e il piacere moderato,

il tatto «li forti e robustissimi effemmina et enerva»”” - come Circe secondo l'Odissea: con filtri essa ammansì le belve, e «meditando inganni» invitò Ulisse a giacere con lei «per renderlo vile ed effeminato una volta spogliato delle armi» (10, vv. 210-219 e 339-341): com'è accaduto all’uomo ignoto che, nel quadro dipinto dal Dosso oggi alla Borghese, si è tolto la corazza che ora riluce presso la maga, ed è divenuto forse un cane ottuso, o un anatroccolo, o un

piccione. Questo il pensiero: ma poi da un’ora di sole basso o fors’anche di

luna, si sono incanalate nelle metamorfosi della fantasia quelle luci d’oro su alcune fronde, separate in tal modo da quelle scure che le circondano, eppur anch'esse stormenti. Ma sulla riduzione dell’interezza virile, prodotta da una Venere non domi-

nata, il Dosso fu chiamato a dipingere un altro quadro, oggi perduto, che negli inventari Aldobrandini del Seicento è ricordato come «grande», e descritto in modo da farci intendere che anch’esso, come una tela del fregio del Camerino’, descriveva un evento dell’ottavo dell’Eneide: le abili lusinghe di Venere per smuovere Vulcano dalle sue esitazioni, e convincerlo a lavorare le armi

d’Enea: e poi quel lavoro nella fucina. Nel gran quadro Aldobrandini dunque, c’era una figura dormente, che sarà stata Venere lasciata nel talamo avanti giorno; «da una banda», Vulcano già al lavoro, forse con dappresso una ricordata armatura; in più, figure che il montone

e il camaleonte che colpiron

l’occhio degli inventariatori, potevan qualificare come la Lascivia e l’Instabilità, illustrando i concetti virgiliani per cui il dio, «devinctus amore», mutò vilmente di pensiero, come appunto un camaleonte muta di colore.

Ma ancor più lontani dal piacere giusto si è, dice l’Equicola, con la Venere venale e con quella mascolina®°. Per offendere queste due Veneri, la così detta Baccanaria degli Uffizi è intesa in due parti, con due protagonisti anziani e quindi oltre le richieste della natura. Uno dei due giuoca a palla, cioè fa l’amore, alla lunga, cioè con le donne, circondato da metafore del segno del maschio (baccelli, cacio, uccello, cembalo, coltello, cane) e della femmina (le rose, la conocchia con i fiori che ciclicamente ritornano), e con metafore

anche d’altro (le mele, le ciliege): la sua compagnia è di lenoni e di donne impudiche intorno alla maschera dell’inganno. L’altro protagonista mostra un

capretto, che significa il fanciullo, circondandolo di vite, per giuocar forse su

78

BELLEZZA E PENSIERO

un doppio senso: ha un compagno forte e brutto, di profilo; sorridon lubrichi ambedue. Questo quadro degli Uffizi rimanda al linguaggio da trivio®?, e ad osservazioni, a prese, a mosse, assai crude: crude come è l’immaginazione dell’Equicola quando maledice quelle Veneri e descrive quel ch’esse fanno spargere e dove. Poi, gli elementi vi sono, come nell’ecfrasi di un letterato, aggiunti, non composti. E la Musa del pittore, Musa trasognata, qui non è discesa coi

suoi voli dal suo mondo di arcobaleni. Ma ora parliamo di virtù. Anch’essa è un piacere per l’Equicola, anzi egli dice che «chi leva la voluttà alla virtù, leva la forza di quella»; e piaceri sono

anche la scienza e l’intellezione — piaceri dell’anima, s'intende. Congiungendo tutti questi piaceri alti, «procuremo di venire religiosi: anche per questa strada

con guida d’amore ascenderemo alla vera felicità». Dalla fortuna dipende la prosperità, non la virtù. Se nel Camerino

ci

immaginiamo, per la volubilità della «prima fortuna», l’attacco dei compagni d’Enea ai Greci con lo sfondo del «foco» di Troia e degli elmi chiomati** della fantasia di Virgilio - fuori di quel ciclo la vediamo figurata in un secondo quadro Getty, ove il Caso alza le cedole del sorteggio e la Fortuna regge la cornucopia ma s’appoggia alla bolla di sapone; e la vediamo inoltre nella Didone Doria: qui, con la gravità della tenebra sulla maestà della porpora a

corrispondere al pietoso amore dell’Equicola per le donne tradite da ingrati amanti**: e la regina, nel quadro, tocca l’elmo lasciato da Enea e geme quelle

parole, le sue ultime: «Dulces exuviae, dum fata deusque sinebat, / [...]. / Vixi et, quem dederat cursum Fortuna, peregi»”?... Sul piano dei fatti, dunque, la Virtù sarà spesso vinta dalla Fortuna, ed è

inutile attendere aiuto dagli dèi: lo dice la favola albertiana illustrata dal Dosso nel Giove, Mercurio, e la Virtù”, sempre col sostegno del pensiero accademico dell’Equicola, il quale, sviluppando un passo delle Tuscolane (5, 1, 2), scrive che

«se sempre ragion avesse luogo, se solo li nobili e virtuosi si fussero essaltati, de fortuna non si faria menzione»?! — ma è stato del pittore provar le reazioni dell’occhio, com’anche nel quadro del Caso, accostando a carni ricche e pallide, stoffe color di foglia secca o seppia, o, in interno senza riflessi, guardando

la luce su d’un panno rosso; e qui portando nel cuore il ricordo dell’arcobaleno e d’un oro lieve e ventilato. La virtù, dunque, dipende dall’uomo: «semo stati creati col libero arbitrio, acciò possamo meritare. Se peccamo, non ne lascia la providenzia impuniti»?

noi riconosciamo ormai la voce dell’Equicola; e questi concetti sono uniti, in

un quadro di Hampton Court, ad Elisabetta che sembra ripetere per Maria il suo «Beata quae credidisti» (Luca, 1, 45), e al gallo della previsione fatta a Pietro, la quale non gli tolse la responsabilità della colpa. Pietro infatti, in piedi, guarda; Paolo gli sta vicino e lo abbraccia: questo abbraccio vale per l’esplicita concordanza delle loro epistole sul punto che Dio renderà a ciascuno di noi secondo le sue opere senza lasciarci abusare della sua carità??. L’Equicola

L’EQUICOLA E IL DOSSO

79

aveva parafrasato: «Della sua clemenzia non ne priva, pur ch’en quella confidandoci peccar non presumamo, pur che, con speranza ne perdoni, non retornemo alli soliti rivi»”*. L’immaginazione dell’iconologo succeduto all’Equicola grava con presenze e gesti significativi: voluti, e limitati in confronto alla misteriosa eloquenza del gran fruscio degli alberi all’arrivo del vento, dei segni che fan la luce e le nuvole su in cielo. Nella pala di Modena, i bagliori letti in Virgilio divengono, per esperienza ricordata, un gran nodo imprevisto di seta su un ventre; dietro l’immensa

avanzata dei due giovani e della loro carne, sprofondano le selve, spumeggiano le nubi. Quelli guardano in alto, e il san Gerolamo con loro: «Preponamo dunque le cose eterne alle fragili, le perpetue alle caduche, le stabili alle mutabili»: «della noiosa fortuna le forze sprezzemo, e le perturbazioni in

miglior stato transferiamo»”. E così la gioia eterna a quelle caduche l’hanno preposta gli eremiti Battista e Gerolamo, e il martire Sebastiano. Il Battista, nel quadro dello stesso Dosso a Brera, fa con la destra il gesto del disinteresse ai beni terreni, con tre dita piegate per non prendere, e insieme indicando verso

terra”; e lì a Modena, porta nel cartiglio le sue parole «Ego vox clamantis in deserto», come nel quadro della Palatina di Firenze (ov’è larga la zona dell’elaborazione immaginativa del pittore, ancora accesa dall’attrito con la natura: nel giovane santo, occhi più accostati e impressionati, barba morbida ancora, fra i

molti lampi di quell’oro nei bordi e con il color fragola del fondo). Sebastiano, nel quadro di Brera è anch'egli distaccato dai beni terreni sperando in quelli paradisiaci ed eterni, se il mondo si vede lontano, fuori da un arco, e se, come

un virgulto sbucciato, e bianco ed umido, egli si inarca con le mani avvinte a un albero d’arancio: giacché l’arancia, se viene compressa dà il dolce succo, e nel pensiero simbolico è figura di chi affronta le angustie della virtù non per esse, ma per una dolcezza ventura”: giacché anche in questo senso, «se la umana condizione si considerasse, più della voluttà seremo amici». In altro quadro”, tornan Natura e Filosofia nella persona d’una nuda dormente e d’una vecchia austera e stracciata. C’è inoltre la Virtù, come donna

giovane e forte. Questa, con una mano indica il cielo e con l’altra regge il coperchio d’un grande vaso: per la filosofia, dunque, la virtù innalza la natura dell’uomo, ma, come significa quel vaso, se questa ha sortito nascendo una

grande «capacità»*. Ad un più alto livello, in un quadro*' si esprime che la Natura, ancora nuda ma coi capelli intrecciati e con gioielli agli orecchi, e coltivata dunque nella potenza delle sue doti, è svegliata alla visione ulteriore da un genio celeste, in ordine, può essere, alla preghiera dell’Equicola, «E tu, o Genio che de mia vita custodia e tutela sei, o qualunque sei divo che tra celesti

spirti che della divina beltà beato te godi, pregote che per me pregar non te dispiaccia quel che è tutta beltà, me illumini a conoscere quel che è veramente et immutabile bello, e me tal esser insegni»*?. E questo accade anche per l’udito quando i virtuosi, «si trova anima generosa, docile e di acuto ingegno, e se con quella facondamente parlano, al bene la eccitano», e la sollevano «da terra in

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BELLEZZA E PENSIERO

alto»* — come Enea, in una storia del fregio del Camerino, avendo avuto il

privilegio di staccare il ramo d’oro, poté entrare vivente nei Campi Elisi —.

Quanto all’udito fra queste facoltà elevatrici, ricorderemo del Dosso il

quadro Horne a tema musicale, che rappresenterà Pitagora secondo Giamblico, quando egli, avendo «con l’aiuto di un dio» (e lì c'è un genio con la fiaccola) intuìto ai suoni d’una fucina le leggi matematiche della musica, entrato in quel luogo,

«dopo molte prove scoprì che la differenza nell’altezza dei suoni dipen-

deva dalla massa dei martelli»**: e lì ecco allora, accanto alla Musica che diletta

i sensi bassamente, seminuda e sgargiante e che si indica un calcagno, ecco la Musica che eleva l’intelletto, nuda e con gesto pudico, il volto verso l’alto, e sui

capelli un diadema che mostra la valva di conchiglia, simbolo dell’anima sciolta dalla carne, ed eterna: con dappresso una tabella ove il segno d’una musica segreta* rimanda l’intelletto al divino, come ci induce a pensare la sua scritta Trinitas in unum.

E quando Dafne lo sfuggì, Apollo le gridò anche: «per me concordant carmina nervis!»*. Fin dai popoli più antichi, scriveva l’Equicola, la poesia fu ritenuta un dono divino; e dai Greci, «prima filosofia» giacché essi ritenevano,

come dissero per primi i Pitagorici e Platone, «che ’l mondo tutto constasse di concento, et armonia, la quale per le sante Muse e, di quelle duce, Appollo, si

nomina». Nel quadro a tutti caro del Dosso, la luce che batte alla pari sulla guancia e fra ascella e ombelico, e su quell’avambraccio, liscio e forte, alzato: con lo scuro sulle gambe, del mantello, e con l’impeto dei capelli, castagni all’indietro; coll’ombra sul resto del petto. Nello sfondo di tutto questo, il

suono dell’oro delle fronde è più fresco, inaudito. E quanto alla potenza elevatrice che ha la facoltà della vista, la voce a noi

nota dell’umanista risuona dietro l’immagine del re Candaule che, come ha scritto Erodoto*, obbliga il suo fedele a veder nuda la regina, per constatare una bellezza che le parole non arrivano a far credere. Giacché «quella gente prava e lasciva che non conosce li misterii divini, subito che vede il bello se

eccita e petulantemente si sforza seguitarlo, et entrare in sì bel corpo: ma colui il quale è vero filosofo alla divina contemplazione dedito, vedendo bellezza del corpo, istima della divina forma di bellezza»®?.

Oltre che con la proporzione dei bei corpi, anche con l’astronomia e la geometria la vista esalta l’intelletto ai numeri e alle idee («se delle divinissime scienzie geometria et aritmetica li reconditi secreti a’ mortali fussero palesi, et

apertamente loro esposti, lo ignorante volgo non tanto li laudatori di quelle dannaria, maravigliandose che potenzia, che efficacia possa esser in line e numeri»): per questa via i filosofi si sono elevati al bene, al cielo”. In quadri che, benché alterati, mostran d’essere stati uguali lunette, e così forse parti

fig. 28

della decorazione d’una stessa stanza?” (un mantello color arancia da un ventre

giovane vi sale su nel vento, mutevole alle luci; e vi son carni forti colmate da libere pose, in sacre rivelazioni di bellezza), in tali quadri, dunque, ci son

filosofi ed evangelisti insieme, come ci son saggi antichi e Padri nella Libreria

L’EQUICOLA E IL DOSSO

81

del Castello di Trento: «Tali» - che elevano al bene e al cielo — «sono stati li filosofi, [...] tali li profeti ebrei, tali li promulgatori della evangelica legge per Cristo data»®... E con queste parole comprenderemo, del Dosso, le Sibille, e alla pari Santa Caterina d’Alessandria, fanciulla «di superiori studi liberali», nella quale inoltre «parlava lo spirito di Dio»®. E parimenti i due santi Giovanni della pala di Codigoro oggi agli Uffizi: estatici ambedue, e l’Evangelista e anche il Battista, qui presentato come profeta, e per il libro della Scrittura e per

l’«Ecce agnus Dei» sul cartiglio: giovane e uomo eppur grande, lui membra ed anima, presso l’altro che è come una vetrata e contro il sole e contro un vento agitato, schioccante.

Un nume (quis deus incertum est) ha mostrato anche in un mio inverno, sui monti fulvi e stormenti oltre l’automobile, un cielo a grandezze ed audacie; variopinto fra geli ed ardori in declinanti metamorfosi. Ma non è solo la profondità e l’umana tenerezza che accompagna per noi tali visioni, il dono proprio del Dosso. La sua disposizione contemplativa, che gli dètte fantasie gratuite e trasognanti, dovette indurlo anche a una vita di intime dolcezze, ritirata e difesa da violenze, burrasche, fatiche. L'Accademia permetteva con Cicerone (De officiis, 1, 31) di seguir le inclinazioni naturali: e così, se l’Equi-

cola quanto ai rapporti con gli umani seguiva la via di Cicerone stesso esprimendola con le parole «fugir negozii non fa l’uomo beato, anzi l’ozio e negligenzia induce a malancolia»”... il Dosso invece poté partecipare intimamente del desiderio di solitudine difesa e contemplativa, che al suo secolo era ispirato dal Petrarca del De vita solitaria, delle lettere, e d’altre opere. A questo desiderio, come tanti altri pittori, soprattutto fiorentini, del tempo, egli poté

dar figura con ritratti d’uomini in luogo separato, che con guanti od armi si difendon dalla sporcizia o dalla violenza degli altri*. Fuori, dice coi simboli un quadro oggi a Philadelphia, ci son burrasche e fatiche”, ma l’uomo lì indica il labirinto dell’onor mondano” e insieme contrae le altre dita per non prenderne alcunché®. Nel luogo separato c’è una dolcezza semplice com'è al gusto quella d’una perina di campo!°®, e lì infatti ce n’è una sul davanzale. E in altro

quadro!'°, accanto a un uomo difeso c’è una donna giovane e gentile, e con la musica del flauto di lei egli invece si sente in armonia; piega di lato, trasognando, la testa. 1993-1994

?® Pubblicato su «Artibus et historiae», 30, 1994.

fig. 29

NOTE

1 Vedi A. Luzio e R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, 2, «Giornale storico della letteratura italiana»,

XXXIV, 1899, p. 8, n. 1.

2 G. Robertson, Giovanni Bellini (1968), New York 1981, p. 134; H.E. Wethey, The Paintings ofTitian, London 1975, pp. 32-33; J. Shearman, Alfonso d’Este’s Camerino, in «Il se rendit en Italie» - Etudes offertes à André Chastel, Roma-Paris 1987, pp. 213, 221 (nn. 34, 35). è D. Goodgal, The Camerino of Alfonso d'Este, «Art History», 1978, p. 164.

4 D. Santoro, Della vita e delle opere di Mario Equicola, Chieti 1906, p. 173.

5 M. Equicola, Della natura d’amore (1525), Vinegia 1536, p. 222r. Da ora in poi questa opera in questa edizione, sarà per brevità citata

con il solo titolo. 6 Ibidem. ? Vasari-Bettarini pe 195:

e Barocchi,

6, testo,

8 Ch. Hope, The «Camerini d’Alabastro» of Alfonso d’Este, «The Burlington Magazine»,

1971, pp. 718, 649.

? Definibus, 4, 10, 25. 10 Della natura d’amore, p. 114v. 1! Ivi, pp. 205r-205v.

12 Annibale Roncaglia: vedi A. Venturi, La R. Galleria Estense in Modena, Modena 1882, p. 13:

1° Vasari cit., 5, testo, p. 417.

!* G.H. Thomson, The Literary Sources of Titian’s «Bacchus and Ariadne», «The Classical Journal», 51, 1955-1956, p. 259 ss. !5 Della natura d’amore, p. 2077. 16 Vedi E. Wind, Bellini’s Feast of the Gods

etc., Cambridge (Mass.) 1948, pp. 28-29. !7 Della natura d’amore, p. 202r.

18 In ordine al nostro argomento, vedi Ph. Fehl, The Worship of Bacchus and Venus etc., «Studies in the History of Art», 1974, pp. 61-67; Goodgal, op. cit., pp. 178, e 186 n. 70. 1° Della natura d’amore, p. 78r. 20 V. Golzio, Raffaello nei documenti etc., Cit-

tà del Vaticano 1936, pp. 75-76 (22 settembre 1518) e p. 93 (ultimo giorno del febbraio 1519). Il documento del 22 settembre 1518 è una lettera di Bernardo Costabili ad Alfonso d’Este, e vi è scritto che il duca potrà dire a un

garzone di Raffaello, che passerà per Ferrara, «quanto lo aveva a dire a Rafael circa la opera sua e da esso intenderà la bona disposizione de esso Rafael de servirla». Questo documento non è stato preso in considerazione da John Shearman nel suo saggio del 1987, cit., ma può (mi sembra) interessare la ricostruzione

dei rapporti di Raffaello col duca. 21 Vasari cit., 6, testo, p. 158; documenti in A. Mezzetti, Il Dosso e Battista ferraresi, Milano 1965, p. 135; P. Della Pergola, L’Inventario Borghese del 1693, «Arte antica e moderna»: 1964,.p.1219.s=c 451 .sar0.1965tp_ 023

Birmingham,

Barber Institute of Fine Arts;

Ottawa, National Gallery of Canada; Washington, National Gallery of Art. 2 M.

Equicola,

Instituzioni

etc.,

Milano

1541, p. 10 (non numerata) del testo. 23 Lettera di Enzo Bentivoglio a Scipione Borghese, del 12 marzo 1608 (in A. Mezzetti,

Il Dosso e Battista ferraresi cit., p. 135): «Quadretti a paesi con l’istoria di Troia»; Inventario

Borghese del 1693 (in P. Della Pergola, op. cit.), nr. 222: «un quadro longo con diverse figure e foco [...] del Dosi di Ferrara»; Eneide, 2, v. 385 ss.: «aspirat primo Fortuna labori», e

L’EQUICOLA E IL DOSSO

allora Corebo: «‘O socii, qua prima’ inquit ‘fortuna salutis / monstrat iter, quaque ostendit se dextra, sequamur”»: ...«Heu nihil invitis fas quemquam fidere divis!». 24 Nel dipinto di Birmingham già F. Zeri individuò la corsa nei giuochi siciliani, del quinto libro dell’Eneide (v. A. Mezzetti, Le «Storie di Enea» del Dosso etc., «Paragone»,

189, 1965, p. 72). Amalia Mezzetti (ivi, pp. 72-73) vi riconobbe anche episodi del primo libro, e di tutto fornì attente identificazioni: su

queste si potrà obiettare solo che il primo episodio a sinistra dipende da 1, vv. 210-215 e non già da 1, vv. 180-194, e che la colonna di fumo nello sfondo a destra, la quale non sale

da un mare visibile, molto probabilmente non

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ambedue grandi spade: meglio pensare che essi siano due comparse, e che nella zona mancante a destra fosse rappresentata, come contraltare alla sfortuna del naufragio, la speranza di

giorni migliori espressa da Enea nell’orazione dei versi 1, 198-207.

26 Il Vasari (ed. cit., 6, testo, p. 158) parla di «istorie di Enea, di Marte e Venere, et in una grotta Vulcano con due fabbri alla fucina»; il

citato Inventario borghesiano del 1693, al nr. 368, di «un quadro [...] con diverse figure nude e vestite e foco [...] del Dosi di Ferrara». Nella frase del Vasari propongo di interpretare il «Marte e Venere» come Venere nuda giacente con un ignudo, che però non sia Marte, bensì Vulcano nel momento precedente alla

sale dalle navi incendiate dalle troiane (5, v.

lavorazione delle armi di Enea, quando, dap-

604 ss.), bensì dal rogo di Didone (5, vv. 3-7), che conclude per quanto la riguarda il disegno del fato che è illustrato appunto sullo sfondo.

prima «cunctantem», Venere lo convince con lusinghe amorose sull’aureo talamo (Eneide, 8,

Del fato, per gli episodi qui illustrati, si parla

ai seguenti versi del primo libro: 262 (Giove, «volvens fatorum arcana»), 257-258

(«‘ma-

nent immota tuorum / fata tibi’»), 299-300 («ne fati nescia Dido / finibus arceret»), 392

(il volo dei cigni come «augurium»); nonché al v. 653 del quarto (la conclusione di Didone sul proprio destino). Non seguo Amalia Mezzetti nella sua conclusione — «un accostamento, questo degli episodi dei due canti, piuttosto singolare ed incongruo, che tuttavia non disdice alla disinvolta spregiudicatezza del Dosso» (ivi, p. 73) —, giacché in quell’accostamento vedo la contrapposizione tra virtù, e fato o

fortuna. 25 Eneide, 1, v. 207. Il quadro, oggi alla National Gallery di Washington, è descritto nell’Inventario Borghese del 1693 come rappresentante «figure, bandiere, vascelli, et altro», e

come largo quattro palmi contro i sette riferiti al suo compagno oggi a Birmingham (in P. Della Pergola, op. cit., nr. 390 e 112): esso era quindi già dimidiato o quasi. Oggi il suo tema è interpretato, in forza delle navi in carenag-

v. 370 ss.). 27 Inventario Borghese del 1693 (in P. Della Pergola, op. cit.), nr. 380: «un quadro [...] con marina e vascello grosso e tritoni in mare [...] del Dosi di Ferrara»: corrispondeva ad Eneide, 1, vv. 142-156, dov'è anche il confronto fra l’azione di Nettuno che calma le onde, e l’uomo autorevole che calma la sommossa.

28 Il quadro oggi ad Ottawa corrisponde al momento

narrato dall’Eneide ai vv. 6, 635 ss.

(A. Mezzetti, Le «Storie di Enea» cit., p. 72). Per confrontarlo con l’Equicola, vedi Della na-

tura d’amore, p. 77r. 29 A. Luzio e R. Renier, op. cit., 1, XXXIII,

1899, p. 22.

30 Vedi qui n. 20. 31 Vasari cit., 4, testo, p. 420.

3° Della natura d’amore, p. 116r. Ivi, pi 19x 34 M. Equicola, Instituzioni, cit., pp. 15-17,

11 (non numerate) del testo. 35 Lucullus, 33, 105. 36 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 9, 11, 84.

37 Seguendo le indicazioni di A. La Penna

gio e dei due personaggi a destra, come Enea ed

(Virgilio e la crisi del mondo antico, in Tutte le

Acate sulla costa libica (da Eneide, 1, v. 157 ss.):

opere di Virgilio tradotte da E. Cetrangolo, Fi-

ma a questa interpretazione c’è un ostacolo

renze 1966, p. XCIV), alludo a questi versi dell’Eneide: 4, 134; 6, 208-209; 5, 88-89; 7,

iconografico insormontabile, poiché la storia richiede che Acate porti l’arco e le frecce (Eneide,

1, vv.

187-188)

che serviranno

ad

Enea per abbattere i cervi di cui si pasceranno i naufraghi, e qui invece i due uomini portano

142-143; 10, 539; 8, 616. 38 D. Santoro, op. cit., p. 167. dui pat90. 40 Vasari cit., 6, testo, p. 158.

84

BELLEZZA E PENSIERO

41 Ivi, 4, testo, p. 420. 42 Per la Virtù come donna giovane e in

corazza, vedi C. Ripa, Iconologia, Roma 1603,

pp. 511, 509.

43 Vedi l’Adorazione dei Magi della National Gallery di Londra, e confrontala con la Giustizia, di Battista, che è a Dresda. 4 Cfr. F. Picinelli, Mundus symbolicus, 9, 9, 141.

ti, Ariosto, and Dosso Dossi, «Italian Studies», 1966, p. 23, n. 8). 71 Della natura d’amore, p. 215v. 72 Ibidem. 73 Paolo, Ad Romanos, 2, 6; Pietro, II ep., 3, 13-15.

74 Della natura d’amore, pp. 215v-216r. TNI0Ip "218% 76 C. Ripa, op. cit., p. 514 (Vita contemplati-

va).

45 Vedi Ripa, op. cit., pp. 162-163. 46 Della natura d’amore, pp. 195v-196v. SVI AT. 48 Ivi, pp. 116v-117v, 208r-208v. #9*Ipi, p.211v.

7RE*Picimellittopiatt, 97 0N 1120 115: 78 Della natura d’amore, p. 202r. 79 Roma, Galleria Borghese, inv. nr. 304 (cat. di P. Della Pergola, Roma 1955-1959, 1, ne 3 701ll.) è "FPicinelliog, ito 157259255:

5° Ivi, p. 198r. 51 Ivi, p. 200v. ivi, p. 195r:

81 From Tintoretto to Tiepolo, catalogo della

«Non refutamo la voluttà de’ sensi quanto so-

mostra, London (Heim) 1980, nr. 1; From Borso to Cesare d’Este etc., catalogo della mostra,

22 Ivi, p. 205r. Vedi anche,

stentazione de natura e nostro bene esser richiede». AGenestto nm 0=22) 54 Della natura d’amore, pp. 201v, 205r. 55 Ph. Fehl, op. cit., pp. 60-61.

203v-

85 Vedi L. Parigi, L’allegoria della musica di

20m p.I2051

Dosso Dossi al Museo Horne, «Rivista d’arte»,

58 C. D’Onofrio, Inventario dei dipinti del cardinal Pietro Aldobrandini etc., «Palatino», 1964, p. 162 (inv. di Pietro Aldobrandini, nr. 154;

inv. di Olimpia Aldobrandini, nr. 153). 5? Vedi qui n. 26. 60 Della natura d’amore, pp. 208r-208v, 196v, Sr

01 Ivi, p. 200r.

2 Vedi J. Toscan, Le carnaval du langage etc. (1978), Lille 1981, indice delle parole. Rin-

grazio G. Ghinassi per avermi segnalato quest’opera.

natura

82 Della natura d’amore, p. 83r. SSRlpi, poro2r 84 Giamblico, Vita pitagorica, a cura di L. Montoneri, Roma-Bari 1973, 26, 115-116.

56 Della natura d’amore, p. 111r.

9 Della

London (Matthiesen) 1984, nr. 40.

d’amore,

pp.

116v,

208v,

ISEE

°° pi, pa202V: 9 TVIIpIA195r

66 Eneide, 2, vv. 391-393.

’ «The J. Paul Getty Museum Journal», 1990, pp. 173-174. Ripr. a colori nel cat. Christie's New York, 11 gennaio 1989, nr. 1192?

98 Della natura d’amore, pp. 209v-210r. 69 Eneide, 4, v. 650 ss. 7° La scoperta della derivazione dalla favola

Virtus di L.B. Alberti è di J. von Schlosser, 1918 (vedi J.H. Whitfield, Leon Battista Alber-

1940, pp. 274-276.

86 Ovidio, Metamorfosi, 1, v. 518.

87 M. Equicola, Instituzioni cit., p. 1 (non numerata) del testo. 88 Erodoto, 1, 8.

89 Della natura d’amore, p. 81v. 200Iyi pi 78L: SRI prozr °° Secondo un parere di C. Volpe, riportato in From Borso to Cesare d’Este cit., nr. 41a, bre 9 Della natura d’amore, p. 82r.

% Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, ed. Th. Graesse, Dresdae et Lipsiae 1846, pp. 791, 1928

9 Della natura d’amore, p. 216r.

°% Svolgo questo tema in Ritratti petrarcheschi, riprodotto in questo libro a pr L25%5s! 97 Le fatiche, nel simbolo dell’asino carico (vedi F. Picinelli, op. cit., 5, 5). ? Per il labirinto come simbolo dell’onor mondano, vedi F. Picinelli, op. cit., 16,11, 97. 9 Vedi qui n. 76. 100 Vedi M. Levi D’Ancona, The Garden of the Renaissance etc., Firenze 1977, pi 298% 101 Venezia, coll. Cini.

Breve commento

alla Volta Sistina

per Paola Barocchi

A guardar la Volta Sistina si vede che le Storie della Genesi son concepite come dipinti e non come aperture: anche se raffigurano tanto cielo, da esse non

promana luce: i lati maggiori delle loro cornici sono l’uno ombroso, e l’altro chiaro secondo una luce che si diffonde da un varco che dobbiamo immaginare sopra l’altare: e che immaginiamo anche per l’ausilio di una striscia di cielo — color pervinca —; varco simmetrico ad altro — ugualmente con striscia di pallido

cielo - che è sopra l’ingresso: che però (e vaghiamo col pensiero su quel giorno interiore) non ha il sole dalla sua parte. Ho concluso da qualche giorno che in questa Volta i significati si svolgono su due piani differenti: l’uno, con pensieri attribuibili a Giulio II elaborati da

un biblista, e l’altro con pensieri di Michelangelo: il quale, quando ricordò che il papa gli concesse di far nella Volta quel che voleva!, avrà inteso dire che gli concesse di comporre liberamente la figura dei significati imposti: così che, fra l’altro, egli ottenne uno schema tale da potervene sovrapporre uno proprio ed autonomo. I discorsi del biblista sono due: e Michelangelo li ha distinti svolgendone uno in due narrazioni circondate da una conclusione comune; e un altro, in una sola con una sua conclusione che la inquadra. Per distinguere i due discorsi del biblista e per distinguer le parti loro, egli usa le strutture formali con una potenza che lo rispecchia intensamente. Le Storie della Genesi lungo l’asse maggiore della Volta, sono orientate in tal verso che per vederle a diritto seguendo il loro ordine cronologico, si deve osservarle a testa rovesciata, in successive soste di un percorso a ritroso dall’altare verso la porta. Tale percorso, non mirando all’uscita, non vi termina, anzi rimanda ad altre osservazioni all’interno della Cappella, e immediatamente ai

tondi come di rilievo, anch’essi narrativi, che le Storie inquadrano nei loro rientri e che bisogna ugualmente osservare con la testa rovesciata, procedendo verso l’altare ma via via girandosi verso sinistra e verso destra. Queste due narrazioni sono collegate anche dall’andamento rettilineo proprio di tutto ciò che si svolge nel tempo; infine, esse sono concluse da commenti impliciti nella

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BELLEZZA E PENSIERO

corona di Profeti e Sibille che le circonda: corona continua giacché, come vedremo, nei Profeti ai due ultimi livelli dall’uno e dall’altro lato breve, torna lo stesso significato. Dopo questo, il secondo discorso. Il secondo ha la narrazione negli Antenati di Giuseppe; e il commento, nei pennacchi che li inquadrano, ad essi collegati da analoghe incorniciature. Poiché gli Antenati si dovevan vedere tutt'intorno alla Volta, per non presentarli come continua corona, ma come successione nel tempo, Michelangelo li divise in due parti differenti, fra Amon e Iosia: cioè,

con l’ordine cronologico tramandato da san Matteo, fino ad Amon i gruppi di Antenati nominati nelle tabelle si susseguono da sinistra a destra attraverso la Cappella, e da Iosia invece, si susseguono da destra a sinistra; mentre al loro

interno, i personaggi son probabilmente (come vedremo) disposti prima da destra a sinistra, e, da Iosia in poi, da sinistra a destra. Questa narrazione in due

tempi è, dicevamo, inquadrata dal commento conclusivo che è il significato delle storie nei quattro pennacchi.

I discorsi del biblista, dunque, sono due. Il primo discorso espone, nelle

Storie, le origini della pietà e della empietà; nei medaglioni, vari esempi di empietà tratti dai Libri dei Re e dei Maccabei, ed esempi infine di pentimento e di timor di Dio: queste esposizioni son poi circondate da un commento secondo Profeti e Sibille, che parla di ira divina verso l’empietà, e di misericordia invece verso il pentimento. Il secondo discorso del biblista, con gli

Antenati di Giuseppe narra in successione una storia che parte dal timor di Dio e culmina nell’empietà, e un’altra che rappresenta il ritorno alla pietà, e

poi le inquadra con il commento dei quattro pennacchi, i quali posson significare che il credente è premiato e l’empio è punito, in questo e nell’altro mondo.

Le Storie parlan dell’origine della pietà e dell’empietà. Dopo il peccato dei Progenitori, che volevano essere «sicut dii», troviamo la scena del Sacrificio,

che non è né quello di Caino ed Abele, né quello di Noè dopo il Diluvio. Poiché ci sono troppi maschi giovani rispetto al primo, che non poté averne che due; e anche rispetto al secondo, che non poté averne che tre, e che inoltre

avrebbe dovuto, nell’ordine cronologico, seguire e non precedere, come accade qui, la contigua scena del Diluvio. Ma, intermedio fra la Cacciata e il Diluvio,

nella pagina della Genesi troviamo quello che forse siamo i primi a considerare per le Storie della Sistina: il versetto (4, 26) che suona «et Seth natus est filius, quem vocavit Enos: iste coepit invocare nomen Domini». L’altare è già come

lo prescriverà il Levitico, con il fuoco da nutrire di sotto?; il vecchio presso il

BREVE COMMENTO

ALLA VOLTA SISTINA

87

fuoco superiore sarà l’avo Adamo, che dopo aver generato Seth visse altri ottocento anni e generò figli e figlie*; l’uomo più giovane sarà dunque Enos, circondato dai pur giovani fratelli di suo padre. Noi non ignoriamo che l’efebo inghirlandato e velato è stato rifatto da Domenico Carnevali intorno al 1565, e che originali son solo i suoi avambracci, e le mani che ricevono dal sacrificatore l’adipe da offrire sull’altare in quei primi riti - così come è stato in gran parte rifatto il nudo che, davanti a lui, regge un ariete -; ma neanche ignoriamo che i restauratori sospettano che il Carnevali abbia rifatto queste figure su lucidi di compromesse parti originali‘. Ma in questa scena, che dunque diciamo della Religione di Enos o degli inizi

del culto divino, è da intendersi anche il significato di quel che avviene in secondo piano, dove una giovane donna accende al fuoco sacro un ramo, una tèda (e intanto, a quell’accensione lenta, il volto le si affoca e lei lo difende con

una mano): già nei poeti antichi e nel Poliziano la tèda è metafora di nozze’, e per questa via si può intendere perché il vecchio Adamo indichi il cielo, come a dirle grate a Dio (ed Eva, di profilo, guarda intensamente). Fuori, si vede la testa di bestie domestiche, anche di quelle che non furon sacrificate mai: ad

indicar forse, pensando a quel che scrive Flavio Giuseppe®, che qui non si tratta della stirpe di Caino che inventò le astuzie dell’agricoltura, ma di quella di Seth, che, come già Abele, avrà piuttosto tratto il necessario dalla spontanea

generazione degli animali. A ritroso (dunque) dopo questa scena continuando, vediamo il riquadro del Diluvio. Ci siamo chiesti quali siano i concetti che per il biblista ne avranno

motivato

la presenza:

forse quelli, che ci offre la Genesi?, della

«multa malitia» ed «iniquitas» dell'umanità che vi appare punita? No: vedremo che il séguito delle Storie si conclude con Cam che «cultum Dei a patre non accepit», e allora nei grandi testi sul Diluvio sceglieremo i concetti relativi alla religione di suo padre Noè, che d’altronde si collega al sacrificio di Enos, raffigurato sùbito prima. «Sine fide autem impossibile est placere Deo [...]. Fide Noe, responso accepto de iis quae adhuc non videbantur, metuens aptavit arcam in salutem domus suae [...]: et iustitiae, quae per fidem est, heres est institutus»*. (Impazienti, vorremmo fin da ora capire perché fra

i nuotatori 0 la gente che sale, l’immaginazione contemplativa abbia cancellato, e in noi ricancelli, le intenzioni... ed isoli immagini belle: spalle nude fuori dall’acqua, una testa meditativa, robusti e pur teneri petti... Ma questo

riguarda Michelangelo,

non

il biblista, di cui stiamo

parlando).

Con

l’Ebrezza di Noè, dove Cam indica il corpo svelato del padre, determinante

grado finale delle Storie, ricordiamo un passo delle Divinae institutiones di

Lattanzio — come necessario a ricostruire le intenzioni del biblista. Queste

Institutiones di Lattanzio son già presenti nella letteratura su Michelangelo, quale fonte necessaria per le sue Sibille; esse includono sulle Sibille anche un importante frammento

di Varrone. Ma su Cam, che nell’affresco indica la

nudità del padre, il quale per questo lo maledirà, vi si legge: «posteri eius

88

BELLEZZA E PENSIERO

Chananaei. Haec fuit prima gens quae Deum ignoravit; quoniam princeps

eius et conditor cultum Dei a patre non accepit, maledictus ab eo: itaque ignorantiam divinitatis minoribus suis reliquit»®. E infatti i Cananei furono idolatri, ed anche ebbero costumi contrari alla legge divina.

Ora comincia la seconda narrazione, in questo primo discorso del biblista. Siamo andati all’indietro fino alla porta, ed ora procediamo verso l’altare osservando i medaglioni: in ogni coppia per traverso, prima quello di sinistra

e poi quello di destra, per un’indicazione fondata sul significato, che ci vien dai due finali. Quei medaglioni esemplificano forse, nella prima coppia, la superbia; nella seconda e nella terza, l’irreligione; nella quarta, forse l’oltrag-

gio al padre - così che l’irreligione vi sarebbe colpa centrale e due volte riprovata. Osserviamoli partitamente, dunque appoggiandoci per l’iconografia a studi di Steinmann, Wind, Hope!°. Nella prima coppia, Antioco che cade dal carro e Ioab che uccide Abner: Antioco, «superbia repletus», «superbia repletus», colpito dalla mano di Dio''; Ioab, che uccide Abner «in dolo», facendo

«chiaramente conoscere come gl’uomini nati all’avarizia et alla ambizione, non è cosa la quale e’ non arrischino di fare mentre e’ non vogliono cedere ad alcuno»!?. Nella seconda coppia, l’Abbattimento di un idolo, con la semplicità con cui nella Bibbia vengon narrati quelli condotti da re di Giuda, Ezechia e Osia,

ognuno dei quali «contrivit statuas»'5; e di séguito la Punizione di Eliodoro per il suo tentativo di profanazione, quando «spiritus omnipotentis Dei magnam fecit suae ostensionis evidentiam»'*...

Nella terza: prima la Morte di Nicanor, raffigurata con sullo sfondo già appese le sue mani tagliate, a figurare che egli fu mutilato della «manus nefaria, quam extendens contra domum sanctam omnipotentis Dei, magnifice gloria-

tus est»!5. Nella stessa coppia, Alessandro davanti al Gran Sacerdote, da un’interpolazione premessa all’attacco del I libro dei Maccabei: figura di un esteriore rispetto per la religione, mutatosi in radice di male («radix peccatrix»... «recesserunt a testamento sancto et iuncti sunt nationibus»...)!°,

Alla quarta, un medaglione oggi abraso, e poi la Morte di Assalonne. Di com'era il primo d’essi si può trarre qualche spunto dall’incisione dell’intera Volta, pubblicata da Domenico Cunego nel 1780 (lo indicò Wind): vi si vede una donna che procede su un uomo riverso — e son nudi ambedue —!?; ma più

plausibilmente in ordine a quanto ricordiamo della Bibbia, un disegno di Giacomo Conca, e l’incisione di Luigi Fabri che ne deriva (siamo fra il 1823 e il 29), rappresentano in quel medaglione un uomo che aggredisce una donna tenendola per la gola — e son nudi ambedue —'*; sarà Thamar aggredita da Amnon? ma essa era «induta [...] talari tunica»!°. O non sarà forse una delle concubine di David violate da Assalonne per oltraggiare suo padre, in una

BREVE COMMENTO

ALLA VOLTA SISTINA

89

tenda alzata sulla pubblica piazza®? Certo è soltanto che nel medaglione a destra Assalonne appeso all’albero è ucciso, e così punito d’essere stato ribelle a suo padre. Dopo quattro coppie che esemplificano l’empietà richiamando punto per punto il significato delle ultime Storie, quella ultima e risolutiva: a sinistra, Elia che ascende sul carro di fuoco, e a destra il Sacrificio d’Abramo. Ad Elia i testi

dicono: «ungis reges ad poenitentiam» e «scriptus es in iudiciis temporum

lenire iracundiam Domini»?!; ad Abramo, cui il Signore chiese di sacrificare il figlio volendo mettere alla prova la sua pietà, l’angelo dice poi, a sacrificio

interrotto, «nunc cognovi quod times Deum»??.

Il significato dei due ultimi medaglioni ne collega l’uno ai Veggenti, e l’altro agli Antenati. Infatti l’ira di Dio e la richiesta di pentimento - alle quali doveva pensare molto il terribile Giulio II — potevano essere i significati della corona di Profeti e Sibille che circonda le due serie rettilinee di figurazioni dell’origine e di esempi dell’empietà; e invece la pietà e il timor di Dio tornavano più in

basso, nello stesso Abramo come primo degli Antenati di Giuseppe, che indicava il triregno e le chiavi sullo stemma del papa. I Nudi che reggono i medaglioni sembrano irrilevanti in questa serrata iconologia secondo pensieri da commentatori di libri sacri, e qui essi appariranno come ornamento, e come supporto di festoni di foglie e ghiande, allusivi

allo stemma di Giulio II della Rovere (ma a qualcosa di ben altro noi sappiamo che ci condurranno le loro libere ostensioni del corpo, quegli sguardi luminosi, le loro chiome ad anelli).

Per spiegare la presenza di Sibille in questa Volta, alcuni storici dell’arte hanno addotto le Divinae institutiones di Lattanzio, dove sono riportati molti

loro versi sull’unicità di Dio e sulla venuta di Cristo. Attribuendo versi precisi solo alla Eritrea, Lattanzio in proposito ne enumera dieci. Ma poiché nella

Volta ce ne sono cinque, ho coltivato dubbi sul messaggio messianico attribuito da alcuni autori a queste Sibille, che pur troverebbe facile conferma nei Profeti; e poi, estendendo la lettura a un’altra opera di Lattanzio, il trattatello De ira

Dei, vi ho letto: «Prophetae universi divino spiritu repleti nihil aliud quam de gratia Dei erga iustos, et de ira eius adversus impios loquuntur»... ma, ad addurre esempi anche umani per la vanità degli eruditi, «ea igitur quaeramus testimonia quibus illi possint aut credere aut certe non repugnare», cioè la testimonianza delle Sibille?. La testimonianza delle Sibille dunque, per l’ira di Dio verso gli empi: e a questo fine Lattanzio di Sibille ne ricorda cinque, cioè quante ne vediamo nella Volta”. Per prima egli ricorda la Eritrea come la

90

BELLEZZA

E PENSIERO

principale e la più nobile, e riporta suoi versi greci che significano «Incorruttibile fondatore eterno che abiti nell’etere, che dài ai buoni il bene come

premio abbondante, ma ai cattivi e agli ingiusti porti ira e furore»... Per seconda, Lattanzio ricorda la Cumana, dicendo che i suoi «volumina [...] in arcanis habentur»: ma, nelle Divinae institutiones, dai suoi «carmina» ben riporta, attraverso un poeta, «cum vero, deletis religionibus impiis, et scelere

compresso, subiecta erit Deo terra, ‘Cedet et ipse mari vector [...]'»?. Per terza, Lattanzio ne ricorda una che «annunzia a tutte le genti l’ira di Dio per l’empietà umana»; per quarta, una che adduce «l’indignazione di Dio verso

gli ingiusti» come causa d’un antico cataclisma per distruggerne la malizia, e che vaticina un’esplosione che di nuovo distruggerà «l’empietà umana»; per quinta infine, un’altra la quale «annuncia che bisogna amare il padre del cielo e della terra, per non far insorgere la sua indignazione a disperdere gli uomini». «Ex his», conclude Lattanzio, «apparet vanas esse rationes philosopho-

rum qui Deum putant sine ira». E sul tema dell’ira di Dio, ripeto che vedo convergere anche il significato dei Profeti della Volta, in ordine a quel passo citato del De ira Dei, che comincia

«prophetae universi divino spiritu repleti [...]». L’iconologo biblista può aver fornito a Michelangelo indicazioni per segnali che indirizzassero in questo senso chi interrogasse quelle grandi figure: la pittura infatti si fa più nitida che negli altri, in quei fanciulli che per Isaia ed Ezechiele fanno gesti significativi. Presso Isaia son due fanciulli impressionati, uno dei quali indica indietro, di

dove impetuosamente sopraggiunge — ma il profeta ne è distratto appena —: gli porta, credo, la notizia straordinaria della morte, in una notte, di centottanta-

cinquemila nemici, in attuazione d’una profezia ch’egli ha espresso? — e la fede del veggente, certo, non se ne stupisce —. Per l’Ezechiele un giovinetto indica, con una mano al cielo, e con l’altra sempre in su ma obliquamente: a Dio e al

nord, in ordine alle parole del profeta «gloria Dei dixit ad me: [...] leva oculos tuos ad viam aquilonis»: vi vide, nel popolo eletto «abominationes magnas»,

poi «abominationes maiores», e sentì infine il Signore che diceva: «Ergo et ego faciam in furore: non parcet oculus meus, nec miserabor: et cum clamaverint ad aures meas voce magna, non exaudiam eos»”7.

Troviamo a conferma un altro segnale del significato secondo ira di Dio, riguardando su nella Volta, ora, Daniele. Egli tiene aperto sulle ginocchia un libro vastissimo, che un fanciullo lo aiuta a sostenere; ha la destra appoggiata su

un quaderno di lato, come se scrivesse... ma non guarda né sul libro né sul quaderno — contempla invece, interiormente: «ego Daniel intellexi in libris numerum annorum de quo factus est sermo Domini ad Ieremiam prophetam,

ut complerentur desolationis Ierusalem septuaginta anni»?8... «desolationis Ierusalem». Isaia, Ezechiele, Daniele posson dunque figurare l’ira di Dio. Si trovano, essi,

nei tre gradi centrali di quella serie di Veggenti che circonda come un commento (o almeno, così mi sembra) l’esposizione delle origini dell’empietà e d’una sua

BREVE

COMMENTO

ALLA

VOLTA

SISTINA

DI

storia esemplare; e ci son fra di loro la Sibilla Eritrea e quella Cumana, con il significato, anch'esse, d’ira di Dio.

Maai due ultimi gradi, sia dal lato dell’altare che da quello dell’ingresso — a chi osserva da sinistra a destra mostrano Giona e Geremia, e Gioele e Zaccaria —,

nel significato l’ira di Dio sembra volgersi in misericordia verso coloro che si pentono. Giona indica, con l’una mano e con l’altra, in due sensi opposti, cioè in

quello comandatogli da Dio - Ninive -, e in quello dove si diresse per disobbedienza; è seminudo in relazione all’acqua del mare dove fu gettato e dove visse tre giorni, nel ventre del pesce: del pesce, che per ordine di Dio lo vomitò sulla

riva dopo ch’egli si fu pentito della sua disobbedienza; sullo sfondo appare inoltre la pianta che richiama la seconda storia di Giona, quella della sua predicazione a Ninive, del pentimento dei Niniviti, e della misericordia del

Signore verso di loro”... «Viri Ninivitae [...] poenitentiam egerunt in praedicatione Ionae», commentarono poi e Matteo e Luca, portandoli ad esempio?°. E

anche Geremia, che occupa presso Giona il penultimo grado, dopo aver parlato d’empietà (2 - 3, 5), lungamente esorta proprio al pentimento (3, 6 - 4, 4). Dal lato dell’ingresso, da sinistra a destra dunque, prima Gioele e poi Zaccaria. Anche Gioele: «Magnus enim dies Domini, et terribilis valde: et qui sustinebit eum? Nunc ergo dicit Dominus: convertimini ad me in toto corde vestro, in iciunio, et in fletu, et in planctu»: «omnis qui invocaverit nomen

Domini, salvus erit»*!. E nel primo attacco del libro di Zaccaria: «Factum est verbum Domini ad Zachariam [|...] prophetam, dicens: Iratus est Dominus super patres vestros iracundia. Et dices ad eos: Haec dicit Dominus exercituum: Convertimini ad me, ait Dominus exercituum: et convertar ad vos, dicit Do-

minus exercituum)».

La nostra rievocazione del primo «discorso» del biblista che può aver elaborato per la Volta pensieri di Giulio II, è finita. Ora ci attende la rievoca-

zione del secondo «discorso» dello stesso ignoto. Questo secondo discorso traspare, ci sembra, dalla serie di vele e lunette con gli antenati di Giuseppe secondo san Matteo??, e dai quattro pennacchi che le inquadrano (come abbiamo già detto) in analoghe incorniciature. A partire dalle due lunette iniziali dal lato dell’altare (che conosciamo solo indirettamente, poiché furon distrutte a far luogo al Giudizio), per seguir l’ordine della dinastia l’attenzione deve spostarsi da un gruppo su un lato a un gruppo sull’altro della Cappella, fino ad Amon

andando

da sinistra a destra. È già stato osservato;

ed è stato pure

osservato che dopo Amon l’attenzione deve passare a vela e lunette contigue sulla stessa parete a destra guardando l’altare, e poi continuare da Iosia fino a Giuseppe di nuovo spostandosi da un lato all’altro della Cappella, ma questa volta da destra a sinistra”.

92

BELLEZZA E PENSIERO

Io credo che l’inversione di senso sia segnata dove fra gli Antenati finisce l’empietà, e risorge definitivamente la pietà, giacché questo significano, come vedremo, da un lato il regno di Amon e dall’altro quello di suo figlio Iosia.

Diversa, come abbiamo detto, è fra la prima e la seconda parte anche la

disposizione dei personaggi all’interno delle lunette: come indican la prima e

l’ultima all’interno della prima parte, e l’ultima della seconda. Guardando i disegni e le incisioni tratti dalla lunetta con Abramo”, fondatore della dinastia, ve lo vediamo a destra, con il piccolo Isacco, e non a sinistra come avrebbe

richiesto il senso della lettura; e guardando poi la lunetta con Manasse e suo

figlio Amon, ultima della prima parte, intendiamo che solo il padre, il quale visse fino a sessantasette anni”, potrà essere l’uomo anziano a destra, e che il

figlio, essendo morto giovanissimo, dovrà essere riconosciuto come raffigurato da bambino fra le braccia della madre, a sinistra. Da leggersi invece da sinistra sarà l’ultima lunetta della seconda parte, dove Giuseppe sarà raffigurato

nel bambino a destra, non essendo riconoscibile nel vecchio torvo di sinistra, il

quale sarà dunque suo padre Giacobbe. Nella prima lunetta, oggi perduta, Abramo additava, come ben si vede in alcune copie a disegno, la tiara e le chiavi sul marmoreo stemma della Rovere che si trovava fra le due lunette, sotto il Giona e di fronte a un altro che si vede

tuttora nella parete dell’ingresso?’”. A Giulio II stesso poteva interessare particolarmente che l’esemplare pietà di Abramo e il suo timor di Dio - che, ribadia-

molo, eran anche i valori conclusivi della serie dei medaglioni - segnalassero l’autorità papale, in anni per essa tanto difficili come

furon quelli della

Volta. Ma da Abramo ad Amon si vedeva la successione degli antenati di Giuseppe come segnata da una sostanziale diminuzione della pietà, senza tener conto, ad

esempio, dell’interposta ma isolata pietà di Ezechia. La lettura della Genesi, e soprattutto dei Libri dei Re, darebbe abbondante materia per tale conclusione, ma questo vuol essere un commento breve. Da Salomone in poi, come esempi noteremo i rapporti dei re con gli «excelsa», i luoghi di culto instaurati sui

monti agli idoli d’altre nazioni. «Aedificavit Salomon fanum Chamos idolo Moab in monte qui est contra Ierusalem, et Moloch idolo filiorum Ammon»**: dopo i re peccatori Roboam e Abia, Asa «excelsa non abstulit»®, Iosaphat «excelsa non abstulit»*°, Ioram «excelsa fabricatus est in urbibus Iuda»*!, Ozia «excelsa non est demolitus»*, Ioatham «excelsa non abstulit»*, Achaz «im-

molabat [...] victimas et adolebat incensum in excelsis et in collibus»*; se gli uomini di Ezechia «demoliti sunt excelsa»*, suo figlio Manasse «aedificavit excelsa quae dissipaverat Ezechias»*, ed Amon

«fecit malum

in conspectu

Domini, sicut fecerat Manasses pater cius»‘?.

Ma la pietà risorge con re Iosia. Questo era stato annunziato dal Signore per

bocca di un profeta, che rivolgendosi a un altare aveva detto che Iosia vi avrebbe immolato «sacerdotes excelsorum»*. E infatti Iosia profanò «excelsa [...] quae aedificaverat Salomon»*, dando un nuovo corso, quanto alla pietà,

BREVE COMMENTO

ALLA VOLTA SISTINA

93

alla dinastia di Giuseppe: nel senso giusto, dunque, fra tanti discendenti oscuri, sono Zorobabel, che fu uno dei restauratori del culto dopo la servitù babilonese, e soprattutto la figura conclusiva, il padre putativo di Cristo. Tale esposizione è, dicevamo, incorniciata nello stesso modo dei pennacchi, e questi la inquadrano, così come i Veggenti circondano a corona le esposizioni del primo «discofso». Nei pennacchi, come già nei Veggenti, potrà esser dunque il commento delle vicende, ed esso dirà forse così, come abbiamo anticipato: il credente è premiato e l’empio è punito, in questo e nell’altro mondo. Il commento inizia dove è finita l’esposizione, cioè nella parete d’in-

gresso. Il primo pennacchio nel senso della lettura raffigura Giuditta mentre si sta ritirando dopo aver decapitato Oloferne: al ritorno fra i suoi dirà che il Signore «non deseruit sperantes in se». Nel secondo, sapendo che Golia aveva ingiuriato «David in diis suis», vediamo in atto quel che David aveva previsto: «Dabit te Dominus in manu mea, et percutiam te et auferam caput tuum a te». Voltandosi poi verso la parete dell’altare, nel pennacchio di sinistra, tratto dal Libro di Ester, non vediamo ordine storico interno, ma con-

vergenza verso il centro di due conclusioni significative: Aman fatto crocifiggere da Assuero per le sue perfidie,

e Mardocheo

che invece, seduto sulla

soglia della reggia, riceve da Aman stesso l’annuncio degli onori che il re ordina per la sua fedeltà" — punizione e premio in questo mondo. Alla punizione e alla ricompensa nell’altro, può invece rimandare Il serpente di bronzo. Nel deserto, il Signore disse per gli Ebrei assaliti dai serpenti: «qui percussus aspexerit eum, vivet»*, ma san Giovanni vi vedrà un’allegoria, della salvezza

attraverso il Figlio di Dio, o del giudizio tremendo - «Qui credit in eum non iudicatur: qui autem non credit, iam iudicatus est». E che questa sia la conclusione del secondo commento del biblista iconologo, conclusione improntata, come quella del primo, al timor di Dio, può confermarlo il tema del

Giudizio universale per il grande affresco che lo stesso Michelangelo condurrà dopo molti anni sulla contigua parete dell’altare.

Con improvvisa e profonda rottura, portiamo qui la sofferta conoscenza che Michelangelo aveva di sé. Fin dai primi anni i suoi occhi si volgevano alla bellezza®: e lui: «la forza d’un bel viso a che mi sprona? / C”altro non è c’al mondo mi diletti»*?. Il senso d’essere in colpa**, ma poi il pensiero del destino impostogli, alto nella vocazione®. E con tre «discorsi», semplici e nudi, nella Volta egli dà figura a pensieri sull’immaginazione, la bellezza, l’amore, se-

condo il «foco» cui era stato destinato®°. Nelle Storie c'è un frammento di suoi pensieri sull’immaginazione —- come frammenti di poesia son talvolta sui fogli dei suoi disegni. Dall’una all’altra delle Storie che lo riguardano da giovane, l’aspetto di Adamo muta: e anche questo significa che l’arte del suo autore riflette non la realtà, ma la mutevole

94

BELLEZZA E PENSIERO

immaginazione. Adamo vi è bellissimo nella figura delle parole «creavit Deus

hominem ad imaginem suam; ad imaginem Dei creavit illum»9!, ove egli è

contemplato nella sua purezza di «leggiadro» specchio di Dio*; non è più immaginato così bello, invece, nella partecipazione a vicende, che in più

hanno a che fare con la generazione. Michelangelo dunque immagina da

contemplativo, e nelle Storie sùbito e semplicemente trasceglie, isola, gli ele-

menti belli... e così interrompe lo svolgimento. Egli è dunque intimamente

«proporzionato»? alla statuaria, e in questo senso sarà da intendersi il «non

sendo [...] io pittore»

di un verso che parla della Volta; e pure sarà da inten-

dersi l’isolamento che abbiamo intuìto, di spalle nude fuori dall’acqua, di una testa meditativa, di robusti e insieme teneri, bellissimi petti, nel Diluvio.

Su immaginazione e bellezza, Michelangelo si esprime più organicamente attraverso una scala di eminenze che ha come gradi a crescere l’architettura della Volta, le pitture che essa sostiene, i bassorilievi narrativi, le figure ad altorilievo, le statue di putti, i Nudi, i Veggenti: gradi di eminenze che poi

corrispondono nel cuore a passaggi dalla superficialità alla profondità”. Tale scala di eminenze immaginative è fondata su un passo di Plotino e maggiormente sulla parafrasi ficiniana”’, e più avanti negli anni sarà da Michelangelo

espressa anche con i versi «Mentre c’alla beltà ch’i’ vidi in prima / appresso l’alma che per gli occhi vede, / l’immagin dentro cresce, e quella cede / quasi vilmente e senza alcuna stima». Ancora più tardi sarà espressa in iscritto da Michelangelo la minoranza della pittura rispetto alla scultura, e della scultura pittorica rispetto a quella sostanzialmente tale®. L’eminenza - che nel cuore è profondità - dei Nudi e dei Veggenti, gradi ultimi, certamente noi la ricordiamo detta, luminosa e ferma, nei versi del loro

autore. Nei Nudi, il corpo giovane, gli occhi che somigliano alle stelle?°: velo «leggiadro» e, anche se «mortale», pur sempre immagine di Dio”, e perfettibile ed eterno nella resurrezione della carne — se alla grandezza che attende il corpo nella resurrezione rimandano sul piano simbolico le ghiande”?, altrimenti araldiche, dei festoni che circondano quelle nude creature. Ma, così com’è in questa vita, molti di quei corpi son di proporzioni imperfette, a suggerire che «mortal bellezza» non è tale da arrestare l’ardente desiderio di ritorno, sceso «insieme / dal ciel con l’alma»: questo dunque «pass’oltre», passa

alla bellezza interiore dei Veggenti invasi di spirito celeste — giacché «nessun volto fra noi è che pareggi / l’immagine del cor»??. Il discorso sull’amore secondo il suo destino al «foco», Michelangelo lo ha espresso, credo, con la parte bassa della Volta - dove pennacchi e Antenati sono compresi nella stessa incorniciatura, e circondano i Veggenti, nei quali abbiamo

visto culminare il discorso sulla bellezza. Nei pennacchi il corpo umano è figurato come memoria di «immensa bellezza»? nell’Aman crocifisso e negli ebrei tormentati dai serpenti, ma anche distorto dalla sofferenza; nell’Oloferne e nel Golia, poi, esso è mutilato. Amare i bei corpi umani non è una colpa, dirà

Michelangelo, se questo è il primo gradino dell’elevazione, «se poi sì lascia

BREVE COMMENTO ALLA VOLTA SISTINA

95

liquefatto il core, / che ’n breve il penetri un divino strale»?5. Ricordando ora che nel precedente «discorso», scultura a tutto tondo e bellezza umana sono

contigue nella scala di immaginazioni di Michelangelo, potremo collegare a quei bei corpi mutilati o distorti quel che l’autore scriverà sull’immagine scultorea di corpi umani, parimenti lesa: Se po’ ’l tempo ingiurioso, aspro e villano la rompe o storce o del tutto dismembra, la beltà che prim’era si rimembra,

e serba a miglior loco il piacer vano”. Ancora dunque l’origine divina della figura umana, perfettibile ed eterna

nella resurrezione come possono dirci le ghiande simulate nella cornice a rilievo marmoreo; ma d’altronde anche, come alcuni nudi sono (lo abbiamo

visto) sproporzionati, qui grandi e avvenenti figure sono lese, a far pensare che in questa vita la bellezza umana è imperfetta e fragile, e l’ansia di spirituale

felicità deve tendere oltre, «a miglior loco». «L’amor di quel ch'i’ parlo in alto aspira», «e mal compres’è dagli umani ingegni, / chi ’l vuol saper convien che prima mora»”: e del carattere scorporato di questo amore ce ne dicono altri versi — «chi v’ama con fede / trascende a Dio e fa dolce la morte»; «’l nostro fa perfetti / gli amici qui, ma più per morte in cielo»?* —, e ce ne dicono, simbolicamente, le valve di conchiglia senza più

mollusco”? dipinte fra l’una ghianda e l’altra nella cornice a fregio marmoreo intorno ai pennacchi e agli Antenati, e presso i Veggenti. L'amore dunque per chi porta un afflato divino, «è un concetto di bellezza / immaginata o vista dentro al core»®°, e può arrivare alla felicità di dirgli: «Col vostro ingegno al ciel sempre son mosso»*!. Nel «discorso» di Michelangelo si segnalano come soggetti di quest’amore, cioè come amanti, i discepoli fanciulli che stan vicino ad

ogni Ispirato: talvolta deboli, ma più spesso premurosi, giovanilmente servizievoli, partecipi. Portan sotto braccio un rotolo o un grande libro; leggono da per sé o da sopra le spalle del maestro; mentre uno si stropiccia gli occhi, il compagno impetuosamente accende lui la lucerna alla sibilla; uno fa da leggio al suo profeta, lieto di servire, come dice Platone*; altri infine stanno anch’essi, come il profeta, pensosi ed avvolti. Ma mentre i fanciulli ben mostrano

l’amore che portano ai maestri, questi non si curano di loro: del platonico e ficiniano scambio d’amore fra due bellezze diverse, l’amore per la bellezza visibile e tanto esposta ad umane debolezze, è, a questo grado del «discorso» di

Michelangelo, già superato: anche visivamente, se quasi tutti i fanciulli (meno che i tre che son messi in evidenza per l’iconologia del biblista) son nella pittura, e prima dunque nell’immaginazione, meno risaltati dei Veggenti, i quali in tutto prevalgono. Più che il Simposio, ne risuona il commento ficiniano, e per l’amore verso la bellezza visibile — di cui l’anima a questo punto si

è spogliata —, e per l’amore verso la bellezza dello spirito.

fig. 30

96

BELLEZZA E PENSIERO

Queste sono, allora, le parole del Ficino** sul grado di amore che a questo

punto è stato trasceso: «corporis pulchritudo nihil aliud est quam splendor ipse in colorum linearumque decore»; «solo aspectu amator corporis est contentus»; «pulchritudo denique inter amantes pro pulchritudine commutatur. Iu-

nioris amati pulchritudinem, vir oculis fruitur»: «qui solo animo est decorus, corporis oculos explet corporis pulchritudine. Mirifica plane commutatio est,

utrique honesta, utilis et incunda. Honesta siquidem par in utroque: aeque enim honestum

est et discere et docere. Iucunditas in seniore maior, qui

aspectu et intelligentia delectatur». Ma, ripetiamolo, tutto questo, pur commovente, è, a questo grado, trasceso. Conchiglia senza più mollezze, l’anima ha

tale purità nell’amore: «Animi [...] pulchritudo fulgor in doctrinae et morum concinnitate»: «lucem [...] illam et pulchritudinem animi, sola mente comprehendimus. Quare solo mentis intuitu contentus est qui animi pulchritudinem expetit»; «viri pulchritudinem, iunior mente consequitur: et qui solo corpore formosus est, hac consuetudine fit et animo speciosus»: «in iuniore vero maior

utilitas: quo enim praestantior est animus corpore, eo preciosior est pulchritudinis animi quam corporis consecutio». «L’amor di quel ch’i’ parlo in alto aspira»: e gli amati per il loro spirito, sono nell’immaginazione grandiosi; e — ancor più che sui corpi prestanti e lesi, amati nel ricordo della loro passata bellezza — essi prevalgono sull’umanità minore e crepuscolare delle vele e delle lunette, dèdita a trasmettere non già la saggezza, ma solo, con la generazione, la vita fisica: qui torpore e noia, solitu-

dine, abbandono e gesti inutili, nutrizione ed infanzia: L’amor di quel ch’i’ parlo in alto aspira; donna è dissimil troppo; e mal conviensi

arder di quella al cor saggio e verile. L’un tira al cielo, e l’altro in terra tira84. 1996

è® Scritto per una miscellanea di studi in onore di Paola Barocchi (Milano, Riccardo

Ricciardi editore).

NOTE

! Vedi la lettera di Michelangelo, da Firenze, a G.F. Fattucci, a Roma, del dicembre 1523, in Ch. de Tolnay, Michelangelo, Princeton

1947-1960,

2, pp. 248-249.

L’invito

a

considerare nei suoi termini storici la libertà

concessa da Giulio II a Michelangelo di far nella Volta quello che voleva, è già in H. von Einem, Michelangelo, Stuttgart 1959, p. 55, e in H. Fillitz, Zum Problem der Deckenfresken Michelangelos in der Sixtinischen Kapelle, «Ròmische historische Mitteilungen», 1985, p. 401.

2aEevitico6, 12. 3 Genesi, 5, 4. 4 G. Colalucci, Stato di conservazione, in Michelangelo e la Sistina - La tecnica il restauro il

mito, catalogo della mostra (Venezia), Roma 1990. Vedine una riproduzione chiara in F. Mancinelli - A.M. de Strobel, Michelangelo - Le lunette e le vele della Cappella Sistina, Roma 1992, p. 112, fig. 111. Noi però preferiamo

pensare che si trattasse di lucidi parziali, poiché due parti di affresco originale tra i veli rifatti che avvolgono le gambe dell’efebo, rivelano l’uno il cielo, e l’altro lo stacco fra la parete del fondo e lo spigolo dell’altare... e

così ci dicono che il cielo e quello stacco si vedevan da un lato e dall’altro di una coscia senza veli. 5 Del Poliziano, vedi il verso «Or vada e

biasmi la teda legittima!», detto dalla baccante che porta la testa mozza del protagonista, verso la fine della Favola di Orfeo. 6 Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, 1, 54. GENESINONIA

N LINO RO

8 Paolo, agli Ebrei, 11, 6-7. ? Lattanzio, Divinae institutiones, 2, 14 (Patrologia Latina, 6, col. 327).

!° Svolgendo un'indicazione del Vasari (vedi ed. Bettarini e Barocchi, 6, testo, p. 40), E.

Steinmann (Die Sixtinische Kapelle, Minchen 1901-1905, 2, pp. 261-272) precisò l’iconografia dei medaglioni riferendosi solo al Libro dei Re. Al confronto ha rappresentato una grande apertura il saggio di E. Wind, Maccabean Histories in the Sistine Ceiling (in Italian Renaissance Studies - A tribute to the late Cecilia M. Ady, London 1960, pp. 312-318), che ha

aggiunto come fonte i Libri dei Maccabei, e mutato i temi di David e Nathan, dell’ Uccisione dei figli di Achab, della Morte di Uria, in quelli, rispettivamente, di Alessandro il Grande davanti

al Gran Sacerdote (da un’interpolazione del traduttore N. Manerbi), della Morte di Nicanor (con riferimento a Maccabei, 1, 7, 43-47), e della Punizione di Eliodoro (Maccabei, 2, 3,

25-27). Più tardi, Ch. Hope (The medallions on the Sistine Ceiling, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1987, pp. 201-202)

corresse l’iconografia della Morte di Ioram in quella di Antioco Epifane che cade dal carro (da Maccabei, 2, 9). Per l’iconografia del medaglione con la distruzione di un idolo, non resto

convinto né dalla soluzione di E. Wind (op. cit., p. 320) né da quella di Ch. Hope (op. cit., p. 202): ma per questo, vedi, qui di séguito, la no13: 11 Maccabei, 2,9, 7 e 8. 12 Re, 2, 3, 27. Flavio Giuseppe, op. cit., 7,

37 (trad. di F. Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei, Vinegia 1581, p. 300). 13 Per l’iconografia di questo medaglione, E. Wind (op. cit., p. 320) adduce Re, 4, 10, 25-27, e Ch. Hope (op. cit., p. 202) adduce Maccabei, 1, 2, e la relativa illustrazione xilo-

grafica nell’ed. Venezia 1493 della Bibbia tra-

98

BELLEZZA E PENSIERO

dotta da N. Manerbi. Osservo che né il primo né il secondo dei passi addotti da questi autori corrisponde alla semplice distruzione di una statua, che è figurata nel medaglione (Re, 4,

26 Re, 4, 19, 20-35; Isaia, 37, 21-36. 27 Ezechiele, 8, 4-18. 28 Daniele, 9, 2. Atari dep 9 dei 6) Sl)

10, 26-27: sotto Iehu «protulerunt statuam de fano Baal, et combusserunt, et comminuerunt

30 Matteo, 12, 41; Luca, 11, 32.

eam»; Maccabei, 1, 2, 23-25: «accessit quidam

31 Gioele: 2, 11-12; 2, 32. 32 Matteo, 1, 1-16. 33 Ch. de Tolnay, op. cit., 2, p. 79, descrive

Iudaeus in omnium oculis sacrificare idolis super aram in civitate Modin secundum iussum regis»: Mattatia «trucidavit eum super aram. Sed et virum, quem rex Antiochus miserat, qui cogebat immolare, occidit in ipso tempore

«the zigzag sequence» e l’interruzione che essa subisce fra Ezechia-Manasse-Amon e IosiaIeconia-Salathiel. Recentemente A. Pappas (Observations on the Ancestor cycle of the Sistine Cha-

et aram destruxit»). Osservo inoltre che l’illu-

pel ceiling, «Source», XI, 2, 1992, p. 27) scrive:

strazione xilografica del 1493 addotta da Ch. Hope ha dei riferimenti alla storia di Mattatia

a Modin, che il medaglione michelangiolesco non porta affatto: per terra, quattro morti, due dei quali sembrano vecchi, a illustrare le paro-

«a structural feature in the program — the break in the alternating pattern of the ancestor cycle - alludes to the captivity, which, however, does not occur at the logical point between the last king of Judah, Josias, and the

certezza di Ch. Hope su una derivazione di

first captive king, Jechonias. Instead, it occurs between Josias and his father, Amon»: a svalutare la possibilità che l’interruzione (cui segue un’inversione di senso) dipenda dall’esilio a Babilonia, aggiungo che nel vangelo di Matteo (1, 17) quell’esilio è sì un punto di riferimento in ordine alla dinastia di Giuseppe, ma

Michelangelo dalle illustrazioni di quella Bib-

alla pari della vita di David, la quale invece

bia non ha, per me, evidenza visiva). Un sem-

non incide sulla così detta «zigzag sequence». 3 Vedili riprodotti in Michelangelo e la Sistina, cit., p. 152 (Rugby, Rugby School, Art

le «ne le piaze si sono stati occisi li suoi vechii,

et si sono cascati li suoi gioveni nel coltello de li nimici»; e, dietro la figura che abbatte l’ido-

lo, una armata di spada che aggredisce un uomo con la barba, cioè Mattatia che aggredisce il Giudeo idolatra (potrei aggiungere che la

plice «contrivit statuas», che sembra corrispondere all’iconografia del medaglione, è nella Bibbia riferito ad Ezechia (Re, 4, 18, 4) ed a Iosia (ivi, 4, 23, 14). 14 Maccabei, 2, 3, 23-27. 081010215

Museum); p. 154 (Oxford, Ashmolean Mu-

seum); p. 156 (Windsor Castle, Royal Collection); p. 222 (A. Scultori, incisione); p. 157

6926151932-215-435(

16 Per l’iconografia, vedi qui n. 10; quanto al significato, le parole della Vulgata che ripor-

(incisione di W.Y. Ottley da disegni cinquecenteschi).

to nel testo sono da Maccabei, 1, 1, 11 e 16. 17 E. Wind, op. cit., pp. 320 e 321, e fig. 28.

35 Re, 4, 21, 1; Paralipomeni, 2, 33, 1. 3 Re, 4, 21, 19; Paralipomeni, 2, 33, 21.

18 Vedi La Sistina riprodotta, a cura di A. Moltedo, catalogo della mostra, Roma

1991,

cat. D34/20, e cat. 34/20. LIRex 21318) 200221 6422:

21 Ecclesiastico: 48, 8 (cfr. Re, 3, 19, 15-17); 48, 10.

22 Flavio Giuseppe, op. cit., 1, 223; Genesi, DADA

23 Lattanzio, De ira Dei, 22 (Patrologia Lati-

na, 7, col. 141-142). 24 Ivi, 22-23

142-145).

(Patrologia

®7 Fra le copie delle due prime lunette della serie (distrutte nel 1534 per far luogo al Giudizio), due disegni, oggi a Rugby e ad Oxford, portano sotto il Giona la figura di un putto; invece, un disegno oggi a Windsor, e le più tarde incisioni di W.Y. Ottley da disegni che non ci sono noti, portano uno stemma della Rovere sovrastato da tiara e chiavi, simile a quello che, nella parete dell’ingresso, sta tuttora sotto lo Zaccaria (vedi, qui, n. 34). Arnold

Nesselrath, nel citato catalogo Michelangelo e la Latina,

7, col.

25 Idem, Divinae institutiones, 7, 24 (Patrologia Latina, 6, col. 810).

Sistina, sostiene l’attendibilità delle copie di

Rugby e di Oxford dicendo prima (p. 152) che il putto che vi si vede al posto dello stemma è in ambedue «lo stesso» — mentre nelle conti-

BREVE COMMENTO

gue illustrazioni esso appare diverso -, e poi (p. 155) che l’attendibilità del disegno di Oxford «non viene sminuita neanche da alcuni errori e divergenze» che egli elenca di séguito, fra i quali la «piena confusione circa

IL ZACHERIAS (trascritto come ZACHARIAS), sotto il quale egli ha ricostruito [...] un putto che non c’era, come ci conferma il grande stemma di marmo dei Della Rovere che ancora oggi si trova lì». Solide indicazioni in senso opposto vengono da una memoria stesa da B. Biagetti dei Musei Vaticani quando, nel

1925, gli vennero mostrati vari disegni riproducenti gli affreschi della Sistina. In quella memoria egli scrisse: «Sono una fedele riproduzione di quell’opera insigne e sono particolarmente interessanti quelli che si riferiscono alle due lunette e al Giona, sopra il Giudizio. Le lunette rappresentano Abramo, Isacco ecc., ed evidentemente corrispondono all’ori-

ginale, come corrispondono tutte le altre. [...] Nel disegno del Giona è notevole la subita variante al di sotto della targa, ove, nel disegno, appare lo stemma di Sisto IV, simile, ma

non eguale a quello ancora esistente sul peduccio opposto nella parete d’ingresso. [...] Nel disegno la tiara dello stemma sormonta la targa fin verso la scritta Jonas: e infatti tale parola risulta non nella metà della targa, ma nella parte superiore; precisamente come nel disegno» (D. Redig de Campos - B. Biagetti,

ALLA VOLTA SISTINA della Rovere con tiara e chiavi. Re

81107)

9? Ivi, 3, 15, 14. Vedi anche Paralipomeni, 2

4° Re, 3, 22, 44. Vedi anche Paralipomeni, 2, 20803! 4! Paralipomeni, 2, 21, 11. dorRer43 1544 #04

N15 N35

4 Ivi, 4, 16, 4. Vedi anche Paralipomeni, 2, 28, 4.

45 Paralipomeni, 2, 31, 1. Vedi anche Re, 4, 18, 4.

4° Re, 4, 21, 3. Vedi anche Paralipomeni, 2, SEE CERCNAR2A1T20) ILFIVIM N19

49 Ivi, 4, 23, 13: ma vedi anche tutto il cap. 237

Digi, 26, liGiuditia ni3017) Rail elise di SEEM AO Z10]

54 Numeri, 21, 8. 55 Giovanni, 3, 18.

56 Rime (consultato nell’ed. a cura di E. Barelli, Milano 1975), 39. SB pIN2/0] 28RIyy: 9709279! 59 Ivi, 164. OOTVI SOTA

ola Genesto027à 62 Rime, 106.

servazioni,

SS SII

appena

riportate,

noteremo

che,

6° Ho già svolto questa interpretazione in

e ZACHERIAS sono nella parte superiore delle relative tabelle, mentre gli altri sono sul centro, e anzi in quattro casi sono divisi esattamente a metà da una mezzeria incisa nell’intonaco (vedi AA.VV., La Cappella Sistina - La

Scale di immaginazioni, «Artista», 1993, pp. 212-214 (ripr. in questo libro, pp. 101-102). 66 Enneadi: 4, 3, 30; 4, 3, 31. 67 M, Ficino, In Plotinum: 4, 3, 30; 4, 3, 31

volta restaurata:

(in Opera, Basileae 1576, pp. 1739-1740).

il trionfo del colore, Novara

1992, pp. 120, 162, e pp. 128, 132, 144,

148). Ancor oggi possiamo vedere che il nome ZACHERIAS è posto tanto in alto per non esser schermato dallo stemma marmoreo della Rovere, con tiara e chiavi, il quale sporge al di sotto: orbene, il caso del nome IONAS è identico, e allora dovremo ammettere che an-

ch’esso aveva al di sotto un marmoreo stemma sporgente — quello che il disegno di Windsor e le incisioni di W.Y. Ottley dichiarano essere,

come

sotto

lo Zaccaria,

uno

stemma

»

LOS1zS

Il Giudizio Universale di Michelangelo, Roma 1944, p. 9, n. 2). Al séguito delle ultime osfra i nomi dei Veggenti della Volta, solo IONAS

99

68 Rime, 44.

6° Michelangelo, lettera a B. Varchi sulla maggioranza delle arti, in Trattati d’arte del Cinquecento etc., a cura di P. Barocchi, Bari

1960-1962, 1, p. 82. 70 Rime, 107. 71 Ivi, 106.

72 Vedi F. Picinelli, Mundus 32, 421.

73 Rime: 276, 49. 74 Ivi, 260.

symbolicus, 9,

100

BELLEZZA E PENSIERO

75 Ibidem.

opera di Michelangelo, le tombe della Sagre-

(Ot 237,

stia 80 81 82

21 Tvi: 260160.

7 Ivi: 83,105.

7° La valva di conchiglia come simbolo dell’anima scorporata, assai frequente nella scultura fiorentina del Quattrocento (basti pensare al monumento Marsuppini), torna in un’altra

Nuova. Rime, 38. Ivi, 89. Simposio, 184 b-e.

83 M. Ficino, In Convivium Platonis de amore, Commentarium, 9, in Opera, cit., p. 1328.

84 Rime, 260.

Scale di immaginazioni

I nostri occhi quasi non vedono, se più attentamente l’immaginazione si

applica ad altro. Tra fantasmi interiori, poi, quelli di una specie impallidiscono e cedono se ne sopravvengono altri di una specie più potente. Plotino ne parla nelle Enneadi (4, 3, 31), dicendo che nell’immaginazione l’anima legata ai sensi può essere, rispetto a quella intellettiva e superiore,

«come un’ombra seguace o come una piccola luce che s’insinui sotto una più grande». Il Ficino parafrasa questo passo aggiungendo, con le parole remisse e cedere, la cedevolezza dei fantasmi di specie più debole, e aggiungendo anche

quel rapporto tra vista e immagine interiore, con il quale ho iniziato questo scritto. Allora: «sunt in nobis imaginationes geminae, una in vita irrationali, altera in anima rationali, atque illa est summum sensuum, haec infimum

cogitationum. Suntque contiguae» (in 4, 3, 30); «quamvis imaginatio memor naturaliter sit in utraque, tamen quando una frequentius imaginatur atque validius, altera vel vacat vel ita remisse agit, sicut sacpius visus quasi non videt, imaginatione interim circa aliud attentius laborante. Decet autem, ut naturale est, et fit communiter,

imaginationem inferiorem superiori cedere» (in 4, 3,

Si Il concetto di cedevolezza aggiunto dal Ficino al passo delle Enneadi che ha parafrasato, io lo vedo passare, insieme a quello plotiniano fondamentale, in

questi versi di Michelangelo: Mentre c’alla beltà ch'i’ vidi in prima appresso l’alma che per gli occhi vede, l’immagin dentro cresce, e quella cede quasi vilmente e senza alcuna stima (Rime, 44).

Ritengo poi che a tale processo, in cui l'immaginazione esteriore perché

legata ai sensi, Michelangelo eminenze che sporgenze dal

cede remissiva quando c’è quella profonda, legata all’intelletto, abbia dato forma nella Volta Sistina: per una gradazione di si inoltri in lui che sta al di qua del dipinto, una scala di fondo in qua. (Tutto questo è differente dalla neoplatonica

BELLEZZA E PENSIERO

102

elevazione dell’anima dal contingente all’ideale in una scala di temi che vada dagli Antenati alle Storie della Genesi, cioè dal basso all’alto, cui ha pensato Tolnay! trascurando l’impossibilità che l’ideale possa trovar forma nelle storie, che sono intrinsecamente temporali). Nella struttura a scala di sporgenze, e quindi di interiori profondità, vedo disposti, per via d’esempi, i temi fondamentali della immaginazione di Michelangelo: architettura, pittura, scultura,

natura bella, e infine natura infusa di spirito divino. Ripeto ampliando. Al fondo della scala che poi si inoltra in lui, l’architettura. Al grado successivo, la

pittura, con l’immagine di quadri incorniciati e di riquadri a fresco. Poi la scultura: «la bella» questa (Rime, 239), «la prim’arte» (ivi, 237); ma'al‘suo

interno gradata in sporgenze e quindi in crescente idealità: dal rilievo basso dei tondi di bronzo dorato a quello alto dei nudi bronzei (giacché il rilievo è da Michelangelo «più tenuto cattivo quanto più va verso la pittura»?), al tutto-

tondo delle coppie di putti marmorei. Più della scultura, comunque, sporge la natura bella, con le foglie composte a festone, i fanciulli che reggon tabelle, e i giovani ignudi, alcuni dei quali, sedendo, bene spingono i loro piedi in avanti. Alla fine, al massimo in questa scala, sporgono, giganteschi, gli Ispirati. La bellezza di questi ultimi è la stessa che Michelangelo vede intellettivamente in uomini infusi di virtù e gentilezza (Rime, 38), la quale lo forza ad amarli e per questa via lo sublima («Veggio nel tuo bel viso, signor mio, / quel che narrar mal puossi in questa vita: / l’anima, della carne ancora vestita, / con esso è già più volte ascesa a Dio», ivi, 83): questo «concetto di bellezza / immaginata o vista dentro al core» (ivi, 38) è in lui il grado immaginativo più profondo: «chi muore / non ha da gire al ciel nel mondo altr’ale» (ivi, 39). La struttura formale che credo inventata da Michelangelo per gradare le specie di fantasmi interiori a seconda della loro profondità nell’immaginazione sua, torna in molte decorazioni murali del Cinque e del Seicento, e

con la diversità delle specie contenute e del loro ordine può anche far capire la peculiarità dell'anima dei loro autori. Ci accosteremo con tali riferimenti al Rosso e al Vasari; al Salviati e soprattutto al Poccetti; ad Annibale e al Cortona.

Con un lembo di mantello che emerge sulla cornice e viene in qua, il giovane Rosso ci segnala, alla Santissima Annunziata, che la sua immagina-

zione è introversa e contemplativa. A Fontainebleau usa poi la struttura michelangiolesca per dar forma a una propria scala immaginativa, nella quale il fantasma dell’arte fa sempre recedere quello della natura pur anche bella: giacché, ad esempio, nel settore con la Morte di Adone le pitture e le sculture son

sovrammesse con le loro cornici ad immagini naturali non solo d’inganno (la maschera, la faina), ma anche di bellezza nuda sia di maschi che di femmine: e

son più eminenti anche dei fiori a festone, che stanno sugli angoli. Questo

temperamento poco incline alla natura non trova al grado più profondo della sua immaginazione la natura, appunto, infusa di virtà, com’era per Michelan-

SCALE DI IMMAGINAZIONI

103

gelo: invece, sogni ideali. Ecco le Divinità che inventa per l’incisore Caraglio: «scorze», poteva pensare, di un «suco» ideale*, e qui infatti esse debordano ampiamente fuor della nicchia da statua, e l’Apollo addirittura vi trascorre davanti, come fantasmi più in qua, cioè spiritualmente più profondi, di quelli della scultura (la quale in lui prevaleva, come si è detto, sulla natura anche

bella).

Diversamente dal Rosso, il Bronzino della Cappella d’Eleonora dà chiaramente forma alla prevalenza, dentro di lui, dei fantasmi della natura su quelli della pittura: della bella natura ordinata — fiori e frutti coltivati e conserti,

sporgenti sui riquadri dipinti del soffitto —, o della natura bella a pensarsi per la sua virtù, come

quella del Profeta e della Sibilla - che, sporgendo, toccan

traguardi più profondi nell’immaginazione, che non le tavole dipinte cui sovrastano —. In tal modo egli usa la struttura michelangiolesca per dirsi incline alla bellezza della natura ordinata e di quella spiritualmente elevata, con l’epicureismo che traspare anche dai suoi versi, e dalla composizione delle sue «storie», somme di dilettose memorie e fantasie*.

La struttura michelangiolesca a sporgenze scalate è poi usata anche dal Vasari, in affreschi della sua dimora fiorentina, ma per figurare un rapporto

alterno tra i fantasmi dell’arte e quelli della natura: giacché festoni e naturali genietti, in parte vi stan dietro, in parte vi stan davanti, a quadri incorniciati; ed

alcune erme, talvolta in quei festoni affondan le mani. Incroci di forme, dunque, a significar che nelle evocazioni dell’autore l’arte e la natura gareggiano per eccellenza, come accade nella realtà secondo l’una e l’altra edizione delle Vite. E già al tempo della prima edizione, Nicolò dell’Abate figura analogamente la stessa alternanza di fantasmi. Impazienti, ora diamoci a pittori che riconobbero in sé graduatorie simili a quelle di Michelangelo. Ma vedremo che — dopo le arti e la bellezza naturale — i destini si ritrovaron differenti, e ci fu chi si fermò, chi procedette di qualche grado: nessuno, come il maestro, trovò in sé quale grado intimo dell’immaginazione la bellezza dei virtuosi e gentili, «vista dentro al core», che fa innamo-

rare e «dalla terra al ciel vivo conduce» (Rime, 39). In tutte le altre scale di sporgenze, sui muri colorati, c'è una delicatezza umana di sensi, di affetti, e di

sogni che si ferma prima oppure scorre dopo quella luce di bellezza terribile e dolce; nessuno dei pittori avrebbe potuto dirne «s’i” nacqui a quella né sordo né cieco, / proporzionato a chi ’l cor m’arde e fura, / colpa è di chi m'ha destinato al foco» (ivi, 97). La «scala» di Francesco Salviati parte dall’occasionalità, dalle storie sulla

cui luce aperta i pilastri laterali e i festoni sospesi non gettan ombra alcuna. Così indietro, negli affreschi di palazzo Sacchetti egli situa forme dell’architettura, la quale poteva esser immaginata così debolmente dai contemplativi proprio per quei caratteri di utilità e anzi necessità che invece la facevan lodare

104

BELLEZZA E PENSIERO

come primaria dal Vasari”; nella «scala» di quegli affreschi seguon pitture, sculture, e poi la natura bella con genii, festoni, canestri colmi e corpi giovani. A quest’ultimo livello, anche in altre opere il Salviati ha indugi affettivi,

sognando impuramente abbondanza ed occasioni: dei suoi nudi, uno è steso all’indietro su frutti e illuminato dal basso; due di capelli neri si guardano; di due biondi d’età diversa, uno è coronato di rose rosse e l’altro ha la barba folta. Anche fantasie calorose come quelle che sono all’origine di tali figure, divengon pallide però di fronte ad altre, di grandi persone e del loro mito, come Ranuccio nel Salotto di palazzo Farnese, a cui un amore da un arazzo dipinto

passa un’asta forgiata da Vulcano. Ma il Salviati non si ferma, procede immaginando sulle idee, sognando quindi persone immacolate, Dèi e Virtù. E simile alla sua è la «scala» delle opere romane di Perin del Vaga, il quale però a Castel Sant'Angelo immagina la natura con dèmoni, uomini, scimmie, cioè meravi-

gliosamente collegata da affetti e fantasie come la credevano i maghi neoplatonici; e infine egli sprofonda in sé a immaginar quell’Angelo, la cui immagine lì emerge più di ogni altra.

fig. 32

fig. 31

Non perdiamo il carattere incorporeo del nostro tema. Bernardino Poccetti solo una volta usa l’immaginazione come faceva la Scolastica — per far sortire il devoto da sé e farlo inoltrare nella vicenda sacra o edificante -, e cioè solo nel refettorio degli Innocenti, ove dipinge in primo piano alcuni scalini d’invito con al centro tabelle da esser lette per assecondare e precisare l'immersione. Ma questo poteva andar bene per chi voleva insegnare ai semplici: altrove, egli usa la struttura introversa di Michelangelo, semmai aggiungendole prima un gradino sull’occasionalità, e poi altri sulle idee, sugli angeli, sul Dio-luce giovanneo*. Inizia raramente con un’occasione, e in genere con la pittura, facendo uscire dalle cornici lo spigolo di un libro, un piede o una mano, o un panno gettato, o perfino le onde del mare. Ma la pittura, nella Cappella del Giglio è sopravanzata dalla scultura, per via degli angeli rappresentati come di stucco o marmo, che pongono i loro piedi davanti alla cornice dell'immagine di grandi quadri; e anche nella volta centrale del Loggiato degli Innocenti, i nudi marmorei son figurati come eminenti rispetto a quadri in cornice: sono semplici, un volto appoggiato su un omero mentre il braccio sta intorno al petto, una spalla innalzata... Ma i pensieri della bellezza naturale vincon tutti quelli dell’arte.

È una natura magica, per lui, da neoplato-

nico, popolata di quegli stessi dèmoni da cui la sua fantasia riceveva fantasmi in metamorfosi,

quando, in gioventù, si dedicava ai graffiti, come

quelli per

Bianca Cappello, dove son sfingi, e draghi, e giovani uomini con ali. Nella Sala di Bona, ignudi stanno davanti a dei quadri pur d’immagini debordanti, e vi si appoggiano, allo stesso livello di gran mazzi di fiori. E nella stessa sala ci sono conserti frutti, grappoli, pampini, e labirinti di rose, nonché due genii che, a tener alta sulla testa una grande corona, forti in una posa difficile e giovani, dispiegano una bellezza ampia e sicura.

SCALE DI IMMAGINAZIONI

105

Ma scende più a fondo, di un gradino ancora, nella scala delle sue immaginazioni. Dove la semplice bellezza della natura è sopravanzata da quella che attribuisce a persone di spirito grande, che con essa gli prendono il cuore. Portan questo concetto gli ispirati Profeti della Cappella del Giglio, come quelli di Michelangelo, giganteschi e sporgenti; e i due martiri giovani, Nereo ed Achilleo, nella stessa cappella, volto parlante e luminoso, occhi grandi, mani forti e gesti gentili. Ma il Poccetti non aveva un destino così amoroso come Michelangelo, e dunque la scala delle sue immaginazioni non ha qui il suo grado intimo. Più a fondo in lui, a far impallidire perfino il pensiero di quegli ispirati, ci son le

cristalline personificazioni di idee sorte dai libri, come quelle dalle epistole paoline e da un salmo, figurate poi nella cappella di san Sebastiano all’Annunziata. «Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra», fuor del contesto di san Paolo (II Cor., 7, 4) che parlava della consolazione che gli davano i suoi discepoli, vi produce l’idea del gaudio cristiano nella sofferenza o nel martirio. Le pagine del Ripa dànno che l’Allegrezza è una bella fanciulla con veste fiorata, ed è inghirlandata di fiori: sorge una fantasia: non è una fanciulla, essendo il Gaudio, e in più abbraccia pensosamente una croce; il sogno ottenuto dal Poccetti (come la forma dipinta poi), di giovane bello e fiorito e serio, è, così ideale, ancor più casto di quello dei Martiri della Cappella del Giglio, i quali, pur eroicamente, sono umani nella loro prestanza gentile, nei loro occhi luminosi. E quella castità ideale vinceva nella sua immaginazione,

se i due

gradini ulteriori, gli ultimi nel suo profondo, sono quelli degli angeli e del lumen, figura del Dio-luce: questo lumen poi, neanche dipinto talvolta, bensì

fatto entrare ad abbagliare, attraverso i vetri fiancheggiati da angeli, nella Cappella delle Reliquie alla Certosa del Galluzzo, ma soprattutto a Santa Maria Maggiore di Firenze, dove la finestra sopravanza gli Angeli, che la fiancheggiano adoranti, anche con il risalto della sua cornice marmorea (e analogamente a questo lumen vivo, la luce paradisiaca dipinta nelle cupole dallo stesso, sarà da immaginarsi come abbagliante, vittoriosa su ogni immagine

vicina). Per i tempi, a questo punto abbiamo già superato le decorazioni cui si

applica Annibale Carracci, ove prende forma il primato immaginativo della scultura sulla pittura, e dove il gradino più profondo nella sua immaginazione è rappresentato dalla bellezza naturale, con calorosi faunetti e fanciulli a palazzo Magnani, con fanciulli e giovani nudi, e festoni con rose, convolvoli, corimbi,

nella Volta Farnese. In questa volta l’Amor Celeste è rappresentato al livello degli eventi, mentre lotta con quello Terreno”. A parte quelle raffigurate come

dipinte, non ci sono persone d’alti spiriti — e ricordiamo che Annibale, almeno a Roma, non ammise il miracolo dell’ispirazione, esaltando invece lo studio* —;

non ci sono personificazioni d’idee. L’immaginazione di Annibale sembra dunque esser quella di un esteta che, quanto all’arte, più della varietà pittorica senta forte dentro di sé la semplicità essenziale della scultura; e che ancor più

fig. 33

106

BELLEZZA E PENSIERO

forte senta lo splendore della natura bella — e fin qui sostanzialmente ritrovi i gradini immaginativi di Michelangelo, restandogli fedele anche nella dichiarazione di minorità del bassorilievo rispetto alla statuaria, giacché il primo è messo in rapporto con la incompiuta natura dei fanciulli, mentre la seconda, o con quella perfetta dei giovani —; ma poi non conosca né l’innamoramentsné il sogno sull’ideale, né l’alta contemplazione. E quella scala immaginativa di Michelangelo continua ad essere partecipata, anche se variamente e confondendosi, per tutto il Seicento, con Agostino Tassi, il Cortona e, simili a lui, il Coli e il Gherardi. Oltre che estetico, magnifico, è il platonismo del Cortona: nella sua imma-

ginazione il biancore ideale della scultura vince ancora sul variopinto; ma la natura, sia occasionale che bella, è, nei suoi pensieri, sempre

sontuosa;

il

gradino delle idee, presente solo a palazzo Barberini, è grandiosamente retorico. Al grado iniziale, oltre balaustre sfiorate da una luce bassa, grandi chiome d’alberi, mutevoli, e nubi pittoresche, candide talvolta. Di séguito, dopo quadri e sculture, gran mazzi nei vasi, e son giaggioli, foglie, sambuco, rose; o ge-

nietti, un festone fresco, e fogliame ricadente; o corone di gelsomino e d’alloro, e pampini; nonché putti che in angoli di parco stan vicini, altrettanto in fiore nei loro corpi, al cespuglio di rose, ai giaggioli, ai tulipani: e dai tulipani,

da oltre il ginocchio di una statua marmorea, uno di loro inoltra nell’immaginazione, come in dono, altri calici bianchi. 1992

e Pubblicato su «Artista», 1993.

NOTE

Le Rime di Michelangelo sono citate dall’ed. a cura di E. Barelli, Milano 1975. ! C. Tolnay, La Volta della Cappella Sistina

gradazione che dall’occasionalità di tre curiosi

(Saggio d’interpretazione), «Bollettino d’arte», 29, 1935-1936, p. 389 ss.; Idem, Michelangelo, Princeton 1947-1960, 2, pp. 22-23. Vedi anche A. Chastel, Art et humanisme à Florence

e un cagnolino nel vano d’una porta, vien su

invece secondaria quella di pittura-bella natura-idee, interna all’affresco che lì rappresenta

etc., Paris 1959, pp. 467-468.

il grado della pittura.

? Michelangelo,

lettera a B. Varchi

sulla

maggioranza delle arti, in Trattati d’arte del Cinquecento etc., a cura di P. Barocchi, Bari 1960-1962,

1, p. 82.

® Vedi G. Zucchi, Discorso sopra li dèi de’ in der Spòùtrenaissance

1927, p.43).

? G.P. Bellori, Le vite etc., Roma 1672, pp. 47-48.

8 C.C.

Malvasia,

1841-1844,

Gentili etc., Roma 1602,p. 8 (in F. Saxl, Antike Gòîtter

con immagini di pittura e poi di scultura: ed è

etc., Berlin

4 Vedi C. Del Bravo, Dal Pontormo al Bronzino, «Artibus et historiae», 12, 1985, p. 84 ss.

(ripr. in questo libro, pp. 135-136).

Felsina pittrice, Bologna

1, p. 346.

? Agostino Tassi, sulla parete interna della Sala Regia al Quirinale, per così dire «recita» la struttura a sporgenze progressive dal cielo atmosferico e dall’architettura su su fino alla

personificazione di idee, per poi interromperla bruscamente, sovrapponendole l’immaginazione infima, agitata, di curiosi che si affaccia-

° Vasari-Bettarini e Barocchi, 1, testo, p. 10.

no da certi balconi: contrapposto arguto, col

6 Nella struttura degli affreschi, oggi periti,

significato, alla fine, d’una satira sulle frustrazioni del contemplativo.

di palazzo Acciaioli a Firenze, è primaria la

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G. Savonarola, Prediche sopra Giobbe, a cura di R. Ridolfi, Roma 1957, 1, pp. 3-5. 26 Matteo, 2, 1-6, e Giovanni, 7, 42, con rimando a Michea, 5, 2. Vedi nel mio testo,

più indietro. 2? Vasari cit., 4, testo, p. 394.

28 Ivi, pp. 394-395. Vedi in proposito A.M. Petrioli Tofani, Andrea del Sarto - Disegni, Firenze 1985, p. 7.

2° G. Savonarola,

De simplicitate cit., pp.

245-246.

3° Idem, Prediche sopra Ruth e Michea cit., 1, pp. 142-143. 31 Vasari cit., 4, testo, pp. 341-342.

32 Ivi, p. 389.

33 L’identificazione di Becuccio con il personaggio ritratto nella tavola di Edimburgo,

due uffici degli angeli, avrebbe dovuto farli

della quale si parla nel testo, e in una delle tavolette dell'Art Institute di Chicago, è meri-

impersonare da due angeli e non da tre; e che

to di A. Conti (Andrea del Sarto e Becuccio bic-

l’atto dell’adorazione, le mani incrociate sul petto, è solo in uno degli spiriti celesti lì rappresentati in piedi, giacché l’altro tende la ma-

chieraio, «Prospettiva», 33-36, 1983-1984, p.

no verso Maria, con un gesto piuttosto simile a

35 Ivi, pp. 346-347. 36 Vedili riprodotti chiaramente in S.J. Freedberg, Andrea del Sarto cit., fig. 5 e 6:

quello di Gabriele. Dico nel testo che in quelle tre figure preferisco vedere impersonati i tre ordini della gerarchia celeste cui apparteneva l’arcangelo Raffaele, secondo Dionigi Areopagita. Che questo autore fosse tenuto presente

dagli Agostiniani per il tema dell’Annuncia-

161 ss.). 34 Vasari cit., 4, testo, p. 343.

portando

la veste

carmelitana

e, in più, il

santo il giglio e la santa una coroncina da principessa, essi sono Alberto Siculo e Ange-

zione, si trae da un’opera importante di quell’ordine: A. Trionfi, In Salutationem et Annunciationem angelicam Deiparae praestitam Com-

la di Boemia. 37 Vedi qui la n. 17. 38 Documenti in A. Marquand, The Brothers of Giovanni della Robbia etc., Princeton 1928,

mentarius

pp. 67-70.

(XIV sec.): vedi nell’ed.

Romae

(5906/221021 21 Vedi J. Shearman, Andrea del Sarto, Oxford 1965, pp. 244-245 e tav. 71b. 22 I Fioretti cit., pp. 44-45, 171. 23 Per l’identificazione, vedi S.J. Freedberg,

22 Vasagiicit..4,testo, p.i350. Iyia pi SÌ,

SETTI, PIO47: 42 Ivi, p. 346. #2 luti ppa256, 395:

Andrea del Sarto, Cambridge (Mass.) 1963, Ca-

4 Ivi, pp. 356-357.

talogue raisonné, pp. 114-115.

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Ritratti petrarcheschi

Alcuni ritratti dipinti nel Cinquecento presentano a chi forse è oggi loro intimo destinatario, alcuni segni che egli può non comprendere: i guanti e la pezzuola, un’arma, la sede isolata (campagna, o una stanza da cui essa, solitaria,

si vede), il gesto e lo sguardo rivolti a qualcuno fuori quadro, o diméntichi per la prevalenza della visione interiore; e la lettera scritta o ricevuta; il libro

interrotto, per così sognare o per prendere una posa di coraggio.

A leggere il Petrarca latino!, si vede che i temi di questi ritratti eran tutti derivati da lui. La vita con i molti è indecente, egli aveva scritto, dominata da opinioni basse?, e inoltre comporta una continua «triste attività»?: da tale «immondez-

zaio di costumi»*, in quei ritratti ci si difende figurativamente con guanti, fors’anche profumati, con pezzuole da portare al naso, forse profumate se

talvolta sostituite con rose, gelsomini, garofani. Svolgendo l’inclinazione ad effonder l’intimità, cui il Petrarca era stato incoraggiato da Agostino, il Cavalori dipinge un giovinetto che ha occhi grandi e chiari, che regge la pezzuola con gesto semplice, nell'angolo d’una stanza ove siede e legge?. Da Orazio, il Petrarca aveva annotato «malignum spernere vulgus»‘, e del

volgo aveva detto sprezzante che i suoi affari non lo interessavano”. In alcuni dei ritratti a cui pensiamo, di Ridolfo, del Lunetti, del Puligo, di Jacopino del Conte*, e d’altri, la mano «serrata» — così da non poter carpire —, e l’indice

verso l’esterno oppure il basso significan, giusta il Ripa”, «la parcità» di voglie nei riguardi di quell’esterno, appunto, oppure del basso. Il volgo è odioso, e va respinto, aveva aggiunto il Petrarca; e ancora: l’uomo è in maggioranza un animale «non soltanto vile e repugnante, ma anche pericoloso» per «la sua natura selvaggia»!°: ecco allora le armi, la corazza o almeno l’elmo e la spada; in un ritratto di Ridolfo, accompagnate dalla presenza, fuor dalla finestra, del palazzo della Signoria e della politica'!. Per un’interpretazione già bembiana, nel Doppio ritratto di Raffaello al Louvre, un giovane forte come Carlo nella dedicatoria degli Asolani sembra dire all’amico, indicando dove questi è rivolto con sguardo perduto, «Tu contempla...», e, con la mano sull’elsa, «...ché a difenderti penso io»: e l’altro, lieve gli appoggia una mano sulla spalla.

126

BELLEZZA E PENSIERO

Ma oltre tale iconografia, io ricordo una fioritura nuova dell’intimità inse-

gnata dal Petrarca, in due ritratti: uno del Bronzino!?, ove le dita giovani

posano o scorrono lunghe sull’elsa, e il volto, barbuto, svela la sensibilità, l’apprensione del cuore; ed altro del Parmigianino", ove un giovinetto svolge lento il suo corpo in una grande stanza solitaria, reggendo la spada della difesa, eppure con il volto illanguidito da una grande malinconia.

Secondo il magistero del Petrarca, ci si ritiri, dunque, dal mondo, che è

indecente e selvaggio. In campagna, pure sono le cose che si hanno davanti agli occhi'*: ecco allora, in tanti ritratti, i campi, le valli, le selve, della solitudine, dove l’uomo

sosta come faceva il Petrarca. Oppure quella campagna sta fuor da simboliche

finestre, a indicar la separatezza di stanze silenti che alcuni hanno scelto a

rifugio. Aggiunge sentimenti crepuscolari il giovane d’un ritratto del Franciabigio, e tace e s’appoggia mentre la campagna lo avvolge col suo proprio crepuscolo!5. Nella solitudine si ricercherà Dio, noi stessi, e un amico simile a noi, fino

agli esempi alti della Certosa di Montrieux visitata dal Petrarca, e di quella di Val d’Ema, abitata per qualche tempo dal Pontormo. Nella «quies et silentium»

(come aveva scritto il primo!°), in «quella quiete, quel silenzio» (come il Vasari scrive del secondo!”), trovarono ambedue riferimento per commentare il davidico «Vacate, et videte quoniam ego sum Deus»!*: nel De otio religioso, il Petrarca; nella Cena in Emmaus coi Certosini, il Pontormo. E se l’uno in Certosa aveva visitato il caro fratello, l’altro vi «menò seco il Bronzino solamente», «da

lui sempre sommamente amato». Il solitario del Petrarca, infatti, non era scontroso? rifuggiva la folla ma

non gli amici?!, preferendo però averli uno alla volta?, come colui che aveva imparato ad aver se stesso interlocutore e compagno”. In una Senile il poeta

aveva aggiunto poi di cercar nell’amicizia solo fede sincera, amore ardente, cortesia di modi, e colloqui liberi e giocondi*; e altrove aveva detto che questi colloqui eran veritieri e fiduciosi”, sacri e tranquilli, adornati dal suono della

voce e dallo spirituale splendore degli occhi”. Questo tema petrarchesco è accettato dal giovane Polidoro (per come io suppongo) e dal Bronzino, quando dipingon giovani con lo sguardo precisamente a fuoco: su chi è loro compagno in un dialogo colto, comprendiamo, giacché il primo lo mostra, riflesso in uno specchio, con la testa chinata sopra a

un libro”, e giacché per lui, accosto anche se a noi invisibile, Ugolino Martelli ha girato la sua Iliade in greco volendo fargli leggere un verso che parla di pianto? (fra poco, con l’autorità del primo sonetto e degli Asolani del Bembo, che stan nel volume che tien pronto sulla coscia, Ugolino lo ammonirà dicendo, per fargli superar le passioni terrene e il pianto che portano, che «adorar Dio / solo si dee nel mondo»). Ma l’insegnamento del Petrarca a parlare inattesi per intimità, vive in notazioni che ci stupiscono perché non più, dunque, segrete. La sofferta sensibilità degli occhi d’un giovane del Cavalori,

RITRATTI PETRARCHESCHI

127

pallido, che guarda il suo interlocutore invitandolo ad esprimer lui, ora, di

grazia, il suo pensiero? Nello sguardo di giovani del Bronzino e del Pon-

tormo, che prendono o già accordano il liuto?', l’intensa proposta all’altro

d’unirsi spiritualmente nell’armonia della musica. L'abbandono d’un giovanis-

simo del Parmigianino, che ascolta con un bel sorriso, la mano ai capelli,

rivelandosi promettente per la spiritualità della sua buona disposizione? Aveva aggiunto il Petrarca: «quello che amo di più in me stesso e negli amici è quel che non vedo: e anche quando mi compiaccio di star con loro, non contemplo tanto il volto e la persona, quanto la bellezza interiore e la faccia dell’anima loro»®: e questa bellezza ben ritorna con l’immaginazione, quando questa li vede in assenza, di giorno, di notte*.

Tale evocazione immaginativa è molto legata alle lettere, e il Petrarca ne aveva parlato per le lettere che riceveva come per quelle che andava scrivendo*. «Fa’ sì — scrive a un amico — che con assiduo scambio di lettere, possa sempre vederti»*; ma anche: «Mi è stato dolce parlare con te, e con desiderio, quasi di proposito, ho prolungato questo nostro colloquio. Mi ha riportato dinanzi il tuo volto attraverso tante terre e tanti mari, e mi ha restituito la tua presenza fino al tramonto, da questa mattina, quando ho preso in mano la

penna»?”. E per questi passi, tanti personaggi del Cinquecento furon ritratti con in mano una lettera anche loro, e come incantati nell’immaginazione - in una campagna solitaria, in una stanza separata, in uno studiolo —.

Nei migliori fra questi ritratti, è un’aggiunta nello spirito della confidenza petrarchesca qualificare il sentimento con cui quei volti, e quegli occhi che non guardano cose presenti, rispondono alla visione immaginativa. Sentimento scuro e inclinato nel Cavaliere del Franciabigio, in accordo con l’iscrizione Tardi

fig. 34

oblia chi ben ama*8; calmo e virilmente carezzevole nel Giovane del Rosso, che tien spiegata quella lettera che porta la data 1518; meditativo, o come mera-

vigliato, in ritratti che credo del Brina*°. E un giovane del Puligo*', con la sinistra appoggiata sul foglio a coprir quello che sta scrivendo, eleva il torace in un sospiro, e con gli occhi indugia di lato; ed altro giovane infine, forse del Boccaccino*?, appoggia una mano davanti al petto, e con l’altra, che è nuda,

tende assorto una lettera piegata a colui che vede solo nel sogno, rovesciando la testa, castana di barba e luminosa.

Con riferimenti al Petrarca dunque, si attribuivano al personaggio bontà e

virtù eccellenti e separate, attraverso tali segni della sua capacità d’amare,

d’immaginare; con riferimenti al solo Cicerone invece, gli si attribuivano virtù da grande mostrando segni della sua rete di amicizie oneste e potenti**: pose autorevoli, e lettere tese al messaggero, senza — certo! — abbandoni o sogni.

Questo però, così frequente in Tiziano o nel Salviati, non mi interessa: meglio pensare all’ultimo denudamento dell’anima fra quelli che ho trovato nei ritratti

petrarcheschi del Cinquecento. Esso ha luogo con l’amicizia per gli autori‘,

dei quali il Petrarca invita a leggere i libri*, che talvolta, lui lo dice, saran come

lettere lunghe*°.

fig. 35

128

BELLEZZA E PENSIERO

Uno e un altro giovane del Parmigianino hanno interrotto di leggere in fig. 36

solitudine, stando in pose disordinate, da intimità: e uno di loro guarda di fianco, l’altro fissa cupamente. Un giovinetto di fronte luminosa, del Foschi*,

tiene più in alto del suo cuore, assorto, un libro ove serba il segno col dito. Anche altri due giovani si incantano, in quadri di Raffaellino del Colle e di Stefano Pieri‘, e noi ora comprendiamo che è perché si sono riconosciuti in una pagina, che anche noi possiamo leggere, del libro che tengono aperto: ove si parla dell’età del bivio”, o è scritto l’attacco del De officiis, con la dedica di

Cicerone al figliuolo proprio...: il Petrarca ormai vecchio dice ad Agostino, nel Secretum: «Ogni volta che leggo i libri delle tue Confessioni [...], ho a tratti l’impressione di leggere non la storia d’altri, ma quella del mio proprio peregrinare»5!. La sua gioventù, per un passo di quel libro: «sapevo che quanto avevo

letto era stato scritto per me, non per altri»”?. Così gli amati autori, svelando il loro cuore, confortano nei sentimenti, se

no turbati dal volgo. Tale conforto era già stato ricevuto dal Petrarca, fra l’altro quando, avendo usato la parola «voluptas» per il piacere ineffabile che traeva dalla voce e dallo splendore degli occhi di un amico, ne aveva allontanato il senso vergognoso che le attribuiva il volgo, trovando conforto in Cicerone e in Seneca, e soprattutto nel «mea sola et sera voluptas» dell’addio di Evandro al suo Pallante. Dopo due secoli, poteva esser lui a confortare. E così nel Pontormo, nel Bronzino, nel Foschi”, e in altri, un giovane segna con un dito della

destra il libro interrotto a una certa pagina, e poi s’erge, pensoso o schietto, ma

sempre colla sinistra sul fianco, che è posa d’indipendenza e, a sua volta, di coraggio esemplare. 1993

è@e Pubblicato su «Artista», 1994; ripubblicato in Pontormo e Rosso, atti del Convegno

(Empoli e Volterra, 1994), Venezia 1996.

NOTE

! Le opere del Petrarca su cui si fonda il presente saggio erano già a stampa all’inizio

e 109, 312

del Cinquecento. ? Familiares, 1, 8, 21. 3 De vita solitaria, a cura di M. Noce, Milano

“Scie 5 IMttadcte Ses p2157): SMIVNELO, bil(tradScivs2, pa135) 25 De vita solitaria cit., pp. 108 e 109. Salvi ppt 76.64177. 2? Seniles, 16, 4 (trad. cit., 2, p. 488). 28 Riprodotto in R. Fry, A Portrait attributed to Raphael, «The Burlington Magazine», dicembre 1910, pp. 137-138, e in J. Shearman, Only connect... (1988), Princeton 1992, fig.

1992,.ppy18.e 19. 4 Ivi, pp. 140 e 141. ° Firenze, Sotheby's,

18 ottobre 1969, nr.

114 (come A. Allori). 6 Seniles, 17, 2 (nella traduzione di G. Fracassetti, Firenze 1869-1870, 2, p. 526). ? Familiares, 6, 3, 69; Seniles, 6, 3 (trad. cit.,

1, p. 329).

8 Ridolfo: Chicago, Art Institute, cat. 1961,

p- 177, fig. 41. Lunetti: New York, Metropo-

313, 314

315.

22 Ivi, pp. 104 e 105.

108 e 109 (qui, come 1520-1525 circa).

opera ferrarese del

29 Iliade, 9, v. 14. 30 Fort Worth, F.W. Art Center,

1936.2.

vre. Jacopino del Conte: ripr. in Italian Renais-

G.P., Kress 1066 (F. Rusk Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection - Italian

sance Art - Selections from the Piero Corsini Galle-

Schools XVI-XVII Century, London 1973, p.

try, catalogo della mostra (University Park, Pennsylvania; Williamsburg, Virginia; Spring-

20 e fig. 41, come attribuito a F. Salviati). 3! Pontormo: già Firenze, coll. P. Guicciardini (ripr. in Mostra del Pontormo e del primo

litan Museum,

17.190.8. Puligo: Parigi, Lou-

field, Massachusetts; 1987), p. 42. RGXRipa,

Iconologia, Roma

1603, p. 514

(Vita contemplativa).

Manierismo fiorentino, catalogo, Firenze

tav. XLIX). Bronzino:

1956,

Firenze, Uffizi, 1575

!0 De vita solitaria cit., pp. 10 e 11. 1! Londra, National Gallery, 895.

(Gar 19/92 P:296).

12 Kansas City, Nelson Atkins Museum of

Parmigianino - His works in painting, Cambridge (Mass.) 1950, fig. 161 (come opera attri-

Art, 49.28.

13 Hampton Court, Collezione reale. 14 Seniles, 8, 7 (trad. cit., p. 490). spcParigi, Louvre 517. 16 Secretum, a cura di E. Fenzi, Milano 1992,

p. 140.

!? Vasari-Bettarini

e Barocchi,

5, testo, p.

3198

18 Psal., 45,11. SaVasati Git,»D, testo, pp. 319, 334. Scale 1 3.\tradi cit. 1, 23), 21 De vita solitaria cit., pp. 104 e 105, 108

3° Parigi, Louvre;

ripr. in S.J. Freedberg,

buita). Vedi per confronto Seniles, 13, 6 (trad.

cit., 2, p. 289).

33 Seniles, 16, 4 (trad. cit., 2, p. 488). 34 Familiares, 2, 6, 4; ivi, 6, 3, 69; ivi, 7, 12, 5; Seniles, 2, 6 (trad. cit., 1, pp. 125-126); ivi,

16, 4 (2, pp. 487-488).

35 Familiares, 6, 3, 71; Seniles, 3, 9 (trad. cit., 1; p.1189); ivi» 16,4 (2, p. 487).

36 Familiares, 2, 6, 10 (trad. U. Dotti). 32 Ivi, 1, 1,47 (trad. cit.).

38 Londra, National Gallery, 1035.

+130

BELLEZZA

3° Riprodotto in D. Franklin, A portrait by Rosso Fiorentino in the National Gallery, «The Burlington Magazine», 1989, piaoso: fig. 40.

4° Firenze, Uffizi, 1581 (catalogo 1979, P 1411, come F. Salviati). Vienna, Kunsthistori-

sches Museum, 1570 (come «Salviati?»). 4! Firle Place, Sussex, coll. Viscount Gage; foto Courtauld Institute, B 56 e 245.

4° Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum, 1930.187.

43 4 45 46 47

Cicerone, De amicitia, 11, 36 - 13, 44. De vita solitaria cit., pp. 312 e 313. Ivi, pp. 86 e 87. Ivi, pp. 348 e 349. Vienna, Kunsthistorisches Museum, 329.

York, City Art Gallery, 739.

E PENSIERO

48 Lucerna, Fischer, 22-26 giugno 1965, nr. 1635, tav. 39 (come F. Salviati). 4 Raffaellino del Colle: Londra, Christie”s, 24 novembre 1967, nr. 21 (come L. Zacchia), illustrato. Pieri: Londra, Christie’s, 17 luglio

1964, nr. 98 (come F. Salviati). 50 Anche questo tema è presente nel Petrarca: Familiares, 7,17,1 e 12, 3, 6-7. 51 Secretum cit., pp. 114 e 115. 52 Familiares, 4, 1, 30 (trad. cit.). 53 Seniles, 16, 4 (trad. cit., 2, pp. 488-489); vedi inoltre Eneide, 8, v. 581.

5 Pontormo: Princeton, coll. B. Johnson. Bronzino: New York, Metropolitan Museum, 29.100.16. Foschi: Lucerna, Fischer, 3-7 dicembre 1963, nr. 1149.

Dal Pontormo al Bronzino

Quando Benedetto Varchi chiese ad artisti toscani, fra cui il Pontormo, di pronunciarsi per lettera su quale di due arti, la pittura e la scultura, ritenessero

maggiore dell’altra (si era nel 1546, e il Varchi ripresentava una questione dibattuta da Leonardo all’inizio del secolo, e che più tardi avrebbe preso il nome

di «paragone»), il Pontormo rispose che «la cosa in sé è tanto difficile, che la non si può disputare e manco risolvere», ma su «le fatiche di chi opera», senza aspirare a completezza o conclusione, in pratica disse «per qualche ragione e essempio semplicemente», che chi ha il disegno «fa l’una e l’altra bene». Quindi, nella risposta del Pontormo: una sospensione di giudizio quanto a una comparazione astratta; più, un parere dettato dalla pratica dell’arte e a

questa relativo. L’una e l’altra posizione e il collegamento loro sembrano dipendere da un testo fondamentale dello scetticismo, gli Schizzi pirroniani di Sesto Empirico, e ad esempio dalle opinioni seguenti: «la rinuncia a stabilire con certezza è un’affezione della mente, per la quale né neghiamo né affermiamo nulla delle cose indagate dogmaticamente, cioè delle cose oscure»: di queste, nessuna è più certa di «ciò che le è contrapposto o, come si dice comunemente, le contrasta, rispetto alla credibilità o non credibilità»?; «rife-

rendoci ai fenomeni, viviamo senza dogmi, osservando le norme della vita comune», fra l’altro «nell’insegnamento delle arti, in quanto non siamo inat-

tivi nelle arti che apprendiamo. Ma tutto questo diciamo lontani da ogni

affermazione dogmatica»?. Anche un secondo scritto del Pontormo, il così detto Diario del 1554-56,

può esser letto in chiave scettica: dato che esso è principalmente un séguito di memorie di dieta e di stati di salute, e su questo piano porta anche un abbozzo di conclusione pratica, non sarà difficile riconoscervi un libro di ricordanze di

medicina empirica: cioè, di quel tipo di medicina che dall’osservazione dei fatti traeva memorie di utilità pratica, e non leggi universali, e che dètte il soprannome a quel medico del II secolo, Sesto Empirico, che abbiamo già ricordato

come autorità principale dello scetticismo (e in queste conoscenze ci sarebbe traccia di quella cultura e di quelle frequentazioni di eruditi e letterati, che al

Pontormo attribuisce il Vasari‘).

132

BELLEZZA E PENSIERO

Lo stesso Vasari, del Pontormo

fornisce notizie di pensieri e comporta-

menti estranei al consenso dei più, che non sembreranno qualità solo individuali a chi sa che il Biografo sottace il riferimento umanistico a dottrine

antiche*: infatti, come vedremo subito, quelle notizie si coordinano ripostamente in una interpretazione secondo scetticismo.

Allora, il Vasari sul Pontormo. La solitudine e la vita a modo suo, benché

accompagnate da modestia, dettero all'uomo la disapprovazione dei più. Quella solitudine portò l’artista, che fu un grande pratico, a una ricerca ecces-

siva: pensando profondamente, cercava cose sempre nuove verso la perfezione, e così, fra l’altro, guastava e rifaceva oggi quel che aveva fatto ieri. Il resultato, furon maniere bizzarre e nuove: eclettiche per assunzione di maniere altrui, anche forestiere; e senza regole, senza misura, senza proporzioni, senza pro-

spettiva, senza ordine nei colori. Quanto agli insegnamenti impartiti: allo stesso giovane Vasari, insoddisfatto sulla verità di certe armi che andava ritraendo, dètte un consiglio pratico”; e ai suoi giovani, quando li faceva intervenire in qualche parte del suo lavoro, «massimamente perché imparassero, gli faceva fare il tutto da sé». Relativamente alla tradizione artistica fiorentina, il

Vasari ci consegna dunque il ritratto di un uomo e di un artista estraneo alle codificazioni albertiane fondate sul consenso dei più e formulate in termini d’arte del vivere o di matematica; nonché estraneo alla «vera scienza» dell’aristotelico Leonardo, la quale «passa per le matematiche dimostrazioni»? e le

leggi universali, e tende poi alla didattica normativa. Come

dicevamo, i caratteri addotti dal Vasari trovano il loro coordina-

mento e la loro positività nella dottrina scettica. E così, avendo osservato che il Pontormo, nei suoi pochi scritti, fa sue le idee di Sesto Empirico sul giudizio

sospeso quanto alle astrazioni e invece espresso quanto alla pratica, per estensione recupereremo la sua voce interiore recuperando passi dell’antico maestro, che rispondono a quelle deficienze del Pontormo di fronte al dogmatismo. Raccogliendo opinioni e frasi di Sesto Empirico compongo dunque un discorso come questo: — Intornoanessunargomento sostengo chele cose stiano proprio come dirò8. Quanto alla ricerca, alcuni dicono d’aver trovato la verità, ed altri, che

trovarla sia impossibile. Tanto la prima che la seconda affermazione mi sembrano audaci: per me, la ricerca è senza fine?. Intorno a me, vedo che tutto è opinabile e relativo. I costumi morali

dell’umanità sono fra loro differenti, e mutevoli nel tempo!°. Quanto ai corpi, né linea né superficie sono conoscibili; e neanche la lunghezza la larghezza la profondità: l’estensione dei corpi e del luogo, allora, devo lasciarla in sospeso!!. Anche i colori variano con la luce!?.

Per quanto riguarda gli strumenti che abbiamo, le lingue pittoriche sono differenti fra loro e nel tempo mutevoli, e così non possiamo sottoporle a regole, misure, proporzioni'; tanto più che non posso accettare nessuna scienza matematica!*.

DAL PONTORMO AL BRONZINO

135

Dunque, solo l'ammissione dell’anomalia è rispettosa dell’uso comune'5. Non esiste un’arte della vita'°. Niente può essere insegnato o imparato!”: nelle arti, seguiamo la pratica'*. E ritengo che non dovrebbero voler imporre una grammatica all’arte, anche perché la grammatica non è un fatto artistico, e non si può esaminare quel che è artistico con quel che non è artistico!’ —. I disegni del Pontormo raffigurano spesso un uomo longilineo, che è acerbo quando l’artista è adolescente, sviluppato quando è adulto, flaccido

quando è vecchio?°. Credo che per gli schizzi — di cui rimangon tracce sui

fogli?! — l’artista abbia avuto a modello la propria persona, che nella testa aveva

«bellissimi tratti»? e capelli biondi. Poté guardarsi nudo in una superficie specchiante, forse di metallo brunito; con l’ausilio di un’altra, per le vedute di spalle; conducendo poi profilature sommarie, con l’una o l’altra mano: il

foglio, poteva stare su uno sgabello”, o su un leggio a piede, regolabile nell’altezza e nell’inclinazione?* (che restò in un’immagine di evangelista, mentre, molto alzato, sosteneva il foglio e l’artista che lavorava”); ma poteva anche stare sul pavimento” e talora venir segnato, a braccio ricadente, mentre il

corpo posava prono sulla pedana e lo sguardo girava furtivo dallo specchio alla matita”; o poteva stare sulla pedana stessa”: fra le cosce di lui, se era seduto, o vicino al suo volto, se era disteso, o sotto l’avambraccio, se la posa lo faceva

poggiare sul gomito. Quella profilatura sommaria poteva anche esser fatta su fogli attaccati al muro, se la posa richiedeva un braccio alzato??: a volte, con la lastra specchiante così vicina al torso, che si può, di quella, immaginar le

dimensioni e gli effetti deformanti?. Quando la posa portava una mano davanti al petto, infine, i profili potevan esser tracciati a punta di pennello su un vetro posto fra l’occhio e l’immagine specchiata, e poi esser lucidati*'. L’artista, dunque, era in grado di schizzare in quasi tutte le pose provate. La

mano in azione, la lasciava incompiuta?’ o la integrava di maniera.

Ma quel guardare a se stesso, del Pontormo, non discendeva da opportunità generiche, giacché comportava trascuranza verso il senso comune. Infatti.

Nella tradizione fiorentina, l’Alberti aveva fondato sul consenso della maggioranza una regola proporzionale della bellezza umana, che escludeva gli eccessi, e quindi anche l’altezza fuori del comune®.

Il Cennini aveva scritto che, di

carnagione, l’uomo bello deve essere bruno*. Leonardo aveva avvisato che in pittura era il difetto massimo fare la maggior parte dei volti, che somigliassero a quello del loro autore. L’Alberti aveva presunto che l’artista potesse imparare bene dalla natura tutti i movimenti del corpo, per poi con essi far chiaramente conoscere i movimenti dell’animo?. Ma invece il Pontormo sembra

aver pensato, come Sesto Empirico?”, che il consenso della maggioranza è un concetto fittizio, e studiò in sé una persona ben più alta e chiara del comune, e ancor più sproporzionata dallo specchio; e portò questi caratteri in tante sue figure dipinte, che quindi si somigliano, siano d’uomini o di donne. Quanto poi ad arrivare a conoscere tutti — l’Alberti dice proprio tutti — i movimenti del corpo, per conoscere senz’altro

i movimenti dell’animo, il Pontormo sembra

fig. 39

134

BELLEZZA E PENSIERO

aver pensato, come Sesto Empirico, che gli uni e gli altri sono infiniti e, in più, mutevoli nel tempo; e che, comunque, non c’è rapporto conoscitivo fra i

movimenti del corpo e quelli dell'animo”. In quest'ordine di pensieri poteva rientrare anche il carattere soggettivo che egli dà alla «membrificazione» di pratica, descritta da Leonardo‘°: quel carattere soggettivo, in un contesto scettico‘ e quindi privo degli universali, aveva lasciato ad altri il credere all’unicità della fisionomia, e si rifaceva alla

impossibilità di trasmettere quella convenzione individuale fondata su esperienze individuali, che è il rapporto fra oggetto e nome (o, nel caso nostro, immagine). Su questo piano di incomunicabilità profonda, quando nelle opere dipinte del Pontormo individuiamo immagini di pose complementari alle suppellettili dell’arte e dipendenti dallo specchio, riconosciamo anche noi che il rapporto fra l’esperienza e la parola figurativa resta generico per gli altri mentre fu preciso e ricco per lui (ricordi d'ambiente solitario, di luce, di contatti sulla pelle, di sforzi coi muscoli, di quelle «fatiche di chi opera», che infatti dichiarò impossibile esprimere interamente). Addensandosi, allora, la parola figurativa,

con particolarità indicibili... la vita del soggetto regna intera: se a questo si aggiungerà, da scettici, il diletto della ricerca in un mare aperto di apparenze sempre fresche anche in un corpo notissimo, e il coraggio della pratica, si scavalcherà come irrilevante la disperazione dell’intelletto, nonché il rapporto consequenziale fra solitudine e malinconia, che contro il Pontormo

anche

giovane era stato insinuato dal senso comune“?: e con la voce di Sesto Empirico si concluderà che le cose si credon con la vita, e quindi non solo non si oppone alla vita, ma la difende, chi accetta per sé quel che essa conferma*.

Il Bronzino, interpellato anche lui dal Varchi per il «paragone» limita ad esporre due opinioni, ambedue

del 1546, si

favorevoli alla scultura — quindi

differenti da come poteva esser la sua, che era quella d’un pittore, e che rimase inespressa nella lettera, consegnata, come dice una postilla, «non fornita»**.

Ambedue quelle opinioni esposte si qualificano sul piano etico, e non su quello intellettivo. La prima, fondata sui valori della difficoltà e della fatica, s'intende che è degli stoici; la seconda, fondata sul piacere che dà l’osservazione uni-

forme e totale dei corpi, s'intende che è di quegli edonisti della concretezza, che son detti epicurei solo impropriamente. Non essendo dunque considerate le varie argomentazioni intellettive, sul piano degli interessi fondamentalmente etici, l’opinione inespressa del Bronzino potrà essere integrata solo se sarà, delle altre due, la tradizionale controparte: cioè, se sarà quella propria-

mente epicurea.

Nei Capitoli*, il Bronzino fa sua l’etica di Lucrezio e di Orazio, ma senza mai nominare l’epicureismo, in cui, pure, essa si inquadra: come se quell’etica

DAL PONTORMO AL BRONZINO

1535

potesse essere accettata, ma non così l’interezza della dottrina che, fondando la

conoscenza sui sensi, non dava valore all’intellezione e quindi alla fede (anche

se nei Capitoli, in qualche rara frase fatta si nomina il Creatore e la verità

cattolica‘). Era dunque la dottrina epicurea sulla conoscenza, che al tempo andava taciuta, e quindi la risposta mancata del Bronzino avrebbe dovuto sostenere il primato della pittura proprio con le ragioni, inconfessabili, di quella dottrina.

Esaminando attentamente le composizioni del Bronzino si può cominciare a verificare una notizia relativa al suo largo uso di modelletti plastici, e a riconoscere derivazioni indirette da sculture di Michelangelo, del Tribolo, del Cellini, dell’Ammannati, di Giambologna*8. L’autore di tali modelli può non

essere stato (almeno esclusivamente) il Bronzino stesso, giacché in vari casi l’imitazione pittorica mantiene caratteri stilistici del Tribolo, del Cellini, o di Giambologna - cioè dolcezza, o ricercato estetismo, o pienezza salda*°—: dalchesi deduce inoltre che i modelli potevano essere anche, come si diceva, «finiti». Per tali riconoscimenti, dicevamo, ci vuole attenzione; ma anche fantasia,

giacché i modelli sono quasi sempre presentati non secondo la veduta più tipica per l’originale, ma secondo vedute accidentali scelte per qualche richiesta della composizione o, ben più largamente, per la loro gradevolezza: così che la composizione resulterà un assemblage di accidenti gradevoli: e, in più, accidentale per caratteri propri, essendo spesso «aperta», cioè con figure che si rivolgono fuori quadro o vi escono, e come còlta nel momento in cui in essa un metallo lustrato o una gioia tagliata lancia un suo riflesso. L’attenzione posta su accidenti che non sono facilmente riconducibili ad unità sostanziale, avrà un significato profondo, nato prima del «paragone» del 1546, ma per noi comprensibile nei termini lì esposti. Il Varchi, e Michelangelo, il Tribolo, il Cellini, vi dicono in un modo o nell’altro, che la scultura rende il vero, e la pittura invece, l’apparenza. L’aristotelico Varchi, poi, che

altrove scrive «essendo i particolari infiniti, non possono essere sotto regola ridotti; e quello che sotto regole non può ridursi, è impossibile che s’appari; e quello che non s’appara, non si sa»*°, lì afferma che «solo l’intelletto, spogliandole di tutti gli accidenti (perché altramente non potrebbe intenderle), comprende le sostanze». Il Bronzino allora, godendosi con modelli da opere di quegli stessi scultori che privilegiavano la sostanza, un’accidentalità così varia da non essere facilmente riconducibile a quella unità, in fondo dichiara di non avere interesse a ridurre a regola i particolari, e quindi neanche alla conoscenza intellettiva e alla presunzione di verità. Avrà dunque girato i modellini liberamente, alla ricerca di vedute gradevoli nonché talvolta (si capisce dalle sue pitture) di gradevoli accidenti di luce. Osservazioni come quelle documentate da disegni del Naldini®; quasi peccaminose per la morale comune, ma note in segreto agli esteti: «la vagheggerò saporitamente», scriveva il Bembo di una Venerina; e più tardi, dell’osservazio-

136

BELLEZZA E PENSIERO

ne di anticaglie, «l’amico nostro, col quale ho comunicata questa mia sensualità, evoglio percompagnoatalespettacolo [...], quello che fareicon pochialtri»*... Il piacere dell’osservazione svariata ha lasciato memoria di sé in versi del Bronzino oppure diretti a lui: speranza di dipingere «da tutte le bande» una cortese mano”; senso letterale di per sé coerente, a parte quello erotico ulteriore, di certi versi del Capitolo del pennello che incoraggiano i pittori a ritrarre un corpo bello, quando lo trovano, davanti, di dietro, di sotto e di sopra”: «lettera» quella, ribadita dal doppio senso lascivo di versi indirizzati al Bronzino stesso dal Varchi,

col quale il poeta gli chiede di dipinger per lui una selva di effeminati «dolci, forti, piccin, grandi, e mezzani», «in iscorcio e ’n prospettiva»”.

E nel Dialogo di pittura di Paolo Pino, che vive nello spirito del Savoldo e di Giorgione, l’interlocutore Fabio diminuisce la scultura e insieme dice che osa credere il Bronzino «el più bel coloritore» dei suoi giorni*: il che offende categorie moderne, ma vive nel pensiero cinquecentesco, che vedeva nell’inte-

resse per gli accidenti e per le «infinite apparenze» la causa della «vaghezza de’ colori»: creando dunque un riferimento per cui il colore del Bronzino, i riflessi dei suoi metalli e delle sue gioie sfaccettate, possono incontrarsi con i pregi del Savoldo nelle «aurore con rifletti del sole», nelle «oscurità con mille

discrizioni ingeniosissime e rare»°°, nei rasi dispiegati al crepuscolo; riferimento sul quale, ancora, si incontreranno quegli effetti gradevoli della luce indirizzata, di cui parla il Pino! e che, secondo un’osservazione longhiana”, fa

talora somigliare il così detto manierista ai precedenti del Caravaggio. Ma una differenza c’è pur sempre: giacché le figure fra superfici specchianti, di Giorgione e del Savoldo, esaltano, delle diverse vedute, la somma e

fig. 40

la contemporaneità, nardesco: non così bellezza accidentale «dappoco» che egli

nell'àmbito di un impegno polemico da «paragone» leoil Bronzino, che nelle diverse vedute si gode la scissa - senza impegni, senza polemiche, come il sereno uomo tratteggia con lode in un capitolo.

La natura per l’epicureo Lucrezio

«tanta stat praedita culpa»,

pel

la

serenità dell’uomo è consigliato «vivere parce aequo animo»*. Anche per il Bronzino come poeta, nelle noie della natura e della vita associata, fra tanto

squallore anche di corpi umani, la pace interna si otterrà con «una vitetta quieta» e limpida, consolata dalla musica, dal picciol rivo, dal cibo semplice, e

dai discorsi regolati e buoni‘. Ma se questo sarà valido anche per Orazio e per ogni savio sensista, all’occhio l’epicureismo aggiunge la gioia: con la conoscenza scissa in infinite sensazioni, anche la bellezza si scinde (come ci suonano

tanti versi di Lucrezio) in mobilità, scintillii e abbagli, tremiti e risi — e il Bronzino dice di aspirare al lavoro promosso solo dal diletto. Ma questa infinità e freschezza delle immagini è il giardino comune, per il comune trascurar le sostanze, del Bronzino e dello scettico Pontormo, che egli dice suo padre,

maestrogciluce 1985

è

Pubblicato su «Artibus et historiae», 12, 1985. Qui ripubblicato con alcuni ritocchi.

NOTE

! B. Varchi, Lezzione nella quale si disputa della maggioranza delle arti etc., in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Bari 1960-1962, 1, p. 1 ss.; Jacopo da Pontormo, lettera di risposta, ivi, p. 67.

? Sesto Empirico, Schizzi pirroniani (consul-

17 Sesto Empirico, Schizzi cit., 3, 259-265. 18 Sesto Empirico, Schizzi cit., 1, 23-24. !° Sesto Empirico, Contro i matematici cit., 1, 83.

2° Vedi, ad esempio, in J. Cox, The Drawings

ofPontormo, Cambridge (Mass.) 1964, le fig. 2,

tati nella traduzione italiana di O. Tescari, Ba-

143, 356.

° Sesto Empirico, op. cit., 1, 23-24. Su questo, vedi anche Cicerone, Lucullo, 34. 4 Vasari-Bettarini e Barocchi, 5, testo, p.

44, 76, 94, 163, 206, 260, 264.

ri 1926), 1, 198.

2! Vedi, ad esempio, in J. Cox, op. cit., le fig. e Vasatiicat 4DAtestopr934;

2VediiniJaCoxtopsciizdla fig 3293:

332. A Firenze si poteva leggere Sesto Empiri-

24 Vedi, ad esempio, in J. Cox, op. cit., le fig.

co in codici oggi alla Biblioteca Laurenziana.

73,75, 92, 101, 108, 141, 143, 148, 149, 190, 200, 207, 241, 247, 257, 271, 290, 291.

5 Vedi il mio Gli aneddoti su artisti del Quattrocento, in Scritti di storia dell’arte in onore di Roberto Salvini, Firenze 1984, p. 251 ss. (ripr.

in Le risposte dell’arte, Firenze 1985, p. 5 ss.). SaVasdriccit. 26*testo,-pa 379:sPer- eli altri

rimandi al Vasari che si trovano in questo passo, vedi la vita del Pontormo in Vasari cit., 5, testo, p. 307 ss. ? Leonardo, Trattato della pittura, 1. 8 Sesto Empirico, op. cit., 1, 4. ? Sesto Empirico, op. cit., 1, 3-4. 10 Sesto Empirico, op. cit., 1, 79 ss.; in particolare sui costumi, vedi 1, 145 ss. e 3, 198 ss. iu Sesto#Empifico, 119-135.

opt

cinto,

99-44;13,

2 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 9, 11, 84; Cicerone, Lucullo, 33.

13 Sesto Empirico, Contro i matematici (consultato

nella traduzione

1972), 1, 81-83.

di A. Russo,

Bari

14 Sesto Empirico: Schizzi cit., 3, 151-167; Contro i matematici cit., 3 e 4. 15 Sesto Empirico, Contro i matematici cile 240.

16 Sesto Empirico, Schizzi cit., 3, 239-240.

2 Vediin']. Cox, op.scit.; le fig::101.e 98.

26VedilmJ.Coxyop. cit. ve fig..156,275: 27 Vedi in J. Cox, op. cit., le fig. 221, 222, PpSa

2 Vedi.in ].Cox, op. ci lefig:-137 151, IM

29983:138832100925: 29 Vedi, ad esempio, in J. Cox, op. cit., le fig.

60260744 749:.58459:60172,173,307, 955,

352;

30 Vedi, ad esempio, in J. Cox, op. cit., le fig. 5.959:

st.Vedi,in:J. Cox,iop. cit, le.fig. 127,128, 129, 206 (per lo schizzo in alto), 250, 364. Per la tecnica del vetro interposto, vedi Leonardo, op. cit., 87.

2 Vedizin.J, Coxsop cit.»lefiga191,,193, Za)

33 34 35 36 37 38

L.B. Alberti, De statua, 12. C. Cennini, Trattato della pittura, 70. Leonardo, op. cit., 105. L.B. Alberti, Della pittura, f. 130v. Sesto Empirico, Schizzi cit., 1, 89. Sesto Empirico, Contro i matematici cit., 1,

82-83.

138

BELLEZZA

39 Sesto Empirico, Schizzi cit., 2, 101. 4° Leonardo, op. cit., 61, 96. 4! Sesto Empirico, Contro i matematici cit., 1, 36-38. #21Vasari!cit,to, LESto, Pi 900. 43 Sesto Empirico, Schizzi cit., 2, 102. 4 Il Bronzino, lettera di risposta a B. Varchi, op. cit., pp. 63-67. 45 A. Allori, Li capitoli faceti, Venezia 1822:

E PENSIERO

ad esempio il Gesù Bambino nella Sacra Famiglia di Vienna (anche se l’invenzione sembra derivare dalla Madonna del parto, di Jacopo Sansovino); per il Cellini, vedi il biondo che beve, nel Mosè che fa scaturire le acque; per Giambologna, la Madonna di Portland e il Noli me tangere di Parigi. 50 B. Varchi, Della poesia, 1, in Opere, Trieste 1858-1859, 2, p. 696.

vedi i capitoli Del Dappoco; Del Caparbio; Del raviggiuolo; Del bisogno, 2; Dello starsi, 1-3. 4 Cfr. A. Allori, op. cit., p. 11 («E lodo

lui»...), p. 223 («Cercando a chi ci fece esser accetto»), e p. 169 («Son più ch’un Luteran, dal ver discosto»). 47 L’uso di modelletti plastici da parte del Bronzino è attestata da B. Cellini (lettera di risposta a B. Varchi, op. cit., p. 80).

48 Per prudenza mi limiterò negli esempi. Il David-Apollo di Michelangelo è all’origine della figura centrale in basso nella Allegoria della felicità. Dal Tribolo, grande amico del Bronzino, le derivazioni sembrano numerose: ai suoi

putti per la fontana di Castello somigliano infatti due di quelli delle Deposizioni per la Cappella di Eleonora, il putto con le rose nell’Allegoria dell’amore, i due putti in primo piano in alto e l’angelo con la corona di olivo nella Resurrezione; alla posa del putto marmoreo che ho riprodotto come del Tribolo («Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1978, 4,

tav. XCVII, 3) è simile quella del San Giovanni

51 B. Varchi, Lezzione cit., p. 48.

52 Vedi il disegno Uffizi 671E, recto e verso. 53 Vedi il passo in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli 1971-1977, p. 1169.

54 Vedi Scritti d’arte del Cinquecento cit., pp. 1170-1171.

55 A. Allori, Del piato, 1, in Li capitoli cit., p. 248.

56 Il Bronzino, Capitolo del pennello. I versi, espurgati da A. Allori, Li capitoli cit., potranno esser letti in Opere burlesche di Autori vari, Londra-Firenze 1723, 2, pp. 40-41. 5 B. Varchi, Capitolo del finocchio - Al Bronzino dipintore, in Opere burlesche cit., 1, 2, p. 994

58 P. Pino, Dialogo di pittura, in Trattati d’arte del Cinquecento cit., 1, p. 126. 59 Vedi B. Varchi, Lezzione cit., pp. 48, 37, 525 6° P. Pino, op. cit., p. 134.

S4 Ivi, pIrLI8:

Battista della Galleria Borghese; a quella dell’Orfeo di Casa Buonarroti, che io credo del

2 R. Longhi, «Un San Tomaso» del Velazquez etc. (1927), in Saggi e ricerche 1925-1928, Fi-

Tribolo («Annali» cit., tav. XCIII, 2), quella del Cristo della Resurrezione. Quanto a probabili desunzioni dal Cellini: al piccolo Perseo presso la Danae è simile per la posa il primo angioletto

renze. 1907, p. L19. 63 Lucrezio, De rerum natura, 5, v. 199. CMV SEL SSL

a sinistra nell’ Adorazione dei pastori di Budapest; al Narciso, il San Michele della Cappella di Eleo-

nora: al Giacinto del gruppo del Bargello, il putto in primo piano nella Venere e Amore di Budapest. Dall’Ercole e Anteo dell’Ammannati sembra dipendere la figura volante a sinistra nella Allegoria della felicità. Desunzioni da Giambologna - che riguardano opere posteriori al 1560 — sono evidenti nel Martirio di san Lorenzo, per l’angioletto col calice (dal Mercurio) e per i manigoldi agli angoli della graticola (cfr. ad esempio il filisteo del gruppo oggi al Victoria and Albert). 4 Per un riflesso dello stile del Tribolo, vedi

5 A. Allori, Li capitoli cit.: Esortazione alle zanzare, p. 240; Del piato, 6, pp. 288, 292, 295; In lode della zanzara, p. 385. 6 In A. Allori, Li capitoli cit., vedi: «una

vitetta quieta» (p. 223); «vuol di se stesso in sé godersi drento / e saper d'esser netto» (p. 36); «a quel dolce e soave / che la musica porge, a quel diletto / che par che d’ogni noia ci disgrave» (p. 407); «sol si glorii e vante / picciol rivo, umil colle, e bosco» etc. (p. 83); il capitolo Del raviggiuolo (pp. 56-66); «lo starsi con

grandezza / o con discorsi regolati e buoni» (p. 212). 7 A. Allori, son. Benfu presagio e Se virtù qui fra noi, in Sonetti, Firenze 1823, pp-'abe 57.

Silvio e la magia

Lo scultore Silvio Cosini, forse era mago, secondo il Vasari!. Se umana-

mente avremo studiato finché non si sia dissolta la nube della differenza culturale, egli si rivelerà dedito al mistero dell’arte, oltre che fantasioso, comprensivo, affettuoso.

Neoplatonico, com’erano i maghi dell’Umanesimo. Con Donatello l’insegnamento del neoplatonico Plotino aveva indotto alcuni artisti a non contrapporre più rigidamente l’intellettivo e il mutevole, bensì a comprenderli in un’arte di larghi orizzonti ove la foltezza delle occasioni non negasse il riposto ordine geometrico; ma poi i testi di magia del neoplatonismo più tardo, tradotti da Ficino, avevano aggiunto al concetto di ordine riposto i caratteri di colleganza e di simpatia tra le fasce dell’irradiazione dell’Uno nell’universo: restando comunque l’anelito dell’anima a tornare su in alto, anelito cui Silvio intorno al 1530 dà figura nell’altare di Montenero? con l’elevazione delle avvolte fiamme su dal vaso che le accoglie significando il corpo, e che è adorno di perle, intagli, nastri.

I maghi neoplatonici davano un’importanza fondamentale all’immaginazione, anche dicendola strumento di conoscenza poiché essa rifletteva per simpatia l’immaginazione degli spiriti, o dèmoni, che abitano e governano l’universo. E allora Silvio poté da mago ritenere le sue immagini artistiche un riflesso passato attraverso di lui, dell’immaginazione dei dèmoni. Il cuore d’artista chiedeva dunque di propiziarli ed invocarli: e Silvio «prestava fede agl’incanti»* (si preghino pure gli spiriti terrestri, si scrisse al tempo, come ben si pregano gli spiriti del cielo*). Silvio si fece (a credere al Vasari) un farsetto di pelle d’impiccato e lo «portò per alcun tempo sopra la camicia», «pensando che avesse qualche gran virtù»: fu deviazione necromantica che egli poi denunciò e rinnegò confessandosi, ma presso di noi può significare comunque particolare speranza, per la sua arte, nell’influenza immaginativa dei dèmoni personali, o

genii, se, per aumentar le fantasie che già riceveva, volle disporre anche di quelle di un genio altrui, legato a sé con un amuleto che abusasse dello sconsolato amore di tali dèmoni per il corpo sottrattogli troppo presto e di forza”.

140

BELLEZZA E PENSIERO

Svolgendo il filo di questo discorso sui genii, addurremo quella credenza dei maghi, che sia dell’immaginazione pura ricever chiare le influenze”. E infatti osserviamo che, al contrario, l'immaginazione opaca degli esecutori

ricevette variamente ma sempre ridotta, l'influenza del genio di Silvio. Pochissimo ne sono influenzati i marmisti di San Matteo a Genova?®, che pur avevano suoi bei disegni di metamorfosi immaginative d’esseri marini. Con esteriore professionalità copia le forme di Silvio nel monumento Maffei di Volterra (1529-32), la bottega che vi inserì fra l’altro la terza candelabra copiando elementi delle altre’. E Maso Boscoli imitò timidamente quando ebbe da copiare, per la parte sinistra del monumento

Strozzi, maschere urlanti e cre-

state!°. Invece Silvio ricevette influenza chiara del genio di Giovan Francesco Rustici'!, per una lavorazione spesso dolce e fiera. Pure questi era mago; il Vasari ne dice che «attese anco alle cose di necromanzia», e che si dilettava di

tener presso di sé e di osservare alcuni animali‘: «multa per phantasticam essentiam sapit animal», aveva scritto Sinesio!?...

Il mondo di Silvio ci chiede dunque d’esser veduto come immaginativo e trasmesso da altri. Così, quando guardiamo, ad esempio nelle candelabre di Montenero o di Volterra, larve metamorfiche (una donna con cresta di foglia, fig. 41

un satiro-tritone, un efebo-farfalla), dobbiamo pensare che esse rappresentino solo un’analogia, un’analogia della labile cosa che è il corpo dei dèmoni, via via conforme alla loro immaginazione e quindi mutevole con essa! — giacché discendono dall’immaginazione dell’artista influenzata dalle fantasie e dai mutamenti di quella del suo genio. E ancora: guardando quelle candelabre, vi vedremo in immagine, sotto le fiamme dell’anima, non già esempi di concreta natura (come, con tralci, foglie e frutta, fu in Desiderio o nel Rossellino!5), ma fantasie continuamente mutevoli, sian pur talvolta cestini e corolle: così che le

fiamme si eleveranno dalle fantasie, l’anima dall’immaginazione pur tinta di vitali dolcezze come a dire una tenerezza bianca di carne, o la gioventù d’una chioma cinta di nastro. Ma poi: fra gli esempi di concreta natura delle candelabre d’altri artisti e l’anima che se ne eleva, c'è una opposizione, che noi dobbiamo idealmente inserire: invece, fra immaginazione ed anima nelle can-

delabre di Silvio, per quanto riguarda i suoi intenti, noi dobbiamo vedere continuità e simpatia, come, per i maghi, fra tutto nell’universo. E quindi, con

quest’arte in cui l’alta tensione intellettiva non disprezza ma affettuosamente comprende la fantasia e la sua mutevolezza, Silvio alterò alquanto il discorso di Michelangelo nella Sagrestia Nuova, ove attese a parti secondarie'5: l’alto

ideatore voleva esprimervi che le anime ormai spoglie, nella figura delle valve, tornano al Dio-luce staccandosi dal mondo: su dalle apparenze, che son come

maschere; su dal corpo, vasi; dal transeunte, mostri fantastici; dalle glorie, nella

forma di trofei. Silvio vi fu chiamato per eseguire i simboli di ciò che doveva esser considerato negativo, e contrapposto all’elevazione dell’anima - ma poi vi liberò tali pregi immaginativi da render più complessi, anzi dibattuti, quella contrapposizione e quel distacco: ornati i vasi, sempre diversi fra loro; inattesi i

SILVIO E LA MAGIA

141

mostri; altrettante alterazioni del cuore umano quanti sono i settori del fregio di maschere; e in una corazza dei trofei, uno spunto michelangiolesco è preso

da un vento di fantasie, che svolge steli su dal pube, svolazzi di nastri e levità di barbe, liberi tralci e poi fruttescenze. E Silvio allo stesso modo esaltò l’immagi-

nazione nell’iconologia del monumento Maffei, che nella parte alta significa l’irradiazione del Verbo nello spirito e nella natura, simboleggiati da cherubini

e da festoni nonché da vasi fiammeggianti; e nella parte centrale significa che per effetto della Croce l’anima può tornare in alto durante la vita (nei simboli delle candelabre centrali, che partono da creature polimorfe e culminano in

fiamme) e dopo la morte (nei simboli delle candelabre esterne, che hanno in basso valve di conchiglia, e fiamme su in alto). La tensione alla bellezza ideale, però affettuosamente comprensiva del dono di fantasie e sogni, è in tre statue marmoree di Silvio. Nei due Angeli per

il Duomo di Pisa (1528-30)! la grazia indicibile si collega a un momento luminoso e veloce, e ad uno caldo e lento, dell’immaginazione, che vi si riflettono; ad emozioni e particolarità, cioè maschere espressive nei candelabri, un nastrino da polso che tiene su una manica, eleganza di sandali. E in un nudo Cacciatore, del Prado!*, la grazia della testa che si volge, non è, come nel Tribolo

che pur la influenza, ascetica: per simpatia si inanella a languore, a ricchezza carnale, ad elegante slancio, a gentilezza di timidi gesti, nonché a colleganza magica se esso rappresenta (com'è possibile) Meleagro, giacché l’esistenza di questo giovane era connessa a quella di un carbone, e quando il carbone arse, lui miseramente morì'?. Ma c’è di più: l’oPvs SILVII da legger sul tergo di un Angelo di Pisa, già ci invita a guardar questo tutt’intorno e non solo in asse al suo incedere: da varie parti, quest’Angelo e il compagno ed anche il Cacciatore, e perfino Angeli a rilievo a Firenze e Volterra, congiungono alla maggior grazia della veduta privilegiata, che significa intellezione, occasionali offerte di dolcezza, molte-

plici dunque come la fantasia che rispecchiano. Questo mondo immaginativo è continuamente vario, come ben sappiamo per i sogni (non più, allora, pensiamo a mano altrui se fu irripetibile la luce d’uno di quegli Angeli?°); e, come i sogni, è vario nelle emozioni, i suoi incubi essendo certe maschere tremende, paurosissimi elmi; ed ha pure un «presto» e un «lento» che riguardano la foltezza dell’espressione. «Presto» nella decorazione a stucco della cappella dell’arca al Santo (1533-34)?!: ali, girari, veli, nastri, esseri eleganti, focosi, pugnaci, slanci, equilibri, abbraccio, danza,

scherzo... In due volticelle del palazzo d'Andrea Doria (1531)? invece, le immaginazioni s’eran susseguite incantevolmente: nell’aria lievi nuvole s°av-

volgevano o s’alzavano soffiate, un fumo faceva alcune volute, volava un uccello: o anche, come in una danza nel fondo del mare, pinne e creste e baffi

velati fluttuavano. L’iconologia prevede poi la compagnia dei dèmoni nella cripta di San Matteo a Genova, decorata da Silvio? per accogliere il corpo d'Andrea Doria:

fig. 42

142

BELLEZZA E PENSIERO

ove gli spiriti del sottoterra e del buio faranno compagnia al genio di quel grande quando si sarà separato dal corpo e pur continuerà ad aleggiarvi vicino: allora l’anima immortale sarà già volata in alto, redenta dalla Passione di

Cristo, come ricordano la valva, e la croce e gli altri strumenti... ma gli spiriti proseguiranno le loro fantasie con immagini vitali analoghe a quelle che la mano va, sotto indiretto dettato, già trasmettendo allo stucco: corpi di donna e

d’uomo e d’ermafrodito, con capezzoli appuntiti e verghe talora vegetanti; teste mature o giovani, impressionate, meravigliate, aperte. Ecco, in questo

modo,

in un’arte senza cose, una vittoria degli affetti e della vita, sulla

morte. 1990 e 1991

è@ Pubblicato su «Artista», 1992.

NOTE

1 Vasari-Bettarini e Barocchi, 4, testo, p. 260: «forse maliastro». ? Vedi i miei: Primo Quattrocento, «Artista», 1990, pp. 156-158; Piero e le occasioni, «Arti-

sta», 1991, pp. 166-168 (ripr. in questo libro, pp. 28-29, 43). 3 Sull’altare del Cosini a Montenero vedi la scheda riassuntiva di S. Taccini in Livorno: progetto e storia di una città tra il 1500 e il 1600,

Versilia - Lorenzo e Stagio Stagi da Pietrasanta, «L’Arte», 1909, p. 280; P. Bacci, Gli «Angeli» di Silvio Cosini nel Duomo di Pisa, «Bollettino d’arte», 1917, pp. 116 e 132; E. Carli, Volterra nel Medioevo e nel Rinascimento, Pisa 1978, p.

89; G. Dalli Regoli, op. cit. Per me sono opera del Cosini: la figura del defunto; l'Arcangelo e il Beato Gherardo ad altorilievo; la prima, la seconda, e la quarta candelabra da sinistra; le

catalogo della mostra (Livorno), Pisa 1980,

sculture decorative sopra e sotto l’Arcangelo;

pp- 294, 296, nonché in G. Dalli Regoli, Sil-

gli stucchi. !0 Il Vasari giuntino (1568; ed. cit., 4, te-

vius Magister, Lecce 1991, p. 41 ss.

4 Vasari, luogo cit.

° H.C. Agrippa ab Nettesheym, De occulta philosophia, s.l. 1533 (reprint Graz 1967), 1,

39 (p. XLV). 6 Ivi, 3, 42 (p. CCCIV).

? Vedi ad esempio Sinesio, De somniis, in M. Ficino, Opera, Basileae 1576, p. 1973.

sto, p. 258) dice che il monumento ad Antonio Strozzi in Santa Maria Novella fu com-

messo dalla moglie Antonia Vespucci ad Andrea da Fiesole; che fu eseguito nel 1522, con l’intervento del Cosini per la Madonna e di Maso Boscoli per ambedue gli Angeli; che fu messo in opera con qualche ritardo essen-

8 Credo che il Cosini abbia fornito i disegni

do sopravvenuta la morte di Andrea. La pro-

almeno per i bassorilievi sulla lastra che attualmente fa da base alla cantoria. L’esecuzione scultorea mi sembra impersonale: per un’attri-

babile inesattezza del Vasari quanto ai tempi fu rilevata da G. Milanesi, nelle note della

buzione generalizzata al Cosini, vedi invece

tonio Strozzi morì all’inizio del 1524, ed Andrea da Fiesole nel 1526. Il Vasari torrentiniano (1550; ed. Bettarini e Barocchi, 4, te-

C. Manara,

Montorsoli e la sua opera genovese,

Genova 1959, p. 51.

9? Per le vicende dell’esecuzione del monumento di Raffaele Maffei in San Lino di Volterra, vedi J.E D'Amico, The Raffaele Maffei Monument in Volterra, in Supplementum Festivum - Studies in Honor ofPaul Oskar Kristeller,

Binghamton N.Y. 1987, p. 469 ss. (i documenti sono alle nn. 58, 61, 63-65), e il commento che ne dà G. Dalli Regoli in AA.VV.,

Scultura del Cinquecento a Volterra, Volterra 1988, nonché in Silvius Magister cit., p. 45 ss. Per la cernita di parti eseguite dal Cosini mi sembrano interessanti: C. Aru, Scultori della

sua edizione (4, p. 481), adducendo che An-

sto, p. 258) portava in più la notizia che fu Silvio a porre in opera il monumento. L’Angelo di destra fu giustamente riconosciuto al

Cosini da C. Gamba (Silvio Cosini, «Dedalo», 1929-1930,

p. 232), il quale gli riferì

anche «gli ornati e i fastigi con mascherine» (ibidem): anch’io ritengo che questi siano stati «inventati»

dal Cosini, ma che l’esecuzione di Maso Boscoli torni nei mascheroni di sinistra non ne sia totalmente sua, e che la mano

e nel corpo (non nella testa) dell’erma leonina dallo stesso lato.

144

BELLEZZA

11 Dell’influenza del Rustici sul Cosini ha

parlato C. Gamba (op. cit., p. 229). 1? Vasari-Bettarini e Barocchi, 5, testo, pp. 480-481.

E PENSIERO

19 Ovidio, Metamorfosi, 8, vv. 451 ss., 511 ss. 20 Vedi la n. 17.

21 Le parti figurate della decorazione a stucco della volta della cappella dell’arca al Santo

15 Sinesio, op. cit., p. 1971. 14 Psello, De demonibus, in M. Ficino, op. cit.,

di Padova sembrano tutte inventate dal Cosini, anche se i documenti ricordano il suo nome

15 Vedi il mio Preparativi per l’interpretazione

La Basilica di S. Antonio di Padova, 1, Padova 1852, pp. 163 e XCVIII; E. Rigoni, Su uno dei

p. 1941.

di opere funebri quattrocentesche, «Artibus et hi-

insieme a quello di altri artefici (B. Gonzati,

storiae», 23, 1991, p. 83 ss. (ripr. in questo

quadri marmorei della cappella del Santo, 1931, in

libro, pp. 39-40).

L’arte rinascimentale a Padova, Padova 1970, p.

16 Vasari-Milanesi, 4, p. 482. Nella biblio-

grafia relativa al Cosini, i bassorilievi con i vasi sono riconosciuti da A. Venturi, Storia, 10, 1,

p. 488.

!7 I due Angeli per il Duomo di Pisa, oggi al Museo dell’Opera, sono ricordati dal Vasari torrentiniano (1550; ed. Bettarini e Barocchi, 4, testo, p. 259) come opera del Cosini ambedue, e dal Vasari giuntino (1568; ed. Bettarini e Barocchi, ibidem, e 5, testo, p. 202) come opera l’uno del Tribolo e l’altro del Cosini: sulla documentazione e le scritte OPVS SILVI che li accertano ambedue del Cosini, vedi P. Bacci, op. cit., pp. 126-131. Su questa vicenda

critica: G. Dalli Regoli, Due angeli di marmo, «Opus Silvii», per cento scudi d’oro di sole, «Antologia di Belle Arti», n.s., 21-22, 1984, p. 15 ss.; C. Casini, Il rinnovamento dell’ornato scultoreo interno del duomo dal 1523 al 1545, in AA.VV., Scultura a Pisa tra Quattro e Seicento, Firenze 1987, p. 174.

18 Inv. 369; marmo, h. cm. 106. Attribuzio-

ne mia, su segnalazione di M. Mena e di A. Pérez Sanchez, il quale già riteneva che l’opera fosse fiorentina.

241).

22 Credo del Cosini la decorazione a stucco della quarta e della quinta volticella della Galleria degli Eroi nel palazzo di Andrea Doria a

Fassolo in Genova, cui si lavorò agli inizi degli anni Trenta: la datazione 1531 si deduce fra l’altro dalle vicende del monumento Maffei a

Volterra (vedi n. 9). Per recenti pareri discordi sull’intervento del Cosini nella Galleria degli Eroi, vedi: B. Davidson, Drawings by Perino del Vaga for the Palazzo Doria, Genoa, «The Art Bulletin», 1959, p. 320; FM. Aliberti Gaudioso - E. Gaudioso, Gli affreschi di Paolo III a Castel Sant'Angelo, catalogo della mostra, Ro-

ma 1981-1982, 2, p. 33 (cat. 13-14); E. Parma Armani, Perin del Vaga - L’anello mancante, Ge-

nova 1986, p. 111. Quest'ultima opera documenta, alle fig. 108-114, la degradazione delle volticelle rispetto alle antiche fotografie. 25 Gli stucchi della cripta dovettero essere

eseguiti poco dopo la decorazione, firmata dal Montorsoli, del coro sovrastante, e cioè intorno al 1545. Per l’attribuzione loro al Cosini, almeno per quanto concerne la fattura, vedi C. Manara, op. cit., pp. 51-52.

Per il Cellini

Scrive Benvenuto Cellini nella Vita, che il suo primo maestro, l’orafo Marcone, fu «molto uomo dabbene, altiero e libero in ogni cosa sua»!. Mi ha

fatto ricordare quel che Diogene Laerzio scrive di Diogene cinico: egli trattava

con alterigia, e riconosceva che «modello della sua vita era Eracle, che nulla

anteponeva alla libertà»?. «Non son d’ingegno sì alto e profondo / che solver possa un dubbio»... così ancora il Cellini*. Ed io ho di nuovo ricordato Diogene per il suo disinteresse verso la sapienza astratta - «Discorrendo Platone intorno alle idee, [...] Diogene disse: ‘Io, o Platone, vedo la tavola e la coppa; ma le idee astratte di tavola

e coppa non le vedo’»* —. E a quel «non son d’ingegno», il Cellini aggiunge che egli comunque pensa al bene e al male, cioè all’etica...: molto mi è venuto

da dire per confrontare l’etica del Cellini con quella dei Cinici, nell’èmbito di una filosofia che per quanto lo riguarda egli dice boschereccia* e svolge largamente nell’autobiografia, ma che noi sappiamo tender anche in quegli antichi, a formulazioni popolari nonché, appunto, autobiografiche.

Dunque, è scritto di Diogene cinico, che «dava minor peso alle prescrizioni delle leggi che a quelle della natura». Egli perciò «era solito fare ogni cosa alla luce del giorno, anche ciò che riguarda [...] Afrodite»*. Varie analogie troviamo nel Cellini: il quale dice di Caterina: «perché io sono uomo, me ne sono servito

ai mia piaceri carnali»; e, di una bellissima serva, «promettendolo la stagione in nella quale io mi trovava in nell’età di ventinove anni», essa

«mi compiaceva

alla giovinezza mia del diletto carnale»; e, ancor più scevro di vergogna e giustificazione, scrive di due fanciullette: «io rubai quella servicina, la quali era nuova nuova»; Gianna «era pura e vergine, ed io la ’ngravidai»”.

Dando maggior peso alle prescrizioni della natura che a quelle delle leggi, Diogene non trovava strano rubare, neanche da un tempio?: e il Cellini si appropriò di una libbra e mezzo d’oro dopo la fusione dei triregni di Clemente VII, sottrasse argento a Francesco I, ed a Cosimo metalli da bronzo’.

Oltre che senza vergogna, anche violento contro chi gli sembrasse meritarlo — così com'è il cane, dal cui nome greco i Cinici trassero il nome loro -, ecco che il Cellini pugnala l’uccisore del fratello; dà due colpi soli, ma mor-

146

BELLEZZA E PENSIERO

tali, al gioielliere Pompeo; e fa, «per sua difesa», molte aggressioni armate". Ma Diogene poteva insegnare al Cellini anche alcune virtù.

Diogene, dunque, «interrogato su quale fosse la cosa più bella tra gli uomini, disse: ‘La libertà di parola’»!!. La libertà di parola, la troviamo nel

Cellini non solo quando narra di atti naturali, o quando (lo vedremo) dice il

fatto suo ai potenti, ma anche quando parla d’amicizia e di bellezza. Guido Guidi, medico e dottore, Benvenuto ce l’ha «di continuo in nel cuore», e dice «la mia Vita non istà bene senza lui»; quando Benvenuto vede, nel delirio, un tremendo Caronte, «quel Felice, che gli era amorevolissimo, correva piangendo e diceva: ‘Tira via, vecchio traditore, che mi vuoi rubare

ogni mio bene’»!?. Quanto alla sua risposta alla bella gioventù, ricordo dapprima che Diogene tante e poi tante volte nella Vita del Laerzio mette in guardia i giovani contro chi può sedurli'*, e così inquadreremo nella naturalità secondo Cinismo qualcosa che il Cellini narra della sua amicizia, a Roma, con Luigi Pulci, bello, studioso, e cantore: gli chiese «che gli volesse bene da amico», e lo riprese invece quando lo vide amato «d’amore sporco e non virtuoso», e dato «in tutto

alla scelleratezza», «dicendogli che s’era dato in preda a brutti vizii, i quali gli arien fatto rompere il collo»!*. E in quella naturalità secondo Cinismo inquadreremo anche uno dei versi con cui Benvenuto respinse la presunzione di

pederastia: quel verso che dice «son puttaniere ormai, com’ogni uom vede»!5. Nel positivo, poniamo prima il ricordo del Laerzio su Diogene cinico che loda chi dalla bellezza del proprio corpo induce a quella dell’anima!’ — e così potremo inquadrare tante descrizioni, secondo «libertà di parola», di bellezza del corpo però trascesa da quella interiore. Come nostro riferimento pongo prima la descrizione di un angelo che Benvenuto ha visto in sogno — «un giovane di prima barba, con la faccia maravigliosissima, bella, ma austera, non lasciva»!” —, e poi ricordo che se Paulino è detto bello di «infinita bellezza», son

anche detti «onesti [isuoi] atti e costumi»; che se il Cencio romano era «ardito e bellissimo di corpo», egli era anche «oltra modo ingegnoso»; che se Ascanio «divenne il più bel giovane di Roma», era «di maraviglioso ingegno» e «imparava l’arte maravigliosamente»; che se Bernardino era «di bella proporzione di corpo», imparava «l’arte con tanta gentilezza» che Benvenuto non ebbe mai «miglior aiuto di quello». E Diego, giovane «bello di persona», rimane «onesto, virtuoso e savio» partecipando sol per fiducia nell’amico a una burla spregiudicata («volto gli occhi a terra, stette così alquanto senza dir nulla; di poi in un

tratto

alzato

il viso, disse:

‘Con

Benvenuto

vengo;

ora

an-

diamo’»)!5. Ma si ha pur da riprendere, quanto alla cinica libertà di parola, l'argomento del Cellini che dice il fatto suo anche ai potenti. Diogene parlò senza riguardi a tiranni e ad Alessandro'°, e Benvenuto fu «persona che seppe pur troppo dire il fatto suo con i principi»?°: a usar parole della sua Vita e dei suoi versi, fu

PER IL CELLINI

147

superbo con Clemente VII, e con Cosimo fu terribile e «aldace»?!. L’improntitudine con Cosimo, la pagò duramente, in una vicenda che bisogna ricostruire, con memorie disparate, perché riguarda, lo vedremo, la comprensione di alcune sue opere maggiori. Nell’àmbito di rapporti tesi da calcoli ben differenti sul saldo del Perseo?2, il duca, mosso dall’»ira [di] tante lingue amiche»?, non

tollerava lo stretto legame di Benvenuto col suo apprendista Fernando, adolescente di Montepulciano: prima, è il giugno del ’56, fece convincer Fernando a lasciarlo”; poi, Benvenuto parlò «troppo aldace»?5, e allora il duca, nell’occa-

sione di una sua rissa alla fine d’agosto, per due mesi non alleviò la punizione*;

liberato dal carcere, Benvenuto prese forse atteggiamenti ribelli, fino a tentar

l’espatrio il 17 febbraio”: il 27 successivo fu imprigionato per sodomia®, e allora fu convinto dall’amico Guidi a riconoscersi sùbito colpevole, probabilmente per evitar la tortura??: al Guidi, Benvenuto rimprovererà poi d’averlo indotto a dichiarare il falso e disonorarsi*; riebbe la libertà dopo un mese di

carcere?! — e di questa vicenda troppo triste parlerà in intimi versi, ma non nella Vita.

In questa condotta cinicamente libera Cellini si pente solo per la «stranezza» di quasi un pentimento estetico. Certo che a cristiana, giacché nel quotidiano egli non

fra gli accidenti dell’esistenza, il una vendetta contorta??: e sembra questo livello la sua morale non è è neanche sfiorato dal sospetto di

offendere Dio — anzi, se ne crede assistito —: quand’era a Parigi, assalì con la

spada due che gli avevan fatto causa: uno lo privò delle gambe, e l’altro lo «toccò di sorte che tal lite si fermò. Ringraziando di questo e d’ogni altra cosa sempre Iddio». Ma un capitolo più austero ci si apre a considerare, dopo quelli cinici, gli elementi stoici nella filosofia del Cellini. Fra Cinici e Stoici, d’altronde, diceva

Diogene Laerzio, «v'è una certa affinità»**. Derivata da quella degli Stoici è la concezione che il Cellini ha di Dio: gli dà vari nomi - Dio, Dio della natura, Giove? —, così come facevano gli Stoici*,

e come loro crede che in Dio siano eminentemente ragione, giustizia, equità, verità”.

Questo Dio pensa alto, e quindi provvede solo alle grandi linee,

dell’universo e della nostra vita: «Dio fisse ’l chiodo e d’altro non gli cale»; «già stabilisti dentro alla tua corte / ciascun del bene e mal la sua ventura»: e così alta ventura è in primis il dono all’uomo dell’anima, della grazia, del tempera-

mento corporeo, delle inclinazioni, e cioè di come egli è ed appare®*; ma altre grandi linee della Provvidenza sono celate e si rivelano nel tempo: «cominciai a

pensare», dice il Cellini, se «vedere a che fine m’aveva creato Iddio»; «e così

come quel ch’è ordinato dai cieli convien che sia, piacque a Dio che mi tornò in memoria [...]»; «oh che destino mio è questo, che mi sforza a far questo viaggio?». E così celata, ma pur «ferma» per destino, è per ciascuno «l’ora che a Dio l’alma ha a far ritorno»”. E dagli Stoici Benvenuto deriva anche la dottrina dell’immanenza di Dio nell’universo: egli credeva che Iddio e la sua corte risiedessero nel sole, e, fra

148

BELLEZZA E PENSIERO

l’altro, che le anime purgate andassero nelle stelle‘. Così, ispirato dall’immanenza è il sogno avuto durante la prigionia a Castel Sant'Angelo: «vidi in mezzo a detto sole cominciare a gonfiare, e crescere questa forma di questo gonfio, ed in un tratto si fece un Cristo in croce della medesima cosa che era il sole»: e vi vide anche «una bellissima Madonna»*!. Per virtuosi defunti egli immagina poi che s’accendano lucenti stelle...; che li copra un «celeste ammanto / di stelle»*?. Dagli Stoici, Benvenuto trae anche la fede nella divinazione e nei sogni rivelatori. Gli Stoici, diceva Diogene Laerzio, «ammettono anche la divinazione in tutt’intera la sua sostanza, se esiste anche una provvidenza»: e Benve-

nuto, prima che a se stesso attribuisce al padre suo «alquanto di [vena] profetica, che questo certo era divino in lui», e commenta che «nessuno non si faccia mai beffe dei pronostichi di uno uomo da bene avendolo ingiustamente ingiuriato, perché non è lui quel che parla, anzi è la voce de Iddio stessa»**. Sogni rivelatori, poi, li ricorda bene dalla prigionia in Castel Sant'Angelo“. AI di sotto delle grandi linee della Provvidenza, la vita umana è, in questa filosofia, esposta agli accidenti della fortuna, fortuna propizia o contraria”. Questa fortuna egli la fa, in un passo della Vita, coincider con le stelle, «benigne stelle, altre crudele e ladre», che anche interiormente «non tanto ci incli-

nano ma ci sforzano»*7. Se nei tumulti emotivi egli offende spesso l’una e le altre, l’idea stabile sulla «potenzia delle stelle» è che esse «non già [...] sieno congiurate contro a di noi per farci bene o male, ma vien fatto in nelle loro congiunzione, alle quale noi siamo sottoposti»4. E anche tale fede nell’astrologia è di origine stoica: è la faccia stoica, allora, della sua Boschereccia Filosofia, che spiega in termini astrologici al Cellini le incomprensioni fra lui come Granchio, e Cosimo come Capricorno — «Sappi [...] che il Capricorno et il Granchio sono oppositi in nel Zodiaco del Cielo» —*. Si è già inteso che questo stoicismo ha qualcosa di cristiano, quando abbiamo detto che negli alti disegni per la vita dell’uomo, di Dio provvidente, rientra anche la concessione della sua grazia: e Benvenuto mostra di tenervi molto, se per due volte insiste con Clemente VII per riaverla con la sua somma assoluzione («mediante la grazia di Vostra Santità io riabbia la grazia del mio signore Iddio»). Ma su questa grazia, Benvenuto ha anche una concezione storicamente precisa, da contemporaneo del Concilio tridentino, giacché l’au-

reola che egli ritiene di avere intorno alla testa dopo la visione del Crocifisso nel sole, è da intendersi, io credo, come segno della grazia santificante. Nessuno può esser certo della salvezza, recita un canone del Concilio, «nisi hoc ex speciali revelatione didicerit»5!: ma la speciale rivelazione, il Cellini ben crede

di averla ricevuta: «mi restò uno isplendore, cosa maravigliosa, sopra il capo

mio», «per iustificazione della divinità de Dio e dei segreti sua, quale si degnò farmene degno». E pure da stoico cristiano, informato su Clemente Alessan-

drino®?, è la sua fede nell’assistenza e nella difesa degli angeli: un angelo gli impedisce fisicamente il suicidio; gli parla, in un momento di pericolo, «con

PER IL CELLINI

149

voci chiare», e lo scuote per svegliarlo; gli fa scrivere una inconsapevole profezia; angeli gli appaiono in sogno”. E infine, è stoica la remissione alla divina provvidenza che «ne ha ordinato il corso della vita», così che Benvenuto ringrazia Iddio pur nello smarri-

mento della morte d’un figliolino”, e invita una «eccellente signora» a dire genuflessa, a Dio, «contenta io son se a te piace»”. Se contro questa provvidenza, una volta Benvenuto bestemmia con i versi «Or te lo dico, Giove, in tua

presenzia, / che avendo il tuo dominio straccurato / non ti vo” più aver tanta credenzia», poi rinnega simili «fernesie», e poco prima di morire conclude: «né Imai più cose vane»"*.

Eppure..., eppure è cristiana quella fede nella compassione divina verso il dolore dell’uomo, per cui talvolta Benvenuto contraddice lo stoico pensiero che «Dio fisse ’l chiodo e d’altro non gli cale»: «Iddio alcune volte piatoso si intermette», scrive, e: «cognoscemmo allora che il chiamare Iddio e quei nostri

misereri ci avevano più servito che da per noi non aremmo potuto fare». In quel quadro cinico e stoico risiede anche la concezione che il Cellini ha dell’arte. Addirittura nell’arte di gioielliere, egli vede una specifica filosofia*!. Quanto

alla scultura, egli la fonda sullo studio di modelli viventi, dicendo che non potrebbe farne a meno «perché noi non abbiamo altri libri che ci insegnin l’arte altro che il naturale», e che dalla loro bellezza trae onore per l’arte sua°?.

Indifferente all’astrazione intellettiva (ricordiamo «non son d’ingegno sì alto e profondo / che solver possa un dubbio»...), sull'esempio dei Cinici, che, secondo

Diogene Laerzio, «eliminavano anche la geometria»®, in una disputa col Bandi-

nelli non vuol intendere l’accezione di struttura intellettiva, che questi dava al termine «disegno», intendendolo solo come prassi grafica‘; e di séguito ai due versi succitati dichiara poi il fine etico anche della sua arte: «sol mi vale / bronzo, oro e marmo, in cui il bene e ’1 male / sculto mostro qual so, bello e giocondo» 9. Per questo fine etico della sua arte, egli riporta che Francesco I riconobbe ad artisti come lui, «gran virtuosi concetti», e che gli riconobbe di non essere «come gli altri sciocchi, che, se bene e’ facevano cose con qualche poco di grazia, le facevano senza significato nissuno». E infatti, un profondo e severo significato stoico hanno, per come credo, le sculture «inventate» da lui a Firenze, del Ganimede, dell’ Apollo e Giacinto, del Narciso. Già, Ganimede alza con la destra un aquilotto di nido, come segno, secondo la storia di Caio Mario

in Appiano, di un destino di clevazione®”: elevazione lì rappresentata, come già nell’Alciato, dall’aquila di Giove®*. E, per le storie di Giacinto e di Narciso, noi ricordiamo il concetto di fatalità, che torna nella narrazione ovidiana: «fatali

lege tenemur»... «tristia [...] fata»... «fatidicus vates»®...: fatalità mortale, che si avvicina silente e non vista, come la serpe sulla roccia di quel Narciso. Ma, oltre che nei significati, il fine etico della sua arte è presente nella forma, intrinseco ad essa: come nello scrivere la Vita, così nella scultura il Cellini rifiuta i

particolari pur dilettosi, le incertezze - e persegue «la pura verità»?°, che sarà

ig. 44, 46

150

BELLEZZA E PENSIERO

da intendersi stoicamente come fermo giudizio, non come fedeltà all’ogget-

tivo, il quale viene in parte superato con la sintesi di forme di più modelli, che

egli ci narra di aver praticato per la Ninfa di Fontainebleau?! e che poi teorizza nel Della scultura («tutti e buoni maestri tutti ritraggono il vivo, ma la consiste in avere un bell’iudizio di sapere il bel vivo mettere in opera, e saper cognoscere fra i bei vivi il più bello, e vederne assai, e da tutti pigliare quelle più belle

parti che si veggono in essi, e di quelle da poi farne una bella composizione tutta ristretta in quell’opera che tu vuoi fare»)??. Con giudizi talmente fondati si entra in consonanza con i fermi pensieri di Dio, e le opere d’arte posson rivelarsi inserite nei suoi alti disegni provvidenziali: «se Iddio mi dà tanto di grazia che io finisca la mia opera», cioè il Perseo...: e il «getto» del Perseo verrà talmente esatto, senza più e senza meno, «che e parve propio che la fussi cosa miracolosa, veramente guidata e maneggiata da Iddio»??.

In questo quadro stoico-cristiano di divina grazia e giustificazione, più che se mai in quello del pensiero cinico, si può intendere che Paolo III dicesse «che gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere

ubbrigati alla legge»”*, e che in un sonetto scritto «sopra i settanta anni», il Cellini dicesse a Dio: «Tutto il mio ingegno et ogni mio lavoro / sol volgo a te, né mai più cose vane»??.

Tutto questo sull’arte ci aiuterà a comprendere con umana serietà quella vicenda importante per l’arte di Benvenuto, che fu la sua amicizia con Fernando. Anche nel sonetto Feci Perseo, il Cellini dice che la scultura chiede di imparare, come già fece Zeusi, da quei libri dell’artista, che sono uomini

giovanissimi e donne, fra i più belli; e poi dice: cada o non cada l’artista in amore «immondo» per loro, questo non deve incidere sulla ricompensa dell’opera. Dopo quell’ipotesi, però, sùbito tre versi: «Gli occhi e la grazia e ’1 dilicato volto / di quel libro a me tanto amato e caro» sono, comunque, «legge oscura a chi mal iudizio adopra»”°. A questo «mal iudizio» egli fu nel ’57 indotto da Guido Guidi a piegarsi, ammettendo rapporti con Fernando. Col sonetto Eccellente mio Guido gliene fece un rimprovero: vi scrisse (poi la depennò) un’ammissione, «Se bene io son di carne, sangue e ossa, / e que’ sono i mie libri»..., ma ancora una volta, per non trarne la conseguenza: anzi, per scrivere poi, e ancora depennare, «qual feci, arei per vo’ ’l falso dipinto»”.

Al mendacio come via breve per compiacere il «mal iudizio» e così evitare la tortura, egli contrappose quello che invece gli sembrava un argomento sicuro per far valere le sue ragioni: «D’Apollo el suo Diacinto, el bel Narciso / mi fu modello e di Perseo ancora, / certo se voi non eri, io are’ vinto»?8... come a dire che la sua arte rientrava negli alti disegni della provvidenza del Dio della natura — e tanto doveva bastare a vincere insinuazioni di bassezze. Fernando, dice un documento, arrivò presso di lui circa il 15517, e quindi,

come modello umano per il Giacinto e per il Narciso, subentrò a lavorazione

PER IL CELLINI

151

iniziata. Sia l’Apollo e Giacinto che il Narciso, infatti, erano stati principiati nel

°48: il primo, senza modello di cera o di terra, «tanta [era] la voglia» che l’artista

aveva «di lavorare di marmo»; il secondo invece, secondo «un piccol modellino

di cera»*. Non so se il ricordo del Perseo, che segue in quei versi, alluda a qualche confronto con la persona di Fernando per la rinettatura della statua, già fusa dal °49 e scoperta in piazza nel ’548!: ma, per quello che vedo, al petto del Giacinto

somiglia quello del «Perseino»

ai piedi della Danae®”, sia pure con una maggiore

riduzione al fanciullesco; e con le forme e col carattere del Narciso si accordano quelli dei due Persei piccoli, l’uno di cera, l’altro di bronzo: che potrebbero dunque essere non studi preparatori per il Perseo di piazza, ma rimeditazioni, con

fig. 43

un modello umano più caro, su un tema già trattato. L’artista che non poteva fare a meno di modelli viventi, perché essi erano i libri coi quali imparava ed onorava la sua arte, nonostante la stoica rettifica del

giudizio e la conseguente elevazione al provvidenziale, ben conserva per sé e per noi memoria della loro giovinezza, e del loro carattere. Sia Bernardino, che

fu modello per il Mercurio e quindi anche per il somigliante Apollo, che Fernando, erano slanciati; nel petto, Fernando era in carne; nel costato, l’uno era tornito, e l’altro più compresso e forte; ma soprattutto, il primo era di una

fredda perfezione, e il secondo, di una appoggiata dolcezza. E anche nel Crocifisso, a parte la barba studiata su posticci e le gambe portate a fine con un modello adulto, nel costato appiattito, nella tenerezza del giro della testa, e nel

dolce profilo, il ricordo di Fernando torna dalle lontananze. Nel giugno del ’56 Fernando era stato «tolto» a Benvenuto**, ma forse, iniziati con lui e incompiuti eran rimasti nello studio cinque modelli per il Cristo, due di cera, due di terra, e uno, grande, di gesso. Fu comprato il marmo; vennero i mesi d’angoscia nel carcere; poi, il 13 settembre del ’57, la grande alluvione, che

fece infrangere il Narciso”. Dopo Natale Benvenuto scriveva: «mi missi a lavorare in quella mia bottega tutta molle e sgominata. E sendo chiamato dal mio bel Cristo, [...] d’allora in qua io l’ho condotto quasi che alla fine»... «appressandomi più che io potevo a quella infinita bellezza che da lui stesso m’era stata mostra»: ancora un volta, con i significati stoici dell’immanenza di Dio nel sole e della veridicità dei sogni, ma anche unendo struggenti ricordi di dolcezza e di interiore libertà a quei cedimenti della disumana remissione stoica alla Provvidenza,

che sono, in lui, le preghiere al compassionevole

Cristo, «in croce a capo chino»; struggimenti: soprattutto se crediamo che in

un sonetto del Cellini, sotto l’immagine del cavallo che torna a casa sfinito,

con finimenti strappati e picchiato, ci sia il ricordo di Fernando quando fu

costretto a lasciarlo, e lui non comprese e anzi lo punì. «Tornò ’1 cavallo afflitto, lasso e stanco, / senza cavezza e senza posolino, / ché quel servo crudel o contadino / l’avea percosso l’uno e l’altro fianco. / Quand’io venissi di mia vita manco, / per voi laldere’ Dio santo e divino»?!. 1995-1996

?@ Inedito.

fig. 45

NOTE

1 B. Cellini, La vita, a cura di C. Cordié,

1° Diogene Laerzio: 6, 2, 43; 6, 2, 50; 6, 2,

Milano 1944 (da ora in poi sarà citato come VII: pa):

38.

2 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, trad. M. Gigante, Roma-Bari 1983 (da ora in poi sarà citato con il nome dell’autore), 6, 2, 71. 3 B. Cellini, Poesie, in I Trattati dell’oreficeria e della scultura, a cura di C. Milanesi, Firenze

246.

1857 (da ora in poi sarà citato come Poesie), 85. 4 Diogene Laerzio: 6, 2, 53. 5 Poesie, commento al nr. 72 (p. 364). 6 Diogene. Laerzio:6,.2,./1; 6,2, 69. dita: 2282 p.60)452.(1-p. 153)

29 (1, p. 67); 2, 37 (2, p. 85).

“Diogene Fagizio: 6,72, 71; 0, 2, Vo: ? Vita, 1, 43 (1, p. 115); L. Dimier, Benvenu-

to Cellini à la Cour de France - Recherches nouvelles, Paris 1898, pp. 31, 37; documento del 19 aprile 1554, in I Trattati cit., p. 258.

10 Vita: 1,51 (1, p.136); 1,73 (1,p.189);2, 28 (2, p. 64).

20 Vasari-Bettarini e Barocchi, 6, testo, p.

21 Vita: 1,56 (1, p. 147); 2, 100 (2, p. 224). Poesie, 27.

22 Vita: 2, 95 (2, p. 207); 2, 97 (2, p. 214). 23 Poesie, 17.

24 Quando Fernando va via, il 26 giugno 1556, Benvenuto reagisce annullando il giorno stesso tutti i lasciti che aveva stabilito in suo favore (vedi B. Cellini, Vita, a cura di F. Tassi,

cit., 3, pp. 67-68); ma nel sonetto Eccellente

mio Guido, che si riferisce a vicende giudiziarie del febbraio-marzo 1557, egli mostra di pensare che il giovane gli è stato «tolto» e d’esser pentito d’averlo lasciato andare (Poesie, 62). 25 Poesie, 27. 208]

MINI 19 2/A2

81

27 Vedi J. Pope-Hennessy, Cellini, London

1! Diogene Laerzio, 6, 2, 69.

1985, pp. 254, e 309, n. IX, 4.

13 Diogene Laerzio: 6, 2, 46; 6, 2, 47; 6, 2,

28 Vedi i documenti relativi in L. Greci, Benvenuto Cellini nei delitti e nei processi fiorentini

12 Vita: 2, 24 (2, p. 57); 1, 84 (1, p. 218).

DIZAONZIDA

02059160

927.6021672065.

SIA AZIZ I perda) !5 B. Cellini, sonetto Porca fortuna, in Opere,

a cura di G.G. Ferrero (1971), Torino 1980, p. 861. 6 Diogene Laerzio, 6, 2, 58.

17 Vita, 1, 122 (1, p. 324). 18 Vita: 1, 23 (1, p. 49); 1,83 (1, p. 215); 1, 93, e 1, 106 (1, pp. 247, 285); 2, 58 (2, p. 128); 1,30 (1, pp. 71-72). Su Bernardino, vedi

anche la lettera del Cellini a B. Concino, del 22 aprile 1561, in B. Cellini, Vita, a cura di F. Tassi, Firenze 1829, 3 (Ricordi, prose e poesie), PESS7:

etc., 2 30 3!

Torino 1930, p. 67. Vi. p09: Poesie, 62. Vedi L. Greci, op. cit., pp. 66-75.

32 Vita, 2, 34 (2, p. 79). 33 Iuf.2228.(2-.p.64).

34 Diogene Laerzio, 6, 9, 104. 35 Vedi, ad esempio, Vita, sonetto iniziale, e Poesie, 103. * Diogene Laerzio, 071, 135! VPita: 2922: piU5) 235 1(apa115) pk

33 (1, p. 88); 2, 82 (2, p. 180).

38 Poesie: 33, 98, 103, 70. Vita: sonetto ini-

ziale; 1, 26 (1, p. 61); 1, 10 (1, p. 21).

153

PER IL CELLINI

s3 Wita:2; 30112, p..68)10; 3.02; p. 6); 2, 49 (2, pp. 109-110). Poesie, 105. 40 Poesie, 21 e 106. 41 Vita, 1, 122 (1, p. 326); Poesie, 92. 42 Poesie, 106 e 64. 4 Diogene Laerzio, 7, 1, 149. 4 Vita: 1,6 (1, pp. 13-14); 1,9(1, ps21); 1;

Oro, sono per avere restaurato una figurina an-

tica della alteza di braccia uno e 2/3, alla quale si è rifatto la testa, le braccia, piedi et una

aquile quanto il naturale». Per il significato, vedi Appiano, Le Guerre civili, 1, 8, 75 (vi rimanda il commento al mito di Ganimede ne-

gli Emblemata di A. Alciato: cfr. ed. Lugduni

124 (1, p. 330); 1, 128 (1, pp. 337-338).

1614, p.155).

337).

dell’Alciato, Lione 1549, p. 5: «Ma chi creder

4 Ivi: 1, 121 (1, p. 323); 1, 128 (1, p.

46 Ivi: 2, 17 (2, p. 42); 2, 24 (2, p. 57); 2, 45 (2, p. 102); 2, 59 (2, p. 129); 2, 62 (2, p. 137); 2, 75 (2, p. 166); 2, 84 (2, p. 186). 2 Ivi: 2,31:(2,p. 72); 1,17 (1,p. 37). Poesie, TAO:

4° Poesie, commento al nr. 73 (p. 373). REA

E, ROLE

pr:98)

1434013

vorrà ch’ardesse Giove / di fanciullesco amor, empio e profano? / È rapito da Giove uom la

cui mente / inalzata da lui lieta si sente». 6° Ovidio, Metamorfosi,

10, vv. 163, 203,

348.

48 Vita, 1,115 (1, pp. 310-311).

115-116).

8 Diverse imprese [...] tratte da gli Emblemi

ppi

20°Vita, 1, 26 (1, p. 59). B. Cellini, letteraa B. Varchi, in Vita, a cura di F. Tassi, cit., 1, pp. LXII-LXIII. Cfr. G. Campori, Notizie inedite delle relazioni tra il cardinale Ippolito d’Este e Ben-

5! Canones et decreta sacrosancti oecumenici et

venuto Cellini, [1861], p. 4: documenti inediti

generalis Concili Tridentini, Venetiis 1567, sessione 6, canone 16.

«confermano i fatti narrati da lui stesso nella sua autobiografia».

53 Clemente Alessandrino, Stromata, 5, 91. Vita: 11 18(1}p316)17120(1-:ps322); 02128.(1-pps337=338); 13119.(1, p.317);.1,

72 B. Cellini, Della scultura, 7, in I Trattati cit., p. 204; vedi anche Vita, 2, 57 (2, p.

52 Vita, 1, 128 (1, p. 338).

120 (1, p. 320). 55 Poesie, 86.

56 Vita, 2, 66 (2, p. 149). 57 Poesie, 86.

58 Ivi, 90, 46 (in base al controllo del manoscritto — Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. 2353, c. 28v — correggo in «fernesie» il «fre-

nesie» del testo edito da C. Milanesi), 43. È ii, 5

60 Vita: 1, 17 (1, p. 38); 2, 50(2, p. 112). 61 Ivi, 1,92 (1, p. 244). 62 Ivi: 2, 57 (2, p. 126); 1, 30 (1, p. 71); 2, 34 (2, p. 80).

71 Vita, 2, 37 (2, pp. 84-85).

126). 73 Vita: 2, 66 (2, p. 149); 2, 78 (2, p. 173). 74 Ivi, 1,74 (1, p. 192). 75 Poesie, 43. 76 Ivi, 96. 7? Ivi, 62. Per i versi depennati, vedi Firen-

ze, Biblioteca Riccardiana, cod. 2728, c. 6. 78 Ibidem; riveduto sul manoscritto. CVediGreck, op. pr 607: 80 Dalla Vita (2, 67-72: 2, pp. 149-160) si trae che i lavori al Ganimede, all’Apollo e Giacinto, e al Narciso, cominciarono quando «la figura della Medusa» destinata ad andar sotto i

6° Diogene Laerzio, 6,9, 104. 64 Vita, 2, 71 (2, p. 156). Vedi in proposito

piedi del Perseo «era di già gittata» ma era an-

M.L. Altieri Biagi, La «Vita» del Cellini. Temi,

dusa» sono documentate al 3 luglio 1548 (do-

termini, sintagmi, in Benvenuto Cellini artista e

cumento

scrittore, atti del Convegno I971), Roma

(Roma-Firenze

1972, pp. 116-117.

65 Poesie, 85.

66 Vita, 2, 22 (2, pp. 54, 53).

cora alla rinettatura: spese «pel getto della Me-

249-250).

in B.

Cellini,

I Trattati

cit., pp.

81 Vedi i documenti in B. Cellini, I Trattati cit., pp. 250-251, 258-259, 281, 283.

82 Alla fusione della Danae col «picol Persei-

no», nonché del Mercurio (del quale era stato

67 Per datare il Ganimede, vedi qui n. 80, e poi il documento del 13 febbraio 1549 ab In-

modello Bernardino: vedi, qui, la n. seguente),

carnatione (per noi, 1550) pubblicato da C. Mi-

si attese dal 15 aprile 1552; il pagamento è del

lanesi in B. Cellini, I Trattati cit., p. 252: «sino a dì 13 di febraio 1549, scudi trecento d’oro in

9 luglio successivo (D. Trento, Benvenuto Celli-

ni - Opere non esposte e documenti notarili, catalo-

154

BELLEZZA E PENSIERO

go della mostra, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1984, p. 63). 83 B. Cellini, lettera a B. Concino, cit., p. 337. Vedi anche, qui, la n. precedente. *#Vedi,qui, na241 85 Vedi l’inventario dei beni presenti nella casa del Cellini dopo la sua morte, datato 15 febbraio 1570 ab Incarnatione (per noi, 1571), in B. Cellini, Vita, a cura di F. Tassi, cit., 3, pp. 257-258.

86 D. Trento, op. cit., p. 76. Vedi anche J,.

Pope-Hennessy, op. cit., p. 258. 8. Wita, 2, 7242 pa159)\0Ctr*G. Alazzi,

Narrazioni istoriche delle più considerevoli inondazioni dell’Arno etc., Verona 1967, pp. 15-18. 88 Vedi B. Cellini, Vita, a cura di F. Tassi, Cit, d, pid

89 Era questo un proposito che il Cellini riferiva già al suo periodo francese — la citazione è infatti da Vita, 2, 11 (2, p. 28) —. 90 Poesie, 20. 2 194,

Ritratto di un artista giovane

A Perugia, nella gran piazza ventilata anche in un’ora d’estate, avevo letto

sulla base della statua di Giulio III, che Vincenzo Danti l’aveva fatta quand’era

ancora un giovane di prima barba!: a cercarla cogli occhi da punti lontani, la sapevo complicata per ricordi d’opere romane? e per figurazioni nelle pieghe del piviale, e la vedevo invece morbida e spontanea. Nel quaderno d’appunti tenevo scritto che a lungo trattaron Vincenzo come giovane: «giovane singo-

lare e d’ingegno sublime e acuto, grazioso e gentile»*, «veramente raro, e di bello ingegno»: d’opere «rare fra i moderni giovani scultori»5. E dopo, in quella città ventilata, nella luminosissima San Domenico il suo busto fatto da Valerio Cioli per il sepolcro, mi mostrava una testa di bello ormai adulto, rotonda e di forti capelli, naso fine, occhi grandi, che somigliava a quella di

suoi giovani di marmo o di bronzo. Di quest'artista gentile, voglio tentar di fare, nella nostra immaginazione,

un ritratto. Prenderò materia dalle sue sculture così come dal suo incompleto Trattato: questa volta, sentendomi sostenuto anche da un epigramma, che suona

«In bronzi, in marmi, et in colori espresse / ciò ch’ei scrisse»®. Seguendo gli insegnamenti che lasciò, mi propongo di mostrarlo così come la sua natura lo

avrebbe portato ad essere”. Guarderò dunque solo nel riscatto artistico che ottennero, le occasioni della sua vita: perfino i dolori che egli subì nei primi anni del soggiorno a Firenze, dov’era già nell’estate del 15578. «’L desio», scriverà in un sonetto, «leve e sublime a far m’astrinse»?... lo spinse a tentare un’opera grande, un gruppo

bronzeo d’Ercole e Anteo per il giardino di Castello. «In tre volte che la gittò, non gli venne mai bene»!°: e lui: «Ahi ch’errai nel sentier con false scorte / dell’oprar mio», per questa «opra ch’ognor pena e dolor m’apporte» con «il furor di tante aspre procelle»!!. Ma la sua forza naturale lo fece rialzare, così

che un amico poté scriverne nel ’61: «Egli ha vinto / tutti i miglior, ch’invidia n’hanno, e sdegno»"2... con i suoi capolavori, tutti insieme: Il serpente di bronzo, lo Sportello per una cassaforte del duca, L’Onore che vince l’Inganno, e due rilievi

marmorei che sublimavano con l’analogia la sua vicenda di colpito dai malvagi e poi da per sé vincitore: la Flagellazione e la Resurrezione di Cristo".

156

BELLEZZA E PENSIERO

Anche l’ammirazione per Michelangelo, della quale ci parlan sculture e

scritti suoi, la considererò scavalcando quella sua ammessa povertà di cono-

scenze filosofiche', per la quale, un poco perplesso'5, volse in facile aristoteli-

smo moderno la fede platonica del maestro — sostanziali restando invece il riconoscimento di sé ed il coraggio che egli trasse dalle notizie di Michelangelo per come gli giunsero. Ahi troppo tardi, si lagnava, ho conosciuto i suoi pensieri e la sua grandezza! quando avevo già passato i ventidue anni, così che «non ho fatto quel profitto, né credo di poter fare giamai, che averei per aventura potuto fare, se altrimenti fusse avenuto»'°. Era nato nel 1530, e allora ebbe quelle notizie sul ’53, al tempo della pubblicazione della Vita scritta dal Condivi: e anzi direi per suo tramite, se ad essa fa tanti impliciti rimandi

quando riconosce anche in sé qualità che l’autore riferisce a quel grande: volontà di studio!”, memoria'8, fantasia!”; un’arte fondata su ricordi della bellezza umana, ma col rifiuto di «fare somigliare il vivo, se non era d’infinita

bellezza» (come dirà il Vasari?°), e anzi «il bello dalla natura scegliendo, come l’api raccolgono il mèl dai fiori»?!; una concezione della bellezza umana, non

fondata su proporzioni numeriche, «di che certa regola dar non si può»”; e l’amore insito nella trasmissione agli altri, del frutto dei propri studi”. Vincenzo, in una pagina riconobbe a se stesso d’esser nato con l’amore per

lo studio e per la fatica che migliora”. Aveva una memoria forte ed esatta, che gli conservava e porgeva immagini numerose e fedeli, di marmi ellenistici, e d’opere di Raffaello, del Salviati, di Guglielmo della Porta, del Ghiberti, di Donatello, di Desiderio, di Michelangelo, del Tribolo, del Pontormo, del Bronzino — che ben riconosciamo nella

sua scultura”. Aveva un temperamento immaginativo, non intellettivo, se in un sonetto si figura Iddio nel Cielo come un Cristo di carne? e alla sua immaginazione riconosceva potenza inventiva, giacché, se Michelangelo in confronto alla propria restava scontento delle sue opere e sempre le abbassava”, o, «per non potere esprimere sì grandi e terribili concetti, aveva spesso abandonato l’opere sue»?8... egli scrive di sentir dentro al cuore una lode del Cellini che gli sembra degna d’Omero, ma che «l’ingegno non basta a esprimer poi»?; o lascia senz’altra giustificazione incompiuti gli angioletti nel monumento a Carlo de’ Medici, dedicato nel 1566 — e, aggiungerei, vari altri marmi —. Era ben consapevole dei caratteri dell’immaginazione. Sapeva da Aristotele che «non si può pensar niente senza il continuo», e lavorò a rilievo pittorico,

o inquadrò i gruppi con fondali architettonici allusivi e fuori scala come accade spesso nell’immaginazione: nel duomo di Prato e nella testata degli Uffizi e su

una porta del Battistero... una porta oscura, o belle colonne, un fornice di gran luce, portici svanenti. Sapeva che, se non dev” esser chiarita per esprimerla,

l'immaginazione può esser nebulosa: così, nebulosa ne è la figura in rilievi da

ambienti riservati, come lo Sportello o la piccola Deposizione®!. Sapeva anche che

essa elabora e muta le immagini: in angoli dello Sportello, accanto a ricordi del

RITRATTO DI UN ARTISTA GIOVANE

157

Bronzino e d’un Prigione di Michelangelo e fors’anche del Pontormo di Careggi, cornici che stan divenendo teste di scimmia o d’ariete o ali. Sapeva che l'immaginazione àltera i rapporti dimensionali a seconda dell’interesse: ancora in quello Sportello, scale dimensionali disparate??.

Pensando alla consapevolezza che Vincenzo sembra aver avuto dei caratteri

| e delle azioni che memoria ed immaginativa avevano in lui, sottrarremo alla fredda poctica i temi, ch’egli svolse nel Trattato, del «ritrarre» a memoria solo i

perfetti, o dell’«imitare» gli imperfetti integrandoli nell’immaginazione e, di riflesso, nell’arte, con parti belle ricordate da altri*. Con simpatia comprende-

remo che egli vi parla del suo destino estetico e dei diletti che gli son propri; della malinconica consapevolezza che non accade quasi mai d’incontrar persone perfette da richiamare agli sguardi interiori con diletto totale, e pur anche della volontà di non chiudere con la speranza di incontrarne; delle correzioni

portate nella fantasia agli incontri migliori, come lentamente si può giunger a fare, in solitaria quiete. Da uomo poco incline all’intellezione e invece ricco di fantasia, la bellezza non lo elevava a idee soprannaturali come, secondo platonismo, accadeva a

Michelangelo - ma lo faceva sognare, e gli faceva poi «imitare» i sogni restando, come

scrisse, in quel che natura vuole e le si conviene:

così, la

bellezza era per lui principalmente quella delle persone adatte alle funzioni del corpo* che son poi di sostegno a quelle della mente? armoniose nei moti”, che si posson credere buone?’ o addirittura incantano con la grazia‘°, gio-

vani*'... che per tali sogni gli mostravano limpide, senza le occasionali insufficienze o goffezze che son largamente diffuse‘, le intenzioni di una natura benefica e ordinata‘. Tutto questo era in lui concettualmente confortato e formato da facili testi dell’aristotelismo moderno, come la lezione Della natura

del Varchi*: ove si legge che «la natura fa tutto quello che la fa, ad alcun fine»*, e «intende, appetisce e cerca sempre il bene», «ordinatissima, anzi

cagione d’ordine, onde delle cose naturali niuna è disordinata, se non di rado e per accidente»*”; e che «accomoda gli strumenti agli ufizi»*, «non solamente avendo cura al necessario e all’utile, ma ancora al bello [...]; anzi in tutte le

operazioni sue intende e cerca la bellezza e l’ornamento dell’universo»*. Come i ricordi della bellezza naturale e con le stesse regole, Vincenzo vagheggia i suoi ricordi della bellezza artistica, che per lui dipende dall’altra, ma è più libera da contingenze®. Oltre a quello che ci dicono le sue sculture, sappiamo dalle sue parole che teneva «sempre come uno specchio dinanzi agli occhi [...] le bellissime opere» di Michelangelo, aspirando a imitarle «con tutte le forze e potere»5!. E a questa contemplazione ed aspirazione egli dètte figura, credo, in un bronzetto oggi a Vienna, da riconoscergli nuovamente, ma non più col titolo di «Ercole»®. Rappresenta un uomo forte, ma giovanissimo e sbarbato e con una clava snella, e sarà Teseo: gonfia il torace potente, rovescia la testa di lato con lo sguardo lontano, in un’aspirazione sognante: Teseo Vincenzo avrà letto in Plutarco - «considerando [...] con maraviglia la virtù

fig. 4

158

BELLEZZA E PENSIERO

d’Ercole, la notte sognava le prodezze di lui, e il giorno poi l'emulazione e la

gara lo sollecitava e faceva rinsentire, disegnando egli di volere far le medesime cose», giacché «l’animo suo [...] s'era tacitamente infiammato per la gloria

della virtù d’Ercole, di maniera che l’aveva sempre in bocca, e più che volentieri stava ascoltando coloro che gli ragionavano de’ fatti e delle virtù di lui, e massimamente quando egli udiva dire ch’alcuno l’avesse conosciuto di vista, e fosse stato presente a qualche fatto e detto di lui»; e così, avendo ancor giovanissimo vinto Perifete, ne prese la clava per insegna, pensando ancora al suo

eroe. Eppure, se nell’esistenza Vincenzo seguiva devotamente le tracce di Michelangelo - fra le cave di Seravezza, notando «in di molti luoghi deli M in que’ massi» —, a un grado superiore era più grande in lui il rispetto per la natura che tendeva all’utilità e alla scioltezza delle membra e della mente umana, soltanto dalle quali credeva emanassero bellezza, luce d’intelligenza,

grazia — argomenti di ricordi, di speranza, di elaborazioni immaginative —. Corresse dunque anche i ricordi di opere di Michelangelo: li corresse di quelle pose ricercate che per lui, chiuso alle mistiche memorie del platonismo, erano solo occasionali offuscamenti delle intenzioni, semplici, della natura.

Il Vittorioso, che in posa ardua e sublime opprime il vinto in armatura che somiglia a Michelangelo stesso, e insieme si libera dai lacci connessi al mantello, a significar la parte eterna dell’uomo, la quale, vinta la guerra che le ha fatto il peccato, si libera dai legami della veste corporea... ha un séguito spiritualmente fedele nel piccolo gruppo in terracotta dell’Onore che vince l’Inganno”, attribuito al Danti, ma non nel grande gruppo marmoreo con lo stesso tema, che è sicuramente opera sua. Nel primo, che io credo invece di Giovanni Bandini e vorrei considerar solo per opposizione, una luce di bel-

lezza risplende per una posa estetica di un giovane ideale — armonioso, levigato, dal profilo solenne -: e nella nostra contemplazione il suo anelito è fig. 48

come sospeso, e «si slega così il movimento»;

nel gruppo marmoreo invece,

«l’Onore, con la sua giovinezza forte» sta semplicemente e direttamente vincendo il «torpido vecchio rannicchiato e vile»®. E similmente, per la resa

diretta del moto voluto dalla natura, Equità e Rigore nella testata degli Uffizi, e i grandi gessi dell’Accademia di Perugia, che son tutti elaborazioni o copie dei Tempi del giorno di Michelangelo, li correggono con misure più adeguate o con pose più spontanee58. Ma la massima prevalenza, nel Danti, di una concezione della natura, nella

quale — fra l’altro — l’uomo è un organismo che ha per funzione più alta l’intelligenza se non la grazia, lo porta a correggere anche il ricordo della Leda di Michelangelo, il cui cartone era al tempo tornato a Firenze dalla Francia”. Con i suoi limiti negli «studii di filosofia», egli forse non intese che il significato ne dipendeva dal pensiero del committente Alfonso I d’Este, fondato sull’«Accademia» di Mario Equicola®!, ma poté ben intendere che quella figura, rappresentata nel momento del coito con Giove in forma di cigno, e con

dappresso due figli ed un uovo®, significava accettazione dell’amore fisico

RITRATTO DI UN ARTISTA GIOVANE

159

anche fra ineguali, purché fecondo. La Leda che fece il Danti®, invece, calpesta sì una conchiglia, che significa l’anima nuda della carne, ma d’altra parte il suo significato culmina non in un coito fecondo ma nell’innamoramento, oltre che con il corpo, anche con l’anima. Essa mostra una gamba fuor da una tunica ornata, ed alza attraente i suoi lunghi capelli vagheggiando il cigno: ma si comporta così «perché il cigno canta dolcemente» ed «è possibile che Giove fosse tale che con la dolcezza del suo canto, come spesse fiate veggiamo esser avenuto, egli guidasse Leda ad amarlo e disiarlo», come dice una traduzione del tempo di Vincenzo, dal latino del Boccaccio*. E alla luce di questo rifiuto di un amore che sia funzione limitata dell’uomo, possiamo intendere anche la

Venere Anadiomene per lo Studiolo di Francesco de’ Medici: delle indicazioni dell’iconologo”, ispirate alla filosofia naturale del principe, l’artista fece cadere quella della «conca marina», che per lui significava l’anima spoglia ed

avrebbe quindi confuso l’immagine, la quale doveva essere della sola «forza generativa» connessa all’acqua da cui usciva la dea: e sulla sola forza generativa come funzione dell’uomo, e quindi su un’umanità ridotta in confronto alle intenzioni della natura, egli si espresse dandole una figura femminile fuor d’armonia proporzionale, e quindi né bella né buona - allo stesso modo della Venere con due fanciulli, quindi genitrice, e della Salomè, qualificata come

lussuriosa dal rilievo della base —. Per l’immagine del Danti, che sto cercando di ricomporre mentalmente,

aggiungerò: la stessa semplicità che lo portava a ricordare, immaginare, imitare, ritrovare, la sciolta adeguatezza dell’uomo alle sue funzioni fisiche e interiori, e a confortarsi con la bontà e a rispondere al sorriso della grazia, e ad innamorarsi corpo ed anima del canto... segnava il suo largo amore degli altri. Nelle sue opere restano riservate all’immaginazione del committente, iconografie colte e significati particolari: gli altri, siano artisti o no, ricevono solo valori semplici da capire d’istinto, e possono essere semplici anche loro. Tali destinatari, egli poi dice d’amarli**. Forma di immaginazioni riservata al committente, data la destinazione segreta dell’opera, è lo Sportello della cassaforte ove il duca chiudeva «scritture d’importanza»*°. Questo Sportello - mi vado in parte ripetendo —, come posson essere le immaginazioni che non si comunicheranno è nebuloso e con varie

scale di misura. Riservato dunque, pensato e non detto, il significato della scena centrale e delle figure simboliche che la circondano. La scena ricorda una vicenda di storia romana, un provvedimento del giovane Augusto, così narrato da Svetonio: «Diede alle fiamme i registri dei vecchi debitori dell’erario, fonte

principalissima di accuse calunniose»”, se ci sono, oltre a un Fiume, la Lupa coi

gemelli”', e se il giovane che ordina di bruciare i libri tiene in mano una carta che può ben essere una lettera. Le lettere di delazione e di calunnia saranno state dunque il contenuto della cassaforte segreta, e per il governante che l’apriva c’era ogni volta il monito silente ea lui riservato dell’esempio d’Augu-

sto, e delle figure di Temperanza, Prudenza”?, Pace, nonché di due che son

160

BELLEZZA E PENSIERO

forse Saggezza e Clemenza (se la prima regge l’olivo di Minerva e porge un

libro, e in più ha dappresso una pietanza, che allude al giusto sale”; e se la seconda pone la mano sulla testa d’un prigioniero inginocchiato, a dichiararsi, come dirà il Ripa, «un temperamento della servitù»); alla concordia e all’or-

dine sociale potevan poi condurre il pensiero due rilievi bassissimi sull’ara della Pace, se chi apriva voleva con una luce radente evocarvi le larve di due uomini che si abbracciano, e di un altro a sedere ascoltato da altri, fra cui un giovane che sta in piedi. La forma di immaginazioni riservate è però anche nell’aspetto segreto di opere complesse. I Sacramenti sul piviale del Giulio III non han simboli espliciti, e sono a rilievo bassissimo, obliqui e piegati??, a buona altezza” e nell’abbaglio della luce aperta. I rilievi sulle basi delle statue della Decollazione su una porta del Battistero, con virtù e vizi delle tre figure, o i rilievi con temi zodiacali nell’armatura del Cosimo I, non «ritratto», ma «imitato» per la testata degli

Uffizi”, figurano gli uni fantasie nebulose e gli altri invece fantasie chiare, ma eran tutti in origine sottratti alla comunicazione, per l’altezza di quelle sedi,

che non permetteva di distinguervi molto. Nel Serpente di bronzo fantasie vaganti, e nel gruppo di Onore ed Inganno simboli quali un serpente con testa di donna e una fibbia a forma di vipera, velati dall’imprecisione, vengon lasciati

fuori da un angolo visivo necessario a veder proporzionate e svolte le parti invece chiarite. Per escludere o per non fare espliciti i simboli, Vincenzo poteva credere d’aver l’esempio di Michelangelo (ancora una volta ignorandone l’astrazione contemplativa): infatti un autore del tempo pose per questo i suoi Equità e Rigore del loggiato degli Uffizi, al séguito di Giorno, Aurora, e Crepuscolo?8. E all’opposto poteva aver tratto da parti della Volta Sistina come i fanciulli che fan gesti significativi nei riquadri d’Isaia ed Ezechiele, l'esempio della maggior chiarezza formale delle parti che avevano invece ad esser comunicative”. Però, quanto alla trasmissione del frutto dei propri studi, Michelangelo vi

pensava, secondo il Condivi, come a un «servigio di quelli che voglion dare opera alla scultura e pittura»*°,

e Vincenzo come ad un’«amorevolezza»®! più

speranzosa negli altri, poiché dichiara di portare un «amore spinto [...] a queste arti et a coloro che in esse si affaticano»*, ma anche di sperare con

«candido animo» d’essere utile e gradito «all’universale»8, giacché «ciascuno vivente è in obbligo di procurare di giovare altrui»8. In tal modo, inoltre, si mostrava buono, ben sapendosi al tempo che «chi è buono non ha

invidia: e chi non ha invidia comunica largamente i suoi beni a tutti coloro che ne sono capevoli»*%. Quest'uomo buono, dunque, ci prende per mano e ci guida a trovare in

alcune sue opere, con la facilità che egli cercava in ogni azione, i valori semplici

per lui fondamentali. Guardando il Giulio III da parti alte o almeno lontane della piazza di Perugia, il suo gesto di benedire appare sciolto e spontaneo. Guidati a un punto di vista che escluda le sproporzioni, guardiamo molto dal

RITRATTO DI UN ARTISTA GIOVANE

161

basso Il serpente di bronzo, il Cristo della Flagellazione, il gruppo di Prato, il Cosimo I per gli Uffizi, e vi vediamo i corpi finalmente armoniosi, e i movimenti, se vi sono, precisi. Guidati a guardar Onore ed Inganno un poco dal basso e verso il fianco sinistro del vincitore, perché solo di qui il gruppo non ci

mostra imprecisioni ma solo coerente finitura, vi vediamo nettamente in fun-

zione un bel corpo giovane che ha su una spalla un aquilotto, in intuitiva più che simbolica analogia”. Il semplice valore comunicato largamente sarà che la bellezza degli atti è unita a intelligenza e bontà: e dunque le due figure degli Uffizi, e in analogia tutte quelle positive di Vincenzo, amorevolmente insegnano e confortano quanto basta anche sembrando (a usar parole scritte al tempo) «un uomo e una donna senza più», «in belle attitudini»®8.

Non so se aggiungere che Vincenzo una volta può aver presentato per tutti

anche il valore della vita semplice. Ci ha fatto conoscere le proprie «speculazioni e considerazioni»*°, la propria immaginativa: e queste, al tempo si sapeva

(anche per l’insegnamento del Petrarca, che Vincenzo leggeva molto®), hanno bisogno di quiete; tornato in patria quarantenne,

non «altro divertimento

aveva, che di ritirarsi ne’ giorni di festa a godere la quiete della sua villa di Prepo»?!... Nel monumento

a Carlo de’ Medici, la Madonna col Bambino nel

vano ombroso d’una piccola porta, può essere anche per i semplici, raggiunti scavalcando con amore il simbolo colto della ianua Coeli, altissimo esempio di

una vita com'è la loro. Richiamiamo, a questo punto, le sue virtù: era studioso, aveva memoria e

fantasia, ingegno alto e penetrante, era amorevole e buono: già con questo era singolare, ma in più era grazioso e gentile. Soffermiamoci allora, e ricordando che per lui la bellezza interiore è causata da quella del corpo, dalle sue belle virtù risaliremo, come alla loro causa, a una persona bella. Egli avrà avuto la

«giusta pienezza» «che si suol dire comunemente carnosa»? perché solo su questa base poteva riconoscere a sé «le ragionevoli operazioni, che servono come ministre, all’intelletto»®; sarà stato molto forte, perché tale, sia pure con malevolenza, lo ricorda un sonetto del Cellini”: e allora, poiché l’Onore ha bei

lineamenti simili a quelli del ritratto sul suo sepolcro, ed è anche carnoso e forte, esso potrà esser basato su ricordi dell’intera sua persona, portati a un apice di splendore giovanile con l’aggiunta d’altri, dell’Isacco ghibertiano. E se nel Teseo vediamo movenze così avvenenti come quelle dell’Onore e una simile testa di riccioli, crederemo che anch'esso si fondi su ricordi del corpo dell’artista, integrati questa volta con altri del Torso Gaddi: «imitazioni», allora, che

Vincenzo fece di sé, per dar la figura più attinente a valori suoi propri, quali la

superiorità sui deformi della forza diretta — bella e nuda come la Verità —, e la

bellezza del generoso che sogna sull’esempio di chi è migliore di lui. Potendosi, credo, aggiungere che, oltre le correzioni con ricordi di marmi del della Porta, il cedimento gentile e la tenerezza della testa d’un giovane fortissimo,

162

BELLEZZA E PENSIERO

che vediamo nel Cristo della Flagellazione marmorea, posson esser anch'essi ricordi della persona dell’autore, per figurare con attinenza chi fu fatto soffrire come lui. E allora, pensando che da altri gli era riconosciuto un bell’ingegno sublime e che da se stesso riconosceva d’essere incline allo studio, e pensando ancora

che egli credeva la bellezza interiore causata da quella fisica, suppongo che in modi per noi, ahimè, irrecuperabili, rispecchiasse Vincenzo l’effimera figura

«grande più che il naturale», da lui plasmata per il catafalco di Michelangelo, dell’Ingegno che vince l’Ignoranza: «un giovane svelto e nel sembiante tutto spirito e di bellissima vivacità»?. Ho cercato di recuperarne l’immagine che lui voleva fosse ricordata, ed essa poi, per l’innocenza degli occhi chiusi nel sonno

dei passati, mi è apparsa ancora più semplice e mite. 1996

è® Inedito.

NOTE

! «Vincentius Dantius Perusinus adhuc puber faciebat». ? Del Paolo III di G. della Porta (J.D. Sum-

1: T. Bottonio, son. Alto pensier (1561), in op. cit.: letto in J. von Schlosser, op. cit., p.

mers, The Sculpture of Vincenzo Danti, 1969, Ann Arbor 1976, pp. 20, 29), e dei festoni

!3 Il rilievo bronzeo con la storia del Serpente di bronzo (oggi al Bargello) e «due marmi di

negli affreschi di F. Salviati a palazzo Sacchetti. È documentato un soggiorno di Vincenzo a Roma nel luglio 1554 (Documenti intorno alla

basso rilievo, nell’uno de’ quali scolpì la Resurrezione di Cristo, nell’altro la Flagellazione

statua di Giulio III gettata da Vincenzo Danti perugino, «Giornale di erudizione artistica»,

1872, pp. 18, 19).

3 D. Mellini, Descrizione dell’entrata della sereniss. Reina Giovanna d’Austria, Fiorenza 1566,

pp. 132-133. 4 Vasari-Bettarini 249.

e Barocchi,

6, testo, p.

° Ivi, 6, testo, p. 131. 6 R. Borghini, I/ Riposo, Fiorenza 1584, p.

76.

alla Colonna» (il primo oggi disperso, e il secondo in The Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City), sono ricordati da T. Bottonio nella cit. premessa al son. Se la profana, del 15 novembre 1559. Lo Sportello per una cassaforte del duca (oggi al Bargello) fu eseguito tra la fine del 1559 e il 1560 (E. Allegri - A. Cecchi, Palazzo

Vecchio e i Medici, Firenze

1980, p.

190). L’Onore che vince l’Inganno (anch’esso oggi al Bargello) è ricordato da T. Bottonio

25)

nel son. Alto pensier, cit., del 1561. Quanto all’iconologia dei due rilievi in marmo, l’acco-

? V. Danti, Il primo libro del Trattato delle perfette proporzioni (1567), in Trattati d’arte del

stamento di Flagellazione e Resurrezione è in una profezia di Gesù riportata dai Sinottici

Cinquecento,

a cura

di P. Barocchi,

Bari

1960-1962, 1 (da ora in poi lo citerò come Trattato), pp. 241, 267. 8 G. Danti, lettera del 5 agosto 1557, da Perugia, a P. Marchesi, a Roma, in A. Berto-

lotti, Artisti lombardi

Pisa 1881, 1,p.310.

a Roma, Milano-Napoli-

? V. Danti, son. Ahi ch’errai (1552), in T. Bottonio, Poesie sagre, Perugia 1779: letto in J. von Schlosser, Aus der Bildnerwerkstatt der Renaissance, «Jahrbuch der Kunsthistorischen

Sammlungen

des Allerhvchsten

Kaiserhau-

ses», 1913-1914, p. 78.

10 ‘T. Bottonio, premessa al son. Se la profana (15 novembre 1559), in op. cit.: letto in J. von Schlosser, op. cit., p. 78. 11 V. Danti, son. cit.

(Matteo, 20, 19; Marco,

32-38);

10, 34; Luca,

18,

14 Trattato, p. 213. 15 Ivi, p. 240.

16Ivi, p.211. 17 A. Condivi, Michelangelo - La vita (1553), a cura di P. D'Ancona, Milano 1928, p. 165. 1& ivi) pi.190. 1A Ipixpn197%: GaVasati:cit5'6,.testotpiv 110: 21 A. Condivi, op. cit., p. 193. 22tlvi pui4706: 23 Ivi, pp. 175-176. 24 Trattato, p. 268.

25 Si voglia confrontare: una figura della Deposizione della National Gallery of Art, Washington, col marmo ellenistico poi integrato

164

BELLEZZA

E PENSIERO

da V. Cioli, oggi al Victoria and Albert Museum, che in tale stato sarà attribuito al Danti

prigionieri intorno alla Pace dello Sportello, con quelli analoghi negli affreschi di F. Salviati

stesso (su questo, vediJ.Pope-Hennessy, «Mi-

nella sala dell’Udienza; il piviale del Giulio III, con quello del Paolo III di G. della Porta; la

chelangelo’s Cupid»: the End of a Chapter, «The Burlington Magazine», 1956, p. 403 ss.); la Leda del Victoria ad Albert Museum, con l’elle-

nistica Ninfa con pantera oggi agli Uffizi (su questa, vedi G.A. Mansuelli, Galleria degli Uffizi - Le sculture, Roma 1958-1961, 1, pp. 134-135, fig. 102); la figura dell’Onore, con

quella dell’Isacco nella formella del Ghiberti; i ladroni crocifissi della Deposizione, con quelli

dell’analogo rilievo donatelliano oggi al Bargello; il Gesù Bambino della Madonna di Santa Croce, con quello di Desiderio in San Lorenzo; il gruppo intorno a Maria, nella cit. Deposizione, con quello analogo nel Trasporto di Cristo di Raffaello, allora in San Francesco al Prato di

Perugia (questo confronto è già stato proposto da F. Santi, in Vincenzo Danti scultore, Bologna

1989, p. 57), restando probabile che la figura all'estrema sinistra dipenda da quella di san Paolo nella Santa Cecilia; il carnefice della Decollazione del Battista e il Cosimo I in piedi, con stampe da due diverse invenzioni di Raffaello

per il San Michele (per queste stampe, vedi S. Massari, in Raphael invenit - Stampe di Raffaello nelle collezioni dell’Istituto Nazionale per la Grafica, Roma 1985, pp. 219-220, fig. alle pp. 767-768); nudi dello Sportello e del Serpente di bronzo, con i Prigioni di Michelangelo; due statue dell’altare di san Bernardino nella cattedra-

le di Perugia (perduto, ma noto attraverso un disegno di V. Ciofi, pubblicato da W. Bombe in Urkunden zur Geschichte der peruginer Malerei im 16. Jahrhundert, Leipzig 1929, p. 112, fig. 21),

con uno degli Schiavi del Louvre e col così detto David-Apollo,

dello stesso Michelangelo;

un

nudo rovescio portato in ispalla per le gambe, e i fianchi velati di un’altra figura, nel Serpente di bronzo, con il Giudizio, ancora di Michelangelo; una figura nuda dello Sportello, con altra del

Pontormo a Careggi (perduta; per il disegno, vedi J. Cox-Rearick, The Drawings ofPontormo, Cambridge, Mass., 1964, fig. 306); l’angioletto di sinistra nel monumento di Carlo de’ Medici, con i fanciulli del Tribolo nel torsolo della fontana di Castello; nudi di schiena o riversi,

Clemenza dello Sportello, con la Pace e l’Abbondanza dello stesso, oggi a palazzo Farnese; un nudo di fianco, nel Serpente di bronzo, con altro nella Caduta dei giganti, dello stesso. 26 V. Danti, son. Voi ben dal ciel, in B. Cellini, Le Rime, a cura di A. Mabellini, TorinoRoma-Milano-Firenze 1891, p. 274. ITA Condivis op. cit. pal): 28 Vasari cit., 6, testo, p. 108.

29 V. Danti, son. Non vogliate, Signor, in B.

Cellini, luogo citato. 30 Aristotele, Della memoria e della reminiscenza, 1, 450a.

31 Washington, National Gallery of Art. 32 J.D. Summers, op. cit., p. 92: «There are pronounced juxtapositions of scale». 33 Trattato, pp. 241, 264, 267.

34 Ivi, p. 265.

35 V. Danti, Capitolo contro l'alchimia, BNE, Ms. Pal. 264, c. 77v. 3 Trattato, pp. 224, 225, 227.

37 Ivi, pp. 224, 225, 229. 38 [viSppW223 2261

39 Ivi, p. 231.

40 Ivi, pp. 228, 229-230. Sco, pa221

42 Ivi, pp. 217, 218-219, 228, 264. 43 Ivi, pp. 218, 265. 44 B. Varchi, Della natura, in Opere, Trieste 1858-1859, 2, p. 648 ss.

45 Ivi, p. 657 (da Aristotele). 4° Ibidem (da Aristotele). 47 Ivi, p. 658 (da Aristotele): per il concetto dell’ordine della natura in V. Danti, già P. Barocchi (commento al Trattato, p. 502: n. 4 di p. 217) rimanda a questo passo del Varchi. 48 Ibidem (da Aristotele). 4° Ivi, pp. 658-659 (da Aristotele). 50 Trattato, pp. 219-220. 91 Ivi, pp. 211-212.

°? Attribuito a V. Danti da J. von Schlosser in Werke der Kleinplastik in der Skulpturensammlung des A.H. Kaiserhauses, Wien 1910, 1, p. 7. La vicenda critica successiva la si trova rias-

nello Sportello o nel Serpente di bronzo, con la

sunta in M. Leithe-Jasper, Renaissance Master

Discesa al Limbo o con la Resurrezione del Bronzino; la Salomè, con l’Annunziata dello stesso Bronzino, che è nella Cappella di Eleonora; i

Bronzes from the Collection of the Kunsthistorisches Museum - Vienna, Washington 1986, p. 154.

RITRATTO

DI UN ARTISTA

53 Plutarco, Teseo, 6, 7, e 8, 1: in Le vite, trad.

L. Domenichi, Vinegia 1560, 1, pp. 4-5. 9 V. Danti, lettera del 2 luglio 1568, da Seravezza, a F. de’ Medici, a Firenze, in Carteggio inedito d’artisti, a cura di G. Gaye, Firenze 1839-1840, pp. 255-256.

55 Firenze, Bargello. 5 A. Venturi, Storia dell’arte italiana, 10, 2,

p. 515.

°7 Ivi, p. 514. Vedi anche J.D. Summers, op.

cit., p. 149.

165

GIOVANE

Vasari tra decorazione ambientale e storiografia artistica, atti del Convegno (Arezzo 1981), Firenzerl985;\ps 232;

7" J.D. Summers, op. cit., p. 97. 7? Ch. Davis, op. cit., p. 239. Sulla figura della Temperanza potremo osservare che il vaso ritto accanto a una gamba alluderà all’acqua con cui si tempera la forza del vino, e non al disprezzo dell’oro, il quale avrebbe richiesto che il vaso, presunto prezioso, fosse calpestato (così invece Ch. Davis, op. cit., pp. 239-240,

58 Sulle copie, in gesso, dei Tempi del giorno di Michelangelo, le quali sono oggi nel picco-

con rimando a C. Bartoli).

lo museo dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, vedi U. Tarchi, I calchi michelangioleschi nell’Accademia di Perugia e i marmi della Cappella

128.

Medicea, appendice a L’arte del Rinascimento nelUmbria e nella numerate. Già tervento senza dicembre, ne

Sabina, Milano 1954, pp. non nel 1909 G. Urbini, in un intitolo su «Il Marzocco» del 12 scriveva pensando al Danti:

«Questi calchi [...] potrebbero dirci come egli vide, come egli sentì e quasi interpretò e seppe

7 Vedi Picinelli, Mundus symbolicus, 15, 16, 74 Vedi C. Ripa, Iconologia, Roma 1603, p. 69.

75 J.D. Summers, op. cit., pp. 31-32: vi si noti particolarmente le parole «the first appearance of an important component of Danti’s

style, his concealment

of meaningful ele-

ments».

76 Il piedistallo attuale è del 1816 (Documen-

rendere, con tono potente e fine, le sublimi

ti cit., p. 24), ma comunque R. Borghini, op. cit., p. 520, ricorda il Giulio III del Danti (di-

creature di Michelangelo».

cendolo Paolo II), «sopra un piedistallo a can-

59 Vasari cit., 6, testo, p. 64. 60 Trattato, p. 213.

to alla porta del Duomo». 77 Nella recente storia dell’arte v'è dell’in-

6! Vedi in proposito C. Del Bravo, L’Equico-

certezza sulla destinazione originaria del Cosimo I in piedi oggi al Bargello, ma la dimostrazione della sua provenienza dal loggiato degli

la e il Dosso, «Artibus et historiae», 30, 1994,

p. 74 (ripr. in questo libro, p. 74). 62 Vedi l’incisione di C. Bos, ripr. in Ch. de Tolnay, Michelangelo, Princeton 1947-1960, 3, fig. 279.

63 Attribuzione di H. Keutner (The Palazzo Pitti

«Venus» and Other Works by Vincenzo Dan-

ti, «The Burlington Magazine»,

428-431).

1958, pp.

6 G. Boccaccio, La geneologia degli dei [11,7], trad. G. Betussi, Venezia 1564, p. 179 v. 65 V. Borghini: vedi E. Allegri - A. Cecchi, Oper cit, pird40%

66 Vedi in proposito C. Del Bravo, Francesco a Pratolino, «Artibus et historiae», 15, 1987, p.

37 ss. (ripr. in questo libro, p. 167 ss.). 67 Firenze, Casa Buonarroti. Attribuzione di

H. Keutner (op. cit., p. 428). SESIfaitato, Po2zi2: 6 Vasari cit) 6} testojpi 250:

70 Svetonio, 2, 32. Per differenti interpretazioni dell’iconografia, vedi J.D. Summers, op. cit., pp. 94-96, e Ch. Davis, Working for Vasari: Vincenzo Danti in Palazzo Vecchio, in Giorgio

Uffizi

è già in J.D. Summers,

op. cit., p.

17/24,

78 R. Borghini, op. cit., pp. 65-66. 79 Vedi C. Del Bravo, Breve commento alla

Volta Sistina (in questo libro, p. 85 ss.). 80 A. Condivi, op. cit., pp. 175-176. 81 Trattato, pp. 212, 213.

82 Ivi, p. 212.

3 Ivi spy z09:

84 Ivi, p. 214.

Palvispoato. 86 B. Varchi, Dell’amore, P49d%

in Opere cit., 2,

87 Comunque, per l’aquila come emblema di animo nobile, nato a cose superiori, grande, virtuoso, imperterrito, generoso, vedi F. Pici-

nelli, op. cit.: 4, 8, 105; 4, 8, 110; 4, 8, 113; 4, SULA

88 89 9 «non

R. Borghini, op. cit., pp. 66, 520. Trattato, p. 266. R. Borghini, op. cit., p. 522 (V. Danti poco valse in comporre versi toscani, e

166

BELLEZZA E PENSIERO

particolarmente in far centoni de’ versi del

Petrarca e d’altri famosi autori»). ° L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti moderni, Roma 1730-1736, 1, pp. 292-293. Vedi anche Idem, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti perugini, Roma 1732, p. 141.

92 Trattato, pp. 225, 227.

9 Ivi, p. 225.

% B. Cellini, son. Ercol sospese, in op. cit., p. 176.

95 Trattato, pp. 241, 264-267. #8 Vasari: cit:3.6;, testopip@131a

Francesco a Pratolino

Se riferiremo le memorie di Pratolino alla dottrina d’Empedocle, forse qualificheremo il pensiero di chi inventò quel mondo conchiuso, Francesco de’ Medici: e secondo tale pensiero interpreteremo poi l’inserimento del Ratto di Giambologna fra le sculture della piazza di Firenze. Salendo idealmente alla parte alta del recinto di Pratolino, ricorderemo che

l'ingegno di Francesco è detto da contemporanei «nobilissimo», «capace di qualsivoglia sottile ed arguta cosa»! — e sappiamo che il Trionfo dei Sogni per le sue nozze fu inventato da lui, anche se poi svolto da altri?; che nella ricerca del

moto perpetuo fu compagno del suo Bernardo Buontalenti?. Ne ricorderemo poi l’interesse per la natura, con tanti noti esempi e particolarmente con la richiesta agli eredi del Vasari, di un disegno che, della Natura, celebrava il trionfo*. Giunti idealmente alla parte alta del recinto, vi vedremo* i quattro elementi — terra, aria, acqua, fuoco —, proposti per primo da Empedocle”, nel

simbolo di un Giove appoggiato ad un monte, con aquila, getti d’acqua, e folgore. Ai suoi piedi, i quattro spicchi di un labirinto di verzura, composti nell’unità di un circolo, ci faranno intravedere lo sfero, cioè l’unione dei

quattro elementi prodotta dalla prevalenza di una delle due forze originarie secondo Empedocle, l’Amicizia, sull’altra ad essa opposta, l’Odio: ciclo universale, questo dell’unione, precedente a quello conosciuto dall’uomo, in cui, nella contesa tra le due forze, la vittoria è dell’Odio?”.

Dell’antico poema di Empedocle sulla natura, ci si presentano solenni frammenti: la materia muta sempre*: «ora per Amicizia s’uniscon tutte le cose,

ora ognuna è dall’Odio altrove portata»?: «unione, e riscatto di cose che furono unite»!°, quando «l’Odio si levò alla fine»!!: ed ora, che siamo nel periodo dell’odio fra gli elementi'?, assistiamo al duro sconcerto dell’esistenza. Qui nel parco e nella villa correva il ciclo della prevalenza dell’Odio nell'Appennino e poi nella Toscana: in un gruppo plastico l’Odio, forza gigantesca eterna, pesan-

temente prevaleva su un cane che rappresentava l’amicizia'*: e così esisteva la natura inanimata — i minerali raffigurati in una stanzetta all’interno dell’Ap-

pennino alle spalle del grandissimo gruppo —, e quella animata, che secondo

168

BELLEZZA E PENSIERO

Omero Oceano

dipendeva dall’acqua. Credenza antichissima: e Teti sono

i genitori degli dèi e di tutto:

dice Omero! e Francesco,

che

lettore

d’Omero'5, lo ricordava, se nella Fontana dell'Oceano, per Boboli, sono illustrati i due versi dell'Iliade con l'Oceano «fiume», origine di tutte le cose, e le sue correnti, e se in un’altra stanzetta all’interno del monte c’era la statua della madre Teti. Così, dalla lotta elementare scaturiva l’acqua viva!, la vita, in un’immaginazione grandiosa, arcaica, come nei versi empedoclei, che sorgeva

oltre le immagini della villa favorita, della patria e della storia di Francesco: E gli alberi miser germogli, e gli uomini e anche le donne, e fiere e volatili e pesci che d’acqua si fanno alimento,

anche gli dèi longevi!”.

Ma si inseriscono pensieri sull’«arte» e sulla sua etica, svolti da notizie di Diogene Laerzio su Empedocle, che fu anche medico e bonificatore: quell’acqua, quella naturale vita, la vediamo subito passare per le fontane di Perseo, di Esculapio, e dell’orsa con i suoi piccoli, a indicare che la natura va liberata dalle sue forze nocive — come fece Perseo con la Medusa -; indirizzata all’utile —

come faceva Esculapio per le medicine —; formata rispettando i suoi caratteri — come fa l’orsa modellando con la lingua i propri parti'* —. E Francesco ribadisce anche in altre occasioni questi concetti: nelle vittorie d’Ercole sui mostri, ordinate in argento a Giambologna; nella distilleria per medicinali; nell’assecondamento dell’inclinazione naturale (ad esempio, dell’inventiva di Buontalenti!°), lodato nel testo del Trionfo?%; e anche quando egli si tien cara una pittura «rappresentante l’acqua naturale e adoperata con artifizio»?!, oppure

ordina per lo Studiolo di esaltare i materiali e insieme le lavorazioni; quando accetta la bellezza naturale delle pietre, che fa però tagliare e commettere; o scassa, irriga, pianta, coltiva; o dà commissioni ad artisti che pur vedremo

quanto sono lontani da lui. (Più difficile è, nella nostra visita ideale, capire le intenzioni — se ce ne

furono di particolari — per la cappella, e per le statue di personaggi antichi poste in nicchie di verzura intorno al prato dell'Appennino. Per oggi osservo che esse sono estranee al vitale corso dell’acqua e possono quindi suggerire che religione e fama sono fuori della vita, favole e sogni, come è scritto in generale nel Trionfo ideato da Francesco stesso, e in capitoli berneschi molto coincidenti, In disonor dell’onore??). Pensando alle grotte della villa e all’affaccio sul giardino e sui pomari declivi... gli automi mossi dall’acqua esemplificavano con uomini, animali, uccelli canterini, Amore, «arti», poesia, l'appartenenza di tutto alla natura e

alla sconcertata vicenda dell’Odio, che tutto disgrega come già mutò in grotte i monumenti antichi (e questi esempi erano a volte in accezione locale, come dire il frantoiano, il mugnaio, il cartaio, la donnetta che va al pozzo...). E la

probabile intenzione allegorica di quel che accadeva nel Teatro Mediceo, dove

FRANCESCO A PRATOLINO

169

le macchine simulavano negli alberi il passaggio dall’inverno alla primavera??, o l’artificio li aveva coperti di frutti a vario grado maturi”, ci fa intendere come

Francesco intravedesse il flusso arcano della vita oltre le sensazioni provate affacciandosi sulle ore del giardino o della Toscana che vi era simboleggiata, all’avvicendarsi delle stagioni e all’intreccio delle età. Di modo che quando, scendendo nel giardino, «apprendeva co’ la sua mano un fiore», e lo guardava «a parte a parte», e così «ogni colore e bellezza d’esso, con suo non piccolo diletto e contentezza»?, nella totalità della considerazione mostrava di possedere la contemporanea scienza del diletto visivo, ma poi l’avrà superata

ponendo la mente agli arcani della poetica filosofia antica della natura, grandiosa pur oltre eventi minuti. E la scelta degli episodi, in questo poema empedocleo sulla Toscana, non seguiva dunque un’iconologia razionale, ma le parziali scelte di un’assecondata ispirazione da vate. Nel complesso delle grotte al piano terreno della villa, c'erano poi specchi in cui si vedeva non il riflesso del reale, ma immagini illusive d’animali e di storie: «questo», scrive un autore del tempo, «pare che sia conforme al detto di

Democrito e di alcuno altro degli antichi filosofanti, i quali stimarono che la verità consistesse in apparenza»””. La Metafisica di Aristotele?* dice più propriamente che, fondando i naturalisti la conoscenza sulle percezioni, e le percezioni essendo individuali e mutevoli, «Democrito afferma che o nulla è vero 0,

almeno, la verità non ci appare con chiarezza»: ma aggiunge l’affermazione di Empedocle, che «il pensiero muta quando muta lo stato fisico», ed alcuni suoi

versi in proposito. Per questi pensieri sulla individualità e mutevolezza della conoscenza naturale, ogni uomo appariva incompreso e solo. Empedocle ne aveva derivato le premesse della sofistica, superando l’univocità delle parole e insieme curando

la tecnica formale?’: così, Francesco avrà tenuto per naturale l’estraneità degli interpreti di idee sue, approvando l’assecondamento della virtù di ciascuno in

formulazioni anche sofistiche di temi primordiali: ma, in mezzo a quel libero e vario, forse prediligendo una gravità arcana: quella delle forme coperte da calcare millenario, nei colossi e nelle grotte di Pratolino e di Boboli: gravità, difatti, analoga a quella letteraria, neo-omerica?, di Empedocle, il vate che

Francesco imitava anche nello stile di vita: come lui tenendo un contegno superiore, preferendo la vita semplice al potere, rifiutando l’offerta di un regno?!.

Quanto quest'uomo fosse sereno a Pratolino, si conosce dal modo franco e

positivo con cui vi svolge il discorso naturalistico, senza controversie con alcuno: le notizie su Empedocle, le toglie quasi tutte da Aristotele, ma trascurandone le interpretazioni e le dure critiche: e in tal modo costeggia indifferente idee aristoteliche radicate nel suo tempo, come quella della causa intellettuale di ordine e movimento, quella su sostrato e forma, e quella dell’opposine: eag zione fra linguaggio poetico e linguaggio filosofico??. di e i convenzion di Città A Firenze però non gli era possibile esser sereno.

fig. 49

170

BELLEZZA E PENSIERO

cattiverie**: e Francesco risponde alle convenzioni con la polemica immorale del Trionfo dei Sogni, con il rovesciamento e la parodia delle norme nelle architetture del suo amico Buontalenti, con la dimostrazione dell’errore. Giacché dimostra erronea la teoria aristotelica del primo motore come intelletto

esterno alla natura (contraria alla teoria empedoclea della causa naturale del movimento e dell’esistenza) con quello strumento per il moto perpetuo, inven-

tato insieme al Buontalenti, «strumento in cui sono i quattro elementi: il quale strumento, incontanente che è messo insieme, si muove per se stesso continovamente».

Ma anche a Firenze, nei momenti più grandi le convenzioni potevano esser diafane per chi teneva la mente allo sconcertato e serio flusso della natura: come quando Francesco, dal funesto trasporto ufficiale della moglie Giovanna, salutò gravemente la Bianca e quindi l’amore e la vita?5. *

*

*

Raffaello Borghini, che è l’autore più partecipe di questo momento, attesta che Giambologna inventò il Ratto «senza proporsi alcuna istoria», e «solo per mostrar l’eccellenza dell’arte»®: ma diremo che il tema erotico prevedeva d’esser gradito all’unico committente possibile, che a Pratolino lo aveva voluto

nell’esemplificazione del flusso della vita, e aveva ricercato figurazioni di Venere con gli effetti d’amore?”, e della caccia d'amore”; e aggiungeremo che l’indifferenza per il tema sommata all’ostentazione di capacità, era propriamente sofistica. La sofistica essendo d’altronde, per tante considerazioni dell’Antichità, legata all’edonismo”, comprenderemo che la forma ruotata ha

anche una sua attenzione al piacere: alle consapevolezze cirenaiche*° e moderne sul piacere legato al movimento e alla continuità e totalità del rapporto sensoriale. Francesco avrebbe visto il gruppo già iniziato ma, diremo noi contro il Borghini*', non oltre lo stadio di modello piccolo (già quello a misura presupponendo la destinazione), e ne avrebbe ordinato l’esecuzione in marmo per il fornice della Loggia dell’Orcagna simmetrico a quello del Perseo. Nella realtà della differenze individuali, Francesco avrà considerato il gruppo diver-

samente dall’autore, come fa il potente previsto da Platone, che non si fa sedurre dal sofista‘?: coerentemente a quanto sappiamo di lui, disinteressato all’ostentazione avrà considerato piuttosto la virtà naturale coltivata fino alla resa massima, nonché il piacere. Francesco era consapevole di quella scienza

del piacere, di cui dicevamo, se l’Apollo di Giambologna nel suo Studiolo era girevole**, e nella totalità venivan da lui osservati con grandissimo diletto fiori còlti in giardino. Ma, se nel caso di questi fiori la mente di Francesco sarà andata oltre il diletto, verso la contemplazione del flusso della natura... così la destinazione stessa del Ratto chiarisce che il piacere era non il suo fine, ma solo

un grado transitorio, giacché il dislivello e il parapetto della sede ostacolavano

la continuità e l’uniformità del movimento dilettoso, facendo quindi prevalere

FRANCESCO A PRATOLINO

171

l’importanza del contesto. E qui noteremo che l’inserimento del Ratto fra le sculture della piazza costituisce con esse un discorso, il quale altera le iconologie particolari in un significato generale, nuovo. Con varia esemplificazione (si sa che la forma empedoclea sceglie per poesia) si ripete in parte il discorso di Pratolino: la vita naturale nutrita dall’acqua, che qui scroscia dalla fontana circondata di deità, di fanciulli, e di esseri selvaggi, deve essere sfrondata dal

male — come a Pratolino da Perseo e negli argenti di Giambologna da Ercole,

qui ancora da Perseo e da Ercole, e poi da David e da Giuditta -; e nel

dissonante flusso della vita naturale ha un gran risalto l’amore. Ma nel luogo più ufficiale di una città e di un potere immersi in convenzioni disumane,

questa esaltazione della naturalezza dell'amore avrà comportato - come il Trionfo dei Sogni** — la svalutazione a fisima, di tutto quanto la contraria. E se la

nudità sarà stata, anch’essa, cercata da Giambologna (come dice il Borghini) ad ostentazione di bravura‘, per una mente diversa la tradizione bernesca cui

partecipava il Trionfo dei Sogni avrà vòlto la nudità a significar natura «libera e senza alcuno impedimento»: ma implicitamente aggiungendo che per preporre alle disgustose favole «le naturali alme dolcezze», «bisogna un buon cervel gagliardo, / un cuor deliberato che non prezze / delle male persone il dir bugiardo». I fiorentini, narrerà il Baldinucci**, si affollarono intorno al Ratto per il

desiderio «di saziare l’occhio loro della vista di cosa sì vaga e sì nuova»: ognuno di loro — il naturalista e il sofista lo sapevano — avrà avuto negli occhi e nella mente una disposizione diversa: il platonico avrà levato lo sguardo oltre la bellezza terrena‘, qualcuno si sarà concentrato per interpretazioni particolari5°, altri si saranno saziati con la contemplazione totale®! ed altri invece

l'avranno considerata soltanto prodromo ai piaceri del tatto. In mezzo a questa folla di divergenze, pur comprensibili secondo natura, ancor più preziosa la coincidenza con i pochi: Bernardo Vecchietti, ad esempio, «molto

reputato» da Francesco*, o Rodolfo Sirigatti - protagonisti del Riposo di Raffaello Borghini. Ambedue con raccolte di pietre bellissime tagliate e incorniciate rispettandone la natura, o lavorate sommandovi la coltivata virtù dell’artefice*: natura questa stessa (come quella di Giambologna, coltivata proprio dal Vecchietti), della quale eran testimoniati i processi dai tanti disegni e bozzetti aggiunti a quelle raccolte. Dunque una naturale coincidenza, questa dei pochi naturalisti, preziosa c rara; con la scelta del mistero, che avrebbe reso difficile ai contemporanei e ai posteri interpretarne il fondamento. Raffaello Borghini, addirittura, difende

quei pochi e il Granduca col confonder gli estranei. Egli scrive, nella prima pagina del Riposo, «quantunque volte l’opere maravigliose della natura (te quanto elle sien belle, varie, ed utili meco pensando riguardo, tanto più ammirabili e degne di maggior considerazione le ritrovo ad ogn’ora»; e così, com'era per gli alberi artefatti del Teatro Mediceo, apprezza il naturale misto di generazioni nell’immagine di una spalliera «di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li

192)

BELLEZZA E PENSIERO

quali avevano i vecchi frutti e i nuovi, e i fiori ancora»: e poi loda, per la Cappella Salviati di Giambologna, le pietre fini incastonate come gemme in anelli, e infine l’analoga coltivazione delle rarissime virtù di Buontalenti e di Giambologna”..., ma poi confonde le carte su punti rivelatori della visione

riposta: pensando a Pratolino, estende il nome del monte al contiguo colosso della forza prevalente nel nostro esistere*; è confuso fino a rischiare l’assurdità sul momento in cui Francesco fece suo il Ratto®’; e infine trova per esso la storia

di Ratto delle Sabine, confermata da un rilievo che fu aggiunto sulla base”, evidentemente con l’approvazione di Francesco: storia questa, tanto priva di accordo con i significati delle sculture della piazza, da incoraggiare, ma solo amici venturi, a cercar d’intendere. 1986 e chi.

Pubblicato su «Artibus et historiae», 15, 1987. Qui ripubblicato con alcuni ritoc-

NOTE

! Del trionfo de’ Sogni etc., in Vasari-Mila-

16 Si potrà ricordare che la donna automati-

nesi, 8, p. 581. Per le notizie sulla personalità

ca che andava e tornava dal pozzo in una grot-

di Francesco che uso in questo saggio dipendo dalla documentazione raccolta da L. Berti nel suo fondamentale I/ Principe dello Studiolo, Fi-

ta di Pratolino, era detta la Samaritana, e che la Samaritana nel Vangelo parla di «acqua viva»

TCNZen9.6074

(Giovanni, 4, 11). !” Empedocle,

? Del trionfo de’ Sogni cit., p. 581. ° R. Borghini, I/ Riposo, Fiorenza 1584, p. 613%

in Aristotele,

Metafisica,

1000a (trad. di A. Russo). 18 Vedi, ad esempio, F. Picinelli, Mundus symbolicus, 5, 48, 663: «Titianus Vecellius [...]

11 agosto 1574, in K. Frey,

ursam penicillo expressit, quae catulos suos lambens, epigraphen tenet: ‘Natura potentior

Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, Miinchen 1923-1930, 2, p. 843 (vedi L. Berti,

perfectio’. Quos enim informes ac crudos ge-

4 Lettera di Pietro Vasari a Francesco de’ Medici, Firenze

op. cit., p. 80). ° Per la visita ideale di Pratolino ci si appoggerà alla raccolta di testimonianze letterarie e

figurative curata da A. Vezzosi (Catalogo, in AA.VV., Pratolino, laboratorio di meraviglie - Il concerto di statue, Firenze 1986). 6 Aristotele, Metafisica, 985a. ? Vedi Aristotele, Metafisica, 1000b. 8 Empedocle, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 8, 76. ° Empedocle, ibidem. 10 Empedocle, in Aristotele, Generazione e corruzione, 333b. !! Empedocle, in Aristotele, Metafisica, 1000b.

12 Aristotele,

Generazione

e

corruzione,

334a.

13 Nell’incisione di Stefano della Bella la testa dell'animale oppresso dal colosso è certamente quella di un cane: essa poi fu alterata (vedi AA.VV., Pratolino cit., pp. 54, 64). 14 Iliade, 14, vv. 200-201, 245-246.

!5 L. Giacomini Tebalducci Malespini, Orazione de le lodi di Francesco Medici etc., Fiorenza

1587, p.9.

ars’, vel, ut alius, ‘Natura et arte’, vel “Ab arte nuit ursa, postea lingentis linguae artificio perficit». !° R. Borghini, op. cit., p. 609. 20 Vedi Del trionfo de’ Sogni cit., p. 581. 21 R. Borghini, op. cit., p. 610.

22 Due Capitoli in disonor dell’onore, in Opere burlesche di Autori vari, Londra-Firenze 1, 2, pp. 81-96. 23 Baldinucci-Ranalli, 2, p. 513.

1723,

24 Ivi, 2, p. 510.

25 A. del Riccio, Agricoltura Sperimentale, Bibl. Naz. Firenze, Mss. Targioni Tozzetti, 56, 2, c. 874/455v: passo pubblicato da G.E.

Saltini (Bianca Cappello e Francesco I de’ Medici, Firenze 1898, p. 323) con rimando e forma inesatti.

26 Vedi, ad esempio, la risposta del Bronzino

al Varchi sulla «maggioranza delle arti» (in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli 1971-1977, p. 501), e R. Borghini, op. cit., pp. 26-27. 27 E. Verino, Discorsi sopra le maravigliose opere

di Pratolino, Firenze 1586, p. 41. 28 Aristotele, Metafisica, 1009b.

29 Quanto all’interesse di Empedocle per la

174

BELLEZZA

tecnica letteraria, vedi Diogene Laerzio, op. CIRESIDITA 30 Vedi Diogene Laerzio, op. cit., 8, 57: Ari-

stotele «nel libro Dei poeti dice che Empedocle fu omerico e grave nelle espressioni». Si ricordi che Francesco aveva studiato Omero (vedi, qui, n. 15). 31 Per Empedocle,

vedi Diogene

Laerzio,

op. cit., 8, 63 e 73. Per Francesco, vedi L. Berti,

op. cit., pp. 22, 28, 29, 315. Generazione

e corruzione,

45 R. Borghini, I/ Riposo cit., p. 72. 46 Vedi il Capitolo de’ frati, in Opere burlesche cit., 1, 2, p. 167; ma vedi anche i due Capitoli in disonor dell’onore (ivi, pp. 81-96) e, del Bino,

il Capitolo contro alle calze (ivi, pp. 207-218). 47 Primo capitolo in disonor dell’onore, in Opere burlesche cit., 1, 2, p. 90. 48 Baldinucci cit., 2, p. 565. 49 L’esemplificazione sulla visione ulteriore

del neoplatonismo cinquecentesco, ovviamen-

3 Vedi, ad esempio, di Aristotele: Metafisica, 984b;

E PENSIERO

334a; Fisica,

190b; Meteore, 357a. 33 Vedi, ad esempio, questi versi di R. Borghini (Diana pietosa, Firenze 1586, 2, 1): «Sot-

te sarebbe sterminata, ma mi piace ricordare,

dal sonetto Or sei pur giunto di Vittoria Colonna, «Col lume di virtù, nel lume eterno / levasti gli occhi sovra ’1 mortal velo, / spronando la ragion, frenando i sensi», e, dai Canti

to i superbi tetti / fra gli agi e fra le pompe / fanno gl’inganni e i tradimenti nido». 34 R. Borghini, Il Riposo cit., p. 613. 35 Vedi L. Berti, op. cit., p. 196. 36 R. Borghini, I/ Riposo cit., p. 72. 2bipis poll:

XI di Matteo Bandello, questi altri versi (8, 9): «I’ ti dicea ch’Amor questa bellezza / che si

38 39 4° 89. 4! 4° 43

zioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina etc., a cura di M. Sermartelli, Firenze 1583. 51 Sulla sufficienza, per il piacere, della contemplazione naturale, vedi ad esempio, di Anton Francesco Grazzini, il capitolo In lode della statua di san Giorgio di mano di Donatello.

Vedi L. Berti, op. cit., p. 81. Vedi, ad esempio, Platone, Gorgia, 465a. Vedi Diogene Laerzio, op. cit., 2, 86 e R. Borghini, I/ Riposo cit., p. 72. Platone, Protagora, 317a. ASF, Scrittoio delle Fabbriche Medicee,

11, c. 73r (24 novembre 1576): «A spese di sculture e loro apartenenze lire dodici piccioli pagati a Giuliano di Zanobi Portigiani, portò contanti, per la monta di I° bilico di bronzo di libbre 6, mastio et femina, per la figura fatta

da Gian Bologna scultore per lo scrittoio di S.A.S. per farla voltare, per ordine di S.A.S.

come per detta listra fiorini 1 lire 5» (documento segnalato da H. Keutner, The Palazzo Pitti «Venus» and Other Works by Vincenzo Danti, «The Burlington Magazine», 1958, p. 428, n. 10, e gentilmente trascritto per noi da A.

Guidotti). 44 Del trionfo de’ Sogni cit., p. 586.

vede cosparsa in belle membra,

/ per que-

st'ammira, onora, ama ed apprezza, 7; per ciò

che la beltà di Dio rimembra».

50 Vedi la maggior parte di Alcune composi-

°2 Cfr. l’ecloga Mireno ed Erilio di M. Gaci sul Ratto (in Alcune composizioni cit., p. 26), con le parole di M. Equicola (Della di natura d’amore, 1525, Vinegia 1536, p. 71 v) sull’amore che «voluptuoso nominamo, quando dal viso alla libidine del tatto descendemo». ° R. Borghini, Il Riposo cit., p. 10. ° R. Borghini, Il Riposo cit., pp. 14, 20. °5 R. Borghini, Diana pietosa cit., lettera dedicatoria a B. Suares. °° R. Borghini, Il Riposo cit., p. 589. 57 Ivi, pp. 609, 585. 98 Ivi, p. 588. AALCIA DATI:

60 Ivi, p. 73.

L'armonia del Ribera

Credo che poco dopo il 1610 il giovane spagnolo abbia frequentato a Genova Bernardo Strozzi, il Cappuccino. Da lui deve aver imparato l’impasto spesso e solcato che tratterà più volte, per tutta la vita; con lui ha in comune anche i temi prossimi ai Cappuccini, delle sue prime opere. Un tema di beneficenza — l’Elemosina di san Martino per Parma!, come lo Strozzi ha quelle di san Lorenzo o di santa Zita —; ed altri poi a Roma di sprezzo dei sensi

e contemplazione di Gesù morto?, forse secondo la recente Regula perfectionis di un autore dell’ordine, Benoît de Canfeld*. A Roma, fra il ’15 e il ’16*, ha già consultato le Tusculanae® per un rimando di san Gerolamo*, traendo con intelli-

genza spunti dalla loro descrizione della cecità di Democrito, per il Tatto fra i suoi Sensi che con le dita non può vedere i colori di una tavoletta, né i chiari e

gli scuri della luce e dell’ombra su una testa di gesso. Allora egli fu deciso e radicale nella beneficenza e nella noncuranza dei valori del mondo, sull’esempio di eroi cristiani in cui credeva. San Martino”

aveva regalato al povero metà del suo mantello perché aveva già consumato in beneficenza tutti gli altri suoi averi: e lui a Roma manteneva dei poveri, che gli altri consideravano suoi sfruttatori e mangiapane, e poi per loro fece dei debiti. Il santo, rimasto con mezzo mantello fece ridere diversi: e lui a Roma fece ridere un uomo di successo, che descrisse per i posteri la miseria dell’arreda-

mento che gli fu anche sequestrato, con dieci mattoni al posto delle seggiole?. Autonomo, lui, dalle vedute degli altri, intelligente, scevera nell’opera del

giovane Valentin” alcuni elementi formali che lo interessano, toni bronzei o lucidi neri, ma non quel suo amore platonico. E non resta mai costretto nei termini di una vena: il tono di disgusto che usa nei Sensi sarà dipeso dall’invito mistico a denudar lo spirito dalle percezioni, ma non era nel potente San Martino; e la perduta Pietà dipinta a Roma, secondo la tradizione bonaventu-

riana dei Cappuccini sarà stata pietosissima. Fuggì a Napoli lasciando lo squallore senza paura e i debiti contratti per far beneficenza, e là aderì subito al molinismo, se fin dai primi tempi rappresentò le sue autorità: i santi Pietro,

Paolo, e Giacomo, per il concorso di Grazia e merito, di fede e opere, a render

176

BELLEZZA E PENSIERO

giusto l’uomo: Giacomo aggiungendo nella sua epistola che la fede a parole o comunque da sola è inutile e morta!°. Con quel passato drastico, ecco dunque il Ribera per la schiettezza delle opere, senza l’equivoco delle parole - come fra poco sarà per il Vangelo, per la fede di cuore e non di ragione, per l’ingenuità dei semplici, per gli inermi, per l’inverso di quel che piace nel mondo.

La dottrina molinista sul libero arbitrio di Cristo come uomo ci permette poi di decifrare i pensieri che aggravano le teste ombrose dei suoi primi Cristi dolenti: pensieri di onnipotenza trattenuti dalla costanza pur umana di voler morire! per degli immeritevoli, aumentando duramente in noi la comprensione e lo sgomento; e nel Sebastiano di Osuna il Ribera implicitamente scarta

della vita del santo!? la dissimulazione della fede e l’eloquenza con cui convinceva al martirio gli altri, per presentare invece la prova nella sua carne, petto nudo, braccia aperte; e San Bartolomeo poteva portar nell’etimo del nome la

fede esclusiva nella Grazia'*, ma il macello sanguinoso che affrontò e che il Ribera espone fino in fondo, conclama pure il suo merito.

Ma la dottrina molinista non spiega da sola il significato dei santi Pietro e Gerolamo di Osuna: giacché Pietro in luogo deserto!* e Gerolamo che risente l’alto monito — la tromba, per così dire — del profeta Amos contro l’idolatria!5,

richiamano l’uno parole evangeliche sull’abbandono di tutto per Gesù!5, e l’altro la terminologia di Agostino, per la quale «idolatria» vale per ogni attaccamento al mondo!”, contrario a quanto insegna l’«umiltà» di Cristo!8. Queste due pitture son dunque già partecipi della tradizione dell’«evangelismo» napoletano!’ che, per recuperare la persona di Gesù oltre la teologia formale, tornava al Vangelo e alle lettere degli Apostoli, con lo spirito caloroso di Agostino. A questo evangelismo si riferisce la traccia di pensiero su cui il Ribera va variamente immaginando per tutta la vita, con più ricerca fin verso i

suoi quarantacinque, e dopo con più definizione, e infine contemplando. La filosofia che considera intellettivamente idee, numeri, princìpi etici, ha il merito di staccare dal mondo?°, ma è priva dell’incarnazione?', della pietà e dell'amore di Gesù”, nonché della semplice fede. Cristo si disse mite e umile di cuore, e ci invitò ad imitarlo??. Mite, morì per degli immeritevoli*; umile,

scese nella carne, e fra gli uomini fu povero, vergine, giudicato, condannato a

morte vergognosa”; insegna dunque il cuore disarmato e valori inversi a quelli del mondo: se l’anima immortale si attaccherà al perituro come un idolatra al suo idolo”, necessariamente sarà abbandonata e disperata”; lui invece le offre il

conforto, la pace di una contemplazione senza fine?8. Soffermandoci, ci accorgiamo che queste idee agostiniane su tre versetti di Matteo (11, 28-30) dipendono dalla concentrata e ripetuta lettura di non molte pagine: il De vera religione, le Confessioni, passi del De libero arbitrio e del De ordine. L’immaginazione però fu talvolta nutrita cercando con gli indici generali manifestazioni di concetti riportati, o leggendo san Gerolamo, o maestri antichi, come

il Cicerone delle Tusculanae e del De finibus, l’Ovidio delle

Metamorfosi. Con queste pagine dunque nascevan le immagini.

L’ARMONIA DEL RIBERA

147

Secondo quella traccia, i Filosofi son solo uno dei termini di un discorso comparativo, e quindi impongono una contestualità ideale nel Ribera e in un nucleo di destinatari consapevoli?’. La speculazione intellettiva, che essi rappresentano, è priva dell’umanità del Verbo: anche se il Ribera li dipinge non superbi come li dice Agostino? bensì stracciati — traendo dallo stesso Agostino, da Gerolamo e da Cicerone?! che trascurarono i beni e che Democrito si cavò gli occhi per ridurre le esterne distrazioni -, essi furono dunque privi di tanto! Nelle pagine di Matteo, Pietro, Paolo e Agostino care al Ribera si leggono delle frasi sulla grandezza e la bontà di Cristo, che si confrontano con emozione con altre loro sulla sua mitezza e umiltà nel martirio: soprattutto ad esser consapevoli col Molina che era la sua volontà umana ad impedire una difesa onnipotente. «Ogni sospiro aneli al Cristo: lui solo sia desiderato, il più bello fra tutti, che amò noi deformi»*; non fu geloso della sua divinità, ed umil-

mente si spogliò ed obbedì*; innocente nelle mani degli ingiusti, offeso non offendeva, tormentato non minacciava*; eppure ebbe anche «sembiante pietoso» e «chiamò ‘Venite a me, voi che soffrite’»35. «Gli ammaestramenti della

sua debolezza». Con tale complessità di pensieri, come verso una persona conosciuta — e quale persona! -, le immagini di Cristo: la figura alta e rara nella Crocifissione, con vicino quel pianto silenzioso; la figura mite, nuda e maneggiata di Cogolludo; quella grande e snella ma ormai senza forza, della Pietà Thyssen. Con i suoi sprofondamenti nel concreto e nel semplice oltre la dottrina e l’abilità, intenderemo come il Ribera presenti la fede proprio col sangue di Cristo, incompreso dagli idolatri durante la Messa di san Donato”, e col cuore ingenuo di Zaccaria e di Giuseppe?*: Giuseppe falegname, come esprime intensamente il fanciullo alzando il paniere dei bruni attrezzi, il quale credette che

proprio quel fanciullo era il messia, accettando sproporzioni troppo difficili per «i sapienti e gli accorti»? L’imitazione di Cristo, poi, il Ribera la assunse sul 1632 per quattro santi che ne sono autorità: Matteo, che solo fra gli evangelisti riporta la frase di Gesù «discite a me, quia mitis sum et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris»*% Pietro e Paolo per esortazioni cui abbiamo alluso*'; e Rocco per aver

esultato all’imitazione nel dolore della carne*?. «Discite a me, quia mitis sum»...: in una città dove con la teologia si faceva morire, dipinse San Simone ricordando dalla leggenda che egli disse e ridisse di esser stato mandato ad assolvere non a perdere i dannosi e gli infedeli, e che lo provò scegliendo di piuttosto offrir la carne sua ai ferri del tormento‘. ...«et humilis corde,»...: imitare Cristo nell’umiltà significa per Agostino invertire i desideri del mondo**, ma ancora una volta ne toccheremo il valore in

questo contesto se andremo al cuore del vissuto: oltre dunque le nozioni e le parole sull’abnegazione degli Apostoli e dei martiri, soprattutto di Andrea 6, eil collegamento forse sostenuto dai Certosini fra gli Apostoli e gli eremiti antichi e moderni‘, il peso umano delle rinunce e dei dolori. Il detto improvviso di

178

BELLEZZA E PENSIERO

Pietro a Gesù, «ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito», e Gesù che concreta, consapevole: casa o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi, per me*”. Il cuore e la grazia di Rocco, «Dolcissimo Gesù, anche se prima mi stimavi tuo servo, ora che mi doni parte dei tuoi tormenti e me ne

fai degno, capisco che ti sono caro e giocondo»**, divengon più intensi per il pensiero della peste che lui ha dentro di sé. ...«et invenietis requiem animabus vestris». Se il peccato è non imitare Cristo e desiderare ciò che egli trascurò,

e dunque, come

idolatri, fissare

l’anima immortale su cose periture, quando queste cose per loro natura passeranno l’anima resterà in un dolore senza speranza: Cristo invece a chi lo imita nella mitezza e nell’umiltà offre la sua pace, una contemplazione senza fine. Insieme allo stesso Cristo dolente che contempla, ecco allora San Giacomo, primo

apostolo martire, col collo e la spalla già scoperti per la spada‘; e Giacobbe angariato a sorvegliare il gregge di Labano poiché «servì sette anni per Rachele», e poi altri sette, ma «gli sembrarono pochi giorni di fronte alla grandezza del suo amore»°, Rachele significando la speranza del gaudio eterno nella contemplazione di Dio e della verità5!; ed ecco infine il Cieco con la scritta

di speranza per il giorno in cui sarà donata contemplazione piena e senza fine anche agli occhi della carne, «Dies illa, dies illa». Il pittore sa per esperienza

che, in tanta astrazione dello spirito, le membra e quanto ci circonda restano dimenticati: così la canna nella mano di Gesù, il suo petto pur robusto, la bocca smorta; e nel san Giacomo, ormai il rotolo nella mano obliosa, della lettera

sulle opere, la rilasciata persona aitante con la spalla scoperta, i capelli confusi; e nel Giacobbe e nel Cieco, la composizione disgregata, col gregge o il mesto fanciullo che prendono in silenzio luogo a sé. Ma il Ribera, con quei suoi fondamenti, non solo parla di imitazione altrui

della mitezza e dell’umiltà di Cristo, ma anche la pratica nel profondo della sua arte: giacché la fede a parole, lo sapeva da san Giacomo e dal Molina, è come morta. Per arrivare a dipingere nei quadri della Passione quel povero agnello, aveva cercato «gli ammaestramenti della sua debolezza». Mite, con Agostino salva la bellezza creata, dall’oscuramento mistico dell’immagine”; e quella del corpo umano dal ribrezzo di predicatori che vi indicavano solo repugnanti immondizie®. La bellezza creata è un raggio, sia pur lontano, di quella divina, e un dono provvidenziale5: come negare che essa sia innocente e dolce? Di più, niente è brutto nel creato, essendo comunque un raggio divino l’esistenza e la forma, che restano ancor nella degradazione”.

Così mite, filtra anche Agostino delle sue durezze paoline, e non attribuisce a Cristo volontà di scacciare, non accusa di superbia i filosofi, non fa riferi-

menti personali per i peccati. Dei peccati, tratta solo in forma indiretta, mitolo-

gica e simbolica, perché è lucido nel veder l’insidia, ma pietoso verso gli

uomini. L’insidia del bere”, lenta®° e nascosta! come quella di altri vizi, la esprime con un Sileno ebbro mentre Agostino la riferiva direttamente alla gio-

L’ARMONIA DEL RIBERA

179

ventù di sua madre®?. E un commento agostiniano sulla vanità degli attaccamenti terreni, lo rispecchia con la descrizione ovidiana dei Giganti agli Inferi e delle loro pene vanamente replicate®®. Umile, poi, non preferisce, come fa il mondo, le opere più costruite e formali di sant'Agostino, ma quelle più piane e commosse. E così con le persone che raffigura non ha preoccupazioni di decoro formale o sociale, né teme somiglianze notorie: non le fa posare composte come volevano i trattati-

sti, e talvolta son nude ed esibite; i santi che gli son più cari li dice belli,

guardando per l’Apostolato il castano diverso fra capelli e barba di Matteo“, e il

pelo nero che affila il volto e adombra la purezza del collo di Giacomo; e così

rendendo in un San Rocco l’umidità degli occhi neri e i riflessi del sudore sul

volto. Poiché dall’idolatria, il distacco dev'essere interiore: e come con la nudità innocente perché martirizzata e svenuta di Sebastiano, rifiuta indiscuti-

bilmente l’impurità e la miseria di fissarlo senza trascorrere a valori spirituali e divini, così nei volti l’attenzione ascende agli sguardi gravi e commoventi, al merito, al dono, al principio di tutto. E la stessa umiltà, cioè lo stesso ampio distacco dal mondo sull’esempio di

Cristo, può trarre motivo di contemplazione e di conforto considerando insieme alla bellezza creata ciò che il mondo considera brutto: giacché esso, a parte il riscatto morale, pur nel corpo riflette la divinità con l’esistenza, con la forma, e con l’armonia cui contribuisce*£. Sul contributo all’armonia universale, dei corpi che il mondo considera brutti, e di cui esso dice «non dovrebbero esserci» o «dovrebbero essere come

questi altri», Agostino era palmare, soprattutto per un pittore spesso tene-

broso, dicendo «come il colore nero in una pittura diviene bello in rapporto con il tutto, così la divina provvidenza immutabile offre un bello spettacolo nell’insieme»®8. Ed ecco dunque che i corpi che il Ribera «dice» totalmente,

siano maceri ed irsuti o bellissimi, in questo spirito agostiniano non portano oltranza realistica né contrapposizione, cioè applicazioni del pensiero al parti-

colare, ma sono gradi di un’armonia ammirata superando umilmente le ragioni del mondo, e che dà conforto e pace. Così, alle interpretazioni di bellezza e «bruttezza» nel Ribera secondo impressioni scoordinate, si potrà, volendo,

sostituirne un’altra secondo queste parole di Agostino: «Tutti, secondo i rispettivi compiti e fini, sono ordinati alla bellezza dell’universo, in modo che piace

moltissimo, se considerato con il tutto, quel che dà orrore se preso in sé. [...] Per contro è brutto di per sé il nostro errore, che ci fa aderire ad una parte sola del mondo». Nello stesso spirito di umile superamento del particolare per aver pace e consolazione, lo spirito del Ribera trascende anche le forme stilistiche, che

potevan valere per troppo bassi raggiungimenti e successi, non fissandosi né sulla ricchezza bella alla Vouet né sulla seta reniana né sulla compattezza ottenebrata alla Battistello: giacché, se «per molti l’unico scopo è l’umano diletto, e non vogliono tendere verso i princìpi più alti [...], io non cesserò di

180

BELLEZZA E PENSIERO

ricordare all’uomo, che ha un occhio interiore e vede nell’invisibile, perché tali cose piacciano, in modo che osi essere giudice anche dell’umano diletto. Così

si pone sopra di esso, e non ne viene dominato»”. La concretezza che vale per questo pittore, sembra dunque essere altrove,

nell’insegnamento di Agostino quando dice: «eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me»”!. *

E

Dal 1635 ai primi anni Quaranta il Ribera cinquantenne rimedita princìpi già espressi su l’imitazione e il conforto di Cristo, ma li esprime con più nuda chiarezza, spesso con temi nuovi per lui e per tutti. In tale riconsiderazione di

fig. 50

ciò cui si è dedicata una vita, ha molta importanza l’arte. Sant'Agostino è figurato nella dottrina e nell’ispirazione. In questo tempo figura eremiti vecchi e molto selvatici; insieme ad altri in cui la lucidità dell’abnegazione innalza la gioventù a nitore adamantino o la snoda dolcemente; e insieme anche alla bellezza di Sebastiani e di paesaggi (1639)”?; continuando a pensare che l’esistenza e la forma sono comunque doni provvidenziali, e in un’ammirevole gradazione armonica. Con i gradi alti di questo splendore è ora più magnanimo: la bellezza umana dunque, non solo è innocente come nella nudità d’un martire estatico o svenuto: ma nelle sue forme e pose supreme l’artista esalta quanto traluce della matematica purissima”, più che il suo grado infimo di bene”. Dono dolce dell'amore di Dio per noi, come la natura che circonda meravigliosa i ritiri secondo tradizione poetica —- a Napoli quindi pastorali e piscatori — dell’umanista cristiano”. Lascia implicito nel contesto o, chissà, vela con la mutevolezza della luna o di nubi ventilate e trascoloranti, il pensiero che quanto nella bellezza è terreno, per sua natura ci lascerà”.

Dell’amorosa gratitudine per la dolcezza della Provvidenza si nutre ancora l’imitazione di Cristo nelle opere, secondo l’autorità dei santi Pietro e Paolo, di

nuovo raffigurati in due quadri gemelli, nel 1637. L’umiltà è ora figurata con la persona di Giacobbe dormente per terra (1639), prefigurazione secondo Agostino di «Christus jacens humiliter»??: così che, parimenti guidati da Agostino, potremo vedere questo significato anche nel Battesimo (1643) che Cristo volle ricevere da un uomo”, nonché, insieme ad altri significati, nella Pietà.

Disarmandosi lo spirito dalle strutture del mondo, nel Giacobbe la grandezza e la rigidezza del rettangolo dipinto si sciolgono nell’abbandono del personaggio: che, essendo spiritualmente lontano dal mondo, è caro all’artista: le due linee innocenti delle ciglia abbassate, e in quella testa barbuta e giovane si lascian guardare dei rosati che ci ricordano il ciclamino od altro (la pittura alla Van Dyck vola intorno con bruni lievi, o con vapori d’oro che anche corrono a far trasparire l’azzurro). E, nel Battesimo, uno degli infiniti doni

L’ARMONIA DEL RIBERA

181

della Provvidenza è anche il paesaggio serotino in cui Cristo si è ora inginocchiato: valle fresca alla base dell'immenso che si va tacitamente strappando sull’azzurro. Il merito di chi imita l’umiltà di Cristo è nella praticata abnegazione. In questo tempo il Ribera la figura più volte con san Giovannino che, nelle rinunce del deserto, ha presso di sé l’umile agnello di Dio”; una volta, in un gruppo di quattro dipinti, con due sante eremite e il martire Bartolomeo: giacché, sotto quei princìpi, il pensiero unisce gli eremiti ai martiri come Lucia®° (1637), Cristoforo®! (1637), Filippo*° (1639), Agnese (1641), i quali non solo con l’etimo del nome o con le parole secondo la Leggenda aurea, ma imitando Cristo nel sacrificio, provarono umiltà, mitezza da agnello, e fede.

Mentre san Filippo è tirato su una croce al pari di Cristo, nell’immagine di un corpo stanco, di varie braccia alzate scure o senili, della testa già calva di un giovane, e di due soldati che mormorano, sotto quel cielo mosso di nuvole

marine brilla all'improvviso più alto il riflesso della divina armonia. E se il peccato è un attaccamento esclusivo dello spirito alle cose, esso contraddice all’umiltà di Cristo, ed è, come dicemmo, una forma di idolatria. Il

Ribera ne cerca e ne illumina con rigore anche la forma più insidiosa: quella del diabolico buon senso che, come nella Tentazione di san Francesco8*, insinua con

volto angelico che «solo il mezzo è quel che piace a Dio» e quindi induce a temperare la devozione con i conforti del mondo*. Ma poi questo rigore di princìpi, ai suoi simili lo applica con mitezza, ancor più in questa maturità rifiutando di usar l’arte a ludibrio dei peccatori. Tale mitezza che ha già filtrato durezze di Agostino, imita ancora una volta il mite Gesù del Vangelo di Matteo,

e non si figura che le sofferenze da uomo lo abbiano reso giudice terribile®*: nella Trinità, brividi replicatissimi, splendori sdruccioli, ramificate saette, sul gran mantello divino: ma tutto questo, sopra al nuovo pallore di Gesù riverso,

povero agnello. Gerolamo insegna chiaramente che le sventure di questo mondo, come quelle del vecchio Isacco (1637) insieme cieco e ingannato, sono segni non dell’ira di Dio, bensì del suo caldo amore, simile a quello di chi

ammaestra e corregge solo i giovani amati e d’ingegno ardente”. Sull’esempio di Cristo dunque, la mitezza verso i peccatori induce il Ribera a trattar del peccato con figure simboliche: come nella Vittoria della Fede sull’Idolatria (1636) secondo la Psychomachia di Prudenzio*, e nella Mano (1635) che, durante il convito idolatra di Baldassare, apparve ad avvisare che quel mondo sarebbe presto finito**. Poi (1642) sommando nello Zoppo una menomazione simbolo del peccato secondo esegesi agostiniane”, e l’invito, scritto sul biglietto che egli regge, all’amor di Dio e alla carità. Giacché l’uomo che vive secondo il vangelo, non solo sarà mite verso i peccatori ma, come Agostino, avrà compas-

sione per la pena insita nel loro stato a causa di quel contrasto tra la fissità passionale sulle creature e il loro necessario fluire e scomparire”. Con maestosa allegoria, dunque, desunta da un rilievo classico”, i piaceri del vino e dell’amore nei quali è immerso un giovane ancor forte sono, con la

182

BELLEZZA E PENSIERO

presenza di maschere, dichiarati fallaci perché «non durano né soddisfano, ma

tormentano soltanto. Poiché quando la bella vicenda temporale ha compiuto il

suo corso, l’immagine desiderata abbandona il suo amatore, si allontana, tormentandolo, dai suoi sensi», come il pittore ha letto nel De vera religione”?:

pensieri che in uno dei suoi momenti più elevati (1637) collegherà ad altri deposti da Ovidio nelle Metamorfosi. Venere immortale, presa dalla bellezza di un uomo, lo preferì al cielo, e dal cielo si astenne*. Quella bellezza era innocente, ma per sua natura ad un momento la abbandonò. La testa pallida e bruna di Adone sulla terra e sul rosso. Pietà e non giudizio, allora, per un’amante immortale, l’anima, che già soffre e grida per quanto era insito in

quella disparità?. E anche se l’amore di una moglie è lecito, e lei può dunque esser raffigurata più da vicino con un tipo moderno - come nel quadro oggi a Bayonne (1638) —, quando il suo amore è preposto al Cielo, per la natura delle cose anch'essa resterà priva di tutto, e disperata. «Gli amori terreni, anche se il matrimonio non li fa condannare, saranno bruciati dal fuoco del tormento: che

è il fuoco della privazione, e delle disgrazie che portano via tutto». In questi anni, somma chiarezza si applica anche a pensieri cui il Ribera dà chiaramente figura per la prima volta. Meglio che la fede sapiente è l’amore disarmato per l’umiltà di Cristo, come quello di Sant'Antonio di Padova raffi-

gurato (1636) non come dottore qual era, bensì come amatore del Bambino, al quale ha dato abbracci e parole d’affetto”. E con un pathos da Regola dell'Ordine di Gesù?* (che il Ribera figurò intorno al 1643) si aggiunge un’altra forma di abnegazione nel concreto: nella purezza del religioso — espressa con san Francesco cui l’angelo mostra per riferimento un’ampolla limpida” o nella lista dei sette privilegi indica quello della purezza! —, il sacrificio degli impulsi maschili, col Gesuita (1638) ove il leone è simbolo appunto dell’austera castità!°!.

Questa intelligenza chiara fino in fondo la applicò anche, nella visione della sua vita, ai concetti sull’arte. Le immagini, e le immagini sacre, celano il pericolo dell’idolatria!°2, e

perciò l’artista deve trascenderle per visioni spirituali come quella di San Luca! che rappresenta la Madonna come la vedono i suoi occhi interiori, e

non quelli della sua carne. Perfino un filosofo antico come Diogene (1637), che cercava l’uomo, insegna che per conoscerlo non basta vedere!*: anche se in questi anni di maturità magnanima e di amore per la Provvidenza l’artista non piega la sua pittura a disprezzare neanche i Sensi, ed anzi con Agostino ne

riconosce l’innocenza. «L’errore non ha origine dalle cose [...] né dalla fallacia

dei sensi, i quali, impressionati secondo la natura del corpo, non fanno altro che

trasmettere queste impressioni all’anima che li governa»!°. In una seconda serie (1637) raffigurandoli dunque con persone degne di pietà, e non spregevoli come invece nella serie romana e cappuccina. Ora l’Odorato è un giovane servo bruno guardato mentre porta un vaso di fiori, struggente nella sua ignoranza; e il Gusto ha un'espressione sciocca ed allegra come quella dello

L’ARMONIA DEL RIBERA

183

Zoppo che ci ha invitato all’amor di Dio. E anche le arti, con Agostino, sono un

dono della Provvidenza, talvolta un riflesso ispirato dell’assoluto'°: come ci

dice il Musico (1638), il quale, con il bastone per battere il tempo e il foglio

delle note, richiama scritti di Agostino su metrica e sillabe, che distinguono fra numeri puri — quei numeri puri che, sempre secondo Agostino, sono l’alta

immagine esemplare che traspare nell’universo per il Cosmografo!” —, fra numeri puri e numeri sensibili'°: anche questi, egli dunque riconosce, dono della

Provvidenza, e senza colpa nessuna giacché il male, assurdo e doloroso, non è

qui ma dentro a chi pretende di tenere una sillaba e così, non curandosi della forma ideale del carme, ne arresta lo svolgimento!°. Il biondo Apollo, col bel volto immutabile «d’edera e lauro eterno coro-

nato»!'°... nudo nel golfo del mantello sontuosamente ventilato con colori di rose sul cielo d’oro e rame splendenti, tormenta Marsia (1637), e questi «‘a! piget, a! non est’, clamabat, ‘tibia tanti’»!'!: vedendo finalmente, nel dolore altissimo, che la musica terrena, per esistere deve per forza trascorrere e morire,

e che sempre soffrirà chi si ferma ad essa invece di ascendere all’immota armonia assoluta!!?, Come in tutta la vita, anche nel campo dell’arte lo spirito non può fermarsi. I modelli naturali - anche proprio dei quadri con Marsia —, estranei che si allontaneranno, accertano nella vita che la bellezza è un dono ed è incolpe-

vole, ma passa, e l’artista deve fare di più, lui deve svolgere un progetto interiore di crescente estensione: così come il musico si impedisce di fermare le sillabe, e il canto si svolge, una strofa dopo l’altra, verso un grande carme multiforme!!5. C’è movimento visibile nella forma vandyckiana - composizioni e trascolorazioni ventilate -, ma un altro movimento, che non si vede, supera questa

forma ed altre che nello stesso tempo sono invece pensose e lente o aspre: quello dello spirito, che non si ferma a nessuna e sale ben oltre, a contemplare la Provvidenza che le dona, l’armonia universale, l’origine celeste!!*. Il vigore, in questo movimento invisibile cederà, nei successivi, ultimi anni della vita, conclusa nel 1652, a una quieta continuità, a composizioni che l’occhio interiore riconosce solenni oltre la differenza fra ori, velli da Maestro

degli Annunci, una prospettiva silente da Codazzi. All’entrata c’è un fermo «humiliandus omnis homo Christo», figurato con la testa mozzata dell’uomo più grande pur secondo l’ordine spirituale incomprensibile al mondo!!5. Ma il giogo di Cristo è soave poiché premia con la cresciuta contemplazione, in sovrumana pace, di significati vissuti tante volte.

Santa Caterina dà al Bambino Gesù un bacio spoglio della sua leggendaria sapienza e di amori terreni!!, comparato nel quadro all’offerta di una rosa aperta. La rosa è semplice come il cuore di chi adora l’assoluto e l’atteso nell’inerme: Simeone, che chiede si concluda così in pace la sua vita!!”, Pastori.

Per l’Eucarestia gli Apostoli «vedono», mentre Giovanni ad occhi chiusi, le labbra unite e le dita al petto si smarrisce pensando a tanta comunione col

184

BELLEZZA E PENSIERO

maestro, anche col suo corpo, appena inghiottito. Un Sebastiano, scabroso per

molti, ha provato la sua sincerità, è innocente nell’armonia e nello sguardo divino che ora lo avvolge di dolcezza. La vecchiaia di Eremiti, è anch’essa nella pace dell’armonia. Tutto il resto, ormai silenzioso. 1986-1987

?@ Pubblicato su «Artibus et historiae», 17, 1988.

NOTE

Per questo saggio mi sono molto appoggiato agli apparati di N. Spinosa in L’opera completa del

Ribera (presentazione di A.E. Pérez Sanchez; Milano 1978): ad essi rimando anche il mio lettore, invitandolo a tener conto degli aggiornamenti proposti dallo stesso Spinosa (Un San Francesco inedito nel palazzo del Pardo e alcune considerazioni sul catalogo dei dipinti del Ribera, in Scritti di storia

dell’arte in onore di Federico Zeri, Milano 1984, pp. 597-598, n. 5), e a considerare scambiate le

illustrazioni dei nr. 163 e 164. Per gli incrementi dei quali ho tenuto conto, apro note particolari all’occasione.

1 Per la storia di quest’opera vedi, oltre al nr.

1 del catalogo Spinosa (op. cit., 1978), M. Cordaro, Sull’attività del Ribera giovane a Parma, «Storia dell’arte», 1980, p. 323 ss. ? G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, ed. A. Marucchi, con il commento di L. Salerno, Roma 1956-1957, 1, p. 249 ss. Per la questione dei Sensi dipinti a Roma, vedi N. Spinosa, cat., op. cit., 1978, pp. 91-92, ma considera

anche i posteriori dubbi sull’autografia del Tatto (N. Ayala Mallory, Ribera, notas criticas, «Goya»,

175-176,

1983, p. 58; Spinosa, op.

cose che repugnano a’ suoi sensi, cioè che sono dispiacevoli alla vista, fastidiose all’udito, ingrate all’odorato, amare al gusto, ed aspre al

tatto»; «io sono di questo parere (salvo sempre ogni meglior giudizio) che l’altissima, sublimissima, e perfettissima contemplazione sia

quella che si fa intorno alla passione del nostro Signor Giesù Cristo, e gratissima alla Maestà sua» etc. 4 J. Chenault, Ribera in Roman Archives, «The Burlington Magazine», 1969, p. 561. 5 Cicerone, Tusculanae disputationes, 5Eld4:

cit., 1984) e la pubblicazione dell’originale dell’Odorato (vedi ad esempio Important Old

6 Gerolamo, ep. 76. ? Sulpicio Severo, De vita Beati Martini, 3

Master Paintings and Discoveries of the Past Year, catalogo della mostra presso Piero Corsini,

(Patrologia Latina, 20, col. 162). 8 Per le notizie sulla gioventù del Ribera

New York 1986, nr. 19). 3 Benoît de Canfeld (Benedictus a Canfeld), Regula perfectionis, Parisiis 1610: 1,17; 3, 16 ss. e particolarmente 3, 20 (pp. 88v-89v; 237v ss.

e particolarmente 272v). Nella traduzione italiana di fra Modesto Romano: «compir ogni giorno un certo e determinato numero di mortificazioni e rinunziazioni [...] o dai sensi del corpo o dalle passioni dell’anima. Dai sensi del corpo, cioè dalla vista, udito, odorato, dal gusto e dal tatto facendo o patendo alcuna cosa

ingrata e disgustevole ad essi»; «accettar quelle

alle quali si allude in questo discorso, vedi

Mancini, op. cit. ° Un accostamento del giovane Ribera a Va-

lentin è già stato proposto da F. Bologna (A proposito dei «Ribera»

del Museo

di Bruxelles,

«Musées Royaux des Beaux-Arts - Bulletin»,

1952, pp. 48, 50).

!0 Pietro, II ep., 3, 13-15; Paolo, ad Romanos, 2, 4-8; Giacomo, ep. catholica: 1, 27; 2, 14-26.

L’attribuzione al Maggiore dell’epistola di san Giacomo è, oltre che in Dante (Paradiso, 25, vv.

76-77), nella tradizione spagnola.

186

BELLEZZA

11 Matteo, 26, 53-54; Paolo, ad Romanos, 5, 6-9.

12 Jacopo da Varagine (Jacobus a Voragine), Legenda Aurea, ed. Th. Graesse, Dresdae et

E PENSIERO

Romanos,

5, in Agostino,

Confessioni, VE-1S)

14. 25 Agostino, De vera religione, 16, 31. 26 Ivi, 37, 68.

Lipsiae 1846, p. 108 ss. Il seguito di questo

2781); A

saggio presenterà frequenti ricorsi necessari alla Leggenda aurea.

28 Matteo, 11, 29; Agostino, De vera religio-

13 Jacopo da Varagine, op. cit., p. 540. 14 L’orazione di san Pietro è evidentemente

«separata», solitaria, nella incisione corrispon-

212923

MO I72374 41

ne, 35, 65.

29 In un saggio di V. Pacelli (Processo tra Ribera e un committente, «Napoli nobilissima», 1979, p. 28 ss.) vediamo che da un ambiente

diti di Ribera, «Arte illustrata», 37/38, 1971, p. 76) e ripr. da N. Spinosa (cat., op. cit., 1978, nr.

diverso rispetto a quello del Ribera gli si poteva chiedere un’opera con riferimenti precisi ad altre sue precedenti: possiamo dunque pensare

!5 Il tema, assai frequente nell’opera del Ribera, è sempre detto «San Gerolamo e l’angelo

pevoli dei significati costituissero un riferimento per richieste accettabili anche se este-

con la tromba del Giudizio»: anche da J,.

riori. 30 Agostino, De vera religione, 4 0015031 31 Agostino, De libero arbitrio, 2,11, 31; Gerolamo, ep. 76; Cicerone, Tusculanae disputatio-

dente, pubblicata da W. Vitzthum (Disegni ine-

202):

che le opere eseguite per committenti consa-

Brown (Jusepe de Ribera - Prints and Drawings,

catalogo della mostra, Princeton e Cambridge Mass. 1973, p. 41), che pure (dichiarando di dipendere da J. Hand) cita fra altri un testo che permette la soluzione, cioè la Regula Monacho-

nes, 5, 114-115, e Definibus, 5, 87. 32 Agostino, in Joannis ev., 10, 13 (trad. E.

rum ex scriptis Hieronymi per Lupum de Olmeto

Gandolfo).

collecta: qui (cap. 23; Patrologia Latina, 30, col.

375) si trova infatti: «sive leges, sive dormies, sive scribes, sive vigilabis, Amos tibi semper

33 Paolo, ad Philippenses, 2, 3-11. 34 Pietro, I ep., 2, 19-24. 35 Agostino, Confessioni, 7, 21, 27 (con cita-

buccina in auribus sonet»: non si tratta quindi della tromba del Giudizio, bensì di quella di

zione da Matteo, 11, 28).

Amos, ovviamente come la interpreta lo stesso

Carena).

Gerolamo, cioè come alta ammonizione con-

tro l’idolatria («Verba itaque Amos, quo tempore populus Israel avulsus erat a Domino, et aureis vitulis serviebat, sive avulsus a regno

stirpis David, clara voce cecinerunt instar clangentis tubae, quae interpretatur Thecue»: Gerolamo, Commentarii in Amos prophetam, in

Patrologia Latina, 25, col. 992). 16 Matteo, 19, 21-30. !7 Agostino, De vera religione, 10, 18-19. TT

MEI

!9 Sull’vevangelismo» cinquecentesco napoletano, in relazione al nostro argomento, vedi H. Jedin, Girolamo Seripando etc., Wiirzburg 1937: 1, 1, 6 (p. 132 ss.); 2, p. 239;

2072*(pa26855). 2° Agostino, Confessioni, 7, 9, 13 ss.; Agostino, De libero arbitrio: 2, 8, 20; 2, 11, 31. 2! Agostino, Confessioni, 7, 9, 14. SAM

ATO

102070

3 Matteo, 11, 29. Agostino, Confessioni, 7, SL

24 Vedi, ad esempio, il ricordo di Paolo, ad

36 Agostino, Confessioni, 7, 18, 24 (trad. C. 37 Jacopo da Varagine, op. cit., p. 485. 38 G. Seripando, Prediche sopra il simbolo degli Apostoli etc., Venezia 1567, pp. 97v-98v.

33 Matteo, 11, 25. Vedilo commentato Agostino, in Confessioni, 7, 21, 27. 40 Matteo, 11, 29. 41 Vedi le nn. 33 e 34.

da

42 F. Diedo, Legenda Beati Rochi (incunabolo consultato presso la Biblioteca Statale di Lucca), [p. 5r]. In Acta Sanctorum, agosto, 3, p. 403, par. 18. 4 Jacopo da Varagine, op. cit., pp. 708-710.

SSVedilaimAMisi

*° Jacopo da Varagine, op. cit., p. 16 ss. 4° Vedi, ad esempio, Franciscus a Puteo, vita

di san Bruno (Basilea 1515 c.; Patrologia Latina, 152, col. 522). 47 Matteo, 19, 27 e 29.

48 Vedi la n. 42. 49 Atti degli Apostoli, 12, 1-2. Jacopo da Varagine, op. cit., p. 422. 50 Genesi, 29, 20.

L’ARMONIA

5! Agostino, Contra Faustum, 22, 52.

°? Agostino, De vera religione, 12, 25. ° Agostino, Confessioni, 7, 18, 24 (trad. cit.). °* Vedi, ad esempio, Juan de la Cruz, Subida del Monte Carmelo, 3, 34-36.

55 Vedi, ad esempio, Luigi di Granata, Devotissime meditazioni per i giorni della settimana, in Tutte l’opere, Venezia 1619, p. 111. °° Agostino, De vera religione: 11, 21; 20, 40; 213541329 X52: "335 61536 167740,574-75:141,

77. Agostino, Confessioni, 10, 34, 51. Sull’innocenza della bellezza, vedi anche De civitate Dei, 12, 8 («nec luxuria est vitium pulcrorum

suaviumque corporum»...). °? Agostino, De vera religione: 11, 21; 18,

35-36; 19, 37; 20, 40. Agostino, Confessioni, 7, Sela

58 Agostino, in Joannis ev.: 25, 16; 25, 18. 5° Nel simbolo del serpente, secondo G.C. Capaccio, Delle imprese, Napoli 1592, 2, p. 58v («si servirono del serpente alcuni per mostrar

l’ebrietà, per ciò ch’è incontinente questo animale del vino»). 6° Nel simbolo della testuggine, secondo F. Picinelli, Mondo simbolico, 6, 47, 186 («il Demonio con esso noi si porta da testuggine, poiché non ci s’avventa addosso con la veemenza

d’un fulmine, ma passo passo e gradatamente nelle sue malvage persuasive avanzandosi, non mai si riposa finché non arrivi ove disegna»). 6! Nel simbolo della conchiglia, secondo Picinelli, op. cit., 6, 15. 62 Agostino, Confessioni, 9, 8, 18: «si era in-

sinuato in mia madre il gusto del vino. [...] Così, aggiungendo ogni giorno un piccolo sorso al primo, come è vero che ‘a trascurare le piccole cose si finisce col cadere’ (Eccl., 19, 1),

sprofondò in quel vezzo [...]. Ma quale rimedio poteva darsi contro una malattia occulta,

se non la vigile presenza su di noi della tua medicina, Signore?» (trad. cit.). 63 Ovidio, Metamorfosi, 4, vv. 456-463. Cfr. Agostino, De vera religione, 20, 40. 64 Mi riferisco al dipinto che nel catalogo

del Prado porta il nr. 1074, e nel catalogo di Spinosa il nr. 54. In ambedue i testi l’opera è intitolata San Paolo, in forza della barba allungata e della spada; ma in un Apostolato san Paolo sarebbe aggiunto, e invece Matteo, uno dei dodici, non può mancare: perciò, fino a che non venga scoperto un altro dipinto del-

187

DEL RIBERA

l’Apostolato, con san Matteo, dobbiamo credere

che il nr. 1074 raffiguri questo santo, poiché la spada fu strumento del martirio suo come di quello di san Paolo. 5 Agostino, sermo 62, 17. © Agostino, De vera religione, 39, 72; Agosti-

no, Confessioni, 7, 13, 19. ? Agostino, De libero arbitrio, 3, 9, 24 (trad. D. Gentili). Vedi anche Confessioni, 7, 13, 19. 8 Agostino, De vera religione, 40, 76 (trad. M. Vannini). 6 Ibidem. Vedi anche Confessioni, 7, 13, 19 — 7,14, 20.

7° Agostino, De vera religione, 32, 59 (trad.

cit.). Vedi anche 32, 60. 7! Agostino,

Confessioni,

10, 6, 8 (trad.

cit.). 72 I due paesaggi del Ribera (collezione dei Duchi d’Alba) sono stati pubblicati da A.E. Pérez Sanchez in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984, pp. 416-417.

73 Agostino, De vera religione, 30, 56-31, 57. I4RIVI AZIONA

13465 MA0745751

75 Per i ritiri dell’umanista cristiano, nelle forme della tradizione poetica, ricorda la Vida

solitaria di un altro seguace spagnolo di sant'Agostino, fray Luis de Leòn. 76 Agostino, De vera religione, 35, 65.

7 Agostino, sermo 122, 2. 78 Agostino, 13.474 CID]

in Joannis ev: 4, 14; 5, 3-5;

)

80 Jacopo da Varagine, op. cit., p. 31.

81 Ivi, p. 430. 82 Ivi, p. 292.

SRIVISppiAd95114,

84 La prima versione nota è stata pubblicata da N. Spinosa (op. cit., 1984). Una seconda versione (1642, oggi a Dresda) è pendant di una Liberazione di san Pietro per il collegamento che trovi illustrato in Marco da Lisbona, Croniche degli ordini istituiti dal P. S. Francesco (1557), Venezia 1598-1599, 1, 1, p. 165 (vedi

n.99). 85 Marco da Lisbona, op. cit., 1, 1, p. 164

(vedi n. 99). 86 Vedi invece

Agostino,

in psal. 85, 21:

«Transeat tempus patientiae, veniat tempus ju-

dicii»: «ille resurgens, et in terram ipse veniet judicaturus; ipse videbitur terribilis, qui visus est contemtibilis».

188

BELLEZZA

E PENSIERO

detto Duello fra donne del Prado: lo ringrazio

fratres mortis tempore taliter purgati et mundi ex hac vita migrabunt quod Purgatorii pene nequaquam eos prepedient quia eorum [...] cilissime transvolent ad [...] eternam». E questo il terzo privilegio (cfr. Marco da Lisbona, op.

molto cordialmente.

cit., 1, 1, p. 134; vedi n. 99).

87 Gerolamo, 88 Prudenzio, ad Antonio La mando a questo

ep. 68, 1. Psychomachia, vv. 1-37. Devo Penna la soluzione, con il ritesto, dell’iconografia del così

89 Daniele, 5: 1-5, 25-28, 30-31.

9 Agostino, sermo 5, 8; Agostino, in psal. 44, 20. % Agostino, De vera religione: 11, 21 — 12, 23; 19, 37 — 23, 44. °2 D. Fitz Darby, In the Train of a Vagrant Silenus, «Art in America», 1943, p. 140 ss. 9 Agostino, De vera religione, 20, 40 (trad.

cit.). % Ovidio, Metamorfosi, 10, vv. 503 ss.; vedi

particolarmente i vv. 529 («capta viri forma») e 532 («abstinet et caelo: caelo praefertur Adonis»). 9 Vedi particolarmente Agostino, De vera religione, 11, 22. % Agostino, De civitate Dei, 21, 26, 2. Vedi anche Paolo, I ad Corinthios, 7, 28. 7 L. Wadding, Annales Minorum, 2, col. 261-262, XVI.

98 Vedi Ignatii Loiolae vita postremo recognita, Florentiae 1588, cap. 9. 99 Marco da Lisbona, op. cit., 1,1, pp. 74-75.

Devo alla cortesia del p. Jerome Poulenc per il tramite del p. Samuele Olivieri l’indicazione delle Croniche di Marco da Lisbona come fonte per l'iconografia del san Francesco cui un an-

gelo mostra un’ampolla d’acqua limpida. Son poi ricorso a questo testo nello studio di altre

opere del Ribera relative a san Francesco (vedi

le n. 84, 85, 100).

100 Nella copia oggi al Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona (cat. Spinosa, cit., 1978, nr. 300), dove l’angelo indica nella lista dei privilegi per i Frati Minori si legge: «Quod

101 Picinelli, op. cit., 5, 26, 336. 102 Agostino, De vera religione, 55, 108.

103 Mi riferisco al dipinto che A.E. Pérez Sanchez ha pubblicato come copia dal Ribera (El «San Lucas pintando a la Virgen» de Ribera, in Ars auro prior - Studia Joanni Bialostocki sexagenario dicata, Warszawa 1981, p. 403 ss.). 104 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi: 6, 2, 506, 27412 105 Agostino, De vera religione, 36, 67 (trad. cit.); vedi anche, ivi, 33, 62. 106 Agostino, Confessioni, 10, 34, 53. 107 Agostino, De libero arbitrio: 2, 16, 42; 3, 9, 28. Agostino, De ordine, 2, 14, 42. 108 Vedi ad esempio Agostino, De ordine, 2, 14, 41. 109 Agostino, De vera religione, 22, 42-43.

110 Mitologia e forma classiche sono frequenti nella poesia dell’agostiniano Luis de Leén, del quale qui traduco un verso di Vida solitaria («de yedra y lauro eterno coronado»). !!! Ovidio, Metamorfosi, 6, v. 386. Per l’intero mito di Marsia, vedi i vv. 382-400. 112 Agostino, De vera religione, 22, 42. 113 Ivi, 22, 42-43. 114 Ivi, 32, 59-60. 115 Secondo lo stesso Cristo, Giovanni Bat-

tista fu il più grande degli uomini (Matteo, 11, 11): eppure, mentre Cristo fu innalzato sulla croce, egli fu ridotto del capo, perché «humi-

liandus erat omnis homo Christo» (Agostino: sermo 287, 3, 4; sermo 289, 3 e 5).

116 Jacopo da Varagine, op. cit., p. 789 ss. LA lica 820995335

Simon Vouet e l’amore

Un quadro simbolico dipinto da Simon Vouet in quel suo periodo romano che va dal 1614 al ’27, ha al centro una figura femminile con caratteri che

l’hanno fatta riconoscere come la Volontà: ma il significato della volontà non

lo interpreteremo, come hanno fatto altri, secondo sant’Ignazio!, bensì ricor-

dando dapprima che Vouet lavorò per la cappella dell’Immacolata Concezione nella chiesa romana dei Francescani Riformati, che fu chiamato per due storie di san Francesco e un’immagine di san Francesco di Paola, fondatore di quei Riformati, e che fu protetto dal cardinal Francesco Barberini, che era favore-

vole agli Osservanti: e ricordando poi che il dottore degli Osservanti e dei Riformati, e la maggiore autorità sul tema dell’Immacolata Concezione, era Giovanni Duns Scoto. La volontà è per Scoto la causa prima e totale dell’atto?: è, diremmo noi,

propensione ed impulso. Per essere morale, tale volontà deve essere regolata e indirizzata dalla prudenza. In quel dipinto simbolico c’è un’altra figura femminile, che, seduta, e appoggiata a una diritta stele, volge serena uno dei volti

della sua testa, bifronte come quella della Prudenza? (carattere che talvolta è secondariamente attribuito anche alla Memoria‘, per l’esperienza che essa produce), verso caducità e frastuoni nella figura di ruderi, e di genii bambini con trombette. La Volontà la guarda mentre accenna ad andare, e si eleverà poi con

quelle sue ali: la seconda figura è dunque la versione scotiana della prudenza, la Recta ratio, la quale sceglie le circostanze convenienti all’atto, e lo fa esser un’azione, anch’essa, retta*.

La volontà, come propensione ed impulso, include anche l’amore. In un quadro di Vouet giovane, una zingara parla, leggendo la mano a una donna, d’amore — provoca riso e volgare costernazione, e intanto un furbo la deruba: così accade a chi ne parla ispirato. Cercheremo anche noi di parlarne. Per Scoto, come

già per san Giovanni®, Dio è amore, e la Creazione, «il

primo atto libero che si incontra nell’insieme dell’essere», ha per causa l’amore”. L'amore protende il Padre verso il Figlio e verso l’uomo. La libertà di tale amore divino, fatto salvo il merito dell’uomo, è figurata da

Vouet in una coppia di quadri, che rappresentano due santi assai giovani. Privi

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BELLEZZA E PENSIERO

di un segno iconografico che li individui, non posson provenire da una serie: né di Apostoli, dove solo Pietro e Giovanni sarebbero stati facilmente riconoscibili

almeno per l’età, e neanche di Evangelisti. Possono dunque essere nati come una coppia: qui il primo, essendo adolescente, è riconosceremo per il suo stretto vincolo con lui, Ambedue indicano verso un centro, del quale uno dove indicano, dovremo immaginarci Cristo, con

Giovanni, e l’altro allora lo e sarà suo fratello Giacomo. è a destra e l’altro a sinistra: riferimento ai passi evange-

lici ove si parla del loro desiderio di sedergli l’uno a destra e l’altro a sinistra nella gloria del Regno*: e il significato di questa coppia di quadri risiederà

dunque nella risposta di Cristo - «Berrete il mio calice; ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra, sta in me concederlo non a voi, ma a coloro cui ciò è

stato preparato dal Padre mio»? —. E ci resta da capire come ad un tema così imperscrutabile possa conformarsi questo, proprio questo, momento luminoso di due giovani con capelli lucidi e scarmigliati, presenza irripetibile. In una spiritualità scotiana, anche il tema della Crocifissione, da Vouet svolto per Genova, arde d’amore divino. La Trinità - questi pensieri commuo-

vono in Scoto — ha scelto liberamente e per grandissimo amore, di redimere l’uomo offrendo sulla croce Cristo, la persona più amata!°: e Cristo si offrì per

avvincerci a lui e per maggiormente obbligarci a Dio!'. Nella prima lettera di san Giovanni, fondamentale per la spiritualità francescana, intensamente leggiamo: «Noi dunque amiamo Dio, poiché Dio per primo amò noi»... e in Scoto, sui due primi comandamenti: «se Dio è, bisogna amarlo come Dio, e

nient’altro bisogna onorare come Dio»!?.

Maria, in un quadro di Vouet ha le mani premute sul petto nel gesto della dedizione con tutto il cuore, perché essa ricambiò l'eccezionale amore divino che l’aveva esentata dal peccato originale e da ogni peccato attuale'‘. I santi martiri ricambiaron l’amore divino fino alla morte: Sebastiano e Reparata, in quadri di Vouet!5, ci si mostran come martiri ed indican la via, con il gesto della Volontà nel quadro simbolico, a significar, credo, che il motivo della loro offerta fu l’amore; e Reparata, e Caterina (che ritorna nell’arte di

Vouet), rifiutaron d’adorare altri dèi che il Signore, Caterina aggiungendo: «Io mi son data in sposa a Cristo, lui è la mia gloria, lui il mio amore, lui la mia

dolcezza e il mio affetto, dall'amore per lui né lusinghe né tormenti mi potranno staccare»!. Così intendiamo che è l’amore, che accomuna Reparata a

Maddalena in una coppia di quadri: la prima, che dunque non rinnegò davanti alla spada!’ che ora regge come motivo di gloria; la seconda, che agli occhi di Gesù dimostrò di «amare molto» anche usando per lui l’unguento del vasetto!* che ora mostra, anch'essa, a propria gloria. Siamo avvinti dall'amore quando, secondo parole di san Francesco stesso, «siamo madri sue, quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo con l’amore e conla pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso sante opere»"...: san Giovannino (in un quadro del Prado) si inginocchia di fronte

SIMON VOUET E L'AMORE

191

all’«Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo»®; sant’Elisabetta indica il ventre di Maria, lei che disse «benedetto il frutto del ventre tuo»?!, e Caterina,

teneramente, verso questa indicazione si rivolge.

In ispirito francescano, ancora, l’uomo risponde all’amore di Dio abbando-

nandosi nell’obbedienza?. In un’Annunciazione l’angelo indica in alto verso la luce infinita, e Maria, in ginocchio, a mani giunte, si fa umile: «Hai trovato

grazia presso Dio»... «Ecco l’ancella del Signore; sia di me secondo la tua parola»?3. L’uomo corrisponde all’amore di Dio, ancora, con l’aver fiducia in lui. San Giovanni aveva ben scritto: «Dio è amore», «abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi», e aveva concluso che chi ama perfettamente, non teme”.

«Timor non est in charitate»: i David e le Giuditte nell’opera di Simon Vouet guardano verso il cielo e tengono dappresso la testa del nemico che, nella loro pochezza, hanno pur vinto: Saul a David aveva detto, prima dello scontro, «Dominus

tecum sit»?, e Ozia a Giuditta, «Dominus sit tecum»?.

Guardando la pittura ci chiediamo, a questo punto senza risposta, per quali pensieri poté tanta fiducia trovar figura non solo nello sguardo dei David, timidamente amoroso, o perso e sbiancato, o in quello apprensivo e profondo di alcune Giuditte, ma anche nell’inattesa aggiunta loro all’armonia ben costruita e salda di quelle persone. Però il principio «timor non est in charitate» è svolto anche con altri temi,

da Vouet. Agata, davanti a chi le offre una medicina per le sue carni martoriate, ha un gesto di diniego poiché, spiega, si rimette alla volontà, cioè all’amore, di

Cristo — «Lui, se vuole, mi può curare sùbito»?” —. Margherita ha dichiarato di ricambiare l’amore divino rifiutando d’adorare gli dèi e dicendo, al prefetto, che desiderava morire per Cristo, il quale era morto per lei: amando talmente,

non ha paura del Nemico che la combatte, e quando esso le si presenta come drago, «fa il segno della croce, e quello scompare»?*. Santa Reparata, che torna in un quadro compagno a questo di Margherita, indicando il cielo e stringendo una bandiera invita alla fiducia col ricordo della «tanta insperata felicità e grazia di Dio» concessa ai Romani contro i Goti proprio nel giorno della sua festatii L’amore del prossimo, poi. La giovane figlia che fa al padre imprigionato la carità di nutrirlo col proprio latte, nell’arte di Vouet?° guarda altrove, cioè a

ragioni che stanno oltre l’affetto terreno. Così, quando Vouet scrive a Cassiano Dal Pozzo, da Genova, il 21 maggio 1621, del suo desiderio di tornare presto a Roma «a servire i miei amici e principalmente V.S.»?!, avrà pensato soprattutto

alla virtù, di un destinatario che formava il pensiero di giovani artisti*, e di chi apprezzava i suoi quadri e la loro spiritualità”. Alcuni giovani, suoi amici (questa sarà la conclusione), egli li ritrae in armi, e due proprio con l’alabarda, e uno addirittura in una posa di spalle e col pugno sul fianco”, come più tardi rappresenterà un eroe*. Per una bella tradizione cinquecentesca di ritratti

fondati sul Petrarca*, questi giovani sono armati contro la bassezza, che uno di

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BELLEZZA E PENSIERO

loro indica, indipendenti (anche se, per la varietà della natura, alteri o dolci o

corrucciati 0 vivi): perciò non si offrono al possesso, ma anzi son guide o compagni verso la virtù, e perciò vengono ammirati al pari di eroi.

fig. 52

Taluni d’essi hanno nel quadro la testa finita e il resto bozzato, con un’au-

dacia che può fra l’altro significare quanto fosse libera da regole astratte la «volontà» che univa a loro. Nell’amore della virtù rientran anche i molti trasporti di Vouet per l’arte dei contemporanei. «Sa première manière tenoit de celle de Valentin», scrisse

Félibien?: ma perché parlare opacamente di maniera, quando il contesto di Vouet ci fa piuttosto pensare all'amore che si può avere per i riflessi dello spirito? Il rapporto, presente in tanti ritratti, fra un bel «finito» nel volto e un metallico «bozzato» nei panni, può dipender dal Procaccini, di cui Vouet vide

opere a Genova, e poi a Milano, dove anche lo conobbe*. Ma aggiungiamo altro. Egli pensò allo Honthorst per raffigurare volti lucidi e ridenti di sciocche. Poté conoscere Manetti (a Siena, tornando a Roma da Firenze, dove scrisse

di voler sostare scendendo da Milano”), e ricordarsi con affetto della sua pittura immaginando la Natività di Maria come un culmine di movimenti ritmici che includono teste larghe, ombre ritagliate; e ricordarsene per i David, che hanno mezzo il petto nudo, francamente ampio e chiaro, come in varie

figure del Manetti sul ’20, siano di Cristo o d’un angelo fanciullo‘. Pensava alla pittura del Guercino quando dipingeva una luce patetica, e «macchiava» un quadro con capelli neri di genietti o di Intelletto; o quando il giovane messo incolpevole di un ordine crudele inclinava il suo momento

di bellezza, e

anch'egli ricchi capelli neri, sullo sfondo di un cielo misto di azzurri. Amò la pittura gonfia e lieve di Van Dyck*'!, quando dipinse la Madonna sotto un cielo di seta, fra i pensieri sul suo ventre materno; e, spesso, le composizioni oblique

e le forme colme e illuminate del Lanfranco. Non parliamo di eclettismo; ma di frequenti accensioni d’amore, giacché pure in arte la volontà è ben più decisiva dell’intelletto - come vedremo figurato dallo stesso Vouet —. Notiamo piuttosto la successione, di questi innamoramenti: il loro carattere temporale, dunque, adatto a chi era giovane ed immerso nel mondo: più tardi la sua carità sarà contemplativa, e la forma artistica che essa riceverà, ben altrimenti distac-

cata ed uniforme. «Chiara cosa» è che, se si contravviene all’amor di Dio «senza pietà e senza

religione, non giova [...] alcuna umana potenza»*: e Vouet ci dà più volte l’esempio di Erodiade, dopo aver meditato per lei sul Flavio Giuseppe tradotto: Erodiade, donna senza rispetto della legge di Dio, e causa prima dell’assassinio del Battista. Ma secondo la spiritualità di san Francesco, tanto nutrita di agostinismo, contravviene all’amor di Dio anche chi si attacca ciecamente al finito, e così non si perde nella luminosa obbedienza all’amore senza fine. È peccato dunque anche l’attaccamento a dottrina, persone, cose... San Gerolamo studiava, e noi sappiamo, a vederlo, dell’ammonimento di san Francesco, sul rischio di possesso del finito, che è nello studio mondano*;

SIMON VOUET E L'AMORE

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l’angelo lo ha interrotto: con una mano regge la tromba, e così richiama quelle parole della Regola, «sia che tu legga, [...] sia che tu scriva, [...] sempre ti suoni negli orecchi la tromba di Amos», cioè il monito contro l’idolatria che è nell’attaccamento alle cose del mondo*: e infatti con l’altra mano l’angelo indica altrove, col segno della volontà, dell'amore senza fine. Nell’incontro,

con un raggio, di capelli neri e lustri, e di una mano che indica, culmina l’irripetibile: e ancora non sappiamo come interpretarlo.

Nel quadro già commentato di sant’Agata, poi, oltre al significato principale di fiducia nell’amore divino, c'è anche quello secondario di bassezza, al confronto, della scienza umana: giacché al vecchio che, secondo la Leggenda,

offre invano alla santa i confarti della scienza medica, un angelo presente si rivolge con il commento della mano aperta ad indicare verso il basso. Idolatrico, dicevamo, è l’amore statico che si conclude nel possesso del finito, e non ricambia quello del Creatore e del Redentore.

Lo spirito di possesso che limita l’estensione dell’amore, è dunque empio anche se umanamente lecito: quello d’un padre, ad esempio, o d’uno sposo,

come Vouet figurò nella Morte di Lucrezia aggiungendo al liviano «conclamat vir paterque»*, significati di The Rape of Lucrece di Shakespeare (che può avergli suggerito, come vedremo, anche un’iconografia non liviana per altra storia di Lucrezia): «The one doth call her his, the other his, / yet neither may possess the claim they lay. / The father says ‘She”’s mine”. ‘O, mine she is’»... «‘My daughter’ and ‘my wife’»... «‘my daughter’ and ‘my wife'»‘7. Ma la bassezza dell’amore concluso terrenamente, Vouet la esprime anche

con il ricorso allo stile triviale, per una licenza a «miscere sacra profanis» che poteva venirgli dal Tassoni, che egli conobbe, avendolo ritratto. Questi, con parole di Plinio il Giovane, aveva ben scritto «ut in vita, sic in studiis pulcherrimum

et humanissimum

existimo

severitatem

comitatemque

miscere»‘,

ed

aveva ben praticato la scurrilità del linguaggio. Gli Amanti, dunque, si stringon la mano in un accordo, e lei, in doppio

senso, gli apre la lattuga*. E con altri doppi sensi, nel quadro di Caen un giovane allegro, cioè caldo, da un lato fa la fica, dall’altra ha il braccio ritto, e, per esser più chiaro, mostra le pere, che è come dire i virilia?.

Con altrettanta riprovazione Vouet avrà presentato nei quadri della cappella Alaleoni, l’avidità dell’uomo che si appropria delle vesti rifiutate da Francesco, e della mora che di Francesco voleva il corpo?!: ad ambedue con-

trapponendo non dettami razionali, ma gradi più alti d’amore: la carità della madre amorosa che sta, nel quadro, dall’altra parte dell’avido e con un gran gesto partecipa allo spirito di quella rinunzia; il fervore di spirito che le fonti attribuiscono

a Francesco

per l’una e l’altra vicenda”;

il letto infuocato e

simbolico su cui egli invita la mora. A questo punto possiamo leggere quello che Félibien dice del pittore di questi significati: «ai méme oiìi dire [...] qu’il ne pouvait ordonner un tableau sans voir le naturel»*. Parleremo più avanti del senso di povertà di intellettiva

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BELLEZZA E PENSIERO

struttura, che hanno queste parole: ora preme dire che il «naturale» ottocentesco e neorealista, in questo contesto spirituale sarebbe, per il suo materialismo,

propriamente statico e «idolatrico». Psiche, nel quadro di Vouet a Lione, è rappresentata non già nel momento in cui, puntasi con la freccia, dà a Cupido addormentato baci avidi, ma in quello precedente, quando « dum saepius divini

vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi»: e l’incanto della bellezza vista dai suoi occhi, passa da Apuleio al quadro di Vouet, che mostra sul lenzuolo un corpo mirabile ed armonioso. Non le cose tangibili, dunque, ma l’ulteriorità

che le trascende; non «queste cose», ma «la ‘forma’ di queste cose». La «forma»

che dona l’irripetibile particolarità - dice Scoto che per primo l’ha commen-

fig. 52

tata -, la «forma» che si aggiunge per ultima a tutte le precedenti di un composto, così rendendolo «hoc ens»55: e tutto ciò, in un pittore come il nostro, che ci sembra tanto preso dello spirito scotiano, vuol dire unicità, e anche ultima freschezza, fiore recentissimo delle cose. Cogliamo allora, nei David, nelle Giuditte, in Giovanni e Giacomo, nei ritratti, nell’angelo del Gerolamo... il signifi-

cato formale della particolarità e dello sboccio che si aggiungono a quelle belle costituzioni: con sguardi lucenti, pieghe che non si ripeteranno, passaggi nella luce, espressioni fuggevoli, capelli giovani e appena scossi. Ma avremmo parlato per quella frase di Félibien, così abbiamo annunciato,

anche del senso di povertà di struttura, che essa attribuisce ai dipinti di Vouet dicendo che egli componeva non secondo schemi astratti, ma disponendo modelli viventi. E diciamo allora che questo senso è accentuato da altre frasi dello stesso Félibien5, che dicono Simon debole nei valori intellettivi di com-

posizione, disegno, prospettiva...: l’Intelletto egli lo raffigurò, nel quadro simbolico, con una fiamma sulla testa secondo l’iconografia del Ripa”, e con davanti lo specchio della riflessione: ma, sotto la luce che gli cade sulle spalle e sotto la gran chioma bruna, questi gira il bel volto verso una direzione inversa da quella indicata dalla Volontà che si consulta con la Recta ratio. Lì è in allegoria un confronto fra ragionamento astratto, e propensione o amore: infatti la Volontà sta al centro, e porta la corona di regina e dominatrice: lo è dell’Intelletto, secondo Scoto, che scrive: «L’intelletto e la volontà sono potenze nobilissime, e più di tutte la volontà»?8...

«La volontà comanda all’intel-

letto»5°; e in un’accademia tenuta presso il Cardinale di Savoia (col quale ebbe rapporti anche Vouet), si svolse questo pensiero dicendo che la volontà è, dell’intelletto, «di gran lunga più nobile e più sublime», Per il primato della volontà sull’intelletto, Lucrezia in camera, dopo la violenza, da sola, bramosa di morte: come è immaginata non da Livio, ma — vi

abbiamo alluso - da Shakespeare in The Rape ofLucrece. Qui, verso la fine della notte tremenda, dopo un soliloquio senza pace essa esclama contro i ragionamenti, che ormai l’impulso sta vincendo: Out, idle words, servants of shallow fools! Unprofitable sounds, weak arbitrators!

SIMON VOUET E L'AMORE

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Busy yourselves in skill-contending schools!

This helpless smoke of words doth me no right the remedy indeed to do me good is to let forth my foul defiled blood®!... E Marta, che in altro quadro vuol redimere Maddalena con la discettazione,

e con le dita enumera gli argomenti perché, come dice un poema del tempo, «vuol disfidarla a più sicura guerra / con lingua come acciar dura e pungente, / perché s’arrenda»*2, dovrà da questa via ritirarsi infine. La redenzione di Maddalena la otterrà l’amore: «Del gran figlio di Dio le voci udendo / passanle il

cor mille amorose spine / e del bello del ciel si strugge ardendo»®...: Carlo

Veneziano, trattando lo stesso tema, fa indicare

a Maddalena quel vasetto

d’unguento per il quale Gesù riconoscerà che essa «amò molto». Per il primato della volontà, e in particolare dell’amore, sull’intelletto, Vouet dipinse anche Suonatori. Una bruna bellissima e sola, turgida la scollatura, il volto e lo sguardo accaldati, ebbri, suona una piccola chitarra; un giovane seminudo, solo, gli occhi appannati fra ciocche nere, la bocca umida fra la barba, con la destra a polso alto davanti al petto, il pollice sollevato per battere e pendule le altre dita, sembra suonar anch'egli uno strumento a corde. Ma il loro «furore» non si conclude nella carne, giacché ambedue guardano di lato, altrove: così

torna il ricordo di pensieri di quel tempo, e del Tassoni e di quell’accademia intitolata Se sia più nobile l’intelletto o la volontà, della quale dicevamo, che fu tenuta presso il Cardinal di Savoia: «per la copia de gli spiriti ferventi [...] gli amanti di furor si riempiono; e la poesia in gran parte da furore viene cagionata»; e, credendo che la volontà movesse l’intelletto, «era appresso gli antichi

comun proverbio, ‘Amor musicam docet”, significando co’] nome di musica ogni arte e ogni dottrina». «Beaucoup de force» attribuì Félibien* ai quadri del periodo romano, di Vouet. E se tale volontà è secondo Scoto libera per essenza, Tassoni - Vouet lo conobbe, ricordiamo? — crede la poesia causata da furore, e in essa loda la curiosità, l'avanzamento, la novità”.

Non è facile pensar così: come nello scientismo d’oggi, così negli anni che Vouet passò a Roma, dal 1614 al ‘27, che videro fra l’altro gli attacchi dei

tomisti allo scotismo, e dei pedanti all’Adone del Marino. Vouet dà risposte filtrate, ma, sembra, partecipi dei dibattiti di quel suo tempo.

In un gran quadro per Napoli raffigurò la Presentazione al Tempio e, nel

corso di questa, il momento successivo al cantico che Simeone innalza tenendo

il Bambino fra le braccia: ora invece si sta rivolgendo a Maria, che ha ripreso il Bambino, e dunque le sta dicendo: «Ecce positus est hic [...] in signum cui contradicetur»?! — e questa contraddizione è figurata dalle persone in primo piano: una madre amorosa e partecipe, come nella Rinunzia di san Francesco ai

beni, ma anche un bambino che si riflette nell’acqua di un vaso, come altrove l’Intelletto in uno specchio.

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BELLEZZA E PENSIERO

Nel ritratto del Marino”? la corona d’alloro, da poeta epico, è frondosa insolitamente, e, così, segnalata. Contro l’Adone del Marino già nel 1624 lo Stigliani faceva circolare il suo Occhiale??, in cui, imponendo alla poesia regole astratte sentenziava: la favola eroica, «per esser legittima e buona, debbe aver nove condizioni»; «la locuzione per esser perfetta ha da avere cinque condizioni»; «dee lo scrittore attenersi sempre allo [stile] attico»; la sentenza, «per essere lodevole e buona, vuole avere sei condizioni»; «il costume [...] vuole, per essere artificioso, aver tre condizioni»... e ne traeva: «L’Adone è pieno di tuttii

difetti possibili»”; e poi gli errori riscontrati a una prima lettura li elencava canto per canto, stanza per stanza, verso per verso. Ma invece lo Chapelain, nella premessa alla prima edizione, parigina, dell’ Adone, gli aveva riconosciuto la grandezza di poema epico, e all'amore, come quello di cui esso trattava, la

possibilità d’esser argomento illustre, da epopea”. «Gran giustizia agli amanti è grave offesa»! Questo verso poteva esprimer lo spirito del volontarista Vouet: esso infatti sembra contenere il significato della Sofonisba. Nel quadro l’eroina riceve il veleno che le ha mandato il suo

novello sposo Massinissa, e non sta parlando: il significato non è quindi nelle parole orgogliose che le fa dire Livio”, ma nel fatto. Questo significato del fatto, lì presso l’eroina muove una vecchia ad alzare lo sguardo verso il cielo e a stender la mano verso il basso, come a denunciare agli dèi un’empietà. È il

Petrarca, che alla narrazione liviana aggiunge una vecchia, nel quinto libro dell’Africa: ed è nel Triumphus Cupidinis del Petrarca, che la morte di Sofonisba,

imposta con perfetto ragionamento da Scipione a Massinissa, è da questi commentata «Ne dipartì con sue sante parole; / ché di nostri sospir nulla gli calse»... «Gran giustizia agli amanti è grave offesa»”. E con quello che abbiamo visto potremo interpretare: offesa a ogni libera volontà ragionevole, anche a quella di poeti ed artisti. Finora, l’arte di Simon Vouet ha partecipato a dibattiti del suo tempo; con la pittura ha espresso la libera alternanza di stati d’animo, la successione d’amori per la virtù altrui, la «forma» dell’individuale e la connessa tempo-

ralità... lo abbiamo visto; ma già nei tardi anni romani egli si innalza spesso con l’anima oltre il tempo ed il cielo; e poi negli anni francesi raggiunge una superiore contemplazione, quasi immutabile, che egli esprime in un disegno lieve, in una pittura bionda, di spunti tematici sulle passioni, o di spunti, solo spunti, presi da quanto poteva teneramente

volti umani.

sentire «questo» in corpi €

Già in una pittura murale di San Pietro, che rappresentava in cielo la croce e gli altri strumenti della Passione sostenuti dagli angeli, con in basso san

Francesco d’Assisi e sant'Antonio di Padova, egli figurava nel 1625 la contemplazione francescana del valore celeste — cioè secondo la Trinità? - della Redenzione. E questo valore celeste è contemplato anche nella serie di quadri con angeli che anch'essi reggono gli strumenti della Passione”?. Traspaiono

SIMON VOUET E L'AMORE

197

pensieri altissimi, come quello scotiano sulla Trinità che «dispose di dare al genere umano una persona che essa amava tanto»?°... E un significato sublime, con ali d’aquila e di vento, lo avrà anche il San

Bruno di Napoli, se non si pensa più che il santo vi stia ricevendo da Gesù Bambino la regola dei Certosini — giacché il santo non l’ha né ricevuta né lasciata, e d’altronde il Bambino lì mostra aperto un libro —, e si pensa invece

che l’iconografia si fondi su un apocrifo sermone De Nativitate Domini, pubblicato nei suoi Opera omnia del 1611: «Ora sembra un bambino colui che secondo la carne è appena nato, ma la cui nascita secondo la divinità non ha

termine temporale. Egli è infatti colui di cui è stato scritto ‘In principio era il Verbo [...]°. Leggi tutto il vangelo, e supera te stesso insieme a san Giovanni, del quale sono queste parole, prendi ali d’aquila e ascendi sopra i cherubini, così che tu sappia volare sopra le ali dei venti, e, avvicinandoti al trono della gloria,

vedi lì questo Bambino che è nato oggi»*!. E con Francesco di Paola inginocchiato sulle nuvole, e lì sopra di lui, sfolgorante, indicato da un angelo, il motto CHARITAS, Vouet avrà dato figura

a pagine di Paolo Regio, per cui il santo era «acceso» di carità, «retta volontà in tutto aliena dalle cose terrene, unita indivisibilmente con Dio», la quale «in-

fino all’Empireo n’inalza»*?. E nel disegno, infine, per un’acquaforte che ricordasse la missione a Parigi del cardinal Francesco Barberini, che fu nominato nunzio a latere nel febbraio del

1625, egli trasfigura l’evento in immagini astrali e mitiche: il Sole su Pègaso, circondato in cielo da Luna e da Mercurio... per dire che Urbano VIII, Solepoeta, dà mandato al cardinale, sua Luna e suo Mercurio cioè riflesso della sua luce e suo pianeta più vicino, di andar oltre il mare a cercar come Ercole, che qui

trascorre sulle onde in trionfo con clava e corona, fatiche per la gloria". Le composizioni sono ampie, secondo comprensive diagonali, perché è il momento dell’amore per la virtù del Lanfranco; le stoffe sono in un momento

della loro turbolenta abbondanza intorno a lisci corpi umani: eppure in queste ultime opere romane è ridotto il senso della «forma», sia pure solo «forma»,

dello struggente perché irripetibile «questo». Dopo il ritorno in Francia, dicevamo, una contemplazione quasi immutabile, dell’eterno, dell’amor di Dio, di vanità e passioni, espressa in un disegno e

in una pittura largamente e dolcemente uniformi, che mantengono solo alcuni spunti di quanto Simon poteva ancora teneramente sentire particolare, «questo», recente. Alcuni significati contemplati in opere francesi, non sono diversi da quelli che sono in opere romane: a ripeterci quanto egli fosse profondamente legato a chi formò i suoi pensieri. L'amore: la Maddalena con l’unguento a dirci «dilexi multum», o eremita a dirci della sua «ardente carità per Cristo»*. La fiducia fondata sull’amore, con Eustachio e la sua famiglia, e l’attuazione delle promesse del Signore: «quando ti avranno umiliato, verrò da te e ti rimetterò nella primitiva gloria»... «sii costante, poiché la mia grazia custodirà le vostre anime».

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BELLEZZA E PENSIERO

E poi la riprovazione per l’amore che si conclude quaggiù, verso il limitato

e il transitorio. Artemisia, costruendo il monumento mostra quanto sente la mancanza di Mausolo, «carpito dal fato»*. Ad Anna, che ha gridato «Perché,

fig. 51

morir dovendo, una tua suora / per compagna rifiuti? e perché teco / lassa! non m’invitasti?», Didone muore quando Iride pietosa stacca dalla sua testa il capello fatale*”. E, più generalmente, con un’allegoria delle stagioni si dice che è temporale, stagionale appunto, l’amore inteso come appropriazione ed invidia. Ma sostiamo: il quadro, un tondo oggi a Dublino, dolcemente lo comanda. Ha al centro Orione (io credo), nel senso di fulgente costellazione dell’inverno, ma ancora in figura di giovane biondo e bellissimo: grande e cacciatore, come lo dice Ovidio*; tentatore, come lo dice Orazio®’ — apre da un molle avvolgimento di panni un torso colmo, rosato, con sopra il volto incline e l’oro nella brezza: visto in una creatura di Dio, e poi estesamente contemplato e trasceso -; circondato da amori possessivi e gelosie, per come lo evoca Calipso

nell’Odissea®, e come nel quadro è figurato con Primavera che lo corteggia ed Estate che si approssima. Autunno, bambino e occupato dal cane da caccia che

agogna la sua uva, non fa parte del giro: via dunque il senso della ciclicità costante, per il quale gli stoici come Poussin rappresentavan le stagioni: il senso scelto sarà quello della loro durata breve, che si collega all'amore verso quanto trapassa. Ma, ripartendo dopo l’incanto, non parleremo anche noi di «Allegoria

della ricchezza» per un quadro del Louvre, giacché la donna che dolce e ampia e dorata lo domina, ha gli stessi caratteri — ali, e corona d’alloro — della Virtù riconosciuta come tale in altro quadro: sarà anch’essa la Virtù dunque, che difende dalle offerte di ricchezze deludenti (su un grande vaso d’argento c’è a sbalzo il mito di Apollo e Dafne), un fanciullo: e questi, corrispondendole, alza verso il cielo e lo sguardo ed il dito. Ma avviamoci alla conclusione superando chi intitola due quadri di tema analogo (uno, degli ultimi mesi romani, e uno, posteriore) Il Tempo vinto e Saturno vinto: il Tempo vinto, si vorrebbe, non già dall’Eternità ma da figure che, riferendosi al Ripa, si capisce, oltre che Amori, essere Speranza, Bellezza

femminile... e, nel quadro più tardo, anche Ricchezza e Fama”. Ma tale vittoria, lo sappiamo, è del tutto impossibile; e il primo di questi quadri,

compreso nella fine di un periodo di coinvolgimento negli umani rapporti, rappresenta la Speranza e la Bellezza come scomposte e buffe in quell’assurdo combattimento. Il significato è, credo, ancora una volta petrarchesco, e ancora una volta deriva dai Trionfi: ora da quelli finali, del Tempo e dell’Eternità. Non reggono al tempo, vi si può leggere, «l’umana speranza», l’età, «i regni», la fama”; il Trionfo di Cupido, poi, è già trascorso, per primo, ed è lontano ormai. Credere in queste «fole» e, com'è dei giovani, «misurare il tempo largo», è sonno, errore, vaneggiamento??.

Il primo quadro dunque, moralistico e caricaturale nelle mosse e nelle maschere (benché dalla pittura tanti segni di particolarità siano scomparsi, e

SIMON VOUET E L'AMORE

199

una diffusa luce bionda accolga tutto), ci dice, io penso, «Misera la volgare e cieca gente / che pon sue speranze in cose tali / che ’l tempo le ne porta sì repente! / O veramente sordi, ignudi e frali, / poveri d’argomento e di consiglio, / egri del tutto e miseri mortali!»®. Nel quadro più tardo, però, non c’è polemica, non c’è più satira: le passioni umane, le si contemplano serenamente dall’alto di un costante amor di Dio e della speranza che ne segue. Lo spirito, sembra quello del Triumphus Eternitatis; e il significato, sembra proprio in questi versi, di una raggiunta coscienza sul proprio destino amoroso: chiese al

suo cuore «In che ti fidi? / Rispose: Nel Signor, che mai fallito / non ha promessa a chi si fida in lui»... «Ma tarde non fur mai grazie divine; / in quelle spero»?. 1995

?@ Inedito.

NOTE

Notizie e riproduzioni delle opere ricordate in questo saggio, il lettore le troverà in: G.

Dargent - J. Thuillier, Simon Vouet en Italie etc., «Saggi e memorie di storia dell’arte», 4, 1965, p. 25 ss.; B. Nicolson, Caravaggism in Europe, a cura di L. Vertova, Torino 1990; Vouet, catalogo

della mostra, Paris 1990-1991.

! É. Male, L’art religieux après le Concile de Trente, Paris 1932, p. 410, e, al suo séguito, molti altri autori.

? G. Duns Scoto, Scriptum Oxoniense (da ora in poi sarà citato solo col titolo), 4, 49, 4, 7 (in Opera, Lugduni 1639, 10, p. 382). è C. Ripa, Iconologia, Roma 1603, p. 416.

4 Ivi, p. 313. La figura è interpretata appunto come Memoria da É. Male (luogo cit.) e da tanti altri che lo hanno seguito. 5 Scriptum Oxoniense, 1, 17, 3, 3 (in Opera

cit., 5, p. 947).

e

UCI ADI 22 Vedi S. Lopez, Obbedienza, 1, in Dizionario francescano - Spiritualità, Padova 1983. 2alcaR1090 109381 24 Giovanni, I ep., 4, 16-18. NRE

26 Giuditta, 8, 34.

27 Legenda Aurea, p. 172.

© Giovanni, I ep., 4, 16.

7 E. Gilson, Jean Duns Scot etc., Paris 1952, PP377, 978: 8 Matteo, 20, 20-23; Marco, 10, 35-40. ? Matteo, 20, 23. 10 Scriptum Oxoniense, 40, 2, 1, 7 (in Opera

cit., 8, p. 139).

#8 Ivi,jp. 40]. 29 S. Ammirato, luogo cit.

3° Per questo tema vedi anche W.R. Crelly, The Painting of Simon Vouet, New HavenLondon 1962, fig. 27, 28. 31 Vedi G. Bottari, Raccolta di lettere etc., Roma 1754-1773,

11 Ivi, 3, 20, 10 (in Opera cit., 7, p. 430). 12 Giovanni, I ep., 4, 19. 13 Scriptum Oxoniense, 3, 37, 6 (in Opera cit., 7, p. 898). 14 Ivi, :d, 3 13°4>+60(in Openalcit.s07, pa92): 15 Per il San Sebastiano, vedi E. Schleier, Un

chef-d’oeuvre de la période italienne de Simon Vouet, «Revue de l’art», 11, 1971, p. 65 ss. 16 Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, ed.

Th. Graesse, Dresdae et Lipsiae 1846 (da ora in poi sarà citata solo col titolo), p. 792. !7 S. Ammirato, Istorie fiorentine (1600), Firenze 1846-1849,

LUIZ

19 Francesco d'Assisi, A tutti ifedeli, 9, 53 (in Fonti francescane, Padova 1983, p. 155). 20 Giovanni, 1, 29.

1, p. 35.

1, p. 243.

32 F. Solinas, Ferrante Carlo, Simon Vouet et Cassiano Dal Pozzo etc., in Simon Vouet - Actes du colloque international, Paris 1991, p. 141; ve-

di anche W.R. Crelly, Tivo Allegories of the Seasons by Simon Vouet and Their Iconography, in Art the Ape of Nature - Studies in Honor of H.W. Janson, New York 1981, p. 405. 93 Cfr. I caravaggeschi francesi, catalogo della mostra, Roma

1973-1974, p. 198.

34 Per i ritratti di Vouet vedi, oltre alle opere

ricordate nella premessa a queste note: J.-P. Cuzin, Jeunes gens par Simon Vouet et quelques autres etc., «La Revue du Louvre et des musées

SIMON

VOUET

de France», 1979, p. 15 ss.; B. Brejon de Lavergnée, Portraits de poòtes italiens par Simon Vouet et Claude Mellan à Rome, «Revue de l’art», 50, 1980, p. 51 ss.

35 Vedi il ritratto di Gaucher de Chatillon,

che è al Louvre (riprodotto in Vouet cit., p.

201

E L'AMORE

°° A. Félibien, op. cit., 3, p. 401. 9? C. Ripa, op. cit., pp. 238-239. °8 G. Duns

Scoto, Reportata Parisiensia, 2,

25, 2 (in Opera cit., 11, p. 367). °° Scriptum Oxoniense, 4, 49, quaestio later.,

125).

16 (in Opera cit., 10, p. 411). °° S. Pallavicino, Se sia più nobile l'intelletto o

®© C. Del Bravo, Ritratti petrarcheschi, «Artista», 1994, p. 128 ss. (ripr. in questo libro, p.

la volontà, in Saggi accademici dati in Roma nell’Accademia del Serenissimo Prencipe Cardinal di

125%.). °? A. Félibien, Entretiens etc. (1666), Trevoux 1725, 3, p. 402.

38 Vedi la lettera di Vouet a un Doria, da Milano, 9 novembre 1621, pubblicata in A.

Brejon de Lavergnée, Simon Vouet à Milan: une lettre inédite de l’artiste francais,

50, 1980, p. 58.

«Revue de l’art»,

39 G. Bottari, luogo cit. 4° Cfr. i David di Vouet con le opere di Rutilio Manetti riprodotte in Rutilio Manetti etc., catalogo della mostra, Siena 1978, alle pp. 88, 89, 98.

4! Van Dyck arrivò a Genova poco dopo la partenza di Vouet, ma fu a Roma, con un intervallo, nel 1622-1623.

42 trad. (ma 43

Flavio Giuseppe, Dell’antichità de’ Giudei, F. Baldelli, Vinegia 1581, p. segnata 869 849). Ivi, pp. 869 (ma 849), 847-848.

44 Francesco d’Assisi, op. cit., 9, 45 (in Fonti

francescane cit., p. 155). 45 Vedi C. Del Bravo, L’armonia del Ribera, «Artibus et historiae», 17, 1988, p. 186, n. 15

(ripr. in questo libro, p. 186). 46 Livio, Ab Urbe condita, 1, 58, 12. 47 W. Shakespeare, The Rape of Lucrece, v. 1793 ss. 48 A. Tassoni, La secchia rapita, nota a 6, 70, v. 4.

49 Vedi J. Toscan, Le carnaval du langage etc. (1978), Lille 1981, par. 1053.

5° Per il doppio senso di «allegria», «braccio», «alzare», «pere», vedi ivi, par. 813, 863,

Savoia, Venezia 1630, p. 69.

6! W. Shakespeare, op. cit., v. 1016 ss. 62 G.B. Andreini, La Maddalena, Firenze

1612, p. 13.

SVI p192: 64 Vedi A. Ottani Cavina, Carlo Saraceni, Milano 1968, 119127128: pirlòl. 65 B. Nicolson, op. cit., fig. 717-740.

66 A. Tassoni, Perché gli amanti inclinino a

poetare, in Dieci libri di pensieri diversi, Venezia

1627, p. 295.

07 S.\Pallavicino, op.icit.. p.159. 68 A. Félibien, op. cit., 3, p. 402. 69 Scriptum Oxoniense: 2, 23, 8 (in Opera cit.,

6, p. 851); 3, 17,3 (ivi, 7, p.380); 4, 49, 10,10 (ivi, 10, p. 514).

7° A. Tassoni, prefazioni a La secchia rapita; vedi anche, dello stesso, Considerazioni sopra le Rime del Petrarca etc., Modona 1609, indirizzo al lettore. (ARUCANZA94: 72 Sul ritratto del Marino, vedi particolarmente B. Brejon de Lavergnée, op. cit., pp. 51-52.

73 T. Stigliani, Dello occhiale, Venezia 1627, Das:

74 Ivi, pp. 17, 71, 91, 96, 109, 136.

75 J. Chapelain, Lettre ou Discours à M. Favereau etc., in G.B. Marino, Adone (1623), Roma-Bari 1975, 1, pp. 18, 21 ss. de Livio, 0P#Ct1,,,00, 15, ? Triumphi: Triumphus Cupidinis, 2, vv. 47-48, 52. 78 Scriptum Oxoniense,

4, 2, 1,7 (in Opera

787, 1438.

cit., 8, p. 139).

51 I Fioretti etc., 23 (ed. a cura di G.L. Passerini, Firenze s.a., p. 65).

scono cinque: per notizie, e per riproduzioni

52 Bonaventura, Legenda maior, 2, 4; I Fioretti, luogo cit.

di tre di essi, vedi Vouet, catalogo cit., pp. 184-188; per altri due, vedi Catalogue of Euro-

7° Originariamente dodici, oggi se ne cono-

53 A. Félibien, op. cit., 3, p. 401.

pean Paintings in the Minneapolis Institute of

54 Apuleio, L’asino d’oro, 5, 22. 55 Scriptum Oxoniense, 4,11, 3, 46 (in Opera

Arts, Minneapolis

cit., 8, p. 649).

1970, pp. 166-168.

80 Vedi n. 78.

81 [San Bruno vescovo di Segni], De Nativi-

202

BELLEZZA E PENSIERO

tate Domini - Sermo seu Homilia, in san Bruno

fondatore dei Certosini, Opera omnia, Coloniae 1611, 3, p. 82.

82 P. Regio, Vita e miracoli di S. Francesco di Paola (1577), Venezia 1618, pp. 10, 11. 83 Interpretando F. Picinelli, Mundus symbolicus: 1, 8, 243 (per la Luna); 1, 11, 369 e 370 (per Mercurio); e C. Ripa, op. cit., p. 314.

84 Legenda Aurea, p. 415.

lia, 4, 6, ext. 1. 87 Eneide, trad. A. Caro, 4, v. 1037 ss. 88 Fasti, 5, vv. 537, 540. SA Cartina iS Av 90 Odissea, 5, vv. 121-122. 2! C. Ripa, op. cit., pp. 470, 42-43, 434, 142. sd Triumphi: Triumphus Temporis, 59-60, 113, 109-110. 22M vr vv0 7174758181057

vv.

64,

Spi, pool 14:

94 Triumphi: Triumphus Eternitatis, v. 49 ss.

86 Valerio Massimo, Facta et dicta memorabi-

ione

SES ASSI,

Letture di Poussin e Claude

Amatissima lettura, insegni già che ogni parola trae senso e riflessi dalle pagine, o una sua giovinezza: e poi ricalchiamo pensieri di lettori antichi, e così le giornate finiscon sempre inattesamente. Gli artisti celano i loro pensieri nelle opere, ma ad esempio Poussin e Claude leggevano: Claude talvolta lasciando memoria, sui disegni, del passo dell’Omero in francese o del Virgilio e delle Metamorfosi in italiano, dal quale aveva tolto la storia'; Poussin d’altronde

porgendoci, con una lettera del 1641, ricordo di sue letture serali per trovar qualche spunto?: lui leggeva, in francese e in italiano e un poco in latino, storie, miti, testi di filosofia o sulle arti*; se non eran di devozione, sugli specifici temi

sembra fosse libero‘: era «solito a dire che il pittore dovea da per se stesso scegliere il soggetto abile a rappresentarsi»?. Già tanto lavoro è stato svolto da chi ci ha preceduto, per indicar le fonti

iconografiche dei quadri con storia, di Poussin e di Claude. Ma aspirando a recuperar le precise parole su cui i loro occhi si sono fermati, per più ricalcare i

loro pensieri, potremo aggiunger qualcosa. Poussin conoscendo un poco il latino, con lui non potremo dire sempre se lesse testi originali o le traduzioni fedeli allora disponibili. Ma, le Metamorfosi d’Ovidio, tante volte illustrate, le

lessero ambedue nella libera traduzione di Giovanni Andrea dell’Anguillara: Claude, lasciando scritto un rimando alle sue annotazioni’, e seguendola nel-

l’aggiunta dell’episodio di uno scambio di doni fra Apollo e Mercurio”; Poussin, seguendola nell’aggiunta della figura del Tempo alla descrizione della corte del Sole8. L’Eneide, ambedue la lessero nella traduzione di Annibal Caro: Poussin, traendone l’ordine delle azioni, alterato rispetto a Virgilio, nei suoi due quadri con Venere e le armi d’Enea, e Claude traendone fra l’altro l’espli-

cita immagine di un tempio aggiunta alla descrizione di Cuma?. Poussin lesse Flavio Giuseppe, come è già stato indicato per l’iconografia di due temi ebraici che non sono nella Bibbia! ma certamente, non conoscendo

il greco, in una traduzione: la quale per la sua costante risposta all’ipotesi iconologica, credo esser quella di Francesco Baldelli; e dirò cose analoghe per Luciano e la traduzione di Jean Baudoin, e per Plutarco e la traduzione totale dell’Amyot. Ma se Plutarco è certamente la fonte per temi storici greci, l’incer-

BELLEZZA E PENSIERO

204

tezza fra Plutarco e Livio per un tema come Coriolano sarà superata osservando che l'iconografia con le donne in ginocchio deriva piuttosto dal primo!!;

Plutarco è, certo, la fonte dell’Incontro di Antonio e Cleopatra di Claude'?. E per i due Filostrati nella traduzione di Blaise de Vigenère, non per altri rimandi ne

ribadiremo l’importanza che per i quadri antichi degli Amori, degli Andrii, e di Achille a Sciro, in parte ricreati da Poussin'?.

Vedendo infine, sullo sfondo dell’estremo Apollo e Dafne di Poussin al Louvre, non Giacinto, ma Dafni morto d'amore, compianto dalla madre e con vicini i buoi e l’abbeverata, porteremo in questo discorso anche le Ecloghe di Virgilio, che hanno questi elementi'*; Dafni amato, ma non da quella che amò lui: come Apollo appunto e come Pan, e in pochi versi dei Dionysiaca li unisce

Nonno", autore che è già stato indicato come fonte per il Dioniso al palazzo di

Stafilo, di Claude!°. E quindi anche il così detto «Marsia ed Olimpo» di Poussin

sarà da intendersi quale Pan e Dafni, anche in forza delle fanciulle sullo sfondo,

assenti dall’altro mito!7. Ma se, oltre l’iconografia, ipotizzeremo due generali discorsi di significati, cercheremo concetti congrui anche nella cornice della narrazione e nei commenti che l’autore intercala, nonché nelle annotazioni e nelle rubriche apposte

da editori del tempo... per le annotazioni facendo tesoro di quella postilla già ricordata di Claude. Per noi sarà — ed è ciò che in questa occasione mi preme il recupero del mondo ideale di due pittori-filosofi e uomini costanti, di cui

partecipano intimamente anche dipinti d’autografia discussa. L’iconografia ci dice dunque fra l’altro che Poussin conobbe le Metamorfosi di Ovidio nella traduzione Anguillara (e che Claude conobbe Plutarco, probabilmente nella traduzione Amyot - ma di questo riparleremo più avanti). Una lettura generale di Ovidio e Poussin, ci dirà facilmente che questi trasse dal poeta anche il pensiero, la filosofia'*. È una filosofia che comprende sì gli elementi stoici già indicati nell’eticità dell’epistolario di Poussin e di alcune sue storie, ma con motivazioni universali; e inoltre con l’aggiunta di elementi accademici come una filosofia dell’amore quale forza primigenia ammansatrice e civilizzatrice, l’esaltazione di Bacco come padre della liberalità, e ilfuror dell’ispirazione poetica.

fig: 55

Nel pensiero stoico, universale è la fatalità: Poussin la considera anche in Arcadia!, e ne lesse in versi ovidiani sull’infanzia di Giove?, sul destino di Narciso?' e d’Euridice?, oltre che in versetti evangelici che narran l’adempi-

mento di profezie dell’antica Scrittura?>: «reddita sors», «seguì l’effetto / che fé vera la voce del profeta», «né passar molti dì che corrispose / al tristo augurio il doloroso effetto», «sicut scriptum est», «tunc adimpletum est»... L’adempimento è sempre esatto, come, per lui, mostrava la storia di Rebecca, che al pozzo fece ignara ciò che altri aveva previsto? o quella del Tempio, che al

compiersi d’un ciclo di secoli bruciò per la seconda volta lo stesso giorno d’agosto della prima”. Anche nell’incontro di Carlo ed Ubaldo col serpente, nel XV

della Gerusalemme

e poi in Poussin, scocca il compimento

di una

LETTURE DI POUSSIN E CLAUDE

205

previsione, stretto da «inviolabil e severo [...] decreto de’ cieli». Lo stoicismo antico, e quello cristiano di un Giusto Lipsio””, avevan già

identificato questa fatalità con la Provvidenza: e su questa identificazione Poussin esemplifica molto, con eventi biblici che in Flavio Giuseppe portano espliciti rimandi alla Provvidenza”, e con il felice esito di casi disperati come quello di Arianna”, Europa?, Agar*, Pirro*, Zenobia*. E leggendo vicende siffatte in Plutarco tradotto da Amyot, il dito e l’occhio di Poussin devono essersi fermati su rubriche come «Les divers accidens de Pyrrus [...] monstrent que le filet de nostre vie est retenu et gardé par un autre main que celle des hommes»*... de tirer des tenebres la o, per il ratto delle Sabine: «mais celui qui a costume lumiere, fait que la folie des Romains enfin a heureuse issue». «Affinché si manifesti in lui l’opera di Dio», dice Gesù per il cieco nato, pure tema di

Poussin®°: «voler di Dio» come quello che fece fare inattesamente al faraone e ad Assuero i fatali gesti di clemenza che salvarono Mosè?” ed Ester?8. La fatalità o Provvidenza coincide poi con l’ordine naturale delle cose, che, nella traduzione Baldelli da Giuseppe, Dio promise a Noè dopo il Diluvio?” —

tema trattato da Poussin così come la ciclicità dei tempi che accompagna quella del sole, con l’annuale ritorno dell’infiorata Primavera‘. Questa legge di natura, fra gli uomini erompe come verità che sbaraglia le finzioni, con la virilità d’Achille* o il cuore generoso di Teseo*; ma sbaraglia anche i fatui castelli dell’ira*, della perfidia‘, del torto*: ad esempio, con il grido vero uscito dal

cuore della vera madre davanti al tribunale di Salomone”. Quest’ordine profondo ed immane sbaraglia anche le fatue garrulità di chi protesta‘, o di chi pretende di giudicarlo, come Germanico morente: «giusto dolore contro gli dei», «morte prematura»*8... Impossibile dunque impedire la divina volontà‘, inutile «tentarla»", o chiedere, con la nostra mente illusa, grazie da ritrattar ben presto5!.

La fatalità della natura si rivela anche in Venere: per gli uomini, fin dall’inizio della loro storia, per quando Ovidio immagina la prima coppia che fa, necessariamente, un atto non appreso da nessuno”. Venere si celebri d'aprile, dicono i Fasti: e Poussin le offre fiori e ricordi d’amanti, giacché per essa tutti i viventi sono ammansiti, e nacquero la civiltà, l’ornamento, le arti, la poesia”.

Così, la immagina anche che doma il caprone mentre un amorino lo induce con una sua cavezza di fiori, e lì accanto l’umanità di un fanciullo abbatte la

ferinità d’un satirino®. Ma poi Venere doma anche il satiro: già segue un

portatore con qualche frutto delle arti”. Perfino Marte in Ovidio e Poussin perde con l’amore la sua terribilità””;

«Amor vincit omnia», come illustrano alcuni quadri pussineschi: e quando

Armida si lancia «di vendetta vaga» sopra a Rinaldo dormente, Poussin le fa

trattenere da un Amore gridante quel braccio armato: così (chi ’1 crederia?) sopiti ardori d’occhi nascosti distempràr quel gelo

206

BELLEZZA E PENSIERO che s’indurava al cor più che diamante: e di nemica, ella divenne amante?*.

E alla mite Erminia poi, davanti al suo Tancredi ferito, Amore insegna insolite arti di pietà, «Amor le trova inusitate fasce» nelle sue chiome recise??.

«O quanto è il tuo potere alto e stupendo, / Amor!» esclamano Ovidio e

Anguillara, se ammansisci Polifemo, se gli fai cercare l’ornamento e cantare

poesia‘! Se per te Mercurio inventa le lettere e gli strumenti musicali‘, se Numa dà leggi ai feroci Romani°... E divengon tutti soggetti di Poussin. Ma se Amore può essere allegro e, in un'immagine di Filostrato, lascivo coglier frutti volando, la filosofia d’Ovidio paragona la sua potenza a quella delle regole dell’universo. Tremendo, nelle Metamorfosi Amore prova con la

tragedia di Apollo e Dafne, che lui passa anche sugli dei*: e tre versi dell’Ars amandi ci ricordano inoltre le passioni di Diana, Aurora, Venere.

Poussin

immagina ancora su questo‘; e all'amore infelice d’Apollo aggiunge poi come Nonno quello di Pan e quello di Dafni*, giovane rifuggito, e disperato fino a morirne.

Ad addolcir queste regole onnipotenti, c'è solo l’ebrezza liberale e socievole portata al mondo da Bacco-Libero®?. Poussin dà figura a un discorso come questo, unendo in un quadro l’adempimento di un duro destino - la morte del giovinetto Narciso —, e la discesa al mondo di Bacco infante. Nel mondo di furberie ed inganni, che il pittore deprecava e di cui scrisse’, torna qualcosa

dell’età dell’oro, di quell’età che egli figurò sulla scia delle Metamorfosi e degli Amores”, quando arriva Bacco: giacché «allora la semplicità, rarissima nell’evo nostro, apre la mente, il dio spazzandone le abilità»”!: e la calda festa con

accordi di liuto, come gli Andrii di Filostrato ci ricorda che il vino «rend les hommes bien soigneux de leurs amis»??: dà il conforto, allora, della più liberale amicizia; ed anche della poesia, se nella sua libera e candida ebrezza Bacco è, fig. 53

come Apollo, un grande ispiratore??. Ma l’ispirazione d’Apollo, Poussin la figura solo per il suo poeta, rappresentando il dio come lui narra che gli si manifestò, lira dorata e nei capelli alloro”, e mentre lo faceva bere da una coppa d’acqua castalia”5; le tre corone che Poussin introduce, due insieme ed una col ramo di mirto, son probabilmente le corone che spettano ad Ovidio, poeta filosofico, epico, e d’amore. La filosofia ovidiana, dunque, è costante per tutta la vita di Poussin, ma con una varietà di attenzioni che, ad intenderla, ci direbbe della sua vita pro-

fonda. Dei disegni a tema ovidiano eseguiti a Parigi su richiesta di Giovan Battista

Marino”, alcuni son già nella linea: Aci spiato dal ciclope geloso, e ucciso”, e

poi divenuto «d’uom mortal perpetuo fiume»”*, illustra la potenza dell’amore e l’esito provvidenziale che hanno talvolta gli eventi tragici; ed Orfeo agli Inferi illustra la potenza universale dell'amore: «contra ogni core Amor vince la

LETTURE DI POUSSIN E CLAUDE

207

guerra», «Amor legò ancor voi, tartarei dei», e, dopo altri versi, dal profondo

erompe il pianto: «ogni alma essangue ascolta il caldo affetto, / e di pianto infinito il volto bagna»”?. Ma altri disegni del gruppo, pur sempre di tema ovidiano, anzi tratto dalle stesse Metamorfosi, non mostran l’ordine grande della scelta pussiniana, ma invece una varietà, di comportamento saggio*’, punizione della superbia”, lamento per gli oltraggi alle Muse*? e l’ottusità dei padroni*, e di animismo** infine, che sembra proprio un’imposizione del Marino a una gioventù indi-

fesa. Ben più tardi, il soggiorno parigino del 1640-42 sembra aggiungere pensieri precisi del maggior autore dello stoicismo cristiano: giacché i successivi paesaggi dipenderanno forse da Ovidio se son immagini dell’universale labilità, con i viandanti e con le onde in cui questi si lavano* — ma per altro verso

sembran dipendere dai gravi pensieri del De constantia di Giusto Lipsio, se le Stagioni portano, nella loro successione, scene umane di felicità come di sventura; se, dei due paesaggi Pointel, «uno rappresenta una tempesta, e l’altro un tempo calmo e sereno»*$; se altre visioni ancora della campagna rivelano serpenti oppure tengono alta la fronte serena; se l’immagine del gigante Orione che cammina verso il sole, dipende sì da certe righe di Luciano, ma integrate dalla nota del traduttore Baudoin, che aggiunge assistenza di Diana e nomina le nebbie, che nel quadro infatti compaiono*?: la prima, Baudoin togliendola dai Fasti**; la nebbia, da una conoscenza dei naviganti per i quali la costellazione di quel gigante «est un presage de beau temps lors qu'elle luit, et de tempeste si elle est enveloppee de brouillards». Quei gravi — ed aridi — pensieri, dunque, del De constantia: «Illa enim ipsa provida mens quae caelum hoc cottidie volvit revolvit, solem ducit reducit, fruges promit recondit: casus istos et vicissitudines omnes rerum peperit, quas miraris aut indignaris. Grata tu tantum et nobis commoda submitti caelitus putas? imo tristia etiam et incommoda»”?. Ma sappiamo, dall’osservazione della pittura, che Poussin da giovane, a Roma, era stato più luminoso e fiorito.

Alla fine degli anni Venti, attraverso qualche tempo, non muta solo la

pittura, ma anche la scelta dei significati: fino ad allora prevalgono la forza di Venere ed Amore, e l’ebrezza liberatrice, e poi invece fatalità, Provvidenza,

legge di natura. Allora non varia solo la frequenza dei temi d’amore e d’ebrezza, ma al coinvolgimento poetico si va sostituendo una nuova rigidezza. In gioventù invece... il ritorno di Venere d’aprile (sarà per gli altri un trionfo di Flora?), su un carro tirato da Amori malfidi, la campagna luminosa, semplice

corteo con Primavera che danza; i fiori fanno tornare il ricordo d’eroi, canestro

violetto, due ghirlande d’anemoni rossi, dolcezza d’un giuoco di corpo e di fiori, giacinti nello scudo, narcisi alzati da una bella mano. Aci, tenero, si abbandona

gono.

in un bacio, e nel mare corpi forti si strin-

BELLEZZA E PENSIERO

208

Nei nuovi Andrii, una dolce confidenza fra corpi dorati ancora per l’estate finita (e nuvoloni, foglie cambiate), com'è quella fra pollice e corde di liuto. Adesso, un’attenzione alle stagioni, propriamente da giovane — a marzo,

con i narcisi, le querci hanno ancora foglie dorate che si mescolano alle gemme

d’alberi precoci; ad aprile invece quercioli rinnovati, accanto ai lecci sempre-

verdi -: è che un giovane è come un albero vivo, e poi ogni stagione vi trova

una sensibilità nuova e allora quell’incontro, pur nostalgico... Dopo il ’30 invece, l’Arrivo di Venere Anadiomene sarà stato eseguito per Richelieu con l’intenzione di esaltare simbolicamente l’arrivo della pace e della civiltà”, e i compagni Trionfo di Bacco-Libero e Baccanali, come si trae da Vigenère®, significano la liberazione da tirannidi ed oppressioni. Le armi d’Enea dimostrano la «possa» coniugale di Venere su Vulcano”, e nel Testamento d’Eudamida la liberalità dell’amicizia è considerata solo nell’assistenza reciproca fra adulti”. Che quella necessità d’amore, che poi faceva gentili e poeti, quella liberalità un poco ebbra, abbiano avuto in Poussin un taglio alle radici dalla sifilide che lo colpì circa il 1628%, mi sembra umanamente credibile: e così diviene

commovente anche la difficoltà di mettere in ordine temporale le sue opere degli anni subito successivi, quando gli antichi sentimenti andavano variamente spengendosi; languenti e ritornanti, venivan considerati con equilibrio, O taciuti con saggezza. Così, fra due quadri sulla poesia, Hannover e Louvre, ed un terzo, il Parnaso del Prado, vediamo cambiare il lettore. In quello di Hannover volano due putti

che reggono alla pari la corona d’alloro accompagnata dal mirto, della poesia d’amore, così come altre due: di queste, una è dell’epica, se nel quadro del Louvre s’accompagna ai libri d’Omero; l’altra è, suppongo, della poesia dottri-

naria e filosofica. Nei tre quadri il poeta può essere Ovidio, poeta d’amore ed epico, e filosofo nelle Metamorfosi: giacché nel quadro di Hannover e nel Parnaso Apollo gli offre una coppa d’acqua castalia proprio come gliela offre negli Amores®, e nel quadro del Louvre Apollo gli si rivela con la lira dorata e nei capelli l’alloro come gli si rivela nell’Ars amandi”. Se nel Parnaso, allora,

Ovidio offre ad Apollo uno solo dei due libri che porta, ed è incoronato solo dalla Musa che ha due corone ma non il mirto dell’amore, il quadro esalta il

momento in cui Ovidio a conclusione degli Amori scrive: pulsanda est magnis area maior equis. Imbelles elegi, genialis Musa, valete?8...

Nella maturità rappresentò il mito di Pan e Siringa: ancora una metamor-

fosi, d’una ninfa in canna, da cui l’inseguitore trasse il flebile flauto sentendola

flebilmente frusciare: sul piano della poesia, dunque, quella vicenda aveva dato frutti: «In van non avrò tal suono inteso»”. E negli ultimi giorni, pensando a quel che nella vita aveva appreso della pittura, scrisse che quanto ne è specifico

LETTURE DI POUSSIN E CLAUDE

209

non si può apprendere: «è il ramo d’oro di Virgilio, che nessuno può trovare e cogliere se non è condotto dalla fatalità»! (Entra nel bosco, e con le luci in alto lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa,

ch’agevolmente sterperassi, quando lo ti consenta il fato!%...):

fino all’ultimo aveva creduto nell’ispirazione oltre che nel fato, la cui puntualità impassibile aveva provato anche nella vita'°?: ma aveva irrigidito il convincimento

che il suo naturale fosse «cercare ed amare le cose ben ordinate,

fuggendo la confusione, che mi è così contraria e nemica come lo è la luce dalle oscure tenebre»!°.

Dice il Baldinucci di Claude che il suo forte fu l’imitazione degli accidenti della luce del sole, alla levata e al tramonto, soprattutto nell’acqua del mare!®.

E una lettera di Claude a un committente ci fa intendere che era stata concordata la rappresentazione del «soleil Levan» e dell»’apres midy»!® —- ma lui aveva aggiunto di suo due bibliche storie, abituato com'era a vendere il paese,

ma le figure a donarle!®. Nelle storie di Claude si può dunque cercare, per ipotesi, scelte libere, liberi messaggi!”. Ora, non so dir per certo se Claude abbia letto il passo del Fedro in cui l’interlocutore, che ha condotto Socrate in un luogo fresco e bellissimo fuori porta, si meraviglia che non lo conosca — e si ha la risposta che lui ha la passione

di imparare e perciò deve star fra gli uomini in città, poiché la campagna e gli alberi non sono altrettanto disposti ad insegnargli, però... il grande platano frondoso; l’altro albero all’apice della fioritura, che fa ombra, profumato; l’ac-

qua che scorre, — In questo luogo sento una presenza divina..., presto ne sarò posseduto; il delirio è un bene e un dono divino; la poesia del savio sarà sempre offuscata da quella dei poeti in delirio! — Ma anche se Claude non aveva letto questo toccante passo del Fedro, le idee

potevano essergli giunte per il tramite del platonico Plutarco. Dall’iconografia sappiamo che egli l’aveva letto senz'altro — e abbiamo aggiunto, probabilmente nella traduzione totale dell’Amyot -: movendosi fra il volume delle Vies per l’Incontro di Antonio e di Cleopatra‘, e quello delle Oeuvres morales per Le Troiane che incendiano le navi, primo esempio del trattatello Les vertueux faits des fem-

mes'°. Anzi, vedremo che l’identificazione di Claude con Plutarco è profonda (come fu quella di Poussin con Ovidio): tanto da indurci a pensare che giungesse all’assimilazione del tono nelle opinioni: «Ses opinions sont Platoniques,

douces, et accomodees à la societé civile»!!!... Erminia fugge, e si ritira fra i pastori, in quella «solitudine secreta» !!?. Altri

210

BELLEZZA E PENSIERO

quadri, e coppie di quadri, portan scene di vita pastorale. In un’oeuvre morale Plutarco si era chiesto fin dal titolo Si ce mot commun «Cache ta vie» est bien dit: e,

contro gli Epicurei, aveva sostenuto che no, che la solitudine segreta porta languore nel corpo e nello spirito, che non c’è niente al mondo che l’anima odii tanto come l’ignoranza o l’oscurità senza luce!!*. E infatti, in due di quei

paesaggi pastorali, alle danze riposate partecipa anche il satiro, il quale è men che umano!!*. La luce della conoscenza invece! non vediamo che ogni mattina, «au Soleil les rays espanouys», tutti usciamo di casa con il desiderio di incontrarci con altri uomini, con un vitale desiderio di reciproca conoscenza!!?

Nel pendant dell’Erminia, Carlo ed Ubaldo si imbarcano per il «gran viaggio» proprio quando già richiamava il bel nascente raggio a l’opre ogni animal che ’n terra alberga!'.

«Opre» dunque son contrapposte con lode alla «solitudine secreta»: ma quali opere si intende? Non già quelle raffigurate con porti, navi nella burrasca, e monumenti sul mare, che, con rimandi alla letteratura latina'!”, significano i

traffici e gli sperperi — negativi come i paesaggi pastorali, ai quali son talvolta accoppiati nella riprovazione!!* —: bensì un filantropico e valoroso «philosopher par effect»!!°. L’ardimento dei tre che, per dare una soddisfazione al loro capo, gli portarono acqua attinta in una città occupata, dove irruppero 0; « faits

de femmes» come l’incendio posto alle navi dalle Troiane per concludere l’ormai assurdo peregrinare!?!, e la coraggiosa andata di Ester, non convocata, al palazzo del re!?2. Adunaltro grado, la «solitudine secreta» e l’attività in traffici e sperperi sono contrapposte alla conoscenza suprema, quella mistica del dio: giacché lo «scompagnarsi dal mondo» simboleggiato dal corallo, di cui un quadro illustra la prima origine'?’, si contrappone in un pendant a Delfi, dove il dio si rivela!’ e una

Marina con navi in riparazione e monumenti, in altro pendant, al Giudizio di Paride: quando, secondo le Eroidi, la terra si mosse, ecco i numi, «fas vidisse

fuit» !20, Una potenza divina può infatti ispirare l’uomo, e allora egli percorre una via che non è quella della ragione o del senso naturale: la quale passione si chiama entusiasmo. Così Plutarco!?. Ma l’uomo che è emerso nella cara luce sa per esperienza, e ritrova in Plutarco, che se l’anima per natura od occasione

non è disposta a ricevere il dio, l’incontro la travolge!*. L'uomo ottuso!”, il giovane d’azione', la ragazza leggera!" e quella debole! l’infido!*, l’avido!*, il rozz0!, il vile!36 — tutti parimenti travolti dalla presenza divina, in

defezioni, tradimenti, o strane catastrofi. E fra gli «estranges evenemens avenus pour l'amour»! su cui si è fermato l’occhio del lettore:

Estant donc Antonius de telle nature, le dernier et le comble de tous ses mMaux, c'est

à savoir, l'amour de Cleopatra, lui survint, qui esveilla et excita plusieurs vices qui

LETTURE

DI POUSSIN E CLAUDE

211

estoyent encor cachez en lui, et ne s’estoyent iusque là point mostrez: et s’il lui estoit

resté quelque scintille de bien et quelque esperance de ressource, elle l’esteignit du tout, et le gasta encor plus qu'il n’estoit auparavant. Si fut pris en ceste maniere:

quando Cleopatra - e Claude lo rappresentò in un’opera solenne — giunse da lui in Cilicia!®8, La strapotenza del dio, dunque, porta a fondo anche le crepe occulte del carattere: e allora passioni brutali!®, gelose'‘°, consunte!*!, svergognate!*?; Arde Dido infelice, e furiosa

per tutta la città si gira e smania [...). Or a diporto va con Enea per la città mostrando le fabbriche, i dissegni e le ricchezze del suo nuovo reame!‘...

Una di queste «cose fuor di misura»!*, una passione svergognata, Claude la collega poi in una coppia di quadri, con l’«intemperance de l’ame» pure nel dolore — ancora una volta seguendo nei princìpi le Oeuvres morales di Plutarco! —: il Ratto d'Europa e il pianto inconsolabile delle Eliadi!*. Altri pianti inconsolabili, quello di Enone!*” e quello di Egeria privata di Numa'*: eccessi; ma eccessiva anche la consolazione nel baccanale della vedova Methe del poema di Nonno'*, che Claude contrappone ad Egeria in una coppia: non come poli per esaltare una virtù mezzana, se crediamo — e dobbiamo credere alla sua fedeltà a Plutarco, bensì per pianamente introdurre «la mutuelle bene-

volence et douceur d’aimer et de se sentir aimé, laquelle il nous est necessaire retenir et conserver plus que nulle autre chose»!50. A un’anima così candida ed amabile, il dio si rivela senza danno!5. In tante

pagine su cui Claude ha immaginato, soprattutto della Bibbia, il dio chiama, parla!*, dispone con l’amore!*, fa aprire gli occhi'5*, si manifesta', dà mes-

saggi chiari o enigmatici!*: e, in vario modo, l’anima ha atteso ubbidiente!?”, si sente ardere', guarda faccia a faccia!*°: butta via le cose del mondo'%, si alza'‘!, risponde «Son qui», «Ecco son qui»'°2. «Vide Gesù in piedi, e non sapeva che

era Gesù. [...] Gesù le dice: Maria. Giratasi gli dice: Maestro»!9. Due specie dell’entusiasmo, son quella profetica e quella artistica

164

In una coppia di quadri, Claude accosta il matrimonio di Rebecca — causato da parole del Signore! -, e Delfi, dove un dio si rivela invasando la sibilla e

parlando per sua bocca, nei termini della lingua e della cultura di lei, come ha scritto a lungo Plutarco'. E Claude raffigurò altri di questi oracoli: anche

Delo!, Cuma'#, Mileto'*°: questo di Mileto, accoppiandolo all’arrivo di Enea a Pallanteo, nel Lazio fatale di cui ha onorato il genio, le ninfe, il fiume!”°. E

seguono nel ricordo luoghi sacri raffigurati da Claude: il Parnaso!”!, il tempio di Crise dove il dio ascolta!?, e, con turbine di immagini poetiche, il golfo ove Enea cacciò i cervi, e l’Averno.

BELLEZZA E PENSIERO

212

Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime, sotto cui stagna spazioso un golfo securo e quieto; e v'ha d’alberi sopra tale una scena che la luce e ’1 sole vi raggia, e non penètra; un’ombra opaca

anzi un orror di selve annose e folte:

luogo sacro ai numi, «albergo veramente / di ninfe»!?. In tali luoghi il nume

può venire verso di noi con la sua sterminata potenza, terribile per i profani, come all’Averno:

Ed ecco all’apparir del primo sole mugghiò la terra, si crollaro i monti, si sgominar le selve, urlar le Furie al venir de la Dea. Via, via profani,

gridò la profetessa, itene lunge dal bosco tutto; e tu meco te n’entra!”4.

In tanti luoghi sacri ignoti agli altri, il poeta e il pittore dall’anima disposta per natura e purezza, al pari della sibilla riceve l’ispirazione del nume presente

e, strumento suo, canta o disegna secondo il proprio linguaggio; dimentica il resto, come Apollo mandriano nell’ardore del canto - tema di Claude!”5.

La bellezza di questi luoghi sacri non sarà definibile: come il non so che, la grazia fuori della comprensione!” di giovani persone che la Scrittura illumina con l’emozione di chi le guardava, in versetti che Claude ha letto per dei

quadri!”?. In un suo foglio, il Battista sdraiato, che contempla gli alberi grandi oltre il fiume, in quella solitudine «rinforzandosi nello spirito»!*. In altro foglio, il

disegnatore su una costa!”?: riscintilla un mare ventilato e mosso, e sfolgora piena l’immagine di Febo, pur le navi delle lontananze son qui, senza traffici, serene.

L’immagine di Febo, il disco del sole: Ceux qui estiment qu’Apollo et le Soleil soit un mesme Dieu, sont bien dignes

d’estre caressez et estimez pour la gentillesse de leur esprit et bon iugement, attendu qu’ils mettent l’opinion et aprehension qu’ils ont de Dieu, en ce que plus ils honorent, que mieux

ils savent, et que plus ils desirent. Or, maintenant,

tant que nous

sommes en ceste vie, comme si nous songions le plus beau songe que lon pourroit songer de Dieu, excitons nous, et nous enhortons de passer plus outre, et monter plus

haut à contempler ce qui est par dessus nous, en adorant bien principalement son

essence, mais honorant aussi son image, le Soleil, et la vertu qu’il lui a donnee de

produire, representant aucunement par sa splendeur, quelques ombres, aparences et simulachres de sa clemence, bonté et felicité, autant comme il est possible è une nature sensible d’en representer une intelligible, et è une mouvante, une stable et perMAnentess

LETTURE DI POUSSIN E CLAUDE

213

In tanti altri suoi fogli, a matita o a liquido inchiostro, il dettato del nume del luogo, o di Febo, che hanno abbracciato la sua anima pura ed amabile, la sua

persona traversando radure e separando cespugli: e vedendo immersione nelle ombre, sbiadimenti assorti, il sole, le acque, l’alzarsi nel cielo di fronde serene od annuenti. L’autore ringrazia Laura Lombardi, che ha condotto per lui varie ricerche alla Bibliothèque Nationale di Parigi. 1987-1988

èe Pubblicato su «Artibus et historiae», 18, 1988.

fig. 54

NOTE

! Vedi M. Roethlisberger, Claude Lorrain The Drawings - Catalog, Berkeley-Los Angeles

faraone, Louvre e Woburn Abbey: Flavio Giuseppe, trad. F. Baldelli (qui saranno citati come

1968, nr. 526 (LV 70), 660, 805, 1013, 1026, 1046 (LV 180), 1057, 1077, 1084 (LV 185), 1087 (LV I SO}NEI15 1125-120381 12/:

Venezia 1580, 2, 5 (p. 84). Poussin, La distruzione del Tempio di Gerusalemme, già coll. Bar-

L’abbreviazione LV, qui come in séguito vale

berini, e Vienna: Flavio Giuseppe, trad. F. Bal-

per Claude, Liber veritatis, British Museum, carta... 2 N. Poussin, lettera a Chantelou, da Parigi, 2 luglio 1641, in Lettres, ed. P. du Colombier,

delli (qui saranno Baldelli),

Della

citati come

Guerra

Giuseppe-

de’ Giudei,

1581, 7,9 e 7, 10 (pp. 375-377).

Venezia

1! Poussin, Coriolano, Les Andelys: Plutarco,

trad. J. Amyot (qui saranno citati come Plutar-

Paris 1929, p. 42. iG:PMBellortLetvite oRoma

Giuseppe-Baldelli), Dell’antichità de’ Giudei,

1072,

p.

436.

4 N. Poussin, lettere a Chantelou, da Parigi,

co-Amyot), Coriolanus, 17, in Les vies (1559), Lyon 1605; cfr. Livio, 2, 40. 12 Plutarco-Amyot, Antonius, 6, in Les vies

3 agosto 1641 (per la decorazione della Grande Galerie «m’étant résolu d’y représenter une

Cit.

suite de la vie d’Hercule»), e da Roma, 7 feb-

de Vigenère, Les images (Paris 1578), Paris 1614 (qui sarà citato come Les images). Non posso seguire Dora Panofsky, che ha usato Les images per spiegare l’accostamento, nel Poussin del Fogg Art Museum, dell’infanzia di Bacco e della morte di Narciso in base ad una supposta identità della grotta presso la quale esse avrebbero avuto luogo (D. Panofsky, Nar-

braio 1649 («j’ai trouvé la disposition d’un sujet bachique plaisant pour monsieur Scarron»), in Lettres cit., pp. 44, 259. > Baldinucci-Ranalli, 4, p. 707. 6 Claude, LV 70. ? Claude, LV 192: Ovidio, trad. G.A. Anguillara, Le Metamorfosi (Paris 1554), Venezia

1584 (qui saranno citate come Ovidio-Anguillara), 2, 266. Da correggere M. Roethlisberger, Claude Lorrain - The Paintings, New Haven 1961, p. 450, e M. Kitson, Claude Lorrain: Liber veritatis, London 1978, nr. 192, i

13 Filostrato e Filostrato il Giovane, trad. B.

cissus and Echo; Notes on Poussin’s «Birth ofBacchus» in the Fogg Museum of Art, «The Art Bulletin», 1949, p. 112 ss. e particolarmente p.

120): infatti la grotta dell’infanzia di Bacco, sul monte Nisa (ricordata dal commentatore,

quali ritengono che il soggetto, mancando

in Les images, p. 114), è diversa da quella di

nelle Metamorfosi in latino, derivi per Claude dall’omerico Inno a Mercurio. 8 Ovidio-Anguillara, 2, 23-29. ? Per Poussin, cfr. Eneide, 8, vv. 608-616, con Eneide, trad. A. Caro (Venezia 1581; qui sarà citata come Virgilio-Caro), 8 = A 941-954. Per Claude vedi, qui, n. 168. !° Poussin, Mosè fanciullo calpesta la corona del

Acheloo, presso la quale Filostrato (ivi, p. 193) immagina avvenuta la morte di Narciso, e che

il commentatore (ivi, p. 195) identifica con quella presso Atene ricordata nel Fedro. Quanto al quadro del Louvre detto «Marsia ed Olimpo» con rimando a Les images, questa intitolazione non gli si addice, per la presenza di fanciulle, assenti nel mito e nei due quadri su

LETTURE

DI POUSSIN

Olimpo lì illustrati (vedi, qui, n. 17). Invece,

E CLAUDE

iS

priv: Genesi, 24, e Giuseppe-Baldelli, Del-

due episodi di Les Amours di Filostrato in Les images, cioè il volo degli amorini a cogliere le mele (p. 43) e la caccia che gli amorini dànno

l’antichità de’ Giudei cit., 1, 16 (p. 38). °° Poussin, La distruzione del Tempio di Gerusalemme, già coll. Barberini, e Vienna: Giusep-

alla lepre per offrirla viva a Venere come dono

pe-Baldelli, Della Guerra de’ Giudei cit., 7, 9 e

a lei gradito perché animale «fort lascif et fecond» (p. 44), passano in Poussin: rispettivaAndriens di Filostrato (ivi, p. 208) passa nel

7, 10 (pp. 375-377: «chiara cosa è che già egli era dalla sentenza di Dio al fuoco condennato: ed essendo scorsi i tempi era venuto il giorno d’esso fatale, che era il decimo del mese d’agosto, nel quale era stato medesimamente altra

quadro del Louvre detto anche Baccanale con

volta dal re de’ Babilonii bruciato»; chi consi-

mente in Giuoco di putti, Ermitage, e in Venere e Adone, Providence; inoltre, il significato di Les

suonatrice di liuto (come ha già indicato A.

dererà degna di pianto la distruzione di un

Blunt in Nicolas Poussin, testo, New York 1967, p. 123); infine, per la derivazione dell’Achille a Sciro di Poussin, oggi a Boston, da Filostrato il Giovane, vedi, qui, n. 41. 14 Bucoliche, 5, vv. 22-26. !5 Nonno, Dionysiaca, 15, vv. 306-311.

simile monumento «arà nondimeno gran con-

!'6 M. Roethlisberger, Claude Lorrain - The Paintings cit., pp. 418-419.

!? Cfîr. Filostrato, Les satyres e Olympe, in Les images cit., pp. 175-176, 179-182.

18 Per la filosofia di Ovidio, vedi L. Alfonsi, L’inquadramento filosofico delle Metamorfosi ovidiane, nella miscellanea Ovidiana - Recherches sur Ovide, Paris 1958, p. 265 ss. 19 Poussin, Et in Arcadia ego, Chatsworth e Louvre.

20 Poussin, L'infanzia di Giove, Dulwich e Berlino: Ovidio, Fasti, 4, vv. 197-206 («reddi-

ta Saturno sors haec erat»... «sic genitor fatis decipiendus erat»). 21 Poussin, Narciso, Louvre: Ovidio-Anguillara, 3, 136-199, e particolarmente 3, 138

(«seguì l’effetto / che fé vera la voce del profeta»). 22 Poussin, Orfeo ed Euridice, Louvre: Ovidio-Anguillara, 10, 7-9 («né passar molti dì

che corrispose / al tristo augurio il doloroso effetto»). 23 Poussin, La strage degli Innocenti, Chantil-

ly: Matteo, 2, 16-18 («tunc adimpletum est quod dictum est per Jeremiam prophetam»...). Poussin,

L'entrata

di Gesù

in Gerusalemme,

Nancy: Giovanni, 12, 14-16 («et invenit Jesus asellum, et sedit super eum, sicut scriptum est: Noli timere filia Sion: ecce rex tuus venit sedens super pullum asinae. Haec non cognoverunt discipuli eius primum: sed quando glorificatus est Jesus, tunc recordati sunt quia haec

erant scripta de eo et haec fecerunt ei»). 24 Poussin, Rebecca al pozzo, Louvre e coll.

forto pensando alla disposizione del fato: ché, come gli animali così anche le fabriche ed i luoghi non possono quanto è dal fato stabilito fuggire. Prenderà eziandio in esso maraviglia del corso così apunto del tempo già passato. Conciosiacosa che egli ha quel mese medesimo conservato (come s’è detto) e quel medesimo giorno nel quale il Tempio fu la prima volta da’ Babilonii bruciato»). 26 Poussin, L'incontro di Carlo ed Ubaldo col serpente, New York, coll. priv. L'incontro di

Carlo ed Ubaldo col serpente nell’isola d’Armida (La Gerusalemme liberata, 15, 47-49) era

stato previsto dal mago (ivi, 14, 73): tutto rientrava in una deroga al fato inviolabilmente limitata (ivi, 15, 39-40: «egli osta inviolabil e

severo / il decreto de’ cieli»; «a voi per grazia, e sovra l’arte e l’uso / de’ naviganti ir per quest’acque è dato; / e scender là dove è il guerrier rinchiuso, / e ridurlo nel mondo a

l’altro lato. / Tanto vi basti; e l’aspirar più suso / superbir fora, e calcitrar co ’l fato»). 27 Justus Lipsius, De constantia (1582), Antverpiae 1584, p. 53; sul fato: «si enim deus est, Providentia est: si haec, decretum et ordo rerum: si istud, firma et rata necessitas evento-

rum» etc. 28 Poussin, Mosè al Nilo, Dresda e Oxford: Giuseppe-Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei

cit., 2, 5 (p. 83: «qui si vede manifestissimamente come Dio mostrò chiaro segno che niuna cosa può con l’umano sapere ad effetto recarsi; ma che tutte le cose con la bontà di esso, che è onnipotente, si fanno: e che quelli che

cercano di machinare per utile e sicurezza loro l’altrui danno e ruina, se bene v’usano ogni possibile diligenza, bene spesso nondimeno avviene che essi all'intento loro non posson venire; e quelli all’incontro i quali si ritruova-

216

BELLEZZA

no a pericolo ridotti, fuor d’ogni openione, quasi che del mezo delle ruine a salvamento escon fuori: la qual cosa si può con questo fanciullo conoscere e vedere»). Poussin, Mosè e il roveto ardente, Copenhagen: GiuseppeBaldelli, ivi, 2, 5 (p. 89). Poussin, Il passaggio del Mar Rosso, Melbourne: Giuseppe-Baldelli, ivi, 2,7 (p. 98: «poi che nell’estremità del litto

si furon condotti, Moisè presa allora la verga si voltò supplichevolmente a pregare Dio che loro porgesse il suo aiuto, così dicendo: Tu sai, o Signore, che non abbiamo alcuna via da potere ora con umane forze né con arti umane fuggire: solo ci resta che tu sia quegli che provegghi alla salute di questo popolo, il quale,

E PENSIERO

dendosi inferiori d’armi, di danari, di vettova-

glie e d’altre così fatte cose ed aiuti ne’ quali gl’uomini confidando son usati di mettersi a guerreggiare: anzi, che poscia che essi hanno Dio che è in favor loro contra i nimici, ne dovessero così arditi ed animosi divenire sì come

e’ fossero in tutte l’umane cose ai nemici superiori»); 4, 5 (p. 158: contro gli Amorrei, «col

favore ed aiuto di Dio»); 4, 6 (p. 161: durante la guerra con i Madianiti, Balaam disse fra l’altro sulla protezione divina degli Ebrei, «Felice

quell’uomo al quale Dio concede largamente de’ beni, ed a cui concede che la divina sua providenza sia perpetua scorta e continua fautrice»). Poussin, La peste di Azot, Louvre: Giusep-

abbandonato l’Egitto, s’è qui condotto, il voler tuo e la tua fede seguendo. A te solamente, da

pe-Baldelli, ivi, 6,1 (p.238: «gl’uomini pruden-

ogn’altra speranza abbandonati e d’ogni consiglio privi rifuggiamo; alla sola providenza tua ricorriamo ed abbiamo risguardo: perché quella sola ci può dalle mani degl’irati Egizii cam-

nella «vendetta» di Dio e non nella natura).

pare»). Poussin, Mosè e la caduta della manna, Louvre, e Mosè fa scaturite l’acqua, Edimburgo ed Ermitage: Giuseppe-Baldelli, ivi, 3, 1 (pp. 103-104: i miracoli delle coturnici, della manna, e dell’acqua dalla roccia, sono preceduti da

un lungo discorso di Mosè sulla Provvidenza, dal quale estraggo che «si mise a raccontar loro [...] quante volte Dio gli aveva già della bocca della morte fuor dell’openion d’ognuno

ti» ritennero che quella peste avesse la sua causa 29 Poussin, Bacco ed Arianna, Prado: Ovidio, Ars amandi, 1, vv. 525-562. Vedi anche Ovidio-Anguillara, 8, 142-150. 30 Poussin, Il ratto d’Europa, ricordato dall’autore in una lettera a Chantelou, da Roma,

del 22 agosto 1649 (Lettres cit., p. 265): Orazio, Carmina, 3, 27, v. 25 ss. e particolarmente

vv. 74-75 («mitte singultos, bene ferre magnam / disce fortunam»). 31 Poussin, Agar incinta nel deserto, coll. priv.: Giuseppe-Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei citi, 1;:110(p29:t«si'eramessala pregar Dio,

scampati ed a salvezza ridotti; e che, essendo egli sempre onnipotente, non si dovea né me-

che di lei avesse compassione. Mentre che ella adunque andava per un diserto caminando, le

no allora perdere della sua divina providenza

si parò un angiolo davanti, commandandole che ella a’ suoi padroni dovesse tornare [...].

la speranza»). Poussin, David vincitore di Golia, Prado e Dulwich: Giuseppe-Baldelli, ivi, 6,

10-6, 11 (pp. 265-266: «Tu mi vieni addosso (disse allora David) confidandoti in cotesta tua asta, nella corazza, e nella spada; ed io ho Dio

per mie arme [...] conoscerà benissimo ognuno come Dio ha de gli Ebrei cura, e che dalla divina sua providenza ci sono le forze insieme con l’armi provedute [...]. Ed il giovanetto se gli fé incontro conducendo seco Dio in quella battaglia in suo favore ed aiuto suo»). Poussin, Battaglie bibliche, Ermitage, Museo Puskin, e

Pinacoteca Vaticana: Giuseppe-Baldelli, ivi, 3, 2 (p. 108: Mosè contro gli Amaleciti «si mise a confortargli che nella determinazione di Dio confidando, col favore del quale aveano la libertà alla servitù preferita, non dovessero ad

alcun’altra cosa che alla vittoria avere il pensiero; e che non dovessero stare in ansietà ve-

Che se pure, sprezzando di Dio il volere, essa

seguitasse d’andare

avanti, le soprastava la

morte. Dove se fosse a dietro tornata, era per esser madre d’un fanciullo che sarebbe di quel-

la regione divenuto re»). ?? Poussin, Il salvataggio di Pirro infante, Louvre: Plutarco-Amyot, Pyrrus, 1, in Les vies cit.

Vedi 93 tage: %

anche, qui, n. 34. Poussin, Zenobia salvata dai pastori, ErmiTacito, Annali, 12, 51. Rubrica a Pyrrus, 1, in Plutarco-Amyot,

Les vies cit., p. 250r.

35 Poussin, Il ratto delle Sabine, Metropolitan e Louvre: rubrica a Romulus, 8, in PlutarcoAmyot, Les vies cit., parde: °° Poussin, La guarigione del cieco, Louvre: Giovanni, 9, 1-3 («ut manifestetur opera Dei in illo»).

LETTURE

DI POUSSIN

?? Poussin, Mosè fanciullo calpesta la corona del faraone, Louvre e Woburn Abbey: GiuseppeBaldelli, Dell’antichità de’ Giudei cit., 2, 5 (p. 84: «Termute allora quindi lo tolse ed anche il re al farlo morire andava molto lento, percioché Dio di Moisè la salvezza procurando, in tal guisa avea l’animo d’esso disposto»).

214)

E CLAUDE

brica del cap. 3, p. 2r, in Les vies cit. («Theseus monstre qu’un coeur genereux ne peut (non

plus qu’un grand brasier couvert de peu de cendres) demeurer longuement caché» etc.). 45 Poussin, Coriolano, Les Andelys: Plutarco-Amyot, Coriolanus, 17, e rubrica relativa, p.

148r («La cholere se void ici abatue sous l’afection naturelle»), in Les vies cit.

38 Poussin, Ester davanti ad Assuero, Ermitage: Giuseppe-Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei cit., 11, 6 (p. 516: «fu in un subito presa da un

44 Poussin, Camillo e il maestro di Falerii, Los Angeles e Louvre: Livio, 5, 27 (Camillo a quel

certo orrore, e forse che egli l’avea con cera

perfido: «Nobis cum Faliscis quae pacto fit

troppo cruda, e con volto severo ed irato guardata: ed in un subito mancandole le forze e

humano societas non est: quam ingeneravit natura utrisque est eritque»). 45 Poussin, Il trasporto di Focione, Oakly Park, e La megarese raccoglie le ossa di Focione, Knowsley Hall: Plutarco-Amyot, Phocion, 12, e ru-

divenendo le membra languide, si lasciò tutta sopra la giovane che l’era da lato cadere. Il re allora tutto (per voler di Dio senza dubbio) cambiato, se n’alterò» etc.). °° Poussin, Il sacrificio di Noè, noto per inci-

brica relativa, p. 496v («Le tort fait aux gens de bien ne demeure pas tousiours enseveli»),

sioni: Giuseppe-Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei cit., 1, 4 (p. 15: «Noè [...] pregava Dio che

in Les vies cit. 4° Poussin, I/ giudizio di Salomone, Louvre:

per sua pietà concedesse che per l’avenire le cose tornassero nel pristino stato ed ordine lo-

Giuseppe-Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei cit., 8, 2 (p. 358: «avendo fra questo mezzo la vera madre gridato»...; «il re, veduto come le voci e dell’una e dell’altra dalla verità nascevano, giudicò che ’l bambino fosse di quella che

ro»; Iddio conclude la sua risposta dicendogli: «l’arco celeste vi sarà segno ch’io debba cessare

dal percuotervi»). 4° Per l’opera di Poussin oggi a Dresda, la denominazione di «quadro della Primavera» che essa ebbe dal suo primo possessore, Fabri-

zio Valguarnera (appendice documentaria a J. Costello, The Twelve Pictures «Ordered by Velazquez» and the Trial of Valguarnera, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1950,

p. 273) è preferibile a quella di «La trasformazione de’ fiori» «in un giardino»

con «Flora che

sparge fiori danzando con gli Amori» (G.P. Bellori, op. cit, pp. 441-442) giacché la presunta Flora è piuttosto la Primavera con carat-

teri derivati da un’aggiunta di G.A. Anguillara nella sua

traduzione

delle Metamorfosi,

ove

l’ovidiano «Verque novum stabat cinctum flo-

rente corona» (2, v. 27) cambia genere e diviene la Primavera, «donzella» che «mai sta che non rida, giochi o balli» (Ovidio-Anguillara,

Dialo):

41 Poussin, Achille a Sciro, Boston: Filostrato il Giovane, Achilles en l’isle de Scyro, in Les

images ‘cit., p. 566 («mais ceste autre là [...]

aveva gridato»). 47 Poussin, Venere piange Adone, Caen: Ovidio-Anguillara, 10, 304 («poi, contro il fato

aperto il cuor non saggio / aggiunse al primo dir quest'altro oltraggio»...). 48 Poussin, La morte di Germanico, Minneapolis: Tacito, Annali, 2, 71 («Si fato concederem, iustus mihi dolor etiam adversus deos esset, quod me parentibus, liberis, patriae, intra iuventam praematuro exitu raperent»...). 49 Poussin, Mosè ed Aronne davanti al faraone, Louvre: Giuseppe-Baldelli, Dell’antichità de’ Giudei cit., 2, 5 (p. 91: «scoperse al re poscia la visione avuta nel monte Sina, e quanto da Dio gl’era stato detto; quindi raccontò ad uno ad

uno i prodigii che per voler di Dio l’aveano fatto certo e levatogli ogni dubbio che lo facesse niente vacillare. Sogiunse oltre acciò le ammonizioni da Dio fatte, e che e’? non volesse, per creder poco, alle determinazioni di Dio

contraporsi»). 50 Poussin, Cristo e l’adultera, Louvre: Gio-

descouvrira bien tost quel sera son sexe au

vanni, 8, 6 (gli Scribi e i Farisei «hoc autem

vray, et despouillant ce que la necessité luy faisoit feindre, se monstrera estre Achilles»).

Safira, Louvre: Atti degli Apostoli, 5, 9 («Petrus

4 Poussin, Teseo recupera i pegni del padre, Chantilly: Plutarco-Amyot, Theseus, 2-3, e ru-

tentare Spiritum Domini?»).

dicebant tentantes eum»). Poussin, La morte di

autem

ad cam:

Quid utique convenit

vobis

218

BELLEZZA

51 Poussin, Mida chiede il dono a Bacco, Monaco, e Mida al Pattolo, Metropolitan ed Ajaccio: Ovidio-Anguillara, 11, 30-42. 52 Ovidio, Ars amandi, 2, vv. 477-480

(«quid facerent, ipsi nullo didicere magistro; / arte Venus nulla dulce peregit opus»). 53 Ovidio, Fasti, 4, vv. 13-14, 21 ss., 85 ss. 54 Ovidio, Fasti, 4, vv. 85-116. In ordine

all’iconologia generale propongo quindi di interpretare come «Venere d'aprile» il quadro del Louvre che il Bellori (op. cit., p. 442) intitolò

E PENSIERO

(Amore ad Apollo, sul proprio arco: « ?l mio

val contra te, contra ogni dio»). 65 Poussin, Diana ed Endimione, Detroit; Aurora e Cefalo, Hovingham Hall e Londra; Venere e Adone, Providence: cfr. Ovidio, Ars amandi,

3, vv. 83-85 («Latmius Endymion non est tibi, Luna, rubori,

/ nec Cephalus roseae praeda

pudenda deae; / ut Veneri, quem luget adhuc, donetur Adonis [...]?»).

66 Poussin, Amore colpisce Apollo e Dafne etc.,

Il trionfo di Flora. Dunque, sul carro, Venere; ad aprire danzando il corteo, Primavera secondo

Louvre: per l’episodio principale, OvidioAnguillara, 1, 126-128; per il mito aggiunto sul fondo, io credo che si tratti non già del mito di

l'iconografia dell’Anguillara (Ovidio-Anguil-

Giacinto (come sostenne E. Panofsky in Poussi-

lara, 2, 19; vedi, qui, n. 40). 55 Cfr. Poussin, il così detto Ninfa che sale su

n’s «Apollo and Daphne» in the Louvre, «Bulletin de la Société Poussin», 3, 1950, pp. 37-41), bensì di quello di Dafni, con precisi riferimentia

un caprone, Ermitage, con Ovidio, Fasti, 4, v.

100 («nec coeant pecudes, si levis absit amor») e v. 107 (Venere «prima feros habitus homini detraxit»): il quadro potrà essere interpretato

Virgilio, ecloga 5, vv. 22-26 («cum complexa sui corpus miserabile nati, / atque deos atque

come «Venere ammansatrice».

egere diebus / frigida, Daphni, boves ad flumina; nulla neque amnem / libavit quadripes nec graminis attigit herbam»). L’accostamento di Apollo e di Dafni come amanti rifuggiti è in

56 Cfr. Poussin, il così detto Ninfa a cavalcioni di un satiro, Kassel, con Ovidio, Fasti, 4, vv. 85-116: il quadro potrà essere interpretato come «Venere civilizzatrice». 57 Poussin, Venere e Marte, Boston: Ovidio,

Ars amandi, 2, vv. 563-564 («Mars pater insa-

no Veneris turbatus amore / de duce terribili factus amator erat»). 58 Poussin, Armida e Rinaldo, Dulwich: La Gerusalemme liberata, 14, 65-67. 5° Poussin, Erminia e Tancredi, Ermitage e Birmingham: La Gerusalemme liberata, 19, Jib24

60 Poussin, Aci e Galatea, Dublino: OvidioAnguillara, 13, 259 ss. 61 Poussin, Venere e Mercurio, DulwichLouvre: Ovidio, Fasti, 4, vv. 109-114, su Venere come promotrice del canto, dell’eloquen-

za e di mille altre arti, da collegare con B. de

astra vocat crudelia mater. / Non ulli pastos illis

Nonno, op. cit., 15, vv. 306-311.

7 Poussin, L'infanzia di Bacco, Louvre, Chantilly, Londra: Ovidio, Ars amandi, 1, vv. 237-242. Il vino come fonte di socievolezza è

collegato alla forza ammansatrice dell’amore in una composizione

pussiniana con

Venere,

Amore, un satiro che beve (Prado, etc.). 98 Poussin, Bacco portato sulla Terra - Morte di Narciso, Fogg Museum: 67.

vedi, qui, nn. 13, 21,

6? N. Poussin, lettera a Chantelou, da Roma, 2 agosto 1648, in Lettres cit., p. 251.

7° Poussin, L’Età dell’oro, Liverpool: Ovidio,

Amores, 3,10, vv. 7-10 («sed glandem quercus, oracula prima ferebant»); Ovidio-Anguillara,

Vigenère, Argument di Filostrato, Pan, in Les

15, 42-43 («il frutto, il latte, e ’1 mel fu il cibo loro», «un mondo pien di pace e pien d’amo-

images cit., p. 370 («Mercure [...], dieu de la

re»).

parole et de l’eloquence, inventeur des lettres,

71 Ovidio, Ars amandi, 1, vv. 241-242. 72 Filostrato, Les Andriens, in Les images cit., p. 208. Per l’individuazione di questo tema vedi, qui, n. 13. 7? Può servire per la difficile interpretazione

le premier autheur de la lyre»). 2 Poussin, Numa ed Egeria, Chantilly: Ovi-

dio-Anguillara, 15, 138 («ei fé di sorte / ch’a l’aurea pace, al divin culto e vero / seppe un popol ridur cotanto altero»). 3 Poussin, Giuochi di putti, Ermitage: Filostrato, Les Amours, in Les images cit., p. 43.

% Poussin, Apollo e Dafne, Monaco: OvidioAnguillara, 1, 122-154 e particolarmente 126

del quadro pussiniano di Stoccolma (vedi D. Mahon, Poussiniana etc., «Gazette des BeauxArts», 1962, 2, pp. 9-17) leggere, su Bacco e la poesia, Ovidio, Ars amandi, 3, vv. 341-348. 7* Poussin, Ispirazione del poeta, Hannover e

LETTURE

DI POUSSIN

Louvre: Ovidio, Ars amandi, 2, vv. 493-496.

?° Poussin, Ispirazione di Hannover, e Parnaso, Prado: Ovidio, Amores, 1, 15, vv. 35-36

(«mihi flavus Apollo / pocula Castalia plena ministret aqua»). 76 Vedi W. Friedlaender, The Massimi Poussin Drawings at Windsor, «The Burlington Magazine»,

54,

1929,

PpiXlixisze.

252

ss.; W. Friedlaender-A. Blunt, The Drawings of Nicolas Poussin - Catalogue raisonné, London 1939-1974, 3, p. 9 ss., cap. The Marino Group

of Drawings. 7 Ovidio-Anguillara, 13, 296-298. 78 Ovidio-Anguillara, 13, 303-304.

7° Ovidio-Anguillara, 10, 13-18. 8° Poussin,

Apollo

mandriano

che visse lieto in così bassa sorte»; «felici quei

che son così prudenti / che san col tempo accomodar la vita»). Poussin, Mercurio uccide Argo (disegno), Windsor: Ovidio-Anguillara, 1, 196 («Argo tu giaci [...]. / Solo una man, con tuo gran danno e scorno / t’ha tolti i lumi, la vigilia, e ’l giorno»). 8! Poussin, La morte di Chione (disegno), Ovidio-Anguillara,

11,

113-115

(Chione, «di se medesma gloriosa e vana / l’interno orgoglio suo veder fé aperto»... «la freccia va ver Chione empia e superba, / e la peccante lingua a lei percuote»). 82 Poussin, Minerva e le Muse (disegno), Windsor: Ovidio-Anguillara, 5, 76-77 («l’insolenzie altrui»; «non è mai dì che qualche scelerato / contro la nostra castità non s’arme:

/ ché, vedendoci imbelli, ha ognun coraggio / di machinarci insidie, e farci oltraggio»). 83 Poussin, Teti porta le armi ad Achille (disegno),

Windsor:

premo», «e ben gemer s’udia con spessi crolli, / di pianto avendo i rami afflitti e molli»). Nota che l’albero di mirra mostra sentimenti umani anche nell’Adone del Marino (6, 129 e 131). Per l’animismo, vedi anche OvidioAnguillara, 15, 105. 85 Poussin, Paesaggi, con persona che attinge

acqua 0 si lava nell’acqua corrente, Londra e Ottawa: Ovidio, Ars amandi, 3, vv. 63-64 («nec quae praeterit, iterum revocabitur unda, / nec

quae praeteriit, hora redire potest»); OvidioAnguillara, 15, 61-63 («e ’1 tempo sempre appar con nova fronte, / e d’ora in ora un novo tempo sorge. / Come corre ognor novo il fiume e ’l fonte, / che sempre verso il mar

di Admeto

(disegno), Windsor: Ovidio-Anguillara, 2, 249-251 («e fu sì saggio, temperato e forte /

Windsor:

219

E CLAUDE

Ovidio-Anguillara,

13,

101-103 (Ulisse, per ottenere le armi di Achille, dice contro Aiace, che concorre:

«Certo

che Teti fé fare a Vulcano / per tanto figlio un scudo così degno / [...] perché dovesse poi venire in mano / d’un uom senza dottrina e senza ingegno. / Che farà di quell’arme ei, se l’impetra, / se in quel che v'è dipinto non pe-

netra?»).

nov’onde scorge. / Perché l’acqua che pria calò dal monte, / quella stessa non è ch’or

vi si scorge. / Quella che vi passa or, più non vi fia, / che l’altra onda che vien la fa gir via»). 86 Félibien,

Entretiens,

Trevoux

1725,

8,

p. 63.

87 Nota h a Luciano, trad. J. Baudoin (qui saranno citati come Luciano-Baudoin), D’une maison, in Les Oeuvres (1614), Paris (J. Richer) 30 88 Ovidio, Fasti, 5, vv. 537-538 («comitem

sibi Delia sumpsit, / ille deae custos, ille satelles erat»). 8° Giusto Lipsio, De constantia (1582), Antverpiae 1584, 1, 14.

9° Vedi, qui, n. 54. ? Poussin, il così detto Trionfo di Nettuno,

Philadelphia. G.P. Bellori (op. cit., p. 423) parla del «trionfo di Nettuno in mezzo il mare, nel suo carro tirato da cavalli marini, con se-

guito e scherzi di tritoni e di nereidi»; e Félibien (op. cit., p. 27) parla di un «Triomphe de Neptune». Che però il tema sia Venere Anadiomene che arriva a terra accompagnata da Nettuno e da altre divinità marine, è dimo-

strato dal suo carro, tirato da colombe e guidato da Amore, che sta arrivando nel cielo (F.H. Sommer,

Poussin’s

«Triumph

of Neptune and

Amphitrite»: a Re-identification, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1961, p.

324).

10, 208-212 (all’albero di mirra, preso dalle

92 Poussin, Trionfo di Bacco e Baccanali, noti per copie: B. de Vigenère, Argument di Filostrato, Semele, in Les images cit., p. 109 (Bacco,

doglie del parto, «mancavan le parole al duolo estremo», «né potea mandar preghi al ciel su-

femmes, courut une bonne partie du monde,

84 Poussin, La nascita di Adone dall’albero di

mirra (disegno), Windsor: Ovidio-Anguillara,

«ayant mis sus une grosse armée d’hommes et

220

BELLEZZA

et le delivra des tyrannies et oppressions qui regnoient lors: parquoy il fut enfin reduit au nombre des dieux»). 93 Virgilio-Caro, 8, vv. 620-623 (Vulcano, nel talamo con Venere, risponde alla sua richie-

sta delle armi per Enea: «Io ti prometto. E tu con questi preghi / cessa di rivocar la possa in forse / del tuo volere e ’l mio desir ch'è sempre / di far le voglie tue paghe e contente»). 9 Luciano-Baudoin,

Toxaris ou l’Amitié, 3,

in Les Oeuvres cit. («ie m’estonne [...] de la fidelité d’Eudamide envers ses amis»). 95 G.B. Passeri, Il libro delle vite, ed. J. Hess, Leipzig- Wien 1934, pp. 324-325. 20 Vedi n: 75. 9? Ovidio, Ars amandi, 2, vv. 493-496 («Haec ego cum canerem, subito manifestus

E PENSIERO

non numerata. 112 Claude, Erminia fra i pastori, LV 166: La Gerusalemme liberata, 7, 6-16. 113 Plutarco-Amyot, Si ce mot commun «Cache ta vie» est bien dit, 5, in Les oeuvres morales cit.

114 Claude, Danza con il satiro, LV 55, 108. 115 Come alla n. 113. 116 Claude, L’imbarco di Carlo ed Ubaldo, LV 168: La Gerusalemme liberata, 15, 1. 117 Vedi ad es., Orazio, Carmina, 3, 1, v. LIL 118 Vedi M. Roethlisberger, Claude Lorrain The Paintings cit.: LV 31 e nr. 203; nr. 225 e 220%

119 Plutarco-Amyot, De la fortune ou vertu d’Alexandre, 1, 7, in Les ceuvres morales cit. 120 Claude, David e i tre coraggiosi, LV 145:

Apollo / movit inauratae pollice fila lyrae; / in manibus laurus, sacris induta capillis / laurus erat, vates ille videndus adit»).

RAZZA

?8 Ovidio, Amores, 3, 15, vv. 18-19. °° Ovidio-Anguillara, 1, 193. 100 N. Poussin, lettera a M. de Chambray, da Roma, 1° marzo 1665, in Lettres cit., p. 310. 101 Virgilio-Caro, 6, vv. 216-219. Vedi an-

femmes - Des dames troiennes cit. 122 Claude, Ester si avvicina al palazzo del re, LV 146: Ester, 4, 9-16 («ingrediar ad regem,

che i vv. 219-222. 102 G.B. Passeri, op. cit., p. 325: «seguirono

gli sponsali il giorno appunto di S. Luca nell’anno sudetto [1629], giorno di quel Santo che è protettore de Pittori, e fu giorno fatale,

perché [Anna Maria Duget] dopo essere stata seco congiunta in matrimonio per lo spazio di 35 anni il giorno medesimo di detto Santo 1664 passò a vita migliore».

N17

121 Claude, Le Troiane che incendiano le navi,

LV 71: Plutarco-Amyot, Les vertueux faits des

contra legem faciens, non vocata, tradensque me morti et periculo»). 123 Claude,

L'origine del corallo,

LV

184:

Ovidio-Anguillara, 4, 439 («così nacque il corallo, e ancor ritiene / simil natura, che nel

mar più basso / è tenero virgulto, e come viene / a l’aria s’indurisce e si fa sasso»), da confrontare con Picinelli, Mondo simbolico, 12, 8,

49 («sì come il corallo acquista colore, pregio,

104 Baldinuccticit:,\Bwps91:

e bellezza, con l’uscirsene e separarsi dall’acque, non altrimenti i religiosi più che mai sono riveriti, apprezzati, e stimati, quando si scompagnano dal mondo, e vivono separati dai

15 Claude Lorrain, lettera a J.F. von Wald-

secolari»).

103 N. Poussin, lettera a Chantelou, da Parigi, 7 aprile 1642, in Lettres cit., pp. 71-72.

stein, da Roma, 25 agosto 1668, in J.J. Morper, Johan Friedrich Graf von Waldstein und Claude Lorrain, «Minchner Jahrbuch», 1961,

p. 210.

Historiae Philippicae (vedi M. Roethlisberger, Claude Lorrain - The Drawings cit., nr. 1057),

ma per l’inserimento nella iconologia genera-

108 Baldinucci.cit:25;px92;

107 Vedi qui, n.170.

le, più di questo testo, dove pur si parla di

108 Platone, Fedro: 230b-d, 238c-d, 245a-c. 109 Plutarco-Amyot, Antonius, 6, in Les vies

cit. 110 Plutarco-Amyot,

Les vertueux faits. des

femmes - Des dames troiennes, in Les oeuvres mora-

les, Lyon 1605. !!! J. Amyot, Jugement sur «Les vies» de Plutarque,

124 Claude, Delfi, LV 182: per l’iconografia Claude dichiara la dipendenza da Giustino,

in Plutarco-Amyot,

Les

vies cit., p.

«maiestas dei» (24, 6), vedi Plutarco-Amyot, Des oracles qui ont cessé, et pourquoy, € Pourquoy la

prophetisse Pythie ne rend plus les oracles en vers, in Les oeuvres morales cit. 125 Claude, Il giudizio di Paride e Marina con navi in riparazione e monumenti, Bowhill. 126 Ovidio, Eroidi, 16, vv. 53-88. 12? Plutarco-Amyot, De l’amour, 14, in Les

LETTURE

DI POUSSIN

221

E CLAUDE

oeuvres morales cit. (di «fureur», «il y en a une

138 Claude, L'arrivo di Cleopatra in Cilicia,

autre espece qui ne s’engendre pas sans quel-

LV 63: Plutarco-Amyot, Antonius, 6, in Les vies

que divinité, ni ne se concree pas en l’ame ou dedans nous, ains est une inspiration estrange-

cit. 13° Claude, Giove e Callisto, LV 76: Ovidio-

re, qui vient de dehors, un dévoyement de la raison, du sens et de l’entendement naturel,

prenant vement passion comme

son origine et le principe de son moude quelque puissance divine, laquelle en general s’appelle enthusiasme, diroit inspiration divine»).

128 Plutarco-Amyot, Des oracles cit., 33, e De l'amour cit., 23. 12° Claude, L’adorazione del vitello d’oro, LV

129 e 148: Esodo, 32, 8-9 (Iddio dice a Mosè: «Recesserunt cito de via quam ostendisti eis,

feceruntque sibi vitulum» e «cerno quod populus iste durae cervicis sit»). 130 Claude, Diana ed Atteone, LV 57: OvidioAnguillara, 3, 45 ss. 131 Claude, Apollo e la Sibilla Cumana da giovane, LV 99 e 164: Ovidio-Anguillara, 14,

Anguillara, 2, 143 (Giove «si fa talor rapace ed empio» e «con lor grave scempio / suole ingannar le semplici donzelle»). 14° Claude, Cefalo e Procri riconciliati da una

ninfa (e non già «da Diana», come si dice), LV 91 e 163 nonché

Berlino, e Roma,

Doria

Pamphilj: Ovidio-Anguillara, 7, 297 («il confessato errore, il prego, e ’l pianto / col mezzo

de le ninfe e de gli amici / con l’indurata mia moglie fer tanto, / che scacciò dal suo cor le voglie ultrici»). Claude, La morte di Procri, LV 100: Ovidio-Anguillara, 7, 325-331 (Procri «quivi era venuta ascosamente, / ché con

l’Aura volea cormi in errore»). Claude, Aci, Galatea, e il Ciclope, LV 141: OvidioAnguillara, 13, 292-294 (il Ciclope innamorato di Galatea: «ma tu con Aci tuo forse ti stai

45-55 («tal che di Febo il priego e la favella /

/ né del mio amor ti cal, né de’ miei guai»,

sprezzai, né a l’amor suo volli dar loco, / ché

«vo” trargli il cor, vo’ mille pezzi farne, / e a questi campi e al mar dar la sua carne»). Claude, Giunone affida Io ad Argo, LV 149: OvidioAnguillara, 1, 168 (Giunone ha ottenuto da

l’età dove allora io mi trovai / credea che non dovesse finir mai»). 132 Claude, Psiche tenta di uccidersi, LV 167: Apuleio, L’asino d’oro, 5, 24-25 («simplicissi-

ma Psyche»). 133 Claude, Mercurio e Batto, LV 131 e 159: Ovidio-Anguillara, 2, 255-257 («rise Mercurio e disse: Ahi mancatore / di fé, questo è il silenzio ch’hai promesso?»). 134 Claude, Mercurio ed Aglauro, LV 70 dove

è il rimando alle annotazioni di G. Orologi ad Ovidio-Anguillara, 2: in esse si legge che Aglauro «come avara chiede a Mercurio [...] gran somma di denari per lasciarlo godere dell’amore della sorella» (ed. cit., p. 65).

Giove la giovenca nella quale Io: «né però tolto quel timor l’imprime nel cor cura sì grave, sia nel cor ritiene / che novi

è stata mutata le viene / che / anzi tal geloinganni e novi

furti pave, / onde diè il don che sì l’accora e ’nfesta / in guardia ad un, che avea cento occhi

in testa»). 141 Claude, Eco e Narciso, LV 77: OvidioAnguillara, 3, 136-199 (138: «ahi strano amore, ahi troppo caldo affetto»; 157: «e cresce

ogn’or più l’amoroso foco / che l’arde e la consuma a poco a poco»; 172: «non vedi [...]

che folle desio ti strugge e sface?»; 193: «già

135 Claude, Il supplizio di Marsia, LV 45 e 95: Ovidio-Anguillara, 6, 233 (come premessa alla narrazione: «sì che scaldiamci al pio culto divino / con santo, e non colpevole, coraggio:

viso, e ’l suo splendor vien manco»).

/ e non seguiam l’essempio contadino»). Claude, Il pastore apulo mutato in olivastro, LV

142 Claude, Il ratto d'Europa, LV 111, 136, 144: Ovidio-Anguillara, 2, 313-314 (Giove,

142: Ovidio-Anguillara, 14, 215-221 (un «rozzo empio pastore» dice «oltraggio» ed «infamie» a ninfe). 136 Claude, Giona dopo l’avventura della balena, LV 200: Giona, 1, 3 e 1, 10 (Giona ha

tentato invano di fuggire «a facie Domini»). 157 Plutarco-Amyot, Estranges evenemens avenus pour l'amour, in Les oeuvres morales cit.

manca il bel color vermiglio e bianco, / mancan le forze sue, manca il vigore, / il suo bel

«fuor d’ogni degnità, d’ogni decoro, / prese per troppo amor forma d’un toro»). 143 Claude, Didone mostra Cartagine ad Enea

(e non già «Partenza di Didone ed Enea per la caccia», come si dice), LV 186: l’iscrizione «li-

bro 4. de virgilio f. 108 [?]» sul foglio del Liber veritatis rimanda alla traduzione di A. Caro edita a Roma da G.A. Ruffinelli e più volte

222

BELLEZZA

E PENSIERO

The Drawings cit., nr. 1046, ha sostanzialmen-

zione del significato secondo l’iconologia generale dell’artista, mi sembra che valgano par-

te risolto la questione, ma rimandando solo ad una ristampa del 1623): lì i versi da «Arde

ticolarmente i vv. 19, 23 ss. del poema, sulla consolazione bacchica della vedova Methe,

ristampata

(Roethlisberger,

Claude Lorrain-

Dido infelice» a «del suo nuovo reame», si trovano a p. 118. Marcel Roethlisberger indica rettamente che alla stessa edizione rinviano

LV 180 (Enea a caccia) e LV 185 (L'arrivo di Enea a Pallanteo): vedi, qui, nn. 173 e 170. 14 Ovidio-Anguillara,

2, 313

(sul ratto

d’Europa). 145 Plutarco-Amyot, Consolation envoyee a sa

giacché Plutarco unisce nell’»intemperance de l’ame» la donna che si abbandona alle «festes bacchanales», come questa Methe, e quella che, all’opposto, si abbandona ad eccessi di dolore, come Egeria nel suo pendant (vedi, qui,

nn. 145 e 148). 150 Plutarco-Amyot,

Consolation

envoyee

la dame sage et honneste demeure inviolee

Apollonius, 3, in Les oeuvres morales cit. 151 Plutarco-Amyot, De l’amour cit., 14 (dell’entusiasmo, «la troisieme espece est celle qui

non seulement es festes bacchanales, mais aus-

procede des Muses, laquelle saisissant une ame

femme, 2, in Les oeuvres morales cit. («il faut que

si penser qu’il faut que la tourmente et emo-

delicate, non pollue ne contaminee de vices,

tion de la passion en deuil a besoin de continence pour resister et combattre, non pas contre l'amour et charité naturelle des meres aux enfans, comme quelques unes pensent, mais contre l’intemperance de l’ame»). 146 Claude, Climene e le Eliadi, Colonia:

excite en elle l’inspiration poétique et musicale»).

Ovidio-Anguillara, 2, 102-109 (Climene, per la morte del figlio Fetonte è «da soverchio dolor trafitta e punta»: «ogni sorella di Fetonte, e figlia / del Sol, non men di Climene si duole»). 147 Claude, Paride ed Enone,

LV

117: M.

Roethlisberger (Claude Lorrain - The Drawings cit., nr. 660) collega a questo dipinto un disegno del British Museum, ne pubblica l’iscrizione sul retro («On trouve au bord d’une rivière [...] s'est rendu maintenant infidele»), e di questa individua l’origine nel IV libro del

152 Claude, Abramo scaccia Agar, LV 173: Genesi, 21, 12-14 (ad Abramo «dixit Deus»:

«surrexit itaque Abraham mane [...], et dimisit eam»). Claude, L’unzione di David, LV 69: Re, 1, 16, 12 (a Samuele «ait Dominus: Surge, unge cum, ipse est autem»). Claude, Tobiolo e il pesce, LV 50, 65, 160: Tobia, 6, 4 («dixit ei

Angelus: Apprehende branchiam eius, et trahe eum ad te»). Claude, La fuga in Egitto, LV 38, 60, 66, 88, 104, 110, 154, 158, 187, etc.: Matteo, 2, 13 («ecce angelus Domini apparuit in

somnis Joseph dicens: Surge» etc.). Claude, La chiamata di Pietro ed Andrea, LV 165: Matteo, 4,

18-19 (Gesù «ait illis: Venite post me» etc.); vedi anche Marco, 1, 16-17. Claude, San Fi-

lippo battezza l’eunuco, LV 191: Atti degli Apo-

Ravissement d’Hélène composto da M. du Souhait e premesso alla traduzione francese dell’Iliade, Paris 1634. L’intera «plainte d’Oeno-

stoli, 8, 26-39 («Angelus autem Domini locutus est ad Philippum dicens» etc.; «dixit autem

ne» (come la dice la rubrica iniziale, a p. 117)

di San Pietro, LV 51: Atti degli Apostoli, 12, 7

è più che prolissa. 148 Claude, Il pianto d’Egeria per la morte di Numa, LV 175: Ovidio-Anguillara, 15, 140-154 («la moglie Egeria, oscura il volto e ’l

(l'angelo «excitavit eum dicens: Surge velociter»). In questo contesto scelgo i temi che seguono per LV 169 e 189, altrimenti di iconografia ambigua (vedi M. Roethlisberger, Claude Lorrain - The Paintings cit., pp. 399, 444).

manto, / fu per venir per la gran doglia insana»..., «cercar le ninfe pie di torle il lutto / per varii essempi e vie, ma senza frutto»... «ma del gran sposo suo la ninfa priva, / torsi non può

dal solito lamento»). 14° Claude, L’arrivo di Dioniso al palazzo del

Spiritus Philippo» etc.). Claude, La liberazione

Claude, Giacobbe rivela a Rachele e Lia la sua intenzione di tornare in patria, LV 169: Genesi,

31, 3-16 («maxime dicente sibi Domino: Revertere in terram patrum tuorum [...]. Misit, et

brillantemente individuata da M. Roethlisberger (vedi, qui, n. 16), con rimando a Nonno,

vocavit greges, ad me Adsum.

Dionysiaca, 18, v. 327 ss.; ma per l’interpreta-

miglia di Giacobbe verso l’Egitto, LV 189: Genesi,

defunto Stafilo, LV 178: l’iconografia è stata

Rachel et Liam in agrum, ubi pascebat dixitque eis: [...] Dixitque Angelus Dei in somnis: Jacob? Et ego respondi: Qui ait»...). Claude, Il viaggio della fa-

LETTURE

DI POUSSIN

46, 1-3 («profectusque Israel cum omnibus quae habebat [...] audivit eum per visionem noctis vocantem se et dicentem sibi: Jacob, Jacob: cui respondit: Ecce adsum. Ait illi Deus: Ego sum fortissimus Deus patris tui: noli timere, descende in Aegyptum» etc.; questa andata in Egitto avvenne con «pecora et armenta» — Genesi, 46,326 47,1-, presenti in

Claude). 153 Claude, Bacco ed Arianna, LV 139: a ri-

solvere la difficile iconografia di questo dipinto, dove una probabile Arianna guarderebbe un Bacco senza il suo corteo (che ha invece in

E CLAUDE

225

arraisonne»). 157 Claude, Psiche davanti al palazzo dei geni-

tori (e non, come si dice, «davanti al palazzo d’Amore»), LV 162: Apuleio, L’asino d’oro, 4,

35 («Itur ad constitutum scopulum montis ardui, cuius in summo cacumine statutam puel-

lam cuncti deserunt [...]. Et miseri quidem parentes eius tanta clade defessi, clausae domus abstrusi tenebris, perpetuae nocti sese dedide-

re. Psychem autem paventem ac trepidam»...). 158 Claude, Il viaggio verso Emmaus, LV 125,

151: Luca, 24, 32 («et dixerunt ad invicem: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum

Ovidio, Ars amandi, 1, v. 525 ss.), ha contri-

loqueretur in via [...]?»).

buito M. Kitson (op. cit., nr. 139), che ha indi-

15° Vedi la n. 155, per Giacobbe e l’angelo. 160 Claude, Chiamata di Pietro ed Andrea, LV 165: Matteo, 4, 20 («at illi continuo relictis

rizzato

verso

Ovidio,

Metamorfosi,

8, vv.

176-177, anche se questo passo, per la sua bre-

vità («desertae et multa querenti / amplexus et opem Liber tulit»), può far sospettare implicita la presenza del corteo. Però, del corteo non parla neanche l’ampliata traduzione di G.A. Anguillara dalle Metamorfosi (8, 142-144), ove sono aggiunti alcuni pensieri che si inseriscono bene nella iconologia generale (8, 144: «È ver che da principio, come quella / che la fede de l’uom provata avea, / si mostrò ver Lieo cruda e rubella, / e poco del suo amor conto tenea; / ma Bacco, che disposto era d’avella, /

retibus secuti sunt eum»). 161 Claude, L’unzione di David, La fuga in Egitto, La liberazione di san Pietro: vedi i testi citati

alla n. 152, che portano il comando «Surge». 162 roveto verso 155, 163 lena,

Claude: Giacobbe, Rachele, Lia; Mosè e il ardente; Viaggio della famiglia di Giacobbe l'Egitto: vedi i testi citati alle nn. 152 e per «Adsum», «Ecce adsum». Claude, L’apparizione di Gesù alla MaddaLV 194: Giovanni, 20, 14-17.

164 Plutarco-Amyot, De l’amour cit., 14.

chiamò la bella ed amorosa dea / a le sue noz-

165 Claude, Il matrimonio di Rebecca, LV 113:

ze, e a lei la cura diede / di dispor la donzella a

Genesi, 24, 50-54 («a Domino egressus est ser-

nova fede»).

mo» etc.). 166 Plutarco-Amyot: Des oracles qui ont cessé cit., 28 e 33; Pourquoy la prophetisse Pythie cit.,

154 Claude, L’angelo mostra la fonte ad Agar, LV 106, 133, 140, 174: Genesi, 21, 19 («ape-

ruitque oculos eius Deus: quae videns puteum

19 ss. 167 Claude, Enea a Delo, LV 179: Ovidio-

aquae» etc.). Claude, Imbarco di san Paolo, LV 132: Atti degli Apostoli, 27, 10 (Paolo dice in Boniporto ai compagni di navigazione: «Viri,

Anguillara, 13, 218-219 (re Anio, ad «Enea con ogni suo più principale», «mostrò lor la

video quoniam cum iniuria et multo damno [...] incipit esse navigatio»).

città famosa ed alma / e i tempi tanto chiari illustri e belli»).

155 Claude, Giacobbe e l'angelo, LV 181: Ge-

168 Claude, Lo sbarco di Enea a Cuma, LV 122: per il tempio in alto sulla costa, proprio questo è il tema, con rimando all’Eneide tra-

nesi, 32, 30 («vocavitque Jacob nomen

loci

illius Phanuel, dicens: Vidi Deum facie ad faciem, et salva facta est anima mea»). Claude, Mosè e il roveto ardente, LV 161: Esodo, 3, 2 ss. 156 Claude, L’imbarco della Regina di Saba, LV 114: Re, 3, 10, 1 («et regina Saba, audita

fama Salomonis in nomine Domini, venit tentare eum in aenigmatibus») da confrontare con Plutarco-Amyot, Pourquoy la prophetisse Pythie cit., 23 («il faut entendre que, comme dit Sophocles, ‘Dieu quelque oracle aux sages tousiours donne, / mais peu ou mal les fols il

dotta da A. Caro, la quale rende esplicita questa immagine rispetto al virgiliano «arces quibus altus Apollo praesidet» (6, vv. 9-10): «Intanto Enea verso la rocca ascese, / ove in alto sorgea di Febo il tempio, / e là dov'era la spelonca immane / de l’orrenda Sibilla, a cui

fu dato / dal gran delio profeta animo e mente / d’aprir l’occulte e le future cose» (6, vv.

10217).

169 Claude, L’oracolo d’Apollo a Mileto (dalla

224

BELLEZZA

favola di Psiche), LV 157: ricorda che un simile titolo, che esalta l’oracolo sulla favola (Apuleio, L’asino d’oro, 4, 32), è scritto su un dise-

gno correlato del British Museum (M. Roethlisberger, Claude Lorrain - The Paintings cit., pròzi): 170 Claude, L’arrivo di Enea a Pallanteo, LV

185. Il disegno del Liber veritatis porta la scritta «libro 8° de virgilio fol. 235»: il Virgilio di Claude può essere stato per questo disegno 185 lo stesso cui egli ha rimandato per il disegno 180 e cui rimanderà per il disegno 186 — senza mai eventualmente distinguere fra due diversi volumi -: cioè può essere stato un’Eneide nella traduzione di A. Caro, edita a

Roma da G.A. Ruffinelli (vedi, qui, n. 143). In tal caso, poiché la p. 235 vi porta versi non già dell’ottavo, ma del settimo libro, quella scritta

E PENSIERO

ne sul disegno del Liber veritatis, «libro di Virgilio / folio 10» rimanda all’Eneide tradotta da A. Caro (1, vv. 263-315) ed edita a Roma da G.A. Ruffinelli (vedi, qui, n. 143). Essa a p. 10 porta la caccia di Enea, mentre la descrizione della baia «albergo veramente / di Ninfe» vi

trova luogo a p. 9. 174 Claude, Enea e la Sibilla Cumana,

LV

183: Virgilio-Caro, 6, vv. 378-384. 175 Claude, Apollo mandriano di Admeto, LV 92;

«128;

1350152,

470001724

Anguillara, 2, 251 («or mentre

Ovidio

Febo i suoi

soavi accenti / gusta, e ’l suo dolce son l’alletta e invita, / ha sì gli spirti al suo cantare intenti / che gli è la guardia sua di mente uscita»). Ue Vediquitno 127, 177 Claude, Giacobbe, Labano e le figlie, LV 134, 147, 188: Genesi, 29, 16-19 («Rachel de-

sommerebbe due elementi diversi: il libro ottavo [v. 169 ss.] per la vicenda illustrata, di una specificità desiderata dal committente (vedi M. Roethlisberger, Claude Lorrain - The Dra-

cora facie et venusto aspectu. Quam diligens Jacob»...). Per questo si può ricordare ancora

wings cit., nr. 1077), e la p. 235 [7, vv. 198-

decoraque facie, et ait Dominus: eum, ipse est autem»).

231] per il significato di sacralità del Lazio. 17! Claude, Parnaso, LV 126, 193. 172 Claude, Il tempio di Crise, LV 80: l’iscri-

L’unzione di David, LV 69, e Re, 1, 16, 12 (David «erat autem rufus, et pulcher aspectu, Surge, unge

178 Claude, San Giovanni Battista nella solitudine, LV 97: Luca, 1, 80 («puer autem crescebat

zione sul disegno del Liber veritatis rimanda al primo libro dell’Iliade (nella traduzione fran-

et confortabatur spiritu et erat in desertis»).

cese usata da Claude — vedi, qui, n. 147 -,

130.

p. 169).

173 Claude, Enea a caccia, LV 180: l’iscrizio-

17° Claude, Disegnatore in riva al mare, LV 180 Plutarco-Amyot, Que signifioit ce mot Pi, 13-14, in Les oeuvres morales cit.

I Le Nain e Pierre Charron

Fate conto che io abbia or ora chiuso le Opere di Pierre Charron', e che

mentalmente ripassi i temi dei Le Nain che questa lettura ha evocato. Arianna, ad esempio: storia che può essere simbolo, fra l’altro, della disperazione voltata in fortuna dall’universale razionalità provvidente in cui credevano gli stoici?. Lo stoicismo, nei primi anni del Seicento, al tempo del suo De la sagesse, Charron lo pagò dapprima con la pena d’ascoltar sussurrati inviti alla cautela*: poiché intendeva la stoica rispondenza alla sua natura di uomo‘, come

libertà e franchezza cioè sguardo maschio ed ardito su quella verità di cui pochi sono in grado di sostener lo splendore: il volgo infatti è più inclinato verso la debolezza feminea e gli artifici, e, come «indigne d’entendre chose qui vaille»?, si offende della libertà di parola; Veritas odium parit*: e infatti Charron fu censurato, rielaborò, ma ancora arditamente, il suo libro, gli si spaccò il

cuore per strada’. Quella Verità si alza nella nostra immaginazione come nel quadro del Louvre: con alcuni caratteri già presenti nel Ripa essa è bella e nuda, ha in mano un ramo di palma, il quale «significa la fortezza e la vittoria» (il Ripa ricorda che è stato scritto da autori antichi «la Verità esser più forte d’ogni altra cosa»): serena guerriera, ha vinto l’Inganno, che nell’immaginazione francese è femmina,

Tromperie, a cui, sempre per il Ripa, «dal mezzo in giù

finiranno le gambe in due code di serpente». Charron premette che lui fa uso della libertà di parola, accademica e filosofica, per insegnar a vivere non nel chiostro, ma nel mondo'°. Un libertino dunque, che, nel separato campo della religione, è però cristiano e anzi agostinista: ammette la gratuità della Grazia, della elezione per cui Dio vuole amare

gli uni e non gli altri!!; i Le Nain illustrano questa credenza con la sosta ad Emmaus, ove Cristo volle illuminare l’opacità della fede di due discepoli. Luce della Grazia, dono della fede, che per Charron e i Le Nain sembra saldarsi con

la naturalezza stoica nel tema dell’ Adorazione dei pastori: «gens simples, petits [...] de profession naturelle, souples à croire. Quo enim vilior persona ad prudentiam, eo pretiosior ad fidem»"?.

226

BELLEZZA E PENSIERO

Da filosofo però Charron (e così anche i Le Nain quando dipingono quadri da chiesa?) pensava liberamente che la religione è necessaria a stabilire e conservare la società anche dal punto di vista economico e politico: credeva infatti che il timor di Dio valesse più delle leggi!?. Sempre più seguendo questa traccia troveremo in Charron commenti ogni volta calzanti per le opere dei Le Nain, anche con temi del «mondo». Se Venere in un quadro sosta quasi nuda, con Amore, nella fucina di Vulcano, «laeta dolis et formae conscia coniunx» (Eneide, 8, v. 393), Charron ci

spiega che nel matrimonio uno degli eccessi possibili, brutti e viziosi, è assoggettarsi alla moglie come a padrona". Per i poveri — lavoratori e sereni, con molti bambini, nei Le Nain —, queste

sono le idee di Charron: l’ineguaglianza è inevitabile anche perché la povertà è legata al gran numero dei figli!*, ma per la quiete sociale è opportuno che questa povertà non sia estrema!°: «car tandis qu’ils auront du pain, qu’ils pourront exercer leur métier et en vivre, ils ne se remuéront point»! Se poi vivono in campagna — e molte son le scene rustiche'*, nell’intonazione castagna dei Le Nain -, la loro vita è, rispetto a quella di città, «bien plus nette,

innocente et simple» '!°: icampagnoli dei Le Nain non patiscono la fame, hanno pane e zuppa, semplici; limpido e rosso si vede nei bicchieri qualche poco di

vino. La gola e l’ubriachezza, dice lo stoico Charron, sono vizi vili e grossolani, mentre l’uso naturale e moderato dei cibi e del vino sostiene il corpo a far da strumento dello spirito?0. fig. 57

Nei quadri, tanti bambini e adolescenti, poveri o benestanti, stanno vicini ai grandi: e tornano le pagine, umane, serene, che riprovano il costume allora quasi universale di frustare, sgridare, ingiuriare i fanciulli, di tenerli in timore e

soggezione; perché questo non solo li fa rozzi e testardi, ma gli toglie il coraggio, rendendoli servili, bassi e schiavi: la costrizione è nemica dell’onore e della vera libertà! L'educazione li conduca invece con sé sulla via di una saggezza che, essendo libera, è poi nobile e lieta?!. E, secondo questo stoicismo umanissimo, lo Charron e i Le Nain si son

soffermati a pensare con struggimento a quelle deviazioni dal corso della natura, che le cattive compagnie hanno portato a un’anima nata bella come testimonia la conforme bellezza del volto”: per i nostri pittori, i bambini che

giuocano a carte diverranno troppo presto come l’adolescente povero, dalla testa angelica ma sbigottito con le carte in mano mentre intorno gli sta scoppiando una rissa armata; e come i loro compagni più anziani diverranno il giovane còlto dal sonno dell’innocenza e l’altro bello e drammatico, nel simbolico fumo, vano fumo, della Tabagie.

Quel consenso alla voce della natura, compimento dell’uomo come uomo,

rettitudine che in più sdegna i meschini, gli abili e gli invidiosi®, non si

I LE NAIN E PIERRE CHARRON

21

confina nell’iconologia di Vérité vainquant Tromperie dei Le Nain, ma si spec-

chia nella semplicità della loro arte senza artificiose seduzioni?*: semplicità che

si qualifica come spirituale, per gli aggettivi qualificativi che ricordiamo dalle corrispondenti pagine di Charron, e che dunque è ben diversa da quella che ai Le Nain attribuì nel 1860 il riscopritore Champfleury come aspetto di una, più moderna, «puissance de la réalité»?5.

Le fermier bienfaisant, e iborghesi che hanno portato le figliolette a far visita ai contadini, hanno una saggezza modeste, retenue, douce et paisible?©.

Le bambine giudiziose a braccia conserte, i vecchi e i fanciulli che fanno musica, chi sorseggia un po’ di limpido vino, o quegli eroi poveri che sono il fabbro nel bagliore e il padre e il figlio contadini fuori casa (il ragazzo, con fra le mani il galletto buono), sono doux, paisibles, assurés?”. E poi il padre che sorride al centro della sua Famille heureuse, è délivré, gai, assuré®. I nonni pazienti, i bambini che tranquilli ascoltan musica, o giuocano, fanno carole, e spesso sorridono, ci dicono di un’educazione spirituelle e libérale??; noble, douce e riante; perfino, enjouée®.

E spirituale è la ragione per cui la bellezza la si preferisce mouvante, cioè quando è piuttosto bonne grace, di brillio d’occhi, vivezza di colorito*!. ... e non so più dove stia il realismo, quando la presenza dell’asino, o del

cane e del gatto, o di quel gallo fra le mani del fanciullo, significa riconoscimento libertino che questi modesti compagni hanno un’anima”; e, più della nostra, naturalmente virtuosa e innocente, quindi esemplare®.

Quei paesaggi con un’aria estesissima di orizzonti bassi, percorsa da nuvole fuggenti nel vento, devono infine significare, in questo spirito, «ce feu céleste qui est en nous ne veut point étre enfermé, il aime l’air, les champs, dont Columelle dit que la vie champétre est parente de la sagesse, consanguinea, laquelle ne peut étre sans les belles et libres pensées et méditations»®*. 1989

ze Pubblicato su «Artibus et historiae», 20, 1989.

NOTE

Il lettore mi scuserà se per il testo ho ammodernato nella grafia il francese di Charron:

citandone parole singole e talvolta adattate al senso del mio discorso, la grafia antica sarebbe stata, forse, artificiosa.

! P. Charron, Oeuvres, Paris 1635, reprint

Genève (Slatkine) 1970 (il De la sagesse vi è riprodotto dalla seconda edizione, Paris 1604: se sarà necessario riferirsi alla prima, Bordeaux 1601, rimanderò al reprint Genève (Slatkine) 1968, della edizione Paris 1824, a cura di

Amaury Duval, la quale in nota riproduce i passi della prima che nella seconda furono al-

terati o soppressi). 2 P. Charron, Discours chrestiens, in Oeuvres

cit., 2, p. 63.

3 P. Charron, De la sagesse (1601) cit., 1, p. XXXIV (Préface): «j’ay icy usé d’une grande liberté et franchise à dire mes advis, et à heurter les opinions contraires, bien que toutes vulgaires et communement receuks, et trop gran-

des, ce m’ont dit aucuns de mes amys». 4 P. Charron, De la sagesse (1604), in Oeuvres cit., 1, p. non numerata (Préface): un punto capitale per la saggezza è «suivre nature (cettuy-cy a tres grande estendue, et presque seul suffiroit)»; ivi, 1, 2, p. 40: «voicy donc la vraye prud’hommie (fondement et pivot de sagesse) suivre nature, c'est à dire, la raison». ° Ivi, 1,2, pp. 32-33: «or la vraye prud’hommie, que ie requiers en celuy qui veut estre sage, est libre et franche, masle et genereuse, riante et ioyeuse, égale, uniforme, et constante, qui marche d’un pas ferme, fier, et hautain» etc.

é P. Charron, De la sagesse (1601) cit., 1, p. 256: «c’est la foiblesse de l'homme

qui ne

peust recevoir et porter une telle splendeur»: «Veritas odium parit».

? P. Charron, De la sagesse (1604), in Oeuvres cit., 1, pp. non numerate (Préface): «aucuns trouvent ce livre trop hardy et trop libre à heurter les opinions communes, et s’en offensent. Ie leur respons [...] que la sagesse [...] n’est commune ny populaire [...]. D’ailleurs ie me plains d’eux, et leur reproche ceste foiblesse populaire, et delicatesse feminine, comme

indigne et trop tendre pour entendre chose qui vaille, et du tout incapable de sagesse». 8 Vedi n. 6. Ma vedi anche P. Charron, De la sagesse (1604), in Oeuvres cit., 1, p. non nume-

rata (Préface): «mais pourquoy se courroucentils? [...] de ce que ie dy des choses qui ne sont pas de leur goust ny de commun? et c’est pourquoy ie les dis». ? Vedi in proposito J.B. Sabrié, Pierre Charron (1541-1603) - L’homme, l’oeuvre, l’influence, Paris 1913.

!° P. Charron, De la sagesse (1601) cit., 1, pp.

XXXIV-XXXV:

«je ne formois icy ou in-

struisois un homme pour le cloistre, mais pour le monde, la vie commune et civile; ny ne

faisois icy le theologien, ny le cathedrant, ou dogmatisant, ne m’assubjettissant scrupuleusement à leurs formes, regles, style, ains usois

de la liberté academique et philosophique». 1! P. Charron, Discours chrestiens, in Oeuvres cit., 2, p. 107: «la predestination est toute pu-

rement de grace [...]|. Au reste bien que les hommes soient d’eux mesmes et de leur estre tous pareils, mais il y a tres grande disparité, laquelle vient de Dieu, qui veut aymer les uns

I LE NAIN

E PIERRE

et non les autres, et par cet amour y apporte

une tres grande difference cause de l’eslec-

CHARRON

209

ciullo, «se porter envers luy, et proceder de fagon non austere, rude et severe, mais douce,

tion».

riante, enjoiice. Parquoi nous condamnons icy

12/vi,)2,.|p.1263., 15 P. Charron, Les trois veritez, in Oeuvres cit., 2, p. 9: «il n’est ia besoin de discourir

tout à plat la coutume presq’universelle de battre, folietter, injurier, et crier apres les enfans, et les tenir en grande crainte et sujection, com-

combien la religion sert, voire est necessaire à

me il se fait aux Colleges: car elle est [...] preiudiciable et tout contraire au dessein que

l’establissement, conservation et entretien de

la vie commune des hommes, quelle qu'elle soit, oeconomique

ou politique»; «sil n°y a

dedans l’ame une craincte, qui vienne de plus haut, et qui contienne les personnes en devoir,

lon a, qui est de les rendre amoureux et poursuivans de la vertu, sagesse, science, honneste-

té. Or cette fagon imperieuse et rude leur en

il n’y a loix, reglemens, ne rigueur de puni-

fait venir la haine, l’horreur et le despit; puis les effarouche et les enteste, leur abat et oste le

tion, qui ait credit et force long temps».

courage, tellement que leur esprit n’est plus

14 P. Charron, De la sagesse (1604), in Oeuvres cit., 1, 3, p. 92: quanto alla moglie, nel

que servile, bas et esclave, aussi sont ils traictez en esclaves». Ivi, 1,3, pp. 100-101: «il y a ie ne

rapporto coniugale «les deux extremitez sont

sgay quoy de servile et de vilain en la rigueur et contrainte ennemie de l’honneur et vraye li-

laides et vicieuses, les tenir sujettes comme

servantes, et s’assujetir à elles comme maistresses».

berté».

!5 Ivi, 1,1, p. 199: «plusieurs Legislateurs et policeurs d’estats, ont voulu chasser ces deux

cit., 2, pp. 174-175: «la beauté du corps, spe-

extremitez, et ceste grande inegalité de biens et de fortunes, et y apporter une mediocrité et égalité, qu’ils ont appellé mere nourrice de paix et d’amitié, et encor d’autres y ont voulu

22 P. Charron, Discours chrestiens, in Oeuvres

cialement du visage, doit selon raison demonstrer et tesmoigner une beauté de l’ame [...] car il n’est rien plus vray-semblable que la conformité et relation du corps è l’esprit; quand elle

mettre la communauté, ce qui ne peut estre

n’y est, il faut penser qu'il y a quelque accident qui a interrompu le cours ordinaire, comme il

que par imagination. Mais outre qu’il est du tout impossible d’y apporter égalité à cause du

advient, et nous le voyons souvent; car le laict de la nourrisse, l’instruction premiere, les

nombre des enfans qui croistra en une famille et non en l’autre»... 16 Ivi, 1, 1, p. 199: «l’extreme pauvreté des

compagnies apportent de grands changemens

autres les meine

en enuie, jalousie extreme,

au naturel originel de l’ame, soit en bien, soit en mal».

23 P. Charron, De la sagesse (1604), in Oeuvres

despit, desespoir, et à tenter fortune»; ivi, 1, 1, p. 200: «il faut de l’inegalité, mais moderee; l’harmonie n'est pas és sons tous pareils, mais

cit., 1, 2, p. 36: «La doctrine de tous les Sages porte que bien vivre, c’est vivre selon nature, que le souverain bien en ce monde, c'est con-

differens et bien accordans [...|. Toutes lesquelles choses doivent estre reglees et mode-

sentir à nature»; ivi, 1, p. non numerata (Préfa-

rees, pour sortir des bouts et extremitez exces-

ce et perfection de l'homme comme

sives, et approcher aucunement de quelque

c'est à dire, selon que porte et requiert la loy

mediocrité et egalité raisonnable».

premiere fondamentale et naturelle de l’homme»; vedi anche, qui, le nn. 4 e 5. 24 Ivi, 1,2, p. 39: «la ceremonie nous defend d’exprimer les choses naturelles et licites, et

17 Ivi, 1,1, p. 199.

18 Per le condizioni sociali che, al tempo dei Le Nain, poterono produrre rispetto e beni-

ce): «ceste sagesse humaine [...] c'est l’excellenhomme,

gnità verso i contadini, vedi l’importante sag-

nous l’en croyons: la nature et la raison nous

gio di N. MacGregor, The Le Nain Brothers and

defend les illicites et personne ne l’en croit

Changes in French Rural Life, «Art History»,

[...]: tout cela est monstrueux».

1979, p. 401 ss.

19 P. Charron, De la sagesse (1604), in Oeupres cit., 1,1, p..189.

20 Ivi, 1, 3, pp. 165-166. 21 Ivi, 1, 3, p. 100: nell’educazione del fan-

25 Champfleury, Nouvelles recherches sur la vie et l’oeuvre des frères Le Nain, «Gazette des Beaux-Arts», 8, 1860, p. 331. Il realismo

attribuito da Champfleury ai Le Nain fu interpretato storicamente da S. Meltzoff in un sag-

230

BELLEZZA

gio (The Revival of the Le Nain, «The Art Bulletin», 1942, p. 259 ss.) che, lucido e colto, fu immediatamente eclissato dall’istintività

del nuovo realismo di quegli anni Quaranta.

E PENSIERO

proprement considerable au visage»; ivi, 1, 1, p. 18: «la beauté du visage gist en un front large et quarré, tendu, clair et serain, sourcils bien ran-

gez, menus et deliez, l’oeil bien fendu, gay et brillant: ie laisse la couleur en dispute [...], le

26 P. Charron, De la sagesse (1604), in OeuUiessciERREnt9; “por105: «la science est fiere, presomptueuse, arrogante, opiniastre, indiscrette, querelleuse, scientia instat; la sagesse modeste reteniie, douce et paisible». 27 Ivi, 1,3, p. 145: la povertà che ha però il necessario «est bien plus iuste, plus riche, plus douce, paisible et asseuree, que l’abondance

sont pas privées, ains qu’elles les ont, est la plus authentique et plus vraye»; ivi, 1, 1, p. 99: «elles sont inferieures en cela à l'homme, et non pas

que lon desire tant».

qu’elles n’y ayent du tout point de part».

28 Ibidem: la povertà che ha però il necessa-

rio «est delivre, gaye, asseuree, nous rend vrayment maistres de nos vies, dont les affaires, les querelles, les procez, qui accompagnent necessairement les richesses emportent la meilleure partie». 29 Ivi, 1, 3, p. 101: «il faut contenir la ieunesse en discipline non corporelle des bestes, ou des forcats, mais spirituelle, humaine, liberale, de la raison». 3° Ivi, 1, 3, p. 100: nell’educazione del fan-

ciullo, comportarsi «gayment et noblement»; «se porter envers luy, et proceder de fagon non austere, rude et severe, mais douce, riante, enJotiee». 31 Ivi, 1, 1, p. 17: «il y a deux sortes de beauté, l’une arrestée qui ne se remie point, et

est en la proportion et couleur deuk des mem-

bres [...]: l’autre mouvante qui s’appelle bonne grace, qui est en la conduitte des mouvemens des membres, sur tout des yeux»; «la beauté est

tout avec un teint vif, blanc et vermeil». 32 Ivi, 1,1, p. 97: «c’est une question grande, si les bestes sont privées de toutes ces facultez

spirituelles: l’opinion qui tient qu’elles n’en

33 Ivi, 1, 1, p. 96: «les avantages des bestes»: «moderation d’appetits et d’actions, innocence, seureté, repos et tranquillité de vie, une

liberté pleine et entiere sans honte, crainte, ny ceremonie aux choses naturelles et licites (car l'homme est seul, qui a à se desrober et se cacher en ses actions, et duquel les desfauts et

imperfections offensent ses compagnons), exemptions de tant de vices et desreglemens, superstition, ambition, avarice, envie, les son-

ges mesmes de nuict ne les travaillent point

comme l’homme, ny tant de fantaisies et pensements»; ivi, 1, 1, p. 103: «et l'homme est

sage qui les considere, qui s’en fait legon et son profit: en ce faisant il se forme à l’innocence, simplicité, liberté, et douceur naturelle, qui reluit aux bestes, et est toute alterée et corrompuk en nous par nos artificielles inventions et débauches, abusant de ce que nous disons avoir par dessus elles, qui est l’esprit et iugement». alive leda PRL39%

Cecco Bravo: un pittore e gli angeli

Lo stoico imperatore Marco Aurelio ricorda antichi sapienti che «consigliavano di volgere lo sguardo sul far del giorno verso il cielo, affinché la mente avesse vivo il ricordo di cose che perennemente compiono la loro missione, senza mutamento e sempre in un modo; vivo il ricordo, quindi, dell’ordine,

della purezza, e d’una schietta nudità. In effetti non c’è velo di nessun genere per gli astri»'. E lo stoico cristiano Giusto Lipsio scrive nel Nord al 1584 quel che suona così nella traduzione italiana del 1621: «la necessità vien da Dio e da’ suoi decreti, né è altro questa necessità, come definì il greco filosofo, ‘che una

ferma legge e una immutabile potestà della Providenza’», giacché «s’egli è Dio, ci è la Providenza; se questa, ci è la legge e l’ordine delle cose: se questo, la

ferma e certa necessità degli avenimenti»?. Sotto gli astri di questo firmamento provvidenziale, nel 1601 nacque a Firenze un uomo col destino di pittore, Francesco Montelatici, che si chiamò

poi Cecco Bravo. Ebbe poche lettere, e ci tramandò «ho imparato a leggere da me et anco a scrivere»?: eppure in un suo quadro accostò come persone Pittura e Filosofia, e da lui la Filosofia ebbe segni tali, da poter essere creduta un’Astrologia*. Giusto Lipsio nella Physiologia Stoicorum aveva ben scritto che nella fisica «la natura offre ed apre totalmente il suo seno, e qui l’alto, il medio, il profondo, il cielo, le terre, il fuoco, le acque, l’aria, e quanto essi contengono,

Iddio, i genii, gli uomini; e invita a contemplarli e a conoscerli»?. Lo stoicismo cristiano aveva al tempo la sua patria fra Paesi Bassi e Francia: Giusto Lipsio ci aveva scritto, lo leggiamo ancora in quella traduzione italiana del 1621: «io do veramente quella lode a’ Stoici, che niun’altra setta abbi data a Dio maggiormente la sua maestà e la providenza»*, e, nella Manuductio, intro-

ducendo a questa scuola egli ricorda come grandi stoici Demostene, Marco Aurelio, Tertulliano,

e Clemente Alessandrino’, che torneranno nella nostra

interpretazione non solo dei significati ma anche dell’arte di Cecco Bravo — e che furon tutti pubblicati in Francia in anni utili anche per il pittore. Questi poté d’altronde entrare in rapporto con lo stoicismo moderno a

Roma, dove credo sia stato negli anni Venti, giacché in sue opere giovanili ne fioriscon tanti ricordi*: a Roma, in quegli anni, Régnier tratta temi non solo

232

BELLEZZA E PENSIERO

platonici, ma stoici pur anche, come

vanitas, virtus, e stagioni dal perenne

ruotare; e Poussin, lui soprattutto, dà figura a temi stoici come l’esatta attua-

zione della provvidenza nel giro delle stagioni e nel compimento dei de-

stini°. Ma a Firenze, più direttamente e più profondamente, Cecco poté essere

introdotto allo stoicismo francese da quel Baccio Bandinelli che aveva tradotto in toscano La sainte philosophie dello stoico Guillaume du Vair, poiché l’aveva trovata «ripiena di concetti [...] divini»!°: «versatissimo nelle lettere greche, latine, e toscane; [...] e maraviglioso più che dir si possa nelle poesie francesi e spagnuole»!!; aveva per due volte traversato la Francia'?. Ma, più precisamente,

se il significato di tante opere di Cecco si concatena - lo vedremo - secondo stoicismo cristiano, quello di alcune altre, due delle quali unite in un insolito pendant, rimanda in particolare al timor di Dio com'è trattato da Baccio nell’Idea della cristiana sapienza: ove anche si dichiara amicizia con l’ordine dei Serviti, che più d’altri dètte lavoro al pittore!?. Di Cecco, dunque, i documenti ricordano un Daniele!*, e di Daniele il Bandinelli commenta la meravigliosa e difficile visione del proclamante «Impie agent impii, neque intelligent», scrivendo, fra l’altro, che gli uomini non intendono il loro stato per due ragioni: o per non aver timor di Dio, o per essere immersi nelle cure e nelle vanità del

mondo'5. E a queste ragioni Cecco dètte figura in una coppia di quadri, I/ supplizio di Marsia ed Erminia fra ipastori, che significan proprio il timor di Dio e la fuga dal mondo, con riferimento a versi della traduzione dell’Anguillara delle Metamorfosi, e della Gerusalemme liberata'*: al timor di Dio che tutto vede e che conosce le cose celate, dando figura con altre due opere, una Susanna

davanti ai giudici di Babilonia («Deus aeterne, qui absconditorum es cognitor!»'7), e un’altra con Bireno che abbandona Olimpia immersa nel sonno, «da falso amante» com'era, «senza guardar che Dio tutto ode e vede»!8. E all’Erminia si connettono per il significato di scelta della vita semplice, due quadri compagni, di Cecco, con agricoltori e frutti della terra!’, la pera e il cavolfiore,

il cocomero e la rosa, analoghi ai Plaisirs de la vie rustique dello stoico francese Pybrac, dové sono certeaux, capendus, griottes, e choux?°. Ma Baccio morì presto nella vita di Cecco (è già commemorato nel ’37), e vorremmo sapere chi abbia custodito la sua eredità presso il pittore. Forse quei padri Teatini - di un ordine, dunque, totalmente affidato alla Provvidenza -

che nel ’52 gli chiesero l’esecuzione di un grande affresco nella loro chiesa di San Gaetano?!, con un tema d’angeli che più avanti capiremo esser consono ai

suoi pensieri profondi. O forse anche Alessandro Adimari?, che tradusse in toscano versi latini del Bandinelli, e che ha con lui qualche contatto nello stoicismo, nella pratica di francesi, nell'amicizia per i Serviti, e che, traduttore

di Pindaro in toscano, può in analogia aver dato a Cecco spunti per la sua

maniera «estrema espressiva e stravagante»?

Alessandro morì, sembra nelle ristrettezze, nel ’49?. Nella primavera del

°60, prima di lasciare Firenze per Innsbruck, dove era stato chiamato dal conte

CECCO BRAVO: UN PITTORE E GLI ANGELI

2)

del Tirolo, Cecco fece far l’inventario dei quadri che aveva eseguito libera-

mente e che aveva ancora in casa: il loro gran numero, centosessantatré, ci parla

dell’incomprensione dell’ambiente”, forse della povertà dei mèntori, certo della costanza dell’autore. Nella primavera del ’60 andava via, dunque, e fra

tanti quadri accatastati ne lasciava uno dal tema enigmatico, «Mercurio con un

panier di pesche, che burla l’Aria», che noi comprendiamo, con l’ausilio dell’Alciato, significar l’industria umana che, come il pesco, dà frutti migliori lontano dall’aria della patria? Ma la fine dell’anno successivo, ad Innsbruck, Cecco sta morendo, e chiede a un fiorentino che è con lui, di scrivere alcune cose alla

propria sorella??: fra le interpolazioni dello scrivano comprendiamo che egli moriva da stoico, essendosi fermamente rifiutato di forzar con medicine il corso della Provvidenza nella natura: e da stoico cristiano, avendo lasciato da parte bizzarre «chimere», e invece preso i sacramenti: «si è ridotto come un

angiolo. Signora, si consoli perché giudichi, et è così, che Dio l’abbia preso in

quel punto per volerlo in Cielo [...]: ogni cosa a fin di bene». «Ogni cosa a fin di bene»: di fronte a quella prova suprema di remissione alla Provvidenza, pensiamo di nuovo all’ordine universale nelle parole di Marco Aurelio che dicono del quotidiano ritorno del sole, e che possono averci

ricordato da nostre età più estatiche anche rifulgenti estreme stelle. Così, unendosi in Cecco, per la Pittura, una Filosofia simile all’Astrologia,

con la sapienza di Pallade? e con la Poesia (son tutti temi di suoi quadri), idee stoiche di Giusto Lipsio o di Guillaume du Vair s’incarnano con le immagini della Scrittura o d’Ovidio tradotto o del Tasso o d’altri, per dipinti che la

Provvidenza ci ha tramandato, o son dispersi o perduti. «Quis mundum hunc condidit?»: «quella mente proveditrice che ogni giorno voglie e rivoglie questo cielo, conduce e riconduce il sole, manda fuori e nasconde i frutti [...]»: così Giusto? E il Tasso: i mortali dormivano, «Ma vigilando ne l’eterna luce / sedeva al suo governo il Re del mondo». E la Notte si presentava, al pittore estatico, con le seguenti immaginazioni del Tasso, poi

figurate fedelmente in due quadri che ci son pervenuti: Usciva ormai dal molle e fresco grembo de la gran madre sua la notte oscura, aure lievi portando e largo nembo di sua rugiada preziosa e pura; e, scotendo del vel l’umido lembo, ne spargeva i fioretti e la verdura; e i venticelli, dibattendo l’ali, lusingavano il sonno de’ mortali?°.

Oltre l’avvicendarsi delle Ore, l’avvicendarsi, in un maggior ciclo, delle Stagioni: due quadri ne conosciamo”', e per essi nella fantasia si sono avvolti corpi flessi e foltezza di spighe e colate di mosto; e lì, ancora, son sorti putti a

BELLEZZA E PENSIERO

234

portar ristoro, a sostenere un gran vaso per quel succo dolce. «Se risguardiamo la sua faccia [la faccia della Terra], — qui si alza la voce di Guillaume tradotto da Baccio? — vi troverremo tanta varietà d’erbe, fiori, arbori, frutti, e animali [...], che ne restiamo stupefatti»... «il mare, l’aria, il

cielo»... «queste varietà sparse in ogni canto della Terra sono un libro aperto per leggervi la grandezza e onnipotenza di Dio, dentrovi ricchissimamente impresse. La cui sola contemplazione può arrestare i nostri sentimenti e 1 nostri spiriti, e fornirli a bastanza di quel contento dal quale dipende la nostra feli-

cità». Nel grigio crepuscolo dell’immaginazione del pittore al cavalletto, affiorano vaporanti ricordi di fantasie del Rosa”, anch’egli stoico, sui misteriosi

simboli che son le rocce, o le querci grandiose e vecchie. E ancora, sulla costante ed esatta metamorfosi

della vita, guidata dalla

Mente, immagini dell’Ovidio tradotto... Dopo il Diluvio, «non sol rinnovò l’antiche sorti / de gli animali a se stessa la terra, / ma spaventosi mostri, immensi e forti»: Apollo allora colpisce a morte il Pitone: «et ucciso che l’ebbe, si disperse, / e come prima in terra si converse».

«Terra, che tutto produci e consume, / terra, che a tutti sei benigna madre,» — Dafne «disse piangendo» — «questa, onde offesa son, bramata forma / inghiotti, o in altro corpo la transforma»*5.

Dall’albero di Mirra nasce Adone... «Di giorno in giorno in lui beltà s’aggiunse, / ogni anno più crescea bello et ardito»... Ma col tempo sopraggiunge anche la sua morte, e Venere, che lo amava, dolente chiese al fiume vicino e alla terra, che, «mentre intorno al mondo il ciel si volve», al ritorno annuale di quel

giorno funesto, d’Adone ricordassero il sangue, l’uno tingendosi di rosso, l’altra coprendosi di rossi anemoni*. Inevitabile è poi il destino naturale delle specie e dei singoli. E così il gruppo di villani che si oppose a Latona, «mancar non puote / de la natura sua, cruda e perversa»?”; così, la natura d'Achille, al rumor delle armi e al clamore lo

fa erompere da maschio e bellicoso, e riconoscer d’un sùbito fra le donne* (nel quadro, quasi in un tuono di musica teatrale). E per la giovane Pero, che nel dipinto corre lieve verso il padre imprigionato per nutrirlo col proprio latte, l’immagine era da Valerio Massimo, ma

anche l’idea: «Qualcuno penserebbe che questo sia stato contro natura, se amare i genitori non fosse la prima legge della natura stessa». La sostituzione di Giacobbe ad Esaù nei diritti della primogenitura sarà poi dallo stesso Esaù vista nel destino del fratello fin dalla sua nascita e dal suo nome di Giacobbe cioè Soppiantatore‘°.

Ma un passo già riportato, di Giusto Lipsio, prosegue svolgendo il concetto della varietà di favore e disfavore, per la nostra piccolezza, dell’universale Provvidenza: «quella mente proveditrice, che ogni giorno voglie e rivoglie questo cielo, conduce e riconduce il sole, manda fuori e nasconde i frutti»...

«Pensi tu che solamente le cose che ci dilettano e che ci sono utili sieno

CECCO BRAVO: UN PITTORE E GLI ANGELI

235

mandate qua giù dal Cielo? Anzi, le triste ancora, e quelle che ci sono di

danno»*!: poiché la giustizia è ulteriore, conclusiva. Così, Gli esploratori tornano dalla Terra Promessa portando il grossissimo grappolo d’uva come anticipo, se sarà

propizio il Signore, della terra che cola di latte e di miele‘... ma Abramo

ricorderà all’Epulone che i beni che egli ha ricevuto in vita, dopo la morte si sono scambiati con i tormenti, e che per Lazzaro è stato l’inverso*: e, analoga-

mente, la conclusione della parabola dei Vignaioli suona «gli ultimi saranno i primi, e i primi, gli ultimi»*. Non si forzi dunque l’ordine delle cose, ma ad esso ci si affidi: non si faccia come Fetonte, che, per l'ambizione di guidare il carro del Sole, intese superare «il suo destin mortale»*, né come Caino“, che uccise il fratello, né come i

Sodomiti: ma come Cristo davanti al calice della Passione si dica al Padre «non mea voluntas sed tua fiat»*; come Abramo ad Isacco o come San Gaetano, «Deus providebit»*. Dio vuole che ci si rimetta a lui senza resistere, come dice Samuele a re Saul*°; alla pari nella sventura e nella prosperità, come Giobbe nel

letamaio ha ancora la forza di obiettare alla moglie®0. Nella morale, si coordina con la Mente che regge inflessibile il tutto, sia

l’equilibrio di Demostene davanti alla morte della figlia", che il valore di Rinaldo, che «combattuto ha maggior forza, / e ne la oppression più si solleva»... Scoordinata è invece l’intemperanza, come quella di Noè nel vino, e

soprattutto quella in amore: nell’opera di Cecco ci son gli esempi di Sansone, di David e Betsabea, Ruggero e Angelica, Tancredi, di Danae e dell’Amor venale: esempi di «libidinosa furia», di «follia d’amore»5°, da commentare con

la frase biblica «quello che aveva fatto David dispiacque al Signore»”, e anche con nobili parole di du Vair. «La legge di Dio [...] comanda la castità», questi aggiunge; e il volto di Clorinda, la quale Cecco rappresentò in un grande ipinto, «pur rigido piacque». Ma se l’amore di due anime, come quello di Piramo e Tisbe, è indominabile («Ahi, padri irragionevoli e crudeli, / [...] / perché vetate quel che non potete, / ché gli animi saran sempre congiunti?»‘°), in questo «discorso» si concede con du Vair il matrimonio temperante, «acciò sia una congiunzione di spirito e volontà, una comunione di fede

e religione», come Cecco figurò con le prime notti, timorate, di Tobiolo e Sara®. E in un pendant contrappose poi due spose, l’adultera Moglie di Putifarre

e la saggia Abigail. Ma queste concessioni dovevan riguardare più i consiglieri, che Cecco stesso: egli visse celibe, e questa sua libertà nel quotidiano avrà avuto, lo vedremo, anche un significato di ordine più alto. Già, egli era un artista per il quale, ricordiamolo, la Pittura era unita alla Filosofia, ma ad una Filosofia che

aveva i caratteri della Cosmologia, nelle cui frontiere grandiose l’etica era il ragionato adeguamento alla stessa Provvidenza che vuole il nudo percorso degli astri. «Vivere in compagnia degli Dei», diceva Marco Aurelio: «e vive in compagnia degli Dei colui che ininterrottamente mostra la propria anima lieta dei loro decreti». Cecco Bravo meditò sul tema «semplice e assoluto» della

236

BELLEZZA E PENSIERO

potestà che ha Dio, di agire sulla volontà dell’uomo: «Deus, qui cor regis dicitur in manu habere»®... «Il re allora tutto (per voler di Dio senza dubbio) cambiato», risparmiò la vita di Ester. E Cecco meditò anche sul tema altret-

tanto «semplice e assoluto» della sua potestà divina di illuminare l’intelletto

dell’uomo: «aperuit oculos eius Deus», nella storia di Agar$, e «protinus ape-

ruit Dominus oculos Balaam»®. Le righe di Marco Aurelio sopra riportate, «vive in compagnia degli Dei colui che ininterrottamente mostra la propria anima lieta dei loro decreti»,

continuano: «...un’anima pronta a fare tutto quello che il dèmone vuole». Ma questo per Cecco non sarà la ragione, come per l’imperatore rassegnato; non

equivarrà ai dèmoni perversi di Armida quando «chiamò trecento / con lingua orrenda deità d’Averno», e che fecero «irati / sibili ed urli e fremiti e la-

trati»®... ma ad Angeli candidi e fedeli come quelli della pala oggi all’Antella”, o come l’Angelo custode d’una di quelle tele che egli lasciò accatastate a Firenze partendo. «Gli Stoici», aveva detto in antico Diogene Laerzio, «gli Stoici affermano che vi sono alcuni dèmoni che hanno affetti e sentimenti comuni all'umanità e vigilano sul corso delle umane vicende»?°, e nella Physiologia Stoicorum Giusto

Lipsio identificava tali dèmoni appunto con gli angeli”!: gli angeli, che ci curano, ci aiutano, ci visitano — si leggeva in Clemente Alessandrino” -; gli angeli, che non sdegnano né la compagnia né il servizio del cristiano — si leggeva in John Hall tradotto in francese da Chevreau”? —. Dunque, «vive in compagnia degli Dei colui che ininterrottamente mostra la propria anima lieta dei loro decreti, un’anima pronta a far tutto quello che il

dèmone vuole»: e Giusto Lipsio, nella Manuductio ad Stoicam philosophiam, dice che la virtù dell’uomo beato sta nel consentire al proprio angelo e nel conformarsi a lui”*... In alcuni suoi quadri, Cecco Bravo dètte figura al passo «chiamò l’angelo di Dio Agar dal cielo, e le disse: Iddio ha prestato ascolto alla voce del fanciullo»”, nonché alla fiducia di Abramo nella guida angelica per la missione del suo servo, la quale farà incontrare Isacco e Rebecca: «Il Signore manderà un suo angelo con te»”... Gli angeli, dicevano i teologi, non possono come Dio piegare la volontà umana «simpliciter et absolute», ma indurla agendo sulla natura”. Giacobbe restò solo, ecco un angelo che lottò con lui e che, non potendo vincerlo altrimenti, «toccò il nervo della sua coscia, e sùbito cedette»?8. Un

angelo con la spada sguainata impedì all’asina di Balaam di procedere e disse a lui le parole terribili: «Son venuto per oppormi a te, perché la tua strada è sbagliata e a me contraria; e se la tua asina non avesse deviato per far posto a me che le facevo resistenza, te ti avrei ucciso, e lei vivrebbe»??.

Analogamente, Dio e gli angeli ci mandano in maniera differente i sogni: e nella collezione del Baldinucci, e poi in quella del Gabburri, ci furono «circa

30 disegni istoriati a lapis rosso e nero, nei quali erano espressi vari sogni del

medesimo Cecco Bravo» — e ancor oggi ne conosciamo alcuni?! —. Il Gab-

CECCO BRAVO: UN PITTORE E GLI ANGELI

257

burri, così all’inizio dell’empirismo moderno com'era, li considerò espressione di stravaganza, ma ancor più, di intelligenza e brio®... e invece rientrano anch’essi nel firmamento degli Stoici, «dove tutte le cose accadono per provvidenza divina, e nessuna cosa sfugge alla provvidenza divina, secondo quel detto

della Sapienza ‘Attingit a fine usque ad finem fortiter, et disponit omnia suaviter’»*. Non so se quei disegni rappresentino visioni da letteratura devota o sogni proprio di Cecco: la questione è secondaria: essenziale è che essi rappresentino quei sogni come ricordati precisamente, poiché in tal modo, secondo un manuale stoico di interpretazione al tempo notissimo, li presentano come d’origine divina*. Di sogni divini parlan la Scrittura, Tertulliano*, tanti altri; e il Tasso ne dà versi che per noi richiamano di nuovo il ritorno dell’au-

rora su in cielo: «È cristallina porta in Oriente / [...]: /da questa escono i sogni, i quai Dio vòle / mandar per grazia a pura e casta mente»*9. Cecco dipinse anche il Sogno di Giacobbe, quando egli udì il Signore che gli diceva: «Sarò il tuo custode [...]), e non smetterò finché non avrò compiuto tutto quello che ho detto»®?: e vi dipinse la scala con gli angeli che salivano e scendevano. Analogamente ai loro interventi sulla volontà dell’uomo, dicevamo, gli angeli non possono, come invece Dio, agire sull’immaginazione, e quindi anche sui sogni, «simpliciter et absolute»: possono indirettamente, agendo sulla natura, la quale è ad essi sottoposta: cioè toccando il cuore o il cervello, o

sommovendo gli umori dell’uomo, e, così, facendo in lui sorgere ed aggregare i fantasmi di cose che egli ha udito o visto**. Entro questi confini grandiosi e fermi, neanche nel sogno e nella raffigurazione del sogno — ripetiamolo — c’è stravaganza o bizzarria o modernità, ma

obbedienza alla Ragione universale: come Argo «mentre in parte discorre, in parte sogna, / e non dà noia al discorso il sognare»®°. Ed è in sintonia con Dio, Giuseppe che, nella sua castità, sogna: disturban l’uomo solo le devianti passioni,

e così, aveva tradotto il Bandinelli dal du Vair, «spoglisi [...] chi vuol venire a così felice contemplazione, di tutti questi sfrenati e lascivi desiderii; et esercitandosi in perpetua continenza, cerchi se è possibile conservare il tesoro della

verginità, ove risiede un’alta purità di spirito e perfezione d’intelligenza. A vergini principalmente comunica lo Spirito di Dio [...], né con Dio è possibile comunicare se non ci conserviamo puri da tutte le affezioni terrestri et infiammate»? e così si portava anche l’etica personale ad un’armonia intima e sublime col divino, a cui rispondeva, come abbiamo già detto, il celibato di

Cecco, e non le concessioni a uomini differenti da lui, implicite nel significato matrimoniale di altri suoi quadri, fondati su altri brani del du Vair. Quella purezza disponeva Cecco a ricevere la visita degli angeli, oltre che nei sogni, nell’altro aspetto dell’immaginazione, che è la fantasia, e in partico-

lare la fantasia artistica. La sua volontà restava libera, come ben avevan detto i

teologi. Per i dipinti, egli usava ancora la volontà nel significato, nelle opportunità iconografiche, nelle letture relative, nell’analogia con la libertà di Pindaro

BELLEZZA E PENSIERO

238

o di Tiziano”... ma oltre questa c’erano trasporti irriconoscibili a travisare la composizione e la materia in ombre di fantasmi interiori, come son quelle di certe nubi «che pendono in aria», e per vènti ignoti «si cangiano di momento in momento» ??.

Per i disegni di nudo sembra che Cecco offrisse ancor di più se stesso agli angeli affinché agissero sui fondamenti della sua immaginazione. Con la volontà, come in un esercizio d’ascetismo, percorreva i gradini utili ad impetrare quell’intervento. Prima disponeva la persona del modello, o liberamente se-

condo la sua grazia o facendone una Andrea o da Tiziano”, eventualmente fica quando aveva da prepararsi per un mente secondo una maniera opposta

citazione vivente da Michelangelo o da con qualche vaga opportunità iconogradipinto. Poi, la traduceva immaginativaa quella «caricata e ingrandita» allora

diffusa, e tale invece che i volti e «tutte le membra, anche degli uomini robusti

[...] diventavan di contorno gentile a somiglianza delle femmine e de’ giovanetti», come ben ricordava un suo scolaro?. Questa manierata traduzione immaginativa, che conservava pur sempre qualcosa che lo aveva colpito, come

d’un modello già uomo la barba o lo scuro del petto o la ricchezza del ventre, veniva poi, stoicamente, sottoposta a giudizio razionale: talvolta in schemi

geometrici in margine al foglio, e poi sempre in quello definitivo a misura”, poi fuso e chiaroscurato a mano lieve e ferma, quasi sempre con la matita rossa. Qui terminavano i gradini della volontà. Giusto Lipsio aveva rivelato che gli angeli «nelle arti suggeriscono ed insegnano, e vi insegnano cose che l’ingegno umano non potrebbe, da solo, ritrovare mai»: e il carattere sovrumano di quanto segue nell’esecuzione di quei disegni, era stato avvertito anche dal sensismo di un Gabburri come «uno spirito e una espressione meravigliosa, eccedenti ogni umana credenza»”. Infatti su quelle immaginazioni umane che abbiamo descritto vanno crescendo — se il disegno è a due matite, dunque più nella seconda fase, a morbido nero -

fantasie composte con varie memorie di Cecco a causa di precisi impulsi degli angeli sul suo cervello o sul suo cuore. Così, per impulsi loro, alcune immagi-

nazioni elaborate, su giovani nudi, divengon frequentemente temi celestiali, da menti angeliche. Tali temi sono questi. O Gesù al momento del Battesimo, quando il Padre lo dice il suo Verbo: «Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi complacui»?. L’antico stoico cri-

stiano Clemente Alessandrino?” aveva ben scritto sul Verbo, anch’egli angelicamente, che «esso ornò questo universo di numero e concento, e il dissenso degli elementi ridusse all’ordine della consonanza, affinché per lui tutto il mondo diventasse armonia». O il Verbo che redime nella Passione e conclama un insegnamento che gli

permetterà di attribuire, come Dio, la vita eterna, ancora secondo Clemente

Alessandrino: «dolce Verbo», «luce più pura del sole».

O Giovanni come precursore del Verbo, come «voce esortatrice che pre-

para alla salvezza, voce che esorta all’eredità dei cieli».

CECCO BRAVO: UN PITTORE E GLI ANGELI

239

O gli angeli stessi, compagni nel coro, dice ancora quell’antico stoico cristiano, che l’anima può condurre intorno al Verbo. Fra i «debiti di gratitudine» verso la sua vita, lo stoico imperatore Marco

Aurelio riconosceva quello d’aver compreso cos’è la vita secondo natura cioè secondo il volere della Provvidenza: d’aver compreso, «per quanto concerne gli Dei, gli aiuti che vengono di là, le ispirazioni e i suggerimenti»!°°: ed è dunque serenamente commosso dagli angeli che Cecco aggiunge, obbediente e veloce, su quelle strutture rosse, svolgimenti in temi paradisiaci: ma anche se la figura resta quella di un immaginario efebo, è in una commozione che gli viene da quelle menti felici che egli aggiunge veloce, se non nimbi o croci di canna o ali, pur sempre veli, riccioli, erbe, a svolazzi lanciati, a nubi ventilate, a folti garbugli. Tutto questo sempre, solamente, silenziosamente, nelle orbite fisse,

limpide e nude, dell’universo guidato dalla divina provvidenza. L’autore ringrazia Giovanni Pagliarulo per l’aiuto nel controllo dei documenti d’archivio. 1994-1995

è@ Pubblicato su «Artista», 1995.

fig. 56

NOTE

1 Marco Aurelio, Colloqui con se stesso, 11, 27

(trad. F. Lulli, Milano 1953). ? G. Lipsio, I due libri della Costanza (1584), trad. G. Scaglia, Venezia 1621, p. 95r. 3 Vedi A. Barsanti, Nuove fonti per Cecco Bravo pittore fiorentino, «Granducato», 1976, p. 38.

4 Un fondo Montelatici all'Archivio di Sta-

to di Firenze (Comp. Soppr. G. XXXVI, inserti 1229 e 1231) fu scoperto e reso noto da

A. Barsanti (op. cit.), e poi pubblicato estesamente da A. Matteoli (Documenti su Cecco Bravo, «Rivista d’arte», 1990, p. 95 ss.). Esso contiene ben sei elenchi di opere dell’artista, databili dal 6 giugno 1660 al 1° ottobre 1667: A. Matteoli ne ha compilato un indice tematico

di di Vignon sembran presenti anche nell’affresco con San Vitale (ripr. in A.R. Masetti, Cecco Bravo pittore toscano del Seicento, Venezia 1962, fig. 16), mentre la bellezza ampia e lu-

minosa di Régnier sembra il precedente del bel volto frontale fra quelli delle donne che assistono alla predica di san Filippo Benizi, in una delle lunette dell’Annunziata di Pistoia

(ripr. ivi, fig. 9). Nella pala degli Angeli, oggi all’Antella (ripr. in Il Seicento fiorentino, catalogo della mostra, Firenze 1986-1987, Pittura, pp. 355-357), la diffusa tenerezza, e le teste affrontate dei cherubini, mi sembrano derivazioni fedeli dallo Spadarino. Per altre somiglianze fra Cecco Bravo e pittori francesi, vedi: P. Pacht Bassani, Claude Vignon -

che ne rende facile la consultazione, e al quale

1593-1670, Paris 1993, pp. 86-87; E. Acanfo-

rimando implicitamente ricordando, nel testo,

ra, Alessandro Rosi, Firenze 1994, p. 18. ? Vedi C. Del Bravo, Letture di Poussin e Claude, «Artibus et historiae», 18, 1988, p.

temi non altrimenti noti. Per il quadro che nel secondo elenco è chiamato «Filosofia e Pittura», e nel terzo «La Pittura e l’Astrologia», vedi A. Matteoli, op. cit., pp. 135-136.

° G. Lipsio, Physiologia Stoicorum, Antverpi-

151 ss. (ripr. in questo libro, pp. 203-209). !° G. du Vair, Santa filosofia (1600), trad. B. Bandinelli, Firenze 1612, p. 3 (dedica del tra-

ae 1604, p. 3.

duttore a Cristina di Lorena).

6 G. Lipsio, I due libri cit., p. 140r. ? G. Lipsio, Manuductio ad Stoicam philosophiam, Antverpiae 1604, pp. 55-56. 8 Gli affreschi con i Giuochi difanciulli, nella

!! C. Bronzini, Della dignità e nobiltà delle donne etc., Firenze 1624-1632, settimana II,

villa di Mezzomonte (ripr. in C. Del Bravo, La

traduttore al lettore).

«fiorita gioventù» del Volterrano, «Artibus et historiae», 1, 1980, fig. 4-7), rivelano pose tratte dal Toro Farnese, o da un soldato della Liberazione di san Pietro di Raffaello; ma ci son anche, o così mi sembra, ricordi di Manfredi, Saraceni, e Vignon, rispettivamente in una testa che

!° B. Bandinelli, Idea della cristiana sapienza, Firenze 1615, indirizzo al lettore. !4 Vedi A. Matteoli, op. cit., p. 131: nel primo elenco, Daniello è ricordato come «sto-

la luce colpisce su tempia e naso, in alcune

giornata VII, p. 59. 12 G. du Vair, op. cit., p. 10 (indirizzo del

rietta».

!° B. Bandinelli, Idea cit., pp. 119-120. !° Ovidio, Le Metamorfosi, trad. G.A. An-

paffute e illuminate dal basso, e in altra, fron-

guillara (1554), Venezia 1584 (da ora in poi

tale, assai viva e coi capelli scarmigliati. Ricor-

sarà citato come Ovidio-Anguillara), 6, 233.

CECCO

BRAVO:

UN PITTORE

La Gerusalemme liberata, 7, 10 e 12. 17 Daniele, 13, 42. 18 Orlando furioso, 10, 5 e 19. Si tratta di un

piccolo dipinto su lavagna, probabilmente

E GLI ANGELI

241

ventario datato 10 aprile 1806 (vedi M.J. Minicucci, Parabola di un museo, «Rivista d’arte», 1987, p. 373).

2° G. Lipsio, Physiologia cit., p. 3; Idem, I due

frammentario, offerto in vendita dalla Casa d’aste Pitti di Firenze il 10 dicembre 1980

libri cit., p. 79r. °° La Gerusalemme liberata, 14, 1. I due qua-

(catalogo, nr. 264, illustrato), e ricordato da G.

dri con la Notte sono quello di Innsbruck (vedi A.R. Masetti, op. cit., p. 90 e fig. 48) e quello delle Gallerie fiorentine, oggi a Montecitorio (attribuzione A. Matteoli: op. cit., p. 112 e fig. 4ap. 111). °! Oltre agli elenchi pubblicati da A. Matteoli (op. cit.), vedi B.B. Fredericksen, Catalogue of the paintings in the J.P. Getty Museum,

Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 115.

1° Vedi: M. Gregori, Appunti su Cecco Bravo, «Comma», 1970, 4, p. non numerata, fig. sopra al titolo; C. Del Bravo, Un’osservazione su inediti secenteschi, «Antichità viva», 1971, 5, pp. 22-23, fig. 6. 20 J. Gaddi, Poetica corona, Bononiae 1637, pi1152. 21 E. Chini, La chiesa e il convento dei Santi Michele e Gaetano a Firenze, Firenze 1984, pp. 250-252, 295-296.

2° C.

Bronzini,

op.

cit., pp.

123-124,

129-130 (per la traduzione di versi del Bandinelli); A. Adimari, La Tersicore, Firenze 1637

(sono «50 sonetti fondati principalmente sopra l’autorità d’A. Seneca il morale»); Idem, La Calliope, Firenze 1641, «documento» rela-

tivo al son. 36 («le nostre domande alla santissima sua volontà devono esser subordinate»); Idem, La Melpomene, Firenze 1640, elogi 6, 7,

23 (per la conoscenza di francesi a Firenze); Idem, La Calliope cit., «documento»

relativo al

son. 30 (compianto di Peiresc); Idem, Il trionfo del B. Filippo Benizi, Firenze 1630 (per i rapporti con i Serviti); Pindaro, Ode, trad. A. Adimari, Pisa 1631, con tavole (pp. 9, 11, 13, 17) che ricordano molto lo stile giovanile di Cec-

co Bravo (C. Del Bravo, La «fiorita gioventù» Cita pid) 23 EN. Gabburri, BNF, Ms. Palat. E.B. 9.5,

CRI!

24 A. D'Addario, voce Adimari, Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani, 1, Roma

1960, p.277.

25 A. Barsanti, Cecco Bravo, in Il Seicento fiorentino cit., Biografie, p. 50; A. Matteoli, op. cit., pei99, 26 A. Alciati, Emblemata, Lugduni 1614, 142.

27 Vedi A. Matteoli, op. cit., pp. 123-124. 28 «Una Pallade, opera di Francesco Montelatici» compare col nr. 192 nell’Inventario delle

masserizie esistenti nel primo piano nobile del palazzo di via Larga, di Vincenzo Riccardi, in-

Malibu 1972, nr. 50, 51, nonché il catalogo

Christie's New York, 21 maggio 1992, lotto 16, con illustrazioni a colori. 32 G. du Vair, op. cit., pp. 133-140. 33 Vedi J. Nissman, Florentine Baroque Art from American Collections, catalogo della mostra, New York 1969, p. 51.

® Ovidio-Anguillara, 1, 116 e 118 (nell’ed. cit. queste ottave sono numerate erroneamente 126 e 128: vedi p. 13). 35 Ivi, 1, 149. 36 Ivi, 10, 304-308.

37 Ivi, 6, 226. Un quadro con Latona e i villani è stato offerto in vendita dalla Casa d’arte Pandolfini di Firenze il 9 marzo 1994 (catalogo, nr. 634, tav. LIV). 38 L’Achille è stato reso noto da G. Ewald

(Hitherto unknown works by Cecco Bravo, «The Burlington Magazine», 1960, p. 352, n. 36), e

ripr. da A.R. Masetti (op. cit., fig. 59 e 60): cfr. Igino, Favole, 96. 39 Pero e Micone è stato pubblicato da G.

Ewald (Unbekannte Werke von Cecco Bravo, Sebastiano Mazzoni und Pietro Ricchi, «Pantheon», 1964, pp. 387-388, fig. 5): cfr. Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili: 5, 4, ext. 1; 5,

TESA

40 L'attribuzione a Cecco Bravo dell’Esaù e

Giacobbe è di G. Ewald (Hitherto unknown cit., pp. 344-345, fig. 2): cfr. Genesi: 27, 36; 25,25. 4! G. Lipsio, I due libri cit., pp. 79r-79v. 42 Numeri: 13, 24; 13, 28; 14, 8. #1 uca BlL6,257 44 Matteo, 20, 16.

45 Ovidio-Anguillara, 2, 37.

46 La Morte d’Abele è stata pubblicata da G. Cantelli (Per Simone Pignoni, «Antichità viva»,

1974, 2, p. 26, fig. 8).

242

BELLEZZA

E PENSIERO

47 Il Cristo davanti al calice della Passione è

61 Il Tobiolo e Sara è stato pubblicato da F.

stato attribuito a Cecco Bravo da M. Gregori (A Cross-Section of Florentine Seicento Painting -

Guidi (Pitture fiorentine del Seicento ritrovate, «Paragone», 297, 1974, p. 59, fig. 29, tav. a colori II): cfr. Tobia, 6, 16-22, e G. du Vair, op. citi pad

The Piero Bigongiari Collection, «Apollo», 1974, 2, p. 224, fig. 15): cfr. Luca, 22, 41-44. 4° Gene t2288: SAR M1153722-23: 50 Giobbe, 2, 8-10.

62 Il Giuseppe e la moglie di Putifarre, oggi agli Uffizi, è stato pubblicato da G. Ewald (Unbekannte Werke cit., p. 387, fig. 2); il David e

51 Nel secondo degli elenchi di opere di Cecco pubblicati da A. Matteoli (op. cit., p. 133) si parla di una «storia di Demostene filo-

Abigail è stato pubblicato come suo pendant da

sofo»: nella vita plutarchiana di Demostene la

63 Marco Aurelio, op. cit., 5, 27 (trad. cit.). 64 O. Casmannus, Angelographia, Francofur-

storia più raffigurabile mi sembra quella in cui il protagonista, alla notizia della morte di Filippo, compare in pubblico vestito a festa ben-

ché pochi giorni prima abbia perduto la figlia: Plutarco vi vede una dimostrazione di sereni-

tà, e non di inimicizia verso i suoi (Demostene, 22, 3). Il commento

può forse applicarsi

anche a sentimenti di Cecco Bravo, il quale visse «trascurando l’afetto delle sue genti e parenti» (L. Angioletti ad Elisabetta Montelatici, 11 dicembre 1661: in A. Matteoli, op. cit., p.

124).

M. Gregori (Appunti cit.; A Cross-Section cit.,

p. 223 e, ivi, fig. 13).

ti 1597 ss., p. 276.

65 Flavio Giuseppe, Dell’antichità de’ Giudei, trad. F. Baldelli, Venezia 1580, 11, 6 (p.

516).

66 Genesi, 21, 19. 67 Il tema dell’Asina di Balaam è ricordato

negli elenchi di opere di Cecco Bravo pubblicati da A. Matteoli (op. cit.): oggi ne conosciamo due versioni, una acquisita nel 1974 dalla

Staatsgalerie di Stoccarda (G. Ewald-M. Kop-

52 Il tema, nel primo elenco (A. Matteoli,

plin, Von Manierismus zum Barock, catalogo della mostra, Stuttgart 1982-1983, p. 85 ss.),

op. cit., p. 129) è Rinaldo e i soldati: cfr. La

l’altra esposta, in séguito a una segnalazione di

Gerusalemme liberata, 18, 78. 53 Il Ruggero e Angelica Kress è stato attribui-

G. Pagliarulo, alla mostra I/ Seicento fiorentino (catalogo cit., Pittura, nr. 1.197, illustrato): cfr. Numeri, 22, 31.

to a Cecco Bravo da G. Ewald (Hitherto unknown cit., pp. 351-352, fig. 3): cfr. Orlando furioso, 11, 1-3. 54 Per il Tancredi, cfr. La Gerusalemme liberata, 1, 45: «S’alcun’ombra di colpa i suoi gran vanti / rende men chiari, è sol follia d’amo-

re».

68 L’Armida è stata pubblicata da A. Barsanti in Il Seicento fiorentino - Pittura cit. (nr. 1.198), già rimandando a La Gerusalemme liberata, 16, 68.

° Attribuzione di G. Pagliarulo (vedi A. Barsanti in I/ Seicento fiorentino - Pittura cit., nr.

55 A nostra conoscenza, l’amor venale è trattato due volte nell’opera di Cecco Bravo,

1.190).

7° Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, 7,1, 151

avendo per oggetto una donna (vedi M. Gre-

(trad. M. Gigante, Roma-Bari 1983).

gori, A Cross-Section cit., p. 224, fig. 16) o un

7! G. Lipsio, Physiologia cit., p. 58 ss. 72 Clemente Alessandrino, Stromata, 5, 91. 73 Da me letto in U. Chevreau, La scuola del savio, trad. U. Paravicino, Basilea 1666, pari 7* G. Lipsio, Manuductio cit., p. 110. IGCHNENZAIAI7A 7° L’Incontro di Isacco e Rebecca è stato pubbli-

giovane (vedi il quadro pubblicato da A. Barsanti in Il Seicento fiorentino - Pittura cit., nr.

1.194). Contro l’amor venale si legga G. du Vair, op. cit., p. 76, e A. Adimari, La Calliope cit., son. 8.

5 Orlando furioso, 11, 1; La Gerusalemme liberata, 1, 45. SR

C92I8 1827

°8 G. du Vair, op. cit., p. 73 ss.; la frase su «la

legge di Dio che comanda la castità» è a p. 76.

5? La Gerusalemme liberata, 2, 39. *° Ovidio-Anguillara, 4, 40-41.

cato da G. Ewald (Addenda to Cecco Bravo, «The Burlington Magazine», 1961, p. 348, fig. 20): cfr. Genesi, 24, 40. 7? Vedi O. Casmannus, op. cit., pas, 78 Genesi, 32, 24-25. 79 Vedi qui n. 67, e cfr. Numeri, 22, 32-33.

CECCO

BRAVO:

UN

PITTORE

80 EIN. Gabburri, ms. cit., c. 917.

8! Vedi: H. Joachim - S. Folds McCullagh, Italian Drawings in the Art Institute of Chicago, Chicago-London 1979, nr. 70 (con rimandi ad altri Sogni di Cecco Bravo e alla bibliografia relativa) e fig. 77; Ch. Fischer, Italian Drawings in The J.F. Willumsen Collection, catalogo della mostra, Frederickssund 1984, nr. 66-69, tav. 60-63. 82 EN. Gabburri, ms. cit., c. 917.

243

E GLI ANGELI

la natura de’ sogni, Bologna 1613, p. 54: Aristotele «c’insegna che le imagini delle cose in noi, sono simili alle nubi, che pendono in aria,

e che si cangiano di momento in momento in una e in un’altra figura». 9 Per la posa, un disegno di Cecco Bravo

oggi a Princeton (vedi J. Bean, Italian Drawings in the Art Museum, Princeton University, Princeton 1966, nr. 52, con illustrazione) dipende dalla figura di Assuero insonne in uno

83 H. Manescal, Miscellanea de tres tratados de las apariciones de los espiritos, Barcelona 1611, p. 134; il rimando è a Sapienza, 8, 1. 84 Artemidoro Daldiano, Interpretazione dei

dei pennacchi della Volta Sistina; e i suoi disegni Uffizi 10693F e 10682F dipendono rispettivamente dal san Giovanni della Pala di

sogni, 4, 4.

stiano della pala di Tiziano già in San Niccolò ai Frari, di Venezia, e oggi alla Pinacoteca Va-

85 Tertulliano, De anima, 47. 86 La Gerusalemme liberata, 14, 3. oAGenesi 28, 120 ss 88 Vedi, ad esempio, S. Faciuta, De natura angelorum oratio, Florentiae

1576, pazzviss:

O. Casmannus, op. cit., pp. 279-280; H. Manescal, op. cit., p. 143. Il grande precedente era in Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, 1, 111, 3; Quaestio disputata de veritate, 12, 8). 8° Ovidio-Anguillara, 1, 187. 9° G. du Vair, op. cit., pp. 80-81. % Dello «stile estremo di Tiziano» come «fonte di ispirazione» per alcune opere di Cecco Bravo, parla A. Barsanti in I/ Seicento fioren-

tino - Biografie cit., p. 51. Si potrà aggiungere che fra le opere d’arte appartenute a Cecco Bravo, ricordate nel quinto (gennaio 1665) degli elenchi pubblicati da A. Matteoli (op. cit., p. 143) compare «una Testa di Tizziano [della] mano di detto Tizziano». 92 P. Grassi, Ragionamenti domestici intorno al-

Gambassi di Andrea del Sarto, e dal san Seba-

ticana. % A. Franchi, La teorica della pittura, Lucca

1739, pp. 41-43 («Tanto io seppi da un suo scolare»). 95 Vedi A.R. Masetti, Disegni «Critica d’arte», 45, 1961, pp. % G. Lipsio, Physiologia cit., 97 EN. Gabburri, ms. cit., c.

di Cecco Bravo, 37-38. p. 57. 917.

98 Matteo, 3, 17. Leggi in proposito anche B. Bandinelli, Idea cit., p. 91: «la Bontà super-

na [...] promette l’assistenza del Verbo eterno, ‘verumtamen prope timentes eum salutare ipsius’ [Salmi, 84, 10]; che Giesù Cristo Salvato-

re sarà presente e darà la grazia sua a tutti

quelli che l’adorano con timor santo». 99 Clemente Alessandrino, Esortazione 7 88732 92-93.

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(E re G1 5

100 Marco Cit):

Aurelio, op. cit., 1, 17 (trad.

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